JULES VERNE
Un biglietto della lotteria
Disegni di Leon Benett e George Roux
incisi da A.-F. Pannemaker, F. Moller e P. Louis
Copertina di Graziella Sarno
U. MURSIA & C.
Titolo originale dell’opera
UN BILLET DE LOTERIE
(1886)
Traduzione integrali dal francese di
Carla Frangi
Proprietà letteraria e artistica riservata
Printed in Italy © Copyright 1973 U. MURSIA & C.
1398/AC - U. MURSIA & C. - Milano - Via Tadino, 29
Indice
PRESENTAZIONE __________________________________ 4
Capitolo I__________________________________________ 8
Capitolo II ________________________________________ 17
Capitolo III _______________________________________ 24
Capitolo IV _______________________________________ 31
Capitolo V ________________________________________ 40
Capitolo VI _______________________________________ 51
Capitolo VII ______________________________________ 61
Capitolo VIII______________________________________ 67
Capitolo IX _______________________________________ 81
Capitolo X ________________________________________ 85
Capitolo XI _______________________________________ 95
Capitolo XII _____________________________________ 110
Capitolo XIII_____________________________________ 120
Capitolo XIV _____________________________________ 131
Capitolo XV______________________________________ 143
Capitolo XVI _____________________________________ 152
Capitolo XVII ____________________________________ 164
Capitolo XVIII ___________________________________ 171
Capitolo XIX _____________________________________ 179
Capitolo XX______________________________________ 189
PRESENTAZIONE
Un biglietto della lotteria, scritto nell’anno 1886, ci
porta in una atmosfera completamente diversa. Lontano
dal tecnicismo e dal convulso mondo delle grandi città,
esso è ambientato in Norvegia, «paese privilegiato dove
non esistono privilegi», e precisamente nel Telemark,
regione assai pittoresca, sparsa di piccoli villaggi fra laghi
e montagne, di alberghetti accoglienti, di splendide foreste
di conifere.
Verne conosceva assai bene la Norvegia. Vi era stato
due volte, nel 1861 e nel 1880, e con questo romanzo volle
tributarle un omaggio: la descrisse perciò come un angolo
di paradiso, con una popolazione modello in cui i giovani
sono coraggiosi, onesti, rispettosi, e gli anziani sono i
custodi della saggezza ereditata dagli antichi. Laboriosi ed
ospitali, essi affascinano per il loro folklore e a questo
proposito l'autore si abbandona a minuziose descrizioni di
usi, costumi e tradizioni. La trama, infatti, è quasi solo un
pretesto per fornire al lettore un panorama colorito di quel
mondo che Verne amava in modo particolare: pure, le
vicende di quel biglietto di lotteria, giunto così
tragicamente nelle mani della dolce Hulda con l'ultimo
messaggio del fidanzato, hanno una grazia e un incanto
tutto particolare.
JULES VERNE nacque a Nantes l'8 febbraio 1828. A
undici anni, tentato dallo spirito d'avventura, cercò di
imbarcarsi clandestinamente sulla nave La Coralie, ma fu
scoperto per tempo e ricondotto dal padre. A vent'anni si
trasferì a Parigi per studiare legge, e nella capitale entrò in
contatto con il miglior mondo intellettuale dell'epoca.
Frequentò soprattutto la casa di Dumas padre, dal quale
venne incoraggiato nei suoi primi tentativi letterari.
Intraprese dapprima la carriera teatrale, scrivendo
commedie e libretti d'opera; ma lo scarso successo lo
costrinse nel 1856 a cercare un'occupazione più redditizia
presso un agente di cambio a Parigi. Un anno dopo sposava
Honorine Morel. Nel frattempo entrava in contatto con
l'editore Hetzel di Parigi e, nel 1863, pubblicava il romanzo
Cinque settimane in pallone.
La fama e il successo giunsero fulminei. Lasciato
l'impiego, si dedicò esclusivamente alla letteratura e un
anno dopo l'altro - in base a un contratto stipulato con
l'editore Hetzel - venne via via pubblicando i romanzi che
compongono l'imponente collana dei «Viaggi straordinari I mondi conosciuti e sconosciuti» e che costituiscono il
filone più avventuroso della sua narrativa. Viaggio al
centro della Terra, Dalla Terra alla Luna, Ventimila leghe
sotto i mari, L'isola misteriosa, Il giro del mondo in 80
giorni, Michele Strogoff sono i titoli di alcuni fra i suoi libri
più famosi. La sua opera completa comprende un'ottantina
fra romanzi e racconti lunghi, e numerose altre opere di
divulgazione storica o scientifica.
Con il successo era giunta anche l'agiatezza economica,
e Verne, nel 1872, si stabilì definitivamente ad Amiens,
dove continuò il suo lavoro di scrittore, conducendo,
nonostante la celebrità acquistata, una vita semplice e
metodica. La sua produzione letteraria ebbe termine solo
poco prima della morte, sopravvenuta a settantasette anni,
il 24 marzo 1905.
CAPITOLO I
— CHE ORA È? — chiese mamma Hansen, dopo aver
gettato via la cenere della pipa, le cui ultime volute di fumo
andarono a perdersi fra le travi dipinte del soffitto.
— Le otto, mamma — rispose Hulda.
— Non credo che durante la notte arrivino dei
viaggiatori; il tempo è troppo cattivo.
— Non verrà nessuno. In ogni caso le camere sono
pronte, e se mi chiamano da fuori sentirò perfettamente.
— Tuo fratello è ritornato?
— Non ancora.
— Non ha detto che sarebbe ritornato oggi?
— No, mamma. Joël ha condotto un viaggiatore al lago
Tinn, ed essendo partito molto tardi, non credo che possa
ritornare a Dal prima di domani.
— Dormirà quindi a Mœl?
— Certamente, a meno che non vada a Bamble a far
visita al fattore Helmboë…
— E a sua figlia?
— Sì, Siegfrid, la mia migliore amica, che io amo come
una sorella! — rispose sorridendo la fanciulla.
— Ebbene, chiudi la porta, Hulda, e andiamo a dormire.
— Vi sentite male, mamma?
— No, ma domani dovrei alzarmi di buon'ora. Bisogna
che vada a Mœl…
— Per qual motivo?
— Eh! Non dobbiamo rinnovare le nostre provviste per
la nuova stagione?
— Il vetturale di Christiania 1 è dunque giunto a Mœl col
solito carico di vini e di commestibili?
— Sì, Hulda, è arrivato dopo mezzogiorno — rispose
mamma Hansen.
— Lengling, il vice direttore della segheria, l'ha
incontrato e passando mi ha avvertito. Della nostra
provvista di prosciutto e di salmone affumicato non ce n'è
più gran che, ed io non voglio rischiare di essere presa alla
sprovvista. Da un giorno all'altro, specialmente se il tempo
migliora, i turisti possono ricominciare le loro escursioni
nel Telemark. Il nostro albergo dev'essere in condizione di
poterli ricevere, e durante il loro soggiorno debbono
trovarvi tutto quello di cui possono aver bisogno. Non sai,
Hulda, che siamo già al 15 aprile?
— Al 15 aprile! — mormorò la fanciulla.
— Dunque, domani — rispose mamma Hansen — mi
occuperò di questa faccenda. In due ore, avrò fatto i miei
acquisti, che il vetturale porterà qui, ed io ritornerò con
Joël in carrettella.
— Mamma, se per caso incontraste il postino, non
dimenticate di chiedergli se ha qualche lettera per noi…
— E specialmente per te! È più che possibile, giacché
Ole non ti scrive da un mese.
— Proprio così! da un mese!… un lungo mese!
— Non preoccuparti, Hulda! Questo ritardo non ci deve
per nulla sorprendere. E poi, se il postino di Mœl non ci
porta nulla, la lettera che non è venuta da Christiania non
potrebbe arrivare da Bergen?
— Senza dubbio, mamma — rispose Hulda; — ma che
1
Venne chiamata così, dal 1624 al 1924, la città di Oslo (Norvegia). (N.d.T.)
volete? Se ho il cuore stretto è perché penso che questi
banchi di Terranova son tanto lontani! C'è tutto il mare da
attraversare, e per di più durante la brutta stagione. È quasi
un anno che il nostro povero Ole è partito, e chi può dire
quando tornerà a trovarci a Dal?…
— E se noi ci saremo al suo ritorno! — mormorò
madama Hansen, ma con voce così bassa, che sua figlia
non poté sentirla.
Hulda andò a chiudere la porta dell'albergo, che s'apriva
sulla strada di Vestfjorddal. Non si curò nemmeno di girare
la chiave nella toppa.
In quell'ospitale paese di Norvegia, queste precauzioni
non sono necessarie; anzi è uso che qualsiasi viaggiatore
possa entrare di giorno e di notte nella casa senza che
occorra aprirgli.
Non c'è motivo di temere la visita di vagabondi o di
malviventi neppure nei villaggi e nei casolari più fuori di
mano.
Nessun attentato contro la gente o contro le loro
proprietà ha mai turbato la sicurezza degli abitanti.
Madre e figlia abitavano due camere del primo piano
verso la strada - due camere fresche e pulite, modestamente
ammobiliate, è vero, ma tenute in modo da far riconoscere
il tocco di una brava massaia.
Al piano di sopra, sotto il tetto, sporgente come quello di
uno chalet, c'era la camera di Joël, illuminata da una
finestra, incorniciata in un telaio d'abete intagliato con
gusto.
Di là lo sguardo dopo aver spaziato per un vasto
orizzonte di montagna poteva spingersi fino al fondo della
stretta valle, ove rumoreggiava il Maan, metà torrente,
metà fiume. Una scala in legno, dai gradini lucidi, dalle
robuste colonnette, metteva dalla gran sala del pian terreno
ai piani superiori.
Niente di più attraente dell'aspetto di quella casa, dove il
viaggiatore si trovava così comodo come raramente
accadeva negli alberghi della Norvegia.
Hulda e sua madre abitavano dunque al primo piano; e
quando erano sole, si ritiravano presto. Anche ora mamma
Hansen, tenendo in mano un candeliere di vetro
multicolore, saliva già i primi gradini della scala, ma
improvvisamente si arrestò.
Bussavano. S'udiva una voce al di fuori.
— Eh! mamma Hansen! mamma Hansen!
Madama Hansen ridiscese.
— Chi può essere a quest'ora? — disse.
— È forse successa una disgrazia a Joël? — soggiunse
Hulda con ansia. Lesta si avviò verso la porta.
C'era là un ragazzotto — uno di quei monelli che fanno
il mestiere di skidskarl, mestiere che consiste nel salire
dietro le carrettelle per ricondurre il cavallo alla posta
quando la tappa è finita. Egli era venuto a piedi e stava
tutto impettito sulla soglia.
— Eh! Che cosa vuoi a quest'ora? — disse Hulda.
— Dapprima augurarvi la buona sera — rispose il
ragazzotto.
— È tutto qui?
— No, non è tutto, ma non si comincia con l'essere
educato?
— Va bene! Ma, dimmi adesso: chi ti manda?
— Vengo da parte di vostro fratello Joël.
— Joël?… E perché? — soggiunse madama Hansen.
E s'avanzò verso la porta, col passo lento e misurato
proprio degli abitanti della Norvegia. Che ci sia
dell'argento vivo nel loro sottosuolo, è vero! ma nelle loro
vene non ce n'è affatto o ce n'è pochissimo.
Tuttavia questa risposta aveva evidentemente turbato la
madre, giacché ella si affrettò a soggiungere:
— È forse accaduto qualche cosa a mio figlio?
— Sì!… È arrivata una lettera che il corriere di
Christiania ha portato da Drammen…
— Una lettera che viene da Drammen? — disse
vivamente mamma Hansen abbassando la voce.
— Non lo so — rispose il giovanotto. — Quello che
posso dirvi è che Joël non può ritornare prima di domani, e
che egli mi ha mandato per portarvi questa lettera.
— È dunque urgente?
— Pare di sì.
— Dammela — disse l'albergatrice con un tono di voce
che rivelava una grande inquietudine.
— Eccola, pulitissima e per niente sciupata: solo che
questa lettera non è per voi.
Mamma Hansen sembrò respirare più liberamente.
— E per chi è dunque?
— Per vostra figlia.
— Per me! — disse Hulda. — È una lettera di Ole, ne
sono sicura. Una lettera che viene da Christiania! Mio
fratello non ha voluto ritardarmi il piacere di riceverla.
Hulda aveva preso la lettera e, avvicinatasi al candeliere
che era stato deposto sulla tavola, ne guardava l'indirizzo.
— Sì!… È lui!… È proprio lui!… Contenesse almeno
l'annuncio che il Viken sta per ritornare!
Intanto l'albergatrice diceva al ragazzotto:
— Non entri?
— Un minuto appena. Devo ritornare questa sera a casa,
giacché sono impegnato domani mattina con una
carrettella.
— Ebbene, t'incarico di dire a Joël che ho intenzione di
raggiungerlo. Che mi aspetti.
— Domani sera?
— No, nella mattinata. Che non lasci Mœl senza prima
avermi vista. Torneremo insieme a Dal.
— Siamo intesi, madama Hansen.
— Bene. Una goccia di acquavite?
— Con piacere.
Il ragazzo s'avvicinò al tavolo e l'albergatrice gli
presentò un po' di quella riconfortante acquavite, ottima
difesa contro l'umido della sera. Egli vuotò il bicchiere d'un
sorso; poi:
— God aften! — disse.
— God aften, ragazzo mio!
È la buona sera dei norvegesi.
Semplicemente quelle parole, neppure un movimento del
capo. E il ragazzo parti, per nulla preoccupato della strada
che doveva ancora percorrere. Egli scomparve rapidamente
lungo il sentiero alberato che fiancheggia il torrente.
Intanto Hulda continuava a guardare la lettera e non si
decideva ad aprirla. E pensare che quella sottile busta di
carta aveva dovuto attraversare l'oceano per giungere sino a
lei, quel mare sconfinato nel quale si perdono le acque dei
fiumi della Norvegia occidentale. Ella ne osservava i timbri
diversi. Spedita il 15 marzo quella lettera giungeva a Dal
solo il 15 aprile. Come! Era già un mese che Ole l'aveva
scritta! Quante cose potevano essere accadute, nello spazio
di un mese, nei paraggi del New-Found-Land - nome che
gli inglesi hanno dato all'isola di Terranova! Non si era
ancora nella stagione invernale, nell'epoca pericolosa degli
equinozi? Quei posti di pesca non sono forse i peggiori a
causa delle terribili bufere di vento che, attraverso le
pianure del Nord-America, soffiano dal polo? Quello del
pescatore, il mestiere di Ole, è un mestiere duro e
pericoloso. E se Ole lo faceva era proprio per amor suo,
della sua fidanzata che al ritorno doveva sposare! Povero
Ole! Che diceva in quella lettera? Certamente le diceva di
amarla sempre come Hulda avrebbe sempre amato lui, le
diceva che erano vicini col pensiero, ad onta della distanza,
e che avrebbe voluto che fosse già il giorno del suo arrivo a
Dal!
Sì! Diceva certamente tutto questo, Hulda n'era sicura.
Ma forse aggiungeva anche che il suo ritorno era vicino,
che la spedizione di pesca, che costringe i marinai di
Bergen ad allontanarsi tanto dalla loro terra, s'avvicinava
alla fine.
Forse Ole dava notizia che il Viken stava caricando il
pesce, che si disponeva a far vela, che gli ultimi giorni di
aprile non sarebbero passati senza che loro due si fossero
riuniti in quella felice casa del Vestfjorddal? Forse infine,
scriveva che si poteva già stabilire il giorno in cui il pastore
sarebbe venuto da Mœl per celebrare il loro matrimonio
nella modesta cappella di legno il cui campanile emergeva
da una folta macchia di alberi, a poche centinaia di passi
dalla locanda di madama Hansen?
Per saperlo, bastava soltanto rompere il sigillo della
busta, estrarne la lettera, leggerla, sia pure attraverso le
lacrime di dolore o di gioia che il suo contenuto poteva
provocare negli occhi di Hulda. E, senza dubbio, più d'una
impaziente figlia del sud, della Dalecarlia, della Danimarca
o dell'Olanda, avrebbe già letto ciò che la giovane
norvegese non leggeva ancora! Ma Hulda sognava, e i
sogni finiscono solo quando piace a Dio. E si rimpiangono
tanto più spesso, quanto più la realtà ci disillude.
— Figlia mia! — disse l'albergatrice — quella lettera
che tuo fratello ti ha inviato, è proprio di Ole?
— Sì, riconosco la sua scrittura.
— Ebbene, aspetterai fino a domani a leggerla?
Hulda guardò un'ultima volta la busta. Poi, dopo aver
tolto senza troppa fretta il sigillo, ne trasse una lettera
scritta con cura e lesse quanto segue:
«Saint-Pierre-Miquelon, 15 marzo 1862.
«Cara Hulda.
«Apprenderai certo con piacere che le nostre operazioni di
pesca prosperano e che saranno terminate fra pochi giorni. Sì! ci
avviciniamo alla fine della campagna! Dopo un anno di assenza,
quanto sarò felice di ritornare a Dal, e di ritrovarci la sola
famiglia che mi resta e che è la tua!
«La mia parte di guadagno è considerevole. Servirà per
mettere su una casa. I Fratelli Help, nostri armatori a Bergen,
sono avvisati che il Viken sarà probabilmente di ritorno tra il 15 e
il 20 maggio. Tu puoi quindi aspettarmi per quell'epoca, cioè fra
poche settimane.
«Cara Hulda, voglio trovarti ancora più bella di quando ti ho
lasciata, e in buona salute come pure tua madre e quel coraggioso
e bravo compagno, mio cugino Joël, tuo fratello, che già
considero mio parente.
«Quando riceverai questa lettera, presenta i miei rispetti a
mamma Hansen che vedo, da qui, nel suo seggiolone di legno,
accanto alla vecchia stufa, nella gran sala. Dille che l'amo due
volte, anzitutto perché è tua madre, e poi perché è mia zia.
«Vi prego di non disturbarvi per venirmi incontro a Bergen.
«Può darsi che il Viken arrivi anche prima di quanto io
immagini.
«Comunque, ventiquattro ore dopo il mio sbarco, cara Hulda,
sta' pur certa che mi troverò a Dal. Ma non essere sorpresa se
giungessi prima.
«Abbiamo sofferto molto per il maltempo, questo inverno: è
stato il peggiore che i nostri marinai ricordino. Per fortuna, di
merluzzo al gran banco se n'è pescato molto. Il Viken ne trasporta
circa cinquemila quintali, che devono essere consegnati a Bergen,
già venduti per cura dei Fratelli Help.
«Insomma per quel che riguarda l'interesse della famiglia, si
può dire che siamo riusciti, e i guadagni saranno considerevoli
per me, che ora ho diritto a una parte intera.
«E poi, se non porto a casa la fortuna, ho l'idea, o piuttosto il
presentimento, che essa debba attendermi al ritorno! Sì! la
fortuna… Senza contare la felicità! Come?… È il mio segreto, e
mi perdonerai, cara Hulda, di tenerti qualche segreto. Ma è
l'unico! E poi te lo dirò… Quando?… Al momento opportuno prima del nostro matrimonio, se dovesse venire ritardato per
qualche circostanza imprevista - dopo, se ritorno per l'epoca
prefissa, e se nella settimana successiva al mio ritorno a Dal, tu
sarai divenuta mia moglie secondo i miei desideri.
«Ti abbraccio, cara Hulda. Ti prego di abbracciare per me
mamma Hansen e il cugino Joël. Bacio anche te in fronte, intorno
alla quale la splendida corona nuziale del Telemark deve brillare
come un'aureola di santa. Ancora una volta, addio, cara Hulda,
addio!
«Il tuo fidanzato OLE KAMP».
CAPITOLO II
DAL: PAESINO fatto di poche case soltanto, disposte
alcune lungo una strada che, per meglio dire, è un sentiero,
altre nelle vicinanze. Esse hanno la facciata rivolta verso la
stretta valle del Vestfjorddal, e il retro verso le colline
settentrionali, alle cui falde scorre il Maan.
L'insieme delle costruzioni formerebbe uno di quei
gaard tanto comuni nel paese, se fosse sotto la direzione di
un solo proprietario o di un solo fattore.
Se non possiamo dare a quel gruppo di case il nome di
borgo, possiamo però chiamarlo villaggio. Poco lontano,
tra il fogliame degli alberi, si innalza, tutto in legno, il
campanile a quattro facciate di una piccola cappella
costruita nel 1855, nella cui abside si aprono due strette
finestre con vetrate.
Qua e là, sopra i ruscelli che vanno verso il fiume, sono
gettati dei ponticelli, coperti d'edera e di muschio. Giunge
da una certa distanza lo stridio di una o due rudimentali
segherie, mosse dai torrenti, con una semplice ruota per
muovere la sega, e una ruota per muovere la trave o il
pancone.
Ad una certa distanza, cappella, segherie, case, capanne,
tutto sembra avvolto in una ovattata nebbiolina campestre,
più scura tra i pini, più chiara tra le betulle, che gli alberi
disegnano, isolati o a gruppi, dalle rive sinuose del Maan
sino alla cima delle alte montagne del Telemark.
Questo è il villaggio di Dal, fresco e ridente, con le sue
pittoresche abitazioni dipinte esternamente, alcune con
colori delicati - verde chiaro o rosa pallido - altre con
colori violenti - giallo sgargiante o sangue di bue. I tetti di
corteccia di betulla, ricoperta da un'erbetta verde che si
taglia in autunno, sono abbelliti da fiori naturali.
Tutto ciò è delizioso, e si trova nel più grazioso paese
del mondo. Per finire, Dal è nel Telemark, il Telemark è in
Norvegia, e la Norvegia è una specie di Svizzera con molte
migliaia di fiordi, grazie ai quali il mare può rumoreggiare
alle falde delle montagne.
Il Telemark è compreso in quella parte rigonfia
dell'enorme storta che la Norvegia raffigura, tra Bergen e
Christiania. Quel cantone - che dipende dalla prefettura di
Batsberg — ha montagne e ghiacciai come la Svizzera, ma
non è la Svizzera. Ha cascate grandiose come il NordAmerica, ma non è l'America. Ha villaggi con case dipinte
e sciami di abitanti, che vestono ancora con mode di tempi
passati, come certi borghi dell'Olanda, ma non è l'Olanda.
Il Telemark è qualcosa di meglio di tutti questi paesi, è il
Telemark, contrada forse unica al mondo per le bellezze
naturali che comprende.
L'autore ha avuto il piacere di visitarlo, l'ha percorso in
carretta quando se ne trovavano — con cavalli presi alle
stazioni di posta - e ne ha riportato un'impressione
incantevole e piena di poesia, e così fresca ancora nel
ricordo, che vorrebbe poter riempire di essa questo
semplice racconto.
Al tempo in cui si svolge questa storia - nel 1862 - la
Norvegia non era ancora attraversata dalla ferrovia che ora
abbrevia la distanza fra Stoccolma e Drontheim passando
per Christiania. Ora, un'estesa rete ferroviaria copre la
distanza fra i due paesi scandinavi, per nulla inclini a
vivere di una vita comune. Chiuso nei vagoni di questa
ferrovia, il viaggiatore si sposta certamente in modo più
celere che non in carretta, ma non gode nulla dell'originale
bellezza delle strade di una volta. Perde la traversata della
Svezia meridionale che prima si soleva fare percorrendo il
curioso canale di Gotha, i cui battelli a vapore, che si
innalzano da una chiusa all'altra, si arrampicano fino a
trecento piedi di altezza.
Infine, il viaggiatore di oggi non si ferma neanche alle
cascate di Trolletann, né a Drammen, a Kongsberg, e
davanti a tutte le bellezze del Telemark.
A quel tempo, la ferrovia non era che un progetto.
Dovevano trascorrere ancora circa vent'anni prima di poter
attraversare il reame scandinavo da un litorale all'altro - in
quaranta ore - e andare a Capo Nord con un biglietto di
andata e ritorno per lo Spitzberg.
Per l'appunto, Dal era a quel tempo - e speriamo che
possa esserlo a lungo - il luogo di ritrovo per turisti
stranieri e indigeni, e questi ultimi, per la maggior parte,
studenti di Christiania. Da quel luogo potevano spargersi in
tutto il Telemark e l'Hardanger, risalire la valle dal
Vestfjorddal tra il lago Mjös e il lago Tinn, e giungere fino
alle meravigliose cateratte di Rjukan. Per dire il vero, in
quel villaggio c'era appena un albergo; ma era il più
attraente, il più comodo che si potesse immaginare; e,
oltretutto, il più rinomato, poiché metteva quattro camere a
disposizione dei viaggiatori. Non occorre dirlo, era
l'albergo di mamma Hansen.
Alcune panche circondano le pareti rosa separate dal
suolo da un robusto zoccolo di granito. Le travi e le tavole
di abete dei suoi muri hanno acquistato col tempo una
durezza tale che anche l'acciaio di una scure vi si
smusserebbe. Fra queste appena squadrate, disposte
orizzontalmente le une sulle altre, un intonaco di muschio
mescolato a creta forma dei cuscinetti stagni che
impediscono perfino alla più violenta pioggia invernale di
penetrarvi. Il soffitto delle camere a travicelli è dipinto a
colori rossi e neri, che contrastano vivamente con le tinte
dolci e allegre delle pareti. In un angolo della gran sala la
stufa circolare manda il suo tubo a celarsi nel camino della
cucina. Qui l'orologio a muro fa camminare su un largo
quadrante di smalto le lancette lavorate minuziosamente e
batte, di secondo in secondo, un sonoro tic-tac. Là, ecco la
vecchia panciuta scrivania con modanature scure, accanto
ad un tripode massiccio, color ferro. Sopra un palchetto si
vede il candeliere in terracotta, che (capovolto) diventa
candelabro a tre braccia. I migliori mobili della casa si
trovano in questa sala: la tavola in radice di betulla, dalle
gambe grosse; l'armadio dai battenti istoriati ove si
ripongono le vesti di gala; la grande poltrona dura come lo
stallo di una chiesa; le sedie di legno dipinte a vivaci
colori; l'arcolaio rustico ingentilito con tinte verdi che
contrastano vivamente con la sottana rossa delle filatrici.
Poi, in vari posti, il vaso per conservare il burro, il rullo
che serve per comprimerlo, la scatola del tabacco e la
grattugia in osso scolpito. Per ultimo, al disopra della porta
che mette in cucina, una grande mensola espone una fila di
utensili di rame e di stagno: piatti e tegami di lucido
smalto, di maiolica o di legno; la piccola mola da arrotino
seminascosta nel suo astuccio verniciato; il portauovo
antico e solenne che potrebbe servire da calice. E quelle
allegre pareti tappezzate con arazzi di panno che
rappresentano scene della Bibbia, rese vivaci da tutti i
colori della fabbrica d'immagini d'Épinal. Le camere dei
viaggiatori, pur essendo più semplici, tuttavia non sono,
per questo, meno comode, con quei pochi mobili così puliti
e in ordine che viene spontaneo servirsene, il fresco
fogliame che, simile a una cortina, pende dal tetto ricoperto
di zolle erbose; il largo letto con le lenzuola candide e le
tappezzerie con versetti biblici stampati in giallo sul fondo
rosso.
Non bisogna dimenticare che l'impiantito della sala
principale, delle camere a pianterreno e del primo piano è
cosparso di rami di betulla, abete e ginepro le cui foglie
riempiono la casa di deliziosi profumi.
È possibile figurarsi un alberghetto più grazioso in Italia
o una più seducente fonda in Spagna? No, di certo! E
l'affluenza dei viaggiatori inglesi non ne aveva ancora
elevati i prezzi, come in Svizzera, almeno a quel tempo. A
Dal non si può spendere la lira sterlina o il pound d'oro, che
la borsa del viaggiatore, del resto, non contiene quasi mai;
tutt'al più ha corso lo species d'argento che vale un po' più
di cinque franchi e le sue frazioni, il mark, che vale un
franco, e lo skilling di rame che sarà bene non confondere
con lo scellino britannico, giacché vale appena un soldo
francese. E non si possono nemmeno far circolare le
pretenziose banconote di cui il turista si era servito,
abusandone anche, nel Telemark. Non si vedono girare che
i biglietti di piccolo taglio: quelli da una species che è
bianco, quelli da cinque azzurri, quelli da dieci gialli, quelli
da cinquanta verdi, e quelli da cento rossi: non ne mancano
che due per fare tutti i colori dell'arcobaleno! Inoltre - cosa
veramente importante in questa casa ospitale — non si sta
male in fatto di cucina, pregio raro che non si riscontra
facilmente nella maggior parte degli alberghi del paese. In
effetti il Telemark giustifica abbastanza il suo soprannome
di «paese del latte rappreso». Al fondo di quelle gole di
Tiness, di Listhüs, di Tinoset e di molte altre, di pane non
se ne trova, o si trova così cattivo che è meglio non
pensarvi. Appena una galletta di avena, il flatbrod, secco,
nerastro, duro come il cartone, o tutt'al più una ciambella
grossolana fatta di midollo di corteccia di betulla mescolato
al lichene o alla paglia. Qualche volta si trovano delle
uova, solo quando le galline ne hanno deposte otto giorni
prima. Ma si trova in abbondanza birra di seconda qualità,
del latte rappreso, dolce o acido, e qualche volta un po' di
caffè, così denso che sembra piuttosto fuliggine distillata,
che non il prodotto di Moka, dell'isola Bourbon e di RioNunez.
Da mamma Hansen, invece, la cantina e la dispensa sono
bene fornite.
Che occorre di più ai viaggiatori anche più esigenti?
Salmone cotto, salato o affumicato, salmoni di lago che
non hanno mai conosciuto le acque salate, pesci dei fiumi
del Telemark, volatili né troppo duri né troppo magri, uova
in tutte le salse, panini fini di segala e d'orzo, frutta, e
specialmente delle fragole, pane nero, ma di eccellente
qualità, birra e vecchie bottiglie di vino di Saint-Julien, che
fa conoscere fino in quei lontani paraggi la rinomanza dei
vigneti francesi.
Per conseguenza, in tutto il Nord-Europa l'albergo di Dal
gode di un'ottima reputazione.
Del resto, possiamo accertarcene scorrendo il libro dalle
pagine ingiallite sul quale i viaggiatori segnano volentieri,
accanto al proprio nome, qualche complimento dedicato a
mamma Hansen. La maggior parte di loro sono svedesi e
norvegesi venuti dai punti più lontani della Scandinavia.
Però gli inglesi vi figurano in bel numero; e uno di essi,
per aver dovuto attendere un'ora prima che la sommità del
Gusta si spogliasse dei vapori mattutini, ha scritto, da buon
inglese, sopra una di quelle interessanti pagine:
Patientia omnia vincit.
Figurano pure dei nomi francesi, di cui uno, che è
meglio non nominare, si è permesso di scrivere: «Possiamo
solo ringraziare dell'accoglienza che ci è stata "fatto" in
questo albergo». Poco importa, dopo tutto, l'errore di
grammatica! Se le parole mostrano più riconoscenza che
non una buona conoscenza del francese, non per questo
rendono minor omaggio a mamma Hansen e a sua figlia, la
gentile Hulda di Vestfjorddal.
CAPITOLO III
SENZA ESSERE troppo versati negli studi etnografici, si
può credere con alcuni scienziati che esista una certa
parentela tra le nobili famiglie dell'aristocrazia inglese e le
antiche famiglie del regno scandinavo. Se ne ha più di una
prova nei nomi di molti antenati che sono identici nei due
paesi.
Eppure non esiste aristocrazia in Norvegia. Ma anche se
vi domina la democrazia, questo non le impedisce di essere
uno dei paesi più aristocratici del mondo. Tutti sono
considerati uguali ai nobili, piuttosto che essere al
contrario. Persino nelle più umili capanne si tiene ancora
l'albero genealogico, che non è isterilito, quantunque
radicato in terra plebea. E figurano pure gli stemmi delle
famiglie nobili di epoche feudali, da cui discendono quei
poveri contadini.
Ciò vale anche per gli Hansen di Dal, parenti, secondo
un grado naturalmente molto lontano, di quei pari
d'Inghilterra, che hanno ottenuto tale carica all'epoca
dell'invasione di Rollone di Normandia. E se non ne
posseggono più la posizione e la ricchezza, ne conservano
almeno la primitiva fierezza, o piuttosto la dignità, che è al
suo posto in tutte le condizioni sociali.
La cosa, del resto, non ha importanza! Quantunque
vantasse degli antenati di nascita molto elevata, Harald
Hansen aveva fatto l'albergatore a Dal. La casa gli era stata
lasciata dal padre e dal nonno, dei quali rammentava con
orgoglio la posizione in paese. Quando egli morì, sua
moglie continuò a esercitare questa professione e ci riuscì
così bene che poté guadagnare la stima di tutti.
Harald aveva fatto buoni affari? Non si sa. Tuttavia gli
era stato possibile allevare il figlio Joël e la figlia Hulda,
senza far sopportare loro la minima privazione. Ed anche
un figlio di una sorella di sua moglie, Ole Kamp, rimasto
orfano, si trovò affidato alle sue cure ed egli lo allevò
trattandolo come un suo figliolo. Senza l'amore dello zio
Harald, quell'orfanello sarebbe stato certamente uno di quei
poveri bambini che vengono al mondo per lasciarlo dopo
breve tempo. Del resto, Ole Kamp mostrò per i suoi
genitori adottivi la più viva riconoscenza filiale. I legami
da lui contratti con la famiglia Hansen erano indissolubili e
il suo matrimonio con Hulda doveva rafforzarli più che mai
e per tutta la vita.
Harald era morto, pressappoco diciotto mesi prima. Oltre
l'albergo di Dal, aveva lasciato alla vedova un piccolo
sceter, posto in montagna. Il sceter è una specie di masseria
isolata, che produce assai poco, e talora niente. Le ultime
stagioni non erano state buone. Tutte le colture avevano
sofferto, anche i pascoli. C'erano state di quelle «notti di
ferro», come dicono in Norvegia, notti di tramontana e di
ghiaccio, che disseccano ogni germe fino negli strati più
profondi della terra. Ciò provocò la rovina dei contadini del
Telemark e dell'Hardanger.
Tuttavia se mamma Hansen valutava esattamente la sua
situazione, non aveva mai detto parola in proposito ad
anima viva, nemmeno ai suoi figli. Ella era poco
comunicativa di carattere, fredda e taciturna, cosa che
faceva visibilmente soffrire Hulda e Joël. Ma, per quel
senso di rispetto al capo famiglia che è come innato nei
paesi del nord, essi non avevano osato mostrare questo
dispiacere, tenendosi chiusi in un riserbo che faceva loro
male. D'altronde, mamma Hansen non si consigliava con
alcuno, essendo più che persuasa della superiorità del suo
giudizio, ed anche in questo si mostrava tipicamente
norvegese.
Ella aveva allora cinquant'anni. Il tempo aveva
incanutito i suoi capelli, ma non aveva incurvato la sua
bella persona, né scemato la vivacità degli occhi di un
azzurro cupo, colore che si ritrovava identico negli occhi
della figlia. Soltanto la sua pelle aveva preso il colore
giallastro di una vecchia carta da bollo e qualche ruga
cominciava a solcare la sua fronte.
«Madama», come si dice nei paesi scandinavi, portava
invariabilmente una gonna nera a grosse pieghe, in segno
di lutto, che ella non aveva più smesso dal giorno della
morte del marito. Dalle imboccature del corsetto scuro
uscivano le maniche di una camicia di grossolano cotone.
Uno scialle di colore scuro le si incrociava sul petto,
coprendo la pettorina del grembiule allacciato dietro con
grossi fermagli. Portava sempre un pesante berretto di seta,
specie di cuffia che sta per scomparire dalla moda dei
nostri giorni.
Seduta, impettita, nel seggiolone di legno, la grave
ostessa di Dal non lasciava l'arcolaio che per fumare una
pipetta di scorza di betulla, che formava, attorno a lei, una
piccola nuvola di fumo.
Per dire il vero, la casa non sarebbe stata molto allegra
se fosse mancata la presenza dei due ragazzi!
Un bravo ragazzo quel Joël Hansen! Venticinque anni,
ben formato, di alta statura, come i montanari norvegesi,
una certa fierezza priva di millanteria, l'atteggiamento
ardito, non temerario. Egli era di un biondo quasi castano,
con due occhi d'un azzurro scurissimo. Il vestito faceva
spiccare le poderose spalle che non si curvavano
facilmente, il petto così largo che, dentro, potevano
respirarvi a proprio agio dei polmoni degni di una guida
alpina; braccia vigorose, gambe avvezze alle più ardue
salite. Nella tenuta solita si sarebbe detto un cavaliere. La
sua giacchetta azzurra, con spalline, stretta in vita, si
incrociava sul petto per mezzo di due lunghe strisce
verticali ed era abbellita sulla schiena con disegni colorati,
simile a talune vesti celtiche della Bretagna. Il colletto
della camicia s'allargava come un imbuto. I suoi calzoni
gialli erano legati sotto il ginocchio con giarrettiere a
fibbia. Teneva in capo un cappello bruno a larghe falde con
nastro nero e bordi rossi, un po' inclinato da una parte. Alle
sue gambe aderivano delle ghette di bigello o stivali dalle
grosse suole, con tacchi bassi, e il collo del piede mal si
disegnava sotto le pieghe del cuoio, come negli stivali di
mare.
Il suo mestiere era quello di guida nel Telemark, e anche
per le montagne dell'Hardanger. Sempre pronto a partire,
sempre infaticabile, meritava d'essere paragonato a
quell'eroe norvegese, Rollone-il-Camminatore, celebre
nelle leggende del paese. Tra un'ascensione e l'altra,
accompagnava i cacciatori inglesi, che vengono volentieri a
dar la caccia al riper, uccello più grosso del ptarmigan
delle isole Ebridi, e al jerper, pernice più delicata del grous
di Scozia. D'inverno, bisognava dedicarsi alla caccia del
lupo, poiché durante la cattiva stagione, quei carnivori,
spinti dalla fame, scendono sulla superficie dei laghi gelati.
Poi, nell'estate, bisognava dare la caccia all'orso,
quand'esso, seguito dai suoi piccoli, scendeva in cerca di
pascoli; spesso si doveva inseguirlo fin su altipiani di mille,
milleduecento piedi. Più volte, Joël aveva rischiato la vita
fra le strette di quegli animali, ma il sangue freddo e la
forza prodigiosa gli avevano permesso di trionfare d'ogni
pericolo.
Quando poi non c'erano né viaggiatori da condurre nella
vallata di Vestfjorddal, né cacciatori da guidare sulle vette,
Joël s'occupava della masseria, situata ad alcune miglia nel
cuore della montagna. Lassù, a servizio di mamma Hansen,
un giovane mandriano era occupato a custodire una mezza
dozzina di mucche e una trentina di pecore, giacché quel
sceter era circondato solo da pascoli: nemmeno un
campicello coltivato.
Joël era cortese e servizievole per natura. Conosciuto in
tutti i villaggi del Telemark, era amato da tutti. Ma c'erano
tre creature per le quali egli provava un affetto senza limiti:
sua madre, sua sorella Hulda e suo cugino Ole.
Quando Ole Kamp lasciò Dal per imbarcarsi ancora una
volta, quanto si dolse Joël di non poter dare lui una dote a
Hulda per risparmiarle il dolore di quella partenza! Certo
s'egli fosse stato abituato alla vita di mare, non avrebbe
esitato un istante a partire invece di suo cugino. Ma
occorreva un po' di danaro per il sorgere di una nuova
famiglia. Joël capì che mamma Hansen, che non aveva
voluto ancora impegnarsi, non poteva per nulla aiutare la
figliuola in simile circostanza. Ole aveva dovuto andarsene
lontano, al di là dell'Atlantico. Joël lo aveva accompagnato
sino all'ultimo limite della loro vallata, sulla strada di
Bergen. Dopo un lungo abbraccio, gli aveva augurato il
buon viaggio e felice ritorno, ed era subito tornato a casa,
per consolare la sorella che amava con un amore fraterno e
paterno al tempo stesso.
Allora Hulda aveva diciotto anni. Non era la piga, così si
chiama la domestica negli alberghi della Norvegia, ma
piuttosto la froken, la miss degli inglesi: la «madamigella»
come sua madre era la «madama» di quella casa. Che
grazioso visino il suo! Lo incorniciavano i capelli biondi
un po' dorati, sotto una leggera cuffia di mussola, aperta di
dietro per lasciarne uscir fuori le lunghe trecce! Era proprio
una bella figuretta messa in risalto dal corpetto di stoffa
rossa a righe verdi, attillato, semiaperto sul petto, guarnito
di ricami multicolori; sotto di esso una bianca camicetta, le
cui maniche si stringevano ai polsi con piccoli nastri. E che
grazioso vitino, sotto il cinturone rosso con fibbie d'argento
filigranato, che serviva a trattenere la gonna di color
verdastro ricoperta in parte da un grembiule a strisce
multicolori e sotto il quale comparivano le calze bianche,
chiuse nelle tipiche, eleganti scarpine appuntite del
Telemark.
Sì! la fidanzata di Ole era incantevole con quella
espressione leggermente melanconica e insieme sorridente
che si trova spesso nella gente del nord. Al vederla, si
pensava volentieri a quell'Hulda la Bionda, di cui portava il
nome, fata felice che si aggira intorno al focolare
domestico, come vuole la mitologia scandinava.
La riservatezza di figlia saggia e modesta non scemava
per nulla la grazia nel ricevere gli ospiti di un giorno che si
fermavano all'albergo di Dal. Nessun turista lo ignorava.
Non costituiva già un motivo di attrattiva il pensiero di
poter scambiare con Hulda lo shakehand, quella cordiale
stretta di mano che si dà a tutti e a tutte?
E, dopo averle detto: — Grazie per il pasto, Tack for
mad! — era pur bello udirsi rivolgere da quella voce fresca
e sonora: — Possa farvi bene, Wed bekomme!
CAPITOLO IV
OLE KAMP era partito da un anno, ed era stata una
faticosa spedizione, quella campagna d'inverno nei paraggi
di New-Found-Land, come egli stesso diceva nella sua
lettera. Il danaro che vi si guadagna, quando se ne
guadagna, è proprio ben guadagnato. Soffiano laggiù dei
venti equinoziali che investono i bastimenti, a una certa
distanza dalle isole, e distruggono in poche ore una intera
flottiglia di pescatori. Ma il pesce si moltiplica
mirabilmente sui banchi di Terranova, e i pescatori, se la
stagione è propizia, trovano largo compenso alle fatiche
come ai pericoli di quel buco da tempeste.
E poi, i norvegesi sono buoni marinai. Non si tirano
indietro, al momento del bisogno. Le occasioni non sono
ad essi mai mancate per pigliar confidenza col furore
dell'Oceano, in mezzo ai fiordi della spiaggia, da
Christiansand al Capo Nord, tra gli scogli del Finmark,
attraverso gli stretti delle Lofoden!
Quando intraprendono la traversata dell'Atlantico
settentrionale per raggiungere le lontane peschiere di
Terranova, essi hanno già dato prova di coraggio. Le
tempeste contro cui si sono trovati a combattere lungo la
costa europea, durante l'infanzia e la giovinezza, li mettono
in grado di affrontarne coraggiosamente di peggiori sul
New-Found-Land. La burrasca si direbbe il loro elemento,
tanto ci sono avvezzi!
Hanno, del resto, una reputazione da sostenere. I loro
antenati furono intrepidi navigatori nel tempo in cui gli
Hansen si erano accaparrati il monopolio commerciale
nell'Europa settentrionale. Furono un pochino pirati, al
principio; ma allora la pirateria rientrava nel normale modo
di procedere. Non c'è dubbio che il commercio si è
moralizzato assai da quel tempo ad oggi, sebbene si sia
liberi di pensare che resti ancora qualcosa da fare.
Comunque sia, i norvegesi furono in ogni tempo audaci
navigatori, lo sono tuttora e lo saranno sempre in avvenire.
Ole Kamp non era uomo da smentire le promesse della sua
infanzia. Il suo apprendistato, la sua iniziazione a quelle
dure fatiche, vennero curati da un vecchio marinaio di
Bergen, che faceva il commercio di cabotaggio. Aveva
passato l'infanzia in quel porto, uno dei più frequentati del
regno scandinavo. Prima di slanciarsi in alto mare, era stato
uno svelto monello dei fiordi, un pescatore di quegli
innumerevoli pesci con cui si fa lo stock-fish; e nessuno
meglio di lui sapeva snidare nei più riposti nascondigli gli
uccelli acquatici.
Quando, più tardi, divenne mozzo, cominciò a viaggiare
sul Baltico, nel Mare del Nord, e si spinse nell'Oceano
Polare. Fece parecchi viaggi sulle grandi navi da pesca,
ottenne il grado di nostromo, che aveva appena ventun
anni; e adesso ne aveva ventitré.
Tra una spedizione e l'altra non mancava mai di ritornare
presso la famiglia, che amava teneramente, la sola che gli
restava al mondo.
E nel tempo che passava a Dal, era proprio un degno
compagno di Joël. Lo seguiva nelle sue corse, fra le
montagne, fin sulle cime più alte del Telemark. I field dopo
i fiordi! Le ascensioni piacevano tanto al giovane marinaio;
e non rimaneva mai a casa, a meno che non dovesse tener
compagnia alla cugina Hulda.
Una stretta amicizia si stabilì in breve fra Ole e Joël.
Come era da prevedersi, questo sentimento prese un'altra
forma per quanto riguardava la fanciulla! Pensate con
quanta felicità Joël avrebbe incoraggiato un simile
cambiamento! Ove sua sorella avrebbe potuto trovare in
tutta la provincia un miglior figliolo, un tipo più simpatico,
un carattere più devoto, un cuore più caldo? La felicità di
Hulda era proprio assicurata. La fanciulla poté quindi
lasciare che i suoi sentimenti seguissero la propria tendenza
istintiva, con la completa approvazione della madre e del
fratello.
La gente del nord non è molto espansiva, ma non per
questo bisogna giudicarla priva di sensibilità. Tutt'altro! È
la loro natura, e non è escluso che sia la migliore.
Finalmente, un giorno, trovandosi riuniti tutti e quattro
nella gran sala, Ole disse, senz'altri preamboli:
— Mi viene un'idea, Hulda!
— Quale? — rispose la fanciulla.
— Mi pare che ci dovremmo sposare!
— Pare anche a me.
— Sarebbe la miglior cosa — osservò mamma Hansen,
come si trattasse di un argomento già discusso molto tempo
addietro.
— In questo modo, Ole — aggiunse Joël — io diverrei
naturalmente tuo cognato.
— Certamente — rispose Ole; — ma credo che forse io
ti amerei di più…
— Sempre che sia una cosa possibile!
— Lo vedrai tu stesso!
— In fede mia, io non chiedo di meglio! — rispose Joël,
stringendo fortemente la mano di Ole.
— Dunque, è tutto inteso, Hulda? — chiese mamma
Hansen.
— Sì, mamma — rispose la fanciulla.
— Brava Hulda — aggiunse Ole. — È un pezzo che io ti
amo senza dirtelo!
— Anch'io, Ole!
— Come ciò sia accaduto, non lo so!
— Ed io neppure.
— Probabilmente, Hulda, vedendoti tutti i giorni più
bella e sempre più buona…
— Esageri un poco, mio caro Ole!
— Affatto, e posso ben dirtelo, senza farti arrossire: è la
verità! Ma voi non vi eravate accorta, mamma Hansen, che
io amavo Hulda?
— Un poco.
— E tu, Joël?
— Io?… molto!
— E perché — riprese Ole sorridendo — non mi avete
avvertito?
— Ma, quando sarai sposato, non ti rincrescerà anche
più di adesso viaggiare? — osservò mamma Hansen.
— Mi rincrescerà talmente che quando sarò sposato, non
viaggerò più!
— Non viaggerai più?…
— No, Hulda. Come potrei lasciarti, per molti mesi?
— Questo, dunque, è l'ultimo viaggio che fai.
— Certamente; ma questo viaggio, se avrò un po' di
fortuna, mi permetterà di mettere da parte un po' di danaro,
giacché i Fratelli Help mi hanno promesso di darmi parte
intera…
— Brave persone! — osservò Joël.
— Ottime persone, e molto conosciute, molto apprezzate
da tutti i marinai di Bergen.
— Caro Ole — chiese Hulda — se rinunci al mare, cosa
pensi di fare?
— Ebbene, diventerò il compagno di Joël. Ho delle
buone gambe, e diverranno anche migliori coll'esercizio. E
poi penso ad un affare, che forse non sarà cattivo. Non si
potrebbe stabilire un servizio di posta fra Drammen,
Kongsberg e i villaggi del Telemark? Le comunicazioni,
adesso, non sono né facili, né regolari e potrebbe esserci la
possibilità di guadagnare qualcosa. Insomma ho delle idee,
senza contare…
— Che cosa?
— Nulla, nulla! Parleremo di ciò al mio ritorno. Ma vi
avverto che sono disposto a fare di tutto per rendere Hulda
la donna più invidiata del paese. Sì! farò proprio di tutto.
— Sapessi come ciò sarà facile! — rispose Hulda
tendendogli la mano — non siamo già quasi felici adesso?
E come potrebbe, del resto, esservi una casa più felice della
nostra a Dal?
Mamma Hansen aveva volto altrove il capo.
— Allora — insisté Ole con voce allegra — la cosa è
combinata?
— Sicuro! — rispose Joël.
— E non avremo più bisogno di riparlarne?
— Assolutamente!
— Non avrai alcun rimpianto, Hulda?
— Affatto, mio caro Ole.
— Per fissare la data del matrimonio, è meglio aspettare
il tuo ritorno — aggiunse Joël.
— È vero, ma sarò davvero sfortunato se non potrò
essere di ritorno prima di un anno, per condurre Hulda alla
chiesa di Mœl, ove il nostro amico, il pastore Andresen,
sarà felice di dire per noi le più belle preghiere!
Ecco come era stato deciso il matrimonio di Hulda
Hansen e di Ole Kamp.
Otto giorni dopo, il giovane marinaio doveva
raggiungere la sua nave a Bergen. Ma, prima di lasciarsi, i
due innamorati s'erano già fidanzati, secondo il rito
commovente dei paesi scandinavi.
In questa semplice e virtuosa Norvegia, c'è l'uso, in
generale, di fidanzarsi prima di sposarsi. Talora il
matrimonio avviene solo due o tre anni dopo. Ciò ci
ricorda come usavano fare i cristiani al tempo delle prime
chiese. Ma non si creda che la cerimonia si riduca ad un
puro scambio di promesse, il cui valore dipende dalla
buona fede dei contraenti. L'impegno è più serio, e se non è
riconosciuto dalla legge, è riconosciuto dal costume, che
costituisce la legge morale di ogni paese.
Nel caso di Hulda e di Ole, si trattava dunque di
organizzare una cerimonia che sarebbe stata presieduta dal
pastore Andresen. A Dal non c'è il pastore, e nemmeno nei
villaggi vicini. In Norvegia, del resto, si possono trovare
alcune località che vengono chiamate «città domenicali»;
ivi sorge il presbiterio, il «proestegjelb». È là che si
riuniscono, per le più importanti solennità, le principali
famiglie della parrocchia. Esse hanno anche un alloggio,
nel quale vengono ad abitare per ventiquattro ore, il tempo
necessario per compiere i propri doveri religiosi; da qui si
torna indietro come da un pellegrinaggio. Dal, per dire il
vero, possiede una cappella, ma il pastore vi si reca a
richiesta e soltanto per cerimonie private.
Del resto, Mœl non è molto lontano: appena un mezzo
miglio, cioè circa dieci chilometri francesi, da Dal
all'estremità del lago Tinn. Il pastore Andresen è un buon
camminatore ed è persona molto cortese.
Egli fu dunque pregato di intervenire alla cerimonia del
fidanzamento, nella sua doppia veste di sacerdote e d'amico
della famiglia Hansen. Era una vecchia conoscenza degli
Hansen da molto tempo. Egli aveva visto crescere Hulda e
Joël e li amava, come amava quel «giovane lupo di mare»
che era Ole Kamp. Figurarsi quanto fosse contento di quel
matrimonio! Era un avvenimento tale da mettere in festa
tutta la valle del Vestfjorddal.
Di conseguenza, il pastore prese il collarino, la facciola
di crespo, il libro di preghiere, e parti un bel mattino, con
un tempo che però era molto piovoso. Arrivò insieme con
Joël, che gli era venuto incontro a metà strada. Va da sé
che ebbe un'ottima accoglienza nell'albergo di mamma
Hansen e che gli fu assegnata la bella camera del
pianterreno con freschissimi rami di ginepro che la
rendevano profumata come una cappella. L'indomani, alle
prime ore del giorno, venne aperta la chiesa di Dal. Qui,
davanti al pastore e sul suo messale in presenza di alcuni
amici e dei vicini dell'albergo, Ole giurò di sposare Hulda,
e Hulda giurò di sposare Ole, al termine del nuovo viaggio
che il giovane marinaio stava per intraprendere.
È lungo un anno d'attesa, ma passa senza inquietudine,
quando uno è davvero sicuro dell'altro.
Dopo questa cerimonia Ole non avrebbe più potuto,
senza un motivo grave, sciogliersi dalla sua fidanzata; e
Hulda, dal canto suo, non poteva tradire la parola data. E se
Ole Kamp non fosse partito pochi giorni dopo, avrebbe
potuto approfittare dei diritti che la cerimonia testé
compiuta gli dava incontestabilmente: far visita alla
fidanzata ogni volta che gli piacesse; scriverle quando
voleva, accompagnarla alla passeggiata, tenendola a
braccetto, anche in assenza della famiglia; avere diritto su
tutti gli altri di ballare con lei in ogni festa o cerimonia.
Ma Ole Kamp aveva dovuto recarsi a Bergen. Otto
giorni dopo, il Viken faceva vela per i banchi di Terranova.
Ora Hulda poteva solo attendere le lettere, che il fidanzato
aveva promesso di spedirle con ogni corriere in partenza
per l'Europa.
E non mancarono queste lettere, sempre attese con
grande impazienza. Esse portavano un po' di felicità in
quella casa piena di tristezza dal giorno in cui Ole era
partito.
Il viaggio era stato buono. La pesca fu abbondante, e i
guadagni sarebbero stati senza dubbio considerevoli. E poi,
alla fine d'ogni lettera, Ole parlava sempre d'un certo
segreto e di una fortuna ch'esso gli avrebbe dovuto
procurare. Hulda avrebbe voluto conoscerlo, e anche
mamma Hansen per motivi che non era facile immaginare.
Per dire il vero, mamma Hansen diveniva sempre più
triste, inquieta, taciturna. E una circostanza di cui non parlò
ai suoi figlioli, accrebbe i suoi crucci.
Tre giorni dopo l'arrivo dell'ultima lettera di Ole, il 19
aprile, mamma Hansen ritornava sola dalla segheria, ov'era
andata a comandare un sacco di trucioli al vice direttore
Lengling, e si dirigeva verso casa. A breve distanza dalla
porta, venne avvicinata da un uomo, che non era del paese.
— Senza dubbio, voi siete madama Hansen… — chiese
quell'uomo.
— Sì — rispose lei, — ma io non vi conosco.
— Oh! Non importa! — riprese l'uomo. — Sono arrivato
questa mattina da Drammen e vi ritorno.
— Da Drammen? — disse vivamente mamma Hansen.
— Non conoscete un certo signor Sandgoïst, che abita
laggiù?…
— Il signor Sandgoïst! — ripeté mamma Hansen,
impallidendo a quel nome. — Sì… lo conosco!
— Ebbene, avendo il signor Sandgoïst saputo che io
venivo a Dal, mi ha pregato di salutarvi da parte sua.
— E… nient'altro?…
— Ha aggiunto che verrà probabilmente a vedervi il
mese prossimo! Buona sera e state bene, madama Hansen.
CAPITOLO V
HULDA, per dire il vero, fantasticava molto su questa
fortuna, che in ogni lettera Ole accennava come assai
vicina, per lui, da raggiungere! Su che cosa, quel bravo
ragazzo, fondava la sua speranza? Ella non riusciva a
indovinarlo e Ole tardava a rivelarle la verità. Le perdoni, il
lettore, questa impazienza, del resto molto naturale.
Era forse, da parte sua, una vana curiosità? Niente
affatto. Questo segreto la riguardava un pochino. Non che
l'onesta e semplice figliola fosse ambiziosa, né tra le sue
speranze per l'avvenire trovava posto la ricchezza.
L'affetto di Ole le bastava, e le sarebbe sempre bastato.
Se arrivava anche la ricchezza, tanto meglio; se non
arrivava se ne poteva fare a meno.
Questo appunto si dicevano Hulda e Joël l'indomani del
giorno in cui era giunta a Dal l'ultima lettera di Ole.
Anche su questo argomento, come su tanti altri, la
pensavano allo stesso modo!
Ed ecco Joël soggiungere:
— No! Questo non è possibile, sorellina mia! Son sicuro
che mi nascondi qualche cosa!
— Io!… nasconderti qualcosa…
— Sì! Non è possibile che Ole sia partito senza dirti
almeno una parola sul suo segreto, non posso crederlo!
— E a te ha detto qualche cosa? — disse Hulda.
— No, sorella mia: ma io non sono te.
— Invece si; è come se tu fossi me, fratello mio.
— Non sono io la fidanzata di Ole.
— Quasi — soggiunse la fanciulla; — e se qualche
disgrazia lo colpisse, tu saresti afflitto come me, e
piangeresti proprio come me!
— Ah! sorellina mia — rispose Joël — ti proibisco di
pensare cose simili. Com'è possibile che Ole non ritorni da
questo viaggio che fa per la pesca in alto mare? Ma parli
sul serio, Hulda?
— Ritornerà, speriamolo, Joël. Tuttavia, non so
respingere certi presentimenti. Faccio dei cattivi sogni!…
— I sogni, mia cara, sono soltanto sogni!
— È vero; ma da dove vengono?
— Da noi stessi, e non dall'alto. Tu temi, e il timore
appunto turba i tuoi sonni. Del resto, succede spesso così,
all'avvicinarsi di un momento vivamente desiderato.
— Può darsi che sia così.
— Per dire il vero, ti credevo più coraggiosa, sorellina
mia! Sì! più energica! Come, hai appena ricevuto una
lettera nella quale Ole ti annuncia che il Viken sarà di
ritorno prima che sia trascorso un mese, e tu ti metti simili
pensieri in testa!…
— Non in testa, nel cuore, mio Joël!
— Sì, sì, il cuore deve batterti forte forte. Siamo già al
19 aprile. Ole deve ritornare fra il 15 e il 20 maggio: è
tempo di fare i preparativi per il matrimonio.
— Ci pensi, Joël?
— Se ci penso! Anzi mi pare che siamo già in ritardo!
Figurati! È un matrimonio che farà gioire non solo Dal, ma
i villaggi vicini. Intendo che tutto si faccia
convenientemente; e io mi occuperò di preparare ogni cosa
a dovere.
Intendiamoci bene; non è cosa da poco una cerimonia di
questo genere nelle campagne della Norvegia, e tanto meno
poi in quelle del Telemark. Tutti ne avrebbero parlato.
Perciò, quel giorno Joël ebbe un colloquio in proposito
con sua madre.
Ciò si verificò pochi minuti dopo che mamma Hansen,
all'annuncio della prossima visita del signor Sandgoïst da
Drammen, era rimasta molto turbata. Ella era andata a
sedersi nella poltrona del salone, e là, tutta assorta, faceva
girare meccanicamente l'arcolaio.
Joël capì subito che sua madre era ancor più triste del
solito; ma poiché ella rispondeva invariabilmente che «non
aveva nulla», tutte le volte che veniva interrogata in
proposito, suo figlio si limitò a parlarle del matrimonio di
Hulda.
— Madre mia — le disse, — dall'ultima lettera di Ole
abbiamo appreso che egli sarà senz'altro di ritorno fra
poche settimane.
— Dio lo voglia — rispose mamma Hansen; — e
speriamo che non avvenga alcun ritardo.
— Non si potrebbe fissare il matrimonio per il 25
maggio? Avete qualcosa in contrario?
— Nulla, se Hulda acconsente!
— È così contenta lei! Permettetemi, ora, di chiedervi se
è vostra intenzione di preparare ogni cosa a puntino in
questa circostanza.
— Che cosa intendi per «preparare ogni cosa a
puntino»? — soggiunse mamma Hansen senza alzare gli
occhi dal filatoio.
— Intendo, naturalmente, se voi siete d'accordo, mamma
cara, che il matrimonio dovrebbe essere festeggiato
secondo la posizione che noi occupiamo in paese.
Dobbiamo invitare i conoscenti, e, se la nostra casa non
può alloggiarli tutti, si troveranno nel villaggio delle case
di amici…
— E quali saranno gli invitati, Joël?
— Penso che si dovrebbero invitare tutti i nostri amici di
Mœl, di Tines, di Bamble, e per questi m'incarico io. Credo
che la presenza dei Fratelli Help, gli armatori di Bergen,
farebbe onore alla famiglia, e, ripeto, col vostro permesso,
offrirei loro di venire a passare una giornata a Dal. Sono
brave persone che amano molto Ole, e sono sicuro che
accetteranno.
— È proprio necessario — rispose mamma Hansen —
dare a questo matrimonio tanta risonanza?
— Credo di sì, anche per il buon nome dell'albergo di
Dal, che non è per nulla diminuito dopo la morte di nostro
padre…
— È vero, Joël, è vero.
— Non è nostro dovere di mantenerlo almeno nelle
condizioni in cui venne lasciato? Dunque sarà bene dare un
po' d'importanza al matrimonio di Hulda.
— Sta bene, Joël.
— D'altra parte, è anche tempo che Hulda faccia i suoi
preparativi, perché non sia proprio lei causa di ritardo. Che
ve ne pare, mamma?
— Fate, tu e Hulda, quanto è necessario! — rispose
mamma Hansen. Forse taluno osserverà che Joël aveva
troppa fretta, e che sarebbe stato più ragionevole attendere
il ritorno di Ole, per stabilire la data del matrimonio e
soprattutto per dare inizio ai preparativi. Ma, come egli
diceva, chi ha tempo, non aspetti tempo. E poi quel doversi
occupare delle mille faccenduole, che riguardano una
cerimonia di questo genere, avrebbe svagato Hulda.
Bisognava combattere i presentimenti, del resto del tutto
ingiustificati, in modo che essi non prendessero il
sopravvento.
Anzitutto bisognava pensare alla damigella d'onore! Ma
questa era la minor cosa. La scelta era già fatta. Era una
graziosa fanciulla di Bamble, intima amica di Hulda. Suo
padre, il fattore Helmboë, coltivava uno dei più vasti
poderi della provincia. Quel brav'uomo possedeva anche
una discreta ricchezza. Da un pezzo egli aveva preso ad
apprezzare il carattere generoso di Joël, e, bisogna dirlo, la
figlia Siegfrid, da un altro punto di vista, aveva pure un
eccellente concetto del giovanotto.
Era dunque probabile che in un prossimo domani Hulda
le facesse, a sua volta, da damigella d'onore. Così si usa in
Norvegia! Di solito queste piacevoli mansioni vengono
svolte da donne sposate, ma, nel presente caso, si faceva
un'eccezione, per una particolare deferenza, e per far
piacere a Joël, e si voleva scegliere una fanciulla.
Un problema serio per la sposa e per la damigella
d'onore, l'abbigliamento per la circostanza.
Siegfrid, graziosa bionda di diciotto anni, aveva la ferma
intenzione di fare bella mostra di sé. Avvisata con un
biglietto dell'amica Hulda - s'intende che Joël aveva voluto
consegnarlo a lei personalmente - non perdette un minuto
di tempo, e si accinse ad un lavoro veramente impegnativo.
Si trattava di un certo corsetto i cui ricami a disegni
regolari, che avrebbero cinto il vitino di Siegfrid, erano
talmente belli da sembrare smalto tramezzato.
Si parlava pure di una gonna sostenuta da una serie di
sottogonne il cui numero era proporzionato alla ricchezza
di Siegfrid ma tale da non togliere nulla alla grazia della
sua persona. Quanto ai gioielli, non sarebbe stata cosa da
nulla scegliere la piastra centrale della collana a filigrana
d'argento con perle, i fermagli per il corsetto in argento
dorato o in rame, i pendenti a forma di cuore con cerchietti
mobili, i bottoncini doppi per il colletto della camiciola, la
cintura di lana o di seta rossa, dalla quale pendono quattro
file di catenelle, gli anelli, con piccoli ninnoli, che
urtandosi mandano un suono festoso; gli orecchini e i
braccialetti d'argento, in breve tutta quella bigiotteria
campagnola, nella quale, a dire il vero, l'oro fa scarsa
mostra di sé, l'argento è di bassa lega, l'oreficeria in
stampaggio, le perle sono di vetro soffiato e i diamanti di
cristallo! Ma il tutto faceva effetto e l'occhio ne era
appagato.
Siegfrid era persino disposta a recarsi a Christiania, per
fare delle spese supplementari nei sontuosi magazzini del
signor Benett. Suo padre le avrebbe dato il permesso, anzi!
Il brav'uomo la lasciava fare volentieri. Del resto, Siegfrid
sapeva conciliare il lusso con l'economia.
La cosa che importava maggiormente era che, quel
giorno, Joël la trovasse di suo gusto.
Quanto a Hulda, il problema non era affatto più facile.
Ma le mode sono spietate e pongono a stecchetto le
fidanzate nelle scelte del loro abbigliamento matrimoniale.
Hulda stava finalmente per abbandonare le lunghe trecce
adorne di nastri che sfuggivano dal suo berrettino da
ragazzina, e l'alta cintura con fermaglio, che le serrava il
grembiule, sulla gonnella rossa. Avrebbe pure smessi i
fazzoletti da fidanzata che Ole le aveva regalati al
momento della partenza, e il cordone dal quale pende la
borsetta in cuoio lavorato contenente il cucchiaio d'argento
con manico corto, il coltello, la forchetta, l'agoraio, ed altri
utensili, di cui una buona massaia ha continuo bisogno per
il governo della casa.
Il giorno delle nozze, i bei capelli di Hulda dovevano
ondeggiare liberamente sulle spalle, ed essi erano del resto
talmente tanti che non era necessario aggiungervi quei
capelli posticci di lino cui ricorrono le giovani norvegesi
meno favorite dalla natura.
Insomma, per l'abbigliamento come per i gioielli, Hulda
aveva solo da scegliere nella cassapanca di sua madre.
Infatti, quegli ornamenti si trasmettono di madre in figlia
per molte generazioni.
Così si vede ricomparire il giubbetto ricamato in oro, la
cintura di velluto, la gonnella di seta di uno o più colori, le
calze di wadmel, la collana d'oro e la corona - quella
famosa corona scandinava, che si conserva nello stipo più
segreto, magnifico lavoro in legno e cartone, costellato di
stelle o inghirlandato di fogliame, l'equivalente, in una
parola, della corona di fiori d'arancio che si usa in altri
paesi dell'Europa.
Quel nimbo tutto a raggi, quelle filigrane delicate, quei
pendenti sonori, quelle margheritine policrome, dovevano
incorniciare il grazioso visetto di Hulda. La «fidanzata
coronata», come si suol dire, doveva far onore allo sposo.
E lui sarebbe stato degno di tanta bellezza, degno della
cerimonia nuziale nel suo abito da sposo — giacca corta a
bottoni d'argento molto vicini, camicia inamidata ad ampi
risvolti, gilet orlato e foderato in seta, calzoni aderenti,
fermati al ginocchio con nastro e nappe di lana, cappello di
feltro, stivali gialli, e, alla cintura, nella sua guaina di
cuoio, il coltello scandinavo, il dolknif, che mai il vero
norvegese abbandona.
Insomma, da una parte e dall'altra ci sarebbe stato un bel
da fare. Non c'era tempo da perdere, se si desiderava che
tutto fosse pronto prima dell'arrivo di Ole Kamp. Ad ogni
modo, quand'anche fosse arrivato un po' prima del previsto
a Hulda non sarebbe affatto dispiaciuto, anche se i
preparativi non fossero ancora giunti a termine, né, tanto
meno, sarebbe dispiaciuto a lui!
Tra questi numerosi preparativi passarono le ultime
settimane d'aprile e le prime di maggio.
Joël non mancò di recarsi in persona a fare gli inviti,
profittando dei momenti liberi che gli erano lasciati dalla
sua professione. A Bamble doveva avere molti amici,
giacché vi si recava spesso. Non era andato a Bergen ad
invitare i Fratelli Help, ma aveva loro scritto. E, come egli
immaginava, quei bravi armatori avevano accettato, con la
maggiore sollecitudine, l'invito ad assistere al matrimonio
di Ole Kamp, il giovane nostromo della nave Viken.
Intanto, era giunto il 15 maggio. Da un momento all'altro
ci si poteva attendere di vedere Ole discendere dalla
carrettella, aprire la porta, e gridare con voce festosa:
«Sono io!… Eccomi!»
Un po' di pazienza ancora, e poi… Tutto era pronto…
Siegfrid, dal canto suo, aspettava solo un cenno per
comparire vestita di tutto punto.
Giunse il giorno 16, il 17, e Ole non si era fatto vivo, né,
per quanto si sapeva, erano giunte lettere da Terranova.
— Non c'è da stupirsi, sorellina mia — ripeteva spesso
Joël. — Una nave a vela può subire dei ritardi. La
traversata è lunga da Saint-Pierre-Miquelon a Bergen. Ah!
perché questo Viken non è un piroscafo e io non ne sono la
macchina? Come saprei spingerlo contro vento e contro
marea, quand'anche dovessi saltare in aria appena
raggiunto il porto!
E diceva tutto ciò perché vedeva l'inquietudine di Hulda
aumentare di giorno in giorno.
Nel Telemark il tempo era assai cattivo. Dei venti
impetuosi spazzavano le alte cime, e provenivano
dall'ovest, cioè dall'America.
— Dovrebbero favorire il viaggio del Viken! — ripeteva
spesso la fanciulla.
— Senza dubbio — rispondeva Joël; — ma sono troppo
forti, e potrebbero anche procurargli dei fastidi e obbligarlo
a tener testa all'uragano. Sul mare non sempre si può fare
ciò che si vuole!
— E tu non sei inquieto, Joël?
— No, Hulda, no! È spiacevole, ma è un ritardo
naturalissimo! Non sono inquieto, e non c'è davvero alcun
motivo per esserlo!
Il 19 giunse all'albergo un viaggiatore che aveva bisogno
di una guida. Si trattava di condurlo fino all'estremità
dell'Hardanger, superando le montagne. Benché contrariato
di dover lasciare sola Hulda, Joël non poteva esimersi da
quel servigio. Si trattava, tutt'al più, di un'assenza di
quarantotto ore, e Joël era quasi sicuro di rivedere Ole al
suo ritorno. A dire il vero, quel bravo ragazzo cominciava
anche lui a preoccuparsi seriamente. Parti nella mattinata,
ma, bisogna ammetterlo, con molta tristezza nel cuore.
L'indomani, verso l'una, per l'esattezza, qualcuno bussò
alla porta dell'albergo.
— Potrebbe essere Ole! — esclamò Hulda. E corse ad
aprire.
Sulla soglia stava una carrettella, e in essa un uomo,
coperto di un mantello da viaggio e rincantucciato sul
sedile. Hulda non lo aveva mai visto prima di allora.
CAPITOLO VI
— È QUESTO l'albergo di madama Hansen?
— Sì, signore — rispose Hulda.
— C'è la signora?
— No, ma tornerà a momenti.
— Presto?
— Subito, e se avete a parlarle…
— Non ho nulla da dirle.
— Volete una camera?
— Sì, la più bella che avete!
— Devo prepararvi il pranzo?
— Il più presto possibile, e datemi ciò che c'è di meglio.
Queste furono le parole scambiate fra Hulda e il
viaggiatore, prima ancora che questi fosse sceso dalla
carrettella di cui si era servito per giungere fino al
Telemark, attraverso le foreste, i laghi e le vallate della
Norvegia centrale.
La carrettella, lo sappiamo bene, è il mezzo di trasporto
preferito dagli scandinavi. Due lunghe stanghe, fra le quali
si muove un cavallo, dal collo robusto, dal manto
giallastro, guidato per mezzo di una corda, legata non alla
bocca, ma al naso; due grandi ruote sottili, il cui asse, senza
molle, sopporta il peso di una cassetta verniciata, che ha
appena lo spazio per una persona; non c'è tetto, né
parafango e predellino; dietro la cassetta si trova un piccolo
sedile per lo skidskarl. Il tutto rassomiglia ad una enorme
ragnatela, la cui doppia tela è formata dalle due ruote. Con
questo veicolo rudimentale si possono fare delle tappe di
quindici o venti chilometri senza troppa fatica.
Ad un segno del viaggiatore, lo skidskarl andò a tenere il
cavallo. Allora il viaggiatore si alzò, si scosse, scese a
terra, con qualche sforzo che lo fece borbottare di
malumore.
— C'è la rimessa? — chiese con tono brusco,
fermandosi sulla soglia.
— Certamente, signore — rispose Hulda.
— Bisogna dar la biada al cavallo.
— Lo faccio condurre in stalla.
— Che se ne abbia cura!
— Non dubiti. Posso chiedervi se intendete fermarvi
qualche giorno a Dal?
— Non lo so.
La carrettella e il cavallo furono condotti sotto una
tettoia, che si trovava a breve distanza, all'ombra degli
alberi e alle falde della montagna. Era l'unica scuderiarimessa che ci fosse all'albergo, ma bastava al servizio
degli ospiti.
Un momento dopo, il viaggiatore era seduto nella
camera migliore, come aveva chiesto. Qui, dopo essersi
tolto il pastrano, si scaldava davanti a un bel fuoco di
caminetto che aveva fatto accendere.
Intanto per accontentare il viaggiatore che sembrava un
po' esigente e difficile, Hulda raccomandò alla piga - una
vigorosa ragazza dei dintorni, che, d'estate, aiutava in
cucina e faceva in casa i mestieri più grossolani - di
preparare il miglior pranzo possibile.
Un uomo ancora vegeto, il nuovo arrivato, quantunque
avesse già oltrepassato la sessantina. Magro, un po' curvo,
di media statura, testa ossuta, faccia pelata, naso a punta,
occhi piccoli con uno sguardo penetrante dietro le grosse
lenti, una fronte che si corrugava facilmente, labbra troppo
sottili, perché egli potesse mai pronunciare parole gentili,
lunghe mani adunche; in breve, il tipo dell'usuraio.
Hulda ebbe il presentimento che quel viaggiatore non
doveva rallegrare per nulla l'albergo.
Che fosse norvegese non si poteva dubitare, ma dal tipo
scandinavo egli aveva ereditato soprattutto l'aspetto
volgare.
Il suo abbigliamento da viaggio si componeva di un
cappello piuttosto schiacciato, con falde larghe, di un
vestito di panno, bianchiccio, giacca a doppio petto,
calzoni legati al ginocchio con corregge di cuoio e, sopra
tutto questo, una specie di pelliccia bruna, foderata con
pelle di montone - che non era affatto inutile, la sera e la
notte, su quegli altipiani rigidi e nelle ventose vallate del
Telemark.
Hulda non aveva domandato a quel personaggio il suo
nome. Ma fra poco glielo avrebbe chiesto, giacché doveva
scriverlo nel registro dell'albergo.
In quel momento, mamma Hansen rientrò. La figlia le
annunziò l'arrivo di un viaggiatore che aveva domandato la
miglior camera e il miglior pranzo. Non sapeva quanto
avesse intenzione di fermarsi a Dal; su questo punto non
aveva detto nulla.
— E non ha detto il suo nome? — chiese mamma
Hansen.
— No, mamma.
— E nemmeno da dove viene?
— No.
— È senz'altro un turista. Peccato che Joël non sia di
ritorno per mettersi a sua disposizione. Come faremo se ci
chiede una guida?
— Non credo che sia un turista — rispose Hulda. — È
un uomo di una certa età…
— E se non è un turista, che viene a fare a Dal? —
soggiunse mamma Hansen, parlando piuttosto a se stessa
che alla figlia e con un tono che rivelava una certa
inquietudine.
Hulda non poteva rispondere a questa domanda, giacché
il viaggiatore non aveva detto nulla sulle sue intenzioni.
Un'ora dopo il suo arrivo, il viaggiatore passò nel salotto
attiguo alla sua camera. Nel vedere mamma Hansen, si
fermò un momento sulla soglia.
Evidentemente non la conosceva, come non era
conosciuto da lei. Però, mosse verso di lei, e, dopo averla
sbirciata al disopra degli occhiali:
— Madama Hansen, credo… — egli disse senza
nemmeno portare la mano al cappello.
— Per l'appunto, signore — ella rispose.
E in presenza di quell'uomo, provò, come sua figlia, un
turbamento di cui egli si accorse.
— Ah! siete voi, madama Hansen di Dal?
— Senza dubbio, signore. Avete qualcosa in particolare
da dirmi?
— Nessuna. Volevo solo fare la vostra conoscenza. Non
sono vostro ospite? Ed ora, procurate che mi servano il
pranzo al più presto.
— Il pranzo è pronto — rispose Hulda. — Se volete
passare nella sala…
— Subito!
E il viaggiatore si diresse verso la porta che gli venne
additata dalla fanciulla.
Un momento dopo, era seduto accanto alla finestra
presso un tavolo elegantemente apparecchiato.
Il pranzo fu eccellente. Nessun turista avrebbe trovato a
ridirvi, neanche il tipo più difficile da contentare. Ma
quell'uomo intollerante non risparmiò segni e parole di
malcontento - soprattutto segni, giacché egli non sembrava
molto loquace. Ci si sarebbe chiesto, per la verità, se la sua
esigenza fosse dovuta a problemi di stomaco o al suo
carattere. La minestra di ciliegie e ribes gli piacque poco,
benché fosse ottima. Assaggiò appena il salmone e
l'acciuga marinata. Né trovò di suo gusto il prosciutto
crudo, il mezzo pollo arrosto, i legumi ben conditi. E si
dichiarò malcontento persino della bottiglia di Saint-Julien
e della mezza bottiglia di Champagne, quantunque
venissero proprio dalla Francia.
Di conseguenza, a pranzo finito, il viaggiatore non ebbe
una sola parola cortese per l'albergatrice.
Accesa la pipa, quell'uomo rude uscì dalla sala e andò a
passeggiare sulle rive del Maan. Ma, appena giunto sulla
riva, tornò indietro. Guardava continuamente l'albergo,
sembrava volerlo studiare da tutti i lati, pianta, sezione e
alzato, quasi cercasse di stimarne il valore. Ne contò le
porte e le finestre. S'avvicinò alle travi orizzontali che
formavano lo zoccolo della casa, vi fece due o tre intagli
con la punta del suo coltellino, come per riconoscere la
qualità del legno e il suo stato di conservazione. Voleva
forse fare un calcolo approssimativo di ciò che valeva
l'albergo di madama Hansen? Pretendeva di presentarsi
come acquirente, quantunque non fosse in vendita? Era
molto strano. Dopo aver esaminato la casa, diede
un'occhiata al recinto, contandone gli alberi e gli arbusti.
Per ultimo, misurò due lati con passi di circa un metro e,
dai segni che fece con la matita sul suo notes, si capiva
chiaramente che li aveva moltiplicati tra di loro.
Ad ogni momento scuoteva il capo, aggrottava le ciglia,
gli sfuggivano degli «uhm!» poco approvatoti.
Durante questi andirivieni, mamma Hansen e sua figlia
l'osservavano dalle finestre della sala. Con quale strano
personaggio avevano a che fare? Che tipo bizzarro! E qual
era lo scopo del suo viaggio? Peccato che ciò avvenisse in
assenza di Joël, perché il viaggiatore doveva passare anche
la notte nell'albergo.
— Se fosse un pazzo? — disse Hulda.
— Un pazzo?… No! — rispose mamma Hansen. — È,
però, un uomo singolare.
— È cosa spiacevole non sapere chi si riceve nella
propria casa — osservò la fanciulla.
— Hulda.— rispose mamma Hansen, — prima che il
viaggiatore rientri, abbi cura di portare nella sua camera il
registro dell'albergo.
— Sì, mamma.
— Forse si deciderà a scrivervi il proprio nome!
Verso le otto, il buio era già sceso, cominciò a cadere
una fine pioggerella, e la valle fino a metà montagna era
ingombra di nebbia. Il tempo non era favorevole alla
passeggiata. Così, l'ospite di mamma Hansen, dopo avere
risalito il sentiero sino alla segheria, ritornò all'albergo ove
domandò un bicchierino di acquavite. Senza aggiungere
una parola, senza augurare la buona sera ad alcuno, prese il
candeliere di legno con la candela accesa e s'avviò verso la
sua camera, vi si chiuse dentro e non lo s'intese più sino al
mattino.
Lo skidskarl era andato a rifugiarsi sotto la tettoia. Là,
fra le due stanghe, dormiva della grossa, in compagnia del
suo cavallo biondastro, senza darsi pensiero della tempesta.
L'indomani, mamma Hansen e sua figlia si levarono
all'alba. Non si udiva alcun rumore nella camera del
viaggiatore, che evidentemente riposava ancora. Un po'
dopo le nove, egli entrò nella sala, con l'aria ancora più
burbera del giorno innanzi, lamentandosi del letto che era
duro, dei rumori che lo avevano svegliato e, non occorre
dirlo, non salutò alcuno. Poi, aperse la porta e andò a
guardare il cielo.
Mediocri indizi di bel tempo!
Un vento impetuoso spazzava le cime del Gusta, avvolte
di nuvole, e si cacciava nella valle con violente raffiche.
Il viaggiatore non si arrischiò ad uscire. Ma non perdette
tempo. Fumando la pipa, passeggiò per l'albergo, cercò di
rendersi conto della disposizione interna, ne visitò le
diverse camere, esaminò il mobilio, aperse gli armadi,
proprio come si fosse trovato in casa sua. Si sarebbe detto
un perito che procedeva a una stima giudiziaria.
Certamente se lui era un uomo singolare, le sue azioni
erano ancora più sospette.
Ciò fatto, andò a sdraiarsi nella poltrona della sala, e con
voce brusca rivolse parecchie domande a mamma Hansen.
Da quanto tempo l'albergo era costruito? Era stato
fabbricato da suo marito Harald o egli l'aveva avuto per
eredità? Aveva già richiesto parecchie riparazioni? Qual
era l'estensione del recinto e della masseria che da esso
dipendevano? Era ben avviato e dava un buon reddito?
Quanti turisti, in media, capitavano nella bella stagione? Vi
passavano uno o più giorni, ecc.?
Evidentemente il viaggiatore non s'era accorto del
registro, che era stato deposto nella sua camera, dal quale
sarebbe stato informato almeno sull'ultima domanda.
Infatti il registro si trovava al posto dove Hulda lo aveva
collocato, e il nome del nuovo venuto non vi era scritto.
— Signore — disse allora mamma Hansen, — non
capisco bene come e perché queste cose possano
interessarvi. Ma se desiderate conoscere come stanno i
nostri affari niente di più semplice. Dovete soltanto
consultare il registro dell'albergo. Vi pregherei anche di
scrivervi il vostro nome, secondo il regolamento.
— Il mio nome?… Va benissimo… Lo scriverò al
momento di lasciarvi.
— Vi fermerete ancora?
— È inutile — rispose il viaggiatore alzandosi. — Devo
partire dopo colazione, per trovarmi a Drammen domani
sera.
— A Drammen?… — disse con una certa emozione
mamma Hansen.
— Sì! Quindi desidero far colazione subito.
— Abitate a Drammen?
— Sì, che c'è da stupire, di grazia, se io abito a
Drammen?
E così, questo viaggiatore, dopo aver passata una sola
giornata a Dal, o piuttosto nell'albergo, se ne andava senza
aver veduto nulla del paese! Non si spingeva più lontano,
nella regione! Non lo allettavano affatto il Gusta, il
Rjukanfos, le meraviglie della valle del Vestfjorddal!
Non era, dunque, per diletto, ma per affari che egli aveva
lasciato Drammen, suo abituale soggiorno, e pareva che
non avesse altro scopo che di visitare, angolo per angolo, la
casa di mamma Hansen.
Hulda s'accorse che sua madre era profondamente
turbata. Ella era andata a sedersi nel suo ampio seggiolone,
e, scostato l'arcolaio, era rimasta immobile, senza
pronunciare una parola.
Intanto il viaggiatore era passato nella sala da pranzo e
sedeva a tavola.
Ma la colazione, curata come il pranzo del giorno prima,
non sembrò soddisfarlo. Eppure mangiò bene e bevette
anche senza fretta. La sua ispezione, ora, era rivolta
all'argenteria, lusso cui i contadini norvegesi tengono
molto; alcuni cucchiai e forchette che passano di padre in
figlio e che si custodiscono diligentemente fra i gioielli
della famiglia.
Intanto, lo skidskarl stava facendo i preparativi della
partenza nella rimessa. Alle undici, il cavallo e la
carrettella aspettavano davanti la porta dell'albergo.
Il tempo non prometteva niente di buono; la giornata era
grigia e ventosa. A intervalli, la pioggia batteva sui vetri
come una mitraglia. Ma il viaggiatore, sotto il suo pesante
pastrano foderato di pelle, non era tipo da temere la bufera.
A colazione finita, bevette un ultimo bicchiere di
acquavite, accese la pipa, indossò il mantello, ritornò nel
salotto e chiese il conto.
— Vado a prepararlo — rispose Hulda, andando a sedere
accanto al banco.
— Fate presto! — disse il viaggiatore. — Mentre attendo
— aggiunse, — datemi il registro, perché possa scrivervi il
mio nome.
Il viaggiatore prese una penna, sbirciò un'ultima volta
mamma Hansen dal di sopra degli occhiali, poi, a grossi
caratteri, scrisse il proprio nome nel registro, e lo chiuse. In
quel momento, Hulda giungeva con il conto.
Egli lo prese, l'esaminò borbottando, probabilmente
rifece la somma.
— Uhm! Com'è caro! Sette marchi e mezzo per una
notte e due pasti.
— C'è anche lo skidskarl e il cavallo — osservò Hulda.
— Non importa! Trovo che è caro! Davvero non mi
meraviglio che gli affari vadano bene.
— Voi non ci dovete nulla, signore! — gridò mamma
Hansen con voce così agitata che appena la si poté udire.
Aveva aperto il registro, aveva letto il nome, e ripeté,
ritirando la nota che fece in pezzi:
— Non ci dovete nulla!
— È pure la mia opinione! — rispose il viaggiatore.
E senza dare la buona sera nell'andarsene, come non
aveva dato il buon giorno quando era arrivato, sali in
carrettella, mentre il ragazzo saltava sull'assicella dietro di
lui. Pochi istanti dopo, era scomparso alla svolta della
strada.
Quando Hulda aprì il registro, vi trovò scritto questo
nome: «Sand-goi'st, di Drammen».
CAPITOLO VII
JOËL DOVEVA ritornare a Dal nel pomeriggio
dell'indomani, dopo aver lasciato sulla strada
dell'Hardanger il viaggiatore a cui faceva da guida.
Hulda, sapendo che suo fratello doveva ritornare
percorrendo gli altipiani del Gusta, lungo la riva sinistra del
Maan, era andata ad attenderlo al passo del fiume
impetuoso.
Sedette accanto all'approdo della chiatta, che fa da
banchina al porto. Là seduta, si immerse nelle sue
riflessioni. Alle vive inquietudini che il ritardo del Viken le
causava si aggiungeva adesso una non lieve ansietà.
Il motivo di tutto ciò era stato la visita di quel Sandgoïst
e il modo in cui mamma Hansen si era comportata nei
confronti di lui. Perché, appena saputo il suo nome, aveva
stracciato il conto, e rifiutato di ricevere ciò che le era
dovuto? Ci doveva essere un segreto - e grave, per di più.
Hulda venne finalmente sviata da queste riflessioni
dall'avvicinarsi di Joël. Ella lo scorse mentre scendeva le
prime pendici della montagna. Ora lo si vedeva sulle
spianate aride, tra gli alberi abbattuti o bruciati sul posto,
ora scompariva sotto il folto fogliame dei pini, delle betulle
e dei faggi che abbondano su quelle alture. Finalmente egli
giunse alla riva opposta e si gettò nella piccola chiatta.
Con pochi colpi di remo superò i violenti risucchi di quel
fiume; quindi, sceso sulla spiaggia, s'avvicinò alla sorella.
— È arrivato Ole? — chiese.
Per Ole fu il suo primo pensiero. Ma la sua domanda
rimase senza risposta.
— Non ha scritto?
— No.
E Hulda scoppiò in pianto.
— No — esclamò Joël — non piangere, cara sorella, non
piangere!… Mi fa troppo male!… Non posso vederti
piangere!… Vediamo! Non ha scritto. Certo, la cosa
comincia a preoccupare! Ma non è ancora il caso di
disperarsi! Ecco, se vuoi, io vado a Bergen. M'informerò.
Vedrò i Fratelli Help. Probabilmente avranno delle notizie
da Terranova. Non può essere che il Viken si sia riparato in
qualche porto a causa di qualche avaria o per non essere
colto dal maltempo? Sappiamo che il tempo è burrascoso
da più di una settimana. È accaduto qualche volta che delle
navi provenienti da Terranova abbiano dovuto rifugiarsi in
Islanda o alle Farhoer. È pure accaduto a Ole, due anni fa,
quando era a bordo della nave Strenna. E non si trovano
corrieri tutti i giorni per scrivere. Ti dico proprio quello che
penso, sorellina mia. Calmati!… Se mi fai piangere, che
cosa sarà di noi?
— È più forte di me, fratello mio.
— Hulda!… Hulda!… Non perderti di coraggio!… Ti
assicuro che io non sono sfiduciato.
— Posso crederti, Joël?
— Devi credermi! Ma per rassicurarti vuoi che parta per
Bergen domani mattina… questa sera?
— No, non lasciarmi, non lasciarmi! — rispose Hulda,
avvicinandosi a suo fratello come non avesse più che lui al
mondo.
Si avviarono insieme all'albergo. Ma s'era messo a
piovere, anzi la tempesta aumentò talmente che dovettero
riparare nella capanna del traghettatore, a poche centinaia
di passi dal Maan.
Là dovettero attendere che il temporale si fosse calmato.
E allora Joël provò il bisogno di parlare, di dire una cosa
qualsiasi. Il silenzio gli provocava una disperazione
maggiore delle parole che avrebbe potuto pronunciare,
fossero anche state di sconforto.
— E nostra madre? — egli chiese.
— Sempre più triste! — rispose Hulda.
— Non è venuto nessuno in mia assenza?
— Sì, un viaggiatore, che è ripartito.
— Adesso, non c'è dunque nessun turista all'albergo e
non è stata richiesta nessuna guida?
— No, Joël.
— Tanto meglio, giacché preferisco non lasciarti. E poi,
se il cattivo tempo continua, temo che, per quest'anno, i
turisti rinunceranno al nostro Telemark!
— Siamo soltanto in aprile, Joël!
— È vero, ma ho il presentimento che la stagione non
sarà buona per noi! Insomma, vedremo! Ma dimmi, questo
viaggiatore ha lasciato ieri Dal?
— Sì, nella mattinata.
— E chi era?
— Proveniva da Drammen, sua città, mi sembra, e si
chiamava Sandgoïst.
— Sandgoïst?
— Lo conosci?
— No — rispose Joël.
Hulda s'era già chiesta se doveva o meno raccontare a
suo fratello quanto era accaduto all'albergo durante la sua
assenza. Se Joël avesse saputo quale disinvoltura aveva
dimostrato il forestiero, come sembrava aver calcolato il
valore della casa e del mobilio; e inoltre se avesse saputo il
contegno di mamma Hansen verso di lui, che cosa avrebbe
mai pensato? Probabilmente avrebbe pensato che la madre
doveva avere dei motivi molto gravi per agire così. E quali
erano questi motivi? Cosa poteva esserci tra lei e
Sandgoïst? C'era certamente un mistero che minacciava la
famiglia! Joël avrebbe voluto conoscerlo, avrebbe
interrogato sua madre, l'avrebbe tempestata di domande…
Mamma Hansen, così poco comunicativa, così aliena da
ogni effusione, avrebbe voluto mantenere il riserbo come
aveva fatto fino a quel giorno. I rapporti fra lei e i figli, già
difficili, potevano divenire ancora più penosi.
Ma poteva la fanciulla tacere qualche cosa a Joël? Avere
segreti per lui? Non sarebbe stato come offendere
l'amicizia che li univa entrambi? Hulda decise quindi di
parlare.
— Non hai inteso parlare di questo Sandgoïst, quando
andavi a Drammen? — riprese.
— Mai.
— Ebbene Joël, sappi allora che nostra madre deve già
conoscerlo, almeno di nome.
— Credi che conosca Sandgoïst?
— Ne sono sicura.
— Ma io non ho mai inteso da lei questo nome!
— Essa lo conosceva tuttavia, sebbene non lo avesse mai
visto.
E Hulda narrò tutto ciò che era accaduto durante la visita
del viaggiatore all'albergo, senza omettere lo strano
comportamento della madre al momento della partenza del
forestiero. Si affrettò a soggiungere:
— Ritengo, caro Joël, che sia meglio non chiedere nulla
a nostra madre. Tu la conosci, e sai che vorrebbe dire farla
soffrire maggiormente. Sono certa che l'avvenire ci farà
conoscere ciò che si nasconde nel suo passato. Che il cielo
ci renda Ole, e, se sopraggiunge qualche disgrazia, saremo
almeno in quattro a sopportarla.
Joël aveva ascoltato la sorella con profonda attenzione.
Evidentemente fra mamma Hansen e questo Sandgoïst
c'erano tali rapporti che mettevano l'una in potere dell'altro!
Era chiaro che quell'uomo era venuto a Dal per fare
l'inventario dell'albergo! E il conto stracciato al momento
della partenza - atto che egli stesso aveva ritenuto naturale
- che significato poteva avere?
— Hai ragione, Hulda — disse Joël, — non dirò nulla a
nostra madre. Forse rimpiangerà da sola di non averci
confidato le sue pene. Sempre che non sia troppo tardi!
Chissà come soffre, povera donna! Ma è proprio testarda!
Non comprende che dovrebbe riversare le sue pene nel
nostro cuore.
— Lo capirà un giorno, Joël.
— Sì, aspettiamo! Ma in questo modo non potrò cercare
di sapere chi è questo individuo. Forse il signor Helmboë
lo conosce. Glielo domanderò la prima volta che andrò a
Bamble, e, se è necessario, andrò fino a Drammen. Là
potrò sapere, almeno, la professione di quest'uomo, o a
quale genere di affari si dedica e l'opinione del paese sul
suo conto.
— Non credo che sarà favorevole — soggiunse Hulda.
— Il suo aspetto è cattivo, lo sguardo sinistro. Mi
sorprenderebbe molto se battesse un cuore generoso sotto
quella ruvida corteccia!
— Su via — riprese Joël — non giudichiamo le persone
dall'apparenza! Scommetto che se tu fossi al braccio del
tuo Ole, ti sembrerebbe meno brutto perfino questo
Sandgoïst.
— Mio povero Ole! — mormorò la giovanetta.
— Ritornerà, ritornerà; è in viaggio! — esclamò Joël. —
Abbi fiducia, Hulda! Ole non può essere molto lontano, e,
al suo ritorno, dovrà sentirci per essersi fatto aspettare!
La pioggia era cessata. Uscirono dalla capanna e
risalirono il sentiero per avviarsi all'albergo.
— A proposito — disse Joël — domani riparto.
— Riparti?
— Sì, al mattino.
— Di già, Joël?
— È necessario. Lasciando l'Hardanger, mi hanno
avvisato che arrivava un viaggiatore dal nord degli
altopiani del Rjukanfos dove dovrebbe giungere domani.
— Sai chi sia?
— In fede mia, non so nemmeno il suo nome. Ma devo
trovarmi là per condurlo a Dal.
— Va' dunque, giacché non puoi farne a meno! —
rispose Hulda sospirando.
— Domani, allo spuntar del giorno, mi metterò in
viaggio. Ti dispiace, Hulda?
— Molto, Joël! Io sono più inquieta quando mi lasci…
anche per poche ore.
— Ebbene, sappi che questa volta non parto solo.
— E chi ti accompagna?
— Tu, sorellina mia! Hai bisogno di distrarti ed io ti
porto con me.
— Ah! grazie, mio caro Joël!
CAPITOLO VIII
L'INDOMANI lasciarono l'albergo all'alba. Una quindicina
di chilometri separavano Dal dalle famose cascate; questi
più gli altri quindici necessari per tornare indietro erano
solo una passeggiata per Joël, ma Hulda si sarebbe
stancata. Joël s'era dunque procurata la carrettella del vice
direttore Lengling, e, come tutte le carrettelle, essa aveva
appena un posto. Però quell'uomo era così grasso che s'era
dovuto fabbricare una cassa apposita. Così, Hulda e Joël
potevano starvi comodamente. Se poi avessero trovato al
Rjukanfos il viaggiatore, egli poteva prendere il posto di
Joël, che sarebbe tornato a piedi o sarebbe salito
sull'assicella dietro la cassa.
Cera una strada pittoresca da Dal alle cascate, anche se
molto pericolosa! Senza dubbio, si può chiamare più
sentiero che strada. Delle travi appena squadrate, gettate
sui torrentelli affluenti del Maan, la attraversano, formando
dei piccoli ponti a poche centinaia di passi gli uni dagli
altri. Ma il cavallo norvegese è abituato a schivare i
pericoli, e, se la carrettella manca di molle, le lunghe
stanghe, un po' elastiche, attenuano in certa misura gli urti
del suolo.
Il tempo era bello, Joël e Hulda andavano di buon passo
lungo le praterie, bagnate sulla sinistra dalle chiare acque
del Maan. Migliaia di betulle spandevano ombra sul
sentiero allegramente soleggiato. La nebbia notturna si
scioglieva in goccioline sull'erba. A destra del torrente, a
duemila metri d'altezza, le distese di neve del Gusta
spandevano nello spazio un intenso fascio di luce.
In un'ora fecero molto cammino. La salita non era
divenuta ancora molto ripida. Ma a poco a poco la valle
cominciò a restringersi, e i torrentelli divennero impetuosi
torrenti. Quantunque la strada diventasse sinuosa non
poteva evitare tutti i dislivelli del terreno. A causa di
questo, c'erano dei passaggi difficili, ma Joël era molto
abile nel cavarsela. Hulda, del resto, vicino a lui non
temeva nulla. Quando la scossa era un po' forte, si
stringeva al suo braccio. La fresca aria mattutina coloriva il
suo bel volto, da alcune settimane impallidito.
Intanto fu necessario salire ancora più in alto. La valle
permetteva appena il passaggio al Maan, fra due muraglie
tagliate a picco. Sulle cime vicine si potevano scorgere una
ventina di case isolate, delle rovine di sceter e di gaard
rimaste abbandonate, delle capanne da pastore, perdute fra
le betulle e i faggi. Più in là, il torrente scompariva, ma si
poteva ancora udire il suo muggito nel profondo incavo
delle rocce. Il paesaggio aveva preso un aspetto attraente e
selvaggio al tempo stesso, allargando il suo panorama fino
alle cime più alte delle montagne.
Dopo due ore di viaggio, incontrarono una segheria
sull'orlo di una cascata di millecinquecento piedi utilizzata
per mettere in moto le sue due ruote. Cascate di
quest'altezza non sono rare nel Vestfjorddal; ma hanno
poca acqua. Per massa d'acque è senza confronto superiore
la cascata del Rjukanfos.
Joël e Hulda, giunti alla segheria, scesero di carrozza.
— Mezz'ora di cammino non ti affaticherà troppo,
sorellina? — disse Joël.
— No, fratello mio, non sono stanca; anzi mi farà bene
camminare un po'.
— Un po'… molto, e sempre in salita.
— Mi appoggerò al tuo braccio, Joël!
Qui, infatti, era stato necessario lasciare la carrettella.
Essa non avrebbe potuto proseguire su quegli ardui
sentieri, tra quei passaggi angusti, per i declivi sparsi di
rocce in bilico i cui contorni irregolari, nudi o ombreggiati
da alberi, annunciavano la grande cascata.
Ma già saliva una fitta nebbia in mezzo all'azzurro
lontano del cielo. Era il vapore acqueo del Rjukan, le cui
ondate si dissolvevano a una grande altezza.
Hulda e Joël presero una scorciatoia, ben nota alle guide,
che scende verso il restringimento della valle. Bisognò
scivolare fra gli alberi e gli arbusti. Pochi minuti dopo
entrambi erano seduti sopra una roccia coperta di muschio
giallastro, di fronte alla cascata. Da quella parte non si può
andare più in là.
Là fratello e sorella non avrebbero facilmente potuto
intendersi, se anche avessero parlato; ma in quel momento i
loro pensieri riuscivano a comunicare attraverso il cuore,
senza che fosse necessario formularli a parole.
Il volume della cascata del Rjukan è enorme, l'altezza
considerevole, il mugghio si può distintamente sentire. Il
letto del Maan compie un salto di novecento piedi, a mezza
via tra il lago Mjös a monte e il lago Tinn a valle.
Novecento piedi, come a dire sei volte l'altezza del
Niagara, che ha, in verità, una larghezza di tre miglia dalla
riva americana alla riva canadese.
Qui il Rjukanfos ha degli aspetti singolari, difficili a
riprodursi esattamente con una semplice descrizione.
Neppure la pittura riuscirebbe a darne un'idea. Vi sono
delle meraviglie naturali che bisogna vedere per
comprenderne tutta la bellezza: e, tra le altre, questa
cascata, la più famosa di tutta l'Europa.
E di questo appunto si occupava in quel momento un
turista, seduto sul declivio a sinistra del Maan. Da quel
posto, poteva osservare il Rjukanfos da più vicino e da più
in alto.
Né Joël, né la sorella si erano ancora accorti del
viaggiatore, benché questi fosse visibile. Non la distanza,
ma un effetto d'ottica, frequente in montagna, lo rendeva
piccolissimo, come se si trovasse ad una distanza molto
maggiore.
In quel momento, il viaggiatore s'era alzato e si
avventurava con molta imprudenza sulla punta rocciosa
che s'arrotondava come una cupola verso il letto del Maan.
Evidentemente, quel curioso voleva vedere le due cavità
del Rjukanfos, l'una a sinistra, dentro la quale l'acqua
ribolle, e l'altra a destra, sempre colma di fitti vapori. Forse
egli cercava di scoprire se esistesse una terza cavità
inferiore a mezza altezza della cascata. Se ci fosse,
varrebbe a spiegare come il Rjukan, dopo essersi
inabissato, rimbalzi slanciando fuori a intervalli il
sovrappiù delle sue acque in tumulto. Par quasi che le
acque vengano sollevate dallo scoppio di qualche mina che
ricopra con i suoi frammenti le cime delle montagne
circostanti.
Intanto il turista continuava a camminare sopra quel
dosso sdrucciolevole, senza radici, senza un ciuffo verde,
senz'erba, detto il Passo di Maria o Maristien.
Ignorava, dunque, l'imprudente, la leggenda che ha reso
così celebre questo passo. Un giorno, Eystein volle
raggiungere, per quel pericoloso cammino, la bella Maria
di Vestfjorddal. Dall'altra parte la fidanzata gli tendeva le
braccia. Ad un tratto gli mancò il piede, cadde, scivolò, né
poté fermarsi su quelle rocce lisce come il vetro,
scomparve nell'abisso, e i gorghi del Maan non restituirono
mai il suo cadavere.
Ciò che era accaduto allo sventurato Eystein sarebbe
dunque accaduto anche a quel temerario, là, in pericolo sui
pendii del Rjukanfos?
Era probabile. E, infatti, egli s'accorse del pericolo, ma
troppo tardi. Ad un tratto, gli mancò il punto di appoggio,
gettò un grido, scivolò per una ventina di passi, ed ebbe
appena il tempo di aggrapparsi alla sporgenza di una
roccia, quasi sull'orlo dell'abisso.
Joël e Hulda non l'avevano ancora scorto, ma sentirono
il suo grido.
— Cosa c'è? — disse Joël alzandosi.
— Un grido! — rispose Hulda.
— Sì!… Un grido di disperazione.
— Da quale parte?
— Ascoltiamo.
Guardarono a destra, a sinistra della cascata: non
riuscirono a vedere nulla. Avevano però inteso il grido:
«Aiuto!… Aiuto!» durante una di quelle calme regolari,
che durano circa un minuto fra uno sbalzo e l'altro del
Rjukan.
L'invocazione si ripeté.
— Joël — disse Hulda, — c'è qualche viaggiatore in
pericolo, che chiede soccorso… Bisogna raggiungerlo…
— Sì, sorella, e non può essere lontano! Ma da quale
parte?… Dove si trova?… Non vedo nulla.
Hulda aveva risalito il declivio, dietro la roccia sulla
quale era seduta, attaccandosi ai cespugli che coprono la
riva sinistra del Maan.
— Joël! — gridò.
— Lo vedi?…
— Là… là!
E Hulda indicava l'imprudente, sospeso quasi al disopra
dell'abisso. Se il piede, puntato contro la sottile sporgenza,
gli mancava, se scivolava un po' più giù, se lo coglieva la
vertigine, era perduto.
— Bisogna salvarlo! — disse Hulda.
— Sì, bisogna! — rispose Joël. — Con sangue freddo
giungeremo sino a lui — soggiunse Joël.
E gettò un lungo grido. Fu inteso dal viaggiatore, che
volse il capo da quella parte. Poi, per alcuni momenti Joël
cercò di studiare quale fosse il mezzo più pronto e meno
pericoloso per salvare quel pover'uomo.
— Hulda — egli disse — non hai paura?
— No, davvero.
— Conosci bene il Maristien?
— Vi sono passata parecchie volte.
— Ebbene, cerca di avvicinarti più che è possibile al
viaggiatore salendo la costa; poi lasciati scivolare pian
piano verso di lui, e prendilo per mano in modo da tenerlo
ben fermo. Ma che non cerchi di alzarsi: lo coglierebbe la
vertigine; ti trascinerebbe con lui e sareste entrambi
perduti!
— E tu Joël?
— Mentre tu andrai dall'alto, io mi arrampicherò dal
basso lungo il ciglione, dal lato del Maan. Mi troverò là
quando tu sarai giunta, e se scivolerete, cercherò di
trattenervi tutti e due.
Poi, con voce forte, approfittando di una nuova calma
del Rjukanfos, Joël gridò:
— Non muovetevi, signore!… Aspettate!… Cercheremo
di aiutarvi. — Hulda era già scomparsa dietro gli alti
cespugli del pendio, per discendere dall'altra parte del
Maristien.
Joël vide quasi subito la coraggiosa fanciulla ricomparire
alla svolta degli ultimi arbusti.
Egli poi, mettendo in pericolo la propria vita,
s'arrampicò lentamente lungo la parte in pendenza di quella
specie di dorso d'asino che fiancheggia il Rjukanfos. Che
calma sorprendente, che sicurezza di piede e di mano ci
voleva per costeggiare quell'abisso, le cui pareti erano
bagnate dall'umido polverio della cascata!
Parallelamente, ma ad un centinaio di piedi più su,
Hulda avanzava in direzione diagonale, in modo da
raggiungere più facilmente il posto in cui il viaggiatore
stava immobile. Non si poteva ancora vedere il suo viso
che egli teneva rivolto verso la cascata.
Joël, giunto sotto di lui, si fermò, e puntò saldamente il
piede in una fessura della roccia.
— Eh! signore! — egli gridò. Il viaggiatore volse il
capo.
— Signore! — riprese Joël. — Non fate il più piccolo
movimento, e tenetevi molto forte.
— State tranquillo, mi tengo solidamente, amico — egli
rispose con un tono che bastò a rassicurare Joël. — Se non
mi tenessi bene, già da un quarto d'ora sarei al fondo del
Rjukanfos!
— Mia sorella vi raggiungerà da un momento all'altro —
riprese Joël. — Vi prenderà per mano. Ma per alzarvi
aspettate che ci sia io!… Non muovetevi…
— Sto fermo come una rupe! — rispose il viaggiatore.
Già Hulda cominciava a discendere da quella parte,
cercando i punti meno sdrucciolevoli del pendio, fissando
il piede nelle screpolature che offrivano un solido
appoggio, sicura di sé come lo sono quelle fanciulle del
Telemark, abituate a scalare i declivi ardui della montagna.
Ed anche lei, come Joël, gridò al viaggiatore:
— State fermo, signore!
— Sì, sto fermo… e mi terrò fermo, ve l'assicuro, fin che
mi sarà possibile!
Come si vede, non gli mancavano le raccomandazioni.
Gliene venivano dall'alto e dal basso.
— E soprattutto, non abbiate timore! — soggiunse
Hulda.
— Non ho timore.
— Vi salveremo! — gridò Joël.
— Col vostro aiuto, per sant'Olaf, lo spero anch'io; da
solo mi sarebbe impossibile!
Il viaggiatore non s'era per nulla perduto d'animo. Ma,
evidentemente, dopo la caduta, braccia e gambe non gli
rispondevano più, ed egli poteva appena tenersi attaccato
alla breve sporgenza che lo separava dall'abisso.
Intanto Hulda continuava a discendere. Pochi momenti
dopo si trovava vicino al viaggiatore. Allora, appoggiato il
piede ad un'asperità della roccia, gli tese la mano.
Il viaggiatore tentò di rialzarsi un poco.
— Non muovetevi, signore!… Non muovetevi… —
disse Hulda. — Mi trascinereste con voi, ed io non avrei
sufficiente forza per trattenervi. Bisogna attendere l'aiuto di
mio fratello! Quando si troverà fra noi e il Rjukanfos, voi
tenterete di rialzarvi…
— Rialzarmi, mia brava figliola! È più facile dirlo che
farlo, e temo davvero che non ci riuscirò.
— Siete forse ferito, signore?
— Uhm! Niente di rotto, nessuna lussazione, spero, ma
almeno una bella e buona scalfittura alla gamba!
In quel momento, Joël si trovava ad una ventina di passi
più giù da Hulda e dal viaggiatore. Non aveva potuto
raggiungerli direttamente, giacché la sporgenza della rupe
glielo aveva impedito. Bisognava dunque risalire questa
superficie rotonda. Era la cosa più difficile e più
pericolosa, e Joël metteva a repentaglio la propria vita.
— Non muovetevi, Hulda! — egli gridò un'ultima volta.
— Se scivolate insieme, poiché non mi trovo in buona
posizione per trattenervi, saremmo perduti.
— Non temere, Joël — rispose Hulda. — Pensa a te e
che Dio ti aiuti.
Joël cominciò a sollevarsi sul ventre, trascinandosi con
veri movimenti da rettile. Due o tre volte, sentì venir meno
il punto di appoggio. Ma adoperando tutta la sua destrezza,
poté risalire fino al viaggiatore.
Era questi un uomo avanti negli anni, ma di vigorosa
corporatura; aveva un bel volto, amabile e sorridente. Joël
si aspettava invece di trovarsi di fronte ad un giovane
temerario, che avesse tentato di attraversare il Maristien.
— Avete commesso una grande imprudenza, signore! —
egli disse adagiandosi per riprendere fiato.
— Imprudenza? — soggiunse il viaggiatore, — dite pure
bestialità.
— Avete rischiato la vita…
— E vi ho fatto rischiare la vostra!
— Oh! per me… è un po' il mio mestiere! — rispose
Joël. E rialzandosi:
— Adesso si tratta di risalire la rupe; ma il più difficile è
fatto.
— Oh! il più difficile!
— Sì, il pericolo maggiore stava nel raggiungervi.
Adesso dobbiamo risalire un declivio meno ripido.
— Figliolo, sarà bene che non facciate molto conto su di
me. Ho una gamba che per il momento è fuori uso e lo sarà
forse ancora per qualche giorno.
— Tentate di alzarvi!
— Volentieri… col vostro aiuto.
— Prenderete il braccio di mia sorella. Io, vi sosterrò e
vi spingerò innanzi.
— Con forza?
— Con forza.
— Ebbene, amici, mi affido completamente a voi.
Poiché avete voluto aiutarmi, fate voi.
Si fece quello che Joël aveva detto, molto
prudentemente. C'era ancora pericolo a risalire la rupe, ma
tutti e tre seppero uscirne meglio e più in fretta di quanto
sperassero. D'altronde, il viaggiatore non si era né contuso
né slogato; soffriva solo per una grave scorticatura. Poté
quindi usare le gambe più di quanto si credesse, sebbene
sentisse molto dolore. Dieci minuti dopo egli era al sicuro,
al di là del Maristien.
Qui egli avrebbe potuto riposare, sotto i primi abeti che
ombreggiano il ciglione superiore del Rjukanfos. Ma Joël
lo pregò di fare ancora uno sforzo. Si trattava di arrivare ad
una capanna nascosta fra gli alberi, a breve distanza dalla
roccia su cui lui e sua sorella si erano fermati quando erano
giunti alla cascata. Il viaggiatore tentò di fare lo sforzo
richiesto, e appoggiandosi a Hulda e a Joël, poté giungere,
senza sentire eccessivo dolore, davanti alla capanna.
— Entriamo, signore — disse la fanciulla; — vi
riposerete un istante.
— L'istante potrebbe durare un quarto d'ora?
— Sì, signore, e dopo vi converrà venire con noi a Dal.
— A Dal?… Ma è precisamente a Dal che io andavo!
— Sareste dunque voi il viaggiatore, che viene dal nord
— chiese Joël — e che mi venne annunziato a Hardanger?
— Precisamente.
— Credetemi, non avevate certamente preso la strada
migliore…
— Pare anche a me!
— Se avessi potuto prevedere ciò che è accaduto, sarei
andato ad attendervi dall'altra parte del Rjukanfos!
— Sarebbe stata una buona idea, mio bravo figliolo!
M'avreste risparmiato un'imprudenza imperdonabile alla
mia età…
— A qualsiasi età! — osservò Hulda.
Entrarono nella capanna, ove viveva una famigliola di
contadini: padre, madre e due fanciulle, che si alzarono e
fecero un'ottima accoglienza ai nuovi arrivati.
Il viaggiatore, come poté constatare Joël, aveva riportato
soltanto una scorticatura alla gamba, abbastanza grave, un
po' al di sotto del ginocchio. Occorreva una buona
settimana di riposo, ma la gamba non era né rotta né
contusa; l'osso non era stato sfiorato, e questo era
l'essenziale.
Latticini eccellenti, fragole in abbondanza, pane nero
furono offerti e accettati. Hulda mangiò pochissimo. Joël
aveva invece un appetito formidabile, ma il viaggiatore
riusciva a tenergli testa.
— Per dire il vero — egli disse — questo esercizio mi ha
messo appetito, ma confesso volentieri che prendere per il
Maristien non era la cosa più prudente! Voler sostenere la
parte dello sfortunato Eystein quando si può essere suo
padre… ed anche suo nonno!
— Ah! conoscete anche voi la leggenda? — disse Hulda.
— Se la conosco! La mia balia soleva addormentarmi
narrandomela, negli anni beati in cui mi fu concesso di
avere una nutrice! Sì, la conosco, mia coraggiosa figliola, e
per questo sono anche più colpevole! Adesso, amici miei, è
un affar serio, per me, così invalido, andare sino a Dal!
Come farete a condurmi?
— Non datevi pensiero — rispose Joël. — La nostra
carrettella ci aspetta in fondo al sentiero: ci saranno però
trecento passi da fare…
— Uhm! Trecento passi!
— In discesa — aggiunse la fanciulla.
— Oh! se è in discesa andrà tutto bene, amici, e mi
basterà che mi diate un braccio.
— E perché non due? Ne abbiamo quattro tutti per voi.
— Vada per due, vada per quattro! Non mi costerà di
più, non vi pare?
— Non vi costerà niente.
— Sì! almeno un ringraziamento per braccio; e mi
accorgo che non vi ho ancora ringraziato.
— Di che, signore? — rispose Joël.
— Di questo, che col rischio della vostra vita avete
salvata la mia.
— Siete pronto? — domandò Hulda, alzandosi per porre
fine ai complimenti.
— Ma certamente!… Sono ai vostri ordini!
Il viaggiatore pagò il disturbo all'ospitale famiglia;
quindi sostenuto un po' da Hulda ma soprattutto da Joël,
cominciò a discendere il sentiero sinuoso che conduce
verso la riva del Maan, dove esso raggiunge la strada di
Dal.
Non mancarono tratto tratto degli «ahi! ahi!» che
provocavano franche e sonore risate.
Finalmente, raggiunsero la segheria, e Joël si occupò di
attaccare la carrettella.
Cinque minuti dopo, il viaggiatore si era sistemato nella
cassa con la fanciulla vicino.
— E voi? — domandò a Joël. — Mi sembra di aver
preso il vostro posto…
— Ve lo cedo molto volentieri.
— Ma forse restringendosi…
— No!… No!… Ho delle buone gambe, signore, delle
gambe da guida, e sono come ruote.
— Gambe formidabili, ragazzo mio, proprio formidabili.
Rifecero la strada che pian piano si avvicinava al Maan.
Joël si era messo alla testa del cavallo e lo teneva per la
briglia, in modo da evitare le scosse troppo forti.
Il ritorno si fece allegramente - almeno da parte del
viaggiatore.
Egli chiacchierava già come un vecchio amico della
famiglia Hansen.
Prima di giungere, i suoi salvatori già lo chiamavano
«signor Sylvius» e il signor Sylvius li chiamava ormai
Hulda e Joël, come se si conoscessero da antica data.
Verso le quattro, si cominciò a vedere la punta sottile del
campanile di Dal, tra gli alberi. Un istante dopo il cavallo
si fermò davanti all'albergo.
Faticosamente, il viaggiatore discese dalla carrettella.
Mamma Hansen si trovava sulla porta per riceverlo, e,
quantunque non avesse chiesto la miglior camera, questa
gli fu ugualmente assegnata.
CAPITOLO IX
SYLVIUS HOG - ecco il nome che fu scritto, quella sera,
sul libro dei viaggiatori, e precisamente sotto quello di
Sandgoïst. Vivo contrasto, bisogna riconoscerlo, tra i due
nomi come tra i due individui che li portavano. Tra di essi
non c'era alcuna somiglianza né fisica né morale. L'uno
tutto cuore, l'altro tutto calcolo.
Sylvius Hog aveva già sessant'anni, ma non li mostrava.
Alto, diritto, ben formato, fisicamente e moralmente sano,
piaceva a prima vista per il suo viso bello e amabile, senza
barba, ben incorniciato dai capelli grigi e un po' lunghi, col
sorriso negli occhi e sulle labbra, la fronte spaziosa che
aveva posto sufficiente per i più nobili pensieri, il petto
possente in cui batteva liberamente un cuore generoso. A
queste doti affiancava un inesauribile buon umore,
un'intelligenza fine e delicata, un carattere capace di slanci
e di sacrifici.
Sylvius Hog, di Christiania: il nome dice tutto. E non
solo era conosciuto, amato, apprezzato e onorato nella
capitale, ma in tutta la Norvegia. Nella Svezia, invece, si
aveva di lui un'opinione alquanto diversa.
Ciò necessita di una spiegazione.
Sylvius Hog era professore di diritto a Christiania. In
altri Stati, gli avvocati, gli ingegneri, i medici e i negozianti
occupano i massimi gradini della scala sociale; in
Norvegia, invece, il più alto posto è occupato dai
professori.
In Svezia vi sono quattro classi: nobiltà, clero, borghesia
e contadini; in Norvegia ce ne sono tre: manca la nobiltà.
Non c'è alcun rappresentante dell'aristocrazia; non c'è
nemmeno l'aristocrazia burocratica. In questo paese
privilegiato non esistono privilegi, e i funzionari sono i
servitori umilissimi del pubblico. Insomma eguaglianza
sociale perfetta, nessuna distinzione politica.
Non ci sorprenderemo di sapere che Sylvius Hog,
essendo uno degli uomini ragguardevoli del paese, era
membro dello Storting. 2 In quella grande assemblea, e per
il suo ingegno e per la probità della sua vita pubblica e
privata, esercitava una grande influenza anche sui
contadini-deputati eletti in gran numero dalle campagne.
Dalla Costituzione del 1814 in poi, si può ben dire: la
Norvegia è una repubblica che ha come presidente il re di
Svezia.
E naturalmente la Norvegia, assai gelosa delle proprie
prerogative, ha saputo conservare la propria autonomia. Lo
Storting non è per nulla soggetto al Parlamento svedese. Ed
ecco perché uno dei suoi rappresentanti più influenti e più
devoti al paese non è visto di buon occhio al di là di quella
frontiera convenzionale che divide la Svezia dalla
Norvegia.
Questo era Sylvius Hog. Carattere indipendente e
disinteressato, non avendo nessuna ambizione, aveva più
volte rifiutato di entrare al ministero. Difensore dei diritti
della Norvegia, s'era costantemente e inflessibilmente
opposto a tutti i soprusi della Svezia.
Tale è la separazione morale e politica dei due paesi, che
il re di Svezia - allora Oscar XV - dopo essersi fatto
2
La costituzione del 1814, secondo la quale la Norvegia veniva unita alla Svezia,
sanciva l'autonomia di un Parlamento norvegese chiamato Storting. (N.d.T.)
incoronare a Stoccolma, dovette assumere la corona anche
a Drontheim, l'antica capitale della Norvegia. Tale è anche
il riserbo un tantino diffidente dei norvegesi per quanto
riguarda gli affari, che la Banca di Christiania non riceve
volentieri i biglietti della Banca di Stoccolma. Tale è infine
la divisione tra i due popoli che la bandiera svedese non
sventola sugli edifici e sulle navi norvegesi. La bandiera
della Norvegia ha una croce gialla su fondo azzurro e
quella della Svezia una croce azzurra su fondo rosso.
Il professore Sylvius Hog era di spirito e di cuore
norvegese, e in ogni circostanza patrocinava gli interessi
del suo amato paese. Nel 1854, quando lo Storting propose
di abolire la carica di viceré e anche l'ufficio di
governatore, Sylvius Hog fu tra i più caldi sostenitori di
questa proposta, e contribuì a farla adottare.
Ecco perché, se nella parte orientale della penisola
scandinava egli non era molto amato, lo era invece
moltissimo nella parte occidentale, ed era popolare persino
nei cantoni più remoti del Regno. La sua fama era diffusa
per i monti della Norvegia dai paraggi di Christiania fino
alle estreme rupi settentrionali. Egli meritava la popolarità
di cui godeva, e nessuna calunnia aveva potuto colpire in
lui il professore e l'uomo politico. Era, del resto, un vero
norvegese, ma dal sangue caldo: non aveva nulla della
flemma tradizionale dei suoi compaesani, ed era più
risoluto nel pensiero e nell'azione di quello che comporta,
di solito, l'indole scandinava. Ciò si capiva subito dalla
prontezza dei suoi movimenti, dall'ardore della sua parola,
dalla vivacità dei suoi atti. Nato in Francia lo avrebbero
detto «un uomo del Mezzogiorno» se avesse voluto
accettare quel paragone che poteva veramente adattarglisi.
Benché Sylvius Hog non avesse mai lucrato sugli affari
pubblici, la sua posizione era relativamente agiata. Cuore
generoso, non si curava mai di se stesso, ma sempre degli
altri. Disprezzava anche gli onori, gli bastava essere
deputato, non chiedeva niente di più.
In quel momento, Sylvius Hog, approfittando di tre mesi
di congedo, voleva riprendersi dalle fatiche dopo aver dato,
per un anno, tutto se stesso nel lavoro legislativo. Da sei
settimane aveva lasciato Christiania, con l'intenzione di
visitare tutta la regione che si estende fino a Drontheim,
l’Hardanger, il Telemark, i distretti di Kongsberg e di
Drammen. Voleva conoscere un po' meglio queste
province; un viaggio di diletto e d'istruzione insieme.
Sylvius Hog aveva percorso una parte di questa regione,
e venendo dal nord aveva voluto vedere la celebre cascata,
una delle meraviglie del Telemark. Dopo aver esaminato,
sui luoghi, il progetto, allora allo studio, della ferrovia da
Drontheim a Christiania, aveva domandato una guida per
scendere a Dal e contava incontrarla sulla riva sinistra del
Maan. Ma, senza attenderla, attirato da quei meravigliosi
siti del Maristien, egli si era avventurato sul pericoloso
passo. Terribile imprudenza che stava per pagare con la
vita! E, bisogna ammetterlo, senza l'aiuto provvidenziale di
Joël e di Hulda Hansen, il viaggio avrebbe avuto termine,
insieme col viaggiatore, nel baratro del Rjukanfos.
CAPITOLO X
L'ISTRUZIONE è molto diffusa nella penisola scandinava,
non solo nelle città, ma anche nelle campagne; e non si
limita al saper leggere, scrivere e far di conto; si estende
più in là. Il contadino impara con piacere. La sua mente è
aperta, ed egli s'interessa alla cosa pubblica. Prende una
larga parte agli affari politici e comunali; nello Storting la
rappresentanza rurale è sempre in maggioranza, i deputati
del contado talora conservano il costume del loro paese:
sono presi ad esempio, ed è giusto che sia così, per la loro
capacità di ragionamento, per il loro senso pratico, per
l'intuizione sicura - anche se un po' lenta - e specialmente
per la loro onestà.
È quindi naturale che il nome di Sylvius Hog fosse
conosciuto in tutta la Norvegia e pronunciato con rispetto
fino nel selvaggio Telemark.
Quindi mamma Hansen, ricevendo un ospite così
generalmente stimato, si credette in dovere di manifestargli
il piacere che provava nell'albergarlo per alcuni giorni sotto
il suo tetto.
— Non so se questo vi faccia onore, madama Hansen —
rispose Sylvius Hog — ma certo a me fa piacere. Oh! era
un pezzo che sentivo parlare i miei allievi di questo
ospitale albergo di Dal! E contavo di venirvi a passare una
settimana per riposarmi. Ma, che sant'Olaf m'aiuti, non
avrei mai creduto di giungervi sopra una sola gamba.
E quel brav'uomo strinse cordialmente la mano alla sua
ostessa.
— Signor Sylvius — disse Hulda, — volete che mio
fratello vada a cercare un medico a Bamble?
— Un medico, mia piccola Hulda! Volete, dunque, che
io perda l'uso di tutte e due le gambe!
— Oh! signor Sylvius!
— Un medico! E perché non potremmo chiamare il mio
buon amico il dottor Boek di Christiania? E tutto ciò per
una feritina…
— Ma una ferita, se è mal curata — osservò Joël — può
diventare grave.
— Ah! Joël, perché volete che divenga grave?
— Ma io non lo voglio affatto, signor Sylvius, Dio me
ne guardi!
— Tutto andrà bene, e Dio aiuterà me e voi, specie la
buona Hulda se vorrà concedermi le sue cure…
— Ben volentieri, signor Sylvius!
— Prima della fine della settimana — rispose Joël —
spero che sarete pienamente ristabilito, signor Sylvius.
— Lo spero anch'io.
— E allora vi potrò condurre in qualunque parte del
cantone preferirete.
— Parleremo di questo, Joël! Ne riparleremo quando io
mi sarò rimesso. Ho ancora un mese di congedo
disponibile, e quand'anche lo dovessi passare per intero
qui, non sarei davvero da compiangere! Dovrò pur vedere
la vallata del Vestfjorddal fra i due laghi, dovrò fare la
salita del Gusta, ritornare al Rjukanfos, perché non l'ho
ancora visto, sebbene mi sia capitato quest'incidente… e ci
tengo a vederlo!
— Ci ritornerete, signor Sylvius — rispose Hulda.
— E vi ritorneremo insieme con la vostra buona madre,
se vuole accompagnarci. Ah! adesso che mi ricordo, sarà
bene che io avverta, almeno con una riga, Kate, la mia
vecchia governante, e Fink, il mio vecchio domestico di
Christiania! Sarebbero assai inquieti se non ricevessero mie
notizie, e, al ritorno, non mi mancherebbero i
rimproveri!… E ora, voglio anche farvi una confessione!
Le fragole, i latticini, nulla di più gustoso e rinfrescante,
ma non basta, giacché non voglio sentir parlare di dieta!…
Non è ancora ora di pranzo per voi?
— Oh! poco importa, signor Sylvius!…
— Importa moltissimo, invece! Credete voi, che durante
il mio soggiorno a Dal, io voglia annoiarmi pranzando
solo? No, desidero mangiare con voi e con vostra madre, se
ella non ha niente in contrario!
Mamma Hansen, per dire il vero, preferiva non
accostarsi troppo ai viaggiatori, ma fece eccezione questa
volta, e si dichiarò felicissima di avere alla propria tavola
un deputato dello Storting.
— D'accordo, allora — riprese Sylvius Hog —
mangeremo insieme nel . salotto.
— Sì, signor Sylvius — rispose Joël; — basterà che io vi
spinga sulla vostra poltrona quando il pranzo sarà pronto.
— Di bene in meglio, signor Joël, perché non addirittura
in carrettella! No, no! Mi basterà avere l'appoggio di un
braccio, e potrò camminare. Non sono amputato, sino a
prova contraria!
— Come vorrete, signor Sylvius! — rispose Hulda. —
Ma non fate imprudenze, vi prego… o Joël andrà subito a
chiamare il medico.
— Minacce! Ebbene, sì, sarò prudente e docile! E
purché non mi si metta a dieta, sarò il più obbediente dei
malati! Ma non avete fame, amici?
— Vi chiediamo solo un quarto d'ora per servirvi una
minestra al ribes, una trota del Maan, una grouse che Joël
ha portato ieri dall'Hardanger e una buona bottiglia di vino
francese.
— Grazie, mia brava figliola, grazie!
Hulda uscì per sorvegliare il pranzo e preparare la
tavola, mentre Joël andava a restituire la carrettella al vice
direttore Lengling.
Sylvius Hog rimase solo. Il suo pensiero non sapeva
distaccarsi da questa buona famiglia, di cui ora era l'ospite
e il debitore al tempo stesso. In che modo avrebbe potuto
ricompensare i servigi e le cure di Hulda e di Joël? Ma non
ebbe tempo di abbandonarsi a lunghe riflessioni, giacché,
due minuti dopo, stava seduto a tavola, al posto d'onore. Il
pranzo fu eccellente, tale da giustificare la rinomanza
dell'albergo; e il professore mangiò con grande appetito.
La serata passò in piacevoli discorsi, ai quali Sylvius
Hog prese parte con grandissimo piacere. Per supplire al
silenzio di mamma Hansen, egli fece parlare il fratello e la
sorella. Più che mai si sentì preso da simpatia per loro; e fu
commosso dalla tenera amicizia che li legava l'uno all'altra.
Scesa la notte, fu ricondotto nella sua camera da Joël e
da Hulda; ricevette e ricambiò un cordiale saluto, e appena
a letto, si addormentò profondamente.
Si svegliò all'alba, e tornò a riflettere prima che fosse
bussato alla sua porta.
«Davvero, non so come potrò uscirne! Non si può farsi
salvare la vita e farsi amorevolmente assistere, per poi
cavarsela con un semplice "grazie"! Io sono debitore a
Hulda e Joël, questo è indubbio; ma questo genere di
servigi non si possono ricompensare con denaro. Ohibò!…
D'altra parte questa famiglia mi pare tanto felice, e che
cosa potrò io aggiungere alla loro felicità! Li farò parlare
ancora, e forse discorrendo…»
Infatti i discorsi furono ripresi, nei tre o quattro giorni
durante i quali il professore dovette tenere la gamba distesa
sullo sgabello; ma Hulda e Joël si mantennero un po'
riservati. Né l'una né l'altro ebbero il coraggio di aprire
interamente il loro animo riguardo alla madre, di cui
Sylvius Hog aveva notato il contegno freddo e
preoccupato. Poi per un certo sentimento di istintiva
riservatezza, non avevano nemmeno osato parlare di Ole
Kamp e dell'inquietudine che provavano per il suo ritardo.
Forse temevano di turbare il buon umore dell'ospite
comunicandogli le loro pene!
— Forse — faceva osservare Joël a sua sorella —
facciamo male a non confidarci col signor Sylvius! È un
uomo di buon senso, e potrebbe facilmente con le sue
relazioni attingere notizie al ministero della Marina a
proposito del ritardo del Viken.
— Hai ragione, Joël — rispondeva Hulda. — Penso che
sarebbe meglio dirgli tutto; ma aspettiamo che sia guarito.
— Sì, lo sarà presto — riprendeva Joël.
Al termine della settimana, Sylvius Hog non aveva più
bisogno di aiuto per lasciare la propria camera, benché
zoppicasse ancora un poco. Cominciò allora ad andarsi a
sedere su una delle panche davanti alla casa all'ombra degli
alberi. Da lì poteva vedere la cima del Gusta, che
scintillava ai raggi del sole, mentre il Maan spingeva
innanzi dei tronchi d'albero abbandonati alla corrente.
Capitavano pure dei passeggeri, sulla strada che va da
Dal al Rjukanfos. Spesso erano turisti che si fermavano
un'ora o due all'albergo di mamma Hansen; ed anche degli
studenti di Christiania, con sacco in spalla e coccarda al
berretto. E, quando scorgevano il professore, erano
continui «buongiorno», saluti cordiali, che stavano ad
indicare quanto Sylvius Hog era amato da tutta quella
gioventù.
— Voi qui, signor Sylvius?
— Io, in persona, amici miei!
— E vi si credeva in fondo all'Hardanger!
— Dovrei essere, invece, in fondo al Rjukanfos!
— Ebbene, noi diremo a tutti che siete a Dal!
— Sì, a Dal, con una gamba fasciata.
— Per fortuna avete trovato buon letto e ottime cure
nell'albergo di mamma Hansen.
— Dove trovarsi meglio?
— Non c'è un albergo come questo in nessun luogo!
— Non si trovano in nessun luogo persone tanto cortesi.
— È vero, è vero! — esclamavano in coro i viaggiatori.
E tutti bevevano alla salute di Hulda e di Joël,
conosciutissimi in tutto il Telemark.
Allora il professore narrava i pericoli che aveva corso,
confessava la propria imprudenza, raccontava come era
stato salvato. E diceva inoltre quanto si sentiva
riconoscente verso i suoi salvatori.
— Se rimango qui fin che potrò soddisfare il mio debito
— aggiungeva — le mie lezioni rimarranno sospese per un
pezzo, e voi potrete, nel frattempo, godervi una bella
vacanza.
— Bravo, signor professore — riprese l'allegra
combriccola; — è la graziosa Hulda che vi trattiene a Dal!
— Una cara fanciulla, amici miei, ed anche incantevole,
ma io ho ormai sessant'anni, per sant'Olaf!
— Alla salute del nostro professore!
— E alla vostra, giovanotti! Correte in paese, istruitevi,
divertitevi! Alla vostra età tutto è bello! Ma diffidate del
Maristien! Joël e Hulda non si troverebbero là per salvare i
temerari.
Poi, tutti si congedavano e si spargevano per la valle
facendo risuonare l'aria di allegri «God aften».
Però, una volta o due, Joël dovette assentarsi per servire
da guida a dei turisti che volevano fare l'ascensione del
Gusta. Sylvius Hog avrebbe voluto accompagnarlo;
pretendeva di essere guarito. Infatti la ferita cominciava a
cicatrizzarsi. Ma Hulda gli vietò in modo assoluto di
affrontare una fatica ancora superiore alle sue forze, e,
quando Hulda ordinava, bisognava obbedire.
È davvero una singolare montagna il Gusta: il suo cono
centrale, fiancheggiato da abissi colmi di neve, emerge da
una foresta di abeti che s'allarga alla base. E che orizzonte
si può contemplare dalla sua cima! Verso oriente, il
cantone di Numedal; ad occidente tutto l'Hardanger e i suoi
imponenti ghiacciai; al piede della montagna la sinuosa
Vestfjorddal fra i laghi Mjos e Tinn, Dal e le sue case in
miniatura, come una scatola di trastulli per bambini, e il
Maan, nastro luminoso che scintilla attraverso il verde
delle pianure.
Per fare questa salita, Joël partiva alle cinque del
mattino, ed era di ritorno alle sei di sera. Sylvius Hog e
Hulda gli andavano incontro. Lo aspettavano presso la
capanna del traghettatore. Appena i turisti e la loro guida
scendevano dalla chiatta, i saluti e le strette di mano non
finivano più; e di ritorno all'albergo, i tre amici passavano
ancora una serata insieme.
Per la verità sembrava che il professore non avesse gran
fretta di guarire, per così dire, come se gli spiacesse
lasciare la casa ospitale di mamma Hansen.
Del resto il tempo passava assai rapidamente. Sylvius
Hog aveva scritto a Christiania che aveva intenzione di
fermarsi qualche tempo a Dal. La notizia della sua
avventura al Rjukanfos s'era sparsa in tutto il paese. I
giornali ne pubblicarono la relazione, aggiungendo
ciascuno dei particolari. Per questo, ogni giorno
giungevano lettere all'albergo, senza poi contare gli
opuscoli e i giornali! Bisognava leggere e rispondere.
Sylvius Hog leggeva e rispondeva, ripetendo spesso i nomi
di Hulda e di Joël, che, in tal modo, divennero famosi in
tutta la Norvegia.
Però il professore non poteva fermarsi indefinitamente a
Dal, ma non era ancora riuscito a trovare il mezzo di
pagare il suo debito di riconoscenza. Ad ogni modo, aveva
cominciato a capire che quella famiglia non era tanto felice
come appariva a prima vista. L'ansietà con cui tutte le
mattine Hulda e Joël aspettavano il corriere di Christiania o
di Bergen, il disappunto, il dolore anche che mostravano di
provare non ricevendo nulla, parlava fin troppo chiaro.
Si era già al 9 giugno; e nessuna notizia del Viken! Un
ritardo di oltre due settimane! Non una lettera di Ole! Nulla
che valesse a lenire i tormenti di Hulda! La povera ragazza
si disperava, e Sylvius Hog aveva spesso osservato che i
suoi occhi erano molto arrossati quando lei, al mattino,
andava a trovarlo.
«Che dolore avrà questa buona fanciulla?» si chiedeva
spesso. «Teme una disgrazia di cui non mi ha mai parlato!
Forse è un segreto di famiglia che si vuol celare ai
forestieri? Ma sono ancora per essi un forestiero? No, di
certo. Dovrebbero ben capirlo! Ma forse, quando io
annuncerò la mia partenza, capiranno che s'allontana da
loro un vero amico.»
In quel medesimo giorno egli disse:
— Amici, s'avvicina, con mio vivo dispiacere, il
momento in cui io dovrò lasciarvi.
— Così presto, signor Sylvius, così presto! — esclamò
Joël con una ansietà che non riuscì a dominare.
— Eh! il tempo passa presto vicino a voi! Sono già
diciassette giorni che mi trovo a Dal!
— Che!… diciassette giorni! — disse Hulda.
— Sì, cara fanciulla, e si avvicina la fine del mio
congedo. Non ho un giorno da perdere se voglio finire il
mio viaggio passando da Drammen e da Kongsberg.
Tuttavia, se lo Storting deve a voi il fatto di non dovermi
sostituire con un altro deputato, lo Storting, non più di me,
non saprebbe come ricambiare…
— Ah! signor Sylvius! — rispose Hulda, e pareva che
con la sua manina volesse chiudergli la bocca.
— D'accordo, Hulda, mi è vietato di parlare di questo,
qui almeno…
— Né qui, né altrove — riprese la fanciulla.
— Sia, qui io non sono padrone di me stesso e devo
obbedire! Ma Joël e voi, non verrete a Christiania a
trovarmi?
— A Christiania?
— Sì, a vedermi… per passare alcuni giorni in casa mia,
con mamma Hansen, già s'intende.
— E se lasciamo l'albergo, chi farà le nostre veci? —
rispose Joël.
— Ma l'albergo, finita la stagione delle escursioni, non
vi darà molto da fare, almeno penso: allora si può
chiuderlo, e…
— Signor Sylvius, sarà molto difficile — soggiunse
Hulda.
— Sarà facilissimo invece, amici. Non ditemi di no, non
accetterò questa risposta. E allora, quando vi avrò in mio
potere, nella più bella camera della mia casa, tra la mia
vecchia Kate e il mio vecchio Fink e sarete come miei figli,
dovrete ben dirmi quello che io posso fare per voi!
— Ciò che potete fare per noi, signor Sylvius? — ripeté
Joël, fissando sua sorella.
— Joël!… — disse Hulda, che aveva indovinato il
pensiero di suo fratello.
— Ebbene, parlate, ragazzo mio!
— Ebbene, signor Sylvius, potreste farci un grande
onore!
— Quale?
— Se non vi disturba, dovreste assistere al matrimonio
di Hulda.
— Al suo matrimonio! — esclamò Sylvius Hog. —
Come! la mia piccola Hulda si sposa, e non me ne avete
detto nulla?
— Oh! signor Sylvius! — balbettò la fanciulla con gli
occhi gonfi di lacrime.
— E quando si deve fare il matrimonio?
— Quando piacerà a Dio di ricondurci Ole, il suo
fidanzato!… — rispose Joël.
CAPITOLO XI
ALLORA JOËL raccontò tutta la storia di Ole Kamp.
Il professore, assai commosso, ascoltava con la più viva
attenzione. Adesso sapeva tutto. Aveva anche letta l'ultima
lettera che annunciava il prossimo ritorno di Ole, e Ole non
era ancora tornato! Quante inquietudini, quante angosce
per tutta la famiglia Hansen! «Ed io che mi credevo in una
famiglia felice!» osservò il professore tra sé.
Però, riflettendo un po' meglio, gli parve che Hulda e
Joël esagerassero alquanto la cosa; si poteva ancora
sperare. A forza di contare quei giorni di maggio e di
giugno, la loro immaginazione ne aveva esagerato la cifra,
come se Hulda e Joël li avessero contati due volte.
Il professore non mancò di far loro coraggio; espose i
motivi che potevano ragionevolmente spiegare il ritardo
del Viken, motivi seri e plausibili.
Tuttavia, l'espressione del suo volto s'era fatta grave. Il
dolore di Hulda e Joël l'aveva profondamente turbato.
— Ascoltate, figli miei — egli disse. — Sedete al mio
fianco e parliamo.
— E che potrete dirci, signor Sylyius? — rispose Hulda,
che aveva il cuore gonfio di amarezza.
— Vi dirò quello che mi pare giusto — riprese il
professore. — Ho riflettuto su quanto mi ha riferito Joël.
Ora, mi sembra che la vostra inquietudine passi la misura.
Non voglio darvi delle speranze illusorie, ma è necessario
vedere le cose come sono realmente.
— Ah! purtroppo, il mio povero Ole — soggiungeva
Hulda — s'è perduto col Viken!… Io non lo rivedrò più!
— Sorella!… Sorella!… — esclamava Joël — te ne
prego, calmati, lascia parlare il signor Sylvius.
— E soprattutto conserviamoci calmi, figlioli! Vediamo!
Ole doveva tornare a Bergen fra il 15 e il 20 maggio.
— Sì — rispose Joël, — fra il 15 e il 20 maggio, come
dice la sua lettera, e siamo al 9 giugno.
— È dunque in ritardo di venti giorni. Non nego che può
destare preoccupazione. Ma non bisogna pretendere da una
nave a vela l'esattezza di un piroscafo.
— È quello che ho sempre detto a Hulda e che le ripeto
ancora — osservò Joël.
— E fate bene, ragazzo mio — riprese Sylvius Hog. —
Inoltre, può darsi che il Viken sia un vecchio bastimento,
che viaggia male, come la maggior parte delle navi di
Terranova, specialmente se sono troppo cariche. E poi da
alcune settimane il tempo è cattivo. Forse Ole non ha
potuto far vela il giorno indicato nella lettera. Basterebbe
che il Viken avesse rimandato solo di otto giorni la partenza
per spiegare il ritardo del Viken e quello di una sua nuova
lettera. Ciò che vi dico, credetemi, è frutto di ponderate
riflessioni. È anche possibile che il Viken debba deporre
una parte del carico in qualche altro porto.
— Ole ce lo avrebbe scritto! — rispose Hulda che non
era capace neanche di attaccarsi a questa speranza.
— Chi prova che non abbia scritto un'altra lettera? —
riprese il professore. — E se l'ha davvero fatto, allora non è
più il Viken, in questo caso, a ritardare, ma il corriere
d'America. Supponete che il Viken abbia dovuto visitare
qualche porto degli Stati Uniti; ciò basterebbe a spiegare
perché nessuna delle sue lettere sia ancora giunta in
Europa.
— Negli Stati Uniti… signor Sylvius?
— Sì, si verifica qualche volta, e basta che manchi un
corriere per lasciare la gente a lungo senza notizie… Ad
ogni modo, la prima cosa da fare è chiedere informazioni
agli armatori di Bergen. Li conoscete ?
— I Fratelli Help.
— Fratelli Help! Ma li conosco io pure. Il più giovane,
Help junior, com'è detto, benché abbia circa la mia età, è
uno dei miei buoni amici. Abbiamo più volte pranzato
insieme a Christiania! Gli Help, ragazzi! Saprò da loro
tutto ciò che riguarda il Viken! Scrivo immediatamente, e,
se occorre, andrò io stesso a Bergen.
— Quanto siete buono, signor Sylvius! — risposero
insieme Hulda e Joël.
— Non un ringraziamento, ve lo proibisco! Vi ho io
forse ringraziato per quello che voi avete fatto, per me,
lassù? Come! Mi si presenta una piccola occasione di farvi
un favore, e dovrei lasciarmela sfuggire?…
— Ma poc'anzi parlavate del vostro ritorno a Christiania
— osservò Joël.
— Ebbene, andrò invece a Bergen, se può appena
tornarvi utile.
— Ma volevate lasciarci, signor Sylvius — soggiunse
Hulda.
— Ebbene, non vi lascerò, mia cara fanciulla! Sono
libero delle mie azioni, mi sembra, e finché non vedrò
chiaro in questa situazione, a meno che mi mettiate alla
porta…
— Ma che dite mai?
— Anzi, potrebbe darsi che rimanessi a Dal sino al
ritorno di Ole! Mi piacerebbe conoscerlo il fidanzato della
mia piccola Hulda! dev'essere un bravo figliolo, del genere
di Joël!
— Sì! tutto come lui!… — rispose Hulda.
— N'ero sicuro! — esclamò il professore, che era
tornato di buon umore, imponendoselo, certamente.
— Ole rassomiglia a Ole, signor Sylvius — disse Joël;
— e ciò basta perché abbia un nobile cuore.
— Lo credo, mio bravo Joël, e ciò mi fa desiderare ancor
più di conoscerlo. Oh! lo rivedremo presto! Qualche cosa
mi dice che il Viken sta per ritornare.
— Dio vi ascolti.
— E perché non dovrebbe ascoltarmi? Lui ha l'orecchio
fino! Sì! Voglio assistere alle nozze di Hulda, giacché sono
tra gli invitati. Lo Storting mi concederà certamente una
proroga alle mie vacanze. Avrebbe dovuto concedermi ben
altro prolungamento se voi altri mi aveste lasciato cadere
nel Rjukanfos, come meritavo!
— Signor Sylvius — disse Joël, — che piacere ci fa
sentir parlare così… come ci fa bene…
— Non quanto io vorrei, giacché io vi devo tutto, e non
so ancora…
— Non parliamo più di quest'incidente!
— Anzi parliamone! Ah! mi sono forse salvato da solo
dalle insidie del Maristien? Ho forse rischiato la mia vita
per salvare me stesso? Mi sono condotto con le sole mie
forze all'albergo di Dal? Mi sono curato da me stesso?
Badate, io sono testardo come un mulo, ve ne prevengo.
Ora mi sono messo in testa di assistere al matrimonio di
Hulda e di Ole Kamp, e, per sant'Olaf, vi assisterò.
La fiducia è comunicativa. Come resistere a quella che
mostrava Sylvius Hog? Egli se ne accorse quando un
mezzo sorriso tornò a rischiarare il volto di Hulda! Essa
desiderava poterlo credere… desiderava poter ancora
sperare.
— Dunque — egli riprese — bisogna ricordarsi che il
tempo ha le ali. Facciamo subito i preparativi del
matrimonio…
— Me ne occupo da tre settimane — osservò Hulda
timidamente.
— Tanto meglio! Non interrompiamoli per nessun
motivo!
— Interromperli? — soggiunse Joël. — Tutto è pronto!
— Anche il vestito da sposa, il corsetto coi fermagli di
filigrana, la cintura e i suoi ciondoli.
— Non manca nulla!
— E la corona a raggi che vi farà sembrare una piccola
santa, mia dolce Hulda?
— C'è anche la corona.
— E avete fatti gli inviti?
— Non ne ho dimenticato uno solo — rispose Joël, —
neanche quello che ci preme di più: il vostro.
— Avete scelta la damigella d'onore fra le più savie
fanciulle del Telemark?
— E fra le più belle, signor Sylvius — rispose Joël; —
madamigella Siegfrid Helmboë di Bamble!
— Me lo dite in certo modo! — osservò il professore —
e vi fate anche rosso. Eh! Eh! Per caso damigella Siegfrid
Helmboë di Bamble sarebbe destinata a divenire madama
Joël Hansen di Dal?
— Avete indovinato — s'affrettò a rispondere Hulda; —
Siegfrid è anche la mia migliore amica.
— Bene! Ancora un matrimonio! — esclamò il
professore. — E sono sicuro che mi si inviterà, e sarò felice
di assistervi. Decisamente, dovrò dare le mie dimissioni
dalla carica di deputato allo Storting, giacché non potrò più
intervenirvi alle sedute! Sarò vostro testimonio, mio caro
Joël, dopo essere stato testimonio di vostra sorella, se me lo
permettete. Decisamente, voi fate di me tutto quello che
volete, o piuttosto fate tutto quello che voglio io!
Abbracciatemi, piccola Hulda! Una stretta di mano,
figliolo! E adesso andiamo a scrivere al nostro amico Help
junior, di Bergen!
Hulda e Joël lasciarono la camera, che il professore
considerava già come sua, e ritornarono alle loro
occupazioni alquanto confortati. Sylvius Hog rimase solo.
— Povera fanciulla! Povera fanciulla! — egli mormorò.
— Sì! Ho potuto attenuare il suo dolore!… Le ho dato un
po' di calma!… Ma è pur lungo questo ritardo, e quei mari
sono assai cattivi in questa stagione!… Se il Viken avesse
naufragato!… Se Ole non dovesse più tornare!
Un istante dopo, il professore scriveva agli armatori di
Bergen. Egli chiedeva i particolari più precisi intorno alla
nave Viken e alla sua spedizione di pesca.
Desiderava sapere se qualche incidente, previsto o meno,
l'aveva costretta a cambiare il porto d'arrivo. Chiedeva
soprattutto come i marinai e i negozianti di Bergen
spiegavano questo ritardo. Finalmente pregava l'amico
Help junior di rispondere a volta di corriere.
Non occorre soggiungere che la lettera indicava pure il
motivo del vivo interessamento di Sylvius Hog,
aggiungendo il racconto di quanto gli era accaduto nel
Telemark, il debito di riconoscenza che sentiva verso
Hulda e la gioia che avrebbe provato nel poter dare qualche
speranza ai figli di mamma Hansen.
Joël portò la lettera alla posta di Mœl. Doveva partire
l'indomani. L'11 giugno sarebbe giunta a Bergen. Il 12 sera
o il 13 mattina poteva giungere la tanto sospirata risposta.
Tre giorni per avere una risposta! Come parvero lunghi!
Tuttavia, a forza di parole rassicuranti, di motivi plausibili,
il professore riuscì a rendere meno penosa questa
aspettativa. Adesso che egli conosceva il segreto di Hulda,
aveva per le mani il migliore argomento, ed era proprio una
consolazione per Joël e per sua sorella il potere parlare
continuamente dell'assente.
— Per ora non faccio parte della vostra famiglia? —
ripeteva Sylvius Hog. — Sì!… una specie di zio
d'America, o capitato da qualche altra parte del mondo.
E dal momento che era della famiglia non si dovevano
avere più segreti con lui.
Ora, egli aveva pure notato il contegno dei due figlioli
verso la madre. La riservatezza di madama Hansen doveva
avere, secondo lui, un altro motivo che non l'inquietudine
per quello che riguardava Ole Kamp. Ne parlò a Joël, ma
egli non seppe che rispondergli. Volle interrogare anche
madama Hansen sull'argomento; ma la trovò così chiusa
che rinunciò alla speranza di conoscere i segreti di lei.
Attese di scoprirli col tempo.
Come Sylvius Hog aveva previsto, la risposta di Help
junior giunse a Dal il 13 mattina.
Joël, all'alba, era andato incontro al postino. Fu lui stesso
a portare la lettera nel salone, dove il professore si trovava
accanto a mamma Hansen e a sua figlia.
Ci fu un istante di silenzio. Hulda, pallidissima, non
avrebbe potuto parlare, tanto l'emozione le faceva battere il
cuore. Stringeva la mano del fratello, non meno
emozionato di lei.
Sylvius Hog aprì la lettera e la lesse ad alta voce.
Con grande suo dispiacere, la risposta di Help junior
conteneva solo delle vaghe indicazioni, e il professore non
poté celare il suo malcontento a Hulda e a Joël, che lo
ascoltarono con gli occhi pieni di lacrime.
Il Viken aveva effettivamente lasciato Saint-PierreMiquelon il giorno indicato nell'ultima lettera di Ole
Kamp. Lo si era saputo in modo sicuro da altri bastimenti
giunti a Bergen dopo la sua partenza da Terranova. Ma
anche essi avevano sofferto per il tempo che era stato
pessimo nei paraggi dell'Islanda. Tuttavia erano riusciti a
mettersi in salvo. E allora perché non avrebbe potuto il
Viken, fare altrettanto? Forse si trovava ancorato in qualche
porto. Era, del resto, una nave eccellente, assai solida,
comandata da un ottimo capitano, Frikel di Hammerfest, e
montata da un equipaggio che aveva già dato prova delle
proprie capacità. Ad ogni modo, il ritardo era preoccupante
e se si fosse prolungato c'era da temere che il Viken, con
uomini e carico, si fosse perduto.
Help si doleva di non avere migliori notizie da dare sul
conto del giovane parente degli Hansen. Egli ricordava Ole
Kamp come un bravo marinaio meritevole delle
sollecitudini di Sylvius Hog. Chiudeva la lettera
assicurando il professore del suo affetto e aggiungendo
cordialità per la famiglia. Prometteva infine di
trasmettergli, senza indugio, qualunque notizia giungesse
della nave attesa da qualsiasi porto della Norvegia, e
firmava.
La povera Hulda, mancatele le forze, era caduta sopra
una sedia durante la lettura, e si scioglieva in lacrime.
Joël, braccia conserte, aveva tutto udito, e non osava
guardare in faccia sua sorella.
Mamma Hansen, dopo che Sylvius Hog ebbe terminata
la lettura, s'era ritirata nella propria camera. Pareva che
fosse preparata a questa sventura, come se ne aspettava
molte altre!
Il professore fece segno a Hulda e a suo fratello di
avvicinarglisi. Voleva ancora parlar loro di Ole Kamp, dir
loro tutto quello che l'immaginazione gli suggeriva di più o
meno plausibile, e si espresse con una strana sicurezza
dopo la lettera di Help junior. No! - egli ne aveva il
presentimento! - le cose non erano disperate! Non si
avevano frequenti esempi di ritardi nel corso di una
navigazione, su quei mari che vanno dalla Norvegia a
Terranova? Sì, certamente! Il Viken non era una nave
solida, ben comandata, ben equipaggiata, e quindi in
condizioni migliori degli altri bastimenti reduci dal loro
viaggio? Anche questo era innegabile.
— Speriamo, dunque, miei cari figli, e aspettiamo! Se il
Viken avesse naufragato fra l'Islanda e Terranova, le navi
che seguono costantemente questa via per tornare in
Europa, ne avrebbero trovati gli avanzi. E invece, no!
Neanche un rottame è stato trovato in quei paraggi tanto
frequentati al ritorno dalla grande pesca! Tuttavia bisogna
agire, bisogna ottenere notizie più sicure. Se, in questa
settimana non avremo nuove notizie sul Viken o una lettera
di Ole, tornerò a Christiania, mi rivolgerò al ministero della
Marina mercantile, che farà delle ricerche, e, ne sono certo,
finiranno col darci soddisfazione di tutto.
Benché il professore mettesse nelle sue parole il
massimo calore, Joël e Hulda capivano che la sua fiducia
era molto diminuita dopo la lettera ora ricevuta. Egli non
osava più fare allusione al prossimo matrimonio di Hulda e
di Ole Kamp: e tuttavia ripeté ad alta voce, come per
meglio convincere se stesso e gli altri:
— No! Non è possibile! Ole non tornar più nella casa di
mamma Hansen! Ole non sposare Hulda! Non crederò mai
che possa accadere una disgrazia simile!
Questa era la sua personale convinzione. Egli la
attingeva dalla forza del suo carattere, dalla sua natura che
da niente poteva esser vinta. Ma come fare a farne partecipi
gli altri, specialmente coloro che la sorte del Viken colpiva
così da vicino?
Trascorsero alcuni giorni. Sylvius Hog, completamente
guarito, faceva delle lunghe passeggiate nei dintorni.
Pregava Hulda e suo fratello di accompagnarlo, per non
lasciarli soli nemmeno un istante. Un giorno risalivano
insieme la valle del Vestfjorddal sino a metà strada dalle
cascate del Rjukan. Un altro giorno la discendevano,
dirigendosi verso Mœl e il lago Tinn. In una di queste gite
rimasero assentì un'intera giornata; si spinsero fino a
Bamble, dove il professore fece conoscenza del fattore
Helmboë e della figlia Siegfrid. Quest'ultima fece alla sua
povera Hulda la più affettuosa accoglienza, e trovò le più
tenere parole per consolarla!
Anche là Sylvius Hog diede un po' di speranza a quella
buona gente.
Egli aveva scritto al ministero della Marina a
Christiania. Il governo si stava occupando del Viken.
Sarebbe stato ritrovato, Ole sarebbe ritornato. Poteva
tornare anche da un giorno all'altro. No! il matrimonio non
avrebbe avuto sei settimane di ritardo! Il brav'uomo si
mostrava così convinto che ci si arrendeva forse più. alla
sua persuasione che ai suoi argomenti.
La visita alla famiglia Helmboë fece bene ai figli di
mamma Hansen. E quando ritornarono alla loro casa erano
più calmi di quando ne erano usciti.
Si era allora al 15 giugno. Il ritardo del Viken era dunque
di un mese. Ora, trattandosi della traversata da Terranova
alla Norvegia, anche per una nave a vela, il ritardo era
davvero eccessivo.
Hulda soffriva orrendamente. Suo fratello non trovava
più parole per consolarla. Anche il professore veniva meno
al suo compito di confortare i due infelici. Hulda e Joël
lasciavano l'albergo solo per spingere lo sguardo dalla parte
di Mœl, o per recarsi sulla strada del Rjukanfos. Ole Kamp
doveva venire da Bergen; ma poteva anche giungere da
Christiania, se il Viken aveva cambiato direzione. Un
rumore di carrettella fra gli alberi, una voce, un grido,
l'ombra di un uomo alla svolta della strada, tutto ciò li
faceva palpitare, ma inutilmente! Gli amici e i conoscenti
vigilavano anch'essi. Andavano incontro al postino, sulla
strada che costeggia il Maan. Tutti s'interessavano a quella
famiglia molto amata in paese, a quel povero Ole che era
quasi un figlio del Telemark. Ma non giungeva alcuna
lettera, né da Bergen né da Christiania, a portare notizie
dell'assente.
Il 16, nulla. Sylvius Hog non poteva più star fermo.
Comprese che doveva agire. Così, dichiarò che se non si
ricevevano notizie entro l'indomani, sarebbe andato a
Christiania, per sorvegliare che le ricerche si facessero
attivamente e sul serio.
Gli spiaceva di lasciare Hulda e Joël in simili
circostanze; ma sarebbe tornato a ricerche finite.
Il 17, una gran parte della giornata era già passata - la
più triste di tutte, forse! Pioveva a dirotto fin dall'alba. La
bufera piegava violentemente gli alberi. Delle folate di
vento impetuose scuotevano i vetri dalla parte del Maan.
Erano suonate le sette di sera. S'era finito di desinare in
silenzio, come in una casa in lutto. Sylvius Hog non aveva
potuto sostenere la conversazione. Le parole gli morivano
sulle labbra, e anche le idee gli venivano a mancare. Cosa
avrebbe potuto dire che non avesse già ripetuto cento
volte? Egli comprendeva che quella prolungata assenza
rendeva inaccettabili gli argomenti usati altre volte.
— Partirò domani mattina per Christiania — disse. —
Joël, cercate di procurarmi una carrettella. Mi condurrete a
Mœl, e voi ritornerete subito a Dal!
— Va bene, signor Sylvius. Non volete che vi
accompagni un po' più in là?
Il professore fece un segno negativo additando Hulda,
che non voleva privare di suo fratello.
In quel momento, udirono un rumore, ancora lontano,
sulla strada di Mœl. Tutti si misero in ascolto. Ben presto,
il rumore divenne distinto: era il rumore di una carrettella
che si dirigeva verso Dal. Qualche viaggiatore veniva a
passare la notte a Dal? Era poco probabile; di rado i
viaggiatori giungevano a un'ora così tarda.
Hulda si alzò agitatissima. Joël corse alla porta, l'aprì,
guardò fuori.
Il rumore andava crescendo. Era proprio il passo di un
cavallo e il cigolio delle ruote di una carrettella. Ma la
violenza defila bufera costrinse a chiudere la porta.
Sylvius Hog passeggiava a gran passi nella sala. Joël e
sua sorella stavano uno accanto all'altra.
La carrettella doveva trovarsi ormai a una ventina di
passi dall'albergo. Si sarebbe fermata o no?
Il cuore batteva a tutti forte forte.
La carrettella si fermò. Si intese una voce che
chiamava… Non era quella di Ole Kamp!
Quasi contemporaneamente, qualcuno bussò alla porta.
Joël aprì.
Un uomo era sulla soglia.
— Il signor Sylvius Hog? — egli chiese.
— Sono io — rispose il professore, facendosi innanzi.
— Chi siete, amico?
— Un messo inviato per voi da Christiania, dal direttore
del ministero della Marina.
— Avete posta per me?
— Eccola!
E presentò al professore un plico con timbri e suggelli
governativi. Hulda non poteva più reggersi in piedi.
Suo fratello l'aveva fatta sedere su uno sgabello. Né
l'uno né l'altra osavano far premura a Sylvius Hog per
aprire il dispaccio. Finalmente egli si decise e lesse quanto
segue:
«Signor professore, «in risposta alla vostra ultima
lettera, allego alla presente un documento che venne
raccolto in mare da una nave danese, il 5 giugno scorso.
Purtroppo questo messaggio non lascia più alcun dubbio
sulla sorte della nave Viken…».
Senza continuare la lettura, Sylvius Hog aveva tirato
fuori dalla busta il documento… Lo guardava… lo volgeva
fra le mani.
Era un biglietto di lotteria, recante il numero 9672.
Dietro il biglietto si leggevano queste righe:
«3 maggio. Cara Hulda, il Viken sta per sommergersi!…
Non posseggo altro che questo biglietto!… Lo affido a Dio
affinché te lo faccia pervenire, e, poiché io non vi sarò, ti
prego di trovarti al luogo dell'estrazione in mia vece,
quando sarà estratto!… Ricevilo insieme al mio estremo
pensiero e saluto!… Hulda, non dimenticarmi nelle tue
preghiere!… Addio, mia diletta, addio.
«OLE KAMP».
CAPITOLO XII
Ecco IL SEGRETO del giovane marinaio! Ecco la
probabilità su cui contava per procurare una fortuna alla
sua fidanzata! Un biglietto di lotteria comperato prima
della partenza!… E nell'istante in cui il Viken stava per
andare a picco, lo aveva chiuso in una bottiglia, e gettato in
mare, col suo ultimo saluto per Hulda!
Questa volta Sylvius Hog rimase fulminato. Guardava la
lettera, poi il biglietto! Non diceva più una parola. Che
poteva dire, d'altronde? Che dubbio poteva oramai esistere
sulla catastrofe del Viken, sulla fine di Ole Kamp e dei suoi
compagni?
Hulda, mentre Sylvius Hog leggeva la lettera, aveva
potuto resistere e reagire contro l'angoscia. Ma, dopo le
ultime parole del biglietto di Ole, cadde nelle braccia di
Joël. Si dovette trasportarla nella sua camera, ove sua
madre le prestò le prime cure. Dopo, desiderò rimanere
sola, e, inginocchiata accanto al letto, pregava per l'anima
di Ole.
Mamma Hansen rientrò in sala. Dapprima fece un passo
verso il professore, come volesse parlargli; ma, dirigendosi
verso la scala, scomparve.
Anche Joël, dopo avere trasportata la sorella nella sua
cameretta, era uscito. Egli soffocava in quella casa aperta a
tutti i venti della sventura. Gli occorreva l'aria esterna,
l'aria della burrasca, e, durante una parte della notte, andò
errando lungo le rive del Maan.
Ora Sylvius Hog era rimasto solo. Abbattuto, sul
principio, da quella terribile notizia, non tardò a recuperare
la consueta sua energia. Dopo aver fatto due o tre giri per
la sala, andò ad ascoltare se Hulda avesse bisogno di
qualcosa. Non sentendo nulla, sedette accanto al tavolo, e
riprese a seguire il filo dei suoi pensieri.
«Hulda» egli diceva tra sé «non rivedrà più il suo
fidanzato? Sarebbe possibile una disgrazia simile? No! Mi
ripugna il pensarlo. Sì, il Viken ha naufragato, ma abbiamo
una prova positiva della morte di Ole? Non posso crederlo!
In tutti i casi di naufragio non è soltanto il tempo che può
affermare che nessuno è sopravvissuto alla catastrofe? Sì!
Io dubito, io voglio ancora dubitare, dovessero ben, Hulda,
Joël e tutti gli altri, non voler più condividere le mie
incertezze. Se la nave è andata sommersa, questo basta a
spiegare che di essa nulla sia rimasto sul mare?… No!…
niente, nient'altro che questa bottiglia in cui il povero Ole
ha voluto mettere il suo estremo saluto, e, in esso, tutto ciò
che gli restava al mondo!»
Sylvius Hog teneva in mano il biglietto della lotteria, lo
guardava, lo palpava, lo rigirava, quel pezzo di carta su cui
il povero ragazzo aveva costruito tutte le sue speranze di
fortuna.
Tuttavia il professore, volendolo esaminare più
attentamente, si alzò, ascoltò ancora se l'infelice fanciulla
chiamasse la madre o il fratello, e poi rientrò nella propria
camera.
Era, quello, un biglietto della lotteria delle Scuole di
Christiania, lotteria assai popolare allora in Norvegia.
Primo premio: centomila marchi. 3 Valore complessivo
degli altri premi: novantamila marchi. Numero dei biglietti
emessi: un milione, e tutti attualmente venduti.
Il biglietto di Ole Kamp portava il numero 9672. Ma ora,
che il numero fosse fortunato o meno, che il giovane
marinaio avesse o no qualche segreto motivo per aver
fiducia, egli non poteva più assistere all'estrazione, che
doveva aver luogo il 15 luglio prossimo, cioè fra ventotto
giorni. Hulda, secondo la raccomandazione del giovane,
avrebbe dovuto presentarsi in sua vece e rispondere per lui!
Sylvius Hog, al chiarore della candela, rilesse
attentamente le linee scritte dietro il biglietto, quasi
sperasse di trovarvi qualche recondito significato.
Erano scritte con inchiostro. Si vedeva benissimo che la
mano di Ole non aveva tremato nello scriverle: segno che il
nostromo del Viken conservava l'intera calma al momento
del naufragio. Egli doveva trovarsi quindi nella possibilità
di approfittare di qualsiasi mezzo di salvezza, un pezzo
d'albero navigante, una tavola abbandonata alla deriva, non
tutto era stato inghiottito negli abissi in cui la nave era
scomparsa.
Talora questi documenti, raccolti in mare, fanno
conoscere il luogo ov'è accaduta la catastrofe; ma su quel
biglietto non era indicata la posizione astronomica, e
nemmeno le terre più vicine, isole o continenti. Bisognava
concluderne che il capitano e l'equipaggio ignorassero dove
si trovava la nave al momento del disastro.
Trascinato certamente da una di quelle bufere contro cui
3
Circa centomila franchi germinali. (N.d.A.) Il franco germinale è quello che
risulta dal nuovo rapporto del valore dell'oro con quello dell'argento (15,5) stabilito
nella coniazione del 17 germinale dell'anno XI (7 aprile 1803). (N.d.T.)
non si può lottare, il Viken era stato spinto fuori della sua
rotta, e non permettendo lo stato del cielo di osservare la
posizione del sole, per qualche giorno non era stato
possibile capire in quale luogo si trovasse. Riusciva più che
mai difficile, per non dire impossibile, sapere in quale
punto del nord dell'Atlantico, al largo da Terranova o
dall'Islanda, il mare s'era spalancato per sempre sotto
quegli infelici, circostanza atta a togliere ogni speranza
anche allo spirito più disposto a conservare un barlume di
fiducia.
Magari, con una indicazione, per vaga che fosse, si
sarebbero potute intraprendere delle ricerche; si poteva
mandare una nave sul luogo della catastrofe, e forse si
potevano trovare degli avanzi riconoscibili. Chi sa se uno o
più naufraghi avevano per avventura raggiunto qualche
lembo dell'arcipelago artico, e vi erano restati, senza
soccorso, nell'impossibilità di rimpatriare!
Questo dubbio a poco a poco prendeva forma nella
mente di Sylvius Hog, dubbio che sarebbe stato
inaccettabile per Hulda e Joël, dubbio che il professore ora
avrebbe esitato a far nascere in loro nel timore che una
nuova delusione aumentasse poi il loro dolore.
— Intanto — egli diceva — se il documento non offre
alcuna utile indicazione, sappiamo almeno in quali paraggi
la bottiglia venne raccolta! La lettera non lo dice, ma al
ministero della Marina, a Christiania, si dovrebbe saperlo!
Ecco un indizio dal quale si potrebbe trarre profitto!
Studiando la direzione delle correnti, quella dei venti,
riferentisi alla data presunta del naufragio, non sarebbe
possibile… Ebbene, scriverò ancora! Si devono rinnovare
le ricerche, quantunque siano poche le speranze! Non
abbandonerò mai quella povera Hulda! Non voglio credere
alla morte del suo fidanzato, fino a che non ce ne sia una
prova assoluta!
Così ragionava Sylvius Hog, ma nello stesso tempo
aveva preso la decisione di non parlare dei nuovi passi che
egli stava per fare, e delle nuove indagini che intendeva
promuovere con tutta la sua influenza. Hulda e suo fratello
nulla seppero della sua lettera a Christiania.
Inoltre egli rinunciò alla partenza, fissata per il giorno
dopo; anzi decise di partire dopo qualche giorno, ma per
recarsi a Bergen! Ivi poteva parlare coi Fratelli Help su ciò
che riguardava il Viken, avrebbe egli stesso raccolto le
opinioni dei marinai più esperti, avrebbe stabilito il metodo
delle ricerche da intraprendere.
Tuttavia, in base alle indicazioni fornite dal ministero
della Marina, i giornali di Christiania, quindi la stampa
periodica della Norvegia, della Svezia, del resto
dell'Europa, non tardarono a raccontare il naufragio del
Viken e la storia del biglietto di lotteria divenuto
documento. C'era qualcosa di commovente in questo
messaggio di un innamorato alla fidanzata, e, non a torto,
l'opinione pubblica ne fu toccata.
Si può dire che si stabilì una specie di piccola borsa, in
cui la quotazione era in costante aumento.
Così si finì per offrire parecchie centinaia di marchi, per
quel biglietto, che effettivamente aveva una minima
probabilità di guadagnare il primo premio. Era puerile, era
assurdo; ma non si ragiona con la superstizione. Le fantasie
si eccitavano e, con la forza acquisita, esse potevano, anzi
sarebbero giunte più in là ancora. È quanto, infatti,
successe.
Otto giorni dopo, i giornali annunciavano che le offerte
per il biglietto superavano i mille, i millecinquecento e
perfino i duemila marchi. Un inglese di Manchester era
giunto sino a cento lire sterline, cioè duemilacinquecento
marchi. Un americano di Boston andava ancora oltre,
offriva mille dollari, circa cinquemila franchi, per
l'acquisto del numero 9672 della lotteria delle Scuole di
Christiania.
È inutile dire che Hulda continuava a non darsi alcun
pensiero di ciò che rendeva tanto euforico il pubblico. Non
aveva voluto nemmeno leggere le lettere che capitavano a
Dal sull'argomento. Però il professore sostenne che ella
non doveva ignorare le importanti proposte in quelle
contenute, giacché Ole Kamp le aveva trasmesso il
biglietto in assoluta proprietà.
Hulda respinse tutte le offerte. Quel biglietto era l'ultimo
messaggio del suo fidanzato.
E non si creda che gli annettesse importanza, povera
fanciulla, per il fatto che poteva vincere il premio! Affatto!
Ella vedeva in quel foglietto solo l'ultimo addio del
naufrago, un ultimo dono che voleva conservare come una
preziosa reliquia.
E non si curava affatto di una fortuna, che Ole non
poteva più dividere con lei! Cosa potrebbe esserci di più
toccante, di più delicato, di questo culto per un ricordo!
Ad ogni modo, pur mettendo la fanciulla al corrente
delle proposte che le venivano dirette, Sylvius Hog e Joël
non intendevano influire menomamente su di lei. Ella
doveva ascoltare solo il proprio cuore e sappiamo che cosa
quel cuore le aveva risposto!
Joël, del resto, approvò completamente la condotta di
sua sorella.
Il biglietto di Ole Kamp non doveva essere venduto, per
nessun prezzo.
Sylvius Hog era dello stesso avviso; anzi lodò Hulda che
non si era prestata a questa speculazione. Non era bello che
quel biglietto fosse venduto e rivenduto, per divenire una
specie di carta-moneta, sino a che l'estrazione della lotteria
lo avrebbe ridotto un foglio senza valore.
Il professore andava più in là coi suoi pensieri. Era forse
superstizioso? No, senza dubbio! Ma se Ole Kamp fosse
stato presente, gli avrebbe, probabilmente, detto:
— Conservate il biglietto, ragazzo mio! Si è salvato dal
naufragio, e voi dopo! Ebbene, bisogna vedere!… Non si
sa mai!… Non si sa mai!…
E se Sylvius Hog, professore di diritto, deputato allo
Storting, aveva simili pensieri, c'è da meravigliarsi
dell'infatuazione del pubblico? No, affatto, e niente di più
naturale che il 9672 avesse il premio.
Nell'albergo di Dal non c'era, quindi, nessuno che
protestasse contro il sentimento rispettabile, che faceva
agire la fanciulla, nessuno, tranne sua madre.
Più volte, infatti, mamma Hansen si lamentava in
proposito, specie in assenza di Hulda. Ciò faceva molta
pena a Joël. Egli temeva che sua madre non s'accontentasse
di semplici lamentele, ma che avrebbe segretamente parlato
a Hulda in merito alle offerte che le erano state fatte.
— Cinquemila marchi! — essa ripeteva. — Ci offrono
cinquemila marchi!
Mamma Hansen, evidentemente, non voleva guardare al
significato profondo nascosto nel rifiuto di sua figlia.
Pensava solo alla cifra di cinquemila marchi. Una sola
parola di Hulda avrebbe fatto entrare in casa quel denaro!
Ella non credeva, d'altronde, al valore soprannaturale del
biglietto, sebbene fosse norvegese! Sacrificare cinquemila
marchi per una probabilità su un milione di guadagnarne
centomila, non era un'idea che potesse entrare nella sua
mente fredda e positiva.
Era evidente che, messa in disparte qualsiasi
superstizione, respingere il certo per l'incerto, in condizioni
si aleatorie, non era atto di prudenza.
Ma quel foglio non era per Hulda un biglietto di lotteria;
era l'ultima lettera di Ole Kamp, e il suo cuore si spezzava
al solo pensiero di privarsene.
Però mamma Hansen disapprovava molto vivamente la
condotta di sua figlia.
Sentiva accumularsi in sé una sorda irritazione. C'era da
temere che un giorno o l'altro costringesse Hulda a
cambiare decisione. Già aveva parlato in questo senso a
Joël, che aveva difeso la condotta di sua sorella.
Naturalmente, Sylvius Hog seguiva con attenzione anche
questo incidente. Era un dispiacere di più aggiunto alla
grande pena che soffriva Hulda ed egli ne era addolorato.
Joël interrogò infine il professore:
— Mia sorella non ha ragione di rifiutare? Ed io non
faccio bene approvando il suo rifiuto?
— Senza dubbio — gli rispose Sylvius Hog. — Eppure,
dal punto di vista pratico, vostra madre ha un milione di
ragioni. Ma non tutto è calcolo a questo mondo. I numeri
non hanno a che vedere con le cose del cuore!
Intanto, durante quei giorni, s'era dovuto sorvegliare
Hulda. Schiacciata da così grandi dolori, ella diede seri
timori per la sua salute. Per fortuna non le mancò
assistenza. Per invito di Sylvius Hog, il celebre dottor
Boek, suo amico, venne a Dal a vedere la giovane malata.
Ebbe solo a prescriverle riposo fisico e calma di spirito, se
era possibile.
Ma la vera guarigione era il ritorno di Ole, e questo
ritorno stava nelle mani di Dio.
Sylvius Hog aggiunse il suo conforto, e consolò spesso
la fanciulla con qualche parola di speranza.
Cosa inverosimile, il professore non disperava del tutto!
Tredici giorni erano trascorsi dall'arrivo del biglietto
inviato dal ministero della Marina a Dal. Si era al 30
giugno. Quindici giorni ancora, e l'estrazione della lotteria
doveva avvenire con grande solennità a Christiania.
Precisamente il 30 mattina, Sylvius Hog ricevette un
nuovo dispaccio dalla Marina in risposta alle sue reiterate
istanze.
Questa lettera lo invitava a stabilire un appuntamento
con le autorità marittime di Bergen. Inoltre, lo autorizzava
a ordinare immediatamente le ricerche relative al Viken a
spese dello Stato.
Il professore non disse nulla a Joël e a Hulda di ciò che
stava per fare. Annunciò semplicemente loro la sua
partenza, prendendo a pretesto un viaggio d'affari che lo
avrebbe impegnato per qualche giorno.
— Signor Sylvius, ve ne supplico, non ci lasciate! — gli
disse la fanciulla.
— Abbandonarvi… abbandonare i miei figli! — rispose
Sylvius Hog. Joël s'offerse di accompagnarlo. Però, non
volendo che si sapesse che si recava a Bergen, si lasciò
accompagnare solo sino a Mœl. E poi era bene che Hulda
non restasse a lungo sola con sua madre.
Dopo essere rimasta a letto parecchi giorni, ora
cominciava ad alzarsi, ma era ancora debole, non usciva di
camera, e suo fratello capiva bene che era ancora
convalescente, e che non poteva lasciarla sola.
Alle undici, la carrettella si trovò davanti alla porta
dell'albergo. Il professore vi sali con Joël, dopo aver dato il
più affettuoso addio alla fanciulla. Poco dopo, la carrettella
scompariva alla svolta della strada, sotto le grandi betulle.
La sera stessa, Joël era di ritorno a Dal.
CAPITOLO XIII
SYLVIUS HOG era dunque partito per Bergen. La sua
natura tenace, il suo carattere energico, che per un attimo
avevano vacillato, riprendevano ora il sopravvento. Egli
non voleva credere alla morte di Ole Kamp e non sapeva
sopportare l'idea che Hulda dovesse piangerlo senza
rimedio.
Fino a che non si avessero le prove del fatto egli
l'avrebbe ritenuto falso: «era più forte di lui», come
comunemente si dice.
Ma esisteva dunque un indizio sul quale avviare l'opera
che stava per intraprendere a Bergen? Sì, ma un indizio
assai vago, bisogna riconoscerlo!…
Egli sapeva, invero, il giorno in cui il biglietto era stato
gettato in mare da Ole, e sapeva in quale data e in quali
paraggi la bottiglia era stata raccolta. L'aveva informato di
ciò la lettera del ministero della Marina, lettera che gli
aveva fatto prendere la decisione di partire
immediatamente per Bergen, per poter parlare con i Fratelli
Help, e con i marinai più competenti del porto. In tal modo
si sarebbe potuto dare un indirizzo utile alle ricerche di cui
la nave Viken era l'oggetto.
Il viaggio fu fatto nel minor tempo possibile.
Giunto a Mœl, Sylvius Hog rimandò il suo compagno
con la carrettella.
S'imbarcò sopra una di quelle chiatte di scorza di betulla
che fanno i trasporti sul lago Tinn. Giunto a Tinoset, invece
di volgere verso sud, cioè dalla parte di Bamble, noleggiò
un'altra carrettella e attraversò l'Hardanger per discendere
al più presto al golfo omonimo. Ivi s'imbarcò sul Run,
vaporino che percorre il golfo, e ridiscese fino alla sua
estremità inferiore. Infine, dopo avere attraversato una
serie di fiordi, fra le isole e gli isolotti che abbelliscono la
costa, il 2 luglio, all'alba, discese al porto di Bergen.
Quest'antica città, bagnata dai due fiordi di Sogne e di
Hardanger, è posta in un paese magnifico al quale verrà ad
assomigliare la Svizzera il giorno in cui un braccio di mare
artificiale avrà condotto le acque del Mediterraneo ai piedi
delle sue montagne.
Un magnifico viale di frassini conduce alle prime case di
Bergen. Le sue alte case dai tetti acuminati, sono
candidissime, come le case arabe, e si agglomerano in un
triangolo irregolare, che basta a contenere trentamila
abitanti.
Le chiese datano dal dodicesimo secolo. L'alta cattedrale
la indica, da lontano, alle navi che vengono dal largo.
Bergen è la capitale della Norvegia mercantile, quantunque
si trovi un po' lungi dalle grandi vie di comunicazione, e a
notevole distanza dalle altre due città che, politicamente,
tengono il primo e il secondo posto nel regno: Christiania e
Drontheim.
In ogni altro momento, il professore avrebbe preso gusto
a studiare questo capoluogo di prefettura, forse più
olandese che norvegese per l'aspetto e i costumi. Anzi ciò
entrava nel programma del suo viaggio.
Ma dopo l'incidente del Maristien, dopo il suo arrivo a
Dal, questo programma era stato completamente
modificato. Ora Sylvius Hog non era più il deputato turista,
che voleva acquistare esatta notizia del paese, dal punto di
vista politico come da quello commerciale. Era l'ospite
della casa Hansen, il debitore di Joël e Hulda, i cui interessi
venivano prima di tutto. Era il debitore che voleva, ad ogni
costo, pagare il proprio debito di riconoscenza. «E» diceva
tra sé e sé «ciò che io cercherò di fare per loro sarà ancora
ben poco.»
Giunto con il Run a Bergen, il professore sbarcò in
quella parte del porto dove c'è il grande mercato del pesce.
Subito si portò nel quartiere di Tyske-Bodrone, ove abitava
Help junior, della casa Fratelli Help.
Naturalmente pioveva, giacché la pioggia cade a Bergen
trecentosessanta giorni all'anno. Ma, anche con un clima
così chiuso e coperto, si sarebbe difficilmente trovata una
casa meglio arredata della casa ospitale di Help junior.
Quanto all'accoglienza che qui ricevette Sylvius Hog,
non avrebbe potuto essere più calda, più cordiale, più
espansiva. L'amico s'impadronì della sua persona come di
un oggetto prezioso preso in consegna, conservato con la
massima cura e restituibile solo dietro una ricevuta
compilata in buona forma.
Subito Sylvius Hog fece conoscere lo scopo del suo
viaggio a Help junior. Gli parlò del Viken. Gli chiese se era
giunta qualche nuova notizia dopo la sua ultima lettera. I
marinai consideravano la nave come definitivamente
perduta? Il naufragio, che faceva portare il lutto a tante
famiglie, non aveva già indotto a intraprendere delle
ricerche?
— Ma come si potrebbero eseguire non conoscendo il
luogo del disastro? — osservò Help junior.
— È vero, mio caro Help, ma appunto perché lo si
ignora, bisogna tentare di conoscerlo.
— Conoscerlo?
— Sì. Se non si conosce il luogo ove il Viken colò a
fondo, si conosce almeno quello ove venne raccolta la
bottiglia dalla nave danese. Ecco un indizio di cui sarebbe
una colpa non servirsi!
— E qual è questo punto?
— Ascoltatemi, mio caro Help.
Sylvius Hog riferì allora le nuove notizie che gli erano
giunte dal ministero della Marina, e annunziò nello stesso
tempo che possedeva ampi poteri per iniziare le indagini.
La bottiglia, racchiudente il biglietto della lotteria di Ole
Kamp, era stata raccolta il 3 giugno, dal brick-goletta
Christian, capitano Mosselman, d'Elsinore, duecento
miglia a sud-ovest dell'Islanda, col vento che soffiava da
sud-est.
Il capitano aveva subito letto il documento, come era suo
dovere, nel caso che un soccorso immediato potesse essere
apportato alla nave in pericolo. Ma le linee scritte dietro il
biglietto non indicavano menomamente il luogo del
naufragio, e la goletta Christian non poté recarsi nei
paraggi della catastrofe.
Era un brav'uomo quel capitano Mosselman. Forse un
altro, meno scrupoloso, avrebbe conservato il biglietto per
sé. Ma lui ebbe solo un pensiero: far pervenire il biglietto
al suo indirizzo, appena di ritorno in porto. «Hulda Hansen
di Dal»: questa indicazione sarebbe stata sufficiente.
Intanto, giunto a Copenaghen, il capitano Mosselman
ritenne che era forse meglio mandare il documento alle
autorità danesi che non direttamente alla destinataria. Era
più sicuro e più regolare. Ed è ciò che fece, e la Marina di
Copenaghen avvisò subito la Marina di Christiania.
In quei giorni, si erano già ricevute le prime lettere di
Sylvius Hog che chiedeva notizie precise sul Viken.
L'interesse completamente singolare che egli aveva per la
famiglia Hansen era noto.
Sylvius Hog sarebbe rimasto a Dal ancora un poco, si
sapeva, e fu là che il documento raccolto dal capitano
danese gli fu indirizzato, affinché egli lo facesse pervenire
a Hulda Hansen.
Da allora, questa storia aveva continuato ad interessare
l'opinione pubblica, nessuno se ne è dimenticato, grazie ai
commoventi particolari che furono forniti dai giornali dei
due mondi.
Ecco quanto Sylvius Hog narrò sommariamente al suo
amico Help junior, che lo ascoltava col più vivo interesse,
senza interromperlo, e finì con queste parole:
— C'è dunque un punto, che non può essere messo in
dubbio: il 3 giugno ultimo scorso il documento fu trovato a
duecento miglia a sud-ovest dell'Islanda, circa un mese
dopo la partenza del Viken da Saint-Pierre-Miquelon per
l'Europa.
— E non sapete altro?
— No, mio caro Help; ma i marinai più pratici di
Bergen, quelli che frequentano o che hanno frequentato
quei paraggi, che conoscono la direzione generale dei venti
e specialmente delle correnti, non potrebbero rifare
idealmente la strada percorsa dalla bottiglia? Quindi,
tenendo approssimativamente conto della sua velocità e del
tempo trascorso sino al momento in cui venne raccolta, non
sarebbe possibile segnare il punto ove probabilmente venne
gettata in mare da Ole Kamp, cioè il luogo in cui avvenne
il naufragio?
Help junior scuoteva il capo come se fosse poco
convinto.
Basare tutto un piano di ricerca su indizi così vaghi, cui
potevano mescolarsi tante cause di errori, non avrebbe
voluto dire votarsi all'insuccesso? L'armatore, dotato
eminentemente di senso pratico, non mancò di farlo
osservare a Sylvius Hog.
— Sia pure, amico Help! Ma se tutto ciò può fornirci
solo dati incerti, non è una buona ragione per non tentare.
Io desidero che si faccia tutto il possibile a favore di questi
disgraziati, ai quali devo la mia stessa vita. Sì, e se fosse
necessario, non esiterei a sacrificare quanto posseggo per
ritrovare Ole Kamp e per ricondurlo alla sua fidanzata.
E Sylvius Hog raccontò nei minimi particolari la sua
avventura al Rjukanfos, ciò che quel coraggioso Joël e sua
sorella Hulda avevano fatto per venirgli in aiuto, rischiando
la loro vita, e come, senza il loro intervento, egli non
avrebbe avuto, in quel momento, il piacere di essere
l'ospite del suo amico Help.
L'amico Help era poco incline ad abbandonarsi alle
illusioni, ma era anche disposto a tentare l'inutile e anche
l'impossibile, quando si trattava di un gesto d'umanità.
Approvò quindi finalmente il piano di Sylvius Hog.
— Sylvius — egli rispose, — vi seconderò con tutte le
mie forze. Sì! Avete ragione! Ci fosse anche solo una
piccola probabilità di ritrovare qualche superstite del
Viken; e, inoltre, non bisogna dimenticare quel bravo Ole,
la cui fidanzata vi ha salvato la vita!
— No, Help, no — rispose il professore; — ci fosse
anche una probabilità su centomila!
— Oggi stesso riunirò nel mio ufficio i migliori marinai
di Bergen. Mi rivolgerò a tutti coloro che hanno navigato o
che navigano in genere nei paraggi dell'Islanda e di
Terranova. Vedremo quello che ci consiglieranno di fare…
— E seguiremo i loro consigli! — soggiunse il
professore, con il suo ardore comunicativo. — Ho
l'appoggio del governo e sono autorizzato a far partire uno
dei suoi avvisi 4 per la ricerca del Viken, e credo che
nessuno esiterà, trattandosi di un'opera così generosa.
— Vado all'ufficio del ministero della Marina — disse
Help junior.
— Volete che vi accompagni?
— È inutile!… Dovete essere stanco…
— Stanco!… io!… alla mia età!…
— Non importa. Riposatevi, mio caro e sempre giovane
Sylvius, e aspettatemi qui.
Quello stesso giorno si tenne una riunione di capitani di
marina mercantile, di marinai pescatori e di piloti nella
casa dei Fratelli Help. Non mancavano molti marinai che
svolgevano ancora il loro mestiere sul mare, e alcuni più
anziani, che erano ora a riposo.
Dapprima Sylvius Hog mise tutti al corrente della
situazione. Egli disse in quale giorno, 3 maggio, il biglietto
era stato gettato in mare da Ole Kamp; e in quale giorno, 3
giugno, il capitano danese l'aveva raccolto e in quali
paraggi, a duecento miglia a sud-ovest dell'Islanda.
La discussione fu lunga e seria, e bastò a provare che
non c'era uno di quei bravi marinai che non conoscesse
qual era, nei paraggi dell'Islanda e dei mari di Terranova, la
direzione generale delle correnti di cui bisognava tener
4
Avviso: nave militare di medio o piccolo tonnellaggio destinata all'esplorazione o
alla scorta. (N.d.T.)
conto per la risoluzione di quel problema.
Ora, era più evidente che all'epoca del naufragio, nel
tempo trascorso fra la partenza del Viken da Saint-PierreMiquelon e il ritrovamento della bottiglia da parte della
nave danese, una lunga tempesta di vento di sud-ovest
aveva sconvolto quella parte dell'Atlantico: senza dubbio la
catastrofe ne era stata la conseguenza. Probabilmente il
Viken, non potendo affrontare la burrasca, aveva dovuto
fuggire col vento in poppa. Ora, sappiamo che durante
l'equinozio, i ghiacci polari cominciano a discendere verso
l'Atlantico. Forse era accaduta una collisione, e il Viken si
era spezzato contro uno di quei grandi massi di ghiaccio
galleggiante che spesso è impossibile evitare.
Data questa spiegazione, era possibile che l'equipaggio,
in tutto o in parte, si fosse rifugiato sopra un icefield,
trasportandovi anche una certa quantità di viveri.
Se era veramente così, se, cioè, il banco di ghiaccio era
stato sospinto verso nord-ovest, si poteva nutrire qualche
speranza che i naufraghi fossero riusciti a toccare qualche
punto di quelle coste desolate della Groenlandia. Le
ricerche dunque si dovevano eseguire in quella direzione e
in quei paraggi.
Tale fu la risposta data, all'unanimità, in quella riunione
di marinai alle diverse domande poste da Sylvius Hog.
Nessun dubbio che fosse necessario procedere nella
maniera indicata.
Ma cosa ritrovare quando non ci fossero resti o se il
Viken fosse andato a sbattere contro un enorme iceberg? Si
doveva ancora contare sul rimpatrio dei sopravvissuti al
naufragio? Era una cosa piuttosto difficile. Il professore,
dopo aver fatto esplicitamente questa domanda, si accorse
subito che i più competenti non potevano o non volevano
rispondere nulla. Ma questa non era una buona ragione per
non tentare - su questo punto erano d'accordo - e questi
tentativi dovevano essere fatti il più presto possibile.
Nel porto di Bergen si trovano sempre delle navi
appartenenti alla flottiglia norvegese dello Stato, e, fra le
altre, uno dei tre avvisi che fanno il servizio della costa
occidentale, fermandosi agli scali di Drontheim, del
Finmark, d'Hammerfest e del Capo Nord. In quel momento
uno di quegli avvisi era ancorato nella baia.
Dopo aver redatto un appunto che riassumeva l'opinione
dei marinai riuniti in casa di Help junior, Sylvius Hog si
recò subito a bordo dell'avviso Telegraf, dove fece
conoscere al capitano la missione speciale che gli era stata
affidata dal governo.
Il capitano ricevette il professore con grande rispetto e
disse di essere a sua disposizione.
Egli aveva più volte percorso quei paraggi, durante le
lunghe e pericolose spedizioni di pesca che vengono
intraprese dai marinai di Bergen, dalle isole Loffoden e dal
Finnmark fino alle peschiere dell'Islanda e di Terranova.
Poteva dunque aggiungere la sua personale esperienza
all'opera di umanità che sarebbe stata intrapresa e promise
di dedicarvisi interamente.
Quanto all'appunto che gli aveva mostrato Sylvius Hog appunto che indicava il presunto luogo del naufragio - egli
ne approvò assolutamente le conclusioni. I superstiti, o
anche i relitti del Viken, dovevano dunque essere cercati
nella porzione di mare fra l'Islanda e la Groenlandia. Se
non avesse trovato nulla laggiù, il capitano avrebbe
esplorato i paraggi vicini e fors'anche il mare di Baffin
sulla costa orientale.
— Sono pronto a partire, signor Hog — egli aggiunse.
— Le provviste non mancano, l'equipaggio è a bordo e
posso salpare anche subito.
— Vi ringrazio, capitano — rispose il professore — e
sono molto commosso per l'accoglienza che m'avete fatto.
Ma permettetemi ancora una domanda: quanto tempo vi ci
vorrà per raggiungere i paraggi della Groenlandia?
— Il mio avviso può fare undici nodi all'ora. Ora la
distanza da Bergen alla Groenlandia è di venti gradi circa;
potrò quindi percorrerla in meno di otto giorni.
— Affrettatevi il più possibile, capitano — soggiunse
Sylvius Hog. — Se qualche marinaio è riuscito a sfuggire
alla catastrofe si trova già da due mesi abbandonato, senza
dubbio morente di fame su qualche costa deserta…
— Non c'è un'ora da perdere, signor Hog. Oggi stesso
prenderò il mare col riflusso, andrò alla massima velocità,
e appena avrò trovato un qualunque indizio ne informerò la
Marina di Christiania col telegrafo di Terranova.
— Partite dunque, capitano — rispose Sylvius Hog — e
che possiate riuscire!
Poche ore dopo il Telegraf lasciava il porto,
accompagnato dagli applausi di simpatia di tutta la
popolazione di Bergen. E fu con una viva emozione che lo
si vide allontanarsi e quindi scomparire dietro gli isolotti
del porto.
Tuttavia Sylvius Hog non limitò i suoi tentativi a questa
spedizione, di cui aveva incaricato l'avviso Telegraf. Egli
aveva l'intenzione di fare molto di più, moltiplicando i
mezzi da adoperare per ritrovare una traccia del Viken. Non
si poteva spingere le navi mercantili e da pesca, joëgts o
altre, a fare lo stesso, intraprendendo delle ricerche mentre
quelle navigavano sui mari delle Farhoer e dell'Islanda? Sì,
certamente! Un premio di duemila marchi fu promesso, in
nome dello Stato, a quel bastimento che avesse fornito
qualche notizia relativa alla nave naufragata, e un premio
di cinquemila marchi a chiunque avesse ricondotto in patria
uno dei naufraghi.
Ecco dunque come Sylvius Hog, nei due giorni in cui
rimase a Bergen, dispose tutto per assicurare il successo di
quella ricerca. In questo, egli fu secondato pienamente dal
suo amico Help junior e dalle autorità marittime. Il signor
Help avrebbe desiderato trattenerlo presso di sé ancora un
po', ma Sylvius Hog lo ringraziò, rifiutando di prolungare
la sua visita. Non vedeva il momento di rivedere Hulda e
Joël, che temeva di lasciare soli. Anche Help junior
promise di inviare immediatamente a Dal qualsiasi notizia
fosse pervenuta.
Il 4 mattina, Sylvius Hog, dopo aver preso congedo da
Help junior, s'imbarcò sul Run per attraversare il fiordo
dell'Hardanger, e, a meno che si fossero verificati dei
ritardi, egli faceva conto di essere di ritorno nel Telemark
la sera dell'indomani.
CAPITOLO XIV
Lo STESSO GIORNO in cui Sylvius Hog aveva lasciato
Bergen, un grave incidente era accaduto nell'albergo di
Dal.
Dopo la partenza del professore, si sarebbe detto che il
buon genio di Hulda e di Joël avesse portato via, insieme
all'ultima speranza, tutta la vita di quella famiglia. Era
come una casa morta quella che Sylvius lasciava dietro di
sé.
Del resto, durante quei giorni, nessun turista venne a
Dal. Così, Joël non dovette assentarsi e poté quindi
rimanere accanto a Hulda, che non voleva lasciare sola.
Madama Hansen era più che mai turbata da profonde
inquietudini. Pareva che non partecipasse nemmeno al
dolore dei suoi figlioli. Viveva in disparte, ritirata nella sua
camera, facendosi vedere solo all'ora dei pasti. Ma se
diceva una parola a Hulda ed a Joël, era sempre per far loro
dei rimproveri, diretti o indiretti, a proposito del famoso
biglietto della lotteria di cui essi non volevano disfarsi
assolutamente.
Le offerte non erano cessate. Ne giungevano da ogni
parte. Era una specie di follia che si era impadronita di
alcuni cervelli. Pareva che si fosse proprio sicuri che il
biglietto di Ole Kamp fosse destinato a vincere! Pareva che
quello solo fosse il numero buono! Insomma l'inglese di
Manchester e l'americano di Boston se lo disputavano.
L'inglese era riuscito a superare il suo rivale di qualche lira,
ma a sua volta fu ben presto sorpassato da parecchie
centinaia di dollari. L'ultima offerta era di ottomila marchi
- cosa che si poteva spiegare solo ammettendo una specie
di monomania, a meno che non si trattasse di una questione
d'amor proprio fra l'America e la Gran Bretagna.
Comunque sia, Hulda continuava a rispondere
negativamente a tutte queste proposte, per quanto
vantaggiose - e mamma Hansen si abbandonava alle più
amare recriminazioni.
— E se io ti ordinassi di vendere questo biglietto? —
disse un giorno alla figlia; — si! se te l'ordinassi!
— Madre mia, sarei desolata, ma dovrei rispondere con
un rifiuto!
— Tuttavia, se fosse necessario?
— Perché dovrebbe esserlo? — osservò Joël.
Mamma Hansen non aggiunse parola. Era divenuta
pallidissima, vedendo di non riuscire a spuntarla, e si ritirò,
mormorando parole inintelligibili.
— C'è qualche cosa di grave, e dev'essere un affare tra
nostra madre e Sandgoïst! — disse Joël.
— Lo penso anch'io, Joël! Chi sa quali complicazioni ci
prepara l'avvenire!
— Mia povera Hulda, siamo già abbastanza provati da
alcune settimane, e un nuovo disastro ci minaccia?
— Quanto tarda a ritornare il signor Sylvius! — disse
Hulda. — Quando è qui, mi sento meno sconsolata!
— E, nonostante tutto, cosa potrebbe fare, lui, per noi?
— rispose Joël.
Ma che cosa c'era nel passato di mamma Hansen che ella
non voleva confidare ai suoi figli? Per quale amor proprio
male inteso essa celava loro il motivo delle sue
inquietudini? Aveva da rivolger loro qualche rimprovero?
E, d'altra parte, per quale ragione cercava di esercitare
questa pressione su sua figlia, a proposito del biglietto di
Ole Kamp e del valore che esso aveva raggiunto? Da cosa
nasceva il fatto che ella si mostrava così impaziente di
intascarne il prezzo? Finalmente questo mistero stava per
essere svelato a Hulda e Joël.
Il 4 luglio mattina, Joël aveva condotto la sorella alla
chiesetta ove essa tutti i giorni pregava per il naufrago.
Egli l'attendeva e poi la riconduceva a casa.
Quel giorno, al ritorno, videro entrambi da lontano, sotto
gli alberi, mamma Hansen che camminava rapidamente e si
dirigeva verso l'albergo.
Non era sola.
Le stava vicino un viaggiatore, che doveva parlare a
voce alta e i cui gesti sembravano imperiosi.
Hulda e suo fratello si erano subito fermati.
— Chi è quell'uomo? — chiese Joël. Hulda fece alcuni
passi avanti.
— Lo riconosco — ella disse.
— Lo riconosci?
— Sì! È Sandgoïst!
— Quel Sandgoïst di Drammen che è già venuto in casa
nostra durante la mia assenza?
— Sì!
— E che teneva un contegno da padrone, come se avesse
dei diritti su nostra madre, fors'anche su di noi?…
— Egli, in persona, e certamente è qui per esercitare
questi diritti.
— Ma quali?… Ah!… questa volta saprò che cosa
pretende quest'uomo! Joël si tratteneva a fatica, e, seguito
dalla sorella, andò a mettersi un po' in disparte.
Pochi minuti dopo, mamma Hansen e Sandgoïst
giunsero alla porta dell'albergo. Sandgoïst vi entrò per
primo. La porta si chiuse dietro mamma Hansen e lui.
Joël e Hulda si avvicinarono alla casa, ove si udiva la
voce incollerita di Sandgoïst. Si fermarono, ascoltarono.
Mamma Hansen parlava con accento supplichevole.
— Entriamo! — disse Joël.
Ed entrambi, Hulda coi cuore oppresso e Joël, fremente
d'impazienza e anche di collera, entrarono nel salone, di cui
richiusero la porta.
Sandgoïst era seduto nella sedia a braccioli. Non si
scomodò per nulla vedendo il fratello e la sorella, Si
contentò appena di volgere il capo e di sbirciarli dal di
sopra degli occhiali.
— Ah! ecco la graziosa Hulda, se non m'inganno — egli
disse con un accento che dispiacque a Joël.
Mamma Hansen stava in piedi davanti a quell'uomo, in
un'attitudine umile e timorosa. Ma alla vista dei figli, si
raddrizzò subito e parve molto contrariata.
— Ed ecco suo fratello, vero? — soggiunse Sandgoïst.
— Sì, suo fratello — rispose Joël.
Poi, avvicinandosi e fermandosi a due passi dalla
poltrona:
— In che cosa posso servirla? — chiese.
Sandgoïst lo guardò duramente, e con voce aspra,
rispose senza alzarsi:
— State per saperlo, giovanotto! Davvero, venite a
proposito! Avevo fretta di vedervi, e, se vostra sorella è
ragionevole, noi faremo presto ad intenderci! Ma sedete, e
anche voi, fanciulla!
Sandgoïst li invitava a sedere, come se si fosse trovato in
casa sua. Joël glielo fece osservare.
— Ah! ah! Questo vi ferisce! Diavolo, ecco un giovane
alquanto permaloso.
— Permaloso, appunto — soggiunse Joël — e che
accetta delle cortesie solo da chi ha diritto di usargliele!
— Joël! — disse mamma Hansen.
— Fratello!… fratello mio! — aggiunse Hulda,
supplicandolo con un'occhiata di frenarsi.
Joël fece uno sforzo violento per padroneggiarsi, e, per
non cedere alla voglia di mettere alla porta quell'ospite
volgare, si ritirò in un angolo della sala.
— Posso parlare, adesso? — chiese Sandgoïst.
Mamma Hansen rispose soltanto con un segno
affermativo. Ma fu sufficiente.
— Ecco di che si tratta, ma vi prego di ascoltarmi
attentamente, poiché non amo ripetere ciò che ho detto una
volta!
Come si vede, egli parlava come un uomo che ha il
diritto d'imporre la propria volontà.
— Venni a conoscenza dai giornali — egli rispose —
dell'avventura di un certo Ole Kamp, giovane marinaio di
Bergen, e di un biglietto di lotteria, che egli aveva inviato
alla sua fidanzata Hulda nel momento in cui la sua nave, il
Viken, stava per fare naufragio. Seppi anche che la gente
considerava
quel
biglietto
come
un
biglietto
soprannaturale, a causa delle circostanze nelle quali era
venuto a trovarsi. Ho saputo, inoltre, che gli veniva
attribuito un valore speciale, riguardo alla fortuna che esso
dovrebbe avere il giorno dell'estrazione. Infine, ho saputo
che sono state fatte a Hulda Hansen delle offerte, e anche a
prezzi considerevoli.
Tacque un istante e poi:
— È vero tutto ciò? — disse. La risposta si fece
attendere.
— Sì!… È vero! E dopo? — disse Joël.
— Dopo? — riprese Sandgoïst. — Ecco, io penso che
queste offerte siano causate da un'assurda superstizione, ma
esse ci sono ugualmente e aumentano, penso,
avvicinandosi il giorno dell'estrazione. Ora io sono
commerciante. Vedo qui un affare che potrebbe
convenirmi. Appunto per ciò ho lasciato ieri Drammen e
mi trovo qui, per trattare della cessione del biglietto o per
pregare madama Hansen di darmi, in ogni caso, la
preferenza rispetto a qualsiasi altro offerente.
Hulda, a tutta prima, voleva rispondere a Sandgoïst con
un rifiuto, come a tanti altri, ma Joël la prevenne:
— Prima di rispondere al signor Sandgoïst, gli
domanderò se egli sa a chi appartiene questo biglietto.
— Ad Hulda Hansen, immagino!
— Ebbene, è ad Hulda Hansen che bisogna chiedere se è
disposta a cederlo!
— Joël!… — disse mamma Hansen.
— Lasciatemi finire, madre — rispose Joël. — Questo
biglietto non apparteneva legittimamente a nostro cugino
Ole Kamp, e non lo ha regalato in assoluta proprietà a mia
sorella?
— Sta benissimo — rispose Sandgoïst.
— Dunque per averlo bisogna rivolgersi a Hulda
Hansen.
— Va bene, va bene, signor formalista — rispose
Sandgoïst. — Io chiedo dunque a Hulda di cedermi questo
biglietto, che porta il numero 9672 e che ella ha avuto da
Ole Kamp.
— Signor Sandgoïst — rispose la fanciulla con voce
ferma, — ho ricevuto altre proposte riguardo a questo
biglietto, ma inutilmente. Risponderò, come ho risposto
sino ad ora. Se il mio fidanzato mi ha trasmesso questo
biglietto con le sue ultime parole, certo la sua intenzione
non era quella che io lo vendessi. Ecco perché non posso
venderlo a nessun prezzo.
Ciò detto, Hulda si disponeva a ritirarsi, parendole che il
suo rifiuto mettesse fine al colloquio. Ma un gesto della
madre la trattenne.
Mamma Hansen non aveva celato il suo dispetto, e
Sandgoïst, corrugando la fronte e col lampo dello sguardo,
già si mostrava incollerito.
— Sì, rimanete, Hulda — egli disse. — Non può essere
questa l'ultima vostra parola, e, se insisto, vuol dire che ho
il diritto d'insistere. Ma forse io mi sono male spiegato, o
voi mi avete male inteso. È certo che le probabilità di
questo biglietto non sono maggiori per il fatto che la mano
di un naufrago lo chiuse dentro una bottiglia e perché è
stato poi raccolto, ma è inutile ragionare con i capricci del
pubblico. Non c'è dubbio che molti desiderano acquistarlo,
e che hanno già fatte delle offerte ragguardevoli. Ve lo
ripeto, ciò si presenta sotto l'aspetto di un affare, ed è
appunto un affare che io voglio trattare con voi.
— Non vi sarà molto facile intendervi con mia sorella,
signore — rispose ironicamente Joël. — Quando le
proponete un affare, essa vi risponde con la voce del
sentimento.
— Parole, parole, giovanotto! — rispose Sandgoïst — e
quando il mio discorso sarà finito, vedrete che è un affare
vantaggioso per me, ma anche per lei! E sarà pure utile per
sua madre, che vi è particolarmente interessata.
Joël e Hulda si guardarono. Stavano per conoscere
quello che mamma Hansen aveva celato fin allora?
— Riprendo — disse Sandgoïst. — Non ho preteso che
questo biglietto mi fosse ceduto al prezzo al quale Ole
Kamp l'ha comperato! No di certo!… A torto o a ragione,
ha acquistato un certo valore mercantile. Quindi, intendo
fare un sacrificio per acquistarlo.
— Vi è già stato detto — replicò Joël — che Hulda ha
già respinto delle proposte superiori a quanto voi potreste
offrire.
— Davvero? — esclamò Sandgoïst. — Delle proposte
superiori? E che cosa ne sapete, voi?
— Del resto, quali che esse siano, mia sorella le rifiuta,
ed io approvo il suo rifiuto!
— Ah! dico, devo trattare con Joël o con Hulda Hansen?
— Mia sorella ed io facciamo una sola persona —
rispose Joël. — Sappiatelo, signore, giacché mostrate di
ignorarlo!
Sandgoïst, senza turbarsi, alzò le spalle. Quindi, come
uomo sicuro dei propri mezzi, riprese:
— Quando ho accennato a un prezzo in cambio del
biglietto, avrei dovuto soggiungere che io posso offrire tali
vantaggi che Hulda, nell'interesse della famiglia, non potrà
rifiutarli.
— Davvero?
— Ed ora, ragazzo mio, sappiate che io non sono venuto
a Dal per pregare vostra sorella di cedermi il biglietto! No,
per mille diavoli, no.
— Che chiedete allora?
— Non domando, esigo… voglio!
— E con qual diritto — esclamò Joël — voi, uno
straniero, osate parlare così nella casa di mia madre?
— Col diritto che ha un uomo di parlare quando e come
gli piace, quando si trova in casa sua! — rispose Sandgoïst.
— A casa sua!
Joël, al colmo dello sdegno, si slanciò verso Sandgoïst,
che quantunque non facile ad intimidirsi, si alzò dalla
poltrona con mossa vivace. Ma Hulda trattenne suo
fratello, mentre mamma Hansen con la testa nascosta fra le
mani, andava a celarsi in un angolo della sala.
— Fratello mio!… Osserva nostra madre — disse la
fanciulla.
Joël si fermò ad un tratto. La vista della madre frenò la
sua ira. Tutto, nel suo contegno, diceva a quale punto
mamma Hansen si trovava in potere di Sandgoïst!
Questi riprese il sopravvento, dopo essersi di nuovo
adagiato comodamente nella poltrona:
— Sì, in casa mia. Dopo la morte del marito, madama
Hansen si è slanciata in speculazioni poco felici. Ha
sciupato la piccola fortuna trasmessale da suo marito al
momento della morte. Dovette chieder danaro a prestito ad
un banchiere di Christiania. Esaurita ogni risorsa, si trovò
costretta ad offrire questa casa in garanzia per una somma
di quindicimila marchi: obbligazione in perfetta regola che
le è stata prestata e che io, Sandgoïst, ho ricomprato dal
suo prestatore. Questa casa sarà dunque mia, e assai presto,
se non sono pagato alla scadenza.
— A quando la scadenza? — chiese Joël.
— Al 20 luglio, fra diciotto giorni — rispose Sandgoïst.
— E quel giorno, vi piaccia o no, io sarò qui in casa mia.
— Quel giorno voi sarete a casa vostra soltanto se non vi
avremo ancora rimborsato quanto vi spetta — replicò Joël.
— Vi proibisco dunque di parlare con il tono che finora
avete usato, davanti a mia madre e a mia sorella!
— Mi proibisce… A me… — gridò Sandgoïst. — E
madama Hansen me lo proibisce anche lei?
— Parlate, dunque, madre mia — disse Joël dirigendosi
verso di lei e prendendola per le mani.
— Joël, fratello mio! — esclamò Hulda. — Abbi pietà
per lei… te ne supplico… calmati.
Mamma Hansen, a testa bassa, non osava guardare suo
figlio. Era proprio così: qualche anno dopo la morte del
marito, ella aveva cercato di aumentare il suo modesto
patrimonio con affari rischiosi. Così, era finito anche quel
poco denaro di cui disponeva e ben presto aveva dovuto
ricorrere a prestiti che l'avevano ridotta a mal partito. E ora
un'obbligazione, ipotecata sulla sua casa, era passata nelle
mani di quel Sandgoïst di Drammen, uomo senza cuore,
usuraio noto e detestato in tutto il paese.
Ecco dunque qual era il segreto che pesava sulla vita di
quella donna. Ecco la spiegazione del suo contegno, ecco
perché viveva in disparte, come se avesse voluto agire di
nascosto dei suoi figli. Ecco ciò che non aveva mai voluto
dire a coloro di cui aveva compromesso il destino.
Hulda osava appena riflettere su quanto aveva udito or
ora. Sì! Sandgoïst era padrone di imporre la sua volontà!
Quel biglietto, che egli adesso voleva, forse fra quindici
giorni non avrebbe avuto più alcun valore, e, se lei non si
decideva a venderlo, la rovina era inevitabile: la casa
venduta, la famiglia Hansen senza tetto, senza denaro…
Sarebbe stata la miseria.
Hulda non osava più alzare gli occhi verso Joël. Ma Joël,
accecato dalla collera, non volle curarsi delle minacce che
il futuro avrebbe potuto riservare. Vedeva soltanto
Sandgoïst, e se costui avesse continuato a parlare col tono
di prima, egli non avrebbe saputo padroneggiarsi.
Ma Sandgoïst, sapendosi padrone della situazione,
divenne più duro, più imperioso ancora.
— Questo biglietto lo voglio e l'avrò! — egli ripeteva.
— In cambio, faccio un'offerta che non potete rifiutare:
offro di rimandare la scadenza dell'obbligazione sottoscritta
da madama Hansen, di rimandarla di un anno… di due
anni… Fissate voi stessa la data, Hulda!
Hulda, il cuore stretto dall'angoscia, non sarebbe stata
capace di rispondere. Suo fratello rispose per lei e gridò:
— Il biglietto di Ole Kamp non può essere venduto da
Hulda Hansen! Mia sorella rifiuta, qualunque siano le
vostre pretese e le vostre minacce! E ora uscite!
— Uscire! — disse Sandgoïst. — Oh! no, davvero!… Io
non uscirò!… E se l'offerta che ho fatto non è bastevole,
farò di più… Sì!… In cambio del biglietto, io offro…
offro…
Bisognava che Sandgoïst avesse davvero un vivissimo
desiderio di possedere quel biglietto, bisognava che fosse
convintissimo che l'affare sarebbe stato vantaggioso per lui,
perché egli andò a sedersi davanti alla tavola su cui stavano
carta, penna e calamaio. E, un attimo dopo:
— Ecco quello che offro! — disse.
Era la ricevuta della somma dovutagli da madama
Hansen per la quale ella aveva dato in garanzia la casa di
Dal.
Mamma Hansen, con le mani giunte, con le spalle curve,
guardava, implorava sua figlia.
— Ed ora, — riprese Sandgoïst, — questo biglietto io lo
voglio… lo voglio subito… sul momento!… Non lascerò
Dal se prima non l'avrò con me… lo voglio, Hulda… lo
voglio!
Sandgoïst s'era avvicinato alla povera fanciulla, come se
avesse voluto frugarle indosso per toglierle il biglietto di
Ole.
Fu allora che Joël non ci vide più, soprattutto quando
sentì Hulda gridare:
— Fratello!… fratello!…
— Uscite! — egli gridò.
E siccome Sandgoïst rifiutava di uscire, egli stava per
slanciarsi su di lui, quando Hulda intervenne.
— Madre mia, ecco il biglietto! — ella disse.
Mamma Hansen prese con impeto il biglietto, e mentre
lo scambiava con la ricevuta di Sandgoïst, Hulda cadeva
sulla poltrona quasi svenuta.
— Hulda!… Hulda!… — esclamava Joël. — Ritorna in
te!… Ah! sorella mia, che cosa hai mai fatto!
— Che cosa ha fatto? — soggiunse mamma Hansen. —
Che cosa ha fatto?… Sì, io sono colpevole! Per giovare ai
miei figli, ho cercato di aumentare il patrimonio del loro
padre! Sì! Ho compromesso l'avvenire, ho gettato la mia
famiglia nella miseria… Ma Hulda ci ha salvati tutti!…
Ecco quello che ha fatto!… Grazie, Hulda… Grazie!
Sandgoïst non era ancora uscito. Joël lo vide.
— Voi… ancora qui! — gridò. .
Poi gli si avvicinò, lo afferrò per le spalle, lo sollevò di
peso e, malgrado le sue proteste, lo gettò fuori.
CAPITOLO XV
SYLVIUS HOG giunse a Dal la sera del giorno dopo. Nulla
disse del viaggio. Nessuno seppe che egli era andato a
Bergen. Finché le ricerche iniziate non avessero approdato
a qualche risultato, si proponeva di non parlarne alla
famiglia Hansen. Le lettere e i dispacci, da Bergen o da
Christiania, dovevano essergli personalmente indirizzati
all'albergo, dove egli contava di attendere gli eventi.
Continuava a sperare? Sì, ma era una speranza più che altro
basata su presentimenti.
Appena di ritorno, il professore non tardò ad accorgersi
che qualcosa di grave era accaduto durante la sua assenza.
Il contegno di Joël e di Hulda indicava chiaramente che tra
loro e madama Hansen doveva esserci stata una
spiegazione. Una nuova sventura aveva dunque colpito la
famiglia Hansen?
Ciò afflisse profondamente Sylvius Hog. Egli provava
per i due giovani un affetto così paterno che non avrebbe
potuto essere tanto affezionato ai propri figlioli. Come
avevano sentito, i due giovani, la sua mancanza e come egli
aveva sentito la loro!
«Parleranno!» si disse. «Devono parlare! Non sono io
della famiglia?».
Sylvius Hog credeva, oramai, di avere il diritto
d'intervenire nella vita privata dei suoi giovani amici, di
sapere perché Joël e Hulda sembravano essere più infelici
ancora di quando egli era partito.
Egli non tardò ad esserne informato. Infatti, anche loro
desideravano sommamente confidarsi a quell'uomo così
buono che amavano con affetto filiale. Essi aspettavano
che lui stesso si degnasse di interrogarli. Da due giorni si
sentivano così soli, così abbandonati, tanto più che Sylvius
Hog non aveva detto lo scopo del suo viaggio. Mai le ore
erano sembrate loro così lunghe! Non pensavano che
quell'assenza avesse relazione con le ricerche del Viken e
non sarebbe mai venuto loro in mente che il professore
avesse tenuto nascosto il motivo del viaggio per evitare
loro un'enorme disillusione in caso di insuccesso!
Ed ora la presenza di lui era per loro più necessaria che
mai! Che bisogno provavano di vederlo, di ricevere i suoi
consigli, d'udire la sua voce sempre così affettuosa, così
rassicurante! Ma avrebbero mai avuto il coraggio di
raccontargli quanto era avvenuto tra loro e l'usuraio di
Drammen e come mamma Hansen aveva compromesso
l'avvenire della casa? Cosa avrebbe pensato Sylvius Hog
nell'apprendere che il biglietto non era più nelle mani di
Hulda e che mamma Hansen l'aveva adoperato per liberarsi
del suo spietato creditore? Ma egli l'avrebbe saputo, del
resto. Non si sa chi fu il primo a parlare, se Sylvius Hog,
Joël o Hulda, ma non ha importanza, questo! Una cosa è
certa, cioè che il professore fu presto messo al corrente di
questa storia. Seppe quale era stata la situazione di mamma
Hansen e dei suoi figlioli! Fra quindici giorni, l'usuraio li
avrebbe cacciati da quella casa, se il debito non fosse stato
soddisfatto con la cessione del biglietto.
Sylvius Hog ascoltò questo penoso racconto, che Joël gli
fece in presenza della sorella.
— Non dovevate privarvi del biglietto! — esclamò
dapprima. — Assolutamente, non dovevate privarvene!
— Potevo comportarmi diversamente, signor Sylvius?
— rispose la fanciulla, profondamente turbata.
— Eh! no, certamente! Non potevate!… Ma tuttavia!…
Ah, se io fossi stato presente!
Che cosa avrebbe fatto il professore se fosse stato
presente? Non disse una parola in proposito e riprese:
— Vedo bene, cara Hulda, sì, Joël! Alla fine, avete fatto
ciò che il dovere vi consigliava! Ma ciò che m'indispettisce
è il sapere che questo Sandgoïst profitterà del trasporto
superstizioso del pubblico! Se si attribuirà al biglietto del
povero Ole un valore soprannaturale, sarà lui a sfruttare
l'occasione! E tuttavia, credere che quel numero 9672
venga di sicuro favorito dalla fortuna, è semplicemente
ridicolo, assurdo! Infine, per concludere, forse io non avrei
dato il biglietto. Dopo averlo rifiutato a Sandgoïst, Hulda
avrebbe fatto meglio a rifiutarlo a sua madre!
A quanto Sylvius Hog aveva detto, Hulda e Joël non
sapevano che cosa aggiungere. Consegnando il biglietto a
sua madre, Hulda aveva obbedito ad un sentimento filiale
per cui non meritava certo di essere biasimata. Il sacrificio
che aveva voluto fare non era quello dei beni più o meno
aleatori che quel biglietto rappresentava nel sorteggio della
lotteria di Christiania, ma era il sacrificio delle ultime
volontà di Ole Kamp, era un privarsi dell'ultimo ricordo del
suo fidanzato..
Ma adesso ogni rimpianto era vano.
Sandgoïst possedeva il biglietto. Egli lo avrebbe fatto
fruttare. Il peggiore degli usurai stava per fare danaro con
quel commovente pegno di addio del naufrago! No!
Sylvius Hog non poteva permetterlo!
Così, quel giorno stesso, Sylvius Hog volle avere, a
questo proposito, una conversazione con mamma Hansen,
benché il colloquio non potesse ormai cambiare lo stato
attuale delle cose; tuttavia, era un colloquio che era
divenuto, per così dire, necessario tra loro due. Egli si
trovò pertanto di fronte a una donna che possedeva più
buon senso che generosità di cuore.
— Quindi mi biasimate, signor Hog? — ella disse, dopo
aver lasciato parlare liberamente il professore.
— Certamente, madama Hansen.
— Se mi rimproverate d'essermi imprudentemente
lanciata in cattivi affari, di avere compromessa la fortuna
dei miei figli avete ragione. Ma se mi rimproverate di avere
agito come ho agito per uscire da questa penosa situazione,
avete torto. Che avete da rispondermi?
— Nulla.
— Sinceramente, si poteva rifiutare l'offerta di
Sandgoïst, che in fin dei conti ha pagato quindicimila
marchi un biglietto di nessun valore? Ve lo domando
ancora: si poteva rifiutare?
— Sì e no, madama Hansen.
— Non si e no, signor Hog, ma no, decisamente. Nella
situazione che ora voi conoscete, se l'avvenire non fosse
stato così minaccioso - per mia colpa, ne convengo —
avrei capito il rifiuto di Hulda!… Sì!… Avrei ammesso
tutti i motivi che la inducevano a non voler vendere il
biglietto di Ole Kamp! Ma quando si trattava di vedersi
cacciati dalla casa ov'è morto mio marito, ove sono nati i
miei figli, io non posso più capirlo, e voi, signor Hog, al
mio posto, non avreste fatto diversamente!
— Sì, madama Hansen, sì!
— E che cosa avreste fatto?
— Avrei tentato tutto piuttosto che sacrificare un
biglietto che mia figlia aveva ricevuto in simili circostanze!
— Queste circostanze lo rendono dunque migliore?
— Questo non possiamo dirlo né io, né voi, né nessun
altro.
— Possiamo, invece, signor Hog! Questo biglietto ha
novecentonovan-tanovemila e novecentonovantanove
probabilità di perdere contro una di guadagnare. Forse
perché fu trovato in una bottiglia, gettata in mare, ha
acquistato un valore più grande?
A questa osservazione tanto precisa, Sylvius Hog non
sapeva che rispondere; così tornò a guardare la cosa dal
lato del «sentimento», e disse:
— La situazione, per ora, è questa: Ole Kamp, al
momento del naufragio, ha trasmesso ad Hulda il solo bene
che gli restava al mondo! Le ha pure raccomandato di
trovarsi là, al momento dell'estrazione, nel caso che la
fortuna volesse favorirlo… ed ora, questo biglietto non è
più nelle mani di Hulda.
— Ole Kamp, di ritorno, non avrebbe agito diversamente
da mia figlia — rispose mamma Hansen.
— È possibile — riprese Sylvius Hog, — ma egli solo
aveva il diritto di farlo. E che cosa gli rispondereste, se non
fosse morto, se non fosse perito in questo naufragio, se
ritornasse domani… oggi?…
— Ole non ritornerà più — rispose mamma Hansen con
voce cupa. — Ole è morto, signor Hog, siatene sicuro.
— Voi non lo sapete, madama Hansen! — esclamò il
professore con un accento di convinzione davvero
straordinario. — Sono state iniziate ricerche molto serie
per ritrovare qualcuno che sia sopravvissuto al naufragio!
Potrebbero riuscire, si! riuscire anche prima che abbia
luogo l'estrazione. Non avete dunque il diritto di dire che
Ole Kamp è morto, finché non si avranno delle prove certe
che egli è tra le vittime del naufragio. Se adesso non parlo
più ai vostri figli delle mie speranze, lo faccio per non dar
loro una speranza che potrebbe poi portarli a dolorose
delusioni. Ma a voi, mamma Hansen, voglio dire ciò che
penso! Non posso credere che Ole sia morto! Non voglio
crederlo!… Non lo credo!
Mamma Hansen, sul terreno su cui era scivolata la
conversazione, non poteva lottare col professore. Così,
taceva, e quella norvegese, in fondo un po' superstiziosa,
chinò il capo, come se Ole Kamp avesse potuto comparirle
dinanzi da un momento all'altro.
— In ogni caso, mamma Hansen — riprese Sylvius Hog,
— prima di disporre del biglietto di Hulda, c'era una cosa
semplicissima da fare e non l'avete fatta.
— Quale, signor Hog?
— Bisognava rivolgersi prima ai vostri amici, agli amici
della vostra famiglia. Non avrebbero rifiutato di venire in
vostro aiuto, o sostituendosi a Sandgoïst nel suo credito, o
dandovi la somma necessaria per pagarlo!
— Io non ho amici, signor Hog, cui possa domandare un
favore simile!
— Sì, ne avete, madama Hansen, e ne conosco almeno
uno che vi avrebbe aiutato senza esitare e come un gesto di
riconoscenza.
— E come si chiama?
— Sylvius Hog, deputato allo Storting!
Mamma Hansen non poté rispondere e fece soltanto col
capo un segno di ringraziamento.
— Ma ciò che è fatto è fatto, disgraziatamente! —
aggiunse Sylvius Hog. — Vi prego, dunque, mamma
Hansen, di non dir nulla ai vostri figli di quanto è stato
detto fra noi.
Dopo di che, si separarono.
Il professore aveva ripreso la sua vita consueta, aveva
ricominciate le sue passeggiate. Per alcune ore, egli
visitava con Joël e Hulda i dintorni di Dal, ma senza andare
molto lontano, per non affaticare troppo la fanciulla. Di
ritorno, si occupava della corrispondenza, che gli dava non
poco da fare. Scriveva ripetute lettere a Bergen, a
Christiania. Egli eccitava lo zelo di tutti coloro che
avevano acconsentito a collaborare alla generosa impresa
di ricerca del Viken. La sua esistenza si concentrava nel
supremo pensiero: trovare Ole, ritrovare Ole!
Egli credette necessario assentarsi ancora una volta, per
ventiquattr'ore, per un motivo che certamente riguardava la
famiglia Hansen. Ma conservò, come sempre, un segreto
assoluto su ciò che faceva o faceva fare al riguardo.
Intanto la salute di Hulda, così duramente messa alla
prova, si ristabiliva molto adagio. L'infelice fanciulla
viveva soltanto del pensiero di Ole, e la speranza che essa
associava talvolta a questo nome andava svanendo ogni
giorno di più. Le stavano accanto i due esseri che essa
amava di più al mondo, di cui uno dei due non cessava di
farle coraggio. Ma potevano bastarle queste prove
d'affetto? Non era necessario distrarla ad ogni costo? E
come strapparla a questi pensieri, che occupavano
completamente la sua anima e che la legavano come catene
di ferro al naufrago del Viken?
Si giunse così al 12 luglio.
L'estrazione dei biglietti della lotteria delle Scuole di
Christiania doveva aver luogo quattro giorni dopo.
È inutile dire che la speculazione tentata da Sandgoïst
era stata portata a conoscenza del pubblico. Egli aveva
fatto divulgare, dai giornali, la notizia che il famoso e
provvidenziale biglietto, che portava il numero 9672, era
ora tra le mani del signor Sandgoïst di Drammen, e che
quel biglietto, messo in vendita, sarebbe stato del maggior
offerente. E se il signor Sandgoïst di Drammen era ora in
possesso di questo biglietto è perché l'aveva pagato molto
bene a Hulda Hansen.
Una simile notizia, si può facilmente capire, fu
sensibilmente nociva alla reputazione della fanciulla.
Come! Hulda, sedotta da una lauta offerta, s'era decisa a
vendere il biglietto del naufrago, il biglietto del suo
fidanzato Ole Kamp! Ella aveva fatto motivo di
speculazione di quell'estremo addio!
Ma una nota comparsa sul «Morgen Blad» informò il
pubblico dei fatti, com'erano accaduti. Si seppe in che
modo aveva agito Sandgoïst e come il biglietto era ora
nelle sue mani. La pubblica riprovazione cadde allora
sull'usuraio di Drammen, su quel creditore senza cuore, che
non aveva esitato a speculare sulle sventure della famiglia
Hansen. E allora le cose mutarono faccia: sta di fatto che,
come per un accordo generale, cessò ad un tratto la gara
delle offerte che erano piovute quando Hulda possedeva
ancora il biglietto. Il biglietto, molti pensavano, ha perduto
il suo valore misterioso dacché fu profanato dalle sporche
mani dell'usuraio. Dunque Sandgoïst non aveva concluso
affatto un buon affare e c'era pericolo che il famoso
numero 9672 rimanesse invenduto.
Hulda e Joël, per fortuna, ignoravano tutti questi
particolari. Tanto meglio! Avrebbero troppo sofferto nel
vedersi mescolati in questo affare che nelle mani
dell'usuraio era diventato una speculazione.
Il 12 luglio, verso sera, giunse una lettera a Sylvius Hog.
Questa lettera, inviata dal ministero della Marina, ne
conteneva un'altra, scritta da Christiansand, piccolo porto
all'ingresso del golfo di Christiania. Probabilmente non
diceva nulla di nuovo, giacché Sylvius Hog la mise in tasca
e nonne parlò né a Joël né a sua sorella.
Solo, al momento di ritirarsi nella sua camera e di dare la
buona notte, aggiunse:
— Lo sapete, figlioli miei, fra tre giorni ha luogo
l'estrazione. Non contate di assistervi?
— A che gioverebbe, signor Sylvius? — rispose Hulda.
— Però — riprese il professore — Ole desiderava che vi
assistesse la sua fidanzata; ne fa espressa raccomandazione
nelle ultime righe che ha scritte, e credo che si debba
obbedire alla sua ultima volontà.
— Ma quel biglietto Hulda non lo possiede più e chi sa
in quali mani è andato a finire — osservò Joël.
— Non importa — rispose Sylvius Hog. — Io vi prego,
quindi, di accompagnarmi tutti e due a Christiania.
— Se lo desiderate, signor Sylvius… — rispose la
fanciulla.
— Non sono io, cara Hulda, che lo desidero, ma bisogna
obbedire a Ole.
— Sorella, il signor Sylvius ha ragione — rispose Joël.
— Sì, è necessario! Quando fate conto di partire, signor
Sylvius?
— Domani, all'alba, e che sant'Olaf ci protegga.
CAPITOLO XVI
L'INDOMANI la carrettella del vice direttore Lengling
trasportava Sylvius Hog e Hulda, seduti uno accanto
all'altra nella cassa, pitturata a vividi colori.
Come sappiamo, non c'era posto per Joël. Ma quel bravo
ragazzo se ne andava a piedi, accanto al cavallo, che
scuoteva allegramente la testa.
Quattordici chilometri da Dal a Mœl erano una
passeggiata per quel robusto camminatore.
La carrettella seguiva quella meravigliosa valle del
Westfjorddal, costeggiando la riva sinistra del Maan, valle
angusta e ombrosa, irrigata da mille cascatelle sonore, che
cadono da varie altezze. Ad ogni svolta di questa strada
sinuosa, compare e scompare la cima del Gusta, che le
macchie di neve fanno brillare.
Il cielo era limpido, il tempo magnifico: l'aria non troppo
frizzante, il sole non troppo caldo.
Cosa strana, dacché Sylvius Hog aveva lasciato l'albergo
di Dal, il suo volto sembrava più sereno. Probabilmente
egli si sforzava di imporselo, affinché quel viaggio
riuscisse, se non altro, a distrarre Hulda e Joël dai loro
dolorosi pensieri.
In due ore e mezzo raggiunsero Mœl, all'estremità del
lago Tinn, ove si doveva lasciare la carrettella. Questa,
infatti, non poteva proseguire oltre, a meno che fosse stata
una vettura galleggiante. In quel punto, infatti, comincia la
strada dei laghi. Qui si trova quello che nel paese viene
chiamato un vandskyde, cioè un corso d'acqua con
sedimenti sabbiosi. Là, infine, arrivano quelle fragili
imbarcazioni che fanno servizio sul Tinn, in lungo e in
largo.
La carrettella fu lasciata accanto alla chiesetta del
villaggio, ai piedi di una cascata profonda più di
cinquecento piedi. Questa cascata, di cui si vede solo la
quinta parte, si perde in qualche profonda voragine della
montagna, prima di entrare nel lago.
All'estremità della spiaggia si trovavano due battellieri.
Una barca, in legno di betulla, il cui equilibrio, molto
instabile, non permetteva ai viaggiatori che trasportava di
muoversi da una parte all'altra, era pronta a salpare.
Il lago appariva allora nella fresca bellezza del mattino.
Il sole, al suo levarsi, aveva dissipata completamente la
nebbia notturna. S'annunziava una bellissima giornata
estiva.
— Non siete stanco, mio bravo Joël? — chiese il
professore, appena disceso dalla carrettella.
— No, signor Sylvius. Non sono abituato a queste
lunghe corse nel Telemark?
— È vero. Conoscete la strada più diretta da Mœl a
Christiania?
— Perfettamente, signor Sylvius. Una volta giunti
all'estremità del lago, a Tinoset… ma non so se troveremo
una carrettella, giacché non abbiamo avvisata la stazione di
posta del nostro arrivo, come si usa generalmente nel
paese.
— State tranquillo, ragazzo mio; ci ho pensato io… Non
è affatto mia intenzione farvi fare a piedi la strada da Dal a
Christiania.
— Se fosse necessario… — disse Joël.
— Non lo sarà. Ritorniamo al nostro itinerario e ditemi
la strada che conoscete.
— Ecco: giunti a Tinoset, signor Sylvius, costeggeremo
il lago Fol, passando da Vik e Bolkesjo, in modo da recarci
a Möse, e di lì a Kongsberg,
Hangsund e Drammen. Se viaggiamo giorno e notte
arriveremo domani, nelle ore pomeridiane, a Christiania.
— Va bene, Joël! Vedo che conoscete il paese, ed ecco,
per dire il vero, un itinerario piacevole.
— È il più breve.
— Ebbene Joël, non m'importa la brevità, voi mi capite!
— rispose Sylvius Hog. — Io ne conosco uno che allunga
il viaggio di alcune ore. E quello, voi lo conoscete
benissimo, ragazzo mio, benché non ne abbiate parlato.
— E quale?
— Si può passare da Bamble!
— Da Bamble?
— Sì, Bamble! Fate lo gnorri! Bamble, ove abitano il
fattore Helmboë e sua figlia Siegfrid!
— Signor Sylvius!…
— Prenderemo questa strada, e, costeggiando il lago Fol
a sud invece che a nord, non giungeremo forse lo stesso a
Kongsberg?
— Lo stesso e anche meglio! — rispose Joël sorridendo.
— Grazie per mio fratello, signor Sylvius — disse la
fanciulla.
— E anche a voi, mia piccola Hulda, farà piacere di dare
un saluto alla vostra amica Siegfrid.
La barca era pronta. Sedettero a poppa tutti e tre sopra
un mucchio di foglie verdi ammassate dietro. I due
battellieri, remando e governando insieme, si spinsero al
largo.
Man mano che ci si allontana dalla riva, il lago Tinn
s'allarga, dopo Haekenoes, villaggetto di poche case,
costruito sopra un promontorio roccioso che bagna la
stretta insenatura, nella quale si gettano tranquillamente le
acque del Maan. Il lago è ancora molto rinserrato fra i
monti; ma, a poco a poco, l'arco delle montagne si scosta e
ci si rende conto della loro altezza, solo al momento in cui
un'imbarcazione passa alle falde, e, al loro confronto,
sembra appena della grandezza di un volatile acquatico.
Qua e là emergono una dozzina di isolette e scogli, aridi
o verdeggianti, con qualche albergo di pescatori. Sulla
superficie del lago galleggiano tronchi d'albero non
squadrati e travi destinate alle numerose segherie vicine.
Tutto questo fece dire a Sylvius Hog in tono scherzoso e bisogna dire che egli aveva davvero voglia di scherzare
se si permise questa osservazione:
— I poeti scandinavi hanno detto che i laghi sono gli
occhi della Norvegia; ma allora bisogna riconoscere che la
Norvegia ha molte travi nell'occhio, come dice la Bibbia!
Verso le quattro, la barca arrivò a Tinoset, semplice
villaggio privo di ogni comodità. Ma questo poco
importava ai viaggiatori. Sylvius Hog non aveva
l'intenzione di fermarvisi, nemmeno per un'ora. Come
aveva detto a Joël, una carrettella lo stava aspettando sulla
spiaggia. Prevedendo questo viaggio, che da tempo aveva
in animo di fare, aveva scritto al signor Benett, di
Christiania, affinché gli procurasse i migliori mezzi di
trasporto in modo da non doversi affaticare né subire
ritardi. Ecco perché, al giorno stabilito, un vecchio calesse
era a Tinoset, con una buona scorta di commestibili,
cosicché avevano il mezzo di trasporto garantito per tutto il
viaggio, e provvista di cibi assicurata anch'essa, il che non
rendeva più necessario dover ricorrere alle uova non
fresche, al latte rappreso e al brodetto nero dei villaggi del
Telemark.
Tinoset si trova quasi all'estremità del lago Tinn. Ivi, il
Maan, formando una bella cascata, si precipita nella vallata
sottostante, ove riprende il suo corso regolare. I cavalli
giunti dalla posta erano già attaccati, e la vettura prese
subito la direzione di Bamble.
A quel tempo, era questo il solo mezzo per attraversare
la Norvegia in generale e il Telemark in particolare. E forse
le ferrovie fanno ora rimpiangere ai turisti la carrettella
nazionale e i calessi del signor Benett! Joël, non è
necessario dirlo, conosceva benissimo questa parte del
Telemark, che aveva tante volte attraversato per recarsi da
Dal a Bamble.
Alle otto di sera, Sylvius Hog, il fratello e la sorella
giunsero in questa piccola località.
Non erano attesi, ma l'affittaiolo Helmboë fece loro
ugualmente la più festosa accoglienza. Siegfrid abbracciò
teneramente l'amica che trovò molto pallida per aver patito
così a lungo. Per alcuni istanti le due fanciulle rimasero
sole e si confidarono le loro pene.
— Te ne prego, mia cara Hulda — disse Siegfrid, — non
lasciarti abbattere dai dispiaceri! Io non ho perduto la
speranza! Perché rinunciare ad ogni speranza di rivedere il
nostro povero Ole? Sappiamo dai giornali che si fanno
delle ricerche per trovare i resti del Viken. Vedrai che le
ricerche approderanno a qualcosa di positivo! Guarda, io
sono sicura che il signor Sylvius spera ancora!… Hulda…
mia diletta… te ne supplico… non disperarti!
Per tutta risposta, Hulda non sapeva che piangere, e
Siegfrid la stringeva al cuore.
Ah! che gioia sarebbe regnata nella casa del fattore
Helmboë in mezzo a quelle brave persone semplici e buone
se tutto questo piccolo mondo avesse avuto il diritto di
essere felice!
— E così, andrete direttamente a Christiania? — chiese
il fattore a Sylvius Hog.
— Per l'appunto, signor Helmboë!
— Per assistere all'estrazione della lotteria?
— Certamente.
— A qual pro, dacché il biglietto di Ole Kamp si trova
ora nelle mani di quel miserabile Sandgoïst!
— È la volontà di Ole — rispose il professore — e la sua
volontà deve essere rispettata.
— Si dice che l'usuraio di Drammen non abbia potuto
vendere il biglietto, che pur gli è costato caro.
— Infatti, si dice proprio così.
— Ben gli sta! Ha meritato questo castigo, quell'uomo
villano, quel ribaldo, signor Hog, sì! Quel ribaldo!… E gli
sta bene.
— Sì, veramente, signor Helmboë, gli sta proprio bene.
Naturalmente, dovettero cenare alla fattoria: Siegfrid e suo
padre non
avrebbero lasciato partire gli amici senza che avessero
accettato questo invito. Ma conveniva non far tardi, se
volevano riguadagnare durante la notte le poche ore
perdute per essere passati da Bamble.
Così, alle nove precise, i cavalli erano già stati condotti
dalla posta da uno degli addetti all'attacco.
— Alla mia prossima visita, caro signor Helmboë —
disse Sylvius Hog al fattore, — rimarrò sei ore a tavola, se
volete! Ma oggi vi prego di sostituire il dolce con una
vostra buona stretta di mano, e con un caloroso abbraccio
da parte della vostra deliziosa Siegfrid alla mia piccola
Hulda.
Ciò detto, si riprese il viaggio.
A quell'elevata latitudine, il crepuscolo si prolunga per
alcune ore, così, l'orizzonte resta chiaramente visibile, dopo
il tramonto del sole, tanto l'atmosfera è pura.
È una bella strada, anche se un po' accidentata, quella
che va da Bamble a Kongsberg passando da Hitterdal e
costeggiando la riva meridionale del lago Fol. Essa
attraversa così tutta la porzione meridionale del Telemark,
e serve molte borgatelle, molti villaggi, cascinali o gaards
dei dintorni.
Un'ora dopo la partenza, Sylvius Hog, pur senza
fermarsi, poté scorgere la vecchia chiesa d'Hitterdal, un
edificio assai singolare, tutto incappucciato di pinnacoli,
disposti uno sopra l'altro, senza la minima cura per
l'armonia delle proporzioni. La costruzione è interamente
in legno, dalle pareti fatte di travi congiunte e tavole
intonacate sino all'estrema punta del più alto pinnacolo.
Questo ammasso di torrette a pepaiola è, a quanto pare, un
monumento venerabile e venerato dell'architettura
scandinava del tredicesimo secolo.
Scese la notte a poco a poco, una di quelle notti nordiche
rischiarate dagli ultimi riflessi del giorno; ma, verso l'una
del mattino, cedette il passo all'alba nascente.
Joël, seduto in serpa, era immerso nei suoi pensieri.
Hulda stava pensierosa in fondo al calesse. Allora Sylvius
Hog rivolse poche parole al postiglione, raccomandandogli
di affrettarsi. Dopo, s'intese soltanto il tintinnio dei
campanelli, lo schioccare della frusta e lo stridio delle ruote
sopra un terreno sparso di ciottoli.
Viaggiarono tutta la notte, senza cambiare i cavalli.
Non fu necessario fermarsi a Listhüs, stazione
incomoda, sperduta in mezzo a un anfiteatro di montagne
ricoperte di abeti, che racchiude un'altra cerchia di
montagne selvagge. Oltrepassarono pure Tiness,
villaggetto pittoresco, di cui alcune case sono appollaiate
sopra palafitte. Il calesse andava a gran velocità, con gran
rumore di ferraglia e tintinnio di bulloni svitati e di molle
allentate. Il professore non ebbe a rivolgere alcun
rimprovero al postiglione, che dormiva solo con un occhio,
mentre incitava i cavalli scrollando le briglie.
Macchinalmente, egli allungava qualche colpo di frusta,
non per crudeltà, ma di preferenza al cavallo di sinistra, e
ciò perché il cavallo di destra era suo e l'altro del suo
vicino di gaard.
Alle cinque del mattino, Sylvius Hog aprì gli occhi, stirò
le braccia, respirò con piacere l'acuto profumo dei pini che
imbalsamava l'aria.
Si era giunti a Kongsberg. La vettura passò il ponte sul
Laagen, e, passando davanti alla chiesa, andò a fermarsi
poco lungi dalla cascata di Larbrö.
— Amici — disse Sylvius Hog, — se credete,
cambieremo qui i cavalli. È ancora troppo presto per far
colazione. Sarà meglio fermarsi a Drammen! Là ci
concederemo un buon pranzo per risparmiare le provviste
del signor Benett.
Ciò detto, il professore e Joël si contentarono di prendere
un bicchierino di acquavite all'Albergo delle Miniere. Un
quarto d'ora dopo, essendo giunti i cavalli, si poté
riprendere il viaggio.
All'uscita della città, la vettura dovette superare una
strada molto ripida, aperta sul fianco della montagna. Per
un attimo, gli alti piloni delle miniere d'argento di
Kongsberg, si stagliarono snelli nel cielo. Poi, tutto
scomparve dietro una cortina di immense foreste di abeti,
cupe, fresche come dei sotterranei, che non ricevono il
calore del sole, né la sua luce. Nella città di legno di
Hangsund, si fermarono ancora per il cambio dei cavalli.
Percorsero lunghe strade, qua e là chiuse da cancelli a
cardini che venivano aperti dietro pagamento di un
pedaggio di cinque o sei skilling. Regione fertile, ricca
d'alberi, simili ai salici piangenti con lunghi rami flessuosi
che si piegano sotto il peso dei frutti. Avvicinandosi a
Drammen, la valle s'addentra di nuovo fra i monti.
A mezzogiorno, la città, fabbricata su un braccio del
fiordo di Christiania, si mostrò con le sue due interminabili
strade, fiancheggiate da case dipinte, e col porto, sempre
frequentato, nel quale le zattere lasciano uno spazio molto
limitato alle navi che vengono a rifornirvisi dei prodotti del
nord.
La vettura si fermò davanti all'Albergo di Scandinavia.
Il proprietario, personaggio dall'aspetto solenne, con lunga
barba bianca e un contegno da dottore, comparve sulla
soglia del suo locale.
E, con quella finezza di intuizione che è propria degli
albergatori in tutti i paesi del mondo, disse:
— Credo che questi signori e questa signorina vogliano
far colazione…
— Infatti, avete indovinato — rispose Sylvius Hog; —
fateci, anzi, servire il più presto possibile.
— Subito!
La colazione fu presto pronta e, per la verità, era
eccellente. Buono in special modo fu un certo pesce del
fiordo, farcito con un'erba aromatica, che il professore
mangiò con evidente gusto.
Verso l'una e mezzo la vettura, con cavalli freschi,
ritornava davanti all'Albergo di Scandinavia, e ripartiva,
risalendo a piccolo trotto la principale strada di Drammen.
Ma passando davanti una casa bassa, di modesto aspetto,
che faceva contrasto con il colore vivace delle case vicine,
Joël non poté trattenere un moto di disgusto.
— Sandgoïst! — egli esclamò.
— Ah! è il signor Sandgoïst — disse Sylvius Hog. —
Per la verità, non ha proprio l'aria del galantuomo!
Era proprio Sandgoïst. Fumava davanti alla porta della
sua casa. Forse non riconobbe Joël, giacché la vettura stava
passando rapidamente tra cataste di legname e pile di assi.
Percorsa una strada fiancheggiata da sorbi, carichi di
frutti rossi come il corallo, la vettura entrò in una foresta di
pini, lungo la «Valle del Paradiso», magnifica valle,
incoronata da lontani altipiani. Apparvero allora centinaia
di colline, quasi tutte ingemmate da ville o da gaard.
Poi, all'avvicinarsi della sera, quando la vettura cominciò
a ridiscendere verso il mare costeggiando spaziose praterie,
tratto tratto s'incontravano delle masserie con case rosse,
che spiccavano vivamente sullo sfondo verdecupo degli
alberi. Finalmente i viaggiatori raggiunsero il fiordo di
Christiania, cinto da graziose colline, con innumerevoli
insenature, villaggi e porti in miniatura, o pontili
d'imbarco, ove si danno convegno i battelli e i vaporetti di
servizio.
Alle nove di sera - era ancora giorno chiaro, in quei
luoghi - il vecchio calesse entrava in città, facendo molto
rumore, e attraversando vie deserte.
Esso andò a fermarsi, secondo l'ordine di Sylvius Hog,
all'Albergo Vittoria. Quivi discesero Hulda e Joël. Per loro
erano state fissate delle camere anticipatamente. Dopo un
affettuoso «buona notte», il professore andò a casa sua, ove
la vecchia domestica Kate e il vecchio domestico Fink lo
aspettavano con la più viva impazienza.
CAPITOLO XVII
CHRISTIANIA, grande città per la Norvegia, sarebbe una
città molto piccola per l'Inghilterra o la Francia. Se non
fosse stata devastata da incendi frequenti, essa sarebbe
ancora tal quale fu costruita nell'undicesimo secolo. In
realtà, la Christiania di oggi risale al 1624, anno in cui il re
Christian ne ordinò la ricostruzione. Abbandonato il suo
vecchio nome, Opsolo, prese quello di Christiania, nome
femminilizzato da quello del suo regale architetto. È una
città regolare, dalle larghe strade, diritte e monotone,
tracciate col tiralinee, case bianche di pietra o di mattoni
rossi.
Nel mezzo di un bel giardino, s'innalza il castello reale,
l'Orscarslot, vasto edificio quadrangolare, privo di stile,
benché sia definito di stile ionico.
Qua e là si vedono alcune chiese, i cui pregi artistici non
riuscirebbero a distrarre i fedeli.
Non mancano edifici civili e stabilimenti pubblici, senza
contare un gran bazar, disposto in circolo, ove s'accolgono
le merci straniere e indigene.
In complesso non c'è nulla di spiccatamente originale.
Però non si può fare a meno di ammirare la posizione della
città, nel mezzo di quell'anfiteatro di montagne, così varie
d'aspetto, che le fanno da sfondo pittoresco.
Praticamente disposta in piano nei quartieri ricchi e
nuovi, essa diventa un po' collinosa là dove forma una
specie di Casbah, coperta di case d'aspetto irregolare, dove
vive la povera gente, casupole di legno, o di mattoni, dai
colori sgargianti che offendono l'occhio anziché recargli
diletto.
Non bisogna credere che la parola «casbah», riservata
alle città africane, non sarebbe appropriata in una città del
Nord Europa.
Christiania, non ha forse attorno al suo porto, i quartieri
di Tunisi, di Marocco, di Algeri? E, se non vi si trovano
tunisini, marocchini o algerini, tutta quella popolazione che
va e viene non vale molto di più.
Ad ogni modo, come ogni città che da un lato è bagnata
dal mare e dall'altro s'eleva fino a toccare verdeggianti
colline, Christiania è molto pittoresca. Non è esagerazione
paragonare il suo fiordo al golfo di Napoli. Al pari delle
rive di Sorrento e di Castellammare, le sue spiagge sono
piene di ville e chàlets quasi nascosti dal verde scurissimo
dei pini, e avvolti in quella leggera nebbiolina che dà loro
una «sfumatura evanescente» tipica delle regioni iperboree.
Sylvius Hog era finalmente tornato a Christiania.
Per dire il vero, questo ritorno era determinato da
circostanze che egli non avrebbe mai potuto prevedere, e
dopo un viaggio interrotto. Poco conta! Egli poteva
completarlo un altr'anno! Per ora doveva occuparsi di Joël
e di Hulda Hansen. Non li aveva condotti in casa sua,
giacché non aveva due camere per riceverli. Senza dubbio
il vecchio Fink e la vecchia Kate avrebbero fatto loro
buona accoglienza, ma non c'era stato il tempo di
prepararsi.
Ecco perché il professore li aveva condotti all'Albergo
Vittoria, raccomandandoli in modo particolare. E di una
raccomandazione di Sylvius Hog, deputato allo Storting, si
teneva sempre conto.
Ma, mentre il professore chiedeva per i suoi protetti le
attenzioni che si sarebbero usate a lui stesso, non aveva
detto i loro nomi. Gli pareva cosa prudente conservare
l'incognito, da principio, riguardo a Joël e Hulda Hansen.
Sappiamo quante chiacchiere s'erano fatte intorno alla
fanciulla; e, per risparmiarle molte noie, era meglio non si
sapesse del suo arrivo a Christiania.
Sylvius Hog aveva stabilito coi suoi amici che
l'indomani si sarebbero visti solo all'ora di colazione, cioè
alle undici e mezzo.
Il professore, infatti, aveva alcune faccende da sbrigare,
e prevedeva di impiegare per questo l'intera mattinata; li
avrebbe raggiunti non appena avesse finito: si proponeva di
non lasciarli più fino al momento dell'estrazione, che
doveva aver luogo alle tre.
Joël, appena alzato, andò a trovare la sorella. Hulda, già
pronta, lo aspettava. Con lo scopo di sviarla dai soliti
pensieri, che dovevano in quel giorno essere anche più
tristi, Joël le propose di passeggiare fino all'ora della
colazione. Hulda, per non far dispiacere al fratello, accettò
l'offerta, e quindi, insieme, andarono a zonzo per la città.
Era domenica. Diversamente da quello che succede nelle
città settentrionali nei giorni festivi, nei quali i passanti
sono pochi, c'era un grande movimento per le strade. Non
solo i cittadini erano rimasti in città, ma molti contadini
affluivano dalle vicinanze. La ferrovia del lago Mjosen,
che serve i dintorni della capitale, aveva dovuto disporre
dei treni supplementari.
Quanti curiosi, ma soprattutto quanti interessati, erano
attirati da questa popolare lotteria delle Scuole di
Christiania!
Le vie erano quindi ingombre di gente, intere famiglie, o
meglio gruppi di famiglie, venute con la segreta speranza
di non aver fatto il viaggio inutilmente. Che sogni!
Il milione di biglietti era stato venduto, e, avesse anche
solo guadagnato un premio di cento o duecento marchi, con
quanta gioia sarebbe ritornata quella brava gente nei suoi
umili casolari!
Joël e Hulda, lasciando l'Albergo Vittoria, discesero
prima alle banchine che stanno tutt'intorno al lato est della
baia. Qui l'affluenza era minore, tranne che nelle osterie,
ove alcuni sembravano avere una sete inestinguibile, tanto
era copioso il loro consumo di birra e di acquavite.
Mentre fratello e sorella passeggiavano tra i depositi, le
file di botti e di casse di svariata provenienza, la loro
attenzione fu subito richiamata dai bastimenti ancorati
accanto al molo o al largo. Non c'era per caso una di quelle
navi che avevano attraccato al porto di Bergen, nel quale il
Viken non sarebbe più tornato?
— Ole!… mio povero Ole! — mormorava Hulda.
Joël s'affrettò a condurla lontano dalla baia risalendo
verso i quartieri elevati della città. Là, nelle strade, sulle
piazze, in mezzo a gruppetti di gente, ascoltarono dei
discorsi, in cui si parlava proprio di loro.
— Sì — diceva uno, — si erano già offerti diecimila
marchi per il numero 9672!
— Diecimila? — rispondeva un altro. — Ho inteso
parlare di ventimila e anche più.
— Il signor Vanderbilt di New York ne ha offerti
trentamila.
— Il signor Baring di Londra quarantamila.
— E il signor Rotschild di Parigi sessantamila!
Non sappiamo quanto ci fosse di vero in simili dicerie.
Per poco che si andasse avanti, il prezzo offerto avrebbe
superato il premio più grosso della lotteria.
Ma se gli spacciatori di notizie non erano d'accordo sulle
somme offerte a Hulda Hansen, tutti, ad una voce,
biasimavano la condotta dell'usuraio di Drammen.
— Che mascalzone, quel Sandgoïst, e com'è stato
spietato verso quella buona gente!
— Oh! è molto conosciuto nel Telemark e non è questa
la sua prima bricconata!
— Si dice che non ha potuto rivendere il biglietto di Ole
Kamp, dopo averlo comperato ad alto prezzo!
— È vero! Nessuno l'ha più voluto.
— È naturale! Fra le mani di Hulda Hansen, quel
biglietto era buono!
— Evidentemente; mentre nelle mani di Sandgoïst non
vale più nulla!
— Ben gli sta! Gli servirà da lezione, e possa perdere
anche i quindicimila marchi che ha speso!
— Ma se guadagnasse poi il premio?
— Lui!… Nemmeno per sogno.
— Sarebbe un'ingiustizia della sorte. In ogni modo, che
non si faccia vedere all'estrazione.
— No, non sarebbe una cosa ben fatta da parte sua!
Ecco, nel loro complesso, le opinioni diffuse intorno a
Sandgoïst.
Ma noi sappiamo che, per prudenza o per qualche altro
motivo, egli non aveva l'intenzione di assistere
all'estrazione, giacché non si era mosso da Drammen, ove
l'abbiamo testé veduto.
Hulda, molto emozionata, e Joël che sentiva tremare il
suo braccio, camminavano in fretta, senza cercare di sentire
altro, quasi temessero di venire ad un tratto acclamati dai
numerosi amici sconosciuti che si accorgevano di avere in
mezzo alla folla.
Speravano di incontrare per la città Sylvius Hog, ma non
fu così.
Però da alcune parole, colte nella conversazione,
capirono che la gente sapeva già del ritorno del professore.
Quella stessa mattina lo avevano visto percorrere la città
con aria molto affaccendata, come uomo che non ha tempo
né di interrogare né di rispondere, ora nei quartieri del
porto, ora nelle vicinanze del palazzo del ministero della
Marina.
Certamente, Joël avrebbe potuto chiedere a qualsiasi
persona ove abitava il professore Sylvius Hog.
Tutti si sarebbero affrettati ad indicargli la sua casa e a
condurvelo. Non lo fece per timore di apparire indiscreto, e
poiché l'appuntamento era fissato all'albergo, era meglio
stare a quest'accordo.
Verso le dieci e mezzo Hulda pregò Joël di rientrare. Si
sentiva molto stanca, e tutti quei discorsi, che la
riguardavano tanto direttamente, le facevano male.
Ritornò all'Albergo Vittoria, quindi risalì nella sua
camera per attendere Sylvius Hog.
Joël rimase a pianterreno, nella sala d'attesa. Qui,
macchinalmente, diede un'occhiata ai giornali di
Christiania.
Ad un tratto il suo volto impallidì, la sua vista s'offuscò
e gli cadde di mano il giornale…
Nel «Morgen Blad», fra le notizie di mare, lesse il
dispaccio seguente spedito da Terranova:
«L'avviso Telegraf, giunto sul presunto teatro del
naufragio del Viken, non ha trovato alcuna traccia. Le sue
ricerche lungo le coste della Groenlandia non ebbero alcun
successo. Si deve ritenere che l'equipaggio del Viken sia
completamente perito».
CAPITOLO XVIII
— BUONGIORNO, signor Benett! Quando posso stringervi
la mano mi fa sempre piacere.
— L'onore è mio, signor Hog.
— Onore, piacere, piacere, onore — rispose
allegramente il professore; — una cosa vai l'altra!
— Vedo che il vostro viaggio nella Norvegia centrale è
concluso.
— Non è concluso, ma è finito almeno per quest'anno,
signor Benett.
— Ebbene, signor Hog, parlatemi, se volete, di quelle
brave persone che avete conosciuto a Dal.
— Brave persone, davvero, signor Benett, e coraggiose
per giunta. Brave in tutti e due i sensi!
— Da quanto se ne dice nei giornali, sono pur da
compiangere.
— È vero, signor Benett! Io non ho mai visto la sventura
accanirsi contro delle povere creature con una simile
ostinazione.
— Infatti, signor Hog. Dopo il naufragio del Viken la
prepotenza di quell'abominevole Sandgoïst.
— Proprio così, signor Benett.
— Ma se ben si guarda, Hulda Hansen ha agito
prudentemente consegnando il biglietto in cambio di quella
ricevuta…
— Vi pare?… E perché, di grazia?
— Perché quindicimila marchi valgono bene una si lieve
probabilità di vincita…
— Ah, signor Benett! — replicò Sylvius Hog — voi
parlate proprio da uomo pratico, da negoziante, quale siete!
Ma, se voleste guardare la cosa da un altro punto di vista,
nell'affare entra in gioco il sentimento e il sentimento non
si calcola con cifre…
— Certamente, signor Hog; ma permettetemi di dirvelo,
probabilmente la vostra protetta ci avrebbe rimesso per il
suo sentimento…
— Che ne sapete voi?
— Ma riflettete un po': che cosa rappresentava quel
biglietto? Una probabilità su un milione di vincere!
— È vero, una sola probabilità su un milione. È ben
poco, signor Benett, è ben poco!
— Ed ecco che all'euforia dei primi giorni è subentrata
la reazione, e si dice che quel Sandgoïst, che aveva
comperato il biglietto col solo scopo di specularci su, non
abbia trovato neanche un compratore.
— Signor Benett, dal momento che si deve avere un
cuore, tanto vale che sia buono, non è vero?
E Sylvius Hog accompagnava queste parole col suo più
amabile sorriso.
— E ora, signor Benett — egli riprese — non crediate
che io sia venuto a cercare qui dei complimenti! Affatto! È
un altro il motivo della mia visita!
— Sono al vostro servizio.
— Voi sapete, vero, che, senza l'aiuto di Joël e di Hulda
Hansen, il Rjukanfos, dopo avermi inghiottito, mi avrebbe
reso cadavere. Quindi in questo momento, non avrei il
piacere di rivedervi.
— Sì!… Sì!… Lo so! — rispose il signor Benett. — I
giornali hanno raccontato la vostra avventura; e davvero
questi bravi giovani avrebbero meritato di vincere il primo
premio.
— È anche il mio parere — rispose Sylvius Hog. — Ma,
dal momento che ora è impossibile, io non vorrei che la
mia piccola Hulda ritornasse a Dal senza qualche
regaluccio… un ricordo…
— Ecco una buona idea, signor Hog.
— Voi dunque m'aiuterete a scegliere fra i vostri gingilli
qualcosa che possa piacere ad una fanciulla…
— Volentieri — rispose il degno commerciante.
E pregò il professore di passare nel magazzino riservato
alla gioielleria locale. Un gioiello norvegese non era il
miglior ricordo che si potesse portare da Christiania e dal
meraviglioso bazar del signor Benett?
Anche Sylvius Hog era dello stesso parere; e il
compiacente gentiluomo si affrettò a mostrargli il meglio
che aveva.
— Vediamo — diceva il signor Hog; — io me ne
intendo assai poco, e mi rimetto al vostro gusto, signor
Benett.
— Ci intenderemo facilmente, signor Hog.
C'era un assortimento svariatissimo di gioielli svedesi e
norvegesi, di lavorazione molto complessa, e che in genere
valgono più per l'arte che per il materiale.
— Cos'è quello? — chiese il professore.
— È un anello placcato, con ciondolini mobili che
producono un gradevole tintinnio.
— Molto grazioso! — rispose Sylvius Hog provando
l'anello all'estremità del dito mignolo. — Intanto, mettetelo
da parte, e vediamo qualcos'altro.
— Braccialetti o collane?
— Un po' di tutto, se permettete, signor Benett, un po' di
tutto. Ah! questo?
— Sono spillette che si applicano, per ornamento, in
coppia sulla camicetta. Vedete l'effetto del rame lavorato
sul fondo di lana rossa? Sono di buon gusto, e non costano
molto.
— Incantevoli, infatti, signor Benett. Mettiamole pure da
parte.
— Solo, signor Hog, vi farò osservare che queste
spillette sono riservate alle fanciulle per il giorno delle
nozze… e che…
— Per sant'Olaf! Avete ragione, signor Benett, avete
ragione. Mia povera Hulda! Per disgrazia, non è Ole a farle
questo regalo, sono io, e colei cui lo offrirò non è più una
fidanzata!
— Infatti, signor Hog!
— È vero; vediamo dunque altri gioielli che siano adatti
a una fanciulla. Ah! E questa croce, signor Benett?
— È una croce da collo con placchette concave che
tintinnano ad ogni movimento.
— Molto bella!… Molto bella!… Mettiamola da parte,
signor Benett. Quando avrò visto tutto, faremo una scelta
definitiva.
— Sì, ma…
— Ancora un ma?…
— Questa croce è quella che portano le fidanzate della
Scania, recandosi alla chiesa per la cerimonia nuziale.
— Diavolo, signor Benett!… Bisogna proprio dire che io
non ho una buona mano!
— Ciò dipende dal fatto che sono proprio i gioielli da
sposa che costituiscono il mio maggior assortimento e che
io vendo in maggior quantità. Non potete quindi
stupirvene.
— Non mi stupisco per nulla, signor Benett, ma questo
fatto mi mette un po' in imbarazzo!
— Ebbene, prendete quell'anello d'oro che avete fatto
mettere in disparte!
— Sì… quell'anello d'oro… ma desideravo qualche altro
gioiello… come dire? più decorativo…
— Allora, non esitate! Prendete questa piastra d'argento
in filigrana, le cui catenelle fanno un bellissimo effetto sul
collo d'una fanciulla! Osservate! È cosparsa di fini conterie
e adorna di fusetti di ottone in forma di rocchetti, con perle
colorate! È uno dei più curiosi prodotti dell'oreficeria
norvegese!
— Sì!… Sì!… — rispose Sylvius Hog. — Un grazioso
gioiello, ma forse un po' troppo vistoso per la mia modesta
Hulda. Per dire il vero, preferirei le spillette che mi avete
mostrato poco fa, e la croce! Sono proprio un regalo
prettamente da nozze, tanto da non poterne far dono a una
fanciulla?
— Signor Hog — rispose il signor Benett, — lo Storting
non ha ancora emanato leggi in proposito!… Forse è una
lacuna…
— Bene, bene, signor Benett, a questo si provvederà!
Intanto io compero le spillette e la croce!… E poi, la mia
piccola Hulda può sposarsi un giorno o l'altro!… Buona e
graziosa com'è, non le mancherà occasione di servirsi di
questi ornamenti!… È dunque deciso: li compero e li porto
via.
— Bene, signor Hog.
— Avremo piacere di vedervi all'estrazione, signor
Benett?
— Certamente.
— Credo che sarà una cosa interessante.
— Ne sono certo.
— Dunque, a fra poco, signor Benett.
— A fra poco, signor Hog.
— Guarda! — osservò il professore piegandosi sopra
una vetrina. — Ecco due graziosi anelli che non avevo
veduto.
— Ah! questi non fanno proprio al vostro caso, signor
Hog. Sono anelli incisi che il pastore mette al dito dei
fidanzati durante la cerimonia…
— Davvero!… Bah! Io li compero lo stesso. A fra poco,
signor Benett, a fra poco.
Sylvius Hog uscì, e con passo leggero - pareva avesse
vent'anni - si diresse verso l'Albergo Vittoria.
Giunse sotto il vestibolo e la prima cosa che vide furono
le parole Fiat lux, che sono scritte nella parte inferiore
della lanterna a gas.
«Ecco un latino adatto alla circostanza» disse tra sé. «Sì!
Fiat lux!… Fiat lux!…»
Hulda era nella sua camera. Seduta accanto alla finestra,
aspettava. Il professore bussò alla porta, che fu aperta
immediatamente.
— Ah! signor Sylvius — esclamò la fanciulla, alzandosi.
— Eccomi! eccomi! Ma non si tratta ora del signor
Sylvius, mia piccola Hulda, si tratta della colazione che è
già pronta. Ho una fame da lupi! Dov'è Joël?
— Nella sala di lettura.
— Bene!… Vado a cercarlo! Venite subito, cara Hulda,
a raggiungerci.
Sylvius Hog lasciò la camera di Hulda e andò a trovare
Joël che, anche egli, attendeva, ma disperato.
Il povero Joël gli mostrò il numero del «Morgen Blad».
Il dispaccio del capitano del Telegraf non lasciava più
alcun dubbio sulla perdita totale del Viken.
— Hulda ha letto? — chiese vivacemente il professore.
— No, signor Sylvius, no! È meglio nasconderle quanto
verrà a sapere fin troppo presto!
— Avete fatto bene, ragazzo mio… Andiamo a tavola.
Poco dopo, tutt'e tre sedevano ad un tavolo particolare.
Sylvius Hog mangiò con grande appetito.
Un'eccellente colazione, del resto, che poteva quasi dirsi
pranzo. Giudicate da soli: zuppa fredda alla birra, con fette
di limone, pezzetti di cannella cosparsa di pane bigio
sbriciolato; salmone in salsa bianca zuccherata; vitello
cotto nel pan grattugiato fine; roastbeef al sangue con
insalata abbondantemente condita di spezie; gelato alla
vaniglia, pasticci di patate, lamponi, ciliege, nocciole, il
tutto innaffiato con vecchio Saint-Julien di Francia.
— Eccellente!… Eccellente! — ripeteva Sylvius Hog.
— Pare di trovarsi a Dal nell'albergo di mamma Hansen!
E, non potendo con la bocca momentaneamente
occupata, sorrideva con gli occhi, per quel tanto che con gli
occhi si può sorridere.
Joël e Hulda avrebbero tentato invano di fare come lui;
non ci sarebbero riusciti, anzi, la povera fanciulla riuscì a
stento a mandar giù il suo pranzo.
Finito che ebbero di desinare, Sylvius Hog disse:
— Figli miei, questo pranzo era ottimo: avete fatto male
a non farvi onore. Ma, dopo tutto, non potevo costringervi.
Del resto, se non avete pranzato, cenerete con più appetito.
Io invece, non so se questa sera potrò tenervi testa! E
adesso, è ora di alzarsi da tavola.
Il professore era già in piedi, e prendeva il cappello che
Joël gli porgeva, quando Hulda, fermandolo, gli disse:
— Signor Sylvius, desiderate ancora che io venga con
voi?
— Per assistere all'estrazione del biglietto? Certamente;
ci tengo, e molto anche, figliola cara!
— Mi riuscirà penoso!
— Penosissimo, d'accordo! Ma Ole ha voluto che voi
foste presente all'estrazione, Hulda, e bisogna rispettare la
sua volontà!
Decisamente, questa frase era divenuta un ritornello
nella bocca di Sylvius Hog!
CAPITOLO XIX
GRANDE ERA l'affluenza di gente nella vasta sala
dell'Università di Christiania, ove stava per effettuarsi
l'estrazione del biglietto della lotteria - ed anche nei cortili,
giacché il salone non bastava a contenere tutta la folla, e
perfino nelle vie, non essendo, neanche i cortili, sufficienti
per tutti.
È certo che quella domenica, 15 luglio, non era dalla
calma che è loro abituale che si sarebbero potuti
riconoscere i norvegesi, così stranamente sovreccitati. Ma
quella sovreccitazione era dovuta alla temperatura elevata
di quel giorno d'estate o all'interesse per l'estrazione? O
forse questi due fattori vi contribuivano insieme? In ogni
caso, nemmeno il succhiare quei frutti rinfrescanti, quei
multer di cui si fa largo consumo in Scandinavia, sarebbe
bastato a spegnerla.
L'estrazione doveva cominciare alle tre in punto. I premi
erano cento, divisi in tre serie: 1) novanta premi da cento a
mille marchi, per un valore totale di quarantacinquemila
marchi; 2) nove premi da mille a novemila marchi, per un
pari valore totale di quarantacinquemila marchi; 3) un
premio di centomila marchi.
Contrariamente a quanto si usa fare in questo tipo di
lotterie, l'emozione più grande era riservata per ultima! Il
primo premio non doveva essere attribuito al primo numero
estratto, ma all'ultimo, cioè al centesimo. Ciò avrebbe
prodotto una serie d'impressioni, di emozioni, di battiti di
cuore che, via via, sarebbe andata aumentando. È sottinteso
che qualsiasi numero, che fosse già uscito una volta, non
avrebbe potuto vincere di nuovo, e se per caso fosse uscito
ancora dall'urna, sarebbe stato annullato.
Il pubblico sapeva già tutto questo. Ora, c'era solo da
attendere l'ora stabilita. Ma, per ingannare il tempo
nell'attesa, si discorreva, e il tema favorito era il caso
patetico di Hulda Hansen. Senza dubbio, se essa avesse
ancora posseduto il biglietto di Ole Kamp, molti avrebbero
fatto voti per lei - dopo che per sé, naturalmente!
Alcuni avevano già letto il dispaccio pubblicato dal
«Morgen Blad» e ne parlavano ai vicini. Si seppe in breve
che le ricerche dell'avviso Telegraf erano riuscite
infruttuose. Bisognava dunque rinunciare alla speranza di
trovare anche un solo relitto del Viken. Neanche un uomo,
nell'equipaggio, che si fosse salvato! Hulda non avrebbe
mai riveduto il suo fidanzato!
Un incidente venne a turbare gli spiriti. Si era diffusa la
voce che Sandgoïst si era deciso a lasciare Drammen, e
alcuni pretendevano di averlo visto per le vie di
Christiania. Avrebbe dunque avuto il coraggio di comparire
nella sala! In tal caso avrebbe dovuto aspettarsi la violenta
reazione di tutti nei suoi confronti. Ma una cosa del genere
appariva impossibile. Insomma, era solo un falso allarme,
niente di più!
Verso le due e un quarto, si notò un certo movimento tra
la folla.
Era il professor Sylvius Hog che si presentava alla porta
dell'Università. Si sapeva la parte che egli aveva avuto in
quest'affare, e, come, dopo essere stato salvato dai figli di
mamma Hansen, egli cercasse il modo di pagare il suo
debito.
Subito il pubblico fece largo.
Un mormorio lusinghiero, al quale Sylvius Hog rispose
con amabili cenni di saluto, si diffuse nell'assemblea e si
trasformò ben presto in acclamazioni.
Ma il professore non era solo. Quando i più vicini si
tirarono indietro per fargli posto, tutti si accorsero che
teneva al braccio una fanciulla, mentre un giovanotto
veniva dietro di loro.
Una fanciulla e un giovanotto! Attraverso la folla passò
un fremito. Lo stesso pensiero brillò contemporaneamente
nel cervello di ognuno, come la scintilla di molti
accumulatori.
— Hulda!… Hulda Hansen!
Fu quello il nome che tutti gridarono all'unisono.
Si, era Hulda, tanto commossa da non potersi reggere in
piedi. Ella sarebbe caduta se non ci fosse stato, a
sostenerla, il braccio di Sylvius Hog. Ma questi sorreggeva
con forza l'eroina di quella festa, alla quale mancava Ole
Kamp. Oh! come avrebbe preferito trovarsi nella sua
cameretta di Dal! Che bisogno provava di sottrarsi a tutta
quella curiosità, per benevola che fosse! Ma Sylvius Hog
aveva voluto che ella fosse presente all'estrazione, ed ella
aveva obbedito.
— Posto! posto! — si gridava da ogni parte.
E si faceva largo al passaggio di Sylvius Hog, di Hulda,
di Joël. Quante mani si tesero per afferrare le loro! Quante
buone ed affettuose frasi furono pronunciate al loro
passaggio! E come Sylvius Hog approvava tutte queste
dimostrazioni di simpatia!
— Sì! è proprio lei, amici miei!… È la mia piccola
Hulda che io ho condotto con me da Dal! — egli diceva.
Poi volgendosi:
— Ed ecco Joël, il suo bravo fratello! E aggiungeva:
— Ma di grazia, non me li soffocate!
E mentre le mani di Joël rispondevano a tutte le strette,
quelle del professore, meno vigorose, rimanevano
indolenzite. Nello stesso tempo, i suoi occhi brillavano;
una piccola lacrima di commozione scivolò fra le sue
ciglia. Ma - fenomeno degno dell'attenzione degli
oftalmologi — quella lacrima era luminosa.
Ci volle un buon quarto d'ora per attraversare i cortili
dell'Università, per giungere nella gran sala, e per occupare
i posti, che erano stati riservati al professore. Finalmente ci
si arrivò, non senza fatica. Sylvius Hog sedette fra Hulda e
Joël.
Alle due e mezzo, una porta si aprì dietro il palco, al
fondo della sala. Il presidente apparve, con aspetto
dignitoso, serio, con quell'aria sovrana, con quel
portamento proprio di chiunque debba presiedere
un'assemblea. Lo accompagnavano due assessori, non
meno seri di lui. Quindi entrarono sei bambine, adorne di
nastri e fiori, tutte con capelli biondi, occhi azzurri e mani
rosee, nelle quali si riconoscevano le manine
dell'innocenza, che, di solito, nelle lotterie, sono destinate
ad estrarre i biglietti dalle urne.
Il loro ingresso fu accolto da un applauso, che
testimoniava anzitutto il piacere di vedere finalmente i
direttori della lotteria di Christiania, e poi l'impazienza che
aveva risvegliato il loro ritardo nel pubblico.
Le fanciulle erano sei appunto perché tale era il numero
delle urne, disposte sopra un tavolo, dalle quali ad ogni
estrazione dovevano uscire sei numeri.
Le sei urne contenevano ciascuna i dieci numeri 1, 2, 3,
4, 5, 6, 7, 8, 9, 0, rappresentanti unità, decine, centinaia,
migliaia, decine di migliaia, e centinaia di migliaia del
milione. Non c'era una settima urna per il milione, perché,
in base a questo metodo di estrazione, è convenuto che, se i
sei zeri escono contemporaneamente, essi rappresentano il
milione - cosa che ripartisce con parità su tutti i numeri le
probabilità di vincita.
Inoltre era stato deciso che i numeri sarebbero stati
successivamente estratti dalle urne cominciando da quella
che era alla sinistra del pubblico. Il numero vincitore si
sarebbe così formato sotto gli occhi degli spettatori,
dapprima con la cifra della colonna delle centinaia di
migliaia, poi con quella delle decine di migliaia, e così di
seguito fino alla colonna delle unità. Essendo state disposte
così le cose, si può immaginare con quanta ansietà ognuno
doveva vedere aumentare le probabilità di vincere, dopo
l'uscita di ogni numero.
Alle tre in punto, il presidente fece un segno con la mano
e dichiarò aperta la seduta.
Il lungo mormorio che accolse quest'annuncio durò
qualche minuto, quindi si ristabilì il silenzio.
Allora il presidente si alzò. Assai commosso, pronunciò
il discorsetto di prammatica, nel quale sembrò essere
spiacente di non poter assegnare un primo premio a ciascun
biglietto. Poi, ordinò di procedere all'estrazione della prima
serie. Essa comprendeva, come sappiamo, novanta premi,
per cui l'estrazione avrebbe richiesto un certo tempo!
Le sei bambine cominciarono dunque a svolgere il loro
compito con regolarità automatica, senza che il pubblico
perdesse la pazienza. Proprio come era stato previsto,
crescendo, ad ogni estrazione, il valore dei premi, cresceva
anche l'emozione, e nessuno pensava a lasciare il suo
posto, nemmeno quelli che non avevano più ragione di
stare in ansia perché il loro biglietto era già uscito.
Questa prima parte dell'estrazione durò un'ora, senza che
accadesse nulla di particolare. Si poté, tuttavia, notare che
il numero 9672 non era ancora uscito, e così conservava
ancora tutte le probabilità di vincere il primo premio.
— Questo è un buon segno per Sandgoïst! — disse uno
dei vicini del professore.
— Bah! Sarebbe davvero sorprendente che gli toccasse il
primo premio! — osservava un altro — benché abbia un
numero famoso!
— Un numero famoso, infatti! — rispose Sylvius Hog.
— Ma non domandatemi il perché!… Non sarei in grado di
dirvelo!
Cominciò allora l'estrazione della seconda serie che
comprendeva nove premi. L'interesse diveniva sempre
maggiore, essendo il novantunesimo premio di mille
marchi, il novantaduesimo di duemila, e così di seguito
sino al novantanovesimo, che era di novemila. La terza
serie, come ricordiamo, si componeva soltanto del primo
premio.
Il numero 72521 vinse un premio di cinquemila marchi.
Questo biglietto apparteneva ad un bravo marinaio, che fu
acclamato da tutto il pubblico e sostenne dignitosamente
questa dimostrazione di simpatia.
Un altro numero, l’823752, vinse seimila marchi! E
quale fu la gioia di Sylvius Hog quando Joël gli disse che
quel biglietto apparteneva alla gentile Siegfrid di Bamble!
In quel momento accadde un incidente e tutto il pubblico
provò un'emozione, che si tradusse in mormorii. Quando
venne estratto il novantasettesimo premio - quello di
settemila marchi - si credette per un momento che
Sandgoïst, almeno per questo premio, fosse stato favorito
dalla fortuna e avesse vinto.
Infatti, il numero vincitore era il 9627. Mancavano solo
quarantacinque punti per avere il numero d'Ole Kamp!
Le due estrazioni seguenti diedero dei numeri molto
diversi da quello di Ole: 775 e 76287.
La seconda serie era chiusa. Restava da sorteggiare solo
l'ultimo premio: quello da centomila marchi.
L'agitazione degli spettatori era al colmo, e sarebbe
molto difficile dare un'idea chiara della sua intensità.
Dapprincipio, un lungo mormorio si propagò dal salone
nei cortili e nelle strade. E trascorsero alcuni minuti, prima
che potesse calmarsi. Poi, a poco a poco cessò e seguì ad
esso un silenzio profondo. Si sarebbe detto che tutta
l'assemblea si fosse irrigidita. In quella calma, c'era una
buona dose di incantata aspettativa, quella stessa - ci si
permetta il paragone - che si prova in attesa, per esempio,
di una esecuzione capitale. Ma questa volta il paziente,
ancora sconosciuto, era condannato solo a guadagnare
centomila marchi, non a perdere la testa, a meno che non la
perdesse per la gioia.
Joël, le braccia conserte, guardava vagamente davanti a
sé, essendo forse il meno emozionato di tutti gli astanti.
Hulda, seduta, come raccolta in se stessa, pensava soltanto
al suo povero Ole. Lo cercava istintivamente con lo
sguardo, come se dovesse comparire da un momento
all'altro!
Sylvius Hog invece… Ma è meglio rinunciare a
descrivere lo stato nel quale egli si trovava.
— Estrazione del premio di centomila marchi! — disse
il presidente. Che voce! Pareva uscisse dalle viscere di
quell'uomo solenne. La sua emozione era causata dal fatto
che egli aveva parecchi biglietti, che non essendo ancora
usciti, potevano aspirare al primo premio.
La prima bambina estrasse un numero dall'urna a sinistra
e lo mostrò all'assemblea.
— Zero! — disse il presidente.
Questo zero non fece grande effetto. Sembrava davvero
che tutti s'aspettassero di vederlo comparire.
— Zero! — gridò il presidente all'estrazione fatta dalla
seconda bambina.
Due zeri! Si osservò che le probabilità crescevano
notevolmente per tutti i numeri compresi fra uno e
novemilanovecentonovantanove. Ora il biglietto di Ole
Kamp - non dimentichiamo - portava il numero 9672.
Cosa strana, Sylvius Hog cominciò ad agitarsi sulla
sedia, come se essa fosse sotto l'effetto di un rullio.
— Nove! — gridò il presidente, annunziando la cifra che
la terza bambina aveva estratto dall'urna.
Nove!… Era la prima cifra del biglietto di Ole Kamp!
— Sei! — disse il presidente.
Infatti la quarta bambina presentava un sei a tutti gli
sguardi puntati su di lei come pistole cariche, cosa che la
intimidiva notevolmente.
Le probabilità di vincere erano ora di uno su cento per
tutti i numeri compresi fra uno e novantanove.
Il biglietto di Ole Kamp avrebbe dunque fatto
guadagnare a Sandgoïst quella somma di centomila
marchi? In questo caso, ci sarebbe stato da dubitare
davvero di Dio!
La quinta fanciulla estrasse dall'urna la quinta cifra.
— Sette! — disse il presidente con una voce talmente
soffocata che appena si udì.
Ma se il pubblico riusciva a stento a sentire, vedeva,
però, le cinque bambine che in quel momento presentavano
al pubblico questi numeri:
00967
Il numero vincitore era necessariamente compreso fra
9670 e 9679. C'era dunque adesso una probabilità su dieci.
La tensione era al colmo.
Sylvius Hog, in piedi, aveva afferrato la mano di Hulda
Hansen. Tutti gli sguardi erano volti verso la povera
fanciulla. Privandosi dell'ultimo ricordo del suo fidanzato,
aveva dunque sacrificato la fortuna che Ole Kamp aveva
sognato per lei e per sé?
La sesta bambina introdusse con fatica la mano nell'urna.
Tremava anch'essa, la piccina. Finalmente il numero
comparve.
— Due! — esclamò il presidente.
E cadde sulla sua sedia, quasi svenuto per l'emozione.
— Novemilaseicentosettantadue! — proclamò uno degli
assessori con voce risonante.
Era il numero del biglietto di Ole Kamp, che si riteneva
posseduto da Sandgoïst. Tutti lo sapevano, tutti
conoscevano a quali condizioni l'usuraio l'aveva acquistato.
Così cadde un profondo silenzio, invece degli applausi
che sarebbero scoppiati nella sala dell'Università se il
biglietto fosse ancora appartenuto a Hulda Hansen!
E ora quel ribaldo di Sandgoïst sarebbe dunque
comparso, col biglietto in mano, per ritirare il premio?
— Il numero novemilaseicentosettantadue ha vinto il
premio di centomila marchi! — ripeté l'assessore. — Chi
ritira il premio?
— Io!
Era l'usuraio di Drammen che aveva pronunciato questa
parola?
No! Era un giovane - un giovane dal volto pallido, che
recava, nei
lineamenti come in tutta la persona, i segni di lunghe
sofferenze, ma che era vivo, più vivo che mai!
A questa voce, Hulda s'era scossa, aveva gettato un
grido, che fu udito da tutti. Poi era svenuta. Ma il giovane
si era fatto largo tra la folla, e fu proprio lui a raccogliere
tra le sue braccia la fanciulla svenuta. Era Ole Kamp!
CAPITOLO XX
Sì! ERA Ole Kamp, che, per miracolo, era sopravvissuto
alla catastrofe del Viken.
Il Telegraf non lo aveva ricondotto in Europa, perché
egli non si trovava più in quei lontani paraggi quando
l'avviso andò ad esplorarli.
E non vi si trovava più, perché, a quel tempo, già
navigava verso Christiania sopra la nave che lo faceva
rimpatriare.
Ecco ciò che raccontava Sylvius Hog. Ecco ciò che egli
ripeteva a quanti volevano udirlo! E tutti lo ascoltavano, si
può esserne certi! Ecco ciò che narrava con un vero
accento da trionfatore! E i suoi vicini lo ripetevano a quelli
che non avevano la fortuna di trovarsi accanto a lui! E la
notizia passava di gruppo in gruppo fino al pubblico
ammassato nei cortili e nelle vie vicine.
In breve ora, tutta Christiania seppe che il giovane
marinaio del Viken era di ritorno e che aveva vinto il primo
premio della lotteria delle Scuole.
E bisognava ben che fosse Sylvius Hog a narrare tutta
questa storia. Ole non avrebbe potuto farlo, perché Joël lo
stringeva nelle sue braccia fino a soffocarlo, mentre Hulda
ritornava in sé.
— Hulda!… cara Hulda!… — diceva Ole. — Sono io, il
tuo fidanzato… e tra poco tuo sposo.
— Domani, figli miei, domani! — esclamava Sylvius
Hog. — Partiremo questa sera per Dal. E se finora non è
mai accaduto, ora si vedrà un professore di diritto, un
deputato dello Storting danzare durante una festa nuziale
come il più agile ballerino del Telemark!
Ma come faceva Sylvius Hog a conoscere la storia di
Ole Kamp? Molto semplicemente, per mezzo dell'ultima
lettera che il ministero della Marina gli aveva diretto a Dal.
Infatti questa lettera - l'ultima che aveva ricevuto e della
quale non aveva fatto parola ad alcuno - ne conteneva,
nella busta, un'altra, datata da Christiansand. Questa
seconda lettera gli comunicava che il brick danese Genius,
capitano Kromman, era giunto a Christiansand, ed aveva a
bordo gli scampati al naufragio del Viken, tra cui il giovane
nostromo Ole Kamp, e che, fra tre giorni, sarebbe giunto al
porto di Christiania.
La lettera del ministero della Marina aggiungeva che
quei naufraghi avevano talmente sofferto che si trovavano
ancora in uno stato di estrema debolezza. Ecco perché
Sylvius Hog non aveva voluto dire nulla a Hulda del
ritorno del suo fidanzato. Così, nella sua risposta al
ministero della Marina aveva chiesto il più assoluto segreto
su questo ritorno, segreto che era stato scrupolosamente
osservato per quanto riguardava il pubblico.
Ed era naturalissimo che l'avviso Telegraf non avesse
ritrovato né un relitto né un sopravvissuto del Viken.
Durante una violenta tempesta, il Viken, in parte
disalberato, aveva dovuto ripiegare verso nord-ovest,
mentre si trovava a duecento miglia a sud dell'Islanda.
Durante la notte dal 3 al 4 maggio, una notte terribilmente
burrascosa, esso andò ad urtare contro uno di quegli enormi
iceberg in discesa, che provenivano dai mari della
Groenlandia. L'urto fu talmente forte che cinque minuti
dopo il Viken colava a fondo.
Fu allora che Ole scrisse quel documento. Egli aveva
tracciato su quel biglietto di lotteria un ultimo addio alla
sua fidanzata; poi l'aveva gettato in mare, dopo averlo
chiuso in una bottiglia.
Ma nel momento dell'urto, gran parte dell'equipaggio e
lo stesso capitano avevano perduto la vita. Soltanto Ole
Kamp e quattro dei suoi compagni riuscirono a saltare
sopra un frammento dell'iceberg, nel momento in cui il
Viken andava a picco. Se non che la loro morte era solo
ritardata, se quella terribile burrasca non avesse spinto il
banco di ghiaccio verso nordovest. Due giorni dopo, sfiniti,
morti di fame, i cinque naufraghi venivano gettati sulla
costa meridionale della Groenlandia, costa deserta, ove
vissero per miracolo.
Là, se non fossero giunti in tempo i soccorsi, sarebbero
periti senza rimedio. Come avrebbero avuto la forza di
raggiungere le pescherie e gli stabilimenti danesi della baia
di Baffin, sull'opposto litorale?
Fu allora che il brick Genius, che era stato pure spinto
fuori strada dalla burrasca, venne a passare di là. I
naufraghi fecero dei segnali, e vennero raccolti.
Erano salvi.
Però il Genius, arrestato da venti contrari, ebbe lunghi
ritardi nella traversata relativamente breve dalla
Groenlandia alla Norvegia. Ecco perché giunse a
Christiansand solo il 12 luglio e a Christiania nella mattina
del 15.
Ora, era proprio quella mattina che Sylvius Hog era
andato a bordo. Qui aveva trovato Ole Kamp ancora
debolissimo. Aveva saputo da lui quanto era accaduto dopo
la sua ultima lettera datata Saint-Pierre-Miquelon… Poi
l'aveva condotto in casa sua, chiedendo all'equipaggio del
Genius di mantenere il segreto per alcune ore.
Il resto lo conosciamo.
Venne allora stabilito che Ole Kamp si recasse
all'estrazione della lotteria. Ne avrebbe avuto la forza?
Sì! La forza non gli sarebbe mancata, dal momento che
Hulda si sarebbe trovata là. Ma quest'estrazione poteva
ancora interessargli? Cento volte sì! Ne era ancora
interessato, per se stesso come per la sua fidanzata!
Infatti, Sylvius Hog era riuscito a riscattare il biglietto
dalle mani di Sandgoïst. Egli lo aveva comperato per la
somma che l'usuraio di Drammen aveva pagato a madama
Hansen. E Sandgoïst fu ben lieto di sbarazzarsene, ora che
nessuno voleva più comperarlo.
— Mio bravo Ole! — disse Sylvius Hog restituendogli il
biglietto — non è una probabilità di vincere, ormai quasi
nulla, che io ho voluto restituire ad Hulda, ma è l'ultimo
saluto che voi le avete mandato quando credevate di perire.
Ebbene, bisogna pur ammettere che il professore aveva
avuto proprio un'ispirazione, certamente migliore di quella
di Sandgoïst, il quale avrebbe voluto rompersi la testa
contro un muro quando conobbe l'esito della lotteria.
Adesso centomila marchi entravano nella casa di Dal.
Sì! centomila marchi, e non un centesimo di meno, giacché
Sylvius Hog non volle mai essere rimborsato di quello che
aveva speso per riscattare il biglietto di Ole Kamp.
Era la dote che egli era felicissimo di offrire alla sua
piccola Hulda nel giorno del suo matrimonio.
Forse si troverà strano che questo numero 9672, che
aveva così vivamente attirato la pubblica attenzione, fosse
proprio uscito, e per giunta in corrispondenza del primo
premio.
Sì, d'accordo, è cosa strana, ma non impossibile; e, del
resto, è successo.
Sylvius Hog, Ole, Joël e Hulda lasciarono Christiania la
sera stessa. Il ritorno si fece passando da Bamble, poiché
bisognava consegnare a Siegfrid il premio che aveva vinto.
E ripassando davanti alla bizzarra chiesuola d'Hitterdal,
Hulda ricordò i tristi pensieri che l'avevano assalita durante
il precedente viaggio; ma, guardando Ole, si sentì subito
tornare alla felicità del presente.
Per sant'Olaf! Quanto era graziosa Hulda con la corona a
raggi, mentre, quattro giorni dopo, usciva dalla cappella di
Dal, al braccio dello sposo! E, dopo, le feste che seguirono
furono tali che la loro eco giunse fino agli estremi villaggi
del Telemark. E tutti ne gioirono: la graziosa damigella
d'onore Siegfrid, suo padre, il fattore Helmboë, Joël, futuro
sposo; e perfino mamma Hansen, che non era più atterrita
dallo spettro di Sandgoïst.
Forse ci si chiederà se tutti quegli amici, tutti quegli
invitati, fra cui i Fratelli Help, e tanti altri, erano venuti a
Dal per assistere alla felicità dei giovani sposi, o per vedere
danzare Sylvius Hog, professore di diritto e deputato allo
Storting? Non sapremmo rispondere! Ad ogni modo, egli
danzò molto dignitosamente, e dopo avere aperto il ballo
con la sua cara Hulda, lo finì con l'incantevole Siegfrid.
L'indomani, salutato da applausi in tutta la valle del
Vestfjorddal, egli partiva, dopo aver formalmente
promesso di ritornare per le nozze di Joël, che furono
celebrate alcune settimane dopo, con estrema gioia dei due
interessati.
Questa volta il professore aprì il ballo con la graziosa
Siegfrid e lo finì con la sua cara Hulda. E dopo
quest'occasione Sylvius Hog non ballò più.
Quanta felicità albergò da quel giorno nella casa di Dal,
che era stata provata tanto duramente! Senza dubbio, quella
felicità era in parte opera di Sylvius Hog, ma egli non
voleva ammetterlo e continuava a ripetere:
— Sono ancora io debitore verso i figli di mamma
Hansen!
Il famoso biglietto era stato restituito, dopo l'estrazione.
Esso figura, adesso, al posto d'onore, in un quadretto,
incorniciato in legno, nella sala principale dell'albergo di
Dal. Ma ciò che si vede non è il famoso numero 9672,
bensì l'ultimo addio, scritto sul rovescio, che il naufrago
Ole Kamp mandava alla fidanzata Hulda Hansen.
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Un Biglietto della Lotteria