Allegato al N. 222 per il 150° Anniversario dell’Unità d’Italia - 12 marzo 2011
Giovanni Vecchio
Vicende acesi del Risorgimento
e dell’Unità d’Italia
In occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia
La rivolta antiborbonica in Sicilia. Il 1848 ad Acireale
Acireale e l’insurrezione antiborbonica del 1860
Dittatura di Garibaldi, plebiscito del 21 ottobre 1860
e annessione della Sicilia al Regno d’Italia
L’Unità d’Italia e le scuole di Acireale
Le scuole degli ordini religiosi e la “rivoluzione laica e liberale”
Polemiche post-unitarie: l’istituzione del Liceo Classico Statale
“Gulli e Pennisi”
Le leggi del Regno d’Italia e la Diocesi fortemente voluta dagli acesi
APPENDICE. Personaggi da ricordare:
a)Anita Garibaldi donna indomita e ribelle
b)Domenico Bonaccorsi Guttadauro, marchese di Casalotto
e principe di Reburdone tra Risorgimento e Unità d’Italia
c)La spedizione dei Mille in un “diario” poco noto
del garibaldino Giuseppe Capuzzi
Premessa dell’Autore
In occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, presentiamo la raccolta degli articoli che sono
stati pubblicati in ogni numero di AKIS da settembre a dicembre 2010 e da me elaborati per contribuire, con questo piccolo lavoro, alla conoscenza di vicende di Acireale del Risorgimento, dell’impresa
garibaldina, del plebiscito del 21 ottobre 1860 per l’annessione della Sicilia al costituendo Regno d’Italia nonché di
fatti e avvenimenti del periodo post-unitario di particolare
interesse per la città, come la nascita delle nuove scuole
statali, lo scontro tra gli esponenti locali della “rivoluzione
laica e liberale” con gli ordini religiosi che avevano gestito
fino all’avvento dell’Unità quasi tutte le scuole di Acireale,
con un’attenzione particolare all’istituzione del Liceo Classico Statale “Gulli e Pennisi”, che produsse le proteste del
primo vescovo della Diocesi acese, recentemente istituita,
e coinvolse la deputazione locale al Parlamento nazionale.
A proposito della Diocesi, attivata nel 1872 ma istituita nel
1844, si presentano le vicende che impedirono il ritardato
avvio, legato anche al cambiamento politico e istituzionale.
Infine, un’appendice è dedicata a personaggi non nativi
della città, ai quali è legato il ricordo del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, come Anita Garibaldi, il
marchese di Casalotto e principe di Reburdone, e Giuseppe Capuzzi, un garibaldino bresciano
che scrisse e pubblicò, a sue spese, nel 1860 a Palermo, subito dopo la conquista di questa città,
un interessante resoconto della spedizione dei Mille, poco noto, ma meritevole di essere almeno
citato. La brevità dei testi è dovuta alla necessità di mantenersi entro i limiti di un articolo di un
giornale, anche se lo scrivente ha elaborato un’edizione, per così dire, “maggiore”, con l’aggiunta
di documenti e testimonianze e soprattutto con l’indicazione delle fonti e dei riferimenti bibliografici,
tuttora inedita. Ringrazio AKIS e in particolare l’amico prof. Turi Consoli per avermi proposto di
riunire gli articoli in un opuscolo destinato a un pubblico più variegato e, soprattutto, ai giovani, che
in tal modo potranno scoprire aspetti della nostra storia locale collegata agli eventi nazionali e forse
alcuni saranno interessati non solo a riconoscere le nostre “radici” socio-culturali e politiche, ma
anche a sviluppare ulteriori ricerche e studi integrativi e di approfondimento.
GIOVANNI VECCHIO
Città di Acireale
Assessorato alla Pubblica Istruzione, alla Cultura e al Turismo
prof.ssa Nives Leonardi
La rivolta antiborbonica in Sicilia.
Il 1848 ad Acireale.
La rivolta antiborbonica del 1837 in Sicilia interessò Messina e
poi Siracusa , Floridia, Canicattini, Catania, Motta S. Anastasia,
Paternò e Biancavilla. Acireale e i comuni vicini, invece, non si
mossero e rimasero fedeli alla casa regnante dei Borboni. Diversamente avvenne nell’anno fatidico, ovvero il 1848, quando in
tutta l’Europa ci fu fermento rivoluzionario. Palermo era stata la
prima il 12 gennaio ad impugnare le armi. Il 9 era apparso il manifesto che invitava i siciliani ad insorgere appunto il giorno 12. I
moti precedenti si erano spenti per
motivi diversi: quello del 1820 per
difetti organizzativi , quello del 1837
finì con l’arresto dei rivoluzionari a
Catania e il loro invio in prigione,
soprattutto a seguito del calcolo di
opportunità della parte aristocratica
antiborbonica, che aveva aderito in
un primo tempo alla rivolta mentre
poi decise di abbandonare al loro
destino i popolani e i democratici.
Il 12 gennaio 1848 scoppiò la rivoluzione antiborbonica a Palermo,
dove si recò anche un acese, Gregorio Romeo (Acireale 1825-Malta 1850), fervente rivoluzionario,
che venne nominato capitano delle truppe rivoluzionarie e “combattè valorosamente a Messina. Caduta Messina in mano ai borbonici, si trasferì a Catania, dove sostituì il danese Peters, suo
amico, come capo di Stato Maggiore, e dove fondò il giornale patriottico <La Sentinella dell’Etna>, che ebbe pochi mesi di vita.
Caduta la rivoluzione siciliana, esulò a Malta, dove morì ventiquattrenne” (Correnti). La città gli ha dedicato una lapide commemorativa con un busto nella sua casa natìa all’angolo tra via
Galatea e via Marzulli.
Intanto, il 16 gennaio 1848 Acireale rispose all’appello e “una
moltitudine di persone convenute anche dai paesi vicini si radunò
in armi in Piazza San Domenico e, levato il tricolore con lo
stemma della Trinacria, mosse in corteo per le strade della città.
In Piazza Duomo Lionardo Vigo infiammò gli animi con un appassionato discorso. Si elesse il ‘Comitato Provvisorio’ per reggere
la cosa pubblica, che risultò così formato: Mariano Scuderi, presidente – bar. Pasquale Pennisi Cagnone – Lionardo Vigo – Mariano La Rosa – Leonardo Vigo Fuccio, segretario – Michele La
Spina Valerio, cassiere. La rivolta dilagò in tutte le città del nostro
Distretto, nelle quali confluirono i Comitati e la Guardia Nazionale”
(Gravagno).
Il presidente del Comitato Generale Mariano Scudiero il 6 febbraio 1848 invitava tutti i Comuni del Distretto acese a creare i
Comitati rivoluzionari entro il 12 febbraio; in caso contrario sarebbero stati denunziati “come traditori della santa impresa, e chiamati responsabili della loro inazione e del loro silenzio”. Il giorno
prima era stata diffusa la risposta al Re di Napoli sulla indipendenza e libertà della Sicilia e nella quale si denunciava “l’enorme
oppressione di un Governo a noi straniero”. Stavolta, dunque,
anche Acireale si mobilitò. Il 18 maggio lo stesso Scudiero ringraziò ufficialmente la Guardia Nazionale per le prove di valore e coraggio dimostrate il 12 maggio (il manifesto porta la data del 18
maggio 1848).
Lo slancio rivoluzionario aveva fatto superare anche la tradizionale ostilità tra catanesi e acesi, tanto che il Patrizio di Catania
l’11 febbraio 1849 consegnò al Patrizio di Aci-Reale in dono “una
spada e una Nazionale bandiera di lavorio patrio” (Lettera del Senato di Catania del 9 febbraio 1949) nel corso di una cerimonia
nel Palazzo di Città. Quando la Francia e l’Inghilterra imposero l’armistizio al Re di Napoli, il Comando
Militare del Distretto di Aci-Reale con
un proclama del 15 settembre, firmato dal Maresciallo di Campo e Ministro della Guerra e Marina Paternò
e dal Comandante Militare Leonardo
Vigo Fuccio, invitò a non deporre le
armi e a rispondere al nemico solo in
caso di provocazione. Ma la situazione si complicò. Il manifesto del 1°
febbraio 1849, firmato per la Guardia
Nazionale di Aci dal Maggiore Comandante Leonardo Vigo Fuccio, invitava a contribuire all’attivazione di un mutuo di un milione di
onze a sostegno del Governo Costituzionale. Il 25 marzo 1849 il
Senato di Aci si rivolse ai “cittadini e fratelli” per invitarli a non demordere, a prepararsi “alla battaglia con nobile ardire e santo entusiasmo….con animo fermo e risoluto” e concludeva con
un’accusa molto dura al re borbonico che veniva definito satrapo
“che nutre cuore di tigre, che ha nelle vene un leonino sangue, e
che cerca di attutire la face generosamente accesa dalla Siciliana
libertà del 1848”. Ma quando il 5 aprile giunse in Sicilia il generale
borbonico Carlo Filangieri con un esercito di 18.000 uomini e,
abbattuti facilmente gli ostacoli frapposti e la resistenza di alcuni
disordinati contingenti, si presentò ad Acireale, “i fedeli ‘borbonici
di Aci’ – con in testa il Ciantro della Matrice Chiesa Pier Tommaso
Continella… si fecero incontro al Filangieri protestando la loro
fede, e quella della città, al Monarca. Il Ciantro consegnò al generale la spada e la bandiera, divenute ora simbolo di vergogna”
(Gravagno). La spada dall’elsa d’oro massiccio fu recuperata nel
1861 da Lionardo Vigo, mentre il vessillo, che si riteneva perduto
o bruciato, grazie all’interessamento del prof. Cristoforo Cosentini,
allora presidente dell’Accademia Zelantea, del sindaco di Acireale
avv.. Rosario Leonardi e dell’on. Mario Scelba, fu rintracciato nel
1972 presso l’Archivio di Stato di Napoli e riportato da Gaetano
Gravagno di nuovo ad Acireale; oggi è custodito nella Biblioteca
Zelantea.
Ritornò dunque l’ordine borbonico in città.
Istituto Tecnico Commerciale Statale
“Angelo Maiorana”
Dirigente Scolastico
prof. Gaetano La Rosa
Acireale e l’insurrezione antiborbonica del 1860
La popolazione residente ad Acireale nel 1831 ammontava a
19762 abitanti, nel 1861 passò a 35.447: era un centro fiorente
e con grande vocazione culturale. Ciononostante l’analfabetismo
era altissimo, anche, e non solo, per le remore dei ceti dominanti
ad allargare l’istruzione di base al popolo. Mentre la nobiltà, in
buona parte imborghesita, viveva una situazione tutto sommato
favorevole dal punto di vista della disponibilità economica perché
raccoglieva i frutti dei propri investimenti nelle aree del Bosco di
Aci e nella Contea di Mascali, mal sopportava invece le disposizioni autoritarie e restrittive di Ferdinando II, “re delle Due Sicilie”.
L’aspirazione della borghesia era, se non il mantenimento dello
status quo politico, economico e sociale, quella di disporre di
maggiore libertà e si rifaceva alla Costituzione del 1812, però
adattata ai tempi nuovi. La situazione sociale ed economica dei
contadini e del popolino era abbastanza precaria un po’ in tutta
l’isola.
L’incrocio tra aspirazioni alla libertà, in un primo tempo all’indipendenza della Sicilia e successivamente all’unità d’Italia, delle
classi nobiliari imborghesite e le forti esigenze del riscatto dalla
povertà degli strati più poveri della società portò alla ripresa rivoluzionaria del 1860 e all’accoglienza trionfale all’arrivo in Sicilia
dei “Mille” di Giuseppe Garibaldi, che per la sua fama di condottiero sempre vincitore sembrava in grado di superare gli ostacoli
che si frapponevano alla divisione delle terre tanto attesa dai contadini, mentre il riferimento di Garibaldi, al momento di assumere
il 14 maggio 1860 la dittatura a Salemi, all’ “Italia e Vittorio Emanuele” rassicurava i possidenti che la rivoluzione antiborbonica
sarebbe stata convogliata verso esiti moderati. Come è stato osservato opportunamente da L. Cavalli,, la “conquista” del Sud da
parte dei Piemontesi fu vista dalla borghesia meridionale soprattutto come garanzia d’ordine contro la rivoluzione.
Infatti, moti contadini erano insorti a Palermo e in varie località
della Sicilia occidentale, mentre a Messina e a Catania si avvertiva una tensione alta pronta ad esplodere.. Su uno dei momenti
cruciali dell’impresa dei Mille, ovvero la battaglia di Calatafimi del
15 maggio 1860, Antonino Teodosio Almirante, attor giovane e
capocomico di una compagnia di teatranti originaria di Acireale,
incaricato da Lionardo Vigo Calanna di diffondere nella zona di
Trapani la sua Raccolta dei Canti Popolari Siciliani, proprio quel
giorno alloggiava a Calatafimi e potè osservare dal terrazzo lo
svolgimento della battaglia, di cui riferisce al Vigo con una lettera
inviata da Castelvetrano il 16 giugno 1860.
E’ noto come, con la sconfitta delle truppe borboniche e l’ingresso
dei garibaldini a Palermo, ci si incamminò verso la soluzione istituzionale e moderata, mentre le rivolte contadine, che erano sfociate in atti di violenza e in taluni casi (Bronte) erano giunte ad
uccidere alcuni proprietari delle terre (lotta tra coppuli e cappeddi),
furono represse duramente dal vice di Garibaldi Nino Bixio con
diverse fucilazioni e successive condanne al carcere per molti
altri.
Una lettera dell’acese Mariano Grassi, onorario della Società
degli Archivisti di Francia, inviata il 4 agosto 1860 ad Alessandro
Dumas (che aveva seguito con la sua goletta Emma la spedizione
di Garibaldi in Sicilia) ci fa conoscere il contributo dato dagli acesi
alla causa dell’Unità e i momenti più critici dell’insurrezione del
1860. Stralciamo dall’interessante documento: “…In questi momenti decisivi, in questi momenti divini, Aci, città non grande, non
popolosa, ma capo del più ragguardevole distretto del Regno,,
esordiva con un fatto per sempre memorabile e bello… La generosa città, mentre Catania e Messina, sebbene frementi, tacevano
perché ferocemente dome dalle imponenti colonne del dispotismo, sfidando il pericolo dei quattromila uomini, forniti di artiglieria
e stanziati in Catania, osò alzare il grido dell’armi, inalberare la
tricolore bandiera e dare il segno della riscossa ad altri paesi. Ciò
avveniva dopo precedenti dimostrazioni, il 26 maggio, giorno in
cui il vessillo italiano, salutato dal popolo, benedetto nel Duomo
dai sacerdoti, per mano di egregi giovani si impiantava glorioso
nel Palazzo di
Città al grido
di Viva l’Italia.
Quella stessa
sera il popolo,
con
voto
spontaneo e
concorde,
creava un comitato,che
provvedesse
al
mantenimento dell’ordine e al buon
andamento
della rivoluzione … Il 27
maggio
Aci
mandava alcune centinaia
di once e il 31
una eletta schiera di giovani volenterosi accorse a difesa della diletta Catania… Il generale Clary, il 3 giugno, impone alla città di
Aci un’ingente e barbara taglia militare di 8.000 once e di 6.000
razioni di viveri; e, ove infra ore 24 non sarebbero approntate, i di
lei abitanti si attendessero il saccheggio, il fuoco, la morte…. Aci
non aveva forza alcuna. Far distruggere una città sarebbe stato
un delitto. Le pubbliche casse erano esauste di ogni mezzo. Allora
alcuni generosi aprirono una sottoscrizione e giunsero ad ottenere un cumulo di 2.000 once in denaro. Surta l’alba novella fu
intimata la consegna della somma; il generale disse: ‘Aci è ribelle,
ha rivoluzionato tutta la provincia, deve scontarne la pena’. I cittadini offersero allora la somma di 2.000 once. Clary minaccioso
rifiutò!. I nostri offersero in polizze di banco il resto. Vennero
anche queste rifiutate. Fu un momento terribile. Finalmente Clary,
sia perché convinto che lo impossibile non si può, sia perché,
pressato dal bisogno di congiungersi alle forze regie di Messina,
abbia creduto opportuno di troncare gli indugi, sia perché temesse
le bande popolari armate, presa la somma, ordinava lo sgombro.
Evitando il pericolo, il comitato insurrezionale riprendeva le sue
funzioni e spediva in Palermo una commissione a felicitare l’eroe
dei portenti. ‘Aci ha fatto molto”, ebbe a dire Garibaldi, ‘ringraziate
gli amici, salutate i fratelli, dite loro che sien sempre con noi’ ”.
Questa testimonianza certamente risente dell’atmosfera rivoluzionaria e della consapevolezza di vivere un grande evento storico. Tuttavia disponiamo anche delle valutazioni di uno storico di
parte borbonica, Giuseppe Buttà, cappellano del 9° Cacciatori
dell’Esercito napoletano, che si mostra molto arrabbiato perché
“Clary, ad onta della vittoria ottenuta dal Ruiz, fu richiamato in
Messina, lasciando una delle primarie città della Sicilia in balia
della rivoluzione, dopo di averla sottomessa, e dopo che i principali cittadini l’avevano pregato di non abbandonarli in preda de’
rivoltosi. Di quell’abbandono, forse il Clary non ha tutta la colpa,
ma si vuole che fosse stato un intrigo del colonnello Sponzilli, allora in Messina, il quale si adoperò in modo da farlo colà richiamare, per rendere un servizio alla rivoluzione. Clary partì da
Catania il 3 giugno e, passando per Aci-Reale, mise una contribuzione di guerra, di diciassettemila ducati, che venne biasimata,
ed arrecò onta all’esercito. I ribelli, che erano fuggiti precipitosamente da Catania, rientrarono da conquistatori, e proclamarono
Garibaldi dittatore”).
Andate via le truppe di Clary, sventolò nel Palazzo di Città il vessillo tricolore che, negli ultimi giorni di luglio, salutò il passaggio
delle camicie rosse che erano dirette a Messina per concludere
l’impresa al Volturno dove si svolse la battaglia che determinò la
caduta di Francesco II Borbone.
I.P.S.I.A.S.S.
“Antonio Meucci”
Dirigente Scolastico
prof. Sebastiano Raciti
Dittatura di Garibaldi, plebiscito del 21 ottobre 1860
e annessione della Sicilia al Regno d’Italia
Giuseppe Garibaldi l’11 maggio 1860, autodefinitosi “comandante
in capo delle forze nazionali in Sicilia”, emise un Decreto da Salemi con il quale assumeva, in nome di Vittorio Emanuele Re d’Italia, la dittatura in Sicilia. Il Decreto venne motivato innanzitutto
dall’invito dei “principali cittadini e per deliberazione delle libere
comuni dell’Isola” e tenuto conto che in tempo di guerra è necessario che il potere civile e militare sia “concentrato in mano di
una sola persona”. Legando la microstoria di Acireale con gli
eventi rivoluzionari in corso si colgono alcuni moment significativi,
che altrimenti rimarrebbero nell’ombra. Con l’ausilio di parte della
documentazione raccolta da Edoardo Privitera, puntualizziamo
alcuni fatti. Ad esempio, un’epistola di Ignazio Romeo Indelicato,
governatore del Distretto di Acireale, dopo un lungo e farraginoso
discorso di carattere generale, approda finalmente al nocciolo
della questione ovvero che “per uscir gloriosi e certi e presto” dallo
stato di guerra “denari e militi abbisognano a ciò conseguire”. Del
15 settembre dello stesso anno fatidico 1860 è la sentenza, in
nome di Vittorio Emanuele Re d’Italia, della Commissione Speciale del Distretto di Acireale, alla quale era stato affidato il com-
pito di giudicare 31 arrestati a Bronte e a Randazzo durante le
rivolte cruente dei popolani nei giorni 5, 6 e 7 agosto (lotta tra coppuli e cappeddi), raccontate da Giovanni Verga nella novella “Libertà”. Mentre a 17 imputati fu concessa la “libertà provisionale”,
tutti gli altri furono condannati e incarcerati. Il 18 ottobre con il Decreto n. 257, emesso a S.Angelo, Garibaldi rese ufficiale quanto
già proclamato nei momenti rivoluzionari ovvero che all’arrivo di
Vittorio Emanuele avrebbe posto nelle sue mani la dittatura conferitagli dalla Nazione perché l’Italia a quel punto avrà il suo re
costituzionale e sarà “Una e Indivisibile”. Segue l’appello del prodittatore Mordini agli “Italiani di Sicilia” a partecipare al plebiscito
del 21 ottobre. Infatti, proprio il 21 ottobre del 1860 gli elettori
dell’ex regno delle Due Sicilie furono chiamati alle urne per pronunciarsi con un plebiscito sull’annessione al costituendo Regno
d’Italia con re Vittorio Emanuele II. Garibaldi, convinto di non poter
riuscire con le sue sole forze volontarie ad attaccare con successo lo Stato pontificio, aderì alla fine anche lui alla tesi del plebiscito. L’esito in Sicilia fu di 432.053 favorevoli all’annessione
(“sì”) e 667 “no”. Un risultato quasi unanimistico che non si spiega
soltanto con le pressioni innegabili alle quali furono sottoposti gli
elettori. Ad Acireale il Presidente del Senato cittadino Mariano
Seminara Pennisi, con un manifesto del 22 ottobre, comunicò il
risultato ai suoi concittadini: votanti 5782, voti affermativi 5743,
negativi 12 e dispersi 27. Questi “voti affermativi han proclamato
l’unione della Sicilia alla gran Patria Italiana, sotto il governo costituzionale di Vittorio Emmanuele (sic!) e suoi discendenti…. Il
grand’atto riparatore d’ingiurie secolari è compito… Destini non
meno grandi ci aspettano, e confido che ve ne mostrerete sempre
degni”. Ma cos’era questo plebiscito? Con esso si attuò dal 1848
al 1870 il principio dell’autodeterminazione dei popoli e questo
istituto di democrazia diretta passò dal diritto pubblico interno
nell’ambito del diritto internazionale, come espressione della volontà della popolazione di trasferire la sovranità di un dato territorio da uno Stato ad un altro Stato. Non ha nulla a che vedere con
il referendum previsto dalla Costituzione Repubblicana del 1948.
Nella normativa siciliana del 15 ottobre 1860 si stabiliva con chiarezza che i “comizi elettorali” erano chiamati a votare per l’adesione alla monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II. Le
votazioni plebiscitarie del Risorgimento rappresentano “per più di
mezzo secolo, il momento più alto di partecipazione popolare a
una consultazione politica” ( E. Ragionieri) e descrivono il coronamento rituale e simbolico di un apprendistato nazional-patriottico. Infatti, le operazioni di voto si svolgevano in un clima di festa,
quasi teatrale, nel quale l’intera società veniva coinvolta, oltre agli
elettori. In Sicilia il plebiscito arrivò a conclusione della rivoluzione
democratica garibaldina (voluta da Garibaldi in rotta con il Cavour) e fu adottato in alternativa alle assemblee costituenti come
avvenne, invece, in altre parti d’Italia e d’Europa. L’insurrezione
e la campagna garibaldina avevano provocato lo sfaldamento
della struttura statale borbonica, fondata sul luogotenente del re
e i suoi direttori. La dittatura di Garibaldi, senza alcuna assemblea
legislativa e costituente, mostrava chiaramente la sua transitorietà
e preannunciava una scelta politica unitaria (A. Recupero). Il consenso plebiscitario non è un atto fondativo, ma un atto confermativo e l’identità nazionale ne è il presupposto e il risultato. A Napoli
il decreto elettorale prescriveva tre urne, “una vuota nel mezzo e
due laterali, in una delle quali saranno preparati i bullettini col sì,
e nell’altra quelli del no, perché ciascun votante prenda quello
che più gli aggrada e lo deponga nell’urna vuota” (E. Mongiano).
Il suffragio palese veniva giustificato con la necessità di controllare la regolarità delle operazioni, ma nello stesso tempo trascurava completamente la segretezza. La preoccupazione principale
era quella di favorire la più larga partecipazione possibile in
quanto il processo elettorale era progettato come antipluralistico
e unanimistico. “Una simile architettura procedurale rientra perfettamente nell’idea cerimoniale e confermativa delle consultazioni popolari condivisa dagli attori del tempo, che, non a caso,
tendono ad esibire in tutti i modi la loro scelta unitaria, sinonimo
di virtù patriottica, coinvolgendo nella pubblicizzazione del voto
anche i pochi oppositori dell’annessione, che si recano al seggio,
accolti con ilarità generale” (G. L. Fruci). Anche Federico De Roberto nel suo capolavoro I Viceré rievoca l’aspetto cromatico tricolore dei “sì colossali … tracciati sui muri, sugli usci, per terra”
alla vigilia del voto e aggiunge che “al portone del palazzo il duca
ne aveva fatto scrivere uno gigantesco, col gesso; e il domani, in
città, nelle campagne, frotte di persone li portavano sul cappello,
stampati su cartellini di ogni grandezza e di ogni colore”. Il risultato del plebiscito va, pertanto, inquadrato in questo clima corale
di “votazione universale”, voluta dalle direttive organizzative per
una partecipazione ampia e ordinata. Da allora è invalso l’uso
dell’espressione “esito plebiscitario” per indicare un consenso
quasi unanime.
Liceo Scientifico Statale
“Archimede”
Dirigente Scolastico
prof. Lorenzo Marotta
L’Unità d’Italia e le scuole ad Acireale
L’Illuminismo aveva stimolato con i suoi principi riformatori l’istituzione di scuole pubbliche con l’intento principale di togliere il
monopolio dell’istruzione al clero e creare un sistema scolastico
uniforme e laico, che il potere centrale potesse governare e controllare. Dal 1814 con la Restaurazione i governi dei vari stati italiani ritornarono sui loro passi: le scuole secondarie furono riprese
dai Gesuiti e le scuole elementari pubbliche regredirono. Il Regno
delle Due Sicilie nacque nel 1816 e comportò la perdita dell’autonomia della Sicilia: Ferdinando IV, divenuto Ferdinando I re delle
Due Sicilie, svolse un’opera significativa di ricostruzione dando
un impulso allo sviluppo. Le scuole, invece, rimasero fuori dalle
innovazioni e vennero affidate ai sacerdoti. Il metodo del mutuo
insegnamento, tuttavia, si affermò anche in Sicilia, comprese le
città di Catania e di Acireale. Dopo i moti del 1820 il sovrano frenò
sulle riforme. In Piemonte, che dopo alcuni decenni farà da guida
per le politiche scolastiche del Regno d’Italia proclamato il 17
marzo 1861, l’insegnamento elementare era stato reso pubblico
e obbligatorio fin dal 1822 e affidato ai Comuni; dopo ampio dibattito, il conte Carlo Bon Compagni di Pomello riuscì il 4 ottobre
1848 a far emanare il primo regio decreto davvero riformatore che
con variazioni ed aggiunte confluirà nella famosa Legge Casati
del 1859; in esso si prevedeva la suddivisione tra studi secondari
classici con finalità “formative” e studi tecnici con finalità “utilitarie”.
Con questo decreto soprattutto vennero aboliti i privilegi e le ingerenze degli ordini religiosi nelle scuole di Stato, venne riordinato
l’organico delle scuole elementari, delle scuole di indirizzo classico e delle Università. Sarà la Legge Casati del 13 novembre
1859 n. 3725, entrata in vigore il 1° gennaio 1860, che apporterà
un contributo basilare di tipo sistematico all’ “impianto” di tutta la
scuola italiana, considerato che con la proclamazione del Regno
d’Italia fu applicata all’intero territorio nazionale. La legge si basò
sulle condizioni scolastiche rilevate in Piemonte e in Lombardia
e non tenne conto delle grandi diversità presenti nelle varie aree
regionali. La scuola elementare, principale strumento per “fare gli
italiani” (M. D’Azeglio), venne suddivisa in due gradi: inferiore
(due classi), per allievi dai 6 agli 8 anni, e superiore (due classi)
obbligatoria nei comuni con più di 4.000 abitanti o con scuole secondarie superiori. Il primo anno, nei comuni che non avevano il
grado superiore, poteva essere articolato in due anni rispettivamente dedicati all’apprendimento della lettura e poi della scrittura.
In questi casi il grado inferiore risultava composto di tre anni. Per
le scuole elementari l’insegnamento fu affidato inizialmente a
“maestri”, forniti di patente di idoneità, alle dipendenze dei Comuni
con assunzioni triennali. Al momento dell’unificazione (1861), gli
analfabeti in Italia erano la maggioranza degli abitanti. Il tasso
medio dei primi censimenti non superava il 30% e presentava forti
differenziazioni su base territoriale in relazione all’efficacia delle
politiche educative degli Stati preunitari: costantemente inferiore
nel centro-sud, registrava valori superiori al 40% nel nord-ovest
del Paese. Altissimo era il tasso di analfabetismo femminile in
quanto il tema dell’accesso delle donne all’istruzione in Italia comparve tardi e si scontrò con il pregiudizio che non fosse importante
per la donna saper leggere e scrivere, ma era necessario, invece,
che imparasse a riconoscere il ruolo sociale della funzione materna e la complementarietà del ruolo di moglie. La presenza della
scuola pubblica ad Acireale nel 1860 era assai modesta. La città
nel 1861 contava 24 mila abitanti e con il circondario arrivava addirittura a 35.447 (G. Longhitano). Lo stato della situazione si può
ricavare da una nota del sindaco del 17 marzo 1863, conservata
nell’archivio storico, in risposta ad una richiesta del Ministero della
Pubblica Istruzione: “1-Le scuole esistenti qui nel 1860 erano le
seguenti: Scuole Bell e Lancaster – Scuole femminili – Scuola
prima grammaticale – Scuola seconda grammaticale – Scuola
terza grammaticale. 2 – Il numero dei discenti che le frequentavano può stabilirsi così: Scuole Lancaster n° 60 – Prima grammaticale n° 25 – Seconda grammaticale n° 24 – Terza
grammaticale n° 22. 3- Nomi e cognomi dei maestri: 1) D. Rosario
Gambino; 2) D. Vincenzo Garzia; 3) Sac. Venerando Ragonesi;
4) Sac. Mario Spoto. Non erano forniti di patente”. Ma ad Acireale
c’erano state da oltre un secolo scuole dei Padri Filippini ed altre
istituite da Ordini Religiosi. Con l’arrivo di Garibaldi nel 1860 e
con la successiva annessione al Regno Sabaudo quali fu la sorte
di queste scuole? Quale ruolo svolse nella “rivoluzione laica e liberale” il regio ispettore scolastico Lionardo Vigo? .
Istituto Magistrale Statale
“Regina Elena”
Dirigente Scolastico
prof. Alfio Mazzaglia
Le scuole degli ordini religiosi
e la “rivoluzione laica e liberale”
Con l’arrivo di Garibaldi nel 1860 e con la successiva annessione
al regno sabaudo prese il via ad Acireale la rivolta liberale. Cessava di diritto il Collegio degli studi (o Accademia degli studi), diretto da un sacerdote e presente in città dall’8 marzo 1801,
mentre il 30 settembre 1863 la Real Casa di Educazione, gloriosa
istituzione dei Padri dell’Oratorio di S. Filippo Neri, che aveva operato per oltre un secolo a favore dei giovani in campo educativo
e formativo “senza distinzione di origine e di censo” (G. Gravagno), fu chiusa per determinazione degli stessi Padri, aggrediti
da ogni parte (C. Cosentini). Lionardo Vigo Calanna (Acireale
1799-1879), esponente liberale di spicco, nonché storico, letterato
e poeta, si adoperò per istituire, in sostituzione delle scuole confessionali, delle scuole laiche ovvero il Ginnasio (l’ex Collegio
degli studi) e le scuole tecniche a prosieguo del corso elementare.
Queste scuole furono riconosciute dallo Stato italiano rispettivamente nel 1861 e nel 1862. A seguito dello scioglimento delle corporazioni religiose disposto dalla legge 10 agosto 1862 e dalla
legge del 7 luglio 1866 che soppresse i conventi con l’incameramento da parte dello Stato dei beni ecclesiastici, sia fondiari che
edilizi (comprese le biblioteche e le opere d’arte che ne facevano
parte), le scuole tenute dagli ordini religiosi dovettero chiudere,
ma altre ne nacquero o rinacquero a carattere religioso come contraltare, come nel 1869 il Collegio di istruzione femminile “Santonoceto” diretto dalle suore di carità, che era stato istituito con i
lasciti del signor Giovanni Santonoceto nel 1851. Già nel 1864
era, tuttavia, in piena attività il Collegio San Martino, fondato dal
frate domenicano Tommaso Patané, dove assieme al catechismo
e al galateo, si insegnavano le lettere, le scienze, lo Statuto albertino e persino il ballo, ma vi erano ammessi i figli “di genitori
onorati e di nascita notoriamente civile”, dai sette ai dodici anni
d’età. Vigorose proteste ufficiali furono rivolte al sindaco da ben
309 genitori per una visita ispettiva di Lionardo Vigo (regio ispettore scolastico) al collegio dei Padri Filippini che ne aveva determinato la chiusura. Ma il Vigo e il letterato Michele Calì (Acireale
1843-1888), due ex alunni, e il Badalà Scudero, si scagliarono
contro i Padri accusandoli di coartare le coscienze e di propinare
una cultura formale e priva dei suoi aspetti civili e formativi, per
dirla in termini eleganti e non con il linguaggio duro e offensivo
dei richiamati esponenti dell’anticlericalismo locale, specialmente
del Calì nel volume L’ascetismo nell’educazione. Il punto di vista
predominante all’epoca in Acireale, invece, era certamente quello
esposto dall’acese Carlo Carpinati in un libretto del 1865 in difesa
dell’Istituto dei Padri Filippini, che erano stati definiti da Vigo “padri
puzzolenti”: “Pochi giovani, allora, oggi non so, quelle pubbliche
scuole frequentavano, e con pochissimo, o niuno, profitto. Né c’è
da farne meraviglia,
se la ragione è chiarissima: il seme dell’istruzione
non
frutta se non è
sparso con cura ed
amore su di un terreno ben preparato
dalla morale …
Qualunque sia il
merito dei professori
di pubbliche scuole,
il loro zelo, generalmente
parlando,
non raggiunge mai
quello di uomini che,
senza mira di interesse, i loro allievi
istruiscono per solo
spirito di carità.
Così, d’altra parte la
poca disciplina e la
nessuna vigilanza sulla morale dei discenti rendono vani gli sforzi
degli insegnanti”. Peraltro bisogna sottolineare che per l’ammissione al Collegio i Padri “non tenevano conto – come si usava in
quel tempo – né del censo né della ricchezza…” (C. Cosentini).
Le scuole elementari pubbliche, istituite a seguito della Legge Casati, erano poco frequentate in parte per gli insegnanti, non adeguatamente preparati e raccogliticci, e soprattutto perché la
condizione economica molto modesta spingeva le famiglie a impiegare i loro figli (anche se minori) in qualche attività lavorativa,
che dava supporto per il sostentamento. Questa situazione finiva
per perpetuare l’analfabetismo. Comunque, dopo la presa di
Roma e la legge delle “guarentigie”, ci fu la ripresa delle scuole
degli ordini religiosi. Nel 1875 ricominciò l’attività l’istituto (maschile) San Michele con le sole scuole elementari, diretto dal
Padri Filippini, erede della Real Casa di Educazione. Nel 1881 lo
stesso istituto aggiunse i corsi del ginnasio e del liceo classico,
che poi furono chiusi quando si ebbe l’assicurazione dal Ministero
della Pubblica Istruzione che l’insegnamento della filosofia nel
Liceo Statale “Gulli e Pennisi, sorto nel 1885, avrebbe tutelato i
principi religiosi e morali. Negli anni Ottanta ritroviamo il Collegio
San Luigi fondato dal canonico Martino Calì Fiorini (1884), il Collegio dell’Angelo Raffaele (1886), il Collegio Pennisi retto dai
Padri Gesuiti (1888), il Collegio Spirito Santo (1895) e così via.
Sull’apertura del Liceo Classico Statale “Gulli e Pennisi” del 1885
conviene soffermarsi a parte e lo faremo nel prossimo intervento.
I.I.S. “Filippo Brunelleschi”
Dirigente Scolastico
prof. Salvatore Comparato
Polemiche post-unitarie:
l’istituzione del Liceo Classico Statale “Gulli e Pennisi”
Lionardo Vigo, nella sua qualità di ispettore regio, si era adoperato sin dal 1861 per l’istituzione ad Acireale del Ginnasio statale
e lavorò per predisporre il programma dell’ordinamento e degli
studi, che tenessero conto dei bisogni culturali in rapporto ai quali
potevano essere individuati i contenuti. In prospettiva il Vigo prevedeva l’istituzione del liceo classico e di un convitto. Giambattista
Grassi Bertazzi, docente di Filosofia nell’Università di Catania,
nativo di Acireale (1867) e convinto antidogmatico, così si
espresse su Lionardo Vigo: “Come ispettore delle Scuole del Circondario di Acireale si dié a dirozzare il paese, suscitando l’amore
all’istruzione nazionale, alle lettere, alla cultura laica malveduta
tanto da quei padri puzzolenti che erano avversi al nuovo ordine
delle cose … E da quest’anno in poi fino alla morte tutte le sue
cure furono dirette a dare educazione civile ad una terra dove gli
uomini per una triste necessità sembrano essere nati per vegetare soltanto”. L’intento di Vigo di istituire il liceo classico trovò seri
ostacoli. Innanzitutto bisogna ricordare che con l’inizio dell’attività
della Diocesi di Acireale fu nominato primo vescovo Mons. Gerlando Maria Genuardi (Agrigento 1839-Acireale 1907), giovane e
battagliero, che volle incrementare la presenza e il ruolo della cultura cattolica attraverso l’istituzione di scuole confessionali, a garanzia della morale e della fede. Nel 1881 riuscì a fare aprire il
seminario, che formò i novelli sacerdoti con forte spirito di fede e
con solida preparazione teologica. L’apertura di un Liceo Classico
Statale avrebbe portato il libero pensiero, compreso quello ateo,
in cattedra e senza alcuna possibilità di controllo e supervisione
ecclesiastica. Egli voleva contrapporre qualche istituto con tutti
gli indirizzi delle scuole superiori, come egli scrisse, “soggetto alla
nostra giurisdizione e vigilanza”. Criticava inoltre il ginnasio e la
scuola tecnica statali già esistenti perché instillavano nei giovani
dogmi irreligiosi e facevano leggere libri cattivi. Il mondo cattolico
acese temeva di perdere la propria egemonia culturale. Il Vigo
era convinto, invece, dell’assoluta necessità della sua apertura
non solo per motivi ideologici e/o politici, ma anche per agevolare
la frequenza di coloro che sarebbero stati costretti altrimenti a recarsi in altre città con grande dispendio di risorse finanziarie delle
famiglie. I benemeriti acesi Erasmo Pennisi e il canonico Giuseppe Gulli nei rispettivi testamenti del 1742 e del 1745 lasciarono
buona parte dei loro beni per l’istituzione ad Acireale di un collegio
degli studi diretto dai Gesuiti oppure dai Teatini o, in ultima ipotesi,
dovevano essere destinati a Santa
Venera. Il re di Napoli Ferdinando
IV con dispaccio del Tanucci del 3
novembre 1767 espulse dalla Sicilia i Gesuiti e le rendite passarono
allo Stato, che aprì l’8 marzo 1801
la Regia Accademia degli Studi
nella casa del barone Giovanni
Musmeci. Come sappiamo, l’Accademia fu chiusa nel 1860 e al suo
posto nel 1861 fu istituito il Regio
Ginnasio, che rimase autonomo
fino al R.D. del 5 ottobre 1884, che istituì il Liceo Classico “Gulli
e Pennisi”. “Nel nome del nostro Liceo – scrive C. Cosentini – c’è
dunque il segno della matrice della cultura acese antica – quella
ecclesiastica – e in pari tempo il progresso. I beni che Gulli e Pennisi avevano destinato alla fondazione di una scuola diretta da religiosi, erano adesso patrimonio dello Stato, che apriva scuole
laiche!”. Nel 1868 i locali dell’ex convento domenicano dell’attuale
via Marchese di Sangiuliano vennero ceduti al Municipio di Acireale ai sensi della legge 7 luglio 1866, art. 20. L’edificio fu modificato a partire dal 1869 e vi trovarono sistemazione inizialmente
la scuola elementare al pianterreno e la Regia Scuola Tecnica al
primo piano. Nel 1884 i locali vennero rivendicati dall’on. Giambartolo Romeo quale eredità Gulli e Pennisi. La cerimonia solenne dell’inaugurazione avvenne il 14 marzo 1885 nel gran
salone del Palazzo di Città, alle ore 11 e 30 “nella fausta ricorrenza del genetliaco di S.M. il Re”. Il periodico locale “La Patria”
il 21 marzo 1885 dedicò la prima pagina all’evento dell’inaugurazione con la descrizione analitica della cerimonia, compresi i discorsi pronunciati per l’occasione. Promotore instancabile
dell’apertura del Liceo era stato l’on. Giambartolo Romeo, avvocato acese e deputato al Parlamento nazionale dalla XIII legislatura del 1876 e per quattro legislature consecutive fino alla morte
nel 1887. All’inaugurazione ufficiale intervennero molte autorità.
Mancava ( e non a caso) il vescovo Mons. Genuardi, che non
aveva condiviso tale istituzione e anzi aveva sollecitato l’istituto
San Michele qualche anno prima a provvedere all’apertura di un
Ginnasio Liceo, che fu effettivamente attivato nel 1881. In esso i
Padri “riservavano particolare cura all’insegnamento della filosofia, che era tenuto dallo stesso padre Antonino Licciardello, per
far sì che i giovani fossero illuminati e non avvelenati (si diceva
così allora) dal pensiero moderno” (C. Cosentini). Il San Michele
si dispose a chiudere il suo Liceo soltanto dopo che ricevette assicurazione da parte del Ministero della P.I. – tramite i deputati locali, il già citato Romeo e Michele Grassi Pasini (Acireale
1830-1913), che pure erano di parte liberale, che nel nostro Liceo
si sarebbe provveduto all’insegnamento della filosofia “in modo
da dare affidamento e garanzia per la tutela dei principi religiosi
e morali”. L’aria anticlericale che in Italia si respirava, non impediva che per Acireale si dettassero apposite prescrizioni di salvaguardia a favore della Chiesa (C. Cosentini). Vennero ad
insegnare docenti nominati dal Ministero provenienti da diverse
città italiane, che contribuirono a svecchiare la cultura facendola
uscire dal provincialismo.
Liceo Classico Statale
“Gulli e Pennisi”
Dirigente Scolastico
prof.ssa Antonia Puzzo
Le leggi del regno d’Italia e la Diocesi
fortemente voluta dagli acesi
La costituzione della Diocesi di Acireale, com’è noto, risale al 27
giugno 1844 con la Lettera Apostolica “Quodcumque ad Cattolicae Religionis incrementum” del pontefice Gregorio XVI. Il lungo
e tormentato iter che portò all’erezione della nuova diocesi di Acireale e all’attesa di ben 28 anni per l’esecuzione di quanto disposto sono stati ampiamente descritti e con il supporto di fonti sicure
da. Giuseppe Contarino (1973), Cristoforo Cosentini (1976) e don
Giovanni Mammino (2009). Noi vogliamo rivolgere la nostra attenzione al “Rescritto” della Sacra Congregazione Concistoriale
dedicato alla Diocesi di Acireale del 28 giugno 1872, che portò
all’attivazione della Diocesi e alla nomina del primo vescovo
mons. Gerlando Maria Genuardi. Il notevole ritardo con il quale
si diede vita alla diocesi fu in buona parte (ma non solo) condizionato dai sommovimenti politici e dal nuovo governo del Regno
d’Italia con le sue leggi “eversive”. Il “Rescritto” nella parte introduttiva richiama la Lettera Apostolica sub plumbo di Gregorio XVI
del 1844, che prevedeva appunto la costituzione della Diocesi di
Acireale con la sottrazione dall’Archidiocesi di Messina di Calatabiano, Castiglione, Fiumefreddo, Giarre, Mascali, Piedimonte,
Randazzo e Linguaglossa e dalla Diocesi di Catania di Acireale,
Aci S. Antonio, Aci Bonaccorsi, Aci Castello, Aci S. Filippo e Aci
Catena. Vengono subito dopo richiamate genericamente le difficoltà che avevano impedito al papa Pio IX l’intervento di messa
in atto di quanto stabilito dal suo predecessore, fino al 1872,
quando, tramite il Delegato Apostolico Mons. Giovanni Guttadauro dei principi di Reburdone, vescovo di Caltanissetta, fu finalmente costituita secondo il rito ufficiale la diocesi di Acireale. I
sommovimenti politici cui si accennava sopra avevano ulteriormente tardato il provvedimento che avrebbe dovuto
concretizzarsi dopo la
morte dei vescovi di Catania e Messina. La proclamazione del Regno d’Italia
e la legge del 7 luglio 1866
che soppresse i beni ecclesiastici crearono una
frattura molto grave tra il
nuovo Governo e il Papato. Infatti, la situazione
venutasi a creare era abbastanza complessa e non
si intravedevano spiragli
per una composizione del
contrasto. Oltre a determinare in un primo tempo la non concessione dell’exsequatur per la nomina di nuovi vescovi perché il
papa Pio IX non intendeva riconoscere la legittimità del nuovo
Governo, lo Stato italiano promulgò la legge 7 luglio 1866 che non
riconosceva più “gli ordini, le corporazioni e le congregazioni religiose regolari e secolari ed i conservatori e i ritiri i quali importino
vita comune ed abbiano carattere ecclesiastico. Le cose e gli stabilimenti appartenenti agli ordini, alle corporazioni, alle congregazioni, ed ai conservatori e ritiri anzidetti sono soppressi” (art. 1).
Tale legge venne a sottrarre la disponibilità dei beni a sostegno
della nuova istituzione e del vescovo da nominare .I beni delle
due abbazie dei frati cistercensi, quella di Santa Maria detta Raccomadore, nel casale di Tremestieri, e quella di Santa Maria detta
la Novara, in Val Dèmone, vennero incamerati dallo Stato. Ma la
volontà degli acesi di pervenire, nonostante tutto (compresa la
pervicace ostilità della vicina diocesi di Catania) all’istituzione
della Diocesi, non tardò a tradursi nella ricerca delle risorse necessarie, che furono predisposte con il concorso di molti cittadini.
Il 20 settembre 1870 le truppe reali, al comando del generale Cadorna, erano entrate quasi senza colpo ferire nella città eterna e
Pio IX si chiuse in isolamento ritenendosi aggredito. Tale situazione difficile, tuttavia, trovò un’iniziale via di sblocco quando il 13
marzo 1871 venne pubblicata la Legge dello Stato italiano detta
delle “guarentigie”, che consentì la copertura di molte sedi vacanti
di vescovo (in precedenza, per quelle di Catania e Messina, rimaste per tanto tempo senza titolari, c’era stata un’autorizzazione
straordinaria da parte del secondo governo Rattazzi). In ogni caso
il 12 marzo 1872 furono depositate nella segreteria della Congregazione Concistoriale tre dichiarazioni con le quali il sac. Giovanni
Pennisi Platania metteva a disposizione del nuovo vescovo temporaneamente e gratuitamente la sua casa “nella strada Vastea,
a numero 67, sopra la Parrocchia S. Maria del Suffragio”, i membri
del Capitolo della Cattedrale si impegnavano a provvedere all’ “affitto e mantenimento materiale
della fabbrica per uso erigendo
Seminario Diocesano” ad uso
della nuova Diocesi, i padri dell’Oratorio dei Filippini si impegnavano a “mantenere a loro spese
“un educandato ed alunnato ecclesiastico ad uso di Seminario Diocesano”. Tali impegni sono
contenuti negli allegati B, C, D, richiamati nel “Rescritto”. Alla lettera
A, invece, venne allegato in copia
conforme all’originale l’impegno finanziario. Il paragrafo IV, molto
breve, si limita a stabilire che in
caso di sede vacante di vescovo,
metà della somma annuale sarà assegnata al Vicario Capitolare,
mentre l’altra metà sarà conservata per il vescovo che verrà nominato. Nell’ultima parte il Decreto Concistoriale viene assimilato
a una Lettera Apostolica sub plumbo o in forma Brevis e quindi
diffuso a futura memoria. E’ accompagnato dal sigillo e firmato da
+ Ruggero Antici Mattei, Patriarca Nolitano, Segretario della S.C.
Concistoriale. Era stata data esecuzione alla bolla Quodcumque
il 3 giugno 1872. Meritano, tra gli altri, una menzione speciale due
sacerdoti acesi che furono impegnati in modo attivo per il raggiungimento di questo risultato e sono il can. Rosario Cirelli (Acireale
1833-1911), che il 13 gennaio 1872 si impegnò con il Papa Pio
IX per il sostegno finanziario all’istituenda diocesi, e il domenicano
Mariano Spada (Acireale 1796-Roma 1872), illustre acese, che
fu “Maestro” del Sacro Palazzo Apostolico e teologo del papa Pio
IX. Si deve a lui l’approvazione definitiva della bolla pontificia del
1844 che istituì di fatto la diocesi di Acireale nel 1872. Morì il 15
novembre, pochi giorni dopo la proclamazione ufficiale, e nella
sagrestia della Cattedrale di Acireale c’è un suo ritratto con la
scritta “Strenuus Eposcopatus Aciensis Propugnator”. Il 10 novembre 1872, infatti, fece il suo ingresso solenne ad Acireale il
primo vescovo mons. Gerlando Maria Genuardi, proveniente da
Agrigento. Gli acesi seppero accogliere nel modo migliore il novello pastore e furono molto gratificati anche dalla notizia che la
loro Diocesi il 22 luglio 1872 “fu dichiarata immediatamente soggetta alla Santa Sede, senza legame di suffraganeità con le diocesi confinanti di Catania e Messina” (G. Mammino).
“Istituto Tecnico Industriale
“Galileo Ferraris”
Dirigente Scolastico
prof.ssa Patrizia Magnasco
Anita Garibaldi donna indomita e ribelle
…narrerò di un’amazzone intrepida
e mai vinta, se non dalla morte,
che sola dorme, tra le ombre cupe
dei secolari pini ravennati.
(da “Pianto per Anita” di Pinella Musmeci, Anti-heroides, Acireale 1994)
Tra le figure del Risorgimento italiano quella di Anita Garibaldi
(all’anagrafe Ana Maria de Jesus Ribeiro) è certamente tra quelle
più affascinanti. Era nata a Morrinhos presso Laguna in Brasile;
orfana di padre, a 14 anni era andata in sposa al calzolaio Manuel
Duarte de Aguiar. Questa circostanza, non accolta come vera dal
figlio Menotti nato dopo l’unione di Anita con Giuseppe Garibaldi,
è stata confermata, invece, da un atto di matrimonio e dalle Memorie dello stesso eroe popolare.
L’incontro con Garibaldi avvenne all’età di 18 anni nella sua
casa. Era il 1839 e da allora quella donna indomita e ribelle oltre
che ottima cavallerizza, sfuggendo alle truppe imperiali brasiliane
che la tenevano prigioniera, si unirà a Garibaldi a Vicaria e nel
1840 nascerà il primogenito Menotti. Appena dopo il parto sfuggì
di nuovo alla cattura saltando con il bimbo in braccio da una finestra e rifugiandosi con il cavallo e il neonato in un bosco dove rimase per quattro giorni, senza alcuna alimentazione. Nel 1841
Garibaldi lasciò il Brasile e si spostò a Montevideo in Paraguay;
dove resterà sette anni con Anita impartendo lezioni di francese
e matematica. Il giorno 26 marzo 1842 don Zenon Aspiazù della
parrocchia di S. Francesco di Assisi in Montevideo autorizzò il
matrimonio di “Don José Garibaldi, natural de Italia, hijo legittimo
de don Domingo Garibaldi y de Dona Ana Maria de Jesus natural
de la Laguna en el Brasil hija legittima de Benito Riveiro de Silva
y de Dona Maria Antonia de Jesus”, come si legge nell’estratto
dell’atto di matrimonio rilasciato l’8 febbraio 1881 dal parroco Martin Perez, la cui firma risulta legalizzata dal Vice Console Perrod.
Quest’atto toglie ogni dubbio e smentisce le voci secondo le quali
Anita fu una semplice “compagna” di Giuseppe Garibaldi. Nacquero poi nell’ordine Rosita nel 1843 (morta a soli 2 anni), Teresita
nel 1845, Ricciotti nel 1847.
Nel 1848, l’anno fatidico delle rivoluzioni europee, Anita si imbarcò con i figli per Nizza e venne ospitata dalla madre di Garibaldi. Lo stesso condottiero arriverà a parte con un bastimento.
Diciamo subito che Garibaldi per potersi sposare dovette dichiarare che era certo della morte dell’ex marito di Anita, cosa che invece non risulta affatto sicura e di
questo c’è un’eco nelle sue Memorie, quando dopo la morte di Anita a
soli 28 anni, scrive: “Se vi fu colpa,
io l’ebbi intiera! E …vi fu colpa! Si!
… sì, l’annodavano due cuori con
amore immenso, e s’infrangeva
l’esistenza di un innocente!... Essa
è morta! Io infelice! E lui vendicato… Sì! Vendicato!”.
Nel 1849, comunque, Anita si lanciò di nuovo in combattimento con
l’ardire e il coraggio di sempre e il 9
febbraio si trovava a Roma quando
venne proclamata la Repubblica
Romana, che avrà vita breve nonostante la strenua resistenza
dei garibaldini, inferiori di numero e di mezzi rispetto alle truppe
francesi e austriache. Ed ecco la famosa “trafila” ovvero la fuga
dei garibaldini mentre lo stesso Garibaldi assieme ad Anita e al
fedele Capitan Leggero cercava di raggiungere Venezia. Anita
era di nuovo incinta e affrontò la fuga a piedi e a cavallo con
grande difficoltà fino a quando non perdette conoscenza e il marito la portò con una barca nella fattoria del patriota Guiccioli, gestita dai fratelli Ravaglia, presso Mandriole di Ravenna, dove un
medico non potè far altro che constatarne la morte. Era il 4 agosto 1849. Garibaldi dovette scappare assieme al fedelissimo Leggero per non incappare nella polizia papalina e il corpo della
donna, per sfuggire alle perquisizioni poliziesche e non incorrere
nelle gravi sanzioni previste per chi ospitava ribelli e cospiratori,
fu sotterrato sotto la sabbia e ritrovato sei giorni dopo da alcuni
ragazzini. Su questo rinvenimento ci sono due comunicazioni del
Delegato A. Locatelli alla Direzione generale della polizia di Ravenna; il primo del 12 agosto 1849 descrive le circostanze del ritrovamento del cadavere e il secondo, ancora più completo, del
15 agosto nel quale si afferma, tra l’altro: “La donna era invasa
da febbre perniciosa, siccome espresse il medico Nannini di
Sant’Alberto, che trovatosi presente casualmente all’arrivo di esso
le tastò il polso. Asportata in un camera ed adagiata sopra un
letto, le fu apprestato il soccorso di un bicchiere d’acqua, ma non
appena sorbì pochi sorsi cessò di vivere. Eravi presente Garibaldi, il quale si sfogò in atti di inconsolabile dolore per tale disgrazia, e poco dopo si diede alla fuga raccomandando a quella
famiglia di dare onorata sepoltura al cadavere….Ho subito spedito sul luogo un impiegato di polizia per procedere all’arresto dei
fratelli Ravaglia, lo che è già stato eseguito…”.
Appena undici anni di vita di Anita assieme all’uomo che l’aveva
affascinata e con il quale c’era stata un’intesa a prima vista.
Il mito di Anita Garibaldi si è ampliato nel tempo e nel 1906 nacque il “Comitato nazionale per l’erigendo monumento ad Anita a
Roma”, che pubblicava mensilmente un Bollettino. Il 7 luglio 1907,
data centenaria della nascita dell’eroe popolare, il Comitato incaricò il noto scultore Mario Rutelli (bisnonno dell’uomo politico
Francesco Rutelli, che fu collaborato, tra gli altri, dallo scultore
originario di Santa Venerina Mariano Vasta), per la realizzazione
di un grandioso monumento ad Anita da collocare sul Gianicolo,
dove fu inaugurato però soltanto nel 1932.
Istituto Comprensivo Statale
“Paolo Vasta”
Dirigente Scolastico
prof. Rosario Musmeci
Domenico Bonaccorsi-Guttadauro Marchese di Casalotto
e Principe di Reburdone tra Risorgimento e Unità d’Italia
Domenico Bonaccorsi-Guttadauro, marchese di Casalotto, che acquisì agli inizi
del Novecento il titolo di “principe di Reburdone”, era nato a Catania il 16 ottobre
1828 da Domenico Bonaccorsi ed Eleonora Guttaduaro.. Rimasto orfano di padre
all’età di nove anni, fino ai ventuno rimase
sotto la tutela dello zio Giovanni (“Vanni”),
benedettino, che lo fece studiare nelle
scuole dei Gesuiti del Collegio Cutelli.
Nel 1848, appena ventenne, fu inserito
con un alto grado nel corpo degli Ufficiali
dell’Armata voluto dal governo rivoluzionario che si era formato
a Palermo con a capo Ruggiero Settimo. Il che gli procurò le rimostranze dello zio benedettino, legato alla casa regnante dei
Borboni. Tuttavia lo zio “Vanni” ammirava questo giovane ardimentoso e lo protesse quando arrivarono a Catania le truppe
regie, dopo il fallimento dell’azione rivoluzionaria. Infatti il giovane
colonnello fu ospitato ad Aci Sant’Antonio nelle terre del Casalotto, dove furono tolti i cancelli e murati i varchi.
Altro episodio molto significativo degno di essere raccontato per
le straordinarie abilità strategiche dimostrate, fu quello del 1860
quando Garibaldi arrivò a Palermo ed egli organizzò a Catania,
come racconta il suo discendente Francesco Spadaro-Ferlito, le
forze civiche “per arginare la rivolta popolare ed indirizzare
l’azione verso i piani prestabiliti: fece abbandonare alle truppe
regie il Castello Ursino e armò a proprie spese un battaglione di
volontari per imporre a Siracusa la resa al Presidio Militare di
quella città”.
Quella che poteva apparire come un’azione antirivoluzionaria, si
rivelò, invece, una brillante operazione strategica dell’opposizione
aristocratica ai Borboni. Difatti, quando nel 1862 arrivò a Catania
Garibaldi ed egli era sindaco, “ingiunse al generale di allontanarsi
dalla città entro ventiquattro ore”. Di fronte al tumulto popolare e
al tentativo d’incendio del suo palazzo, egli reagì disponendo
l’apertura del portone e presentandosi di fronte alla folla schiamazzante con il cappello a cilindro e un sigaro in bocca, seguito
dalla sua carrozza con il cocchiere in serpa. Tutti a quel punto lo
salutarono con un inchino togliendosi i berretti. Non sapevano,
però, - e qui sta il fulcro della sua strategia – che il Marchese
stava recandosi al Convento dei Benedettini, dove si trovava Garibaldi con i suoi uomini, “per offrirgli i mezzi d’imbarcarsi per le
Calabrie dal porto della città, evitando in tal modo che accadesse
a Catania ciò che accadde poco dopo in Aspromonte” (SpadaroFerlito). I rapporti con lo zio Vanni si incrinarono quando, dopo
l’Unità d’Italia, furono sequestrati i beni ecclesiastici e lui, grazie
ad un prestito di notevole entità ottenuto dal Banco di Sicilia
(estinguibile in trent’anni) agevolato da un tale Caudullo, esponente massonico, sfidando persino la scomunica papale, acquisì
l’ex-feudo Jumenta di Ramacca di circa mille ettari, espropriato
al vescovo di Caltagirone. Con questa operazione si rese autonomo economicamente dallo zio benedettino.
Fu deputato al Parlamento del Regno d’Italia a Torino, Firenze
e Roma e senatore del Regno nella XV legislatura. Non dimentichiamo che fu presidente della Provincia di Catania dal 2 settembre 1872 all’11 agosto 1895 ed ancora dal 13 agosto 1906 al 3
febbraio 1908. Quando nel 1882 morì lo zio Vanni, egli ereditò
tutto il patrimonio familiare, ma rischiò il fallimento per l’impresa
onerosissima di portare l’acqua sorgiva della Reitana a Catania,
molto utile per combattere le epidemie di tifo e colera sempre in
agguato per l’inquinamento dilagante. L’operazione la portò a
compimento
nel
1887.
Aveva tentato in un
primo tempo
di far giungere a Catania l’acqua
di Bongiardo
(tanto decantata dal
can.
Giuseppe Recupero), ma
il progetto si
rivelò inattuabile per alcune sopraelevazioni del terreno che inizialmente non erano state prese in considerazione. Ebbe dei problemi anche a seguito degli scandali bancari e delle crisi
finanziarie degli ultimi decenni dell’Ottocento. Riuscì a risollevarsi
solo quando alla fine del secolo fu istituita la Società Anonima
delle Acque di Casalotto ed ebbe la presidenza vitalizia per sé e
i suoi eredi. Nel 1903 il titolo ereditato di principe Emmanuel, su
sua richiesta, venne sostituito da quello di Principe di Reburdone,
con il quale comunemente viene ricordato. Rimase celibe e lasciò
erede il nipote Francesco, adottato come figlio, sotto la tutela della
cognata Caterina Pucci dei baroni di San Giuliano. Egli morì l’8
ottobre 1917 nella sua villa di Bongiardo (ora nel Comune di S.Venerina, allora appartenente a quello di Giarre nell’area di confine
dell’antica Contea di Mascali) denominata appunto “casa del principe”. Spadaro-Ferlito testimonia che “la sua casa era come la
sobria reggia di un monarca bonario”; egli infatti, seguendo la scia
dello zio, fu anche mecenate ed aiutò giovani talenti come Mariano Vasta, divenuto scultore prestigioso, coautore tra l’altro del
monumento ad Anita Garibaldi sul Gianicolo in Roma e che lasciò
opere in Vaticano e nel Duomo di Milano, all’estero oltre che in
Sicilia e nei palazzi dei Casalotto a Catania ed Aci San’Antonio.
Antonio Pagano aggiunge che “alla fantasia del ragazzo che ero
appariva un uomo da leggenda: dovizioso, amorevole, titolato,
quasi inattingibile”. Nel feudo della Contea di Mascali dove morì,
la sua casa alcuni anni fa è stata alienata e la cupola bramantesca che si stagliava in alto al centro del feudo, divenuta quasi simbolo di Santa Venerina, per la prolungata incuria è crollata
recentemente. La legge del tempo e le responsabilità degli uomini
si intrecciano inesorabilmente.
Scuola Media Statale
“Galileo Galilei”
Dirigente Scolastico
prof. Francesco Romeo
La spedizione dei Mille in un “diario” poco noto
del garibaldino Giuseppe Capuzzi
La spedizione dei Mille del 1860
guidata da Giuseppe Garibaldi e la
conquista della Sicilia, in tempo di
accesso agli archivi e di revisionismi, viene inquadrata in un contesto più complesso di quello
agiografico al quale la retorica risorgimentale e la mitizzazione fascista ci avevano abituati. Oggi
abbiamo le prove della strategia
“piemontese” del Cavour che prese
accordi con il Re di Sardegna a Bologna il 2 maggio 1860, sui finanziamenti della spedizione e sulla
questione dei battelli o “legni mercantili” Lombardo e Piemonte, poi pagati segretamente all’armatore Rubattino con un debito contratto e garantito dal regno di
Sardegna e firmato il 4 maggio dal Medici in rappresentanza di
Garibaldi, il “compratore”. Sappiamo anche della posizione inglese favorevole all’impresa non solo per gli interessi dei produttori e esportatori inglesi di vini che operavano in quel di Marsala,
ma soprattutto per la questione dello zolfo (importante allora per
l’industria e gli armamenti), per la quale c’era stata una controversia con i Borboni, che aveva avuto un esito contrastante con
gli interessi inglesi o per l’imminente apertura del Canale di Suez.
Non ci soffermiamo più di tanto sul ruolo della massoneria di cui
Garibaldi fu gran maestro, e del suo vice nella spedizione dei
Mille Girolamo Bixio detto “Nino” (loggia massonica “Trionfo ligure”, tessera n.105),
nè sulle somme notevoli di cui potè disporre Garibaldi e che
non furono certamente fattore secondario nella “facile”
conquista di Palermo
da parte di un manipolo di uomini a fronte
di un esercito borbonico imponente.
Tuttavia torna opportuno soffermarsi sull’opera scritta durante
gli avvenimenti di Sicilia da uno dei 1039
garibaldini, Giuseppe
Capuzzi, dal titolo “La
spedizione dei Mille in
Sicilia, memorie di un
volontario”, pubblicata a proprie spese a Palermo nel giugno
1860. Egli era originario della provincia di Brescia e veterano della
prima guerra d’indipendenza e fu sensibile al richiamo di Garibaldi, che lo infiammò per la fama di eroico generale e con le sue
parole che incitavano ad un’impresa straordinaria ed esaltante.
Poco ricordata è questa cronaca rimasta nell’oblio rispetto a
quelle note di Giuseppe Cesare Abba, di Giuseppe Bandi, di Alberto Mario o di Anton Giulio Barrili, ma è degna di attenzione perché accanto alla retorica inevitabile del momento, descrive con
precisione le situazioni dall’imbarco a Quarto in Liguria, allo
sbarco a Marsala e alla faticosa marcia nella Sicilia occidentale
con i fatti di Calatafimi e la conquista di Palermo. La cronaca è
accompagnata da momenti di contemplazione lirica del paesaggio siciliano (era segretario della Biblioteca di Brescia e sapeva
scrivere) ed episodi di ordinaria vita dei garibaldini durante le fasi
della marcia, veri e propri bozzetti.
Certamente i “Mille” erano avvolti da un’atmosfera” mitizzante e
credevano in un ideale patriottico di unità nazionale e di “liberazione” dell’isola, ma non conoscevano quello che Garibaldi e i
suoi collaboratori (Bixio, Crispi, La Masa e altri) sapevano sulle
“strategie” politiche e militari, e la figura di Garibaldi, che conversa
“familiarmente coi gregari dividendo seco loro la fatica del viaggio”, lo rende ai suoi occhi ancora più credibile e “affascinante”.
Il racconto, come ha sottolineato Lucio Zinna, non è traboccante,
“ha un andamento pacato, con un suo realismo di fondo (realismo
romantico)”.
Dal 1860 quest’opera scritta “in mezzo alle vicende della campagna”, come afferma nella premessa lo stesso autore, non è
era stata mai ripubblicata fino a qualche anno fa quando è stata
“rispolverata” opportunamente dall’editrice Antares di Palermo. Si
legge ancora oggi volentieri perché è “una testimonianza non artefatta, anzi viva e palpitante di quell’impresa” (Zinna).
Istituto Comprensivo Statale
“V. Fuccio - La Spina”
Dirigente Scolastico
prof.ssa Maria Castiglione
Il prof. GIOVANNI VECCHIO è nato a Santa Venerina nel 1946. Già dirigente scolastico nei Licei statali, è attualmente tutor didattico nei Master di II livello delle Università di Bergamo e di Catania e incaricato di servizi ispettivi
dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca. Collabora alle attività di formazione dei dirigenti scolastici della
Casa Editrice “La Scuola” di Brescia. Perfezionato in Scienze dell’Educazione nell’Università di Torino, ha svolto
attività didattica e di ricerca nelle Università di Firenze e di Catania. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni in volume e saggi su riviste e periodici vari. Sue poesie sono state pubblicate in antologie di case editrici a circuito nazionale. E’ iscritto dal 1979 all’albo dei giornalisti pubblicisti e in tale veste ha diretto la rivista culturale “Zétesis”,
settimanali e quotidiani radiotrasmessi. Tra le sue ultime pubblicazioni, ricordiamo “Realtà e immaginario nella rappresentazione popolare siciliana del Natale”, “La cella trichora di Santo Stefano e l’antico eremo di Dagala del Re”,
“Danilo Dolci. Attualità profetica” (Ed. Mesogea, Messina 2009), “Giovani, valori e cittadinanza attiva”, quest’ultimo
pubblicato nel 2010 dalla Casa Editrice Franco Angeli di Milano. La pubblicazione più recente è il volume per immagini di grande formato “Santa Venerina ieri e oggi” (DAFNI Editrice, 2010). Collabora alla redazione della rivista
“Bioetica e cultura”, con il settimanale “I Vespri”, alla pagina della “Cultura” del quotidiano “La Sicilia” e con i periodici
locali AKIS e “La Voce dell’Jonio” di Acireale e “Murganzio” di Lentini. Cura recensioni e presentazioni di opere in
ambito umanistico e scientifico. E’ socio corrispondente dell’Accademia di Scienze Lettere e Belle Arti degli Zelanti
e dei Dafnici di Acireale.
Circolo Didattico
Aci S.Antonio
Dirigente Scolastico
prof. Salvatore Musumeci
Città
di ACIREALE
Quadrivio
Dott. ssa Rosaria Di Mauro
Referente Quadrivio
AKIS
AKIS: Allegato all’ Anno VII, numero 5 del 12 Marzo 2011 - Ed. e Dir.e Resp.:Turi Consoli
Autor. n. 22 del 23/05/2005 del Tribunale di Catania
Sede: via M. di Casalotto 68 - 95025 Aci S.Antonio Redazione: via Alliotta, 14 - 95024 Acireale
IL GIORNALE
Tel.- Fax 095 7921059 – 347 5382517 - [email protected] - Site: www.akis-aci.com
DEL TERRITORIO
Tipografia-Litografia: “TM” di Mangano Venera - via N. Martoglio, 93 - S. VENERINA (CT)
DELLE ACI
Tel. 095 953455 - Distribuzione e arretrati: 340 7152814
Elaborazione grafica, fotomontaggi e impaginazione:
MP Graphic di Maurizio Pagano - Tel. 347 1433135
222
Scarica

Allegato al N. 222 per il 150° Anniversario dell`Unità d`Italia