Allegato al N. 222 per il 150° Anniversario dell’Unità d’Italia - 12 marzo 2011 Giovanni Vecchio Vicende acesi del Risorgimento e dell’Unità d’Italia In occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia La rivolta antiborbonica in Sicilia. Il 1848 ad Acireale Acireale e l’insurrezione antiborbonica del 1860 Dittatura di Garibaldi, plebiscito del 21 ottobre 1860 e annessione della Sicilia al Regno d’Italia L’Unità d’Italia e le scuole di Acireale Le scuole degli ordini religiosi e la “rivoluzione laica e liberale” Polemiche post-unitarie: l’istituzione del Liceo Classico Statale “Gulli e Pennisi” Le leggi del Regno d’Italia e la Diocesi fortemente voluta dagli acesi APPENDICE. Personaggi da ricordare: a)Anita Garibaldi donna indomita e ribelle b)Domenico Bonaccorsi Guttadauro, marchese di Casalotto e principe di Reburdone tra Risorgimento e Unità d’Italia c)La spedizione dei Mille in un “diario” poco noto del garibaldino Giuseppe Capuzzi Premessa dell’Autore In occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, presentiamo la raccolta degli articoli che sono stati pubblicati in ogni numero di AKIS da settembre a dicembre 2010 e da me elaborati per contribuire, con questo piccolo lavoro, alla conoscenza di vicende di Acireale del Risorgimento, dell’impresa garibaldina, del plebiscito del 21 ottobre 1860 per l’annessione della Sicilia al costituendo Regno d’Italia nonché di fatti e avvenimenti del periodo post-unitario di particolare interesse per la città, come la nascita delle nuove scuole statali, lo scontro tra gli esponenti locali della “rivoluzione laica e liberale” con gli ordini religiosi che avevano gestito fino all’avvento dell’Unità quasi tutte le scuole di Acireale, con un’attenzione particolare all’istituzione del Liceo Classico Statale “Gulli e Pennisi”, che produsse le proteste del primo vescovo della Diocesi acese, recentemente istituita, e coinvolse la deputazione locale al Parlamento nazionale. A proposito della Diocesi, attivata nel 1872 ma istituita nel 1844, si presentano le vicende che impedirono il ritardato avvio, legato anche al cambiamento politico e istituzionale. Infine, un’appendice è dedicata a personaggi non nativi della città, ai quali è legato il ricordo del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, come Anita Garibaldi, il marchese di Casalotto e principe di Reburdone, e Giuseppe Capuzzi, un garibaldino bresciano che scrisse e pubblicò, a sue spese, nel 1860 a Palermo, subito dopo la conquista di questa città, un interessante resoconto della spedizione dei Mille, poco noto, ma meritevole di essere almeno citato. La brevità dei testi è dovuta alla necessità di mantenersi entro i limiti di un articolo di un giornale, anche se lo scrivente ha elaborato un’edizione, per così dire, “maggiore”, con l’aggiunta di documenti e testimonianze e soprattutto con l’indicazione delle fonti e dei riferimenti bibliografici, tuttora inedita. Ringrazio AKIS e in particolare l’amico prof. Turi Consoli per avermi proposto di riunire gli articoli in un opuscolo destinato a un pubblico più variegato e, soprattutto, ai giovani, che in tal modo potranno scoprire aspetti della nostra storia locale collegata agli eventi nazionali e forse alcuni saranno interessati non solo a riconoscere le nostre “radici” socio-culturali e politiche, ma anche a sviluppare ulteriori ricerche e studi integrativi e di approfondimento. GIOVANNI VECCHIO Città di Acireale Assessorato alla Pubblica Istruzione, alla Cultura e al Turismo prof.ssa Nives Leonardi La rivolta antiborbonica in Sicilia. Il 1848 ad Acireale. La rivolta antiborbonica del 1837 in Sicilia interessò Messina e poi Siracusa , Floridia, Canicattini, Catania, Motta S. Anastasia, Paternò e Biancavilla. Acireale e i comuni vicini, invece, non si mossero e rimasero fedeli alla casa regnante dei Borboni. Diversamente avvenne nell’anno fatidico, ovvero il 1848, quando in tutta l’Europa ci fu fermento rivoluzionario. Palermo era stata la prima il 12 gennaio ad impugnare le armi. Il 9 era apparso il manifesto che invitava i siciliani ad insorgere appunto il giorno 12. I moti precedenti si erano spenti per motivi diversi: quello del 1820 per difetti organizzativi , quello del 1837 finì con l’arresto dei rivoluzionari a Catania e il loro invio in prigione, soprattutto a seguito del calcolo di opportunità della parte aristocratica antiborbonica, che aveva aderito in un primo tempo alla rivolta mentre poi decise di abbandonare al loro destino i popolani e i democratici. Il 12 gennaio 1848 scoppiò la rivoluzione antiborbonica a Palermo, dove si recò anche un acese, Gregorio Romeo (Acireale 1825-Malta 1850), fervente rivoluzionario, che venne nominato capitano delle truppe rivoluzionarie e “combattè valorosamente a Messina. Caduta Messina in mano ai borbonici, si trasferì a Catania, dove sostituì il danese Peters, suo amico, come capo di Stato Maggiore, e dove fondò il giornale patriottico <La Sentinella dell’Etna>, che ebbe pochi mesi di vita. Caduta la rivoluzione siciliana, esulò a Malta, dove morì ventiquattrenne” (Correnti). La città gli ha dedicato una lapide commemorativa con un busto nella sua casa natìa all’angolo tra via Galatea e via Marzulli. Intanto, il 16 gennaio 1848 Acireale rispose all’appello e “una moltitudine di persone convenute anche dai paesi vicini si radunò in armi in Piazza San Domenico e, levato il tricolore con lo stemma della Trinacria, mosse in corteo per le strade della città. In Piazza Duomo Lionardo Vigo infiammò gli animi con un appassionato discorso. Si elesse il ‘Comitato Provvisorio’ per reggere la cosa pubblica, che risultò così formato: Mariano Scuderi, presidente – bar. Pasquale Pennisi Cagnone – Lionardo Vigo – Mariano La Rosa – Leonardo Vigo Fuccio, segretario – Michele La Spina Valerio, cassiere. La rivolta dilagò in tutte le città del nostro Distretto, nelle quali confluirono i Comitati e la Guardia Nazionale” (Gravagno). Il presidente del Comitato Generale Mariano Scudiero il 6 febbraio 1848 invitava tutti i Comuni del Distretto acese a creare i Comitati rivoluzionari entro il 12 febbraio; in caso contrario sarebbero stati denunziati “come traditori della santa impresa, e chiamati responsabili della loro inazione e del loro silenzio”. Il giorno prima era stata diffusa la risposta al Re di Napoli sulla indipendenza e libertà della Sicilia e nella quale si denunciava “l’enorme oppressione di un Governo a noi straniero”. Stavolta, dunque, anche Acireale si mobilitò. Il 18 maggio lo stesso Scudiero ringraziò ufficialmente la Guardia Nazionale per le prove di valore e coraggio dimostrate il 12 maggio (il manifesto porta la data del 18 maggio 1848). Lo slancio rivoluzionario aveva fatto superare anche la tradizionale ostilità tra catanesi e acesi, tanto che il Patrizio di Catania l’11 febbraio 1849 consegnò al Patrizio di Aci-Reale in dono “una spada e una Nazionale bandiera di lavorio patrio” (Lettera del Senato di Catania del 9 febbraio 1949) nel corso di una cerimonia nel Palazzo di Città. Quando la Francia e l’Inghilterra imposero l’armistizio al Re di Napoli, il Comando Militare del Distretto di Aci-Reale con un proclama del 15 settembre, firmato dal Maresciallo di Campo e Ministro della Guerra e Marina Paternò e dal Comandante Militare Leonardo Vigo Fuccio, invitò a non deporre le armi e a rispondere al nemico solo in caso di provocazione. Ma la situazione si complicò. Il manifesto del 1° febbraio 1849, firmato per la Guardia Nazionale di Aci dal Maggiore Comandante Leonardo Vigo Fuccio, invitava a contribuire all’attivazione di un mutuo di un milione di onze a sostegno del Governo Costituzionale. Il 25 marzo 1849 il Senato di Aci si rivolse ai “cittadini e fratelli” per invitarli a non demordere, a prepararsi “alla battaglia con nobile ardire e santo entusiasmo….con animo fermo e risoluto” e concludeva con un’accusa molto dura al re borbonico che veniva definito satrapo “che nutre cuore di tigre, che ha nelle vene un leonino sangue, e che cerca di attutire la face generosamente accesa dalla Siciliana libertà del 1848”. Ma quando il 5 aprile giunse in Sicilia il generale borbonico Carlo Filangieri con un esercito di 18.000 uomini e, abbattuti facilmente gli ostacoli frapposti e la resistenza di alcuni disordinati contingenti, si presentò ad Acireale, “i fedeli ‘borbonici di Aci’ – con in testa il Ciantro della Matrice Chiesa Pier Tommaso Continella… si fecero incontro al Filangieri protestando la loro fede, e quella della città, al Monarca. Il Ciantro consegnò al generale la spada e la bandiera, divenute ora simbolo di vergogna” (Gravagno). La spada dall’elsa d’oro massiccio fu recuperata nel 1861 da Lionardo Vigo, mentre il vessillo, che si riteneva perduto o bruciato, grazie all’interessamento del prof. Cristoforo Cosentini, allora presidente dell’Accademia Zelantea, del sindaco di Acireale avv.. Rosario Leonardi e dell’on. Mario Scelba, fu rintracciato nel 1972 presso l’Archivio di Stato di Napoli e riportato da Gaetano Gravagno di nuovo ad Acireale; oggi è custodito nella Biblioteca Zelantea. Ritornò dunque l’ordine borbonico in città. Istituto Tecnico Commerciale Statale “Angelo Maiorana” Dirigente Scolastico prof. Gaetano La Rosa Acireale e l’insurrezione antiborbonica del 1860 La popolazione residente ad Acireale nel 1831 ammontava a 19762 abitanti, nel 1861 passò a 35.447: era un centro fiorente e con grande vocazione culturale. Ciononostante l’analfabetismo era altissimo, anche, e non solo, per le remore dei ceti dominanti ad allargare l’istruzione di base al popolo. Mentre la nobiltà, in buona parte imborghesita, viveva una situazione tutto sommato favorevole dal punto di vista della disponibilità economica perché raccoglieva i frutti dei propri investimenti nelle aree del Bosco di Aci e nella Contea di Mascali, mal sopportava invece le disposizioni autoritarie e restrittive di Ferdinando II, “re delle Due Sicilie”. L’aspirazione della borghesia era, se non il mantenimento dello status quo politico, economico e sociale, quella di disporre di maggiore libertà e si rifaceva alla Costituzione del 1812, però adattata ai tempi nuovi. La situazione sociale ed economica dei contadini e del popolino era abbastanza precaria un po’ in tutta l’isola. L’incrocio tra aspirazioni alla libertà, in un primo tempo all’indipendenza della Sicilia e successivamente all’unità d’Italia, delle classi nobiliari imborghesite e le forti esigenze del riscatto dalla povertà degli strati più poveri della società portò alla ripresa rivoluzionaria del 1860 e all’accoglienza trionfale all’arrivo in Sicilia dei “Mille” di Giuseppe Garibaldi, che per la sua fama di condottiero sempre vincitore sembrava in grado di superare gli ostacoli che si frapponevano alla divisione delle terre tanto attesa dai contadini, mentre il riferimento di Garibaldi, al momento di assumere il 14 maggio 1860 la dittatura a Salemi, all’ “Italia e Vittorio Emanuele” rassicurava i possidenti che la rivoluzione antiborbonica sarebbe stata convogliata verso esiti moderati. Come è stato osservato opportunamente da L. Cavalli,, la “conquista” del Sud da parte dei Piemontesi fu vista dalla borghesia meridionale soprattutto come garanzia d’ordine contro la rivoluzione. Infatti, moti contadini erano insorti a Palermo e in varie località della Sicilia occidentale, mentre a Messina e a Catania si avvertiva una tensione alta pronta ad esplodere.. Su uno dei momenti cruciali dell’impresa dei Mille, ovvero la battaglia di Calatafimi del 15 maggio 1860, Antonino Teodosio Almirante, attor giovane e capocomico di una compagnia di teatranti originaria di Acireale, incaricato da Lionardo Vigo Calanna di diffondere nella zona di Trapani la sua Raccolta dei Canti Popolari Siciliani, proprio quel giorno alloggiava a Calatafimi e potè osservare dal terrazzo lo svolgimento della battaglia, di cui riferisce al Vigo con una lettera inviata da Castelvetrano il 16 giugno 1860. E’ noto come, con la sconfitta delle truppe borboniche e l’ingresso dei garibaldini a Palermo, ci si incamminò verso la soluzione istituzionale e moderata, mentre le rivolte contadine, che erano sfociate in atti di violenza e in taluni casi (Bronte) erano giunte ad uccidere alcuni proprietari delle terre (lotta tra coppuli e cappeddi), furono represse duramente dal vice di Garibaldi Nino Bixio con diverse fucilazioni e successive condanne al carcere per molti altri. Una lettera dell’acese Mariano Grassi, onorario della Società degli Archivisti di Francia, inviata il 4 agosto 1860 ad Alessandro Dumas (che aveva seguito con la sua goletta Emma la spedizione di Garibaldi in Sicilia) ci fa conoscere il contributo dato dagli acesi alla causa dell’Unità e i momenti più critici dell’insurrezione del 1860. Stralciamo dall’interessante documento: “…In questi momenti decisivi, in questi momenti divini, Aci, città non grande, non popolosa, ma capo del più ragguardevole distretto del Regno,, esordiva con un fatto per sempre memorabile e bello… La generosa città, mentre Catania e Messina, sebbene frementi, tacevano perché ferocemente dome dalle imponenti colonne del dispotismo, sfidando il pericolo dei quattromila uomini, forniti di artiglieria e stanziati in Catania, osò alzare il grido dell’armi, inalberare la tricolore bandiera e dare il segno della riscossa ad altri paesi. Ciò avveniva dopo precedenti dimostrazioni, il 26 maggio, giorno in cui il vessillo italiano, salutato dal popolo, benedetto nel Duomo dai sacerdoti, per mano di egregi giovani si impiantava glorioso nel Palazzo di Città al grido di Viva l’Italia. Quella stessa sera il popolo, con voto spontaneo e concorde, creava un comitato,che provvedesse al mantenimento dell’ordine e al buon andamento della rivoluzione … Il 27 maggio Aci mandava alcune centinaia di once e il 31 una eletta schiera di giovani volenterosi accorse a difesa della diletta Catania… Il generale Clary, il 3 giugno, impone alla città di Aci un’ingente e barbara taglia militare di 8.000 once e di 6.000 razioni di viveri; e, ove infra ore 24 non sarebbero approntate, i di lei abitanti si attendessero il saccheggio, il fuoco, la morte…. Aci non aveva forza alcuna. Far distruggere una città sarebbe stato un delitto. Le pubbliche casse erano esauste di ogni mezzo. Allora alcuni generosi aprirono una sottoscrizione e giunsero ad ottenere un cumulo di 2.000 once in denaro. Surta l’alba novella fu intimata la consegna della somma; il generale disse: ‘Aci è ribelle, ha rivoluzionato tutta la provincia, deve scontarne la pena’. I cittadini offersero allora la somma di 2.000 once. Clary minaccioso rifiutò!. I nostri offersero in polizze di banco il resto. Vennero anche queste rifiutate. Fu un momento terribile. Finalmente Clary, sia perché convinto che lo impossibile non si può, sia perché, pressato dal bisogno di congiungersi alle forze regie di Messina, abbia creduto opportuno di troncare gli indugi, sia perché temesse le bande popolari armate, presa la somma, ordinava lo sgombro. Evitando il pericolo, il comitato insurrezionale riprendeva le sue funzioni e spediva in Palermo una commissione a felicitare l’eroe dei portenti. ‘Aci ha fatto molto”, ebbe a dire Garibaldi, ‘ringraziate gli amici, salutate i fratelli, dite loro che sien sempre con noi’ ”. Questa testimonianza certamente risente dell’atmosfera rivoluzionaria e della consapevolezza di vivere un grande evento storico. Tuttavia disponiamo anche delle valutazioni di uno storico di parte borbonica, Giuseppe Buttà, cappellano del 9° Cacciatori dell’Esercito napoletano, che si mostra molto arrabbiato perché “Clary, ad onta della vittoria ottenuta dal Ruiz, fu richiamato in Messina, lasciando una delle primarie città della Sicilia in balia della rivoluzione, dopo di averla sottomessa, e dopo che i principali cittadini l’avevano pregato di non abbandonarli in preda de’ rivoltosi. Di quell’abbandono, forse il Clary non ha tutta la colpa, ma si vuole che fosse stato un intrigo del colonnello Sponzilli, allora in Messina, il quale si adoperò in modo da farlo colà richiamare, per rendere un servizio alla rivoluzione. Clary partì da Catania il 3 giugno e, passando per Aci-Reale, mise una contribuzione di guerra, di diciassettemila ducati, che venne biasimata, ed arrecò onta all’esercito. I ribelli, che erano fuggiti precipitosamente da Catania, rientrarono da conquistatori, e proclamarono Garibaldi dittatore”). Andate via le truppe di Clary, sventolò nel Palazzo di Città il vessillo tricolore che, negli ultimi giorni di luglio, salutò il passaggio delle camicie rosse che erano dirette a Messina per concludere l’impresa al Volturno dove si svolse la battaglia che determinò la caduta di Francesco II Borbone. I.P.S.I.A.S.S. “Antonio Meucci” Dirigente Scolastico prof. Sebastiano Raciti Dittatura di Garibaldi, plebiscito del 21 ottobre 1860 e annessione della Sicilia al Regno d’Italia Giuseppe Garibaldi l’11 maggio 1860, autodefinitosi “comandante in capo delle forze nazionali in Sicilia”, emise un Decreto da Salemi con il quale assumeva, in nome di Vittorio Emanuele Re d’Italia, la dittatura in Sicilia. Il Decreto venne motivato innanzitutto dall’invito dei “principali cittadini e per deliberazione delle libere comuni dell’Isola” e tenuto conto che in tempo di guerra è necessario che il potere civile e militare sia “concentrato in mano di una sola persona”. Legando la microstoria di Acireale con gli eventi rivoluzionari in corso si colgono alcuni moment significativi, che altrimenti rimarrebbero nell’ombra. Con l’ausilio di parte della documentazione raccolta da Edoardo Privitera, puntualizziamo alcuni fatti. Ad esempio, un’epistola di Ignazio Romeo Indelicato, governatore del Distretto di Acireale, dopo un lungo e farraginoso discorso di carattere generale, approda finalmente al nocciolo della questione ovvero che “per uscir gloriosi e certi e presto” dallo stato di guerra “denari e militi abbisognano a ciò conseguire”. Del 15 settembre dello stesso anno fatidico 1860 è la sentenza, in nome di Vittorio Emanuele Re d’Italia, della Commissione Speciale del Distretto di Acireale, alla quale era stato affidato il com- pito di giudicare 31 arrestati a Bronte e a Randazzo durante le rivolte cruente dei popolani nei giorni 5, 6 e 7 agosto (lotta tra coppuli e cappeddi), raccontate da Giovanni Verga nella novella “Libertà”. Mentre a 17 imputati fu concessa la “libertà provisionale”, tutti gli altri furono condannati e incarcerati. Il 18 ottobre con il Decreto n. 257, emesso a S.Angelo, Garibaldi rese ufficiale quanto già proclamato nei momenti rivoluzionari ovvero che all’arrivo di Vittorio Emanuele avrebbe posto nelle sue mani la dittatura conferitagli dalla Nazione perché l’Italia a quel punto avrà il suo re costituzionale e sarà “Una e Indivisibile”. Segue l’appello del prodittatore Mordini agli “Italiani di Sicilia” a partecipare al plebiscito del 21 ottobre. Infatti, proprio il 21 ottobre del 1860 gli elettori dell’ex regno delle Due Sicilie furono chiamati alle urne per pronunciarsi con un plebiscito sull’annessione al costituendo Regno d’Italia con re Vittorio Emanuele II. Garibaldi, convinto di non poter riuscire con le sue sole forze volontarie ad attaccare con successo lo Stato pontificio, aderì alla fine anche lui alla tesi del plebiscito. L’esito in Sicilia fu di 432.053 favorevoli all’annessione (“sì”) e 667 “no”. Un risultato quasi unanimistico che non si spiega soltanto con le pressioni innegabili alle quali furono sottoposti gli elettori. Ad Acireale il Presidente del Senato cittadino Mariano Seminara Pennisi, con un manifesto del 22 ottobre, comunicò il risultato ai suoi concittadini: votanti 5782, voti affermativi 5743, negativi 12 e dispersi 27. Questi “voti affermativi han proclamato l’unione della Sicilia alla gran Patria Italiana, sotto il governo costituzionale di Vittorio Emmanuele (sic!) e suoi discendenti…. Il grand’atto riparatore d’ingiurie secolari è compito… Destini non meno grandi ci aspettano, e confido che ve ne mostrerete sempre degni”. Ma cos’era questo plebiscito? Con esso si attuò dal 1848 al 1870 il principio dell’autodeterminazione dei popoli e questo istituto di democrazia diretta passò dal diritto pubblico interno nell’ambito del diritto internazionale, come espressione della volontà della popolazione di trasferire la sovranità di un dato territorio da uno Stato ad un altro Stato. Non ha nulla a che vedere con il referendum previsto dalla Costituzione Repubblicana del 1948. Nella normativa siciliana del 15 ottobre 1860 si stabiliva con chiarezza che i “comizi elettorali” erano chiamati a votare per l’adesione alla monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II. Le votazioni plebiscitarie del Risorgimento rappresentano “per più di mezzo secolo, il momento più alto di partecipazione popolare a una consultazione politica” ( E. Ragionieri) e descrivono il coronamento rituale e simbolico di un apprendistato nazional-patriottico. Infatti, le operazioni di voto si svolgevano in un clima di festa, quasi teatrale, nel quale l’intera società veniva coinvolta, oltre agli elettori. In Sicilia il plebiscito arrivò a conclusione della rivoluzione democratica garibaldina (voluta da Garibaldi in rotta con il Cavour) e fu adottato in alternativa alle assemblee costituenti come avvenne, invece, in altre parti d’Italia e d’Europa. L’insurrezione e la campagna garibaldina avevano provocato lo sfaldamento della struttura statale borbonica, fondata sul luogotenente del re e i suoi direttori. La dittatura di Garibaldi, senza alcuna assemblea legislativa e costituente, mostrava chiaramente la sua transitorietà e preannunciava una scelta politica unitaria (A. Recupero). Il consenso plebiscitario non è un atto fondativo, ma un atto confermativo e l’identità nazionale ne è il presupposto e il risultato. A Napoli il decreto elettorale prescriveva tre urne, “una vuota nel mezzo e due laterali, in una delle quali saranno preparati i bullettini col sì, e nell’altra quelli del no, perché ciascun votante prenda quello che più gli aggrada e lo deponga nell’urna vuota” (E. Mongiano). Il suffragio palese veniva giustificato con la necessità di controllare la regolarità delle operazioni, ma nello stesso tempo trascurava completamente la segretezza. La preoccupazione principale era quella di favorire la più larga partecipazione possibile in quanto il processo elettorale era progettato come antipluralistico e unanimistico. “Una simile architettura procedurale rientra perfettamente nell’idea cerimoniale e confermativa delle consultazioni popolari condivisa dagli attori del tempo, che, non a caso, tendono ad esibire in tutti i modi la loro scelta unitaria, sinonimo di virtù patriottica, coinvolgendo nella pubblicizzazione del voto anche i pochi oppositori dell’annessione, che si recano al seggio, accolti con ilarità generale” (G. L. Fruci). Anche Federico De Roberto nel suo capolavoro I Viceré rievoca l’aspetto cromatico tricolore dei “sì colossali … tracciati sui muri, sugli usci, per terra” alla vigilia del voto e aggiunge che “al portone del palazzo il duca ne aveva fatto scrivere uno gigantesco, col gesso; e il domani, in città, nelle campagne, frotte di persone li portavano sul cappello, stampati su cartellini di ogni grandezza e di ogni colore”. Il risultato del plebiscito va, pertanto, inquadrato in questo clima corale di “votazione universale”, voluta dalle direttive organizzative per una partecipazione ampia e ordinata. Da allora è invalso l’uso dell’espressione “esito plebiscitario” per indicare un consenso quasi unanime. Liceo Scientifico Statale “Archimede” Dirigente Scolastico prof. Lorenzo Marotta L’Unità d’Italia e le scuole ad Acireale L’Illuminismo aveva stimolato con i suoi principi riformatori l’istituzione di scuole pubbliche con l’intento principale di togliere il monopolio dell’istruzione al clero e creare un sistema scolastico uniforme e laico, che il potere centrale potesse governare e controllare. Dal 1814 con la Restaurazione i governi dei vari stati italiani ritornarono sui loro passi: le scuole secondarie furono riprese dai Gesuiti e le scuole elementari pubbliche regredirono. Il Regno delle Due Sicilie nacque nel 1816 e comportò la perdita dell’autonomia della Sicilia: Ferdinando IV, divenuto Ferdinando I re delle Due Sicilie, svolse un’opera significativa di ricostruzione dando un impulso allo sviluppo. Le scuole, invece, rimasero fuori dalle innovazioni e vennero affidate ai sacerdoti. Il metodo del mutuo insegnamento, tuttavia, si affermò anche in Sicilia, comprese le città di Catania e di Acireale. Dopo i moti del 1820 il sovrano frenò sulle riforme. In Piemonte, che dopo alcuni decenni farà da guida per le politiche scolastiche del Regno d’Italia proclamato il 17 marzo 1861, l’insegnamento elementare era stato reso pubblico e obbligatorio fin dal 1822 e affidato ai Comuni; dopo ampio dibattito, il conte Carlo Bon Compagni di Pomello riuscì il 4 ottobre 1848 a far emanare il primo regio decreto davvero riformatore che con variazioni ed aggiunte confluirà nella famosa Legge Casati del 1859; in esso si prevedeva la suddivisione tra studi secondari classici con finalità “formative” e studi tecnici con finalità “utilitarie”. Con questo decreto soprattutto vennero aboliti i privilegi e le ingerenze degli ordini religiosi nelle scuole di Stato, venne riordinato l’organico delle scuole elementari, delle scuole di indirizzo classico e delle Università. Sarà la Legge Casati del 13 novembre 1859 n. 3725, entrata in vigore il 1° gennaio 1860, che apporterà un contributo basilare di tipo sistematico all’ “impianto” di tutta la scuola italiana, considerato che con la proclamazione del Regno d’Italia fu applicata all’intero territorio nazionale. La legge si basò sulle condizioni scolastiche rilevate in Piemonte e in Lombardia e non tenne conto delle grandi diversità presenti nelle varie aree regionali. La scuola elementare, principale strumento per “fare gli italiani” (M. D’Azeglio), venne suddivisa in due gradi: inferiore (due classi), per allievi dai 6 agli 8 anni, e superiore (due classi) obbligatoria nei comuni con più di 4.000 abitanti o con scuole secondarie superiori. Il primo anno, nei comuni che non avevano il grado superiore, poteva essere articolato in due anni rispettivamente dedicati all’apprendimento della lettura e poi della scrittura. In questi casi il grado inferiore risultava composto di tre anni. Per le scuole elementari l’insegnamento fu affidato inizialmente a “maestri”, forniti di patente di idoneità, alle dipendenze dei Comuni con assunzioni triennali. Al momento dell’unificazione (1861), gli analfabeti in Italia erano la maggioranza degli abitanti. Il tasso medio dei primi censimenti non superava il 30% e presentava forti differenziazioni su base territoriale in relazione all’efficacia delle politiche educative degli Stati preunitari: costantemente inferiore nel centro-sud, registrava valori superiori al 40% nel nord-ovest del Paese. Altissimo era il tasso di analfabetismo femminile in quanto il tema dell’accesso delle donne all’istruzione in Italia comparve tardi e si scontrò con il pregiudizio che non fosse importante per la donna saper leggere e scrivere, ma era necessario, invece, che imparasse a riconoscere il ruolo sociale della funzione materna e la complementarietà del ruolo di moglie. La presenza della scuola pubblica ad Acireale nel 1860 era assai modesta. La città nel 1861 contava 24 mila abitanti e con il circondario arrivava addirittura a 35.447 (G. Longhitano). Lo stato della situazione si può ricavare da una nota del sindaco del 17 marzo 1863, conservata nell’archivio storico, in risposta ad una richiesta del Ministero della Pubblica Istruzione: “1-Le scuole esistenti qui nel 1860 erano le seguenti: Scuole Bell e Lancaster – Scuole femminili – Scuola prima grammaticale – Scuola seconda grammaticale – Scuola terza grammaticale. 2 – Il numero dei discenti che le frequentavano può stabilirsi così: Scuole Lancaster n° 60 – Prima grammaticale n° 25 – Seconda grammaticale n° 24 – Terza grammaticale n° 22. 3- Nomi e cognomi dei maestri: 1) D. Rosario Gambino; 2) D. Vincenzo Garzia; 3) Sac. Venerando Ragonesi; 4) Sac. Mario Spoto. Non erano forniti di patente”. Ma ad Acireale c’erano state da oltre un secolo scuole dei Padri Filippini ed altre istituite da Ordini Religiosi. Con l’arrivo di Garibaldi nel 1860 e con la successiva annessione al Regno Sabaudo quali fu la sorte di queste scuole? Quale ruolo svolse nella “rivoluzione laica e liberale” il regio ispettore scolastico Lionardo Vigo? . Istituto Magistrale Statale “Regina Elena” Dirigente Scolastico prof. Alfio Mazzaglia Le scuole degli ordini religiosi e la “rivoluzione laica e liberale” Con l’arrivo di Garibaldi nel 1860 e con la successiva annessione al regno sabaudo prese il via ad Acireale la rivolta liberale. Cessava di diritto il Collegio degli studi (o Accademia degli studi), diretto da un sacerdote e presente in città dall’8 marzo 1801, mentre il 30 settembre 1863 la Real Casa di Educazione, gloriosa istituzione dei Padri dell’Oratorio di S. Filippo Neri, che aveva operato per oltre un secolo a favore dei giovani in campo educativo e formativo “senza distinzione di origine e di censo” (G. Gravagno), fu chiusa per determinazione degli stessi Padri, aggrediti da ogni parte (C. Cosentini). Lionardo Vigo Calanna (Acireale 1799-1879), esponente liberale di spicco, nonché storico, letterato e poeta, si adoperò per istituire, in sostituzione delle scuole confessionali, delle scuole laiche ovvero il Ginnasio (l’ex Collegio degli studi) e le scuole tecniche a prosieguo del corso elementare. Queste scuole furono riconosciute dallo Stato italiano rispettivamente nel 1861 e nel 1862. A seguito dello scioglimento delle corporazioni religiose disposto dalla legge 10 agosto 1862 e dalla legge del 7 luglio 1866 che soppresse i conventi con l’incameramento da parte dello Stato dei beni ecclesiastici, sia fondiari che edilizi (comprese le biblioteche e le opere d’arte che ne facevano parte), le scuole tenute dagli ordini religiosi dovettero chiudere, ma altre ne nacquero o rinacquero a carattere religioso come contraltare, come nel 1869 il Collegio di istruzione femminile “Santonoceto” diretto dalle suore di carità, che era stato istituito con i lasciti del signor Giovanni Santonoceto nel 1851. Già nel 1864 era, tuttavia, in piena attività il Collegio San Martino, fondato dal frate domenicano Tommaso Patané, dove assieme al catechismo e al galateo, si insegnavano le lettere, le scienze, lo Statuto albertino e persino il ballo, ma vi erano ammessi i figli “di genitori onorati e di nascita notoriamente civile”, dai sette ai dodici anni d’età. Vigorose proteste ufficiali furono rivolte al sindaco da ben 309 genitori per una visita ispettiva di Lionardo Vigo (regio ispettore scolastico) al collegio dei Padri Filippini che ne aveva determinato la chiusura. Ma il Vigo e il letterato Michele Calì (Acireale 1843-1888), due ex alunni, e il Badalà Scudero, si scagliarono contro i Padri accusandoli di coartare le coscienze e di propinare una cultura formale e priva dei suoi aspetti civili e formativi, per dirla in termini eleganti e non con il linguaggio duro e offensivo dei richiamati esponenti dell’anticlericalismo locale, specialmente del Calì nel volume L’ascetismo nell’educazione. Il punto di vista predominante all’epoca in Acireale, invece, era certamente quello esposto dall’acese Carlo Carpinati in un libretto del 1865 in difesa dell’Istituto dei Padri Filippini, che erano stati definiti da Vigo “padri puzzolenti”: “Pochi giovani, allora, oggi non so, quelle pubbliche scuole frequentavano, e con pochissimo, o niuno, profitto. Né c’è da farne meraviglia, se la ragione è chiarissima: il seme dell’istruzione non frutta se non è sparso con cura ed amore su di un terreno ben preparato dalla morale … Qualunque sia il merito dei professori di pubbliche scuole, il loro zelo, generalmente parlando, non raggiunge mai quello di uomini che, senza mira di interesse, i loro allievi istruiscono per solo spirito di carità. Così, d’altra parte la poca disciplina e la nessuna vigilanza sulla morale dei discenti rendono vani gli sforzi degli insegnanti”. Peraltro bisogna sottolineare che per l’ammissione al Collegio i Padri “non tenevano conto – come si usava in quel tempo – né del censo né della ricchezza…” (C. Cosentini). Le scuole elementari pubbliche, istituite a seguito della Legge Casati, erano poco frequentate in parte per gli insegnanti, non adeguatamente preparati e raccogliticci, e soprattutto perché la condizione economica molto modesta spingeva le famiglie a impiegare i loro figli (anche se minori) in qualche attività lavorativa, che dava supporto per il sostentamento. Questa situazione finiva per perpetuare l’analfabetismo. Comunque, dopo la presa di Roma e la legge delle “guarentigie”, ci fu la ripresa delle scuole degli ordini religiosi. Nel 1875 ricominciò l’attività l’istituto (maschile) San Michele con le sole scuole elementari, diretto dal Padri Filippini, erede della Real Casa di Educazione. Nel 1881 lo stesso istituto aggiunse i corsi del ginnasio e del liceo classico, che poi furono chiusi quando si ebbe l’assicurazione dal Ministero della Pubblica Istruzione che l’insegnamento della filosofia nel Liceo Statale “Gulli e Pennisi, sorto nel 1885, avrebbe tutelato i principi religiosi e morali. Negli anni Ottanta ritroviamo il Collegio San Luigi fondato dal canonico Martino Calì Fiorini (1884), il Collegio dell’Angelo Raffaele (1886), il Collegio Pennisi retto dai Padri Gesuiti (1888), il Collegio Spirito Santo (1895) e così via. Sull’apertura del Liceo Classico Statale “Gulli e Pennisi” del 1885 conviene soffermarsi a parte e lo faremo nel prossimo intervento. I.I.S. “Filippo Brunelleschi” Dirigente Scolastico prof. Salvatore Comparato Polemiche post-unitarie: l’istituzione del Liceo Classico Statale “Gulli e Pennisi” Lionardo Vigo, nella sua qualità di ispettore regio, si era adoperato sin dal 1861 per l’istituzione ad Acireale del Ginnasio statale e lavorò per predisporre il programma dell’ordinamento e degli studi, che tenessero conto dei bisogni culturali in rapporto ai quali potevano essere individuati i contenuti. In prospettiva il Vigo prevedeva l’istituzione del liceo classico e di un convitto. Giambattista Grassi Bertazzi, docente di Filosofia nell’Università di Catania, nativo di Acireale (1867) e convinto antidogmatico, così si espresse su Lionardo Vigo: “Come ispettore delle Scuole del Circondario di Acireale si dié a dirozzare il paese, suscitando l’amore all’istruzione nazionale, alle lettere, alla cultura laica malveduta tanto da quei padri puzzolenti che erano avversi al nuovo ordine delle cose … E da quest’anno in poi fino alla morte tutte le sue cure furono dirette a dare educazione civile ad una terra dove gli uomini per una triste necessità sembrano essere nati per vegetare soltanto”. L’intento di Vigo di istituire il liceo classico trovò seri ostacoli. Innanzitutto bisogna ricordare che con l’inizio dell’attività della Diocesi di Acireale fu nominato primo vescovo Mons. Gerlando Maria Genuardi (Agrigento 1839-Acireale 1907), giovane e battagliero, che volle incrementare la presenza e il ruolo della cultura cattolica attraverso l’istituzione di scuole confessionali, a garanzia della morale e della fede. Nel 1881 riuscì a fare aprire il seminario, che formò i novelli sacerdoti con forte spirito di fede e con solida preparazione teologica. L’apertura di un Liceo Classico Statale avrebbe portato il libero pensiero, compreso quello ateo, in cattedra e senza alcuna possibilità di controllo e supervisione ecclesiastica. Egli voleva contrapporre qualche istituto con tutti gli indirizzi delle scuole superiori, come egli scrisse, “soggetto alla nostra giurisdizione e vigilanza”. Criticava inoltre il ginnasio e la scuola tecnica statali già esistenti perché instillavano nei giovani dogmi irreligiosi e facevano leggere libri cattivi. Il mondo cattolico acese temeva di perdere la propria egemonia culturale. Il Vigo era convinto, invece, dell’assoluta necessità della sua apertura non solo per motivi ideologici e/o politici, ma anche per agevolare la frequenza di coloro che sarebbero stati costretti altrimenti a recarsi in altre città con grande dispendio di risorse finanziarie delle famiglie. I benemeriti acesi Erasmo Pennisi e il canonico Giuseppe Gulli nei rispettivi testamenti del 1742 e del 1745 lasciarono buona parte dei loro beni per l’istituzione ad Acireale di un collegio degli studi diretto dai Gesuiti oppure dai Teatini o, in ultima ipotesi, dovevano essere destinati a Santa Venera. Il re di Napoli Ferdinando IV con dispaccio del Tanucci del 3 novembre 1767 espulse dalla Sicilia i Gesuiti e le rendite passarono allo Stato, che aprì l’8 marzo 1801 la Regia Accademia degli Studi nella casa del barone Giovanni Musmeci. Come sappiamo, l’Accademia fu chiusa nel 1860 e al suo posto nel 1861 fu istituito il Regio Ginnasio, che rimase autonomo fino al R.D. del 5 ottobre 1884, che istituì il Liceo Classico “Gulli e Pennisi”. “Nel nome del nostro Liceo – scrive C. Cosentini – c’è dunque il segno della matrice della cultura acese antica – quella ecclesiastica – e in pari tempo il progresso. I beni che Gulli e Pennisi avevano destinato alla fondazione di una scuola diretta da religiosi, erano adesso patrimonio dello Stato, che apriva scuole laiche!”. Nel 1868 i locali dell’ex convento domenicano dell’attuale via Marchese di Sangiuliano vennero ceduti al Municipio di Acireale ai sensi della legge 7 luglio 1866, art. 20. L’edificio fu modificato a partire dal 1869 e vi trovarono sistemazione inizialmente la scuola elementare al pianterreno e la Regia Scuola Tecnica al primo piano. Nel 1884 i locali vennero rivendicati dall’on. Giambartolo Romeo quale eredità Gulli e Pennisi. La cerimonia solenne dell’inaugurazione avvenne il 14 marzo 1885 nel gran salone del Palazzo di Città, alle ore 11 e 30 “nella fausta ricorrenza del genetliaco di S.M. il Re”. Il periodico locale “La Patria” il 21 marzo 1885 dedicò la prima pagina all’evento dell’inaugurazione con la descrizione analitica della cerimonia, compresi i discorsi pronunciati per l’occasione. Promotore instancabile dell’apertura del Liceo era stato l’on. Giambartolo Romeo, avvocato acese e deputato al Parlamento nazionale dalla XIII legislatura del 1876 e per quattro legislature consecutive fino alla morte nel 1887. All’inaugurazione ufficiale intervennero molte autorità. Mancava ( e non a caso) il vescovo Mons. Genuardi, che non aveva condiviso tale istituzione e anzi aveva sollecitato l’istituto San Michele qualche anno prima a provvedere all’apertura di un Ginnasio Liceo, che fu effettivamente attivato nel 1881. In esso i Padri “riservavano particolare cura all’insegnamento della filosofia, che era tenuto dallo stesso padre Antonino Licciardello, per far sì che i giovani fossero illuminati e non avvelenati (si diceva così allora) dal pensiero moderno” (C. Cosentini). Il San Michele si dispose a chiudere il suo Liceo soltanto dopo che ricevette assicurazione da parte del Ministero della P.I. – tramite i deputati locali, il già citato Romeo e Michele Grassi Pasini (Acireale 1830-1913), che pure erano di parte liberale, che nel nostro Liceo si sarebbe provveduto all’insegnamento della filosofia “in modo da dare affidamento e garanzia per la tutela dei principi religiosi e morali”. L’aria anticlericale che in Italia si respirava, non impediva che per Acireale si dettassero apposite prescrizioni di salvaguardia a favore della Chiesa (C. Cosentini). Vennero ad insegnare docenti nominati dal Ministero provenienti da diverse città italiane, che contribuirono a svecchiare la cultura facendola uscire dal provincialismo. Liceo Classico Statale “Gulli e Pennisi” Dirigente Scolastico prof.ssa Antonia Puzzo Le leggi del regno d’Italia e la Diocesi fortemente voluta dagli acesi La costituzione della Diocesi di Acireale, com’è noto, risale al 27 giugno 1844 con la Lettera Apostolica “Quodcumque ad Cattolicae Religionis incrementum” del pontefice Gregorio XVI. Il lungo e tormentato iter che portò all’erezione della nuova diocesi di Acireale e all’attesa di ben 28 anni per l’esecuzione di quanto disposto sono stati ampiamente descritti e con il supporto di fonti sicure da. Giuseppe Contarino (1973), Cristoforo Cosentini (1976) e don Giovanni Mammino (2009). Noi vogliamo rivolgere la nostra attenzione al “Rescritto” della Sacra Congregazione Concistoriale dedicato alla Diocesi di Acireale del 28 giugno 1872, che portò all’attivazione della Diocesi e alla nomina del primo vescovo mons. Gerlando Maria Genuardi. Il notevole ritardo con il quale si diede vita alla diocesi fu in buona parte (ma non solo) condizionato dai sommovimenti politici e dal nuovo governo del Regno d’Italia con le sue leggi “eversive”. Il “Rescritto” nella parte introduttiva richiama la Lettera Apostolica sub plumbo di Gregorio XVI del 1844, che prevedeva appunto la costituzione della Diocesi di Acireale con la sottrazione dall’Archidiocesi di Messina di Calatabiano, Castiglione, Fiumefreddo, Giarre, Mascali, Piedimonte, Randazzo e Linguaglossa e dalla Diocesi di Catania di Acireale, Aci S. Antonio, Aci Bonaccorsi, Aci Castello, Aci S. Filippo e Aci Catena. Vengono subito dopo richiamate genericamente le difficoltà che avevano impedito al papa Pio IX l’intervento di messa in atto di quanto stabilito dal suo predecessore, fino al 1872, quando, tramite il Delegato Apostolico Mons. Giovanni Guttadauro dei principi di Reburdone, vescovo di Caltanissetta, fu finalmente costituita secondo il rito ufficiale la diocesi di Acireale. I sommovimenti politici cui si accennava sopra avevano ulteriormente tardato il provvedimento che avrebbe dovuto concretizzarsi dopo la morte dei vescovi di Catania e Messina. La proclamazione del Regno d’Italia e la legge del 7 luglio 1866 che soppresse i beni ecclesiastici crearono una frattura molto grave tra il nuovo Governo e il Papato. Infatti, la situazione venutasi a creare era abbastanza complessa e non si intravedevano spiragli per una composizione del contrasto. Oltre a determinare in un primo tempo la non concessione dell’exsequatur per la nomina di nuovi vescovi perché il papa Pio IX non intendeva riconoscere la legittimità del nuovo Governo, lo Stato italiano promulgò la legge 7 luglio 1866 che non riconosceva più “gli ordini, le corporazioni e le congregazioni religiose regolari e secolari ed i conservatori e i ritiri i quali importino vita comune ed abbiano carattere ecclesiastico. Le cose e gli stabilimenti appartenenti agli ordini, alle corporazioni, alle congregazioni, ed ai conservatori e ritiri anzidetti sono soppressi” (art. 1). Tale legge venne a sottrarre la disponibilità dei beni a sostegno della nuova istituzione e del vescovo da nominare .I beni delle due abbazie dei frati cistercensi, quella di Santa Maria detta Raccomadore, nel casale di Tremestieri, e quella di Santa Maria detta la Novara, in Val Dèmone, vennero incamerati dallo Stato. Ma la volontà degli acesi di pervenire, nonostante tutto (compresa la pervicace ostilità della vicina diocesi di Catania) all’istituzione della Diocesi, non tardò a tradursi nella ricerca delle risorse necessarie, che furono predisposte con il concorso di molti cittadini. Il 20 settembre 1870 le truppe reali, al comando del generale Cadorna, erano entrate quasi senza colpo ferire nella città eterna e Pio IX si chiuse in isolamento ritenendosi aggredito. Tale situazione difficile, tuttavia, trovò un’iniziale via di sblocco quando il 13 marzo 1871 venne pubblicata la Legge dello Stato italiano detta delle “guarentigie”, che consentì la copertura di molte sedi vacanti di vescovo (in precedenza, per quelle di Catania e Messina, rimaste per tanto tempo senza titolari, c’era stata un’autorizzazione straordinaria da parte del secondo governo Rattazzi). In ogni caso il 12 marzo 1872 furono depositate nella segreteria della Congregazione Concistoriale tre dichiarazioni con le quali il sac. Giovanni Pennisi Platania metteva a disposizione del nuovo vescovo temporaneamente e gratuitamente la sua casa “nella strada Vastea, a numero 67, sopra la Parrocchia S. Maria del Suffragio”, i membri del Capitolo della Cattedrale si impegnavano a provvedere all’ “affitto e mantenimento materiale della fabbrica per uso erigendo Seminario Diocesano” ad uso della nuova Diocesi, i padri dell’Oratorio dei Filippini si impegnavano a “mantenere a loro spese “un educandato ed alunnato ecclesiastico ad uso di Seminario Diocesano”. Tali impegni sono contenuti negli allegati B, C, D, richiamati nel “Rescritto”. Alla lettera A, invece, venne allegato in copia conforme all’originale l’impegno finanziario. Il paragrafo IV, molto breve, si limita a stabilire che in caso di sede vacante di vescovo, metà della somma annuale sarà assegnata al Vicario Capitolare, mentre l’altra metà sarà conservata per il vescovo che verrà nominato. Nell’ultima parte il Decreto Concistoriale viene assimilato a una Lettera Apostolica sub plumbo o in forma Brevis e quindi diffuso a futura memoria. E’ accompagnato dal sigillo e firmato da + Ruggero Antici Mattei, Patriarca Nolitano, Segretario della S.C. Concistoriale. Era stata data esecuzione alla bolla Quodcumque il 3 giugno 1872. Meritano, tra gli altri, una menzione speciale due sacerdoti acesi che furono impegnati in modo attivo per il raggiungimento di questo risultato e sono il can. Rosario Cirelli (Acireale 1833-1911), che il 13 gennaio 1872 si impegnò con il Papa Pio IX per il sostegno finanziario all’istituenda diocesi, e il domenicano Mariano Spada (Acireale 1796-Roma 1872), illustre acese, che fu “Maestro” del Sacro Palazzo Apostolico e teologo del papa Pio IX. Si deve a lui l’approvazione definitiva della bolla pontificia del 1844 che istituì di fatto la diocesi di Acireale nel 1872. Morì il 15 novembre, pochi giorni dopo la proclamazione ufficiale, e nella sagrestia della Cattedrale di Acireale c’è un suo ritratto con la scritta “Strenuus Eposcopatus Aciensis Propugnator”. Il 10 novembre 1872, infatti, fece il suo ingresso solenne ad Acireale il primo vescovo mons. Gerlando Maria Genuardi, proveniente da Agrigento. Gli acesi seppero accogliere nel modo migliore il novello pastore e furono molto gratificati anche dalla notizia che la loro Diocesi il 22 luglio 1872 “fu dichiarata immediatamente soggetta alla Santa Sede, senza legame di suffraganeità con le diocesi confinanti di Catania e Messina” (G. Mammino). “Istituto Tecnico Industriale “Galileo Ferraris” Dirigente Scolastico prof.ssa Patrizia Magnasco Anita Garibaldi donna indomita e ribelle …narrerò di un’amazzone intrepida e mai vinta, se non dalla morte, che sola dorme, tra le ombre cupe dei secolari pini ravennati. (da “Pianto per Anita” di Pinella Musmeci, Anti-heroides, Acireale 1994) Tra le figure del Risorgimento italiano quella di Anita Garibaldi (all’anagrafe Ana Maria de Jesus Ribeiro) è certamente tra quelle più affascinanti. Era nata a Morrinhos presso Laguna in Brasile; orfana di padre, a 14 anni era andata in sposa al calzolaio Manuel Duarte de Aguiar. Questa circostanza, non accolta come vera dal figlio Menotti nato dopo l’unione di Anita con Giuseppe Garibaldi, è stata confermata, invece, da un atto di matrimonio e dalle Memorie dello stesso eroe popolare. L’incontro con Garibaldi avvenne all’età di 18 anni nella sua casa. Era il 1839 e da allora quella donna indomita e ribelle oltre che ottima cavallerizza, sfuggendo alle truppe imperiali brasiliane che la tenevano prigioniera, si unirà a Garibaldi a Vicaria e nel 1840 nascerà il primogenito Menotti. Appena dopo il parto sfuggì di nuovo alla cattura saltando con il bimbo in braccio da una finestra e rifugiandosi con il cavallo e il neonato in un bosco dove rimase per quattro giorni, senza alcuna alimentazione. Nel 1841 Garibaldi lasciò il Brasile e si spostò a Montevideo in Paraguay; dove resterà sette anni con Anita impartendo lezioni di francese e matematica. Il giorno 26 marzo 1842 don Zenon Aspiazù della parrocchia di S. Francesco di Assisi in Montevideo autorizzò il matrimonio di “Don José Garibaldi, natural de Italia, hijo legittimo de don Domingo Garibaldi y de Dona Ana Maria de Jesus natural de la Laguna en el Brasil hija legittima de Benito Riveiro de Silva y de Dona Maria Antonia de Jesus”, come si legge nell’estratto dell’atto di matrimonio rilasciato l’8 febbraio 1881 dal parroco Martin Perez, la cui firma risulta legalizzata dal Vice Console Perrod. Quest’atto toglie ogni dubbio e smentisce le voci secondo le quali Anita fu una semplice “compagna” di Giuseppe Garibaldi. Nacquero poi nell’ordine Rosita nel 1843 (morta a soli 2 anni), Teresita nel 1845, Ricciotti nel 1847. Nel 1848, l’anno fatidico delle rivoluzioni europee, Anita si imbarcò con i figli per Nizza e venne ospitata dalla madre di Garibaldi. Lo stesso condottiero arriverà a parte con un bastimento. Diciamo subito che Garibaldi per potersi sposare dovette dichiarare che era certo della morte dell’ex marito di Anita, cosa che invece non risulta affatto sicura e di questo c’è un’eco nelle sue Memorie, quando dopo la morte di Anita a soli 28 anni, scrive: “Se vi fu colpa, io l’ebbi intiera! E …vi fu colpa! Si! … sì, l’annodavano due cuori con amore immenso, e s’infrangeva l’esistenza di un innocente!... Essa è morta! Io infelice! E lui vendicato… Sì! Vendicato!”. Nel 1849, comunque, Anita si lanciò di nuovo in combattimento con l’ardire e il coraggio di sempre e il 9 febbraio si trovava a Roma quando venne proclamata la Repubblica Romana, che avrà vita breve nonostante la strenua resistenza dei garibaldini, inferiori di numero e di mezzi rispetto alle truppe francesi e austriache. Ed ecco la famosa “trafila” ovvero la fuga dei garibaldini mentre lo stesso Garibaldi assieme ad Anita e al fedele Capitan Leggero cercava di raggiungere Venezia. Anita era di nuovo incinta e affrontò la fuga a piedi e a cavallo con grande difficoltà fino a quando non perdette conoscenza e il marito la portò con una barca nella fattoria del patriota Guiccioli, gestita dai fratelli Ravaglia, presso Mandriole di Ravenna, dove un medico non potè far altro che constatarne la morte. Era il 4 agosto 1849. Garibaldi dovette scappare assieme al fedelissimo Leggero per non incappare nella polizia papalina e il corpo della donna, per sfuggire alle perquisizioni poliziesche e non incorrere nelle gravi sanzioni previste per chi ospitava ribelli e cospiratori, fu sotterrato sotto la sabbia e ritrovato sei giorni dopo da alcuni ragazzini. Su questo rinvenimento ci sono due comunicazioni del Delegato A. Locatelli alla Direzione generale della polizia di Ravenna; il primo del 12 agosto 1849 descrive le circostanze del ritrovamento del cadavere e il secondo, ancora più completo, del 15 agosto nel quale si afferma, tra l’altro: “La donna era invasa da febbre perniciosa, siccome espresse il medico Nannini di Sant’Alberto, che trovatosi presente casualmente all’arrivo di esso le tastò il polso. Asportata in un camera ed adagiata sopra un letto, le fu apprestato il soccorso di un bicchiere d’acqua, ma non appena sorbì pochi sorsi cessò di vivere. Eravi presente Garibaldi, il quale si sfogò in atti di inconsolabile dolore per tale disgrazia, e poco dopo si diede alla fuga raccomandando a quella famiglia di dare onorata sepoltura al cadavere….Ho subito spedito sul luogo un impiegato di polizia per procedere all’arresto dei fratelli Ravaglia, lo che è già stato eseguito…”. Appena undici anni di vita di Anita assieme all’uomo che l’aveva affascinata e con il quale c’era stata un’intesa a prima vista. Il mito di Anita Garibaldi si è ampliato nel tempo e nel 1906 nacque il “Comitato nazionale per l’erigendo monumento ad Anita a Roma”, che pubblicava mensilmente un Bollettino. Il 7 luglio 1907, data centenaria della nascita dell’eroe popolare, il Comitato incaricò il noto scultore Mario Rutelli (bisnonno dell’uomo politico Francesco Rutelli, che fu collaborato, tra gli altri, dallo scultore originario di Santa Venerina Mariano Vasta), per la realizzazione di un grandioso monumento ad Anita da collocare sul Gianicolo, dove fu inaugurato però soltanto nel 1932. Istituto Comprensivo Statale “Paolo Vasta” Dirigente Scolastico prof. Rosario Musmeci Domenico Bonaccorsi-Guttadauro Marchese di Casalotto e Principe di Reburdone tra Risorgimento e Unità d’Italia Domenico Bonaccorsi-Guttadauro, marchese di Casalotto, che acquisì agli inizi del Novecento il titolo di “principe di Reburdone”, era nato a Catania il 16 ottobre 1828 da Domenico Bonaccorsi ed Eleonora Guttaduaro.. Rimasto orfano di padre all’età di nove anni, fino ai ventuno rimase sotto la tutela dello zio Giovanni (“Vanni”), benedettino, che lo fece studiare nelle scuole dei Gesuiti del Collegio Cutelli. Nel 1848, appena ventenne, fu inserito con un alto grado nel corpo degli Ufficiali dell’Armata voluto dal governo rivoluzionario che si era formato a Palermo con a capo Ruggiero Settimo. Il che gli procurò le rimostranze dello zio benedettino, legato alla casa regnante dei Borboni. Tuttavia lo zio “Vanni” ammirava questo giovane ardimentoso e lo protesse quando arrivarono a Catania le truppe regie, dopo il fallimento dell’azione rivoluzionaria. Infatti il giovane colonnello fu ospitato ad Aci Sant’Antonio nelle terre del Casalotto, dove furono tolti i cancelli e murati i varchi. Altro episodio molto significativo degno di essere raccontato per le straordinarie abilità strategiche dimostrate, fu quello del 1860 quando Garibaldi arrivò a Palermo ed egli organizzò a Catania, come racconta il suo discendente Francesco Spadaro-Ferlito, le forze civiche “per arginare la rivolta popolare ed indirizzare l’azione verso i piani prestabiliti: fece abbandonare alle truppe regie il Castello Ursino e armò a proprie spese un battaglione di volontari per imporre a Siracusa la resa al Presidio Militare di quella città”. Quella che poteva apparire come un’azione antirivoluzionaria, si rivelò, invece, una brillante operazione strategica dell’opposizione aristocratica ai Borboni. Difatti, quando nel 1862 arrivò a Catania Garibaldi ed egli era sindaco, “ingiunse al generale di allontanarsi dalla città entro ventiquattro ore”. Di fronte al tumulto popolare e al tentativo d’incendio del suo palazzo, egli reagì disponendo l’apertura del portone e presentandosi di fronte alla folla schiamazzante con il cappello a cilindro e un sigaro in bocca, seguito dalla sua carrozza con il cocchiere in serpa. Tutti a quel punto lo salutarono con un inchino togliendosi i berretti. Non sapevano, però, - e qui sta il fulcro della sua strategia – che il Marchese stava recandosi al Convento dei Benedettini, dove si trovava Garibaldi con i suoi uomini, “per offrirgli i mezzi d’imbarcarsi per le Calabrie dal porto della città, evitando in tal modo che accadesse a Catania ciò che accadde poco dopo in Aspromonte” (SpadaroFerlito). I rapporti con lo zio Vanni si incrinarono quando, dopo l’Unità d’Italia, furono sequestrati i beni ecclesiastici e lui, grazie ad un prestito di notevole entità ottenuto dal Banco di Sicilia (estinguibile in trent’anni) agevolato da un tale Caudullo, esponente massonico, sfidando persino la scomunica papale, acquisì l’ex-feudo Jumenta di Ramacca di circa mille ettari, espropriato al vescovo di Caltagirone. Con questa operazione si rese autonomo economicamente dallo zio benedettino. Fu deputato al Parlamento del Regno d’Italia a Torino, Firenze e Roma e senatore del Regno nella XV legislatura. Non dimentichiamo che fu presidente della Provincia di Catania dal 2 settembre 1872 all’11 agosto 1895 ed ancora dal 13 agosto 1906 al 3 febbraio 1908. Quando nel 1882 morì lo zio Vanni, egli ereditò tutto il patrimonio familiare, ma rischiò il fallimento per l’impresa onerosissima di portare l’acqua sorgiva della Reitana a Catania, molto utile per combattere le epidemie di tifo e colera sempre in agguato per l’inquinamento dilagante. L’operazione la portò a compimento nel 1887. Aveva tentato in un primo tempo di far giungere a Catania l’acqua di Bongiardo (tanto decantata dal can. Giuseppe Recupero), ma il progetto si rivelò inattuabile per alcune sopraelevazioni del terreno che inizialmente non erano state prese in considerazione. Ebbe dei problemi anche a seguito degli scandali bancari e delle crisi finanziarie degli ultimi decenni dell’Ottocento. Riuscì a risollevarsi solo quando alla fine del secolo fu istituita la Società Anonima delle Acque di Casalotto ed ebbe la presidenza vitalizia per sé e i suoi eredi. Nel 1903 il titolo ereditato di principe Emmanuel, su sua richiesta, venne sostituito da quello di Principe di Reburdone, con il quale comunemente viene ricordato. Rimase celibe e lasciò erede il nipote Francesco, adottato come figlio, sotto la tutela della cognata Caterina Pucci dei baroni di San Giuliano. Egli morì l’8 ottobre 1917 nella sua villa di Bongiardo (ora nel Comune di S.Venerina, allora appartenente a quello di Giarre nell’area di confine dell’antica Contea di Mascali) denominata appunto “casa del principe”. Spadaro-Ferlito testimonia che “la sua casa era come la sobria reggia di un monarca bonario”; egli infatti, seguendo la scia dello zio, fu anche mecenate ed aiutò giovani talenti come Mariano Vasta, divenuto scultore prestigioso, coautore tra l’altro del monumento ad Anita Garibaldi sul Gianicolo in Roma e che lasciò opere in Vaticano e nel Duomo di Milano, all’estero oltre che in Sicilia e nei palazzi dei Casalotto a Catania ed Aci San’Antonio. Antonio Pagano aggiunge che “alla fantasia del ragazzo che ero appariva un uomo da leggenda: dovizioso, amorevole, titolato, quasi inattingibile”. Nel feudo della Contea di Mascali dove morì, la sua casa alcuni anni fa è stata alienata e la cupola bramantesca che si stagliava in alto al centro del feudo, divenuta quasi simbolo di Santa Venerina, per la prolungata incuria è crollata recentemente. La legge del tempo e le responsabilità degli uomini si intrecciano inesorabilmente. Scuola Media Statale “Galileo Galilei” Dirigente Scolastico prof. Francesco Romeo La spedizione dei Mille in un “diario” poco noto del garibaldino Giuseppe Capuzzi La spedizione dei Mille del 1860 guidata da Giuseppe Garibaldi e la conquista della Sicilia, in tempo di accesso agli archivi e di revisionismi, viene inquadrata in un contesto più complesso di quello agiografico al quale la retorica risorgimentale e la mitizzazione fascista ci avevano abituati. Oggi abbiamo le prove della strategia “piemontese” del Cavour che prese accordi con il Re di Sardegna a Bologna il 2 maggio 1860, sui finanziamenti della spedizione e sulla questione dei battelli o “legni mercantili” Lombardo e Piemonte, poi pagati segretamente all’armatore Rubattino con un debito contratto e garantito dal regno di Sardegna e firmato il 4 maggio dal Medici in rappresentanza di Garibaldi, il “compratore”. Sappiamo anche della posizione inglese favorevole all’impresa non solo per gli interessi dei produttori e esportatori inglesi di vini che operavano in quel di Marsala, ma soprattutto per la questione dello zolfo (importante allora per l’industria e gli armamenti), per la quale c’era stata una controversia con i Borboni, che aveva avuto un esito contrastante con gli interessi inglesi o per l’imminente apertura del Canale di Suez. Non ci soffermiamo più di tanto sul ruolo della massoneria di cui Garibaldi fu gran maestro, e del suo vice nella spedizione dei Mille Girolamo Bixio detto “Nino” (loggia massonica “Trionfo ligure”, tessera n.105), nè sulle somme notevoli di cui potè disporre Garibaldi e che non furono certamente fattore secondario nella “facile” conquista di Palermo da parte di un manipolo di uomini a fronte di un esercito borbonico imponente. Tuttavia torna opportuno soffermarsi sull’opera scritta durante gli avvenimenti di Sicilia da uno dei 1039 garibaldini, Giuseppe Capuzzi, dal titolo “La spedizione dei Mille in Sicilia, memorie di un volontario”, pubblicata a proprie spese a Palermo nel giugno 1860. Egli era originario della provincia di Brescia e veterano della prima guerra d’indipendenza e fu sensibile al richiamo di Garibaldi, che lo infiammò per la fama di eroico generale e con le sue parole che incitavano ad un’impresa straordinaria ed esaltante. Poco ricordata è questa cronaca rimasta nell’oblio rispetto a quelle note di Giuseppe Cesare Abba, di Giuseppe Bandi, di Alberto Mario o di Anton Giulio Barrili, ma è degna di attenzione perché accanto alla retorica inevitabile del momento, descrive con precisione le situazioni dall’imbarco a Quarto in Liguria, allo sbarco a Marsala e alla faticosa marcia nella Sicilia occidentale con i fatti di Calatafimi e la conquista di Palermo. La cronaca è accompagnata da momenti di contemplazione lirica del paesaggio siciliano (era segretario della Biblioteca di Brescia e sapeva scrivere) ed episodi di ordinaria vita dei garibaldini durante le fasi della marcia, veri e propri bozzetti. Certamente i “Mille” erano avvolti da un’atmosfera” mitizzante e credevano in un ideale patriottico di unità nazionale e di “liberazione” dell’isola, ma non conoscevano quello che Garibaldi e i suoi collaboratori (Bixio, Crispi, La Masa e altri) sapevano sulle “strategie” politiche e militari, e la figura di Garibaldi, che conversa “familiarmente coi gregari dividendo seco loro la fatica del viaggio”, lo rende ai suoi occhi ancora più credibile e “affascinante”. Il racconto, come ha sottolineato Lucio Zinna, non è traboccante, “ha un andamento pacato, con un suo realismo di fondo (realismo romantico)”. Dal 1860 quest’opera scritta “in mezzo alle vicende della campagna”, come afferma nella premessa lo stesso autore, non è era stata mai ripubblicata fino a qualche anno fa quando è stata “rispolverata” opportunamente dall’editrice Antares di Palermo. Si legge ancora oggi volentieri perché è “una testimonianza non artefatta, anzi viva e palpitante di quell’impresa” (Zinna). Istituto Comprensivo Statale “V. Fuccio - La Spina” Dirigente Scolastico prof.ssa Maria Castiglione Il prof. GIOVANNI VECCHIO è nato a Santa Venerina nel 1946. Già dirigente scolastico nei Licei statali, è attualmente tutor didattico nei Master di II livello delle Università di Bergamo e di Catania e incaricato di servizi ispettivi dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca. Collabora alle attività di formazione dei dirigenti scolastici della Casa Editrice “La Scuola” di Brescia. Perfezionato in Scienze dell’Educazione nell’Università di Torino, ha svolto attività didattica e di ricerca nelle Università di Firenze e di Catania. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni in volume e saggi su riviste e periodici vari. Sue poesie sono state pubblicate in antologie di case editrici a circuito nazionale. E’ iscritto dal 1979 all’albo dei giornalisti pubblicisti e in tale veste ha diretto la rivista culturale “Zétesis”, settimanali e quotidiani radiotrasmessi. Tra le sue ultime pubblicazioni, ricordiamo “Realtà e immaginario nella rappresentazione popolare siciliana del Natale”, “La cella trichora di Santo Stefano e l’antico eremo di Dagala del Re”, “Danilo Dolci. Attualità profetica” (Ed. Mesogea, Messina 2009), “Giovani, valori e cittadinanza attiva”, quest’ultimo pubblicato nel 2010 dalla Casa Editrice Franco Angeli di Milano. La pubblicazione più recente è il volume per immagini di grande formato “Santa Venerina ieri e oggi” (DAFNI Editrice, 2010). Collabora alla redazione della rivista “Bioetica e cultura”, con il settimanale “I Vespri”, alla pagina della “Cultura” del quotidiano “La Sicilia” e con i periodici locali AKIS e “La Voce dell’Jonio” di Acireale e “Murganzio” di Lentini. Cura recensioni e presentazioni di opere in ambito umanistico e scientifico. E’ socio corrispondente dell’Accademia di Scienze Lettere e Belle Arti degli Zelanti e dei Dafnici di Acireale. Circolo Didattico Aci S.Antonio Dirigente Scolastico prof. Salvatore Musumeci Città di ACIREALE Quadrivio Dott. ssa Rosaria Di Mauro Referente Quadrivio AKIS AKIS: Allegato all’ Anno VII, numero 5 del 12 Marzo 2011 - Ed. e Dir.e Resp.:Turi Consoli Autor. n. 22 del 23/05/2005 del Tribunale di Catania Sede: via M. di Casalotto 68 - 95025 Aci S.Antonio Redazione: via Alliotta, 14 - 95024 Acireale IL GIORNALE Tel.- Fax 095 7921059 – 347 5382517 - [email protected] - Site: www.akis-aci.com DEL TERRITORIO Tipografia-Litografia: “TM” di Mangano Venera - via N. Martoglio, 93 - S. VENERINA (CT) DELLE ACI Tel. 095 953455 - Distribuzione e arretrati: 340 7152814 Elaborazione grafica, fotomontaggi e impaginazione: MP Graphic di Maurizio Pagano - Tel. 347 1433135 222