Lattanzio da Rimini (not. 1485 - 1527), Sacra Conversazione, Tavola, cm. 56,6 x 74,7. Acquisito nel 1993 (asta Fischer, Lucerna) dalla Banca Carim Spa. In deposito presso i Musei Comunali di Rimini ed esposto nel Museo della città. [email protected] Collaboratori del 1° numero, anno 2009/2010 Mario Alvisi – Stefano Bandiera – Andrea Bianchi – Elio Bianchi Pietro Giovanni Biondi – Stefano Cavallari – Angelo Chiaretti – Franca Fabbri Marani Roberto Fambrini – Antonio Galli – Giuliana Gardelli – Giovanni Gentili David Giuliodori – Lia Linari Toldo – Anna Mariotti Biondi – Franco Palma Maria Panetta – Eduardo Pinto – Lily Serpa Allison – Luigi Weber Progetto grafico e impaginazione Anna Mariotti Biondi Fotografie Mario Alvisi Vita di Club Anno lionistico 2009 – 2010 Numero 1 Rivista del Lions Club Rimini - Malatesta SOMMARIO: 4 5 Incontri Conferenze Conviviali Servizi Viaggi Curiosità Novità Ricordi Arte Musica Poesia Amicizia Solidarietà Mostre Musei Gastronomia Posta Attualità Chiacchiere Pensieri Brevi Lionismo Anniversari Ospiti Atmosfere Nostalgie Progetti 6 7 8 9 10 12 14 16 18 24 25 29 31 33 40 41 44 46 47 48 51 53 55 59 63 La pagina del Presidente Cari amici Lions Un poster per la pace Mondo Lions I Lions per la ricostruzione Special Olimpics Lions&Sport Il Premio “Gentile da Fabriano” Lions&Società Un Malatesta siculo Curiosità letterarie Parole da eliminare Curiosità linguistiche Ridiamo insieme Estate Lions 40° Compleanno dell’AIL Medicina &Società Il miracolo di Elisabetta Testimoni luminosi L’avventura del libro Pensieri&Parole Raffaello e Urbino Arte in Mostra Promuovere cultura Service Il saggio: La colonna infame Io: l’autore Polvere di Bagdad Teatro Polvere di Bagdad Inserto Una Madonna del ‘500 Un complesso devozionale in maiolica I Tesori di Rimini La soddisfazione del dare Meeting n. 1 Il mal di schiena: eziopatogenesi e terapia Fedeltà, obbedienza, onore Pensieri&Parole Paesaggi del cuore L’angolo della poesia La cultura militare Cultura&Società Santa Maria Nuova di Scolca Storia riminese La Fondazione “Tito Balestra” Arte in Mostra Carlo Malatesti Storia riminese La Festa della Bandiera Intermeeting Borgo d’arte e di sapori Rimini Provincia E ancora una volta è Natale Pensieri&Parole LA PAGINA DEL PRESIDENTE Cari amici Lions, dopo 25 anni di appartenenza al Lions e dopo aver ricoperto varie cariche negli anni, ho finalmente cominciato a conoscere da presidente il vero Lions. L’esperienza è gratificante e se supportata da amici bravi come i miei officers, non è assolutamente impegnativa; la piacevolezza dell’incontrarsi, il consolidare amicizie che fino ad ora erano superficiali, il condividere i problemi, le soddisfazioni dei risultati ottenuti ed anche le seccature che la gestione di un club comporta, fanno sì che un semplice gruppo di persone diventi una squadra. Ora secondo la tradizione dovrei elencarvi il tema dei meeting ed i service dell’anno. Scordatevelo, non mi piace programmare gli impegni a lungo termine, mi piace cogliere le opportunità man mano che si presentano, mi piace valutare l’opportunità di un service non dalla visibilità che può dare, ma piuttosto dal valore che può avere per chi ne beneficia. Sono contrario alle elargizioni a pioggia fatte per accontentare tutti, ma che in realtà non risolvono il problema di nessuno. Desidero fare dei service che siano rivolti alla nostra città, a chi è vicino alla nostra realtà dove malgrado l’apparente benessere esistono situazioni di grande disagio che con la discrezione del caso vanno affrontate. Quello che posso garantirvi è che faremo del nostro meglio per rendere piacevole e interessante questo anno sociale. Perché ciò sia realizzabile, occorrono da parte di tutti i soci, una partecipazione e una sensibilità verso le iniziative che saranno proposte dal consiglio, una presenza ai meeting che sia gratificante anche per gli ospiti relatori che, dedicando risorse intellettuali e di tempo a nostro beneficio, si aspettano quantomeno di avere un pubblico numeroso e interessato a ciò che noi li abbiamo chiamati ad illustrare. Il vero service, cui i soci sono chiamati, è la partecipazione alla vita sociale, a dare il proprio contributo anche quando la serata può non essere di massimo gradimento, ad attivare se stessi affinché la realizzazione di un’iniziativa non sia solo un mettere la mano in tasca; è troppo facile! Una piccola goccia portata da ciascuno di noi può dare origine a un fiume che tutto può travolgere. Aiutatemi a dare vigore al NOSTRO club, ne trarremo tanta soddisfazione e gratificazione; aiutiamo i nuovi soci a un miglior inserimento, impariamo a conoscerci meglio e a fare gruppo. Grazie dell’attenzione Il Vostro Presidente Antonio Galli 4 Vita di Club n.1 MONDO LIONS UN POSTER PER LA PACE L a pace e la fratellanza fra i popoli, la mano tesa verso colui che più soffre per indigenza o per salute, sono la missione e la ragione d'esistenza dei 45.000 Lions clubs di tutto il pianeta e dei loro 1,3 milioni di soci. Grazie a questo spirito e a questi sentimenti il Lions Club Rimini Malatesta, in collaborazione con gli altri Club distrettuali, ha l'onore di sponsorizzare e lanciare sul proprio territorio il concorso denominato “La Forza della Pace”. Obiettivo del concorso é la realizzazione da parte di ogni giovane concorrente di “Un Poster per la Pace”, ovvero, la propria visione artistica della pace globale. Il concorso internazionale che vede impegnati centinaia di migliaia di ragazzi di tutto il mondo, dagli 11 ai 13 anni, intende sensibilizzare, attraverso lo stimolo creativo e lo sguardo probo dell'adolescenza, le giovanissime generazioni sul tema della fratellanza etnica e della convivenza costruttiva fra i popoli. All'appello del Lions Club Rimini Malatesta hanno aderito le seguenti scuole medie inferiori di Rimini: “Panzini-Borgese”, “AlighieriFermi”, “Aurelio Bertola” e “Maestre Pie”, di cui ringraziamo vivamente le rispettive Direzioni Scolastiche che attraverso la piena collaborazione realizzativa hanno saputo cogliere l'importanza costruttiva del messaggio internazionale. Sarà ora la creatività artistica di ogni partecipante a definire il successo dell'opera realizzata, incominciando dalla propria scuola di Rimini un percorso selettivo che vedrà il vincitore ospite e partecipe alla Giornata Lions alle Nazioni Unite di New York con la consegna di un premio di USD 2.500. Il Lions Club Rimini Malatesta ringrazia sin d'ora tutti i partecipanti, certo che il tema posto in concorso possa divenire fonte di positiva discussione, confronto e riflessione fra le nuove generazioni. LILY SERPA ALLISON I LIONS PER LA RICOSTRUZIONE Dopo il disastroso terremoto che ha colpito l’Aquilano anche i Lions italiani progettano la ricostruzione. N el comune di Navelli è stato gravemente lesionato l’edificio del municipio che ospitava gli ambulatori medici, l’ufficio d’igiene ed il punto 118, e questi servizi sono stati trasferiti presso una tenda della Protezione Civile. L’edificio, classificato in classe “E” (totalmente inagibile), sarà demolito. I Lions hanno convenuto che la realizzazione di una struttura socio-sanitaria ambulatoriale potesse essere la concreta ed efficace risposta ad un bisogno reale e percepito, fruibile dalla popolazione dei piccoli comuni del Comprensorio, la cui popolazione è costituita da molti anziani che hanno grandi difficoltà a rivolgersi all’ospedale di Coppito per le prestazioni specialistiche, ad oltre 35 km di distanza. Al Congresso Nazionale di Ravenna è stato presentato e approvato il progetto per la ricostruzione. L’edificio del municipio che ospitava gli ambulatori medici dichiarato totalmente inagibile. 5 Vita di Club n.1 Il progetto dei Lions italiani. LIONS&SPORT SPECIAL OLIMPICS Straordinario successo a San Marino. di DAVID GIULIODORI G li Special Olympics hanno fatto tappa a San Marino lo scorso 11 e 12 settembre e il Lions International ha onorato questa particolare manifestazione con la sua presenza. Special Olympics è un programma internazionale di competizioni sportive per ragazzi ed adulti con disabilità intellettiva e motoria. Fu fondato nel 1968 negli Stati Uniti dalla Fondazione Kennedy per volontà di Eunice Kennedy Shriver, sostenitrice dei miglioramenti avuti da persone con disabilità intellettive in occasione dei Primi Giochi Internazionali tenuti a Chicago: questi ragazzi erano molto più capaci nelle attività fisiche di quanto molti atleti ritenessero. Tale convinzione sta prendendo sempre più campo anche in Italia e la “missione“ di questo movimento è quella di dare continue possibilità di sviluppo psico-fisico a questi individui facendo loro dimostrare coraggio e capacità di fare: tutto questo diventa motivo di gioia condivisa con i propri familiari, amici e tutta la comunità. Quest’anno le “Olimpiadi degli Atleti Speciali” si sono svolte nella Repubblica di San Marino in un’atmosfera di grande accoglienza e partecipazione. I 170 atleti italiani e stranieri, seguiti da tecnici, accompagnatori e familiari, sono stati accolti nella Cerimonia di apertura di venerdì 11 settembre dalle massime autorità della Repubblica. Dopo la tradizionale sfilata d’ingresso degli atleti in rappresentanza delle proprie squadre, gli Eccellentissimi Capitani Reggenti hanno dato lettura del giuramento ufficiale e poi, con struggente fascino, si è acceso il fuoco olimpico. Insieme alle massime autorità Sammarinesi erano presenti in rappresentanza del Lions Club: il Governatore Distrettuale Antonio Suzzi, il Presidente del Lions Club di San Marino Augusto Gatti, il Presidente del Lions Club Rimini Malatesta Antonio Galli, il Coordinatore Distrettuale per la Lions Clubs International Foundation David Giuliodori e l’Officer per il Comitato Conservazione della Vista Tommaso Dragani. Straordinario apporto e sostegno è stato dato dai volontari i quali, ispirandosi ai principi di solidarietà, hanno contribuito a migliorare le condizioni di vita di queste persone disagiate. In questo contesto il Lions Club, in collaborazione con la LCIF, ha allestito uno stand predisposto per l’esame gratuito della vista a tutti gli “atleti speciali” e ai loro accompagnatori. Lo screening visivo è stato effettuato su circa 70 atleti con la collaborazione generosa e infaticabile dei nostri valenti Oculisti: il Dott. Tommaso Dragani, la Dott.ssa Alessandra Brancaleoni e il Dott. 6 Vita di Club n.1 Francesco Luciani che si sono avvicendati durante tutto il periodo di svolgimento dei giochi. Questo speciale programma di sostegno nasce da un accordo tra LCIF e Special Olympics nel 2001 e si ripete con regolare frequenza ad ogni edizione dei giochi. Questa edizione denominata “edizione da record” ha trasmesso perfettamente lo spirito di Special Olympics: spirito che favorisce la crescita, l’autonomia e l’integrazione delle persone con disabilità intellettive. Un particolare ringraziamento va a tutti gli amici Lions che hanno collaborato e in particolare ai medici che hanno prestato gratuitamente la loro professionalità a favore di una grande attività di servizio. LIONS&SOCIETÀ IL PREMIO “GENTILE DA FABRIANO” Il riconoscimento, fondato da Carlo Bo nel periodo in cui era Rettore dell’Università di Urbino, giunto quest’anno alla XIII edizione, è suddiviso in quattro sezioni: Vite di Italiani; Economia, impresa e società; Carlo Bo per l’arte e la cultura; Scienze e innovazione. di DAVID GIULIODORI D a più di 13 anni nella Città della carta si svolge il prestigiosissimo premio “Gentile da Fabriano”. Quest’anno, in concomitanza con la Presidenza del Lions Club di Fabriano da parte di Paolo Notari, valente presentatore Tv che spesso vediamo nei servizi televisivi come inviato in belle località Italiane, mi sono recato a Fabriano per seguire la premiazione avvenuta il 17 ottobre. La cornice era quella delle grandi occasioni: l’Oratorio della Carità, sede della Confraternita della Carità di origine camaldolese, completamente affrescato dall’urbinate Filippo Bellini (1550 – 1603) con un ciclo pittorico di 15 affreschi dedicato alle conclusioni del Concilio di Trento (1545-1563). Il patrocinio del premio è dato dalla Presidenza del Consiglio del Ministri, dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, dal Comune di Fabriano, dalla Provincia di Ancona e dalla Regione Marche. In giuria, tra gli altri, il Presidente e Rettore dell’Università di Urbino, Stefano Pivato, il Direttore del Premio prof. Galliano Crinella, il Presidente della Regione Marche Gian Mario Spacca e il Senatore ing. Francesco Merloni. Dopo il saluto di rito da parte delle autorità civili e religiose (era presente per l’occasione anche il Vescovo di Fabriano S. E. Mons. Gian Carlo Vecerrica), il sindaco di Fabriano Roberto Sorci ha speso parole di elogio e di orgoglio per i premiati che sono stati: per la sezione “Ricerca Letteraria” Rodolfo Zucco, per la sezione “Scienza, ricerca e innovazione” lo scienziato di Fisica Nucleare fabrianese dott. ing. Gian Mario Bilei, per la sezione “Economia, impresa e società” l’industriale Gianluigi Angelantoni, per la sezione “Carlo Bo per l’arte e la cultura” l’autrice della trasmissione televisiva “Report” Milena Gabanelli e per la sezione “Vite di Italiani” il dott. Guido Bertolaso, Capo della Protezione Civile Italiana e Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. In verità, il Premio “Gentile da Fabriano” vanta da sempre illustri premiati che sono stati insigniti negli anni del prestigioso riconoscimento e tra gli altri cito: il maestro Claudio Scimone, don Luigi Ciotti, gli industriali Adolfo Guzzini e Antonio Berloni, Enzo Biagi, Vittorio Merloni, la Lega del Filo d’Oro, Ferruccio de Bortoli, Tina Anselmi e Sergio Zavoli. Ma quest’anno i riflettori sono stati particolarmente puntati sullo scienziato Gian Mario Bilei e su Guido Bertolaso. Gian Mario Bilei, fabrianese, è uno scienziato che 7 Vita di Club n.1 lavora da molti anni al laboratorio di fisica nucleare CERN di Ginevra. Il suo lavoro principale è quello di seguire gli sviluppi del famoso “Acceleratore di Particelle”, il più grande al mondo, che sta cercando di riprodurre un importante esperimento nella ricerca delle origini dell’Universo. Come sappiamo il grande “collider” ha avuto all’inizio alcuni problemi, ma nei prossimi mesi sarà di nuovo operativo e partiranno le sperimentazioni alla ricerca della particella preliminare e assoluta che dovrà darci la percezione delle origini dell’universo, un attimo dopo il Big Bang. Si sta cercando la particella elementare, mai scoperta, chiamata Bosone di Higgs e il grande acceleratore del diametro di 24 Km, piazzato a 100 metri sotto la città di Ginevra, dovrebbe rivelarcene la presenza. Gian Mario Bilei, con la sua semplicità espositiva e il suo carisma, ci ha portato con parole semplici all’interno dei misteri del collider e ci ha fatto capire l’importanza dell’esperimento e le grandi aspettative che in esso sono riposte. Per Gian Mario Bilei, alla presenza di tutta la sua famiglia, il premio è stato consegnato dal Presidente della Regione Gian Mario Spacca che, con simpatico siparietto, ci ha confessato essere con Bilei nipote dello stesso nonno… Poi si è passati a premiare Guido Bertolaso. Il Responsabile della Protezione Civile Italiana era reduce da un incontro con la Protezione Civile dell’Emilia Romagna che aveva salutato a Bologna poche ore prima di raggiungere Fabriano. I tremila volontari sono stati salutati e ringraziati poche ore prima della consegna del premio per quanto hanno fatto in Abruzzo per il terremoto e per la popolazione abruzzese colpita dal sisma. Come tutti sappiamo, anche il Distretto Lions 108A è stato in prima fila per quanto riguarda gli aiuti e la Lions Club International Foundation (LCIF) ha contribuito subito con L’Emergency Grant di 10.000 dollari per le prime necessità, in attesa di concretizzare un vero Service che potrà vedere i Lions protagonisti con fatti concreti di aiuto alla popolazione. Guido Bertolaso, molto emozionato, ha ricevuto il premio Gentile dalle mani del prof. Gaetano Crinella e la manifestazione ha così chiuso i battenti sotto l’attenta regia del bravo Paolo Notari. In conclusione, voglio solo aggiungere che premiare le eccellenze e valorizzarle è un dovere sociale e il Premio “Gentile da Fabriano” ha quest’anno veramente colto quali erano le vere eccellenze da porre sotto i riflettori per segnalare alla società che gli Italiani si sanno far valere in ogni parte del mondo, dal Cern all’intervento nelle calamità naturali, dalle trasmissioni di indagine reportistica ben costruite alla ricerca industriale e letteraria. Bravi a tutti e grazie per avermi invitato ad una così bella manifestazione. CURIOSITÀ LETTERARIE UN MALATESTA SICULO Di lettura in lettura… di MARIO ALVISI M alatesta, un nome magico per noi riminesi e per il nostro Lions Club, che appena lo leggo mi incuriosisce, soprattutto se citato su cose, scritti, pubblicazioni o altro che non siano delle nostre terre. Leggendo un libro di Andrea Camilleri, “La tripla vita di Michele Saracino”, improntato sul condizionamento di una vita umana a causa della scoperta che l’orologio della torre municipale era avanti di dieci minuti (tanti avvenimenti curiosi sono dipesi da questa differenza d’orario), ho trovato come protagonista anche un nobile personaggio: il barone Malatesta. Il libro racconta che il barone Malatesta nel fare testamento ai due figli impose al primogenito Giuggiù Malatesta una curiosa clausola: se entro le ore 5,00 di una certa data non avesse avuto un figlio “masculo” tutta la sua parte di eredità sarebbe dovuta passare al secondogenito! Al barone Giuggiù Malatesta nacque veramente entro l’anno prestabilito il figlio “masculo”. Cosa certificata da un notaio 8 Vita di Club n.1 presente al parto, che lo registrò all’anagrafe come avvenuto alle 5,05 del mattino, basandosi sull’orologio comunale. Ho riassunto l’episodio in italiano e non nell’incomprensibile ma simpatico dialetto siciliano, come lo è nel libro. Ebbene, vista l’ora della nascita, che non era quella testamentaria, cioè le 5,05 e non le 5,00 come imposto dal padre, il fratello minore impugnò il testamento e pretese di entrare in possesso della parte di eredità del fratello Giuggiù. Ma il barone Giuggiù Malatesta e i suoi legali vennero a conoscenza che l’orologio comunale andava avanti di dieci minuti, e, quindi, pretesero la restituzione dell’eredità, perché il figlio “masculo” era effettivamente nato non alle 5,05, come testimoniato dal notaio, ma cinque minuti prima delle 5,00! Poi la storia continua su ricorsi e contro ricorsi basati sulla veridicità degli orari. Ma ormai a noi il suo divenire letterario non interessa più. È però curioso apprendere che nella grande famiglia dei Malatesta ci sia anche un ignoto “siculo”: il barone Giuggiù Malatesta! È vero che Camilleri dice sempre che i personaggi dei suoi libri appartengono alla fantasia e non alla realtà, ma chissà come gli sia venuto in mente un Malatesta! Che si ricordasse della sua interessante partecipazione ad un nostro meeting sotto la presidenza di Nevio Annarella nell’ormai lontano 1999? Perché no! CURIOSITÀ LINGUISTICHE PAROLE DA ELIMINARE Che divertimento intrecciar parole… di ANNA BIONDI C i sono parole che vorresti eliminare dal vocabolario: la più terribile è “perdere”. Sia che si usi questo verbo nel senso di essere sconfitti oppure smarrire, è angosciante, destabilizzante. È consolante che non lo si usi fino ad una certa età anche se da bambina non puoi fare nulla perché non ti perdono d’occhio e tu perdi il conto delle occasioni mancate, delle avventure sognate in capo al mondo seguendo il filo dei pensieri sollecitati da mille letture. Anche se allora è difficile perdere il vizio di mangiarsi le unghie. Poi entra fisso nel tuo frasario quotidiano e sei persa… Te ne accorgi quando il tuo motore comincia a perdere colpi, quando perdi il passo rispetto alle più giovani, quando perdi lo smalto delle stagioni precedenti, quando perdi terreno. Se perdi il tram, l’autobus e l’ultimo treno, sei nessuno. Se cerchi di non perder tempo, ma comunque perdi il senso del tempo, perdi anche il lume della ragione. Perdere l’amore quando si fa sera è un guaio, ma ti può capitare di peggio: perdere il conto dei suoi tradimenti. Almeno da giovane perdi la testa o la tramontana se sei proprio innamorata. Ma ti può sempre succedere di perdere gli anni migliori. Quanta gente perdi di vista col passare del tempo e poi perdi semplicemente la vista! Prima non perdevi una battuta, poi ti ritrovi a perdere la memoria, i capelli, le occasioni, il filo, il sonno, il senno. Se perdi la vita sta’ sicuro che non muori di morte naturale o centenaria. Perdere la vita: ma che razza di eufemismo è? La perdi forse temporaneamente, l’hai smarrita in qualche buco nero cosmico? È dura la vita, ragazzi, c’è da perdere le staffe o la trebisonda, anzi no, questa nessuno la perde più perché tutti si sono dimenticati che esiste una città della Turchia che una volta fu persa∗. Magra consolazione, ti può capitare di perdere i chili di troppo e allora sei felice di perdere la gonna!!! Ma credetemi sulla parola: i chili sono l’unica cosa al mondo che si ritrova… ∗Trebisonda fu l’ultimo baluardo bizantino, l’ultima città dell’impero dopo la caduta di Costantinopoli (1453) e Mistra, l’antica Sparta (1460), a rimanere indipendente fino al 1461 quando fu conquistata dai Turchi. Anche Sigismondo Pandolfo Malatesti, al soldo dei Veneziani, partecipò alla crociata contro i Turchi in Morea (Peloponneso), ma dalla sfortunata impresa riportò solo la salma di Giorgio Gemisto Pletone. 9 Vita di Club n.1 ESTATE LIONS RIDIAMO INSIEME Il rispetto delle tradizioni estive vigenti ormai da quasi un ventennio prevede nel nostro Club alcuni appuntamenti fissi per il piacere di vedersi e farsi compagnia: la festa di mezza estate, il teatro a Sarsina. di ANNA BIONDI L a festa di mezza estate, pur dichiaratamente informale, è diventata quasi una replica della charter per il numero dei partecipanti, tutti hanno il piacere di incontrarsi, prima o dopo le vacanze personali, per raccontarsi, per preparare progetti per il nuovo anno sociale, per pensare a nuovi service, a nuovi eventi, per distribuire il terzo numero della nostra Rivista che conclude in questa data il passato anno e si accinge ad accogliere in redazione il nuovo Direttore, il nuovo presidente, con le sue idee e i suoi programmi. La funzione di “Vita di Club”, dal 2000 a questa parte, è quella di memoria storica degli eventi che di anno in anno coinvolgono da vicino o da lontano i soci nel contesto della loro città e del loro paese. Non tutti i soci si cimentano nell’esercizio di scrittura (chi diceva che oggi si scrive solo per far testamento o per mandare una cartolina dalle Seycelles?), c’è anche chi non ne ama nemmeno la lettura, ma la redazione e i generosi collaboratori free lance la ripropongono caparbiamente convinti che un club non debba sembrare una specie di società segreta; aprendosi al contesto in cui si realizzano i service si produce cultura lionistica e, sic et simpliciter, cultura. Chi la legge da sempre sa che i suoi articoli riflettono le tematiche dei meeting, le scelte dei collaboratori che variano col… cambio di stagione, e, di conseguenza, l’improvvisazione dei redattori chiamati a sopperire con fantasia, diligenza e creatività all’horror vacui della pagina bianca. A me che amo i toni leggeri e ameni della cronaca rosa sono destinate le pagine del divertimento e del disimpegno che vi propino con piacere. Nella cornice dello sport più signorile qual è il golf, tra estesi prati verdi e piscina ultraolimpica di un azzurro laccato, sotto un enorme candido padiglione, ai tavoli illuminati da romantiche candele hanno preso posto soci, familiari, ospiti, coinvolti, dopo il saluto del presidente Antonio Galli, in un’amabile, affettuosa conversazione come sempre accade ad ogni incontro. È stata un’esperienza piacevole e interessante anche perché abbiamo imparato, a tavola, il… segreto della snellezza dei VIP: un centro benessere in piena regola preposto alla remise en forme all’insegna del poco, cattivo e salato (nel gusto e nel costo). Ho premesso: ridiamo insieme. Per dimenticare la precedente costrizione dietetica abbiamo ripetuto la festa nella puntata a Sarsina, dedicata al teatro greco. Dopo aver ripassato in pullman origine (origine falloforica, cioè dalla processione, specialmente in onore di Dioniso, che accompagnava un simulacro fallico), etimologia (il termine commedia potrebbe derivare da kòmos (κῶμος), la "baldoria" simposiaca e dionisiaca, o da κώμη, che significa "villaggio" + οδή, "canto"), significato (la commedia aveva inizialmente una funzione apotropaica, cioè scaccia sfortuna ed era destinata al popolo meno erudito), struttura (si divide in 5 parti: prologo, parodos, cioè l’ingresso nel coro, agone, cioè l’introduzione del fulcro della narrazione, parabasi, esodo) e tematica (la commedia, a differenza della tragedia che si occupa del mito, prende spunto da argomenti quotidiani) della commedia greca, quella antica, di Aristofane per intenderci (successive la commedia di mezzo e la commedia nuova di età ellenistica), eravamo seriosamente pronti a spremerci il cervello pur di disseppellire dalla memoria ormai inattiva della terza età nozioni ahimè opacizzate dallo scorrere impietoso del tempo. Ma una faraonica cena, squisita (e a prezzo dimezzato rispetto la già citata), ha ben presto corroso la compostezza del colto pubblico che, dopo aver rispettato le regole del vivere civile nello splendido giardino del Palazzo di Piano, ha dato sfogo a ribalde incursioni nello scatologico sulla via di Sarsina. D’altra parte andavamo a vedere Le Ecclesiazuse (Ἐκκλησιαζοῦσαι) di Aristofane e 10 Vita di Club n.1 l’opera contiene la più lunga parola della lingua greca: un abnorme composto che si estende per sette versi per indicare il menù del banchetto che chiude la commedia: « λοπαδοτεμαχοσελαχογαλεοκρανιολειψανοδριμυποτριμματοσιλφιοκαραβομελιτοκατακεχυμενοκιχλεπικοσσυφοφαττοπεριστεραλεκτρυονοπτοκεφαλλιοκιγκλοπε λειολαγῳοσιραιοβαφητραγανοπτερύγων » che può tradursi così: «ostrichebaccalarazzetestedipalombofrattaglieinsalsapiccantedisilfioformaggiomieleverdatasutordimerlicolombipiccionigallettiarrostocefalicutrettoleleprimostardaalidasgranocchiareecavoli acenaconcontornodiocchidigabbianotrovatomortosullaspiaggidelmartirrenoecodadimaialeaffumicataimburrataesaltatainpadella ». E noi, che avevamo mangiato altrettanto, potevamo permetterci il linguaggio sboccato di Aristofane per entrare in sintonia con la sua commedia, andata in scena per la prima volta ad Atene tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio del 391 a.C. quando ormai la città era avviata al declino. Il contesto: in un’Atene rovinata dalla guerra, non c’è più un’organizzazione logica al governo, il commercio è in decadimento e i sicofanti imperversano. Stanche del governo degli uomini, che hanno condotto la città in rovina, le donne ateniesi, al comando di Prassagora, decidono di impadronirsi del potere. Un mattino, lasciati i mariti a dormire, travestite da uomini, escono all’alba per recarsi all’Assemblea. Essendo in maggioranza per l’assenza degli uomini, riescono a votare una legge che affida il governo alle donne. Mentre Blepiro e un altro concittadino commentano la scomparsa delle mogli, torna Cremete dall’Assemblea, che li informa dell’accaduto. Tornata a casa, Prassagora fa finta di niente e dice al marito di essere andata ad assistere una sua amica partoriente, ma poi gli rivela la verità, presentandogli il suo programma di governo: un “nuovo ordine” improntato alla abolizione della proprietà privata, alla comunione dei beni e alla liberalizzazione delle unioni fra i sessi, una sorta di stato comunista per intenderci. Tutto in comune, dunque, anche gli uomini. Basta ingiustizie verso le vecchie e le brutte. Ogni uomo, prima di andare con una donna bella, sia tenuto ad andare con le donne brutte, e viceversa. Questo è quanto racconta Aristofane, poi c’è quello che abbiamo visto… una divertente, esilarante, briosa farsa-musical-varietà da avanspettacolo dove in principio era… il sesso. In fondo Aristofane raccomanda proprio nelle "Ecclesiazuse": "Ai giudici voglio dare un piccolo consiglio. Quelli intelligenti, mi diano il premio per le trovate intelligenti: se ne ricordino. A chi piace ridere, me lo dia per le risate. Pretendo, insomma, che mi votiate in massa (o quasi!)". E noi abbiamo riso di e per la riduzione attualizzata e strapazzata delle Ecclesiazuse. È vero che la “cuntastorie” (Daniela Scarlatti) ha dialogato con gli spettatori creando un legame tra scena e pubblico come in Aristofane, ma il suo abito da Pierrot che... ακατιον (= albero maestro della nave) c’entrava? È vero che la commedia greca volentieri trattava di bisogni fisici, anche nel tentativo di esorcizzarli, ma la performance di… cacca del bel primo attore, Marco Minetti, (non nel senso che non sia stato bravo, ma per aver mimato impellenti esigenze fisiologiche) è durata per almeno un quarto d’ora prima di rilassarsi esplicitamente su un cacatoio. È vero che la licenza sessuale era un elemento tipico della commedia greca, ma come si fa a… sbavare per il servo Patané (Mario Patanè)? Intendiamo l’ironia e ridiamo di gusto. Bella, briosa Prassagora, con la sua sesta in vista, Debora Caprioglio nella inconsueta veste di cantante era come sempre maliziosa e conturbante e le altre attrici non erano da meno mentre danzavano e cantavano inneggiando alla libertà dei rapporti sessuali, con qualche inserto partenopeo che non guasta mai. Una godibilissima commedia leggera e brillante senza dubbio, anche se tra una risata e l’altra abbiamo perso di vista la serietà con cui Aristofane intendeva farci riflettere sulle miserie umane. O tempora, o mores, il riso fa buon sangue in ogni epoca... Maschera comica e maschera tragica del teatro greco. 11 Vita di Club n.1 MEDICINA&SOCIETÀ 40° COMPLEANNO DELL’AIL Sono trascorsi quarant’anni da quando nel 1969 illustri personalità come Albert Sabin, Susanna Agnelli, Alberto Marmont, Luigi Chieco Bianchi, Felice Gavosto ed altri decisero di costituire l’AIL, oggi Associazione Italiana contro le Leucemie, i Linfomi ed il Mieloma-ONLUS, con il nobile proponimento di sviluppare e diffondere la ricerca scientifica nel campo delle malattie del sangue. di EDUARDO PINTO (Presidente RiminiAIL) L a parola leucemia deriva dal greco λευκος “bianco”, αιμα “sangue”, letteralmente sangue bianco. La sua caratteristica è una rapida ed incontrollata proliferazione di cellule maligne che invadono il midollo osseo, il sangue e tanti altri tessuti del corpo umano. Per questa caratteristica è considerata un tumore. Esistono diverse forme di leucemie e quindi numerose sono le malattie che possono colpire il midollo osseo, i linfonodi e la milza, cioè tutti gli organi che partecipano alla produzione delle cellule che circolano nel sangue: i globuli bianchi, i globuli rossi e le piastrine. Vengono definite Leucemie Linfatiche quelle che interessano i linfociti; Leucemie Mieloidi quelle che colpiscono le cellule mieloidi. Le Leucemie Linfatiche si distinguono in Leucemie Linfatiche Acute, frequenti nei bambini, e le Leucemie Mieloidi Acute, più frequenti negli adulti, in particolare negli anziani. Completamente diverse sono le Leucemie Croniche. La leucemia Mieloide Cronica, malattia dell’adulto, è una forma caratterizzata da un cromosoma patologico, il “Cromosoma Philadelphia”, che viene curata con un farmaco “intelligente” e con risultati straordinari. La Leucemia Linfatica Cronica può essere di varie forme, da quella che può avere un andamento benigno e che non necessita di terapia, a quella molto aggressiva che va curata immediatamente. Le Leucemie possono colpire sia uomini che donne, dai bambini a soggetti molto anziani. I Linfomi sono tumori che originano nel sistema linfatico, all’interno del quale si trova la “linfa” che contiene tra l’altro i linfociti. Quando questi si sviluppano in modo anormale o non muoiono quando dovrebbero, possono accumularsi nei linfonodi, nella milza e in altri tessuti e proliferare, dando così origine a dei tumori. Si distinguono due gruppi principali di linfomi: il morbo di Hodgkin e i Linfomi non Hodgkin. Per quanto riguarda il Mieloma, è una patologia neoplastica dovuta all’accumulo di cellule immunologicamente differenziate che si chiamano plasmacellule; queste hanno la capacità di sintetizzare una proteina che si può ritrovare nel siero o nelle urine. Le cellule del mieloma hanno la particolarità di distruggere la matrice dell’osso creando delle lesioni che possono andare incontro a fratture patologiche. Il ruolo fondamentale dell’AIL è l’attività svolta dalle 80 sezioni provinciali a sostegno dei principali Centri di Ematologia, sia universitari che ospedalieri, su tutto il territorio nazionale. Le sezioni provinciali sono “Soci effettivi” dell’AIL Nazionale, alla quale versano una quota associativa annuale. Sono associazioni autonome sia da un punto di vista giuridico che amministrativo ed hanno competenza provinciale. Ogni sezione AIL dispone di un proprio Consiglio Direttivo e di un’Assemblea dei Soci e redige un bilancio autonomo. La loro forza è nel rapporto stretto e diretto con i Centri di Ematologia Ospedalieri o Universitari, con i malati e le famiglie, con le istituzioni locali, con i cittadini. Intorno a ciascuna sezione ruotano tantissimi volontari, grazie ai quali è possibile organizzare le principali iniziative nazionali “Stelle di Natale”, “Uova di Pasqua” e “Giornata Nazionale”; iniziative che sono coordinate dall’Ail nazionale che indica le strategie di comunicazione, ma anche molte attività locali di raccolta fondi e sensibilizzazione. I proventi di tali iniziative vengono trattenuti dalle sezioni e utilizzati per le esigenze del Centro di Ematologia di riferimento, per i Servizi di Assistenza Domiciliare e, laddove esistono, per le Case Ail, dove vengono ospitate le famiglie dei degenti durante le terapie che devono effettuare. I proventi vengono utilizzati inoltre 12 Vita di Club n.1 per il sostegno alle famiglie in difficoltà e per le diverse finalità associative. RiminiAil è sorta come sezione provinciale autonoma nel 1997 e molteplici sono stati gli obiettivi raggiunti, quali finanziamenti per contratti libero professionali rivolti a Medici, Biologi e Psicologi che operano o hanno operato nei reparti di Oncoematologia ed Oncoematologia pediatrica dell’Ospedale Infermi di Rimini. Negli anni sono state acquistate apparecchiature ad alta tecnologia per il trapianto di Midollo Osseo Autologo, che viene effettuato presso l’Ospedale Infermi di Rimini; un sequenziatore di DNA per l’Istituto Seragnoli di Bologna; diverse apparecchiature per il laboratorio di Oncoematologia dell’Infermi. È stato creato anche un Servizio di Emotrasfusioni a domicilio dei pazienti Oncoematologici in collaborazione con il Servizio trasfusionale dell’Ospedale Infermi di Rimini. A tal scopo alcuni anni fa è stata acquistata un’auto ed attualmente un Medico Ematologo del Reparto, il cui contratto è finanziato dall’AIL, effettua le trasfusioni a domicilio. Inoltre, vengono sostenuti, finanziariamente, quei pazienti e i loro familiari in evidenti difficoltà economica. Il quarantesimo compleanno dell’AIL è stato festeggiato nei giorni 5 e 6 ottobre con due avvenimenti importantissimi: l’inaugurazione della nuova sede del GIMEMA e l’accoglienza da parte del Presidente Napolitano al Quirinale. Il GIMEMA (Gruppo Italiano Malattie Ematologiche dell’Adulto) è stato costituito con l’obiettivo di promuovere e coordinare lo svolgimento di ricerche in Italia ed all’estero nell’ambito delle malattie del sangue, con lo scopo di aumentare la possibilità di cura e di migliorare la qualità di vita dei pazienti. Il Gruppo è nato nel 1982 grazie all’iniziativa del Professor Franco Mandelli attuale Presidente Nazionale dell’AIL e di altri sette eminenti Ematologi Italiani. Ad oggi il GIMEMA è composto da una rete di oltre 140 Centri di Ematologia diffusi su tutto il territorio nazionale. Il giorno 5 Ottobre alla presenza dell’Onorevole Gianni Letta e di altre illustri personalità del mondo politico e culturale, è stata inaugurata la nuova sede del GIMEMA. I lavori, per realizzare i nuovi Uffici, sono stati finanziati grazie alla solidarietà dei sostenitori dell’AIL. In occasione di iniziative di raccolta fondi (Maratone Rai e Mediaset, con la collaborazione dei principali gestori telefonici); grazie al contributo di due importanti Istituti bancari (Intesa San Paolo e Unicredit); grazie alla generosità di molte Sezioni provinciali AIL tra cui RiminiAil. Il giorno 6 ottobre una folta rappresentanza dell’Associazione, guidata dal Presidente Franco Mandelli, di medici, ricercatori, volontari, pazienti guariti o in cura, delle 80 sezioni provinciali, sono stati ricevuti dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che ha ringraziato il fondatore Professor Mandelli per aver raccontato la “storia della nascita dell’AIL”, che fa capire come sia essenziale poter combinare competenza ed autorità scientifica con l’umanità, la dedizione, e spendere le proprie energie per la causa della salvezza della vita umana. Significative le testimonianze di una Biologa Ricercatrice presso l’Istituto Seragnoli di Bologna, che ha brevemente esposto i passi da gigante che la ricerca ha fatto negli ultimi anni, donando la speranza della guarigione a tantissime persone. Molto toccante la testimonianza di una giovane donna che ha raccontato con grande coinvolgimento emotivo di tutti, la “Sua storia” di ragazza che improvvisamente da atleta si ritrova aggredita dalla malattia che la costringe all’immobilità assoluta, ma che con grande forza riesce, con l’aiuto di medici, psicologi, infermieri e farmaci innovativi a sconfiggerla ed a ritornare, come lei stessa ha affermato, “quella di una volta”. Tenera la testimonianza della responsabile di una casa di accoglienza AIL nella città di Roma, che, rimasta vedova giovanissima, da oltre venti anni dedica tutto il suo tempo all’organizzazione di questa casa che accoglie pazienti in attesa di trapianto e familiari che non hanno la possibilità economica di autogestirsi. A conclusione della festa il Capo dello Stato ha affermato che “Le porte del Quirinale ed i giardini sono sempre aperti ad iniziative di questa natura volte a servire soltanto l’interesse comune senza subire alcun condizionamento di interessi particolari e senza cadere nella spirale dello scontro politico. E non mi stanco mai di dire che l’Italia del volontariato, l’Italia della solidarietà, l’Italia dell’impegno civile è davvero l’Italia migliore”. 13 Vita di Club n.1 TESTIMONI LUMINOSI IL MIRACOLO DI ELISABETTA A 150 anni dalla morte, si tengono a Rimini e a Mondaino le celebrazioni conclusive dell’anno Elisabettiano, presiedute da Sua Eccellenza Mons. Francesco Lambiasi, Vescovo di Rimini. Esempio per tutti ed in maniera particolare per quanti operano nel campo educativo, la Beata Elisabetta, fondatrice delle Maestre Pie di Rimini, è un pressante invito a seguire le sue orme di amore e di fedeltà al Vangelo e di generoso servizio ai fratelli, nell'impegno gioioso del compimento dei doveri del proprio stato. di ANGELO CHIARETTI “I o porto colui che mi porta”: ecco il miracolo più grande compiuto dalla beata Elisabetta Renzi (17861859). L’aforisma, che si pone a metà strada fra l’annuncio profetico ed il dato esistenziale, testimonia il carisma straordinario di questa giovinetta, figlia delle ultime colline di Romagna che si affacciano ridenti e rigogliose sul Mare Adriatico. Elisabetta nacque, infatti, a Saludecio (RN), il 19 novembre 1786, secondogenita dopo Giancarlo, dalla famiglia mondainese dei Renzi, in un periodo in cui i fervori della prima Rivoluzione Industriale e dell’Illuminismo razionalistico già segnavano la via che il mondo occidentale, fortunatamente e/o sciaguratamente, avrebbe intrapreso di lì a poco. Si trattò di un passaggio epocale, durante il quale le coscienze si sentivano inquiete e le giovani generazioni, come sempre accade ed accadrà, erano alla ricerca di modelli culturali e morali cui ispirarsi fra il presente ed il futuro. Pensatori come Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Beccaria, Muratori, Goldoni e mille altri diffondevano il verbo dell’uomo cittadino del mondo (cosmopolitismo), mentre le monarchie aristocratiche europee tremavano al solo pensiero di doversi confrontare, per l’ennesima volta, con la crescente ondata rivoluzionaria della borghesia, fondatrice di una nuova politica economica liberale. Quando Elisabetta compì cinque anni, la sua famiglia (il padre Giambattista ha sposato la nobildonna urbinate Vittoria Boni) ritornò nel vicino ed originario castello di Mondaino (RN), dove il padre era amministratore del celebre monastero di Clarisse dedicato a S. Bernardino e S. Chiara ed il fratello aveva l’incarico di Priore della Compagnia del Crocifisso. Sono profondamente convinto che questo rientro sia risultato determinante per la bambina, poiché le sue clamorose scelte future andranno proprio nella direzione paterna e fraterna: all’età di 10 anni venne affidata a quelle monache affinché ne plasmassero dolcemente (Elisabetta riconoscerà più tardi che il regime di clausura era leggero: i parenti potevano far visita liberamente alle ragazze ospiti) il cuore e la mente, mentre la sua prima creatura di fede porterà il nome di “Povere del Crocifisso”! Era il 1796 e le truppe francesi di Napoleone Bonaparte avevano già invaso l’Italia, per “portare” Libertà, Fraternità ed Uguaglianza, e quando giunsero in Romagna il terrore si diffuse anche su queste ridenti colline: a tutti è noto il tragico incendio di Tavoleto (PU) perpetrato dai soldati del generale Sahuguet nel marzo 1797 al grido “Brusérons Tavolon!”, che comportò la morte di ben 22 civili e di un numero imprecisato di donne, murate vive in una grotta, che ancora attendono, dopo oltre due secoli, di tornare alla luce e di ricevere degna sepoltura. I sacerdoti delle parrocchie chiamarono a raccolta i fedeli, suonando le campane a martello e dando luogo al fenomeno dell’Insorgenza, illusorio tentativo di resistenza contro Napoleone, mentre nelle case si pregava e si invocava la protezione divina contro quel flagello di memoria biblica. Ogni Comunità possedeva il proprio Santo Patrono, cui affidarsi nei momenti di pericolo, ma Mondaino venerava un antico Crocifisso ligneo (forse di età malatestiana sigismondea) divenuto miracoloso nel 1560, quando staccò la mano destra dalla croce per assolvere i mondainesi dalle loro colpe e da certi atteggiamenti ideologici e politici non 14 Vita di Club n.1 Italia prima dall’Impero Napoleonico e poi dalla sempre coerenti. E di quel Crocifisso, come Restaurazione asburgica successiva al Congresso dicemmo, era Priore Giancarlo Renzi, fratello di di Vienna. Elisabetta cercava di svagarsi, di Elisabetta. Saranno state le preghiere, sarà stata isolarsi per meditare, forse non sapeva più che la protezione divina, saranno state le monete fare, ma due avvenimenti divennero per lei d’oro offerte ai Francesi, ma la conclusione è che risolutivi: dapprima la sorella Dorotea morì di Mondaino non subì la sorte di Tavoleto e di altri malattia all’età di 20 anni, paesi e città di Romagna (vedi quadro ex voto). poi la stessa Elisabetta La gioia per lo scampato pericolo dovette essere cadde rovinosamente da molto forte ed altrettanto il desiderio di cavallo mentre compiva ringraziamento, anche verso quel Crocifisso e una passeggiata nella tanto più per i Renzi, che già avevano goduto campagna di Mondaino qualche secolo prima del suo potere dove i Renzi avevano taumaturgico. A tal proposito ricordo molto bene numerosi poderi. di aver notato, fra gli ex voto malamente Immediatamente la contenuti in un sacco di plastica in canonica, un giovane, sempre sostenuta vistoso anello d’oro che portava incastonata una da don Corbucci, grande pietra di colore verde donata dalla interpretò questi due fatti famiglia Renzi e molto probabilmente come segni del cielo e appartenuta alla nobildonna Vittoria Boni, madre così il 29 aprile 1824 di Elisabetta (ma potrebbe decise di recarsi a essere appartenuto anche ad Coriano, nel riminese, Elisabetta negli anni attorno al dove esisteva un 1810, quando fu costretta a “Conservatorio” riservato tornare in famiglia). Ecco, a ragazze provenienti allora, come ho già scritto nel dalle classi più povere, mio libro “Il Crocifisso diretto da don Giacomo miracoloso” che la celebre Gabellini e da pie donne folgorazione provata da che si occupavano anche Elisabetta bambina di fronte al di educazione: Elisabetta corpo morente del Cristo, capì che quella era la sua andrebbe ascritta non al grande vocazione! Ed in ciò fu Crocifisso presente nel coro 20 giugno 2009: cerimonia di traslazione spinta a tal punto del monastero (oggi nel dell’urna della Beata. dall’opera e dal pensiero mondainese convento di della grande Maddalena di Canossa, fondatrice Monte Formosino) ma piuttosto a questo della delle “Figlie della carità” che avrebbe voluto Chiesa parrocchiale di S. Michele Arcangelo! annettere il Conservatorio di Coriano a quella Così Elisabetta trascorse l’adolescenza fra casa e istituzione. Tutto sembrava procedere per il monastero, ma quando compì 21 anni sentì il meglio, tanto che il 30 settembre 1826 desiderio di una vita religiosa maggiormente Maddalena di Canossa, nel corso di un fondata sulla meditazione e dunque il 25 pellegrinaggio a Loreto, fece visita alla settembre 1807 decise di trasferirsi nella fredda Comunità corianese: “Trovai una Comunità di Pietrarubbia, alle falde del Monte Carpegna, entrando nelle Agostiniane. Tale decisione fu angeli. Di molto spirito interno e che sono di tale sicuramente dovuta all’influenza del celebre compostezza e raccoglimento in chiesa che mi servono di confusione e di edificazione”. Queste sacerdote marignanese don Vitale Corbucci, suo le sue commosse parole di ammirazione. Poi, confessore spirituale, che a sua volta si era però, le cose si complicarono ed il progetto non portato su quelle aspre pendici, dalle parti di andò a compimento, così Elisabetta, forte della Pennabilli. Per tre anni la giovane sembrò aver sua fede, decise di assumere la direzione del trovato la sua condizione ideale di fede, ma il Conservatorio e di procedere autonomamente. Direttorio di Milano, il 25 aprile 1810, approvò Memore del miracoloso Crocifisso mondainese, la soppressione di monasteri e conventi e così fondò le “Povere del Crocifisso”: il suo ideale di per Elisabetta giunse il momento di tornare a povertà e di preghiera affascinava le giovani Mondaino, presso i genitori. Furono anni di generazioni, come se fosse una novella S. incertezza, ma anche di benessere, portati in 15 Vita di Club n.1 Chiara! Erano anche gli anni in cui muoveva i primi passi la nuova pedagogia, che vedeva nel fanciullo il centro del mondo educativo, e così Elisabetta, anticipando tutti ancora una volta, compì un nuovo miracolo: nel 1839 creò le “Maestre Pie dell'Addolorata”; e fu tutto un fiorire di nuove fondazioni: Sogliano al Rubicone, Roncofreddo, Faenza, Savignano al Rubicone e finalmente, nel 1856, Mondaino. Per l’occasione Palazzo Renzi venne abbellito con scene dipinte dai celebri Romolo Liverani e Antonio Mosconi, ispirate all’Antico e al Nuovo Testamento, in particolare alle mistiche nozze ed al grappolo d’uva (= il Cristo) portato con sé da Giosuè dalla Terra di Canaan. Qui, tuttavia, l’attendeva un’amarezza inaspettata, poiché nel frattempo il paese era diventato liberale, mazziniano e filogaribaldino: i genitori dei bambini affidati alle Maestre Pie ne contestavano i metodi educativi ritenuti troppo rigidi e severi. Ma Elisabetta seppe resistere ed imporsi, redigendo nel 1858 un ultimo e definitivo Regolamento delle “Maestre Pie della Addolorata”, raccomandando loro di avere sempre il Crocifisso a portata di mano come il viatico contro ogni difficoltà. Ormai aveva 72 anni e da tempo l’affliggevano insopportabili mal di gola, che ben presto si rivelarono una forma di tubercolosi. La sua sofferenza era massima, ma fino alla fine conservò lucidità ed energia, che le consentirono, spirando, di pronunciare quel suo famoso “Io vedo, io vedo, io vedo!”, che completava meravigliosamente il significato dell’iniziale “Io porto colui che mi porta”! Era il 14 agosto 1859. Da allora il miracolo si ripete quotidianamente nelle mille sedi che le Maestre Pie hanno aperto nel mondo, dall’Europa alle Americhe, dall’Africa all’Asia, sempre mirando a donare con generosità sorrisi e certezze in nome di Madre Elisabetta. Il 18 giugno 1989 Elisabetta Renzi è stata beatifica da papa Giovanni Paolo II nella Basilica di S. Pietro a Roma, dove a migliaia si erano dati appuntamento parenti, Maestre Pie, fedeli e cittadini dei paesi in cui il suo insegnamento continua più vivido che mai. Di tutto ciò saremo testimoni nella grande celebrazione che il Vescovo di Rimini, monsignor Francesco Lambiasi, terrà a Mondaino nella Chiesa Parrocchiale di S. Michele Arcangelo, proprio sotto lo sguardo del Crocifisso miracoloso, il 28 novembre prossimo in occasione del 150° anniversario della salita al cielo di Elisabetta. PENSIERI&PAROLE L’AVVENTURA DEL LIBRO I libri? C'è ancora qualcuno che li legge? Eppure sono una ricchezza inesauribile, un modo per conoscere se stessi e gli altri, un continuo stimolo a “pensare”, esercizio che talvolta sembra un po’ in disuso. di MARIO ALVISI A vevo interpretato l’articolo di Franca Marani “Il mondo in un libro”, pubblicato nel numero scorso, come una descrizione di emozioni e, in modo particolare, come riflessione da parte di una insegnante sulla bellezza della lettura. Quante sue letture durante le nostre gite di Club ci tengono avvinti non solo per i contenuti, ma per come ce le legge! Come lei stessa dice “la lettura permette di creare una estensione della realtà, trasforma il possibile in visibile”, “nella vita dell’uomo è un dono prezioso ed insostituibile” e “la lettura è il superamento del limite del reale, il tempo dell’anima, il magico dischiudersi di un mondo che ci consente d’attingere all’infinito”. Questi suoi pensieri, al momento della lettura, mi erano sembrati quasi ovvi, seppur manifestati con un linguaggio affascinante. In modo particolare ad uno come me cui piace leggere e guardare quasi quotidianamente la modesta biblioteca che ho in mansarda, ricolma non solo di libri, ma di pubblicazioni di ogni genere, cataloghi di mostre, vecchi libri di scuola, molta documentazione su Rimini e San Marino e tanta altra carta compresa quella dell’archivio del 16 Vita di Club n.1 nostro Lions Club dalla sua nascita nel 1981 ad oggi. E poi migliaia di immagini fotografiche che, in parte, sono simili a vere e proprie pubblicazioni, perché raccontano minuziosamente i miei viaggi. Poi l’apparente ovvietà è svanita mentre ero inchiodato su un letto d’ospedale, dove trovi tutto il tempo per leggere anche le righe più piccole e banali che ci propinano i giornali. Mi sono imbattuto in alcune notizie pubblicate a tambur battente, come succede spesso alla nostra stampa di accanirsi per un breve periodo su un fatto, per poi bruciarlo poco tempo dopo con uno nuovo. E cioè: “Chiude una delle più vecchie librerie di Milano, perché la gente legge poco e quella poca trova libri ovunque”, “Il nostro Paese tratta i libri come fossero matite o scatolette di tonno” e “Il Governo francese ha preso provvedimenti per sostenere le librerie storiche” e là sono tante: personalmente ricordo quelle tutte in fila di St-Germain des Près davanti alle quali passavo mattina e sera durante il mio recente soggiorno parigino. Per non dire delle tantissime bancarelle sul Lungosenna. E ancora: “Le biblioteche vanno sul web di Google” e “La Cina fotocopia il mondo e tutti i centri di lettura andranno in digitale”, perché, come dicono con le loro caratteristiche massime, il libro deve inseguire le persone, non viceversa! Ma la stessa Franca Marani ci dice che “il virtuale era già esistente”, “in modo più coinvolgente e più magico” e “perché apparteneva al lettore in modo del tutto personale ed unico, in quanto frutto della sua immaginifica creatività”. E Umberto Eco conferma: “non sperate di liberarvi dei libri; se dovessi lasciare un messaggio per il futuro dell’umanità, lo farei in un libro di carta e non su un dischetto elettronico”. Anche perché il libro funziona sempre anche in casi estremi e, dico io, anche senza la corrente elettrica. Nelle lunghe ore di degenza anche la lettura dei giornali non riusciva a riempirne tutto il tempo. Incominciava il momento della lettura dei libri. A portata di letto avevo anche un piacevole libro di Erri De Luca “Il giorno prima della felicità”. Un ragazzino senza famiglia, parcheggiato presso il custode di un vecchio palazzo napoletano, dove vi trova un nascondiglio segreto a tutti e con esso la storia della Napoli durante l’ultima guerra, gli insegnamenti del vecchio portinaio che “gli versa a cucchiaini” i racconti della vita della città e l’amore tragico di una ragazza “che vuole da lui la verità del sangue”. Tante pagine emozionanti che si leggono in un baleno. In una di queste ho trovato il motivo per scrivere questo articolo e riprendere i pensieri di Franca Marani. Ad un certo punto della storia il ragazzino, il classico “guagliò”, confessa di essere stato nel nascondiglio perché “mi piaceva il buio e c’erano i libri. Là sotto ho pigliato il vizio di leggere”. Ma la sua povertà non gli consentiva di comprare libri. Però dove abitava “ci stavano le botteghe dei librai che vendevano agli studenti. Fuori tenevano i libri usati in offerta sulle cassette di legno sul marciapiede”. Il ragazzino (l’autore lo lascia senza nome) cominciò “ad andare là, a prendere un libro e mettermi a leggere seduto per terra. Uno mi cacciò. Andai da un altro e quello mi fece stare”. Il libraio “Don Raimondo è un avventuroso, recupera biblioteche pure dalla spazzatura. Più spesso è chiamato in una casa in lutto che sgombera lo spazio del defunto”. Non è una immagine in bianco e nero dei film e delle commedie napoletane? Ma ancora più emozionante è il seguito. “Più di vestiti, e scarpe, i libri portano l’impronta”. Quella “impronta” è una immagine incredibilmente bella”. Gli eredi se ne liberano per esorcismo, per togliersi il fantasma. La scusa è che c’è bisogno di spazio, si soffoca di libri”. E la domanda del libraio è squisitamente napoletana “ma che ci mettono al posto loro, addosso ai muri col segno dei loro contorni?”. Chiudete gli occhi e pensate a quante volte può essere successo attorno o dentro di noi. E il libraio Don Raimondo, che ama i libri, continua e dice “Il vuoto in faccia a un muro, lasciato da una libreria venduta, è il più profondo che conosco. Porto via con me i libri mandati in esilio, do loro una seconda vita “. A me è venuta la pelle d’oca. Perché anch’io ogni tanto penso a quei “vuoti”. E mi dico: chissà cose ne faranno dei miei libri, delle mie raccolte, dei miei scritti, delle mie foto? Gli eredi sgombreranno veramente la mia mansarda? Spero di no. Mi auguro che i miei carissimi nipoti siano come quel ragazzino napoletano e si mettano a leggere i libri per terra, ma seduti sui più comodi tappeti e divani, seppur distratti da una televisione sempre accesa. E allora, per esorcizzare la mia paura, ho riletto l’articolo di Franca Marani, perché in esso c’è speranza per il libro, anche in futuro, perché “dove si eliminano i libri, si finisce per eliminare gli uomini”! 17 Vita di Club n.1 ARTE IN MOSTRA RAFFAELLO E URBINO Urbino non fu solo la città natale di Raffaello, ma determinò in modo significativo la sua formazione, restando per tutta la sua vita un punto di riferimento essenziale. di ANNA BIONDI R itornare a Urbino è sempre un’emozione intensa, tanto più se la associ al ricordo della giovinezza quando compivi gli studi universitari. Dal collegio delle suore ti inerpicavi di buon’ora per le ripide vie con la fretta di arrivare puntuale alle lezioni per non meritare lo sguardo di esecrazione del luminare di turno (Claudio Varese, Carlo Bo, Scevola Mariotti, Italo Mariotti, Bruno Gentili, Sandro Stucchi, Mario Zuffa, ecc. ecc.) A Lettere Classiche eravamo pochi e ti riconoscevano per nome. Al ritorno serale affrontavi la discesa a rotta di collo perché le suore, intransigenti quanto i professori, non giustificavano mai nessuno e, se superavi le 20, l’ora del coprifuoco, rischiavi di trovare il portone chiuso. È il primo ricordo che affiora, per contrasto, salendo con un ben più comodo e veloce ascensore che ti porta sotto gli immortali Torricini. Urbino, o meglio il suo centro storico, è sempre uguale, immobile nel suo incanto. Quando vi nacque Raffaello, “l’anno 1483 in venerdì santo (6 aprile) a ore tre di notte, d’un Giovanni Santi pittore non molto eccellente, ma sibbene uomo di buon ingegno…” (G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze, 1568), era già un capolavoro di bellezza. L’aria che Raffaello respirò da bambino, il connubio di quiete e armonia, di equilibrio e perfezione che ci ha trasmesso nelle sue opere, possiamo ancora assaporarli. La secolare bellezza di Urbino, rimasta intatta, affascina ancor oggi e noi siamo pronti a farci catturare dalla sua meravigliosa fisionomia, come dal groviglio di ricordi, di volti, di voci, che ti si affollano alla mente mentre cammini nelle vie strette col naso all’insù per ammirare quel lembo di cielo incastrato tra i tetti che la splendida giornata ci regala. E ti chiedi se se non sia proprio quell’azzurro che Raffaello vedeva nella sua infanzia quando nella bottega del padre avveniva la sua iniziazione alla pittura. Contrariamente a come lo presenta l’ipercritico Vasari, Giovanni Santi, cortigiano, umanista, pittore e letterato (autore della famosa Chronaca rimata, scritta nel 1492 in occasione delle nozze di Guidobaldo ed Elisabetta Gonzaga in onore del padre dello sposo, il duca Federico da Montefeltro, nella quale esprime con acuta intelligenza importanti giudizi sui pittori a lui contemporanei), era un personaggio di cultura straordinaria e di raffinata tecnica e faceva parte della dotta cerchia di artisti della corte dei Montefeltro. Da quando Federico, mercenario e mecenate, era salito al potere (1444-1482), il 18 Vita di Club n.1 Ducato di Urbino aveva assunto una funzione significativa all’interno del Montefeltro ed era riuscito ad occupare una posizione centrale nell’assetto politico degli Stati Italiani, contribuendo a preservare la pace stabilita a Lodi nel 1454. Federico aveva intrecciato rapporti di alleanza con il re di Napoli, con il pontefice, con la signoria degli Sforza di Milano e venne nominato capitano generale della Lega Italica. Anche fuori d’Italia era conosciuto ed apprezzato. Ricevette varie onorificenze, l’ordine della Giarrettiera dal re d’Inghilterra, dell’Ermellino da Ferdinando d’Aragona e nel 1474 il titolo di duca dal papa. Con i proventi delle condotte militari Federico perfezionò l’attrezzatura militare e civile dello Stato; in pochi anni il livello economico crebbe a tal punto che il Duca poté permettersi l’edificazione di un’opera grandiosa (il palazzo ducale) che inglobava tutte le strutture preesistenti di Quadra di Porta Nuova e del Vescovado situate a ovest dell’asse longitudinale della città e che costò 200.000 scudi (per l’argenteria ne spese 40.000, per gli arazzi 20.000 e per la biblioteca più di 20.000 ducati). Ebbene nel palazzo, anzi una "città in forma di palazzo", come la definì Baldassare Castiglione che ambientò nelle sale della corte di Urbino il suo Cortegiano, "secondo la opinione di molti, il più bello che in tutta Italia si ritrovi...", nel palazzo – dicevo - in cui Federico ospitò i migliori talenti letterari, artistici e scientifici del 1400, oggi è tornato Raffaello. La mostra che siamo venuti a visitare (noi sta per gruppo Lions con massiccia presenza femminile, vista la concomitanza con il Congresso di Ravenna) è allestita nel Salone del Trono e nelle sale dell’appartamento della Duchessa del Palazzo Ducale, sede della Galleria Nazionale delle Marche; espone i capolavori giovanili di Raffaello, 20 dipinti e 19 disegni originali, per ripercorrerne la prima formazione in rapporto alla grande cultura espressa dalla corte urbinate e soprattutto all’influenza del padre e di altri pittori a lui vicini nella fase giovanile (32 dipinti e 10 disegni). A Urbino lasciarono la loro impronta artisti come il Botticelli, il Pollaiolo, Melozzo da Forlì, Giusto da Gand. Per i duchi lavorarono Luca della Robbia, Piero della Francesca, Luca Signorelli e le loro opere non possono non essere state contemplate da un giovane Raffaello. Le prime opere in mostra costituiscono la scuola “elementare” di Raffaello, in primo luogo quelle di suo padre. Ci soffermiamo nel salone delle Veglie davanti alla prima opera esposta di Giovanni Santi commissionata dal duca Federico proprio per il palazzo ducale; otto tavolette che in origine, con altre quattro andate disperse, erano collocate in uno dei due tempietti che Federico volle vicino al suo studiolo, uno dedicato alle Muse ispiratrici delle Arti, uno dedicato al Perdono (era molto religioso e chiedeva che nei periodi di astinenza dalle carni tutta la corte rispettasse il digiuno). Santi svolgeva anche la funzione di scenografo di corte, perciò realizzava, in occasioni di feste, scenografie teatrali con figure, architetture, paesaggi ideali; da qui l’impostazione teatrale dei suoi personaggi. La musa ispiratrice di Bellezza ha qualcosa di Sandro Botticelli che, peraltro, come comprova un documento recentemente ritrovato, proprio nel periodo di esecuzione delle Muse soggiornò in casa Santi, e forse lo aiutò nella preparazione dei cartoni. Nativo di Colbordolo, dopo la conquista ad opera dei Malatesti, Giovanni Santi si trasferì ad Urbino; nella bella casa patrizia del centro storico con annesso laboratorio, oltre agli ambienti e agli arredi dell’epoca, si può ammirare un affresco giovanile di Raffaello (affresco staccato con la “Madonna e il Bambino dormiente”) e un mortaio in pietra in cui venivano prodotti i colori con sostanze naturali: erbe, fiori, foglie, polveri, pietre, minerali. Pur avendo scolpito nella mente il famoso “Autoritratto”, opera che incarna gli ideali del Rinascimento per equilibrio compositivo, limpidezza e purezza, ci incuriosiscono le sembianze di Raffaello piccolo: 19 Vita di Club n.1 nella pala Buffi “Incoronazione della Vergine” (commissionata a Giovanni Santi per la Chiesa di Montefiorentino dal conte Buffi rappresentato in ginocchio in veste di guerriero e custodita nella Galleria Nazionale delle Marche) la penultima figura a sinistra, un bambinetto di 8-9 anni coi capelli a zazzera che guarda distratto da un’altra parte rispetto alla scena religiosa, è Raffaello. Così come nell’ultima opera di Giovanni Santi, forse il suo capolavoro, la cappella Tiranni in San Domenico a Cagli, la tradizione vuole che sia raffigurato il figlio: è l’angelo a sinistra, che con espressione vivace volge lo sguardo verso il visitatore. Le opere appena nominate sono poste dai critici in relazione con la pala Ansidei di Raffaello della National Gallery di Londra per avvalorare il rapporto diretto di Raffaello con la pittura del padre; da sottolineare la rilevanza nella cappella Tiranni della straordinaria impostazione prospettica (il Santi nella Cronaca Rimata definisce “la prospectiva alta scienza acuta”), impostazione che egli riutilizza nella pala Buffi e che Raffaello riprende nella pala di San Nicola da Tolentino del 1500. Figlio d’arte dunque e, soprattutto, figlio della sua città. Il padre gli trasmise il suo sapere, cioè la cultura di uomo di corte e la visione lucida di attento estimatore della pittura dell’epoca, e la città, squisita e dotta, il culto della forma come espressione di una più armoniosa spiritualità e una concezione dell’architettura e della spazialità, che, presenti nel palazzo urbinate, riassumevano il modo di guardare la realtà di Laurana, Piero della Francesca, Leon Battista Alberti. Con la sua città natale Raffaello mantenne sempre stretti legami sia artistici che economici. Alla morte del padre nel 1494, Raffaello giovanissimo ne ereditò la fortuna e la bottega, mantenendola attiva con l’aiuto di Evangelista da Pian di Meleto, braccio destro di suo padre; era quindi, anche se giovanissimo, un ricco padrone di bottega cui non occorreva apprendistato, anzi nel 1500, a soli diciassette anni, nell’atto della commissione della pala della “Incoronazione di San Nicola” da Tolentino è indicato con la qualifica di “Magister”, a cui presto si aggiunge l’aggettivo “Illustris”. Proprio questa pala è la prima opera di Raffaello esposta; dipinta per la chiesa di S. Agostino di Città di Castello, ma inspiegabilmente smembrata dopo un terremoto che pure non l’aveva danneggiata, è stata assemblata per la prima volta in occasione della mostra. L’angelo con cartiglio in cui si legge una frase del Magnificat è un frammento proveniente dal Louvre, il bellissimo busto di angelo proviene dalla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, l’Eterno con cherubini e la Vergine 20 Vita di Club n.1 Maria dal Museo di Capodimonte di Napoli. S. Nicola è al centro con un libro aperto; la doppia aureola è retaggio del padre così come l’uso dell’oro è uno stilema paterno, ma ci sono già i colori corposi di Raffaello, il rosso, il blu e il verde, le ombre e le luci che si ammirano in opere splendide come “Il sogno del cavaliere” (National Gallery, Londra), tavoletta di cm. 17,5x17,5 eseguita tra il 1504 e il 1508, di argomento profano, un’allegoria sulla cui interpretazione i critici hanno discusso. Al centro del quadro c’è un albero d’alloro, che segna l’asse mediano. In primo piano c’è il cavaliere dormiente (Ercole nelle insolite vesti di guerriero? Un giovane principe come Scipione Borghese, nella cui famiglia il dipinto è rimasto fino al 1778 con le “Tre Grazie” (Chantilly, Museo Condé), tavoletta delle medesime dimensioni con cui formava un dittico? Oppure un omaggio che Guidubaldo dedica al padre Federico?) con il capo rivolto verso una donna (Pallade?) che tiene nella mano destra la spada e nella sinistra un libro; di fronte un’altra donna (Venere?) tocca una collana di coralli rossi sul ventre e nella mano destra, protesa, tiene un fiore bianco. Il paesaggio, mostra, sulla sinistra, una strada con tre cavalieri e in alto un castello con un campanile gotico. Sul lato destro c’è un lago attraversato da un ponte protetto da torri. Insomma un uomo al bivio, incerto tra virtus e voluptas oppure un uomo fortunato che possiede insieme fortezza, sapienza e amore (le due donne) e raggiunge la gloria (l’alloro) nonostante le difficoltà della vita (il paesaggio impervio)? Rapidamente rintracciamo nella memoria ciò che ci ha colpito di più. Su una croce processionale, dipinta fronte e retro in punta di pennello su foglia d’oro, vediamo l’impronta sicura di Raffaello per la visione anatomica perfetta del Cristo, un corpo che pesa e ha sul costato lacerazioni realistiche. Sul verso lo stile non realistico rivela un’altra mano. L’unica opera che appartiene a Urbino è una piccola “Santa Caterina”, rappresentata per la prima volta in atto di calpestare lo strumento del suo martirio, la ruota dentata da cui fu decapitata; ma la vera novità è lo sviluppo spaziale che dà il senso della profondità, i colori oro e nero sono quelli del casato montefeltresco (come nell’aquila dello stemma). Il dipinto doveva far parte di un trittico tenuto insieme da cerniere, ma le altre parti sono andate perdute. Forse il duca lo teneva sul comodino a mo’ di santino devozionale. Veramente nuovo il San Sebastiano, rappresentato non nudo né trafitto dalle frecce, con uno sguardo perso nel nulla. Seguono i ritratti dei padroni di casa: Guidubaldo, l’unico figlio maschio di Federico nato dopo sette femmine, cui, dopo la sua morte nel 1482, passò il potere, e la moglie Elisabetta Gonzaga. Guidubaldo veste panni di alto rango sociale: il robone e un cappello a cantoni tipico dei cardinali. La duchessa porta sulla fronte un curioso “gioiello”, uno scorpione, che può riferirsi alla credenza dei Gonzaga nelle proprietà terapeutiche della polvere di scorpione oppure alla sua collezione di animali in vetro; la collana le va dentro la scollatura, lettere islamiche inframmezzate a fiori di loto decorano il bordo della sua veste. Dietro i ritratti sono rappresentati un’alba e un tramonto, infatti i due duchi sono i primi e gli ultimi del casato; per questo il loro sguardo intenso ha accenti di malinconia. Nel 1504 il palazzo ducale viene occupato da truppe mercenarie, i duchi costretti a fuggire, sono finiti gli anni radiosi dei famosi cenacoli rievocati nel "Cortegiano" e di eventi come l’istituzione (1502) di quel Collegio dei Dottori riconosciuto dal Papa Giulio II nel 1507 da cui avrà origine la Libera Università degli Studi. Cresciuto in questo clima, il genio di Raffaello esigeva ormai 21 Vita di Club n.1 altri spazi, cosicché nel 1504, con una lettera di raccomandazioni di Giovanna Feltria della Rovere, probabilmente raffigurata nel ritratto “La Muta”, sorella di Guidubaldo e madre del piccolo Francesco Maria Della Rovere che, adottato dagli zii, diventerà l’erede di Guidubaldo, da Urbino partì verso i traguardi maggiori di Firenze e Roma. Le mani del ritratto sono considerate le più belle dell’arte italiana; l’analisi diagnostica ha rivelato che sotto questa immagine si trova un’altra versione di donna dai lineamenti più freschi, dall’abito più scollato. Vediamo invece una donna più invecchiata nel volto e dall’abito più austero. Forse il ritratto fu modificato da Raffaello a seguito della vedovanza della donna, Giovanna rimase vedova giovanissima e viene rappresentata per questo in modo meno idealizzato e più realistico nella sua semplice e riservata eleganza. Lo sfondo nero è usato probabilmente per coprire la presenza di Guidubaldo nella prima versione e i forzati riadattamenti, rivelati ad esempio dalla spalla non anatomicamente perfetta della parte destra. La muta ha in realtà ben poco di muto perché parlano i suoi occhi, la sua postura, i suoi abiti e gioielli. L’enigmatico dipinto, ove evidente è l’influsso della Gioconda, è specchio della società aristocratica del suo tempo; la veste, detta “camurra”, in panno e velluto di diversi colori, è di una signorile semplicità; anche i gioielli: l’anello con rubino (simbolo di prosperità), l’anello con zaffiro (simbolo di castità), l’anello figurato con motivi vegetali (una fede fiamminga), la catena con pendente a forma di croce, sono assai semplici e denotano scelte raffinate ed eleganti, ma pur sempre sobrie, incarnazione di quei valori classici di compostezza ed equilibrio sempre celebrati da Raffaello. Stupendo il quadro che viene da più lontano, da Washington, una meravigliosa Madonna, detta “Madonna Cooper” perché appartenuta a Lord Cooper, dai colori vividi e corposi: nel paesaggio sullo sfondo si intravvede a destra la chiesa di San Bernardino, la Madonna è in posa davanti ad un muretto, per la prima volta il Bambino fa il bambino e, con una complicità straordinaria con la mamma, si arrampica su di lei come su un albero, pestandole la mano. Altro meraviglioso capolavoro in così piccolo formato è la tavoletta della “Sacra Famiglia e agnello”, custodita al Museo del Prado di Madrid, dove prevale il giallo oro di influenza peruginesca e una reminiscenza michelangiolesca (Tondo Doni) nella impostazione; nel bordo della scollatura di Maria è scritto RAPHAEL URBINAS MDVII, il bambino con la collanina di corallo è a cavalcioni sull’agnello a significare che accetta il sacrificio supremo. Siamo incantati e usciamo dal palazzo ducale con una gioia stupefatta nel cuore; prima di questa mostra non avevamo mai pensato all’età del ragazzino quando realizzava quei piccoli grandiosi capolavori. Raffaello Santi, che aveva assorbito il Rinascimento nella città natale, che possedeva una straordinaria capacità di comprendere gli artisti con cui veniva in contatto e di riutilizzarne genialmente i temi, il precocissimo genio che la natura aveva dotato di un meraviglioso talento, era pronto a salpare per altri lidi e a diventare Raffaello (sic et simpliciter), immortalando Urbino come la sua città per antonomasia. 22 Vita di Club n.1 SERVICE PROMUOVERE CULTURA Il primo service dell’anno sociale 2009-2010 sotto la presidenza di Antonio Galli. di FRANCA MARANI M artedì 20 ottobre si è svolto a Rimini un evento di grande spessore ed interesse culturale imperniato sul tema “Colonna infame – Quando la follia diventa ragione di Stato” articolato in due momenti: al pomeriggio la presentazione di una nuova edizione del testo manzoniano Storia della Colonna infame a cura di Luigi Weber, un valente giovane studioso, assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna, e alla sera la proiezione del film di Nelo Risi: La Colonna infame. L’evento, organizzato dalla Pilgrim Comunicazione, in collaborazione con la Biblioteca Gambalunga e l’Assessorato alla Cultura del Comune di Rimini, è stato fatto oggetto del primo service del nostro Club che col suo contributo ha voluto sostenere questa importante occasione di promuovere cultura. Nella magnifica Sala del Settecento della Biblioteca Gambalunga, eccezionalmente aperta al pubblico, la professoressa Maria Panetta dell’Università “La Sapienza” di Roma ha introdotto con una prolusione molto interessante, ricca di riferimenti culturali e storici, la rilettura del testo manzoniano fatta da Luigi Weber, frutto di un lavoro intenso ed appassionato, di cui ha evidenziato la novità, l’accuratezza e la profondità di analisi. La Storia della Colonna infame, opera del Manzoni maturo, racconta in maniera analitica e critica un terribile caso di cronaca giudiziaria, vale a dire l’ingiusto processo ai presunti autori della peste del 1630, capri espiatori scelti quasi a caso per calmare l’opinione pubblica di una Milano sconvolta dall’epidemia. Questo testo, poco noto al grande pubblico, costituisce nell’intenzione manzoniana la vera conclusione de I Promessi Sposi cui è legato indissolubilmente nel progetto 23 Vita di Club n.1 dell’autore che qui condensa il suo più autentico pensiero, in quanto completa il famoso romanzo, ma al contempo lo mina all’interno attraverso un’analisi fortemente critica del processo. È un’opera di grande interesse che affronta temi di drammatica attualità quali l’esercizio della giustizia, l’uso della tortura, la violenza e il potere, il pericolo della psicosi collettiva intorno alla salute e alla malattia, la necessità di usare sempre la ragione anche di fronte all’urgere dei casi più allarmanti e molto altro. Luigi Weber ha catturato l’attenzione di un pubblico numeroso e interessato parlando in modo appassionato ed autorevole, mentre un grande attore come Silvio Castiglioni prestava la sua voce a leggere alcune parti del testo manzoniano con effetti di rara suggestione. Dopo l’incontro pomeridiano, in serata è stato proiettato in cineteca, all’interno della rassegna Rimini Cinema, il dimenticato film diretto da Nelo Risi e sceneggiato da Vasco Pratolini, del 1973, la cui visione è stata preceduta dall’introduzione di Luigi Weber e Riccardo Belotti. È stato un caso del tutto fortuito e fortunato il fatto che questo film, di cui esistevano ormai soltanto due copie, sia stato recuperato e riedito in versione digitale proprio in concomitanza con l’uscita del libro di Weber. È stato in tal modo possibile fruire di un approccio globale al testo manzoniano sia in ambito letterario che filmico, in una giornata di vero godimento spirituale. Ma lasciamo la parola a Maria Panetta e Luigi Weber, perché ci affascinino anche per iscritto come hanno saputo fare verbalmente. 1. SAGGIO: LA COLONNA INFAME Nel 1630, sul luogo ove sorgeva la casa di uno degli imputati del processo agli untori, il tribunale fece elevare una colonna commemorativa, per significare il corretto e severo corso della giustizia. Un secolo e mezzo dopo, in pieno clima illuministico, la colonna venne abbattuta. L'aggettivo «infame», col quale il Manzoni qualifica la colonna, sta a significare sia la posizione dei giudici che con quel termine vollero connotare la vergogna di cui si macchiarono i presunti colpevoli, sia - dal punto di vista di Manzoni - l'infamia dei giudici che, in connivenza con un potere corrotto e incapace di prevenire e di combattere la peste, perpetrarono un crimine giudiziario condannando degli innocenti. di MARIA PANETTA C om’è noto, Manzoni comincia a progettare il suo romanzo nel gennaio del 1821: ne abbiamo notizia perché comunica per lettera al grande amico Fauriel la sua intenzione di scrivere una “favola d’invenzione” a sfondo storico1. Solo nell’aprile, però, inizia la stesura vera e propria del primo capitolo, quello sul famoso curato, con il celeberrimo, poetico incipit che evoca il lago di Como. Che Manzoni fosse indotto a travalicare nella narrazione storica, partendo dalla scrittura poetica, lo si poteva già intravedere nella tragedia sul Conte di Carmagnola, apparsa a stampa nel 1820; questa sua attitudine si venne 1 Cfr. A. Manzoni, Lettere, a cura di C. Arieti, vol. I di Tutte le opere di A. M., a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, Milano, A. Mondadori editore, 1970, 3 voll., p. 227, lettera del 29 gennaio 1821. palesando nel Discorso premesso all’Adelchi (il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, sempre del 1820) e soprattutto nella nota Lettre à Mr. Chauvet, quella sull’unità di tempo e di luogo nella tragedia, epistola con cui nel 1823 lo scrittore intese replicare alle riserve che il critico francese Victor Chauvet aveva espresso sulla sua prima tragedia. L’idea che accomuna le tre suddette opere è quella che sia la scarsa attenzione filologica prestata alle fonti sia il pregiudizio ideologico che, nelle ricostruzioni storiche e nelle rivisitazioni del passato, tendeva a cancellare il fondamentale apporto delle masse andavano superati. Nel settembre 1823 Manzoni termina la prima stesura del suo romanzo, che porta, allora, il titolo di Fermo e Lucia, ma non ne è soddisfatto: per questo motivo dedica un 24 Vita di Club n.1 anno alla revisione del testo, studiando parallelamente gli scrittori toscani e consultando anche il Vocabolario dell’Accademia della Crusca. Quella che gli studiosi denominano la “seconda minuta” è un manoscritto molto tormentato, costellato di aggiunte, di tagli e di varianti: nel gennaio del 1825 approderà presso la tipografia di Vincenzo Ferrario, che darà il via alla stampa del primo volume dell’opera, che si concluderà – com’è noto – nel 1827, con la pubblicazione del terzo volume. Nel luglio dello stesso anno Manzoni decide di realizzare finalmente il viaggio che tanto ha desiderato e parte per Firenze, per la proverbiale “risciacquatura in Arno” della lingua adoperata nel romanzo; la revisione linguistica lo impegnerà per oltre un decennio, fino alla seconda e definitiva edizione del 1840, la cosiddetta “Quarantana”. È proprio in appendice all’edizione a dispense2 dei Promessi sposi iniziata nel 1840 che appare a stampa, per la prima volta nel 1842, la Storia della colonna infame, sebbene il progetto manzoniano risalga addirittura agli anni 1821-1823, quando l’autore l’aveva pensata come una delle tante digressioni interne all’impianto narrativo del suo romanzo (più precisamente, avrebbe dovuto far parte del V capitolo del IV tomo del Fermo e Lucia). Manzoni, tuttavia, ritenne, all’epoca, che tale lunga ekphrasis, che seguiva a un’altra sui tragici eventi della peste, avrebbe forse «fuorviato i suoi lettori» (per citare Lanfranco Caretti, nell’introduzione all’edizione della Storia della colonna infame da lui curata nel 1973 per Mursia)3. La Colonna infame è una lunga ricostruzione del famoso processo agli untori che si verificò in occasione della terribile peste del 1630, ampiamente raccontata nel romanzo, sia certamente come sfondo, sia come uno dei principali attori della vicenda. La Peste come attore, dunque. Come protagonista che, al pari di Renzo, di Lucia, di fra Cristoforo, del cardinale Borromeo, ha diritto a una digressione che racconti come è nata, come si è sviluppata, quali tracce ha lasciato di sé. La storia è nota: la medicina del Seicento ignorava la causa del contagio e, come sempre accade quando ci si trova di fronte a calamità insormontabili, nell’impossibilità di governare il caos che ne consegue e di spezzare la sequela ininterrotta delle sofferenze e delle morti, semplicemente si cerca un colpevole. Nel momento di crisi, spesso 2 3 Stampata dalla Tipografia Guglielmini e Redaelli. Cfr. l’edizione Milano, Mursia, 1973, p. 5. la società richiede il sangue di una vittima sacrificale, va alla spasmodica ricerca di un capro espiatorio che sconti tutto il Male dilagante e che dia agli uomini l’illusione irrazionale di placare l’ira degli dei: fosse anche quella del compassionevole Dio dei cattolici. Ed ecco spuntare la diceria che la peste sia propagata a causa di un non ben definito «onto», un unguento di cui alcuni individui, per loro loschi e incomprensibili scopi, vanno cospargendo case, strade, oggetti, vestiario etc. La peste del 1630 sterminò un terzo della popolazione di Milano; le autorità cittadine, trovandosi in seria difficoltà e non riuscendo a gestire la situazione né gli umori delle masse, alimentarono la “diceria dell’untore” (come avrebbe detto Bufalino), troppo impegnate anche a barcamenarsi tra le pressioni ricevute dai francesi e soprattutto dagli spagnoli, che allora dominavano. Pertanto, assodato anche ufficialmente che la “colpa” della pestilenza era da attribuirsi senza dubbio agli untori, si scatenò – come era accaduto tante volte, nella Storia, con le minoranze, gli ebrei, le streghe – una vera e propria “caccia all’untore”, che coinvolgeva tutta la collettività, in un clima di diffidenza generalizzata che induceva i cittadini a denunciarsi tra loro, solo sulla base di semplici sospetti (o a volte neanche di quelli). Manzoni, dopo un attento studio delle carte custodite negli archivi e degli atti processuali - che, per fortuna, non andarono perduti e che restano una testimonianza importantissima della follia collettiva che, a volte, si scatena a causa della paura -, ricostruì la vicenda giudiziaria che condannò a una morte atroce cinque cittadini milanesi - cinque innocenti -, con l’accusa di essere i responsabili dell’unzione pestifera. Ovviamente, altri indagati vennero assolti e rilasciati, solo perché garantiti da una migliore condizione sociale, che impediva al sistema giudiziario dell’epoca di perseguirli fino alle estreme conseguenze. Manzoni presenta, dunque, una pagina di storia del diritto penale, e si schiera sia contro i governanti sia contro i giudici che, pressati dalla volontà e dal furore popolare, condussero le indagini con evidente malafede e giunsero alle loro conclusioni basandosi solo su parole, e non su fatti; e soprattutto su accuse quasi sempre estorte tramite terribili pratiche di tortura. L’autore – come si evince anche dal romanzo – ha molto a cuore il problema della giustizia e, per questo, prende posizione in modo netto contro i 25 Vita di Club n.1 magistrati, che – pur nel loro ruolo di rappresentanti terreni dell’equilibrio e della razionalità, dell’equità e della legge positiva – si macchiarono della colpa gravissima di farsi coinvolgere dal clima di irrazionalità dilagante e di terrore di cui era preda il popolo. L’illuminista Manzoni non può perdonare chi è preposto a far rispettare la legge, e a far trionfare la dea Ragione sull’irrazionalità del Caos, per aver ceduto agli impulsi e alle passioni come una qualsiasi «donnicciola» (laddove la «donnicciola» Caterina Rosa, che compare nel I capitolo della Colonna infame come accusatrice, rappresenta ovviamente tutta l’umanità deteriore che, pur dotata di intelletto a differenza delle bestie, non ne fa uso e si fa sopraffare dai pregiudizi e dalle paure). E a questo proposito Weber, nella sua introduzione, sottolinea giustamente da un lato come i medesimi apparati giudiziari che condussero i procedimenti contro gli untori avessero, tra il 1617 e il 1620, istituito a Milano i processi di stregoneria (e dunque, si tratterebbe di un periodo storico in cui veramente – come si suol dire – si era “perso il lume della Ragione” e si procedeva per lo più sulla base di pregiudizi e superstizioni alimentati dall’ignoranza); d’altro canto, però, lo stesso curatore fa notare come – contrariamente a quanto affermato da Pietro Verri nelle sue Osservazioni sulla tortura – proprio a partire dal 1620 ci fosse stata una virata verso una maggiore prudenza nelle accuse, che – si stabilì – dovevano essere seguite da riscontri oggettivi e supportate da prove verificabili. Un panorama, quindi, molto complesso, in cui probabilmente il giudizio e la responsabilità individuale dei magistrati – aspetto su cui insiste moltissimo Manzoni – finirono per pesare ancor di più rispetto al passato, che era stato, invece, del tutto oscurantista. Come già accennato, il processo, che si svolse nell’estate del 1630, decretò, tra l’altro, sia la condanna capitale di due innocenti, Guglielmo Piazza (un commissario di sanità) e Gian Giacomo Mora (un barbiere), sia l’abbattimento dell’abitazione di quest’ultimo. Come monito, infine, venne eretta, sulle macerie dell’edificio raso al suolo, la “Colonna infame” che, appunto, dà il titolo all’opera; colonna che rimase in piedi fino al 1778, quando, dopo la pubblicazione delle citate Osservazioni sulla tortura, il monumento, ormai divenuto una testimonianza d’infamia non più a carico dei condannati, bensì dei magistrati che avevano commesso una palese ingiustizia, venne finalmente abbattuto. Nel Castello Sforzesco di Milano è conservata l’iscrizione in latino che descrive le terribili pene inflitte agli innocenti, lapide prima affissa proprio sulla colonna. Nella sua ricchissima e documentata introduzione, Weber chiarisce che, dalle ricostruzioni dei fatti compiute da vari storici, è emerso che, in realtà, le unzioni si verificarono realmente, ma che comunque non furono responsabili della trasmissione del contagio. E anche riguardo alla “leggenda degli untori” la prefazione all’edizione di questo testo fornisce ampi ragguagli e precedenti storici, dal presunto complotto dei lebbrosi per avvelenare le acque di pozzi e fontane (una diceria che nell’estate del 1321 sconvolse gran parte del Regno di Francia), all’accusa mossa agli ebrei (come poi a eretici e streghe) di aver contribuito al diffondersi della Grande Morte Nera, la peste che nel 1347 approdò al porto di Genova e da lì si diffuse per tutta l’Europa (lo stesso morbo che nel 1348 arrivò a Firenze e dal quale prende avvio, com’è noto, anche il Decameron di Boccaccio). A mio giudizio, però, il passo più importante dell’introduzione al testo di Weber e uno dei maggiori punti di forza di questa edizione è sicuramente la definizione del rapporto che la Colonna infame intrattiene con i Promessi sposi. Si è ricordato che la Colonna venne progettata come digressione del Fermo e Lucia; poi – precisa Weber – divenne un’Appendice storica, soppressa nella stampa del 1827, e infine una Storia «apparentemente autonoma, con un proprio frontespizio, in quella del ’42»4. Quest’ultima scelta potrebbe far pensare che tra il romanzo e la monografia storica ci sia solo una «generica parentela»5: e questo hanno, appunto, pensato moltissimi editori della Storia della colonna infame, che è stata per lo più pubblicata separatamente rispetto al romanzo (come, in effetti, accade anche in questa occasione, ma – evidentemente – non per volontà del suo curatore). Invece, Weber adduce, tra le altre, una convincente motivazione per la quale, a suo giudizio – peraltro assolutamente condivisibile, a mio parere -, la Colonna andrebbe pubblicata rispettando la volontà dell’autore, che l’aveva posta dopo l’ultimo capitolo del suo romanzo (il XXXVIII), ma rimandandovi già alla fine del XXXII: in quel luogo testuale, infatti, Manzoni precisa che «l’affare delle così dette unzioni di 4 5 Cfr. la p. XII dell’introduzione di Weber. Ibidem. 26 Vita di Club n.1 Milano»6 è quello più celebre e insieme il più «osservabile»7 rispetto agli altri processi agli untori tramandati dalla storia, «per esserne rimasti documenti più circostanziati e più autentici»8; e poi si preoccupa di spiegare che quella vicenda, data la sua importanza, può essere, a suo parere, «materia di un nuovo lavoro»9, e soprattutto che ha deciso di dedicare un intero opuscolo posto «in fine del volume»10 alla trattazione di quella storia, sia per scriverne «con l’estensione che merita»11, sia perché «dopo essersi fermato su que’ casi, il lettore non si curerebbe più certamente di conoscere ciò che rimane del nostro racconto»12. In sostanza, Manzoni sta affermando che, se inserisse a questo punto della narrazione una digressione sulla vicenda della Colonna infame, i casi storici sarebbero di maggiore interesse, per il lettore, rispetto a quelli della finzione romanzesca e, quindi, nessuno più si preoccuperebbe di sapere come si conclude la tormentata storia dell’amore tra Renzo e Lucia; indirettamente, poi, sta anche delineando una gerarchia di valori in base alla quale l’opuscolo finale assume, in realtà, un’importanza superiore al romanzo del quale sembra essere appendice, perché, anzi, ne contiene il vero «sugo». Per questo mi pare del tutto condivisibile l’opinione espressa da Weber riguardo al fatto che la Storia della colonna infame «appartiene indissolubilmente alla gran macchina del romanzo, e a un tempo la completa e la mina dall’interno»13: la completa perché nasce come una digressione storica esplicativa riguardo alla vicenda dei processi agli untori e alla peste che – come già detto – è una delle protagoniste dei Promessi sposi. La mina dall’interno perché, contenendone di fatto il «sugo», contribuisce a rovesciare l’apparente positività del finale del romanzo, in cui tutto sembra ricomporsi e i personaggi traggono le loro conclusioni affermando di aver imparato dalle sofferenze e dalle difficoltà che hanno incontrato per la via. Insomma, la “provvida sventura” che aveva fatto 6 Cfr. A. Manzoni, I promessi sposi, vol. II, to. II, saggio introduttivo, revisione del testo critico e commento a cura di S. S. Nigro, con la collaborazione di E. Paccagnini, Milano, Mondadori, 2002, p. 624. 7 Ibidem. 8 Ibidem. 9 Ibidem. 10 Ivi, nota *. 11 Ibidem, testo. 12 Ibidem. 13 Cfr. la quarta di copertina dell’edizione Weber. la sua comparsa nel coro dell’atto IV dell’Adelchi (con la morte di Ermengarda, noto brano lirico manzoniano di struggente intensità) perde, qui, la sua provvidenzialità, rimanendo solo e unicamente “sventura”, perché il pessimista Manzoni non crede nella giustizia terrena e nel buon senso degli esseri umani. Romanzo senza idillio, dunque, come asseriva Ezio Raimondi nel 197414; e, anzi, romanzo intrinsecamente tragico, nonostante il finale apparentemente risolutivo. Se, infatti, come sembra suggerire tra le righe Manzoni, di fatto l’explicit della vicenda non coincide con la fine del XXXVIII capitolo dei Promessi sposi, ma con la chiusa della Storia della colonna infame, il romanzo dei Promessi sposi si conclude sull’amara constatazione che a volte «una verità, dopo aver tardato un bel pezzo a nascere, abbia dovuto rimanere per un altro pezzo nascosta»15, ovvero sulla riflessione che «la gigantesca notizia falsa»16 cui accenna Weber nella sua introduzione – quella della gravosa responsabilità degli untori nella diffusione della peste di Milano del 1630 – sia stata considerata una verità per quasi 150 anni, prima di essere smascherata nella sua infondatezza. Ovviamente, se tutto ciò è plausibile come sembra, può definirsi un vero e proprio grave arbitrio la scelta di pubblicare un’edizione dei Promessi sposi priva dell’appendice che era stata pensata dall’autore e collocata alla fine dell’opera, non certo per marginalizzarla, ma, invece, proprio per conferirle un maggior risalto. Si sa, infatti, che incipit ed explicit di ogni testo ne rappresentano, comunque, dei momenti di forte pregnanza semantica; negli esordi e nelle conclusioni, infatti, si cela sempre il significato profondo di qualsiasi storia. Egualmente, un ulteriore arbitrio – come sottolinea giustamente Weber – è stato commesso anche da quegli editori che hanno eliminato del tutto il corredo iconografico o inserito nel testo dell’opera delle illustrazioni diverse da quelle che Francesco Gonin realizzò per la Quarantana. L’attenzione forte al rispetto della volontà autoriale che caratterizza l’appassionata presa di posizione di Weber riguardo a tale questione editoriale è uno dei numerosi indizi della competenza e della sensibilità filologica che lo contraddistinguono e che emergono anche da 14 Cfr. E. Raimondi, Il romanzo senza idillio: saggio sui Promessi sposi, Torino, Einaudi, 1974. 15 Cfr. l’edizione ETS 2009 a p. 92. 16 Ivi, p. VII. 27 Vita di Club n.1 questa edizione, condotta con l’usuale precisione e – proprio secondo il magistero manzoniano – con una fedeltà assoluta alle fonti. Il testo è stato corredato anche da un apparato di note linguistiche, storiche e di segnalazione bibliografica molto utili per la lettura di questo opuscolo che, per l’asprezza della materia trattata e per il gran numero dei riferimenti a personaggi e autori spesso poco noti, non è certamente di facile lettura. La bibliografia finale, poi, volutamente non raccoglie tutti gli interventi critici sull’argomento, ma solo un’accurata selezione operata dal curatore dopo aver realmente letto e valutato obiettivamente la rilevanza degli apporti della critica. Per questi motivi, ritengo che l’edizione della Colonna infame approntata da Weber rappresenti sicuramente un lavoro che eguaglia, per accuratezza e intelligenza, le migliori edizioni che, nel tempo, sono apparse sul mercato. Dopo il lavoro esemplare di Michele Ziino (del 1928) e quello di Giancarlo Vigorelli, comparso in pieno clima bellico, nel 1942, questo pamphlet ha conosciuto, nel dopoguerra, una crescente fortuna: da ricordare sicuramente l’edizione apparsa nel 1973 a Bologna per Cappelli, con una breve ma densa introduzione di Leonardo Sciascia, che si arricchiva anche degli appunti preparatori di una nota sceneggiatura filmica17 confezionati da Vasco Pratolini e Nelo Risi. Per Sciascia, interessato quasi più alla Colonna che ai Promessi sposi, la Storia costituisce una deviazione imprevista dal percorso tracciato dalla fede, percorso nel romanzo coerentemente seguito dal suo autore; e Manzoni decide di relegarla alla fine, come appendice, anche perché «sui documenti del processo, sull’analisi e le postille di Verri, Manzoni entrò, per dirla banalmente, in crisi. La forma, che non era soltanto forma, e cioè il romanzo storico, il componimento misto di storia e d’invenzione, gli sarà apparsa inadeguata e precaria; e la materia dissonante al corso del romanzo, non regolabile ad esso, sfuggente, incerta, disperata»18. A tale proposito, Weber nota acutamente come, scrivendo l’opuscolo, Manzoni avverta «l’obbligo morale di non inventare più niente»19, nel raccontare una vicenda in cui proprio una menzogna, una denuncia infondata aveva 17 Cfr. La Colonna infame, di N. Risi, con F. Rabal, H. Berger, V. Caprioli, L. Bosé, S. Randone, Italia 1973. 18 Cfr. L. Sciascia, “Storia della colonna infame”, in Id., Cruciverba, Milano, Adelphi, 1998, p. 130. 19 Cfr. la sua introduzione a p. XXXV. generato arresti, tormenti ed esecuzioni a catena. E in questo senso – aggiungerei – l’ossessiva presenza, nella Colonna, della parola “inverisimile” (che tanto terrorizzava gl’infelici arrestati perché faceva loro presagire l’imminenza delle torture, se pronunciata dai loro aguzzini in riferimento anche a due sole risposte nelle quali, a parere dei giudici, non erano stati esaustivi durante gli interrogatori) appare spia lessicale potentissima del rapporto che indubbiamente sussiste tra il romanzo (opera d’invenzione) e il suo rovesciamento (la narrazione di una vicenda storicamente accaduta); e anche prova della sostanziale subalternità del romanzo stesso alla sua appendice (ove l’inverosimiglianza viene, di fatto, condannata dai giudici), al punto che, se quest’ultima continua a mantenere un proprio chiaro significato, anche qualora venga presentata al pubblico autonomamente, i Promessi sposi, al contrario, perdono il loro senso più profondo se non sono suggellati dall’opuscoletto che ne reca la parola «Fine». Due altre valide edizioni cui accostare il lavoro di Weber sono quella uscita nel 1984 a cura di Carla Riccardi20, che propone anche la prima stesura del testo, e quella apparsa nel 1987 a Milano, con introduzione di Franco Cordero e commento di Gianfranco Gaspari, nonché con le suddette illustrazioni di Gonin21. Il volume appena uscito è il tredicesimo di una collana della casa editrice ETS di Pisa, diretta da cinque noti studiosi che fanno capo alla MOD, ovvero alla “Società italiana per lo studio della modernità letteraria”, un’associazione di cui fanno parte gli italianisti che si occupano prevalentemente di letteratura italiana moderna e contemporanea. Luigi Weber ne è un autorevole rappresentante, avendo offerto, a chi studia tali argomenti, già numerose prove della sua competenza e del suo acume critico: oltre a diversi saggi apparsi su rivista e ad altre importanti curatele, sono da menzionare almeno Usando gli utensili di utopia. Traduzione, parodia e riscrittura in Edoardo Sanguineti (Bologna, Gedit, 2004); Critica, ermeneutica e poesia dagli anni Sessanta a oggi (Ravenna, Allori, 2005); e Con onesto amore di degradazione. Romanzi sperimentali e d’avanguardia nel Novecento italiano (Bologna, Il Mulino, 2007). C’è da auspicare, dunque, che 20 Milano, Mondadori, 1984; ripubblicata nel 2009 negli «Oscar» Mondadori. 21 Ripubblicata nella «BUR» nel 2007. 28 Vita di Club n.1 questo fine studioso di Manzoni decida, prima o poi, movendo da questa, di regalare ai lettori anche una nuova edizione integrale dei Promessi sposi, da lui commentata, che faccia giustizia degli arbitri filologici commessi da tanti editori, esattamente come Manzoni fece giustizia delle menzogne che infangarono e condussero a morte degli “innocenti disarmati”. 2. IO, L’AUTORE Considerazioni di un ex allievo diventato professore. di LUIGI WEBER N on vorrei, giuro, apparire sfrontato, ma sono tentato di non parlare affatto, in questa sede, del Manzoni, sebbene per tal motivo io sia qui ora. Ne sono tentato per parecchie buoni ragioni, e intendo dedicare piuttosto queste righe ad altro. In primo luogo perché le aggiungo in appendice alla magnifica, puntuale e puntuta disamina del mio lavoro, nonché dell’intero percorso manzoniano, letta dalla professoressa Maria Panetta della «Sapienza» a favore prima dei tantissimi presenti alla Biblioteca Gambalunga e adesso, con un bis più nobile di quelli negati spocchiosamente da un qualsiasi Paganini, riscritta per voi lettori di «Vita di Club». A quella non sento davvero la necessità di addizionare altro, giacché ben di rado un curatore poté godere di un lettore/recensore più attento, più fine, più competente, e ciò nondimeno più generoso; sarebbe come azzardarsi a prender il pennello caduto a Tiziano in terra, come si racconta di Carlo V, nientemeno, in un celebre aneddoto, ma non per restituirlo al Maestro, come fece saggiamente l’imperatore sui cui terreni non tramontava mai il sole, no!, bensì per aggiunger due tocchi al ritratto medesimo, imbrattandolo irreversibilmente. Vorrei parlare, piuttosto che di Manzoni, di incontri, e così cercare di ricreare, almeno in parte, cosa sia stata per me quella giornata. Non per narcisismo. Al contrario, avvalendomi di queste pagine che il Lions Club ancora generosamente mi concede, per esprimere la mia gratitudine alle molte persone cui la devo. Alla mia professoressa, Franca Marani, prima di tutti, poiché ora come allora, quando nemmeno adolescente ascoltavo le sue lezioni appassionate, e imparavo una cosa che non mi avrebbe abbandonato più, cioè quanto sia importante vivere intensamente e con curiosità ogni momento, e quanto sia grande il mondo, e quante cose meravigliose contenga, e quanto ogni vita possa contenerne innumeri, da lei ho ricevuto un’altra, somma lezione. E cioè che non vi è mai insegnamento, non vi può essere, se non vi è ascolto dell’altro. Per parlare a qualcuno, chiunque sia, devi prima saperlo ascoltare, imparare la sua lingua, i suoi bisogni. Se c’è, inevitabile, una parte di coercizione nell’insegnamento, è solo con l’ascolto che la si redime e la si oltrepassa. E Franca Marani mi ascoltò sempre, fin dal giorno fortunato di tanti anni fa, all’inizio della seconda media, in cui le nostre vie si incrociarono. Mi ascoltò anche quando, con un ardire non comune, alla fine di un anno scolastico le scrissi una lettera personale chiedendole (a lei come coordinatrice) di riflettere sulla situazione della classe, e se fosse possibile non bocciare alcuni miei compagni il cui rendimento era, certo, evidentemente insufficiente, ma che nondimeno avevano manifestato segnali di progresso rispetto alla disastrosa situazione di partenza. Una perorazione molto ingenua, forse, ma argomentata, e comunque nata con assoluta fiducia, perché sapevo che alla mia prof. potevo parlare – l’avevo sempre fatto! – senza timori né filtri. Non fu merito mio, certo, ma quei compagni non furono bocciati. Quando, molto tempo dopo, mi trovai a mia volta su una cattedra, davanti a ragazzi delle scuole medie, cercai in ogni modo di instaurare lo stesso rapporto, tenendo sempre in mente quanto quel modello di ascolto era stato fecondo per me, per noi tutti. E scoprii che funzionava, sì, ma che era spaventosamente difficile instaurarlo e ancor di 29 Vita di Club n.1 più conservarlo. I ragazzi non si fidano facilmente degli adulti, specie di quelli in posizioni di potere rispetto a loro (genitori, insegnanti, medici, etc.); la mia prof. possedeva un tocco magico, evidentemente. Ma per me le cose non erano mai cambiate e così, venticinque anni dopo, con la stessa incoscienza e fiducia mi sono rivolto a lei perché sottoponesse al Lions Club la mia richiesta di aiuto nella realizzazione di una giornata manzoniana a Rimini. Aiuto che è giunto, e sostanzioso, e ora posso dire che l’evento culturale del 20 ottobre, con la presentazione congiunta del mio libro, la lettura di Silvio Castiglioni e la riproposta del film di Nelo Risi, è stato qualcosa di cui tutti dobbiamo andare fieri, dal direttore della Biblioteca Marcello di Bella che ci ha concesso le bellissime Sale Antiche, al sottoscritto, a Maria Panetta che è graziosamente intervenuta fin da Roma, a Silvio Castiglioni, a Pilgrim Comunicazione che ha sostenuto in modo brillante la parte organizzativa, portando in un giorno “debole” come il martedì un numero davvero inatteso di riminesi a partecipare a un evento in cui non c’era né da ridere né da mangiare né da ballare. Incontri, dicevo. Il secondo incontro folgorante fu, nell’estate del 1999, con il teatro, in una cittadella di sogni e visioni come Santarcangelo. Alla guida di quella meravigliosa nave dei folli, più sana e salutare di qualunque arida razionalità, vi era, allora, Silvio Castiglioni. La sua voce, più di tutti, mi stregò, fin dall’inizio. Castiglioni ha una delle più belle voci che io conosca, e il suo straordinario carisma d’uomo, di attore, di intellettuale, fluisce danzando lungo le note sinuose di quello strumento impareggiabile. Otto anni indimenticabili io lavorai a dirigere il giornale del Festival di Santarcangelo, e in quelli in cui lui fu il mio direttore, la mia stima e l’amicizia nei suoi confronti divennero assolute. Appena ebbi la fortuna, l’inverno scorso, di assistere al suo bellissimo spettacolo Il silenzio di Dio, sui testi di Silvio D’Arzo (Casa d’altri) e Fjodor Dostoevskji (la Leggenda del Grande Inquisitore, dai Karamazov), sentii che dovevo portargli in regalo il mio Manzoni, perché di quel Manzoni anche lui aveva bisogno, se aveva intrapreso un simile percorso. E quando Silvio lesse il libro, quando ci sprofondò a testa prima quanto me, quando ne sentì l’urgenza, la necessità, la sconvolgente bellezza, la desolata tristezza continuamente rincalzata di richiami all’impegno e alla responsabilità personale, capii che mai fiducia era stata meglio riposta. Gli chiesi di venire a leggerne delle pagine, per rendere vivo e vibrante il senso della mia interpretazione a un pubblico cui sarebbe parso – e lo fu – un dono specialissimo, quello di risentire finalmente la voce del nostro più grande scrittore depurata da ogni pregiudizio di bonarietà, ironia, distacco, paternalismo, agiografia spicciola. E lui lo fece. Un regalo immenso, per me e per tutti i presenti. Terzo e ultimo, definitivo, incontro, con Maria Panetta, a Siena, nel 2004, ad un convegno di italianisti. Avere, cinque anni più tardi, accanto a me la persona più speciale, l’intelligenza più penetrante e sensibile e multiforme che abbia incontrato nelle mie tante peregrinazioni accademiche per l’Italia, era un sogno che diventava realtà. La wahlverwandschaft, la goethiana affinità elettiva più perfetta che due anime possano aver la buona sorte di condividere, si esplicò quel giorno, e fui particolarmente lieto che fosse una eminente studiosa di Croce a starmi vicino parlando di Manzoni, perché come Croce e Manzoni sapevano sovranamente controllare il ribollire delle passioni umane e speculative senza spegnerle, semmai disciplinandole, analizzandole, convogliandole alla massima chiarezza senza mistificarle, così Maria mi insegna, ogni giorno, quanto un assoluto rigore morale e scientifico possa ancora darsi, in tempi e luoghi così corrotti e decaduti quali quelli dell’Università italiana di oggi. Se esiste nell’accademia una persona, anche solo una, così seria – nell’accezione più nobile e plurisemica possibile – non tutto è perduto per questo disgraziato paese. Vi fu poi, certo, l’incontro con il Manzoni. Due anni di lavoro profondissimo, che significarono per me la riscoperta, dentro la maschera apocrifa e fallace di un autore detestato, come accade a tanti, forse a tutti, ai tempi della scuola, di un autore, invece, capace di dar voce alle domande più radicali da cui mi sentivo attanagliato ogni giorno come studioso e come uomo. Un autore che ha scritto «il sangue d’un uomo solo, sparso per mano del suo fratello, è troppo per tutti i secoli e per tutta la terra» (nelle Osservazioni sulla morale cattolica) e «ogni finzione che mostri l’uomo in riposo morale, è difforme dal vero» (nei Materiali estetici), parole che sono, in brevissima sintesi, il memento di ogni mia giornata. Infine, rivolgo un pensiero necessario all’incontro, lontano e tuttavia vivo nella mia 30 Vita di Club n.1 carne, tra mia madre e mio padre. L’una sempre presente, in una forma suprema e incondizionata di sacrificio di sé, l’altro tragicamente da sempre assente, ma mai sbiadito in nessun modo. Mi sia permesso concludere allora, ripensando a quanti felici intrecci di vite quella sera del 20 ottobre ha riunificato, con le parole struggenti di Renato Serra, quelle su cui cala il sipario dell’Esame di coscienza di un letterato, che avrei voluto spendere accomiatandomi dalla Biblioteca Gambalunga, e che invece tenni per me, soffocato dalle troppe emozioni e da un forse giusto riserbo: «Che cosa ho io oggi di più sicuro a cui fidarmi, all’infuori del desiderio che mi stringe sempre più forte? Non so e non curo. Tutto il mio essere è un fremito di speranze a cui mi abbandono senza più domandare; e so che non son solo. Tutte le inquietudini e le agitazioni e le risse e i rumori d’intorno nel loro sussurro confuso hanno la voce della mia speranza. Quando tutto sarà mancato, quando sarà il tempo dell’ironia e dell’umiliazione, allora ci umilieremo: oggi è il tempo dell’angoscia e della speranza. E questa è tutta la certezza che mi bisognava. Non mi occorrono altre assicurazioni sopra un avvenire che non mi riguarda. Il presente mi basta; non voglio né vedere né vivere al di là di questa ora di passione. Comunque debba finire, essa è la mia; e non rinunzierò neanche a un minuto dell’attesa, che mi appartiene. Dirai che anche questa è letteratura? E va bene. Non sarò io a negarlo. Perché dovrei darti un dispiacere? Io sono contento, oggi». TEATRO POLVERE DI BAGDAD Il 5 novembre al Teatro Piccolo Arsenale è stata presentata la prima di “Polvere di Bagdad”, spettacolo diretto da Maurizio Scaparro, liberamente ispirato alle Mille e una notte, da cui il regista aveva già tratto negli anni passati uno spettacolo di grande successo con Massimo Ranieri come protagonista. L’adattamento teatrale è di uno dei più grandi poeti del Mediterraneo, Adonis, con integrazioni drammaturgiche di Massimo Nava, scrittore e giornalista che è stato corrispondente di guerra a Bagdad. Il cast vede come protagonisti Massimo Ranieri, affiancato da Eleonora Abbagnato, prima ballerina dell’OPERA di Parigi, oltre a quindici attori e musicisti italiani e del bacino del Mediterraneo. Le musiche originali sono di Mauro Pagani e si avvalgono della esecuzione di Tadayon Peyman, prestigioso suonatore persiano di oud e sitar. “Se oggi chiediamo a un giovane cosa gli evoca la parola Bagdad – ricorda Scaparro – sicuramente ci risponderà guerra, distruzione, violenza. Qualche anno fa forse quello stesso giovane avrebbe risposto Sherazade, Sinbad, Le mille e una notte. In pochi anni le guerre del Golfo hanno cancellato secoli di cultura e di storia che hanno fatto parte del nostro bagaglio culturale, soprattutto di noi italiani affacciati su quel mare che da sempre è stato punto di incontro tra Europa e mondo arabo; una perdita che ha creato un solco profondo fra queste due culture che, oggi, sembra non riescano più a dialogare”. di FRANCA MARANI I n nessun altro luogo meglio che a Venezia, città che affaccia sul Mediterraneo facendoci respirare l’Oriente, il regista amico Maurizio Scaparro avrebbe potuto allestire il suo ultimo lavoro teatrale, avvincente racconto che, in un alternarsi di parole, musica e danza, si snoda sul filo del contrasto tra le rovine di una città devastata dalla guerra (la Bagdad di oggi) e la magia della parola evocativa, viva, creatrice (la Bagdad di un tempo). È un’opera che si pone come momento conclusivo del progetto “Mediterraneo” alla cui realizzazione Maurizio Scaparro, in qualità di direttore del settore Teatro della Biennale di Venezia, ha 31 Vita di Club n.1 lavorato per ben due anni (ricordate quando ce lo presentò?) con iniziative e spettacoli volti ad esplorare questo mare inteso come punto d’incontro per la diversità delle idee e delle culture degli abitanti delle terre che vi si affacciano sul filo della parola, del racconto, dell’affabulazione, di cui le “Mille e una notte” sono un esempio emblematico. Prima che il sipario si alzi il Maestro con quella sua naturalezza comunicativa, fortemente sentita nella sua essenzialità, semplicemente in piedi davanti alla prima fila a sottolineare la sua appartenenza a quel pubblico che lo ascolta, saluta la sua Venezia ed i Veneziani ringraziando per non essere mai stato considerato come foresto (né, d’altro canto, egli si è mai sentito tale) e promettendo, come l’Anzoletto goldoniano di “Una delle ultime sere di carnovale”, di portare Venezia sempre nel cuore e di ritornare. È un commiato, non un addio. Già intimamente coinvolti da questo discorso – il coinvolgimento emotivo si esprime in un prolungato e caloroso applauso – ci apprestiamo a farci ammaliare dal suo nuovo lavoro. Lavoro nuovo per impostazione e realizzazione, un lavoro senza confini fatto di narrazioni incantate, dialoghi struggenti, scene animate, musiche suggestive, danze vorticanti e canti coinvolgenti che si fondono a creare uno spettacolo sorprendente. “Polvere di Bagdad”: polvere di bombe o polvere di stelle? Polvere soffocante dello squallore delle rovine di edifici smembrati e distorti presenti in scena o polvere scintillante di una cultura millenaria fatta della magia della parola? La voce di Massimo Ranieri, col suo invito ad ascoltare storie, echeggia potente e suadente insieme a ricreare l’incanto di novelle in cui passato e presente possono ritrovarsi e fondersi. Polvere tragica in una Bagdad devastata dalla guerra, sogno incantato nel ricordo della Bagdad di un tempo, rievocata con voce nostalgica da un vecchio professore, e nella fascinazione dei racconti di Sherazade che, ammaliando il sultano, ha allontanato la morte, notte dopo notte, come ora l’affabulatore, ammaliando gli ascoltatori, allontana la realtà della morte incombente. È l’incantesimo delle storie, della parola creatrice, generatrice e rigeneratrice, del superamento del reale per attingere alla fascinazione dell’irreale, del magico, del fantastico, della luminosità delle stelle d’Oriente ora offuscate - non cancellate dalla luce dei bombardamenti. Pura poesia in quel narrare senza confini che è insieme parola, musica e danza: sulle note delle musiche di Mauro Pagani, delle melodie del sitar e dello oud fatti vibrare da Tadayon Peyman il cantastorie Massimo Ranieri e l’étoile Eleonora Abbagnato ci regalano momenti indimenticabili. Un grande Massimo Ranieri, artista poliedrico ed infaticabile, sa narrare con intensa e profonda partecipazione alternando parole suadenti ai ritmi incalzanti di una vivace gestualità, facendosi egli stesso ora pescatore siciliano che sa beffare il demone rinchiuso nell’anfora, ora Sinbad il marinaio protagonista di mille prodigiose avventure. Un’incantevole Eleonora Abbagnato evoca altri personaggi ed altre novelle confrontandosi con un genere di danza nuovo per lei in cui si esprime ora con movenze di armonica e sinuosa perfezione, ora con inesauribili volteggi vorticosi che paiono protrarsi all’infinito. In un alternarsi di armonie di parole, suoni, movenze e danze e di dissacranti rombi di bombe e di incursioni aeree si arriva alla suggestione finale della figura dell’affabulatore che con la magia della parola tutti intorno a sé raccoglie, a raccontare e reinventare sempre nuove antiche storie e a tessere sempre nuovi antichi incanti. E mentre la voce si fa sussurro la luce piano piano decresce fino al buio non già a spegnere, ma ad eternare all’infinito la magia dei nostri sogni e delle nostre utopie, l’inesauribile incanto della parola e della poesia, il miracolo di una rinascita possibile ed annunciata. “Dalla cenere nasce la rosa”. È questa la storia avvincente cha a noi in una notte veneziana ha narrato Maurizio Scaparro realizzando quel disegno di cui ci aveva parlato lo scorso anno a ferragosto, quando, mentre fuori infuriava il temporale, già ci attirava dentro il progetto con la magia della sua parola. 32 Vita di Club n.1 I TESORI DI RIMINI LA MADONNINA DI MACANNO Un interessante studio su un eccezionale complesso devozionale in maiolica, opera d’arte di bottega artigiana riminese della fine del ’500 che giace nel Museo della Città di Rimini in attesa di una collocazione che le dia maggiore visibilità. di GIULIANA GARDELLI L’inizio della storia Nel 1883 una maiolica devozionale molto articolata con le date: 1589-1590 e 1599, formata da tre elementi diversi fra loro per epoca e stile, ma uniti in un adattamento che forma un complesso di notevole importanza, fu tolta dal muro della casa colonica di un podere chiamato “Madonnina”, a 1 Km da Rimini sulla strada per Coriano, che apparteneva alla Congregazione di Carità. Così aveva voluto il suo Presidente, conte Graziani Cisterni, che la fece trasportare nella residenza in città, perché “…fosse sottratta colà alla crudeltà degli elementi e fors’anche a quella maggiore degli uomini, dalle mani dei vandali e iconoclasti moderni”, come si legge su “Italia. Periodico Politico e Letterario Riminese” del 1920 maggio. Il podere da cui proviene la targa si trova registrato fra i beni appartenenti all'Ente Ospedaliero di Rimini per volontà del canonico Don Bartolomeo Zelas, morto nel 1689; egli con il testamento del 1688 aveva legato tutte le sue proprietà all'Ospedale della Misericordia. Lo Zelas nel testamento indica con meticolosità l'atto notarile di un personale acquisto di botteghe, per cui si arguisce che il resto dei suoi beni gli era pervenuto da eredità familiare; non sappiamo quindi da chi è stata acquistata la casa, se questa era nuova o già antica, e soprattutto se un culto popolare vi era già esistente o se fu di nuova introduzione. Quanto a se stesso, si definisce nel rogito citato Canonico Bartolomeo quondam domini Magni Zelas de Arimino, lasciando a noi il dubbio se anche il padre fosse riminese e di origine riminese, o non piuttosto di origine orientale o greca, come potrebbe indicare il cognome, del tutto ignoto alla onomastica locale dei secoli in questione. Se la seconda ipotesi è giusta, potrebbe essersi trattato di una famiglia arricchitasi con il commercio che, trapiantata a Rimini, ebbe ad acquistare una discreta proprietà, fra cui detto podere che misurava Ettari 26-66-80. Purtroppo non descrisse analiticamente i suoi beni ma in due successivi inventari dell'eredità Zelas, del 1746 e del 1780, il podere è detto "possessione del Macanno" e tale denominazione ha nel settecentesco Catasto Calindri 1774-1787. Nell'arco di tempo intercorrente fra il 1787 e il 1883 il fondo cambiò ufficialmente nome, da Macanno a Madonnina, senz’altro in riferimento alla straordinaria immagine. Per inciso informiamo che la casa è stata distrutta pochi anni or sono, né è stato possibile salvarla; ne rimangono macerie, in località Ponte Rotto a 1 Km sulla strada di Coriano. Nel 1924 l'Amministrazione della Congregazione di Carità affidò alla Biblioteca Gambalunga la targa con la prima cornice, unite da un moderno supporto ligneo, insieme a molti altri quadri, per la costituenda Pinacoteca Comunale. Poiché nel primo distaccamento la seconda cornice si era molto rovinata, non fu riutilizzata, per cui se ne perse ufficialmente traccia, ed è solo in base alla descrizione ed alle misure date da Carlo Tonini nel 1888 che mi è stato possibile ricomporre l'opera nella sua interezza, riscoprendo la cornice priva di qualsiasi annotazione nei depositi del Museo. Pochi, e con minimi accenni, si sono occupati di quest'opera assai composita, anche se nella storia della ceramica del De Mauri nel 1924 è giudicata “…un pezzo di capitale importanza”. Il mio primo approfondito studio su «Faenza» è del 1979 ed a questo ancora rimando per tutti le indicazioni bibliografiche che, per l’economia del presente studio, sono omesse. Dieci anni dopo è stata il punto di forza della mostra nel Palazzo dell’Arengo “Rimini. Il tempo della maiolica”, di cui ancora rimpiangiamo la mancanza di un catalogo. Il complesso (Fig. 1 vedi inserto) è formato da una targa centrale, quadrata, di cm 40,5, su cui è dipinta, in blu, giallo, verde e marrone di manganese su fondo 33 Vita di Club n.1 bianco-avorio, Madonna con il Figlio, San Francesco e San Giovannino che regge l'asta di una banderuola con scritto "Ecce Agnus Dei"; in basso su un bordo marrone si legge: 1589 Rimino. Intorno alla targa gira una prima cornice formata da quattro formelle trapezoidali larghe circa cm 12, decorate a “raffaellesche”, con ai lati San Sebastiano e San Rocco, sotto ai quali rispettivamente si legge 25 maggio e 1599; i colori sono blu, giallo, verde, arancio e marrone. Il tutto è racchiuso da una seconda cornice di fattura manieristico-barocca, suddipinta a marmorizzazione marrone su giallo, e con parti blu. I colori, intensi nella targa, più teneri e delicati nella prima cornice, come qualità e tecnica di stesura non differiscono molto fra loro; invece nella seconda cornice vi è più uniformità e soprattutto si nota una stesura affrettata della pennellata blu. La targa e la prima cornice sono piatte, mentre la cornice esterna è a rilievo, e sul fregio inferiore reca la scritta Salus Infirmorum. Il complesso misura m. 1,25X0,87. La targa Vi è dipinta in blu, giallo, verde e marrone di manganese su fondo bianco-avorio la Madonna col Bambino, ed ai lati San Francesco e San Giovannino che regge l'asta di una banderuola con scritto "Ecce A[gnus] Dei". in basso su un bordo marrone si legge: 1589 RIMINO (Fig. 2). Liberata da un moderno supporto ligneo che in parte la nascondeva, ha rivelato una incorniciatura a pennello marrone, con in basso la data, tracciata su una fascia più chiara. Sul rovescio della targa (Fig. 3) entro riquadro con grafia destroversa è la scritta in nero: In la botega di Gio: Anto garela in Rimino lano 1590 Siamo dunque davanti al nome del ceramista che teneva bottega a Rimini e questo ha permesso le ricerche nell’Archivio di Stato da parte di Oreste Delucca nel 1990. Ora sappiamo che Giovanni Antonio Garelli era un personaggio locale di un certo rilievo nell’economia cittadina. Figlio di Achille, era civis Arimini, magister, imprenditore e gestore di bottega, chiamato anche Dominus; fu perfino appaltatore dei dazi sulla carne, ed ebbe notevoli beni fondiari. I documenti archivistici su di lui vanno dal 1591 al 31 Agosto 1598, data della sua morte, ma certo la bottega era in essere già nel 1589, come testimonia la targa. Interessante è il contratto del 7 Giugno 1592 fra Giovanni Antonio e un magister Iulius Cesar de Albanensibus figulus arimini, unitamente alla moglie Francesca di Bernardino detto il Grego che danno vita ad una società per la produzione ceramica durata fino al 15 maggio 1593 in contrada S. Innocenza. Tuttavia, poiché la targa è stata dipinta prima di questo contratto, fra il 1589 e il 1590, ci sfugge ancora l'identità del pittore, in quanto la dicitura In la botega di pare escludere che Giovan Antonio sia l'autore della Madonna dipinta anche se era in grado di fornire al pittore quella assistenza tecnica necessaria alla realizzazione in maiolica di un'opera così impegnativa. Non è da escludere una sua diretta partecipazione alla preparazione dei colori, di importanza cruciale per l'effetto cottura, od anche alla costruzione sintattica del disegno; furono forse questi i motivi per cui si preferì legare la targa alla bottega che godeva di prestigio e fama in città. Negli ultimi decenni del '500, a Rimini è attestato un rigoglioso fiorire del culto mariano, con grande diffusione di Confraternite. Da un anno è entrata in Rimini la pala del Veronese con il Martirio di San Giuliano nella bella chiesa del Borgo, dove il manto della Vergine in gloria sostenuto ed aperto dagli angeli diviene sfondo costruttivo dello spazio (Fig.4 vedi inserto), così come nella targa il tendaggio dorato aperto ai lati crea sul damascato di inteso blu del fondo un illusorio spazio celeste. Scomparso il paesaggio, scomparse le possenti architetture che costruivano l’ambiente dominando le figure, della tradizione urbinate, faentina ed anche veneta, la Madonna appare su un fondale a stoffa damascata, che trova uno 34 Vita di Club n.1 straordinario riferimento proprio in ambito locale. Si osservi infatti come la decorazione a tralci sinuosi trovi un riscontro puntuale con la decorazione affrescata più di un secolo prima nella lunetta della Cappella di S. Agostino in San Francesco, il Tempio malatestiano (Figg. 5, 6). È un confronto sbalorditivo, che indica quanto il pittore ceramico fosse immerso nella cultura locale, e quanto il San Francesco abbia contato nella cultura cittadina nel corso dei secoli, più di quanto non sia stato fino ad ora considerato. La linea sinuosa del capo della Vergine quasi erompe dai limiti della targa, in un difficilissimo e rarefatto accostamento del blu di fondo, del turchino della veste su cui splende il verde del cuscino sulle ginocchia della madre su cui è seduto il Fanciullo. L'accostamento è pienamente riuscito, tanto che la Madonna acquista tale forza da apparire come in rilievo in una stesura che non si ritrova altrove ed appare peculiare di questa targa riminese. La linea culturale e cultuale in cui si inserisce la Madonna, è quella che continua la tradizione intellettualistica cristiana, estrinsecantesi in esperienze pittoriche ben precise: scelta del blu, come il cielo-paradiso, che allude alla fede, giallo-oro nella tenda, come lo splendore della divinità. Essa, aprendosi appunto su un tale fondo dona la certezza che, dalla sottintesa premessa "Ecce Ancilla Domini", attraverso l'esplicito "Ecce a(gnus) dei" del San Giovannino, è venuta la salvezza. È un intellettualismo sottile e delicato che tiene presenti le esperienze pittoriche più auliche. Ma nella cerchia di Giovanni Antonio si meditano anche altre esperienze o meglio queste formano un sostrato già acquisito con chiarezza, che poggia sull'arte dell'Emilia e in più largo raggio dell'Italia centrale. Il fluire prezioso delle pennellate che sulla luce dell'avorio di base disegnano il volto della Vergine, di un ovale perfetto, dal naso sottile, dalle grandi arcate sopraccigliari, dalla bocca su cui aleggia un sorriso mesto, già consapevole delle future sofferenze, trova certamente riferimenti nell'eleganza stilistica su cui il Parmigianino ha fondato la sua pittura estrosa e raffinata. Ma un puntuale e più preciso accostamento viene proprio dall’ambito locale, dove presente e viva è la lezione della Maniera toscana lasciata dal Vasari a S. Maria di Scolca con l'Adorazione dei Magi (1547-48). Tuttavia è con il suo importante collaboratore a Firenze nella decorazione di Palazzo Vecchio, il faentino Marco Marchetti (1528ca – 1588), che si impone il contatto più diretto. Pittore elegante e vivace fu chiamato ad affrescare intorno al 1570 Palazzo Lettimi, la cui distruzione bellica non sarà mai abbastanza deprecata; i pochi lacerti salvati, e le fotografie prebelliche offrono la visione di un ciclo straordinario e raffinato (Fig. 7). Egli è presente anche nella Chiesa dei Servi con la grande pala La conversione di San Paolo, ma è la bella tela Cristo in casa del Fariseo, ora nella Pinacoteca di Faenza, che rappresenta l’inalienabile precedente del complesso devozionale. Il volto della Vergine infatti trova analogie con il viso raffinato della fanciulla inginocchiata ai piedi di Cristo nel dipinto: medesimi sono i tratti anatomici, la linea di contorno, i sapienti tocchi di pennello per rendere le delicate guance, gli occhi socchiusi che guardano in basso. Pare di vedere la stessa modella (Fig. 8 vedi inserto). Il pittore ceramico medita anche altre esperienze. Nel manto e nella veste della Madonna si allontana dalla pura linea disegnativa, e impiegando il pennello a pieno colore, in fluidità cromatica, attraverso piani paralleli, senza sfumature o fusioni tonali, costruisce la figura nell'ancestrale ricordo delle duecentesche Maestà in trono. Ma qui giocano un ruolo importante anche le raffigurazioni della Vergine che si tenevano nelle case, tramandate religiosamente da padre in figlio, opere di artigiani devoti che si attenevano ad una radicata cultura popolare e come tale compresa ed amata più delle elaborate opere "ufficiali". Le mani un po' dure e pesanti, fuori da ripensamenti culturali, danno la misura della sua umanità, del suo essere culto di popolo e per il popolo. Fra le 35 Vita di Club n.1 ampie pieghe del mantello azzurro, sulla veste arancio, poggia un cuscino di un tenero ma brillante verde di difficile riscontro nei centri ceramici vicini, tanto da costituire una significante riminese. Su esso è seduto il Fanciullo divino benedicente, figura allungata in una difficile torsione, il cui viso, di fattura quasi boscoliana (anche Andrea Boscoli è presente a Rimini, in S. Giovanni Battista), è mesto come quello della Madre e riceve una intensa luce dai riccioli a ciocche che contornano la fronte ampia e luminosa. Interessante è notare che il Bimbo è raffigurato a sinistra, seguendo l'uso più generale delle tavole pittoriche, mentre la maggior parte delle maioliche lo presenta a destra. Perfetto, nelle sue minute fattezze è il San Francesco, basato sul disegno chiaro e preciso. Le sue dimensioni sono assai ridotte rispetto alla Vergine, sì che ancor più si accentua l'incommensurabile divinità di questa e la arcaica impostazione figurativa generale. Ma il dipinto riserba un’altra sorpresa: San Giovannino. È una figuretta vivace, in movimento, ruotata di tre quarti, con tocchi di colore nella bicromia sovrapposta blu-arancio che rendono quasi lo sfumato: è un brano di straordinaria bravura pittorica. Ancor più risentiamo in città la presenza della bella Maniera di Marco Marchetti, come osserveremo nella Cornice prima. È dunque una Madonna controriformistica, inserita nella linea devozionale che è anche quella, vedi caso, dei bolognesi Carracci. Essa, pur concedendo qualcosa alla Maniera, tenta un recupero di una religiosità più mistica, apparentemente semplice, ma in realtà intrisa di intellettualismo formalistico, in bilico fra le suggestioni ormai classiche dei grandi nomi del Cinquecento e la realtà della sua funzione sociale sul popolo. La targa appare un prodotto di importanza fondamentale ed offre un valido contributo alla comprensione della vita culturale e sociale di Rimini e della Romagna alla fine del '500, dove, come si evince esaminando i sinodi della Chiesa riminese del 1580 e del 1596, viene imposta, secondo i dettami del Concilio di Trento, una devozione-tipo specie per la figura della Madonna e del Santo titolare di ogni chiesa. La Cornice prima Attorno alla targa vi è una cornice formata da quattro lastre trapezoidali (Fig.1 vedi inserto). Su un fondo avorio, entro contorni gialli suddipinti a linee marrone, danzano putti-angeli, tutti ottenuti a costruttive pennellate giallo-oro e lumeggi bianchi, racchiusi da sottilissima linea a manganese. Sognanti sirene, sfrenata danza di chimere, delicati cesti, drappeggi impalpabili, tende-festoni, riccioli, costituiscono una straordinaria “raffaellesca”, la cui peculiarità è l'accordo armonioso, tenuto su toni medi, del giallo, del verde e dell'azzurro. I cesti di fiori e frutta, che essi sostengono al sommo di testeangeli su ali, presentano toni cromatici verdi, dello stesso timbro tonale osservato nella targa, antecedente di ben dieci anni. Infatti al centro dei lati entro formelle architettoniche laterali sono dipinti, a sinistra San Sebastiano e a destra San Rocco, due Santi che, associati, secondo l'iconografia cristiana, sempre seguita, stanno ad indicare la peste, per fine o per scampato pericolo. A sinistra San Sebastiano porta ai piedi la scritta S. B. A. D / 25. MAGGIO che si completa a destra sotto San Rocco: 1599. Effettivamente fra il 1598 e il 1599 la peste incombeva in Lombardia, come in molte parti d'Europa e d'Oriente, ma ne fu salva la Romagna, come attesta il Tonduzzi nelle Historie di Faenza “…La peste in questo mentre si andava accalorando à i confini della Lombardia...” ed anche Carlo Tonini ricorda la peste del 1591-93 da cui Rimini rimase esente. Le due figure sono state eseguite con grande perizia; il San Rocco è inserito in una doppia arcata che crea profondità strutturale. Più potente è il San Sebastiano, non immemore di una forza michelangiolesca. Il gesto della mano che straccia i capelli, la cui massa gialla quasi untuosa è ristrutturata da sottili e sapienti pennellate di manganese, esprime un’intensa nota di sofferenza. Il San Rocco interessa per il verde del mantello così peculiare, per la ricercatezza formale dei particolari e per una maggior resa del disegno. Nel verso della cornice appaiono annotazioni del pittore nei riguardi dei colore di cui si individuano le parole: giallo, turchino e D C di oscuro significato, forse in riferimento a due stemmi (Fig. 9). Nella formella superiore due putti sostengono l’emblema dei Gesuiti di tradizione bernardiniana, dipinto in giallo su blu entro un cerchio a fascia solare raggiata; sono po' goffi e 36 Vita di Club n.1 quasi sproporzionati tanto che parrebbero a sé, ma il medesimo modo di ottenere il naso con un segno ad angolo quasi retto, gli occhi e la bocca con un deciso tratto di pennello, rivelano che sono della stessa mano, di quelli dello stemma inferiore, i quali, quasi di profilo, raggiungono maggior proporzione di massa e volume. Prima di addentrarci nell’individuazione molto problematica dello stemma inferiore, osserviamo come tutta questa straordinaria decorazione sia stata ottenuta con un disegno delicato a dolce cromia, lumeggiata da pennellate perfettamente bianche sull’avorio di fondo sì da creare l'illusione ottica del rilievo. Parlare di semplice “raffaellesca” è troppo poco: vi è una corposità che si differenzia sia dalle calligrafiche, minute estrosità delle coeve urbinati, molto diverse anche nella resa cromatica, sia dalle eleganze decorative della scuola toscana. D'altra parte lo stile "compendiario" dei “bianchi” di fine secolo fonda le sue figure su una maggior rapidità esecutiva ed una rarefazione dell'ornato figurativo dalla tavolozza spesso "languida", e soprattutto la sua raffaellesca non presenta quei sopratocchi di assoluto bianco, qui diffuso su tutta la cornice. Dunque anche per questa parte del complesso i termini di riferimento sono i modelli che la pittura locale offriva, assimilati e tradotti in chiave moderna da una cultura che ha attraversato molti secoli. Il pittore della Cornice prima, forse il medesimo della Targa, ci conduce ad una rivisitazione della “danza di putti” nei secoli. Partendo dal Tempio Malatestiano, i marmorei angeli che reggono stemmi o canestri offrivano certamente un modello (Fig. 10), ma nell’estetica del tardo Cinquecento dovevano apparire superati da quanto si era venuto riscoprendo nella Roma fra ‘400 e ‘500. Ci riferiamo alle pitture della Domus aurea e più in generale alle grottesche, affreschi d’epoca romana che Bramante e gli altri con fatica avevano riscoperto nelle strutture ormai sotterranee dell’antica Roma, volgarmente chiamate “grotte”. Da Bramante a Raffaello nei primi anni romani, il passo fu breve. Fu proprio l’Urbinate che rese eccellente ed intrigante nella sua novità questa decorazione profusa nelle Logge vaticane e in dimore private e che, attraverso i suoi discepoli, raggiunse nel corso del ‘500 ogni parte d’Italia, influenzando i più aggiornati pittori, ed in primis proprio Marco Marchetti. Uno straordinario iter artistico si ha osservando, vicini fra loro, tre particolari che si sviluppano lungo tutto il secolo sedicesimo, rispettivamente da Raffaello, dal Marchetti, dal Complesso devozionale: il primo è dipinto nella Loggia del Cardinal Bibbiena a Roma (1516), il secondo nel Voltone della Molinella a Faenza (1566), il terzo sulla Cornice Prima (1599) (Fig. 11, 12, vedi inserto, 13). Se non sapessimo che il Marchetti è morto nel 1588, saremmo tentati di attribuirgli la pittura della cornice, tanto vicina anche alle grottesche di Palazzo Lettimi (Fig. 14), né ciò dovrebbe meravigliare, in quanto egli proveniva da una famiglia di maiolicari, ed a lui si deve una coppa “istoriata” firmata e datata 1549, di cui proponiamo alcune svelte figurette (Fig. 15 vedi inserto). Tuttavia il nostro pittore fra i contemporanei in loco non manca di guardare anche con attenzione gli affreschi di Giorgio Picchi, e di Bartolomeo Cesi nella Chiesa di San Bartolomeo e San Marino, detta di Santa Rita (1585-90). Assai complessa appare l'individuazione dello stemma della formella inferiore per gli interrogativi che pone. Infatti entro uno scudo ovale è riprodotto uno stemma che è stato manomesso in antico per cambiare l’araldica. Nella fascia superiore sono dipinti tre gigli, del tipo di Francia, d'oro su campo azzurro, che non sono stati toccati. Nella parte inferiore è evidente una sovraimposta figura araldica in forma di gallo, biancastro su campo mattone striato, ottenuta con abrasione del fondo e successiva ridipintura a freddo (Fig. 16). 37 Vita di Club n.1 Dato che lo stemma dei Gesuiti nella parte alta non è stato toccato quando fu abraso e ridipinto quello inferiore, bisogna partire da questo dato positivo: l'emblema era sentito tanto importante da non essere più cancellato. Infatti la presenza dei Gesuiti in Rimini era auspicata soprattutto da privati cittadini, primo fra gli altri Francesco Rigazzi che nel 1610 destinava per testamento i suoi beni ai Gesuiti perché tornassero ad insegnare in città. Effettivamente nel 1623 quattro di loro andarono ad abitare nella casa del Rigazzi, che morirà nel 1631, seguito nel 1633 dalla moglie. A questo punto si può dire che l'Ordine era ormai stabilmente insediato a Rimini. Francesco Rigazzi apparteneva a nobile famiglia che aveva lo stemma d'azzurro al leone d'oro sormontato da stella d'argento, bordura d'argento e di rosso (Fig. 17 vedi inserto). Fin dal 1979 avevo scritto che il probabile stemma gentilizio originale nella parte inferiore della cornice poteva avere un leone rampante, come ormai si evince da ciò che traspare su fotografie eseguite agli infrarossi. Possiamo dunque ragionevolmente supporre che nel 1599 il Rigazzi abbia commissionato una cornice con il proprio stemma e quello dei Gesuiti per abbellire una precedente Targa devozionale. Alla metà del secolo diciassettesimo i Gesuiti erano bene inseriti nella comunità riminese, ma non avevano ancora una chiesa ed un collegio consoni alla loro opera. A queste esigenze sopperisce un altro nobile, Don Cesare Galli, protonotario apostolico, uomo di fede e di cultura. Egli con testamento del 15 maggio 1655 destinò i suoi beni alla costruzione della Chiesa per i Gesuiti, dedicata a San Francesco Saverio, oggi comunemente detta del Suffragio. Fra altre condizioni, volle che lo stemma dei Galli insieme con una epigrafe-ricordo fosse posta all'ingresso. La famiglia Galli aveva il blasone spaccato d'argento e d'oro al gallo al naturale attraversante sul tutto. Nello stemma della cornice, con un'opera di ristrutturazione eseguita a freddo (abrasione dell'immagine originaria, ridipintura con vari colori a formare un animale che cerca di sfruttare parti del precedente), si vede un gallo su fondo marroncino con il capo d'Angiò: tre gigli in giallo di due toni su fondo azzurro (Fig. 16). Se accettiamo l'ipotesi che si sia passati dal blasone del primo fondatore, il Rigazzi, a quello del Galli, si deve pensare che ciò è stato voluto o dal Galli stesso, venuto in possesso dell'opera, o dai Gesuiti che intendevano rendere omaggio a chi aveva dato, o dava loro, la possibilità di costruire una bella "fabbrica", degna del loro apostolato. Per tale via pare logico intuire che questo primo assemblaggio (targa e cornice) sia rimasto in ambito gesuitico, forse nella casa che era stata del Rigazzi e poi dei Gesuiti fino al 1773, quando per disposizione di Clemente XIV, che proprio nel Collegio gesuitico riminese aveva studiato, l'Ordine venne soppresso e tutti i beni (ed erano di notevole entità) passarono al Seminario. Il Collegio nel 1796 fu venduto ai Padri Domenicani che vi restarono appena un anno, in quanto fu loro tolto dal Governo napoleonico della Repubblica Cisalpina che li destinò al Convento dei Serviti. Finalmente tutto lo stabile passò nel settembre del 1800 all'Ospedale Infermi al cui Ente appartenne fino al 1979, quando fu acquistato dal Comune e destinato a Museo della città. Torniamo dunque al fatidico 1773 che segna la fine di un Ordine religioso profondamente inserito nell'ambito cittadino. Nel lungo e circostanziato Inventario legale di tutti i mobili d'ogni genere che appartennero ai Gesuiti ed ora del Seminario (redatto nello stesso anno) non vi è traccia della Madonna in maiolica e della sua cornice. Non appare neppure nell’Inventario delle robbe del Seminario; bisogna pensare quindi, che, per vari motivi, forse non ultimo quello di preservare dalla dispersione o peggio dalla distruzione una testimonianza non solo dei Gesuiti (stemma in alto), ma anche del massimo benefattore (stemma Galli), la maiolica sia stata per un certo periodo nascosta in attesa di adeguata collocazione. La Cornice seconda Nel 1776 il complesso in maiolica è testimoniata nella casa della possessione del Macanno che era divenuta proprietà dell'Ospedale della Misericordia dal 1688 per lascito testamentario del canonico Don Bartolomeo Zelas. Come si è 38 Vita di Club n.1 detto la casa (ora distrutta) si trovava appena a km 1 extra moenia nella strada per Coriano: vicino, ma non troppo, in possedimento ancora di matrice religiosa ma non espressamente clericale, in grado insomma di offrire una sommessa testimonianza dell'opera culturale e religiosa di un Ordine, la cui soppressione, è da credere, aveva lasciato notevoli lacerazioni. Forse in quegli anni vennero apportati dei lavori nella casa del Macanno e nell'occasione si dovette pensare all'opportunità di murare all’esterno la Madonna già dei Gesuiti. È stato Carlo Tonini in Rimini dal 1500 al 1800 (vol.V, parte seconda, p. 295) ad informarci che sul muro, quando il complesso fu staccato, era visibile la scritta: Mastro Giuseppe Menghi Luigi Felici Muratori 1776 Nell'arco di tempo intercorrente fra il 1776 e il 1883 il fondo cambiò ufficialmente nome, da Macanno a Madonnina, senz’altro in riferimento alla straordinaria immagine. I muratori Mastro Giuseppe Menghi e Luigi Felici che si firmarono sotto il complesso probabilmente operarono l’assemblaggio finale dell’opera (Fig. 1 vedi inserto). Il complesso infatti si arricchì di una seconda cornice, che forse non era stata eseguita per questa immagine. Infatti dovette essere adattata, essendo più alta e più stretta del quadro che doveva contenere. Le due parti laterali risultano tagliate nella parte superiore e verniciate a freddo per rendere più lisci i tagli: le lesene poi furono solo accostate al fregio superiore. Considerata com'è ora, la cornice risulta tozza e sproporzionata, ma se la si pensa più alta ha una sua dignità, anche se la marmorizzazione è di fattura corrente; i colori, specie il marrone, sono spenti, le pennellate, spesso aggrumate, così evidenti da lasciare trasparire il fondo a fine colore. Tuttavia la sua fattura, dalle linee sinuose ma gonfie, con profonde scanalature laterali, conchiglia un po' rigida, foglie d'acanto che sottolineano in alto i punti estremi, rivelano uno stile barocchetto che in Rimini godette di notevole fortuna proprio in quegli anni, quando molte chiese riminesi furono o ristrutturate o innalzate ex novo, indice di un discreto tenore di vita. Fra gli artisti che operarono in quegli anni in città ricordiamo Gaetano Stegani che progettò la bella chiesa di Santa Maria in Corte detta dei Servi, avendo presenti anche le complesse scenografie del Bibbiena e del Vanvitelli. Dello Stegani rimangono nel Museo alcuni disegni di cornici barocche, che appaiono molto vicine alla Cornice seconda, seppure in ductus un poco semplificato (Fig. 18). È indubbio che il ceramista era aggiornato ed attento all’evolversi della cultura locale. Non sappiamo per quale quadro questa cornice era stata eseguita, ma è certo che fu commissionata dall’Ospedale della Misericordia, considerato il cartiglio, sempre in maiolica e sempre di stile barocchetto, che in fondo chiude il tutto recando la scritta: SALUS INFIRMORUM Va ancora valutato un ultimo elemento, estraneo alle due cornici, ma complementare: il raccordo fra la parte concava della "cornice seconda" e il lato della "cornice prima". Si tratta di un frammento di qualità tecnica diversa da tutti gli altri elementi. Il ceramista ha plasmato una nuvolaglia biancastra da cui escono i raggi divini ad illuminare la scena. La qualità dell'argilla è diversa da quella delle altre parti; ha minore spessore e soprattutto il colore del blu che sfuma nell'azzurro indica l'uso di un colorante "moderno", probabilmente a struttura chimica, come ne apparvero nel '700. È chiaro che il pezzo di raccordo è stato eseguito nel momento in cui i muratori si trovarono a dovere amalgamare in modo accettabile strutture così diverse: tagliarono in alto le lesene laterali della "cornice seconda", le allargarono un poco per collegarle alla "cornice prima"; sistemarono la "lunetta" in alto ed infine segnarono la data: 1776. Il lungo iter formativo del complesso era terminato. Considerazioni finali Termino questo nuovo studio sul Complesso Devozionale con alcune frasi dell’anonimo estensore dell’articolo su “Italia. Periodico Politico e Letterario Riminese” Anno I Num. 64 Sabato-Domenica Maggio 19 -20 1883, dal titolo: UNA FIGULINA O MAIOLICA RIMINESE “… Il conte Graziani Cisterni… curò che questa antica e bella figulina, la quale rappresenta sì bene come la nostra industria in quella materia continuasse fino all’epoca, fosse sottratta colà alla crudeltà degli elementi e fors’anche a quella maggiore degli uomini, dalle mani dei vandali e 39 Vita di Club n.1 iconoclasti moderni e trasportata a Rimini nella stessa residenza della Congregazione, ad essere ammirata e studiata dai cultori della storia e delle Belle Arti. Però non fu trattata troppo bene, e tutt’altro che nei modi coi quali oggi si espongono e conservano questi capi d’arte. Fu murata in una parete, senza nessuna esattezza; toltosi così ai visitatori di potere esaminare la parte posteriore e leggerne la scritta, che fu sepolta nel muro.” Solo fra il 1979 al 1989 ho potuto, ripescando nei magazzini, ricomporre per intero il complesso, che in occasione della mostra “Rimini. Il tempo della maiolica”, è stato inserito per cura del comitato arimino in una adeguata struttura. Purtroppo la sorte non gli è ancora benigna, come si può osservare dalla foto (Fig. 19) che la ritrae sacrificata nel corridoio del Museo Civico, al piano superiore. Ci auguriamo che sia proprio il Club a promuovere lo spostamento in ambiente ed in collocazione adeguata all’importanza di questo monumento, profondamente inserito nella cultura riminese lungo due secoli, unico esemplare di tale qualità in tutta la storia della maiolica italiana e straniera. Didascalie delle figure presenti nel testo. Fig. 2 - Bottega di Giovanni Antonio Garelli, Targa con Madonna col Bambino,San Francesco e San Giovannino; Rimini, 1589-90. Rimini, Museo Civico; Fig. 3 Targa, verso con scritta; Fig. 5 - Targa, particolare; Fig. 6 - Anonimo, Affresco, lunetta nella Cappella di S. Agostino. Rimini, Tempio Malatestiano, sec. XV; Fig. 7 - Fotografia della Sala nobile nel distrutto Palazzo Lettimi in Rimini: sono visibili i dipinti di Marco Marchetti del 1570. Rimini, Biblioteca Gambalunga; Fig. 9 – Complesso devozionale, Cornice prima, verso con scritta. Rimini, 1599; Fig.10 Agostino di Duccio, Angeli reggistemma, Cappella di S. Agostino. Rimini, Tempio Malatestiano, sec. XV; Fig. 13 - Complesso devozionale, Cornice prima, lastra inferiore, Grottesche, part.. Rimini, 1599; Fig. 14 - Marco Marchetti, Grottesche, da fotografia del distrutto Palazzo Lettimi, 1570; Fig. 16 - Complesso devozionale, Cornice prima, Stemma Galli sull’abraso Stemma Rigazzi, Rimini, sec. XVIIXVIII. Rimini, Museo civico; Fig. 18 - Gaetano Stegani, Studio per arredo sacro, disegno a penna su carta bianca, sec. XVIII. Rimini, Museo Civico; Fig. 19 Rimini, Museo Civico, Piano Primo, corridoio, Complesso devozionale. MEETING LA SODDISFAZIONE DEL DARE Concluso in un anno il service: “Vincere la sordità”. di PIETRO GIOVANNI BIONDI I l primo meeting dell’anno lionistico 20092010 è un incontro particolarmente significativo perché comprende la cerimonia di consegna di 50.000 € al Presidente dell’ASL di Rimini per garantire la realizzazione del grande service dell’anno passato: “Vincere la sordità”. La somma raccolta è destinata all’Unità Operativa di Otorinolaringoiatria dell’Ospedale degli Infermi di Rimini e sarà utilizzata per finanziare gli interventi di Impianto Cocleare e successiva riabilitazione ad opera di medici logopedisti specializzati. Questa importante figura professionale collabora con il medico audiologo nella fase di selezione e riabilitazione dei bambini operati e quindi deve avere alte 40 Vita di Club n.1 competenze specifiche, che il nostro sostanzioso contributo permetterà di conseguire dal punto di vista finanziario. Il nostro service quindi proseguirà nel tempo in favore di quei bambini che, dopo Davide, il primo bambino operato a Rimini, saranno operati e guidati a parlare. Il Past Presidente Paolo Giulio Gianessi, dopo aver ringraziato con profonda gratitudine tutti coloro che lo hanno aiutato nell’incredibile impresa (tra cui i signori Agostini, Amadei, Goffi presenti in rappresentanza della Banca Popolare di Ancona, che è tra gli sponsor) si commuove, e commuove, ricordando le parole di Davide: “Mi avete fatto felice”; poi, insieme con l’attuale Presidente Antonio Galli, consegna l’assegno al dott. Lo Vecchio. Sono presenti i dott. Calabresi, Cola, Farneti esecutori materiali dei “miracolosi” interventi. Tutti i protagonisti di questa bella pagina da libro “Cuore” moderno sono intervistati da Paolo Teti di VGA, mentre un operatore riprende la scena. La cerimonia è andata in onda successivamente sulle emittenti locali e regionali con grande soddisfazione per il Lions Club Rimini Malatesta arrivato ad un traguardo che un anno fa non osava sperare. La seconda parte della serata è a disposizione di un illustre relatore, il dott. Stefano Bandiera, Dirigente medico specialista in Ortopedia e Traumatologia Struttura complessa di Chirurgia Vertebrale ad indirizzo Oncologico e Degenerativo presso l’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna che tratta il tema: “IL MAL DI SCHIENA, diagnosi e terapie”. Lo specialista ha al suo attivo 926 interventi chirurgici quale primo operatore, 68 articoli pubblicati su riviste scientifiche, 29 relazioni e comunicazioni scientifiche a congressi, 74 relazioni e comunicazioni scientifiche e un numero notevole di partecipazioni a corsi, congressi, meeting ecc. Ebbene, da lui ci aspettiamo un service… che risolva il mal di schiena che affligge parecchi soci, altrimenti dovremmo ricorrere a… San Pio per il prossimo meeting. IL MAL DI SCHIENA: ETIOPATOGENESI E TERAPIA di STEFANO BANDIERA I l mal di schiena rappresenta il 30-50% dei disturbi che un medico deve trattare nel corso della sua attività generica, poiché tale sintomatologia dolorosa colpisce, almeno una volta, il 90% della popolazione adulta; risulta, infatti, la terza causa di assenza dal posto di lavoro nel mondo industrializzato dopo le malattie polmonari e cardiovascolari. Neoplasie dell’apparato gastro-intestinale e uro-genitale, alcune patologie vascolari (ad es. l’aneurisma dell’aorta addominale), tumori dell’estremità inferiori, la coxartrosi o le patologie dell’articolazioni sacro-iliache possono mimare un mal di schiena. In questi casi un attento esame obiettivo permette, comunque, di giungere ad una corretta diagnosi differenziale. Nel 90% dei casi, il mal di schiena è determinato da una patologia a carico della colonna vertebrale, distretto anatomico sul quale occupazioni sedentarie, inattività fisica, sovrappeso, guida prolungata e costante, lavori ad elevato impegno fisico con sollevamento manuale di carichi rappresentano chiari e frequenti fattori di rischio. Le cause rachidee di mal di schiena sono rappresentate da 5 grandi capitoli: 1. l’ernia del disco, 2. frattura su base osteoporotica, 3.patologia degenerativo-artrosica, 4. spondilodisciti, 5. tumori vertebrali. 1. Ernia del disco Situato tra due corpi vertebrali, il disco intervertebrale è una struttura avascolare riccamente idratata che funge da vero e proprio ammortizzatore anteriore. Quando compare una rottura della parte circonferenziale esterna, chiamata anulus fibrosus, le forze di compressione che agiscono sui corpi vertebrali 41 Vita di Club n.1 spingono la parte centrale del disco (nucleo polposo) ad invadere il canale vertebrale andando ad incocciare il sacco midollare e/o la radice e scatenando dolore, contrattura muscolare e deficit neurologici. Vi sono 3 gradi di compressione delle strutture neurologiche da parte di un’ernia discale: a) sindrome da irritazione che si manifesta esclusivamente con dolore; b) sindrome da compressione caratterizzata da deficit parziale della conduzione nervosa; c) sindrome da interruzione, cioè completa paralisi radicolare. Se per il grado a) e per il grado c) la terapia più indicata è la terapia medica e fisiatrica, per la sindrome da compressione il trattamento chirurgico o il trattamento conservativo sono in ugual misura validi e giustificati. È evidente che l’intervento di asportazione dell’ernia discale permette di recuperare molto prima una qualità di vita normale rispetto a chi, invece, sceglie il trattamento incruento. Di contro è stato recentemente dimostrato che l’effetto della discectomia tende ad annullarsi a 4 anni circa dall’intervento, tanto che il Ministero della Salute ha definito l’ernia del disco una vera e propria patologia medica. In alternativa alla tradizionale discectomia chrurgica sotto la visione diretta degli occhi o a quella ottenuta con l’uso di un microscopio, la discectomia videoendoscopica (con l’uso cioè di una piccola telecamera, simile a quella utilizzata per un’artroscopia di ginocchio) permette di sfruttare al meglio i vantaggi di un accesso mininvasivo. Eseguendo un accesso lungo poco più di 1.5 cm e che va attraverso i muscoli evitando, di contro, un dannoso scollamento di questi dalle superfici ossee, si ottiene una sensibile riduzione del dolore post-operatorio permettendo, un recupero funzionale estremamente più rapido che non con le tecniche tradizionali. 2. Frattura su base osteoporotica L’aumento dell’età media della popolazione ha portato prepotentemente alla ribalta questa particolare lesione traumatica secondaria a traumi a bassa energia, ma, non per questo, poco dolorosa. Come tutte le fratture, anche nell’anziano, la vertebra con cedimento osteoporotico determina rachialgia prevalentemente sotto carico. È per questa particolarità della sintomatologia algica che ancora oggi il trattamento più frequente è rappresentato dal riposo a letto abbinato a corsetti di varia fatta. La durata del riposo a letto, può, tuttavia, favorire vari deficit dell’apparato cardiocircolatorio, dell’apparato respiratorio, problematiche di tipo infettivo (ad es. le piaghe da decubito), disturbi psico-sociali/affettivi che costituiscono la cosiddetta “sindrome da allettamento”, insieme, cioè, di patologie che possono aumentare il tasso di mortalità anche del 23%. La necessità di permettere al paziente affetto da frattura su base osteoporotica di evitare questa cascata di avventi avversi, in particolare se la frattura tarda a consolidare con il trattamento tradizionale, ha favorito lo sviluppo di tecniche chirurgiche adatte a questo particolare tipologia di malato. La cosiddetta vertebroplastica o, in alternativa, la cifoplastica, sono due tecniche analoghe che si sono rivelate particolarmente efficaci nel risolvere il dolore da cedimento vertebrale osteoporotico che non guarisce dopo almeno un mese di terapie incruente. L’intervento chirurgico consiste nell’iniettare, per via percutanea, una sostanza chiamata comunemente “cemento” che, dopo essere stato posizionato correttamente, passa da una fase liquida ad una solida. La ridotta aggressività del gesto chirurgico di queste due metodiche mininvasive, permette di offrire una rapida e duratura risoluzione del dolore e, conseguentemente, un rapido recupero funzionale del paziente. 3. Patologia degenerativo-artrosica La patogenesi della spondiloartrosi è caratterizzata dalla perdita delle proprietà di elasticità e resistenza meccanica del disco e delle articolazioni interapofisarie. Radiograficamente si evidenzia attraverso disidratazione del disco intervertebrale con conseguente riduzione in altezza di quest’ultimo e sovraccarico lento ma progressivo delle articolazioni posteriori. Queste alterazioni anatomo-patologiche si evidenziano con un progressivo strozzamento del sacco midollare e delle radici secondario, anteriormente, ad una protrusione a largo raggio del disco degenerato e, posteriormente, dall’ipertrofia delle masse articolari. La sintomatologia della patologia artrosica della colonna vertebrale si manifesta con rachialgia, associata, ad un grado variabile di “claudicatio neurogena”, ovvero facile affaticabilità degli arti, proporzionale al grado di strozzamento o “stenosi”. Se la stenosi interessa uno o due livelli, sono oggi disponibili i cosiddetti “distanziatori interspinosi” che, come piccoli sollevatori, spingono in cifosi, attraverso un 42 Vita di Club n.1 mini-accesso chirurgico, il segmento vertebrale sede della stenosi, allentando lo strozzamento delle strutture neurologiche. Se la stenosi si sviluppa su più livelli, la decompressione delle strutture nervose mediante la classica laminectomia associata a foraminotomia bilaterale rappresenta, ancora oggi, un intervento estremamente affidabile. Un discorso a parte è riservato alla “spondilolistesi”, ovvero quando una vertebra risulta scivolata in avanti rispetto alla vertebra sottostante. In questi casi, al fine di risolvere la forte rachialgia (a volte associata ad una invalidante claudicatio neurogena), è necessario associare alla decompressione neurologica, la riduzione dello scivolamento e successivo fissaggio mediante l’uso di viti e barre in titanio (posteriormente) più gabbiette intervertebrali (anteriormente). Anche in questi casi, la tecnologia, oggi, permette di eseguire questi montaggi mediante strumentari studiati per essere usati con tecniche strettamente mininvasive. Si ottiene, così, una soddisfacente riduzione a fronte di un minimo danno (iatrogeno) a carico dei tessuti molli paravertebrali e, conseguentemente, a minime perdite ematiche; questo consente una sensible riduzione del dolore post-operatorio e un’immediata ripresa funzionale. 4. Spondilodisciti L’infezione a carico della colonna vertebrale, o spondilodiscite, risulta essere una patologia nuovamente in crescita dopo alcuni decenni in cui era praticamente scomparsa. I motivi di questa pericolosa recrudescenza si possono ricondurre, negli anziani, ad un ampio uso di terapie endovenose e a sempre più frequenti infezioni urinarie asintomatiche e, nei giovani, all’abuso di sostanze stupefacenti e alle endocarditi. E’ inoltre evidente che il sempre maggio numero di immigrati provenienti da paesi a rischio ha portato nel nostro paese micro-organismi a noi sconosciuti o contro i quali la capacità di risposta del mondo “industrializzato” non è sempre sufficientemente pronta ed efficace. Il 63% delle spondilodisciti è causata da germi piogeni; il morbo di Pott o spondilodiscite tubercolare rappresenta il 1520% delle infezioni vertebrali. Il mal di schiena secondario ad infezione ossea vertebrale è spesso associato a febbre e stanchezza. L’imaging è caratteristico: l’erosione delle strutture vertebrali nasce sempre dal disco intervertebrale. La terapia è costituita, necessariamente, da un’efficace copertura antibiotica. L’osso a causa della sua scarsa vascolarizzazione, risulta essere una barriera che nasconde molto bene il germe all’azione degli antibiotici. Per questo motivo è necessario isolare il germe, attraverso un antibiogramma ottenuto su un prelievo di materiale patologico mediante un’ago-biopsia sotto controllo TAC. Solo in questo modo si può pensare di instaurare una terapia antibiotica mirata sul germe responsabile. 5. Tumori ossei vertebrali I tumori dello scheletro rappresentano il 5% di tutti i tumori del corpo umano. I tumori del rachide rappresentano meno del 10% di tutti i tumori scheletrici. Se si possono quindi considerare un’entità patologica molto rara, è bene sempre tenere a mente che esistono. La rachialgia rappresenta, infatti, il sintomo d’esordio nel 90% dei casi di localizzazioni neoplastiche vertebrali. Il tumore osseo erode progressivamente le strutture portanti della colonna vertebrale, determinando instabilità meccanica e, quindi, dolore. Il mal di schiena secondario a neoplasia è molto caratteristico: è “sordo”, non si riduce andando a letto, è ingravescente e si irradia lungo più dermatomeri. Le più frequenti localizzazioni neoplastiche vertebrali sono rappresentate dalle metastasi da tumore primitivo dei 43 Vita di Club n.1 visceri. Oggi più che in passato si sta rafforzando la convinzione che i pazienti affetti da metastasi vertebrali non devono essere automaticamente considerati malati terminali. Se è ovvio che il trattamento non è in grado di guarire il paziente dalla malattia, può, di contro, consentire un sensibile miglioramento della qualità della vita attraverso un adeguato controllo locale del tumore. Allo scopo di rendere il più organico e lecito possibile il trattamento delle metastasi vertebrale, si deve arrivare a valutare il paziente sotto più punti di vista. Un attento inquadramento delle condizioni cliniche del paziente al fine di valutarne l’operabilità, l’istotipo della neoplasia assieme allo studio delle condizioni meccaniche e neurologiche devono, con sempre maggiore precisione, portare a porre l’indicazione più adeguata di trattamento. Se, per esempio, ci si trova a dover trattare una metastasi vertebrale isolata di un tumore radiosensibile, anche se questa lesione potrebbe essere facilmente resecabile (magari in una paziente in buone condizioni cliniche generali), è più adeguato evitare la chirurgia a favore della radioterapia. Di contro, una metastasi di un tumore non sensibile alle terapia adjuvanti (ad es. il tumore del rene), è più indicato sottoporre il paziente ad un trattamento chirurgico anche molto aggressivo. Se si parla invece di tumori ossei primitivi, l’obiettivo della terapia deve mirare alla guarigione del paziente mediante un trattamento chirurgico oncologicamente adeguato che può richiedere, a volte, interventi estremamente demolitivi. È quindi necessario che questi pazienti vengano inviati in centri in cui si è maturata la giusta esperienza nel trattamento delle neoplasie ossee. Molto spesso, infatti, risulta necessario eseguire interventi chirurgici che richiedono un’esperienza non solo ortopedica, ma, sempre più spesso, multispecialistica. PENSIERI&PAROLE FEDELTÀ, OBBEDIENZA, ONORE Riflessioni lionistiche e non solo. di ANTONIO GALLI F edeltà nella coppia, ad un rapporto coniugale, all'amore, ad un ideale, alle proprie idee, ad un'ideologia, ai propri principi, agli amici, alla famiglia, alla propria cultura, alla comunione lionistica e ancora e ancora... Sono tante quindi le occasioni in cui la fedeltà entra in gioco nella normale vita di un uomo. Ma se si è troppo fedeli, tutte queste cose come fanno a cambiare? E come è possibile cercare di cambiare qualcosa senza sentire nei confronti dell'oggetto del cambiamento un leggero senso di tradimento o di abbandono? La fedeltà è quindi un modo di essere nel rapporto con se stessi e con gli altri, quella nei confronti del coniuge o della propria compagna è la più considerata e quella che ci comporta normalmente le maggiori problematiche. Molti fattori contribuiscono a rendere fragile il rapporto di coppia fra cui la crisi dei valori tradizionali, la rivoluzione dei rapporti sessuali, il femminismo, una diffusa ideologia contraria ai rapporti sentimentali, fenomeni che fin dagli anni ‘70 stanno minando, anche grazie ad una decadenza della morale comune e ad un cambiamento radicale dei costumi delle nuove generazioni, il rapporto di fedeltà nella coppia. Elementi che comportano sempre più la disgregazione della famiglia, unico vero fondamento della nostra società, valore che deve necessariamente essere recuperato, mentre parte delle nostre istituzioni si stanno attivando affinché ciò non avvenga. Il lions, in questa situazione, può farsi parte propositiva per promuovere il recupero dei valori che l'uomo distratto dall'interesse, dal qualunquismo, dalla trasgressione, che è diventata regola di vita (droga, alcolismo, dissoluzione morale, corruzione), sta perdendo. Ma vediamo anche come porsi nei confronti del concetto dell'onore. La nostra cultura considera 44 Vita di Club n.1 l'onore sotto due aspetti, l'uno di natura soggettiva, l'altro di natura oggettiva; il primo consiste in ciò che la dottrina ha definito come il "sentimento del proprio valore sociale" ed è rimesso all'apprezzamento dell'individuo stesso, mentre il secondo è rappresentato dal giudizio degli altri sulle doti di un individuo, e si va ad inserire in quelli che sono i rapporti interpersonali di ciascun individuo, dalla reputazione alla considerazione di cui gode nella comunità. È a tutti tristemente noto che nelle piccole come nelle grandi comunità, dalla famiglia allo Stato, stiamo assistendo ad una sottostima di questo valore che, anche se in passato è stato riferito a contenuti che poco avevano a che fare con la società civile (l'onore delle armi, il delitto d'onore, i duelli, ecc.), rappresenta ancora uno dei valori fondanti di una sana convivenza. L'onore di un uomo è una delle cose più preziose, perché è simbolo di libertà e di potere. Diceva Cechov: "L'onore non si può togliere, si può solo perdere". Nessuno quindi potrà privarci di questo tesoro fortemente individuale. Ma, attenzione, dobbiamo essere noi i primi a non volercene privare. Guadagnarsi una reputazione di uomo che compie azioni onorevoli è un cammino difficile, ma è purtroppo estremamente facile perderla. Anche se il lions deve già possedere l'onore per essere ammesso nell'Istituzione, il suo scopo rimarrà dunque quello di mantenere questa sua reputazione, rifuggendo tutti quei comportamenti che, oltre a fargli perdere la stima altrui, possano farla perdere, di riflesso, all'Istituzione stessa. Ed ora consideriamo il concetto di obbedienza: cosa significa obbedire? La risposta è abbastanza ovvia: adeguare il proprio comportamento a un volere altrui, diverso dal volere proprio autonomamente determinato. L'obbedienza è tale, virtù o non virtù che la si voglia definire. Non abbiamo però ancora guadagnato l'essenza dell'obbedienza autenticamente intesa. Ci si può, infatti, adeguare ad un volere altrui semplicemente perché vi si è costretti da una sproporzione nei rapporti di forza tra chi detta l'ordine e chi obbedisce. È il caso del soldato nei confronti del superiore, della vittima nei confronti dell'aguzzino, del bambino indifeso nei confronti del padre violento. Qui non c'è obbedienza: c'è sottomissione ad un potere più forte, dominante. Ed ecco allora il paradosso: l'obbedienza autentica è un atto di libertà. È autenticamente obbediente chi liberamente decide di sospendere l'esercizio del proprio libero arbitrio e di affidarsi consapevolmente a un altro: l'obbedienza è sempre un vero atto di fede nei confronti dell'altro. L'obbedienza autentica non è mai una pretesa, un'imposizione da parte di chi impartisce un ordine, è piuttosto una concessione da parte di chi liberamente si determina per essa. È quella che concediamo non in ragione dell'autorità dell'altro, ma in ragione della sua autorevolezza. Decidiamo di obbedire, di sospendere il nostro giudizio per il tempo necessario a compiere quell'atto contrario al nostro immediato volere, perché riconosciamo nell'altro la capacità di comprendere più e meglio di quanto sappiamo fare noi e riteniamo che tale obbedienza ci farà crescere e porterà anche noi a un più elevato grado di comprensione e consapevolezza. In questo rapporto è proprio chi chiede obbedienza a mettersi in gioco e a rischiare di più, poiché sa che all'atto di obbedienza dovrà far seguito l'effettiva dimostrazione di quel superiore livello di comprensione cui l'obbediente, prima di obbedire, non poteva attingere; se fallirà in questo, sa che non avrà più obbedienza, ma eventualmente solo sottomissione, poiché avrà perso la sua attendibilità e la sua autorevolezza. Dovendo individuare una situazione che renda la complessità delle relazioni in gioco tra chi chiede e chi concede obbedienza vera come sopra descritto, indicherei la scena in cui Dio chiede ad Abramo di sacrificargli Isacco, il suo unico figlio. Dio chiede e non impone e non minaccia alcuna sanzione. Abramo ci sorprende per l'apparente freddezza con cui, senza esitazione, si organizza per porre in atto il comando di Dio: ha deciso di concedere obbedienza a quell' Altro che è il suo Dio, ha deciso di affidarsi a Lui e procede senza che la sua ragione interferisca. Grande è anche la responsabilità di Dio, che sa che il premio cui ha diritto l'obbediente è la comprensione del senso di ciò che ha chiesto. Abramo, grazie alla sua obbedienza, avrà da Dio il figlio salvo e la comprensione totale che il suo Dio è un Dio di cui vale la pena fidarsi ciecamente. Alcune citazioni: "L'obbedienza è un vizio al quale cedere fa sempre molto comodo". (Don Milani) "La resistenza contro la tirannia è obbedienza a Dio". (Thomas Jefferson) Ed infine una massima che invito tutti a non seguire: Si obbedisce sperando di poter, un giorno, comandare. 45 Vita di Club n.1 L’ANGOLO DELLA POESIA PAESAGGI DEL CUORE I vividi colori della natura si stemperano nelle tinte delicate e soavi della memoria. di LIA LINARI TOLDO (laureata in Filosofia specializzazione in Musicologia) Il giardino di Patrizia Il giardino di Patrizia ha stanze del cuore con tappeti vivi e sedili assorti nei silenzi, interrotti, a volte, da presenze amiche. Angoli naturali per tessere pensieri incolti; tane, dove ripararsi non solo da altri ma anche da se stessi. Ricordare, progettare, per ritrovarsi nuovi col cuore di sempre. ...ma la malinconia qui è tensione serena. Sahara Sa l’attesa, il deserto, come pellegrino diretto alla Mecca. A oriente la meta si conquista nel silenzio. Sulle vestigia dei Garamanti ritrovo antichi rapporti spazio-tempo. Ma la luce gioca scherzi non sempre innocenti. Miraggi tra le pietre pazienti, metafore di vite diverse, nell’immutabile avanzare di passi sapienti. Frammenti di vite con noi intorno al fuoco, e l’attesa… fa parte del gioco. 46 Vita di Club n.1 CULTURA&SOCIETÀ LA CULTURA MILITARE La cultura comprende le conoscenze, le credenze, l’arte, il diritto, il costume e tutto quanto deriva all’uomo in quanto membro della società, quindi anche la cultura militare che non è solo ars belli. di ROBERTO FAMBRINI Gen. Br. (ris) S Nel passato la storia dei popoli è sempre coincisa i può definire la cultura come quel con quella dei loro Eserciti, tanto che non patrimonio sociale di una comunità, esisteva distinzione tra potere politico e potere trasmesso di generazione in militare. Ogni conquista, in qualsiasi campo generazione, che comprende dello scibile umano, era sempre generata dalla comportamenti, conoscenze, credenze, fantasie, necessità militare. Segni evidenti sono presenti ideologie, simboli, norme, valori, realizzazioni nell’architettura e nell’urbanistica (dalla civiltà tecniche ed architettoniche? Se sì, allora esiste nuragica in forma di caposaldo, alle città una cultura militare, intesa come l’insieme di fortificate come Palmanova), nella meccanica regole, tradizioni, avvenimenti e comportamenti (artiglierie, carri armati, missili, navi, aerei), militari che contraddistinguono un popolo e di nella chimica (esplosivi), nell’elettronica ed cui i militari sono i custodi da sempre. informatica (internet è nato per esigenze Noi occidentali consideriamo una civiltà come militari): tutte evoluzioni e scoperte, le cui un’entità unica, anche se essa rimane pur sempre soluzioni poi sono state applicate ai mezzi e una composizione pluralistica, costituita da più strumenti che ci rendono oggi la vita comoda e entità, a volte in contraddizione tra loro: quali confortevole. una cultura contadina ed una industriale, una Nel presente la società sta subendo una profonda delle élites ed una popolare. Il mondo militare trasformazione culturale, sociale e politica; ecco ne rappresenta una, tanto che ogni conflitto reale perché la complessità assunta dagli organismi o potenziale, nel tempo, ha sempre generato e militari ed il loro grado di tecnicizzazione hanno genera un complesso di conoscenze che dato vita ad una accentuata specializzazione, che accrescono il livello di cultura, formando così la ha portato sempre più a distinguere il militare cultura militare del popolo stesso. dal politico. Siamo così di fronte a due distinti Infatti durante un conflitto sia politico (vedi la livelli culturali: quello tecnico-militare, che guerra fredda) che militare in senso stretto ogni riguarda lo strumento bellico nella sua forma di cultura si esprime in modo pieno e configurazione ordinativa ed operativa completo promovendo lo sviluppo (purtroppo sconosciuta ai più) e quello tecnico-scientifico per gli armamenti, la strategico, nell’accezione più ampia struttura economica per garantire la della parola, che tende a definire i nuovi loro realizzazione, la capacità logistica assetti geo-politici ed i conseguenti e burocratica per la loro manovra, la rapporti internazionali. ricerca e lo sviluppo medico e In questa situazione la figura del militare chirurgico, la letteratura favorevole o si trasforma da modello tradizionale a contraria alle varie posizioni quello professionale-manageriale, cioè ideologiche. In altre parole la lotta per coordinatore di una organizzazione la sopravvivenza sviluppa nelle complessa ed articolata. Istituzioni e nei singoli una cultura Ed anche in questo frangente la società militare atta a ricercare un complesso di moderna (complessi, aziende, conoscenze e tecniche necessarie a Istituzioni), si avvale delle esperienze sostenere un conflitto, sia pure non Caio Giulio Cesare. ormai consolidate in ambiente militare, cruento. 47 Vita di Club n.1 quali la scienza dell’organizzazione, la leadership, il processo decisionale e di pianificazione, le tecnologie didattiche, che costituiscono la base del modello gerarchicofunzionale, adottato ormai da tutti gli Eserciti occidentali. In tale contesto si può affermare che i moderni complessi, Istituzioni e aziende, abbiano derivato dal sistema militare il proprio assetto organizzativo. La cultura militare ha sempre comunque posto l’uomo al di sopra di qualsiasi finalità funzionale tanto che nella formazione dell’Ufficiale viene insegnata una materia l’arte del Carl von Clausewitz. comando, ritenuta fondamentale per il futuro Comandante. Arte del comando che oggi viene considerata basilare per ogni dirigente civile, al fine di poter gestire maestranze e dipendenti, ricavando da essi il miglior rendimento. Certo in campo militare vi è una caratterizzazione specifica, quale l’etica del comando, il concetto di autorità e di disciplina imposta e consapevole, che indubbiamente rende più agevole il comando. In definitiva l’organismo militare di oggi esprime una cultura adeguata ai tempi e deve avvalersi di una struttura che spieghi la ragione d’essere e ne indirizzi l’operato. Di questa dottrina, che è la cultura militare nel suo insieme, frutto di convinzioni ideali e di conoscenze specifiche, i militari sono gli interpreti più autentici. Con questo scritto non ho voluto certamente fare un’apologia della guerra (che resta comunque una tragedia umana) e dell’arte bellica, ma semplicemente richiamare l’attenzione su alcuni aspetti dello sviluppo della scienza, della tecnica e dell’organizzazione sociale connessi e derivanti dagli studi legati all’evolversi della cultura militare, aspetti che difficilmente possono attirare l’attenzione di chi non appartiene alle Forze Armate. Napoleone Bonaparte in un dipinto di Jacques-Louis David, Napoleone attraversa le Alpi. STORIA RIMINESE SANTA MARIA NUOVA DI SCOLCA La storia dell’Abbazia riminese in un libro di Andrea Donati. di MARIO ALVISI N ella chiesa di San Fortunato, sul Covignano, è stato presentato il volume “Santa Maria di Scolca Abbazia Olivetana di Rimini” dello storico Andrea Donati con il diretto coinvolgimento del Conte Gian Lodovico Masetti Zannini, cultore della storia sacra riminese. Fra gli sponsor, ormai necessari per pubblicazioni storiche dai grandi costi e scarse vendite, ci sono la Provincia di Rimini, la Fondazione della Cassa di Risparmio e la Confartigianato diretta dal nostro amico e socio Mauro Gardenghi, il cui intervento si è basato, in modo particolare, su una frase scritta nella prefazione da Don Renzo Rossi, il parroco di San Fortunato, da noi conosciuto ed apprezzato per le sue doti pastorali e culturali: “Fin dal primo saluto ai parrocchiani ho detto che mi sarei impegnato per valorizzare la storia del luogo, perché un popolo continua ad esistere se custodisce la 48 Vita di Club n.1 tradizione e la tramanda alle nuove generazioni”. Ebbene, mi sembra che quell’impegno sia testimoniato da questo libro, che conclude l’ambizioso progetto di restauro e di valorizzazione dell’antica abbazia, preceduto dalla recente inaugurazione del piccolo ma prezioso museo che raccoglie le memorie della secolare presenza dei monaci olivetani a Rimini. Donati scrive la storia dell’abbazia sulla base di un’ampia bibliografia scovata negli archivi e nelle biblioteche riminesi, nell’archivio di Monte Oliveto Maggiore in provincia di Siena, sede principale dei monaci olivetani (Scolca era stata “già splendido ed importante monastero” di quella congregazione benedettina), e nell’archivio segreto del Vaticano. La ricerca ha permesso di conoscere la maggior parte del patrimonio bibliografico a stampa dell’Abbazia e i tanti interessi teologici, culturali e scientifici coltivati dagli olivetani di stanza a Rimini. Il volume si apre con saluti e convenevoli, tutti meritati peraltro, che sono già un prezioso contributo alla conoscenza dell’abbazia e della sua importanza nel territorio riminese. Dal Vescovo Monsignor Lambiasi (essi hanno tratto dall’oscuro dell’antichità fra la mischia di tantissime carte), all’Abate Generale di Monte Oliveto Tiribilli (è urgente assumersi la responsabilità di trasmettere il senso di ciò che ci ha preceduti, delle tradizioni e delle vicende senza le quali noi non saremmo ciò che siamo oggi), dall’ex presidente della provincia Fabbri (il territorio della provincia è disseminato di tesori che sono segni d’un passato d’eccellenza), al Presidente della Fondazione Cassa Risparmio Alfredo Aureli (uno dei monumenti più insigni di Rimini). Poi, come già detto, troviamo un’ampia bibliografia con riferimenti a dizionari, collezioni, fonti manoscritte, fonti edite e letteratura che sono testimonianza e frutto di una minuziosa ricerca durata sei anni. Credo ne sia valsa la pena, perché il racconto storico vero e proprio costituisce una scoperta continua non solo della fondazione dell’Abbazia e della sua vita nell’arco di oltre 300 anni (dal 1418 al 1797), ma anche di quanti luoghi, edifici ecclesiastici e pertinenze dell’Abbazia fossero sparsi nel territorio circostante. Oggi essi sono quasi sconosciuti e difficilmente ricollocabili (nel libro manca una cartina topografica che dia al lettore la possibilità di individuare le varie locazioni), anche tenendo presente che ormai la maggioranza dei riminesi è fatta di immigrati e l’incuria del tempo e delle persone ha contribuito al peggioramento della memoria!). L’Abbazia nasce nel 1418 quando Carlo Malatesta (dimenticato purtroppo dalla toponomastica riminese, cosa riprovevole da noi Lions sempre rimarcata) donò a Pietro Ungaro (personaggio che non sono riuscito a identificare) la chiesa di Santa Maria Annunziata Nuova di Scolca, che aveva fatto appena costruire a suffragio dell’anima dei genitori, Galeotto e Gentile da Varano. La donazione dell’Abbazia favorì da subito il consolidamento dei frati di San Paolo Primo Eremita, un ordine agostiniano sorto in Ungheria nella prima metà del XIII secolo, che si trovava a Rimini dal 1394, dove si era insediato dapprima nell’antica pieve di San Lorenzo in Monte (oggi in ristrutturazione), poi nella Abbazia di San Gregorio in Conca (nella zona di Morciano) e nell’ospedale di Santo Spirito (l’attuale convento dei Cappuccini di via della Fiera a Rimini). Col tempo gli eremiti ungheresi andarono ad abitare a Covignano. La cima del colle era chiamata fin dal medioevo la Scolca, toponimo di origine germanica “Skulka”, che indica la scolca, la vedetta, ovvero un luogo fortificato. In questo luogo, dove forse c’era già una casa fortificata, Carlo Malatesta costruì il monastero e la chiesa di Santa Maria. Per ragioni sconosciute (si ha notizia di uno scisma scoppiato all’interno dell’ordine) i frati ungheresi furono richiamati in patria lasciando vacante il monastero di Scolca. Allora Carlo Malatesta chiamò ad insediarvisi i monaci olivetani (bolla pontificia emessa a Firenze il 7 settembre 1421), i quali, dopo transazioni, convenzioni e atti ecclesiastici vari, accettarono 49 Vita di Club n.1 di venire a Rimini a patto di potersi stabilire in piena autonomia con un numero minimo di sedici monaci residenti. Ma oserei anche pensare che non fosse loro indifferente il patrimonio ecclesiastico e fondiario venutosi a costituire con la donazione malatestiana, patrimonio che aveva reso l’Abbazia di Santa Maria di Scolca uno dei maggiori monasteri della Congregazione Olivetana e il più ragguardevole della diocesi di Rimini. Ebbe così inizio una lunga storia di vita religiosa all’insegna dell’antico carisma benedettino al quale Carlo Malatesta ricorse per favorire l’introduzione in seno alla signoria riminese del modello più illustre di vita contemplativa che ci fosse in occidente. I possedimenti di Santa Maria di Scolca, come accennato, erano vastissimi. Naturalmente la vicina Pieve di San Lorenzo in Monte (è tra le più antiche pievi); l’Abbazia di San Gregorio in Conca (sulle rive del fiume Conca); il già citato ospedale Santo Spirito circondato da orti, vigne, prati, campi e mulini sul fiume Ausa; un grande possedimento agricolo in quel di Gatteo (terreno ottenuto da Ugolino di Simone consigliere di Sigismondo Malatesta); il monastero di Santa Maria di Donegaglia, una possessione sulle sponde dei fiumi Uso e Rubicone, dono di Carlo Malatesta; così com’è un dono dello stesso Carlo il monastero San Benedetto di Roncofreddo. E ancora chiese, stabili, ville, terreni da ricavarne tante “decime”, ma “se è bene e così ricco di beni di fortuna, sono tante e così varie le spese, che occorrono farsi in questo monasterio per mantenimento della famiglia ed delle chiese a lui unite, che poco o nulla avanzano dalle sue annue rendite. Questo è quanto ho potuto trovare entro all’ocio di tempo permessomi dalle mie cure, quale, se fosse stato più longo, senza fallo avrei scoperto altre cose maggiori, che saranno eternamente sepolte” - relazionava Gasparo Rasi nel “Racconto storico” commissionatogli dal “molt’illustre e reverendissimo signor padrone colendissimo il padre dom Domenico Peveroni, cremonese, abbate generale de’ padri di s. Benedetto della Congregazione di Mont’oliveto di Siena”. Andrea Donati, per completare le memorie di Scolca, riporta, oltre al “Racconto storico” di Gasparo Rasi, anche la traduzione del “Libro delle cose memorabili del monastero” a cui “ho pensato io, don Giacinto Martinelli abate di questo monastero e visitatore, di potere in qualche modo giovare a chi succederà in appresso con estendere in questo volume per ordine alfabetico quelle memorie che in leggenda e codici e libri ho poste insieme. Rimini, 1782 novembre 21. Idem)”. Come detto, gli Olivetani accettarono l’invito di Carlo Malatesta ponendo delle condizioni sul numero dei monaci da ospitare a Scolca. Donati offre un contributo inserendo nel libro una ricerca fatta da Roberto Donghi sulle famiglie monastiche che vi hanno vissuto dal 1422 al 1600. È interessante leggere la provenienza e la funzione monastica di ogni singolo componente: dal cellerarius (economo) al magister novitiorum, dal conventus (colui che lavora per la conservazione del patrimonio), al portarius (portinaio), eccetera. Per i primi anni, dal 1422 al 1430, non si conoscono i nomi dei monaci presenti, ma troviamo solo quelli dei Priori che governarono l’Abbazia. Il primo di questi Priori è stato l’abate Baptista de Podiobonici (Battista da Poggibonsi) coadiuvato dal conventus Francischus de Arimino (Francesco da Rimini). Nel 1446 e 1448 ritroviamo due novizi riminesi, Bartolomeo e Paulus, mentre il primo importante monaco della nostra zona sarà Petrus che entra nel 1452 come conventus, per poi diventare Priore nel 1455. I riminesi nei primi cento anni non sono molti, mentre monaci arrivano da tutte le parti d’Italia, dal nord al sud, anche dalla Sicilia e dall’estero: Germania, Spagna, Albania e tante altre nazioni, perfino dalla Scozia. Nel 1481 è segnalato un monaco di San Marino. L’elenco delle famiglie monastiche dell’Abbazia finisce con il 1600 e qui i riminesi la fanno da padroni: Ciprianus è l’Abate eletto già nel 1597, Hypolitus è il Vicarius, Jo.Babtista il Cellerarius e Angelus il Cellerarius foraneus. In quell’anno i riminesi presenti erano ben diciassette su trentadue monaci e laici che componevano la comunità. Concludo, prima chiedendo perdono agli autori del libro e poi ai veri storici, per la mia digressione in un campo di studi che non mi appartiene, ma mi affascina tanto. E poi riportando e condividendo un pensiero del Vescovo Lambiasi scritto nella prefazione: “sotto gli occhi dell’attento lettore scorre la vita fervorosa ed operosa di una comunità monastica”, “passano personaggi e luoghi, che rivivono una rinnovata presenza”, “passano gli abati del monastero con le loro opere e la loro santità”, “passano gli uomini con le loro imprese per la cultura e il vivere cittadino”. 50 Vita di Club n.1 ARTE IN MOSTRA LA FONDAZIONE “TITO BALESTRA” A Longiano nel Castello Malatestiano un centro culturale polivalente dedicato all’arte del Novecento. di ANDREA BIANCHI A ll’interno del Castello Malatestiano di Longiano è custodita una delle più importanti raccolte dedicate all’arte del Novecento italiano, costituita grazie alla passione e all’impegno di un individuo originale qual era Tito Balestra, poeta, collezionista e osservatore pungente della quotidianità di una generazione che faticosamente stava emergendo dalle ceneri della seconda guerra mondiale. Nato a Longiano nel 1923, Balestra si trasferisce a Roma nel 1946, dove entra in contatto con una fervida e prolifica realtà culturale che aveva il suo polo di aggregazione presso la Galleria La Vetrina di Tanino Chiurazzi. Qui incontra intellettuali ed artisti del calibro di De Pisis, Flaiano, Guttuso, Longanesi, Maccari, Mafai, Penna, solo per citare alcuni tra i tanti, stringendo amicizie e instaurando fecondi sodalizi di idee, proposte, intenzioni. È questa “la vera università di Balestra che, per due decenni, potrà assistere e partecipare agli stimoli e agli umori di una grande stagione artistica e letteraria” (G. Appella). Una peculiarità della ricchissima collezione (2302 opere, tra oli, grafiche e sculture) è quella di essere nata grazie ai numerosi rapporti di “scambio”, di amicizia e di interessi culturali tra Tito Balestra e il mondo artistico della capitale da lui conosciuto, esplorato, assorbito nel corso di un trentennio (1946-1976). Lontano dal mercato dell’arte Tito si affidava ai “baratti”, riuscendo ad ottenere ciò che desiderava con estrema abilità. Come è stato giustamente osservato, la collezione svolge un ruolo di “integrazione visiva” della sua poetica, facendo emergere uno stretto rapporto tra parola e immagine. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1976, accogliendo il suo desiderio che la collezione non fosse smembrata, il fratello Romano ed alcuni amici fra i quali Giuseppe Appella, Enzo Dalla Chiesa, Mino Maccari, Gino Montesanto, Amelio Roccamonte, Vanni Scheiwiller contribuirono affinché la moglie Anna Maria De Agazio decidesse insieme alla famiglia di iniziare il percorso di una costituenda fondazione in Longiano, inaugurando nel 1982 una prima esposizione della collezione. Successivamente nel 1989, con l’impegno del Comune di Longiano, vede la luce la Fondazione a lui dedicata, un vero e proprio centro di trasmissione culturale, in cui valorizzazione e promozione artistica assumono un ruolo imprescindibile nella formazione di una moderna identità culturale. Nel 1991, in occasione del trasferimento nel Castello Malatestiano, è stata presentata una selezione di circa quattrocento opere, a cura di Flaminio Balestra, direttore dell’istituzione. Vari riordinamenti condotti con grande attenzione e scrupolosità hanno permesso di rendere visibile al pubblico buona parte della raccolta, la quale viene tuttora affiancata dall’organizzazione di mostre periodiche dedicate ad artisti contemporanei. Largo spazio è riservato inoltre a convegni e a dibattiti, così come a rassegne che coniugano arte, letteratura e musica. È alquanto riduttivo stilare un elenco degli artisti che trovano posto nella collezione; basti citare nomi come Renzo Vespignani, Mario Mafai, Mino Maccari, che corrispondono alle tappe fondamentali dell’esistenza e della poesia di Tito Balestra. Vespignani esterna visioni angosciose e grottesche di una realtà quanto mai cruda e desolante, che si esprime attraverso la rappresentazione delle distruzioni lasciate dalla guerra, nelle squallide periferie urbane contornate da scempi edilizi, veri e propri “non luoghi” degli emarginati, analizzati con efficace realismo. Immagini che puntualmente si riflettono nelle poesie sulla guerra scritte da Tito a Longiano, frammenti di estrema lucidità e 51 Vita di Club n.1 chiarezza, veloci istantanee sul disagio e la solitudine. Mafai, protagonista della cosiddetta Scuola Romana a partire dalla fine degli anni ‘20, si avvicina alla tematica neorealista nell’immediato dopoguerra, fino ad abbracciare un linguaggio “intimista” della rappresentazione, che si esprime tramite nature morte, paesaggi, ritratti in cui la profusione di colori domina incontrastata. Un’intimità che sicuramente piaceva a Tito, poeta e cantore delle cose quotidiane e della dimensione più pura dell’esistenza umana. Con Mino Maccari, Tito Balestra condivideva il gusto per l’ironia tagliente, l’arguzia, la satira nei confronti delle debolezze umane e del costume, basti pensare che la collezione comprende ben 1903 opere dell’artista, che da sole potrebbero costituire un museo a se stante. Di Maccari, Tito apprezzava oltre all’ingegno, le doti manuali, la conoscenza delle tecniche da artigiano specializzato, al punto da trascorrere ore intere nel suo studio a osservare e studiare. Tra l’altro Maccari è scelto come testimone alle nozze di Tito con Anna Maria nel 1956, segno evidente di una genuina amicizia, ma sarà anche illustratore del primo volume di poesie pubblicato in forma di raccolta nel 1974, “Se hai una montagna di neve tienila all’ombra”. Non vanno dimenticati altri grandi nomi presenti nella raccolta, come De Pisis, Campigli, Sironi, Guttuso, Rosai, Morandi, Soffici, ma non è esagerato sostenere che buona parte del mondo artistico italiano del ‘900 vi trova una sintesi espressiva perfetta, istituendo un rapporto di incontro/scambio con il visitatore che vuole cimentarsi nella scoperta di questo prezioso “contenitore” culturale. Giorgio Morandi, “Natura morta con cinque oggetti”, 1956. Mino Maccari, “Senza titolo”. Renato Guttuso, “Garofani”, 1957 Mario Mafai, “Natura morta”, 1948. 52 Vita di Club n.1 Massimo Campigli, “Senza titolo”, 1949. RIMINESI DIMENTICATI CARLO MALATESTI Il Signore della Rimino del Quattrocento, che - come scrive Oreste Cavallari – ha avuto la sfortuna di nascere un secolo dopo Dante e mezzo secolo prima del suo prestigioso nipote, Sigismondo, non può riposare in pace finché lo si definisce “strepitoso tiranno”, un ossimoro che la dice lunga sul voler negare affermando di chi si induce ad ammettere… chissà perché obtorto collo. “E Rimini, che pur dedica alla Allodola alcune sue vie, a Carlo Malatesta non serba nemmeno un vicoletto” (O.C.). di FRANCO PALMA E STEFANO CAVALLARI C arlo Malatesta, Signore della Rimino del Quattrocento, dimenticato dai Riminesi. Come le fiammelle dei fuochi fatui, che si accendono e si spengono rapidamente, così nella cultura locale riaffiora e poi svanisce la memoria di un personaggio storico riminese di prima importanza, che si chiama Carlo Malatesta. Ce lo ha riportato Oreste Cavallari nel suo Libro "Tre Papi e un Malatesta" (1ª edizione del 1981); la 2ª edizione di Giovanni Luisè, a cura di Stefano Cavallari, che l’ha corredata di nuove note, è stata presentata a Castel Sismondo il 17 luglio scorso con intervento del prof. Piergiorgio Pasini. Il lavoro riguarda il "Grande Scisma della Chiesa" (1378-1415) e racconta di come il Papa "vero" Gregorio XII, minacciato da ben due Antipapi, fu ospitato in Rimino e difeso da Carlo Malatesta, che ottenne il suo trionfo al Concilio di Costanza (1414-1415) facendo prevalere la legittimità del suo papa e salvando la Chiesa da una divisione che avrebbe frantumato l’Europa tutta. Ciò Carlo ottenne per merito delle sue alte doti intellettuali e di un’abile opera diplomatica, degne di grande "Uomo di Stato", prevalendo contro grandi potenze dell’Italia settentrionale ed europee che sostenevano gli Antipapi Benedetto XIII e Giovanni XXIII. Nella prima edizione (sempre a cura del figlio Stefano) l’Autore osservava che i Riminesi non avevano dedicato nemmeno una via a questo loro grande Principe e si augurava che ciò sarebbe avvenuto a breve, ma nemmeno l’intervento del nostro Club è stato capace - sinora - di tanto. Ora stiamo lavorando affinché si metta almeno un cartello ai bordi del Canale che proprio Carlo ha fatto costruire. È vero che gli editorialisti locali descrivono Carlo come uomo probo, devoto a Dio, dedito all’interesse della Chiesa (che era la prima potenza politica del tempo e dalla quale derivava il suo titolo di governatore) nonché alla saggia amministrazione della propria città. Ma queste descrizioni scolastiche, sbrigative e superficiali non rendono giustizia alla grandezza del personaggio, in quanto la sua azione è ben più alta storicamente, politicamente e umanamente, perché il suo Vicariato fu senz’altro uno dei più fortunati e costruttivi nella storia della dinastia malatestiana e della nostra città: basti pensare che governò - insieme ai fratelli di Cesena e Pesaro - in un periodo ove per almeno trenta anni non vi furono guerre in Romagna! Ora la seconda edizione di “Tre Papi (o antipapi) e un Malatesta (Carlo)” ci riporta di nuovo alla memoria questo nostro grande personaggio, attribuendogli non solo l’onore che si merita per il salvataggio del "papa vero", ma ad esempio anche per aver fatto il "porto canale Malatestiano", quello che abbiamo oggi, e che mise la città al riparo dal Marecchia, porto che tornò ad essere scalo marittimo di primaria importanza. Sono sinora comparse due recensioni, ma mentre una ("Chiamami Città" del 7 Agosto) a cura di Stefano Cicchetti riporta i fatti con obiettività e correttezza, riconoscendo e amplificando, per così dire, l’importanza storica del nostro Carlo Malatesta, l’altra ("La Voce di Romagna" del 25 Agosto a cura di "L.M.") è infarcita di errori, imperfezioni e di qualificazioni che trattano il nostro Carlo come un signorotto qualsiasi. Il primo errore (abbastanza grave per un giornalista che fa una "recensione") è quello di aver considerato l’opera come una "ristampa", mentre si tratta di una "seconda edizione" corredata da nuove Note, tratte dagli studi nel frattempo pubblicati, specie dall’Istituto Storico Malatestiano condotto da 53 Vita di Club n.1 Bruno Ghigi. Il secondo è un errore storico: gli antipapi non "rinunciarono" al Pontificato, ma furono processati e condannati dal Concilio, il che è ben diverso perché la vittoria politica di Carlo con queste condanne fu piena e totale in quanto si riconobbe che Gregorio XII era l’unico "papa vero", cioè legittimo. Altrimenti sarebbe stata una soluzione di compromesso che non avrebbe costituito la base per l’unità della Chiesa e la pace in Europa; e in questo si vede la grandezza di Carlo - che era presente al Concilio come rappresentante proprio di Gregorio XII come "Uomo di Stato" che pone l’istituzione al riparo da qualsiasi futuro probabile attacco. Benedetto XIII, l’antipapa più ostinato, fu rinchiuso in carcere a Perpignano, rifiutò l’incontro con l’Imperatore Sigismondo, re di Ungheria, e Ferdinando di Aragona, riuscì a fuggire dal carcere e si rinchiuse nella fortezza di Peniscola nel regno di Valenza ove volle continuare a fare il papa. Fu allora processato per diavoleria e deposto; è vero che gli successe un altro antipapa (Egidio Munoz, eletto da un Conclave di soli tre cardinali) col nome di Clemente VIII, ma la cosa finì in breve e senza alcuna importanza. Giovanni XXIII, Filarete di Candia, di potente casata campana, fu l’antipapa più pericoloso e attivo, ma commise una serie di misfatti sacri e profani e fu costretto alla fuga in Austria travestito da stalliere. Il 29 Maggio fu processato dal Concilio di Costanza e imprigionato nel castello di Tottene. Altro che "rinunce"! La battaglia per il riconoscimento del nostro papa fu - come si vede - aspra e totale. Altra dimenticanza dell’autore di questa recensione è la seguente. Rimini fu davvero Sede Pontificia; nel 1408 (prima del Concilio di Pisa che elesse il terzo antipapa) può definirsi come provvisoria, ma dal 1414 al 1415 stava per trasformarsi in sede definitiva, perché solo l’opera miracolosa di Carlo fece cambiare idea al Concilio di Costanza che voleva incoronare l’antipapa Giovanni XXIII; in tal caso Gregorio XII, non potendo tornare a Roma, sarebbe rimasto a Rimini, a San Fortunato sul Covignano (ove una lapide ricorda ancora l’evento). Ma quello che non perdoniamo all’editorialista "L.M." della Voce è di aver nominato nel sottotitolo Carlo come "Tiranno", il che sovverte la grandezza del personaggio – grandezza riconosciuta da tutti gli storici, anche esteri; anzi a Carlo fu attribuita, oltre alla qualifica di "il migliore dei Malatesti", quella di "Eccellente Principe umanista del Quattrocento". Siamo quindi sfortunati: si parla poco a Rimini del suo più grande personaggio (anche di livello europeo) e quando (ma raramente) accade, se ne parla con imprecisione e superficialità, come se la nostra Storia non contasse niente o, peggio, fosse riprovevole, come accadde con la campagna di denigrazione contro Sigismondo, suo successore. Gli estimatori di Carlo Malatesta sono invece grati a Stefano Cicchetti di Chiamami Città per aver posto il personaggio nel suo giusto superiore valore. Si raccomanda a "L.M." di informarsi meglio, ad esempio su "La signoria di Carlo Malatesti" a cura di Anna Falcioni, Ed. Ghigi, Rimini 2000, di ben 439 pagine, con giudizi tutti encomiastici su Carlo da parte degli eminenti storici che hanno realizzato l’opera; giudizi tutti riportati nelle nuove note alla seconda edizione di "Tre Papi e un Malatesta". La conclusione è amara: a Rimini abbiamo tanta Storia, in gran parte dimenticata, ma quando raramente riaffiora, qualcuno ancora la svilisce. Vogliamo farci male da soli? Ma questo è un altro argomento; a noi premeva mettere a punto certi elementi fondamentali ed esporli alla critica perché siano giustamente valutati. 54 Vita di Club n.1 INTERMEETING I LIONS RIMINESI RENDONO ONORE AL TRICOLORE Il 10 Novembre scorso, presso l’Hotel Holiday Inn di Marina Centro, i Lions Club Rimini Riccione Host e Rimini Malatesta si sono uniti in un meeting interclub per celebrare la FESTA DELLA BANDIERA. Ospite d’Onore il Generale di Squadra Aerea Mario Martinelli, Comandante del VII Reparto dello Stato Maggiore dell’Aeronautica. di ELIO BIANCHI I Il Cerimoniere ha poi presentato le Autorità; l Lion Graziano Lunghi, Cerimoniere del oltre all‘Esimio Relatore erano presenti: Club Rimini Riccione Host, ha aperto la il Vice Comandante della Capitaneria di Porto, serata porgendo il saluto dei Presidenti dei Cap. di Fregata Giovanni Centone e Signora, il due Club, Fabio Barone ed Antonio Galli, Comandante del Gruppo 7° VEGA, Col. Pilota ai numerosi intervenuti fra i quali è corso un Bartolomeo Polidori e Signora, il Comandante tremito d’emozione durante la successiva della Caserma G. Cesare, Ten. Col. Pier Paolo esecuzione degli inni: quello tedesco (in onore Costantino, il Ten. Col. Daniele Telesca del del Presidente internazionale Eberhard J.Wirfs), Distaccamento dell’Europa e del Aeroportuale di nostro Paese, in Rimini e Signora, il questa serata Lions Delegato di dedicata all’amor di Zona D, Guido Patria. La successiva Zangheri, il lettura della Mission Generale Pietro Ror ha ricordato in sintesi e Signora, il Gen. a noi Lions presenti, Domenico Rapisarda la vastità dello e Signora, il Gen. impegno di Saverio Cillo e solidarietà che ci Signora. siamo assunti con la Il Cerimoniere, per nostra adesione a dare significato alla questa grande celebrazione della Associazione la cui finalità è di: Il Presidente del Lions Club Rimini Malatesta Antonio Galli, il Festa della Bandiera, permettere a generale Mario Martinelli, il Presidente del Lions Club Rimini ha letto l’articolo che il Lion Gen. volontari di servire Riccione Host, Fabio Barone. Roberto Fambrini aveva pubblicato sulla nostra la loro comunità, soddisfare i bisogni Rivista (1° numero del 2008/09) per umanitari, favorire la pace e promuovere rammentarci l’alto significato simbolico della comprensione internazionale per mezzo dei Bandiera per l’unità del popolo italiano. Il Gen. Lions Clubs. Analogamente la lettura dell’etica Antonio De Angelis, socio del Club Rimini lionistica ci ha poi richiamato i principi Riccione Host, ha porto poi un saluto al Gen. fondamentali ai quali il socio Lions deve Mario Martinelli, e ha ricordato la lunga amicizia uniformare il suo comportamento, in privato così che li lega rivolgendogli inoltre la preghiera di come nella comunità in cui vive, affinché il suo riferire qualche notizia sulla presenza delle operato esprima il valore aggiunto di una nobile donne pilota nell’Arma che da azzurra gli pare visione del come essere membro del genere stia mostrando una marcata sfumatura di rosa umano. 55 Vita di Club n.1 Il Gen. Martinelli ha introdotto la sua relazione come già stava affiorando ai suoi tempi, negli ricordando i momenti riminesi della sua carriera anni ’90. con un ringraziamento al Gen. De Angelis per Il Presidente del Club Rimini Riccione Host, l’aiuto ricevuto per superare un momento Fabio Barone, nel porgere il suo saluto a difficile conseguente a un incidente chiusura della celebrazione, ha ricordato come la motociclistico che l’ha poi tenuto lontano Bandiera sia simbolo di riferimento anche per le dall’attività di pilota, affermando senza mezzi Forze Armate, impegnate all’interno e nella termini che, se non avesse ricevuto quell’aiuto, pericolosa attività di peace keeping all’estero. non avrebbe neppure continuato la sua carriera in La seconda parte della serata è stata dedicata alla Aeronautica. In quegli anni la base aerea di relazione del Generale Mario Martinelli, Rimini rivestiva una importanza strategica di preceduta dalla presentazione, da parte del rilievo, testimoniata dalla presenza di numerosi Presidente Fabio Barone, della sua quarantennale velivoli nella base, importanza che nel tempo si è carriera. Infatti il Gen. Martinelli, nato a Verona ridimensionata a seguito della caduta del muro di nel 1947, nel 1966 è già arruolato nell’Arma Berlino esattamente vent’anni fa, con il aerea quale allievo del corso “Eolo 3” conseguente cambiamento degli assetti strategici dell’Accademia conseguendo l’anno successivo e il modo stesso di combattere: non più eserciti a Lecce il brevetto di pilota d’aereo. Nel 1970 contro eserciti, ma interventi in luoghi a notevole frequenta scuole di volo in Canada mentre nel distanza da quelli d’origine, contro terrorismi, 1971 consegue il brevetto di pilota militare dopo quindi con l’esigenza di grande flessibilità e aver frequentato le scuole di volo di Lecce e mobilità. Conseguentemente l’Aeronautica sta d’Amendola. Nel 1972 è stato assegnato al 5° cambiando per adeguarsi alle mutate esigenze. Stormo di Rimini dopo la transizione sul Poi, per sensibilizzare l’uditorio verso lo spirito velivolo F 104 presso il 20° Gruppo a Grosseto; dell’Arma, il Generale Martinelli ha presentato al termine del 55° Corso Superiore della Scuola un breve filmato sulla evoluzione di Guerra Aerea, frequentato nel 1986-87, viene dell’Aeronautica, dagli inizi fino all’attuale aereo assegnato allo Stato Maggiore dell’Aeronautica, ufficio del Capo di Stato Maggiore dove opera fino all’Agosto 1990 per essere poi trasferito presso l’Agenzia NEFMA. Nel Gennaio 1996 viene assegnato allo SMA- Quarto Reparto quale Capo del 4° Ufficio Infrastrutture del Servizio di Supporto, dopo un breve periodo quale Capo del 1° Ufficio. Dal 26 Settembre 2007 è Comandante del Comando Aeronautica di Roma, quale ufficiale più anziano del ruolo delle armi. Nel corso della sua lunga carriera, il Generale Martinelli è stato insignito di varie decorazioni ed onorificenze: L’intervento del Presidente del Lions Club Rimini Riccione, Fabio Barone. Ufficiale Ordine al Merito della in linea, l’Eurofighter 2000, con in sottofondo le Repubblica Italiana; note del “Va Pensiero” che hanno aggiunto Medaglia Mauriziana per 10 lustri di carriera militare; emozione ad emozione: dalle immagini dei primi Croce d’Oro per anzianità di servizio (40 anni); aerei, ai grandi Raid che avevano dato meritato prestigio all’Aviazione italiana, e poi gli aerei Croce Commemorativa per la Missione di Pace della seconda guerra mondiale e ancora, quelli in Kosovo; del dopoguerra, dei quali i più noti ai riminesi: l’ Medaglia NATO per operazioni nella ex F84, il G91, il C119 (al quale è collegato il Yugoslavia; ricordo dei tredici aviatori uccisi nel 1961 a Medaglia NATO per operazioni in Kosovo. 56 Vita di Club n.1 43.000 di cui 6.000 ufficiali, 7.000 truppa, Kindu), l’F104, il Tornado, fino all’aereo non mentre la massa è costituita dai sottoufficiali, pilotato e infine gli MX impiegati in Irak, l’ F16 personale estremamente specializzato, tecnico, di stanza a Cervia, il C136 per il supporto essenzialmente volto alla gestione dell’aeroplano umanitario, l’Eurofighter 2000, l’ultimo in linea. e di tutto quello che ruota attorno ad esso. Il Gen. In chiusura, dopo le immagini di Vittori, il nostro Martinelli gestisce gli ufficiali del ruolo delle astronauta che è a Huston e volerà sullo Shuttle, armi in quanto è il più anziano di questo settore quelle della gloriosa pattuglia tricolore. costituito dal 33% degli ufficiali che sono di Il Relatore è poi passato ad illustrare schemi supporto all’attività principe dell’Aeronautica organizzativi e relative funzioni affermando che che è quella svolta dai piloti. Infatti - ha ribadito essenzialmente l’Arma Aeronautica svolge il generale, quello delle armi è il ruolo di azione di difesa nazionale salvaguardando supporto a tutte le attività che fiancheggiano interessi vitali sia in patria che all’estero sulla quella di volo: dal settore del traffico aereo, base di accordi internazionali, al servizio all’informatica, ai fucilieri dell’aria che svolgono dell’ONU e della NATO. L’Aeronautica mansioni difensive, al reparto missilistico, appronta tutte le forze, dà il servizio logistico e all’organizzazione degli equipaggi di volo. Ha cura l’addestramento, è responsabile della difesa indicato poi la dislocazione degli aeroporti attivi aerea nel territorio nazionale e nei teatri dove e le loro specifiche funzioni precisando che a viene chiamata, sviluppa forze operative; in Rimini sussiste una entità di soccorso, mentre Italia in particolare gestisce anche il traffico Cervia è una base importante della difesa aerea aereo militare e sviluppa il servizio assieme a Grosseto, Gioia del Colle e Trapani meteorologico per tutta la nazione. Dal 1999 non per la dotazione di aerei intercettori, anche se gli opera più distribuita sul territorio, ma attraverso F16 di Cervia e Trapani saranno restituiti in base funzioni principali: lo Stato Maggiore gestisce al contratto di leasing con gli USA. Resteranno un Comando della Squadra Aerea responsabile operative per queste funzioni le altre due basi dell’approntamento delle forze e un Comando con gli Eurofighter 2000, mentre Cervia e Logistico, responsabile del supporto logistico di Trapani verranno utilizzati per altre finalità. tutta l’Aeronautica; ha sotto di sé il Comando Anche il reparto di soccorso di Rimini verrà delle scuole per la formazione, l’approntamento trasferito a Cervia per cui avrà termine la e l’addestramento delle forze, gestisce le forze presenza dell’Aeronautica militare nella nostra operative attraverso l’apposito Comando che città, in quanto l’attività aeroportuale sarà gestita attualmente ha sede a Poggio Renatico di dall’Aviazione civile, Ferrara, ma che si mentre l’AVES rimarrà trasferirà a Centocelle. l’unica forza militare Si è poi soffermato sul presente in aeroporto. La Comando delle scuole: stessa sorte toccherà l’Accademia anche ad altri aeroporti; Aeronautica, la Scuola di le esigenze sono mutate e Guerra a Firenze, dalla anche l’Aeronautica si quale dipende il Collegio deve adeguare militare, paritetico a riconvertendo alcune quelli più importanti e di delle proprie funzioni ora maggiore tradizione più massicciamente come quello della svolte all’estero. Dovrà, Nunziatella e del Morosini. Il Comando Il presidente Galli offre al gen. Martinelli una ceramica ad esempio, provvedere delle scuole, di soggetto malatestiano e la rivista Vita di Club del ad attrezzare basi aeree come si è fatto a Herat responsabile Lions Rimini Malatesta. per dare copertura alle dell’addestramento, forze che operano in Afghanistan. Il Gen. organizza gli stormi per formare i piloti e cura la Martinelli ha dato informazioni anche sui tempi formazione degli specialisti con due nuclei anche e i luoghi della funzione formativa, mettendo un a Loreto per la scuola di lingue e per la scuola di accento deciso sugli attuali tagli delle risorse a perfezionamento dei sottoufficiali. disposizione dell’Arma che la porterà ad ulteriori Le risorse umane in campo contano 48.000 riduzioni degli organici. Non saranno certo delle persone che, escludendo i 5.000 civili, restano in 57 Vita di Club n.1 dimensioni di quando si dovette fronteggiare l’abolizione della leva militare obbligatoria, ma è già diminuito il numero degli aeroporti gestiti, come quello dei velivoli in linea, mentre è aumentato notevolmente il contenuto tecnologico dei mezzi in dotazione. Questa curva discendente delle risorse a disposizione, che investe peraltro anche le altri Armi, non può continuare all’infinito, pena la chiusura dell’attività delle Forze Armate, evento che contrasterebbe con le aspettative di un Paese come il nostro che ha la velleità di competere in campo internazionale con nazioni molto più importanti e più ricche. Si cercherà quindi di ottimizzare, di trasferire all’interno attività ora commissionate a terzi, di adottare altre misure che evitino di varcare il limite di non ritorno. Il Gen. Martinelli ha illustrato infine l’attività dell’Accademia di Pozzuoli, con lo scopo, a suo dire, di sensibilizzare ciascuno dei presenti, perché diventi sponsor dell’Arma nei confronti di figli e nipoti; in effetti il panorama delle materie di insegnamento è veramente vasto ed interessante. Ha espresso anche un pensiero del tutto favorevole alla presenza delle donne in Aeronautica usando termini elogiativi per le loro capacità e per come la loro presenza abbia portato nell’Arma un clima di sano confronto. Al termine della sua chiara ed interessantissima presentazione, svolta con capacità comunicativa di elevatissimo livello, il Gen. Martinelli si è reso disponibile a rispondere ad alcune domande che poi l’uditorio ha posto su argomenti pertinenti, ricevendo cortesi e circostanziate puntualizzazioni. Il Presidente del Club Rimini Malatesta, Antonio Galli ha chiuso la serata innanzitutto con un sentito ringraziamento al Gen. Martinelli per gli argomenti trattati, che ci rendono più tranquilli sapendo che abbiamo “Angeli in cielo” a proteggerci, e anche per la piacevolezza del suo modo di esporre, ed infine con un saluto a tutti gli intervenuti. MONDO LIONS UN PREMIO EUROPEO LIONS A RIMINI L’ impegno della Provincia di Rimini per sensibilizzare i cittadini sul tema dell’affido familiare ha avuto un riconoscimento ufficiale con la consegna del Premio “Comunicazione europea 2009”, promosso dal Lions Clubs International Distretto 108 A. La campagna di sensibilizzazione “L’affido porta sorrisi” - promossa dalla Provincia di Rimini assessorato Politiche Sociali insieme all’Azienda Usl di Rimini e finanziata dalla regione Emilia Romagna - è infatti risultata tra le migliori “best practice” selezionate tra le 80 pervenute a livello europeo. A ritirare il Premio il 5 novembre scorso a Milano nell’ambito del Com.Pa (Salone europeo della Comunicazione Pubblica, dei Servizi al Cittadino e alle Imprese) consegnato dal Governatore del Distretto 108 A Antonio Suzzi, sono stati l’assessore provinciale alle Politiche Sociali Mario Galasso e la referente per la campagna Barbara Raffaeli. Questa la motivazione alla base della scelta dei giudici: “Per la natura estremamente delicata e per il duplice taglio, solidaristico e civilistico, dato al tema trattato dalla campagna volta a garantire un diritto dei minori a crescere ed essere educati in un ambiente familiare che assicuri loro la qualità di vita e le relazioni affettive di cui essi hanno bisogno. Un’iniziativa capace di coniugare al meglio la solidarietà collettiva con la sensibilità individuale”. Il premio “Comunicazione europea 2009” è stato istituito nel 2000 nell’ambito delle iniziative a sostegno dei principi di buon governo e di buona cittadinanza ed è oggi l’unica iniziativa in Italia che promuove un benchmarking sulle “buone pratiche” pubblico-privato a livello nazionale ed internazionale. (dal Corriere di Rimini) 58 Vita di Club n.1 RIMINI PROVINCIA UN BORGO D’ARTE E SAPORI La tradizionale scampagnata a Talamello, ormai di diritto entroterra riminese. di ANNA BIONDI D omenica 15 novembre 2009 è una tipica giornata autunnale con i colori giusti: quello ovattato della nebbia che da Rimini a Novafeltria copre il paesaggio, quelli dal giallo al rosso al verde scuro resi vividi dal cielo sereno che emergono nelle campagne appena si affronta la salita che porta a Talamello. Una volta arrivati al centro del borgo scopriamo che anche i profumi sono quelli tipici dell’autunno: il profumo del legno intagliato, di vimini freschi appena intrecciati, l’odore di caldarroste che aleggia nell’aria mescolandosi allo zuccheroso profumo del croccante di mandorle ancora caldo sulle bancarelle accanto a montagne di torrone, e al profumo inconfondibile del formaggio di fossa che ci accoglie sulla porta come un padrone di casa onorato riceve gli ospiti venuti a festeggiarlo. Leggiamo sui dépliants che ci danno il benvenuto che “da prodotto di nicchia di una terra di confine, l’Ambra di Talamello 59 Vita di Club n.1 continua a scalare posizioni nella gerarchia gastronomica e dopo aver conquistato il palato del Belpaese si prepara ora al grande salto la sua storia invitiamo un amico che, pur nell’informalità della riunione, indossa i “panni curuli” di relatore e ci accompagna nella attraverso la certificazione di qualità e lo sbarco a Bruxelles”. Siamo contenti di aver svolto in qualche modo il ruolo di pionieri poiché da oltre dieci anni il Lions Club Rimini Malatesta è presente alla festa con soci, familiari, amici di altri club e personali: veniamo ad acquistare il formaggio di fossa e a nutrirci di cibo e cultura. Infatti i sapori li apprezziamo come sempre a Casa Tomasetti che ci accoglie familiarmente col suo menu genuino che sa di casa, non di ristorante; infatti ci sembra sempre che in cucina ci sia ancora per noi la mamma (Rosa), che fa i tortelli, la mamma (Giovanna) che fa i cappelletti e la zia (Assunta) che fa i dolci. Beh, anche una nota di malinconia fa parte dell’atmosfera autunnale! Ogni anno per conoscere Talamello e scoperta o riscoperta di eventi storici o artistici. Quest’anno è con noi il prof. Giovanni Gentili, Melvin Jones per i suoi meriti culturali, che ci parla dello splendido Crocefisso del Trecento conservato sull’altare maggiore della seicentesca parrocchiale di S. Lorenzo e oggetto di grande devozione nel corso dei secoli perché considerato miracoloso per tante inspiegabili guarigioni avvenute. Dopo un caloroso saluto ai 65 presenti il presidente Antonio Galli gli dà la parola. LA CROCE DI GIOVANNI DA RIMINI Agli esordi del trecento riminese. di GIOVANNI GENTILI (appunti P tratti dalla conversazione) oiché mi è stato chiesto un breve intervento di carattere storico-artistico, mi piace ripuntare l’occhio su un documento eccezionale che abbiamo appena visto partecipando alla Messa in S. Lorenzo: è la Croce di Giovanni da Rimini. Siamo agli esordi della pittura riminese del Trecento, non sappiamo esattamente quando, perché l’opera non è datata. Giovanni firma la sua prima opera probabilmente nel 1309 o 1314 (la lettura della data è controversa) a Mercatello sul Metauro: si tratta di una Croce gigantesca che è il suo capolavoro, sicuramente successiva a questa di Talamello, che quindi la precede. L’antecedente della pittura riminese, e quindi dell’opera di Giovanni e della Croce di Talamello, è la presenza di Giotto a Rimini che lo sappiamo dal Vasari - dipinse “moltissime cose” nella ex chiesa di S. Francesco, oggi Tempio Malatestiano. C’è rimasta, dopo varie vicende e i rimaneggiamenti provocati dal rifacimento albertiano della chiesa, la grande Croce che ora si trova nel catino absidale, mutila dei tabelloni laterali sul braccio traverso e su quello longitudinale. È una Croce rivoluzionaria rispetto all’arte duecentesca: una rivoluzione che Giotto compie grazie al suo genio e anche grazie all’influenza degli ordini mendicanti, in particolare dei francescani nel nostro caso, ma anche dei domenicani o degli eremitani 60 Vita di Club n.1 agostiniani, come nel caso di Talamello. Il Cristo raffigurato morto sulla croce cambia fisionomia: dalla fisionomia di carattere orientale, splendido artificio pittorico però privo di attenzione ai tratti naturalistici, alla rappresentazione di un’umanità dolente, come tale riconoscibile in questo capolavoro che Giotto esegue probabilmente mentre, lasciati i cantieri di Assisi, se ne va verso Padova, dove lavorerà alla Cappella degli Scrovegni e alla Basilica del Santo. La Croce di Talamello segue di pochi anni quella di Giotto e proviene dalla chiesa del Poggiolo, località nei pressi di Talamello, una chiesa officiata dagli agostiniani, una sorta di “ordine” mendicante, i cui membri praticavano l’eremitaggio, cui la chiesa serviva come punto di riferimento per le celebrazioni liturgiche comunitarie. Sono questi a commissionare la nostra Croce ad un pittore riminese, identificabile con Giovanni grazie alle grosse similitudini che il Cristo in questione ha con l’opera firmata di Mercatello. Il pittore conosce sicuramente la Croce di Giotto e ne riprende punto per punto le linee, inserite però all’interno di una carpenteria più arcaica. Giotto elabora la forma della Croce rinnovandola anche nella forma della carpenteria. La carpenteria della Croce di Talamello è arcaica perché costituita dal grande corpo centrale, dipinto in terra verde scuro, su cui si incastra, preziosissima, la croce blu notte che si intravede appena grazie alla fascia più chiara del braccio traverso della croce; i tabelloni angolari sono quadrangolari invece di essere mistilinei, come accade in Giotto; il corpo di Cristo sembra quasi sospeso sulla croce pur essendo inchiodato, leggerissimo, quasi incorporeo; il volto è giottesco, di altissima qualità pittorica. Il nostro Giovanni da Rimini rivela ancora una sorta di arcaismo anche nella forma, ad esempio nei volumi e nel loro disegno. Giotto è più “gotico” e lo dimostra nel suo segno più incisivo, nel disegno che delinea in maniera puntuale le forme del Cristo morto, come si nota, ad esempio, nel disegno del costato, dalle costole più pronunciate, il ventre appiattito dallo spasimo della morte. Splendido e straordinario è dunque il volto del Cristo di Talamello, calibrato su quello del Cristo di Giotto, che è il prototipo di una serie di volti, tipici di tutta la scuola riminese. Se il capostipite della scuola riminese è Giovanni – per quanto ne sappiamo ad oggi - è molto probabile che già operi con lui un anonimo maestro che potremmo identificare forse con quel Zangolo - un nome per certi versi sorprendente, dal sapore quasi veneziano - che i documenti attestano come pittore, ma di cui non abbiamo ancora opere firmate. La grandiosa Croce di Giovanni, oggi nella chiesa di S. Francesco a Mercatello, perfettamente conservata, reca la firma del pittore nella tavola collocata ai piedi della croce stessa. È più tarda di quella di Talamello e conserva anche nella carpenteria l’impronta giottesca in maniera straordinariamente puntuale. La forma dei tabelloni polilobati, che ospitano i Dolenti, la Vergine a sinistra e Giovanni a destra, e il Cristo benedicente al di sopra della croce stessa, è inventata da Giotto, che la riproporrà di qui a poco in Padova, nella Cappella degli Scrovegni (la Croce è oggi conservata ai Musei civici di Padova). Lo stesso tappeto o tessuto dipinto a disegni geometrici, che sottostà al corpo di Cristo, è di squisita derivazione giottesca. Qui è evidente l’evoluzione, il cambiamento di Giovanni rispetto a quanto prodotto nella Croce di Talamello; il pittore modula il corpo del Cristo in maniera estremamente raffinata ed elegante, secondo lo stile gotico: le membra si allungano, mentre il corpo acquista in corporeità, in volume, grazie all’incidenza del segno, alle ombreggiature, ai giochi di luce e al colore straordinario della pelle cadaverica del corpo magro, stretto e allungato. Di contro, il Cristo di Talamello presenta un 61 Vita di Club n.1 corpo più solido e più legato alla tradizione duecentesca, tradizione che purtroppo è impossibile documentare perché nessuna opera duecentesca si è conservata nel territorio riminese. C’è attivo nei pressi, a Faenza e altrove, il cosiddetto “Maestro dei Crocefissi francescani”, ma ciò non basta ad indagare con puntualità i gradini, i livelli vari per cui ha origine questo straordinario mutamento, che è possibile rilevare nei pressi, tra Marche, Umbria e Toscana. L’ultima Croce che vediamo è quella di S. Agostino di Rimini, chiesa anch’essa dell’ordine degli Eremitani agostiniani, come quella del Poggiolo, per l’esecuzione della quale ci si è affidati alla stessa scuola pittorica; o meglio, come dicono le fonti, ad una sola famiglia di pittori. Studi molto recenti tendono a retrodatarne l’esecuzione: anziché intorno al 1325, potrebbe essere invece molto vicina alla Croce di Giotto e quindi vicinissima a quella di Talamello. È opera, forse, di Zangolo, secondo alcuni, o del “Maestro del coro di S. Agostino” come altri storici dell’arte definiscono l’anonimo pittore, altro interprete della Scuola riminese, che sarà destinata ad un folgorante successo, ma anche ad una vita assai breve, poiché nel 1348, verosimilmente a causa della peste, l’attività pittorica della scuola avrà un brusco termine. 62 Vita di Club n.1 PENSIERI&PAROLE E ANCORA UNA VOLTA È NATALE di FRANCA MARANI N on voglio certo aggiungere voce ad una polemica riguardante le nostre radici cristiane, ma fare una semplice riflessione su questo tempo dell’anno, segno di festa e momento speciale. Natale: la parola stessa ci richiama ad una nascita, quella del Dio che si fa bambino indifeso, condividendo la nostra umanità. Perché non regalare ai nostri piccoli la gioia dell’attesa, la dolcezza del fare il presepe, la magia della Notte Santa? Perché cancellare l’usanza del presepe nelle scuole materne? Indipendentemente dal fatto che si sia credenti o no, la nascita di Gesù è un’indiscussa realtà storica, lo scorrere del nostro tempo viene computato partendo da questa nascita (prima e dopo Cristo) e gli stessi musulmani la riconoscono, anche se ritengono sia la nascita di un grande profeta e non del figlio di Dio. Il presepe, la veglia di Natale, il calendario dell’Avvento sono segni che riconducono ad un evento, un grande evento; farne partecipi i piccoli significa non già condizionarli ideologicamente, ma regalare loro momenti dolci da ricordare, attimi preziosi in cui vivere il calore familiare, situazioni in cui respirare valori quali bontà, gratuità, affettività. Il piccolo neonato nella paglia apre le braccia al mondo ispirandoci all’accoglienza degli altri più di quanto non accada quando è volutamente ignorato e cancellato. Alla formazione dei bambini giova molto più riflettere sul significato del Natale che è amore piuttosto che viverlo in chiave distorta come abbuffata di dolci e regali. A questo servivano le tradizioni della nostra infanzia che via via si stanno perdendo. Le letterine ornate di angioletti piene di buoni propositi messe sotto il piatto dei genitori al pranzo natalizio sono scomparse. L’anno scorso, avendo la mia nipotina imparato a scrivere, ho voluto recuperare la consuetudine e – francamente con poca speranza – ho chiesto se ne avessero in cartoleria. Con grande sorpresa mi sono sentita rispondere subito – Certamente – ma ben presto è subentrata la delusione quando mi è stata presentata una letterina con l’iconografia di Babbo Natale predisposta per chiedergli i doni. Così i calendari dell’Avvento, invece delle finestrine da aprire giorno dopo giorno, sono diventati cioccolatini ed anche quando sopravvivono le finestrine è sempre più difficile trovare come iconografia generale la Natività, sostituita da Babbo Natale o dall’Albero di Natale carico di doni. A Natale i doni dovrebbero essere quelli scambiati tra i componenti della famiglia come segno d’amore, doni non costosi, ma pensati con amore, studiati con cura per il destinatario; il Babbo Natale che porta una moltitudine di doni che i piccoli scartano con velocità sorprendente, quasi voracemente, e poi abbandonano altrettanto rapidamente non appartiene alla nostra tradizione ed allontana il pensiero del significato di una festa che è appunto Amore. Lasciamo i doni alla Befana quando all’Epifania i Re Magi portano doni a Gesù. Il Dio-bambino apre le braccia al mondo come il Dio-uomo appeso alla croce; indipendentemente dall’appartenenza religiosa, è segno di amore per tutti, di quell’amore che si sta perdendo nella frettolosità dell’incontro poco attento, nel disinteresse per l’altro, nella chiusura in un egoismo personale che ci fa dimenticare la gioia più grande: il dono della gratuità. 63 Vita di Club n.1 per un meraviglioso Natale nella serenità e gioia della famiglia e per un Anno Nuovo pieno di salute, felicità e prosperità. Bernardino Zaganelli (Cotignola 1495 - Imola 1519), Madonna con il Bambino e San Giovannino, Tavola, cm. 60 x 46. Acquisito nel 1996 (asta Dorotheum, Vienna) dalla Banca Carim Spa; in deposito presso i Musei Comunali di Rimini ed esposto nel Museo della città. I II Fig. 1 - Complesso devozionale, Targa con due cornici in maiolica dipinta in policromia; Rimini, 1589 – 1776. (foto di Piero Delucca) Fig. 4- Paolo Veronese, Il Martirio di San Giuliano, part., 1587. Rimini, Chiesa di San Giuliano. III Fig. 17 – Stemma Rigazzi Fig. 8 – Marco Marchetti, Cena in casa del Fariseo, olio su tavola; 1573 ca. Faenza, Pinacoteca Fig. 15 - Marco Marchetti, Coppa istoriata, part., maiolica, 1549. Rimini, proprietà privata. Fig. 12 - Marco Marchetti, Grottesche, part., affresco; 1566. Faenza, Voltone della Molinella. Fig. 11 - Raffaello e aiuti, Grottesche, part., affresco; 1516. Roma, Loggetta del Cardinal Bibbiena. IV