Domenica
l’attualità
L’armata vaticana alla guerra dell’etica
La
di
DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009
ILVO DIAMANTI e MARCO POLITI
cultura
Repubblica
Viaggio nell’altra metà del Futurismo
DARIA GALATERIA
Scrittore
e il
Campione
Lo
Roberto Saviano, autore
di “Gomorra”, e Lionel Messi,
calciatore fuoriclasse
ILLUSTRAZIONE DI GIPI
Un incontro a Barcellona
ha prodotto questo reportageracconto che ripercorre
la storia di un grande successo
nato dal dolore
ROBERTO SAVIANO
L
BARCELLONA
o incontro negli spogliatoi del Camp Nou di Barcellona, uno stadio enorme, il terzo più grande del mondo.
Dagli spalti invece Messi è una macchiolina, incontrollabile e velocissima. Da vicino è un ragazzo mingherlino ma sodo, timidissimo, parla quasi sussurrando una cantilena argentina, il viso dolce e pulito senza un filo di barba. Lionel
Messi è il più piccolo campione di calcio vivente. LaPulga, la pulce,
è il suo soprannome. Ha la statura e il corpo di un bambino. Fu infatti da bambino, intorno ai dieci anni, che Lionel Messi smise di
crescere. Le gambe degli altri si allungavano, le mani pure, la voce
cambiava. E Leo restava piccolo. Qualcosa non andava e le analisi
lo confermarono: l’ormone della crescita era inibito. Messi era affetto da una rara forma di nanismo.
Con l’ormone della crescita, si bloccò tutto. E nascondere il problema era impossibile. Tra gli amici, nel campetto di calcio, tutti si
accorgono che Lionel si è fermato: «Ero sempre il più piccolo di tutti, qualunque cosa facessi, ovunque andassi». Dicono proprio così:
«Lionel si è fermato». Come se fosse rimasto indietro, da qualche
parte. A undici anni, un metro e quaranta scarsi, gli va larga la maglietta del Newell’s Old Boys, la sua squadra a Rosario, in Argentina. Balla nei pantaloncini enormi, nelle scarpe, per quanto stretti i
lacci, un po’ ciabatta. È un giocatore fenomenale: però nel corpo di
un bimbetto di otto anni, non di un adolescente. Proprio nell’età in
cui, intravedendo un futuro, ci sarebbe da far crescere un talento,
la crescita primaria, quella di braccia, busto e gambe, si arresta.
Per Messi è la fine della speranza che nutre in se stesso dal suo primissimo debutto su un campo da calcio, a cinque anni. Sente che
con la crescita è finita anche ogni possibilità di diventare ciò che sogna. I medici però si accorgono che il suo deficit può essere transitorio, se contrastato in tempo. L’unico modo per cercare di intervenire è una terapia a base dell’ormone “gh”: anni e anni di continuo bombardamento che gli permettano di recuperare i centimetri necessari per fronteggiare i colossi del calcio moderno.
(segue nelle pagine successive)
spettacoli
Sanremo, specchio dell’Italia che canta
MICHELE SERRA
la memoria
Geronimo, la leggenda pellerossa
VITTORIO ZUCCONI
i sapori
Valli ladine, la cucina degli atleti
LICIA GRANELLO, CAROLINA KOSTNER E ALEX SCHWAZER
Repubblica Nazionale
28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009
la copertina
Scrittore e campione
Un incontro negli spogliatoi del Camp Nou di Barcellona
Da una parte l’autore di “Gomorra” dalla vita blindata,
cresciuto nel mito del Napoli di Maradona,
dall’altra il minuscolo, formidabile attaccante argentino
che, a prezzo di grandi sofferenze personali, ha riportato
l’epica di Davide e Golia in un calcio di giganti muscolari
‘‘
Veloce e timido
Dagli spalti dello stadio Messi è una macchiolina,
incontrollabile e velocissima. Da vicino è un ragazzo
mingherlino ma sodo, timidissimo. Parla quasi
sussurrando una cantilena argentina, il viso dolce
e pulito senza un filo di barba
FOTO ANSA
Saviano
ROBERTO SAVIANO
(segue dalla copertina)
i tratta di una cura molto costosa che la famiglia non può
permettersi: siringhe da cinquecento euro l’una, da fare
tutti i giorni. Giocare a pallone per poter crescere, crescere per poter giocare: questa diviene
d’ora in avanti l’unica strada. Lionel, un
modo di guarire che non riguardi la passione della sua vita, il calcio, non riesce
nemmeno a immaginarlo.
Ma quelle dannate cure potrà permettersele solo se un club di un certo livello lo prende sotto le sue ali e gliele paga. E l’Argentina sta sprofondando nella devastante crisi economica, da cui
fuggono prima gli investimenti, poi pure le persone, i cui risparmi si volatilizzano col crollo dei titoli di stato. Nipoti e
S
rano eseguita in modo perfetto, ogni ragazzino che decidono di seguire, ogni
padre con cui vanno a parlare, significa
tracciare un destino. Disegnarlo nelle linee generali, aprirgli una porta: ma nel
caso di Messi, ciò che gli viene offerto,
rappresenta molto di più. Non gli viene
data solo l’opportunità di diventare un
calciatore, ma la possibilità di guarire, di
avere davanti una vita normale. Prima
di vederlo, gli osservatori che sentono
parlare di lui sono comunque molto
scettici. «Se è troppo piccolo, non ha
speranza, anche se è forte», pensano. E
invece: «Ci vollero cinque minuti per capire che era un predestinato. In un attimo fu evidente quanto quel ragazzo fosse speciale». Questo lo afferma Carles
Rexach, direttore sportivo del Barcellona, dopo aver visto Leo in campo. È così
evidente che Messi ha nei piedi un talento unico, qualcosa che va oltre il calcio stesso: a guardarlo giocare è come se
Le cure però spezzano in due. Hai
sempre nausea, vomiti anche l’anima. I
peli in faccia che non ti crescono. Poi i
muscoli te li senti scoppiare dentro, le
ossa crepare. Tutto ti si allunga, si dilata
in pochi mesi, un tempo che avrebbe
dovuto invece essere di anni. «Non potevo permettermi di sentire dolore», dice Messi, «non potevo permettermi di
mostrarlo davanti al mio nuovo club.
Perché a loro dovevo tutto». La differenza tra chi il proprio talento lo spende per
26anni
la sua età
quando esce
Gomorra
realizzarsi e chi su di esso si gioca tutto è
abissale. L’arte diventa la tua vita non
nel senso che totalizza ogni cosa, ma che
solo la tua arte può continuare a farti
campare, a garantirti il futuro. Non esiste un piano b, qualsiasi alternativa su
cui poter ripiegare.
Dopo tre anni finalmente il Barcellona convoca Lionel Messi e la famiglia sa
che se non sarà in grado di giocare come
ci si aspetta, le difficoltà a tirare avanti
saranno insormontabili. In Argentina
hanno perso tutto e in Spagna non hanno ancora niente. E Leo, a quel punto, ricadrebbe sulle loro spalle. Ma quando
La Pulce gioca, sfuma ogni ansia. Allenandosi duramente con il sostegno della squadra, Messi riesce a crescere non
solo in bravura, ma anche in altezza, anno dopo anno, centimetro dopo centimetro spremuto dai muscoli, levigato
nelle ossa. Ogni centimetro acquisito
una sofferenza. Nessuno sa davvero
il rischio che venga totalmente travolto
dai difensori. Ma solo a una condizione… prima devono riuscire a raggiungerlo».
E infatti nessuno riesce a stargli dietro. Il baricentro è basso, i difensori lo
contrastano, ma lui non cade, né si sposta. Continua a tenere la corsa, rimbalza
palla al piede, non si ferma, dribbla, scavalca, sguscia, fugge, finta. È imprendibile. A Barcellona malignano che le star
della difesa del Real Madrid, Roberto
Carlos e Fabio Cannavaro, non sono
mai riusciti a vedere in faccia Lionel
Messi perché non riescono a rincorrerlo. Leo è velocissimo, sfreccia via con i
suoi piedi piccoli che sembrano mani
per come riesce a tener palla, a controllarne ogni movimento. Per le sue finte,
gli avversari inciampano nell’ingombro
inutile dei loro piedi numero quarantacinque.
In una pubblicità dove era stato invi-
Intorno ai dieci anni Lionel smise di crescere
Le gambe degli altri si allungavano, la voce
cambiava. E lui restava piccolo. Le analisi
La differenza tra chi il talento lo spende
per realizzarsi e chi su di esso si gioca tutto
è abissale. L’arte diventa la tua vita, solo lei
dissero che l’ormone della crescita era inibito
ti garantisce il futuro, non esiste un piano b
si sentisse una musica, come se in un
mosaico scollato ogni tassello tornasse
apposto.
Rexach vuole fermarlo subito:
«Chiunque fosse passato di lì, l’avrebbe
comprato a peso d’oro». E così fanno un
primo contratto su un fazzoletto di carta, un tovagliolo da bar aperto. Firmano
lui e il padre della pulce. Quel fazzoletto
è ciò che cambierà la vita a Lionel. Il Barcellona ci crede in quell’eterno bimbo.
Decide di investire nella cura del maledetto ormone che si è inceppato. Ma per
curarsi, Lionel deve trasferirsi in Spagna
con tutta la famiglia, che insieme a lui lascia Rosario senza documenti, senza lavoro, fidandosi di un contratto stilato su
un tovagliolo, sperando che dentro a
quel corpo infantile possa esserci davvero il futuro di tutti. Dal 2000, per tre anni, la società garantisce a Messi l’assistenza medica necessaria. Crede che un
ragazzino disposto a giocare a calcio per
salvarsi da una vita d’inferno abbia dentro il carburante raro che ti fa arrivare
ovunque.
2milioni
le copie
del libro
vendute
43
FOTO GIOVANNI GIOVANNETTI/EFFIGIE
pronipoti di immigrati cresciuti nel benessere cercano la salvezza emigrando
nei paesi di origine dei loro avi. In quella situazione, nessuna società argentina, pur intuendo il talento del piccolo
Messi, se la sente di accollarsi i costi di
una simile scommessa.
Anche se dovesse crescere qualche centimetro in più — questo è il ragionamento — nel calcio moderno ormai
senza un fisico possente non si è più nulla. La pulce resterà schiacciata da una
difesa massiccia, la pulce non potrà segnare gol di testa, la pulce non reggerà
agli sforzi anaerobici richiesti ai centravanti di oggi. Ma Lionel Messi continua
a giocare lo stesso nella sua squadra. Sa
di doverlo fare come se avesse dieci piedi, correre più veloce di un puledro, essere imbattibile palla a terra, se vuole
sperare di diventare un calciatore vero,
un professionista.
Durante una partita, lo intravede un
osservatore. Nella vita dei calciatori gli
osservatori sono tutto. Ogni partita che
guardano, ogni punizione che conside-
i paesi
in cui è stato
tradotto
quanto misuri adesso. Qualcuno lo dà
appena sopra il metro e cinquanta,
qualcuno al di sotto, qualche sito parla
di un Messi che continuando a crescere
è arrivato al metro e sessanta. Le stime
ufficiali mutano, concedendogli via via
qualche centimetro in più, come se fosse un merito, un premio conquistato in
campo.
Fatto è che quando le due squadre sono in riga prima del fischio iniziale, l’occhio inquadra tutte le teste dei giocatori
più o meno alla stessa altezza, mentre
per trovare quella di Messi deve scendere almeno al livello delle spalle dei compagni. Per uno sport dove conta sempre
più la potenza e, per un attaccante, i
quasi due metri di Ibrahimovic e il metro e ottantacinque di Beckham sono diventati la norma, Lionel continua a somigliare pericolosamente a una pulce.
Come dice Manuel Estiarte, il più forte
pallanuotista di tutti i tempi: «È vero, bisogna calcolare che le probabilità che
Messi esca sconfitto da un impatto corpo a corpo sono elevate, come elevato è
tato a disegnare con un pennarello la
sua storia, è divertente e malinconico
vedere Messi ritrarre se stesso come un
bimbetto minuscolo tra lunghissime foreste di gambe, perso lì tra palloni troppo grandi che volano lontano. Ma quando toccano terra, lui veloce li aggancia e
piccolo com’è riesce a passare tra le
gambe di tutti e andare in porta. Quando ci sono le rimesse laterali e gli avversari riprendono fiato, è proprio in quel
momento che lui schizza e li sorpassa,
così quando si immaginavano, i marcatori, di averlo dietro la schiena, se lo ritrovano invece già cinque metri avanti.
Il grande giocatore non è quello che si fa
fare fallo, ma quello cui non arrivi a tendere nessuno sgambetto.
Vedere Messi significa osservare
qualcosa che va oltre il calcio e coincide
con la bellezza stessa. Qualcosa di simile a uno slancio, quasi un brivido di consapevolezza, un’epifania che permette
a chi è lì, a vederlo sgambettare e giocare con la palla, di non riuscire più a percepire alcuna separazione tra sé e lo
Repubblica Nazionale
&
DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29
A CONFRONTO
REPUBBLICA TV
A sinistra,
Lionel Messi
e Roberto Saviano
fotografati
insieme
negli spogliatoi
dello stadio
Camp Nou
di Barcellona
In basso,
altre immagini
del campione
e dello scrittore
I retroscena dell'incontro
con Lionel Messi,
gli allenamenti
di Maradona, le mail
dopo le frasi
di Cannavaro
su "Gomorra"
Roberto Saviano
racconta tutto
Da oggi
su Repubblica Tv
A cura
di Francesco Fasiolo
‘‘
Dolore negato
Ero sempre il più piccolo di tutti,
qualunque cosa facessi, ovunque andassi...
Ma non potevo permettermi di sentire dolore,
non potevo permettermi di mostrarlo
davanti al mio nuovo club. Perché a loro dovevo tutto
spettacolo cui sta assistendo, di confondersi pienamente con ciò che vede, tanto da sentirsi tutt’uno con quel movimento diseguale ma armonico. In questo le giocate di Messi sono paragonabili alle suonate di Arturo Benedetti Michelangeli, ai visi di Raffaello, alla tromba di Chet Baker, alle formule
matematiche della teoria dei giochi di
John Nash, a tutto ciò che smette di essere suono, materia, colore, e diventa
qualcosa che appartiene a ogni elemento, e alla vita stessa. Senza più separazione, distanza. È lì, e non si può vivere
senza. E non si è mai vissuti senza, solo
che quando si scoprono per la prima
volta, quando per la prima volta le si osserva tanto da restarne ipnotizzati, la
commozione è inevitabile e non si arriva ad altro che a intuire se stessi. A guardarsi nel proprio fondo.
Ascoltare i cronisti sportivi che commentano le sue cavalcate basterebbe
analoga. Il capolavoro che Diego Armando aveva realizzato il 22 giugno
1986 in Messico, il gol votato il migliore
del secolo, Lionel riesce a ripeterlo pressoché identico e quasi esattamente
vent’anni dopo, il 18 aprile 2007, a Barcellona. Pure Leo parte da una sessantina di metri dalla porta, anche lui scarta
in un’unica corsa due centrocampisti,
poi accelera verso l’aria di rigore, dove
uno degli avversari che aveva superato
cerca di buttarlo giù, ma non ci riesce. Si
accalcano intorno a Messi tre difensori,
e invece di mirare alla porta, lui sguscia
via sulla destra, scarta il portiere e un altro giocatore… E va in gol. Dopo aver segnato, c’è una scena incredibile coi giocatori del Barcellona pietrificati, con le
mani sulla testa, si guardano intorno come a non credere che fosse possibile ancora assistere a un gol del genere. Tutti
pensavano che un uomo solo fosse capace di tanto. Ma non è stato così.
proprio in questo: l’essere cresciuto a
Napoli nel mito di Diego Armando Maradona. Non dimenticherò mai la partita dei mondiali del 1990, un destino terribile portò l’Italia di Azeglio Vicini e
Totò Schillaci a giocare la semifinale
contro l’Argentina di Maradona proprio
al San Paolo. Quando Schillaci segna il
primo gol, lo stadio gioisce. Ma si sente
che nelle curve qualcosa non va. Dopo il
gol di Caniggia il tifo non napoletano —
non autoctono — inizia a prendersela
17anni
la sua età
all’esordio
nel Barça
trambe le cose, se ne intende. «Mi piace
Napoli, voglio andarci presto», dice Lionel, «Starci un po’ dev’essere bellissimo.
Per un argentino è come essere a casa».
Il momento più incredibile del mio
incontro con Messi è quando gli dico
che quando gioca somiglia a Maradona
— “somiglia”: perché non so come
esprimere una cosa ripetuta mille volte,
anche se devo dirgliela lo stesso — e lui
mi risponde: «Verdad?», «Davvero?»,
con un sorriso ancor più timido e contento. Del resto, Lionel Messi ha accettato di incontrarmi non perché sia uno
scrittore o per chissà cos’altro, ma perché gli hanno detto che vengo da Napoli. Per lui è come per un musulmano nascere alla Mecca. Napoli per Messi, e per
molti tifosi del Barcellona, è un luogo sacro del calcio. È il luogo della consacrazione del talento, la città dove il dio del
pallone ha giocato gli anni più belli, dove dal nulla è partito verso la sconfitta
Quasi un’epifania che permette a chi è lì
di confondersi pienamente con ciò che vede
un bimbetto tra lunghissime foreste di gambe
96
le presenze
finora
nel Barcellona
47
il totale
dei gol
segnati
FOTO LA PRESSE
La stampa si inventa subito il nomignolo “Messidona”, ma c’è qualcosa
nella somiglianza dei due campioni argentini che oltrepassa simili trovate e
mette i brividi. In uno sport che la fase
epica sembra essersela lasciata alle
spalle, le prodezze di Messi somigliano
al reiterarsi di un mito, e non di un mito
qualsiasi, ma di quello che più fortemente è in contrasto con il nostro tempo: Davide contro Golia. Fisici minuscoli, quartieri poveri, incapacità nel vedersi diversi da come quando giocavano nei campetti, faccia sempre uguale,
rabbia sempre uguale, come un’accidia
che ti porti dentro. Teoricamente avevano tutto quanto bastava per sbagliare, tutto quanto bastava per perdere,
tutto quanto bastava per non piacere a
nessuno e per non giocare. Ma le cose
sono andate diversamente.
Messi, quando Maradona segnava
quel gol in Messico, non era neanche
nato. Nascerà nel 1987. E la ragione per
cui io l’ho seguito a Barcellona, al punto
di volerlo incontrare, ha la sua origine
con Maradona, e lì accade qualcosa che
non succederà mai più nella storia del
calcio e mai era successo sino ad allora:
la tifoseria si schiera contro la propria
nazionale di calcio. I tifosi della curva
napoletana iniziano a urlare: «Diego!
Diego!». D’altronde erano abituati a farlo, come biasimarli e come identificarsi
in altri? Anche se dovrebbe essere cara la
propria squadra nazionale, in quel momento è Maradona che rappresenta la
tifoseria del San Paolo più di una nazionale di giocatori provenienti da altre
città d’Italia, da Roma, Milano, Torino.
Maradona era riuscito a sovvertire la
grammatica delle tifoserie. E a Roma
gliela fecero pagare durante la finale Argentina-Germania, dove il pubblico per
vendicarsi dell’eliminazione dell’Italia
in semifinale e delle defezioni create all’interno della tifoseria, inizia a fischiare
l’inno nazionale. Maradona aspetta che
la telecamera, nella carrellata sui gioca-
Guardarlo giocare è qualcosa che va oltre
il calcio e coincide con la bellezza stessa
Lionel fu invitato a disegnare la sua storia
con un pennarello. È divertente e malinconico
vedere il ritratto che fece di se stesso:
per definire la sua epica di giocoliere.
Durante un incontro Barcellona-Real
Madrid, il cronista vedendolo assediato
da tentativi di fallo smette di descrivere
la scena e inizia solo un soddisfatto:
«Non va giù, non va giù, non va
giuuuuuù». Durante un’altra sfida fra le
storiche arcirivali, l’ola estatica «Messi,
Messi, Messi, Messi» riceve una “a” supplementare che gli rimarrà addosso:
Messia. È questo l’altro soprannome
che La Pulce si è guadagnata con la grazia beffarda delle sue avanzate, con lo
stupore quasi mistico che suscita il suo
gioco. «L’uomo si fece Dio e inviò il suo
profeta», così dicono le scritte di un servizio televisivo dedicato a El Mesias, e a
colui che come incarnazione divina del
calcio lo precedette: Diego Armando
Maradona.
Sembra impossibile ma Messi quando gioca ha in testa le giocate di Maradona, così come uno scacchista in un
determinato momento della partita,
spesso si ispira alla strategia di un maestro che si è trovato in una situazione
FOTO PACO SERINELLI/MARKANEWS
&
Messi
tori, arrivi sulle sue labbra, per lanciare
un «hijos de puta» ai tifosi che non rispettano neanche il momento dell’inno. Una finale terribile, dove a Napoli si
tifava tutti, ovviamente, per l’Argentina.
Ma poi il momento del rigore assolutamente dubbio distrugge ogni speranza.
La Germania chiaramente in difficoltà
deve però vincere e vendicare l’Italia
battuta. Un rigore dubbio per un fallo su
Rudi Voeller, lo realizza Andreas Brehme. E il commento del cronista argentino fu: «Solo così fratello… solo così potevate vincere contro Diego».
Ricordo benissimo quei giorni. Avevo
undici anni, e difficilmente tornerò mai
a vedere quel tipo di calcio. Ma qualcosa sembra tornare, di quel tempo. Il gol
del Messico contro l’Inghilterra, il gol rifatto dalla Pulce vent’anni dopo, segna
uno dei momenti indimenticabili della
mia infanzia. Mi chiedo che meraviglia
e che vertigine sarebbe veder giocare
Messi al San Paolo, lui, di cui lo stesso
Maradona disse: «Vedere giocare Messi
è meglio che fare sesso». E Diego, di en-
delle grandi squadre, verso la conquista
del mondo.
Lionel appare il contrario di come ti
aspetti un giocatore: non è sicuro di sé,
non usa le solite frasi che gli consigliano
di dire, si fa rosso e fissa i piedi, o si mette a rosicchiare le unghie dell’indice e
del pollice avvicinandole alle labbra
quando non sa che dire e sta pensando.
Ma la storia della Pulce è ancora più
straordinaria. La storia di Lionel Messi è
come la leggenda del calabrone. Si dice
che il calabrone non potrebbe volare
perché il peso del suo corpo è sproporzionato alla portanza delle sue ali. Ma il
calabrone non lo sa e vola. Messi con
quel suo corpicino, con quei suoi piedi
piccoli, quelle gambette, il piccolo busto, tutti i suoi problemi di crescita, non
potrebbe giocare nel calcio moderno
tutto muscoli, massa e potenza. Solo
che Messi non lo sa. Ed è per questo che
è il più grande di tutti.
© Roberto Saviano 2009. Published by
Arrangement with Roberto
Santachiara Agenzia Letteraria
Repubblica Nazionale
30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009
l’attualità
Fede e potere
Come può
un potentato religioso
che condiziona solo
tra il tre e il cinque
per cento dei voti
detenere la golden
share del governo
di centrodestra?
media
numeri
33.400
I GIORNALI DIOCESANI
FAMIGLIA CRISTIANA
Sono circa 160 le testate
aderenti alla Federazione
italiana dei settimanali
cattolici (Fisc) per oltre
un milione di copie settimanali
Settimanale nato nel 1931,
conta tre milioni di lettori
Ha assunto di recente
posizioni originali rispetto
a temi civili e politici
L’OSSERVATORE ROMANO
COMUNICATI CEI
Quotidiano nato nel 1861
per “confutare le calunnie
che si scagliano contro di Roma
e del Pontificato Romano”,
ha una tiratura di 24.500 copie
La Conferenza Episcopale
Italiana esprime posizioni
su temi etici e politici
diffondendo i suoi documenti
sul suo sito Internet
AVVENIRE
SIR
sono gli anni in media
dei sacerdoti italiani
Fondato nel 1968,
è il quotidiano della Cei
(tiratura 150.500 copie)
e lo strumento principale
delle campagne dei vescovi
Il Servizio Informazione
Religiosa nasce nel 1988
come agenzia di stampa
con il sostegno della Cei
Dal 1995 ha un sito web
81.723
sono i preti diocesani:
uno ogni 1.700 cattolici
17.400
i sacerdoti membri
di congregazioni e ordini
62
sono le suore, riunite
in 627 congregazioni
Dalla vittoria
nel referendum
sulla procreazione
assistita al caso
Eluana, ecco quanto
conta la politica
della Chiesa cattolica
5.825
i seminaristi censiti
nel 2006
26.000
le parrocchie italiane
226 le diocesi
MARCO POLITI
E
ROMA
nigma e paradosso sono il
marchio del potere della
Chiesa in Italia. Un potere a
volte pesante, a volte impalpabile, alternativamente gridato e silenzioso, evidente e nascosto. Capace di mobilitare e al tempo stesso privo di consenso maggioritario. Ma quel che conta: un
potere che c’è.
L’ultima vittoria elettorale di Santa Romana Chiesa si registrò alle elezioni regionali del Lazio nel 2000, quando il presidente della Cei cardinale Camillo Ruini
volle punire la giunta ulivista di Piero Badaloni per aver tentato di regolamentare
le coppie di fatto. Vinse, con l’appoggio di
congregazioni e parrocchie, il post-missino Francesco Storace.
Otto anni dopo, la rivelazione clamorosa dell’impotenza ecclesiastica nell’orientare larghe masse alle elezioni politiche del 2008: l’Udc prese poco più del cinque per cento. Eppure, auspice sempre il
cardinale Ruini, il direttore dell’Avvenire
Dino Boffo si era speso a favore del partito di Casini, indicandolo come «presenza
che fa esplicito riferimento alla dottrina
sociale della Chiesa». In mezzo (anno
2005) si colloca il trionfo nel referendum
sulla procreazione assistita, che ha visto
la Chiesa esibire dalla sua parte il vessillo
del settantaquattro per cento di non votanti.
Dove sta il potere politico della Chiesa
e dove il suo tallone d’Achille? In che consiste la sua capacità di pesare sul ceto politico italiano? Sono tramontati i tempi
quando la gerarchia ecclesiastica, agendo sull’associazionismo cattolico, i gruppi professionali e sindacali bianchi, le
parrocchie e le congregazioni religiose,
riusciva a convogliare una parte notevole del voto sulla Democrazia cristiana.
Dopo Tangentopoli e l’implosione della
Dc i credenti si sono divisi e frammentati
e si è profilato sempre più chiaramente
quello che Alessandro Castegnaro, direttore dell’Osservatorio Religioso Triveneto, chiama il «doppio registro» dei cattolici: «Da un lato c’è il riconoscimento dell’utilità che la Chiesa formi le coscienze,
dia indicazioni, inviti alla riflessione sui
valori; e dall’altro, di fronte alle scelte di
vita, la stragrande maggioranza della popolazione sostiene che riguardano la
propria coscienza. Fatta eccezione per
una minoranza di fedeli». In varie inchieste dove la domanda era “chi decide cosa
è male?”, il novanta per cento ha risposto:
la coscienza individuale. Altri, la legge di
Dio. Ultimi quelli per cui la Chiesa “può”
dare l’indicazione decisiva. Nei giovani,
sintetizza, la distinzione tra sfera etica e
dimensione religiosa è visibilissima.
E tuttavia nell’ultimo quindicennio la
gerarchia ecclesiastica ha sempre detto
l’ultima parola sulle leggi riguardanti i
rapporti di vita. Ha impedito l’introduzione del divorzio breve, ha voluto una
legge sulla fecondazione assistita che
prevede il divieto di scartare gli embrioni
malati, ha bloccato una legge sulle coppie
di fatto e infine — sul caso Eluana — è riuscita a trascinare Berlusconi, inizialmente riluttante, a sfiorare la crisi istituzionale pur di impedire l’esecuzione della sentenza, che autorizzava l’interruzione del
suo calvario.
Una delle risposte sta nella fragilità della classe politica. La Chiesa non muove
molti voti, forse qualcosa tra il tre e il cinque per cento. Però in un bipolarismo, in
cui il cambio di governo può dipendere
da ventiquattromila voti (come nel 2006),
i partiti sono ossessionati dalla paura di
L’armata del Vaticano
alla battaglia dell’etica
avere contro la gerarchia ecclesiastica.
«La parola d’ordine sotterranea è che
non conviene litigare con i preti», riassume ironicamente il sociologo Arnaldo
Nesti, che punta l’attenzione sulla rete
discreta di personaggi ex democristiani
o provenienti dall’associazionismo cattolico, piazzati in provincia in posizioni
anche economicamente importanti. Si
muovono in autonomia e al tempo stesso hanno come riferimento ultimo il vescovo: specie nelle battaglie sulle «leggi
eticamente sensibili», in cui schierarsi
Dopo l’implosione
della Dc, i credenti
si sono divisi
diventa mostrare bandiera pro o contro
il verbo della Chiesa. Tanto, aggiunge
Nesti, c’è la riserva mentale che «ognuno
nel privato fa ciò che vuole». Di pari passo, conclude, si manifesta l’atteggiamento rinunciatario della cultura laica.
Castegnaro rovescia il discorso. Nell’indubbia debolezza del sistema politico, spiega, risalta la debolezza delle culture secolari post-novecentesche. La
Chiesa non trova più competitori come
un tempo: ad esempio, la sub-cultura del
Pci. E allora essa appare come l’istanza
che «offre più informazioni, più opzioni,
più indicazioni di valore». I laici parlano
solo di libertà individuale e tende a mancare nel loro discorso l’orizzonte dell’edificazione di un tessuto solidale.
La strategia dell’istituzione ecclesiastica è stata costruita negli anni Novanta dal
cardinale Ruini, allora presidente della
Cei. Si basa su due assi. La pretesa di rappresentare la visione antropologica «vera», consona alla tradizione cristiana dell’Italia, e al tempo stessa «retta» interprete della ragione e della natura, è il primo.
Ne deriva la spinta a presentarsi come il
referente autentico per la legislazione sui
temi etici: dall’embrione alla famiglia,
dalla pillola del giorno dopo alla ricerca
sulle staminali, al testamento biologico.
Indispensabile a questo disegno è l’assoluto centralismo della Cei, il cui vertice riverbera il volere del Papa, unito al silenziamento del dibattito tra i vescovi e nel
mondo cattolico. Risultato raggiunto.
Negli ambienti del laicato cattolico l’afasia è acuita dalla scomparsa di figure prestigiose come lo storico Pietro Scoppola,
il sociologo Roberto Ardigò, lo studioso di
storia della Chiesa Giuseppe Alberigo.
Il secondo elemento strategico è la
compatta utilizzazione dei media ecclesiastici per occupare la scena pubblica:
l’Osservatore Romano, l’Avvenire, il Sir, i
settimanali e le radio diocesane, i comu-
nicati della Cei. Non è un caso che Dino
Boffo sia contemporaneamente direttore di Avvenire, della Tv dei vescovi
Sat2000 e del circuito radio della Cei. A
questa rete, che nei momenti cruciali
martella ossessivamente l’opinione
pubblica e la classe politica — si tratti del
no ai Dico, del referendum sulla procreazione assistita o del testamento biologico
o di Eluana — si aggiunge come alleato
esterno, di area laica, il Foglio che nel nome dell’ideologia occidentalista teocon
rilancia aggressivamente i comandamenti del magistero ecclesiastico. Sul
piano sociale agiscono in primo piano i
gruppi più integralisti: l’Associazione
Scienza e Vita, il Movimento per la Vita, i
Centri di aiuto alla vita, il Forum delle famiglie. Insieme a due movimenti che occhieggiano alle manifestazioni anti-Zapatero in Spagna: i neo-pentecostali di
Rinnovamento dello Spirito e i Neo-Catecumenali. Sul piano parlamentare si
muovono Cl e l’Opus Dei.
Alle associazioni tradizionali, conoscendone il pluralismo interno di fatto, i
vertici ecclesiastici chiedono solo il pubblico allineamento nelle grandi occasioni. Dal Family Day al referendum sulla
procreazione artificiale, al contrasto delle sentenze della magistratura favorevoli
a Beppino Englaro. Ai deputati cattolici,
infine, la dottrina Ratzinger impone ubbidienza nella legislazione sui valori
«non negoziabili».
Su questa base la gerarchia ecclesiastica si presenta sulla scena come portavoce (presunto) della cattolicità e preme incessantemente sul fragile sistema politico, approfittando del fatto che nel centrodestra l’area liberal-socialista si è
completamente allineata alle posizioni
della Chiesa e che nel centrosinistra i teodem si ergono insistentemente come
unica «voce cattolica». Con una carta in
più: la Chiesa interviene a tutto campo,
ma se si levano voci di critica, allora rea-
La nuova strategia
è sorta negli anni
Novanta con Ruini
gisce con vittimismo aggressivo lamentando il tentativo di imbavagliarla.
Eppure da anni nei sondaggi la grande
maggioranza della popolazione ribadisce che la Chiesa non deve interferire nella legislazione. Nell’ultima indagine Swg
dell’estate scorsa, l’ottantadue per cento.
Per questo al referendum del 2005 la presidenza della Cei, incerta sulla consistenza dei fedeli a proprio favore, giocò la carta dell’astensione. Teorema dimostrato
dall’audience televisiva la notte della
Repubblica Nazionale
DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31
I DATI
associazioni & movimenti
86,4%
SCIENZA E VITA
OPUS DEI
gli italiani che si
professano cattolici
Nata dal comitato promotore
della legge 40 del 2005
sulla fecondazione assistita,
si batte contro eutanasia
e ricerca sugli embrioni
Fondata da Josemaría
Escrivá de Balaguer nel 1928
è una prelatura personale
della Chiesa, conta novantamila
membri ufficiali nel mondo
36,8%
CENTRI AIUTO ALLA VITA
COMUNIONE E LIBERAZIONE
Sono più di trecento i Cav
attivi sul territorio nazionale,
hanno come principale
obiettivo la prevenzione
dell’aborto terapeutico
Movimento ecclesiale
fondato da Luigi Giussani
radicato tra i giovani
Ogni anno organizza
il Meeting di Rimini
quanti dicono di andare
a messa la domenica
88,2%
i favorevoli all’educazione
cattolica per i figli
24,6%
ritiene importanti
le indicazioni della Chiesa
55%
MOVIMENTO PER LA VITA
MOVIMENTO DEI FOCOLARI
Fondato nel 1975,
ha 500 sedi. Nel 1981
promosse il referendum
per abrogare la legge
sull’aborto
Fondato da Chiara Lubich
nel 1943 è rivolto per lo più
a laici che scelgono
di consacrarsi. Due milioni
i focolarini nel mondo
FORUM DELLE FAMIGLIE
NEOCATECUMENALI
Nasce nel 1992
Nel 2007 ha promosso
il Family Day contro
il disegno di legge
sulle coppie di fatto
Diecimila le comunità
in Italia. Lo statuto
del movimento, prima
guardato con sospetto,
è del 2008
i cattolici per cui
il divorzio è accettabile
PAPA BOYS
23,4 %
Nati nel 2000
con la Giornata
mondiale
della gioventù
a Roma
i cattolici che tollerano
moralmente l’aborto
morte di Eluana. Se otto milioni guardano il Grande Fratelloe solo quattro milioni Porta a Porta (mostrandosi nelle mail
spaccati sul sì o sul no alla decisione di Englaro), cos’è più conveniente se non arruolare alla propria strategia gli otto milioni che non vogliono porsi problemi?
Perché la comunità dei credenti è
estremamente variegata. Sotto la cappa
della linea ufficiale si possono incontrare
suore che sbuffano perché «Santa Madre
Chiesa non si sta un po’ zitta», responsabili diocesani che esprimono «fatica per
le posizioni attuali» e persino cardinali
che confessano: «Non parlo, perché sarei
eretico». La maggioranza dei fedeli non
ha nascosto in queste settimane di stare
dalla parte di Eluana. Lo dicevano anche
tanti pellegrini la domenica in piazza San
Pietro. E dopo la sua morte (sondaggio di
Nando Pagnoncelli) il settantaquattro
per cento sostiene ancora che sul testamento biologico debba decidere il soggetto o, in caso di coma, la sua famiglia.
Riassume Angelo Bertani, direttore
dell’agenzia Adistae già direttore di Segno
(Azione cattolica) e caporedattore di Avvenire: «In Italia assistiamo all’incontro di
due debolezze. La Chiesa ha bisogno di
mezzi esterni… dello Stato… delle leggi,
perché non possiede il linguaggio per
convincere. E la politica di centrodestra,
incapace di unire il Paese, cerca una legittimazione morale e un mantello sacrale».
RINNOVAMENTO
NELLO SPIRITO
È il movimento
carismatico il cui
statuto è stato
approvato nel 1995
Numeri e dati sono tratti
dall’inchiesta Demos-Eurisko
per Repubblica; dall’Annuarium
Statisticum Ecclesiae;
dall’Usmi, da Eurisko
e da clerus.org. Nelle foto,
la proclamazione
di papa Benedetto XVI
Il vuoto dei partiti
riempito
dalla dottrina
ILVO DIAMANTI
Q
ualcuno si sorprende dell’influenza
della Chiesa nel dibattito pubblico in
Italia. Dell’attenzione riservata, negli
ambienti politici, alle sue posizioni su questioni sociali e morali. Nonostante il sensibile declino della pratica religiosa e delle adesioni all’associazionismo confessionale. I
cattolici praticanti sono, infatti, meno del
trenta per cento, concentrati nelle periferie e
molto ridotti nei centri (urbani). Le iscrizioni alle associazioni cattoliche più importanti sono diminuite ormai da molti anni.
Inoltre, dal punto di vista elettorale, è finita l’epoca dell’unità politica dei cattolici. Insieme alla Dc e alla fine del comunismo. Alle
elezioni politiche del 2008 il voto dei cattolici praticanti si è distribuito in modo proporzionale fra i partiti più importanti. Come mostrano i dati di un’indagine (LaPolis-Università di Urbino) condotta nelle settimane successive al voto su un campione nazionale di
oltre 3300 casi. Il trenta per cento di chi frequenta assiduamente la messa domenicale
ha, infatti, votato per il Pd; il quarantuno per
cento Pdl. Rispettivamente, tre punti percentuali in meno e in più rispetto al risultato
ottenuto fra gli elettori nel complesso. Il che
significa, calcolato in termini di voti validi,
l’uno per cento. L’Udc — l’ultimo partito a
esibire l’identità cattolica come bandiera —
ha intercettato il dieci per cento degli elettori cattolici (praticanti). Sul totale dei voti validi: meno del quattro per cento.
Peraltro, larga parte dei cattolici praticanti e (a maggior ragione) non praticanti, pensa che la Chiesa si debba esprimere sui più
importanti aspetti dell’etica personale e
pubblica. Anche se alla fine si affida alla propria coscienza. E ritiene che i parlamentari
debbano fare lo stesso. Da ciò i dubbi, le perplessità circa l’influenza della Chiesa sulla
politica italiana. In particolare, sulle scelte
dei partiti, non solo di centrodestra, anche di
centrosinistra, come si è potuto verificare
nella recente vicenda di Eluana. E come avverrà in occasione del ddl sul testamento
biologico.
Tuttavia, l’influenza della Chiesa sulla società e sulla politica italiane non è misurabile in termini di “controllo elettorale”. Né attraverso la quota dei “cattolici praticanti”.
D’altra parte, quasi nove italiani su dieci si dicono cattolici. Gran parte di essi intende
questa professione di fede come l’adesione a
una comunità e a un sistema di valori. Una
sorta di “religione pagana”, aggiungono alcuni. Ma si tratta comunque di un sentimento di appartenenza, che conta in una società
afflitta da un profondo deficit di identità.
Tanto che quasi otto su dieci tra i non praticanti considera importante dare ai figli un’educazione cattolica (Demos-Eurisko, febbraio 2007). Non va trascurato che una larghissima maggioranza delle famiglie destina
l’otto per mille del proprio reddito alla Chiesa cattolica e accetta che i figli a scuola frequentino l’ora di religione.
Peraltro, circa il sessanta per cento degli
italiani dice di provare fiducia nella Chiesa, e
una quota di poco superiore nelle parrocchie. Il che richiama un’altra importante ragione dell’influenza della Chiesa. Il suo radicamento nella società e sul territorio. Attraverso la sua struttura, la sua offerta di servizi,
la sua rete associativa, il volontariato. Che
operano in molti e diversi campi. Dall’educazione al tempo libero, fino all’accoglienza
agli immigrati e all’assistenza caritativa ai
più poveri.
Senza dimenticare i media cattolici. Dai
giornali — locali e nazionali — alle emittenti
radiofoniche (che hanno una copertura ampia e capillare) alle antenne satellitari. Alla
comunicazione via internet. Naturalmente
la Chiesa esprime anche valori e “contenuti”.
Da qualche tempo, aggredisce le questioni
critiche dell’etica pubblica e privata in modo
aperto e diretto. Offre risposte magari discutibili e discusse, non importa. Contestate da
sinistra, sui temi della bioetica. Ma anche da
destra, sui temi della pace e dell’immigrazione. Tuttavia, esprime “certezze”. E ciò rassicura il suo popolo, anche il più tiepido e indifferente. Che ha bisogno di riferimenti e
valori. Anche se, poi, ciascuno agisce secondo coscienza. Cioè: fa a modo suo.
Occorre aggiungere, infine, che il cardinal
Ruini, per oltre quindici anni presidente della Cei, ha accentrato la guida — e il controllo
— della gerarchia su questo mondo largo e
complesso, che oggi si mobilita, come un
movimento o un gruppo di pressione, attraverso campagne tematiche. A cui i partiti italiani, poveri di idee e lontani dalla società,
spesso si adeguano. Magari senza troppa
convinzione. Fra molte polemiche. Ma, al
tempo stesso, senza troppa discussione.
Repubblica Nazionale
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009
Cento anni fa
il Manifesto
del Futurismo
glorificava
“il disprezzo
della donna”
Eppure, come ora
documenta un libro
di Giancarlo Carpi,
molto della pittura,
scultura, danza,
letteratura, cinema
di quel movimento
d’avanguardia
fu dovuto alla
creatività femminile
Le donne e l’aerorivoluzione
DARIA GALATERIA
«G
lorificare», intima
il Manifesto del
Futurismo del
1909, «il disprezzo
della donna».
«Noi disprezziamo la donna», ribadiva nel 1910 Marinetti, «concepita come ninnolo tragico». A scherno, Arturo Martini aveva intitolato Méprisez la femme una sua litografia, nel 1912. A Torino, nel 1909,
Poupés électriques — bambole elettriche — col titolo italiano La donna è mobile metteva in scena fantocci elettromeccanici sostitutivi della donna. Na-
VELLUTO NERO
Dall’alto: Alzira Braga,
Ora di velluto nero, tavola
parolibera. Collezione
privata, Milano, foto
di Luca Carrà
Benedetta Cappa
Marinetti, Viaggio
di Gararà. Romanzo
cosmico per teatro,
1931, illustrazione
di Bruno Munari
Proprietà
della Biblioteca
Universitaria
Alessandrina Roma
Maria Ginanni, Montagne
trasparenti, 1917,
illustrazione di Arnaldo
Ginna. Courtesy Archivio
Scudiero
Benedetta Cappa
Marinetti, Le forze
umane. Romanzo
astratto
con sintesi grafiche,
1924, illustrazione
dell’autrice. Proprietà
della Biblioteca
Nazionale Centrale
di Roma
La marcia beffarda
con le suffragette
per le vie di Londra
dei giovani
Boccioni e Marinetti
turalmente, si rifiutava la femme fatale
del decadentismo, il «guinzaglio immenso» dell’Amore, la famiglia, «soffocatoio delle energie vitali», il debilitante sentimentalismo femminile («La
donna che avevo io, pretendeva di monopolizzare il mio sesso, il quale è collezionista», si protesta con enfasi, sempre nel 1910, nella tragedia satirica Le
Roi Bombance, il Re Baldoria).
Noi vogliamo combattere contro il
femminismo, proclamava pure quel
primo Manifesto; però nel 1910 si valutavano le ricadute positive del movimento: «Se l’entrata aggressiva delle
donne nei parlamenti… finirà per distruggere il principio della famiglia,
cercheremo di farne a meno». E del resto, in una spedizione a Londra nel
marzo 1912 Marinetti e Boccioni si ritroveranno a sfilare «sottobraccio alle
pochissime suffragette carine» — un
corteo era passato sotto l’Hotel Savoy e
i due futuristi erano scesi a unirsi alle
donne in marcia — ma si erano infrante alcune vetrine, e la polizia a cavallo
era intervenuta verso Trafalgar Square;
tra cariche e manganellate, aveva anche sparato in aria; i due italiani erano
fuggiti infilando un portone, ma le suffragette avevano poi applaudito le conferenze in francese di Marinetti — evidentemente, senza capirne una parola.
L’«inferiorità assoluta della donna»
(manifesto Contro l’amore e il parlamentarismo) è radicata nell’educazio-
ne; «se la donna sogna oggidì di conquistare i diritti politici, è perché, senza
saperlo, essa è intimamente convinta
di essere, come madre, come sposa e
come amante, un cerchio ristretto, puramente animale» (la donna è naturale,
dunque abominevole, aveva già scritto,
per dandysmo, il poeta Charles Baudelaire, mezzo secolo prima).
A Marinetti rispose nel 1912, con il
Manifesto della donna futurista, una
parigina di Lione, Valentine de SaintPoint. Bella e inquieta, Anne Valentine
Desglans de Cessiat Vercell era pronipote di Lamartine, e aveva preso come
pseudonimo il paesino della Loira dove
riposava il prozio poeta; Marinetti ave-
va ospitato i suoi versi già nel 1906 nella
rivista Poesia. Intanto Valentine aveva
tentato il romanzo (L’incesto) e la pittura, posando nuda per i suoi maestri
Alphonse Mucha e Auguste Rodin. Nel
1912 aveva trentasette anni; a Parigi,
sempre insieme a Ricciotto Canudo,
l’intellettuale detto “le barisien” perché
pugliese, era nota per i suoi immensi
cappelli. Con Marinetti, furono tre anni
di amore «infuocato e intervallato» (diceva il pittore Severini: «Marinetti è capace anche d’innamorarsi, se si tratta di
aprire la strada al futurismo»).
Ciò che manca di più alle donne come agli uomini è la virilità, argomentò
dunque Valentine nel Manifesto della
donna futurista. I modelli sono le Erinni, le Amazzoni, Giovanna d’Arco,
Charlotte Corday, Cleopatra e Messalina; e Caterina Sforza che, dai merli del
castello sotto assedio, al nemico che
minacciava di ucciderle il figlio, aveva
mostrato, sollevando le vesti, le intimità: «Ammazzatelo pure! Mi rimane
lo stampo per farne altri». Riacquisti
dunque la donna la sua crudeltà e la
violenza: perché — fatto salvo il femminismo, portatore d’ordine, dunque
antifuturista — «nessuna rivoluzione
deve rimanerle estranea».
Si volantinò, a Parigi e a Milano, anche il successivo Manifesto della lussuria: «La Lussuria è una forza», è ricerca
carnale dell’ignoto: bisogna farne
un’opera d’arte. «Cessiamo di schernire il Desiderio, questa attrazione di due
carni, qualunque sia il loro sesso». Marinetti, «politimbrico», declamò il testo
nella sala Gaveau di Parigi mentre Valentine, sotto l’ombrello di una scintillante costruzione di aigrettes, e un
anello che «invetrinava il più bel piede
del mondo», mimava una danza «ideista». Ci fu una scazzottatura, a causa «di
alcuni imbecilli che insieme ai futuristi
prendevano sul serio tutto ciò senza
però esser d’accordo, disgraziati»; il
pittore Severini era pronto a buttarsi
dal palco in sala per dare man forte, ma
Repubblica Nazionale
DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
IL LIBRO
Futuriste. Letteratura Arte Vita, di Giancarlo Carpi, pubblicato
dalla Casa Editrice Castelvecchi (686 pagine con ampio apparato
iconografico, 35 euro, in libreria dal 18 febbraio) è un volume antologico
sulle artiste futuriste: intellettuali e scrittrici, ma anche pittrici, fotografe,
cineaste, danzatrici, artiste dalla vita anticonvenzionale. A cento anni
esatti dalla pubblicazione su Le Figaro (20 febbraio 1909) del Manifesto
Futurista di Filippo Tommaso Marinetti, ecco uno spaccato di vita
di donne che in quel movimento d’avanguardia videro la possibilità
di sovvertire gli stereotipi femminili del tempo
era stato trattenuto dal colosso Cravan,
boxeur pre-surrealista, nipote, si diceva, di Oscar Wilde. Severini poteva pure pensare che fosse una réclame furibonda per della paccottiglia rancida,
ma insomma il Futurismo era movimento. E la danza della Saint-Point, in
particolare la performance Metachorie
(oltre la danza), antipsicologica, perché il volto era coperto da un velo neutro, con le sue singolari disposizioni a
stella — il corpo steso come una ranocchia, le braccia a squadro a toccare le
dita del piede — stravolse il balletto
classico, e finì, nel 1917, al Metropolitan di New York.
Misoginia a parte, la danza della
Si rifiutavano
la femme fatale
del decadentismo,
l’amore-guinzaglio
e la famiglia
Saint-Point, la pittura polimaterica e la
scultura cinetica di Ru ena Zátková, il
ruolo di Benedetta Marinetti nell’invenzione del Tattilismo fanno del Futurismo uno dei movimenti d’avanguardia con la maggiore partecipazione femminile, afferma oggi Giancarlo
Carpi in Futuriste. Letteratura Arte Vita, quasi settecento pagine di saggio e
antologia del futurismo al femminile
(Castelvecchi). Oltre le specifiche ricognizioni, negli anni Ottanta, di Claudia
Salaris e Lea Vergine, e più recentemente di Cecilia Bello Minciacchi, e poi
di Mirella Bentivoglio e Franca Zoccoli
— il bel saggio delle due studiose, Le futuriste italiane nelle arti visive, approda, ampliato, da New York alla De Luca
editori d’arte —, Carpi nel vastissimo (e
divertente) panorama di testi, e grazie
a un ampio corredo iconografico, testimonia di questa importante presenza
femminile, dalle prime tavole parolibere di Maria Angelini, la cameriera di
Marinetti, attraverso le grandi poetesse e aeropittrici, fino ai coloratissimi arredi apprestati dalle figlie-vestali di
Balla.
Agiografico il ritratto di Marinetti stilato nel 1916 dalla fantesca Marietta Angelini, che aureolava di parole in libertà
l’asta gigante di un “1”. Ironica invece la
tavola parolibera del 1919 di Benedetta
Marinetti, dal titolo irriverente Benedetta fra le donne, e la dicitura «Spicologia
di 1 uomo» — non psicologia, ma «spico», spillo: i fili tesi tra gli spilli, come in
un manufatto femminile, circondano
un cerchio con la scritta: «vuoto». Marinetti nel ‘19 ha più di quarant’anni; nello studio di Balla (si entrava perlopiù dal
balcone, saltando la ringhiera) ha visto
per la prima volta l’angelica e flessuosa
Benedetta Cappa: lunghe trecce scure,
padre ufficiale piemontese, madre valdese; però, a diciannove anni e quattro
mesi, è già futurista. Parlano di Bergson,
e i primi amori pestano, in un campo oltre Sant’Agnese extra-moenia, otto metri quadrati di erba: «Non avremo mai un
letto così grande», sospira Benedetta; si
sposeranno qualche anno dopo. Velocità di un motoscafo, già dal 1919, traduce una scia in mare in una vibrante
esplosione astratta di linee e triangoli
blu e oro. Si orienterà poi su toni pastello — e intimi, nella narrativa: L’ultimo
sogno di Astra, in Astra e il sottomarino
(1935), evoca «una casa bianca. Astra
espresse da sé quattro figlie e successivamente aperse un vano tondo senza
imposte nella facciata… Metodicamente il padre murò il tondo occhio». Il «romanzo chirurgico» Un ventre di donna
(1919) racconta una laparotomia in
«non diluiti», dinamici termini futuristi
(«CORAGGIO + VERITÀ”). È inserita una
lettera di Marinetti, che suggerisce una
cura futurista: «Perfezionare il desiderio
di un oggetto».
È Enif Robert, che con Rosa Rosà e
Fanny Dini collabora alla nuova rivista
Italia futurista, animata da Maria Ginanni. Enrica Piubellini firma tavole
parolibere ispirate alla guerra, mentre
si prepara la pattuglia di aeropoetesse e
aeropittrici (Zátková, Barbara, Marisa
Mori). Ma è l’aerodanza di Giannina
Censi — in costume di lieve alluminio
disegnato da Prampolini, nelle splendide foto rivelate dalla studiosa di danza moderna Leonetta Bentivoglio —
uno dei capolavori del futurismo. Scoperta nel 1930 da Escodamé — pseudonimo di un “buttafuori” futurista —
Giannina Censi, che ha studiato a Pari-
“Disarmonica,
sgarbata, sintetica,
antigraziosa”. Così
fu definita la danza
di Giannina Censi
ELICHE IN FESTA
Qui sopra: Ruzena Zátková,
Autoritratto, 1901. Collezione privata,
Milano, foto di Luca Carrà
In alto nell’immagine grande:
Leandra Angelucci Cominazzini,
Eliche in festa, 1935
Collezione privata
gi con la russa Ljubov Egorova (la grande maestra su cui stava cristallizzando
la sua follia Zelda Fitzgerald) si prepara
ora con arditi voli aerei e realizza, superando «le passatiste ondulazioni di cosce montmartroises per forestieri», la
danza «disarmonica, sgarbata, antigraziosa, asimmetrica, sintetica» preconizzata dal manifesto marinettiano
nel 1917. Tra le fotografe, Wanda Wulz,
con Io+gatto, impressiona Marinetti, e
passa alla storia. Nel 1930, Tina Cordero firma, con Guido Martina e Pippo
Oriani, Velocità, il capolavoro del cinema futurista. Pulsazioni e battiti di luce
animano nel finale la scomposizione di
un manichino metallico: «L’uomo
d’acciaio resta con la sua ombra, l’unica cosa che ci appartiene».
Repubblica Nazionale
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009
Siamo arrivati all’annuale appuntamento con il Festival
Alla vigilia della prima serata al Teatro Ariston, l’editore
Panini pubblica un libro che raccoglie la storia di tutte
le edizioni: classifiche, interpreti, autori dal 1951 ad oggi. Da “Abate Renato”
a “Zurawski”, una galleria straordinaria nella quale, accanto a nomi celebri,
sono allineati centinaia di artisti applauditi una sola volta e poi dimenticati...
SPETTACOLI
1951
1955
1959
La prima edizione,
parte in sordina.
Tre interpreti
cantano le venti canzoni
in gara, tra spettatori
distratti che consumano
la cena. Nilla Pizzi vince
con Grazie dei fiori
Arriva la tv e il prezzo
del biglietto aumenta
del quaranta per cento
Nunzio Filogamo
viene escluso perché
non telegenico. Claudio
Villa si impone con
Buongiorno tristezza
«Tua, fra le braccia tue»,
intona Jula De Palma:
è il primo scandalo sexy
Domenico Modugno,
che qualcuno dice
abbia perso 200mila lire
al casinò, sale sul podio
cantando Piove
1964
1966
1968
La sedicenne Gigliola
Cinquetti vince con Non
ho l’età. Bobby Solo,
diciannove anni, canta
in playback causa
laringite. Per la stampa,
Modugno e Paul Anka
evitano di parlarsi
I capelloni arrivano
anche a Sanremo. Mike
Bongiorno definisce
“capelluti” e “gallinacci”
gli Yardbirds. Peppino
Gagliardi sviene
Vince la coppia
Cinquetti/Modugno
Pippo Baudo manda via
dal palco Louis Armstrong,
colpevole di tirarla
troppo per le lunghe
con la sua esibizione
I Giganti indossano
tutine all’ultimo grido
Sergio Endrigo è primo
1978
1987
1992
L’esordiente Anna Oxa
si esibisce vestita da uomo,
volgendo le spalle alla platea
Rino Gaetano
con Gianna è il primo
a citare la parola “sesso”
in un testo sanremese
Vincono i Matia Bazar
Romina Power
è criticata perché troppo
incinta per cantare
Fa scandalo l’inglese
Patsy Kensit: le cade
la spallina durante
l’esibizione. Vince il trio
Morandi-Ruggeri-Tozzi
Mario Appignani, detto
“Cavallo Pazzo”, irrompe
sul palco dicendo:
«Il Festival è truccato,
vince Fausto Leali»
Baudo lo blocca
A classificarsi primo
è Luca Barbarossa
ul Festival di Sanremo esiste una ormai sterminata
produzione critico-saggistica. Specie nella forma del
commento giornalistico, che nei decenni ha impegnato intellettuali, scrittori, polemisti e coloristi senza eccezione alcuna, o quasi. Questo accanimento
critico si è ingigantito mano a mano che il Festival, nato nel 1951 come intrattenimento per il dopocena dei clienti milanesi e torinesi del Casinò di Sanremo, andava mutandosi in
evento mediatico dell’anno, infine in Stati Generali della televisione con tutti gli annessi e connessi, la spropositata invadenza,
la pomposa vaghezza di un medium che in sé è il nulla, e per vivere non può che fagocitare gli altri linguaggi.
Fumosa materia (ben più fumosa dell’onesto giornalismo musicale), il dibattito sulla televisione e sul suo presunto “specifico”
ha finito per ingoiare tutta intera la lunga storia della gara canora, ovvero delle canzoni e dei cantanti, non altro. Molti ricordano
chi ha condotto la scorsa edizione di Sanremo, pochissimi il cantante e la canzone vincitori. Un po’ come se il giro d’Italia, o il campionato di calcio, diventassero il trascurabile supporto di una trasformazione mediatica infinitamente più rilevante di loro, e nessuno ricordasse la squadra che ha vinto lo scudetto dello scorso
anno, o il ciclista arrivato per primo sullo Stelvio.
A parziale risarcimento di questa immemore indigestione
della balena televisiva, che ha metabolizzato la miriade di cantanti, autori, musicisti, produttori artistici, discografici che per
quasi sessant’anni l’hanno nutrita, esce, per merito della premiata ditta Panini e del generoso curatore Eddy Anselmi, un Almanacco del Festival che nella sua esemplare enciclopedizzazione di Sanremo consente di fissare tutti i punti e i puntini che
la spietata asfaltatura televisiva ha inglobato e cancellato. Non
solo e non tanto le star, già messe al riparo dalla statura di eroi popolari e dunque sopravviventi di luce propria, quanto l’esercito
formidabile dei comprimari, delle mezze tacche, delle meteore,
degli oscuri e degli oscurissimi, che l’ordine alfabetico e la diligente confezione dell’opera consegnano finalmente alla memoria dei posteri con pari dignità.
L’uguaglianza grafica connaturata all’Almanacco è l’esatto
contrario della discriminazione critica. Persone e canzoni scorrono tutte insieme con ammirevole pedanteria archivistica, come una folla sgomitante e in fin dei conti commovente. Una miserabile partecipazione nella più decaduta delle edizioni (anni
Settanta, quando l’Italia volse le spalle a Sanremo perché aveva
altro da fare) consente di avere il nome in ditta tanto quanto le
più notevoli sequele di vittorie, alla Modugno, alla Villa. Esattamente come negli albi Panini dei calciatori, il terzino di riserva di
una squadra perdente gode della stesso spazio segnaletico che
spetta ai fuoriclasse.
Ne sortisce, specie per i lettori più tenaci — non necessariamente i maniaci: basta la curiosità umana in senso lato — una
straordinaria cavalcata nella memoria di tre generazioni almeno. Magari per scoprire che il primo, costumato successo della
Pizzi, nell’Italia bacchettona del 1951, tanto costumato non era,
visto che Grazie dei fiori alludeva a un amore incompiuto per
probabile illegittimità dello stesso, e portava le atmosfere quasi
licenziose del tabarin in mezzo ai cumenda e alle matrone im-
S
perlate seduti ai tavolini del Casinò.
Ma soprattutto, nella secca brevità di ciascuna voce, si indovinano le biografie di centinaia di italiani che ci hanno provato e
non ce l’hanno fatta, e sono stati travolti dall’imponderabile
quando già erano alle porte del successo, o si sono barcamenati
per anni nel limbo di una fama minima e spesso regionale, o hanno ritentato dopo la caduta ricadendo ancora. Un lungo elenco
di artisti non-protagonisti, di italiani e italiane di provincia e di
paese che sognano di fare il cantante e addirittura, a centinaia, lo
fanno. Così fitto, così intenso, da farci capire come e quanto la
“tentazione artistica”, in questo paese, sia un sogno, una scorciatoia e anche una dannazione da ben prima che la televisione,
con i suoi reality, offrisse a tutti l’occasione o l’illusione di esibirsi in pubblico. Dalla lettura (entusiasmante: e lo dico senza sarcasmo) di questa lunghissima processione di aspiranti star, di
miracolati o mezzo-miracolati, molti dei quali si sono certamente rifatti una vita operosa e dignitosa non appena espulsi dal
palcoscenico, emerge un’Italia che nell’arte di campare include
anche la speranza di campare con l’arte. Si indovinano gli Apicella di allora, ancora non gratificati dalla benevolenza del Padrone, i rocker e i punk fatti in tinello con la madre che cuce le
borchie, le fatalone non abbastanza belle, gli imitatori e le imitatrici di modelli ahimè già tramontati non appena li si è faticosamente colti.
il libro di ARIEL
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MICHELE SERRA
UNA SETTIMANA DA SIGNÒ
Basta sfogliare il librone, specie il poderoso Dizionario degli
Interpreti e degli Autori che occupa la seconda metà dell’opera,
e non ci si stacca più. Sentite, per esempio, quali epopee artistiche o sub-artistiche, certamente umane, sottendono queste voci, scelte quasi a caso tra le tante, che riporto qui sotto nella loro
quasi integrità. Non per dileggio, sia ben chiaro, ma per partecipe considerazione delle fatiche, delle speranze, delle frustrazioni e dei brevi momenti di gloria.
«Miko, alias don Miko, all’anagrafe Pier Michele Bozzetti, si
presenta una prima volta a Sanremo nel ‘65 come don Miko, poi
nel ‘76 come Miko, nell’87 come Pier Bozzetti (nell’occasione dichiara sei anni di meno, come i calciatori sudamericani in cerca
di ingaggio, ndr), infine conclude la carriera come Miko Mission».
«Padre Alfonso Maria Parente, frate cappuccino di Casalnuovo Monterotaro (Foggia), partecipa all’edizione del 2000 con la
canzone Che giorno sarà, nella categoria Giovani. Criticato dai
superiori, al suo ritorno abbandona il convento e si rifugia in famiglia, turbato da una crisi di vocazione ma soprattutto da problemi legali: per essere ammesso tra i Giovani aveva dichiarato
di avere trentadue anni mentre ne ha già trentotto» (si veda come la categoria dei «bamboccioni» abbia preceduto di parecchi
anni la sua tardiva definizione a opera del ministro Padoa
Schioppa).
«Stefano Remigi, figlio di Memo Remigi, presente a Sanremo
‘96 con Non scherzare dai. Tenta di seguire le orme del padre che
fin da bambino lo coinvolge nell’interpretazione in duetto di
canzoni struggenti come Torna a casa mamma e Dove sei cagnolino».
«Mimmo Politanò, cantante autore e conduttore radiofonico
e televisivo, partecipa nell’89 alla preselezione pomeridiana della sezione Emergenti senza venire ammesso al festival vero e proprio, ed è presente nel ‘90 con Una storia da raccontare. Nel 1998
mette in musica le poesie del pontefice Karol Wojtyla affidandone l’interpretazione ai Cugini di Campagna».
Infine, impareggiabile nella sua brevità: «Sergio Denegale partecipa al festival del ‘70 suscitando qualche curiosità a causa del
suo impiego come portalettere». (Miglior fortuna ebbe il sardo
Vittorio Inzaina, detto «il muratorino» a causa del mestiere di
provenienza. La poetica dell’impiegato di Stato non è mai stata
accattivante come quella del lavoratore manuale, specie se proveniente da regioni a forte emigrazione).
L’elenco comincia con Mario Abbate, ex interprete di sceneggiate napoletane e presente al Festival nel ‘62 e nel ‘63, seguito da
Massimo Abbate, settimo figlio del precedente, passato a Sanremo nel ‘79 con Napule Cagnarràma senza l’onore di una sola inquadratura televisiva. «Negli anni Ottanta abbandona l’attività
musicale», recita la sua breve voce nell’Almanacco, e in quella
frase secca c’è la minuscola Waterloo della speranza che coinvolge altre centinaia di militi ignoti o seminoti.
L’ultimo in elenco non è Zucchero, come il vostro disinformato cronista avrebbe supposto. Dopo di lui ci sono ben cinque
voci, uno Zucchetti arrangiatore, uno Zulian autore di canzoni
religiose e vincitore di uno Zecchino d’oro, uno Zullo dei Trilli
(Trilli è il duo del quale fa parte), uno Zuppino autore e il gruppo
«di rock leggero italo-brasiliano» Zurawski.
Deliziose finestrelle soddisfano le curiosità statistiche più
LA COPERTINA
Sopra,
il particolare
della copertina
di un opuscolo
con i testi
delle canzoni
della terza
edizione
del Festival
di Sanremo,
quella del 1953
Repubblica Nazionale
DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
1960
La stampa paragona
i “rivali” Renato Rascel
e Modugno a Krusciov
e Eisenhower;
la spunta il primo,
con Romantica
Si fa notare una giovane
di Cremona: Mina
1971
Antoine prova a portare
sul palco il suo cane
Lucio Dalla, terzo
con 4/3/1943, riceve
un telegramma da una
ragazza madre. Primi
Nada e Nicola Di Bari
(Il cuore è uno zingaro)
2001
Ospiti stranieri molesti
per la conduttrice
Raffaella Carrà. Sotto
accusa il rapper
Eminem per i suoi testi
Il leader dei Placebo
sfascia una chitarra
Vince Elisa con Luce
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dell’Italia che canta
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Colto, ironico, geniale, graffiante
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perverse (ben tre canzoni sanremesi, per esempio, si sono intitolate, e volendo si intitolano ancora, Serenata: interpreti Villa,
Cutugno e Marco Carena). E nel riquadro «Canzoni con titoli privi di senso compiuto» compaiono Ci-ciu-ò, Anika Na-o, Sambariò, Tulilemble, Turu turu, Para para Ra rara e la immortale Sugli sugli bane bane.
L’esotismo sanremese, branca a parte che ha visto sul palcoscenico dell’Ariston cantanti stranieri scritturati per l’alto lignaggio (vedi Armstrong e Shirley Bassey) ma più spesso perché
incarnavano meravigliosamente il topos folcloristico del paese
di provenienza, toccò forse il suo apice nel ‘66 quando parteciparono, con il brano Quando vado sulla riva, Los Paraguayos,
che la fotina di complemento ci mostra come un gruppo di mariachi colti da spaesamento (noi e loro) perché attivi a latitudini
molto più meridionali del previsto.
Infine, e senza volere uscire da un dedalo nel quale vi suggerisco di sprofondare, riflettete meglio sulla voce, già riportata più
sopra, «Mimmo Politanò». Ha tradotto le poesie di papa Wojtyla per farle cantare ai Cugini di Campagna. È una folgorante sintesi dello spirito di Sanremo e forse dello spirito popolare italiano, capace di scavalcare gli impicci del merito, e le gerarchie della logica, con una disinvoltura così straordinaria che ancora non
capiamo, sessant’anni dopo Nilla Pizzi, quanto ci sia di rovinosa
impudenza, e quanto di invincibile vitalità.
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la memoria
Uomini e leggende
DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009
Cento anni fa, il 17 febbraio 1909, moriva l’ultimo capo
apache. Per decenni aveva sfidato l’esercito statunitense,
divenendo protagonista dell’estremo capitolo dell’epopea
western. Oggi, il suo nome - per un paradosso della storia è cucito sulla giubba di un reggimento di parà americani
Un mito chiamato Geronimo
VITTORIO ZUCCONI
S
WASHINGTON
e “Colui che Sbadiglia”
potesse vedere il proprio nome cucito oggi,
cento anni dopo la sua
morte, sulla manica di un reggimento di parà americani, il 501esimo, potrebbe sorridere, forse di
amarezza e forse di orgoglio. Proprio
lui, “Colui che Sbadiglia” soprannominato Geronimo, l’ultimo dei guerrieri Apache, il più indomito capo delle bande degli indiani del Sud Ovest
che cinquemila giubbe blu a cavallo e
cinquecento mercenari con artiglieria
dovettero inseguire per cinque mesi e
per tremila chilometri tra i canyon dell’Arizona e del Messico prima di catturarlo con appena trentacinque guerrieri superstiti, è divenuto il grido di battaglia dell’esercito che lo annientò. “Geronimo”, era l’urlo lanciato dai parà per
darsi coraggio quando si lanciavano sulla Normandia, non potendo gridare, o
pronunciare, il suo vero nome, “Goyathlay”, colui che sbadiglia, scelto dalla madre quando lo mise al mondo nel canyon
di No-dohyon, alle foci del fiume Gila, e
notò quanto quel neonato sbadigliasse.
Neppure la mamma, pur donna di una
nazione di guerrieri come erano i suoi Bedohonke, una tribù della nazione Apache,
che cullava e avvolgeva nelle pelli di lupo
quell’infante sonnacchioso, avrebbe potuto
immaginare che lui sarebbe divenuto appena sedici anni più tardi, quando fu ammesso
nel circolo dei guerrieri, uno di quegli “spartani” del West, di quegli eroi irriducibili e votati
al massacro il cui nome avrebbe risuonato per
sempre nell’ammirazione e nel terrore dell’invasore europeo. Soltanto pochissimi uomini
lontani, sparpagliati nell’immensità del continente che i soldati blu implacabilmente conquistavano, dal Nord delle Praterie alle paludi della
Florida, dai canyon assetati dell’Arizona alle foreste impenetrabili dei Mohicans, avrebbero
raggiunto la statura superstiziosa e storica di Geronimo: Toro Seduto e Cavallo Pazzo dei Lakota
Sioux, Osceola dei Seminole della Florida, l’unica nazione indiana a non essersi mai arresa, Tecumseh degli Shawnee, uno dei primi martiri
dell’invasione, caduto nelle prime “guerre indiane” del 1812, dopo che gli inglesi avevano già
ucciso suo padre.
Ma anche “Goyathlay” Geronimo, come tutti
gli altri eroi della vana resistenza indiana, fu un
eroe involontario, un guerriero qualsiasi, come tutti i maschi abili delle tribù diventavano
a diciassette anni, convinto di dover dedicare
la propria esistenza alla caccia, perché gli Apache, come i Sioux, gli Cheyenne, i Corvi, erano
nomadi, dedicati alle reciproche, spesso simboliche schermaglie con le bande vicine, per
rubarsi cavalli, per commerciare, per estendere il territorio di caccia, per semplice ambizione e voglia di farsi belli con le donne e gli anziani. Come tutti loro, anche “Colui che Sbadiglia”
fu scosso brutalmente dal sogno della tradizione che durava da diecimila anni, da quando i
primi di loro avevano raggiunto dall’Asia le terre che oggi sono al confine tra l’Arizona e il
Messico, dall’incontro con la ferocia, la ingordigia e la doppiezza di uomini dalla pelle rosea
e dagli occhi chiari che non aveva mai visto prima e non capiva che cosa volessero. La storia
delle “guerre indiane”, la saga che anni dopo il
cinema avrebbe raccontato per invertire la storia illustrando bande feroci di “pellerossa” accaniti contro inermi carovane circondate a
Fort Apache e destinate allo scotennamento
senza l’arrivo della cavalleria, è esattamente
quello che accadde, ma al contrario.
Mentre Cavallo Pazzo nel Grande Nord assisteva al massacro sistematico dei villaggi Lakota
e Cheyenne, mentre Tecumseh vedeva il padre
e la madre cacciati e abbattuti come selvaggina
in quello che oggi è l’Ohio dai mercenari tedeschi di Lord Dunmore nel 1774, Geronimo si preparava all’evento che avrebbe cambiato la sua
vita, negli anni attorno al 1850. Fu allora che rientrando al proprio villaggio dopo una giornata
trascorsa lontano a contrattare commerci e accordi con un altro villaggio, Geronimo trovò la
madre, la moglie, i tre figli piccoli massacrati.
Erano state le truppe messicane, non i “soldati
blu”, a compiere la strage, ma anche i federales
messicani erano al servizio del colonialismo
RITRATTI
Geronimo nel 1886 subito dopo la resa e, a destra, in un dipinto del 1895
Quando nacque, nel 1829,
la madre lo battezzò
Goyathlay, che significa
“colui che sbadiglia”
Vecchio e inoffensivo,
fu trascinato a Washington
per sfilare all’insediamento
di Theodore Roosevelt
bianco. Da quel
giorno di disperazione, colui che sbadiglia divenne colui
che ruggisce. Si unì a
una banda di Apache
votati alla resistenza
armata contro tutti gli
estranei nelle proprie
terre, i Chiricauas, e fu
guerra senza quartiere, interrotta da trattati
solenni che i bianchi
ignoravano e tradivano
prima che l’inchiostro si
seccasse.
Per più di trent’anni,
giocando al gatto e al topo nel terreno selvaggio e
duro dei canyon, dei deserti, della polvere, della
sete, a cavallo tra i territori
senza frontiera del Messico e degli Stati Uniti, inseguito ora dai federales messicani, ora dai dragoni della
cavalleria Usa, Geronimo
divenne, prima che un formidabile “bandido”, un implacabile “desesperado” (Jerome, poi divenuto Geronimo, era il nomignolo affibbiatogli dai messicani), un mito
destinato a sopravvivere per
secoli. Dopo la guerra civile del
1861, Washington gli mandò
contro il meglio e il peggio del
proprio arsenale, i generali reduci dal massacro dei Lakota
Sioux nel Nord, quelli che avevano soppresso le grandi tribù dei
cacciatori di bufali senza mai
davvero sconfiggerle sul campo,
ma soffocandone i territori vitali, pagando e facendo pagare prezzi terribili, al Little Big Horn,
con la strage del settimo cavalleria guidato dall’incosciente Custer.
Fu il generale Crook, che come colonnello
aveva subito una sonora sconfitta da Cavallo
Pazzo presso il fiume Rosebud anni prima, a
condurre la spedizione punitiva finale. Inseguì
Geronimo, ridotto a guidare una miserabile
banda di trentacinque guerrieri macilenti accompagnati da centonove vecchi, donne, bambini, per quasi tremila miglia, con un’armata per
i tempi imponente, cinquemila soldati regolari,
centinaia di ausiliari indiani, pezzi di artiglieria e
le prime mitragliatrici Gatling sperimentate
vent’anni prima nella guerra civile. Geronimo fu
circondato tra i Monti di Sonora, in Messico, e si
arrese. Era il 1886. L’Italia era un regno unificato
da venticinque anni, Roma la capitale da ormai
sedici, mentre l’Ultimo Apache si arrendeva. Fu
chiuso in un campo di concentramento per indiani riottosi. Ne fuggì. Fu di nuovo inseguito e
catturato. Lo rinchiusero nel forte militare di
Fort Sill, in Oklahoma, ancora oggi sede della
scuola di artiglieria dell’esercito, costretto a fare
il contadino, a coltivare un orto, sotto i fucili dei
soldati. Addomesticato e vecchio, a settantasei
anni, fu trascinato a Washington, nel 1905, per
sfilare, come i sovrani barbari nei trionfi imperiali romani, nella parata inaugurale dietro a
Theodore Roosevelt, tra gli uh, ah, oh del pubblico che finalmente vedeva, sdentato e inoffensivo, l’Apache del terrore, il “feroce” Geronimo.
Tirò il suo ultimo sbadiglio nel 1909, soffocato
dalla polmonite.
Eppure, la sua storia non finì con la sepoltura
nel cimitero di Fort Sill. Per un secolo, e ancora
due anni or sono, qualcosa di lui è tornato ad agitare la memoria e la cattiva coscienza dei conquistatori bianchi. La sua tomba fu violata. Il suo
teschio asportato da Samuel Prescott Bush, studente a Yale e tra i fondatori della società segreta
“Teschio e Ossa” in quella università, e trafugato. Samuel Prescott Bush era il padre di George
H Bush e il nonno di George W Bush, entrambi
membri della società del teschio. Una leggenda,
probabilmente, che di tanto in tanto riaffiora,
ma che nessuno ha mai confermato o smentito
in maniera convincente, perché i miti esisteranno per sempre e il nome dell’ultimo spartano arreso allo strapotere del nuovo impero d’occidente non morirà mai. Di lui, e del suo nome, come dei nomi di quelle nazioni guerriere divenute sistemi d’arma nell’esercito Usa — “Apache”
è il nome del più formidabile elicottero militare
— si sono ormai appropriati i vincitori. Cucito
sulla giubba di chi lo sconfisse.
Repubblica Nazionale
DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
le tendenze
Dentro, al massimo, ci stanno rossetto e cellulare,
nient’altro. Sono la negazione della praticità,
ma non importa: le piccole borse nate negli anni Venti
Inutili e dilettevoli
come simbolo di ribellione delle donne sono tornate
Modificate, sofisticate e adattate ai tempi
POLITICALLY CORRECT
È realizzata con tessuti
riciclati, ad esempio
i vecchi divani
e le tappezzerie
della nonna, la mini borsa
di Carmina Campus
Piacerà a modaiole
e ambientaliste
MARE D’INVERNO
Pochette in vernice turchese, colore
del mare, per rallegrare le tristi serate
dell’inverno. Chiusura a pressione
per questo modello della collezione
Just Cavalli
MADAMA BUTTERFLY
COLORE VIOLA
La grazia di una farfalla
che prende il volo
e si posa quasi per caso
è il motivo-decoro
della pochette da sera
di Casadei. Perfetta
per chi vuole stupire
con un tocco di colore
È nel colore che ha
dominato la moda
dell’inverno la pochette
rigida di Louis Vuitton
Il logo della maison
è ricamato sul tessuto
viola per quel tocco
di eleganza in più
DIRLO CON UN FIORE
Indicata per le serate eleganti
ma anche per impreziosire un paio
di jeans la pochette Marni, con chiusura
modello borsellino e un fiore applicato
sul davanti
MASTRO ARTIGIANO
È il frutto raffinato
di una meticolosa
lavorazione artigianale
la serie di tagli sulla pelle
della borsa a mezzaluna
firmata Alidiomichelli
Per un’eleganza
d’altri tempi
MULTICOLOR
È decisamente all’ultima moda la busta
glitter di Renè Caovilla. Colori
in contrasto e lavorazione quasi etnica
per un accessorio unico
e destinato a non passare inosservato
Lo stretto non necessario
IRENE MARIA SCALISE
MANETTE
Candy box gioiello,
in edizione limitata,
creata da Antonio
Marras per l’apertura
della nuova boutique
di Kenzo a Milano
Piacerà
alle più distratte
la chiusura-bracciale
da indossare
attorno al polso
l termine è francese ma la traduzione è universale. È amata perché bella, odiata perché scomoda, venerata
perché chic. È la pochette. Vocabolo che, in codice fashion, indica una borsa piccola, elegante e rigorosamente
senza manico. Insomma, la negazione della praticità. Il nome risale al Settecento, periodo in cui le tasche (in
francese poches) non erano cucite sugli abiti ma sostituite da piccoli sacchetti da appendere alla vita. Ma il vero successo, per la pochette, arriva a cavallo tra gli anni Venti e Trenta del Novecento. Solo allora diventa un
capo irrinunciabile, il vezzo all’ultima moda e, soprattutto, il simbolo del cambiamento. Perché fu proprio in
quel periodo che la rivoluzione modificò per sempre l’immagine femminile. Non più corsetti vittoriani ma abiti fascianti e leggeri. Niente capelli legati in rigidi chignon ma zazzere corte e sbarazzine. Era il momento delle donne definite “flappers”. Delle maschiette che sconvolsero il costume, indifferenti allo sguardo dei benpensanti e allegramente compiaciute del rumore sollevato con abitudini scandalose come fumare e bere in pubblico. Non più succubi degli uomini ma compagne di vita. E proprio la loro ribellione creò nuovi miti: quelli dei cosmetici, del rayon e
della seta, delle sigarette, delle trasparenze e appunto delle pochette. Influenzarono la storia e l’industria.
E adesso, in un’epoca in cui gli uomini soffrono l’indipendenza delle donne e stentano a riconoscerle perché troppo aggressive, le pochette ritornano. Potenti oggetti del desiderio capaci di spingere a inauditi compromessi con la
comodità. All’interno lo spazio solo per un rossetto e il cellulare ma pazienza, la classe non è acqua. Come i gioielli
più preziosi, anche le pochette fanno la loro apparizione dopo il tramonto. Perfette con abiti da sogno, valorizzano
le mise più eleganti. In velluto, pelle lavorata, coccodrillo, satin lucente o pitone. Non c’è limite alla creatività quando si tratta di mandare in passerella queste piccole buste deliziose. Nella stagione invernale sono riuscite in quella
che sembrava un’impresa impossibile: hanno relegato in soffitta le maxi bag e per l’estate, preannunciano gli esperti, saranno ancora più presenti. Magari modificate con qualche piccolo accorgimento come la catena che le trasforma in mini tracolle e lascia le mani libere. Per chi può permetterselo, e sono veramente in pochissime, la pochette
può diventare anche un lusso da parecchi zeri. Louis Vuitton ha lanciato Minaudiere, una sorta di lingotto d’oro realizzato dai maestri artigiani con trecento ore di lavorazione. Naturalmente in edizione limitata, questa pochette dei
sogni costa più di duecentomila euro.
Decisamente più abbordabili, e ugualmente in poche copie, sono le “candy box” gioiello create da Antonio Marras per l’inaugurazione della boutique Kenzo a Milano. Materiali preziosi e design raffinato per le proposte di Armani, Swarovsky e Versace. E poi ancora la leggerezza della busta griffata da Chanel per la collezione Cruise. La grazia di una farfalla o di un fiore ricamati sui modelli Marni e Casadei. La lavorazione artigianale di Alidiomichelli. La
magia glitter di René Caovilla. Non è tutto. La pochette, volendo, riscopre anche un’anima equa e solidale: è il caso
della coloratissima Carmina Campus, ideata da Ilaria Venturini Fendi e lavorata dalle donne del Camerun. Insomma, ce n’è per tutti i gusti, pur di riuscire ad accontentare le nuove flappers del 2009. Apparentemente molto più complicate rispetto alle loro nonne di quasi un secolo fa, sanno ugualmente entusiasmarsi per la stessa eleganza.
I
MINI BAULETTO
Rettile pregiato
per la borsa disegnata
come un mini bauletto
da Givenchy. Lo spazio
è contenuto
ma la classe
è assicurata
Il colore indefinito
è una delicata
sfumatura tra il cipria
e il glicine
BIANCO E NERO
Anticipa la mania per le righe
della prossima estate la pochette optical
della collezione Cruise firmata Chanel
Un super classico rivisitato
in morbido tessuto
DOPO IL TRAMONTO
Può essere indossata
solo dalle dieci
di sera in poi
la pochette
Swarovski. Tessuto
lucente e chiusura
con fiocco
tempestata
di brillanti,
per un capo
da gran sera
PIETRE PREZIOSE
Ricorda le serate
nei teatri fumosi
degli anni Trenta
la borsa nera
tempestata
di pietre dure
di Giorgio Armani
Il motivo-decoro
è rappresentato
da una mezzaluna
ricamata
YELLOW SUBMARINE
Un insolito abbinamento
tra la fantasia pitone e la tinta giallo
uovo per la pochette Versace
Allegra e colorata, può essere
indossata anche durante il giorno
VERDE FLUO
Una lucente busta color verde acido
per la proposta Victor&Rollf. Una medaglia
con logo è il segno di riconoscimento del duo
Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009
i sapori
In montagna
Siamo in piena stagione
di “settimane bianche”
L’occasione perfetta
per chi sceglie le Dolomiti
di conoscere
tradizioni e gastronomia
di una straordinaria
enclave etnicolinguistica
N
utriente, sostanziosa, povera, di stagione. E naturalmente a km zero: non per
sensibilità ecologica,
ma per impossibilità di
approvvigionamenti a distanza. La cucina ladina
d’antàn è questo e molto altro. Lo strepitoso comprensorio sciistico, le ferrate estive
sui costoni dolomitici, le passeggiate nei silenzi innevati o sui
pascoli inondati di sole, oggi regalano una cartolina molto diversa,
pregiata, fiabesca. Così ambiziosa
da fare di San Cassiano in Badia il
cuore dell’alta cucina invernale, con la
Chef’s Cup organizzata ogni gennaio
da Norbert Niederkofler, chef bi-stellato.
Ma nelle cinque valli della terra ladina —
retaggio di luoghi e di tempi in cui lingua e
cultura latina e retica si intrecciarono per
sempre — i menù tradizionali raccontano una
storia gastronomica molto più ruvida, eppure
golosa. Storia di privazioni e durezze, di altezze
e solitudini che permettevano pochi voli di fantasia alimentare e obbligavano a inventare piatti il
più possibile appetitosi e calorici a partire dalle materie prime di madre montagna. Per fortuna, là dove
gli orti non brillano per opulenza (poche verdure, soprattutto erbe selvatiche e tuberi; poca frutta, dato che
pere e mele crescono più a sud) e dove anche i cereali si
adeguano alla severità del paesaggio (segale, orzo, avena), mucche e pecore vivono libere e felici. Così, le farine
caratterizzano sapore e consistenza di goduriose miscele
di latte, uova e burro, grazie alle ricette che hanno nutrito
generazioni di bambini nati e cresciuti con le Dolomiti negli occhi.
Non è una storia a tinte pastello, quella della gente ladina, costretta da uno sciagurato accordo tra Hitler e Musso-
Cucina
Ladina
lini — era il 21 ottobre 1939 — a scegliere entro la fine di
quell’anno se emigrare nella Germania nazista, con la promessa di mantenere la proprietà di case e campi, o restare
in Italia perdendo lo status di minoranza linguistica e sotto la minaccia di essere spostata a forza nel sud Italia, senza casa né lavoro. Il tutto, con l’obiettivo di eliminare “la
macchia grigia”, come Mussolini aveva battezzato i ladini.
La legge “Option für Deutschland” diede i suoi frutti: oltre
l’85 per cento dei ladini — 75mila persone — emigrò a nord,
e lì rimase, causa lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Senza fortuna anche il destino di chi rimase in Italia: la
comunità originaria venne frammentata in due regioni, tre
province e una manciata di comuni, sparsi soprattutto nel
Bellunese: oggi, Cortina e Fodom (Livinallongo) con Colle
di Santa Lucia appartengono alla provincia di Belluno, Fassa alla provincia di Trento, Gardena e Badia a quella di Bolzano.
Ma dove la politica divide, la cucina sa unire. E i 35mila
ladini che vivono tra Cortina d’Ampezzo e la Val Badia, ancora si riconoscono in un ventaglio di piatti senza tempo,
soprattutto nelle zone dove la cultura montana ha saputo
meglio contenere e armonizzare i flussi turistici, secondo
quella che il ladino doc Michil Costa definisce «la coscienza del limite». Sua l’idea del progetto “Quo Vadis”: nei locali associati, che praticano controllo di filiera e km zero, i
menù propongono il meglio della tradizione ladina, compresa la sana abitudine di mettere la casseruola in mezzo
al tavolo per mantenere vivo il senso della condivisione:
zuppe di farina tostata, polenta, qualche stufato, infusi
d’erbe, distillati, dolci ingentiliti da marmellate strepitose.
Se siete in zona, sconfinate verso Sappada, minuscola
enclave di origine germanica, dove due famiglie di gastronomi straordinari — i Meroi del ristorante “Laite” e i Casciaro della “Bottega di Sappada” — vi faranno scoprire le
meraviglie della cucina ladina-non ladina. Un distillato di
sambuco chiuderà al meglio la giornata.
Nel regno
dei piatti
poveri
ma buoni
LICIA GRANELLO
Repubblica Nazionale
DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
itinerari
Michil Costa è un’anima colta
della terra ladina. Gestisce
con la famiglia l’hotel
“La Perla” di Corvara,
con ristorante stellato, dove l’ospitalità
è all’insegna del turismo responsabile:
alimenti bio e a km zero, bioarchitettura,
strenua difesa dell’ambiente
DOVE DORMIRE
DOVE MANGIARE
DOVE COMPRARE
HOTEL FONTANA
Strada De Valongia 36 38039
Vigo di Fassa (TN)
Tel. 0462-769090
Mezza pensione da 75 euro
LA STÜA DI MICHIL
Strada Col Alt 105
Corvara
Tel. 0471-831000
Chiuso lunedì, menù da 50 euro
MACELLERIA BOCARIA
CRAFFONARA
Zwischenwasser 14
Mareo
Tel. 0474-503642
ALPENHOTEL RAINELL
Via Vidalong 19 Ortisei
Tel. 0471-796145
Camera doppia da 70 euro
con colazione
MALGA PANNA
Via Costalunga 56
Moena (Trento)
Tel. 0462-573489
Menù da 30 euro
AGRITURISMO LÜCH DA PCËI
Strada Pecei 17
San Cassiano
Tel. 0471-849286
LA SIRIOLA
Strada Prè de Vì 31
Località Armentarola
Tel. 0471-849445
Camera doppia da 170 euro,
colazione inclusa
LOCANDA MASO RUNCH
Località Runch 11
Pedraces (Bolzano)
Tel. 0471-839796
Menù da 30 euro
HOTEL MACIACONI
Selva di Val Gardena
Tel. 0471-793500
Doppia da 90 euro, colaz. inclusa
OSTERIA L’MURIN
Strada Col Alt 105
Corvara (Bolzano)
Tel. 0471-831000
Menù da 25 euro
CALDARA B&B
Via Faloria 46/a
Cortina d’Ampezzo
Tel. 348-2668378
Camera doppia da 65 euro
ST. HUBERTUS
Strada Micura de Rü 2
San Cassiano in Badia
Tel. 0471-849500
Menù da 80 euro
PANIFICIO COSTNER
Strada Pedraces 35
Pedraces
Tel. 0471-83961
PASTICCERIA ALVERÀ
Corso Italia 191
Cortina d’Ampezzo
Tel. 0436-862040
MALGA CIAUTA
Località Ciauta
Vodo di Cadore
Tel. 336-400603
Carolina e Alex
dieta da campioni
CAROLINA KOSTNER E ALEX SCHWAZER
Jopa arestida
La minestra di farina bruciata, conosciuta
anche come brennsuppe o bro brusà,
è tipica di molte valli dell’Alto Adige
Fatta con burro, farina e acqua,
è la zuppa della colazione. Dentro,
anche pane duro grattugiato
Jüfa
Una crema golosa, realizzata con latte,
acqua e farina di grano saraceno
La versione “baby”, zuccherata, jüfa da pop,
ha consistenza semi-liquida (deve passare
nel biberon). Gli adulti la consumano
attingendo dalla pentola, in mezzo alla tavola
1.200
i km quadrati
del territorio
3.343
i metri di altitudine
della Marmolada
Panicia
È un sostanzioso piatto unico, la zuppa d’orzo
con stinco di maiale dalla cottura lentissima
Soffritto lo speck a dadini, si aggiungono
verdure dell’orto (cipolle, patate, porri,
carote, sedano, tagliate a listarelle),
carne affumicata e orzo lavato
35.000
gli abitanti
ladini
5
le valli: Fassa, Gardena,
Badia, Cortina e Fodom
Zigher
Forma conica o a pera, per il formaggio
d’alpeggio “grigio”, di origine celtica,
il cui nome deriva dal tedesco ziege, capra
Ha pasta tenera, aromatizzata con pepe
ed erba cipollina, e molto odorosa. Resistono
nella produzione un paio di latterie cooperative
iamo cresciuti, io e Alex, con la cucina altoatesina, siamo diventati atleti conciliando la nostra passione per i piatti tipici con la dieta degli sportivi. Abbiamo dovuto fare rinunce, ma non
troppe, perché il cibo nelle nostre valli ha cresciuto
tanti campioni: nello sci, nello slittino, nel pattinaggio artistico che io pratico sin da bambina, nella marcia che ha fatto di Alex un campione olimpico a Pechino. Dunque parliamo di quella cucina che
ci riporta ai ricordi d’infanzia e ai profumi della nostra terra: una nostalgia che prende soprattutto me,
che sono ladina ma vivo in Baviera, a Oberstdorf, e
spesso vorrei addentare i canederli, o i krafuncin,
una specie di raviolo con gli spinaci che nella mani
della zia Margherita diventa un’opera d’arte. In
questo sono lontana da Alex, che è assolutamente
negato ai fornelli ma da bravo buongustaio adora la
cucina altoatesina e tra i tanti, troppi, piatti che gli
piacciono preferisce il riso al latte.
Quei sapori ci sono rimasti dentro sin da quando
li abbiamo conosciuti la prima volta: Alex da piccolo faceva scorpacciate di latticini e di formaggio Zigher, fatto con quel latte gustoso che viene dai masi d’alta montagna; io preferivo la mosa con burro
fuso, una specie di semolino con latte, farina, acqua
e sale. In una famiglia di futuri sportivi le abitudini
erano le stesse, anche se una bambina promettente sui pattini dovrebbe mangiare in un modo diverso dai fratelli, soprattutto da Simon che è diventato
giocatore di hockey. Invece no, a tavola noi fratellini Kostner facevamo grandi abbuffate di wienerschnitzel con patatine fritte. Una golosità che ho
dovuto presto abbandonare, man mano che crescevo e diventavo atleta: grasso e burro sono proprio incompatibili con la dieta ferrea delle pattinatrici. Ma anche dei marciatori: una medaglia d’oro
val bene qualche privazione. Anche se io continuo
ad apprezzare i canederli con i fagioli e i crauti, basta che non siano troppo conditi con lo speck, mentre Alex ha maturato una convinzione che metterebbe d’accordo tutti i medici: bisogna solo imparare a condire meno le cose, ecco la sua massima a
tavola. Saggio e avveduto, quanto incapace in cucina, pronto a lasciar fare tutto a me, che ad Oberstdorf riservo sempre una sorpresa ai miei ospiti: non
canederli, né krafuncin, ma pizza e spaghettate che
preparo per gli amici e i membri del team.
So che deludo chi si aspetta esibizioni di cucina
ladina ma il problema è questo: chi ha assaggiato,
come noi, un piatto tipico delle valli cucinato con
amore ed esperienza, come fanno le nostre mamme
Patrizia e Maria Luisa, non se la sente di improvvisare. Molto più facile affidarsi alla fiera del carboidrato, o ai dolci, a una torta al cioccolato che io e Alex
siamo riusciti a preparare insieme per il compleanno di Laura, la mia maestra di danza, grazie a un piccolo trucco: a guidarci al telefono da Ortisei c’era
mamma Patrizia. E poi va detto che c’è ladino e ladino: ogni valle ha i suoi piatti forti. Io per esempio
non mangio le frittelle tipiche di Castelrotto, le fortaies, e nemmeno i buchteln che vanno tanto di moda. Stesso discorso per la jopa arestida, la minestra
di farina bruciata. Invece dico sì alla crema che chiamiamo jüfa, alla zuppa d’orzo panicia con carota e
sedano, alla omelette pösl, e impazzisco, sul serio,
per le mele fritte: preparo una pastella densa con
latte, farina, zucchero; taglio a fette le mele; le faccio friggere, poi le cospargo con una nevicata di zucchero a velo. Una debolezza, ma in fondo sono vicecampionessa del mondo: posso essere perdonata?
(Testo raccolto da Mattia Chiusano)
S
Fortaies
Gli strauben, superclassiche frittelle
di Carnevale preparate con farina, latte, burro,
uova e grappa, vengono colate nell’olio
bollente di cottura per mezzo di un imbuto
Si servono cosparse di zucchero a velo,
insieme a frutta sciroppata o purea di mele
Pösl
Doppia dizione (kaiserschmarrn) per
l’omelette dolce “spezzata”, con marmellata
di mirtilli rossi. Alla pastella di latte, tuorli
e farina, si aggiungono bianchi a neve e uva
passa. Cottura in padella col burro, rifinitura
in forno e abbondante zucchero a velo
Pücia
Si impastava nella “stua” e si cuoceva
due volte l’anno, a inizio e fine inverno –
e solo con luna crescente! – il pane di segale
e frumento, destinato a durare per mesi
Tra gli ingredienti, oltre al lievito madre,
semi di cumino, sale e trigonella di prato
Buchteln
Morbide e invitanti, le paste dolci farcite
con marmellata di frutti rossi. Impasto
con farina, latte, burro, zucchero e scorza
di limone, cottura al forno fino a doratura
Si servono accompagnate da una crema
d’uovo, latte e vaniglia, passata al setaccio
Repubblica Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009
l’incontro
Cominciò da ragazzo come fattorino
alla 20th Century Fox
Poi ha diretto pellicole leggendarie,
da “Blues Brothers” a “Animal
House”. Ha lanciato star comiche
assolute. Ha innovato
incrociando horror
e commedia
A cinquantotto anni
si concede il lusso
di sparare contro
Hollywood: “Fanno
kolossal tutti uguali,
con trailer identici a base
di esplosioni. A me i soldi
per un film non li darebbero mai”
Outsider
John Landis
ncontrare John Landis è come essere catapultati sul set di un film.
Di cui lui è insieme regista, sceneggiatore e protagonista. Ogni
frase viene recitata, più che detta. Ogni
racconto è illustrato da una mimica irresistibile. Ogni opinione, anche seria,
suona come una battuta. Un interlocutore mai noioso. E involontariamente
buffo quando, parlando della sua passione per il nostro grande Totò, ne pronuncia il nome in maniera strascicata, e
senza accento finale: «I love Tooooto…».
Messo di fronte all’errore di dizione, ride di gusto. Ma subito riprende il filo del
discorso, elencando le altre divinità del
suo personale Pantheon comico: «Ci
sono geni assoluti come i fratelli Marx,
Charlie Chaplin, Jacques Tati; registi
della vecchia Hollywood come Howard
Hawks; attori come Fernandel e il mio
amico Vittorio Gassman... Vittorio era
fantastico, nei Soliti ignoti lo adoro.
Peccato che ci abbia lasciati». E qui il suo
volto si fa malinconico, l’espressione
triste.
Solo per un attimo, però. Perché, nel
corso del lungo colloquio — seduti a un
tavolino appartato del bar di un hotel
veneziano — il cinquantottenne Landis, con i suoi occhiali poco trendy e la
barba anni Settanta, è sempre rilassato,
istrionico, ironico. Un approccio che
non sorprende, se ricordiamo che ha diretto pellicole leggendarie come Blues
Brothers e Animal House; che ha lanciato star come John Belushi, ma anche
Dan Aykroyd ed Eddie Murphy (Una
poltrona per due); che ha lavorato con
talenti brillanti come Chevy Chase (Spie
come noi), Steve Martin (Los tres amigos), John Goodman (Blues Brothers
dittatura del botteghino che impera a
Hollywood. «Quando decisi di realizzare Animal House», spiega, «potevo andare a proporre il progetto al boss della
Columbia, o della Universal, o della Paramount. Così, semplicemente: sedermi davanti a questi appassionati di cinema e illustrare il progetto. Oggi invece a dettare le regole del gioco sono i giganti, le multinazionali, coi loro anonimi executive. Major che spendono venti milioni di dollari solo per promuovere
una pellicola non degnerebbero di uno
sguardo Animal House, che ne è costati
meno di due. Non a caso, puntano sulle
saghe che sfondano il box office: La
Mummia, Batman, 007. O comunque
su kolossal tutti uguali, coi loro trailer
identici a base di esplosioni: Iron Man,
Transformers. E l’elenco potrebbe continuare».
Giudizi negativi sulla Hollywood dominata dai colossi finanziari planetari
che spesso si sentono pronunciare anche dalle grandi star, quelle che sull’industria del cinema ci campano. Il che
Ogni tanto ho sentito
dire di questo
o quell’attore:
“È il nuovo Belushi”
Ma non è vero
Sappiamo tutti
che uno come lui
non ci sarà mai più
FOTO CORBIS
I
VENEZIA
2000); che con Un lupo mannaro americano a Londra ha reso credibile l’incrocio ad alto rischio tra horror e commedia.
Ma guai a considerarlo un’icona vivente. «Sono perennemente insoddisfatto della mia carriera», confessa, «altro che mito… Diciamo che condivido
la frase di John Huston, secondo cui le
prostitute, i palazzi e i registi sono le uniche tre cose che il tempo rende più autorevoli. Soprattutto in un Paese giovane come il mio, in cui le cose non vengono viste in prospettiva. La realtà è che
la magia del mio mestiere è proprio nel
suo enorme difetto: fare un film è un
grande compromesso. Perché mentre
stai girando devi tenere conto di tutto,
dalle mestruazioni dell’attrice ai problemi coniugali dell’attore. Le cose sono più prosaiche di quanto si immagina».
Piccoli, grandi drammi da set. A cui ha
assistito fin da ragazzino. «Ho cominciato quando c’erano ancora i tempi
d’oro», racconta. «Avevo appena diciassette anni, venivo da Chicago: volevo fare l’attor giovane, mi sono ritrovato all’ufficio posta della 20th Century Fox.
Fattorino, insomma. Un luogo di osservazione privilegiato: ho potuto incrociare leggende come Alfred Hithcock,
gente che ha inventato il linguaggio del
cinema. E lì, su quei set, ho capito il metodo di lavoro che in precedenza avevano utilizzato gli autori della vecchia
scuola: Frank Capra, Billy Wilder. Una
splendida gavetta».
Il colloquio si interrompe per un
istante, uno dei camerieri porta al tavolo i «litri di acqua minerale ghiacciata»
richiesti. Landis ne beve qualche sorsata, poi riprende il filo dei ricordi: «E così
quasi per caso, dopo aver assorbito come una spugna da quei maestri, mi sono ritrovato a fare il loro stesso mestiere». L’esordio avviene nel 1973 con il
fantastico-horror Schlock. E negli anni
successivi arrivano i grandi film: milioni di spettatori li hanno visti e rivisti, ne
citano battute e gag. «Non sono entusiasta dei miei cosiddetti cult», minimizza lui, «diciamo che ne salvo alcuni
singoli momenti, alcune sequenze. Forse il problema è che, nella mente, tendo
a confondere il valore dell’opera col divertimento maggiore o minore che ho
provato realizzandola. Ad esempio Spie
come noi, che non è un granché, lo adoro: lo girammo tra Europa e Marocco, fu
fantastico. Ma i film che ho diretto per
me sono tutti come figli». Nessun rimpianto, però, per i successi del passato.
Anche se, con un pizzico di orgoglio, lui
stesso ricorda che «Blues Brothers fu la
prima pellicola americana a incassare
più nel resto del mondo che in patria: ottanta milioni di dollari negli Usa, trecento all’estero».
La citazione è uno dei pochissimi vezzi “numerici” che si concede. Perché poi
Landis si dichiara nemico mortale della
può suonare ipocrita. Ma Landis, diventato un outsider, ha il diritto di sparare a zero. «Del resto a me i soldi per fare un film non li darebbero mai», sottolinea con un sorriso ironico, «e infatti è
alla Gran Bretagna che mi sono rivolto,
per la mia prossima fatica cinematografica: una black comedy su due ladri che
nel Diciannovesimo secolo avviano un
business redditizio, vendendo cadaveri
alla scuola di medicina di Edimburgo».
La pellicola, al momento, è in fase di
pre-produzione. «Negli Usa avevo anche un’altra sceneggiatura ottima, già
pronta, Epic Proportions: ci siamo arenati sui finanziamenti. Comunque preferisco non fare film che accettare di farne di brutti, di banali».
Parole chiare. E senza reticenze sono
anche le opinioni sulle star attuali, quelle che sfondano i botteghini. «Ben Stiller è bravo, ma solo in alcuni film: Tutti
pazzi per Mary, o recentemente Tropic
Thunder. Stesso discorso per Jack
Black: in certe pellicole mi convince, in
altre no. Dipende molto dal prodotto.
Ogni volta la gente si stupisce per la bravura di questo o quel divo. Prendiamo
Jim Carrey: quando esplose tutti erano
in estasi, dimenticando il suo debito
verso gente come Bob Hope, Jerry
Lewis, Steve Martin. Tornando al presente, tra le attrici adoro Marisa Tomei,
Gwyneth Paltrow, Cameron Diaz. Tra i
registi attuali, invece, i miei preferiti sono Spike Jonze, i fratelli Coen, Wes Anderson».
Autori importanti, tutti votati in qualche modo allo humour intelligente. Ma
rispetto a loro Landis ha qualcosa di diverso, forse di più: un amore speciale
per gli attori brillanti. E infatti al centro
della sua comicità ci sono sempre gli interpreti. A partire dal più geniale che lui
abbia mai diretto: John Belushi. Un talento straordinario che — se fosse sopravvissuto ai suoi eccessi — avrebbe
appena compiuto sessant’anni. «Era
unico», ricorda, «aveva la capacità di
darsi completamente: la voce, il corpo,
le parole. Sapeva fare tutto, e far ridere
di tutto. Una forza della natura, un trascinatore. Ogni tanto, nel corso del tempo, ho sentito dire di questo o quell’attore: “È il nuovo Belushi”. Ma non è vero, è solo propaganda. Perché sappiamo tutti che uno come lui non ci sarà
mai più. Specie in un cinema come
quello attuale».
E forse questa sfiducia reciproca tra
Landis e il sistema hollywoodiano è anche tra le cause del suo deviare, negli anni appena trascorsi, verso l’attività televisiva: «Qui in Italia ho partecipato al
progetto collettivo Masters of horror, insieme a Dario Argento; negli Stati Uniti
ne ho fatto uno analogo, Fear Itself; ho
anche realizzato una serie per la Hbo,
Dream on». Anche perché i prodotti da
piccolo schermo hanno un altro pregio:
la mancanza di snobismo verso la commedia, «che invece cinematografica-
mente è una Cenerentola, sottovalutata ai festival e dagli Oscar». Risultato: «Le
migliori commedie recenti si sono viste
tutte sul piccolo schermo: Simpson,
South Park. E Ali G Indahouse, con Sacha Baron Cohen». E oltre la tv c’è la recente passione per il documentario:
«Ne ho girato uno, si chiama Mr
Warmth ed è dedicato a Don Rickles,
cantante ottantaduenne di Las Vegas,
un ex membro del Rat Pack di Frank Sinatra. In futuro ne produrrò altri».
Progetti, idee, iniziative. Landis non
sembra voler fare il padre nobile, e pensionato, del cinema brillante. Anche se
va detto che a riportare il suo nome alla
ribalta, negli ultimi giorni, è stata una
notizia di genere assai diverso: la decisione di citare in tribunale Michael
Jackson, che ha diretto nel celeberrimo
videoclip di Thriller, considerato da
tanti critici il più bello della storia della
musica. Secondo gli avvocati del regista, la popstar non ha versato i proventi
che gli spettavano. Ed è forse a causa di
questo problema legale irrisolto che sul
cantante Landis taglia corto: «Michael
era un grande, ora è un personaggio tragico». Stop.
Nessun problema, invece, a parlare
della vita privata. E in particolare del suo
amore per la moglie, l’attrice Deborah
Nadoolman, con cui è sposato dal 1980,
e da cui ha avuto due figli. Lui è orgoglioso di lei al punto da mostrarne una
foto sul telefonino che ha con sé: «L’ho
scattata qualche notte fa», racconta, «ho
avuto un piccolo incidente, sono caduto, così siamo andati al pronto soccorso.
E questa», dice, porgendo il cellulare, «è
Deborah in ospedale: dormiva quasi in
piedi, mentre io venivo medicato». La
voce è piena d’affetto e di ironia, l’immagine di questa donna stremata che riposa su uno scomodo sgabello sembra il
fotogramma di un suo film.
‘‘
CLAUDIA MORGOGLIONE
Repubblica Nazionale
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