Il 18 maggio scorso, a Novara, presso l’Università del Piemonte Orientale nell’Aula Magna del Dipartimento di Economia, si è tenuto il convegno “Il recupero dell’Etica nelle professioni: via uscita dalla crisi”. L’idea basilare del Convegno è che l’attuale crisi, che coinvolge non solo il nostro Paese ma l’Europa intera, è soprattutto una crisi di valori etici che se non riscoperti e vissuti renderanno l’attuale stato di cose irreversibile. L’altra idea portante è che i valori etici per il fatto che sono radicati profondamente nella natura umana possono essere universalmente riconosciuti prescindendo dalle convinzioni morali o religiose di ciascuno; come già diceva Terenzio: “homo sum, humani nihil a me alienum puto” (sono un essere umano e nulla di umano ritengo a me estraneo). Il primo e molto profondo intervento “Etica e deontologia professionale” è stato tenuto dal Prof. Francesco D’Agostino, ordinario di Filosofia del diritto nell’Università di Roma –Tor Vergata. A lui è succeduto il Prof. Giacomo Samek Lodovici, docente di Storia delle dottrine morali presso l’Università Cattolica di Milano, che ha svolto lo stimolante tema “Felicità e moralità sono inconciliabili? Riflessioni filosofiche”. L’Avv. Umberto Ambrosoli si è soffermato con un appassionato e coinvolgente intervento sul tema “Credere nella dimensione etica per superare la crisi”. Con l’ultimo intervento il dott. Alberto Sinigaglia, giornalista de La Stampa, ha parlato dello scottante ed attuale tema “Fare etica con il giornalismo”. I lavori, che sono stati coordinati dal dott. Lorenzo Del Boca, giornalista e scrittore già presidente della F.N.S.I. e dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti, sono stati preceduti dai saluti della Prof.ssa Eliana Baici, Preside del Dipartimento di Economia, dall’ing. Antonio Strumia, Governatore Distretto 2030, dall’ing. Cesare Garbini, Presidente del Rotary Club Novara e conclusi dal dott. Giorgio Groppo, Presidente della Commissione Distrettuale Etica. FELICITÀ E MORALITÀ SONO INCONCILIABILI? Giacomo Samek Lodovici1 1. Il desiderio di felicità e l’infelicità del nostro tempo Ciascuno di noi è abitato da un desiderio profondo che alberga nelle latebre più intime del suo cuore. Come dice Aristotele2, infatti, ogni essere umano, di ogni tempo, cultura, condizione sociale, economica, ecc., è accomunato agli altri uomini dal medesimo desiderio: il desiderio di essere felice. In effetti, la felicità è qualcosa che l’uomo non può non volere e nessuno di noi agisce in modo tale da essere infelice, tanto che anche chi si va a impiccare, dice Pascal 3, lo fa perché ritiene che, togliendosi la vita, potrà accedere ad una condizione migliore, quale che sia (il nulla o una vita oltremondana), appunto più felice di quella in cui si trova coinvolto. Nessuno agisce in modo tale da essere infelice, tuttavia gli uomini felici non sono certo molti e, se è vero che tutti concordano nel desiderare la felicità, divergono poi, nota di nuovo Aristotele 4, circa il modo di conseguirla: per alcuni essa coincide con l’onore, per altri con la ricchezza, per altri con il piacere, per altri ancora con la virtù e così via. Dopo un’iniziale convergenza degli uomini a proposito dell’oggetto del desiderio, dunque, notiamo una successiva divergenza nei percorsi per conseguirlo. E poiché questi percorsi sono talvolta in contraddizione tra loro, si comprende già da subito che anche se nessun uomo agisce per essere infelice, in diversi casi qualcuno si inganna sul modo di esserlo, ed è già per questo che non riesce ad esserlo. Inoltre, non solo gli uomini felici sono pochi, ma la nostra epoca sembra contrassegnata da una infelicità mediamente molto diffusa. Alcuni autori hanno rilevato nelle società più avanzate, in cui cioè lo standard di qualità della vita è più elevato, l’esistenza di alcuni indici di infelicità: ad esempio5; la crisi delle famiglie, certamente favorita da una legislazione differente da quella del passato, ma anche, a nostro avviso, espressione del fatto che molti uomini non trovano più nel matrimonio e nella famiglia uno dei luoghi possibili della propria realizzazione e della propria felicità (il discredito nei confronti del matrimonio e della famiglia è un fenomeno recente; da sempre e in quasi tutte le culture l’uomo ha legato alla nuzialità e alla genitorialità una delle possibile forme di compimento felicitante); l’aumento dei casi di patologie psichiche, molte delle quali (dicono gli psicologi) sono prodotte da una sorta di rassegnazione e di profonda delusione nei confronti della vita; il ricorso indiscriminato, come surrogati della felicità, al sesso ed alla droga; l’aumento dei suicidi: nel mondo si verifica un suicidio ogni 40 secondi, un milione di morti l’anno. Secondo l’Oms dal 1950 al 1995 la percentuale dei suicidi è cresciuta del 60 per cento. In Italia se ne contano 4000 ogni anno ed è molto significativo che l’area più “colpita” sia il Nord-Est (Friuli 9,8 per cento), mentre la percentuale più bassa di suicidi si registra in Campania (2,6 per cento). Il Docente di Storia delle dottrine morali all’Università Cattolica di Milano. Aristotele, Etica Nicomachea, 1095a 17-19. 3 Pascal, Pensieri, opuscoli, lettere, Rusconi, Milano 1978, n. 370, p. 535. 4 Aristotele, Etica Nicomachea, 1095a 20 ss. 5 Cfr. T. Melendo Granados, La chiave della felicità, «Fogli», 277 (2000), pp. 4-5. 1 2 che prova ulteriore che non è il benessere economico, né il contesto sociale degradato, né la difficoltà materiale della vita a definire l’infelicità. Se questi indici non dovessero convincerci ci si può comunque basare su alcune indagini sociologiche, come quelle riportate e commentate da L. Bruni6, da cui emerge un dato, di cui hanno preso ormai consapevolezza anche molti economisti, che “nelle società a reddito elevato avere più reddito non ci fa più felici”. Ad esempio, la percentuale degli americani che si autodefiniscono very happy sta diminuendo, a fronte di un forte aumento del reddito pro-capite. L’indice very happy dell’U.S. National Surveys’ questionnaire nel periodo 1946-1990 è sceso dal 7,5 al 7 %, mentre il reddito pro-capite è fortemente cresciuto (da 6.000 a 20.000 $). Molte ricerche concordano sul fatto che la felicità sta diminuendo, o almeno non sta crescendo, nelle società con economie avanzate 7. Qual è il motivo principale per cui l’uomo contemporaneo è così spesso infelice, forse anche maggiormente rispetto al passato? 2. Il nesso amore-felicità Per tentare di rispondere alla domanda bisogna adesso interrogarsi direttamente sulla felicità e sul modo autentico di conseguirla. La felicità è un sentimento interiore di gaudio, di intima esultanza, di gioia e l’uomo la sperimenta di rado e per breve tempo; però può almeno più durevolmente sperimentare un sentimento di contentezza. Essa va distinta dal piacere corporeo, che è invece una sensazione corporea di gratificazione, che noi esperiamo quando una qualche esigenza corporea-vitale viene soddisfatta. Che il piacere sia diverso dalla felicità lo si può comprendere intuitivamente anche solo mostrando che l’uno può esistere senza l’altra: per esempio, posso provare piacere, perché gusto un buon piatto, perché faccio una nuotata tonificante, ecc., e nondimeno sentirmi interiormente infelice. Ora, per comprendere quale sia la strada per conseguire la felicità (o almeno la contentezza), prendiamo le mosse dal suo opposto: l’infelicità. Quest’ultima è una condizione di solitudine durevole e continuativa: un uomo realmente e continuamente (cioè non temporaneamente) solo è un uomo tremendamente infelice: “riteniamo che l’amico sia uno dei beni più grandi e che l’esser privo di amici e in solitudine sia cosa terribile” 8. Certo, noi abbiamo bisogno di alcuni momenti in cui stare da soli, ma un uomo che non intrattiene relazioni significative con nessuno è un uomo terribilmente infelice. Ci sono uomini soli che vivono in pace con se stessi, ma la loro non è realmente una condizione di felicità bensì è solo di assenza del negativo, di equilibrio, di assenza di turbamento (l’atarassia a cui anelavano gli stoici antichi), di eliminazione delle possibili ferite che derivano dal rapporto con gli altri, ma non di gioia. Infatti, non si può essere felici da soli9, perché l’uomo è un essere sociale10. 6 L. Bruni, L’economia e i paradossi della felicità, in Sacco P. L. - S. Zamagni (a cura di), Complessità relazionale e comportamento economico, Il Mulino, Bologna 2002, p. 176 e in L’economia, la felicità e gli altri. Un’indagine su beni e benessere, Città Nuova, Roma 2004, specialmente il cap. 1. 7 L. Bruni cita gli studi di R. Putnam, Bowling Alone, Simon & Schuster, New York 2000; R. Wrigt, Nonzero: The Logic of Human Destiny, Panteon Books, New York 2000; R. Lane, The Loss of Happiness in the Market Democracies, Yale University Press, New Haven 2000. 8 Aristotele, Etica Eudemia, 1234b 32 - 1235a 2; cfr. anche Shaftesbury: “una creatura la più solitaria possibile, senza compagno o amico di alcun genere” è “una ben triste creatura”, Shaftesbury, Saggio sulla virtù e il merito, Einaudi, Milano 1946, p. 12, cfr. inoltre pp. 58-59 e p. 91 e 120. Cfr. anche l’economista-filosofo A. Genovesi (XVIII sec.), Lezioni di commercio o sia di economia civile, Società tipografica dei Classici Italiani, Milano 1825, II, p. 162: “Niuno stato umano è da reputarsi più infelice quanto quello di essere soli”. 9 Tommaso d’Aquino, Commento alle Sentenze, d. 2, q. unico, a. 4. Questo vuol dire che i contemplativi che vivono da eremiti sono per forza infelici? No, perché se Dio esiste essi non sono realmente soli, bensì in stabile comunione con quella Persona che Platone chiamava il Primo Amico11. Poiché l’uomo è un essere sociale per essere felici bisogna sentirsi amati; ma ciò non basta per estinguere la solitudine. Per eliminare la solitudine non basta nemmeno vivere in mezzo agli altri, perché si può restare soli anche in mezzo ad una folla o ad una adunata oceanica se le relazioni con gli altri sono superficiali. Per rimediare alla solitudine bisogna entrare in comunione con gli altri, partecipare a loro la nostra vita e partecipare alla loro vita. Ora, ciò è reso possibile dall’amore12. Infatti13 esso è: una forza estatica, che cioè ci fa fuoriuscire da noi stessi, ci proietta verso gli altri, ci fa spostare il nostro baricentro vitale presso gli altri e ci fa «dimorare» presso di loro; una forza unitiva, che cioè realizza l’immedesimazione con gli altri, ci fa entrare in comunione con loro, ci fa vivere la loro vita, ci fa provare le stesse gioie e gli stessi dolori. Insomma, se l’infelicità consiste nella solitudine, la felicità, che è l’opposto dell’infelicità, deve coincidere con l’opposto della solitudine, pertanto con una condizione di comunione interpersonale, che è possibile instaurare mediante l’amore. Beninteso, questa fuoriuscita da me stesso è possibile solo con l’amore di benevolenza, che è l’amore che vuole il bene dell’altro. Già in Aristotele amare significa principalmente volere il bene dell’altro e cercare di realizzarlo; del resto, dire “ti voglio bene” vuol dire “io voglio per te il bene”, “voglio la tua felicità” non la mia. Solo l’amore di benevolenza è veramente estatico e centrifugo, mentre l’egoismo è centripeto, fa rimanere il soggetto in se stesso, determina una prassi di consumo e di utilizzo dell’altro, non certo di donazione, e rinserra l’uomo nelle anguste mura del sé. Insomma, c’è una connessione tra amore e felicità, di cui è facile trovare delle conferme: infatti, tutto ciò che facciano per amore ci risulta tanto più gioioso quanto più è intenso l’amore che proviamo o, perlomeno, ci risulta meno gravoso. Ad esempio, andare tutti i giorni a lavorare per puro senso del dovere è molto faticoso, mentre andare a lavorare per amore di mia moglie e dei miei figli (e per amore di Dio se ho senso soprannaturale) può diventare gratificante, come molte persone possono confermare. Andare dal posto x al posto y per portare un libro può essere gravoso, andare dal posto x al posto y per portare in regalo un libro ad amico (cioè per amore dell’amico) diventa gioioso. Gli esempi si potrebbero moltiplicare e ognuno può pensarne di più efficaci, per mostrare che l’amore può trasfigurare le nostre azioni e renderle gioiose, fino al punto che gli uomini con grande fede possono provare gioia anche in condizioni di acuto dolore fisico, perché, per amore, offrono questo loro dolore a Dio perché ne ricavi un bene. 3. Il nesso tra moralità e felicità 10 Aristotele, Politica, 1253 a 3; cfr. anche Etica Nicomachea, 1169 b 18. Platone, Liside, 219 C-D. 12 Per un’indagine sull’amore cfr. G. Samek Lodovici, La felicità del bene. Una rilettura di Tommaso d’Aquino, Vita e Pensiero, Milano 2002, pp. 39-88 e T. Melendo Granados, tr. it. Otto lezioni sull’amore umano, Ares, Milano 1998. 13 Cfr. Dionigi l’Areopagita, I nomi divini, c. IV, 709 C ss. in Tutte le opere, Rusconi, Milano 1981. 11 A questo punto possiamo anche comprendere la necessità di eliminare un equivoco molto sovente radicato secondo cui l’uomo morale è un uomo infelice, frustrato e complessato, perché è imprigionato in una gabbia di regole, norme, divieti, imperativi, e perciò rinuncia alla propria spontaneità e si mutila da solo la possibilità di cogliere le migliori gratificazioni della vita. C’è, infatti, una convinzione oggigiorno diffusissima: tra moralità e felicità si dà un’opposizione insanabile, una scissione irriducibile, perciò è più assennato vivere immoralmente ma felicemente. Eppure, da Socrate fino a Tommaso d’Aquino l’etica era intesa come la via per conseguire la felicità e l’uomo moralmente buono, che cioè esercita le virtù, era considerato l’uomo che giunge alla felicità più profonda possibile in questa vita. C’è un’opposizione tra moralità e felicità? Oppure è vero che, come già dissero Socrate e Platone14, l’uomo giusto è più felice dell’ingiusto? Probabilmente, l’affermazione dell’opposizione radicale tra moralità e felicità è determinata 15 dal fatto che, ormai, noi siamo abituati da secoli di legalismo a pensare che l’uomo morale, l’uomo che esercita le virtù, sia colui che vive un’esistenza a colpi di senso del dovere, motivato dalla pressione di obblighi, norme, divieti e imperativi. Ma questa visione dell’uomo morale è sbagliata perché l’uomo veramente morale è l’uomo che vive motivato dall’amore e le vere virtù sono proprio espressioni di amore16, come si può comprendere considerando le virtù principali o cardinali, cioè la giustizia, la fortezza, la temperanza e la prudenza: esercitare la virtù della giustizia significa cercare il bene dell’altro, per amore dell’altro o per amore di Dio; esercitare la fortezza significa sopportare le difficoltà e gli sforzi per amore di qualcuno o per amore di Dio; esercitare la prudenza (che va intesa in un senso diverso da quello odierno, che la identifica con la cautela e la circospezione) significa reperire i mezzi per procurare il bene di chi amiamo, sia un'altra persona o Dio; esercitare la temperanza significa custodire noi stessi capaci di donarci a chi amiamo. Se interpretiamo in questo modo l’esercizio delle virtù, se le interpretiamo come espressioni di amore, è possibile rigettare la tesi dell’impossibile conciliazione tra moralità e felicità. Infatti, se, come abbiamo detto, c’è una relazione tra amore e felicità e se c’è anche una relazione tra amore e moralità/virtù, allora esiste anche una connessione tra l’autentica moralità e la felicità, perciò l’uomo veramente morale e virtuoso è l’uomo più felice. L’uomo morale può sperimentare momenti di felicità e vivere con uno stato d’animo durevole di fondo di contentezza. 4. Felicità ed emozioni-shock Inoltre, sia chi asseconda sempre tutte le sue pulsioni, sia chi si fa invadere dalle emozioni intense (le emozioni shock, cfr. sotto) e le cerca continuamente, finisce – non subito bensì a lungo andare – per diventarne sottomesso, finisce per mutilare la propria libertà. Il sensation seeker, come l’esteta di cui parla Kierkegaard, non è padrone di sé, perché la sua guida è lo stato d’animo, ed egli vive nell’attimo fuggente, anzi si fa vivere da esso. Vive in una condizione, per così dire, di frantumazione, segue lo stato d’animo del momento e quindi è diviso in tante parti quanti sono i suoi stati d’animo. 14 Repubblica, 352 d. cfr. S. Pinckaers, tr. it. Le fonti della morale cristiana. Metodo, contenuto, storia, Ares, Milano 1992, pp. 26-64. 16 Cfr. Agostino, I costumi della Chiesa contro i manichei, c. 15, oppure La città di Dio, XV, 22. 15 In effetti, l’uomo contemporaneo preferisce le emozioni-shock», cioè quelle potenti ed intense, «Ha bisogno di essere scosso da commozioni, stordito da attività isteriformi, sbalordito da impressioni inedite e potenti»17. E in una «società anestetizzata occorrono stimoli sempre più forti perché si abbia il senso di esser vivi. La droga, la violenza e l’orrore diventano degli stimolanti che, in dosi sempre più potenti, riescono ancora a suscitare un’esperienza dell’io», cioè a far sentire vivi i soggetti contemporanei18. Sennonché le emozioni-shock atrofizzano molti nostri sentimenti19: «siamo ancora capaci di vibrare per cose semplici e naturali? Lo sguardo di un bimbo20, lo stormire del vento fra gli alberi, il canto di un uccello, un quadro, una poesia non ci lasciano molto spesso indifferenti?». Ne emerge un quadro contraddittorio: «allo scatenamento delle emozioni corrisponde una relativa povertà dei sentimenti», la bulimia di sensazioni forti produce un’anestesia dei sentimenti. «Ci si emoziona molto, ma non si sa davvero più sentire»21. In proposito, già Nietzsche diceva in modo chiaroveggente: «la nostra epoca è un’epoca di sovreccitazione, e proprio per questo non è un’epoca di passione; si surriscalda continuamente perché sente di non essere calda – nel suo fondo prova gelo»22. Tutt’al più, dopo che il soggetto ha esperito molte emozioni shock, subentra il sentimento della noia. In particolare, chi cerca spasmodicamente emozioni connesse col piacere sensoriale si condanna progressivamente all’assuefazione, perché l’incremento del piacere sensibile non può procedere oltre un certo limite, superato il quale l’uomo, per così dire, si fulmina come il filamento di una lampadina attraversato da una corrente di tensione troppo elevata. Una vita solo emozionale è un po’ come un’esistenza sulle montagne russe, cioè dove il picco emotivo si paga con una fase “down” di depressione e dove pertanto si cerca immediatamente di tornare in cima23. E chi investe tutto sulla gratificazione emozionale arriva, a lungo andare (si noti bene: a lungo andare, a volte anche dopo molti anni), a percepire la propria vita come non cresciuta, e questo risulta doloroso, perché quando l’emozione viene cercata come fine ultimo non fa maturare la persona e non la nutre, anche se momentaneamente le toglie la sensazione di fame. Una prassi concentrata sulla sola dimensione emozionale porta progressivamente ad un’intensificazione del desiderio e ad una diminuzione della sua soddisfazione, anche quando il soggetto raggiunge gli oggetti che desidera: un po’ come bere acqua salata, la quale non disseta, bensì intensifica la sete. Infatti, come abbiamo detto, la contentezza/felicità umana è il riverbero soggettivo di una prassi innervata dall’amore che instaura la comunione interpersonale, dunque me la precludo se vivo solo 17 Lacroix, Il culto delle emozioni, tr. it. Vita e Pensiero, Milano 2002, p. 11. I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, tr. it. Mondadori, Milano 1977, p. 166. 19 Per una distinzione tra emozioni e sentimenti cfr. G. Samek Lodovici, L’emozione del bene. Alcune idee sulla virtù, Vita e Pensiero, Milano 2010, pp. 43-47. 20 «Amate specialmente i bambini […] vivono per purificare e commuovere i nostri cuori»: l’affermazione è dello Stàrets Zosima, in Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Bompiani, Milano 2005, libro VI, pp. 715. 21 Lacroix, Il culto delle emozioni, p. 11. 22 Nietzsche, Frammenti postumi 1882-1884, Adelphi, Milano 1982, vol. VII, tomo I, frammento n. 248, p. 75. 23 «Mi meraviglio di cadere nell’angoscia – e tuttavia! Non smetto di giocare: è la condizione dell’ebbrezza del cuore. […] giocare è sfiorare il limite, andare il più lontano possibile, e vivere sull’orlo dell’abisso!», G. Bataille, Su Nietzsche, tr. it. SE, Milano 1994, p. 112. 18 consumando cose e persone come combustibile emozionale, perchè esplico solo una prassi intersoggettiva assimilativa, e non di comunione, una prassi contrassegnata dalla chiusura e non dall’apertura. Pertanto, riesco ad attingere nell’immediato alla soddisfazione sensibile, in quanto soddisfo pur sempre una tendenza della mia natura umana che è anche sensibile, ma non posso sperimentare la contentezza spirituale. Che l’uomo morale possa sperimentare momenti di felicità e vivere con uno stato d’animo durevole di fondo di contentezza ci sembra assurdo perché siamo abituati a interpretare in modo sbagliato la vita morale come una continua sequela di estenuanti doveri e come una reiterata sottomissione a pesanti divieti. Ma, giova ripeterlo, questa non è la vera moralità (contrariamente a quello che pensava Kant): l’uomo veramente morale rispetta sì gli obblighi e le norme etiche, ma la sua motivazione è l’amore: andare a lavorare è compiere il proprio dovere, ma l’uomo veramente morale lo fa per amore, dei suoi cari e/o di Dio. Inoltre l’uomo morale compie anche degli atti molto nobili, che non sono per nulla doverosi, come, per esempio, dare la vita per gli altri: “l’uomo virtuoso compie molte azioni in favore dei suoi amici e della patria, anche se dovesse morire per loro”24. 5. Il paradosso della felicità Se tutto ciò che abbiamo detto è vero, possiamo comprendere le ragioni della diffusione dell’infelicità nella nostra epoca. La nostra società, infatti, è fortemente connotata da stili di vita egoistici o, perlomeno, orientati al conseguimento della propria felicità, ma quanto abbiamo fin qui visto ci consente di comprendere un sorprendente paradosso, di cui sono sempre più consapevoli anche gli economisti25: la felicità la consegue (nella misura in cui essa è accessibile) solo chi non la cerca per se stesso, bensì chi la cerca per gli altri. Possiamo trovare conferme di questo paradosso lungo tutto il corso della storia della filosofia. Cominciamo da autori come Bentham, Mill e Sidgwick (i capostipiti di quella corrente di filosofia morale che è l’utilitarismo26), autori insospettabili perché hanno ritenuto (erroneamente) che l’uomo agisca motivato solo dal proprio egoismo. Bentham era convinto che "per ogni granello di gioia che seminerai nel petto di un altro, tu troverai un raccolto nel tuo petto, mentre ogni dispiacere che tu toglierai dai pensieri e dai sentimenti di un'altra creatura sarà sostituito da meravigliosa pace e gioia nel santuario della tua anima”27. Mill aveva ben presto notato l’aspetto paradossale della felicità: “per quanto questa affermazione possa essere paradossale, la capacità cosciente di rinunciare alla propria felicità è la via migliore per il raggiungimento di tale felicità”28. E sempre Mill spiegava nella sua Autobiografia: “non ho mai dubitato che la felicità sia […] lo scopo della vita. Ma ora penso che quello scopo può essere ottenuto se non lo cerchiamo come scopo diretto. Sono felici (io credo) solo coloro che hanno le loro menti fissate su qualcos’altro che la propria felicità; sulla felicità degli altri, o nel miglioramento dell’umanità, persino in qualche arte o occupazione, cercati 24 Aristotele, Etica Nicomachea, 1169a 19-20. Cfr. il vangelo di Giovanni, 15, 13: “non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici”. 25 Cfr. il bel libro di L. Bruni, L’economia, la felicità e gli altri, cit. 26 Per un’indagine sull’utilitarismo sia permesso di rinviare a G. Samek Lodovici, L’utilità del bene. Jeremy Bentham, l’utilitarismo e il consequenzialismo, Vita e Pensiero, Milano 2004. 27 Bentham Manuscripts, University College, CLXXIV, 80, cit. da A. Goldworth, Editorial Introduction, in J. Bentham, Deontology, together with a table of Springs of Action and Article on Utilitarianism, in The Collected Works of Jeremy Bentham Clarendon Press, Oxford, 1983, p. XIX. 28 J.S. Mill, L’utilitarismo, Sugarco, Milano 1991, p. 33. però non come mezzi, ma come un ideale scopo. Puntando così su qualcos’altro essi trovano la felicità lungo la strada”29. Un altro autore utilitarista come Sidgwick parla precisamente di un “paradosso fondamentale dell’edonismo” (il quale è una forma di egoismo), consistente nel fatto che “l’impulso al piacere, se troppo predominante, viene a vanificare il suo stesso fine”. Più precisamente, “i nostri godimenti attivi [...] non possono essere conseguiti se il nostro scopo viene consapevolmente concentrato su di essi” 30. Ci sono alcuni piaceri, prosegue Sidgwick, mirando ai quali li si diminuisce, ed in questi casi basta affievolire l’attenzione verso di essi rendendola meno predominante; ma ce sono altri in cui è proprio necessario distogliere completamente l’intenzione da essi e dimenticarli come obiettivo se si vuole conseguirli. Questo è il caso dei piaceri della ricerca intellettuale, della creazione artistica, della benevolenza. Riguardo a questi ultimi Sidgwick spiega che “sembrano richiedere, perché li si provi in misura accettabile, la preesistenza di un desiderio di fare il bene degli altri per se stesso, e non perché così facendo ne deriva il nostro 31”. Perciò, come principale ostacolo per il loro conseguimento Sidgwick esplicitamente indica l’egoismo: “l’egoismo […] quell’eccessiva concentrazione dell’attenzione sulla propria felicità personale […] rende impossibile all’individuo sentire un qualche interesse per i piaceri e dolori degli altri. La continua attenzione rivolta al proprio io che ne risulta, tende a privare tutte le gioie della loro intensità e del loro aroma, e a produrre una rapida sazietà e la noia: all’uomo egoista manca […] quella dolcezza particolarmente ricca che dipende da una sorta di complicato riverbero della simpatia che sempre si trova nei servizi forniti a coloro che amiamo e a cui siamo grati.”32. Al di fuori della tradizione utilitarista le conferme del paradosso della felicità proliferano e ci possiamo limitare solo a qualche esempio. Buona parte della tradizione classica di filosofia morale insegna proprio che la felicità è la conseguenza e l’effetto di una prassi che non è direttamente intenzionata ad essa e che non se la pone come obiettivo, ovvero è il corollario di una vita virtuosa, una sua risonanza Come stiamo per vedere testualmente, nell’età antica lo avevano compreso, per esempio, Aristotele e Seneca; in età medievale, per esempio, Agostino, Bernardo di Chiaravalle e Tommaso d’Aquino; nell’età moderna, per esempio, (oltre a Bentham, Mill e Sidgwick) Leibniz, Shaftesbury, Hutcheson, Smith, Palmieri, Genovesi e Ferguson; nel XX secolo d.C., tra gli altri, Scheler, Weil e Frankl. Se, per le ragioni che stiamo per spiegare, la felicità è la conseguenza, la risonanza, l’effetto di una prassi che non se la pone direttamente come obiettivo, allora essa è qualcosa di gradito, di sperato, di desiderato, ma non può essere cercata direttamente, dunque ci accade come un dono, come un beneficio, come grazia. È qualcosa che ci accade, che ci arriva come grazia, come un dono gradito, e non è direttamente perseguibile. Lo aveva già intuito Aristotele, secondo cui “diciamo di voler essere felici e diciamo appunto che lo vogliamo, ma è stonato dire che lo scegliamo. In generale, infatti, sembra che la scelta riguardi solo le cose che dipendono da noi” 33, mentre se c’è qualche cosa che è “dono degli dei agli uomini, è ragionevole che anche la felicità sia un dono divino, tanto più che essa è il più grande dei beni umani”34. Nel medioevo lo ha ribadito, per esempio, Agostino: “la felicità può venire solo da qualche dio 35”. Nel secolo appena trascorso ne era consapevole Scheler: “la felicità e la disperazione non sono sentimenti che la nostra volontà possa suscitare” 36. E S. Weil lo ha ribadito, sempre nel XX secolo, in modo suggestivo: “i beni più preziosi non devono 29 J.S Mill, Autobiografy and Literary Essays, in Collected Works, I, University of Toronto Press, Routledge and Kegan, Toronto-London 1981, p. 146. 30 H. Sidgwick, I metodi dell’etica, Il Saggiatore, Milano 1995, p. 84. 31 Ibidem, p. 85. 32 H. Sidgwick, I metodi dell’etica, cit., p. 527. 33 EN, III, 1111b 28-31. 34 EN, I, 1099b, 10-15. 35 Agostino, La città di Dio, IV, 25. 36 Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, San Paolo, Milano 1996, p. 431. essere cercati ma attesi. L’uomo infatti, non può trovarli con le sue sole forze, e se si mette a cercarli troverà al loro posto dei falsi beni di cui non saprà nemmeno riconoscere la falsità” 37. In una prima approssimazione possiamo forse allora dire con Scheler 38 che i soli beni che l’uomo può conseguire direttamente sono quelli più periferici, come per esempio i piaceri sensibili, mentre non lo sono quelli più spirituali, quale è la felicità intesa nel suo senso psicologico come gioia. In effetti, assecondando il nostro egoismo possiamo, nell’immediato, cogliere dei piaceri sensibili, perché diamo soddisfazione ad una tendenza della natura sensibile dell’uomo. In generale, così, l’uomo può produrre beni di consumo, può incrementare la qualità della vita, il benessere e il comfort; però questo genere di soddisfazione è deludente, non è ciò che possiamo chiamare felicità. In effetti, come abbiamo già visto, nelle società più avanzate nonostante il benessere e lo standard della qualità della vita siano elevati, ci sono molti segnali di insoddisfazione. Ciò vuol dire che la felicità più profonda è qualcosa di diverso dalla soddisfazione sensibile e dal benessere. Ma, con uno sguardo più penetrante, si può notare che l’esperienza umana attesta un fatto: anche la soddisfazione sensibile è condannata alla diminuzione progressiva ed all’affievolimento. È un dato di fatto, cioè, che, a lungo andare, progressivamente, una prassi egoistica ed edonistica, focalizzata sul conseguimento di piaceri sensibili, provoca una diminuzione dello stesso piacere sensibile: cioè tale prassi produce una soddisfazione sempre minore ed un desiderio che cresce sempre di più, che può addirittura degenerare nella frustrazione e nella patologia39. Per Shaftesbury, ad esempio, “la sazietà, un perenne disgusto, un desiderio febbrile attendono coloro che si danno ad una ricerca appassionata del piacere”40, e, come dice di nuovo Scheler, “è proprio questo il lato comico e strano dell’uomo che vive secondo i principi della filosofia edonistica, che egli tanto più sicuramente non ottiene il piacere quanto più energicamente ricerca quello stesso piacere.” 41 C’è ormai una letteratura psicologica su questo tema e la conferma psicoterapeutica offerta dall’esperienza clinica della psichiatria contemporanea: “la felicità, in qualsiasi sua forma, dalla più sensibile, come il piacere, alla più alta, come l’estasi, è conseguenza di un’attività vitale non direttamente polarizzata verso di essa con desiderio e ricerca intenzionali. […] il clinico può osservare giorno dopo giorno […] che il principio del piacere è in realtà autodistruttivo. In altre parole, la ricerca diretta della felicità è autodistruttiva: è una contraddizione in sé [...] proprio nella misura in cui l’individuo comincia a cercare direttamente la felicità, o a sforzarsi di conseguirla, in quella stessa misura non può raggiungerla. Quanto più si sforza di guadagnarla, tanto meno la consegue”42. Sempre in ambito psicoterapeutico, la logoterapia di V. Frankl ha ricavato dall’esperienza clinica l’idea che la felicità e il piacere siano il corollario e la conseguenza dell’adesione ad un valore, nonché l’idea che essi non siano direttamente intenzionabili: “il piacere non si lascia affatto «intendere», cioè ricercare per se stesso: non può essere ottenuto che quale effetto spontaneo, appunto senza essere ricercato. Al contrario, più l’uomo ricerca il piacere, più questo gli sfugge. Il principio del piacere, portato alle sue più estreme conseguenze, non può che fallire miseramente, e questo per il semplice fatto che da se stesso si ostacola. Quanto più cerchiamo di raggiungere qualcosa con tutte le forze, tanto più è difficile ottenerla” 43. Ancora, “ciò di cui l’uomo ha bisogno 37 S. Weil, Attesa di Dio, tr. it. Rusconi, Milano 1972, p. 76. Nella filosofia contemporanea si veda anche D. von Hildebrand, che ritiene che la felicità “non è […] perseguibile direttamente, ma è piuttosto ricevuta come dono sovrabbondante”, cfr. P. Premoli De Marchi, Uomo e relazione. L’antropologia filosofica di Dietrich von Hildebrand, FrancoAngeli, Milano 1998, p. 90. 38 Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, cit., 426. 39 Come ha mostrato, per es., V. Frankl, Teoria e terapia delle neurosi, tr. it. Morcelliana, Brescia 1962. 40 Shaftesbury, Saggio sulla virtù e il merito, p. 92. Cfr. inoltre pp. 105-107. 41 M. Scheler, Pudore e sentimento del pudore, Guida, Napoli 1979, p. 102. 42 J. Cardona Pescador, La depressión, psicopatología de la alegría, Ed. Cíentifico-Médica, Barcellona 1983, pp. 106107. Molto valide sul piano psicologico le osservazioni fenomenologiche di C. S. Lewis, Surprised by joy, tr. it. Sorpreso dalla gioia, Jaka Book, Milano 1988, cap. 14. 43 V. Frankl, Alla ricerca di un significato della vita. Per una psicoterapia riumanizzata, tr. it. Mursia, Milano 1990, p. 55. non è il piacere in se stesso, bensì una ragione per essere felice. Nella misura in cui il piacere viene ad essere il contenuto della propria intenzionalità, l’oggetto specifico della propria riflessione, svanisce la ragione per essere felice e si dilegua lo stesso piacere.” 44 Del resto, verso la comprensione antropologica di questo fatto siamo già indirizzati dai passi di Bentham, Mill e Sidgwick poc’anzi citati. Infatti il loro minimo comun denominatore è una qualche connessione tra la felicità più piena e profonda e la relazione interpersonale, tra la felicità e l’amore. Abbiamo già visto che le stesse attività, che normalmente sarebbero faticose e difficili, se sono svolte per affetto sono meno faticose o addirittura gioiose. Ma questo è ancora un fatto di cui si deve cercare la spiegazione. Abbiamo anche detto che per rimediare alla solitudine non basta vivere in mezzo ad altri, giacché si può restare soli anche in mezzo ad una folla. Se l’uomo intrattiene relazioni intersoggettive superficiali non riesce a rimediare alla solitudine ontologico-esistenziale tipica della sua natura che è costitutivamente aperta; perciò, piuttosto, deve arricchire il suo mondo interiore partecipandolo intersoggettivamente ed attingendo alla comunione interpersonale. Ma a quest’ultima accede solo l’amore autentico, che estaticamente proietta il soggetto verso l’altro, consentendogli di trascenderne le qualità accidentali e di penetrare nei suoi recessi ontologici, producendo l’immedesimazione fino a fargli vivere la stessa vita dell’altro. Insomma, l’infelicità coincide con al solitudine e l’egoismo non elimina quest’ultima, non consente di accedere alla comunione intersoggettiva, poiché l’estasi che produce è soltanto incipiente e incompleta, e il movimento del soggetto è centripeto, di consumo e non di comunione, e lo rinserra nelle anguste mura del sé. Se questo è vero, allora, la condotta egoista di chi cerca di conseguire la propria felicità utilizzando gli altri fallisce l’obiettivo della felicità. Un tale soggetto non è in grado di preservare l’amore di benevolenza, cioè nella relazione intersoggettiva non cerca il bene dell’altro in quanto altro, bensì solo in quanto propedeutico alla propria felicità. Ma, trattando gli altri in modo strumentale come mezzi per conseguire la propria felicità, si autoesclude dall’accesso al centro personale e intimo dell’altro che è connesso alla felicità profonda. Infatti, se quanto abbiamo detto è vero, se la gioia è la risonanza soggettiva dell’amore che produce la comunione interpersonale, chi agisce utilitaristicamente nei confronti degli altri si preclude la gioia, poiché soltanto l’amore autentico è forza estatica e unitiva e perciò è l’attività connaturale ad una natura aperta come quella umana. Al contrario, una prassi egoistica è una prassi intersoggettiva di consumo, e non di comunione, una prassi contrassegnata dalla chiusura e non dall’apertura. Pertanto, questa prassi può essere, nell’immediato, fonte di piacere sensibile, in quanto comporta pur sempre la soddisfazione di una tendenza della natura sensibile dell’uomo, ma non di gioia spirituale: “non solo i piaceri spirituali, ma perfino quelli del corpo dipendono dall’inclinazione sociale [dell’uomo], tanto che quand’essa è manchevole quelli non solamente perdono la loro forza, ma si mutano quasi in insoddisfazione e disgusto” 45. Torniamo al paradosso della felicità. Abbiamo visto che soltanto l’amore autentico consegue la felicità accessibile all’uomo, mentre la ricerca diretta della felicità personale, in cui consiste l’egoismo, se la preclude. La felicità, come avevamo cominciato a vedere, è allora un dono, un dono divino, come dice Aristotele, proprio perché la si consegue solo con l’amore di benevolenza, il quale, per definizione, non cerca la propria felicità, quanto, piuttosto, la felicità altrui (altrimenti non sarebbe amore di benevolenza, ma egoismo). Così, la felicità è gioia della felicità dell’altro46, come ha efficacemente ribadito anche Leibniz in età moderna, spiegando che essa è delectatio in 44 Ibid., p. 115, nota 3. Shaftesbury, Saggio sulla virtù e il merito, p. 92. 46 Tommaso d’Aquino, Somma teologica, II-II, q. 28, a. 1. 45 felicitate alterius, o (nel caso in cui l’altro non sia felice) gioia del cercare la felicità dell’altro 47. In proposito Kierkegaard impiega un’immagine sintetica: “la porta della felicità si apre verso l’esterno”48, cioè amando gli altri. Lo stesso concetto si trova in Aristotele: “gli uomini vogliono il bene delle persone amate proprio per amor loro […] ed amando l’amico amano ciò che è bene per loro stessi”49; in Seneca: “nessuno può vivere felice se bada solo a se stesso, se tutto rivolge al proprio interesse”50; in Bernardo di Chiaravalle: “ogni vero amore è senza calcolo e, ciononostante, ha ugualmente la sua ricompensa; esso addirittura può ricevere la sua ricompensa solo se è senza calcolo”51; in Shaftesbury: “partecipare alla gioia o alla felicità degli altri” è ciò “da cui dipendono i più grandi di tutti i nostri piaceri”52; in Hutcheson: “quando agiamo generosamente sperimentiamo la gioia di vedere gli altri felici”53, e “quanto maggiore era il nostro amore […] tanto più grande sarà la nostra gioia per la loro felicità”54; in Genovesi: “è legge dell’universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri”55; in Adam Smith: “nella sua [dell’uomo] natura ci sono chiaramente alcuni principi […] che gli rendono necessaria l’altrui felicità” 56; in altri economisti del XVIII sec., come Palmieri e Ferguson57; in Scheler: “l’attuazione di ogni volontà fondata sull’amore s’accompagna sempre […] a un sentimento di piacere”58. Questo spiega il paradosso per cui la felicità la consegue soltanto chi non la ricerca per sé. Questo paradosso della felicità, d’altronde, non è che la manifestazione del paradosso dell’amore: “si esce da se stessi senza distruggersi; anzi, uscendo da se stessi, si raggiunge la perfezione personale in grado massimo. Nel donarsi, si sperimenta un «dare senza perdere» […] o un «acquistare donando», in cui la persona «perfeziona e si perfeziona»”59. Insomma, “l’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente”60 e ciò comporta che “l’uomo […] non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé”61 47 G.W. Leibniz Codice diplomatico di diritto delle genti, in Scritti politici e di diritto naturale, UTET, Torino 19652, p. 159. Ma già Francesco di Sales aveva affermato che l’amore è l’atto con cui la volontà si unisce e si congiunge alla gioia e al bene di qualcun altro, cfr. Traité de l’amour de Dieu, I, Nierat, Annecy 1894, p. 71. Questo, secondo Agostino, Discorsi, Città Nuova, Roma 1979, 368, 1, è anche uno dei significati espressi dal vangelo di Luca, 9, 24: “Chi pensa soltanto a salvare la propria vita la perderà; chi invece è pronto a sacrificare la propria vita per me la salverà”. A parere di chi scrive, questa convinzione è soprattutto espressa nel vangelo di Luca, 12, 31: “Cercate piuttosto il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta”. 48 Aut-Aut, in Opere, Sansoni, Firenze 1972, p. 10. 49 Etica Nicomachea, 1157b 32-34. 50 Seneca, Lettere a Lucilio, Utet, Torino 1969, p. 211. 51 Bernardo di Chiaravalle, De diligendo Deo, Cambridge 1926, p. 32. 52 Shaftesbury, Saggio sulla virtù e il merito, p. 125. Cfr, anche p. 72, 77 e 78. 53 Hutcheson, An Inquiry into the Original of Our Ideas of Beauty and Virtue, Liberty Fund, Indianapolis 2004, p. 141. 54 Idem, A System of moral Philosophy, Augustus M. Kelly, New York 1968, p. 49. A. Genovesi, Autobiografia e lettere, Feltrinelli, Milano 1963, p. 449. 56 A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, BUR, Milano 1995, p. 81. 57 Cfr. L. Bruni, L’economia, la felicità e gli altri, cit., pp. 117-119 58 Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, p. 426 ss. 59 L. Polo, Tener y dar. Reflexiones en torno a la segunda parte de la Encíclica «Laborem Exercens», in AA.VV., Estudios sobra la Encíclica Laborem Exercens, Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 1987, p. 227. Ovviamente, solo l’Onnipotente può sempre donare (S. Kierkegaard, Diario VII A 181, tr. it. n. 1017), ma ciò non toglie che anche l’uomo possa talvolta farlo. 60 Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, 10. 61 Concilio Vaticano II, Costituzione Pastorale Gaudium et Spes 24,4. Questa citazione e quella precedente non rappresentano un’abdicazione del metodo filosofico di questo saggio al principio di autorità: i due testi citati, infatti, esprimono delle verità che sono accessibili alla sola ragione senza bisogno di qualsivoglia fede. 55 Del resto il paradosso della felicità non è nemmeno l’unico che si possa riscontrare nell’esperienza umana, dove in altri casi si verifica il fatto che certi fini ci sfuggono proprio se cerchiamo di raggiungerli direttamente. Limitiamoci a due soli esempi. Basta pensare al sonno: a meno di non assumere farmaci, quando non riusciamo a dormire è controproducente sforzarsi intenzionalmente di prender sonno e, se lo facciamo, finiamo per restare svegli. Oppure si pensi all’oblio: possiamo sforzarci di ricordare qualcosa, ma è controproducente sforzarsi di dimenticare alcunché, in quanto se ci adoperiamo intenzionalmente per farlo, il risultato è quello di rinforzare il ricordo di ciò che vogliamo dimenticare. LA DEONTOLOGIA PROFESSIONALE Francesco D’agostino 1. Gli antropologi collocano la “scoperta del lavoro” tra la fine del paleolitico e l’inizio del neolitico. Nel paleolitico gli esseri umani sono cacciatori e raccoglitori, vivono cioè cacciando prede e raccogliendo frutti o vegetali per alimentarsi. Cacciare e raccogliere non sono pratiche che abbiano un carattere propriamente umano: anche gli animali cacciano, anche gli animali raccolgono e brucano. Nel paleolitico il lavoro non esiste. Gli uomini cominciano a lavorare quando inventano strumenti da lavoro, utilizzando i quali essi possono dilatare la loro capacità di procurasi alimenti e di meglio proteggere la loro vita quotidiana (come costruendo capanne) Anche gli animali, apparentemente, hanno i loro strumenti, ma gli strumenti degli animali sono strumenti biologici incorporati nel loro corpo dell’animale. Il ragno tesse la tela perché il suo organismo produce la particolare sostanza prima con cui la tela è fatta. Quando invece l’uomo prende un pezzo di ossidiana, e la modella come strumento, non usa il suo corpo, ma il suo logos. Ecco perché nel momento in cui gli antropologi trovano tracce di un uso di pietre di ossidiana capiscono che colui che le ha utilizzate era un essere umano a pieno titolo, apparteneva cioè ad una cultura, in cui era nata, sviluppata e consolidata una capacità progettuale e quindi squisitamente antropologica, perché meta-biologica. L’essere umano si caratterizza esattamente per questo. L’uomo è l’animale che non solo costruisce, ma progetta; in questo si distingue radicalmente da qualsiasi altra specie animale, che può costruire (come i castori, come le api, come gli uccelli), ma non è in grado di progettare. Mentre gli animali vivono nell’immediatezza (e ci vivono benissimo, perché sono perfettamente calati nel loro ambiente), l’uomo trascende l’immediatezza, attraverso i suoi progetti, cioè grazie alla sua capacità di tener insieme presente e futuro. Il tener insieme presente e futuro si manifesta attraverso quella pratica faticosa e insieme affascinante che è il lavoro. 2. Non c’è dubbio, come diceva Cesare Pavese, che lavorare stanca. Nella Teogonia di Esiodo, Ponos, il dio del lavoro, ha come sorella Algea, “colei che fa piangere”. Ma non c’è nemmeno alcun dubbio che il lavoro, per quanto faticoso, sia affascinante. La comprensione e l’accettazione di questo paradosso non è stata però immediata: ha richiesto, anzi, secoli e secoli di elaborazione culturale. Nell’età classica il lavoro era visto con disprezzo e ritenuto degno esclusivamente della condizione servile. Platone racconta della figura, per lui stravagante, del sofista Ippia, che, rinunciando al lavoro degli schiavi, amava “lavorare”, cucinandosi il cibo, cucendosi gli abiti e arrivando perfino a costruirsi da solo la casa, pur essendo di una grandissima e ricchissima famiglia ateniese. Perché tante fatiche? Perché evidentemente, per Ippia, uomo straordinariamente moderno e in anticipo sui tempi, il lavoro, pur se faticoso, doveva dargli un sottile e profondo piacere. 3. Per i latini il lavoro era fatica, era negatività pura, era negotium, perché tale da rendere non possibile il godere dei piaceri, non sempre volgari, dell’otium. Eppure ad un certo punto nell’antichità si aprono spiragli. Cicerone insiste nel dire che l’ozio va coniugato con la dignità (otium cum dignitate), per evitare che esso diventi qualche cosa di disdicevole. Siamo agli inizi di una nuova sensibilità. 4. Grazie all’avvento del cristianesimo si impone un nuovo paradigma, che altera radicalmente, e definitivamente, l’idea del lavoro.. La ragione è palese. Chiunque legge la Bibbia vede che Dio è descritto, sia pur metaforicamente, come colui che lavora e per diversi giorni et requievit die septimo. Il verbo greco che noi traduciamo con il verbo creare è poiein, cioè fare. Dio fa il mondo esattamente come un costruttore fa una casa, prima progettandola e poi realizzandola. Quindi gli uomini, fatti ad immagine e somiglianza di Dio, non possono disdegnare il lavoro. Anzi nel lavoro umano sarà possibile vedere il riflesso del lavoro divino e in ogni lavoro umano, per quanto minimo, sarà possibile percepire una scintilla del lavoro divino, un vero e proprio amore per le cose, in quanto ben fatte. 5. Di qui conseguenze di notevole rilievo. Si comincia a percepire che il lavoro umano può essere fatto bene o fatto male. Questa percezione è ancora la nostra. Lo si vede se si riflette che non ha senso dire, se non per approssimazione, che un calcolatore lavora bene o che lavora male. Una macchina o funziona o non funziona. Se funziona la utilizziamo fino a che funziona e resiste all’ usura; se non funziona non la biasimiamo, ma semplicemente o la ripariamo o la buttiamo via. La funzionalità di una macchina non è rapportabile alla logica del lavoro. Chi lavora non è la macchina, ma colui che l’utilizza. Non si assumono infatti gli operai perché funzionino, come ingranaggi di una catena di montaggio, ma perché lavorino alla catena di montaggio, controllandone la funzionalità e inserendosi nei suoi processi. E’ per questo che neanche i tayloristi estremi hanno mai pensato che il miglior operaio sia quello che lavora come una macchina, perché quanto più si cerca di far lavorare un operaio come una macchina tanto più si moltiplicano le sue possibilità di errore. 6. Giungiamo così a uno snodo fondamentale del nostro discorso. Scopriamo che nel lavoro umano, in ogni lavoro umano, c’è una dimensione spirituale. Per questo nella seconda lettera ai Tessalonicesi San Paolo ammonisce: “se qualcuno non vuole lavorare non mangi”. Chi non lavora, o più precisamente chi si rifiuta al lavoro, non crea infatti nessun bene, né introduce bene nel mondo: si rivela, percià, non degno di essere considerato imago Dei. Il lavoro quindi è un bene in sé, che per dir così “tonifica”, cioè dona un senso pieno all’esistenza umana. A partire da questo altissimo principio, da quando si è insediato nelle coscienze, si comincia a percepire l’emergere di un’altra categoria, strettamente connessa a quella del lavoro, la categoria della professione. 7. Il termine professione è assente nel mondo classico. I Greci tradussero il termine della tradizione ebraica Nevì (la figura che l’avanguardia post-impressionistica ha deformato in Nabi) col termine profeta, che indica l’operato di colui che “parla in anticipo”, cioè che dice oggi quello che avverrà domani. Da profeta deriva profezia. Lentamente dallo stesso termine deriva anche professione. 8. Nel medioevo cristiano si usa professione in chiave strettamente ecclesiale, per indicare la professione religiosa, cioè l’atto con il quale si dichiara pubblicamente una scelta di vita spirituale, di carattere istituzionale e di conseguenza regolata canonicamente. Per la professione religiosa il carattere pubblico è indispensabile. Privatamente infatti si possono fare voti, ma chi vuol fare una professione di vita deve farla pubblicamente, alla presenza, reale o simbolica, della comunità che è disposta ad accoglierlo e a supportare la sua scelta di vita. Nei Promessi sposi, per il rimorso di aver compiuto un omicidio, il giovane e impetuoso Lodovico decide di espiare per tutta la vita, facendosi cappuccino e assumendo il nome di Cristoforo. Alla sua pubblica professione religiosa vengono ad assistere addirittura i parenti della sua vittima (che si ritengono vendicati a sufficienza dal severo stile di vita che da quel momento in poi guiderà l’esistenza del nuovo frate). In forma ovviamente depotenziata e secolarizzata, il professionista, nel senso moderno del termine, si comporta in qualche modo in modo analogo. Decide di dare un orientamento definitivo alla propria vita, dichiarando pubblicamente quale sarà l’orizzonte di impegno lavorativo che da quel momento in poi egli professerà. La credibilità della professione religiosa sta nella fede del religioso, la credibilità della scelta professionale sta nella competenza, pubblicamente accertata, del professionista e nella consapevolezza, da parte sua, che i suoi impegni lavorativi avranno un carattere pubblico (e che, proprio in quanto dotati di carattere pubblico, potranno essere meritevoli di retribuzione). 9. Se non c’è questa competenza e questa consapevolezza non è possibile parlare di professione. La professione infatti non dipende tanto da quello che si fa, ma dipende da come lo si fa. Qui sta la differenza tra il professionista, da una parte, e il dilettante o l’amatore dall’altra. Luigi XVI era un abilissimo orologiaio (adorava smontare gli orologi e rimontarli), però non era un “professionista”, perché non sentiva alcun bisogno di dare carattere pubblico di questo che noi oggi chiameremmo un hobby. Ben diverso è il caso dell’orologiaio professionista, che si dichiara pubblicamente tale e che come tale viene prima formato, poi solennemente accolto dalla comunità professionale degli orologiai. Per questo la conclusione dei corsi di studio professionalizzanti è in genere caratterizzata da solennità di vario tipo: quando il preside o il direttore della scuola pubblicamente mette in mano a chi termina il proprio corso di studi l’ attestato finale, il diploma, la pergamena, percepiamo che l’identità del neodiplomato o del neolaureato ha acquisito una nuova e definitiva configurazione (o almeno che si è straordinariamente arricchita). E non solo in senso operativo o tecnico, ma in un senso antropologico. Non si cada però nell’errore di ritenere che la rilevanza pubblica della professionalità derivi da dinamiche esterne alla professionalità medesima: gli interventi pubblici riconoscono le professionalità, a volte anche attraverso rigorose procedure burocratiche, ma non sono in grado di crearle. Esemplare, al riguardo, la trama di un piccolo capolavoro della letteratura francese della prima metà dell’Ottocento, Mon oncle Benjamin (1843) di Claude Tillier: al barone, nobiluomo di provincia, che, ammalato, lo chiama al suo capezzale, lo zio Beniamino, sottoposto in precedenza da costui a innumerevoli umiliazioni a causa del suo rango piccolo borghese, spiega che il re, che può conferire a chi vuole e quando vuole un titolo nobiliare, non è in grado di conferire a nessuno, che non sia stato in grado di conquistarsela, una laurea in medicina. 10. E’ a questo punto che perché nella dinamica delle professioni emerge la deontologia. Deontologia è termine colto e come tutti i termini colti può essere fuorviante. Etimologicamente esso avrebbe una valenza analoga all’espressione teoria del dovere (o forse, più precisamente, dei doveri). Il termine ha acquistato nell’uso una valenza più ristretta e nebulosa, indicando una serie di specifici doveri etici, che gravano non sulle persone in generale, ma su coloro che esercitano una particolare professione. Prima però di utilizzare il termine in una valenza così limitata, anche se ovviamente non scorretta, è però opportuno assumerlo in un orizzonte di più ampio raggio e dire che la deontologia significa semplicemente questo: poiché il lavoro umano ha sempre in sé una dimensione di bene, questo bene va accanitamente custodito e promosso da coloro che si dedicano al loro lavoro, per evitare che esso si rovesci assiologicamente e si commuti in un male. Se riteniamo che l’etica sia quella dimensione del pensiero che cerca di salvare il bene da ogni manipolazione, da ogni degradazione, da ogni capovolgimento, ne segue che dove c’è una professione c’è una deontologia, perché c’è e non può non esserci un’etica. Dove invece il lavoro si riduce a mera prassi funzionale, non c’è deontologia (perché in realtà non è corretto in questi casi parlare propriamente di lavoro). 11. Professionalità e deontologia sono dunque strettamente connesse e sono connesse perché nella professionalità c’è la consapevolezza che quello che si fa lo si fa sempre in una dimensione di bene. Con questo non si vuol dire che un professionista, come in generale tutti i lavoratori, sia in primo luogo un filantropo disinteressato: è ovvio che egli dal suo lavoro trae un reddito, che ordinariamente sarà il suo unico reddito. Non dimentichiamoci mai però che, al di là dell’utile che da essa si trae, dall’esercizio di una professione deriva come effetto antropologicamente primario quello dell’autorealizzazione personale. E questo spiega perché ordinariamente il professionista non cada in quelle dinamiche di alienazione, descritte e denunciate con straordinaria efficacia dal marxismo classico, che sono il grande rischio e spesso il tristissimo effetto del lavoro operaio (peraltro suscettibile, proprio perché lavoro umano, di trascendere le sue meccanicistiche dimensioni deteriori). 12. Come è possibile tradire una professione religiosa, così è ovviamente possibile tradire una professione lavorativa. L’oggetto del tradimento nei due casi non è così diverso come potrebbe sembrare sulle prime. Chi getta la tonaca alle ortiche viene certamente meno alle promesse da lui fatte a Dio; ma in realtà, come ogni peccatore, non offende propriamente Dio, ma se stesso (Geremia, 7.19). Analogamente è possibile dire del professionista: dobbiamo comprendere che colui che tradisce la sua vocazione non va percepito come chi stia recando offesa a supremi, nobili (e inevitabilmente astratti) principi etici di condotta; molto più semplicemente egli sta perdendo la sua identità (qualunque sia l’utilità –generalmente monetaria- che possa ottenere come prezzo del suo tradimento). La cancellazione da un albo professionale, prima ancora che sanzione deontologica, è forma espressiva di un’ impossibilità ontologica: quella di poter chiamare professionista chi si sia rivelato indegno di esercitarla. Lo conferma il fatto che pochi comportamenti umani appaiono così disdicevoli, se non addirittura ributtanti, quanto i tradimenti deontologici. La durissima norma delle XII Tavole, Patronus, si clienti fraudem fecerit, sacer esto, non va letta come espressione di una legislazione penale primitiva e feroce (anche se tale lettura, ovviamente, ha le sue buone ragioni), quanto come la percezione di quanto sia insanabile la lacerazione della buona fede, cioè del più alto principio regolativo della vita di relazione, prodotta da un illecito deontologico. E’ per questo che al professionista è richiesto non solo di farsi custode della sua professione individuale, ma di mantenere nello stesso tempo e sempre la consapevolezza dell’esemplarità sociale della sua scelta di vita. 13. Se la deontologia professionale sia oggi in crisi e che gravità tale eventuale crisi possa aver raggiunto è questione che esula da queste considerazioni. Ciò che è possibile rilevare è, comunque, il fatto che la diffusione di un pragmatico funzionalismo, tipica del nostro tempo, produce inevitabilmente i suoi effetti anche sul piano della sensibilità deontologica. Cosa dobbiamo intendere per funzionalismo? Il funzionalismo, più che una teoria, è una prospettiva, quella per la quale è irrilevante che le cose, le scelte, gli affetti siano veri, l’importante è che funzionino (Whatever works, “basta che funzioni”, è l’efficacissimo titolo di uno degli ultimi film di Woody Allen). Non avendo questa forma di relativismo alcuno spessore teoretico, ma solo operatività pratica, la sua confutazione non può a sua volta che essere funzionalistica: non è senza significato il fatto che nel film di Woody Allen –da cui, peraltro, a causa del suo intenzionale carattere grottesco è difficile trarre indicazioni se non estrinseche- il protagonista tenti, e più di una volta, e non certo immotivatamente, il suicidio. Ciò che il suicidio è per la vita biologica, è, nella vita socio-relazionale, la perdita di autenticità, cioè il mascheramento. Senza autenticità si può di certo sopravvivere, come di certo può sopravvivere chi nasconda il suo volto dietro una maschera, giustificandosi magari col ricorso al celebre bon mot di Oscar Wilde, quanto sosteneva che solo chi è mascherato è in grado di dire la verità. Noi pensiamo piuttosto il contrario e cioè che la maschera, per quanto bella essa possa essere, crea sempre e intenzionalmente una distanza tra l’essere e l’apparire. La professionalità nasce e si afferma storicamente come una dimensione dell’essere: una dimensione limitata, come tutte le umane cose, ma pervasa nei suoi limiti da un legittimo e orgoglioso anelito di autenticità. A tutti i professionisti spetta il compito di tener viva questa consapevolezza e di custodirla. FARE ETICA CON IL GIORNALISMO Alberto Sinigaglia C’è una persona tra noi che sarebbe più indicata per affrontare il tema che mi è stato affidato: Lorenzo del Boca, se non altro per la quantità di anni che ha trascorsi ai vertici del sindacato prima e dell’Ordine dei Giornalisti poi (non credo ci siano stati regni più lunghi nella storia del giornalismo italiano). Però forse ci sono buone ragioni per le quali l’incarico sia toccato a me. Tra queste ragioni è l’ideale sintonia che mi lega a uno dei relatori, l’avvocato Ambrosoli: tutt’e due parliamo di etica, osserviamo gli aspetti etici di ogni argomento qui affrontato, esercitiamo eticamente la memoria e la storia. È nel passato che si trova spesso la rotta per il futuro. Permettetemi però, prima di cominciare, di fare una piccola rettifica al curriculum con il quale vi sono stato presentato e di raccontarvi un aneddoto dei miei inizi. Ho cominciato il lavoro a Milano, alla Mondadori in via Bianca di Savoia. C’era Arnoldo Mondadori - ancora l’indiscusso venerato Signore dell’editoria italiana - al quale ogni tanto Vittorio Sereni, capo del settore libri, mi faceva l’onore di accompagnare Montale o Bacchelli o Ungaretti. Arrivo a Torino, alla «Stampa» nel 1970, subito alla redazione di politica interna, ma ricominciando dal punto di vista amministrativo la carriera daccapo, cioè dal praticantato giornalistico che non avevo avuto a Milano essendovi stato arruolato con un contratto editoriale. I giornalisti professionisti avevano appena conquistato la settimana corta. Per i praticanti giornalisti la settimana corta - cioè il giorno di riposo sostitutivo del sabato, che nei giornali è lavorativo - era «compatibile con le necessità del servizio di appartenenza». Il mio magnifico redattore capo di allora, Tino Neirotti, bravo, simpaticamente spietato, trasformò per me la «corta» in «compatibile con le necessità di servizio». Per quel «di» saltai il riposo una quantità di volte, costretto invece a trascorrere quella giornata di vacanza a lavorare in redazioni diverse dalla mia. Eppure erano tempi più felici per i giornali e più corretti, anche dal punto di vista sindacale. Ho ricordato l’aneddoto perché non improprio nell’affrontare il tema: "Fare etica con il giornalismo". Il giornalismo, in Italia in modo particolare, oggi si trova a vivere una crisi profonda, pericolosa, per una serie di motivi che cercheremo di vedere insieme. Parto dal mio giornale. «La Stampa» viene fondata da un giornalista etico, uno giovane signore di Biella, Alfredo Frassati. È un giovane uomo colto, studia a Berlino, si appassiona al giornalismo, capendone subito l’importanza sociale, economica, politica. Entra nella testa e nella tecnica dei giornali tedeschi. Va a Londra a visitare il «Times» e se lo leggerà tutti i giorni. Collabora con la «Gazzetta Piemontese». Quando ritorna in Italia ne diventa comproprietario e vicedirettore. Lo trasformerà in «La Stampa» col motto «Frangar, non flectar». Certo, partecipa al dibattito politico, appoggia esplicitamente Giolitti, sarà per la conquista della Libia e poi decisamente, fondatamente, coraggiosamente contro l’entrata in guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale. Ma con una legge ferrea: quella di un «giornalismo onestissimo», detto e scritto proprio così, con il superlativo assoluto. È la stessa regola che seguirà Luigi Albertini per il «Corriere della Sera». «La Stampa» e il «Corriere», figli dell’unità d’Italia, i due primi veri «giornali nazionali», si dotano di firme, di corrispondenti dall’estero, di moderni mezzi tecnici per far arrivare a Roma e nel Paese la voce del Nord - politica, finanziaria, industriale, culturale - puntando su un giornalismo di alto profilo anche dal punto di vista deontologico ed etico. Alla «Stampa» i «comandamenti» di Frassati saranno legge anche per Giulio De Benedetti, che rilancerà il quotidiano nel dopoguerra e lo porterà a record di vendite e di «presenza scenica» nel mondo politico e in quello culturale. Lo saranno per Ronchey, il successore, e poi per Arrigo Levi e per il suo vicedirettore Carlo Casalegno, il primo giornalista assassinato dalle Brigate rosse. Sono grato all’avvocato Ambrosoli per averlo citato poco fa. Stiamo parlando di un’idea del giornalismo, di un’idea dell’informare che è approfondire, indagare, ragionare, contribuire alla crescita di chi ti legge, al miglioramento della società. L’idea che negli Anni 70 porta l’inviato Gigi Ghirotti, saputo d’essere mortalmente malato, a proporre al giornale quel «lungo viaggio nel tunnel della malattia», l’ultima inchiesta che scriverà in pigiama e vestaglia dalle corsie degli ospedali, spesso dettando dal telefono a gettoni riservato ai pazienti gli articoli per la terza pagina della «Stampa» che - anche per il riverbero che ne offre una parallela trasmissione televisiva - susciteranno emozione e commozione in tutto il Paese. Un filo etico lega queste cose al rigore antifascista di Frassati per il quale «La Stampa» fu punita con attacchi squadristici, con una serrata di quaranta giorni consecutivi, infine con il licenziamento dei suo direttore-editore. Le lega all’idea della cultura, della società, insomma all’idea dell’Italia che su quelle colonne esprimono Primo Levi, Norberto Bobbio, Massimo Mila, Alessandro Galante Garrone, Luigi Firpo, Alessandro Passerin d’Entrève, Sergio Quinzio, Giovanni Spadolini, fino a poco fa Barbara Spinelli. Un senso etico della società e dello Stato portò Carlo Casalegno a rifiutare leggi speciali per combattere il terrorismo. - Anche quello non gli perdonarono i brigatisti che subito dopo l’agguato comunicarono d’aver «giustiziato un servo dello Stato» -. Ma il vicedirettore della «Stampa» aveva pure un profondo senso etico del lavoro. Il quotidiano era continuamente minacciato e aveva subìto attentati con «molotov». L’unico ad avere una scorta era Arrigo Levi. Ogni giorno il direttore accompagnava a casa il suo vice, che sapeva in pericolo, attendendo che si immettesse con l’automobile tra la propria e quella della Digos. La mattina dell’attentato Casalegno era andato dal dentista. Non avendo finito il lavoro - doveva organizzare con me la Terza pagina - rifiutò l’abituale corteo. Sarebbe ritornato a casa da solo. E qualcuno lo sapeva e lo fece sapere. Scusate se parto da immagini così forti. Vi sarete chiesti: davvero questa introduzione era necessaria, era appropriata per arrivare alle domande che mi sono state poste sul giornalismo etico: quanto sia ancora possibile, quanto sia necessario? Lo capirete tra poco. Se mi chiedeste banalmente: «Esiste un giornalismo etico?», risponderei semplicemente di sì, che non può non esistere. Prima di tutto ci regolano le leggi, dalla Costituzione della Repubblica italiana ai Codici del diritto. - Il nostro esame di stato avviene davanti a un tavolo misto di giornalisti e magistrati, uno dei quali è il presidente della commissione. La prima tessera di noi professionisti anziani portava quale principale intestazione «Ministero di grazia e giustizia» e, sotto, «Ordine nazionale dei giornalisti» -. Oltre alla legge, ci guida la deontologia, avvalorata da una serie di Carte dei nostri diritti e doveri. La più famosa, la «Carta di Treviso», rafforza l’umano buonsenso stabilendo precisi e severi limiti nello scrivere di minorenni e più ancora nel pubblicarne le immagini. Perché le leggi dello Stato e le regole deontologiche non bastano a garantire sempre e ovunque un giornalismo «onestissimo» come scriveva Frassati, corretto, affidabile? Perché le redazioni così spesso passano i limiti, perdono le staffe, esagerano, enfatizzano, usano toni gridati, drammatizzano, teatralizzano? Anche questo ha allontanato i lettori dai giornali. C’è infatti una crisi delle vendite dovuta semplicemente alla crisi economica, alla mancanza di denaro, al peggiorato rapporto tra le pensioni e il costo della vita. Il lettore medio è un lettore maturo, tra i lettori maturi ci sono molti pensionati che non possono più permettersi di passare tutti i giorni all’edicola per acquistare il quotidiano preferito prima di sedersi al bar a leggerlo sorbendo un caffé. Altro motivo del calo di copie vendute è naturalmente la tempesta tecnologica, grazie alla quale i possessori di tablet e telefonini possono avere in diretta, anche viaggiando, notizie sulla Borsa valori, sulla politica, sul tempo, sul traffico, sull’acqua alta a Venezia, sugli spettacoli della sera nella propria città o in quella alla quale sono diretti. Ma non solo a questo è dovuta la crisi. C’è anche una crisi di fiducia verso i giornali e i giornalisti. È dovuta a un male molto complesso, molto diffuso, molto subdolo. Cerco di analizzarlo. Stiamo facendo un giornalismo vecchio. Vecchia, logora, inutile quando non respingente è la formula del settimanale trasferita sui quotidiani «nazionali» (i giornali cittadini si salvano concentrandosi sulla cronaca locale, che ha meno concorrenti televisivi e telematici o non ne ha del tutto). Il grande giornale che vede scendere le copie vendute che cosa fa? Cerca di inseguire il lettore in tutti modi, offrendogli di tutto per accontentare gli uni, gli altri e altri ancora. E lo fa trasformando le pagine in vetrine sempre più illustrate, colorate, sfavillanti. All’inizio fu un bene. Alla fine è un male. Fino a un certo punto il colore e la vivacità grafica hanno fatto più belli i quotidiani. Forse anche per questo siamo arrivati quasi ai 6 milioni di copie vendute ogni giorno in edicola. Già così eravamo agli ultimi livelli in Europa, ma oggi arriviamo a malapena a vendere 4 milioni e mezzo, tutto compreso: quotidiani nazionali, locali, sportivi, economici. Tra i lettori europei siamo al penultimo posto, prima della Grecia fanalino di coda (primato negativo sorprende e doloroso per i due Paesi culle della cultura latina e della cultura ellenica, nelle quali l’Europa affonda le radici del suo essere, della sua civiltà, della sua giustizia, della sua politica!). L’allontanamento dei cittadini dai giornali significa allontanamento dall’informazione e in qualche modo dalla realtà. Non so se corrisponda al vero che per cento copie perdute in edicola ne conquistiamo dieci sul web. Certo è che né la tv, né la radio, né il web riesce ancora a dare quanto danno i giornali. È certo anche l’incalzante progresso della «congiunzione radio-tv-telefonocomputer» destinata a concentrare in sè tutta l’informazione, lasciando all’informazione su carta una molto minore e molto più raffinata sopravvivenza. Ma il passaggio non sarà così rapido come alcuni frettolosi pronosticano. Specie nel nostro Paese, nel quale è piuttosto matura l’età media dei lettori. I quali, prima incuriositi e attratti dalla «rivoluzione del colore» cui si accenna poco fa, sono ora infastiditi e respinti dall’esagerata offerta di servizi e più ancora dalle esagerazioni grafiche, dalla teatralizzazione, dai titoli strillati, dalle cronache enfatiche, da quella che Eugenio Scalfari definì «panna montata». Il tono dei giornali nazionali è talvolta simile a quello dei - non a caso defunti giornali della sera. La grafica ha preso il sopravvento. Troppo sovente la «gerarchia delle notizie», che continuiamo a predicare dai manuali e dalle cattedre di giornalismo, viene sovvertita dall«gerarchia della grafica» che sottolinea al lettore non il fatto più importante, ma quello meglio illustrabile. Anche questo allontana i lettori, che dal giornalista si aspettano una corretta valutazione dei fatti come dal medico si aspettano la giusta valutazione del sintomo per il quale si rivolgono a lui. I toni enfatici alterano le proporzioni, gli stessi significati delle parole, che invece il giornalismo dovrebbe usare con una precisione chirurgica. Il linguaggio è sempre più farcito di termini guerrieri per qualsiasi cosa, politica compresa: attacco, sfida, duello, agguato... Un esempio tra i tanti: se due o tre ragazzi muoiono in auto mentre ritornano dalla discoteca, il titolo definirà l’incidente «Strage del sabato sera» o del venerdì o della domenica. Non è già terribile scrivere, come si faceva: «Morti due ragazzi, morti tre ragazzi»? Non basta a dare tutto il senso della tragedia, del dolore che colpisce quelle due o tre famiglie e tutti gli amici di quei giovani sventurati? Se definiamo «strage» la morte di tre persone, come definire allora i morti di Nassirija o della scuola crollata o del terremoto? Altro difetto, la scorretta scrittura sui giornali: gli errori di grammatica e di sintassi, gli orrendi «qual’è» con l’apostrofo, «un’» davanti a un nome maschile, «dietro alla porta» quando alle elementari si impara «dietro la porta», l’inaudito uso dei verbi e l’ostinato tradimento del congiuntivo. È anche colpa della scomparsa o della drastica riduzione dei correttori (parlo di quelli in carne e ossa, non di quelli automatici, spesso colpevoli di errori). E questa realtà ci porta a un’altra constatazione. La crisi economica è certamente una delle cause della crisi dei giornali, del mancato acquisto di copie e del crollo della pubblicità, linfa vitale e insostituibile. Ma la crisi si è rivelata un danno ulteriore quando sia stata impugnata nei giornali come alibi per tagli selvaggi, puntando al bilancio e trascurando il prodotto e il suo futuro. Drastici tagli di persone, di mezzi, di copie diffuse, di iniziative promozionali. Soprattutto di persone. Giornali come il «Corriere della sera», come «la Repubblica», come «La Stampa» hanno visto uscire dalle redazioni sessanta, settanta persone in blocco, rimpiazzati da esigui numeri di giovani. In tutti i giornali italiani, specie nei provinciali e locali, cresce il numero dei collaboratori esterni, giornalisti pubblicisti, o professionisti freelance pagati dl minimo delle tariffe e spesso costretti ad accettare d’essere pagati per un solo servizio pur avendone scritti altri due. Se non accettano, quella è la porta, tanto fuori ci sono dieci aspiranti in coda. Questa situazione è umiliante, scoraggiante e pericolosa. Come si può pretendere, a queste condizioni, qualità, accurata scrittura, rispetto delle fonti, accurata verifica dei fatti, insomma il rispetto delle regole tecniche e deontologiche del buon giornalismo? Da quando indosso la corona transitoria di presidente dell’Ordine dei giornalisti del Piemonte, con il mio Consiglio ho istituito delle rapide, sobrie cerimonie per la consegna delle tessere ai nuovi iscritti al nostro Albo professionale. Vogliamo guardare negli occhi quanti approdano al mestiere, spiegare loro il valore di quella tessera e gli obblighi, gli impegni, le responsabilità sociali e legali che comporta. Raccomando la conoscenza e il rispetto dei lettori, dei fatti, delle leggi, raccomando: «Scrivete bene, non stancatevi di verificare le notizie, di sentire sempre chi accusa e chi è accusato, di guardarsi dal “copia-e-incolla”, di mettere nette barriere tra giornalismo e propaganda, tra cronaca e pubblicità!». Ma cosa fanno poi persone spesso pagate male o alle prese con troppe collaborazioni per sbarcare il lunario? Altro problema è il giornalino-fai-da te, che inonda le reti telematiche, con entusiaste e pericolose complicità editoriali. Mentre è chiaro che se talvolta il contributo dei cittadini può essere benedetto - il caso più clamoroso sono stati gli attentati dell’11 settembre 2001 alle Due Torri di New York cento, mille altre volte nelle reti si possono diffondere bufale, menzogne, veleni. Ma è ora di concludere questa panoramica chiedendoci che cosa fare. Una nuova legge dello Stato, quella che conferma l’esistenza degli ordini professionali e che ne corregge il ruolo e il funzionamento, obbliga anche quello dei giornalisti a seguirne la formazione e a istituire l’aggiornamento professionale certificato per gli iscritti. È una buona notizia o almeno lo sarà se lavoreremo bene. Il mio amico Lorenzo Del Boca ricordava poco fa che dirigo la collana intitolata «Classici del giornalismo» dell’editore Nino Aragno. Abbiamo avviato la collana un po’ per amore del buon giornalismo. un po’ per disperazione di non trovarne più tante prove sui nostri giornali, un po’ per speranza. Quella che questi volumi - antologie che raccontano carriere giornalistiche esemplari per serietà, capacità tecnica, stile di scrittura - siano sostegno, stimolo, punto di partenza per le giovani leve dell’informazione. Ho scelto Alberto Ronchey come inizio, ho poi dato il titolo di "Giornalismo totale" alla sua ossessiva verifica dei fatti, alla qualità culturale di cui si riforniva prima di fare un servizio, alla capacità di documentarsi prima di andare a Mosca o in Kongo: è questo che deve fare un inviato, un professionista. Poi ho scelto un non giornalista che ha fatto grande giornalismo, Arturo Carlo Jemolo, un intellettuale cattolico. Ronchey una partiva da un’etica laica, Jemolo da un’etica religiosa, ma entrambi si ritrovavano sui punti fondamentali davanti ai lettori. Poi ho scelto Alberto Cavallari, un giornalista letterato che con grande coraggio accettò la direzione del «Corriere della sera» per tirar fuori il grande quotidiano dal fango della P2. Vedete dunque che si può fare etica nel giornalismo, con il giornalismo. E dunque per la società e per il Paese. Se giornalismo significa informazione chiara e onesta, sale della democrazia, è attraverso la qualità, la responsabilità, l’abilità tecnica e il senso etico che esso potrà continuare a essere attraverso qualunque mezzo sia fatto - degno di questo nome.