JULES VERNE Un biglietto della lotteria Disegni di Leon Benett e George Roux incisi da A.-F. Pannemaker, F. Moller e P. Louis Copertina di Graziella Sarno U. MURSIA & C. Titolo originale dell’opera UN BILLET DE LOTERIE (1886) Traduzione integrali dal francese di Carla Frangi Proprietà letteraria e artistica riservata Printed in Italy © Copyright 1973 U. MURSIA & C. 1398/AC - U. MURSIA & C. - Milano - Via Tadino, 29 Indice PRESENTAZIONE __________________________________ 4 Capitolo I__________________________________________ 8 Capitolo II ________________________________________ 17 Capitolo III _______________________________________ 24 Capitolo IV _______________________________________ 31 Capitolo V ________________________________________ 40 Capitolo VI _______________________________________ 51 Capitolo VII ______________________________________ 61 Capitolo VIII______________________________________ 67 Capitolo IX _______________________________________ 81 Capitolo X ________________________________________ 85 Capitolo XI _______________________________________ 95 Capitolo XII _____________________________________ 110 Capitolo XIII_____________________________________ 120 Capitolo XIV _____________________________________ 131 Capitolo XV______________________________________ 143 Capitolo XVI _____________________________________ 152 Capitolo XVII ____________________________________ 164 Capitolo XVIII ___________________________________ 171 Capitolo XIX _____________________________________ 179 Capitolo XX______________________________________ 189 PRESENTAZIONE Un biglietto della lotteria, scritto nell’anno 1886, ci porta in una atmosfera completamente diversa. Lontano dal tecnicismo e dal convulso mondo delle grandi città, esso è ambientato in Norvegia, «paese privilegiato dove non esistono privilegi», e precisamente nel Telemark, regione assai pittoresca, sparsa di piccoli villaggi fra laghi e montagne, di alberghetti accoglienti, di splendide foreste di conifere. Verne conosceva assai bene la Norvegia. Vi era stato due volte, nel 1861 e nel 1880, e con questo romanzo volle tributarle un omaggio: la descrisse perciò come un angolo di paradiso, con una popolazione modello in cui i giovani sono coraggiosi, onesti, rispettosi, e gli anziani sono i custodi della saggezza ereditata dagli antichi. Laboriosi ed ospitali, essi affascinano per il loro folklore e a questo proposito l'autore si abbandona a minuziose descrizioni di usi, costumi e tradizioni. La trama, infatti, è quasi solo un pretesto per fornire al lettore un panorama colorito di quel mondo che Verne amava in modo particolare: pure, le vicende di quel biglietto di lotteria, giunto così tragicamente nelle mani della dolce Hulda con l'ultimo messaggio del fidanzato, hanno una grazia e un incanto tutto particolare. JULES VERNE nacque a Nantes l'8 febbraio 1828. A undici anni, tentato dallo spirito d'avventura, cercò di imbarcarsi clandestinamente sulla nave La Coralie, ma fu scoperto per tempo e ricondotto dal padre. A vent'anni si trasferì a Parigi per studiare legge, e nella capitale entrò in contatto con il miglior mondo intellettuale dell'epoca. Frequentò soprattutto la casa di Dumas padre, dal quale venne incoraggiato nei suoi primi tentativi letterari. Intraprese dapprima la carriera teatrale, scrivendo commedie e libretti d'opera; ma lo scarso successo lo costrinse nel 1856 a cercare un'occupazione più redditizia presso un agente di cambio a Parigi. Un anno dopo sposava Honorine Morel. Nel frattempo entrava in contatto con l'editore Hetzel di Parigi e, nel 1863, pubblicava il romanzo Cinque settimane in pallone. La fama e il successo giunsero fulminei. Lasciato l'impiego, si dedicò esclusivamente alla letteratura e un anno dopo l'altro - in base a un contratto stipulato con l'editore Hetzel - venne via via pubblicando i romanzi che compongono l'imponente collana dei «Viaggi straordinari I mondi conosciuti e sconosciuti» e che costituiscono il filone più avventuroso della sua narrativa. Viaggio al centro della Terra, Dalla Terra alla Luna, Ventimila leghe sotto i mari, L'isola misteriosa, Il giro del mondo in 80 giorni, Michele Strogoff sono i titoli di alcuni fra i suoi libri più famosi. La sua opera completa comprende un'ottantina fra romanzi e racconti lunghi, e numerose altre opere di divulgazione storica o scientifica. Con il successo era giunta anche l'agiatezza economica, e Verne, nel 1872, si stabilì definitivamente ad Amiens, dove continuò il suo lavoro di scrittore, conducendo, nonostante la celebrità acquistata, una vita semplice e metodica. La sua produzione letteraria ebbe termine solo poco prima della morte, sopravvenuta a settantasette anni, il 24 marzo 1905. CAPITOLO I — CHE ORA È? — chiese mamma Hansen, dopo aver gettato via la cenere della pipa, le cui ultime volute di fumo andarono a perdersi fra le travi dipinte del soffitto. — Le otto, mamma — rispose Hulda. — Non credo che durante la notte arrivino dei viaggiatori; il tempo è troppo cattivo. — Non verrà nessuno. In ogni caso le camere sono pronte, e se mi chiamano da fuori sentirò perfettamente. — Tuo fratello è ritornato? — Non ancora. — Non ha detto che sarebbe ritornato oggi? — No, mamma. Joël ha condotto un viaggiatore al lago Tinn, ed essendo partito molto tardi, non credo che possa ritornare a Dal prima di domani. — Dormirà quindi a Mœl? — Certamente, a meno che non vada a Bamble a far visita al fattore Helmboë… — E a sua figlia? — Sì, Siegfrid, la mia migliore amica, che io amo come una sorella! — rispose sorridendo la fanciulla. — Ebbene, chiudi la porta, Hulda, e andiamo a dormire. — Vi sentite male, mamma? — No, ma domani dovrei alzarmi di buon'ora. Bisogna che vada a Mœl… — Per qual motivo? — Eh! Non dobbiamo rinnovare le nostre provviste per la nuova stagione? — Il vetturale di Christiania 1 è dunque giunto a Mœl col solito carico di vini e di commestibili? — Sì, Hulda, è arrivato dopo mezzogiorno — rispose mamma Hansen. — Lengling, il vice direttore della segheria, l'ha incontrato e passando mi ha avvertito. Della nostra provvista di prosciutto e di salmone affumicato non ce n'è più gran che, ed io non voglio rischiare di essere presa alla sprovvista. Da un giorno all'altro, specialmente se il tempo migliora, i turisti possono ricominciare le loro escursioni nel Telemark. Il nostro albergo dev'essere in condizione di poterli ricevere, e durante il loro soggiorno debbono trovarvi tutto quello di cui possono aver bisogno. Non sai, Hulda, che siamo già al 15 aprile? — Al 15 aprile! — mormorò la fanciulla. — Dunque, domani — rispose mamma Hansen — mi occuperò di questa faccenda. In due ore, avrò fatto i miei acquisti, che il vetturale porterà qui, ed io ritornerò con Joël in carrettella. — Mamma, se per caso incontraste il postino, non dimenticate di chiedergli se ha qualche lettera per noi… — E specialmente per te! È più che possibile, giacché Ole non ti scrive da un mese. — Proprio così! da un mese!… un lungo mese! — Non preoccuparti, Hulda! Questo ritardo non ci deve per nulla sorprendere. E poi, se il postino di Mœl non ci porta nulla, la lettera che non è venuta da Christiania non potrebbe arrivare da Bergen? — Senza dubbio, mamma — rispose Hulda; — ma che 1 Venne chiamata così, dal 1624 al 1924, la città di Oslo (Norvegia). (N.d.T.) volete? Se ho il cuore stretto è perché penso che questi banchi di Terranova son tanto lontani! C'è tutto il mare da attraversare, e per di più durante la brutta stagione. È quasi un anno che il nostro povero Ole è partito, e chi può dire quando tornerà a trovarci a Dal?… — E se noi ci saremo al suo ritorno! — mormorò madama Hansen, ma con voce così bassa, che sua figlia non poté sentirla. Hulda andò a chiudere la porta dell'albergo, che s'apriva sulla strada di Vestfjorddal. Non si curò nemmeno di girare la chiave nella toppa. In quell'ospitale paese di Norvegia, queste precauzioni non sono necessarie; anzi è uso che qualsiasi viaggiatore possa entrare di giorno e di notte nella casa senza che occorra aprirgli. Non c'è motivo di temere la visita di vagabondi o di malviventi neppure nei villaggi e nei casolari più fuori di mano. Nessun attentato contro la gente o contro le loro proprietà ha mai turbato la sicurezza degli abitanti. Madre e figlia abitavano due camere del primo piano verso la strada - due camere fresche e pulite, modestamente ammobiliate, è vero, ma tenute in modo da far riconoscere il tocco di una brava massaia. Al piano di sopra, sotto il tetto, sporgente come quello di uno chalet, c'era la camera di Joël, illuminata da una finestra, incorniciata in un telaio d'abete intagliato con gusto. Di là lo sguardo dopo aver spaziato per un vasto orizzonte di montagna poteva spingersi fino al fondo della stretta valle, ove rumoreggiava il Maan, metà torrente, metà fiume. Una scala in legno, dai gradini lucidi, dalle robuste colonnette, metteva dalla gran sala del pian terreno ai piani superiori. Niente di più attraente dell'aspetto di quella casa, dove il viaggiatore si trovava così comodo come raramente accadeva negli alberghi della Norvegia. Hulda e sua madre abitavano dunque al primo piano; e quando erano sole, si ritiravano presto. Anche ora mamma Hansen, tenendo in mano un candeliere di vetro multicolore, saliva già i primi gradini della scala, ma improvvisamente si arrestò. Bussavano. S'udiva una voce al di fuori. — Eh! mamma Hansen! mamma Hansen! Madama Hansen ridiscese. — Chi può essere a quest'ora? — disse. — È forse successa una disgrazia a Joël? — soggiunse Hulda con ansia. Lesta si avviò verso la porta. C'era là un ragazzotto — uno di quei monelli che fanno il mestiere di skidskarl, mestiere che consiste nel salire dietro le carrettelle per ricondurre il cavallo alla posta quando la tappa è finita. Egli era venuto a piedi e stava tutto impettito sulla soglia. — Eh! Che cosa vuoi a quest'ora? — disse Hulda. — Dapprima augurarvi la buona sera — rispose il ragazzotto. — È tutto qui? — No, non è tutto, ma non si comincia con l'essere educato? — Va bene! Ma, dimmi adesso: chi ti manda? — Vengo da parte di vostro fratello Joël. — Joël?… E perché? — soggiunse madama Hansen. E s'avanzò verso la porta, col passo lento e misurato proprio degli abitanti della Norvegia. Che ci sia dell'argento vivo nel loro sottosuolo, è vero! ma nelle loro vene non ce n'è affatto o ce n'è pochissimo. Tuttavia questa risposta aveva evidentemente turbato la madre, giacché ella si affrettò a soggiungere: — È forse accaduto qualche cosa a mio figlio? — Sì!… È arrivata una lettera che il corriere di Christiania ha portato da Drammen… — Una lettera che viene da Drammen? — disse vivamente mamma Hansen abbassando la voce. — Non lo so — rispose il giovanotto. — Quello che posso dirvi è che Joël non può ritornare prima di domani, e che egli mi ha mandato per portarvi questa lettera. — È dunque urgente? — Pare di sì. — Dammela — disse l'albergatrice con un tono di voce che rivelava una grande inquietudine. — Eccola, pulitissima e per niente sciupata: solo che questa lettera non è per voi. Mamma Hansen sembrò respirare più liberamente. — E per chi è dunque? — Per vostra figlia. — Per me! — disse Hulda. — È una lettera di Ole, ne sono sicura. Una lettera che viene da Christiania! Mio fratello non ha voluto ritardarmi il piacere di riceverla. Hulda aveva preso la lettera e, avvicinatasi al candeliere che era stato deposto sulla tavola, ne guardava l'indirizzo. — Sì!… È lui!… È proprio lui!… Contenesse almeno l'annuncio che il Viken sta per ritornare! Intanto l'albergatrice diceva al ragazzotto: — Non entri? — Un minuto appena. Devo ritornare questa sera a casa, giacché sono impegnato domani mattina con una carrettella. — Ebbene, t'incarico di dire a Joël che ho intenzione di raggiungerlo. Che mi aspetti. — Domani sera? — No, nella mattinata. Che non lasci Mœl senza prima avermi vista. Torneremo insieme a Dal. — Siamo intesi, madama Hansen. — Bene. Una goccia di acquavite? — Con piacere. Il ragazzo s'avvicinò al tavolo e l'albergatrice gli presentò un po' di quella riconfortante acquavite, ottima difesa contro l'umido della sera. Egli vuotò il bicchiere d'un sorso; poi: — God aften! — disse. — God aften, ragazzo mio! È la buona sera dei norvegesi. Semplicemente quelle parole, neppure un movimento del capo. E il ragazzo parti, per nulla preoccupato della strada che doveva ancora percorrere. Egli scomparve rapidamente lungo il sentiero alberato che fiancheggia il torrente. Intanto Hulda continuava a guardare la lettera e non si decideva ad aprirla. E pensare che quella sottile busta di carta aveva dovuto attraversare l'oceano per giungere sino a lei, quel mare sconfinato nel quale si perdono le acque dei fiumi della Norvegia occidentale. Ella ne osservava i timbri diversi. Spedita il 15 marzo quella lettera giungeva a Dal solo il 15 aprile. Come! Era già un mese che Ole l'aveva scritta! Quante cose potevano essere accadute, nello spazio di un mese, nei paraggi del New-Found-Land - nome che gli inglesi hanno dato all'isola di Terranova! Non si era ancora nella stagione invernale, nell'epoca pericolosa degli equinozi? Quei posti di pesca non sono forse i peggiori a causa delle terribili bufere di vento che, attraverso le pianure del Nord-America, soffiano dal polo? Quello del pescatore, il mestiere di Ole, è un mestiere duro e pericoloso. E se Ole lo faceva era proprio per amor suo, della sua fidanzata che al ritorno doveva sposare! Povero Ole! Che diceva in quella lettera? Certamente le diceva di amarla sempre come Hulda avrebbe sempre amato lui, le diceva che erano vicini col pensiero, ad onta della distanza, e che avrebbe voluto che fosse già il giorno del suo arrivo a Dal! Sì! Diceva certamente tutto questo, Hulda n'era sicura. Ma forse aggiungeva anche che il suo ritorno era vicino, che la spedizione di pesca, che costringe i marinai di Bergen ad allontanarsi tanto dalla loro terra, s'avvicinava alla fine. Forse Ole dava notizia che il Viken stava caricando il pesce, che si disponeva a far vela, che gli ultimi giorni di aprile non sarebbero passati senza che loro due si fossero riuniti in quella felice casa del Vestfjorddal? Forse infine, scriveva che si poteva già stabilire il giorno in cui il pastore sarebbe venuto da Mœl per celebrare il loro matrimonio nella modesta cappella di legno il cui campanile emergeva da una folta macchia di alberi, a poche centinaia di passi dalla locanda di madama Hansen? Per saperlo, bastava soltanto rompere il sigillo della busta, estrarne la lettera, leggerla, sia pure attraverso le lacrime di dolore o di gioia che il suo contenuto poteva provocare negli occhi di Hulda. E, senza dubbio, più d'una impaziente figlia del sud, della Dalecarlia, della Danimarca o dell'Olanda, avrebbe già letto ciò che la giovane norvegese non leggeva ancora! Ma Hulda sognava, e i sogni finiscono solo quando piace a Dio. E si rimpiangono tanto più spesso, quanto più la realtà ci disillude. — Figlia mia! — disse l'albergatrice — quella lettera che tuo fratello ti ha inviato, è proprio di Ole? — Sì, riconosco la sua scrittura. — Ebbene, aspetterai fino a domani a leggerla? Hulda guardò un'ultima volta la busta. Poi, dopo aver tolto senza troppa fretta il sigillo, ne trasse una lettera scritta con cura e lesse quanto segue: «Saint-Pierre-Miquelon, 15 marzo 1862. «Cara Hulda. «Apprenderai certo con piacere che le nostre operazioni di pesca prosperano e che saranno terminate fra pochi giorni. Sì! ci avviciniamo alla fine della campagna! Dopo un anno di assenza, quanto sarò felice di ritornare a Dal, e di ritrovarci la sola famiglia che mi resta e che è la tua! «La mia parte di guadagno è considerevole. Servirà per mettere su una casa. I Fratelli Help, nostri armatori a Bergen, sono avvisati che il Viken sarà probabilmente di ritorno tra il 15 e il 20 maggio. Tu puoi quindi aspettarmi per quell'epoca, cioè fra poche settimane. «Cara Hulda, voglio trovarti ancora più bella di quando ti ho lasciata, e in buona salute come pure tua madre e quel coraggioso e bravo compagno, mio cugino Joël, tuo fratello, che già considero mio parente. «Quando riceverai questa lettera, presenta i miei rispetti a mamma Hansen che vedo, da qui, nel suo seggiolone di legno, accanto alla vecchia stufa, nella gran sala. Dille che l'amo due volte, anzitutto perché è tua madre, e poi perché è mia zia. «Vi prego di non disturbarvi per venirmi incontro a Bergen. «Può darsi che il Viken arrivi anche prima di quanto io immagini. «Comunque, ventiquattro ore dopo il mio sbarco, cara Hulda, sta' pur certa che mi troverò a Dal. Ma non essere sorpresa se giungessi prima. «Abbiamo sofferto molto per il maltempo, questo inverno: è stato il peggiore che i nostri marinai ricordino. Per fortuna, di merluzzo al gran banco se n'è pescato molto. Il Viken ne trasporta circa cinquemila quintali, che devono essere consegnati a Bergen, già venduti per cura dei Fratelli Help. «Insomma per quel che riguarda l'interesse della famiglia, si può dire che siamo riusciti, e i guadagni saranno considerevoli per me, che ora ho diritto a una parte intera. «E poi, se non porto a casa la fortuna, ho l'idea, o piuttosto il presentimento, che essa debba attendermi al ritorno! Sì! la fortuna… Senza contare la felicità! Come?… È il mio segreto, e mi perdonerai, cara Hulda, di tenerti qualche segreto. Ma è l'unico! E poi te lo dirò… Quando?… Al momento opportuno prima del nostro matrimonio, se dovesse venire ritardato per qualche circostanza imprevista - dopo, se ritorno per l'epoca prefissa, e se nella settimana successiva al mio ritorno a Dal, tu sarai divenuta mia moglie secondo i miei desideri. «Ti abbraccio, cara Hulda. Ti prego di abbracciare per me mamma Hansen e il cugino Joël. Bacio anche te in fronte, intorno alla quale la splendida corona nuziale del Telemark deve brillare come un'aureola di santa. Ancora una volta, addio, cara Hulda, addio! «Il tuo fidanzato OLE KAMP». CAPITOLO II DAL: PAESINO fatto di poche case soltanto, disposte alcune lungo una strada che, per meglio dire, è un sentiero, altre nelle vicinanze. Esse hanno la facciata rivolta verso la stretta valle del Vestfjorddal, e il retro verso le colline settentrionali, alle cui falde scorre il Maan. L'insieme delle costruzioni formerebbe uno di quei gaard tanto comuni nel paese, se fosse sotto la direzione di un solo proprietario o di un solo fattore. Se non possiamo dare a quel gruppo di case il nome di borgo, possiamo però chiamarlo villaggio. Poco lontano, tra il fogliame degli alberi, si innalza, tutto in legno, il campanile a quattro facciate di una piccola cappella costruita nel 1855, nella cui abside si aprono due strette finestre con vetrate. Qua e là, sopra i ruscelli che vanno verso il fiume, sono gettati dei ponticelli, coperti d'edera e di muschio. Giunge da una certa distanza lo stridio di una o due rudimentali segherie, mosse dai torrenti, con una semplice ruota per muovere la sega, e una ruota per muovere la trave o il pancone. Ad una certa distanza, cappella, segherie, case, capanne, tutto sembra avvolto in una ovattata nebbiolina campestre, più scura tra i pini, più chiara tra le betulle, che gli alberi disegnano, isolati o a gruppi, dalle rive sinuose del Maan sino alla cima delle alte montagne del Telemark. Questo è il villaggio di Dal, fresco e ridente, con le sue pittoresche abitazioni dipinte esternamente, alcune con colori delicati - verde chiaro o rosa pallido - altre con colori violenti - giallo sgargiante o sangue di bue. I tetti di corteccia di betulla, ricoperta da un'erbetta verde che si taglia in autunno, sono abbelliti da fiori naturali. Tutto ciò è delizioso, e si trova nel più grazioso paese del mondo. Per finire, Dal è nel Telemark, il Telemark è in Norvegia, e la Norvegia è una specie di Svizzera con molte migliaia di fiordi, grazie ai quali il mare può rumoreggiare alle falde delle montagne. Il Telemark è compreso in quella parte rigonfia dell'enorme storta che la Norvegia raffigura, tra Bergen e Christiania. Quel cantone - che dipende dalla prefettura di Batsberg — ha montagne e ghiacciai come la Svizzera, ma non è la Svizzera. Ha cascate grandiose come il NordAmerica, ma non è l'America. Ha villaggi con case dipinte e sciami di abitanti, che vestono ancora con mode di tempi passati, come certi borghi dell'Olanda, ma non è l'Olanda. Il Telemark è qualcosa di meglio di tutti questi paesi, è il Telemark, contrada forse unica al mondo per le bellezze naturali che comprende. L'autore ha avuto il piacere di visitarlo, l'ha percorso in carretta quando se ne trovavano — con cavalli presi alle stazioni di posta - e ne ha riportato un'impressione incantevole e piena di poesia, e così fresca ancora nel ricordo, che vorrebbe poter riempire di essa questo semplice racconto. Al tempo in cui si svolge questa storia - nel 1862 - la Norvegia non era ancora attraversata dalla ferrovia che ora abbrevia la distanza fra Stoccolma e Drontheim passando per Christiania. Ora, un'estesa rete ferroviaria copre la distanza fra i due paesi scandinavi, per nulla inclini a vivere di una vita comune. Chiuso nei vagoni di questa ferrovia, il viaggiatore si sposta certamente in modo più celere che non in carretta, ma non gode nulla dell'originale bellezza delle strade di una volta. Perde la traversata della Svezia meridionale che prima si soleva fare percorrendo il curioso canale di Gotha, i cui battelli a vapore, che si innalzano da una chiusa all'altra, si arrampicano fino a trecento piedi di altezza. Infine, il viaggiatore di oggi non si ferma neanche alle cascate di Trolletann, né a Drammen, a Kongsberg, e davanti a tutte le bellezze del Telemark. A quel tempo, la ferrovia non era che un progetto. Dovevano trascorrere ancora circa vent'anni prima di poter attraversare il reame scandinavo da un litorale all'altro - in quaranta ore - e andare a Capo Nord con un biglietto di andata e ritorno per lo Spitzberg. Per l'appunto, Dal era a quel tempo - e speriamo che possa esserlo a lungo - il luogo di ritrovo per turisti stranieri e indigeni, e questi ultimi, per la maggior parte, studenti di Christiania. Da quel luogo potevano spargersi in tutto il Telemark e l'Hardanger, risalire la valle dal Vestfjorddal tra il lago Mjös e il lago Tinn, e giungere fino alle meravigliose cateratte di Rjukan. Per dire il vero, in quel villaggio c'era appena un albergo; ma era il più attraente, il più comodo che si potesse immaginare; e, oltretutto, il più rinomato, poiché metteva quattro camere a disposizione dei viaggiatori. Non occorre dirlo, era l'albergo di mamma Hansen. Alcune panche circondano le pareti rosa separate dal suolo da un robusto zoccolo di granito. Le travi e le tavole di abete dei suoi muri hanno acquistato col tempo una durezza tale che anche l'acciaio di una scure vi si smusserebbe. Fra queste appena squadrate, disposte orizzontalmente le une sulle altre, un intonaco di muschio mescolato a creta forma dei cuscinetti stagni che impediscono perfino alla più violenta pioggia invernale di penetrarvi. Il soffitto delle camere a travicelli è dipinto a colori rossi e neri, che contrastano vivamente con le tinte dolci e allegre delle pareti. In un angolo della gran sala la stufa circolare manda il suo tubo a celarsi nel camino della cucina. Qui l'orologio a muro fa camminare su un largo quadrante di smalto le lancette lavorate minuziosamente e batte, di secondo in secondo, un sonoro tic-tac. Là, ecco la vecchia panciuta scrivania con modanature scure, accanto ad un tripode massiccio, color ferro. Sopra un palchetto si vede il candeliere in terracotta, che (capovolto) diventa candelabro a tre braccia. I migliori mobili della casa si trovano in questa sala: la tavola in radice di betulla, dalle gambe grosse; l'armadio dai battenti istoriati ove si ripongono le vesti di gala; la grande poltrona dura come lo stallo di una chiesa; le sedie di legno dipinte a vivaci colori; l'arcolaio rustico ingentilito con tinte verdi che contrastano vivamente con la sottana rossa delle filatrici. Poi, in vari posti, il vaso per conservare il burro, il rullo che serve per comprimerlo, la scatola del tabacco e la grattugia in osso scolpito. Per ultimo, al disopra della porta che mette in cucina, una grande mensola espone una fila di utensili di rame e di stagno: piatti e tegami di lucido smalto, di maiolica o di legno; la piccola mola da arrotino seminascosta nel suo astuccio verniciato; il portauovo antico e solenne che potrebbe servire da calice. E quelle allegre pareti tappezzate con arazzi di panno che rappresentano scene della Bibbia, rese vivaci da tutti i colori della fabbrica d'immagini d'Épinal. Le camere dei viaggiatori, pur essendo più semplici, tuttavia non sono, per questo, meno comode, con quei pochi mobili così puliti e in ordine che viene spontaneo servirsene, il fresco fogliame che, simile a una cortina, pende dal tetto ricoperto di zolle erbose; il largo letto con le lenzuola candide e le tappezzerie con versetti biblici stampati in giallo sul fondo rosso. Non bisogna dimenticare che l'impiantito della sala principale, delle camere a pianterreno e del primo piano è cosparso di rami di betulla, abete e ginepro le cui foglie riempiono la casa di deliziosi profumi. È possibile figurarsi un alberghetto più grazioso in Italia o una più seducente fonda in Spagna? No, di certo! E l'affluenza dei viaggiatori inglesi non ne aveva ancora elevati i prezzi, come in Svizzera, almeno a quel tempo. A Dal non si può spendere la lira sterlina o il pound d'oro, che la borsa del viaggiatore, del resto, non contiene quasi mai; tutt'al più ha corso lo species d'argento che vale un po' più di cinque franchi e le sue frazioni, il mark, che vale un franco, e lo skilling di rame che sarà bene non confondere con lo scellino britannico, giacché vale appena un soldo francese. E non si possono nemmeno far circolare le pretenziose banconote di cui il turista si era servito, abusandone anche, nel Telemark. Non si vedono girare che i biglietti di piccolo taglio: quelli da una species che è bianco, quelli da cinque azzurri, quelli da dieci gialli, quelli da cinquanta verdi, e quelli da cento rossi: non ne mancano che due per fare tutti i colori dell'arcobaleno! Inoltre - cosa veramente importante in questa casa ospitale — non si sta male in fatto di cucina, pregio raro che non si riscontra facilmente nella maggior parte degli alberghi del paese. In effetti il Telemark giustifica abbastanza il suo soprannome di «paese del latte rappreso». Al fondo di quelle gole di Tiness, di Listhüs, di Tinoset e di molte altre, di pane non se ne trova, o si trova così cattivo che è meglio non pensarvi. Appena una galletta di avena, il flatbrod, secco, nerastro, duro come il cartone, o tutt'al più una ciambella grossolana fatta di midollo di corteccia di betulla mescolato al lichene o alla paglia. Qualche volta si trovano delle uova, solo quando le galline ne hanno deposte otto giorni prima. Ma si trova in abbondanza birra di seconda qualità, del latte rappreso, dolce o acido, e qualche volta un po' di caffè, così denso che sembra piuttosto fuliggine distillata, che non il prodotto di Moka, dell'isola Bourbon e di RioNunez. Da mamma Hansen, invece, la cantina e la dispensa sono bene fornite. Che occorre di più ai viaggiatori anche più esigenti? Salmone cotto, salato o affumicato, salmoni di lago che non hanno mai conosciuto le acque salate, pesci dei fiumi del Telemark, volatili né troppo duri né troppo magri, uova in tutte le salse, panini fini di segala e d'orzo, frutta, e specialmente delle fragole, pane nero, ma di eccellente qualità, birra e vecchie bottiglie di vino di Saint-Julien, che fa conoscere fino in quei lontani paraggi la rinomanza dei vigneti francesi. Per conseguenza, in tutto il Nord-Europa l'albergo di Dal gode di un'ottima reputazione. Del resto, possiamo accertarcene scorrendo il libro dalle pagine ingiallite sul quale i viaggiatori segnano volentieri, accanto al proprio nome, qualche complimento dedicato a mamma Hansen. La maggior parte di loro sono svedesi e norvegesi venuti dai punti più lontani della Scandinavia. Però gli inglesi vi figurano in bel numero; e uno di essi, per aver dovuto attendere un'ora prima che la sommità del Gusta si spogliasse dei vapori mattutini, ha scritto, da buon inglese, sopra una di quelle interessanti pagine: Patientia omnia vincit. Figurano pure dei nomi francesi, di cui uno, che è meglio non nominare, si è permesso di scrivere: «Possiamo solo ringraziare dell'accoglienza che ci è stata "fatto" in questo albergo». Poco importa, dopo tutto, l'errore di grammatica! Se le parole mostrano più riconoscenza che non una buona conoscenza del francese, non per questo rendono minor omaggio a mamma Hansen e a sua figlia, la gentile Hulda di Vestfjorddal. CAPITOLO III SENZA ESSERE troppo versati negli studi etnografici, si può credere con alcuni scienziati che esista una certa parentela tra le nobili famiglie dell'aristocrazia inglese e le antiche famiglie del regno scandinavo. Se ne ha più di una prova nei nomi di molti antenati che sono identici nei due paesi. Eppure non esiste aristocrazia in Norvegia. Ma anche se vi domina la democrazia, questo non le impedisce di essere uno dei paesi più aristocratici del mondo. Tutti sono considerati uguali ai nobili, piuttosto che essere al contrario. Persino nelle più umili capanne si tiene ancora l'albero genealogico, che non è isterilito, quantunque radicato in terra plebea. E figurano pure gli stemmi delle famiglie nobili di epoche feudali, da cui discendono quei poveri contadini. Ciò vale anche per gli Hansen di Dal, parenti, secondo un grado naturalmente molto lontano, di quei pari d'Inghilterra, che hanno ottenuto tale carica all'epoca dell'invasione di Rollone di Normandia. E se non ne posseggono più la posizione e la ricchezza, ne conservano almeno la primitiva fierezza, o piuttosto la dignità, che è al suo posto in tutte le condizioni sociali. La cosa, del resto, non ha importanza! Quantunque vantasse degli antenati di nascita molto elevata, Harald Hansen aveva fatto l'albergatore a Dal. La casa gli era stata lasciata dal padre e dal nonno, dei quali rammentava con orgoglio la posizione in paese. Quando egli morì, sua moglie continuò a esercitare questa professione e ci riuscì così bene che poté guadagnare la stima di tutti. Harald aveva fatto buoni affari? Non si sa. Tuttavia gli era stato possibile allevare il figlio Joël e la figlia Hulda, senza far sopportare loro la minima privazione. Ed anche un figlio di una sorella di sua moglie, Ole Kamp, rimasto orfano, si trovò affidato alle sue cure ed egli lo allevò trattandolo come un suo figliolo. Senza l'amore dello zio Harald, quell'orfanello sarebbe stato certamente uno di quei poveri bambini che vengono al mondo per lasciarlo dopo breve tempo. Del resto, Ole Kamp mostrò per i suoi genitori adottivi la più viva riconoscenza filiale. I legami da lui contratti con la famiglia Hansen erano indissolubili e il suo matrimonio con Hulda doveva rafforzarli più che mai e per tutta la vita. Harald era morto, pressappoco diciotto mesi prima. Oltre l'albergo di Dal, aveva lasciato alla vedova un piccolo sceter, posto in montagna. Il sceter è una specie di masseria isolata, che produce assai poco, e talora niente. Le ultime stagioni non erano state buone. Tutte le colture avevano sofferto, anche i pascoli. C'erano state di quelle «notti di ferro», come dicono in Norvegia, notti di tramontana e di ghiaccio, che disseccano ogni germe fino negli strati più profondi della terra. Ciò provocò la rovina dei contadini del Telemark e dell'Hardanger. Tuttavia se mamma Hansen valutava esattamente la sua situazione, non aveva mai detto parola in proposito ad anima viva, nemmeno ai suoi figli. Ella era poco comunicativa di carattere, fredda e taciturna, cosa che faceva visibilmente soffrire Hulda e Joël. Ma, per quel senso di rispetto al capo famiglia che è come innato nei paesi del nord, essi non avevano osato mostrare questo dispiacere, tenendosi chiusi in un riserbo che faceva loro male. D'altronde, mamma Hansen non si consigliava con alcuno, essendo più che persuasa della superiorità del suo giudizio, ed anche in questo si mostrava tipicamente norvegese. Ella aveva allora cinquant'anni. Il tempo aveva incanutito i suoi capelli, ma non aveva incurvato la sua bella persona, né scemato la vivacità degli occhi di un azzurro cupo, colore che si ritrovava identico negli occhi della figlia. Soltanto la sua pelle aveva preso il colore giallastro di una vecchia carta da bollo e qualche ruga cominciava a solcare la sua fronte. «Madama», come si dice nei paesi scandinavi, portava invariabilmente una gonna nera a grosse pieghe, in segno di lutto, che ella non aveva più smesso dal giorno della morte del marito. Dalle imboccature del corsetto scuro uscivano le maniche di una camicia di grossolano cotone. Uno scialle di colore scuro le si incrociava sul petto, coprendo la pettorina del grembiule allacciato dietro con grossi fermagli. Portava sempre un pesante berretto di seta, specie di cuffia che sta per scomparire dalla moda dei nostri giorni. Seduta, impettita, nel seggiolone di legno, la grave ostessa di Dal non lasciava l'arcolaio che per fumare una pipetta di scorza di betulla, che formava, attorno a lei, una piccola nuvola di fumo. Per dire il vero, la casa non sarebbe stata molto allegra se fosse mancata la presenza dei due ragazzi! Un bravo ragazzo quel Joël Hansen! Venticinque anni, ben formato, di alta statura, come i montanari norvegesi, una certa fierezza priva di millanteria, l'atteggiamento ardito, non temerario. Egli era di un biondo quasi castano, con due occhi d'un azzurro scurissimo. Il vestito faceva spiccare le poderose spalle che non si curvavano facilmente, il petto così largo che, dentro, potevano respirarvi a proprio agio dei polmoni degni di una guida alpina; braccia vigorose, gambe avvezze alle più ardue salite. Nella tenuta solita si sarebbe detto un cavaliere. La sua giacchetta azzurra, con spalline, stretta in vita, si incrociava sul petto per mezzo di due lunghe strisce verticali ed era abbellita sulla schiena con disegni colorati, simile a talune vesti celtiche della Bretagna. Il colletto della camicia s'allargava come un imbuto. I suoi calzoni gialli erano legati sotto il ginocchio con giarrettiere a fibbia. Teneva in capo un cappello bruno a larghe falde con nastro nero e bordi rossi, un po' inclinato da una parte. Alle sue gambe aderivano delle ghette di bigello o stivali dalle grosse suole, con tacchi bassi, e il collo del piede mal si disegnava sotto le pieghe del cuoio, come negli stivali di mare. Il suo mestiere era quello di guida nel Telemark, e anche per le montagne dell'Hardanger. Sempre pronto a partire, sempre infaticabile, meritava d'essere paragonato a quell'eroe norvegese, Rollone-il-Camminatore, celebre nelle leggende del paese. Tra un'ascensione e l'altra, accompagnava i cacciatori inglesi, che vengono volentieri a dar la caccia al riper, uccello più grosso del ptarmigan delle isole Ebridi, e al jerper, pernice più delicata del grous di Scozia. D'inverno, bisognava dedicarsi alla caccia del lupo, poiché durante la cattiva stagione, quei carnivori, spinti dalla fame, scendono sulla superficie dei laghi gelati. Poi, nell'estate, bisognava dare la caccia all'orso, quand'esso, seguito dai suoi piccoli, scendeva in cerca di pascoli; spesso si doveva inseguirlo fin su altipiani di mille, milleduecento piedi. Più volte, Joël aveva rischiato la vita fra le strette di quegli animali, ma il sangue freddo e la forza prodigiosa gli avevano permesso di trionfare d'ogni pericolo. Quando poi non c'erano né viaggiatori da condurre nella vallata di Vestfjorddal, né cacciatori da guidare sulle vette, Joël s'occupava della masseria, situata ad alcune miglia nel cuore della montagna. Lassù, a servizio di mamma Hansen, un giovane mandriano era occupato a custodire una mezza dozzina di mucche e una trentina di pecore, giacché quel sceter era circondato solo da pascoli: nemmeno un campicello coltivato. Joël era cortese e servizievole per natura. Conosciuto in tutti i villaggi del Telemark, era amato da tutti. Ma c'erano tre creature per le quali egli provava un affetto senza limiti: sua madre, sua sorella Hulda e suo cugino Ole. Quando Ole Kamp lasciò Dal per imbarcarsi ancora una volta, quanto si dolse Joël di non poter dare lui una dote a Hulda per risparmiarle il dolore di quella partenza! Certo s'egli fosse stato abituato alla vita di mare, non avrebbe esitato un istante a partire invece di suo cugino. Ma occorreva un po' di danaro per il sorgere di una nuova famiglia. Joël capì che mamma Hansen, che non aveva voluto ancora impegnarsi, non poteva per nulla aiutare la figliuola in simile circostanza. Ole aveva dovuto andarsene lontano, al di là dell'Atlantico. Joël lo aveva accompagnato sino all'ultimo limite della loro vallata, sulla strada di Bergen. Dopo un lungo abbraccio, gli aveva augurato il buon viaggio e felice ritorno, ed era subito tornato a casa, per consolare la sorella che amava con un amore fraterno e paterno al tempo stesso. Allora Hulda aveva diciotto anni. Non era la piga, così si chiama la domestica negli alberghi della Norvegia, ma piuttosto la froken, la miss degli inglesi: la «madamigella» come sua madre era la «madama» di quella casa. Che grazioso visino il suo! Lo incorniciavano i capelli biondi un po' dorati, sotto una leggera cuffia di mussola, aperta di dietro per lasciarne uscir fuori le lunghe trecce! Era proprio una bella figuretta messa in risalto dal corpetto di stoffa rossa a righe verdi, attillato, semiaperto sul petto, guarnito di ricami multicolori; sotto di esso una bianca camicetta, le cui maniche si stringevano ai polsi con piccoli nastri. E che grazioso vitino, sotto il cinturone rosso con fibbie d'argento filigranato, che serviva a trattenere la gonna di color verdastro ricoperta in parte da un grembiule a strisce multicolori e sotto il quale comparivano le calze bianche, chiuse nelle tipiche, eleganti scarpine appuntite del Telemark. Sì! la fidanzata di Ole era incantevole con quella espressione leggermente melanconica e insieme sorridente che si trova spesso nella gente del nord. Al vederla, si pensava volentieri a quell'Hulda la Bionda, di cui portava il nome, fata felice che si aggira intorno al focolare domestico, come vuole la mitologia scandinava. La riservatezza di figlia saggia e modesta non scemava per nulla la grazia nel ricevere gli ospiti di un giorno che si fermavano all'albergo di Dal. Nessun turista lo ignorava. Non costituiva già un motivo di attrattiva il pensiero di poter scambiare con Hulda lo shakehand, quella cordiale stretta di mano che si dà a tutti e a tutte? E, dopo averle detto: — Grazie per il pasto, Tack for mad! — era pur bello udirsi rivolgere da quella voce fresca e sonora: — Possa farvi bene, Wed bekomme! CAPITOLO IV OLE KAMP era partito da un anno, ed era stata una faticosa spedizione, quella campagna d'inverno nei paraggi di New-Found-Land, come egli stesso diceva nella sua lettera. Il danaro che vi si guadagna, quando se ne guadagna, è proprio ben guadagnato. Soffiano laggiù dei venti equinoziali che investono i bastimenti, a una certa distanza dalle isole, e distruggono in poche ore una intera flottiglia di pescatori. Ma il pesce si moltiplica mirabilmente sui banchi di Terranova, e i pescatori, se la stagione è propizia, trovano largo compenso alle fatiche come ai pericoli di quel buco da tempeste. E poi, i norvegesi sono buoni marinai. Non si tirano indietro, al momento del bisogno. Le occasioni non sono ad essi mai mancate per pigliar confidenza col furore dell'Oceano, in mezzo ai fiordi della spiaggia, da Christiansand al Capo Nord, tra gli scogli del Finmark, attraverso gli stretti delle Lofoden! Quando intraprendono la traversata dell'Atlantico settentrionale per raggiungere le lontane peschiere di Terranova, essi hanno già dato prova di coraggio. Le tempeste contro cui si sono trovati a combattere lungo la costa europea, durante l'infanzia e la giovinezza, li mettono in grado di affrontarne coraggiosamente di peggiori sul New-Found-Land. La burrasca si direbbe il loro elemento, tanto ci sono avvezzi! Hanno, del resto, una reputazione da sostenere. I loro antenati furono intrepidi navigatori nel tempo in cui gli Hansen si erano accaparrati il monopolio commerciale nell'Europa settentrionale. Furono un pochino pirati, al principio; ma allora la pirateria rientrava nel normale modo di procedere. Non c'è dubbio che il commercio si è moralizzato assai da quel tempo ad oggi, sebbene si sia liberi di pensare che resti ancora qualcosa da fare. Comunque sia, i norvegesi furono in ogni tempo audaci navigatori, lo sono tuttora e lo saranno sempre in avvenire. Ole Kamp non era uomo da smentire le promesse della sua infanzia. Il suo apprendistato, la sua iniziazione a quelle dure fatiche, vennero curati da un vecchio marinaio di Bergen, che faceva il commercio di cabotaggio. Aveva passato l'infanzia in quel porto, uno dei più frequentati del regno scandinavo. Prima di slanciarsi in alto mare, era stato uno svelto monello dei fiordi, un pescatore di quegli innumerevoli pesci con cui si fa lo stock-fish; e nessuno meglio di lui sapeva snidare nei più riposti nascondigli gli uccelli acquatici. Quando, più tardi, divenne mozzo, cominciò a viaggiare sul Baltico, nel Mare del Nord, e si spinse nell'Oceano Polare. Fece parecchi viaggi sulle grandi navi da pesca, ottenne il grado di nostromo, che aveva appena ventun anni; e adesso ne aveva ventitré. Tra una spedizione e l'altra non mancava mai di ritornare presso la famiglia, che amava teneramente, la sola che gli restava al mondo. E nel tempo che passava a Dal, era proprio un degno compagno di Joël. Lo seguiva nelle sue corse, fra le montagne, fin sulle cime più alte del Telemark. I field dopo i fiordi! Le ascensioni piacevano tanto al giovane marinaio; e non rimaneva mai a casa, a meno che non dovesse tener compagnia alla cugina Hulda. Una stretta amicizia si stabilì in breve fra Ole e Joël. Come era da prevedersi, questo sentimento prese un'altra forma per quanto riguardava la fanciulla! Pensate con quanta felicità Joël avrebbe incoraggiato un simile cambiamento! Ove sua sorella avrebbe potuto trovare in tutta la provincia un miglior figliolo, un tipo più simpatico, un carattere più devoto, un cuore più caldo? La felicità di Hulda era proprio assicurata. La fanciulla poté quindi lasciare che i suoi sentimenti seguissero la propria tendenza istintiva, con la completa approvazione della madre e del fratello. La gente del nord non è molto espansiva, ma non per questo bisogna giudicarla priva di sensibilità. Tutt'altro! È la loro natura, e non è escluso che sia la migliore. Finalmente, un giorno, trovandosi riuniti tutti e quattro nella gran sala, Ole disse, senz'altri preamboli: — Mi viene un'idea, Hulda! — Quale? — rispose la fanciulla. — Mi pare che ci dovremmo sposare! — Pare anche a me. — Sarebbe la miglior cosa — osservò mamma Hansen, come si trattasse di un argomento già discusso molto tempo addietro. — In questo modo, Ole — aggiunse Joël — io diverrei naturalmente tuo cognato. — Certamente — rispose Ole; — ma credo che forse io ti amerei di più… — Sempre che sia una cosa possibile! — Lo vedrai tu stesso! — In fede mia, io non chiedo di meglio! — rispose Joël, stringendo fortemente la mano di Ole. — Dunque, è tutto inteso, Hulda? — chiese mamma Hansen. — Sì, mamma — rispose la fanciulla. — Brava Hulda — aggiunse Ole. — È un pezzo che io ti amo senza dirtelo! — Anch'io, Ole! — Come ciò sia accaduto, non lo so! — Ed io neppure. — Probabilmente, Hulda, vedendoti tutti i giorni più bella e sempre più buona… — Esageri un poco, mio caro Ole! — Affatto, e posso ben dirtelo, senza farti arrossire: è la verità! Ma voi non vi eravate accorta, mamma Hansen, che io amavo Hulda? — Un poco. — E tu, Joël? — Io?… molto! — E perché — riprese Ole sorridendo — non mi avete avvertito? — Ma, quando sarai sposato, non ti rincrescerà anche più di adesso viaggiare? — osservò mamma Hansen. — Mi rincrescerà talmente che quando sarò sposato, non viaggerò più! — Non viaggerai più?… — No, Hulda. Come potrei lasciarti, per molti mesi? — Questo, dunque, è l'ultimo viaggio che fai. — Certamente; ma questo viaggio, se avrò un po' di fortuna, mi permetterà di mettere da parte un po' di danaro, giacché i Fratelli Help mi hanno promesso di darmi parte intera… — Brave persone! — osservò Joël. — Ottime persone, e molto conosciute, molto apprezzate da tutti i marinai di Bergen. — Caro Ole — chiese Hulda — se rinunci al mare, cosa pensi di fare? — Ebbene, diventerò il compagno di Joël. Ho delle buone gambe, e diverranno anche migliori coll'esercizio. E poi penso ad un affare, che forse non sarà cattivo. Non si potrebbe stabilire un servizio di posta fra Drammen, Kongsberg e i villaggi del Telemark? Le comunicazioni, adesso, non sono né facili, né regolari e potrebbe esserci la possibilità di guadagnare qualcosa. Insomma ho delle idee, senza contare… — Che cosa? — Nulla, nulla! Parleremo di ciò al mio ritorno. Ma vi avverto che sono disposto a fare di tutto per rendere Hulda la donna più invidiata del paese. Sì! farò proprio di tutto. — Sapessi come ciò sarà facile! — rispose Hulda tendendogli la mano — non siamo già quasi felici adesso? E come potrebbe, del resto, esservi una casa più felice della nostra a Dal? Mamma Hansen aveva volto altrove il capo. — Allora — insisté Ole con voce allegra — la cosa è combinata? — Sicuro! — rispose Joël. — E non avremo più bisogno di riparlarne? — Assolutamente! — Non avrai alcun rimpianto, Hulda? — Affatto, mio caro Ole. — Per fissare la data del matrimonio, è meglio aspettare il tuo ritorno — aggiunse Joël. — È vero, ma sarò davvero sfortunato se non potrò essere di ritorno prima di un anno, per condurre Hulda alla chiesa di Mœl, ove il nostro amico, il pastore Andresen, sarà felice di dire per noi le più belle preghiere! Ecco come era stato deciso il matrimonio di Hulda Hansen e di Ole Kamp. Otto giorni dopo, il giovane marinaio doveva raggiungere la sua nave a Bergen. Ma, prima di lasciarsi, i due innamorati s'erano già fidanzati, secondo il rito commovente dei paesi scandinavi. In questa semplice e virtuosa Norvegia, c'è l'uso, in generale, di fidanzarsi prima di sposarsi. Talora il matrimonio avviene solo due o tre anni dopo. Ciò ci ricorda come usavano fare i cristiani al tempo delle prime chiese. Ma non si creda che la cerimonia si riduca ad un puro scambio di promesse, il cui valore dipende dalla buona fede dei contraenti. L'impegno è più serio, e se non è riconosciuto dalla legge, è riconosciuto dal costume, che costituisce la legge morale di ogni paese. Nel caso di Hulda e di Ole, si trattava dunque di organizzare una cerimonia che sarebbe stata presieduta dal pastore Andresen. A Dal non c'è il pastore, e nemmeno nei villaggi vicini. In Norvegia, del resto, si possono trovare alcune località che vengono chiamate «città domenicali»; ivi sorge il presbiterio, il «proestegjelb». È là che si riuniscono, per le più importanti solennità, le principali famiglie della parrocchia. Esse hanno anche un alloggio, nel quale vengono ad abitare per ventiquattro ore, il tempo necessario per compiere i propri doveri religiosi; da qui si torna indietro come da un pellegrinaggio. Dal, per dire il vero, possiede una cappella, ma il pastore vi si reca a richiesta e soltanto per cerimonie private. Del resto, Mœl non è molto lontano: appena un mezzo miglio, cioè circa dieci chilometri francesi, da Dal all'estremità del lago Tinn. Il pastore Andresen è un buon camminatore ed è persona molto cortese. Egli fu dunque pregato di intervenire alla cerimonia del fidanzamento, nella sua doppia veste di sacerdote e d'amico della famiglia Hansen. Era una vecchia conoscenza degli Hansen da molto tempo. Egli aveva visto crescere Hulda e Joël e li amava, come amava quel «giovane lupo di mare» che era Ole Kamp. Figurarsi quanto fosse contento di quel matrimonio! Era un avvenimento tale da mettere in festa tutta la valle del Vestfjorddal. Di conseguenza, il pastore prese il collarino, la facciola di crespo, il libro di preghiere, e parti un bel mattino, con un tempo che però era molto piovoso. Arrivò insieme con Joël, che gli era venuto incontro a metà strada. Va da sé che ebbe un'ottima accoglienza nell'albergo di mamma Hansen e che gli fu assegnata la bella camera del pianterreno con freschissimi rami di ginepro che la rendevano profumata come una cappella. L'indomani, alle prime ore del giorno, venne aperta la chiesa di Dal. Qui, davanti al pastore e sul suo messale in presenza di alcuni amici e dei vicini dell'albergo, Ole giurò di sposare Hulda, e Hulda giurò di sposare Ole, al termine del nuovo viaggio che il giovane marinaio stava per intraprendere. È lungo un anno d'attesa, ma passa senza inquietudine, quando uno è davvero sicuro dell'altro. Dopo questa cerimonia Ole non avrebbe più potuto, senza un motivo grave, sciogliersi dalla sua fidanzata; e Hulda, dal canto suo, non poteva tradire la parola data. E se Ole Kamp non fosse partito pochi giorni dopo, avrebbe potuto approfittare dei diritti che la cerimonia testé compiuta gli dava incontestabilmente: far visita alla fidanzata ogni volta che gli piacesse; scriverle quando voleva, accompagnarla alla passeggiata, tenendola a braccetto, anche in assenza della famiglia; avere diritto su tutti gli altri di ballare con lei in ogni festa o cerimonia. Ma Ole Kamp aveva dovuto recarsi a Bergen. Otto giorni dopo, il Viken faceva vela per i banchi di Terranova. Ora Hulda poteva solo attendere le lettere, che il fidanzato aveva promesso di spedirle con ogni corriere in partenza per l'Europa. E non mancarono queste lettere, sempre attese con grande impazienza. Esse portavano un po' di felicità in quella casa piena di tristezza dal giorno in cui Ole era partito. Il viaggio era stato buono. La pesca fu abbondante, e i guadagni sarebbero stati senza dubbio considerevoli. E poi, alla fine d'ogni lettera, Ole parlava sempre d'un certo segreto e di una fortuna ch'esso gli avrebbe dovuto procurare. Hulda avrebbe voluto conoscerlo, e anche mamma Hansen per motivi che non era facile immaginare. Per dire il vero, mamma Hansen diveniva sempre più triste, inquieta, taciturna. E una circostanza di cui non parlò ai suoi figlioli, accrebbe i suoi crucci. Tre giorni dopo l'arrivo dell'ultima lettera di Ole, il 19 aprile, mamma Hansen ritornava sola dalla segheria, ov'era andata a comandare un sacco di trucioli al vice direttore Lengling, e si dirigeva verso casa. A breve distanza dalla porta, venne avvicinata da un uomo, che non era del paese. — Senza dubbio, voi siete madama Hansen… — chiese quell'uomo. — Sì — rispose lei, — ma io non vi conosco. — Oh! Non importa! — riprese l'uomo. — Sono arrivato questa mattina da Drammen e vi ritorno. — Da Drammen? — disse vivamente mamma Hansen. — Non conoscete un certo signor Sandgoïst, che abita laggiù?… — Il signor Sandgoïst! — ripeté mamma Hansen, impallidendo a quel nome. — Sì… lo conosco! — Ebbene, avendo il signor Sandgoïst saputo che io venivo a Dal, mi ha pregato di salutarvi da parte sua. — E… nient'altro?… — Ha aggiunto che verrà probabilmente a vedervi il mese prossimo! Buona sera e state bene, madama Hansen. CAPITOLO V HULDA, per dire il vero, fantasticava molto su questa fortuna, che in ogni lettera Ole accennava come assai vicina, per lui, da raggiungere! Su che cosa, quel bravo ragazzo, fondava la sua speranza? Ella non riusciva a indovinarlo e Ole tardava a rivelarle la verità. Le perdoni, il lettore, questa impazienza, del resto molto naturale. Era forse, da parte sua, una vana curiosità? Niente affatto. Questo segreto la riguardava un pochino. Non che l'onesta e semplice figliola fosse ambiziosa, né tra le sue speranze per l'avvenire trovava posto la ricchezza. L'affetto di Ole le bastava, e le sarebbe sempre bastato. Se arrivava anche la ricchezza, tanto meglio; se non arrivava se ne poteva fare a meno. Questo appunto si dicevano Hulda e Joël l'indomani del giorno in cui era giunta a Dal l'ultima lettera di Ole. Anche su questo argomento, come su tanti altri, la pensavano allo stesso modo! Ed ecco Joël soggiungere: — No! Questo non è possibile, sorellina mia! Son sicuro che mi nascondi qualche cosa! — Io!… nasconderti qualcosa… — Sì! Non è possibile che Ole sia partito senza dirti almeno una parola sul suo segreto, non posso crederlo! — E a te ha detto qualche cosa? — disse Hulda. — No, sorella mia: ma io non sono te. — Invece si; è come se tu fossi me, fratello mio. — Non sono io la fidanzata di Ole. — Quasi — soggiunse la fanciulla; — e se qualche disgrazia lo colpisse, tu saresti afflitto come me, e piangeresti proprio come me! — Ah! sorellina mia — rispose Joël — ti proibisco di pensare cose simili. Com'è possibile che Ole non ritorni da questo viaggio che fa per la pesca in alto mare? Ma parli sul serio, Hulda? — Ritornerà, speriamolo, Joël. Tuttavia, non so respingere certi presentimenti. Faccio dei cattivi sogni!… — I sogni, mia cara, sono soltanto sogni! — È vero; ma da dove vengono? — Da noi stessi, e non dall'alto. Tu temi, e il timore appunto turba i tuoi sonni. Del resto, succede spesso così, all'avvicinarsi di un momento vivamente desiderato. — Può darsi che sia così. — Per dire il vero, ti credevo più coraggiosa, sorellina mia! Sì! più energica! Come, hai appena ricevuto una lettera nella quale Ole ti annuncia che il Viken sarà di ritorno prima che sia trascorso un mese, e tu ti metti simili pensieri in testa!… — Non in testa, nel cuore, mio Joël! — Sì, sì, il cuore deve batterti forte forte. Siamo già al 19 aprile. Ole deve ritornare fra il 15 e il 20 maggio: è tempo di fare i preparativi per il matrimonio. — Ci pensi, Joël? — Se ci penso! Anzi mi pare che siamo già in ritardo! Figurati! È un matrimonio che farà gioire non solo Dal, ma i villaggi vicini. Intendo che tutto si faccia convenientemente; e io mi occuperò di preparare ogni cosa a dovere. Intendiamoci bene; non è cosa da poco una cerimonia di questo genere nelle campagne della Norvegia, e tanto meno poi in quelle del Telemark. Tutti ne avrebbero parlato. Perciò, quel giorno Joël ebbe un colloquio in proposito con sua madre. Ciò si verificò pochi minuti dopo che mamma Hansen, all'annuncio della prossima visita del signor Sandgoïst da Drammen, era rimasta molto turbata. Ella era andata a sedersi nella poltrona del salone, e là, tutta assorta, faceva girare meccanicamente l'arcolaio. Joël capì subito che sua madre era ancor più triste del solito; ma poiché ella rispondeva invariabilmente che «non aveva nulla», tutte le volte che veniva interrogata in proposito, suo figlio si limitò a parlarle del matrimonio di Hulda. — Madre mia — le disse, — dall'ultima lettera di Ole abbiamo appreso che egli sarà senz'altro di ritorno fra poche settimane. — Dio lo voglia — rispose mamma Hansen; — e speriamo che non avvenga alcun ritardo. — Non si potrebbe fissare il matrimonio per il 25 maggio? Avete qualcosa in contrario? — Nulla, se Hulda acconsente! — È così contenta lei! Permettetemi, ora, di chiedervi se è vostra intenzione di preparare ogni cosa a puntino in questa circostanza. — Che cosa intendi per «preparare ogni cosa a puntino»? — soggiunse mamma Hansen senza alzare gli occhi dal filatoio. — Intendo, naturalmente, se voi siete d'accordo, mamma cara, che il matrimonio dovrebbe essere festeggiato secondo la posizione che noi occupiamo in paese. Dobbiamo invitare i conoscenti, e, se la nostra casa non può alloggiarli tutti, si troveranno nel villaggio delle case di amici… — E quali saranno gli invitati, Joël? — Penso che si dovrebbero invitare tutti i nostri amici di Mœl, di Tines, di Bamble, e per questi m'incarico io. Credo che la presenza dei Fratelli Help, gli armatori di Bergen, farebbe onore alla famiglia, e, ripeto, col vostro permesso, offrirei loro di venire a passare una giornata a Dal. Sono brave persone che amano molto Ole, e sono sicuro che accetteranno. — È proprio necessario — rispose mamma Hansen — dare a questo matrimonio tanta risonanza? — Credo di sì, anche per il buon nome dell'albergo di Dal, che non è per nulla diminuito dopo la morte di nostro padre… — È vero, Joël, è vero. — Non è nostro dovere di mantenerlo almeno nelle condizioni in cui venne lasciato? Dunque sarà bene dare un po' d'importanza al matrimonio di Hulda. — Sta bene, Joël. — D'altra parte, è anche tempo che Hulda faccia i suoi preparativi, perché non sia proprio lei causa di ritardo. Che ve ne pare, mamma? — Fate, tu e Hulda, quanto è necessario! — rispose mamma Hansen. Forse taluno osserverà che Joël aveva troppa fretta, e che sarebbe stato più ragionevole attendere il ritorno di Ole, per stabilire la data del matrimonio e soprattutto per dare inizio ai preparativi. Ma, come egli diceva, chi ha tempo, non aspetti tempo. E poi quel doversi occupare delle mille faccenduole, che riguardano una cerimonia di questo genere, avrebbe svagato Hulda. Bisognava combattere i presentimenti, del resto del tutto ingiustificati, in modo che essi non prendessero il sopravvento. Anzitutto bisognava pensare alla damigella d'onore! Ma questa era la minor cosa. La scelta era già fatta. Era una graziosa fanciulla di Bamble, intima amica di Hulda. Suo padre, il fattore Helmboë, coltivava uno dei più vasti poderi della provincia. Quel brav'uomo possedeva anche una discreta ricchezza. Da un pezzo egli aveva preso ad apprezzare il carattere generoso di Joël, e, bisogna dirlo, la figlia Siegfrid, da un altro punto di vista, aveva pure un eccellente concetto del giovanotto. Era dunque probabile che in un prossimo domani Hulda le facesse, a sua volta, da damigella d'onore. Così si usa in Norvegia! Di solito queste piacevoli mansioni vengono svolte da donne sposate, ma, nel presente caso, si faceva un'eccezione, per una particolare deferenza, e per far piacere a Joël, e si voleva scegliere una fanciulla. Un problema serio per la sposa e per la damigella d'onore, l'abbigliamento per la circostanza. Siegfrid, graziosa bionda di diciotto anni, aveva la ferma intenzione di fare bella mostra di sé. Avvisata con un biglietto dell'amica Hulda - s'intende che Joël aveva voluto consegnarlo a lei personalmente - non perdette un minuto di tempo, e si accinse ad un lavoro veramente impegnativo. Si trattava di un certo corsetto i cui ricami a disegni regolari, che avrebbero cinto il vitino di Siegfrid, erano talmente belli da sembrare smalto tramezzato. Si parlava pure di una gonna sostenuta da una serie di sottogonne il cui numero era proporzionato alla ricchezza di Siegfrid ma tale da non togliere nulla alla grazia della sua persona. Quanto ai gioielli, non sarebbe stata cosa da nulla scegliere la piastra centrale della collana a filigrana d'argento con perle, i fermagli per il corsetto in argento dorato o in rame, i pendenti a forma di cuore con cerchietti mobili, i bottoncini doppi per il colletto della camiciola, la cintura di lana o di seta rossa, dalla quale pendono quattro file di catenelle, gli anelli, con piccoli ninnoli, che urtandosi mandano un suono festoso; gli orecchini e i braccialetti d'argento, in breve tutta quella bigiotteria campagnola, nella quale, a dire il vero, l'oro fa scarsa mostra di sé, l'argento è di bassa lega, l'oreficeria in stampaggio, le perle sono di vetro soffiato e i diamanti di cristallo! Ma il tutto faceva effetto e l'occhio ne era appagato. Siegfrid era persino disposta a recarsi a Christiania, per fare delle spese supplementari nei sontuosi magazzini del signor Benett. Suo padre le avrebbe dato il permesso, anzi! Il brav'uomo la lasciava fare volentieri. Del resto, Siegfrid sapeva conciliare il lusso con l'economia. La cosa che importava maggiormente era che, quel giorno, Joël la trovasse di suo gusto. Quanto a Hulda, il problema non era affatto più facile. Ma le mode sono spietate e pongono a stecchetto le fidanzate nelle scelte del loro abbigliamento matrimoniale. Hulda stava finalmente per abbandonare le lunghe trecce adorne di nastri che sfuggivano dal suo berrettino da ragazzina, e l'alta cintura con fermaglio, che le serrava il grembiule, sulla gonnella rossa. Avrebbe pure smessi i fazzoletti da fidanzata che Ole le aveva regalati al momento della partenza, e il cordone dal quale pende la borsetta in cuoio lavorato contenente il cucchiaio d'argento con manico corto, il coltello, la forchetta, l'agoraio, ed altri utensili, di cui una buona massaia ha continuo bisogno per il governo della casa. Il giorno delle nozze, i bei capelli di Hulda dovevano ondeggiare liberamente sulle spalle, ed essi erano del resto talmente tanti che non era necessario aggiungervi quei capelli posticci di lino cui ricorrono le giovani norvegesi meno favorite dalla natura. Insomma, per l'abbigliamento come per i gioielli, Hulda aveva solo da scegliere nella cassapanca di sua madre. Infatti, quegli ornamenti si trasmettono di madre in figlia per molte generazioni. Così si vede ricomparire il giubbetto ricamato in oro, la cintura di velluto, la gonnella di seta di uno o più colori, le calze di wadmel, la collana d'oro e la corona - quella famosa corona scandinava, che si conserva nello stipo più segreto, magnifico lavoro in legno e cartone, costellato di stelle o inghirlandato di fogliame, l'equivalente, in una parola, della corona di fiori d'arancio che si usa in altri paesi dell'Europa. Quel nimbo tutto a raggi, quelle filigrane delicate, quei pendenti sonori, quelle margheritine policrome, dovevano incorniciare il grazioso visetto di Hulda. La «fidanzata coronata», come si suol dire, doveva far onore allo sposo. E lui sarebbe stato degno di tanta bellezza, degno della cerimonia nuziale nel suo abito da sposo — giacca corta a bottoni d'argento molto vicini, camicia inamidata ad ampi risvolti, gilet orlato e foderato in seta, calzoni aderenti, fermati al ginocchio con nastro e nappe di lana, cappello di feltro, stivali gialli, e, alla cintura, nella sua guaina di cuoio, il coltello scandinavo, il dolknif, che mai il vero norvegese abbandona. Insomma, da una parte e dall'altra ci sarebbe stato un bel da fare. Non c'era tempo da perdere, se si desiderava che tutto fosse pronto prima dell'arrivo di Ole Kamp. Ad ogni modo, quand'anche fosse arrivato un po' prima del previsto a Hulda non sarebbe affatto dispiaciuto, anche se i preparativi non fossero ancora giunti a termine, né, tanto meno, sarebbe dispiaciuto a lui! Tra questi numerosi preparativi passarono le ultime settimane d'aprile e le prime di maggio. Joël non mancò di recarsi in persona a fare gli inviti, profittando dei momenti liberi che gli erano lasciati dalla sua professione. A Bamble doveva avere molti amici, giacché vi si recava spesso. Non era andato a Bergen ad invitare i Fratelli Help, ma aveva loro scritto. E, come egli immaginava, quei bravi armatori avevano accettato, con la maggiore sollecitudine, l'invito ad assistere al matrimonio di Ole Kamp, il giovane nostromo della nave Viken. Intanto, era giunto il 15 maggio. Da un momento all'altro ci si poteva attendere di vedere Ole discendere dalla carrettella, aprire la porta, e gridare con voce festosa: «Sono io!… Eccomi!» Un po' di pazienza ancora, e poi… Tutto era pronto… Siegfrid, dal canto suo, aspettava solo un cenno per comparire vestita di tutto punto. Giunse il giorno 16, il 17, e Ole non si era fatto vivo, né, per quanto si sapeva, erano giunte lettere da Terranova. — Non c'è da stupirsi, sorellina mia — ripeteva spesso Joël. — Una nave a vela può subire dei ritardi. La traversata è lunga da Saint-Pierre-Miquelon a Bergen. Ah! perché questo Viken non è un piroscafo e io non ne sono la macchina? Come saprei spingerlo contro vento e contro marea, quand'anche dovessi saltare in aria appena raggiunto il porto! E diceva tutto ciò perché vedeva l'inquietudine di Hulda aumentare di giorno in giorno. Nel Telemark il tempo era assai cattivo. Dei venti impetuosi spazzavano le alte cime, e provenivano dall'ovest, cioè dall'America. — Dovrebbero favorire il viaggio del Viken! — ripeteva spesso la fanciulla. — Senza dubbio — rispondeva Joël; — ma sono troppo forti, e potrebbero anche procurargli dei fastidi e obbligarlo a tener testa all'uragano. Sul mare non sempre si può fare ciò che si vuole! — E tu non sei inquieto, Joël? — No, Hulda, no! È spiacevole, ma è un ritardo naturalissimo! Non sono inquieto, e non c'è davvero alcun motivo per esserlo! Il 19 giunse all'albergo un viaggiatore che aveva bisogno di una guida. Si trattava di condurlo fino all'estremità dell'Hardanger, superando le montagne. Benché contrariato di dover lasciare sola Hulda, Joël non poteva esimersi da quel servigio. Si trattava, tutt'al più, di un'assenza di quarantotto ore, e Joël era quasi sicuro di rivedere Ole al suo ritorno. A dire il vero, quel bravo ragazzo cominciava anche lui a preoccuparsi seriamente. Parti nella mattinata, ma, bisogna ammetterlo, con molta tristezza nel cuore. L'indomani, verso l'una, per l'esattezza, qualcuno bussò alla porta dell'albergo. — Potrebbe essere Ole! — esclamò Hulda. E corse ad aprire. Sulla soglia stava una carrettella, e in essa un uomo, coperto di un mantello da viaggio e rincantucciato sul sedile. Hulda non lo aveva mai visto prima di allora. CAPITOLO VI — È QUESTO l'albergo di madama Hansen? — Sì, signore — rispose Hulda. — C'è la signora? — No, ma tornerà a momenti. — Presto? — Subito, e se avete a parlarle… — Non ho nulla da dirle. — Volete una camera? — Sì, la più bella che avete! — Devo prepararvi il pranzo? — Il più presto possibile, e datemi ciò che c'è di meglio. Queste furono le parole scambiate fra Hulda e il viaggiatore, prima ancora che questi fosse sceso dalla carrettella di cui si era servito per giungere fino al Telemark, attraverso le foreste, i laghi e le vallate della Norvegia centrale. La carrettella, lo sappiamo bene, è il mezzo di trasporto preferito dagli scandinavi. Due lunghe stanghe, fra le quali si muove un cavallo, dal collo robusto, dal manto giallastro, guidato per mezzo di una corda, legata non alla bocca, ma al naso; due grandi ruote sottili, il cui asse, senza molle, sopporta il peso di una cassetta verniciata, che ha appena lo spazio per una persona; non c'è tetto, né parafango e predellino; dietro la cassetta si trova un piccolo sedile per lo skidskarl. Il tutto rassomiglia ad una enorme ragnatela, la cui doppia tela è formata dalle due ruote. Con questo veicolo rudimentale si possono fare delle tappe di quindici o venti chilometri senza troppa fatica. Ad un segno del viaggiatore, lo skidskarl andò a tenere il cavallo. Allora il viaggiatore si alzò, si scosse, scese a terra, con qualche sforzo che lo fece borbottare di malumore. — C'è la rimessa? — chiese con tono brusco, fermandosi sulla soglia. — Certamente, signore — rispose Hulda. — Bisogna dar la biada al cavallo. — Lo faccio condurre in stalla. — Che se ne abbia cura! — Non dubiti. Posso chiedervi se intendete fermarvi qualche giorno a Dal? — Non lo so. La carrettella e il cavallo furono condotti sotto una tettoia, che si trovava a breve distanza, all'ombra degli alberi e alle falde della montagna. Era l'unica scuderiarimessa che ci fosse all'albergo, ma bastava al servizio degli ospiti. Un momento dopo, il viaggiatore era seduto nella camera migliore, come aveva chiesto. Qui, dopo essersi tolto il pastrano, si scaldava davanti a un bel fuoco di caminetto che aveva fatto accendere. Intanto per accontentare il viaggiatore che sembrava un po' esigente e difficile, Hulda raccomandò alla piga - una vigorosa ragazza dei dintorni, che, d'estate, aiutava in cucina e faceva in casa i mestieri più grossolani - di preparare il miglior pranzo possibile. Un uomo ancora vegeto, il nuovo arrivato, quantunque avesse già oltrepassato la sessantina. Magro, un po' curvo, di media statura, testa ossuta, faccia pelata, naso a punta, occhi piccoli con uno sguardo penetrante dietro le grosse lenti, una fronte che si corrugava facilmente, labbra troppo sottili, perché egli potesse mai pronunciare parole gentili, lunghe mani adunche; in breve, il tipo dell'usuraio. Hulda ebbe il presentimento che quel viaggiatore non doveva rallegrare per nulla l'albergo. Che fosse norvegese non si poteva dubitare, ma dal tipo scandinavo egli aveva ereditato soprattutto l'aspetto volgare. Il suo abbigliamento da viaggio si componeva di un cappello piuttosto schiacciato, con falde larghe, di un vestito di panno, bianchiccio, giacca a doppio petto, calzoni legati al ginocchio con corregge di cuoio e, sopra tutto questo, una specie di pelliccia bruna, foderata con pelle di montone - che non era affatto inutile, la sera e la notte, su quegli altipiani rigidi e nelle ventose vallate del Telemark. Hulda non aveva domandato a quel personaggio il suo nome. Ma fra poco glielo avrebbe chiesto, giacché doveva scriverlo nel registro dell'albergo. In quel momento, mamma Hansen rientrò. La figlia le annunziò l'arrivo di un viaggiatore che aveva domandato la miglior camera e il miglior pranzo. Non sapeva quanto avesse intenzione di fermarsi a Dal; su questo punto non aveva detto nulla. — E non ha detto il suo nome? — chiese mamma Hansen. — No, mamma. — E nemmeno da dove viene? — No. — È senz'altro un turista. Peccato che Joël non sia di ritorno per mettersi a sua disposizione. Come faremo se ci chiede una guida? — Non credo che sia un turista — rispose Hulda. — È un uomo di una certa età… — E se non è un turista, che viene a fare a Dal? — soggiunse mamma Hansen, parlando piuttosto a se stessa che alla figlia e con un tono che rivelava una certa inquietudine. Hulda non poteva rispondere a questa domanda, giacché il viaggiatore non aveva detto nulla sulle sue intenzioni. Un'ora dopo il suo arrivo, il viaggiatore passò nel salotto attiguo alla sua camera. Nel vedere mamma Hansen, si fermò un momento sulla soglia. Evidentemente non la conosceva, come non era conosciuto da lei. Però, mosse verso di lei, e, dopo averla sbirciata al disopra degli occhiali: — Madama Hansen, credo… — egli disse senza nemmeno portare la mano al cappello. — Per l'appunto, signore — ella rispose. E in presenza di quell'uomo, provò, come sua figlia, un turbamento di cui egli si accorse. — Ah! siete voi, madama Hansen di Dal? — Senza dubbio, signore. Avete qualcosa in particolare da dirmi? — Nessuna. Volevo solo fare la vostra conoscenza. Non sono vostro ospite? Ed ora, procurate che mi servano il pranzo al più presto. — Il pranzo è pronto — rispose Hulda. — Se volete passare nella sala… — Subito! E il viaggiatore si diresse verso la porta che gli venne additata dalla fanciulla. Un momento dopo, era seduto accanto alla finestra presso un tavolo elegantemente apparecchiato. Il pranzo fu eccellente. Nessun turista avrebbe trovato a ridirvi, neanche il tipo più difficile da contentare. Ma quell'uomo intollerante non risparmiò segni e parole di malcontento - soprattutto segni, giacché egli non sembrava molto loquace. Ci si sarebbe chiesto, per la verità, se la sua esigenza fosse dovuta a problemi di stomaco o al suo carattere. La minestra di ciliegie e ribes gli piacque poco, benché fosse ottima. Assaggiò appena il salmone e l'acciuga marinata. Né trovò di suo gusto il prosciutto crudo, il mezzo pollo arrosto, i legumi ben conditi. E si dichiarò malcontento persino della bottiglia di Saint-Julien e della mezza bottiglia di Champagne, quantunque venissero proprio dalla Francia. Di conseguenza, a pranzo finito, il viaggiatore non ebbe una sola parola cortese per l'albergatrice. Accesa la pipa, quell'uomo rude uscì dalla sala e andò a passeggiare sulle rive del Maan. Ma, appena giunto sulla riva, tornò indietro. Guardava continuamente l'albergo, sembrava volerlo studiare da tutti i lati, pianta, sezione e alzato, quasi cercasse di stimarne il valore. Ne contò le porte e le finestre. S'avvicinò alle travi orizzontali che formavano lo zoccolo della casa, vi fece due o tre intagli con la punta del suo coltellino, come per riconoscere la qualità del legno e il suo stato di conservazione. Voleva forse fare un calcolo approssimativo di ciò che valeva l'albergo di madama Hansen? Pretendeva di presentarsi come acquirente, quantunque non fosse in vendita? Era molto strano. Dopo aver esaminato la casa, diede un'occhiata al recinto, contandone gli alberi e gli arbusti. Per ultimo, misurò due lati con passi di circa un metro e, dai segni che fece con la matita sul suo notes, si capiva chiaramente che li aveva moltiplicati tra di loro. Ad ogni momento scuoteva il capo, aggrottava le ciglia, gli sfuggivano degli «uhm!» poco approvatoti. Durante questi andirivieni, mamma Hansen e sua figlia l'osservavano dalle finestre della sala. Con quale strano personaggio avevano a che fare? Che tipo bizzarro! E qual era lo scopo del suo viaggio? Peccato che ciò avvenisse in assenza di Joël, perché il viaggiatore doveva passare anche la notte nell'albergo. — Se fosse un pazzo? — disse Hulda. — Un pazzo?… No! — rispose mamma Hansen. — È, però, un uomo singolare. — È cosa spiacevole non sapere chi si riceve nella propria casa — osservò la fanciulla. — Hulda.— rispose mamma Hansen, — prima che il viaggiatore rientri, abbi cura di portare nella sua camera il registro dell'albergo. — Sì, mamma. — Forse si deciderà a scrivervi il proprio nome! Verso le otto, il buio era già sceso, cominciò a cadere una fine pioggerella, e la valle fino a metà montagna era ingombra di nebbia. Il tempo non era favorevole alla passeggiata. Così, l'ospite di mamma Hansen, dopo avere risalito il sentiero sino alla segheria, ritornò all'albergo ove domandò un bicchierino di acquavite. Senza aggiungere una parola, senza augurare la buona sera ad alcuno, prese il candeliere di legno con la candela accesa e s'avviò verso la sua camera, vi si chiuse dentro e non lo s'intese più sino al mattino. Lo skidskarl era andato a rifugiarsi sotto la tettoia. Là, fra le due stanghe, dormiva della grossa, in compagnia del suo cavallo biondastro, senza darsi pensiero della tempesta. L'indomani, mamma Hansen e sua figlia si levarono all'alba. Non si udiva alcun rumore nella camera del viaggiatore, che evidentemente riposava ancora. Un po' dopo le nove, egli entrò nella sala, con l'aria ancora più burbera del giorno innanzi, lamentandosi del letto che era duro, dei rumori che lo avevano svegliato e, non occorre dirlo, non salutò alcuno. Poi, aperse la porta e andò a guardare il cielo. Mediocri indizi di bel tempo! Un vento impetuoso spazzava le cime del Gusta, avvolte di nuvole, e si cacciava nella valle con violente raffiche. Il viaggiatore non si arrischiò ad uscire. Ma non perdette tempo. Fumando la pipa, passeggiò per l'albergo, cercò di rendersi conto della disposizione interna, ne visitò le diverse camere, esaminò il mobilio, aperse gli armadi, proprio come si fosse trovato in casa sua. Si sarebbe detto un perito che procedeva a una stima giudiziaria. Certamente se lui era un uomo singolare, le sue azioni erano ancora più sospette. Ciò fatto, andò a sdraiarsi nella poltrona della sala, e con voce brusca rivolse parecchie domande a mamma Hansen. Da quanto tempo l'albergo era costruito? Era stato fabbricato da suo marito Harald o egli l'aveva avuto per eredità? Aveva già richiesto parecchie riparazioni? Qual era l'estensione del recinto e della masseria che da esso dipendevano? Era ben avviato e dava un buon reddito? Quanti turisti, in media, capitavano nella bella stagione? Vi passavano uno o più giorni, ecc.? Evidentemente il viaggiatore non s'era accorto del registro, che era stato deposto nella sua camera, dal quale sarebbe stato informato almeno sull'ultima domanda. Infatti il registro si trovava al posto dove Hulda lo aveva collocato, e il nome del nuovo venuto non vi era scritto. — Signore — disse allora mamma Hansen, — non capisco bene come e perché queste cose possano interessarvi. Ma se desiderate conoscere come stanno i nostri affari niente di più semplice. Dovete soltanto consultare il registro dell'albergo. Vi pregherei anche di scrivervi il vostro nome, secondo il regolamento. — Il mio nome?… Va benissimo… Lo scriverò al momento di lasciarvi. — Vi fermerete ancora? — È inutile — rispose il viaggiatore alzandosi. — Devo partire dopo colazione, per trovarmi a Drammen domani sera. — A Drammen?… — disse con una certa emozione mamma Hansen. — Sì! Quindi desidero far colazione subito. — Abitate a Drammen? — Sì, che c'è da stupire, di grazia, se io abito a Drammen? E così, questo viaggiatore, dopo aver passata una sola giornata a Dal, o piuttosto nell'albergo, se ne andava senza aver veduto nulla del paese! Non si spingeva più lontano, nella regione! Non lo allettavano affatto il Gusta, il Rjukanfos, le meraviglie della valle del Vestfjorddal! Non era, dunque, per diletto, ma per affari che egli aveva lasciato Drammen, suo abituale soggiorno, e pareva che non avesse altro scopo che di visitare, angolo per angolo, la casa di mamma Hansen. Hulda s'accorse che sua madre era profondamente turbata. Ella era andata a sedersi nel suo ampio seggiolone, e, scostato l'arcolaio, era rimasta immobile, senza pronunciare una parola. Intanto il viaggiatore era passato nella sala da pranzo e sedeva a tavola. Ma la colazione, curata come il pranzo del giorno prima, non sembrò soddisfarlo. Eppure mangiò bene e bevette anche senza fretta. La sua ispezione, ora, era rivolta all'argenteria, lusso cui i contadini norvegesi tengono molto; alcuni cucchiai e forchette che passano di padre in figlio e che si custodiscono diligentemente fra i gioielli della famiglia. Intanto, lo skidskarl stava facendo i preparativi della partenza nella rimessa. Alle undici, il cavallo e la carrettella aspettavano davanti la porta dell'albergo. Il tempo non prometteva niente di buono; la giornata era grigia e ventosa. A intervalli, la pioggia batteva sui vetri come una mitraglia. Ma il viaggiatore, sotto il suo pesante pastrano foderato di pelle, non era tipo da temere la bufera. A colazione finita, bevette un ultimo bicchiere di acquavite, accese la pipa, indossò il mantello, ritornò nel salotto e chiese il conto. — Vado a prepararlo — rispose Hulda, andando a sedere accanto al banco. — Fate presto! — disse il viaggiatore. — Mentre attendo — aggiunse, — datemi il registro, perché possa scrivervi il mio nome. Il viaggiatore prese una penna, sbirciò un'ultima volta mamma Hansen dal di sopra degli occhiali, poi, a grossi caratteri, scrisse il proprio nome nel registro, e lo chiuse. In quel momento, Hulda giungeva con il conto. Egli lo prese, l'esaminò borbottando, probabilmente rifece la somma. — Uhm! Com'è caro! Sette marchi e mezzo per una notte e due pasti. — C'è anche lo skidskarl e il cavallo — osservò Hulda. — Non importa! Trovo che è caro! Davvero non mi meraviglio che gli affari vadano bene. — Voi non ci dovete nulla, signore! — gridò mamma Hansen con voce così agitata che appena la si poté udire. Aveva aperto il registro, aveva letto il nome, e ripeté, ritirando la nota che fece in pezzi: — Non ci dovete nulla! — È pure la mia opinione! — rispose il viaggiatore. E senza dare la buona sera nell'andarsene, come non aveva dato il buon giorno quando era arrivato, sali in carrettella, mentre il ragazzo saltava sull'assicella dietro di lui. Pochi istanti dopo, era scomparso alla svolta della strada. Quando Hulda aprì il registro, vi trovò scritto questo nome: «Sand-goi'st, di Drammen». CAPITOLO VII JOËL DOVEVA ritornare a Dal nel pomeriggio dell'indomani, dopo aver lasciato sulla strada dell'Hardanger il viaggiatore a cui faceva da guida. Hulda, sapendo che suo fratello doveva ritornare percorrendo gli altipiani del Gusta, lungo la riva sinistra del Maan, era andata ad attenderlo al passo del fiume impetuoso. Sedette accanto all'approdo della chiatta, che fa da banchina al porto. Là seduta, si immerse nelle sue riflessioni. Alle vive inquietudini che il ritardo del Viken le causava si aggiungeva adesso una non lieve ansietà. Il motivo di tutto ciò era stato la visita di quel Sandgoïst e il modo in cui mamma Hansen si era comportata nei confronti di lui. Perché, appena saputo il suo nome, aveva stracciato il conto, e rifiutato di ricevere ciò che le era dovuto? Ci doveva essere un segreto - e grave, per di più. Hulda venne finalmente sviata da queste riflessioni dall'avvicinarsi di Joël. Ella lo scorse mentre scendeva le prime pendici della montagna. Ora lo si vedeva sulle spianate aride, tra gli alberi abbattuti o bruciati sul posto, ora scompariva sotto il folto fogliame dei pini, delle betulle e dei faggi che abbondano su quelle alture. Finalmente egli giunse alla riva opposta e si gettò nella piccola chiatta. Con pochi colpi di remo superò i violenti risucchi di quel fiume; quindi, sceso sulla spiaggia, s'avvicinò alla sorella. — È arrivato Ole? — chiese. Per Ole fu il suo primo pensiero. Ma la sua domanda rimase senza risposta. — Non ha scritto? — No. E Hulda scoppiò in pianto. — No — esclamò Joël — non piangere, cara sorella, non piangere!… Mi fa troppo male!… Non posso vederti piangere!… Vediamo! Non ha scritto. Certo, la cosa comincia a preoccupare! Ma non è ancora il caso di disperarsi! Ecco, se vuoi, io vado a Bergen. M'informerò. Vedrò i Fratelli Help. Probabilmente avranno delle notizie da Terranova. Non può essere che il Viken si sia riparato in qualche porto a causa di qualche avaria o per non essere colto dal maltempo? Sappiamo che il tempo è burrascoso da più di una settimana. È accaduto qualche volta che delle navi provenienti da Terranova abbiano dovuto rifugiarsi in Islanda o alle Farhoer. È pure accaduto a Ole, due anni fa, quando era a bordo della nave Strenna. E non si trovano corrieri tutti i giorni per scrivere. Ti dico proprio quello che penso, sorellina mia. Calmati!… Se mi fai piangere, che cosa sarà di noi? — È più forte di me, fratello mio. — Hulda!… Hulda!… Non perderti di coraggio!… Ti assicuro che io non sono sfiduciato. — Posso crederti, Joël? — Devi credermi! Ma per rassicurarti vuoi che parta per Bergen domani mattina… questa sera? — No, non lasciarmi, non lasciarmi! — rispose Hulda, avvicinandosi a suo fratello come non avesse più che lui al mondo. Si avviarono insieme all'albergo. Ma s'era messo a piovere, anzi la tempesta aumentò talmente che dovettero riparare nella capanna del traghettatore, a poche centinaia di passi dal Maan. Là dovettero attendere che il temporale si fosse calmato. E allora Joël provò il bisogno di parlare, di dire una cosa qualsiasi. Il silenzio gli provocava una disperazione maggiore delle parole che avrebbe potuto pronunciare, fossero anche state di sconforto. — E nostra madre? — egli chiese. — Sempre più triste! — rispose Hulda. — Non è venuto nessuno in mia assenza? — Sì, un viaggiatore, che è ripartito. — Adesso, non c'è dunque nessun turista all'albergo e non è stata richiesta nessuna guida? — No, Joël. — Tanto meglio, giacché preferisco non lasciarti. E poi, se il cattivo tempo continua, temo che, per quest'anno, i turisti rinunceranno al nostro Telemark! — Siamo soltanto in aprile, Joël! — È vero, ma ho il presentimento che la stagione non sarà buona per noi! Insomma, vedremo! Ma dimmi, questo viaggiatore ha lasciato ieri Dal? — Sì, nella mattinata. — E chi era? — Proveniva da Drammen, sua città, mi sembra, e si chiamava Sandgoïst. — Sandgoïst? — Lo conosci? — No — rispose Joël. Hulda s'era già chiesta se doveva o meno raccontare a suo fratello quanto era accaduto all'albergo durante la sua assenza. Se Joël avesse saputo quale disinvoltura aveva dimostrato il forestiero, come sembrava aver calcolato il valore della casa e del mobilio; e inoltre se avesse saputo il contegno di mamma Hansen verso di lui, che cosa avrebbe mai pensato? Probabilmente avrebbe pensato che la madre doveva avere dei motivi molto gravi per agire così. E quali erano questi motivi? Cosa poteva esserci tra lei e Sandgoïst? C'era certamente un mistero che minacciava la famiglia! Joël avrebbe voluto conoscerlo, avrebbe interrogato sua madre, l'avrebbe tempestata di domande… Mamma Hansen, così poco comunicativa, così aliena da ogni effusione, avrebbe voluto mantenere il riserbo come aveva fatto fino a quel giorno. I rapporti fra lei e i figli, già difficili, potevano divenire ancora più penosi. Ma poteva la fanciulla tacere qualche cosa a Joël? Avere segreti per lui? Non sarebbe stato come offendere l'amicizia che li univa entrambi? Hulda decise quindi di parlare. — Non hai inteso parlare di questo Sandgoïst, quando andavi a Drammen? — riprese. — Mai. — Ebbene Joël, sappi allora che nostra madre deve già conoscerlo, almeno di nome. — Credi che conosca Sandgoïst? — Ne sono sicura. — Ma io non ho mai inteso da lei questo nome! — Essa lo conosceva tuttavia, sebbene non lo avesse mai visto. E Hulda narrò tutto ciò che era accaduto durante la visita del viaggiatore all'albergo, senza omettere lo strano comportamento della madre al momento della partenza del forestiero. Si affrettò a soggiungere: — Ritengo, caro Joël, che sia meglio non chiedere nulla a nostra madre. Tu la conosci, e sai che vorrebbe dire farla soffrire maggiormente. Sono certa che l'avvenire ci farà conoscere ciò che si nasconde nel suo passato. Che il cielo ci renda Ole, e, se sopraggiunge qualche disgrazia, saremo almeno in quattro a sopportarla. Joël aveva ascoltato la sorella con profonda attenzione. Evidentemente fra mamma Hansen e questo Sandgoïst c'erano tali rapporti che mettevano l'una in potere dell'altro! Era chiaro che quell'uomo era venuto a Dal per fare l'inventario dell'albergo! E il conto stracciato al momento della partenza - atto che egli stesso aveva ritenuto naturale - che significato poteva avere? — Hai ragione, Hulda — disse Joël, — non dirò nulla a nostra madre. Forse rimpiangerà da sola di non averci confidato le sue pene. Sempre che non sia troppo tardi! Chissà come soffre, povera donna! Ma è proprio testarda! Non comprende che dovrebbe riversare le sue pene nel nostro cuore. — Lo capirà un giorno, Joël. — Sì, aspettiamo! Ma in questo modo non potrò cercare di sapere chi è questo individuo. Forse il signor Helmboë lo conosce. Glielo domanderò la prima volta che andrò a Bamble, e, se è necessario, andrò fino a Drammen. Là potrò sapere, almeno, la professione di quest'uomo, o a quale genere di affari si dedica e l'opinione del paese sul suo conto. — Non credo che sarà favorevole — soggiunse Hulda. — Il suo aspetto è cattivo, lo sguardo sinistro. Mi sorprenderebbe molto se battesse un cuore generoso sotto quella ruvida corteccia! — Su via — riprese Joël — non giudichiamo le persone dall'apparenza! Scommetto che se tu fossi al braccio del tuo Ole, ti sembrerebbe meno brutto perfino questo Sandgoïst. — Mio povero Ole! — mormorò la giovanetta. — Ritornerà, ritornerà; è in viaggio! — esclamò Joël. — Abbi fiducia, Hulda! Ole non può essere molto lontano, e, al suo ritorno, dovrà sentirci per essersi fatto aspettare! La pioggia era cessata. Uscirono dalla capanna e risalirono il sentiero per avviarsi all'albergo. — A proposito — disse Joël — domani riparto. — Riparti? — Sì, al mattino. — Di già, Joël? — È necessario. Lasciando l'Hardanger, mi hanno avvisato che arrivava un viaggiatore dal nord degli altopiani del Rjukanfos dove dovrebbe giungere domani. — Sai chi sia? — In fede mia, non so nemmeno il suo nome. Ma devo trovarmi là per condurlo a Dal. — Va' dunque, giacché non puoi farne a meno! — rispose Hulda sospirando. — Domani, allo spuntar del giorno, mi metterò in viaggio. Ti dispiace, Hulda? — Molto, Joël! Io sono più inquieta quando mi lasci… anche per poche ore. — Ebbene, sappi che questa volta non parto solo. — E chi ti accompagna? — Tu, sorellina mia! Hai bisogno di distrarti ed io ti porto con me. — Ah! grazie, mio caro Joël! CAPITOLO VIII L'INDOMANI lasciarono l'albergo all'alba. Una quindicina di chilometri separavano Dal dalle famose cascate; questi più gli altri quindici necessari per tornare indietro erano solo una passeggiata per Joël, ma Hulda si sarebbe stancata. Joël s'era dunque procurata la carrettella del vice direttore Lengling, e, come tutte le carrettelle, essa aveva appena un posto. Però quell'uomo era così grasso che s'era dovuto fabbricare una cassa apposita. Così, Hulda e Joël potevano starvi comodamente. Se poi avessero trovato al Rjukanfos il viaggiatore, egli poteva prendere il posto di Joël, che sarebbe tornato a piedi o sarebbe salito sull'assicella dietro la cassa. Cera una strada pittoresca da Dal alle cascate, anche se molto pericolosa! Senza dubbio, si può chiamare più sentiero che strada. Delle travi appena squadrate, gettate sui torrentelli affluenti del Maan, la attraversano, formando dei piccoli ponti a poche centinaia di passi gli uni dagli altri. Ma il cavallo norvegese è abituato a schivare i pericoli, e, se la carrettella manca di molle, le lunghe stanghe, un po' elastiche, attenuano in certa misura gli urti del suolo. Il tempo era bello, Joël e Hulda andavano di buon passo lungo le praterie, bagnate sulla sinistra dalle chiare acque del Maan. Migliaia di betulle spandevano ombra sul sentiero allegramente soleggiato. La nebbia notturna si scioglieva in goccioline sull'erba. A destra del torrente, a duemila metri d'altezza, le distese di neve del Gusta spandevano nello spazio un intenso fascio di luce. In un'ora fecero molto cammino. La salita non era divenuta ancora molto ripida. Ma a poco a poco la valle cominciò a restringersi, e i torrentelli divennero impetuosi torrenti. Quantunque la strada diventasse sinuosa non poteva evitare tutti i dislivelli del terreno. A causa di questo, c'erano dei passaggi difficili, ma Joël era molto abile nel cavarsela. Hulda, del resto, vicino a lui non temeva nulla. Quando la scossa era un po' forte, si stringeva al suo braccio. La fresca aria mattutina coloriva il suo bel volto, da alcune settimane impallidito. Intanto fu necessario salire ancora più in alto. La valle permetteva appena il passaggio al Maan, fra due muraglie tagliate a picco. Sulle cime vicine si potevano scorgere una ventina di case isolate, delle rovine di sceter e di gaard rimaste abbandonate, delle capanne da pastore, perdute fra le betulle e i faggi. Più in là, il torrente scompariva, ma si poteva ancora udire il suo muggito nel profondo incavo delle rocce. Il paesaggio aveva preso un aspetto attraente e selvaggio al tempo stesso, allargando il suo panorama fino alle cime più alte delle montagne. Dopo due ore di viaggio, incontrarono una segheria sull'orlo di una cascata di millecinquecento piedi utilizzata per mettere in moto le sue due ruote. Cascate di quest'altezza non sono rare nel Vestfjorddal; ma hanno poca acqua. Per massa d'acque è senza confronto superiore la cascata del Rjukanfos. Joël e Hulda, giunti alla segheria, scesero di carrozza. — Mezz'ora di cammino non ti affaticherà troppo, sorellina? — disse Joël. — No, fratello mio, non sono stanca; anzi mi farà bene camminare un po'. — Un po'… molto, e sempre in salita. — Mi appoggerò al tuo braccio, Joël! Qui, infatti, era stato necessario lasciare la carrettella. Essa non avrebbe potuto proseguire su quegli ardui sentieri, tra quei passaggi angusti, per i declivi sparsi di rocce in bilico i cui contorni irregolari, nudi o ombreggiati da alberi, annunciavano la grande cascata. Ma già saliva una fitta nebbia in mezzo all'azzurro lontano del cielo. Era il vapore acqueo del Rjukan, le cui ondate si dissolvevano a una grande altezza. Hulda e Joël presero una scorciatoia, ben nota alle guide, che scende verso il restringimento della valle. Bisognò scivolare fra gli alberi e gli arbusti. Pochi minuti dopo entrambi erano seduti sopra una roccia coperta di muschio giallastro, di fronte alla cascata. Da quella parte non si può andare più in là. Là fratello e sorella non avrebbero facilmente potuto intendersi, se anche avessero parlato; ma in quel momento i loro pensieri riuscivano a comunicare attraverso il cuore, senza che fosse necessario formularli a parole. Il volume della cascata del Rjukan è enorme, l'altezza considerevole, il mugghio si può distintamente sentire. Il letto del Maan compie un salto di novecento piedi, a mezza via tra il lago Mjös a monte e il lago Tinn a valle. Novecento piedi, come a dire sei volte l'altezza del Niagara, che ha, in verità, una larghezza di tre miglia dalla riva americana alla riva canadese. Qui il Rjukanfos ha degli aspetti singolari, difficili a riprodursi esattamente con una semplice descrizione. Neppure la pittura riuscirebbe a darne un'idea. Vi sono delle meraviglie naturali che bisogna vedere per comprenderne tutta la bellezza: e, tra le altre, questa cascata, la più famosa di tutta l'Europa. E di questo appunto si occupava in quel momento un turista, seduto sul declivio a sinistra del Maan. Da quel posto, poteva osservare il Rjukanfos da più vicino e da più in alto. Né Joël, né la sorella si erano ancora accorti del viaggiatore, benché questi fosse visibile. Non la distanza, ma un effetto d'ottica, frequente in montagna, lo rendeva piccolissimo, come se si trovasse ad una distanza molto maggiore. In quel momento, il viaggiatore s'era alzato e si avventurava con molta imprudenza sulla punta rocciosa che s'arrotondava come una cupola verso il letto del Maan. Evidentemente, quel curioso voleva vedere le due cavità del Rjukanfos, l'una a sinistra, dentro la quale l'acqua ribolle, e l'altra a destra, sempre colma di fitti vapori. Forse egli cercava di scoprire se esistesse una terza cavità inferiore a mezza altezza della cascata. Se ci fosse, varrebbe a spiegare come il Rjukan, dopo essersi inabissato, rimbalzi slanciando fuori a intervalli il sovrappiù delle sue acque in tumulto. Par quasi che le acque vengano sollevate dallo scoppio di qualche mina che ricopra con i suoi frammenti le cime delle montagne circostanti. Intanto il turista continuava a camminare sopra quel dosso sdrucciolevole, senza radici, senza un ciuffo verde, senz'erba, detto il Passo di Maria o Maristien. Ignorava, dunque, l'imprudente, la leggenda che ha reso così celebre questo passo. Un giorno, Eystein volle raggiungere, per quel pericoloso cammino, la bella Maria di Vestfjorddal. Dall'altra parte la fidanzata gli tendeva le braccia. Ad un tratto gli mancò il piede, cadde, scivolò, né poté fermarsi su quelle rocce lisce come il vetro, scomparve nell'abisso, e i gorghi del Maan non restituirono mai il suo cadavere. Ciò che era accaduto allo sventurato Eystein sarebbe dunque accaduto anche a quel temerario, là, in pericolo sui pendii del Rjukanfos? Era probabile. E, infatti, egli s'accorse del pericolo, ma troppo tardi. Ad un tratto, gli mancò il punto di appoggio, gettò un grido, scivolò per una ventina di passi, ed ebbe appena il tempo di aggrapparsi alla sporgenza di una roccia, quasi sull'orlo dell'abisso. Joël e Hulda non l'avevano ancora scorto, ma sentirono il suo grido. — Cosa c'è? — disse Joël alzandosi. — Un grido! — rispose Hulda. — Sì!… Un grido di disperazione. — Da quale parte? — Ascoltiamo. Guardarono a destra, a sinistra della cascata: non riuscirono a vedere nulla. Avevano però inteso il grido: «Aiuto!… Aiuto!» durante una di quelle calme regolari, che durano circa un minuto fra uno sbalzo e l'altro del Rjukan. L'invocazione si ripeté. — Joël — disse Hulda, — c'è qualche viaggiatore in pericolo, che chiede soccorso… Bisogna raggiungerlo… — Sì, sorella, e non può essere lontano! Ma da quale parte?… Dove si trova?… Non vedo nulla. Hulda aveva risalito il declivio, dietro la roccia sulla quale era seduta, attaccandosi ai cespugli che coprono la riva sinistra del Maan. — Joël! — gridò. — Lo vedi?… — Là… là! E Hulda indicava l'imprudente, sospeso quasi al disopra dell'abisso. Se il piede, puntato contro la sottile sporgenza, gli mancava, se scivolava un po' più giù, se lo coglieva la vertigine, era perduto. — Bisogna salvarlo! — disse Hulda. — Sì, bisogna! — rispose Joël. — Con sangue freddo giungeremo sino a lui — soggiunse Joël. E gettò un lungo grido. Fu inteso dal viaggiatore, che volse il capo da quella parte. Poi, per alcuni momenti Joël cercò di studiare quale fosse il mezzo più pronto e meno pericoloso per salvare quel pover'uomo. — Hulda — egli disse — non hai paura? — No, davvero. — Conosci bene il Maristien? — Vi sono passata parecchie volte. — Ebbene, cerca di avvicinarti più che è possibile al viaggiatore salendo la costa; poi lasciati scivolare pian piano verso di lui, e prendilo per mano in modo da tenerlo ben fermo. Ma che non cerchi di alzarsi: lo coglierebbe la vertigine; ti trascinerebbe con lui e sareste entrambi perduti! — E tu Joël? — Mentre tu andrai dall'alto, io mi arrampicherò dal basso lungo il ciglione, dal lato del Maan. Mi troverò là quando tu sarai giunta, e se scivolerete, cercherò di trattenervi tutti e due. Poi, con voce forte, approfittando di una nuova calma del Rjukanfos, Joël gridò: — Non muovetevi, signore!… Aspettate!… Cercheremo di aiutarvi. — Hulda era già scomparsa dietro gli alti cespugli del pendio, per discendere dall'altra parte del Maristien. Joël vide quasi subito la coraggiosa fanciulla ricomparire alla svolta degli ultimi arbusti. Egli poi, mettendo in pericolo la propria vita, s'arrampicò lentamente lungo la parte in pendenza di quella specie di dorso d'asino che fiancheggia il Rjukanfos. Che calma sorprendente, che sicurezza di piede e di mano ci voleva per costeggiare quell'abisso, le cui pareti erano bagnate dall'umido polverio della cascata! Parallelamente, ma ad un centinaio di piedi più su, Hulda avanzava in direzione diagonale, in modo da raggiungere più facilmente il posto in cui il viaggiatore stava immobile. Non si poteva ancora vedere il suo viso che egli teneva rivolto verso la cascata. Joël, giunto sotto di lui, si fermò, e puntò saldamente il piede in una fessura della roccia. — Eh! signore! — egli gridò. Il viaggiatore volse il capo. — Signore! — riprese Joël. — Non fate il più piccolo movimento, e tenetevi molto forte. — State tranquillo, mi tengo solidamente, amico — egli rispose con un tono che bastò a rassicurare Joël. — Se non mi tenessi bene, già da un quarto d'ora sarei al fondo del Rjukanfos! — Mia sorella vi raggiungerà da un momento all'altro — riprese Joël. — Vi prenderà per mano. Ma per alzarvi aspettate che ci sia io!… Non muovetevi… — Sto fermo come una rupe! — rispose il viaggiatore. Già Hulda cominciava a discendere da quella parte, cercando i punti meno sdrucciolevoli del pendio, fissando il piede nelle screpolature che offrivano un solido appoggio, sicura di sé come lo sono quelle fanciulle del Telemark, abituate a scalare i declivi ardui della montagna. Ed anche lei, come Joël, gridò al viaggiatore: — State fermo, signore! — Sì, sto fermo… e mi terrò fermo, ve l'assicuro, fin che mi sarà possibile! Come si vede, non gli mancavano le raccomandazioni. Gliene venivano dall'alto e dal basso. — E soprattutto, non abbiate timore! — soggiunse Hulda. — Non ho timore. — Vi salveremo! — gridò Joël. — Col vostro aiuto, per sant'Olaf, lo spero anch'io; da solo mi sarebbe impossibile! Il viaggiatore non s'era per nulla perduto d'animo. Ma, evidentemente, dopo la caduta, braccia e gambe non gli rispondevano più, ed egli poteva appena tenersi attaccato alla breve sporgenza che lo separava dall'abisso. Intanto Hulda continuava a discendere. Pochi momenti dopo si trovava vicino al viaggiatore. Allora, appoggiato il piede ad un'asperità della roccia, gli tese la mano. Il viaggiatore tentò di rialzarsi un poco. — Non muovetevi, signore!… Non muovetevi… — disse Hulda. — Mi trascinereste con voi, ed io non avrei sufficiente forza per trattenervi. Bisogna attendere l'aiuto di mio fratello! Quando si troverà fra noi e il Rjukanfos, voi tenterete di rialzarvi… — Rialzarmi, mia brava figliola! È più facile dirlo che farlo, e temo davvero che non ci riuscirò. — Siete forse ferito, signore? — Uhm! Niente di rotto, nessuna lussazione, spero, ma almeno una bella e buona scalfittura alla gamba! In quel momento, Joël si trovava ad una ventina di passi più giù da Hulda e dal viaggiatore. Non aveva potuto raggiungerli direttamente, giacché la sporgenza della rupe glielo aveva impedito. Bisognava dunque risalire questa superficie rotonda. Era la cosa più difficile e più pericolosa, e Joël metteva a repentaglio la propria vita. — Non muovetevi, Hulda! — egli gridò un'ultima volta. — Se scivolate insieme, poiché non mi trovo in buona posizione per trattenervi, saremmo perduti. — Non temere, Joël — rispose Hulda. — Pensa a te e che Dio ti aiuti. Joël cominciò a sollevarsi sul ventre, trascinandosi con veri movimenti da rettile. Due o tre volte, sentì venir meno il punto di appoggio. Ma adoperando tutta la sua destrezza, poté risalire fino al viaggiatore. Era questi un uomo avanti negli anni, ma di vigorosa corporatura; aveva un bel volto, amabile e sorridente. Joël si aspettava invece di trovarsi di fronte ad un giovane temerario, che avesse tentato di attraversare il Maristien. — Avete commesso una grande imprudenza, signore! — egli disse adagiandosi per riprendere fiato. — Imprudenza? — soggiunse il viaggiatore, — dite pure bestialità. — Avete rischiato la vita… — E vi ho fatto rischiare la vostra! — Oh! per me… è un po' il mio mestiere! — rispose Joël. E rialzandosi: — Adesso si tratta di risalire la rupe; ma il più difficile è fatto. — Oh! il più difficile! — Sì, il pericolo maggiore stava nel raggiungervi. Adesso dobbiamo risalire un declivio meno ripido. — Figliolo, sarà bene che non facciate molto conto su di me. Ho una gamba che per il momento è fuori uso e lo sarà forse ancora per qualche giorno. — Tentate di alzarvi! — Volentieri… col vostro aiuto. — Prenderete il braccio di mia sorella. Io, vi sosterrò e vi spingerò innanzi. — Con forza? — Con forza. — Ebbene, amici, mi affido completamente a voi. Poiché avete voluto aiutarmi, fate voi. Si fece quello che Joël aveva detto, molto prudentemente. C'era ancora pericolo a risalire la rupe, ma tutti e tre seppero uscirne meglio e più in fretta di quanto sperassero. D'altronde, il viaggiatore non si era né contuso né slogato; soffriva solo per una grave scorticatura. Poté quindi usare le gambe più di quanto si credesse, sebbene sentisse molto dolore. Dieci minuti dopo egli era al sicuro, al di là del Maristien. Qui egli avrebbe potuto riposare, sotto i primi abeti che ombreggiano il ciglione superiore del Rjukanfos. Ma Joël lo pregò di fare ancora uno sforzo. Si trattava di arrivare ad una capanna nascosta fra gli alberi, a breve distanza dalla roccia su cui lui e sua sorella si erano fermati quando erano giunti alla cascata. Il viaggiatore tentò di fare lo sforzo richiesto, e appoggiandosi a Hulda e a Joël, poté giungere, senza sentire eccessivo dolore, davanti alla capanna. — Entriamo, signore — disse la fanciulla; — vi riposerete un istante. — L'istante potrebbe durare un quarto d'ora? — Sì, signore, e dopo vi converrà venire con noi a Dal. — A Dal?… Ma è precisamente a Dal che io andavo! — Sareste dunque voi il viaggiatore, che viene dal nord — chiese Joël — e che mi venne annunziato a Hardanger? — Precisamente. — Credetemi, non avevate certamente preso la strada migliore… — Pare anche a me! — Se avessi potuto prevedere ciò che è accaduto, sarei andato ad attendervi dall'altra parte del Rjukanfos! — Sarebbe stata una buona idea, mio bravo figliolo! M'avreste risparmiato un'imprudenza imperdonabile alla mia età… — A qualsiasi età! — osservò Hulda. Entrarono nella capanna, ove viveva una famigliola di contadini: padre, madre e due fanciulle, che si alzarono e fecero un'ottima accoglienza ai nuovi arrivati. Il viaggiatore, come poté constatare Joël, aveva riportato soltanto una scorticatura alla gamba, abbastanza grave, un po' al di sotto del ginocchio. Occorreva una buona settimana di riposo, ma la gamba non era né rotta né contusa; l'osso non era stato sfiorato, e questo era l'essenziale. Latticini eccellenti, fragole in abbondanza, pane nero furono offerti e accettati. Hulda mangiò pochissimo. Joël aveva invece un appetito formidabile, ma il viaggiatore riusciva a tenergli testa. — Per dire il vero — egli disse — questo esercizio mi ha messo appetito, ma confesso volentieri che prendere per il Maristien non era la cosa più prudente! Voler sostenere la parte dello sfortunato Eystein quando si può essere suo padre… ed anche suo nonno! — Ah! conoscete anche voi la leggenda? — disse Hulda. — Se la conosco! La mia balia soleva addormentarmi narrandomela, negli anni beati in cui mi fu concesso di avere una nutrice! Sì, la conosco, mia coraggiosa figliola, e per questo sono anche più colpevole! Adesso, amici miei, è un affar serio, per me, così invalido, andare sino a Dal! Come farete a condurmi? — Non datevi pensiero — rispose Joël. — La nostra carrettella ci aspetta in fondo al sentiero: ci saranno però trecento passi da fare… — Uhm! Trecento passi! — In discesa — aggiunse la fanciulla. — Oh! se è in discesa andrà tutto bene, amici, e mi basterà che mi diate un braccio. — E perché non due? Ne abbiamo quattro tutti per voi. — Vada per due, vada per quattro! Non mi costerà di più, non vi pare? — Non vi costerà niente. — Sì! almeno un ringraziamento per braccio; e mi accorgo che non vi ho ancora ringraziato. — Di che, signore? — rispose Joël. — Di questo, che col rischio della vostra vita avete salvata la mia. — Siete pronto? — domandò Hulda, alzandosi per porre fine ai complimenti. — Ma certamente!… Sono ai vostri ordini! Il viaggiatore pagò il disturbo all'ospitale famiglia; quindi sostenuto un po' da Hulda ma soprattutto da Joël, cominciò a discendere il sentiero sinuoso che conduce verso la riva del Maan, dove esso raggiunge la strada di Dal. Non mancarono tratto tratto degli «ahi! ahi!» che provocavano franche e sonore risate. Finalmente, raggiunsero la segheria, e Joël si occupò di attaccare la carrettella. Cinque minuti dopo, il viaggiatore si era sistemato nella cassa con la fanciulla vicino. — E voi? — domandò a Joël. — Mi sembra di aver preso il vostro posto… — Ve lo cedo molto volentieri. — Ma forse restringendosi… — No!… No!… Ho delle buone gambe, signore, delle gambe da guida, e sono come ruote. — Gambe formidabili, ragazzo mio, proprio formidabili. Rifecero la strada che pian piano si avvicinava al Maan. Joël si era messo alla testa del cavallo e lo teneva per la briglia, in modo da evitare le scosse troppo forti. Il ritorno si fece allegramente - almeno da parte del viaggiatore. Egli chiacchierava già come un vecchio amico della famiglia Hansen. Prima di giungere, i suoi salvatori già lo chiamavano «signor Sylvius» e il signor Sylvius li chiamava ormai Hulda e Joël, come se si conoscessero da antica data. Verso le quattro, si cominciò a vedere la punta sottile del campanile di Dal, tra gli alberi. Un istante dopo il cavallo si fermò davanti all'albergo. Faticosamente, il viaggiatore discese dalla carrettella. Mamma Hansen si trovava sulla porta per riceverlo, e, quantunque non avesse chiesto la miglior camera, questa gli fu ugualmente assegnata. CAPITOLO IX SYLVIUS HOG - ecco il nome che fu scritto, quella sera, sul libro dei viaggiatori, e precisamente sotto quello di Sandgoïst. Vivo contrasto, bisogna riconoscerlo, tra i due nomi come tra i due individui che li portavano. Tra di essi non c'era alcuna somiglianza né fisica né morale. L'uno tutto cuore, l'altro tutto calcolo. Sylvius Hog aveva già sessant'anni, ma non li mostrava. Alto, diritto, ben formato, fisicamente e moralmente sano, piaceva a prima vista per il suo viso bello e amabile, senza barba, ben incorniciato dai capelli grigi e un po' lunghi, col sorriso negli occhi e sulle labbra, la fronte spaziosa che aveva posto sufficiente per i più nobili pensieri, il petto possente in cui batteva liberamente un cuore generoso. A queste doti affiancava un inesauribile buon umore, un'intelligenza fine e delicata, un carattere capace di slanci e di sacrifici. Sylvius Hog, di Christiania: il nome dice tutto. E non solo era conosciuto, amato, apprezzato e onorato nella capitale, ma in tutta la Norvegia. Nella Svezia, invece, si aveva di lui un'opinione alquanto diversa. Ciò necessita di una spiegazione. Sylvius Hog era professore di diritto a Christiania. In altri Stati, gli avvocati, gli ingegneri, i medici e i negozianti occupano i massimi gradini della scala sociale; in Norvegia, invece, il più alto posto è occupato dai professori. In Svezia vi sono quattro classi: nobiltà, clero, borghesia e contadini; in Norvegia ce ne sono tre: manca la nobiltà. Non c'è alcun rappresentante dell'aristocrazia; non c'è nemmeno l'aristocrazia burocratica. In questo paese privilegiato non esistono privilegi, e i funzionari sono i servitori umilissimi del pubblico. Insomma eguaglianza sociale perfetta, nessuna distinzione politica. Non ci sorprenderemo di sapere che Sylvius Hog, essendo uno degli uomini ragguardevoli del paese, era membro dello Storting. 2 In quella grande assemblea, e per il suo ingegno e per la probità della sua vita pubblica e privata, esercitava una grande influenza anche sui contadini-deputati eletti in gran numero dalle campagne. Dalla Costituzione del 1814 in poi, si può ben dire: la Norvegia è una repubblica che ha come presidente il re di Svezia. E naturalmente la Norvegia, assai gelosa delle proprie prerogative, ha saputo conservare la propria autonomia. Lo Storting non è per nulla soggetto al Parlamento svedese. Ed ecco perché uno dei suoi rappresentanti più influenti e più devoti al paese non è visto di buon occhio al di là di quella frontiera convenzionale che divide la Svezia dalla Norvegia. Questo era Sylvius Hog. Carattere indipendente e disinteressato, non avendo nessuna ambizione, aveva più volte rifiutato di entrare al ministero. Difensore dei diritti della Norvegia, s'era costantemente e inflessibilmente opposto a tutti i soprusi della Svezia. Tale è la separazione morale e politica dei due paesi, che il re di Svezia - allora Oscar XV - dopo essersi fatto 2 La costituzione del 1814, secondo la quale la Norvegia veniva unita alla Svezia, sanciva l'autonomia di un Parlamento norvegese chiamato Storting. (N.d.T.) incoronare a Stoccolma, dovette assumere la corona anche a Drontheim, l'antica capitale della Norvegia. Tale è anche il riserbo un tantino diffidente dei norvegesi per quanto riguarda gli affari, che la Banca di Christiania non riceve volentieri i biglietti della Banca di Stoccolma. Tale è infine la divisione tra i due popoli che la bandiera svedese non sventola sugli edifici e sulle navi norvegesi. La bandiera della Norvegia ha una croce gialla su fondo azzurro e quella della Svezia una croce azzurra su fondo rosso. Il professore Sylvius Hog era di spirito e di cuore norvegese, e in ogni circostanza patrocinava gli interessi del suo amato paese. Nel 1854, quando lo Storting propose di abolire la carica di viceré e anche l'ufficio di governatore, Sylvius Hog fu tra i più caldi sostenitori di questa proposta, e contribuì a farla adottare. Ecco perché, se nella parte orientale della penisola scandinava egli non era molto amato, lo era invece moltissimo nella parte occidentale, ed era popolare persino nei cantoni più remoti del Regno. La sua fama era diffusa per i monti della Norvegia dai paraggi di Christiania fino alle estreme rupi settentrionali. Egli meritava la popolarità di cui godeva, e nessuna calunnia aveva potuto colpire in lui il professore e l'uomo politico. Era, del resto, un vero norvegese, ma dal sangue caldo: non aveva nulla della flemma tradizionale dei suoi compaesani, ed era più risoluto nel pensiero e nell'azione di quello che comporta, di solito, l'indole scandinava. Ciò si capiva subito dalla prontezza dei suoi movimenti, dall'ardore della sua parola, dalla vivacità dei suoi atti. Nato in Francia lo avrebbero detto «un uomo del Mezzogiorno» se avesse voluto accettare quel paragone che poteva veramente adattarglisi. Benché Sylvius Hog non avesse mai lucrato sugli affari pubblici, la sua posizione era relativamente agiata. Cuore generoso, non si curava mai di se stesso, ma sempre degli altri. Disprezzava anche gli onori, gli bastava essere deputato, non chiedeva niente di più. In quel momento, Sylvius Hog, approfittando di tre mesi di congedo, voleva riprendersi dalle fatiche dopo aver dato, per un anno, tutto se stesso nel lavoro legislativo. Da sei settimane aveva lasciato Christiania, con l'intenzione di visitare tutta la regione che si estende fino a Drontheim, l’Hardanger, il Telemark, i distretti di Kongsberg e di Drammen. Voleva conoscere un po' meglio queste province; un viaggio di diletto e d'istruzione insieme. Sylvius Hog aveva percorso una parte di questa regione, e venendo dal nord aveva voluto vedere la celebre cascata, una delle meraviglie del Telemark. Dopo aver esaminato, sui luoghi, il progetto, allora allo studio, della ferrovia da Drontheim a Christiania, aveva domandato una guida per scendere a Dal e contava incontrarla sulla riva sinistra del Maan. Ma, senza attenderla, attirato da quei meravigliosi siti del Maristien, egli si era avventurato sul pericoloso passo. Terribile imprudenza che stava per pagare con la vita! E, bisogna ammetterlo, senza l'aiuto provvidenziale di Joël e di Hulda Hansen, il viaggio avrebbe avuto termine, insieme col viaggiatore, nel baratro del Rjukanfos. CAPITOLO X L'ISTRUZIONE è molto diffusa nella penisola scandinava, non solo nelle città, ma anche nelle campagne; e non si limita al saper leggere, scrivere e far di conto; si estende più in là. Il contadino impara con piacere. La sua mente è aperta, ed egli s'interessa alla cosa pubblica. Prende una larga parte agli affari politici e comunali; nello Storting la rappresentanza rurale è sempre in maggioranza, i deputati del contado talora conservano il costume del loro paese: sono presi ad esempio, ed è giusto che sia così, per la loro capacità di ragionamento, per il loro senso pratico, per l'intuizione sicura - anche se un po' lenta - e specialmente per la loro onestà. È quindi naturale che il nome di Sylvius Hog fosse conosciuto in tutta la Norvegia e pronunciato con rispetto fino nel selvaggio Telemark. Quindi mamma Hansen, ricevendo un ospite così generalmente stimato, si credette in dovere di manifestargli il piacere che provava nell'albergarlo per alcuni giorni sotto il suo tetto. — Non so se questo vi faccia onore, madama Hansen — rispose Sylvius Hog — ma certo a me fa piacere. Oh! era un pezzo che sentivo parlare i miei allievi di questo ospitale albergo di Dal! E contavo di venirvi a passare una settimana per riposarmi. Ma, che sant'Olaf m'aiuti, non avrei mai creduto di giungervi sopra una sola gamba. E quel brav'uomo strinse cordialmente la mano alla sua ostessa. — Signor Sylvius — disse Hulda, — volete che mio fratello vada a cercare un medico a Bamble? — Un medico, mia piccola Hulda! Volete, dunque, che io perda l'uso di tutte e due le gambe! — Oh! signor Sylvius! — Un medico! E perché non potremmo chiamare il mio buon amico il dottor Boek di Christiania? E tutto ciò per una feritina… — Ma una ferita, se è mal curata — osservò Joël — può diventare grave. — Ah! Joël, perché volete che divenga grave? — Ma io non lo voglio affatto, signor Sylvius, Dio me ne guardi! — Tutto andrà bene, e Dio aiuterà me e voi, specie la buona Hulda se vorrà concedermi le sue cure… — Ben volentieri, signor Sylvius! — Prima della fine della settimana — rispose Joël — spero che sarete pienamente ristabilito, signor Sylvius. — Lo spero anch'io. — E allora vi potrò condurre in qualunque parte del cantone preferirete. — Parleremo di questo, Joël! Ne riparleremo quando io mi sarò rimesso. Ho ancora un mese di congedo disponibile, e quand'anche lo dovessi passare per intero qui, non sarei davvero da compiangere! Dovrò pur vedere la vallata del Vestfjorddal fra i due laghi, dovrò fare la salita del Gusta, ritornare al Rjukanfos, perché non l'ho ancora visto, sebbene mi sia capitato quest'incidente… e ci tengo a vederlo! — Ci ritornerete, signor Sylvius — rispose Hulda. — E vi ritorneremo insieme con la vostra buona madre, se vuole accompagnarci. Ah! adesso che mi ricordo, sarà bene che io avverta, almeno con una riga, Kate, la mia vecchia governante, e Fink, il mio vecchio domestico di Christiania! Sarebbero assai inquieti se non ricevessero mie notizie, e, al ritorno, non mi mancherebbero i rimproveri!… E ora, voglio anche farvi una confessione! Le fragole, i latticini, nulla di più gustoso e rinfrescante, ma non basta, giacché non voglio sentir parlare di dieta!… Non è ancora ora di pranzo per voi? — Oh! poco importa, signor Sylvius!… — Importa moltissimo, invece! Credete voi, che durante il mio soggiorno a Dal, io voglia annoiarmi pranzando solo? No, desidero mangiare con voi e con vostra madre, se ella non ha niente in contrario! Mamma Hansen, per dire il vero, preferiva non accostarsi troppo ai viaggiatori, ma fece eccezione questa volta, e si dichiarò felicissima di avere alla propria tavola un deputato dello Storting. — D'accordo, allora — riprese Sylvius Hog — mangeremo insieme nel . salotto. — Sì, signor Sylvius — rispose Joël; — basterà che io vi spinga sulla vostra poltrona quando il pranzo sarà pronto. — Di bene in meglio, signor Joël, perché non addirittura in carrettella! No, no! Mi basterà avere l'appoggio di un braccio, e potrò camminare. Non sono amputato, sino a prova contraria! — Come vorrete, signor Sylvius! — rispose Hulda. — Ma non fate imprudenze, vi prego… o Joël andrà subito a chiamare il medico. — Minacce! Ebbene, sì, sarò prudente e docile! E purché non mi si metta a dieta, sarò il più obbediente dei malati! Ma non avete fame, amici? — Vi chiediamo solo un quarto d'ora per servirvi una minestra al ribes, una trota del Maan, una grouse che Joël ha portato ieri dall'Hardanger e una buona bottiglia di vino francese. — Grazie, mia brava figliola, grazie! Hulda uscì per sorvegliare il pranzo e preparare la tavola, mentre Joël andava a restituire la carrettella al vice direttore Lengling. Sylvius Hog rimase solo. Il suo pensiero non sapeva distaccarsi da questa buona famiglia, di cui ora era l'ospite e il debitore al tempo stesso. In che modo avrebbe potuto ricompensare i servigi e le cure di Hulda e di Joël? Ma non ebbe tempo di abbandonarsi a lunghe riflessioni, giacché, due minuti dopo, stava seduto a tavola, al posto d'onore. Il pranzo fu eccellente, tale da giustificare la rinomanza dell'albergo; e il professore mangiò con grande appetito. La serata passò in piacevoli discorsi, ai quali Sylvius Hog prese parte con grandissimo piacere. Per supplire al silenzio di mamma Hansen, egli fece parlare il fratello e la sorella. Più che mai si sentì preso da simpatia per loro; e fu commosso dalla tenera amicizia che li legava l'uno all'altra. Scesa la notte, fu ricondotto nella sua camera da Joël e da Hulda; ricevette e ricambiò un cordiale saluto, e appena a letto, si addormentò profondamente. Si svegliò all'alba, e tornò a riflettere prima che fosse bussato alla sua porta. «Davvero, non so come potrò uscirne! Non si può farsi salvare la vita e farsi amorevolmente assistere, per poi cavarsela con un semplice "grazie"! Io sono debitore a Hulda e Joël, questo è indubbio; ma questo genere di servigi non si possono ricompensare con denaro. Ohibò!… D'altra parte questa famiglia mi pare tanto felice, e che cosa potrò io aggiungere alla loro felicità! Li farò parlare ancora, e forse discorrendo…» Infatti i discorsi furono ripresi, nei tre o quattro giorni durante i quali il professore dovette tenere la gamba distesa sullo sgabello; ma Hulda e Joël si mantennero un po' riservati. Né l'una né l'altro ebbero il coraggio di aprire interamente il loro animo riguardo alla madre, di cui Sylvius Hog aveva notato il contegno freddo e preoccupato. Poi per un certo sentimento di istintiva riservatezza, non avevano nemmeno osato parlare di Ole Kamp e dell'inquietudine che provavano per il suo ritardo. Forse temevano di turbare il buon umore dell'ospite comunicandogli le loro pene! — Forse — faceva osservare Joël a sua sorella — facciamo male a non confidarci col signor Sylvius! È un uomo di buon senso, e potrebbe facilmente con le sue relazioni attingere notizie al ministero della Marina a proposito del ritardo del Viken. — Hai ragione, Joël — rispondeva Hulda. — Penso che sarebbe meglio dirgli tutto; ma aspettiamo che sia guarito. — Sì, lo sarà presto — riprendeva Joël. Al termine della settimana, Sylvius Hog non aveva più bisogno di aiuto per lasciare la propria camera, benché zoppicasse ancora un poco. Cominciò allora ad andarsi a sedere su una delle panche davanti alla casa all'ombra degli alberi. Da lì poteva vedere la cima del Gusta, che scintillava ai raggi del sole, mentre il Maan spingeva innanzi dei tronchi d'albero abbandonati alla corrente. Capitavano pure dei passeggeri, sulla strada che va da Dal al Rjukanfos. Spesso erano turisti che si fermavano un'ora o due all'albergo di mamma Hansen; ed anche degli studenti di Christiania, con sacco in spalla e coccarda al berretto. E, quando scorgevano il professore, erano continui «buongiorno», saluti cordiali, che stavano ad indicare quanto Sylvius Hog era amato da tutta quella gioventù. — Voi qui, signor Sylvius? — Io, in persona, amici miei! — E vi si credeva in fondo all'Hardanger! — Dovrei essere, invece, in fondo al Rjukanfos! — Ebbene, noi diremo a tutti che siete a Dal! — Sì, a Dal, con una gamba fasciata. — Per fortuna avete trovato buon letto e ottime cure nell'albergo di mamma Hansen. — Dove trovarsi meglio? — Non c'è un albergo come questo in nessun luogo! — Non si trovano in nessun luogo persone tanto cortesi. — È vero, è vero! — esclamavano in coro i viaggiatori. E tutti bevevano alla salute di Hulda e di Joël, conosciutissimi in tutto il Telemark. Allora il professore narrava i pericoli che aveva corso, confessava la propria imprudenza, raccontava come era stato salvato. E diceva inoltre quanto si sentiva riconoscente verso i suoi salvatori. — Se rimango qui fin che potrò soddisfare il mio debito — aggiungeva — le mie lezioni rimarranno sospese per un pezzo, e voi potrete, nel frattempo, godervi una bella vacanza. — Bravo, signor professore — riprese l'allegra combriccola; — è la graziosa Hulda che vi trattiene a Dal! — Una cara fanciulla, amici miei, ed anche incantevole, ma io ho ormai sessant'anni, per sant'Olaf! — Alla salute del nostro professore! — E alla vostra, giovanotti! Correte in paese, istruitevi, divertitevi! Alla vostra età tutto è bello! Ma diffidate del Maristien! Joël e Hulda non si troverebbero là per salvare i temerari. Poi, tutti si congedavano e si spargevano per la valle facendo risuonare l'aria di allegri «God aften». Però, una volta o due, Joël dovette assentarsi per servire da guida a dei turisti che volevano fare l'ascensione del Gusta. Sylvius Hog avrebbe voluto accompagnarlo; pretendeva di essere guarito. Infatti la ferita cominciava a cicatrizzarsi. Ma Hulda gli vietò in modo assoluto di affrontare una fatica ancora superiore alle sue forze, e, quando Hulda ordinava, bisognava obbedire. È davvero una singolare montagna il Gusta: il suo cono centrale, fiancheggiato da abissi colmi di neve, emerge da una foresta di abeti che s'allarga alla base. E che orizzonte si può contemplare dalla sua cima! Verso oriente, il cantone di Numedal; ad occidente tutto l'Hardanger e i suoi imponenti ghiacciai; al piede della montagna la sinuosa Vestfjorddal fra i laghi Mjos e Tinn, Dal e le sue case in miniatura, come una scatola di trastulli per bambini, e il Maan, nastro luminoso che scintilla attraverso il verde delle pianure. Per fare questa salita, Joël partiva alle cinque del mattino, ed era di ritorno alle sei di sera. Sylvius Hog e Hulda gli andavano incontro. Lo aspettavano presso la capanna del traghettatore. Appena i turisti e la loro guida scendevano dalla chiatta, i saluti e le strette di mano non finivano più; e di ritorno all'albergo, i tre amici passavano ancora una serata insieme. Per la verità sembrava che il professore non avesse gran fretta di guarire, per così dire, come se gli spiacesse lasciare la casa ospitale di mamma Hansen. Del resto il tempo passava assai rapidamente. Sylvius Hog aveva scritto a Christiania che aveva intenzione di fermarsi qualche tempo a Dal. La notizia della sua avventura al Rjukanfos s'era sparsa in tutto il paese. I giornali ne pubblicarono la relazione, aggiungendo ciascuno dei particolari. Per questo, ogni giorno giungevano lettere all'albergo, senza poi contare gli opuscoli e i giornali! Bisognava leggere e rispondere. Sylvius Hog leggeva e rispondeva, ripetendo spesso i nomi di Hulda e di Joël, che, in tal modo, divennero famosi in tutta la Norvegia. Però il professore non poteva fermarsi indefinitamente a Dal, ma non era ancora riuscito a trovare il mezzo di pagare il suo debito di riconoscenza. Ad ogni modo, aveva cominciato a capire che quella famiglia non era tanto felice come appariva a prima vista. L'ansietà con cui tutte le mattine Hulda e Joël aspettavano il corriere di Christiania o di Bergen, il disappunto, il dolore anche che mostravano di provare non ricevendo nulla, parlava fin troppo chiaro. Si era già al 9 giugno; e nessuna notizia del Viken! Un ritardo di oltre due settimane! Non una lettera di Ole! Nulla che valesse a lenire i tormenti di Hulda! La povera ragazza si disperava, e Sylvius Hog aveva spesso osservato che i suoi occhi erano molto arrossati quando lei, al mattino, andava a trovarlo. «Che dolore avrà questa buona fanciulla?» si chiedeva spesso. «Teme una disgrazia di cui non mi ha mai parlato! Forse è un segreto di famiglia che si vuol celare ai forestieri? Ma sono ancora per essi un forestiero? No, di certo. Dovrebbero ben capirlo! Ma forse, quando io annuncerò la mia partenza, capiranno che s'allontana da loro un vero amico.» In quel medesimo giorno egli disse: — Amici, s'avvicina, con mio vivo dispiacere, il momento in cui io dovrò lasciarvi. — Così presto, signor Sylvius, così presto! — esclamò Joël con una ansietà che non riuscì a dominare. — Eh! il tempo passa presto vicino a voi! Sono già diciassette giorni che mi trovo a Dal! — Che!… diciassette giorni! — disse Hulda. — Sì, cara fanciulla, e si avvicina la fine del mio congedo. Non ho un giorno da perdere se voglio finire il mio viaggio passando da Drammen e da Kongsberg. Tuttavia, se lo Storting deve a voi il fatto di non dovermi sostituire con un altro deputato, lo Storting, non più di me, non saprebbe come ricambiare… — Ah! signor Sylvius! — rispose Hulda, e pareva che con la sua manina volesse chiudergli la bocca. — D'accordo, Hulda, mi è vietato di parlare di questo, qui almeno… — Né qui, né altrove — riprese la fanciulla. — Sia, qui io non sono padrone di me stesso e devo obbedire! Ma Joël e voi, non verrete a Christiania a trovarmi? — A Christiania? — Sì, a vedermi… per passare alcuni giorni in casa mia, con mamma Hansen, già s'intende. — E se lasciamo l'albergo, chi farà le nostre veci? — rispose Joël. — Ma l'albergo, finita la stagione delle escursioni, non vi darà molto da fare, almeno penso: allora si può chiuderlo, e… — Signor Sylvius, sarà molto difficile — soggiunse Hulda. — Sarà facilissimo invece, amici. Non ditemi di no, non accetterò questa risposta. E allora, quando vi avrò in mio potere, nella più bella camera della mia casa, tra la mia vecchia Kate e il mio vecchio Fink e sarete come miei figli, dovrete ben dirmi quello che io posso fare per voi! — Ciò che potete fare per noi, signor Sylvius? — ripeté Joël, fissando sua sorella. — Joël!… — disse Hulda, che aveva indovinato il pensiero di suo fratello. — Ebbene, parlate, ragazzo mio! — Ebbene, signor Sylvius, potreste farci un grande onore! — Quale? — Se non vi disturba, dovreste assistere al matrimonio di Hulda. — Al suo matrimonio! — esclamò Sylvius Hog. — Come! la mia piccola Hulda si sposa, e non me ne avete detto nulla? — Oh! signor Sylvius! — balbettò la fanciulla con gli occhi gonfi di lacrime. — E quando si deve fare il matrimonio? — Quando piacerà a Dio di ricondurci Ole, il suo fidanzato!… — rispose Joël. CAPITOLO XI ALLORA JOËL raccontò tutta la storia di Ole Kamp. Il professore, assai commosso, ascoltava con la più viva attenzione. Adesso sapeva tutto. Aveva anche letta l'ultima lettera che annunciava il prossimo ritorno di Ole, e Ole non era ancora tornato! Quante inquietudini, quante angosce per tutta la famiglia Hansen! «Ed io che mi credevo in una famiglia felice!» osservò il professore tra sé. Però, riflettendo un po' meglio, gli parve che Hulda e Joël esagerassero alquanto la cosa; si poteva ancora sperare. A forza di contare quei giorni di maggio e di giugno, la loro immaginazione ne aveva esagerato la cifra, come se Hulda e Joël li avessero contati due volte. Il professore non mancò di far loro coraggio; espose i motivi che potevano ragionevolmente spiegare il ritardo del Viken, motivi seri e plausibili. Tuttavia, l'espressione del suo volto s'era fatta grave. Il dolore di Hulda e Joël l'aveva profondamente turbato. — Ascoltate, figli miei — egli disse. — Sedete al mio fianco e parliamo. — E che potrete dirci, signor Sylyius? — rispose Hulda, che aveva il cuore gonfio di amarezza. — Vi dirò quello che mi pare giusto — riprese il professore. — Ho riflettuto su quanto mi ha riferito Joël. Ora, mi sembra che la vostra inquietudine passi la misura. Non voglio darvi delle speranze illusorie, ma è necessario vedere le cose come sono realmente. — Ah! purtroppo, il mio povero Ole — soggiungeva Hulda — s'è perduto col Viken!… Io non lo rivedrò più! — Sorella!… Sorella!… — esclamava Joël — te ne prego, calmati, lascia parlare il signor Sylvius. — E soprattutto conserviamoci calmi, figlioli! Vediamo! Ole doveva tornare a Bergen fra il 15 e il 20 maggio. — Sì — rispose Joël, — fra il 15 e il 20 maggio, come dice la sua lettera, e siamo al 9 giugno. — È dunque in ritardo di venti giorni. Non nego che può destare preoccupazione. Ma non bisogna pretendere da una nave a vela l'esattezza di un piroscafo. — È quello che ho sempre detto a Hulda e che le ripeto ancora — osservò Joël. — E fate bene, ragazzo mio — riprese Sylvius Hog. — Inoltre, può darsi che il Viken sia un vecchio bastimento, che viaggia male, come la maggior parte delle navi di Terranova, specialmente se sono troppo cariche. E poi da alcune settimane il tempo è cattivo. Forse Ole non ha potuto far vela il giorno indicato nella lettera. Basterebbe che il Viken avesse rimandato solo di otto giorni la partenza per spiegare il ritardo del Viken e quello di una sua nuova lettera. Ciò che vi dico, credetemi, è frutto di ponderate riflessioni. È anche possibile che il Viken debba deporre una parte del carico in qualche altro porto. — Ole ce lo avrebbe scritto! — rispose Hulda che non era capace neanche di attaccarsi a questa speranza. — Chi prova che non abbia scritto un'altra lettera? — riprese il professore. — E se l'ha davvero fatto, allora non è più il Viken, in questo caso, a ritardare, ma il corriere d'America. Supponete che il Viken abbia dovuto visitare qualche porto degli Stati Uniti; ciò basterebbe a spiegare perché nessuna delle sue lettere sia ancora giunta in Europa. — Negli Stati Uniti… signor Sylvius? — Sì, si verifica qualche volta, e basta che manchi un corriere per lasciare la gente a lungo senza notizie… Ad ogni modo, la prima cosa da fare è chiedere informazioni agli armatori di Bergen. Li conoscete ? — I Fratelli Help. — Fratelli Help! Ma li conosco io pure. Il più giovane, Help junior, com'è detto, benché abbia circa la mia età, è uno dei miei buoni amici. Abbiamo più volte pranzato insieme a Christiania! Gli Help, ragazzi! Saprò da loro tutto ciò che riguarda il Viken! Scrivo immediatamente, e, se occorre, andrò io stesso a Bergen. — Quanto siete buono, signor Sylvius! — risposero insieme Hulda e Joël. — Non un ringraziamento, ve lo proibisco! Vi ho io forse ringraziato per quello che voi avete fatto, per me, lassù? Come! Mi si presenta una piccola occasione di farvi un favore, e dovrei lasciarmela sfuggire?… — Ma poc'anzi parlavate del vostro ritorno a Christiania — osservò Joël. — Ebbene, andrò invece a Bergen, se può appena tornarvi utile. — Ma volevate lasciarci, signor Sylvius — soggiunse Hulda. — Ebbene, non vi lascerò, mia cara fanciulla! Sono libero delle mie azioni, mi sembra, e finché non vedrò chiaro in questa situazione, a meno che mi mettiate alla porta… — Ma che dite mai? — Anzi, potrebbe darsi che rimanessi a Dal sino al ritorno di Ole! Mi piacerebbe conoscerlo il fidanzato della mia piccola Hulda! dev'essere un bravo figliolo, del genere di Joël! — Sì! tutto come lui!… — rispose Hulda. — N'ero sicuro! — esclamò il professore, che era tornato di buon umore, imponendoselo, certamente. — Ole rassomiglia a Ole, signor Sylvius — disse Joël; — e ciò basta perché abbia un nobile cuore. — Lo credo, mio bravo Joël, e ciò mi fa desiderare ancor più di conoscerlo. Oh! lo rivedremo presto! Qualche cosa mi dice che il Viken sta per ritornare. — Dio vi ascolti. — E perché non dovrebbe ascoltarmi? Lui ha l'orecchio fino! Sì! Voglio assistere alle nozze di Hulda, giacché sono tra gli invitati. Lo Storting mi concederà certamente una proroga alle mie vacanze. Avrebbe dovuto concedermi ben altro prolungamento se voi altri mi aveste lasciato cadere nel Rjukanfos, come meritavo! — Signor Sylvius — disse Joël, — che piacere ci fa sentir parlare così… come ci fa bene… — Non quanto io vorrei, giacché io vi devo tutto, e non so ancora… — Non parliamo più di quest'incidente! — Anzi parliamone! Ah! mi sono forse salvato da solo dalle insidie del Maristien? Ho forse rischiato la mia vita per salvare me stesso? Mi sono condotto con le sole mie forze all'albergo di Dal? Mi sono curato da me stesso? Badate, io sono testardo come un mulo, ve ne prevengo. Ora mi sono messo in testa di assistere al matrimonio di Hulda e di Ole Kamp, e, per sant'Olaf, vi assisterò. La fiducia è comunicativa. Come resistere a quella che mostrava Sylvius Hog? Egli se ne accorse quando un mezzo sorriso tornò a rischiarare il volto di Hulda! Essa desiderava poterlo credere… desiderava poter ancora sperare. — Dunque — egli riprese — bisogna ricordarsi che il tempo ha le ali. Facciamo subito i preparativi del matrimonio… — Me ne occupo da tre settimane — osservò Hulda timidamente. — Tanto meglio! Non interrompiamoli per nessun motivo! — Interromperli? — soggiunse Joël. — Tutto è pronto! — Anche il vestito da sposa, il corsetto coi fermagli di filigrana, la cintura e i suoi ciondoli. — Non manca nulla! — E la corona a raggi che vi farà sembrare una piccola santa, mia dolce Hulda? — C'è anche la corona. — E avete fatti gli inviti? — Non ne ho dimenticato uno solo — rispose Joël, — neanche quello che ci preme di più: il vostro. — Avete scelta la damigella d'onore fra le più savie fanciulle del Telemark? — E fra le più belle, signor Sylvius — rispose Joël; — madamigella Siegfrid Helmboë di Bamble! — Me lo dite in certo modo! — osservò il professore — e vi fate anche rosso. Eh! Eh! Per caso damigella Siegfrid Helmboë di Bamble sarebbe destinata a divenire madama Joël Hansen di Dal? — Avete indovinato — s'affrettò a rispondere Hulda; — Siegfrid è anche la mia migliore amica. — Bene! Ancora un matrimonio! — esclamò il professore. — E sono sicuro che mi si inviterà, e sarò felice di assistervi. Decisamente, dovrò dare le mie dimissioni dalla carica di deputato allo Storting, giacché non potrò più intervenirvi alle sedute! Sarò vostro testimonio, mio caro Joël, dopo essere stato testimonio di vostra sorella, se me lo permettete. Decisamente, voi fate di me tutto quello che volete, o piuttosto fate tutto quello che voglio io! Abbracciatemi, piccola Hulda! Una stretta di mano, figliolo! E adesso andiamo a scrivere al nostro amico Help junior, di Bergen! Hulda e Joël lasciarono la camera, che il professore considerava già come sua, e ritornarono alle loro occupazioni alquanto confortati. Sylvius Hog rimase solo. — Povera fanciulla! Povera fanciulla! — egli mormorò. — Sì! Ho potuto attenuare il suo dolore!… Le ho dato un po' di calma!… Ma è pur lungo questo ritardo, e quei mari sono assai cattivi in questa stagione!… Se il Viken avesse naufragato!… Se Ole non dovesse più tornare! Un istante dopo, il professore scriveva agli armatori di Bergen. Egli chiedeva i particolari più precisi intorno alla nave Viken e alla sua spedizione di pesca. Desiderava sapere se qualche incidente, previsto o meno, l'aveva costretta a cambiare il porto d'arrivo. Chiedeva soprattutto come i marinai e i negozianti di Bergen spiegavano questo ritardo. Finalmente pregava l'amico Help junior di rispondere a volta di corriere. Non occorre soggiungere che la lettera indicava pure il motivo del vivo interessamento di Sylvius Hog, aggiungendo il racconto di quanto gli era accaduto nel Telemark, il debito di riconoscenza che sentiva verso Hulda e la gioia che avrebbe provato nel poter dare qualche speranza ai figli di mamma Hansen. Joël portò la lettera alla posta di Mœl. Doveva partire l'indomani. L'11 giugno sarebbe giunta a Bergen. Il 12 sera o il 13 mattina poteva giungere la tanto sospirata risposta. Tre giorni per avere una risposta! Come parvero lunghi! Tuttavia, a forza di parole rassicuranti, di motivi plausibili, il professore riuscì a rendere meno penosa questa aspettativa. Adesso che egli conosceva il segreto di Hulda, aveva per le mani il migliore argomento, ed era proprio una consolazione per Joël e per sua sorella il potere parlare continuamente dell'assente. — Per ora non faccio parte della vostra famiglia? — ripeteva Sylvius Hog. — Sì!… una specie di zio d'America, o capitato da qualche altra parte del mondo. E dal momento che era della famiglia non si dovevano avere più segreti con lui. Ora, egli aveva pure notato il contegno dei due figlioli verso la madre. La riservatezza di madama Hansen doveva avere, secondo lui, un altro motivo che non l'inquietudine per quello che riguardava Ole Kamp. Ne parlò a Joël, ma egli non seppe che rispondergli. Volle interrogare anche madama Hansen sull'argomento; ma la trovò così chiusa che rinunciò alla speranza di conoscere i segreti di lei. Attese di scoprirli col tempo. Come Sylvius Hog aveva previsto, la risposta di Help junior giunse a Dal il 13 mattina. Joël, all'alba, era andato incontro al postino. Fu lui stesso a portare la lettera nel salone, dove il professore si trovava accanto a mamma Hansen e a sua figlia. Ci fu un istante di silenzio. Hulda, pallidissima, non avrebbe potuto parlare, tanto l'emozione le faceva battere il cuore. Stringeva la mano del fratello, non meno emozionato di lei. Sylvius Hog aprì la lettera e la lesse ad alta voce. Con grande suo dispiacere, la risposta di Help junior conteneva solo delle vaghe indicazioni, e il professore non poté celare il suo malcontento a Hulda e a Joël, che lo ascoltarono con gli occhi pieni di lacrime. Il Viken aveva effettivamente lasciato Saint-PierreMiquelon il giorno indicato nell'ultima lettera di Ole Kamp. Lo si era saputo in modo sicuro da altri bastimenti giunti a Bergen dopo la sua partenza da Terranova. Ma anche essi avevano sofferto per il tempo che era stato pessimo nei paraggi dell'Islanda. Tuttavia erano riusciti a mettersi in salvo. E allora perché non avrebbe potuto il Viken, fare altrettanto? Forse si trovava ancorato in qualche porto. Era, del resto, una nave eccellente, assai solida, comandata da un ottimo capitano, Frikel di Hammerfest, e montata da un equipaggio che aveva già dato prova delle proprie capacità. Ad ogni modo, il ritardo era preoccupante e se si fosse prolungato c'era da temere che il Viken, con uomini e carico, si fosse perduto. Help si doleva di non avere migliori notizie da dare sul conto del giovane parente degli Hansen. Egli ricordava Ole Kamp come un bravo marinaio meritevole delle sollecitudini di Sylvius Hog. Chiudeva la lettera assicurando il professore del suo affetto e aggiungendo cordialità per la famiglia. Prometteva infine di trasmettergli, senza indugio, qualunque notizia giungesse della nave attesa da qualsiasi porto della Norvegia, e firmava. La povera Hulda, mancatele le forze, era caduta sopra una sedia durante la lettura, e si scioglieva in lacrime. Joël, braccia conserte, aveva tutto udito, e non osava guardare in faccia sua sorella. Mamma Hansen, dopo che Sylvius Hog ebbe terminata la lettura, s'era ritirata nella propria camera. Pareva che fosse preparata a questa sventura, come se ne aspettava molte altre! Il professore fece segno a Hulda e a suo fratello di avvicinarglisi. Voleva ancora parlar loro di Ole Kamp, dir loro tutto quello che l'immaginazione gli suggeriva di più o meno plausibile, e si espresse con una strana sicurezza dopo la lettera di Help junior. No! - egli ne aveva il presentimento! - le cose non erano disperate! Non si avevano frequenti esempi di ritardi nel corso di una navigazione, su quei mari che vanno dalla Norvegia a Terranova? Sì, certamente! Il Viken non era una nave solida, ben comandata, ben equipaggiata, e quindi in condizioni migliori degli altri bastimenti reduci dal loro viaggio? Anche questo era innegabile. — Speriamo, dunque, miei cari figli, e aspettiamo! Se il Viken avesse naufragato fra l'Islanda e Terranova, le navi che seguono costantemente questa via per tornare in Europa, ne avrebbero trovati gli avanzi. E invece, no! Neanche un rottame è stato trovato in quei paraggi tanto frequentati al ritorno dalla grande pesca! Tuttavia bisogna agire, bisogna ottenere notizie più sicure. Se, in questa settimana non avremo nuove notizie sul Viken o una lettera di Ole, tornerò a Christiania, mi rivolgerò al ministero della Marina mercantile, che farà delle ricerche, e, ne sono certo, finiranno col darci soddisfazione di tutto. Benché il professore mettesse nelle sue parole il massimo calore, Joël e Hulda capivano che la sua fiducia era molto diminuita dopo la lettera ora ricevuta. Egli non osava più fare allusione al prossimo matrimonio di Hulda e di Ole Kamp: e tuttavia ripeté ad alta voce, come per meglio convincere se stesso e gli altri: — No! Non è possibile! Ole non tornar più nella casa di mamma Hansen! Ole non sposare Hulda! Non crederò mai che possa accadere una disgrazia simile! Questa era la sua personale convinzione. Egli la attingeva dalla forza del suo carattere, dalla sua natura che da niente poteva esser vinta. Ma come fare a farne partecipi gli altri, specialmente coloro che la sorte del Viken colpiva così da vicino? Trascorsero alcuni giorni. Sylvius Hog, completamente guarito, faceva delle lunghe passeggiate nei dintorni. Pregava Hulda e suo fratello di accompagnarlo, per non lasciarli soli nemmeno un istante. Un giorno risalivano insieme la valle del Vestfjorddal sino a metà strada dalle cascate del Rjukan. Un altro giorno la discendevano, dirigendosi verso Mœl e il lago Tinn. In una di queste gite rimasero assentì un'intera giornata; si spinsero fino a Bamble, dove il professore fece conoscenza del fattore Helmboë e della figlia Siegfrid. Quest'ultima fece alla sua povera Hulda la più affettuosa accoglienza, e trovò le più tenere parole per consolarla! Anche là Sylvius Hog diede un po' di speranza a quella buona gente. Egli aveva scritto al ministero della Marina a Christiania. Il governo si stava occupando del Viken. Sarebbe stato ritrovato, Ole sarebbe ritornato. Poteva tornare anche da un giorno all'altro. No! il matrimonio non avrebbe avuto sei settimane di ritardo! Il brav'uomo si mostrava così convinto che ci si arrendeva forse più. alla sua persuasione che ai suoi argomenti. La visita alla famiglia Helmboë fece bene ai figli di mamma Hansen. E quando ritornarono alla loro casa erano più calmi di quando ne erano usciti. Si era allora al 15 giugno. Il ritardo del Viken era dunque di un mese. Ora, trattandosi della traversata da Terranova alla Norvegia, anche per una nave a vela, il ritardo era davvero eccessivo. Hulda soffriva orrendamente. Suo fratello non trovava più parole per consolarla. Anche il professore veniva meno al suo compito di confortare i due infelici. Hulda e Joël lasciavano l'albergo solo per spingere lo sguardo dalla parte di Mœl, o per recarsi sulla strada del Rjukanfos. Ole Kamp doveva venire da Bergen; ma poteva anche giungere da Christiania, se il Viken aveva cambiato direzione. Un rumore di carrettella fra gli alberi, una voce, un grido, l'ombra di un uomo alla svolta della strada, tutto ciò li faceva palpitare, ma inutilmente! Gli amici e i conoscenti vigilavano anch'essi. Andavano incontro al postino, sulla strada che costeggia il Maan. Tutti s'interessavano a quella famiglia molto amata in paese, a quel povero Ole che era quasi un figlio del Telemark. Ma non giungeva alcuna lettera, né da Bergen né da Christiania, a portare notizie dell'assente. Il 16, nulla. Sylvius Hog non poteva più star fermo. Comprese che doveva agire. Così, dichiarò che se non si ricevevano notizie entro l'indomani, sarebbe andato a Christiania, per sorvegliare che le ricerche si facessero attivamente e sul serio. Gli spiaceva di lasciare Hulda e Joël in simili circostanze; ma sarebbe tornato a ricerche finite. Il 17, una gran parte della giornata era già passata - la più triste di tutte, forse! Pioveva a dirotto fin dall'alba. La bufera piegava violentemente gli alberi. Delle folate di vento impetuose scuotevano i vetri dalla parte del Maan. Erano suonate le sette di sera. S'era finito di desinare in silenzio, come in una casa in lutto. Sylvius Hog non aveva potuto sostenere la conversazione. Le parole gli morivano sulle labbra, e anche le idee gli venivano a mancare. Cosa avrebbe potuto dire che non avesse già ripetuto cento volte? Egli comprendeva che quella prolungata assenza rendeva inaccettabili gli argomenti usati altre volte. — Partirò domani mattina per Christiania — disse. — Joël, cercate di procurarmi una carrettella. Mi condurrete a Mœl, e voi ritornerete subito a Dal! — Va bene, signor Sylvius. Non volete che vi accompagni un po' più in là? Il professore fece un segno negativo additando Hulda, che non voleva privare di suo fratello. In quel momento, udirono un rumore, ancora lontano, sulla strada di Mœl. Tutti si misero in ascolto. Ben presto, il rumore divenne distinto: era il rumore di una carrettella che si dirigeva verso Dal. Qualche viaggiatore veniva a passare la notte a Dal? Era poco probabile; di rado i viaggiatori giungevano a un'ora così tarda. Hulda si alzò agitatissima. Joël corse alla porta, l'aprì, guardò fuori. Il rumore andava crescendo. Era proprio il passo di un cavallo e il cigolio delle ruote di una carrettella. Ma la violenza defila bufera costrinse a chiudere la porta. Sylvius Hog passeggiava a gran passi nella sala. Joël e sua sorella stavano uno accanto all'altra. La carrettella doveva trovarsi ormai a una ventina di passi dall'albergo. Si sarebbe fermata o no? Il cuore batteva a tutti forte forte. La carrettella si fermò. Si intese una voce che chiamava… Non era quella di Ole Kamp! Quasi contemporaneamente, qualcuno bussò alla porta. Joël aprì. Un uomo era sulla soglia. — Il signor Sylvius Hog? — egli chiese. — Sono io — rispose il professore, facendosi innanzi. — Chi siete, amico? — Un messo inviato per voi da Christiania, dal direttore del ministero della Marina. — Avete posta per me? — Eccola! E presentò al professore un plico con timbri e suggelli governativi. Hulda non poteva più reggersi in piedi. Suo fratello l'aveva fatta sedere su uno sgabello. Né l'uno né l'altra osavano far premura a Sylvius Hog per aprire il dispaccio. Finalmente egli si decise e lesse quanto segue: «Signor professore, «in risposta alla vostra ultima lettera, allego alla presente un documento che venne raccolto in mare da una nave danese, il 5 giugno scorso. Purtroppo questo messaggio non lascia più alcun dubbio sulla sorte della nave Viken…». Senza continuare la lettura, Sylvius Hog aveva tirato fuori dalla busta il documento… Lo guardava… lo volgeva fra le mani. Era un biglietto di lotteria, recante il numero 9672. Dietro il biglietto si leggevano queste righe: «3 maggio. Cara Hulda, il Viken sta per sommergersi!… Non posseggo altro che questo biglietto!… Lo affido a Dio affinché te lo faccia pervenire, e, poiché io non vi sarò, ti prego di trovarti al luogo dell'estrazione in mia vece, quando sarà estratto!… Ricevilo insieme al mio estremo pensiero e saluto!… Hulda, non dimenticarmi nelle tue preghiere!… Addio, mia diletta, addio. «OLE KAMP». CAPITOLO XII Ecco IL SEGRETO del giovane marinaio! Ecco la probabilità su cui contava per procurare una fortuna alla sua fidanzata! Un biglietto di lotteria comperato prima della partenza!… E nell'istante in cui il Viken stava per andare a picco, lo aveva chiuso in una bottiglia, e gettato in mare, col suo ultimo saluto per Hulda! Questa volta Sylvius Hog rimase fulminato. Guardava la lettera, poi il biglietto! Non diceva più una parola. Che poteva dire, d'altronde? Che dubbio poteva oramai esistere sulla catastrofe del Viken, sulla fine di Ole Kamp e dei suoi compagni? Hulda, mentre Sylvius Hog leggeva la lettera, aveva potuto resistere e reagire contro l'angoscia. Ma, dopo le ultime parole del biglietto di Ole, cadde nelle braccia di Joël. Si dovette trasportarla nella sua camera, ove sua madre le prestò le prime cure. Dopo, desiderò rimanere sola, e, inginocchiata accanto al letto, pregava per l'anima di Ole. Mamma Hansen rientrò in sala. Dapprima fece un passo verso il professore, come volesse parlargli; ma, dirigendosi verso la scala, scomparve. Anche Joël, dopo avere trasportata la sorella nella sua cameretta, era uscito. Egli soffocava in quella casa aperta a tutti i venti della sventura. Gli occorreva l'aria esterna, l'aria della burrasca, e, durante una parte della notte, andò errando lungo le rive del Maan. Ora Sylvius Hog era rimasto solo. Abbattuto, sul principio, da quella terribile notizia, non tardò a recuperare la consueta sua energia. Dopo aver fatto due o tre giri per la sala, andò ad ascoltare se Hulda avesse bisogno di qualcosa. Non sentendo nulla, sedette accanto al tavolo, e riprese a seguire il filo dei suoi pensieri. «Hulda» egli diceva tra sé «non rivedrà più il suo fidanzato? Sarebbe possibile una disgrazia simile? No! Mi ripugna il pensarlo. Sì, il Viken ha naufragato, ma abbiamo una prova positiva della morte di Ole? Non posso crederlo! In tutti i casi di naufragio non è soltanto il tempo che può affermare che nessuno è sopravvissuto alla catastrofe? Sì! Io dubito, io voglio ancora dubitare, dovessero ben, Hulda, Joël e tutti gli altri, non voler più condividere le mie incertezze. Se la nave è andata sommersa, questo basta a spiegare che di essa nulla sia rimasto sul mare?… No!… niente, nient'altro che questa bottiglia in cui il povero Ole ha voluto mettere il suo estremo saluto, e, in esso, tutto ciò che gli restava al mondo!» Sylvius Hog teneva in mano il biglietto della lotteria, lo guardava, lo palpava, lo rigirava, quel pezzo di carta su cui il povero ragazzo aveva costruito tutte le sue speranze di fortuna. Tuttavia il professore, volendolo esaminare più attentamente, si alzò, ascoltò ancora se l'infelice fanciulla chiamasse la madre o il fratello, e poi rientrò nella propria camera. Era, quello, un biglietto della lotteria delle Scuole di Christiania, lotteria assai popolare allora in Norvegia. Primo premio: centomila marchi. 3 Valore complessivo degli altri premi: novantamila marchi. Numero dei biglietti emessi: un milione, e tutti attualmente venduti. Il biglietto di Ole Kamp portava il numero 9672. Ma ora, che il numero fosse fortunato o meno, che il giovane marinaio avesse o no qualche segreto motivo per aver fiducia, egli non poteva più assistere all'estrazione, che doveva aver luogo il 15 luglio prossimo, cioè fra ventotto giorni. Hulda, secondo la raccomandazione del giovane, avrebbe dovuto presentarsi in sua vece e rispondere per lui! Sylvius Hog, al chiarore della candela, rilesse attentamente le linee scritte dietro il biglietto, quasi sperasse di trovarvi qualche recondito significato. Erano scritte con inchiostro. Si vedeva benissimo che la mano di Ole non aveva tremato nello scriverle: segno che il nostromo del Viken conservava l'intera calma al momento del naufragio. Egli doveva trovarsi quindi nella possibilità di approfittare di qualsiasi mezzo di salvezza, un pezzo d'albero navigante, una tavola abbandonata alla deriva, non tutto era stato inghiottito negli abissi in cui la nave era scomparsa. Talora questi documenti, raccolti in mare, fanno conoscere il luogo ov'è accaduta la catastrofe; ma su quel biglietto non era indicata la posizione astronomica, e nemmeno le terre più vicine, isole o continenti. Bisognava concluderne che il capitano e l'equipaggio ignorassero dove si trovava la nave al momento del disastro. Trascinato certamente da una di quelle bufere contro cui 3 Circa centomila franchi germinali. (N.d.A.) Il franco germinale è quello che risulta dal nuovo rapporto del valore dell'oro con quello dell'argento (15,5) stabilito nella coniazione del 17 germinale dell'anno XI (7 aprile 1803). (N.d.T.) non si può lottare, il Viken era stato spinto fuori della sua rotta, e non permettendo lo stato del cielo di osservare la posizione del sole, per qualche giorno non era stato possibile capire in quale luogo si trovasse. Riusciva più che mai difficile, per non dire impossibile, sapere in quale punto del nord dell'Atlantico, al largo da Terranova o dall'Islanda, il mare s'era spalancato per sempre sotto quegli infelici, circostanza atta a togliere ogni speranza anche allo spirito più disposto a conservare un barlume di fiducia. Magari, con una indicazione, per vaga che fosse, si sarebbero potute intraprendere delle ricerche; si poteva mandare una nave sul luogo della catastrofe, e forse si potevano trovare degli avanzi riconoscibili. Chi sa se uno o più naufraghi avevano per avventura raggiunto qualche lembo dell'arcipelago artico, e vi erano restati, senza soccorso, nell'impossibilità di rimpatriare! Questo dubbio a poco a poco prendeva forma nella mente di Sylvius Hog, dubbio che sarebbe stato inaccettabile per Hulda e Joël, dubbio che il professore ora avrebbe esitato a far nascere in loro nel timore che una nuova delusione aumentasse poi il loro dolore. — Intanto — egli diceva — se il documento non offre alcuna utile indicazione, sappiamo almeno in quali paraggi la bottiglia venne raccolta! La lettera non lo dice, ma al ministero della Marina, a Christiania, si dovrebbe saperlo! Ecco un indizio dal quale si potrebbe trarre profitto! Studiando la direzione delle correnti, quella dei venti, riferentisi alla data presunta del naufragio, non sarebbe possibile… Ebbene, scriverò ancora! Si devono rinnovare le ricerche, quantunque siano poche le speranze! Non abbandonerò mai quella povera Hulda! Non voglio credere alla morte del suo fidanzato, fino a che non ce ne sia una prova assoluta! Così ragionava Sylvius Hog, ma nello stesso tempo aveva preso la decisione di non parlare dei nuovi passi che egli stava per fare, e delle nuove indagini che intendeva promuovere con tutta la sua influenza. Hulda e suo fratello nulla seppero della sua lettera a Christiania. Inoltre egli rinunciò alla partenza, fissata per il giorno dopo; anzi decise di partire dopo qualche giorno, ma per recarsi a Bergen! Ivi poteva parlare coi Fratelli Help su ciò che riguardava il Viken, avrebbe egli stesso raccolto le opinioni dei marinai più esperti, avrebbe stabilito il metodo delle ricerche da intraprendere. Tuttavia, in base alle indicazioni fornite dal ministero della Marina, i giornali di Christiania, quindi la stampa periodica della Norvegia, della Svezia, del resto dell'Europa, non tardarono a raccontare il naufragio del Viken e la storia del biglietto di lotteria divenuto documento. C'era qualcosa di commovente in questo messaggio di un innamorato alla fidanzata, e, non a torto, l'opinione pubblica ne fu toccata. Si può dire che si stabilì una specie di piccola borsa, in cui la quotazione era in costante aumento. Così si finì per offrire parecchie centinaia di marchi, per quel biglietto, che effettivamente aveva una minima probabilità di guadagnare il primo premio. Era puerile, era assurdo; ma non si ragiona con la superstizione. Le fantasie si eccitavano e, con la forza acquisita, esse potevano, anzi sarebbero giunte più in là ancora. È quanto, infatti, successe. Otto giorni dopo, i giornali annunciavano che le offerte per il biglietto superavano i mille, i millecinquecento e perfino i duemila marchi. Un inglese di Manchester era giunto sino a cento lire sterline, cioè duemilacinquecento marchi. Un americano di Boston andava ancora oltre, offriva mille dollari, circa cinquemila franchi, per l'acquisto del numero 9672 della lotteria delle Scuole di Christiania. È inutile dire che Hulda continuava a non darsi alcun pensiero di ciò che rendeva tanto euforico il pubblico. Non aveva voluto nemmeno leggere le lettere che capitavano a Dal sull'argomento. Però il professore sostenne che ella non doveva ignorare le importanti proposte in quelle contenute, giacché Ole Kamp le aveva trasmesso il biglietto in assoluta proprietà. Hulda respinse tutte le offerte. Quel biglietto era l'ultimo messaggio del suo fidanzato. E non si creda che gli annettesse importanza, povera fanciulla, per il fatto che poteva vincere il premio! Affatto! Ella vedeva in quel foglietto solo l'ultimo addio del naufrago, un ultimo dono che voleva conservare come una preziosa reliquia. E non si curava affatto di una fortuna, che Ole non poteva più dividere con lei! Cosa potrebbe esserci di più toccante, di più delicato, di questo culto per un ricordo! Ad ogni modo, pur mettendo la fanciulla al corrente delle proposte che le venivano dirette, Sylvius Hog e Joël non intendevano influire menomamente su di lei. Ella doveva ascoltare solo il proprio cuore e sappiamo che cosa quel cuore le aveva risposto! Joël, del resto, approvò completamente la condotta di sua sorella. Il biglietto di Ole Kamp non doveva essere venduto, per nessun prezzo. Sylvius Hog era dello stesso avviso; anzi lodò Hulda che non si era prestata a questa speculazione. Non era bello che quel biglietto fosse venduto e rivenduto, per divenire una specie di carta-moneta, sino a che l'estrazione della lotteria lo avrebbe ridotto un foglio senza valore. Il professore andava più in là coi suoi pensieri. Era forse superstizioso? No, senza dubbio! Ma se Ole Kamp fosse stato presente, gli avrebbe, probabilmente, detto: — Conservate il biglietto, ragazzo mio! Si è salvato dal naufragio, e voi dopo! Ebbene, bisogna vedere!… Non si sa mai!… Non si sa mai!… E se Sylvius Hog, professore di diritto, deputato allo Storting, aveva simili pensieri, c'è da meravigliarsi dell'infatuazione del pubblico? No, affatto, e niente di più naturale che il 9672 avesse il premio. Nell'albergo di Dal non c'era, quindi, nessuno che protestasse contro il sentimento rispettabile, che faceva agire la fanciulla, nessuno, tranne sua madre. Più volte, infatti, mamma Hansen si lamentava in proposito, specie in assenza di Hulda. Ciò faceva molta pena a Joël. Egli temeva che sua madre non s'accontentasse di semplici lamentele, ma che avrebbe segretamente parlato a Hulda in merito alle offerte che le erano state fatte. — Cinquemila marchi! — essa ripeteva. — Ci offrono cinquemila marchi! Mamma Hansen, evidentemente, non voleva guardare al significato profondo nascosto nel rifiuto di sua figlia. Pensava solo alla cifra di cinquemila marchi. Una sola parola di Hulda avrebbe fatto entrare in casa quel denaro! Ella non credeva, d'altronde, al valore soprannaturale del biglietto, sebbene fosse norvegese! Sacrificare cinquemila marchi per una probabilità su un milione di guadagnarne centomila, non era un'idea che potesse entrare nella sua mente fredda e positiva. Era evidente che, messa in disparte qualsiasi superstizione, respingere il certo per l'incerto, in condizioni si aleatorie, non era atto di prudenza. Ma quel foglio non era per Hulda un biglietto di lotteria; era l'ultima lettera di Ole Kamp, e il suo cuore si spezzava al solo pensiero di privarsene. Però mamma Hansen disapprovava molto vivamente la condotta di sua figlia. Sentiva accumularsi in sé una sorda irritazione. C'era da temere che un giorno o l'altro costringesse Hulda a cambiare decisione. Già aveva parlato in questo senso a Joël, che aveva difeso la condotta di sua sorella. Naturalmente, Sylvius Hog seguiva con attenzione anche questo incidente. Era un dispiacere di più aggiunto alla grande pena che soffriva Hulda ed egli ne era addolorato. Joël interrogò infine il professore: — Mia sorella non ha ragione di rifiutare? Ed io non faccio bene approvando il suo rifiuto? — Senza dubbio — gli rispose Sylvius Hog. — Eppure, dal punto di vista pratico, vostra madre ha un milione di ragioni. Ma non tutto è calcolo a questo mondo. I numeri non hanno a che vedere con le cose del cuore! Intanto, durante quei giorni, s'era dovuto sorvegliare Hulda. Schiacciata da così grandi dolori, ella diede seri timori per la sua salute. Per fortuna non le mancò assistenza. Per invito di Sylvius Hog, il celebre dottor Boek, suo amico, venne a Dal a vedere la giovane malata. Ebbe solo a prescriverle riposo fisico e calma di spirito, se era possibile. Ma la vera guarigione era il ritorno di Ole, e questo ritorno stava nelle mani di Dio. Sylvius Hog aggiunse il suo conforto, e consolò spesso la fanciulla con qualche parola di speranza. Cosa inverosimile, il professore non disperava del tutto! Tredici giorni erano trascorsi dall'arrivo del biglietto inviato dal ministero della Marina a Dal. Si era al 30 giugno. Quindici giorni ancora, e l'estrazione della lotteria doveva avvenire con grande solennità a Christiania. Precisamente il 30 mattina, Sylvius Hog ricevette un nuovo dispaccio dalla Marina in risposta alle sue reiterate istanze. Questa lettera lo invitava a stabilire un appuntamento con le autorità marittime di Bergen. Inoltre, lo autorizzava a ordinare immediatamente le ricerche relative al Viken a spese dello Stato. Il professore non disse nulla a Joël e a Hulda di ciò che stava per fare. Annunciò semplicemente loro la sua partenza, prendendo a pretesto un viaggio d'affari che lo avrebbe impegnato per qualche giorno. — Signor Sylvius, ve ne supplico, non ci lasciate! — gli disse la fanciulla. — Abbandonarvi… abbandonare i miei figli! — rispose Sylvius Hog. Joël s'offerse di accompagnarlo. Però, non volendo che si sapesse che si recava a Bergen, si lasciò accompagnare solo sino a Mœl. E poi era bene che Hulda non restasse a lungo sola con sua madre. Dopo essere rimasta a letto parecchi giorni, ora cominciava ad alzarsi, ma era ancora debole, non usciva di camera, e suo fratello capiva bene che era ancora convalescente, e che non poteva lasciarla sola. Alle undici, la carrettella si trovò davanti alla porta dell'albergo. Il professore vi sali con Joël, dopo aver dato il più affettuoso addio alla fanciulla. Poco dopo, la carrettella scompariva alla svolta della strada, sotto le grandi betulle. La sera stessa, Joël era di ritorno a Dal. CAPITOLO XIII SYLVIUS HOG era dunque partito per Bergen. La sua natura tenace, il suo carattere energico, che per un attimo avevano vacillato, riprendevano ora il sopravvento. Egli non voleva credere alla morte di Ole Kamp e non sapeva sopportare l'idea che Hulda dovesse piangerlo senza rimedio. Fino a che non si avessero le prove del fatto egli l'avrebbe ritenuto falso: «era più forte di lui», come comunemente si dice. Ma esisteva dunque un indizio sul quale avviare l'opera che stava per intraprendere a Bergen? Sì, ma un indizio assai vago, bisogna riconoscerlo!… Egli sapeva, invero, il giorno in cui il biglietto era stato gettato in mare da Ole, e sapeva in quale data e in quali paraggi la bottiglia era stata raccolta. L'aveva informato di ciò la lettera del ministero della Marina, lettera che gli aveva fatto prendere la decisione di partire immediatamente per Bergen, per poter parlare con i Fratelli Help, e con i marinai più competenti del porto. In tal modo si sarebbe potuto dare un indirizzo utile alle ricerche di cui la nave Viken era l'oggetto. Il viaggio fu fatto nel minor tempo possibile. Giunto a Mœl, Sylvius Hog rimandò il suo compagno con la carrettella. S'imbarcò sopra una di quelle chiatte di scorza di betulla che fanno i trasporti sul lago Tinn. Giunto a Tinoset, invece di volgere verso sud, cioè dalla parte di Bamble, noleggiò un'altra carrettella e attraversò l'Hardanger per discendere al più presto al golfo omonimo. Ivi s'imbarcò sul Run, vaporino che percorre il golfo, e ridiscese fino alla sua estremità inferiore. Infine, dopo avere attraversato una serie di fiordi, fra le isole e gli isolotti che abbelliscono la costa, il 2 luglio, all'alba, discese al porto di Bergen. Quest'antica città, bagnata dai due fiordi di Sogne e di Hardanger, è posta in un paese magnifico al quale verrà ad assomigliare la Svizzera il giorno in cui un braccio di mare artificiale avrà condotto le acque del Mediterraneo ai piedi delle sue montagne. Un magnifico viale di frassini conduce alle prime case di Bergen. Le sue alte case dai tetti acuminati, sono candidissime, come le case arabe, e si agglomerano in un triangolo irregolare, che basta a contenere trentamila abitanti. Le chiese datano dal dodicesimo secolo. L'alta cattedrale la indica, da lontano, alle navi che vengono dal largo. Bergen è la capitale della Norvegia mercantile, quantunque si trovi un po' lungi dalle grandi vie di comunicazione, e a notevole distanza dalle altre due città che, politicamente, tengono il primo e il secondo posto nel regno: Christiania e Drontheim. In ogni altro momento, il professore avrebbe preso gusto a studiare questo capoluogo di prefettura, forse più olandese che norvegese per l'aspetto e i costumi. Anzi ciò entrava nel programma del suo viaggio. Ma dopo l'incidente del Maristien, dopo il suo arrivo a Dal, questo programma era stato completamente modificato. Ora Sylvius Hog non era più il deputato turista, che voleva acquistare esatta notizia del paese, dal punto di vista politico come da quello commerciale. Era l'ospite della casa Hansen, il debitore di Joël e Hulda, i cui interessi venivano prima di tutto. Era il debitore che voleva, ad ogni costo, pagare il proprio debito di riconoscenza. «E» diceva tra sé e sé «ciò che io cercherò di fare per loro sarà ancora ben poco.» Giunto con il Run a Bergen, il professore sbarcò in quella parte del porto dove c'è il grande mercato del pesce. Subito si portò nel quartiere di Tyske-Bodrone, ove abitava Help junior, della casa Fratelli Help. Naturalmente pioveva, giacché la pioggia cade a Bergen trecentosessanta giorni all'anno. Ma, anche con un clima così chiuso e coperto, si sarebbe difficilmente trovata una casa meglio arredata della casa ospitale di Help junior. Quanto all'accoglienza che qui ricevette Sylvius Hog, non avrebbe potuto essere più calda, più cordiale, più espansiva. L'amico s'impadronì della sua persona come di un oggetto prezioso preso in consegna, conservato con la massima cura e restituibile solo dietro una ricevuta compilata in buona forma. Subito Sylvius Hog fece conoscere lo scopo del suo viaggio a Help junior. Gli parlò del Viken. Gli chiese se era giunta qualche nuova notizia dopo la sua ultima lettera. I marinai consideravano la nave come definitivamente perduta? Il naufragio, che faceva portare il lutto a tante famiglie, non aveva già indotto a intraprendere delle ricerche? — Ma come si potrebbero eseguire non conoscendo il luogo del disastro? — osservò Help junior. — È vero, mio caro Help, ma appunto perché lo si ignora, bisogna tentare di conoscerlo. — Conoscerlo? — Sì. Se non si conosce il luogo ove il Viken colò a fondo, si conosce almeno quello ove venne raccolta la bottiglia dalla nave danese. Ecco un indizio di cui sarebbe una colpa non servirsi! — E qual è questo punto? — Ascoltatemi, mio caro Help. Sylvius Hog riferì allora le nuove notizie che gli erano giunte dal ministero della Marina, e annunziò nello stesso tempo che possedeva ampi poteri per iniziare le indagini. La bottiglia, racchiudente il biglietto della lotteria di Ole Kamp, era stata raccolta il 3 giugno, dal brick-goletta Christian, capitano Mosselman, d'Elsinore, duecento miglia a sud-ovest dell'Islanda, col vento che soffiava da sud-est. Il capitano aveva subito letto il documento, come era suo dovere, nel caso che un soccorso immediato potesse essere apportato alla nave in pericolo. Ma le linee scritte dietro il biglietto non indicavano menomamente il luogo del naufragio, e la goletta Christian non poté recarsi nei paraggi della catastrofe. Era un brav'uomo quel capitano Mosselman. Forse un altro, meno scrupoloso, avrebbe conservato il biglietto per sé. Ma lui ebbe solo un pensiero: far pervenire il biglietto al suo indirizzo, appena di ritorno in porto. «Hulda Hansen di Dal»: questa indicazione sarebbe stata sufficiente. Intanto, giunto a Copenaghen, il capitano Mosselman ritenne che era forse meglio mandare il documento alle autorità danesi che non direttamente alla destinataria. Era più sicuro e più regolare. Ed è ciò che fece, e la Marina di Copenaghen avvisò subito la Marina di Christiania. In quei giorni, si erano già ricevute le prime lettere di Sylvius Hog che chiedeva notizie precise sul Viken. L'interesse completamente singolare che egli aveva per la famiglia Hansen era noto. Sylvius Hog sarebbe rimasto a Dal ancora un poco, si sapeva, e fu là che il documento raccolto dal capitano danese gli fu indirizzato, affinché egli lo facesse pervenire a Hulda Hansen. Da allora, questa storia aveva continuato ad interessare l'opinione pubblica, nessuno se ne è dimenticato, grazie ai commoventi particolari che furono forniti dai giornali dei due mondi. Ecco quanto Sylvius Hog narrò sommariamente al suo amico Help junior, che lo ascoltava col più vivo interesse, senza interromperlo, e finì con queste parole: — C'è dunque un punto, che non può essere messo in dubbio: il 3 giugno ultimo scorso il documento fu trovato a duecento miglia a sud-ovest dell'Islanda, circa un mese dopo la partenza del Viken da Saint-Pierre-Miquelon per l'Europa. — E non sapete altro? — No, mio caro Help; ma i marinai più pratici di Bergen, quelli che frequentano o che hanno frequentato quei paraggi, che conoscono la direzione generale dei venti e specialmente delle correnti, non potrebbero rifare idealmente la strada percorsa dalla bottiglia? Quindi, tenendo approssimativamente conto della sua velocità e del tempo trascorso sino al momento in cui venne raccolta, non sarebbe possibile segnare il punto ove probabilmente venne gettata in mare da Ole Kamp, cioè il luogo in cui avvenne il naufragio? Help junior scuoteva il capo come se fosse poco convinto. Basare tutto un piano di ricerca su indizi così vaghi, cui potevano mescolarsi tante cause di errori, non avrebbe voluto dire votarsi all'insuccesso? L'armatore, dotato eminentemente di senso pratico, non mancò di farlo osservare a Sylvius Hog. — Sia pure, amico Help! Ma se tutto ciò può fornirci solo dati incerti, non è una buona ragione per non tentare. Io desidero che si faccia tutto il possibile a favore di questi disgraziati, ai quali devo la mia stessa vita. Sì, e se fosse necessario, non esiterei a sacrificare quanto posseggo per ritrovare Ole Kamp e per ricondurlo alla sua fidanzata. E Sylvius Hog raccontò nei minimi particolari la sua avventura al Rjukanfos, ciò che quel coraggioso Joël e sua sorella Hulda avevano fatto per venirgli in aiuto, rischiando la loro vita, e come, senza il loro intervento, egli non avrebbe avuto, in quel momento, il piacere di essere l'ospite del suo amico Help. L'amico Help era poco incline ad abbandonarsi alle illusioni, ma era anche disposto a tentare l'inutile e anche l'impossibile, quando si trattava di un gesto d'umanità. Approvò quindi finalmente il piano di Sylvius Hog. — Sylvius — egli rispose, — vi seconderò con tutte le mie forze. Sì! Avete ragione! Ci fosse anche solo una piccola probabilità di ritrovare qualche superstite del Viken; e, inoltre, non bisogna dimenticare quel bravo Ole, la cui fidanzata vi ha salvato la vita! — No, Help, no — rispose il professore; — ci fosse anche una probabilità su centomila! — Oggi stesso riunirò nel mio ufficio i migliori marinai di Bergen. Mi rivolgerò a tutti coloro che hanno navigato o che navigano in genere nei paraggi dell'Islanda e di Terranova. Vedremo quello che ci consiglieranno di fare… — E seguiremo i loro consigli! — soggiunse il professore, con il suo ardore comunicativo. — Ho l'appoggio del governo e sono autorizzato a far partire uno dei suoi avvisi 4 per la ricerca del Viken, e credo che nessuno esiterà, trattandosi di un'opera così generosa. — Vado all'ufficio del ministero della Marina — disse Help junior. — Volete che vi accompagni? — È inutile!… Dovete essere stanco… — Stanco!… io!… alla mia età!… — Non importa. Riposatevi, mio caro e sempre giovane Sylvius, e aspettatemi qui. Quello stesso giorno si tenne una riunione di capitani di marina mercantile, di marinai pescatori e di piloti nella casa dei Fratelli Help. Non mancavano molti marinai che svolgevano ancora il loro mestiere sul mare, e alcuni più anziani, che erano ora a riposo. Dapprima Sylvius Hog mise tutti al corrente della situazione. Egli disse in quale giorno, 3 maggio, il biglietto era stato gettato in mare da Ole Kamp; e in quale giorno, 3 giugno, il capitano danese l'aveva raccolto e in quali paraggi, a duecento miglia a sud-ovest dell'Islanda. La discussione fu lunga e seria, e bastò a provare che non c'era uno di quei bravi marinai che non conoscesse qual era, nei paraggi dell'Islanda e dei mari di Terranova, la direzione generale delle correnti di cui bisognava tener 4 Avviso: nave militare di medio o piccolo tonnellaggio destinata all'esplorazione o alla scorta. (N.d.T.) conto per la risoluzione di quel problema. Ora, era più evidente che all'epoca del naufragio, nel tempo trascorso fra la partenza del Viken da Saint-PierreMiquelon e il ritrovamento della bottiglia da parte della nave danese, una lunga tempesta di vento di sud-ovest aveva sconvolto quella parte dell'Atlantico: senza dubbio la catastrofe ne era stata la conseguenza. Probabilmente il Viken, non potendo affrontare la burrasca, aveva dovuto fuggire col vento in poppa. Ora, sappiamo che durante l'equinozio, i ghiacci polari cominciano a discendere verso l'Atlantico. Forse era accaduta una collisione, e il Viken si era spezzato contro uno di quei grandi massi di ghiaccio galleggiante che spesso è impossibile evitare. Data questa spiegazione, era possibile che l'equipaggio, in tutto o in parte, si fosse rifugiato sopra un icefield, trasportandovi anche una certa quantità di viveri. Se era veramente così, se, cioè, il banco di ghiaccio era stato sospinto verso nord-ovest, si poteva nutrire qualche speranza che i naufraghi fossero riusciti a toccare qualche punto di quelle coste desolate della Groenlandia. Le ricerche dunque si dovevano eseguire in quella direzione e in quei paraggi. Tale fu la risposta data, all'unanimità, in quella riunione di marinai alle diverse domande poste da Sylvius Hog. Nessun dubbio che fosse necessario procedere nella maniera indicata. Ma cosa ritrovare quando non ci fossero resti o se il Viken fosse andato a sbattere contro un enorme iceberg? Si doveva ancora contare sul rimpatrio dei sopravvissuti al naufragio? Era una cosa piuttosto difficile. Il professore, dopo aver fatto esplicitamente questa domanda, si accorse subito che i più competenti non potevano o non volevano rispondere nulla. Ma questa non era una buona ragione per non tentare - su questo punto erano d'accordo - e questi tentativi dovevano essere fatti il più presto possibile. Nel porto di Bergen si trovano sempre delle navi appartenenti alla flottiglia norvegese dello Stato, e, fra le altre, uno dei tre avvisi che fanno il servizio della costa occidentale, fermandosi agli scali di Drontheim, del Finmark, d'Hammerfest e del Capo Nord. In quel momento uno di quegli avvisi era ancorato nella baia. Dopo aver redatto un appunto che riassumeva l'opinione dei marinai riuniti in casa di Help junior, Sylvius Hog si recò subito a bordo dell'avviso Telegraf, dove fece conoscere al capitano la missione speciale che gli era stata affidata dal governo. Il capitano ricevette il professore con grande rispetto e disse di essere a sua disposizione. Egli aveva più volte percorso quei paraggi, durante le lunghe e pericolose spedizioni di pesca che vengono intraprese dai marinai di Bergen, dalle isole Loffoden e dal Finnmark fino alle peschiere dell'Islanda e di Terranova. Poteva dunque aggiungere la sua personale esperienza all'opera di umanità che sarebbe stata intrapresa e promise di dedicarvisi interamente. Quanto all'appunto che gli aveva mostrato Sylvius Hog appunto che indicava il presunto luogo del naufragio - egli ne approvò assolutamente le conclusioni. I superstiti, o anche i relitti del Viken, dovevano dunque essere cercati nella porzione di mare fra l'Islanda e la Groenlandia. Se non avesse trovato nulla laggiù, il capitano avrebbe esplorato i paraggi vicini e fors'anche il mare di Baffin sulla costa orientale. — Sono pronto a partire, signor Hog — egli aggiunse. — Le provviste non mancano, l'equipaggio è a bordo e posso salpare anche subito. — Vi ringrazio, capitano — rispose il professore — e sono molto commosso per l'accoglienza che m'avete fatto. Ma permettetemi ancora una domanda: quanto tempo vi ci vorrà per raggiungere i paraggi della Groenlandia? — Il mio avviso può fare undici nodi all'ora. Ora la distanza da Bergen alla Groenlandia è di venti gradi circa; potrò quindi percorrerla in meno di otto giorni. — Affrettatevi il più possibile, capitano — soggiunse Sylvius Hog. — Se qualche marinaio è riuscito a sfuggire alla catastrofe si trova già da due mesi abbandonato, senza dubbio morente di fame su qualche costa deserta… — Non c'è un'ora da perdere, signor Hog. Oggi stesso prenderò il mare col riflusso, andrò alla massima velocità, e appena avrò trovato un qualunque indizio ne informerò la Marina di Christiania col telegrafo di Terranova. — Partite dunque, capitano — rispose Sylvius Hog — e che possiate riuscire! Poche ore dopo il Telegraf lasciava il porto, accompagnato dagli applausi di simpatia di tutta la popolazione di Bergen. E fu con una viva emozione che lo si vide allontanarsi e quindi scomparire dietro gli isolotti del porto. Tuttavia Sylvius Hog non limitò i suoi tentativi a questa spedizione, di cui aveva incaricato l'avviso Telegraf. Egli aveva l'intenzione di fare molto di più, moltiplicando i mezzi da adoperare per ritrovare una traccia del Viken. Non si poteva spingere le navi mercantili e da pesca, joëgts o altre, a fare lo stesso, intraprendendo delle ricerche mentre quelle navigavano sui mari delle Farhoer e dell'Islanda? Sì, certamente! Un premio di duemila marchi fu promesso, in nome dello Stato, a quel bastimento che avesse fornito qualche notizia relativa alla nave naufragata, e un premio di cinquemila marchi a chiunque avesse ricondotto in patria uno dei naufraghi. Ecco dunque come Sylvius Hog, nei due giorni in cui rimase a Bergen, dispose tutto per assicurare il successo di quella ricerca. In questo, egli fu secondato pienamente dal suo amico Help junior e dalle autorità marittime. Il signor Help avrebbe desiderato trattenerlo presso di sé ancora un po', ma Sylvius Hog lo ringraziò, rifiutando di prolungare la sua visita. Non vedeva il momento di rivedere Hulda e Joël, che temeva di lasciare soli. Anche Help junior promise di inviare immediatamente a Dal qualsiasi notizia fosse pervenuta. Il 4 mattina, Sylvius Hog, dopo aver preso congedo da Help junior, s'imbarcò sul Run per attraversare il fiordo dell'Hardanger, e, a meno che si fossero verificati dei ritardi, egli faceva conto di essere di ritorno nel Telemark la sera dell'indomani. CAPITOLO XIV Lo STESSO GIORNO in cui Sylvius Hog aveva lasciato Bergen, un grave incidente era accaduto nell'albergo di Dal. Dopo la partenza del professore, si sarebbe detto che il buon genio di Hulda e di Joël avesse portato via, insieme all'ultima speranza, tutta la vita di quella famiglia. Era come una casa morta quella che Sylvius lasciava dietro di sé. Del resto, durante quei giorni, nessun turista venne a Dal. Così, Joël non dovette assentarsi e poté quindi rimanere accanto a Hulda, che non voleva lasciare sola. Madama Hansen era più che mai turbata da profonde inquietudini. Pareva che non partecipasse nemmeno al dolore dei suoi figlioli. Viveva in disparte, ritirata nella sua camera, facendosi vedere solo all'ora dei pasti. Ma se diceva una parola a Hulda ed a Joël, era sempre per far loro dei rimproveri, diretti o indiretti, a proposito del famoso biglietto della lotteria di cui essi non volevano disfarsi assolutamente. Le offerte non erano cessate. Ne giungevano da ogni parte. Era una specie di follia che si era impadronita di alcuni cervelli. Pareva che si fosse proprio sicuri che il biglietto di Ole Kamp fosse destinato a vincere! Pareva che quello solo fosse il numero buono! Insomma l'inglese di Manchester e l'americano di Boston se lo disputavano. L'inglese era riuscito a superare il suo rivale di qualche lira, ma a sua volta fu ben presto sorpassato da parecchie centinaia di dollari. L'ultima offerta era di ottomila marchi - cosa che si poteva spiegare solo ammettendo una specie di monomania, a meno che non si trattasse di una questione d'amor proprio fra l'America e la Gran Bretagna. Comunque sia, Hulda continuava a rispondere negativamente a tutte queste proposte, per quanto vantaggiose - e mamma Hansen si abbandonava alle più amare recriminazioni. — E se io ti ordinassi di vendere questo biglietto? — disse un giorno alla figlia; — si! se te l'ordinassi! — Madre mia, sarei desolata, ma dovrei rispondere con un rifiuto! — Tuttavia, se fosse necessario? — Perché dovrebbe esserlo? — osservò Joël. Mamma Hansen non aggiunse parola. Era divenuta pallidissima, vedendo di non riuscire a spuntarla, e si ritirò, mormorando parole inintelligibili. — C'è qualche cosa di grave, e dev'essere un affare tra nostra madre e Sandgoïst! — disse Joël. — Lo penso anch'io, Joël! Chi sa quali complicazioni ci prepara l'avvenire! — Mia povera Hulda, siamo già abbastanza provati da alcune settimane, e un nuovo disastro ci minaccia? — Quanto tarda a ritornare il signor Sylvius! — disse Hulda. — Quando è qui, mi sento meno sconsolata! — E, nonostante tutto, cosa potrebbe fare, lui, per noi? — rispose Joël. Ma che cosa c'era nel passato di mamma Hansen che ella non voleva confidare ai suoi figli? Per quale amor proprio male inteso essa celava loro il motivo delle sue inquietudini? Aveva da rivolger loro qualche rimprovero? E, d'altra parte, per quale ragione cercava di esercitare questa pressione su sua figlia, a proposito del biglietto di Ole Kamp e del valore che esso aveva raggiunto? Da cosa nasceva il fatto che ella si mostrava così impaziente di intascarne il prezzo? Finalmente questo mistero stava per essere svelato a Hulda e Joël. Il 4 luglio mattina, Joël aveva condotto la sorella alla chiesetta ove essa tutti i giorni pregava per il naufrago. Egli l'attendeva e poi la riconduceva a casa. Quel giorno, al ritorno, videro entrambi da lontano, sotto gli alberi, mamma Hansen che camminava rapidamente e si dirigeva verso l'albergo. Non era sola. Le stava vicino un viaggiatore, che doveva parlare a voce alta e i cui gesti sembravano imperiosi. Hulda e suo fratello si erano subito fermati. — Chi è quell'uomo? — chiese Joël. Hulda fece alcuni passi avanti. — Lo riconosco — ella disse. — Lo riconosci? — Sì! È Sandgoïst! — Quel Sandgoïst di Drammen che è già venuto in casa nostra durante la mia assenza? — Sì! — E che teneva un contegno da padrone, come se avesse dei diritti su nostra madre, fors'anche su di noi?… — Egli, in persona, e certamente è qui per esercitare questi diritti. — Ma quali?… Ah!… questa volta saprò che cosa pretende quest'uomo! Joël si tratteneva a fatica, e, seguito dalla sorella, andò a mettersi un po' in disparte. Pochi minuti dopo, mamma Hansen e Sandgoïst giunsero alla porta dell'albergo. Sandgoïst vi entrò per primo. La porta si chiuse dietro mamma Hansen e lui. Joël e Hulda si avvicinarono alla casa, ove si udiva la voce incollerita di Sandgoïst. Si fermarono, ascoltarono. Mamma Hansen parlava con accento supplichevole. — Entriamo! — disse Joël. Ed entrambi, Hulda coi cuore oppresso e Joël, fremente d'impazienza e anche di collera, entrarono nel salone, di cui richiusero la porta. Sandgoïst era seduto nella sedia a braccioli. Non si scomodò per nulla vedendo il fratello e la sorella, Si contentò appena di volgere il capo e di sbirciarli dal di sopra degli occhiali. — Ah! ecco la graziosa Hulda, se non m'inganno — egli disse con un accento che dispiacque a Joël. Mamma Hansen stava in piedi davanti a quell'uomo, in un'attitudine umile e timorosa. Ma alla vista dei figli, si raddrizzò subito e parve molto contrariata. — Ed ecco suo fratello, vero? — soggiunse Sandgoïst. — Sì, suo fratello — rispose Joël. Poi, avvicinandosi e fermandosi a due passi dalla poltrona: — In che cosa posso servirla? — chiese. Sandgoïst lo guardò duramente, e con voce aspra, rispose senza alzarsi: — State per saperlo, giovanotto! Davvero, venite a proposito! Avevo fretta di vedervi, e, se vostra sorella è ragionevole, noi faremo presto ad intenderci! Ma sedete, e anche voi, fanciulla! Sandgoïst li invitava a sedere, come se si fosse trovato in casa sua. Joël glielo fece osservare. — Ah! ah! Questo vi ferisce! Diavolo, ecco un giovane alquanto permaloso. — Permaloso, appunto — soggiunse Joël — e che accetta delle cortesie solo da chi ha diritto di usargliele! — Joël! — disse mamma Hansen. — Fratello!… fratello mio! — aggiunse Hulda, supplicandolo con un'occhiata di frenarsi. Joël fece uno sforzo violento per padroneggiarsi, e, per non cedere alla voglia di mettere alla porta quell'ospite volgare, si ritirò in un angolo della sala. — Posso parlare, adesso? — chiese Sandgoïst. Mamma Hansen rispose soltanto con un segno affermativo. Ma fu sufficiente. — Ecco di che si tratta, ma vi prego di ascoltarmi attentamente, poiché non amo ripetere ciò che ho detto una volta! Come si vede, egli parlava come un uomo che ha il diritto d'imporre la propria volontà. — Venni a conoscenza dai giornali — egli rispose — dell'avventura di un certo Ole Kamp, giovane marinaio di Bergen, e di un biglietto di lotteria, che egli aveva inviato alla sua fidanzata Hulda nel momento in cui la sua nave, il Viken, stava per fare naufragio. Seppi anche che la gente considerava quel biglietto come un biglietto soprannaturale, a causa delle circostanze nelle quali era venuto a trovarsi. Ho saputo, inoltre, che gli veniva attribuito un valore speciale, riguardo alla fortuna che esso dovrebbe avere il giorno dell'estrazione. Infine, ho saputo che sono state fatte a Hulda Hansen delle offerte, e anche a prezzi considerevoli. Tacque un istante e poi: — È vero tutto ciò? — disse. La risposta si fece attendere. — Sì!… È vero! E dopo? — disse Joël. — Dopo? — riprese Sandgoïst. — Ecco, io penso che queste offerte siano causate da un'assurda superstizione, ma esse ci sono ugualmente e aumentano, penso, avvicinandosi il giorno dell'estrazione. Ora io sono commerciante. Vedo qui un affare che potrebbe convenirmi. Appunto per ciò ho lasciato ieri Drammen e mi trovo qui, per trattare della cessione del biglietto o per pregare madama Hansen di darmi, in ogni caso, la preferenza rispetto a qualsiasi altro offerente. Hulda, a tutta prima, voleva rispondere a Sandgoïst con un rifiuto, come a tanti altri, ma Joël la prevenne: — Prima di rispondere al signor Sandgoïst, gli domanderò se egli sa a chi appartiene questo biglietto. — Ad Hulda Hansen, immagino! — Ebbene, è ad Hulda Hansen che bisogna chiedere se è disposta a cederlo! — Joël!… — disse mamma Hansen. — Lasciatemi finire, madre — rispose Joël. — Questo biglietto non apparteneva legittimamente a nostro cugino Ole Kamp, e non lo ha regalato in assoluta proprietà a mia sorella? — Sta benissimo — rispose Sandgoïst. — Dunque per averlo bisogna rivolgersi a Hulda Hansen. — Va bene, va bene, signor formalista — rispose Sandgoïst. — Io chiedo dunque a Hulda di cedermi questo biglietto, che porta il numero 9672 e che ella ha avuto da Ole Kamp. — Signor Sandgoïst — rispose la fanciulla con voce ferma, — ho ricevuto altre proposte riguardo a questo biglietto, ma inutilmente. Risponderò, come ho risposto sino ad ora. Se il mio fidanzato mi ha trasmesso questo biglietto con le sue ultime parole, certo la sua intenzione non era quella che io lo vendessi. Ecco perché non posso venderlo a nessun prezzo. Ciò detto, Hulda si disponeva a ritirarsi, parendole che il suo rifiuto mettesse fine al colloquio. Ma un gesto della madre la trattenne. Mamma Hansen non aveva celato il suo dispetto, e Sandgoïst, corrugando la fronte e col lampo dello sguardo, già si mostrava incollerito. — Sì, rimanete, Hulda — egli disse. — Non può essere questa l'ultima vostra parola, e, se insisto, vuol dire che ho il diritto d'insistere. Ma forse io mi sono male spiegato, o voi mi avete male inteso. È certo che le probabilità di questo biglietto non sono maggiori per il fatto che la mano di un naufrago lo chiuse dentro una bottiglia e perché è stato poi raccolto, ma è inutile ragionare con i capricci del pubblico. Non c'è dubbio che molti desiderano acquistarlo, e che hanno già fatte delle offerte ragguardevoli. Ve lo ripeto, ciò si presenta sotto l'aspetto di un affare, ed è appunto un affare che io voglio trattare con voi. — Non vi sarà molto facile intendervi con mia sorella, signore — rispose ironicamente Joël. — Quando le proponete un affare, essa vi risponde con la voce del sentimento. — Parole, parole, giovanotto! — rispose Sandgoïst — e quando il mio discorso sarà finito, vedrete che è un affare vantaggioso per me, ma anche per lei! E sarà pure utile per sua madre, che vi è particolarmente interessata. Joël e Hulda si guardarono. Stavano per conoscere quello che mamma Hansen aveva celato fin allora? — Riprendo — disse Sandgoïst. — Non ho preteso che questo biglietto mi fosse ceduto al prezzo al quale Ole Kamp l'ha comperato! No di certo!… A torto o a ragione, ha acquistato un certo valore mercantile. Quindi, intendo fare un sacrificio per acquistarlo. — Vi è già stato detto — replicò Joël — che Hulda ha già respinto delle proposte superiori a quanto voi potreste offrire. — Davvero? — esclamò Sandgoïst. — Delle proposte superiori? E che cosa ne sapete, voi? — Del resto, quali che esse siano, mia sorella le rifiuta, ed io approvo il suo rifiuto! — Ah! dico, devo trattare con Joël o con Hulda Hansen? — Mia sorella ed io facciamo una sola persona — rispose Joël. — Sappiatelo, signore, giacché mostrate di ignorarlo! Sandgoïst, senza turbarsi, alzò le spalle. Quindi, come uomo sicuro dei propri mezzi, riprese: — Quando ho accennato a un prezzo in cambio del biglietto, avrei dovuto soggiungere che io posso offrire tali vantaggi che Hulda, nell'interesse della famiglia, non potrà rifiutarli. — Davvero? — Ed ora, ragazzo mio, sappiate che io non sono venuto a Dal per pregare vostra sorella di cedermi il biglietto! No, per mille diavoli, no. — Che chiedete allora? — Non domando, esigo… voglio! — E con qual diritto — esclamò Joël — voi, uno straniero, osate parlare così nella casa di mia madre? — Col diritto che ha un uomo di parlare quando e come gli piace, quando si trova in casa sua! — rispose Sandgoïst. — A casa sua! Joël, al colmo dello sdegno, si slanciò verso Sandgoïst, che quantunque non facile ad intimidirsi, si alzò dalla poltrona con mossa vivace. Ma Hulda trattenne suo fratello, mentre mamma Hansen con la testa nascosta fra le mani, andava a celarsi in un angolo della sala. — Fratello mio!… Osserva nostra madre — disse la fanciulla. Joël si fermò ad un tratto. La vista della madre frenò la sua ira. Tutto, nel suo contegno, diceva a quale punto mamma Hansen si trovava in potere di Sandgoïst! Questi riprese il sopravvento, dopo essersi di nuovo adagiato comodamente nella poltrona: — Sì, in casa mia. Dopo la morte del marito, madama Hansen si è slanciata in speculazioni poco felici. Ha sciupato la piccola fortuna trasmessale da suo marito al momento della morte. Dovette chieder danaro a prestito ad un banchiere di Christiania. Esaurita ogni risorsa, si trovò costretta ad offrire questa casa in garanzia per una somma di quindicimila marchi: obbligazione in perfetta regola che le è stata prestata e che io, Sandgoïst, ho ricomprato dal suo prestatore. Questa casa sarà dunque mia, e assai presto, se non sono pagato alla scadenza. — A quando la scadenza? — chiese Joël. — Al 20 luglio, fra diciotto giorni — rispose Sandgoïst. — E quel giorno, vi piaccia o no, io sarò qui in casa mia. — Quel giorno voi sarete a casa vostra soltanto se non vi avremo ancora rimborsato quanto vi spetta — replicò Joël. — Vi proibisco dunque di parlare con il tono che finora avete usato, davanti a mia madre e a mia sorella! — Mi proibisce… A me… — gridò Sandgoïst. — E madama Hansen me lo proibisce anche lei? — Parlate, dunque, madre mia — disse Joël dirigendosi verso di lei e prendendola per le mani. — Joël, fratello mio! — esclamò Hulda. — Abbi pietà per lei… te ne supplico… calmati. Mamma Hansen, a testa bassa, non osava guardare suo figlio. Era proprio così: qualche anno dopo la morte del marito, ella aveva cercato di aumentare il suo modesto patrimonio con affari rischiosi. Così, era finito anche quel poco denaro di cui disponeva e ben presto aveva dovuto ricorrere a prestiti che l'avevano ridotta a mal partito. E ora un'obbligazione, ipotecata sulla sua casa, era passata nelle mani di quel Sandgoïst di Drammen, uomo senza cuore, usuraio noto e detestato in tutto il paese. Ecco dunque qual era il segreto che pesava sulla vita di quella donna. Ecco la spiegazione del suo contegno, ecco perché viveva in disparte, come se avesse voluto agire di nascosto dei suoi figli. Ecco ciò che non aveva mai voluto dire a coloro di cui aveva compromesso il destino. Hulda osava appena riflettere su quanto aveva udito or ora. Sì! Sandgoïst era padrone di imporre la sua volontà! Quel biglietto, che egli adesso voleva, forse fra quindici giorni non avrebbe avuto più alcun valore, e, se lei non si decideva a venderlo, la rovina era inevitabile: la casa venduta, la famiglia Hansen senza tetto, senza denaro… Sarebbe stata la miseria. Hulda non osava più alzare gli occhi verso Joël. Ma Joël, accecato dalla collera, non volle curarsi delle minacce che il futuro avrebbe potuto riservare. Vedeva soltanto Sandgoïst, e se costui avesse continuato a parlare col tono di prima, egli non avrebbe saputo padroneggiarsi. Ma Sandgoïst, sapendosi padrone della situazione, divenne più duro, più imperioso ancora. — Questo biglietto lo voglio e l'avrò! — egli ripeteva. — In cambio, faccio un'offerta che non potete rifiutare: offro di rimandare la scadenza dell'obbligazione sottoscritta da madama Hansen, di rimandarla di un anno… di due anni… Fissate voi stessa la data, Hulda! Hulda, il cuore stretto dall'angoscia, non sarebbe stata capace di rispondere. Suo fratello rispose per lei e gridò: — Il biglietto di Ole Kamp non può essere venduto da Hulda Hansen! Mia sorella rifiuta, qualunque siano le vostre pretese e le vostre minacce! E ora uscite! — Uscire! — disse Sandgoïst. — Oh! no, davvero!… Io non uscirò!… E se l'offerta che ho fatto non è bastevole, farò di più… Sì!… In cambio del biglietto, io offro… offro… Bisognava che Sandgoïst avesse davvero un vivissimo desiderio di possedere quel biglietto, bisognava che fosse convintissimo che l'affare sarebbe stato vantaggioso per lui, perché egli andò a sedersi davanti alla tavola su cui stavano carta, penna e calamaio. E, un attimo dopo: — Ecco quello che offro! — disse. Era la ricevuta della somma dovutagli da madama Hansen per la quale ella aveva dato in garanzia la casa di Dal. Mamma Hansen, con le mani giunte, con le spalle curve, guardava, implorava sua figlia. — Ed ora, — riprese Sandgoïst, — questo biglietto io lo voglio… lo voglio subito… sul momento!… Non lascerò Dal se prima non l'avrò con me… lo voglio, Hulda… lo voglio! Sandgoïst s'era avvicinato alla povera fanciulla, come se avesse voluto frugarle indosso per toglierle il biglietto di Ole. Fu allora che Joël non ci vide più, soprattutto quando sentì Hulda gridare: — Fratello!… fratello!… — Uscite! — egli gridò. E siccome Sandgoïst rifiutava di uscire, egli stava per slanciarsi su di lui, quando Hulda intervenne. — Madre mia, ecco il biglietto! — ella disse. Mamma Hansen prese con impeto il biglietto, e mentre lo scambiava con la ricevuta di Sandgoïst, Hulda cadeva sulla poltrona quasi svenuta. — Hulda!… Hulda!… — esclamava Joël. — Ritorna in te!… Ah! sorella mia, che cosa hai mai fatto! — Che cosa ha fatto? — soggiunse mamma Hansen. — Che cosa ha fatto?… Sì, io sono colpevole! Per giovare ai miei figli, ho cercato di aumentare il patrimonio del loro padre! Sì! Ho compromesso l'avvenire, ho gettato la mia famiglia nella miseria… Ma Hulda ci ha salvati tutti!… Ecco quello che ha fatto!… Grazie, Hulda… Grazie! Sandgoïst non era ancora uscito. Joël lo vide. — Voi… ancora qui! — gridò. . Poi gli si avvicinò, lo afferrò per le spalle, lo sollevò di peso e, malgrado le sue proteste, lo gettò fuori. CAPITOLO XV SYLVIUS HOG giunse a Dal la sera del giorno dopo. Nulla disse del viaggio. Nessuno seppe che egli era andato a Bergen. Finché le ricerche iniziate non avessero approdato a qualche risultato, si proponeva di non parlarne alla famiglia Hansen. Le lettere e i dispacci, da Bergen o da Christiania, dovevano essergli personalmente indirizzati all'albergo, dove egli contava di attendere gli eventi. Continuava a sperare? Sì, ma era una speranza più che altro basata su presentimenti. Appena di ritorno, il professore non tardò ad accorgersi che qualcosa di grave era accaduto durante la sua assenza. Il contegno di Joël e di Hulda indicava chiaramente che tra loro e madama Hansen doveva esserci stata una spiegazione. Una nuova sventura aveva dunque colpito la famiglia Hansen? Ciò afflisse profondamente Sylvius Hog. Egli provava per i due giovani un affetto così paterno che non avrebbe potuto essere tanto affezionato ai propri figlioli. Come avevano sentito, i due giovani, la sua mancanza e come egli aveva sentito la loro! «Parleranno!» si disse. «Devono parlare! Non sono io della famiglia?». Sylvius Hog credeva, oramai, di avere il diritto d'intervenire nella vita privata dei suoi giovani amici, di sapere perché Joël e Hulda sembravano essere più infelici ancora di quando egli era partito. Egli non tardò ad esserne informato. Infatti, anche loro desideravano sommamente confidarsi a quell'uomo così buono che amavano con affetto filiale. Essi aspettavano che lui stesso si degnasse di interrogarli. Da due giorni si sentivano così soli, così abbandonati, tanto più che Sylvius Hog non aveva detto lo scopo del suo viaggio. Mai le ore erano sembrate loro così lunghe! Non pensavano che quell'assenza avesse relazione con le ricerche del Viken e non sarebbe mai venuto loro in mente che il professore avesse tenuto nascosto il motivo del viaggio per evitare loro un'enorme disillusione in caso di insuccesso! Ed ora la presenza di lui era per loro più necessaria che mai! Che bisogno provavano di vederlo, di ricevere i suoi consigli, d'udire la sua voce sempre così affettuosa, così rassicurante! Ma avrebbero mai avuto il coraggio di raccontargli quanto era avvenuto tra loro e l'usuraio di Drammen e come mamma Hansen aveva compromesso l'avvenire della casa? Cosa avrebbe pensato Sylvius Hog nell'apprendere che il biglietto non era più nelle mani di Hulda e che mamma Hansen l'aveva adoperato per liberarsi del suo spietato creditore? Ma egli l'avrebbe saputo, del resto. Non si sa chi fu il primo a parlare, se Sylvius Hog, Joël o Hulda, ma non ha importanza, questo! Una cosa è certa, cioè che il professore fu presto messo al corrente di questa storia. Seppe quale era stata la situazione di mamma Hansen e dei suoi figlioli! Fra quindici giorni, l'usuraio li avrebbe cacciati da quella casa, se il debito non fosse stato soddisfatto con la cessione del biglietto. Sylvius Hog ascoltò questo penoso racconto, che Joël gli fece in presenza della sorella. — Non dovevate privarvi del biglietto! — esclamò dapprima. — Assolutamente, non dovevate privarvene! — Potevo comportarmi diversamente, signor Sylvius? — rispose la fanciulla, profondamente turbata. — Eh! no, certamente! Non potevate!… Ma tuttavia!… Ah, se io fossi stato presente! Che cosa avrebbe fatto il professore se fosse stato presente? Non disse una parola in proposito e riprese: — Vedo bene, cara Hulda, sì, Joël! Alla fine, avete fatto ciò che il dovere vi consigliava! Ma ciò che m'indispettisce è il sapere che questo Sandgoïst profitterà del trasporto superstizioso del pubblico! Se si attribuirà al biglietto del povero Ole un valore soprannaturale, sarà lui a sfruttare l'occasione! E tuttavia, credere che quel numero 9672 venga di sicuro favorito dalla fortuna, è semplicemente ridicolo, assurdo! Infine, per concludere, forse io non avrei dato il biglietto. Dopo averlo rifiutato a Sandgoïst, Hulda avrebbe fatto meglio a rifiutarlo a sua madre! A quanto Sylvius Hog aveva detto, Hulda e Joël non sapevano che cosa aggiungere. Consegnando il biglietto a sua madre, Hulda aveva obbedito ad un sentimento filiale per cui non meritava certo di essere biasimata. Il sacrificio che aveva voluto fare non era quello dei beni più o meno aleatori che quel biglietto rappresentava nel sorteggio della lotteria di Christiania, ma era il sacrificio delle ultime volontà di Ole Kamp, era un privarsi dell'ultimo ricordo del suo fidanzato.. Ma adesso ogni rimpianto era vano. Sandgoïst possedeva il biglietto. Egli lo avrebbe fatto fruttare. Il peggiore degli usurai stava per fare danaro con quel commovente pegno di addio del naufrago! No! Sylvius Hog non poteva permetterlo! Così, quel giorno stesso, Sylvius Hog volle avere, a questo proposito, una conversazione con mamma Hansen, benché il colloquio non potesse ormai cambiare lo stato attuale delle cose; tuttavia, era un colloquio che era divenuto, per così dire, necessario tra loro due. Egli si trovò pertanto di fronte a una donna che possedeva più buon senso che generosità di cuore. — Quindi mi biasimate, signor Hog? — ella disse, dopo aver lasciato parlare liberamente il professore. — Certamente, madama Hansen. — Se mi rimproverate d'essermi imprudentemente lanciata in cattivi affari, di avere compromessa la fortuna dei miei figli avete ragione. Ma se mi rimproverate di avere agito come ho agito per uscire da questa penosa situazione, avete torto. Che avete da rispondermi? — Nulla. — Sinceramente, si poteva rifiutare l'offerta di Sandgoïst, che in fin dei conti ha pagato quindicimila marchi un biglietto di nessun valore? Ve lo domando ancora: si poteva rifiutare? — Sì e no, madama Hansen. — Non si e no, signor Hog, ma no, decisamente. Nella situazione che ora voi conoscete, se l'avvenire non fosse stato così minaccioso - per mia colpa, ne convengo — avrei capito il rifiuto di Hulda!… Sì!… Avrei ammesso tutti i motivi che la inducevano a non voler vendere il biglietto di Ole Kamp! Ma quando si trattava di vedersi cacciati dalla casa ov'è morto mio marito, ove sono nati i miei figli, io non posso più capirlo, e voi, signor Hog, al mio posto, non avreste fatto diversamente! — Sì, madama Hansen, sì! — E che cosa avreste fatto? — Avrei tentato tutto piuttosto che sacrificare un biglietto che mia figlia aveva ricevuto in simili circostanze! — Queste circostanze lo rendono dunque migliore? — Questo non possiamo dirlo né io, né voi, né nessun altro. — Possiamo, invece, signor Hog! Questo biglietto ha novecentonovan-tanovemila e novecentonovantanove probabilità di perdere contro una di guadagnare. Forse perché fu trovato in una bottiglia, gettata in mare, ha acquistato un valore più grande? A questa osservazione tanto precisa, Sylvius Hog non sapeva che rispondere; così tornò a guardare la cosa dal lato del «sentimento», e disse: — La situazione, per ora, è questa: Ole Kamp, al momento del naufragio, ha trasmesso ad Hulda il solo bene che gli restava al mondo! Le ha pure raccomandato di trovarsi là, al momento dell'estrazione, nel caso che la fortuna volesse favorirlo… ed ora, questo biglietto non è più nelle mani di Hulda. — Ole Kamp, di ritorno, non avrebbe agito diversamente da mia figlia — rispose mamma Hansen. — È possibile — riprese Sylvius Hog, — ma egli solo aveva il diritto di farlo. E che cosa gli rispondereste, se non fosse morto, se non fosse perito in questo naufragio, se ritornasse domani… oggi?… — Ole non ritornerà più — rispose mamma Hansen con voce cupa. — Ole è morto, signor Hog, siatene sicuro. — Voi non lo sapete, madama Hansen! — esclamò il professore con un accento di convinzione davvero straordinario. — Sono state iniziate ricerche molto serie per ritrovare qualcuno che sia sopravvissuto al naufragio! Potrebbero riuscire, si! riuscire anche prima che abbia luogo l'estrazione. Non avete dunque il diritto di dire che Ole Kamp è morto, finché non si avranno delle prove certe che egli è tra le vittime del naufragio. Se adesso non parlo più ai vostri figli delle mie speranze, lo faccio per non dar loro una speranza che potrebbe poi portarli a dolorose delusioni. Ma a voi, mamma Hansen, voglio dire ciò che penso! Non posso credere che Ole sia morto! Non voglio crederlo!… Non lo credo! Mamma Hansen, sul terreno su cui era scivolata la conversazione, non poteva lottare col professore. Così, taceva, e quella norvegese, in fondo un po' superstiziosa, chinò il capo, come se Ole Kamp avesse potuto comparirle dinanzi da un momento all'altro. — In ogni caso, mamma Hansen — riprese Sylvius Hog, — prima di disporre del biglietto di Hulda, c'era una cosa semplicissima da fare e non l'avete fatta. — Quale, signor Hog? — Bisognava rivolgersi prima ai vostri amici, agli amici della vostra famiglia. Non avrebbero rifiutato di venire in vostro aiuto, o sostituendosi a Sandgoïst nel suo credito, o dandovi la somma necessaria per pagarlo! — Io non ho amici, signor Hog, cui possa domandare un favore simile! — Sì, ne avete, madama Hansen, e ne conosco almeno uno che vi avrebbe aiutato senza esitare e come un gesto di riconoscenza. — E come si chiama? — Sylvius Hog, deputato allo Storting! Mamma Hansen non poté rispondere e fece soltanto col capo un segno di ringraziamento. — Ma ciò che è fatto è fatto, disgraziatamente! — aggiunse Sylvius Hog. — Vi prego, dunque, mamma Hansen, di non dir nulla ai vostri figli di quanto è stato detto fra noi. Dopo di che, si separarono. Il professore aveva ripreso la sua vita consueta, aveva ricominciate le sue passeggiate. Per alcune ore, egli visitava con Joël e Hulda i dintorni di Dal, ma senza andare molto lontano, per non affaticare troppo la fanciulla. Di ritorno, si occupava della corrispondenza, che gli dava non poco da fare. Scriveva ripetute lettere a Bergen, a Christiania. Egli eccitava lo zelo di tutti coloro che avevano acconsentito a collaborare alla generosa impresa di ricerca del Viken. La sua esistenza si concentrava nel supremo pensiero: trovare Ole, ritrovare Ole! Egli credette necessario assentarsi ancora una volta, per ventiquattr'ore, per un motivo che certamente riguardava la famiglia Hansen. Ma conservò, come sempre, un segreto assoluto su ciò che faceva o faceva fare al riguardo. Intanto la salute di Hulda, così duramente messa alla prova, si ristabiliva molto adagio. L'infelice fanciulla viveva soltanto del pensiero di Ole, e la speranza che essa associava talvolta a questo nome andava svanendo ogni giorno di più. Le stavano accanto i due esseri che essa amava di più al mondo, di cui uno dei due non cessava di farle coraggio. Ma potevano bastarle queste prove d'affetto? Non era necessario distrarla ad ogni costo? E come strapparla a questi pensieri, che occupavano completamente la sua anima e che la legavano come catene di ferro al naufrago del Viken? Si giunse così al 12 luglio. L'estrazione dei biglietti della lotteria delle Scuole di Christiania doveva aver luogo quattro giorni dopo. È inutile dire che la speculazione tentata da Sandgoïst era stata portata a conoscenza del pubblico. Egli aveva fatto divulgare, dai giornali, la notizia che il famoso e provvidenziale biglietto, che portava il numero 9672, era ora tra le mani del signor Sandgoïst di Drammen, e che quel biglietto, messo in vendita, sarebbe stato del maggior offerente. E se il signor Sandgoïst di Drammen era ora in possesso di questo biglietto è perché l'aveva pagato molto bene a Hulda Hansen. Una simile notizia, si può facilmente capire, fu sensibilmente nociva alla reputazione della fanciulla. Come! Hulda, sedotta da una lauta offerta, s'era decisa a vendere il biglietto del naufrago, il biglietto del suo fidanzato Ole Kamp! Ella aveva fatto motivo di speculazione di quell'estremo addio! Ma una nota comparsa sul «Morgen Blad» informò il pubblico dei fatti, com'erano accaduti. Si seppe in che modo aveva agito Sandgoïst e come il biglietto era ora nelle sue mani. La pubblica riprovazione cadde allora sull'usuraio di Drammen, su quel creditore senza cuore, che non aveva esitato a speculare sulle sventure della famiglia Hansen. E allora le cose mutarono faccia: sta di fatto che, come per un accordo generale, cessò ad un tratto la gara delle offerte che erano piovute quando Hulda possedeva ancora il biglietto. Il biglietto, molti pensavano, ha perduto il suo valore misterioso dacché fu profanato dalle sporche mani dell'usuraio. Dunque Sandgoïst non aveva concluso affatto un buon affare e c'era pericolo che il famoso numero 9672 rimanesse invenduto. Hulda e Joël, per fortuna, ignoravano tutti questi particolari. Tanto meglio! Avrebbero troppo sofferto nel vedersi mescolati in questo affare che nelle mani dell'usuraio era diventato una speculazione. Il 12 luglio, verso sera, giunse una lettera a Sylvius Hog. Questa lettera, inviata dal ministero della Marina, ne conteneva un'altra, scritta da Christiansand, piccolo porto all'ingresso del golfo di Christiania. Probabilmente non diceva nulla di nuovo, giacché Sylvius Hog la mise in tasca e nonne parlò né a Joël né a sua sorella. Solo, al momento di ritirarsi nella sua camera e di dare la buona notte, aggiunse: — Lo sapete, figlioli miei, fra tre giorni ha luogo l'estrazione. Non contate di assistervi? — A che gioverebbe, signor Sylvius? — rispose Hulda. — Però — riprese il professore — Ole desiderava che vi assistesse la sua fidanzata; ne fa espressa raccomandazione nelle ultime righe che ha scritte, e credo che si debba obbedire alla sua ultima volontà. — Ma quel biglietto Hulda non lo possiede più e chi sa in quali mani è andato a finire — osservò Joël. — Non importa — rispose Sylvius Hog. — Io vi prego, quindi, di accompagnarmi tutti e due a Christiania. — Se lo desiderate, signor Sylvius… — rispose la fanciulla. — Non sono io, cara Hulda, che lo desidero, ma bisogna obbedire a Ole. — Sorella, il signor Sylvius ha ragione — rispose Joël. — Sì, è necessario! Quando fate conto di partire, signor Sylvius? — Domani, all'alba, e che sant'Olaf ci protegga. CAPITOLO XVI L'INDOMANI la carrettella del vice direttore Lengling trasportava Sylvius Hog e Hulda, seduti uno accanto all'altra nella cassa, pitturata a vividi colori. Come sappiamo, non c'era posto per Joël. Ma quel bravo ragazzo se ne andava a piedi, accanto al cavallo, che scuoteva allegramente la testa. Quattordici chilometri da Dal a Mœl erano una passeggiata per quel robusto camminatore. La carrettella seguiva quella meravigliosa valle del Westfjorddal, costeggiando la riva sinistra del Maan, valle angusta e ombrosa, irrigata da mille cascatelle sonore, che cadono da varie altezze. Ad ogni svolta di questa strada sinuosa, compare e scompare la cima del Gusta, che le macchie di neve fanno brillare. Il cielo era limpido, il tempo magnifico: l'aria non troppo frizzante, il sole non troppo caldo. Cosa strana, dacché Sylvius Hog aveva lasciato l'albergo di Dal, il suo volto sembrava più sereno. Probabilmente egli si sforzava di imporselo, affinché quel viaggio riuscisse, se non altro, a distrarre Hulda e Joël dai loro dolorosi pensieri. In due ore e mezzo raggiunsero Mœl, all'estremità del lago Tinn, ove si doveva lasciare la carrettella. Questa, infatti, non poteva proseguire oltre, a meno che fosse stata una vettura galleggiante. In quel punto, infatti, comincia la strada dei laghi. Qui si trova quello che nel paese viene chiamato un vandskyde, cioè un corso d'acqua con sedimenti sabbiosi. Là, infine, arrivano quelle fragili imbarcazioni che fanno servizio sul Tinn, in lungo e in largo. La carrettella fu lasciata accanto alla chiesetta del villaggio, ai piedi di una cascata profonda più di cinquecento piedi. Questa cascata, di cui si vede solo la quinta parte, si perde in qualche profonda voragine della montagna, prima di entrare nel lago. All'estremità della spiaggia si trovavano due battellieri. Una barca, in legno di betulla, il cui equilibrio, molto instabile, non permetteva ai viaggiatori che trasportava di muoversi da una parte all'altra, era pronta a salpare. Il lago appariva allora nella fresca bellezza del mattino. Il sole, al suo levarsi, aveva dissipata completamente la nebbia notturna. S'annunziava una bellissima giornata estiva. — Non siete stanco, mio bravo Joël? — chiese il professore, appena disceso dalla carrettella. — No, signor Sylvius. Non sono abituato a queste lunghe corse nel Telemark? — È vero. Conoscete la strada più diretta da Mœl a Christiania? — Perfettamente, signor Sylvius. Una volta giunti all'estremità del lago, a Tinoset… ma non so se troveremo una carrettella, giacché non abbiamo avvisata la stazione di posta del nostro arrivo, come si usa generalmente nel paese. — State tranquillo, ragazzo mio; ci ho pensato io… Non è affatto mia intenzione farvi fare a piedi la strada da Dal a Christiania. — Se fosse necessario… — disse Joël. — Non lo sarà. Ritorniamo al nostro itinerario e ditemi la strada che conoscete. — Ecco: giunti a Tinoset, signor Sylvius, costeggeremo il lago Fol, passando da Vik e Bolkesjo, in modo da recarci a Möse, e di lì a Kongsberg, Hangsund e Drammen. Se viaggiamo giorno e notte arriveremo domani, nelle ore pomeridiane, a Christiania. — Va bene, Joël! Vedo che conoscete il paese, ed ecco, per dire il vero, un itinerario piacevole. — È il più breve. — Ebbene Joël, non m'importa la brevità, voi mi capite! — rispose Sylvius Hog. — Io ne conosco uno che allunga il viaggio di alcune ore. E quello, voi lo conoscete benissimo, ragazzo mio, benché non ne abbiate parlato. — E quale? — Si può passare da Bamble! — Da Bamble? — Sì, Bamble! Fate lo gnorri! Bamble, ove abitano il fattore Helmboë e sua figlia Siegfrid! — Signor Sylvius!… — Prenderemo questa strada, e, costeggiando il lago Fol a sud invece che a nord, non giungeremo forse lo stesso a Kongsberg? — Lo stesso e anche meglio! — rispose Joël sorridendo. — Grazie per mio fratello, signor Sylvius — disse la fanciulla. — E anche a voi, mia piccola Hulda, farà piacere di dare un saluto alla vostra amica Siegfrid. La barca era pronta. Sedettero a poppa tutti e tre sopra un mucchio di foglie verdi ammassate dietro. I due battellieri, remando e governando insieme, si spinsero al largo. Man mano che ci si allontana dalla riva, il lago Tinn s'allarga, dopo Haekenoes, villaggetto di poche case, costruito sopra un promontorio roccioso che bagna la stretta insenatura, nella quale si gettano tranquillamente le acque del Maan. Il lago è ancora molto rinserrato fra i monti; ma, a poco a poco, l'arco delle montagne si scosta e ci si rende conto della loro altezza, solo al momento in cui un'imbarcazione passa alle falde, e, al loro confronto, sembra appena della grandezza di un volatile acquatico. Qua e là emergono una dozzina di isolette e scogli, aridi o verdeggianti, con qualche albergo di pescatori. Sulla superficie del lago galleggiano tronchi d'albero non squadrati e travi destinate alle numerose segherie vicine. Tutto questo fece dire a Sylvius Hog in tono scherzoso e bisogna dire che egli aveva davvero voglia di scherzare se si permise questa osservazione: — I poeti scandinavi hanno detto che i laghi sono gli occhi della Norvegia; ma allora bisogna riconoscere che la Norvegia ha molte travi nell'occhio, come dice la Bibbia! Verso le quattro, la barca arrivò a Tinoset, semplice villaggio privo di ogni comodità. Ma questo poco importava ai viaggiatori. Sylvius Hog non aveva l'intenzione di fermarvisi, nemmeno per un'ora. Come aveva detto a Joël, una carrettella lo stava aspettando sulla spiaggia. Prevedendo questo viaggio, che da tempo aveva in animo di fare, aveva scritto al signor Benett, di Christiania, affinché gli procurasse i migliori mezzi di trasporto in modo da non doversi affaticare né subire ritardi. Ecco perché, al giorno stabilito, un vecchio calesse era a Tinoset, con una buona scorta di commestibili, cosicché avevano il mezzo di trasporto garantito per tutto il viaggio, e provvista di cibi assicurata anch'essa, il che non rendeva più necessario dover ricorrere alle uova non fresche, al latte rappreso e al brodetto nero dei villaggi del Telemark. Tinoset si trova quasi all'estremità del lago Tinn. Ivi, il Maan, formando una bella cascata, si precipita nella vallata sottostante, ove riprende il suo corso regolare. I cavalli giunti dalla posta erano già attaccati, e la vettura prese subito la direzione di Bamble. A quel tempo, era questo il solo mezzo per attraversare la Norvegia in generale e il Telemark in particolare. E forse le ferrovie fanno ora rimpiangere ai turisti la carrettella nazionale e i calessi del signor Benett! Joël, non è necessario dirlo, conosceva benissimo questa parte del Telemark, che aveva tante volte attraversato per recarsi da Dal a Bamble. Alle otto di sera, Sylvius Hog, il fratello e la sorella giunsero in questa piccola località. Non erano attesi, ma l'affittaiolo Helmboë fece loro ugualmente la più festosa accoglienza. Siegfrid abbracciò teneramente l'amica che trovò molto pallida per aver patito così a lungo. Per alcuni istanti le due fanciulle rimasero sole e si confidarono le loro pene. — Te ne prego, mia cara Hulda — disse Siegfrid, — non lasciarti abbattere dai dispiaceri! Io non ho perduto la speranza! Perché rinunciare ad ogni speranza di rivedere il nostro povero Ole? Sappiamo dai giornali che si fanno delle ricerche per trovare i resti del Viken. Vedrai che le ricerche approderanno a qualcosa di positivo! Guarda, io sono sicura che il signor Sylvius spera ancora!… Hulda… mia diletta… te ne supplico… non disperarti! Per tutta risposta, Hulda non sapeva che piangere, e Siegfrid la stringeva al cuore. Ah! che gioia sarebbe regnata nella casa del fattore Helmboë in mezzo a quelle brave persone semplici e buone se tutto questo piccolo mondo avesse avuto il diritto di essere felice! — E così, andrete direttamente a Christiania? — chiese il fattore a Sylvius Hog. — Per l'appunto, signor Helmboë! — Per assistere all'estrazione della lotteria? — Certamente. — A qual pro, dacché il biglietto di Ole Kamp si trova ora nelle mani di quel miserabile Sandgoïst! — È la volontà di Ole — rispose il professore — e la sua volontà deve essere rispettata. — Si dice che l'usuraio di Drammen non abbia potuto vendere il biglietto, che pur gli è costato caro. — Infatti, si dice proprio così. — Ben gli sta! Ha meritato questo castigo, quell'uomo villano, quel ribaldo, signor Hog, sì! Quel ribaldo!… E gli sta bene. — Sì, veramente, signor Helmboë, gli sta proprio bene. Naturalmente, dovettero cenare alla fattoria: Siegfrid e suo padre non avrebbero lasciato partire gli amici senza che avessero accettato questo invito. Ma conveniva non far tardi, se volevano riguadagnare durante la notte le poche ore perdute per essere passati da Bamble. Così, alle nove precise, i cavalli erano già stati condotti dalla posta da uno degli addetti all'attacco. — Alla mia prossima visita, caro signor Helmboë — disse Sylvius Hog al fattore, — rimarrò sei ore a tavola, se volete! Ma oggi vi prego di sostituire il dolce con una vostra buona stretta di mano, e con un caloroso abbraccio da parte della vostra deliziosa Siegfrid alla mia piccola Hulda. Ciò detto, si riprese il viaggio. A quell'elevata latitudine, il crepuscolo si prolunga per alcune ore, così, l'orizzonte resta chiaramente visibile, dopo il tramonto del sole, tanto l'atmosfera è pura. È una bella strada, anche se un po' accidentata, quella che va da Bamble a Kongsberg passando da Hitterdal e costeggiando la riva meridionale del lago Fol. Essa attraversa così tutta la porzione meridionale del Telemark, e serve molte borgatelle, molti villaggi, cascinali o gaards dei dintorni. Un'ora dopo la partenza, Sylvius Hog, pur senza fermarsi, poté scorgere la vecchia chiesa d'Hitterdal, un edificio assai singolare, tutto incappucciato di pinnacoli, disposti uno sopra l'altro, senza la minima cura per l'armonia delle proporzioni. La costruzione è interamente in legno, dalle pareti fatte di travi congiunte e tavole intonacate sino all'estrema punta del più alto pinnacolo. Questo ammasso di torrette a pepaiola è, a quanto pare, un monumento venerabile e venerato dell'architettura scandinava del tredicesimo secolo. Scese la notte a poco a poco, una di quelle notti nordiche rischiarate dagli ultimi riflessi del giorno; ma, verso l'una del mattino, cedette il passo all'alba nascente. Joël, seduto in serpa, era immerso nei suoi pensieri. Hulda stava pensierosa in fondo al calesse. Allora Sylvius Hog rivolse poche parole al postiglione, raccomandandogli di affrettarsi. Dopo, s'intese soltanto il tintinnio dei campanelli, lo schioccare della frusta e lo stridio delle ruote sopra un terreno sparso di ciottoli. Viaggiarono tutta la notte, senza cambiare i cavalli. Non fu necessario fermarsi a Listhüs, stazione incomoda, sperduta in mezzo a un anfiteatro di montagne ricoperte di abeti, che racchiude un'altra cerchia di montagne selvagge. Oltrepassarono pure Tiness, villaggetto pittoresco, di cui alcune case sono appollaiate sopra palafitte. Il calesse andava a gran velocità, con gran rumore di ferraglia e tintinnio di bulloni svitati e di molle allentate. Il professore non ebbe a rivolgere alcun rimprovero al postiglione, che dormiva solo con un occhio, mentre incitava i cavalli scrollando le briglie. Macchinalmente, egli allungava qualche colpo di frusta, non per crudeltà, ma di preferenza al cavallo di sinistra, e ciò perché il cavallo di destra era suo e l'altro del suo vicino di gaard. Alle cinque del mattino, Sylvius Hog aprì gli occhi, stirò le braccia, respirò con piacere l'acuto profumo dei pini che imbalsamava l'aria. Si era giunti a Kongsberg. La vettura passò il ponte sul Laagen, e, passando davanti alla chiesa, andò a fermarsi poco lungi dalla cascata di Larbrö. — Amici — disse Sylvius Hog, — se credete, cambieremo qui i cavalli. È ancora troppo presto per far colazione. Sarà meglio fermarsi a Drammen! Là ci concederemo un buon pranzo per risparmiare le provviste del signor Benett. Ciò detto, il professore e Joël si contentarono di prendere un bicchierino di acquavite all'Albergo delle Miniere. Un quarto d'ora dopo, essendo giunti i cavalli, si poté riprendere il viaggio. All'uscita della città, la vettura dovette superare una strada molto ripida, aperta sul fianco della montagna. Per un attimo, gli alti piloni delle miniere d'argento di Kongsberg, si stagliarono snelli nel cielo. Poi, tutto scomparve dietro una cortina di immense foreste di abeti, cupe, fresche come dei sotterranei, che non ricevono il calore del sole, né la sua luce. Nella città di legno di Hangsund, si fermarono ancora per il cambio dei cavalli. Percorsero lunghe strade, qua e là chiuse da cancelli a cardini che venivano aperti dietro pagamento di un pedaggio di cinque o sei skilling. Regione fertile, ricca d'alberi, simili ai salici piangenti con lunghi rami flessuosi che si piegano sotto il peso dei frutti. Avvicinandosi a Drammen, la valle s'addentra di nuovo fra i monti. A mezzogiorno, la città, fabbricata su un braccio del fiordo di Christiania, si mostrò con le sue due interminabili strade, fiancheggiate da case dipinte, e col porto, sempre frequentato, nel quale le zattere lasciano uno spazio molto limitato alle navi che vengono a rifornirvisi dei prodotti del nord. La vettura si fermò davanti all'Albergo di Scandinavia. Il proprietario, personaggio dall'aspetto solenne, con lunga barba bianca e un contegno da dottore, comparve sulla soglia del suo locale. E, con quella finezza di intuizione che è propria degli albergatori in tutti i paesi del mondo, disse: — Credo che questi signori e questa signorina vogliano far colazione… — Infatti, avete indovinato — rispose Sylvius Hog; — fateci, anzi, servire il più presto possibile. — Subito! La colazione fu presto pronta e, per la verità, era eccellente. Buono in special modo fu un certo pesce del fiordo, farcito con un'erba aromatica, che il professore mangiò con evidente gusto. Verso l'una e mezzo la vettura, con cavalli freschi, ritornava davanti all'Albergo di Scandinavia, e ripartiva, risalendo a piccolo trotto la principale strada di Drammen. Ma passando davanti una casa bassa, di modesto aspetto, che faceva contrasto con il colore vivace delle case vicine, Joël non poté trattenere un moto di disgusto. — Sandgoïst! — egli esclamò. — Ah! è il signor Sandgoïst — disse Sylvius Hog. — Per la verità, non ha proprio l'aria del galantuomo! Era proprio Sandgoïst. Fumava davanti alla porta della sua casa. Forse non riconobbe Joël, giacché la vettura stava passando rapidamente tra cataste di legname e pile di assi. Percorsa una strada fiancheggiata da sorbi, carichi di frutti rossi come il corallo, la vettura entrò in una foresta di pini, lungo la «Valle del Paradiso», magnifica valle, incoronata da lontani altipiani. Apparvero allora centinaia di colline, quasi tutte ingemmate da ville o da gaard. Poi, all'avvicinarsi della sera, quando la vettura cominciò a ridiscendere verso il mare costeggiando spaziose praterie, tratto tratto s'incontravano delle masserie con case rosse, che spiccavano vivamente sullo sfondo verdecupo degli alberi. Finalmente i viaggiatori raggiunsero il fiordo di Christiania, cinto da graziose colline, con innumerevoli insenature, villaggi e porti in miniatura, o pontili d'imbarco, ove si danno convegno i battelli e i vaporetti di servizio. Alle nove di sera - era ancora giorno chiaro, in quei luoghi - il vecchio calesse entrava in città, facendo molto rumore, e attraversando vie deserte. Esso andò a fermarsi, secondo l'ordine di Sylvius Hog, all'Albergo Vittoria. Quivi discesero Hulda e Joël. Per loro erano state fissate delle camere anticipatamente. Dopo un affettuoso «buona notte», il professore andò a casa sua, ove la vecchia domestica Kate e il vecchio domestico Fink lo aspettavano con la più viva impazienza. CAPITOLO XVII CHRISTIANIA, grande città per la Norvegia, sarebbe una città molto piccola per l'Inghilterra o la Francia. Se non fosse stata devastata da incendi frequenti, essa sarebbe ancora tal quale fu costruita nell'undicesimo secolo. In realtà, la Christiania di oggi risale al 1624, anno in cui il re Christian ne ordinò la ricostruzione. Abbandonato il suo vecchio nome, Opsolo, prese quello di Christiania, nome femminilizzato da quello del suo regale architetto. È una città regolare, dalle larghe strade, diritte e monotone, tracciate col tiralinee, case bianche di pietra o di mattoni rossi. Nel mezzo di un bel giardino, s'innalza il castello reale, l'Orscarslot, vasto edificio quadrangolare, privo di stile, benché sia definito di stile ionico. Qua e là si vedono alcune chiese, i cui pregi artistici non riuscirebbero a distrarre i fedeli. Non mancano edifici civili e stabilimenti pubblici, senza contare un gran bazar, disposto in circolo, ove s'accolgono le merci straniere e indigene. In complesso non c'è nulla di spiccatamente originale. Però non si può fare a meno di ammirare la posizione della città, nel mezzo di quell'anfiteatro di montagne, così varie d'aspetto, che le fanno da sfondo pittoresco. Praticamente disposta in piano nei quartieri ricchi e nuovi, essa diventa un po' collinosa là dove forma una specie di Casbah, coperta di case d'aspetto irregolare, dove vive la povera gente, casupole di legno, o di mattoni, dai colori sgargianti che offendono l'occhio anziché recargli diletto. Non bisogna credere che la parola «casbah», riservata alle città africane, non sarebbe appropriata in una città del Nord Europa. Christiania, non ha forse attorno al suo porto, i quartieri di Tunisi, di Marocco, di Algeri? E, se non vi si trovano tunisini, marocchini o algerini, tutta quella popolazione che va e viene non vale molto di più. Ad ogni modo, come ogni città che da un lato è bagnata dal mare e dall'altro s'eleva fino a toccare verdeggianti colline, Christiania è molto pittoresca. Non è esagerazione paragonare il suo fiordo al golfo di Napoli. Al pari delle rive di Sorrento e di Castellammare, le sue spiagge sono piene di ville e chàlets quasi nascosti dal verde scurissimo dei pini, e avvolti in quella leggera nebbiolina che dà loro una «sfumatura evanescente» tipica delle regioni iperboree. Sylvius Hog era finalmente tornato a Christiania. Per dire il vero, questo ritorno era determinato da circostanze che egli non avrebbe mai potuto prevedere, e dopo un viaggio interrotto. Poco conta! Egli poteva completarlo un altr'anno! Per ora doveva occuparsi di Joël e di Hulda Hansen. Non li aveva condotti in casa sua, giacché non aveva due camere per riceverli. Senza dubbio il vecchio Fink e la vecchia Kate avrebbero fatto loro buona accoglienza, ma non c'era stato il tempo di prepararsi. Ecco perché il professore li aveva condotti all'Albergo Vittoria, raccomandandoli in modo particolare. E di una raccomandazione di Sylvius Hog, deputato allo Storting, si teneva sempre conto. Ma, mentre il professore chiedeva per i suoi protetti le attenzioni che si sarebbero usate a lui stesso, non aveva detto i loro nomi. Gli pareva cosa prudente conservare l'incognito, da principio, riguardo a Joël e Hulda Hansen. Sappiamo quante chiacchiere s'erano fatte intorno alla fanciulla; e, per risparmiarle molte noie, era meglio non si sapesse del suo arrivo a Christiania. Sylvius Hog aveva stabilito coi suoi amici che l'indomani si sarebbero visti solo all'ora di colazione, cioè alle undici e mezzo. Il professore, infatti, aveva alcune faccende da sbrigare, e prevedeva di impiegare per questo l'intera mattinata; li avrebbe raggiunti non appena avesse finito: si proponeva di non lasciarli più fino al momento dell'estrazione, che doveva aver luogo alle tre. Joël, appena alzato, andò a trovare la sorella. Hulda, già pronta, lo aspettava. Con lo scopo di sviarla dai soliti pensieri, che dovevano in quel giorno essere anche più tristi, Joël le propose di passeggiare fino all'ora della colazione. Hulda, per non far dispiacere al fratello, accettò l'offerta, e quindi, insieme, andarono a zonzo per la città. Era domenica. Diversamente da quello che succede nelle città settentrionali nei giorni festivi, nei quali i passanti sono pochi, c'era un grande movimento per le strade. Non solo i cittadini erano rimasti in città, ma molti contadini affluivano dalle vicinanze. La ferrovia del lago Mjosen, che serve i dintorni della capitale, aveva dovuto disporre dei treni supplementari. Quanti curiosi, ma soprattutto quanti interessati, erano attirati da questa popolare lotteria delle Scuole di Christiania! Le vie erano quindi ingombre di gente, intere famiglie, o meglio gruppi di famiglie, venute con la segreta speranza di non aver fatto il viaggio inutilmente. Che sogni! Il milione di biglietti era stato venduto, e, avesse anche solo guadagnato un premio di cento o duecento marchi, con quanta gioia sarebbe ritornata quella brava gente nei suoi umili casolari! Joël e Hulda, lasciando l'Albergo Vittoria, discesero prima alle banchine che stanno tutt'intorno al lato est della baia. Qui l'affluenza era minore, tranne che nelle osterie, ove alcuni sembravano avere una sete inestinguibile, tanto era copioso il loro consumo di birra e di acquavite. Mentre fratello e sorella passeggiavano tra i depositi, le file di botti e di casse di svariata provenienza, la loro attenzione fu subito richiamata dai bastimenti ancorati accanto al molo o al largo. Non c'era per caso una di quelle navi che avevano attraccato al porto di Bergen, nel quale il Viken non sarebbe più tornato? — Ole!… mio povero Ole! — mormorava Hulda. Joël s'affrettò a condurla lontano dalla baia risalendo verso i quartieri elevati della città. Là, nelle strade, sulle piazze, in mezzo a gruppetti di gente, ascoltarono dei discorsi, in cui si parlava proprio di loro. — Sì — diceva uno, — si erano già offerti diecimila marchi per il numero 9672! — Diecimila? — rispondeva un altro. — Ho inteso parlare di ventimila e anche più. — Il signor Vanderbilt di New York ne ha offerti trentamila. — Il signor Baring di Londra quarantamila. — E il signor Rotschild di Parigi sessantamila! Non sappiamo quanto ci fosse di vero in simili dicerie. Per poco che si andasse avanti, il prezzo offerto avrebbe superato il premio più grosso della lotteria. Ma se gli spacciatori di notizie non erano d'accordo sulle somme offerte a Hulda Hansen, tutti, ad una voce, biasimavano la condotta dell'usuraio di Drammen. — Che mascalzone, quel Sandgoïst, e com'è stato spietato verso quella buona gente! — Oh! è molto conosciuto nel Telemark e non è questa la sua prima bricconata! — Si dice che non ha potuto rivendere il biglietto di Ole Kamp, dopo averlo comperato ad alto prezzo! — È vero! Nessuno l'ha più voluto. — È naturale! Fra le mani di Hulda Hansen, quel biglietto era buono! — Evidentemente; mentre nelle mani di Sandgoïst non vale più nulla! — Ben gli sta! Gli servirà da lezione, e possa perdere anche i quindicimila marchi che ha speso! — Ma se guadagnasse poi il premio? — Lui!… Nemmeno per sogno. — Sarebbe un'ingiustizia della sorte. In ogni modo, che non si faccia vedere all'estrazione. — No, non sarebbe una cosa ben fatta da parte sua! Ecco, nel loro complesso, le opinioni diffuse intorno a Sandgoïst. Ma noi sappiamo che, per prudenza o per qualche altro motivo, egli non aveva l'intenzione di assistere all'estrazione, giacché non si era mosso da Drammen, ove l'abbiamo testé veduto. Hulda, molto emozionata, e Joël che sentiva tremare il suo braccio, camminavano in fretta, senza cercare di sentire altro, quasi temessero di venire ad un tratto acclamati dai numerosi amici sconosciuti che si accorgevano di avere in mezzo alla folla. Speravano di incontrare per la città Sylvius Hog, ma non fu così. Però da alcune parole, colte nella conversazione, capirono che la gente sapeva già del ritorno del professore. Quella stessa mattina lo avevano visto percorrere la città con aria molto affaccendata, come uomo che non ha tempo né di interrogare né di rispondere, ora nei quartieri del porto, ora nelle vicinanze del palazzo del ministero della Marina. Certamente, Joël avrebbe potuto chiedere a qualsiasi persona ove abitava il professore Sylvius Hog. Tutti si sarebbero affrettati ad indicargli la sua casa e a condurvelo. Non lo fece per timore di apparire indiscreto, e poiché l'appuntamento era fissato all'albergo, era meglio stare a quest'accordo. Verso le dieci e mezzo Hulda pregò Joël di rientrare. Si sentiva molto stanca, e tutti quei discorsi, che la riguardavano tanto direttamente, le facevano male. Ritornò all'Albergo Vittoria, quindi risalì nella sua camera per attendere Sylvius Hog. Joël rimase a pianterreno, nella sala d'attesa. Qui, macchinalmente, diede un'occhiata ai giornali di Christiania. Ad un tratto il suo volto impallidì, la sua vista s'offuscò e gli cadde di mano il giornale… Nel «Morgen Blad», fra le notizie di mare, lesse il dispaccio seguente spedito da Terranova: «L'avviso Telegraf, giunto sul presunto teatro del naufragio del Viken, non ha trovato alcuna traccia. Le sue ricerche lungo le coste della Groenlandia non ebbero alcun successo. Si deve ritenere che l'equipaggio del Viken sia completamente perito». CAPITOLO XVIII — BUONGIORNO, signor Benett! Quando posso stringervi la mano mi fa sempre piacere. — L'onore è mio, signor Hog. — Onore, piacere, piacere, onore — rispose allegramente il professore; — una cosa vai l'altra! — Vedo che il vostro viaggio nella Norvegia centrale è concluso. — Non è concluso, ma è finito almeno per quest'anno, signor Benett. — Ebbene, signor Hog, parlatemi, se volete, di quelle brave persone che avete conosciuto a Dal. — Brave persone, davvero, signor Benett, e coraggiose per giunta. Brave in tutti e due i sensi! — Da quanto se ne dice nei giornali, sono pur da compiangere. — È vero, signor Benett! Io non ho mai visto la sventura accanirsi contro delle povere creature con una simile ostinazione. — Infatti, signor Hog. Dopo il naufragio del Viken la prepotenza di quell'abominevole Sandgoïst. — Proprio così, signor Benett. — Ma se ben si guarda, Hulda Hansen ha agito prudentemente consegnando il biglietto in cambio di quella ricevuta… — Vi pare?… E perché, di grazia? — Perché quindicimila marchi valgono bene una si lieve probabilità di vincita… — Ah, signor Benett! — replicò Sylvius Hog — voi parlate proprio da uomo pratico, da negoziante, quale siete! Ma, se voleste guardare la cosa da un altro punto di vista, nell'affare entra in gioco il sentimento e il sentimento non si calcola con cifre… — Certamente, signor Hog; ma permettetemi di dirvelo, probabilmente la vostra protetta ci avrebbe rimesso per il suo sentimento… — Che ne sapete voi? — Ma riflettete un po': che cosa rappresentava quel biglietto? Una probabilità su un milione di vincere! — È vero, una sola probabilità su un milione. È ben poco, signor Benett, è ben poco! — Ed ecco che all'euforia dei primi giorni è subentrata la reazione, e si dice che quel Sandgoïst, che aveva comperato il biglietto col solo scopo di specularci su, non abbia trovato neanche un compratore. — Signor Benett, dal momento che si deve avere un cuore, tanto vale che sia buono, non è vero? E Sylvius Hog accompagnava queste parole col suo più amabile sorriso. — E ora, signor Benett — egli riprese — non crediate che io sia venuto a cercare qui dei complimenti! Affatto! È un altro il motivo della mia visita! — Sono al vostro servizio. — Voi sapete, vero, che, senza l'aiuto di Joël e di Hulda Hansen, il Rjukanfos, dopo avermi inghiottito, mi avrebbe reso cadavere. Quindi in questo momento, non avrei il piacere di rivedervi. — Sì!… Sì!… Lo so! — rispose il signor Benett. — I giornali hanno raccontato la vostra avventura; e davvero questi bravi giovani avrebbero meritato di vincere il primo premio. — È anche il mio parere — rispose Sylvius Hog. — Ma, dal momento che ora è impossibile, io non vorrei che la mia piccola Hulda ritornasse a Dal senza qualche regaluccio… un ricordo… — Ecco una buona idea, signor Hog. — Voi dunque m'aiuterete a scegliere fra i vostri gingilli qualcosa che possa piacere ad una fanciulla… — Volentieri — rispose il degno commerciante. E pregò il professore di passare nel magazzino riservato alla gioielleria locale. Un gioiello norvegese non era il miglior ricordo che si potesse portare da Christiania e dal meraviglioso bazar del signor Benett? Anche Sylvius Hog era dello stesso parere; e il compiacente gentiluomo si affrettò a mostrargli il meglio che aveva. — Vediamo — diceva il signor Hog; — io me ne intendo assai poco, e mi rimetto al vostro gusto, signor Benett. — Ci intenderemo facilmente, signor Hog. C'era un assortimento svariatissimo di gioielli svedesi e norvegesi, di lavorazione molto complessa, e che in genere valgono più per l'arte che per il materiale. — Cos'è quello? — chiese il professore. — È un anello placcato, con ciondolini mobili che producono un gradevole tintinnio. — Molto grazioso! — rispose Sylvius Hog provando l'anello all'estremità del dito mignolo. — Intanto, mettetelo da parte, e vediamo qualcos'altro. — Braccialetti o collane? — Un po' di tutto, se permettete, signor Benett, un po' di tutto. Ah! questo? — Sono spillette che si applicano, per ornamento, in coppia sulla camicetta. Vedete l'effetto del rame lavorato sul fondo di lana rossa? Sono di buon gusto, e non costano molto. — Incantevoli, infatti, signor Benett. Mettiamole pure da parte. — Solo, signor Hog, vi farò osservare che queste spillette sono riservate alle fanciulle per il giorno delle nozze… e che… — Per sant'Olaf! Avete ragione, signor Benett, avete ragione. Mia povera Hulda! Per disgrazia, non è Ole a farle questo regalo, sono io, e colei cui lo offrirò non è più una fidanzata! — Infatti, signor Hog! — È vero; vediamo dunque altri gioielli che siano adatti a una fanciulla. Ah! E questa croce, signor Benett? — È una croce da collo con placchette concave che tintinnano ad ogni movimento. — Molto bella!… Molto bella!… Mettiamola da parte, signor Benett. Quando avrò visto tutto, faremo una scelta definitiva. — Sì, ma… — Ancora un ma?… — Questa croce è quella che portano le fidanzate della Scania, recandosi alla chiesa per la cerimonia nuziale. — Diavolo, signor Benett!… Bisogna proprio dire che io non ho una buona mano! — Ciò dipende dal fatto che sono proprio i gioielli da sposa che costituiscono il mio maggior assortimento e che io vendo in maggior quantità. Non potete quindi stupirvene. — Non mi stupisco per nulla, signor Benett, ma questo fatto mi mette un po' in imbarazzo! — Ebbene, prendete quell'anello d'oro che avete fatto mettere in disparte! — Sì… quell'anello d'oro… ma desideravo qualche altro gioiello… come dire? più decorativo… — Allora, non esitate! Prendete questa piastra d'argento in filigrana, le cui catenelle fanno un bellissimo effetto sul collo d'una fanciulla! Osservate! È cosparsa di fini conterie e adorna di fusetti di ottone in forma di rocchetti, con perle colorate! È uno dei più curiosi prodotti dell'oreficeria norvegese! — Sì!… Sì!… — rispose Sylvius Hog. — Un grazioso gioiello, ma forse un po' troppo vistoso per la mia modesta Hulda. Per dire il vero, preferirei le spillette che mi avete mostrato poco fa, e la croce! Sono proprio un regalo prettamente da nozze, tanto da non poterne far dono a una fanciulla? — Signor Hog — rispose il signor Benett, — lo Storting non ha ancora emanato leggi in proposito!… Forse è una lacuna… — Bene, bene, signor Benett, a questo si provvederà! Intanto io compero le spillette e la croce!… E poi, la mia piccola Hulda può sposarsi un giorno o l'altro!… Buona e graziosa com'è, non le mancherà occasione di servirsi di questi ornamenti!… È dunque deciso: li compero e li porto via. — Bene, signor Hog. — Avremo piacere di vedervi all'estrazione, signor Benett? — Certamente. — Credo che sarà una cosa interessante. — Ne sono certo. — Dunque, a fra poco, signor Benett. — A fra poco, signor Hog. — Guarda! — osservò il professore piegandosi sopra una vetrina. — Ecco due graziosi anelli che non avevo veduto. — Ah! questi non fanno proprio al vostro caso, signor Hog. Sono anelli incisi che il pastore mette al dito dei fidanzati durante la cerimonia… — Davvero!… Bah! Io li compero lo stesso. A fra poco, signor Benett, a fra poco. Sylvius Hog uscì, e con passo leggero - pareva avesse vent'anni - si diresse verso l'Albergo Vittoria. Giunse sotto il vestibolo e la prima cosa che vide furono le parole Fiat lux, che sono scritte nella parte inferiore della lanterna a gas. «Ecco un latino adatto alla circostanza» disse tra sé. «Sì! Fiat lux!… Fiat lux!…» Hulda era nella sua camera. Seduta accanto alla finestra, aspettava. Il professore bussò alla porta, che fu aperta immediatamente. — Ah! signor Sylvius — esclamò la fanciulla, alzandosi. — Eccomi! eccomi! Ma non si tratta ora del signor Sylvius, mia piccola Hulda, si tratta della colazione che è già pronta. Ho una fame da lupi! Dov'è Joël? — Nella sala di lettura. — Bene!… Vado a cercarlo! Venite subito, cara Hulda, a raggiungerci. Sylvius Hog lasciò la camera di Hulda e andò a trovare Joël che, anche egli, attendeva, ma disperato. Il povero Joël gli mostrò il numero del «Morgen Blad». Il dispaccio del capitano del Telegraf non lasciava più alcun dubbio sulla perdita totale del Viken. — Hulda ha letto? — chiese vivacemente il professore. — No, signor Sylvius, no! È meglio nasconderle quanto verrà a sapere fin troppo presto! — Avete fatto bene, ragazzo mio… Andiamo a tavola. Poco dopo, tutt'e tre sedevano ad un tavolo particolare. Sylvius Hog mangiò con grande appetito. Un'eccellente colazione, del resto, che poteva quasi dirsi pranzo. Giudicate da soli: zuppa fredda alla birra, con fette di limone, pezzetti di cannella cosparsa di pane bigio sbriciolato; salmone in salsa bianca zuccherata; vitello cotto nel pan grattugiato fine; roastbeef al sangue con insalata abbondantemente condita di spezie; gelato alla vaniglia, pasticci di patate, lamponi, ciliege, nocciole, il tutto innaffiato con vecchio Saint-Julien di Francia. — Eccellente!… Eccellente! — ripeteva Sylvius Hog. — Pare di trovarsi a Dal nell'albergo di mamma Hansen! E, non potendo con la bocca momentaneamente occupata, sorrideva con gli occhi, per quel tanto che con gli occhi si può sorridere. Joël e Hulda avrebbero tentato invano di fare come lui; non ci sarebbero riusciti, anzi, la povera fanciulla riuscì a stento a mandar giù il suo pranzo. Finito che ebbero di desinare, Sylvius Hog disse: — Figli miei, questo pranzo era ottimo: avete fatto male a non farvi onore. Ma, dopo tutto, non potevo costringervi. Del resto, se non avete pranzato, cenerete con più appetito. Io invece, non so se questa sera potrò tenervi testa! E adesso, è ora di alzarsi da tavola. Il professore era già in piedi, e prendeva il cappello che Joël gli porgeva, quando Hulda, fermandolo, gli disse: — Signor Sylvius, desiderate ancora che io venga con voi? — Per assistere all'estrazione del biglietto? Certamente; ci tengo, e molto anche, figliola cara! — Mi riuscirà penoso! — Penosissimo, d'accordo! Ma Ole ha voluto che voi foste presente all'estrazione, Hulda, e bisogna rispettare la sua volontà! Decisamente, questa frase era divenuta un ritornello nella bocca di Sylvius Hog! CAPITOLO XIX GRANDE ERA l'affluenza di gente nella vasta sala dell'Università di Christiania, ove stava per effettuarsi l'estrazione del biglietto della lotteria - ed anche nei cortili, giacché il salone non bastava a contenere tutta la folla, e perfino nelle vie, non essendo, neanche i cortili, sufficienti per tutti. È certo che quella domenica, 15 luglio, non era dalla calma che è loro abituale che si sarebbero potuti riconoscere i norvegesi, così stranamente sovreccitati. Ma quella sovreccitazione era dovuta alla temperatura elevata di quel giorno d'estate o all'interesse per l'estrazione? O forse questi due fattori vi contribuivano insieme? In ogni caso, nemmeno il succhiare quei frutti rinfrescanti, quei multer di cui si fa largo consumo in Scandinavia, sarebbe bastato a spegnerla. L'estrazione doveva cominciare alle tre in punto. I premi erano cento, divisi in tre serie: 1) novanta premi da cento a mille marchi, per un valore totale di quarantacinquemila marchi; 2) nove premi da mille a novemila marchi, per un pari valore totale di quarantacinquemila marchi; 3) un premio di centomila marchi. Contrariamente a quanto si usa fare in questo tipo di lotterie, l'emozione più grande era riservata per ultima! Il primo premio non doveva essere attribuito al primo numero estratto, ma all'ultimo, cioè al centesimo. Ciò avrebbe prodotto una serie d'impressioni, di emozioni, di battiti di cuore che, via via, sarebbe andata aumentando. È sottinteso che qualsiasi numero, che fosse già uscito una volta, non avrebbe potuto vincere di nuovo, e se per caso fosse uscito ancora dall'urna, sarebbe stato annullato. Il pubblico sapeva già tutto questo. Ora, c'era solo da attendere l'ora stabilita. Ma, per ingannare il tempo nell'attesa, si discorreva, e il tema favorito era il caso patetico di Hulda Hansen. Senza dubbio, se essa avesse ancora posseduto il biglietto di Ole Kamp, molti avrebbero fatto voti per lei - dopo che per sé, naturalmente! Alcuni avevano già letto il dispaccio pubblicato dal «Morgen Blad» e ne parlavano ai vicini. Si seppe in breve che le ricerche dell'avviso Telegraf erano riuscite infruttuose. Bisognava dunque rinunciare alla speranza di trovare anche un solo relitto del Viken. Neanche un uomo, nell'equipaggio, che si fosse salvato! Hulda non avrebbe mai riveduto il suo fidanzato! Un incidente venne a turbare gli spiriti. Si era diffusa la voce che Sandgoïst si era deciso a lasciare Drammen, e alcuni pretendevano di averlo visto per le vie di Christiania. Avrebbe dunque avuto il coraggio di comparire nella sala! In tal caso avrebbe dovuto aspettarsi la violenta reazione di tutti nei suoi confronti. Ma una cosa del genere appariva impossibile. Insomma, era solo un falso allarme, niente di più! Verso le due e un quarto, si notò un certo movimento tra la folla. Era il professor Sylvius Hog che si presentava alla porta dell'Università. Si sapeva la parte che egli aveva avuto in quest'affare, e, come, dopo essere stato salvato dai figli di mamma Hansen, egli cercasse il modo di pagare il suo debito. Subito il pubblico fece largo. Un mormorio lusinghiero, al quale Sylvius Hog rispose con amabili cenni di saluto, si diffuse nell'assemblea e si trasformò ben presto in acclamazioni. Ma il professore non era solo. Quando i più vicini si tirarono indietro per fargli posto, tutti si accorsero che teneva al braccio una fanciulla, mentre un giovanotto veniva dietro di loro. Una fanciulla e un giovanotto! Attraverso la folla passò un fremito. Lo stesso pensiero brillò contemporaneamente nel cervello di ognuno, come la scintilla di molti accumulatori. — Hulda!… Hulda Hansen! Fu quello il nome che tutti gridarono all'unisono. Si, era Hulda, tanto commossa da non potersi reggere in piedi. Ella sarebbe caduta se non ci fosse stato, a sostenerla, il braccio di Sylvius Hog. Ma questi sorreggeva con forza l'eroina di quella festa, alla quale mancava Ole Kamp. Oh! come avrebbe preferito trovarsi nella sua cameretta di Dal! Che bisogno provava di sottrarsi a tutta quella curiosità, per benevola che fosse! Ma Sylvius Hog aveva voluto che ella fosse presente all'estrazione, ed ella aveva obbedito. — Posto! posto! — si gridava da ogni parte. E si faceva largo al passaggio di Sylvius Hog, di Hulda, di Joël. Quante mani si tesero per afferrare le loro! Quante buone ed affettuose frasi furono pronunciate al loro passaggio! E come Sylvius Hog approvava tutte queste dimostrazioni di simpatia! — Sì! è proprio lei, amici miei!… È la mia piccola Hulda che io ho condotto con me da Dal! — egli diceva. Poi volgendosi: — Ed ecco Joël, il suo bravo fratello! E aggiungeva: — Ma di grazia, non me li soffocate! E mentre le mani di Joël rispondevano a tutte le strette, quelle del professore, meno vigorose, rimanevano indolenzite. Nello stesso tempo, i suoi occhi brillavano; una piccola lacrima di commozione scivolò fra le sue ciglia. Ma - fenomeno degno dell'attenzione degli oftalmologi — quella lacrima era luminosa. Ci volle un buon quarto d'ora per attraversare i cortili dell'Università, per giungere nella gran sala, e per occupare i posti, che erano stati riservati al professore. Finalmente ci si arrivò, non senza fatica. Sylvius Hog sedette fra Hulda e Joël. Alle due e mezzo, una porta si aprì dietro il palco, al fondo della sala. Il presidente apparve, con aspetto dignitoso, serio, con quell'aria sovrana, con quel portamento proprio di chiunque debba presiedere un'assemblea. Lo accompagnavano due assessori, non meno seri di lui. Quindi entrarono sei bambine, adorne di nastri e fiori, tutte con capelli biondi, occhi azzurri e mani rosee, nelle quali si riconoscevano le manine dell'innocenza, che, di solito, nelle lotterie, sono destinate ad estrarre i biglietti dalle urne. Il loro ingresso fu accolto da un applauso, che testimoniava anzitutto il piacere di vedere finalmente i direttori della lotteria di Christiania, e poi l'impazienza che aveva risvegliato il loro ritardo nel pubblico. Le fanciulle erano sei appunto perché tale era il numero delle urne, disposte sopra un tavolo, dalle quali ad ogni estrazione dovevano uscire sei numeri. Le sei urne contenevano ciascuna i dieci numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 0, rappresentanti unità, decine, centinaia, migliaia, decine di migliaia, e centinaia di migliaia del milione. Non c'era una settima urna per il milione, perché, in base a questo metodo di estrazione, è convenuto che, se i sei zeri escono contemporaneamente, essi rappresentano il milione - cosa che ripartisce con parità su tutti i numeri le probabilità di vincita. Inoltre era stato deciso che i numeri sarebbero stati successivamente estratti dalle urne cominciando da quella che era alla sinistra del pubblico. Il numero vincitore si sarebbe così formato sotto gli occhi degli spettatori, dapprima con la cifra della colonna delle centinaia di migliaia, poi con quella delle decine di migliaia, e così di seguito fino alla colonna delle unità. Essendo state disposte così le cose, si può immaginare con quanta ansietà ognuno doveva vedere aumentare le probabilità di vincere, dopo l'uscita di ogni numero. Alle tre in punto, il presidente fece un segno con la mano e dichiarò aperta la seduta. Il lungo mormorio che accolse quest'annuncio durò qualche minuto, quindi si ristabilì il silenzio. Allora il presidente si alzò. Assai commosso, pronunciò il discorsetto di prammatica, nel quale sembrò essere spiacente di non poter assegnare un primo premio a ciascun biglietto. Poi, ordinò di procedere all'estrazione della prima serie. Essa comprendeva, come sappiamo, novanta premi, per cui l'estrazione avrebbe richiesto un certo tempo! Le sei bambine cominciarono dunque a svolgere il loro compito con regolarità automatica, senza che il pubblico perdesse la pazienza. Proprio come era stato previsto, crescendo, ad ogni estrazione, il valore dei premi, cresceva anche l'emozione, e nessuno pensava a lasciare il suo posto, nemmeno quelli che non avevano più ragione di stare in ansia perché il loro biglietto era già uscito. Questa prima parte dell'estrazione durò un'ora, senza che accadesse nulla di particolare. Si poté, tuttavia, notare che il numero 9672 non era ancora uscito, e così conservava ancora tutte le probabilità di vincere il primo premio. — Questo è un buon segno per Sandgoïst! — disse uno dei vicini del professore. — Bah! Sarebbe davvero sorprendente che gli toccasse il primo premio! — osservava un altro — benché abbia un numero famoso! — Un numero famoso, infatti! — rispose Sylvius Hog. — Ma non domandatemi il perché!… Non sarei in grado di dirvelo! Cominciò allora l'estrazione della seconda serie che comprendeva nove premi. L'interesse diveniva sempre maggiore, essendo il novantunesimo premio di mille marchi, il novantaduesimo di duemila, e così di seguito sino al novantanovesimo, che era di novemila. La terza serie, come ricordiamo, si componeva soltanto del primo premio. Il numero 72521 vinse un premio di cinquemila marchi. Questo biglietto apparteneva ad un bravo marinaio, che fu acclamato da tutto il pubblico e sostenne dignitosamente questa dimostrazione di simpatia. Un altro numero, l’823752, vinse seimila marchi! E quale fu la gioia di Sylvius Hog quando Joël gli disse che quel biglietto apparteneva alla gentile Siegfrid di Bamble! In quel momento accadde un incidente e tutto il pubblico provò un'emozione, che si tradusse in mormorii. Quando venne estratto il novantasettesimo premio - quello di settemila marchi - si credette per un momento che Sandgoïst, almeno per questo premio, fosse stato favorito dalla fortuna e avesse vinto. Infatti, il numero vincitore era il 9627. Mancavano solo quarantacinque punti per avere il numero d'Ole Kamp! Le due estrazioni seguenti diedero dei numeri molto diversi da quello di Ole: 775 e 76287. La seconda serie era chiusa. Restava da sorteggiare solo l'ultimo premio: quello da centomila marchi. L'agitazione degli spettatori era al colmo, e sarebbe molto difficile dare un'idea chiara della sua intensità. Dapprincipio, un lungo mormorio si propagò dal salone nei cortili e nelle strade. E trascorsero alcuni minuti, prima che potesse calmarsi. Poi, a poco a poco cessò e seguì ad esso un silenzio profondo. Si sarebbe detto che tutta l'assemblea si fosse irrigidita. In quella calma, c'era una buona dose di incantata aspettativa, quella stessa - ci si permetta il paragone - che si prova in attesa, per esempio, di una esecuzione capitale. Ma questa volta il paziente, ancora sconosciuto, era condannato solo a guadagnare centomila marchi, non a perdere la testa, a meno che non la perdesse per la gioia. Joël, le braccia conserte, guardava vagamente davanti a sé, essendo forse il meno emozionato di tutti gli astanti. Hulda, seduta, come raccolta in se stessa, pensava soltanto al suo povero Ole. Lo cercava istintivamente con lo sguardo, come se dovesse comparire da un momento all'altro! Sylvius Hog invece… Ma è meglio rinunciare a descrivere lo stato nel quale egli si trovava. — Estrazione del premio di centomila marchi! — disse il presidente. Che voce! Pareva uscisse dalle viscere di quell'uomo solenne. La sua emozione era causata dal fatto che egli aveva parecchi biglietti, che non essendo ancora usciti, potevano aspirare al primo premio. La prima bambina estrasse un numero dall'urna a sinistra e lo mostrò all'assemblea. — Zero! — disse il presidente. Questo zero non fece grande effetto. Sembrava davvero che tutti s'aspettassero di vederlo comparire. — Zero! — gridò il presidente all'estrazione fatta dalla seconda bambina. Due zeri! Si osservò che le probabilità crescevano notevolmente per tutti i numeri compresi fra uno e novemilanovecentonovantanove. Ora il biglietto di Ole Kamp - non dimentichiamo - portava il numero 9672. Cosa strana, Sylvius Hog cominciò ad agitarsi sulla sedia, come se essa fosse sotto l'effetto di un rullio. — Nove! — gridò il presidente, annunziando la cifra che la terza bambina aveva estratto dall'urna. Nove!… Era la prima cifra del biglietto di Ole Kamp! — Sei! — disse il presidente. Infatti la quarta bambina presentava un sei a tutti gli sguardi puntati su di lei come pistole cariche, cosa che la intimidiva notevolmente. Le probabilità di vincere erano ora di uno su cento per tutti i numeri compresi fra uno e novantanove. Il biglietto di Ole Kamp avrebbe dunque fatto guadagnare a Sandgoïst quella somma di centomila marchi? In questo caso, ci sarebbe stato da dubitare davvero di Dio! La quinta fanciulla estrasse dall'urna la quinta cifra. — Sette! — disse il presidente con una voce talmente soffocata che appena si udì. Ma se il pubblico riusciva a stento a sentire, vedeva, però, le cinque bambine che in quel momento presentavano al pubblico questi numeri: 00967 Il numero vincitore era necessariamente compreso fra 9670 e 9679. C'era dunque adesso una probabilità su dieci. La tensione era al colmo. Sylvius Hog, in piedi, aveva afferrato la mano di Hulda Hansen. Tutti gli sguardi erano volti verso la povera fanciulla. Privandosi dell'ultimo ricordo del suo fidanzato, aveva dunque sacrificato la fortuna che Ole Kamp aveva sognato per lei e per sé? La sesta bambina introdusse con fatica la mano nell'urna. Tremava anch'essa, la piccina. Finalmente il numero comparve. — Due! — esclamò il presidente. E cadde sulla sua sedia, quasi svenuto per l'emozione. — Novemilaseicentosettantadue! — proclamò uno degli assessori con voce risonante. Era il numero del biglietto di Ole Kamp, che si riteneva posseduto da Sandgoïst. Tutti lo sapevano, tutti conoscevano a quali condizioni l'usuraio l'aveva acquistato. Così cadde un profondo silenzio, invece degli applausi che sarebbero scoppiati nella sala dell'Università se il biglietto fosse ancora appartenuto a Hulda Hansen! E ora quel ribaldo di Sandgoïst sarebbe dunque comparso, col biglietto in mano, per ritirare il premio? — Il numero novemilaseicentosettantadue ha vinto il premio di centomila marchi! — ripeté l'assessore. — Chi ritira il premio? — Io! Era l'usuraio di Drammen che aveva pronunciato questa parola? No! Era un giovane - un giovane dal volto pallido, che recava, nei lineamenti come in tutta la persona, i segni di lunghe sofferenze, ma che era vivo, più vivo che mai! A questa voce, Hulda s'era scossa, aveva gettato un grido, che fu udito da tutti. Poi era svenuta. Ma il giovane si era fatto largo tra la folla, e fu proprio lui a raccogliere tra le sue braccia la fanciulla svenuta. Era Ole Kamp! CAPITOLO XX Sì! ERA Ole Kamp, che, per miracolo, era sopravvissuto alla catastrofe del Viken. Il Telegraf non lo aveva ricondotto in Europa, perché egli non si trovava più in quei lontani paraggi quando l'avviso andò ad esplorarli. E non vi si trovava più, perché, a quel tempo, già navigava verso Christiania sopra la nave che lo faceva rimpatriare. Ecco ciò che raccontava Sylvius Hog. Ecco ciò che egli ripeteva a quanti volevano udirlo! E tutti lo ascoltavano, si può esserne certi! Ecco ciò che narrava con un vero accento da trionfatore! E i suoi vicini lo ripetevano a quelli che non avevano la fortuna di trovarsi accanto a lui! E la notizia passava di gruppo in gruppo fino al pubblico ammassato nei cortili e nelle vie vicine. In breve ora, tutta Christiania seppe che il giovane marinaio del Viken era di ritorno e che aveva vinto il primo premio della lotteria delle Scuole. E bisognava ben che fosse Sylvius Hog a narrare tutta questa storia. Ole non avrebbe potuto farlo, perché Joël lo stringeva nelle sue braccia fino a soffocarlo, mentre Hulda ritornava in sé. — Hulda!… cara Hulda!… — diceva Ole. — Sono io, il tuo fidanzato… e tra poco tuo sposo. — Domani, figli miei, domani! — esclamava Sylvius Hog. — Partiremo questa sera per Dal. E se finora non è mai accaduto, ora si vedrà un professore di diritto, un deputato dello Storting danzare durante una festa nuziale come il più agile ballerino del Telemark! Ma come faceva Sylvius Hog a conoscere la storia di Ole Kamp? Molto semplicemente, per mezzo dell'ultima lettera che il ministero della Marina gli aveva diretto a Dal. Infatti questa lettera - l'ultima che aveva ricevuto e della quale non aveva fatto parola ad alcuno - ne conteneva, nella busta, un'altra, datata da Christiansand. Questa seconda lettera gli comunicava che il brick danese Genius, capitano Kromman, era giunto a Christiansand, ed aveva a bordo gli scampati al naufragio del Viken, tra cui il giovane nostromo Ole Kamp, e che, fra tre giorni, sarebbe giunto al porto di Christiania. La lettera del ministero della Marina aggiungeva che quei naufraghi avevano talmente sofferto che si trovavano ancora in uno stato di estrema debolezza. Ecco perché Sylvius Hog non aveva voluto dire nulla a Hulda del ritorno del suo fidanzato. Così, nella sua risposta al ministero della Marina aveva chiesto il più assoluto segreto su questo ritorno, segreto che era stato scrupolosamente osservato per quanto riguardava il pubblico. Ed era naturalissimo che l'avviso Telegraf non avesse ritrovato né un relitto né un sopravvissuto del Viken. Durante una violenta tempesta, il Viken, in parte disalberato, aveva dovuto ripiegare verso nord-ovest, mentre si trovava a duecento miglia a sud dell'Islanda. Durante la notte dal 3 al 4 maggio, una notte terribilmente burrascosa, esso andò ad urtare contro uno di quegli enormi iceberg in discesa, che provenivano dai mari della Groenlandia. L'urto fu talmente forte che cinque minuti dopo il Viken colava a fondo. Fu allora che Ole scrisse quel documento. Egli aveva tracciato su quel biglietto di lotteria un ultimo addio alla sua fidanzata; poi l'aveva gettato in mare, dopo averlo chiuso in una bottiglia. Ma nel momento dell'urto, gran parte dell'equipaggio e lo stesso capitano avevano perduto la vita. Soltanto Ole Kamp e quattro dei suoi compagni riuscirono a saltare sopra un frammento dell'iceberg, nel momento in cui il Viken andava a picco. Se non che la loro morte era solo ritardata, se quella terribile burrasca non avesse spinto il banco di ghiaccio verso nordovest. Due giorni dopo, sfiniti, morti di fame, i cinque naufraghi venivano gettati sulla costa meridionale della Groenlandia, costa deserta, ove vissero per miracolo. Là, se non fossero giunti in tempo i soccorsi, sarebbero periti senza rimedio. Come avrebbero avuto la forza di raggiungere le pescherie e gli stabilimenti danesi della baia di Baffin, sull'opposto litorale? Fu allora che il brick Genius, che era stato pure spinto fuori strada dalla burrasca, venne a passare di là. I naufraghi fecero dei segnali, e vennero raccolti. Erano salvi. Però il Genius, arrestato da venti contrari, ebbe lunghi ritardi nella traversata relativamente breve dalla Groenlandia alla Norvegia. Ecco perché giunse a Christiansand solo il 12 luglio e a Christiania nella mattina del 15. Ora, era proprio quella mattina che Sylvius Hog era andato a bordo. Qui aveva trovato Ole Kamp ancora debolissimo. Aveva saputo da lui quanto era accaduto dopo la sua ultima lettera datata Saint-Pierre-Miquelon… Poi l'aveva condotto in casa sua, chiedendo all'equipaggio del Genius di mantenere il segreto per alcune ore. Il resto lo conosciamo. Venne allora stabilito che Ole Kamp si recasse all'estrazione della lotteria. Ne avrebbe avuto la forza? Sì! La forza non gli sarebbe mancata, dal momento che Hulda si sarebbe trovata là. Ma quest'estrazione poteva ancora interessargli? Cento volte sì! Ne era ancora interessato, per se stesso come per la sua fidanzata! Infatti, Sylvius Hog era riuscito a riscattare il biglietto dalle mani di Sandgoïst. Egli lo aveva comperato per la somma che l'usuraio di Drammen aveva pagato a madama Hansen. E Sandgoïst fu ben lieto di sbarazzarsene, ora che nessuno voleva più comperarlo. — Mio bravo Ole! — disse Sylvius Hog restituendogli il biglietto — non è una probabilità di vincere, ormai quasi nulla, che io ho voluto restituire ad Hulda, ma è l'ultimo saluto che voi le avete mandato quando credevate di perire. Ebbene, bisogna pur ammettere che il professore aveva avuto proprio un'ispirazione, certamente migliore di quella di Sandgoïst, il quale avrebbe voluto rompersi la testa contro un muro quando conobbe l'esito della lotteria. Adesso centomila marchi entravano nella casa di Dal. Sì! centomila marchi, e non un centesimo di meno, giacché Sylvius Hog non volle mai essere rimborsato di quello che aveva speso per riscattare il biglietto di Ole Kamp. Era la dote che egli era felicissimo di offrire alla sua piccola Hulda nel giorno del suo matrimonio. Forse si troverà strano che questo numero 9672, che aveva così vivamente attirato la pubblica attenzione, fosse proprio uscito, e per giunta in corrispondenza del primo premio. Sì, d'accordo, è cosa strana, ma non impossibile; e, del resto, è successo. Sylvius Hog, Ole, Joël e Hulda lasciarono Christiania la sera stessa. Il ritorno si fece passando da Bamble, poiché bisognava consegnare a Siegfrid il premio che aveva vinto. E ripassando davanti alla bizzarra chiesuola d'Hitterdal, Hulda ricordò i tristi pensieri che l'avevano assalita durante il precedente viaggio; ma, guardando Ole, si sentì subito tornare alla felicità del presente. Per sant'Olaf! Quanto era graziosa Hulda con la corona a raggi, mentre, quattro giorni dopo, usciva dalla cappella di Dal, al braccio dello sposo! E, dopo, le feste che seguirono furono tali che la loro eco giunse fino agli estremi villaggi del Telemark. E tutti ne gioirono: la graziosa damigella d'onore Siegfrid, suo padre, il fattore Helmboë, Joël, futuro sposo; e perfino mamma Hansen, che non era più atterrita dallo spettro di Sandgoïst. Forse ci si chiederà se tutti quegli amici, tutti quegli invitati, fra cui i Fratelli Help, e tanti altri, erano venuti a Dal per assistere alla felicità dei giovani sposi, o per vedere danzare Sylvius Hog, professore di diritto e deputato allo Storting? Non sapremmo rispondere! Ad ogni modo, egli danzò molto dignitosamente, e dopo avere aperto il ballo con la sua cara Hulda, lo finì con l'incantevole Siegfrid. L'indomani, salutato da applausi in tutta la valle del Vestfjorddal, egli partiva, dopo aver formalmente promesso di ritornare per le nozze di Joël, che furono celebrate alcune settimane dopo, con estrema gioia dei due interessati. Questa volta il professore aprì il ballo con la graziosa Siegfrid e lo finì con la sua cara Hulda. E dopo quest'occasione Sylvius Hog non ballò più. Quanta felicità albergò da quel giorno nella casa di Dal, che era stata provata tanto duramente! Senza dubbio, quella felicità era in parte opera di Sylvius Hog, ma egli non voleva ammetterlo e continuava a ripetere: — Sono ancora io debitore verso i figli di mamma Hansen! Il famoso biglietto era stato restituito, dopo l'estrazione. Esso figura, adesso, al posto d'onore, in un quadretto, incorniciato in legno, nella sala principale dell'albergo di Dal. Ma ciò che si vede non è il famoso numero 9672, bensì l'ultimo addio, scritto sul rovescio, che il naufrago Ole Kamp mandava alla fidanzata Hulda Hansen.