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COMMEMORAZIONE DEI
QUATTRO MARTIRI DI MAROSTICA
Orazione ufficiale
del prof. MARIO GIULIANATI
MAROSTICA
16 gennaio 1983
Signor Sindaco, Signore e Signori, Signori insegnanti, studenti e compagni partigiani,
rammentare dopo trentanove anni il sacrificio dei giovani martiri che conclusero così
tragicamente la loro esistenza tra le mura di questo castello, non può esimerci anche dal
trarre dagli avvenimenti di allora. e da quelli che seguirono, una valutazione ed una
sintesi.
Non è infatti possibile guardare al passato senza porci la domanda di come
abbiamo utilizzato l’esperienza fatta, di come abbiamo tratto insegnamento – sempre
che questo sia avvenuto – impartitoci dalla storia, e, nel caso specifico che si tratti di
storia autentica d’Italia, non è certo negabile.
La Resistenza fu tale sul piano strettamente militare, nell’insurrezione armata,
nella lotta di liberazione, nel coinvolgimento di tutto un popolo, di tutta la nazione, ma lo
fu anche e soprattutto sul piano politico e sociale.
Per la prima volta, infatti, un’amplissima categoria di cittadini – i lavoratori, il
popolo tutto – venne ad essere protagonista e a scegliere il proprio destino segnando la
base di partenza per il proprio diretto coinvolgimento nel governo del Paese,
coinvolgimento ratificato e dall’avvento della Repubblica e dalla sottoscrizione, da parte
delle forze politiche democratiche, della Magna Charta italiana, la Costituzione.
Ed è proprio questa Costituzione, con la sacralità del primo articolo che forma la
congiunzione tra la lotta armata – la battaglia contro il nazifascismo ed ancora più
indietro l’opposizione alla cattura dello Stato da parte del fascismo – e la fase nuova,
quella della nascita della democrazia italiana. Democrazia, e suo sviluppo che oggi non
possiamo leggere se non tenendo conto proprio di questo particolare elemento che la
lega in maniera precisa alla Resistenza.
Ho letto le brevi note dalla signora Zaira Meneghin Maina, anch’essa partigiana e
combattente per la libertà, e al di là della tristezza che suscitano, ai ricordi che
richiamano, alle immagini che rievocano, esse presentano un carattere che certamente
trova la sua origine proprio nella realtà di quei momenti, nelle esistenze consumate,
nelle sofferenze patite. Non vi è retorica nelle pagine del suo opuscolo, così come
ritengo che non debba esservi oggi retorica nel ricordare i fratelli scomparsi perché non
fu il loro sacrificio, e quello di tanti altri, né fatto retorico né certamente demagogia.
Il tempo trascorso è stato lungo a passare da allora, quasi quarant’anni, il vivere di
due generazioni; è stato spesso un cammino duro, faticoso, difficile, ma alla fin fine può
anche apparire quasi un lampo, una giornata dall’alba al tramonto.
Una giornata della quale ci si chiede che utilizzo ne abbiamo fatto.
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Vi è una tendenza da parte di molti a sostenere che la Resistenza è ormai cosa del
passato, cosa da lasciare ai libri e magari a quelli che stanno negli scaffali più alti delle
biblioteche; che rammentarsene oggi non ha senso alcuno; che ritrovarci per rendere
omaggio ai morti e dare un monito ai vivi è cosa malinconica, infruttuosa soprattutto;
che necessita invece superare quello che è stato per saldare tutti nella pacificazione. E
sembrano certamente parole buone e giuste quelle che pronunciano questi uomini
assennati che invitano sempre alla cautela, alla moderazione, alla calma,
all’atteggiamento supino.
Ma è certo che se fosse toccato a costoro affrontare il nazifascista, farne giustizia e
restituire dignità al nostro popolo, oggi noi non saremmo certamente qui a ricordare i
vivi e i morti, a ricordare le lotte del passato e a fare solenne promessa di garantire ai
nostri figli il loro futuro.
Per molti di noi, di molte età, la Resistenza è e sempre sarà un riferimento, non
solo fatta di momenti esaltanti, ma anche di impegni, di consapevolezza, di serietà di
intenti, di continuità di una lotta che non si è conclusa nell’aprile 1945, ma che in quel
momento ha solo cessato l’azione armata per trasformarsi in azione politica e sociale per
la conquista e la difesa del vivere civile.
L’alba di questa nostra giornata, di questa tormentata giornata della democrazia
italiana, ha visto ergersi la Resistenza di tutto un popolo nella difesa dei principi
fondamentali dell’umanità.
Tutti noi auspichiamo la generale pacificazione, e non credo che esista nell’animo
di alcuni nefandi sogni di vendette sterili o il mantenimento dei rancori e delle antiche
rivalità. Ma è altrettanto certo che non è con il dimenticare che si costruisce un futuro
più saggio; non è con lo scordare, magari volutamente, la nostra matrice, che potremo
rafforzare la struttura democratica del nostro Paese. Essa viene da una fonte ben precisa
alla quale necessita attingere e che contemporaneamente necessita di essere alimentata
dalla dedizione e dell’impegno di ognuno.
Molti di noi rammentano l’esplosione di vita che vi è stata all’annuncio della
cacciata dei tedeschi e dei fascisti, all’annuncio della fine del conflitto, all’annuncio della
pace raggiunta. Era gioia autentica, era scoperta genuina di una nuova realtà, era
liberazione interiore che aveva coinvolto tutti, anche se per alcuni la memoria del
recente passato velava di tristezza il presente.
Molti di noi rammentano anche gli impegni che allora, tutti, ci siamo assunti
proprio in memoria dei fratelli caduti, in memoria dei sacrifici fatto dalle nostre madri e
dalle nostre sorelle, in memoria del prezzo ingente pagato dal popolo per il suo riscatto.
Oggi credo sia necessario porre a confronto quello che siamo divenuti, quello che
abbiamo realizzato in questi quarant’anni, con quelli che erano stati gli impegni di allora.
La Resisteva recava in sé i germi del nostro migliore futuro, non per semplice
connessione tra causa ed effetto come forse ci illudemmo che fosse, ma perché quei
germi vennero sparsi volontariamente da infiniti coraggi e da grandi sensibilità; forse, se
illusione ci fu, essa era nella speranza che l’albero nascesse e subito e rapidamente
crescesse spontaneamente.
Allora – durante la Resistenza – fu sentita da molti la necessità di affrontare, per
una medesima finalità, un comune nemico e la lotta legò uomini e ideologie, tradizioni e
sentimenti diversi.
A guerra conclusa, spettava il compito della ricostruzione del Paese, Esso fu
seriamente affrontato con impegno, con laboriosità quasi generale: e le macerie
scomparvero, tornarono a produrre le fabbriche, quello fabbriche che gli operai e i
tecnici italiani – quelli delle grandi città come Torino, Genova, Milano e quelle delle
nostre più contenute realtà come Vicenza e Schio – difesero dal nazifascismo e dalla sua
violenza distruttiva anche con grandi scioperi come fossero di loro proprietà ed in virtù
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del loro passato lavoro e del loro futuro compito di ricostruttori di questa nostra Italia;
tornarono a fiorire i commerci; sorsero case; risorsero paesi e città; tornarono a
esprimersi le doti di tenacia e di capacità dei nostri lavoratori.
La nazione si avviò verso un benessere materiale mai raggiunto nel passato. Ma in
parte, nella fretta di operare sulle cose, ci si dimenticò che lo Stato italiano, quello che
doveva sostituirsi al corrotto Stato sabaudo e mussoliniano, era non da ricostruire ma da
costruire proprio partendo dal momento eccezionale di maturità politica rappresentato
dalla Resistenza.
Il fascismo aveva inquinato troppo a fondo la vita italiana, in ogni sua
manifestazione, per poterci illudere che non lasciasse tracce profonde e nelle cose e
nelle coscienze, anche dopo che era stato battuto dalle armi.
Il fascismo aveva interrotto brutalmente in Italia la via del progresso delle libertà,
della dignità politica, della giustizia sociale.
Purtroppo, poco alla volta, noi dimenticammo questo compito e ci accontentammo
delle dichiarazioni di principio, delle affermazioni e della esaltazione, spesso nella
superficialità, della raggiunta democrazia, dimenticando l’unità di un tempo per
dividerci e combatterci sul terreno del privilegio.
Oggi noi dobbiamo registrare le conseguenze dell’errore di allora e degli anni che
seguirono, quando, presi dalla furia del fare, smettemmo di pensare e ci convincemmo
che per essere una repubblica democratica bastava andare a votare ogni tanto. Bastava
delegare qualcuno.
In una pur rapida analisi di tutti questi anni, dobbiamo registrare che lo Stato
italiano, la repubblica democratica nata dalla Resistenza, non è ancora un fatto
compiuto, intimamente compiuto.
Negli anni scorsi abbiamo assistito al ripresentarsi del fascismo del nostro Paese,
magari in doppiopetto o in marsina, ma a volte anche con la camicia nera. Sempre
strafottente e arrogante, spesso cercando alibi intellettualistici, ma anche ricorrendo alle
bombe.
Ma in qualsiasi modo si mascheri è sempre fascismo, rozzo, vecchio e sovversivo,
oggi come nel ’22; da allora rappresenta la violenza, la sopraffazione, la coercizione. Da
Piazza Fontana, da piazza della Loggia, dall’Italicus a Bologna, i fatti parlano chiaro e in
modo terribile.
Così come in modo terribile parlano gli atti terroristici compiuti innumerevoli
volte dalla Brigate Rosse e da quanti altri, più o meno mascherati, attentano alla salvezza
dello Stato.
Non è possibile non collegare questi martiri delle strage e degli attentati a quelli
della Resistenza; non è possibile non ricordare con i fratelli partigiani anche il sacrificio
dell’onorevole Aldo Moro e degli uomini della sua scorta, dell’operaio genovese Guido
Rossa, del generale Dalla Chiesa.
Esse, con quanti appartenenti alle Forze dell’Ordine al servizio dello Stato, sono
morti proprio per far fronte con la loro vita a quell’impegno che avevano assunto con la
esistenza, proprio per non riconsegnare all’inciviltà, alla prevaricazione, al disordine – ai
quali ci vuole ricondurre il terrorismo tutto – questo nostro tormentato Paese.
Così come abbiamo il dilagare di nuova criminalità più o meno organizzata, che
colpisce ovunque e sempre con maggiore ferocia, che attacca sia la proprietà che la vita e
la libertà, che assalta gli organismi dello Stato. Una criminalità che non ha confini, che
dilaga ovunque, fino ai paesi più remoti e che trova ragione solo nel più sfrenato
desiderio di ricchezza facile, disprezzando ogni principio morale.
Ma credo che sia nostra ancora un’altra responsabilità. Nostra come singoli
cittadini; nostra come generazione; nostra come classe dirigente.
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Presi dalla furia del fare,del costruire e conquistare ricchezza e benessere, ci siamo
poco alla volta scordati proprio del maggior impegno assunto di fronte a questi quattro
nostri fratelli, qui uccisi: Bruno Provolo caduto a 22 anni, Giovanni Rossi morto a 20
anni, Luigi Nodari a 23 anni, Decimo Vaccari a 19. Gente del popolo, operai, un
carabiniere; gente semplice dagli ideali schietti e chiari, priva di furbizie e di inganni.
Mi si consente di rammentare di questi quattro martiri alcuni tratti che appaiono
essere loro comuni, così come erano comuni a tanti giovani che scelsero la strada dei
monti, quella della clandestinità, quella della lotta per fermare la barbarie nazifascista:
figli del popolo, giovani, anzi giovanissimi, ma già consci del valore e dell’impegno di una
scelta così ardua, generosi e sereni, legati agli affetti familiari, già provati dalle difficoltà
della vita, con lo stato d’animo di coloro che – e questa è una grande maturità – sanno di
dover anzitutto rispondere alla propria coscienza. Quale abisso esiste oggi tra la loro
umanissima e sofferta necessità di lotta e la spinta alla violenza assurda e senza alcun
limite morale di quanti, anch’essi della loro stessa età, in nome di ideali contorti e
contraddittori, rifiutano il vivere civile e la civile battaglia politica e si rifugiano
nell’azione terroristica.
Essi allora non esitarono e con l’irruenza della giovane età andarono a combattere
sui monti e andarono, forse senza parola adeguate, a predicare il diritto dell’uomo alla
sua libertà, alle sue scelte e dignitoso, alla pacifica convivenza.
Lo fecero combattendo con le armi i nazifascisti, con personale sacrificio, con la
fatica, anche con le paure; lo fecero dichiarando il loro amore per una patria che
intuivano esistere ma che forse nemmeno conoscevano , dichiarando il loro amore per le
genti: e queste sì che le conoscevano bene, le genti umili come loro, le genti che
maggiormente ebbero a soffrire in ogni tempo delle ingiustizie, delle prepotenze, delle
prevaricazioni dei potenti e degli arroganti.
Ma io credo che loro, come tanti e tanti altri combattenti per la libertà, si siano
battuti anche per qualcosa di più: non solo per fare dell’Italia in paese libero dal
nazifascismo, ma libero dalle ingiustizie, libero dalle paure, libero dalle miserie materiali
e dalle schiavitù morali, libero dal privilegio corruttore.
È proprio la loro natura di uomini semplici, unitamente agli uomini politici e agli
intellettuali dal passato antifascista, uniti a quanti dall’esilio, dalle galere, dai campi di
concentramento nonché a tanti e tanti soldati sui ritrovarono nella Resistenza, li doveva
portare a pensare la loro lotta armata solo come inizio di un più grande riscatto morale.
Un pensiero è doveroso rivolgere proprio ai soldati italiani, scaraventati in una
guerra non voluta, non capita e ritenuta intimamente ingiusta. Mi sia consentito qui
ricordare , per quanti vestirono il grigioverde, i diecimila morti della Divisione Acqui che
a Cefalonia e a Corfù, volontariamente, con libero voto espresso in un’assemblea indetta
dal loro Generale, apertamente dichiararono la loro volontà di opporsi ai nazisti, pur
sapendo con chiarezza a cosa andavano incontro.
Ma noi ci siamo scordati di questo nostro impegno, di questo nostro debito, presi
da egoismo e indifferenza. Indifferenza per i mali altrui, per le altrui difficoltà. Ci siamo
arroccati sempre più nel nostro mondo individuale: estraniati sempre più dalla ricerca
della giustizia sociale che deve essere la meta fondamentale della costruzione di
un’autentica democrazia.
Oggi registriamo appunto gli errori del nostro egoismo e della nostra indifferenza:
il terrorismo, la crisi dei valori morali e ideologici, la crisi economica politica e sociale
del Paese, la crisi sempre più profonda di costumi saggi e delle grandi tradizioni del
nostro popolo, il malcostume, gli scandali, la mafia, la camorra, i rapimenti, il dramma
della droga che falcia giovani vite.
Chiusi nell’indifferenza, ci rifiutiamo di essere partecipi concreti e realisti della vita
del nostro Paese.
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Credo che tutto ciò sia oggi il nemico che dobbiamo combattere, un nemico della
repubblica e del popolo. Esso tenta, per vie contorte, di riportarci verso quella società
che è miseramente crollata nel ’45. Questo nemico opera dentro di noi,intaccando
sempre più la scarsa disponibilità che ognuno ha di essere assieme agli altri nella
battaglia contro l’ingiustizia.
Un giorno Alcide Cervi ebbe a dire:
“Quando mi dissero della morte dei figli, risposi: dopo un raccolto ne viene un
altro. Ma il raccolto non viene da sé, bisogna coltivare e faticare perché non
vada a male. Avevo cresciuto sette figli, adesso bisognava tirar su undici nipoti.
Dovevano ognuno prendere il posto dei padri, e bisognava insegnare tutto da
capo. Quando tornai dal carcere, due mesi dopo nacque il terzo figlio di Gelindo
e gli mettemmo il nome del padre. Questo dunque era il più piccolo e la più
grande aveva dieci anni:Maria, figlia di Antenore e di Margherita. Erano
piccoli, perciò, ma io gli insegnai lo stesso.
Li portai una mattina sul fondo e a quelli che potevano capire gli feci vedere
come si falcia, ma prima di tutto come si fa per non tagliarci le dita quando si
affila la lama.
Questo è qualcosa di più di un impegno personale e di una dimostrazione di
serena e contenuta ferma volontà di un vecchio patriarca”.
È un appello a quanti di noi si trovano a dover fronteggiare i pericoli e gli inganni
di questo tempo, ma che vede anche germogli nuovi ai quali trasmettere il messaggio.
Siamo ad un bivio, tra progresso e arretramento, tra democrazia autentica e falsa
democrazia o peggio un regime dittatoriale.
La strada giusta è stata indicata fin da allora dai nostri martiri: la strada delle
scelte coraggiose, la strada della partecipazione; non quella di cedere le nostre capacità
di scelte o di delegare inconsapevolmente le nostre prospettive.
Ricordiamo ancora una volta o fondamentali principi ispiratori della Resistenza: la
libertà, con in astratta ma come fatto concreto; la giustizia sociale che vuol dire garanzia
per tutti di una vita dignitosa e protetta; democrazia che vuol dire partecipazione
responsabile.
È necessario tornare a lottare, non ero con le armi come un tempo, non cero con il
rancore e la rabbia, non certo con la violenza; lottare pacificamente ma con forza per
difendere questa nostra repubblica, per costruire lo Stato moderno, progressista, per
garantire il futuro ai nostri figli ed ai loro figli, per difendere la vita.
Questo è il nostro dovere verso i martiri, verso coloro che rinunciarono per amor
nostro alla loro vita: bisogna restituire credibilità al loro sogno e realizzare la loro e
nostra speranza nella serenità, nella operosità, nell’eguaglianza e nelle fratellanza, per
un’autentica libertà, per una reale giustizia, per un futuro di pace.
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16 Gennaio Mario Giulianati Commemorazione dei