Un dibattito in via di “decollo” (e di prima attuazione):
non autosufficienza e “secondo welfare” in Italia.
Alcune considerazioni preliminari
Marco Arlotti
Paper for the Espanet Conference
“Innovare il welfare. Percorsi di trasformazione in Italia e in Europa”
Milano, 29 Settembre — 1 Ottobre 2011
(versione preliminare, si prega di non citare senza il consenso dell’autore)
DESP – Dipartimento di Economia, Società, Politica
Università degli studi di Urbino “Carlo Bo”
[email protected]
1
Abstract
A partire da un specifico inquadramento della questione degli anziani cronici non autosufficienti Italia, il paper intende
affrontare preliminarmente i termini del dibattito sul secondo welfare nell’ambito della non autosufficienza, e le sue
prime forme di attuazione (cfr fondi sanitari integrativi). Tre le parti: 1. ricognizione dell’attuale dibattito in materia; 2.
inquadramento della questione degli anziani cronici non autosufficienti (nei termini della ri-definizione dei rapporti fra
“sanità” ed “assistenza”), con excursus storico-normativo. 3. considerazioni preliminari, a partire dal punto 2., su
dibattito e prima forme di attuazione del secondo welfare in Italia.
Introduzione ed inquadramento1
L’obiettivo di questo paper è quello di affrontare il recente dibattito sul “secondo welfare”, e le
prime forme di attuazione del suddetto, più specificamente nel campo della tutela degli anziani
cronici non autosufficienti.
Come si vedrà nel par. 2, autorevoli studiosi vedono nella promozione del “secondo welfare”,
ovvero nella promozione di inedite sinergie pubblico-privato che vanno dall’apporto delle
fondazioni bancarie, a quello delle imprese, delle assicurazioni, ecc …, l’antidoto per far fronte a
nuovi e crescenti bisogni della popolazione, in un contesto in cui il welfare pubblico è
impossibilitato ad espandersi ulteriormente, dati i noti vincoli di bilancio.
In particolare, il “secondo welfare” svolgerebbe, fra le altre cose, una funzione cruciale nella
copertura di un bisogno sempre più rilevante: quello degli anziani non autosufficienti. La questione
dell’invecchiamento della popolazione e della non autosufficienza preoccupano non solo per il
proprio risvolto sociale in senso lato (con un crescente numero di anziani bisognosi di cure e di
assistenza); quanto anche, in una prospettiva di medio lungo periodo, per l’impatto sulla
sostenibilità stessa della spesa sanitaria e dei conti pubblici.
L’assunto è che con il progredire dell’età sia il consumo sanitario che condizioni di non
autosufficienza non possono che inevitabilmente crescere in maniera esponenziale (cfr. Ministero
del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2010). Pertanto, la crescita della spesa sanitaria (e
sociosanitaria) rischia di finire fuori controllo.
Contrariamente al dibattito mainstream, si ritiene tuttavia doveroso evidenziare come tale assunto
sia tutt’altro che “oggettivo” e per nulla scontato. Esso, infatti, non tiene conto di vari elementi che
stanno modificando in termini “diacronici” la questione dell’invecchiamento. Il primo riguarda la
1
Il paper riprende (seppur con ulteriori aggiornamenti ed integrazioni) parti di una tesi di dottorato (“Fra
sanità ed assistenza. La tutela degli anziani cronici non autosufficienti in Italia”) discussa nel febbraio 2011
nell’ambito del Dottorato in Sociologia Economica, Dipartimento di Studi Sociali, Università degli Studi di
Brescia (XXIII ciclo). In questo ho potuto beneficiare di una borsa di studio (2008-2010) da parte del
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.
2
relazione fra invecchiamento e consumo sanitario. Infatti, come ben evidenziato da alcuni studiosi
(Vineis e Dirindin, 2004: 26-7):“[…] contrariamente a quanto sostenuto da molti, come tale
l’invecchiamento della popolazione contribuisce solo modestamente alla crescita della spesa
sanitaria. E’ vero che attualmente in Italia dopo i 65 anni di età l’assorbimento di risorse sanitarie
aumenta esponenzialmente con il crescere dell’età, ma è anche vero che il limite oltre il quale
questo fenomeno si verifica si sposta progressivamente più avanti. […] l’invecchiamento è infatti in
larga parte un invecchiamento in buona salute, cioè uno spostamento in avanti del consumo di
risorse sanitarie”.
In secondo luogo, per quanto riguarda la condizione di non autosufficienza, è trascurato che i dati
mostrano chiaramente come in parallelo al progressivo innalzamento dell’aspettativa di vita si
registra anche un innalzamento della stessa “libera da disabilità”2. Ciò significa che si tende a vivere
più a lungo e che diventano sempre di più anche gli anni in cui l’anziano tende a preservare la
propria autonomia funzionale, e pertanto ad essere autosufficiente3.
Oltre a questi elementi, va inoltre notato come il dibattito mainstream si regge nella gran parte dei
casi sull’utilizzo di una modellistica previsionale fortemente limitata. Essa si basa, infatti, su
previsioni a “saldi invariati”, dove non solo viene supposta l’invarianza di tutta una serie di fattori
(che rendono, dunque, privi di senso i modelli stessi) (cfr. Taroni, 2007), ma nemmeno vengono
considerati i risultati che possono essere raggiunti attraverso politiche di prevenzione della cronicità
e della non autosufficienza in età anziana (cfr. Maero e Fabris, 2002).
Sicchè in molti casi il catastrofismo con cui politici e studiosi descrivono l’impatto
dell’invecchiamento sugli andamenti della spesa sanitaria sembra più rispondere ad un indirizzo
politico di smantellamento della sanità pubblica come evidenziato da Taroni (2007: 142), secondo
cui: “[…] alcuni prefigurano scenari catastrofici che metterebbero a repentaglio la sopravvivenza
dei sistemi a finanziamento pubblico, condannati dall’aumentata longevità e dalla ridotta fertilità
[…] a insopportabili livelli di spesa pubblica, principalmente per pensioni e sanità […]. A questi
scenari si accompagnano in genere ruvide indicazioni di politica economica, che includono
tradizionalmente il razionamento dei benefici e/o dei possibili beneficiari, accompagnate
dall’incitamento a ricercare nuove fonti di finanziamento, generalmente private e su base
assicurativa, individuale e volontaria”.
2
Nel 1994, per una donna di 65 anni si prospettavano 14 anni di vita (cfr. 14.2) senza limitazione della
propria autonomia funzionale; nel 2005, questi passano a più di 16 (cfr. 16.08). Per un uomo, invece, sempre
di 65 anni a fronte di un’aspettativa di vita libera da disabilità nel 1994 di circa dodici anni (12.7), dieci anni
dopo questa è aumentata a circa 15 anni (14.85) (Fonte: per questo tipo di dati si è utilizzata la banca dati
ISTAT – “Health for All” (http://www.istat.it/sanita/Health/) (ultimo aggiornamento giugno 2010).
3
Non è un caso che il tasso di disabilità della popolazione over 65, è passato dal 19.53 del 1994 al 18.68 del
2005 (cfr ibidem).
3
Questo catastrofismo investe anche la discussione stessa attorno al “quantum” della spesa sanitaria
nel nostro paese, quando invece dal raffronto internazionale nonché dalla stesse previsioni di
medio-lungo periodo non si evidenzia alcun intrinseco fattore di allarme (cfr. Vineis e Dirindin,
2005) e dove semmai (ibidem: 84): “[…] L’unico vero motivo di preoccupazione è costituito dalla
struttura della spesa, notevolmente sbilanciata a favore della componente per acuti (ovvero per
pazienti con patologie acute) a danno dell’assistenza di lungo periodo (ai malati cronici e non
autosufficienti), verso la quale si rivolgerà in futuro la domanda della popolazione”.
Ad ogni modo, in questo quadro in cui risultano indubbiamente egemoniche, riprendendo Taroni
(2007), le narrazioni “apocalittiche”, prove di “secondo welfare” sono state già messe in moto.
Accordi di categoria che prevedono la copertura del rischio di non autosufficienza nonché l’impulso
più recente da parte dei governi nazionali all’avvio del nuovo pilastro della sanità integrativa, con
una finalizzazione (fra le altre cose) proprio alla copertura della non autosufficienza.
La tesi che si intende avanzare in questo paper è che tali azioni rischiano di tramutarsi in un
arretramento del welfare pubblico (non svolgendo, pertanto, alcuna funzione integrativa) giacchè la
questione degli anziani cronici, (nei tratti problematici che saranno subito ripresi e sintetizzati nel
par. 1), affonda principalmente le “radici” non tanto nell’assenza di norme o dispositivi di tutela del
bisogno. Bensì nella sistematica negazione dei diritti che devono essere garantiti a queste persone
dal Servizio sanitario nazionale (come per tutte le persone malate).
Da questo punto di vista, che siano peraltro scontate le primarie responsabilità del Servizio sanitario
nazionale nei confronti della cura e della tutela degli anziani cronici non autosufficienti risulta del
tutto evidente andando a vedere chi sono nel concreto gli anziani non autosufficienti. In base alle
rilevazioni ISTAT emerge come tra le persone anziane (ovvero le persone over 65 anni) disabili
(ovvero che possono essere ritenute non autosufficienti) più del 64.7% di queste presenta almeno
una malattia cronica grave (ISTAT, 2010: 51). Il 70% addirittura tre o più (ibidem). E per malattie
croniche l’ISTAT considera tutta una serie di patologie che vanno dal diabete all’ infarto del
miocardio; all’angina pectoris ad altre malattie del cuore; l’ictus e l’emorragia cerebrale; la
bronchite cronica e l’enfisema; la cirrosi epatica, il tumore maligno (inclusi linfoma/leucemia); il
parkinsonismo; l’alzheimer e le demenze senili (ibidem: 50).
Peraltro, come evidenziato dalla Commissione incaricata dal Ministero della salute con riferimento
all’aggiornamento dei livelli essenziali nell’ambito delle prestazioni residenziali e semiresidenziali
(Ministero della Salute, 2007), per una persona anziana la stessa condizione di “cronicità” o di
stabilizzazione è relativa poiché l’anziano affetto da una patologia cronica invalidante non potrà
essere definito stabile in senso assoluto (ibidem: 4).
4
Nelle parti successive l’analisi svolgerà nel modo seguente. Dopo aver delineato i tratti fondanti
della questione degli anziani cronici non autosufficienti nel nostro paese (cfr. par. 1), nel par. 2
verrà ricostruito il recente dibattito sul “secondo welfare” e menzionate le prime forme di attuazione
dello stesso. Il par. 3 è invece finalizzato a ricostruire, attraverso un excursus storico-normativo, la
prospettiva con cui viene affrontata la questione degli anziani cronici. Il par. 4 sviluppa a partire
dalla suddetta prospettiva considerazioni preliminari sulle azioni del “secondo welfare” tramite la
leva dei fondi sanitari integrativi ed avanza la tesi del paper. Nelle conclusioni verranno tirate le
file del discorso e sviluppate alcune considerazioni attorno alle prospettive politiche che sembrano
sottese al lancio della sanità integrativa.
1. I tratti fondanti della questione della tutela degli anziani cronici non autosufficienti in Italia:
una breve sintesi
La tutela degli anziani cronici non autosufficienti è una questione di assoluta centralità per il nostro
paese. I tratti che caratterizzano tale questione sono noti.
Il primo da cui partire rimanda al fatto che la tutela della non autosufficienza viene in larga parte
gestita direttamente dalle famiglie, o comunque nell’ambito della rete informale. Il contraltare è
chiaramente il debole sviluppo di un’offerta pubblica di servizi a sostegno dei bisogni dei non
autosufficienti, come risulta in maniera evidente nel solo considerare in prospettiva comparata (EU)
quelli che sono i tassi di copertura (particolarmente
limitati) per servizi quali l’assistenza
domiciliare, oppure quella residenziale (cfr. Pavolini e Ranci, 2008).
A questi due aspetti si aggiunge inoltre che nel corso degli ultimi decenni, in parallelo peraltro
proprio ad una minore capacità di presa in carico da parte della famiglie (dettata da vari
cambiamenti fra cui il mutamento delle strutture familiari, la diminuzione delle coabitazioni e
l’incremento degli anziani che vivono soli ; l’accresciuta partecipazione femminile al mercato del
lavoro) è cresciuto in maniera consistente il ricorso ai servizi privati di cura (cfr. Da Roit e
Sabatinelli, 2005).
In particolare, si è affermato un fenomeno nuovo: quello delle “badanti”. Si stima che siano più di
700.000 i migranti coinvolti nei servizi di cura e di assistenza alle famiglie di cui solo la metà di
questi regolari (cfr. Naldini e Saraceno, 2008: 742). La spesa delle famiglie per retribuire le badanti
ammonterebbe a oltre 9 miliardi di euro (cfr. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2010:
45). Pertanto, nel settore della cura degli anziani cronici non autosufficienti una delle caratteristiche
oramai assolutamente centrali rimanda proprio alla presenza di questo vasto settore della cura
privata. Esso, pur tuttavia, assume nella gran parte dei casi i tratti dell’informalità e di forte
5
“dequalificazione” sia sotto il profilo dell’assistenza fornita agli anziani, poiché in molti casi le
stesse badanti non posseggono le competenze che sarebbero invece richieste; sia per le condizioni di
lavoro e salariali cui sono sottoposte le stesse (cfr. solo una badante su tre si ritiene che abbia un
regolare contratto di lavoro) (ibidem).
Oltre a questi aspetti, che sono normalmente ripresi a livello di dibattito, per avere un quadro
esaustivo rispetto quelli che sono i tratti fondanti della questione della non autosufficienza, è
opportuno aggiungere due ulteriori tasselli. Il primo rimanda al fatto che nonostante in molti casi il
ricorso alle badanti ha rappresentato per le famiglie e per gli anziani stessi una possibilità per
affrontare in maniera “sostenibile” i costi della cura (seppur con tutti gli elementi di criticità cui si è
fatto cenno poc’anzi) questo tipo di costi - cui chiaramente si assommano quelli sostenuti nel caso
dei ricoveri in strutture residenziali – sono diventati causa d’impoverimento.
E’ ciò che viene rilevato ormai stabilmente, da diversi anni, nei vari rapporti del CEIS-Sanità
dell’Università di Tor Vergata, dai quali emerge come circa l’1.5% sul totale delle famiglie sono
risultate impoverite fra le altre cose a causa delle spese sanitarie sostenute (Doglia, 2009: 376); il
3.7% hanno registrato invece “spese catastrofiche” (ibidem)4. L’impoverimento colpisce con
maggior forza le famiglie composte da persone sole con 65 anni e più (2.2%) e le coppie senza figli
con persona di riferimento anziana (2.6%) (ibidem: 377). Fra i fattori che più contribuiscono
all’impoverimento e alla catastroficità risulta proprio la spesa per l’assistenza agli anziani non
autosufficienti e ai disabili (Doglia e Spandonaro, 2008: 334-35; ibidem: 375).
In termini di impatto sociale, fra le spese sanitarie sostenute dalle famiglie impoverite quella per
“disabilità” incide in misura maggior fra le famiglie appartenenti al secondo ed in particolare terzo
quintile (cfr. Di Rocco e Doglia, 2010: 269). Ciò significa che tale spesa (cui si aggiungono anche
quelle specialistiche ed, in particolare, odontoiatriche) ha un pesante impatto sull’impoverimento
non tanto delle famiglie meno abbienti (che hanno una spesa concentrata per il grosso sulla
farmaceutica) quanto di famiglie appartenenti a pieno diritto al ceto medio.
Un secondo aspetto che è opportuno riprendere è che in parallelo ad uno scarso intervento pubblico
sul versante dell’offerta di servizi, lo sviluppo di un’area di forte dequalificazione della cura agli
anziani cronici non autosufficienti ha riguardato non solo il fenomeno delle cosiddette “badanti”,
ma anche quello della residenzialità assistenziale. In altre parole si è in presenza di un vasto
fenomeno di degrado (talvolta anche di vere e proprie violenze ed abusi), riguardante il ricovero
4
A questo nucleo di “iniquità manifesta”, ne va poi aggiunto un secondo di “iniquità latente” (cfr. Di Rocco
e Doglia, 2010), ovvero di famiglie che non registrano impoverimento o spese catastrofiche, ma unicamente
perché pur avendo bisogno di prestazioni sanitarie, non riescono ad accedervi a fronte del costo eccessivo
rispetto alla capienza del proprio bilancio familiare (ibidem).
6
degli anziani cronici in strutture assistenziali che non sono all’altezza dei bisogni di cura che gli
stessi richiedono.
E’ la cronaca che ci fa venire a diretta conoscenza di questo fenomeno (e di come esso sia
ampiamente diffuso da nord a sud) (Prospettive Assistenziali, 2010: 1-2), nonché le stesse risultanze
delle ispezioni condotte sulle residenze per anziani dai Nas (ovvero, i nuclei antisofisticazione e
sanità dell’arma dei Carabinieri).
Nei primi mesi del 2010, su 863 case di riposo poste a controllo in tutto il territorio nazionale, 238
sono risultate non in regola, 371 le infrazioni, 293 le persone denunciate, 16 le strutture chiuse (Spi
-Cgil, 2010). Nel 2009, su 1.900 controlli, erano state addirittura 100 quelle chiuse (ibidem). Le
infrazioni vanno dal sovraffollamento degli ambienti, alla mancanza delle autorizzazioni, inidoneità
delle condizioni di sicurezza, infermieri privi di titolo e in numero carente, addirittura
somministrazione di alimenti e farmaci scaduti (ibidem).
Detto ciò, l’impressione che si ricava da un excursus della letteratura in materia (cfr. Ranci e
Pavolini, 2008; Da Roit, 2009; NNA, 2010) è che questo insieme di caratteristiche venga
ricondotto, in termini esplicativi, essenzialmente a tre questioni.
a) La nota configurazione familistica del sistema di welfare italiano;
b) la presenza e persistenza di uno schema nazionale di sostegno alla non autosufficienza (cfr.
l’indennità di accompagnamento) basato unicamente sul trasferimento monetario, peraltro senza
alcuna forma di controllo sull’utilizzo e di coordinamento con gli interventi messi in campo dagli
altri livelli territoriali di governo (cfr. Regioni ed Enti Locali);
c) l’assenza di riforme, provvedimenti o ancor più di previsioni specifiche nel nostro ordinamento a
tutela della non autosufficienza (eccetto l’indennità di accompagnamento). Rispetto quest’ultimo
punto è pur vero che a livello nazionale è stato introdotto a partire dalla finanziaria 2007 un “fondo
nazionale per le non autosufficienze” (cfr. l. 296/2006); e che a livello sub-nazionale si sono
registrate nel corso degli ultimi anni varie iniziative da parte delle regioni volte ad istituire nuovi
schemi di finanziamento (generalmente definiti come “Fondi regionali per le non autosufficienze”),
nel quale generalmente confluiscono le risorse già impegnate dalle regioni in questo ambito
(principalmente nell’ambito dei fondi sanitari regionali), più eventuali risorse aggiuntive derivanti
dall’incremento della propria autonoma pressione fiscale (cfr. Gori, 2008; Casanova, 2008).
Tuttavia, l’esperienza del fondo nazionale si è conclusa rapidamente (visto che a partire da
quest’anno non è stato più rifinanziato) e gli stessi fondi regionali sulle non autosufficienze possono
avere ben altri risvolti, che non sono per forza quelli della “espansione”, quanto anche quelli dello
spostamento in fondi “assistenziali” (dunque, vincolati all’ammontare di risorse annualmente
7
disponibili) di oneri e prestazioni fino ad ora compresi nella cornice dei fondi sanitari regionali (cfr.
Prospettive Assistenziali, 2008).
2. Un dibattito in via di “decollo” (e di prima attuazione): il “secondo welfare” e i fondi sanitari
integrativi
Nonostante la letteratura rilevi in una sorta di “inerzialità” istituzionale
una delle principali
caratteristiche del caso italiano (cfr. supra punto c), nel periodo più recente si è aperto un certo
dibattito (che, da certi punti di vista, assume connotati “nuovi”) sulla questione della non
autosufficienza.
Il tema è quello che riguarda le modalità di reperimento delle risorse e le premesse sono le
medesime delineate in apertura di questo contributo (cfr. introduzione).
Sintetizzandole, a fronte del progressivo invecchiamento della popolazione, occorre pensare nuove
forme di tutela a sostengo di un bisogno (quello della non autosufficienza) sempre più centrale. In
un contesto di crescenti vincoli di bilancio, ancor più aggravati dalla recente stretta sui conti
pubblici e dalla ventata d’austerity che ha fatto seguito alla crisi economico-finanziaria degli ultimi
anni, questa necessità si scontra tuttavia con le limitazioni ad agire direttamente attraverso un forte
impegno dello stato e delle sue articolazioni territoriali.
L’invecchiamento della popolazione pone in aggiunta anche un problema di “sostenibilità” della
spesa sanitaria: essendo gli anziani particolari “consumatori” di sanità, il rischio è quello di una
crescita esponenziale della stessa (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2010).
Alla ricerca, dunque, di nuove soluzioni e nel tentativo di questa difficile “quadratura del cerchio”,
una proposta che recentemente trova una certa attenzione nel dibattito è quella che riguarda il
coinvolgimento del “privato”(inteso in un’ampia accezione) nell’ottica di promozione di un
cosiddetto “secondo welfare”. Il tutto nel quadro della definizione di un sistema “multi-pilastro”,
come peraltro già avvenuto nella previdenza.
Su questo tipo di proposta, si è concentrato anche un autorevole studioso del welfare: Maurizio
Ferrera. In una serie di articoli pubblicati lo scorso anno sulle colonne del “Corriere della Sera”5,
Ferrera ha sviluppato un ragionamento che merita di essere ricostruito (seppur per sommi capi) e di
essere attentamente analizzato, non solo per il contributo (comunque importante) che lo stesso
5
Sistematizzati anche in un più recente contributo (cfr. Ferrera e Maino, 2011).
8
autore ha fornito al dibattito pubblico; ma anche per i risvolti che tali considerazioni sicuramente
avranno sul versante del dibattito stesso a livello “teorico”.
Ferrera, infatti, in un articolo dello scorso giugno – muovendo tra le altre cose proprio da un tema
assolutamente centrale nel recente dibattito teorico sul welfare state (cfr. quello della cosiddetta
“ricalibratura”) - nonché, nello specifico, facendo seguito ad un’inchiesta pubblicata sullo stesso
“Corriere della Sera” in cui veniva fornita una panoramica rispetto nuove forme innovative di
intervento “privato” sul welfare6 (cfr. Di Vico, 2010) – evidenziava come (Ferrera, 2010a):
“[…] la strategia di modernizzazione sin qui seguita si basava su una premessa forse irrealistica
sul piano politico. Prendendo atto dei vincoli finanziari, si era dato per scontato che le riforme
potessero avvenire tramite “ricalibrature” interne al welfare pubblico: meno pensioni, più servizi
sociali; più ai figli, meno ai padri, meno risarcimenti, più opportunità. […] Ma la via della
ricalibratura si è scontrata con l’enorme resistenza degli entitlement programs, gli schemi
assicurativi basati su spettanze e diritti acquisiti […]. Esistono strategie che consentano di
accelerare i tempi di transizione? L’indagine di Dario di Vico […] indica una possibile strada. E’
quella del “secondo welfare”: un mix di protezioni e investimenti sociali a finanziamento non
pubblico, rivolte in particolare a coprire nuovi rischi, fornite da una gamma di attori […].
Secondo l’Ocse, in Italia la spesa sociale privata è pari al 2.1% del Pil. Siamo al di sotto della
Svezia (2.8%), di Francia e Germania (3%) del Belgio (4.5%), per non parlare di Regno Unito
(7.1%) e Olanda (8.3%). Vi sono dunque margini per far affluire verso la sfera del welfare alcuni
punti percentuali del Pil. Chiariamo subito che non si tratta di sostituire spesa pubblica con spesa
privata, ma di mobilitare risorse aggiuntive in un contesto di finanza pubblica fortemente vincolato
e di resistenze politiche (oltre che controindicazioni economiche) a un aumento della pressione
fiscale, almeno sui redditi da lavoro. Il welfare statale non viene messo in discussione nella sua
insostituibile funzione redistributiva, ma solo integrato dall’esterno laddove vi sono bisogni e
domande non soddisfatte […]”.
Nell’articolo si evidenzia come, nel complesso, la proposta strategica della “ricalibratura”7 non ha
raggiunto in pieno gli obiettivi di modernizzazione che erano nelle premesse, nonostante gli indubbi
meriti - in termini di cambiamento - che la stessa ha avuto (come Ferrera comunque riconosce in
6
Nell’articolo Di Vico (2010) ricostruisce diverse iniziative emergenti di questa nuova forma di “welfare
privato” in risposta alle difficoltà del welfare pubblico: si va dalle nuove forme di welfare aziendale agli
accordi integrativi sulla sanità (cui faremo cenno anche di seguito) raggiunti da specifiche categorie nel
quadro della contrattazione, per arrivare (fra le altre cose) agli interventi promossi nel territorio da parte delle
fondazioni bancarie.
7
Come evidenzia, infatti, lo stesso Ferrera (2007: 361): “La nozione di “ricalibratura” è stata utilizzata […]
a scopi sia descrittivi sia prescrittivi”.
9
altri passaggi dell’articolo). Sicché è necessario formulare nuove proposte che potenzialmente
potrebbero essere proprio quelle del cosiddetto “secondo welfare”.
Esso si traduce, in pratica, nello stimolo e nel supporto a tutte quelle forme di “mobilitazione
privata” provenienti direttamente dalla società e dalle sue forme di auto-organizzazione. Peraltro lo
stesso Ferrera ci tiene più a volte a ribadire che questo tipo di proposta non costituisce in alcun
modo una minaccia all’esistenza dello stato sociale, proprio perché essa va vista in termini
“integrativi”, e non sostitutivi dell’intervento pubblico preposto (ibidem): “[…] l’evoluzione del
welfare europeo ha seguito cicli lunghi di espansione dell’intervento pubblico e di attivismo privato
e associativo.[…] […] Fare oggi spazio al secondo welfare non significa giocare per un
arretramento dello Stato, svalutandone o erodendone le realizzazioni in campo sociale. Vuol dire
(cfr. riprendendo Dahrendorf) sperimentare nuove forme di protezione in una fase storica in cui (a
dispetto della crisi, che prima o poi terminerà) “la condizione economica di molte famiglie
consente di cercare un nuovo equilibrio fra prestazioni offerte e finanziate dalla collettività e
contributo degli individui e delle loro associazioni” […].
Sulla questione del “secondo welfare”
Ferrera è poi ritornato anche in una serie di articoli
successivi, ponendo peraltro attenzione proprio al tema specifico della non autosufficienza. Sempre
in un articolo dello scorso anno, egli evidenzia come (Ferrera, 2010b):
“Nel 2025 in Italia avremo due milioni di anziani in più di oggi […]. Il tasso di non autosufficienza
nella popolazione aumenterà del 53%, sollevando enormi problemi finanziari, organizzativi e
sociali. Come affrontare la sfida?E chi deve pagare il conto? […] […] Insieme alla Germania,
l’Italia è il paese europeo che registrerà nei prossimi decenni l’invecchiamento più rapido e
marcato. […] […]Serve però uno sforzo collettivo, anche sotto il profilo finanziario, non solo da
parte dello Stato, ma anche dei vari attori del cosiddetto “secondo welfare”: aziende, fondi
integrativi, assicurazioni private, fondazioni, regioni ed enti locali. Senza tale sforzo il nostro paese
rischia di farsi davvero sopraffare dalle dinamiche dell’invecchiamento […]”.
Ferrera ha inoltre approfondito il suo ragionamento sul “secondo welfare” evidenziando come, la
forte propensione delle famiglie italiane al risparmio privato possa costituire, se adeguatamente
valorizzata (per esempio all’interno di un ragionamento di tipo assicurativo), un’opportunità
fondamentale per fornire risposte all’altezza della questione della non autosufficienza (Ferrera,
2010c):
“[…] […] Lo Stato sociale ha oggi gravi difficoltà a finanziare i programmi in essere (che pure
sono stati ridimensionati, pensiamo alle pensioni) e non ce la fa a rispondere ai nuovi bisogni.
Nemmeno le famiglie, però, ce la fanno, soprattutto da sole. I loro patrimoni sono spesso
imprigionati in immobili, a cominciare dalla casa d’abitazione: venderla non conviene e comunque
10
dispiace. Anche se si dispone di liquidità, le soluzioni individuali costano care i risparmi finiscono
presto. C’è un modo per superare l’impasse? La sfida è quella di offrire alle famiglie nuovi
strumenti di investimento sociale (volontario, se possibile con qualche incentivo fiscale), verso cui
dirigere parte del proprio risparmio, in modo da avere accesso a forme di protezione più efficaci e
meno costose rispetto al “fai da te”. Pensiamo alla non autosufficienza. Le famiglie si trovano oggi
quasi sole di fronte ai bisogni dei loro anziani fragili. Alcune si assicurano privatamente, ma costa
molto caro. Altre ricevono sussidi pubblici, ma sono poche. La maggioranza si arrabatta e spende
fior di quattrini di tasca propria. […] Se un rischio che diventato quasi universale venisse
condiviso all’interno di ampie categorie, su base territoriale oppure occupazionale, la copertura
costerebbe molto meno e sarebbe più efficace. […] Certo l’operazione andrebbe costruita
formando nuove alleanze fra soggetti non pubblici, promuovendo sinergie fra assicurazioni private,
sindacati, datori di lavoro, eventualmente con la collaborazione degli enti locali […]”.
Alternative, come ribadisce lo stesso Ferrera, ce ne sono ben poche anche perché l’introduzione di
nuovi schemi pubblici risulta praticamente impossibile nell’attuale fase storica. Pertanto (ibidem):
“[…] Il “primo” welfare ha ormai le armi spuntate, dobbiamo rimboccarci le maniche e costruire
il “secondo”. Non tutti i paesi possono permetterselo. Per una volta, grazie alle sue famiglieformiche, l’Italia ha un’opportunità in più: quella di creare un nuovo robusto circolo virtuoso fra
risparmio e welfare, con sicuri guadagni di efficienza”.
E’ importante evidenziare come la proposta sul “secondo welfare” non sia rimasta solo a livello di
dibattito, poiché nel frattempo sono già avanzate alcune forme di attuazione. Ci riferiamo in
particolare all’avvio di una nuova stagione di rinnovi contrattuali in cui crescentemente sono stati
considerati - ed inclusi come elementi di contrattazione – anche le coperture sanitarie integrative,
fra cui anche quelle specifiche per il rischio di non autosufficienza.
In un recente contributo, Ascoli (2010: 42-3) riferisce, per esempio, dei rinnovi contrattuali
avvenuti nel settore assicurativo e in quello bancario. Nel primo, infatti, nel 2004: “[…] è stato
sottoscritto un accordo […] ad integrazione di quanto previsto nel CCNL del 2003, che prevede la
costituzione di un “Fondo unico nazionale destinato a garantire la copertura assicurativa per Ltc”8
[…]; la copertura sarebbe stata garantita da una contribuzione a carico delle imprese; il consiglio
di amministrazione del fondo (composto da dieci membri, cinque designanti dalle imprese e cinque
dai sindacati) “determina la prestazione attraverso polizze assicurative, che sarà erogata per
l’intera durata della vita dell’assicurato colpito dall’evento […]”.
8
Il fondo è finanziato con un contributo annuo a totale carico delle imprese pari allo 0.50% delle
retribuzione (in media, circa 160 euro). La prestazione consiste in una rendita vitalizia annua anticipata di
12.253 euro.
11
Per i bancari, la copertura viene inclusa nel contratto tre anni più tardi (ibidem): “[…] si tratta della
prima categoria per dimensioni […] che all’interno di due contratti nazionali riesce a raggiungere
un accordo completamente innovativo su una materia ancora poco sviluppata nel nostro paese, ma
drammaticamente attuale (così si sono espresse nel luglio 2009 le segreterie nazionali sindacali di
settore). La copertura assicurativa è garantita tramite contributi a carico delle aziende (50 euro
l’anno per le aree professionali e quadri direttivi; 200 annui per i dirigenti) versati alla Cassa
nazionale di assistenza sanitaria per il personale dipendente del settore del credito (Casdic). Per i
casi accertati di non autosufficienza, oltre ad una serie di servizi di supporto sul territorio, è
prevista l’erogazione sotto forma di un rimborso per le spese socio-sanitarie sostenute, di un
importo che può arrivare fino ad un massimo di 13.200 euro annui. […] ”.
Agli accordi integrativi aziendali si aggiunge, inoltre, l’approvazione di una serie di provvedimenti
che hanno come scopo quello d’incentivare lo sviluppo del secondo pilastro della sanità integrativa,
con una specifica finalizzazione alla copertura del rischio di non autosufficienza.
Ci si riferisce in particolare a due decreti emanati dal Ministero della salute (il primo, a firma di
Turco del 31/3/20089; il secondo, modificativo del primo, a firma Sacconi del 27/11/200910) che
hanno regolato gli ambiti d’intervento dei fondi sanitari integrativi e istituito un’anagrafe centrale.
Ai fondi che s’inscriveranno all’anagrafe (e per godere dei benefici fiscali previsti11), viene chiesto
di vincolare almeno il 20% sul totale delle risorse impegnate a prestazioni che riguardano (oltre
all’assistenza odontoiatrica) proprio quelle per la non autosufficienza sia “sociali (a rilevanza
sanitaria)” che “sanitarie (a rilevanza sociale)”.
Complessivamente questo insieme d’iniziative possono essere ritenute coerenti al disegno di
costruzione del cosiddetto “secondo welfare” che viene auspicato, in una funzione integrativa al
pubblico e al fine di rispondere ai bisogni crescenti della popolazione anziana e delle famiglie, in un
contesto di forti vincoli di bilancio. Le implicazioni possono essere, tuttavia, anche altre. A tal
proposito è interessante riprendere quella che è l’interpretazione che viene direttamente fornita sul
9
Decreto 31 marzo 2008: “Ambiti di intervento delle prestazioni sanitarie e socio-sanitarie erogate dai
Fondi sanitari integrativi del Servizio sanitario nazionale e da enti e casse aventi esclusivamente fini
assistenziali”.
10
Decreto 27 ottobre 2009: “Modifica al decreto 31 marzo 2008 riguardante “Fondi sanitari integrativi del
Servizio sanitario nazionale”.
11
I contributi versati per le coperture sanitarie integrative, tramite enti, casse, società di mutuo soccorso e
fondi integrativi (dunque di natura “collettiva”) che operano secondo le regole previste nel decreto
ministeriale, non concorrono infatti alla formazione del reddito imponibile IRPEF per un importo annuo non
superiore ai 3.615,20 euro. I contributi versati dai datori di lavoro oltre ad essere considerati costo per lavoro
dipendente integralmente deducibile dal reddito d’impresa calcolato ai fini IRPEF e IRES, sono deducibili
dalla base imponibile dell’IRAP in quanto siano previsti in base a disposizioni di legge, di contratto o
accordo collettivo o di regolamento aziendale (cfr. Rebba, 2010).
12
punto dallo stesso Ascoli. Secondo l’autore, infatti, tutto questo sembra delineare uno scenario in
cui (Ascoli, 2010: 44): “[…] le questioni riguardanti la non autosufficienza tendano a rimanere
“esterne” al diritto universale alla salute, fondamenta del Servizio sanitario nazionale, e vengano
delegate alle capacità del singolo contribuente o alla categoria di auto-proteggersi e di autotutelarsi”.
Sulla stessa linea, altri studiosi hanno messo in evidenzia di recente le potenziali criticità connesse
all’avvio dei fondi integrativi (cfr. anche Pasquinelli, 2011). Secondo Granaglia (2010), per
esempio, i fondi sanitari integrativi, oltre presentare un certo profilo di insostenibilità (se non
fortemente sovvenzionato fiscalmente) per quanto riguarda il meccanismo stesso dell’assicurazione
applicato alla copertura di rischi quale quello della non autosufficienza (cfr. in termini di onerosità
cui si aggiungono anche problematiche connesse alla “scrematura” ecc ..), possono avere un risvolto
anche di forte iniquità e di pesanti disuguaglianze nelle forme di tutela (oltre che di inefficienza). E
ciò per due ordini di motivi. In primo luogo perché si determina una situazione in cui: “[…] Da un
lato vi sono i fortunati, fra i lavoratori, che riescono a godere delle tutele di un nuovo welfare
occupazionale, come nella prospettiva titmussiana dell’industrial achievement model, dove
l’accesso al mercato del lavoro diventa titolo di merito per accedere anche a tutele integrative.
[…]. Da un altro lato, vi sono coloro che hanno le risorse per accedere a fondi aperti, che
rischiano, […] di essere assai costosi. Da ultimo, vi è il grosso dei cittadini che resta senza tutele”.
Fra i cittadini che rimarrebbero senza tutela ci sarebbero, inoltre, anche vaste componenti di ceto
medio (ed, includiamo noi, di ceto medio-basso):“[…] alla luce dell’endemica polverizzazione
italiana dell’occupazione in piccole imprese e lavoro autonomo e crescente, alla luce del più
complessivo andamento della distribuzione primaria e del mercato del lavoro. Basti pensare alla
diffusione dei contratti di lavoro atipico […]”. In altre parole: “[…] a beneficiare delle
agevolazioni […] (cfr. nostro: sarà) un sottogruppo relativamente avvantaggiato della popolazione:
individui che non solo lavorano, ma hanno anche un datore di lavoro che aderisce al fondo e
individui che, a prescindere dalle condizioni lavorative, hanno redditi sufficienti sia a pagare il
premio sia a beneficiare dell’agevolazione (ossia, a essere capienti) […]”.
A queste iniquità si aggiungerebbe, inoltre, secondo Granaglia il fatto che: “[…] Un eventuale
sviluppo dei fondi rischia, peraltro, di compromettere la possibilità di adozione, nel futuro, di
soluzioni universalistiche. Attribuire ai fondi la responsabilità del contrasto alla non
autosufficienza (a prescindere dalle difficoltà sopra citate di realizzazione) sembra, ad esempio,
comportare l’abbandono inevitabile del progetto di fondo pubblico nazionale per la non
autosufficienza […]”.
13
La tesi che viene avanzata in questo paper ci porta, tuttavia, ad esplorare altri tipi d’interpretazione,
e di potenziali esiti connessi alla promozione di azioni quale quelle recenti sui fondi sanitari. Un
punto su cui torneremo nel par. 4, a seguito dell’excursus storico-normativo che sarà condotto di
seguito.
3. La questione della tutela degli anziani cronici
non autosufficienti: un excursus storico-
normativo
In questo paragrafo, attraverso un excursus storico-normativo, cercheremo di rendere chiaro come
la questione della tutela degli anziani cronici non autosufficienti, ed i suoi tratti costitutivi (cfr. par.
1), affondino in prima istanza le loro “radici” in quello che è stato (e lo è tutt’ora) un processo
“sostantivo” di ri-definizione dei rapporti fra il settore della “sanità” e quello dell’”assistenza”, in
base al quale le responsabilità di tutela e cura nei confronti degli stessi anziani cronici sono state
progressivamente “scaricate” dal primo al secondo di questi due comparti della sicurezza sociale.
Tale processo “sostantivo” di “scarico” è avvenuto tuttavia – aspetto assolutamente centrale –
violando i diritti vigenti, poiché nonostante i cambiamenti normativi (col quale, per esempio, la
gratuità delle cure sanitarie è venuta progressivamente meno) la responsabilità del Servizio sanitario
nazionale nella cura senza limiti degli anziani cronici non autosufficienti è rimasta, chiaramente,
immutata. Come s’è visto in apertura, infatti, gli anziani non autosufficienti sono persone
innanzitutto colpite da patologie croniche ad esito invalidante. Pertanto,
trattandosi di una
questione che attiene direttamente la tutela del diritto alla salute, nulla è cambiato né sotto il profilo
delle garanzie costituzionali (cfr. art. 32 della Costituzione) né di quelle normative previste dalla
stessa legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale (cfr. l. 833/78).
Anche se non si avrà modo di trattare la questione in questo contributo, va inoltre evidenziato come
la tendenza delle istituzioni a “scaricare” le responsabilità che esse hanno nei confronti degli anziani
cronici non autosufficienti avviene non solo a livello “macro”, nel rapporto fra la sanità e
l’assistenza, ma anche all’interno dello stesso sistema assistenziale. Con la scusa di presunte
obbligazioni familiari, infatti, molto spesso i comuni tendono a scaricare ulteriormente sulle
famiglie gli oneri derivanti dalla cura (in particolare, nel ricovero in strutture residenziali) degli
anziani cronici, chiedendo contribuzioni – giustappunto in base alla presenza di presunti obblighi
alimentari - anche ai familiari stessi12. Tutto questo si configura come una pretesa illegittima che,
12
Sul famoso 433 del CC si era espresso nel corso degli anni ’90 in una nota anche lo stesso Ministero
dell’Interno, Direzione Generale dei Servizi Civili, che interpellato sulla questione “cassava” il
14
peraltro, sta contribuendo a trasformare – come s’è visto in precedenza (cfr. par. 1) – la non
autosufficienza in causa d’impoverimento per le famiglie.
3.1. La tutela degli anziani cronici non autosufficienti dal secondo dopoguerra agli anni ‘80
3.1.1. Un avvio “pionieristico”. Dalle prime leggi degli anni ’50 alla riforma sanitaria del ‘78
Diversamente da quanto si sostiene circa i presunti ritardi dello stato sociale italiano nella copertura
del rischio di non autosufficienza, il nostro paese si dotò già nel corso degli anni ’50 di una serie di
provvedimenti all’altezza della questione. Di fatto, seppur nel quadro di un processo di estensione
fortemente “incrementale” e “categoriale” della copertura del rischio di malattia che avviene a
partire dal secondo dopoguerra (cfr. Ascoli, 1984; Vicarelli, 1997), il Parlamento approva prima
nel 1953 (l. 841/1953) (“Estensione dell’assistenza sanitaria ai pensionati statali e sistemazione
economica della gestione assistenziale dell’E.N.P.A.S.”) e poi nel 1955 (l. 692/1955) (“Estensione
dell’assistenza di malattia ai pensionati di invalidità e vecchiaia”) due leggi nazionali nelle quali
viene riconosciuto il diritto alle cure sanitarie gratuite sia ai pensionati del settore statale sia a quelli
del settore privato.
L’aspetto assolutamente significativo, per ciò che ci concerne, è che attraverso queste leggi viene
riconosciuto per la prima volta nell’ordinamento italiano il diritto alle cure sanitarie senza limiti
(incluse quelle ospedaliere) per malattie legate all’invecchiamento. All’art. 3 della l. 692/1955,
infatti, viene specificato come: “L’assistenza di malattia a favore degli assistiti […] si attua
attraverso le seguenti prestazioni: 1) generica specialistica, ivi compresa l’assistenza ostetrica; 2)
ospedaliera; 3) farmaceutica. L’assistenza […] è esercitata da ciascun istituto nei limiti e con
l’osservanza delle modalità per esso in vigore […]. Tale assistenza tuttavia spetta senza limiti di
durata nei casi di malattie specifiche della vecchiaia, indicate nell’apposito elenco da compilarsi a
cura del ministro per il lavoro e la previdenza sociale […]”
comportamento dei comuni evidenziando come (Prospettive Assistenziali, 1999): “[…] le pubbliche
amministrazioni non potrebbero imporre ai familiari degli utenti dei servizi socio-assistenziali, tenuti per
legge agli alimenti, la partecipazione alle relative spese di gestione, in assenza di specifiche norme di legge
in tal senso […]”
Alla questione del 433 si aggiunge, inoltre, quella che riguarda la compartecipazione al costo delle
prestazioni e l’accesso alle prestazioni sociali agevolate dei comuni, per esempio nel caso di ricovero in
strutture residenziali. In merito ciò, le ultime sentenze del Consiglio di Stato (cfr. 511/2011 e 1607/2011)
hanno chiarito definitivamente dopo numerose sentenze dei tribunali amministrativi regionali, che i comuni
devono considerare la situazione economica del solo assistito (cfr. Trebeschi, 2011). Pertanto qualsiasi
contribuzione imposta dai comuni alle famiglie che non tiene conto della situazione economica del solo
anziano non autosufficiente (ciò vale anche per i disabili gravi) è illegittima.
15
Successivamente all’approvazione della legge, il 21 dicembre 1956 viene emanato il decreto con cui
si elenca l’insieme delle malattie specifiche della vecchiaia rientranti nella copertura prevista dalla l.
692/1955, ovvero (cfr Ministero del lavoro e della previdenza sociale cit. in: Santanera, 1986):
“1) Malattie dell’apparato cardio circolatorio: sequele morbose dell’arteriosclerosi (come
emorragia e trombosi cerebrale […]; 2) Malattie del sistema nervoso: parkinsonismo senile […] ;
3) Malattie degli organi e dei sensi: cataratta […]; 4) Malattie dell’apparato digerente : diabete
senile […]; 5) Malattie dell’apparato respiratorio: enfisema essenziale senile e sue complicazioni
bronchiali […]; 6) Malattie dello scheletro: artrosi senile e sue complicazioni […]; 7) Malattie
dell’apparato emopoietico: emopatia da aplasia midollare senile […]; 8) Malattie delle ghiandole
endocrine: disendocrinopatie senili; 9) Malattie degli apparati urinario e genitale: nefrosclerosi
senile […]; 10) Neoplasmi”.
Per questo tipo di malattie il decreto ribadisce il diritto alle cure sanitarie senza limiti di durata sia a
livello ambulatoriale e domiciliare che a livello ospedaliero, seppur tuttavia in quest’ultimo caso
qualora gli accertamenti diagnostici e le cure mediche (o chirurgiche) non siano normalmente
praticabili a domicilio (ibidem).
In seguito all’approvazione di queste norme, la competenza del settore sanitario nella cura senza
limiti degli anziani cronici non autosufficienti viene ribadita innanzitutto nel quadro della riforma
ospedaliera del 1968 (l. 132/1968) (“Enti ospedalieri e assistenza ospedaliera”) (Prospettive
Assistenziali, 1978). In essa, infatti, all’art. 29 viene previsto che ciascuna regione provvede a
programmare i propri interventi nel settore ospedaliero: “[…] in relazione al fabbisogno dei posti
letto distinti per acuti, cronici, convalescenti e lungodegenti […]”.
L’assistenza ospedaliera per i cronici trova conferma anche nel decreto ministeriale 13-8-1969
(“Obiettivi e criteri per la formulazione del Piano nazionale ospedaliero transitorio”), dove
(ibidem): “[…] sono più volte nominate divisioni e sezioni per lungodegenti nella previsione di un
quadro di una rete ospedaliera che assicuri ogni forma di assistenza in relazione alle esigenze della
popolazione”.
Il diritto
degli anziani cronici alle cure sanitarie senza limiti, in linea peraltro con le stesse
previsioni costituzionali che all’art. 32 riconoscono il “diritto alla salute”, confluisce poi
chiaramente all’interno della riforma istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (l. 833/78)
(“Istituzione del servizio sanitario nazionale”). In essa, infatti, nel quadro degli obiettivi generali da
un lato assicura (cfr. art. 2, c. 1, punto 3): “[…] la diagnosi e la cura degli eventi morbosi, quali
siano le cause, la fenomenologia e la durata”.
16
Dall’altro lato, più specificamente, persegue (cfr. art. 2, c. 2, lett. f): “la tutela della salute degli
anziani, anche al fine di prevenire e di rimuovere le condizioni che possono concorrere alla loro
emarginazione”.
3.1.2. L’avvio dell’espulsione degli anziani cronici dalla sanità all’assistenza
Tuttavia, proprio a seguito del pieno riconoscimento del diritto degli anziani cronici alle cure
sanitarie senza limiti, si assiste all’avvio di un processo sistematico di espulsione degli stessi
dall’ambito della tutela sanitaria (in particolare ospedaliera), che troverà nel corso degli anni ’80 la
sua massima espressione. Le prime iniziative da questo punto di vista vengono prese direttamente a
livello regionale.
In alcune esperienze, come per esempio in Emilia-Romagna, si assiste “al lancio” delle cosiddette
“case protette”, ovvero strutture assistenziali che - nel quadro dei processi di “ri-qualificazione”
vengono destinate al ricovero degli anziani cronici espulsi dai reparti ospedalieri .
Nella maggior parte dei casi, infatti, si trattava di strutture assistenziali tradizionalmente destinate al
ricovero degli anziani autosufficienti e che - parallelamente anche al processo di deistituzionalizzazione e di promozione di servizi (domiciliari) alternativi (cfr. David, 1984) – trovano
nel ricovero degli anziani cronici una nuova forma “d’impiego”.
Negli intenti del legislatore, alle “case protette” spettava di rispondere ai bisogni dei (ALSS, 1979:
497): “[…] cosiddetti “cronici”: persone che non necessitano tanto di interventi sanitari quanto di
cure assistenziali e che oggi, non esistendo servizi alternativi, sono spesso relegati nelle corsie
ospedaliere dove non trovano né un aiuto corrispondente alle loro reali necessità né un ambiente
adatto alle proprie esigenze di vita […]”.
Tali azioni sembravano, dunque, porsi l’obiettivo di una maggiore “appropriatezza” attraverso il
ricovero degli anziani cronici in strutture territoriali, evitando i ricoveri ospedalieri impropri.
Tuttavia, al contempo inizia ad essere affrontata in Emilia-Romagna una questione che - come
vedremo fra poco - sarà assolutamente centrale nel corso degli anni successivi.
Ci si riferisce alla copertura dei costi di ricovero degli anziani nelle “case protette”. Inizia a farsi
largo, infatti, un certo tipo di posizione che vede necessario coprire solo in parte, attraverso il fondo
sanitario, i costi del ricovero (Federazione regionale CGIL-CISL-UIL et al. 1982). Più
specificamente si riteneva opportuno caricare sul fondo sanitario la copertura di spesa solo per
interventi strettamente a carattere sanitario, come quelli medici, infermieristici oppure farmaceutici.
Andavano, invece, ritenuti costi “socio-assistenziali” – e dunque non imputabili al fondo sanitario quelli alberghieri ed, in particolare, quelli relativi ad interventi di cosiddetta “assistenza tutelare” ,
17
peraltro “centrali” in relazione ai bisogni di cura dei malati cronici non autosufficienti. Tutto questo
portò a scaricare progressivamente sugli anziani (e sulle rispettive famiglie) una serie costi che in
precedenza, chiaramente, gli stessi non erano tenuti a coprire data la gratuità delle cure ospedaliere.
Iniziative analoghe a quelle dell’Emilia-Romagna vengono attuate in Veneto, Piemonte e poi a
venire in altre regioni italiane. Tutte accomunate dalla medesima spinta a trasferire la cura degli
anziani cronici non autosufficienti, attraverso il ricovero in strutture assistenziali, dalla sanità
all’assistenza, peraltro con una forte tendenza alla “de-qualificazione” della stessa assistenza fornita
e all’attribuzione di crescenti oneri economici agli anziani e alle rispettive famiglie (cfr. Prospettive
Assistenziali, 1979).
A livello nazionale, questo processo si afferma in particolare sulla scorta dell’approvazione del
cosiddetto decreto Craxi (dpcm dell’8-8-1985) (“Atto di indirizzo e coordinamento alle regioni e
alle province autonome in materia di attività a rilievo sanitario connesse con quelle socioassistenziali, ai sensi dell’art. 5 della l. 833/1978”).
L’approvazione del decreto avveniva in attuazione delle previsioni contenute nella legge finanziaria
per il 1984 (l. 730/1983) che, all’art. 30 aveva stabilito: “per l’esercizio delle proprie competenze
nelle attività di tipo socio assistenziale, gli enti locali e le regioni possono avvalersi, in tutto o in
parte, delle unità sanitarie locali, facendosi completamente carico del relativo finanziamento. Sono
a carico del fondo sanitario nazionale gli oneri delle attività di rilievo sanitario connesse con
quelle socio-assistenziali”.
In base questo tipo di previsioni, le finalità del decreto Craxi sarebbero state solo quelle di chiarire,
in maniera univoca, le prestazioni il cui costo poteva essere messo a carico del fondo sanitario, nella
forma degli oneri delle attività di rilievo sanitario connesse con quelle socio-assistenziali; e quelle,
invece, a carico dei comuni (Bissolo, 2005: 38). In questo modo, peraltro, si cercava di risolvere il
contenzioso emerso nel frattempo fra le USL e i comuni proprio in merito alla copertura dei costi
(David, 1989: 97). La riforma sanitaria, infatti, aveva previsto – anche al fine di favorire una reale
gestione integrata dei servizi sociali con quelli sanitari - la possibilità per i comuni di delegare
direttamente alle USL la gestione dei propri servizi socio-assistenziali. Tuttavia ciò creò una serie di
problemi rispetto alla titolarità delle funzioni che, giustappunto, potevano trovare soluzione
attraverso le precisazioni fornite del decreto (ibidem).
Una lettura più attenta della questione mostra, però, come le finalità fossero anche altre e non solo
di mera chiarificazione “contabile”. Innanzitutto va evidenziato come l’approvazione del decreto
Craxi viene preceduta dall’elaborazione di un documento, da parte del Consiglio sanitario
nazionale, nel giugno dell’84, col quale venivano fornite delle indicazioni rispetto alla ripartizione
18
dei costi così come previste nella finanziaria per il 1984 (Consiglio Sanitario Nazionale in:
Prospettive Assistenziali, 1984).
In tale documento, con riferimento specifico agli anziani non autosufficienti, come prima cosa il
Consiglio sanitario nazionale ribadiva le difficoltà ad individuare correttamente dei confini fra
attività sanitarie ed assistenziali, poiché gli interventi per questo tipo di popolazione risultano
estremamente connessi e inscindibili (ibidem).
Segue poi un passaggio che è centrale, in cui il Consiglio evidenzia come al fine di ridurre la spesa
sanitaria, e tenendo conto che fino al quel momento gli anziani cronici erano stati ricoverati in
ambito ospedaliero, il fondo sanitario nazionale avrebbe dovuto farsi carico fino ad un massimo del
50% del costo del ricovero degli anziani nelle case protette (assistenziali) (ibidem):
“[…] considerando lo stretto intreccio della presenza sanitaria e socio-assistenziale anche nelle
strutture protette appare necessario che, nel transitorio, sia per l’inadeguatezza dei servizi sanitari
sul territorio, che non possono farsi carico in maniera completa del problema, sia perché
storicamente il non autosufficiente è stato ricoverato e assistito in ambito ospedaliero e
paraospedaliero, la spesa relativa al ricovero in casa protetta o strutture similare di persone non
autosufficienti carichi parzialmente (fino ad un massimo del 50%) sul fondo sanitario nazionale, ai
fini di determinare la correlativa riduzione della spesa ospedaliera […]”.
Da questo punto di vista la questione degli “oneri a rilievo sanitario” sembra assumere un
significato ben preciso. Essi, infatti, vanno inquadrati all’interno di un processo il cui fine è quello
di determinare una correlativa riduzione della spesa sanitaria, attraverso lo “scarico” degli anziani
cronici - ricoverati (in larga parte) fino allora in ambito ospedaliero - sulle strutture assistenziali.
All’elaborazione del documento da parte del Consiglio Sanitario Nazionale fa seguito poi
l’approvazione vera e propria del decreto Craxi del 1985, col quale viene fornito indirizzo alle
regioni rispetto alla questione degli oneri a rilievo sanitario. Innanzitutto il decreto definisce le
attività di rilievo sanitario connesse con quelle socio-assistenziali (cfr. art. 1): “[…] le attività che
richiedono personale e tipologie di intervento propri dei servizi socio-assistenziali, purché siano
dirette immediatamente e in via prevalente alla tutela della salute del cittadino e si estrinsechino in
interventi a sostegno dell’attività sanitaria di prevenzione, cura e/o riabilitazione fisica e psichica
del medesimo, in assenza dei quali l’attività sanitaria non può svolgersi o produrre effetti”.
Per quanto riguarda la cura degli anziani (limitatamente agli stati morbosi non curabili a domicilio),
il decreto riconosce – in base anche alle indicazioni contenute nel documento del Consiglio
sanitario nazionale – come attività socio-assistenziale di rilievo sanitario, dunque a carico del fondo
sanitario, solo i ricoveri in strutture protette, comunque denominate (art. 6).
19
Più in generale, le conseguenze connesse alla messa in atto di questo processo di scarico
sull’assistenza degli anziani cronici - che può essere inquadrato fra i vari tentativi di
smantellamento della riforma sanitaria del ‘78, mediante quella “[…] induzione forzata del privato
sulla scia del degrado del pubblico” (Vicarelli, 1990: 274)13 - emergono chiaramente da alcune
indagini degli anni ’80 rispetto alla casistica degli anziani ricoverati nelle strutture residenziali
assistenziali . Per esempio, nel caso del comune di Torino, la quasi totalità dei ricoverati
nell’Istituto di riposo per la vecchiaia risultava affetta da pluri-patologie (ovvero 4 malattie in media
per individui) (Prospettive Assistenziali, 1986). In una ricerca condotta sugli anziani in case di
riposo nel Circondario di Rimini, il dato che veniva messo in evidenza era quello di una percentuale
considerevole di ricoverati affetti da tutta una serie di patologie, di cui le preminenti erano:
broncopatie ostruttive croniche riacutizzate, cistopieliti, cardiopatie ischemiche acute (ibidem).
3.1.3. La tutela degli anziani cronici non autosufficienti nel corso del periodo più recente
La tutela degli anziani cronici nel quadro delle riforme degli anni ‘90
Nel corso degli anni ’90 i passaggi centrali che riguardano la tutela degli anziani cronici
s’inseriscono innanzitutto nel quadro dell’approvazione della terza riforma sanitaria nonché in
quella che è poi divenuta la legge nazionale di riforma sui servizi sociali (l. 328/00) (“Legge quadro
per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”).
13
Sempre sul decreto Craxi va, inoltre, notato come secondo alcuni la scelta di garantire la copertura del
fondo sanitario nazionale (attraverso l’attribuzione dei cosiddetti oneri a rilievo sanitario alle sole “case
protette”) costituiva una scelta politica ben precisa, attraverso cui veniva a privilegiarsi
l’istituzionalizzazione degli anziani. Tutto ciò a discapito – invece – dello sviluppo di forme alternative al
ricovero, primi fra tutti gli interventi domiciliari, che nel frattempo andavano diffondendosi sotto la spinta
riformatrice degli enti territoriali. Questo tipo d’interpretazione è avanzata dalla David (1989: 98-99), per la
quale il decreto Craxi: “[…] opera un aperto attacco al processo di de-istituzionalizzazione con fatica
avviato nella politica socio-assistenziale del paese; l’ente locale viene, infatti messo di fronte alla scelta se
attuare un servizio innovativo come l’assistenza domiciliare, ma i cui costi graveranno totalmente nel suo
bilancio, oppure rifarsi al circuito pubblico e privato degli istituti di ricovero comunque dominanti sapendo
di contare su congrui finanziamenti da parte dello stato”.
Un’interpretazione analoga viene avanzata anche da Paci (1987). Il fatto che col decreto Craxi non siano
rientrate (fra le attività di rilievo sanitario) attività socio-assistenziali come l’assistenza economica o in
natura, l’assistenza domestica, le comunità alloggio, le strutture diurne socio-formative ecc …, di converso
alla copertura dei ricoveri in strutture protette, significa in sostanza: “[…] che si tende a ripristinare la linea
dell’ospedalizzazione e dell’internamento e si bloccano gli interventi sul territorio, o almeno, si rendono più
difficili quei servizi alternativi di cui molti comuni si erano fatti portatori […]”. Entrambi gli autori non
tengono, invece, in considerazione dell’inquadramento del decreto nei termini del processo di espulsione
degli anziani cronici dal settore sanitario, nell’ottica di riduzione la spesa sanitaria.
20
Procediamo con ordine. Per quanto riguarda la riforma sanitaria va, infatti, tenuto conto che a
seguito della vittoria all’elezioni politiche del ’96 della coalizione di centro-sinistra, il governo
procedette subito ad un tentativo di revisionare l’impianto del Servizio sanitario nazionale scaturito
a seguito dei provvedimenti dei primi anni ’90 (in particolare, d.lgs. 502/92).
Nel fare questo il governo è delegato dal Parlamento, con la l. 419/1998 (“Delega al governo per la
razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale e per l’adozione di un testo unico in materia di
organizzazione e funzionamento del Servizio sanitario nazionale. Modifiche al decreto legislativo
30 dicembre 1992, n. 502”) ad emanare un decreto legislativo che prevedesse, fra le altre cose,
anche (Ragaini, 2005: 235):
“tempi, modalità e aree di attività per pervenire ad un effettiva integrazione a livello distrettuale
dei servizi sanitari con quelli sociali, disciplinando altresì la partecipazione dei comuni alla spese
connesse alle prestazioni sociali; stabilire principi e criteri per l’adozione […] di un atto di
indirizzo e coordinamento […] in sostituzione del decreto del presidente del consiglio dei ministri 8
agosto 1985 […], che assicuri livelli uniformi delle prestazioni sociosanitarie ad elevata
integrazione sanitaria”.
Nella delega viene previsto un superamento delle previsioni contenute nel decreto Craxi e
l’elaborazione di un nuovo quadro normativo rispetto al tema delle prestazioni sociosanitarie:
dunque, di quelle relative (fra le altre) agli anziani cronici non autosufficienti.
Nel giugno ’99 il governo vara la riforma ter del Servizio sanitario nazionale, ovvero il decreto
229/99 (“Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’art. 1 della
legge 30 novembre 1998, n. 419”) che all’art. 3 septies (c. 1) fornisce una definizione delle
prestazioni sociosanitarie, ovvero: “tutte le attività atte a soddisfare, mediante percorsi assistenziali
integrati, bisogni di salute della persona che richiedono unitariamente prestazioni sanitarie e
azioni di protezione sociale in grado di garantire, anche nel lungo periodo, la continuità tra le
azioni di cura e quelle di riabilitazione”.
Al comma successivo, il decreto articola le prestazioni sociosanitarie in due macro aree , ovvero le
prestazioni “sanitarie a rilevanza sociale” e quelle “sociali a rilevanza sanitaria”:
“a) prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, cioè le attività finalizzate alla promozione della salute,
alla prevenzione, individuazione, rimozione e contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di
patologie congenite e acquisite; b) prestazioni sociali a rilevanza sanitaria, cioè tutte le attività del
sistema sociale che hanno l’obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno, con problemi di
disabilità o di emarginazione condizionanti lo stato di salute”.
Oltre a queste, più avanti, sempre nel decreto (c. 4) si aggiunge una terza macro area, ovvero le
“prestazioni sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria”: “caratterizzate da particolare
21
rilevanza terapeutica e intensità della componente sanitaria e attengono prevalentemente alle aree
materno infantile, anziani, handicap, patologie psichiatriche e dipendenza da droga, alcool e
farmaci, patologie per infezioni da HIV e patologie in fase terminale, inabilità o disabilità
conseguenti a patologie cronico-degenerative”.
Sulla base di quest’ultima previsione, il d.lgs 229/99 sembrava, dunque, sancire in maniera chiara la
responsabilità del Servizio sanitario nazionale anche negli interventi riguardanti malattie croniche
(Ragaini, 2002: 2). Ciò significa la piena responsabilità del Servizio sanitario nella cura degli
anziani cronici non autosufficienti, la cui disabilità è - per l'appunto - conseguente a patologie
cronico-degenerative (cfr. introduzione).
Nel decreto non c’è traccia, invece, rispetto quelle che dovevano essere concretamente le
prestazioni comprese in queste tre macro aree. A tal scopo,veniva prevista l’emanazione (entro tre
mesi dall’approvazione dello stesso d.lgs. 229/99) di un specifico atto di indirizzo e coordinamento,
nel quale peraltro avrebbero dovuto essere individuati anche i termini della ripartizione degli oneri
finanziari fra settore sanitario (ovvero le Aziende sanitarie) e sociale (ovvero i Comuni) nel
finanziamento delle prestazioni stesse (cfr. c. 3).
Come si vedrà poc’anzi l’approvazione dell’atto di indirizzo tarderà non poco a venire. Tuttavia, è
importante evidenziare come nel decreto vengono comunque delineate alcune questioni
assolutamente centrali circa l’attribuzione delle responsabilità istituzionali per le tre macro aree di
prestazioni sociosanitarie (Perino, 2007).
Per le cosiddette prestazioni “sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria”, la competenza
viene riconosciuta in capo al settore sanitario. Addirittura, si specifica come questo tipo di
prestazioni debba rientrare all’interno dei “livelli essenziali di assistenza sanitaria”, ovvero le
prestazioni garantite a tutti cittadini (gratuitamente o con compartecipazioni) dal Servizio sanitario
nazionale.
Per quanto riguarda, invece, le “prestazioni sociali a rilevanza sanitaria” la competenza è dei
Comuni. Meno chiara è, invece, l’attribuzione per le “prestazioni sanitarie a rilevanza sociale”.
Questa va ricercata, infatti, nel precedente art. 3 quinquies, c. 1, lett. c) dove si afferma, con
riferimento alle funzioni e risorse del distretto sanitario (ovvero l’articolazione territoriale delle
AUSL), che esso deve garantire (ibidem): “l’erogazione delle prestazioni sanitarie a rilevanza
sociale, connotate da specifica ed elevata integrazione, nonché delle prestazioni sociali a rilevanza
sanitaria se delegate dai comuni”.
A questo tipo di suddivisione rispetto l’attribuzione delle responsabilità istituzionali fra settore
sanitario e sociale, consegue anche un’analoga suddivisione delle responsabilità circa la copertura
degli oneri finanziari. Per le prestazioni “sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria” (peraltro
22
incluse, come s’è detto, all’interno degli stessi livelli essenziali) la copertura dovrà essere
interamente a carico della sanità, dunque del fondo sanitario nazionale. Di converso, per le
“prestazioni sociali a rilevanza sanitaria” essendo dei Comuni la responsabilità, queste dovranno
“gravare” interamente sui bilanci dei Comuni stessi.
Invece, per l’ultimo tipo di prestazioni sociosanitarie, ovvero le “sanitarie a rilevanza sociale”,
seppur limitatamente alla fattispecie di quelle “connotate da specifica ed elevata integrazione”, pur
dovendo essere queste garantite dal distretto sanitario, complessivamente nel quadro delle
previsioni delineate dal decreto (ed in particolare, come riportato sopra, stante la previsione di un
atto d’indirizzo con indicazioni relative anche alla ripartizione dei criteri di finanziamento fra sanità
e sociale) non sembrava discendere una competenza esclusiva del settore sanitario (ibidem).
Dunque, per questo tipo di prestazioni il decreto delineava in maniera “ibrida” l’attribuzione della
responsabilità istituzionale in capo al settore sanitario, tuttavia con un onere di copertura finanziaria
da ripartire fra “sanità” e “sociale”.
In sintesi, stante le previsioni contenute nel decreto di riforma della sanità, la tutela degli anziani
cronici non autosufficienti, avrebbe dovuto afferire interamente all’area della cosiddette prestazioni
“sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria” caratterizzate dalla piena responsabilità del
Servizio sanitario nazionale (con inclusione all’interno degli stessi livelli essenziali) e dalla totale
copertura garantita dal fondo sanitario nazionale (cfr. Ragaini, 2002).
La “partita” delle prestazioni sociosanitarie si sarebbe poi dovuta chiudere con l’approvazione del
già menzionato atto d’indirizzo e coordinamento. Secondo le previsioni del d.lgs 229/99, i tempi di
approvazione dovevano risultare entro i tre mesi.
Tuttavia i tempi risultano alla fine più lunghi e l’atto d’indirizzo vede la luce più di un anno e
mezzo dopo, ovvero nel febbraio del 2001 col dpcm 14-2-2001. Prima di analizzare nello specifico i
contenuti dell’atto d’indirizzo, e le sue implicazioni in termini di tutela degli anziani cronici, è
opportuno ricordare come nel corso della seconda metà degli anni ’90 il parlamento fosse
impegnato anche nell’approvazione di quella che è poi divenuta la legge quadro di riforma
dell’assistenza, ovvero la l. 328/00.
La questione non è “peregrina” poiché una parte del dibattito e del confronto parlamentare che
precede l’approvazione di questa legge arriva a toccare proprio la tutela della cronicità e, della
rispettiva ripartizione delle competenze fra settore “sanitario” e “sociale”. Nel corso delle audizioni
condotte dall’allora commissione incaricata alla stesura della legge, era emerso in particolare il
grido d’allarme degli enti locali. Fra le varie questioni, essi sollevavano anche quella relativa alle
conseguenze connesse all’introduzione del finanziamento a prestazione (ovvero dei DRG), sulla
scorta dei cambiamenti regolativi del Servizio sanitario nazionale dei primi anni ’90. Su questo
23
punto l’allora assessore alle politiche sociali del Comune di Genova, Rosetti, nella sua audizione in
sede di commissione parlamentare argomentava (Camera dei Deputati, 1997: 48):
“[…] Un soggetto forte, un interlocutore costante per i servizi alla persona a favore dei soggetti più
deboli, è il sistema sanitario, per cui non possiamo non richiamare la vostra attenzione su alcune
cadute che la nuova riforma sta determinando e che potremmo sintetizzare in una riduzione
dell’intervento sanitario […] in altri termini, lo spettro dell’intervento sanitario ci sembra che vada
riducendosi, con conseguenza assolutamente non accettabili. […] E’ evidente che il riequilibrio
della spesa pubblica, quindi l’intervento sulle risorse sanitarie, e gli obblighi di pareggio del
bilancio almeno per le aziende determinano l’individuazione delle prestazioni meno pagate e di
quelle non pagate. Abbiamo quindi un accentramento degli interventi ospedalieri e sugli acuti, in
particolare sugli acuti che rendono […] a scapito di una serie di voci che sintetizzo: i cronici, le
fasce a scavalco, le tossicodipendenze, gli interventi a domicilio rispetto ai quali, in modo
strumentale, la spedalizzazione a domicilio viene investita o disinvestita di interesse, mentre appare
necessario per una reale politica di promozione della salute, una considerazione diversa della
medicina generale e, quindi, di tutto il raccordo del servizio sanitario di tipo territoriale. Dunque
abbiamo una serie di processi a catena: alcuni comuni hanno visto raddoppiare in sei mesi la spesa
sul capitolo dell’assistenza domiciliare perché quello che non era più strettamente prestazione non
era più sanitario […]”.
Sulla questione dei rapporti fra “sanità” ed “assistenza” il confronto si accende anche a livello
politico. Nell’ambito della discussione che avviene sia sempre a livello di Commissione che
direttamente in sede di approvazione del testo di legge, alcuni parlamentari, infatti, esprimono forti
preoccupazioni circa la possibilità di uno scarico sull’assistenza di prestazioni e servizi a carico del
settore sanitario (Ragaini, 2005: 234), tanto che l’allora ministro Livia Turco interviene ricordando
come (Camera dei Deputati, 2000: 54):
“[…] Il provvedimento, inoltre, porta in dote un altro elemento importante: la riforma sanitaria
prevede che tra gli standard essenziali della sanità, dunque pagati dalla sanità, vi siano i servizi
che riguardano i malati cronici, i portatori di handicap gravi e gravissimi, dunque i servizi che per
ora sono considerati figliastri, che nessuno vuole riconoscere e che molte volte vanno a finire sulle
spalle dei comuni. Ebbene, nell’articolo che riguarda l’integrazione socio-sanitaria del testo al
nostro esame, si fa riferimento ad un provvedimento legislativo che è entrato in vigore, il quale
prevede esattamente che vi siano servizi a carico della sanità […]”.
Il provvedimento cui fa cenno la Turco è presumibilmente il decreto 229/99 che, come s’è visto
anche sopra, sembrava infatti riconoscere interamente (anche sotto un profilo finanziario) le
24
responsabilità del Servizio sanitario nazionale nella cura dei malati cronici, fra cui gli anziani non
autosufficienti.
L’atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni socio-sanitarie e l’approvazione dei
LEA
Ora, se passiamo ad analizzare più specificamente i contenuti dell’Atto di indirizzo e
coordinamento (dpcm 14/2/2001) ci accorgeremo come, forse, i giudizi critici sollevati in sede
parlamentare - nonostante le rassicurazioni della Turco in relazione alle previsioni contenute nel
decreto di riforma della sanità - non fossero del tutto privi di fondamento.
Innanzitutto, nell’atto d’indirizzo vengono forniti alcuni “chiarimenti” di rilievo circa la ripartizione
delle responsabilità istituzionali sulle prestazioni socio-sanitarie. Scompare, infatti, all’interno della
categoria delle cosiddette “prestazioni sanitarie a rilevanza sociale” la differenziazione che veniva
fatta precedentemente nel decreto 229/99, ovvero quella di attribuire al settore sanitario (ovvero al
distretto) solo quelle “connotate da specifica ed elevata integrazione” (cfr. supra).
Nell’atto di indirizzo, il riferimento è complessivamente alle “prestazioni sanitarie a rilevanza
sociale” con una chiara competenza attribuita al Servizio sanitario nazionale (Perino, 2007).
In questo modo, peraltro, viene ribaltata definitivamente l’impostazione regressiva contenuta nel
decreto Craxi nel quale - come abbiamo visto precedentemente - la titolarità e la gestione delle
prestazioni sociosanitarie venivano scaricate sull’assistenza (cfr. “case protette”), nonostante una
quota dei costi (ovvero i cosiddetti “oneri a rilievo sanitario”), fosse caricata sul fondo sanitario
(cfr. Ragaini, 2005: 239).
L’atto d’indirizzo rinvia, inoltre, alle Regioni la concreta definizione delle prestazioni
sociosanitarie, pur tuttavia nel quadro di alcuni criteri di riferimento (Perino, 2007) (cfr. art. 2):
“L’assistenza socio-sanitaria viene prestata alle persone che presentano bisogni di salute che
richiedono prestazioni sanitarie ed azioni di protezione sociale, anche di lungo periodo sulla base
di progetti personalizzati redatti sulla scorta di valutazioni multidimensionali” (cfr. c. 1); “Le
prestazioni […] sono definite tenendo conto della natura del bisogno, della complessità,
dell’intensità e della durata dell’intervento assistenziale, nonché la sua durata” (c. 2).
L’intensità assistenziale viene articolata, a sua volta, in tre fasi temporali che caratterizzano il
progetto personalizzato (art. 4): “[…] a) la fase intensiva, caratterizzata da un impegno riabilitativo
specialistico di tipo diagnostico e terapeutico, di elevata complessità e di durata breve e definita,
con modalità operative residenziali, semiresidenziali, ambulatoriali e domiciliari; b) la fase
estensiva, caratterizzata da una minore intensità terapeutica, tale comunque da richiedere una
25
presa in carico specifica, a fronte di un programma assistenziale di medio o prolungato periodo
definito; c) la fase di lungo assistenza, finalizzata a mantenere l’autonomia funzionale possibile e a
rallentare il suo deterioramento, nonché a favorire la partecipazione ala vita sociale, anche
attraverso percorsi educativi. […]”.
Alle tre fasi corrisponde una diversa ripartizione dei costi, che vengono specificati per le diverse
aree d’intervento nella tabella allegata all’atto d’indirizzo. Per gli anziani e persone non
autosufficienti con patologie cronico-degenerative il provvedimento stabilisce (cfr. tab. 3.1.):
Tab. 3.1. – Previsioni contenute nel d.p.c.m. 14-2-2001 area: “Anziani e persone non autosufficienti con patologie
cronico-degenerative”
Prestazionifunzioni
Fonte
legislativa
1. Cura e recupero
funzionale di soggetti
non autosufficienti
non
curabili
a
domicilio,tramite
servizi residenziali
a ciclo continuativo e
diurno,
compresi
interventi
di
sollievo
alla
famiglia
Linee
Guida
emanate
dal
Ministero
della
Sanità
del
31/3/1994
l. 11 marzo 1988,
n. 67
l. 451/1998
d.lgs. n. 229/99
d.p.r. 23 luglio
1998;
Piano
sanitario
1998/2000
Leggi e Piani
regionali
2.Assistenza
domiciliare integrata
P.O. Anziani
Criteri di finanziamento
(% di attribuzione della spesa)
100% a carico del SSN l’assistenza in fase intensiva e le prestazioni ad
elevata integrazione sanitaria nella fase estensiva.
Nelle forme di lungo assistenza semiresidenziali e residenziali il 50% del
costo complessivo a carico del SSN, con riferimento ai costi riconducibili
al valore medio della retta relativa ai servizi in possesso degli standard
regionali, o in alternativa il costo del personale sanitario e il 30% dei costi
per l’assistenza tutelare e alberghiera, il restante 50% del costo
complessivo a carico del Comune, fatta salva la compartecipazione da
parte dell’utente prevista dalla disciplina regionale e comunale.
100% a carico del SSN le prestazioni a domicilio di medicina generale e
specialistica di assistenza infermieristica e di riabilitazione.
50% a carico del SSN e 50% a carico dei Comuni, fatta salva la
compartecipazione da parte dell’utente prevista dalla disciplina regionale
e comunale, l’assistenza tutelare.
100% a carico dei Comuni l’aiuto domestico e familiare.
Come evidenziato da Ragaini (2005: 238), nel decreto emerge chiaramente il tentativo di delimitare
gli interventi a totale carico sanitario per periodi molto limitati di tempo (cfr. fase “intensiva” ed
“estensiva”), per poi scaricare sull’assistenza, ovvero sui comuni e sugli anziani ricoverati (e le
rispettive famiglie) circa la metà dei costi in quella che si può ritenere essere la fase centrale nella
cura degli anziani cronici: la “lungo assistenza”.
Peraltro questa limitazione appare ancor più evidente tenendo conto che nello stesso decreto, le
“prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione”, ovvero quelle che - come s’è visto sopra –
sembravano riconoscere per i cronici non autosufficienti, in base al d.lgs 229/99 e come affermato
dalla stessa Turco (cfr. supra), la piena responsabilità (e totale copertura finanziaria) del Servizio
26
sanitario nazionale, vengono ad essere attribuite, in particolare, alla “fase post-acuta” (cfr. art. 3, c.
3). Una fase ben delimitata nel decorso della malattia (peraltro con un durata non indefinita) che fa
subito seguito al superamento della fase “acuta” (o di criticità) e che conduce alla fase di
“stabilizzazione” della malattia stessa, ma in cui non rientra (in assenza di guarigione) la gestione
dello stato stabilizzato e, dunque, della cronicità e della lungo assistenza (cfr. Brizioli, 2005).
Il processo di scarico di oneri fino allora in maggior misura sostenuti dal settore sanitario, emerge –
inoltre - approfondendo la questione relativa alla ripartizione dei costi nell’ambito delle strutture
residenziali per anziani cronici.
Per esse, infatti, nella fase della “lungo assistenza”, il decreto prevede una ripartizione dei costi al
50% fra “sanità” e “sociale”. Tuttavia, se si considera la situazione concreta a livello regionale
(seconda metà degli anni ’90) di ripartizione dei costi nelle RSA (ovvero le residenze sanitarie
assistenziali, destinate alla cura di lungo termine degli anziani cronici), è abbastanza evidente come
la previsione di una quota di copertura al 50% a carico della sanità fosse ben al di sotto rispetto
quanto veniva già messo a carico del fondo sanitario nelle singole regioni (cfr. tab. 3.2.).
Tab. 3.2 - Incidenza (%) copertura quota sanitaria sul totale della spesa
in RSA
Regione
Anno
% sul totale della spesa
Abruzzo
1997
58.0
Emilia-Romagna
1996
56.0
Lazio
1999
57.4-66.3
Liguria
1996
52-62.7
Lombardia
1998
38.2-57.2
Piemonte
1995
60.7
Toscana
1996
62.7
Umbria
1999
79.0-82
Veneto
1998
50-63
MEDIA
59
Fonte: nostre ri-elaborazioni su dati in Pesaresi (1999: 13)
In seguito all’approvazione dell’atto d’indirizzo e coordinamento, la questione della tutela degli
anziani cronici non autosufficienti trova un ulteriore passaggio nell’approvazione, da parte del
governo centrale, nel novembre del 2001, del decreto sui livelli essenziali delle prestazioni sanitarie
(LEA) . In tale decreto, infatti, all’allegato 1.C “area integrazione sociosanitaria” si esplicita come:
“[…] per le singole tipologie erogative di carattere socio sanitario, sono evidenziate, accanto al
richiamo alle prestazioni sanitarie, anche quelle sanitarie di rilevanza sociale ovvero le prestazioni
nelle quali la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente distinguibili e
per le quali si è convenuta una percentuale di costo non attribuibile alle risorse finanziarie
destinate al Servizio sanitario nazionale. […]”
27
In particolare, per quanto riguarda gli anziani, sono individuate per ciascun livello tutta una serie di
prestazioni socio-sanitarie, con una ripartizione degli oneri fra “sanità” e “sociale” che riprende i
contenuti dell’atto di indirizzo e coordinamento sull’integrazione (cfr. tab. 3.3) (Ragaini, 2005:
240):
Tab. 3.3. - Previsioni contenute nel d.p.c.m. 29-11-2001
% costi a
Livelli
di Livelli
di
carico
Assistenza
Assistenza
Prestazioni
dell’utente
Macro-livelli
micro-livelli
o del
Comune
Atto indirizzo e
coordinamento
in
materia
di
prestazioni
socio-sanitarie
DPCM
14.2.2001
Normativa
di
Riferimento
7. Assistenza
territoriale
ambulatoriale
e domiciliare
Assistenza
programmata
a domicilio
(ADI e ADP)
a) prestazioni a
domicilio
di
medicina
generale,
pediatria di libera
scelta
b) prestazioni a
domicilio
di
medicina
specialistica;
c)
prestazioni
infermieristiche a
domicilio
d)
prestazioni
riabilitative
a
domicilio
c) prestazioni di
aiuto
infermieristico e
assistenza
tutelare
alla
persona [cfr. %
colonna a fianco]
d) prestazioni di
assistenza
farmaceutica,
protesica
e
integrativa
8. Assistenza
territoriale
semiresidenziale
28
Assistenza
domiciliare
integrata
50%
L. n. 833/78
art 25
P.O. Anziani
Attività
sanitaria
e
sociosanitaria
nell’ambito
di programmi
riabilitativi a
favore
di
anziani
a)
Prestazioni
terapeutiche, di
recupero
e
mantenimento
funzionale delle
abilità per non
autosufficienti in
regime
semiresidenziale,
ivi
compresi
interventi
di
sollievo [cfr. %
colonna a fianco]
50%
Cura e recupero
funzionale
di
soggetti
non
autosufficienti
non curabili a
domicilio,
tramite servizi a
ciclo
diurno,
compresi
interventi
e
servizi
di
sollievo
Linee guida
Min. Sanità
31.3.1994
L.
n.
67/1988
L.
n.
451/1998
D. Lgs. N.
229/99
D.P.R.
23.7.1998
“Piano
Sanitario
1998/2000”
Leggi
e
Piani
regionali
Cura e recupero
funzionale
di
soggetti
non
autosufficienti
non curabili a
domicilio,
tramite servizi
residenziali,
compresi
interventi
e
servizi
di
sollievo
Linee guida
Min. Sanità
31.3.1994
L.
n.
67/1988
L.
n.
451/1998
D. Lgs. N.
229/99
D.P.R.
23.7.1998
“Piano
Sanitario
1998/2000”
Leggi
e
Piani
regionali
9. Assistenza
territoriale
residenziale
Attività
sanitaria
e
sociosanitaria
nell’ambito
di programmi
riabilitativi a
favore
di
anziani
a) prestazioni di
cura e recupero
funzionale
di
soggetti
non
autosufficienti in
fase intensiva ed
estensiva;
b)
prestazioni
terapeutiche, di
recupero
e
mantenimento
funzionale delle
abilità per non
autosufficienti in
regime
residenziale, ivi
compresi
interventi
di
sollievo [cfr. %
colonna a fianco]
50%
Le previsioni contenute nel decreto sui livelli essenziali hanno assunto, in seguito, forza di legge,
con l’approvazione dell’art. 54 della legge finanziaria per il 2003 (art. 54, l. 289/2002). Tale
questione è centrale poiché in questo modo sono state riconosciute come diritto soggettivo
“esigibile”, le prestazioni sociosanitarie (domiciliari, semi e residenziali) comprese nei livelli
essenziali. Ne discende che tali prestazioni (e le rispettive ripartizioni degli oneri) devono essere
garantite per legge a tutti i cittadini.
29
Al contempo, si è ribadita la piena attribuzione della responsabilità in capo al settore sanitario per
quanto riguarda le “prestazioni sanitarie a rilevanza sociale” che riguardano nel concreto, come
abbiamo visto, prestazioni assolutamente centrali nella cura degli anziani cronici non
autosufficienti: l’assistenza domiciliare, quella in centri diurni ed in strutture residenziali. In questo
modo è ribaltata (seppur con l’attribuzione di un “balzello” finanziario, ovvero il 50% dei costi
“scaricati” sui comuni ed, in particolare, sugli anziani e sulle famiglie) l’impostazione regressiva
del decreto Craxi con il quale si era raggiunto il punto più alto nella spinta al trasferimento dalla
“sanità” all’”assistenza” degli anziani cronici non autosufficienti.
Un trasferimento che è risultato peraltro, come sancito da una sentenza della Corte Suprema di
Cassazione nel 1996 (cfr. n. 10150/1996), totalmente “illegittimo” visto che, trattandosi di atto
amministrativo, il decreto Craxi non poteva in alcun modo modificare le previsioni normative (di
rango superiore) vigenti, nelle quali (come s’è visto in apertura) (cfr. par. 3.1.1.) il diritto degli
anziani cronici alle cure sanitarie senza limiti è pienamente riconosciuto.
4. Considerazioni preliminari su prime forme di attuazione del “secondo welfare”: fondi sanitari
integrativi e tutela della non autosufficienza
Il necessario excursus storico-normativo condotto nel paragrafo precedente ha mostrato come per
inquadrare la questione degli anziani cronici non autosufficienti nel nostro paese, occorra partire da
come sono stati ri-definiti nel lungo periodo le relazioni fra il settore della tutela della salute e
quello dell’assistenza, lungo la direttrice dello scarico e della negazione dei diritti nei confronti
degli anziani cronici.
Tale prospettiva, rispetto la quale va comunque ribadito che rimangono ferme in capo al Servizio
sanitario nazionale le responsabilità di cure (sanitarie e sociosanitarie) senza limiti a tutela degli
stessi anziani cronici, fornisce degli strumenti per tentare una prima lettura della tematica dei fondi
sanitari integrativi, nel quadro di strategie di lancio del cosiddetto “secondo welfare”.
Rispetto questo punto abbiamo visto nel par. 2 come la proposta di sviluppare sistemi integrativi al
welfare pubblico, attraverso la mobilitazione del “privato” (in senso ampio), ha già trovato prime
forme di attuazione. Fra l’altro proprio sul settore specifico della non autosufficienza, attraverso sia
una serie di nuovi accordi stipulati a livello di categorie produttive (cfr. bancari ed assicurativi); sia
attraverso l’approvazione di una serie di provvedimenti che hanno come scopo quello d’incentivare
lo sviluppo del secondo pilastro della sanità integrativa, con una specifica finalizzazione alla
copertura del rischio di non autosufficienza.
30
In quest’ultimo caso il riferimento va ai due decreti emanati dal Ministero della salute (il primo, a
firma Turco del 31/3/2008; il secondo, modificativo del primo, a firma Sacconi del 27/11/2009) che
hanno provveduto a regolare recentemente gli ambiti d’intervento dei fondi sanitari integrativi e ad
istituire un’anagrafe centrale.
In estrema sintesi vengono riconosciute agevolazioni fiscali a favore di quei fondi mutualistici che
s’inscrivono all’anagrafe e vincolano almeno il 20% sul totale delle risorse impegnate a prestazioni
che riguardano (oltre all’assistenza odontoiatrica) proprio quelle per la non autosufficienza sia
“sociali (a rilevanza sanitaria)” che “sanitarie (a rilevanza sociale)”.
Abbiamo già visto come nel parere di alcuni studiosi, tali iniziative sono esemplificative del fatto
che (Ascoli, 2010: 44): “[…] le questioni riguardanti la non autosufficienza tendano a rimanere
“esterne” al diritto universale alla salute, fondamenta del Servizio sanitario nazionale, e vengano
delegate alle capacità del singolo contribuente o alla categoria di auto-proteggersi e di autotutelarsi” (cfr. sulla stessa linea anche: Granaglia, 2010).
Tuttavia la tesi che viene avanzata in questo paper è che, complessivamente, queste iniziative non
definiscano tanto il mantenimento esterno della non autosufficienza dalla tutela universalistica del
Servizio sanitario nazionale. Quanto, in maniera rischiosa, possono addirittura sancirne un percorso
di uscita. Il motivo di ciò è che la tutela della non autosufficienza risulta già ben dentro il perimetro
della tutela universalistica del diritto alla salute, come diritto soggettivo pienamente esigibile da
parte degli anziani cronici non autosufficienti (come per tutte le persone malate).
In merito occorre soffermarsi su due aspetti. Il primo rimanda direttamente alle previsioni contenute
nello stesso decreto di ri-ordino dei fondi sanitari integrativi a firma Sacconi. Come già detto
poc’anzi (cfr. supra) il decreto segue, modificandolo in alcune parti, una precedente disposizione
emanata dall’allora Ministro alla Salute Turco, approvato poco prima della fine della precedente
legislatura (cfr. marzo 2008). Nel decreto Turco venivano individuati gli ambiti delle prestazioni dei
“Fondi sanitari integrativi del Servizio sanitario nazionale” facendo, innanzitutto, riferimento alle
previsioni contenute nel decreto 502/92 e successive modificazioni, secondo cui (c. 4 e 5, art. 9)
l’ambito di applicazione dei fondi integrativi è rappresentato da:
“a) prestazioni aggiuntive, non comprese nei livelli essenziali e uniformi di assistenza e con questi
comunque integrate, erogate da professionisti e da strutture accreditate (cfr. prestazioni di
medicina non convenzionale; cure termali e assistenza odontoiatrica, limitatamente alla prestazioni
non a carico del Servizio sanitario nazionale);
b) prestazioni erogate dal Servizio sanitario nazionale comprese nei livelli uniformi ed essenziali
di assistenza, per la sola quota posta a carico dell’assistito, inclusi gli oneri per l’accesso alle
prestazioni erogate in regime di libera professione intramuraria e per la fruizione dei servizi
31
alberghieri su richiesta dell’assistito di cui all’art. 1, c. 15, della legge 23 dicembre 1996, n. 662;
c) prestazioni sociosanitarie erogate in strutture accreditate residenziali e semiresidenziali o in
forma domiciliare, per la quota posta a carico dell’assistito”.
Alle previsioni del d.lgs 502/92, venivano aggiunte sempre nel decreto Turco quelle contenute
all’interno della stessa l. 328/00 che, all’art. 26 (“Utilizzo di fondi integrativi per prestazioni
sociali”) ha praticamente esteso l’ambito di applicazione dei fondi integrativi alla copertura delle
spese sostenute per prestazioni sociali (erogate nell’ambito di programmi assistenziali intensivi e
prolungati) finalizzate a garantire la permanenza a domicilio o il ricovero in strutture residenziali o
semi delle persone anziane e disabili.
Dopo aver ripreso le previsioni già contenute nell’ambito della normativa, il decreto Turco al c. 2,
dell’art. 1 (“Ambiti di intervento delle prestazioni sanitarie e socio sanitarie erogate dai Fondi
sanitari integrativi del servizio sanitario nazionale e da enti e casse aventi esclusivamente fine
assistenziale”), specifica inoltre come gli ambiti d’intervento dei fondi integrativi comprendono:
“a) prestazioni socio-sanitarie di cui all’art. 3-septies del decreto 502/92 e modifiche successive
nonché le stesse di cui all’art. 26 della 328/00 in quanto non ricomprese nei livelli essenziali di
assistenza e quelle finalizzate al recupero della salute di soggetti temporaneamente inabilitati da
malattia o infortunio per la parte non garantita dalla normativa vigente;
b) prestazioni di assistenza odontoiatrica non comprese nei livelli essenziali di assistenza per la
prevenzione, cura e riabilitazione di patologie odontoiatriche”.
Il successivo decreto Sacconi, modifica alcune delle parti del decreto Turco. Tra i cambiamenti,
modifica i punti a) e b) del precedente decreto, specificando come le prestazioni rientranti
nell’ambito dei fondi sanitari integrativi sono quelle (cfr. art. 1, c. 1):
“di assistenza odontoiatrica, di assistenza socio-sanitaria rivolta ai soggetti non autosufficienti
nonché prestazioni finalizzate al recupero della salute di soggetti temporaneamente inabilitati da
malattia o infortunio”.
Un primo cambiamento da rilevare riguarda il fatto che, diversamente dalle previsioni contenute nel
decreto Turco, scompare nel decreto Sacconi il riferimento ai livelli essenziali, ovvero che
l’applicazione dei fondi integrativi non può riguardare prestazioni già coperte dalla normativa sui
livelli essenziali. E’ pur vero che nel preambolo del decreto si fa riferimento, fra le altre cose,
proprio allo stesso dpcm 29 novembre 2001 (e successive modifiche) di definizione dei livelli
essenziali di assistenza nella sanità .
Tuttavia, la questione dei livelli essenziali non sembra essere ripresa e ribadita sufficientemente
all’interno di quelli che sono poi i contenuti operativi del decreto (cfr. si fa riferimento solo in
maniera generica all’assistenza socio-sanitaria rivolta ai soggetti non autosufficienti). A questo
32
aspetto se ne aggiunge un secondo. Il decreto Sacconi, infatti, specifica in seguito come fra le
prestazioni che vanno incluse nella quota vincolata al 20%, per quanto riguarda l’assistenza sociosanitaria rivolta ai non autosufficienti, sono da considerare:
“1) le prestazioni sociali a rilevanza sanitaria da garantire alle persone non autosufficienti al fine
di favorire l’autonomia e la permanenza a domicilio, con particolare riguardo all’assistenza
tutelare, all’aiuto personale nello svolgimento delle attività quotidiane, all’aiuto domestico
familiare, alla promozione di attività di socializzazione volta a favorire stili di vita attivi, nonché le
prestazioni della medesima natura da garantire presso le strutture residenziali e semi-residenziali
per le persone non autosufficienti non assistibili a domicilio, incluse quelle di ospitalità
alberghiera;
2) prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, correlate alla natura del bisogno, da garantire alle
persone non autosufficienti in ambito domiciliare, semi-residenziale e residenziale, articolate in
base all’intensità, complessità e durata dell’assistenza”.
In questo caso si avverte una criticità che riguarda il riferimento che viene fatto alle cosiddette
“prestazioni sanitarie a rilevanza sociale”. Come s’è visto (cfr. par. 3.1.3.) esse rientrano a pieno
titolo all’interno delle prestazioni che devono essere garantite dal Servizio sanitario nazionale,
nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza. E’ pur vero che la stessa normativa sui livelli
essenziali prevede, per questo tipo di prestazioni sociosanitarie, una quota “sociale” a carico dei
comuni e dell’assistito, che non viene coperta dal Servizio sanitario nazionale (cfr. tab. 3.3).
Tuttavia, dai contenuti del decreto Sacconi ciò non sembra chiaro. Sicché si può anche ipotizzare,
come conseguenza, delle situazioni in cui la copertura dei fondi integrativi potrebbe sostituire, per
esempio sulle RSA, la quota (cfr 50%) (cfr. tab. 3.3.) che spetta al settore sanitario.
Peraltro, nel decreto può essere avvisata anche un’ulteriore criticità con riferimento agli interventi
che vengono previsti rientrare fra le cosiddette “prestazioni sociali a rilevanza sanitaria”.
In queste, come si vede sopra, si fa rientrare l’assistenza “tutelare”. La questione non è da poco
conto poiché si fa passare questo tipo di prestazioni (assolutamente centrali nella cura degli anziani
cronici) dall’ambito delle “prestazioni sanitarie a rilevanza sociale” (come risulta in base alle
previsioni della normativa sui livelli essenziali della sanità) (cfr. cfr. tab. 3.3), a quello delle
“prestazioni sociali a rilevanza sanitaria”, che ricordiamo essere di competenza dei comuni. Ciò
significa assoggettare questo tipo di prestazioni alle regole dell’assistenza che sono diametralmente
opposte in termini di diritto rispetto quelle della sanità.
Il secondo aspetto che conduce ad avere un giudizio “critico” rispetto l’azione di “lancio” della
sanità integrativa rimanda, invece, proprio al tipo di “ragionamento” che viene avanzato a
“cornice”. A tal proposito è utile riprendere il recente rapporto ministeriale sulla non
33
autosufficienza che, nella parte finale, dedica proprio un focus specifico alla questione dei fondi
integrativi (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2010: 74-79). Nel rapporto viene notato,
a seguito delle consuete previsioni “catastrofiche” circa l’impatto dell’invecchiamento sulla spesa
sanitaria (cfr. introduzione), come (ibidem):
“[…] Tutti i ceti della popolazione spendono privatamente in sanità, soprattutto nel settore delle
visite specialistiche,
degli
accertamenti
diagnostici,
dell’odontoiatria
e tale spesa
è
prevalentemente “out of pocket”, e cioè direttamente pagata dal cittadino, mentre solo in piccola
parte è veicolata dalle polizze assicurative e da altre forme integrative di assistenza sanitaria no
profit (fondi di categoria, casse aziendali,società di mutuo soccorso); i cittadini immettono
pertanto, generalmente, risorse in misura crescente senza un’organizzazione ed una gestione
coerente e coordinata. […] […] il decreto ministeriale recante “Modifica al decreto 31 marzo
2008, riguardante “Fondi sanitari integrativi del SSN” oltre ad istituire l’anagrafe dei fondi,
riorienta la quota vincolata del 20% delle risorse dei fondi che intendono accedere alle
agevolazioni fiscali verso la componente della non autosufficienza. […] L’obiettivo è, quello,
pertanto di veicolare verso i fondi anche le risorse che i cittadini spendono privatamente per
fronteggiare condizioni di non autosufficienza e disabilità, usando come “volano”le prestazioni ad
oggi già erogate dagli stessi fondi […]. […] In conclusione si ritiene importante proseguire sulla
strada della valorizzazione dei fondi, anche per favorire lo sviluppo di una “cultura dei fondi” e di
una maggiore sensibilizzazione dei cittadini sull’importanza di una gestione strutturata delle loro
risorse private, condizione indispensabile per passare da una prima fase, in cui si ritiene i fondi
dovrebbero rimanere volontari, ad una successiva in cui potrebbero essere introdotti criteri di
obbligatorietà con il consenso sociale e la condivisione di tutti i soggetti istituzionali interessati.
Nel quadro sopra descritto, la strada della sinergia e della collaborazione tra risorse pubbliche e
private può rappresentare, quindi, la risposta più efficace alle difficoltà finanziarie del nostro
sistema sanitario, pur salvaguardando il SSN e la garanzia, costituzionalmente stabilita, di equità e
tutela della salute”.
Nonostante il rapporto ministeriale ribadisce che la nuova azione sui fondi integrativi non
costituisce in alcun modo minaccia all’impianto universalistico del Servizio sanitario nazionale, non
tiene tuttavia in debito conto che nella gran parte dei casi
la spesa privata
per la non
autosufficienza è “imposta” in maniera forzata a fronte di una situazione in cui sistematicamente
vengono negati i diritti degli anziani cronici non autosufficienti. Ovvero, il diritto alle cure sanitarie
e sociosanitarie senza limiti nonché il diritto alle prestazioni così come previste nella normativa sui
livelli essenziali della sanità (cfr. par. 3).
34
Un esempio concreto di tale negazione dei diritti (che prende innanzitutto luogo a partire dalle
“dimissioni selvagge” dai reparti ospedalieri, cui peraltro è possibile opporsi attraverso l’inoltro di
una semplice lettera raccomandata ai vertici dell’ospedale e dell’Azienda sanitaria di riferimento14),
ci può venire dai dati che riguardano la ripartizione degli oneri per il ricovero degli anziani cronici
in strutture residenziali, considerando alcuni casi regionali che possono essere ritenuti peraltro
virtuosi.
Ricordando che la quota a carico della sanità dovrebbe risultare pari al 50% (cfr. tab. 3.3.) , per
esempio in Lombardia, a partire dai dati di uno studio IRER (2009: 135-36) si rileva
complessivamente - per quanto riguarda la composizione delle entrate nelle RSA lombarde un’incidenza dei finanziamenti tramite tariffe a carico del fondo sanitario della regione, pari al
45.5% . I contributi dei comuni incidono, invece, il 3.7% mentre le rette a carico degli utenti
arrivano a rappresentare il rimanente 50.9% (ibidem).
Alla medesima indicazione giunge uno studio del CERGAS-Bocconi, che rileva nelle RSA
analizzate un’incidenza del contributo regionale (sulla struttura dell’entrate) pari al 44.8%, mentre
per le rette degli utenti il valore passa al 51.5% (Cantù et al., 2010: 69).
In Emilia-Romagna, in base a nostre ri-elaborazioni su dati della regione (cfr. Direzione Generale
Sanità e Politiche Sociali - Regione Emilia-Romagna (anni vari)), la copertura della quota sanitaria
nelle case protette si attestava (cfr. anno: 2006) al di sotto del 50%, seppur con un trend di
miglioramento (cfr nel 2002 pari a circa il 45%) che tuttavia può essere letto, più che in relazione ad
un processo di convergenza verso la copertura della quota del 50%, al progressivo aggravamento
delle condizione degli anziani ricoverati nelle stesse case protette (di fatto il contributo regionale
varia in base ad una classificazione de livello di gravità degli anziani ricoverati).
Nelle Marche, invece, la normativa regionale ha previsto per il ricovero degli anziani non
autosufficienti nelle “case protette” uno standard di 100 minuti al giorno (esclusi quelli con
demenza, che hanno un minutaggio superiore), di cui 20 di assistenza infermieristica e 80 di
assistenza sociosanitaria (cfr. Gruppo Solidarietà, 2010: 39). Per garantire questo minutaggio la
tariffa indicata dalla regione è di 66 euro al giorno: 33 alla sanità e 33 di quota sociale. Dai dati
emerge però come la regione (ibidem): “[…] copre il 50% solo a meno del 10% degli anziani
14
A tal proposito si rimanda direttamente all’opuscolo informativo (cfr. “Tutti hanno diritto alle cure
sanitarie compresi: anziani malati cronici non autosufficienti, malati di alzheimer, malati psichiatrici,
handicappati con gravi patologie”) (http://www.fondazionepromozionesociale.it/) curato da diverse
associazioni di tutela dei cittadini, in cui è presente il fac-simile della lettera da inviare nonché tutta una
serie di indicazioni da seguire – nel quadro del diritto – in modo da opporsi alle dimissioni, in assenza di
garanzia della continuità delle cure sanitarie ed assistenziali.
35
ricoverati, per l’altro 70% copre poco meno del 25% […]; per i restanti, l’assistenza sanitaria
viene finanziata con le prestazioni in ADI (circa 8-10 euro al giorno)”.
E’ evidente che in tutti questi casi la mancata copertura da parte della sanità dei costi al 50% (quota
che, peraltro, risulta oramai inadeguata visto il progressivo aggravamento delle condizioni degli
anziani cronici ricoverati) e, pertanto, il mancato rispetto di un diritto, si ripercuote direttamente in
un aggravio degli oneri che vengono scaricati sugli anziani e - seppur illegittimamente come ormai
consolidato nelle sentenze (cfr. Trebeschi, 2011) - sulle famiglie.
Peraltro la mancata copertura di oneri che risultano a carico del fondo sanitario in molti casi non
riguarda solo situazioni “di confine”, come per i ricoveri rientranti nelle cosiddette prestazioni
“sanitarie a rilevanza sociale”, quanto anche casi che per l’assoluta gravità della situazione
dovrebbero essere interamente a carico della sanità (cfr. “prestazioni ad elevata integrazione
sociosanitaria”).
E’ quanto emerge in alcune sentenze più recenti dei tribunali amministrativi regionali (cfr. ibidem).
Per esempio nella sentenza 1584/2008 del Tar di Milano, viene affrontato il caso della signora M.
L. che, a seguito di un evento traumatico e della conseguente patologia che ne è conseguita, in data
18/11/2005 è stata ricoverata in stato di coma vigile presso una RSA (inizialmente, non accreditata
col Servizio sanitario regionale). La retta di ricovero è stata pagata interamente dai familiari della
ricoverata fino al 31/1/2008 quando essi smettono di pagare chiedendo l’intervento del comune,
ovvero il Comune di Milano. Il comune rigetta la richiesta ritenendo che la copertura della retta
spettasse in primo luogo agli obbligati alimentari e, solo in via sussidiaria, ad esso. Nel contenzioso
che si è aperto il Tar ha tuttavia rilevato che le prestazioni di cui necessita la signora M.L.,
caratterizzate da particolare rilevanza terapeutica e intensità della componente sanitaria (cfr.
“adeguata nutrizione ed idratazione, monitoraggio dei parametri vitali e degli indicatori ematici,
terapie finalizzate a mantenere un complesso emodinamico ed ad assicurare la funzionalità
respiratoria di PEG e del catetere vescicale, la prevenzione e le medicazioni delle piaghe da
decubito, gli interventi di mobilitazione passiva, cambiamenti di postura ed igiene”), attengono
all’area delle cosiddette “prestazioni sociosanitarie ad elevata integrazione” (cfr. c. 5, art. 3 septies
d.lgs 502/92). Dunque, i familiari della signora si sono “sobbarcati” interamente dei costi di
ricovero nella RSA quando questi dovevano essere coperti (perlomeno a partire dall’inizio
dell’accreditamento della struttura) non solo in parte (ovvero, al 50%), ma addirittura per intero dal
Servizio sanitario nazionale.
36
Conclusioni
Dato il quadro e i meccanismi a partire dai quali origina forzatamente la spesa privata di anziani e
famiglie nella gran parte dei casi, sembra fuorviante ritenere come elemento positivo e
d’innovazione “incanalare” questo tipo di spesa (ed eventualmente aggiungerne anche altra con
incentivi fiscali) in forme di gestione più strutturata, tipo i fondi assicurativi e/o altro. Anzi,
l’impressione che se ne ricava è che queste azioni sanciscano, in primo luogo, una sorta di
“sanatoria” rispetto ad una situazione in cui i diritti degli anziani cronici non autosufficienti
risultano sistematicamente negati.
In secondo luogo tali azioni possono sancire una ri-articolazione assicurativa del sistema di tutela
della non autosufficienza, minando una parte dell’impianto universalistico del Servizio sanitario
nazionale: come si afferma nella parte finale del passaggio riportato sopra dal rapporto del
Ministero del Welfare, infatti, lo “sbocco” finale di questo processo potrebbe essere proprio la
previsione di un’assicurazione obbligatoria (cfr. supra).
Va tenuto conto, inoltre, che il lancio dei fondi sanitari integrativi non è a costo zero, perché sono
comunque necessari degli incentivi fiscali. Ciò significa che anziché destinare risorse per finanziare
adeguatamente il Servizio sanitario pubblico e per far in modo di garantire i diritti riconosciuti ai
cittadini, si preferisce trasferire quella che è una vera e propria spesa pubblica “occulta” (cfr.
Dirindin, 2002), a favore degli schemi assicurativi, peraltro con impatti molto dubbi in termini redistributivi e di equità15.
Come evidenziato da alcuni studiosi (cfr. Vineis e Dirindin, 2005), la proposta di agganciare lo
sviluppo dei fondi integrativi assicurativi ( mediante la valorizzazione della spesa “out of pocket” e
l’incentivo fiscale ad aggiungerne altra) accanto al sostanziale congelamento del welfare pubblico,
anziché rappresentare delle soluzioni per far fronte alla questione della sostenibilità della spesa
sanitaria (cfr aumento dei bisogni ed impossibilità del pubblico di finanziare aggiuntivamente) ed in
primis essere funzionali alla tutela della salute dei cittadini, paiono più rappresentare la linea di
15
E’ noto infatti che meccanismi come le deduzioni e le erosioni delle basi imponibili tendono a favorire le
fasce di reddito più alte oltre che, nel caso dei fondi integrativi, ad avvantaggiare i già più avvantaggiati (cfr.
Granaglia, 2010). Rispetto al primo punto, è pur vero come nota sempre Granaglia (2010), che: “[…] altre
forme di agevolazione, quali le deduzioni decrescenti o le detrazioni fisse, potrebbero rappresentare un
parziale antidoto tale impatto può essere diminuito adottando”. Tuttavia, stando ad un alcune ipotesi di
sviluppo dell’assicurazione LTC integrativa in Italia elaborate da Rebba (2010), dei tre scenari ipotizzati, i
due che si basano sostanzialmente sul congelamento “quantitativo” del welfare pubblico e lo stimolo fiscale
dei fondi integrativi, registrano (in particolare il primo scenario, che corrisponderebbe praticamente ad una
“intensificazione” della situazione attuale) il carattere fortemente regressivo del beneficio fiscale (indice di
Kakwani positivo ed elevato), anche se tuttavia Rebba ridimensiona tale impatto evidenziando comunque
un’incidenza del beneficio sul reddito non elevata.
37
compromesso (non a caso già avanzata da Confindustria alla metà degli anni ’90) (ibidem: 86) fra
specifici interessi, ovvero (ibidem: 83-7):
a) dei produttori ed erogatori del settore sanitario (pubblici, ma chiaramente privati), che temono il
restringimento dei margini produttivi - in un settore in cui i bisogni sono comunque insopprimibili –
a fronte dell’impossibilità del pubblico di sostenere la spesa;
b) del restante mondo industriale che, attraverso il congelamento del welfare pubblico, persegue
l’obiettivo di riduzione dei costi unitari di produzione attraverso l’abbattimento degli oneri sociali e
fiscali destinati al finanziamento della spesa sanitaria;
c) del fronte finanziario e assicurativo, che vede aprirsi (come già avvenuto con la previdenza) un
nuovo settore di intermediazione (cfr. Bagnoli, 2011).
L’indirizzo politico di valorizzazione della spesa “out of pocket” nel quadro di schemi assicurativi,
risulta inoltre chiaramente non solo dal rapporto ministeriale, ma anche in diversi articoli pubblicati
sulla stampa. Per esempio, Lino Del Favero, consulente del Ministero del welfare che ha curato la
stessa stesura del rapporto sulla non autosufficienza, in un articolo pubblicato sul “Sole 24 Ore”
evidenzia innanzitutto come (Del Favero, 2010): “[…] La Finanziaria 2008 e successivamente il
decreto ministeriale 31 marzo 2008 […] coraggiosamente superano le norme precedenti e
consentono ai fondi di erogare prestazioni comprese nei livelli essenziali di assistenza, aprendo di
fatto una nuova stagione ricca di prospettive e di opportunità”.
Di seguito, riportando come dai dati OCSE risulti in Italia una spesa sanitaria out of pocket di circa
il 23%, solo in minima parte “intermediata” da mutue e fondi integrativi (cfr. 2.2%) o assicurazioni
private (cfr. 0.9%), sottolinea con riferimento ai fondi integrativi che: “[…] Analizzando i dati sulle
prestazioni erogate, i fondi risultano sostanzialmente sostitutivi del Ssn, essendo orientati
prevalentemente verso la componente delle attività ambulatoriali. […]”
In ultima istanza, nonostante aver preso atto di questa funzione sostitutiva dell’out of pocket, lo
stesso Del Favero sostiene, peraltro con una certa contraddizione, che: “[…] Si apre quindi un
nuovo capitolo che non va ad intaccare l’ambito di competenza della Sanità pubblica ma che
meglio valorizza la cosi detta spesa out of pocket dandogli una forma organizzativa in grado di
ottenere migliori condizioni di accesso ai servizi e di ampliare la platea dei fruitori”.
Su questa stessa linea ci pare che possa essere ricondotto anche il ragionamento di Giuliano
Cazzola, vice presidente della Commissione Lavoro alla Camera. In un articolo sulle colonne de “il
Riformista” (nella recensione di un libro sulle trasformazioni della sanità nel panorama europeo, e
riprendendo più specificamente un passaggio relativo proprio alla questione della spesa sanitaria
privata delle famiglie italiane), evidenzia come (Cazzola, 2010): “[…] le risorse out of pocket sono
rivolte – con l’eccezione delle cure odontoiatriche – ad acquistare prestazioni e servizi riconosciuti
38
ed erogati dallo stato e come tali coperti con le tasse. In poche parole si tratta di spese ripetitive,
che i cittadini affrontano due volte come contribuenti ed utenti. Si pone, dunque, il problema di una
“actio finium regundorum” per distinguere quanto spetta al pubblico e quanto può essere svolto
dal privato […]. Non è più possibile dare tutto a tutti. Così la sanità privata deve essere coinvolta
direttamente e strutturalmente per integrare prestazioni e i servizi che il pubblico non può più
riconoscere ai soggetti che sono in grado di procurarseli, in tutto o in parte […]”.
Si riconosce, quindi, come in alcuni casi (e fra questi ci possiamo mettere anche quelle per gli
anziani cronici non autosufficienti) la spesa privata delle famiglie non dovrebbe essere sostenuta,
poiché le prestazioni sono già pagate (col prelievo fiscale progressivo sul reddito) e garantite dal
Servizio sanitario nazionale. Detto ciò, secondo Cazzola, risulta necessario risolvere e definire una
volta per tutte il confine fra ciò che spetta al “pubblico” e ciò che spetta al “privato”: in altre parole
l’abbandono di un sistema universalistico e la promozione di un sistema multi pilastro con parziale
ritorno al periodo mutualistico pre riforma del ’78.
In conclusione, sembra abbastanza evidente che nel quadro di questo tipo d’azioni il lancio del
“secondo welfare” - attraverso cui dovrebbe prendere luogo l’intervento “privato” mediante fondi e
schemi assicurativi – corre il serio rischio di giocare a favore dell’arretramento del welfare e della
sanità pubblica, non svolgendo pertanto alcuna funzione integrativa, bensì sostitutiva. In altre parole
ciò che si rischia di attivare è un processo di fuoriuscita di responsabilità che spettano già oggi al
Servizio sanitario nazionale, ma che hanno l’unico problema politico di non essere finanziate
adeguatamente e, pertanto, di non essere garantite.
Riferimenti bibliografici
ALSS (1979) Legge promozionale della regione Emilia-Romagna per l’assistenza agli anziani, ALSS, n. 3,
pp. 497-ss.
Ascoli, U. (1984) Il sistema italiano di welfare, in: Ascoli U. (a cura di) Welfare state all’italiana, La Terza,
Bari, pp. 5-86.
Ascoli, U. (2010) Il welfare italiano secondo il Libro Bianco: riduzione dello spazio pubblico, largo agli
accordi categoriali e al privato, “La Rivista Italiana delle politiche sociali”, n. 1, pp. 31-46.
Bagnoli, R. (2011) Polizze. Gli Italiani? Poco assicurati. La crisi frena il fatturato del “vita”, “Corriere
della Sera - Corriereconomia”, del 27-6-2011, p. 26.
Brizioli, E. (2005) Post-acuzie, riabilitazione e residenzialità: un nodo da sciogliere, “Appunti”, 6, pp. 1-4.
Bissolo, G. (2005) Il sistema dell’integrazione sociosanitaria in Italia, in: Bissolo, G. e Fazzi, L. (a cura di)
Costruire l’integrazione sociosanitaria. Attori, strumenti e metodi, Carocci, Roma, pp. 37-46.
39
Camera dei Deputati (1997) Resoconto della XII Commissione permanente (Affari sociali) di mercoledì 14
maggio 1997, Roma.
Camera dei Deputati (2000) Resoconto stenografico dell’Assemblea. Seduta n. 653 del 18/1/2000, Roma.
Cantù, E., Sicilia, M. e Tanzi, E. (2010) La misurazione delle performance economiche delle RSA lombarde,
in: Longo, F. e Tanzi, E. (a cura di) I costi della vecchiaia. Il settore del long term care di fronte alle
sfide del futuro, Egea, Milano, pp. 39-72.
Casanova, G. (2008) I fondi regionali per i non autosufficienti, “Prospettive Sociali e Sanitarie”, n. 14, pp.
15-19.
Cazzola, G. (2010) Pubblico o privata, salute cercasi, “Il Riformista”, 9 ottobre 2010, p. 14
Da Roit, B. (2009) Le politiche di assistenza agli anziani, in: Kazepov, Y. (a cura di) La dimensione
territoriale delle politiche sociali in Italia, Carocci, Roma, pp. 202-221.
Da Roit, B. e Sabatinelli, S. (2005) Il modello mediterraneo di welfare tra famiglia e mercato, “Stato e
Mercato”, n. 74, pp. 267-290.
David, P. (1984) Il sistema assistenziale in Italia, in: Ascoli, U. (a cura di) Welfare state all’italiana,
Laterza, Bari, pp. 185-205.
David, P. (1989) L’integrazione socio-sanitaria: storia di un principio mai realizzato, “Stato e Mercato”, n.
25, pp. 73-109.
Di Rocco, S. e Doglia, M. (2010) La performance del sistema sanitario: l’equità, in: Rapporto CEIS – Sanità
2009, IEP, Roma pp. 257-71.
Direzione Generale Sanità e Politiche Sociali - Regione Emilia Romagna (anni vari) Relazione
sull'applicazione della deliberazione della giunta regionale n. 1378 del 26/7/1999 - Integrazione di
prestazioni sociali e sanitarie ed a rilievo sanitario in favore di anziani non autosufficienti assistiti
nei servizi integrati socio-sanitari di cui all'art. 20 della l.r. 5/94, Bologna.
Dirindin, N. (2002) L’introduzione delle mutue integrative, http://www.lavoce.info
Di Vico, D. (2010) Il welfare dei privati che sostituisce lo stato, “Corriere della Sera”, del 15-6-2010.
Del Favero, L. (2010) E’ la via per valorizzare la spesa dei cittadini. Oggi dalle Casse passano 3,5 miliardi
sui 25 miliardi “out of pocket”, “Sole 24 Ore Sanità”, 27-7-2010, p. 5
Doglia, M. e Spandonaro,
F. (2008) Distribuzione e cause dell’impoverimento e delle spese
catastrofiche: le modifiche del quadro equitativo nel SSN, in: Rapporto CEIS – Sanità 2007, IEP,
Roma, pp. 327-336.
Doglia, M. (2009) L’equità nel SSN, in: Rapporto CEIS – Sanità 2008, IEP, Roma, pp. 373-384.
Federazione regionale CGIL-CISL-UIL, C.o.u. regionale pensionati, Anci regionale, Regione EmiliaRomagna (1982) Accordo sulla politica sociale per gli anziani, Regione Emilia-Romagna, Bologna.
Ferrera, M. e Maino, F. (2011) Il “secondo welfare” in Italia: sfide e prospettive, “Italianieuropei”, n.3, pp.
17-22.
Ferrera, M. (2007) Trent’anni dopo. Il welfare state europeo tra crisi e trasformazioni, “Stato e Mercato”, n.
81, pp. 341-375.
Ferrera, M. (2010a) Per il welfare serve più spesa (dei privati), “Corriere della Sera”, 16-6-2010, p. 1.
Ferrera, M. (2010b) Chi aiuterà gli anziani, “Corriere della Sera”, 20-7-2010, p. 1.
Ferrera, M. (2010c) Perché il welfare del futuro sarà privato, “Corriere della Sera”, 24-11-2010, p. 1.
40
Gori, C. (a cura di) (2008b) Le riforme regionali per i non autosufficienti, Carocci, Roma.
Granaglia, E. (2010) I fondi sanitari integrativi: alcuni rilievi critici. http://www.astridonline.it/rassegna/Rassegna-I/09-02-2010/Granaglia_fondi-integrativi_rass.pdf http ..
Gruppo Solidarietà (2010) I dimenticati. Politiche e servizi per i soggetti deboli nelle Marche, Ancona
IRER (2009) La RSA: governo della risorsa sociale tra crescita, controllo e sviluppo qualitativo, Milano.
ISTAT (2010) La disabilità in Italia, Roma.
Maero, B. e Fabris, F. (2002) Invecchiamento, malattia e disabilità, “Prospettive assistenziali”, n. 138,
aprile-giugno.
http://www.fondazionepromozionesociale.it/PA_Indice/138/138_invecchiamento_malattia_e_disa.ht
m
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (2010) Rapporto sulla non autosufficienza in Italia - 2010,
Roma.
Ministero della Salute (2007) Commissione nazionale per la definizione e l’aggiornamento dei livelli
essenziali di assistenza. Prestazioni residenziali e semiresidenziali, Roma.
http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_733_allegato.pdf
Naldini, M. e Saraceno, C, (2008) Social and Family Policies in Italy: Not Totally Frozen but Far from
Structural Reforms, “Social Policy e Administration”, 42, 733-748
NAA (a cura di) (2010) L’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia. Rapporto 2009, Maggioli
Editore, Santarcangelo di Romagna, pp. 17-34.
Paci, M. (1987) Le autonomie locali nella crisi dello Stato Sociale, L’Assistenza Sociale, n. 2, pp. 143-148
Pasquinelli, S. (2011) Un sociale senza stato?, “Prospettive Sociali e Sanitarie”, n. 7, p. 1.
Pavolini, E. e Ranci, C. (2008) Restructuring the welfare state: reform in long term care in Western
European countries, “Journal of European Social Policy”, n. 18 (3), pp. 246-59.
Perino, M. (2007a) Supporti economici per le cure domiciliari delle persone colpite da patologie invalidanti
e da non autosufficienza, “Prospettive assistenziali”, n. 159, luglio-settembre.
http://www.fondazionepromozionesociale.it/PA_Indice/159/159_supporti_economici_per_le_cure.ht
m
Pesaresi, F. (1999) Standard di personale e costi nelle RSA italiane, “Appunti”, 124, Settembre/Ottobre, pp.
8-15.
Prospettive Assistenziali (1978) Gli anziani definiti cronici vengono calpestati nei loro diritti, n. 44, ottobredicembre.
http://www.fondazionepromozionesociale.it/PA_Indice/044/44_gli_anziani_definiti_cronici.htm
Prospettive Assistenziali (1979) Inaccettabile l’attuale riorganizzazione del settore assistenziale, n. 48,
ottobre-dicembre.
http://www.fondazionepromozionesociale.it/PA_Indice/048/48_inaccettabile_l%27attuale_%28edito
riale%29.htm
Prospettive Assistenziali (1984) Documento del consiglio sanitario nazionale sui rapporti fra sanità ed
assistenza,
n.
68,
ottobre-dicembre.
http://www.fondazionepromozionesociale.it/PA_Indice/068/68_documento_del_consiglio_sanitario.
htm
41
Prospettive Assistenziali (1986) Editoriale. Nella proposta di piano sanitario nazionale gravissime
violazioni
dei
diritti
degli
anziani,
n.
73,
gennaio-marzo.
http://www.fondazionepromozionesociale.it/PA_Indice/073/73_nella_proposta_di_piano_%28editori
ale%29.htm
Prospettive Assistenziali (1999) Ulteriore conferma dell’inesistenza di norme che consentano agli enti
pubblici di richiedere contributi economici ai congiunti di assistiti maggiorenni, n. 127, lugliosettembre. http://www.fondazionepromozionesociale.it/PA_Indice/127/127_ulteriore_conferma.htm
Prospettive Assistenziali (2008) Inquietanti le delibere delle giunte delle regioni Emilia-Romagna e Toscana
sulle
non
autosufficienze,
n.
162,
aprile-giugno.
http://www.fondazionepromozionesociale.it/PA_Indice/162/162_inquietanti_le_delibere_delle_giunt
e.htm
Prospettive Assistenziali (2010) Nuovi allarmanti episodi di violenze e abusi dovuti anche alla
disapplicazione di valide leggi vigenti, n. 169, gennaio-marzo, pp. 1-4.
Ragaini, F. (2002) Dalla riforma ter ai livelli essenziali di assistenza, “Appunti”, n. 140, pp. 2-5.
Ragaini, F. (2005) Integrazione sociosanitaria. Dalla riforma ter ai livelli essenziali di assistenza, in:
Vicarelli, G. (a cura di) Il malessere del welfare, Liguori, Napoli: 233-244.
Rebba, V. (2010) Le assicurazioni integrative, in: Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (a cura di) Il
sistema di protezione e cura delle persone non autosufficienti. Prospettive, risorse e gradualità degli
interventi, Roma, pp. 1-39.
Santanera, F. (1986) Sancito dalla legge 4 agosto 1955, n. 692 il diritto degli anziani cronici non
autosufficienti alle cure sanitarie, comprese quelle ospedaliere, n. 73, gennaio-marzo.
http://www.fondazionepromozionesociale.it/PA_Indice/073/73_sancito_dalla_legge_4_agosto.htm
Spi-Cgil (2010) Assistenza: inchiesta sulle residenze per gli anziani di LiberEtà, mensile Spi-Cgil.
http://www.spi.cgil.it/SideMenu/Informazione/Notizie/NonAutosufficienza/2010/Laricettasullanona
utosufficienzadelministro/tabid/1816/Default.aspx
Taroni, F. (2007) Fra apocalittici e integratori: ragioni e problemi di un Fondo per la non autosufficienza,
“La Rivista Italiana delle Politiche Sociali”, n. 1, pp. 141-155.
Trebeschi, F. (2011) Compartecipazione al costo delle prestazioni socio assistenziali a favore di persone con
disabilità grave e anziani non autosufficienti. Commento ad alcuni recenti provvedimenti del
Consiglio di Stato e del Tar di Milano. http://www.grusol.it
Vicarelli, G. (1990) Il Servizio sanitario nazionale tra politica e società, “Politica ed Economia”, n. 1, pp.
271-292.
Vicarelli, G. (1997) La politica sanitaria tra continuità e innovazione, in: Storia dell'Italia repubblicana,
L'Italia nella crisi mondiale. L'ultimo ventennio, Volume III, Einaudi, Torino, pp. 569-619.
Vineis, P. e Dirindin, N. (2005) In buona salute. Dieci argomenti per difendere la sanità pubblica, Einaudi,
Torino.
42
Scarica

“decollo” (e di prima attuazione)