Domenica l’attualità L’armata vaticana alla guerra dell’etica La di DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009 ILVO DIAMANTI e MARCO POLITI cultura Repubblica Viaggio nell’altra metà del Futurismo DARIA GALATERIA Scrittore e il Campione Lo Roberto Saviano, autore di “Gomorra”, e Lionel Messi, calciatore fuoriclasse ILLUSTRAZIONE DI GIPI Un incontro a Barcellona ha prodotto questo reportageracconto che ripercorre la storia di un grande successo nato dal dolore ROBERTO SAVIANO L BARCELLONA o incontro negli spogliatoi del Camp Nou di Barcellona, uno stadio enorme, il terzo più grande del mondo. Dagli spalti invece Messi è una macchiolina, incontrollabile e velocissima. Da vicino è un ragazzo mingherlino ma sodo, timidissimo, parla quasi sussurrando una cantilena argentina, il viso dolce e pulito senza un filo di barba. Lionel Messi è il più piccolo campione di calcio vivente. LaPulga, la pulce, è il suo soprannome. Ha la statura e il corpo di un bambino. Fu infatti da bambino, intorno ai dieci anni, che Lionel Messi smise di crescere. Le gambe degli altri si allungavano, le mani pure, la voce cambiava. E Leo restava piccolo. Qualcosa non andava e le analisi lo confermarono: l’ormone della crescita era inibito. Messi era affetto da una rara forma di nanismo. Con l’ormone della crescita, si bloccò tutto. E nascondere il problema era impossibile. Tra gli amici, nel campetto di calcio, tutti si accorgono che Lionel si è fermato: «Ero sempre il più piccolo di tutti, qualunque cosa facessi, ovunque andassi». Dicono proprio così: «Lionel si è fermato». Come se fosse rimasto indietro, da qualche parte. A undici anni, un metro e quaranta scarsi, gli va larga la maglietta del Newell’s Old Boys, la sua squadra a Rosario, in Argentina. Balla nei pantaloncini enormi, nelle scarpe, per quanto stretti i lacci, un po’ ciabatta. È un giocatore fenomenale: però nel corpo di un bimbetto di otto anni, non di un adolescente. Proprio nell’età in cui, intravedendo un futuro, ci sarebbe da far crescere un talento, la crescita primaria, quella di braccia, busto e gambe, si arresta. Per Messi è la fine della speranza che nutre in se stesso dal suo primissimo debutto su un campo da calcio, a cinque anni. Sente che con la crescita è finita anche ogni possibilità di diventare ciò che sogna. I medici però si accorgono che il suo deficit può essere transitorio, se contrastato in tempo. L’unico modo per cercare di intervenire è una terapia a base dell’ormone “gh”: anni e anni di continuo bombardamento che gli permettano di recuperare i centimetri necessari per fronteggiare i colossi del calcio moderno. (segue nelle pagine successive) spettacoli Sanremo, specchio dell’Italia che canta MICHELE SERRA la memoria Geronimo, la leggenda pellerossa VITTORIO ZUCCONI i sapori Valli ladine, la cucina degli atleti LICIA GRANELLO, CAROLINA KOSTNER E ALEX SCHWAZER Repubblica Nazionale 28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009 la copertina Scrittore e campione Un incontro negli spogliatoi del Camp Nou di Barcellona Da una parte l’autore di “Gomorra” dalla vita blindata, cresciuto nel mito del Napoli di Maradona, dall’altra il minuscolo, formidabile attaccante argentino che, a prezzo di grandi sofferenze personali, ha riportato l’epica di Davide e Golia in un calcio di giganti muscolari ‘‘ Veloce e timido Dagli spalti dello stadio Messi è una macchiolina, incontrollabile e velocissima. Da vicino è un ragazzo mingherlino ma sodo, timidissimo. Parla quasi sussurrando una cantilena argentina, il viso dolce e pulito senza un filo di barba FOTO ANSA Saviano ROBERTO SAVIANO (segue dalla copertina) i tratta di una cura molto costosa che la famiglia non può permettersi: siringhe da cinquecento euro l’una, da fare tutti i giorni. Giocare a pallone per poter crescere, crescere per poter giocare: questa diviene d’ora in avanti l’unica strada. Lionel, un modo di guarire che non riguardi la passione della sua vita, il calcio, non riesce nemmeno a immaginarlo. Ma quelle dannate cure potrà permettersele solo se un club di un certo livello lo prende sotto le sue ali e gliele paga. E l’Argentina sta sprofondando nella devastante crisi economica, da cui fuggono prima gli investimenti, poi pure le persone, i cui risparmi si volatilizzano col crollo dei titoli di stato. Nipoti e S rano eseguita in modo perfetto, ogni ragazzino che decidono di seguire, ogni padre con cui vanno a parlare, significa tracciare un destino. Disegnarlo nelle linee generali, aprirgli una porta: ma nel caso di Messi, ciò che gli viene offerto, rappresenta molto di più. Non gli viene data solo l’opportunità di diventare un calciatore, ma la possibilità di guarire, di avere davanti una vita normale. Prima di vederlo, gli osservatori che sentono parlare di lui sono comunque molto scettici. «Se è troppo piccolo, non ha speranza, anche se è forte», pensano. E invece: «Ci vollero cinque minuti per capire che era un predestinato. In un attimo fu evidente quanto quel ragazzo fosse speciale». Questo lo afferma Carles Rexach, direttore sportivo del Barcellona, dopo aver visto Leo in campo. È così evidente che Messi ha nei piedi un talento unico, qualcosa che va oltre il calcio stesso: a guardarlo giocare è come se Le cure però spezzano in due. Hai sempre nausea, vomiti anche l’anima. I peli in faccia che non ti crescono. Poi i muscoli te li senti scoppiare dentro, le ossa crepare. Tutto ti si allunga, si dilata in pochi mesi, un tempo che avrebbe dovuto invece essere di anni. «Non potevo permettermi di sentire dolore», dice Messi, «non potevo permettermi di mostrarlo davanti al mio nuovo club. Perché a loro dovevo tutto». La differenza tra chi il proprio talento lo spende per 26anni la sua età quando esce Gomorra realizzarsi e chi su di esso si gioca tutto è abissale. L’arte diventa la tua vita non nel senso che totalizza ogni cosa, ma che solo la tua arte può continuare a farti campare, a garantirti il futuro. Non esiste un piano b, qualsiasi alternativa su cui poter ripiegare. Dopo tre anni finalmente il Barcellona convoca Lionel Messi e la famiglia sa che se non sarà in grado di giocare come ci si aspetta, le difficoltà a tirare avanti saranno insormontabili. In Argentina hanno perso tutto e in Spagna non hanno ancora niente. E Leo, a quel punto, ricadrebbe sulle loro spalle. Ma quando La Pulce gioca, sfuma ogni ansia. Allenandosi duramente con il sostegno della squadra, Messi riesce a crescere non solo in bravura, ma anche in altezza, anno dopo anno, centimetro dopo centimetro spremuto dai muscoli, levigato nelle ossa. Ogni centimetro acquisito una sofferenza. Nessuno sa davvero il rischio che venga totalmente travolto dai difensori. Ma solo a una condizione… prima devono riuscire a raggiungerlo». E infatti nessuno riesce a stargli dietro. Il baricentro è basso, i difensori lo contrastano, ma lui non cade, né si sposta. Continua a tenere la corsa, rimbalza palla al piede, non si ferma, dribbla, scavalca, sguscia, fugge, finta. È imprendibile. A Barcellona malignano che le star della difesa del Real Madrid, Roberto Carlos e Fabio Cannavaro, non sono mai riusciti a vedere in faccia Lionel Messi perché non riescono a rincorrerlo. Leo è velocissimo, sfreccia via con i suoi piedi piccoli che sembrano mani per come riesce a tener palla, a controllarne ogni movimento. Per le sue finte, gli avversari inciampano nell’ingombro inutile dei loro piedi numero quarantacinque. In una pubblicità dove era stato invi- Intorno ai dieci anni Lionel smise di crescere Le gambe degli altri si allungavano, la voce cambiava. E lui restava piccolo. Le analisi La differenza tra chi il talento lo spende per realizzarsi e chi su di esso si gioca tutto è abissale. L’arte diventa la tua vita, solo lei dissero che l’ormone della crescita era inibito ti garantisce il futuro, non esiste un piano b si sentisse una musica, come se in un mosaico scollato ogni tassello tornasse apposto. Rexach vuole fermarlo subito: «Chiunque fosse passato di lì, l’avrebbe comprato a peso d’oro». E così fanno un primo contratto su un fazzoletto di carta, un tovagliolo da bar aperto. Firmano lui e il padre della pulce. Quel fazzoletto è ciò che cambierà la vita a Lionel. Il Barcellona ci crede in quell’eterno bimbo. Decide di investire nella cura del maledetto ormone che si è inceppato. Ma per curarsi, Lionel deve trasferirsi in Spagna con tutta la famiglia, che insieme a lui lascia Rosario senza documenti, senza lavoro, fidandosi di un contratto stilato su un tovagliolo, sperando che dentro a quel corpo infantile possa esserci davvero il futuro di tutti. Dal 2000, per tre anni, la società garantisce a Messi l’assistenza medica necessaria. Crede che un ragazzino disposto a giocare a calcio per salvarsi da una vita d’inferno abbia dentro il carburante raro che ti fa arrivare ovunque. 2milioni le copie del libro vendute 43 FOTO GIOVANNI GIOVANNETTI/EFFIGIE pronipoti di immigrati cresciuti nel benessere cercano la salvezza emigrando nei paesi di origine dei loro avi. In quella situazione, nessuna società argentina, pur intuendo il talento del piccolo Messi, se la sente di accollarsi i costi di una simile scommessa. Anche se dovesse crescere qualche centimetro in più — questo è il ragionamento — nel calcio moderno ormai senza un fisico possente non si è più nulla. La pulce resterà schiacciata da una difesa massiccia, la pulce non potrà segnare gol di testa, la pulce non reggerà agli sforzi anaerobici richiesti ai centravanti di oggi. Ma Lionel Messi continua a giocare lo stesso nella sua squadra. Sa di doverlo fare come se avesse dieci piedi, correre più veloce di un puledro, essere imbattibile palla a terra, se vuole sperare di diventare un calciatore vero, un professionista. Durante una partita, lo intravede un osservatore. Nella vita dei calciatori gli osservatori sono tutto. Ogni partita che guardano, ogni punizione che conside- i paesi in cui è stato tradotto quanto misuri adesso. Qualcuno lo dà appena sopra il metro e cinquanta, qualcuno al di sotto, qualche sito parla di un Messi che continuando a crescere è arrivato al metro e sessanta. Le stime ufficiali mutano, concedendogli via via qualche centimetro in più, come se fosse un merito, un premio conquistato in campo. Fatto è che quando le due squadre sono in riga prima del fischio iniziale, l’occhio inquadra tutte le teste dei giocatori più o meno alla stessa altezza, mentre per trovare quella di Messi deve scendere almeno al livello delle spalle dei compagni. Per uno sport dove conta sempre più la potenza e, per un attaccante, i quasi due metri di Ibrahimovic e il metro e ottantacinque di Beckham sono diventati la norma, Lionel continua a somigliare pericolosamente a una pulce. Come dice Manuel Estiarte, il più forte pallanuotista di tutti i tempi: «È vero, bisogna calcolare che le probabilità che Messi esca sconfitto da un impatto corpo a corpo sono elevate, come elevato è tato a disegnare con un pennarello la sua storia, è divertente e malinconico vedere Messi ritrarre se stesso come un bimbetto minuscolo tra lunghissime foreste di gambe, perso lì tra palloni troppo grandi che volano lontano. Ma quando toccano terra, lui veloce li aggancia e piccolo com’è riesce a passare tra le gambe di tutti e andare in porta. Quando ci sono le rimesse laterali e gli avversari riprendono fiato, è proprio in quel momento che lui schizza e li sorpassa, così quando si immaginavano, i marcatori, di averlo dietro la schiena, se lo ritrovano invece già cinque metri avanti. Il grande giocatore non è quello che si fa fare fallo, ma quello cui non arrivi a tendere nessuno sgambetto. Vedere Messi significa osservare qualcosa che va oltre il calcio e coincide con la bellezza stessa. Qualcosa di simile a uno slancio, quasi un brivido di consapevolezza, un’epifania che permette a chi è lì, a vederlo sgambettare e giocare con la palla, di non riuscire più a percepire alcuna separazione tra sé e lo Repubblica Nazionale & DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29 A CONFRONTO REPUBBLICA TV A sinistra, Lionel Messi e Roberto Saviano fotografati insieme negli spogliatoi dello stadio Camp Nou di Barcellona In basso, altre immagini del campione e dello scrittore I retroscena dell'incontro con Lionel Messi, gli allenamenti di Maradona, le mail dopo le frasi di Cannavaro su "Gomorra" Roberto Saviano racconta tutto Da oggi su Repubblica Tv A cura di Francesco Fasiolo ‘‘ Dolore negato Ero sempre il più piccolo di tutti, qualunque cosa facessi, ovunque andassi... Ma non potevo permettermi di sentire dolore, non potevo permettermi di mostrarlo davanti al mio nuovo club. Perché a loro dovevo tutto spettacolo cui sta assistendo, di confondersi pienamente con ciò che vede, tanto da sentirsi tutt’uno con quel movimento diseguale ma armonico. In questo le giocate di Messi sono paragonabili alle suonate di Arturo Benedetti Michelangeli, ai visi di Raffaello, alla tromba di Chet Baker, alle formule matematiche della teoria dei giochi di John Nash, a tutto ciò che smette di essere suono, materia, colore, e diventa qualcosa che appartiene a ogni elemento, e alla vita stessa. Senza più separazione, distanza. È lì, e non si può vivere senza. E non si è mai vissuti senza, solo che quando si scoprono per la prima volta, quando per la prima volta le si osserva tanto da restarne ipnotizzati, la commozione è inevitabile e non si arriva ad altro che a intuire se stessi. A guardarsi nel proprio fondo. Ascoltare i cronisti sportivi che commentano le sue cavalcate basterebbe analoga. Il capolavoro che Diego Armando aveva realizzato il 22 giugno 1986 in Messico, il gol votato il migliore del secolo, Lionel riesce a ripeterlo pressoché identico e quasi esattamente vent’anni dopo, il 18 aprile 2007, a Barcellona. Pure Leo parte da una sessantina di metri dalla porta, anche lui scarta in un’unica corsa due centrocampisti, poi accelera verso l’aria di rigore, dove uno degli avversari che aveva superato cerca di buttarlo giù, ma non ci riesce. Si accalcano intorno a Messi tre difensori, e invece di mirare alla porta, lui sguscia via sulla destra, scarta il portiere e un altro giocatore… E va in gol. Dopo aver segnato, c’è una scena incredibile coi giocatori del Barcellona pietrificati, con le mani sulla testa, si guardano intorno come a non credere che fosse possibile ancora assistere a un gol del genere. Tutti pensavano che un uomo solo fosse capace di tanto. Ma non è stato così. proprio in questo: l’essere cresciuto a Napoli nel mito di Diego Armando Maradona. Non dimenticherò mai la partita dei mondiali del 1990, un destino terribile portò l’Italia di Azeglio Vicini e Totò Schillaci a giocare la semifinale contro l’Argentina di Maradona proprio al San Paolo. Quando Schillaci segna il primo gol, lo stadio gioisce. Ma si sente che nelle curve qualcosa non va. Dopo il gol di Caniggia il tifo non napoletano — non autoctono — inizia a prendersela 17anni la sua età all’esordio nel Barça trambe le cose, se ne intende. «Mi piace Napoli, voglio andarci presto», dice Lionel, «Starci un po’ dev’essere bellissimo. Per un argentino è come essere a casa». Il momento più incredibile del mio incontro con Messi è quando gli dico che quando gioca somiglia a Maradona — “somiglia”: perché non so come esprimere una cosa ripetuta mille volte, anche se devo dirgliela lo stesso — e lui mi risponde: «Verdad?», «Davvero?», con un sorriso ancor più timido e contento. Del resto, Lionel Messi ha accettato di incontrarmi non perché sia uno scrittore o per chissà cos’altro, ma perché gli hanno detto che vengo da Napoli. Per lui è come per un musulmano nascere alla Mecca. Napoli per Messi, e per molti tifosi del Barcellona, è un luogo sacro del calcio. È il luogo della consacrazione del talento, la città dove il dio del pallone ha giocato gli anni più belli, dove dal nulla è partito verso la sconfitta Quasi un’epifania che permette a chi è lì di confondersi pienamente con ciò che vede un bimbetto tra lunghissime foreste di gambe 96 le presenze finora nel Barcellona 47 il totale dei gol segnati FOTO LA PRESSE La stampa si inventa subito il nomignolo “Messidona”, ma c’è qualcosa nella somiglianza dei due campioni argentini che oltrepassa simili trovate e mette i brividi. In uno sport che la fase epica sembra essersela lasciata alle spalle, le prodezze di Messi somigliano al reiterarsi di un mito, e non di un mito qualsiasi, ma di quello che più fortemente è in contrasto con il nostro tempo: Davide contro Golia. Fisici minuscoli, quartieri poveri, incapacità nel vedersi diversi da come quando giocavano nei campetti, faccia sempre uguale, rabbia sempre uguale, come un’accidia che ti porti dentro. Teoricamente avevano tutto quanto bastava per sbagliare, tutto quanto bastava per perdere, tutto quanto bastava per non piacere a nessuno e per non giocare. Ma le cose sono andate diversamente. Messi, quando Maradona segnava quel gol in Messico, non era neanche nato. Nascerà nel 1987. E la ragione per cui io l’ho seguito a Barcellona, al punto di volerlo incontrare, ha la sua origine con Maradona, e lì accade qualcosa che non succederà mai più nella storia del calcio e mai era successo sino ad allora: la tifoseria si schiera contro la propria nazionale di calcio. I tifosi della curva napoletana iniziano a urlare: «Diego! Diego!». D’altronde erano abituati a farlo, come biasimarli e come identificarsi in altri? Anche se dovrebbe essere cara la propria squadra nazionale, in quel momento è Maradona che rappresenta la tifoseria del San Paolo più di una nazionale di giocatori provenienti da altre città d’Italia, da Roma, Milano, Torino. Maradona era riuscito a sovvertire la grammatica delle tifoserie. E a Roma gliela fecero pagare durante la finale Argentina-Germania, dove il pubblico per vendicarsi dell’eliminazione dell’Italia in semifinale e delle defezioni create all’interno della tifoseria, inizia a fischiare l’inno nazionale. Maradona aspetta che la telecamera, nella carrellata sui gioca- Guardarlo giocare è qualcosa che va oltre il calcio e coincide con la bellezza stessa Lionel fu invitato a disegnare la sua storia con un pennarello. È divertente e malinconico vedere il ritratto che fece di se stesso: per definire la sua epica di giocoliere. Durante un incontro Barcellona-Real Madrid, il cronista vedendolo assediato da tentativi di fallo smette di descrivere la scena e inizia solo un soddisfatto: «Non va giù, non va giù, non va giuuuuuù». Durante un’altra sfida fra le storiche arcirivali, l’ola estatica «Messi, Messi, Messi, Messi» riceve una “a” supplementare che gli rimarrà addosso: Messia. È questo l’altro soprannome che La Pulce si è guadagnata con la grazia beffarda delle sue avanzate, con lo stupore quasi mistico che suscita il suo gioco. «L’uomo si fece Dio e inviò il suo profeta», così dicono le scritte di un servizio televisivo dedicato a El Mesias, e a colui che come incarnazione divina del calcio lo precedette: Diego Armando Maradona. Sembra impossibile ma Messi quando gioca ha in testa le giocate di Maradona, così come uno scacchista in un determinato momento della partita, spesso si ispira alla strategia di un maestro che si è trovato in una situazione FOTO PACO SERINELLI/MARKANEWS & Messi tori, arrivi sulle sue labbra, per lanciare un «hijos de puta» ai tifosi che non rispettano neanche il momento dell’inno. Una finale terribile, dove a Napoli si tifava tutti, ovviamente, per l’Argentina. Ma poi il momento del rigore assolutamente dubbio distrugge ogni speranza. La Germania chiaramente in difficoltà deve però vincere e vendicare l’Italia battuta. Un rigore dubbio per un fallo su Rudi Voeller, lo realizza Andreas Brehme. E il commento del cronista argentino fu: «Solo così fratello… solo così potevate vincere contro Diego». Ricordo benissimo quei giorni. Avevo undici anni, e difficilmente tornerò mai a vedere quel tipo di calcio. Ma qualcosa sembra tornare, di quel tempo. Il gol del Messico contro l’Inghilterra, il gol rifatto dalla Pulce vent’anni dopo, segna uno dei momenti indimenticabili della mia infanzia. Mi chiedo che meraviglia e che vertigine sarebbe veder giocare Messi al San Paolo, lui, di cui lo stesso Maradona disse: «Vedere giocare Messi è meglio che fare sesso». E Diego, di en- delle grandi squadre, verso la conquista del mondo. Lionel appare il contrario di come ti aspetti un giocatore: non è sicuro di sé, non usa le solite frasi che gli consigliano di dire, si fa rosso e fissa i piedi, o si mette a rosicchiare le unghie dell’indice e del pollice avvicinandole alle labbra quando non sa che dire e sta pensando. Ma la storia della Pulce è ancora più straordinaria. La storia di Lionel Messi è come la leggenda del calabrone. Si dice che il calabrone non potrebbe volare perché il peso del suo corpo è sproporzionato alla portanza delle sue ali. Ma il calabrone non lo sa e vola. Messi con quel suo corpicino, con quei suoi piedi piccoli, quelle gambette, il piccolo busto, tutti i suoi problemi di crescita, non potrebbe giocare nel calcio moderno tutto muscoli, massa e potenza. Solo che Messi non lo sa. Ed è per questo che è il più grande di tutti. © Roberto Saviano 2009. Published by Arrangement with Roberto Santachiara Agenzia Letteraria Repubblica Nazionale 30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009 l’attualità Fede e potere Come può un potentato religioso che condiziona solo tra il tre e il cinque per cento dei voti detenere la golden share del governo di centrodestra? media numeri 33.400 I GIORNALI DIOCESANI FAMIGLIA CRISTIANA Sono circa 160 le testate aderenti alla Federazione italiana dei settimanali cattolici (Fisc) per oltre un milione di copie settimanali Settimanale nato nel 1931, conta tre milioni di lettori Ha assunto di recente posizioni originali rispetto a temi civili e politici L’OSSERVATORE ROMANO COMUNICATI CEI Quotidiano nato nel 1861 per “confutare le calunnie che si scagliano contro di Roma e del Pontificato Romano”, ha una tiratura di 24.500 copie La Conferenza Episcopale Italiana esprime posizioni su temi etici e politici diffondendo i suoi documenti sul suo sito Internet AVVENIRE SIR sono gli anni in media dei sacerdoti italiani Fondato nel 1968, è il quotidiano della Cei (tiratura 150.500 copie) e lo strumento principale delle campagne dei vescovi Il Servizio Informazione Religiosa nasce nel 1988 come agenzia di stampa con il sostegno della Cei Dal 1995 ha un sito web 81.723 sono i preti diocesani: uno ogni 1.700 cattolici 17.400 i sacerdoti membri di congregazioni e ordini 62 sono le suore, riunite in 627 congregazioni Dalla vittoria nel referendum sulla procreazione assistita al caso Eluana, ecco quanto conta la politica della Chiesa cattolica 5.825 i seminaristi censiti nel 2006 26.000 le parrocchie italiane 226 le diocesi MARCO POLITI E ROMA nigma e paradosso sono il marchio del potere della Chiesa in Italia. Un potere a volte pesante, a volte impalpabile, alternativamente gridato e silenzioso, evidente e nascosto. Capace di mobilitare e al tempo stesso privo di consenso maggioritario. Ma quel che conta: un potere che c’è. L’ultima vittoria elettorale di Santa Romana Chiesa si registrò alle elezioni regionali del Lazio nel 2000, quando il presidente della Cei cardinale Camillo Ruini volle punire la giunta ulivista di Piero Badaloni per aver tentato di regolamentare le coppie di fatto. Vinse, con l’appoggio di congregazioni e parrocchie, il post-missino Francesco Storace. Otto anni dopo, la rivelazione clamorosa dell’impotenza ecclesiastica nell’orientare larghe masse alle elezioni politiche del 2008: l’Udc prese poco più del cinque per cento. Eppure, auspice sempre il cardinale Ruini, il direttore dell’Avvenire Dino Boffo si era speso a favore del partito di Casini, indicandolo come «presenza che fa esplicito riferimento alla dottrina sociale della Chiesa». In mezzo (anno 2005) si colloca il trionfo nel referendum sulla procreazione assistita, che ha visto la Chiesa esibire dalla sua parte il vessillo del settantaquattro per cento di non votanti. Dove sta il potere politico della Chiesa e dove il suo tallone d’Achille? In che consiste la sua capacità di pesare sul ceto politico italiano? Sono tramontati i tempi quando la gerarchia ecclesiastica, agendo sull’associazionismo cattolico, i gruppi professionali e sindacali bianchi, le parrocchie e le congregazioni religiose, riusciva a convogliare una parte notevole del voto sulla Democrazia cristiana. Dopo Tangentopoli e l’implosione della Dc i credenti si sono divisi e frammentati e si è profilato sempre più chiaramente quello che Alessandro Castegnaro, direttore dell’Osservatorio Religioso Triveneto, chiama il «doppio registro» dei cattolici: «Da un lato c’è il riconoscimento dell’utilità che la Chiesa formi le coscienze, dia indicazioni, inviti alla riflessione sui valori; e dall’altro, di fronte alle scelte di vita, la stragrande maggioranza della popolazione sostiene che riguardano la propria coscienza. Fatta eccezione per una minoranza di fedeli». In varie inchieste dove la domanda era “chi decide cosa è male?”, il novanta per cento ha risposto: la coscienza individuale. Altri, la legge di Dio. Ultimi quelli per cui la Chiesa “può” dare l’indicazione decisiva. Nei giovani, sintetizza, la distinzione tra sfera etica e dimensione religiosa è visibilissima. E tuttavia nell’ultimo quindicennio la gerarchia ecclesiastica ha sempre detto l’ultima parola sulle leggi riguardanti i rapporti di vita. Ha impedito l’introduzione del divorzio breve, ha voluto una legge sulla fecondazione assistita che prevede il divieto di scartare gli embrioni malati, ha bloccato una legge sulle coppie di fatto e infine — sul caso Eluana — è riuscita a trascinare Berlusconi, inizialmente riluttante, a sfiorare la crisi istituzionale pur di impedire l’esecuzione della sentenza, che autorizzava l’interruzione del suo calvario. Una delle risposte sta nella fragilità della classe politica. La Chiesa non muove molti voti, forse qualcosa tra il tre e il cinque per cento. Però in un bipolarismo, in cui il cambio di governo può dipendere da ventiquattromila voti (come nel 2006), i partiti sono ossessionati dalla paura di L’armata del Vaticano alla battaglia dell’etica avere contro la gerarchia ecclesiastica. «La parola d’ordine sotterranea è che non conviene litigare con i preti», riassume ironicamente il sociologo Arnaldo Nesti, che punta l’attenzione sulla rete discreta di personaggi ex democristiani o provenienti dall’associazionismo cattolico, piazzati in provincia in posizioni anche economicamente importanti. Si muovono in autonomia e al tempo stesso hanno come riferimento ultimo il vescovo: specie nelle battaglie sulle «leggi eticamente sensibili», in cui schierarsi Dopo l’implosione della Dc, i credenti si sono divisi diventa mostrare bandiera pro o contro il verbo della Chiesa. Tanto, aggiunge Nesti, c’è la riserva mentale che «ognuno nel privato fa ciò che vuole». Di pari passo, conclude, si manifesta l’atteggiamento rinunciatario della cultura laica. Castegnaro rovescia il discorso. Nell’indubbia debolezza del sistema politico, spiega, risalta la debolezza delle culture secolari post-novecentesche. La Chiesa non trova più competitori come un tempo: ad esempio, la sub-cultura del Pci. E allora essa appare come l’istanza che «offre più informazioni, più opzioni, più indicazioni di valore». I laici parlano solo di libertà individuale e tende a mancare nel loro discorso l’orizzonte dell’edificazione di un tessuto solidale. La strategia dell’istituzione ecclesiastica è stata costruita negli anni Novanta dal cardinale Ruini, allora presidente della Cei. Si basa su due assi. La pretesa di rappresentare la visione antropologica «vera», consona alla tradizione cristiana dell’Italia, e al tempo stessa «retta» interprete della ragione e della natura, è il primo. Ne deriva la spinta a presentarsi come il referente autentico per la legislazione sui temi etici: dall’embrione alla famiglia, dalla pillola del giorno dopo alla ricerca sulle staminali, al testamento biologico. Indispensabile a questo disegno è l’assoluto centralismo della Cei, il cui vertice riverbera il volere del Papa, unito al silenziamento del dibattito tra i vescovi e nel mondo cattolico. Risultato raggiunto. Negli ambienti del laicato cattolico l’afasia è acuita dalla scomparsa di figure prestigiose come lo storico Pietro Scoppola, il sociologo Roberto Ardigò, lo studioso di storia della Chiesa Giuseppe Alberigo. Il secondo elemento strategico è la compatta utilizzazione dei media ecclesiastici per occupare la scena pubblica: l’Osservatore Romano, l’Avvenire, il Sir, i settimanali e le radio diocesane, i comu- nicati della Cei. Non è un caso che Dino Boffo sia contemporaneamente direttore di Avvenire, della Tv dei vescovi Sat2000 e del circuito radio della Cei. A questa rete, che nei momenti cruciali martella ossessivamente l’opinione pubblica e la classe politica — si tratti del no ai Dico, del referendum sulla procreazione assistita o del testamento biologico o di Eluana — si aggiunge come alleato esterno, di area laica, il Foglio che nel nome dell’ideologia occidentalista teocon rilancia aggressivamente i comandamenti del magistero ecclesiastico. Sul piano sociale agiscono in primo piano i gruppi più integralisti: l’Associazione Scienza e Vita, il Movimento per la Vita, i Centri di aiuto alla vita, il Forum delle famiglie. Insieme a due movimenti che occhieggiano alle manifestazioni anti-Zapatero in Spagna: i neo-pentecostali di Rinnovamento dello Spirito e i Neo-Catecumenali. Sul piano parlamentare si muovono Cl e l’Opus Dei. Alle associazioni tradizionali, conoscendone il pluralismo interno di fatto, i vertici ecclesiastici chiedono solo il pubblico allineamento nelle grandi occasioni. Dal Family Day al referendum sulla procreazione artificiale, al contrasto delle sentenze della magistratura favorevoli a Beppino Englaro. Ai deputati cattolici, infine, la dottrina Ratzinger impone ubbidienza nella legislazione sui valori «non negoziabili». Su questa base la gerarchia ecclesiastica si presenta sulla scena come portavoce (presunto) della cattolicità e preme incessantemente sul fragile sistema politico, approfittando del fatto che nel centrodestra l’area liberal-socialista si è completamente allineata alle posizioni della Chiesa e che nel centrosinistra i teodem si ergono insistentemente come unica «voce cattolica». Con una carta in più: la Chiesa interviene a tutto campo, ma se si levano voci di critica, allora rea- La nuova strategia è sorta negli anni Novanta con Ruini gisce con vittimismo aggressivo lamentando il tentativo di imbavagliarla. Eppure da anni nei sondaggi la grande maggioranza della popolazione ribadisce che la Chiesa non deve interferire nella legislazione. Nell’ultima indagine Swg dell’estate scorsa, l’ottantadue per cento. Per questo al referendum del 2005 la presidenza della Cei, incerta sulla consistenza dei fedeli a proprio favore, giocò la carta dell’astensione. Teorema dimostrato dall’audience televisiva la notte della Repubblica Nazionale DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31 I DATI associazioni & movimenti 86,4% SCIENZA E VITA OPUS DEI gli italiani che si professano cattolici Nata dal comitato promotore della legge 40 del 2005 sulla fecondazione assistita, si batte contro eutanasia e ricerca sugli embrioni Fondata da Josemaría Escrivá de Balaguer nel 1928 è una prelatura personale della Chiesa, conta novantamila membri ufficiali nel mondo 36,8% CENTRI AIUTO ALLA VITA COMUNIONE E LIBERAZIONE Sono più di trecento i Cav attivi sul territorio nazionale, hanno come principale obiettivo la prevenzione dell’aborto terapeutico Movimento ecclesiale fondato da Luigi Giussani radicato tra i giovani Ogni anno organizza il Meeting di Rimini quanti dicono di andare a messa la domenica 88,2% i favorevoli all’educazione cattolica per i figli 24,6% ritiene importanti le indicazioni della Chiesa 55% MOVIMENTO PER LA VITA MOVIMENTO DEI FOCOLARI Fondato nel 1975, ha 500 sedi. Nel 1981 promosse il referendum per abrogare la legge sull’aborto Fondato da Chiara Lubich nel 1943 è rivolto per lo più a laici che scelgono di consacrarsi. Due milioni i focolarini nel mondo FORUM DELLE FAMIGLIE NEOCATECUMENALI Nasce nel 1992 Nel 2007 ha promosso il Family Day contro il disegno di legge sulle coppie di fatto Diecimila le comunità in Italia. Lo statuto del movimento, prima guardato con sospetto, è del 2008 i cattolici per cui il divorzio è accettabile PAPA BOYS 23,4 % Nati nel 2000 con la Giornata mondiale della gioventù a Roma i cattolici che tollerano moralmente l’aborto morte di Eluana. Se otto milioni guardano il Grande Fratelloe solo quattro milioni Porta a Porta (mostrandosi nelle mail spaccati sul sì o sul no alla decisione di Englaro), cos’è più conveniente se non arruolare alla propria strategia gli otto milioni che non vogliono porsi problemi? Perché la comunità dei credenti è estremamente variegata. Sotto la cappa della linea ufficiale si possono incontrare suore che sbuffano perché «Santa Madre Chiesa non si sta un po’ zitta», responsabili diocesani che esprimono «fatica per le posizioni attuali» e persino cardinali che confessano: «Non parlo, perché sarei eretico». La maggioranza dei fedeli non ha nascosto in queste settimane di stare dalla parte di Eluana. Lo dicevano anche tanti pellegrini la domenica in piazza San Pietro. E dopo la sua morte (sondaggio di Nando Pagnoncelli) il settantaquattro per cento sostiene ancora che sul testamento biologico debba decidere il soggetto o, in caso di coma, la sua famiglia. Riassume Angelo Bertani, direttore dell’agenzia Adistae già direttore di Segno (Azione cattolica) e caporedattore di Avvenire: «In Italia assistiamo all’incontro di due debolezze. La Chiesa ha bisogno di mezzi esterni… dello Stato… delle leggi, perché non possiede il linguaggio per convincere. E la politica di centrodestra, incapace di unire il Paese, cerca una legittimazione morale e un mantello sacrale». RINNOVAMENTO NELLO SPIRITO È il movimento carismatico il cui statuto è stato approvato nel 1995 Numeri e dati sono tratti dall’inchiesta Demos-Eurisko per Repubblica; dall’Annuarium Statisticum Ecclesiae; dall’Usmi, da Eurisko e da clerus.org. Nelle foto, la proclamazione di papa Benedetto XVI Il vuoto dei partiti riempito dalla dottrina ILVO DIAMANTI Q ualcuno si sorprende dell’influenza della Chiesa nel dibattito pubblico in Italia. Dell’attenzione riservata, negli ambienti politici, alle sue posizioni su questioni sociali e morali. Nonostante il sensibile declino della pratica religiosa e delle adesioni all’associazionismo confessionale. I cattolici praticanti sono, infatti, meno del trenta per cento, concentrati nelle periferie e molto ridotti nei centri (urbani). Le iscrizioni alle associazioni cattoliche più importanti sono diminuite ormai da molti anni. Inoltre, dal punto di vista elettorale, è finita l’epoca dell’unità politica dei cattolici. Insieme alla Dc e alla fine del comunismo. Alle elezioni politiche del 2008 il voto dei cattolici praticanti si è distribuito in modo proporzionale fra i partiti più importanti. Come mostrano i dati di un’indagine (LaPolis-Università di Urbino) condotta nelle settimane successive al voto su un campione nazionale di oltre 3300 casi. Il trenta per cento di chi frequenta assiduamente la messa domenicale ha, infatti, votato per il Pd; il quarantuno per cento Pdl. Rispettivamente, tre punti percentuali in meno e in più rispetto al risultato ottenuto fra gli elettori nel complesso. Il che significa, calcolato in termini di voti validi, l’uno per cento. L’Udc — l’ultimo partito a esibire l’identità cattolica come bandiera — ha intercettato il dieci per cento degli elettori cattolici (praticanti). Sul totale dei voti validi: meno del quattro per cento. Peraltro, larga parte dei cattolici praticanti e (a maggior ragione) non praticanti, pensa che la Chiesa si debba esprimere sui più importanti aspetti dell’etica personale e pubblica. Anche se alla fine si affida alla propria coscienza. E ritiene che i parlamentari debbano fare lo stesso. Da ciò i dubbi, le perplessità circa l’influenza della Chiesa sulla politica italiana. In particolare, sulle scelte dei partiti, non solo di centrodestra, anche di centrosinistra, come si è potuto verificare nella recente vicenda di Eluana. E come avverrà in occasione del ddl sul testamento biologico. Tuttavia, l’influenza della Chiesa sulla società e sulla politica italiane non è misurabile in termini di “controllo elettorale”. Né attraverso la quota dei “cattolici praticanti”. D’altra parte, quasi nove italiani su dieci si dicono cattolici. Gran parte di essi intende questa professione di fede come l’adesione a una comunità e a un sistema di valori. Una sorta di “religione pagana”, aggiungono alcuni. Ma si tratta comunque di un sentimento di appartenenza, che conta in una società afflitta da un profondo deficit di identità. Tanto che quasi otto su dieci tra i non praticanti considera importante dare ai figli un’educazione cattolica (Demos-Eurisko, febbraio 2007). Non va trascurato che una larghissima maggioranza delle famiglie destina l’otto per mille del proprio reddito alla Chiesa cattolica e accetta che i figli a scuola frequentino l’ora di religione. Peraltro, circa il sessanta per cento degli italiani dice di provare fiducia nella Chiesa, e una quota di poco superiore nelle parrocchie. Il che richiama un’altra importante ragione dell’influenza della Chiesa. Il suo radicamento nella società e sul territorio. Attraverso la sua struttura, la sua offerta di servizi, la sua rete associativa, il volontariato. Che operano in molti e diversi campi. Dall’educazione al tempo libero, fino all’accoglienza agli immigrati e all’assistenza caritativa ai più poveri. Senza dimenticare i media cattolici. Dai giornali — locali e nazionali — alle emittenti radiofoniche (che hanno una copertura ampia e capillare) alle antenne satellitari. Alla comunicazione via internet. Naturalmente la Chiesa esprime anche valori e “contenuti”. Da qualche tempo, aggredisce le questioni critiche dell’etica pubblica e privata in modo aperto e diretto. Offre risposte magari discutibili e discusse, non importa. Contestate da sinistra, sui temi della bioetica. Ma anche da destra, sui temi della pace e dell’immigrazione. Tuttavia, esprime “certezze”. E ciò rassicura il suo popolo, anche il più tiepido e indifferente. Che ha bisogno di riferimenti e valori. Anche se, poi, ciascuno agisce secondo coscienza. Cioè: fa a modo suo. Occorre aggiungere, infine, che il cardinal Ruini, per oltre quindici anni presidente della Cei, ha accentrato la guida — e il controllo — della gerarchia su questo mondo largo e complesso, che oggi si mobilita, come un movimento o un gruppo di pressione, attraverso campagne tematiche. A cui i partiti italiani, poveri di idee e lontani dalla società, spesso si adeguano. Magari senza troppa convinzione. Fra molte polemiche. Ma, al tempo stesso, senza troppa discussione. Repubblica Nazionale 32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009 Cento anni fa il Manifesto del Futurismo glorificava “il disprezzo della donna” Eppure, come ora documenta un libro di Giancarlo Carpi, molto della pittura, scultura, danza, letteratura, cinema di quel movimento d’avanguardia fu dovuto alla creatività femminile Le donne e l’aerorivoluzione DARIA GALATERIA «G lorificare», intima il Manifesto del Futurismo del 1909, «il disprezzo della donna». «Noi disprezziamo la donna», ribadiva nel 1910 Marinetti, «concepita come ninnolo tragico». A scherno, Arturo Martini aveva intitolato Méprisez la femme una sua litografia, nel 1912. A Torino, nel 1909, Poupés électriques — bambole elettriche — col titolo italiano La donna è mobile metteva in scena fantocci elettromeccanici sostitutivi della donna. Na- VELLUTO NERO Dall’alto: Alzira Braga, Ora di velluto nero, tavola parolibera. Collezione privata, Milano, foto di Luca Carrà Benedetta Cappa Marinetti, Viaggio di Gararà. Romanzo cosmico per teatro, 1931, illustrazione di Bruno Munari Proprietà della Biblioteca Universitaria Alessandrina Roma Maria Ginanni, Montagne trasparenti, 1917, illustrazione di Arnaldo Ginna. Courtesy Archivio Scudiero Benedetta Cappa Marinetti, Le forze umane. Romanzo astratto con sintesi grafiche, 1924, illustrazione dell’autrice. Proprietà della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma La marcia beffarda con le suffragette per le vie di Londra dei giovani Boccioni e Marinetti turalmente, si rifiutava la femme fatale del decadentismo, il «guinzaglio immenso» dell’Amore, la famiglia, «soffocatoio delle energie vitali», il debilitante sentimentalismo femminile («La donna che avevo io, pretendeva di monopolizzare il mio sesso, il quale è collezionista», si protesta con enfasi, sempre nel 1910, nella tragedia satirica Le Roi Bombance, il Re Baldoria). Noi vogliamo combattere contro il femminismo, proclamava pure quel primo Manifesto; però nel 1910 si valutavano le ricadute positive del movimento: «Se l’entrata aggressiva delle donne nei parlamenti… finirà per distruggere il principio della famiglia, cercheremo di farne a meno». E del resto, in una spedizione a Londra nel marzo 1912 Marinetti e Boccioni si ritroveranno a sfilare «sottobraccio alle pochissime suffragette carine» — un corteo era passato sotto l’Hotel Savoy e i due futuristi erano scesi a unirsi alle donne in marcia — ma si erano infrante alcune vetrine, e la polizia a cavallo era intervenuta verso Trafalgar Square; tra cariche e manganellate, aveva anche sparato in aria; i due italiani erano fuggiti infilando un portone, ma le suffragette avevano poi applaudito le conferenze in francese di Marinetti — evidentemente, senza capirne una parola. L’«inferiorità assoluta della donna» (manifesto Contro l’amore e il parlamentarismo) è radicata nell’educazio- ne; «se la donna sogna oggidì di conquistare i diritti politici, è perché, senza saperlo, essa è intimamente convinta di essere, come madre, come sposa e come amante, un cerchio ristretto, puramente animale» (la donna è naturale, dunque abominevole, aveva già scritto, per dandysmo, il poeta Charles Baudelaire, mezzo secolo prima). A Marinetti rispose nel 1912, con il Manifesto della donna futurista, una parigina di Lione, Valentine de SaintPoint. Bella e inquieta, Anne Valentine Desglans de Cessiat Vercell era pronipote di Lamartine, e aveva preso come pseudonimo il paesino della Loira dove riposava il prozio poeta; Marinetti ave- va ospitato i suoi versi già nel 1906 nella rivista Poesia. Intanto Valentine aveva tentato il romanzo (L’incesto) e la pittura, posando nuda per i suoi maestri Alphonse Mucha e Auguste Rodin. Nel 1912 aveva trentasette anni; a Parigi, sempre insieme a Ricciotto Canudo, l’intellettuale detto “le barisien” perché pugliese, era nota per i suoi immensi cappelli. Con Marinetti, furono tre anni di amore «infuocato e intervallato» (diceva il pittore Severini: «Marinetti è capace anche d’innamorarsi, se si tratta di aprire la strada al futurismo»). Ciò che manca di più alle donne come agli uomini è la virilità, argomentò dunque Valentine nel Manifesto della donna futurista. I modelli sono le Erinni, le Amazzoni, Giovanna d’Arco, Charlotte Corday, Cleopatra e Messalina; e Caterina Sforza che, dai merli del castello sotto assedio, al nemico che minacciava di ucciderle il figlio, aveva mostrato, sollevando le vesti, le intimità: «Ammazzatelo pure! Mi rimane lo stampo per farne altri». Riacquisti dunque la donna la sua crudeltà e la violenza: perché — fatto salvo il femminismo, portatore d’ordine, dunque antifuturista — «nessuna rivoluzione deve rimanerle estranea». Si volantinò, a Parigi e a Milano, anche il successivo Manifesto della lussuria: «La Lussuria è una forza», è ricerca carnale dell’ignoto: bisogna farne un’opera d’arte. «Cessiamo di schernire il Desiderio, questa attrazione di due carni, qualunque sia il loro sesso». Marinetti, «politimbrico», declamò il testo nella sala Gaveau di Parigi mentre Valentine, sotto l’ombrello di una scintillante costruzione di aigrettes, e un anello che «invetrinava il più bel piede del mondo», mimava una danza «ideista». Ci fu una scazzottatura, a causa «di alcuni imbecilli che insieme ai futuristi prendevano sul serio tutto ciò senza però esser d’accordo, disgraziati»; il pittore Severini era pronto a buttarsi dal palco in sala per dare man forte, ma Repubblica Nazionale DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33 IL LIBRO Futuriste. Letteratura Arte Vita, di Giancarlo Carpi, pubblicato dalla Casa Editrice Castelvecchi (686 pagine con ampio apparato iconografico, 35 euro, in libreria dal 18 febbraio) è un volume antologico sulle artiste futuriste: intellettuali e scrittrici, ma anche pittrici, fotografe, cineaste, danzatrici, artiste dalla vita anticonvenzionale. A cento anni esatti dalla pubblicazione su Le Figaro (20 febbraio 1909) del Manifesto Futurista di Filippo Tommaso Marinetti, ecco uno spaccato di vita di donne che in quel movimento d’avanguardia videro la possibilità di sovvertire gli stereotipi femminili del tempo era stato trattenuto dal colosso Cravan, boxeur pre-surrealista, nipote, si diceva, di Oscar Wilde. Severini poteva pure pensare che fosse una réclame furibonda per della paccottiglia rancida, ma insomma il Futurismo era movimento. E la danza della Saint-Point, in particolare la performance Metachorie (oltre la danza), antipsicologica, perché il volto era coperto da un velo neutro, con le sue singolari disposizioni a stella — il corpo steso come una ranocchia, le braccia a squadro a toccare le dita del piede — stravolse il balletto classico, e finì, nel 1917, al Metropolitan di New York. Misoginia a parte, la danza della Si rifiutavano la femme fatale del decadentismo, l’amore-guinzaglio e la famiglia Saint-Point, la pittura polimaterica e la scultura cinetica di Ru ena Zátková, il ruolo di Benedetta Marinetti nell’invenzione del Tattilismo fanno del Futurismo uno dei movimenti d’avanguardia con la maggiore partecipazione femminile, afferma oggi Giancarlo Carpi in Futuriste. Letteratura Arte Vita, quasi settecento pagine di saggio e antologia del futurismo al femminile (Castelvecchi). Oltre le specifiche ricognizioni, negli anni Ottanta, di Claudia Salaris e Lea Vergine, e più recentemente di Cecilia Bello Minciacchi, e poi di Mirella Bentivoglio e Franca Zoccoli — il bel saggio delle due studiose, Le futuriste italiane nelle arti visive, approda, ampliato, da New York alla De Luca editori d’arte —, Carpi nel vastissimo (e divertente) panorama di testi, e grazie a un ampio corredo iconografico, testimonia di questa importante presenza femminile, dalle prime tavole parolibere di Maria Angelini, la cameriera di Marinetti, attraverso le grandi poetesse e aeropittrici, fino ai coloratissimi arredi apprestati dalle figlie-vestali di Balla. Agiografico il ritratto di Marinetti stilato nel 1916 dalla fantesca Marietta Angelini, che aureolava di parole in libertà l’asta gigante di un “1”. Ironica invece la tavola parolibera del 1919 di Benedetta Marinetti, dal titolo irriverente Benedetta fra le donne, e la dicitura «Spicologia di 1 uomo» — non psicologia, ma «spico», spillo: i fili tesi tra gli spilli, come in un manufatto femminile, circondano un cerchio con la scritta: «vuoto». Marinetti nel ‘19 ha più di quarant’anni; nello studio di Balla (si entrava perlopiù dal balcone, saltando la ringhiera) ha visto per la prima volta l’angelica e flessuosa Benedetta Cappa: lunghe trecce scure, padre ufficiale piemontese, madre valdese; però, a diciannove anni e quattro mesi, è già futurista. Parlano di Bergson, e i primi amori pestano, in un campo oltre Sant’Agnese extra-moenia, otto metri quadrati di erba: «Non avremo mai un letto così grande», sospira Benedetta; si sposeranno qualche anno dopo. Velocità di un motoscafo, già dal 1919, traduce una scia in mare in una vibrante esplosione astratta di linee e triangoli blu e oro. Si orienterà poi su toni pastello — e intimi, nella narrativa: L’ultimo sogno di Astra, in Astra e il sottomarino (1935), evoca «una casa bianca. Astra espresse da sé quattro figlie e successivamente aperse un vano tondo senza imposte nella facciata… Metodicamente il padre murò il tondo occhio». Il «romanzo chirurgico» Un ventre di donna (1919) racconta una laparotomia in «non diluiti», dinamici termini futuristi («CORAGGIO + VERITÀ”). È inserita una lettera di Marinetti, che suggerisce una cura futurista: «Perfezionare il desiderio di un oggetto». È Enif Robert, che con Rosa Rosà e Fanny Dini collabora alla nuova rivista Italia futurista, animata da Maria Ginanni. Enrica Piubellini firma tavole parolibere ispirate alla guerra, mentre si prepara la pattuglia di aeropoetesse e aeropittrici (Zátková, Barbara, Marisa Mori). Ma è l’aerodanza di Giannina Censi — in costume di lieve alluminio disegnato da Prampolini, nelle splendide foto rivelate dalla studiosa di danza moderna Leonetta Bentivoglio — uno dei capolavori del futurismo. Scoperta nel 1930 da Escodamé — pseudonimo di un “buttafuori” futurista — Giannina Censi, che ha studiato a Pari- “Disarmonica, sgarbata, sintetica, antigraziosa”. Così fu definita la danza di Giannina Censi ELICHE IN FESTA Qui sopra: Ruzena Zátková, Autoritratto, 1901. Collezione privata, Milano, foto di Luca Carrà In alto nell’immagine grande: Leandra Angelucci Cominazzini, Eliche in festa, 1935 Collezione privata gi con la russa Ljubov Egorova (la grande maestra su cui stava cristallizzando la sua follia Zelda Fitzgerald) si prepara ora con arditi voli aerei e realizza, superando «le passatiste ondulazioni di cosce montmartroises per forestieri», la danza «disarmonica, sgarbata, antigraziosa, asimmetrica, sintetica» preconizzata dal manifesto marinettiano nel 1917. Tra le fotografe, Wanda Wulz, con Io+gatto, impressiona Marinetti, e passa alla storia. Nel 1930, Tina Cordero firma, con Guido Martina e Pippo Oriani, Velocità, il capolavoro del cinema futurista. Pulsazioni e battiti di luce animano nel finale la scomposizione di un manichino metallico: «L’uomo d’acciaio resta con la sua ombra, l’unica cosa che ci appartiene». Repubblica Nazionale 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009 Siamo arrivati all’annuale appuntamento con il Festival Alla vigilia della prima serata al Teatro Ariston, l’editore Panini pubblica un libro che raccoglie la storia di tutte le edizioni: classifiche, interpreti, autori dal 1951 ad oggi. Da “Abate Renato” a “Zurawski”, una galleria straordinaria nella quale, accanto a nomi celebri, sono allineati centinaia di artisti applauditi una sola volta e poi dimenticati... SPETTACOLI 1951 1955 1959 La prima edizione, parte in sordina. Tre interpreti cantano le venti canzoni in gara, tra spettatori distratti che consumano la cena. Nilla Pizzi vince con Grazie dei fiori Arriva la tv e il prezzo del biglietto aumenta del quaranta per cento Nunzio Filogamo viene escluso perché non telegenico. Claudio Villa si impone con Buongiorno tristezza «Tua, fra le braccia tue», intona Jula De Palma: è il primo scandalo sexy Domenico Modugno, che qualcuno dice abbia perso 200mila lire al casinò, sale sul podio cantando Piove 1964 1966 1968 La sedicenne Gigliola Cinquetti vince con Non ho l’età. Bobby Solo, diciannove anni, canta in playback causa laringite. Per la stampa, Modugno e Paul Anka evitano di parlarsi I capelloni arrivano anche a Sanremo. Mike Bongiorno definisce “capelluti” e “gallinacci” gli Yardbirds. Peppino Gagliardi sviene Vince la coppia Cinquetti/Modugno Pippo Baudo manda via dal palco Louis Armstrong, colpevole di tirarla troppo per le lunghe con la sua esibizione I Giganti indossano tutine all’ultimo grido Sergio Endrigo è primo 1978 1987 1992 L’esordiente Anna Oxa si esibisce vestita da uomo, volgendo le spalle alla platea Rino Gaetano con Gianna è il primo a citare la parola “sesso” in un testo sanremese Vincono i Matia Bazar Romina Power è criticata perché troppo incinta per cantare Fa scandalo l’inglese Patsy Kensit: le cade la spallina durante l’esibizione. Vince il trio Morandi-Ruggeri-Tozzi Mario Appignani, detto “Cavallo Pazzo”, irrompe sul palco dicendo: «Il Festival è truccato, vince Fausto Leali» Baudo lo blocca A classificarsi primo è Luca Barbarossa ul Festival di Sanremo esiste una ormai sterminata produzione critico-saggistica. Specie nella forma del commento giornalistico, che nei decenni ha impegnato intellettuali, scrittori, polemisti e coloristi senza eccezione alcuna, o quasi. Questo accanimento critico si è ingigantito mano a mano che il Festival, nato nel 1951 come intrattenimento per il dopocena dei clienti milanesi e torinesi del Casinò di Sanremo, andava mutandosi in evento mediatico dell’anno, infine in Stati Generali della televisione con tutti gli annessi e connessi, la spropositata invadenza, la pomposa vaghezza di un medium che in sé è il nulla, e per vivere non può che fagocitare gli altri linguaggi. Fumosa materia (ben più fumosa dell’onesto giornalismo musicale), il dibattito sulla televisione e sul suo presunto “specifico” ha finito per ingoiare tutta intera la lunga storia della gara canora, ovvero delle canzoni e dei cantanti, non altro. Molti ricordano chi ha condotto la scorsa edizione di Sanremo, pochissimi il cantante e la canzone vincitori. Un po’ come se il giro d’Italia, o il campionato di calcio, diventassero il trascurabile supporto di una trasformazione mediatica infinitamente più rilevante di loro, e nessuno ricordasse la squadra che ha vinto lo scudetto dello scorso anno, o il ciclista arrivato per primo sullo Stelvio. A parziale risarcimento di questa immemore indigestione della balena televisiva, che ha metabolizzato la miriade di cantanti, autori, musicisti, produttori artistici, discografici che per quasi sessant’anni l’hanno nutrita, esce, per merito della premiata ditta Panini e del generoso curatore Eddy Anselmi, un Almanacco del Festival che nella sua esemplare enciclopedizzazione di Sanremo consente di fissare tutti i punti e i puntini che la spietata asfaltatura televisiva ha inglobato e cancellato. Non solo e non tanto le star, già messe al riparo dalla statura di eroi popolari e dunque sopravviventi di luce propria, quanto l’esercito formidabile dei comprimari, delle mezze tacche, delle meteore, degli oscuri e degli oscurissimi, che l’ordine alfabetico e la diligente confezione dell’opera consegnano finalmente alla memoria dei posteri con pari dignità. L’uguaglianza grafica connaturata all’Almanacco è l’esatto contrario della discriminazione critica. Persone e canzoni scorrono tutte insieme con ammirevole pedanteria archivistica, come una folla sgomitante e in fin dei conti commovente. Una miserabile partecipazione nella più decaduta delle edizioni (anni Settanta, quando l’Italia volse le spalle a Sanremo perché aveva altro da fare) consente di avere il nome in ditta tanto quanto le più notevoli sequele di vittorie, alla Modugno, alla Villa. Esattamente come negli albi Panini dei calciatori, il terzino di riserva di una squadra perdente gode della stesso spazio segnaletico che spetta ai fuoriclasse. Ne sortisce, specie per i lettori più tenaci — non necessariamente i maniaci: basta la curiosità umana in senso lato — una straordinaria cavalcata nella memoria di tre generazioni almeno. Magari per scoprire che il primo, costumato successo della Pizzi, nell’Italia bacchettona del 1951, tanto costumato non era, visto che Grazie dei fiori alludeva a un amore incompiuto per probabile illegittimità dello stesso, e portava le atmosfere quasi licenziose del tabarin in mezzo ai cumenda e alle matrone im- S perlate seduti ai tavolini del Casinò. Ma soprattutto, nella secca brevità di ciascuna voce, si indovinano le biografie di centinaia di italiani che ci hanno provato e non ce l’hanno fatta, e sono stati travolti dall’imponderabile quando già erano alle porte del successo, o si sono barcamenati per anni nel limbo di una fama minima e spesso regionale, o hanno ritentato dopo la caduta ricadendo ancora. Un lungo elenco di artisti non-protagonisti, di italiani e italiane di provincia e di paese che sognano di fare il cantante e addirittura, a centinaia, lo fanno. Così fitto, così intenso, da farci capire come e quanto la “tentazione artistica”, in questo paese, sia un sogno, una scorciatoia e anche una dannazione da ben prima che la televisione, con i suoi reality, offrisse a tutti l’occasione o l’illusione di esibirsi in pubblico. Dalla lettura (entusiasmante: e lo dico senza sarcasmo) di questa lunghissima processione di aspiranti star, di miracolati o mezzo-miracolati, molti dei quali si sono certamente rifatti una vita operosa e dignitosa non appena espulsi dal palcoscenico, emerge un’Italia che nell’arte di campare include anche la speranza di campare con l’arte. Si indovinano gli Apicella di allora, ancora non gratificati dalla benevolenza del Padrone, i rocker e i punk fatti in tinello con la madre che cuce le borchie, le fatalone non abbastanza belle, gli imitatori e le imitatrici di modelli ahimè già tramontati non appena li si è faticosamente colti. il libro di ARIEL www.librimondadori.it MICHELE SERRA UNA SETTIMANA DA SIGNÒ Basta sfogliare il librone, specie il poderoso Dizionario degli Interpreti e degli Autori che occupa la seconda metà dell’opera, e non ci si stacca più. Sentite, per esempio, quali epopee artistiche o sub-artistiche, certamente umane, sottendono queste voci, scelte quasi a caso tra le tante, che riporto qui sotto nella loro quasi integrità. Non per dileggio, sia ben chiaro, ma per partecipe considerazione delle fatiche, delle speranze, delle frustrazioni e dei brevi momenti di gloria. «Miko, alias don Miko, all’anagrafe Pier Michele Bozzetti, si presenta una prima volta a Sanremo nel ‘65 come don Miko, poi nel ‘76 come Miko, nell’87 come Pier Bozzetti (nell’occasione dichiara sei anni di meno, come i calciatori sudamericani in cerca di ingaggio, ndr), infine conclude la carriera come Miko Mission». «Padre Alfonso Maria Parente, frate cappuccino di Casalnuovo Monterotaro (Foggia), partecipa all’edizione del 2000 con la canzone Che giorno sarà, nella categoria Giovani. Criticato dai superiori, al suo ritorno abbandona il convento e si rifugia in famiglia, turbato da una crisi di vocazione ma soprattutto da problemi legali: per essere ammesso tra i Giovani aveva dichiarato di avere trentadue anni mentre ne ha già trentotto» (si veda come la categoria dei «bamboccioni» abbia preceduto di parecchi anni la sua tardiva definizione a opera del ministro Padoa Schioppa). «Stefano Remigi, figlio di Memo Remigi, presente a Sanremo ‘96 con Non scherzare dai. Tenta di seguire le orme del padre che fin da bambino lo coinvolge nell’interpretazione in duetto di canzoni struggenti come Torna a casa mamma e Dove sei cagnolino». «Mimmo Politanò, cantante autore e conduttore radiofonico e televisivo, partecipa nell’89 alla preselezione pomeridiana della sezione Emergenti senza venire ammesso al festival vero e proprio, ed è presente nel ‘90 con Una storia da raccontare. Nel 1998 mette in musica le poesie del pontefice Karol Wojtyla affidandone l’interpretazione ai Cugini di Campagna». Infine, impareggiabile nella sua brevità: «Sergio Denegale partecipa al festival del ‘70 suscitando qualche curiosità a causa del suo impiego come portalettere». (Miglior fortuna ebbe il sardo Vittorio Inzaina, detto «il muratorino» a causa del mestiere di provenienza. La poetica dell’impiegato di Stato non è mai stata accattivante come quella del lavoratore manuale, specie se proveniente da regioni a forte emigrazione). L’elenco comincia con Mario Abbate, ex interprete di sceneggiate napoletane e presente al Festival nel ‘62 e nel ‘63, seguito da Massimo Abbate, settimo figlio del precedente, passato a Sanremo nel ‘79 con Napule Cagnarràma senza l’onore di una sola inquadratura televisiva. «Negli anni Ottanta abbandona l’attività musicale», recita la sua breve voce nell’Almanacco, e in quella frase secca c’è la minuscola Waterloo della speranza che coinvolge altre centinaia di militi ignoti o seminoti. L’ultimo in elenco non è Zucchero, come il vostro disinformato cronista avrebbe supposto. Dopo di lui ci sono ben cinque voci, uno Zucchetti arrangiatore, uno Zulian autore di canzoni religiose e vincitore di uno Zecchino d’oro, uno Zullo dei Trilli (Trilli è il duo del quale fa parte), uno Zuppino autore e il gruppo «di rock leggero italo-brasiliano» Zurawski. Deliziose finestrelle soddisfano le curiosità statistiche più LA COPERTINA Sopra, il particolare della copertina di un opuscolo con i testi delle canzoni della terza edizione del Festival di Sanremo, quella del 1953 Repubblica Nazionale DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 1960 La stampa paragona i “rivali” Renato Rascel e Modugno a Krusciov e Eisenhower; la spunta il primo, con Romantica Si fa notare una giovane di Cremona: Mina 1971 Antoine prova a portare sul palco il suo cane Lucio Dalla, terzo con 4/3/1943, riceve un telegramma da una ragazza madre. Primi Nada e Nicola Di Bari (Il cuore è uno zingaro) 2001 Ospiti stranieri molesti per la conduttrice Raffaella Carrà. Sotto accusa il rapper Eminem per i suoi testi Il leader dei Placebo sfascia una chitarra Vince Elisa con Luce IL LIBRO L’editore Panini manda nelle librerie questo martedì 17 febbraio il libro di Eddy Anselmi Festival di Sanremo. Almanacco illustrato della canzone italiana (960 pagine, 19,90 euro). Nella seconda parte il volume contiene un dettagliatissimo Dizionario degli Interpreti e degli Autori La storia infinita dell’Italia che canta guccini francesco Colto, ironico, geniale, graffiante uno dei simboli della canzone italiana d’autore PRIMA USCITA 16 FEBBRAIO i SorrisD C + 1° solo 9 €4,9 * Folk Beat n.1 L’album di debutto del giovane Guccini che lo ha imposto all’attenzione di pubblico e critica. In esclusiva con Per la prima volta in edicola la collezione completa O IN REGALO + COFANETT GALO STI IN REGALO + 2° LIBRO TESTI IN RE + 1° LIBRO TE Repubblica Nazionale *Prezzo uscite successive € 9,90 (Rivista esclusa). Eventuale ristampa del CD 1 € 4,90 (Rivista esclusa). Opera composta da 17 uscite. perverse (ben tre canzoni sanremesi, per esempio, si sono intitolate, e volendo si intitolano ancora, Serenata: interpreti Villa, Cutugno e Marco Carena). E nel riquadro «Canzoni con titoli privi di senso compiuto» compaiono Ci-ciu-ò, Anika Na-o, Sambariò, Tulilemble, Turu turu, Para para Ra rara e la immortale Sugli sugli bane bane. L’esotismo sanremese, branca a parte che ha visto sul palcoscenico dell’Ariston cantanti stranieri scritturati per l’alto lignaggio (vedi Armstrong e Shirley Bassey) ma più spesso perché incarnavano meravigliosamente il topos folcloristico del paese di provenienza, toccò forse il suo apice nel ‘66 quando parteciparono, con il brano Quando vado sulla riva, Los Paraguayos, che la fotina di complemento ci mostra come un gruppo di mariachi colti da spaesamento (noi e loro) perché attivi a latitudini molto più meridionali del previsto. Infine, e senza volere uscire da un dedalo nel quale vi suggerisco di sprofondare, riflettete meglio sulla voce, già riportata più sopra, «Mimmo Politanò». Ha tradotto le poesie di papa Wojtyla per farle cantare ai Cugini di Campagna. È una folgorante sintesi dello spirito di Sanremo e forse dello spirito popolare italiano, capace di scavalcare gli impicci del merito, e le gerarchie della logica, con una disinvoltura così straordinaria che ancora non capiamo, sessant’anni dopo Nilla Pizzi, quanto ci sia di rovinosa impudenza, e quanto di invincibile vitalità. 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la memoria Uomini e leggende DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009 Cento anni fa, il 17 febbraio 1909, moriva l’ultimo capo apache. Per decenni aveva sfidato l’esercito statunitense, divenendo protagonista dell’estremo capitolo dell’epopea western. Oggi, il suo nome - per un paradosso della storia è cucito sulla giubba di un reggimento di parà americani Un mito chiamato Geronimo VITTORIO ZUCCONI S WASHINGTON e “Colui che Sbadiglia” potesse vedere il proprio nome cucito oggi, cento anni dopo la sua morte, sulla manica di un reggimento di parà americani, il 501esimo, potrebbe sorridere, forse di amarezza e forse di orgoglio. Proprio lui, “Colui che Sbadiglia” soprannominato Geronimo, l’ultimo dei guerrieri Apache, il più indomito capo delle bande degli indiani del Sud Ovest che cinquemila giubbe blu a cavallo e cinquecento mercenari con artiglieria dovettero inseguire per cinque mesi e per tremila chilometri tra i canyon dell’Arizona e del Messico prima di catturarlo con appena trentacinque guerrieri superstiti, è divenuto il grido di battaglia dell’esercito che lo annientò. “Geronimo”, era l’urlo lanciato dai parà per darsi coraggio quando si lanciavano sulla Normandia, non potendo gridare, o pronunciare, il suo vero nome, “Goyathlay”, colui che sbadiglia, scelto dalla madre quando lo mise al mondo nel canyon di No-dohyon, alle foci del fiume Gila, e notò quanto quel neonato sbadigliasse. Neppure la mamma, pur donna di una nazione di guerrieri come erano i suoi Bedohonke, una tribù della nazione Apache, che cullava e avvolgeva nelle pelli di lupo quell’infante sonnacchioso, avrebbe potuto immaginare che lui sarebbe divenuto appena sedici anni più tardi, quando fu ammesso nel circolo dei guerrieri, uno di quegli “spartani” del West, di quegli eroi irriducibili e votati al massacro il cui nome avrebbe risuonato per sempre nell’ammirazione e nel terrore dell’invasore europeo. Soltanto pochissimi uomini lontani, sparpagliati nell’immensità del continente che i soldati blu implacabilmente conquistavano, dal Nord delle Praterie alle paludi della Florida, dai canyon assetati dell’Arizona alle foreste impenetrabili dei Mohicans, avrebbero raggiunto la statura superstiziosa e storica di Geronimo: Toro Seduto e Cavallo Pazzo dei Lakota Sioux, Osceola dei Seminole della Florida, l’unica nazione indiana a non essersi mai arresa, Tecumseh degli Shawnee, uno dei primi martiri dell’invasione, caduto nelle prime “guerre indiane” del 1812, dopo che gli inglesi avevano già ucciso suo padre. Ma anche “Goyathlay” Geronimo, come tutti gli altri eroi della vana resistenza indiana, fu un eroe involontario, un guerriero qualsiasi, come tutti i maschi abili delle tribù diventavano a diciassette anni, convinto di dover dedicare la propria esistenza alla caccia, perché gli Apache, come i Sioux, gli Cheyenne, i Corvi, erano nomadi, dedicati alle reciproche, spesso simboliche schermaglie con le bande vicine, per rubarsi cavalli, per commerciare, per estendere il territorio di caccia, per semplice ambizione e voglia di farsi belli con le donne e gli anziani. Come tutti loro, anche “Colui che Sbadiglia” fu scosso brutalmente dal sogno della tradizione che durava da diecimila anni, da quando i primi di loro avevano raggiunto dall’Asia le terre che oggi sono al confine tra l’Arizona e il Messico, dall’incontro con la ferocia, la ingordigia e la doppiezza di uomini dalla pelle rosea e dagli occhi chiari che non aveva mai visto prima e non capiva che cosa volessero. La storia delle “guerre indiane”, la saga che anni dopo il cinema avrebbe raccontato per invertire la storia illustrando bande feroci di “pellerossa” accaniti contro inermi carovane circondate a Fort Apache e destinate allo scotennamento senza l’arrivo della cavalleria, è esattamente quello che accadde, ma al contrario. Mentre Cavallo Pazzo nel Grande Nord assisteva al massacro sistematico dei villaggi Lakota e Cheyenne, mentre Tecumseh vedeva il padre e la madre cacciati e abbattuti come selvaggina in quello che oggi è l’Ohio dai mercenari tedeschi di Lord Dunmore nel 1774, Geronimo si preparava all’evento che avrebbe cambiato la sua vita, negli anni attorno al 1850. Fu allora che rientrando al proprio villaggio dopo una giornata trascorsa lontano a contrattare commerci e accordi con un altro villaggio, Geronimo trovò la madre, la moglie, i tre figli piccoli massacrati. Erano state le truppe messicane, non i “soldati blu”, a compiere la strage, ma anche i federales messicani erano al servizio del colonialismo RITRATTI Geronimo nel 1886 subito dopo la resa e, a destra, in un dipinto del 1895 Quando nacque, nel 1829, la madre lo battezzò Goyathlay, che significa “colui che sbadiglia” Vecchio e inoffensivo, fu trascinato a Washington per sfilare all’insediamento di Theodore Roosevelt bianco. Da quel giorno di disperazione, colui che sbadiglia divenne colui che ruggisce. Si unì a una banda di Apache votati alla resistenza armata contro tutti gli estranei nelle proprie terre, i Chiricauas, e fu guerra senza quartiere, interrotta da trattati solenni che i bianchi ignoravano e tradivano prima che l’inchiostro si seccasse. Per più di trent’anni, giocando al gatto e al topo nel terreno selvaggio e duro dei canyon, dei deserti, della polvere, della sete, a cavallo tra i territori senza frontiera del Messico e degli Stati Uniti, inseguito ora dai federales messicani, ora dai dragoni della cavalleria Usa, Geronimo divenne, prima che un formidabile “bandido”, un implacabile “desesperado” (Jerome, poi divenuto Geronimo, era il nomignolo affibbiatogli dai messicani), un mito destinato a sopravvivere per secoli. Dopo la guerra civile del 1861, Washington gli mandò contro il meglio e il peggio del proprio arsenale, i generali reduci dal massacro dei Lakota Sioux nel Nord, quelli che avevano soppresso le grandi tribù dei cacciatori di bufali senza mai davvero sconfiggerle sul campo, ma soffocandone i territori vitali, pagando e facendo pagare prezzi terribili, al Little Big Horn, con la strage del settimo cavalleria guidato dall’incosciente Custer. Fu il generale Crook, che come colonnello aveva subito una sonora sconfitta da Cavallo Pazzo presso il fiume Rosebud anni prima, a condurre la spedizione punitiva finale. Inseguì Geronimo, ridotto a guidare una miserabile banda di trentacinque guerrieri macilenti accompagnati da centonove vecchi, donne, bambini, per quasi tremila miglia, con un’armata per i tempi imponente, cinquemila soldati regolari, centinaia di ausiliari indiani, pezzi di artiglieria e le prime mitragliatrici Gatling sperimentate vent’anni prima nella guerra civile. Geronimo fu circondato tra i Monti di Sonora, in Messico, e si arrese. Era il 1886. L’Italia era un regno unificato da venticinque anni, Roma la capitale da ormai sedici, mentre l’Ultimo Apache si arrendeva. Fu chiuso in un campo di concentramento per indiani riottosi. Ne fuggì. Fu di nuovo inseguito e catturato. Lo rinchiusero nel forte militare di Fort Sill, in Oklahoma, ancora oggi sede della scuola di artiglieria dell’esercito, costretto a fare il contadino, a coltivare un orto, sotto i fucili dei soldati. Addomesticato e vecchio, a settantasei anni, fu trascinato a Washington, nel 1905, per sfilare, come i sovrani barbari nei trionfi imperiali romani, nella parata inaugurale dietro a Theodore Roosevelt, tra gli uh, ah, oh del pubblico che finalmente vedeva, sdentato e inoffensivo, l’Apache del terrore, il “feroce” Geronimo. Tirò il suo ultimo sbadiglio nel 1909, soffocato dalla polmonite. Eppure, la sua storia non finì con la sepoltura nel cimitero di Fort Sill. Per un secolo, e ancora due anni or sono, qualcosa di lui è tornato ad agitare la memoria e la cattiva coscienza dei conquistatori bianchi. La sua tomba fu violata. Il suo teschio asportato da Samuel Prescott Bush, studente a Yale e tra i fondatori della società segreta “Teschio e Ossa” in quella università, e trafugato. Samuel Prescott Bush era il padre di George H Bush e il nonno di George W Bush, entrambi membri della società del teschio. Una leggenda, probabilmente, che di tanto in tanto riaffiora, ma che nessuno ha mai confermato o smentito in maniera convincente, perché i miti esisteranno per sempre e il nome dell’ultimo spartano arreso allo strapotere del nuovo impero d’occidente non morirà mai. Di lui, e del suo nome, come dei nomi di quelle nazioni guerriere divenute sistemi d’arma nell’esercito Usa — “Apache” è il nome del più formidabile elicottero militare — si sono ormai appropriati i vincitori. Cucito sulla giubba di chi lo sconfisse. Repubblica Nazionale DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 le tendenze Dentro, al massimo, ci stanno rossetto e cellulare, nient’altro. Sono la negazione della praticità, ma non importa: le piccole borse nate negli anni Venti Inutili e dilettevoli come simbolo di ribellione delle donne sono tornate Modificate, sofisticate e adattate ai tempi POLITICALLY CORRECT È realizzata con tessuti riciclati, ad esempio i vecchi divani e le tappezzerie della nonna, la mini borsa di Carmina Campus Piacerà a modaiole e ambientaliste MARE D’INVERNO Pochette in vernice turchese, colore del mare, per rallegrare le tristi serate dell’inverno. Chiusura a pressione per questo modello della collezione Just Cavalli MADAMA BUTTERFLY COLORE VIOLA La grazia di una farfalla che prende il volo e si posa quasi per caso è il motivo-decoro della pochette da sera di Casadei. Perfetta per chi vuole stupire con un tocco di colore È nel colore che ha dominato la moda dell’inverno la pochette rigida di Louis Vuitton Il logo della maison è ricamato sul tessuto viola per quel tocco di eleganza in più DIRLO CON UN FIORE Indicata per le serate eleganti ma anche per impreziosire un paio di jeans la pochette Marni, con chiusura modello borsellino e un fiore applicato sul davanti MASTRO ARTIGIANO È il frutto raffinato di una meticolosa lavorazione artigianale la serie di tagli sulla pelle della borsa a mezzaluna firmata Alidiomichelli Per un’eleganza d’altri tempi MULTICOLOR È decisamente all’ultima moda la busta glitter di Renè Caovilla. Colori in contrasto e lavorazione quasi etnica per un accessorio unico e destinato a non passare inosservato Lo stretto non necessario IRENE MARIA SCALISE MANETTE Candy box gioiello, in edizione limitata, creata da Antonio Marras per l’apertura della nuova boutique di Kenzo a Milano Piacerà alle più distratte la chiusura-bracciale da indossare attorno al polso l termine è francese ma la traduzione è universale. È amata perché bella, odiata perché scomoda, venerata perché chic. È la pochette. Vocabolo che, in codice fashion, indica una borsa piccola, elegante e rigorosamente senza manico. Insomma, la negazione della praticità. Il nome risale al Settecento, periodo in cui le tasche (in francese poches) non erano cucite sugli abiti ma sostituite da piccoli sacchetti da appendere alla vita. Ma il vero successo, per la pochette, arriva a cavallo tra gli anni Venti e Trenta del Novecento. Solo allora diventa un capo irrinunciabile, il vezzo all’ultima moda e, soprattutto, il simbolo del cambiamento. Perché fu proprio in quel periodo che la rivoluzione modificò per sempre l’immagine femminile. Non più corsetti vittoriani ma abiti fascianti e leggeri. Niente capelli legati in rigidi chignon ma zazzere corte e sbarazzine. Era il momento delle donne definite “flappers”. Delle maschiette che sconvolsero il costume, indifferenti allo sguardo dei benpensanti e allegramente compiaciute del rumore sollevato con abitudini scandalose come fumare e bere in pubblico. Non più succubi degli uomini ma compagne di vita. E proprio la loro ribellione creò nuovi miti: quelli dei cosmetici, del rayon e della seta, delle sigarette, delle trasparenze e appunto delle pochette. Influenzarono la storia e l’industria. E adesso, in un’epoca in cui gli uomini soffrono l’indipendenza delle donne e stentano a riconoscerle perché troppo aggressive, le pochette ritornano. Potenti oggetti del desiderio capaci di spingere a inauditi compromessi con la comodità. All’interno lo spazio solo per un rossetto e il cellulare ma pazienza, la classe non è acqua. Come i gioielli più preziosi, anche le pochette fanno la loro apparizione dopo il tramonto. Perfette con abiti da sogno, valorizzano le mise più eleganti. In velluto, pelle lavorata, coccodrillo, satin lucente o pitone. Non c’è limite alla creatività quando si tratta di mandare in passerella queste piccole buste deliziose. Nella stagione invernale sono riuscite in quella che sembrava un’impresa impossibile: hanno relegato in soffitta le maxi bag e per l’estate, preannunciano gli esperti, saranno ancora più presenti. Magari modificate con qualche piccolo accorgimento come la catena che le trasforma in mini tracolle e lascia le mani libere. Per chi può permetterselo, e sono veramente in pochissime, la pochette può diventare anche un lusso da parecchi zeri. Louis Vuitton ha lanciato Minaudiere, una sorta di lingotto d’oro realizzato dai maestri artigiani con trecento ore di lavorazione. Naturalmente in edizione limitata, questa pochette dei sogni costa più di duecentomila euro. Decisamente più abbordabili, e ugualmente in poche copie, sono le “candy box” gioiello create da Antonio Marras per l’inaugurazione della boutique Kenzo a Milano. Materiali preziosi e design raffinato per le proposte di Armani, Swarovsky e Versace. E poi ancora la leggerezza della busta griffata da Chanel per la collezione Cruise. La grazia di una farfalla o di un fiore ricamati sui modelli Marni e Casadei. La lavorazione artigianale di Alidiomichelli. La magia glitter di René Caovilla. Non è tutto. La pochette, volendo, riscopre anche un’anima equa e solidale: è il caso della coloratissima Carmina Campus, ideata da Ilaria Venturini Fendi e lavorata dalle donne del Camerun. Insomma, ce n’è per tutti i gusti, pur di riuscire ad accontentare le nuove flappers del 2009. Apparentemente molto più complicate rispetto alle loro nonne di quasi un secolo fa, sanno ugualmente entusiasmarsi per la stessa eleganza. I MINI BAULETTO Rettile pregiato per la borsa disegnata come un mini bauletto da Givenchy. Lo spazio è contenuto ma la classe è assicurata Il colore indefinito è una delicata sfumatura tra il cipria e il glicine BIANCO E NERO Anticipa la mania per le righe della prossima estate la pochette optical della collezione Cruise firmata Chanel Un super classico rivisitato in morbido tessuto DOPO IL TRAMONTO Può essere indossata solo dalle dieci di sera in poi la pochette Swarovski. Tessuto lucente e chiusura con fiocco tempestata di brillanti, per un capo da gran sera PIETRE PREZIOSE Ricorda le serate nei teatri fumosi degli anni Trenta la borsa nera tempestata di pietre dure di Giorgio Armani Il motivo-decoro è rappresentato da una mezzaluna ricamata YELLOW SUBMARINE Un insolito abbinamento tra la fantasia pitone e la tinta giallo uovo per la pochette Versace Allegra e colorata, può essere indossata anche durante il giorno VERDE FLUO Una lucente busta color verde acido per la proposta Victor&Rollf. Una medaglia con logo è il segno di riconoscimento del duo Repubblica Nazionale 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009 i sapori In montagna Siamo in piena stagione di “settimane bianche” L’occasione perfetta per chi sceglie le Dolomiti di conoscere tradizioni e gastronomia di una straordinaria enclave etnicolinguistica N utriente, sostanziosa, povera, di stagione. E naturalmente a km zero: non per sensibilità ecologica, ma per impossibilità di approvvigionamenti a distanza. La cucina ladina d’antàn è questo e molto altro. Lo strepitoso comprensorio sciistico, le ferrate estive sui costoni dolomitici, le passeggiate nei silenzi innevati o sui pascoli inondati di sole, oggi regalano una cartolina molto diversa, pregiata, fiabesca. Così ambiziosa da fare di San Cassiano in Badia il cuore dell’alta cucina invernale, con la Chef’s Cup organizzata ogni gennaio da Norbert Niederkofler, chef bi-stellato. Ma nelle cinque valli della terra ladina — retaggio di luoghi e di tempi in cui lingua e cultura latina e retica si intrecciarono per sempre — i menù tradizionali raccontano una storia gastronomica molto più ruvida, eppure golosa. Storia di privazioni e durezze, di altezze e solitudini che permettevano pochi voli di fantasia alimentare e obbligavano a inventare piatti il più possibile appetitosi e calorici a partire dalle materie prime di madre montagna. Per fortuna, là dove gli orti non brillano per opulenza (poche verdure, soprattutto erbe selvatiche e tuberi; poca frutta, dato che pere e mele crescono più a sud) e dove anche i cereali si adeguano alla severità del paesaggio (segale, orzo, avena), mucche e pecore vivono libere e felici. Così, le farine caratterizzano sapore e consistenza di goduriose miscele di latte, uova e burro, grazie alle ricette che hanno nutrito generazioni di bambini nati e cresciuti con le Dolomiti negli occhi. Non è una storia a tinte pastello, quella della gente ladina, costretta da uno sciagurato accordo tra Hitler e Musso- Cucina Ladina lini — era il 21 ottobre 1939 — a scegliere entro la fine di quell’anno se emigrare nella Germania nazista, con la promessa di mantenere la proprietà di case e campi, o restare in Italia perdendo lo status di minoranza linguistica e sotto la minaccia di essere spostata a forza nel sud Italia, senza casa né lavoro. Il tutto, con l’obiettivo di eliminare “la macchia grigia”, come Mussolini aveva battezzato i ladini. La legge “Option für Deutschland” diede i suoi frutti: oltre l’85 per cento dei ladini — 75mila persone — emigrò a nord, e lì rimase, causa lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Senza fortuna anche il destino di chi rimase in Italia: la comunità originaria venne frammentata in due regioni, tre province e una manciata di comuni, sparsi soprattutto nel Bellunese: oggi, Cortina e Fodom (Livinallongo) con Colle di Santa Lucia appartengono alla provincia di Belluno, Fassa alla provincia di Trento, Gardena e Badia a quella di Bolzano. Ma dove la politica divide, la cucina sa unire. E i 35mila ladini che vivono tra Cortina d’Ampezzo e la Val Badia, ancora si riconoscono in un ventaglio di piatti senza tempo, soprattutto nelle zone dove la cultura montana ha saputo meglio contenere e armonizzare i flussi turistici, secondo quella che il ladino doc Michil Costa definisce «la coscienza del limite». Sua l’idea del progetto “Quo Vadis”: nei locali associati, che praticano controllo di filiera e km zero, i menù propongono il meglio della tradizione ladina, compresa la sana abitudine di mettere la casseruola in mezzo al tavolo per mantenere vivo il senso della condivisione: zuppe di farina tostata, polenta, qualche stufato, infusi d’erbe, distillati, dolci ingentiliti da marmellate strepitose. Se siete in zona, sconfinate verso Sappada, minuscola enclave di origine germanica, dove due famiglie di gastronomi straordinari — i Meroi del ristorante “Laite” e i Casciaro della “Bottega di Sappada” — vi faranno scoprire le meraviglie della cucina ladina-non ladina. Un distillato di sambuco chiuderà al meglio la giornata. Nel regno dei piatti poveri ma buoni LICIA GRANELLO Repubblica Nazionale DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 itinerari Michil Costa è un’anima colta della terra ladina. Gestisce con la famiglia l’hotel “La Perla” di Corvara, con ristorante stellato, dove l’ospitalità è all’insegna del turismo responsabile: alimenti bio e a km zero, bioarchitettura, strenua difesa dell’ambiente DOVE DORMIRE DOVE MANGIARE DOVE COMPRARE HOTEL FONTANA Strada De Valongia 36 38039 Vigo di Fassa (TN) Tel. 0462-769090 Mezza pensione da 75 euro LA STÜA DI MICHIL Strada Col Alt 105 Corvara Tel. 0471-831000 Chiuso lunedì, menù da 50 euro MACELLERIA BOCARIA CRAFFONARA Zwischenwasser 14 Mareo Tel. 0474-503642 ALPENHOTEL RAINELL Via Vidalong 19 Ortisei Tel. 0471-796145 Camera doppia da 70 euro con colazione MALGA PANNA Via Costalunga 56 Moena (Trento) Tel. 0462-573489 Menù da 30 euro AGRITURISMO LÜCH DA PCËI Strada Pecei 17 San Cassiano Tel. 0471-849286 LA SIRIOLA Strada Prè de Vì 31 Località Armentarola Tel. 0471-849445 Camera doppia da 170 euro, colazione inclusa LOCANDA MASO RUNCH Località Runch 11 Pedraces (Bolzano) Tel. 0471-839796 Menù da 30 euro HOTEL MACIACONI Selva di Val Gardena Tel. 0471-793500 Doppia da 90 euro, colaz. inclusa OSTERIA L’MURIN Strada Col Alt 105 Corvara (Bolzano) Tel. 0471-831000 Menù da 25 euro CALDARA B&B Via Faloria 46/a Cortina d’Ampezzo Tel. 348-2668378 Camera doppia da 65 euro ST. HUBERTUS Strada Micura de Rü 2 San Cassiano in Badia Tel. 0471-849500 Menù da 80 euro PANIFICIO COSTNER Strada Pedraces 35 Pedraces Tel. 0471-83961 PASTICCERIA ALVERÀ Corso Italia 191 Cortina d’Ampezzo Tel. 0436-862040 MALGA CIAUTA Località Ciauta Vodo di Cadore Tel. 336-400603 Carolina e Alex dieta da campioni CAROLINA KOSTNER E ALEX SCHWAZER Jopa arestida La minestra di farina bruciata, conosciuta anche come brennsuppe o bro brusà, è tipica di molte valli dell’Alto Adige Fatta con burro, farina e acqua, è la zuppa della colazione. Dentro, anche pane duro grattugiato Jüfa Una crema golosa, realizzata con latte, acqua e farina di grano saraceno La versione “baby”, zuccherata, jüfa da pop, ha consistenza semi-liquida (deve passare nel biberon). Gli adulti la consumano attingendo dalla pentola, in mezzo alla tavola 1.200 i km quadrati del territorio 3.343 i metri di altitudine della Marmolada Panicia È un sostanzioso piatto unico, la zuppa d’orzo con stinco di maiale dalla cottura lentissima Soffritto lo speck a dadini, si aggiungono verdure dell’orto (cipolle, patate, porri, carote, sedano, tagliate a listarelle), carne affumicata e orzo lavato 35.000 gli abitanti ladini 5 le valli: Fassa, Gardena, Badia, Cortina e Fodom Zigher Forma conica o a pera, per il formaggio d’alpeggio “grigio”, di origine celtica, il cui nome deriva dal tedesco ziege, capra Ha pasta tenera, aromatizzata con pepe ed erba cipollina, e molto odorosa. Resistono nella produzione un paio di latterie cooperative iamo cresciuti, io e Alex, con la cucina altoatesina, siamo diventati atleti conciliando la nostra passione per i piatti tipici con la dieta degli sportivi. Abbiamo dovuto fare rinunce, ma non troppe, perché il cibo nelle nostre valli ha cresciuto tanti campioni: nello sci, nello slittino, nel pattinaggio artistico che io pratico sin da bambina, nella marcia che ha fatto di Alex un campione olimpico a Pechino. Dunque parliamo di quella cucina che ci riporta ai ricordi d’infanzia e ai profumi della nostra terra: una nostalgia che prende soprattutto me, che sono ladina ma vivo in Baviera, a Oberstdorf, e spesso vorrei addentare i canederli, o i krafuncin, una specie di raviolo con gli spinaci che nella mani della zia Margherita diventa un’opera d’arte. In questo sono lontana da Alex, che è assolutamente negato ai fornelli ma da bravo buongustaio adora la cucina altoatesina e tra i tanti, troppi, piatti che gli piacciono preferisce il riso al latte. Quei sapori ci sono rimasti dentro sin da quando li abbiamo conosciuti la prima volta: Alex da piccolo faceva scorpacciate di latticini e di formaggio Zigher, fatto con quel latte gustoso che viene dai masi d’alta montagna; io preferivo la mosa con burro fuso, una specie di semolino con latte, farina, acqua e sale. In una famiglia di futuri sportivi le abitudini erano le stesse, anche se una bambina promettente sui pattini dovrebbe mangiare in un modo diverso dai fratelli, soprattutto da Simon che è diventato giocatore di hockey. Invece no, a tavola noi fratellini Kostner facevamo grandi abbuffate di wienerschnitzel con patatine fritte. Una golosità che ho dovuto presto abbandonare, man mano che crescevo e diventavo atleta: grasso e burro sono proprio incompatibili con la dieta ferrea delle pattinatrici. Ma anche dei marciatori: una medaglia d’oro val bene qualche privazione. Anche se io continuo ad apprezzare i canederli con i fagioli e i crauti, basta che non siano troppo conditi con lo speck, mentre Alex ha maturato una convinzione che metterebbe d’accordo tutti i medici: bisogna solo imparare a condire meno le cose, ecco la sua massima a tavola. Saggio e avveduto, quanto incapace in cucina, pronto a lasciar fare tutto a me, che ad Oberstdorf riservo sempre una sorpresa ai miei ospiti: non canederli, né krafuncin, ma pizza e spaghettate che preparo per gli amici e i membri del team. So che deludo chi si aspetta esibizioni di cucina ladina ma il problema è questo: chi ha assaggiato, come noi, un piatto tipico delle valli cucinato con amore ed esperienza, come fanno le nostre mamme Patrizia e Maria Luisa, non se la sente di improvvisare. Molto più facile affidarsi alla fiera del carboidrato, o ai dolci, a una torta al cioccolato che io e Alex siamo riusciti a preparare insieme per il compleanno di Laura, la mia maestra di danza, grazie a un piccolo trucco: a guidarci al telefono da Ortisei c’era mamma Patrizia. E poi va detto che c’è ladino e ladino: ogni valle ha i suoi piatti forti. Io per esempio non mangio le frittelle tipiche di Castelrotto, le fortaies, e nemmeno i buchteln che vanno tanto di moda. Stesso discorso per la jopa arestida, la minestra di farina bruciata. Invece dico sì alla crema che chiamiamo jüfa, alla zuppa d’orzo panicia con carota e sedano, alla omelette pösl, e impazzisco, sul serio, per le mele fritte: preparo una pastella densa con latte, farina, zucchero; taglio a fette le mele; le faccio friggere, poi le cospargo con una nevicata di zucchero a velo. Una debolezza, ma in fondo sono vicecampionessa del mondo: posso essere perdonata? (Testo raccolto da Mattia Chiusano) S Fortaies Gli strauben, superclassiche frittelle di Carnevale preparate con farina, latte, burro, uova e grappa, vengono colate nell’olio bollente di cottura per mezzo di un imbuto Si servono cosparse di zucchero a velo, insieme a frutta sciroppata o purea di mele Pösl Doppia dizione (kaiserschmarrn) per l’omelette dolce “spezzata”, con marmellata di mirtilli rossi. Alla pastella di latte, tuorli e farina, si aggiungono bianchi a neve e uva passa. Cottura in padella col burro, rifinitura in forno e abbondante zucchero a velo Pücia Si impastava nella “stua” e si cuoceva due volte l’anno, a inizio e fine inverno – e solo con luna crescente! – il pane di segale e frumento, destinato a durare per mesi Tra gli ingredienti, oltre al lievito madre, semi di cumino, sale e trigonella di prato Buchteln Morbide e invitanti, le paste dolci farcite con marmellata di frutti rossi. Impasto con farina, latte, burro, zucchero e scorza di limone, cottura al forno fino a doratura Si servono accompagnate da una crema d’uovo, latte e vaniglia, passata al setaccio Repubblica Nazionale 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15 FEBBRAIO 2009 l’incontro Cominciò da ragazzo come fattorino alla 20th Century Fox Poi ha diretto pellicole leggendarie, da “Blues Brothers” a “Animal House”. Ha lanciato star comiche assolute. Ha innovato incrociando horror e commedia A cinquantotto anni si concede il lusso di sparare contro Hollywood: “Fanno kolossal tutti uguali, con trailer identici a base di esplosioni. A me i soldi per un film non li darebbero mai” Outsider John Landis ncontrare John Landis è come essere catapultati sul set di un film. Di cui lui è insieme regista, sceneggiatore e protagonista. Ogni frase viene recitata, più che detta. Ogni racconto è illustrato da una mimica irresistibile. Ogni opinione, anche seria, suona come una battuta. Un interlocutore mai noioso. E involontariamente buffo quando, parlando della sua passione per il nostro grande Totò, ne pronuncia il nome in maniera strascicata, e senza accento finale: «I love Tooooto…». Messo di fronte all’errore di dizione, ride di gusto. Ma subito riprende il filo del discorso, elencando le altre divinità del suo personale Pantheon comico: «Ci sono geni assoluti come i fratelli Marx, Charlie Chaplin, Jacques Tati; registi della vecchia Hollywood come Howard Hawks; attori come Fernandel e il mio amico Vittorio Gassman... Vittorio era fantastico, nei Soliti ignoti lo adoro. Peccato che ci abbia lasciati». E qui il suo volto si fa malinconico, l’espressione triste. Solo per un attimo, però. Perché, nel corso del lungo colloquio — seduti a un tavolino appartato del bar di un hotel veneziano — il cinquantottenne Landis, con i suoi occhiali poco trendy e la barba anni Settanta, è sempre rilassato, istrionico, ironico. Un approccio che non sorprende, se ricordiamo che ha diretto pellicole leggendarie come Blues Brothers e Animal House; che ha lanciato star come John Belushi, ma anche Dan Aykroyd ed Eddie Murphy (Una poltrona per due); che ha lavorato con talenti brillanti come Chevy Chase (Spie come noi), Steve Martin (Los tres amigos), John Goodman (Blues Brothers dittatura del botteghino che impera a Hollywood. «Quando decisi di realizzare Animal House», spiega, «potevo andare a proporre il progetto al boss della Columbia, o della Universal, o della Paramount. Così, semplicemente: sedermi davanti a questi appassionati di cinema e illustrare il progetto. Oggi invece a dettare le regole del gioco sono i giganti, le multinazionali, coi loro anonimi executive. Major che spendono venti milioni di dollari solo per promuovere una pellicola non degnerebbero di uno sguardo Animal House, che ne è costati meno di due. Non a caso, puntano sulle saghe che sfondano il box office: La Mummia, Batman, 007. O comunque su kolossal tutti uguali, coi loro trailer identici a base di esplosioni: Iron Man, Transformers. E l’elenco potrebbe continuare». Giudizi negativi sulla Hollywood dominata dai colossi finanziari planetari che spesso si sentono pronunciare anche dalle grandi star, quelle che sull’industria del cinema ci campano. Il che Ogni tanto ho sentito dire di questo o quell’attore: “È il nuovo Belushi” Ma non è vero Sappiamo tutti che uno come lui non ci sarà mai più FOTO CORBIS I VENEZIA 2000); che con Un lupo mannaro americano a Londra ha reso credibile l’incrocio ad alto rischio tra horror e commedia. Ma guai a considerarlo un’icona vivente. «Sono perennemente insoddisfatto della mia carriera», confessa, «altro che mito… Diciamo che condivido la frase di John Huston, secondo cui le prostitute, i palazzi e i registi sono le uniche tre cose che il tempo rende più autorevoli. Soprattutto in un Paese giovane come il mio, in cui le cose non vengono viste in prospettiva. La realtà è che la magia del mio mestiere è proprio nel suo enorme difetto: fare un film è un grande compromesso. Perché mentre stai girando devi tenere conto di tutto, dalle mestruazioni dell’attrice ai problemi coniugali dell’attore. Le cose sono più prosaiche di quanto si immagina». Piccoli, grandi drammi da set. A cui ha assistito fin da ragazzino. «Ho cominciato quando c’erano ancora i tempi d’oro», racconta. «Avevo appena diciassette anni, venivo da Chicago: volevo fare l’attor giovane, mi sono ritrovato all’ufficio posta della 20th Century Fox. Fattorino, insomma. Un luogo di osservazione privilegiato: ho potuto incrociare leggende come Alfred Hithcock, gente che ha inventato il linguaggio del cinema. E lì, su quei set, ho capito il metodo di lavoro che in precedenza avevano utilizzato gli autori della vecchia scuola: Frank Capra, Billy Wilder. Una splendida gavetta». Il colloquio si interrompe per un istante, uno dei camerieri porta al tavolo i «litri di acqua minerale ghiacciata» richiesti. Landis ne beve qualche sorsata, poi riprende il filo dei ricordi: «E così quasi per caso, dopo aver assorbito come una spugna da quei maestri, mi sono ritrovato a fare il loro stesso mestiere». L’esordio avviene nel 1973 con il fantastico-horror Schlock. E negli anni successivi arrivano i grandi film: milioni di spettatori li hanno visti e rivisti, ne citano battute e gag. «Non sono entusiasta dei miei cosiddetti cult», minimizza lui, «diciamo che ne salvo alcuni singoli momenti, alcune sequenze. Forse il problema è che, nella mente, tendo a confondere il valore dell’opera col divertimento maggiore o minore che ho provato realizzandola. Ad esempio Spie come noi, che non è un granché, lo adoro: lo girammo tra Europa e Marocco, fu fantastico. Ma i film che ho diretto per me sono tutti come figli». Nessun rimpianto, però, per i successi del passato. Anche se, con un pizzico di orgoglio, lui stesso ricorda che «Blues Brothers fu la prima pellicola americana a incassare più nel resto del mondo che in patria: ottanta milioni di dollari negli Usa, trecento all’estero». La citazione è uno dei pochissimi vezzi “numerici” che si concede. Perché poi Landis si dichiara nemico mortale della può suonare ipocrita. Ma Landis, diventato un outsider, ha il diritto di sparare a zero. «Del resto a me i soldi per fare un film non li darebbero mai», sottolinea con un sorriso ironico, «e infatti è alla Gran Bretagna che mi sono rivolto, per la mia prossima fatica cinematografica: una black comedy su due ladri che nel Diciannovesimo secolo avviano un business redditizio, vendendo cadaveri alla scuola di medicina di Edimburgo». La pellicola, al momento, è in fase di pre-produzione. «Negli Usa avevo anche un’altra sceneggiatura ottima, già pronta, Epic Proportions: ci siamo arenati sui finanziamenti. Comunque preferisco non fare film che accettare di farne di brutti, di banali». Parole chiare. E senza reticenze sono anche le opinioni sulle star attuali, quelle che sfondano i botteghini. «Ben Stiller è bravo, ma solo in alcuni film: Tutti pazzi per Mary, o recentemente Tropic Thunder. Stesso discorso per Jack Black: in certe pellicole mi convince, in altre no. Dipende molto dal prodotto. Ogni volta la gente si stupisce per la bravura di questo o quel divo. Prendiamo Jim Carrey: quando esplose tutti erano in estasi, dimenticando il suo debito verso gente come Bob Hope, Jerry Lewis, Steve Martin. Tornando al presente, tra le attrici adoro Marisa Tomei, Gwyneth Paltrow, Cameron Diaz. Tra i registi attuali, invece, i miei preferiti sono Spike Jonze, i fratelli Coen, Wes Anderson». Autori importanti, tutti votati in qualche modo allo humour intelligente. Ma rispetto a loro Landis ha qualcosa di diverso, forse di più: un amore speciale per gli attori brillanti. E infatti al centro della sua comicità ci sono sempre gli interpreti. A partire dal più geniale che lui abbia mai diretto: John Belushi. Un talento straordinario che — se fosse sopravvissuto ai suoi eccessi — avrebbe appena compiuto sessant’anni. «Era unico», ricorda, «aveva la capacità di darsi completamente: la voce, il corpo, le parole. Sapeva fare tutto, e far ridere di tutto. Una forza della natura, un trascinatore. Ogni tanto, nel corso del tempo, ho sentito dire di questo o quell’attore: “È il nuovo Belushi”. Ma non è vero, è solo propaganda. Perché sappiamo tutti che uno come lui non ci sarà mai più. Specie in un cinema come quello attuale». E forse questa sfiducia reciproca tra Landis e il sistema hollywoodiano è anche tra le cause del suo deviare, negli anni appena trascorsi, verso l’attività televisiva: «Qui in Italia ho partecipato al progetto collettivo Masters of horror, insieme a Dario Argento; negli Stati Uniti ne ho fatto uno analogo, Fear Itself; ho anche realizzato una serie per la Hbo, Dream on». Anche perché i prodotti da piccolo schermo hanno un altro pregio: la mancanza di snobismo verso la commedia, «che invece cinematografica- mente è una Cenerentola, sottovalutata ai festival e dagli Oscar». Risultato: «Le migliori commedie recenti si sono viste tutte sul piccolo schermo: Simpson, South Park. E Ali G Indahouse, con Sacha Baron Cohen». E oltre la tv c’è la recente passione per il documentario: «Ne ho girato uno, si chiama Mr Warmth ed è dedicato a Don Rickles, cantante ottantaduenne di Las Vegas, un ex membro del Rat Pack di Frank Sinatra. In futuro ne produrrò altri». Progetti, idee, iniziative. Landis non sembra voler fare il padre nobile, e pensionato, del cinema brillante. Anche se va detto che a riportare il suo nome alla ribalta, negli ultimi giorni, è stata una notizia di genere assai diverso: la decisione di citare in tribunale Michael Jackson, che ha diretto nel celeberrimo videoclip di Thriller, considerato da tanti critici il più bello della storia della musica. Secondo gli avvocati del regista, la popstar non ha versato i proventi che gli spettavano. Ed è forse a causa di questo problema legale irrisolto che sul cantante Landis taglia corto: «Michael era un grande, ora è un personaggio tragico». Stop. Nessun problema, invece, a parlare della vita privata. E in particolare del suo amore per la moglie, l’attrice Deborah Nadoolman, con cui è sposato dal 1980, e da cui ha avuto due figli. Lui è orgoglioso di lei al punto da mostrarne una foto sul telefonino che ha con sé: «L’ho scattata qualche notte fa», racconta, «ho avuto un piccolo incidente, sono caduto, così siamo andati al pronto soccorso. E questa», dice, porgendo il cellulare, «è Deborah in ospedale: dormiva quasi in piedi, mentre io venivo medicato». La voce è piena d’affetto e di ironia, l’immagine di questa donna stremata che riposa su uno scomodo sgabello sembra il fotogramma di un suo film. ‘‘ CLAUDIA MORGOGLIONE Repubblica Nazionale