MISSIONARI E VIAGGIATORI IN ORIENTE NEI SECOLI XIII-XIV
Dispense del modulo Storia medievale II, 12 crediti, A. A. 2014-2015,
Secondo semestre
prof. Alfonso Marini - Sapienza Università di Roma
In questa seconda parte delle dispense 2014-15 si tratta più specificamente della missione dei
Frati Minori in Cina nel sec. XIV, soffermandosi su Giovanni da Montecorvino, primo vescovo di
Kambaliq, ed altri viaggiatori francescani autori di resoconti di viaggio.
Molte notizie si trovano in due dei libri in programma d’esame: I francescani e la Cina. Un'opera di oltre sette secoli, a cura di Alvaro Cacciotti e Maria Melli, Roma, Centro Culturale Aracoeli Milano, Edizioni biblioteca francescana, 2013 (da studiare limitatamente alle pp. 21-147); Pacifico
Sella, Il vangelo in Oriente. Giovanni da Montecorvino, frate minore e primo vescovo in terra di
Cina (1307-1328), S. Maria degli Angeli, Ed. Porziuncola, 2008.
Per inquadrare ed accompagnare questi due libri, si tracciano qui alcune linee:
1. Sviluppo e contrasti dell’Ordine dei Frati Minori nella seconda metà del Duecento e nella
prima metà del Trecento.
2. Il papato in Avignone.
3. Il pensiero politico antiteocratico: Dante e Marsilio da Padova.
4. Il problema degli infedeli; crociata e/o missione: Arnaldo da Villanova e Raimondo Lullo.
5. La dinastia mongolica Yuan in Cina. Tamerlano.
6. Giovanni da Montecorvino
7. Missionari, martiri, viaggiatori e scrittori in Oriente: Tommaso da Tolentino e compagni,
Odorico da Pordenone, Niccolò da Poggibonsi, Giovanni de’ Marignolli, Ricoldo da Montecroce.
Appendice 1, la relazione sul libro di Jean Richard, Il santo viaggio, di Laura Cardinale e Eleonora Morante.
Appendice 2, la lezione sul Mediterraneo tenuta dalla dott.ssa Angela Esposito.
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Le dispense del secondo semestre per motivi tecnici sono suddivise in tre file PDF;
I. Paragrafi 1-4.
II. Tre carte geografiche: Impero timuride, Asia centrale, Medio Oriente.
III. Paragrafi 5-7 ed Appendici.
1
1. Sviluppo e contrasti dell’Ordine dei Frati Minori nella seconda metà del Duecento
e nella prima metà del Trecento.
Da Raoul Manselli
I primi cento anni di storia francescana
Elaborazione di Alfonso Marini
Bonaventura da Bagnoregio
Nato verso il 1217, Bonaventura andò nel 1235 a Parigi ove studiò alla Facoltà delle Arti, divenendo maestro. Nel 1243 entrò nell’ordine dei Minori, iniziò a studiare teologia con Alessandro di
Hales e nel 1254 divenne maestro reggente dello studio parigino. Fu eletto ministro generale il 2
febbraio 1257 nel capitolo di Roma, presieduto dal papa Alessandro IV (1254-1261), in sua assenza, poiché si trovava a Parigi. Nel 1260 si riunì il capitolo generale di Narbona, nel quale furono
approvate le nuove costituzioni dell’Ordine, che ebbero una durata relativamente lunga (Cost. Narbonensi). Dal capitolo Bonaventura ebbe l’incarico di redigere una nuova vita di san Francesco, che
fosse rispondente alla coscienza storica dei Minori del suo tempo ed alla nuova consapevolezza della loro funzione in seno alla Chiesa.
Nacque così la Legenda maior, a cui, per gli usi liturgici, Bonaventura affiancò una sintetica Legenda minor (Legenda chori). Con eleganza e felice dettato narrativo, è un ripensamento delle due
vite di Tommaso da Celano, spesso riportate alla lettera. Quello, però, che più importa della Legenda di Bonaventura sono le coordinate teologiche e provvidenziali nelle quali è sistemata, quali vengono proposte nel Prologo. La disputa fra maestri regolari e secolari a Parigi rimaneva legata ad una
discussione anche escatologica. Francesco viene considerato personalità essenziale, voluto da Dio
come forza ausiliaria ed ineliminabile dello sviluppo storico della Chiesa. Con questa premessa tutto lo sviluppo successivo biografico è presentato in modo da porne sempre e regolarmente in luce il
legame stretto ed indissolubile con l’esempio evangelico dato da Cristo, di cui Francesco è il rinnovatore impegnato e coerente. Per questo al centro di questa biografia è l’evangelismo di Francesco,
più che la sola povertà: ma proprio perché a Bonaventura importava soprattutto presentare colui che
aveva rinnovato e riportato sulla terra Cristo nella complessità globale della vita spirituale, non solo
il povero, umile e derelitto. Francesco, poi, era non un grande del mondo, ma un umile che sapeva
avere il coraggio di guardare lontano e di osare nella fiducia suprema nell’assistenza provvidenziale
di Dio. Alcuni contemporanei, come Ubertino da Casale ed Angelo Clareno, legati alla tradizione
dei compagni del santo Fondatore e dei rigoristi che ne continuavano il ricordo, non mancarono di
criticare l’immagine di Francesco data dalla Legenda maior. In essa infatti cercheremmo invano
un’eco della forza carismatica, dell’attrattiva personale, della tenerezza sublime di Francesco; tutto
ciò sfuggiva a Bonaventura che non solo non aveva conosciuto personalmente il Padre e Fondatore,
ma essendosi recato assai giovane a Parigi, non era entrato neppure in contatto con quei gruppi e
con quelle persone, che avrebbero potuto dargli un indizio, indicargli qualche aspetto della sua viva
e concreta realtà. I rigoristi ebbero buon gioco nel rimproverare che la Legenda maior aveva attenuate talune manifestazioni di povertà dura ed austera di Francesco. È significativo che non vi sia
alcun accenno al Testamento: di esso semplicemente si tace. Sicuramente Bonaventura, in base alla
sua vasta preparazione teologica, era convinto che Francesco fosse un secondo Cristo e l’angelo del
sesto sigillo (Ap. 7, 2), che la sua esistenza fosse stata davvero realizzata sotto il segno
dell’evangelo e della sequela Christi, ma proprio per questo secondo lui Francesco non aveva più
per i suoi frati una realtà umana, ma doveva assurgere all’altezza di presenza e simbolo
dell’intervento divino nel mondo.
Dopo tre anni la Legenda maior venne approvata al capitolo generale di Pisa (1263); il 16 maggio 1266, nel capitolo di Parigi, venne decisa la distruzione di tutte quante le altre biografie prece2
denti. Ma proprio questa condanna provocò in quanti di Bonaventura e della sua Legenda non erano
rimasti soddisfatti il bisogno di farsi raccolte private di testi, che sono espressione della volontà di
meglio comprendere e conoscere da vicino Francesco. La Legenda di Bonaventura, dopo la decisione capitolare di togliere di mezzo tutte le altre, divenne l’unica biografia di Francesco, costituendo
il modello unico valido per la stragrande maggioranza dei frati. Le altre raccolte però continuarono
a circolare fino alle edizioni a stampa del XVI secolo.
La Legenda maior è anche il profilo dell’ideale frate minore. Molte circolari di Bonaventura sono richiami ai doveri che la regola minoritica imponeva ai suoi frati. La trasformazione dell’Ordine
non doveva significare per il singolo frate un’attenuazione del rigore della regola. Si spiegano, così,
i richiami a non costituire depositi o scorte alimentari, a non ricorrere con facilità e senza effettivo
bisogno ai procuratori o ai socii spirituales. Proprio Bonaventura contribuì alla formazione della
teoria dell’usus pauper.
Che cos’era l’uso povero? La devozione dei fedeli aveva messo a disposizione dei frati mezzi finanziari e beni in quantità considerevoli. Di questi beni i frati non avevano il possesso, che era della
Sede Apostolica; lo stesso loro uso, poi, era esercitato per mezzo di intermediari, di solito i già ricordati procuratori ed amici. E qui potevano nascere abusi: fra questi intermediari ed i frati veniva a
crearsi un rapporto inevitabile di amicizia, che si trasformava spesso in condiscendenza verso qualsiasi richiesta del convento o dei singoli frati, tanto che si rinfacciava ai Minori che la loro povertà
fosse un’ipocrisia. L’uso povero non era tanto una norma giuridica, ma un modo di comportamento
morale e spirituale, che lasciava al singolo la facoltà di decidere; consisteva nell’utilizzare i beni di
cui si poteva disporre in modo che la richiesta da fare fosse la più povera possibile. Naturalmente
sul significato di uso povero si ebbero discussioni e contrasti.
Bonaventura aveva giustificato l’abbandono del lavoro manuale, sostituito da quello intellettuale, recuperando la tradizione ecclesiastica prefrancescana, cioè considerando l’attività pastorale
equivalente al lavoro manuale (mentre Francesco nella Regula non bullata aveva ripreso
l’affermazione di san Paolo, riferita proprio al lavoro manuale: «chi non lavora neppure mangi»1).
L’azione di Bonaventura ed il suo prestigio personale avevano dato ancora più importanza ai
Minori. Gli anni dal 1258 al 1268 erano stati quelli della lotta del papato in Italia contro Manfredi re
di Sicilia (1258-1266) e contro il rinato ghibellinismo italiano, contro il quale venne chiamato Carlo
d’Angiò, fratello del re di Francia Luigi IX. Carlo fu incoronato a Roma re di Sicilia nel 1265 e si
impossessò del regno sconfiggendo Manfredi nella battaglia di Benevento del 1266. La sua vittoria
portò ad una ripresa guelfa in Italia. Alla sua morte (1285) gli successe il figlio Carlo II (12851309).
Sul piano ecclesiale, il clero era sempre più preoccupato del consenso capillare che i frati Minori
riuscivano ad ottenere nella società laica. I conventi Minori erano non solo dimora dei frati, ma anche centro di vita religiosa per attività devozionale e culturale, dopo che ebbero cominciato a funzionare le schole e gli studia, specialmente in quelle città nelle quali mancavano le università. I rapporti tra Minori e fedeli erano molto stretti, i fedeli si riunivano in gruppi in ore e giorni fissati per
pregare e per altre pratiche devozionali, si proponevano una serie di obblighi regolari e sistematici,
fino a chiedere una norma di vita, preludio a quello che sarà, di lì a non molto, la formazione del
terzo ordine (bolla Supra montem di Niccolò IV del 1289). Nel 1260 i Minori, senza esserne stati gli
iniziatori, si trovarono collegati al fenomeno dei flagellanti o dei “disciplinati”, movimento di portata europea
Nelle difficili circostanze politiche degli anni Cinquanta e Sessanta del Duecento i Minori avevano dato tutto il loro appoggio ai papi, che espressero un favore crescente e rapporti sempre più
stretti. Proprio questa determinante incidenza dei frati nella vita della Chiesa aveva accresciuto
l’astio di buona parte del clero secolare e di molti vescovi. Le lagnanze a Roma erano frequenti, anche perché i frati, sicuri dell’appoggio dei pontefici, non si preoccupavano dei limiti, provocando
reazioni vivaci, a volte anche violente.
1
2 Tess. 3, 10: si quis non vult operari, nec manducet, ripreso alla lettera in Regula non bullata VII, 6.
3
Questo stato di cose si aggravò dopo la morte di Clemente IV 2 (1268): si ebbe un conclave durato ben tre anni che portò all’elezione di Gregorio X (1271-1276), Tebaldo Visconti, che per di più si
trovava in Palestina e dovette impiegare vari mesi per raggiungere Roma. La situazione con la quale
egli venne a scontrarsi si mostrò assai difficile: Carlo d’Angiò esigeva una completa libertà
d’azione e rifiutava le direttive pontificie; a Parigi si era avuta una nuova serie di scontri fra maestri
secolari e regolari, le lagnanze contro i Minori e contro gli altri mendicanti presero una dimensione
preoccupante, richiedendo l’intervento di Tommaso d’Aquino e di Bonaventura, che scrisse una
delle sue opere più appassionate e felici, l’Apologia pauperum3, in cui l’ordine minoritico era mostrato come il movimento più alto tra quelli religiosi per libertà dai legami mondani, per amore verso i propri fratelli, per dedizione totale ai doveri affidatigli dalla Chiesa.
Gregorio X decise la convocazione di un concilio, tanto più che dall’Oriente giungevano sollecitazioni per un nuovo tentativo di riunificazione della Chiesa greca e di quella latina. È significativo
che proprio fra queste circostanze Gregorio X creò Bonaventura cardinale vescovo d’Albano, il 28
maggio 1273, e lo chiamò accanto a sé per predisporre l’andamento del concilio: per questo si fece
accompagnare da lui, tra l’agosto e l’autunno del 1273, a Lione, ove Bonaventura fu consacrato vescovo l’11 o il 12 novembre insieme con il primo cardinale dei frati predicatori, Pietro di Tarantasia. Il grande teologo domenicano Tommaso d’Aquino morì poco prima dell’inizio del concilio, il 7
marzo 1274. Il concilio si aprì due mesi dopo, il 7 maggio, e durò fino al 17 luglio 1274.
Al secondo concilio di Lione la situazione per i mendicanti si venne profilando difficile, malgrado le buone disposizioni del pontefice, al quale erano giunte contro di loro vere e proprie denunzie
scritte da parte di vescovi. A queste denuncie rispose per iscritto Umberto di Romans, ancora maestro generale dei Domenicani 4, con l’Opus tripartitum, in cui, riunite le accuse in tre parti, le confutò punto per punto con abilità ed energia. Bonaventura operò con tutto il peso del suo prestigio e
della sua alta dignità fra i partecipanti al concilio per evitare che potessero trovare ascolto favorevole quegli esponenti del clero che proponevano la pura e semplice eliminazione degli ordini mendicanti o almeno la loro esclusione da ogni attività pastorale. Le difficoltà furono molte e il clero secolare ottenne l’approvazione del canone 23, Religionum diversitatem nimiam, che riconfermava il
canone del concilio lateranense quarto Ne nimia religionum diversitas, che proibiva l’approvazione
di altre regole, che non fossero quelle fino allora già approvate dalla Chiesa (religiones adprobatae); il canone 23 aboliva molti nuovi ordini religiosi, ma con l’esclusione dei Minori e dei Predicatori per la loro «evidente utilità per la Chiesa universale» (erano salvati in forma subordinata anche
gli Eremiti di S. Agostino ed i Carmelitani). Erano soppressi ordini con un minore numero di aderenti e di più ristretta diffusione geografica. Fra questi gli Apostolici, un movimento penitenziale
laico, fondato a Parma da Gerardo Segarelli, che mirava a realizzare una comunità rigorosamente
pauperistica; gli Apostolici avevano avuto l’appoggio del vescovo di Parma, ma la netta opposizione proprio dei frati minori, che li ritenevano in competizione con loro. Soppressi a Lione, rimasero
attivi a Parma, ma questa volta contro l’autorità ecclesiastica, per cui scivolarono nell’eresia. Nel
1300 Gerardo Segarelli finiva sul rogo, i suoi seguaci, passati sotto la guida spirituale ed organizzativa di fra Dolcino da Novara, si rifugiarono sulle montagne del Vercellese dove si armarono per resistere, nell’attesa di una nuova età (con influssi gioachimitici); contro di loro fu predicata una crociata dal vescovo di Vercelli, che li indicò come pericolosi sovvertitori dell’ordine sociale e di quello ecclesiastico: furono sterminati, Dolcino fu catturato e ucciso sul rogo nel 1307.
Due giorni prima della conclusione del II concilio di Lione Bonaventura moriva (15 luglio
1274).
2
1265-1268; il suo predecessore era stato Urbano IV, 1261-1264.
Sancti Bonaventurae Opera omnia, 10 voll., Quaracchi (Firenze) 1883-1902; L’Apologia pauperum è nel vol. VIII.
4
Romans-sur-Isère 1200 circa – Valencia 1277; quinto generale dell'ordine dei Frati Predicatori (1254-63), riformò le
costituzioni, riorganizzò l'insegnamento, le missioni, l'inquisizione. Tra le sue opere, oltre ai commenti alla regola di s.
Agostino nelle prime costituzioni domenicane, l'Opus tripartitum, manuale presentato al II Concilio di Lione, nel quale
affronta tra l'altro il problema dell'unione e della riforma della Chiesa.
3
4
I successori di Bonaventura
I nuovi ministri generali si mossero sulla via segnata dal loro predecessore, ricalcandone le orme
piuttosto che cercare nuovi orientamenti o tentare direttive originali.
Girolamo d’Ascoli (il futuro Niccolò IV, 1288-1292), era stato fatto eleggere a Lione proprio
da Bonaventura, che si era dimesso pochi giorni dopo l’aperura del concilio. Il 5 novembre 1274
ottenne da Gregorio X un privilegio per cui veniva accordata ai frati una più libera disponibilità di
cambiare, vendere e comprare beni mobili (libri, attrezzi da lavoro, oggetti liturgici ecc.), riaffermando il principio della proprietà di ogni bene dei frati alla Chiesa. Niccolò III (1277-1280, Giovanni Gaetano Orsini, cardinale protettore dell’Ordine) lo creò cardinale il 12 marzo 1278. La sua
attività diplomatica non gli lasciò molto tempo per la cura dell’Ordine, sicché nel capitolo di Assisi
del maggio 1279 chiese di affidare ad altri la carica di ministro generale. Il nuovo ministro, Buonagrazia di San Giovanni in Persiceto (località non lontana da Bologna), chiese a Niccolò III una
bolla che ponesse i Minori al sicuro contro l’ostilità che continuava a serpeggiare nel clero e che facesse il punto sui problemi emersi in circa cinquant’anni, precisando ancora una volta quanto fosse
dubbio o non chiaro.
Niccolò III riunì per una discussione aperta personalità eminenti della Curia e i frati più autorevoli per rigore di vita e cultura. La commissione comprese i due cardinali francescani, tra cui Girolamo d’Ascoli; Benedetto Caetani, giovane giurista che aveva già larga fama; il ministro generale
Buonagrazia con alcuni ministri provinciali. Vi era poi Pietro di Giovanni Olivi (Sérignan 1248 ca –
Narbona 1298), della provincia di Provenza, ancora giovane, ma già noto come teologo e per la sua
tendenza rigoristica.
Dopo due mesi d’intenso lavoro, Niccolò III emanò la bolla Exiit, qui seminat del 14 agosto
1279.
Prima di tutto il papa poneva in evidenza i meriti dei frati minori contro ogni calunnia ed ogni
gelosia. Questi meriti erano dovuti alla santità della loro regola, di cui era una norma “santa” e meritoria la rinuncia ad ogni possesso, personale e comunitario, come era stato insegnato da Cristo e
dagli Apostoli. Proprio questa forma di povertà era stata attaccata dai maestri secolari parigini, i
quali avevano osservato che Cristo e gli Apostoli avevano posseduto dei loculi, cioè dei borsellini
con danaro per le loro necessità quotidiane, mostrando così che non praticavano la povertà totale né
vivevano di elemosina. Il papa sottolinea allora che ciò era accaduto per un equilibrato atteggiamento di Gesù che da una parte non aveva posseduto nulla, dando l’esempio di perfezione, e dall’altra
aveva voluto essere indulgente verso coloro che non fossero stati in grado di raggiungere tanta perfezione. L’obbligo del lavoro manuale poteva essere sostituito meritoriamente dall’assistenza ai fedeli e dalla cura pastorale; secondo la regola la predicazione doveva essere consentita dal vescovo,
ma con la possibilità di deroghe da parte del papa.
Niccolò III voleva porre fine alla tensione fra il clero ed i frati e mettere a tacere i maestri secolari parigini. Perciò ripete quanto Gregorio IX aveva detto a proposito dei precetti e dei consigli
evangelici, entrando subito in precisazioni ulteriori quanto alla povertà ed all’uso dei beni di cui il
frate minore si trovava a disporre: viene introdotta così la distinzione tra uso di fatto e uso di diritto.
Quest’ultimo per i frati, che professano la povertà totale, in realtà, non esiste, mentre anche l’uso di
fatto deve essere inteso con talune restrizioni: infatti è consentito solo per la sopravvivenza fisica
dei frati (il cibo e il vestito) e l’esercizio dei doveri loro affidati (il culto divino e lo studio). In queste quattro disposizioni non si parla di attrezzi di lavoro manuale, ma si sottolinea che anche l’uso di
fatto deve essere sempre povero, nel senso che deve essere evitato ogni eccesso, come la formazione di risparmi, l’accumulo di provviste; va eliminato, insomma, l’abbondante e il superfluo: l’usus
pauper viene accolto in una decisione papale, ma sarà poi ancora argomento di discussioni.
Viene confermata la proprietà della Sede apostolica sui beni dei frati minori, inclusi le chiese e i
cimiteri. Il pontefice consente ai frati di accettare legami testamentari, sempre che ciò non comporti
violazioni degli obblighi loro prescritti; essi non potranno perciò ricevere campi da coltivare e case
5
da affittare per ricavarne il canone di locazione. Si ribadisce la non obbligatorietà giuridica del Testamento di san Francesco. La Exiit, qui seminat si conclude con una lode della regola minoritica:
Poiché è evidente che la regola dei frati minori è lecita e santa e perfetta e osservabile e che non espone
a nessun pericolo, nella pienezza del nostro potere apostolico noi approviamo questa regola, la confermiamo, e la manteniamo per sempre con tutte le cose suddette, stabilite, concesse, disposte, decretate ed
anche dichiarate ed aggiunte. E in virtù dell’obbedienza prescriviamo di far leggere nelle scuole questa
costituzione allo stesso titolo di tutte le altre costituzioni, decretali o lettere apostoliche.
La bolla eliminava alcuni abusi che si erano inseriti nella pratica quotidiana francescana; regolava e limitava talune concessioni, anche papali, che si prestavano a favorire deroghe alle norme fissate dalla regola; confermava quanto di essenziale questa prescriveva. Va considerata, perciò, un’equilibrata soluzione ai problemi che l’Ordine aveva posto in luce verso gli anni ottanta del Duecento.
Le difficoltà cominciarono quando dalle affermazioni teoriche della Exiit qui seminat si passò
alla loro applicazione pratica. Esse vennero dal clero, che stentava a rassegnarsi a quella che sembrava la predilezione dei pontefici verso i frati, e dai frati rigoristi, secondo i quali venivano disattese le prescrizioni della bolla. Questi ultimi erano critici dei confratelli che cedevano al processo di
clericalizzazione e di monacalizzazione. Lamentavano, infatti, che per l’attività pastorale e per la
cura dei fedeli alcuni frati non esitavano a trascurare aspetti anche essenziali della regola: per gli
studi teologici, ad esempio, non pensavano più all’umiltà ed allo spirito di mortificazione che doveva dirigere ed animare i minori; che l’impostazione di vita francescana, basata sulla povertà totale e
sul rischio per il domani, slittasse sempre più nell’impostazione regolata ed ordinata di un monastero, a spese del divieto di provvedere sistematicamente al futuro e dell’abbandono alla Divina Provvidenza.
Per quanto riguarda i rapporti con il clero secolare, Martino IV (1281-1285) decise di troncare il
contrasto con la bolla, Ad fructus uberes, del 13 dicembre 1281: nella loro opera pastorale i Minori
e tutti i Mendicanti, dovevano considerarsi perfettamente liberi da ogni qualsiasi autorità diocesana,
non dovevano cioè chiedere autorizzazioni a nessuno e per nessuna ragione, rispondendo delle loro
azioni soltanto ai propri superiori. Unico limite: i frati dovevano impegnarsi a ricordare ai loro fedeli l’obbligo di confessarsi almeno una volta all’anno ai loro parroci. I successori di Martino IV,
Onorio IV (1285-1287) e Niccolò IV (1288-1292), ribadirono le decisioni del loro predecessore,
senza tenere conto delle proteste dei prelati francesi.
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I contrasti interni
Nel capitolo di Montpellier del 1287 venne eletto ministro generale Matteo di Acquasparta, umbro, grande teologo, che aveva energia e capacità di organizzazione. Nonostante la Exiit qui seminat
del 1277 abusi di vario genere guastavano sia la disciplina, sia la buona fama dei Minori presso i
fedeli: alcuni frati raccoglievano elemosine in danaro, altri tenevano del danaro presso di sé, altri
trascuravano la questua di porta in porta, sentita come un’umiliazione da persone di elevato livello
culturale; altri ancora disprezzavano abiti laceri e rattoppati e sceglievano stoffe di buona qualità.
facendosi tonache con maniche lunghe e larghe, abbondanti tanto da coprire la corda intorno alla
cintura, con un cappuccio ampio che ricadeva in pieghe sulle spalle e intorno al collo, usando calzari comodi e caldi.
Altri abusi venivano verificandosi nelle costruzioni di chiese e conventi: venivano via via abbandonati i primi insediamenti, divenuti scomodi od insufficienti. È vero che si sceglievano località
più favorevoli all’esercizio dell’attività pastorale e di solito sempre vicine alla popolazione più fitta
e più modesta; ma le costruzioni erano grandiose, edificate con l’aiuto di architetti e decorate da artisti di grande fama, come la basilica superiore di Assisi o Santa Croce di Firenze e ad altre chiese
italiane.
Posizioni più radicali erano maturate in Umbria, Toscana e Marche, dove avevano vissuto a lungo i compagni di Francesco ed avevano lasciato, oralmente e per iscritto, tradizioni e ricordi. Ubertino da Casale (Casale Monferrato 1259-1330 circa), nell’Arbor vitae crucifixae Iesu, scrive di aver
visto i rotuli di pergamena di frate Leone (morto nel 1271) lasciati nel monastero di San Damiano,
presso Assisi, ove santa Chiara era vissuta e morta (1253). Queste ed altre testimonianze tendono a
dare una rappresentazione della figura di Francesco non come alter Christus, né come angelo del
sesto sigillo, ma come povero, umile, servo di tutti, colui che ha sofferto il martirio delle malattie e,
poi, delle stimmate (ma taluni di questi testi ne tacciono) e che ha dovuto battersi per salvare il suo
ideale da quanti, specialmente i suoi stessi confratelli, volevano attenuarlo o tradirlo. Affiora la
tendenza ad attribuirgli profezie sulla futura decadenza dell’Ordine e sulle persecuzioni che avrebbero colpito i frati rimastigli fedeli. La regola e il Testamento erano considerati intangibili per
chiunque, compreso il pontefice, perché erano la sintesi più perfetta, voluta e rivelata da Dio, di
quanto insegnato da Cristo nel Vangelo. In tutte queste ragioni vanno trovate le radici profonde del
contrasto che oppose un certo numero di frati, una minoranza relativamente modesta ma culturalmente e storicamente significativa, contro il resto dei frati, che si dissero la comunità. I frati più radicali presero più tardi il nome di spirituali, considerati dalla comunità e dalle autorità ecclesiastiche perturbatori della tranquillità dell’Ordine ed indisciplinati ribelli da punire.
L’inquietudine serpeggiava da tempo tra i frati dell’Italia centrale, accresciuta dall’offensiva da
parte del clero secolare che precedette il secondo concilio di Lione; il timore più grave era che fosse
eliminata la povertà totale dei francescani, che ne costituiva l’aspetto caratteristico e principale.
Dalle Marche si levò, allora, una ferma voce di protesta, ma nel 1274 un capitolo provinciale richiese una dichiarazione formale di obbedienza ai frati protestatari e li punì mandandoli in romitori; fra
questi vi erano Tommaso da Tolentino, Pietro da Macerata e Pietro da Fossombrone, che, convocati
dinanzi ad un altro capitolo provinciale (1275), obbedendo ai consigli pacificatori di un vecchio
confratello, fra Beniamino, si piegarono alla sottomissione. Ma le vicende, che avevano dovuto affrontare, il coraggio con cui avevano sostenute le proprie idee, la “pubblicità” che le loro discussioni avevano avuto, finirono per creare un movimento di consenso, che causò preoccupazione. Le autorità locali dell’Ordine decisero di ricorrere alla maniera forte. Tommaso da Tolentino, Pietro da
Macerata e Pietro da Fossombrone (che presero il nome rispettivamente di Liberato e di Angelo
Clareno, 1255 ca-1337, quando entrarono tra i Pauperes heremitae domini Coelestini) con alcuni
dei loro più fedeli seguaci vennero condannati alla prigione dove restarono una quindicina d’anni. A
questo rigore sfuggirono molti altri, fra i quali Corrado da Offida (1237-1306), marchigiano, rispettato e venerato come discepolo di frate Leone e perciò come depositario d’una serie di rivelazioni di
san Francesco.
7
Mentre i rigoristi dell’Italia centrale erano rinchiusi in prigione, in Provenza (Linguadoca) ci furono aspre opposizioni a Pietro di Giovanni Olivi nel capitolo generale di Montpellier del 1287 (in
cui Matteo era stato eletto) per la sua interpretazione dell’usus pauper, Pietro era rimasto baccelliere per non conseguire il grado di maestro, «avendo orrore delle ambizioni parigine» («Parisienses
ambitiones perhorrescens» scriverà nella lettera al ministro generale Raimondo Gaufridi). Apprezzato teologo, aveva preso parte ai lavori della commissione che aveva preparato la bolla Exiit qui
seminat; ma ventiquattro maestri gli rivolsero una serie di obiezioni alle quali rispose con fermezza;
i suoi Commenti ai quattro libri delle Sentenze di Pietro Lombardo sono riconosciuti come i più
importanti nel tempo fra Bonaventura e Guglielmo d’Occam. Non meno importante è la sua opera
di esegeta biblico, che si estende dal libro della Genesi a quello dell’Apocalisse.
Pietro riuscì a dimostrare che con l’usus pauper non faceva altro che chiedere la pratica di quanto prescriveva la Exiit qui seminat. Nessuno in quell’occasione gli rimproverò il gioachimismo che
tanta importanza ebbe dopo la sua morte. Matteo d’Acquasparta intorno al 1288 Matteo
d’Acquasparta lo inviò allo studio generale di Santa Croce di Firenze, allora in formazione 5.
L’arrivo di Pietro di Giovanni Olivi a Firenze è l’evento più importante per la storia dello spiritualismo francescano, destinato ad avere un peso decisivo nella storia dei Minori nei primi decenni
del Trecento. Come attesta Ubertino da Casale, che in quegli anni ci visse e fu compagno di cella
dell’Olivi, il convento fiorentino viveva in quegli anni uno dei momenti più intensi della sua lunga
storia e non solo per l’insegnamento del maestro provenzale, ma anche per la frequenza di alcuni
laici importanti, fra cui molto probabilmente Dante Alighieri, che ebbe allora occasione di conoscerlo. Ma la conseguenza più importante fu l’incontro tra il rigorismo – possiamo chiamarlo ormai
“spiritualismo” – provenzale, che aveva ricchezza speculativa ed ampia preparazione teologica e
scritturale, e quello italiano, che si richiamava all’esperienza ed al ricordo di Francesco.
5
Era in preparazione, ma non ancora in costruzione, la grande chiesa col grande convento, giunta fino a noi L’attuale
Santa Croce fu iniziata nel 1294, sulla preesistente chiesa tenuta dai francescani dal 1228 ed ampliata nel 1252.
8
Celestino V, Bonifacio VIII ed i Minori
Matteo d’Acquasparta poco dopo la sua elezione a ministro generale era stato creato cardinale
(1288), ricevendo compiti impegnativi, tra cui la pacificazione di Firenze, allora in preda alle lotte
tra Bianchi e Neri. Aveva, perciò, ritenuto di dover lasciare la sua carica nell’Ordine. I suoi successori ebbero il non agevole compito di muoversi fra le pressioni dei pontefici, che sempre più volevano largheggiare a favore dei frati, ed i frati stessi che cercavano di interpretare l’usus pauper della
Exiit qui seminat nel senso di assicurarsi la più ampia possibilità di movimento, mentre l’Olivi intese l’usus pauper come la scelta più rispondente allo spirito pauperistico del Fondatore. Ma contro
contro i sostenitori di questa posizione si rovesciava l’accusa della comunità di essere dei molesti
ostacoli all’espansione dell’Ordine.
Raimondo Gaufridi, nuovo ministro generale dal 1289 al 1295, amico dell’Olivi, cercò di di evitare gli abusi più gravi. Quando, venuto in Italia, ebbe conoscenza delle ingiustizie di cui erano stati
vittime i frati rigoristi delle Marche, ne impose la liberazione. Poi, anche perché la loro permanenza
nella loro provincia non potesse provocare nuovi attriti, profittò della richiesta di Haiton II, re
dell’Armenia, per mandarli in quel lontano paese ove la loro severità di vita assicurò loro il favore
del sovrano e la fiducia della popolazione. Purtroppo fin lì li raggiunse l’ostilità dei loro confratelli
che, nella cosiddetta provincia di Romània (corrispondente al territorio dell’impero bizantino ed alle
regioni circostanti, tra cui l’Armenia) avvertivano l’incarico di fiducia affidato a frati imprigionati e
considerati ribelli come un affronto. Vennero perciò costretti a ritornare in Italia (1293) e nella loro
provincia, ove furono accolti nella maniera la più ostile possibile; ricorsero, allora, a Raimondo
Gaufridi, che li accolse con benevolenza e diede loro il consiglio di rivolgersi al pontefice. Era un
consiglio che rientrava nel quadro dell’attesa che aveva suscitato Celestino V, il pontefice appena
eletto.
Celestino era in difficoltà tra gli affari della Curia e le pressioni di Carlo II d’Angiò (1285-1309)
che riuscì a fargli porre la Curia a Napoli, ove rimase fino all’abdicazione, senza mai recarsi a Roma. Ma egli aveva, invece, una sicura conoscenza del mondo dei religiosi ed era al corrente di quanto occorso ai frati che gli venivano a chiedere consiglio ed aiuto. Fece quello che, con ogni probabilità, aveva ritenuto necessario lo stesso Raimondo, che perciò li aveva mandati dal pontefice: li dispensò dall’obbedienza per i loro superiori francescani, li riunì tutti in un romitorio alle dipendenze
di un abate celestino con l’impegno di osservare integralmente ed alla lettera sia la regola sia il Testamento di Francesco. Perché ciò non costituisse motivo di lagnanza per i Minori, questo gruppo di
rigoristi assunse il nome di Pauperes heremitae papae Celestini, dei quali fu nominato cardinale
protettore Napoleone Orsini, parente di Matteo Rosso Orsini, cardinale protettore dell’ordine dei
Minori. Per significare che si trattava di un vero e proprio cambiamento di status giuridico, fu imposto il cambiamento del nome: Pietro da Macerata si chiamò Liberato e Pietro da Fossombrone
Angelo Clareno.
Questa soluzione sembrava risolvere ogni problema, anche se aveva provocato una grave crisi
introducendo per la prima volta una frattura nei Minori; ma ebbe assai breve durata. Celestino abdicò il 13 dicembre 1294. Gli successe dopo dieci giorni Benedetto Caetani, Bonifacio VIII (12941303). Esperto giurista, temperamento energico, volitivo e desideroso di obbediente e docile disciplina, aveva già, in precedenza, dovuto affrontare nel 1290 gli esponenti dell’episcopato francese
che gli avevano presentato le loro lagnanze contro l’invadenza dei Mendicanti. Ed aveva reagito
con fermezza, anche se non era riuscito a placare le animosità diffuse. Bonifacio aveva seguito con
attenzione e con disapprovazione tutta l’attività del suo predecessore; perciò dopo solo tre giorni
dall’elezione, il 27 dicembre annullava tutte le disposizioni di Celestino, riservandosi di riesaminarle caso per caso. Nella primavera del 1295 prese le sue decisioni relativamente ai Poveri eremiti: l’8
aprile veniva loro ordinato di ritornare sotto la giurisdizione del loro ministro generale; qualche mese dopo seguiva un’altra decisione più grave: quelli che fossero condannati come ribelli non potevano interporre appello presso il papa, ciò che equivaleva a lasciarli in balia dei loro ministri provinciali e del generale. Per di più il 29 ottobre 1295 era stato obbligato a dimettersi Raimondo Gau9
fridi, contro cui Bonifacio aveva vari motivi di animosità: aveva rapporti amichevoli col re di Francia Filippo IV il Bello 1285-1314), verso cui il papa nutriva l’ostilità che doveva condurlo in pochi
anni al noto conflitto; era ben disposto verso i rigoristi francescani. Bonifacio VIII lo depose, sostituendolo con Giovanni Minio di Morrovalle, della provincia delle Marche, ma dichiaratamente avverso proprio all’indirizzo di Pietro da Macerata, Pietro da Fossombrone, Tommaso da Tolentino e
dei loro aderenti.
Liberato ed Angelo Clareno fuggirono subito in Grecia, per evitare di ritornare in prigione, Corrado da Offida con altri frati considerarono invalida l’abdicazione di Celestino e, quindi, non canonica l’elezione di Bonifacio. Era una presa di posizione assai grave per le conseguenze giuridiche
che ne derivavano. Se Bonifacio VIII non era stato canonicamente eletto, ciò comportava
l’invalidità dei suoi atti e quindi la nullità anche della cassazione degli atti del suo predecessore, ma,
in particolare, scioglieva i Minori dalla promessa d’obbedienza, che Francesco aveva fatto a Innocenzo III ed a tutti i suoi successori canonice intrantes. Questa posizione trovò altri fautori nei due
cardinali Pietro e Giacomo Colonna, nemici di Bonifacio per rivalità familiari, che l’aggravarono
con l’accusa di eresia che lanciarono nel cosiddetto manifesto di Lunghezza nei pressi di Roma (10
maggio 1297), sottoscritto da altri frati rigoristi fra cui Jacopone da Todi. La risposta di Bonifacio fu
immediata. Jacopone finì scomunicato in prigione, i Colonna furono attaccati e sconfitti e la loro
piazzaforte, Palestrina, venne rasa al suolo. Non meno chiara fu la presa di posizione di Pietro di
Giovanni Olivi, che dal 1289 era tornato in Francia meridionale e, oltre all’insegnamento, si era tutto rivolto all’attività spirituale e pastorale. L’Olivi espresse il suo punto di vista sull’abdicazione di
Celestino V in una “questione” e in una lettera a Corrado da Offida (Narbona 14 settembre 1295): il
papa poteva legittimamente rinunciare alla sua carica. Nella lettera l’Olivi non metteva in discussione la decadenza della gerarchia, ma l’inquadrava in una concezione storico-ecclesiologica che
sviluppava, anche se in chiave cristocentrica, le idee di Gioacchino da Fiore, specialmente delle sue
due grandi opere, la Concordia Novi et Veteris Testamenti e l’Expositio in Apocalipsim. La sesta e
la settima età della Chiesa sono epoche di prove severe, di tribolazioni, ma i veri Minori non dovranno rispondere con la ribellione, bensì con l’accettazione umile e sottomessa delle avversità, che
metteranno alla prova gli eletti. Quindi l’obbedienza serena e rassegnata era l’unica via da intraprendere e seguire.
Il 14 marzo del 1298 moriva a Narbona l’Olivi, poco più che cinquantenne, lasciando un profondo rimpianto perché aveva riunito intorno a sé una comunità di fedeli, che ne seguivano le direttive
di vita spirituale con particolare fervore e venivano chiamati nel linguaggio popolare beghini (non
vanno confusi con i beghini più noti dell’Europa nord-occidentale). Considerandosi ormai alle due
ultime età della Chiesa, che sono quelle della prova e della sofferenza, l’Olivi tratteggia lo scontro
tra la Chiesa pienamente mondanizzata, carnale, e divenuta così la Babylon, di cui parla
l’Apocalisse, e quanti resteranno fedeli alla vera Chiesa, quella spirituale, nella quale avranno una
posizione di guida i veri figli di Francesco d’Assisi, gli autentici frati minori: questi, sopportando
con paziente umiltà tutte le persecuzioni di cui saranno oggetto, prepareranno i veri fedeli al ritorno
di Cristo giudice.
Dopo l’Olivi ebbero importanza coloro che continuarono a proporre le sue idee, Ubertino da Casale, che le sviluppò nell’Arbor vitae crucifixae Iesu (L’albero della vita crocifissa di Gesù), e Angelo Clareno, che ne accettò e riprese in pieno il tema dell’ordine minoritico come l’ordine esemplare della sofferenza, nella sua Historia septem tribulationum, la prima storia del movimento francescano, come fatto provvidenzialmente collocato nella storia della Chiesa.
10
L’affermarsi dell’Ordine
Nel Regno di Sicilia gli Angioini, Carlo I e Carlo II, avevano fatto ai frati le più larghe concessioni, anche per ragioni politiche, in quanto essi sentivano, specialmente nei Minori, una delle forze
più valide in sostegno del loro potere sovrano. La situazione non mutò quando il regno di Sicilia,
per effetto del Vespro Siciliano e della guerra che ne seguì (1282-1302), si divise tra Italia meridionale e Sicilia: nel primo rimanevano sovrani gli Angioini, nella seconda giunsero come sovrani
prima il re Pietro III d’Aragona (re d’Aragona 1276-1285, dal 1282 coronato re di Sicilia) poi i suoi
due figli, Giacomo II (re di Sicilia nel 1285; nel 1291 sale al trono d’Aragona e nel 1296 rinuncia al
trono di Sicilia. Muore nel 1327) e Federico III (1296-1337), vicini allo spiritualismo francescano,
specialmente Federico.
Alla fine del Duecento e nei primissimi anni del Trecento l’ordine dei Minori, ormai inserito perfettamente nella Chiesa, giunto al momento maturo della clericalizzazione, avviato già ad assimilarsi in taluni suoi aspetti ai più severi ordini monastici cenobitici, conservava, però, della sua fisionomia originaria i tratti essenziali, che lo rendevano inconfondibile, prima di tutto la povertà totale,
perché mai nelle dispute più accanite questa venne dai Minori revocata in dubbio – ciò di cui essi
potevano usufruire era proprietà della Sede Apostolica -, poi l’assenza della stabilità, per cui, anzi,
si cercò di combattere la propensione di molti frati a non allontanarsi troppo dai loro luoghi di nascita, muovendosi di convento in convento ma in località viciniori, mentre, diversamente dai monaci, era d’obbligo la cura dei fedeli, dal pulpito, nel confessionale, nell’assistenza diretta a quanti
convergevano intorno ai conventi, con cura particolare poi a quelli che costituivano i gruppi numerosi e devoti del terzo ordine.
I frati erano molto numerosi, come si può rilevare dalla grandezza di refettori e dormitori di molti conventi che hanno conservato gli spazi del Duecento, come Santa Croce di Firenze o quelli di
Béziers e Narbona. L’ordine francescano, insomma, era una delle forze-guida nella vita della Chiesa. Si spiega, così, perché la tensione fra Comunità e Spirituali sia stata una delle vicende più
drammatiche e più laceranti del Trecento.
11
Aspetti e forme del contrasto. Il clero contro i frati.
Comunità contro gli Spirituali in Italia e in Provenza
Bonifacio VIII aveva cassato tutti i privilegi di Celestino V e, quindi, anche tutte le concessioni
che questi aveva elargito ai pauperes heremitae. Temendo il peggio, come s’è detto, fra Liberato ed
Angelo Clareno erano subito fuggiti in Grecia, sperando d’evitare la prevedibile ripresa delle persecuzioni: si nascosero a Trizonia, un’isoletta del golfo di Corinto, ove trascorsero indisturbati due
anni tra il 1295 ed il 1297. Durante questa permanenza Angelo Clareno divenne ottimo conoscitore
della lingua greca e di molte opere dei padri orientali, alcune delle quali tradusse in latino tra il
1300 ed il 1305, che non furono senza influenza sulla spiritualità minoritica, accentuando la sua già
spiccata tendenza eremitica ed asceticamente rigoristica. Tommaso da Tolentino, col pieno accordo
dei superiori, organizzò una spedizione missionaria in India, con dodici frati; a loro volevano aggregarsi fra Liberato e frate Angelo, ma non ne ebbero il permesso (vedi la scheda biografica più
avanti).
Lo sforzo di riconciliazione compiuto da Corrado d’Offida e da Tommaso da Tolentino non era
riuscito ad estendere il perdono anche ai due esuli Angelo Clareno e Liberato, che decisero di presentarsi al papa per ottenere perdono. Mentre tornavano in Italia, moriva Bonifacio VIII, a cui successe subito dopo Benedetto XI (1303-1304), domenicano, che non giudicava questi frati diversamente dal suo predecessore e, forse anche più di lui, li considerava degli inquieti perturbatori della
vita della Chiesa Poco dopo il nuovo pontefice morì e venne eletto l’arcivescovo di Bordeaux Bertrand de Got, Clemente V (1305-1314), che convocò cardinali e Curia nella Francia Meridionale,
che non lasciò mai, toccando anche Avignone, che diventò la dimora dei suoi successori. Il ministro
generale dei Minori, Gonzalo de Balboa, cominciò con l’esigere dall’inquisitore dell’Italia meridionale angioina di accertare l’ortodossia di fra Liberato, di frate Angelo e di altri loro compagni.
L’inquisitore si trovò, allora, in una situazione difficile, fra le severe disposizioni del ministro generale e la personale posizione del re Carlo II, favorevole o almeno non ostile a questi frati. Ritenne
allora più prudente rimettere ogni decisione al papa. I frati si misero in viaggio verso Bordeaux, ma
a Viterbo moriva fra Liberato, sì che tutto ricadeva sulle spalle di Angelo Clareno, che, per le sue
condizioni di salute, non s’era potuto mettere in viaggio. Sottoposto ad una severa inchiesta voluta
dal papa ed affidata al suo vicario in Roma, Angelo seppe difendersi bene e fu praticamente assolto,
ma collocato in una situazione sospensiva, che lo sottraeva alla giurisdizione dei suoi superiori, in
attesa di ulteriori accertamenti.
Sempre in Italia, in sostanza isolato, rimase Ubertino da Casale. Divenuto un sostenitore delle
idee rigoriste, le aveva diffuse tra l’Umbria e la Toscana, mentre svolgeva un’attiva opera pastorale
che aveva avuto particolare importanza nei monasteri femminili. Tra l’altro intervenne, su richiesta
della beata Chiara da Montefalco 6, contro una nuova eresia che, proprio in questi anni, visse uno dei
suoi momenti di maggiore e più intensa diffusione, la setta dello spiritus libertatis (spirito di libertà)
o, come fu detto nel resto d’Europa, del libero spirito, un movimento che, partendo dalla concezione e dal rapporto fra l’infinitezza di Dio e la minima entità dell’anima umana, presentava un’ascesa
dell’anima a Dio come un processo di progressivo avvicinamento a Lui, fino al confondersi e
all’identificarsi con la sostanza divina. Da questo momento in poi l’individuo diventava libero da
ogni norma o disposizione umana per essere pienamente guidato da Dio, che opera direttamente attraverso l’individuo nella realtà. Pur con questi suoi atteggiamenti assai prudenziali e con tanto zelo
per l’ortodossia, Ubertino finì ugualmente col destare le preoccupazioni dei suoi superiori: tradotto
dinanzi al papa Benedetto XI, messo in prigione, fu presto liberato per l’intervento del Comune di
Perugia, ma confinato all’eremo della Verna, dove fra il 1305 ed il 1306 scrisse il già ricordato Arbor vitae crucifixae Iesu, in cui le idee fondamentali dell’Olivi erano accentuate ed aggravate, perché si affermava che Bonifacio VIII e Benedetto XI erano stati l’Anticristo.
6
Monaca e poi badessa del monastero di Montefalco, in Umbria, che aveva adottato per norme canoniche la regola agostiniana; Chiara fu però sempre devota di san Francesco e vicina ai minori. Nacque verso il 1268 e morì nel 1308.
12
Gli spirituali in Provenza
L’area geografica in cui vanno collocati i vari episodi di questo moto religioso è quella vasta
Provenza che si tende oggi a chiamare Occitania, il paese dove si parlava la lingua d’oc, il provenzale: la larga fascia, che dalle rive del Mediterraneo si spinge verso l’interno e si estende approssimativamente da Marsiglia ai Pirenei, più ampia quindi dell’attuale regione francese. Zona specialmente agricola, ma per la presenza di città come Marsiglia, Nîmes, Montpellier, Béziers, Narbona,
centro di traffici e di vivace attività artigianale. Era stata sempre una terra di vivo sentimento religioso e agli inizi del Duecento erano numerosi gli albigesi e in misura minore i valdesi, contro i
quali si esercitava l’opera degli inquisitori.
La presenza dei frati minori comportava la necessità di un rigore di vita esemplare, per la critica
degli eretici verso il clero ed i religiosi, per il confronto incessante a cui i fedeli sottoponevano coloro a cui affidavano la cura delle loro anime. Ancor più che in Italia, il rigore e l’esemplarità nascevano dall’esigenza di rispondere ad una precisa domanda religiosa: ogni deroga eventuale significava perdita di credibilità.
L’Olivi, che ha per gli albigesi espressioni d’una durezza per lui insolita, si rendeva conto di
quanto essi rappresentassero ancora un pericolo per la Chiesa; non a caso aveva raccolto a Narbona
una vera e propria comunità di beghini e beghine, di cui non sappiamo in che rapporto fossero col
Terzo ordine francescano, anche se di certo taluni di quelli facevano parte di questo, ma che dovettero avere una qualche organizzazione se a loro l’Olivi indirizzò alcuni suoi scritti.
Dopo la morte dell’Olivi (1298) queste conventicole dovettero continuare la loro attività, anche
se la scomparsa della loro guida spirituale provocò nella gerarchia clericale preoccupazione e sospetti, per il dubbio di eventuali infiltrazioni ereticali. Altri dubbi dovettero sorgere, man mano che
si veniva a sapere come intorno alla tomba dell’Olivi veniva nascendo quel culto che soleva portare
alla convinzione di santità ed alla richiesta di canonizzazione. I più perplessi e preoccupati erano
senz’altro i ministri provinciali e le autorità locali dei frati, quando constatavano come fossero numerosi coloro che del grande rigorista accettavano le idee sulla povertà e le mettevano in pratica: i
due conventi di Béziers e di Narbona erano in pratica completamente popolati da rigoristi, circondati dall’affettuosa devozione degli abitanti delle due città. Accresceva perplessità e preoccupazione
anche il fatto che non solo si facevano e si diffondevano copie delle operette ascetiche dell’Olivi,
ma si compendiava la sua Lectura super Apocalipsim, traducendola anche in volgare, ponendone in
rilievo le idee principali, diffondendone, anche nelle maniere più semplicistiche, le attese e le
preoccupazioni.
Si spiega, così, come accanto agli interventi dei vescovi, s’affiancarono i Minori a limitare ed infine proibire gli scritti e l’iniziale culto dell’Olivi. Delle condanne generiche vennero prima dal ministro generale Giovanni Minio da Morrovalle, aggravate dai due ministri provinciali di Provenza e
d’Aragona, a cui s’affiancò per un consapevole odio teologico il lettore dello studio di Tolosa, Vitale du Four, più tardi cardinale. Né si esitò a colpire espressamente taluni frati, che furono messi in
prigione, mentre altri – si disse oltre trecento, ma non si sa mai bene quale valore attribuire a queste
cifre – vennero trasferiti lontani dalle loro provincie, condannati a pene varie, taluni imprigionati,
anche a vita, duramente colpiti negli studi, nella loro stessa attività religiosa.
13
L’INTERVENTO DI CLEMENTE V
Mentre queste misure cadevano sul capo di quanti avessero osato sostenere posizioni rigoristiche
o solo difendere la memoria dell’Olivi, s’ammalò in modo assai grave il re di Sicilia, Carlo II
d’Angiò(che morirà il 6 maggio 1309), che chiamò al suo capezzale Arnaldo da Villanova, suo medico di fiducia, difensore accanito e tenace degli Spirituali della Francia Meridionale. Questi raccontò al sovrano il trattamento al quale erano sottoposti i suoi amici e dovette prospettare quale fosse la differenza spirituale fra i perseguitati ed i loro persecutori: le decisioni, che su invito e segnalazione di Carlo II furono prese dal papa, inducono a credere che Arnaldo non dovette mancare di
porre in luce gli abusi dei Minori che erano sotto gli occhi di tutti non senza scandalo dei fedeli.
Carlo II dovette intervenire presso Clemente V con energia; poco dopo si era aggiunto ad insistere
presso il papa lo stesso Arnaldo, suo amico personale, mentre il 18 agosto 1309 giungeva anche una
richiesta degli abitanti di Narbona, i quali chiedevano che non consentisse di continuare a calunniare la memoria e le opere dell’Olivi e pregavano di far intervenire l’antico ministro generale, Raimondo Gaufridi, ed altri frati di santa vita. Tanta insistenza, a cui non mancò d’aggiungersi
l’esperienza personale del pontefice, che era stato arcivescovo di Bordeaux, portò alla convocazione
presso di sé di alcuni frati, con un rapporto proporzionale tra le due correnti: Gonzalo de Balboa,
ma anche frati non ostili agli Spirituali, a cominciare da Raimondo Gaufridi, come avevano chiesto
gli abitanti di Narbona insieme con altri di cui ben conosciamo il punto di vista, come Ubertino da
Casale.
La situazione veniva facendosi difficile per Gonzalo di Balboa, come per gli altri accaniti nemici
e persecutori degli Spirituali: il ministro generale era perfettamente informato sia sui rapporti amichevoli che correvano tra Arnaldo da Villanova e Clemente V sia sugli abusi e disordini che si erano introdotti nell’Ordine e che gli Spirituali rimproveravano ai loro avversari. Si spiega così come
in previsione del capitolo generale previsto per il 19 aprile del 1310 a Padova Gonzalo inviò una
circolare severissima ai ministri provinciali, che è una testimonianza preziosa di quanto i Minori, in
molti conventi, si fossero allontanati anche dall’osservanza più blanda della regola, violandola in
punti essenziali. Veniva decisa l’immediata cessazione di tali abusi, disponendo una serie di ispezioni, che sarebbero state fatte da visitatori speciali, che avrebbero dovuto esaminare e controllare
anche le somme impegnate e le persone colpevoli. Contro coloro che avessero disobbedito o si fossero mostrati renitenti o riottosi veniva comminata una scomunica riservata al ministro generale,
tranne il caso di morte imminente.
Dalla lettera di Gonzalo e dalle decisioni del capitolo di Padova del 1310 emerge una constatazione indiscutibile, provenendo da parti non interessate ad aggravare la situazione: in discussione
non era questa o quella soluzione dell’usus pauper o dell’attuazione della povertà prevista dalla regola, ma la permanenza concreta ed effettiva del francescanesimo come testimonianza di povertà in
seno alla Chiesa. I rimproveri, che non gli Spirituali, ma la gerarchia della Comunità rivolge ai suoi
confratelli, mostrano una situazione che si era gravemente deteriorata e che tendeva ancora a peggiorare.
La questione era complessa. Il papa decise di affidarla a una commissione di cardinali. La commissione iniziò i suoi lavori predisponendo quattro punti su cui le due parti in contrasto avrebbero
dovuto rispondere per bocca dei loro difensori, che furono specialmente Buonagrazia da Bergamo,
esperto di diritto, polemista abile ed acuto nel cogliere i punti deboli dell’avversario, e Ubertino da
Casale, appassionato ed eloquente nell’esporre i propri punti di vista, convinto nel suo buon diritto,
in fondo di cultura più larga ed aperta del suo competitore, anche se meno esperto delle manovre e
dei cavilli giuridici.
I quattro punti su cui fu chiesta una risposta vertevano prima di tutto sull’accusa rivolta dalla
Comunità agli Spirituali di aderire alla setta del libero spirito, poi sull’osservanza della regola, inoltre sulle persecuzioni contro gli Spirituali e infine sulle teorie e sugli scritti di Pietro di Giovanni
Olivi. Su di essi iniziò uno scambio di libelli polemici tra Buonagrazia da Bergamo ed Ubertino.
All’accusa di essere seguaci del libero Spirito Ubertino poté rispondere che alla Comunità apparte14
neva quel frate Bentivegna che aveva cercato di iniziare alla setta Chiara da Montefalco e che proprio lui, Ubertino, aveva fatto smascherare, consegnare all’inquisizione e condannare. Da parte sua
Raimondo Gaufridi, per gli Spirituali della Provenza, dell’Aquitania e dell’Aragona, rispose che
non sapeva neppure di che si trattasse.
Per le persecuzioni inflitte agli Spirituali, Buonagrazia affermò che essi erano così profondamente ribelli, che lo stesso Raimondo Gaufridi era stato costretto a punirne alcuni durante il suo generalato. La risposta fu che le persone punite non lo erano state in quanto zelatrici della regola, ma perché colpevoli di fatti specifici.
Ben più aspre e difficili erano le due questioni relative all’Olivi ed alle sue dottrine ed
all’osservanza della regola. Sul primo punto Ubertino seppe muoversi con accorta prudenza ricordando la sua convivenza con l’Olivi in una povera cella di Santa Croce di Firenze, ma nello stesso
tempo esaltando del maestro provenzale la grande dottrina e la profondità di pensiero; giudicava ingiusta la persecuzione decretata contro le sue opere, di cui nessuna era stata oggetto di un esame
condotto nelle debite forme, e nessuna teoria delle quali era stata mai condannata. Assai più duro ed
articolato il giudizio dato a proposito dell’osservanza della regola. Alle constatazioni fatte dalla
Comunità che si erano sempre rispettate le norme canoniche della regola stessa con tutti i successivi
chiarimenti e le precisazioni apportate dai papi, Ubertino ebbe buon gioco nel rispondere che la
questione non poteva restringersi ad un piano e ad un livello meramente giuridico e formale, ma che
doveva essere, invece, rapportata all’esempio dato da Francesco stesso ed alla sua volontà qual era
stata fermata nella regola e chiarita e completata dal Testamento. La Comunità aveva ridotto la povertà ad un puro e semplice elenco di prescrizioni, contenute in privilegi, quindi si gloriava ormai
d’un nome senza contenuto effettivo.
La conclusione del dibattito sembrava, perciò, favorevole al gruppo spirituale nel senso che si
poteva prevedere una deliberazione che accordasse loro un’autonomia od un’esenzione dall’obbedienza alla gerarchia regolare dell’Ordine. In questo senso spingeva anche uno dei cardinali più favorevoli agli Spirituali, quel Giacomo Colonna, che tanto aveva sofferto per l’inimicizia di Bonifacio VIII e che aveva trovato, allora, l’unico appoggio proprio in alcuni frati rigoristi.
Contro questa soluzione, che reintroduceva in sostanza i Pauperes heremitae papae Celestini, la
Comunità serrò le sue fila: ne capeggiò l’iniziativa Giovanni Minio da Morrovalle, nella sua qualità
di cardinale protettore dell’Ordine, appoggiando una nuova linea di condotta: il dibattito fu affidato
a due giuristi, il procuratore generale dell’Ordine, Raimondo di Fronsac e Buonagrazia da Bergamo.
La prima mossa, assai abile, fu quella di scavalcare la commissione d’inchiesta, accusandola,
senza mai farlo parere, di parzialità, non avendo tenuto conto delle condizioni d’incapacità giuridica
in cui i rappresentanti degli Spirituali si trovavano per le scomuniche contro di loro legittimamente
lanciate. Si rivolsero, perciò, a due altri cardinali non ostili alla Comunità, che presentarono in concistoro al papa Clemente V una solenne protesta, che mirava a creare una sospensiva per qualunque
decisione il pontefice stesse per prendere e, possibilmente, a riprendere daccapo tutto il dibattito.
Questa protesta accusava i difensori degli Spirituali di eresia, li dichiarava scomunicati perché
tale pena aveva comminato Giovanni Minio da Morrovalle a “chi avesse conservato e letto opere
dell’Olivi”, fatto provato dagli opuscoli polemici dai quali conseguiva che Ubertino aveva consultato quelle opere. Dopo questa premessa, che mirava a togliere validità a tutto il procedimento svoltosi sotto l’autorità della commissione nominata dal papa, si passava ad una serie precisa di richieste.
La prima era quella di dichiarare nullo ogni privilegio accordato ai rappresentanti degli Spirituali e
specialmente quello di poter parlare e scrivere prescindendo dall’obbedienza dovuta ai superiori; carica di conseguenze era l’altra richiesta, di approvare la condanna delle opere dell’Olivi dichiarata
dall’Ordine e di renderla ufficialmente valida ed inappellabile. Infine si chiedeva di rifiutare qualsiasi esenzione dall’obbedienza per i superiori da parte degli Spirituali evitando uno scisma
nell’Ordine.
In realtà il giudizio di Clemente V sulla questione dell’osservanza della regola da parte della
Comunità era chiaro: nessuno sforzo dialettico e nessun argomento giuridico di Raimondo di Fronsac e di Buonagrazia da Bergamo riuscì a convincerlo che fossero rispettosi zelatori della povertà e
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su questo nessuno riuscì a smuoverlo. Il papa fu piuttosto attento, invece, alle accuse rivolte
all’ortodossia dell’Olivi, per cui venne nominata un’apposita commissione di teologi formata da tre
maestri in teologia appartenenti a ordini mendicanti, ma non francescani.
Per la spinta di questi ed altri problemi, dalle questioni con Filippo il Bello per i Templari al libero Spirito ed altri ancora, il pontefice convocò a Vienne nel Delfinato – terra dell’impero – un
concilio, che iniziò le sue sedute il 16 ottobre 1311.
Fra le molte questioni dibattute, quelle relative all’Olivi ed all’ordine minoritico. Quanto alle
opere del frate e teologo provenzale la commissione incaricata di esaminarle dichiarò dubbie e discutibili solo quattro tesi che, giudicate erronee, furono condannate con il decreto Fidei catholicae
fundamentum (6 maggio 1312), ma indirettamente, senza dare il nome del loro autore, come era uso
per le persone di sicura fede e di vita intemerata, tanto che gli aderenti all’Olivi poterono affermare
che il Concilio nonché condannare il loro maestro, ne aveva vagliata e, nella massima parte, approvata l’ortodossia.
La bolla Exivi de Paradiso fu emanata lo stesso giorno. In essa Clemente V dava nel contrasto
fra comunità e Spirituali un giudizio salomonico: rifiutava, infatti, ma senza nominarli, la posizione
degli Spirituali per cui la regola costituiva un insieme normativo intangibile perché sintesi perfetta
di vita evangelica, riconfermando, invece, il diritto suo e dei suoi predecessori di decidere in proposito, secondo le esigenze che si fossero di volta in volta presentate. Però rimproverava in termini duri, anche senza nominarla, la Comunità per tutte la violazioni che si erano introdotte nell’Ordine e
che erano state colpevolmente tollerate. Anche se concedeva qualche lieve attenuazione per alcune
norme, che la situazione dell’Ordine rendeva di difficile attuazione, permettendo, in rapporto a specifiche esigenze locali, che i ministri provinciali potessero, se necessario, far provviste ed avere abiti, di fatto, quanto al modo di vivere, Clemente V faceva proprie le posizioni degli Spirituali.
Al momento della pubblicazione dei due documenti Comunità e Spirituali si sentirono entrambi
vincitori. Quale, però, fosse la vera, seppur tacita presa di posizione del papa lo si ricava, in modo
del tutto chiaro, da tutta una serie di misure prese nei mesi immediatamente successivi. Con la bolla
Cum nos (23 luglio 1312) venivano rimossi dalla loro carica il provinciale della Provenza e quanti
altri guardiani – ben quindici – avevano infierito contro gli Spirituali; con la bolla Cum nostrae intentionis del 31 luglio 1312 relegò Buonagrazia da Bergamo nel convento di Valcabrère (nella provincia di Aquitania), diffidandolo dall’allontanarsene. Il nuovo ministro generale, Alessandro di
Alessandria, riunì tutti gli Spirituali della Francia Meridionale nei tre conventi di Carcassona, Narbona e Béziers, nominando dei superiori di loro gradimento.
In questo modo, eliminando il motivo di contendere, si poteva sperare che la pace fosse tornata
fra le due parti in conflitto: d’altra parte Clemente V era fermamente deciso a mantenerla come provò il fatto che non diede alcuna importanza ad un’Apologia, che Buonagrazia da Bergamo gli aveva
indirizzato per ottenere la revoca del provvedimento che l’aveva colpito. Gli Spirituali italiani, che
erano riusciti in vario modo a defilarsi ed a sfuggire ad una troppo oculata sorveglianza dei loro superiori, avevano, però, partecipato attivamente, nella persona d’Ubertino da Casale, alle vicende ed
ai dibattiti presso la Curia papale. Sempre preoccupato ed attento aveva sempre dato informazioni ai
confratelli della penisola Angelo Clareno, che aveva assistito in silenzio, anche se non è da escludere l’aiuto di consiglio e di notizie ad Ubertino. In questo modo l’Ordine, senza giungere allo scisma,
poteva sperare di non arrivare a nuovi scontri. Ma non fu così, per la resistenza della Comunità e,
qualche anno più tardi, per l’intransigente posizione di papa Giovanni XXII (1316-1334), sotto il
cui pontificato non solo si tolse ogni autonomia agli Spirituali, ma si arrivò a mandarne quattro al
rogo a Marsiglia nel 1318, come eretici: era l’inizio di una lunga persecuzione. Più grave ancora fu
lo scontro di questo papa con lo stesso ministro generale dell’Ordine, Michele da Cesena, sulla concezione teorica della povertà francescana, dato che Giovanni XXII tornò sulla questione dei loculi,
dichiarando eretica la convinzione che Cristo e gli apostoli non avessero posseduto nulla nemmeno
in comune.
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Da Grado G. Merlo, Nel nome di san Francesco. Storia dei frati minori e del
francescanesimo sino agli inizi del XVI secolo, Padova, Editrici francescane,
2003 (RIELABORATO)
Nel multiforme panorama sociale e politico delle città europee la scelta "mendicante" implicò una
pronta adattabilità alle situazioni locali e una pluralità di forme e meccanismi di collegamento istituzionale e sociale. Sulla base dei meri dati numerici si può affermare che rispetto alle altre formazioni religiose "mendicanti" i frati Minori esprimessero un superiore dinamismo insediativo nelle più diverse aree
e conseguissero una prevalenza quantitativa. Quasi a sanzionare una realtà di fatto, quale si delineava al
termine di un lungo processo, frate Bartolomeo da Pisa, nella sua compilazione intitolata De con formitate vitae beati Francisci ad vitam Domini Iesu, sul finire del Trecento non esita a scrivere:
«Inter ordines omnes, et praecipue mendicantes, nemo de tot nobilibus, regibus et principibus gloriari, ut hic ordo [fratrum Minorum], potest (...). Nulla est domus nobilium fere in christianitate, de qua
non fuerit aliquis frater Minor, ut satis clare posset deduci, et de vita, saltem quod in morte, dare patet
considerando sepulturas excellentium virorum apud fratres Minores per orbem depositorum, qui pro
maiori parte ob devotionem habitum assumentes cum ipso voluerunt sepeliri».
[Fra tutti gli Ordirli, in particolare Mendicanti, nessuno può gloriarsi, come quest'Ordine, di tanti nobili, re e principi (...). In pressoché tutta la cristianità non esiste casa nobiliare dalla quale non provenga
un qualche frate Minore, come in tutta evidenza si può constatare, e come chiaramente appare sia dalla
vita sia persino dalla morte, considerando le sepolture di uomini eccellenti che si trovano presso tutte
le sedi, ovunque sparse, dei frati Minori: uomini che per la maggior parte, assumendo per devozione
l'abito minoritico, con questo hanno voluto essere tumulati].
Se è vero che l'opzione cittadino-aristocratica dei Minori, come degli altri Ordini mendicanti, è prevalente, essa non è esclusiva, ma coesiste con raccordi sociali che percorrono verticalmente le stratificazioni di ceto e di classe per assestarsi ai vertici. In età bonaventuriana si giunse a teorizzare il privilegiamento delle relazioni con i ricchi e i potenti (divites et potentes)». I frati Minori condividevano le
tendenze aristocratiche della società e, quindi, si adeguavano ai corrispondenti regimi politici. Non si
deve pensare a una totale dipendenza dei Minori da «divites et potentes», perché l'Ordine costituiva un
consistente polo dialettico di carattere generale rispetto agli interessi particolari e locali e, soprattutto,
perché i frati riflettevano sulla realtà e volevano su di essa incidere, anche con la predicazione.
In poco più di cent'anni i "figli" di san Francesco erano presenti in ogni dove dell'Europa cattolica,
oramai radicati nel profondo delle relazioni tra gli individui e delle strutture sociali: impegnati in uno
sforzo di "riattualizzazione" del messaggio cristiano in un mondo occidentale profondamente cambiato
nelle sue strutture materiali e mentali e nella sua composizione sociale rispetto ai secoli precedenti.
I Minori, partecipando del dinamismo e delle logiche espansionistiche della cattolicità occidentale, si
mossero alle frontiere e oltre le frontiere della cristianità per un'opera di cristianizzazione in una duplice
accezione: da un lato, portando il Vangelo a chi mai l'aveva conosciuto oppure mai vi aveva aderito;
d'altro lato, riportando il Vangelo a chi lo aveva dimenticato, abbandonato o tradito. Tale avventura non
poté realizzarsi che nel rapporto con il papato, con i detentori del potere e con i vertici delle società: si
trattasse della evangelizzazione della penisola iberica in dipendenza dall'avanzare e dall'imporsi della
Reconquista, oppure della conversione dei Cumani nell'Oriente europeo (popolazione di origine turca
attorno al Volga), oppure della espansione della Chiesa romana nei paesi balcanici all'interno della sempre presente e irrisolta questione della separazione/riunione con la Chiesa bizantina. In questo discorso
assume uno specifico interesse il problema dei rapporti col mondo islamico e della riconquista della Terrasanta.
Esiste una lenta e travagliata riflessione che accompagna il passaggio dalla semplice concezione del
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"viaggio tra Saraceni e infedeli" come testimonianza cristiana ad assai più complesse concezioni su metodi e strumenti di evangelizzazione degli infideles. Ciò avviene in un primo tempo, nel pieno Duecento, tra i Minori di Inghilterra, con il coinvolgimento di personalità eminenti quali i frati Adamo Marsh e
Ruggero Bacone. In frate Adamo si constata il mutamento radicale del significato del versetto evangelico di Matteo 10, 16 («Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi»). Esso era posto in apertura del
capitolo sedicesimo della Regola non bollata a connotare in senso affatto subordinativo la scelta "missionaria", come ribadiscono le frasi successive. Dal frate Minore inglese lo stesso versetto è utilizzato, invece, in una visione di tipo dominativo: i «lupi» sono gli infedeli che gli «agnelli» dovranno affrontare
con il «ferro» e la «parola» per «vendicare l'ingiuria fatta al Salvatore, per sublimare il regno dei cieli, per
esaltare la fede cattolica, per dilatare la religione cristiana». La visione dominativa si inseriva, d'altronde
e principalmente, nella teorizzazione marshiana di un «potere universale» del papa su tutta l'umanità.
Gli infedeli facevano parte del gregge del Cristo in virtù della creazione e, dunque, andavano ricondotti
a quel gregge da cui si erano staccati, facendosi «lupi»: ecco perché il «ferro» non può far tacere la «parola» e perché i «predicatori» non devono avere paura di spingersi come «agnelli in mezzo ai lupi».
La successiva elaborazione intellettuale di frate Ruggero Bacone raggiunge livelli assai raffinati e
riesce a integrare il fatto speculativo con le (sue) implicazioni pratiche.
Ruggero crede nell'efficacia della sapientia nell'opera di conversione al cristianesimo, tuttavia non
esclude il contemporaneo uso del «labor bellicus» contro coloro che non si riesca a convertire. D'altronde, la sapientia deve tradursi in potestas, in modo da partecipare al disegno provvidenziale ed escatologico della plenitudo potestatis. Il "pensiero" baconiano, per esempio, prevedeva la rovina dell'Islam per
opera «o dei Tatari o dei cristiani». Egli parrebbe così svalutare lo strumento della crociata: a differenza
di altri che nell'ultimo quarto del XIII secolo la ripropongono come essenziale per "ricuperare" la Terrasanta — tenendo conto che con questa parola non si intendevano soltanto i Luoghi santi, bensì un amplissimo territorio che andava dalla Tunisia o dall'Egitto sin alla Siria e all'Eufrate. Il problema della
missione si ricongiungeva così in modo inestricabile con il problema della crociata. Nel corso del suo
non lungo pontificato, dal dicembre 1271 al gennaio 1276, Gregorio X affida numerosi incarichi a
membri degli Ordini mendicanti maggiori per questioni politico-religiose generali che investono l'area
sud-orientale del Mediterraneo e, in particolare, chiede ad alcuni frati Minori valutazioni e prospettive
sulla crociata d'Oltremare. Il recupero della Terrasanta ridiventa tema centrale durante il papato di Niccolò IV (1288-1292), già ministro generale dei Minori dopo frate Bonaventura da Bagnoregio. A questo
papa il confratello frate Fidenzio da Padova consegna il suo Liber de recuperatione Terrae sanctae, che
aveva redatto alla fine degli anni ottanta del Duecento per rispondere a una richiesta formulatagli parecchio tempo prima da Gregorio X.
I Minori erano nel vivo dell'esistenza collettiva, con una forte e decisa volontà di essere attivamente
presenti con la loro capacità di pensare anche l'impensato e di provare percorsi intellettuali ed esistenziali in grado di lasciare il segno e di durare nel tempo. In questo contesto vanno posti i rapporti con il lontano Oriente e con l'impero mongolo che Giovanni da Pian del Carpine inaugura poco prima della metà
del XIII secolo e che culmineranno con la creazione dell'arcidiocesi di Khanbaliq (Pechino), a cui nel
1307 sarà preposto un arcivescovo minorita, frate Giovanni da Montecorvino.
Si deve a Niccolò IV la decisione di inviare al gran khan Qubilai, che dalle notizie che si avevano
sembrava mostrare favore verso i cristiani, frate Giovanni da Montecorvino insieme con altri quattro
Minori. Lasciati in Iran i suoi confratelli, frate Giovanni proseguì con il mercante Pietro di Lucalongo.
Nel 1294 essi raggiunsero la Cina ed entrarono a Khanbaliq. Così ebbe inizio l'opera missionaria del
Minore, che per un decennio operò da solo, finalmente raggiunto da frate Arnoldo da Colonia nel 1304.
Dopo un successo effimero presso il popolo turco degli Öngüt, frate Giovanni concentrò le sue iniziative in Khanbaliq, agendo presso gli stranieri provenienti dall'Asia centrale e dall'Iran (Alani, Osseti,
Armeni) che prestavano servizio presso la corte del gran khan. Imparato il turco (o il mongolo), tradusse
in quella lingua i Vangeli e i Salmi. Trascurò invece il cinese, in quanto lingua del popolo sottomesso.
Pervenne a battezzare circa quattromila individui in poco più di dieci anni. Di tutto ciò giunse notizia in
Avignone e nel 1307 Clemente V creò frate Giovanni arcivescovo di Khanbaliq con giurisdizione patriarcale sull'intero immenso impero mongolo. Soltanto nel 1313 tre frati Minori, nominati vescovi, lo
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raggiunsero a Khanbaliq per la consacrazione episcopale. Fu creata una nuova diocesi nella Cina centromeridionale a Zaiton. I1 clero cattolico, composto da pochi frati Minori, godeva di regolari sussidi da
parte dell'imperatore mongolo e i conventi ricevevano donazioni da benefattori locali. Nel 1318 l'estesissimo territorio della missione minoritica d'Asia venne ridimensionato. Ai frati Predicatori furono assegnate le terre dell'Il-khanato dell'Iran, dell'Asia centrale e dell'India. L'arcidiocesi di Khanbaliq fu
suddivisa nelle vicarie della «Tartaria Aquilonalis» (i territori dell'Orda d'oro tra Volga e Mar Nero) e
«Tartaria Orientalis» (Mongolia), oltre che nella vicaria del Catai (Cina). Frate Giovanni da Montecorvino doveva vivere ancora un dodicennio o poco meno, senza che il papato provvedesse a sostituirlo.
Per iniziativa degli Alani della guardia imperiale fu inviata un'ambasceria che nel 1338 giunse presso
la corte di Avignone col mercante genovese Andalò da Savignone per richiedere l'invio di un nuovo arcivescovo. Le notizie sul seguito della missione in Cina si rarefanno sin a dissolversi. Con la cacciata
dei Mongoli e l'imporsi della dinastia dei Ming nel 1368, ostile alle religioni straniere, la presenza dei
frati Minori in quel lontano e sterminato paese si estinse. Anche nell'Asia centrale le missioni incontrarono sempre maggiori difficoltà ed ebbero qualche martire: nel 1339, per esempio, frate Riccardo di
Borgogna, vescovo della diocesi di Almaliq (presso Kulja nella Dzungaria cinese), insieme a sei confratelli venne ucciso. Verso la metà del XIV secolo i khan mongoli del Chagatai si convertirono definitivamente all'Islam: un ulteriore immenso spazio del continente asiatico veniva sottratto a ogni possibilità
di lavoro missionario. Aveva così termine un'avventura umana e religiosa durata meno di un secolo.
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2. Il papato in Avignone.
CONCILIO DI VIENNE 1311
Canone 24. Il concilio dispone la costituzione a Bologna, Parigi, Oxford e Salamanca di scuole di
arabo, ebraico e caldeo per istruire missionari disposti a evangelizzare i popoli orientali.
DECRETO EXIVI DE PARADISO [38]
Sono uscito dal paradiso, ho detto: irrigherò il giardino delle piantagioni, così dice il celeste
agricoltore che, vera fonte della sapienza, Verbo di Dio, generato eternamente dal Padre e rimanendo nel Padre, ultimamente in questi giorni, fatto carne per opera dello Spirito santo nel seno
della Vergine, è uscito uomo al suo lavoro arduo della redenzione del genere umano, presentandosi come modello della vita celeste, offrendo se stesso agli uomini. E poiché l'uomo, il più
delle volte oppresso dalle preoccupazioni della vita mortale, si allontanava dalla contemplazione
di questo esemplare, il nostro vero Salomone pose nel seno della chiesa militante, tra gli altri,
un giardino di delizie, lontano dai flutti procellosi del mondo, in cui si attendesse con maggior
quiete e sicurezza a contemplare e custodire tale modello; egli stesso entrò in questo mondo per
irrigarlo con le acque le tonde della grazia spirituale e della dottrina. Questo giardino è il santo ordine dei frati Minori, che chiuso fermamente tutto intorno dalle mura dell'osservanza della regola, contento interiormente solo di Dio, è ornato abbondantemente da nuovi vivai di figli. Venendo in questo giardino, il figlio diletto di Dio coglie la mirra della mortificante penitenza con gli
aromi, che diffondono dovunque con soavissima dolcezza il profumo attraente della santità. Si tratta di quella forma e regola di vita celeste tracciata da s. Francesco, straordinario confessore di Cristo, che, con la parola e con l'esempio, insegnò ai suoi figli a osservare. Poiché i professi di questa
santa regola e i suoi devoti seguaci, come discepoli e veri figli di un tanto padre, desideravano, come del resto ardentemente desiderano, osservare senza tentennamenti in tutta la sua purezza e integrità tale regola, quando si accorsero che in essa vi erano punti di incerta interpretazione, volendo
fare chiarezza sono prudentemente ricorsi al sommo dell'apostolica dignità, perché rassicurati da
quella autorità, a cui sono soggetti anche in forza della regola, potessero servire in coscienza il Signore senza alcun dubbio e pieno amore. Prestando orecchio a queste loro pie e giuste suppliche numerosi nostri predecessori chiarirono i punti che sembravano dubbi, pubblicarono alcune norme e
fecero qualche concessione, come sembravano richiedere la coscienza dei frati e la pura osservanza
della regola. Ma poiché vi sono coscienze delicate, timorose di quanto possa allontanarle dalla via
del Signore, che temono la colpa anche dove non c'è, le coscienze di tutti i frati non sono state completamente pacificate dai chiarimenti dati. Ne sono derivati dubbi su alcuni punti che riguardano la
regola e il loro stato, giunti più volte alle nostre orecchie e sollevati a più riprese in concistori pubblici o privati. Per questo motivo i frati ci hanno supplicato umilmente di apportare ai dubbi sopravvenuti, o che potranno sopravvenire, il rimedio opportuno di un chiarimento della Sede Apostolica. Noi, che abbiamo provato fin dalla più tenera età grande devozione verso i seguaci di questa
regola e verso la fine della regola si dice: «Osserviamo la povertà, l’umiltà e il santo vangelo del
nostro signore Gesù Cristo, come abbiamo fermamente promesso». A partire da queste affermazioni
non è chiaro se i frati di tale ordine siano tenuti in forza della loro regola all'osservanza di tutti i
precetti e i consigli evangelici. Alcuni sostenevano che i frati sono obbligati a tutti; altri invece che
sono obbligati soltanto a questi tre: «vivere nella obbedienza, nella castità e senza niente di proprio», e inoltre a tutto ciò che nella regola è espressamente dichiarato obbligatorio. Noi, seguendo
su questo punto le orme dei nostri predecessori ma cercando di chiarirlo ulteriormente, rispondiamo
così: dal momento che un determinato voto deve riguardare un oggetto preciso, chi fa voto di osservare una regola non può essere considerato impegnato, in forza del voto, ai consigli evangelici in
essa non indicati. Che questa sia stata l'intenzione del beato Francesco, ideatore della regola, si pro20
va dal fatto che egli incluse in essa alcuni consigli evangelici, tralasciando gli altri. Se con l'espressione: «La regola e la vita dei frati Minori è questa ecc.» avesse voluto obbligarli a tutti i consigli
evangelici, sarebbe stato superfluo e vano menzionarne nella regola solo alcuni e tralasciare gli altri.
Poiché è proprio del termine restrittivo escludere quanto gli è estraneo e includere ciò che gli è proprio, noi dichiariamo e diciamo che i frati non solo sono obbligati dalla professione della loro regola
all'osservanza dei tre voti in se stessi, ma anche di tutte quelle cose relative ai tre voti e che la regola
impone. Se, infatti, quelli che promettono di osservare la regola vivendo «in obbedienza, castità e
povertà», fossero obbligati solo ai tre voti e non anche a tutto quello che la regola contiene a loro
completamento, invano si pronuncerebbero queste parole: «Prometto di osservare sempre questa regola» e da esse non nascerebbe alcun obbligo.l'intero ordine, ora dalla universale sollecitudine del
governo pastorale, che ci grava quantunque indegni, siamo portati a farli oggetto delle nostre più
delicate attenzioni e favori, quanto più spesso e intensamente riflettiamo sui frutti abbondanti
che dalla loro vita esemplare e dalla loro salutare dottrina continuamente derivano alla chiesa.
Mossi dalla pia supplica, abbiamo posto tutta la nostra attenzione nel compiere quanto ci viene
chiesto e abbiamo fatto esaminare diligentemente questi dubbi da numerosi arcivescovi, vescovi,
maestri in sacra teologia e altre persone di scienza, prudenti e capaci. All'inizio della regola si
legge: «La regola e la vita dei frati Minori è questa: osservare il vangelo del signore nostro Gesù
Cristo, vivendo nella obbedienza, senza nulla di proprio, e in castità»; e ugualmente, poco dopo:
«Terminato l'anno di probazione, siano ammessi all'obbedienza, con la promessa di osservare
sempre questa vita e regola»; e verso
Tuttavia non pensiamo che il beato Francesco volesse obbligare i frati in uguale maniera sia a
tutto ciò che è contenuto nella regola e che chiarisce i tre voti, sia alle altre cose in essa contenute.
Ma al contrario egli stesso ha distinto nettamente tra le cose la cui trasgressione è mortale in senso stretto e quelle la cui trasgressione non lo è; infatti per alcune usa la parola precetto o una
equivalente, mentre per altre si contenta di altre espressioni. Similmente, poiché oltre a ciò che
espressamente nella regola è scritto con parole come comando, esortazione o ammonizione, altre
sono accompagnate da un verbo di modo imperativo, positivo o negativo, si è dubitato sinora se i
frati i fossero tenuti a queste prescrizioni, come se avessero forza di precetto. A quanto abbiamo
compreso questo dubbio non è diminuito, anzi è aumentato dopo la dichiarazione del nostro predecessore Nicolò III, secondo la quale gli stessi frati, in forza della loro regola, sono tenuti a osservare quei consigli evangelici espressi sotto forma di comando o di proibizione, o con parole
equivalenti, e anche tutte quelle norme che sono imposte loro nella regola con espressioni obbliganti. Quei frati per conservare una buona coscienza, ci hanno supplicato di dichiarare quali di
queste espressioni debbano considerarsi equivalenti a precetti e obbligatorie. Noi dunque che
amiamo le coscienze sincere, ispirandoci al principio che per tutto ciò che riguarda la salvezza
dell'anima bisogna attenersi all'opinione più sicura per evitare gravi rimorsi di coscienza, formuliamo la seguente decisione: anche se i frati non sono tenuti all'osservanza di tutte le prescrizioni
espresse nella regola con forma imperativa, come veri precetti o forme equivalenti, tuttavia è bene
che i frati, per osservare la purezza e il rigore della regola, si sentano obbligati ai punti che seguono,
come se fossero precetti. Intendiamo ora raccogliere da un compendio ricavato dalla regola quelle
norme che sembrano equivalenti per la forza dell'espressione o in ragione della materia trattata, a
precetti, o anche per entrambi i motivi: i frati non devono avere più di una tonaca «col cappuccio
e di un'altra senza cappuccio»; così pure, non devono portare le scarpe, andare a cavallo salvo il
caso di necessità; similmente i frati «abbiano vesti vili»; siano tenuti a digiunare il venerdì, «dalla
festa di tutti i Santi fino al Natale del Signore»; i «chierici recitino l'ufficio divino secondo il rito
dalla santa chiesa romana»; i ministri e i guardiani «abbiano molta cura per le necessità degli infermi e per rivestire gli altri frati»; «se uno dei frati cade infermo, gli altri devono servirlo»; «i frati
non predichino nella diocesi di alcun vescovo, qualora dallo stesso vescovo fosse stato proibito»;
«nessuno assolutamente osi predicare al popolo, se prima non è stato esaminato, approvato e a ciò
incaricato dal ministro generale» o da altre persone competenti secondo la predetta dichiarazione; «i
frati che sapessero di non poter osservare esattamente la regola, debbano e possano ricorrere ai loro
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ministri»; si deve osservare tutto ciò che sta nella regola a proposito dell'abito dei novizi e dei professi, della forma dell'ammissione e della professione, se ai ministri, quanto all'abito dei novizi «non
sembrerà diversamente secondo Dio», come dice la regola: tutto questo deve essere osservato dai
frati come obbligatorio.
L'ordine generalmente ritiene e ha ritenuto sin dall'inizio che quando si trova nella regola la parola: «si osservi», questa ha forza di precetto e dev'essere osservata dai frati come tale. Quel confessore di Cristo di cui si parla, prescrivendo ai ministri e ai frati le modalità da osservare per
l'ammissione all'ordine, dice nella regola: «Si guardino i frati e i loro ministri dall'essere solleciti
delle loro cose temporali, affinché dispongano delle medesime liberamente secondo l'ispirazione del Signore. Se tuttavia si chiedesse loro un consiglio, i ministri li potranno mandare da persone timorate di Dio perché con il loro aiuto diano i loro beni ai poveri». A causa di ciò molti frati
dubitarono e dubitano se è loro lecito ricevere, nel caso fosse loro donato, qualcosa dei beni dei
postulanti; se possano indurli senza colpa a fare donazioni alle persone e ai conventi; se i ministri
stessi o i frati possano dare loro consiglio per la distribuzione di tali beni, benché si possano trovare altre persone capaci come loro a consigliare, alle quali mandarli. Noi però, riflettendo attentamente che s. Francesco con quelle parole intendeva proprio allontanare completamente i suoi
frati, che aveva stabiliti nella più stretta povertà, dall’attaccamento ai beni temporali dei nuovi professi, di modo che per quanto riguarda gli stessi frati l'accoglienza nell'ordine appaia santa e purissima e non contaminata dal desiderio dei loro beni temporali, ma solo tesa a consacrarli al divino
servizio, disponiamo che in futuro sia i ministri che gli altri frati si astengano da esortazioni e
consigli per donazioni nei loro confronti o in genere per la distribuzione dei loro beni. Per tutto
questo siano mandati da uomini timorati di Dio di altro stato di vita, non dai frati, perché sia chiaro
a tutti che questi ultimi sono seguaci amorosi, vigilanti e perfetti della paterna istituzione così salutare. Poiché, però, la regola stessa vuole che chi entra sia libero di fare delle proprie cose quello
che Dio gli ispira, non sembra illecito che essi, tenuto conto delle loro necessità e dei limiti posti
dalla dichiarazione precedente, possa no accettare, se il nuovo professo volesse liberamente dare
lori, qualche cosa dei suoi beni in elemosina, come agli altri poveri. Però i frati devono essere
prudenti nell'accettare tali offerte, perché a causa della loro notevole quantità non nascano invidie
nei loro confronti. Inoltre la regola dice che «quelli che hanno già promesso obbedienza abbiano
una tonaca col cappuccio e un'altra senza, se la vorranno avere», e similmente che «tutti i frati abbiano vesti vili». Poiché abbiamo dichiarato tali espressioni equivalenti a precetti, vogliamo che
siano meglio determinate: quanto al numero delle tonache diciamo che non è lecito usarne di più,
salvo le necessità previste dalla regola, secondo quanto chiarì il nostro predecessore ricordato prima. Quanto alla rozza qualità delle vesti, sia dell'abito che delle tonache, deve essere stabilita in
rapporto alle consuetudini e condizioni del luogo, quanto al colore e al prezzo. Non si può, infatti,
stabilire un unico criterio di giudizio per tutte le regioni. Affidiamo questo giudizio sulla rozzezza
della stoffa ai ministri e ai guardiani responsabili in coscienza dell'osservanza di questo punto.
Lasciamo ugualmente a loro di determinare per quale necessità i frati possano portare le scarpe.
All'obbligo del digiuno nei due tempi determinati dalla regola, «dalla festa di tutti i Santi alla Natività del Signore» e specialmente nella Quaresima, viene aggiunto dalla stessa regola che «negli altri
tempi non siano tenuti a digiunare se non il venerdì». Da questo alcuni hanno dedotto che i frati di
tale ordine non sono tenuti ad altri digiuni oltre questi, se non per convenienza; chiariamo invece
che essi non sono tenuti al digiuno in altri tempi, eccetto che in quelli comandati dalla chiesa.
Non è verosimile, infatti, che l'autore della regola e chi la ha confermata intendessero sollevare i
frati da quei digiuni, a cui, per disposizione generale della chiesa, sono obbligati gli altri cristiani.
Inoltre il santo, volendo sopra ogni altra cosa che i suoi frati fossero totalmente alieni dal denaro,
comandò «fermamente a tutti i frati che in alcun modo ricevessero denari o pecunia direttamente o
per interposta persona». Il nostro stesso predecessore, chiarendo questo articolo, determinò i casi
e i modi, attenendosi ai quali i frati non possano essere accusati di ricevere denaro direttamente o
per interposta persona, violando la regola e la purezza del loro ordine. A nostra volta diciamo che
essi non devono ricorrere a chi traffica il denaro sia pure per motivi e con modalità diverse da
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quelle proibite, perché, comportandosi diversamente, non li si accusi a ragione di trasgredire il precetto e la regola. Quando, infatti, si proibisce a una persona qualche cosa in generale, quello che
non viene concesso espressamente si intende negato. Le questue, le ricezioni di offerte in denaro in
chiesa o altrove, le cassette destinate all'offerta in denaro e qualsiasi altro ricorso al denaro o a chi
lo ha, non contemplati nella precedente dichiarazione, tutte queste cose, dico, sono chiaramente
proibite ai frati. E poiché anche il ricorso ad amici particolarmente vicini viene concesso espressamente dalla regola solo in due casi, «per le necessità dei malati e per vestire gli altri frati» il nostro
predecessore spesso ricordato, considerate le necessità della vita, ha creduto bene di estenderlo anche ad altre necessità che potessero temporaneamente sopravvenire col cessare delle elemosine.
Perciò i frati devono sapere che il ricorso a tali amici, quando si trovano in cammino o altrove, è
permesso solo nei casi predetti o simili: e questo sia che gli amici stessi diano il denaro, sia che si
tratti di incaricati, di inviati o di depositari, o con qualsiasi nome vengano designati, anche se si osservassero integralmente le forme previste dalla stessa dichiarazione circa il denaro. Infine poiché lo
stesso santo confessore desiderava che i suoi frati fossero totalmente staccati dall'effetto e dal desiderio dei beni terreni, e specialmente del denaro e completamente ignoranti circa il suo uso, come
dimostra la ripetuta proibizione di ricevere denaro, bisogna che i frati, quando nei casi e nei modi
prescritti dovranno ricorrere a coloro che hanno il denaro per le loro necessità, siano vigilanti e mostrino a tutti di non avere nessuno interesse nei suoi confronti, come in realtà non l'hanno. Inoltre è
illecito per i frati stabilire quanto e come debba essere speso, chiedere il rendiconto delle spese fatte, chiedere sotto qualunque forma del denaro, depositarlo o farlo depositare, tenere la cassetta del
denaro o portarne la chiave, e altri simili atti. Tali cose infatti sono di competenza solo dei donatori
o dei loro incaricati. Il santo, per formulare la norma della povertà nella sua regola, ha detto: «I frati
non si approprino di nulla, né casa, né luogo, né alcuna altra cosa. E come pellegrini e forestieri in
questo modo servendo il Signore, in povertà e umiltà, vadano per l'elemosina con fiducia». Vari nostri predecessori Romani Pontefici hanno spiegato che tale rinuncia deve essere intesa come riferita
sia al singolo che alla comunità, per il fatto che essi [Pontefici] hanno riservato a sé e alla chiesa
romana la proprietà di tutte le cose concesse e donate ai frati, benché esse e il loro uso fosse lecito
all'ordine e agli stessi frati, lasciando loro solo l'uso di fatto. Ora sono stati deferiti al nostro esame i
fatti avvenuti nell'ordine e che sembravano in contrasto col volo di povertà e con la purezza dell'essere stesso e che riteniamo esigano dei rimedi. Ad esempio, che i frati non solo sostengono di poter
essere eredi, ma cercano di esserlo; che talvolta percepiscono redditi annui in quantità così notevole
che i conventi che li hanno possono vivere solo di quelli; che quando nei tribunali vengono discussi
i loro affari riguardanti anche cose temporali, essi sono presenti con avvocati e procuratori, e intervengono personalmente nello stimolarli; che accettano di essere esecutori testamentari e talvolta si
intromettono nel dare disposizioni e nel fare restituzioni di interessi e di beni acquistati disonestamente; che in alcuni posti non solo hanno orti troppo estesi, ma anche grandi vigne, da cui raccolgono legumi e vino da vendere; che al tempo delle messi e della vendemmia, i frati mendicando o
comprandolo, raccolgono e ripongono nelle cantine e nei granai una tal quantità di grano e di vino,
da poter vivere per il resto dell'anno senza dover chiedere l’elemosina; che costruiscono o fanno costruire troppe chiese o altri edifici, di linee architettoniche singolari e troppo suntuose, così da sembrare non abitazioni di poveri, ma di potenti. In alcuni luoghi superano le grandi chiese cattedrali
per la quantità e la preziosità dei paramenti. Accettano, inoltre, senza alcuna distinzione cavalli ed
armi donate loro nei funerali. Tuttavia la comunità dei frati e specialmente i rettori affermavano che
nell'ordine non si verificavano tali fatti, o almeno la loro maggioranza; aggiungevano che gli eventuali colpevoli erano severamente puniti e che contro questi eccessi erano già state prese più volte,
da molto tempo, misure molto severe. Desiderando prenderci cura della coscienza dei frati e eliminare ogni dubbio, nei limiti del possibile, alle questioni proposte rispondiamo come segue. Poiché
alla sincerità della vita è essenziale che gli atti esterni rispecchino le disposizioni interiori, è necessario che i frati, i quali con una rinuncia così grande si sono distaccati dalle cose temporali, si astengano da tutto quello che possa essere o sembrare contrario a questa rinunzia. E poiché nelle successioni passa agli eredi non di una eredità o una gran parte di essa, tanto da far pensare a una frode:
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anzi lo proibiamo loro senza eccezione. E poiché le rendite annuali sono considerate dal diritto come beni immobili e ripugnano alla povertà e all'obbligo di mendicare, non c'è dubbio che, considerata la loro condizione, non è lecito ai frati ricevere o avere qualsiasi reddito, come anche le proprietà e il loro uso. Inoltre le persone che tendono alla perfezione devono evitare non solo ciò che è
male, ma anche l'apparenza del male. Ma la presenza nei tribunali e le pressioni esercitate, quando
si tratta dei loro interessi, inducono a credere, proprio in base a quello che accade esteriormente e da
cui gli uomini giudicano, che i frati occupati in questi affari cerchino qualche cosa come se fosse di
loro proprietà. I seguaci di questa regola non devono, quindi, immischiarsi nei tribunali e nelle cause, perché possano avere solo l'uso dei beni, ma, a suo tempo, anche la proprietà, e i frati non possono possedere, né personalmente, né per il loro ordine, dichiariamo che, considerata la purezza del
loro voto, essi sono assolutamente incapaci di tali successioni, che per loro natura si estendono indifferentemente al denaro e anche ai beni mobili e immobili. Non è neppure lecito per í frati procurarsi o accettare, sotto forma di legato, il valore corrispondente buona reputazione presso quelli
di fuori, e fedeli alla purezza del voto, non provochino scandalo nel prossimo. I frati di quest'ordine
devono anche essere alieni non solo dal ricevere, dal possedere, dal disporre o dall'usare il denaro,
ma anche da qualsiasi operazione finanziaria, come il nostro predecessore, più volte ricordato, ha
affermato nei chiarimenti a questa regola. Essi non possono nemmeno adire in giudizio per affari
temporali: per tutte queste ragioni non è loro lecito, anzi, considerata la purezza del loro stato, devono proprio ritenere proibito esporsi a esecuzioni e disposizioni che richiedano di maneggiare e
amministrare denaro. Non è però in contrasto col loro stato dare un consiglio, perché ciò non comporta per loro circa i beni temporali nessuna giurisdizione, o azione in giudizio o dispensa. E lecito
e ragionevole che i frati, i quali attendono assiduamente all'orazione e allo studio, abbiano orti e
spazi sufficienti per una certa distensione e ricreazione, per una certa attività fisica dopo il lavoro
sedentario, e per provvedersi degli ortaggi necessari. Ma è in contrasto con la regola e la purezza
del loro ordine avere orti e vigne da coltivare per venderne poi i prodotti. Secondo quanto ha ordinato papa Nicolò se i frati ricevessero come legato un campo o unii vigna da coltivare o cose simili,
non dovrebbero accettarli, perché possedere questi beni per ricavarne a suo tempo il prezzo dei prodotti, in sostanza significa avere dei proventi. Il santo sia con gli esempi della sua vita, che con le
parole della regola ha mostrato di volere che i suoi frati e figli, confidando nella divina provvidenza,
rivolgano i propri pensieri a Dio, che provvede gli uccelli del cielo, che pur non ammassano nei
granai, non seminano e non mietono. Non è quindi secondo la sua volontà che abbiano granai e dispense, mentre dovrebbero affidarsi alla questua d'ogni giorno. Non devono quindi raccogliere e
ammassare beni a cuor leggero, ma solo nei casi in cui, per esperienza, si ritenesse inverosimile
procurare diversamente il necessario. Rimettiamo questa decisione al giudizio dei ministri e dei custodi, sia insieme che singolarmente all'interno dei loro ambiti; essi dovranno avere il consiglio e il
consenso del guardiano, di due prudenti sacerdoti del luogo e di due frati tra i più anziani dell'ordine, sentendosi in ciò particolarmente impegnati in coscienza. Inoltre, il santo ha voluto costituire i.
suoi frati nella più grande povertà e nella più profonda umiltà, sia sul piano affettivo che su quello
effettivo, come quasi tutta la regola proclama; bisogna quindi che essi non costruiscano e non consentano la costruzione di chiese o altri edifici sproporzionati per quantità e grandezza al numero dei
frati. Vogliamo che dovunque, in futuro, nel loro ordine si accontentino di costruzioni semplici e
modeste, affinché l'apparenza non contraddica alla povertà promessa. Benché i paramenti e i vasi
ecclesiastici siano destinati all'onore del nome divino, per il quale Dio stesso creò ogni cosa, tuttavia Colui che conosce i segreti guarda soprattutto all'anima di chi lo serve e non alle mani, né vuole
essere onorato con oggetti in contrasto con lo stato di vita dei suoi servi. Perciò ai frati devono bastare vasi e paramenti ecclesiastici decenti e convenienti per numero e grandezza. Ma il superfluo e
l'eccessiva preziosità, e qualsiasi ricercatezza in questa come in altre cose non possono accordarsi
con la loro professione religiosa. Tutto ciò infatti sa di accumulo e di ricchezza e deroga apertamente, secondo l'umano giudizio, a una povertà così grande. Vogliamo e comandiamo, quindi, che
quanto abbiamo premesso sia osservato dai frati. Quanto poi alle offerte di cavalli e di armi, stabiliamo che si osservi in tutto e per tutto ciò che è stato stabilito riguardo alle elemosine in denaro
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nella predetta dichiarazione. Da quanto precede è sorta tra i frati una questione spinosa: se, cioè,
dalla professione della regola siano obbligati ad un uso limitato e scarso, ossia povero, delle cose.
Qualcuno di loro, infatti, crede e dice che, come i frati col loro voto si impegnano a una strettissima
rinunzia alla proprietà, così viene imposta loro una sobrietà e una povertà estrema nell'uso; altri, al
contrario, affermano che in forza della loro professione religiosa sono obbligati a un uso povero dei
beni solo nei casi previsti nella regola, anche se sono tenuti a un uso moderato secondo temperanza,
come e più degli altri cristiani. Volendo tranquillizzare la coscienza dei frati e porre fine a questa
discussione affermiamo che i frati Minori dalla professione della loro regola sono obbligati a quegli
usi limitati e poveri, indicati dalla stessa regola, e secondo quella forma di obbligo che essa stabilisce per tali usi. Invece giudichiamo presuntuoso e temerario dire, come qualcuno afferma, che sia
eretico ritenere l'uso povero incluso o escluso nel voto di povertà evangelica. Infine la regola, quando stabilisce le norme per l'elezione del ministro generale, non fa assolutamente alcun accenno alla
costituzione o elezione dei ministri provinciali, per cui potrebbe sorgere qualche dubbio tra i frati.
Volendo che essi possano procedere con chiarezza e con sicurezza nel loro agire, con questa costituzione, che avrà valore perpetuo, dichiariamo, stabiliamo e comandiamo che, quando sarà il caso,
l'elezione del ministro provinciale sia riservata al capitolo provinciale, che deve provvedervi il giorno successivo a quello in cui è stato convocato. La conferma dell'elezione è riservata al ministro generale. Se questa elezione avviene mediante scrutinio e, per la varietà dei voti, si dovesse procedere
a più votazioni senza un accordo, sarà valida quella cui ha partecipato la maggioranza del capitolo
numericamente considerato (senza alcun riferimento allo zelo o al merito dei membri), non ostante
qualsiasi eccezione o opposizione della parte contraria.
Tale elezione sarà confermata o invalidata, secondo quanto sembrerà loro opportuno per divina
ispirazione, dal ministro generale, col consiglio dei membri scelti dall'ordine dopo un diligente
esame. Se l'elezione fosse invalidata, torni al capitolo provinciale. Se poi il capitolo trascurasse di
eleggere il ministro nel giorno stabilito, il ministro generale provvederà liberamente a tale nomina.
Per un motivo certo, chiaro e ragionevole al ministro e al capitolo generale può sembrare opportuno
che nelle province d'oltremare dell'Irlanda, della Grecia, o in quelle di Roma - nelle quali finora è
stato osservato un diverso procedimento elettorale - il ministro provinciale venga scelto dal ministro
generale col consiglio di prudenti membri dell'ordine, piuttosto che con l'elezione da parte del capitolo. In questo caso nelle province d'Irlanda, anche d'oltremare, si osservi tassativamente, senza inganno, amore di parte o falsità quanto il ministro generale ha stabilito col consiglio dei frati predetti; nelle province romana e greca, invece, solo quando il ministro della provincia venisse a morire o
fosse sciolto dal suo incarico al di qua del mare. A tutte queste osservanze sono impegnati in coscienza. Per quanto riguarda la destituzione dei ministri provinciali, si osservino le norme dell'ordine attualmente in vigore. Qualora i frati venissero a trovarsi senza il ministro generale, il vicario
dell'ordine faccia le sue veci, fino a che non si sia provveduto a eleggerne un altro. Se, per quanto
riguarda il ministro provinciale, si cercasse di agire diversamente, ciò sarebbe ipso facto nullo.
A nessuno dunque... Se qualcuno invece... [formule usuali di chiusura].
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Giovanni XXII
Jaime Duesa, Jacques Duèze, Iacobus de Osa: n. Cahors attorno al 1245 – m. Avignone 1334, cardinale nel 1312, eletto pontefice a Lione nel 1316.
Dette un decisivo perfezionamento alla struttura fiscale e amministrativa della Santa Sede. Promulgò le Clementine, decretali di Clemente V, che (dopo i cinque di Gregorio IX e il Liber sextus di
Bonifacio VIII) furono chiamate non ufficialmente Liber septimus delle decretali; pubblicò venti
sue decretali, che furono dette Extravagantes Iohannis XXII, inserite nel Corpus iuris canonici dopo
le Clementine; lasciò circa 60.000 lettere, in parte notevole di propria mano; fondò in Avignone una
ricca biblioteca; canonizzò Tommaso d'Aquino (1323). Giurista più che teologo, destò varie perplessità per il suo atteggiamento nella questione della visione beatifica di Dio, che egli giudicava
che incominciare solo dopo il giudizio universale (al limite dell’eresia).
Nel 1317 aveva avocato a sé il giudizio sulla competizione per il trono imperiale tra Ludovico il
Bavaro e Federico d'Austria; aveva scomunicato il capo ghibellino Matteo Visconti (1321), condannato poi come eretico (1322), mentre aveva confermato, data la vacanza imperiale, Roberto d'Angiò
vicario imperiale in Italia; infine aveva deciso la spedizione del card. Bertrando del Poggetto, quasi
una crociata, per abbattere la potenza dei Visconti, che era appoggiata dal Bavaro. Nel 1327 Giovanni dichiarò formalmente eretico quest'ultimo, dopo aver condannato, pochi giorni prima, le dottrine di Marsilio da Padova e di Giovanni di Jandun, che rivendicavano l'autonomia e l'indipendenza
del potere temporale dalla Chiesa e che il Bavaro aveva fatto sue. Ludovico fu incoronato imperatore a Roma, ma in Campidoglio e da Sciarra Colonna, rappresentante del popolo romano, proclamò
deposto Giovanni e fece eleggere papa dal popolo il frate Pietro da Corvara (antipapa Niccolò V), il
quale però due anni dopo si sottomise. Giovanni non volle invece riconciliarsi con il Bavaro, al quale pose come condizione di pace la rinuncia al trono; assolti invece furono i Visconti.
Senza dimenticare le missioni francescane in Estremo Oriente, in Cina e India, a causa dello
scontro con i vertici dei Frati Minori promosse le missioni domenicane fra i Mongoli a nord del mar
Nero e di Persia, ridusse l’estensione della metropoli di Khanbaliq, eresse a metropoli la città di
Sultanieh (1° aprile 1318), poi Kerç in Crimea (1° agosto 1333), a vescovato Tiflis in Georgia per
sostituire Smirne occupata nel frattempo dai Turchi.
Contro gli spirituali
Fierissimo persecutore del movimento degli spirituali, avendo condannato come eretica la dottrina della povertà assoluta di Cristo e degli apostoli (bolla Cum inter nonnullos, 1323), si mise in urto
anche con gli altri frati minori, molti dei quali – per primi il ministro generale Michele da Cesena,
Buonagrazia da Bergamo, Guglielmo di Occam - passarono nel campo di Ludovico il Bavaro.
Le bolle Exiit qui seminat di Niccolò III e Exivi de Paradiso, di Clemente V, emanata a al termine del concilio di Vienne, avevano stabilito che la proprietà di beni materiali di cui godevano i Frati
Minori era trasferita alla Sede Apostolica, mentre i Francescani ne avrebbero conservato unicamente l'uso. La gestione dei beni era affidata dunque al papa ed ai rappresentanti da lui designati, mentre i frati, godendo dei beni necessari alla loro sussistenza, potevano ritenere di vivere una vita pienamente apostolica in quanto assolutamente povera.
Il 29 maggio 1316 - appena due mesi prima dell'ascesa al soglio di Giovanni XXII - era stato
eletto ministro generale Michele da Cesena, risoluto ad assicurare la rivincita di una maggioranza
rinvigorita sugli Spirituali. Egli inoltrò quindi al nuovo pontefice cinque suppliche che avevano come obiettivo il loro annientamento. Il papa non tardò a prendere i primi provvedimenti: tra marzo e
aprile del 1317 chiese a re Federico III di Trinacria e ai prelati della Sicilia di consegnare i ribelli ai
superiori del loro Ordine, ordinò che i conventi spirituali della Provenza tornassero all'obbedienza
dei superiori. Una delegazione di sessantaquattro Spirituali si accampò davanti alle porte del Palazzo dei Papi di Avignone in attesa di essere ricevuta in udienza. Il 13 maggio 1317 venne accolta, ma
a Bernardo Delitiosi, cui era affidata la loro difesa, venne arrestato insieme ad altri cinque. Revocando la scomunica che era stata inflitta ad Angelo Clareno, il papa sciolse la sua Congregazione e
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gli fece prendere l'abito dei Celestini, mentre Ubertino da Casale divenne benedettino a Gembloux,
in Belgio (dove non si recò, preferendo restare in Curia presso la famiglia cardinalizia di Napoleone
Orsini).
Il papa cercò di rassicurare l'Ordine e ristabilirne l'unità promulgando il 7 ottobre 1317 la bolla
Quorundam exigit. Il pontefice riconosceva la povertà di Cristo, nel solco di Niccolò III (12771280), come pure le misure contro la proprietà concepite da Innocenzo IV (1243-1254) e Clemente
V (1305-1314), ma su alcuni punti concreti affidava ai superiori il compito di decidere sulla lunghezza dell'abito e sulle scorte di cibo da conservare. Minacciava di scomunica chiunque avesse
rifiutato di sottomettersi a queste regole, ricordando che l'obbedienza era una virtù superiore alla
povertà. Nell'arco di alcuni mesi la maggior parte degli spirituali dovette assoggettarsi, ad eccezione
di quattro: essi furono giudicati a Marsiglia il 7 maggio 1318 e condannati al rogo.
La pena creò dei martiri e quanti si richiamavano agli Spirituali ravvisarono in Giovanni XXII
l’Anticristo a capo di una Chiesa troppo opulenta per poter essere l'autentica erede di Cristo. Ma il
pontefice non sospese la sua offensiva, anzi promulgò le bolle Sancta Romana (30 dicembre 1317),
e Gloriosa Ecclesia (23 gennaio 1318). Prendeva di mira quelli che vennero detti fraticelli de paupere vita, ma anche laici (bizzochi, beghini), perché ribelli ai loro superiori o perché appartenenti a
congregazioni non riconosciute dalla Sede apostolica.
Poi Giovanni XXII prese di mira gli scritti di Pietro di Giovanni Olivi, principale fonte d'ispirazione degli Spirituali anche nei loro attacchi contro il papa e la Chiesa istituzionale. Il suo corpo, a
Narbona, era oggetto di una fervente venerazione. L'esame della sua Postilla sull'Apocalisse (Lectura super Apocalypsim) fu iniziato nel 1319 e approdò ad una serie di condanne, anche se quella ufficiale fu pronunciata dal papa solo l'8 febbraio 1326. La Lectura si esprimeva contro l’Ecclesia
carnalis (senza riferimenti a persone), paragonata a Babilonia e alla prostituta dell'Apocalisse. Mentre l'Inquisizione perseguitava i sostenitori di Spirituali e Beghini non solo nel sud della Francia ma
anche in Spagna, Italia e Germania, i rappresentanti della comunità riuniti in Capitolo generale condannarono la dottrina di Olivi come eretica, nella Pentecoste del 1319, e fecero radere al suolo la
sua tomba a Narbona.
Ma il dibattito sulla povertà di Cristo e degli apostoli non si era concluso. Fu rilanciato in occasione del processo di un beghino, celebrato a Narbona nel 1321 dal domenicano Giovanni di Beaune, il quale giudicava eretica questa frase: "Gesù Cristo non ha posseduto mai niente, né in proprio
né in comune". Ma il lettore del convento dei Frati Minori della città, Berengario Talon, intervenne
richiamandosi alla decretale Exiit qui seminat di Niccolò III per affermare che questa dottrina, lungi
dal costituire un'eresia, era stata definita dalla Chiesa. Le sue dichiarazioni fecero sì che fosse ascoltato e trattenuto alla Corte di Avignone, dove il papa sottopose ai suoi cardinali e teologi la questione riformulata in questi termini: «È eresia negare con ostinazione che Gesù Cristo e i suoi Apostoli
abbiano mai avuto qualcosa di proprio o in comune?». Gran parte dei Francescani sostenne la tesi
dell'assoluta povertà di Cristo, accolta, fra gli altri, dal cardinale Vitale di Four, dall'arcivescovo di
Salerno, da un buon numero di vescovi e da un eminente giurista, il cardinale Berengario Frédol che
sostenne che la bolla Exiit qui seminat di Niccolò III aveva proibito ogni commento alla regola minoritica. Giovanni XXII revocò questo divieto nella bolla Quia nonunquam del 26 marzo 1322.
Ubertino da Casale propose una soluzione conciliatrice: in quanto prelati universali della Chiesa,
Cristo e gli apostoli possedettero dei beni per distribuirli ai poveri e ai ministri di Dio, ma come individui fondatori della povertà evangelica non furono assolutamente proprietari di alcunché, limitandosi al loro diritto naturale sui beni necessari alla sussistenza. Negare l'una o l'altra proposizione
equivaleva a cadere nell'eresia. Ma il papa dichiarò concluso il dibattito, concentrato nei concistori
tenuti nella primavera del 1322, preparando una formulazione scritta. Ma i capi dell'Ordine francescano, che scorgevano in questo dibattito una minaccia per la loro concezione di un'assoluta povertà
non solo individuale ma anche collettiva, convocarono un Capitolo generale a Perugia, che nel
giugno 1322 produsse una dichiarazione sottoscritta da una quarantina di maestri di teologia di Parigi e Oxford, in cui si affermava che né Cristo né gli apostoli avevano mai avuto proprietà personali o collettive.
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Giovanni XXII affermò che la decisione spettava alla Sede Apostolica, e ciò avvenne nella bolla
Ad Conditorem canonum, dell'8 dicembre 1322: il papa rinunciava per sempre ai suoi diritti sui
beni devoluti ai Frati Minori o a qualsiasi altro Ordine mendicante e faceva rilevare che, nel caso di
beni fungibili, la differenza fra proprietà ed uso era pura finzione. La risposta dell'Ordine, presentata da Bonagrazia da Bergamo, fu molto decisa e faceva riferimento ai fondamenti giuridici, considerando la povertà come un regime di diritto divino. Il papa dovette temporaneamente recedere dalle
sue posizioni, accettando di mantenere la proprietà della Chiesa romana sui beni più importanti quali chiese o abitazioni. Ma la sua risposta dottrinale arrivò il 12 novembre 1323 con la bolla Cum
inter nonnullos, che poneva fine al dibattito dottrinale dichiarando eretica la proposizione che affermava che Cristo e gli apostoli non avessero posseduto nulla, né in proprio né in comune. Tra i
Francescani si delinearono due atteggiamenti: i cardinali della Curia si sottomisero, ma gli oppositori si unirono all'imperatore Ludovico il Bavaro. Come detto, fu questo il caso di tre eminenti personaggi, Michele da Cesena, Guglielmo da Occam e Bonagrazia da Bergamo che fuggirono da Avignone nella notte fra il 26 e il 27 maggio 1328, per raggiungere in Italia l'imperatore e l'antipapa.
Questi francescani e quanti aderirono alle loro posizioni vennero detti fraticelli de opinione.
Il pontefice depose Michele da Cesena da ministro generale (6 giugno 1328). Circa un anno dopo la sua fuga notturna da Avignone, Michele fu colpito da anatema (20 aprile 1329) e sostenne che
era stato un papa eretico a pronunciare la sentenza di scomunica nei suoi confronti. Giovanni XXII
rispose a sua volta con la bolla Quia vir reprobus, del 16 novembre 1329. Il papa argomentava in
sostanza che Adamo aveva ricevuto da Dio il dominio sull'intera creazione, anche prima di quella di
Eva, e quindi aveva esercitato la proprietà privata prima della comunanza con la sua sposa, dunque
la proprietà privata aveva fondamento nel diritto naturale.
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3. Il pensiero politico antiteocratico: Dante e Marsilio da Padova.
Dante Alighieri, Monarchia (1312-13 o 1308), in tre libri
LIBRO III, riassunto di alcuni capitoli
Cap. IV. Se il potere dell'imperatore derivi da Dio o dal pontefice. Gli argomenti addotti dai Decretalisti (ignari di filosofia e di teologia) a sostegno della superiorità del papa sull'imperatore sono
tratti sia dalla Bibbia sia dalla storia antica. Il primo di questi argomenti paragona il pontefice e
l'imperatore rispettivamente al sole e alla luna: come l'astro minore splende della luce riflessa
dell'altro, così il potere temporale deriva il suo fondamento da quello spirituale. Dopo aver osservato che anche la luna ha una sua propria luce e che, perciò, anche l’autorità imperiale ha una sua indipendenza da quella spirituale, Dante nei capitoli successivi passa a controbattere altre argomentazioni dei sostenitori della supremazia papale.
Cap. X. [Donazione di Costantino] Uno degli argomenti della teoria teocratica è la donazione di
Costantino a papa Silvestro. Ma Costantino non poteva di diritto fare questo, cioè privarsi di una
parte del territorio e donarla ad altri, perché contro le leggi. Inoltre sia la Chiesa che l’Impero hanno
i loro fondamenti distinti, né è lecito pretendere l’uno dall’altro. Il fondamento della Chiesa è Cristo, quello dell’Impero è il diritto umano. Inoltre ogni giurisdizione esiste prima del suo giudice:
l’Impero è una giurisdizione, dunque è anteriore al suo giudice, l’Imperatore. Perciò egli non può
trasferire la sua giurisdizione ad altri, ricevendo da essa la sua stessa esistenza. Inoltre la Chiesa, nata povera, non aveva il diritto di accettare questo dono. [Argomentazione di illiceità giuridica, non
negazione dell'autenticità del documento].
Cap. XI. L'usurpazione non può essere fonte del diritto, quindi il conferimento della dignità imperiale da parte di papa Adriano [Leone III] a Carlo Magno non ha reso la Chiesa legittima dispensatrice dell’autorità temporale.
Cap. XII. Dimostrati falsi gli errori, bisogna dimostrare la soluzione del problema: l’autorità imperiale dipende semplicemente da Dio. La dimostrazione è che l’autorità della Chiesa è separata
da quella dell’Impero, perché l’Impero è precedente ad essa, e non soggetto ad alcuna dipendenza
di virtù. Inoltre, se Costantino non avesse avuto autorità, non avrebbe potuto assegnare alla
Chiesa quei beni che le ha assegnato, e la Chiesa usufruirebbe ingiustamente di quella donazione.
Cap. XIV-XV. L’esercizio dell’autorità temporale è contro la natura della Chiesa, non rientra
nelle sue facoltà. Infatti la natura della Chiesa è la sua stessa forma, cioè Cristo ed i Suoi insegnamenti. Cristo disse: “Il mio regno non è di questo mondo”. Non osservare questo comandamento è
non seguire la forma della Chiesa.
Cap. XVI. Resta da dimostrare come l’autorità dell’Impero discenda direttamente da Dio.
L’uomo è termine medio tra le cose corruttibili e le cose incorruttibili, racchiudendo in sé stesso entrambe le nature (corpo e anima), quindi è necessario che partecipi ad entrambe. E poiché ogni natura è ordinata ad un fine, ne consegue che esiste un duplice fine, uno corruttibile e uno incorruttibile,
la felicità in questa vita e la felicità nella vita eterna. Alla prima si giunge per mezzo della filosofia,
alla seconda per mezzo della teologia. Perciò l’uomo ha anche bisogno di due guide, il papa per la
vita eterna, l’Imperatore per la vita terrena. Ma Dio è il solo che ha predisposto questo ordinamento,
provvedendo egli stesso a collocare ogni cosa secondo i suoi piani. Questa soluzione non va però
fraintesa: l’Imperatore deve essere un po’ subordinato al papa, così come la felicità terrena è subordinata a quella ultraterrena. Cesare dunque si rivolga a Pietro con quel rispetto che un figlio primo29
genito deve al padre, affinché, irradiato dalla luce del padre, possa illuminare egli stesso con più efficacia il mondo.
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Marsilio da Padova
N. Padova tra il 1275 e il 1280 – m. Monaco di Baviera tra il 1342 e il 1343.
Notaio dell'università di Padova, politico e teologo. Svolse studî di medicina a Padova, conseguendo il dottorato. Recatosi a Parigi, si iscrisse alla facoltà delle Arti divenendone maestro e in seguito rettore (1313). Qui scrisse la sua opera maggiore, il Defensor pacis (1324), e strinse rapporti
con i maestri averroisti, in particolare con Giovanni di Jandun. Venne in contatto con la dottrina
della povertà evangelica sostenuta dagli Spirituali francescani, alcuni dei quali, come Guglielmo di
Occam, Michele da Cesena, Bonagrazia da Bergamo, trovarono rifugio alla corte dell'imperatore
Ludovico IV il Bavaro (n. 1282 –m. 1347, fu duca di Baviera dal 1294, Rex Romanorum dal 1314
e Imperatore del Sacro Romano Impero dal 1328), dove, dopo la condanna pontificia del Defensor
pacis, anche Marsilio riparerà. Marsilio svolge un'analisi razionale della natura del potere politico,
considerando non le varie forme di governo (come Aristotele nella Politica), ma le strutture stesse
dell'organizzazione politica, il legislatore, la legge, il governo.
La "totalità dei cittadini" (universitas civium) è la fonte unica della legge (legislator); il governo
è l'espressione della totalità dei cittadini che lo elegge e ne controlla gli atti. Il governo quindi non è
fonte di diritto, ma è sottoposto alla collettività. La legge, peraltro, non trae la sua forza da un principio naturale o divino, ma esclusivamente dalla volontà dei cittadini o nella loro totalità, dai sapienti agli artigiani, o nella "parte più valente" (valentior pars), lasciando fuori chi per natura è incapace di deliberare. Il corpo politico è autonomo nell'imporre la legge, nettamente distinto dalla
Chiesa.
La Chiesa non può esercitare alcun potere positivo, (contro la tesi canonistica della "pienezza
dei poteri" del pontefice), né può possedere beni terreni (in conformità a quanto insegnavano i maestri francescani vicini a Marsilio e Dante). La Chiesa è la "totalità dei fedeli" e a questa universitas
fidelium spettano il controllo sull'autorità ecclesiastica, l'elezione dei sacerdoti e del papa, attraverso il concilio cui anche i laici devono prendere parte.
Così radicalmente distinti, Chiesa e Stato sono autonomi nelle loro sfere: alla Chiesa spetta il
compito di ammaestrare, ma non di scomunicare; allo Stato o Impero quello di esercitare il potere
politico nella persona dell'imperatore; all'imperatore compete anche il supremo controllo sulla conformità degli atti papali alle decisioni conciliari e alla fede.
Di queste sue teorie Marsilio tentò anche una pratica realizzazione allorché, sceso in Italia al seguito di Ludovico il Bavaro nel 1327, organizzò la cerimonia dell'11 gennaio 1328 in cui l'imperatore ricevette le insegne del potere dalle mani di Sciarra Colonna, rappresentante del popolo romano; e ancora quando ispirò i documenti imperiali che dichiaravano deposto Giovanni XXII e nominavano l'antipapa Niccolò V (12 maggio 1328- 25 luglio 1330, fu l'ultimo antipapa imperiale). Tornato in Germania, Marsilio compose anche il De iurisdictione imperatoris in causis matrimonialibus, poi rifuso nel Defensor minor (1342), e il De traslatione imperii.
Giovanni di Jandun (Iohannes de Janduno).
N. Jandun (Ardenne) seconda metà secolo XIII – m. presso Todi 1328
Filosofo, amico e collega di Marsilio da Padova all'università di Parigi. Per avere collaborato alla
stesura del Defensor pacis di Marsilio, condivise le avversità che, per tale opera, colpirono l'autore;
si rifugiò anch'egli nel 1326 presso la corte di Ludovico il Bavaro e l'anno seguente fu colpito da
scomunica insieme con Marsilio. Tra le sue opere filosofiche, dichiaratamente averroistiche, vanno
ricordati i commentarî a opere di Aristotele, al De substantia orbis di Averroè, alla Expositio problematum Aristotelis di Pietro d'Abano; le sue tesi politiche antipapali sono sviluppate nel De laudibus Parisius (1323).
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Dal Defensor pacis
(Il difensore della pace, a c. di C. Vasoli, Torino, UTET, 1960)
Diciamo dunque, d'accordo con la verità e l'opinione di Aristotele, nella Politica, libro III, capitolo VI, che il legislatore, o la causa prima ed efficiente della legge, è il popolo, o l'intero corpo dei
cittadini, o la sua parte "prevalente" (pars valentior) mediante la sua elezione o volontà espressa
con parole nell'assemblea generale dei cittadini, che comanda che qualcosa sia fatto o non fatto nei
riguardi degli atti civili umani, sotto la minaccia di una pena o punizione temporale.
Con il termine "parte prevalente" intendo prendere in considerazione non solo la quantità, ma
anche la qualità delle persone in quella comunità per la quale viene istituita la legge; e il suddetto
corpo dei cittadini o la sua parte prevalente è appunto il legislatore, sia che faccia la legge da se
stesso o invece ne attribuisca la funzione a qualche persona o persone, le quali però non sono né
possono essere il legislatore in senso assoluto, ma lo sono invece solo in senso relativo e per un periodo di tempo particolare e secondo l'autorità del primo legislatore. E dico poi in conseguenza di
questo che le leggi e qualsiasi altra cosa stabilita per mezzo di elezione debbono ricevere la loro necessaria approvazione da parte della stessa autorità di prima e non di qualche altra, checché ne sia di
certe cerimonie o solennità che non sono necessarie per l'«essere» (esse) delle cose elette, ma soltanto per il loro «essere bene» (bene esse), poiché l'elezione non sarebbe certo meno valida anche se
non venissero compiute queste cerimonie.
Inoltre, alle leggi e alle altre cose stabilite per mezzo di elezioni debbono essere apportate aggiunte, sottrazioni, mutamenti totali, interpretazioni e sospensioni solo da parte di questa stessa autorità e solo in quanto le esigenze di tempo o di luogo o le altre circostanze rendano opportuna qualcuna di queste azioni per il vantaggio comune. E le leggi debbono essere promulgate e proclamate
dopo la loro istituzione, sempre da parte di questa autorità, in modo che nessun cittadino o straniero,
che manchi di osservarle, possa essere scusato per la sua ignoranza.
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Bolla Licet iuxta doctrinam di Giovanni XXII (1316-1334)
al vescovo di Worcester, sugli errori di Marsilio da Padova, 23 ottobre 1327
Questa bolla respinge gli errori del regalismo contenuti nel Defensor pacis, terminato nel 1324,
ma pubblicato solo nel 1326. Si è incerti se Giovanni de Janduno ne sia coautore. La bolla riporta
gli errori non letteralmente, ma secondo il loro senso. Vengono elencati due volte: una volta nella
parte principale della bolla e un po’ variati alla fine della bolla stessa. Essi vengono condannati in
quest’ultima forma. Il testo qui riportato presenta perciò questa seconda forma. Per comando di
Benedetto XII (1334-1342) il Defensor pacis fu di nuovo sottoposto a un esame, che Clemente VI
(1342-1352) concluse nell’anno 1343 respingendo 240 tesi.
Errori di Marsilio da Padova sulla costituzione della chiesa
Quello che si legge riguardo a Cristo nel Vangelo del beato Matteo [Mt 17,27], e cioè che lui
stesso pagò il tributo a Cesare quando, a quelli che chiedevano una doppia dracma, ordinò di dare
uno statere preso dalla bocca del pesce, questo lui fece non per condiscendenza e per la benevolenza
della sua pietà, ma costretto da necessità.
Il beato Pietro Apostolo non fu capo della chiesa più che ciascuno degli altri Apostoli, e non ebbe maggiore autorità di quella che ebbero gli altri Apostoli, e Cristo non assegnò nessun capo alla
chiesa, e non fece nessuno suo vicario.
Spetta all’imperatore correggere e punire il papa, istituirlo e destituirlo.
Tutti i sacerdoti, sia il papa, sia un arcivescovo, sia un qualsiasi semplice sacerdote, hanno, in
forza dell’istituzione di Cristo, uguale autorità e giurisdizione; quello poi che uno ha più di un altro,
questo è secondo quanto l’Imperatore ha concesso in più o in meno, e, così come ha concesso, può
anche revocare.
Il papa o anche tutta la chiesa presa nel suo insieme, non può punire con punizione costrittiva
nessun uomo, scellerato quanto si voglia, salvo che l’Imperatore non ne dia loro l’autorità.
[I suddetti errori]... Noi dichiariamo, in forma di sentenza, in quanto contrari alla sacra Scrittura e
nemici della fede cattolica, eretici, cioè conformi a eresia ed erronei, e così anche che i suddetti
Marsilio e Giovanni sono eretici, o meglio manifesti e notori eresiarchi.
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4. Il problema degli infedeli; crociata e/o missione: Arnaldo da Villanova e Raimondo Lullo.
ARNALDO da Villanova
da Antonino De Stefano, Enciclopedia italiana 1929 (rielaborato)
Il catalano Arnau de Vilanova (Arnaldus Villanovanus) fu medico, filosofo, alchimista, politico,
riformatore religioso. Nacque in Catalogna intorno al 1240 a Vilanova, presso Lleida (castigliano
Lérida), morì in nave al largo di Genova nel 1312. Fu chierico ma non prete. Studiò teologia a
Montpellier, medicina a Napoli e con gli Arabi della Spagna, fisica, chimica, astrologia; quindi
(1289-99) insegnò ed esercitò la medicina a Montpellier acquistandosi grandissima fama, soprattutto nel campo dell'alchimia. Viaggiò molto in Spagna, in Francia, in Italia; dimorò qualche tempo a
Barcellona alla corte dei re aragonesi Pietro III (1276-1285 Aragona, 1282-1285 Sicilia con la moglie Costanza) e Giacomo II (1291-1327 Aragona, 1285-1296 Sicilia), poi in Sicilia alla corte di
Federico III di Aragona (1296-1337) e infine alla corte pontificia, dove fu medico dei papi Bonifacio VIII (1294-1303), Benedetto XI (ottobre 1303 - luglio 1304) e Clemente V (1305-1314). Svolse
un ruolo importante nelle negoziazioni tra Aragona e Francia relative alla Sicilia.
Nella storia della medicina è ricordato per le acute osservazioni che tramandò nel Breviarium
practicae e nel Commentario al regime salernitano, pubblicato dapprima nel 1479, che ebbe diffusione grandissima. Nel Libellus de improbatione maleficiorum, pur ammettendo la realtà dei sortilegi, contesta che i demonî siano a disposizione degli stregoni, affermando che i cosiddetti casi di
stregoneria non sono altro che casi morbosi. In campo religioso, echeggiando motivi dell'escatologia gioachimita, Arnaldo si pone in diretta polemica con la teologia aristotelizzante come contro
certi aspetti dell'organizzazione ecclesiastica, e prospetta, in forma profetica, una riforma della
Chiesa in vista dell'avvento dell'anticristo e della fine dei tempi; di qui i suoi scontri con l'autorità
ecclesiastica. Nei suoi programmi di riforma è interessante la convergenza di temi profeticogioachimiti e di temi medico alchimistici, che lo avvicinano a certi motivi di Ruggero Bacone e di
Raimondo Lullo e ai loro ideali di riforma.
L'autenticità degli scritti alchimistici che gli si attribuiscono, Thesaurus thesaurorum o Rosarius
philosophorum, Novum lumen, Flos florum, Speculum alchimiae, è molto dubbia. Arnaldo fu anche
ritenuto autore del famoso libello De tribus impostoribus, attribuito anche a Federico II e ad altri. Si
disse che egli estraesse, per il primo, l'alcool dal vino e l'essenza di terebentina, e anche gli acidi
solforico, muriatico e nitrico: in realtà, sembra che egli si limitasse a scriverne la storia. Comunque,
portò notevole contributo al progresso della chimica e soprattutto a quello della medicina: nel suo
Breviarium praticae, stampato dapprima a Venezia nel 1483, si trova una concezione della patologia che rivela un acutissimo osservatore.
Scrisse inoltre alcuni opuscoli teologici, De semine scripturarum, De tempore adventus antichristi, Informatio beguinorum (per i beghini, che erano stati vicini a Pietro di Giovanni Olivi), che gli
procurarono non pochi fastidî. In seguito a una condanna dell'università di Parigi, egli, accusato di
avere introdotto nei suoi trattati proposizioni ingiuriose per la Chiesa, venne imprigionato a Parigi.
Riuscita vana ogni sua difesa, si appellò al papa Bonifacio VIII (1294-1303), al quale diresse uno
scritto apologetico, intitolato De mysterio cimbalorum (o De cymbalis Ecclesiae), ove affermava la
sua ortodossia cristiana, dichiarandosi pronto a sottomettersi alla sentenza della Chiesa ed esprimendo la speranza che la Santa Sede non si mostrasse ostile alla sua teoria sulla fine del mondo, in
base alla quale e attraverso suoi calcoli preannunciava per l'anno 1376 l'apparizione dell'Anticristo.
Il papa ratificò in un primo tempo la sentenza dei giudici parigini, ma poi finì col rimandare ad Arnaldo senza ulteriori osservazioni l'esemplare del suo scritto. Di questo si valse Arnaldo per insistere nei suoi concetti, continuando a scrivere libelli, in cui mescolava ai suoi calcoli escatologici vivacissimi attacchi contro il clero e specialmente contro gli ordini religiosi. Di fronte al papa difese i
francescani spirituali. Il fatto è che le sue ottime arti mediche lenivano molto le malattie di Bonifa34
cio, soprattutto i calcoli renali di cui il papa soffriva, e ciò comportò una notevole tolleranza dei
pontefici verso di lui.
Ma dal 1302 Arnaldo fu preso di mira da domenicani della provincia di Aragona, che rivolsero
contro di lui numerose denunce. Ciò divenne particolarmente pericoloso per Arnaldo nel biennio
1303-1304, quando, morto Bonifacio VIII, fu papa Benedetto XI, domenicano ed inquisitore. Arnaldo si difese con una Apologia, ma il papa confiscò i suoi scritti. L'avvento al pontificato di Clemente V ridonò ad Arnaldo una certa tranquillità.
Arnaldo morì nel 1312 mentre si stava recando ad Avignone provenendo da Messina, per curare
papa Clemente V o per una missione diplomatica ordinata da Federico III. La morte in mare nel golfo di Genova, ma su una nave del re di Sicilia, secondo il diritto di navigazione internazionale equivaleva a una morte accaduta in terra siciliana. Sembra quindi che le spoglie del “maestro” siano state riportate in Sicilia per volere di Federico III e sepolte a Montalbano Elicona, luogo frequentato da
Arnaldo, nella cappella palatina del castello, ove esiste un sepolcro litico attribuito al medico catalano dallo storico siciliano Tommaso Fazello, a partire dal XVI secolo.
Il 6 novembre 1316, a Tarragona, l'inquisitore d'Aragona condannò 13 suoi opuscoli, elencando
una quindicina di errori, di cui i principali sono: la natura umana assunta da Dio è a Dio eguale in
tutti i suoi attributi; l'anima di Cristo unendosi alla divinità possiede una conoscenza adeguata a
quella divina; il diavolo seppe così bene ingannare il popolo cristiano da allontanarlo del tutto dalle
verità proclamate da Cristo, e perciò esso è destinato a dannarsi, e specialmente i claustrali, che
hanno falsificato la dottrina cristiana; le rivelazioni del profeta Cirillo hanno maggior valore di
quelle della Sacra Scrittura; la passione di Cristo si commemora meglio con l'elemosina che con il
sacrificio dell'altare, ecc. Ma tali proposizioni, più che veri e proprî concetti arnaldiani, sembrano
riprendere dottrine anteriori o contemporanee a lui.
Le opere di Arnaldo sono state ripetutamente pubblicate a stampa: a Lione (1502, 1520 e 1532),
a Parigi (1509), a Venezia (1514), a Basilea (1515 e 1585). Ma queste varie edizioni in folio non
contengono tutti gli opuscoli teologici né tutti i trattati scientifici di Arnaldo.
Curiosità - Trattato sui Vini. Liber de vinis di Arnaldo da Villanova. Traduzione, introduzione e note a cura di Manlio Della Serra, s. l., ed. Armillaria, 2015.
VINO E ALCHIMIA. I VINI MEDICATI. In questo libro si esamina il rapporto tra vino e sapere
alchemico. Qual era il ruolo del vino nel XIII secolo? Come lo si produceva? Nel trattato di Arnaldo
da Villanova si parla essenzialmente di vini medicati. Non era solo per piacere che si beveva il vino:
all’aspetto degustativo si aggiungevano una serie di proprietà mediche, d’altronde oggi non ignote,
considerate le numerose ricerche che negli ultimi 40 anni si son date l’obiettivo di affrontare la correlazione tra vino e virtù curative.
Scrive Arnaldo da Villanova: «Il vino mirabile giova ai melanconici, ai malati di cuore, a quanti
soffrono di bruciori, soprattutto nelle vie epatiche, urinarie e alla vene; naturalmente è adatto anche ai colerici». E ce n’è per tutti i gusti. Vini per gli anziani, per chi soffre di cuore, per i tisici, vino lassativo, per la vista; vino di rosmarino, di melissa, di assenzio e perfino vino d’oro.
IL VINO CHE “TAGLIA VIA LA TRISTEZZA”. Seppure nella sua ottica di uomo di scienza, Arnaldo da Villanova non ignorava che il vino non è solo medicina: «E così serve a prolungare la vita, perché taglia via la tristezza che asciuga le ossa… Così si afferma che il vino è conservativo,
confortante per la giovinezza e ve ne sono molte altre cose che moltiplicano il tipo di melanconia
come l’affectus animi, non facilmente rimovibile attraverso la medicina, ma con discrezione, ragione e, prima ancora, per ricordo della potenza di Dio, in modo che la medicina si perfezioni con
l’esercizio d’animo verso la scienza e le virtù a cui è diretta».
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Raimondo Lullo (Ramon Llull)
Enciclopedia Italiana on line
Filosofo, teologo, mistico e missionario catalano (Palma di Maiorca 1233/1235 - forse Isola di
Maiorca 1315), detto doctor illuminatus. Le sue numerose opere sono scritte in catalano, latino e
arabo. Elemento fondamentale del suo pensiero fu l'idea della missione per convertire gli ebrei e gli
islamici al cristianesimo: in questa prospettiva elaborò la sua ars, una logica universale, capace di
scoprire e dimostrare la verità partendo dai termini semplici e combinandoli in modo matematico.
La logica combinatoria di Lullo e le sue tecniche di memoria ebbero larga influenza sino al XVII
secolo.
Di nobile famiglia, sui trent'anni, dopo una crisi religiosa, decise di dedicarsi alla conversione
degli infedeli. Studiò le arti liberali e la teologia, la lingua e la cultura araba: tra i suoi primi scritti
l'Art abreujada d'atrobar veritat (Ars compendiosa inveniendi veritatem, 1271) e il Llibre de contemplació (1272 circa; già scritto in arabo nel 1270). Con l'appoggio di re Giacomo II d’Aragona
(1291-1327) riuscì a fondare un collegio missionario a Miramar; quindi, dopo aver viaggiato attraverso l'Europa, l'Asia e l'Africa (1280-83), a Roma cercò inutilmente di convincere il papa a una
nuova crociata; poi a Parigi prese il grado di maestro delle arti e tentò di convincere il re e l'università di appoggiare un suo progetto di preparazione di missionari per gli ospedali. A Montpellier
scrisse una nuova redazione della sua arte (Art inventiva d'atrobar veritat). Tentò ancora, presso vari papi, di trovare aiuti per realizzare i suoi progetti missionari, ma inutilmente. Si dedicò allora alla
grande opera enciclopedica Arbre de ciència, (1296), mentre vestiva l'abito di terziario francescano;
a Parigi, in rapporti con Filippo il Bello, scrisse per lui e per Giovanna di Navarra l'Arbre de filosofia d'amor (1298) e combatté l'averroismo. Compì altri viaggi missionari; con l'elezione di papa
Clemente V, sperò di trovare appoggi per la crociata (scrisse il De fine e la Petitio Raymundi pro
conversione infidelium). Nel 1307 a Bugia scrisse in arabo la Disputatio Raymundi christiani et
Hamar sarraceni. Incarcerato e poi espulso, nel viaggio perse i suoi libri. Nel 1308 scrisse l'Ars
magna generalis et ultima e l'Ars brevis. Ad Avignone dedicò al papa il Liber de acquisitione Terrae sanctae; poi indirizzò al Concilio di Vienne la Petitio Raymundi in concilio generali e ottenne
che fosse deliberato l'insegnamento in varie università dell'ebraico, del caldaico e dell'arabo in cui
Lullo vedeva uno strumento essenziale per preparare nuovi missionari. Tentò ancora la via della
missione personale a Tunisi; ma qui le notizie della sua vita s'interrompono (1315): una pia tradizione lo dice martire; sembra che in realtà sia tornato e morto di lì a poco a Maiorca.
OPERE
I suoi scritti (in catalano, latino e arabo; questi ultimi, perduti, li abbiamo in versioni dello stesso
Lullo) sono numerosissimi (243 ne indica Carreras i Artau) anche lasciando da parte quelli di dubbia attribuzione, come gli scritti alchimistici; i più importanti, oltre a quelli già citati ed alle varie
redazioni dell'Ars, sono la Doctrina pueril (1275 circa), la Metaphysica nova (1300) e il Liber de
creatione (1313); tra le opere teologiche il Liber principiorum theologiae (prima del 1277), il Liber
contra Antichristum (1289-90), il Liber de cognitione Dei (1300) e la Disputatio fidei ed intellectus
(1303); tra le opere mistiche il Llibre d'amic e amat (1282-83) compreso nel Blanquerna e l’Ars
amativa; tra le opere scientifiche il Liber de astronomia (1297), il Liber de lumine (1303) e il Liber
physicorum (1310). Tra le opere letterarie il Llibre felix de les meravelles del mon ("Libro felice
delle meraviglie del mondo", 1288-89) e quella più nota, il Blanquerna o Llibre d'Evast [e d'Aloma]
e de Blanquerna (1284, poi rimaneggiato). Scrisse anche opere poetiche che costituiscono il primo
grande documento della letteratura catalana.
PENSIERO
In un momento in cui musulmani e tatari premono ai confini della cristianità, prospettiva fondamentale del pensiero e dell'opera di Lullo è l'idea di missione per convertire gl'infedeli e instaurare
l'unità della fede: in questa prospettiva deve collocarsi anche l'idea centrale dell'ars lulliana (che
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Lullo fa risalire a una ispirazione divina) che vuole offrire un metodo di discorso capace di compiere l'opera di conversione. Nel suo schema l'arte di Lullo vuole stabilire elementi semplici e primi
raffigurati in lettere o altri simboli (con influenza della tradizione cabalistica) e dare i metodi di
combinazione di tali elementi primi (lettere, cerchi, figure mobili, ecc.) che permettano di porli in
relazione e di costruire quindi un discorso analitico-sintetico. L'arte dovrebbe offrire una visione totale della realtà costituendo una scienza unitaria da cui non restano escluse né le scienze fisiche né
la teologia, di qui il nesso tra "arte" ed enciclopedismo, già presente in Lullo e poi in tutta la tradizione che nei secoli seguenti si rifarà alla sua arte. Sicché l'arte non si riduce alle tecniche dimostrative né alla mnemotecnica (che pure ne è elemento essenziale), ma s'inserisce in tutta una concezione della realtà; essa è una via a leggere il simbolismo del mondo sensibile e a ritrovare l'unità del
sapere (che è unità del reale) e a ricondurre a Dio. Di qui la polemica di Lullo contro l'averroismo,
in cui egli avvertiva la rottura di quell'ideale unitario di sapienza cristiana. Caratteristiche dell'agostinismo medievale sono inoltre particolari dottrine di Lullo (simbologia della luce, ilemorfismo
universale, pluralità delle forme, primato della volontà); alla stessa tradizione si riallaccia l'esito mistico della sua speculazione: il processo conoscitivo è orientato al superamento dello stesso intelletto per attingere, con l'aiuto della grazia, la verità della causa prima: in questo ultimo atto, la contemplazione è anche preghiera e amore: la tematica dell'amore che unisce l'uomo a Dio è ampiamente svolta da Lullo secondo una simbologia e un linguaggio che ricorda la sua prima educazione
cortese e trovadorica.
Larga l'influenza di Lullo: alla sua morte si erano già costituiti gruppi di seguaci, in particolare
negli ambienti dei francescani spirituali e gioachimiti. Si avrà una condanna pontificia di tesi lulliane nel 1376, annullata nel 1419. Il trionfo del lullismo inizierà però nel Quattrocento, legato alla
sua arte e a un complesso di scritti alchimistici (in gran parte però falsificazioni) e durerà sino al
Seicento, in rapporto soprattutto ai problemi dell'arte combinatoria, della mnemotecnica e dell'enciclopedia delle scienze.
37
5. La dinastia mongolica Yuan in Cina. Tamerlano.
Con Qubilai khan inizia il dominio sulla Cina della dinastia mongola degli Yuan, che durerà circa un secolo. Le linee di questa dominazione sono ben tracciate nel volume di Michele Bernardini e
Donatella Guida, I Mongoli. Espansione, impero, eredità, Torino, Einaudi, 2012.
Se ne riportano i cap. quarto Qubilai e la dinastia Yuan (pp. 127-172), settimo La fine della dinastia Yuan (pp. 232-261) ed ottavo Tamerlano e la fine dell’età mongola nell’islam asiatico (pp.
262-298).
Si fanno precedere alcune spiegazioni sui nomi geografici e tre carte storico-geografiche.
LUOGHI E REGIONI STORICHE ASIATICHE
Corasmia. Regione asiatica corrispondente all'attuale regione uzbeka del Khwārizm. In passato essa corrispose al khanato di Khīwa. È situata lungo il corso inferiore dell'Āmū Daryā, ovvero Oxus,
gravitante intorno al Lago d'Aral. Le città più importanti furono Gurgānj (oggi Urgench) e Kāth.
Transoxiana. Nome con cui si indicavano le regioni centro-asiatiche che si estendono a est della
regione persiana del Khorāsān e del fiume Oxus (oggi Amu Daria), attualmente coincidenti in gran
parte con l'Uzbekistan e le regioni sud-occidentali del Kazakistan. Col termine latino transoxiana si
indicava la regione al di là del fiume Oxus corrispondente alla Sogdiana.
Shiraz. Città dell’Iran nella regione di Fars.
Gazaria. Toponimo di epoca medievale, derivato dalla parola Cazari, con cui venivano in Crimea
indicate le colonie della Repubblica di Genova, che le ebbe in possesso tra il 1266 ed il 1475.
Caffa, voce di Emilio Pandiani, in Enciclopedia italiana, 1930, rielaborata
Oggi Feodosija. - Città costiera della repubblica di Crimea, capoluogo di circondario, costruita ad
anfiteatro sulle pendici del Tepe-Oba, in fondo a un piccolo golfo del Mar Nero. Presso la stazione
ferroviaria si trovano resti di una torre genovese. Vi sorgeva l'antichissima colonia milesia di Teodosia. Il nome Κάϕα o Καϕά (poi presso gli Arabi Kafā e presso i Turchi Kefé) compare per la prima volta nel X secolo, ma ricompare solo nella seconda metà del sec XIII, quando la località diventa un'importante colonia genovese, le cui origini sono connesse al diritto esclusivo di commercio nel
Ponto, concesso ai Genovesi, suoi alleati, da Michele Paleologo, dopo la conquista dell'impero latino d'Oriente (1261). Ma il potere bizantino si riduceva a poco. In realtà il territorio di Caffa apparteneva ai Tartari ed è quindi probabile che i Genovesi abbiano ottenuto di fondare la colonia da un
khān del Tartari, forse Mangū, poco dopo il 1266. Nel 1289 la colonia era già in grado di inviare
una spedizione in soccorso dei Genovesi di Tripoli di Soria; nel 1290 aveva uno statuto, col suo
console e un grande e un piccolo consiglio.
La baia di Teodosia, dove allora sorgeva un vecchio forte, detto Capha, vasta ed eccellente per
l'ancoraggio di navi, di accesso facile in ogni stagione, era prossima al Mare d'Azov, via importante
per il commercio e vicina alla popolosa città di Krim (detta dagli Occidentali Solgat), che durante il
dominio tartaro fu il capoluogo della Crimea. La colonia fu spesso turbata da assalti nemici: nel
1296 una flotta veneta, al comando di Giovanni Soranzo, assalta e conquista Caffa e la tiene per tre
anni; nel 1308 il khān dei Tartari Tōqtaw la prende dopo otto mesi di assedio, per vendicarsi dei
Genovesi che rapivano i fanciulli tartari e li vendevano come schiavi. Semidistrutta allora, è ricostruita e cinta di fortificazioni dopo la morte di Tōqtaw (1313).
Il sec. XIV, come per le altre colonie genovesi del Ponto, è il periodo di maggiore splendore anche per Caffa, che esporta da Solgat cuoi, pelliccerie, sete e le merces subtiles, cioè le spezie, che
invia in Occidente: inoltre incetta granaglie e pesci salati per Costantinopoli, schiavi per l'Egitto. La
colonia è popolata di Russi, Greci, Armeni, Ebrei e Maomettani ed è sede (verso il 1318) di un ve38
scovato cattolico, di uno armeno, di uno greco e di una moschea per i musulmani. La sua importanza per Genova è tale che, nel 1341, si fonda a Genova un ufficio permanente per gli affari della
Crimea (Officium o Officina Gazarie, da Gazaria, nome col quale si designava la Crimea, dal popolo dei Khazar). Da Caffa i Genovesi si spingono sulla riva sinistra del Tanais (Don) e vi fondano la
colonia di Tana (Azov) che può dirsi l'ultima Tule del commercio genovese.
I consoli di Caffa la proteggono con grandi opere di fortificazione, continuamente rammodernate, che cingono ancora oggi la moderna città. Nel 1361 Caffa è assediata, per mare e per terra, dai
Turchi di Sinope, ma li respinge con le sue galee. Nel 1365, profittando di un periodo di anarchia
fra i Tartari, i Genovesi di Caffa occupano Soldaia (Sūdāk), mercato rivale di Caffa e poco dopo
(1380) estendono la loro conquista nel distretto della Gozia fra Soldaia e Cembalo (Balaklava). Anche queste due città sono da loro fortificate con costruzioni, di cui rimangono grandi rovine. Il consolato di Caffa cresce perciò d'importanza e nel 1398 il governo genovese concede ad esso ampî poteri, per i quali i consoli di Caffa possono attribuirsi il titolo di Consoli di tutta la Gazaria e anche di
Consoli di tutto il Mar Nero e dell'impero di Gazaria. Dipendono da Caffa le colonie genovesi di
Soldaia e Cembalo, Tana e Copà nel Mar d'Azov, di Sebastopoli e di Trebisonda e Sinope e per
qualche tempo anche di Samastri (unita poi all'amministrazione di Pera).
La caduta di Costantinopoli in mano dei Turchi (1453) è un duro colpo per Caffa, perché il passaggio del Bosforo è in mano ai nemici. Genova cede in quell'anno stesso al suo Banco di San
Giorgio tutti i suoi diritti su Caffa e sulle altre colonie del Ponto, perché il Banco, con le sue vaste
risorse, soccorra le lontane colonie nella lotta contro il Turco. Nonostante gli sforzi degli amministratori del Banco, Caffa, in seguito alla visita di una potente flotta turca, deve piegarsi a pagare un
tributo annuo. Il Banco di San Giorgio è costretto man mano a restringere le spese, per non scontentare gli azionisti, i cui dividendi sono ridotti dal 7 al 4%. Anche i papi Callisto III e Pio II si interessano per i cristiani bloccati nel Ponto, ma la vita di Caffa diviene sempre più penosa di fronte al potere dei Turchi e dei Tartari. Nel novembre 1470 Maometto II chiede di elevare il tributo annuo di
Caffa da 3000 a 8000 ducati: si riesce a concordarlo in 4000 ducati. Nella primavera del 1475 Caffa
è nuovamente assalita da una flotta turca. Il 4 giugno le vecchie mura cadono sotto i colpi delle artiglierie, ma dietro ad esse ne compaiono altre completamente nuove: gli abitanti (erano allora circa
70.000, in 8000 case) però non osano più resistere e il 6 giugno capitolano. Gli stranieri viventi nella città (Valacchi, Polacchi, Russi, Georgiani, Circassi) ebbero confiscati tutti i loro averi e furono
venduti come schiavi; migliaia di giovani e giovinette furono scelti come schiavi per il sultano. Ai
cittadini fu estorta con ogni mezzo la maggior parte dei loro averi, poi tutti i latini furono imbarcati
e condotti a Costantinopoli, ove fu loro assegnato un quartiere.
Caffa rimase turca dal 1475 al 1776 col nome di Kefé; nel 1786 passò alla Russia, la quale nel
1804 fece rivivere l'antico nome greco sotto la forma di Feodosija.
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Carte dell’impero timuride, dell’Asia centrale e del Medio Oriente
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6. Giovanni da Montecorvino
Elaborato dalla voce Giovanni da Montecorvino di Luigi Canetti, in Dizionario Biografico degli
Italiani 56 (2001)
Nulla di certo sappiamo sulla famiglia d'origine e sui primi anni di vita di Giovanni: da una sua
lettera, datata 8 gennaio 1305, risulta che in quella data era già cinquantottenne, e possiamo perciò
collocare la sua nascita nel 1247, verosimilmente nell'area dell'attuale comune di Montecorvino
Rovella nel Salernitano.
Inattendibili appaiono le tardive affermazioni di frate Giovanni de' Marignolli, che fu a Pechino
nel 1342, secondo cui Giovanni sarebbe stato dapprima "miles, judex et doctor Friderici imperatoris", e più tardi, già settantaduenne, "factus frater Minor doctissimus et scientissimus" . Generiche
sono inoltre alcune notizie riportate nel Chronicon di Giovanni Elemosiniere, relative all'ingresso di
Giovanni nell'Ordine dei Minori, alla sua stretta osservanza della regola francescana nonché al fervore della sua attività di insegnamento e predicazione: esse non ne fanno automaticamente un esponente della corrente degli spirituali, ma resta una testimonianza di Pellegrino da Castello circa la
"vita eius exterior bona et dura et aspera".
Al 1289 risale la prima importante attestazione di una sua attività diplomatica e missionaria nel
Vicino Oriente (Persia e Armenia) con l'abito dei frati minori, promossa negli anni del generalato
di Bonagrazia di San Giovanni in Persiceto (1279-83).
In precedenza Giovanni era stato in missione in Armenia ed aveva portato a papa Niccolò IV
(1288-1292) una missiva del re cattolico Haiton II, protettore e poi membro egli stesso dell'Ordine
francescano, nella quale si invocava il soccorso degli occidentali contro i musulmani.
Nel 1289, dunque, Giovanni ripartì per l'Oriente, accompagnato da un manipolo di frati minori; in
qualità di legato del pontefice Giovanni recava con sé una serie di lettere indirizzate ai maggiori
principi e prelati dell'Oriente cristiano e dell'Asia centrorientale. Di particolare importanza quelle
destinate
- ad Argun, khān mongolo di Persia, protettore dei cristiani, di cui si caldeggiava il battesimo;
- ai patriarchi delle Chiese armena, giacobita, georgiana, nestoriana e ad altri vescovi orientali, esortati a propagare il Vangelo e a uniformarsi alla Chiesa di Roma nella professione di fede;
- a Haiton d'Armenia;
- finalmente, al gran khān Kubilai, residente a Khānbālīq (oggi Pechino), nuova capitale dell'impero
cinese dei Mongoli, il quale più volte, per il tramite dei fratelli Polo e dei khān di Persia, aveva sollecitato l'invio di missionari nel cuore dei suoi sterminati domini, e dal quale il pontefice, al di là del
consueto ma poco realistico auspicio di conversione, si attendeva quantomeno una conferma della
benevola tolleranza sempre mostrata dalla sua corte nei riguardi delle missioni cattoliche e dei sudditi cristiani.
Giovanni partì dunque dalla Curia, che allora risiedeva a Rieti, nel luglio 1289 e, attraverso la
Cilicia e l'Armenia, giunse a Tabriz, nella Persia nordoccidentale, dove soggiornò per qualche tempo e dove si unirono a lui come compagni di viaggio il domenicano Niccolò da Pistoia e il mercante
Pietro da Lucalongo.
Da qui ripartì nel 1291 puntando verso Hormuz seguendo poi la rotta del Golfo Persico e dell'Oceano Indiano, poiché la guerra in corso tra Kubilai e Kaidu, khān del Turkestan, dovette impedirgli
di percorrere le piste carovaniere dell'Asia centrale. Approdò così nell'India meridionale, dove sostò per tredici mesi battezzando un centinaio di persone: nella prima delle sue lettere superstiti, databile al 1292-93, Giovanni ci ha lasciato un suggestivo quadro geo-etnografico dei luoghi, degli usi
e delle popolazioni indiane presso le quali soggiornò durante la lunga tappa del viaggio.
Alla fine del 1293 o nei primi mesi del 1294 Giovanni arrivò alla corte di Khānbālīq, dove nel
frattempo Timur Olgeitu era succeduto a Kubilai morto il 18 febbr. 1294. Giovanni vi fu accolto
con gli onori e il riguardo dovuti a un ambasciatore, anche se i suoi sforzi missionari non sortirono
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mai l'auspicata conversione del principe e della corte, già da tempo proclivi al buddismo tibetano,
sia pur in un quadro di sostanziale tolleranza e rispetto verso tutti i culti e le confessioni religiose
presenti nell'impero e di peculiare benevolenza verso i cristiani. Come narra egli stesso nella seconda delle sue lettere, scritta da Kāhnbālīq l'8 genn. 1305 e indirizzata al vicario e ai confratelli della
custodia francescana di Gazaria, i maggiori ostacoli alla sua attività missionaria e pastorale gli sarebbero stati frapposti per almeno cinque anni dai nestoriani, che lo accusarono perfino di non essere un messo del papa ma un vagabondo ciarlatano che in India avrebbe ucciso il vero ambasciatore
pontificio sottraendogli il tesoro che questi avrebbe dovuto recare in dono al gran khān. Fu proprio
il sovrano, una volta riconosciuta la falsità delle accuse ed esiliati i calunniatori, a consentire infine
e a favorire il pacifico svolgimento dell'apostolato di Giovanni, che già nel 1299 poté ultimare la
costruzione di una prima chiesa con campanile nella città regia, dove sino al 1305 battezzò circa
seimila persone, in particolare una quarantina di fanciulli tra i sette e gli undici anni, che iniziò alle
lettere e al rito latino scrivendo per loro i testi elementari dell'ufficio liturgico e che i fanciulli già
potevano recitare e cantare con diletto dello stesso imperatore. Apprese inoltre la lingua e l'alfabeto
tartarico (non è chiaro però se si tratti del turco o del mongolo) e tradusse in quella lingua l'intero
Nuovo Testamento e il Salterio, che fece trascrivere in bella grafia.
Va detto però che la sua opera di conversione e cura d'anime si orientò e poté svolgersi di fatto
non tra i Cinesi, popolo di cui ignorava la lingua, ma soprattutto fra gli stranieri che a vario titolo si
trovavano in loco o godevano di speciali privilegi, in particolare fra i cristiani non cattolici, come
per esempio gli Armeni, di cui parlava la lingua, o i membri di etnia alana e osseta di un reparto della guardia imperiale, già cristiani di rito greco. Un successo inatteso gli arrise tuttavia, nei primi anni di apostolato, presso il popolo turcofono degli Öngüt, di stanza nella regione di Tenduc, a nordovest della capitale: la conversione al cattolicesimo del loro principe, il nestoriano Giorgio (Körgis),
che Giovanni riteneva appartenere alla stirpe del favoloso Prete Gianni, avvicinò al cattolicesimo
una buona parte della sua gente e favorì l'impianto di una cristianità di rito latino (resti della chiesa
fatta erigere da Giovanni sono stati rinvenuti, fra l'altro, dopo gli scavi degli anni Venti, nell'odierna
Olon-Süme, a nordest dell'ansa del Fiume Giallo): ma la morte del sovrano (1298) e il sopravvento
dei nestoriani a corte ricondussero in breve tempo al predominio dell'antica confessione e al fallimento dell'operato di Giovanni da Montecorvino.
La stessa lettera ci informa che Giovanni, rimasto nel frattempo praticamente solo e senza possibilità di confessarsi per i primi undici anni della sua permanenza in Cina, era stato raggiunto, soltanto nel 1304, dal confratello Arnoldo di Colonia, anche se, come auspicava rivolgendosi ai destinatari della missiva, avrebbe potuto fare molto di più con l'ausilio di altri due o tre compagni. Sempre
nella stessa occasione Giovanni esprimeva il desiderio di sapere finalmente qualcosa di più preciso
sulle condizioni dell'Occidente, del Papato e del suo Ordine, anche perché le uniche notizie che
aveva ricevuto in proposito per il tramite di un medico chirurgo lombardo, giunto nella capitale intorno al 1303, gli parevano oltremodo infamanti. Da una terza lettera, scritta da Kāhnbālīq il 15
febbr. 1306 e indirizzata ai vicari e al ministro e maestro generali degli Ordini francescano e domenicano nonché a tutti frati residenti in Persia, sappiamo che nel frattempo (1305), grazie alla generosità del mercante Pietro da Lucalongo, che gli aveva fatto dono del terreno, poté iniziare a costruire una seconda grande chiesa, capace di accogliere circa duecento persone, proprio "coram hostio
domini Chanis".
Soltanto nel giugno-luglio 1307, per il tramite di fra Tommaso da Tolentino, e dopo un lungo e
accidentato tragitto, papa Clemente V, durante un concistoro cardinalizio ad Avignone, poté giungere a conoscenza del tenore delle due ultime lettere di Giovanni e dello stato della missione in Cina. Fortemente impressionato dagli inattesi risultati conseguiti, il pontefice chiese subito al ministro
generale dei Minori di scegliere sette frati da nominare vescovi e da inviare "in Tartariam", affinché
a loro volta consacrassero Giovanni "Archiepiscopus Cambaliensis" con giurisdizione e "cura animarum" da esercitarsi "in toto dominio Tartarorum", cioè metropolita di tutto l’Oriente (bolla Rex
regum, 23 luglio 1307). Altri tre vescovi furono inviati nel 1310-11, ma soltanto tre, sul totale degli
eletti, giunsero effettivamente a Pechino. È quanto possiamo ricostruire anche grazie a frate Pelle99
grino da Castello, primo successore di Gerardo Albuini nella diocesi di Zayton (la sede suffraganea
eretta da Giovanni presso una chiesa donata da una ricca armena nel fiorente porto della costa cinese sudorientale, frequentato da numerosi mercanti europei), e di frate Andrea da Perugia il quale,
dopo un periodo trascorso a Kāhnbālīq come coadiutore di Giovanni e una fase di romitaggio in un
bosco nei pressi di Zayton, dove poté costruire un convento, succedette a sua volta al vescovo Pellegrino nella guida della diocesi.
Nel 1318 Giovanni XXII istituì la metropoli di Soltaniyeh, in Persia, scorporandola da Khanbaliq ed affidandola ai Frati Predicatori. Alcuni leggono in questo provvedimento un tentativo di ridimensionare i francescani in Oriente nell’anno in cui quattro spirituali vennero mandati al rogo a
Marsiglia, e interpretano ulteriormente la cosa come appartenenza dei missionari in Cina alla corrente spirituale.
Giovanni morì in una data intorno al 1328: a quell'anno sembra infatti da collocarsi una notizia
della Relatio del viaggio in Cina di frate Odorico da Pordenone, in cui la menzione di un "noster
episcopus" sembrerebbe non più riferirsi a Giovanni da Montecorvino. Inoltre da una lettera scritta
nel luglio 1336 (una delle lettere cinesi recate al papa da un'ambasceria giunta ad Avignone nel
1338), sappiamo che i cristiani di Pechino erano privi del loro pastore da ormai otto anni ("Iohannem […] qui tamen mortuus est ante octo annos"). D'altra parte, già il 18 sett. 1333 papa Giovanni
XXII, tardivamente informato della morte di Giovanni, aveva provveduto a nominare un successore
nella persona di un frate Niccolò, probabilmente mai giunto a destinazione.
*******
GIOVANNI da MONTECORVINO
relazione di Mirco Casale
La storiografia sul personaggio ebbe inizio grazie alla scoperta del Chronicon di frate Elemosina
e la raccolta dell'epistolario dei Sommi Pontefici, entrambe opera del Minore britannico vissuto nel
Seicento Luca Wadding; incredibilmente, infatti, nessuna delle opere medievali realizzate sulla
storia dell'Ordine minoritico avevano fatto di lui menzione.
Non si è a conoscenza di alcun particolare sulla famiglia d'origine di Giovanni da Montecorvino
nè sui primi anni della sua vita; tuttavia, l'anno della sua nascita venne fissato al 1247 grazie ad una
sua lettera (la Secunda), datata 8 gennaio 1305, nella quale il futuro arcivescovo di Pechino scrisse
di essere cinquantottenne. Per quanto riguarda il luogo in cui venne alla luce, esso sarebbe stato
verosimilmente nell'area dell'attuale comune di Montecorvino Rovella (attualmente in provincia di
Salerno); di origine nobile, forse appartenente alla famiglia Pico di Monte Corvino, alcuni
sostengono l'ipotesi meno probabile di natali pugliesi, dato che i Libri Chronicarum di frate
Elemosina di Gualdo lo definiscono “De Monte Corvino Apulie”.
Inattendibili apparvero invece le tardive affermazioni di frate Giovanni de' Marignolli, che fu a
Pechino nel 1342, e che descrissero il Montecorvino dapprima come "miles, iudex et doctor
Friderici imperatoris", e più tardi, già settantaduenne, "factus frater Minor doctissimus et
scientissimus". Generiche furono inoltre alcune notizie riportate nel Chronicon di Giovanni
Elemosiniere, relative all'ingresso del Montecorvino nell'Ordine dei Minori, alla sua stretta
osservanza della regola francescana nonché al fervore della sua attività di insegnamento e
predicazione: esse non ne fecero automaticamente un esponente della corrente degli spirituali, ma
restò una testimonianza di Peregrino da Castello circa la "vita eius exterior bona et dura et aspera".
La prima importante sua attività diplomatica e missionaria nel Vicino Oriente (Persia e
Armenia), con l'abito dei frati minori, fu promossa negli anni del generalato di Bonagrazia Tielci di
San Giovanni in Persiceto (1279-83).
Nel 1289 Giovanni fu in missione in Piccola Armenia e portò a papa Niccolò IV (1288-1292)
una missiva del re cattolico Haiton II, nella quale si invocava il soccorso degli occidentali contro i
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musulmani: ciò venne testimoniato dalla lettera di risposta del pontefice, la Gerentes in terris, che
lo stesso corvinate porse al sovrano.
Il padre di Aitone, Leone III, si era infatti inimicato il sultanato d'Egitto dominato dai
mamelucchi, e il regno d'Armenia, ridotto alla sola Cilicia da ormai più di due secoli si era trovato a
fronteggiare una vera e propria invasione, che, nonostante l'intervento del Khan dell'Orda d'Oro
Möngke Temur (nella seconda battaglia di Emesa del 1281) rischiò di cancellare per sempre lo Stato
anatolico. Alla fine Aitone II abdicò in favore del fratello Teodoro III (1293) e si ritirò in monastero
a Mamistra, divenendo egli stesso frate minore, ma il suo regno continuò a difendersi e, nonostante
lo spostamento della capitale a Sis (dove, tra l'altro, nel 1198 il catholicos armeno Gregorio VI
aveva proclamato l'unione con la Chiesa romana), mantenne la sua indipendenza, sconfiggendo, in
coalizione con l'Ilkhan Ghazan i mamelucchi nel 1299, ricacciandoli per poco tempo da Aleppo;
Aitone fu ucciso col nipote Leone IV in un accampamento militare da un mongolo convertitosi
all'Islam, il regno armeno di Cilicia, tuttavia, resistette fino al 1375, anno della fuga in esilio
dell'ultimo sovrano Leone V in Francia. La titolarità del reame passò, a livello puramente teorico, ai
Lusignano, signori di Cipro, e in seguito, per parentele con essi, addirittura ai Savoia, che tutt'ora si
definiscono “re di Cipro, di Gerusalemme e di Armenia”.
Dunque, Giovanni ripartì per l'Oriente dalla Curia, che allora risiedeva a Rieti, nel luglio 1289,
accompagnato da un manipolo di Minori, in qualità di legato del pontefice; recò in effetti con sé una
serie di ventisette lettere indirizzate ai maggiori principi e prelati dell'Oriente cristiano e dell'Asia
centrorientale tra cui Argoun, Khan mongolo di Persia (protettore dei cristiani, di cui si caldeggiava
il battesimo), i sovrani di Georgia, Armenia e Etiopia, i patriarchi delle Chiese armena, giacobita,
georgiana, nestoriana e altri vescovi orientali (che vennero esortati a propagare il Vangelo e a
uniformarsi alla Chiesa di Roma nella professione di fede), Caidu, Khan dell'Asia centrale, Haiton
d'Armenia (cui era destinata la suddetta Gerentes in terris) ed il Gran Khan Kubilai, residente a
Khanbaliq (che più volte, per il tramite dei fratelli Polo, dello stesso Argoun di Persia e del
catholicos nestoriano Màr Yahbhallàhà III, aveva sollecitato l'invio di missionari nel cuore dei suoi
sterminati domini, e dal quale il pontefice, al di là del consueto ma poco realistico auspicio di
conversione, si attendeva quantomeno una conferma della benevola tolleranza sempre mostrata
dalla sua corte nei riguardi delle missioni cattoliche e dei sudditi cristiani).
Attraverso la Cilicia e l'Armenia, giunse a Tabriz, nella Persia nordoccidentale, dove soggiornò
per qualche tempo e dove si unirono a lui, come compagni di viaggio, il domenicano Niccolò da
Pistoia e il mercante Pietro da Lucalongo.
Da qui ripartì, come riportato nella Secunda, nel 1291 puntando verso l'isola di Hormuz,
seguendo poi la rotta del Golfo Persico e dell'Oceano Indiano, poiché la guerra in corso tra Kubilai
e Caidu, Khan del Turkestan, gli impedì probabilmente di percorrere le piste carovaniere dell'Asia
centrale. Approdò così nell'India meridionale, in Malabar, dove sostò per tredici mesi, attendendo
l'arrivo dei venti spiranti da occidente, battezzando un centinaio di persone, e dove assistette alla
dipartita del povero Niccolò da Pistoia: nella prima delle sue lettere superstiti, databile al 1292-93 e
trascritta in volgare (secondo Wyngaert integralmente) da fra' Menentillo da Spoleto (probabilmente
redatta inizialmente in latino ed abbondantemente utilizzata come fonte già pochi anni dopo la sua
stesura dal medico padovano Pietro d'Abano, morto nel 1315 nel suo Conciliator), egli dipinse un
suggestivo quadro geo-etnografico dei luoghi, degli usi e delle popolazioni indiane presso le quali
soggiornò durante la lunga tappa del viaggio.
Alla fine del 1293 o nei primi mesi dell'anno seguente (dato ricavato dalla Secunda lettera, nella
quale il corvinate riportò di essere rimasto in solitudine per undici anni, fino all'arrivo di Arnoldo di
Colonia, avvenuto nel 1304) Giovanni arrivò alla corte di Khanbaliq, dove nel frattempo Temur
Olgeitu era succeduto a Kubilai, morto il 18 febbraio 1294.
Nella futura Pechino il corvinate fu accolto con gli onori e il riguardo dovuti a un ambasciatore,
anche se i suoi sforzi missionari non sortirono mai l'auspicata conversione del principe e della corte,
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già da tempo proclivi al buddismo tibetano, sia pur in un quadro di sostanziale tolleranza e rispetto
verso tutti i culti e le confessioni religiose presenti nell'Impero e di peculiare benevolenza verso i
cristiani. Come narra egli stesso nella seconda delle sue lettere, scritta a Khanbaliq l'8 gennaio 1305
che arrivò ai confratelli della custodia francescana di Gazaria mediante il tramite dei mercanti
veneti (che avrebbero dovuto rigirarla al papa, ai cardinali, al procuratore dell'Ordine minore o al
ministro generale stesso), i maggiori ostacoli alla sua attività missionaria e pastorale gli sarebbero
stati frapposti, per almeno cinque anni, dai nestoriani, che lo accusarono perfino di non essere un
messo del papa ma un vagabondo ciarlatano che in India avrebbe ucciso il vero ambasciatore
pontificio sottraendogli il tesoro che questi avrebbe dovuto recare in dono al Gran Khan. Fu proprio
il sovrano, una volta riconosciuta la falsità delle accuse ed esiliati i calunniatori, a consentire e a
favorire il pacifico svolgimento dell'apostolato di Giovanni, che già nel 1299 poté ultimare la
costruzione di una prima chiesa con campanile nella città regia, dove, sino al 1305, battezzò circa
seimila persone tra cui una quarantina di fanciulli tra i sette e gli undici anni che iniziò alle lettere e
al rito latino scrivendo per loro i testi elementari dell'ufficio liturgico e che essi già poterono recitare
e cantare con diletto dello stesso imperatore. Il riscatto, o meglio l'acquisto, forse attraverso la
mediazione dei sempre presenti “mercatores de Lombardia”, dei giovani (tutti probabilmente di
etnia Sung, che venivano barattati dalle proprie famiglie costrette in enormi difficoltà economiche a
causa dello stato di inferiorità socio-politica successiva alla conquista mongola), fu finalizzato, oltre
che ad un sincero proselitismo, alla futura creazione di un clero indigeno, cosa che però non diede
mai i frutti sperati.
Il Montecorvino apprese inoltre la lingua e l'alfabeto mongolo, e tradusse in tale lingua l'intero
Nuovo Testamento e il Salterio, che fece trascrivere in bella grafia dai suddetti fanciulli.
Va detto che, quindi, la sua opera di conversione e cura di anime si orientò e poté svolgersi di
fatto non tra i Cinesi, popolo di cui ignorava la lingua, ma soprattutto fra gli stranieri che a vario
titolo si trovavano in loco o godevano di speciali privilegi, in particolare fra i cristiani non cattolici,
come per esempio gli Armeni, di cui parlava la lingua, o i membri di etnia alana e osseta di un
reparto della guardia imperiale, già cristiani di rito greco. Un successo inatteso gli arrise tuttavia,
nei primi anni di apostolato, presso il popolo turcofono degli Öngüt, di stanza nella regione di
Tenduc, situata a nordovest della capitale: la conversione al cattolicesimo del loro principe, il
nestoriano Giorgio (Körgis, figlio di una delle figlie di Kubilai e vassallo di quest'ultimo secondo
Marco Polo, che Giovanni ritenne un appartenente alla stirpe del favoloso Prete Gianni: secondo
Olschki tale figura era nel pieno della sua fase d'evoluzione detta “asiatica”, dopo la prima
“occidentale” e precedente a quella “africana”, lo Zan ancora ricercato dai portoghesi nel XV sec.),
avvicinò al cattolicesimo una buona parte della sua gente e favorì l'impianto di una cristianità di rito
latino (resti della chiesa fatta erigere da Giovanni, e dedicata al Santo a lui omonimo, sono stati
rinvenuti, fra l'altro, dopo gli scavi degli anni Venti, nell'odierna Olon Süme-in Tor, a nordest
dell'ansa del Fiume Giallo), sulla falsariga di ciò che, a partire dal 1253, era avvenuto nel Tibet
conquistato dai Mongoli grazie all'opera del lama 'Phags-pa, che aveva iniziato agli ordini buddisti
Kubilai: tuttavia, la morte del sovrano (1298), probabilmente per assassinio, e il sopravvento dei
nestoriani a corte, rappresentati dal fratello Juhunan, nuovo sovrano Öngüt, ricondussero in breve
tempo al predominio dell'antica confessione e al fallimento dell'operato di Giovanni da
Montecorvino.
La stessa seconda lettera informava che Giovanni, rimasto nel frattempo praticamente solo e
senza possibilità di confessarsi per i primi undici anni della sua permanenza in Cina, fu raggiunto,
soltanto nel 1304, dal confratello Arnoldo (o Arnaldo) di Colonia, anche se, come auspicava
rivolgendosi ai destinatari della missiva, avrebbe potuto fare molto di più con l'ausilio di altri due o
tre compagni. Sempre nella stessa occasione Giovanni espresse il desiderio di sapere finalmente
qualcosa di più preciso sulle condizioni dell'Occidente, del Papato e del suo Ordine, anche perché le
uniche notizie che aveva ricevuto in proposito, per il tramite di un medico chirurgo lombardo giunto
nella capitale intorno al 1303, gli parevano oltremodo infamanti.
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In una terza lettera, scritta a Khanbaliq il 15 febbraio 1306 e indirizzata al ministro e al maestro
generali degli Ordini francescano e domenicano e ai loro vicari, nonché a tutti frati mendicanti
residenti in Persia, scrisse che, nel frattempo, grazie alla generosità del mercante Pietro da
Lucalongo, che gli aveva fatto dono di un terreno, poté iniziare a costruire una seconda grande
chiesa, capace di accogliere circa duecento persone, proprio "coram hostio domini Chanis", e ad un
“iactum lapidis” da essa.
Soltanto nel giugno-luglio 1307, per il tramite di fra' Tommaso da Tolentino, e dopo un lungo e
accidentato tragitto, papa Clemente V, durante un concistoro cardinalizio ad Avignone, poté
giungere a conoscenza del tenore delle due ultime lettere di Giovanni e dello stato della missione in
Cina: fortemente impressionato ed entusiasta per gli inattesi risultati conseguiti, oltre che sorpreso,
come molti altri, dalla notizia della stessa sopravvivenza del frate salernitano, il pontefice chiese
subito al ministro generale dei Minori di scegliere sette (o forse sei secondo le bolle) frati da
nominare vescovi e da inviare "in Tartariam", affinché a loro volta consacrassero Giovanni
"Archiepiscopus Cambaliensis", con giurisdizione e "cura animarum" da esercitarsi "in toto
dominio Tartarorum", cioè metropolita di tutto l’Oriente (bolla Rex regum, 23 luglio 1307). Nicolò
di Banzi, ex ministro provinciale di Assisi, Ulrico di Soyfridstorf e Andreuccio di Assisi morirono
però in India, mentre forse Guglielmo Gallico di Villanova non partì mai; in sostituzioni dei primi
altri tre vescovi furono inviati tra il 1310 ed il 1311, ma, sul totale degli eletti, giunsero
effettivamente a Pechino, tra il 1309 ed il 1313, solo in tre: è quanto possiamo ricostruire grazie agli
stessi “superstiti”, frate Peregrino da Castello, primo successore del collega di traversata Gerardo
Albuini nella diocesi di Zayton (la sede suffraganea eretta da Giovanni presso una chiesa donata da
una ricca armena nel fiorente porto della costa cinese sudorientale, frequentato da numerosi
mercanti europei), e frate Andrea da Perugia (che probabilmente fu il capo della spedizione e la cui
pietra tombale, tra l'altro, fu riportata alla luce nell'odierna Quanzhou nel XIX sec.) il quale, dopo
un periodo trascorso a Khanbaliq come coadiutore di Giovanni ed una fase di romitaggio in un
bosco nei pressi della città neoeletta a sede vescovile, dove poté costruire un convento, succedette a
sua volta a Peregrino nella guida della diocesi.
A quel punto il Montecorvino, non più solo, concentrò molte delle sue forze nel tentativo di
portare al cattolicesimo i nestoriani presento sul posto e di riprovare a formare un clero indigeno.
Nel 1318 Giovanni XXII istituì la metropoli di Soltaniyeh, in Persia, scorporandola da
Khanbaliq ed affidandola ai frati predicatori: forse questo provvedimento fu un tentativo di
ridimensionare i francescani in Oriente nell’anno in cui quattro Spirituali erano stati mandati al rogo
a Marsiglia, dato che, probabilmente, la maggioranza dei missionari in Cina apparteneva alla
corrente spirituale stessa.
Giovanni morì in una data vicina al 1328: a quell'anno sembra infatti da collocarsi una notizia
della Relatio del viaggio in Cina di frate Odorico da Pordenone, in cui la menzione di un "noster
episcopus" sembrerebbe non più riferirsi a Giovanni da Montecorvino. Inoltre, una lettera scritta nel
luglio 1336 (una delle lettere cinesi recate al papa da un'ambasceria giunta ad Avignone nel 1338)
testimoniò come i cristiani di Pechino fossero privi del loro pastore da ormai otto anni ("Iohannem
[…] qui tamen mortuus est ante octo annos"). D'altra parte, già il 18 settembre 1333, papa Giovanni
XXII, tardivamente informato della morte di Giovanni, aveva provveduto a nominare un successore
nella persona di un frate Nicolò di Calabria, probabilmente mai giunto a destinazione.
Come beato entrò nel Martirologio Francescano che lo commemora il primo gennaio e lo
definisce “primo apostolo della Cina”; già de' Marignolli scrisse che Tartari ed Alani lo veneravano
come santo dopo la sua morte, mentre il concilio plenario cinese riunitosi a Shanghai nel 1924
chiese la sua canonizzazione a Pio XI, senza ottenere risposta diretta.
Precisazioni concernenti le lettere redatte in Cina riguardano la questione delle parti mancanti: la
Secunda è mutila delle intestazioni, il protocollo (e non si sa quindi con precisione a chi sarebbe
dovuta arrivare, seppur la Curia sarebbe comunque dovuta essere la meta finale), mentre la Tertia
della fine, l'escatocollo, e presenta una conclusione in terza persona realizzata da un estensore. Le
due epistole sono presenti in codici custoditi alla Bibliothèque nationale di Parigi, alla Biblioteca
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Apostolica Vaticana (versione chigiana) ed alla Biblioteca Corsiniana, entrambe a Roma. Le
versioni èdite da Sella sono state riprese da quelle pubblicate da Anastaas van den Wyngaert, che si
basò sulla versione parigina con lezioni varianti della chigiana e delle epistole pubblicate dal Wadding.
Certo è che con mezzi di poco superiori e soprattutto agendo non in completa solitudine come a
lungo fece (cosa di cui si lamentò nelle epistole Secunda e nella Tertia) l'opera di proselitismo del
coraggioso frate salernitano avrebbe potuto raggiungere ben altri obbiettivi e lanciare un ponte ben
più solido tra l'Occidente medievale cristiano e l'Estremo Oriente mongolo-cinese. Tale punto di
comunicazione si interruppe già all'epoca delle prime rivolte indigene avvenute nell'Impero
mongolo sotto gli ultimi Khan Yuan, delle quali fu spettatore Giovanni de' Marignolli, con la peste
di metà Trecento (che uccise due terzi dei membri dell'Ordine minoritico) e con il rafforzamento del
blocco islamico in Asia centrale e Medio Oriente, oltre che con la chiusura definitiva agli influssi
stranieri e, in special modo, a quelli che avevano avuto rapporti con i Mongoli, voluti dalla dinastia
Ming. Solo nel corso della seconda metà del XVI sec. tale comunicazione riprese, forse troppo
tardi, grazie soprattutto al nuovo Ordine gesuita fondato da Sant'Ignazio di Loyola ed alla famosa
personalità del padre marchigiano Matteo Ricci.
Elaborato da Dizionario Biografico degli Italiani di Luigi Canetti,
con aggiunte da Il Vangelo in Oriente di Pacifico Sella
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7. Missionari, martiri, viaggiatori e scrittori in Oriente
Ricoldo da Monte Croce
Da Enciclopedia Italiana on line
Missionario e controversista (Firenze 1243 circa - ivi 1320) domenicano nel 1267, entrò nel convento di S. Maria Novella a Firenze e poi in quello di S. Caterina a Pisa. Quindi fu inviato da Onorio IV (1286-87) in Palestina, in Armenia, Turchia e Persia, per osservare la situazione delle comunità cristiane in quelle regioni e per tentare di ricondurre al cattolicesimo i dissidenti (giacobiti 1 di
Mossul e nestoriani di Baghdād), polemizzando infine anche coi musulmani. Fuggito da Baghdād
alla notizia della caduta di S. Giovanni d'Acri (1291), tornò a Firenze. Ricoldo raccolse le sue esperienze di viaggio nel Liber peregrinationis, notevole sia per le precisazioni topografiche sia per il
racconto di credenze, usi e costumi di popoli d'Oriente, ancora sconosciuti in Europa. Poco prima di
morire scrisse una Improbatio Alcorani, opera di controversia contro l'islamismo, che ebbe grande
diffusione anche nell'Impero bizantino, grazie alla traduzione in greco di Demetrio Cidone.
Tommaso da Tolentino
Da scheda on line di Elisabetta Nardi, rielaborata ed integrata
Nato a Tolentino intorno al 1250/60 ed entrato giovanissimo nell'Ordine Francescano, Tommaso
fu tra i più accesi sostenitori dell'ideale di povertà e per questo fu imprigionato due volte. Liberato
dal carcere per intervento del generale dell'Ordine Raimondo Gaufridi, fu nella missione di Armenia insieme ad Angelo Clareno, Pietro da Macerata (Liberato) ed Angelo da Tolentino. Il re di Armenia, Heitung II, lo incaricò di varie ambascerie in Europa presso il Papa e il re di Francia. Tornando nuovamente a Roma in cerca di missionari, ripartì nel 1302 per l'Oriente con dodici compagni. Nel 1307 partecipò al concilio di Sis che sanzionò l'unione della Chiesa armena con la romana.
Nel pieno della sua attività apostolica gli giunsero alcune lettere di Fra Giovanni da Montecorvino, il quale sollecitava l'invio di aiuti dalla Cina. Nel 1308 Tommaso fu a Poitiers dove prospettò al
Papa Clemente V le necessità delle missioni in Oriente. In seguito al suo intervento il Papa istituì la
prima gerarchia ecclesiastica in Cina. Negli anni successivi il campo dell'attività missionaria di
Tommaso dalla Persia fu esteso presumibilmente in India e in Cina.
Verso la fine del 1320 s'imbarcò ad Ormuz con i francescani Giacomo da Padova, Pietro da Siena, Demetrio da Tifliz e con il domenicano Giordano da Severac, diretto in Cina. Sbarcati contro la
loro volontà nell'isola di Salsetta (stato indiano del Maharashtra, con la città di Bombay/Mombay), i
cinque missionari furono accolti da una famiglia di nestoriani a Thana. Preso insieme ai suoi confratelli, difese dinanzi ai Musulmani la divinità di Gesù Cristo e venne martirizzato il 9 aprile del
1321. Qualche anno dopo, Odorico da Pordenone trasportò il corpo del Beato a Zaiton in Cina. Il
capo, alla fine del secolo XIV, fu portato da un mercante pisano a Tolentino, dove venne innalzata
1
Seguaci della Chiesa monofisita di Siria fondata da Giacobbe Baradeo (m. 578), vescovo di Edessa; la denominazione
da loro adottata è Siri ortodossi. Seguono il monofisismo cosiddetto verbale o moderato e rigettano perciò il Concilio di
Calcedonia e i concili successivi; la loro teologia e liturgia hanno subito nel corso dei secoli l’influsso armeno e cattolico, tuttavia rimanendo nel fondo di tipo greco-ortodosso. La Chiesa giacobita si diffuse in Persia, poi in Armenia e in
Asia Minore; perseguitata dagli imperatori ortodossi, accolse con favore l’occupazione persiana e poi quella araba e,
successivamente alla riconquista bizantina (X sec.), l’arrivo dei Turchi Selgiuchidi. Divisa da vari scismi a partire dal
XIII sec., cercò nel XV e XVI sec. di unirsi a Roma; fallito questo tentativo, i giacobiti hanno perduto consistenza e sopravvivono in gruppi isolati. Il patriarca risiede a Damasco (da Enciclopedia Treccani on line). - P.S. Con lo stesso nome sono indicati i sostenitori del re deposto Giacomo II Stuart e dei suoi discendenti, dopo la rivoluzione inglese del
1688-89 e l’ascesa al trono di Guglielmo d’Orange.
105
una cappella in suo onore. Le reliquie sono conservate attualmente nella Cattedrale. Leone XIII, nel
1894, ne confermò il culto.
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La passione del b. Tommaso da Tolentino e compagni Martiri (Tana – India, 1321)
Da Maria Teresa Dolso, La Chronica XXIV Generalium: il difficile percorso dell’unità nella storia
francescana, prefazione di Antonio Rigon (Centro Studi Antoniani, 40), Centro Studi Antoniani,
Padova 2003, p. 122-124.
La Chronica XXIV Generalium (sec. XIV) colloca numerose Passioni nella prima metà del XV
secolo, iniziando da quella di Thana in India, del 1321, in cui trovarono la morte Tommaso da Tolentino, Giacomo da Padova, Demetrio e Pietro di Siena. Il martirio di Pietro di Siena avviene
quando i compagni sono già morti e perciò nella Chronica si susseguono due racconti, strettamente
legati l’uno all’altro. Il cronista fa allusione a un racconto basato sulla ricca documentazione concernente le vicende dei martiri, che egli ripropone in forma compendiata. La vicenda si trova infatti,
diffusamente trattata nel De partibus infidelium di Odorico da Pordenone, che sembra essere la fonte diretta. Il medesimo racconto è narrato da frate Elemosina, in forma assai riassunta e facendo ricorso ad alcune lettere, del domenicano frate Giordano e di frate Bartolomeo, custode di Tabriz, indirizzata al vicario generale dei frati Minori «in partibus Orientis».
Il racconto si dilunga sulla disputa che i frati intraprendono con i Saraceni, dimostrando loro che solo Cristo è vero Dio, mentre Maometto,
«filius perditionis», «cum diabolo, patre suo, positus in inferno. Et non ipse solus, sed omnes, qui eius legem observant, cum sit pestifera, irrationabilis et tota contra animarum salute».
Subito viene invocata la morte per punire i frati, ma, benché legati sotto il sole «ut ibi nimio solis
fervore morte acerbissima morerentur», essi sopravvivono miracolosamente, e accettano di affrontare la prova del fuoco: se fossero usciti indenni anche dalle fiamme, i Saraceni avrebbero dovuto riconoscere la verità della loro fede. Viene scelto il più giovane dei quattro e gettato in un grande
fuoco, dal quale esce illeso; non convinti della sua prova, imputando la sua salvezza non a Dio ma
alle sue vesti, i Saraceni lo fanno spogliare e lo cospargono di olio: Giacomo resiste finché il fuoco
stesso si spegne, rimanendo senza alcuna ferita. Anche Francesco, secondo il tardo Bonaventura,
aveva proposto al sultano di sottomettersi alla prova del fuoco per provare la verità della fede cristiana. Il sultano aveva rifiutato la proposta «quia seditionem populi formidabat». È un’analoga
preoccupazione per il popolo che, anche nel caso dei martiri, sembra convinto della loro santità, a
indurre il capo dei Saraceni, timoroso che i suoi abbandonino la loro fede, a far uccidere i frati. Gli
incaricati dell’ingrato compito lo fanno solo perché costretti e i frati stessi li invitano ad adempiere
il proprio volere: «Facite, fratres carissimi, quod vobis est iniunctum, quia nos moriendum pro
Christo semper parati sumus». Le reliquie dei martiri, raccolte da Odorico da Pordenone, «multis
miraculis claruerunt».
I temi forti delle Passioni, il loro senso ultimo, nel quadro più complesso della vicenda storica
dell’Ordine e della Chiesa, sono sempre gli stessi: da una parte l’incontrovertibile dimostrazione
della superiorità della fede cristiana, dall’altra la prova suprema del martirio che manifesta la verità
dell’unico vero Dio ed eleva, al contempo, i frati santi martiri che, con il sacrificio di sé, celebrano
se stessi e l’istituzione alla quale appartengono, mettendone in luce l’altitudo e la sanctitas.
106
IL MARTIRIO DEL B. TOMMASO DA TOLENTINO E COMPAGNI (TANA, 1321)
Da: ANONIMO (SEC. XIV), La prova del fuoco. Il martirio del b. Tommaso da Tolentino e compagni
(Tana, 1321) secondo le fonti originali, tradotte e presentate da p. Alberto Ghinato ofm, Edizioni
Francescane, Roma 1962.
I
Verso Tana
(…) Apparve in questi recentissimi tempi la grazia di Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo nei
sui servi; (…) sono costoro quattro frati dell’Ordine dei Minori, e cioè Tommaso da Tolentino, di
sessant’anni e Fra Giacomo da Padova, ambedue sacerdoti, Frate Pietro da Siena, Frate Demetrio da
Tafeliz, Georgiano, esperto nelle lingue orientali, tutti uomini di grande austerità e perfezione di
santità. I quali poco fa, il 9 aprile del 1321, il giovedì prima della domenica delle palme subirono il
sacro martirio nella città di Tana in India.
Questi quattro frati, assieme a frate Giordano, dell’ordine dei predicatori, accesi dal desiderio
del martirio, erano partiti da Tabriz [città della Persia, Iran nord-occidentale, verso il confine con la
Turchia] per andare verso il Catai per predicarvi la vera fede cristiana e la salutare penitenza ai saraceni, agli idolatri e ad altri infedeli; giunti a Ormuz (porto persiano sul mare arabico) contrattarono con una nave che li portasse a Palumbo [oggi Ceylon, nell’estremità meridionale dell’India]; ma
contro la loro volontà furono condotti da Suir fino a Tana [Bombay] che è distante da Tabriz forse
tre mesi di cammino; ché essi volevano andare alla cristianità del beato Apostolo Tommaso. Nella
quale città di Tana vi sono quindici famiglie dei cristiani, ma Nestoriani, i quali sono scismatici ed
eretici. Presero alloggio presso uno di loro.
II
Il messaggio che non giunge
Rimanemmo ivi per otto giorni, e nel frattempo quei cristiani ci suggerirono che qualcuno di
noi si recasse nella città di Paroth, dove vi erano molti cristiani di nome, ma non battezzati; così
avrebbero potuto essere istruiti nella fede di Cristo e poi battezzati.
Per comune consiglio, io frate Giordano dell’Ordine dei Predicatori, che conoscevo meglio la
lingua persiana, mi posi in cammino per andare a battezzare quella gente, e presi con me anche due
cristiani secolari come miei compagni di viaggio uno dei quali, che conosceva a perfezione il persiano e l’indiano, mi si offrì come interprete.
Saliti sulla navicella, giungemmo ad una città di nome Supera (Surat), ove in antico il beato
Apostolo san Tommaso aveva edificato una bella chiesa ma che, distrutta dai pagani, era stata poi
riedificata dai cristiani. Io, dunque, frate poverello dell’Ordine dei Predicatori, battezzai colà fino a
venti persone, ascoltai la loro confessione e diedi ad essi la santa comunione.
(…)
Era il venerdì prima delle Palme (10 aprile 1231) e il giorno prima era avvenuto ciò che non
sapevo affatto. La notte dopo però fui svegliato improvvisamente dai cristiani che mi consigliarono
di fuggire, affermando che i miei compagni erano stati presi. Ma io, confidando interamente nel
buon Gesù, risposi prontamente: «Il Signore mi guardi dal fuggire e lasciare così i miei compagni in
catene. Mi recherò invece tosto in fretta a Tana e mi presenterò al Melik; e poiché so meglio degli
altri la lingua persiana risponderò io alle interrogazioni».
Mi posi dunque in viaggio per Tana e giunsi a un certo casale, ove trovai quei due miei compagni cristiani che avevo spediti con le mie lettere e manifestai la mia meraviglia perché non fossero
andati in Tana. Ma vedendo la loro faccia e quella di molti altri assai turbata, incominciai a chiedere
che notizie avessero. Ma mentre essi temevano di dirmi ciò che era avvenuto, incominciando io a
gridare fortemente contro di essi, uno mi disse che i miei compagni erano stati uccisi.
Il loro martirio avvenne nel modo seguente.
(…)
107
VIII
La corona di frate Pietro
Nella stessa notte il Cadì, non contento del sangue dei martiri, mandò i suoi ministri a prendere
anche le cose loro che erano rimaste nella casa ove prima erano stati ospitati. In casa, però, era rimasto per custodire la roba frate Pietro da Siena, che ancora non sapeva ciò che era accaduto ai suoi
santi compagni. Ed ecco, mentre era ancora notte, capitare in casa quegli uomini, circa una ventina,
con armi e lanterne. I quali, trovando fra Pietro, lo presero e lo portarono tosto al Cadì.
Il Cadì e altri saraceni che erano con lui incominciarono a promettergli grandi cose se avesse
rinnegato la sua fede cristiana e abbracciato quella di Maometto, sottomettendosi alla sua legge. Ma
frate Pietro rispondeva deridendo e disprezzando la loro legge, e continuò, in lunghi interrogatori, a
difendere la verità; perciò fu fatto legare e mettere in carcere fino alla mattina. Fattosi giorno, fu richiamato e nuovamente interrogato sulla fede, ed egli continuò intrepido a manifestare con parole e
con gesti – come poteva – il suo proposito di rimanere saldo nella fede cristiana.
I saraceni ne furono grandemente indignati (…)
E così quegli iniqui saraceni, cui la malizia aveva tolto il lume degli occhi, non senza meraviglia propria, dei pagani, degli altri infedeli e dei cristiani, deposero vivo dal patibolo frate Pietro e lo
decapitarono.
Questi fatti furono testimoniati con grande meraviglia e assicurazioni di verità dagli stessi saraceni. Ciò avvenne nel sabato precedente alla domenica delle Palme. Il giorno seguente, cioè nella
domenica delle palme, il suo corpo ch’era stato lasciato sul terreno immerso nel sangue, non fu più
trovato; anzi, non si vide più neppure alcuna traccia di sangue, quasi fosse stato assunto in cielo
anima e corpo.
[…]
CIV
L’esperienza di frate Odorico da Pordenone
Anche il beato Odorico da Pordenone, sperimentò il potere soprannaturale delle reliquie dei
santi martiri, e così narra, nel suo libro intitolato «Delle meraviglie del mondo», la sua esperienza:
«Io, frate Odorico, avendo avuto notizia del loro martirio, mi recai sul luogo, presi quanto rimaneva dei corpi, già seppelliti, dei santi e li portai via con me, con l’intenzione di portarli
nell’India Superiore, in un luogo dei Frati Minori. E lungo il viaggio, compirono molti prodigi.
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ODORICO da Pordenone
Dal Dizionario Biografico degli Italiani 79 (2013), voce di Andrea Tilatti
Rielaborato ed integrato
Secondo il cronista trecentesco Giovanni di Viktring, Odorico nacque a Pordenone (una tradizione dice a Villanova di Pordenone) da una delle famiglie lasciate a presidio della cittadina friulana da Přemysl Otakar (Ottocaro) II, re di Boemia (1253-1378) nei primi anni Settanta del Duecento.
Forse da questo ebbe origine la voce, non confermabile, che Odorico fosse di stirpe boema. Sicuramente non nacque dalla famiglia Mattiussi-Mattiuzzi e nemmeno nel 1265, data proposta da padre
Girolamo Golubovich (1917), ostile ad una ascendenza boema di Odorico. Preferibile è la tradizione che lo vuole nato nei primi anni Ottanta del secolo XIII, rafforzata dalla ricognizione medica sui
resti parzialmente mummificati del corpo (2002). Se all’epoca della morte (1331) Odorico poteva
avere circa 50 anni, si può calcolare che fosse nato attorno al 1280.
Entrò giovanissimo tra i frati minori, probabilmente già era francescano il 9 febbraio 1296, a 16
anni presumibilmente. Notizie dei cronisti francescani affermano che a 25 anni (1305 ca) Odorico
venne ordinato sacerdote in Udine e che fosse un buon predicatore. Conobbe numerose città italiane
e, secondo le tradizioni francescane, svolse attività missionaria in alcune regioni mediterranee, finché i superiori lo richiamarono a Udine. Questa mobilità ed il fatto che godesse di prestigio ed avesse relazioni di alto livello sociale e istituzionale, fanno pensare che avesse contatti con la curia avignonese e che il suo viaggio in Oriente fosse di carattere istituzionale - data l’attenzione del papato
per le missioni - non il frutto dell’inquietudine di una coscienza, né il riflesso di un moto di fuga di
un membro di una frangia spirituale emarginata e perseguitata all’interno dell’Ordine, o almeno non
solo questo. Proprio la relazione del viaggio in Oriente, che rese celebre Odorico (Itinerarium), dato
che era fatta per il papa, può corroborare l’ipotesi.
Per avere notizie precise dobbiamo arrivare al 1318. Dopo tale data Odorico partì da Venezia
verso Costantinopoli. La missione sembra condotta secondo le consuetudini dei frati, Odorico ebbe
almeno un socius, frate Giacomo d’Irlanda. Sbarcò sul Mar Nero a Trebisonda (Trabzon, oggi i
Turchia settentrionale), la prima sosta documentata nella relazione. Da là si mosse per via terra verso Hormuz (sul Mar Rosso), per salpare verso l’Oceano Indiano. Non ci sono dati cronologici precisi circa il susseguirsi delle tappe. Odorico nell’Itinerarium fornì brevi note descrittive dei luoghi
toccati, segnalò peculiarità culturali, religiose, sociali, produttive e commerciali, e indicò i tempi di
percorrenza medi che separavano una località dall’altra.
Da Hormuz Odorico approdò in India, a Tana, oggi un sobborgo a nord est di Mumbai (Bombay). Definì la popolazione come idolatra, perché adorava fuoco, serpenti ed alberi; la città era stata
però conquistata da poco dai musulmani. Qui seppe del martirio di quattro frati minori, avvenuto
nell’aprile 1321: un termine post quem per i tempi del viaggio. Recuperò le ossa di Tommaso da
Tolentino, Giacomo da Padova e Demetrio da Tiflis (ma non il corpo di Pietro da Siena) e le portò
con sé. Dopo Tana, Odorico proseguì verso Malabar e l’odierna megalopoli indiana di Chennai
(l’antica Madras), sulla costa sud orientale dell’India, poco a nord di Ceylon (Sri Lanka); visitò la
tomba dell’apostolo Tommaso a Mylapur (Mylapore, oggi inglobata in Chennai). Di seguito il racconto appare più confuso ed è difficile capire la direzione dei movimenti e identificare le località
toccate, in una peregrinazione che, se non è casuale, ha lo scopo di esplorare quanto più possibile
rotte e regioni incognite. Da Ceylon Odorico passò per le isole Andamane e Nicobare (Golfo del
Bengala, presso la costa birmana), Sumatra, Giava, Borneo, forse per le Filippine e altri approdi.
Forse fu il primo europeo a raggiungere l’Indonesia.
Arrivato nel Catai, l’impero del Gran Khan, il suo itinerario riprende una certa linearità. Approdò a Zayton (oggi Quanzhou), sede vescovile, sulla costa orientale della Cina, di fronte all’isola di
Formosa (Taiwan), da cui nel 1292 Marco Polo era ripartito per il suo viaggio di ritorno. Una lettera
109
del vescovo, Andrea da Perugia2, datata 1326, conferma il suo arrivo e l’accoglienza delle reliquie
dei tre martiri francescani.
Le tappe successive furono verso il nord della Cina, varie città spesso di incerta identificazione,
ma gigantesche e ricchissime, a confronto con le più modeste città italiane. Tra queste Nanchino,
infine Odorico, secondo alcuni nel 1325, dopo sette anni di viaggio, giunse coi compagni a Khanbaliq (Pechino), sede imperiale, dove fu ricevuto dall’imperatore Yesün Temür Khan (T’ai-ting-ti),
pronipote di Kubilai.
La città era sede dell’arcivescovo francescano Giovanni da Montecorvino, ma non ci sono prove
per collegare il viaggio di Odorico con l’azione dell’arcivescovo. Non si sa nemmeno quando il frate friulano sia giunto a Khanbaliq, benché si pensi a un periodo tra il 1322 e il 1325. È verosimile
che Odorico incontrasse il presule, sebbene non ne parli nell’Itinerarium, come non parlò di attività
propriamente missionarie, ma asserì di essere rimasto tre anni nella capitale dell’Impero. Giovanni
da Montecorvino morì nel 1328. Questi dati hanno indotto l’ipotesi che Odorico, dopo soli tre anni,
fosse stato incaricato di tornare in Occidente per sollecitare aiuti.
In ogni modo, Odorico riparte per l’Italia attorno al 1328, passò per il Tibet e fu il primo europeo
ad entrare nella sua capitale Lhasa. Il viaggio di ritorno seguì il tragitto interno, noto come 'via della
seta', attraverso la Cina, il Pamir, la Persia e il Mar Nero, La descrizione nell’Itinerarium è più sbrigativa, con cenni a curiosità e a storie in buona parte già note in Europa, come quella sul mitico regno del prete Gianni. Giunti a Trebisonda, Odorico e il suo compagno, frate Giacomo, si imbarcarono su una nave veneziana, forse tra il 1329 e il 1330 giunsero probabilmente a Venezia e successivamente a Padova. Qui, nel maggio del 1330, su richiesta del suo superiore Guidotto, Odorico,
ospite del convento presso la basilica di Sant’Antonio, dettò il resoconto del suo viaggio al frate
Guglielmo di Solagna.
Ma da questo momento in poi le notizie su di lui si fanno scarse. Impiega un certo tempo a dettare la relazione del suo viaggio, che avrà una fama larghissima. Però si sa poco di quest’ultimo periodo della sua vita, che sembra trascorrere nell’ombra.
Voleva andare dal papa Giovanni XXII ad Avignone: un viaggio ben da poco per uno come lui.
Ma il suo fisico è ormai spossato. Non arriverà mai a vedere il papa, non potrà mai esortarlo a mandare in Cina altri missionari. Forse anche la notizia, tarda, che volesse recarsi ad Avignone sembra
poco verosimile. L'itinerario prescelto prevedeva un viaggio via terra fino a Pisa, poi via mare fino
a Marsiglia, quindi ad Avignone.
Ma il suo viaggio si interrompe a Pisa: non ce la fa più. Si ammala e faticosamente torna ad avviarsi verso il Friuli. Fa una sosta ancora a Padova, ed eccolo infine ricoverato nel convento udinese
di San Francesco. Qui frate Odorico si spegne il 14 gennaio 1331, per complicanze cardiache causate da insufficienze respiratorie, secondo gli esiti dell’autopsia praticata sui resti mummificati della
salma.
2
Nel 1307 Clemente V eresse l’arcidiocesi di Khanbaliq nominando come primo arcivescovo Giovanni da Montecorvino. Il papa inviò in Oriente sette francescani, tutti consacrati vescovi prima di partire. Solo tre di questi raggiunsero
Khanbaliq nel 1308: Gerardo Albuini, Pellegrino da Città di Castello e Andrea da Perugia, che conferirono la consacrazione episcopale a Giovanni.
Alla morte di Gerardo, primo vescovo di Zayton, Giovanni da Montecorvino chiamò a succedergli Andrea, il quale rifiutò l'incarico e restò come missionario a Khanbaliq. Dopo il 1318 Andrea lasciò Khanbaliq e si recò a Zayton dove,
con il permesso dell'imperatore, edificò nei dintorni della città una chiesa ed un convento, capace di accogliere una ventina di nuovi missionari francescani. Alla morte di Pellegrino (1322) Andrea fu designato dall'arcivescovo Giovanni a
succedergli sulla cattedra di Zayton.
Di lui resta una lettera, scritta nel gennaio 1326 al guardiano del convento di Perugia, in cui descrive il suo lungo viaggio per raggiungere la Cina e le difficoltà della missione.
Andrea morì nel 1332. Verso la metà del XIX secolo, durante la demolizione delle mura di Quanzhou fu scoperta la sua
pietra tombale, che era stata riutilizzata come materiale da costruzione. Si tratta di una delle pochissime testimonianze
epigrafiche delle missioni latine in Cina nel Trecento. L'iscrizione riporta la seguente frase:
«Hic...sepultus est Andreas Perusinus (devotus ep. Cayton... ...ordinis (fratrum min.) (Jesus Christi) Apostolus (in mense) ...M (cccxx)xii» («Qui ... è sepolto Andrea da Perugia (devoto vescovo Caytonense...) dell'Ordine dei Frati Minori,
apostolo (di Gesù Cristo) (nel mese di ....) 1332»).
110
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Nel 1332 Odorico fu proclamato beato dal patriarca di Aquileia, Pagano Della Torre, con la traslatio ed elevatio del corpo. Il 2 luglio 1755 l’Ordine, la diocesi di Aquileia e la municipalità udinese ottennero dal papa Benedetto XIV il decreto di beatificazione equipollente. Dopo la beatificazione, la figura di Odorico assunse sempre meglio i connotati del frate missionario in estremo Oriente,
tanto da essere definito, nel secolo XX, «apostolo della Cina».
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La relazione del viaggio da portare al papa, l’Itinerarium (Itinerarium Terrarum o De rebus incognitis3), fu dettata nel maggio 1330 a Padova, al confratello Guglielmo da Solagna, per ordine del
ministro provinciale dei Minori. Sembrerebbe dunque concepita come un documento ufficiale da
recapitare alla curia papale, dove giunse. Le fonti agiografiche trecentesche, inoltre, sostengono che
Odorico fosse tornato in patria per ottenere dal papa rinforzi per le missioni in Cina. Sono notizie
non verificabili.
L’Itinerarium (o Relatio) è una tra le più importanti fonti medievali per la conoscenza dell'Estremo Oriente, in particolare per l'arcipelago malese e la Cina. Ebbe un’ampia fortuna manoscritta
latina (circa 80 testimoni superstiti), suddivisa in diverse recensioni, più volte pubblicate a stampa
(1a ed. a stampa, Odorichus de rebus incognitis, Pesaro 1513), fino alla non perfetta edizione critica
migliore di Anastaas van den Wyngaert, nel 1929. Precoci furono i volgarizzamenti, molti editi: sette in italiano, due in francese e in tedesco, uno in catalano-castigliano e in gallese, fino a versioni
più recenti in inglese e in ceco.
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Dal Memoriale toscano. Viaggio in India e Cina (1318-1330)
1 Costantinopoli e Trebisonda
Negli anni del nostro Signore Iesù Cristo MCCCXVIII io, frate Odorigo da Frigoli, dell'Ordine de'
frati minori della provincia di Padova, partendomi della detta provincia venni in Ghostantinopoli, e
di quindi passai il mare Maggiore e venni in Trebisonda, nella contrada detta metropoli di Ponto:
nella quale terra giace il corpo del beato Attanasio che fece il simbulo. 2 E in questa terra vidi una
mirabile cosa, che uno uomo menava più di dumila pernici, le quali il seguitavano in modo mirabile
perché sempre andavono e volavano e stavano con lui per più dì e ubbidivallo e parevano quasi che
con lui parlassino nella lingua sua. E quando andava allo imperadore, e lo 'mperadore prendeva delle pernice quante e' volea, e l'altre se ne veniano con lui insino a uno castello che si chiama Zangha.
Di Trebisonda andai a Zangha, che è castello dello imperadore ed è fortissimo; e quivi si cava l'argento e anche il cristallo, secondo che si dicea.
2 In Armenia Maggiore
Quivi andai in Ermenia Maggiore e pervenni ad Aicelone ove è presso a una giornata il fiume del
Paradiso detto Eufrates. In questa terra una gran donna lasciò in testamento che de' ben suoi si facessi un munistero di meritrici al servigio degl'uomini in ogni carnalità, per l'anima sua maladetta.
3 Il monte Ararat
Di quindi venni al monte ov'è l'arca di Noè': e volentieri sarei salito alla cima del monte, avegna che
mai non si trovi chi vi potessi salire: ma perché non volle aspettare la carovana, non volli rovarmene. Il monte è altissimo e bellissimo, e sempre v'è la neve quasi insino alla terza parte del monte.
3
c. 21, p. 15 ripreso da Umberto Eco, Il pendolo di Foucault, [pagina 102 dell'edizione 1988.
111
4 In Persia: la città di Taurisio
Poi io venni in Persia, nella città ch'è detta Taurisio, e in quella via passai il fiume Rosso, ove Alessandro sconfisse el re Dario. E in quella città noi abbiamo due luoghi: ed è città mirabile <in> moltitudine di mercatanti, ed èvi un monte di sale del quale ne può prendere ciascuno che ne vuole.
5 Soldania
Di quindi venni in Soldania, ov'è la sedia del re di Persia, nella quale è uno luogo de' frati predicatori e uno de' minori.
6 Saba, terra dei re Magi
Di quindi venni in Saba, cittade e terra della quale furono i tre Magi: e tutti e' cittadini saracini che
dimorano quivi dicono che i Magi furono di quella terra, la quale è città grande e bene situata, ma
ora è molto diserta; ed è di lungi da Gierusalem sessanta giornate.
15 Il Vecchio della Montagna
« De qui partendone venemmo in una contrada chiamata Milestre... nel quale dice che solea stare
uno che se chiama el Vecchio de la Montagna... E havìa facto sopra altissimi monti, che circhiava
intorno una valle, un muro grossissimo et alto, et gyrava intorno … per miglia, et andava per doi
porte dentro et erano occulte, forate nel monte»
27 I cinocefali di Nichovera
Partendomi di questa contrada navicai per lo mare Oceano verso il meriggio e trovai molte isole e
contrade, tra le quali n'à una che si chiama Nichovera, che gira bene <dumila>' miglia, nella quale
tutti gl'uomini ànno il capo di cane e adorano il bue. E catuno porta in sulla fronte un bue d'oro o
d'argento, e tutti vanno nudi, le femmine e gl'uomini, salvo che la vergogna cuoprono con una tovaglia intorno: e sono grandi del corpo e forti in battaglia, e portano uno scudo che gli cuopre tutti, e
tutti vanno ignudi coperti dal detto scudo. E se pigliano alcuno in battaglia che non si possa ricomperare, sì se lo mangiano. Il re loro porta trecento perle grandi a' collo, e conviene che faccia ognindì trecento orazioni per gli suoi Iddii: e nella mano diritta porta uno rubino grande e lungo bene una
spanna, che pare una fiamma di fuoco, il quale il gran Cane molto se n'è impacciato' d'averlo, e in
gnun modo gliel consente, né non lo può avere. Questo re tiene giustizia, sicché ogni uomo può ire
liberamente.
45 Vastità dell'impero e sistemi di comunicazione
Di questo signore gran Cane è l'imperio in dodici parti diviso, e catuna si chiama singlio; e l'una di
queste parti è il Manci, che à sotto di sé dumila grandi cittadi. Onde è da sapere che '1 suo imperio è
sì grande che bene sei mesi si pena andare o vuoi per lo lungo o vuoi per lo traverso, sanza l'isole
che sono cinquemila, che non si pongono nel detto numero. E à fatte fare per tutto il suo imperio case e cortili per li trapassanti, le quali case si chiamano iam, e nelle quali case son tutte quelle cose
che sono necessarie alla vita umana. E quando alcuna novità viene nel suo imperio, incontanente gli
ambasciadori overo messaggi corrono sopra i cammelli; e se '1 fatto porta pondo, montano in su
dromedarii, e incontanente che s'apressono a questa iam suonano un corno, e ncontanente uno s'aparecchia e riceve la lettera, e va insino all'altro iam; e quello rimane, e l'altro poi va per simigliante
modo. E per questo modo in un dì naturale à novelle di dodici giornate alla lunga.
Anche v'à un altro modo, di quelli che corrono a piè: le case di questi corrieri si chiamano chidebo,
e stanno gli corrieri per queste case, e ànno una cigna di campanelle, e l'una casa è di lungi dall'altra
tre miglia (e quell'altre de' corrieri e cammelli sono di lungi venti miglia l'una dall'altra); e quando
s'apressa a una di queste case, incontanente comincia a sonare queste campanelle, e quello che è
nella casa s'aparecchia, e così vae insino all'altra casa, come à fatto costui; e così gli altri, insino che
sono giunti al signore. Onde nulla si può fare nel suo imperio che incontanente non lo sappia.
112
NICCOLO da Poggibonsi
Dal Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 78 (2013), voce di Sergio Sensini
Rielaborato
Niccolò nacque tra il 1310 e il 1320 a Poggibonsi, nei pressi di Siena. Ma non si hanno altri dati
sicuri sulla sua giovinezza. A Poggibonsi stimoli di varia natura lo spinsero a indossare il saio francescano, mentre la memoria di personaggi legati, direttamente o indirettamente, alla Terrasanta, lo
indusse al pellegrinaggio verso quei luoghi dove già erano insediati i suoi confratelli. Così, dopo
aver visitato alcune città della Toscana (ricorda più volte Firenze e, al capitolo VI del suo Libro
d’Oltramare, Siena) e, forse, Roma (lo si intuisce da un riferimento al Colosseo), intraprese il suo
viaggio verso Gerusalemme. La Terrasanta era ormai da tempo in mano musulmana.
Partì da Poggibonsi prima del 25 marzo 1346 e, passando per Firenze, Bologna, Ferrara, Chioggia, giunse a Venezia, «il più reale porto del mondo; però che sempre truovi navilij da navigare in
qualunque paese l’uomo à mestieri d’andare» (cap. II, p. 3). Ne ripartì il 6 aprile e, dopo una navigazione di 56 giorni, tormentata dalle furie del mare e dall’assalto dei pirati, il 1° giugno giunse nel
porto cipriota di Famagosta; si recò poi a Nicosia, dove rimase sei mesi coi francescani e, imbarcatosi per Giaffa nel febbraio 1347, giunse a Gerusalemme il 25 di quel mese e vi si trattenne quattro
mesi presso la chiesa del Santo Sepolcro. Fra l’estate e l’autunno fece una digressione a Ebron, ‘Ain
Karem, in Samaria e Galilea prima di rientrare a Gerusalemme. Assisté alle funzioni della Natività
nella chiesa di Betlemme. Il 6 gennaio 1348 fu presente alle funzioni dell’Epifania sul Giordano, visitò poi il monte della Quarantena a Gerico (nel deserto di Giuda, in un luogo che la tradizione identifica con Gebel Garantal o Monte della Quarantena, che si erge sulla pianura 4 km a nord di Gerico, nel punto della massima depressione terrestre; qui secondo la tradizione avvennero le tentazioni
di Gesù) e ne ripartì per Damasco. Passò l’intero anno fra Siria e Libano; all’inizio del 1349 si recò
a Beirut e poi in Egitto: Damietta, Alessandria, Il Cairo. In primavera attraversò il Sinai e, passando
per Gaza, tornò a Damietta. Nell’estate del 1349 salpò dall’Egitto per Cipro e, passando per la Slavonia, l’Istria e il Friuli, giunse a Venezia, che lasciò nel gennaio 1350 e, attraverso Chioggia, Ferrara, Bologna e Firenze, tornò in patria fra il marzo e l’aprile. Non si conosce la data della morte.
Il viaggio e il Libro d’Oltramare
Fra i luoghi che segnano la storia della spiritualità cristiana, Gerusalemme è anche il punto di riferimento per ebraismo e islamismo, come Niccolò annota: «tutte le generazioni del mondo ti chiamano santa» (cap. XI, p. 10). Ma il suo viaggio non dovette avere solo natura devozionale. Scrisse il
Libro d’Oltramare come guida per i pellegrini, ma si lasciò attrarre da un’infinità di cose, sintomo di
grande curiosità e attento spirito di osservazione. Di Venezia, per esempio, lo colpiscono sia il fatto
che «tutta giente sono mercatanti» (cap. I, p. 2), sia la struttura urbanistica, «però ch’ella è fatta in
altro modo che l’altre terre» e le «strade, piccole e grandi, sono canali d’acqua» (cap. II, p. 2);
ugualmente è impressionato dalla complessa organizzazione allestita dai musulmani per fornire
guide, alloggi, cavalcature e altro, la cui descrizione fa pensare a un turismo organizzato. Notevoli
inoltre sono l’ampiezza dell’itinerario, l’eccezionale durata del viaggio e soprattutto la molteplicità
degli interessi che Niccolò manifesta, cogliendo i più vari aspetti dei paesi che visita e i caratteri
delle genti che incontra. Da buon francescano rifiutò il denaro offertogli da un ricco giacobita di
Alessandria di Egitto per il ritorno («la nostra regola non ci concede di portare denari», cap. XXVI,
p. 148), ma del francescano non manifestò la vocazione missionaria.
Lo stesso autore afferma che il Libro d’Oltramare corrisponde a un programma costruito con lucidità e perseguito con rigore: « […] quando passai oltramare, l’animo mio puosi di volere tutte cose
visitare […]. E quello che con gli occhi vedea, e colle mani toccava, e anche altrui domandando
[…] io lo scriveva in su un pajo di tavolelle, che allato portava. […] E la ragione […] si è questa:
prima, che molti, che ànno grande voluntà di visitare le sante luogora, a molti nuoce la povertà, e
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altri lasciano per troppa fatica, e chi per non potere avere licentia, che si debba avere, dal Papa»
(cap. XIII, p. 13). In queste parole è espresso l’intento principale dell’opera, che è quello di dare
informazioni a chi non poteva compiere il pellegrinaggio. A ben guardare, però, essa si configura
anche come una vera e propria guida turistica. Niccolò, infatti, si abbandona spesso a descrizioni
di colore esotico, lasciandosi attrarre dal meraviglioso perfino nei luoghi sacri. Così, nella chiesa di
S. Caterina del Sinai, dove lo colpisce il gran numero di lampade «che io non potevo venire a fine
di contarle» e che poi seppe essere «più di mille cinquecento » (cap. CCXIV, p. 126). Di Damasco
lo attraggono la struttura urbanistica e le consuetudini economico-sociali: «…tutte le strade buonamente sono coperte di sopra, con molti spiragli [lucernari] spessi e molte lampane appiccate per farne lume la notte; e le case sono altissime […] dentro tutte messe [dipinte] ad azzurro fine, di sotto
lavorate ad opera musaica […]. Ecci grande mercato d’oro e d’azzurro [zaffiro], e d’ogni spezieria.
[…]»; «in Damasco non è niuno signore e niuno sì povero, che mai cuoca in sua casa; […] e ogni
cosa che vogliono, sì truovano cotto […] a tutte l’ore […] però ch’e’ Saracini mangiano così di dì
come di notte, che pare ch’egli abbiano lo stomaco di ferro. […] Anco ànno nella detta città X. migliaia delle loro chiese, le quali chiamano moschede […]. La detta città è molto fredda, e nelle montagne che sono d’intorno, sì ci dura la neve infino a giugno; e portasi la detta neve insu i camelli a
vendere in Damasco, e ivi si vende di maggio e di giugno; e anche la mettono nelle cantine, e mangionla nelle loro abeverature» (cap. CLII, pp. 90-91).
A una commozione, talora anche intensa, provata davanti a certi monumenti che ricordano momenti della vita e della passione di Gesù, si accompagna un forte interesse per le cose esteriori, tanto più quando si trova davanti a cose ben diverse da quelle che conosce, come lo struzzo, l’elefante,
la giraffa. Niccolò aggiunge inoltre indicazioni di pratica utilità: da quelle sulle monete a quelle di
carattere geografico.
Molte sue osservazioni sono esatte, confermate dai monumenti superstiti e dagli scavi archeologici; interessanti sono anche le descrizioni degli usi liturgici di ebrei, di musulmani e confessioni
cristiane diverse dalla cattolica, delle quali offre un quadro variegato (cap. CLXXVII, p. 105), come
la festa dell’Epifania sul Giordano (cap. CXLVIII, p. 85) o quella di una messa ad Alessandria
d’Egitto officiata dai giacobiti (cap. CCLVI, p. 148). Si nota la sua attenzione verso gli altri popoli
e la particolare simpatia per i musulmani.
Un posto di rilievo è dato anche alle leggende, che, pur non ritenendole tutte vere, trova attraenti.
Una parte di esse sono relative alla vita della Madonna. Su tutte s’impone quella del legno della
Santa Croce, alla quale, parlando dell’omonima chiesa di Gerusalemme, dedica una suggestiva descrizione: «Come uno dottore dice, la croce di Cristo fu di quattro legni; per lo lungo della croce fu
il legno che Set, figliolo d’Adamo nostro padre, recò dal paradiso; e questo legno crebbe in valle
Ebron, sopra la sepoltura d’Adamo. Il secondo legno, che fu per le braccia della croce, fu
d’arcipresso, e questo crebbe in questa chiesa sopra detta. Il terzo legno si fu cedro, e questo crebbe
in monte Libano, il quale fu posto a’ piedi di Cristo. Il quarto fu d’ulivo, dove scritto fu: Yesus Nazarenus rex Iudeorum. Alla detta chiesa si fa bella festa la seconda domenica della quaresima, che vanno
tutti i Cristiani, e Saracini di Ierusalem. E dicesi, che in quello dì fu tagliato detto albero» (cap.
CXII, p. 66).
Notevole è, infine, la precisione con la quale vengono descritti i monumenti, sia antichi sia moderni, con l’occhio rivolto di preferenza agli aspetti artistici, dei quali, a differenza della maggior
parte dei pellegrini, Niccolò sa distinguere il genere, lo stile e le tecniche. Insomma, è una guida
meno legata alla dimensione del pellegrinaggio e aperta a nuove e più ampie problematiche.
Tanta deve essere stata la fretta di far conoscere agli altri la sua esperienza da impedire a Niccolò
di dare un ordine più preciso a quanto andava rilevando dalle sue preziose «tavolelle». Il racconto,
infatti, è tutt’altro che lineare e il lettore deve faticare non poco a ricostruire con ordine le tappe del
viaggio.
Dell’opera, di cui non si conosce l’autografo, si hanno 20 codici compilati tra il XV e il XVII secolo conservati in varie biblioteche italiane (fra cui la Biblioteca nazionale di Firenze) e straniere,
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uno dei quali scritto da un conterraneo dell’autore: «Francesco di Barone di Salvi de’ Belforti da
Petrognano in Valdensa (sic), nato a Poggibonsi nel 1413».
Il Libro d’Oltramare fu pubblicato da Bacchi della Lega (Bologna 1881, rist. anast. Bologna
1968) in due volumi; una successiva edizione, riveduta e annotata – Libro d’Oltramare (1346-1350)
–, fu pubblicata per il sesto centenario da Bagatti (Gerusalemme 1945, trad. ingl. a cura di T. Bellorini - E. Hoade, Jerusalem 1945. Un’altra edizione del Libro d’Oltramare, a cura di A. Lanza, è in
Pellegrini scrittori. Viaggiatori toscani del Trecento in Terrasanta, a cura di A. Lanza - M. Troncarelli, Firenze 1990.
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GIOVANNI DE’ MARIGNOLLI
Dal Dizionario Biografico degli Italiani 70 (2008), voce di Paolo Evangelisti. Rielaborato
Giovanni (di Marignola, da Firenze, di S. Lorenzo), appartenente, con buona fondatezza,
all’importante prosapia dei Marignolli, nacque con tutta probabilità a Firenze verso la fine del XIII
secolo.
I Marignolli si erano insediati già nella prima metà del XIII secolo nel borgo di S. Lorenzo dove
possedevano, almeno dal 1270, un immobile nei pressi della chiesa omonima, ed espressero importanti figure politiche di parte guelfa nella storia istituzionale della città.
Dopo aver preso l’abito francescano in S. Croce a Firenze, fu lettore di teologia allo Studium di
Bologna, come da lui riportato e come attestato da due documenti che ne testimoniano la presenza
nel marzo e nel dicembre 1332. Non sono note altre vicende della sua vita religiosa fino a quando
Benedetto XII lo inviò in missione presso la corte imperiale cinese, come risposta alla ambasciata
cinese giunta in Avignone nel 1338. Sappiamo dunque che nel 1338 era ad Avignone da dove partì
con un nutrito gruppo di confratelli per una missione diplomatica decisa dalla S. Sede presso
l’Impero mongolo del khan Togan Temur. Lo scopo della missione era di dare una risposta alle ripetute pressioni provenienti dalla corte mongola e dai dignitari cristiani lì operanti per ristabilire
una presenza francescana dopo la scomparsa dell’arcivescovo di Pechino Giovanni da Montecorvino, morto ben 10 anni prima. Il presule non era stato infatti ancora sostituito nonostante Giovanni
XXII, il 18 settembre 1333, avesse nominato il successore nella persona del frate minore Nicolò,
scomparso l’anno successivo prima di raggiungere quella sede. Per motivi imprecisati il capo della
delegazione nominata nel 1338 da Benedetto XII, Nicolas Bonet, dovette rapidamente rientrare ad
Avignone e il Marignolli prese il suo posto, pur senza un provvedimento ufficiale. Nel dicembre
1338 lasciò Avignone e il 10 febbraio 1339 raggiunse Napoli. Il 1º maggio arrivò presso la corte di
Andronico III a Costantinopoli, dove tentò un riavvicinamento con il patriarca greco Giovanni
(XIV) Calecas, cercando inutilmente di ricomporre i dissidi che dividevano le due chiese.
Il 24 giugno., passando per Caffa e Azov, Giovanni giunse a Saraj, accolto da Uzbek Khan che
lo rifornì di cavalli e vettovaglie. Nel 1340 la missione raggiunse Almalyk, in territorio khazako, già
sede di un importante insediamento francescano distrutto da Ali Sultan che, a differenza del suo
predecessore Kazan Khan, aveva bandito tutte le religioni non musulmane dal Khanato. La missione, non avendo rispettato l’editto di proscrizione, era stata devastata e tre frati, un terziario, due
conversi, un mercante nonché il vescovo Riccardo di Borgogna erano stati uccisi l’anno precedente
l’arrivo del Marignolli. Dopo la morte di Ali Sultan, Giovanni riuscì a ristabilire buoni rapporti con
i nuovi governanti e a far finanziare e ricostruire la comunità, acquistando terreni per nuovi alloggi
ed edificando una nuova chiesa. Alcuni frati della delegazione si fermarono così ad Almalyk per riprendere il lavoro dei confratelli uccisi. Nel 1342 il Marignolli raggiunse Pechino, dopo aver attraversato il deserto del Gobi. Accolti in udienza solenne da Togan Temur il 12 agosto, i trentadue frati consegnarono le lettere del papa e ripresero l’attività di assistenza spirituale ai cristiani residenti a
corte. Il khan provvide direttamente ai minori erogando in loro favore anche cospicue somme di denaro (che il Marignolli stimò in circa 4000 marchi), come consuetudine delle corti mongole, che
concedevano ai frati alafe, cioè vitalizi e sussidi imperiali.
Giovanni de’ Marignolli rimase alla corte del khan sino al 1346 e, nonostante le insistenze del
capo mongolo, riprese la via dell’Europa alla fine di quell’anno. L’itinerario del rientro portò il M. a
conoscere altri luoghi dell’Asia orientale e meridionale. La prima tappa importante fu nella città
emporiale di Zayton, in Cina, dove i francescani, strettamente legati alla colonia mercantile europea, possedevano un fondaco e tre chiese. Il 26 dic. 1346 il M. ripartì da Zayton alla volta della sede
papale passando per Giava, Sumatra, l’India e Ceylon; attraversato lo stretto di Hormuz, passò in
seguito per Baghdad, Damasco, Gerusalemme e l’Egitto. Giunto ad Avignone portò con sé una missiva del khan mongolo che costituiva uno dei risultati più significativi della missione: il pontefice
romano vi era infatti riconosciuto come «dominus […] super omnes christianos sui Imperii, cuiscumque sectae essent» (cfr. Cronica XXIV generalium). La missiva testimoniava così il persistere
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di una linea che contraddistingueva i rapporti tra Papato e Khanato mongolo di Pechino sin dal secolo precedente: una piena disponibilità alla presenza cattolica per il tramite dei frati minori, la libertà di svolgere, in via esclusiva, attività di predicazione presso i cristiani di ogni setta e la indisponibilità del Khanato alla conversione.
Innocenzo VI gratificò Giovanni con 50 fiorini per la missione compiuta e il 12 maggio 1354 gli
conferì il vescovado di Bisignano. Il Marignolli tuttavia non occupò mai quella cattedra vescovile,
preferendo corrispondere a una richiesta dell’imperatore Carlo IV di Lussemburgo che lo voleva
con sé a Praga come cappellano e storico di corte. L’incontro con l’imperatore avvenne verosimilmente nel corso del viaggio compiuto da Carlo IV in Italia, dal gennaio al giugno 1355. Presso la
corte imperiale Giovanni scrisse, su incarico dello stesso sovrano, il Chronicon Bohemorum. Nel
corso della sua permanenza a Praga (1356-57) gli furono affidate due missioni politiche a Firenze e
a Bologna per dirimere alcune questioni sorte con i Malatesta, incarichi che sicuramente derivavano
dalla sua appartenenza a una famiglia ben pratica delle questioni politico-istituzionali di Firenze. Le
ultime testimonianze a lui relative sono l’attestazione della consacrazione da parte sua di due altari
nella chiesa di S. Maria a Norimberga (25 luglio 1358) e una durissima lettera dell’arcivescovo di
Armagh e primate d’Irlanda, Richard Fitzralph (1357-58). La missiva, che chiama in causa direttamente il Marignolli in qualità di vescovo di Bisignano, ci informa di uno scontro insorto sulla questione dei rapporti tra clero e ordini mendicanti – probabilmente in merito alle competenze pastorali
– e lo vede, insieme con l’Ordine dei minori, come parte soccombente.
Giovanni de’ Marignolli morì a Praga o a Bratislava tra il luglio 1358 e il marzo 1359. Nel 1898
venne ricordato con una lapide apposta in S. Croce a Firenze.
Alcuni annalisti e cronisti dell’Ordine gli hanno attribuito diverse opere, ma l’unica certamente
da lui scritta e pervenuta sino a noi è il Chronicon Bohemorum. La stesura è successiva al maggio
1354 e potrebbe essere circoscritta a poco più di due anni: 1357 - marzo 1359. In tre libri,
il Chronicon racconta, con importanti e dichiarate cesure temporali, la storia dei tearchi (da Adamo
a Noè e «usque ad turrim Babel et divisionem terrarum»), dei monarchi (da Nemrod «usque ad felicia tempora nostra Francorum et Gallicorum, maxime Boemorum») e degli ierarchi, ovvero degli
ecclesiastici (da Abramo sino all’arcivescovo di Praga Ernesto da Pardubice, coevo del Marignolli e
in gioventù studente presso l’Università di Bologna). All’interno di questo impianto, riconducibile
per tipologia alle cronache universali medievali e debitore diretto della Cronaca di Cosma da Praga,
si inseriscono importanti frammenti che costituiscono nel loro insieme una relatio della missione
diplomatica compiuta da Giovanni sino a Pechino. Questi, che non manca di sottolineare le sue origini fiorentine, inserisce infatti in tutti e tre i libri passaggi significativi che dimostrano l’evidente
intento di promozione dell’autore così come della funzione e del valore dell’Ordo minorum tanto
nelle remote terre dell’Asia quanto nel Regno boemo: in quest’ultimo caso la storia dell’insediamento e dell’affermazione francescana è presentata in stretto collegamento con le vicende del regno
di Carlo IV.
Il Chronicon riveste un valore anche come fonte per la storia dell’identità minoritica almeno per
due aspetti: per le modalità con cui descrive e riflette sul ruolo dei minori presso le corti, le realtà
urbane e mercantili degli empori orientali e per un significativo passaggio che riguarda la rivendicazione dello statuto pauperistico presentato come attuazione del comando evangelico e della regula
degli apostoli. Un passaggio importante questo, perché si colloca in un momento decisivo per la storia francescana: esso fu scritto infatti oltre vent’anni dopo la serie di bolle emanate da Giovanni
XXII sulla questione della povertà di Cristo e degli apostoli e circa lo statuto giuridico delle proprietà dell’Ordine dei minori (1322-29), e a ridosso di un periodo (1325-54) in cui assai intensa fu
la produzione normativa interna che riformulava il profilo della povertà, comune e personale, dei
frati.
La migliore edizione del Chronicon Bohemorum è in J. Emler, Kronika Marignolova, in Fontes
rerum Bohemicarum, III, Pragae 1882, pp. 492-604; per l’estratto della relatio della missione diplomatica orientale cfr. anche A. van den Wyngaert, in Sinica Franciscana, I, Ad Claras Aquas
1929, pp. 524-560.
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APPENDICE 1
Relazione Richard di Laura Cardinale e Eleonora Morante
GENERI DEI RACCONTI DI VIAGGIO
Nella vita religiosa dei cristiani occidentali e in quella dei primi secoli della Chiesa il pellegrinaggio
ha avuto una grande importanza, per questo si è sentita la necessità di elaborare testi che indicassero
strade, santuari e fornissero consigli pratici. Nella maggior parte dei casi il pellegrino poteva farne a
meno poiché la fama del Santo luogo e l’abitudine di ricoverare le reliquie in un edificio apposito
facilmente individuabile spesso permettevano di supplire alle informazioni orali e all’assenza di una
guida locale.
E’ difficile indicare delle tipologie precise di testo all’interno di un arco cronologico di tempo ben
definito, poiché ogni racconto si può considerare come un caso a sé, almeno in un primo periodo.
Bisogna considerare che il medioevo non ha posseduto in proprio la nozione di letteratura di viaggio e che il raggruppamento che noi realizziamo sotto questo nome riunisce piuttosto artificialmente
opere molto diverse tra loro. Tant’è che molti testi possono facilmente rientrare nell’una o nell’altra
categoria e molte coesistono nello stesso periodo. Una distinzione più precisa verrà fatta soprattutto
per i secoli XIV-XV quando si tratterà di autori diversi dai viaggiatori per pellegrinaggio.
Tuttavia, per poter facilitare il compito, abbiamo distinto 4 generi e, per ciascuno di essi, vedremo
un esempio di brano scelto da poter analizzare e confrontare con gli altri.
ITINERARI
Si tratta probabilmente della forma più antica e più praticata di resoconto di pellegrinaggio che fornisce semplicemente le indicazioni sulla strada da un punto di partenza iniziale alla destinazione del
pellegrinaggio, nominando esclusivamente le città e le distanze tra di esse; solo raramente vengono
aggiunte informazioni utili ai fini del pellegrinaggio, come indicazioni su santuari di particolare interesse. Stilisticamente si presentono sotto forma di elenco.
Esempi:
- Itinerarium burdigalense/Itinerarium Hierosolymitianus  Scritto nel 333-334 da un anonimo
pellegrino durante il viaggio da Burdigala (l'attuale Bordeaux) fino a Gerusalemme, dov'era diretto per venerare il Santo Sepolcro
TESTO 1:
«La città di Bordigala (Bordeaux) dove si trova il fiume Garonne in cui l’oceano scorre per circa
cento leghe.
Cambia a Stomatae (Castres) leghe sette.
Cambia a Senone (Sirio, Pont de Ciron) leghe nove.»
Una volta arrivato a Gerusalemme fornisce più dettagli:
«A Gerusalemme ci sono due grandi piscine (piscinae) di fianco al tempio (ad latus templi) che
sono una sul lato destro e una sul lato sinistro, che furono fatte da Salomone; poi nella città ci
sono piscine gemelle (piscinae gemellares), con cinque portici, che sono chiamati bethsaida. Lì
le persone che erano state malate per molti anni venivano curate; le piscine contengono acqua
che cambia di colore verso il rosso. Qui c’è anche una grotta in cui Salomone era solito torturare
diavoli.»
(Pellegrino anonimo di Bordeaux, Itinerario 589, 7-11)
 Pellegrino anonimo di Piacenza (circa 570)  Noto anche come l’itinerario di Antonino Martire
a causa di un’errata attribuzione dell’autore: nell’incipit l’autore assume a suo protettore il patrono della città utilizzando l’espressione: Praecedente beato Antonino martyre, ex eo quod a
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civitate Placentina egressus sum. Nel Medioevo tale espressione non è più intesa e si muta da
Praecedente a Procedente aggiungendo il sintagma Una cum collega suo, attribuendo l’opera al
martire o a un suo collega, sebbene il viaggio sia compiuto nel VI sec e il martire sia morto nel
III-IV. Un’altra tradizione tramandava che Antonino fosse il nome dell’autore secondo quanto
egli stesso diceva nel suo testo: scrisse sulla “Pietra di Cana” (il sedile in pietra su cui si siede
Cristo quando partecipa a delle nozze a Cana) il suo nome e quello dei suoi genitori. Nell’800
Diehl disse di averla trovata e di aver letto il nome grazie a un graffito greco, rinnegandolo poi
nel 1892.
L’autore, originario del nord Italia, parte da Piacenza, e il suo itinerario percorre Cipro, il Libano, la Palestina, il Sinai, l’Egitto, la Siria e la Mesopotamia. Egli riferisce una grande quantità di
tradizioni raccolte dalla viva voce dei cristiani locali e narra molte usanze e devozioni praticate
nei luoghi santi. Spesso indulge al prodigioso, a volte al fiabesco. Leggermente più dettagliato,
apre la strada a quella che sarà poi la categoria dei diari di viaggio.
TESTO 2
«Da Tiro giungemmo nella città di Nazaret, in cui ci sono molte cose meravigliose. E’ appeso lì
il volume su cui il Signore scrisse abc. Nella sinagoga è posta la trave su cui si sedeva con gli
altri fanciulli. La trave viene mossa e sollevata dai Cristiani ma i Giudei per nessun motivo riescono a smuoverla; non si lascia neppure portare fuori.
La casa di Santa Maria è ora una basilica e molti sono i benefici effetti che vengono a chi riesce
a toccare le vesti di lei. Nella città è tanto grande l’avvenenza delle donne ebree che in quella
terra non si potrebbero trovare donne più belle e dicono che questo è stato concesso loro da Santa Maria; infatti affermano che fu loro antenata; e mentre gli Ebrei non hanno nessuna carità
verso i Cristiani, esse sono piene di ogni attenzione.
La regione è simile al paradiso; per abbondanza di grano e di ricchezza è simile all’Egitto. Benché piccola, eccelle nella produzione di vino, olio, frutta e miglio. Il miglio poi è più alto del
normale, di stelo grosso, supera la statura di un uomo.»
(C. MILANI, Itinerarium Antonini Placentini. Un viaggio in Terra Santa dal 560-570 d.C., Milano 1977, pag. 238)
E’ interessante il paragone tra i due poiché passano per la stessa strada facendo le medesime tappe,
a distanza di 200 anni circa.
Questi itinerari spesso venivano incorporati in manuali devozionali a formare eventualmente una
sezione di una guida completa. Un esempio più approfondito verrà analizzato dopo nella sezione
delle guide per Compostela  Codex Calixtinus.
DIARI
I “diari dei pellegrini”, diversamente dallo stile “ad elenco” tipico degli itinerari, provvedono a fornire più informazioni e sono corredati da esperienze personali più dettagliate.
In entrambe le tipologie c’è una partecipazione personale del lettore del testo. Il lettore rivive
l’esperienza del pellegrino attraverso lo scritto, provando le stesse cose che il pellegrino ha provato
nella Terrasanta stessa.
Per questa sezione i brani verranno analizzati in maniera complessiva alla fine.
Esempi:
 Il diario di Egeria (esempio di “letteratura bassa”)  (381-384 oppure 400 circa) redatto probabilmente da una nobildonna spagnola (precedentemente riconosciuta come Silvia erroneamente e per questo definita anche Peregrinatio Sanctae Silviae). In forma di lettere alle amiche, rimaste a casa, narra le vicende e le impressioni del viaggio nei luoghi santi. La parte che
possediamo del suo itinerario comprende il Sinai, l’Egitto, la valle del Giordano e la Transgiordania. Descrive con dovizia di particolari la liturgia quotidiana, domenicale e di varie feste
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dell’anno liturgico (della Settimana Santa in particolare) alla quale potè partecipare di persona
mentre abitava nella città di Gerusalemme.
Non era però abituale che un pellegrino scrivesse del suo viaggio. Molto più spesso il pellegrinaggio era un’opera pia che gli agiografi descrivevano nei loro racconti sui viaggi compiuti dai santi
(pellegrinaggio come segno distintivo).
 Peregrinatio sanctae Paulae (esempio di “letteratura alta”)  scritta da Girolamo Dalmata
(morto nel 419) dopo varie esperienze di vita monastica, in Siria e a Roma, si stabilì infine a
Betlemme. Le sue opere esegetiche contengono innumerevoli riferimenti ai luoghi biblici. Tradusse in latino l’Onomasticon di Eusebio, aggiornandolo alla situazione del suo tempo (c. 390).
La lettera 46 (a Marcella) è un invito pressante alla visita dei luoghi santi come propedeutica
alla conoscenza dei misteri dei Cristo. Nella lettera 108 (in memoria di Paola) descrive
l’itinerario compiuto al momento della loro venuta in Terra Santa (386) attraverso tutti i santuari della Palestina.
L’opera più completa per questa tipologia ci è data da
 Hodoeporicon sancti Willibaldi  Willibaldo (700-787 ca) fu vescovo di Eichstaett, in Baviera.
Le notizie sulla sua vita sono tratte dal testo dettato alla monaca sassone Hugeberg tra il 767 e
il 778. Il testo fa parte della Vita più ampia e tratta esclusivamente dei suoi viaggi a Roma, Gerusalemme e Asia Minore e dei due anni in Palestina (724-26).
Caso particolare
L’interpretazione della peregrinatio da parte degli agiografi irlandesi è sicuramente un caso a sè:
celti in cerca di santificazione si sono allontanati dal proprio ambiente senza che ciò fosse legato alla visita di un luogo santo (visitano luoghi come le isole dell’Atlantico, Bretagna Armoricana, Gallia, Germania) = possibilità di esilio volontario. Le tradizioni celtiche che situano il paese dei morti,
dei beati al di là del mare, si mescolano formando così testi che associano il racconto di viaggio
all’allegoria dal forte carattere misterico.
Esempio:
 Navigatio Sancti Brendani  è un'opera anonima in prosa latina, tramandata da numerosi
manoscritti a partire dal X secolo. L'autore fu probabilmente un ecclesiastico, di origini irlandesi, che si basò sul patrimonio leggendario della sua terra, inserendovi spunti di derivazione cristiana.
Brandano, abate benedettino irlandese (Clomfert), fu un santo vissuto nel VI secolo: si procurò
fama di navigatore fondando monasteri sulle isole tra l'Irlanda e la Scozia. La leggenda lo trasfigurò, immaginandolo alla testa di un gruppo di monaci, alla ricerca del Paradiso Terrestre e
dei santi (Terra repromissionis) situato su un'isola meravigliosa, l'Isola di San Brendano, e facendo vari incontri con creature fantastiche. L'opera, tradotta nel corso dei secoli in varie lingue, è considerata tra le fonti di ispirazione della Divina Commedia di Dante tanto da far pensare ad alcuni studiosi che la demonologia di Dante possa essere stata tratta anche, non del
tutto, ma in parte, da questa vecchia leggenda. Infatti, in essa si parla di angeli caduti, che il
protagonista trova sotto le spoglie di uccelli candidissimi, appollaiati sopra di un albero nel Paradiso, poiché spiriti decaduti sì, ma non malvagi, né superbi, colpe per le quali, ad esempio,
proprio nella Divina Commedia, Dante li pone come neutrali.
Del testo circolarono nel Medioevo numerose versioni e in molti dialetti. La più antica è in versi, in dialetto francese anglo-normanno, del monaco Benedeit (ca. 1120). Quattro furono le
versioni in italiano e lingua veneta, risalenti presumibilmente a una fonte comune del XIII secolo o del XIV secolo.
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VEDI FOTO 1  Immagine particolare proveniente dal Manuscriptum translationis Germanicae
(c. 1460) raffigurante Brendano e il gruppo di monaci su un’imbarcazione al di sotto di una
creatura magica e dal forte simbolismo quale l’uroboro, noto anche come pesce/serpente infinito.
GUIDE
Uniscono in un’opera unica ogni genere di informazione utile al pellegrino per il pellegrinaggio.
Queste guide spesso si presentano, in una prima fase, come anonime. E’ il caso degli Innominati,
realizzato da Titus Tobler = una raccolta di corte descrizioni anonime della Terrasanta. I pellegrini
dei secoli XIV e XV, che non sono insensibili all’onore portato a loro e alle loro famiglie dal fatto
di aver compiuto il pellegrinaggio, si citano molto volentieri all’inizio del loro racconto.
Le guide solitamente descrivono tre specifiche città: Gerusalemme, Roma, Compostela.
- Gerusalemme = la più antica meta di pellegrinaggio cristiana. Descritta in guide, itinerari e
diari (pellegrino di Bordeaux, Egeria che abbiamo già analizzato). Grazie anche alla sua
lunghezza, il viaggio permette di meditare sulla vita del Cristo.
Esempio:
- De Locis Sanctis di Pietro Diacono, scrittore del XII secolo  Fornisce preziosi dettagli
topografici su Gerusalemme e la sua descrizione delle chiese e del cerimoniale religioso
allora in uso lo rende di particolare interesse per lo studio delle liturgie. E’ dedicato
all’abate Wibald e si ispira a Beda (che vedremo più avanti in dettaglio) e alle peregrinazioni di Silvia/Egeria.
-
Roma = più specifica rispetto alle descrizioni della Terrasanta poiché descrizione di una sola
città e non di un’intera regione. Inoltre non ha nessuna attrazione biblica, fatta eccezione per
la tomba di S.Pietro. Tende a riunire il fascino per il passato pagano con la storia degli apostoli
Esempio:
- Mirabilia urbis Romae  scritta in versi attorno al 1143, fornisce informazioni dalla
circonferenza delle mura delle città, numero delle torri, informazioni sui cimiteri ai monumenti pagani.
-
Compostela = ha iniziato a suscitare interesse da quando la supposta tomba di S. Giacomo
maggiore è stata scoperta nel IX secolo. Culto particolarmente importante e divenuto in
quell'epoca di forte rilevanza politica, se si tiene conto che il corpo dell'apostolo Giacomo
era l'unico a non essere deposto a Roma, e che per questa presenza il culto apostolico faceva
di Compostela, ascesa a sede arcivescovile nel 1121, una sorta di sede apostolica, nel momento in cui la presenza dei papi a Roma si faceva più vacillante. Tutti coloro che non potevano andare in Terrasanta (spese, distanza) consideravano Compostela meta ideale, poiché
si dovevano superare le peripezie del viaggio dovute alla presenza musulmana, senza però
dover arrivare fino alla Terrasanta.
Esempio:
- Liber Sancti Jacobi/Codex Calixtinus  I testi sono di varia datazione e provenienza,
indicati come composti all'inizio del XII secolo, ma la redazione del codice si situa tra il 1139
e il 1173. Il Liber contiene, in 5 libri e un'appendice, testi di vario genere collegati alla figura
di san Giacomo maggiore e al pellegrinaggio a Compostela, ed è praticamente la sintesi del
corpus dottrinario, ideologico e liturgico su cui si fondò il culto dell'apostolo. La paternità
del Liber è attribuita dalla tradizione, testimoniata in una bolla attribuita a Innocenzo II aggiunta in appendice al codice stesso, a papa Callisto II, ed è questa la ragione per cui il codice che lo contiene venne detto Calixtinus. In realtà è un falso mirante ad attribuire alla famiglia di Callisto (Duchi di Borgogna) la paternità dell’opera, retrodatandola. L’intento era
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anche quello di accreditare Aymeric Picaud chierico compostellano o di Vézelay (abbazia
benedettina che stava passando ai cluniacensi), come suo responsabile e depositario presso la cattedrale di Santiago, così da rafforzare la nascente posizione cluniacense. Sappiamo
che i libri più diffusi furono il secondo e il quarto.
I 5 libri trattano di:
1) Antologia liturgica rivista e in parte attribuita a Callisto-Aymeric Picaud
2) 22 miracoli compiuti dall'apostolo Giacomo il Maggiore
3) Lo spostamento delle spoglie di Giacomo in diversi luoghi iberici (Galizia-Compostela)
4) Cronaca romanzesca, nota come Historia Turpini attribuita a Turpino (il leggendario arcivescovo di Reims, uno dei 12 pari di Carlo Magno), in cui si narra come il santo prima
fosse apparso in sogno all'imperatore per rivelargli l'esistenza del proprio sepolcro, e
come Carlo fosse andato a liberarlo dai pagani ed avesse fondato e dotato di privilegi la
prima chiesa. Vi si narrano poi le campagne di Carlo contro gli infedeli, e il nucleo degli
avvenimenti che erano già, nell'epica popolare orale, al centro della Chanson de Roland.
È qui che nasce la figura di Santiago Matamoros, che accompagnerà tutta la Reconquista
spagnola.
5) Iter pro peregrinis ad Compostellam, Aimery Picaud ascriptum. Noto anche come Guida
del pellegrino di san Giacomo. Consiglia un itinerario con l’indicazione della lunghezza
delle tappe, possibilità di accoglienza, precauzioni da prendere ed eventuali santuari lungo la via. Descrive in maniera dettagliata Compostella così da evitare di dipendere dalle
guide locali.
Appare come volta a promuovere il culto dell’apostolo incoraggiandone la visita al sepolcro,
attraverso la diffusione della sua stessa storia.
LIBRI DI INDULGENZE
Pratici elenchi a portata di mano indicanti i luoghi in cui potevi prendere le indulgenze, la cui popolarità è cresciuta, non appena è aumentato l’interesse per le indulgenze stesse. I pellegrinaggi fatti
con lo scopo di guadagnare le indulgenze divennero molto popolari nel Basso Medioevo, tanto che
furono necessarie guide specializzate anche perchè il numero e il tipo di indulgenze si moltiplicò
nei secoli seguenti. Quando aumentarono le sovvenzioni verso altri santuari, le liste di indulgenze
divennero un modo comune di organizzarle, soprattutto quando gli scrittori volevano promuovere
culti particolari. I “libri indulgentiarum” non solo aumentarono ma divennero più mirati e competitivi tra loro, tanto che ogni santuario cercava di attirare i pellegrini con le promesse di reliquie più
sacre, remissioni più lunghe e penitenze spirituali più semplici.
Esempio:
 Testo scritto per le indulgenze di papa Bonifacio VIII, anonimo. Il Testo è riportato in una cronica inglese in lingua arcaica. Ne riportiamo una traduzione approssimativa per maggiore chiarezza. (TESTO 3)
«Pope Bonefas telleth this tale/if men wuste grete and smale/the pardoun that is a grete
Rome/they wolde tellen. in heore dome/hit were no neod to mon in cristiante/ to passe in to the
Holy Lond over the see/ To Jerusalem ne to kateryne/to bringe monnes soule. out of pyne/For
pardoun ther is with-outen end./Wel is him that thider may wende.»
Traduzione approssimativa  Papa Bonifacio racconta questa storia: se gli uomini sapessero
quanto è grande il perdono (indulgenza) nella grande Roma. Non attraverserebbero il mondo
della cristianità per passare nella Terrasanta oltre il mare a Gerusalemme, nè a Santa Caterina,
per portare fuori la loro anima dal dolore. Se solo sapessero che a Roma c’è il perdono senza fine (indulgenza plenaria).
SVILUPPO NEGLI ANNI dei 4 diversi generi
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I 4 generi, analizzati distintamente l’uno dall’altro, con il passare dei secoli si sviluppano, assumendo caratteristiche diverse.
Con l'inizio delle Crociate le opere sulla Palestina diventano molto numerose e dopo la perdita del
paese dai Latini aumentano invece di diminuire.
Esempi:
- Innominati di Tobler, precedentemente nominati, che spaziano dall’XI al XIII sec.
- Locorum sacrorum terrae promissionis, scilicet israeliticae regionis notitia  realizzato
dall’arcidiacono Fretellus, su iniziativa del conte spagnolo Rodrigo che si apprestava a compiere
il pellegrinaggio nel 1140 circa. Non si sa nulla su di lui
- De Locis Sanctis di Teodorico, monaco tedesco che si reca in Terrasanta nel 1172  fornisce
un itinerario dettagliato del viaggio che un pellegrino deve compiere attraverso la Giudea, la
Galilea e la fenicia tenendo a memoria la vita del Cristo. Descrizione dal generale al particolare.
La riconquista di Gerusalemme da parte del saladino non rallenterà il movimento di pellegrinaggio,
molte sono le guide realizzate nel XIII secolo.
Esempi:
- Nella Cronica di Ernoul e nell’Eracles (anonimo), che abbiamo visto già nel primo semestre, si
tratta della guida come di una forma di retrospettiva, introspezione interiore, non per forza un
viaggio fisico in sè.
In altri resoconti, invece, si parla della visita ai luoghi santi come ancora possibile, nonostante le
devastazioni della guerra:
- Descriptio terrae sanctae di Burcardo di Monte Sion (domenicano del XIII sec)  personale
testimonianza di un pellegrino che visita i santuari orientali (1282-85), base per numerose guide
posteriori. Descrizione scientifica: ripartisce la Terrasanta e il territorio circostante secondo criteri corrispondenti a settori definiti attraverso i punti cardinali e descrive ciascuno di questi in
rapporto a un determinato itinerario, seguendo il passo di un viaggiatore.
Nel periodo posteriore alla crociata continuano le pubblicazioni di guide, che vengono arricchite da
sentimenti di rimpianto per il tempo in cui i crociati occupavano i luoghi santi e dal desiderio di vedere i cristiani recuperare la Terrasanta (siamo in un momento posteriore al 1291, caduta San Giovanni d’Acri)  esiste una letteratura parallela che porta avanti progetti di crociata. Questo tipo di
testi poteva essere acquistato a Venezia prima di imbarcarsi per Costantinopoli.
Dal XIV secolo inizia a prendere maggiormente piede il genere dei racconti di viaggi avventurosi e
esotici (più personale) rispetto alla guida vera e propria, anche perché il lettore non sempre può
permettersi un viaggio che era divenuto più pericoloso e carico di incertezze. Da qui in poi è difficile dire se il testo sia una guida d’uso dei pellegrini già nell’intenzione dell’autore o un racconto di
pellegrinaggio, in passato le intenzioni dell’autore erano scritte all’inizio del testo.
Si sviluppa fortemente il genere fantastico-esotico definito dei MIRABILIA.
Esempi:
 Mirabilia Descripta di Giordano di Sèverac  scritto probabilmente tra il 1329 ed il 1330. Descrive il continente indiano, suddiviso in tre parti, in tutti i suoi aspetti: le regioni, i prodotti, il
clima, i costumi, la flora e la fauna, l’artigianato, le divinità, i riti e le usanze indù, comprese le
vacche sacre. In quest'opera, tra le altre cose, parla del Prete Gianni. La lingua de Jordanus Catalanus non era il francese, quindi nel testo ci sono molte parole catalane oppure occitane. Inviato missionario nel nord della Persia, lavorò nella diocesi di Tabriz, dove abitualmente risiedeva. Nel 1321 è attestata la sua presenza nel sud dell'India, assieme ai frati francescani Tommaso da Tolentino, Giacomo da Padova, Pietro da Siena e Demetrio da Tiflis, diretti verso la Cina. A Thane, nei pressi di Bombay, i quattro compagni di Giordano subirono il martirio ad opera di fanatici musulmani (7 aprile 1321). Giordano poté evitare la morte con la fuga, e per un
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certo periodo operò come missionario fra gli indiani a Baruch nel Gujarat e poi a Suali presso
Surat.
TESTO 4:
«In India ci sono molte cose degne di essere notate con meraviglia. Non ci sono primavere, non
ci sono fiumi, non ci sono laghetti. Nè piove mai, tranne durante tre mesi tra la metà di maggio e
la metà di agosto. E (meraviglioso!) nonostante questo, il terreno è il più soffice e fertile e durante i nove mesi dell’anno in cui non piove, così tanta rugiada si trova ogni giorno sulla superficie del terreno, tale che non viene seccata dai raggi del sole fino alla metà della terza ora del
giorno (nove e mezza) (quod usque ad mediam tertiam per solis radios ullatenus possit desiccari)»
(Mirabilia Descripta, IV, 2)
-
Lettera di Prete Gianni a Manuele Comneno sulle “Meraviglie dell’India”, di cui abbiamo
già parlato nel primo semestre.
Da questo momento in poi le intenzioni degli autori si manifestano sin dagli incipit dei testi.
Esempio:
TESTO 5:
«Affinchè molte genti si dilettino e prendano piacere, come ho fatto io nei tempi passati, a vedere il
mondo e le diverse cose che vi sono, ed anche perchè molti ne vogliono sapere senza andarci, e gli
altri vogliono vedere, andare e viaggiare…»
(Livre de la description des pays, Gerardo di Berry)
Incontriamo qui, tanto tra i missionari quanto tra i pellegrini e i diplomatici, autori che si preoccupavano di descrivere paesi lontani a vantaggio di coloro che non vi erano mai stati. L’opera sopracitata offre una descrizione dove non figura nessun ricordo personale, rientra piuttosto in una letteratura geografica anzichè in quella di viaggio. Il suo proposito non è nè di fornire una lista di tappe
ad altri viaggiatori, nè di descrivere le particolarità dei paesi attraversati: consegna un frammento di
autobiografia. Gilles le Bouvier, detto l’Araldo Berry (1386-1455 circa) grazie al suo incarico da
Araldo per il Delfino Carlo VII, è stato un dignitario, diplomatico e scrittore francese del XV sec.
Redige il testo nel 1451 in seguito a un incarico di ambasceria.
Caratteristica che li differenzia dalle guide o dai diari di pellegrinaggio è che a scrivere non sono direttamente gli autori del viaggio, ma terze persone che sono incuriosite dalla descrizione di paesaggi
esotici e che sfruttano le vicende del viaggio solo come pretesto.
Si giunge fino alla fase in cui l’autore stesso del testo non ha mai compiuto il viaggio vero e proprio, ma, basandosi su testi precedenti, compone relazioni di falsi viaggi, di carattere immaginario.
Il loro scopo sembra essere stato quello di comporre una sintesi delle conoscenze geografiche in un
determinato momento storico. Se il romanzo geografico ha conosciuto un certo successo alla fine
del medioevo ciò è avvenuto in virtù dell’attrazione che all’epoca esso esercitava sulla letteratura di
viaggio.
Bisogna considerare che il medioevo non ha posseduto in proprio la nozione di letteratura di viaggio e che il raggruppamento che noi realizziamo sotto questo nome riunisce piuttosto artificialmente
opere molto diverse tra loro.
Esempio:
 Il viaggio di Giovanni da Mandeville (1357-1371, scritto in antico francese)  ha avuto
un’enorme diffusione. Lo si è valutato per lungo tempo come la descrizione di un percorso autentico, quello di un cavaliere inglese che, dopo il pellegrinaggio a Gerusalemme, aveva proseguito la sua strada attraverso i paesi musulmani, l’India, la Cina mongola - dove si sarebbe
messo a servizio del gran Khan per avere la possibilità di percorrere più paesi ancora - per poi
125
rientrare attraverso l’Asia interna. Si sono riconosciuti in questo itinerario elementi molto vari
manifestamente tratti dalla storia della prima crociata di Alberto di Aquisgrana, ma l’opera pare essenzialmente combinare un racconto di pellegrinaggio in Terrasanta copiato da quello di
Guillaume di Boldensele, con il racconto di viaggio di Odorico da Pordenone. Alcuni hanno voluto identificare il cavaliere inglese con il medico Jean de Bourgogne, altri vedono nel medico
colui che avrebbe spinto Mandeville a scrivere il racconto.
*******
GENERI PARALLELI AI RACCONTI
Crociate o spedizioni lontane
Come i pellegrini comuni, anche coloro che partono in gruppo armato con l’intenzione di compiere
un’opera pia (la lotta contro gli infedeli per la difesa dei luoghi santi) e portare a compimento il voto di visitare luoghi santi, possono lasciare i loro ricordi di un viaggio in paesi lontani. Questa categoria di resoconti può rientrare nel quadro dei racconti storici pertanto è difficile in questo periodo
distinguere tra il racconto di pellegrinaggio e il racconto storico. La caratteristica dei racconti è che
la narrazione prende forma man a mano che l’esercito crociato avanza o si ferma nel corso della
marcia verso Gerusalemme, perciò le tappe del viaggio sono contraddistinte da combattimenti, carestie e negoziati, che vengono descritti contribuendo alla formazione di quel genere “di mezzo” tra
racconto storico e di viaggio.
Alcuni viaggiatori compivano il pellegrinaggio a Gerusalemme senza però partecipare alla crociata
(non ottenevano il surplus delle indulgenze). Per questo Alessandro III (1159-1181) propose
un’indulgenza di crociata diversa da quella di pellegrinaggio, riservata a coloro che avessero trascorso due anni in Terrasanta per parteciparvi.
Esempi:
- Fulcherio di Chartres in Terrasanta (1059-1127) / Enrico di Livonia nei paesi Baltici (11801227)  stabiliti definitivamente nei territori conquistati, hanno lasciato opere che non si differenziano (se non per la lunga durata presa in esame) dalle narrazioni di coloro che, avendo compiuto il pellegrinaggio e avendolo raccontato, sono poi ritornati.
Il racconto di una spedizione lontana assume un aspetto particolare rispetto alla narrazione storica
quando l’autore si prende cura di annotare i caratteri esotici dei paesi e degli uomini che la spedizione incontra sul suo cammino. Il punto di incontro tra la letteratura di viaggio e la letteratura propriamente storica si ha nel momento in cui un pensiero descrittivo si associa al pensiero narrativo.
Esempio:

Histoire de la premiere descouverte et conqueste des Canaries  Il prete Jean Le Verrier e il monaco
Pier Bontier, che accompagnarono Jean De Bethencourt, esploratore francese, nel suo reame insulare
(ottenne la corona delle Canarie da lui esplorate e cristianizzate) tra il 1402 e il 1406, non si proposero
altro scopo se non “mettere per iscritto le buone cavallerie e le cose strane” di cui essi sono stati testimoni.
Relazioni degli ambasciatori e dei missionari
A differenza dei geografi, storici, cronisti delle corti arabe o orientali, in occidente non c’era un vero e proprio interesse per le informazioni sulle culture straniere che si potevano ricavare dalle relazioni degli ambasciatori. Nè vi era, in tal senso, una vera e propria produzione.
Fu solo con l’inizio dell’avanzata mongola che divenne necessità politica per i regnanti inviare rappresentanti che fornissero informazioni su un popolo così diverso e del tutto sconosciuto, in modo
tale da poterne trovare le debolezze e, eventualmente, sfruttarle a proprio vantaggio.
126
Fonti sui mongoli legate al loro arrivo in Ungheria, già analizzate nel primo semestre:


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
Riccardo di San Germano raccoglie, sotto il titolo “De Inventa Ungaria Magna”, il racconto del viaggio di
4 domenicani ungheresi partiti dalla Valle del Volga alla ricerca di un ramo del loro popolo.
Frate domenicano Giuliano, capo di una missione evangelizzatrice negli Urali, che nel 1237 manda una
lettera al legato papale d’Ungheria che mette in guardia la cristianità dall’invasione dei mongoli, di cui
aveva visto gli effetti sui russi e che gli avevano detto di altri imminenti attacchi.
1240 Sermone di Serapione, vescovo di Vladimir
Lettera di Ivo di Narbona del 1242 inserito da Matteo Paris nei Chronica Maiora à descrive la crudeltà e
l’antropofagia del popolo.
Matteo Paris (1200-1259), Chronica maiora IV. Monaco benedettino dell’abbazia di St. Albans,
nell‘Hertfordshire (Inghilterra) che riprende la descrizione di Ivo di Narbona.
Queste informazioni non sono sufficienti: quando Innocenzo IV invia degli ambasciatori presso i
mongoli per proporre loro un patto di non aggressione e invitarli ad abbracciare il cristianesimo,
egli li incarica di raccogliere tutte le informazioni che essi potranno ottenere su questo popolo misterioso, sulle sue intenzioni e sui suoi mezzi di conquista. Tra questi era presente Giovanni da Pian
del Carpine, la cui relazione definitiva, in una forma che univa alla narrazione del viaggio una storia
del popolo mongolo, la descrizione dei suoi costumi e delle considerazioni sui sistemi di resistenza
che l’occidente poteva impiegare nei suoi confronti, interessò i contemporanei.
Infatti Vincenzo de Beauvais (1190-1264), letterato e frate domenicano francese, ha inserito quasi
subito nel suo Speculum Historiale alcuni estratti dell’Historia Mongalorum di Giovanni da Pian del
Carpine.
Assieme ad essi è presente:


Estratti di una relazione di viaggio del frate domenicano Simon de Saint Quentin, costruita su un modello affine. Il testo originale è andato perduto, ma 19 capitoli sono stati preservati nel testo di Beauvais.
Simon de Saint Quentin ha accompagnato il monaco domenicano Ascelino di Lombardia per una missione presso i mongoli d’Iran, da parte di Innocenzo IV, che avrebbe dovuto avere lo stesso scopo di
quella di Lorenzo di Portogallo, tuttavia anche questa si rivelò un fallimento. Partirono pochi mesi prima di Giovanni da Pian del Carpine, nel 1245.
Lettera inviata il 7 febbraio 1248 dal Conestabile d’Armenia Sempad, mentre era a Samarcanda, al cognato, re di Cipro, Enrico I, durante il suo viaggio in Mongolia (1247-1250).
La Cilicia armena era una nazione cristiana, legata all’Europa ed agli Stati Crociati, che combatteva contro i Musulmani per il controllo del Levante. Anche i mongoli erano una minaccia, poiché l’impero di
Gengis Khan aveva costantemente premuto verso occidente nella sua apparentemente inarrestabile
avanzata. I Mongoli avevano una meritata reputazione di ferocia, poiché essi davano ai nuovi territori
una sola opportunità di arrendersi, e se c’era resistenza, i Mongoli avanzavano e massacravano la popolazione locale. Nel 1243, Sempad fece parte dall’ambasciata inviata a Caesarea, dove egli negoziò con il
comandante mongolo Baiju. Nel 1246 e di nuovo nel 1259, Sempad fu incaricato di organizzare la difesa
della Cilicia contro l’invasione del Sultanato di Rûm. Nel 1247, quando re Aitone I decise cha la più saggia linea d’azione era la pacifica sottomissione ai Mongoli, Sempad fu inviato alla corte mongola a Karakorum, dove incontrò il fratello di Kublai Khan, Möngke Khan, e fece un’alleanza tra la Cilicia ed i mongoli, contro il comune nemico, i musulmani. Sempad ricevette in moglie una parente del Gran Khan, con
la quale ebbe un figlio. Sempad fu entusiasta a proposito del suo viaggio nel regno mongolo, che durò
tra dal 1247 al 1250. Egli inviò lettere ai governanti occidentali di Cipro e del Principato d'Antiochia, descrivendo il reame dell’Asia Centrale con oasi e grande presenza di cristiani, generalmente di rito Nestoriano.
TESTO 6:
«Abbiamo trovato molti cristiani in tutta la terra d'Oriente, e molte chiese, grandi e belle ... I cristiani d'Oriente si recarono dal Khan dei Tartari che ora regna (Guyuk), ed egli li ha ricevuti con
grandi onori ed ha dato loro la libertà ed ha fatto sapere in ogni luogo che nessuno può osare di
127
avversare loro, sia con i fatti che con le parole. (...) Dio non avesse portato i Tartari, che poi
hanno massacrato i pagani, essi [i Saraceni] sarebbero riusciti a conquistare tutto il territorio fino al mare!»
Una delle lettere di Sempad fu letta da Luigi IX di Francia durante la sua permanenza a Cipro nel
1248, e ne fu incoraggiato ad inviare ambasciatori presso i mongoli, nella persona del francescano
Guglielmo di Rubruck, che, cinque anni dopo (1253), andò a visitare il Gran Khan Möngke.
E’ difficile stabilire se questi testi siano o meno relazioni di ambasciata, infatti sia i domenicani ungheresi che Rubruck sono più dei missionari che degli ambasciatori e il loro proposito, nel recarsi in
paesi lontani, è di diffondere la fede cristiana tra gli infedeli.
L’obiettivo di coloro che scrivono ai loro confratelli è promuovere l’invio di nuovi missionari e sollecitare delle preghiere per coloro che sono sul campo. Queste missive forniscono dettagli su situazioni vissute, relative al compimento dei viaggi, alle condizioni del soggiorno, al lavoro dei missionari, alle particolarità dei paesi visitati.
Guide dei mercanti
TESTO 7:
«Questo libro è chiamato libro di divisamenti di pesi, e di misure di mercatantie, e d’altre cose bisognevoli di sapere a’ mercatanti di diverse parti del mondo e di sapere che usano le mercatantie e
cambj, e come rispondono le mercatantie da uno paese all’altro e da una terra a un’altra, e simile
s’intenderà quale è migliore una mercatantia che un’altra, e d’onde elle vengono; e mostreremo il
modo a conservarle più che si può.»
(Francesco Balducci Pegolotti, prologo di “Pratica di Mercatura”)
Francesco Balducci Pegolotti, fiorentino, agente della compagnia dei Bardi e per lungo tempo loro
intermediario nell’isola di Cipro, redige la più completa guida del genere, esponendo nel prologo
l’obiettivo del testo e del genere stesso. L’essenziale, infatti, è costituito dalle indicazioni sui prodotti delle differenti regioni, i pesi e le misure con le loro equivalenze, le monete e i loro cambi, tassazione nelle diverse piazze commerciali e principalmente nel bacino del mediterraneo. Ci sono alcune raccomandazioni sull’usanza dei luoghi principali in cui poter commerciare, distanze calcolate
in giornate di carro da buoi o a cavallo, raccomandazioni sull’utilizzo di buoni interpreti e come
trovarli e, per concludere, l’autore ha compilato un glossario multilingue dei principali vocaboli necessari ai mercanti. Tanto è che F. Borlandi propone l’ipotesi che il testo di Marco Polo sia stato
inizialmente pensato come guida per mercanti tramite appunti presi nel corso del viaggio e che, solo
in un secondo momento, in seguito all’incontro con Rustichello da Pisa avvenga la trasformazione
da pratica di mercatura a descrizione del mondo. L’ipotesi è suggestiva, ma si scontra con il fatto
che Marco faccia due diverse edizioni senza ritornare al primitivo progetto.
La pratica di mercatura di Giovanni da Uzzano (1442) si completa con alcune indicazioni sulle possibilità della navigazione, scadendo nel campo dei portolani e dei trattati ad uso dei marinai.
*******
CARATTERISTICHE GENERALI
Autori

Prima fase  sono i chierici a scrivere i testi, a volte anche per terzi.
Esempio = Aimery Picaud che abbiamo visto per il Liber Sancti Jacobi.
128

Con la prima crociata (1096)  iniziano a scrivere testi anche i cavalieri e i giullari questi ultimi a partire dal XII sec. cominciarono a divenire autori in proprio, accogliendo accanto al repertorio buffonesco
quello letterario, diffondendo le Chansons de geste e rielaborandone il contenuto, collocati presso un
protettore o presso una corte, la loro qualifica cambiò in ‘menestrello’; non pochi trovatori di lingua
provenzale come Marcabru, Peire Vidal, Raimbaut de Vaqueiras ebbero origine giullaresca.
Esempio = Cronaca Gesta Francorum et aliorum Hierosolymitanorum costituisce una delle fonti principali sulla prima crociata (fine sec. XI). Non se ne conosce l’autore indicato di solito come ‘Anonimo
Normanno’, presumibilmente un reduce laico proveniente forse dall’Italia del Sud conquistata dai Normanni (secondo la tradizione si tratterebbe di un reduce al seguito dell’esercito di Boemondo di Altavilla); questa cronaca è stata composta molto probabilmente durante la Crociata, o negli anni immediatamente successivi. Narra gli eventi della prima crociata dalla sua indizione nel novembre 1095 fino alla
battaglia di Ascalona del 1099. Accanto al finalismo positivo della crociata sono messi in luce gli aspetti
crudeli e drammatici del conflitto.

Il numero dei laici non cessa di aumentare a partire dal XIII sec. (anche se i chierici restano la maggioranza).
I prestiti
Da sempre gli autori hanno utilizzato fonti anteriori per scrivere i loro testi e, a volte, per accreditarli. La preoccupazione di essere esaurienti facendo conoscere informazioni che essi si sono procurati
sui paesi che non hanno visto con i loro occhi, porta gli autori a completare le loro opere attraverso
testimonianze raccolte presso altri viaggiatori o attraverso persone ben informate. In questi casi gli
autori non mancano di citare le loro fonti per evitare che il lettore non creda a ciò che legge, è un
modo per dare autorevolezza al testo (è il caso di Giovanni da Pian del Carpine, che al termine della
Historia Mongalorum, cita una serie di personaggi espressamente definiti come “degni di fiducia” i
quali potranno confermare la sua testimonianza).
Esempio:

Il Venerabile Beda scrive un De Locis Sanctis (VII sec) riprendendolo a sua volta dall’opera omonima del
monaco irlandese Adamnano, che ne consegnò una copia al suo discepolo, il sovrano Aldfrith di Northumbria, nel 698. Essa si basa sulle testimonianze personali di viaggio del monaco franco Arculfo in
Terrasanta, grazie alle quali, insieme ad altre fonti, Adamnano poté creare un'opera descrittiva in tre libri, riguardanti Gerusalemme, Betlemme e altri luoghi della Palestina, oltre ad alcuni cenni su Alessandria d'Egitto e Costantinopoli.
Beda lo cita anche nel suo Historia ecclesiastica gentis Anglorum.
Molti si ispirano anche ai libri delle indulgenze precedentemente definiti. Padre Beniamino Bagatti
li ha studiati particolarmente nell’introduzione al libro d’Oltramare di Niccolò da Poggibonsi.
Modalità della redazione

Appunti presi mano a mano  testi precisi e dettagliati: Burcardo di Monte Sion, Marco Polo (anche se
non sufficientemente), quasi certamente Guglielmo di Rubruck.
Esempio:
TESTO 8:
«Non ho messo niente in questa descrizione se non ciò che ho visto con i miei propri occhi nei
luoghi stessi, oppure trattenendomi su montagne o in altri luoghi adatti, oppure, quando non potevo accedervi, informandomi molto scrupolosamente presso i Siriani, i Saraceni, o altri.»
(Burcardo di Monte Sion)
129

Alcuni scrivono a memoria dopo il loro ritorno  è il caso di autori a cui è stato chiesto di scrivere perchè, probabilmente, non avevano programmato di fare un resoconto sul loro viaggio: Odorico da Pordenone, Giovanni de’ Marignolli.
Caso particolare quello di Giovanni da Pian del Carpine che, come abbiamo visto, scrive nel testo
stesso di aver redatto una seconda edizione del testo, più completa, dopo aver visto l’interesse suscitato per la prima. Dice che molti l’hanno copiata prima che fosse terminata. Ciò è stato confermato
dal ritrovamento di una testimonianza: la copia fatta da uno Slesiano, C. de Brzeg, sulla prima redazione che allora comprendeva solo la descrizione della storia, dei costumi, dell’habitat dei mongoli.
Per quanto riguarda le lingue con cui venivano scritti i testi è solo con i racconti della III e IV crociata che si impiegano le lingue volgari nella letteratura di viaggio. Le guide scritte in francese appaiono dal XIII secolo e i testi italiani dal XIV (per esempio Niccolò da Poggibonsi dal 1346 al
1350, direttamente in italiano) assieme a tedeschi e catalani. Da questo momento in poi c’è interesse
a tradurre anche i testi precedenti (1351 Jean le Long de Saint-Omer riunisce una nuova traduzione
di Odorico con quella di Burcardo, Hayton e Ricoldo), così da ampliare il bacino dei lettori. Dal
XIV secolo i racconti vengono scritti direttamente in volgare, andando anche così a dimostrare il
diverso livello di cultura dei vari viaggiatori, la quale influisce notevolmente sui testi prodotti. Basti
notare chi, nei testi, aggiunge alle descrizioni delle città in Terrasanta notazioni di carattere biblico.
Ciò ovviamente aumenta con l’avvicinarsi dell’umanesimo.
Grande importanza assume la caratteristica legata al leggendario e al fantastico, mirante a descrivere animali esotici e/o misticoleggendari (vedi i cinocefali) per cui si tende ad accreditare le notizie
riportate essendone direttamente responsabili (vedi Marco Polo) o dando autorevolezza ai propri informatori (vedi Giovanni da Pian del Carpine).
Rare sono le relazioni di viaggio di pellegrinaggi e le guide che vengono corredate da
un’illustrazione corrispondente al testo, contrariamente ai racconti di crociata e d’oltremare. Le miniature sono però “artificiali” = i miniaturisti hanno provato a riprodurre il testo senza però avere
davanti una documentazione figurata reale di ciò che il viaggiatore aveva realmente visto. Dal XV
sec. le opere si arricchiscono di documentazioni figurate riportate dai narratori che l’hanno disegnata/fatta disegnare durante il viaggio. Si veda il caso della FOTO 1 per la navigatio sancti brendani.
FOTO 2: illustrazione di metà ‘400 di Giovanni de’Marignolli.
Esempio:
Si sa dell’esistenza di un “mappamondo” conosciuto come Vinland Map che accompagna l’Historia
Tartarorum di C. de Brzeg del quale non possediamo che un manoscritto risalente al secondo quarto
del XV sec. Si tratterebbe di una carta che riporta le informazioni relative al viaggio di Giovanni da
Pian del Carpine eseguita a sostegno del racconto di tale viaggio, la cui autenticità è però stata ampliamente discussa.
L’esistenza dei racconti di viaggio ha considerevolmente influito sulla rappresentazione del mondo
come si immaginava nel medioevo che aveva ereditato un sapere di cui era debitore agli autori antichi. (Si pensi alla figura di Ruggero Bacone). Si può quasi dire che grazie a questa spinta si siano
poi compiute le esplorazioni geografiche.
*******
CRITICA E TRADIZIONI

L’interesse che i racconti di viaggio hanno risvegliato nel medioevo si è prolungata oltre la scoperta della stampa beneficiando dell’entusiasmo suscitato dai viaggi via mare e esplorativi delle Americhe.
130


Questa moda rallentò nel corso del XVIII secolo in cui venivano pubblicati però, in lingua originale o in
traduzione, resoconti di viaggi nell’impero russo e durante il quale si cercò di trarre dalle relazioni di antichi scopritori gli elementi di una nuova geografia.
Una ripresa si è avuta con il XIX secolo, periodo in cui si è avuto uno sforzo di pubblicazione sistematica
delle fonti da parte di studiosi e istituzioni culturali (T. Tobler con i suoi Innominati).
Le difficoltà nella critica consistono soprattutto nell’individuazione dei testi e nella loro collazione
per poter giungere ad un’edizione critica finale, sbagliando le diverse tradizioni e versioni linguistiche.
Con i viaggiatori del XV secolo che si sono recati a Gerusalemme è più facile individuare gli autori
e la loro personalità, grazie al confronto con le relazioni dei loro compagni di viaggio e/o altri personaggi, ma anche grazie alla documentazione pervenutaci. Il confronto permette di verificare e
completare le osservazioni di ciascuno.
Esempio:
Nel 1384 tre pellegrini fiorentini partono insieme tramandandoci i loro diversi racconti:
- Lionardo Frescobaldi = in qualità di ambasciatore
- Simone Sigoli = letterato attento a citare le sue fonti di informazione
- Giorgio Gucci = che annota scrupolosamente tutte le spese affrontate nel corso del viaggio.
Oltre che dall'attività di lanaiolo e dalla partecipazione alla vita politica cittadina, la vita del Gucci
fu caratterizzata e segnata dal pellegrinaggio in Terrasanta compiuto fra l'agosto del 1384 e la fine
di maggio del 1385. L'idea del viaggio nacque probabilmente all'interno di quel gruppo di personaggi che era solito riunirsi nel convento agostiniano di S. Spirito intorno al frate Luigi Marsili - vera e propria guida spirituale, culturale e spesso anche politica di una non trascurabile parte dell'élite
fiorentina dell'epoca - e nel quale faceva spesso arrivare la propria voce anche un'altra eminente
personalità come l'eremita Giovanni dalle Celle. Del cenacolo di S. Spirito erano assidui frequentatori Lionardo Frescobaldi e Guido Del Palagio, che furono probabilmente gli ideatori e organizzatori del viaggio, anche se il secondo dovette poi rinunciarvi per improrogabili impegni politicodiplomatici. Frescobaldi fu ambasciatore a Fojano e ad Arezzo, insieme con Guido Del Palagio e
Giorgio Gucci, presso Giovanni Caracciolo, vicario del re di Napoli Carlo III, per trattare il rilascio
della città di Arezzo da parte delle truppe di Alberico da Barbiano e di Villanuccio da Brunforte.
Secondo la stessa dichiarazione (Viaggio, p. 124), fu proprio nel corso di questa missione che il
Frescobaldi, per iniziativa del Del Palagio, maturò la decisione di intraprendere un viaggio in Terrasanta e anche il Gucci aderì all'iniziativa.
La comitiva che partì da Firenze era quindi formata dal Gucci, dal Frescobaldi e da Andrea Rinuccini, ognuno dei quali viaggiava in compagnia di un famiglio; durante la lunga sosta a Venezia, in
attesa dell'imbarco, si aggiunsero al gruppo altri tre fiorentini (Antonio di Paolo Mei, Simone Sigoli
e il vinattiere Santi del Ricco) e un prete casentinese (Bartolomeo da Castelfocognano), che peraltro
morì di malattia già nel corso del viaggio di andata durante lo scalo a Modone. Da allora in poi la
comitiva viaggiò sempre unita e le spese del viaggio vennero affrontate con la costituzione di una
sorta di cassa comune alla quale tutti contribuivano e che venne affidata proprio al Gucci. Si trattò
di un pellegrinaggio assai lungo, che toccò non soltanto i luoghi santi di Palestina propriamente detti, ma iniziò anzi dall'Egitto, visitando Alessandria, Il Cairo e le piramidi, per proseguire poi verso il
monastero di Santa Caterina al monte Sinai. In seguito i pellegrini si recarono a visitare Gerusalemme, con tappe a Betlemme e verso il Giordano, e risalirono poi attraverso la Galilea per imbarcarsi a Beirut. In questa ultima fase del viaggio fecero anche una deviazione per recarsi a Damasco,
dove rimasero quasi tre mesi, anche perché proprio nella città siriana molti di loro caddero ammalati
piuttosto gravemente; Santi del Ricco e Antonio di Paolo Mei si ristabilirono dopo una lunga convalescenza, Andrea Rinuccini fu invece meno fortunato e morì. Di questa esperienza il Gucci - come
131
pure il Frescobaldi e il Sigoli - lasciò un resoconto assai dettagliato e vivace, dal quale traspaiono
con evidenza sia la devozione e la religiosità dell'autore sia la sua esperienza di mercante e di uomo
d'affari, sempre attento alle caratteristiche dei luoghi visitati e delle merci incontrate sui loro mercati, non meno che al modo di vivere e alle abitudini dei loro abitanti; egli mostra una costante precisione nel riportare dati numerici come pesi, misure, prezzi, e, in particolare, è di grande interesse la
minuziosa lista delle spese posta in calce al testo. Anche per quanto attiene alla sfera dell'incontro
con i musulmani e i loro costumi, il Gucci - pur non immune da visioni preconcette tipiche del tempo - mostra quasi sempre una profonda curiosità, che lo spinge a descrivere piuttosto che a criticare,
e anche l'eventuale disapprovazione o, talvolta, il disgusto sono spesso di ordine più estetico che
etico. La figura del Gucci pellegrino-scrittore è stata efficacemente sintetizzata da Cardini (1982, p.
170) come: "una simpatica figura di popolano non colto ma intelligente, accorto, concreto, osservatore diffidente per quanto, tutto sommato, curioso e cordiale delle novità che gli cadono sotto gli
occhi durante il viaggio". Se nell'esperienza del viaggio ebbero forse la loro importanza anche motivazioni extra-religiose, certamente il pellegrinaggio in Terrasanta segnò la sua vita e fu oggetto di
riflessione e meditazione anche in seguito, come dimostra una lettera a lui indirizzata da Giovanni
dalle Celle qualche anno dopo il ritorno a Firenze (1389), nella quale è ripreso il tema dell'opposizione mistica al pellegrinaggio stesso.
Un’altra difficoltà è che non sappiamo se, quando il viaggiatore non è anche redattore, quest’ultimo
abbia riportato correttamente la testimonianza che trasmette. Per non parlare delle informazioni che
gli autori stessi prendono tramite gli interpreti, spesso neanche buoni come afferma lo stesso Rubruck. Raro è il caso di viaggiatori che imparano le lingue locali grazie a una lunga permanenza,
vedi il caso di Giovanni da Monte Corvino.
La parte più delicata dello studio dei racconti di viaggio consiste nella lettura e nell’identificazione
dei nomi delle persone, dei luoghi o dei termini trascritti da una lingua straniera. Ciò che complica
il lavoro è che i viaggiatori non disponevano di un vocabolario preciso, rendendo così impossibile
stabilire la forma esatta di un toponimo o di un antroponimo che figuri in un testo, anche se è presente una somiglianza di caratteri. L’unico modo per procedere all’identificazione è tramite il ricorso alla geografia antica e alla filologia che permette di seguire l’evoluzione della terminologia. Il
problema per la geografia antica è, tuttavia, che si tratta di zone che hanno subito considerevoli
sconvolgimenti: dominazioni straniere che si sono susseguite negli anni modificando viabilità e toponimia, creando una stratificazione che riscontriamo nelle diverse relazioni. E’ necessario collaborare con specialisti conoscitori delle regioni oggetto di studio e delle lingue utilizzate. Non ci si può
affidare alle identificazioni fatte da autori dei secoli precedenti, specialmente quelle di inizio Novecento.
132
FONTI:
- Catholic Encyclopedia
-
Per la parte delle fonti I cap:
https://www-persee-fr.bibliopam-evry.univevry.fr/web/ouvrages/home/prescript/article/shf_00000000_1902_num_2_1_914_t1_0272_0000_5
-
Enciclopedia Treccani per Burcardo Monte Sion; parte del testo si trova qui:
http://www.giovannidallorto.com/testi/sodoma/burcardo/burcardo.html
-
Per i testi sui luoghi santi: http://it.custodia.org/detail.asp?c=1&p=0&id=6999
-
Per fonti su Antonino Martire: Varia Linguistica di Celestina Milani, pag 123-130:
https://books.google.it/books?id=ffCNAwAAQBAJ&pg=PA123&lpg=PA123&dq=antonino+m
artire+piacenza+testo&source=bl&ots=TuhG2RL9eW&sig=tbjICG_N55VAlHAYD3friOeVbt4&h
l=it&sa=X&ei=_FwdVdHEJoGuUcOagaAI&ved=0CEwQ6AEwBw#v=onepage&q=antonino%
20martire%20piacenza%20testo&f=false
-
Per fonti su Antonino Martire: Civiltà cattolica vol.11, pag. 600:
https://books.google.it/books?id=9m8RAAAAYAAJ&pg=PA600&lpg=PA600&dq=pietra+di+
cana+antonino&source=bl&ots=cbpE5D5arg&sig=S80srBlIApoWvBRBzC_QUIt7Hl4&hl=it&sa
=X&ei=JmIdVdAN8WtUaWdhKgI&ved=0CCkQ6AEwAg#v=onepage&q=pietra%20di%20cana%20antonino
&f=false
-
Per le notizie iniziali sui diversi generi e le citazioni dell’itinerarium burdigalense: Pilgrim and
Preacher: The Audiences and Observant Spirituality of Friar Di Katherine Beebe, pag 46 e seguenti:
https://books.google.it/books?id=BBANBAAAQBAJ&pg=PA46&lpg=PA46&dq=peregrinatio
+sanctae+paulae&source=bl&ots=OepbgrGCIu&sig=ESr8d6Nw3tr5UQrxYJ0jarJXEbQ&hl=it
&sa=X&ei=cT4dVei_BcO6UfmBhKgI&ved=0CDAQ6AEwAg#v=onepage&q=very%20couch
&f=false
-
Per i Mirabilia Descripta di Giordano di Sèverac, IV, 2 pag. 12:
http://rbedrosian.com/Downloads/Travel_1330s_Jordanus_Wonders.pdf
-
Per i Gesta Francorum: GESTA FRANCORUM ET ALIORUM HIEROSOLIMITANORUM:
NOTE SULLA TRADUZIONE IN LINGUA RUSSA, di Valentin Portnykh, pag 555 :
https://www.academia.edu/4712642/GESTA_FRANCORUM_ET_ALIORUM_HIEROSOLIM
ITANORUM_NOTE_SULLA_TRADUZIONE_IN_LINGUA
-
Per Gucci, Frescobaldi e gli altri personaggi cui è citata la vita: Treccani
133
Testi per la relazione su “Il Santo viaggio” di Richard
TESTO 1: Itinerarium burdigalense/Itinerarium Hierosolymitianum
La città di Bordigala (Bordeaux) dove si trova il fiume Garonne in cui l’oceano scorre per circa cento leghe.
Cambia a Stomatae (Castres) leghe sette.
Cambia a Senone (Sirio, Pont de Ciron) leghe nove. (…)
A Gerusalemme ci sono due grandi piscine (piscinae) di fianco al tempio (ad latus templi) che sono
una sul lato destro e una sul lato sinistro, che furono fatte da Salomone; poi nella città ci sono piscine gemelle (piscinae gemellares), con cinque portici, che sono chiamati bethsaida. Lì le persone che
erano state malate per molti anni venivano curate; le piscine contengono acqua che cambia di colore
verso il rosso. Qui c’è anche una grotta in cui Salomone era solito torturare diavoli.
(Pellegrino anonimo di Bordeaux, Itinerario 589, 7-11)
TESTO 2: Pellegrino anonimo di Piacenza
Da Tiro giungemmo nella città di Nazaret, in cui ci sono molte cose meravigliose. E’ appeso lì il
volume su cui il Signore scrisse abc. Nella sinagoga è posta la trave su cui si sedeva con gli altri
fanciulli. La trave viene mossa e sollevata dai Cristiani ma i Giudei per nessun motivo riescono a
smuoverla; non si lascia neppure portare fuori.
La casa di Santa Maria è ora una basilica e molti sono i benefici effetti che vengono a chi riesce a
toccare le vesti di lei. Nella città è tanto grande l’avvenenza delle donne ebree che in quella terra
non si potrebbero trovare donne più belle e dicono che questo è stato concesso loro da Santa Maria;
infatti affermano che fu loro antenata; e mentre gli Ebrei non hanno nessuna carità verso i Cristiani,
esse sono piene di ogni attenzione.
La regione è simile al paradiso; per abbondanza di grano e di ricchezza è simile all’Egitto. Benché
piccola, eccelle nella produzione di vino, olio, frutta e miglio. Il miglio poi è più alto del normale,
di stelo grosso, supera la statura di un uomo.
(C. MILANI, Itinerarium Antonini Placentini. Un viaggio in Terra Santa dal 560-570 d.C., Milano
1977, pag. 238)
134
FOTO 1: Immagine per la Navigatio Sancti Brendani del ‘400
TESTO 3: Testo scritto per le indulgenze di papa Bonifacio VIII
Pope Bonefas telleth this tale/if men wuste grete and smale/the pardoun that is a grete Rome/they
wolde tellen. in heore dome/hit were no neod to mon in cristiante/ to passe in to the Holy Lond over
the see/ To Jerusalem ne to kateryne/to bringe monnes soule. out of pyne/For pardoun ther is withouten end./Wel is him that thider may wende.
TESTO 4: Mirabilia Descripta di Giordano di Sèverac
In India ci sono molte cose degne di essere notate con meraviglia. Non ci sono primavere, non ci
sono fiumi, non ci sono laghetti. Nè piove mai, tranne durante tre mesi tra la metà di maggio e la
metà di agosto. E (meraviglioso!) nonostante questo, il terreno è il più soffice e fertile e durante i
nove mesi dell’anno in cui non piove, così tanta rugiada si trova ogni giorno sulla superficie del terreno, tale che non viene seccata dai raggi del sole fino alla metà della terza ora del giorno (nove e
mezza) (quod usque ad mediam tertiam per solis radios ullatenus possit desiccari)
(Mirabilia Descripta, IV, 2)
TESTO 5: Livre de la description des pays di Gerardo di Berry
Affinchè molte genti si dilettino e prendano piacere, come ho fatto io nei tempi passati, a vedere il
mondo e le diverse cose che vi sono, ed anche perchè molti ne vogliono sapere senza andarci, e gli
altri vogliono vedere, andare e viaggiare.
(Livre de la description des pays, Gerardo di Berry)
TESTO 6: Lettera di Sempad
«Abbiamo trovato molti cristiani in tutta la terra d'Oriente, e molte chiese, grandi e belle ... I cristiani d'Oriente si recarono dal Khan dei Tartari che ora regna (Guyuk), ed egli li ha ricevuti con grandi
onori ed ha dato loro la libertà ed ha fatto sapere in ogni luogo che nessuno può osare di avversare
135
loro, sia con i fatti che con le parole. (...) Dio non avesse portato i Tartari, che poi hanno massacrato
i pagani, essi [i Saraceni] sarebbero riusciti a conquistare tutto il territorio fino al mare!»
TESTO 7: Pratica di mercatura di Francesco Balducci Pegolotti
Questo libro è chiamato libro di divisamenti di pesi, e di misure di mercatantie, e d’altre cose bisognevoli di sapere a’ mercatanti di diverse parti del mondo e di sapere che usano le mercatantie e
cambj, e come rispondono le mercatantie da uno paese all’altro e da una terra a un’altra, e simile
s’intenderà quale è migliore una mercatantia che un’altra, e d’onde elle vengono; e mostreremo il
modo a conservarle più che si può.
(Francesco Balducci Pegolotti, prologo di “pratica di mercatura”)
TESTO 8: Descriptio terrae sanctae di Burcardo di Monte Sion
Non ho messo niente in questa descrizione se non ciò che ho visto con i miei propri occhi nei luoghi
stessi, oppure trattenendomi su montagne o in altri luoghi adatti, oppure, quando non potevo accedervi, informandomi molto scrupolosamente presso i Siriani, i Saraceni, o altri.
(Burcardo di Monte Sion)
FOTO 2: illustrazione di metà ‘400 di Giovanni de’Marignolli.
136
ITINERARI E ALTRE TESTIMONIANZE SUI LUOGHI SANTI
Sec. II
GIUSTINO (+ c. 160). Filosofo e martire, originario di Flavia Neapolis (Nablus) in Palestina. Parla della
grotta di Betlemme nell’opera Dialogo col giudeo Trifone.
Sec. III
ALESSANDRO DI GERUSALEMME (+ 250). Vescovo in Cappadocia, venne in pellegrinaggio a Gerusalemme dove fu trattenuto dagli abitanti per divenire il successore del vescovo Narciso. Istituì a Gerusalemme
un archivio e una biblioteca alla quale attinsero Origene ed Eusebio di Cesarea (che parla di lui nella sua
Storia Ecclesiastica).
ORIGENE (+ 254). Esegeta e teologo insigne, lasciò la città di Alessandria e si stabilì a Cesarea di Palestina. Visitò i luoghi santi alla ricerca “delle orme dei profeti, di Gesù e degli apostoli”. Sfruttò nelle sue opere
(particolarmente nei Commentari) la conoscenza dei luoghi.
Sec. IV
EUSEBIO DI CESAREA (+ 340). Scrittore della prima Storia Ecclesiastica. Parla della chiesa primitiva di Gerusalemme. Celebra infine l’opera dell’imperatore Costantino e della madre di lui Elena nella edificazione
delle prime basiliche di Betlemme, sul Monte degli Olivi e al S. Sepolcro (Vita di Costantino). Nell’ Onomasticon (c. 295) passa in rassegna i luoghi biblici, seguendo l’ordine dei libri sacri, riportando le localizzazioni
tradizionali della sua epoca.
PELLEGRINO ANONIMO DI BORDEAUX (333). La sua è la più antica relazione scritta di un viaggio a Gerusalemme (Itinerarium burdigalense). La parte del viaggio da Bordeaux fino a Cesarea (e il ritorno fino a Milano) contiene solamente un arido elenco di tappe lungo le vie dell’impero romano, ma alle località della
Terra Santa si aggiungono alcune brevi notizie. Ricorda le chiese costruite da Costantino.
CIRILLO DI GERUSALEMME (+ 386). Vescovo di Gerusalemme per quasi quarant’anni. Famosissime sono
le Catechesi che egli tenne ai catecumeni nell’Anastasis quando era ancora semplice presbitero (347-348).
Soprattutto la Catechesi XIII contiene allusioni alla situazione dei Luoghi Santi.
EGERIA (381-384 oppure 400 circa). Nobildonna spagnola. In forma di lettera alle amiche, rimaste a casa, narra le vicende e le impressioni del viaggio nei luoghi santi. La parte che possediamo del suo Itinerario
comprende il Sinai, l’Egitto, la valle del Giordano e la Transgiordania. Descrive con molti dettagli la liturgia
quotidiana, domenicale e di varie feste dell’anno liturgico (e della Settimana Santa in particolare) alla quale
potè partecipare di persona mentre abitava nella città di Gerusalemme.
EPIFANIO DI SALAMINA (+ 403). Nato presso Eleuteropoli (Beit Jibrin), divenne vescovo di Salamina (in
Cipro). Le sue opere polemiche contro le varie eresie dell’epoca (Panarion, De mensuris) contengono numerose informazioni riguardanti le comunità di matrice giudeo-cristiana.
GIROLAMO (+ 419). Dalmata. Dopo varie esperienze di vita monastica, in Siria e a Roma, si stabilì infine
a Betlemme. Le sue opere esegetiche contengono innumerevoli riferimenti ai luoghi biblici. Tradusse in latino l’Onomasticon di Eusebio, aggiornandolo alla situazione del suo tempo (c. 390). La lettera 46 (a Marcella) è un invito pressante alla visita dei luoghi santi come propedeutica alla conoscenza dei misteri dei Cristo.
Nella lettera 108 (in memoria di Paola) descrive l’itinerario compiuto al momento della loro venuta in Terra
Santa (386) attraverso tutti i santuari della Palestina.
Sec. V
LEZIONARIO ARMENO (inizio V sec.). Calendario liturgico della Chiesa di Gerusalemme. Vi si indicano, in
modo preciso e completo, le commemorazioni, le feste, i luoghi, le letture, le antifone e i salmi che nella
chiesa di Gerusalemme si dicevano sempre “adatte al giorno e al luogo”, secondo l’espressione di Egeria.
ESICHIO DI GERUSALEMME (+ 439). Presbitero della Chiesa di Gerusalemme. Le sue omelie, tenute in
occasioni particolari o durante le feste dell’anno liturgico, contengono riferimenti ai luoghi dove la festa si
celebrava.
PIETRO IBERICO (+ 491). Membro della famiglia reale georgiana, ostaggio a Costantinopoli, si fece monaco in Palestina (437-438) e divenne vescovo monofisita di Gaza. La sua Vita, scritta dal discepolo e suc-
137
cessore Giovanni Rufo (del quale sono molto interessanti anche le Pleroforie) ci fa conoscere molte cose dei
santuari di Gerusalemme e della vita religiosa contemporanea.
Sec. VI
TEODOSIO (c. 530). Arcidiacono, forse di origine africana (Cartagine?). Scrisse una guida dei luoghi santi
(De locis sanctis) che fu molto diffusa nell’antichità. Recensisce accuratamente le chiese di Gerusalemme,
dei dintorni, e di tutto l’oriente. Contiene una descrizione abbastanza particolareggiata dei santuari della
Terra Santa.
PELLEGRINO ANONIMO DI PIACENZA (c. 570). Originario del nord Italia, il suo Itinerario percorre Cipro,
il Libano, la Palestina, il Sinai, l’Egitto, la Siria e la Mesopotamia. Egli riferisce una grande quantità di tradizioni raccolte dalla viva voce dei cristiani locali e narra molte usanze e devozioni praticate nei luoghi santi.
Spesso indulge al prodigioso, a volte al fiabesco.
Sec. VII
SOFRONIO DI GERUSALEMME (+638). Damasceno di origine, fu monaco nel monastero di S. Teodosio
presso Betlemme e poi Patriarca di Gerusalemme al tempo della conquista araba. Preziosi i Carmi Anacreontici 19 e 20, che sono un vero e proprio pellegrinaggio spirituale, pieno di emozione religiosa, nei santuari di Gerusalemme, Betania e Betlemme.
ARCULFO (c. 670). Vescovo delle Gallie. Viaggiò in Palestina durante nove mesi. Durante il viaggio di ritorno fu gettato dalla tempesta sull’isola di Iona (Irlanda) dove raccontò all’abate Adamnano le sue esperienze di pellegrino da cui nacque un Libellus de locis Sanctis (ripreso anche da Beda), con quattro disegni,
opera dello stesso Arculfo (chiese del pozzo della Samaritana a Neapolis, del Santo Sepolcro, della Santa
Sion e dell’Ascensione a Gerusalemme).
Sec. VIII
LEZIONARIO GEORGIANO (sec. V-VIII). Calendario liturgico della chiesa di Gerusalemme che rappresenta
una situazione più evoluta rispetto al lezionario armeno (sec. V). È testimone di come veniva celebrata la
liturgia nei santuari di Gerusalemme dopo le distruzioni dei Persiani (614) e l’occupazione araba.
WILLIBALDO (724-726). Restò per due anni in Palestina. La relazione del viaggio (Hodoeporicon) fu scritta da sua sorella Hugeburg, monaca. Mostra la situazione dei luoghi santi nel momento in cui essa comincia
a deteriorarsi.
Sec. IX
COMMEMORATORIUM DE CASIS DEI (808). Elenco delle chiese e monasteri della Palestina, comprendente anche il numero e la qualità del personale addetto al culto, nonché le dimensioni esatte di alcuni
principali edifici. Fu stilato da un inviato di Carlo Magno, imperatore romano d’occidente, per rendere disponibile un preciso inventario sulla base del quale provvedere ad inviare aiuti alle chiese in necessità.
EPIFANIO MONACO (sec. IX). Proveniente dall’impero bizantino, è il più antico vero e proprio itinerario
(Descrizione della Siria) scritto in lingua greca.
EUTICHIO DI ALESSANDRIA (+ 940). Patriarca di Alessandria. I suoi Annali e il Libro della dimostrazione contengono moltissimi riferimenti alla storia della chiesa e ai santuari della Terra santa, durante il periodo della occupazione musulmana.
138
Confronto su un brano relativo a GETSEMANI
Pellegrino anonimo di Bordeaux, Itinerario 594 (333 d.C.)
Andando da Gerusalemme alla porta che si trova a oriente per salire sul monte Oliveto c’è la valle
che si chiama di Giosafat. Sul lato sinistro, dove si trovano delle vigne, c’è anche la roccia dove
Giuda Iscariota tradì Cristo; sul lato destro c’è la palma dalla quale i fanciulli presero i rami per
stenderli davanti a Cristo che entrava.
Egeria, Itinerario 36,1 (400 circa d.C.)
Quando incomincia il canto del gallo si discende dall’Imbomon (Ascensione) salmodiando e si giunge a quel
luogo dove il Signore pregò, come è scritto nel Vangelo: “Si allontanò quanto un tiro di pietra e pregava,
ecc.”. In quel luogo vi è una chiesa elegante. Il vescovo con tutto il popolo vi entra e dice una orazione appropriata al luogo e al giorno; si dice anche un salmo appropriato e si legge quel brano del Vangelo dove
(Gesù) dice ai suoi discepoli: “Vigilate per non entrare in tentazione”. E vi si legge tutto quel brano e si fa di
nuovo una orazione.
Teodosio, De situ Terrae Sanctae 10 (circa 530 d.C.)
Là c’è la valle di Giosafat, dove Giuda tradì il Signore. Là c’è la chiesa della Signora Maria, madre dei Signore. Là il Signore lavò i piedi ai discepoli e fece la cena. Là vi sono quattro sedili dove si accomodarono il Signore in mezzo e i discepoli intorno; ciascun sedile accoglie tre uomini. Ora molte persone vengono qui e
mangiano con devozione i loro cibi, ad eccezione della carne, e accendono lumi là dove il Signore lavò i piedi agli apostoli, poiché quello è il luogo nella grotta e vi discendono ora 200 monaci.
Pellegrino anonimo di Piacenza, Itinerario 17 (circa 570 d.C.)
Scendendo dal monte Oliveto nella valle del Getsemani, nel luogo dove il Signore fu tradito, ci sono tre sedili sui quali egli stesso stette seduto. Anche noi vi ci siamo messi per devozione. Nella
medesima valle c’è la basilica di santa Maria. Dicono che qui fu la sua casa dove fu separata dal
corpo. La valle del Getsemani si chiama anche valle di Giosafat. Dal Getsemani salimmo alla porta
della città di Gerusalemme per molti gradini.
Adamnano, De locis sanctis 1, 12 ( = Arculfo, 670 d.C.)
Il santo Arculfo, diligente frequentatore dei luoghi santi, frequentava la chiesa di S. Maria nella valle di Giosafat. Questa chiesa è costruita a due piani. La parte inferiore, col soffitto in pietra, è fabbricata in una mirabile forma rotonda. Sul lato orientale c’è un altare, mentre sul lato destro si trova, scavato nella roccia, il
sepolcro vuoto di Maria; quello nel quale essa riposò un tempo dopo essere stata sepolta. Ma in che modo
o in che tempo il suo santo corpo sia stato levato da quel sepolcro, o in quale luogo attenda la risurrezione,
dice (Arculfo), nessuno lo può sapere con sicurezza. All’entrata di quella chiesa inferiore rotonda di S. Maria, inserita nella parete di destra, si vede la pietra sulla quale il Signore, prima dell’ora del tradimento, pregò in ginocchio nell’orto del Getsemani, quella notte in cui Giuda lo consegnò nelle mani di uomini peccatori. Ora, in quella pietra, si vedono profondamente impressi, come nella cera, i segni delle sue due ginocchia.
Così ci riferì il nostro santo fratello Arculfo, visitatore dei luoghi santi, il quale vide con i propri occhi queste
cose che noi abbiamo descritto. Nella chiesa superiore di Santa Maria, ugualmente rotonda, si riporta che vi
sono quattro altari.
Willibaldo, Hodoeporicon (723-726 d.C.)
Così (Willibaldo) raccontò che dinanzi alla porta della città stava una grande colonna e sulla sommità della colonna una croce, come segno e ricordo del luogo dove i Giudei volevano impadronirsi
del corpo della santa Maria. Mentre, dunque, gli undici apostoli portando sulle spalle il corpo della
Santa Maria lo stavano trasferendo da Gerusalemme, appena arrivati alla porta della città i giudei
139
lo vollero prendere. Ma, subito, quegli uomini che avevano allungato le mani al feretro per cercare
di impadronirsene ebbero le braccia trattenute, quasi incollate al feretro e non le poterono muovere prima che, per grazia di Dio e per la preghiera degli apostoli, fossero fatti liberi, e allora li lasciarono passare. Usciti, infine, vennero nella valle di Giosafat, dove si mostra il sepolcro della santa Maria. Ma, sia che gli apostoli l’avessero seppellita lasciando là il corpo o che avessero deciso di
seppellirla in seguito dopo averle scavato il sepolcro e sia stata poi assunta (in cielo) con il corpo,
oppure, nel caso che si ammetta che sia stata seppellita regolarmente, che sia stata poi levata di là
e trasferita altrove o che sia risorta avendo ricevuto la vera immortalità, è meglio piuttosto dubitare di tutto questo che non ricavarne qualcosa di apocrifo. Discese così di là il vescovo Willibaldo e
arrivò anch’egli alla valle di Giosafat. Questa sta presso Gerusalemme, sul lato orientale. In quella
valle c’è la chiesa di Santa Maria e in quella chiesa c’è il suo sepolcro, non nel senso che là riposa il
suo corpo ma è solo in sua memoria. Dopo aver pregato in questo luogo salì sul monte Oliveto.
140
IL MEDITERRANEO:
CORRELAZIONE FRA CONDIZIONI NATURALI E REAZIONI UMANE
Storia Medievale
Prof. Alfonso Marini - Sapienza Università di Roma
Testo, elaborazione dati e composizione grafica a cura di Angela Esposito
su base cartografica dell’Istituto Geografico De Agostini, The world, 2009
e su mappe dell’I.G.M. restituite in scala 1:25.000 (ricognizioni del 1877 e del 1950)
Premessa
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
I lineamenti fisico-strutturali di una personalità geografica:
il Mediterraneo
Il paesaggio costiero: antropizzazione e natura dei luoghi
I grandi fiumi mediterranei
Il delta fluviale del Tevere
La navigazione sicura
La cultura urbana
Il fattore clima:
le grandi invasioni storiche, il periodo caldo medievale
Riferimenti bibliografici
2
2
6
8
9
16
17
19
24
Il Mediterraneo: correlazione fra condizioni naturali e reazioni umane
Premessa
Orlando Ribeiro, un geografo portoghese del nostro tempo definisce così il Mediterraneo:
«[…] è, allo stesso tempo, una parte della terra e uno dei quei vasti domini di civiltà che
possono delinearsi sulla superficie dei continenti»1.
Nessun’altra parte del globo è stata così tanto ricca di contatti, di scambi proficui, di
movimenti di popoli, di commercio attivo e costante, di potenza militare e di organizzazione istituzionale e giuridica, di diffusione di modelli culturali associati alla bellezza
della forma nelle arti e nelle costruzioni. Ed ancora qui avviene il trasferimento e la fusione dei nuovi prodotti della tecnologia, delle conoscenze scientifiche, delle correnti di pensiero, degli orientamenti e fedi religiose, degli usi e delle idee e si stabiliscono correnti di
civiltà ed empori2.
Il Mediterraneo, dunque, è una via aperta agli scambi e stimolo alle relazioni a distanza che intercorrono tra i popoli, originate dai flussi di merci che partono dai centri produttori e diretti verso i luoghi di consumo, dove si sceglie la via più breve e più efficace onde
percorrere le distanze che li dividono3.
In esso si riconoscono, di volta in volta, il dominio commerciale e culturale dei primi
popoli marinari e poi il mare nostrum romano e successivamente il lacus musulmano e,
infine, il luogo ove le crociate, le repubbliche marinare, gli stati nazionali, antiche e nuove etnie europee si incontrano o vengono in conflitto nell’ambito di regimi assoluti.
1. I lineamenti fisico-strutturali di una personalità geografica: il Mediterraneo
Il Mediterraneo è come indica il nome “un mare tra le terre”, morfologicamente caratterizzato da un andamento dinamico del suo paesaggio marittimo e terrestre e, per la sua
posizione geografica e per la sua natura fisica, configura un ambiente unitario proiettato
dal mare verso le regioni più interne.
In un definito disegno territoriale il Mediterraneo è compreso tra (fig. 1):
- il 30° e il 47° parallelo di latitudine nord;
- il 5° meridiano di longitudine ovest e il 36° ad est.
Di fatto è un mare allungato nel senso dei paralleli e, perciò, la sua forma si inquadra
perfettamente in una esatta zona terrestre. Il suo clima, come il suo rilievo e l’articolazione delle sue coste, rappresentano un elemento essenziale della geografia fisica di questa regione.
1
O. RIBEIRO, Il Mediterraneo. Ambiente e tradizione, Varese 1983, p. 25.
Si veda M. PASQUINUCCI, S. MENCHELLI, Paesaggi, identità culturali ed economia: esempi
di aree costiere italiche nel commercio Mediterraneo, Actes Congrès International Environnement
et Identità en Méditerranee, vol. I, Corte 2003, pp. 403-412; P. ARNAUD, Entre Antiquité et
Moyen-Âge: l’Itinéraire Marittime d’Antonin, in L. DE MARIA, R. TURCHETTI (a cura di), Rotte e
porti del Mediterraneo dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, IV seminario, Genova
18-19 giugno 2004, Catanzaro 2004, pp. 3-19.
3
M. TANGHERONI, Commercio e navigazione nel Medioevo, Bari 1996; E. VARALDO,
Archeologia del commercio. Porti antichi, Genova 1996; M. PASQUINUCCI, S. MENCHELLI,
Paesaggi, identità culturali ed economia: esempi di aree costiere italiche nel commercio
Mediterraneo, Actes Congrès International Environnement et Identità en Méditerranee, vol. I,
Corte 2003, pp. 403-412.
2
2
Il Mediterraneo: correlazione fra condizioni naturali e reazioni umane
fig. 1 Il Mediterraneo: un mare tra le terre.
La sua massima estensione latitudinale è di circa 3.900 km. dallo stretto di Gibilterra
alle coste occidentali della Siria, mentre la dimensione longitudinale è di circa 1.500 km.
compresa tra la fascia marittima nord-africana e il limite meridionale centro-europeo. La
superficie totale è di circa 2,5 milioni di km.2 (fig. 2).
fig. 2 La massima estensione del Mediterraneo definita per latitudine e longitudine.
3
Il Mediterraneo: correlazione fra condizioni naturali e reazioni umane
È articolato in piccoli mari tra essi compresi e l’architettura del suo suolo, con corrugamenti alpini (montagne) e picchi sovrastanti il litorale, sono causa della presenza di
estesi e continui tratti di coste alte con esigui lembi di terre basse che le circondano, delimitano o separano.
La regione mediterranea è chiusa contrassegnata da scarsi scambi con gli altri mari
(v. fig. 2):
- ad occidente le acque del Mare di Alboran, racchiuse nell’arco montuoso dello stretto
passaggio di Gibilterra comunicano con l’Atlantico e diventano, a causa della loro posizione e dell’influenza dei climi continentali, molto più calde e salate delle acque
oceaniche che si trovano alla stessa latitudine;
- ad oriente attraverso i Dardanelli lungo lo stretto passaggio del Bosforo collega il Mediterraneo orientale con il mar Nero.
Della struttura fisica del Mediterraneo quello che colpisce è il fatto che in esso si uniscono le tre parti del vecchio mondo (Europa, Asia, Africa) e, le rotte di navigazione che
lo solcano, fanno di questa estesa superficie una sorta di ponte lanciato tra l’Europa e
l’Africa.
Per la sua posizione geografica e per la sua natura fisica il Mediterraneo configura un
ambiente unitario proiettato dal mare verso le regioni più interne, ove condizioni naturali
e relazioni umane, fatti del mondo fisico e aspetti della vita delle diverse civiltà, consentono di definire i tratti del mondo mediterraneo con la sua solida e antichissima originalità, con la sua impressionante unità a dispetto delle influenze fisiche e umane che in esso
si intersecano4.
Come unità naturale il Mediterraneo la deve, in particolar modo, all’ambiente, all’identità delle fattezze fisiche, alla bellezza dei paesaggi, alla ricchezza cromatica, alla
mitezza del clima rispetto ai più freddi mari settentrionali, al tepore delle acque, all’articolazione del rilievo, al frastagliamento delle coste e alla ristrettezza dei bacini marittimi, che hanno permesso la diffusione delle stesse specie, o per lo meno degli stessi tipi di vegetazione, dai confini aridi e rocciosi dell’Asia Minore, ai limiti delle coste atlantiche della Lusitania o del Maghreb.
Come unità storica ed umana esso è caratterizzato dalla somiglianza dei modi di vita
delle genti che abitano le sue coste dall’uno all’altro estremo, poiché solo una volta, e limitatamente ad alcuni secoli, un’organizzazione politica, quale quella dell’Impero romano, ha avuto la capacità e il vantaggio di definire l’unificazione dell’intero bacino mediterraneo.
Ad occidente la protuberanza più pronunciata del continente africano lo divide in due
parti (occidentale e orientale), di poco spostate per latitudine l’una rispetto all’altra (fig.
3):
- il 40° parallelo taglia pressappoco a metà il Mediterraneo occidentale che si estende
dallo Stretto di Gibilterra fino alle coste occidentali della penisola italiana;
- il 35° parallelo attraversa anch’esso nelle stesse condizioni il Mediterraneo orientale
ed ha uno sviluppo che va dal Canale di Sicilia fino alle coste occidentali del Libano e
di Israele.
4
F. MARAZZI, Roma, il Lazio, il Mediterraneo: relazioni fra economia e politica dal VII al IX
secolo, in L. PAROLI, P. DELOGU (a cura di), La storia economica di Roma nell’alto Medioevo alla
luce dei recenti scavi archeologici, Atti del seminario, Roma 2-3 aprile 1993, Firenze 1993, pp.
267-286; C. MINCA (a cura di), Orizzonte Mediterraneo, Padova 2004; M. QUAINI, Inquadramento
geostorico del Mediterraneo occidentale, in L. DE MARIA, R. TURCHETTI (a cura di), Rotte e porti
del Mediterraneo dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, IVseminario, Genova 18-19
giugno 2004, Catanzaro 2004, pp. 333-341; Storia d’Europa e del Mediterraneo, 1. Il Mondo
antico, Sez. III, L’ecumene romana, G. TRAINA (a cura di) voll. V-VII; Sez. IV, Il Medio Evo
(secoli V-XV), S. CAROCCI (a cura di), voll. VIII-IX, 2006-2009.
4
Il Mediterraneo: correlazione fra condizioni naturali e reazioni umane
fig. 3 Asse di separazione (in rosso) tra Mediterraneo occidentale e orientale.
fig. 4 Localizzazione di terre aride e inospitali.
Tre fianchi delineano il paesaggio mediterraneo caratterizzato da ambienti aridi e inospitali (fig. 4):
- a sud le deserte e incolte regioni del Sahara (in giallo), al di là delle montagne dell’Africa nord-occidentale tra la Tunisia e l’Asia;
5
Il Mediterraneo: correlazione fra condizioni naturali e reazioni umane
-
a est il deserto della Siria (in giallo), dietro le alture del Libano e della Palestina;
a nord del Mar Nero (in verde), la steppa russa, meno arida, ma attraverso la quale
si passa progressivamente alle steppe dell’Asia Centrale.
fig. 5 Sezione delle profondità marine con delimitazione della piattaforma continentale.
É un mare profondo e rispetto al Mare del Nord o al Mar Baltico è quasi sprovvisto di
piattaforma (massima estensione nel nord Adriatico, nel Canale di Sicilia, nel Golfo di
Gabès, nell'Egeo e nel Mar Nero settentrionale), tanto che le sue alte coste scendono bruscamente in grandi profondità e, se fosse possibile prosciugarlo, si vedrebbe esaltato il vigore dei dislivelli sovrastanti il litorale (fig. 5)5.
2. Il paesaggio costiero: antropizzazione e natura dei luoghi
Il paesaggio è costiero quando inquadra i luoghi prossimi al limite, alla separazione, al
contatto con la terraferma e la mobile distesa del mare (fig. 6)6.
La prossimità definisce uno spazio variabile nel quale sono racchiuse dinamiche contrapposte ma anche convergenti nelle relazioni che intercorrono tra l’uomo e la natura e
nelle quali gli effetti si esplicitano nelle azioni di demolizione, di ricostruzione, di modellamento e trasformazione della morfologia dei luoghi, della tipologia degli insediamenti e della tipizzazione delle attività umane nate per il mare.
Si tratta, dunque, di un paesaggio caratterizzato dalla mutevolezza e dai cambiamenti
indotti dall’incrociarsi tra le componenti naturali con quelle antropiche nelle città e nei
porti di mare.
Questi due elementi determinano la “fascia costiera”, nella quale si percepisce la presenza del mare e del suo dinamismo e dove l’azione dell’uomo localizza i nuclei abitati e
5
La piattaforma continentale costituisce il naturale prolungamento della terraferma in mare
che si estende dalla linea di costa fino al suo ciglio esterno. La sua ampiezza, estensione e profondità varia in funzione della conformazione geologica delle coste di ciascun continente. La sua
profondità oscilla a seconda dei casi da 250 mt. a 500 mt. circa.
6
Vedi O. RIBEIRO, Il Mediteranneo cit.; A. D’ARRIGO, Ricerche sul regime dei litorali nel
Mediterraneo, Introduzione a Ricerche sulle variazioni delle spiagge italiane, pubblicato
dall’Istituto di Geografia Generale della R. Università di Pisa, Pisa 1952; C. MINCA, ( a cura di),
Orizzonte Mediterraneo cit.; R. BUGGIANI, A. ESPOSITO, G. PILARA, Roma città di mare? Limiti e
proiezioni fino all’alto medioevo di una città che vive di mare ma non nasce marittima, Roma
2012, pp. 1 sgg.
6
Il Mediterraneo: correlazione fra condizioni naturali e reazioni umane
protetti, i bacini per la produzione del sale, i porti, i ripari, i magazzini e gli arsenali, i rifugi per le flotte, i servizi per la pesca e i commerci, le torri per l’avvistamento e le mura
per la difesa, i fari e i punti di riferimento (le mede) per la navigazione.
fig. 6 La morfologia delle coste mediterranee configurano un “paesaggio costiero”.
Lungo questa fascia i fiumi e i torrenti spengono il loro impeto contro la potenza della
massa dell’acqua marina, anch’essa origine e fonte di energia, e depositano il loro “carico
torbido”. È qui, allora, che si diffondono nell’ambiente costiero sotto forma di lunghi arenili e di dune litoranee e sedimentano i detriti, i ciottoli, le sabbie e le argille.
Si formano così le barre sommerse (accumuli di sabbia sul fondo marino presso la costa) che fanno avanzare verso il largo la linea di foce dei fiumi, mentre i sabbioni, i cordoni litoranei, delimitano sequenze di lagune e stagni costieri dove trovano riparo le imbarcazioni e i villaggi degli uomini e dove ricevono cibo e protezione gli esseri viventi
del cielo della terra e dell’acqua.
Questa fascia rappresenta la parte fisicamente più sensibile in quanto essa registra le
fasi della sua evoluzione e fa presagire il suo avvenire leggibile nei mutamenti climatici e
morfologici e dei loro effetti sulle coste, sul territorio e sulle città. Essa poi è anche più
suscettibile alle variazioni nei rapporti tra gli uomini: teatro d’incontri e scontri tra culture
diverse, invenzioni, conflitti, pestilenze, tempeste, viaggi, scoperte, scambi di merci, diffusione della moneta, partenze e arrivi.
Per questo il carattere marittimo può estendersi ad aree interne non necessariamente
contigue con il mare, la presenza del quale è riconoscibile attraverso la dipendenza economica, politica e culturale che esso è capace o di provocare o di promuovere. Così come
è avvenuto per Roma connessa con il mare da un percorso fluviale, che ha messo in relazione un’area di mercato con un punto di approdo di direttrici marittime, alle quali è stato
affidato il compito di consentire e favorire il sostentamento alimentare, la difesa militare,
lo splendore delle architetture, lo sviluppo della cultura e dei saperi.
7
Il Mediterraneo: correlazione fra condizioni naturali e reazioni umane
3. I grandi fiumi mediterranei
Il supporto fisico, culturale e politico che forma l’unità dell’ambiente mediterraneo,
si integra con l’entroterra europeo anche con la navigabilità di grandi fiumi. Questi, a
partire da porti naturali ospitati in tranquille lagune, si addentrano per centinaia di chilometri nel territorio, generando e mettendo in comunicazione insediamenti, centri abitati
e reti stradali.
fig. 7 I maggiori fiumi mediterranei con la localizzazione dei porti più importanti.
I più importanti, tra di essi, e notevoli per la lunghezza del loro corso e per la ricchezza delle regioni che attraversano sono (fig. 7):
- il Rodano che, forma l’amplissimo delta della Camargue e ospita, a ridosso del suo
ambiente lacustre, il porto di Marsiglia (Massalia), principale accesso della Gallia al
Mediterraneo e centro esportatore dei prodotti della regione Narbonese. Il corso del fiume
si dirige verso il triangolo delle città romane di Arles, Nimes e Avignone, dove i flussi di
traffico diretti a ovest per la Spagna, e a est per l’Italia, incrociano quelli per il nord verso
Parigi (Lutetia) e quelli in direzione sud verso il bacino Mediterraneo;
- l’Ebro (Iberus) fiume che ha dato nome all’intera penisola Iberica, alimenta un delta
che avanza progressivamente spingendosi nel mare (attualmente circa 30 chilometri). Il
suo corso navigabile si addentra fino a Saragoza (Caesaraugusta), dove la strada per Salamanca (Salamantica) attraversa la penisola seguendo le valli e gli invasi del fiume Tago
(Tagus), fino a raggiungere sulla costa atlantica il porto di Lisbona (Olisipo) affacciato
sul Mar de Palla e delimitato da una strozzatura aperta verso l’Oceano;
- il Nilo grande e lunghissimo fiume africano sbocca anch’esso nel Mediterraneo con un
ampio delta. Nelle lagune che lo costituiscono è localizzato il porto di Alessandria, punto
di riferimento della cultura greca e romana e centro di smistamento degli approvvigionamenti alimentari di Roma;
- il Po proietta, a sua volta, verso l’Adriatico un grande delta connesso a nord con la
laguna di Aquileia (Venezia) formando un ambiente a dominio lacustre che ha sviluppato
nei secoli una grande e potente marineria;
8
Il Mediterraneo: correlazione fra condizioni naturali e reazioni umane
- il Danubio (Danuvius) rappresenta l’asse naturale di collegamento, in combinazione
con il Reno, tra il mare del Nord e il mar Nero. Esso ospita sulle sue rive importanti città
fortificate come Vienna (Vindobona), Bratislava (Carnuntum), Budapest (Aquincum),
Belgrado (Singidunum), cui si aggiungono, in direzione nord, quelle lungo il Reno: Bonn
(Castra Bonnensia), Colonia (Colonia Agrippinensis), Xanten (Colonia Ulpia Traiana).
L’andamento dei due fiumi disegna il limes dell’Impero dove sono racchiusi i territori che
ne fanno parte ma, che, per le sue caratteristiche di via d’acqua e quindi di strumento di
interconnessione tra le sponde, consente la permeabilità tra genti rivierasche, di usi, consumi e costumi diversi tra loro;
- il Medjerba fiume africano di breve corso, dai monti interni della Tunisia scende fino
al mare formando un’area paludosa nella quale si aprono alla vista gli specchi d’acqua degli stagni di Tunisi e di Sebkha er-Riana. Qui il porto di Cartagine ha trovato uno spazio
favorevole all’attività marittima e allo sviluppo dei mercati;
- il Tevere con il suo corso più breve ma comunque al posto d’onore tra i fiumi dell’Italia peninsulare, sviluppa i fattori di localizzazione per l’insediamento primitivo di
Ostia, lo sfruttamento delle lagune costiere, la produzione e la commercializzazione del
sale incoraggiando, in tal modo, Roma a trasformare la sua natura di città di terra in città
di mare. Si dimostra così che l’importanza dei fiumi non è determinata soltanto dalla loro
lunghezza e portata ma dalla funzione politica e territoriale che esercitano.
4. Il delta fluviale del Tevere
Nella ricostruzione delle fasi evolutive del delta tiberino (fig. 8) le aree campite in colore turchese rappresentano gli specchi d’acqua lagunari o le superfici palustri. Il tratteggio definisce la posizione della linea di costa attuale, mentre la linea puntinata definisce l’allineamento costiero dell’epoca.
fig. 8 Evoluzione paleogeografica del delta del Tevere.
9
Il Mediterraneo: correlazione fra condizioni naturali e reazioni umane
Il Tevere come gli altri fiumi definisce, morfologicamente, un proprio delta correlato
alle variazioni climatiche tipiche della regione medio-tirrenica e segue un modello di costruzione del suo delta analizzato e verificato secondo la sequenza comune agli stadi di
avanzamento dei fiumi tirrenici:
- il contesto paleogeografico è caratterizzato da un fiume che sfocia in una laguna limitata da una duna costiera;
- il centro di deposizione del carico torbido fluviale si sposta dalla laguna verso il mare
formando un delta a dominio ondoso;
- l’avanzamento della costa in direzione del mare procede, come si suol dire, per giustapposizione di cordoni paralleli ad andamento lineare, incurvati verso l’asse di foce
perpendicolare alla fascia litoranea;
- le correnti lungo riva tendenti alla rettificazione della costa, troncano la cuspide costruita dai sedimenti e la piegano in direzione della corrente marina prevalente lungo
costa7.
Nel caso del Tevere l’accumulo di sedimenti trasportati verso la foce ha costruito un
suo letto fluviale indipendente, che ha diviso in due grandi stagni salmastri la preesistente
laguna costiera (v. fig. 8).
La foce del fiume, successivamente, si è aperta la via dello sbocco a mare e ha iniziato
a depositare il suo carico torbido sulla parte anteriore del delta. La foce prende così nel
tempo, all’inizio tanto quanto nel suo avanzare, l’attuale forma di delta cuspidato, proteso
verso il largo e limitato da una sequenza di barre sabbiose emerse e laghetti costieri8.
L’area deltizia del Tevere è stata pertanto modellata, come le risultanze archeologiche
dimostrano, condizionando il limite dell’abitato di Ostia, affacciato sul mare e sul fiume e
le successive strutture portuali realizzate nell’area di foce (v. fig. 10).
Nel basso Medioevo e nel Rinascimento sono state costruite progressivamente torri
costiere di avvistamento. La loro posizione segnala le fasi di avanzamento del litorale e
l’estensione della linea di spiaggia in direzione del centro di deposizione dei sedimenti
subacquei.
Inoltre i mutamenti del clima, e le conseguenti variazioni del livello marino hanno
contribuito a determinare la formazione di accumuli di sedimenti fluviali classati dalla diversa dinamica fluviale.
7
Si veda G. SANTARELLI, Planimetria generale del delta del Tevere con indicazioni dei canali
progettati dall’ing. Canevari, scala 1:50.000, in G. SANTARELLI, Le bonifiche di Ostia e Maccarese, Roma 1887, Archivio Storico Capitolino, Lazio in CD, ID 262; inoltre si veda M. PINNA,
Lo studio del trasporto solido dei corsi d’acqua nel quadro delle ricerche dell’erosione del suolo,
Atti del XVIII Congresso Geografico Italiano, Trieste 1961, pp. 149-168; B. FRANCESCHETTI, La
tendenza evolutiva di un corso d’acqua, in I fiumi, Novara 1980, pp. 75-89; P. BELLOTTI, Il modello morfo-sedimentario dei maggiori delta tirrenici italiani, in Bullettino della Società Geologica Italiana 119 (2000), pp.777-792.
8
Cfr. P. BELLOTTI, F. CHIOCCI, S. MILLI, P. TORTORA, P. VALERI, Sequence stratigraphy and
depositional setting of the Tiber delta: integration of high-resolution seismics, well logs, and
archaeological data, in Journal of Sedimentary Research 64, 3 (1994), pp. 416-432; P. BELLOTTI,
Il delta del Tevere: geologia, morfologia, evoluzione, in C. BAGNASCO (a cura di), Il delta del
Tevere: un viaggio fra passato e futuro, Roma 1998, pp. 19-29; P. BELLOTTI, Il modello morfosedimentario dei maggiori delta tirrenici cit., pp. 777-792; P. BELLOTTI, Late Quaternary
landscape evolution of the Tiber River delta plain (Central Italy): new evidence from pollen,
biostratigraphy and 14C dating, in Zeitschrift fuer Geomorphologie, 51, 4 (2007), pp. 505-534; P.
BELLOTTI, Il delta del Tevere: geologia, morfologia, evoluzione, in C. BAGNASCO (a cura di), Il
delta del Tevere: un viaggio fra passato e futuro, Roma 1998, pp. 19-29.
10
Il Mediterraneo: correlazione fra condizioni naturali e reazioni umane
fig. 9 Foto aerea zenitale dell’area deltizia del Tevere dalla forma
cuspidata scattata nel 1944 dalla Royal Air Force per scopi militari.
Nella foto aerea (fig. 9) si nota l’assenza degli insediamenti urbani di Ostia e Fiumicino e al loro posto la sequenza di dune costiere ad andamento convergente in direzione della foce di Fiumara Grande9. Ben visibile a nord la Fossa Traianea affiancata dalla sagoma esagonale del porto di Traiano e il nuovo corso del meandro provocato dalla
inondazione del 1557, che ha allontanato dal fiume sia l’antico abitato di Ostia sia il borgo medievale di Gregoriopoli.
La configurazione che oggi conosciamo, sulla quale è stato costruito l’insediamento
moderno occupa, dunque, tutta l’area compresa tra gli antichi porti e quella tra la riva destra (Fiumicino e Fregene) e la riva sinistra (Ostia lido).
Ora il fronte di spiaggia non più alimentato dai depositi fluviali, ha cominciato a
regredire. Questo fenomeno, mai verificatosi in antico, è causato, come è noto, da scavi e
prelievi di ghiaie e sabbie in alveo e da dighe e sbarramenti che riducono la capacità di
9
Foto aerea da R. ALMAGIÁ, Il delta del Tevere: fotografia dall’aereo (1944), foto British
Crown Copyright, in Le Regioni d’Italia,Lazio, Torino 1976, p. 120.
11
Il Mediterraneo: correlazione fra condizioni naturali e reazioni umane
trasporto torbido del fiume: l’azione erosiva del mare supera quella deposizionale del
fiume.
fig. 10
Ricostruzione paleogeografica dell’area di Foce del Tevere in epoca post-augustea
elaborata impiegando le prime mappe dell’I.G.M. restituite in scala 1:25.000 (ricognizioni del
1877 e del 1950) per poter disporre di una base cartografica esatta e possibilmente sovrapponibile.
La forma attuale del delta cuspidato è stata determinata dal succedersi nel tempo, in
particolare nel Medioevo, da deposizioni caratterizzate da un incremento medio annuo di
mt. 2.50, avanzando nel mare per più di 4 km. (fig. 10)10.
Agli antichi naviganti diretti a Roma si presentava un’ampia foce indicata dalla Tor
Boacciana, estremo confine tra terra e mare, struttura ora semidiruta sulla quale sorgeva,
10
La ricostruzione dell’area deltizia del Tevere è tratta da R. BUGGIANI, A. ESPOSITO, G.
PILARA, Roma città di mare? cit., fig. 47. Per “paleogeografia” s’intende lo studio delle progressive modificazioni dell'aspetto geografico della terra nel corso delle ere geologiche.
12
Il Mediterraneo: correlazione fra condizioni naturali e reazioni umane
probabilmente, il faro di ingresso al porto di Ostia. Esso, costruito in prossimità del
fiume, segnava comunque il limite della massima estensione della città portuale verso il
mare. La foce del Tevere è pertanto evoluta da estuario a un delta cuspidato costruito da
consistenti apporti solidi.
fig. 11 Ricostruzione dell’area di Foce del Tevere in epoca compresa tra il XIII e il XIV sec.,
elaborata impiegando le prime mappe dell’I.G.M. restituite in scala 1:25.000 (ricognizioni del
1877 e del 1950):
- Foce del Tevere,
F.149, II SO, scala 1:25,000, Firenze 1877
- Castel Porziano,
F.149, II SE, scala 1:25,000, Firenze 1877
- Fiumicino,
F.149, II NO, scala 1:25,000, Firenze 1877
- Ponte Galeria,
F.149, II NE, scala 1:25,000, Firenze 1877
- Palidoro,
F.149, IV SE, scala 1:25,000, Firenze 1877
- Fiumicino,
F.149, II NO, scala 1:25.000, Firenze 1950
- Maccarese,
F.149, I SO, scala 1:25.000, Firenze 1950
- Lido di Ostia,
F.149, II SO, scala 1:25.000, Firenze 1950
13
Il Mediterraneo: correlazione fra condizioni naturali e reazioni umane
Dalla sovrapposizione dei dati cartografici raccolti su mappatura dell’I.G.M. (Istituto
Geografico Militare) è stata realizzata una ricostruzione semplificata dell’andamento del
delta del Tevere nel periodo compreso tra il XIII e XIV sec. (fig. 11) tenendo presente
che:
-
dall’intervento traianeo del II sec. d.C. al XIII-XIV si oscilla tra i 1.100 - 1.200
anni.
Pertanto, considerato il lungo periodo trascorso e l’incremento medio annuo di 2,5 mt.,
si può ipotizzare che il delta tiberino è stato modellato avanzando verso il largo intorno ai
2,5 - 3 km.
fig. 12 Veduta del borgo di Ostia dominato dalla mole del castello di Giulio II
(incisione di Van Cleef H., Hostia, Archivio Storico Capitolino, Lazio in CD, ID 008).
L’incisione eseguita tra il 1560 e il 1589 circa (fig. 12), ritrae il paesaggio ostiense
costituito dal fiume, dall’abitato medievale di Ostia (Gregoriopoli, 846) e dalla presenza
di bestiame a disposizione per il traino di battelli lungo il Tevere, disegnando anche a
memoria uno stato dei luoghi riconducibile a modelli compositivi diversi dalla realtà, ma
tendenti in un certo qual modo a costruire immagini significative indipendenti dalla reale
configurazione dell’ambiente della foce del Tevere.
Con lo spostamento del meandro conseguente alla rotta causata dall’alluvione del
1557, l’insediamento di Ostia non ha potuto più esercitare la funzione di porto di Roma
che si accompagnava a quella di avamposto di difesa contro le aggressioni provenienti dal
mare.
L’immagine documenta, comunque, l’altra funzione fluviale: il traino delle merci lungo il corso del Tevere. In primo piano, su una penisola che sembra rappresentare l’Isola
Sacra e lungo la riva sinistra, la presenza di bufali e buoi testimonia l’impiego della tecnica dell’alaggio (fig. 12).
14
Il Mediterraneo: correlazione fra condizioni naturali e reazioni umane
Da Ostia, in direzione di Roma, il fiume si snoda lungo un percorso tortuoso
caratterizzato dalla presenza di numerosi meandri che espongono il naviglio, armato di
vele quadre, ora in direzione del vento dominante, ora in direzione opposta (fig. 13).
Infatti ad ogni meandro non è possibile cambiare l’esposizione della vela al vento,
rendendo necessario l’impiego dei remi, anch’esso non di rado ostacolato dalla corrente
contraria diretta al mare.
È d’obbligo, quindi, l’impiego dell’alaggio della nave, come pratica conosciuta dalle
popolazioni europee fin dai tempi remoti e in quei territori nei quali esiste la presenza di
un fiume diretto al mare. Ciò comporta il trascinamento del naviglio, opportunamente
adeguato alla diversa e nuova funzione nautica, navigando contro corrente e utilizzando la
forza di trazione di buoi o bufali o manovalanza servile, lungo una strada alzaia, in terra
battuta, tenuta sgombra dalla vegetazione ripariale.
Oggi il trasporto fluviale non viene più effettuato e la navigazione sul Tevere è limitata al trasporto di turisti, che osservano emozionati la meravigliosa distesa dell’acqua
e le sponde che accolgono una ricca vegetazione e una numerosa fauna terrestre attratta
dal fiume.
Ma nei secoli trascorsi dall’antichità al Medioevo il fiume ha avuto una ben diversa
utilizzazione, che lo ha posto in diretto contatto con il mare e il centro urbano di Roma11.
fig. 13 Andamento dei meandri
tiberini dalla foce in direzione
della città di Roma (incisione di
Carlo Nolli, 1745-1746, da A. P.
Frutaz, Le carte del Lazio, Roma
1972, tav. 194d).
11
In tal proposito utili sono le istruzioni per la navigazione contenute nel Portolano, Il
Compasso da Navigare, opera italiana della metà del sec. XIII, prefazione e testo del codice
Hamilton 396, a cura di Bacchisio R. Motzo, Università di Cagliari, vol. VIII, Annali della Facoltà
di Lettere e Filosofia, Cagliari 1947, nelle quali si avverte che, foce de Roma è bona a lenno
soctile, e cioè che la navigazione è consentita a imbarcazioni di piccola stazza. Sulla navigabilità
del Tevere nel basso Medioevo si veda anche Anonimo Romano, Cronica, Vita di Cola di Cola
Rienzo, cap. XVI, a cura di E. Mazzali, 1991, pp. 41-42.
15
Il Mediterraneo: correlazione fra condizioni naturali e reazioni umane
5. La navigazione sicura
Il profilo delle coste mediterranee sono state una componente favorevole allo svolgimento della vita marittima, qui la navigazione incontra condizioni favorevoli e l’arte
nautica fa il suo ingresso nella storia (fig. 14).
Il primo problema che si presenta alla navigazione – scaturisce dalla diversità dell’ambiente marino rispetto a quello terrestre – è rappresentato dai fenomeni metereologici
(nebbie e piogge, venti e tempeste, bonacce e burrasche) come variabili indipendenti dalle
quali si può, al massimo, molto spesso senza riuscirci tentare di evitare l’impatto.
fig. 14 Le principali rotte marittime mediterranee e la localizzazione delle maggiori città portuali.
La scelta di andare per mare riserva infatti un considerevole margine d’incertezza
dovuta alle variazioni stagionali del clima e dei venti, che i marinari di allora inquadrano
in base alle esperienze fatte in anni e anni di navigazione.
In pieno periodo di mare clausum, viene consigliato di non programmare viaggi, di
non stipulare contratti di navigazione e di non sottoscrive assicurazioni sui rischi di naufragio, anche se il traffico marittimo non cessa completamente ma è limitato, eccezionalmente, al trasporto di truppe per far fronte ad un’emergenza oppure a carichi di derrate
per alleviare una carestia.
Se le condizioni meteorologiche influenzano l’individuazione dei periodi che si ritengono più sicuri, anche la rotta dovrà tener presente alcune considerazioni che ne consigliano la scelta del tragitto12.
12
Segnaliamo i contributi di J. ZOZAYA STABEL-HANSEN, Construcción naval e ingeniería
portuaria en el mundo antiguo y medieval, in Puertos españoles en la Historia, CEHOPU, Madrid
1994, pp. 43-59; C. VELLA NICHOLAS, La Geografia di Tolomeo e le rotte marittime mediterranee,
in L. DE MARIA, R. TURCHETTI, Rotte e porti del Mediterraneo dopo la caduta dell’Impero
romano d’Occidente, IV seminario, Genova 18-19 giugno 2004, Catanzaro 2004, pp. 21-32; M.
16
Il Mediterraneo: correlazione fra condizioni naturali e reazioni umane
La rotta prescelta sarà, dunque, quella che offre maggiori condizioni di sicurezza,
seguendo lo sviluppo costiero “a vista” possibilmente nelle ore diurne, anche se ciò comporta un non piccolo allungamento dei tempi di viaggio.
Deve essere infatti tenuto ben presente il rischio rappresentato dal fatto che si vada
incontro a una navigazione ostacolata dalla variabilità del tempo e dei venti e dall’insorgere di tempeste e, soprattutto, dalla formazione di foschie o di corpi di nuvole basse,
che impediscono, di giorno, la vista di punti di riferimento (isole, promontori, creste) e, di
notte, l’orientamento con le stelle e le costellazioni, cui i naviganti di allora, mancando di
bussola e di altri strumenti, devono necessariamente affidarsi, non escludendo in ultimo la
necessità della rimessa del naviglio in un porto sicuro.
Il mar Tirreno, ad esempio, presenta una configurazione particolarmente adatta allo
sviluppo della navigazione costiera, caratterizzata dalla presenza di 21 isole (negli arcipelaghi Toscano, Campano e delle Eolie) che si prestano a sostenere il veleggiamento a
vista.
6. La cultura urbana
Uno tra i punti di forza del Mediterraneo è rappresentato dalla più antica tradizione
urbana, con una densa rete di città tra le quali le più importanti e cosmopolite dell’antichità a vocazione marittima: Alessandria, Roma, Cartagine e Costantinopoli.
La città come strumento perfetto e centro di traffici ed anche il più potente mezzo di
colonizzazione, viene impianta dovunque, dalle sponde del Mediterraneo verso le regioni
più interne, la cui efficacia è garantita dall’organizzazione del mondo romano e dovunque
obbedisce alle stesse connotazioni e diffonde a quella parte dell’Europa continentale la
conoscenza di definiti schemi urbanistici che i popoli barbari non conoscono o non apprezzano13.
La presenza di un porto, poi, conferisce alla città, dove è realizzato e istituito, un ruolo
invero centrale per l’intrecciarsi di conoscenze scientifiche e tecniche indotte dall’attrazione che esso esercita sull’intero bacino di relazioni umane al quale è rivolto14.
QUAINI, Inquadramento geostorico cit., pp. 333-341; F. ALVES, P. RODRIGUES, Une approche archéologique des origines méditerranéennes de la tradition ibéro-atlantique en architecture navale.
Le cas des épaves d’origine portugaise récemment découvertes, in L. DE MARIA, R. TURCHETTI, (a
cura di), Rotte e porti del Mediterraneo dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, IV
seminario, Genova 18-19 giugno 2004, Catanzaro 2004, pp.135-156; P. ARNAUD, Entre Antiquité
et Moyen-Âge: l’Itinéraire Marittime d’Antonin, in L. DE MARIA, R. TURCHETTI, (a cura di), Rotte
e porti del Mediterraneo dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, IV seminario, Genova
18-19 giugno 2004, Catanzaro 2004, pp. 3-19; ID., La contribution des géo-graphes et les routes
de navigation, in A. GALLINA ZEVI, R. TURCHETTI, Méditerranée occidentale antique: les
échanges, III° seminario, Marseille 14-15 mai 2004, Catanzaro 2004, pp. 3-20; M. CASTELNOVI, Il
portolano: una fonte storica medievale trascurata, in L. DE MARIA, R. TURCHET-TI, Rotte e porti
del Mediterraneo dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, IV seminario, Genova 18-19
giugno 2004, Catanzaro 2004, pp. 343-361.
13
O. RIBEIRO, Il Mediterraneo cit., pp. 121-138.
14
G. ROMANELLI, Città di costa. Immagine urbana e carte nautiche, in Carte da Navigar,
portolani e carte nautiche nel museo Corree 1318-1782, pp. 21-32. G. SCHMIEDT, I porti italiani
nell’alto Medioevo, in La navigazione mediterranea nell’alto Medioevo, CISAM, XXV, Spoleto
1978, pp. 129-234.
17
Il Mediterraneo: correlazione fra condizioni naturali e reazioni umane
L’esistenza del porto, laddove è stato opportuno e possibile localizzarlo, rafforza
notevolmente il dinamismo urbano con la sua ricchezza di scambi e con un consistente
volume di informazioni, aggiornamenti e modernizzazioni.
Il Gran Kan ha sognato una città, la descrive a Marco Polo: ‒ Il porto è esposto a settentrione,
in ombra. Le banchine sono alte sull’acqua nera che sbatte contro le murate; vi scendono scale
di pietra scivolose d’alghe. Barche spalmate di catrame aspettano all’ormeggio i partenti che
s’attardano sulla calata a dire addio alle famiglie. I commiati si svolgono in silenzio ma con
lacrime. Fa freddo; tutti portano scialli sulla testa. Un richiamo del barcaiolo tronca gli indugi;
il viaggiatore si rannicchia a prua, s’allontana guardando verso il capannello dei rimasti; da riva già non si distinguono i lineamenti; c’è foschia; la barca accosta un bastimento all’ancora;
sulla scaletta sale una figura rimpicciolita; sparisce; si sente alzare la catena arrugginita che raschia contro la cubia. I rimasti s’affacciano agli spalti sopra la scogliera del molo, per seguire
con gli occhi la nave fino a che doppia il capo; agitano un’ultima volta un cencio bianco. ‒
Mettiti in viaggio, esplora tutte le coste e cerca questa città, ‒ dice il Kan a Marco. ‒ Poi torna
a dirmi se il mio sogno risponde al vero. ‒ Perdonami, signore: non c’è dubbio che presto o tardi m’imbarcherò a quel molo, ‒ dice Marco, ‒ ma non tornerò a riferirtelo. La città esiste e ha
un semplice segreto: conosce solo partenze e non ritorni.
(I. Calvino, Le città invisibili, 1972)
Gli addensamenti di popoli e genti in località, nelle quali, per fattori di contiguità
spaziale si sviluppa la cultura urbana, acquistano caratteri centralizzati di attrazione e possono essere riconducibili a due realtà per natura diverse tra di loro come quella romana e
quella medievale:
1. la Romanità si riconosce dal fatto che essa è presente, con continuità, in diversi
aggregati urbani che producono o sono rappresentati da spazi collettivi e qualificati,
destinati a svolgere attività pubbliche o di partecipazione. Edifici identificabili come
romani sono: i teatri, gli anfiteatri, i circhi, le terme, gli acquedotti, le cisterne, i ponti, i viadotti, le strade, le basiliche, i fori, i santuari, i templi. Complessivamente progettati e realizzati con l’impiego di una tecnologia diffusa e riconoscibile.
Marco Polo descrive un ponte pietra per pietra ‒ Ma qual’è la pietra che sostiene il ponte? ‒
chiede Kublai Kan. ‒ Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra ‒ risponde Marco ‒
ma dalla linea dell’arco che esse formano ‒ Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi
aggiunge ‒ Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che mi importa ‒ Polo risponde ‒
senza pietre non c’è l’arco.
(I. Calvino, Le città invisibili, 1972)
2.
il Medioevo, a partire dalle grandi invasioni che dovunque fanno rinascere i
particolarismi locali, si iscrive nella storia delle città come l’inizio di un ritorno alla
insicurezza. Si ridisegna il perimetro urbano, vengono alzate o rinforzate le mura di
difesa, risorge l’insediamento in luoghi alti, scoscesi e poco accessibili; le strade si
adattano al rilievo e diventano tortuose, ripide; i caseggiati ammonticchiati si sviluppano in altezza, coronati da un castello o da una cattedrale. É questa la condizione
vitale per l’uomo medievale. Per dirla con Lewis Mumford:
«Fra la data che simboleggia la caduta di Roma e il XII secolo, quando le città dell’Occidente
si svegliarono ad un nuova vita, si stende un’epoca difficile da de-scrivere ma importante da
capire […] il bisogno di difesa sovrasta a qualsiasi altra preoccupazione, ed un asilo sicuro
18
Il Mediterraneo: correlazione fra condizioni naturali e reazioni umane
era press’a poco tutto quanto fosse lecito chiedere alla vita. […] Un muro specialmente se
circondato da un fossato, teneva lontani gli ag-gressori e rendeva inutili le armi»15.
3. Il fattore clima: le grandi invasioni storiche, il periodo caldo medievale
La cronologia climatica così come sintetizzata nella tabella seguente (effetti sulla morfologia costiera e sul paesaggio) può risultare uno strumento utile per comprendere:
a.
b.
le grandi invasioni storiche (comprese tra il III sec. d.C. e il IV-V d.C.);
il periodo caldo medievale (compreso tra il 750 (800) -1200 d.C.)
Periodo era
cristiana
Anni B.P.
Tipi di clima
Morfologia costiera
Tipi di antropizzazione
costiera
900 a.C. - 300 a.C.
2.900 - 2.300 Freddo (fresco) - delta
anastomizzati16
300 a.C. - 100 a.C.
2.300 - 2100
100 a.C. - 400 d.C.
2.100 - 1.600 Caldo - lagune e laghi costieri
arenili e dune costiere
Sistema dei porti mediterranei, Itinerarium maritimum
400 d.C. - 750 d.C.
1.600 - 1.250 Freddo - espansione delle dune
costiere
Deurbanizzazione e rarefazione dei servizi portuali
750 d.C. - 1.200 d.C.
1.250 - 800
Mite - barre subacquee dune e
lagune costiere
Primi insediamenti costieri
e approdi naturali
Sviluppo della navigazione
e costruzione dei porti
Caldo - periodo caldo medievale Portualità residuale e ridotta
insabbiamenti e impaludamenti abbandono di centri costieri
tab. 1 Cronologia climatica e possibili effetti sulla morfologia costiera.
a. Le grandi invasioni storiche
Gli eventi climatici possono essere assunti come una tra le tante cause che hanno
determinato il lento declino dell’Impero romano d’Occidente, investito da ingenti flussi
migratori di popolazioni provenienti dall’Europa centro-settentrionale e dirette verso SO
alla ricerca del più mite clima mediterraneo dove poter trovare protezione, cibo e beni da
saccheggiare e, sottoposte alla pressione, che le indirizzava sempre più in avanti fino ad
attraversare il limes, di altre popolazioni a loro volta aggredite dalla fame e dalla carestia
provocata dal freddo pungente nelle lontane steppe dell’Europa nord-orientale dove erano
stanziate17.
15
L. MUMFORD, La cultura delle città, Milano 1954, pp. 3-4; inoltre ID., La città nella storia,
Milano 1963; J. LE GOFF, L’immaginario urbano nell’Italia Medievale, in Storia d’Italia (secoli
V-XV), annali 5, Il paesaggio, a cura di Cesare De Seta, Torino 1982, pp. 5-43; H. PIRENNE, Le città del Medioevo, nuova ed., Bari 1995.
16
Per anastomizzato s’intende un particolare tipo di morfologia fluviale consistente in una
rete di corsi d’acqua formati da due o più canali con sinuosità variabile, in genere meandriformi e
interconnessi fra loro.
17
L’Europa centrale è stata caratterizzata dall’inclemenza del tempo testimoniata dalle frequenti gelate del Danubio e dalla piena dello stesso nel 376. Vedi M. PINNA, Le variazioni del cli-
19
Il Mediterraneo: correlazione fra condizioni naturali e reazioni umane
fig. 15 Primi spostamenti di popolazioni dirette al di là del confine imperiale nel III sec. d.C.
fig. 16 Spostamenti di popolazioni nomadi attestate tra il IV e V sec. d.C.
ma. Dall’ultima grande glaciazione alle prospettive per il XXI secolo, Milano 1996, p. 124, dove
viene citato il geografo Ellesworth Huntington – ed è il caso di dire da prendere con le dovute precauzioni – il quale attribuisce una grande importanza alle avverse condizioni climatiche quale causa principale del “Rome’s collapse”.
20
Il Mediterraneo: correlazione fra condizioni naturali e reazioni umane
Il primo consistente arrivo di popolazioni migranti è rappresentato da ingenti flussi
che traggono origine dall’Europa centro-settentrionale e sono dirette verso il limes dal
Reno al Danubio e in direzione sud-ovest e più avanti verso sud occupando progressivamente le terre affacciate sul Mediterraneo (fig. 15).
Una successiva migrazione di popoli provenienti dall’Europa centrale si dirige in parte
in Gallia, Spagna e Africa nord-occidentale e in parte in Italia, Dalmazia e Grecia mettendo in luce le divisioni e le tensioni autonomistiche che stanno lacerando il corpo dell’Impero (fig. 16).
Tra la fine del IV e gli inizi del V secolo d.C. le popolazioni barbariche invadono
l’Occidente e attaccano Roma, sia pure in certo modo rispettandola per il timore reverenziale che la prima sede della Chiesa cristiana trasmette, per l’ammirazione delle architetture che la ornano e per la forza che il suo nome e la sua tradizione conservano.
b. Il periodo caldo medievale
Il periodo caldo medievale così definito dai climatologi comprende un lasso di tempo
di circa 450 anni esteso tra il 750 (800) e il 1200.
Uno spazio temporale di scarsa importanza se raffrontato ai lunghi tempi delle ere
geologiche, ma in realtà molto significativo se correlato all’ambiente fluviale, sensibile ai
rapidi mutamenti morfologici, che le variazioni climatiche causano sull’assetto idrogeologico e che conseguentemente si ripercuote anche sulle attività umane e lo stato dei
luoghi.
Gli studi glaciologici e le analisi delle variazioni metereologiche hanno ormai
accertato che nel periodo caldo medievale, le variazioni stesse sono migliorate, nel senso
di un clima più caldo, relativo all’Islanda, alla Norvegia e alla Groenlandia.
I Vichinghi, che avevano stabilito lungo le coste della Scandinavia i loro insediamenti,
utilizzati quali basi di partenza per l’esplorazione dei territori artici e per incursioni piratesche e inoltre come zone di rimessaggio e sosta delle navi, hanno forse scoperto per
primi l’esistenza del continente poi denominato americano.
Agevolati nella navigazione del mare, che l’aumento della temperatura globale ha
liberato da ghiacci, essi hanno poi scoperto la “terra verde” le non più gelide terre del circolo polare artico e quelle situate a ovest dell’Islanda.
In ambito europeo, si è registrato, in questo stesso periodo, un incremento diffuso di
circa 2°C. nella temperatura media, al quale è seguita un’espansione della cultura della
vite lungo le pendici soleggiate della Renania, della Mosella e del Palatinato, e successivamente scomparsa, una volta terminata questa fase climatica, nelle regioni del
Brandeburgo, Pomerania e Prussia orientale. Ed ancora in Inghilterra gli effetti del riscaldamento globale si sono fatti sentire per esempio a Londra presso l’abbazia di
Westminster ove sino al XIII secolo cresce uva disposta in bei filari, ma che nel secolo
successivo risultano scomparsi, dando luogo al successivo incremento della coltivazione
del luppolo e della produzione della birra.
Con il XIV secolo, il sopraggiungere di una fase più fresca fa registrare anche nell’Europa centrale la sparizione del vino ampiamente sostituito dalla birra.
Nell’ambito dell’Italia settentrionale le variazioni climatiche sono state provate dalle
misurazioni delle stratificazioni dei sedimenti, quali effetti dell’alternanza delle fasi di
avanzamento o di ritiro delle morene frontali (materiale trasportato a valle) del ghiacciaio
del Fernau (Tirolo).
Il costante incremento della temperatura media e un conseguente innalzamento delle
acque marine nel periodo caldo medievale, è indicato da Mario Pinna:
21
Il Mediterraneo: correlazione fra condizioni naturali e reazioni umane
«Come conseguenza dello scioglimento di ingenti masse glaciali, polari e montane, il
livello del mare andò gradualmente innalzandosi da 50 cm. a 1 metro al di sopra di quello
attuale»18.
Il dato di variazione è stato accertato, inoltre, dalle misurazioni di Giulio Schmiedt, su
preesistenze archeologiche di opere portuali, peschiere marittime e altre costruzioni
costiere, che hanno verificato la differenza tra il livello attuale del mare e la quota di
accessibilità ai citati manufatti19.
Contestualmente alla fusione dei ghiacci marini e degli iceberg provocata dal
riscaldamento globale, nel Mediterraneo si è potuto peraltro attestare che il livello eustatico marino è cresciuto di circa un metro20. Si è alzato, così, anche il livello di base dei
fiumi e conseguentemente si è modificato il loro profilo di equilibrio e si è ridotta la
velocità di deflusso, con un maggiore rilascio del materiale detritico trasportato.
Cause delle variazioni eustatiche sono dunque i mutamenti climatici, e in particolare,
la risalita della superficie marina diviene il fattore determinante della evoluzione della
morfologia costiera, così come viene descritto da Mario Pinna:
«Quanto all’Italia, è interessante rilevare l’evoluzione cui andarono incontro le pianure
costiere durante questo periodo. Infatti l’innalzamento del livello marino, alterando il
deflusso dei fiumi nel loro basso corso, determinò la formazione di paludi e acquitrini alle
spalle dei cordoni di dune […]»21.
Questa evoluzione caratterizza il periodo caldo medievale, i cui effetti sulla morfologia costiera del delta del Tevere e sul paesaggio hanno determinato la trasformazione
con profondi mutamenti, attribuibili sia alla dinamica costiera dei corsi d’acqua, sia
all’insabbiamento e impaludamento delle lagune, sia all’assenza di manutenzione e protezione del territorio per la sopravvenuta modificazione dell’economia agraria post-repubblicana, sia all’allontanamento degli abitanti da queste fasce costiere per il sopravvenire
del paludismo e per l’assenza della opportuna protezione dagli attacchi provenienti dal
mare.
Alcune delle formazioni geologiche relative all’Olocene (ultima fase geomorfologica
del pianeta) sono attribuite a questo particolare periodo climatico, come ad esempio le
torbiere, i depositi sabbiosi e quelli argillosi con effetti di controllo delle evoluzioni della
morfologia costiera22.
Questi fenomeni sono particolarmente evidenti nell’area deltizia del Tevere, e vanno
altresì uniti al contestuale rilascio di sabbie e argille e con il conseguente insabbiamento
18
M. PINNA, Le variazioni del clima cit., p. 128.
G. SCHMIEDT, Il livello antico del mar Tirreno. Testimonianze dei resti archeologici, Firenze 1972, pp. 94-104.
20
Per “livello eustatico” si intende aumento o diminuzione del livello esteso all’intera superficie oceanica collegata alle fase di ritiro o di avanzamento dei ghiacci continentali.
21
M. PINNA, Le variazioni del clima cit., p. 129; inoltre ID., Lo studio del trasporto solido dei
corsi d’acqua nel quadro delle ricerche dell’erosione del suolo, Atti del XVIII Congresso Geografico Italiano, Trieste 1961, pp. 149-168; ID., Le variazioni del clima in epoca storica e le loro
influenze sulla vita e le attività umane. Un tentativo di sintesi, in Bollettino della Società Geografica Italiana (1969), nn. 4-6, pp. 198-275; ID, Climatologia, Torino 1977; F. MARABINI, Evoluzione dell’ambiente costiero in tempi storici e le variazioni climatiche, in Il Quaternario 9, Verona 1996, pp. 201-204; C. TARICCO, M. GHIL, S. ALESSIO, G. VIVALD, Two millennia of climate
variability in The Central Mediterranean, Climate of the Past, 5, (2009), pp. 171-181.
22
G. LEONI, G. DAI PRA, Variazioni del livello del mare nel tardo Olocene (ultimi 2500 anni)
lungo la costa del Lazio in base ad indicatori geo-archeologici. Interazioni fra neotettonica, eustatismo e clima, ENEA, Dipartimento Ambiente, Roma 1997-98, pp. 3-42.
19
22
Il Mediterraneo: correlazione fra condizioni naturali e reazioni umane
dei natanti che avessero tentato l’ingresso nei bacini portuali. Sono così avanzate nel mare le foci di “Fiumara Grande” e della “Fossa Traianea” con i relativi prodelta (parte profonda del delta verso il mare aperto), rendendo sempre più difficoltoso l’accesso al fiume
e alle sue banchine.
Il grafico di seguito indicato (graf. 1), circoscritto in un arco temporale di circa 800
anni e compreso tra il IV e il XII sec. d.C., mostra la sequenza delle inondazioni del
Tevere che sembrerebbero essere, più che altro, correlate con le fasi di passaggio climatico da “caldo a freddo” oppure da “freddo a caldo”.
Non si ha notizia di inondazioni o straripamenti tra l’860 e il 1180 (periodo caldo
medievale). Questa lacuna di informazioni racchiusa in un arco temporale di ben 320
anni, potrebbe essere imputata ad una assenza di attenzione da parte delle fonti relative al
periodo.
Frequenza delle piene del Tevere a Roma tra il 371 e il 1180 d.C.
1180
1200
1000
860
847 856
685
anni
800
725
778 791
589
555 570
600
389 411
371 379
400
200
0
da caldo a freddo
da freddo a caldo
caldo
graf. 1 Le inondazioni del Tevere nel periodo compreso tra la seconda metà del IV
sec. d.C. e la seconda metà del XII sec., dove emerge una pausa correlata al
periodocaldo medievale tra l’860 e il 1180.
Tuttavia non si può non prendere in considerazione che il caldo medievale possa essere stato caratterizzato da inverni miti e dunque da un regime meno torrentizio del Tevere.
Un clima mite comporta, infatti, una riduzione della piovosità invernale nel bacino
imbrifero di un fiume, come il Tevere, che attinge esclusivamente dall’Appennino dove
non ci sono ghiacciai permanenti. Per la conseguente riduzione dell’apporto idrico, il
flusso delle acque resta contenuto entro limiti di portata media con l’assenza di fenomeni
di straripamento confermando, così, la coincidenza di un prolungato periodo caldo con
l’assenza di inondazioni.
23
Il Mediterraneo: correlazione fra condizioni naturali e reazioni umane
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MISSIONARI E VIAGGIATORI IN ORIENTE NEI SECOLI XIII-XIV