Progetto di Formazione
"PERSONALE DI ALTA QUALIFICAZIONE NELL’ANALISI,
MONITORAGGIO E GESTIONE DEL RISCHIO AMBIENTALE”
FINANZIATO DALLA REGIONE CAMPANIA NELL’AMBITO DEL POR 2000/2006 MISURA 3.13- EMANATO CON D.R. N. 222 DEL 21 GENNAIO 2004
Assegnista
Profilo
Tematica della attività
formativa
Gianpaolo Perrella
P2
Dinamica eruttiva e impatto
sulle strutture
Relazione delle attività
2004/2005
Assegnista:
Dott. Ing. Gianpaolo Perrella
Tutor:
Prof. Lucio Lirer
INDICE
Premessa
1. ATTIVITA’ DI RICERCA
Stato delle conoscenze
1.1 Le eruzioni
•
Attività vulcanica:
•
Hazards prodotti dalle eruzioni vulcaniche:
•
Effetti dei rischi vulcanici sulle strutture:
1.2 Hazard al Vesuvio
•
La storia:
•
Il rischio:
•
La prevenzione:
Obiettivo della ricerca e metodologia seguita.
1.3 Dinamica eruttiva eruttiva e impatto sulle strutture
2. RISULTATI OTTENUTI
2.1 Applicazioni dei Metodi Inversi per l’analisi degli effetti di correnti piroclastiche sul tessuto
costruito: il caso dell’ eruzione del Vesuvio del 79 d.C.
2.2 Linee guida per una normativa vulcanica
3. OPPORTUNITA’ DI PROSEGUIMENTO
3.1 Modellazione della superficie conica e analisi numerica di una corrente densa
3.2 Vulnerabilità e monitoraggio del territorio
4. RICADUTE ALL’ESTERO E ITERAZIONI CON ENTI ESTERNI
4.1 Ricadute all’estero
4.2 Iterazioni con enti esterni
5. ACQUISIZIONE
MANAGERIALI
Bibliografia
DELLE
COMPETENZE
ORGANIZZATIVO-
Premessa
La seguente relazione illustra il lavoro svolto durante il progetto di formazione “Personale
di alta qualificazione nell’analisi, monitoraggio e gestione del rischio ambientale” finanziato
dalla Regione Campania nell’ambito del POR 2000/2006- Misura 3.13- emanato con D.R.N. 222
del 21 gennaio 2004.
La tematica dell’attività formativa, che sono stato chiamato a seguire, riguarda la dinamica
eruttiva e l’impatto di prodotti piroclastici sulle strutture.
I tutori della ricerca sono stati il Prof. Lucio Lirer e la Prof. Paola Petrosino, per quanto
concerne le valutazioni vulcanoligiche, e il Prof. Luciano Nunziante e l’arch. Massimiliano
Fraldi per le valutazioni di carattere strutturale.
Il presente lavoro si sviluppa come riportato di seguito.
• Stato delle conoscenze:
Nella prima fase della ricerca, la mia formazione,di carattere puramente ingegneristico, ha
richiesto di acquisire le necessarie conoscenze riguardanti le attività vulcaniche in genere, e la
storia eruttiva del Vesuvio in particolare. A tale fine è stato effettuato un lavoro di ricerca
bibliografica che ha comportato lo studio di un’ampia documentazione, di cui si riporta una
rapida panoramica.
Segue la descrizione dello stato attuale della concezione del rischio vulcanico e la sua
prevenzione, in ambito generale, e rispetto alle strutture, in particolare.
• Obiettivo della ricerca:
La ricerca si pone due principali obiettivi, quello dello studio delle caratteristiche proprie dei
pericoli derivanti da un’eruzione e quello degli impatti dei prodotti piroclastici sulle strutture
eventualmente presenti nelle zone a rischio.
Il lavoro si è concentrato sia sullo studio delle correnti piroclastiche di densità (PDC) che sullo
studio dell’accumulo di prodotti piroclastici da caduta (Fall). Si è inteso intraprendere, di
conseguenza, un lavoro capace di analizzare il comportamento reologico dei flussi granulari
relativi alle correnti dense e la loro interazione con gli edifici, e di determinare i carichi gravanti
sulle coperture degli edifici causati dalla deposizione di tefra.
• Metodologie seguite:
La metodologia inizialmente seguita è stata basata sull’applicazione dei Metodi Inversi, per
l’analisi degli effetti di correnti piroclastiche e depositi da caduta sul tessuto costruito. Infatti il
lavoro si è concentrato sulla valutazione dei collassi strutturali verificatisi sul costruito di epoca
Romana, rinvenuto nel comune di Torre Annunziata, causati dall’eruzione vesuviana del 79 d.C.
Successivamente, una volta dedotti alcuni fondamentali parametri quantitativi dei fenomeni in
esame, si è passati all’utilizzazione di opportuni programmi di calcolo per simularne il
comportamento a priori e l’interazione con le strutture.
Al fine di stabilire e lenire la vulnerabilità del territorio, poi, si considerano le valutazioni fatte
dagli studiosi del settore e i risultati ottenuti dalla precedente analisi, per stabilire direttive
capaci di sviluppare una normativa per il costruito nelle aree soggette a rischio vulcanico.
• Risultati ottenuti:
Tramite la ricostruzione dei collassi strutturali avvenuti presso le Ville romane ‘A’ e ‘B’, ad
Oplonti, durante l’eruzione del 79 d.C., si ottiene una valutazione quantitativa delle potenze in
gioco utilizzando la metodologia dell’analisi inversa e l’analisi agli elementi finiti.
• Opportunità di proseguimento:
Tra le opportunità di proseguimento trova posto lo studio degli effetti delle dinamiche eruttive
sul territorio, queste valutazioni devono basarsi su di una capillare conoscenza del costruito
sottoposto a rischio vulcanico. Elementi discriminanti sono le differenti tipologie strutturali, la
conformazione del tessuto urbano e la collocazione all’interno del particolare profilo orografico
della zona a rischio.
In più si ritiene opportuno proseguire la strada della simulazione numerica, al fine di ottenere
una modellazione parametrica dei flussi piroclastici e realizzare una precisa configurazione
della superficie conica vulcanica, oggetto delle simulazioni dei flussi, tramite alcuni parametri
spaziali, volta ad ottenere una funzione capace di modellare diversi profili vulcanici.
• Ricadute all’estero e interazioni con enti esterni:
Si illustra, in questo paragrafo, l’esperienza del Centro australiano di Ricerca sui Pericoli
Naturali, NHRC (Natural Hazards Research Center). Rapporti di collaborazione con tale
centro rappresentano una possibile direttrice per lo scambio di conoscenze sui rischi e
sulle metodologie di mitigazione L’attività del NHRC è utilizzata, poi, come riferimento
per le interazioni che questa, e altre ricerche, sui rischi naturali e antropici possono
avviare con un gran numero di enti esterni, come amministrazioni locali, organi legislativi,
Protezione Civile e società assicurative.
• Acquisizioni delle competenze organizzativo-manageriali:
Sono brevemente illustrate, alla fine di questa relazione le competenze organizzative e
manageriali acquisite grazie alla formazione ricevuta durante l’anno di attività.
Fondamentale è stata, in tal senso, l’esperienza svolta per la realizzazione del lavoro di
prossima pubblicazione sulla Rivista di Studi Pompeiani “La distruzione di Oplontis”.
1. ATTIVITA’ DI RICERCA
Stato delle conoscenze
2.1 Le Eruzioni
Attività vulcanica
I vulcani attivi sono generalmente collocati in tre diverse zone:
• vicino ai margini di zolle tettoniche convergenti
• vicino ai margini di zolle tettoniche divergenti
• presso ‘Hot Spots’
Per entrambi i tipi di vulcani appartenenti agli ultimi due gruppi, avvengono eruzioni di
magma basaltico. In queste eruzioni molta dell’energia è rilasciata sotto forma di energia termica
contenuta all’interno della lava eruttata e solo una piccola parte come energia cinetica nei getti di
lava ed esplosioni minori.
I vulcani situati su zolle tettoniche convergenti includono quelli degli arcipelaghi come
quello del Giappone, quelli in zone di collisione tra crosta oceanica e continentale, e vulcani
posti su crosta continentale in area di collisione, come per il Vesuvio e gli altri vulcani italiani. I
magmi eruttati vicino ai margini di zolle tettoniche convergenti sono generalmente più carichi di
silicati e le eruzioni sono contraddistinte da una predominante dissipazione di energia cinetica di
carattere esplosivo.
Una maggior presenza di silicati implica maggiore viscosità del magma che determina una
più alta esplosività, esiste, dunque, una relazione generale tra la posizione dei vulcani sulla
placca tettonica e il tipo di eruzione. In realtà possono verificarsi eruzioni di magma a basso
contenuto di silicio altamente esplosive, allorché sono coinvolte falde freatiche, l’eruzione
conseguente è detta, per questo, freatomagmatica.
Quando si verifica un’eruzione a partire da una bocca, generalmente si forma un cono, ma
quando avviene attraverso una frattura si generano fronti di lava e si formano una serie di coni.
E’ possibile classificare le eruzioni in dieci tipi e organizzarle secondo un grado di
pericolosità crescente, in cui le prime sono caratterizzate da una lenta produzione di materiale
eruttivo o dall’interessare un’area limitata.
I tipi di eruzioni sono:
• Islandesi (flussi basaltici): colate laviche poco viscose
largamente distribuite; minore deposito piroclastico.
• Hawaiane: getti di lava, bassi apparati tipo spatter cone.
• Stromboliane: bolle di lava, scorie, proiezioni balistiche,
sottili colate laviche, formazione di coni di cenere.
•
Vulcaniane: da moderate a violente proiezioni di masse
viscose, corti e sottili flussi di lava, formazione di coni di
cenere.
• Freatiche: eruzioni esplosive di materiale non magmatico
• Freatomagmatiche: violente esplosioni, materiali altamente
frammentati.
• Pliniane: eruzioni parossistiche, ampia dispersione di tefra e
pomici, probabile collasso della caldera vulcanica.
• Peléeane: flussi piroclastici generati dal collasso della
colonna eruttiva pliniana o vulcaniana, o dal collasso
dell’edificio vulcanico
• Bandaiana: massicci smottamenti o frane prodotti dal
collasso dell’edificio vulcanico.
• Katmaiana: produzione voluminosa di ingnimbrite.
Bisogna fare alcune considerazioni riguardo questa classificazione: anche se i differenti
tipi di eruzioni sono stati definiti dopo che un particolare vulcano avesse manifestato quella
particolare attività, lo stesso vulcano può presentare nel corso della sua storia comportamenti
eruttivi differenti; spesso si possono verificare diverse tipologie eruttive lungo il corso di una
stessa eruzione; e un’unica eruzione può presentare contemporaneamente differenti tipologie da
una parte all’altra del vulcano.
Molti testi definiscono vulcani come ‘attivi’, ‘quiescenti’ o ‘estinti’, in realtà tale
catalogazione è inesatta per due fondamentali ragioni.
Innanzitutto assume valore diverso nel Mediterraneo rispetto all’Antartide o Papua Nuova
Guinea, in quanto per la prima area abbiamo a disposizione più di 2000 anni di riferimenti storici
contro appena un secolo per le altre. Alcuni vulcani, poi, eruttano solo una volta, e sono pertanto
detti monogenetici. Ulteriormente, esistono vulcani, in apparenza estinti, che sono diventati
attivi.
Al fine di determinare la frequenza di eruzione per ogni manifestazione vulcanica relativa
ai margini di zolle tettoniche convergenti, è stato calcolato il numero di anni, a partire dal 1881,
lungo i quali un dato vulcano è rimasto attivo, hanno sommato tutti quelli relativi ai vulcani
appartenenti agli stessi margini e li hanno divisi per la lunghezza del margine stesso. Anche se
questo non è un indice di rischio il margine calabro risulta, insieme a quello Neozelandese e di
Halmahera (Indonesia), il più attivo.
Le dimensioni di un eruzione vulcanica possono essere valutate in diverse maniere. Ad
esempio rispetto al volume di materiale eruttato (magnitudine), dalla portata volumetrica o di
massa con la quale i prodotti lasciano la bocca, dall’estensione dell’area interessata (potenza
dispersiva), dalla violenza dell’esplosione o dal potenziale distruttivo dell’eruzione .
Comunemente le dimensioni delle eruzioni vulcaniche si misurano attraverso la stima
dell’energia totale rilasciata, la formula si basa sul volume di prodotti eruttivi. Per una eruzione
di moderate dimensioni l’energia totale varia tra 1015 - 1018 joule. Chiaramente, quest’indice non
è sempre correlato in modo diretto al grado di rischio vulcanico.
Una semplice misura descrittiva, appropriata alla valutazione del pericolo vulcanico, è data
dall’Indice di Esplosività Vulcanica (VEI)L’indice correla il volume di materiale prodotto,
l’altezza della nube eruttiva, la durata dell’eruzione principale ed altri fattori descrittivi in una
semplice scala da 0 a 8 ad esplosività crescente.
Hazards prodotti dalle eruzioni vulcaniche
Sebbene i vulcani posti lungo i margini convergenti non eruttino molto spesso o producano
eruzioni più brevi degli altri vulcani, essi sono caratterizzati, in generale, da eruzioni
decisamente più esplosive. Questa relazione non può essere, però, mutuata alla valutazione del
rischio.
La tabella sotto indica il rapporto tra il tipo di pericolo, la frequenza relativa di danno, la
distanza entro la quale si verifica il danno ed il tipo di eruzione.
Dall’analisi dei valori della frequenza appare chiaro che i fenomeni più frequenti sono i
depositi da caduta, i fenomeni atmosferici, i terremoti e le piogge acide e gas. In ogni caso i dati
si riferiscono alla frequenza, appunto, del fenomeno e non al rischio ad esso connesso, in quanto
i dati relativi ai danni provocati dai fenomeni eruttivi sono spesso soggettivi e difficilmente
comparabili anche per eventi simili. Esiste, comunque, una considerevole quantità di dati relativi
al numero di morti connessi a diverse eruzioni per differenti fenomeni eruttivi.
La pericolosità vulcanica H (hazard) relativa ad un singolo fenomeno, consiste nella
probabilità che tale evento vulcanico distruttivo accada in una determinata area in un dato
periodo. Il rischio vulcanico, o il rischio connesso ad un singolo fenomeno, si determina, come
ogni tipo di rischio, valutando il livello di danno provocato da una eruzione, o da una delle sue
manifestazioni, in funzione della probabilità che questa eruzione, o fenomeno, avvenga. Il
Rischio è definito come: ‘La stima delle perdite, subite da un certo elemento o da un insieme di
elementi, relative ad un incidente o ad un fenomeno naturale di data magnitudine’ (UNDRO
1982). Il Rischio può essere quantificato tramite la seguente relazione (UNESCO 1972; Fournier
d’Albe, 1979):
R=V ⋅ H
dove V rappresenta la vulnerabilità dell’elemento a rischio, questa è la misura della
probabile perdita che si verificherebbe in relazione all’evento in esame per la popolazione, le
proprietà, le attività economiche, i servizi pubblici etc.; il suo valore numerico varia tra 0 e 1,
rispettivamente nessun danno e distruzione totale.
Se il danno è correlato alla perdita di vite umane, risulta che ai flussi piroclastici ed alle
onde anomale corrispondono i più alti fattori di rischio, nonostante la loro frequenza sia piuttosto
bassa. In definitiva i flussi piroclastici e le onde anomale sono i maggiori responsabili delle morti
verificatesi in seguito ad una eruzione, i depositi da caduta e le alluvioni quelli successivi. Una
giusta valutazione del rischio connesso ad ogni singolo fenomeno eruttivo richiede, però, una
dettagliata conoscenza del fenomeno stesso e del territorio interessato.
Fenomeni eruttivi
I fenomeni eruttivi, come visto nella tabella, possono essere divisi in nove gruppi. Di
seguito sono riportate le caratteristiche di ognuno di essi e gli aspetti che ne influenzano i fattori
di rischio.
Colate laviche. Le colate laviche possono essere di tre differenti tipi: pahoehoe; aa; e a
blocchi. Le colate di tipo pahoehoe sono caratterizzate da croste fibrose, lisce o ondulate. Le
pahoehoe procedono per sottili strati sovrapposti, con superfici, che a contatto con l’aria, si
induriscono rapidamente. Possono svilupparsi in forma di enormi cilindri lunghi alcuni
chilometri e fino a 30 metri di diametro. Le colate di tipo aa sono più sottili delle pahoehoe e
sono caratterizzate da una superficie di scorie ruvide e frammenti spinosi. L’interno del fluido è
costituito da lava compatta, formano corsi lineari e i canali possono superare i 30 metri di
profondità. Le colate a blocchi sono sostanzialmente simili alle aa ma con la superficie composta
di grandi blocchi poliedrici. Quest’ultimo tipo è meno comune e caratterizza le eruzioni ricche di
silicati con formazioni vitree in prossimità della bocca.
Spesso accade che una stessa colata nel corso del suo sviluppo passi da una tipologia
all’altra, tale trasformazione dipende dai fattori fondamentali che definiscono le proprietà dei
diversi tipi di colate laviche, e sono:
• composizione del magma,
• temperatura,
• viscosità,
• tensione limite,
• portata effusiva.
Le temperature registrate variano per le colate basaltiche tra i 1050-1300°C e per quelle
acide tra gli 880-1050°C. Siccome le temperature di combustione dei vestiti, della carta e del
legno sono minori di 250°C, tale differenza è prettamente accademica dal punto di vista del
rischio.
Con il raffreddarsi, anche grazie a fenomeni di nucleazione, la lava perde fluidità e la
colata tende a fermarsi, la temperatura minima registrata in una colata ancora in movimento è di
750°C.
Colate basaltiche hanno temperatura maggiore e di conseguenza viscosità minore di quelle
andesitiche. Anche la tensione limite varia inversamente con la temperatura, e influenza in
maniera sostanziale la forma e le dimensioni delle colate. In fine per ogni tipo di colata la portata
di un’eruzione costituisce un fattore fondamentale a cui riferirsi per conoscerne la velocità e
poter valutare la distanza che riuscirà a percorrere prima di arrestarsi. In ogni caso le colate più
lente sono quelle più ricche in silicati, le altre, più veloci, hanno, però, caratteristiche
morfologiche che conferiscono loro un coefficiente di scambio termico migliore, un
raffreddamento più veloce che le porta, a parità di altri fattori, a fermarsi prima.
La bassa viscosità e la bassa tensione limite delle colate pahoehoe e la sottigliezza delle
singole unità che costituiscono il fluido, indicano che questo tipo di flusso devia repentinamente
di fronte ad irregolarità del suolo o ad elementi artificiali come case o muri. L’alta temperatura
continua a rappresentare, ad ogni modo, un elevato fattore di rischio, che si estende su di un’area
relativamente larga. Sebbene le colate aa e quelle a blocchi si muovano più lentamente delle
pahoehoe ed abbiano una temperatura minore, non presentano probabilmente un rischio minore.
Le temperature sono ancora ben al di sopra dei punti di combustione di molti materiali utilizzati
dall’uomo e della vegetazione, e, in ogni caso, una maggiore portata effusiva determina una
maggiore velocità della colata. Ancora, il fronte del flusso è più sottile ed ha una tensione limite
maggiore, quindi devia molto meno facilmente. D’altro canto queste tipologie interessano
un’area più ristretta
Nelle eruzioni di tipo Stromboliano, Vulcaniano, Freatomagmatiche e Pliniane si forma
una colonna eruttiva pressoché verticale, composta da un getto di sostanze solide disperse e gas.
La dispersione iniziale è condotta dalla sovrapressione e dall’espansione dei gas. Lo sviluppo,
invece, è sostenuto dall’azione convettiva dell’aria circostante, può raggiungere l’altezza di 30
km anche grazie alla diminuzione di densità dovuta alla successiva dispersione dei solidi.
Proiezioni balistiche. Bombe vulcaniche, blocchi e lapilli sono clasti eruttati secondo una
traiettoria balistica. Le bombe vulcaniche sono costituite da un blocco di magma di oltre 64 mm
di diametro. La forma di una bomba dipende da molti fattori come la viscosità del magma,
portata e velocità del lancio, coefficiente di scambio termico, e velocità di degassazione. I
blocchi sono macigni di antica roccia vulcanica risultanti dai collassi delle pareti della bocca,
sono spigolosi e approssimativamente equidimensionali. Per lapilli s’intendono, invece,
frammenti di magma non condensati, e frammenti di antica roccia vulcanica di dimensioni
comprese nell’intervallo 24-64 mm. I lapilli composti di frammenti litici possono essere
proiettili, oppure, insieme a quelli costituiti da pomici contribuire ai depositi da caduta.
Il moto di un proiettile è definito da tre variabili:
•
angolo iniziale della traiettoria,
•
velocità iniziale,
•
forma del proiettile.
La forma del proiettile determina, insieme alle caratteristiche dell’aria, la resistenza che
questa oppone al moto. Sebbene sia stata calcolata la massima velocità teorica, per le proiezioni
vulcaniche, a 600m/s, in pratica le velocità misurate variano tra i 75 e i 320 m/s. L’angolo
iniziale della traiettoria copre, nella maggior parte dei casi, l’intervallo 90°-45°. Se ne deduce
che difficilmente questo fenomeno possa interessare una distanza superiore ai 5 km.
Il rischio connesso a questo fenomeno è costituito da due fattori principali:
•
l’energia cinetica d’impatto ( ½mv2 ),
•
la temperatura.
L’energia cinetica d’impatto dipende dalla velocità di arrivo del proiettile e dalla massa,
funzione, questa, del suo diametro e della sua densità. I proiettili vulcanici come visto possono
essere tanto frammenti litici quanto pomici altamente vescicolate, per cui i valori della densità
variano tra gli 0,15 e i 3,6 g/cm3. Da ciò deriva che anche un piccolo proiettile può coprire, in
funzione della sua velocità e della sua densità, diversi ordini di grandezza di energia di impatto.
Un proiettile appena lanciato può raggiungere la temperatura di 1100°C, quello che
interessa, però, dal punto di vista del rischio è la temperatura di arrivo. Questa si determina
tramite il coefficiente di scambio termico tra il proiettile e la nube di gas che ne fuoriesce durante
il volo. In ogni caso è evidente che solo i grandi proiettili raggiungono alte temperature
all’impatto, cosa che, per i frammenti litici, implica un’alta energia cinetica.
Depositi da caduta. I depositi da caduta si generano dal tefra proveniente dalla colonna
eruttiva sostenuta. La colonna sviluppandosi in altezza diminuisce di densità, infatti, le particelle
più grandi e pesanti cadono dalla nube, definendo la relazione che vede le particelle minori
coprire le maggiori distanze, giacché entrando nella troposfera la nube stessa subisce la
deviazione relativa alla spinta dei venti regionali. Diminuendo, poi, la concentrazione di
particelle diminuisce anche lo spessore dei depositi. In genere, quando il vento non muta
direzione durante l’eruzione, si verifica una distribuzione ellittica dei depositi, con l’asse
maggiore in direzione del vento, con uno spessore di diversi metri in prossimità della bocca che
decresce fino a coprire vastissime aree, (827000 km2, Krakatau nel 1883). Il rischio maggiore
consiste sostanzialmente nel peso che può raggiungere il deposito, funzione dello spessore e
della densità degli elementi piroclastici che nella maggior parte dei casi sono impregnati
d’acqua, ed in sostanza, a parità di volume, più pesanti.
Un rischio aggiuntivo è costituito dalla totale oscurità cui è soggetta la zona sottostante la
colonna.
Flussi piroclastici e valanghe di detriti. Con il termine flussi piroclastici ci si riferisce a
tre categorie di fenomeni vulcanici:
1. Flussi piroclastici in senso stretto, detti anche nueé ardentes, sono
flussi di superficie composti da materiale frammentario e da misture di
gas e solidi. Nascono dai collassi della colonna eruttiva sostenuta.
Quando la spinta convettiva dell’aria non è più sufficiente la colonna
inizia a collassare e si generano movimenti laterali lungo le pendici
del vulcano generando così i flussi.
2. Ondate piroclastiche, surges, nascono da movimenti turbolenti
laterali dovuti all’espansione di misture di gas e solidi, possono essere
sia caldi che freddi.
3. Esplosione diretta relativa a cedimenti dell’edificio vulcanico.
Le valanghe di detriti si generano, invece, da collassi strutturali di grande entità.
Gli effetti, dal punto di vista della valutazione del rischio, di tali fenomeni sono circa gli
stessi. I fattori fondamentali che ne definiscono le caratteristiche di rischio sono:
•
velocità,
•
temperatura,
•
dimensioni del flusso.
Le velocità misurate in diverse eruzioni per i flussi piroclastici variano tra 20 m/s e 120
m/s, le misure sono state effettuate a grande distanza e tramite tecniche fotografiche
approssimative riferendosi a flussi laterali di piccole dimensioni, per cui tali valori rappresentano
un riferimento di minima. I flussi piroclastici di elevata velocità e le valanghe di detriti
possiedono una quantità di moto (mv) tali da consentire loro scavalcare rilievi notevoli. Molti
esempi, infatti, testimoniano che anche le aree elevate possono essere a rischio. Sembra, in
realtà, che posseggano velocità estremamente variabili tanto da avere, per la stessa corrente
eruttiva, caratteristiche distruttive unitamente ad una azione di lento seppellimento. Si ipotizza
che una continua produzione di flussi piroclastici determini, a monte del flusso, la generazione di
surges che conferiscono al corso un moto ondulatorio. Tali flussi sono caratterizzati da un
regime altamente turbolento, infatti fu notato che i vortici prodotti da un flusso piroclastico su di
un terreno irregolare furono i responsabili dell’abbattimento di alcuni alberi lungo la direzione
del flusso ( Bagana, Bougainville, 1966).
Le temperature come le velocità sembrano essere molto variabili, da temperature di 300°C,
relative alla saldatura di frammenti vescicolari e detriti, a valori tanto bassi da lasciare elementi
di carta o di corda intatti.
I flussi possono raggiungere grandi dimensioni in altezza ma la loro estensione laterale è
generalmente ridotta. Sono caratterizzati da un denso strato basale, responsabile degli effetti
distruttivi, che anche nel caso in cui fosse di dimensioni trascurabili potrebbe essere
accompagnato da nubi o ondate di cenere molto calde.
In definitiva i flussi piroclastici coprono un vasto spettro di magnitudine e impetuosità.
Flussi relativamente piccoli sono fortemente controllati dalla topografia, interessando solo
un’area prossima al cratere, e sono in grado di scavalcare solo i dislivelli minori. Al contrario i
grandi flussi piroclastici si sviluppano radialmente dal cratere in tutte le direzioni e possono
superare rilievi di alcune decine di metri anche a chilometri di distanza.
I rischi connessi a questi fenomeni sono rappresentati da:
• l’energia cinetica d’impatto ( ½mv2 ),
• la temperatura.
Anche se l’alta temperatura può danneggiare o distruggere edifici e colture, molto più
dannoso può risultare l’impatto della zona basale.
Lahars e geysers. Per deposito da lahars si intende un fiume di fango contenente detriti e
macigni che si origina dalle pendici del vulcano. Siccome i flussi piroclastici seguono
l’andamento topografico, scendendo a valle raccolgono sempre più acqua. Un flusso piroclastico
raffreddandosi, liberando gas ed acquisendo acqua lungo il suo cammino, può quindi, diventare
un fiume di fango.
I geysers generano sostanzialmente flussi fangosi, ma hanno una particolare genesi,
nascono, infatti, da esplosioni di depositi di ghiaccio sotterranei causati da attività vulcaniche.
Possiamo dividere i lahars in due categorie, i principali che nascono direttamente
dall’attività vulcanica, e i secondari che prendono origine dalle abbondanti piogge conseguenti
alle eruzioni, grazie soprattutto ai depositi di ceneri che non permettono al terreno sottostante di
drenare l’acqua in eccesso. Sia i principali che i secondari possono formarsi nei modi più
disparati, ad esempio da un flusso piroclastico che investe un fiume o da un lago formatosi
all’interno di un cratere coinvolto da un’eruzione.
La maggior parte dei lahars fluisce lungo le valli, quindi è facile distinguere le aree
soggette a tale rischio, è da tener presente che viaggiano a grandi velocità, seppellendo sotto i
propri depositi vaste aree. La densità dei lahars varia notevolmente da fenomeno a fenomeno e
lungo lo stesso flusso, così come la sua velocità e di conseguenza anche la distanza che è in
grado di coprire.
Per i lahars che muovono da bacini vulcanici, il grado di pericolo è proporzionale alla
massa d’acqua in essi contenuti. Per quelli di tipo secondario la possibilità che si verifichino
dipende dallo spessore dei depositi e dalle dimensioni delle particelle che li compongono, dalle
pendenze, dalla quantità e intensità della pioggia e dalle condizioni di drenaggio del suolo. Il
rischio può rimane alto anche per alcuni mesi dopo l’eruzione, i lahars, come le colate laviche o i
flussi piroclastici, anche se in maniera minore, attivano, con la loro azione erosiva, nuove e
vecchie frane in punti precedentemente ritenuti sicuri.
Tra gli “eventi lahar” rientra anche la rimobilizzazione di materiale piroclastico secoli
dopo l’eruzione (lahars intereruttivi).
Attività sismiche e deformazioni del suolo. Nella valutazione del rischio vulcanico gli
eventi sismici sono importanti per due ragioni:
• causano danni significanti alle cose e alle persone,
• rappresentano un segnale premonitore dell’imminente eruzione.
Molti dei terremoti di origine vulcanica si generano in conseguenza ad alcuni movimenti
del magma ed ad esplosioni di gas all’interno del condotto. Questi si generano a pochi chilometri
dalla superficie, mentre altri sismi sono causati da ridistribuzione dei carichi e subsidenze della
caldera. Come visto sopra, i vulcani si trovano in zone ad alta attività tettonica, per questo sono
spesso comuni terremoti con tale genesi, diventa un punto di rilevante importanza, quindi, poter
distinguere l’origine dei diversi fenomeni sismici. Determinato, poi, che una certa attività sia di
origine vulcanica niente assicura che in breve tempo ci debba essere un’eruzione, di contro, la
stessa può avvenire preceduta da dinamismi sismici irrilevanti.
La valutazione del danno relativo ai terremoti vulcanici non sembra essere preoccupante.
Tali fenomeni sono, infatti, di natura diversa da quelli tettonici, caratterizzati da intensità minori
e, soprattutto, da aree di avvertibilità estremamente ristrette.
Le deformazioni del suolo avvengono prima e dopo un’eruzione, anche queste possono
annunciare, o meno, un’imminente attività vulcanica. L’entità del fenomeno può essere
irrilevante o causare nel tempo gravi danni, sollevando il suolo, in alcuni casi, anche di parecchi
metri.
Onde anomale. Le onde anomale sono onde generate da fenomeni sismici che interessano
i fondali marini. Molte di queste nascono da movimenti tettonici, ma alcune sono causate da
attività vulcaniche. Le onde anomale hanno un altissimo potere distruttivo e come visto nella
tabella sopra sono causa di un elevatissimo numero di morti. Per produrre un’onda del genere è
necessario che il fondale marino con i suoi movimenti sposti, come fosse una pala, una notevole
quantità d’acqua.
La velocità di un’onda v1 può essere calcolata con la formula v1 = gd , dove g è
l’accelerazione di gravità e d la profondità del fondale marino. Nelle profonde acque oceaniche
si possono raggiungere velocità di 800 km/h. Le onde generate da collassi della caldera o altri
movimenti tellurici di matrice vulcanica, si sviluppano radialmente secondo un treno di onde,
con un periodo che va dai 5 ai 60 minuti, e la loro energia diminuisce velocemente
allontanandosi dalla sorgente, l’ampiezza diminuisce secondo l’inverso del quadrato della
distanza percorsa. Avvicinandosi alla terra, l’onda subisce in altezza e direzione l’influenza della
conformazione del fondale marino, della piattaforma continentale, della linea costiera e perfino
delle condizioni della marea. Il rischio connesso ad un tale fenomeno è funzione quindi tanto
delle condizioni di formazione che delle proprietà del punto di arrivo. La velocità media v2
all’arrivo, per un dato evento, si calcola approssimativamente come v2 = ( h 0,75i 0,5 ) / n , dove h è
l’altezza media di inondazione rispetto al livello del suolo, i l’inclinazione della superficie
dell’acqua e n è il coefficiente di ruvidità superficiale del suolo (Hatori, 1964).
Particolare attenzione bisogna porre per quelle onde che nascono a seguito di un flusso
piroclastico, una valanga, o di un’onda d’urto che raggiunge il mare; potendo questi eventi,
infatti, percorrere decine di chilometri, possono mettere a rischio inondazione zone ben lontane
dall’eruzione.
Fenomeni atmosferici. I fenomeni atmosferici connessi ad una eruzione sono molteplici,
si riportano di seguito i più significativi sotto l’aspetto della valutazione del rischio.
Improvvisi e localizzati incrementi di pressione, alla bocca del vulcano, provocano forti
onde d’urto generate dall’esplosione di grandi quantità di vapore e altri gas, tali perturbazioni si
spingono per diverse centinaia di chilometri. Qualora tali espansioni raggiungessero la velocità
del suono il fronte d’onda diventerebbe visibile attraverso archi di luce. In ogni caso le onde
d’urto sono le imputate alla valutazione del rischio poiché possono causare danni alle persone ed
agli edifici.
Durante un’eruzione si verificano spettacolari e potenti fulmini, particolarmente dove alla
produzione di molte particelle sottili si accompagna una forte espansione di gas. Le cariche
elettriche, che si accumulano a causa dello sfregamento delle particelle con i gas, determinano la
nascita del fenomeno e si può manifestare con alcuni eventi per ora fino ad una sequenza
incessante. Se le scariche vanno da nuvola a nuvola o dalla colonna eruttiva al centro del cratere,
solo i sistemi di comunicazione sono a rischio, se invece è coinvolto anche il suolo, il rischio,
seppur minimo a causa della bassa probabilità, coinvolge uomini e cose.
Piogge acide e gas. Le componenti volatili del magma formano durante l’eruzione diversi
gas che si propagano in tre differenti maniere:
•
fumi acidi,
composti assorbiti dalle particelle di tera,
•
particelle solfuriche.
•
La colonna eruttiva è composta in gran parte di vapore e solfati. Le prime piogge
conseguenti l’eruzione assorbono la maggior quantità di sostanze disperse nell’aria, per la
valutazione del rischio è importante determinare, quindi, la distribuzione di pioggia e la quantità
relativa ad una certa colonna. In più i depositi da caduta sono caratterizzati dal forte contenuto di
diversi gas di acido solforico, idrocloridrico, idrofluoridrico e ammoniaca. Per la stretta
dipendenza che questo fenomeno ha con la colonna eruttiva, la distribuzione di questo tipo di
rischio segue la stessa legge relativa al rischio connesso ai depositi da caduta.
Valutazione del rischio
I fattori che influenzano il grado di rischio connesso ai diversi aspetti di un’attività
vulcanica sono molteplici, i più importanti sono:
•
distanza dalla bocca e area totale coperta,
velocità,
•
temperatura,
•
•
durata del pericolo,
probabilità che il fenomeno si verifichi.
•
Ognuna di queste caratteristiche influenza la capacità, che ogni evento possiede, di
infliggere danno agli edifici e altre strutture, e la probabilità che occorrano morti o seri danni alle
persone.
Tali variabili sono relazionate, nelle tabelle presenti in questa pagina, con le principali
manifestazioni vulcaniche. I valori si riferiscono ai dati raccolti durante le passate eruzioni, in
molti casi non sono altro che stime, poiché le testimonianze attinenti sono poche o confuse. I
valori di massima distanza coperta o area interessata, devono essere valutati in relazione al fatto
che il periodo storico su cui si basano le informazioni è notevolmente corto rispetto alla storia
vulcanica di moltissimi siti considerati.
Depositi da caduta, onde anomale, onde d’urto e piogge acide e gas sono fenomeni che
interessano una grande area, ma la tabella iniziale indica che solo le onde anomale presentano un
rischio rilevante per le persone. E’ chiaro, comunque, che tale rischio è limitato alle acque
profonde ed alle fasce costiere.
Nonostante le colate laviche abbiano un’elevata temperatura, il rischio cui espongono le
persone è molto basso giacché sono molto lente e costrette dall’aspetto topografico. Mentre sono
altamente dannose per gli edifici e le strutture in generale. Analoga situazione per i flussi
piroclastici minori e per i lahars, che essendo molto veloci, distruggono ogni cosa lungo il loro
cammino ma lasciano la possibilità alle persone di rifugiarsi sui rilievi più alti. Cosa che non
avviene per i flussi di entità maggiore, che seppelliscono ogni cosa e per i quali le condizioni di
sicurezza non
si valutano con l’altezza dei rilievi, ma secondo la distanza dal cratere.
Tale molteplicità di situazioni aumenta la difficoltà nell’assegnare il grado di rischio ad un
evento vulcanico in base alle sue proprietà fisiche.
Un’accurata valutazione deve, dunque, tenere conto della casistica basata sulle eruzioni
precedenti, sulle quali si hanno dati certi, delle proprietà fisiche dei singoli fenomeni, del
particolare complesso vulcanico in termini di evoluzione, conformazione orografica ed evento
atteso e della eventuale presenza di popolazione, strutture e sovrastrutture.
Effetti dei rischi vulcanici sulle strutture
In letteratura è possibile ritrovare moltissime informazioni riguardo ai danni provocati sugli
edifici da fenomeni naturali quali terremoti, cicloni, inondazioni ed altri avvenimenti catastrofici,
di contro i lavori che investigano gli effetti sulle strutture provocati dalle eruzione vulcaniche
sono sensibilmente meno numerosi.
Analoga situazione troviamo nel campo delle normative di prevenzione dalle calamità
naturali, che prevedono, nei diversi paesi, diverse disposizioni riguardo alle strutture di nuova
concezione e all’adeguamento di quelle già esistenti in relazione al tipo di rischio cui è soggetta
quella particolare zona. Ampie e accurate sono, infatti, le direttive per l’urbanizzazione in zona
sismica, poco o niente si trova, invece, per l’edificazione in zona vulcanica.
Primo passo, per la conoscenza del rischio vulcanico cui sono soggette le strutture, è
costituito dalla distribuzione dei fenomeni eruttivi sul territorio, ad un evento vulcanico sono in
generale, connessi differenti rischi che, secondo il tipo d’eruzione, in diversa misura,
caratterizzano l’evento. Possono verificarsi: eruzioni laviche, caduta di ceneri, flussi piroclastici,
colate di fango, terremoti, tsunami (onde anomale), effetti atmosferici e piogge acide. Le
eruzioni vulcaniche possono, quindi, colpire gli edifici attraverso una varietà di cause e con
molteplici tipologie di danno. Gli edifici possono essere soggetti a collassi, seppellimenti,
trascinamenti, cedimenti delle fondamenta, indebolimenti, sovraccarichi, sovrapressioni agenti
sulle murature e/o sulle coperture, impatti di proiettili balistici, corrosione o incendi. Alcuni di
questi meccanismi possono operare contemporaneamente come risultato delle azioni di più rischi
vulcanici, alcuni di questi hanno effetti più dannosi di altri. Oltretutto la probabilità di ogni
singola causa di danno varia non solo con la frequenza con la quale sono associati ad un singolo
fenomeno, ma anche da fenomeno a fenomeno.
Ad esempio, gli edifici sono più facilmente sommersi che trasportati dalla lava, ma il
trascinamento avviene più probabilmente per opera dei lahars che delle colate laviche.
La tabella di cui sopra, (R. J. Blong, 1984), basata sui dati disponibili di tutte le eruzioni
documentate avvenute nel mondo, riporta la probabilità di un dato evento dannoso in relazione
ad ogni rischio vulcanico, rappresenta solo valori di riferimento a causa della quasi totale assenza
di informazioni quantitative.
Presenta diversi punti di interesse, gli incendi ed i collassi strutturali sono le dinamiche
associate al maggiore numero di tipi di rischio, ma i danni che più spesso avvengono sono quelli
relativi ai sovraccarichi dei muri, seppellimenti e inondazioni. D’altra parte, flussi piroclastici e
onde anomale sono i fenomeni che causano la più vasta gamma di danni, mentre i danni minori
sono causati dalle piogge acide e gas.
I dati si riferiscono a condizioni generali. Un’analisi accurata non può trascendere da
alcune fondamentali valutazioni riguardanti l’edificio stesso, come la tipologia costruttiva, i
materiali adottati, l’anno di costruzione, la qualità dell’opera, la forma del fabbricato, e
l’orientamento. In più bisogna valutare la presenza o meno di ciminiere, balconi, parapetti e altre
decorazioni altamente vulnerabili. Ingenti danni possono essere causati dalla rottura dei sistemi
elettrici, condotte e tubature del gas specialmente se l’evento si verifica in un momento della
giornata durante il quale è alto il loro utilizzo.
In relazione allo scenario eruttivo vesuviano atteso ed alla notevole urbanizzazione delle
sue pendici, i fenomeni che presentano il maggior fattore di rischio, anche a causa della loro
elevata estensione, sono:
•
i flussi piroclastici
I flussi piroclastici, P.D.C. (Piroclastic density currents), hanno un grande potere
distruttivo poiché trasportano prodotti piroclastici ad alta densità.
1
q f = δ ⋅ν 2
La loro pressione dinamica è misurabile tramite l’espressione
,dove
2
δ è la densità del P.D.C. e ν è la sua velocità.
i depositi da caduta
•
L’imponente mole di pomici proiettate dal vulcano copre a mantello con spessore
decrescente aree sempre più lontane dalla bocca. La maggior parte delle coperture
delle moderne costruzioni sono progettate per sopportare, secondo i casi, poco più
del loro peso o di eventuali persone, un consistente deposito è decisamente in
grado di comprometterne la stabilità.
Il sovraccarico q delle coperture per deposito di cenere varia oltre che in funzione
della distanza dal cratere anche in funzione delle caratteristiche della copertura
stessa: diversi profili strutturali determinano distribuzioni di carico diverse, per lo
stesso deposito si possono avere, cioè, differenti condizioni di carico.
le alluvioni
•
Le eruzioni esplosive, come la prossima attesa al Vesuvio, sono in genere
accompagnate da forti precipitazioni accompagnate dall’emissione di ceneri che
depositandosi al suolo, anche per spessori molto modesti, ne riducono fortemente
la permeabilità. Allagamenti estesi e colate di fango sono certamente da attendersi,
soprattutto in zone dalla complessa orografia come quella vesuviana, in quanto la
situazione sarà peggiorata dalla riduzione di efficienza del deflusso a causa della
grande quantità di materiale solido trasportata dalle acque discendenti il vulcano e i
rilievi circostanti.
Blong, al fine di realizzare un resoconto dei danni per le assicurazioni locali, ha analizzato
le condizioni di 173 edifici registrate immediatamente dopo l’eruzione avvenuta nel settembre
del 1994 in Papua Nuova Guinea, che distrusse gran parte della città di Rabaul (Blong, 2002).
L’attenzione si è focalizzata principalmente sui danni causati dai depositi da caduta, sui diversi
danni, cioè, inflitti secondo le diverse tipologie costruttive. I dati evidenziano che le strutture di
cemento resistono meglio di altre ai sovraccarichi dovuti, ma che difficilmente i moderni edifici
residenziali sono in grado di sopportare un carico delle coperture oltre i 7 kPa. L’intento dello
studio è, quello generale, di rapportare gli effetti dei diversi pericoli vulcanici con le tipologie
costruttive e i meccanismi di cedimento degli edifici. Stabilita una catalogazione degli edifici
attraverso una scala di valori di danno, Blong è stato in grado di valutare le diverse condizioni di
resistenza del costruito in funzione delle isopache dei prodotti da caduta.
Pomonis et al. (1999), hanno presentato i risultati di uno studio sui rischi cui è soggetto
l’insediamento urbano presso il Vulcano Furnas nelle isole Azzorre. Come riferimento è stata
utilizzata l’ultima grande eruzione avvenuta sull’isola nel 1630. Il lavoro si basa su una
dettagliata catalogazione degli edifici secondo alcune tipologie costruttive e grado di
conservazione; valutata, poi, in base ai dati delle precedenti eruzioni, la potenzialità distruttiva
dell’evento vulcanico atteso e la probabilità che ogni singolo fenomeno ad esso connesso si
verifichi, si sono potuti delineare i contorni del rischio vulcanico della cittadina di Furnas. Si
presentano alcune raccomandazioni riguardo le misure protettive, da adottare prima
dell’eruzione, per ridurre il rischio degli abitanti generato dal cedimento dei solai e dal collasso
degli edifici; le principali riguardano il consolidamento delle strutture al fine di aumentarne la
resistenza ai carichi laterali, per resistere alle scosse di terremoto ed eventualmente a flussi
piroclastici di lieve entità, altre propongono di aumentare il grado di resistenza delle coperture
fino ai livelli previsti nelle zone in cui avvengono pesanti nevicate, in modo da sopportare i
carichi relativi ai depositi da caduta.
Durante i test nucleari degli anni ’40 e ’50, realizzati per valutare gli effetti di una
eventuale guerra nucleare sulle strutture, si produssero sugli edifici pressioni laterali del valore di
circa 100 kPa. Attraverso alcune semplificazioni, Valentine, ha utilizzato i dati raccolti in quelle
occasioni per meglio comprendere gli effetti dei flussi piroclastici (Valentine, 1998), ha
realizzato, grazie adalcune tabelle che relazionano, in termini probabilistici, i carichi laterali con
la gravità del danno per diversi elementi costruttivi, come porte, finestre, muri, e sull’intera
struttura in base, principalmente, alla qualità di realizzazione e all’orientamento(Pickering e
Bockholt, 1971).
Successivamente ha analizzato le documentazioni relative alle eruzioni che hanno colpito il
Mt. Lamington nel 1951, Ercolano, durante l’eruzione vesuviana del 79 A.D., e St. Pierre,
eruzione del Mt. Pelee del 1902 e grazie alle tipologie di danno unitamente ad una stima della
velocità, ha realizzato una stima della concentrazione di particelle dei flussi piroclastici e quindi
della loro pressione dinamica.
Nell’anno 2000, grazie ad un rinvenimento archeologico presso Terzigno sul versante
orientale del Vesuvio, a 5 km dal cratere, sono stati riportati alla luce i resti di alcune ville
romane totalmente distrutte dalle correnti piroclastiche relative all’eruzione del 79 A.D.
Nunziante et al. (2003), hanno proposto un’innovativa analisi strutturale che, partendo dallo
studio dei danni prodotti sui muri parzialmente crollati delle costruzioni romane, permette di
valutare la pressione dinamica dei flussi piroclastici che si sono abbattuti sulla zona. L’analisi
strutturale non lineare è di tipo inverso e si basa su alcune prove sperimentali che forniscono la
tensione limite propria delle strutture. Si è potuto ottenere, cioè, tramite la moderna teoria
dell’analisi limite, il valore della pressione dinamica capace di produrre i danni riscontrati sui
muri abbattuti. I risultati ottenuti restituiscono per tale pressione valori di pochi kPa (1-5). Tali
valori sono consistenti con quelli proposti in alcuni degli ultimi studi vulcanologici basati sulle
simulazioni numeriche della propagazione dei flussi piroclastici (Todesco et al.,2002). Mostrano,
poi, come tali pressioni sono capaci di causare il collasso tanto la distruzione degli edifici in
muratura quanto dei moderni edifici in cemento armato ampiamente diffusi nell’area vesuviana.
Il lavoro, rappresenta, dunque, una migliore definizione del rischio legato ai flussi
piroclastici in un’eventuale eruzione al Vesuvio e stabilisce le linee guida per l’edificazione nelle
zone circostanti.
Zuccaro et al. (2003), tramite una modellazione fluidodinamica, hanno simulato
l’interazione tra un flusso piroclastico e gli edifici di un insediamento urbano. Il modello
geometrico riprende una parte della periferia di Torre del Greco esposta direttamente all’attività
del Vesuvio ad una distanza di 6 km, lungo il settore sud-ovest e composta principalmente da
edifici di moderna fattura in cemento armato, alti fino a 30 m. L’integrazione delle equazioni
differenziali della massa, quantità di moto e bilancio dell’energia cinetica turbolenta è stata
effettuata tramite il metodo degli elementi finiti su di un modello tridimensionale, il regime
turbolento è modellato con il metodo RNG κ-ε per la valutazione della viscosità effettiva. La
simulazione si limita al caso di un flusso omogeneo, in regime stazionario, con velocità iniziale
di 20 m/s, densità pari a 10 kg/m3 e viscosità 10-3 Pa s, limitato, dalla pressione atmosferica, in
un volume di dimensioni 2500 m nella direzione del flusso, 200 m di sviluppo in altezza e 100 m
di espansione laterale. I risultati mostrano una parziale protezione operata dagli edifici più vicini
al cratere nei confronti di quelli interni, oltre ad una debole variazione della pressione totale
lungo la direzione principale del flusso piroclastico. Si calcola un valore massimo di pressione
relativa, causato dall’impatto del flusso sulla prima schiera di edifici, pari a poco meno di 1,4
kPa, per un valore medio di circa 0,8 kPa, e una diminuzione per gli insediamenti più protetti
fino a valori medi di –0,3 kPa.
In un lavoro contemporaneo, Petrazzuoli et al.(2003), si sono interrogati sulla resistenza
degli edifici posti nelle diverse aree soggette a rischio vulcanico dell’area Vesuviana. Stabilito
che la maggior parte di tale costruito è realizzata in cemento armato, privo di rinforzi antisismici,
necessari a resistere alle sollecitazioni orizzontali, hanno proceduto ad una simulazione degli
effetti che una sovrapressione orizzontale può causare sulle più comuni configurazioni di questo
tipo di fabbricati, al fine di stabilire i limiti dell’intervallo delle sovrappressioni capaci di
causarne il collasso. La procedura utilizzata è detta Structure Horizontal Resistance Evaluation at
Collapse (SHREC), si basa sul calcolo del lavoro necessario a creare una cerniera plastica nei
punti di contatto tra colonne e solai, per diversi meccanismi di collasso, numeri di piani e
composizione dei volumi; da tale valore energetico si deduce la necessaria spinta laterale.
L’intento è quello di comprendere quanto, e a che distanza dal cratere, può, un flusso
piroclastico, creare danni in caso di eruzione vesuviana. I termini di confronto sono costituiti dai
lavori di altri autori che si sono interrogati sulla resistenza degli edifici in cemento armato
sottoposti ad azione sismiche (Cosenza, 2000; Dai, 1996; Meli, 1991). In conclusione, in accordo
con il lavoro di Meli (1991), essi stabiliscono un limite di resistenza inferiore di quasi 5 kPa, per
arrivare oltre i 10 kPa per gli edifici di pochi piani e realizzati secondo criteri antisismici.
Gli autori hanno attribuito un errore di valutazione nella comparazione degli effetti di un
esplosione nucleare sugli edifici a quelli causati dall’eruzione del 79 A.D. ad Ercolano, che ha
portato Valentine (1998) a sovrastimare la pressione dei flussi piroclastici relativi a tale evento
(circa 10 kPa), l’azione distruttiva, infatti, di una esplosione nucleare se crea danni paragonabili
a quelli causati dal collasso di una colonna eruttiva, agisce in tempi fino a tre ordini di grandezza
inferiori, il passaggio del vento nucleare avviene in termini di millisecondi, mentre quello di un
PDC in secondi.
Allo stesso periodo risale uno studio dell’azione combinata di un evento sismico e il
sovraccarico dovuto ai depositi da caduta eruttivi su di un portale ad arco in muratura ad opera di
Baratta et al. (2002). Il lavoro mostra come aumenti la vulnerabilità sismica della struttura in
rapporto all’aumento di carico verticale.
Ulteriore lavoro, relativo agli effetti degli hazards vulcanici sulle strutture, è stato condotto
da Spence et al. (2003). Lo studio si basa sulla catalogazione degli edifici dell’area vesuviana,
ottenuta da lavori precedenti, Spence et al. (2000), Zuccaro (1998), (2000), secondo la tipologia
costruttiva, la distanza dal cratere, la distribuzione e la tipologia delle aperture e relative
protezioni. Si può ottenere una stima della resistenza alla sovrapressione dei diversi edifici, delle
coperture e delle protezioni. La pressione dei flussi piroclastici che si è presunto agire sulle
strutture è stata derivata dagli studi di Espositi Ongaro et al. (2002), e Todesco et al. (2002), per
un intervallo risultante sugli edifici compreso tra 0,5 e 1,1 kPa. In tali condizioni, opportuni
schermi protettivi applicati alle aperture possono essere in grado, in genere, di preservare gli
edifici da incendi e gli abitanti da lesioni. Segue una previsione dei danni cui sarebbe soggetta la
cittadinanza vesuviana in relazione alle valutazioni effettuate confrontate con un precedente
studio sulle conseguenze di un’eruzione sulla popolazione, Baxter (1998; 2000; 2004), oltre ad
alcune linee guida per la mitigazione del rischio Vesuvio.
1.2 Hazard al Vesuvio
La storia
Negli ultimi anni, numerosi studi vulcanologici sono stati realizzati al fine di incrementare
la conoscenza relativa alle passate eruzioni ed alle attività del complesso vulcanico SommaVesuvio. Le trasformazioni strutturali e morfologiche, gli intervalli temporali tra gli eventi
eruttivi, e i differenti stili delle eruzioni verificatesi durante il passato sono adesso ben noti.
L’attività del Somma-Vesuvio mostra un andamento regolare che definisce, chiaramente,
un alternarsi di fenomeni Pliniani con altri Subpliniani-Stromboliani, insieme ad alcune
manifestazioni ad alta intensità effusiva. Questa sequenza si è verificata molte volte, e i prodotti
piroclastici intervallati ai paleosuoli si ritrovano comunemente nelle aree perivulcaniche. Grazie
a questi depositi è stato possibile ricostruire la storia del vulcano.
Attualmente si può affermare che le conoscenza sull’attività del Somma-Vesuvio sono ben
definite e la stratigrafia dei prodotti mette in evidenza nel tempo una sequenza di otto cicli di
attività, l’inizio dei quali è sempre stato contraddistinto da una forte eruzione esplosiva a
carattere pliniano. Secondo uno schema generale, le grosse eruzioni esplosive del SommaVesuvio cominciano con una fase sostenuta ( messa in posto di prodotti da caduta), cui segue una
fase di collassi parziali della colonna (messa in posto contemporanea di prodotti da caduta e
prodotti da corrente piroclastica in settori del vulcano molto localizzati), fino a concludersi con il
collasso finale della colonna (messa in posta di prodotti da flusso piroclastico periclinalmente al
vulcano); l’interazione acqua/magma gioca un ruolo più o meno preponderante nei singoli eventi
pliniani.
Le fasi interpliniane hanno visto, invece, il verificarsi di episodi a più bassa esplosività, a
carattere stromboliano o vulcaniano, cui spesso sono seguite manifestazioni effusive
Di seguito sono riportate brevi note riguardanti i principali eventi degli ultimi 10 ka.
L’eruzione di Ottaviano, 8000 anni a.C.
Nell’arco di 19 ore l’eruzione di Ottaviano produsse 2,40 km3 di materiale piroclastico
attraverso flussi piroclastici surges e depositi da caduta (Alessio et al., 1974; Rolandi et al.,
1993b). I depositi da caduta sono composti da alcuni strati di pomici e si ritrovano
principalmente sul versante orientale del monte Somma. La migliore traccia di tali depositi si
ritrova nella zona di Ottaviano. Le tracce di almeno quattro flussi piroclastici, invece, sono state
ritrovate lungo l’area settentrionale. Due depositi relativi a surges, poi, rappresentano gli effetti
dell’eruzione in una fascia sottile compresa tra S. Giuseppe Vesuviano e Ottaviano.
L’eruzione di Avellino, 3550 anni a.C.
L’eruzione di Avellino produsse principalmente depositi da caduta e surges. I primi
mostrano una stretta analogia con quelli relativi all’eruzione del 79 d.C., poiché come questi
mostrano uno strato basale di pomice bianca coperto da uno di pomice grigia. Valutati con
attenzione i depositi presentano un alternarsi di materiale freatomagmatico e puramente
magmatico. I depositi di pomice bianca sono ampiamente dispersi lungo il versante orientale,
mentre la pomice grigia presenta una dispersione in direzione nord-nordest.
I depositi relativi ai surges idromagmatici sono intervallati con i depositi da caduta di
origine Pliniana lungo l’intera sequenza. Ad Ercolano è possibile trovare circa 10 m di depositi
da flusso piroclastico, che vedono la presenza di grandi elementi litici e probabilmente generati
dal collasso della colonna sostenuta.
Le eruzioni protostoriche
Il periodo compreso tra le eruzioni di Avellino e del 79 A.D. è stato chiamato periodo
protostorico, durante il quale hanno avuto luogo due eruzione singole ed un ciclo eruttivo
(Rolandi et al., 1998). Le prime due eruzioni sono avvenute poco dopo quella di Avellino ed
entrambe mostrano una progressiva evoluzione dallo stile puramente magmatico a quello
freatomagmatico, mentre il ciclo eruttivo si compone di cinque eventi freatomagmatici separati
dalla messa in posa di depositi relativi ad alluvioni. I prodotti della prima eruzione protostorica,
separati dai depositi dei surges dell’eruzione di Avellino dal paleosuolo, datato 3450 anni a.C., e
portati alla luce nel settore orientale del vulcano, sono ben visibili nella zona di Terzigno; sono
rappresentati da uno strato basale ricco di pomici in direzione est-sudest dal vulcano, mentre
presentano uno strato di cenere litica in direzione est-nordest. I prodotti della seconda eruzione
protostorica sono molto simili ai precedenti. La terza eruzione consiste di cinque successive fasi
eruttive sempre più intense e intervallate da alluvioni, i depositi coprono un paleosuolo datato
2700 anni a.C.
L’eruzione del 79 d.C.
L’eruzione del 79 d.C. durò 30 ore, tra il 24 e il 25 agosto, e ci furono depositi da caduta,
depositi relativi a surges e a flussi piroclastici. Come per l’eruzione di Avellino, i depositi
presentano un primo strato di pomici bianche seguito da uno di pomici grigie. Durante la fase da
caduta l’asse di dispersione cambiò direzione da est-sudest a sud-sudest dal vulcano. I depositi
da flusso piroclastico si ritrovano principalmente nella zona di Ercolano, dove 10 m di deposito
ricco di frammenti litici occupa l’intera sequenza. I depositi da surges sono intervallati da
depositi di pomice grigia. Con ogni probabilità l’eruzione ha evoluto da una fase a colonna
sostenuta ad una puramente magmatica, prima producendo una pioggia di pomici e poi, interrotti
da collassi minori, diversi surges, i depositi dei quali sono intervallati da depositi da caduta, e
flussi piroclastici. Una fase finale, poi, ha visto il collasso della colonna generando flussi
piroclastici e surges ricchi in liti, durante questa fase ci sono indizi di interazione acqua/magma.
L’eruzione del 472 d.C.
La più energetica eruzione storica, generò un’ampia caduta di pomici e devastanti flussi
piroclastici, surges e valanghe di detriti. La fase da caduta occupò 20 ore e produsse 1,2 km3 di
tefra, principalmente sul versante orientale del vulcano. I depositi da caduta presentano diverse
caratteristiche nei diversi settori del vulcano, sia nelle stratigrafie prossime sia in quelle distanti
dal cratere. In ogni caso si distinguono molti frammenti litici scuri, strati di pomice grigia da
caduta, dispersi diversamente nelle direzioni radiali. Lo strato di depositi da caduta è coperto da
strati di depositi relativi a flussi piroclastici e surges piroclastici secchi. Il deposito più
consistente si presenta nell’Alveo di Pollena, a nord-ovest del monte Somma, coprendo il
deposito del flusso piroclastico dell’eruzione del 79 d.C. Depositi di surges umidi, si presentano
principalmente ad est sud-est all’interno della sequenza, mentre nell’area settentrionale si
trovano segni di valanghe di detriti in cima alla sequenza.
Le eruzioni medievali
Nel periodo che va dal 472 al 1631 d.C., tre principali eventi esplosivi sono stati
identificati grazie a studi nell’area perivulcanica. I prodotti di queste eruzioni coprono gran parte
del settore orientale del vulcano e sono chiaramente visibili nella zona di Terzigno. I prodotti
della prima e della seconda eruzione sono caratterizzati da strati di lapilli scuri intervallati da
livelli di cenere nera a grana grossa. Gli strati più sottili sono particolarmente ricchi di frammenti
e cristalli litici magmatici, mentre frammenti juvenili sono maggiormente presenti nei livelli più
consistenti.
La terza eruzione medievale ha prodotto due strati sottili di lapilli interrotti, alla base, nel
mezzo e in cima, da sottili strati cineritici scuri e arricchiti in liti.
L’eruzione del 1631 a.C.
L’eruzione Subpliniana del 1631 a.C. (Rolandi et al., 1993a; Rosi et al., 1993) ha generato
depositi da caduta, distribuiti sul versante orientale, depositi da flusso piroclastico e surges
minori. Non è sicura una produzione di lava sebbene ne sono presenti tracce ad Ercolano e Torre
Annunziata. I segni dei prodotti da caduta sono ben visibili nell’area di S. Giuseppe Vesuviano,
sono costituiti da pomici e rari frammenti litici lavici e hanno grana e composizione variabile.
Sono presenti rilievi stratigrafici con chiari segni di depositi da flusso piroclastico nell’area
meridionale, nella zona di Pozzelle il deposito raggiunge i 12 m e si distinguono tre diverse
composizioni, la seconda mostra una grana fine ricca di pomici e litici di dimensioni. Presso
Somma Vesuviana, un deposito da surge di 30 cm copre un sottile strato di materiale da caduta.
In fine, una cenere omogenea e ben distribuita copre i segni del collasso della colonna Pliniana e
dei diversi flussi piroclastici. In conseguenza all’eruzione, flussi di detriti, fiumi di fango ed
alluvioni hanno segnato il territorio lungo le principali direzioni di flusso.
L’eruzione del 1906 d.C.
L’eruzione del 1906 d.C. fu la più importante eruzione dell’ultimo ciclo di attività del
Somma-Vesuvio, il quale iniziò con l’eruzione del 1631 e si concluse con 34 anni di attività
effusiva (Mercalli, 1906; Perret, 1924). L’eruzione iniziò il 4 Aprile con grandi esplosioni che
precedettero una consistente produzione di lava. La sera del giorno 7, per circa 4 ore, un’attività
di tipo Stromboliano generò una fontana lavica dell’altezza di 2 km e una moderata produzione
di depositi tefritici. Il giorno seguente iniziò la fase di demolizione del cono eruttivo, con la
deposizione di frammenti juvenili e litici lavici, per sfociare in un getto di gas sostenuto.
L’eruzione finì con una lieve colonna sostenuta che si depositò lasciando un sottile strato di
cenere non vescicolata (Bertagnini et al., 1991; Mastrolorenzo et al., 1993).
I depositi di pomici più chiare si ritrovano nell’area tra Ottaviano e S. Giuseppe
Vesuviano, si possono distinguere tre sezioni. La parte basale, ben classata a gradazione inversa,
è composta di frammenti scoriacei neri e rari litici e riconducibile alla prima fase Stromboliana.
Il deposito intermedio, riconducibile alla fase di distruzione del cono, è ben classato a gradazione
inversa principalmente composto di frammenti litici e clasti lievemente vescicolati. La parte
superiore, in fine, deposta durante la fase finale, è caratterizzata da diversi livelli di cenere rossa
a grana grossa e cenere fine dal colore grigio e rosso.
Durante la sua vita, il Vesuvio è stato caratterizzato, quindi, da eruzioni di tipi differenti,
probabilmente in relazione alle condizioni del sistema magmatico. Periodi caratterizzati da
persistente attività stromboliana, con sporadici eventi freatomagmatici, si associano ad una
riserva magmatica poco consistente e superficiale congiunta ad una condizione di condotto
aperto. D’altra parte, l’ostruzione del condotto vulcanico e l’accumulo e la differenziazione di
una grande quantità di magma sono associate alla probabilità di un evento esplosivo di grandi
dimensioni, seguito normalmente da un lungo periodo di riposo (Santacroce, 1996), interessato
dalla formazione e crescita di una camera magmatica fino a che si verifichino le condizioni per
un nuovo fenomeno esplosivo. L’entità dell’eruzione deriva dalla dimensione e dalla profondità
della riserva di magma, e dipende dal parziale o totale svuotamento della camera. L’attuale
periodo di quiescenza, che dura dal 1944, segue l’attività osservata nell’arco temporale che va
dal 1631 al 1944, lungo il quale i periodi di inattività non hanno mai superato i 7 anni (Carta et
al., 1981; Arrighi et al., 2001). Questo consistente ritardo, nella riprese delle attività del Vesuvio,
suggerisce che l’ultimo evento abbia segnato il passaggio dalla condizione di condotto aperto a
quella di condotto chiuso (Santacroce, 1993).
Studi petrologici indicano che gli ultimi 2000-3000 anni siano stati caratterizzati
probabilmente da una pressoché costante alimentazione della riserva magmatica, valutata intorno
ai 2-4x106 m3 l’anno (Santacroce et al., 1993, Cioni et al., 1995). Ipotizzando un incremento
magmatico pressoché costante, è possibile valutare la quantità di magma accumulata nella
camera dal 1944, e stimare il tipo di evento che si genererebbe dal suo completo svuotamento
durante una singola eruzione. Avverrebbe una fuoriuscita di circa 0,2 km3 di magma, circa la
quantità relativa all’eruzione sub-Pliniana al Vesuvio del 1631 (Rolandi et al., 1993; Rosi et al.,
1993). Tale eruzione è stata pertanto scelta, almeno per quanto riguarda la magnitudine, come
riferimento per l’Evento Massino Atteso (EMA) al Vesuvio, nel breve-medio periodo (DPC,
1995; Santacroce et al., 1998). L’eruzione generò depositi da caduta sul lato orientale del
vulcano e flussi piroclastici. La fase relativa alla deposizione di pomici durò circa 7 h e vide
l’eruzione di ~0.4 km3 di roccia densa equivalente (RDE). La portata massima è stata valutata tra
i 3 e i 6x107 kg al secondo (Rosi et al., 1993) e fu caratterizzata da complesse dinamiche che
interessarono il collasso della caldera e della colonna sostenuta causando la generazione di flussi
piroclastici devastanti che raggiunsero e distrussero zone fino a 7-8 km di distanza dal cratere.
Le vittime superarono le 4.000 unità.
Il rischio
In Italia i vulcani attivi sono studiati e monitorati la fine di ridurre gli effetti distruttivi di
una eruzione futura. Probabilmente, in questi termini, il Vesuvio è il migliore esempio al mondo
di relazione tra pericolo vulcanico e vulnerabilità umana. E’ noto, infatti, che un’area
intensamente sviluppata e popolata ricopre i versanti del vulcano, che può vantare comuni con la
più alta densità abitativa d’Europa. La Protezione Civile, da tempo, lavora ad un piano di
emergenza per l’area vesuviana. Nel settembre del 1995, tale piano fu presentato alle
amministrazioni locali dei paesi circostanti il Vesuvio. Il piano si basava sullo scenario eruttivo
ricavato da quello relativo all’eruzione esplosiva subpliniana avvenuta nel 1631 d.C. Nelle aree
in cui è presente un vulcanismo attivo, la previsione del pericolo vulcanico nel breve periodo è
affidata a sistemi di monitoraggio geofisici e geochimici, che sorvegliano continuamente il
rumore di fondo del vulcano (deformazioni superficiali, microsismi, variazioni di temperatura,
emissioni di gas) e che possono immediatamente comunicare significative variazioni. Questo
tipo di sorveglianza vulcanica può rivelare segnali di una nuova eruzione del Vesuvio in appena
un paio di anni.
Una previsione del pericolo vulcanico nel lungo periodo si basa sulla conoscenza della
storia del vulcano in esame e la determinazione del pericolo vulcanico. Una tale dettagliata
conoscenza rende possibile realizzare previsioni che si sviluppano lungo decine di anni, e di
stabilire specifici piani di previsione per le singole zone dell’area Vesuviana.
La distribuzione totale dei depositi dei flussi piroclastici e di quelli da caduta, avvenuta nel
corso degli ultimi 10 mila anni di storia del complesso vulcanico Somma-Vesuvio, ha permesso,
nel 2001, a Lirer et al. di quantificare il pericolo vulcanico a Vesuvio. Un processamento GIS
utilizzando le isopache dei depositi da caduta ha consentito di ricostruire la probabilità che una
certa zona sia stata interessata da depositi di origine piroclastica sul periodo di riferimento.
L’analisi restituisce una mappa del pericolo vulcanico strutturata su tre livelli:
Un’area perivulcanica ad alto rischio con la potenziale interazione dei depositi da caduta e
da flusso piroclastico oltre i 50 cm. Tale zona è soggetta ad un elevato rischio per il crollo delle
coperture e danni relativi alle sovrappressioni laterali da flusso piroclastico. Si estende su circa
86 km2 di area urbanizzata, con una popolazione di 984.954 unità.
Un’area esterna, nel settore nord-est, soggetta ad un pericolo medio, dove i depositi da
caduta dello spessore di circa 50 cm dovrebbero predominare sui depositi relativi ai flussi
piroclastici. In questa zona c’è rischio rilevante per il crollo delle coperture ma non così alto per
quello relativo ai flussi piroclastici. Comprende un’area urbanizzata di poco più di 120 km2 con
una popolazione di 502.308 abitanti.
Un’area ancora più esterna prevede un pericolo vulcanico basso, con depositi di circa 20
cm o meno, dove il rischio di crolli delle coperture risulta minimo. La relativa area urbanizzata è
di 100 km2 per una popolazione di 398.427 persone.
Il lavoro in conclusione propone una previsione nel lungo periodo per lo scenario eruttivo
al Vesuvio:
Il volume di magma (roccia densa equivalente) costituito dai depositi da
•
caduta varierebbe tra 0,2 e 0,3 km3;
•
lo spessore dei depositi da caduta tra i 20 e i 60 km dalla bocca
raggiungerebbe i 10 cm;
l’asse di dispersione dei depositi da caduta seguirebbe con tutta
•
probabilità la direzione est nord-est;
i depositi da flusso piroclastico oltre i 50 cm si dovrebbero limitare ad
•
un’area di 10 km;
il versante orientale dovrebbe essere interessato dal massimo pericolo;
•
•
la piana di Nola e quella di Sarno sarebbero investite da pesanti
alluvioni.
L’analisi tiene conto dei differenti stili eruttivi, la frequenza del pericolo e l’esposizione
sono state valutate su di un area di circa 15 mila km2. Si conferma chiaramente che l’area
Vesuviana è una zona ad elevatissimo rischio vulcanico principalmente in prossimità del cratere.
La Pianificazione Nazionale d’Emergenza si basa, essenzialmente, sulla previsione relativa
allo scenario eruttivo dell’Eruzione Massima Attesa al Vesuvio a breve-medio termine che fa
riferimento all’eruzione Vesuviana del 1631. Essa prevede una zonazione dell’area perivulcanica
secondo la tipologia e l’entità del rischio:
Nella zona rossa (circa 200 km2) vaste aree potrebbero essere soggette a
•
distruzione pressoché totale a causa dello scorrimento di colate piroclastiche,
“surges” piroclastici, colate di fango ed alla ricaduta imponente di blocchi, bombe
e lapilli.
La zona gialla (circa 1100 km2) potrebbe essere interessata da
•
importante ricaduta di lapilli e cenere, con carichi per metro quadrato superiore ai
200 kg nonché da uragani di fango. E’ stata operata, all’interno di questa zona,
un’ulteriore suddivisione che individua l’area nella quale il carico atteso per metro
quadrato è superiore ai 400 kg.
La zona blu (circa 100 km2 ), oltre alla ricaduta di lapilli e cenere con
•
carichi superiori ai 200kg/m2, potrebbe essere soggetta a devastazioni connesse
allo scorrimento di colate e torrenti fangosi ed ad inondazioni ed alluvionamenti
anche estesi. ( Santacroce et al.1998.).
La valutazione del pericolo derivante dalla deposizione delle piroclastiti di caduta è stata
formulata, oltre che in base alle eruzioni precedenti, con l’aiuto dei risultati ottenuti da alcune
simulazioni numeriche. Le simulazioni sono state condotte da Santacroce et al. nel 1998, presso
il Dipartimento di Scienza della Terra dell’Università di Pisa, e rendono la ricaduta di 0,2 km3 di
magma denso, per colonne di diverse altezze comprese tra i 12 e i 22 km, per diverse popolazioni
granulometriche, “tipo 79” più vescicolate e “tipo 1631” più dense, e per tutti i profili di velocità
del vento relativi agli ultimi 15-20 anni di rilevamento effettuati dagli aeroporti di Brindisi e
Capodichino. Una volta ottenuta l’altezza e l’estensione dei depositi si sono determinate le aree
per le quali si eccedono prefissati valori soglia, rapportando, poi, per ciascun punto dell’area
perivulcanica in esame, il numero di simulazioni che vedono superato un certo valore soglia con
il numero di totale di simulazioni, si è potuto determinare la probabilità che in quel punto si
abbiano depositi di altezza superiore a quel valore soglia.
La Pianificazione Nazionale d’Emergenza, in termini di depositi da caduta, nasce dal
confronto di questa mappa di probabilità con gli effetti delle eruzioni precedenti di magnitudo
simile o superiore a quella di riferimento.
Grazie al lavoro di Nunziante (1997), commissionato dall’Osservatorio Vesuviano, si passa
da una valutazione della sola probabilità connessa ai depositi da caduta all’analisi dei danni che
questo fenomeno vulcanico è in grado di arrecare. Lo studio valuta lo spessore massimo di
deposito che le più comuni coperture, presenti nelle aree a rischio, sono in grado di sopportare
prima del collasso. Se ne deduce che, per i solai con estensioni proprie di quelli delle normali
abitazioni, si raggiunge la deformazione plastica per un deposito di:
48 cm per coperture con solai e travi in cemento armato,
•
•
86 cm per coperture con travi in acciaio.
I valori sono ottenuti valutando il peso specifico dei depositi umidi pari a 1600 kg/m3.
Le caratteristiche termofluidodinamiche dei flussi piroclastici sono state studiate da
Todesco (2002), tramite la modellazione fisica di un’eruzione magmatica e il processo di
propagazione di un flusso piroclastico. L’analisi del flusso è condotta a partire dalle condizioni al
cratere ottenute dallo studio dei processi magmatici a partire dalle peggiori condizioni possibili,
massimo accumulo di magma e totale svuotamento della caldera, e si interroga sullo sviluppo
bidimensionale dei flussi piroclastici lungo due profili rappresentativi dei versanti nord e sud del
vulcano Vesuvio. Il modello descrive le evoluzioni temporali di una miscela tricomposita,
costituita da un gas di base e due fasi solide in sospensione rappresentative della più grande e più
piccola specie di particelle presenti nel flusso. Diverse simulazioni bidimensionali e
assialsimmetriche, al variare dell’ampiezza del settore entro il quale si sviluppa la colonna
eruttiva e del profilo del versante vulcanico considerato, mostrano la dipendenza della potenza
del flusso e della distanza raggiunta con la portata di massa eruttiva e la sua composizione,
descrivono come si generi la colonna eruttiva sopra il cratere e successivamente collassi in un
flusso piroclastico che si sviluppa lungo il versante vulcanico, si evidenziano anche la
formazione di phoenix clouds, sviluppo di vortici controvento che risalgono il flusso. La
formazione del flusso piroclastico avviene dopo poche centinaia di secondi dall’eruzione e
rappresenta un fenomeno continuo ed esteso che finisce per coinvolgere l’intera colonna eruttiva,
fanno eccezione le simulazioni caratterizzate da un contenuto d’acqua superiore, 4% in luogo del
2%, per le quali non si verificano flussi piroclastici di rilievo. Alcune simulazioni contemplano
la possibilità, più realistica, che il materiale eruttivo non fuoriesca con continuità dal cratere, tale
condizione determina una minore densità della colonna ed una sua maggiore stabilità a causa
dell’azione convettiva dell’aria circostante, il flusso piroclastico conseguente ha, quindi,
caratteristiche più contenute.
In definitiva, tale lavoro fornisce un’idea dei flussi piroclastici tra i più distruttivi possibili
generati da un eruzione vesuviana nel breve-medio periodo, ed evidenzia come possano essere
influenzati dall’andamento orografico delle pendici del vulcano. Le valli, ad esempio,
determinano un aumento della distanza che tali eventi possono coprire, mentre il Monte Somma
non rappresenta una valida barriera, almeno per i flussi connessi con le eruzioni di grande
magnitudine. Lo studio propone una distanza coperta dai flussi piroclastici tra i 4 e gli 8 km e,
grazie alle simulazioni fatte, mette le basi per la creazione di una mappa del rischio sia spaziale
che temporale.
Tali simulazioni numeriche, poi, sono state analizzate, in termini di variabili locali del
flusso, da Espositi Ongaro (2002), con lo scopo di determinare quantitativamente il pericolo
relativo a tali eventi nell’area vesuviana. L’analisi è condotta al fine di determinare il
comportamento temporale delle principali variabili caratteristiche del pericolo connesso ai flussi,
come la densità, la velocità, la temperatura e la pressione dinamica, al variare della distanza dal
cratere ed in prossimità del suolo; le prime tre variabili sono dedotte direttamente dalle
simulazioni numeriche lungo un periodo di 15 minuti, da queste è possibile derivare la pressione
dinamica e quella isotropica rispetto alla pressione atmosferica. Tali grandezze, fondamentali per
determinare il danno prodotto dal flusso sulle strutture e alle persone all’interno degli edifici,
dipendono direttamente dalla portata eruttiva per angolo di propagazione lungo il cratere. Per il
caso peggiore possibile, cioè una portata di 5x107 kg al secondo ed un settore interessato con
un’estensione di 90°, si riscontrano valori simili per le due grandezze di pressione, compresi tra 3
e 1 kpa, rispettivamente per la media e la lontana regione del flusso. Si evidenzia il
comportamento non intuitivo e non stazionario dei flussi anche per condizioni al cratere costanti.
I danni alle strutture verificatisi nelle precedenti eruzioni, sono attribuiti in virtù dei bassi valori
di pressione ottenuti, alle caratteristiche non stazionarie dei flussi piroclastici ed alle rapide
variazioni di pressione. Recentemente gli effetti distruttivi dei flussi piroclastici sono stati
osservati durante l’eruzione del Monte S. Helens nel 1980, a Merapi nel 1994 e al vulcano delle
isole Soufriere, si è potuto notare che nonostante siano letali nelle zone prossime al cratere
possono esserlo molto meno in quelle più distanti, in particolar modo se gli edifici sono provvisti
di opportune protezioni (Baxter et al. 1998). E’, pertanto, utile e interessante studiare i flussi
piroclastici attraverso l’analisi di quelle variabili che sono più significative per la quantificazione
dell’impatto che tali fenomeni producono sulle strutture e le persone che si trovano nelle aree
esposte al loro rischio; ad esempio, il principale fattore di rischio per le persone, connesso alle
regioni più distanti del flusso, è rappresentato dai problemi respiratori (Baxter et al. 1998).
Le valutazioni, legate allo scenario eruttivo dell’Eruzione Massima Attesa al Vesuvio,
hanno la forza di delineare i contorni della grave condizione cui è soggetta la popolazione
vesuviana. Per ottenere, però,una conoscenza, seppur approssimata, del rischio non basta
stabilire quale sarebbe il peggior scenario possibile, ma diventa necessario conoscere la
probabilità che ogni singolo evento vulcanico si manifesti con una data magnitudo unitamente
alla valutazione dei danni che quell’evento di quella magnitudo è in grado di arrecare.
Su questo tipo di approccio è improntato il lavoro di Mazzocchi et al. (2004) che, tramite
uno schema ad albero, stabiliscono un metodo per la valutazione della probabilità del danno che
ogni singolo evento legato ad una generica eruzione vulcanica può causare. I nodi dell’albero
sono caratterizzati da tutte le possibili alternative attraverso le quali si caratterizzano i fenomeni
vulcanici, a partire dalla ripresa delle attività fino a comprendere la possibile estensione di ogni
singolo fenomeno e la probabilità del danno arrecato a persone o edifici. Ad ogni nodo è
possibile associare un grado di probabilità in modo da calcolare la probabilità che l’eruzione
procuri un certo danno tramite il prodotto delle probabilità di ogni singolo nodo superiore. I
valori propri di ogni nodo sono valutati preliminarmente in base a valutazioni teoriche,
successivamente sono modificati tramite le informazioni storiche riguardanti quel particolare
evento, e sono ulteriormente modificati attraverso le informazioni ricavate dal monitoraggio dei
segnali delle attività pre-eruttive.
In quest’ottica gli studi di Santacroce ?, di Mazzocchi et al (2004). e di Nunziante (1997),
sulla probabilità e i danni relativi ai fenomeni vulcanici, rappresentano la strada da seguire per
una corretta valutazione del rischio vulcanico al Vesuvio.
La prevenzione
L’area vesuviana esposta a rischio vulcanico comprende 18 comuni:
Cercola, Pompei, Portici, San Giorgio a Cremano, Torre Annunziata, Boscoreale,
Boscotrecase, Ercolano, Massa di Somma, Ottaviano, Pollena Trocchia, San
Giuseppe Vesuviano, San Sebastiano al Vesuvio, S. Anastasia, Somma
Vesuviana, Terzigno, Torre del Greco, Trecase.
Nell’arco di 40 anni (1951-1991), la popolazione residente in tale area è cresciuta da 353.172 a
651.648 unità, e la densità abitativa è passata da 2,5 a circa 0,89 abitanti per stanza.
Appare evidente, come negli ultimi anni, pur rimanendo costante il pericolo, l’incremento
del valore esposto abbia fatto lievitare considerevolmente il rischio. In un vasto territorio, infatti,
scempi e rapporti suicidi con il territorio hanno enormemente aumentato l’esposizione della
popolazione, notevolmente accresciuta nel periodo, e del patrimonio edilizio altrettanto
follemente accresciuto, con una densità di abitanti per chilometro quadro elevatissima,
soprattutto nella fascia costiera (13.000 ab./km2).
Questo dimostra che, nella memoria della gente, si sia in parte perso il ricordo dell’ultima
eruzione del 1944, e che bisogna lavorare per assicurare un futuro alla popolazione, che più che
essere protetta dai fenomeni naturali deve essere protetta da sé stessa.
La prevenzione, attualmente, si muove su due binari: uno dell’emergenza e l’altro della
programmazione.
Nel caso in cui avvenissero manifestazioni eruttive distruttive nel breve periodo, il
territorio si ritroverebbe necessariamente in condizioni di emergenza.
Se, invece, il Vesuvio perdurasse nella sua condizione di quiescenza, ci sarebbe il tempo
per programmare ed attuare un piano di progressivo smantellamento del valore esposto, tramite
una mirata pianificazione economica e territoriale.
La Pianificazione Nazionale d’Emergenza prevede, nei giorni precedenti l’eruzione,
identificati grazie alla continua sorveglianza dell’Osservatorio Vesuviano, di evacuare le
popolazioni dei diversi comuni esposti a rischio in altri comuni di Italia con i quali questi sono
“gemellati”. C’è da sottolineare, però, che i segnali precursori tipo evento sismico non sono
univoci, non è detto, cioè, che a questi corrisponda necessariamente un’eruzione. Si
verificherebbero pericolosissimi falsi allarmi che indurrebbero, nella popolazione, una notevole
perdita di credibilità nei confronti del piano di emergenza, rendendolo inefficace, oltre a causare
ingenti perdite economiche. La durata di tali segnali non è, poi, ben definibile, se dovessero
protrarsi a lungo nel tempo, infatti, potrebbe verificarsi il rientro della popolazione evacuata
proprio prima del verificarsi dell’evento vulcanico. Oltretutto il piano prevede un’evacuazione
scaglionata, ed è improbabile che, sotto l’imminente pericolo di un’eruzione, la popolazione di
un determinato comune aspetti disciplinatamente, prima di mettersi in salvo, che quello
adiacente liberi le proprie case. In più niente assicurerebbe il ritorno delle popolazioni ospiti
nelle loro case originarie.
Nello stato attuale la valutazione di un tale scenario è indispensabile, ma, avendo tempo, è
più che necessario trovarne uno alternativo, quello, cioè, della programmazione.
In contrapposizione, infatti, alla logica di emergenza si sta affermando, nella costruzione di
politiche e di piani per i territori provinciali e per l’assetto regionale in Campania, una nuova
cultura del rischio, l’intenzione, cioè, di incrementare la sicurezza delle aree urbane tramite
politiche di medio e lungo periodo, che cerchino di realizzare una riconfigurazione del territorio
al fine di recuperare il delicato equilibrio tra componenti e morfologie insediative,
infrastrutturali, e ambientali, che i recenti sviluppi urbani hanno minato.
Il programma di mitigazione del rischio vulcanico, realizzato dalle istituzioni, prevede,
inanzitutto, un progressivo alleggerimento del carico abitativo nel medio lungo periodo, la
possibilità, cioè, di una “decompressione insediativa” delle aree urbane di rischio vulcanico,
intesa come una strategica alternativa in grado di innescare gli interventi di trasformazione
territoriale e di riqualificazione necessari per lo sviluppo della regione.
Nell’ultimo decennio il territorio ha visto la popolazione di molti comuni diminuire, ma
bisogna che tale andamento continui e si incrementi. Per fare ciò è impossibile utilizzare metodi
coercitivi, bisogna creare, tramite spinte di carattere economico e urbanistico, un esodo
spontaneo e progressivo. Una strada percorribile è quella di incentivare la realizzazione di unità
abitative, in zone della regione non esposte a rischio, che assicurino condizioni di vivibilità
migliori di quelle proprie dell’area vesuviana, e mettere a disposizione incentivi economici per
tutti gli abitanti delle zone esposte a rischio vulcanico, che volessero acquistare casa altrove.
Con i provvedimenti del 2003 la Regione Campania, infatti, ha bandito la disponibilità di
più di 90 milioni di euro per il recupero e la costruzione di alloggi sull’intero territorio generale
ad esclusione delle aree vesuviane ricadenti nella zona rossa a rischio Vesuvio. In più ha reso
disponibili contributi, a partire dal 2005, per tutti quei nuclei familiari dell’area a rischio Vesuvio
che si allontanino dai 18 comuni ricadenti nella zona rossa. Ha inasprito la repressione
dell’abusivismo edilizio nella zona rossa, già vincolata da tempo. Ha conferito punti di merito
per le imprese che chiedono aiuti economici e che si insedieranno in immobili residenziali,
presenti nella zona rossa, riconvertiti all’uso produttivo. Ha proposto e incentivato mirati atti di
informazione e sensibilizzazione, riguardanti il programma di mitigazione del rischio vulcanico,
al fine di consentire alla popolazione interessata di condividerlo e accettarlo. Questi ed altri
provvedimenti sono stati presentati alla popolazione con il nome “progetto Vesuvia” che prevede
opuscoli ed eventi informativi, al fine, in accordo con le linee guida dei provvedimenti, di
assicurare, alle popolazioni vesuviane, la conoscenza di ciò che sta cambiando sul loro
territorio(Boll. uff. R.Campania 31-14/7/03).
Il rischio, così, “cambia segno” e diventa un agente di trasformazione territoriale, una
occasione di sviluppo, la possibilità di strutturare il tessuto urbano insediativo secondo una
logica sostenibile, da una parte si recuperano e riqualificano le zone a rischio e dall’altra si
ridisegna un tessuto urbano dal più ampio respiro dove sia possibile uno sviluppo policentrico ed
integrato.
I provvedimenti Regionali esposti rappresentano, comunque, solo il primo passo nella
programmazione volta a prevenire il rischio Vesuvio, e il loro maggior valore è rappresentato dal
fatto che incentivano nella popolazione la formazione dell’idea di vivere in un luogo altamente
pericoloso.
Obiettivo della ricerca e metodologia seguita
1.3 Dinamica eruttiva e impatto sulle strutture.
Studio delle correnti piroclastiche ad alta densità (PDC).
Uno dei principali obiettivi perseguiti in questa ricerca è costituito dallo studio dei flussi
piroclastici.
I flussi piroclastici rappresentano una delle più comuni e pericolose tra le dinamiche
eruttive. Nascono prevalentemente dai parziali collassi cui va soggetta la colonna eruttiva
sostenuta. Data la complessa struttura granulare la loro modellazione è ostacolata dalla mancanza
di modelli reologici.
Si intende intraprendere un progetto di ricerca per analizzare il comportamento reologico
dei flussi granulari e la loro interazione con gli edifici.
Si propone una metodologia costituita da:
prove di impatto in laboratorio PDC-strutture; prove di carico;
•
•
simulazioni numeriche; leggi di decadimento delle azioni con la
distanza dal cratere; -dissipazione dell’energia in gioco per l’impatto con il
costruito e con altri ostacoli.
Studio dell’accumulo di prodotti piroclastici da caduta (Fall ).
Secondo obiettivo della ricerca è rappresentato dallo studio del fenomeno vulcanico
costituito dall’accumulo di prodotti piroclastici da caduta.
Le eruzioni vulcaniche sono accompagnate da una imponente e largamente diffusa
deposizione di elementi tefritici (pomici e lapilli). Fondamentale diventa conoscere l’estensione
delle aree territoriali interessate con relative isopache (mappatura delle altezze dei depositi), sia
per determinare i carichi gravanti sulle coperture degli edifici che per valutare
l’impermeabilizzazione del terreno.
Si propone una metodologia costituita da:
simulazioni numeriche; leggi di decadimento delle azioni con la
•
distanza dal cratere.
Effetti dell’eruzione del Vesuvio del 79 A.D.
La principale metodologia seguita durante quest’anno di attività è realizzata tramite
l’applicazione dei Metodi Inversi per l’analisi degli effetti di correnti piroclastiche sul tessuto
costruito. I numerosi resti di edifici di epoca romana, distrutti dall’eruzione subpliniana del
Vesuvio avvenuta nel 79 A.D., e grazie a questa ottimamente conservati, ben si prestano
all’analisi inversa della dinamica eruttiva.
Tramite la valutazione dei danni subiti è possibile, infatti, dedurre l’azione e quindi alcune
proprietà caratteristiche degli eventi che li hanno causati.
La metodologia si articola in:
analisi dei crolli verificatisi nei siti archeologici vesuviani (Oplonti,
•
Pompei, Terzigno);
studio dei diari di scavo delle relative campagne archeologiche,
•
•
simulazioni numeriche agli elementi finiti dei principali fenomeni e
conseguenti collassi che hanno interessato il costruito.
Vulnerabilità del territorio.
Definite le dinamiche eruttive se ne determinano gli effetti sul territorio, queste valutazioni
si basano su di una capillare conoscenza del costruito sottoposto a rischio vulcanico. Elementi
discriminanti sono le differenti tipologie strutturali, la conformazione del tessuto urbano e la
collocazione all’interno del particolare profilo orografico della zona a rischio:
realizzazione di una mappa del costruito con le differenti tipologie
•
strutturali;
definizione e determinazione di indici di vulnerabilità, nonché la
•
valutazione delle vulnerabilità connesse al rischio relativo alle colate di fango e
alle alluvioni, funzioni delle diverse conformazioni morfologiche;
analisi strutturale numerica delle principali tipologie di costruzioni, con
•
precedenza per quelle di interesse di protezione civile, deduzione dei carichi di:
collasso, crollo parziale, danneggiamento funzionale.
Monitoraggio del territorio
Alla conoscenza del costruito segue un lavoro di controllo e prevenzione dal rischio
vulcanico, da realizzarsi tramite interventi sugli edifici, delineazione di un nucleo di elementi
normativi per il rischio vulcanico delle costruzioni e, non ultima, una campagna di
sensibilizzazione della popolazione interessata.
rinforzo di coperture; aumento della resistenza all’azione laterale (PDC,
•
eventi sismici); Vincoli al progetto delle strutture portanti, e ad alcune
sovrastrutture di nuove costruzioni per le diverse tipologie; realizzazione di un
Fascicolo del Fabbricato della zona vesuviana che deve contenere notizie tecniche
specifiche per la classificazione dell’edificio in relazione ai diversi rischi,
vulnerabilità alle alluvioni e alle colate di fango.
2. RISULTATI OTTENUTI
2.1 Applicazioni dei Metodi Inversi per l’analisi degli effetti di
correnti piroclastiche sul tessuto costruito: il caso dell’ eruzione
del Vesuvio del 79 d.C.
Fig.1. Ubicazione del sito archeologico di Oplontis. (a). Villa A: pianta (da Fergola e Pagano, 1998) (b);
ricostruzione 3D degli amb. 34, 21 e 33 (c).
Gli effetti dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., sono stati valutati grazie ai cedimenti
strutturali subiti dagli edifici dell’epoca nell’area di Oplonti, nel comune di Torre Annunziata, i
cui resti sono stati rinvenuti nel corso degli ultimi anni, in particolare presso i siti archeologici di
Villa A e Villa B.
Villa A
La Villa A è posizionata 15 km a Sud-Est del cratere del Vesuvio; l’ingresso principale è
orientato verso Sud, per cui gli ambienti posteriori sono quelli che per primi hanno subito
l’azione distruttiva dei flussi piroclastici, fig.1.
Sul retro della villa si trovano infatti due colonnati (ambienti 331 e 341) ed il Grande
Peristilio (ambiente 211) orientati verso Nord.
Il lavoro degli Archeologi ha permesso di ricostruire quasi completamente la villa in modo
da poterla visitare nelle condizioni in cui si trovava prima che il vulcano manifestasse il suo
potere distruttivo.
L’obiettivo del presente studio è dunque quello di capire preliminarmente le possibili
modalità di collasso dei diversi elementi costituenti l’edificio, in particolare dei muri, dei solai,
delle coperture ed in generale di tutte le strutture portanti, individuando altresì eventuali indizi
che potrebbero non essere emersi a valle delle ricostruzioni archeologiche sin’ora effettuate.
Fortunatamente, l’Archivio Fotografico della Soprintendenza Archeologica di Pompei,
relativamente ai rinvenimenti degli ambienti oggetto dell’analisi, è ricco di documentazioni che,
tra fotografie e diari di scavo unitamente ad una approfondita analisi della ricostruzione, hanno
permesso una stima dei processi di collasso delle strutture presenti.
Le problematiche maggiori riscontrate nello studio della villa A sono da attribuirsi
principalmente ai tre fattori di seguito elencati:
• difficoltà di reperire una documentazione scritta (giornale di scavo)
inerente il primo decennio di scavi archeologici;
• evidenza legata al fatto che il complesso edilizio prima dell’eruzione fosse
in fase di ristrutturazione e restauro;
• impossibilità di procedere ad un’indagine lungo il lato ovest della villa,
completamente e definitivamente sepolto sotto le “Reali fabbriche d’armi e
polveriera” e l’attuale via dei Sepolcri, e a sud dell’area archeologica, per la
presenza del cinquecentesco canale Conte di Sarno.
Per ricostruire gli eventi che si susseguirono durante le fasi dell’eruzione del 79 d.C. e
descriverne gli effetti rapportandoli ai vari ambienti della villa A di Oplonti occorre far
riferimento alla sequenza stratigrafica, che è possibile esaminare nel giardino nord, e
Fig.2 Villa A, giardino nord: sequenza stratigrafica dei prodotti dell’eruzione del 79 d.C.
precisamente nell’angolo di fronte all’Amb. 62. La fig. 2 riporta la sezione stratigrafica dei
prodotti dell’eruzione del 79 d.C. nell’area di Oplonti, in cui sono descritte le caratteristiche
principali dei singoli orizzonti individuati.
Al fine di schematizzare la relazione esistente tra le dinamiche eruttive del 79 d.C., con i
relativi depositi, e gli effetti distruttivi riscontrati sulla villa A di Oplonti, la discussione che
segue è impostata individuando:
a. la fase dell’eruzione
b. il deposito relativo a quella fase
c. l’area, o le aree, della Villa in cui gli effetti di quella fase sono più evidenti.
Per ogni singola area così individuata è riportata, quindi, una descrizione analitica degli
Fig.3. Villa A, porticati 33 e 34: schema costruttivo delle tettoie.
effetti distruttivi evidenziati, corredata dalla relativa documentazione fotografica, ricavata dal
materiale dell’Archivio Storico della Soprintendenza di Pompei, dal materiale a disposizione
presso gli Uffici degli Scavi di Oplonti e dal rilievo dello stato attuale del sito.
I primi momenti dell’eruzione del 79 d.C. nell’area di Oplonti hanno visto la deposizione
di prodotti da caduta con pomici bianche, passanti a prodotti da caduta con pomici grigie,
caratterizzate da una densità media umida pari a circa 1600 kg/m3. Durante la fase di messa in
posto di questi ultimi, durata circa 12 ore, alcuni collassi parziali della colonna eruttiva sostenuta
hanno portato alla contemporanea messa in posto di prodotti da corrente piroclastica (PDC), nel
seguito individuati con le sigle da PDC1 a PDC4. Tali sigle sono riportate in fig. 2 per consentire
di individuare il corrispondente livello all’interno della successione stratigrafica.
ANALISI DEGLI AMBIENTI
I due porticati simmetrici 33 e 34 e il salone 21, fig.1c, nel settore nord-occidentale della
villa, e l’area della piscina, nel settore nord- orientale, sono quelli in cui è più evidente la
relazione tra prodotti dell’eruzione e gli effetti distruttivi per quanto riguarda le prime fasi
dell’evento. I porticati 33 e 34 erano provvisti di un corpo centrale costituito da 12 colonne, con
dei bracci esterni a 5 colonne e dei bracci interni a 4 colonne che si protendevano verso il grande
giardino nord (Amb. 56, fig. 1b); la tettoia era costituita da tegole rettangolari di terracotta aventi
dimensioni di cm 45x65, raccordate tra loro con dei coppi dello stesso materiale, mentre la
struttura portante, realizzata con una pendenza di 13°, si basava su una serie di travetti di legno,
distanti 35 cm l’uno dall’altro, poggianti sul colonnato mediante grandi travi di legno (fig. 3).
Non è stato possibile portare alla luce il braccio ovest a 5 colonne del porticato 33, sepolto
sotto l’attuale via dei Sepolcri, mentre sono esposte soltanto 9 colonne del colonnato centrale (di
cui 8 ricostruite ed una spezzata, lasciata in posto a testimonianza del cedimento, col. IV, fig.
4c).
Fig.4. Villa A, porticato 33: crolli da sovraccarico (a, b, c, d), linea di frattura delle colonne (e), pianta con
direzione di caduta delle colonne (f).
L’osservazione diretta delle fratture sulle colonne permette di ipotizzare, come causa del
crollo della tettoia, il peso del materiale pomiceo da caduta - 0,1 kg/cm2 circa - il quale ha
gravato sulla travatura innescando i meccanismi di frattura responsabili del collasso. Si può
notare, infatti, nelle colonne centrali, VI e VII, fig. 4f, una frattura principale rivolta verso
l’esterno generata da una sollecitazione di trazione, rispetto alla quale gli elementi della struttura,
costituiti da malta e laterizi, risultano più vulnerabili. In più, la quota di tale frattura, sull’altezza
di ogni singola colonna, decresce avvicinandosi alle colonne mediane, su cui si è concentrato il
carico maggiore e a partire dalle quali deve essersi probabilmente innescato il crollo (fig. 4e).
Questa considerazione è avvalorata da quanto osservabile nelle fotografie conservate
nell’Archivio di Pompei che mostrano le colonne centrali abbattute in avanti, su circa 60 cm di
pomici, all’interno del giardino nord (fig.4d), e spezzate in modo da formare un lineamento
arcuato con un minimo proprio in corrispondenza delle colonne mediane (VI e VII, fig. 4e). Le
colonne angolari, trovandosi in condizioni di maggiore stabilità, hanno resistito al collasso della
tettoia ma non al passaggio della PDC1 (col. XII, Amb. 33, figg. 5a,b); le colonne dei bracci,
analogamente, non sono crollate in avanti durante la fase da caduta, in quanto, in questa sezione
del colonnato, la travatura principale ha una lunghezza minore rispetto a quella presente nel
corpo centrale, mantenendo la stessa sezione, possedendo una rigidezza maggiore, dunque, ha
potuto assorbire le sollecitazioni indotte dal carico evitando il collasso delle strutture verticali.
L’ultima colonna del corpo centrale del colonnato 33, precisamente quella angolare (col.
XII, fig. 5e), è stata abbattuta dalla PDC1, come risulta dall’osservazione delle figg. 5a,b,
scattata dall’Amb. 17 (spogliatoio del settore termale, fig. 1b).
Il porticato 34 ha subito gli stessi effetti e le stesse modalità di crollo del porticato 33 ad
Fig.5. Villa A: porticato 33, effetti della PDC1 sulla colonna angolare est -XII - (a, b); peristilio
21, effetti della PDC1 sul colonnato (c), confronto con ricostruzione 3D (d); pianta con direzione
dei crolli (e). In blu i depositi dell’evento vulcanico, in rosso i relativi cedimenti strutturali.
esso adiacente, con sfondamento della tettoia e abbattimento delle colonne del corpo centrale
verso nord, all’interno del giardino, per l’aumento del carico prodotto dalle pomici da caduta. I
danni, tanto sulle colonne che sugli affreschi risultano, però, più ingenti, in quanto con ogni
Fig.5. Villa A: porticato 33, effetti della PDC1 sulla colonna angolare est -XII - (a, b); peristilio 21, effetti della
PDC1 sul colonnato (c), confronto con ricostruzione 3D (d); pianta con direzione dei crolli (e). In blu i depositi
dell’evento vulcanico, in rosso i relativi cedimenti strutturali.
probabilità la presenza di un secondo piano, non presente nell’altro colonnato, caricando
maggiormente l’impianto murario, ha determinato dinamiche di crollo più distruttive. Le colonne
laterali esterne (braccio Est) risultano abbattute lungo la direzione 120° nord verso l’Amb. 52
che è il corridoio che porta alla latrina (Amb. 49, fig. 1b). L’abbattimento è imputabile alla
deposizione della PDC1 e la direzione d’impatto indica una deviazione, degli effetti della
corrente piroclastica, di circa 20° verso l’interno della villa.
Spostandoci verso E troviamo l’Amb. 32 (fig. 1b), che costituisce il peristilio su cui si
affacciavano gli ambienti destinati alla servitù. Anche qui si può notare che in seguito al collasso
della tettoia, avvenuto con caratteristiche analoghe a quelle degli altri porticati, le colonne
centrali risultano spezzate a quota inferiore rispetto a quelle poste agli angoli del peristilio. Dalle
fotografie, si osserva chiaramente che le prime correnti piroclastiche sono penetrate all’interno e
si sono deposte senza determinare ulteriori danni alle colonne (fig. 6a). In definitiva è lecito
Fig6. Villa A: peristilio 32, prodotti dell’eruzione (a); colonnato 13, effetti della PDC5 sulla colonna I (b); colonnato
33, sulla destra depositi piroclastici in posto e tracce sui muri delle PDC1-4 (c); ambiente 15, calco della porta
finestra interessata dall’impatto della PDC5 (d); pianta con direzione dei crolli causati dalla PDC5 (e). In blu i
depositi dell’evento vulcanico, in rosso i relativi cedimenti strutturali.
credere che le PDC1-4 accedano al peristilio servile dopo aver dissipato, nell’impatto con la
facciata ovest dell’edificio, tanta energia da lasciare intatti i monconi delle colonne sopravvissute
al collasso della tettoia.
Il salone 21, fig. 5e, presentava un altissimo colonnato, chiuso da cancelli, realizzato
tramite laterizi e malta rivestiti di stucco bianco ornato da scanalature verticali, ai cui lati si
trovavano gli Ambb. 33 e 34, e si affacciava sul grande viridarium nord (Amb. 56). Il grande
peristilio con le sue due colonne, inserite tra 2 angolari, di oltre 6 m di altezza, offre la possibilità
di determinare la direzione d’impatto delle PDC1-4; infatti, dalle fotografie e dalle misure
eseguite su tali elementi, appare chiaramente che a partire dal pilastro angolare a ovest, la forza
d’impatto del flusso piroclastico abbia determinato un collasso a catena (figg. 5c,d), spezzando le
colonne all’altezza di circa 55 cm, e il pilastro est all’altezza di circa 90 cm (spessore dei
depositi da caduta sopra il gradino). Diversamente da quanto accaduto per gli altri colonnati
esaminati, nel locale 21 non c’è indizio di crollo dovuto al carico dei depositi da caduta.
Nell’ambiente in esame, infatti, all’epoca dell’eruzione non era presente alcuna tettoia, come
confermato dal fatto che nel materiale di scavo non è stata trovata nessuna tegola o antefissa ad
essa appartenente. L’ambiente era sicuramente provvisto di tettoia ma probabilmente non era
stata ancora ripristinata nel corso della ristrutturazione antecedente all’eruzione. In questa sala a
testomonianza del fatto che si stessero eseguendo nella villa alcuni lavori di ristrutturazione, si
trovano delle colonne di marmo appoggiate alle pareti (fig. 7) che attendevano di essere
ricollocate nella zona della piscina.
Dalla documentazione di scavo e dall’osservazione diretta è possibile dedurre che i muri
del salone 21, essendo in posizione praticamente perpendicolare alla direzione d’impatto delle
correnti piroclastiche, hanno subito l’abbattimento della sezione prossima al colonnato e non
ancora sommersa dalle pomici miste ai materiali di crollo (fig. 7). In questo ambiente, infatti, è
possibile distinguere bene la parte ricostruita dopo lo scavo, quella originaria abbattuta dalla
PDC1 e la base integra, esaminando la diversa opera muraria, il materiale utilizzato per la
ricostruzione e soprattutto il tipo di legante usato, in fase di ricostruzione post-scavo.
Dai dati raccolti si
giunge alla conclusione che
le
correnti
piroclastiche
intercalate ai prodotti da
caduta (PDC1-4) hanno
investito le strutture murarie
seguendo tutte la stessa
direzione (100-120°N), come
è testimoniato dalle impronte
sui muri. E’ plausibile
pensare che in questo settore
la PDC1 abbia avuto un
potere distruttivo maggiore
delle successive, che hanno
agito quando la struttura era
ormai danneggiata. L’effetto
demolitore sembra essersi
concentrato
solo
sugli
ostacoli
posti
perpendicolarmente
alla
direzione d’impatto, mentre le strutture murarie parallele alla direzione di flusso, in relazione a
tali eventi, non hanno subito danni rilevanti. Le correnti piroclastiche da PDC1 a PDC4 hanno
provocato danni solo nella parte nord-occidentale della villa, mentre al suo interno sono
penetrate senza produrre danni significativi, perché avevano perso energia nell’impatto.
La piscina (Amb. 96, fig. 1b) presentava il lato occidentale dotato di numerose sculture, tra
cui due erme simmetriche (una nell’angolo a nord, l’altra in quello a sud) costituite da pilastrini
marmorei (figg. 8c,e), distanti l’una dall’altra 45 m circa, su cui erano appoggiate teste
raffiguranti Eracle.
L’area della piscina era stata interessata dalla caduta di pomici, ma era stata in parte
protetta dall’impatto diretto delle PDC1-4 che giungevano alla piscina, dopo aver dissipato
energia per superare ed abbattere gli ostacoli nella zona occidentale.
Le PDC1-4 sono riuscite, in ogni modo, a provocare la caduta della testa delle erme.
Nella documentazione di scavo ci sono, infatti, alcune foto di un’erma, ritrovata il 2 marzo
1984, in cui appare chiaramente che una delle teste “virili” si trova sepolta all’interno di uno
strato di pomici grigie da caduta compreso tra due depositi da PDC (fig. 9a). Dai diari di scavo,
invece, è possibile risalire approssimativamente alle posizioni di recupero dei reperti marmorei.
Seguono stralci del giornale di scavo:
«29/12/1977 Nel proseguire lo scavo nella zona circostante la grande piscina si rinviene, a
m 14 in direzione da sud a nord, all’altezza del pilastro angolare con semicolonna addossata
dall’angolo NE dell’Amb. 91, a cm 70 dal piano di calpestio, un busto-erma, in marmo bianco di
una figura giovanile, maschile, imberbe: i capelli, a riccioli fluenti, sono legati da una tenia, con
foglie di vite, annodata alla nuca, le cui estremità scendono sul petto; lateralmente due blocchetti
parallelepipedi marmorei (marmo bianco) fissati con perni in ferro (h totale della testa cm 42).
Alla stessa altezza, a circa 1 m verso nord si rinviene un pilastrino in marmo grigio
(probabilmente pertinente alla testa) di forma parallelepipeda (altezza m 1,39; lati base cm 27,5 x
18,5) poggiante su di una basetta in marmo (h cm 17, lati cm 34 x 28,5), con cornice molassata:
tale base risulta tagliata nel lato a ovest verso la piscina. Il pilastrino era già rotto
precedentemente in due pezzi e restaurato mediante un perno di forma parallelepipeda in legno
Fig.7. Villa A, peristilio 21: ripristino, successivo allo scavo archeologico,
del muro est con pianta e direzione del crollo; alla base le colonne
destinate alla zona della piscina.
PDC5 (d); pianta con direzione dei crolli causati dalla PDC5 (e).
(h cm 13). Accanto, nello strato di lapilli, si rinviene un frammento di sigillata sudgallica con
marchio in p.p. VILLI-N»
Fig.8. Villa A, zona est: erma nord con particolare del ritrovamento della testa (a), erma nord, vista laterale e frontale
(b), piscina, angolo sud-est con cratere e statue, riposizionate dopo lo scavo, foto del marzo 1984 (c), canale
erosionale (d), pianta con direzione del flusso (e). In blu i depositi dell’evento vulcanico, in rosso i relativi cedimenti
strutturali.
«2/3/1984 Continua lo scavo a NE della piscina, viene trovata un’erma di marmo
precisamente vicino all’ultimo pilastrino, contando a partire dal lato sud. L’erma dista dal
pilastrino m 2,75 e si trova a quota m 0,85 dal piano di calpestio; continuando lo scavo in
direzione SE, viene alla luce la testa di un bambino in marmo. La testa si trova in direzione NE
dalla piscina tra il decimo e l’undicesimo pilastrino contando da sud. Detta testa dista m 3,45 dal
pilastrino numero 10 e m 3,85 dal pilastrino numero 11, e si trova a quota m 0,50 dal piano di
calpestio, fig. 9e. Durante lo sgombero del materiale a NO della piscina nell’Amb. 60 del
portico, viene alla luce una base in marmo. La base si trova a m 4 dagli Ambb. ad ovest della
piscina, precisamente a m 2,41 dallo spigolo della base di un’altra colonna che si trova a NO
della piscina». Neg. dal n° D80 a D99 del 2/3/84
Analizzando i diari si deduce che lo scavo non ha raggiunto l’effettivo piano di calpestio,
in quanto, dalle relative foto, appare evidente che la testa marmorea di Eracle è stata trovata nelle
pomici grigie da caduta tra PDC1 e PDC2, come sappiamo il deposito di pomici antecedente il
primo flusso piroclastico ha raggiunto una quota di 82 cm, per cui le quote riportate nei diari si
riferiscono a livelli diversi dal piano calpestio originario. In ogni caso si può ipotizzare che sia
stata la PDC1 a causare il distacco delle teste dai pilastrini di sostegno (figg. 8a,b).
Da quanto riportato nel giornale di scavo del 29-12-1977, si possono calcolare gli spessori
della sequenza stratigrafica ad est della piscina. Dal raffronto tra lo spessore del primo livello da
caduta misurato nella sezione stratigrafica di riferimento (giardino nord) e nell’area della piscina,
si deduce che il piano di calpestio era inclinato verso sud. La piscina stessa era stata costruita
seguendo l’inclinazione del pendio, com’è confermato dall’ubicazione del canale di scolo
proprio sulla parete a sud.
Dopo la fase da caduta, durante la quale si verificarono alcuni ridotti collassi parziali della
colonna eruttiva, un collasso più significativo portò alla messa in posto della PDC5, flusso
piroclastico ricco in elementi pomicei, correlabile con le correnti piroclastiche che distrussero la
città di Ercolano (Lirer et al. 1993).
Gli ambienti della villa in cui maggiori sono le evidenze di danni connessi alla PDC5 sono
sicuramente quelli ubicati nel quartiere meridionale.
A sud-ovest, infatti, all’interno della villa, troviamo una sala di grandi dimensioni (oecus–
Amb. 15 – fig. 1b), che è stata solo parzialmente portata alla luce in quanto si trova sotto
l’attuale via dei Sepolcri . In tale ambiente è possibile leggere l’effetto causato dalla messa in
posto della PDC5 che ha determinato lo spostamento da N verso S di una porta finestra, di cui,
attualmente, negli scavi è osservabile il calco (fig. 6d). Lo spostamento, minimo e maggiore
nella parte superiore, si spiega con il fatto che la porta era immersa quasi completamente nelle
pomici da caduta che, a loro volta, inglobavano detriti di materiale crollato.
Dalle foto di archivio e da osservazioni effettuate nella Villa si deduce che la PDC5
nell’Amb. 13, contiguo al 15, (fig. 6e), ha spezzato la colonna I ad un’altezza confrontabile con
quella alla quale aveva causato l’inclinazione della porta dell’Amb. 15 (2,7 m dal pavimento fig. 6b), per poi depositarsi a quota 1,5 m nel giardino (Amb. 19) posto a sud del colonnato.
E’ evidente che in questi due ambienti la maggior parte dei danni sia imputabile alla PDC5,
che ha agito in un secondo tempo rispetto alle correnti piroclastiche intercalate alla fase da
caduta.
Verso la fine dell’eruzione l’acqua guadagnò l’accesso alla camera magmatica (Lirer et al.
1993, 1996), per cui i depositi di questa fase dell’eruzione si presentano più frammentati e
arricchiti in materiale non juvenile. Nella sezione stratigrafica di fig. 3 il deposito di questa fase
è rappresentato dalla PDC6.
Dall’analisi della Villa di Poppea si può dedurre che i prodotti di questa fase dell’eruzione
non hanno danneggiato ulteriormente il manufatto romano, ma hanno in qualche modo solo
livellato la topografia accidentata costituita dai depositi delle fasi precedenti dell’eruzione in cui
sono imballati i resti della Villa.
Una sezione esposta lungo un taglio al limite della zona archeologica, permette di
osservare tutta la successione dei depositi affioranti nella zona ad Est della piscina.
E’ interessante notare la presenza, sopra i depositi dell’ultima corrente piroclastica del 79
d.C. (PDC6), di un canale erosionale a U avente direzione est-ovest, una larghezza di 2-3 m e
contenente un’abbondante quantità di tegole. Alla base sono visibili materiali carbonatici, mentre
Fig.9.Materiali costruttivi utilizzati per l’ambiente 33.
in alto c’è un livello di fango vacuolare contenente pisoliti (fig. 8d).
Gli aspetti sedimentologici di questo deposito fanno ipotizzare un’origine da “evento
lahar”, in quanto esso ha caratteristiche analoghe a quelli ritrovati lungo il litorale tra Torre
Annunziata e Torre del Greco e negli stessi scavi di Ercolano, interpretati da LIRER et al. (2001)
come gli effetti della rimobilizzazione post–eruttiva dei grossi volumi di piroclastiti sciolte
messe in posto dall’eruzione del 79 d.C. lungo i fianchi del vulcano. La relazione tra questo tipo
di depositi e i manufatti archeologici è stata anche evidenziata nello studio della Villa 6 di
Terzigno (Lirer et al. 2004), in cui parte del manufatto, già distrutto, risultava smantellata da
canali erosionali impostatisi dopo l’evento eruttivo.
Analisi agli elementi finiti delle dinamiche di collasso dell’ambiente 33
Grazie al metodo di calcolo agli elementi finiti, è stato possibile valutare le risposta
strutturale di un modello numerico in grado di riprodurre le caratteristiche sia geometriche che
materiali, proprie dell’ambiente 33. La simulazione non prevede la presenza delle tegole, né
Modulo di elasticità coefficiente di tensione limite tensione limite
kg
2
cm
lineare
kg
2
cm
a trazione
Poisson
kg
2
cm
a compressione
Opus reticolatum
1,0E+05
0,3
8
70
Legno
1,1E+05
0,43
800
325
Malta e laterizi
4,0E+04
0,3
4
40
evidentemente le corrispondenti deformazioni, inessenziali alla caratterizzazione del
comportamento meccanico principale del manufatto. Tale effetto può essere più semplicemente
computato attraverso un opportuno incremento del carico applicato. La simulazione prevede, per
i nodi fondamentali della struttura, differenti legami, in relazione ai materiali utilizzati nei
corrispondenti elementi della struttura reale, fig.9. La tabella indica i parametri in input assegnati
nel codice di calcolo utili a riprodurre il strutturali coinvolti nell’ambiente 33.
Al fine di valutare la risposta elastica dell’intera struttura, è stato applicato, all’intera
travatura di copertura, un carico verticale rivolto verso il basso. Il valore del carico, circa 0,6
kg/cm2, è assegnato al solo scopo di evidenziare aspetti qualitativi dell’interazione strutturale tra
i diversi elementi del modello. Il calcolo delle deformazioni avviene interamente in campo
elastico e si propone di valutare come i diversi elementi costruttivi rispondono alle sollecitazioni,
nonché di determinare quale tra questi possa essere stato il primo a cedere sotto l’azione dei
carichi derivanti da deposito di pomici durante l’eruzione del 79 d.C.
I risultati mostrano che le maggiori deformazioni, amplificate con un fattore di 105 per
A1
A1
A
A1
A
Fig.10.Andamento del modulo del vettore spostamento sul porticato 33, caricato verticalmente sulla copertura,
vista e spaccato tridimansionale.
ragioni di visualizzazione, figura 10, compaiono lungo le travi della copertura, mentre i valori
medi delle tensioni che si generano nelle colonne e nelle travi sono confrontabili, figura 11. Di
conseguenza, in relazione alla notevole minore rigidezza degli elementi verticali, vedi tabella, è
presumibile che siano stati proprio questi ultimi a cedere per primi, proiettandosi in avanti come
risulta dalle foto di scavo, reperite presso l’Archivio Fotografico della Soprintendenza
Archeologica di Pompei. Si evidenzia altresì un aumento delle tensioni cui sono chiamate a
rispondere le colonne centrali rispetto a quelle laterali, nella direzione della sezione più lunga del
colonnato, capace di produrre l’imbarcamento delle colonne riscontrato dall’osservazione dei
resti reperiti presso l’ambiente 33. Inoltre, si nota come le colonne dei bracci laterali risentano
relativamente poco del carico verticale. Questo avvalora la tesi, dedotta sempre dalle foto di
scavo, secondo la quale tali elementi siano rimasti pressoché integri fino all’arrivo del primo
flusso piroclastico.
In forza della simmetria posseduta dal settore settentrionale della villa, tali considerazioni
sono estensibili anche all’ambiente 34.
Analisi agli elementi finiti delle dinamiche di collasso dell’ambiente 21
A
Tramite l’analisi inversa si è potuto ottenere una stima della pressione minima esercitata
dalla prima corrente densa che ha investito, causandone il crollo, il colonnato dell’ambiente 21.
Lo studio si avvale di un algoritmo di calcolo basato sul metodo numerico degli elementi finiti.
Tale procedura, utile tanto per determinare il comportamento della corrente piroclastica che la
risposta della struttura, ha il notevole vantaggio di poter essere processata ed implementata
A1
A
A1
A
Fig.11.Andamento della tensione principale sul porticato 33, caricato verticalmente sulla copertura, spaccato
tridimansionale e ingrandimento.
all’interno di codici di calclo commerciali. In particolare, è stato utilizzato il programma di
calcolo FEM ANSYS, in dotazione presso il Dipartimento di Scienza delle Costruzioni
dell’Università Federico II.
I risultati sono stati ottenuti tramite l’utilizzo dell’analisi inversa, come già fatto da
precedenti autori, (Nunziante et al., 2000), al fine di determinare quale potesse essere stata la
pressione minima esercitata da un flusso piroclastico del 79 A.D. su di un muro di una villa
romana, presso Terzigno, affinché questo crollasse. Si è proceduto, infatti, prima all’analisi
fluidodinamica di una corrente piroclastica che investisse una struttura dello stesso tipo e
dimensioni del colonnato dell’ambiente 21; una volta conosciuti i profili di pressione agenti su
quest’ultima si è passati all’analisi strutturale per valutarne la risposta. In tal senso, è lecito
supporre che le deformazioni provocate dalla sovrappressione siano tali da non modificare
sensibilmente il campo di moto della stessa corrente. Tramite un processo iterativo che ha
coinvolto l’interazione tra i due tipi di analisi (strutturale e fluido-dinamica) si è potuto
determinare, infine, quale fosse la pressione dinamica necessaria al flusso affinché la struttura
cedesse.
Analisi fluidodinamica
L’analisi fluidodinamica è stata impostata, analogamente a quanto fatto da Zuccaro nel
2002, partendo dalle simulazioni di Todesco et al. (2002). Lo studio prevede, infatti, la
simulazione del comportamento di una corrente densa, con un’estensione laterale di 200 m ed
kg
un’altezza di 100 m. Per la densità si è impostato un valore pari a 10 3 e per la viscosità uno
m
-3
pari a 10 Pa × s , valori introdotti all’interno del calcolo agli elementi finiti. Variando, nelle
diverse simulazioni, il valore della velocità iniziale tra 10 e 20 m/s, si sono valutati gli effetti di
correnti piroclastiche con valori della pressione dinamica compresi tra 0,5 e 2 kPa.
Lo scopo dello studio è stato, infatti, quello di conoscere l’andamento delle pressioni
esercitate dal flusso su di una struttura immersa nel campo di moto, in particolare il colonnato
del salone 21. Il calcolo prevedeva la presenza degli 82 cm di pomici da caduta, deposti prima
dell’arrivo della corrente piroclastica, come volume di protezione dalle azioni del flusso. Non è
stata quantificata la natura granulare del deposito e come questo interagisca con la corrente.
L’intero fluido, in accordo con le simulazioni precedenti, è stato considerato omogeneo, non si è
distinta, cioè, la nube superiore fluidizzante dalla parte basale densa generata proprio
dall’interazione con i depositi precedenti. Tale approssimazione è accettabile poiché si ricerca la
pressione dinamica del flusso, qualunque sia la composizione, e non tanto la natura della sua
propagazione. Il fluido è adiabatico e in regime stazionario. L’intero campo di moto è limitato e
le condizioni al contorno impongono velocità nulla al suolo e sulle pareti esterne della struttura,
velocità in ingresso e in uscita prefissate - l’ultima costantemente nulla – e pressione atmosferica
sui restanti contorni. Variando la velocità di ingresso del fluido, per valori compresi tra 10 e 20
m/s con incremento di 0,5 m/s, si sono realizzate 21 simulazioni che interpretavano il
comportamento sulla struttura di una corrente densa dal contenuto energetico sempre più alto.
Le simulazioni numeriche sono basate sulle equazioni di Navier Stokes che impongono il
bilancio della massa, della quantità di moto e dell’energia turbolenta per un fluido monofase e
omogeneo: in particolare, l’equazione della continuità è la seguente
∂ρ
+ ∇⋅U = 0
∂t
mentre l’equazioni del bilancio della quantità di moto può scriversi nella forma
∂ρ ui
∂ui ∂u j 
∂
∂ 
1 ∂P
+
+
+
( ρ ui u j ) = −
 µeff (

∂t
∂x j
∂x j ∂xi 
ρ ∂xi ∂x j 
dove U = {ρ u1 , ρ u2 , ρ u3 } ; ui è la i-esima componente ortogonale della velocità; ρ è la
densità del fluido; t è il tempo; µeff = µ+ µt è la viscosità effettiva, pari alla somma della viscosità
laminare e quella turbolenta; τ è il tensore degli sforzi e λ è il secondo coefficiente della
viscosità.
Il campo turbolento delle velocità è stato calcolato utilizzando il modello di turbolenza
RNG (Re-Normalized Group) tramite il metodo κ-ε. Il modello RNG è particolarmente indicato
in presenza di regioni del fluido con elevati gradienti di velocità e ben si presta, dunque, a
simulare l’impatto di una corrente con un ostacolo. In termini computazionali, il metodo κ-ε
permette di determinare la viscosità effettiva, da utilizzare nelle equazioni del bilancio della
quantità di moto, secondo la formula:
µeff = µ + Cµ ρ
κ2
ε
dove κ e ε sono, rispettivamente, l’energia cinetica turbolenta e il coefficiente di
dissipazione.
La simulazione prevedeva il colonnato dell’ambiente 21 disposto lungo la principale
direzione del flusso, secondo le considerazioni fatte sui crolli riscontrati presso la villa. I risultati
evidenziano come il maggior carico da sovrapressione si concentri sul pilastro ovest, il primo ad
essere investito dal flusso, e come questo abbia costituito una notevole difesa per le colonne
interne, che vedono diminuire notevolmente la pressione esercitata dalla corrente.
Analisi strutturale
L’analisi è basata sulla stessa geometria rappresentativa dell’ostacolo presente nelle
simulazioni fluidodinamiche. Questo ha permesso di riportarne i profili di pressione risultanti e
di utilizzarli come sollecitazioni nel calcolo strutturale. La struttura ricopia le stesse dimensioni
del colonnato dell’ambiente 21 ed è considerata dal programma di calcolo agli elementi finiti,
come un continuo (fig.12).
Lo scopo dell’analisi è di conoscere le deformazioni del colonnato investito da una
corrente densa, nella maniera in cui si presuma abbia fatto la PDC1 durante l’eruzione del 79
d.C. In particolare si vuole dedurre la pressione necessaria al flusso affinché si inneschino le
deformazioni plastiche responsabili del crollo. Il materiale proprio della struttura è, in prima
N
approssimazione, isotropo con un modulo di elasticità lineare pari a 4 ⋅ 108 2 e coefficiente di
m
Poisson pari a 0.2.
Il criterio di deformazione plastica usato è quello dovuto a Drucker-Prager per le terre, che
ben riproduce il comportamento del conglomerato malta-laterizi di cui è principalmente
composto il colonnato. La condizione limite per le deformazioni elastiche impone per ogni punto
Malta e laterizi
Rivestimento di intonaco
Malta e laterizi
Rivestimento di intonaco
Fig.12.Materiali costruttivi utilizzati per il colonnato dell’ambiente 21.
del solido e per ogni relativa giacitura n:
τ n < c − tg (ϕ ) ⋅ σ n
da cui
2c ⋅ cos ϕ
2c ⋅ cos ϕ
σc =
e σt =
1 − sin ϕ
1 + sin ϕ
dove τn e σn sono, rispettivamente, le componenti tangenziale e normale dello sforzo agente
Fig.13. Andamento delle deformazioni verticali, eppz, generate da una corrente densa con pressione dinamica pari a
0,98 kPa; pianta e vista tridimensionale.
nel punto rispetto al piano di normale n; σc e σt sono, rispettivamente, la tensione limite elastica a
compressione e a trazione sopportabili dal materiale in esame; φ rappresenta l’angolo di attrito
del materiale e c la coesione.
Stabilendo per il conglomerato un rapporto
σc
= 10 ed un valore per la tensione massima
σt
N
, tipico dei laterizi, si ottengono le seguenti identità:
m2
N
ϕ = 54, 903198° e c = 63245 2 .
m
Tramite questi parametri si è proceduto all’analisi agli elementi finiti che ha restituito in
output la risposta del modello numerico, fino a valori della pressione dinamica del flusso
ammissibile a compressione di 4 ⋅ 105
Fig. 14.Andamento della sollecitazioni normali verticali di trazione, sz, sul colonnato dell’ambiente 21 investito da
una corrente densa con pressione dinamica pari a 0,98 kPa; pianta e vista tridimensionale.
insistente sulla struttura inferiori ai 0,98 kPa. I profili di pressione, generati sul colonnato tramite
l’analisi fluidodinamica di una corrente densa dotata di una pressione dinamica pari a 0,98 kPa,
sono stati in grado, infatti, di deformare plasticamente parte della base del pilastro ovest: in
figura se ne riporta l’andamento della componente verticale, caratterizzata da valori di un ordine
di grandezza superiore a quelli registrati negli altri due casi. Le componenti più elevate dello
sforzo, in questo tipo di analisi, sono le componenti verticali; se ne riporta in figura 13 il relativo
andamento. Considerando, però, il differente comportamento a trazione e a compressione del
materiale le sollecitazioni più dannose sono quelle normali verticali di trazione. E’ evidente,
dunque, che le prime deformazioni plastiche avvengano laddove la trazione è maggiore, anche in
presenza di valori di compressione più elevati, fig. 14.
La plasticizzazione della sezione del pilastro ovest procede con l’aumentare de carico
agente sulla struttura fino al crollo dell’elemento, probabilmente causato dall’insorgenza di zone
plastiche nella regione di massima sollecitazione a compressione. In queste condizioni il
programma non riesce a far convergere il processo di calcolo iterativo e non sono forniti risultati
Fig.15. Andamento della pressione dinamica, pres, sul colonnato dell’ambiente 21investito da una corrente densa
capace di causarne il crollo; vista frontale e laterale.
utilizzabili. Il diagramma sotto riporta il procedere della deformazione plastica della fibra più
sollecitata in relazione alla pressione della corrente densa.
Queste condizioni si verificano già per pressioni dinamiche superiori agli 1,6 kPa. Tale è,
dunque, il valore calcolato per il limite inferiore della pressione dinamica del primo flusso
piroclastico che investì la Villa di Poppea di Oplonti durante l’eruzione del 79 d.C. In figura 15
si riporta l’andamento della pressione dinamica per una corrente densa del tipo sopra
menzionato.
Bisogna notare che, secondo la simulazione, la frattura del pilastro ovest si innesca a partire
dalla sua base; le evidenze riscontrate dall’analisi dei resti mostrano, invece, come la frattura sia
avvenuta all’altezza che aveva il deposito pomiceo al momento della discesa del primo PDC.
Ciò può spiegarsi evidentemente tenendo in conto dell’approssimazione fatta a monte sul flusso
omogeneo che non permette una simulazione conforme a quanto avvenuto in realtà. Il ruolo della
parte basale densa dei flussi piroclastici nell’interazione con le strutture, quindi, ha un’influenza
fondamentale. Una soddisfacente analisi fluidodinamica volta ad interpretare la risposta degli
edifici all’azione di questo fenomeno piroclastico non può trascurare il coinvolgimento di azioni
dinamiche dovute all’impatto della PDC sulle strutture. dinamiche, dovute all’impatto della PDC
sulle strutture.
VALUTA ZIONI SEMIQUANTITATIVE: LE ERME DI ERACLE
Il diario di scavo del 29/12/1977, come già visto, riporta il ritrovamento, presso la villa A
di Oplonti, nella zona della piscina, di una «testa virile in marmo», raffigurante Eracle, alla
distanza di un metro in direzione sud dal primo pilastrino ornamentale, su di un letto di pomici
che, come visto, doveva essere pari a 82 cm. Il pilastrino in marmo che reggeva il busto (fig. 8a),
invece, fu ritrovato in piedi nella posizione che aveva prima dell'eruzione del 79 d.C.
Analoga sorte è toccata all’erma simmetrica (fig. 8b) disposta qualche decina di metri a
nord. Le informazioni derivano, in questo caso, dal diario di scavo del 2/3/1984, anch’esso
riportato sopra; la testa, più leggera a causa dell’assenza di «due blocchetti parallelepipedi
marmorei» laterali, è ritrovata alla distanza di 2,75 m dalla base corrispondente, non si specifica,
però, la direzione.
Probabilmente la caduta di pomici relativa all'evento vulcanico ha imballato l'erma fino
all'altezza di 82 cm, secondo i rilevamenti stratigrafici, successivamente, con l'arrivo del primo
flusso piroclastico, i busti, che si trovavano ad un’altezza di 146 cm, sono stati scalzati dalla base
per essere proiettati sul deposito di pomici da caduta sottostante.
I pilastri, ben immersi nel deposito, non hanno subito spostamenti rilevanti.
I busti erano assicurati alle basi dalla sola forza peso, e le superfici a contatto risultano
piane.
Dalla conoscenza delle posizioni iniziale e finale della testa è possibile ricostruire il moto
parabolico del grave e calcolarne la spinta generatrice, valutando poi il peso di ogni busto e l'area
di impatto del flusso si è riuscito ad avere una valutazione della pressione p che questo primo
PDC ha esercitato sui manufatti marmorei.
Si trascura la velocità di distacco del corpo dalla base, si valuta il semplice moto del
baricentro e se ne trascura il percorso di affondamento nelle pomici umide, il cui peso specifico è
pari a circa 1600 kg/m3.
Stabilendo un sistema di riferimento x,y con centro nel baricentro G del busto (fig. 9b)
all'istante t0 momento del distacco dalla base, asse x coincidente con la direzione NS e asse y
rivolto verso il basso, dalla cinematica si ottiene il valore dell'accelerazione ax impressa dal
flusso al corpo:
ax = g* xf/yf
dove g è l'accelerazione di gravità, 9,81 m/s2, xf e yf le coordinate della posizione finale del
baricentro, calcolate assumendo
come distanza al momento del
ritrovamento tra le colonnine e i
rispettivi busti, 1m per l’erma sud e
2,75 m per quella nord, e tra piano
calpestio ed ogni singolo busto pari
a 82 cm (altezza dei depositi al
momento di arrivo della PDC1). La
pressione dinamica p del flusso
piroclastico si calcola:
P = M*ax / A
dove M è la massa del corpo
in esame, pari a 42 kg per l’erma
sud e 39,3 kg per quella nord, e A la
sezione di impatto con il flusso di
circa 0,0673 m2 in entrambe i casi.
Il valore della pressione della
prima corrente piroclastica che ha
investito la villa A di Oplontis
durante l’eruzione del 79 d.C.,
ottenuto da questa prima indagine
basata su ampie approssimazioni,
definisce, dunque, un intervallo
compreso tra i 6,44 kPa e i 16,57
Fig.16.Stima delle pressioni dinamiche dei flussi piroclastici per
kPa.
diverse eruzioni, in relazione alla velocità e alla concentrazione
I diari di scavo non riportano
di particelle in sospensione.
la direzione di caduta della testa
nord, si può ipotizzare, però, che lo spostamento sia avvenuto in direzione 120°N, secondo
l’ultima direzione dei collassi causati dalla PDC1, dedotta per l’ala est del colonnato 34, e che
l’erma sud sia stata investita da una espansione laterale del flusso, fig. 8e. Tale congettura
giustificherebbe l’ampio intervallo dedotto per la pressione dinamica della PDC, in quanto il
valore superiore è da imputare al flusso vero e proprio, mentre quello inferiore, appunto, ad una
sua espansione latitudinale. In più il percorso della corrente piroclastica sarebbe così identificato
come passante lungo la sezione centro-settentrionale della piscina, conformemente a quello
ipotizzato per i crolli della zona ovest.
C’è da aggiungere, in ogni caso, che la pressione dinamica è funzione delle caratteristiche
principali del flusso piroclastico, velocità e densità, secondo la relazione:
P = ½ δ ν2
dove δ è la densità della corrente e ν la sua velocità. Queste sono maggiormente
condizionate dal percorso che esso compie a partire dalla base della colonna eruttiva sostenuta, il
risultato ottenuto è dunque, nella sua generalità confrontabile con quello quantificato nelle
indagini svolte precedentemente (fig. 10).
Tramite un’analisi strutturale inversa, condotta a Terzigno presso il sito archeologico di
Villa 6, su di un muro abbattuto da un flusso piroclastico, sempre durante l’eruzione del 79 d.C.,
si è potuto determinare, infatti, un intervallo all’interno del quale dovevano trovarsi i valori della
pressione dinamica minima necessaria al flusso affinché causasse quel tipo di collasso
(NUNZIANTE et al. 2003). Precedentemente troviamo un’altra stima dei valori della pressione
dinamica delle PDC, ottenuta attraverso la comparazione dei danni prodotti da un’esplosione
nucleare sulle strutture e sui veicoli con gli stessi causati da una eruzione vulcanica attraverso le
correnti generate, appunto, dai collassi della colonna sostenuta. Analoghi effetti distruttivi, tra
esplosione nucleare ed eruzione, permettono di attribuire a diverse PDC, prodotte da differenti
eruzioni, i valori di pressione noti e propri del vento nucleare di riferimento (Valentine 1998).
Villa B
Tramite un martinetto idraulico è stato estratto un
elemento tufaceo, costituente parte di un muro dell'antica
villa romana abbattuto dai flussi piroclastici generati
dall'eruzione del Vesuvio del 79 D.C, al fine di conoscere la
tensione limite elastica a trazione sopportabile dall’elemento
murario.
La prova d'estrazione è avvenuta il 15-01-2004 presso
il sito archeologico di Oplonti, gli strumenti di lettura hanno
permesso di misurare una forza peso generata dal martinetto
P = 193,4 Kg necessaria affinché il legame tra pietra e muro
venisse a cedere. Tale forza è stata applicata lungo la normale
alla faccia del muro.
Per conoscere il carico a rottura, proprio del muro
abbattuto, è necessario riferirsi alla superficie di contatto
sulla quale tale forza è stata esercitata e all'angolo di Fig.17.Martinetto idraulico
applicazione della forza rispetto alle diverse inclinazioni applicato al muro di Villa B,
durante la prova.
della superficie(fig.17).Il valore risultante è da ritenersi a
meno dei processi di deterioramento subiti in quasi 2000 anni sotto i depositi vulcanici.Si è
proceduto alla misura dell'area A di contatto tra l'elemento estratto e il continuo del muro.
Il calcolo è stato effettuato su di una superficie S' ottenuta da un'approssimazione
dell'effettiva superficie di contatto S tramite un ridotto numero di sezioni di piani, fig. 18.
Ogni sezione è individuata da un quadrilatero, le distanze tra i due estremi di ogni
segmento intersezione di due sezioni contigue sono misurate sull'effettiva superficie
dell'elemento estratto.
Tali misure rappresentano la soluzione ad un sistema d'equazioni che permettono la
determinazione delle posizioni di ogni punto, nonché l'orientamento dei piani contenenti le
sezioni.
Faccia superiore
Faccia inferiore
Faccia 1
Faccia 2
Faccia 3
Faccia 4
Faccia 5
LFaccia 6
Area
cm2
143
20,5
75
38,5
133,8
114
66
24,8
α
°
180
0
53
42
75
82
84
53
Fig.18.Riproduzione delle principali superfici piane dell’elemento estratto con direzione delle relative normali, ed
estensione delle aree.
a massima resistenza a trazione si ottiene dall'espressione:
σc = P / [ Σi ( Ai * cosαi ) ]
dove Ai rappresenta l'area dell'iesima faccia di S', e αi è il complementare dell'angolo
formato dall'iesima normale alla superficie e la verticale lungo la quale è stata applicata la forza.
Sostituendo i rispettivi valori numerici si ottiene:
σc = 1,16 kg/cm2
La pietra possiede un volume di 920 cm3 per un peso di 1700 g, da cui la densità risulta
essere:
ρ = 1848,4 kg / m3
2.2 Linee guida per una normativa vulcanica
Al fine di valutare di stabilire le linee guida per la mitigazione del rischio, seguono alcune
considerazioni relative ad ogni singolo hazard vulcanico.
Colate laviche
Nel caso in cui si attenda un’attività vulcanica con produzione di lava, è necessario
comprendere quali zone possono essere interessate da questo fenomeno. Le colate laviche hanno
la caratteristica di essere molto lente (5 m/s in media), permettendo di attuare misure preventive
anche durante l’eruzione stessa.
• Bisogna analizzare, innanzi tutto, la conformazione topografica in
prossimità del cratere, o nei punti in cui ci si aspetti l’apertura di una bocca,
al fine di identificare i percorsi preferenziali di scorrimento.
• Successivamente si identifica la composizione del magma presente nella
camera sottostante l’area vulcanica. Prescindendo la valutazione della
temperatura, che causa in ogni caso la combustione della maggior parte dei
corpi artificiali e della totalità della vegetazione, la viscosità del magma
incide su alcune proprietà fondamentali della colata, tra cui la velocità di
scorrimento. Un flusso poco viscoso, più ricco, cioè, di silicati, risulta più
lento, ma con un coefficiente di scambio termico minore rispetto alle colate
basaltiche, che ne determina un arresto in tempi più lunghi. L’arresto della
colata avviene, in genere, per una temperatura di circa 750°C.
• Durante il corso dell’eruzione si stima la portata effusiva e si valutano di
volta in volta le aree a rischio.
• Si valutano, lungo un’area di massima estensione del fenomeno, ad
esempio 100 km dalla bocca, i danni che può causare l’arrivo del flusso
lavico.
Si crea in questa maniera una mappa dinamica del rischio colata lavica, funzione della
portata della bocca. Diventa possibile così evacuare le sole zone che di volta in volta si aspettino
essere interessate dal fenomeno, e pianificare interventi preventivi per le sole aree effettivamente
a rischio.
Per la stima degli eventuali danni bisogna tener presente che:
! le colate tendono a seppellire le strade disposte parallelamente al loro
corso,
! caricano a rottura i muri, disposti ortogonalmente al loro cammino, e le
fondamenta dei fabbricati, si ricordi che i magmi basaltici generano colate
molto più distruttive (tensione limite maggiore),
! qualora una struttura riesca, grazie alla sua disposizione rispetto al flusso, a
resistere al trascinamento verrà quasi certamente distrutta dall’incendio
causato dall’elevata temperatura,
! riserve idriche, seppur minime, e corsi d’acqua, generalmente, causano forti
esplosioni di vapore a contatto con la lava.
1 Motivo di studio diviene la valutazione di come realizzare gli
sbarramenti in funzione dei flussi di lava attesi, oltre che ad una valida
relazione tra le variabili che ne influenzano la distanza percorsa.
L Gli interventi preventivi si limitano, oltre all’evacuazione della
popolazione dove necessario, alla canalizzazione delle colate tramite
sbarramenti e valloni artificiali che indirizzino la lava verso aree più sicure,
ed al raffreddamento forzato del fronte lavico al fine di arrestarne la corsa
Sebbene il numero di morti registrate per questo tipo di rischio è relativamente basso,
attenzione particolare deve porre la protezione civile a non permettere che ci si accosti al flusso,
la maggior parte delle morti è avvenuta, infatti, a danno di persone, che ingannate dal lento
procedere del fronte, hanno ritenuto sicuro approssimarvisi per essere poi tradite da smottamenti,
improvvisi spruzzi di lava o esplosioni di vapore o altri gas.
Proiezioni balistiche
. La quasi totalità delle eruzioni è accompagnata dalla notevole produzione di bombe
vulcaniche, blocchi e lapilli, questi elementi, eruttati secondo una traiettoria balistica,
rappresentano un grande rischio per le strutture, meno per le persone. In genere coprono al
massimo una distanza di 5 km. Se nell’area a rischio sono presenti edifici, o strutture in genere,
diventa necessario valutarne gli impatti. I danni sono causati da due fattori fondamentali:
! energia cinetica d’impatto ( ½mv2 ),
! temperatura.
I proiettili lanciati durante un’eruzione variano notevolmente in termini di dimensioni e
densità, oltre a possedere una velocità e angolo di lancio altrettanto variabili, l’energia
sprigionata all’impatto può essere da trascurabile ad altamente distruttiva.
Al fine di determinarne i danni connessi, è importante conoscere la temperatura d’arrivo al
suolo,
Per le condizioni di scambio termico solo i proiettili maggiori arrivano al suolo con
temperature elevate, questo determina una sostanziale coincidenza nella determinazione delle
zone di rischio per le due diverse cause di danno.
1 Motivo di studio diviene la determinazione della distanza dal cratere
raggiunta dalle particelle, per diverse velocità ipotizzabili, in relazione alla
massima densità possibile dei frammenti ed a un intervallo ragionevole
dell’alzate delle traiettorie. Parallelamente si possono delimitare le
condizioni termiche di arrivo. Stabilito un intervallo di temperature
possibili, al momento della partenza dalla bocca, al fine di valutarle è
necessario conoscere i contenuti gassosi delle particelle, la velocità di
degassazione e il coefficiente di convezione forzata.
L Gli interventi preventivi si concentrano sull’utilizzo di opportuni
materiali protettivi da utilizzare per gli elementi maggiormente
vulnerabili, come porte, finestre,coperture e quant’altro, disposti lungo le
probabili traiettorie dei proiettili. Il grado di protezione deve essere
correlato al livello di rischio della zona in cui si trova la struttura.
Dotazione alla popolazione di elmetti protettivi.
Depositi da caduta.
Nelle zone vulcaniche soggette a manifestazioni di tipo stromboliano, pliniano
freatomagmatico o vulcaniano, bisogna attendere, in caso di eruzione, la formazione di una
colonna sostenuta con un’altezza dell’ordine di decine di chilometri, composta di vapore, gas
diversi, detriti di piccole dimensioni, e fini prodotti eruttivi di natura tefritica. Quest’ultimi
elementi solidi, che ascendono spinti dall’azione convettiva dell’aria, vanno a costituire i
depositi da caduta. La temperatura della colonna diminuisce lungo la sua estensione, si
verificano, quindi, cadute a pioggia degli elementi in sospensione per altezze tanto inferiori
quanto maggiore è la loro massa. Tale fenomeno rende la densità della colonna inversamente
proporzionale alla sua altezza e rappresenta un ulteriore fattore di sviluppo. Conseguenze
dannose possono essere:
! Sovraccarichi delle strutture,
! rilascio di gas ed agenti corrosivi,
! oscurità.
I depositi si accumulano sui tetti degli edifici, sui viadotti, su tutte le coperture in genere,
pur dotate di forte pendenza, ciò determina un carico per il quale la struttura non potrebbe essere
stata dimensionata. Si possono verificare depositi di alcune decine di centimetri anche a grandi
distanze dalla bocca, in molti casi sufficienti a determinare il crollo dei solai di copertura.
Questo, oltre a rappresentare un danno per la struttura, costituisce un grosso rischio per le
persone eventualmente rifugiatesi all’interno. In alcuni casi a brevi distanze dal cratere si sono
registrati depositi di diversi metri, che, oltre a determinare il crollo delle coperture, hanno
causato il seppellimento della quasi totalità degli edifici. A volte i depositi sono accompagnati
da rilascio di quantità di gas, acidi solforici, idrocloridrici, idrofluoridrici e ammoniaca, nella
maggior parte dei casi tanto ridotte da non costituire un rischio rilevante per le persone. Danni
minori alle persone e agli oggetti possono essere causati dalle loro proprietà corrosive. Altri
pericolosi nascono, invece, a causa di cortocircuiti e conseguenti incendi nelle centraline
elettriche e telefoniche, infatti, le pomici, specialmente le più fini, creano all’interno di tali
postazioni deposizioni di patine conduttive a causa del loro contenuto idrico. La massiccia e
persistente presenza nell’aria di sostanze in sospensione causa seri danni alle vie respiratorie e
irritazioni agli occhi. L’alta colonna eruttiva, con la conseguente pioggia tefritica, in fine, porta
alla totale ostruzione della luce solare creando un’ulteriore condizione di pericolo generico.
Le ceneri causano problemi anche alle riserve idriche, sostanzialmente ne inquinano i
contenuti con gli acidi che trasportano, e possono causare danni ai sistemi di distribuzione, in
fine tendono ad essere prosciugate dall’enorme richiesta d’utenza necessaria nella rimozione dei
depositi dalle strade e dalle coperture.
Intralciano la comunicazione via etere filtrando e deviando le onde elettromagnetiche a
causa del loro contenuto ionico.
Al fine di ridurre il rischio connesso a tale fenomeno è necessario seguire alcune norme
fondamentali.
• Valutare il possibile andamento degli spessori dei depositi all’aumentare
della distanza dal cratere, tramite carotaggi o, se disponibili, misure dirette,
relativi alle eruzioni precedenti, altrimenti attraverso una valutazione
dell’evento massimo atteso.
• Stabilire le più probabili direzioni dei venti troposferici, questi
influenzano l’inclinazione della colonna e quindi la distribuzione delle
isopache tefritiche.
• Eseguire, all’interno della zona a rischio, una mappatura delle coperture
in funzione della loro resistenza ai carichi.
Si ottiene così la definizione delle aree a rischio sulla base della quale decidere il tipo di
intervento da operare e la portata.
1 Motivo di studio rappresentano le dinamiche relative alla genesi e
sviluppo della colonna eruttiva. La resistenza delle possibili tipologie
costruttive di copertura in funzione delle luci e dello spessore e del peso
specifico dei depositi. Il profilo di accumulo sulle superfici inclinate in
funzione della conformazione e ruvidità della superficie e delle proprietà
dei materiali tefritici.
L Gli interventi preventivi si articolano tra la totale evacuazione, nei luoghi
ove sono previsti depositi eccessivi o il totale seppellimento, e il rinforzo
dei solai e delle strutture esposte a carichi minori. Munire la popolazione
esposta di maschere protettive per le vie respiratorie e gli occhi. E’
conveniente dotare le centraline di guaine a tenuta al fine di preservarle da
cortocircutazioni. Munire il sistema di approvvigionamento idrico di
opportuni filtri da utilizzare in caso di eruzione. In fine un sistema di
illuminazione di emergenza autonomo, può essere una valida soluzione
all’improvvisa oscurità.
Flussi piroclastici e valanghe di detriti.
Oltre ai depositi da caduta, la formazione della colonna eruttiva sostenuta, genera un altro
notevole rischio: quello dei flussi piroclastici e delle valanghe di detriti. Il rischio è connesso a
due fattori principali:
! l’energia cinetica d’impatto ( ½mv2 ),
! la temperatura.
Sostanzialmente sono flussi composti di sostanze solide in sospensione che, scendendo
lungo le pendici del vulcano, vanno ad impattare contro gli ostacoli che si trovano sul loro
cammino. Possono avere temperature elevate o meno. Le tipologie di danno seguono il duplice
aspetto del flusso, questo è costituito, infatti, da una parte basale dove si addensano le sostanze
solide e una nube superiore composta di vapore e gas ad alta temperatura, entrambi le sezioni
posseggono un regime di moto altamente turbolento, la prima distrugge, la seconda incendia.
Pur mantenendo le loro caratteristiche, differenti condizioni di genesi possono determinare
diverse scale di grandezza delle proprietà del flusso e quindi del danno connesso. Azioni volte
a mitigare gli effetti di fenomeni di una data taglia possono, per questo, risultare inadeguate nel
caso occorressero eventi peggiori.
Per una valida conoscenza del rischio si possono seguire alcune direttive.
• E’ necessario valutare le estensioni di questi fenomeni nelle eruzioni
precedenti, o per l’evento massimo atteso, al fine di stabilirne le possibili
dimensioni.
• Individuare, analogamente a quanto fatto per le colate laviche, canali
preferenziali di flusso e zone di ristagno lungo l’andamento topografico
della zona soggetta a rischio.
• Riportare su di una mappa i differenti valori di danno che un eventuale
flusso, di magnitudine fissata, può causare.
I flussi piroclastici di maggiore entità non conoscono ostacoli e mantellano ogni rilievo, è
il caso del collasso finale della colonna, quindi, una volta determinata, la zona di influenza deve
essere evacuata. E’ possibile, in ogni modo, intervenire diversamente nelle zone in cui si
aspettino flussi minori, questi sono direzionali e fortemente influenzati dai rilievi. Si può, così,
creare una mappa di pericolo, relativa ai diversi percorsi che eventuali flussi possono seguire,
proporzionale alle dimensioni dei fenomeni attesi.
La particolarità di questi fenomeni consiste nell’avere contemporaneamente, nella zona
basale, un’elevata densità ed un’alta fluidità, ciò è causato dal moto fortemente turbolento della
zona superiore che, forte delle particelle più fini in sospensione riesce a trascinare lo strato
sottostante.
1 Stabilito che il carattere distruttivo di tali fenomeni è da imputare alla zona
basale, diviene interessante conoscere quali sono le caratteristiche che
deve avere per poter danneggiare ogni singola tipologia di edificio, si può
così determinare la configurazione totale del flusso e valutare tramite la
mappa di pericolo le condizioni di danno. Per le zone densamente popolate
è interessante conoscere il comportamento che assume il flusso quando
investe un agglomerato di edifici, è possibile immaginare che siano solo le
strutture direttamente esposte ad essere danneggiate, mentre le altre, a
ridosso, subirebbero solo gli effetti della nube superiore, in gran parte
mitigati dalle deviazioni che questa subisce.
L Realizzata un’adeguata mappa del rischio, relativa ai fenomeni di taglia più
probabile, funzione del danno provocato e della probabilità che una certa
zona possa essere investita da un flusso piroclastico o alternativamente da
una valanga di detriti, si devono valutare i danni maggiori, o minori, che
un evento di magnitudine maggiore, o minore, e quindi meno probabile,
può causare in ogni singolo punto della mappa; si ottiene così una
zonazione del rischio dinamica ed articolata. Scudi protettivi resistenti alle
alte temperature per porte, finestre ed altre aperture sono consigliabili al
fine di diminuire i danni provocati dalla nube superiore. Bisogna valutare,
secondo i casi, se deviazioni artificiali della parte basale del flusso o
rinforzi posti alla base degli edifici rappresentino un valido sistema di
protezione. In quest’ultimo caso è importantissimo ricordare che la discesa
dei flussi piroclastici avviene, nella maggior parte dei casi, quando già è
presente un buono strato di depositi da caduta, per questo l’azione della
zona basale avviene in genere ad una certa altezza rispetto al suolo, per una
corretta operatività è necessario tener conto della mappa di rischio relativa
ai depositi ed utilizzare elementi protettivi di spessore ben superiore a
quello dello strato basale responsabile del danno al fine di tenere in conto le
possibili fluttuazioni d’altezza dei depositi. L’alta temperatura della nube
richiede la totale evacuazione delle zone soggette.
Lahars e geyser.
I lahars sono fiumi di fango che prendono forma dalle pendici del vulcano. Possono
nascere da flussi piroclastici che aumentano considerevolmente il loro contenuto idrico, o dalle
forti piogge connesse all’evento vulcanico. I geyser, invece, nascono quando un’eruzione
coinvolge un bacino d’acqua o ghiacciaio sotterraneo, gli effetti, in ogni caso, sono
sostanzialmente analoghi. Le caratteristiche di danno sono legate ad alcune proprietà:
! l’energia cinetica d’impatto ( ½mv2 ),
! la portata,
! la percentuale d’acqua.
Le caratteristiche di un lahar, come per i flussi piroclastici, possono abbracciare un ampio
spettro di valori, la velocità varia notevolmente rendendo difficile valutare la distanza che può
coprire, così come la sua densità influenzandone la larghezza il e tipo di percorso. Ci sono
esempi di lahars che hanno semplicemente colmato di fango gli edifici posti lungo il loro
cammino, e altri che ne hanno causato il completo sradicamento. A differenza dei flussi
piroclastici, i lahars posseggono una temperatura decisamente minore, per questo la principale
causa d’incendi deriva dal tranciamento delle linee elettriche e tubature del gas. Vaste zone
possono essere interessate, secondo la portata e la frazione d’acqua, da un rilevante
seppellimento.
Per affrontare questo tipo di rischio bisogna:
• Conoscere l’andamento dei rilievi soggetti a tale rischio.
• Ricercare, nella zona a rischio le possibili cause di genesi.
I lahars, ancor più che i flussi piroclastici, seguono canali e avvallamenti, facilitando
l’identificazione dell’eventuale percorso di deflusso, e, una volta stabilita una distanza massima
di sicurezza e valutate le diverse condizioni di portata e frazione d’acqua, la creazione di una
mappa del rischio. Importante è anche conoscere dove e come possono verificarsi. Un lago
formatosi in un cratere vulcanico, ad esempio, è causa certa, in coincidenza di un’eruzione, di
lahars tanto più consistenti quanta più acqua è contenuta al loro interno. Un corso d’acqua che
solca una zona sottoposta a rischio flussi piroclastici, una volta investito, può facilmente
trasformare tali flussi in lahars. In fine, rilievi già interessati da smottamenti e valanghe sono
luoghi privilegiati per la formazione di tali pericoli, infatti, oltre alle piogge insistenti e continue
relative all’eruzione, si aggiunge il problema relativo allo scarso drenaggio del terreno dovuto ai
depositi di cenere.
1 Motivo di studio è la conoscenza dei valori limite che innescano alcuni dei
lahars di seconda specie, quelli cioè nati non direttamente dall’eruzione,
ossia il livello massimo di piogge che un dato versante può sopportare
senza franare, relativamente alla sua pendenza e conformazione tenendo
conto del mantello costituito dai possibili depositi da caduta.
L In questo caso, come per altri, la pianificazione degli interventi deve essere
fatta partendo da una mappa del rischio che tenga conto non solo di quello
proprio dei lahars, ma anche quello relativo ai depositi ed ai flussi
piroclastici. Una volta stabiliti i percorsi privilegiati si può operare tramite
dighe e canali che frenano ed indirizzano i lahars. In questo caso la bassa
temperatura e l’alto contenuto idrico del flusso permettono di intervenire
con strutture di contenimento usuali, in più, al fine di minimizzare i danni,
è possibile realizzare un sistema di monitoraggio dei canali di drenaggio
collegato agli sbarramenti. Interventi di consolidamento dei versanti
franosi tramite alberi, colture o muri di contenimento, abbassano il rischio
relativo ai lahars secondari.
Attività sismiche e deformazioni del suolo
. Le eruzioni vulcaniche sono spesso precedute od anche seguite da scosse e deformazioni
del suolo. Le prime sono di solito di bassa magnitudine ed hanno più un valore informativo,
relativo ai movimenti magmatici, che altro. Le seconde possono avere caratteristiche ben più
distruttive, accompagnate, però, da un procedere lento seppur costante, che lascia tutto il tempo
di prendere i dovuti provvedimenti.
Nel caso si attenda, per motivi storici o particolari condizioni del suolo, sismi di una certa
entità, bisogna comportarsi secondo normativa sismica.
1 Un interessante studio può essere condotto sulle caratteristiche delle onde
relative alle scosse di origine vulcanica. Il fine sarebbe di riuscire a
distinguere le onde sismiche di origine tettonica, normalmente abbondanti
presso le aree vulcaniche, da quelle magmatiche prettamente longitudinali e
caratterizzate da frequenze più alte. Utilizzando un opportuno filtro delle
frequenze si può realizzare un monitoraggio diretto delle attività
magmatiche del sottosuolo.
L Gli interventi, a parte quelli richiesti nel caso dell’attuazione della
normativa antisismica, non si estendono molto oltre l’evacuazione delle
zone soggette a deformazione del suolo, poiché la caratteristica prettamente
sussultoria dei sismi di origine vulcanica non costituisce di norma un
pericolo rilevante per gli edifici.
Onde anomale.
Per il rischio connesso a questo evento bisogna notare che, secondo la relazione
precedentemente introdotta, bassi fondali, come quelli relativi alla zona vulcanica mediterranea,
non causano onde marine rilevanti. Ad ogni modo bisogna considerare i fattori di influenza
principali del fenomeno quali altezza dei fondali, appunto, conformazione degli stessi e della
costa, presenza o meno di soggetti a rischio. Nel caso sia attesa un’onda anomala di una certa
consistenza l’unico intervento possibile è l’evacuazione della fascia costiera, il problema diventa
determinare con dovuto margine di sicurezza l’estensione del provvedimento. La possibilità di
poter registrare le attività sismiche dei fondali può aiutare a prevedere l’arrivo di un’onda del
genere.
Fenomeni atmosferici.
Per la prevenzione dal rischio connesso a questa ampia categoria, probabilmente sono
sufficienti norme generiche di protezione, tanto per gli edifici quanto per le persone, ove non ne
fossero state adottate di più severe e specifiche riguardo ad altri tipi di rischio. Sostanzialmente
si prescrive la protezione delle parti più delicate, porte, finestre etc. per gli uni, occhi, vie
respiratorie, timpani etc. per le altre. Si aggiunge una serie di norme di comportamento come
tenersi lontani da alberi isolati, dai cavi dell’alta tensione o del telefono, dalle finestre e dalle
condutture di piombo o altri oggetti metallici.
Piogge acide e gas.
Il rischio relativo a tali fenomeni, seppur minore, segue la distribuzione del rischio depositi
da caduta. Le norme della valutazione sono, dunque, le stesse, ma quelle della prevenzione
molto più leggere richiedendo sistemi di protezione per le persone e le strutture certamente più
blandi.
Per ottenere una corretta valutazione del rischio bisogna realizzare, dunque, una mappa
dettagliata, contemplativa dei diversi possibili gradi di danno di ogni singolo evento, delle aree
interessate.
Per prima cosa, si deve fare una valutazione dell’evento atteso.
La valutazione dell’evento atteso si opera tramite la conoscenza del tipo di attività
vulcanica che interessa una certa zona. La sua posizione tettonica, ad esempio, indica, a grandi
linee, che tipo di eruzione ci si può attendere se esplosiva o effusiva. La presenza, invece, di
giacimenti idrici sotterranei può dar luogo ad un evento di tipo freatomagmatico altamente
esplosivo. L’analisi del sottosuolo aiuta a conoscere la composizione del magma e quindi a
delineare le caratteristiche effusive dell’eruzione. Importante, poi, è conoscere le dimensioni
della camera magmatica, non esistono tecniche dirette a riguardo, ma l’utilizzo di scansioni del
sottosuolo e rilevamenti delle microscosse generate dai movimenti magmatici potrebbero essere
una soluzione.
Condizione privilegiata è quella che riguarda un’area vulcanica storica, interessata, cioè, in
epoche recenti, da eventi eruttivi. Nei casi più fortunati sono disponibili dati pressoché attendibili
e descrizioni dettagliate delle eruzioni avvenute in precedenza, si può fare una stima dei
principali pericoli e determinare le zone maggiormente esposte. Diventa interessante determinare
la storia evolutiva del sito per conoscere a che tipo di manifestazioni sarà soggetto in futuro e,
cosa fondamentale per la determinazione del rischio, con quali probabilità. Nei casi in cui non sia
possibile reperire informazioni sulle eruzioni precedenti, o dove queste siano scarse o poco
convincenti, tramite l’analisi dei sedimenti è possibile conoscere le aree di influenza e le
dimensioni di molti dei fenomeni connessi ad un’eruzione, fino a determinare, anche in questo
caso, l’evoluzione del sito.
Identificata la portata e il tipo di evento atteso bisogna valutarne gli effetti sul territorio,
una completa analisi dei rilievi dell’area che si immagina interessata dall’eruzione permette di
conoscere lo svilupparsi di molti dei fenomeni ad essa connessa.
La mappatura di tutti i soggetti in pericolo, infine, permette una stima probabilistica dei
danni e quindi la completa definizione del rischio.
3. OPPORTUNITA’ DI PROSEGUIMENTO
3.1 Modellazione del profilo orografico vulcanico tramite una
superficie conica e analisi numerica di una corrente densa
E’ possibile dividere i risultati ottenuti dagli studi sulle correnti piroclastiche, realizzati
negli ultimi anni, in due categorie:
• i risultati relativi alle simulazioni numeriche,
• i risultati dedotti dalla valutazione degli effetti che questi hanno causato sul
territorio.
Le simulazioni hanno il potere di valutare il carattere generale di questi particolari
fenomeni piroclastici. Restituiscono un’analisi dettagliata e completa delle principali
caratteristiche del flusso e consentono di identificare quali sono i parametri che principalmente le
influenzano.
Grazie all’analisi condotta da Todesco et al. (2002), ad esempio, siamo in grado di
Fig 19. .Spaccato del volume di controllo del flusso impingente la superficie conica per diversi valori del rapporto
caratteristico, h/r = 1 e h/r = 8.
Fig 20. Riproduzione dell’andamento dei profili del Vesuvio relativi alle principali direzioni cardinali.
conoscere lo svilupparsi dell’intero fenomeno relativo ad un flusso piroclastico generato al
Vesuvio, nel caso di un’eruzione della portata dell’Evento Massimo Atteso, i valori di pressione
in ogni punto della discesa lungo un determinato profilo del vulcano, così come la densità, la
temperatura ed altre caratteristiche fondamentali. L’evidente portata di questa analisi risiede nel
fatto che, procedendo come indicato dagli autori e variando le condizioni iniziali o l’andamento
del profilo vulcanico possiamo valutare le caratteristiche proprie di un qualsiasi altro flusso
piroclastico generato in altre condizioni o perfino da vulcani diversi dal Vesuvio ma con
caratteristiche simili.
Ovviamente per realizzare una simulazione che aderisca il più possibile alla realtà occorre
conoscere affondo il fenomeno che si intende riprodurre. Per quanto si riesca a computare un
elevato numero di variabili responsabili delle caratteristiche dell’evento, i risultati finali saranno
sempre affetti da qualche approssimazione che vincola questo tipo di analisi ad un ruolo
puramente qualitativo. Diversamente, la valutazione degli effetti causati da un evento reale,
punta a stabilire le effettive caratteristiche di quel particolare fenomeno verificatosi in quella
determinata situazione. La perdita di generalità dell’analisi si trasforma in guadagno circa la
certezza dei risultati.
L’analisi di Valentine del 1998, investigando i danni causati dalle sovrappressioni dei
flussi piroclastici di diverse eruzioni, definisce un profilo preciso della potenza generata da
questo tipo di fenomeno. L’unico termine di incertezza, di questa metodologia, risiede nella
validità del metodo investigativo.
I risultati migliori, com’è immaginabile, si ottengono dalla combinazione dei due approcci.
L’universalità di una simulazione fluidodinamica del fenomeno, che permetta di valutare le
caratteristiche di un qualsiasi flusso piroclastico partendo dalle condizioni eruttive più varie, è
sicuramente il risultato più auspicabile. Per realizzare, però, analisi computazionali, quanto meno
affidabili, è necessario, ove possibile, caratterizzarle attraverso il maggior numero di risultati
Fig 21. Simulazione ANSYS, di un flusso piroclastico che investe un insediamento urbano; in senso orario dall’alto a
dx: volumi delle abitazioni, andamento dei profili di pressione, pianta sezione longitudinale, sezione trasversale
all’altezza dei primi volumi investiti.
dedotti dall’analisi dei fenomeni reali.
Dal punto di vista fluidodinamico, un flusso piroclastico è identificabile, in prima analisi
come un getto denso impingente una superficie conica, la cui spinta è generata dal peso della
colonna sostenuta. Tramite il codice di calcolo agli elementi finiti ANSYS, è possibile simulare
tale interazione. Il vantaggio è di poter agevolmente valutare, come già fatto nel caso del
colonnato dell’ambiente 21, le azioni del flusso simulato su di una struttura o insieme di strutture
qualsiasi.
L’intento è di calcolare come il propagarsi di una corrente densa su una superficie conica,
inizialmente liscia, cambi al variare della velocità iniziale e del rapporto h/r caratteristico del
cono, fig. 19, dove h è l’altezza e r il raggio della circonferenza di base. Precisamente si vogliono
conoscere le leggi di decadimento del profilo della pressione dinamica e delle velocità con la
distanza dal vertice.
Una volta studiata la superficie ‘liscia’, si può considerare l’utilizzo di superfici coniche
generate da direttrici caratterizzate da diverse funzioni, ad esempio di tipo sinusoidale ad
ampiezza e periodo crescenti, al fine di identificare quali parametri condizionino maggiormente
le caratteristiche principali del fluido. Successivamente si può sostituire la superficie conica con
una superficie che riproduca gli effettivi andamenti delle falde del Vesuvio, così come ricavati da
rilevamenti satellitari, fig. 20. In tal modo sarebbe possibile valutare come la propagazione del
flusso sia influenzata da un profilo irregolare, e, soprattutto, valutare come si comporterebbero i
flussi piroclastici lungo le diverse direzioni del Vulcano, capire lungo quali direttrici, ad
esempio, si raggiungono le distanze maggiori e lungo quali le maggiori pressioni.
Come esposto sopra, tale tipo di analisi ha, comunque, carattere puramente qualitativo,
non tiene conto, ad esempio, della fondamentale interazione tra la corrente densa ed il terreno, o
il deposito di pomici, presente sul vulcano al momento della discesa del flusso. E’, infatti, la
fluidizzazione di questo substrato, operata dal moto altamente turbolento della nube superiore, a
rendere tanto rapido e distruttivo il flusso nel suo insieme.
Risultati del genere, però, possono essere utilmente adoperati per conoscere come gli
insediamenti urbani reagirebbero ad un fenomeno del genere, che, anche se nella generalità della
simulazione, rappresenta un primo riferimento.
Le immagini sotto, figura 21, presentano i risultati che si possono ottenere da una
simulazione fluidodinamica di una corrente densa, secondo i valori calcolati nel lavoro di
Todesco et al. (2002) ed utilizzati poi da Zuccaro e Ianniello nelle loro simulazioni. Si propone
la riproduzione di un flusso piroclastico al Vesuvio, caratterizzato da un volume di controllo di
ampiezza 200 m, altezza 100 m e lunghezza 2500 m, con una densità di 10 kg/m3, viscosità di
100 Pa s e velocità di ingresso di 20 m/s . All’interno de fluido è immerso un ostacolo che
riproduce, nelle dimensioni e nella disposizione dei volumi, un insediamento urbano, come
potrebbero trovarsi alla periferia di uno dei comuni presenti nella zona rossa a rischio vulcanico
sul Vesuvio.
Dalle immagini si nota chiaramente che sugli edifici maggiormente esposti i valori delle
sovrappressioni sono di poco superiori a 1 kPa, mentre per quelli presenti nelle posizioni più
arretrate si verifica un sostanziale effetto scudo da parte dei primi. Valori tanto bassi delle
sovrappressioni sono imputabili alle condizioni a monte relative all’analisi numerica del flusso di
Todesco et al. (2002). Infatti i flussi piroclastici, simulati dagli autori, nascono da un tipo di
eruzione a fontana a condotto aperto, questo non ha reso possibile la valutazione della presenza
della colonna sostenuta responsabile della spinta generatrice delle correnti, e necessariamente
sono state sottostimate tutte le grandezze del fenomeno.
La simulazione, anche in questo caso, è suscettibile di modifiche che nascono dal
confronto dei risultati ottenuti con le evidenze riscontrate nella realtà degli eventi che si vogliono
riprodurre.
Il lavoro consente, in ogni modo, considerazioni di carattere generale sul fenomeno che
permettono una conoscenza più precisa e dunque una valutazione più dettagliata del rischio
connesso.
3.2 Vulnerabilità e monitoraggio del territorio
Tra le opportunità di proseguimento trova posto lo studio degli effetti delle dinamiche
eruttive sul territorio, queste valutazioni devono basarsi su di una capillare conoscenza del
costruito sottoposto a rischio vulcanico. Elementi discriminanti sono le differenti tipologie
strutturali, la conformazione del tessuto urbano e la collocazione all’interno del particolare
profilo orografico della zona a rischio.
Vulnerabilità del territorio.
Definite le dinamiche eruttive se ne determinano gli effetti sul territorio. I risultati ottenuti
e le metodologie seguite durante le indagini esposte sopra, infatti, si inquadrano in un più ampio
progetto volto a definire la vulnerabilità del territorio esposto a rischio vulcanico che si basa su
di una capillare conoscenza del costruito. Elementi discriminanti sono le differenti tipologie
strutturali, la conformazione del tessuto urbano e la collocazione all’interno del particolare
profilo orografico della zona a rischio.
A tal proposito si ritengono essenziali i seguenti punti:
•
realizzazione di una mappa del costruito con le differenti tipologie
strutturali;
•
definizione e determinazione di indici di vulnerabilità VF, e VPDC,
nonché la valutazione delle vulnerabilità connesse al rischio relativo alle colate di
fango e alle alluvioni, funzioni delle diverse conformazioni morfologiche;
•
analisi strutturale numerica delle principali tipologie di costruzioni, con
precedenza per quelle di interesse di protezione civile, deduzione dei carichi di:
collasso, crollo parziale, danneggiamento funzionale.
Monitoraggio del territorio
Alla conoscenza del costruito segue un lavoro di controllo e prevenzione dal rischio
vulcanico, da realizzarsi tramite interventi sugli edifici, delineazione di un nucleo di elementi
normativi per il rischio vulcanico delle costruzioni e, non ultima, una campagna di
sensibilizzazione della popolazione interessata.
A tal proposito si ritengono essenziali i seguenti punti:
•
rinforzo di coperture;
•
aumento della resistenza all’azione laterale (PDC, eventi sismici);
Vincoli al progetto delle strutture portanti, e ad alcune sovrastrutture di
•
nuove costruzioni per le diverse tipologie;
•
realizzazione di un Fascicolo del Fabbricato della zona Vesuviana che
deve contenere notizie tecniche specifiche per la classificazione dell’edificio in
relazione ai rischi per VF, VPDC, vulnerabilità alle alluvioni e alle colate di
fango.
4. RICADUTE ALL’ESTERO E ITERAZIONI
CON ENTI ESTERNI
Preliminarmante alle considerazioni relative a questo paragrafo si introduce l’esempio
rappresentato dalla formazione e dalle attività di un centro di ricerca sui pericoli naturali presente
in Australia.
NHRC
Il Centro di Ricerca sui Pericoli Naturali, NHRC (Natural Hazards Research Center),
conduce, presso l’istituto australiano Macquarie University di New South Wales, ricerche sui
rischi naturali al fine di valutare la probabilità di pericolo ed il relativo valore esposto cui è
soggetta l’estesa regione che comprende il continente Australiano e il versante Pacifico
dell’Asia. Il centro cura un archivio in cui è catalogata una grande quantità di pericoli geologici e
meteorologici che interessano l’area, come cicloni e onde anomale nel Pacifico del sud,
valanghe, eruzioni, terremoti, alluvioni, pioggia di grandine ed incendi.
Attualmente la ricerca punta a realizzare un archivio circa l’estensione, relative perdite
umane, indice di danno di ogni singolo evento catastrofico avvenuto a partire dal 1900, e a
determinare un coefficiente di pericolosità per ognuno dei 2381 distretti in cui è frazionata la
nazione Australiana.
Il centro collabora direttamente con la protezione civile nazionale, Emergency
Management Australia, con la quale lavora ad un direttorio per la ricerca sui pericoli e i disastri
naturali in Australia. L’ufficio fornisce un archivio consultabile in rete sulle ricerche relative ai
pericoli naturali in Australia.
Il centro di ricerca nasce all’indomani del terremoto australiano di Newcastle. Il prof.
Russell Blong, direttore del centro Risk Frontiers, in quell’occasione, fu chiamato da una
compagnia multinazionale di assicurazioni a fornire una stima dei danni prodotti dall’evento.
Grazie ai primi finanziamenti di sole tre compagnie assicurative, il centro si è riuscito a
sviluppare come riferimento per molte di quelle società australiane e dipartimenti governativi
che volessero informazioni riguardanti il pericolo cui erano soggette le diverse aree della
nazione, mentre parallelamente lavorava alla creazione di modelli capaci di valutarne i possibili
danni. Tra quest’ultimi troviamo quelli relativi ai terremoti di Sydney, Melbourne e Brisbane,
oltre alla valutazione dei danni relativi alle grandinate.
Nell’aprile del 1999, infatti, Sydney fu investita da una violenta grandinata, tale evento
causò ingenti danni, quasi due miliardi di dollari australiani, con elevatissime perdite per le
compagnie assicurative.
Circa un anno dopo l’NHRC iniziò a lavorare ad un modello che riuscisse a valutare il
rischio, connesso a tale evento, cui era soggetta la città. Preliminarmente fu recuperato il
maggior numero di informazioni possibili dall’archivio dell’ufficio metereologico circa
l’intensità delle tempeste precedenti, l’estensione e le dimensioni della relativa grandine.
Successivamente si passò alla catalogazione del valore esposto, principalmente abitazioni e
autoveicoli. Grazie a queste informazioni il centro fu in grado di stabilire un fattore di
vulnerabilità che relazionava la dimensione della grandine con il danno stimato, in rapporto al
valore del bene assicurato. Il modello prevedeva la valutazione di che tipo di grandinate
potevano verificarsi e quale fosse la loro probabilità in un certo numero di anni. Ne risultava un
disegno completo del rischio grandine dell’intera area, cui le compagnie assicurative, come altri
soggetti potevano riferirsi.
4.1 Ricadute all’estero
I primi passi fatti in quest’anno di lavoro muovono lungo una direzione ambiziosa, verso la
realizzazione di un algoritmo di calcolo che, in funzione del tipo di eruzione attesa e della
formazione orografica del vulcano, permetta di stabilire quali possano essere i danni che un
eventuale flusso piroclastico arrecherebbe ad una particolare struttura presente sul suo cammino.
Affiancato dalle valutazioni probabilistiche circa i fenomeni che caratterizzano il pericolo,
un lavoro del genere rappresenterebbe un utilissimo modello per la valutazione del rischio cui
sono soggette le strutture in zona vulcanica. In un’ottica propria del centro di ricerca australiano,
sopra introdotto, questo rappresenterebbe uno strumento indispensabile tanto per le assicurazioni
quanto per le amministrazioni. Allo scopo di proporre una fattiva interazione con i ricercatori del
Centro è stato anche preso un contatto per un eventuale soggiorno studio presso la loro sede, che
potrebbe essere effettuato nei prossimi mesi.
In generale, la grande mole di studi, condotti nel nostro paese, sul Vesuvio e sui rischi ad
esso connesso, può essere il primo consistente capitolo di un archivio sui pericoli naturali e
antropici presenti sul nostro territorio. In linea con quanto fatto dai ricercatori australiani è
possibile realizzare un organo di riferimento per tutte le valutazioni relative ai rischi cui si
espongono quei soggetti che intendo operare in una determinata area. A tale ente spetterebbe il
compito di possedere le più aggiornate tecniche per il calcolo delle probabilità e della relazione
con il danno di ogni tipologia di pericolo.
Il successivo, e più importante passo, sarebbe quello di compartire, con tutti gli enti
interessati, le conoscenze maturate tanto nell’ambito della valutazione quanto in quello della
mitigazione del rischio. Metodologie di prevenzione e sistemi di monitoraggio si potrebbero
unificare a vantaggio di una più semplice e rapida collaborazione in caso di calamità. Si
prospetterebbe, così, una realtà non più costituita da tanti centri di monitoraggio del rischio
ambientale di carattere regionale, ma da un complesso organismo capace di tenere sotto controllo
l’intero pianeta.
4.2 Interazioni con enti esterni
Una volta stabilito fino a che punto un flusso piroclastico può allontanarsi dal cratere e
come varia la sua forza demolitrice, o come variano gli spessori e come agiscono sulle coperture
i carichi dei depositi da caduta, è necessario valutare l’entità e la vulnerabilità del valore
esposto.
Le amministrazioni locali hanno, così, la possibilità di individuare quali siano le
costruzioni maggiormente esposte, stabilire direttive di adeguamento dei fabbricati, ove
possibile, e in casi estremi procedere alla demolizione.
E’ necessario, però, che gli organi legislativi formulino normative specifiche per i rischi
vulcanici sulle costruzioni che stabiliscano:
•
per i fabbricati già costruiti, parametri di sicurezza in relazione alla
zona di esposizione e che indichino quali siano gli interventi da attuare al fine di
ridurre il rischio,
•
per i fabbricati da realizzare, norme per la realizzazione delle coperture,
in modo da resistere ai sovraccarichi di pomici, e norme per la tipologia
costruttiva nonché l’orientamento rispetto alla posizione del cratere al fine di
rendere minimo l’impatto con eventuali correnti dense, seppur nella loro fase
finale.
Una dettagliata conoscenza dei fenomeni piroclastici, quali correnti dense e depositi da
caduta, si rivela molto utile anche per la Protezione Civile. In caso di emergenza è necessario,
infatti, sapere come si svilupperà in breve l’evento vulcanico e quali possono essere le zone, o gli
edifici ritenuti sicuri.
Grande interesse, infine, è nutrito dalle società assicurative circa i danni che i fenomeni
vulcanici in esame sono in grado di causare su edifici, autoveicoli e beni materiali in genere. Le
compagnie hanno bisogno, infatti, di conoscere, al fine di determinare in maniera univoca e
chiara il premio assicurativo relativo ad un bene, il rischio cui questo è soggetto in relazione alle
caratteristiche sue proprie oltre che alla zona in cui si trova. Per assicurare una determinata
percentuale del valore di un’abitazione, ad esempio, diventa essenziale, per le società
assicurative, possedere coefficienti di danno ben definiti, che relazionino l’esposizione ad un
certo fenomeno con le caratteristiche costruttive, età, stato di conservazione e altre variabili, per
poterli pesare, poi, con la probabilità propria del relativo pericolo.
5. ACQUISIZIONE DELLE COMPETENZE
ORGANIZZATIVO-MANAGERIALI
L’anno di formazione condotto presso il centro di competenza AMRA, ha visto la
realizzazione, tra le altre cose, di un articolo per la Rivista di Studi Pompeiani, qui allegato.
Il lavoro presenta una nuova analisi dei rinvenimenti archeologici presso il sito di Oplonti.
Quello che era un settore rivolto principalmente agli studi di carattere archeologico, si è
prestato ad ulteriori valutazioni di carattere vulcanologico ed ingegneristico. La villa romana,
rinvenuta durante gli scavi condotti negli ultimi decenni nel comune di Torre Annunziata, è,
inizialmente, introdotta dal punto di vista archeologico e, successivamente, tramite la rilevazione
ingegneristica dei danni subiti durante l’eruzione del 79 d.C., si sono ricostruite, sia
qualitativamente che quantitativamente, le azioni di ogni singolo fenomeno vulcanico abbattutosi
sulla villa.
Lo studio è stato realizzato tramite numerosi sopralluoghi presso gli scavi, discussioni e
incontri che hanno visto confrontarsi le esperienze dei diversi autori.
Oltre all’interesse suscitato dall’interdisciplinarietà dell’argomento trattato, è stato, per me,
molto interessante dover relazionare i numerosi contributi messi in campo dagli studiosi
coinvolti al fine di utilizzarne al meglio le competenze per ottenere il risultato più completo
possibile.
Durante quest’anno, poi, i numerosi seminari relativi all’utilizzo e lo sviluppo dell’area
metropolitana, tenuti da diversi professori universitari, ricercatori e operatori del settore, hanno
formato in me una nuova concezione del territorio, una prospettiva di utilizzo, che attraverso la
visione del rischio, mostra tutte le sue forze e potenzialità. Grazie alla concezione del rischio,
non più come condanna, ma come risorsa, mi si è svelata l’evidenza di quanto possa valere l’area
vesuviana. Il rischio Vesuvio, sotto la cui ombra vive tutta la conurbazione napoletana,
probabilmente rappresenta l’unica concreta occasione di sviluppo che quest’area richiede da
ormai molti anni. La necessità di riorganizzare i tasselli di una urbanizzazione selvaggia per
salvaguardare la popolazione da una immane catastrofe, diventa, così, l’opportunità di recupero
di vivibilità e organizzazione sociale necessaria all’avviamento di tutte le attività necessarie allo
sviluppo del territorio.
A tale riguardo mi è sembrato interessante lo studio di fattibilità per la costituzione di una
società di trasformazione territoriale promosso dalla Regione Campania (Boll. uff. R.Campania
31-14/7/03).
Il processo per progettare e gestire nel breve, medio e lungo termine la riconversione nelle
aree a rischio vulcanico, infatti, appare piuttosto complesso, per cui nasce la necessità di
costituire una Società di Trasformazione Territoriale(S.S.T.), interamente o a maggioranza
pubblica, nella quale possono convergere Stato, Regione, Comuni, Enti e Società Miste (Ente
Parco, Ente Ville Vesuviane, Patto Miglio d’Oro, Tess, Società del Patto Nord-Est, ecc.). Tra i
vari compiti della Società può esservi quello dell’acquisizione al proprio patrimonio di immobili
residenziali al fine di una gestione compatibile con il rischio vulcanico. Ritengo che l’AMRA
possa ricoprire in tale attività un ruolo di primo piano attraverso una delle sue società affiliate.
Bibliografia
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ALESSIO M, BELLA F, IMPROTA S,
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