SOMMARIO Culture Economie e Territori Rivista Quadrimestrale Numero Tredici, 2005 Borderline Pag. 03 La Metropoli globale e i luoghi biopolitici di Luca Romano Passaggio a Nord-Est Pag. 25 Pag. 45 Progetti di territorio e governance locale nelle politiche di sviluppo del polesine. di Luciano Vettoretto “Se modernizzazione stanca, bisogna danzarci attorno”. Frammenti di sviluppo del Polesine di Francesca Gelli Focus: Norberto Bobbio Pag. 65 Carteggio inedito Norberto Bobbio-Ferruccio Rossi-Landi: due filosofi a confronto (parte seconda 1956 - 1961) a cura di Mario Quaranta Il Sestante Pag. 106 Il Terzo Scacchiere di Alessandra Mazzei Pag. 111 Figure della sovranità. Nota alla raccolta curata da Gian Mario Cazzaniga e Yves Charles Zarka di Luca Sartorello Segno Veneto Pag. 125 A cura di Mario Quaranta 1 2 Luca Romano La Metropoli globale e i luoghi biopolitici Borderline 1. La metropoli come grande città La globalizzazione ha indubbiamente comportato la rivincita ideologica della metropoli. Per quanto il tasso di virtualità dei nuovi nodi dell’economia mondiale sia molto intenso e colori di una permanente elusività il concetto di centralità, non vi è dubbio che sia le funzioni strutturali che di rappresentazione, nonché quelle più sofisticate di “immaginario” siano slittate verso i grandi centri metropolitani del pianeta. Dalle città globali di Sassen alla network society di Castells la metropoli è il fondamento del mondo globalizzato, il “luogo” immaginario che innesca, manipola e riconverte in forme di innovazione infinita, i flussi che destrutturano le economie dei luoghi. Questa ambivalenza, allo stesso tempo inesorabile e ambigua, della metropoli globale si fonda sia sulla formazione spaziale – la metropoli come “luogo” appunto, sia sull’interminabile lavoro dell’ou-topia del “nessun luogo” come ancoraggio ipotizzato, proprio della realtà virtuale; e, infine, dei continui slittamenti verso un “altrove”, il conflitto con fuga e uscita che si sviluppa tra le formazioni spaziali localizzate e il non luogo dove hanno origine i flussi dell’energia virtuale. E’ la complessità di questi tre piani che si gioca con ruoli sempre diversi, in una trasfigurazione che pure vive delle condensazioni di potenza. La metropoli globale infatti vive, come si è spiegato ad abundantiam, non una logica di massa, ma una logica di potenza. E la potenza è il diamante che connette e chiude operativamente queste tre forme. Si rompe la mediazione tra la metropoli e lo Stato, lo schema della coesistenza, dell’integrazione funzionale o della subordinazione gerarchica. La metropoli si dispone come il congegno più adeguato per realizzare obiettivi multinazionali di estensioni planetarie. Se questo è vero, metropoli planetaria e globalizzazione sono sinonimi perfetti, e la loro convergenza massima si realizza esattamente nello sprigionamento di flussi virtuali che puntano a dominare gli ambiti localizzati della vita. Vediamo come nella metropoli globale si realizza la forma dell’universo – la figura dominante degli anni Novanta, “sezione curva unica estrusa all’infinito” (Koolhas 1997, 4): è allo stesso tempo imposizione di un ordine sul caos, luogo materiale di produzione dei flussi, esercizio di dominio a distanza sui luoghi non 3 n.13 / 2005 - metropolitani e governo indiretto delle realizzazioni dell’immaginario metropolitano (l’eterotopia in actu). Per questa tendenza l’ideale è costituito dalla perfetta integrazione di un ancoraggio leggero delle forme sociali a una regione localizzata, un luogo in cui il negativo tenda ad assolutizzarsi nello sradicamento dell’individuo da qualsiasi traccia materiale di comunità di prossimità. Il pluralismo è ammesso solo nella forma delle metropoli - mondo, che sono entità appunto plurali ma assolutamente “una” nella logica dell’attraversamento planetario, nella competizione - cooperazione della produzione di flussi, nelle modalità di dominio - dissolvimento dei sistemi di sviluppo locale. Ciò comporta una convergenza relativa anche delle metropoli occidentali e orientali, ma persino tra quelle del nord e quelle del sud del pianeta. Nelle prime è evidente il connubio tra crescita e volontà di dominio sugli spazi non metropolitani. Nelle seconde, invece, la coesistenza delle “fortezze” dell’economia immateriale e delle enormi enclaves del sottosviluppo. Se pensiamo alla metropoli cinese, infatti, il movimento del superamento dello Stato risulta perfettamente rovesciato, ma con un risultato, la metropoli-di-Stato che è la perfetta copia di quella occidentale. Ciò deriva da una molteplicità di strumenti della politica pura che hanno consentito il decollo economico del colosso cinese. La strategia statuale di crescita senza democrazia è avvenuta secondo tre direttrici fondamentali: - la decisione dello Stato di concentrare la strategia di crescita su ben individuate porzioni metropolitane della costa sud orientale, ovvero le politiche di sviluppo per poli; ciò non è avvenuto casualmente ma secondo un’intenzione statale determinata; - l’anticipazione della strategia di crescita con una scelta di azzeramento del sistema di welfare e di diritti sociali derivati dal comunismo maoista, con una imposizione dirigistica dell’imperativo della crescita senza diritti; - il cinico abbandono all’impoverimento assoluto delle campagne dell’interno trasformate in gigantesco esercito di riserva disponibile per la fabbrica metropolitana del sud est costiero. Il caso cinese non è ancora stato analizzato entro lo schema di Bauman (2005), ovvero come far crescere metropoli senza avere di fronte uno spazio infinito di ricollocazione degli “scarti” del progresso. La Cina ha gestito un’asimmetria fondamentale del processo di globalizzazione, con la politica della cultura identitaria ha impedito la liberalizzazione interna e ha invaso l’esterno. Questo fattore organizzativo ha finora permesso di gestire all’interno le crisi di trasformazione e gli squilibri spaventosi generati dalla globalizzazione (il sistema bancario e finanziario cinese sono ancora separati e chiusi ai flussi globali). Il caso cinese dimostra come l’antitesi non è più tra dittatura orientale e democrazia occidentale, ma tra metropoli, con o oltre lo Stato non importa, e democrazia diffusa territoriale. La localizzazione delle economie di flusso assegna la sua centralità iconica alla Los Angeles di Mike Davis. La volontà di potenza consiste sì nel realizzare un ordine globale, ma la “mente” del progetto, la metropoli, si oppone all’infinitezza dello spazio disponibile. La megalopoli losangelena si sviluppa secondo alcune configurazioni di inequi- 4 Luca Romano La metropoli globale e i luoghi biopolitici vocabile potenza. La dinamica immobiliare per addizione di lotti espropria le preesistenze e struttura la formazione direzionale di nuovi quartieri destinati a forme di produzione dell’economia dei flussi e ai servizi di chi vi lavora: “La zona sta diventando una giungla d’asfalto. Il traffico, il rumore, l’inquinamento – sono terribili, orripilanti – e stanno peggiorando. Quello che hanno fatto è prendere un delizioso quartiere middle class e distruggerlo, isolato per isolato”(un piccolo proprietario di Encino) (Davis 1999, 162). La verticalizzazione delle volumetrie costruire corrisponde a un preciso cambiamento di segno delle politiche urbane, dopo la sconfitta della middle class in epoca reaganiana e della sua pretesa al decentramento decisionale con la parola d’ordine della “pianificazione delle comunità” (Davis 1999, 163): “Il risultato fu una metamorfosi stile Jeckill e Hyde del nucleo centrale middle class di Los Angeles. Benché i valori immobiliari continuassero a esplodere, i quartieri vennero “manhattanizzati” al punto da non poterli più riconoscere. Dalla sera alla mattina, Ventura Boulevard, a Encino, fu trasformata dal paesaggio dai tetti bassi costellato di negozi di specialità gastronomiche e rivendite di auto usate che era, a una giungla d’asfalto dominata dai grattacieli delle banche giapponesi” (Davis 1999, 165). Le connessioni infrastrutturali sostituiscono l’idea europea di centralità, il miraggio del perimetro della città storica con l’inserzione di isolati direzionali di nuova concezione urbanistica, con un policentrismo per addensamenti verticali o per specializzazioni funzionali (le nuove source cities, città delle risorse) connessi attraverso una immensa rete di autostrade e ferrovie sotterranee. L’attrazione di ingenti investimenti in istituzioni globali dell’economia dei flussi - finanza, tecnologie delle comunicazioni, sistemi televisivi satellitari, produzione di software – rende tangibile l’idea della città dei bits (Mitchell 1997), la cui composizione sociale sembra evaporare come l’oggetto della propria attività economica; il principio che presiede a questo sviluppo dell’immateriale mostra somiglianze profondissime sul Pacifico e sull’Atlantico nella privatizzazione degli spazi pubblici e nella costruzione dei nuovi spazi economici come agorà invisibili dall’esterno, in cui si organizza il cervello elettronico delle nuove funzioni comunicative. Mike Davis per Los Angeles, infatti, rimanda al celebre studio predisposto da Manfredo Tafuri sul Rockfeller Center di New York, la genealogia di una siffatta evoluzione degli spazi metropolitani (Tafuri 1979). I megainvestimenti in economia dell’immaginario globale (gli studios holliwoodiani, le comunità di produzione e di distribuzione collegate all’industria cinematografica e televisiva) sono la testimonianza della configurazione strategica che acquisisce l’economia dei sogni, ovvero il sistema che alimenta l’immaginario globale. La smaterializzazione dei processi economici si integra perfettamente con la creazione di valore aggiunto dai modi di generazione immaginata della realtà. Infine Los Angeles appare come l’icona di megainvestimenti in luoghi dell’esperienza, le grandi istituzioni della ricerca scientifica e dell’arte contemporanea. Le forme di questa metropoli che trasforma l’esperienza vissuta in una sorta di caleidoscopio estetizzante di massa è stata descritta in modo formidabile (Arbasino 2000). Il Getty Center appare come il santuario di una nuova estetica, sia per gli intenti di incontenibile ambizione1 che ha facoltà, attraverso i giochi architettonici, di manipolare intere porzioni di territorio (Arbasino 2000, 42), sia per le dinamiche contraddittorie che innesca nelle relazioni sociali2. 1 “Sono immediatamente chiari i programmi di investimento e di immagine. Da parte del vecchio Getty: un landmark di visibilità e spesa ineguagliabile, come riscatto postumo per un autocrate in odor di parsimonia” (Arbasino 2000, 31-2). 2 “Attualmente, invece – la fila per l’accesso alla funicolare del Getty è lunga come all’Immigrazione negli aeroporti” (Arbasino 2000, 43). 5 n.13 / 2005 3 Cfr. Vittorio GREGOTTI (2005) nell’articolo di recensione al libro Città dei due geografi inglesi, Ash Amin e Nigel Thrift, ritiene che potrà rappresentare la base ideologica della metacittà, il “tema inquietante” della prossima Biennale di Architettura di Venezia affidata alle cure di Richard Burdett – architetto alla London School of Economics, “Il Corriere della Sera” 12 settembre. 6 Un’estetica di superficie, liscia, levigata e luminosa, con l’imperativo della trasparenza universale, fa da pendant alla costruzione di un utente che non può che definirsi un “Ego estremamente totale” (Arbasino 2000, 33), senza storia, senza prospettiva, il frutto di un narcisismo esasperato e impotente. Il dispiegamento delle forme di organizzazione della metropoli globale per eccellenza non è descrivibile solo attraverso queste modalità localizzate di produzione, ma con tutto il repertorio di condensamento “immateriale” della classe creativa, sia applicata direttamente nei luoghi di produzione, sia con posizioni di dominio eterodiretto al resto del mondo, sia con le più sofisticate tecniche di una sorta di governance eterotopica. Rimane ferma la presenza sullo sfondo del paradosso per cui il luogo in cui si produce per dare visibilità artificiale al reale è una sorta di agorà invisibile. Quest’ultima è riconducibile alla nuova economia delle reti, i media globali delle nuove industrie della comunicazione dell’immaginario e delle connessioni che si creano per i sistemi diffusi di consumo. Il rapporto della metropoli globale con le economie delle reti consiste nell’esercizio di una potenza: sfruttare tutto il potenziale centralizzante e gerarchizzante che è assumibile nella struttura di rete e che si sviluppa in antitesi con la dimensione “orizzontale” e democratica che ha ispirato la nascita anarco - libertaria di Internet. Albert - Laszlo Barabasi ha codificato con impareggiabile capacità di stilizzazione le due dinamiche tipologiche che configurano l’architettura delle reti. Come per un verso essa possa procedere con un antagonismo di base per il quale la strutturazione dei link avviene per espropriazione dei nodi “periferici”. Un diagramma piramidale rafforza costantemente il centro proprio alimentando una possente decentralizzazione funzionale. Sono le reti “chi vince piglia tutto” con un forte singolo hub centrale e tanti piccoli nodi a stella intorno (Barabasi 2004, 112). Ma a questa casistica “verticalizzante” e fortemente gerarchizzata se ne oppone un’altra “orizzontale” in cui la connessione tra i nodi segue un andamento realmente pluralistico. In questa la competizione non incide, le leggi di potenza e di lotta per i link coesistono senza antagonismi (Barabasi 2004, 112 - 3). Nell’intervista di Lovink a Saskia Sassen si prospetta una lucida precognizione delle conseguenze immanenti a una costruzione pubblica o privatistica del cyberspazio (Lovink 2002, 105-8). La prima infatti è una costruzione in cui la pluralità di link coesiste e crea il suo valore nell’universalità degli accessi, mentre la seconda seleziona, proscrive ed esclude attraverso una competizione in cui l’hub che vince piglia tutto. Che cosa si deduce da questi riferimenti? Alla potenziale ou-topia del flusso immateriale, il suo essere in nessun luogo, corrisponde una potenza opposta, la localizzazione materiale – le agorà invisibili – e le forme di governance distanziata che gli attori esercitano attraverso la risoluzione dei contenuti espressivi nei media stessi che li propongono e usano. La metropoli globale nel XXI secolo si trova di fronte un mondo saturo, ovvero un mondo in cui l’urbanizzazione ha occupato tutti gli spazi agibili con clima temperato e non consente più la ricollocazione di massa in spazi liberi. Pertanto globalizzazione significa estensione globale delle possibilità di potere della metropoli, messa a disposizione di ogni spazio per questa volontà di potenza. Il volto arcano della metropoli globale è dunque la metacittà3. Le componenti della metropoli globale sono, quindi, plasticamente stilizzate. Luca Romano La metropoli globale e i luoghi biopolitici La concentrazione di attività che presiedono al valore dell’economia delle reti, la loro dissimulazione in agorà invisibili si localizzano nelle “fortezze” ballardiane, santuari protetti che si allocano dentro i grattacieli di vetro e di acciaio dei centri direzionali nelle metropoli globali. L’assunzione del potenziale gerarchico del cyberspazio a sua volta privatizzato entro una configurazione in cui un hub antagonista agli altri li espropria e riduce a nodi satellitari della sua “sovranità connettiva”, attua la pratica di una potenza colonizzante del territorio metaurbano che satura il pianeta. Questa estensività dei meccanismi di dominio della città sono ben noti: “dai tempi più remoti, la città non ha mai potuto essere delimitata da confini definitivi, dato che gran parte delle finalità della città è diffondere tracce che indubbiamente vanno oltre i suoi confini: quelli che sembrano essere spazi limitati sono effettivamente raggruppamenti di tracce che attraversano i confini, e l’integrità della città non è necessariamente compromessa da questo fatto” (Amin e Thrift 2005, 121). Nella prospettiva qui richiamata inevitabilmente “le città moderne diventano spazi di flusso e mescolanza, “strutture retiformi” promiscue e gerarchie di relazioni differenti piuttosto che mosaici di comunità differenti; ibridi che coinvolgono l’improvvisazione quasi continua in cui l’ “inter-tempo” dell’interazione è decisivo” (Amin e Thrift 2005, 120). Insomma, siamo partiti dall’idea della rivincita ideologica della metropoli nella globalizzazione, e siamo approdati a una prima approssimazione di metropolidella-globalizzazione, a un reciproco corrispondersi dei due processi. In verità il gioco delle trasformazioni non si rivela così unilaterale e, emblematicamente, la declinazione che tale rivincita assume nel contesto italiano, laboratorio internazionale dello sviluppo diffuso, dei cento localismi, delle economie periferiche, dei distretti industriali, è naturalmente più problematica e complessa, anche se da taluni intesa a liquidare in nome della centralità milanese, romana, persino barese, il concetto di territorio. La metropoli globale che abbiamo sinteticamente rappresentato ha un’immane forza destrutturante. Tale forza si esercita in un unico atto sia verso le figure del proprio passato, sia verso i limiti che quelle figure non riuscivano a sovvertire. Questa doppia potenza destrutturante alimenta il senso di una complessa genealogia. La prima di queste figure, quella dotata di stimmate fondative ineccepibili nei diversi racconti di fine Ottocento consiste nella rimozione – riuscita – della “sintesi nostalgica”. Non siamo più alla metropoli di Simmel e Musil, descritta nel libro di Massimo Cacciari del 1973, l’incubatore della fabbrica fordista e dell’operaio massa, dei vagiti del flaneur e della belle epoque dei consumi e dei divertimenti, dei trasporti meccanizzati e del cinema. Essa era, infatti, l’epopea di una complessità localizzata, segnata da differenze nel suo complicarsi meramente residenziale. Coincideva con la sua “vita” delimitata spazialmente. Nel saggio, infatti, la visione è quella di un organismo metropolitano del tutto auto – centrato e pluriarticolato, un servizio complessivo allo sviluppo con organizzazione di forza – lavoro qualificata, attrezzatura tecnico – scientifica, struttura finanziaria, mercato, potere politico (Cacciari 1973, 37). I “processi di centralizzazione” produttiva e burocratica sono “irresistibili” (Cacciari 1973, 38). L’endiadi centralizzazione/razionalizzazione è incompatibile però con l’immagine di città che Benjamin descrive nella sua Parigi capitale, nella quale, invece, è 7 n.13 / 2005 4 Secondo un logico processo storico, la Parigi capitale di Francia deve, nel XX secolo, costruirsi il suo centro direzionale» (Le Corbusier 2003, 122). 5 Dal dopoguerra a Parigi si è alla caccia spietata di nuove sedi per gli “affari”» (Le Corbusier 2003, 121). 8 proprio l’alienazione dei rapporti sociali dominati dal feticismo delle merci che sprigiona inedite energie immaginative. La metropoli unisce la povertà dell’esperienza, frantumata dagli choc nervosi, con la proliferazione abnorme dei significati, che a loro volta si costituiscono ambiguamente come ulteriori fattori di spersonalizzazione o fattori di costruzione libera di nuovi sensi personali. Come è compatibile Parigi capitale con le forme di spersonalizzazione intellettuale che l’analisi simmeliana consegna poi alle categorie razionalizzatici di Weber? La risposta di Simmel è nel contrasto tra la totalità del sapere oggettivo, l’intelletto calcolante che permea i rapporti di scambio e la divisione del lavoro nella metropoli, con la necessità di imporre, da parte dell’individuo schiacciato da tali potenze oggettivanti, una sua individualità originale, irriducibile alle “universalità” date, il valore di qualità distintive. L’utopia antimetropolitana di Nietzsche, alla fine, si colora della qualità dell’individualismo metropolitano, portato all’estremo per non sprofondare nelle potenze anonime dell’intelletto calcolante. Il negativo che è immanente a questa figura della metropoli è assoluto, non vi è residuo spazio possibile per una rinascente forma di vita comunitaria – la Gemeinshaft di Schaeffler, né, tanto meno per l’idea di democrazia configurata da Tocqueville, un autore che significativamente mai appare nell’opera - mondo benjaminiana su Parigi capitale. Il secondo limite di questa figura consiste nella sua volontà di assoluta autosufficienza funzionale, l’esclusione dall’orizzonte teorico di riferimento della forma del dominio esterno, la proiezione coloniale nei confronti del Sud del mondo e degli spazi non metropolitani. L’espansione funzionale della metropoli è irresistibile, le onde con cui investe lo spazio a lei esterno si susseguono inevitabili. Parigi negli anni Venti alimenta una logica espansionistica – le colonie – ma allo stesso tempo consolida in modo plastico la sua auto – centratura. La metropoli della colonizzazione rimane centralizzante. Gli appunti del 1925 di Le Corbusier su Urbanisme rimangono illuminanti a questo proposito: “Il Plan Voisin di Parigi si riappropria del classico centro della città. Ho già dimostrato…che non si può spostare il centro delle grandi città, condizionato da precise esigenze, e creare di sana pianta nuove città accanto alle antiche” (Le Corbusier 2003, 120). L’istanza architettonica riveste una precisa configurazione ideologica, volta a ricondurre alla stessa logica di potenza le esigenze di rappresentazione che rimandano a funzioni di potere4 e le esigenze di competizione economica che rimandano a interessi di affari5. Ma non siamo più neppure alla metropoli “coloniale”, ibridata ai fenomeni di delocalizzazione degli oggetti del proprio comando spaziale (stati, popoli, territori extra occidentali). Quella dimensione metropolitana, infatti, aveva la possibilità di esternalizzare all’infinito, gli “scarti” della modernizzazione, i rifiuti del suo progetto e del suo ordine. L’effetto di questa esportazione di scarti, rifiuti e problemi, la sua metafora emblematica, anzi il suo doppio, è l’Algeri di Albert Camus, il luogo a un tempo oggetto del colonialismo selvaggio e della sua sovversione. Parigi capitale è impensabile senza il suo doppio coloniale, Algeri. Ebbene, al tipo di relazione di dominio e di feroce gerarchizzazione imposta dall’Occidente metropolitano ai territori coloniali, da cui si è usciti con sanguinosi processi di decolonializzazione, è stata pensata un’alternativa che ancora oggi, misconosciuta, proietta la sua luce sulle pericolose derive dell’impatto della globalizza- Luca Romano La metropoli globale e i luoghi biopolitici zione sui territori postcoloniali. Il giovane Camus fa in questo crogiolo di dominio e di strisciante sovversione un esercizio formidabile di cronaca della quotidianità, la fame e la discriminazione a cui vengono sottoposte le popolazioni algerine, e di immaginazione di futuribili modelli di convivenza. In questo modo il giovane giornalista “vede” entità diverse rispetto alla terribile dialettica dominio-sovversione: “Sul piano politico, vorrei anche ricordare che il popolo arabo esiste. Intendendo con ciò che esso non è la folla anonima e miserabile, in cui l’Occidente non vede nulla da rispettare né da difendere, ma che si tratta al contrario, di un popolo di grandi tradizioni e, per poco che si voglia cercare di capirlo senza pregiudizi, ricco di eccellenti virtù” (Camus 1961, 189). Quel che si coglie con eccezionale finezza politica in questo testo è che la metropoli ritiene di poter rafforzare il suo dominio e di legittimare l’esistenza di una gerarchia inossidabile attraverso la revoca dell’universalità dei principi democratici: “la Francia doveva dire chiaramente se considerava l’Algeria come una terra di conquista i cui sudditi, privati di tutti i diritti e oberati di alcuni doveri supplementari, dovevano vivere sotto la nostra assoluta dipendenza, o se invece attribuiva ai suoi principi democratici un valore abbastanza universale da poterli estendere alle popolazioni di cui aveva assunto gli oneri” (Camus 1961, 199). Proprio in questo esercizio è sintomatico che Camus designi nell’impasto franco – algerino “metropolitana” la componente europea mentre gli “altri” sono gli arabi. Ritenendo nefasta una liberazione dal giogo dominante dei francesi che si consegni a un separatismo totale Camus ricerca una soluzione diversa, in cui la metropoli, contemperata ai principi democratici, sappia sostituire con un ordine istituzionale il rapporto gerarchico di mera oppressione. Ma nel denudare una verità amara e inconfutabile, ovverosia che la gerarchia è un ordine e un legame dai quali non si può prescindere con sovversioni meramente separatiste, affida a una forte carica utopistica il suo messaggio politico: rispettare l’autonomia, ma integrarla in un dispositivo federativo. In questo si accende di entusiasmo per l’idea federativa di Marc Lauriol, professore di diritto ad Algeri, che “associa senza fondere, contempera i vantaggi dell’integrazione e del federalismo” (Camus 1961, 252). Lauriol prospetta la creazione di due settori nel Parlamento francese, uno metropolitano e uno musulmano su basi rigorosamente proporzionali. Questo organismo in seduta congiunta affronta e delibera sui problemi e gli interessi comuni, in sedute separate ed esclusive i propri (Camus 1961, 253). Il sogno federativo di Camus si infrange nella cruda e sanguinosa rivoluzione di Algeri prevedendo con una precognizione eccezionale tutto il carico di contraddizioni culturali irrisolte che di lì a qualche decennio avrebbe costituito il crogiolo del cosiddetto integralismo, una concezione assoluta della differenza tra popoli che trascende nella separatezza e nell’antagonismo totali. Lasciato alle nostre spalle un percorso costituzionale del tutto ignorato dalla storia, seppure Lauriol ne avesse prescritto l’assunzione anche da parte delle “istituzioni europee che dovessero sorgere in avvenire” (Camus 1961, 254), la globalizzazione propone metropoli a comando gerarchico puro, come quella che descrive Bauman: “A questi ultimi arrivati nella modernità non resta che cercare una soluzione locale a un problema le cui cause sono globali. Ma le probabilità di successo sono minime. Mentre un tempo le imprese famigliari e comunitarie erano capaci e disposte ad assorbire, impiegare e sostentare tutti gli esseri umani che 9 n.13 / 2005 6 L’iperghetto, discarica umana presente in tutte o quasi le grandi città, studiata a fondo da Louis Wacquant (Bauman 2005, 100). nascevano, e quasi sempre a garantirne la sopravvivenza, la resa alle pressioni globali e l’apertura del proprio territorio alla circolazione incontrollata di merci e capitali pone in dubbio la loro possibilità di sopravvivere” (Bauman 2005, 90). Nella descrizione di quanto sta avvenendo sono individuate le nuove gerarchie dell’ordine mondiale, che dietro un’apparenza di totale politicizzazione postcoloniale, alimenta dinamiche di sfruttamento, di dominio e di povertà senza la possibilità di imputazione a responsabilità soggettive. Sono le “forze della globalizzazione”, entità impersonali dotate di arcani poteri tanto imperativi quanto volatili, ad imporsi. La nuova metropoli globale supera le figure della sintesi simmeliana, dell’assoluto negativo weberiano e della colonizzazione attraverso il toglimento dei limiti all’estensione dei principi democratici proprio in quanto tali principi ormai nulla possono per governare praticamente tali forze impersonali, inesorabili, liquide e impalpabili. Questa nuova figura si rende necessaria in un mondo saturo: “Comunque sia, adesso il pianeta è saturo. Ciò significa, fra l’altro, che i processi tipicamente moderni, come la costruzione di ordine e il progresso economico, si svolgono ovunque: quindi i “rifiuti umani” sono prodotti e sfornati ovunque in quantità sempre maggiori, ma stavolta in assenza di discariche “naturali” idonee al loro magazzinaggio e al loro potenziale riciclaggio” (Bauman 2005, 87). Le diverse configurazioni che assume la metropoli globale in un mondo saturo idealtipizzata da Bauman costituiscono una fenomenologia in radicale discontinuità con il passato. L’idea che il progetto di modernizzazione sia basato su poteri “postmoderni”, liquidi e incatturabili, non consente neppure di responsabilizzare delle cause per la formazione di bibliche catene di migranti, che “vagano lungo le rotte un tempo percorse dalla “popolazione in eccesso” congedata dalle serre della modernità; solo che le percorrono in direzione inversa e…non assistite” (Bauman 2005, 92). Questa è la forma del “rifiuto” umano nell’economia dei flussi: una massa in eccedenza destinata agli iperghetti che prendono vita nei suburbi delle metropoli globali6. Le ulteriori novità sono che questi rifiuti in eccedenza non possono neppure aspirare a candidarsi (a) per la civilizzazione di nuove terre essendo il pianeta saturo; (b) come esercito di riserva dei nuovi processi di industrializzazione che, in virtù dell’impellenza tecnologica, sono destinati ad automatizzarsi anche nei Paesi nuovi arrivati; (c) i nuovi poteri reali sono tutti rivolti, diversamente dal passato, a proscrivere ed escludere piuttosto che a disciplinare e includere. In buona sostanza le conseguenze spaziali e sociali della dislocazione di poteri basati sullo spazio-tempo privatizzato della cyber-metropoli sono quelle di un sommovimento globale, con il formarsi di masse antimetropolitane del tutto corrispondenti alle forze anonime e inesorabili della globalizzazione. Ne risulta conclusivamente che la metropoli globale ambisce a mettere in una forma politica e economica una società di mercato planetaria senza avvalersi, anzi contrastando esplicitamente, l’azione governamentale dei poteri pubblici. 2. L’homo oeconomicus versus l’Impero Globalizzazione non solo è presupposto inconoscibile nella sua totalità che preesiste e predetermina l’agire degli individui e dei gruppi organizzati, ma anche scena 10 Luca Romano La metropoli globale e i luoghi biopolitici di poteri diffusi e dislocati, sempre più interrelati dal punto di vista comunicativo, e ispirati a criteri valoriali le cui eccedenze non sono tra di loro commensurabili. In un certo senso come la società competitiva di mercato ha enormemente accelerato e intensificato la limitazione della sfera d’influenza dei poteri pubblici, unificando tutti i punti del mondo in nodi di una rete globale, così sistemi di valore eterogenei con essa assolvono a nuovi percorsi di libertà – in cui l’immaginazione creatrice trascende l’autodeterminazione – resi possibili anche dal ritrarsi di suddetti poteri. Queste insorgenze originarie, nel senso di originanti, coesistono proprio nel far valere la propria differenziazione con il sistema della società globale di mercato popolando il mondo del simultaneo di nuove e imprevedibili distanze. Per Hardt – Negri (2002) vi è invece perfetta integrazione tra la società disciplinare – o anatomo – politica – che determina secondo schemi indotti una tecnologia del Sé – e la biopolitica, la forma governamentale di gruppi estesi di popolazione. Questa integrazione si fonda su un’interpretazione apodittica e intransigente del pensiero di Michel Foucault, perentoriamente espressa in Impero nel paragrafo significativamente intitolato “la macchina della sovranità”: “Foucault concettualizza questa transizione come un passaggio tra il paradigma della sovranità e quello della governamentalità, ove per sovranità egli intende la trascendenza di un singolo centro di potere che sovrasta la società e, per governamentalità, l’economia generale della disciplina che permea il sociale” (Hardt – Negri 2002, 95). Si accredita così questa sorta di armonia prestabilita tra l’anatomo – politica, società disciplinare che configura il potere di costruzione dell’individuo e biopolitica – la governamentalità che esercita i poteri/saperi nella costituzione del corpo sociale, della popolazione. In una strutturazione così dispotica dell’impersonalità del dominio – si ricordi: la macchina della sovranità – i due autori asseverano la corrispondenza reciproca, il perfetto coincidere dell’economia di mercato con la società disciplinare: “la società del controllo può quindi essere definita come una intensificazione e generalizzazione dei dispositivi normalizzatori della disciplina che agiscono all’interno delle nostre comuni pratiche quotidiane; a differenza della disciplina, però, questo controllo si estende ben oltre i luoghi strutturati delle istituzioni sociali, mediante una rete flessibile e fluttuante” (Hardt – Negri 2002, 39). Ne deriva che i dispositivi che presiedono alla globalizzazione dell’economia di mercato sovrastando le vecchie forme statuali della sovranità vengono concepiti come una modernizzazione elastica del dominio che, a dispetto dell’apparenza così flessibile, plurale e reticolare, non infirma minimamente la sua reductio ad unum. Le differenze non vengono negate a priori, ma assunte come presupposto di un lavoro finalizzato all’ibridazione e al loro sostanziale dissolvimento: “L’Impero non crea differenze. Prende quelle che ci sono e lavora con loro”, in sostanza attua le sue strategie con un “management dell’ibridazione” (Hardt – Negri 2002, 188 e 191). In buona sostanza la forma imperiale è la fluidificazione del dominio attraverso una logica unitaria, sistemica, che non solo ammette, ma addirittura incentiva meccanismi e strumenti diffusivi e decentralizzati come le reti che formano l’economia di mercato. La logica tendenziale che presiede allo sviluppo della metropoli globale è illimitata: si afferma infatti come “un processo istituzionale in cui lo sviluppo locale dipende dai movimenti di capitale, tanto quanto quest’ultimo dipende costitutivamente dal superamento dei limiti, sociali ed economici, dei luoghi dello spa- 11 n.13 / 2005 zio mondiale” (Marazzi 1998, 67). Possiamo dedurre che la biopolitica è la sublimazione postmoderna della macchina della sovranità, capace di assumere funzioni articolanti che sono eccellenti configurazioni di poteri che ibridano e dissolvono le differenze: ma il vero testo chiave a cui si rimanda d’obbligo consiste non tanto nel testo che Foucault dedica esplicitamente alla biopolitica, quanto ai passaggi molto rapsodici e veloci contenuti nella conferenza di Bahia del 1976, la cui pubblicazione, autorizzata nel 1981 s’intitola “le maglie del potere” (Foucault 1998, 155 – 71). In “Nascita della biopolitica”, il corso del 1979 (Foucault 2005), il filosofo francese non attua in modo consequenziale l’idea di fondo della conferenza di Bahia, ovvero la deduzione lineare della biopolitica dall’anatomo – politica. Questa presa di distanza è consapevole? Le modalità della proposta sono sorprendenti, perché di lezione in lezione è il cuore stesso del concetto di potere disciplinare che viene spiazzato e decostruito. Questa radicale riformulazione, oltre tutto, affianca una sorta di autocritica programmatica da parte dell’autore che ritiene di avere tradito l’annuncio originario di un corso sulla nascita della biopolitica, realizzandone invece una semplice “introduzione” che si rivela, a un’analisi attenta dei testi un’altra cosa. L’ammissione di deviazione, o di eccessiva dilatazione del prologo, infatti, fonda un concetto di biopolitica che non solo abbandona, ma addirittura critica esplicitamente, con una presa di distanza inequivocabile, proprio il modello panottico disciplinare che aveva segnato tutta la ricerca precedente. Dice Foucault: “all’orizzonte di un’analisi di questo genere ciò che emerge non è affatto l’ideale o il progetto di una società esaustivamente disciplinare, in cui la rete legale che rinserra e imprigiona gli individui, sarebbe sostituita e prolungata all’interno di meccanismi che potremmo chiamare normativi” (Foucault 2005, 214). Nel momento in cui viene esclusa l’esaustività del meccanismo del controllo, è avviato un nuovo percorso di definizione concettuale del potere, ma questa novità fondamentale non viene accolta da chi rimprovera a Foucault di non aver visto la liquidità postmoderna oltre l’ossessione panottico – disciplinante: “Molti anni fa Pierre Bourdieu colse dei mutamenti nel modo di mantenere la disciplina e di perseguire l’integrazione sociale: dal regolamento normativo alla seduzione, dalla politica alle pubbliche relazioni, dall’imposizione alla pubblicità…interpretai la questione dal punto di vista dell’abbandono delle tecniche di dominio panottiche, scartate non tanto per la loro esecrabilità morale quanto per i loro costi esorbitanti e soprattutto perché impedivano e limitavano la mobilità dei dominanti tanto quanto la libertà dei dominati” (Bauman 2002, 97). Ma quello che viene ancora rimproverato a Foucault trascura l’operazione di carattere più profondamente innovativo,ossia l’inserimento della differenza proprio nel cuore del potere sistemico – dialettico, aprendo i nessi di acciaio tra la società globale di mercato e le forme macchiniche della sovranità evocate in Impero. Il potere non si consegna a un meccanismo immanente panottico – disciplinare esaustivo, assoluto, a un ordine dittatoriale del discorso che non ammette dissidenze, ma vieppiù differenze. Tali sono, infatti, le diversità radicali delle ideologie neoliberali dopo la Guerra dal progetto moderno di stampo neokeynesiano. Il potere determinato dai campi di potenza di tali ideologie viene derubricato dalla visione sintetico – sostantiva che i maggiorenti del gruppo di Venezia in quegli stessi anni gli imputano. Proprio da questo gruppo, infat- 12 Luca Romano La metropoli globale e i luoghi biopolitici ti, si sostiene che la dispersione anarchica del Potere costituisce l’immediato rovesciamento della sua concezione idealistico – dialettica. E questa non può che fondarsi sul mito del Panopticon: l’idea del Potere come visione totale e globale (Cacciari 1977, 61-2). Poiché il “Corso” è di due anni successivo, non sappiamo se la critica del gruppo veneziano al suo “dispositivo” assolutizzante in qualche modo non abbia colto nel segno, obbligandolo a rivedere quel potente paradigma interpretativo. Ebbene, possiamo credibilmente ricondurre al modello biopolitico delle categorizzazioni del potere che portano a perfetta coincidenza lo spazio globale di mercato con i dispositivi della sovranità “macchinica” della politica? E questa levigata coincidenza di piani può davvero assolvere a compiti panottico – disciplinari che dall’individuale trascendono nel collettivo? Quello che è certo è che i diversi campi di strutturazione logica in cui si configura il concetto di biopolitica – l’introduzione alla sua “nascita” come obbliga la prudenza filologica – allarga e trasforma qualitativamente le maglie del potere, fino a ridefinirne essenzialmente forme, pratiche e rituali discorsivi. Questa discontinuità nel percorso foucaultiano ci lascia orfani di una definizione analitico – disciplinare compatta del complesso di poteri/saperi che compongono la biopolitica, ma, allo stesso tempo, prima dell’avvento della globalizzazione mostra la varietà e ricchezza di differenze tra dispositivi di mercato, contesti sociali e forme della sovranità istituzionalizzata. Questa posizione è straordinariamente feconda perché consente una lettura dei processi di globalizzazione che non ammette le visioni sintetiche derivate dal Politico, o dal suo sostituto, il Mercato. Anzi, nella globalizzazione la coesistenza di percorsi anche fortemente contraddittori tra di loro sviluppa processi di ritiro del Politico con la simmetrica affermazione di formazioni sociali di mercato anche in aree del pianeta che ne erano totalmente estranee, ma, allo stesso tempo libera energie sociali che si organizzano senza gerarchie a prescindere e oltre il Politico. L’incompatibilità strutturale tra la società mondiale di mercato e l’allargamento tecnico della sovranità politica rimanda al concetto di “mano invisibile” e al nuovo homo oeconomicus che essa fonda: “Risulta collocato in quello che si potrebbe chiamare un campo d’immanenza definito che lo lega, da un lato, nella forma di una dipendenza, a tutta una serie di accidenti, e dall’altro lo connette, nella forma della produzione, al profitto degli altri, o collega il suo profitto alla produzione degli altri” (Foucault 2005, 227). E continua: “la razionalità economica risulta non solo circondata da, ma addirittura fondata sull’inconoscibilità della totalità del processo” (Foucault 2005, 231). Ne viene che l’atomismo dell’ homo oeconomicus si insedia proprio all’interno del processo economico e costituendo un punto nella rete globale, cieco all’interesse collettivo, fa deflagrare il principio statuale classico di potere politico: “la mano invisibile stabilisce come principio…che non può esserci un sovrano nel senso fisiocratico del termine” (Foucault 2005, 235). La strategia di divaricare così platealmente e in modo rigoroso il processo spontaneo dell’atomismo economico dalla costituzione originaria della sovranità del potere politico apre lo scenario della libertà e di quella che successivamente verrà definita la società postfordista: “Credo che sia proprio questa demoltiplicazione della forma “Impresa” all’interno del corpo sociale a costituire la posta in gioco della politica neoliberale. Si tratta di fare del mercato, della concorrenza e dunque, dell’impresa, quella che si potrebbe chiamare la potenza che dà 13 n.13 / 2005 forma alla società” (Foucault 2005, 131), per ottenere “una società orientata non verso il mercato e l’uniformità della merce, ma verso la molteplicità e la differenziazione delle imprese” (Foucault 2005, 132). Nella costruzione dei nuovi campi di forza della società liberal di mercato le ideologie neoliberali non si vogliono richiamare al principio della coincidenza tra interesse privato e diritto formale che sosteneva l’azione regolativi della vecchia forma di Stato. Anzi, la dissociazione tra le dinamiche disgregative dell’individualismo economico e quelle integrative della comunità sociale acquistano una posizione centrale nella nuova genda delle politiche di coesione: “il ritorno all’impresa rappresenta, dunque, una politica economica o una politica di estensione dell’economia all’intero campo sociale, ma al tempo stesso anche una politica che si presenta, o si vuole, come una Vitalpolitik che avrà la funzione di compensare quanto c’è di freddo, di impassibile, di calcolatore, di razionale, di meccanico nel gioco della concorrenza propriamente economica” (Foucault 2005, 197). Ripercorrendo il concetto di società civile teorizzato da Ferguson Foucault costruisce una sorta di nuovo spazio di articolazione tra la dialettica nuda e cruda che oppone i meccanismi “liberogeni” messi in atto dall’iniziativa diffusa dell’homo oeconomicus e le reazioni, uguali e contrarie, dei meccanismi disciplinari approntati dai dispositivi normativi. In questo nuovo spazio il legame tra i singoli homines oeconomici non si riduce al semplice interesse calcolatorio, al crudo egoismo appropriativi, ma accoglie anche gli affetti e le forme disinteressate di legame sociale. Questa ricchezza conflittuale di componenti del legame, la sua tensione immanente tra spinte disgregative e reintegrative, rende possibile uno sviluppo di relazioni per linee orizzontali che libera la società civile dal problema del pactum unionis derivato, come nello schema classico, da quello subiectionis allo Stato: “Queste differenze spontanee provocheranno immediatamente dei fenomeni di divisione del lavoro, non solo all’interno del processo di produzione, ma anche all’interno del processo con cui le decisioni collettive sono prese dal gruppo” (Foucault 2005, 249). Ne deriva, conclusivamente, che il legame socio – economico assume la pluralità dei luoghi di identificazione comunitaria, come nuova potenza capace, con il suo libero sviluppo, di limitare e regolare il ruolo del Politico tradizionale: “in che modo si potrà esercitare la razionalità di un sovrano che pretende di dire “io”, quando si tratta di problemi come quelli del mercato o, più in generale, come i processi economici, in cui la razionalità non solo fa perfettamente a meno di una forma unitaria, ma esclude inoltre in modo assoluto sia la forma unitaria sia lo sguardo che la sovrasta?” (Foucault 2005, 257). La formulazione della transizione dal modello anatomo – politico a quello biopolitico evidenzia delle grandi aperture, che comunque revocano una qualsiasi definizione unitaria che rimandi a un potere sovra – ordinato o a dispositivi plurali e immanenti al corpo sociale che si configurino comunque, in ultima istanza, nella forma del dominio. Nella partita aperta tra metropoli globale e sovranità politica l’aspetto decisivo da considerare è se il prevalere della prima consista nell’assunzione – sotto un’altra specie di linguaggio – della stessa forma, con contenuti e obiettivi volti al dominio – non importa se disciplinare o governamentale – dell’individuo e delle popolazioni – della stessa forma, con procedure e tecniche culturali profondamente similari a quelle delle dottrine sovrane. 14 Luca Romano La metropoli globale e i luoghi biopolitici Il percorso alternativo ci indica, invece, un’ipotesi diversa, per la quale la metropoli globale scompone le strutture della sovranità politica, ne metabolizza le componenti e le riprogetta radicalmente senza ricordare e ripristinare i fini originari. Il cuore di questa operazione consiste proprio nell’idea di unità della compagine di comando che la dottrina della sovranità politica considera proprio principio inconcusso. Dopo le significative aperture di Foucault a un modello decisamente plurale e articolato si possono verificare tre linee critiche del concetto classico di sovranità e dell’idea che la metropoli globale ne sia una continuistica riproposizione. La prima è riconducibile al pensiero sulla guerra contemporanea e al mutamento radicale che essa vive proprio in rapporto alla globalizzazione economica. Questo mutamento attacca alla radice proprio la concezione classica della guerra intesa come impossessamento con mezzi violenti, di un territorio, finalizzato all’esercizio di un imperio e con esso di una diversa autorità e leggi, ma senza intaccare le regole di diritto internazionale e l’autonomia sovrana dello Stato nemico. Quel che avviene in totale discontinuità con il passato è che la definizione del perimetro sovrano e territoriale contro cui si fa la guerra ha perso la sua consistenza ontologica: “Con la globalizzazione lo stesso concetto di ‘civiltà’ viene compromesso, così come cambia di significato il concetto di politica. Entrambi i termini si rifanno a una radice unica: città; vale a dire l’unità sociale definita da un territorio, da un’autorità e da una legge. Il concetto di civiltà s’intreccia con quello dei confini e dei limiti territoriali o d’imperio…Oggi i confini rigidi e impenetrabili non esistono più e la civiltà (in senso etimologico) viene superata” (Mini 2003, 108). Ne viene che la metropoli globale, con il suo potenziale di energia sradicante, ridisegna il tema dell’insediamento politico - civile in termini del tutto incompatibili con le epoche delle civiltà precedenti. In modalità teoriche molto vicine a quelle appena esposte vi è l’indebolimento della sovranità politica dovuta al cambiamento radicale della figura del Nemico che Carl Schmitt aveva posto a suo fondamento ne il concetto di Politico. Il celebre giurista tedesco tratta analiticamente questo indebolimento e questo cambiamento nella “teoria del partigiano” del 1962 (Schmitt 2005). Il partigiano, infatti, è soggetto di inimicizia assoluta e, come tale, eccede ogni formulazione e pratica di diritto internazionale che intervenga a disciplinare la guerra con regole reciprocamente riconosciute (Schmitt 2005, 73). Con i partigiani si afferma una sorta di guerra civile mondiale, di natura sostanzialmente extrastatuale e, quindi, irregolare, per definizione priva di schemi regolativi del diritto internazionale e della contrapposizione canonica di eserciti regolari. Pur senza riferimenti così anticipati al termine di “globalizzazione” questa teoria analizza la portata rivoluzionaria dei nuovi ordinamenti dello spazio necessari per affrontare la crisi prodotta dagli sconvolgimenti della seconda guerra mondiale. La diagnosi della nuova condizione deve affrontare il problema che solo in un mondo ordinato da distinti poteri statuali e regolari la figura del Nemico è determinata con univocità e precisione (Schmitt 2005, 120 – 1). Tale figura di ‘vero nemico’ è pertanto da sconfiggere, non da annientare, per ricacciarla nei suoi “giusti” confini, ma certo non è il Nemico assoluto o, come si usa dire oggi, “un nemico dell’umanità in generale” (Schmitt 2005, 129). In un crescendo argomentativo vertiginoso, che riesce a tenere insieme il pathos con una logica di stringente efficacia, la Teoria mostra che il concreto affermarsi del Nemico assoluto, l’inimicizia asso- 15 n.13 / 2005 luta come impeto all’annientamento a servizio dei “veri valori”, coincide con l’oltrepassamento radicale e l’abbandono dell’orizzonte del Politico: “solo la sconfessione della vera inimicizia spiana la strada all’opera di annientamento di una inimicizia assoluta” (Schmitt 2005, 131). La guerra fondata sull’inimicizia assoluta, l’annientamento, non è più un continuum con la politica secondo l’adagio di von Clausewitz, e ne deriva che la trasformazione del concetto di nemico comporta inevitabilmente anche l’eclisse del concetto di sovranità del Politico. Il pensiero di Schmitt, reso di formidabile precorrimento dagli eventi attuali, circoscrive la natura irregolare del partigiano attraverso il richiamo patriottico alla liberazione dall’occupazione e legittima attraverso l’alleanza con il “terzo interessato” la sua opera eversiva, può essere trasferito come chiave per comprendere l’azione del terrorista suicida. Proprio ispirandosi alla teoria schmittiana, Robert Pape (Pape 2005), ha basato su dati empiricamente rilevabili che i terroristi kamikaze agiscono sulla base di una logica intenzionale e secolare, in nome di una vera e propria lotta di liberazione di una patria ritenuta ingiustamente occupata. Il fatto che si debba dare la morte per aumentare il danno e per la sproporzione asimmetrica dei mezzi a disposizione rispetto all’occupante, non infirma il fatto che il terrorista suicida si può configurare come il partigiano in epoca di globalizzazione. Il suo scopo è indebolire una potenza occupante e la sua ambizione di dettare i modi di ricostruzione della società con una guerra che comunque si ritiene di liberazione e derivante da un sentimento di inimicizia assoluta. In questo modo si prendono le distanze dal pensiero illuminato alla Alain Touraine che, dopo gli attentati di Londra (luglio 2005) ha ribadito che il terrorismo è il contrario della guerra, in quanto non avviene in nome di uno Stato e dimostra con il suicidio la volontà di sottrarsi a un destino di schiavitù. Lo studio di Pape rappresenta la conferma che dall’inimicizia assoluta deriva una tipologia di guerra di “liberazione” e di annientamento che risulta prendere atto dell’indebolimento della sovranità politica e dell’affermarsi delle forze della globalizzazione. In questa linea di tendenza si ritrova anche la messa in discussione del postulato della letteratura manageriale secondo cui il dominio sia l’elemento fondativo dell’organizzazione in quanto tale, e che organizzazione si dia solo e comunque lì dove sia operativo un dispositivo di dominio, con attori legittimati a gestirlo secondo procedure formali e informali deputate all’attuazione, al controllo e alla repressione. In un formidabile testo di letteratura manageriale, Images, (Morgan 2002) viene argomentato con un’efficacia tanto più incisiva in quanto proveniente dall’interno della disciplina, quanto il dominio sia un campo metaforico equiparabile a tutti gli altri, e che esistono organizzazioni che funzionano benissimo anche senza fare ricorso ad architetture gerarchiche cogenti. Questo aspetto conferma come l’idea di postulare un principio di sovranità che è sovraordinato alla pluralità di organismi e di reti operanti nei sistemi sociali ed economici che popolano il mondo non corrisponde più a un soddisfacente modello di comprensione della nostra epoca. 3. Il territorio civile europeo I processi fondamentali che alimentano l’attuazione delle ambizioni della metropoli globale, come abbiamo visto, si possono schematicamente così riassumere: - la trasformazione compiuta dell’economia come scienza delle scelte praticabili 16 Luca Romano La metropoli globale e i luoghi biopolitici secondo fini alternativi dalla quale deriva che le competenze di lavoro sono scarse ai livelli di prestazioni di eccellenza; come tali la metropoli assurge a grande attrattore di competenze professionali innovative e creative, favorendo anche la costruzione di milieu adeguati a lavoratori della sensibilità e della conoscenza; - l’affrancamento dai poteri pubblici avviene anche in virtù di una crescita dell’organizzazione basata su saperi autoprodotti di direzione e controllo. L’alleanza tra l’economia della conoscenza e le pratiche di auto – organizzazione sociale comporta la diffusione, sostitutiva, di sistemi basati sull’intelligenza e sulla relazionalità di tipo orizzontale che contrastano criteri gerarchici di gestione amministrativa delle organizzazioni; - attraverso le grandi migrazioni si selezionano gli imprenditori di se stessi che approdano alle grandi strutture metropolitane abbandonando i territori di origine con un capitale personale (professionale e formativo) il cui costo sociale per il Paese di accoglienza è praticamente nullo; - le relazioni sociali della metropoli sono finalizzate alla doppia strategia di privatizzazione del welfare per le fasce alte di reddito e all’esternalizzazione dei costi per tutte le forme di lavoro in regime di contrattazione individuale o di imprenditorializzazione di se stessi con regimi a termine; - il perfezionamento delle tecnologie della connettività per tendere al “tempo – zero” nelle relazioni spaziali, cercando di annientare con la simultaneità degli accessi tutte le economie basate sulla distanza spaziale; - le agorà invisibili del “tempo – zero” sono organizzate secondo un’intenzione immanente di decretazione selettiva degli accessi e, quindi, di sostanziale privatizzazione del cyber spazio; - i messaggi culturali della video – connettività aggrediscono, come aveva visto lucidamente Richard Sennett, i nuclei di intima consistenza autogenerata delle comunità territoriali. Ne viene, pertanto, che le dinamiche di centralizzazione postmoderna che presiedono alla nuova metropoli globale, quella che sostituisce il principio – massa con il principio – potenza non sono le uniche a tentare di ordinare e dominare i rapporti sociali. La metropoli non riorganizza globalmente le funzioni; come abbiamo visto per i nuovi poveri, sono immensi i territori che sfuggono alla sua volontà di ordine globale. L’adozione di schemi reticolari in luogo di quelli disciplinari ha indebolito a tal punto la sovranità politica centralizzata che il suo esercizio appare generatore di disordine e di angoscia, mentre, d’altro canto, si offrono opportunità inattese, nelle maglie larghe di questo caotico riorganizzarsi della globalizzazione, alle forme locali di ri – radicamento. Le più potenti di tali forme sono quelle che si affidano a una sorta di progetto “assoluto”. Qui “assoluto” sta per slegato dalle memorie tradizionali del radicamento, e sta per fortemente autodisciplinato, in modalità di autocontrollo finalizzato alla realizzazione di un destino. Si stringono relazioni, si condividono significati, si inventano identità e si valorizza un luogo creando ex novo capitale sociale. Il progetto assoluto si annoda al destino di un luogo. La novità epocale è che il radicamento destinale o progettato non deriva più da un presunto nomos della terra, ma da una volontà comune di affermare il luogo attraverso il suo capitale sociale in divenire. Paradossalmente la libertà postmoderna si alimenta più nel deserto del senso connesso al ritiro dei poteri panotti- 17 n.13 / 2005 co – disciplinari che della lotta esplicita contro di essi. E’ possibile intravedere in nuce l’importanza della lezione di Michel Foucault sullo smarcamento della società civile dalla dipendenza storica e logica dalla sovranità politica. Nell’epoca della globalizzazione l’allargamento delle sfere di mercato, la facilità della mobilità e delle comunicazioni e l’accorciamento, in virtù dell’economia dei servizi, della distanza tra i bisogni e le produzioni, permette una varietà di percorsi volti alle costruzioni localizzate di società. Queste dipendono sempre meno dall’azione programmatoria di pubblici poteri e sempre di più dalla congiunzione di progetti socio – culturali con la definizione di protocolli condivisi di sviluppo locale. Vi è una particolare conformazione del rapporto tra lo spazio e formazioni sociali così specifiche nella ricerca identitaria e nella personalizzazione delle forme di localizzazione. Questo spazio è la città diffusa europea, soprattutto nella sua configurazione di spazio post - metropolitano che si sviluppa in forte autonomia creativa rispetto alle metropoli: “La parte più estesa della città diffusa europea non nasce attorno alle grandi città come loro lontana ed estrema periferia, non ha alle proprie spalle un processo di suburbanizzazione…Essa è piuttosto l’esito di un autonomo processo di esodo dalla città e di densificazione della campagna che trova le proprie origini e radici nel mutamento degli stili di vita di gran parte della popolazione rurale e urbana” (Secchi 2005, 167). E’ uno spazio che cresce sulla base di grandi energie creative, pur rimanendo storicamente debitore dei più riusciti esperimenti epocali di protezione sociale, che si evidenziano nelle strutture diffuse e altamente partecipate di welfare collettivo. E’ uno spazio in cui la forma dello sviluppo economico non lacera le pre –esistenze comunitarie ma le reiventa dentro circuiti molto vitali di capitalismo territoriale e personale. La storia ha inoltre fornito un’ingente dotazione di capitale fisso sociale che ha trovato felici convergenze tra i profili di istituzioni locali e le azioni di un rigoglioso associazionismo informale. Per quanto immaginifica non è peregrina la visione di Paul Virilio secondo cui stiamo assistendo alla fase aurorale di un ciclo esodale, che corrisponde anche alla risposta di smarcamento della società civile europea rispetto alle strategie di compattamento metropolitano del capitalismo finanziario globale, con la simmetrica crescita esponenziale di strategie di metroterrorismo anch’esse pensate su scala globale. Risulta a questo punto del tutto pertinente il percorso di ricerca di USE sulla città diffusa europea, di grande interesse sia perché focalizza le autonomie differenziali, sia perchè le traduce in immagini di territori che sono società dense localizzate e delimitabili (Boeri 2003). Inoltre a differenza della città infinita questo territorio del locale non occulta il suo presupposto inespresso, la Milano “nodo globale”, ma valorizza le forme localizzate di nuovo radicamento, di nuovo capitale sociale, identità ecc… Democrazia e sviluppo hanno generato diffuse territorialità differenti che sono irriducibili sia alla potenza inglobante - dissolvente dell’Impero sia al suo Altro ontologico, la Moltitudine: “L’auto – organizzazione, all’interno del dispositivo spaziale europeo, agisce come un sistema di relazione tra la società, lo spazio fisico e un insieme di regole e vincoli (…). Auto – organizzazione significa soprattutto che le trasformazioni dello spazio europeo sono prevalentemente l’esito di politiche gestite dai loro utenti. Politiche in parte auto – referenziali, “permea- 18 Luca Romano La metropoli globale e i luoghi biopolitici bili”, ma raramente eterodirette” (Boeri 2003, 21). Questo approccio tendente a valorizzare le differenze di culture dei territori implica la “convinzione che l’Europa costituisca oggi un modello interessante di concertazione tra una molteplicità di micro – poteri, una sorta di “trattativa immanente” che privilegia le relazioni di tipo “orizzontale” (spesso conflittuali e bellicose), poliarchiche, rispetto a un modello “verticale” e dirigistico” (Boeri 2003, 21). Queste micro – realtà differenziali sono soggetti produttivi di politiche di interesse pubblico, anche inconsapevolmente: “I pescatori cosmopoliti di Mazara del Vallo, i cinesi di Parigi, i commercianti di San Marino e di Belgrado, le famiglie di ex minatori del Tyneside, costituiscono un esempio di popolazioni locali che hanno elaborato politiche territoriali senza l’intervento dell’operatore pubblico. E’ interessante notare che a volte, addirittura, alcune di queste politiche “dal basso” raggiungono risultati di rilievo dal punto di vista del bene collettivo pur in assenza di politiche pubbliche esplicite” (Boeri 2003, 21). I luoghi dotati di autonoma densità sociale dunque resistono, si progettano e innovano con autonome facoltà identitarie, organizzative, culturali. Il Nordest italiano, privo di un suo centro – massa metropolitano, costituisce un modello nella pubblicistica e nell’immaginario internazionale, della costruibilità di un territorio “retiforme” che tuttavia non dissolve i mosaici delle comunità locali. Non è solo nominalistica la battaglia che si combatte nel voler definire - o meno – questo territorio come una metropoli di potenza in fieri, basata sull’elasticità delle reti, l’alternanza continua di densità, l’autonomia di forme urbane che si candidano a nodi di specializzazione e di potenziale integrazione reciproca. Questa opportunità, non ancora esaurientemente colta, di sostituire in modo radicale l’organismo metropolitano basato sul principio – massa con quello di potenza si basa su tre elementi strategici. Il primo è la reale consistenza dei luoghi, il loro valore costitutivo e la coesione che deriva dall’identità come memoria condivisa e come progetto locale (Magnaghi 2000 e Becattini 2004). Il programma che si propone consiste nel riuscire a considerare, con un’apposita battaglia culturale, i luoghi come gli autori reali dei flussi e non, come viceversa sta accadendo, i flussi come generatori concettuali dei luoghi (Becattini 2004, 220). Un filone di ricerca che sta offrendo risultati sorprendenti è quello che rivela come i flussi globali non siano altro che economie perfettamente localizzate che si innestano con maestria in circuiti globali occultando, anche per ragioni pubblicitarie, la propria radice locale. Lo spazio reale e concettuale che sta tra i luoghi e i flussi è molto stratificato e fornisce molti argomenti per mostrare come gli strati più retiformi siano in realtà quelli maggiormente debitori di economie di localizzazione che raggiungono insospettabili livelli di competitività. Inoltre, questi sistemi localizzati che aderiscono ai flussi della globalizzazione con delle proprie azioni strategiche sono anche quelli maggiormente attrezzati per costruire relazioni orizzontali con sistemi che hanno una configurazione dimensionale similare. Lo spazio territoriale in cui si situano queste formazioni sociali è caratterizzato dalla crescita di interdipendenze tra mutue differenze senza una di queste che assuma, in modo generalista, il ruolo di dominanza. La condizione di base per un simile percorso evolutivo consiste nella facoltà del territorio di saper produrre istituzioni, saperi e forme economiche che abbiano un’autonoma forza rispetto all’affermarsi delle forze anonime della globalizzazione. Questo punto è espresso molto chiaramente da 19 n.13 / 2005 Becattini proprio in un discorso critico nei confronti di Amin e Thrift: “In ogni caso le località di Amin non hanno una loro individualità, personalità o integrità, neppure quando conservano lo stesso nome nel tempo, perché le forze che le trasformano sono quasi interamente fuori di esse. Perché ‘quasi’ interamente? Perché l’incrocio e la fissazione dei flussi in una certa area dipende anche dalle istituzioni dell’area stessa. Un’area ricca di istituzioni che agiscano di concerto può deviare, attrarre e trattenere i flussi, superando così la sua costitutiva precarietà. La storia di un luogo agirebbe così sul suo presente attraverso il suo lascito di istituzioni. Se sono fitte e congruenti su di un disegno funzionale all’area ne garantiscono la conservazione e lo sviluppo” (Boeri 2003, 221). In questa visione la capacità di vedere in termini di dinamica di campi di forze il rapporto tra globalizzazione e territorio appare più convincente di una fiducia, forse sovradimensionata, delle autonome virtù del luogo contro quelle del flusso. Il secondo è l’accessibilità come problema di struttura del territorio, la coesistenza di infrastrutture capillari che portano i soggetti dell’abitare ai servizi di scala e qualità metropolitana. Ne viene che le popolazioni itineranti sono inestricabilmente correlate al diffuso, anche se la specializzazione per segmenti di aspettative prevale sull’effetto – massa. Nella città diffusa europea la mobilità e l’accessibilità sono un valore aggiunto che si specifica sia come territorio ricco di opportunità e di servizi, sia come sistema a maggiore flessibilità e competitività. Non vi è più un’opposizione “funzionale” tra la logica insediativo - stanziale e il nomadismo molecolare che caratterizza la vita quotidiana di milioni di persone. La mobilità anzi è un vettore che aumenta la densità sociale del territorio senza dover per forza ricorrere ai servizi della metropoli. Questa nuova figura “mobilista” non viene vista dalle concezioni classiche della polis e, quando viene scorta viene quasi denegata per la minaccia che infligge ai modelli rigidamente localizzati della democrazia nella polis. Ma apriamo anche questa nuova porta problematica. Nella città diffusa la mobilità è una delle condizioni di libertà (di scelta, di opportunità, di bisogno e di soddisfazione del bisogno). Per usare una formula è una risposta al carattere intrinsecamente contraddittorio tra l’istanza urbana dell’accoglienza e l’istanza mercantile e strumentale che attraversa la città fin dai suo primordi. Nella città diffusa europea il principio di accoglienza si miniaturizza e quello strumentale di spalma nel territorio postmetropolitano ridimensionando il proprio impatto distruttivo di socialità. Dal punto di vista democratico il vulnus che si infligge al principio di legittimità locale del suffragio si può affrontare in diversi modi, in particolare con la “regionalizzazione” della rappresentanza delle istanze territoriali oppure con la costruzione di inedite formule di rappresentanza nelle reti o di relazione tra una “microfisica” dei movimenti e associazioni temporanee di rappresentanza. Il terzo è la dotazione di pensiero strategico nei nodi, la capacità di un’evoluzione che li specializzi mantenendo vitali circuiti di connessione con i sistemi diffusi dello sviluppo locale. Per tutto quello che è stato precedentemente detto la vera strategia di nodo nello spazio della città diffusa europea è quello tra forme del capitalismo territoriale e sistemi più personali di welfare, peraltro inestricabilmente legati a un sistema radicale di federalismo fiscale. Un territorio denso dal punto di vista delle localizzazioni economiche e dei sistemi di welfare deve confidare fino in fondo sulla centralità istituzionale della persona come costruttore di socialità, nelle reti economiche come in quelle sociali. 20 Luca Romano La metropoli globale e i luoghi biopolitici La potenza attiva e relazionale di questi tre elementi costituisce la piattaforma di una metropoli “multicellulare”, vitale nello sviluppo dei nodi, capace di competere con le metropoli globali in virtù di un’originale dotazione di saperi contestuali, di impareggiabili risorse per la qualità della vita e il funzionamento del welfare nei congegni di “riciclaggio” che consentono di contrastare l’esclusione paventata da Bauman. La chiave di volta di questa democrazia dello sviluppo diffuso è che i luoghi non costruiscono valore derivato dalle leggi inesorabili dell’economia fissate dalla metropoli globale, ma ne aggiungono con le virtù localizzate di produrre capitale collettivo: nelle interazioni tra le imprese, nei sistemi di “scambio differito” su cui si basa il doppio movimento di capitali (delocalizzazioni) e di persone (migranti) che caratterizza il rapporto con la nuova Europa postcomunista, nelle relazioni orizzontali che creano diritti in atto senza rimandare a un improbabile garante sovraordinato come lo Stato. Un ulteriore ingrediente di questa metropoli multicellulare risiede nel potenziale di coalizione “anseatica” delle “insule urbane” che rompono la bassa densità del diffuso. Non vi è storicamente una configurazione credibile di forti specializzazioni distintive e alleanze per integrarsi, ma una dinamica di questo genere, forse per la prima volta, si affaccia al Veneto “metropolitano”7. L’originalità distintiva di questa formazione territoriale si estende nel contrastare anche altri classici luoghi retorici della postmodernità. Vi può essere una cronicizzazione della perifericità territoriale, ma questo non è certo un destino, ma il risultato dell’assenza di una volontà: il territorio delle reti, infatti, consente la costruzione di nuove centralità a ciclo di vita determinato, e nulla e nessuno garantisce che chi riveste funzioni centrali di potenza lo farà in eterno o a dispetto di qualsivoglia progettazione strategica proattiva delle periferie. Allo stesso modo vi è il luogo comune di una incompatibilità strutturale tra perifericità localizzativa e “ascesa delle classi creative” secondo l’adagio del fortunato libro di Richard Florida (2003) che però non si rivela un mentore delle metropoli, ma un fautore del meticciaggio e della mobilità come libertà fondamentale della società attuale. Creatività e territorio, invece, si corrispondono in misura che questo accoglie la “vibratilità dei margini”, lo “sfrido” delle faglie sociali di strutture stabilizzate dal centro e, quindi, inevitabilmente sclerotizzate. Le metropoli globali, infine, aspirano a costituire un assetto oligopolistico del cyberspazio, ovvero quella formazione genetica di interazioni spazio – temporali che connettono le relazioni planetarie: abbiamo visto le peculiari leve di questa strategia: le agorà invisibili, la metacittà, la “governance eterotopica” dei luoghi fisici. E’ immanente a questo processo una concezione del linguaggio come “etere universale” in grado di scomporre con la sua ars combinatoria ogni biopolitica del territorio. Ma questa, come ci insegna Andrea Zanzotto, rinasce dall’impasto affettivo che ci lega al paesaggio, alle parole e alle cose. E ci restituisce, sempre di nuovo, il senso di una comunità a venire. 7 Le autostrade, le fiere, le multiutilities dei servizi a rete, gli interporti sono gli attori di questa dinamica di specializzazione e integrazione. Lo dovrebbe essere anche l’Università: ma lo è, o almeno, aspira ad esserlo? Riferimenti bibliografici THRIFT, Nigel e AMIN, Ash (2005), Città. Ripensare la dimensione urbana, Il Mulino, Bologna 21 n.13 / 2005 ARBASINO, Arbasino (2000), Le Muse a Los Angeles, Adelphi, Milano BARABASI, Albert Laszlo (2004), Link. La scienza delle reti, Einaudi, Torino BAUMAN, Zygmunt (2002), Società Etica Politica, Cortina, Milano BAUMAN, Zygmunt (2005), Vite di scarto, Laterza, Bari BECATTINI, Giacomo (2004), Per un capitalismo dal volto umano, Bollati Boringhieri, Torino BOERI, Stefano (2003), Multiplicity. 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Per questa ragione, i risultati, maturati entro gli assi strategici del Programma Leader+, possono essere utili anche nell’implementazione di altre politiche territoriali. Il nostro lavoro ha interessato soprattutto gli amministratori locali a livello comunale. La ragione di questa scelta è che, per varie ragioni, questi attori costituiscono l’elemento problematico delle politiche di sviluppo locale. Legati al proprio territorio, per ragioni di rappresentanza, di razionalità politica, di accountability nei confronti dei loro cittadini-elettori, di identità culturale e territoriale, le loro strategie spesso divergono da quelle di altri attori “senza confini” e per certi aspetti a-territoriali o potenzialmente de-territorializzabili (come gli attori economici) o degli attori della governance multilivello. Tra logica della rappresentanza politica locale e logica della mobilitazione per lo sviluppo esiste un’area problematica per la costruzione e l’implementazione delle politiche territoriali (la competizione tra comuni per le risorse disponibili e per il consenso politico, il riferimento al breve periodo dei cicli elettorali, l’appartenenza e l’identità politico-culturale di lungo periodo e il ruolo delle élite locali, a fronte di esigenze di cooperazione transcalare, interorganizzativa e interistituzionale su programmi di medio periodo). D’altronde, le risorse degli amministratori locali (di consenso, d’autorità, di gatekeeping) sono essenziali per la qualità dello sviluppo e per l’efficacia delle politiche locali. La loro posizione e la loro razionalità (politica), a differenza spesso degli attori economici, li incentiva a giustificare le scelte secondo una prospettiva comprensiva o integrata piuttosto che settoriale, e quindi a costruire, nell’interazione con gli attori settoriali, forme di messa in coerenza di istanze multiple. Capire quindi le posizioni, le immagini dello sviluppo, i modi di concepire le relazioni tra amministrazione locale ed altre istituzioni, per cercare, 25 n.13 / 2005 eventualmente, di modificare tali percezioni in un senso collettivamente conveniente, costituisce il senso del lavoro. 1 La ricerca è stata condotta nell’ambito di una convenzione stipulata tra il Dipartimento di pianificazione dell’Università IUAV ed il Consorzio di Sviluppo del Polesine 2 Questa fase è stata realizzata soprattutto dai ricercatori del Consvipo. L’attività1, condotta in parte congiuntamente dai ricercatori universitari, in parte direttamente dai ricercatori del Consorzio di Sviluppo del Polesine sulla base di strategie e formazione specifica, si è articolata in una serie di incontri con tutti i sindaci, spesso coadiuvati da alcuni assessori. Questi incontri (strutturati in un incontro preliminare ed in un incontro di discussione ed approfondimento), assieme all’analisi di altre fonti (informazioni statistiche, interpretazioni del contesto di varia provenienza, politiche per l’area), hanno prodotto un’insieme di giudizi e valutazioni, definito a livello di singolo comune, rappresentato da alcune schede interpretative (l’utilizzo di tecniche del tipo swot analysis, nella sua radicale semplificazione e riduzione di complessità delle questioni, è stata certamente utile e, nella sua schematicità, ha semplificato l’interazione, sia tra gli “esperti” e gli attori politici, istituzionali e sociali, che tra gli attori “della politica” e quelli della “società civile”. Si noti che l’uso della swot, nel nostro lavoro, è elemento formale e comunicativo, non solo e non tanto interpretativo; in effetti, le (più o meno canoniche) rappresentazioni swot, nelle nostre rappresentazioni, sono sempre associate ad un’interpretazione narrativa del contesto e dei suoi possibili scenari evolutivi, fondata su una pluralità di fonti). Questo prodotto (l’interpretazione in primo luogo, come esito dell’ascolto degli attori locali e della congiunzione dell’ascolto con altre fonti, e le rappresentazioni schematiche sotto forma di analisi swot) è stato infine discusso pubblicamente, comune per comune, alla presenza degli amministratori locali e di molti altri soggetti (rappresentanti di associazioni economiche e sociali, del terzo settore, delle istituzioni del welfare locale, politici, imprenditori, abitanti, ecc.; gli intervenuti, nell’area target, sono stati ben 985, su 4.950 invitati)2. Alla fine, è stato prodotto un rapporto conclusivo, che è presentato e discusso in una assemblea pubblica finale. Il lavoro è quindi un’articolazione di eventi (in misura modesta progettati fin dall’inizio, ma in massima parte non intesi nella fase iniziale e considerati e messi in atto sulla base delle riflessioni sui quadri cognitivi emergenti, sia dal lato degli “esperti”, che da quelli degli attori politici e degli innumerevoli soggetti locali). Questi eventi sono in parte di “ascolto attivo” degli attori locali, mediato dalla considerazione di conoscenze sedimentate in testi e documenti (piani, progetti, politiche, resoconti, ecc.) che possono essere considerate, criticamente, come conoscenza di sfondo, almeno nel senso minimo di un’informazione disponibile agli attori locali; sono in larga misura di deliberazione pubblica, in varie forme e modalità. Rispetto a questi eventi, abbiamo svolto ruoli diversi: di progettazione e regia dei processi, di interpreti e “negoziatori” di quadri interpretativi e simbolici, di formatori di operatori di politiche territoriali rivolto agli operatori del Consorzio di Sviluppo (con particolare riferimento alle questioni di progettazione ed implementazione delle politiche). L’approccio dei “progetti di territorio” come chiave interpretativa dei processi di governance e come sfondo per il policy design Un progetto di territorio indica la coniugazione di interpretazioni, visioni, immagini, obiettivi, saper-fare collettivi che permettono di focalizzare l’attenzione 26 Luciano Vettoretto Progetti di territorio e governance locale intorno ad un’ambizione comune, di resistere alle forze esogene o centrifughe, di mediare i conflitti di interesse, di porre l’azione individuale (o organizzativa) in una prospettiva di medio-lungo periodo come affermazione di una prospettiva negoziata e condivisa. Per queste ragioni, il progetto non si configura come un modello d’ordine anticipato (così avviene nelle policy sciences di ispirazione neo-positivista e nelle prospettive dell’ingegneria del problem-solving). La nozione di progetto indica piuttosto il consolidarsi, per via di interazione nel tempo e per molte vie, in forme evolutive ed adattive, di idee, esperienze, opportunità, possibilità, esiti e loro valutazione, in un quadro istituzionale che è, in una certa misura, mutevole anche per gli effetti di questi processi. Queste dinamiche (per le quali potrebbero essere richiamati modelli interpretativi come quello del garbage can, del policy window, o la classica interpretazione dell’azione collettiva come bricolage nel senso di Levi-Strauss, e, insieme la figura dell’“imprenditore di policy” come soggetto-chiave – non necessariamente individuale - della promozione e della cura dei progetti di territorio), sono produttive di quadri di senso e di pratiche, e costituiscono, per il loro carattere di costrutto (e bene) eminentemente relazionale, per gli usi (intenzionali) che se ne possono fare, e per gli effetti (non intenzionali) che ne possono derivare, costituiscono una componente dei “processi emergenti” di social capitalizing. L’osservazione ed interpretazione dei progetti di territorio è quindi una pratica essenziale non solo per interpretare le posizioni localmente prevalenti in materia di sviluppo, ma, nei suoi riferimenti ai frames cognitivi, al rilievo dei modi della loro strutturazione discorsiva, alle conseguenti dimensioni valutative implicite ed esplicite, al loro costituirsi come prodotto contingente e mutevole rispetto alla storia e alle possibilità evolutive dei luoghi, alla loro connessioni alle pratiche. Questa attività è rilevante nel policy design, nella misura in cui è orientato alla modificazione dei quadri di senso per via di processi di interazione pubblica. Vi è subito da dire che il Polesine esprime molteplici progetti di territorio. Alcuni sono di tipo tradizionale (infrastrutture e sviluppo industriale), magari rideclinati mediante le spesso vaghe ma efficaci retoriche del “distretto industriale”; altri sono di tipo industriale-avanzato (società pubblico-private di gestione delle aree industriali, nessi con i temi del marketing territoriale, logistica, eco-compatibilità, comunque con previsioni d’insediamento di milioni di metri cubi; vedi la scheda delle politiche locali), altri ancora percorrono i temi della valorizzazione delle risorse identititarie, storiche, culturali, ambientali; altri vedono un futuro legato alla qualità della vita e dell’abitare locale, in uno sforzo di riqualificazione degli spazi di vita. Non sempre, com’è evidente, questi progetti sono tra loro compatibili, e non solo per le ovvie questioni connesse alle esternalità negative che sempre agiscono in un contesto spaziale, ed alle esigenze di una loro regolazione. Ciascuno di questi progetti mobilita attori diversi, mette in gioco differenti cornici di senso riguardo alle immagini del territorio, porta con sé, in definitiva, idee diverse sulle forme della strutturazione delle relazioni sociali in questo territorio. Su queste delicate questioni si gioca la problematicità del nesso politics-policy, e, forse, le opportunità per lo sviluppo locale. Ma, ancor più radicalmente, le possibilità di una maggior qualità della (pratica della) democrazia locale come esito (non progettato, non inteso, ma forse non inatteso, probabil- 27 n.13 / 2005 mente auspicato) della qualità della produzione delle politiche locali. Ma qualunque sia il progetto, l’idea fondamentale è che l’efficacia delle politiche pubbliche di sviluppo locale sia, nella fase attuale, fortemente dipendente dalla qualità della governance locale. In breve, se il government indica l’insieme delle istituzioni che hanno il compito di governare, la governance indica l’insieme dei processi mediante cui si governa. La questione della governance riguarda quindi la capacità effettiva di affrontare e risolvere problemi. Nella fase attuale, il perseguimento di progetti di territorio, nel quadro delle trasformazioni strutturali delle forme di governo del territorio, richiede uno sforzo inedito da parte delle pubbliche amministrazioni, chiamate non solo più a funzioni di regolazione, ma anche a pensare e progettare il proprio sviluppo. Quindi: riconoscere o inventare risorse locali, costruire consenso sulle scelte, assumere ruoli imprenditoriali (di “imprenditori di politiche”), agire strategicamente, costruire reti con attori privati e altri attori pubblici, ecc. Questo orientamento (specificatamente strategico) pone oggettive difficoltà alle amministrazioni, ed in particolare ai piccoli comuni. Alcune criticità del Polesine emergenti dall’“ascolto attivo” e dalle politiche locali Questi progetti di territorio emergono in una situazione che presenta ombre e opportunità, ben evidenziate nei documenti che accompagnano le innumerevoli politiche locali. Il Polesine, nel suo complesso, presenta una situazione demografica allarmante, per il declino demografico ed il peso della popolazione anziana. La provincia polesana appare poco attrattiva, soprattutto per i giovani con titoli di studio superiori, che cercano altre possibilità fuori dal loro territorio d’origine. Questa situazione è aggravata dalla situazione problematica del mercato del lavoro femminile, alla quale hanno contribuito alcune gravi crisi settoriali, come quella del tessile-abbigliamento. Nell’evoluzione delle dinamiche dell’economia gobalizzata queste crisi sono di natura strutturale, ed incidono anche sui settori a (relativamente) elevato valore aggiunto, con effetti sulle possibilità e progetti di vita dei giovani con titoli di studio superiori. Com’è evidente, il depauperamento in capitale umano è parte di un circolo vizioso e provoca effetti cumulativi negativi sullo sviluppo locale. D’altra parte, il Polesine gode di assoluti vantaggi posizionali (in termini di centralità geografica e accessibilità infrastrutturale), che non hanno dato sinora i risultati attesi. Parti consistenti del territorio polesano appaiono integrate all’area metropolitana veneta (ma vi sono prospettive di una politica di connessione e collaborazione con il sistema urbano di Verona, ipotesi che vedrebbe la formazione di una rete trasportistica e logistica di grande interesse tra Nord-Europa, regioni italiane del Nord-Ovest e del NordEst, paesi emergenti dell’Est europeo), oppure con i sistemi urbani dell’Emilia-Romagna, o, ancora, per le ipotesi di connessione infrastrutturale (i corridoi d’acqua, per quanto interessa più specificatamente il Polesine), che già sono acquisizioni delle politiche europee (Schema Spaziale e programmi Interreg). Al suo interno, il Polesine appare sostanzialmente ben connesso, formando tendenzialmente alcuni grandi bacini casa-lavo- 28 Luciano Vettoretto Progetti di territorio e governance locale ro, che potrebbero essere intesi come grandi spazi di vita quotidiana e riferimento per alcune politiche (dei servizi, abitative, del trasporto pubblico locale, della localizzazione delle attività commerciali e artigianali, ecc.). Inoltre, il Polesine appare potenzialmente ricco di suoli disponibili ed aperti a molti usi, di nodi urbani, di risorse identititarie, di beni culturali, di risorse ambientali (le aste fluviali, il mare, il delta). Certo, vi è un delicato trade-off tra fungibilità degli usi dei suoli, che dipendono dalle possibilità e dalle compatibilità tra progetti diversi di territorio. E, dal punto di vista delle risorse immateriali, appare ricco di reti associative, che costituiscono un’importante risorsa per lo sviluppo locale in termini di capitale sociale. Ma l’integrazione funzionale in termini di connessioni infrastrutturali, accessibilità e usi allargati del territorio, non sembra generare integrazione di progetti e di attori (come accade peraltro nella più densa città diffusa veneta), come indicazione effettuale di una crisi della potente mitologia del rapporto tra infrastrutture e sviluppo. Il capitale sociale “territoriale”, che, in recenti indagini promosse dalla Banca d’Italia risulta tra i più consistenti nel quadro nazionale, sembra incidere in modi ancora marginali sullo sviluppo locale e sulle forme della governance. Il capitale sociale degli attori e soggetti polesani risulta probabilmente poco propenso all’apertura verso il rischio e la novità, più funzionale alla riproduzione del legame sociale identitario che alla apertura critica verso l’esterno. Questo fenomeno è comprensibile, se si pensa allo sfruttamento di lungo periodo dell’area (diversa dal Nordest, per quanto riguarda alcune condizioni costitutive del modello di sviluppo, come i rapporti di lavoro nelle campagne e le forme della proprietà rurale), al quale ha fatto seguito una fase fortemente marcata di flussi di trasferimenti dallo Stato verso l’economia locale, in particolare verso l’economia agricola, anche per gli effetti di forme neo-corporative di regolazione di questo settore. Dinamiche che certo incidono sul rafforzamento di forme bonding, anziché bridging, di capitale sociale, nonché sulla percezione locale del senso e del ruolo delle organizzazioni pubbliche, locali e non. Per varie ragioni (propensione imprenditoriale, caratteri del capitale sociale, consuetudine a forme di economia assistita, ecc.), i vantaggi posizionali sembrano inerti, in una fase di profonda incertezza sul futuro del modello di industrializzazione del Nord-Est. La qualità locale della governance sembra modesta; gli strumenti della programmazione negoziata e i programmi di iniziativa comunitaria sembrano aver inciso poco rispetto all’obiettivo di miglioramento delle capacità effettive di governo, sebbene siano stati intensi, condotti spesso con passione dagli attori locali, ed in particolare dal Consorzio di Sviluppo del Polesine, ed abbiano visto la mobilitazione di risorse cognitive importanti (hanno collaborato società come Aster, istituzioni come la Fondazione Nordest, ed importanti esperti, in genere universitari, della società e dell’economia veneta). Che fare, dunque? Se uno dei nodi critici è quello della qualità della governance come elemento-chiave dell’efficacia delle politiche di sviluppo, le risposte emergenti sembrerebbero soprattutto orientare a incentivare la cooperazione e ad incrementare le prestazioni di coordinamento. Bisogna tuttavia essere prudenti. 29 n.13 / 2005 3 L’open method of coordination è ritenuto, nelle riflessioni correnti sui modi del governo dell’Unione Europea e non solo, un’innovazione rilevante nelle forme della governance. Più che di un metodo (in quanto tale, è stato formalmente presentato nell’ambito del Consiglio Europeo di Lisbona del marzo 2000), si tratta di un approccio che sistematizza un campo di pratiche già consolidato. L’elemento caratterizzante riguarda la capacità di attivazione e di controllo dei singoli attori della rete di governance, e della capacità di orientamento (piuttosto che di coordinamento nel senso classico del termine) di un attore come l’Unione Europea. Gli “strumenti” dell’azione, nella prospettiva dell’open method of coordination, sono ad esempio le norme indicative e d’orientamento, l’uso strategico delle valutazioni e del benchmarking, la diffusione e la condivisione di buone pratiche, l’adesione volontaristica. Il senso, forse non adeguatamente problematizzato, è che l’efficacia è in diretta relazione con il consenso e con processi di controllo multilaterale. 30 La cooperazione non si dà per decreto, ed è spesso un esito non intenzionale di altri processi. Il coordinamento è una pratica rilevante, nella misura in cui non riproduce gli schemi già sperimentati, con scarso successo, del governo per via di comando e controllo. E’ chiaro che la cooperazione è anche una questione di incentivi e persuasioni (per via di circolazione dell’informazione, di esempi, di buone pratiche, di riconoscimento collettivo di rischi e minacce, ecc.), ma che dipende essenzialmente dalla storia e dalle sedimentazioni di pratiche di governo di lungo periodo; e che il coordinamento, in un’ottica contemporanea di governance, assume la forma dell’orientamento piuttosto che quella del comando, magari assistito da “tecniche” in senso lato, quali l’open method of coordination3, e dalle sue filosofie di fondo (la democrazia come pratica, l’orientamento verso la deliberazione come modello per maturare le decisioni). Progetti di territorio e relazioni territoriali Un primo, rilevante, passo è riconoscere i progetti di territorio (emergenti o palesi) del territorio polesano, da parte degli attori locali (sarebbe importante sapere se altri attori non locali hanno progetti per questo territorio, com’è stato nel passato ad esempio con le Bonifiche, con la localizzazione della centrale termoelettrica di Porto Tolle, ecc., ma questa importante ricognizione esula dai limiti di questo lavoro). I progetti di territorio possono essere riconosciuti a partire dai loro contenuti sostantivi (ciò che si propongono di fare) oppure dalle forme (implicite od esplicite) delle relazioni tra attori e istituzioni (pubblici e privati) che implicano. Scegliamo la seconda prospettiva, che è più immediatamente rilevante rispetto ai temi della governance locale, associando invece, nel prossimo paragrafo, le forme delle reti sottese ai diversi progetti di territorio ai contenuti sostantivi. Si possono distinguere, a partire dall’osservazione empirica: • progetti di territorio condivisi in situazione di contiguità territoriale. Si tratta di progetti di territorio, espliciti e spesso formalizzati, che riguardano aree territoriali intercomunali. Questi progetti fanno riferimento a forme di istituzionalizzazione (ad es. il distretto della Giostra), alla presenza di risorse in comune di cui si intravedono prospettive di valorizzazione (aste fluviali, piste ciclabili), alla gestione di servizi tecnico-amministrativo o, meno frequentemente, di welfare locale (come l’Unione di comuni “Eridano”); • progetti di territorio impliciti. Si tratta di progetti di territorio che tematizzano le interdipendenze e le complementarietà tra comuni contigui, ipotizzando ruoli e funzioni territoriali, visioni, politiche. La questione chiave è lo scambio, effettivo o potenziale, di effetti reciproci (o esternalità) tra comuni come risorsa per lo sviluppo locale. Le azioni vengono tuttavia ipotizzate e poste in essere individualmente; • progetti di territorio auto-centrati in competizione locale. Si tratta di progetti perseguiti da singoli comuni, che possono avere, o hanno avuto, effetti diretti e impatti significativi per l’area. Sono spesso progetti competitivi, che possono generare effetti di esternalità negativa nei comuni vicini o, a seconda della dimensione del progetto, per l’intera area. Ma in parte sono anche azioni positive, che stimolano l’innovazione locale; Luciano Vettoretto Progetti di territorio e governance locale • progetti di territorio condivisi, impliciti, in situazione di non-contiguità territoriale. Si tratta di progetti perseguiti da comuni non contigui in modo indipendente, ma sulla base di obiettivi e risorse simili. Riguardano spesso i modi della valorizzazione identitaria, culturale, oppure la qualità della vita degli abitanti. Si tratta di una modalità specifica ed importante, che potrebbe avere effetti, se adeguatamente curata, sulla strutturazione di reti locali di politiche, anche per territori non contigui; • progetti di territorio formali piuttosto che effettivi. Si tratta delle associazioni a geometria variabile, formate ad hoc per specifiche politiche (in particolare, le “nuove” politiche di sviluppo), i cui risultati però, sul piano della strutturazione interistituzionale, sembrano ancora modesti. Innanzitutto occorre notare che in nessun caso queste tipologie rinviano ad una best way dello sviluppo. In nessun caso, le tipologie devono essere considerate come un possibile schema d’ordine della politica locale, che possa garantire non solo efficienza ma efficacia. Per il loro carattere “storicicizzato”, le tipologie devono essere intese come fenomenologie concrete di modi di intendere il governo del territorio e le possibilità evolutive, in un quadro istituzionale che funge, per quanto debolmente, da vincolo. Ciò che sembra rilevante è la capacità delle istituzioni locali di apprendere dagli esiti e di cogliere in modo adeguato le molte possibilità che sono offerte dalle politiche nazionali ed europee; e, come corollario, la capacità di costruire relazioni strategiche (cioè orientate ad un fine di interesse non solo locale ma esteso, essendo tali relazioni sia cooperative che competitive) con altre istituzioni, producendo interpretazioni plausibili di cosa può costituire un interesse comune e cosa è ammissibile come interesse strettamente locale. Queste tipologie sono quindi ovviamente flessibili. Un singolo comune potrebbe e normalmente è compreso in più di una tipologia. Oppure, oltre che ad appartenere a più tipologie, un singolo comune può transitare attraverso più tipologie, a seconda delle circostanze e della percezione delle opportunità e ristrutturazione delle cornici di senso. Ad esempio, un comune può transitare da istanze competitive a progetti cooperativi, in seguito ad opportunità di investimento, a vincoli di trasferimento finanziario dallo Stato, ecc. E’ anche possibile il percorso inverso, se la cooperazione non ha dato frutti… Si può dire che praticamente ogni comune del Polesine ha sperimentato i diversi progetti di territorio, e che l’eventuale prevalenza di uno sugli altri sia l’effetto di diverse condizioni, tra cui la storia degli esiti delle politiche e quella delle pratiche locali di produzione delle azioni pubbliche, la sedimentazione dei rapporti interistituzionali, le aspettative e gli scenari dello sviluppo locale, in relazione alla valutazione delle tendenze del modello del Nord-est. Occorre aggiungere che, mentre i progetti di territorio che sono stati sopra elencati fanno riferimento a processi concreti e reti di attori effettive, sarebbe possibile ed interessante indagare i progetti di territorio virtuali, promossi spesso da un singolo attore nelle sue strategie retoriche e comunicative, per lo più sotto forma di testi o di comunicazioni verbali. Questi progetti-testi, una volta “consegnati” all’interazione sociale e all’interpretazione, producono effetti. Ad esempio: il progetto di territorio del Consorzio di Sviluppo del Polesine, come si può intendere dai documenti e dalle azioni di questo attore, è quello di un territorio 31 n.13 / 2005 come federazione di spazi di vita (intercomunali), ciascuno dei quali sviluppa una propria progettualità in un saggio rapporto tra autonomia e cooperazione. Altrettante considerazioni si potrebbe trarre riguardo ai progetti virtuali di altri attori rilevanti, come l’Associazione degli Industriali, o degli Agricoltori, ecc. Progetti espliciti e formali: acquisizioni consolidate, incertezze, possibilità Sicuramente, le situazioni più promettenti riguardano i progetti di territorio espliciti e formali. Tra questi, l’unione di comuni Eridano appare di grande interesse, per via di un percorso di apprendimento che ha origine nella gestione di servizi tecnico-amministrativi e che sembra condurre verso la gestione comune di alcuni grandi nodi strategici per lo sviluppo (localizzazione dell’area industriale, impianti sportivi, valorizzazione di un percorso tra i due fiumi, Po e Adige). Al contempo, i comuni mantengono una propria autonomia progettuale, valorizzando autonomamente le proprie risorse (vedi, ad esempio, la considerazione del processo di suburbanizzazione da Rovigo come risorsa per i comuni contigui, o le azioni di Pontecchio e Polesella rispetto ai beni culturali, ecc.). Questa situazione è di assoluto interesse, sia come dinamica (di apprendimento alla cooperazione) che come divisione del lavoro e delle opportunità, tra una definizione congiunta dei nodi ritenuti strategici e le azioni locali, tra, quindi, cooperazione e autonomia. Entro questo quadro, vanno considerate anche altri importanti eventi, che possono generare effetti territoriali positivi. Ad esempio, il Distretto della Giostra nasce in un contesto culturale differenziato (il riferimento identitario è a Ferrara e Mantova, piuttosto che Rovigo), che ha avuto certamente influenze sulle dinamiche evolutive di questo territorio. Tuttavia, a fronte di un’interessante esperienza distrettuale, le dinamiche demografiche appaiono ancora critiche, e sorgono preoccupazioni circa gli effetti negativi del depauperamento del capitale umano sulla continuità del modello di sviluppo. Si tratta, con ogni evidenza, di una situazione che dovrebbe sviluppare una maggior integrazione nelle politiche locali soprattutto dal lato delle politiche abitative (che sono sostanzialmente demandate al Piano Regolatore Generale, quindi ad uno strumento probabilmente improprio, poiché la sua funzione è quella di regolare degli usi dei suoli) e delle politiche dei servizi, e non solo dello sviluppo industriale. Altre situazioni appaiono più incerte. Nei comuni del Parco del Delta, nonostante l’esistenza di un’istituzione come l’Ente Parco, sembra di rinvenire qualche incertezza tra istanze strategiche collettive e autonomia comunale, tra regolazione e sviluppo, tra modelli diversi di sviluppo. Gli strumenti classici della regolazione sono, in questo contesto, problematici. La situazione è di una sensibile frammentazione di istanze locali, di visioni del futuro, di progetti di territorio. Il tema emergente, in questo caso, è la capacità di costruzione di un progetto originale per un territorio che presenta molte specificità rispetto ai Parchi tradizionali, in termini di livelli di urbanizzazione e forme di sviluppo economico. Una via possibile, è la progettazione di processi negoziali inclusivi, trasparenti e pubblici, costruiti sullo sfondo di un’informazione pertinente e condivisa sulle possibilità e sulle regole d’uso del territorio e su casi esemplari di gestione e 32 Luciano Vettoretto Progetti di territorio e governance locale valorizzazione economica di altri Parchi. Probabilmente, la formazione di strumenti regolativi (come il Piano del Parco) dovrebbe essere costruita entro processi che producono al contempo, per via negoziale, visioni e regole. Vale la pena notare che il processo negoziale che dovrebbe interessare la costruzione delle politiche per il Parco, proprio per la natura “in-comune” dei beni che dovrebbero essere oggetto di valorizzazione e regolazione, è molto diverso dalle pratiche consuete della negoziazione, che hanno normalmente come obiettivo e risultato lo scambio di beni o di diritti (come avviene ad esempio nella risoluzione dei problemi di allocazione pubblica di usi e funzioni dei suoli). Il riferimento è piuttosto ad un’idea di negoziazione che conduce a forme di condivisione (piuttosto che scambio) delle risorse, e, per questa ragione, dal punto del policy design, ciò che importa non è tanto il riconoscimento delle poste in gioco e dei loro possibili trade-off, ma piuttosto l’interazione tra quadri cognitivi (la negoziazione è sui significati e sul senso) e la costituzione interattiva delle regole e delle condotte. Ciò può risultare come esito non intenzionale dei processi, ma può però essere almeno in parte “facilitato” mediante azioni di tipo deliberativo (del tipo: conferenze d’area con il coinvolgimento di molti soggetti, presentazione e riflessione collettiva su casi di successo, incentivi di varia natura, ecc.). Ciò che è importante, è che processi di questo tipo non producono solo regole allocative (come nella negoziazione tradizionale), ma, spesso come byproduct, regole associative (ma che potrebbero essere formalizzate in qualche sorta di Piano come Contratto-Costituzione), come l’impegno a risolvere i problemi per via deliberativa con tutti gli effetti positivi del caso, in termini di maggior coinvolgimento delle risorse cognitive e di rafforzamento del capitale sociale ed istituzionale. Altra importante tipologia di progetto di territorio è quella derivante dalla questione dei marchi e della tipicità certificata. Lungo questa direzione, pur essendo la provincia ancora fortemente agricola, le esperienze sembrano ancora agli inizi, rispetto, ad esempio, ai vicini contesti emiliano-romagnoli. Anche se vi sono iniziative talora di rilievo (la vongola, le coltivazioni orticole dell’insalata, la certificazione IGP per il kiwi e del riso del Delta, e la cantina sociale di Giacciano con Barucchella, il grana padano di Bergantino, ecc.) la percezione locale della transizione dell’economia agricola verso assetti rurali post-produttivistici, legati alla valorizzazione identitaria, ai luoghi, alla qualità, alla tradizione, ai modelli di vita e dell’abitare, al paesaggio appare ancora modesta e scarsamente consolidata. Queste esperienze vanno curate e incentivate, non solo per i vantaggi economici che se ne possono trarre e per la cura ambientale che ne è connessa, ma anche perché queste forme di azione collettiva costruiscono spazi istituzionali di invenzione locale e di risposta al mercato. Come per i distretti, queste esperienze possono avere effetti rilevanti in una sorta di “azione enzimatica”, di catalizzazione di altri e diversi attori o settori nella direzione di una maggiore qualità della governance e dello sviluppo locale. A questo riguardo, occorre notare che la “sfida” della valorizzazione turistica è forse più difficile rispetto alla formazione o rilancio dei sistemi produttivi locali. In quel caso, gli attori sono sostanzialmente omogenei, parlano un comune linguaggio, operano su una medesima base di razionalità (economica). La costru- 33 n.13 / 2005 zione di una politica territoriale del turismo appare più complessa, con interdipendenze maggiori e diverse, comunque non settorializzabile poiché interessa e coinvolge costitutivamente molti attori diversi: i trasporti pubblici e privati, le infrastrutture, il commercio, le attività ricettive, le istituzioni ed organizzazioni pubbliche e private della cultura, il terzo settore, la capacità locale di “inventare” e innovare le tradizioni, la qualità estetica ed ambientale dei luoghi, la sicurezza, ecc. E’ evidente che lungo questa direzione la strada è lunga e difficile, poiché il prodotto turistico coniuga cose diverse, prodotte o riprodotte con razionalità diverse: servizi di mercato, servizi pubblici, beni comuni come il paesaggio e l’ambiente. Una politica del turismo orientata allo sviluppo territoriale implica forme anche sofisticate di governance, in qualche misura istituzionalizzate. La sede di sperimentazione di queste forme di costruzione di politiche dovrebbe essere forse il territorio del Parco, come costrutto al contempo fisico, storico-culturale ed istituzionale. Progetti di territorio espliciti, ma ancora incerti, riguardano la valorizzazione delle aste fluviali. Per quanto riguarda soprattutto la riva sinistra del Po, l’Adige ed il Fissero-Tartaro-Canal Bianco, vi sono intenzioni esplicite di valorizzazione. Un’esperienza recente di progetto integrato per la sinistra Po non è ancora consolidata, ed i comuni rivieraschi sembrano agire per lo più autonomamente con singoli progetti attracchi, spazi di sosta per pic-nic, ecc., come nel caso di Villanova Marchesana La situazione per quanto riguarda la valorizzazione del Canal Bianco è invece diversa, essendo in corso di definizione un progetto integrato di valorizzazione turistica dell’asta fluviale. Vi è la percezione che questa risorsa sia di assoluto rilievo (interviene anche Leader+), ma le azioni appaiono in genere frammentate. Naturalmente, un tema come quello della valorizzazione delle aste fluviali (o di itinerari turistici) è molto complesso. Si tratta di progetti che implicano non una esperienza settoriale del territorio, ma complessiva ed olistica, dal punto di vista ambientale, del paesaggio, della tradizione, delle risorse identitarie e culturali, delle tipicità, dei beni artistici. Per questa ragione, il percorso d’acqua e di terra connette non solo luoghi, ma soprattutto una rete complessa di soggetti ed attori economici e sociali, pubblici e privati a diversi livelli, senza il cui concorso appare difficile ottenere qualche risultato. Richiede forme sofisticate di governance, e difficilmente può essere ricondotta all’ambito tradizionale del coordinamento pubblico, ma piuttosto nel quadro delle sperimentazioni di costruzione partenariale delle politiche. Per operazioni di questo tipo, il punto di partenza potrebbe e dovrebbe essere quello dell’utilizzo delle risorse di relazioni già strutturate sul territorio, a partire dalle reti di comuni per l’offerta di servizi e dalla ricchezza delle reti associative (spesso transcomunali) che lavorano sui temi della cultura, della tradizione e dell’identità e degli attori economici. Comunque sia, tra esperienze consolidate ed incertezze, queste esperienze costituiscono capitale sociale ed istituzionale che va curato, con modalità prudenti e poco invasive, per le sue potenzialità generative di “buona governance” a livello del “sistema Polesine”. Dal punto di vista del policy design, questo suggerimento implica alcune indicazioni sull’intervento, sia dal punto di vista della progettazione del processo (che in ogni caso non può mai essere completamente anticipata, e che si struttura nel corso del processo, come fosse una pra- 34 Luciano Vettoretto Progetti di territorio e governance locale tica di bricolage che, a partire da obiettivi in relativamente consolidati, reinterpreta e riusa i materiali a disposizione), sia dal punto di vista dell’apprendimento dagli esiti (forme e modelli aperti e condivisi di monitoraggio e valutazione possono essere di grande utilità, quando utilizzati con saggezza). Progetti impliciti. La tematizzazione (e la retorica) locale delle interdipendenze I progetti di territori impliciti fanno riferimento alla percezione che un singolo comune ha della propria funzione (o, come si usa anche dire, vocazione) rispetto ai modi in cui vengono tematizzate le interdipendenze con altri comuni, in particolare contigui. Si tratta, in sostanza, di un’invenzione di un contesto, interattiva, basata sulle idee e le retoriche della complementarietà (e del suo doppio, la specificità), della specializzazione funzionale o altro. L’elemento interessante è che tali prospettive generano un’interpretazione territoriale più vasta rispetto al singolo comune, interpretazione che deriva “dal basso” come costituzione di un quadro cognitivo (e strategico) delle possibilità e dei vincoli del contesto rispetto all’ambiente. In altri termini, questi progetti implicano la coniugazione di ciò che si pensa essere un insieme di risorse locali rispetto agli effetti delle dinamiche potenziali od effettive di altri territori. In alcuni casi, il riferimento è alla localizzazione di macroaree industriali in comuni vicini. In questo caso, il progetto implicito è quello di un territorio in cui vi è o vi sarà una specializzazione produttiva (ad esempio, Arquà-Villamarzana in relazione alla localizzazione del nuovo casello autostradale della Valdastico, o Calto-Salara), rispetto alla quale alcuni comuni immaginano loro stessi come luoghi di residenza e servizi (piccoli centri con una buona offerta abitativa, di qualità, con un territorio gradevole e ben connesso, una buona qualità dei servizi pubblici e privati, tranquillo, sicuro, che garantisce quindi una buona “qualità della vita” secondo i parametri correnti, ecc.), come Frassinelle e Pincara; o un luogo che valorizza l’ingente patrimonio culturale come Fratta Polesine, che emergerebbe come luogo di grande qualità non solo rispetto ai processi di valorizzazione turistica, ma anche rispetto alle funzioni residenziali in un contesto potenzialmente di forte specializzazione industriale. Anche comuni prossimi alla macroarea industriale di San Bellino e Castelguglielmo presentano progetti simili. Ad esempio, Bagnolo, Canda e Trecenta sembrano ipotizzare una riqualificazione del loro spazio di vita, specializzato da punto di vista residenziale, con un incremento della qualità e quantità di servizi pubblici e privati. A loro volta, i comuni a “vocazione industriale” che propongono modelli di industrializzazione estensiva, hanno costruito questa propria funzione a partire da un’ipotesi di interdipendenza tra Polesine e distretti industriali del NordEst. Da quelle aree ormai sature e con seri problemi ambientali, le imprese avrebbero potuto diffondersi per contiguità verso le aree libere del Polesine, a condizione che queste fossero infrastrutturate. A sua volta, anche per effetto dei meccanismi della fiscalità locale, la localizzazione industriale avrebbe avuto effetti cumulativi sull’offerta di servizi, sulla crescita edilizia, ecc., innescando un nuovo e più avanzato ciclo di urbanizzazione e sviluppo. Questo progetto di territorio presenta però già molti elementi di incertezza, derivanti dalla crisi probabilmen- 35 n.13 / 2005 te strutturale dell’industrializzazione veneta, in particolare per quanto riguarda i settori tradizionali a basso valore aggiunto. I comuni sono probabilmente chiamati ad un ri-orientamento strategico, che, in una situazione di grande incertezza, spinge verso azioni a basso rischio, e quindi probabilmente cooperative. Di progetti impliciti, paradossalmente, è denso il territorio del Parco del Delta, che, pur contando su un’istituzione sovraordinata con notevoli competenze sul piano della pianificazione fisica ed economica, presenta una forte articolazione di visioni ed aspettative. Si pensi all’evoluzione urbano-industriale di Porto Viro ed alle sue potenzialità nei settori della produzione e della logistica, alle scelte di Porto Tolle (il più ampio dei comuni del Parco, con un’idea complessa di valorizzazione turistica e di potenziamento delle filiere agro-alimentari, molto attivo in termini progettuali e di marketing territoriale), di Rosolina (che sviluppa un’immagine turistica diversa, legata al mare, con una presenza di pregio come Albarella, e che intravede la possibilità di coniugare la qualità urbana, le politiche culturali e il turismo), o di comuni quali Taglio di Po, Loreo e Papozze, comuni meno sviluppati, la cui dinamica sembra fortemente influenzata dal successo del Parco. In questi progetti sembra prevalere tuttavia, più che una riflessione sulle interdipendenze (pur presente, ovviamente; ad esempio nel nesso tra le strutture logistiche di area vasta e i progetti industriali e trasportistici di Porto Viro; o nella differenziazione dei modelli turistici tra Rosolina e Porto Tolle), una strategia centrata sul proprio territorio. In altri casi, il progetto implicito di territorio si basa sulla prossimità ai centri urbani maggiori (Rovigo, Adria, Occhiobello), e sugli effetti dei processi di suburbanizzazione di residenze e di attività economiche. Ad esempio, Canaro ipotizza un futuro di riqualificazione degli spazi urbani, dei luoghi della socialità, valorizzazione culturale, un rafforzamento dei servizi, uno sviluppo della filiera agroalimentare. Giacciano con Barucchella valorizza la presenza di un grosso centro commerciale come motore dello sviluppo locale e come nuova “icona” dell’uso dello spazio nella tarda-modernità (la nuova forma dello spazio pubblico). Queste prospettive sono di grande interesse, ma le loro potenzialità sembrano incerte. Le politiche messe in atto o pensate sono sostanzialmente limitate a varianti del PRG (o, in pochi casi, a nuovi PRG). La programmazione negoziata o i programmi di iniziativa comunitaria sembrano aver influenzato in modo modesto i processi. In definitiva, il PRG viene caricato di funzioni eccessive, di disegno strutturale e di funzioni di sviluppo economico, con efficacia molto incerta. D’altro canto, l’esplicitazione delle funzioni di disegno strutturale del territorio (più che di coordinamento), ciò che normalmente si indica come “pianificazione di area vasta”, viene demandata agli enti sovraordinati, ed in particolare alla Provincia, ma non è ancora chiaro quali saranno i modelli di interazione, nella formazione della politica territoriale, tra comuni e provincia. Le tematizzazioni che abbiamo definite come “progetti impliciti” sono rilevanti, poiché indicano la capacità locale di produrre visioni del futuro in una prospettiva di reti territoriali e di effetti di politiche locali. C’è però incertezza sulle possibilità di generare effetti collettivamente desiderabili. Che fare dunque per dispiegare le potenzialità dei progetti impliciti? Bisognerebbe forse incentivare l’a- 36 Luciano Vettoretto Progetti di territorio e governance locale zione enzimatica delle attuali reti tra comuni, di norma orientate alla condivisione di servizi tecnici e amministrativi (meno sofisticati o più sofisticati, come lo sportello unico). Promuovere dibattiti pubblici sui progetti impliciti; produrre alcune visions, per via deliberativa, del futuro del territorio; individuare alcuni strumenti possibili d’intervento, che cerchino di connettere istanze di sviluppo economico e sociale (la programmazione negoziata, i programmi comunitari) con istanze di progettazione fisica e strutturale del territorio intercomunale (modalità peraltro prevista dalla recente legge urbanistica regionale, ma comunque possibile anche sulla base della legge urbanistica nazionale del 1942, come testimoniano molte esperienze fin dagli inizi degli anni ‘60, per lo più fallite probabilmente per un deficit di progettazione dei processi, questo non solo in Italia); strutturare il piano urbanistico provinciale come, al contempo, grande quadro strategico e “contratto” tra attori locali, di indirizzi, principi e coerenze, partendo dai progetti locali espliciti ed impliciti. Opportunità e rischi nei progetti auto-centrati I progetti di territorio auto-centrati e competitivi hanno come orizzonte caratteristico l’attrattività di imprese (e investimenti) nel proprio territorio comunale. L’interpretazione di queste logiche è duplice. Da un lato, si stigmatizza il localismo, il campanilismo, la chiusura verso il vicino. Dall’altro, si valorizza il carattere dinamico e spesso fertile della competizione, i suoi effetti positivi sul contesto, l’attivismo degli attori, il valore dell’identità locale anche come fattore di coesione sociale e traccia di un’organizzazione di comunità. Quando non si basano su risorse di monopolio (come la presenza di uno specifico bene culturale o ambientale), questi progetti entrano spesso in competizione con altri. La vicenda delle macro-aree industriali è esemplare: i comuni candidati alla localizzazione non sono stati solo quelli con evidenti vantaggi posizionali (per la prossimità ad un casello autostradale o a piattaforme logistiche o intermodali), ma anche altri. Alcune risorse, invece, in quanto beni comuni, sono difficilmente appropriabili da un singolo attore. Ad esempio, il paesaggio delle aste fluviali è tipicamente un bene non-divisibile, la cui valorizzazione richiede forme d’azione cooperativa (questa è una delle ragioni perché, mentre alcuni comuni si sono dotati, almeno sulla carta, di macroaree industriali, il progetto Sinistra Po è ancora in una fase preliminare di definizione). Vi è inoltre da osservare che la tematizzazione, molto diffusa nei documenti di programmazione, del suolo del Polesine come risorsa ampiamente disponibile soprattutto per gli insediamenti industriali, anziché come risorsa normalmente scarsa, se da un lato è certamente strategica nei confronti degli investimenti da attrarre, dall’altro favorisce strategie auto-centrate ed inibisce la negoziazione – la quale si dà, per definizione, solo in presenza di risorse scarse - che, se pubblica e regolata, potrebbe produrre effetti significativi in termini di strutturazione del legame sociale e della formazione di un habit cooperativo. Dai comportamenti auto-centrati, possono derivare, non intenzionalmente, effetti positivi o negativi. Il giudizio deve essere prudente. Il comportamento auto-centrato può generare squilibri nel breve periodo (ad esempio, nella concentrazione spaziale dei posti di lavoro), ma questo può essere un vantaggio nel medio-lungo periodo, come insegna la teoria dello sviluppo squilibrato. Ma può, al contempo, 37 n.13 / 2005 generare esternalità negative (in termini di induzione di pendolarismo, congestione, inquinamento, costi sociali) con effetti perversi nel breve e lungo periodo. In via generale, le modalità auto-organizzate e auto-centrate sono particolarmente diffuse, e non riguardano solo i temi della localizzazione industriale. I temi della localizzazione industriale sono privilegiati non solo perché i frames locali in materia di sviluppo concepiscono l’industria come “autentico sviluppo”, ma anche perché i meccanismi della fiscalità locale premiano la localizzazione di attività economiche, istituendo una convergenza tra frames di lungo periodo ed opportunità, che deprime le possibilità alternative di sviluppo, e connette in modo rigido destinazioni d’uso dei suoli ed opportunità di sviluppo locale. Ma, anche con questi limiti, oggetto di interesse sono spesso anche iniziative culturali connesse alla valorizzazione turistica (feste della tradizione, eventi di vario genere), le molte politiche di valorizzazione di beni culturali (come i musei di Adria, Ariano Polesine, Bergantino, Castenovo Bariano, le ville di Fratta, il museo del fiume a Salara, la villa Nani Mocenigo a Canda, la Corte Grimani a Pettorazza, la villa Morosini a Fiesso, il sito archeologico di Gaiba e Gavello, ecc.), le politiche per le aree sportive (come il complesso di Villa Azzurra a San Bellino), di riqualificazione urbana (le nuove attrezzature urbane di Rosolina e Villadose, la rivitalizzazione del centro storico a Lendinara come effetto del piano urbanistico). In alcuni casi, l’auto-promozione genera idee-guida, come il “paese-albergo”, l’“albergo diffuso” (Fratta Polesine), o la “porta del Parco”, ecc. In genere, aumentando l’importanza dei comuni, aumenta la progettualità. Così, ad esempio, Adria presenta molte iniziative su fronti diversi (l’autodromo, la promozione di prodotti tipici come il pane, la valorizzazione dei beni culturali, la valorizzazione del centro storico, ecc.), giocando come elemento strategico la varietà di obiettivi e modi dello sviluppo. Come esempio positivo di progetto auto-centrato e della sua metamorfosi, si può pensare ai casi di investimento in case di riposo locali (Corsola, Crespino, Lendinara, Ficarolo, ecc.), che hanno avuto successo in una situazione sempre più marcata dalla presenza di popolazione anziana. Queste azioni hanno contribuito a riconvertire la forza-lavoro femminile precedentemente impiegata nei laboratori contoterzisti del tessile, hanno prodotto azioni di riqualificazione (corsi di formazione finanziati dai Fondi Strutturali dell’Unione Europea), e sembrano aver in qualche caso costituito un volano per l’economia locale. Ciò ha contribuito a frenare l’abbandono, ad attrarre popolazione giovane, e ad innescare un significativo sviluppo edilizio. In particolare, per il caso di Corsola, si è in seguito sviluppata un’esperienza di governo delle case di riposo dei tre comuni dell’Isola di Ariano (territorio al quale appartiene Corsola), che potrebbe costituire un precedente significativo per altre forme cooperative di gestione di servizi e di programmazione territoriale. Altre situazioni sono indubbiamente più problematiche, come quelle delle macro-aree industriali, per i loro impatti economici, sociali ed ambientali. Va notato che il quadro in cui acquistano senso le istanze di industrializzazione del genere delle macro-aree è distributivo (ci si attende una diffusione delle imprese dalle aree più congestionate del Nord-Est) piuttosto che generativo (non vi è un progetto autonomo di sviluppo industriale legato ad una tematizzazione specifica delle specificità locali). 38 Luciano Vettoretto Progetti di territorio e governance locale Spesso, ma non esclusivamente, si nota come i progetti autocentranti di territorio si accompagnino, apparentemente in modo paradossale, ad una richiesta di maggior regolazione e pianificazione per via gerarchica. A ragione, la Provincia viene spesso chiamata in causa come soggetto al quale spettano le responsabilità della decisione, soprattutto attraverso la formazione di un Piano Urbanistico che distribuisca d’autorità le funzioni ed i vincoli sul territorio (a partire dalla situazione consolidata). Questo fenomeno, di crescita concomitante di negoziazione (e deliberazione) e di domanda di autorità merita attenzione. La negoziazione e l’interazione comunicativa sono eventi e pratiche che spesso trasformano le routine della vita associata, che generano perciò senso di insicurezza, incertezza sugli esiti, e quindi domanda di autorità e di ordine. Come notano diversi autorevoli osservatori, la produzione interattiva (nelle forme della negoziazione e della deliberazione) dell’azione pubblica fa emergere le interdipendenze e spinge gli attori a riconoscere la fondatezza delle pretese delle parti avverse, mettendo in crisi l’apparente ragionevolezza dei progetti autocentrati. Al contrario, la regolazione impersonale lascia spazio all’indipendenza dell’agire individuale o particolare (nel quadro, sempre interpretabile e quindi negoziabile, della norma). La mobilitazione locale non va scoraggiata a favore di una cooperazione che può trasformarsi in pura negoziazione di scambio, mercantile, oppure in un livellamento verso il basso della progettualità; spesso, comportamenti auto-centrati generano innovazione. Come fare dunque perché l’auto-organizzazione generi effetti positivi su larga scala? Dal punto di vista del progetto le questioni rinviano probabilmente alla definizione di un orizzonte strategico condiviso e di un insieme di principi e regole. A ben vedere, la questione dell’orientamento strategico avrebbe dovuta essere risolta dagli strumenti di programmazione negoziata. Ma queste esperienze, per gli effetti della storia e della path dependency, sembrano essere state percepite più come strumenti (distributivi) di spesa pubblica e come meccanismi di produzione di opere pubbliche che come strumenti per una politica strategica d’investimento. Ma l’evento più recente, l’Intesa Programmatica d’Area sembra andare in una direzione più promettente, nella definizione di una vision complessiva per il Polesine e nella definizione di alcuni assi strategici, con il loro correlato di misure, azioni, impegni finanziari di attori pubblici e privati. Con fatica, sembrano agire processi di apprendimento istituzionale, per l’effetto congiunto di processi di ricambio generazionale degli attori politici locali, per il ruolo e l’attivismo di un imprenditore di policy come il Consvipo, per l’incertezza verso il futuro, ecc. A partire dal quadro definito dall’Intesa Programmatica d’Area, occorre però anche definire quadri strategici di specifici ambienti insediativi del Polesine. Alcuni quadri cognitivi (ed assieme strategici) emergono, dal basso, a partire dalle percezioni locali delle interdipendenze e delle complementarietà. Questi quadri devono confrontarsi con l’insieme degli interventi o dei progetti diffusi e auto-centrati, cercando di ricostruire, ove e se possibile, un senso complessivo. Una volta (ri)strutturati i quadri cognitivi (strategici) per via interattiva (anche con l’ausilio di tecniche appropriate), l’esplicitazione di un insieme di principi e regole non dovrebbe risultare troppo difficile. Sistemi di regole sono soprattutto rilevanti per quanto riguarda la localizzazione industriale, che presenta in potenza i maggiori rischi dal lato delle esternalità 39 n.13 / 2005 negative. Nel quadro locale, si è sviluppato un modello di gestione avanzata di una di queste aree industriali, cioè di quella di Arquà-Villamarzana. Questo modello prevede un’elevata qualità urbanistica dell’area, una selezione delle imprese sulla base di criteri di eco-compatibilità, di forme pubblico-private di gestione dell’area, di solidità imprenditoriale e finanziaria, di produzioni ad alto valore aggiunto in grado di generare domanda di lavoro qualificata. Questi criteri potrebbero costituire un riferimento comune, anche perché l’attuale tendenza dell’economia internazionale segnala molte incertezze sul successo di tutte o parte delle macroaree. Una eventuale competizione porterebbe forse a localizzazioni di attività non desiderabili, con impatti negativi sull’ambiente, sui processi di valorizzazione turistica, sulla qualità ed appetibilità residenziale dei luoghi, ecc. La competizione potrebbe tuttavia essere mitigata mediante l’istituzione di meccanismi di perequazione (previsti dalla legge urbanistica regionale) che ridistribuisce parte dei proventi della fiscalità locale, che derivano dalla localizzazione di attività redditizie per l’ente pubblico, a livello territoriale, sotto alcune condizioni di osservazione di principi e regole di comportamento. Reti di progetti: logica territoriale e logica di “problema” Per quanto diffusi, il contenuto dei progetti auto-centrati non corrisponde al numero dei comuni. Si possono ritrovare similarità, affinità, convergenze. Si può costruire un repertorio di tali progetti, sulla base della loro somiglianze e congruenze rispetto ai quadri interpretativi dello sviluppo, al modello desiderato, alle azioni da mettere in atto, alle aspettative. Si potranno così rinvenire alcune grandi ricorrenze: i comuni che pensano al proprio futuro in termini di valorizzazione dei beni culturali (Fratta Polesine), o di valorizzazione delle risorse ambientali e paesistiche (alcuni comuni del Delta), oppure come a dei buoni luoghi per abitare (da molti punti di vista), o come dei luoghi con un forte peso della produzione industriale, come a dei nodi urbani di rango superiore, ecc. Le motivazioni sono diverse e complesse; mettono in gioco la percezione di cosa costituisce localmente una risorsa, di quali saranno le domande sociali nel medio-lungo periodo, un’idea di società e di forme e modelli dell’abitare, un’idea del proprio ruolo nel quadro delle interdipendenze territoriali più vaste. Derivano non solo da una riflessione interna al singolo comune, ma anche dall’interpretazione (che è sempre strategicamente selettiva) di ciò che avviene in altri territori, anche non vicini, magari di altre province. Partire dal riconoscimento del senso di queste percezioni, da un loro confronto e discussione pubblica potrebbe costituire una buona strategia di produzione di visioni condivise tra comuni non necessariamente contigui. Accanto ad una logica territoriale (le strategie della cosiddetta “area vasta”), si può individuare una logica (implicita e potenziale) di problema. Questa logica restituisce un’immagine del Polesine come una rete articolata intorno a pochi fondamentali progetti di territorio ed issues, la cui esplicitazione e confronto pubblico intorno ad alcuni criteri fondamentali (ad esempio: quale progetto di territorio è maggiormente compatibile con le istanze di cura ambientale? o di valorizzazione turistica? Quali sono le compatibilità tra progetti diversi di territorio?, ecc.) potrebbe avere risultati interessanti in termini di costruzione di scenari condivisi e di governance. 40 Luciano Vettoretto Progetti di territorio e governance locale I territori delle nuove politiche di sviluppo Sul territorio del Polesine sono altresì sedimentate diverse strutture istituzionali-territoriali a geometria variabile, nello spazio e nel tempo, riferite alle esperienze dei Patti territoriali o di Leader. Talora, queste esperienze, nei loro rapporti con gli amministratori locali, si sono rilevate problematiche, in particolare per quanto riguarda il programma Leader. Questo fenomeno si può forse imputare allo scarto tra pratiche concrete di governo e razionalità degli strumenti. Per il futuro, il problema è quello di ridurre tale scarto, non tanto nell’imposizione astratta di un modello d’azione, ma cercando di interpretare nel contesto la razionalità degli strumenti. Si può fare questo partendo dalle pratiche: come funzionano le reti esistenti? Con quali risultati? Con quali problemi? Come si può valorizzare la forte componente identitaria nei processi di programmazione territoriale? Quali ruoli può svolgere il capitale sociale così diffuso nel Polesine nella costruzione delle politiche territoriali? Limiti e virtù della standardizzazione del locale Astraendo dal caso del Polesine, occorre notare che un osservatore anche disattento non può non rilevare che, rispetto alla varietà locale dei “progetti di territorio”, le politiche locali in territori diversi sono spesso molto simili. Programmi comunitari come Leader o Interreg, vengono spesso articolati rispetto ad un modesto e stabile repertorio di azioni, indipendentemente dai contesti. Quasi ogni programma Leader contiene alcuni elementi ricorrenti (idee-guida stereotipate, misure e azioni centrate su una concezione spesso banalizzata dell’identità locale, ecc.). Da un lato, vi è un evidente paradosso. Se questi programmi di sviluppo endogeno devono valorizzare strategicamente quelle risorse locali che sono uniche e che costituiscono il vantaggio competitivo rispetto ad altri contesti, ci si dovrebbe attendere una elevata varietà di progetti, rispetto, appunto, al carattere unico e non riproducibile dei diversi luoghi, ovviamente in relazione alla capacità locale di tematizzare l’unicità e singolarità dei luoghi. La standardizzazione delle azioni tende invece a ridurre la specificità e le cosiddette “vocazioni” dei luoghi. Questi effetti non sono mai stati presi seriamente in considerazione. Si può ipotizzare che derivino in parte dalle routine tradizionali dell’azione pubblica, in parte da un effetto non intenzionale delle modalità europee di costruzione dei programmi e delle procedure, spesso costruite su una difficile sintesi di ambizioni tecnocratiche, istanze di regolazione e controllo, o più prudenti funzioni di orientamento. Può essere un effetto non voluto del costante riferimento alle “buone pratiche” come modello da imitare o emulare. Possono dipendere da una crescente professionalizzazione degli attori locali, che costruiscono, sulla base di una interpretazione delle interdipendenze, repertori che, piuttosto che produrre innovazione locale, generano soluzioni standard a partire da rappresentazioni (e retoriche) stereotipate e, forse per questo, condivise. D’altra parte, occorre anche considerare queste dinamiche fanno parte di un gioco di territorializzazione e deterritorializzazione che produce istituzionalizzazioni loose di regole, di pratiche e, in particolare, di frames cognitivi translocali, che costituiscono un valore nei processi di interazione “europeizzati”. Come notano alcuni autori, la formazione di standard può costituire un elemento di ricomposizione dell’azione pubblica su grande scala, per via di apprendimento locale. 41 n.13 / 2005 Queste tendenze sono ben visibili anche nel caso del Polesine, dove la standardizzazione di alcune politiche locali si associa ad una sensibile frammentazione istituzionale (e, si potrebbe dire, anche di quadri cognitivi), con l’effetto che queste, che dovrebbero essere, secondo i principi, integrate, vengono spesso settorializzate, non solo e non tanto dal punto di vista dei contenuti, quanto da quello degli attori. Dal loro punto di vista, sembra vigere una tacita divisione del lavoro rispetto al campo delle politiche, che le sottrae di fatto ad un’interazione più ampia. Il caso del Programma Leader, quasi totalmente ignorato dai Sindaci dell’area target, è esemplare. Di conseguenza, gli effetti di alcune politiche, sembrano modesti, ed agiscono più sul lato della socializzazione di standard tecnici di progettazione e implementazione dei programmi più che sulla valorizzazione delle differenze o sulla qualità della governance locale. C’è tuttavia spazio, proprio a partire dalla varietà degli effettivi progetti di territorio, di ripensare in una chiave diversa anche politiche comunitarie come Leader. Che fare in termini di governance: questioni di policy design Il Documento programmatico d’area dedica ampio spazio alla governance come elemento fondamentale dell’efficacia delle politiche di sviluppo, indicando alcune misure ad azioni di rafforzamento, basate principalmente sulla formazione e l’informazione. Si tratta, evidentemente, di misure che possono dare esiti nel medio periodo. Cosa si può fare nel breve periodo, oltre all’attività di formazione e informazione? La qualità della governance locale, nella provincia di Rovigo, non è né migliore né peggiore della media delle altre province del Nordest, se si tiene conto che l’eredità storica del Polesine era ben più pesante rispetto al resto del Veneto. I comuni esprimono una certa progettualità, talora anche in forme congiunte. In altri casi, tematizzano la propria posizione, ruolo e funzione come nodo di una rete più complessa (la questione delle interdipendenze e delle complementarietà). In genere, hanno ben presente cosa può costituire una risorsa nella situazione attuale. Hanno spesso reti di relazioni con l’esterno, ed attivano, per lo più in modo informale, rapporti con molti attori, interni o esterni, pubblici o privati. Vi è certamente, al fondo, una consuetudine alla cooperazione ed una certa base fiduciaria, com’è testimoniato dalla densità di associazioni con varie finalità. Queste associazioni hanno avuto ruoli fondamentali nella riproduzione e reintepretazione dell’identità locale e del tessuto di solidarietà; possono forse svolgere nuovi ruoli nell’apertura verso l’esterno che ogni politica di sviluppo locale richiede, anche in relazione alla varietà dei progetti di territorio che il Polesine esprime. Fondamentalmente, una politica di breve periodo sull’azione di governo, in un’ottica di governance dovrebbe: • valorizzare l’azione enzimatica dei nuclei di cooperazione e condivisione volontaria (consorzi, convenzioni tra comuni, progetti congiunti, ecc.), come nuclei di catalizzazione di politiche via via più complesse. La valorizzazione richiede cura e stabilizzazione, formale e istituzionale. In questo modo, sarà forse possibile che queste aggregazioni e condensazioni di attori e processi produca- 42 Luciano Vettoretto Progetti di territorio e governance locale no reti stabili, e, soprattutto, che queste reti operino in ambiti diversi da quelli originari. In altri termini, occorre che questi potenziali nuclei enzimatici generino maggiori livelli di capitale sociale e istituzionale. Questi processi non sono rilevanti solo per lo sviluppo economico, ma anche e soprattutto per gli effetti sulla strutturazione di forme innovative di democrazia locale. I nessi tra democrazia locale e sviluppo locale sono per una parte ovvii, per una parte problematici. Probabilmente, l’elemento decisivo per la definizione dei rapporti si gioca sul senso e le funzioni del capitale sociale. Come fare? Diffondere l’informazione, valutare i risultati, aprire i processi alle reti settoriali, mobilitare le reti su temi trans-settoriali, ecc. • valorizzare e diffondere nel territorio i risultati delle reti territoriali strutturate e formali, sia che si tratti dell’unione di comuni che del marchio o simili, come esempi di “buone pratiche” generate nel contesto locale. Le “buone pratiche” come modelli di comportamento esemplari non sono una novità. Il riferimento è spesso a modelli e azioni culturalmente lontani, in parte estranei, la cui conoscenza è certamente utile e può avere effetti rilevanti sul piano dell’apprendimento. Al contempo, comporta il rischio della standardizzazione (basti pensare, come abbiamo notato in precedenza, a quanto sono simili i programmi Leader o Interreg, anche in contesti radicalmente diversi), e di una valorizzazione non efficace delle risorse locali. In termini di “buone pratiche” di governance, è bene riconoscere delle buone pratiche locali (magari ispirate a buone pratiche ‘globali’), per il semplice fatto che, se sono efficaci, significa che hanno interpretato in modo fertile alcune sollecitazioni e innovazioni esterne. Come nel punto precedente, queste sperimentazioni vanno seguite, ne va tenuta memoria, ne va incentivata la diffusione, ne vanno riconosciuti e valutati gli esiti, ecc. • valorizzare ed esplicitare le percezioni locali in termini di complementarietà e interdipendenza, come quadri cognitivi (che sono al contempo strategici) essenziali per azioni cooperative; • incentivare la sperimentazione di forme di pianificazione territoriale strutturale intercomunale e di modelli perequativi a partire dalle risorse cognitive di cui al punto precedente; • valorizzare percorsi singolari nella misura in cui sembrano costituire una “buona pratica”, e un’occasione di apprendimento da parte degli altri attori, come possibili nodi morfogenetici (quindi strategici, se lo sviluppo è inteso come cambiamento di forme). Tutte queste indicazioni implicano una dimensione tecnica, con il rischio sempre presente di influenze tecnocratiche, di invasioni dei mondi vitali, di de-politicizzazione delle pratiche, ecc. Per questo, occorre sempre agire con prudenza e per via di interazione. Un lavoro di regia e di stimolo (mobilitazione, attivazione, ecc.) è essenziale. Riguardo alle politiche di sviluppo, probabilmente la forma organizzativa dell’Agenzia è quella più adeguata. [email protected] 43 n.13 / 2005 44 Francesca Gelli “Se modernizzare stanca, bisogna danzarci attorno”. Frammenti di sviluppo del Polesine Passaggio a Nord-Est 1. “Progetti di sviluppo” come percorsi (e storie) di “modernizzazione” e di “normalizzazione”. La prima storia dell’industrializzazione del Polesine può essere letta nel quadro delle idee, del modello di azione e dei valori incorporati nella teoria classica della modernizzazione economica, un ambito di studi specializzato nella diagnosi e risoluzione dei problemi di sviluppo delle società “arretrate”, che tra gli anni ’50 e gli anni ’60 raggiunse l’apice del consenso e della diffusione. L’esperienza di sviluppo industriale e capitalistico prodottasi in più di un secolo di storia nelle società occidentali, con la formazione di sistemi di economie “avanzate”, veniva eletta a modello di organizzazione economica e sociale e se ne analizzava la formula di successo al fine di operarne il trasferimento a realtà più svantaggiate. La tesi sottostante era nota: in aree depresse e in ritardo di sviluppo la modernizzazione economica avrebbe apportato un miglioramento degli standard di vita generali e garantito la maggiore diffusione e la più equa distribuzione del benessere sociale tra la popolazione. Le finalità di interesse collettivo e le intenzioni ampiamente inclusive sottese al progetto di modernizzazione economica mettevano in risalto il rapporto tra processi di sviluppo economico e implementazione dei principi democratici fondamentali, di eguaglianza e di libertà, favorendo percorsi di emancipazione e di “normalizzazione”. Alla base del dispositivo di modernizzazione le analisi individuavano un intreccio di fattori strutturanti, quali: opportune scelte localizzative di fun- zioni e impianti produttivi; opere di infrastrutturazione del territorio; investimenti nella direzione dell’adeguamento tecnologico, dell’innovazione organizzativa e gestionale; aumento dell’offerta di servizi (scuole, trasporti pubblici, ecc.) e sistemi di protezione sociale; costruzione di un immaginario collettivo condiviso della modernità, di una logica e di un sistema di valori comune. I meccanismi e gli strumenti attraverso cui la modernizzazione operava localmente e si organizzava territorialmente erano i “progetti di sviluppo”. La razionalità di progetto implicava sia la capacità di spiegare e prevedere successi e potenziali fallimenti delle decisioni di sviluppo, sia di sapere valutare a priori e settorialmente le potenzialità dei territori destinatari degli investimenti e gli eventuali vincoli di tipo strutturale. In questo contesto di senso il progetto di sviluppo veniva inteso come un’attività di pianificazione e di definizione di formule d’intervento, che ricorreva a competenze tecnico-esperte per la diagnosi dei problemi, la rilevazione delle risorse disponibili e la messa a punto di strategie di intervento adeguate. Poca attenzione veniva invece riservata alla comprensione del percorso attraverso cui un progetto “si sviluppa”, cioè, si implementa, risultando complessivamente come una strategia non del tutto prevista e comportando un insieme di azioni i cui effetti il più delle volte sconfinano dal tracciato iniziale. Le difficoltà e le incertezze che tipicamente caratterizzano la messa in opera tendevano ad essere viste piuttosto come problemi e ostacoli da rimuovere, così come tutto ciò che accadeva fuori dai piani era considerato fattore di disturbo. 45 In molti casi, in quegli anni la logica dell’intervento statale a favore della crescita delle aree “in ritardo di sviluppo” e della soddisfazione dei relativi bisogni sociali faceva proprie le tesi della modernizzazione economica. Nei primi decenni del ’900 si registrarono alcuni episodi di industrializzazione nel Polesine con l’insediamento di fabbriche, e nel periodo del secondo dopoguerra la modernizzazione economica investì principalmente il settore agricolo; il processo di meccanizzazione provocò la problematica diminuzione del fabbisogno di manodopera bracciantile, che si aggiunse agli altri fattori di crisi dell’agricoltura. È dopo la grande alluvione del Po nella seconda metà degli anni ’60 (una precedente disastrosa alluvione era stata quella del ’51) che la stagione dei progetti di sviluppo si profila con maggiore consistenza e come una strategia consapevole. Le condizioni di vita locali si presentavano difficili, tra la povertà diffusa e il perdurare della situazione di mancanza di prospettive di occupazione, che costringevano la popolazione all’abbandono delle terre e dei paesi d’origine. L’esodo (in un primo periodo verso centri urbani fuori dalla provincia di Rovigo), stando ai dati dell’andamento demografico dagli anni ’50 agli anni ’60-’70, portò in alcune aree al dimezzamento della popolazione residente, quando non ancor peggio. In quel periodo le priorità dell’agenda politica e istituzionale erano: contrastare l’abbandono e contenere il declino della popolazione, rendendo disponibili in loco posti di lavoro dignitosi; innalzare il reddito minimo procapite; garantire i servizi di base; procedere con l’infrastrutturazione. Lo sviluppo economico attraverso l’industrializzazione era dunque la risposta, secondo un disegno razionalizzante e funzionalista del territorio (e dell’economia). Il Polesine diveniva area-target di progetti di modernizzazione proprio quando le teorie della modernizzazione economica conoscevano un sensibile declino della popolarità, in ragione della constatazione degli insuccessi o degli effetti indesiderati che ne discendevano, e delle sempre più diffuse critiche al modello. Il percorso di modernizzazione del Polesine (un po’ area in crisi, un po’ mito della terra vergine) si compiva infatti in ritardo rispetto a molte aree d’Italia e del NordEst. Il con- 46 senso intorno alla necessità di sviluppare un’economia di tipo industriale si era definito come l’applicazione di un modello, per così dire, “deterritorializzato”, la cui legittimazione veniva “dall’esterno” e dipendeva da un corpo di teorie, aventi come terreno di analisi sperimentazioni avvenute in altri contesti territoriali e in altri anni. Questo ha portato a due ordini di conseguenze. La prima, considerata a distanza di anni, è potenzialmente positiva: proprio in virtù del “ritardo di sviluppo” molte zone del Polesine sono state preservate dalla devastante cementificazione del territorio e dagli effetti perversi che la prima ondata di industrializzazione ha prodotto; per la qual cosa il Polesine ha potuto mantenere un vantaggio qualitativo, che ancora oggi può in parte giocare competitivamente. Vedremo di seguito attraverso alcuni esempi come le interpretazioni locali a riguardo oscillino tra la posizione di coloro che, anche a ragione di un nuovo fattore interveniente (gli investimenti infrastrutturali che stanno modificando le gerarchie territoriali regionali consolidate), additano quale punto di forza la disponibilità strategica di suoli rispetto alle aree sature del NordEst, e la posizione di coloro che individuano proprio nel deficit di sviluppo di alcune aree un valore da salvaguardare, che fa la differenza con lo stato di altri territori e costituisce un elemento di identità, autonomia e riconoscibilità locale. La seconda è problematica: i progetti di sviluppo della modernizzazione economica non si sono configurati come politiche attive, alle quali una collettività intera poteva partecipare per rendersi consapevole della trasformazione del proprio territorio, dei luoghi e degli stili di vita. Piuttosto la logica di questi interventi ha gettato i presupposti e i fondamenti di un’economia assistita, dipendente da scelte localizzative decise altrove e dalla delocalizzazione di grosse aziende nazionali e internazionali che, attratte dall’opportunità degli incentivi statali, trasferivano temporaneamente propri segmenti di produzione, in cui assorbivano le energie locali senza creare un indotto consistente e soprattutto senza costruire una classe imprenditoriale locale, capace di rilanciare autonomamente e responsabilmente lo sviluppo di quelle aree. In tal modo le sorti dei luoghi, spesso in assenza di una Francesca Gelli politica per il territorio, sono dipese dagli andamenti più o meno fortunati delle grosse singole fabbriche e dalle congiunture economiche più generali. L’eredità di queste scelte ha portato una stagione di grandi investimenti ma anche una sedimentazione del rapporto assistenziale come abito culturale e pratica sociale dell’adeguamento, che ha prodotto dipendenze, più che interdipendenze, gerarchie, più che autonomie territoriali. Quando, nella seconda metà degli anni ’80, il concetto di modernizzazione torna di nuovo in auge come riflessione sulle società post-industriali nel tempo dell’economia globale, e si affacciano sensibilità postmoderne che declinano le idee di sviluppo in chiave di sostenibilità, in Polesine si continuano a proporre idee di modernizzazione come industrializzazione in senso tradizionale. Da un lato, anche se cambiano le tecnologie (e fino ad un certo punto), il problema resta sempre quello di stare al passo con i tempi; si difende il mantenimento delle grandi opere che avevano rappresentato il passaggio dall’impiego di forme di energia meccanica per la produzione alla utilizzazione di fonti di energia elettrica (l’opera-simbolo è la centrale termoelettrica Enel Polesine Camerini) o si sostiene la realizzazione di progetti di sviluppo vecchio stile (si disegnano macroaree produttive, si fa pressione perché siano finanziate nuove arterie di attraversamento del territorio per costruirci ai lati zone di espansione industriale, ecc.). Fino ad arrivare ai nostri giorni, in cui si realizza una nuova grande infrastruttura telematica (cofinanziata dall’UE) che segna simbolicamente il passaggio alla frontiera “dell’elettronico” (l’allusione è alla rete di fibre ottiche che attraverseranno longitudinalmente il territorio del Polesine, collegando aree produttive, piccole e medie imprese, pubbliche amministrazioni). Da un altro lato, il problema dello sviluppo è posto in una prospettiva di adeguamento al modello di successo Veneto e del NordEst che, negli anni precedenti, si era configurato come declinazione originale e locale della modernizzazione economica, ribaltando le sorti di interi pezzi di territorio e di comunità locali e rispetto al quale il Polesine si presenta come un’anomalia da correggere, da norma- “Se modernizzare stanca... lizzare. Il frame che identifica il “modello Veneto” è dato dalla particolare commistione di alcuni ingredienti, quali: il successo della piccola media impresa radicata nel territorio e un’organizzazione sociale basata su nuclei familiari; un reticolo di piccoli comuni che formano un continuum di urbanizzazione; una maglia stradale intricata che serve le zone industriali e commerciali e che si è spinta nel tempo a raggiungere insediamenti sparsi (dove però erano presenti delle aziende); la formazione di distretti produttivi e il sostegno a strategie di delocalizzazione ove conveniente; un grande sommerso (dell’occupazione, della fiscalità, degli scambi) che è l’altra faccia delle enfatizzate risorse di autoorganizzazione sociale. Immagini-simbolo di questo modello di sviluppo sono: “il capannone”, struttura permanente e diffusa capillarmente nel territorio, che si è accompagnato a ritmi di lavoro massacranti che ne hanno affermato la produttività; “la strada-mercato”, che attraversa le campagne innescando processi di edificazione ai lati, con la concentrazione di servizi, la localizzazione di funzioni produttive, commerciali, grandi magazzini che ottengono così visibilità e accessibilità rispetto ai flussi di attraversamento e di traffico, e tutto intorno una diramazione di strade che portano a lotti di case unifamiliari e bifamiliari, provviste di giardinetti, o ad altre tipologie edilizie che raramente si differenziano dalla palazzina e dall’edificio condominiale ripetuto uguale fino al riprendere dei campi, per tratti spesso brevi (in quanto a seguire e interrompere vi è un altro insediamento produttivo o un agglomerato urbano). Questa descrizione ci riporta facilmente alle trasformazioni dell’ultimo ventennio in alcune zone del Polesine: è più o meno il paesaggio che si presenta percorrendo la Transpolesana o l’autostrada Eridania; è la realtà che con soddisfazione molti amministratori locali, nel corso delle interviste effettuate, evocano per rendere l’idea del cammino fatto, rispetto a quando non c’era nient’altro, in quei luoghi, che distese di campi. Nel quadro dell’implementazione dei fondi strutturali dell’UE si potenzia ulteriormente questa cornice interpretativa, essendo il Polesine inquadrato come area regionale svantaggiata e con difficoltà strutturali di sviluppo, in confronto con le aree più ricche 47 n.13 / 2005 e progredite del Veneto e del NordEst (che per questa ragione non sono target dei fondi strutturali). Il nuovo imperativo è ridurre il divario esistente assumendo a modello di riferimento il tipo di organizzazione economica e sociale che ha fatto la fortuna del Veneto dei microterritori autoorganizzati. Ancora una volta al Polesine sembra sottratta o quantomeno confusa la possibilità di coltivare un proprio progetto di territorio e di cambiamento. Ma, soprattutto, ancora una volta il Polesine vive il paradosso di dovere assumere una direzione di sviluppo con ritardo, e proprio quando questa viene messa fortemente in discussione alla luce dei tanti effetti indesiderati, dei fallimenti, delle inadeguatezze e delle criticità che presenta sul piano della competitività, delle domande sociali e delle nuove urgenze ambientali. Torneremo ad approfondire questo punto successivamente. 1.1. La stagione dei “grandi progetti di sviluppo” e la costruzione del discorso imperativo della modernizzazione. Se è possibile ripercorrere la storia dello sviluppo del Polesine come transito da un progetto di modernizzazione ad un altro, in una sorta di continuum, tuttavia, si può cogliere almeno un mutamento fondamentale, un cambio di registro nelle logiche dello sviluppo e nelle retoriche che le descrivono. Questo cambiamento è fortemente percepibile a livello della costruzione discorsiva che spiega, dice di volta in volta i progetti di sviluppo, e che tentativamente indichiamo come passaggio: “dalla stagione dei grandi racconti, alle narrazioni minori”. (Per inciso, risulta difficile capire in che termini si tratti di un cambio di tendenza, consapevolmente adottato nelle sedi istituzionali e ampiamente socializzato come nuova strategia di sviluppo, o piuttosto di una corrente, che si fa strada tra altre). Qui ci interessa focalizzare il periodo (anni ’50-’80) in cui si produceva in Polesine il discorso imperativo della modernizzazione, accompagnato da tutta una produzione di retoriche dello sviluppo. I progetti in questa fase condividevano due elementi in particolare, fortemente caratterizzanti l’azione, anche sul piano della comunicazione: quello della 48 “grandezza” e della “significatività” degli interventi, in termini di impatto, di immagine, di dimensioni, di risorse finanziarie, umane, perfino naturali; quello della concretezza, della visibilità, della materialità: i “risultati” si potevano “toccare con mano”. Così, le grosse opere pubbliche; le reti di infrastrutturazione primaria e secondaria del territorio; le grandi fabbriche; la imponente centrale elettrica; ecc. Alla memoria collettiva ancorata alle grandi catastrofi corrispondeva la consapevolezza diffusa dell’immane sforzo di ricostruzione (nelle narrazioni degli amministratori intervistati nel corso della ricerca, ne troviamo conferma, l’incipit è quasi sempre il richiamo allo scenario postbellico, aggravato dalle esondazioni del Po e dalla crisi del settore portante dell’economia locale, l’agricoltura: questi elementi costituiscono la premessa e la giustificazione politica per le scelte di sviluppo successivamente compiute). L’interpretazione del territorio fisico sembra in guisa con questo orientamento: la vastità naturale del Delta e del corso del fiume Po fa sempre da sfondo (corso di cui a un certo punto e a più riprese si suggeriva di farne “una grande autostrada galleggiante”: ipotesi di navigabilità per fini turistici e commerciali). L’ambigua tardiva proliferazione di macro-aree produttive, alcune delle quali sono rimaste non occupate e in qualche caso finanche inedificate (configurandosi allo stesso tempo come un’opportunità e una criticità per il sistema-Polesine), potrebbe essere vista come uno degli ultimi prodotti della stagione dei grandi progetti di modernizzazione e della politica che ne era connessa. La realizzazione dei vari interventi e delle opere previste aveva implicato forme di produzione del consenso che facevano riferimento a logiche istituzionali, tipicamente “dall’alto”, di formazione della domanda politica e di definizione dell’interesse generale, così come a modelli culturali che enfatizzavano la funzione integrativa della politica, attraverso i suoi strumenti tradizionali. I partiti costituivano i fondamentali canali di costruzione del consenso e di socializzazione, e in quegli anni si mostravano capaci di dare rappresentanza alle principali istanze sociali e di inventare nuovi miti; le politiche distributive, intervenendo con sussidi e incentivi di varia natura (statale, europea) face- Francesca Gelli vano da stabilizzatori sociali, per quanto premiassero tanti singoli destinatari – che si trattasse di singoli individui o di singole imprese, aziende (cosa che forse ha contribuito a radicare logiche territoriali autocentrate). Il rapporto tra le amministrazioni locali e gli interessi economici non vedeva una effettiva capacità di autonomia e di forza delle prime in termini di allocazione dei valori, di contrattazione delle poste in gioco e di negoziazione degli obiettivi e dei sistemi di preferenza, né in genere tra amministrazioni pubbliche vi erano motivi di interesse a sviluppare canali di collaborazione e di sussidiarietà verticale e orizzontale: il Polesine appariva gestito all’interno di una concezione che lo poneva come grande periferia di centri decisionali del potere economico e politico, il cui compito (nel caso delle istituzioni pubbliche statali) era di assistenza, di sostegno e di guida. È in questa fase che si consolidano rappresentazioni sostanzialmente statiche e omogeneizzanti della società e del territorio palesano, in una sottorappresentazione delle peculiarità e singolarità dei contesti d’azione. 1.2 Osservazione degli effetti indiretti nel breve, medio e lungo periodo. Se ad un provvisorio bilancio le ricadute delle scelte di modernizzazione compiute complessivamente tra gli inizi del ’900 e la metà degli anni ‘60, osservate nel breve periodo, sono state soprattutto positive (in termini di ripopolamento e maggiore offerta occupazionale, di miglioramento delle condizioni economiche locali e della qualità di vita), nel medio periodo si è dovuto fare i conti con un pesante impatto ambientale e con il peggioramento della qualità del territorio (i problemi sono vari: danno estetico, eccesso di traffico, inquinamento acustico, sussistenza di emissioni nocive, ecc.), fattori negativi che sono parsi in contraddizione con gli obiettivi iniziali, di promozione dello sviluppo locale e del benessere diffuso. Ma è la considerazione degli effetti nel medio-lungo periodo, oggi pienamente sotto gli occhi di tutti, a destare allarme. Le conseguenze più pesanti sono forse quelle derivanti dall’assorbimento quasi totale delle energie locali in un progetto “mosso dal- “Se modernizzare stanca... l’esterno” e trapiantato senza un’opportuna contestualizzazione, che ha generato varie situazioni di dipendenza – che albergano, come abbiamo già detto, nel modo in cui si organizza l’economia, ma più in generale nella formazione della mentalità locale e delle idee di sviluppo della classe politica e dirigente. Se ne notano le ripercussioni, per esempio, nei comportamenti di gestione adottati dalla maggior parte dei Comuni per quanto riguarda l’individuazione di fonti di finanziamento per la fornitura di servizi alla popolazione. Per assorbire il costo dei servizi infatti le amministrazioni comunali si sono abituate a dipendere dal ricavato ICI proveniente dalla presenza stessa dei capannoni e delle fabbriche (dando seguito ad un circolo vizioso, di espansioni produttive e residenziali non sempre motivate da una reale domanda) piuttosto che a puntare sulla gestione congiunta dei servizi o a cercare altre modalità di finanziamento. Questo aspetto può essere ricondotto ad un quadro più generale di perdita di autonomia, da parte delle amministrazioni pubbliche, nella gestione dei servizi, in una problematica dipendenza dalle stesse politiche di sviluppo economico. Tra le altre conseguenze che si osservano, solo per rendere l’idea, citiamo: la mancanza di differenziazione delle produzioni economiche, in molte aree; l’inibizione dello sviluppo di una imprenditorialità locale e di un indotto autonomo significativo di imprese; la scarsa crescita delle risorse umane e delle competenze tecnologiche; i nuovi fenomeni di disoccupazione (dei giovani con elevata istruzione, di fasce di popolazione femminile, ecc.); le minori capacità cooperative, di costruzione di reti di relazione territoriale (tendenza all’isolamento); le difficoltà di adeguamento ai cicli mutati dell’economia e alla nuove tendenze e esigenze lavorative (rifiuto delle generazioni giovani dei pesanti turni di fabbrica, emergenza di una nuova sensibilità ambientale ed ecologica, ecc.); lo scarso successo delle politiche concertative-negoziali e il persistere di logiche di tipo distributivo; la riduzione del numero e delle tipologie di attori che vengono coinvolti nei progetti di sviluppo territoriale; la scarsa capacità di produrre scenari di sviluppo e una politica del territorio di ampio respiro; l’impoverimento delle rappresentazioni del territorio; l’i- 49 n.13 / 2005 dentificazione dell’istanza di integrazione e di coordinamento con un coordinatore (nella forma di un’autorità sovra-comunale). Di seguito, con riferimento alla realtà territoriale del Polesine, riportiamo due casi paradigmatici, esemplificativi di percorsi e storie di una “modernizzazione” frutto di decisioni esogene e di progetti concepiti secondo un’ottica razionalizzante e funzionalista del territorio e dello sviluppo: così, le vicende localizzative e gli effetti sul territorio della grande fabbrica a Castelmassa; lo stabilimento e gli effetti sull’ambiente della centrale termoelettrica Polesine-Camerini a Porto Tolle, in un contesto di straordinario valore ambientale e di attività ittica, a lungo dipendente dai sussidi della PAC. 1.2 Breve storia di Castelmassa, dall’insediamento della fabbrica Cerestar. Castelmassa si distingue, rispetto ai Comuni limitrofi (Calto, Salara, Ceneselli, Castelnovo Bariano, Melara e Bergantino) per una densità abitativa molto alta, prossima più ai centri urbani che rurali (considerando la media provinciale ma anche in valori assoluti) e più complessivamente per l’andamento demografico. La popolazione è infatti cresciuta fino agli anni ’80 (mentre negli altri Comuni è diminuita considerevolmente); successivamente, invece, è iniziata una fase di forte declino demografico, con percentuali quadruple rispetto alla media provinciale. Negli ultimi anni il calo è stato minore, anche per l’afflusso di nuova popolazione straniera. Per coglierne l’ordine di grandezza del Comune, siamo sui 4.300 ab. Il paese si trova in posizione privilegiata di accessibilità all’autostrada Eridania, che è la principale arteria di collegamento tra i Comuni sopramenzionati e la cui esistenza ha incentivato l’ubicazione di zone industriali piuttosto consistenti, che costituiscono in alcuni casi ampliamenti di aree produttive e in altri nuovi progetti di espansione (come è la macroarea tra Calto e Salara). Il settore produttivo e occupazionale che risulta prevalente è quello manifatturiero, con una certa consistenza del settore costruzioni. Per quanto un po’ tutti i Comuni abbiano puntato, tra le strategie di sviluppo economico, sul rafforzamento del settore arti- 50 gianale-industriale e sulla disponibilità di aree per insediamenti industriali, occorre precisare che il tipo di produzioni è molto differenziato e le ricadute sull’economia e la qualità della vita sono in generale molto diverse, nella zona. Castelmassa è la storia della Cerestar Italia, azienda chimica di trasformazione, oggi del Gruppo Cargill (che commercializza a livello internazionale prodotti agricoli, alimentari, eccipienti farmaceutici, nonché prodotti e servizi di risk management) il cui insediamento nel paese risale a circa un secolo fa, e della decisione del suo ampliamento, avvenuto negli anni ’80-’90, che l’amministrazione comunale acconsente portando la situazione, già critica, a precipitare. Scelta sofferta che si dimostrerà per il pesante impatto in termini ambientali (danno estetico, inquinamento acustico, atmosferico, congestione della viabilità stradale interna per aumento del traffico dei mezzi pesanti – problema di recente parzialmente risolto con appositi interventi finanziati con fondi del patto territoriale), ma anche in termini di consenso politico (alle elezioni amministrative ci sarà un’inversione netta di tendenza, nella scelta della maggioranza di governo). La localizzazione della fabbrica, presenza inquietante al centro del paese (“una mostruosità che oggi, forse, non si farebbe più”, si abbandona a dire la sindaca nel corso di un’intervista), per un certo periodo di tempo rappresenta una risorsa sicura di occupazione, in un’area poverissima. Pertanto viene accolta come la soluzione a molti dei gravi problemi locali: l’andamento demografico in controtendenza rispetto alla media provinciale in quei decenni e il progressivo dissolvimento del carattere rurale dei luoghi ne sono la riprova; così come il declino della popolazione dalla fine degli anni ’80 è successivamente segnale di crisi. Nell’opinione locale, la formazione di un’economia e di un progetto di sviluppo tutti incentrati sulla presenza della fabbrica, tuttavia, nel lungo periodo hanno determinato una serie di svantaggi e di complicazioni. C’è come la percezione di essere cresciuti “sotto ricatto”. La Cerestar ha assorbito molte delle energie disponibili e il modesto indotto di piccole imprese che ne è derivato si concentra su un tipo di produzioni, strettamente dipendenti dalla fabbrica-madre; Francesca Gelli la crescita di un’imprenditorialità locale è risultata per lo meno sfavorita, se non disincentivata dalla monocultura di fabbrica (il che spiegherebbe anche perché Castelmassa non prende forza dal circuito del vicino distretto della giostra, tant’è che pochissime sono le imprese e pochi sono gli addetti in esso impiegati). Questo ha avuto ricadute dirette sullo sviluppo produttivo, ma anche sulla struttura sociale. La nuova area industriale di cui il Comune si era dotato già negli anni ’80, urbanizzata solo di recente, stenta a decollare, nonostante i prezzi concorrenziali delle aree. Il distacco totale dalla campagna non rende credibile investire nella direzione dello sviluppo del settore agroalimentare, dei prodotti locali, come altri Comuni inizialmente “meno fortunati” sono invece da tempo impegnati a fare; l’abbrutimento dei luoghi rende difficile intravedere spazi per attività turistiche. Vi sono varie lottizzazioni per edilizia residenziale ma non c’è mercato, molte case restano invendute, un po’ per i costi troppo alti, un po’ perché Castelmassa è poco attrattiva dal punto di vista residenziale. Infine, se la situazione occupazionale è stata favorevole per molti anni, le possibilità d’impiego presso la Cerestar oggi non soddisfano più una parte di lavoratori, che non sono disponibili a fare i pesanti turni di fabbrica; così, la manodopera viene da un bacino più largo (beneficiando poco, dal punto di vista occupazionale, il paese e i suoi residenti), e si registra un aumento della disoccupazione tra i giovani che hanno un’istruzione elevata. La domanda che allora ci dobbiamo porre è: se per una qualche ragione la fabbrica dovesse chiudere, che ne sarebbe dell’economia di questo paese? Quali politiche pubbliche possono fronteggiare i nuovi problemi emergenti di occupazione, di qualità della vita? (Un esempio che fa riflettere: in una situazione solo apparentemente lontana, senz’altro più prospera e organizzata, quella della monocultura della mela in Valdinon, qualche tempo fa, è stata fatta un’indagine accompagnata da un sondaggio presso la popolazione per cogliere gli scenari di sviluppo locale in caso di crisi del settore e l’esito è stato sorprendentemente pessimista, rilevando una fortissima dipendenza dalla risorsa-mela e dal ciclo “Se modernizzare stanca... produttivo legato alla sua lavorazione; senza contare i problemi sociali che in alcuni mesi dell’anno, soprattutto quelli della raccolta, derivano dall’alta presenza di manodopera straniera, che costituisce un grande sommerso). L’ampliamento della Cerestar, avvenuto in tempi relativamente recenti (quando forse si poteva ancora perseguire un diverso disegno di sviluppo e operare un’inversione di tendenza), si è prodotto in una condizione di debolezza negoziale dell’amministrazione comunale, rispetto al potente gruppo privato, ma soprattutto in un clima in cui il discorso imperativo della modernizzazione nell’interpretazione più tradizionale (sviluppo industriale e infrastrutturazione) manteneva in Polesine una forza inerziale e faceva da cornice per lo sviluppo locale. Le priorità oggi a Castelmassa sono il miglioramento della qualità di vita e delle condizioni dell’abitato, assieme con la consapevolezza della necessità di rompere la cornice consolidata di “Castelmassa come una fabbrica”. In tal senso si possono leggere le molte iniziative intraprese dall’amministrazione comunale (ricordiamo che il cospicuo ricavato ICI può essere utilmente impiegato per l’offerta di servizi alla popolazione) come risposte di tipo “endogeno”, tra le quali la costituzione di un polo di servizi sportivi (stadio, pista d’atletica, piscina, campi da tennis) che è punto di riferimento anche per alcuni Comuni limitrofi, così da generare un effetto di pendolarismo verso il paese non soltanto per ragioni di lavoro, ma anche per scopi ricreazionali. L’amministrazione si dimostra inoltre interessata alla valorizzazione turistica e alla tutela ambientale del Po, ma non si muove in prima persona per intraprendere iniziative, anche in associazione con altri Comuni (ritenendo che spetti alla Provincia svolgere un’azione significativa a riguardo); per cui, le attività sono di fatto molto limitate (c’è qualche ristorante e attrezzature connesse agli attracchi sul fiume, dove la gente va a fare pic-nic). 1.3 La centrale termoelettrica Enel PolesineCamerini a Porto Tolle Porto Tolle è situato nell’area del Delta del Po. Conta complessivamente più di 10.000 ab. ma si 51 n.13 / 2005 caratterizza per una bassissima densità abitativa (circa 50 ab/kmq), in ragione della notevole estensione territoriale e della particolare situazione fisico-ambientale dell’area (una parte del territorio è costituita dalle foci del fiume), e registra un persistente calo demografico, da anni. Fa parte del Parco del Delta, l’Ente che tutela e regola per molti aspetti gli usi della terra in questa zona singolarmente ricca di risorse naturali, storiche e culturali. I Comuni confinanti (Rosolina, Porto Viro, Ariano del Polesine, Taglio di Po) presentano tuttavia una forte diversificazione delle attività economiche: l’area del Delta è densamente antropizzata e comprende al suo interno, oltre che risorse ambientali uniche, funzioni urbane, logistica avanzata e reti infrastrutturali, macro-aree industriali, strutture turistiche, ecc. Il contesto è dunque quello di un forte pluralismo dei sistemi di valore e di preferenze, con effetti di dinamicità ma anche in alcuni casi di conflittualità e di dispersione tra interessi ed esigenze contrastanti. Anche se un giudizio grava sulle scelte locali: il Delta è stato di fatto “scippato” da Ferrara, che pur godendone in misura assai minore (in quanto a superficie territoriale) a confronto con il Polesine, tuttavia è stata capace di un’abile gestione e di un’azione di valorizzazione di successo. È difficile inquadrare la storia dello sviluppo del Comune di Porto Tolle secondo categorie propriamente “economiche”, mentre è possibile coglierne meglio la realtà a partire dagli effetti delle decisioni fondamentali che hanno interessato questo vasto territorio comunale negli ultimi cinquanta anni e dai comportamenti che ne sono risultati conseguenti. Dopo il grande periodo di esodo, in una situazione di estrema difficoltà (conseguente all’alluvione), il punto di svolta viene dalla decisione, di natura assolutamente esogena (governativa), di localizzare una grande centrale termoelettrica nel territorio comunale. Ci sono infatti molti fattori a favore di questa scelta; prima tra tutti, la disponibilità della risorsa acqua e di un territorio vasto e poco urbanizzato, poco abitato; l’esistenza di una forte domanda di occupazione in zona, aggravata dalle difficoltà a sostenere il pendolarismo, data l’estensione territoriale del Comune e i conseguenti lun- 52 ghi tempi di percorrenza. La realizzazione dell’opera (iniziata nel 1970 e completata nei primi anni ’80) viene vista come un fattore rilevante di modernizzazione, un’opportunità occupazionale non solo per la popolazione di Porto Tolle, ma anche per tutto il bacino intorno (se si guarda all’andamento demografico, si osserva infatti che la popolazione residente in quegli anni aumenta). Lavorare alla centrale garantisce un salario sicuro e comunque un reddito più elevato; è pertanto una opzione che si mostra competitiva rispetto ai settori tradizionali dell’agricoltura e della pesca, dai quali viene assorbita di fatto buona parte della forza-lavoro. Tuttavia, nel corso del tempo l’esistenza della centrale ha condizionato pesantemente la crescita del luogo, contribuendo (assieme al sistema dei finanziamenti della PAC) ad instaurare una concezione dello sviluppo piuttosto dipendente da variabili “esogene”: a Porto Tolle ad esempio non si è mai sviluppato il settore manifatturiero come base economica (la produzione tessile, contoterzista, organizzata per piccoli laboratori artigianali, è entrata definitivamente in crisi negli anni ’90, aumentando la disoccupazione soprattutto femminile). Il recente annuncio di futura dismissione (entro il 2018) e/o delocalizzazione e/o riconversione della centrale ha generato un dibattito locale acceso e controverso (immaginiamo, per ricollegarci all’esempio precedente, che si annunci a Castelmassa la chiusura della Cerestar). Da una parte, l’amministrazione comunale è su posizioni tendenzialmente conservatrici: lo sbocco occupazionale della centrale, per quanto ridotto rispetto al passato, è ancora fonte di consenso locale, ma questo non è il solo motivo che spinge ad assumere tale condotta. Il ricavato ICI è infatti ancor più fondamentale in quanto consente di coprire molte delle spese per la fornitura dei servizi alla popolazione (trasporto pubblico, assistenza, scuole, ecc.). Si tratta di costi altissimi, data l’estensione del territorio comunale (da coprire con i servizi), la bassa densità abitativa e il numero alto di anziani: se Porto Tolle dovesse perdere questa parte di introiti, si troverebbe a dovere operare dei tagli e soprattutto a dovere rinunciare alla suddivisione del Comune in frazioni, un tratto questo che contraddistingue la struttura del paese e che viene Francesca Gelli visto come un elemento importante dell’identità locale (intorno alle frazioni si organizza una vita di comunità, piuttosto differenziata e autonoma, animata da feste, tradizioni, attività di piccolo commercio, essenziali per mantenere unita la popolazione). Sembra dunque che si sia innescato un circolo vizioso di dipendenza, per molti aspetti, dalla centrale. Vi è da aggiungere che, forse proprio in ragione di una certa autosufficienza acquisita con la localizzazione della centrale, forse anche per le caratteristiche particolari del territorio, che rende ogni meta e destinazione problematica da raggiungere, il Comune non ha sviluppato nel tempo forme di cooperazione per la gestione dei servizi (una formula utilizzata dalle amministrazioni per abbattere i costi) ed ha teso piuttosto ad isolarsi. D’altra parte, la centrale termoelettrica è un tipo di funzione che si mostra sempre più incompatibile (in quanto sospetta fonte di inquinamento, di emissioni che causerebbero danni all’ambiente e alla salute pubblica) con lo sviluppo delle altre attività a Porto Tolle (a cominciare dalla pesca), ma anche in Comuni limitrofi (come nel caso di coltivazioni di agricoltura biologica). C’è una certa mobilitazione locale (sostenuta dai gruppi ambientalisti, da comitati di cittadini) per la dismissione della centrale e un dissenso che a tratti trova spazi di espressione; tuttavia, la sensazione predominante (nelle interviste effettuate, in occasione della partecipazione ad alcuni momenti di dibattito pubblico, alla lettura della rassegna stampa) è che la tendenza sia ad evitare il più possibile il conflitto e l’emergere di proteste. La centrale è diventata anche un simbolo dell’epoca industriale e una sorta di monumento: attrae visitatori ed è meta di intere scolaresche, quasi se ne riconoscesse il valore educativo. Una situazione in parte analoga si prospetta nel settore ittico dato che la recente riforma della PAC interviene a riorientare decisamente il sistema dei finanziamenti e gli effetti di questa trasformazione saranno visibili a breve. Occorre operare un disancoramento dal modello assistenziale che ha pervaso per lungo tempo il settore ittico (che assieme all’agricoltura assorbe ben un terzo del totale degli addetti) e rafforzare le spinte di carattere “esogeno”: questo è un problema di mentalità e di orga- “Se modernizzare stanca... nizzazione, ancor prima e ancor più che di finanziamenti; bisogna vincere un’inerzia di fondo che perdura e che riguarda tutta una generazione. Si cominciano già a intravedere sforzi interessanti e di carattere “endogeno” per valorizzazione della risorsa-pesca e dell’agricoltura, che può vantare la produzione di prodotti tipici come il riso, la vongola, l’esistenza di un mercato ittico di grosse dimensioni e in espansione, concorrente con quello di Chioggia, con una flotta efficiente e moderna (non siamo dunque a fronte di un’economia basata su un’unica fonte di produzione). Inoltre, si stanno sperimentando formule di gestione miste pubblico-privato per promuovere attività di trasformazione e conservazione dei prodotti ittici e agricoli, finalizzate alla commercializzazione, che è ancora un punto debole (un accenno merita la costituzione del Consorzio Cooperative Pescatori del Polesine). Un’accelerazione in questo senso è avvenuta nel 2003 con l’adozione di un Documento che è anche un nuovo strumento di regolazione locale, oltre che finanziario: “Il Patto per lo Sviluppo del Distretto del Settore Ittico della Provincia di Rovigo”, che coinvolge tutti gli operatori della filiera ittica del Polesine (concentrata prevalentemente nel Comune di Porto Tolle e confinanti) e che si pone in continuità con il Distretto Agroalimentare e Ittico che era stato riconosciuto come Distretto Industriale dalla Regione Veneto nel 1999. L’amministrazione comunale, in generale, mostra una forte dinamicità e progettualità con un investimento nel potenziamento dell’offerta turistica, che potrebbe un domani costituire un settore di occupazione e di reddito, e con sperimentazioni di partnership pubblico-privato (i servizi primari in spiaggia, il recupero di un ex zuccherificio a funzioni ricettive, operazioni di marketing, ecc.). 2. Verso le “narrazioni minori” e i “progetti di territorio” Dalla fine degli anni ’80 e per tutti gli anni ’90 in Polesine la stagione dei racconti della modernizzazione economica si esaurisce nella sostanza; il consenso intorno ai grandi progetti di sviluppo sembra incrinato, e si trascina in avanti più come forza iner- 53 n.13 / 2005 ziale. In questo quadro ridefinito subentrano narrazioni “minori”, più frammentate, disperse, secondo una sensibilità post-moderna che privilegia operazioni di bricolage e approcci negoziali. Si tratta di rappresentazioni dello sviluppo che fanno riferimento a interventi diffusi, la cui forza sta non tanto nella dimensione quanto nelle componenti di integrazione e nel fare-rete, nell’immaterialità piuttosto che nella concretezza materiale, nell’assemblaggio di elementi eterogenei e idee minori piuttosto che in un’unica idea-portante. Si agisce uno spostamento sul piano simbolico e della comunicazione, che progressivamente penetra nei quadri organizzativi e operativi di alcune istituzioni del territorio (come ad esempio il Consorzio di Sviluppo del Polesine) che sono impegnate nell’implementazione locale di politiche regionali, nazionali ed europee, ma che in altri ambienti incontra resistenze al cambiamento e profonde incrostazioni. In questa cornice, ad esempio, possiamo collocare i progetti che puntano alla riqualificazione delle aste fluviali (del Po come del Canal Bianco, dell’Adige) con finalità di vario tipo; i circuiti di valorizzazione dei prodotti tipici, dei beni culturali e ambientali; gli itinerari di visitazione del territorio e le iniziative di promozione di servizi per il turismo; le politiche della conoscenza – intese sia come formazione di expertise locale sia come promozione di forme di partecipazione alle decisioni di sviluppo –; i consorzi di imprese e le cooperative tra agricoltori; gli accordi tra comuni per la gestione congiunta dei servizi, la realizzazione di progetti; ecc. È la stagione delle politiche partecipative e delle nuove forme di amministrazione, attente a migliorare l’efficacia delle varie azioni e iniziative di sviluppo attraverso l’attivazione di processi di governance territoriale che valorizzano le risorse della pluralità di soggetti e organizzazioni che sono interessati all’azione collettiva e che chiedono di prendere parte ai processi di decisione. In questa prospettiva il progetto non si configura come “un modello d’ordine anticipato”, sostanzialmente “esogeno” e tutto schiacciato sulla componente economica dello sviluppo, ma come una pratica sociale, interattiva che vede i territori farsi attori e “imprenditori di politiche”, mobilitando risorse locali e non: la chiave interpretativa più appropriata è dunque quella dei “progetti di territorio” 54 (Vettoretto, in questo numero). Si ritrae il discorso imperativo della modernizzazione economica che transitava nei territori da un centro di potere ad un altro attraverso il dispositivo dei “progetti di sviluppo” e si affaccia l’approccio discorsivo e organizzativo delle politiche di governance, attraverso un nuovo dispositivo di funzionamento e di diffusione che è quello dei “progetti di territorio”. Tra gli attori che possono giocare un ruolo centrale in questo contesto, facendosi catalizzatori delle energie territoriali e intraprendendo azioni di tipo cooperativo, vi sono le municipalità; la ricerca ha cercato di lavorare proprio ad un approfondimento dei progetti di territorio che vedono le amministrazioni locali coinvolte come soggetto-chiave, non necessariamente individuale (la formula partenariale è ricorrente), o giocare di sponda, con vari ruoli (di sostegno, di accompagnamento, di garanzia dell’interesse pubblico). Una tale svolta nel modo di concepire i progetti di sviluppo deve tuttavia fare i conti con la necessità, sul piano cognitivo, di un investimento specifico nella formazione di una nuova “infrastruttura intellettuale” per comprendere il cambiamento e per interpretare le diverse posizioni che si fanno strada in materia di progettazione e attuazione delle politiche di sviluppo. Una istanza che si coglie sottesa alla domanda di produzione di scenari di sviluppo locale del Polesine (per come espressa dal Consorzio di Sviluppo) è quella di una nuova formazione discorsiva, che racconti i luoghi e i tempi del divenire del Polesine e che, decostruendo il discorso imperativo della modernizzazione e l’immaginario a questa connesso, consenta di interrogare criticamente le mutate condizioni economiche e sociali, di attivare processi di produzione e di condivisione di nuove rappresentazioni collettive dei problemi. In particolare, si riscontra come il radicamento della cornice del Polesine-come-areadepressa, il persistere di una percezione negativa, di luoghi tristi, con un passato di povertà e di miseria, mostri ancora oggi i suoi effetti, che si fanno sentire in modo incisivo quando si tratta di introdurre e rendere credibili operazioni di cambiamento, di proporre idee nuove e competitive, ma anche quando bisogna impegnarsi nella promozione del territorio e approntare opportune strategie Francesca Gelli di marketing. È un vero e proprio fattore di inerzia, una cornice pesante che grava sulle capacità di apprendimento collettivo e che va scardinata. Se, ad esempio, si prendono a riferimento le politiche e le varie azioni di valorizzazione delle risorse ambientali e paesistiche, che in più parti pur come iniziative singole stanno avendo luogo, si percepisce la difficoltà del Polesine a fare-sistema non soltanto per la resistenza, da parte di molti operatori locali alla cooperazione o al cambiamento organizzativo (che implicano nuove competenze e capacità gestionali, di programmazione, ecc.), a riconoscere che è possibile trovare fonti e modalità alternative di occupazione e di sviluppo, ma per una sorta di inadeguatezza diffusa (un detto e un non detto) a immaginare un Polesine terra di svago, di fruizione turistica e di attrazione culturale. Tuttavia, la costruzione di un immaginario collettivo del Polesine che riacquista a pieno titolo i caratteri di un territorio ricco di opportunità e di sorprese, per la popolazione locale quanto per lo straniero, se da un lato richiede evidentemente del tempo, oggi sembra mancare di un preciso impegno e di una volontà politica adeguata all’impresa. Alla fine continuano a riscontrare maggiore successo le cornici che propongono processi di industrializzazione e di crescita economica aderenti alle logiche, più radicate, che hanno prodotto molto dello sviluppo del Polesine negli anni passati, ma anche una serie di nuovi problemi. Abbiamo anticipato in apertura come la politica dei fondi strutturali dell’UE, durante tutti gli anni ’90 fino ai nostri giorni, abbia costituito una vera e propria complicazione in questo senso, sia perché ha continuato a trattare e pianificare il Polesine come area depressa e con carenze di tipo strutturale, destinandola ad essere target di progetti di modernizzazione, sia perché nel compiere questa zonizzazione ha rafforzato l’idea che il modello di sviluppo da trasferire e da imitare nel tentativo di ridurre gli squilibri esistenti nel territorio regionale fosse quello prevalente nelle aree più avanzate, del “miracolo Veneto”. L’azione dell’UE nell’interpretazione locale (il riferimento è soprattutto alla realizzazione degli interventi previsti dal Docup) ha inoltre rischiato in molti casi di incentivare tendenze conservatrici e orientamenti di policy di tipo sostanzial- “Se modernizzare stanca... mente distributivo e redistributivo, anziché essere di stimolo per il cambiamento e l’innovazione. Ma, il paradosso principale è che tutto ciò si produce proprio quando il “modello Veneto” viene messo in discussione e nelle aree che hanno rappresentato il cuore del suo sviluppo. 2.1. Crisi del modello veneto: un’altra cornice si infrange La dura contestazione al “modello Veneto” si articola su tutti i punti: è andata in crisi l’infrastrutturazione del territorio ( le principali arterie di circolazione sono intasate, insicure e inadeguate ai nuovi flussi di merci e persone, con tempi di percorrenza assolutamente anti-economici; la logistica è carente; l’impiego delle reti tecnologiche e l’innovazione degli strumenti di comunicazione è insoddisfacente; ecc.); i costi ambientali dell’imperativo della crescita micro-produttiva e residenziale diffusa quanto incontrollata sono diventati altissimi (con la conseguenza di un depauperamento delle risorse naturali e del patrimonio ambientale, del degrado dei paesaggi, dell’inquinamento dell’aria, dell’acqua, ecc.); le risorse umane sono cresciute diversamente dalla domanda di mercato interno (da un lato, i grossi problemi di ricambio generazionale in settori dell’agricoltura e dell’artigianato; dall’altro, fenomeni di disoccupazione o sottoccupazione dei giovani con elevato livello di istruzione, soprattutto in alcune aree; scarsa reperibilità di alcune competenze e difficoltà a valorizzare il know-how locale); la qualità della vita si è abbassata e si fanno strada le nuove povertà; ma viene fuori anche una classe media che un po’ ha raggiunto il benessere materiale, un po’ si guarda intorno e si rende conto, forse per la prima volta, di essere incastrata in una sorta di circolo vizioso che il modello di sviluppo stesso ha prodotto (pochi spazi per il tempo libero, la socialità, il godimento delle bellezze naturali; i centri urbani a rischio di concentrazione di fenomeni di criminalità; una popolazione immigrata che invade i luoghi centrali quanto le periferie e sottrae spazi di fruizione e d’identità agli abitanti del posto; una diffusa incertezza del futuro; ecc.) e allora protesta: “basta con i capannoni”; la frammentazione socia- 55 n.13 / 2005 le e la dispersione urbana sono diventati caratteri prevalenti; le piccole imprese, i piccoli comuni sono a rischio di sopravvivenza. Sulla scia di queste contestazioni (che a volte assumono la forma di un malessere diffuso e latente, a volte esplodono in azioni di protesta mirate, a volte configurano proposte di piano e di politiche territoriali alternative, o momenti di discussione nelle stesse sedi istituzionali) si apre uno spazio interstiziale che riduce il divario tra Veneto e Polesine, facendo scoprire in un certo senso l’attualità della condizione postmoderna del Polesine e lasciando intravedere la possibilità di un sostanziale recupero della sua immagine e delle sue potenzialità. Disancorato dalla cornice stereotipa della crescita produttiva del modello Veneto, rispetto alla quale non ha mai potuto reggere il confronto, il Polesine si presenta come l’area critica del territorio regionale Veneto dove è ancora realmente possibile sperimentare nuove formule di sviluppo. Il Veneto infatti si sta riscoprendo non così omogeneo quanto plurale e differenziato, con molte risorse ed energie che non seguono e forse non hanno mai seguito la monocultura del capannone, ma semplicemente sono risultate sottorappresentate in quanto non riconducibili al frame dello sviluppo prevalente che è passato per “modello del NordEst”. Le posizioni che si affacciano al dibattito si scoprono non così d’accordo nel definire il modello di crescita Veneto negli ultimi decenni: in gioco c’è una crisi della capacità di autonarrazione e di produzione di rappresentazioni collettive condivise degli scenari di trasformazione territoriale. Segmenti di forme alternative di economia e di produzione, di diverse pratiche d’uso del territorio si sono da tempo sperimentate nei settori del turismo (rurale, balneare, culturale, legato a circuiti enogastronomici e a itinerari di visitazione e di fruizione del territorio, ecc.), dell’agricoltura specializzata e biologica, dell’agriturismo, del divertimento, con progetti di filiera, realtà di rete e cooperazione, nuovi distretti produttivi (agroalimentare, riciclaggio, ecc.), progetti della formazione e del sapere (rapporti tra ricerca e innovazione), secondo un orientamento ispirato ai principi della sostenibilità ambientale, sociale, economica. Queste altre attività sembrano raccogliere il meglio dello “spirito 56 veneto” dell’autoorganizzazione sociale e delle reti informali, rispetto all’orientamento prevalente della prospettiva economica-industriale. Allo stesso tempo, tuttavia, pur trattandosi in alcuni casi di esperienze che si presentano molteplici, numerose ma sostanzialmente di nicchia (per cui faticano a fare massa critica), il forte potenziale di conflittualità che si apre tra le due strade (cioè, tra le declinazioni possibili del “modello di sviluppo Veneto”) comincia ad apparire chiaro ad amministratori locali, agli attori economici e al mondo del sociale. Di fatto si osserva come nuove spinte edificatorie, di espansione produttiva che seguono la formacapannone coesistono con iniziative e logiche di intervento che vanno verso un modello alternativo di sostenibilità dello sviluppo. Il Veneto si presenta caratterizzato proprio dalla commistione delle due logiche dello sviluppo, tra vecchie routine e nuove pratiche, e da situazioni territoriali problematiche per la coesistenza di funzioni, scelte localizzative, effetti di politiche non ricondotte ad un quadro programmatico di ampio respiro. In alcune aree si ha la sensazione che conflitti latenti stiano per arrivare al punto di rottura, mentre in altre “eruzioni” sono già in atto. La tentazione di introdurre elementi di razionalizzazione e di messa in coerenza dei territori è forte. Il Polesine e il Veneto sono così di nuovo potenzialmente “vicini” nell’ambivalenza delle scelte di sviluppo locale. La questione si pone dunque in termini di nuove domande di rappresentanza (con riferimento ai soggetti che si fanno attori del cambiamento e prendono parte ai processi di produzione e riproduzione dei beni pubblici; alle modalità della rappresentanza) e di rappresentazione (delle differenti situazioni territoriali, dei problemi), entro contesti strutturati di interazione e di socializzazione delle esperienze. 2.2. Percorsi e storie di sviluppo che valorizzano il capitale endogeno e la nascita di reti di collaborazione con la formazione di specifici sistemi locali e progetti di territorio Presentiamo di seguito alcuni esempi che mostrano – in Polesine – percorsi alternativi allo sviluppo industriale tradizionalmente concepito. Francesca Gelli Il primo riguarda le realtà produttive dell’attuale distretto della giostra, ovvero della costruzione incrementale di una strategia di sviluppo che punta sulla socializzazione di un’idea-portante e sulla capitalizzazione nel tempo delle esperienze, con effetti di apprendimento trasversali ai settori (dall’industria all’agricoltura al commercio). La crescita del sistema locale si basa su attività legate alla valorizzazione delle risorse endogene e alla mobilitazione delle comunità locali, e nel mediolungo periodo produce effetti quali: l’estensione delle reti di relazione territoriale (formazione del distretto della giostra); una maggiore versatilità e capacità di adeguarsi ai cambiamenti del mercato e alle crisi congiunturali dell’economia; la formazione di una mentalità più aperta; una possibile maggiore propensione alla collaborazione e in generale più occasioni di cooperazione (anche per la fornitura di servizi); l’arricchimento e la specializzazione dei profili di competenza; l’accrescimento del numero e delle tipologie di attori impegnati nello sviluppo territoriale; le basi per la formazione di una classe dirigente locale autonoma; la domanda di un progetto del territorio di scala vasta; l’aumento della conflittualità interna; ecc.. Il secondo è un esempio di politica delle reti, e di reti di politiche, ed è la storia della formazione e del funzionamento dell’Unione dei Comuni Eridano. Anche questo è un processo di sviluppo del territorio, che si sostanzia di investimenti sulla conoscenza e il cui valore aggiunto è l’essere-inrelazione, aprendo ad una prospettiva interlocale delle politiche. Il terzo esempio individua un caso di “soluzioni di complementarietà”, che si generano in conseguenza alle decisioni di investimento e alle logiche di sviluppo di territori contigui, a tratti configurandosi come “mutuo arrangiamento”, a tratti come “disegno razionale” e non così consapevole delle interferenze reciproche delle scelte singolarmente prese. Il punto di partenza è la diversa interpretazione da parte di alcuni Comuni, confinanti gli uni con gli altri, degli effetti dei nuovi progetti infrastrutturali e dell’opportunità di convogliare i flussi previsti con specializzazioni diverse dell’offerta: (residenzialità-servizi-turismo ecc.). Si definiscono così “luoghi per produrre”, “luoghi per abitare”, “Se modernizzare stanca... “luoghi da visitare”, luoghi dello “sviluppo equilibrato”, ponendo le basi per una potenziale struttura economica mista. Il quarto ed ultimo esempio riguarda la soluzione tutta locale di un Comune che decide di fare “di svantaggio virtù”: dati gli altissimi indici di anzianità della popolazione e l’alta percentuale di disoccupazione femminile, in mancanza di alternative di sviluppo, si specializza nell’offerta di case di riposo e di servizi sociosanitari. 2.3 Le realtà produttive del distretto della giostra È una storia che inizia molti anni fa, alla fine della II guerra mondiale, ma che ha acquistato il giusto risalto soltanto in tempi recenti, con la formazione della realtà del distretto della giostra, che si presenta in controtendenza rispetto alle linee di sviluppo e di modernizzazione che si sono concretizzate nelle forme di industrializzazione tradizionale e che in parte abbiamo visto riproporre nelle vicende localizzative delle nuove macroaree produttive. I Comuni che rappresentano il cuore del distretto produttivo della giostra sono stati fin dal principio Bergantino, Melara e Castelnovo Bariano, tre piccoli paesi, ciascuno con un numero di abitanti oscillante tra i 2000 e i 3000 ab. e un andamento demografico che ha presentato vari momenti di criticità nel passato e che negli ultimi anni sembra assestatosi. L’espansione del settore della produzione della giostra e la composizione del distretto (riconosciuto con Legge Regionale) hanno in seguito assunto dimensioni interprovinciali (aderiscono al Patto imprese che operano nel settore della costruzione di giostre, spettacoli viaggianti, attrazioni per luna park, spettacoli pirotecnici, localizzate in 5 diverse province venete: Rovigo, Padova, Treviso, Vicenza e Verona, interessando 40 Comuni) tanto da fare del Veneto la maggiore area di produzione a livello nazionale sia per fatturato che per numero di addetti. Tutti e tre i paesi sono dotati di aree artigianali occupate e in espansione (tra l’altro, Bergantino è sede della fabbrica Bormioli-Rocco, una vetreria, che è fonte di occupazione femminile; Melara è sede di una grossa fabbrica di fuochi d’artificio), e godono di una buona accessibilità all’autostrada Eridania che li 57 n.13 / 2005 collega. Sono accomunati da una struttura produttiva simile e con spinte allo sviluppo di carattere endogeno che interessano principalmente i settori manifatturiero e agricolo. Bergantino, Melara, Castelnovo Bariano si distinguono per un modo di concepire lo sviluppo del territorio molto diverso, piuttosto anomalo rispetto a quelle che sono le cornici predominanti dello sviluppo nel Polesine. La loro storia è interessante da raccontare perchè ha anche un valore di esempio: mostra infatti come sia concretamente possibile cambiare le sorti di un luogo, pur partendo da situazioni di estrema difficoltà (povertà, disoccupazione, che sono state condizione comune alla maggior parte dei paesi, in Polesine) attraverso la realizzazione, piuttosto incrementale e improvvisata, di progetti, che tendono ad un ampio coinvolgimento della comunità locale. Punto di partenza è la sperimentazione di un’idea (che funge da fattore di innesco di una serie di piccole reazioni e concatenamenti, arrangiamenti, spesso anche in assenza di una pianificazione generale o di un programma ben definito) intorno alla quale prende vita la mobilitazione di un intero paese e, via via, di pezzi di territorio. Ex-post è possibile ricostruire il percorso di sviluppo dell’idea, ma è un po’ come fare il racconto di tante storie, metterle assieme in una cornice. La storia dello sviluppo di quello che oggi viene riconosciuto a livello regionale come l’organizzato e tecnologicamente evoluto “Distretto Veneto della Giostra” (che si è stretto nella forma del “Patto”, successivamente al riconoscimento nel ’99 del Distretto della Giostra del Polesine Occidentale) nasce da uno “spunto”, nel dopoguerra. Così racconta suggestivamente il sindaco di Bergantino: “Quella dell’industria della giostra è una soluzione che si è trovata a livello locale per ovviare alla difficile situazione che c’era nel dopoguerra. Al tempo si viveva dell’agricoltura, del piccolo artigianato. Un nuovo spunto è venuto dal riscontro in termini di immediato ricavo che si aveva alle fiere paesane: il biglietto per fare il giro sulla giostra veniva pagato subito per cui è nata l’idea di girare le piazze per avere un guadagno immediato – c’era un gruppo di costruttori e di spettacolisti viaggianti e si è innescata una sorta di reazione a catena tant’è che in alcuni anni si sono 58 contate fino a 100 famiglie di spettacolisti viaggianti su una popolazione di 3.000 ab. Inoltre, stare nelle piazze porta ad apprendere come saper trattare con la gente del luogo, gli amministratori, e in questo ci si differenzia da coloro che lo fanno per cultura, gli zingari”. Quest’ultima annotazione è importante perché ci consente di mettere in rilievo come in effetti le popolazioni di Bergantino, di Melara (e in misura minore di Castelnovo Bariano, che si percepisce ancora prevalentemente come una società rurale per il consistente numero di occupati nel settore agricoltura, caratterizzato da colture intensive e specializzate) abbiano assimilato una cultura dell’ospitalità e una mentalità aperta, che le distingue dalla gente delle campagne e che al tempo stesso stempera le tendenze all’individualismo ostinato. La formazione di un simile saper fare locale nei momenti di minore fortuna del settore (come rischia di essere congiunturalmente quello attuale) ha consentito il reimpiego, con buon successo, in attività commerciali e di scambio, dove le capacità di socializzazione e contrattazione contano. I vari segnali di propensione alla collaborazione, tra soggetti privati e tra soggetti pubblici e privati, ne sono una conferma e riguardano non soltanto il manifatturiero, ma ad esempio anche l’agricoltura, che è più vivace che in altri contesti, con colture di tipo intensivo e filiere dell’agroalimentare. Su questo torneremo in seguito. Il tipo di produzione manifatturiera in cui si è specializzata Bergantino, in particolare, è quello delle giostre per parchi mobili, che richiede un continuo aggiornamento delle tecniche, che devono essere rapide e semplici, e la capacità specifica di risoluzione di svariati problemi (del tipo: messa in sicurezza degli impianti, imballaggio, trasporto e montaggio); per questo occorrono professionalità specifiche e bisogna costantemente puntare all’innovazione del prodotto, alla ricerca e sviluppo di nuove tecnologie (a Bergantino si trova, tra l’altro, un Museo della Giostra e dello Spettacolo Popolare). Un’iniziativa importante in tal senso era stata la costituzione del Centro di ricerca e di promozione della giostra (creato una decina di anni fa su iniziativa del Consorzio di Sviluppo del Polesine, del Comune e di un consorzio di impren- Francesca Gelli ditori), esperienza che purtroppo negli ultimi anni si è disgregata per il sorgere di conflitti tra le aziende, sulla scia di dinamiche negative di competizione. L’amministrazione comunale ha cercato di sostenere gli imprenditori sperimentando varie politiche, tra cui un sistema di convenzioni con istituti di credito che operano sul territorio (rendendo disponibili contributi, in conto interesse, sui mutui contratti per l’acquisto di attrezzature e altro che possa servire alle aziende); agevolando attraverso gli strumenti urbanistici comunali l’insediamento degli imprenditori in aree appositamente predisposte; aderendo allo sportello unico delle imprese, anche se ancora l’iniziativa non ha riscosso molto successo; ecc. Un’altra iniziativa che merita di essere citata è la collaborazione tra Comuni che fanno parte del distretto della giostra e CNA per mettere in piedi un laboratorio-scuola di saldatura, dal momento che a tutti si rendeva necessario questo tipo di professionalità. Sul piano della cooperazione intercomunale, in generale, si tratta di Comuni assai attivi: sulla base del riconoscimento dell’utilità della gestione congiunta di alcuni servizi si è arrivati ad una vera e propria formalizzazione della collaborazione (attraverso protocollo d’intesa, esteso anche ai Comuni di Calto, Ceneselli, Castelmassa). Quel che è interessante è che al di là della condivisione di servizi di tipo tecnico-amministrativo, la gestione associata si sta estendendo gradualmente a servizi di tipo sociale, culturale, che via via coinvolgono i vari Comuni compresi nella rete: così ad esempio abbiamo tra i servizi congiunti quelli di polizia municipale, di assistenza sociale, dell’università popolare (da osservare, la buona dotazione di servizi per la popolazione: biblioteche attrezzate, impianti sportivi, ludoteche, asili nido, centri sociali per anziani, auditorium, ecc); della raccolta porta a porta dei rifiuti. Recentemente si è sviluppata una collaborazione tra biblioteche per condurre ricerche e studi sulla storia locale e il recupero dell’identità dei luoghi; gli stessi Comuni hanno inoltre appoggiato l’iniziativa della società di calcio di costituire un’unica società sportiva. Esperienze di tipo associativo di un certo successo si annoverano anche nel settore agricolo: ad esempio a Castelnovo Bariano vi è una grossa coopera- “Se modernizzare stanca... tiva di maiscoltori; a Bergantino vi sono vari esempi di cooperazione informale tra agricoltori (e vi è una grossa produzione di grana-padano certificato, allevamenti, ecc.). A Melara (che tra i prodotti tipici annovera miele e zucca, che viene valorizzata attraverso una sagra), in quanto territorio di congiunzione tra il Po e il Canal Bianco, c’è una particolare sensibilità al tema della valorizzazione delle risorse ambientali anche ai fini della fruizione turistica del territorio, attraverso itinerari non solo naturalistici ma anche gastronomici (connessi alla degustazione dei prodotti tipici, data la presenza di filiere dell’agroalimentare, come per altro a Bergantino). 2.3 L’Unione Eridano Si tratta di una forma di associazione tra Comuni che ha innescato e catalizzato non solo progetti connessi alla gestione congiunta di vari servizi ma anche e soprattutto varie iniziative a scala interlocale, che producono effetti di integrazione dell’area, da cui è possibile porre le basi per la costruzione di azioni territoriali strategiche che inquadrino le esigenze e le scelte di sviluppo industriale, residenziale, commerciale, turistico dei singoli Enti in una politica per il territorio, di più ampio respiro. L’Unione di Comuni “Eridano” è nata nel 2000 tra i Comuni di Bosaro, Crespino, Guarda Veneta, Polesella e Pontecchio. Questi Comuni (tutti di piccole dimensioni: tra un minimo di poco più di 1000 ab. e un massimo di poco meno di 4000 ab.) formano una sorta di vasto territorio di circolazione che si estende lungo le arterie di attraversamento del territorio (la Strada Statale 16 PadovaRovigo-Ferrara e la tratta ferroviaria PadovaBologna; in prospettiva, alcuni svincoli sulla Transpolesana), verso Rovigo o il ferrarese. Gli spostamenti sono dovuti, a parte che a ragioni di lavoro, anche alla dotazione di servizi alla popolazione di tipo sociale, culturale, sportivo e ricreativo, che si presentano diffusi nell’area (e che in prospettiva vengono inseriti nei progetti delle amministrazioni comunali come uno degli elementi da incentivare, data la generale attrattività della zona ai fini della residenzialità). Infine, la presenza di itinerari di fruizione naturalistica e ambientale del 59 n.13 / 2005 territorio, connessi alla valorizzazione dei corsi d’acqua, e di visitazione dei beni storici e monumentali (ville venete, edilizia rurale di pregio, ecc.) costituisce una ragione ulteriore di circolazione e di attraversamento del territorio. La base economica è caratterizzata da un certo peso dell’agricoltura e da un peso consistente del settore manifatturiero e costruzioni. Guada Veneta e Crespino sono le due realtà più deboli, sia per la situazione economica locale sia per l’andamento demografico, che propende al declino; per questi Comuni l’appartenenza all’Unione è un punto di forza essenziale (ne sono piuttosto “al traino”) e in essa ripongono grosse aspettative di futuri cambiamenti positivi. La costituzione dell’Unione rappresenta un fenomeno decisamente anomalo nel panorama provinciale. Alla base del successo di questa Unione si rintracciano una serie di fattori, tra cui: le relazioni informali di amicizia e una certa atmosfera di fiducia tra i sindaci, ancor più che l’appartenenza allo stesso schieramento politico; il senso di incertezza sulle possibilità di mantenere gli standard di offerta di servizi in una fase di trasferimenti decrescenti dallo Stato agli enti locali, donde il desiderio di confrontarsi su problemi in comune di gestione; la dimensione abbastanza simile dei Comuni, così che, da parte degli amministratori, si ha la percezione di trovarsi tra “pari”; il consenso da parte anche delle opposizioni politiche in Consiglio Comunale e delle Associazioni di Categoria nel territorio. Nell’ambito dell’Unione vengono gestiti in maniera associata 7 servizi (strade; protezione civile; scuola-bus; assistenza sociale domiciliare; libripaga del personale; biblioteche; vi è un unico regolamento ICI, così come per la raccolta dei rifiuti) ed in prospettiva si potrebbe arrivare ad avere un unico PRG per tutti e 5 i Comuni. Una delle acquisizioni più rilevanti dell’Unione consiste nell’identificazione di una nuova area produttiva in comune. Infatti, grazie all’Unione, i Comuni di Pontecchio, Polesella, Bosaro, Guardia Veneta, Crespino, sono riusciti ad evitare gli effetti vincolanti della LR 35/2002 che vietava a tutti i Comuni singoli e non associati di adottare varianti urbanistiche che prevedessero ampliamenti o nuove aree produttive se con fatte in accordo sovracomunale e con l’approvazione della Provincia. La zona, di 60 270.000 mq., è localizzata nei Comuni di Bosaro e Polesella a ridosso della Statale 16 all’incrocio con l’Eridania, vicino allo scalo ferroviario e al ponte sul Po, e di un’area di 50.000 mq. destinata ad attività sportive (attrezzata con percorsi ippici per bambini disabili, anello ciclistico, tiro con l’arco, centro ricreativo, ecc.). L’accordo è che i ricavi provenienti dalla gestione della zona produttiva dell’Unione, andranno divisi tra i Comuni in base al numero di abitanti mentre i singoli Comuni conserveranno e gestiranno aree di artigianato e di servizio alla residenza. Nel Polesine questa è un’iniziativa unica e costituisce una sperimentazione che potrebbe essere considerata azione pilota. A parte quelli concepiti nell’ambito dell’Unione, tra i progetti di dimensione intercomunale, da segnalare è quello che riguarda i Comuni di Guarda Veneta, Pontecchio Polesine e Rovigo per la realizzazione di un percorso di piste ciclabili che colleghi la destra Adige alla sinistra Po (trasversalmente al Polesine). Complessivamente, l’Unione sembra funzionare adeguatamente, tanto che questo stesso territorio intercomunale viene pensato come ambito di programmazione territoriale, e le aspettative sono di estendere la cooperazione dal piano della gestione degli interessi economici di tipo industriale (con riferimento alla nuova zona produttiva in comune) alla costruzione di una visione dello sviluppo turistico dell’area e a politiche culturali e di valorizzazione delle risorse del territorio. Un altro risultato consiste nella capacità dell’Unione di rappresentarsi all’esterno come attore collettivo unitario; il che rafforza le posizioni di contrattazione con gli Enti sovraordinati. 2.5 La prospettiva della realizzazione del casello di Villamarzana e del prolungamento della Valdastico Sud In questo caso il focus è stato incentrato sulle diverse dinamiche che si sono sprigionate in un’area, comprendente diversi Comuni (Fratta Polesine, Villamarzana, Pincara, Frassinelle Polesine, Arquà Polesine), caratterizzati da declino demografico e un basso numero di abitanti, all’annuncio della realizzazione di nuovi progetti infrastrutturali (in pri- Francesca Gelli mis, la costruzione del casello di Villamarzana e del prolungamento della Valdastico Sud). Da parte delle amministrazioni comunali interessate, alla notizia delle decisioni di nuova infrastrutturazione, è conseguita la mobilitazione di varie risorse – tra quelle disponibili e/o attivabili in una prospettiva di medio periodo – tuttavia sulla base di ragionamenti e utilità differenti se non che divergenti. A tal proposito il fallimento dei tentativi di avviare un dibattito tra gli enti locali per condividere le scelte di sviluppo e avanzare l’ipotesi di sinergie e collaborazioni è significativo dello stato di frammentazione delle politiche che impattano l’area e trova conferma nelle condotte sostanzialmente autocentrante delle singole amministrazioni comunali. L’attesa centralità dell’area è stata interpretata ai fini del posizionamento di attività economiche nel quadro del rafforzamento e consolidamento di logiche tradizionali (come ad esempio nel caso della creazione di macroaree per insediamenti produttivi in prossimità delle nuove arterie, a Villamarzana e Arquà Polesine) pur secondo una diversa sensibilità ambientale e gestionale (maturatasi alla luce delle esperienze negative precedenti e del dibattito attuale, nazionale ed europeo, sulla sostenibilità dello sviluppo). Oppure, la prospettiva di nuova centralità dell’area e la previsione di flussi consistenti di attraversamento e di circolazione del territorio hanno stimolato l’attivazione di risorse territoriali, ora con progetti di valorizzazione del patrimonio storico-architettonico e naturalistico ai fini della fruizione turistica del territorio (è il caso di Fratta Polesine); ora con iniziative di valorizzazione della qualità del vivere e dell’ambiente sano ai fini della specializzazione residenziale e delle produzioni agricole (come a Frassinelle Polesine; a Pincara; ecc.). Per quanto entro un quadro molto fragile e precario, soggetto a forte incertezza (non vi è una visione strategica né si sono raggiunte forme di intesa a riguardo), quest’area è interessante perché si possono osservare potenzialità di un gioco di complementarietà, che potrebbe essere rafforzato se opportunamente colto e direzionato, tra “luoghi per produrre” (macroarea produttiva di Villamarzana-Arquà Polesine), “luoghi per abitare” “Se modernizzare stanca... (la specializzazione residenziale di Frassinelle Polesine), “luoghi da visitare” (la messa in circuito del patrimonio artistico-architettonico di Fratta Polesine), luoghi dello “sviluppo equilibrato” (una struttura di economia mista e una buona offerta di servizi, a Pincara). Di seguito cercheremo di entrare più approfonditamente in merito ai singoli contesti di scelta. Villamarzana si presenta come il caso esemplare e tipico di una situazione che si ripete da più parti nel territorio Polesano. Si tratta di un piccolissimo paese che potrebbe rivoluzionare nel giro di pochi anni il proprio assetto ed equilibrio sulla scia delle nuove decisioni localizzative che lo hanno avuto per bersaglio, come luogo deputato alla realizzazione della macroarea produttiva con Arquà Polesine (prevista di 1.400.000 mq, compresi però per i 2/3 nel Comune di Arquà). Il principale vantaggio competitivo, rispetto al territorio provinciale (e, in parte, a quello regionale) è costituito dalle ottime condizioni di accessibilità, che si aprirebbero soprattutto a seguito del prolungamento dell’autostrada Valdastico e della costruzione del relativo casello nel territorio comunale. Si presentano già piuttosto avanzati sia il disegno urbanistico dell’area, che comprende molti spazi verdi (300.000 mq circa, e edilizia di qualità), sia i criteri di selezione delle produzioni (su presupposti di ecocompatibilità: no ad emissioni nocive, e rumorosità entro i parametri consentiti) e il modello di gestione (partnership pubblico-privata). Le aspettative, anche sulla base di alcune manifestazioni d’interesse da parte di imprenditori, sono molto ottimistiche. L’idea è che, a partire dalla localizzazione industriale, si inneschi un meccanismo circolare e virtuoso di attrazione residenziale (soprattutto di ceti medi legati alle produzioni qualificate), domanda abitativa e sviluppo del settore edilizio, maggiori possibilità di offerta di servizi pubblici grazie ai più elevati introiti fiscali, maggiore domanda di servizi pubblici e privati da parte delle nuove famiglie, che, a sua volta, genererebbe occupazione aggiuntiva a diversi livelli di qualificazione. L’offerta sovrabbondante e le condizioni di buona accessibilità diffuse lasciano però non pochi dubbi e interrogativi, sia in merito alla effettiva consistenza della futura domanda insediativa da parte di 61 n.13 / 2005 imprese (in relazione alla congiuntura ed alle trasformazioni strutturali del modello industriale; alla progressiva dismissione di molti spazi utili in altre aree, appetibili e strategiche, che qualche anno fa sembravano del tutto sature), sia alla possibilità (conseguente) di operare una selezione veramente così attenta delle produzioni. La concezione dello sviluppo che è dietro le scelte sostenute dal Comune di Villamarzana è sostanzialmente autocentrata ed evidenzia la non-negoziabilità della scelta industriale a livello comunale, per cui occorre una qualche forma di regolazione del mercato dei suoli associata alla costruzione di un “progetto di territorio” che, nelle interviste agli amministratori locali, sembrerebbe sempre essere responsabilità del livello politico e amministrativo provinciale, che dovrebbe proporsi come guida per le politiche territoriali. Arquà Polesine (Comune promotore della macroarea da realizzare congiuntamente al Comune di Villamarzana) si colloca in buona sostanza nello stesso quadro d’analisi. Con la differenza che Arquà è un paese che storicamente è stato caratterizzato da uno sviluppo di tipo industriale e se l’amministrazione continua ad investire per il futuro in questa direzione, forse lo fa con qualche consapevolezza in più che in altri contesti, soprattutto per quanto riguarda la considerazione delle difficoltà concrete di realizzare un processo di ulteriore crescita, benché siano favorevoli le condizioni di infrastrutturazione del territorio e di accessibilità alle vecchie e nuove vie e ci sia la collaborazione con Villamarzana per realizzare la macroarea. Ad ogni modo, le aspettative più ottimiste sono di un aumento delle attività produttive nei prossimi anni; cosa che porterebbe ad un incremento della domanda abitativa (e, di conseguenza, anche dei servizi per i consumi delle famiglie), per affrontare la quale sono state individuate nuove aree residenziali. L’orientamento e le scelte di sviluppo negli altri Comuni compresi nell’area che stiamo analizzando approdano sostanzialmente a diverse soluzioni, che andiamo a presentare di seguito. L’idea di sviluppo di Pincara è quella di uno “sviluppo equilibrato”, cioè, non sbilanciato su un solo versante e pensato entro un quadro più dinamico di combinazione tra attori e risorse che sembra 62 sottrarsi alla circolarità delle previsioni di crescita/concatenamenti di effetti positivi di sopra sintetizzati. Questo scenario trae comunque la propria giustificazione da un’interpretazione della presenza di grandi aree industriali localizzate nei paesi vicini, che, in caso di successo, avranno certamente un impatto su Pincara. Ma questo Comune sceglie, anche per la situazione di piena occupazione dei suoi residenti e dell’ampia (almeno potenzialmente) disponibilità di posti di lavoro nella macroarea di Arquà-Villamarzana, un modello di sviluppo basato sulle funzioni residenziali e sui servizi alla popolazione (l’ipotesi forte è quella della costruzione di una tensostruttura che accolga attrezzature sportive e culturali), sul rafforzamento delle specializzazioni agricole con la promozione dei prodotti tipici, in connessione con la valorizzazione turistica del territorio e del Canal Bianco, attraverso una serie di iniziative. L’attrattività dei luoghi, la tranquillità del contesto, la presenza di risorse ambientali e paesaggistiche, unitamente agli eventi della tradizione, ai valori immobiliari competitivi, all’accessibilità al centro urbano e ad una buona qualità e diversificazione dei servizi, dovrebbe essere un mix in grado di attrarre visitatori così come nuovi residenti. Anche il Comune di Fratta Polesine ha elaborato un’idea di sviluppo che si distingue dall’orientamento assunto da Villamarzana-Arquà Polesine e che appare in controtendenza rispetto ai comportamenti prevalenti di gestione dello sviluppo, da parte delle amministrazioni comunali in Polesine. Questo Comune infatti fa della propria indubbia privilegiata posizione e accessibilità alle nuove realizzazioni viarie e infrastrutturali una ragione per potenziare le prospettive di sviluppo dei flussi turistici piuttosto che motivo di espansione esuberante delle aree per insediamenti produttivi (nonostante l’economia locale sia allo stato attuale basata sul manifatturiero). Ovviamente dispone delle concrete risorse – beni artistici, architettonici e monumentali di un certo pregio e di numero considerevole – per potere opportunamente orientare gli investimenti e le energie ad una politica di valorizzazione del territorio ai fini del turismo. La prospettiva è dunque quella dello “sviluppo sostenibile” e “soft”, con attenzione agli aspetti Francesca Gelli di qualità della vita (uno dei valori aggiunti dell’area può essere proprio quello di aver meno subito gli effetti del “modello Nord-Est” dello sviluppo, ad alto consumo di territorio). Le azioni future sono pensate nel quadro del potenziamento dell’offerta ricettiva e di ristorazione, diffusa e differenziata (anche con bed & breakfast, agriturismi) e abitativa (soprattutto per giovani coppie) da associare con interventi di abbellimento del centro storico (cura del verde e dell’arredo urbano) e la più generale fruizione del territorio (realizzazione di percorsi ciclo-pedonali e di itinerari lungo gli argini del Canal Bianco), anche in circuito con paesi dell’intorno che hanno un patrimonio da valorizzare ai fini della fruizione turistica (così, ad esempio, Badia Polesine, Lendinara, Fiesso Umbertiano). L’ipotesi infatti è che si dovrebbe lavorare a livello intercomunale (per diretta azione dei Comuni e degli operatori del territorio, ma anche su stimolo della Provincia, delle istituzioni sovracomunali) nella direzione della complementarietà dello sviluppo e secondo un approccio integrato. Dalle interviste effettuate emerge uno sguardo critico da parte di questa amministrazione rispetto agli orientamenti e alle previsione prevalenti nell’area come in generale nel Polesine. Il riferimento è soprattutto alla espansione di aree produttive la cui concentrazione è singolare nell’intorno, per di più con una scarsa valutazione degli effetti possibili (sia nel caso di “successo” ed “occupazione”, sia nel caso di “fallimenti”) sull’ambiente e le altre attività: basti considerare le macroaree di Villamarzana e Arquà, San Bellino e Castelguglielmo, le espansioni di Canda, Badia Polesine, Costa di Rovigo, ecc. Infine, Frassinelle Polesine individua la propria via allo sviluppo nella direzione della specializzazione residenziale, proponendosi come “luogo per abitare”, che come punti di forza ha quelli di offrire una piacevolezza e sicurezza dell’abitare, una certa qualità dell’ambiente rurale e di quello urbano (cura degli spazi pubblici, delle attività commerciali tradizionali). Certamente si tratta in una certa misura di un rischio da correre: nulla garantisce che i sistemi di relazione territoriale si configurino secondo queste previsioni, soprattutto in assenza di una politica per il territorio e di una qualche forma di coordinamento interlocale. Comunque “Se modernizzare stanca... sia, una politica orientata all’offerta “vocazionale” di residenza ha bisogno di un’adeguata offerta di servizi pubblici, che per essere distribuiti in modo efficiente devono poter contare su un’adeguata “massa critica”, di popolazione e di risorse, che certamente Frassinelle allo stato attuale non possiede. 2.6 L’esempio del Comune di Ficarolo Il Comune di Ficarolo, un paese di meno di 3.000 ab., costituisce un’anomalia nel panorama dei progetti di sviluppo del Polesine. Si distingue infatti per un alto numero di addetti al settore dei servizi socio-sanitari, in cui si è specializzato: vi si trovano due case di riposo per anziani e gli Istituti Polesani, residenze per disabili, per un totale di circa 600 ospiti. Quest’investimento che decisamente connota l’economia locale e mostra il carattere piuttosto autonomo del paese nasce dall’esigenza di reperire prospettive occupazionali (in specie occupazione femminile); facendo i conti con le risorse del luogo, dato l’alto indice di popolazione anziana, un campo di iniziativa che si prospetta sicuro è quello dell’investimento in case di riposo; una buona occasione in generale è la specializzazione nei servizi socio-sanitari, di cui si può raccogliere un’ampia domanda attingendo ai Comuni limitrofi. Parallelamente l’amministrazione comunale procede con altri progetti che condivide occasionalmente con Comuni per ragioni di specifico interesse (come nel caso della predisposizione di nuove aree per insediamenti produttivi e dell’operazione di recupero e valorizzazione di un sito archeologico di interesse internazionale, che possiede in comune con Gaiba) o che persegue singolarmente (iniziative di espansione residenziale). 3. Conclusioni Ai nostri giorni, quello che più salta agli occhi è la giustapposizione delle varie soluzioni che la modernizzazione nei decenni ha portato, e di tutti gli effetti, attesi e non, che ne sono conseguiti, con la configurazione di situazioni territoriali dove si accavallano resistenze al cambiamento e spinte innovatrici. Al punto che il Polesine sembra una 63 n.13 / 2005 sorta di spazio-fiera dove si assiste alla rappresentazione e al contempo alla contestazione, alla sovversione di tutte le tipologie di luoghi, di funzioni, di relazioni territoriali. Osserviamo infatti casi di localizzazione e di dislocazione di funzioni, di costruzione di gerarchie territoriali e di diffusione di reti sociali informali, di cooperazione e di sviluppo autocentrato; esperienze di autoorganizzazione e di coordinamento dall’alto; iniziative di omologazione, standardizzazione e di differenziazione; ecc. Il Polesine appare un territorio pluripianificato, dove si addensano interventi e politiche che, decisi in alcuni periodi per risolvere determinati problemi, hanno dato in seguito luogo a nuovi problemi, diventando l’occasione per nuove domande e soprattutto per aree di conflitto. Così ad esempio stanno vicini, precipitati in uno stesso spazio-tempo e costretti a condividerlo, la centrale termoelettrica Polesine-Camerini, il Parco del Delta del Po, la coltivazione delle vongole, le coltivazioni di agricoltura biologica, le frequentazioni balneari; la fabbrica chimica al centro di Castelmassa, simbolo di un’economia di dipendenza, e la produzione specializzata e innovativa della giostra, la coltivazione dei prodotti tipici locali a Melara, Bergantino; la macroarea industriale di Villamarzana-Arquà Polesine e le ipotesi di itinerari di fruizione turistica, di valorizzazione dei beni culturali e ambientali del territorio, gli investimenti nella residenzialità a Frassinelle e Fratta Polesine; ecc. Il discorso imperativo della modernizzazione economica e le nuove sensibilità protese agli approcci dello sviluppo sostenibile coesistono creando aree di interferenza reciproca, di conflitto, di differenziazione e di relazione (spezzando la cornice omologante del Polesine-come-area-depressa). L’emergenza di un pensiero critico, capace di organizzare progetti di territorio interagendo con la pluralità delle componenti sociali, economiche, le diverse sensibilità politiche che animano il territorio, si pone necessariamente in discontinuità dal modello di azione e dai valori della modernizzazione e chiede di procedere in primo luogo dalla rico- struzione di un nuovo quadro conoscitivo delle varie situazioni territoriali che compongono il Polesine. L’agenda politica locale che voglia produrre discontinuità con il passato e avanzare proposte credibili di cambiamento, già a tenere conto di queste prime considerazioni, trova come “punti di attacco” l’esigenza di: costruire nuove rappresentazioni collettive del Polesine, che polemizzino con le letture stereotipe del Polesine come area omogenea e perciò stesso “target” di interventi concepiti secondo logiche standardizzanti (cosa che abbiamo visto la stessa zonizzazione dei Fondi Strutturali – aree obiettivo 2 – ha contribuito a consolidare); incentivare forme di partecipazione, di cittadinanza attiva, promuovendo il coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni di sviluppo e soprattutto del riuso di spazi dismessi e nella riconversione di luoghi che hanno perso la loro funzione; problematizzare gli effetti (attesi e non) dell’intervento pubblico statale e del modello di sviluppo che è stato perseguito negli ultimi decenni di modernizzazione economica, chiamando in causa allo stesso tempo la crisi del modello di sviluppo Veneto e considerando le inefficienze non soltanto come elementi negativi ma anche come opportunità per formulare nuove domande; avviare processi di mobilitazione degli attori locali su progetti di territorio nella prospettiva di una trasformazione-ridefinizione pubblica dei problemi e dell’individuazione di spazi e opportunità concrete d’azione; rafforzare la cooperazione con i territori limitrofi e non solo; frenare l’esodo, meno appariscente nei numeri ma insidioso e cruciale per l’apparato produttivo e la coesione sociale, delle energie intellettuali, soprattutto giovani con un elevato livello di istruzione, che non trovando occupazione vanno a costituire forza-lavoro per altri mercati. Più in generale, guardare alle politiche pubbliche come pratiche di interazione sociale e di allocazione e condivisione dei valori, perciò stesso come aree di conflitto e non necessariamente di consenso, come l’imperativo della modernizzazione economica invece aveva posto. [email protected] 64 a cura di Mario Quaranta Carteggio inedito Norberto Bobbio-Ferruccio Rossi-Landi: due filosofi a confronto (parte seconda 1956 - 1961) Focus: Norberto Bobbio Un incontro tra filosofi [1] 7 gennaio 1956 Caro Professor Bobbio, pensando che ormai lei sia rientrato a Torino, rispondo alla sua lettera del 25 dicembre. 1) Discussioni fra filosofi. Esattamente due anni fa presentai alla Fratelli Bocca e a Mario Dal Pra l'accluso progetto, che fu, come or posso dire, naturalmente rifiutato1. Mi appartiene, e sono stato reso libero da qualsiasi impegno in proposito fin dal giorno del rifiuto. A lei non ne avevo mai parlato perchè mi sembrava che il PAC o l'ISICOCA, cui poi si aggiunse “Occidente”, fossero già abbastanza. Ripropongo il progetto tale e quale a lei e alla Einaudi. Diriga lei il volume. I nomi a matita sulla prima pagina furono scritti già nel gennaio del 1954; si possono aggiungere altri nomi, di comunisti e di cattolici. Certo la cosa darebbe molta noia ai “cattedrati”, intendo alla maggioranza di essi. Mi faccia sapere cosa ne pensa. Il male è che queste sfide non vengono mai accettate: per paura, ignavia, invidia e per tante altre ragioni. Creiamo un'eccezione. 2) Discussione coi comunisti. Se Lombardo-Radice accetta di fissare un argomento e di scambiarci una o due cartelle ogni 15 giorni e poi pubblicare, io per me accetto. [L'altro filosofo con cui avevo progettato la cosa è Visalberghi (dovremo trattare della distinzione fra giudizi di fatto e giudizi di valore, e farlo nel modo più attento e scrupoloso). Da Visalberghi attendo le prime cartelle, avendo deciso che sia lui a cominciare]. Lombardo-Radice non scrive più, e francamente ho l'impressione che se ne guardi. Nelle lettere pubblicate sul “Contemporaneo” rifiutò la discussione, e per questo io lo tirai a pubblicare2. Se lei mi trova un comunista disposto a fare lo stesso lavoro che dovrei cominciare con Visalberghi, io per me accetto. Si potrebbe anche costruire un volume simile a quello dell'accluso progetto; messi insieme cinque filosofi, ognuno scrive un articolo in collaborazione con ognuno degli altri, in forma di dialogo su tema unico o su diversi aspetti dello stesso tema. Totale (se non sbaglio!) dieci dialoghi, che risulteranno naturalmente intrecciati. Proponga a Einaudi anche questo volume, e diriga anche questo. Io per me accetto di essere uno dei cinque; gli altri quattro potrebbero rappresentare diverse posizioni (un comunista, un esistenzialista, uno storicista di provenienza idealistica, un cattolico); oppure il campo potrebbe esser diviso, magari fra comunisti e no. Oppure si potrebbe fare addirittura un dialogo “a cinque”, alternando le cinque voci. Insomma veda lei. […] Mi ricordi insieme a Barbara a sua moglie, e abbia i miei più cordiali saluti e rinnovati auguri per questo 1956. Ferruccio Rossi-Landi LETTERA 1. Tre fogli dattiloscritti. È pubblicato il primo foglio; gli altri due riguardano i progetti di pubblicazioni di Ferruccio Rossi-Landi. In quasi tutte le lettere, oltre alla data c'è l'indirizzo. 1. Questo progettato libro non fu pubblicato; il materiale (testi dei filosofi, lettere, ecc., mi è stato consegnato, a suo tempo, da Rossi-Landi. 65 n.12 / 2005 2. Il carteggio fra Rossi-Landi e Lombardo-Radice è stato pubblicato nella rivista “Il Contemporaneo”, II, 50, 17 dicembre 1955, pp. 10-11. Difficoltà con l'editore Einaudi [2] Torino, 29 gennaio 1956 Caro Rossi-Landi, avevo pensato alla nuova collana non solo perché ne avevo visti i primi volumi e mi erano parsi molto belli (tipograficamente) e non erano di giovanissimi (Vaccarino è già libero docente di storia), ma anche perché conosco la situazione dei “Saggi”: troppa carne al fuoco e lunghe attese da parte dei candidati alla pubblicazione. Mi pareva che la nuova collana che ha bisogno, proprio perché nuova, di nutrirsi, offrisse una insperata scappatoia. Ma ecco che nella riunione di mercoledì i giovani direttori della nuova collana hanno fatto quasi le stesse obiezioni fatte da lei. Vale a dire: la collana dovrebbe pubblicare monografie piuttosto massicce e non raccolte di saggi, ed offrire ai giovani studiosi di far conoscere le loro prime opere che vanno generalmente a finire in collane quasi clandestine. Vi è stato se mai un orientamento favorevole alla pubblicazione dei suoi studi nella collana di “Saggi”. Qui però riemergono di nuovo le mie perplessità. Quando uscirà un volume nei “Saggi”, se non è ancora pronto e vi sono decine di volumi che attendono di essere pubblicati in quella collana? Oltretutto, e questa è un'aggiunta mia personale, basteranno i saggi che lei ha pronti o progettati a fare un volume che dovrebbe essere almeno sulle duecento cinquanta pagine? Tra i saggi che si potrebbero comprendere nel volume si devono considerare anche quelli non enumerati tra gli otto e dei quali lei dice di aver pronto molto materiale? Se sì, il volume verrebbe fuori. E allora bisognerebbe che lei stabilisse con una certa approssimazione quando pensa di averli pronti in modo che si possa sin d'ora preparare l'ambiente ad una rapida pubblicazione quando fossero consegnati. Insomma vedo la pubblicazione di un suo volume nei “Saggi” possibile (a parte subiecti) ma non 66 vedo ancora bene il volume (a parte obiecti). Quanto al volume in collaborazione, mi piace più l'idea della discussione su fatti e valori che non quella del progetto presentato a Bocca per una discussione tra giovani filosofi italiani. Ho parlato anche di questo. Einaudi preferirebbe che il volume nascesse spontaneamente da una discussione pubblica su qualche rivista o giornale. Diventasse volume dopo essere stato almeno in parte scambio vivo, corrispondenza, polemica. Forse non vede bene che cosa ne venga fuori e non vuole compromettersi troppo. Ciò non toglie che l'idea sua sia buona e che valga la pena di essere considerata. Non so invero perché dovrei occuparmene io. Ho troppe cose per le mani, e finisco per fare male anche le poche cose che potrei fare bene. E poi: lei ha in mente il volume e io non ce l'ho, o non ce l'ho ancora. Mi ci lasci pensare. Mi viene anche il dubbio che quattro dialoganti siano troppi. Temo che ne venga fuori una gran confusione. La ringrazio per le notizie sul PAC. Qui tutti abbiamo visto il saggio di Saffirio e martedì, mi pare, ci sarà riunione per discuterlo. A me il saggio va. Ma mi pare troppo lungo. Che volume mai verrà fuori con saggi lunghi e brevi, lunghissimi e brevissimi? Anche qui purtroppo non ci vedo molto chiaro. In che impresa disperata ci siamo messi. Se altri di cui non sappiamo ancora niente ci presenteranno un saggio di 20 pagine e sono nel loro diritto di farlo, come lo metteremo insieme con quello di Saffirio che è più di cento? L'ho detto anche all'autore. Avverrà che dopo tutti i programmi e i sottoprogrammi, dopo tutte le regole e direttive impartite, dopo tutta la sua fatica di direttore, avremo un volume che parrà messo insieme a caso, come se avessimo inviato ai collaboratori un telegramma con un minimo di parole; “Inviate quando volete saggio sull'argomento che preferite”. Non parlo di “Occidente”, per la semplice ragione che non ho nulla da dire. Non so da mesi assolutamente nulla. De Marchi non si è più fatto vivo neppure con un biglietto. Gli ho dato almeno due mesi fa i saggi che avevo ricevuti sulla classe politica e non mi ha mai fatto sapere il suo parere. Vivo ormai come se “Occidente” non esistesse. […] Saluti cordialissimi a tutti, Norberto Bobbio a cura di Mario Quaranta Carteggio inedito Bobbio-Ferruccio Rossi Landi LETTERA 2. Un foglio dattiloscritto fronte-retro. Tutte le lettere di Bobbio sono dattiloscritte con la firma a mano. Scacco matto a Ugo Spirito [3] 22 marzo 1956 Caro Professor Bobbio, […] Quanto mi dice della RAI mi riempie di gelido terrore. Noi dovremmo raccogliere 100 episodi 100 di questo tipo, con nomi date riferimenti precisi, e pubblicarli prima, uno al giorno, sul “Giorno” o sull'“Avanti!” post-staliniano e poi in un bel volume con prefazione di Luigi Einaudi. Ho assistito senza bigiature al Congresso di Bariè. Tema: immanenza e trascendenza1. Spirito, ultimo, ha attaccato violentemente gli analisti definiti “metafisici allo stato elementare”, con sommo gaudio di Bariè. Quasi tutti gli oratori hanno irriso al triangolo “Milano-Torino-Pavia”, vergogna della filosofia italiana. Ho poi avuto un lunghissimo colloquio quasi privato con Spirito a casa di Bariè: e Spirito andava dicendo che mi trova molto [meno] critico di due anni fa mentre io pensavo che sono soltanto - ahimè! - più accorto e meno ingenuo, più prudente e meno sincero, nel parlare con lui e con gli altri come lui. Spirito è uno schermidore finissimo, e in un certo strano modo mi piace. L'elemento positivo del colloquio è stato, per me, questo: che ho finalmente visto quali sono i passi tecnici con i quali è possibile mettere con le spalle al muro anche chi ha posto a problema la possibilità stessa di porsi dei problemi. Uno di questi passi è che la posizione vale solo in quanto la riforma data da Gentile della dialettica hegeliana sia quella giusta; ma così già si suppone che il superamento operato da Hegel del kantismo sia proprio quello giusto, ma già così si suppone che le critiche rivolte da Kant alle filosofie precedenti sian proprio quelle giuste (e che esisteva una sintesi a priori, etc. etc.); ma così si suppone, inter alia, che il dualismo ontologico cartesiano fosse risolvibile così come a risolverlo cominciò Leibniz e che fosse giusto partire con Locke dalla tesi della soggettivi- tà delle impressioni sensoriali (onde la debolezza della sua giustificazione del mondo esterno, etc.). A questo punto ci troviamo di fronte ad alcuni tipici problemi di quell'analisi filosofica che Spirito definisce “una contraddizione in termini”. E come si fa a non pensare a quello che del dualismo cartesiano scrive proprio il nostro Ryle2 (“quello che mi colpisce in Ryle, dice Spirito, è l'assoluta incapacità di prospettarsi un problema filosoficamente”)? Come non pensare alle critiche che al dogma della soggettività delle impressioni sensoriali furono rivolte, tanto per fare un nome, da Dingler? Abbiamo dunque una filosofia come ripresa di problemi reali, umanamente interessanti, socialmente utili, da una parte; e, dall'altra, una proclamazione che poggia sull'accettazione integrale di una certa tradizione ben individuata in tutte le sue svolte e scelte, dall'alto della quale tutto il resto “non è filosofia” perchè “filosofia” è solo proprio quell'insieme di svolte e di scelte una volta per tutte accettate, con un senso di svolgimento necessario e irrimediabile - un solo aggrovigliato filo presentato come fosse l'intera matassa della storia! Tornando al PAC, Barbaro scrive che a Pasqua manda il saggio di sicuro (e aggiunge ancora una volta che sarà molto buono e interessante). Il mio è da giorni copiato, ma le ultime pagine non mi soddisfano e temo dovrò rifarlo; conto di riuscirci entro alcuni altri giorni. […] Molti cordiali saluti dal tuo Ferruccio Rossi-Landi LETTERA 3. Due fogli dattiloscritti. È stato tolto l'inizio e la fine della lettera, in cui si riparla del PAC. 1. Gli atti del III Convegno di filosofia promosso dall'Istituto di filosofia dell'università di Milano, sul tema “Immanenza e trascendenza”, sono stati pubblicati nella rivista diretta da Giovanni E. Barié, “Il Pensiero”, I, 1, 1956, pp. 231. [Le relazioni, precedute da “Al lettore” di Barié, sono state tenute da Carlo Antoni, Antonio Banfi, Mario Dal Pra, Augusto Guzzo, Fazio Allmayer, Ugo Spirito]. 2. Vds. Gilbert Ryle, Lo spirito come comportamento, edizione italiana a cura di Ferruccio RossiLandi, Einaudi, Milano 1955, pp. LVII-372. (“Biblioteca di cultura filosofica, 19”); in particola- 67 n.13 / 2005 re, p. 7 e sgg. Il materiale di Rossi-Landi su Ryle, edito e inedito, è stato ora pubblicato: Ferruccio Rossi-Landi, Scritti su Gilbert Ryle e la filosofia analitica, a cura di Cristina Zorzella, Presentazione di Enrico Berti, Il Poligrafo, Padova 2003, pp. 218. conferenze sta per finire e comincio a pensare agli ozi estivi. È stato un anno in cui ho scritto meno e forse letto di più. E quindi non lo considero del tutto come perduto. Ricordami a Barbara anche da parte di Valeria. E tanti cordiali saluti, Norberto Bobbio Il PAC in dirittura d'arrivo LETTERE 4. Un foglio. [4] Einaudi accetta Vailati Torino, 18 maggio 1956 [5] Caro Rossi-Landi, credo che la tua interpretazione sia sbagliata. Dico “credo”, perché non c'è stata da parte mia consapevolezza. Se poi abbia agito l'inconscio, non so. Ma un inconscio che riesce a fare tante belle cose mi pare un po' strano. Comunque è un problema che non ho mezzi per approfondire. Sono piuttosto incline a credere che sia stata una combinazione e che tu ne abbia approfittato per un esercizio virtuoso dell'intelligenza. Quanto a Paci, io ammiro in lui le qualità che io non possiedo. Per me ogni cosa è lenta e difficile. Lui invece è un gran signore. Lo ammiro perché non sta bene invidiare. Ma pur ammirandolo non sempre lo apprezzo e preferisco leggere altri autori. E quindi mi pare che siamo sostanzialmente d'accordo. Ha avuto luogo martedì scorso la seduta del Centro, di cui ti avrà già scritto Buzano. Sono stati approvati i saggi di Canestrari e il tuo. Leoni ha annunciato che la coppia Griziotti ha rifatto i saggi secondo le nostre indicazioni e che ci saranno mandati quanto prima. Nella seduta di giugno saranno approvati i saggi di Visalberghi, Barbano e Scarpelli. Abbiamo calcolato che i saggi arriveranno forse a diciassette. Numero inferiore al progetto iniziale ma superiore ad ogni aspettativa. È stata approvata la tua nota di spese. All'editore Laterza scrive Buzano confermando il nostro gradimento e chiedendo qualche precisazione soprattutto sul termine di pubblicazione. Insomma tutto è andato a gonfie vele. Ma davvero giungeremo alla fine? È una cosa che ancora stento a credere. L'Elba è in cima ai nostri pensieri. La prossima settimana finirò le lezioni. Intanto il periodo delle 68 Torino, 7 settembre1956 Caro Rossi-Landi, siete andati via in tempo dall'isola. Dalla mattina di domenica non si è più visto il sole. E noi siamo stati cacciati, letteralmente cacciati, dal cattivo tempo due giorni prima del previsto. Invece del venerdì abbiamo scelto per la partenza il mercoledì e gli ultimi giorni non siamo riusciti più a far bagni: nuvole, cavalloni, vento umido. È stata una fine melanconica. Ma il ricordo comunque è bellissimo. Peccato che sia finita. Qui ho ripreso la solita vita di puntiglioso studio interrotto da visite, telefonate, commissioni ecc. In più abbiamo i muratori in casa per importanti lavori e quindi polvere e frastuono. Abbiamo fatto il viaggio di ritorno tutto in un giorno, partendo presto al mattino e arrivando in campagna (un po' più vicina che Torino) alle sette di sera. Viaggio molto meno faticoso di quello d'andata. I bambini sono in campagna e noi andiamo a trovarli a fine settimana. Mercoledì alla solita seduta einaudiana si è discussa la tua proposta. Secondo i tuoi desideri da me assecondati si è lasciata cadere la proposta dei saggi ed è stata accolta quella del Vailati. Per i saggi ci siamo resi conto che con due impegni, come quelli del libro di Preti1 e della raccolta di Banfi (che lui accetta di ridurre a più modeste proporzioni), era poco opportuno accettarne un altro, in una materia come quella filosofica che è una piccolissima fetta (forse la più piccola) della attività editoriale di Einaudi. (Dico tra parentesi che il titolo dei saggi non è piaciuto. È cosa a cui forse potrai a cura di Mario Quaranta Carteggio inedito Bobbio-Ferruccio Rossi Landi ripensare). Per il Vailati c'è stata un'accettazione fervidissima. Con mia sorpresa anche Serini si è dimostrato entusiasta. L'idea di Einaudi è di cominciare a fare un volume solo filosofico anche grosso. Per il volume di storia della scienza vorrebbe rinviare magari attendendo il successo del primo. Che cosa ne pensi? Quanto al PAC ho qui il saggio di Giuliani ma non l'ho ancora letto. Abbagnano mi deve passare quelli di Borghi e di Barone. La seduta per l'approvazione si farà non prima della seconda metà di settembre. Alcuni membri del Centro sono ancora in villeggiatura. Non Rondelli, si capisce, che ha i suoi clienti. Non mi pare di aver altro da dirti per ora. Ti dirò che ti scrivo dopo una discussione con Visalberghi durata circa quattro ore. E quindi ho la testa troppo piena, cioè a dire vuota. Anche noi ci siamo rallegrati della vostra compagnia. Soprattutto i nostri conversari al tramonto hanno caratterizzato il soggiorno. Ora che ti scrivo il tramonto è già finito ma è su per giù la stessa ora. Ma invece del fragore delle onde sono costretto ad ascoltare lo stridio dei tram. La città dopo le ferie mi sembra sempre un luogo di pena. Tanti saluti a Barbara e auguri per i suoi viaggi. Cordialmente, Norberto Bobbio grande gioia del mio parentado1. (La notizia del premio, ahimè magro perché condiviso, non è ancora pubblica). Sono autorizzato a stampare dove voglio. Penserei a “Nuovi Argomenti”, ma prima vorrei un tuo giudizio. Mi spiace disturbarti. Ma dove rivolgersi? Ho un gran bisogno di maestri, ma pare che tutti abbian troppo da fare. In Italia a un certo punto ognuno è lasciato solo. Se non hai tempo o non te la senti di affrontare 37 cartelle, ti prego di non fare complimenti. Rimarrò fedele lo stesso all'amicizia! Con i più cordiali saluti, Ferruccio Rossi-Landi P:S: Laterza conferma che farà il mio volume di saggi. LETTERA 6. Mezzo foglio dattiloscritto. 1. Il saggio non fu poi pubblicato. Possiedo copia dell'ultima stesura. Una lettura critica [7] Torino, 28 settembre 1956 LETTERE 5. Un foglio. 1. Il riferimento è all'opera di Giulio Preti, Praxis ed empirismo, Einaudi, Torini 1957. L'opera di Antonio Banfi non fu pubblicata. Vittoria in un concorso [6] 17 settembre 1956 Caro Bobbio, indipendentemente dagli altri affari in corso, ti scrivo per pregarti di dare un'occhiata all'accluso malloppo. Si tratta del rifacimento (con quante pene!) di un saggio che avevo presentato un anno fa a un concorso di “Incontri della gioventù” e che sarà premiato quanto prima in Campidoglio con Caro Rossi-Landi, è inutile che cominci a scusarmi per il ritardo, perché è diventato purtroppo una norma. Sono sempre in ritardo e non solo con le lettere ma anche con gli editori, con gli studenti, con tutti. Oggi tutti viaggiano, si spostano rapidamente da un luogo all'altro. Da quando son a Torino quasi ogni giorno c'è qualche amico o conoscente o seccatore di passaggio che mi viene a trovare. Perdo un mucchio di tempo in visite la maggior parte delle quali lasciano il tempo che trovano (se non addirittura lo peggiorano). Avevo già letto da qualche giorno il tuo saggio ma non avevo trovato il modo di scriverti. Inoltre aspettavo di darti qualche notizia più precisa sul tuo Vailati proposto ad Einaudi, ma la seduta che avremmo dovuto dedicare alla collana filosofica è stata ancora una volta rinviata. Non avendo il coraggio di farti aspettare ancora una settimana ti 69 n.13 / 2005 scrivo intanto in merito al saggio sulla coscienza internazionale. La definizione che dai a pag. 4 della coscienza internazionale non mi pare molto felice. Dici “rendersi conto di una realtà politica…”. Mi pare troppo poco: non si tratta di rendersi conto ma di apprezzare; e poi, solo realtà politica o anche altro? Parli poi di una realtà “lesiva dei propri interessi”: a parte la formulazione che non mi pare ben riuscita, il significato di simile espressione è piuttosto discutibile: lesione in nome di che? di altri interessi contrapposti? perché allora dovrei mortificare i miei interessi per esaltare gli altrui? oppure in nome di principi superiori agli interessi? e quali? Questione a non finire. Ma nella tua formulazione la complessità della questione non appare. p. 6 “La provincia si potenzia psicologicamente in nazione...”: poco chiaro. Alla stessa stregua si potrebbe dire che la nazione si potenzia psicologicamente in sopranazionale. E il problema è risolto. p. 6 “L'Italia si è sempre più mediterraneizzata”. È proprio vero questo? Le classi dirigenti italiane dopo l'unità hanno sempre vagheggiato un'espansione oltre i confini del Mediterraneo. E hanno partecipato per quel poco che è stato loro permesso alle conquiste coloniali della fine del secolo, p. 7 Quando cominci a parlare degli italiani che viaggiano poco, si sente un po' troppo il passaggio brusco dalle considerazioni storiche generali alle considerazioni spicciole della conversazione quotidiana. Tra l'altro gli Italiani viaggiano poco come turisti, ma molto, io credo, in confronto alle nazioni turistiche per ragioni di lavoro, come emigranti. È bene chiarire la distinzione. p. 8 L'argomento fondato sulla “recisa opposizione tra poveri e ricchi” è buttato là un po' frettolosamente. Richiederebbe qualche spiegazione in più se no rischia di essere scambiato per un argomento ad effetto. Si capisce che vuoi dire qualcosa di importante ma non lo dimostri a sufficienza. Ottime mi paiono le osservazioni sull'insegnamento della storia. Ma è argomento trattato più volte in dibattiti, convegni, ecc. Non so quanti seminari siano stati tenuti sinora sotto l'egida dell'Unesco su questo tema. Togliere il veleno nazionalistico dei testi di storia e accompagnare lo studio della storia con l'insegnamento delle scienze sociali è 70 uno dei maggiori passatempi dei funzionari dell'Unesco. Tra l'altro da questi seminari (sui quali anni or sono ho tenuto una relazione) si vede che il male del nazionalismo è comune a tutti i libri di storia di tutte le nazioni (pensa solo allo chauvinismo francese e al “deutschlanduberallismo” dei tedeschi). Mi ricordo che in uno di questi seminari il delegato norvegese raccontava che nei testi di storia che si tramandavano nelle scuole norvegesi gli Svedesi erano dipinti come barbari per aver distrutto in un'antica guerra non so quale abbazia che si dimostrò poi non essere ancora stata a quel tempo costruita. Mi risponderai che tu ti occupi dell'Italia. Sì, ma te ne occupi un po' troppo come di un male caratteristicamente italiano, mentre c'è da credere che si tratti di un male comune (mezzo gaudio), determinato da alcuni secoli di storia in un determinato senso, alla quale l'Italia ha partecipato in ritardo e senza essere una delle protagoniste. A pag. 16 il rapporto tra i quattro punti e la formazione della coscienza internazionale non è molto convincente. La condizione principale per insegnare la storia in modo meno nazionailistico è di insistere meno sulle guerre in cui per forza ci sono sempre dei vincitori e dei vinti, e parlare di più dei fatti economici, delle scoperte scientifiche, delle innovazioni tecniche. Forse si trattava di una considerazione troppo ovvia e tu hai voluto mettere in rilievo altre cose meno dette e ridette. Ma allora dovevi spiegar meglio. pp. 24-25 Non ho capito la dimostrazione per assurdo. Per quel che ho capito non mi pare un argomento molto forte. (Sarà perché in generale l'argomento per assurdo non mi convince mai. L'ho sempre trovato un argomento povero di valore persuasivo). A p. 26 introduci il concetto di “coscienza internazionale politica”, come distinta da una coscienza internazionale culturale. Ma sinora avevi sempre e soltanto parlato di coscienza internazionale senza distinzioni. La cosa crea un po' di confusione nel lettore. Quel che hai detto sin qua a quale delle due coscienze si riferisce? Certamente a quella politica. Ma perché non dirlo prima. E poi è proprio chiaro che cosa intendi per coscienza internazionale politica? È forse la coscienza che i limiti nazionali da superarsi sono quelli non economici o a cura di Mario Quaranta sociali o religiosi, ma politici? Io ho l'impressione che nel corso del saggio usi l'espressione “coscienza internazionale” in un senso più largo. Aggiungo che le considerazioni finali sulla reazione degli studenti sono troppo impressionistiche. E quando aggiungi una spiegazione ha l'aria di essere sbrigativa. Per esempio là dove a proposito della piccola borghesia (p. 29) dici: “Latrice o succube ecc ... sia per la sua struttura intrinseca [ma questa è una frase evasiva, che serve a far credere di aver dato una spiegazione e invece non si è fatto che nascondersi dietro una parola difficile], sia perché da essa il fascismo aveva tratto i suoi più convinti e storici assertori” [a me pare che si debba dire perfettamente il contrario]. In complesso il tuo lavoro mi pare vivace, intelligente, di piacevole lettura, con idee in gran parte accettabili. Però mi pare un po' guastato dall'occasione che l'ha dettato: troppe cose hai dovuto dire e ne è venuta una forma rapsodica, più allettante che convincente. Il problema, ad esempio, che tratti nelle ultime pagine sulla discrepanza tra le direttive ministeriali e l'insegnamento della storia nella realtà, basterebbe da solo a fare un articolo. E invece messo lì alla fine ci sta un po' come un'appendice che aumenta l'impressione della frammentarietà, o meglio fa pensare che pur avendo detto tante cose l'argomento sia tutt'altro che esaurito. Così com'è non ti consiglierei di pubblicarlo su “Nuovi Argomenti”. Ritengo che su questa rivista dovresti mandare un articolo più personale e più incisivo, che faccia più “colpo”. “Nuovi Argomenti” è oggi la rivista che ha maggior credito presso gli intellettuali del nostro tipo. Non conviene sprecarla con un articolo cha a mio avviso non dà la misura piena delle tue capacità e della tua abilità polemica. Due righe (non più di due righe) per il PAC. Il rifiuto di Laterza è un colpo. Qui siamo dell'idea di parlarne con la signora Taylor offrendole come contributo ciò che ci resta per saggi non fatti. Io escludo che si trovi ormai un grande editore. Dobbiamo piegarci alla realtà. Sono convinto più che mai che quel volume è stata un grossa grana e che forse il lume non valeva la candela. Abbasso i volumi collettivi in un paese di anarchici e studiosi così così. Sono costernato par la morte di Calamandrei. Domani andrò a Firenze per i funerali. Tornando Carteggio inedito Bobbio-Ferruccio Rossi Landi da Marina di Campo ebbimo lo scrupolo di non disturbarlo e passammo dinnanzi alla sua villa senza fermarci. Nella vita di ciascuno non sono più di tre o quattro gli uomini veramente superiori che è dato incontrare. Calamandrei per me era uno di quelli. La sua scomparsa è una grande perdita. Ti prego di ricordarci a Barbara. E tanti saluti cordiali da noi tutti. Noberto Bobbio LETTERA 7. Due fogli; il secondo fronte-retro. Ragioni di un errore [8] Milano 3 ottobre 1956 Caro Bobbio, ho un bel febbrone, influenza e raffreddore; ma a letto mi ci annoio troppo e così mi sono alzato per battere alcune lettere, a cominciare dalla tua. Sono rimasto molto colpito anch'io per la morte di Calamandrei. Mi rimane il rimpianto di non averlo mai incontrato, così come mi è rimasto quello di non aver mai visto in carne ossa e voce Croce, Gentile, Wittgenstein, e magari anche d'Annunzio: il quale ultimo aveva ragione quando diceva che alla dipartita di certi uomini il mondo sembra diminuito di valore. […] Vengo ora al mio saggio sulla coscienza internazionale. La tua diagnosi complessiva e le tue osservazioni particolari mi sembrano perfette. Non vi appulcro verbo. Mi resta solo da compiacermi dello scampato pericolo di un giustissimo rifiuto da parte di “Nuovi Argomenti” e da spiegare a te come mai avevo sopravalutato così grossolanamente il mio lavoro. Tornato a Milano da Roma con la notizia del premio, mi misi in testa di “sfruttare” il dattiloscritto con cui l'avevo vinto. Sai quanto si lavora, e come malamente, quando ci si mette non già a scrivere, ma a riscrivere. Nel mio caso avevo in più lo svantaggio di aver ricevuto un'approvazione ufficiale (ahimè, quanto misero lo strumento di misura!), e lo svantaggio di trovarmi davanti a un materiale buttato giù in tre giorni con lo scopo preciso di rispondere a un insieme etero- 71 n.13 / 2005 geneo di domande. Cammin facendo, ho tagliato molta roba e molta ne ho aggiunta. A un certo punto, sulle soglie dello spezzamento in due o tre saggi distinti e della necessità di compiere delle ricerche, ho creduto di ravvisare in quanto avevo fino ad allora messo insieme una tal quale unità almeno giornalistica. E ti ho mandato il malloppo, fors'anche con la disonesta arrière-pensée di liberarmene. Ti prego di perdonarmi e ti ringrazio vivamente per tutto. Poche cose fanno bene quanto il richiamo alla realtà da parte di persone di cui veramente ci si fida. Magari ne avessi altri molti come te, di consiglieri! Ora sono immerso in pieno Vailati. Ho inviato a Laterza il materiale per la scelta piccola1; sto ultimando una lunghissima nota critica per la “Rivista critica di storia della filosofia” intitolata Materiale per un ritorno a Giovanni Vailati1, nella quale presento filologicamente ai lettori la letteratura vailatiana di questo dopoguerra, il volumone degli Scritti [1911], una classificazione di questi per argomenti e un abbozzo di bibliografia vailatiana. È il primo passo al di là della rievocazione storiografica e dell'invito a studiare, cui finora si sono nel complesso fermati i miei predecessori. Penso che da questo lavoro ricaverò non solo i due volumi Laterza ed Einaudi, ma anche una serie di saggi su vari aspetti dell'opera vailatiana, che più la si studia e più appare impressionantemente moderna. Certi passi potrebbero esser stati scritti dagli analisti contemporanei: ne farò florilegio. In stretta confidenza: Paci ha reagito molto violentemente contro il mio ultimo saggio sulle modalità del filosofare. Ha detto che così facendo mi rovino (intende: presso l'ambiente accademico italiano), che basta con questo Ryle e questi analitici, che dovrei occuparmi degli Italiani e dei Tedeschi (chissà perché dei Tedeschi e non degli Inglesi o Americani), e via di seguito. Francamente non me l'aspettavo. Mi dispiace: non capisco il perché di tanta critica, fatta - nota bene - col tono sincero e amichevole di chi vuol impedire a un amico di continuare a commettere delle sciocchezze. Vorrei proprio giungere a scoprire se c'è sotto qualcosa (qualche reazione consapevole o no), ovvero se debbo prendere questi “consigli” at their cash value. Non mi permetto di chiederti cosa ne pensi; 72 ma insomma sono proprio perplesso. Paci non è Spirito o Sciacca o anche soltanto Banfi (quali accostamenti!). Al termine del secondo foglio di nuovo ti ringrazio e ti mando anche da parte di Barbara i migliori saluti per tutti voi. Ferruccio Rossi-Landi LETTERA 8. Due fogli dattiloscritti; è pubblicato solo il secondo; nel primo l'autore si sofferma sul PAC. 1. Il riferimento è al libro, Giovanni Vailati, Il metodo della filosofia. Saggi scelti a cura di F. RossiLandi, Laterza, Bari 1957, pp. 225. [Nota introduttiva e bibliografica, pp. 7-36]. 2. Il testo pubblicato ha un diverso titolo: Materiale per lo studio di Vailati, “Rivista critica di storia della filosofia”, XII, 4, 1957, pp. 468-485 e XIII, 1, 1958, pp. 82- 108. L'intervento sovietico in Ungheria [9] 18 novembre 1956 Caro Rossi-Landi, ho lasciato trascorrere un mese esatto dalla tua ultima lettera. Ma quale mese! La crisi ungherese ha prodotto grave turbamento tra gli amici della casa editrice. Abbiamo fatto riunioni, discussioni a non finire, progetti che non hanno avuto seguito. Dopo il periodo della Resistenza, non mi ero trovato più nella mischia come in questi ultimi giorni. Molte illusioni sul corso della storia universale non me le sono mai fatte. Per questo ho predicato e predico che l'uomo di cultura deve fare quel che la coscienza della sua missione gli detta, avvenga quel che può. Ma un insieme di grottesco e di tragico, di viltà e crudeltà, di menzogna e untuosità, di cinismo e violenza come si rivela negli attuali dirigenti sovietici, non l'avevo mai incontrato in quei duemila anni di storia che ci fanno studiare nelle scuole. Forse bisogna risalire a remote epoche barbariche. L'unica analogia possibile è pur- a cura di Mario Quaranta troppo recente, e non va troppo a onore dei tempi in cui viviamo: l'hitlerismo. Penso che oggi, sino a che la direzione del partito comunista manterrà la odiosa posizione che ha assunta, non sia più possibile nessuna collaborazione con i comunisti (s'intende coi comunisti in quanto rappresentanti del loro partito). Di questa confusione soffre il movimento operaio, purtroppo, vittima di capi ora imbelli ora senza scrupoli. E ne trionfano, ahimè, i Fanfani, i Scelba, e loro seguaci che raccoglieranno, loro e non i socialisti, i frutti della crisi. Non so se ti abbia scritto Rondelli. Abbiamo avuto una seduta del Centro in cui la signorina Jannello, vecchia amica di De Marchi e di “Occidente”, ora segretaria privata di Olivetti, ci ha portati fresca fresca la notizia che il PAC era stato accettato dalle edizioni di Comunità. Essendo arrivato tardi alla seduta non saprei dirti altri particolari. Le trattative sono state condotte da Leoni il quale aveva fissato un appuntamento con Olivetti alla fine del mese scorso. Anch'io avrei dovuto partecipare al colloquio ma quel giorno ero fuori Torino. Olivetti diede subito a Leoni le migliori assicurazioni e non ha tardato a farci avere la risposta favorevole. Così possiamo stare tranquilli. Il PAC dopo lunga e perigliosa navigazione sta per giungere in porto. Credo che i pericoli di collisioni siano oramai finiti. Che sospiro! Sono stato a Milano per due ore con Firpo, la scorsa settimana, invitati da De Marchi che voleva farci incontare col sig. Thompson, uno dei dirigenti della Rockfeller. Mi pare che il sig. Thompson s'interessi a “Occidente” tramite l'Istituto di Scienze politiche di Torino. Il che mi confema che fu un fatale errore da parte di De Marchi staccare “Occidente” dall'Istituto al quale bisognerà forse in qualche modo riattaccarlo (la cosa resti tra noi). Ci è parsa ottima ed esauriente la presentazione del tuo lavoro per il Vailati. Foà avrebbe già risposto se non gli avessi detto che volevo prima consultarmi con te su un punto della tua presentazione. E lo faccio soltanto ora. Si tratta delle cento cartelle della introduzione. Non sono un po' troppe? (Le tue in genere sono abbastanze fitte). Pensiamo al libro in cui questa prefazione deve apparire e alla collana che è più di testo che di commento. Oltretutto la bibliografia degli scritti di e su Vailati non sarà tanto breve: altre dieci o dodici pagine? Carteggio inedito Bobbio-Ferruccio Rossi Landi Ritieni indispensabile una introduzione così lunga? Non credi che un'introduzione più breve si leggerebbe di più e sarebbe in definitiva, proprio allo scopo di far conoscere il pensiero di Vailati, più utile? Ti prego di rispondermi anche solo due righe su questo punto. Sono ben disposto a difendere la tua tesi. Ma vorrei esserne pienamente convinto. Tanti cordiali saluti a Barbara e alla bambine da tutti noi. Norberto Bobbio LETTERA 9. Un foglio fronte-retro. Sto con gli insorti ungheresi [10] 21 novembre 1956 Caro Bobbio, quale mese, davvero. Non ho mai sentito come questa volta la totale “continuità” fra la nostra costituzione mentale e gli eventi del mondo. Ognuno reagisce (o si sottrae alla reazione) con tutto se stesso. Le mie interpretazioni sono un po' eterodosse. Mi piacerebbe parlarne con te. Non avendo mai in alcun modo collaborato con i comunisti ed avendo anzi dovuto sostenere delle battaglie con gli storicisti nostrani in favore dell'empirismo filosofico e politico (che non è quello di Eden), mi ritrovo ora nella situazione un po' paradossale di guardare alla repressione ungherese con una certa larghezza. M'intendi? Non ho alcuna delusione da reprimere o da rendere pubblica. Ho sempre detto che il marxismo è una cattiva filosofia. Ora ne ho nuove prove. Nauralmente sto con gli Ungheresi: ‘naturalmente’ nel senso che è naturale starci, senza pagare il prezzo di grosse rinunce ideali o teoriche. Ma il fatto stesso che non mi facessi certe illusioni mi permette di capire e perdonare il duro sbaglio sovietico in termini politici (sfera d'influenza cui essi non possono rinunciare, eccetera). D'altronde non dobbiamo dimenticare che gli Ungheresi non sono Romani o Napoletani o Piemontesi: son gente dura, che si è affrettata ad appendere i propri nemici ai lampioni per i testicoli dopo avergli 73 n.13 / 2005 cavato gli occhi e aperto il ventre affinché le budella si spargessero per la strada (ci sono impressionanti fotografie non pubblicate; miei amici le han viste). Stiamo attenti a non giudicare certi eventi con la nostra mentalità di latini poco serii e scetticheggianti ma in fondo non disumani. Ciò che mi fa molto male, invece, è il modo in cui le destre ne approfittano. L'arcivesco di Milano non è andato in giro per le strade quando cinquantamila Italiani si non fatti uccidere ad El Alamein per colpa di Mussolini del Concordato, e nemmeno per onorare la memoria dei sei milioni di Ebrei massacrati da Hitler. Però per gli Ungheresi la processione l'han fatta. Non parliamo poi dei fascisti. Non so cosa si possa o si debba fare. Mi piacerebbe che tutti gli intellettuali progressisti si impegnassero fin d'ora a entrare nel partito socialista unificato e si facessero propagandisti dell'unificazione. Così ci sarebbe un movimento d'opinione contro il PC.I. e, insieme, contro le destre e i preti. Personalmente potrei impegnarmi ad andare in fabbrica un volta la settimana (lo sai che sarebbe un grosso sforzo per un povero uomo di studio); non posso cominciare da solo, non ne ho l'autorità e la preparazione. Mettetevi d'accordo voi più grossi. Non abbandoniamo gli operai e i contadini in questi frangenti. Nessuna nuova da Rondelli. Mi rallegra la soluzione. Raccomando i due volumi separati, e che la persona di “Comunità” incaricata di curare l'edizione si metta subito in contatto con me per l'aspetto tecnico. Riduciamo lo 100 cartelle dell'introduzIone al Vailati a 20 minimo - 50 massimo. Va bene? Io avevo detto 100 perchè da Einaudi parlavano di “esaurientissima introduzione”. Affettuosi saluti a Valeria e ai bambini, Ferruccio Rossi-Landi LETTERA 10. Un foglio dattiloscritto. L'eclissi del comunismo [11] 9 dicembre 1956 Caro Rossi-Landi, credo che finalmente avrai ricevuto la lettera dall'e- 74 ditore Einaudi con le condizioni per il tuo Vailati. Quando ricevetti la tua ultima lettera stavo per partire per Strasburgo dove ero invitato per un colloquio filosofico-giuridico. E solo al mio ritorno ho potuto riprendere il discorso sul tuo libro con Foà. Quest'anno in complesso non va molto bene. Sono sempre un po' stanco. Penso alle belle giornate di Marina di Campo con nostalgia. Sono già per temperamento volto al passato (il marchio, credo, del pessimista); ma ora si aggiunge forse qualche primo sintomo d'invecchiamento (sono convinto che avrò una vecchiaia precoce) e il terribile quadro storico dei nostri giorni a farmi guardare all'avvenire senza fiducia. Vedo bene anch'io che si tratta della solita politica di potenza: niente di nuovo sotto il sole. Ma pensa che cosa è stata la rivoluzione russa: la prima grande rivoluzione vittoriosa dei poveri, degli oppressi. Pensa che dovunque ci sono oppressi, là il comunismo è la sola speranza. Hai un bel dire adesso, olimpicamente, che il marxismo è una cattiva filosofia e tu non ci hai mai creduto. Eppure di fronte a queste immense trasformazioni, la nostra repugnanza teoretica era sopraffatta talvolta, non puoi negarlo, da una stupita ammirazione; e per me questa ammirazione era anche fiduciosa, se no non avrei scritto i saggi di Politica e cultura1. Credo anch'io che l'unica cosa da farsi sia favorire l'unificazione socialista e collaborarvi in qualche modo. Lo dico però col cuore, non con la testa. Lo dico e non faccio nulla. Anche tutti i miei amici exazionisti lo dicono e non fanno nulla. In fondo non crediamo ai nostri socialisti. Il partito socialista è rinato male in Italia dopo la sua prima morte. È nato vecchio e malato. È nato quello di prima. E non è vero che il partito comunista ha messo radici proprio perché i partiti socialisti di Europa (continentale) avevano fatto fallimento? Che cosa dobbiamo pensare ora di un partito socialista che dovrebbe sostituire il partito comunista che lo aveva soppiantato, rimanendo quello che era quando era stato soppiantato? Bisogna vincere una profonda sfiducia per rianimare un corpo che tutto fa credere sia già morto da parecchi anni. A Milano qualcosa si muove? Domani faremo appunto una riunione per discutere il problema della riunificazione. Ma non c'è volontà vera e profonda d'impegnarsi. a cura di Mario Quaranta Carteggio inedito Bobbio-Ferruccio Rossi Landi Mi dice Rondelli che l'annunzio recato all'ultima seduta del Centro sulla pubblicazione del PAC non era ufficiale. Si attende ancora la lettera d'impegno da parte dell'editore. Allora ti scriverà per mettersi d'accordo con te per le modalità della pubblicazione. Tanti saluti a tua moglie e alle bambine. Un affettuoso ricordo, Norberto Bobbio LETTERA 11. Un foglio. 1. Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955, pp. 282 (“Saggi”, 192). Una rivoluzione democratica mancata [12] 21 dicembre 1956 Caro Bobbio, rispondo alla tua lettera dei 9 dicembre. Credo che, sostanzialmente, tu abbia ragione in quello che dici sulla situazione storica. lo insisterei di più sul fatto che, se una rivoluzione dei poveri c'è stata, essa è stata anche tradita ormai da troppo tempo. Com'era possibile continuare a illudersi che non lo fosse? Il tradimento risale almeno al 1936. Il male è che un'altra rivoluzione c'è stata, e sostanzialmente non è stata tradita. Non propriamente una rivoluzione dei poveri, ma piuttosto verso i poveri (e sia pure, sotto certi aspetti, solo al limite). Parlo della rivoluzione democratica, non mai avvenuta in Italia, Germania e Russia. lo non mi sono mai stancato di ripetere a orecchie sorde od ostili che in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in Scandinavia si respira un'aria morale e sociale completamente diversa dalla nostra. Strano a dirsi, mi hanno sempre accusato di esterofilia, mentre perdonavano ai fideistici sostenitori della tradita rivoluzione sovietica. La strada è quella. Ma che sia lecito disperare della possibilità per esempio italiana d'imboccarla, è un'altra questione. Foà mi ha scritto offrendo 300.000 lire. Non gli ho ancora risposto. Giungono notizie terribili su pagamenti in libri e in azioni, che io non potrei mai accettare. Forse ricorrerò al trucco di proporre io stesso 100.000 lire in libri e di dividere la somma in lotti. Ma questo te lo dico a titolo d'informazione personale. Per favore non parlargliene per primo. Ti unisco copia di una relazione che ho scritta per quel volume di discussioni ora accettato da Laterza (i discutitori sono Badaloni, Franchini, Prini, Vasoli). Forse non ti dispiacerà leggerla. Sto facendo orribili esperienze con la RAI e interessanti esperienze con l'Accademia. Ho deciso di impiantare un diario di fatti a partire dal prossimo 1 gennaio1. Forse è l'unico modo per rendersi utile. Barbara e le bambine sono in Svezia, io passerò le vacanze per lo più a Milano. Sono molto solo e un po' stanco. Il fatto di avere sempre tanti impegni pratici o semi-scientifici mi preoccupa. A quando la ricerca vera e propria - moltissimo lavoro su punti piccolissimi, senza alcuna preoccupazione di accumulare chili di carta per i concorsi? Affettuosi saluti a tutti e molti auguri per le feste. Ferruccio Rossi-Landi LETTERA 12. Un foglio dattiloscritto. 1. Effettivamente Rossi-Landi iniziò a scrivere il diario/(ora in mio possesso), interrotto però dopo pochi mesi. Una proposta di Renzo Piovesan su Gilbert Ryle [13] Torino, 26 marzo 1957 Caro Rossi-Landi, ti mando finalmente l'introduzione al PAC. Come vedrai il mio lavoro è consistito soprattutto in un'opera, non so se felicemente riuscita, di sintesi. Spero di aver conservato l'essenziale. Naturalmente se hai osservazioni da fare, falle pure liberamente. Ne ho distribuite alcune copie tra i membri del Centro e sentirò le loro osservazioni se mai me ne faranno. Proprio in questi giorni ho ricevuto il progetto che ti accludo di traduzione di un nuovo volume di Ryle per Einaudi. L'autore del progetto è il dottor Renzo Piovesan1, che fu mio scolaro a Padova durante la 75 n.13 / 2005 Resistenza militante nel Partito d'Azione; dopo la guerra, presa la laurea, si iscrisse al Partito Comunista e se ne andò per coerenza a fare l'operaio in Cecoslovacchia, donde tornò deluso e disgustato del regime dopo tre o quattro anni; si mise a fare l'assistente all'Istituto padovano di filosofia del diritto sino a che attraverso un lettorato (borsa di studio) a Reading scoperse l'Inghilterra. Lo incontrai a Oxford due anni fa in uno dei tanti ricevimenti offertici dall'amico De Marchi e lo presentati al prof. Hart. Da allora pare che sia diventato un fedele di Hart ed è certo dalla lettera che mi scrive un patito di Ryle e un ammiratore della filosofia inglese. Insomma un convertito. Mi dice di aver sottoposto il progetto a Ryle che lo ha accolto con molta simpatia promettendogli il suo personale interessamento. Vorrebbe intitolare il volume Il mestiere del filosofo (che mi pare un buon titolo). Non credo che Einaudi abbia intenzione di pubblicare un secondo volume di Ryle in una collana come quella filosofica in cui c'è una decina di volumi pronti che non escono mai. Comunque, prima di parlarne con Einaudi, mi piacerebbe sentire il tuo parere, anche perché Ryle è stato sinora il tuo autore e tu hai su di lui come direbbe un giurista un diritto di prelazione. Ti prego di darmi una risposta un po' sollecita e di restituirmi l'accluso progetto perché è una copia unica. Ti ringrazio di avermi indicato la tua lettera di risposta al signor Swan, che mi è sembrata ottima sotto tutti i punti di vista, e mi ha liberato dalla penosa impressione che mi aveva lasciato la lettera dello “stupido signor Swan” (che a dire il vero ignoro chi sia). Invio a te e ai tuoi i nostri più cordiali saluti, Norberto Bobbio P. S. Debbo restituirti le copie del “Listener”2, o le posso tenere? LETTERA 13. Un foglio. Il P. S. è scritto a mano. 1. Renzo Piovesan (n. a Padova nel 1924), professore di filosofia del linguaggio all'università di Padova; nella sua opera Analisi filosofica e fenomenologia linguistica, SEV, Padova 1961, pp. 183, si richiama a John L. Austin nel considerare il lin- 76 guaggio una complessa modalità del “fare umano” variamente socializzato. 2. Si riferisce alle conversazioni al Terzo Programma della BBC (dicembre 1956) di RossiLandi, Some modern Italian philosophers: 1 The knife-grinders; 2. Pontiffs; pubblicate in “The Listener”, LVII, 1450, pp. 59-61 e 1491, pp. 97-98. Scontro tra metafisici e anti-metafisici [14] 12 maggio 1957 Caro Bobbio, sono stato fuori a cena, stasera affatto solo, e passando per la stazione ho già impostato l'altra mia lettera di oggi, che riceverai pertanto prima di questa da impostarsi domattina. Ho incontrato Piovesan a Bologna. Non te ne avevo scritto? Parlammo anche del suo libro ryliano. Ora gli scrivo rinviandogli il piano con la preghiera di rifarlo pulitamente per Laterza. A Bologna non siamo stati sopraffatti dai metafisici: in realtà credo che qualsiasi osservatore obiettivo abbia potuto constatare la superiorità scientifica dei “metodologi”1. Ma, te lo ripeto, siamo stati abbandonati dagli ordinari. La presenza dì gente come Abbagnano, Preti, Geymonat e Bobbio sarebbe stata molto utile. Perfino Calogero, Spirito e Lombardi ci sarebbero serviti. Ma nessuno di costoro era presente. Naturalmente ora c'è chi va confondendo le carte in tavola; e dice che la pretesa superiorità scientifica è in realtà posizione filosofica diversa. Ma io ti prego di leggere da una parte le relazioni di Santucci, Scarpelli, Pietro e Paolo Rossi; e dall'altra, quelle di Arata, Masullo, Prini eccetera. Se non cogli una differenza complessiva, quale differenza mai cogli (al di là dei colori e di altri dati sensoriali)? Per fortuna il volume resta; e per fortuna non tutti sono o stupidi o legati a interessi pratici mascherati da metafisiche rivendicazioni. La terna del concorso genovese mi dicono sarebbe composta così: Antonelli, Vasa, Barone. Di più non so nè chiedo. Se Guzzo pensa sinceramente a una mia possibilità me ne rallegro. Ma sta pur sicuro che a cura di Mario Quaranta Carteggio inedito Bobbio-Ferruccio Rossi Landi non sarò io a chiedergli informazioni. Tanto più che dal prossimo ottobre, grazie alla mia ex-moglie, cambierò definitivamente mestiere. È del resto chiaro che nessuno mi vuole: dò noia a tutti, o quasi; e perfino chi mi potrebbe e dovrebbe sostenere, per lo più preferisce star zitto. Cose di Gran Pretagna (questo l'ultimo nome del nostro paese). Mi rallegro delle notizie einaudiane; spero esse troveranno una brillante conferma sotto forma di un assegno promessomi entro questo maggio. Per il resto scriverò a Foà, o meglio verrò a trovarlo alla prima occasione. Lasciamo pure perdere per la conferenza: preferisco farla l'anno prossimo alla vostra società filosofica. Ma credevo aveste anche qualche circolo generale di cultura, magari pagante. Sì, De Marchi ha sepolto “Occidente” senza nemmeno chiamare gli amici intorno al feretro. Cose di Gran Pretagna. […]. I migliori saluti a tutti, Ferruccio Rossi-Landi LETTERA 14. Due fogli dattiloscritti; si è tralasciato il secondo di informazioni strettamente personali. 1. Il convegno fu promosso a Bologna (25-27 aprile 1957) dal Presidente della SFI Felice Battaglia; gli atti sono stati pubblicti: Aa.Vv., La ricerca filosofica nella coscienza delle nuove generazioni, Il Mulino, Bologna 1957, pp. 171. Rossi-Landi ha tenuto la relazione su: Attività umane e momenti dello Spirito, ivi, pp. 38-51. Kelsen, “un vecchietto in gamba” [15] 27 giugno 1957 Caro Rossi-Landi, rispondo con molto ritardo perché nel frattempo c'è stato il viaggio a Parigi per il convegno sul diritto naturale, in cui ero uno dei relatori. Ho conosciuto finalmente Kelsen, il quale è un vecchietto in gamba, pieno di foga polemica, che si scalda nella discussione fino a diventar rosso come un galletto e ad ogni intervento dei suoi avversari (e quasi tutti lo erano) ripeteva come una sentenza inappellabile: “Ce que vous dites n'a aucun sens”. Anche lui però, come tutti gli uomini celebri e riveriti, non è più capace di uscire da se stesso: si ripete, si copia in modo monotono, quasi monomaniaco, e non sembra disposto ad imparare più nulla. Non c'è problema che non abbia risolto e non c'è soluzione da lui data che non sia quella buona, tanto da meravigliarsi o addirittura da irritarsi che gli altri non siano disposti ad accettarla senza discutere. Con me, conoscendomi alleato è stato d'una cordialità, e d'una affabilità disarmanti. Del resto, siccome è uno dei personaggi del nostro mondo culturale da cui ho imparato di più, gli perdono volentieri le sue impuntature, mentre gli altri erano inveleniti e provavano un gran gusto a dire con compunzione che Kelsen ormai è vecchio, frusto, fa quasi pena. Per quanto fosse un convegno internazionale, di inglesi, come al solito, neppure l'ombra. Passava da inglese d'Entrèves che ha fatto la parte del difensore del diritto naturale mentre io dovevo fare quella dell'avvocato del diavolo. Son tornato in macchina con lui: magnifico viaggio, due giorni di vacanza, rari e ben spesi, terminati con un pellegrinaggio a Les Charmettes, presso Chambéry, dove Rousseau passò alcuni anni con M.me de Warens. Appena tornato sono stato preso dal turbine degli esami. E solo oggi ho un po' di libertà di cui approfitto per scriverti. Domani andrò per fine settimana a Cervinia, dove già sono Valeria e bambini. Perciò domenica, venendo a Torino, non mi troverai. Mi dispiace di non aver pensato di scrivertelo prima. Quelle mie ultime battute sulla spregiudicatezza e sull'empietà erano ellittiche. Volevo parlare di empietà non in generale ma con riferimento ad una particolare situazione che è oggetto costante dei nostri discorsi, quella della università e della cultura italiana. Volevo dire che un professore può sopportare che si parli male dell'università e se ne auspichi la riforma, accetta cioè un atteggiamento critico all'interno del “corpo” di cui fa parte; ma difficilmente tollererà chi stando al di fuori o ponendosi volutamente al di fuori dica che l'università italiana è tutta da rifare e le neghi ogni valore. Ogni società costituita tollera lo spregiudicato; rifiuta l'empio, cioè colui che ai suoi occhi è uno 77 n.13 / 2005 sconsacratore del tempio. Pensa alle differenza tra la tua posizione e quella di Garin. Questi pur criticando questo e quello mantiene legami d'etichetta col mondo accademico e il mondo accademico lo considera uno dei suoi. Un Galli1, tanto per fare un esempio, che è furibondo per le Cronache [della filosofia italiana]2, tratta pur sempre Garin da collega a collega. Lo considererà un cattivo professore ma pur sempre un professore. ll tuo atteggiamento è stato sinora, e direi di proposito, e qui sta la tua forza, assai più radicale. Pensa che se Galli dovesse dare un giudizio su di te non si limiterebbe a dire che sei un non-filosofo, direbbe che sei un iconoclasta che merita di essere cacciato dalla comunità. Vorrei che fosse chiaro che, facendo quella distinzione, io pensavo unicamente alla tua posizione nel mondo accademico quale può apparire e quale tu stesso hai fatto o voluto far apparire in questi anni che ti sei avvicinato ad esso. Ma vorrei che fosse altrettanto chiaro che è un atteggiamento che io apprezzo e ho apprezzato sin dal primo momento in cui ci siano conosciuti ed è ciò che ha reso a me grata la tua amicizia. Il tuo comportamento morale in universale è assolutamente fuori questione. E poiché quelle mie frasi buttate là alla fine della lettera ti possono aver ferito e fatto pensare ad un giudizio sulla tua vita morale, non ho che da rammaricarmi di averle scritte. Quanto alla sicurezza, qualità che ho sempre ammirato in te (proprio perché io ne ho così poca, tanto da essere letteralmente tormentato ogni qualvolta devo prendere una qualche decisione importante), riprenderemo il discorso alla prima occasione. M'interessa molto come analisi del comportamento, tanto più che tu mi dici di essere in fondo un timido che ha superato la sua timidezza. Come hai fatto? Ziccardi mi ha risposto con una lettera amichevole e comprensiva che ti farò leggere alla prima occasione. Credo che domenica verrò a Milano nella giornata. Comunque non ho ancora deciso nulla. Con la più viva cordialità, Norberto Bobbio LETTERA 15. Un foglio fronte-retro. 1. Gallo Galli (1889-1974) ha insegnato storia della filosofia nell'università di Torino. 78 1. Eugenio Garin, Cronache di filosofia italiana (1900-1943), Laterza, Bari 1959, pp. 541. La situazione della sociologia in Italia [16] 17 novembre 1957 Caro Rossi-Landi, nel tuo discorso sulla sociologia, vi sono secondo me alcuni errori di fatto. Primo: non è vero che i concorsi alle libere docenze in sociologia vadano deserti. L'anno scorso vi erano due concorrenti (Ferrarotti e Barbano) che si contesero un posto solo. Quest'anno vi sono tre posti, e a quindici giorni dalla scadenza ho già ricevuto cinque pacchi di pubblicazioni. I concorrenti sono giovani che hanno studiato in America e che sono presi dal sacro fuoco delle inchieste. Non c'è oggi istituto universitario di statistica o di economia politica che non allevi giovani siffatti. E poi vi sono riviste come “Tecnica e organizzazione”, istituzioni come la “Società Umanitaria”, come la IPSOA, movimenti come quello di Comunità che stimolano e sempre più stimoleranno ricerche del genere sì che tra pochi anni il suolo italiano sarà coperto da giovani sociologi in cerca di occupazione accademica. E ora, anche se sono pochi, sono sempre di più delle possibilità offerte dal nostro stato cattolico e analfabeta. Secondo: per quanto scruti l'orizzonte non riesco a vedere vicino un concorso di sociologia. Per chiedere concorsi ci vogliono posti di ruolo scoperti. Ora i corsi di scienze politiche non hanno posti di ruolo e le facoltà ne hanno pochissimi (quattro a Pavia, tre a Padova, non più di sette o otto a Firenze, una dozzina a Roma). Qualora si faccia un posto vacante, ci si getteranno sopra famelici gli aspiranti a cattedre tradizionali, giuridiche, economiche e storiche. Non vedo, non riesco proprio a vedere, come la misera sociologia che in questo momento non ha che un cultore che possa avere ambizioni (se non ancora meriti) universitari (il sullodato Ferrarotti), possa trionfare di tanti avversari più potenti. Può darsi che Treves abbia informazioni segrete. Allo stato attuale della situazione universitaria e della procedura per ottenere a cura di Mario Quaranta concorsi, non vedo per la sociologia nessuna possibilità. Terzo: tu sei un filosofo e non un sociologo e devi continuare per la tua strada. Oggi un sociologo può lavorare soltanto se ha alle spalle un laboratorio (sia esso un istituto universitario o un ufficio studi pagato da un partito o da un'industria). Se tu fossi addetto all'ufficio studi della Rinascente, ti direi: “fa il sociologo”. Ma essendo professore di filosofia in un liceo, ti dico: “continua a fare il filosofo”. Scusa se tocco un vecchio tasto. La via regia per vincere un concorso universitario, è scrivere un libro. Lo so che in Inghilterra non si scrivono libri (e poi non è del tutto vero). Ma qui siamo in Italia. Un comune amico mi esprimeva alcuni mesi fa la costernazione sua e dei suo amici perché io da alcuni anni scrivevo soltanto articoli. Qui l'articolo è considerato come cosa dilettantesca, o per lo meno non totalmente seria e impegnativa, roba da dedicarvi il tempo perso. Forse per scrivere un libro ci vuole quella tranquillità e quell'otium che tu non hai. Ma ci vuole anche quel desiderio di non disperdersi in troppe faccende che tu non senti. (E come te, anch'io sento poco). Quanto all'incidente con Paci, è spiacevole, ma non puoi rimediarvi che tu. Cominciando, per esempio, a non parlare in giro troppo male di lui. E poi, cercando di venire a una spiegazione. Se è per quel famigerato brano, e soltanto per quello, hai la ragione dalla tua parte. Nessuno leggendo quel brano, pensa ad una persona concreta e quindi nessuno pensa che tu abbia voluto dipingere lui. Questo devi dirglielo. Io per esempio ho letto due volte il tuo scritto, una prima di pubblicarlo, un'altra in bozze, e non ho mai avuto innanzi l'immagine di Paci leggendo quelle parole. Se avessi anche solo sospettato che tu volevi riferirti a lui, te lo avrei fatto togliere. Ho sempre attenuato le critiche di Rossi ad Antoni e ho fatto modificare nell'ultimo fascicolo un ritratto troppo fosco di Fazio Allmayer. E Antoni e Fazio non sono nostri amici come Paci. Per finire con Vailati, prendendo in mano in questi giorni il Buongoverno di Luigi Einaudi ho letto a pag. 255 questa frase: “Questione di definizione e di parole, come avrebbe detto l'amico arguto e meditante Vailati ?”. Con molti cordiali saluti, Carteggio inedito Bobbio-Ferruccio Rossi Landi Norberto Bobbio LETTERA 16. Un foglio fronte-retro. “Io non tollero dittature” [17] 19 novembre 1957 Caro Bobbio, rispondo alla tua del 17 con atteggiamento di rapidità. Grazie di cuore per le informazioni “sociologiche”. Le cose, dunque, non stanno come io credevo: in questa constatazione si riassume e conclude l'intera faccenda. Che ci siano sulla piazza giovani sociologhi bramosi di far carriera è cosa che mi dà un piacere genuino. Ammetterai anche tu che se la mia ipotesi (derivante da errate informazioni) fosse stata giusta, sarebbe peraltro valsa la pena di tentare anche quella via: non per faciloneria, ma per abbreviare un cammino gravoso, e ingiustamente tale. Nel valutare le pene dei candidati alle cattedre di filosofia, devi sempre tener conto dell'età cui tu ci sei giunto. Non tutti hanno i tuoi meriti, e non per tutti le circostanze sono le stesse. Ho scritto a Foà (mi han mandato soldi, pensa!) che ritengo opportuno riprodurre tutto Vailati anziché mettere insieme una nuova antologia: due volumi di circa 600 pagine anziché uno solo di circa 800, il quale rimanderebbe sempre e comunque agli Scritti completi del 1911. Non sono io che attacco Paci in pubblico o in privato; o almeno, non sono io che ho cominciato. Ogni volta che ci troviamo in un salotto, è sempre lui che comincia; ogni volta io paziento anche troppo; poi rispondo. Esempio di suoi attacchi: “quando ti decidi a venire da me che t'insegno come si fa a filosofare e ti consiglio quali libri devi scrivere adesso”, etc. etc. Esempio di mia risposta “ognuno va per la sua strada, io non ho mai detto a te di filosofare altrimenti, lasciami soddisfare i miei interessi”, etc. etc. A un certo punto la corda si rompe e non può non rompersi. Vorrei che tutto ciò fosse ben chiaro. Io non tollero dittature. Di fronte a chi ha veramente qualcosa da insegnare mi sento un agnellino. Di fronte alla dittatura (al tentativo di imporre una 79 n.13 / 2005 dittatura) da parte di persona che io lascio vivere, ma della quale non posso non credere che sia un falso maestro, bisogna pur che mi ribelli, non foss'altro per legittima difesa. Scriverò il libro. Lo sto scrivendo. Forse, per accelerare il processo, rinuncerò all'epistolario vailatiano, vendendo alla Frigessi la primogenitura per un piatto di lenticchie. Vedremo: ti farò sapere. Grazie di nuovo di tutto. Un cordialissimo saluto, Ferruccio Rossi-Landi LETTERA 8. Un foglio dattiloscritto. Osservazioni sugli “universi del discorso” [18] Torino, 14 dicembre 1957 Caro Rossi-Landi, cominciamo da Vailati. Quando Foà ha presentato la tua proposta di pubblicare tutto Vailati, anziché una scelta, Einaudi non ha battuto ciglio. Anzi, è sembrato soddisfatto. Ha detto che una scelta, anche amplissima, finirebbe per essere superata col tempo, mentre una raccolta completa rimane per sempre. L'ambizione di Einaudi è sempre più quella di creare monumenti sottratti all'usura del tempo. L'idea è buona e generosa. Resta a vedere se ne ha anche i mezzi. Qui è il dramma. Perciò sarà bene che tu faccia patti molto chiari. Avrai visto sulla “Rivista di Filosofia” che la tua nota è apparsa senza la mutilazione da me proposta1. È avvenuto che parlandone con la signora Abbagnano, mi disse che quel finale le era parso molto divertente e sconsigliava il taglio. Ho voluto essere cavaliere prima che direttore di rivista e ho ceduto. Tra l'altro la signora Abbagnano ha dimostrato di dar poco peso alla sfuriata di Paci: sostiene che Paci in questo periodo, forse dopo il famoso incidente, è molto nevrastenico, e bisogna aver pazienza. Del resto non ne sapevano niente: segno che le ire di Paci non hanno fatto molta strada. Ho letto il tuo articolo sugli universi del discorso. Nella lettera con cui l'accompagni, chiedi consigli. Per quel che riguarda me, chiedi troppo. La filosofia, ahimè, diventa sempre più difficile. E ciascuno 80 si chiude sempre di più nel suo piccolo campo. Sarei in grado, credo, di dare consigli su un articolo di teoria generale del diritto, o magari di filosofia politica. Ma su problemi di logica non mi arrischio di avanzare opinioni e quindi tanto meno di dare consigli. Ti dirò che ho fatto una certa fatica persino a capire il problema. Mi è parso sempre di capire che cosa volesse dire parlare di punto di vista della chimica o della teologia o della morale. So che una norma giuridica può essere considerata dal punto di vista del moralista, del giurista, del sociologo, e che ne vengono fuori trattazioni diversissime. Che poi questo significhi che si sono adoperati diversi universi del discorso, mi è meno chiaro. E mi è meno chiaro perché non ho pensato mai a fondo al problema. Può darsi che mi diventi chiaro tra un mese, tra un anno, quando lo stimolo che mi ha procurato il tuo articolo si sarà unito ad altri stimoli, ad altre esperienze. Quel che posso dirti è che ho letto l'articolo con piacere e che credo faranno altrettanto i lettori della rivista, ai quali è destinato. A mio gusto, è un po' lungo, voglio dire un po' prolisso. Più stringato, sarebbe stato più efficace. Attendo con ansia le vacanze di Natale per avere un po' di pace. Da un mese non riesco più a far nulla. Anche il Cattaneo va avanti a rilento. È una disperazione. Ho scritto la commemorazione di Calamandrei che ho tenuta a Siena quindici giorni fa2. Ecco tutto. Per il resto, lezioni, convegni, conferenze, chiacchiere, scocciature. Avevo intenzione di venire a Milano prima delle vacanze. Ma credo mi sarà difficile. Se non ci vediamo, accogli i migliori auguri da parte di tutti noi, insieme con le tue bambine. Con viva cordialità, Norberto Bobbio P. S. E il PAC? Nuvoli mi chiede quando uscirà. Ma io non ho ricevuto mai le bozze della premessa. Sono state corrette d'ufficio oppure la pubblicazione è ancora lontana? LETTERA 18. Un foglio. Il P.S. è scritto a mano. 1. Osservazioni sul nuovo corso della filosofia italiana, “Rivista di filosofia”, XLVIII, 3, pp. 298-304. 2. La commemorazione fu tenuta al Palazzo comu- a cura di Mario Quaranta Carteggio inedito Bobbio-Ferruccio Rossi Landi nale di Siena l'1 dicembre 1957, poi pubblicata: Ricordo di Piero Calamandrei, “Studi Senesi”, LXX, 1, 1958, pp. 7-35. “Tu e l'Università non andate d'accordo” [19] Torino, 3 febbraio 1958 Caro Rossi-Landi, ho lasciato accumulare tre lettere tue senza rispondere. Ma il tuo ritmo epistolare è indiavolato. Non riesco a seguirlo. A dire il vero, alla prima lettera non ho risposto perché avrei preferito parlarti. Sono stato a Milano l'altro giorno per una conferenza alla Umanitaria, ma l'ho fatta tra due treni, e il poco tempo libero prevedevo di passarlo tra i soliti amici che ti invitano a fare la conferenza e poi ti offrono un pranzo. E perciò non ti ho avvertito. Ora, avendo ricevuto una tua nuova lettera, preferisco non continuare a tacere quel che avevo da dirti, anche se sarebbe stato meglio un colloquio. Dunque, messe a posto le cose con Paci, ora è Abbagnano che è irritato con te. Con tutta la mia buona volontà di non inasprire la tua situazione, certe volte mi viene il sospetto che le grane te le vai a cercare. Si capisce, non giudico senza aver sentito l'altra campana: ma constato che è venuta fuori una nuova grana. Ecco quel che mi ha riferito laconicamente Abbagnano: lui ti scrive per dirti che l'articolo è troppo lungo e faresti bene a tagliarlo. Tu, invece di tagliarlo, lo dimezzi, ce ne mandi la prima metà e dici trionfalmente: adesso l'articolo è di trenta pagine come voi volevate e dovete pubblicarlo. Dopo un po' scrivi per chiedere se l'altra metà puoi pubblicarla su “Filosofia”. Il commento di Abbagnano è stato severissimo: 1) non è che noi volessimo pubblicare trenta pagine di Rossi-Landi qualsiasi; era chiaro che volevamo pubblicare quell'articolo troppo lungo ridotto possibilmente a una trentina di pagine; 2) la rivista non è obbligata a pubblicare gli articoli di RossiLandi, ma solo quelli che ha accettato (è un obbligo contrattuale e non un obbligo per legge o per natura); 3) Rossi-Landi è padronissimo di pubblicare i suoi articoli dove vuole, senza chiedere per- messo a noi: è lui che deve sentire se mai il disagio di pubblicare lo stesso articolo in due riviste piuttosto diverse e non pretendere che noi gli diamo l'assoluzione o lo togliamo dall'imbarazzo con un rifiuto. Concludendo, ha detto che l'articolo lo pubblicherà, ma non ti avrebbe scritto per non essere costretto a dirti tutta la sua amarezza per il tuo comportamento che ha giudicato (non ha detto la parola, ma credo che il senso fosse quello) “strafottente”. Ne sono rimasto addolorato. Non giudico perché non ho visto le lettere. Ma è certo che ti sei alienato anche Abbagnano che era una delle poche persone nell'ambiente universitario che ti vedesse con simpatia. Non dico che non si possa cercare di riprendere la posizione perduta, ma ci vorrà fatica, dispendio di energie morali e intellettuali che sarebbe bene dedicare a lavori più utili e non a dirimere grane. Sono tentato di dire che tu hai una specie di mania di persecuzione alla rovescia, che si potrebbe chiamare il piacere della persecuzione. Vuoto il sacco: quel curriculum che avevi scritto per Trieste non l'ho mandato, perché era pieno di errori psicologici. Era, anche questo, un atto di orgoglio. Non dico che ci si debba presentare con il cappello in mano e con un inchino servile; ma neppure mostrando la lingua. Alcune delle reazioni al tuo modo di presentarti, mi par di vederle persino attraverso quel che mi dici sulla seduta di facoltà a Trieste. “Che cosa crede di essere quel signore! ”. Il giorno dopo aver ricevuto la tua lettera in cui mi annunciavi il rinvio, qui si dava ormai sicura la vittoria di Mathieu. Ora con l'ultima lettera me lo confermi. La cosa non mi stupisce. Mathieu è un figlio dell'università; tu sei uno che con l'università ha avuto sempre rapporti di tensione. Tu e l'università, bisogna concludere, non andate d'accordo. Sino a quando? Temo veramente che il disaccordo sia profondo, talvolta, penso, insanabile. Bisogna che ne parliamo. Sulla strada che stai percorrendo, temo anch'io che la meta si allontani invece di avvicinarsi. Hai ragione: devi prendere una meditata decisione. Non puoi continuare a disprezzare l'università e a voler essere uno dei suoi accoliti; graffiarla e riceverne abbracci. Io ho sempre sperato che l'università si dimostrasse così liberale da ricevere nel suo seno anche il figlio ribelle. Ma in Italia 81 n.13 / 2005 gli obiettori di coscienza vanno in prigione, e gli enfants terribles non salgono sulla cattedra. Se è questa la conclusione, è certo che devi rivedere la tua posizione. Non mi sento di darti consigli. È cosa troppo intima e personale. E poi se un discorso potremo fare su ciò, sarà meglio farlo a voce, in un colloquio. Per ora constato amaramente che basta che uno sia professore di università, specie di filosofia, perché ti abbia in uggia. È una constatazione dalla quale bisogna, se si è ragionevoli, trarre pure qualche conclusione per l'avvenire. O lasciarli ai loro cattivi umori o rendersi più amabili. Avevo anch'io ricevuto una lettera di Compagna analoga alla tua. Non gli ho risposto, intendendo col silenzio approvare. Del resto non ho mai più pensato a quell'articolo, la cui eco è durata lo spazio di un mattino. E mi pare che tu te la prendi troppo. Ora che mi dici, che si tratta di un giovanotto mediocre, ho persino il dubbio che la tua lunga risposta abbia finito per sopravalutarlo1. Ah! Cotesto tuo temperamento focoso! generoso ma focoso! Abbiti anche da Valeria i nostri più cordiali saluti, Norberto Bobbio LETTERA 19. Due fogli. 1. Questi e altri riferimenti riguardano una forte polemica provocata dai due scritti di Tullio De Mauro pubblicati nella rivista diretta da Francesco Compagna, La polemica contro lo storicismo, “Nord e Sud”, IV, 37, dicembre1957, pp. 31-48, e Analisti in Italia, ivi, V, 39, febbraio 1958, pp. 2036. La risposta di Bobbio, ivi, V, 40, marzo 1958, pp. 103-104. L'intervento di Rossi-Landi, Lettera al direttore, ivi, V, 2, 40, marzo 1958, pp. 104-112; la risposta di De Mauro, Lettera al direttore e replica all'intervento di Bobbio, pp. 112-115; Nota redazionale, pp. 119-120. Riabilitare Giovanni Vailati [20] 20 febbraio 1958 Caro Bobbio, 82 mi spiace non averti incontrato alla commemorazione di Banfi. Paci e Bertin furono veramente bravi, la cerimonia decorosa. “He loved Big Brother”? No, non ancora fino a questo punto. Ho invece incontrato Abbagnano e gli sono grato per la grande urbanità con cui mi ha accolto e (spero senza riserve) perdonato. Dopo quanto mi avevi scritto ero preparato al peggio. Sembra che nella lettera di accompagnamento al saggio scorciato, manoscritta senza copia, io avessi affermato che Abbagnano doveva pubblicare il saggio stesso. Non ricordavo questo particolare, il che significa che soggettivamente non dovetti dargli importanza. Ricostruisco la cosa come uno scherzo: siccome A.[bbagnano] mi aveva chiesto proprio 30 pagine (non più di 30) e siccome me ne erano venute, con quei tagli, 30 spaccate, usai (questo lo ricordo) la formula '30 pagine 30', già di per sé scherzosa; e aggiungi che, pertanto, il saggio ‘doveva’ andare. Scherzo infelice, formule infelici: nel che A.[bbagnano] vide dunque un tentativo d'imposizione da parte mia, interpretando la parola ‘deve’ nel suo senso pieno e letterale. Un particolare conclusivo: A.[bbagnano] mi riferisce che quella parola io la ho sottolineata due volte. Ciò conferma la retrospettiva ipotesi dello scherzo, perché solo un pazzo avrebbe sottolineato due volte una parola come quella col fine di accentuarne il significato letterale. Resto ora a vostra disposizione per qualsiasi rimaneggiamento sul corpo del reato. Un nuovo incidente potrebbe ora scoppiare a proposito della pubblicazione d'un mio malloppo filologico su Vailati nella “Rivista critica di storia della filosofia”. Dal Pra non mi passò le bozze, avanzando varie ragioni; da ultimo disse che le aveva riviste lui. Trovo ora, del tutto inaspettatamente, che il mio testo è stato sistematicamente mutilato di tutta una serie di brani, nei quali parlavo di Vailati e dei suoi critici sotto il profilo dell'insegnamento che ancor oggi possiamo ricavare da lui “come filosofi militanti”, al di là del mero “ripescamento storiografico”. Si tratta di non meno di 50 righe fra le più impegnate di tutto il lavoro. Questi brani debbono aver urtato contro certi pregiudizi di Dal Pra; e il bravo Mario, zitto zitto, se li è tagliati. Dicevo che l'incidente potrebbe scoppiare perché a cura di Mario Quaranta Carteggio inedito Bobbio-Ferruccio Rossi Landi la cosa dipende solo da me e io ho deciso di lasciar perdere. Anche Dal Pra è fra i pochissimi che stimo davvero. Però mi piacerebbe sapere se il buon Mario ha la sensazione d'aver agito secondo giustizia e correttezza, oppure no; vorrei anche sapere come ti regoleresti tu in un caso simile, e come valuti l'episodio. […] Addio, caro Bobbio; e scusa se ogni tanto ti ho scritto per sfogarmi con te. Cordialissinti saluti a tutti Ferruccio Rossi-Landi LETTERA 20. Un foglio dattiloscritto. “Siamo tutti quanti dei dilettanti che sforniamo altri dilettanti” [21] Torino, 1 aprile 1958 Caro Rossi-Landi, ho ricevuto la tua lunga lettera poco prima di partire per Roma dove ho avuto una settimana, lunga e penosa, di libere docenze. Queste occasioni lasciano un gusto amaro in bocca, anche se questa volta mi sia trovato con ottimi colleghi, coi quali ho potuto parlare sempre con cordialità e sincerità. Ci si convince, partecipando a questi concorsi, che il mondo accademico è fatto in gran parte di persone mediocri. Ma si finisce di essere indulgenti perché gli altri un tempo sono stati indulgenti con noi. Io penso tante volte che non ho diritto d'imporre silenzio agli altri, perché avrei dovuto cominciare a tacere io quando avevo trent'anni e avevo scritto non so quante pagine (che sono a guardarle con giusta severità, un cumulo di errori o di cose futilissime). Certo, a continuare con questo sistema la cultura italiana non diventa migliore e si riempiono le università di titolati senza avvenire. Certe volte mi domando se non siamo tutti quanti dei dilettanti che sforniamo altri dilettanti. Continuo a lavorare per abitudine, per mestiere. Ma non sono convinto. Ci sono troppe cose ormai che mi sfuggono e che non riuscirò più ad afferrare per il loro giusto verso. E passo da un lavoro all'altro, da una lettura all'altra senza avere la pos- sibilità e la fermezza di costringermi in una disciplina. Non avendo fiducia nella maggior parte delle cose che vedo attorno a me, finisco di perdere la fiducia anche in me stesso. Può darsi che queste mie malinconiche riflessioni siano dettate da stanchezza. Ma è una stanchezza che dura da troppo tempo e rischia di diventare un atteggiamento, un modo permanente e ostinato di vedere le cose. Ho letto la risposta del De Mauro. Parlando di una sola citazione, mi riferivo al fatto che di tutte le citazioni una sola era quella da cui aveva creduto di trarre argomento per il mio ‘antistoricismo’. Che le citazioni di miei scritti fossero tante, anzi troppe, non ci voleva molto ad accorgersene. Mi è parso da parte del nostro contraddittore un argomento di bassa lega. Ho deciso di non rispondere. Le cose matureranno. I De Mauro e compagni (stavo dire “Compagna”) saranno sempre più isolati. E se non lo saranno, vorrà dire che la nostra cultura è destinata lentamente a naufragare. Non è una risposta in più o in meno ad un giovanotto non privo di talento ma arrogante e presuntuoso che muterà il corso degli avvenimenti. Mi sono limitato a scrivere una lettera tranquilla ma ferma a Compagna, ricordando ciò che diceva Croce, mettendolo in bocca ad Hegel, dei discepoli troppo zelanti. Non voglio però che questo mio atteggiamento influisca minimamente sul tuo. Se tu credi di rispondere, se ti senti ispirato (io non lo sono), agisci liberamente. Del resto tu hai vivacità polemica. lo no. L'odor di polvere ti eccita. Io non credo alle polemiche. Credo ai lavori fecondi. E son proprio questi lavori fecondi a cui abbiamo dato sinora troppo scarsi contributi. Dovremo vincere non colle parole opposte ad altre parole ma coi fatti. Ho visto il primo volume di Lerici: il Rosselli. Ottimo, davvero. Ma manca l'indice dei nomi. È un errore di grammatica. Dovresti fargli una ramanzina, o una paternale, a seconda dei tuoi rapporti con loro, Attendo con ansia il primo volume del PAC. È un'impresa che è riuscita alla fine nonostante il mio scetticismo iniziale (e non solo iniziale). Ho letto alla casa editrice Einaudi il breve saggio di Luigi Einaudi sul Vailati. Non credevo che il vecchio sempre lucidissimo ma stanco ti scrivesse, e invece ha scritto un bel pezzo. Einaudi è un eccellente scrittore di memorie, felicissimo nella rievocazione 83 n.13 / 2005 degli anni tra il '90 e il 1910. Non so se hai mai letto i suoi ricordi di Solari che sono insieme rimembranze della sua gioventù: sono pagine gustosissime. Recentemente ho letto i suoi ricordi di Nitti. Se si decidesse a scrivere le sue memorie son sicuro che ne verrebbe fuori un magnifico libro. È scrittore preciso, sicuro, di gusto. Complimenti, dunque, per la tua opera di “levatrice”. Quanto alla tua decisione di guardare alla carriera accademica con un certo distacco, credo sia saggia. È una carriera che va diventando sempre più difficile (ai miei tempi era certo molto più facile: quattordici candidati a una libera docenza in filosofia del diritto erano impensabili: al massimo due o tre). E l'ambiente, è inutile nasconderlo, ti guarda di traverso. È bastato il fatto che tu ti presentassi candidato a un incarico perché non solo ti respingessero ma si cominciasse a fare sul conto tuo della maldicenza. Si va dicendo che sei andato a Trieste con aria sfottente come se dovessi insegnare la vera filosofia a tutti, che davi del tu ai colleghi più anziani, che hai fatto una conferenza con la quale hai indisposto gli animi, ecc. Roba da far schifo. Ma l'ho sentita ripetere da più parti. E sarei propenso a credere che sia veleno preparato nelle cucine guzziane. Con questa fama, tu per entrare, per varcare i cancelli proibiti, devi essere molto forte, molto più forte degli altri. E allora, almeno per quel che riguarda la mole e l'impegno dei tuoi lavori, non lo sei abbastanza. Hai visto il volume di Mathieu? Sino a che ci saranno in giro volumi come quelli i tuoi articoli saranno considerati come non conformi allo scopo. Ho terminato la preparazione del primo volume degli scritti cattaneani. La prossima settimana verrò a Milano a portarli. Giovedì andiamo a Cervinia per qualche giorno. Abbiti i nostri migliori auguri di Pasqua insieme con molti cordiali saluti, Norberto Bobbio LETTERA 21. Due fogli. Contro l'accademia italiana [22] Milano 5 aprile 1958 Caro Bobbio, 84 grazie per la lettera: una lettera triste. Tu, purtroppo, continui a confermarmi delle impressioni già da me raccolte: come faccio a seguire la carriera accademica, se quel mondo è così meschino e fasullo, se tale mi viene presentano anche dai “migliori”? Con quale animo ragioniamo fra noi, al tempo stesso, della sterilità di un campo o della necessità di seminarci? Certo, dal mio punto di vista soggettivo, mi sembra ci sia proprio, fra “gli accademici patentati e tipici” da una parte e un tipo come me dall'altra, una differenza di impostazione morale. Essi vogliono imporre la gerarchia e l'omertà: sono gli eredi remoti di una società misera, spagnolesca e feudaleggiante e sono gli eredi recenti del ventennio fascista; sono i campioni di un paese non democratico, i campioni della mediocrità italiana che vien su dai piccoli borghesi (per lo più meridionali e immeridionalizzati) o che tien duro con gli intrallazzi. Quelle che tu chiami le “cucine guzziane” ne sono un buon esempio. Pensa che l'augusto Augusto ha detto perfino a Ceccato, e sembra con suasività, che quel povero Rossi-Landi si è presentato a Trieste con tono arrogante e che questa - solo questa - è la ragione per cui a Trieste non l'hanno voluto: come se lui Guzzo non avesse avuto a che farci - che invece aveva tutto ben preparato, compreso forse l'atteggiamento con cui i triestini mi accolsero. Vorrei sapere a quali colleghi più anziani io abbia dato del tu senza che essi me lo avessero chiesto concedendolo di loro iniziativa. È solo un esempio. Maldicenza, quasi diffamazione. Ti immagini se al posto mio ci fosse uno con del tempo e dei soldi da perdere e dei buoni avvocati e impiantasse una causa per diffamazione, chiedendo i danni? Ho firmato con i Lerici-Rosselli un buon contratto per Il mestiere del filosofo. Spero che ce la farò malgrado i guai e le preoccupazioni. Ma certo sarà o vorrà essere un libro rivolto alla cultura, non all'accademia. Se ho bisogno di leggere i positivisti logici non mi servono i diligenti riassunti di Barone, e se mi va di studiare l'ultimo Kant mi è del tutto inutile perder tempo su quelli di Mathieu1. Questi son libri che nessuno legge. Nel Mestiere attaccherò a fondo tale malcostume. Nei prossimi anni, oltre al Mestiere, preparerò solo alcuni saggi molto tecnici, se ci riuscirò. (A propo- a cura di Mario Quaranta Carteggio inedito Bobbio-Ferruccio Rossi Landi sito, rimandatemi “Universi del discorso” affinché lo metta a posto secondo le vostre indicazioni). Ti ho spedito in ante-prima il volume Filosofia, Epistemologia, Logica del PAC, per non farti attendere oltre. Entrambi i volumi dovrebbero entrare in distribuzione subito dopo Pasqua, ma ormai bisogna rassegnarsi a qualsiasi ritardo: le settimane per gli editori si inseguono fuggendo. Le risposte di De Mauro e Compagna sono molto sporche. Fai bene a non replicare. Io mi contenterò di una brevissima lettera conclusiva (da parte mia), nella speranza che alcuni miei giovani amici mantengano la promessa di intervenire a loro volta. Un cordialissimo saluto a tutti voi, e di nuovo buona Pasqua! Ferruccio Rossi-Landi LETTERA 22. Un foglio dattiloscritto. 1. Il riferimento è a questa due opere: Francesco Barone, Il neopositivismo logico, Edizioni di “Filosofia”, Torino 1954, recensita da Rossi-Landi in “Rivista critica di storia della filosofia”, IX, 6, 1954, pp. 631-635; Vittorio Mathieu, La Filosofia Trascendentale e l’”Opus postumum” di Kant, Edizioni di “Filosofia”, Torino 1958. L'incubo PAC è finito! [23] 19 aprile 1958 Caro Rossi-Landi, ti ringrazio di avermi inviato il primo volume del PAC in prima visione assoluta. Posso tenerlo? M'aspettavo un bel volume ma la realtà ha superato l'immaginazione. È un libro bellissimo: non c'è nulla da dire. Anche se non tutti i saggi sono all'altezza della elegante presentazione, la bella presentazione gli fa acquistar pregio. Bisogna riconoscere che l'impresa, la difficile impresa, è riuscita. Credi, è una grande soddisfazione poter dire, in questo paese dove va tutto a rotoli, che un'impresa, una difficile impresa, che richiedeva varia e articolata collaborazione, è riuscita. Il merito è principalmente tuo che ci hai messo una buona dose di ostinazione, un impegno oculato e prolungato, e non hai mai lasciato che si raffreddasse l'entusiasmo del primo momento. Penso che anche i nostri finanziatori saranno contenti. Abbiamo comunque mantenuto l'impegno, e forse abbiamo fatto qualcosa di più di quel che avevamo promesso. Ad esempio, sia la bibliografia finale sia l'indice sono un'integrazione al volume che dà risalto a tutta l'impresa e rivela buon metodo di lavoro, amore della precisione e del lavoro ben fatto, insomma quella bella e rara qualità che è la serietà. Ho fatto la settimana scorsa la solita scappata a Milano (ma questa volta per consegnare finalmente il primo volume degli scritti cattaneani): ma ero con Valeria e ci siamo dedicati ai parenti (quelli da cui eri venuto tu una volta con De Marchi ai bei tempi di “Occidente” e delle bozze del Ryle). A Scarpelli che vidi presso il Centro dei congressi, dissi di scusarmi con te se non mi facevo vivo e di dirti che ti avrei scritto a proposito del volume del PAC. Ma non so se vi siate visti. Verrò la prossima volta a Milano il 7 maggio per la conferenza alla vostra società filosofica. Nei confronti di Barone e di Mathieu ti trovo un po' troppo severo. Credi proprio che i loro studi non servan a niente? Non sono magari libri di lettura ma di consultazione sì. Se tu spazzi via anche libri come quelli, davvero non resta niente. Hai visto che sull'ultimo numero di “Filosofia” è uscito un lungo articolo sul Vailati. L'autore, Silvestro Marcucci, è per me uno sconosciuto1. Quanto al tuo articolo, “Universi di discorso”2, non credo ci sia bisogno che te lo rimandiamo. Mi pare che Abbagnano ti avesse detto o mi avesse detto che lo pubblicavamo così come tu lo avevi mandato. Bada però che non potrà uscire sul prossimo numero che sarà dedicato completamente alla dialettica (e sarà una specie di raccolta di relazioni per il nostro solito congressino annuale)3. Non so proprio nulla degli eredi di Pareto. Credo che l'esecutore testamentario per quel che riguarda gli inediti sia il Bousquet, autore dell'unica monografia sul Pareto (oggi un po' vecchiotta, del l928). Ma non so se sia ancora vivo. Nel volume dedicato al Pareto a cura dell'Università Bocconi (1949), il Bousquet pubblica pagine di diario: però, se ben ricordo, aggiunge che gran parte dei mano- 85 n.13 / 2005 scritti paretiani furon bruciati dopo la morte. Mi son domandato perché nessuno abbia mai pensato a raccogliere le lettere di Pareto che doveva conoscere mezzo rnondo. Un piccolo saggio di epistolario paretiano sono le lettere pubblicate da A. Antonucci (1938). L'unico che potrebbe darti forse notizie precise sarebbe ancora una volta Luigi Einaudi. Cordiali saluti Norberto Bobbio LETTERA 23. Un foglio. 1. I saggi sono stati poi pubblicati in un volumetto. Silvestro Marcucci, Il pensiero di Giovanni Vailati, Edizioni di Filosofia, Torino 1958, pp. 52. 2. Universi del discorso, “Rivista di filosofia”, XLIX, 3, pp. 396-421. 3. Aa.Vv., Studi sulla dialettica, Taylor, Torino 1958. Una critica al culturalismo [24] 11 giugno 1958 Caro Bobbio, rispondo solo ora alla tua lettera del 19 aprile e a qualche cenno di colloquio che si ebbe dopo la tua conferenza e poi durante il Congresso di Scienze Sociali: non senza averti rifatto i miei complimenti per la veramente eccezionale abilità che hai dimostrato nella tua relazione di sintesi e nel modo in cui hai presieduto una parte dei lavori. Nell'edizione di Cattaneo curata de Alessio1 (ho visto ora la tua recensione) ho trovato a p. 126, riga 10° dal basso, la parola necessità che va ovviamente sostituita con diversità. Alessio ha scritto che è d'accordo. Il contesto s'impone così inevitabilmente, che la correzione andrebbe fatta anche di fronte al manoscritto (lapsus calami). Non ho ancor visto Marcucci su Vailati in “Filosofia” ma lo vedrò; ho peraltro ispezionato parecchi fra gli ultimi numeri di quella rivista, e debbo ammettere (lo ammetto senza malavoglia) che Guzzo ha saputo formarsi una scuola di sto- 86 riografi attenti e precisi, buoni raccoglitori di materiale ed espositori coscienziosi. Che cosa questo abbia a che fare con la ricerca teorica, resta però da vedere. Inoltre, e questo lo dico non già contro la scuola di Guzzo, ma in generale, in quel genere di lavori c'è sempre il rischio di un nuovo adeguazionismo, del quale parlerò abbastanza a lungo nel Mestiere del filosofo e che considero una mia idea centrale (in realtà non conosco l'esistenza di una letteratura in proposito). L'idea è che il nuovo storicismo, più o meno assoluto e più o meno integrale, o con esso molto di sovente anche le mere ricerche storiche “aderenti” al soggetto, abbiano trasportato il metaforico e insolubile problema della Conocenza come adaequatio rei et intellectus nel campo della storia. Agli antichi peccati filosofici noti come Biologismo, Fisicismo, Psicologismo, eccetera, si è così aggiunto un peccato denominabile Storiografismo o Culturalismo. Allorché l'indagine storiografica in quanto risultato corrisponde alla Realtà dell'oggetto storiografizzato, allora si avrebbe la Verità. Sfugge che l'oggetto è, appunto, già storiografizzato: che non esiste un oggetto di per sé latore d'una potenzialità storiografizzabile, eccetera eccetera. Ma di tutto ciò più a lungo in altra cede. Sono un po' inquieto per l'Epistolario di Vailati. Fin dal principio io misi molto ben in chiaro che cedevo a Einaudi il lavoro già fatto e l'idea della cosa: si arrangiassero poi essi a trattare o con la Signorina Frigessi o con altri. So benissimo che ci vuole un responsabile; e a par di contratto firmato, è chiaro che io non mi sono assunto una tale responsabilità2. Se ora si spaventano, dovevano pensarci prima: quando fu così dolce al loro cuore il mero fatto di portar via un contratto a Feltrinelli, che dopo tutto sarebbe andato fino in fondo. Ho molti guai personali, ma non parliamone. Un cordialissimo saluto dal tuo Ferruccio Rossi-Landi LETTERA 24. Un foglio dattiloscritto. 1. Carlo Cattaneo, Scritti filosofici letterari e vari, a cura di Franco Alessio, Sansoni, Firenze 1957, pp. LV-1014. 2. L'edizione dell'epistolario fu conclusa nel 1971. Giovanni Vailati, Epistolario 1891-1909, a cura di a cura di Mario Quaranta Carteggio inedito Bobbio-Ferruccio Rossi Landi Giorgio Lanaro, Introduzione (pp. XXVII-LVIII) di Mario Dal Pra, con un Ricordo di Vailati (pp. XIXXXVI) di Luigi Einaudi, pp. LXII-767. (“Biblioteca di cultura filosofica, 37”). L'epistolario di Giovanni Vailati [25] Torino, 15 giugno 1958 Caro Rossi-Landi, c'è in casa editrice, certamente, del malumore nei tuoi confronti. Io stesso quando ho sentito che tu pretendevi che le lettere fossero copiate a Torino ho protestato. Ma come? Rossi-Landi e la Frigessi, che fanno tanto chiasso intorno a questo epistolario, non sanno che uno dei lavori più delicati è proprio quello della trascrizione? che un lavoro del genere si distingue in eseguito bene ed eseguito male secondo che sia stato trascritto in un certo modo piuttosto che in un altro? e questa parte costitutiva dell'opera l'affidano a uno scriba prezzolato di cui loro si disinteressano? E loro che cosa fanno? fanno i venditori di idee o i grandi supervisori che disdegnano l'umile lavoro artigianale del trascrittore? E poi una casa editrice non deve trasformarsi in un istituto universitario. Deve ricevere i manoscritti fatti e finiti. A ciascuno il proprio lavoro. Agli editori la cura del libro stampato; ai professori la cura dell'edizione critica. Che cosa fanno i professori? Fanno fare il lavoro agli altri. Ti confesso che mi è parsa una concezione molto sbrigativa, la vostra, intorno al modo di organizzare la pubblicazione di un epistolario di quella mole e di quella importanza. Il tuo vantaggio è che Foà ha accettato queste tue condizioni. Rimane il fatto che sono tanto assurde che non riesco a capire come ti sia venuto in mente di porle ad una casa editrice di cui sei amico. Foà non si è reso conto che impegnare la Casa editrice a trascrivere le lettere significava impegnarla non già ad un lavoro marginale ma costitutivo e la casa editrice non è affatto attrezzata per farlo. Può darsi che io sia un po' mal disposto verso questo lavoro da quando mi rendo conto che avete avuto troppa fretta. In fondo questo epistolario non esiste. Dove sono le lettere di Vailati? Quest'osservazione te l'ho fatta sin dal principio. Tu mi hai risposto che avevate buone speranze di trovarle. Io ho trasmesso questa fiducia, per spirito di amicizia più che per profonda convinzione, alla casa editrice; ma ti confesso che non son sicuro e temo di essermi preso una responsabilità maggior di quella che avrei dovuto. Ti chiedo francamente: non potevi andare un po' più a fondo nella ricerca prima di impegnarti con editori? e di impegnare amici nell'appoggiare un'impresa incerta e di cui tu stesso, dopo la prima fiammata di entusiasmo, ti vai disinteressando, sino ad abbandonare ad altri il lavoro più geloso dell'editore di testi, cioè la trascrizione? Non discuto la tua ragione giuridica ma la impostazione scientifica dell'impresa, che non mi convince. Con questo non credere che io voglia intervenire nei tuoi rapporti con Einaudi. Fortunatamente alla seduta, in cui si manifestò quel malumore io non ero presente. Ma dal momento che tu me ne parli mi pareva giusto farti conoscere la mia opinione. Io non sono del tutto convinto della riuscita dell'impresa e pertanto ho l'impressione che tu abbia voluto bruciare le tappe e forzare un po' la mano ad un amico come Foà. Un cordiale saluto da noi tutti, Norberto Bobbio LETTERA 25. Un foglio. L'epistolario vailatiano e le difficoltà da superare [26] Torino, 27 giugno 1958 Caro Rossi-Landi, mi sono andato a leggere la tua corrispondenza con Foà e la lettera-contratto. (Quando chiesi all'impiegata dì vedere la corrispondenza su Vailati, quella capì la corrispondenza di Vailati e mi rispose - oh santa ingenuità - che la si attendeva ma non era ancora arrivata). A dir la verità, non ho trovato tali novità rispetto a quel che sapevo da giustificare la tua interpretazione in chiave metafisica (anche se amichevolmente scherzosa) della mia 87 n.13 / 2005 precedente lettera. Il succo del tuo accordo con Einaudi è che tu non sarai il curatore del volume ma solo un consulente generale e l'autore della introduzione. Il fatto che in tutto il carteggio, se ho letto bene, non si indichi il nome del curatore del volume, ha accresciuto, se mai, i miei dubbi sulla bontà dell'accordo (parlo della "bontà" esclusivamente ai fini che m'interessano, cioè la pubblicazione dell'epistolario). Che un libro di quell'importanza e di quella difficoltà possa uscire senza che si sappia esattamente chi sia il curatore, ecco una cosa che, per non farti dispiacere, non chiamerò più assurda, se mi permetti di chiamarla, per lo meno, strana e insolita nella pratica editoriale. Un'opera molto più semplice, come il PAC, è uscita solo perché c'eri dietro tu con la tua capacità organizzativa, con la tua costanza nel lavoro eccetera eccetera. È inutile che lo dica a te che ci hai perso tempo e pazienza. Perché io avessi qualche fiducia che anche l'epistolario vailatiano sia per vedere la luce, dovrei vedere che dietro le quinte ci fosse a tirare i fili uno studioso che abbia le tue qualità e non ne vedo nessuno. In queste condizioni non è una profezia tanto arrischiata il dire che quel volume non uscirà mai. E ciò mi dispiace. E mi autorizza a dire che nonostante tutto Foà ha commesso un errore. Tanto meglio, se l'errore sarà mio in una valutazione un po' troppo pessimistica e magari, lo confesso, un po' estrinseca, della situazione. Quanto allo scriba, non si tratta evidentemente di chi scriverà materialmente le lettere a macchina, ma di stabilire dei criteri. E qui ritorna la necessità di un curatore. Non riesco a immaginare queste lettere che arrivano a Torino, per essere trascritte. E poi? Tornano a Milano per essere rivedute? Chi le rivede? Con tutta la buona volontà di non continuare questa discussione, ti ripeto che ho l'impressione che abbiate costruito una macchina destinata a non funzionare o a funzionare male o con inutile spreco. Riconosco che la mia lettera precedente era scritta in tono esageratamente polemico da giornata di malumore. Ma non ti direi tutto, se non aggiungessi che la punta di spillo che fece scoppiare il pallone fu l'ultima frase della tua lettera dell'11 giugno in cui sembrava che dicessi, dandoti una fregatina alle mani: “Si son messi nei pasticci. Peggio per loro!” 88 Veniva spontaneo di dire: “E chi ce li ha messi?”. Sto finendo a marce forzate il secondo volume degli scritti del Cattaneo. Conto di venire a Milano verso la metà di luglio per consegnarlo. Ci sarai? Se potremo discorrere un po' insieme molte cose si chiariranno. Domani vado a Breuil per qualche giorno con Valeria e uno dei figli (che ha finito le scuole per ultimo): gli altri due sono già su. Poi andrò a Parigi per due o tre giorni per un piccolo convegno di filosofia politica (sotto le ali protettrici del generale). Sarò di ritorno il sette luglio. Poi, ancora, esami e lauree sino alla stagione dei bagni che comincerà verso la fine di luglio. Ti saluto cordialmente, Norberto Bobbio LETTERA 26. Un foglio. Gli scritti filosofici di Carlo Cattaneo [27] Torino, 13 luglio 1958 Caro Rossi-Landi, desidero assicurarti che le mie lettere sulla questione Vailati erano riflessioni personali e che non sono mai stato in nessun momento ispirate dalla Casa editrice, con la quale, del resto, i miei rapporti sono sempre amichevoli ma non assidui come un tempo. Ero stato sorpreso, ecco tutto, dal modo con cui era stato impostato il lavoro, perché mi pareva poco zweckmässig. Lo spunto per le mie querimonie erano stati, da un lato, il periodo della tua lettera che ti ho già ricordato, dall'altro, un accenno, non più che un accenno, di Foà al malumore in redazione per le soluzioni adottate. In questi giorni ho voluto riparlarne con Foà per sentire che cosa ne pensasse; devo dirti che l'ho trovato molto tranquillo e ottimista. Non ho intenzione di turbare il suo ottimismo. Continuo a restarmene in disparte e lascio che lo rose (se tali saranno) fioriscano. Verrò a Milano venerdì prossimo per consegnare il secondo volume del Cattaneo1. Sarà un giorno di festa, come puoi immaginare, perché mi libero da un lavoro che è durato tra alti e bassi, circa due a cura di Mario Quaranta Carteggio inedito Bobbio-Ferruccio Rossi Landi anni. (La gioia della liberazione sarà pur sempre turbata dall'idea che dovrò correggere lo bozze, e che dovrò dunque rileggere ancora una volta quel migliaio di pagine di cui molte sono poco poco interessanti). Non mi dispiacerebbe festeggiare il lieto evento con un amico. Sei a Milano? Possiamo far colazione insieme? Non troppo sul tardi, possibilmente, perché vorrei ripartire col treno delle 14.10. Ti telefonerò arrivando, ossia verso le nove. Valeria e i bambini sono ormai al mare, come l'anno scorso sulla Costa Azzurra. Ho intenzione di raggiungerli domenica prossima per fare una decina di giorni di bagni. Poi, in agosto, a Cervinia. Spero di rivederti dunque a Milano venerdì. E ti invio i miei cordiali saluti, Norberto Bobbio LETTERA 27. Un foglio. 1. Carlo Cattaneo, Scritti filosofici, a cura di Norberto Bobbio, Le Monnier, Firenze 1960, vol. I, Saggi, pp. LXIX-496; vol. II, Lezioni, pp. 382; vol. III, Lezioni, pp. 446. “Sono diventato una specie di padre nobile” [28] Torino, 12 ottobre 1958 Caro Rossi-Landi, grazie della tua lettera. Non ho risposto subito perché da tempo non vedevo gli amici della Einaudi, essendo Giulio in giro per l'Europa. Anzitutto mi rallegro per i progressi delle ricerche vailatiane e mi auguro che i buoni frutti continuino in modo che la raccolta venga ricca e varia. Sono sempre stato persuaso che si trattava di un'opera degna di essere compiuta. E poiché i lavori vanno avanti ne sono soddisfatto. Ho parlato fugacemente con Foà, il quale mi ha detto che ti cercherà presto a Milano. Quanto al Perelman1, Einaudi sembrava in un primo tempo ben disposto. Ma ora mi pare che si sia intiepidito. Lui guarda sempre più al successo: e preferisce nomi noti, come Max Weber, che sta uscendo. Ti ricordi la logica dello Strawson a cui abbiamo dedicato un pomeriggio elbano? È ancora lì e chi sa quando muoverà il primo passo verso gli uffici tecnici. Dei nomi scartati da Lerici alcuni sono ottimi: ma è incredibile l'ostilità che la filosofia inglese incontra tra i miei amici dell'Einaudi. Il marxismo, anche se non sono più comunisti, li ha segnati. Uscirà tra breve, tra i libri bianchi, un pamphlet contro il neo-positivismo (così mi dicono, io non l'ho letto) di Cases, marxista lucaciano2. Non ho quindi molta speranza di far passar definitivamente il Perelman o ancor meno altri libri di quella filosofia che Cases chiama nel suo libello “ideologia delle aeree depresse” (e Cases è un giovane estremamente intelligente). Aggiungi che i miei rapporti con la casa editrice sono sempre più formali o sempre meno sostanziali. Sono diventato una specie di padre nobile che viene invitato ai ricevimenti, perché porta bene la marsina. Ma non ho nessuna voce in capitolo e non desidero neppure averla. Non sono venuto a Venezia perché la consideravo una dissipazione. E ho bisogno di raccoglimento anche se poi questo raccoglimento non produce nulla di buono. Ho sempre in mente di concentrarmi in un lavoro un po' impegnativo e invece continuo a far mille piccole cose insignificanti. Avevo saputo da Treves che era uscito il volume di Lombardi con dentro il mio articolo3. Ma il volume io non l'ho mai ricevuto. Credevo anzi che l'impresa fosse fallita. Da quando mandai il mio articolo (due o tre anni fa) non ho mai più saputo nulla. Né ho ricevuto mai una pagina di bozze. Che sciagurata impresa! Tra l'altro ero convinto che il libro dovesse uscire in inglese, invece mi dicono che è in italiano. Che razza di pasticcio! Quando ci rivedremo? Sento da Abbagnano che il congressino solito si vorrebbe fare il 7 e 1'8 dicembre. A Milano per ora non ho occasione di venirci. Ma ho cominciato a ricevere le bozze del Cattaneo e un giorno o l'altro scapperà fuori qualche errore che mi ricondurrà in via Borgonuovo. Sono stato a Padova la settimana scorsa per fare una conferenza (che mi è riuscita piuttosto male). Ho sentito del tuo incarico. Ne avevi parlato incidentalmente a Lovanio rispondendo a una domanda di Perelman. Ti è già stato assegnato? Ne sono molto contento. Ma com'è stato possibile nell'ambiente più nero della nostra nera penisola? Mi dice- 89 n.13 / 2005 va Opocher che si voleva appunto un contraltare. Ma chi mai ha avuto tanta audacia? Padova è un ambiente universitario di prim'ordine anche se un po' in decadenza e potrai fare molto. Accogli i nostri più cordiali saluti, Norberto Bobbio LETTERA 28. Un folgio. 1. Bobbio ha poi prefato (pp. XI-XIX) l'opera di Chaïm Perelman-Lucie Olbrechts-Tyteca, Trattato dell'argomentazione. La nuova retorica, trad it. di Autori Vari, Einaudi, Torino 1966, pp. XIX-593. (Biblioteca di cultura filosofica, 28). 2. Cesare Cases, Marxismo e neopositivismo, Einaudi, Torino 1958, pp. 100. 3. Norberto Bobbio, Teorie politiche e ideologiche nell'Italia contemporanea, Aa.Vv., La filosofia contemporanea in Italia. Società e filosofia di oggi in Italia, a cura della SFI (ma di Franco Lombardi), Aretusa, Asti 1958, pp. 327-367. “La filosofia laica non esiste” [29] Torino, 19 ottobre 1958 Caro Rossi-Landi, con quel che dici sulla “Rivista di Filosofia” tocchi un tasto dolentissimo. Da tempo ne sono scontento. È vero peraltro che il tuo articolo ha avuto la sfortuna di apparire in uno dei peggiori fascicoli sinora pubblicati. Le frasi ironiche che hai sentite a Roma non sono nulla in confronto di quello che è scritto (scritto) nella Bibliografia delle riviste filosofiche italiane, pubblicata non mi ricordo più da chi, dove si legge che dopo l'inizio della direzione di Abbagnano la rivista è diventata l'organo dell'esistenzialismo positivo. Ma questa è una malignità. In realtà Abbagnano non vi ha mai fatto esibizione di esistenzialismo positivo, né i suoi più diretti allievi sono esistenzialisti positivi, né quell'etichetta corrisponde più alla fase attuale del pensiero. Ma le etichette sono facili da attaccare e, a differenza di quelle delle bottiglie, una volta attaccate è difficile staccarle. Resta il fatto che la rivista potreb- 90 be essere migliore. Vi è anzitutto una ragione soggettiva: né io né Abbagnano siamo fatti per essere direttori di rivista. Scriviamo poco, non siamo brillanti, non amiamo la polemica, e soprattutto ci occupiamo di troppe altre cose. Ma vi è anche una ragione oggettiva: la filosofia laica, di cui tu parli, non esiste. Esistono vari gruppetti di filosofi laici che si guardano generalmente l'un l'altro in cagnesco. Pensa alla nostra recente polemica su “Nord e Sud”. Pensa a coppie di opposti come Calogero e Geymonat, Geymonat e Preti, Preti e Paci… e si potrebbe continuare. In fondo, il primo tentativo di raggruppare tutte queste persone intorno a un tavolo l'ha fatto Abbagnano coi nostri congressini annuali. Il proposito di fare della rivista l'organo di queste riunioni e di queste riunioni il piedestallo della rivista era evidente. Non ci siamo riusciti. Le ragioni mi sono oscure. Una ragione molto semplice potrebbe essere questa: che, a differenza di Paci, che scrive moltissimo ma ha la sua rivista, gli altri scrivono poco o niente. In breve, gli articoli che non abbiamo pubblicati non sono stati pubblicati perché li abbiamo respinti, ma perché non li abbiamo mai ricevuti. C'è un rimedio? Cerchiamolo. Abbagnano ed io siamo prontissimi ad ascoltare. Se sapessi che fatica mettere insieme certi fascicoli, soprattutto per quel che riguarda le recensioni e lo schede! A onor del vero, se Pietro Rossi e Viano non fossero esistiti, la rivista sarebbe già morta di consunzione. Anche il prossimo fascicolo sarà esangue. Possiamo fare uno sforzo per il primo numero del 59? Parliamone pure al congressino di dicembre. Mi rallegro della tua chiamata [a] Padova. È un buon passo e forse un passo decisivo. Entrare nell'insegnamento universitario attraverso Padova vuol dire entrare dalla porta principale. Son curioso di sentire le tue esperienze. Probabilmente verrò a Milano il 3 e 4 novembre per un congresso politico-culturale sui problemi attuali del socialismo, organizzato in occasione dell'anniversario della rivoluzione ungherese. Spero che ci vedremo. Sarebbe magari una buona occasione per parlare di marxismo e filosofia contemporanea. Il libello di Cases, a quanto mi dicono, attacca a fondo i marxisti che cominciano a "civettare" col neo-positivismo. a cura di Mario Quaranta Carteggio inedito Bobbio-Ferruccio Rossi Landi Delle intenzioni di Einaudi circa il Vailati non so nulla. Ma si dovrà fare il piano per il '59. Questo è il momento buono per mettere i punti sugli i. Dovresti scriverne o parlarne con Foà. Cordiali saluti da noi tutti, Norberto Bobbio LETTERA 29. Un foglio. Ragioni di un accordo [30] Torino, 6 gennaio 1959 Caro Rossi-Landi, tornato da Cervinia, dove ho trascorso come al solito le vacanze di Natale, trovo la tua lettera e le tue pagine di introduzione al Mestiere del filosofo. Ti dico subito che la lettura è gradevolissima: piana, semplice, stimolante. Un libro che comincia così, dovrebbe farsi leggere, anche se dopo diventerà nutrimento più difficile. La pagina che mi è piaciuta di più è forse quella in cui parli dei rapporti tra filosofo e uomo della strada. Una frase come questa: “E se è vero che gli uomini comuni farebbero spesso bene a essere più filosofi, è altrettanto vero che molti filosofi farebbero bene a ricordarsi d'essere in primo luogo degli uomini comuni”, è felice e costituisce da sé un programma di lavoro. Ma dal momento che vuoi delle osservazioni, te ne faccio qualcuna per scrupolo di lettore. L'unica frase che non mi sembra molto chiara è al principio di pag. 6: uno si attende che tu circoscrivi l'ambito della tua ricerca, perché parli di “una porzione esigua di tutto ciò che si può intendere per filosofìa”; ma poi dici che guardi a quel che fanno in genere i filosofi. Tutti i filosofi? E allora dov'è la limitazione? La filosofia non è quella che fanno i filosofi? Qualche piccola osservazione ho segnato in margine. Il punto dolente, come certo prevedevi, è l'ultimo capoverso. Quello che dici è giusto. Si tratta di sapere anche se è opportuno dirlo in quella forma dura, come uno schiaffo. Poiché ti rivolgi a me per chiedere un'impressione generale, è naturale che ti consigli la prudenza. Sarei un cattivo amico se non lo facessi, il che non toglie che possa desiderare che qualcuno certe cose le dica (ma forse si possono dire con voce più flautata). Non mi hai poi mandato l'articolo per la “Rivista di Filosofia”. O l'hai mandato ad Abbagnano? Guarda però che il primo numero del 1959 è già in composizione. Ricambio gli auguri di tutto cuore anche da parte di Valeria e dei ragazzi. Dovrò forse venire a Milano entro gennaio per una manifestazione alla casa della cultura. Coi più cordiali saluti, Norberto Bobbio LETTERA 30. Un foglio. Il lavoro culturale all'università di Padova [31] Milano, 24 maggio 1959 Caro Bobbio, la tua lettera del 3 maggio scorso mi ha fatto molto piacere e ha rinnovato i miei rimorsi. Una volta, quando ero più libero e avevo meno grattacapi (o almeno, questi erano più interiori e segreti: consumavano di più ma impegnavano meno tempo avrebbero consumato assai meno se avessi voluto dedicar loro molto tempo), una volta godevo di una fitta corrispondenza con te. E so bene che tu, benché a tua volta occupatissimo, l'avresti conservata, questa corrispondenza, se non fossi stato io a rallentarla. Un po' di “bollettino” servirà a riavviare il discorso. […] Padova. In un certo senso, “troppo” successo. Ho assegnato un'esercitazione a ciascuno dei miei cento e rotti studenti; me ne hanno già consegnate quasi cinquanta, e alcune sono così buone che sto meditando di farle mettere a posto e di inviarvele come “note” per la Rivista. Ho accettato quattordici tesi di laurea, quasi tutte su argomenti teorici (alla Oxford, alla Harvard; o “alla” qualsiasi Università continentale europea prima che la stortura pseudo-storicistica impedisse a Italiani e Tedeschi di pensare in proprio - non più tardi di ieri sera Pietro Rossi, scandalizzato del fatto che i 91 n.13 / 2005 miei studenti padovani affrontassero argomenti teorici mi chiedeva “con quali strumenti culturali”, e io gli rispondevo “adoperando il loro cervello”, come desiderano fare e come è utile che facciano). Nei tre giorni che ho passato a Padova ogni settimana, mi sono dedicato agli studenti non meno di otto, spesso dieci o dodici ore al giorno: continui colloqui individuali, alla Oxford, curando le questioni intellettuali di ognuno, insegnando a ognuno come risolvere i suoi problemi secondo la formula del gatto di Mao Te-tung1. Tutto ciò senza assistenti, senza locali per ricevere decorosamente, e col corrispettivo di 36.573 lire al mese (che coprono solo una parte delle spese padovane). Non so cosa ne pensino i colleghi e i “superiori”, ma so molto bene cosa ne pensano gli studenti. Certo che per trattarli democraticamente, in quell'ambiente, c'è voluto un po' di coraggio; ogni parola va pagata di persona, e la parte più retriva degli stessi studenti va trascinata anche con strumenti non scientifici, come l'ironia sociale-mondana. Mi interessa solo il fine. Produzione. Ahimè, quella “pratica” ha molto compresso quella “scientifica”. Debbo ancora sbrigarmi di enormi malloppi editoriali, senza i quali non avrei potuto affrontare e superare i miei guai né potrei occuparmi degli studenti padovani come faccio. Entro il 1959, prevedo sarò finalmente “libero” o quasi. Comunque a Padova ho insegnato i primi sei o sette capitoli del Mestiere, apprendendo molte nuove cose (soprattutto per quanto riguarda gli sviluppi particolari, interni alle argomentazioni troppo “difficili”). Se avessi sei, o forse anche soltanto tre, mesi di completa libertà il libro sarebbe finito. Lo sarà comunque checché succeda, in tempo per il prossimo concorso a cattedra in teoretica: semmai in una prima versione (‘prima’ non vuol dire ‘affrettata’ o indecorosa) da rivedersi in seguito con maggior calma. (Però mi dispiace che si ritenga necessario un mio nuovo libro. Dopo tutto, ho la monografia su Morris, nuovissima allora per l'Italia; ho “rifatto” il Ryle in italiano; ho risuscitato Vailati; ho buttato fuori i due volumoni PAC; ho varie decine di saggi, note e recensioni. Possibile che una commissione, ammesso che voglia essere scientifica, debba per forza riferirsi a un singolo volume in più? alla mole e al peso 92 delle pagine effettivamente riunite sotto un singolo titolo? Quali sono i candidati teorici italiani? Meno male che a te, filosofo del diritto e quindi estraneo alla mia candidatura, posso esternare sinceramente quello che sento: non potrei farlo, per es., né con Abbagnano né con Garin. Piovesan-Wittgenstein. Come scrissi a Foà, Piovesan è la persona più adatta per tradurre le Untersuchungen. Ha studiato filosofia in Inghilterra per tre anni, e per contro è incaricato di lingua tedesca a Padova. Ed è, come Wittgenstein, un perfezionista linguistico. Infine, merita di essere aiutato e incoraggiato. Se Einaudi lo “contratta” con le Untersuchungen, a partire dal prossimo novembre gli faremo tenere un corso di esercitazioni, laterale al mio corso sulle pagine che via via tradurrà. Giacon e gli altri in Facoltà son già d'accordo. […] Bene, stavolta ti ho “scaricato” un bel po' di materiale. Un cordialissimo saluto a tutti voi e ringraziamenti per tutte le tue gentilezze. Ferruccio Rossi-Landi LETTERA 31. Due fogli dattiloscritti; sono stati tolti due paragrafi di Rossi-Landi. 1. La frase, che non è di Mao ma di Deng Xiaoping, dice: “Non importa che il gatto sia nero o bianco, importa che prenda i topi”. Polemiche culturali [32] Torino, 19 giugno 1959 Caro Rossi-Landi, ti ringrazio della tua lunga lettera e delle notizie buone, anzi ottime, che mi dai sul tuo insegnamento a Padova. Scusami se anch'io, conoscendo la Padova di cui son fatti i nostri studenti, sono un po' diffidente sulle tue conquiste pedagogiche. Ma sono egualmente pieno di curiosità e d'interesse per il tuo esperimento. Spero che non mancherà l'occasione di parlarne un po' più a lungo; e se hai già qualche materiale raccolto lo vedrò volentieri. Ho sempre pensato che per fare il buon insegnante a cura di Mario Quaranta ci vogliono qualità di ascendente, di prestigio, di comunicativa facile, che si hanno o non si hanno. Io non le ho. Le tesi di laurea che riesco a mettere insieme sono in genere piuttosto mediocri. Dico questo, perché ritengo di non dover riversare tutta la colpa dello scarso successo del mio insegnamento sugli studenti. Ma lasciami anche dire che la massa degli studenti è stanca, fiacca, indolente, passiva (di fronte alla ricerca, alla curiosità del sapere)... Hai visto la risposta di Giorgianni?1 L'ha mandata, credo, urbi et orbi. Appartiene anche lui alla scuola bagoliniana, secondo cui una critica è un lutto nazionale, a cui tutta la universitas dei dotti deve partecipare con cerimonie di espiazione ecc. Mi son sentito domandare dai giuristi anche i più lontani dalle questioni su cui verte la polemica: “Chi è questo Rossi-Landi?” Ti sei fatto un nome. A dire il vero si tratta di una fama di rompiscatole. Ma non credo che ti dispiaccia. Quel che mi turba è che questo tuo articolo è uscito in un momento inopportunissimo, poco prima del concorso. Dovevamo tra tutti pensarci e farti sospendere la pubblicazione. Nessuno toglierà dalla mente del Giorgianni e del meschinissimo suo maestro, il Bagolini, che il tuo articolo sia il frutto di una sinistra congiura. E ciò mi dispiace. Chi me ne ha parlato sinora, me ne ha parlato, quasi ammiccando: “Colpo basso contro un concorrente, non è vero? Chi l'ha provocato?”. Rispondo: “Nessuno”. Ma nessuno ci crede. Figuriamoci se ci crederà mai il Bagolini, permalosissimo, che vede pugnali nascosti ovunque. Nella lotta che si è scatenata quest'anno per le commissioni di concorso questo incidente, che può sembrare un pezzo finissimo di una trama ben congegnata, non ci voleva. La rivista vivacchia. È un po' anemica. Doveva uscire da un pezzo il secondo fascicolo, ma per un incidente tipografico uscirà solo tra qualche giorno. Forse con un po' di buona volontà si potrebbe tirar su. Ma ne vale la pena? Se hai qualcosa, mandacelo. Il materiale buono è sempre scarso. Se non riuscissimo a racimolare ogni numero un articolo straniero, non so come potremmo continuare. Credo che le trattative con Piovesan, che io ho incoraggiate, siano a buon punto. E me ne rallegro. E sarei lieto anche di pubblicare qualche cosa di Carteggio inedito Bobbio-Ferruccio Rossi Landi suo sulla rivista. Purtroppo (per la rivista, ma per fortuna per le patrie lettere) i giovani seri scrivono poco. Quanto al mio Cattaneo, dal gennaio non ricevo più una pagina di bozze. Ho sollecitato il non solerte editore proprio in questi giorni. Prevedo quindi che nella migliore delle ipotesi non uscirà che in autunno o peggio all'inizio del prossimo anno. Tutti bene. Esami di tutti e tre. Speriamo in un'assolutoria generale. Estate senza fantasia quest'anno. Cervinia e solo Cervinia. Affettuosamente, Norberto Bobbio LETTERA 32. Un foglio. 1. Su Giorgianni Rossi-Landi è intervenuto con un polemico scritto: Critica metafisica e filosofia analitica, “Rivista di diritto civile”, V, 2, pp. 201215. Il “fatale errore” di Guido Calogero [33] Torino, 30 settembre 1959 Caro Rossi-Landi, ho letto con molto piacere la tua lunga lettera. Una parola sola su Calogero, a cui voglio bene e che ammiro per quella rapidità e vivacità d'intelligenza che io vorrei avere e non ho. Andandomi a rileggere le sue cose giovanili, mi sono stupito che tra i vent'anni e i venticinque anni si fosse formato l'idea fissa che nei trent'anni successivi non è più stato capace di abbandonare e che questa idea fissa sull'impossibilità di una gnoseologia fosse fondata su un argomento puramente verbale come quello che il Soggetto non può fare oggetto di conoscenza se stesso, perché per conoscere ci vuole sempre un Soggetto e così via all'infinito. Lo spregiatore della logica ha fatto poggiare tutta la sua filosofia su un uso vizioso della logica. La rivista vivacchia. Abbagnano è alla stretta finale col suo dizionario: è arrivato alla lettera “t”1. Speriamo che possa finire entro l'anno e che dopo possa occuparsi della rivista un po' più assidua- 93 n.13 / 2005 mente. Certo, non si può andare avanti così. Ad ogni numero le solite acrobazie per dare agli abbonati le pagine di cui hanno diritto. Io ho la tendenza a veder nero: ho bisogno di essere incoraggiato per agire con alacrità. Ricordati il PAC: se fosse stato per me l'avrei silurato mille volte, perché in fondo non ci ho mai creduto. E invece è venuto fuori più vitale di quel che avremmo creduto: ne ho visto ancora una recensione sull'ultimo numero di “Umana”, rivista triestina. Se il tuo articolo è pronto, mandacelo subito. Il IV fascioIo dovrebbe uscire in ottobre. Ma deve uscire entro l'anno. Non abbiamo tempo da perdere. Si capisce che la lettera te l'ho scritta d'accordo con Abbagnano, il quale mi è parso molto stanco e triste. Per la pubblicazione negli Atti dell'Accademia delle Scienze di una tua monografia ci sono difficoltà. Prima di tutto bisogna che si tratti di lavoro originale: per quanto alcune parti del tuo progettato volume siano inedite, il grosso è fatto di articoli già pubblicati su riviste. Tu hai visto del lavoro di Scarpelli l'estratto: ma tieni presente che esso dovrà apparire in un volume insieme con altre memorie. Sarebbe come pubblicare lo stesso articolo in due riviste diverse, successivamente. C'è poi la questione del tempo: tu hai una certa fretta. Ma ora l'Accademia è chiusa; non si aprirà prima della fine di novembre e per approvare una “memoria” occorre la nomina di una commissione la quale non può dare il suo responso che la seduta successiva a quella in cui è stata nominata, e tra una seduta e l'altra passa un mese. Nella migliore delle ipotesi una memoria, pronta domani, non potrebbe essere approvata che alla metà di dicembre. Non è un po' tropo tardi per te? Infine credo che se tu vuoi un libro messo in vendita, non potresti escogitare nulla di meno commerciabile che una memoria di accademia. Ti sconsiglio di seguire questa via. Perché non provi con la Taylor? L'ambizione di questa casa editrice è proprio quella di pubblicare libri tecnici di filosofia e specificamente di filosofia anglicizzante. Naturalmente bisognerebbe assicurare attraverso un'adozione scolastica un certo numero di copie vendute. Dimmi che cosa ne pensi. Coi più cordiali saluti, Norberto Bobbio 94 LETTERA 33. Un foglio. 1. Il riferimento è al Dizionario di filosofia, UTET, Torino 1960. Osservazioni sul “discorso persuasivo” [34] Torino 20 gennaio 1960 Caro Rossi Landi, ho letto la parte del tuo lavoro che mi hai lasciata. Da questo primo capitolo il tuo studio si preannuncia interessante, vivo e stimolante. Mi auguro che tu possa continuare ordinatamente e sistematicamente il lavoro. Ne potrà venir fuori un libretto utile e attuale. L'unica cosa che sinora mi pare un po' dubbia è il riferimento a Fichte; ma può darsi tu abbia intenzione di chiarirlo in seguito. Per quel che riguarda la pubblicazione da Einaudi, credo che bisognerà superare qualche ostilità, che si farà certo sentire contro un tal genere di filosofia. Ed è per questo che l'altra sera quando me ne hai parlato sono stato un po' reticente. Ma se il libro manterrà la promessa contenuta in questo primo capitolo, penso che le difficoltà potranno essere superate, e che la convinzione di alcuni potrà essere più forte del partito preso di altri. Ho letto anche la tesi di laurea sul discorso persuasivo. Il lavoro mi è parso intelligente e fine; ma, trattandosi di un saggio sulla persuasione, mi vien bene di dire … che non ne sono stato molto persuaso. Forse non ho capito bene l'intento che è quello di trasportare il problema dalle tecniche della persuasione ai motivi psicologici per cui un uditorio si lascia persuadere. Ma allora sarebbe occorsa un'analisi, o perlomeno un abbozzo di analisi di questi motivi. Questa trasposizione deriva, se ho ben capito, dalla definizione iniziale, secondo cui per discorso persuasivo l'a.[utrice] intende non già quello con cui si cerca di persuadere ma quello che persuade effettivamente (secondo l'uso corrente della parola “persuasivo”). Di questa definizione iniziale non capisco bene l'utilità: un comando è un comando anche se non è ubbidito; un consiglio è un consiglio anche se non è seguito; una prescrizione a cura di Mario Quaranta medica è una prescrizione anche se l'ammalato non prende la medicina. Se si fa intervenire l'adempimento a me pare che venga falsato il problema di ogni forma di discorso prescrittivo, che è il problema non della efficacia di questo tipo di discorso ma della sua struttura. Se si fa intervenire l'efficacia, tra l'altro, non vedo poi come si possa distinguere il discorso persuasivo dal comando obbedito, dal consiglio seguito, dalla prescrizione eseguita, se non per i motivi psicologici per cui il destinatario accetta, segue, eseguisce. È questo ciò a cui voleva arrivare l'autrice? Può darsi, ma l'intento a mio giudizio non è sufficientemente chiarito. Ciò non toglie che qualche buon articolo possa essere ricavato dalla tesi, quando fosse chiarito meglio il punto di partenza, perché io ho l'impressione, per esempio, che l'a.[utrice] e Perelman parlino di due cose completamente diverse, ma non altrettanto che la prima si renda conto di questa differenza e cerchi di spiegarla al lettore in modo che questi sappia sin dall'inizio che cosa lo aspetti. Quanto alla traduzione di Wittgenstein, ho parlato col Conte che attualmente lavora con me a Torino e che tu hai conosciuto a Lovanio. Egli è disposto a mettersi, sotto la mia guida, alla prova: gli ho dato in mano il Blue and Brown Books. Se la prova riesce ti confesso che preferirei affidargli anche le Philosophical Investigations. È inutile che tu dica che Einaudi, il quale in questo momento è preso da folle amore per Wittgenstein, è indignato del ritardo di Piovesan1. Io continuo ad essere, più che indignato, sorpreso della mancata risposta. Quindi ti prego di parlare a Piovesan molto seriamente e dargli un ultimatum molto preciso: o lui s'impegna a dare la traduzione finita entro due mesi, diciamo entro Pasqua, oppure rinunci all'impresa. Grazie della visita e molti cordiali saluti, Norberto Bobbio LETTERA 34. Un foglio fronte-retro. 1. Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche. Edizione italiana a cura di Mario Trinchero, Einaudi, Torino1967, pp. 301. (“Biblioteca di cultura filosofica, 29”. All'interno della seconda pagina c'è questa precisazione: traduzione di Renzo Piovesan (pp. 3182) e di Mario Trinchero (pp. 182- 301). Carteggio inedito Bobbio-Ferruccio Rossi Landi “Il tuo articolo ci continua a lasciare perplessi” [35] Torino, 11 marzo 1961 Caro Rossi Landi, ti ringrazio della tua lunga lettera del 3 marzo. Sono stato a Firenze per una conferenza e poi, appena tornato son dovuto ripartire per Padova, dove ho partecipato ai funerali del povero Meneghetti1. Speravo di vederti. Ma sono andato e tornato in giornata. Abbagnano non ha nulla in contrario a pubblicare il tuo articolo sulla rivista, ma anche a lui è piaciuto poco. Le ragioni che tu mi esponi per rispondere alle mie obiezioni sono tutte intelligenti e, prese ad una ad una, apparentemente più forti delle mie osservazioni. Ciononostante il tuo articolo ci continua a lasciare perplessi. Può darsi che le tue idee siano buone e la realizzazione non del tutto adeguata alla bontà della idee. Lasciamo stare la questione delle frasette: a me personalmente non danno molto fastidio, ma l'ambiente italiano è quello che è e le può scambiare facilmente per espressioni di poca serietà. La questione più importante è quella degli esempi. D'accordo: gli esempi sono esempi; ma devono essere in qualche modo esemplari. E non devono prestarsi ad una troppo facile caricatura. Abbagnano ed io ci siamo detti ridendo che, dopo che sarà pubblicato il tuo articolo, saremo chiamati tutti quanti i seguaci della filosofia di Tonino. Inoltre è probabile che il senso di gratuità che danno i tuoi esempi dipenda dal fatto che il tema del tuo articolo è in un certo senso troppo vasto. Se abbiamo ben capito il tuo problema è quello che si potrebbe dire così: ogni frase può avere diversi sensi a seconda del contesto in cui è inserita, e per contesto si intende non soltanto il contesto linguistico ma la particolare situazione esistenziale in cui è pronunciato. Si capisce che per dare esempi di una problematica così vasta si può scegliere a caso senza pensarci troppo su. Ma il difetto non è forse dell'esempio, ma del tema che bisognerebbe meglio specificare prima di passare agli esempi. Le tue osservazione sullo “stile forestiero” sono 95 n.13 / 2005 giustissime. Da parte mia era un argomento che valeva poco, ma era un modo di esprimere una insoddisfazione, di cui anche adesso non so spiegarmi con assoluta chiarezza le ragioni. Quando avrai finito il libro sui Campi mandamelo pure. Non insisto sull'obiezione. Ma ammetti che il trovarsi di fronte improvvisamente a sempre nuovi progetti di libri, è sconcertante. Io ero rimasto ancora all'idea che il tuo chiodo fosse Il mestiere del filosofo, di cui hai parlato per anni come di cosa che avevi già in mente e stavi per realizzare. Poi siamo passati alla Riforma. Quando mi ero con un certo sforzo adattato al nuovo progetto, me ne presenti un terzo. Di qua il mio disorientamento. Ma tutto è bene ciò che finisce bene. E io ti auguro di poter lavorare con tranquillità nei prossimi mesi. E attendo fiduciosamente il prodotto di questo lavoro. Ho letto i due saggi della Polacco2 e mi son parsi entrambi buoni, chiari e ben odinati. Ma quante corbellerie aveva detto Croce. Ce n'eravamo dimenticati. Se sapessi quanto soffro a vedere l'idolo infranto. Ma bisogna riconoscere che in certe materie per lo meno era un idolo. Passo gli articoli ad Abbagnano. Dovremo vederci nei prossimi giorni per mettere insieme il secondo fascicolo della rivista. E ti dirò qualcosa di più preciso. Contrariamente al solito abbiamo ricevuto in questi ultimi mesi tanto materiale da riempire tutta l'annata. E quindi dovremo fare una scelta rigorosa. Accogli i miei più cordiali saluti, Norberto Bobbio LETTERA 35. Un foglio fronte-retro; carta intestata: Università di Torino. Istituto di Scienze Politiche “Gioele Solari”. 1. Norberto Bobbio, Egidio Meneghetti, “Il Ponte”, XV, 10, ottobre 1961, p. 5. Un secondo necrologio, diverso dal precedente, è stato pubblicato in “Resistenza”, XV, 3, marzo 1961, p. 7. 2. Silvana Polacco (Cecchinel), L'ipotesi secondo Croce e Vailati, “Rivista di filosofia”, 1961, pp. 312329; Dimensioni della verità e della libertà nel pensiero di Giovanni Vailati, Atti del XVIII Congresso nazionale della SFI (marzo 1961), Palumbo, Palermo 1961, vol. II, pp. 649-655. 96 Andare in America o restare in Italia? [36] 26 novembre 1961 Caro Bobbio, ti ringrazio delle gentili parole con cui hai voluto dare al mio libro un immediato benvenuto1. A Bellagio non vi avevo detto che ti era stato spedito perché non lo sapevo: sapevo solo, e te lo dissi, che la cosa doveva avvenire “al più presto” - ma questa italica formula, nel caso presente, ha voluto dire un ritardo di quattro mesi, corrispondente all'anticipo con cui sia gli editori sia io stesso preparammo il volume con il fine di vederlo posporre a chissà quali edificanti elucubrazioni da parte della Commissione che presiederà ai futuri destini della ricerca filosofica italiana. Ti sarò grato se vorrai leggere il volume con distacco dimenticando sia le mie affiliazioni analitiche sia il fatto che per un quarto delle sue pagine c'erano state corrispondenti (ma meno elaborate) pagine pubblicate qua e là su varie riviste e atti. Ti chiedo di guardarlo come cosa nuova. È stato qui, lupus in fabula, Charles L. Stevenson2, l'autore di Ethics and Language, cioè di uno dei libri più belli e originali della filosofia post-bellica d'ogni paese. Lupus, o cacio sui maccheroni, in quanto è professore a Ann Arbor, nella State University of Michigan, dove in sua assenza e a sua insaputa mi avevano intanto invitato come visiting professor nel fall semester del 1962. L'ho portato da Scarpelli (dove ha incontrato anche Treves, Cattaneo e Paolo Facchi) e da Ceccato (dove ha incontrato vari membri del ceccatiano Centro di Cibernetica). Pochi giorni prima di Stevenson avevo intanto conosciuto A. I. Melden, della State University of Washington (Seattle: da non confondersi con altre Università che hanno il nome del generale e presidente nella loro denominazione), anche lui studioso “analitico” di etica. E fra poco avremo il terribile Gustavone nostro, definito dai suoi colleghi “l'uomo più brutto e di peggior carattere della filosofia americana”. A parte la bellezza o la bruttezza, sembra proprio che gli Americani mi vogliano; e io mi domando per quanto tempo a cura di Mario Quaranta ancora debba star qui a farmi valutare da persone che non apprezzo e che non hanno idee nuove per la testa (quando pur hanno idee nel senso costruttivo) e a vedermi anteporre individui la cui produzione è arretrata di un cinquantennio e svolta secondo quel tipico pasticcio storico-general-teorico di chi, non possedendo tecniche intellettuali, finge di non essere soltanto uno storico con l'occuparsi malamente un po' di tutto. Sono anch'io molto occupato, e sempre un po' stanco; sembra sia un effetto italico, dal momento che la salute mi va meglio in Inghilterra come in Polonia (non si trattava, dunque, di mania anglofila). Lettere e lettere da scrivere, cose pratiche da seguire, lavori guadagnativi da consegnare; e i vari saggi che dovrei mandare in Polonia, Inghilterra e America secondo le richieste che mi sono state fatte. A tutto ciò si aggiunge ora la preparazione del corso per i fisici padovani, che richiederà di essere scritto per intero e accuratamente controllato. Ricordami ai tuoi cari. Un cordiale saluto, Ferruccio Rossi-Landi LETTERA 36. Un foglio dattiloscritto. 1. Si riferisce all’opera Significato, comunicazione e parlare comune, Marsilio Editori, Padova 1961, pp. 291. 2. L'opera fu poi pubblicata da un altro editore: Charles L. Stevenson, Etica e linguaggio, traduzione di Silvio Ceccato, Longanesi, Milano 1962 (l'opera è del 1944), pp. 465. Il ciclone Gustavo [37] Torino, 19 dicembre 1961 Caro Rossi-Landi, il ciclone è passato. Tutto sommato, un ciclone benevolo. Prima della visita, temevo peggio. L'incontro tra un tipo estroverso, quale si rivelava dalle sue lettere, e un introverso cronico (con tendenza al peggioramento come sono io), mi atterriva. Aggiungo che non c'erano gli Abbagnano su cui scaricare la pila troppo carica. Infine, avevo letto Carteggio inedito Bobbio-Ferruccio Rossi Landi due volte la conferenza, e non ne avevo capito nulla. Mi domandavo che cosa avrebbero potuto capirci gli ascoltatori sentendola per la prima volta. E invece le cose sono andate abbastanza bene. Lui è un tipo gioviale e chiacchierone. Non c'è bisogno di alimentare la conversazione. Basta una parola detta al momento giusto. E lui si mette in moto per un quarto d'ora. Parla l'italiano meglio di quel che credessi. E poi ci tiene per far vedere come è bravo (ed è davvero bravissimo). Ha un talento linguistico straordinario ed un orecchio sensibilissimo alle sfumature. Il suo testone è un recipiente di capacità non comune. Sa tutto. Ha letto i libri più diversi. A Robilant chiede se suo nonno è stato ministro degli esteri (vero); a mia moglie se è autrice di un libro sulle riviste fiorentine (non è vero ma il libro esiste e è di una mia cugina)1. A tavola recita la famosa poesia di Pavese: “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Si parla di filosofia e discute l'influenza di Brentano su De Sarlo, cita Aliotta, discetta su Gentile. Grazie alla tua descrizione l'incontro alla stazione avvenne senza difficoltà. Ieri sera quando ci siamo salutati, quasi quasi ci saremmo dati pacche su le spalle. Effettivamente non è stato difficile rompere il ghiaccio. Alla conferenza c'era molta gente, più di quella che mi sarei aspettata e gli avevo pronosticato. La lettura, meglio la recitazione, è stata efficacissima: un po' da gigione, se vogliamo, ma ha fatto sì che il pubblico restasse immobile per un'ora e mezza quasi divertendosi, per ascoltare una serie di parole che per la maggior parte di loro erano assolutamente senza senso. L'unico neo è stata la tenace resistenza passiva del pubblico di fronte alle mie e sue richieste di discussione. Più incitavo il pubblico, più vedevo facce nascondersi, occhi smarriti volti al soffitto, sguardi imploranti; molti si soffiavano il naso per non guardarmi. Non c'è stato verso. Nessuno si è mosso. Dopo qualche minuto di questa commedia, lui teatralmente, volgendosi a me, allarga le braccia in gesto rassegnato e lascia cadere, studiando meticolosamente tutte queste pause: “Caro professor Bobbio, sono costretto a dire, come un grande italiano: Se no, no”. Applausi. Dopo, tutti quanti, tranne Guzzo, mi hanno confessato che non avevano capito una parola. Come avete fatto voi a Milano a fargli delle obiezioni? Qui l'unico che si era preparato un'o- 97 n.13 / 2005 biezione era Conte, il traduttore, ma ahimé era su un punto che il conferenziere aveva saltato. Non abbiamo salvato neppure l'onore. Per fortuna ci siamo presi una rivincita ieri. Viano l'aveva invitato al seminario. Pare che Trinchero e Conte gli abbiano fatto domande eccitanti. Lui ha risposto parlando per circa due ore, salvo qualche interruzione. L'ho visto alla fine. Era raggiante. Poi l'ho portato a cena a casa mia, dove avevo invitato Leoni. È stata una girandola. I miei figli, che lo conoscevano ormai da giorni col nome di Gustavone (in casa nostra lo si chiama così), si son divertiti come a teatro. Ha descritto i mille modi di cucinare l'aringa. Ha commentato sfavorevolmente un articolo di Gigliola Venturi (moglie di Franco) che sul “Ponte” di qualche mese fa parlava male del cibo svedese. E qui è cominciata veramente la sua grande giornata. Per due ore ha tenuto circolo, gettando anatemi sullo storicismo, tirando in causa Platone e la dialettica, prosternandosi dinnanzi alla verità sempiterna, dichiarando il relativismo cagione di tutti i nostri mali, imprecando contro i filosofi commissari di Marx e di Stalin, invocando Husserl. Non sarebbe più andato via. Gli abbiamo lasciato fare l'oracolo per una sera. Credo sia la parte che gli piace di più. E se n'è andato eccitato e soddisfatto. Credi pure, un tipone come lui non l'avevo mai incontrato in vita mia. Ti ringrazio dell'ultima lettera che è giunta a buon punto. A Natale andremo, come al solito, a Cervinia. Poi dovrò andare due o tre giorni a Venezia. Ti vedrei anch'io molto volentieri. Abbiamo tante cose da commentare, dal centrosinistra alla guerra del Congo, per finire, se si vuole, ai concorsi universitari. Molto cordialmente, Norberto Bobbio P. S. Vedo che dovrei mandare direttamente a Roma la mia presentazione. Te ne mando un abbozzo perché, prima di mandarlo, mi dica se va bene, o se devo dire altre cose che t'interessano. LETTERA 37. Un foglio fronte-retro. Il P. S. è scritto a mano. 98 1. Amalia Bobbio, Le riviste fiorentine del principio del secolo (1903-1916), Sansoni, Firenze 1936. Bergmann, alla ricerca della “philosophia perennis” [38] 26 dicembre 1961 Caro Bobbio, ti ringrazio per la tua divertentissima lettera sul nostro Gustavone. Tu possiedi un'arte epistolare destinata, a mio avviso, a lasciar traccia. Dovresti scrivere tutte le tue lettere tenendone copia e archiviando le copie con cura: verrà il giorno (un lontanissimo giorno) in cui esse verranno raccolte e scelte e pubblicate, documento vivace e interessante della cultura e sul costume italiani e non soltanto italiani di questi nostri decenni convulsi e così pieni di povertà con qualche ricchezza. Se dovessi dire qual è il miglior corrispondente ch'io conosca indicherei senz'altro N. B., “solo” in fuga a guisa di campione ciclista; poi, in un gruppo di inseguitori, Ceccato, Bergmann o pochissimi altri; infine, ulteriormente distanziato, il “grosso”. La tua descrizione di Gustavone, anche per me che lo conosco da 12 anni e ho scambiato con lui centinaia di lettere, è centratissima1. Uomo brillante e insopportabile, geniale e folle, prepotente e invadente da un lato ma sofferente e dolorosamente suscettibile dall'altro; all'avanguardia filosofica e culturale quanto a ricchezza e profondità d'informazione, e quanto a uso di nuove tecniche, e al tempo stesso paurosamente involuto in forme di pensiero tanto superate quanto oscure ed inutili (se non, forse, ai fini di un qualche gioco accademico statunitense, ch'egli si sforza ora di “internazionalizzare”). Le tue osservazioni sull'incomprensibilità di quanto egli dice o scrive non debbono esser prese come parte della descrizione totale; voglio dire, esse non valgono allo stesso livello descrittivo delle altre, e anzi toccano qualcosa di essenziale o definitivo (nonché di irrimediabile). Tutta quella intelligenza e tutto quel brillare vanno misurati sull'incomprensibilità di quanto egli dice, e anche sul a cura di Mario Quaranta suo inneggiare agli eterni valori, sul suo assurdo ripescare la parte peggiore e minore del primo Wittgenstein contro il secondo; o così via. Egli crede ancora in una philosophia perennis e ritiene, penosamente, di aver afferrato alcune strutture essenziali di una realtà ontologicamente intesa. È un piccolo Husserl passato attraverso il positivismo logico ortodosso della natia Vienna. A detta di tutti gli altri filosofi americani interrogati confidenzialmente in proposito, la sua importanza negli States è limitatissima; e quanto più le porte gli si chiudono in faccia, tanto più egli si consola col suo sogno metafisico. È un pattern fin troppo noto anche da noi; solo che la differenza di livello è enorme. Con tutto ciò non voglio averti data la sensazione di non apprezzare o perfino “amare” Bergmann - intendo soprattutto il suo cervello, ma in fondo anche le sue doti umane positive. Si può “amare” anche chi appartiene al passato e anzi volontariamente vi ritorna e vi si butta indietro. Come tu dici, che strano “tipone”. Grazie per la lettera, che riaccludo. Mi sembra vada benissimo così; ti sarò grato se vorrai inviare il modulo alla Commissione americana (via Barberini 86). Fammi sapere quando passi per Milano diretto a Venezia. Ferruccio Rossi-Landi LETTERA 38. Un foglio dattiloscritto. 1. Nell'archivo di F. Rossi-Landi, presso il Cisst di Brugine (Padova), si trova il vasto carteggio con Gustav Bergmann. Rossi-Landi ha tradotto, del filosofo americano, il saggio The contribution of John B. Watson, “Rivista di psicologia”, LII, 1958 (1959), 4, pp. 311-325. 2. Gustav Bergmann (Vienna 1906-Iowa 1987); di origine austriaca, si è stabilito negli Stati Uniti nel 1938, ed è stato docente di filosofia della scienza dal 1939 al 1974 alla Iowa University. Dopo un iniziale neopositivismo (The Metaphysics of Logical Positivism, 1954) ha proposto una nuova fondazione dell'ontologia. Egli ha sostenuto che la filosofia ha il compito di ricostruire in un linguaggio ideale i suoi problemi fondamentali. Tra le sue opere: Meaning and Existence (1960), Logic and Carteggio inedito Bobbio-Ferruccio Rossi Landi Reality (1964), Realism (1967). “La Rivista di estetica” ha dedicato il n. 25 del 2004 a Il realismo ontologico di Gustav Bergman. Dopo il ciclone Gustavo [39] Torino, 21 gennaio 1962 Caro Rossi-Landi, mi scrive il dott. Domenico Parisi, attualmente traduttore alla Assemblea parlamentare europea, che avrebbe intenzione di tradurre una raccolta, da lui scelta, di saggi della filosofia di Oxford. L'idea in linea di massima è buona. Naturalmente, si tratta di sapere quali saranno i saggi prescelti (per ora non me lo dice), quali siano le capacità del proponente che io non conosco. Mi dice che potrei avere informazioni anche da te. Potresti dirmene qualche cosa? E che cosa puoi dirmene? Ti ringrazio della tua gustosa lettera su Gustavone, il quale, tanto espansivo prima dei festeggiamenti, dopo le accoglienze e gli onori ricevuti, non si è fatto più vivo. M'aspettavo una lunga lettera da aggiungere al mio epistolario. Ma non ho ricevuto più nulla. Che cosa è successo di lui? Non sempre il mio stile epistolare è buono. Dipende dal corrispondente. Non voglio aver l'aria di ricambiare i complimenti, ma le tue lettere sono una continua provocazione. Per ottenere una buona corrispondenza, ci vuole, scusa il bisticcio, una buona corrispondenza tra i due interlocutori. Cordialmente, Norbero Bobbio LETTERA 39. Un foglietto intestato: Università degli Studi di Torino. Facoltà di Giurisprudenza. 99 n.13 / 2005 NOTA DI LETTURA Questa seconda parte del carteggio fra Norberto Bobbio e Ferruccio Rossi-Landi si differenzia dalla prima, pubblicata nel numero undici di “Foedus”, per alcune caratteristiche. Si può dire, come osservazione di carattere generale, che per entrambi i filosofi si sia conclusa la fase “militante”, e che siano cadute le illusioni di una radicale ricostruzione culturale dell'Italia. È giunto il momento, invece, di formulare e soprattutto realizzare un proprio programma culturale, programma che Bobbio aveva espresso nitidamente in due opere, una di carattere politico-culturale, Politica e cultura (Einaudi, Torino, 1955), e una di carattere filosofico, Giusnaturalismo e positivismo giuridico (Comunità, Milano 1965), mentre Rossi-Landi rese esplicito nell'opera Significato, comunicazione e parlare comune (Marsilio, Padova 1961). Dopo la lettura dell'intero carteggio, penso si possa affermare che ci troviamo di fronte a due intellettuali che vengono progressivamente scoprendo i motivi che li differenziano insieme a quelli che li accomunano. Si fa più chiara, insomma, la differenza generazionale. Rossi-Landi tenta di convincere Bobbio dell'utilità di usare gli strumenti concettuali dei filosofi analitici per analizzare i problemi di filosofia del diritto, mentre Bobbio resta fermo a ciò che, su questo terreno, ha acquisito nel corso delle discussioni entro il “Centro di studi metodologici” di Torino e che egli ha espresso nel saggio programmatico Scienza del diritto e analisi del linguaggio (Aa.Vv., Saggi di critica delle Scienze, De Silva, Torino 1950). Rossi-Landi è decisamente anti-crociano, Bobbio benchè critico di Croce, gli riconosce tuttavia indubbi meriti. Dopo la lettura di un saggio dell'allieva di Rossi-Landi, Silvana Polacco Cecchinel (L'ipotesi secondo Croce e Vailati, “Rivista di filosofia”, 1961, 312-329), esclama: “Ma quante corbellerie aveva detto Croce. Ce n'eravamo dimenticati. Se sapessi quanto soffro a vedere l'idolo infranto. Ma bisogna riconoscere che in certe materie per lo meno era un idolo”. Rossi-Landi è ferocemente anti-accademico; Bobbio è un censore a volte molto severo dell'università e del “costume” universitario, ma conserva una speranza in un futuro miglioramento. 100 In Rossi-Landi il bilancio della filosofia italiana contemporanea è fortemente polemico, e Bobbio lo invita a formulare giudizi circostanziati e non generici; è il caso, ad esempio, di Guido Calogero, su cui il filosofo analitico formula un giudizio negativo, mentre Bobbio lo difende, pur riconoscendone i limiti filosofici. Rossi-Landi si considera impegnato in un'opera di profondo rinnovamento culturale secondo una prospettiva filosofica empiristico-analitica, e perciò polemizza aspramente con i suoi avversari, mentre Bobbio non lo segue su questa linea. Gli scrive: “Tu hai vivacità polemica. Io no. L'odor di polvere ti eccita. Io non credo alle polemiche. Credo ai lavori fecondi. E son proprio questi lavori fecondi a cui abbiamo dato sinora troppo scarsi contributi”. Ma poi, sulla possibilità di scrivere "lavori fecondi", si avverte un'altra differenza: mentre Rossi-Landi non dubita delle sue forze, anche se indica i vari ostacoli che rallentano la sua attività, Bobbio si inclina spesso al pessimismo, e dubita di poter condurre in porto le opere da lui programmate. Alle parole precedenti, aggiunge (e siamo solo nel 1958!): “Ci sono troppe cose ormai che mi sfuggono e che non riuscirò più ad afferrare per il loro giusto verso. E passo da un lavoro all'altro, da una lettura all'altra senza avere la possibilità e la fermezza di costringermi in una disciplina”. D'altra parte non mancano i motivi che avvicinano i due intellettuali; prima di tutto la loro condivisa collocazione culturale: entrambi si riconoscono nella tradizione che va da Cattaneo a Vailati, con un interesse particolare verso alcune manifestazioni della cultura anglosassone, riprese dal movimento neoilluministico avviato da Nicola Abbagnano e discusso nei congressi che il movimento organizzò in quegli anni. Bobbio è continuamente sollecitato da Rossi-Landi a confrontarsi con posizioni, istanze, problemi nuovi che lo stesso Bobbio riconosce di grande rilievo; “le tue lettere, scrive, sono una continua provocazione”. Sotto questo profilo, non conosco un altro carteggio intercorso tra filosofi appartenenti a due diverse generazioni, che mostri la stessa tensione culturale, in cui i due interlocutori si esprimano con tale franchezza su un'ampia serie di problemi. Rossi-Landi - lo dice lui stesso -, è in cerca se non di un “maestro”, certo di un interlocutore privilegiato che gli indichi le vie di un a cura di Mario Quaranta impegno culturale “fecondo”. Bobbio ha indubbiamente svolto al meglio tale funzione, anche se in un momento di scoramento Rossi-Landi dichiara: “In Italia a un certo punto ognuno è lasciato solo”. Vediamo brevemente alcuni dei problemi ricorrenti che emergono nel carteggio di questi sei anni. Rapporti di Ferruccio Rossi-Landi con l'Accademia Rossi-Landi, per temperamento prima ancora che per ragioni intellettuali, è stato ed è rimasto un anti-accademico, in ciò accostabile agli intellettuali italiani del primo Novecento che hanno caratterizzato quella straordinaria “stagione delle riviste”. In molte lettere scopriamo un Bobbio equilibrato consigliere di un “provocatore” che si aliena tutti rapporti con l'accademia, e che sulla cultura filosofica italiana formula giudizi perlopiù stroncatori. Bobbio gli indica gli ostacoli che deve superare, e lo mette in guardia su possibili trabocchetti che consentirebbero di confermare una presunta incompatibilità con l'università, ma i suoi consigli si sono scontrati con i comportamenti di un “recidivo”, tanto che a un certo punto, rivolgendosi al suo interlocutore, dichiara: “Tu e l'università, bisogna concludere, non andate d'accordo”. È indubbio che l'atteggiamento di Rossi-Landi ha ritardato di molto il suo inserimento nell'università, ossia la vittoria in un concorso per la cattedra in filosofia. Una fase felice è rappresentata dal suo incarico a Padova, allora l'università più cattolica d'Italia, più ancora dell'università cattolica di Milano. In quest'ultima, infatti, era dominante un solo orientamento filosofico, il neotomismo (il primo corso su Maritain, mi disse Bontadini, fu tenuto dopo i movimenti del Sessantotto), mentre a Padova c'erano tutti gli orientamenti della filosofia cattolica: il neotomismo (Giacon, Padovani), il personalismo (Stefanini, Rigobello), lo spiritualismo (D'Arcais, Santinello), la metafisica classica (Marino Gentile Riondato). In questa situazione è comprensibile che l'insegnamento di Rossi-Landi, il quale non nascose mai il suo anti-clericalismo (definì l'Italia di allora la “Gran Pretagna”) sia stato di breve durata. Ritengo che la sua posizione anti-accademica non fosse un segno di snobismo, ma un atteggiamento radicato e conseguente a una valutazione molto cri- Carteggio inedito Bobbio-Ferruccio Rossi Landi tica della cultura italiana, specie quella filosofica; gli accademici italiani, afferma in una lettera, “vogliono imporre la gerarchia e l'omertà: sono gli eredi remoti di una società misera, spagnolesca e feudaleggiante e sono gli eredi recenti del fascismo”. E in un'altra occasione, in cui Rossi-Landi doveva decidere se accettare o meno di andare a insegnare negli Stati Uniti, dichiara: “Io mi domando per quano tempo ancora debba star qui a farmi valutare da persone che non apprezzo e che non hanno idee nuove per la testa (quando pur hanno idee nel senso costruttivo) e vedermi anteporre individui la cui produzione è arretrata di un cinquantennio”. Su questa questione, basterà che ricordi una vicenda in cui sono stato coinvolto. Si era nel pieno del Sessantotto, e Rossi-Landi fu invitato da Mario Dal Pra e Ludovico Geymonat a partecipare a un concorso universitario; a giudizio dei due amici le resistenze, che pur c'erano entro la commissione, potevano essere superate attraverso un loro attivo interessamento. Rossi-Landi dichiarò che avrebbe partecipato a un concorso universitario solo qualora fossero stati gli studenti a decidere la scelta dei professori. Parve una battuta di spirito, ma quando gliene parlai dovetti ricredermi. E così ci fu uno scambio di lettere fra docenti della commissione, Geymonat e Dal Pra, per convincere Rossi-Landi a desistere dal suo atteggiamento. Un giorno, a casa di Geymonat, Dal Pra e altri due professori presero atto della irrevocabile posizione di Rossi-Landi, e decisero di affidare a me il singolare carteggio che era intercorso tra loro, a futura memoria! Questo era RossiLandi, sempre incerto tra accettare l'integrazione accademica in Italia, fare il docente negli Stati Uniti, o rimanere “battitore libero”. Così, quando finalmente vinse il concorso e andò a insegnare nell'università di Lecce, Geymonat, con cui RossiLandi ebbe un ottimo rapporto, gli scrisse questa lettera (inedita) firmata da lui e dalla moglie Virginia. “Carissimo Ferruccio, ho saputo dall'amico dott. Ubaldo Sanzo che sei stato chiamato a Lecce. Con Virginia ci torniamo a rallegrare del tuo definitivo inserimento nell'Università e ti facciamo i più vivi e affettuosi auguri. Ludovico. Ciao! Virginia. Milano 28 aprile 1975”. 101 n.13 / 2005 Una rivalutazione di Giovanni Vailati Un altro leitmotiv dell'epistolario di questi anni, è rappresentato dai tentativi di Rossi-Landi di ripubblicare gli scritti di Vailati. Tra i vari progetti prevalse, nella casa editrice Einaudi, quello meno “felice”, ossia la pubblicazione di una parte dell'epistolario vailatiano verso cui Rossi-Landi, di fatto, si dissociò, provocando una delle più risentite reazioni di Bobbio. Questo libro fu un clamoroso insuccesso editoriale, e scoraggiò l'editore a riprendere la proposta di pubblicare anche gli scritti filosofici. Peraltro, il progetto di Rossi-Landi non nasceva da una mera esigenza culturale di far conoscere un filosofo di notevole valore emarginato colpevolmente, per ragioni diverse, dalla storiografia idealista, marxista e cattolica. La ripresa del pensiero di Vailati faceva parte integrante del suo progamma filosofico, e proprio per il suo tenace interessamento Vailati si è stabilmente installato nella cultura laica italiana del dopoguerra, già aperta verso il pensiero filosofico e pedagogico di John Dewey. D'altra parte, nel dopoguerra il pragmatismo era sinonimo di “americanismo”, e pertanto cadde su questa corrente l'ostracismo della cultura marxista e cattolica. Ma l’alternativa “americanismo-antiamericanismo” attraversa tutto il nostro Novecento, e se l'americanismo fu una componente essenziale del pragmatismo italiano, che ha così continuato una tradizione illuministica, l'anti-americanismo lo fu per l'idealismo, il marxismo e la filosofia cattolica. Questa antitesi ha avuto un'incidenza notevole nella cultura italiana novecentesca, non solo filosofica ma anche letteraria e artistica. L'idealismo italiano è stato radicalmente antipragmatista e, più in generale, avverso alla cultura filosofica americana; in questo atteggiamento c'è non solo un'incompatibilità filosofica ma anche un'opzione pregiudiziale: il rifiuto di considerare l'America come centro dello sviluppo della modernità. Si può dire che la cultura accademica primonovecentesca, nei suoi diversi orientamenti, ha elevato una barriera protettiva contro il pragmatismo; lo stesso Croce, sensibile verso le forze culturali allora nascenti, dopo un iniziale tentativo di dialogo e di "contenimento" nei confronti della rivista “Leonardo”, centro del pragmatismo italiano, avviò una forte polemica contro tale orientamento. Si 102 può affermare che in quel primo decennio del secolo si consumò il confronto fra diversi orientamenti allora in competizione per l'egemonia, e alla fine prevalse l'idealismo. Nel corso degli anni Trenta la presenza di James e di Peirce subì un'eclissi, insieme al pragmatismo italiano; alcuni esponenti della seconda generazione idealistica (Ugo Spirito, Guido Calogero, Guido De Ruggiero), estranei alla precedente battaglia anti-pragmatistica, mostrarono un certo interesse per il pensiero di Dewey, di cui sottolinearono soprattutto quegli aspetti che ritenevano compatibili con l'idealismo italiano. Nel campo non idealistico, solo Mario Manlio Rossi (allievo di Calderoni) e Ludovico Geymonat pubblicarono saggi in cui discussero i contributi del pragmatismo italiano. Nel secondo dopoguerra tale orientamento è stato criticato aspramente da filosofi marxisti e cattolici, mentre la cultura laica fece di Dewey l'alfiere del movimento neoilluministico che fu fieramente anti-idealistico. Ebbene, Rossi-Landi si pose sul terreno di una rivalutazione di Vailati incontrando come “avversari” gli eredi degli stessi orientamenti anti-pragmatisti primonovecenteschi. Diverse e diversamente motivate sono state le letture di Vailati nel corso del dopoguerra dopo i lavori di Rossi-Landi e la pubblicazione, a sua cura, di un'antologia di undici saggi vailatiani - Il metodo della filosofia - presso Laterza nel 1957. “L'opera di Vailati, scrive a Bobbio, più la si studia e più appare impressionantemente moderna”. La caratteristica fondamentale che accomuna gli studiosi del dopoguerra è il tentativo di andare oltre un mero “ripescamento storiografico” di Vailati, come quello compiuto da Eugenio Garin nelle Cronache della filosofia italiana (1959). Rossi-Landi ha considerato Vailati essenzialmente un metodologo e un analista del linguaggio: “Certi passi, afferma in una lettera, potrebbero esser stati scritti dagli analisti contemporanei”. Altri hanno ritenuto Vailati un pragmatista sui generis (Antonio Santucci), un pragmatista “minore” rispetto a Peirce (Alberto Pasquinelli), un continuatore di Hume (Mario Dal Pra). Qualcuno lo ha definito un positivista storicista (Franco Restaino), un positivista radicale (Mario Manlio Rossi), un semioticista (Augusto Ponzio). Infine, è stato con- a cura di Mario Quaranta siderato un precursore del neopositivismo (Giulio Preti), dell’operativismo (Ceccato), del fallibilismo (Antiseri), dello storicismo (Binanti), della teoria dei paradigmi (Polizzi). Tutto ciò conferma la linea interpretativa di Rossi-Landi, ossia che il pensiero di Vailati ha un'attualità non meramente storiografica ma anche epistemologica e filosofica. È singolare poi che in questi anni l'unico orientamento delle avanguardie filosofiche del primo Novecento ancora presente nel dibattito filosofico sia il pragmatismo, riproposto da alcuni filosofi americani, sia pure in una delle molte sue “varianti”. Dopo ciò che abbiamo detto, si comprende l'importanza che ha avuto per Bobbio e Rossi-Landi (collaboratori della rivista “Occidente”, di cui si parla a lungo nell'epistolario), quella vera e propria impresa culturale rappresentata dal PAC, ossia dai due volumi Il pensiero americano contemporaneo (Edizioni di Comunità, Milano 1958), cui hanno collaborato diciotto studiosi. Il primo volume è dedicato alla filosofia, epistemologia, logica, il secondo alle scienze sociali. A mio parere quest’opera è un capolavoro storiografico per la completezza di informazioni e l'originalità dei contributi. Inoltre, ha un eccezionale indice analitico di grande utilità (una tradizione scomparsa nell'editoria italiana odierna), vi si scorge l'impegno di Rossi-Landi, la sua capacità di direzione e mediazione. Quando Bobbio ha la prima copia dell'opera, scrive all'amico: "È una gran soddisfazione per me, in questo paese dove va tutto a rotoli, che un'impresa, una difficile impresa, è riuscita”. Ancora oggi, se si cerca un lavoro sullo stato della cultura americana fino agli anni Cinquanta, occorre riandare a quest'opera che ce ne fornisce un'immagine attendibile. Dall'epistolario emerge quanto sia costato a entrambi in riunioni, letture, discussioni; faceva parte di un comune programma culturale, volto a far conoscere e valorizzare la cultura anglosassone e in particolare quella americana, che in quel periodo era oggetto, soprattutto per ragioni ideologiche, di incomprensioni, censure e, più in generale, di un vero e proprio ostracismo. “I fatti di Ungheria” La posizione che Bobbio assunse di fronte a quelli che pudicamente sono stati definiti dal Pci “i fatti Carteggio inedito Bobbio-Ferruccio Rossi Landi di Ungheria”, è rappresentativa di tutto un ceto di intellettuali democratici che si staccarono dal Pci in seguito a quei “fatti”. Bobbio la espresse nelle due lettere del 18 e 21 novembre 1956, le più drammatiche di tutto l'epistolario. Per comprendere pienamente questo atteggiamento occorre qualche richiamo alla storia del Pci. Nel corso degli anni Trenta, il gruppo dirigente del Pci accolse le tesi dell'Internazionale comunista espresse nel X plenum del 1929, in cui s'impose la teoria del socialfascismo, secondo cui la socialdemocrazia era allo stesso livello del fascismo; inoltre, si affermò che in Italia eravamo di fronte a un'imminente crisi del capitalismo, con la conseguente possibilità di una presa del potere da parte delle masse lavoratrici dirette dal Pci. Tale posizione provocò una spaccatura all'interno del gruppo dirigente del Pci e Pietro Tresso, che era il responsabile del lavoro del partito in Italia, fu l'oppositore più deciso e così fu espulso insieme ad altri. Queste tesi si rivelarono rapidamente del tutto infondate; nell'analisi del capitalismo non si tenne conto, soprattutto, di quei meccanismi autoregolativi che il capitalismo, compreso quello italiano, era in grado di mettere in atto per evitare crisi irreparabili. La conseguenza fu disastrosa per il Pci; la gran parte dei comunisti inviati in Italia e quelli che operavano nella clandestinità furono individuati e messi in carcere dal regime fascista. Togliatti, che aveva accettato non senza qualche resistenza la linea staliniana dell'imminente crollo del capitalismo, concorse però ad applicarla. È in questo momento che avvenne una mutazione “antropologica” del partito comunista; con questa linea imposta dall'Internazionale esso mutò radicalmente il suo rapporto con la società italiana; venne meno la rappresentatività del Pci rispetto a una base sociale che finora aveva rappresentato e che non poteva riconoscersi in questa strategia; iniziò una liquidazione, di fatto, del partito comunista come strumento di classe e la conseguente sua trasformazione in uno strumento di propaganda della ragion di Stato sovietica. Davanti al clamoroso fallimento della strategia dell'Internazionale ci fu successivamente una radicale correzione di linea, sancita dall'VIII congresso dell'Internazionale del 1935 con la scelta della poli- 103 n.13 / 2005 tica dei fronti popolari; e non a caso uno dei protagonisti della svolta fu proprio Togliatti. Ora, qual è stata la linea politica adottata da Palmiro Togliatti al suo rientro in Italia alla guida del Pci, linea concordata con Stalin? In breve: egli ha tentato di legittimare una linea politica di unità nazionale contro il nazifascismo; una politica pienamente compatibile con la ragion di Stato sovietica. Ora, con la difesa e la giustificazione della repressione militare sovietica dei moti democratici ungheresi, Togliatti ha riaffermato apertamente il valore prioritario della ragion di Stato sovietica contro un movimento in difesa della democrazia. In questo modo si è spezzata la compatibilità tra la difesa della ragion di Stato sovietica e quella della democrazia. Non solo; in questa congiuntura la teoria gramsciana del blocco storico “nazionalpopolare” e dell'“intellettuale organico”, che era stata alla base della linea togliattiana in una situazione da lui definita di “guerra di posizione”, in cui centrale era la politica delle alleanze, non è più praticabile in quanto tale, specie dopo il distacco degli intellettuali dal Pci. Moltissimi intellettuali comunisti o comunque alleati o vicini al Pci, dopo l'invasione sovietica dell'Ungheria hanno compreso la natura imperialistica dell'Urss, e che la funzione degli intellettuali era considerata, di fronte a scelte fondamentali come quella imposta dall'intervento armato sovietico, senza alcuno spazio di autonomia ma puramente subalterna: e ciò risultava loro inaccettabile. Nasce da qui la ribellione di una larga parte di questo ceto intellettuale, che fino allora aveva costituito una decisiva “cinghia di trasmissione” fra il Pci e la società italiana assicurando a tale partito un largo consenso intellettuale e politico. Nelle due lettere Bobbio considera l'invasione sovietica uno spartiacque nella sua esperienza politica; egli dà un giudizio inequivoco sui dirigenti comunisti dell'Urss, fino a giungere a equiparare il comunismo sovietico e il nazismo; un giudizio che non si riscontrerà nei successivi suoi scritti politici. “L'unica analogia possibile [con il comunismo sovietico], afferma, è purtroppo recente, e non va a onore dei tempi in cui viviamo: l'hitlerismo”. Inoltre, egli prende atto che il suo tentativo di dialogare con gli intellettuali comunisti espresso in Politica e cultura, un 104 testo che avviò un grande dibattito nella cultura del tempo, era sostanzialmente fallito. Non solo: la sua analisi della situazione italiana è spietata; di fronte a una cultura laica minoritaria, divisa in gruppi tra loro ostili, e un partito socialista del tutto inadeguato a fronteggiare questa particolare situazione, non sembra esserci via d'uscita. La sua decisione di dare un aiuto alla nascita di un partito socialista unificato è costellata da molti, fondati dubbi. È peraltro sintomatico che la sua ripresa di dialogo con il partito comunista sia avvenuta dopo che alla guida di tale partito sono andati uomini di una nuova generazione, e specie dopo che i moti studenteschi del Sessantotto avevano dato l'illusione - da lui coltivata per poco tempo, in realtà -, che stesse sorgendo una nuova classe dirigente. Diverso, profondamente diverso è l'atteggiamento di Rossi-Landi, che è di una generazione successiva a quella di Bobbio. In quest'ultimo si avverte ancora un antifascismo che definirei “biografico”, “esistenziale”, in cui il rapporto in certo senso fiduciario con l'Urss è legato al significato che ebbe la rivoluzione di ottobre e al ruolo antinazista svolto da quel Paese durante la seconda guerra mondiale. Scrive così a Rossi-Landi: “Ma pensa che cosa è stata la rivoluzione russa: la prima grande rivoluzione vittoriosa dei poveri, degli oppressi”. In Rossi-Landi prevale, invece, una considerazione del tutto culturale. Egli scorge negli eventi ungheresi, prima di tutto, la conferma dei limiti del marxismo: “Ho sempre detto, scrive, che il marxismo è una cattiva filosofia. Ora ne ho nuove prove”. In conclusione, per Bobbio siamo in presenza dell'eclissi dell'Urss come modello di società nuova, e l'assunzione di un ruolo non più di liberazione, come nel periodo della lotta anti-nazista, ma di repressione secondo il classico modello di uno Stato totalitario e imperialista. A tale proposito, in Rossi-Landi è invece assente questo riferimento storico; sembra che egli non si renda pienamente conto di cosa è stato l'antifascismo nella storia degli intellettuali italiani, giunto fino all'accettazione dell'alleanza Usa-Urss, in una società in cui il fascismo aveva ottenuto un consenso di massa e pertanto la fuoriuscita dalla dittatura di molti intellettuali, compreso Bobbio, era stata particolarmente difficile. Rossi-Landi, che allora era iscritto al partito sociali- a cura di Mario Quaranta sta, fa rientrare l'invasione dell'Ungheria nell'ambito di una spartizione del mondo in sfere di influenza, e in quanto tale comprensibile se non proprio condivisibile. Ciò che manca, nella sua analisi rispetto a quella di Bobbio, è una valutazione del partito comunista, della posizione assunta in questa occasione. Egli sposta, per così dire, il problema, indicando le ragioni dell'arretratezza di alcuni Paesi, come la Germania, l'Italia e la stessa Urss in cui non c'è stata una rivoluzione democratica, mentre là dove essa è avvenuta, come in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in Scandinavia, “si respira un'aria morale e sociale completamente diversa dalla nostra”. È un'analisi condivisibile ma che non coglie gli effetti devastanti che “i fatti d'Ungheria” produrranno nella sinistra italiana, ossia il fatto che dopo l'invasione dell'Ungheria la cosiddetta “via italiana al socialismo”, con cui il Pci ha successivamente tentato di differenziarsi dalle “vie” di altri Paesi, specie quelli dell'Est europeo, è stata gravemente compromessa. Rapporti con la casa editrice Einaudi I motivi d'interesse del carteggio sviluppatosi alla fine degli anni Cinquanta sono anche altri; le valutazioni date, ad esempio, di filosofi italiani e stranieri. Un aspetto interessante è rappresentato dal contrastato rapporto di Rossi-Landi con la casa editrice Einaudi, tenuto sostanzialmente da Bobbio. “Per quel che riguarda la pubblicazione da Einaudi, scrive Bobbio, credo che bisognerà superare qualche ostilità, che si farà certo sentire contro un tal genere di filosofia", ossia la filosofia analitica. È evidente che ci sono motivi di varia natura che frenano e alla fine impediscono l'accettazione di una collaborazione piena di Rossi-Landi con la casa editrice torinese. È ancora una volta Bobbio che chiarisce in una lettera le ragioni del rifiuto di pubblicare testi che si ricollegano alla filosofia dell'empirismo inglese. “È incredibile, afferma, l'ostilità che la filosofia inglese incontra tra i miei amici dell'Einaudi. Il marxismo, anche se non sono più comunisti, li ha segnati”. Non è finora documentabile quando sia cessato il rapporto epistolare fra i due; le lettere che RossiLandi mi ha consegnato perché le utilizzassi in un saggio, arrivano al 1961. Negli anni successivi Carteggio inedito Bobbio-Ferruccio Rossi Landi Rossi-Landi assunse posizioni filosofiche ma soprattutto politiche via via sempre più lontane da quelle di Bobbio, e al di fuori degli interessi di quest'ultimo. Sul terreno filosofico egli si impegnò nell'elaborazione di una semiotica materialistica che si ispirava largamente al marxismo; sul terreno politico fu vicino alle posizioni di Castro e di Che Guevara e difese il movimento studentesco del Sessantotto nella rivista “Ideologie” da lui fondata. Eppure non ci furono soltanto questi motivi che portarono a interrompere un dialogo che aveva conosciuto momenti di grande intensità culturale. A tale proposito va ricordato un evento che determinò tra i due una seria incompresione. Nel 1975 la casa editrice la Nuova Italia pubblica un volume di Scritti di Eugenio Colorni, a cura e con introduzione di Bobbio. Rossi-Landi si era fatto promotore parecchi anni prima della pubblicazione di tutti gli scritti di Colorni, che gli erano stati consegnati da Vittorio Somenzi. (Quest'ultimo ne aveva pubblicato alcuni scritti nella rivista “Sigma” del 1946). Il libro, privo dell'introduzione, conteneva tutti gli scritti di Colorni, compresi i saggi scientifici inediti di fisica e di epistemologia. Giunta alle seconde bozze (ne possiedo copia), la pubblicazione fu fermata; e l'editrice fiorentina affidò la cura a Bobbio. Così Rossi-Landi, che sul Colorni aveva già scritto un articolo nel 1952, fu messo di fronte a una scelta che lo sostituiva. In quel periodo stavo studiando gli scritti di Colorni su indicazione di Rossi-Landi; ero riuscito a trovare alcuni inediti (la tesi di laurea, scritti su Ardigò e Bergson), e ad avere testimonianze scritte da chi l'aveva conosciuto durante il periodo della Resistenza (Bruno Visentini, Lucio Luzzatto, la moglie e altri); inoltre, avevo preparato una bibliografia di e su Colorni. La conclusione della situazione che si era creata, determinata a mio parere soprattuto dalle incertezze dell'editore, si risolse in un incontro che ebbi con Bobbio. Egli mi chiese di pubblicare in appendice alla sua introduzione la mia bibliografia come segno di indiretto apprezzamento, da parte di Rossi-Landi, della sua iniziativa di far conoscere il pensiero filosofico del socialista e federalista Colorni a un largo pubblico. [email protected] 105 n.13 / 2005 Alessandra Mazzei Il Terzo Scacchiere Il Sestante 1 Ovvero la questione relativa al “legittimare” che per Russo “è sinteticamente “dare ragione”, fondare, provare un’asserzione, è sostenere, difendere una proposizione derivata da un’altra precedente o superiore” (Russo, 2003, 22). 2 “…intendiamo per “discorso” l’utilizzazione concreta e reale di un linguaggio, un atto pragmatico di “parola”” (Russo, 2003, 23). 3 Secondo Todorov (1991, 14-15) “…le idee da sole non fanno la storia; ma … rendono possibili le azioni; poi permettono di farle accettare”. 106 Il libro Il Terzo Scacchiere del Professor Eduardo Angel Russo (ordinario di Filosofia del Diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza e docente di Scienza Politica presso la Facoltà di Scienze Sociali dell’Università Nazionale di Buenos Aires) si propone una “aproximaciòn alle teorie del diritto e dello Stato a partire dalla Teoria dei giochi”. Già la parola aproximaciòn ci indica l’intento del testo: nel suo senso di “approccio”, essa definisce il tentativo di indagare il fenomeno giuridico e istituzionale attraverso l’applicazione dei modelli della Teoria dei giochi; nel suo senso di “approssimazione”, la parola evidenzia come, trattandosi di un’operazione di interpretazione, nella quale l’oggetto dell’indagine resta eccedente rispetto al modello, “il diritto…stenti a trovare in essa la propria spiegazione e il proprio fondamento”. Proprio dal problema del fondamento parte Russo, nella critica che ne fanno i post-moderni , per i quali per molte ragioni “tutto è rivedibile” e la ragione moderna è messa in crisi dalla pensabilità stessa di un pensare “senza essenze ultime e senza strutture fondanti deduttive” (Russo, 2003, 19), laddove vale che “quel che è produttivo non è sedentario, ma nomade” (Foucault, 1997, 243). La post-modernità chiede di de-costruire il punto di vista, di indagare la possibilità dell’abbandono del paradigma moderno, i cui principi di legittimità si smentiscono e si confondono con i discorsi di giustificazione, lasciando spazio ad una “razionalità [che] diventa insieme gioco puro e questione esplicita di interpretazione e di ricostruzione di continuità” (Vattimo, 2003, 7). La questione della legittimità1, attraverso la distinzione del principio di legittimità (“inizio di una catena che pretende di essere dimostrativa”, Russo, 2003, 23) dal discorso di legittimazione persuasivo (cioè da un “discorso2 diretto all’accertamento del principio”, Russo, ibidem), si lega al problema del consenso, che a sua volta si specifica in consenso sul principio di legittimità, inteso come proposizione fondante e non fondata di proposizioni successive; e in consenso come principio di legittimità, per cui il principio di legittimità ottiene adesione attraverso un discorso di legittimazione, ovvero attraverso un “fatto sociale di comunicazione tra interlocutori” (Russo, 2003, 23) finalizzato al consenso3. Il consenso sui discorsi di legittimazione (che fondano principi) e sui discorsi di giustificazione (i quali fondano eccezioni a quei principi) è adesione dell’interlocutore alle “buone ragioni” (“conclusioni che si reggono con pretesa di validità, senza previa catena di ragionamenti”), il ricorso alle quali identifica “un noi (che le condividiamo)” rispetto ad un “loro (che le respingono)” (Russo, 2003, 27), ma che di per sé non fondano né principi né eccezioni universali o assoluti. Come sostiene Lyotard, infatti, “… il consenso è uno stato delle discussioni, non il loro fine” (Lyotard, 1996, 2). E quale è allora il fine? Alessandra Mazzei Esiste, secondo Russo, nel paradigma moderno una confusione tra legittimità ed efficacia, tra consenso e rassegnazione. Per dare conto di ognuno di questi concetti è necessario prendere una “direzione alternativa” rispetto alla questione della legittimità moderna; esemplare quella riassunta da Foucault nella sua Microfìsica del potere: “Tra ciascun punto del corpo sociale, tra un uomo e una donna, in una famiglia, tra un maestro e un allievo, tra colui che sa e colui che non sa, si instaurano relazioni di potere che non sono la proiezione pura e semplice del grande potere del sovrano sugli individui; sono piuttosto il suolo mobile e concreto sul quale quel potere si incardina, le condizioni di possibilità del suo funzionamento” (Foucault, 1995, 17-19). A questo “suolo mobile” è necessario allora prestare attenzione, alle dinamiche che rendono possibile il parlare di potere all’interno delle relazioni, perché “quel che è produttivo non è sedentario, ma nomade” (Foucault, 1997, 243). Il linguaggio assume in questo quadro necessariamente una funzione performativa, realizza, genera senso al di là del suo contenuto semantico4. E senso è “ciò di cui si parla”, determinato “soltanto al livello pragmatico del discorso, richiede l’individualizzazione di chi lo dice, di chi lo ascolta, di come lo si dice, dei codici o regole che accettano gli interlocutori e di tutto l’insieme di circostanze di tempo e luogo che chiamiamo “contesto”” (Foucault, 1995, 17-19). Il contesto è, nella definizione di Elias, “la vita in comune” e le relazioni sociali, concetto fondamentale della sociologia, sono un’ “interconnessione che può mancare di norme, ma non di struttura” (Elias, 1988, 750). E appunto un modello di “interconnessione senza norme” è il “gioco primario” (Deleuze, 1996, 184). A quest’altezza Russo richiama i concetti di guerra, gioco primario, terrore e le loro relazioni con quelli di scelta razionale, strategie, limite. Il “gioco primario” di Elias è caratterizzato da un fine risolutivo determinato e determinante, strutturante: la debellatio dell’altro, concepito necessariamente come avversario. In esso “vale tutto”, non c’è limite al di fuori delle possibilità legate alla sua stessa struttura, vale a dire, dalla natura delle forze in campo a seconda delle posizioni occupate in un dato momento di tempo, “…il che equivale a riaffermare l’inesistenza di regole comuni, ma non di strategie, di interdipendenze tra giocatori, di relazioni di forza” (Elias, 1988, 750). In altre parole, le strategie si producono in un contesto privo di norme imperative e sono condizionate solamente da necessità strutturali: quando un giocatore è posto nella condizione di preoccuparsi della sua sopravvivenza5, quando cioè è debellato, la sua capacità strategica incontra la possibilità limite. Ci troviamo qui ancora all’interno dell’ipotesi hobbesiana dello stato di belligeranza naturale. Traducendo la dinamica contrattualistica in un modello di teoria dei giochi, otteniamo, secondo Russo, la definizione di un Primo Scacchiere6, nel quale un contratto istituisce i giocatori e definisce il limite riguardo la finalità delle rispettive strategie, essendo la ratio ultima dell’atto originario la rimozione per convenzione del conflitto. In altri termini, il contratto sociale istituirebbe uno steccato di norme imperative, aventi la funzione di evitare il contatto dei giocatori con le necessità strutturali derivanti dalla loro natura e dalla natura delle loro relazioni. Tale sistema di norme neutralizza l’agone in cui i giocatori agiscono, che chiameremo “zona di conflitto”, limitandone le strategie riguardo agli obiettivi. In sostanza: la guerra totale è una situazione di minaccia alla sopravvivenza; le parti assumono che la sopravvivenza sia la condizione strutturale di Il Terzo Scacchiere 4 Sul rapporto tra diritto e linguaggio ci sembra utile segnalare il classico lavoro di Scarpelli (1953) e il più recente testo di Guastini (2001), in particolare per quanto concerne l’interpretazione delle norme, nel quadro di una concezione del diritto come linguaggio di tipo prescrittivo. 5 Quando cioè si produce il “terrore”. Con terrore si intende, con Lyotard, “l’efficacia ottenuta con l’eliminazione o la minaccia di eliminazione di un ‘compagno’ di gioco (di linguaggio) al quale si stava giocando” (Lyotard, 1996, 115). 6 Come si avrà modo di notare leggendo il libro di Russo, gli scacchieri non costituiscono il focus dell’analisi. Essi forniscono solo un esempio di come la Teoria dei Giochi possa soddisfare le premesse postmoderne, offrendo uno spunto per una successiva completa elaborazione di un modello di analisi della realtà giuridicopolitica della globalizzazione. Essi hanno rilievo non per la loro funzione costitutiva, piuttosto valgono in funzione descrittiva, laddove si mostra come attori e rispettive strategie, per quanto numerosi, possano trovare una loro specifica collocazione in un’intelaiatura sociale non più dominata dalla dicotomia ordi- 107 n.13 / 2005 ne-caos. Il titolo del libro diviene allora una sorta di manifesto programmatico, un obiettivo verso cui far convergere gli sforzi della Scienza Politica, della Filosofia del Diritto e della Teoria dei Giochi stessa. 7 La lettura di Hobbes è qui già tutta riconducibile alle categorie del postmoderno. Il contratto sociale non crea il gioco in assoluto, chè esso già esiste nella sua forma di gioco puro. Esso piuttosto lo cambia attraverso la posizione di un limite determinato da nuove regole. 8 “L’eliminazione dell’arbitrio come scopo dell’esperienza giuridica è la riprova che questa mira alla fondazione della pace nella società” (Lopez de Oñate, 1968, 125). 9 Sul paragone tra diritto e gioco degli scacchi si veda Ross (1965, 13 ss.) e la critica che ne fa Opocher (2005, 7 ss.) sulla base della considerazione che la “partita del diritto”, a differenza di una partita a scacchi, non è affatto volontaria. 10 Sulla distinzione tra “norme primarie” e “norme secondarie” non possiamo non ricordare le opere fondamentali di Kelsen (19946) e Hart (19653). 108 possibilità del gioco; la sopravvivenza gode di conseguenza di tutela tramite norme imperative. In questo modo, l’eliminazione totale del contendente non rappresenta più un obiettivo legittimo7. L’obiettivo è uno degli elementi caratterizzanti della strategia. Essa è, secondo Foucault (1989, 35-37), “tentare di avere influenza sugli altri”, l’insieme dei mezzi per vincere, “razionalità impiegata per raggiungere un obiettivo”. La neutralizzazione della zona di conflitto avviene, abbiamo detto, attraverso la sostituzione dell’obiettivo debellatio con l’obiettivo “ordine”, “pace sociale”8, o più in generale, con quella condizione in cui i conflitti che si producono tra le strategie si mantengano entro limiti desiderabili. A questo punto ogni relazione può essere normata attraverso la deduzione di regole che specificano l’obiettivi in coerenti sotto-obiettivi (coerenti, non necessari), con la conseguenza che la libertà strategica dei giocatori è ridotta a conformità, la razionalità delle scelte strategiche è trasferita nella produzione giuridica, l’efficacia della strategia è sancita dal riconoscimento della sua legittimità attraverso la pronuncia giudiziale. Per la definizione di questo Primo Scacchiere può essere ancora utile (pur con le necessarie puntualizzazioni) la metafora degli scacchi9: come in tutti i giochi regolati a priori vale il presupposto dell’uguaglianza delle condizioni iniziali dei contendenti (condizione della simmetria esterna): “le regole sono egualmente valide per entrambi e entrambi possono valersi dello stesso numero di pezzi e di un eguale numero di opportunità”. Senza questa eguaglianza, nota Russo, si produrrebbe un ritorno allo stato di natura, … alla legge del più forte, al regno dell’efficacia in opposizione al regno della validità; negli scacchi e nei giochi simili a questo, una mossa sarà valida quando si realizza conformemente a quanto autorizzato dal regolamento, anche se non sia efficace in relazione al fine perseguito dal giocatore” (Russo, 2003, 68-69). Inoltre, durante il tempo e lo spazio della partita, quindi in quel tempo ed in quel luogo, le regole rimarranno invariate. Nell’ambito del Primo Scacchiere Russo chiama “regole primarie” quelle che disciplinano le strategie degli attori riguardo l’obiettivo finale del gioco, quelle cioè la cui ratio assume ed implementa ciò che è convenuto essere desiderabile: in altre parole, esse dichiarano il valore assunto in convenzione in quanto fondante, fornendo la struttura del gioco, ovvero definendo le caratteristiche dei giocatori, istituendo i rispettivi ruoli e informando alla conformità l’intelaiatura delle relazioni fra essi. Chiama invece “regole secondarie” quelle che determinano il regolamento, all’interno della zona di conflitto (già strutturalmente neutralizzata attraverso la sostituzione dell’obiettivo ultimo) della sfera dell’autorizzato e del proibito10. Questo secondo tipo di norme ha origine nella dinamica delle strategie tra giocatori –attraverso meccanismi istituiti e dettati dalle norme primarie, come quello di autorizzazione/rappresentazione del paradigma contrattualistico11- e risulta modificabile nel tempo. In questo senso il diritto è strumento di attuazione del desiderabile convenuto, il quale assume contenuti mutevoli, i quali emergono concretamente dall’interazione dei giocatori. L’effettiva vigenza del corpus secondario deriva dalla presenza nel gioco di un arbitro, cui spetti giudicare della conformità delle scelte razionali dei giocatori alle regole stesse. Vettore del mutamento di regole così definite è l’interpretazione12 da parte dell’arbitro. L’interpretazione delle regole rende possibile la realizzazione di nuove mosse che permettono che il gioco continui. Essa è la conversione di atti o fatti in situazioni comunicazionali. La giurisprudenza, dice Deleuze, è “la vera creatri- Alessandra Mazzei ce del diritto” (Deleuze, 1995, 266). Essa adatta nel tempo norme acroniche, dilata o restringe il portato concettuale dei contenuti astratti delle norme in relazione ai singoli accadimenti concreti, all’interno di un contesto definito dalle norme primarie. Una giurisprudenza così concepita è “il passo del diritto verso la politica”; è ciò che indebolisce l’arbitro come elemento neutralizzante nei conflitti tra strategie, in quanto egli stesso è giocatore razionale, strategico. In questo modo la legittimità dell’atto di autorità si traduce in legittimazione operativa, simultanea all’esercizio dell’atto stesso; in altre parole, la legittimità della regola è fondata nel suo stesso darsi13. Se tale modello di pensiero “non fondato”, come lo chiama Russo, lascia aperti i problemi nell’ambito della teoria dello Stato intorno ai concetti-cardine della tradizione giuridica statuale, quali il principio della certezza del diritto14, il problema del fondamento di norme e potere; esso mostra una certa adattabilità a contesti di relazioni più articolate e fluide rispetto al rapporto Stato/comunità politica, che rimandano alle caratteristiche del “gioco puro”, nel quale non esistono regole predeterminate, ma esse si costituiscono per ciascuna mossa15, ramificando le possibilità del gioco (senza con questo dar vita ad un altro gioco), senza relazione temporale prederminata, senza inizio e fine prefissati, senza sconfitti e vincitori definitivi, ma soltanto parziali (e qui prevedibili, quindi “normabili”). In quest’ottica sono pensati il Secondo ed il Terzo Scacchiere, nei quali la zona di conflitto è scarsamente neutralizzata. Ogni Stato rappresenta la specifica società civile che lo autorizza, secondo una diversificata (o anche non, qui rileva il discorso sulla legittimazione) serie di valori. Non sembra esserci relazione tra gli Stati per quel che riguarda la creazione della loro posizione come giocatori, se non il fatto che essi effettivamente abbiano delle relazioni tra loro, ovvero che essi esistano. Nessuno autorizza o è autorizzato da nessuno, né rappresenta o è rappresentato da qualcuno. Il che significa che le norme che regolano l’interazione sorgono dall’interazione stessa. Le regole del gioco internazionale sono le comunicazioni che intervengono fra i giocatori nel corso del gioco stesso. Siamo nel modello della guerra totale, in cui l’assenza di qualificazioni e confini precisi riguardo la zona di conflitto lascia ai giocatori di quello che potremmo chiamare lo Scacchiere-Mondo un’ampia libertà strategica, moltiplicando l’imprevedibilità e quindi il rischio, ma anche la casistica dei risultati parziali. In un gioco in cui agiscono insieme i capitali del “Monopoli”, gli intellettuali dello “Scarabeo”, gli eserciti del “Risiko” e le ONG del “Non t’arrabbiare” (tanto per nominare qualche attore), è possibile che la zona di conflitto si ritenga neutralizzata quando semplicemente sia garantito che rimanga in gioco un numero sufficiente di giocatori: “perché il peggio, in un gioco giuridico e politico segnato dalla “battaglia perpetua” è non giocare” (Ewald, 1993, 182-183). In questo modo si ammette l’eliminazione dell’avversario, come obiettivo strategico, ma non finale, solo in quanto essa porti all’eliminazione di alcuni giocatori, ma mai di tutti tranne uno, di modo che sia garantita la condizione di esistenza, la prosecuzione del gioco. Bruce Bueno de Mesquita e David Lalman, nel loro War and Reason (1992), sostengono che la guerra può essere considerata come un eventuale “sottogioco” (subgame) di una situazione più generale in cui “gli individui sono consapevoli che le loro azioni si influenzano reciprocamente” (ciò che è esattamente “gioco”, nella definizione di Gates e Humes, 1997,1. La guerra non è qui Il Terzo Scacchiere 11 Sul tema della rappresentanza politica, in relazione alla crisi che essa sembra oggi attraversare e per un’attenta analisi del dispositivo dell’autorizzazione in Thomas Hobbes facciamo riferimento al testo di Duso del 1988. 12 La “vera e propria ricchezza del diritto” è “un contenuto virtuale o latente” nella frase “che ne moltiplica il senso, e che si offre all’interpretazione dando luogo ad un “discorso nascosto””. (Deleuze, 1987, 15). 13 Sulla rilevanza della retorica nel linguaggio e nell’esperienza giuridica, in quanto esperienza di comunicazione e di interpretazione, interessante è il recente contributo di Francesco Cavalla (2005, 1-100). 14 Ricordiamo, sul tema della giurisprudenza nella vita del diritto, il fondamentale lavoro di Luigi Lombardi (1967), mentre per quel che riguarda specificamente il problema della certezza del diritto facciamo riferimento al classico testo di Lopez de Oñate (1950). 15 Gioco è lotta, competizione agonistica. Rileva quindi la “mossa”, ovvero il singolare, la differenza, per Deleuze , l’avvenimento, il divenire, l’intempestivo, la linea di fuga. 109 n.13 / 2005 più la possibilità limite del gioco, la sua fine, ma è un preciso modello strategico, una fase del gioco in cui la zona di conflitto è quasi del tutto attiva, speculare alla fase del consenso, in cui essa è invece quasi del tutto neutralizzata. Questo per il fatto che nel gioco “tutto vale” perché tutto entra. E tutto entra perché “non c’e nessuno fuori: fuori manca l’aria” (Wittgenstein, in Watzlawick, 1989, 144). Riferimenti Bibliografici Bueno de Mesquita, B. Lalman, D. (1992) War and reason : domestic and international imperatives, London, New Haven, Yale university Press. Cavalla, F. (2005) Retorica, processo, verità, Padova, CEDAM. Deleuze, G. (1987) Foucault, tr. it. di P. A. Rovati e F. Sossi, Milano, Feltrinelli. Deleuze, G.(1995) Conversaciones-Control y devenir, Valencia, Pre-Textos. Deleuze, G. Guattari, F. (1996) Che cos’è la filosofia, tr. it. di A. De Lorenzis, a cura di C. Arcuri, Torino, Einaudi. Elias, N. (1988) Il processo di civilizzazione, tr. it. di G. Panieri, Bologna, Il Mulino. Ewald, F. (1993) O directo do Directo, in Foucault a norma e o directo, Lisboa, de Vega. Foucault, M. (1989) ¿Còmo se ejerce el poder? in El poder: cuatro conferencias, Mexico, Universidad Autonoma Metropolitana. Foucault, M. 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Fortemente voluta da Ovidio Capitani, ed impreziosita da un lungo saggio introduttivo di storia della storiografia politica medioevale, era una raccolta che se per un verso si distingueva per la consapevolezza che lo «svolgimento della tematica storiografica è tale che ogni eventuale tentazione di concepire una storia del pensiero politico medioevale o altomedioevale o basso medioevale come un genere chiuso è decisamente abbandonata» [DOLCINI 1983, 2], per un altro assumeva comunque il 1324, data in cui il Defensor pacis veniva ultimato, come «termine cronologico ad quem» [DOLCINI 1983, 5]. Ed è esattamente con un contributo dedicato alla questione della controversa modernità di Marsilio da Padova che si apre sintomaticamente e quasi in ideale continuità con la «vecchia» Antologia, la raccolta curata da Gian Mario Cazzaniga e Yves Charles Zarka che in Italia, per i tipi della ETS, è uscita con il titolo Penser la Souveraineté à l’époque moderne et contemporaine. L’ampia silloge che ospita ben trentotto contributi di studiosi di vario indirizzo ed appartenenti a diverse aree disciplinari, è articolata in nove sezioni ed ha l’ambizioso e lodevole obiettivo di impegnare un arco cronologico particolarmente esteso che comprende il tardo Medioevo con tutto il suo lascito problematico, fino alla presa d’atto, invero non organica, della crisi o della metamorfosi del paradigma moderno della sovranità. Nel dettaglio le sezioni si presentano nel seguente ordine: 1) Naissance de la souveraineté, 2) Affirmation de la souveraineté, 3) De la souveraineté du Roi à la souveraineté du peuple, 4) La souveraineté sous la Révolution francaise, 5) Souveraineté. droits de l’individu et libéralisme, 6) Souveraineté et Etat-nation, 7) Entre souveraineté et identité culturelle: la costruction de l’Union Européenne, 8) Mondialisation et souveraineté, 9) Citoyenneté, droits humains et crise de la souveraineté. Al di là dell’ampiezza e della complessità di temi che il concetto di sovranità riesce a catalizzare, rese peraltro entrambe subito ben evidenti anche dai titoli che corredano le singole sezioni, il vero filo conduttore è condensato efficacemente nel titolo stesso della prefazione con la quale i curatori presentano la raccolta: La souveraineté est-elle périmée? La traccia è particolarmente insidiosa perché l’interrogativo svela subito la sua natura ancipite vincolando la risposta ad una secon- * Penser la Souveraineté à l’époque moderne et contemporaine. Sous la direction de Gian Mario Cazzaniga et Yves Charles Zarka, Pisa-Paris, Edizioni ETS-Librairie Philosophique J. Vrin, 2001, pp. XIV-688, 2 voll. (Actes des colloques organisés à Pise du 1er au 3 juin 2000 par le Département de Philosophie de l’Université de Pise et à Paris du 2 au 4 novembre 2000 par le Centre d’Historie de la Philosophie Moderne du CNRS sur «Les métamorphoses du Prince: fondaments de la vie associéè et formes de la souveraineté dans le temps modernes»). 111 n.13 / 2005 1 Cfr. anche QUAGLIONI [1996], 271. 2 Considerata la mole degli studi sulle origini e sulla evoluzione dell’idea di sovranità tra pre-moderno e moderno, non è neppure il caso di tentare di proporre in questa sede una sepppur minima rassegna bibliografica; ci si limiterà quindi a ricordare il recente contributo di QUAGLIONI [2004] con le brevi ma utili indicazioni bibliografiche ivi contenute (137142). Piuttosto, all’interno di una più generale prospettiva di crisi dello Stato contemporaneo e delle logiche che lo presuppongono, tra cui appunto centrale e decisivo il concetto di sovranità, si segnalano all’attenzione del lettore due preziose raccolte CHITTOLINIMOLHO-SCHIERA [a cura di, 19972] e LABRIOLA [a cura di, 2003]. 112 da e più originaria domanda ovvero: che cosa si intende per sovranità? Nel leggere i contributi si ha la netta sensazione che nonostante la pluralità degli approcci (o forse proprio grazie a questa) e l’inevitabile diversità delle direttrici di approfondimento, la polisemia del termine sovranità non ammette, e del resto era ampiamente prevedibile, un’unica risposta a quell’interrogativo. Certo, le numerose convergenze e le altrettanto rilevanti dissonanze che caratterizzano i saggi dilatano e amplificano se possibile ulteriormente le questioni che inevitabilmente pone una riflessione seria intorno alla sovranità. Tuttavia l’obiettivo dichiarato dai curatori – ricordiamo che i due volumi si presentano significativamente proprio con il titolo Penser la souveraineté - di illuminare vari spezzoni di ragionamento intorno all’idea di sovranità ci sembra perfettamente centrato. Anche se in margine a quanto viene annotato nella prefazione: La souveraineté politique est née à un moment précis de l’histoire, elle peut également mourir. Les formes politiques sont sujettes come toutes les institutions à la vie et à la mort. Il n’y a pas de raison de s’en émouvoir particulièrement. La vraie question est de savoir ce qui remplacera la souveraineté, et si cette mutation peut se faire non seulement sans perte, mais à l’avantage de la liberté, la démocratie et la solidarité sociale [CAZZANIGA-ZARKA 2001, 1]. Ci è spontaneo aggiungere che se per un verso quella nozione di sovranità - che peraltro coincide, non è inutile sottolinearlo, con la tradizione dottrinale più recente, dove l’idea di sovranità è nel suo principio fondativo congiunta ed inseparabile da quella di Stato - risulta senza dubbio attraversato da una crisi senza precedenti, da un altro, forse, andrebbe essa stessa ridefinita e ripensata senza cedere a la tentazione di prescindere dalle coordinate storiche che la delineano. E proprio a questa altezza, infatti, ci sembra insinuarsi inevitabilmente un’altra decisiva domanda: non è che ad essere percorsa da questa profonda crisi sia solo «la tipizzazione della sovranità», «e che invece la categoria storica della sovranità, come elemento della storia costituzionale dell’Occidente, sia difficilmente eliminabile dal nostro orizzonte concettuale?» [QUAGLIONI 2004, 13]1. Nei confronti di tutti questi interrogativi gli studi ospitati nella raccolta cercano di fornire delle risposte adeguate, e se l’esito complessivo non è sicuramente compendiabile in una soluzione unitaria, è altrettanto vero che mai come in questo caso non possono che risultare necessariamente varie le soluzioni avanzate, confermando come una riflessione sulla sovranità tocchi inevitabilmente questioni che, al fondo, sono al tempo stesso filosofiche, giuridiche e politiche. In questa prospettiva la raccolta si pone sicuramente come un importante punto di riferimento all’interno della vasta letteratura fiorita in questi ultimi anni sull’argomento2. La prima sezione composta rispettivamente dai contributi di Diego Quaglioni, Thierry Ménissier, Arlette Jouanna e Nicola Panichi è dedicata per l’appunto alla nascita della sovranità e, come si accennava, è stato scelto Marsilio da Padova come momento di inizio di una riflessione intorno all’idea di sovranità, le dottrine del quale «costituiscono – in effetti – un punto focale in una ricerca sulle implicazioni politiche della controversia fra ‘via antiqua’ e ‘via moderna’ nel tardo Medioevo» [PIAIA 1999, 54]. Tuttavia l’incipit del saggio di Diego Quaglioni [QUAGLIONI 2001, 11] va subito diritto al cuore, del problema: Mon exposé aura un caractère problématique: en effet j’ai adjoint un point interrogatif au thème que les organisateurs de ce colloque m’ont pro- Luca Sartorello Figure della Sovranità posé (…) à propos du statut du pouvoir séculaire. E dopo aver ricordato i recenti lavori di Carlo Dolcini, Vincenzo Omaggio e Gregorio Piaia sul filosofo padovano, lo studioso chiarisce utilmente il significato di quel punto interrogativo posto al tema della sua relazione: L’historiographie récente semble conserver en effet, avec toutefois des exceptions importantes, un caractère traditionnel dans l’emploi (e dans l’abus) de notions telles que Etat, souveraineté, laïcité, positivisme et absolutisme, naturalisme et immanentisme, républicalisme et même totalitarisme, des notions qui appartiennent à un univers conceptuel et politico-istitutionnel tout à fait moderne et contemporain, en projetant sur Marsile et sur son temps des inquiétudes propes à une littérature historique pénétrée par une «hantise de chercher, coûte que coûte, l’Etat moderne déjà dans le passé de l’Italie», avec un effet de déformation de la physionomie historique (…). Je pense surtout aux résultats plus récents d’une vulgata marsilienne, tels qu’on peut les trouver en premier lieu dans des écrits occasionnés par le VIIe centenaire de la naissance, célébré en 1980, des écrits qui manifestent la plupart un décourageant nivellement sur les lieux communs d’une littérature qui s’enroule sur soi-même, incapable de faire une vraie historicisation et de renouveler la lecture critique des sources doctrinales. (…) Parmi ces équivoques, les plus graves nous semblent justement celles qui visent à la transpositio au début du XIVe siècle de concepts élaborés par la Staatslehre au XIXe siècle, tels qu’Etat et souveraineté, grâce à un procédé antihistorique derivé par Gierke de Johannes Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien, qui se disait certain que : «dèjà avant la fin du mayen âge le concept d’Etat avait atteint son unité formelle, et le caractère de la souveraineté extérieure s’était élévé à sa marque essentielle et différenciatrice» [QUAGLIONI 2001, 12-13]. Questa ossessiva ricerca in Marsilio di precorrimenti e anticipazioni di quello che risulterà essere lo statuto logico che assumerà lo Stato moderno è rintracciabile all’interno della lezione gierkeniana, anche in importanti lavori di Gianfranco Miglio che, ricorda Quaglioni, rinveniva già nella dottrina marsiliana una teoria completamente laica e moderna dello Stato [QUAGLIONI 2001, 14-15]. Nel contributo su Marsilio assume un certo rilievo anche la distanza che l’autore prende nei confronti di una letteratura, ancora recente, che con troppa disinvoltura modernizza l’opera marsiliana. Quando ad esempio Carlo Dolcini scrive nella sua monografia dedicata a Marsilio che nel «Defensor pacis si affollano novità di pensiero, anticipazioni e precorrimenti – come- la teoria positivistica della legge, il nuovo concetto di sovranità politica, la legittimazione del governo democratico, il controllo del potere …» [Dolcini 1995, 35], Quaglioni di contro rimanda, dopo aver commentato con un «c’est vraiment trop» [QUAGLIONI 2001, 19], ad una attenta lettura della I Dictio, X, 2-6 dalla quale, sottolinea, non emerge «aucune rupture radicale envers un enseignement, auquel en effet Marsile affirme de se rapprocher, qui est celui de la tradition du droit commun»[QUAGLIONI 2001, 21]. Piuttosto la vera chiave di lettura del pensiero di Marsilio sembra che debba essere rintracciata, e il quadro di riferimenti a cui se pur brevemente rimanda l’autore è assai convincente, nel tentativo da parte del pensatore medioevale di contrastare la scienza canonistica e su tutti la Summa Aurea dell’Ostiense che professava la superiorità dell’ordinamento ecclesiastico su quello secolare con la 113 n.13 / 2005 3 Cfr. anche KANTOROWICZ [1989], CORTESE [1966] e CORTESE [1990]. 114 conseguentemente subordinazione del secondo al primo [QUAGLIONI 2001, 22]. E’ qui che risiede la laicità del pensiero di Marsilio rispetto alla quale scrive Quaglioni: L’Etat n’a rien à voir, et aussi peu la souveraineté, au moins si nous reférons à ce pouvoir juridiquement conforme qui seulement dans le mûr climat du XVIe siècle, et seulement sur la base de cette «plenitudo potestatis» pontificale que Marsile contrecarrait, émergera de la spéulation juridico-politique de Bodin[QUAGLIONI 2001, 24]. Thierry Ménissier, invece, mosso da altri convincimenti prova a spiegare nel suo contributo su Machiavelli [MÉNISSIER 2001, 27-49] come il problema della sovranità nonostante possa sembrare esclusivamente legato innanzitutto all’opera di Bodin e subito dopo a quella di Hobbes, sia in realtà già per buona parte rintracciabile negli scritti del segretario fiorentino. Ora se è vero che quello machiavelliano è «un discorso preso tra due epoche, al punto che gli stessi termini in esso impiegati – non sembrano – avere ancora raggiunto la specificazione concettuale che diverrà caratteristica del discorso politico moderno» [RICCIARDI 1999, 37], a noi pare tuttavia che sostenere che siamo di fronte a «une claire formulation de l’élément proprement politique qui se trouve à la base de la conception moderne de la souveraineté»[MÉNISSIER 2001, 33] tradisca un rapporto problematico con quelle fonti che appartengono ad un universo storico-concettuale estraneo a quello che caratterizzerà l’epoca moderna; con una conseguente «proiezione di schemi e di paradigmi che sono tipici della giuspubblicistica del nostro tempo sulla categoria storica della sovranità» [QUAGLIONI 1996, 311]. Si ha in sostanza nella lettura di Ménissier una forte convergenza con la tesi sostenuta da Hans De Vries nella seconda metà degli anni Cinquanta nel suo Essai sur la terminologie costitutionelle chez Machiavel [DE VRIES 1957]. L’autore olandese partendo dai pionieristici ed importanti lavori di due studiosi italiani, Francesco Ercole e Orazio Condorelli, e confrontandoli con le proposte avanzate da Fredi Chiappelli, rintracciava nell’uso machiavelliano di imperio una chiara anticipazione del moderno concetto di sovranità, lo stesso che verrà elaborato a ridosso del Seicento da Jean Bodin. Inoltre in quello studio, ritenuto decisivo anche da Gianfranco Miglio nel suo Genesi e trasformazioni del termine-concetto ‘Stato’ [MIGLIO 1981 e MIGLIO 1988], si affermava che il termine stato in Machiavelli, pur non presentando sempre quel grado di astrazione che determinerà invece l’accezione moderna, «est en ce temps sur la voie de l’abstraction» [DE VRIES 1957, 94]. Da allora fino alle più recenti ed importanti edizioni commentate delle opere politiche di Machiavelli, come ad esempio quella curata da Rinaldo Rinaldi [MACHIAVELLI 1999], o l’edizione francese del De principatibus di Jean-Louis Fournel e Jean-Claud Zancarini [MACHIAVEL 2000], si è nella sostanza riprodotta la vecchia tesi di De Vries traducendo frequentemente e del tutto legittimamente il lemma machiavelliano imperio con sovranità. Si tralascia di precisare tuttavia che se per un verso è proprio il Segretario fiorentino tra i primi e più consapevoli interpreti della crisi del paradigma giuridico della sovranità, per un altro di quello stesso paradigma si possono rintracciare ancora nelle sue opere, per quanto radicalizzate, le due fondamentali manifestazioni della sovranità, o come è stato recentemente scritto con un’espressione forse più efficace, i due volti [Quaglioni 2004]3, quello astratto che si richiama ad un’auctoritas che è sempre de iure, e quello di contro de facto che guarda alla potestas concreta Luca Sartorello ed effettuale. L’ accento che Ménissier pone ad esempio sull’dea stessa di maestà che a proposito del regno di Francia sarebbe da Machiavelli percepita come staccata dalla persona del re e conseguentemente «une condition de possibilité et dans une certaine mesure une préfiguration de la notion abstraite de souveraineté» [MÉNISSIER 2001, 43], pone una questione tutt’altro che trascurabile: la nozione astratta di sovranità può sic et simpliciter coincidere con la dottrina moderna della sovranità? Infine, dopo avere chiarito che per il segretario fiorentino nel regno di Francia non è il re ma la legge sovrana della nazione che regna, Ménissier annota tra l’altro che: Machiavel avait eu une intelligence aiguë des conditions de réalisation de la souveraineté moderne, en particulier sous la forme de l’affirmation de la primauté nécessaire de la loi sur les personnes dont elle règle l’activité civile [MÉNISSIER 2001, 48]. Ci si limita qui solo a ricordare che nel tardo Medioevo fino ancora a tutto il Rinascimento non solo il diritto non coincide con la legge4, ma che questa soprattutto non è da intendersi nella sua declinazione giuridico-politica moderna dove, come è noto, ciò che conta non è il contenuto della legge, ma il suo tratto rigido e astratto, in una parola formale. Quello che invero le leggi di Machiavelli non sono5. Arlette Jouanna [JOUANNA 2001] dedica la sua relazione al problema del rapporto nella Francia del Cinquecento tra l’azione sovrana del re e una «costituzione» in fieri (che l’autrice pone correttamente subito tra virgolette per evitare fraintendimenti indotti dall’omonimia delle parole, con il moderno concetto di costituzione) che dovrebbe controllarne «l’usage arbitraire de la puissance absolue» [JOUANNA 2001, 54], per concludere che la vigilanza sull’agire del re rimane tutta interna a una dimensione etica e non istituzionale. E’ possibile cioè pensare il princeps legibus solutus, ma allo stesso tempo, e non contraddittoriamente, anche legibus alligatus [JOUANNA 2001, 55-56, 62], due facce queste di una sovranità palesemente bifronte che, come scrisse Ennio Cortese, hanno radici lontane, «perché sono una variante, scientificamente precisata ed approfondita, di fenomeni delineatisi già nel basso Impero al tempo dei primi regni romano-barbarici» [CORTESE 1990, 214]. Radici a cui farà sempre riferimento quell’elaborazione dottrinale che giungerà fino alla piena modernità. Nicola Panichi [PANICHI 2001] chiude la prima sezione della raccolta con una lettura tesa a rintracciare all’interno dell’opera di La Boétie e di Montaigne l’originale ricaduta politica di un pensiero che si colloca ancora tutto al di qua di quell’orizzonte concettuale che descriverà e fonderà il paradigma della sovranità moderna; anche se per l’autrice, in realtà, la Servitude volontaire ad esempio «ne prépare pas les théories de la souveraineté mais sa critique - e dove la vera questione est le problème du pouvoir tout court»[PANICHI 2001, 64]. Affermazione che ovviamente assume un carattere problematico soprattutto se, come scrive Panichi, in relazione a Montaigne la «nouvelle socialité», «s’atteste comme pactum unionis et pactum subiectionis à la fois» [PANICHI 2001, 78], laddove i due patti in Hobbes implicano la perfetta uguaglianza fra individui che il concetto di «amitié» di Montaigne non sembra contemplare6. Indicativo in questo senso è il contributo di Giuseppe Duso [DUSO 2001] sul significato che assumono le nozioni di maiestas e imperium nel pensiero di Althusius che, assieme ai lavori di Luc Foisneau, Charles Ramond Luisa Simonutti Figure della Sovranità 4 Sul punto rimando per la chiarezza espositiva a [GROSSI 1995]. 5 Esemplare in proposito è QUAGLIONI [20042], ma cfr. anche ANDREATTA [1999], 101104 e VIVANTI [2002]. 6 Sul pensiero politico di Montaigne è d’obbligo rimandare alle preziose pagine di BATTISTA [1990], BATTISTA [1998] e CASTRUCCI [1981], 31-66. 115 n.13 / 2005 7 Cfr. in proposito DUSO-SCATTOLA-STOLLEIS [1996]. 8 Prendo a prestito la locuzione da GALLI [1991]. 9 Cfr. anche HOBBES [1985], 251 sgg. 116 e Merio Scattola compongono il secondo gruppo di testi. Qui Duso, in evidente dissonanza nei confronti del titolo stesso con il quale i curatori hanno scelto di accompagnare la seconda sezione «Affirmation de la souveraineté», riferendosi alla prima (1603) e alla terza (1614) edizione della Politica, ed utilizzando la poco conosciuta Disputatio politica de regno recte istituendo et administrando7, chiarisce come proprio in Althusius: termes tels que imperium et maiestas sont caractéristiques d’un mode de penser la politique qui est exactement celui qu’on entend réduire à néant avec la naissance de la souveraineté moderne [DUSO-SCATTOLA-STOLLEIS 1996, 88]. E aggiungendo subito a scanso di equivoci che: Au regard du cadre théorique de la souveraineté moderne, celle d’Althusius est une toute autre chose, et non pas une étape de modification. (…) l’imperium chez Althusius – va inteso – à l’intérieur de cette façon de penser la politique impliquant nécessairement le principe du governement, dans le sens antique du terme gubernare, un principe nié par le contexte de la scienze politique moderne à l’intérieur duquel est déterminé le concept de souveraineté [DUSO-SCATTOLA-STOLLEIS 1996, 88]. Se come scrive Althusius «naturam imperii non est, quidvis posse imperare, nec potestatis natura est, quidvis posse facere, sed ea tantum, quae naturae & rationi rectae conveniunt» [ALTHUSIUS 19812, 944], allora l’azione del «buon governo» è pensabile solo nel contesto di una comunità politica formata da parti differenti (soprattutto da chi governa e da chi è governato) e in particolare orientata al problema del bene e del giusto, che comunque non sono espressione di una volontà sovrana, ma come ricorda Duso, di colui che governa, il quale a sua volta non esprime una propria volontà, ma è vincolato a un quadro «globalment éthique, à l’intérieur duquel on s’oriente» [DUSO 2001, 90]. Manca in definitiva «ce jeu exclusif de la volonté qui caractérise la souveraineté moderne» [DUSO 2001, 90] intesa in questo caso soprattutto come dispositivo logico. In Hobbes la maggior parte degli studiosi si trovano generalmente concordi nel riconoscere uno dei massimi teorici della «macchina della modernità»8 così pesantemente caratterizza da quell’enorme paradosso «per il quale bisogna essere sottomessi a un unico e onnipotente dominium per poter avere dei diritti, poiché solo lo Stato conferisce il diritto di avere diritti» [QUAGLIONI 2004, 118]. Il contributo di Luc Foisneau [FOISNEAU 2001] tuttavia dà la positiva impressione di mettere a fuoco una porzione significativa del ragionamento hobbesiano che forse merita ancora oggi la nostra attenzione. Infatti, dopo una ricognizione attraverso i consueti luoghi e le fin troppo note tappe che definiscono i concetti connessi a quello di sovranità moderna, come la figura del contratto, il meccanismo giuridico dell’autorizzazione assieme al concetto di rappresentanza e a quello di persona, lo studioso francese punta la propria attenzione sul capitolo XX della seconda parte del Leviathan e sulla Review and Conclusion della stessa opera. In particolare insiste sul fatto che per Hobbes non vi è sostanziale differenza tra un «Common-wealth by Acquisition» e un «Common-wealth by Istitution» in quanto: Dans les deux cas, c’est la volonté des sujets qui est au fondement de la souveraineté et, dans les deux cas, c’est la peur qui conduit cette volonté à accepter la souveraineté de l’Etat (…). Que le mobile de la convention rési- Luca Sartorello de dans la crainte que les hommes ont les uns des autres ou dans la crainte du chef ne change rien à la légitimité de l’autorité exercée par le souverain [FOISNEAU 2001, 119]9. Ma Foisneau ritiene che se questo duplice modo di acquisire il dominio, «selon la logique naturelle de la procréation et selon la logique historique de la conquête» [FOISNEAU 2001, 120], deriva e dipende comunque dal continuo consenso dei soggetti nei confronti di colui che detiene il potere, il quale, conseguentemente, non è mai dato una volta per tutte10, viene di fatto a cadere la «légitimation du pouvoir – pensato – en fonction de la valeur supposée de son origine» [FOISNEAU 2001, 121]. Charles Ramond nel suo intervento [RAMOND 2001] cerca invece di esplorare il campo semantico implicato nella nozione di sovranità rintracciabile nel Trattato politico di Spinoza. L’autore rileva giustamente la difficoltà che presenta la resa in una lingua moderna, e segnatamente in francese, dei sintagmi latini imperium e summa potestas (o summae potestates), sottolineando come solo la comprensione del contesto del periodo spinoziano possa dare indicazioni utili alla traduzione11. Ciò che rimane intenzionalmente fuori dall’analisi di Ramond è un vero e proprio attraversamento del discorso politico spinoziano che non ci sembra possa essere lasciato da parte nemmeno in uno studio lessicologico se si pensa che Spinoza «sussume il paradigma scientifico di Hobbes all’interno di un orizzonte semantico che, ridefinendo termini chiave come quelli di natura, Deus e potestas, ne modifica strutturalmente gli esiti» [VISENTIN 1999, 153-154]. La souveraineté comme problème chez Locke di Luisa Simonutti [SIMONUTTI 2001] ha il pregio di collegare tra loro momenti diversi della riflessione lockiana intorno al concetto di potere (power) – che a differenza dell’episodica occorrenza del termine sovranità (sovereignty) attraversa con locuzioni come «power to the magistrate», «power to gives laws», «power or right of government», tutta l’opera politica di Locke – mettendone bene in evidenza la svolta che subisce all’altezza dello scritto An Essay concerning Human Understanding [LOCKE 1923], dove secondo l’autrice si registra il decisivo passaggio da un contesto politico-religioso a un contesto gnoseologico. L’intervento di Merio Scattola [SCATTOLA 2001] su sovranità e scienza politica nelle università tedesche del primo Seicento conclude non solo la seconda sezione della raccolta di Cazzaniga e Zarka, ma ci sembra anche, al di là della tesi che propone, circoscrivere quello spazio storico su cui è ragionevole collocare l’interrogativo implicito e conseguente a quello posto dai curatori, vale a dire: che cosa si intende per sovranità? Pur tenendo conto delle trasformazioni in direzione di un avvicinamento nei confronti delle dottrine politiche moderne, e segnatamente del diritto naturale moderno di Hobbes, Pufendorf e Thomasius, Scattola legge negli scritti di Henning Arnisaeus, Christian Matthiae, Otto Casmann, Jakob Bornitz e Justus Lipsius, un pensiero ancora completamente ancorato all’interno dell’«ãaristotélisme politiqueã de la fin du XVIe siècle et des premières décennies du XVIIe siècle»[SCATTOLA 2001, 160]12. Se infatti la nozione d’imperium esprime sempre e comunque una obbligazione, tra «l’imperium de ãl’aristotélisme politiqueã et l’imperium du droit naturel moderne (…) il existe donc une discontinuité substantielle» [SCATTOLA 2001, 159, 161]. La questione che secondo Scattola deve essere chiarita al fine di avere una adeguata comprensione dei concetti politici è che la nozione di sovranità pre-moderna non Figure della Sovranità 10 «une domination ne peut se maintenir si elle ne remplit pas certaines fonctions essentielles et si elle n’est pas autorisée par les sujets qui l’endurent» FOISNEAU [2001], 120. 11 Sul lessico del Trattato politico di Spinoza è d’obbligo ricordare CRISTOFOLINI [1996], 5-12, e CRISTOFOLINI [1997], 2338. 12 Sulla nozione di «aristotelismo politico» M. Scattola rimanda opportunamente al volume di BALDINI [1995] e in particolare alla Premessa del curatore e al contributo ospitato nel medesimo volume di NUZZO [1995]. 117 n.13 / 2005 13 Zarka, peraltro, non manca di sottolineare giustamente che «Rousseau n’a pas inventé la notion de souveraineté du peuple – in quanto – cette notion a une longue histoire. Pour s’en tenir aux Temps Modernes, on doit noter que les monarchomaques protestants font usage de cette notion dans la dernière partie du XVIe siècle.» Tuttavia l’autore rileva opportunamente anche che «avant Rousseau la souveraineté du peuple n’était pensée comme fondement possible de la légitimité du poivoir politique (…) Si la souveraineté du peuple est nommée, elle est en même temps immédiatement désamorcée de toute sa charge politiquement explosive», Zarka [2001], 288. 118 nasce dalla mancanza di un ordine giuridico, ma è al contrario parte di un ordine superiore e preesistente al quale essa stessa si sottomette. Così, i due orientamenti che l’autore rintraccia nell’ambito dell’insegnamento della politica nelle università tedesche nei primi anni del XVII secolo, «celle de la majesté et celle de la puissance suprême, s’accordent sur le fait que les lois du droit naturel, les prescriptions de la raison, les commandements de Dieu, représentent les éléments fondamentaux de l’ordre en question que le prince, en aucun cas, ne peut violer» [SCATTOLA 2001, 174]. Scattola ravvisa quindi nel paradigma moderno della sovranità una netta rottura nei confronti della nozione d’imperium tipica dell’età intermedia, mettendo a tema, al fine di irrobustire la tesi sostenuta, il concetto stesso di tirannide, una tra le questioni politiche più dibattute sino alle soglie dell’età modernità. Lo studioso infatti annota: Dans le droit naturel de Thomas Hobbes ou, en Allemagne, de Johann Cristoph Beckmann, la tyrannie est un concept impossible, à rayer du vocabulaire politique, parce que la loi est établie par le souverain et il n’existe aucun critère indépendant pour évaluer la justice. Tous les écrivains politiques du début du XVIIe siècle, mêm les défenseurs les plus radicaux de Bodin, admettent, au contraire, que la tyrannie, en tant que corruption de la justice universelle, est une possibilité concrète et toujours imminente, et définissent le tyran comme imago Satanae [SCATTOLA 2001, 174-175]. Ora, non è forse del tutto casuale ed involontario da parte dei curatori l’aver ospitato nelle prime due sezioni di questa raccolta, che quasi ‘ingenuamente’ portano come titolo nascita e affermazione della sovranità, dei saggi che avanzano delle tesi fortemente problematiche e complicanti rispetto a un modo per così dire già pacificato e risolto di «pensare» la sovranità moderna. Si è in sostanza insistito sin qui sui contributi che in vario modo si interrogano sulla definizione e sulla genesi di questo moderno concetto, perché in realtà i saggi che seguono sono tutti in varia misura impegnati ad evidenziare le aporie, i fraintendimenti, le metamorfosi e, in definitiva, la crisi di una nozione, ma in questo caso meglio sarebbe dire di una «tipizzazione», della sovranità, che in questo senso è tutta e solo moderna. La terza sezione infatti, che si giova degli interventi di Francesca Rigotti [RIGOTTI 2001], Catherine Larrère [LARRÈRE 2001], Silvio Suppa [SUPPA 2001], Tomaso Cavallo [CAVALLO 2001], Giuseppe Giarrizzo [GIARRIZZO 2001], Gian Mario Cazzaniga [CAZZANIGA 2001], Johannes Rohbeck [ROHBECK 2001] e Yves Charles Zarka [ZARKA 2001], è già interamente interessata in questa direzione. In particolare l’ultimo saggio di Zarka dedicato alle ambiguità e alle aporie presenti all’interno del concetto di «souveraineté du peuple» mette bene in risalto come Rousseau, attraverso quelle stesse ambiguità e aporie, operi una svolta all’interno della storia del concetto – passando «d’une souveraineté du peuple virtuelle ou potentielle à une souveraineté de peuple actuelle» - i cui esiti poi rimarranno al «centre de la réflexion politique jusqu’à nous» [ZARKA 2001, 287]13. Ma se la «souveraineté du peuple» diventa l’unica forma – almeno per Rousseau – in cui è pensabile il concetto stesso di sovranità, allora risulta del tutto evidente l’impraticabilità storica di questo approccio, come peraltro ha ben evidenziato la drammatica esperienza della rivoluzione francese ai cui equivoci e fraintendimenti, in relazione all’idea di sovranità, sono dedicati i saggi di Monique Castillo [CASTILLO 2001], Josiane Boulad-Ayoub [BOULAD-AYOUB 2001] e Lucien Jaume [JAUME 2001] Luca Sartorello accolti nella quarta sezione, di cui segnaliamo per l’estrema attualità del tema trattato almeno il contributo sul nesso tra sovranità e diritto internazionale in Kant. Qui l’autrice in margine alla contrarietà kantiana nei confronti di un modello di monarchia universale che si risolverebbe inevitabilmente con la supremazia di una o più nazioni sulle altre [JAUME 2001, 311], annota giustamente: la liberté et l’autonomie des Étas demeure revendiquée dans le modèle kantien, non pas comme un égoïsme ãsouverainisteã pratiqué à plusieurs, mais comme une interdépendance reconnue et librement acceptée. Si l’on perd de vue la double fonctionnalité du modèle républicain, à la fois interne et externe, on se condamne à séparer ce que Kant réunit: la fait que les intérêts de politique intérieure sont les mêmes que les intérêts de politique extérieure. Une philosophie de la paix conduite selon la norme des droits de la raison, que Kant identifie aux droits des hommes, présuppose nécessairement (…) un travail d’approximation indéfini [JAUME 2001, 314-315]. La questione dei diritti dell’individuo quindi, alla quale peraltro è dedicata l’intera quinta sezione con i saggi di Carla De Pascale [DE PASCALE 2001], Maria Teresa Pichetto [PICHETTO 2001] e Franck Lessay [LESSAY 2001], travalica già con la proposta kantiana i confini dei vecchi stati nazionali insidiando e mettendo in discussione, almeno nell’impianto concettuale di base, le stesse prerogative che caratterizzano lo stato sovrano. «Non è un caso - scriveva qualche anno fa Luigi Ferrajoli – che l’ultimo grande assertore della sovranità sia stato Carl Schmitt che la fondò, in polemica con Kelsen, su di una categoria incompatibile con la logica dello stato di diritto quale è quella dello ãstato d’eccezioneã» [FERRAJOLI 1997, 44]. E sono forse proprio le pagine che Carlo Galli dedica a Schmitt [GALLI 2001] - che assieme ai significativi contributi di Domenico Losurdo [LOSURDO 2001], Claudio Cesa [CESA 2001], Jean François Kervégan [KERVÉGAN 2001], Nicolas Tertulian [TERTULIAN 2001] e Alberto Burgio [BURGIO 2001] compongono la sezione della raccolta che si propone di sviluppare il nesso sovranità/Stato nazione – che meglio mettono a fuoco quel tormentato dibattito che si sviluppa in Europa, e segnatamente in Germania, intorno agli anni Venti del secolo scorso sulle tragiche contraddizioni che attraversano il paradigma moderno della sovranità. Con passaggi rapidi ed essenziali Carlo Galli percorre le note opere del giurista tedesco nelle quali viene condensata la sua teoria della sovranità, facendone ben emergere i tratti più sintomatici, tra cui spicca sopra tutti quello di «origine». Per Schmitt, scrive Galli, «law needs a genealogy, that is, the comprehension of its origin. And the origin of law is sovereignty», la quale è appunto «decision over exception» [GALLI 2001, 463, 466]. Spiegare «la sovranità come decisione sul caso d’eccezione significa che l’ordinamento è a disposizione di chi decide; così, il sovrano, decidendo (…) non è semplicemente superiore all’ordine giuridico, ma ne è il creatore» [GALLI 1996, 338]14. L’età moderna è quindi compresa all’interno di una teoria che spiega la genesi dei moderni concetti politico-giuridici come secolarizzazione di concetti e categorie teologiche15, ma con la sostanziale e decisiva differenza che «mentre il miracolo, nella sua interpretazione tradizionale, è una eccezione in un mondo certamente disponibile all’intervento di Dio eppure in sé ontologicamente ben ordinato, al contrario la decisione sovrana come categoria del pensiero politico moderno prevede la crisi proprio di quell’ordine tradizionale» [GALLI 1996, 351], con la conseguente necessità di pensare la politica moderna come radicalmente contrapposta e in tragica discontinuità Figure della Sovranità 14 Cfr. comunque anche HOFMANN [1999]. 15 Sul punto cfr. anche 119 n.13 / 2005 con l’ordine giuridico pre-moderno. Lontano da questa esasperata cesura schmittiana è invece il nesso sovranità/costituzione che Maurizio Fioravanti ben delinea nel suo intervento [FIORAVANTI 2001], incluso assieme a quelli di Monica Charlot [CHARLOT 2001] e Sergio Dellavalle [DELLAVALLE 2001] nella sezione dedicata alla costruzione dell’Unione Europea tra sovranità nazionale ed identità culturale. Scegliamo di chiudere così queste note a margine della raccolta di Gian Mario Cazzaniga e Yves Charles Zarka sacrificando le due ultime sezioni - delle quali vogliamo almeno ricordare i contributi di cui si giovano e che appartengono rispettivamente a Marie Claude Esposito [ESPOSITO 2001], Marco Ridolfi [RIDOLFI 2001], Dionisia Franceschetti [FRANCESCHETTI 2001], Lucien Sfez [SFEZ 2001], Dominique Leydet [LEYDET 2001] e Luca Bacelli [BACELLI 2001] – perché, in un certo senso, un ragionamento che tenta di tenere assieme il problema della costituzione europea e la questione delle sovranità nazionali ci sembra il percorso più adeguato per una produttiva riflessione sul destino stesso delle nostre democrazie. Già alcuni anni fa Fioravanti osservava molto opportunamente che: in realtà, lo Stato di diritto delle costituzioni moderne diviene straordinariamente debole proprio quando si contrappone al passato medievale come frutto di un progetto autenticamente ãmodernoã, e si rafforza invece quando presuppone (…) l’antica iurisdictio, ovvero la nozione-base di costituzione come dato strutturale indisponibile da parte delle volontà politiche proclamatesi sovrane. (…) perché la costituzione che scaturisce dalla prassi è, da una parte, indisponibile da parte dei detentori formali del potere pubblico, ma dall’altra conserva in sé, e presuppone, le relazioni di base, di tipo plurale-conflittuale: è appunto equilibrio, e non sintesi organica [FIORAVANTI 1993, 73]. Nel tentativo quindi di interpretare la storia delle tradizioni costituzionali europee alla luce di una simultanea e parallela revisione della moderna categoria di ãstato sovranoã sta la prospettiva di lettura che emerge dalle riflessioni di Fioravanti su sovranità e costituzione che terminano con l’ambizioso, ma al tempo stesso indispensabile auspicio, che una costituzione dell’Unione europea possa essere pensata come «capable of keeping distinct within itself the various parts of which it is made up» [Fioravanti 2001, 526]. Vale a dire, in altre parole, essere in grado di riuscire a tenere assieme, o per usare il termine chiave della raccolta di Cazzaniga e Zarka, di penser, unità e molteplicità. Riferimenti bibliografici ALTHUSIUS J. (1981), Politica methodice digesta atque exemplis sacris & profanis illustrata, Herborn, 1614, rist. anast., Aalen, Scientia Verlag. ANDREATTA A. (1999), A proposito di politica e ragion di stato. 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Tale strumento ha permesso agli operatori economici, alle autorità politiche e amministrative di disporre d’informazioni rapide per orientare le loro decisioni. Non solo: il Cerved è stato un modello per la successiva informatizzazione dell’amministrazione pubblica e l’ammodernamento dell’apparato pubblico del nostro Paese, secondo standard europei. Inoltre, Volpato ha creato la società Interporto merci, individuando tempestivamente l’importanza del legame fra l’Interporto di Padova e il porto di Venezia. Queste due iniziative rivelano una chiara visione strategica degli strumenti necessari per avviare la crescita economica del sistema produttivo della provincia di Padova, tanto che questa città si è proposta, negli anni SettantaOttanta, come uno dei centri strategici dell’economia veneta. Tutto ciò è stato reso possibile sia dal fatto che Volpato è stato un valido matematico (ha insegnato per vent’anni tale disciplina a Ca’ Foscari di Venezia); egli ha sempre indicato i campi di applicazione della matematica, come l’economia; e ha trovato politici accorti che hanno compreso l’importanza dei suoi progetti e li hanno appoggiati. L’autore descrive con esattezza di particolari e riferimenti gli ostacoli e le incomprensioni incontrati da Volpato, e le diffidenze provenienti dagli stessi sindacati, ma alla fine il progetto è andato avanti, e l’Interporto è, oggi, il più grande d’Italia per movimentazione di merci. Ha fatto di Padova la capitale della logistica, mentre nessuno dubita più dell’uti- LINO SCALCO, Mario Volpato. Maestro e pioniere tra ricerca, politica ed innovazione, prefazione di Gilberto Muraro, Padova, Cleup, 2002, pp. XVIII657. Canestrini scienziato e uomo politico Nel febbraio 2000 si è svolto tra Padova, Venezia e Trento un grande convegno sul pensiero e l'attività (scientifica, culturale, politica) di Giovanni Canestrini, di cui ora escono gli atti. Ventitré studiosi di diverse discipline (biologi, storici della scienza, filosofi, storici) hanno analizzato questa figura, centrale nella cultura italiana della seconda metà dell'Ottocento. L'immagine tradizionale di Canestrini è quella del più autorevole traduttore e diffusore del pensiero di Darwin in Italia. Ovviamente questo importante aspetto è stato affrontato nel corso del convegno; ora però è emersa più nitidamente la figura dello scienziato che ha dato alla cultura italiana ed europea una notevole quantità di contributi scientifici, in particolare nel campo della zoologia, oltre che nella riflessione sull'evoluzionismo, di cui ha fornito una sua interpretazione facendone un utilizzo in vari campi del sapere. Infine c'è il grande organizzatore di cultura e l'uomo pubblico che per tutta la vita si è impegnato nelle battaglie civili e politiche nello schieramento progressista. Nato a Revò nella Val di Non il 26 dicembre 1835, Canestrini si è formato come zoologo a Vienna, dove nel 1858 ottiene la licenza per l'insegnamento della storia naturale e tre anni dopo si laurea. Insegna Storia naturale all'Università di Modena dal 1862 al 1869, anno in cui è chiamato a Padova nella cattedra di zoologia e anatomia comparata, 125 n.13 / 2005 dove rimane fino alla morte avvenuta a Padova il 14 febbraio 1900. Molti gli incarichi in istituzioni e commissioni di governo, e altrettante le iniziative da lui promosse nel campo delle scienze naturali; costante è stato il suo impegno sia nella divulgazione scientifiche che in quello politico: è stato consigliere comunale a Padova e ha partecipato ad alcune elezioni politiche. ln questo modo egli ha contribuito a far emergere una nuova generazione appena uscita dagli impegni politici e militari delle lotte risorgimentali, ma ancora troppo giovani per partecipare alla vita politica. Gli studiosi hanno sottoposto ad acute analisi i contributi schiettamente scientifici di Canestrini, nell'ambito del più generale dibattito sull'evoluzionismo in Europa e sui precedenti storici di tale orientamento. Segnaliamo alcuni degli interventi che hanno portato nuova luce su questioni finora non adeguatamente messe a fuoco. Gian Franco Frigo ha esaminato i rapporti tra il positivismo di Canestrini di stampo evoluzionistico e quello di Ardigò, il maggiore filosofo positivista italiano che insegnò nell'Università di Padova negli stessi anni di Canestrini, anche se fra i due studiosi non risulta esserci stato un rapporto di collaborazione. La formazione essenzialmente umanistica di Ardigò ha reso di fatto difficile un autentico confronto di idee, anche se le loro posizioni teoriche si inscrivono entro una comune filosofia naturalistica. Un contributo di grande interesse ha dato il biologo Alessandro Minelli, che ha esaminato gli apporti strettamente scientifici di Canestrini, come quelli su gruppi diversi di Pesci, Ragni e soprattutto Acari. Le sue ricerche vanno dalla tassonomia all'anatomia comparata, dalla faunistica alla zoologia applicata. Ciò che risulta più importante sono le ricerche condotte da Canestrini secondo il modello evoluzionistico; inoltre egli ha scorto, tra i primi, l'esistenza di rapporti del pensiero evoluzionistico con la problematica ecologica, allora agli albori. Renato Mazzolini, in una lunga e apprezzata relazione, ci ha detto come Canestrini confutò in termini persuasivi la teoria di alcuni pseudo-antropologi tirolesi, secondo i quali la maggioranza del Paese sarebbe formata da tedeschi che parlano italiano. Antonello La Vergata ha tracciato una ricca 126 tipologia del darwinismo sociale espresso dalla cultura europea e americana dall'ultimo ventennio dell'Ottocento al primo Novecento, rilevando come Canestrini si differenzi da alcune forme e usi del darwinismo sociale, come quello di Lombroso. Anche lo scienziato trentino ritiene che sia possibile utilizzare il modello evoluzionistico per interpretare le società umane. Egli sostiene che al posto della tradizionale formula della "lotta per l'esistenza" si debba parlare, per quanto riguarda la società, di "lotta civile" il cui scopo è una selezione "che chiameremo pure civile, di cui negli animali difficilmente potrebbe rinvenirsi un qualche indirizzo". Duccio Canestrini ha delineato l'immagine che lo scienziato trentino ha dato dei selvaggi, ritenendo erroneamente che l'anello mancante tra le scimmie e l'uomo risieda nel selvaggio boscimano. Antonio Guermani ha compiuto un'acuta analisi dell'opera di Canestrini Origine dell'uomo, in cui fra l'altro sono confutate le teorie di Vogt secondo cui esisterebbe una discendenza diretta dell'uomo dalle scimmie antropomorfe. Seguendo con rigore la teoria darwiniana, Canestrini avanza l'ipotesi dell'origine monofiletica delle razze umane, ossia da una stessa specie. In conclusione, da questo convegno emerge che Canestrini è stato un coerente evoluzionista e ha condotto importanti e innovative ricerche scientifiche entro questo modello esplicativo. Inoltre, ha pubblicato il primo manuale italiano di zoologia secondo il paradigma evoluzionistico. Sul terreno filosofico è stato un positivista che ha creduto nella "marcia trionfale della civiltà", quasi un dogma accolto da scienziati e filosofi, in un periodo in cui la scienza e la tecnica passavano di successo in successo. Canestrini ha avuto e mantenuto nel corso della sua vita un rapporto particolare con la sua terra, il Trentino, e con gli studenti che si recavano a studiare all'Università di Padova, che egli ha aiutato a integrarsi in quel difficile ambiente. Ne hanno parlato con abbondanza di dati e riflessioni Gino Tomasi, Graziano Riccadonna, Massimano Bucchi A. MINELLI e S. CASELLATO (a cura di), Giovanni Canestrini Zoologist and Darwinist, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2001, pp. VllI-605, 74 fig., 2 tab. Mario Quaranta Il binomio persona-economia Questo primo Quaderno della Fondazione Luigi Stefanini raccoglie gli atti di un incontro singolare fra sociologi, economisti e filosofi per discutere del Veneto, o meglio del Nordest, del peso e ruolo che può svolgere la cultura nel processo di crescita di questa parte del Paese su cui sono stati versati fiumi, è il caso di dire, di inchiostro. Nell'ampia relazione su Individualismo, localismo e imprenditorialità veneta, il presidente della Fondazione Giacomo Bernardi compie un'acuta analisi della situazione specifica di Treviso nell'ambito di un Nordest il cui dinamismo non conosce rallentamenti. Egli intende accertare qual è la situazione odierna e quali le prospettive di sviluppo di questa parte del Veneto nello scenario nuovo rappresentato dall'economia globale. La tesi centrale è che il “fenomeno Nordest”, per mantenere il trend di sviluppo e incrementarlo ulteriormente, nelle variazioni richieste dalla nuova situazione dell'economia mondiale, deve passare da fatto esclusivamente economico a fenomeno culturale complessivo. In altri termini, occorre che la crescita economica sia intesa essenzialmente come una partecipazione a un sistema “in cui le nostre scelte e i nostri comportamenti sono contemporaneamente applicazioni e fondazioni”. Ossia: un imparare per fare, ove il fare è l'elemento strategico di un processo caratterizzato da relazioni complesse e dinamiche, in continua evoluzione e ristrutturazione, per comprendere le quali occorre un'attrezzatura culturale di tipo nuovo. Il filosofo veneziano Giuseppe Goisis è intervenuto per ribadire una sua tesi fondamentale, ossia che “il nerbo della cultura d'Occidente” è espresso nel concetto di persona “come portatrice di una libertà responsabile, di una libertà originariamente pervasa, compenetrata di responsabilità”. In altri termini, la persona costituisce di per sè un valore basilare, che è “ad un tempo, universale e singolare, come sintesi vivente di un rispetto e di una cura da promuovere”. La centralità della persona è posta in relazione alle odierne tendenze verso una burocratizzazione del mondo e verso lo strapotere della tecnologia, che tende ad andare oltre l'originario progetto di dominare il mondo, estendendo tale dominio all'uomo. Segno Veneto Armando Rigobello, Gregorio Piaia e Renato Pagotto hanno affrontato un arduo e vitale problema: quali siano le caratteristiche della cultura veneta fin dalle sue origini (ossia fin dall''umanesimo), e in che senso essa possa contribuire all'odierno sviluppo economico. La tesi che i tre filosofi hanno sostenuto è che la visione veneta dell'uomo è la medietas, ossia il senso della misura, che significa “anzitutto la capacità di impostare in maniera equilibrata il rapporto uomo-natura”, oltre che “consapevolezza del limite, realismo, disincanto, rifiuto di facili entusiasmi” (G. Piaia). Rigobello ha sottolineato lo sfondo storico in cui si colloca l'esperienza culturale veneta, rappresentato dal ruolo di mediazione svolto dealla "Serenissima Repubblica, che costituisce ancora la vocazione culturale e morale della gente veneta", mentre Pagotto ha posto in luce la tendenza dei veneti a "sviluppare, mediante il lavoro, il senso della persona, anche indipendentemente dalla necessità del mantenimento della famiglia". In conclusione, in questo incontro economisti, sociologi e filosofi hanno trovato un terreno comune per stabilire una solida alleanza al fine di contribuire allo sviluppo complessivo del Veneto. G. BERNARDI (a cura di), Evoluzione e prospettive della persona nella cultura e nell'economia veneta del 20° secolo, Treviso, Fondazione Luigi Stefanini, 2000, pp. 127. Camicia rossa Ritorna in circolazione l’opera di Alberto Mario (1825-1883) La camicia rossa (l’ultima edizione è di vent’anni fa), in cui il garibaldino di Lendinara sceglie sei “episodi” cruciali della spedizione meridionale del 1860, cui partecipò da protagonista militare e politico, e di cui il curatore ci fornisce una lettura persuasiva, ponendo in evidenza i fatti, i dati e le considerazioni più significative. Bagatin, che di Mario è uno dei maggiori studiosi, curatore della più vasta scelta di scritti (Tra Risorgimento e Nuova Italia. Alberto Mario un repubblicano federalista, Firenze 2000), traccia un quadro esauriente della vita di Mario, della sua attività politica e pubblicistica, e della sua evoluzione politica: par- 127 n.13 / 2005 tito “albertista”, poi mazziniano, approdò al federalismo di Cattaneo. Inoltre, ci viene fornita una puntigliosa informazione sulla genesi dell’opera, la cui prima edizione fu quella inglese del 1865, curata dalla moglie Jessi White, che intervenne con tagli e aggiunte concordate con il marito. Il testo ebbe ulteriori integrazioni nelle due successive edizioni del 1870 e 1875, e in appendice sono indicate tutte le varianti; in un’altra appendice c’è un glossario, reso necessario dal linguaggio classicheggiante di Mario; una ragione, questa, che secondo il curatore rese meno popolare quest’opera all’interno della vasta letteratura garibaldina. “La camicia rossa, afferma Bagatin, non è strettamente memorialista autobiografica, genere che sarà proprio di altri scrittori garibaldini. Non è neppure romanzo storico tout court”; essa è modellata per episodi, per “quadretti di genere fiammingo, cavati dal vero”, secondo la stessa indicazione di Mario, che suggeriscono al curatore un paragone fra il clima stilistico dell’opera e l’antiaccademismo dei macchiaioli. I sei epiodi sono “alcuni frammenti della campagna meridionale” di Mario; insieme, ci danno un’idea precisa di cos’è stata quell’ardita impresa, quali gli ostacoli i garibaldini hanno dovuto superare, gli atti di valore ma anche le sconfitte, gli amori che sbocciano improvvisi e la morte di combattenti sperimentati e di giovani. E su tutti campeggia Garibaldi, che emerge per le sue doti umane, militari e politiche, che Mario delinea con sobrietà. “Nel memoriale di Mario, dichiara Bagatin, vengono celebrati un eroe e una idealità, ma la sua non è la cronaca di un risorgimento oleografico e nemmeno la controcronaca di un qualcosa che ha fallito l’obiettivo”. L’idea di un Risorgimento mancato o fallito è estranea a Mario, che da combattente continuò la sua battaglia per un’Italia repubblicana e federalista. Qui viene sfatata una delle più tenaci leggende storiografiche metropolitane, che ci hanno tramandato l’immagine di un Garibaldi grande tattico militare ma politicamente inadeguato. Ebbene, di fronte alle posizioni espresse da Mazzini, Mario e Cattaneo sulla conduzione politica della conquista dell’Italia meridionale, Garibaldi ne sceglie autonomamente una propria, esprimendo apertamente le ragioni militari e politiche che sono alla base del rifiuto delle loro proposte. E poi c’è l’incontro 128 di Garibaldi con il re, cui Mario è presente, e di cui ci fornisce una testimonianza che ancora oggi si legge con immutato interesse e partecipazione. “Prima veniva l’Italia, la patria”, conclude il curatore. “Al salto nel buio di altre opzioni (di Mazzini, di Cattaneo, dello stesso Mario) Garibaldi preferì scegliere per le due Sicilie le più forti mani sabaude”, anche se il comportamento del re e dei suoi generali fu, in questa occasione, particolamente rozzo, al limite della provocazione. ALBERTO MARIO, La camicia rossa. Episodi, a cura di Pier Luigi Bagatin, Treviso, Antilia, 2004, pp. LXII-191. Carteggi di Giuseppe Olivi Cinzio Gibin, che del naturalista chioggiotto è il maggiore studioso, ora cura gli epistolari con studiosi e amici, che consentono una più approfondita conoscenza di un un itinerario intellettuale scandito in tre periodi: il primo è caratterizzato da interessi letterari; Olivi ha scritto odi, sonetti, canzoni; il secondo, in cui egli è a Padova ove elabora la sua opera per la quale è ancora noto e studiato, la Zoologia Adriatica. Infine, un rilievo del tutto particolare ha il 1793, in cui le lettere riguardano quasi esclusivamente il dibattito sollevato dalla sua opera, le critiche espresse da alcuni studiosi come Lazzaro Spallanzani, mentre quelle dei due anni successivi sono incentrate sulla ricerca di un incarico universitario, che avrebbe dato al giovane scienziato sicurezza professionale ed economica; ma morì di tisi nel 1795 a soli ventisei anni. Particolarmente interessanti le lettere del periodo “padovano”, da cui emerge un’immagine di Padova e del suo Studio come centro di alta cultura, e dove Olivi potè intrecciare rapporti decisivi per la sua attività scientifica, come quello con Alberto Fortis. “Insomma, afferma Gibin, tra l’Accademia, la Società dei Filochimici e la frequentazione dell’intellettualità, Olivi ha trovato un ambiente rispondente ai suoi interessi”. CINZIO GIBIN (a cuara di), Lettere di Giuseppe Olivi (1769-1795), Edizioni Think Adv, Conselve 2004.