Progetto di Formazione "PERSONALE DI ALTA QUALIFICAZIONE NELL’ANALISI, MONITORAGGIO E GESTIONE DEL RISCHIO AMBIENTALE” FINANZIATO DALLA REGIONE CAMPANIA NELL’AMBITO DEL POR 2000/2006 MISURA 3.13- EMANATO CON D.R. N. 222 DEL 21 GENNAIO 2004 Assegnista Profilo Tematica della attività formativa Gianpaolo Perrella P2 Dinamica eruttiva e impatto sulle strutture Relazione delle attività 2004/2005 Assegnista: Dott. Ing. Gianpaolo Perrella Tutor: Prof. Lucio Lirer INDICE Premessa 1. ATTIVITA’ DI RICERCA Stato delle conoscenze 1.1 Le eruzioni • Attività vulcanica: • Hazards prodotti dalle eruzioni vulcaniche: • Effetti dei rischi vulcanici sulle strutture: 1.2 Hazard al Vesuvio • La storia: • Il rischio: • La prevenzione: Obiettivo della ricerca e metodologia seguita. 1.3 Dinamica eruttiva eruttiva e impatto sulle strutture 2. RISULTATI OTTENUTI 2.1 Applicazioni dei Metodi Inversi per l’analisi degli effetti di correnti piroclastiche sul tessuto costruito: il caso dell’ eruzione del Vesuvio del 79 d.C. 2.2 Linee guida per una normativa vulcanica 3. OPPORTUNITA’ DI PROSEGUIMENTO 3.1 Modellazione della superficie conica e analisi numerica di una corrente densa 3.2 Vulnerabilità e monitoraggio del territorio 4. RICADUTE ALL’ESTERO E ITERAZIONI CON ENTI ESTERNI 4.1 Ricadute all’estero 4.2 Iterazioni con enti esterni 5. ACQUISIZIONE MANAGERIALI Bibliografia DELLE COMPETENZE ORGANIZZATIVO- Premessa La seguente relazione illustra il lavoro svolto durante il progetto di formazione “Personale di alta qualificazione nell’analisi, monitoraggio e gestione del rischio ambientale” finanziato dalla Regione Campania nell’ambito del POR 2000/2006- Misura 3.13- emanato con D.R.N. 222 del 21 gennaio 2004. La tematica dell’attività formativa, che sono stato chiamato a seguire, riguarda la dinamica eruttiva e l’impatto di prodotti piroclastici sulle strutture. I tutori della ricerca sono stati il Prof. Lucio Lirer e la Prof. Paola Petrosino, per quanto concerne le valutazioni vulcanoligiche, e il Prof. Luciano Nunziante e l’arch. Massimiliano Fraldi per le valutazioni di carattere strutturale. Il presente lavoro si sviluppa come riportato di seguito. • Stato delle conoscenze: Nella prima fase della ricerca, la mia formazione,di carattere puramente ingegneristico, ha richiesto di acquisire le necessarie conoscenze riguardanti le attività vulcaniche in genere, e la storia eruttiva del Vesuvio in particolare. A tale fine è stato effettuato un lavoro di ricerca bibliografica che ha comportato lo studio di un’ampia documentazione, di cui si riporta una rapida panoramica. Segue la descrizione dello stato attuale della concezione del rischio vulcanico e la sua prevenzione, in ambito generale, e rispetto alle strutture, in particolare. • Obiettivo della ricerca: La ricerca si pone due principali obiettivi, quello dello studio delle caratteristiche proprie dei pericoli derivanti da un’eruzione e quello degli impatti dei prodotti piroclastici sulle strutture eventualmente presenti nelle zone a rischio. Il lavoro si è concentrato sia sullo studio delle correnti piroclastiche di densità (PDC) che sullo studio dell’accumulo di prodotti piroclastici da caduta (Fall). Si è inteso intraprendere, di conseguenza, un lavoro capace di analizzare il comportamento reologico dei flussi granulari relativi alle correnti dense e la loro interazione con gli edifici, e di determinare i carichi gravanti sulle coperture degli edifici causati dalla deposizione di tefra. • Metodologie seguite: La metodologia inizialmente seguita è stata basata sull’applicazione dei Metodi Inversi, per l’analisi degli effetti di correnti piroclastiche e depositi da caduta sul tessuto costruito. Infatti il lavoro si è concentrato sulla valutazione dei collassi strutturali verificatisi sul costruito di epoca Romana, rinvenuto nel comune di Torre Annunziata, causati dall’eruzione vesuviana del 79 d.C. Successivamente, una volta dedotti alcuni fondamentali parametri quantitativi dei fenomeni in esame, si è passati all’utilizzazione di opportuni programmi di calcolo per simularne il comportamento a priori e l’interazione con le strutture. Al fine di stabilire e lenire la vulnerabilità del territorio, poi, si considerano le valutazioni fatte dagli studiosi del settore e i risultati ottenuti dalla precedente analisi, per stabilire direttive capaci di sviluppare una normativa per il costruito nelle aree soggette a rischio vulcanico. • Risultati ottenuti: Tramite la ricostruzione dei collassi strutturali avvenuti presso le Ville romane ‘A’ e ‘B’, ad Oplonti, durante l’eruzione del 79 d.C., si ottiene una valutazione quantitativa delle potenze in gioco utilizzando la metodologia dell’analisi inversa e l’analisi agli elementi finiti. • Opportunità di proseguimento: Tra le opportunità di proseguimento trova posto lo studio degli effetti delle dinamiche eruttive sul territorio, queste valutazioni devono basarsi su di una capillare conoscenza del costruito sottoposto a rischio vulcanico. Elementi discriminanti sono le differenti tipologie strutturali, la conformazione del tessuto urbano e la collocazione all’interno del particolare profilo orografico della zona a rischio. In più si ritiene opportuno proseguire la strada della simulazione numerica, al fine di ottenere una modellazione parametrica dei flussi piroclastici e realizzare una precisa configurazione della superficie conica vulcanica, oggetto delle simulazioni dei flussi, tramite alcuni parametri spaziali, volta ad ottenere una funzione capace di modellare diversi profili vulcanici. • Ricadute all’estero e interazioni con enti esterni: Si illustra, in questo paragrafo, l’esperienza del Centro australiano di Ricerca sui Pericoli Naturali, NHRC (Natural Hazards Research Center). Rapporti di collaborazione con tale centro rappresentano una possibile direttrice per lo scambio di conoscenze sui rischi e sulle metodologie di mitigazione L’attività del NHRC è utilizzata, poi, come riferimento per le interazioni che questa, e altre ricerche, sui rischi naturali e antropici possono avviare con un gran numero di enti esterni, come amministrazioni locali, organi legislativi, Protezione Civile e società assicurative. • Acquisizioni delle competenze organizzativo-manageriali: Sono brevemente illustrate, alla fine di questa relazione le competenze organizzative e manageriali acquisite grazie alla formazione ricevuta durante l’anno di attività. Fondamentale è stata, in tal senso, l’esperienza svolta per la realizzazione del lavoro di prossima pubblicazione sulla Rivista di Studi Pompeiani “La distruzione di Oplontis”. 1. ATTIVITA’ DI RICERCA Stato delle conoscenze 2.1 Le Eruzioni Attività vulcanica I vulcani attivi sono generalmente collocati in tre diverse zone: • vicino ai margini di zolle tettoniche convergenti • vicino ai margini di zolle tettoniche divergenti • presso ‘Hot Spots’ Per entrambi i tipi di vulcani appartenenti agli ultimi due gruppi, avvengono eruzioni di magma basaltico. In queste eruzioni molta dell’energia è rilasciata sotto forma di energia termica contenuta all’interno della lava eruttata e solo una piccola parte come energia cinetica nei getti di lava ed esplosioni minori. I vulcani situati su zolle tettoniche convergenti includono quelli degli arcipelaghi come quello del Giappone, quelli in zone di collisione tra crosta oceanica e continentale, e vulcani posti su crosta continentale in area di collisione, come per il Vesuvio e gli altri vulcani italiani. I magmi eruttati vicino ai margini di zolle tettoniche convergenti sono generalmente più carichi di silicati e le eruzioni sono contraddistinte da una predominante dissipazione di energia cinetica di carattere esplosivo. Una maggior presenza di silicati implica maggiore viscosità del magma che determina una più alta esplosività, esiste, dunque, una relazione generale tra la posizione dei vulcani sulla placca tettonica e il tipo di eruzione. In realtà possono verificarsi eruzioni di magma a basso contenuto di silicio altamente esplosive, allorché sono coinvolte falde freatiche, l’eruzione conseguente è detta, per questo, freatomagmatica. Quando si verifica un’eruzione a partire da una bocca, generalmente si forma un cono, ma quando avviene attraverso una frattura si generano fronti di lava e si formano una serie di coni. E’ possibile classificare le eruzioni in dieci tipi e organizzarle secondo un grado di pericolosità crescente, in cui le prime sono caratterizzate da una lenta produzione di materiale eruttivo o dall’interessare un’area limitata. I tipi di eruzioni sono: • Islandesi (flussi basaltici): colate laviche poco viscose largamente distribuite; minore deposito piroclastico. • Hawaiane: getti di lava, bassi apparati tipo spatter cone. • Stromboliane: bolle di lava, scorie, proiezioni balistiche, sottili colate laviche, formazione di coni di cenere. • Vulcaniane: da moderate a violente proiezioni di masse viscose, corti e sottili flussi di lava, formazione di coni di cenere. • Freatiche: eruzioni esplosive di materiale non magmatico • Freatomagmatiche: violente esplosioni, materiali altamente frammentati. • Pliniane: eruzioni parossistiche, ampia dispersione di tefra e pomici, probabile collasso della caldera vulcanica. • Peléeane: flussi piroclastici generati dal collasso della colonna eruttiva pliniana o vulcaniana, o dal collasso dell’edificio vulcanico • Bandaiana: massicci smottamenti o frane prodotti dal collasso dell’edificio vulcanico. • Katmaiana: produzione voluminosa di ingnimbrite. Bisogna fare alcune considerazioni riguardo questa classificazione: anche se i differenti tipi di eruzioni sono stati definiti dopo che un particolare vulcano avesse manifestato quella particolare attività, lo stesso vulcano può presentare nel corso della sua storia comportamenti eruttivi differenti; spesso si possono verificare diverse tipologie eruttive lungo il corso di una stessa eruzione; e un’unica eruzione può presentare contemporaneamente differenti tipologie da una parte all’altra del vulcano. Molti testi definiscono vulcani come ‘attivi’, ‘quiescenti’ o ‘estinti’, in realtà tale catalogazione è inesatta per due fondamentali ragioni. Innanzitutto assume valore diverso nel Mediterraneo rispetto all’Antartide o Papua Nuova Guinea, in quanto per la prima area abbiamo a disposizione più di 2000 anni di riferimenti storici contro appena un secolo per le altre. Alcuni vulcani, poi, eruttano solo una volta, e sono pertanto detti monogenetici. Ulteriormente, esistono vulcani, in apparenza estinti, che sono diventati attivi. Al fine di determinare la frequenza di eruzione per ogni manifestazione vulcanica relativa ai margini di zolle tettoniche convergenti, è stato calcolato il numero di anni, a partire dal 1881, lungo i quali un dato vulcano è rimasto attivo, hanno sommato tutti quelli relativi ai vulcani appartenenti agli stessi margini e li hanno divisi per la lunghezza del margine stesso. Anche se questo non è un indice di rischio il margine calabro risulta, insieme a quello Neozelandese e di Halmahera (Indonesia), il più attivo. Le dimensioni di un eruzione vulcanica possono essere valutate in diverse maniere. Ad esempio rispetto al volume di materiale eruttato (magnitudine), dalla portata volumetrica o di massa con la quale i prodotti lasciano la bocca, dall’estensione dell’area interessata (potenza dispersiva), dalla violenza dell’esplosione o dal potenziale distruttivo dell’eruzione . Comunemente le dimensioni delle eruzioni vulcaniche si misurano attraverso la stima dell’energia totale rilasciata, la formula si basa sul volume di prodotti eruttivi. Per una eruzione di moderate dimensioni l’energia totale varia tra 1015 - 1018 joule. Chiaramente, quest’indice non è sempre correlato in modo diretto al grado di rischio vulcanico. Una semplice misura descrittiva, appropriata alla valutazione del pericolo vulcanico, è data dall’Indice di Esplosività Vulcanica (VEI)L’indice correla il volume di materiale prodotto, l’altezza della nube eruttiva, la durata dell’eruzione principale ed altri fattori descrittivi in una semplice scala da 0 a 8 ad esplosività crescente. Hazards prodotti dalle eruzioni vulcaniche Sebbene i vulcani posti lungo i margini convergenti non eruttino molto spesso o producano eruzioni più brevi degli altri vulcani, essi sono caratterizzati, in generale, da eruzioni decisamente più esplosive. Questa relazione non può essere, però, mutuata alla valutazione del rischio. La tabella sotto indica il rapporto tra il tipo di pericolo, la frequenza relativa di danno, la distanza entro la quale si verifica il danno ed il tipo di eruzione. Dall’analisi dei valori della frequenza appare chiaro che i fenomeni più frequenti sono i depositi da caduta, i fenomeni atmosferici, i terremoti e le piogge acide e gas. In ogni caso i dati si riferiscono alla frequenza, appunto, del fenomeno e non al rischio ad esso connesso, in quanto i dati relativi ai danni provocati dai fenomeni eruttivi sono spesso soggettivi e difficilmente comparabili anche per eventi simili. Esiste, comunque, una considerevole quantità di dati relativi al numero di morti connessi a diverse eruzioni per differenti fenomeni eruttivi. La pericolosità vulcanica H (hazard) relativa ad un singolo fenomeno, consiste nella probabilità che tale evento vulcanico distruttivo accada in una determinata area in un dato periodo. Il rischio vulcanico, o il rischio connesso ad un singolo fenomeno, si determina, come ogni tipo di rischio, valutando il livello di danno provocato da una eruzione, o da una delle sue manifestazioni, in funzione della probabilità che questa eruzione, o fenomeno, avvenga. Il Rischio è definito come: ‘La stima delle perdite, subite da un certo elemento o da un insieme di elementi, relative ad un incidente o ad un fenomeno naturale di data magnitudine’ (UNDRO 1982). Il Rischio può essere quantificato tramite la seguente relazione (UNESCO 1972; Fournier d’Albe, 1979): R=V ⋅ H dove V rappresenta la vulnerabilità dell’elemento a rischio, questa è la misura della probabile perdita che si verificherebbe in relazione all’evento in esame per la popolazione, le proprietà, le attività economiche, i servizi pubblici etc.; il suo valore numerico varia tra 0 e 1, rispettivamente nessun danno e distruzione totale. Se il danno è correlato alla perdita di vite umane, risulta che ai flussi piroclastici ed alle onde anomale corrispondono i più alti fattori di rischio, nonostante la loro frequenza sia piuttosto bassa. In definitiva i flussi piroclastici e le onde anomale sono i maggiori responsabili delle morti verificatesi in seguito ad una eruzione, i depositi da caduta e le alluvioni quelli successivi. Una giusta valutazione del rischio connesso ad ogni singolo fenomeno eruttivo richiede, però, una dettagliata conoscenza del fenomeno stesso e del territorio interessato. Fenomeni eruttivi I fenomeni eruttivi, come visto nella tabella, possono essere divisi in nove gruppi. Di seguito sono riportate le caratteristiche di ognuno di essi e gli aspetti che ne influenzano i fattori di rischio. Colate laviche. Le colate laviche possono essere di tre differenti tipi: pahoehoe; aa; e a blocchi. Le colate di tipo pahoehoe sono caratterizzate da croste fibrose, lisce o ondulate. Le pahoehoe procedono per sottili strati sovrapposti, con superfici, che a contatto con l’aria, si induriscono rapidamente. Possono svilupparsi in forma di enormi cilindri lunghi alcuni chilometri e fino a 30 metri di diametro. Le colate di tipo aa sono più sottili delle pahoehoe e sono caratterizzate da una superficie di scorie ruvide e frammenti spinosi. L’interno del fluido è costituito da lava compatta, formano corsi lineari e i canali possono superare i 30 metri di profondità. Le colate a blocchi sono sostanzialmente simili alle aa ma con la superficie composta di grandi blocchi poliedrici. Quest’ultimo tipo è meno comune e caratterizza le eruzioni ricche di silicati con formazioni vitree in prossimità della bocca. Spesso accade che una stessa colata nel corso del suo sviluppo passi da una tipologia all’altra, tale trasformazione dipende dai fattori fondamentali che definiscono le proprietà dei diversi tipi di colate laviche, e sono: • composizione del magma, • temperatura, • viscosità, • tensione limite, • portata effusiva. Le temperature registrate variano per le colate basaltiche tra i 1050-1300°C e per quelle acide tra gli 880-1050°C. Siccome le temperature di combustione dei vestiti, della carta e del legno sono minori di 250°C, tale differenza è prettamente accademica dal punto di vista del rischio. Con il raffreddarsi, anche grazie a fenomeni di nucleazione, la lava perde fluidità e la colata tende a fermarsi, la temperatura minima registrata in una colata ancora in movimento è di 750°C. Colate basaltiche hanno temperatura maggiore e di conseguenza viscosità minore di quelle andesitiche. Anche la tensione limite varia inversamente con la temperatura, e influenza in maniera sostanziale la forma e le dimensioni delle colate. In fine per ogni tipo di colata la portata di un’eruzione costituisce un fattore fondamentale a cui riferirsi per conoscerne la velocità e poter valutare la distanza che riuscirà a percorrere prima di arrestarsi. In ogni caso le colate più lente sono quelle più ricche in silicati, le altre, più veloci, hanno, però, caratteristiche morfologiche che conferiscono loro un coefficiente di scambio termico migliore, un raffreddamento più veloce che le porta, a parità di altri fattori, a fermarsi prima. La bassa viscosità e la bassa tensione limite delle colate pahoehoe e la sottigliezza delle singole unità che costituiscono il fluido, indicano che questo tipo di flusso devia repentinamente di fronte ad irregolarità del suolo o ad elementi artificiali come case o muri. L’alta temperatura continua a rappresentare, ad ogni modo, un elevato fattore di rischio, che si estende su di un’area relativamente larga. Sebbene le colate aa e quelle a blocchi si muovano più lentamente delle pahoehoe ed abbiano una temperatura minore, non presentano probabilmente un rischio minore. Le temperature sono ancora ben al di sopra dei punti di combustione di molti materiali utilizzati dall’uomo e della vegetazione, e, in ogni caso, una maggiore portata effusiva determina una maggiore velocità della colata. Ancora, il fronte del flusso è più sottile ed ha una tensione limite maggiore, quindi devia molto meno facilmente. D’altro canto queste tipologie interessano un’area più ristretta Nelle eruzioni di tipo Stromboliano, Vulcaniano, Freatomagmatiche e Pliniane si forma una colonna eruttiva pressoché verticale, composta da un getto di sostanze solide disperse e gas. La dispersione iniziale è condotta dalla sovrapressione e dall’espansione dei gas. Lo sviluppo, invece, è sostenuto dall’azione convettiva dell’aria circostante, può raggiungere l’altezza di 30 km anche grazie alla diminuzione di densità dovuta alla successiva dispersione dei solidi. Proiezioni balistiche. Bombe vulcaniche, blocchi e lapilli sono clasti eruttati secondo una traiettoria balistica. Le bombe vulcaniche sono costituite da un blocco di magma di oltre 64 mm di diametro. La forma di una bomba dipende da molti fattori come la viscosità del magma, portata e velocità del lancio, coefficiente di scambio termico, e velocità di degassazione. I blocchi sono macigni di antica roccia vulcanica risultanti dai collassi delle pareti della bocca, sono spigolosi e approssimativamente equidimensionali. Per lapilli s’intendono, invece, frammenti di magma non condensati, e frammenti di antica roccia vulcanica di dimensioni comprese nell’intervallo 24-64 mm. I lapilli composti di frammenti litici possono essere proiettili, oppure, insieme a quelli costituiti da pomici contribuire ai depositi da caduta. Il moto di un proiettile è definito da tre variabili: • angolo iniziale della traiettoria, • velocità iniziale, • forma del proiettile. La forma del proiettile determina, insieme alle caratteristiche dell’aria, la resistenza che questa oppone al moto. Sebbene sia stata calcolata la massima velocità teorica, per le proiezioni vulcaniche, a 600m/s, in pratica le velocità misurate variano tra i 75 e i 320 m/s. L’angolo iniziale della traiettoria copre, nella maggior parte dei casi, l’intervallo 90°-45°. Se ne deduce che difficilmente questo fenomeno possa interessare una distanza superiore ai 5 km. Il rischio connesso a questo fenomeno è costituito da due fattori principali: • l’energia cinetica d’impatto ( ½mv2 ), • la temperatura. L’energia cinetica d’impatto dipende dalla velocità di arrivo del proiettile e dalla massa, funzione, questa, del suo diametro e della sua densità. I proiettili vulcanici come visto possono essere tanto frammenti litici quanto pomici altamente vescicolate, per cui i valori della densità variano tra gli 0,15 e i 3,6 g/cm3. Da ciò deriva che anche un piccolo proiettile può coprire, in funzione della sua velocità e della sua densità, diversi ordini di grandezza di energia di impatto. Un proiettile appena lanciato può raggiungere la temperatura di 1100°C, quello che interessa, però, dal punto di vista del rischio è la temperatura di arrivo. Questa si determina tramite il coefficiente di scambio termico tra il proiettile e la nube di gas che ne fuoriesce durante il volo. In ogni caso è evidente che solo i grandi proiettili raggiungono alte temperature all’impatto, cosa che, per i frammenti litici, implica un’alta energia cinetica. Depositi da caduta. I depositi da caduta si generano dal tefra proveniente dalla colonna eruttiva sostenuta. La colonna sviluppandosi in altezza diminuisce di densità, infatti, le particelle più grandi e pesanti cadono dalla nube, definendo la relazione che vede le particelle minori coprire le maggiori distanze, giacché entrando nella troposfera la nube stessa subisce la deviazione relativa alla spinta dei venti regionali. Diminuendo, poi, la concentrazione di particelle diminuisce anche lo spessore dei depositi. In genere, quando il vento non muta direzione durante l’eruzione, si verifica una distribuzione ellittica dei depositi, con l’asse maggiore in direzione del vento, con uno spessore di diversi metri in prossimità della bocca che decresce fino a coprire vastissime aree, (827000 km2, Krakatau nel 1883). Il rischio maggiore consiste sostanzialmente nel peso che può raggiungere il deposito, funzione dello spessore e della densità degli elementi piroclastici che nella maggior parte dei casi sono impregnati d’acqua, ed in sostanza, a parità di volume, più pesanti. Un rischio aggiuntivo è costituito dalla totale oscurità cui è soggetta la zona sottostante la colonna. Flussi piroclastici e valanghe di detriti. Con il termine flussi piroclastici ci si riferisce a tre categorie di fenomeni vulcanici: 1. Flussi piroclastici in senso stretto, detti anche nueé ardentes, sono flussi di superficie composti da materiale frammentario e da misture di gas e solidi. Nascono dai collassi della colonna eruttiva sostenuta. Quando la spinta convettiva dell’aria non è più sufficiente la colonna inizia a collassare e si generano movimenti laterali lungo le pendici del vulcano generando così i flussi. 2. Ondate piroclastiche, surges, nascono da movimenti turbolenti laterali dovuti all’espansione di misture di gas e solidi, possono essere sia caldi che freddi. 3. Esplosione diretta relativa a cedimenti dell’edificio vulcanico. Le valanghe di detriti si generano, invece, da collassi strutturali di grande entità. Gli effetti, dal punto di vista della valutazione del rischio, di tali fenomeni sono circa gli stessi. I fattori fondamentali che ne definiscono le caratteristiche di rischio sono: • velocità, • temperatura, • dimensioni del flusso. Le velocità misurate in diverse eruzioni per i flussi piroclastici variano tra 20 m/s e 120 m/s, le misure sono state effettuate a grande distanza e tramite tecniche fotografiche approssimative riferendosi a flussi laterali di piccole dimensioni, per cui tali valori rappresentano un riferimento di minima. I flussi piroclastici di elevata velocità e le valanghe di detriti possiedono una quantità di moto (mv) tali da consentire loro scavalcare rilievi notevoli. Molti esempi, infatti, testimoniano che anche le aree elevate possono essere a rischio. Sembra, in realtà, che posseggano velocità estremamente variabili tanto da avere, per la stessa corrente eruttiva, caratteristiche distruttive unitamente ad una azione di lento seppellimento. Si ipotizza che una continua produzione di flussi piroclastici determini, a monte del flusso, la generazione di surges che conferiscono al corso un moto ondulatorio. Tali flussi sono caratterizzati da un regime altamente turbolento, infatti fu notato che i vortici prodotti da un flusso piroclastico su di un terreno irregolare furono i responsabili dell’abbattimento di alcuni alberi lungo la direzione del flusso ( Bagana, Bougainville, 1966). Le temperature come le velocità sembrano essere molto variabili, da temperature di 300°C, relative alla saldatura di frammenti vescicolari e detriti, a valori tanto bassi da lasciare elementi di carta o di corda intatti. I flussi possono raggiungere grandi dimensioni in altezza ma la loro estensione laterale è generalmente ridotta. Sono caratterizzati da un denso strato basale, responsabile degli effetti distruttivi, che anche nel caso in cui fosse di dimensioni trascurabili potrebbe essere accompagnato da nubi o ondate di cenere molto calde. In definitiva i flussi piroclastici coprono un vasto spettro di magnitudine e impetuosità. Flussi relativamente piccoli sono fortemente controllati dalla topografia, interessando solo un’area prossima al cratere, e sono in grado di scavalcare solo i dislivelli minori. Al contrario i grandi flussi piroclastici si sviluppano radialmente dal cratere in tutte le direzioni e possono superare rilievi di alcune decine di metri anche a chilometri di distanza. I rischi connessi a questi fenomeni sono rappresentati da: • l’energia cinetica d’impatto ( ½mv2 ), • la temperatura. Anche se l’alta temperatura può danneggiare o distruggere edifici e colture, molto più dannoso può risultare l’impatto della zona basale. Lahars e geysers. Per deposito da lahars si intende un fiume di fango contenente detriti e macigni che si origina dalle pendici del vulcano. Siccome i flussi piroclastici seguono l’andamento topografico, scendendo a valle raccolgono sempre più acqua. Un flusso piroclastico raffreddandosi, liberando gas ed acquisendo acqua lungo il suo cammino, può quindi, diventare un fiume di fango. I geysers generano sostanzialmente flussi fangosi, ma hanno una particolare genesi, nascono, infatti, da esplosioni di depositi di ghiaccio sotterranei causati da attività vulcaniche. Possiamo dividere i lahars in due categorie, i principali che nascono direttamente dall’attività vulcanica, e i secondari che prendono origine dalle abbondanti piogge conseguenti alle eruzioni, grazie soprattutto ai depositi di ceneri che non permettono al terreno sottostante di drenare l’acqua in eccesso. Sia i principali che i secondari possono formarsi nei modi più disparati, ad esempio da un flusso piroclastico che investe un fiume o da un lago formatosi all’interno di un cratere coinvolto da un’eruzione. La maggior parte dei lahars fluisce lungo le valli, quindi è facile distinguere le aree soggette a tale rischio, è da tener presente che viaggiano a grandi velocità, seppellendo sotto i propri depositi vaste aree. La densità dei lahars varia notevolmente da fenomeno a fenomeno e lungo lo stesso flusso, così come la sua velocità e di conseguenza anche la distanza che è in grado di coprire. Per i lahars che muovono da bacini vulcanici, il grado di pericolo è proporzionale alla massa d’acqua in essi contenuti. Per quelli di tipo secondario la possibilità che si verifichino dipende dallo spessore dei depositi e dalle dimensioni delle particelle che li compongono, dalle pendenze, dalla quantità e intensità della pioggia e dalle condizioni di drenaggio del suolo. Il rischio può rimane alto anche per alcuni mesi dopo l’eruzione, i lahars, come le colate laviche o i flussi piroclastici, anche se in maniera minore, attivano, con la loro azione erosiva, nuove e vecchie frane in punti precedentemente ritenuti sicuri. Tra gli “eventi lahar” rientra anche la rimobilizzazione di materiale piroclastico secoli dopo l’eruzione (lahars intereruttivi). Attività sismiche e deformazioni del suolo. Nella valutazione del rischio vulcanico gli eventi sismici sono importanti per due ragioni: • causano danni significanti alle cose e alle persone, • rappresentano un segnale premonitore dell’imminente eruzione. Molti dei terremoti di origine vulcanica si generano in conseguenza ad alcuni movimenti del magma ed ad esplosioni di gas all’interno del condotto. Questi si generano a pochi chilometri dalla superficie, mentre altri sismi sono causati da ridistribuzione dei carichi e subsidenze della caldera. Come visto sopra, i vulcani si trovano in zone ad alta attività tettonica, per questo sono spesso comuni terremoti con tale genesi, diventa un punto di rilevante importanza, quindi, poter distinguere l’origine dei diversi fenomeni sismici. Determinato, poi, che una certa attività sia di origine vulcanica niente assicura che in breve tempo ci debba essere un’eruzione, di contro, la stessa può avvenire preceduta da dinamismi sismici irrilevanti. La valutazione del danno relativo ai terremoti vulcanici non sembra essere preoccupante. Tali fenomeni sono, infatti, di natura diversa da quelli tettonici, caratterizzati da intensità minori e, soprattutto, da aree di avvertibilità estremamente ristrette. Le deformazioni del suolo avvengono prima e dopo un’eruzione, anche queste possono annunciare, o meno, un’imminente attività vulcanica. L’entità del fenomeno può essere irrilevante o causare nel tempo gravi danni, sollevando il suolo, in alcuni casi, anche di parecchi metri. Onde anomale. Le onde anomale sono onde generate da fenomeni sismici che interessano i fondali marini. Molte di queste nascono da movimenti tettonici, ma alcune sono causate da attività vulcaniche. Le onde anomale hanno un altissimo potere distruttivo e come visto nella tabella sopra sono causa di un elevatissimo numero di morti. Per produrre un’onda del genere è necessario che il fondale marino con i suoi movimenti sposti, come fosse una pala, una notevole quantità d’acqua. La velocità di un’onda v1 può essere calcolata con la formula v1 = gd , dove g è l’accelerazione di gravità e d la profondità del fondale marino. Nelle profonde acque oceaniche si possono raggiungere velocità di 800 km/h. Le onde generate da collassi della caldera o altri movimenti tellurici di matrice vulcanica, si sviluppano radialmente secondo un treno di onde, con un periodo che va dai 5 ai 60 minuti, e la loro energia diminuisce velocemente allontanandosi dalla sorgente, l’ampiezza diminuisce secondo l’inverso del quadrato della distanza percorsa. Avvicinandosi alla terra, l’onda subisce in altezza e direzione l’influenza della conformazione del fondale marino, della piattaforma continentale, della linea costiera e perfino delle condizioni della marea. Il rischio connesso ad un tale fenomeno è funzione quindi tanto delle condizioni di formazione che delle proprietà del punto di arrivo. La velocità media v2 all’arrivo, per un dato evento, si calcola approssimativamente come v2 = ( h 0,75i 0,5 ) / n , dove h è l’altezza media di inondazione rispetto al livello del suolo, i l’inclinazione della superficie dell’acqua e n è il coefficiente di ruvidità superficiale del suolo (Hatori, 1964). Particolare attenzione bisogna porre per quelle onde che nascono a seguito di un flusso piroclastico, una valanga, o di un’onda d’urto che raggiunge il mare; potendo questi eventi, infatti, percorrere decine di chilometri, possono mettere a rischio inondazione zone ben lontane dall’eruzione. Fenomeni atmosferici. I fenomeni atmosferici connessi ad una eruzione sono molteplici, si riportano di seguito i più significativi sotto l’aspetto della valutazione del rischio. Improvvisi e localizzati incrementi di pressione, alla bocca del vulcano, provocano forti onde d’urto generate dall’esplosione di grandi quantità di vapore e altri gas, tali perturbazioni si spingono per diverse centinaia di chilometri. Qualora tali espansioni raggiungessero la velocità del suono il fronte d’onda diventerebbe visibile attraverso archi di luce. In ogni caso le onde d’urto sono le imputate alla valutazione del rischio poiché possono causare danni alle persone ed agli edifici. Durante un’eruzione si verificano spettacolari e potenti fulmini, particolarmente dove alla produzione di molte particelle sottili si accompagna una forte espansione di gas. Le cariche elettriche, che si accumulano a causa dello sfregamento delle particelle con i gas, determinano la nascita del fenomeno e si può manifestare con alcuni eventi per ora fino ad una sequenza incessante. Se le scariche vanno da nuvola a nuvola o dalla colonna eruttiva al centro del cratere, solo i sistemi di comunicazione sono a rischio, se invece è coinvolto anche il suolo, il rischio, seppur minimo a causa della bassa probabilità, coinvolge uomini e cose. Piogge acide e gas. Le componenti volatili del magma formano durante l’eruzione diversi gas che si propagano in tre differenti maniere: • fumi acidi, composti assorbiti dalle particelle di tera, • particelle solfuriche. • La colonna eruttiva è composta in gran parte di vapore e solfati. Le prime piogge conseguenti l’eruzione assorbono la maggior quantità di sostanze disperse nell’aria, per la valutazione del rischio è importante determinare, quindi, la distribuzione di pioggia e la quantità relativa ad una certa colonna. In più i depositi da caduta sono caratterizzati dal forte contenuto di diversi gas di acido solforico, idrocloridrico, idrofluoridrico e ammoniaca. Per la stretta dipendenza che questo fenomeno ha con la colonna eruttiva, la distribuzione di questo tipo di rischio segue la stessa legge relativa al rischio connesso ai depositi da caduta. Valutazione del rischio I fattori che influenzano il grado di rischio connesso ai diversi aspetti di un’attività vulcanica sono molteplici, i più importanti sono: • distanza dalla bocca e area totale coperta, velocità, • temperatura, • • durata del pericolo, probabilità che il fenomeno si verifichi. • Ognuna di queste caratteristiche influenza la capacità, che ogni evento possiede, di infliggere danno agli edifici e altre strutture, e la probabilità che occorrano morti o seri danni alle persone. Tali variabili sono relazionate, nelle tabelle presenti in questa pagina, con le principali manifestazioni vulcaniche. I valori si riferiscono ai dati raccolti durante le passate eruzioni, in molti casi non sono altro che stime, poiché le testimonianze attinenti sono poche o confuse. I valori di massima distanza coperta o area interessata, devono essere valutati in relazione al fatto che il periodo storico su cui si basano le informazioni è notevolmente corto rispetto alla storia vulcanica di moltissimi siti considerati. Depositi da caduta, onde anomale, onde d’urto e piogge acide e gas sono fenomeni che interessano una grande area, ma la tabella iniziale indica che solo le onde anomale presentano un rischio rilevante per le persone. E’ chiaro, comunque, che tale rischio è limitato alle acque profonde ed alle fasce costiere. Nonostante le colate laviche abbiano un’elevata temperatura, il rischio cui espongono le persone è molto basso giacché sono molto lente e costrette dall’aspetto topografico. Mentre sono altamente dannose per gli edifici e le strutture in generale. Analoga situazione per i flussi piroclastici minori e per i lahars, che essendo molto veloci, distruggono ogni cosa lungo il loro cammino ma lasciano la possibilità alle persone di rifugiarsi sui rilievi più alti. Cosa che non avviene per i flussi di entità maggiore, che seppelliscono ogni cosa e per i quali le condizioni di sicurezza non si valutano con l’altezza dei rilievi, ma secondo la distanza dal cratere. Tale molteplicità di situazioni aumenta la difficoltà nell’assegnare il grado di rischio ad un evento vulcanico in base alle sue proprietà fisiche. Un’accurata valutazione deve, dunque, tenere conto della casistica basata sulle eruzioni precedenti, sulle quali si hanno dati certi, delle proprietà fisiche dei singoli fenomeni, del particolare complesso vulcanico in termini di evoluzione, conformazione orografica ed evento atteso e della eventuale presenza di popolazione, strutture e sovrastrutture. Effetti dei rischi vulcanici sulle strutture In letteratura è possibile ritrovare moltissime informazioni riguardo ai danni provocati sugli edifici da fenomeni naturali quali terremoti, cicloni, inondazioni ed altri avvenimenti catastrofici, di contro i lavori che investigano gli effetti sulle strutture provocati dalle eruzione vulcaniche sono sensibilmente meno numerosi. Analoga situazione troviamo nel campo delle normative di prevenzione dalle calamità naturali, che prevedono, nei diversi paesi, diverse disposizioni riguardo alle strutture di nuova concezione e all’adeguamento di quelle già esistenti in relazione al tipo di rischio cui è soggetta quella particolare zona. Ampie e accurate sono, infatti, le direttive per l’urbanizzazione in zona sismica, poco o niente si trova, invece, per l’edificazione in zona vulcanica. Primo passo, per la conoscenza del rischio vulcanico cui sono soggette le strutture, è costituito dalla distribuzione dei fenomeni eruttivi sul territorio, ad un evento vulcanico sono in generale, connessi differenti rischi che, secondo il tipo d’eruzione, in diversa misura, caratterizzano l’evento. Possono verificarsi: eruzioni laviche, caduta di ceneri, flussi piroclastici, colate di fango, terremoti, tsunami (onde anomale), effetti atmosferici e piogge acide. Le eruzioni vulcaniche possono, quindi, colpire gli edifici attraverso una varietà di cause e con molteplici tipologie di danno. Gli edifici possono essere soggetti a collassi, seppellimenti, trascinamenti, cedimenti delle fondamenta, indebolimenti, sovraccarichi, sovrapressioni agenti sulle murature e/o sulle coperture, impatti di proiettili balistici, corrosione o incendi. Alcuni di questi meccanismi possono operare contemporaneamente come risultato delle azioni di più rischi vulcanici, alcuni di questi hanno effetti più dannosi di altri. Oltretutto la probabilità di ogni singola causa di danno varia non solo con la frequenza con la quale sono associati ad un singolo fenomeno, ma anche da fenomeno a fenomeno. Ad esempio, gli edifici sono più facilmente sommersi che trasportati dalla lava, ma il trascinamento avviene più probabilmente per opera dei lahars che delle colate laviche. La tabella di cui sopra, (R. J. Blong, 1984), basata sui dati disponibili di tutte le eruzioni documentate avvenute nel mondo, riporta la probabilità di un dato evento dannoso in relazione ad ogni rischio vulcanico, rappresenta solo valori di riferimento a causa della quasi totale assenza di informazioni quantitative. Presenta diversi punti di interesse, gli incendi ed i collassi strutturali sono le dinamiche associate al maggiore numero di tipi di rischio, ma i danni che più spesso avvengono sono quelli relativi ai sovraccarichi dei muri, seppellimenti e inondazioni. D’altra parte, flussi piroclastici e onde anomale sono i fenomeni che causano la più vasta gamma di danni, mentre i danni minori sono causati dalle piogge acide e gas. I dati si riferiscono a condizioni generali. Un’analisi accurata non può trascendere da alcune fondamentali valutazioni riguardanti l’edificio stesso, come la tipologia costruttiva, i materiali adottati, l’anno di costruzione, la qualità dell’opera, la forma del fabbricato, e l’orientamento. In più bisogna valutare la presenza o meno di ciminiere, balconi, parapetti e altre decorazioni altamente vulnerabili. Ingenti danni possono essere causati dalla rottura dei sistemi elettrici, condotte e tubature del gas specialmente se l’evento si verifica in un momento della giornata durante il quale è alto il loro utilizzo. In relazione allo scenario eruttivo vesuviano atteso ed alla notevole urbanizzazione delle sue pendici, i fenomeni che presentano il maggior fattore di rischio, anche a causa della loro elevata estensione, sono: • i flussi piroclastici I flussi piroclastici, P.D.C. (Piroclastic density currents), hanno un grande potere distruttivo poiché trasportano prodotti piroclastici ad alta densità. 1 q f = δ ⋅ν 2 La loro pressione dinamica è misurabile tramite l’espressione ,dove 2 δ è la densità del P.D.C. e ν è la sua velocità. i depositi da caduta • L’imponente mole di pomici proiettate dal vulcano copre a mantello con spessore decrescente aree sempre più lontane dalla bocca. La maggior parte delle coperture delle moderne costruzioni sono progettate per sopportare, secondo i casi, poco più del loro peso o di eventuali persone, un consistente deposito è decisamente in grado di comprometterne la stabilità. Il sovraccarico q delle coperture per deposito di cenere varia oltre che in funzione della distanza dal cratere anche in funzione delle caratteristiche della copertura stessa: diversi profili strutturali determinano distribuzioni di carico diverse, per lo stesso deposito si possono avere, cioè, differenti condizioni di carico. le alluvioni • Le eruzioni esplosive, come la prossima attesa al Vesuvio, sono in genere accompagnate da forti precipitazioni accompagnate dall’emissione di ceneri che depositandosi al suolo, anche per spessori molto modesti, ne riducono fortemente la permeabilità. Allagamenti estesi e colate di fango sono certamente da attendersi, soprattutto in zone dalla complessa orografia come quella vesuviana, in quanto la situazione sarà peggiorata dalla riduzione di efficienza del deflusso a causa della grande quantità di materiale solido trasportata dalle acque discendenti il vulcano e i rilievi circostanti. Blong, al fine di realizzare un resoconto dei danni per le assicurazioni locali, ha analizzato le condizioni di 173 edifici registrate immediatamente dopo l’eruzione avvenuta nel settembre del 1994 in Papua Nuova Guinea, che distrusse gran parte della città di Rabaul (Blong, 2002). L’attenzione si è focalizzata principalmente sui danni causati dai depositi da caduta, sui diversi danni, cioè, inflitti secondo le diverse tipologie costruttive. I dati evidenziano che le strutture di cemento resistono meglio di altre ai sovraccarichi dovuti, ma che difficilmente i moderni edifici residenziali sono in grado di sopportare un carico delle coperture oltre i 7 kPa. L’intento dello studio è, quello generale, di rapportare gli effetti dei diversi pericoli vulcanici con le tipologie costruttive e i meccanismi di cedimento degli edifici. Stabilita una catalogazione degli edifici attraverso una scala di valori di danno, Blong è stato in grado di valutare le diverse condizioni di resistenza del costruito in funzione delle isopache dei prodotti da caduta. Pomonis et al. (1999), hanno presentato i risultati di uno studio sui rischi cui è soggetto l’insediamento urbano presso il Vulcano Furnas nelle isole Azzorre. Come riferimento è stata utilizzata l’ultima grande eruzione avvenuta sull’isola nel 1630. Il lavoro si basa su una dettagliata catalogazione degli edifici secondo alcune tipologie costruttive e grado di conservazione; valutata, poi, in base ai dati delle precedenti eruzioni, la potenzialità distruttiva dell’evento vulcanico atteso e la probabilità che ogni singolo fenomeno ad esso connesso si verifichi, si sono potuti delineare i contorni del rischio vulcanico della cittadina di Furnas. Si presentano alcune raccomandazioni riguardo le misure protettive, da adottare prima dell’eruzione, per ridurre il rischio degli abitanti generato dal cedimento dei solai e dal collasso degli edifici; le principali riguardano il consolidamento delle strutture al fine di aumentarne la resistenza ai carichi laterali, per resistere alle scosse di terremoto ed eventualmente a flussi piroclastici di lieve entità, altre propongono di aumentare il grado di resistenza delle coperture fino ai livelli previsti nelle zone in cui avvengono pesanti nevicate, in modo da sopportare i carichi relativi ai depositi da caduta. Durante i test nucleari degli anni ’40 e ’50, realizzati per valutare gli effetti di una eventuale guerra nucleare sulle strutture, si produssero sugli edifici pressioni laterali del valore di circa 100 kPa. Attraverso alcune semplificazioni, Valentine, ha utilizzato i dati raccolti in quelle occasioni per meglio comprendere gli effetti dei flussi piroclastici (Valentine, 1998), ha realizzato, grazie adalcune tabelle che relazionano, in termini probabilistici, i carichi laterali con la gravità del danno per diversi elementi costruttivi, come porte, finestre, muri, e sull’intera struttura in base, principalmente, alla qualità di realizzazione e all’orientamento(Pickering e Bockholt, 1971). Successivamente ha analizzato le documentazioni relative alle eruzioni che hanno colpito il Mt. Lamington nel 1951, Ercolano, durante l’eruzione vesuviana del 79 A.D., e St. Pierre, eruzione del Mt. Pelee del 1902 e grazie alle tipologie di danno unitamente ad una stima della velocità, ha realizzato una stima della concentrazione di particelle dei flussi piroclastici e quindi della loro pressione dinamica. Nell’anno 2000, grazie ad un rinvenimento archeologico presso Terzigno sul versante orientale del Vesuvio, a 5 km dal cratere, sono stati riportati alla luce i resti di alcune ville romane totalmente distrutte dalle correnti piroclastiche relative all’eruzione del 79 A.D. Nunziante et al. (2003), hanno proposto un’innovativa analisi strutturale che, partendo dallo studio dei danni prodotti sui muri parzialmente crollati delle costruzioni romane, permette di valutare la pressione dinamica dei flussi piroclastici che si sono abbattuti sulla zona. L’analisi strutturale non lineare è di tipo inverso e si basa su alcune prove sperimentali che forniscono la tensione limite propria delle strutture. Si è potuto ottenere, cioè, tramite la moderna teoria dell’analisi limite, il valore della pressione dinamica capace di produrre i danni riscontrati sui muri abbattuti. I risultati ottenuti restituiscono per tale pressione valori di pochi kPa (1-5). Tali valori sono consistenti con quelli proposti in alcuni degli ultimi studi vulcanologici basati sulle simulazioni numeriche della propagazione dei flussi piroclastici (Todesco et al.,2002). Mostrano, poi, come tali pressioni sono capaci di causare il collasso tanto la distruzione degli edifici in muratura quanto dei moderni edifici in cemento armato ampiamente diffusi nell’area vesuviana. Il lavoro, rappresenta, dunque, una migliore definizione del rischio legato ai flussi piroclastici in un’eventuale eruzione al Vesuvio e stabilisce le linee guida per l’edificazione nelle zone circostanti. Zuccaro et al. (2003), tramite una modellazione fluidodinamica, hanno simulato l’interazione tra un flusso piroclastico e gli edifici di un insediamento urbano. Il modello geometrico riprende una parte della periferia di Torre del Greco esposta direttamente all’attività del Vesuvio ad una distanza di 6 km, lungo il settore sud-ovest e composta principalmente da edifici di moderna fattura in cemento armato, alti fino a 30 m. L’integrazione delle equazioni differenziali della massa, quantità di moto e bilancio dell’energia cinetica turbolenta è stata effettuata tramite il metodo degli elementi finiti su di un modello tridimensionale, il regime turbolento è modellato con il metodo RNG κ-ε per la valutazione della viscosità effettiva. La simulazione si limita al caso di un flusso omogeneo, in regime stazionario, con velocità iniziale di 20 m/s, densità pari a 10 kg/m3 e viscosità 10-3 Pa s, limitato, dalla pressione atmosferica, in un volume di dimensioni 2500 m nella direzione del flusso, 200 m di sviluppo in altezza e 100 m di espansione laterale. I risultati mostrano una parziale protezione operata dagli edifici più vicini al cratere nei confronti di quelli interni, oltre ad una debole variazione della pressione totale lungo la direzione principale del flusso piroclastico. Si calcola un valore massimo di pressione relativa, causato dall’impatto del flusso sulla prima schiera di edifici, pari a poco meno di 1,4 kPa, per un valore medio di circa 0,8 kPa, e una diminuzione per gli insediamenti più protetti fino a valori medi di –0,3 kPa. In un lavoro contemporaneo, Petrazzuoli et al.(2003), si sono interrogati sulla resistenza degli edifici posti nelle diverse aree soggette a rischio vulcanico dell’area Vesuviana. Stabilito che la maggior parte di tale costruito è realizzata in cemento armato, privo di rinforzi antisismici, necessari a resistere alle sollecitazioni orizzontali, hanno proceduto ad una simulazione degli effetti che una sovrapressione orizzontale può causare sulle più comuni configurazioni di questo tipo di fabbricati, al fine di stabilire i limiti dell’intervallo delle sovrappressioni capaci di causarne il collasso. La procedura utilizzata è detta Structure Horizontal Resistance Evaluation at Collapse (SHREC), si basa sul calcolo del lavoro necessario a creare una cerniera plastica nei punti di contatto tra colonne e solai, per diversi meccanismi di collasso, numeri di piani e composizione dei volumi; da tale valore energetico si deduce la necessaria spinta laterale. L’intento è quello di comprendere quanto, e a che distanza dal cratere, può, un flusso piroclastico, creare danni in caso di eruzione vesuviana. I termini di confronto sono costituiti dai lavori di altri autori che si sono interrogati sulla resistenza degli edifici in cemento armato sottoposti ad azione sismiche (Cosenza, 2000; Dai, 1996; Meli, 1991). In conclusione, in accordo con il lavoro di Meli (1991), essi stabiliscono un limite di resistenza inferiore di quasi 5 kPa, per arrivare oltre i 10 kPa per gli edifici di pochi piani e realizzati secondo criteri antisismici. Gli autori hanno attribuito un errore di valutazione nella comparazione degli effetti di un esplosione nucleare sugli edifici a quelli causati dall’eruzione del 79 A.D. ad Ercolano, che ha portato Valentine (1998) a sovrastimare la pressione dei flussi piroclastici relativi a tale evento (circa 10 kPa), l’azione distruttiva, infatti, di una esplosione nucleare se crea danni paragonabili a quelli causati dal collasso di una colonna eruttiva, agisce in tempi fino a tre ordini di grandezza inferiori, il passaggio del vento nucleare avviene in termini di millisecondi, mentre quello di un PDC in secondi. Allo stesso periodo risale uno studio dell’azione combinata di un evento sismico e il sovraccarico dovuto ai depositi da caduta eruttivi su di un portale ad arco in muratura ad opera di Baratta et al. (2002). Il lavoro mostra come aumenti la vulnerabilità sismica della struttura in rapporto all’aumento di carico verticale. Ulteriore lavoro, relativo agli effetti degli hazards vulcanici sulle strutture, è stato condotto da Spence et al. (2003). Lo studio si basa sulla catalogazione degli edifici dell’area vesuviana, ottenuta da lavori precedenti, Spence et al. (2000), Zuccaro (1998), (2000), secondo la tipologia costruttiva, la distanza dal cratere, la distribuzione e la tipologia delle aperture e relative protezioni. Si può ottenere una stima della resistenza alla sovrapressione dei diversi edifici, delle coperture e delle protezioni. La pressione dei flussi piroclastici che si è presunto agire sulle strutture è stata derivata dagli studi di Espositi Ongaro et al. (2002), e Todesco et al. (2002), per un intervallo risultante sugli edifici compreso tra 0,5 e 1,1 kPa. In tali condizioni, opportuni schermi protettivi applicati alle aperture possono essere in grado, in genere, di preservare gli edifici da incendi e gli abitanti da lesioni. Segue una previsione dei danni cui sarebbe soggetta la cittadinanza vesuviana in relazione alle valutazioni effettuate confrontate con un precedente studio sulle conseguenze di un’eruzione sulla popolazione, Baxter (1998; 2000; 2004), oltre ad alcune linee guida per la mitigazione del rischio Vesuvio. 1.2 Hazard al Vesuvio La storia Negli ultimi anni, numerosi studi vulcanologici sono stati realizzati al fine di incrementare la conoscenza relativa alle passate eruzioni ed alle attività del complesso vulcanico SommaVesuvio. Le trasformazioni strutturali e morfologiche, gli intervalli temporali tra gli eventi eruttivi, e i differenti stili delle eruzioni verificatesi durante il passato sono adesso ben noti. L’attività del Somma-Vesuvio mostra un andamento regolare che definisce, chiaramente, un alternarsi di fenomeni Pliniani con altri Subpliniani-Stromboliani, insieme ad alcune manifestazioni ad alta intensità effusiva. Questa sequenza si è verificata molte volte, e i prodotti piroclastici intervallati ai paleosuoli si ritrovano comunemente nelle aree perivulcaniche. Grazie a questi depositi è stato possibile ricostruire la storia del vulcano. Attualmente si può affermare che le conoscenza sull’attività del Somma-Vesuvio sono ben definite e la stratigrafia dei prodotti mette in evidenza nel tempo una sequenza di otto cicli di attività, l’inizio dei quali è sempre stato contraddistinto da una forte eruzione esplosiva a carattere pliniano. Secondo uno schema generale, le grosse eruzioni esplosive del SommaVesuvio cominciano con una fase sostenuta ( messa in posto di prodotti da caduta), cui segue una fase di collassi parziali della colonna (messa in posto contemporanea di prodotti da caduta e prodotti da corrente piroclastica in settori del vulcano molto localizzati), fino a concludersi con il collasso finale della colonna (messa in posta di prodotti da flusso piroclastico periclinalmente al vulcano); l’interazione acqua/magma gioca un ruolo più o meno preponderante nei singoli eventi pliniani. Le fasi interpliniane hanno visto, invece, il verificarsi di episodi a più bassa esplosività, a carattere stromboliano o vulcaniano, cui spesso sono seguite manifestazioni effusive Di seguito sono riportate brevi note riguardanti i principali eventi degli ultimi 10 ka. L’eruzione di Ottaviano, 8000 anni a.C. Nell’arco di 19 ore l’eruzione di Ottaviano produsse 2,40 km3 di materiale piroclastico attraverso flussi piroclastici surges e depositi da caduta (Alessio et al., 1974; Rolandi et al., 1993b). I depositi da caduta sono composti da alcuni strati di pomici e si ritrovano principalmente sul versante orientale del monte Somma. La migliore traccia di tali depositi si ritrova nella zona di Ottaviano. Le tracce di almeno quattro flussi piroclastici, invece, sono state ritrovate lungo l’area settentrionale. Due depositi relativi a surges, poi, rappresentano gli effetti dell’eruzione in una fascia sottile compresa tra S. Giuseppe Vesuviano e Ottaviano. L’eruzione di Avellino, 3550 anni a.C. L’eruzione di Avellino produsse principalmente depositi da caduta e surges. I primi mostrano una stretta analogia con quelli relativi all’eruzione del 79 d.C., poiché come questi mostrano uno strato basale di pomice bianca coperto da uno di pomice grigia. Valutati con attenzione i depositi presentano un alternarsi di materiale freatomagmatico e puramente magmatico. I depositi di pomice bianca sono ampiamente dispersi lungo il versante orientale, mentre la pomice grigia presenta una dispersione in direzione nord-nordest. I depositi relativi ai surges idromagmatici sono intervallati con i depositi da caduta di origine Pliniana lungo l’intera sequenza. Ad Ercolano è possibile trovare circa 10 m di depositi da flusso piroclastico, che vedono la presenza di grandi elementi litici e probabilmente generati dal collasso della colonna sostenuta. Le eruzioni protostoriche Il periodo compreso tra le eruzioni di Avellino e del 79 A.D. è stato chiamato periodo protostorico, durante il quale hanno avuto luogo due eruzione singole ed un ciclo eruttivo (Rolandi et al., 1998). Le prime due eruzioni sono avvenute poco dopo quella di Avellino ed entrambe mostrano una progressiva evoluzione dallo stile puramente magmatico a quello freatomagmatico, mentre il ciclo eruttivo si compone di cinque eventi freatomagmatici separati dalla messa in posa di depositi relativi ad alluvioni. I prodotti della prima eruzione protostorica, separati dai depositi dei surges dell’eruzione di Avellino dal paleosuolo, datato 3450 anni a.C., e portati alla luce nel settore orientale del vulcano, sono ben visibili nella zona di Terzigno; sono rappresentati da uno strato basale ricco di pomici in direzione est-sudest dal vulcano, mentre presentano uno strato di cenere litica in direzione est-nordest. I prodotti della seconda eruzione protostorica sono molto simili ai precedenti. La terza eruzione consiste di cinque successive fasi eruttive sempre più intense e intervallate da alluvioni, i depositi coprono un paleosuolo datato 2700 anni a.C. L’eruzione del 79 d.C. L’eruzione del 79 d.C. durò 30 ore, tra il 24 e il 25 agosto, e ci furono depositi da caduta, depositi relativi a surges e a flussi piroclastici. Come per l’eruzione di Avellino, i depositi presentano un primo strato di pomici bianche seguito da uno di pomici grigie. Durante la fase da caduta l’asse di dispersione cambiò direzione da est-sudest a sud-sudest dal vulcano. I depositi da flusso piroclastico si ritrovano principalmente nella zona di Ercolano, dove 10 m di deposito ricco di frammenti litici occupa l’intera sequenza. I depositi da surges sono intervallati da depositi di pomice grigia. Con ogni probabilità l’eruzione ha evoluto da una fase a colonna sostenuta ad una puramente magmatica, prima producendo una pioggia di pomici e poi, interrotti da collassi minori, diversi surges, i depositi dei quali sono intervallati da depositi da caduta, e flussi piroclastici. Una fase finale, poi, ha visto il collasso della colonna generando flussi piroclastici e surges ricchi in liti, durante questa fase ci sono indizi di interazione acqua/magma. L’eruzione del 472 d.C. La più energetica eruzione storica, generò un’ampia caduta di pomici e devastanti flussi piroclastici, surges e valanghe di detriti. La fase da caduta occupò 20 ore e produsse 1,2 km3 di tefra, principalmente sul versante orientale del vulcano. I depositi da caduta presentano diverse caratteristiche nei diversi settori del vulcano, sia nelle stratigrafie prossime sia in quelle distanti dal cratere. In ogni caso si distinguono molti frammenti litici scuri, strati di pomice grigia da caduta, dispersi diversamente nelle direzioni radiali. Lo strato di depositi da caduta è coperto da strati di depositi relativi a flussi piroclastici e surges piroclastici secchi. Il deposito più consistente si presenta nell’Alveo di Pollena, a nord-ovest del monte Somma, coprendo il deposito del flusso piroclastico dell’eruzione del 79 d.C. Depositi di surges umidi, si presentano principalmente ad est sud-est all’interno della sequenza, mentre nell’area settentrionale si trovano segni di valanghe di detriti in cima alla sequenza. Le eruzioni medievali Nel periodo che va dal 472 al 1631 d.C., tre principali eventi esplosivi sono stati identificati grazie a studi nell’area perivulcanica. I prodotti di queste eruzioni coprono gran parte del settore orientale del vulcano e sono chiaramente visibili nella zona di Terzigno. I prodotti della prima e della seconda eruzione sono caratterizzati da strati di lapilli scuri intervallati da livelli di cenere nera a grana grossa. Gli strati più sottili sono particolarmente ricchi di frammenti e cristalli litici magmatici, mentre frammenti juvenili sono maggiormente presenti nei livelli più consistenti. La terza eruzione medievale ha prodotto due strati sottili di lapilli interrotti, alla base, nel mezzo e in cima, da sottili strati cineritici scuri e arricchiti in liti. L’eruzione del 1631 a.C. L’eruzione Subpliniana del 1631 a.C. (Rolandi et al., 1993a; Rosi et al., 1993) ha generato depositi da caduta, distribuiti sul versante orientale, depositi da flusso piroclastico e surges minori. Non è sicura una produzione di lava sebbene ne sono presenti tracce ad Ercolano e Torre Annunziata. I segni dei prodotti da caduta sono ben visibili nell’area di S. Giuseppe Vesuviano, sono costituiti da pomici e rari frammenti litici lavici e hanno grana e composizione variabile. Sono presenti rilievi stratigrafici con chiari segni di depositi da flusso piroclastico nell’area meridionale, nella zona di Pozzelle il deposito raggiunge i 12 m e si distinguono tre diverse composizioni, la seconda mostra una grana fine ricca di pomici e litici di dimensioni. Presso Somma Vesuviana, un deposito da surge di 30 cm copre un sottile strato di materiale da caduta. In fine, una cenere omogenea e ben distribuita copre i segni del collasso della colonna Pliniana e dei diversi flussi piroclastici. In conseguenza all’eruzione, flussi di detriti, fiumi di fango ed alluvioni hanno segnato il territorio lungo le principali direzioni di flusso. L’eruzione del 1906 d.C. L’eruzione del 1906 d.C. fu la più importante eruzione dell’ultimo ciclo di attività del Somma-Vesuvio, il quale iniziò con l’eruzione del 1631 e si concluse con 34 anni di attività effusiva (Mercalli, 1906; Perret, 1924). L’eruzione iniziò il 4 Aprile con grandi esplosioni che precedettero una consistente produzione di lava. La sera del giorno 7, per circa 4 ore, un’attività di tipo Stromboliano generò una fontana lavica dell’altezza di 2 km e una moderata produzione di depositi tefritici. Il giorno seguente iniziò la fase di demolizione del cono eruttivo, con la deposizione di frammenti juvenili e litici lavici, per sfociare in un getto di gas sostenuto. L’eruzione finì con una lieve colonna sostenuta che si depositò lasciando un sottile strato di cenere non vescicolata (Bertagnini et al., 1991; Mastrolorenzo et al., 1993). I depositi di pomici più chiare si ritrovano nell’area tra Ottaviano e S. Giuseppe Vesuviano, si possono distinguere tre sezioni. La parte basale, ben classata a gradazione inversa, è composta di frammenti scoriacei neri e rari litici e riconducibile alla prima fase Stromboliana. Il deposito intermedio, riconducibile alla fase di distruzione del cono, è ben classato a gradazione inversa principalmente composto di frammenti litici e clasti lievemente vescicolati. La parte superiore, in fine, deposta durante la fase finale, è caratterizzata da diversi livelli di cenere rossa a grana grossa e cenere fine dal colore grigio e rosso. Durante la sua vita, il Vesuvio è stato caratterizzato, quindi, da eruzioni di tipi differenti, probabilmente in relazione alle condizioni del sistema magmatico. Periodi caratterizzati da persistente attività stromboliana, con sporadici eventi freatomagmatici, si associano ad una riserva magmatica poco consistente e superficiale congiunta ad una condizione di condotto aperto. D’altra parte, l’ostruzione del condotto vulcanico e l’accumulo e la differenziazione di una grande quantità di magma sono associate alla probabilità di un evento esplosivo di grandi dimensioni, seguito normalmente da un lungo periodo di riposo (Santacroce, 1996), interessato dalla formazione e crescita di una camera magmatica fino a che si verifichino le condizioni per un nuovo fenomeno esplosivo. L’entità dell’eruzione deriva dalla dimensione e dalla profondità della riserva di magma, e dipende dal parziale o totale svuotamento della camera. L’attuale periodo di quiescenza, che dura dal 1944, segue l’attività osservata nell’arco temporale che va dal 1631 al 1944, lungo il quale i periodi di inattività non hanno mai superato i 7 anni (Carta et al., 1981; Arrighi et al., 2001). Questo consistente ritardo, nella riprese delle attività del Vesuvio, suggerisce che l’ultimo evento abbia segnato il passaggio dalla condizione di condotto aperto a quella di condotto chiuso (Santacroce, 1993). Studi petrologici indicano che gli ultimi 2000-3000 anni siano stati caratterizzati probabilmente da una pressoché costante alimentazione della riserva magmatica, valutata intorno ai 2-4x106 m3 l’anno (Santacroce et al., 1993, Cioni et al., 1995). Ipotizzando un incremento magmatico pressoché costante, è possibile valutare la quantità di magma accumulata nella camera dal 1944, e stimare il tipo di evento che si genererebbe dal suo completo svuotamento durante una singola eruzione. Avverrebbe una fuoriuscita di circa 0,2 km3 di magma, circa la quantità relativa all’eruzione sub-Pliniana al Vesuvio del 1631 (Rolandi et al., 1993; Rosi et al., 1993). Tale eruzione è stata pertanto scelta, almeno per quanto riguarda la magnitudine, come riferimento per l’Evento Massino Atteso (EMA) al Vesuvio, nel breve-medio periodo (DPC, 1995; Santacroce et al., 1998). L’eruzione generò depositi da caduta sul lato orientale del vulcano e flussi piroclastici. La fase relativa alla deposizione di pomici durò circa 7 h e vide l’eruzione di ~0.4 km3 di roccia densa equivalente (RDE). La portata massima è stata valutata tra i 3 e i 6x107 kg al secondo (Rosi et al., 1993) e fu caratterizzata da complesse dinamiche che interessarono il collasso della caldera e della colonna sostenuta causando la generazione di flussi piroclastici devastanti che raggiunsero e distrussero zone fino a 7-8 km di distanza dal cratere. Le vittime superarono le 4.000 unità. Il rischio In Italia i vulcani attivi sono studiati e monitorati la fine di ridurre gli effetti distruttivi di una eruzione futura. Probabilmente, in questi termini, il Vesuvio è il migliore esempio al mondo di relazione tra pericolo vulcanico e vulnerabilità umana. E’ noto, infatti, che un’area intensamente sviluppata e popolata ricopre i versanti del vulcano, che può vantare comuni con la più alta densità abitativa d’Europa. La Protezione Civile, da tempo, lavora ad un piano di emergenza per l’area vesuviana. Nel settembre del 1995, tale piano fu presentato alle amministrazioni locali dei paesi circostanti il Vesuvio. Il piano si basava sullo scenario eruttivo ricavato da quello relativo all’eruzione esplosiva subpliniana avvenuta nel 1631 d.C. Nelle aree in cui è presente un vulcanismo attivo, la previsione del pericolo vulcanico nel breve periodo è affidata a sistemi di monitoraggio geofisici e geochimici, che sorvegliano continuamente il rumore di fondo del vulcano (deformazioni superficiali, microsismi, variazioni di temperatura, emissioni di gas) e che possono immediatamente comunicare significative variazioni. Questo tipo di sorveglianza vulcanica può rivelare segnali di una nuova eruzione del Vesuvio in appena un paio di anni. Una previsione del pericolo vulcanico nel lungo periodo si basa sulla conoscenza della storia del vulcano in esame e la determinazione del pericolo vulcanico. Una tale dettagliata conoscenza rende possibile realizzare previsioni che si sviluppano lungo decine di anni, e di stabilire specifici piani di previsione per le singole zone dell’area Vesuviana. La distribuzione totale dei depositi dei flussi piroclastici e di quelli da caduta, avvenuta nel corso degli ultimi 10 mila anni di storia del complesso vulcanico Somma-Vesuvio, ha permesso, nel 2001, a Lirer et al. di quantificare il pericolo vulcanico a Vesuvio. Un processamento GIS utilizzando le isopache dei depositi da caduta ha consentito di ricostruire la probabilità che una certa zona sia stata interessata da depositi di origine piroclastica sul periodo di riferimento. L’analisi restituisce una mappa del pericolo vulcanico strutturata su tre livelli: Un’area perivulcanica ad alto rischio con la potenziale interazione dei depositi da caduta e da flusso piroclastico oltre i 50 cm. Tale zona è soggetta ad un elevato rischio per il crollo delle coperture e danni relativi alle sovrappressioni laterali da flusso piroclastico. Si estende su circa 86 km2 di area urbanizzata, con una popolazione di 984.954 unità. Un’area esterna, nel settore nord-est, soggetta ad un pericolo medio, dove i depositi da caduta dello spessore di circa 50 cm dovrebbero predominare sui depositi relativi ai flussi piroclastici. In questa zona c’è rischio rilevante per il crollo delle coperture ma non così alto per quello relativo ai flussi piroclastici. Comprende un’area urbanizzata di poco più di 120 km2 con una popolazione di 502.308 abitanti. Un’area ancora più esterna prevede un pericolo vulcanico basso, con depositi di circa 20 cm o meno, dove il rischio di crolli delle coperture risulta minimo. La relativa area urbanizzata è di 100 km2 per una popolazione di 398.427 persone. Il lavoro in conclusione propone una previsione nel lungo periodo per lo scenario eruttivo al Vesuvio: Il volume di magma (roccia densa equivalente) costituito dai depositi da • caduta varierebbe tra 0,2 e 0,3 km3; • lo spessore dei depositi da caduta tra i 20 e i 60 km dalla bocca raggiungerebbe i 10 cm; l’asse di dispersione dei depositi da caduta seguirebbe con tutta • probabilità la direzione est nord-est; i depositi da flusso piroclastico oltre i 50 cm si dovrebbero limitare ad • un’area di 10 km; il versante orientale dovrebbe essere interessato dal massimo pericolo; • • la piana di Nola e quella di Sarno sarebbero investite da pesanti alluvioni. L’analisi tiene conto dei differenti stili eruttivi, la frequenza del pericolo e l’esposizione sono state valutate su di un area di circa 15 mila km2. Si conferma chiaramente che l’area Vesuviana è una zona ad elevatissimo rischio vulcanico principalmente in prossimità del cratere. La Pianificazione Nazionale d’Emergenza si basa, essenzialmente, sulla previsione relativa allo scenario eruttivo dell’Eruzione Massima Attesa al Vesuvio a breve-medio termine che fa riferimento all’eruzione Vesuviana del 1631. Essa prevede una zonazione dell’area perivulcanica secondo la tipologia e l’entità del rischio: Nella zona rossa (circa 200 km2) vaste aree potrebbero essere soggette a • distruzione pressoché totale a causa dello scorrimento di colate piroclastiche, “surges” piroclastici, colate di fango ed alla ricaduta imponente di blocchi, bombe e lapilli. La zona gialla (circa 1100 km2) potrebbe essere interessata da • importante ricaduta di lapilli e cenere, con carichi per metro quadrato superiore ai 200 kg nonché da uragani di fango. E’ stata operata, all’interno di questa zona, un’ulteriore suddivisione che individua l’area nella quale il carico atteso per metro quadrato è superiore ai 400 kg. La zona blu (circa 100 km2 ), oltre alla ricaduta di lapilli e cenere con • carichi superiori ai 200kg/m2, potrebbe essere soggetta a devastazioni connesse allo scorrimento di colate e torrenti fangosi ed ad inondazioni ed alluvionamenti anche estesi. ( Santacroce et al.1998.). La valutazione del pericolo derivante dalla deposizione delle piroclastiti di caduta è stata formulata, oltre che in base alle eruzioni precedenti, con l’aiuto dei risultati ottenuti da alcune simulazioni numeriche. Le simulazioni sono state condotte da Santacroce et al. nel 1998, presso il Dipartimento di Scienza della Terra dell’Università di Pisa, e rendono la ricaduta di 0,2 km3 di magma denso, per colonne di diverse altezze comprese tra i 12 e i 22 km, per diverse popolazioni granulometriche, “tipo 79” più vescicolate e “tipo 1631” più dense, e per tutti i profili di velocità del vento relativi agli ultimi 15-20 anni di rilevamento effettuati dagli aeroporti di Brindisi e Capodichino. Una volta ottenuta l’altezza e l’estensione dei depositi si sono determinate le aree per le quali si eccedono prefissati valori soglia, rapportando, poi, per ciascun punto dell’area perivulcanica in esame, il numero di simulazioni che vedono superato un certo valore soglia con il numero di totale di simulazioni, si è potuto determinare la probabilità che in quel punto si abbiano depositi di altezza superiore a quel valore soglia. La Pianificazione Nazionale d’Emergenza, in termini di depositi da caduta, nasce dal confronto di questa mappa di probabilità con gli effetti delle eruzioni precedenti di magnitudo simile o superiore a quella di riferimento. Grazie al lavoro di Nunziante (1997), commissionato dall’Osservatorio Vesuviano, si passa da una valutazione della sola probabilità connessa ai depositi da caduta all’analisi dei danni che questo fenomeno vulcanico è in grado di arrecare. Lo studio valuta lo spessore massimo di deposito che le più comuni coperture, presenti nelle aree a rischio, sono in grado di sopportare prima del collasso. Se ne deduce che, per i solai con estensioni proprie di quelli delle normali abitazioni, si raggiunge la deformazione plastica per un deposito di: 48 cm per coperture con solai e travi in cemento armato, • • 86 cm per coperture con travi in acciaio. I valori sono ottenuti valutando il peso specifico dei depositi umidi pari a 1600 kg/m3. Le caratteristiche termofluidodinamiche dei flussi piroclastici sono state studiate da Todesco (2002), tramite la modellazione fisica di un’eruzione magmatica e il processo di propagazione di un flusso piroclastico. L’analisi del flusso è condotta a partire dalle condizioni al cratere ottenute dallo studio dei processi magmatici a partire dalle peggiori condizioni possibili, massimo accumulo di magma e totale svuotamento della caldera, e si interroga sullo sviluppo bidimensionale dei flussi piroclastici lungo due profili rappresentativi dei versanti nord e sud del vulcano Vesuvio. Il modello descrive le evoluzioni temporali di una miscela tricomposita, costituita da un gas di base e due fasi solide in sospensione rappresentative della più grande e più piccola specie di particelle presenti nel flusso. Diverse simulazioni bidimensionali e assialsimmetriche, al variare dell’ampiezza del settore entro il quale si sviluppa la colonna eruttiva e del profilo del versante vulcanico considerato, mostrano la dipendenza della potenza del flusso e della distanza raggiunta con la portata di massa eruttiva e la sua composizione, descrivono come si generi la colonna eruttiva sopra il cratere e successivamente collassi in un flusso piroclastico che si sviluppa lungo il versante vulcanico, si evidenziano anche la formazione di phoenix clouds, sviluppo di vortici controvento che risalgono il flusso. La formazione del flusso piroclastico avviene dopo poche centinaia di secondi dall’eruzione e rappresenta un fenomeno continuo ed esteso che finisce per coinvolgere l’intera colonna eruttiva, fanno eccezione le simulazioni caratterizzate da un contenuto d’acqua superiore, 4% in luogo del 2%, per le quali non si verificano flussi piroclastici di rilievo. Alcune simulazioni contemplano la possibilità, più realistica, che il materiale eruttivo non fuoriesca con continuità dal cratere, tale condizione determina una minore densità della colonna ed una sua maggiore stabilità a causa dell’azione convettiva dell’aria circostante, il flusso piroclastico conseguente ha, quindi, caratteristiche più contenute. In definitiva, tale lavoro fornisce un’idea dei flussi piroclastici tra i più distruttivi possibili generati da un eruzione vesuviana nel breve-medio periodo, ed evidenzia come possano essere influenzati dall’andamento orografico delle pendici del vulcano. Le valli, ad esempio, determinano un aumento della distanza che tali eventi possono coprire, mentre il Monte Somma non rappresenta una valida barriera, almeno per i flussi connessi con le eruzioni di grande magnitudine. Lo studio propone una distanza coperta dai flussi piroclastici tra i 4 e gli 8 km e, grazie alle simulazioni fatte, mette le basi per la creazione di una mappa del rischio sia spaziale che temporale. Tali simulazioni numeriche, poi, sono state analizzate, in termini di variabili locali del flusso, da Espositi Ongaro (2002), con lo scopo di determinare quantitativamente il pericolo relativo a tali eventi nell’area vesuviana. L’analisi è condotta al fine di determinare il comportamento temporale delle principali variabili caratteristiche del pericolo connesso ai flussi, come la densità, la velocità, la temperatura e la pressione dinamica, al variare della distanza dal cratere ed in prossimità del suolo; le prime tre variabili sono dedotte direttamente dalle simulazioni numeriche lungo un periodo di 15 minuti, da queste è possibile derivare la pressione dinamica e quella isotropica rispetto alla pressione atmosferica. Tali grandezze, fondamentali per determinare il danno prodotto dal flusso sulle strutture e alle persone all’interno degli edifici, dipendono direttamente dalla portata eruttiva per angolo di propagazione lungo il cratere. Per il caso peggiore possibile, cioè una portata di 5x107 kg al secondo ed un settore interessato con un’estensione di 90°, si riscontrano valori simili per le due grandezze di pressione, compresi tra 3 e 1 kpa, rispettivamente per la media e la lontana regione del flusso. Si evidenzia il comportamento non intuitivo e non stazionario dei flussi anche per condizioni al cratere costanti. I danni alle strutture verificatisi nelle precedenti eruzioni, sono attribuiti in virtù dei bassi valori di pressione ottenuti, alle caratteristiche non stazionarie dei flussi piroclastici ed alle rapide variazioni di pressione. Recentemente gli effetti distruttivi dei flussi piroclastici sono stati osservati durante l’eruzione del Monte S. Helens nel 1980, a Merapi nel 1994 e al vulcano delle isole Soufriere, si è potuto notare che nonostante siano letali nelle zone prossime al cratere possono esserlo molto meno in quelle più distanti, in particolar modo se gli edifici sono provvisti di opportune protezioni (Baxter et al. 1998). E’, pertanto, utile e interessante studiare i flussi piroclastici attraverso l’analisi di quelle variabili che sono più significative per la quantificazione dell’impatto che tali fenomeni producono sulle strutture e le persone che si trovano nelle aree esposte al loro rischio; ad esempio, il principale fattore di rischio per le persone, connesso alle regioni più distanti del flusso, è rappresentato dai problemi respiratori (Baxter et al. 1998). Le valutazioni, legate allo scenario eruttivo dell’Eruzione Massima Attesa al Vesuvio, hanno la forza di delineare i contorni della grave condizione cui è soggetta la popolazione vesuviana. Per ottenere, però,una conoscenza, seppur approssimata, del rischio non basta stabilire quale sarebbe il peggior scenario possibile, ma diventa necessario conoscere la probabilità che ogni singolo evento vulcanico si manifesti con una data magnitudo unitamente alla valutazione dei danni che quell’evento di quella magnitudo è in grado di arrecare. Su questo tipo di approccio è improntato il lavoro di Mazzocchi et al. (2004) che, tramite uno schema ad albero, stabiliscono un metodo per la valutazione della probabilità del danno che ogni singolo evento legato ad una generica eruzione vulcanica può causare. I nodi dell’albero sono caratterizzati da tutte le possibili alternative attraverso le quali si caratterizzano i fenomeni vulcanici, a partire dalla ripresa delle attività fino a comprendere la possibile estensione di ogni singolo fenomeno e la probabilità del danno arrecato a persone o edifici. Ad ogni nodo è possibile associare un grado di probabilità in modo da calcolare la probabilità che l’eruzione procuri un certo danno tramite il prodotto delle probabilità di ogni singolo nodo superiore. I valori propri di ogni nodo sono valutati preliminarmente in base a valutazioni teoriche, successivamente sono modificati tramite le informazioni storiche riguardanti quel particolare evento, e sono ulteriormente modificati attraverso le informazioni ricavate dal monitoraggio dei segnali delle attività pre-eruttive. In quest’ottica gli studi di Santacroce ?, di Mazzocchi et al (2004). e di Nunziante (1997), sulla probabilità e i danni relativi ai fenomeni vulcanici, rappresentano la strada da seguire per una corretta valutazione del rischio vulcanico al Vesuvio. La prevenzione L’area vesuviana esposta a rischio vulcanico comprende 18 comuni: Cercola, Pompei, Portici, San Giorgio a Cremano, Torre Annunziata, Boscoreale, Boscotrecase, Ercolano, Massa di Somma, Ottaviano, Pollena Trocchia, San Giuseppe Vesuviano, San Sebastiano al Vesuvio, S. Anastasia, Somma Vesuviana, Terzigno, Torre del Greco, Trecase. Nell’arco di 40 anni (1951-1991), la popolazione residente in tale area è cresciuta da 353.172 a 651.648 unità, e la densità abitativa è passata da 2,5 a circa 0,89 abitanti per stanza. Appare evidente, come negli ultimi anni, pur rimanendo costante il pericolo, l’incremento del valore esposto abbia fatto lievitare considerevolmente il rischio. In un vasto territorio, infatti, scempi e rapporti suicidi con il territorio hanno enormemente aumentato l’esposizione della popolazione, notevolmente accresciuta nel periodo, e del patrimonio edilizio altrettanto follemente accresciuto, con una densità di abitanti per chilometro quadro elevatissima, soprattutto nella fascia costiera (13.000 ab./km2). Questo dimostra che, nella memoria della gente, si sia in parte perso il ricordo dell’ultima eruzione del 1944, e che bisogna lavorare per assicurare un futuro alla popolazione, che più che essere protetta dai fenomeni naturali deve essere protetta da sé stessa. La prevenzione, attualmente, si muove su due binari: uno dell’emergenza e l’altro della programmazione. Nel caso in cui avvenissero manifestazioni eruttive distruttive nel breve periodo, il territorio si ritroverebbe necessariamente in condizioni di emergenza. Se, invece, il Vesuvio perdurasse nella sua condizione di quiescenza, ci sarebbe il tempo per programmare ed attuare un piano di progressivo smantellamento del valore esposto, tramite una mirata pianificazione economica e territoriale. La Pianificazione Nazionale d’Emergenza prevede, nei giorni precedenti l’eruzione, identificati grazie alla continua sorveglianza dell’Osservatorio Vesuviano, di evacuare le popolazioni dei diversi comuni esposti a rischio in altri comuni di Italia con i quali questi sono “gemellati”. C’è da sottolineare, però, che i segnali precursori tipo evento sismico non sono univoci, non è detto, cioè, che a questi corrisponda necessariamente un’eruzione. Si verificherebbero pericolosissimi falsi allarmi che indurrebbero, nella popolazione, una notevole perdita di credibilità nei confronti del piano di emergenza, rendendolo inefficace, oltre a causare ingenti perdite economiche. La durata di tali segnali non è, poi, ben definibile, se dovessero protrarsi a lungo nel tempo, infatti, potrebbe verificarsi il rientro della popolazione evacuata proprio prima del verificarsi dell’evento vulcanico. Oltretutto il piano prevede un’evacuazione scaglionata, ed è improbabile che, sotto l’imminente pericolo di un’eruzione, la popolazione di un determinato comune aspetti disciplinatamente, prima di mettersi in salvo, che quello adiacente liberi le proprie case. In più niente assicurerebbe il ritorno delle popolazioni ospiti nelle loro case originarie. Nello stato attuale la valutazione di un tale scenario è indispensabile, ma, avendo tempo, è più che necessario trovarne uno alternativo, quello, cioè, della programmazione. In contrapposizione, infatti, alla logica di emergenza si sta affermando, nella costruzione di politiche e di piani per i territori provinciali e per l’assetto regionale in Campania, una nuova cultura del rischio, l’intenzione, cioè, di incrementare la sicurezza delle aree urbane tramite politiche di medio e lungo periodo, che cerchino di realizzare una riconfigurazione del territorio al fine di recuperare il delicato equilibrio tra componenti e morfologie insediative, infrastrutturali, e ambientali, che i recenti sviluppi urbani hanno minato. Il programma di mitigazione del rischio vulcanico, realizzato dalle istituzioni, prevede, inanzitutto, un progressivo alleggerimento del carico abitativo nel medio lungo periodo, la possibilità, cioè, di una “decompressione insediativa” delle aree urbane di rischio vulcanico, intesa come una strategica alternativa in grado di innescare gli interventi di trasformazione territoriale e di riqualificazione necessari per lo sviluppo della regione. Nell’ultimo decennio il territorio ha visto la popolazione di molti comuni diminuire, ma bisogna che tale andamento continui e si incrementi. Per fare ciò è impossibile utilizzare metodi coercitivi, bisogna creare, tramite spinte di carattere economico e urbanistico, un esodo spontaneo e progressivo. Una strada percorribile è quella di incentivare la realizzazione di unità abitative, in zone della regione non esposte a rischio, che assicurino condizioni di vivibilità migliori di quelle proprie dell’area vesuviana, e mettere a disposizione incentivi economici per tutti gli abitanti delle zone esposte a rischio vulcanico, che volessero acquistare casa altrove. Con i provvedimenti del 2003 la Regione Campania, infatti, ha bandito la disponibilità di più di 90 milioni di euro per il recupero e la costruzione di alloggi sull’intero territorio generale ad esclusione delle aree vesuviane ricadenti nella zona rossa a rischio Vesuvio. In più ha reso disponibili contributi, a partire dal 2005, per tutti quei nuclei familiari dell’area a rischio Vesuvio che si allontanino dai 18 comuni ricadenti nella zona rossa. Ha inasprito la repressione dell’abusivismo edilizio nella zona rossa, già vincolata da tempo. Ha conferito punti di merito per le imprese che chiedono aiuti economici e che si insedieranno in immobili residenziali, presenti nella zona rossa, riconvertiti all’uso produttivo. Ha proposto e incentivato mirati atti di informazione e sensibilizzazione, riguardanti il programma di mitigazione del rischio vulcanico, al fine di consentire alla popolazione interessata di condividerlo e accettarlo. Questi ed altri provvedimenti sono stati presentati alla popolazione con il nome “progetto Vesuvia” che prevede opuscoli ed eventi informativi, al fine, in accordo con le linee guida dei provvedimenti, di assicurare, alle popolazioni vesuviane, la conoscenza di ciò che sta cambiando sul loro territorio(Boll. uff. R.Campania 31-14/7/03). Il rischio, così, “cambia segno” e diventa un agente di trasformazione territoriale, una occasione di sviluppo, la possibilità di strutturare il tessuto urbano insediativo secondo una logica sostenibile, da una parte si recuperano e riqualificano le zone a rischio e dall’altra si ridisegna un tessuto urbano dal più ampio respiro dove sia possibile uno sviluppo policentrico ed integrato. I provvedimenti Regionali esposti rappresentano, comunque, solo il primo passo nella programmazione volta a prevenire il rischio Vesuvio, e il loro maggior valore è rappresentato dal fatto che incentivano nella popolazione la formazione dell’idea di vivere in un luogo altamente pericoloso. Obiettivo della ricerca e metodologia seguita 1.3 Dinamica eruttiva e impatto sulle strutture. Studio delle correnti piroclastiche ad alta densità (PDC). Uno dei principali obiettivi perseguiti in questa ricerca è costituito dallo studio dei flussi piroclastici. I flussi piroclastici rappresentano una delle più comuni e pericolose tra le dinamiche eruttive. Nascono prevalentemente dai parziali collassi cui va soggetta la colonna eruttiva sostenuta. Data la complessa struttura granulare la loro modellazione è ostacolata dalla mancanza di modelli reologici. Si intende intraprendere un progetto di ricerca per analizzare il comportamento reologico dei flussi granulari e la loro interazione con gli edifici. Si propone una metodologia costituita da: prove di impatto in laboratorio PDC-strutture; prove di carico; • • simulazioni numeriche; leggi di decadimento delle azioni con la distanza dal cratere; -dissipazione dell’energia in gioco per l’impatto con il costruito e con altri ostacoli. Studio dell’accumulo di prodotti piroclastici da caduta (Fall ). Secondo obiettivo della ricerca è rappresentato dallo studio del fenomeno vulcanico costituito dall’accumulo di prodotti piroclastici da caduta. Le eruzioni vulcaniche sono accompagnate da una imponente e largamente diffusa deposizione di elementi tefritici (pomici e lapilli). Fondamentale diventa conoscere l’estensione delle aree territoriali interessate con relative isopache (mappatura delle altezze dei depositi), sia per determinare i carichi gravanti sulle coperture degli edifici che per valutare l’impermeabilizzazione del terreno. Si propone una metodologia costituita da: simulazioni numeriche; leggi di decadimento delle azioni con la • distanza dal cratere. Effetti dell’eruzione del Vesuvio del 79 A.D. La principale metodologia seguita durante quest’anno di attività è realizzata tramite l’applicazione dei Metodi Inversi per l’analisi degli effetti di correnti piroclastiche sul tessuto costruito. I numerosi resti di edifici di epoca romana, distrutti dall’eruzione subpliniana del Vesuvio avvenuta nel 79 A.D., e grazie a questa ottimamente conservati, ben si prestano all’analisi inversa della dinamica eruttiva. Tramite la valutazione dei danni subiti è possibile, infatti, dedurre l’azione e quindi alcune proprietà caratteristiche degli eventi che li hanno causati. La metodologia si articola in: analisi dei crolli verificatisi nei siti archeologici vesuviani (Oplonti, • Pompei, Terzigno); studio dei diari di scavo delle relative campagne archeologiche, • • simulazioni numeriche agli elementi finiti dei principali fenomeni e conseguenti collassi che hanno interessato il costruito. Vulnerabilità del territorio. Definite le dinamiche eruttive se ne determinano gli effetti sul territorio, queste valutazioni si basano su di una capillare conoscenza del costruito sottoposto a rischio vulcanico. Elementi discriminanti sono le differenti tipologie strutturali, la conformazione del tessuto urbano e la collocazione all’interno del particolare profilo orografico della zona a rischio: realizzazione di una mappa del costruito con le differenti tipologie • strutturali; definizione e determinazione di indici di vulnerabilità, nonché la • valutazione delle vulnerabilità connesse al rischio relativo alle colate di fango e alle alluvioni, funzioni delle diverse conformazioni morfologiche; analisi strutturale numerica delle principali tipologie di costruzioni, con • precedenza per quelle di interesse di protezione civile, deduzione dei carichi di: collasso, crollo parziale, danneggiamento funzionale. Monitoraggio del territorio Alla conoscenza del costruito segue un lavoro di controllo e prevenzione dal rischio vulcanico, da realizzarsi tramite interventi sugli edifici, delineazione di un nucleo di elementi normativi per il rischio vulcanico delle costruzioni e, non ultima, una campagna di sensibilizzazione della popolazione interessata. rinforzo di coperture; aumento della resistenza all’azione laterale (PDC, • eventi sismici); Vincoli al progetto delle strutture portanti, e ad alcune sovrastrutture di nuove costruzioni per le diverse tipologie; realizzazione di un Fascicolo del Fabbricato della zona vesuviana che deve contenere notizie tecniche specifiche per la classificazione dell’edificio in relazione ai diversi rischi, vulnerabilità alle alluvioni e alle colate di fango. 2. RISULTATI OTTENUTI 2.1 Applicazioni dei Metodi Inversi per l’analisi degli effetti di correnti piroclastiche sul tessuto costruito: il caso dell’ eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Fig.1. Ubicazione del sito archeologico di Oplontis. (a). Villa A: pianta (da Fergola e Pagano, 1998) (b); ricostruzione 3D degli amb. 34, 21 e 33 (c). Gli effetti dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., sono stati valutati grazie ai cedimenti strutturali subiti dagli edifici dell’epoca nell’area di Oplonti, nel comune di Torre Annunziata, i cui resti sono stati rinvenuti nel corso degli ultimi anni, in particolare presso i siti archeologici di Villa A e Villa B. Villa A La Villa A è posizionata 15 km a Sud-Est del cratere del Vesuvio; l’ingresso principale è orientato verso Sud, per cui gli ambienti posteriori sono quelli che per primi hanno subito l’azione distruttiva dei flussi piroclastici, fig.1. Sul retro della villa si trovano infatti due colonnati (ambienti 331 e 341) ed il Grande Peristilio (ambiente 211) orientati verso Nord. Il lavoro degli Archeologi ha permesso di ricostruire quasi completamente la villa in modo da poterla visitare nelle condizioni in cui si trovava prima che il vulcano manifestasse il suo potere distruttivo. L’obiettivo del presente studio è dunque quello di capire preliminarmente le possibili modalità di collasso dei diversi elementi costituenti l’edificio, in particolare dei muri, dei solai, delle coperture ed in generale di tutte le strutture portanti, individuando altresì eventuali indizi che potrebbero non essere emersi a valle delle ricostruzioni archeologiche sin’ora effettuate. Fortunatamente, l’Archivio Fotografico della Soprintendenza Archeologica di Pompei, relativamente ai rinvenimenti degli ambienti oggetto dell’analisi, è ricco di documentazioni che, tra fotografie e diari di scavo unitamente ad una approfondita analisi della ricostruzione, hanno permesso una stima dei processi di collasso delle strutture presenti. Le problematiche maggiori riscontrate nello studio della villa A sono da attribuirsi principalmente ai tre fattori di seguito elencati: • difficoltà di reperire una documentazione scritta (giornale di scavo) inerente il primo decennio di scavi archeologici; • evidenza legata al fatto che il complesso edilizio prima dell’eruzione fosse in fase di ristrutturazione e restauro; • impossibilità di procedere ad un’indagine lungo il lato ovest della villa, completamente e definitivamente sepolto sotto le “Reali fabbriche d’armi e polveriera” e l’attuale via dei Sepolcri, e a sud dell’area archeologica, per la presenza del cinquecentesco canale Conte di Sarno. Per ricostruire gli eventi che si susseguirono durante le fasi dell’eruzione del 79 d.C. e descriverne gli effetti rapportandoli ai vari ambienti della villa A di Oplonti occorre far riferimento alla sequenza stratigrafica, che è possibile esaminare nel giardino nord, e Fig.2 Villa A, giardino nord: sequenza stratigrafica dei prodotti dell’eruzione del 79 d.C. precisamente nell’angolo di fronte all’Amb. 62. La fig. 2 riporta la sezione stratigrafica dei prodotti dell’eruzione del 79 d.C. nell’area di Oplonti, in cui sono descritte le caratteristiche principali dei singoli orizzonti individuati. Al fine di schematizzare la relazione esistente tra le dinamiche eruttive del 79 d.C., con i relativi depositi, e gli effetti distruttivi riscontrati sulla villa A di Oplonti, la discussione che segue è impostata individuando: a. la fase dell’eruzione b. il deposito relativo a quella fase c. l’area, o le aree, della Villa in cui gli effetti di quella fase sono più evidenti. Per ogni singola area così individuata è riportata, quindi, una descrizione analitica degli Fig.3. Villa A, porticati 33 e 34: schema costruttivo delle tettoie. effetti distruttivi evidenziati, corredata dalla relativa documentazione fotografica, ricavata dal materiale dell’Archivio Storico della Soprintendenza di Pompei, dal materiale a disposizione presso gli Uffici degli Scavi di Oplonti e dal rilievo dello stato attuale del sito. I primi momenti dell’eruzione del 79 d.C. nell’area di Oplonti hanno visto la deposizione di prodotti da caduta con pomici bianche, passanti a prodotti da caduta con pomici grigie, caratterizzate da una densità media umida pari a circa 1600 kg/m3. Durante la fase di messa in posto di questi ultimi, durata circa 12 ore, alcuni collassi parziali della colonna eruttiva sostenuta hanno portato alla contemporanea messa in posto di prodotti da corrente piroclastica (PDC), nel seguito individuati con le sigle da PDC1 a PDC4. Tali sigle sono riportate in fig. 2 per consentire di individuare il corrispondente livello all’interno della successione stratigrafica. ANALISI DEGLI AMBIENTI I due porticati simmetrici 33 e 34 e il salone 21, fig.1c, nel settore nord-occidentale della villa, e l’area della piscina, nel settore nord- orientale, sono quelli in cui è più evidente la relazione tra prodotti dell’eruzione e gli effetti distruttivi per quanto riguarda le prime fasi dell’evento. I porticati 33 e 34 erano provvisti di un corpo centrale costituito da 12 colonne, con dei bracci esterni a 5 colonne e dei bracci interni a 4 colonne che si protendevano verso il grande giardino nord (Amb. 56, fig. 1b); la tettoia era costituita da tegole rettangolari di terracotta aventi dimensioni di cm 45x65, raccordate tra loro con dei coppi dello stesso materiale, mentre la struttura portante, realizzata con una pendenza di 13°, si basava su una serie di travetti di legno, distanti 35 cm l’uno dall’altro, poggianti sul colonnato mediante grandi travi di legno (fig. 3). Non è stato possibile portare alla luce il braccio ovest a 5 colonne del porticato 33, sepolto sotto l’attuale via dei Sepolcri, mentre sono esposte soltanto 9 colonne del colonnato centrale (di cui 8 ricostruite ed una spezzata, lasciata in posto a testimonianza del cedimento, col. IV, fig. 4c). Fig.4. Villa A, porticato 33: crolli da sovraccarico (a, b, c, d), linea di frattura delle colonne (e), pianta con direzione di caduta delle colonne (f). L’osservazione diretta delle fratture sulle colonne permette di ipotizzare, come causa del crollo della tettoia, il peso del materiale pomiceo da caduta - 0,1 kg/cm2 circa - il quale ha gravato sulla travatura innescando i meccanismi di frattura responsabili del collasso. Si può notare, infatti, nelle colonne centrali, VI e VII, fig. 4f, una frattura principale rivolta verso l’esterno generata da una sollecitazione di trazione, rispetto alla quale gli elementi della struttura, costituiti da malta e laterizi, risultano più vulnerabili. In più, la quota di tale frattura, sull’altezza di ogni singola colonna, decresce avvicinandosi alle colonne mediane, su cui si è concentrato il carico maggiore e a partire dalle quali deve essersi probabilmente innescato il crollo (fig. 4e). Questa considerazione è avvalorata da quanto osservabile nelle fotografie conservate nell’Archivio di Pompei che mostrano le colonne centrali abbattute in avanti, su circa 60 cm di pomici, all’interno del giardino nord (fig.4d), e spezzate in modo da formare un lineamento arcuato con un minimo proprio in corrispondenza delle colonne mediane (VI e VII, fig. 4e). Le colonne angolari, trovandosi in condizioni di maggiore stabilità, hanno resistito al collasso della tettoia ma non al passaggio della PDC1 (col. XII, Amb. 33, figg. 5a,b); le colonne dei bracci, analogamente, non sono crollate in avanti durante la fase da caduta, in quanto, in questa sezione del colonnato, la travatura principale ha una lunghezza minore rispetto a quella presente nel corpo centrale, mantenendo la stessa sezione, possedendo una rigidezza maggiore, dunque, ha potuto assorbire le sollecitazioni indotte dal carico evitando il collasso delle strutture verticali. L’ultima colonna del corpo centrale del colonnato 33, precisamente quella angolare (col. XII, fig. 5e), è stata abbattuta dalla PDC1, come risulta dall’osservazione delle figg. 5a,b, scattata dall’Amb. 17 (spogliatoio del settore termale, fig. 1b). Il porticato 34 ha subito gli stessi effetti e le stesse modalità di crollo del porticato 33 ad Fig.5. Villa A: porticato 33, effetti della PDC1 sulla colonna angolare est -XII - (a, b); peristilio 21, effetti della PDC1 sul colonnato (c), confronto con ricostruzione 3D (d); pianta con direzione dei crolli (e). In blu i depositi dell’evento vulcanico, in rosso i relativi cedimenti strutturali. esso adiacente, con sfondamento della tettoia e abbattimento delle colonne del corpo centrale verso nord, all’interno del giardino, per l’aumento del carico prodotto dalle pomici da caduta. I danni, tanto sulle colonne che sugli affreschi risultano, però, più ingenti, in quanto con ogni Fig.5. Villa A: porticato 33, effetti della PDC1 sulla colonna angolare est -XII - (a, b); peristilio 21, effetti della PDC1 sul colonnato (c), confronto con ricostruzione 3D (d); pianta con direzione dei crolli (e). In blu i depositi dell’evento vulcanico, in rosso i relativi cedimenti strutturali. probabilità la presenza di un secondo piano, non presente nell’altro colonnato, caricando maggiormente l’impianto murario, ha determinato dinamiche di crollo più distruttive. Le colonne laterali esterne (braccio Est) risultano abbattute lungo la direzione 120° nord verso l’Amb. 52 che è il corridoio che porta alla latrina (Amb. 49, fig. 1b). L’abbattimento è imputabile alla deposizione della PDC1 e la direzione d’impatto indica una deviazione, degli effetti della corrente piroclastica, di circa 20° verso l’interno della villa. Spostandoci verso E troviamo l’Amb. 32 (fig. 1b), che costituisce il peristilio su cui si affacciavano gli ambienti destinati alla servitù. Anche qui si può notare che in seguito al collasso della tettoia, avvenuto con caratteristiche analoghe a quelle degli altri porticati, le colonne centrali risultano spezzate a quota inferiore rispetto a quelle poste agli angoli del peristilio. Dalle fotografie, si osserva chiaramente che le prime correnti piroclastiche sono penetrate all’interno e si sono deposte senza determinare ulteriori danni alle colonne (fig. 6a). In definitiva è lecito Fig6. Villa A: peristilio 32, prodotti dell’eruzione (a); colonnato 13, effetti della PDC5 sulla colonna I (b); colonnato 33, sulla destra depositi piroclastici in posto e tracce sui muri delle PDC1-4 (c); ambiente 15, calco della porta finestra interessata dall’impatto della PDC5 (d); pianta con direzione dei crolli causati dalla PDC5 (e). In blu i depositi dell’evento vulcanico, in rosso i relativi cedimenti strutturali. credere che le PDC1-4 accedano al peristilio servile dopo aver dissipato, nell’impatto con la facciata ovest dell’edificio, tanta energia da lasciare intatti i monconi delle colonne sopravvissute al collasso della tettoia. Il salone 21, fig. 5e, presentava un altissimo colonnato, chiuso da cancelli, realizzato tramite laterizi e malta rivestiti di stucco bianco ornato da scanalature verticali, ai cui lati si trovavano gli Ambb. 33 e 34, e si affacciava sul grande viridarium nord (Amb. 56). Il grande peristilio con le sue due colonne, inserite tra 2 angolari, di oltre 6 m di altezza, offre la possibilità di determinare la direzione d’impatto delle PDC1-4; infatti, dalle fotografie e dalle misure eseguite su tali elementi, appare chiaramente che a partire dal pilastro angolare a ovest, la forza d’impatto del flusso piroclastico abbia determinato un collasso a catena (figg. 5c,d), spezzando le colonne all’altezza di circa 55 cm, e il pilastro est all’altezza di circa 90 cm (spessore dei depositi da caduta sopra il gradino). Diversamente da quanto accaduto per gli altri colonnati esaminati, nel locale 21 non c’è indizio di crollo dovuto al carico dei depositi da caduta. Nell’ambiente in esame, infatti, all’epoca dell’eruzione non era presente alcuna tettoia, come confermato dal fatto che nel materiale di scavo non è stata trovata nessuna tegola o antefissa ad essa appartenente. L’ambiente era sicuramente provvisto di tettoia ma probabilmente non era stata ancora ripristinata nel corso della ristrutturazione antecedente all’eruzione. In questa sala a testomonianza del fatto che si stessero eseguendo nella villa alcuni lavori di ristrutturazione, si trovano delle colonne di marmo appoggiate alle pareti (fig. 7) che attendevano di essere ricollocate nella zona della piscina. Dalla documentazione di scavo e dall’osservazione diretta è possibile dedurre che i muri del salone 21, essendo in posizione praticamente perpendicolare alla direzione d’impatto delle correnti piroclastiche, hanno subito l’abbattimento della sezione prossima al colonnato e non ancora sommersa dalle pomici miste ai materiali di crollo (fig. 7). In questo ambiente, infatti, è possibile distinguere bene la parte ricostruita dopo lo scavo, quella originaria abbattuta dalla PDC1 e la base integra, esaminando la diversa opera muraria, il materiale utilizzato per la ricostruzione e soprattutto il tipo di legante usato, in fase di ricostruzione post-scavo. Dai dati raccolti si giunge alla conclusione che le correnti piroclastiche intercalate ai prodotti da caduta (PDC1-4) hanno investito le strutture murarie seguendo tutte la stessa direzione (100-120°N), come è testimoniato dalle impronte sui muri. E’ plausibile pensare che in questo settore la PDC1 abbia avuto un potere distruttivo maggiore delle successive, che hanno agito quando la struttura era ormai danneggiata. L’effetto demolitore sembra essersi concentrato solo sugli ostacoli posti perpendicolarmente alla direzione d’impatto, mentre le strutture murarie parallele alla direzione di flusso, in relazione a tali eventi, non hanno subito danni rilevanti. Le correnti piroclastiche da PDC1 a PDC4 hanno provocato danni solo nella parte nord-occidentale della villa, mentre al suo interno sono penetrate senza produrre danni significativi, perché avevano perso energia nell’impatto. La piscina (Amb. 96, fig. 1b) presentava il lato occidentale dotato di numerose sculture, tra cui due erme simmetriche (una nell’angolo a nord, l’altra in quello a sud) costituite da pilastrini marmorei (figg. 8c,e), distanti l’una dall’altra 45 m circa, su cui erano appoggiate teste raffiguranti Eracle. L’area della piscina era stata interessata dalla caduta di pomici, ma era stata in parte protetta dall’impatto diretto delle PDC1-4 che giungevano alla piscina, dopo aver dissipato energia per superare ed abbattere gli ostacoli nella zona occidentale. Le PDC1-4 sono riuscite, in ogni modo, a provocare la caduta della testa delle erme. Nella documentazione di scavo ci sono, infatti, alcune foto di un’erma, ritrovata il 2 marzo 1984, in cui appare chiaramente che una delle teste “virili” si trova sepolta all’interno di uno strato di pomici grigie da caduta compreso tra due depositi da PDC (fig. 9a). Dai diari di scavo, invece, è possibile risalire approssimativamente alle posizioni di recupero dei reperti marmorei. Seguono stralci del giornale di scavo: «29/12/1977 Nel proseguire lo scavo nella zona circostante la grande piscina si rinviene, a m 14 in direzione da sud a nord, all’altezza del pilastro angolare con semicolonna addossata dall’angolo NE dell’Amb. 91, a cm 70 dal piano di calpestio, un busto-erma, in marmo bianco di una figura giovanile, maschile, imberbe: i capelli, a riccioli fluenti, sono legati da una tenia, con foglie di vite, annodata alla nuca, le cui estremità scendono sul petto; lateralmente due blocchetti parallelepipedi marmorei (marmo bianco) fissati con perni in ferro (h totale della testa cm 42). Alla stessa altezza, a circa 1 m verso nord si rinviene un pilastrino in marmo grigio (probabilmente pertinente alla testa) di forma parallelepipeda (altezza m 1,39; lati base cm 27,5 x 18,5) poggiante su di una basetta in marmo (h cm 17, lati cm 34 x 28,5), con cornice molassata: tale base risulta tagliata nel lato a ovest verso la piscina. Il pilastrino era già rotto precedentemente in due pezzi e restaurato mediante un perno di forma parallelepipeda in legno Fig.7. Villa A, peristilio 21: ripristino, successivo allo scavo archeologico, del muro est con pianta e direzione del crollo; alla base le colonne destinate alla zona della piscina. PDC5 (d); pianta con direzione dei crolli causati dalla PDC5 (e). (h cm 13). Accanto, nello strato di lapilli, si rinviene un frammento di sigillata sudgallica con marchio in p.p. VILLI-N» Fig.8. Villa A, zona est: erma nord con particolare del ritrovamento della testa (a), erma nord, vista laterale e frontale (b), piscina, angolo sud-est con cratere e statue, riposizionate dopo lo scavo, foto del marzo 1984 (c), canale erosionale (d), pianta con direzione del flusso (e). In blu i depositi dell’evento vulcanico, in rosso i relativi cedimenti strutturali. «2/3/1984 Continua lo scavo a NE della piscina, viene trovata un’erma di marmo precisamente vicino all’ultimo pilastrino, contando a partire dal lato sud. L’erma dista dal pilastrino m 2,75 e si trova a quota m 0,85 dal piano di calpestio; continuando lo scavo in direzione SE, viene alla luce la testa di un bambino in marmo. La testa si trova in direzione NE dalla piscina tra il decimo e l’undicesimo pilastrino contando da sud. Detta testa dista m 3,45 dal pilastrino numero 10 e m 3,85 dal pilastrino numero 11, e si trova a quota m 0,50 dal piano di calpestio, fig. 9e. Durante lo sgombero del materiale a NO della piscina nell’Amb. 60 del portico, viene alla luce una base in marmo. La base si trova a m 4 dagli Ambb. ad ovest della piscina, precisamente a m 2,41 dallo spigolo della base di un’altra colonna che si trova a NO della piscina». Neg. dal n° D80 a D99 del 2/3/84 Analizzando i diari si deduce che lo scavo non ha raggiunto l’effettivo piano di calpestio, in quanto, dalle relative foto, appare evidente che la testa marmorea di Eracle è stata trovata nelle pomici grigie da caduta tra PDC1 e PDC2, come sappiamo il deposito di pomici antecedente il primo flusso piroclastico ha raggiunto una quota di 82 cm, per cui le quote riportate nei diari si riferiscono a livelli diversi dal piano calpestio originario. In ogni caso si può ipotizzare che sia stata la PDC1 a causare il distacco delle teste dai pilastrini di sostegno (figg. 8a,b). Da quanto riportato nel giornale di scavo del 29-12-1977, si possono calcolare gli spessori della sequenza stratigrafica ad est della piscina. Dal raffronto tra lo spessore del primo livello da caduta misurato nella sezione stratigrafica di riferimento (giardino nord) e nell’area della piscina, si deduce che il piano di calpestio era inclinato verso sud. La piscina stessa era stata costruita seguendo l’inclinazione del pendio, com’è confermato dall’ubicazione del canale di scolo proprio sulla parete a sud. Dopo la fase da caduta, durante la quale si verificarono alcuni ridotti collassi parziali della colonna eruttiva, un collasso più significativo portò alla messa in posto della PDC5, flusso piroclastico ricco in elementi pomicei, correlabile con le correnti piroclastiche che distrussero la città di Ercolano (Lirer et al. 1993). Gli ambienti della villa in cui maggiori sono le evidenze di danni connessi alla PDC5 sono sicuramente quelli ubicati nel quartiere meridionale. A sud-ovest, infatti, all’interno della villa, troviamo una sala di grandi dimensioni (oecus– Amb. 15 – fig. 1b), che è stata solo parzialmente portata alla luce in quanto si trova sotto l’attuale via dei Sepolcri . In tale ambiente è possibile leggere l’effetto causato dalla messa in posto della PDC5 che ha determinato lo spostamento da N verso S di una porta finestra, di cui, attualmente, negli scavi è osservabile il calco (fig. 6d). Lo spostamento, minimo e maggiore nella parte superiore, si spiega con il fatto che la porta era immersa quasi completamente nelle pomici da caduta che, a loro volta, inglobavano detriti di materiale crollato. Dalle foto di archivio e da osservazioni effettuate nella Villa si deduce che la PDC5 nell’Amb. 13, contiguo al 15, (fig. 6e), ha spezzato la colonna I ad un’altezza confrontabile con quella alla quale aveva causato l’inclinazione della porta dell’Amb. 15 (2,7 m dal pavimento fig. 6b), per poi depositarsi a quota 1,5 m nel giardino (Amb. 19) posto a sud del colonnato. E’ evidente che in questi due ambienti la maggior parte dei danni sia imputabile alla PDC5, che ha agito in un secondo tempo rispetto alle correnti piroclastiche intercalate alla fase da caduta. Verso la fine dell’eruzione l’acqua guadagnò l’accesso alla camera magmatica (Lirer et al. 1993, 1996), per cui i depositi di questa fase dell’eruzione si presentano più frammentati e arricchiti in materiale non juvenile. Nella sezione stratigrafica di fig. 3 il deposito di questa fase è rappresentato dalla PDC6. Dall’analisi della Villa di Poppea si può dedurre che i prodotti di questa fase dell’eruzione non hanno danneggiato ulteriormente il manufatto romano, ma hanno in qualche modo solo livellato la topografia accidentata costituita dai depositi delle fasi precedenti dell’eruzione in cui sono imballati i resti della Villa. Una sezione esposta lungo un taglio al limite della zona archeologica, permette di osservare tutta la successione dei depositi affioranti nella zona ad Est della piscina. E’ interessante notare la presenza, sopra i depositi dell’ultima corrente piroclastica del 79 d.C. (PDC6), di un canale erosionale a U avente direzione est-ovest, una larghezza di 2-3 m e contenente un’abbondante quantità di tegole. Alla base sono visibili materiali carbonatici, mentre Fig.9.Materiali costruttivi utilizzati per l’ambiente 33. in alto c’è un livello di fango vacuolare contenente pisoliti (fig. 8d). Gli aspetti sedimentologici di questo deposito fanno ipotizzare un’origine da “evento lahar”, in quanto esso ha caratteristiche analoghe a quelli ritrovati lungo il litorale tra Torre Annunziata e Torre del Greco e negli stessi scavi di Ercolano, interpretati da LIRER et al. (2001) come gli effetti della rimobilizzazione post–eruttiva dei grossi volumi di piroclastiti sciolte messe in posto dall’eruzione del 79 d.C. lungo i fianchi del vulcano. La relazione tra questo tipo di depositi e i manufatti archeologici è stata anche evidenziata nello studio della Villa 6 di Terzigno (Lirer et al. 2004), in cui parte del manufatto, già distrutto, risultava smantellata da canali erosionali impostatisi dopo l’evento eruttivo. Analisi agli elementi finiti delle dinamiche di collasso dell’ambiente 33 Grazie al metodo di calcolo agli elementi finiti, è stato possibile valutare le risposta strutturale di un modello numerico in grado di riprodurre le caratteristiche sia geometriche che materiali, proprie dell’ambiente 33. La simulazione non prevede la presenza delle tegole, né Modulo di elasticità coefficiente di tensione limite tensione limite kg 2 cm lineare kg 2 cm a trazione Poisson kg 2 cm a compressione Opus reticolatum 1,0E+05 0,3 8 70 Legno 1,1E+05 0,43 800 325 Malta e laterizi 4,0E+04 0,3 4 40 evidentemente le corrispondenti deformazioni, inessenziali alla caratterizzazione del comportamento meccanico principale del manufatto. Tale effetto può essere più semplicemente computato attraverso un opportuno incremento del carico applicato. La simulazione prevede, per i nodi fondamentali della struttura, differenti legami, in relazione ai materiali utilizzati nei corrispondenti elementi della struttura reale, fig.9. La tabella indica i parametri in input assegnati nel codice di calcolo utili a riprodurre il strutturali coinvolti nell’ambiente 33. Al fine di valutare la risposta elastica dell’intera struttura, è stato applicato, all’intera travatura di copertura, un carico verticale rivolto verso il basso. Il valore del carico, circa 0,6 kg/cm2, è assegnato al solo scopo di evidenziare aspetti qualitativi dell’interazione strutturale tra i diversi elementi del modello. Il calcolo delle deformazioni avviene interamente in campo elastico e si propone di valutare come i diversi elementi costruttivi rispondono alle sollecitazioni, nonché di determinare quale tra questi possa essere stato il primo a cedere sotto l’azione dei carichi derivanti da deposito di pomici durante l’eruzione del 79 d.C. I risultati mostrano che le maggiori deformazioni, amplificate con un fattore di 105 per A1 A1 A A1 A Fig.10.Andamento del modulo del vettore spostamento sul porticato 33, caricato verticalmente sulla copertura, vista e spaccato tridimansionale. ragioni di visualizzazione, figura 10, compaiono lungo le travi della copertura, mentre i valori medi delle tensioni che si generano nelle colonne e nelle travi sono confrontabili, figura 11. Di conseguenza, in relazione alla notevole minore rigidezza degli elementi verticali, vedi tabella, è presumibile che siano stati proprio questi ultimi a cedere per primi, proiettandosi in avanti come risulta dalle foto di scavo, reperite presso l’Archivio Fotografico della Soprintendenza Archeologica di Pompei. Si evidenzia altresì un aumento delle tensioni cui sono chiamate a rispondere le colonne centrali rispetto a quelle laterali, nella direzione della sezione più lunga del colonnato, capace di produrre l’imbarcamento delle colonne riscontrato dall’osservazione dei resti reperiti presso l’ambiente 33. Inoltre, si nota come le colonne dei bracci laterali risentano relativamente poco del carico verticale. Questo avvalora la tesi, dedotta sempre dalle foto di scavo, secondo la quale tali elementi siano rimasti pressoché integri fino all’arrivo del primo flusso piroclastico. In forza della simmetria posseduta dal settore settentrionale della villa, tali considerazioni sono estensibili anche all’ambiente 34. Analisi agli elementi finiti delle dinamiche di collasso dell’ambiente 21 A Tramite l’analisi inversa si è potuto ottenere una stima della pressione minima esercitata dalla prima corrente densa che ha investito, causandone il crollo, il colonnato dell’ambiente 21. Lo studio si avvale di un algoritmo di calcolo basato sul metodo numerico degli elementi finiti. Tale procedura, utile tanto per determinare il comportamento della corrente piroclastica che la risposta della struttura, ha il notevole vantaggio di poter essere processata ed implementata A1 A A1 A Fig.11.Andamento della tensione principale sul porticato 33, caricato verticalmente sulla copertura, spaccato tridimansionale e ingrandimento. all’interno di codici di calclo commerciali. In particolare, è stato utilizzato il programma di calcolo FEM ANSYS, in dotazione presso il Dipartimento di Scienza delle Costruzioni dell’Università Federico II. I risultati sono stati ottenuti tramite l’utilizzo dell’analisi inversa, come già fatto da precedenti autori, (Nunziante et al., 2000), al fine di determinare quale potesse essere stata la pressione minima esercitata da un flusso piroclastico del 79 A.D. su di un muro di una villa romana, presso Terzigno, affinché questo crollasse. Si è proceduto, infatti, prima all’analisi fluidodinamica di una corrente piroclastica che investisse una struttura dello stesso tipo e dimensioni del colonnato dell’ambiente 21; una volta conosciuti i profili di pressione agenti su quest’ultima si è passati all’analisi strutturale per valutarne la risposta. In tal senso, è lecito supporre che le deformazioni provocate dalla sovrappressione siano tali da non modificare sensibilmente il campo di moto della stessa corrente. Tramite un processo iterativo che ha coinvolto l’interazione tra i due tipi di analisi (strutturale e fluido-dinamica) si è potuto determinare, infine, quale fosse la pressione dinamica necessaria al flusso affinché la struttura cedesse. Analisi fluidodinamica L’analisi fluidodinamica è stata impostata, analogamente a quanto fatto da Zuccaro nel 2002, partendo dalle simulazioni di Todesco et al. (2002). Lo studio prevede, infatti, la simulazione del comportamento di una corrente densa, con un’estensione laterale di 200 m ed kg un’altezza di 100 m. Per la densità si è impostato un valore pari a 10 3 e per la viscosità uno m -3 pari a 10 Pa × s , valori introdotti all’interno del calcolo agli elementi finiti. Variando, nelle diverse simulazioni, il valore della velocità iniziale tra 10 e 20 m/s, si sono valutati gli effetti di correnti piroclastiche con valori della pressione dinamica compresi tra 0,5 e 2 kPa. Lo scopo dello studio è stato, infatti, quello di conoscere l’andamento delle pressioni esercitate dal flusso su di una struttura immersa nel campo di moto, in particolare il colonnato del salone 21. Il calcolo prevedeva la presenza degli 82 cm di pomici da caduta, deposti prima dell’arrivo della corrente piroclastica, come volume di protezione dalle azioni del flusso. Non è stata quantificata la natura granulare del deposito e come questo interagisca con la corrente. L’intero fluido, in accordo con le simulazioni precedenti, è stato considerato omogeneo, non si è distinta, cioè, la nube superiore fluidizzante dalla parte basale densa generata proprio dall’interazione con i depositi precedenti. Tale approssimazione è accettabile poiché si ricerca la pressione dinamica del flusso, qualunque sia la composizione, e non tanto la natura della sua propagazione. Il fluido è adiabatico e in regime stazionario. L’intero campo di moto è limitato e le condizioni al contorno impongono velocità nulla al suolo e sulle pareti esterne della struttura, velocità in ingresso e in uscita prefissate - l’ultima costantemente nulla – e pressione atmosferica sui restanti contorni. Variando la velocità di ingresso del fluido, per valori compresi tra 10 e 20 m/s con incremento di 0,5 m/s, si sono realizzate 21 simulazioni che interpretavano il comportamento sulla struttura di una corrente densa dal contenuto energetico sempre più alto. Le simulazioni numeriche sono basate sulle equazioni di Navier Stokes che impongono il bilancio della massa, della quantità di moto e dell’energia turbolenta per un fluido monofase e omogeneo: in particolare, l’equazione della continuità è la seguente ∂ρ + ∇⋅U = 0 ∂t mentre l’equazioni del bilancio della quantità di moto può scriversi nella forma ∂ρ ui ∂ui ∂u j ∂ ∂ 1 ∂P + + + ( ρ ui u j ) = − µeff ( ∂t ∂x j ∂x j ∂xi ρ ∂xi ∂x j dove U = {ρ u1 , ρ u2 , ρ u3 } ; ui è la i-esima componente ortogonale della velocità; ρ è la densità del fluido; t è il tempo; µeff = µ+ µt è la viscosità effettiva, pari alla somma della viscosità laminare e quella turbolenta; τ è il tensore degli sforzi e λ è il secondo coefficiente della viscosità. Il campo turbolento delle velocità è stato calcolato utilizzando il modello di turbolenza RNG (Re-Normalized Group) tramite il metodo κ-ε. Il modello RNG è particolarmente indicato in presenza di regioni del fluido con elevati gradienti di velocità e ben si presta, dunque, a simulare l’impatto di una corrente con un ostacolo. In termini computazionali, il metodo κ-ε permette di determinare la viscosità effettiva, da utilizzare nelle equazioni del bilancio della quantità di moto, secondo la formula: µeff = µ + Cµ ρ κ2 ε dove κ e ε sono, rispettivamente, l’energia cinetica turbolenta e il coefficiente di dissipazione. La simulazione prevedeva il colonnato dell’ambiente 21 disposto lungo la principale direzione del flusso, secondo le considerazioni fatte sui crolli riscontrati presso la villa. I risultati evidenziano come il maggior carico da sovrapressione si concentri sul pilastro ovest, il primo ad essere investito dal flusso, e come questo abbia costituito una notevole difesa per le colonne interne, che vedono diminuire notevolmente la pressione esercitata dalla corrente. Analisi strutturale L’analisi è basata sulla stessa geometria rappresentativa dell’ostacolo presente nelle simulazioni fluidodinamiche. Questo ha permesso di riportarne i profili di pressione risultanti e di utilizzarli come sollecitazioni nel calcolo strutturale. La struttura ricopia le stesse dimensioni del colonnato dell’ambiente 21 ed è considerata dal programma di calcolo agli elementi finiti, come un continuo (fig.12). Lo scopo dell’analisi è di conoscere le deformazioni del colonnato investito da una corrente densa, nella maniera in cui si presuma abbia fatto la PDC1 durante l’eruzione del 79 d.C. In particolare si vuole dedurre la pressione necessaria al flusso affinché si inneschino le deformazioni plastiche responsabili del crollo. Il materiale proprio della struttura è, in prima N approssimazione, isotropo con un modulo di elasticità lineare pari a 4 ⋅ 108 2 e coefficiente di m Poisson pari a 0.2. Il criterio di deformazione plastica usato è quello dovuto a Drucker-Prager per le terre, che ben riproduce il comportamento del conglomerato malta-laterizi di cui è principalmente composto il colonnato. La condizione limite per le deformazioni elastiche impone per ogni punto Malta e laterizi Rivestimento di intonaco Malta e laterizi Rivestimento di intonaco Fig.12.Materiali costruttivi utilizzati per il colonnato dell’ambiente 21. del solido e per ogni relativa giacitura n: τ n < c − tg (ϕ ) ⋅ σ n da cui 2c ⋅ cos ϕ 2c ⋅ cos ϕ σc = e σt = 1 − sin ϕ 1 + sin ϕ dove τn e σn sono, rispettivamente, le componenti tangenziale e normale dello sforzo agente Fig.13. Andamento delle deformazioni verticali, eppz, generate da una corrente densa con pressione dinamica pari a 0,98 kPa; pianta e vista tridimensionale. nel punto rispetto al piano di normale n; σc e σt sono, rispettivamente, la tensione limite elastica a compressione e a trazione sopportabili dal materiale in esame; φ rappresenta l’angolo di attrito del materiale e c la coesione. Stabilendo per il conglomerato un rapporto σc = 10 ed un valore per la tensione massima σt N , tipico dei laterizi, si ottengono le seguenti identità: m2 N ϕ = 54, 903198° e c = 63245 2 . m Tramite questi parametri si è proceduto all’analisi agli elementi finiti che ha restituito in output la risposta del modello numerico, fino a valori della pressione dinamica del flusso ammissibile a compressione di 4 ⋅ 105 Fig. 14.Andamento della sollecitazioni normali verticali di trazione, sz, sul colonnato dell’ambiente 21 investito da una corrente densa con pressione dinamica pari a 0,98 kPa; pianta e vista tridimensionale. insistente sulla struttura inferiori ai 0,98 kPa. I profili di pressione, generati sul colonnato tramite l’analisi fluidodinamica di una corrente densa dotata di una pressione dinamica pari a 0,98 kPa, sono stati in grado, infatti, di deformare plasticamente parte della base del pilastro ovest: in figura se ne riporta l’andamento della componente verticale, caratterizzata da valori di un ordine di grandezza superiore a quelli registrati negli altri due casi. Le componenti più elevate dello sforzo, in questo tipo di analisi, sono le componenti verticali; se ne riporta in figura 13 il relativo andamento. Considerando, però, il differente comportamento a trazione e a compressione del materiale le sollecitazioni più dannose sono quelle normali verticali di trazione. E’ evidente, dunque, che le prime deformazioni plastiche avvengano laddove la trazione è maggiore, anche in presenza di valori di compressione più elevati, fig. 14. La plasticizzazione della sezione del pilastro ovest procede con l’aumentare de carico agente sulla struttura fino al crollo dell’elemento, probabilmente causato dall’insorgenza di zone plastiche nella regione di massima sollecitazione a compressione. In queste condizioni il programma non riesce a far convergere il processo di calcolo iterativo e non sono forniti risultati Fig.15. Andamento della pressione dinamica, pres, sul colonnato dell’ambiente 21investito da una corrente densa capace di causarne il crollo; vista frontale e laterale. utilizzabili. Il diagramma sotto riporta il procedere della deformazione plastica della fibra più sollecitata in relazione alla pressione della corrente densa. Queste condizioni si verificano già per pressioni dinamiche superiori agli 1,6 kPa. Tale è, dunque, il valore calcolato per il limite inferiore della pressione dinamica del primo flusso piroclastico che investì la Villa di Poppea di Oplonti durante l’eruzione del 79 d.C. In figura 15 si riporta l’andamento della pressione dinamica per una corrente densa del tipo sopra menzionato. Bisogna notare che, secondo la simulazione, la frattura del pilastro ovest si innesca a partire dalla sua base; le evidenze riscontrate dall’analisi dei resti mostrano, invece, come la frattura sia avvenuta all’altezza che aveva il deposito pomiceo al momento della discesa del primo PDC. Ciò può spiegarsi evidentemente tenendo in conto dell’approssimazione fatta a monte sul flusso omogeneo che non permette una simulazione conforme a quanto avvenuto in realtà. Il ruolo della parte basale densa dei flussi piroclastici nell’interazione con le strutture, quindi, ha un’influenza fondamentale. Una soddisfacente analisi fluidodinamica volta ad interpretare la risposta degli edifici all’azione di questo fenomeno piroclastico non può trascurare il coinvolgimento di azioni dinamiche dovute all’impatto della PDC sulle strutture. dinamiche, dovute all’impatto della PDC sulle strutture. VALUTA ZIONI SEMIQUANTITATIVE: LE ERME DI ERACLE Il diario di scavo del 29/12/1977, come già visto, riporta il ritrovamento, presso la villa A di Oplonti, nella zona della piscina, di una «testa virile in marmo», raffigurante Eracle, alla distanza di un metro in direzione sud dal primo pilastrino ornamentale, su di un letto di pomici che, come visto, doveva essere pari a 82 cm. Il pilastrino in marmo che reggeva il busto (fig. 8a), invece, fu ritrovato in piedi nella posizione che aveva prima dell'eruzione del 79 d.C. Analoga sorte è toccata all’erma simmetrica (fig. 8b) disposta qualche decina di metri a nord. Le informazioni derivano, in questo caso, dal diario di scavo del 2/3/1984, anch’esso riportato sopra; la testa, più leggera a causa dell’assenza di «due blocchetti parallelepipedi marmorei» laterali, è ritrovata alla distanza di 2,75 m dalla base corrispondente, non si specifica, però, la direzione. Probabilmente la caduta di pomici relativa all'evento vulcanico ha imballato l'erma fino all'altezza di 82 cm, secondo i rilevamenti stratigrafici, successivamente, con l'arrivo del primo flusso piroclastico, i busti, che si trovavano ad un’altezza di 146 cm, sono stati scalzati dalla base per essere proiettati sul deposito di pomici da caduta sottostante. I pilastri, ben immersi nel deposito, non hanno subito spostamenti rilevanti. I busti erano assicurati alle basi dalla sola forza peso, e le superfici a contatto risultano piane. Dalla conoscenza delle posizioni iniziale e finale della testa è possibile ricostruire il moto parabolico del grave e calcolarne la spinta generatrice, valutando poi il peso di ogni busto e l'area di impatto del flusso si è riuscito ad avere una valutazione della pressione p che questo primo PDC ha esercitato sui manufatti marmorei. Si trascura la velocità di distacco del corpo dalla base, si valuta il semplice moto del baricentro e se ne trascura il percorso di affondamento nelle pomici umide, il cui peso specifico è pari a circa 1600 kg/m3. Stabilendo un sistema di riferimento x,y con centro nel baricentro G del busto (fig. 9b) all'istante t0 momento del distacco dalla base, asse x coincidente con la direzione NS e asse y rivolto verso il basso, dalla cinematica si ottiene il valore dell'accelerazione ax impressa dal flusso al corpo: ax = g* xf/yf dove g è l'accelerazione di gravità, 9,81 m/s2, xf e yf le coordinate della posizione finale del baricentro, calcolate assumendo come distanza al momento del ritrovamento tra le colonnine e i rispettivi busti, 1m per l’erma sud e 2,75 m per quella nord, e tra piano calpestio ed ogni singolo busto pari a 82 cm (altezza dei depositi al momento di arrivo della PDC1). La pressione dinamica p del flusso piroclastico si calcola: P = M*ax / A dove M è la massa del corpo in esame, pari a 42 kg per l’erma sud e 39,3 kg per quella nord, e A la sezione di impatto con il flusso di circa 0,0673 m2 in entrambe i casi. Il valore della pressione della prima corrente piroclastica che ha investito la villa A di Oplontis durante l’eruzione del 79 d.C., ottenuto da questa prima indagine basata su ampie approssimazioni, definisce, dunque, un intervallo compreso tra i 6,44 kPa e i 16,57 Fig.16.Stima delle pressioni dinamiche dei flussi piroclastici per kPa. diverse eruzioni, in relazione alla velocità e alla concentrazione I diari di scavo non riportano di particelle in sospensione. la direzione di caduta della testa nord, si può ipotizzare, però, che lo spostamento sia avvenuto in direzione 120°N, secondo l’ultima direzione dei collassi causati dalla PDC1, dedotta per l’ala est del colonnato 34, e che l’erma sud sia stata investita da una espansione laterale del flusso, fig. 8e. Tale congettura giustificherebbe l’ampio intervallo dedotto per la pressione dinamica della PDC, in quanto il valore superiore è da imputare al flusso vero e proprio, mentre quello inferiore, appunto, ad una sua espansione latitudinale. In più il percorso della corrente piroclastica sarebbe così identificato come passante lungo la sezione centro-settentrionale della piscina, conformemente a quello ipotizzato per i crolli della zona ovest. C’è da aggiungere, in ogni caso, che la pressione dinamica è funzione delle caratteristiche principali del flusso piroclastico, velocità e densità, secondo la relazione: P = ½ δ ν2 dove δ è la densità della corrente e ν la sua velocità. Queste sono maggiormente condizionate dal percorso che esso compie a partire dalla base della colonna eruttiva sostenuta, il risultato ottenuto è dunque, nella sua generalità confrontabile con quello quantificato nelle indagini svolte precedentemente (fig. 10). Tramite un’analisi strutturale inversa, condotta a Terzigno presso il sito archeologico di Villa 6, su di un muro abbattuto da un flusso piroclastico, sempre durante l’eruzione del 79 d.C., si è potuto determinare, infatti, un intervallo all’interno del quale dovevano trovarsi i valori della pressione dinamica minima necessaria al flusso affinché causasse quel tipo di collasso (NUNZIANTE et al. 2003). Precedentemente troviamo un’altra stima dei valori della pressione dinamica delle PDC, ottenuta attraverso la comparazione dei danni prodotti da un’esplosione nucleare sulle strutture e sui veicoli con gli stessi causati da una eruzione vulcanica attraverso le correnti generate, appunto, dai collassi della colonna sostenuta. Analoghi effetti distruttivi, tra esplosione nucleare ed eruzione, permettono di attribuire a diverse PDC, prodotte da differenti eruzioni, i valori di pressione noti e propri del vento nucleare di riferimento (Valentine 1998). Villa B Tramite un martinetto idraulico è stato estratto un elemento tufaceo, costituente parte di un muro dell'antica villa romana abbattuto dai flussi piroclastici generati dall'eruzione del Vesuvio del 79 D.C, al fine di conoscere la tensione limite elastica a trazione sopportabile dall’elemento murario. La prova d'estrazione è avvenuta il 15-01-2004 presso il sito archeologico di Oplonti, gli strumenti di lettura hanno permesso di misurare una forza peso generata dal martinetto P = 193,4 Kg necessaria affinché il legame tra pietra e muro venisse a cedere. Tale forza è stata applicata lungo la normale alla faccia del muro. Per conoscere il carico a rottura, proprio del muro abbattuto, è necessario riferirsi alla superficie di contatto sulla quale tale forza è stata esercitata e all'angolo di Fig.17.Martinetto idraulico applicazione della forza rispetto alle diverse inclinazioni applicato al muro di Villa B, durante la prova. della superficie(fig.17).Il valore risultante è da ritenersi a meno dei processi di deterioramento subiti in quasi 2000 anni sotto i depositi vulcanici.Si è proceduto alla misura dell'area A di contatto tra l'elemento estratto e il continuo del muro. Il calcolo è stato effettuato su di una superficie S' ottenuta da un'approssimazione dell'effettiva superficie di contatto S tramite un ridotto numero di sezioni di piani, fig. 18. Ogni sezione è individuata da un quadrilatero, le distanze tra i due estremi di ogni segmento intersezione di due sezioni contigue sono misurate sull'effettiva superficie dell'elemento estratto. Tali misure rappresentano la soluzione ad un sistema d'equazioni che permettono la determinazione delle posizioni di ogni punto, nonché l'orientamento dei piani contenenti le sezioni. Faccia superiore Faccia inferiore Faccia 1 Faccia 2 Faccia 3 Faccia 4 Faccia 5 LFaccia 6 Area cm2 143 20,5 75 38,5 133,8 114 66 24,8 α ° 180 0 53 42 75 82 84 53 Fig.18.Riproduzione delle principali superfici piane dell’elemento estratto con direzione delle relative normali, ed estensione delle aree. a massima resistenza a trazione si ottiene dall'espressione: σc = P / [ Σi ( Ai * cosαi ) ] dove Ai rappresenta l'area dell'iesima faccia di S', e αi è il complementare dell'angolo formato dall'iesima normale alla superficie e la verticale lungo la quale è stata applicata la forza. Sostituendo i rispettivi valori numerici si ottiene: σc = 1,16 kg/cm2 La pietra possiede un volume di 920 cm3 per un peso di 1700 g, da cui la densità risulta essere: ρ = 1848,4 kg / m3 2.2 Linee guida per una normativa vulcanica Al fine di valutare di stabilire le linee guida per la mitigazione del rischio, seguono alcune considerazioni relative ad ogni singolo hazard vulcanico. Colate laviche Nel caso in cui si attenda un’attività vulcanica con produzione di lava, è necessario comprendere quali zone possono essere interessate da questo fenomeno. Le colate laviche hanno la caratteristica di essere molto lente (5 m/s in media), permettendo di attuare misure preventive anche durante l’eruzione stessa. • Bisogna analizzare, innanzi tutto, la conformazione topografica in prossimità del cratere, o nei punti in cui ci si aspetti l’apertura di una bocca, al fine di identificare i percorsi preferenziali di scorrimento. • Successivamente si identifica la composizione del magma presente nella camera sottostante l’area vulcanica. Prescindendo la valutazione della temperatura, che causa in ogni caso la combustione della maggior parte dei corpi artificiali e della totalità della vegetazione, la viscosità del magma incide su alcune proprietà fondamentali della colata, tra cui la velocità di scorrimento. Un flusso poco viscoso, più ricco, cioè, di silicati, risulta più lento, ma con un coefficiente di scambio termico minore rispetto alle colate basaltiche, che ne determina un arresto in tempi più lunghi. L’arresto della colata avviene, in genere, per una temperatura di circa 750°C. • Durante il corso dell’eruzione si stima la portata effusiva e si valutano di volta in volta le aree a rischio. • Si valutano, lungo un’area di massima estensione del fenomeno, ad esempio 100 km dalla bocca, i danni che può causare l’arrivo del flusso lavico. Si crea in questa maniera una mappa dinamica del rischio colata lavica, funzione della portata della bocca. Diventa possibile così evacuare le sole zone che di volta in volta si aspettino essere interessate dal fenomeno, e pianificare interventi preventivi per le sole aree effettivamente a rischio. Per la stima degli eventuali danni bisogna tener presente che: ! le colate tendono a seppellire le strade disposte parallelamente al loro corso, ! caricano a rottura i muri, disposti ortogonalmente al loro cammino, e le fondamenta dei fabbricati, si ricordi che i magmi basaltici generano colate molto più distruttive (tensione limite maggiore), ! qualora una struttura riesca, grazie alla sua disposizione rispetto al flusso, a resistere al trascinamento verrà quasi certamente distrutta dall’incendio causato dall’elevata temperatura, ! riserve idriche, seppur minime, e corsi d’acqua, generalmente, causano forti esplosioni di vapore a contatto con la lava. 1 Motivo di studio diviene la valutazione di come realizzare gli sbarramenti in funzione dei flussi di lava attesi, oltre che ad una valida relazione tra le variabili che ne influenzano la distanza percorsa. L Gli interventi preventivi si limitano, oltre all’evacuazione della popolazione dove necessario, alla canalizzazione delle colate tramite sbarramenti e valloni artificiali che indirizzino la lava verso aree più sicure, ed al raffreddamento forzato del fronte lavico al fine di arrestarne la corsa Sebbene il numero di morti registrate per questo tipo di rischio è relativamente basso, attenzione particolare deve porre la protezione civile a non permettere che ci si accosti al flusso, la maggior parte delle morti è avvenuta, infatti, a danno di persone, che ingannate dal lento procedere del fronte, hanno ritenuto sicuro approssimarvisi per essere poi tradite da smottamenti, improvvisi spruzzi di lava o esplosioni di vapore o altri gas. Proiezioni balistiche . La quasi totalità delle eruzioni è accompagnata dalla notevole produzione di bombe vulcaniche, blocchi e lapilli, questi elementi, eruttati secondo una traiettoria balistica, rappresentano un grande rischio per le strutture, meno per le persone. In genere coprono al massimo una distanza di 5 km. Se nell’area a rischio sono presenti edifici, o strutture in genere, diventa necessario valutarne gli impatti. I danni sono causati da due fattori fondamentali: ! energia cinetica d’impatto ( ½mv2 ), ! temperatura. I proiettili lanciati durante un’eruzione variano notevolmente in termini di dimensioni e densità, oltre a possedere una velocità e angolo di lancio altrettanto variabili, l’energia sprigionata all’impatto può essere da trascurabile ad altamente distruttiva. Al fine di determinarne i danni connessi, è importante conoscere la temperatura d’arrivo al suolo, Per le condizioni di scambio termico solo i proiettili maggiori arrivano al suolo con temperature elevate, questo determina una sostanziale coincidenza nella determinazione delle zone di rischio per le due diverse cause di danno. 1 Motivo di studio diviene la determinazione della distanza dal cratere raggiunta dalle particelle, per diverse velocità ipotizzabili, in relazione alla massima densità possibile dei frammenti ed a un intervallo ragionevole dell’alzate delle traiettorie. Parallelamente si possono delimitare le condizioni termiche di arrivo. Stabilito un intervallo di temperature possibili, al momento della partenza dalla bocca, al fine di valutarle è necessario conoscere i contenuti gassosi delle particelle, la velocità di degassazione e il coefficiente di convezione forzata. L Gli interventi preventivi si concentrano sull’utilizzo di opportuni materiali protettivi da utilizzare per gli elementi maggiormente vulnerabili, come porte, finestre,coperture e quant’altro, disposti lungo le probabili traiettorie dei proiettili. Il grado di protezione deve essere correlato al livello di rischio della zona in cui si trova la struttura. Dotazione alla popolazione di elmetti protettivi. Depositi da caduta. Nelle zone vulcaniche soggette a manifestazioni di tipo stromboliano, pliniano freatomagmatico o vulcaniano, bisogna attendere, in caso di eruzione, la formazione di una colonna sostenuta con un’altezza dell’ordine di decine di chilometri, composta di vapore, gas diversi, detriti di piccole dimensioni, e fini prodotti eruttivi di natura tefritica. Quest’ultimi elementi solidi, che ascendono spinti dall’azione convettiva dell’aria, vanno a costituire i depositi da caduta. La temperatura della colonna diminuisce lungo la sua estensione, si verificano, quindi, cadute a pioggia degli elementi in sospensione per altezze tanto inferiori quanto maggiore è la loro massa. Tale fenomeno rende la densità della colonna inversamente proporzionale alla sua altezza e rappresenta un ulteriore fattore di sviluppo. Conseguenze dannose possono essere: ! Sovraccarichi delle strutture, ! rilascio di gas ed agenti corrosivi, ! oscurità. I depositi si accumulano sui tetti degli edifici, sui viadotti, su tutte le coperture in genere, pur dotate di forte pendenza, ciò determina un carico per il quale la struttura non potrebbe essere stata dimensionata. Si possono verificare depositi di alcune decine di centimetri anche a grandi distanze dalla bocca, in molti casi sufficienti a determinare il crollo dei solai di copertura. Questo, oltre a rappresentare un danno per la struttura, costituisce un grosso rischio per le persone eventualmente rifugiatesi all’interno. In alcuni casi a brevi distanze dal cratere si sono registrati depositi di diversi metri, che, oltre a determinare il crollo delle coperture, hanno causato il seppellimento della quasi totalità degli edifici. A volte i depositi sono accompagnati da rilascio di quantità di gas, acidi solforici, idrocloridrici, idrofluoridrici e ammoniaca, nella maggior parte dei casi tanto ridotte da non costituire un rischio rilevante per le persone. Danni minori alle persone e agli oggetti possono essere causati dalle loro proprietà corrosive. Altri pericolosi nascono, invece, a causa di cortocircuiti e conseguenti incendi nelle centraline elettriche e telefoniche, infatti, le pomici, specialmente le più fini, creano all’interno di tali postazioni deposizioni di patine conduttive a causa del loro contenuto idrico. La massiccia e persistente presenza nell’aria di sostanze in sospensione causa seri danni alle vie respiratorie e irritazioni agli occhi. L’alta colonna eruttiva, con la conseguente pioggia tefritica, in fine, porta alla totale ostruzione della luce solare creando un’ulteriore condizione di pericolo generico. Le ceneri causano problemi anche alle riserve idriche, sostanzialmente ne inquinano i contenuti con gli acidi che trasportano, e possono causare danni ai sistemi di distribuzione, in fine tendono ad essere prosciugate dall’enorme richiesta d’utenza necessaria nella rimozione dei depositi dalle strade e dalle coperture. Intralciano la comunicazione via etere filtrando e deviando le onde elettromagnetiche a causa del loro contenuto ionico. Al fine di ridurre il rischio connesso a tale fenomeno è necessario seguire alcune norme fondamentali. • Valutare il possibile andamento degli spessori dei depositi all’aumentare della distanza dal cratere, tramite carotaggi o, se disponibili, misure dirette, relativi alle eruzioni precedenti, altrimenti attraverso una valutazione dell’evento massimo atteso. • Stabilire le più probabili direzioni dei venti troposferici, questi influenzano l’inclinazione della colonna e quindi la distribuzione delle isopache tefritiche. • Eseguire, all’interno della zona a rischio, una mappatura delle coperture in funzione della loro resistenza ai carichi. Si ottiene così la definizione delle aree a rischio sulla base della quale decidere il tipo di intervento da operare e la portata. 1 Motivo di studio rappresentano le dinamiche relative alla genesi e sviluppo della colonna eruttiva. La resistenza delle possibili tipologie costruttive di copertura in funzione delle luci e dello spessore e del peso specifico dei depositi. Il profilo di accumulo sulle superfici inclinate in funzione della conformazione e ruvidità della superficie e delle proprietà dei materiali tefritici. L Gli interventi preventivi si articolano tra la totale evacuazione, nei luoghi ove sono previsti depositi eccessivi o il totale seppellimento, e il rinforzo dei solai e delle strutture esposte a carichi minori. Munire la popolazione esposta di maschere protettive per le vie respiratorie e gli occhi. E’ conveniente dotare le centraline di guaine a tenuta al fine di preservarle da cortocircutazioni. Munire il sistema di approvvigionamento idrico di opportuni filtri da utilizzare in caso di eruzione. In fine un sistema di illuminazione di emergenza autonomo, può essere una valida soluzione all’improvvisa oscurità. Flussi piroclastici e valanghe di detriti. Oltre ai depositi da caduta, la formazione della colonna eruttiva sostenuta, genera un altro notevole rischio: quello dei flussi piroclastici e delle valanghe di detriti. Il rischio è connesso a due fattori principali: ! l’energia cinetica d’impatto ( ½mv2 ), ! la temperatura. Sostanzialmente sono flussi composti di sostanze solide in sospensione che, scendendo lungo le pendici del vulcano, vanno ad impattare contro gli ostacoli che si trovano sul loro cammino. Possono avere temperature elevate o meno. Le tipologie di danno seguono il duplice aspetto del flusso, questo è costituito, infatti, da una parte basale dove si addensano le sostanze solide e una nube superiore composta di vapore e gas ad alta temperatura, entrambi le sezioni posseggono un regime di moto altamente turbolento, la prima distrugge, la seconda incendia. Pur mantenendo le loro caratteristiche, differenti condizioni di genesi possono determinare diverse scale di grandezza delle proprietà del flusso e quindi del danno connesso. Azioni volte a mitigare gli effetti di fenomeni di una data taglia possono, per questo, risultare inadeguate nel caso occorressero eventi peggiori. Per una valida conoscenza del rischio si possono seguire alcune direttive. • E’ necessario valutare le estensioni di questi fenomeni nelle eruzioni precedenti, o per l’evento massimo atteso, al fine di stabilirne le possibili dimensioni. • Individuare, analogamente a quanto fatto per le colate laviche, canali preferenziali di flusso e zone di ristagno lungo l’andamento topografico della zona soggetta a rischio. • Riportare su di una mappa i differenti valori di danno che un eventuale flusso, di magnitudine fissata, può causare. I flussi piroclastici di maggiore entità non conoscono ostacoli e mantellano ogni rilievo, è il caso del collasso finale della colonna, quindi, una volta determinata, la zona di influenza deve essere evacuata. E’ possibile, in ogni modo, intervenire diversamente nelle zone in cui si aspettino flussi minori, questi sono direzionali e fortemente influenzati dai rilievi. Si può, così, creare una mappa di pericolo, relativa ai diversi percorsi che eventuali flussi possono seguire, proporzionale alle dimensioni dei fenomeni attesi. La particolarità di questi fenomeni consiste nell’avere contemporaneamente, nella zona basale, un’elevata densità ed un’alta fluidità, ciò è causato dal moto fortemente turbolento della zona superiore che, forte delle particelle più fini in sospensione riesce a trascinare lo strato sottostante. 1 Stabilito che il carattere distruttivo di tali fenomeni è da imputare alla zona basale, diviene interessante conoscere quali sono le caratteristiche che deve avere per poter danneggiare ogni singola tipologia di edificio, si può così determinare la configurazione totale del flusso e valutare tramite la mappa di pericolo le condizioni di danno. Per le zone densamente popolate è interessante conoscere il comportamento che assume il flusso quando investe un agglomerato di edifici, è possibile immaginare che siano solo le strutture direttamente esposte ad essere danneggiate, mentre le altre, a ridosso, subirebbero solo gli effetti della nube superiore, in gran parte mitigati dalle deviazioni che questa subisce. L Realizzata un’adeguata mappa del rischio, relativa ai fenomeni di taglia più probabile, funzione del danno provocato e della probabilità che una certa zona possa essere investita da un flusso piroclastico o alternativamente da una valanga di detriti, si devono valutare i danni maggiori, o minori, che un evento di magnitudine maggiore, o minore, e quindi meno probabile, può causare in ogni singolo punto della mappa; si ottiene così una zonazione del rischio dinamica ed articolata. Scudi protettivi resistenti alle alte temperature per porte, finestre ed altre aperture sono consigliabili al fine di diminuire i danni provocati dalla nube superiore. Bisogna valutare, secondo i casi, se deviazioni artificiali della parte basale del flusso o rinforzi posti alla base degli edifici rappresentino un valido sistema di protezione. In quest’ultimo caso è importantissimo ricordare che la discesa dei flussi piroclastici avviene, nella maggior parte dei casi, quando già è presente un buono strato di depositi da caduta, per questo l’azione della zona basale avviene in genere ad una certa altezza rispetto al suolo, per una corretta operatività è necessario tener conto della mappa di rischio relativa ai depositi ed utilizzare elementi protettivi di spessore ben superiore a quello dello strato basale responsabile del danno al fine di tenere in conto le possibili fluttuazioni d’altezza dei depositi. L’alta temperatura della nube richiede la totale evacuazione delle zone soggette. Lahars e geyser. I lahars sono fiumi di fango che prendono forma dalle pendici del vulcano. Possono nascere da flussi piroclastici che aumentano considerevolmente il loro contenuto idrico, o dalle forti piogge connesse all’evento vulcanico. I geyser, invece, nascono quando un’eruzione coinvolge un bacino d’acqua o ghiacciaio sotterraneo, gli effetti, in ogni caso, sono sostanzialmente analoghi. Le caratteristiche di danno sono legate ad alcune proprietà: ! l’energia cinetica d’impatto ( ½mv2 ), ! la portata, ! la percentuale d’acqua. Le caratteristiche di un lahar, come per i flussi piroclastici, possono abbracciare un ampio spettro di valori, la velocità varia notevolmente rendendo difficile valutare la distanza che può coprire, così come la sua densità influenzandone la larghezza il e tipo di percorso. Ci sono esempi di lahars che hanno semplicemente colmato di fango gli edifici posti lungo il loro cammino, e altri che ne hanno causato il completo sradicamento. A differenza dei flussi piroclastici, i lahars posseggono una temperatura decisamente minore, per questo la principale causa d’incendi deriva dal tranciamento delle linee elettriche e tubature del gas. Vaste zone possono essere interessate, secondo la portata e la frazione d’acqua, da un rilevante seppellimento. Per affrontare questo tipo di rischio bisogna: • Conoscere l’andamento dei rilievi soggetti a tale rischio. • Ricercare, nella zona a rischio le possibili cause di genesi. I lahars, ancor più che i flussi piroclastici, seguono canali e avvallamenti, facilitando l’identificazione dell’eventuale percorso di deflusso, e, una volta stabilita una distanza massima di sicurezza e valutate le diverse condizioni di portata e frazione d’acqua, la creazione di una mappa del rischio. Importante è anche conoscere dove e come possono verificarsi. Un lago formatosi in un cratere vulcanico, ad esempio, è causa certa, in coincidenza di un’eruzione, di lahars tanto più consistenti quanta più acqua è contenuta al loro interno. Un corso d’acqua che solca una zona sottoposta a rischio flussi piroclastici, una volta investito, può facilmente trasformare tali flussi in lahars. In fine, rilievi già interessati da smottamenti e valanghe sono luoghi privilegiati per la formazione di tali pericoli, infatti, oltre alle piogge insistenti e continue relative all’eruzione, si aggiunge il problema relativo allo scarso drenaggio del terreno dovuto ai depositi di cenere. 1 Motivo di studio è la conoscenza dei valori limite che innescano alcuni dei lahars di seconda specie, quelli cioè nati non direttamente dall’eruzione, ossia il livello massimo di piogge che un dato versante può sopportare senza franare, relativamente alla sua pendenza e conformazione tenendo conto del mantello costituito dai possibili depositi da caduta. L In questo caso, come per altri, la pianificazione degli interventi deve essere fatta partendo da una mappa del rischio che tenga conto non solo di quello proprio dei lahars, ma anche quello relativo ai depositi ed ai flussi piroclastici. Una volta stabiliti i percorsi privilegiati si può operare tramite dighe e canali che frenano ed indirizzano i lahars. In questo caso la bassa temperatura e l’alto contenuto idrico del flusso permettono di intervenire con strutture di contenimento usuali, in più, al fine di minimizzare i danni, è possibile realizzare un sistema di monitoraggio dei canali di drenaggio collegato agli sbarramenti. Interventi di consolidamento dei versanti franosi tramite alberi, colture o muri di contenimento, abbassano il rischio relativo ai lahars secondari. Attività sismiche e deformazioni del suolo . Le eruzioni vulcaniche sono spesso precedute od anche seguite da scosse e deformazioni del suolo. Le prime sono di solito di bassa magnitudine ed hanno più un valore informativo, relativo ai movimenti magmatici, che altro. Le seconde possono avere caratteristiche ben più distruttive, accompagnate, però, da un procedere lento seppur costante, che lascia tutto il tempo di prendere i dovuti provvedimenti. Nel caso si attenda, per motivi storici o particolari condizioni del suolo, sismi di una certa entità, bisogna comportarsi secondo normativa sismica. 1 Un interessante studio può essere condotto sulle caratteristiche delle onde relative alle scosse di origine vulcanica. Il fine sarebbe di riuscire a distinguere le onde sismiche di origine tettonica, normalmente abbondanti presso le aree vulcaniche, da quelle magmatiche prettamente longitudinali e caratterizzate da frequenze più alte. Utilizzando un opportuno filtro delle frequenze si può realizzare un monitoraggio diretto delle attività magmatiche del sottosuolo. L Gli interventi, a parte quelli richiesti nel caso dell’attuazione della normativa antisismica, non si estendono molto oltre l’evacuazione delle zone soggette a deformazione del suolo, poiché la caratteristica prettamente sussultoria dei sismi di origine vulcanica non costituisce di norma un pericolo rilevante per gli edifici. Onde anomale. Per il rischio connesso a questo evento bisogna notare che, secondo la relazione precedentemente introdotta, bassi fondali, come quelli relativi alla zona vulcanica mediterranea, non causano onde marine rilevanti. Ad ogni modo bisogna considerare i fattori di influenza principali del fenomeno quali altezza dei fondali, appunto, conformazione degli stessi e della costa, presenza o meno di soggetti a rischio. Nel caso sia attesa un’onda anomala di una certa consistenza l’unico intervento possibile è l’evacuazione della fascia costiera, il problema diventa determinare con dovuto margine di sicurezza l’estensione del provvedimento. La possibilità di poter registrare le attività sismiche dei fondali può aiutare a prevedere l’arrivo di un’onda del genere. Fenomeni atmosferici. Per la prevenzione dal rischio connesso a questa ampia categoria, probabilmente sono sufficienti norme generiche di protezione, tanto per gli edifici quanto per le persone, ove non ne fossero state adottate di più severe e specifiche riguardo ad altri tipi di rischio. Sostanzialmente si prescrive la protezione delle parti più delicate, porte, finestre etc. per gli uni, occhi, vie respiratorie, timpani etc. per le altre. Si aggiunge una serie di norme di comportamento come tenersi lontani da alberi isolati, dai cavi dell’alta tensione o del telefono, dalle finestre e dalle condutture di piombo o altri oggetti metallici. Piogge acide e gas. Il rischio relativo a tali fenomeni, seppur minore, segue la distribuzione del rischio depositi da caduta. Le norme della valutazione sono, dunque, le stesse, ma quelle della prevenzione molto più leggere richiedendo sistemi di protezione per le persone e le strutture certamente più blandi. Per ottenere una corretta valutazione del rischio bisogna realizzare, dunque, una mappa dettagliata, contemplativa dei diversi possibili gradi di danno di ogni singolo evento, delle aree interessate. Per prima cosa, si deve fare una valutazione dell’evento atteso. La valutazione dell’evento atteso si opera tramite la conoscenza del tipo di attività vulcanica che interessa una certa zona. La sua posizione tettonica, ad esempio, indica, a grandi linee, che tipo di eruzione ci si può attendere se esplosiva o effusiva. La presenza, invece, di giacimenti idrici sotterranei può dar luogo ad un evento di tipo freatomagmatico altamente esplosivo. L’analisi del sottosuolo aiuta a conoscere la composizione del magma e quindi a delineare le caratteristiche effusive dell’eruzione. Importante, poi, è conoscere le dimensioni della camera magmatica, non esistono tecniche dirette a riguardo, ma l’utilizzo di scansioni del sottosuolo e rilevamenti delle microscosse generate dai movimenti magmatici potrebbero essere una soluzione. Condizione privilegiata è quella che riguarda un’area vulcanica storica, interessata, cioè, in epoche recenti, da eventi eruttivi. Nei casi più fortunati sono disponibili dati pressoché attendibili e descrizioni dettagliate delle eruzioni avvenute in precedenza, si può fare una stima dei principali pericoli e determinare le zone maggiormente esposte. Diventa interessante determinare la storia evolutiva del sito per conoscere a che tipo di manifestazioni sarà soggetto in futuro e, cosa fondamentale per la determinazione del rischio, con quali probabilità. Nei casi in cui non sia possibile reperire informazioni sulle eruzioni precedenti, o dove queste siano scarse o poco convincenti, tramite l’analisi dei sedimenti è possibile conoscere le aree di influenza e le dimensioni di molti dei fenomeni connessi ad un’eruzione, fino a determinare, anche in questo caso, l’evoluzione del sito. Identificata la portata e il tipo di evento atteso bisogna valutarne gli effetti sul territorio, una completa analisi dei rilievi dell’area che si immagina interessata dall’eruzione permette di conoscere lo svilupparsi di molti dei fenomeni ad essa connessa. La mappatura di tutti i soggetti in pericolo, infine, permette una stima probabilistica dei danni e quindi la completa definizione del rischio. 3. OPPORTUNITA’ DI PROSEGUIMENTO 3.1 Modellazione del profilo orografico vulcanico tramite una superficie conica e analisi numerica di una corrente densa E’ possibile dividere i risultati ottenuti dagli studi sulle correnti piroclastiche, realizzati negli ultimi anni, in due categorie: • i risultati relativi alle simulazioni numeriche, • i risultati dedotti dalla valutazione degli effetti che questi hanno causato sul territorio. Le simulazioni hanno il potere di valutare il carattere generale di questi particolari fenomeni piroclastici. Restituiscono un’analisi dettagliata e completa delle principali caratteristiche del flusso e consentono di identificare quali sono i parametri che principalmente le influenzano. Grazie all’analisi condotta da Todesco et al. (2002), ad esempio, siamo in grado di Fig 19. .Spaccato del volume di controllo del flusso impingente la superficie conica per diversi valori del rapporto caratteristico, h/r = 1 e h/r = 8. Fig 20. Riproduzione dell’andamento dei profili del Vesuvio relativi alle principali direzioni cardinali. conoscere lo svilupparsi dell’intero fenomeno relativo ad un flusso piroclastico generato al Vesuvio, nel caso di un’eruzione della portata dell’Evento Massimo Atteso, i valori di pressione in ogni punto della discesa lungo un determinato profilo del vulcano, così come la densità, la temperatura ed altre caratteristiche fondamentali. L’evidente portata di questa analisi risiede nel fatto che, procedendo come indicato dagli autori e variando le condizioni iniziali o l’andamento del profilo vulcanico possiamo valutare le caratteristiche proprie di un qualsiasi altro flusso piroclastico generato in altre condizioni o perfino da vulcani diversi dal Vesuvio ma con caratteristiche simili. Ovviamente per realizzare una simulazione che aderisca il più possibile alla realtà occorre conoscere affondo il fenomeno che si intende riprodurre. Per quanto si riesca a computare un elevato numero di variabili responsabili delle caratteristiche dell’evento, i risultati finali saranno sempre affetti da qualche approssimazione che vincola questo tipo di analisi ad un ruolo puramente qualitativo. Diversamente, la valutazione degli effetti causati da un evento reale, punta a stabilire le effettive caratteristiche di quel particolare fenomeno verificatosi in quella determinata situazione. La perdita di generalità dell’analisi si trasforma in guadagno circa la certezza dei risultati. L’analisi di Valentine del 1998, investigando i danni causati dalle sovrappressioni dei flussi piroclastici di diverse eruzioni, definisce un profilo preciso della potenza generata da questo tipo di fenomeno. L’unico termine di incertezza, di questa metodologia, risiede nella validità del metodo investigativo. I risultati migliori, com’è immaginabile, si ottengono dalla combinazione dei due approcci. L’universalità di una simulazione fluidodinamica del fenomeno, che permetta di valutare le caratteristiche di un qualsiasi flusso piroclastico partendo dalle condizioni eruttive più varie, è sicuramente il risultato più auspicabile. Per realizzare, però, analisi computazionali, quanto meno affidabili, è necessario, ove possibile, caratterizzarle attraverso il maggior numero di risultati Fig 21. Simulazione ANSYS, di un flusso piroclastico che investe un insediamento urbano; in senso orario dall’alto a dx: volumi delle abitazioni, andamento dei profili di pressione, pianta sezione longitudinale, sezione trasversale all’altezza dei primi volumi investiti. dedotti dall’analisi dei fenomeni reali. Dal punto di vista fluidodinamico, un flusso piroclastico è identificabile, in prima analisi come un getto denso impingente una superficie conica, la cui spinta è generata dal peso della colonna sostenuta. Tramite il codice di calcolo agli elementi finiti ANSYS, è possibile simulare tale interazione. Il vantaggio è di poter agevolmente valutare, come già fatto nel caso del colonnato dell’ambiente 21, le azioni del flusso simulato su di una struttura o insieme di strutture qualsiasi. L’intento è di calcolare come il propagarsi di una corrente densa su una superficie conica, inizialmente liscia, cambi al variare della velocità iniziale e del rapporto h/r caratteristico del cono, fig. 19, dove h è l’altezza e r il raggio della circonferenza di base. Precisamente si vogliono conoscere le leggi di decadimento del profilo della pressione dinamica e delle velocità con la distanza dal vertice. Una volta studiata la superficie ‘liscia’, si può considerare l’utilizzo di superfici coniche generate da direttrici caratterizzate da diverse funzioni, ad esempio di tipo sinusoidale ad ampiezza e periodo crescenti, al fine di identificare quali parametri condizionino maggiormente le caratteristiche principali del fluido. Successivamente si può sostituire la superficie conica con una superficie che riproduca gli effettivi andamenti delle falde del Vesuvio, così come ricavati da rilevamenti satellitari, fig. 20. In tal modo sarebbe possibile valutare come la propagazione del flusso sia influenzata da un profilo irregolare, e, soprattutto, valutare come si comporterebbero i flussi piroclastici lungo le diverse direzioni del Vulcano, capire lungo quali direttrici, ad esempio, si raggiungono le distanze maggiori e lungo quali le maggiori pressioni. Come esposto sopra, tale tipo di analisi ha, comunque, carattere puramente qualitativo, non tiene conto, ad esempio, della fondamentale interazione tra la corrente densa ed il terreno, o il deposito di pomici, presente sul vulcano al momento della discesa del flusso. E’, infatti, la fluidizzazione di questo substrato, operata dal moto altamente turbolento della nube superiore, a rendere tanto rapido e distruttivo il flusso nel suo insieme. Risultati del genere, però, possono essere utilmente adoperati per conoscere come gli insediamenti urbani reagirebbero ad un fenomeno del genere, che, anche se nella generalità della simulazione, rappresenta un primo riferimento. Le immagini sotto, figura 21, presentano i risultati che si possono ottenere da una simulazione fluidodinamica di una corrente densa, secondo i valori calcolati nel lavoro di Todesco et al. (2002) ed utilizzati poi da Zuccaro e Ianniello nelle loro simulazioni. Si propone la riproduzione di un flusso piroclastico al Vesuvio, caratterizzato da un volume di controllo di ampiezza 200 m, altezza 100 m e lunghezza 2500 m, con una densità di 10 kg/m3, viscosità di 100 Pa s e velocità di ingresso di 20 m/s . All’interno de fluido è immerso un ostacolo che riproduce, nelle dimensioni e nella disposizione dei volumi, un insediamento urbano, come potrebbero trovarsi alla periferia di uno dei comuni presenti nella zona rossa a rischio vulcanico sul Vesuvio. Dalle immagini si nota chiaramente che sugli edifici maggiormente esposti i valori delle sovrappressioni sono di poco superiori a 1 kPa, mentre per quelli presenti nelle posizioni più arretrate si verifica un sostanziale effetto scudo da parte dei primi. Valori tanto bassi delle sovrappressioni sono imputabili alle condizioni a monte relative all’analisi numerica del flusso di Todesco et al. (2002). Infatti i flussi piroclastici, simulati dagli autori, nascono da un tipo di eruzione a fontana a condotto aperto, questo non ha reso possibile la valutazione della presenza della colonna sostenuta responsabile della spinta generatrice delle correnti, e necessariamente sono state sottostimate tutte le grandezze del fenomeno. La simulazione, anche in questo caso, è suscettibile di modifiche che nascono dal confronto dei risultati ottenuti con le evidenze riscontrate nella realtà degli eventi che si vogliono riprodurre. Il lavoro consente, in ogni modo, considerazioni di carattere generale sul fenomeno che permettono una conoscenza più precisa e dunque una valutazione più dettagliata del rischio connesso. 3.2 Vulnerabilità e monitoraggio del territorio Tra le opportunità di proseguimento trova posto lo studio degli effetti delle dinamiche eruttive sul territorio, queste valutazioni devono basarsi su di una capillare conoscenza del costruito sottoposto a rischio vulcanico. Elementi discriminanti sono le differenti tipologie strutturali, la conformazione del tessuto urbano e la collocazione all’interno del particolare profilo orografico della zona a rischio. Vulnerabilità del territorio. Definite le dinamiche eruttive se ne determinano gli effetti sul territorio. I risultati ottenuti e le metodologie seguite durante le indagini esposte sopra, infatti, si inquadrano in un più ampio progetto volto a definire la vulnerabilità del territorio esposto a rischio vulcanico che si basa su di una capillare conoscenza del costruito. Elementi discriminanti sono le differenti tipologie strutturali, la conformazione del tessuto urbano e la collocazione all’interno del particolare profilo orografico della zona a rischio. A tal proposito si ritengono essenziali i seguenti punti: • realizzazione di una mappa del costruito con le differenti tipologie strutturali; • definizione e determinazione di indici di vulnerabilità VF, e VPDC, nonché la valutazione delle vulnerabilità connesse al rischio relativo alle colate di fango e alle alluvioni, funzioni delle diverse conformazioni morfologiche; • analisi strutturale numerica delle principali tipologie di costruzioni, con precedenza per quelle di interesse di protezione civile, deduzione dei carichi di: collasso, crollo parziale, danneggiamento funzionale. Monitoraggio del territorio Alla conoscenza del costruito segue un lavoro di controllo e prevenzione dal rischio vulcanico, da realizzarsi tramite interventi sugli edifici, delineazione di un nucleo di elementi normativi per il rischio vulcanico delle costruzioni e, non ultima, una campagna di sensibilizzazione della popolazione interessata. A tal proposito si ritengono essenziali i seguenti punti: • rinforzo di coperture; • aumento della resistenza all’azione laterale (PDC, eventi sismici); Vincoli al progetto delle strutture portanti, e ad alcune sovrastrutture di • nuove costruzioni per le diverse tipologie; • realizzazione di un Fascicolo del Fabbricato della zona Vesuviana che deve contenere notizie tecniche specifiche per la classificazione dell’edificio in relazione ai rischi per VF, VPDC, vulnerabilità alle alluvioni e alle colate di fango. 4. RICADUTE ALL’ESTERO E ITERAZIONI CON ENTI ESTERNI Preliminarmante alle considerazioni relative a questo paragrafo si introduce l’esempio rappresentato dalla formazione e dalle attività di un centro di ricerca sui pericoli naturali presente in Australia. NHRC Il Centro di Ricerca sui Pericoli Naturali, NHRC (Natural Hazards Research Center), conduce, presso l’istituto australiano Macquarie University di New South Wales, ricerche sui rischi naturali al fine di valutare la probabilità di pericolo ed il relativo valore esposto cui è soggetta l’estesa regione che comprende il continente Australiano e il versante Pacifico dell’Asia. Il centro cura un archivio in cui è catalogata una grande quantità di pericoli geologici e meteorologici che interessano l’area, come cicloni e onde anomale nel Pacifico del sud, valanghe, eruzioni, terremoti, alluvioni, pioggia di grandine ed incendi. Attualmente la ricerca punta a realizzare un archivio circa l’estensione, relative perdite umane, indice di danno di ogni singolo evento catastrofico avvenuto a partire dal 1900, e a determinare un coefficiente di pericolosità per ognuno dei 2381 distretti in cui è frazionata la nazione Australiana. Il centro collabora direttamente con la protezione civile nazionale, Emergency Management Australia, con la quale lavora ad un direttorio per la ricerca sui pericoli e i disastri naturali in Australia. L’ufficio fornisce un archivio consultabile in rete sulle ricerche relative ai pericoli naturali in Australia. Il centro di ricerca nasce all’indomani del terremoto australiano di Newcastle. Il prof. Russell Blong, direttore del centro Risk Frontiers, in quell’occasione, fu chiamato da una compagnia multinazionale di assicurazioni a fornire una stima dei danni prodotti dall’evento. Grazie ai primi finanziamenti di sole tre compagnie assicurative, il centro si è riuscito a sviluppare come riferimento per molte di quelle società australiane e dipartimenti governativi che volessero informazioni riguardanti il pericolo cui erano soggette le diverse aree della nazione, mentre parallelamente lavorava alla creazione di modelli capaci di valutarne i possibili danni. Tra quest’ultimi troviamo quelli relativi ai terremoti di Sydney, Melbourne e Brisbane, oltre alla valutazione dei danni relativi alle grandinate. Nell’aprile del 1999, infatti, Sydney fu investita da una violenta grandinata, tale evento causò ingenti danni, quasi due miliardi di dollari australiani, con elevatissime perdite per le compagnie assicurative. Circa un anno dopo l’NHRC iniziò a lavorare ad un modello che riuscisse a valutare il rischio, connesso a tale evento, cui era soggetta la città. Preliminarmente fu recuperato il maggior numero di informazioni possibili dall’archivio dell’ufficio metereologico circa l’intensità delle tempeste precedenti, l’estensione e le dimensioni della relativa grandine. Successivamente si passò alla catalogazione del valore esposto, principalmente abitazioni e autoveicoli. Grazie a queste informazioni il centro fu in grado di stabilire un fattore di vulnerabilità che relazionava la dimensione della grandine con il danno stimato, in rapporto al valore del bene assicurato. Il modello prevedeva la valutazione di che tipo di grandinate potevano verificarsi e quale fosse la loro probabilità in un certo numero di anni. Ne risultava un disegno completo del rischio grandine dell’intera area, cui le compagnie assicurative, come altri soggetti potevano riferirsi. 4.1 Ricadute all’estero I primi passi fatti in quest’anno di lavoro muovono lungo una direzione ambiziosa, verso la realizzazione di un algoritmo di calcolo che, in funzione del tipo di eruzione attesa e della formazione orografica del vulcano, permetta di stabilire quali possano essere i danni che un eventuale flusso piroclastico arrecherebbe ad una particolare struttura presente sul suo cammino. Affiancato dalle valutazioni probabilistiche circa i fenomeni che caratterizzano il pericolo, un lavoro del genere rappresenterebbe un utilissimo modello per la valutazione del rischio cui sono soggette le strutture in zona vulcanica. In un’ottica propria del centro di ricerca australiano, sopra introdotto, questo rappresenterebbe uno strumento indispensabile tanto per le assicurazioni quanto per le amministrazioni. Allo scopo di proporre una fattiva interazione con i ricercatori del Centro è stato anche preso un contatto per un eventuale soggiorno studio presso la loro sede, che potrebbe essere effettuato nei prossimi mesi. In generale, la grande mole di studi, condotti nel nostro paese, sul Vesuvio e sui rischi ad esso connesso, può essere il primo consistente capitolo di un archivio sui pericoli naturali e antropici presenti sul nostro territorio. In linea con quanto fatto dai ricercatori australiani è possibile realizzare un organo di riferimento per tutte le valutazioni relative ai rischi cui si espongono quei soggetti che intendo operare in una determinata area. A tale ente spetterebbe il compito di possedere le più aggiornate tecniche per il calcolo delle probabilità e della relazione con il danno di ogni tipologia di pericolo. Il successivo, e più importante passo, sarebbe quello di compartire, con tutti gli enti interessati, le conoscenze maturate tanto nell’ambito della valutazione quanto in quello della mitigazione del rischio. Metodologie di prevenzione e sistemi di monitoraggio si potrebbero unificare a vantaggio di una più semplice e rapida collaborazione in caso di calamità. Si prospetterebbe, così, una realtà non più costituita da tanti centri di monitoraggio del rischio ambientale di carattere regionale, ma da un complesso organismo capace di tenere sotto controllo l’intero pianeta. 4.2 Interazioni con enti esterni Una volta stabilito fino a che punto un flusso piroclastico può allontanarsi dal cratere e come varia la sua forza demolitrice, o come variano gli spessori e come agiscono sulle coperture i carichi dei depositi da caduta, è necessario valutare l’entità e la vulnerabilità del valore esposto. Le amministrazioni locali hanno, così, la possibilità di individuare quali siano le costruzioni maggiormente esposte, stabilire direttive di adeguamento dei fabbricati, ove possibile, e in casi estremi procedere alla demolizione. E’ necessario, però, che gli organi legislativi formulino normative specifiche per i rischi vulcanici sulle costruzioni che stabiliscano: • per i fabbricati già costruiti, parametri di sicurezza in relazione alla zona di esposizione e che indichino quali siano gli interventi da attuare al fine di ridurre il rischio, • per i fabbricati da realizzare, norme per la realizzazione delle coperture, in modo da resistere ai sovraccarichi di pomici, e norme per la tipologia costruttiva nonché l’orientamento rispetto alla posizione del cratere al fine di rendere minimo l’impatto con eventuali correnti dense, seppur nella loro fase finale. Una dettagliata conoscenza dei fenomeni piroclastici, quali correnti dense e depositi da caduta, si rivela molto utile anche per la Protezione Civile. In caso di emergenza è necessario, infatti, sapere come si svilupperà in breve l’evento vulcanico e quali possono essere le zone, o gli edifici ritenuti sicuri. Grande interesse, infine, è nutrito dalle società assicurative circa i danni che i fenomeni vulcanici in esame sono in grado di causare su edifici, autoveicoli e beni materiali in genere. Le compagnie hanno bisogno, infatti, di conoscere, al fine di determinare in maniera univoca e chiara il premio assicurativo relativo ad un bene, il rischio cui questo è soggetto in relazione alle caratteristiche sue proprie oltre che alla zona in cui si trova. Per assicurare una determinata percentuale del valore di un’abitazione, ad esempio, diventa essenziale, per le società assicurative, possedere coefficienti di danno ben definiti, che relazionino l’esposizione ad un certo fenomeno con le caratteristiche costruttive, età, stato di conservazione e altre variabili, per poterli pesare, poi, con la probabilità propria del relativo pericolo. 5. ACQUISIZIONE DELLE COMPETENZE ORGANIZZATIVO-MANAGERIALI L’anno di formazione condotto presso il centro di competenza AMRA, ha visto la realizzazione, tra le altre cose, di un articolo per la Rivista di Studi Pompeiani, qui allegato. Il lavoro presenta una nuova analisi dei rinvenimenti archeologici presso il sito di Oplonti. Quello che era un settore rivolto principalmente agli studi di carattere archeologico, si è prestato ad ulteriori valutazioni di carattere vulcanologico ed ingegneristico. La villa romana, rinvenuta durante gli scavi condotti negli ultimi decenni nel comune di Torre Annunziata, è, inizialmente, introdotta dal punto di vista archeologico e, successivamente, tramite la rilevazione ingegneristica dei danni subiti durante l’eruzione del 79 d.C., si sono ricostruite, sia qualitativamente che quantitativamente, le azioni di ogni singolo fenomeno vulcanico abbattutosi sulla villa. Lo studio è stato realizzato tramite numerosi sopralluoghi presso gli scavi, discussioni e incontri che hanno visto confrontarsi le esperienze dei diversi autori. Oltre all’interesse suscitato dall’interdisciplinarietà dell’argomento trattato, è stato, per me, molto interessante dover relazionare i numerosi contributi messi in campo dagli studiosi coinvolti al fine di utilizzarne al meglio le competenze per ottenere il risultato più completo possibile. Durante quest’anno, poi, i numerosi seminari relativi all’utilizzo e lo sviluppo dell’area metropolitana, tenuti da diversi professori universitari, ricercatori e operatori del settore, hanno formato in me una nuova concezione del territorio, una prospettiva di utilizzo, che attraverso la visione del rischio, mostra tutte le sue forze e potenzialità. Grazie alla concezione del rischio, non più come condanna, ma come risorsa, mi si è svelata l’evidenza di quanto possa valere l’area vesuviana. Il rischio Vesuvio, sotto la cui ombra vive tutta la conurbazione napoletana, probabilmente rappresenta l’unica concreta occasione di sviluppo che quest’area richiede da ormai molti anni. La necessità di riorganizzare i tasselli di una urbanizzazione selvaggia per salvaguardare la popolazione da una immane catastrofe, diventa, così, l’opportunità di recupero di vivibilità e organizzazione sociale necessaria all’avviamento di tutte le attività necessarie allo sviluppo del territorio. A tale riguardo mi è sembrato interessante lo studio di fattibilità per la costituzione di una società di trasformazione territoriale promosso dalla Regione Campania (Boll. uff. R.Campania 31-14/7/03). Il processo per progettare e gestire nel breve, medio e lungo termine la riconversione nelle aree a rischio vulcanico, infatti, appare piuttosto complesso, per cui nasce la necessità di costituire una Società di Trasformazione Territoriale(S.S.T.), interamente o a maggioranza pubblica, nella quale possono convergere Stato, Regione, Comuni, Enti e Società Miste (Ente Parco, Ente Ville Vesuviane, Patto Miglio d’Oro, Tess, Società del Patto Nord-Est, ecc.). Tra i vari compiti della Società può esservi quello dell’acquisizione al proprio patrimonio di immobili residenziali al fine di una gestione compatibile con il rischio vulcanico. Ritengo che l’AMRA possa ricoprire in tale attività un ruolo di primo piano attraverso una delle sue società affiliate. Bibliografia • • • • • • • • ALESSIO M, BELLA F, IMPROTA S, BELLUOMINI G, CORTESI C, TURI F (1974) Univeristy of Rome carbon-14 dates XII. 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