GIUSEPPE CASARRUBEA
UOMINI E TERRA A
PARTINICO
1981
(testo rivisto)
1
Introduzione
Questa storia non è una silloge di avvenimenti, né tanto meno una storia patria.
E’, al contempo, un primo tracciato del processo di formazione della proprietà
terriera in un comune rurale siciliano; una prima lettura delle classi sociali, delle
dinamiche demografiche e dei fatti che concorsero nel determinarle, a cominciare
dai notevoli flussi immigratori che caratterizzarono Partinico a partire dal secolo
XVI. E’ anche una storia di lotte per l’affrancamento dalle servitù, per
l’affermazione dei diritti, per le libertà e la democrazia, lungo il corso di sette
secoli. Un periodo lunghissimo che necessariamente ha comportato il ritaglio di
confini precisi per evitare lo smarrimento nell’oceano dei fatti umani. Preferisco,
perciò, definire il lavoro condotto, sia pure in un ambito geografico delimitato,
come provvisorio, con l’auspicio di non essere frainteso. Concepisco la storia,
infatti, come uno scavo continuo, in un punto, in tanti punti; come una sorta di
scandaglio, una messa a nudo degli strati che lentamente si vanno mettendo in luce,
un processo ininterrotto di navigazione, avendo come bussola solo alcuni
interrogativi ai quali tentare di rispondere. Negli spaccati emergenti, a saperli
leggere, c’è la storia degli uomini. Sia di quelli che ‘appaiono’ dalla notte oscura
dei tempi, sia di quegli altri, quasi tutti gli altri, che non hanno avuto questa fortuna.
Poco importa che sia la storia di una grande impresa, di un fatto eclatante, di un
lungo processo costruttivo, o, al contrario, la storia di singoli o gruppi che non
hanno mai avuto storia, ai quali la storia è stata negata. Il lettore non troverà quindi
un lavoro esaustivo, al quale, per altro, mancherebbe una ricognizione completa
della notevole presenza documentaria sulla storia di Partinico (dagli archivi di Stato
a quelli comunali, dagli archivi parrocchiali alle fonti manoscritte inedite giacenti
presso la biblioteca comunale di Palermo, dalle cancellerie dei tribunali alle altre
fonti istituzionali: in Italia e all’estero).
In questo sforzo, ci si imbatte nell’eredità delle vecchie storie locali,
nell'eccessiva dispersione delle fonti, e nella stessa selettività delle storie finora
tentate. Storie che hanno privilegiato la bibliografia preferendola al documento.
Esse, pertanto, sono state facilmente onnicomprensive e, correndo in superficie, non
hanno posto problemi. Non è un caso che tutte hanno avuto la caratteristica di
indurre il rimando alle cronicizzate questioni delle origini, reputate tanto più degne
e nobili, quanto più addentrate nella notte buia dei tempi, in cui tutto e dovunque
poteva essere accaduto. Tale atteggiamento è stato per lo più espressione di una
certa vocazione degli intellettuali aristocratici, portati tendenzialmente a far risalire
le loro storie blasonate a quelle dei paesi che ne avevano tratto i primi impulsi
durante il loro primo manifestarsi come centri abitati. Ma la regola non era
generale, e sfuggiva di norma alle sorti di una vicenda nella quale tutti avessero il
diritto di esistere e di essere rappresentati.
2
A queste storie di avvenimenti e di cronaca, di cui è ricca la Sicilia dei nobili,
tuttavia si può fare riferimento per segnare i confini tra retorica e filologia da un
lato, e lettura critica dei documenti dall’altro, consapevoli, come siamo, che la vera
storia è quella che va ben al di là non solo dei documenti, specie se ufficiali,
istituzionali, ma degli stessi fatti e personaggi che li contemplano (Edward Carr).
Tra la fine del Settecento e gli albori del nuovo secolo ne compilò una
quell'infaticabile annotatore di fatti e, spesso anche, di minuzie del suo tempo, quale
fu Francesco Emmanuele Maria e Gaetani, marchese di Villabianca (1720-1802).
Questi, a ottant'anni, quasi cieco e malaticcio, scrisse una Storia della Sala di
Partinico che, nel 1981 trovai manoscritta alla Biblioteca comunale di Palermo tra
la mole inedita dei suoi lavori: segno, questo, che se il marchese ebbe la ventura di
trascorrere gli anni della sua vita e della sua vecchiaia, tra la comprensione e il
rispetto dei suoi contemporanei, che lo tennero in grande considerazione nelle accademie e nelle conversazioni di circolo, ebbe anche la sventura di cadere in disgrazia
della stessa posterità dei siciliani, che lo dimenticarono quasi subito, già a partire
dai primi sintomi risorgimentali e lo tennero come fonte d'archivio per introvabili
documenti di cronaca e di costume della Palermo settecentesca.
Ancora oggi il Villabianca non ha perduto questo suo ruolo, se si eccettua il
bozzetto pamphlettistico che nel 1969 tracciò Leonardo Sciascia per la sua raccolta
di scrittori e cose della Sicilia La corda pazza, pubblicata a Torino da Einaudi,
nell'anno successivo. Sciascia, piuttosto che relegare il marchese a questo ruolo, sia
pur modesto, di fornitore di dettagli e valutazioni utili a una migliore comprensione
dell'atteggiamento dell'aristocrazia siciliana del secondo Settecento, mette in
discussione la stessa validità della fonte, perché sterile nel suo ridursi a una
cronologia di nascite, morti, matrimoni e funerali.
In effetti il Villabianca visse da aristocratico e scrisse da cappellano, difficilmente
vedendo oltre il suo naso. Il suo stile è leguleico, freddo, distaccato, privo di
mordenti; la sua prosa è ostica, come quella del Di Bartolomeo, non eccita interessi
particolari. E tuttavia la Storia della Sala di Partinico mette in rilievo un aspetto
inedito della sua vita e del suo modo di vivere e pensare tra i suoi contemporanei.
All’indomani della rivoluzione francese e del tentativo giacobino di Francesco
Paolo Di Blasi (1795), il marchese considerava in una luce diversa quelle che erano
state le due antinomie dei suoi anni giovanili: il mondo dei suoi rustici da un lato e
quello di certi signori feudali dall'altro, come erano gli abati commendatari di
Altofonte, rappresentanti del braccio ecclesiastico nei parlamenti di Sicilia, un
tempo proprietari di un immenso feudo, antico retaggio dell'adempimento di un
voto di Federico II d'Aragona (III di Sicilia: 1296-1337).
Tra i cistercensi che erano stati abati fino al secolo XV e i commendatari che li
avevano seguiti, il Villabianca non fa molta differenza: erano stati per lui, sembra
incredibile a dirsi, corrotti e «scialacquatori »; avevano «succhiato il sangue dei
poveri »; avevano goduto di benefici immensi; nulla avevano fatto per alleviare le
sofferenze delle loro popolazioni. Senonché quei “poveri” non sono, per il
marchese, i ceti meno abbienti, ma gli aristocratici e i gabelloti sfruttati dalla nobiltà
ecclesiastica. La Storia della Sala di Partinico è difatti, sostanzialmente, la storia di
una polemica e di una denunzia con le quali il Villabianca, non rinunziando al suo
conservatorismo, mette in evidenza le storture e le immoralità di eminenti
rappresentanti della Chiesa, ai quali, giova ricordarlo, gli autorevoli Opuscoli
Siciliani, quasi a canonizzarli, avevano dedicato, alcuni decenni prima, dei tomi.
Non era un’operazione disinteressata, la sua. Il marchese a Partinico possedeva
alcuni « notabili predij » ereditatigli dal padre, marchese Benedetto Emmanuele:
Albaciara, Ramotta, Cutò, Garofalo. Scrive dunque da proprietario, pro domo sua,
3
per affermare le vessazioni dell’aristocrazia assenteista ecclesiastica (i cistercensi
originariamente proprietari di tutta la piana di Partinico, se ne stavano per lo più in
Spagna o in Toscana) e in tale veste si scontra in primis contro l'abate Barlotta, «che
per sua disgrazia non era dotato di mente quadra » ed ebbe la fortuna o la sventura
di essere diventato, suo malgrado, bersaglio inconsapevole del marchese.
L’antagonismo tra la nobiltà del clero e quella laica durava da tempo e si fondava
sul particolare tipo di contratto in base al quale gli abati avevano cominciato, già dal
‘400, a concedere i loro feudi in enfiteusi. Tale contratto consolidò nei secoli le
seguenti caratteristiche, che è bene tenere sempre presenti in tutta la storia di
Partinico, fino all’ascesa al potere della borghesia agraria:
gli enfiteuti venivano individuati attraverso i bandi, affissi solitamente nelle
chiese, tra coloro che risultavano i migliori offerenti nel pagamento del
canone enfiteutico annuo, fissato sotto la modalità della “quarta generatione
o nominazione”;
gli aggiudicatari erano per lo più aristocratici che, per trarre il massimo
vantaggio dalle terre concesse, ricorrevano alla figura del gabelloto,
intermediario tra l’enfiteuta e la manodopera. Essi riscuotevano dal gabelloto
la parte del canone annuo versato e avevano inoltre il diritto sulla
produzione;
i gabelloti avevano l’interesse a sottopagare la manodopera, a sfruttarla al
massimo, per abbassare sempre più i costi del lavoro e innalzare in tal modo i
livelli di accumulazione finanziaria selvaggia, e investire in acquisto di beni
“al sole”, successivamente. Mediando tra proprietà e lavoro essi avevano
l’interesse a mantenere il sistema di produzione dentro una logica
parassitaria.
la manodopera non aveva vie di scampo, e, spesso, per superare le annate
agrarie, per lo più tormentate dalle crisi epidemiche e dalle carestie, era
costretta a indebitarsi con gli stessi gabelloti che diventavano, in tal modo,
l’ossatura principale dello sfruttamento;
gli abati cistercensi provvedevano, periodicamente, alla misurazione dei
terreni concessi (“ricordiazioni”), in quanto non erano infrequenti i casi di
nobili e gabelloti che estendevano illegalmente i confini delle terre concesse,
mantenendo inalterati i canoni; o che aspiravano a diventare i legittimi
proprietari delle terre da loro stessi trasformate. Gli enfiteuti, così,
specialmente nel secolo XVIII, entrarono in sofferenza, mal tollerando le
intromissioni, e le vessazioni dei continui censi, sempre più pressati, dai
legittimi proprietari degli originari feudi, ormai frammentati dalle diffuse e
secolari pratiche di concessione, e trasformati da terreni boschivi in terreni
redenti all’agricoltura e, soprattutto, a vigneti (a partire dal secolo XV).
Contemporaneo del Villabianca, ma di una generazione più giovane, fu Giuseppe
Di Bartolomeo, che nacque a Partinico il 19 marzo 17531, lasciandoci del suo paese
1
Cfr. FRANCESCO EMMANUELE MARIA e GAETANI., MARCHESE DI VILLABIANCA, Storia
della Sala di Partinico, Bibl. comunale di Palermo, ms. Qq. E. 109, n. 4, ff. 347-358. Figlio di Domenico, uno
dei più grandi gabelloti del tempo, e di Crescenzia Oddo, sua terza moglie, il Di Bartolomeo è uno di quegli
sconosciuti letterati del Settecento che di meriterebbero di essere portati alla luce se non altro perché il
Settecento siciliano è ancora oggi poco conosciuto. Il Villabianca ce ne dà un quadro sommario:
“Da giovinetto questi dotato dalla natura del bel genio di coltivare le muse e la leggiadria della
comica teatrale ne ha professato egli in tutti i tempi della sua età gloriosamente le belle arti. Ne vagano quindi
4
una storia manoscritta - rintracciata, nel 2001, dall’arciprete Giuseppe Geracifonte diretta degli studi di Stefano Marino, che continuò il lavoro del suo
conterraneo fino alla metà dell'Ottocento.2 Al 1919 risale la storia di Partenico del
carmelitano Daniele Lo Grasso, pubblicata nel 1935 per interessamento di Pio
Moscatelli,3 e al 1922 il Contributo alla storia di Partinico di Vittorio Emanuele
Orlando4. Questi, in contrasto con l'affermazione del Dizionario Topografico di
Vito Amico, afferma l'esistenza di Partinico prima del sec. XIV, risalendo fino al
periodo romano. Si tratta di un testo senza note; dobbiamo ritenere, quindi, che sia
stato basato in gran parte sugli studi del Marino e del Lo Grasso, il cui manoscritto
certamente il deputato ebbe per le mani. Dalla lettura è rilevabile altresì che l'autore
non ha consultato le fonti dell'Archivio comunale, dell'Archivio di Stato, e della
stessa Biblioteca comunale di Palermo. Un notevole aiuto ebbe, invece, dallo
storico Carlo Alberto Garufi dal quale gli furono consegnate copie di documenti
originali esistenti all’Archivio capitolare di Patti, e gli furono riferiti documenti utili
all'esame del periodo che prende in considerazione (dagli Arabi agli aragonesi). Il
pregio del saggio sta tutto nella valutazione che l'autore fa di questi documenti. Si
tratta di diplomi del 1110, 1114 e 1133, dallo studio dei quali fa cadere la tesi che
Partinico fosse stata soggetta al dominio feudale dei Normanni Avenello (p. 16). La
tesi è infondata, perché, come vedremo, i milites che incontriamo fino al confine del
territorio musulmano di Jato, che era estesissimo e andava da Sagana a Calatafimi,
le di lui composizioni e parti graziosamente lavorate su tal talento per le mani dei letterati e quasi tutte esse
quantunque inedite sono state portate in scena con sommo applauso e stimate degne della luce dei Torchij”.
Una delle sue opere è la commedia dei Golosi [o gelosi, nda] scherniti stampata a Palermo da Pietro
Bentivegna nel 1779. Ai torchi furono dati anche parecchi suoi sonetti in lode di alcuni scrittori di opere
scientifiche. Ma il Di Bartolomeo fu soprattutto «autore di commedie e tragedie che si àn fatto nome ne' teatri e
montato più volte in scena portando il carattere per lo più buffo».
2
Cfr. STEFANO MARINO, Partinico e i suoi dintorni, Palermo, Tip. e Legatoria Clamis e Roberti, 1855
3
Cfr. DANIELE LO GRASSO, Partinico e il culto di Maria SS. di Altofonte e del Ponte, Partinico, Gaspare
Puccio, 1935-36.
4
Cfr. V. E. ORLANDO, Contributo alla Storia di Partinico, in Archivio Storico Siciliano, N. S., Anno
XLIV. Palermo, 1932, pp. 1.35. Il deputato c'informa che tra i mano- scritti della Biblioteca comunale di
Palermo si conservano, oltre alla monografia su Partinico del Villabianca, due «memorie»: una di Antonino
Mongitore e l'altra del barone De Francisco intitolata Notizie storiche di Partinico. .Per quanto concerne la
prima si tratta del ms. Qq. E. 32. Ma il riferimento più importante che siamo riusciti a trovare è quello di
Domenico Scinà, che nel suo Prospetto della Storia letteraria di Sicilia nel secolo decimottavo (oggi pubblicato
per iniziativa dell'Assemblea Regionale Siciliana nella collana comprendente le opere più significative della
cultura siciliana fra Sette e Ottocento in occasione del XX anniversario dell'Autonomia. Palermo, 1969, vol. I,
p. 196, nn. 2.3) riporta in nota una Notitia S. Mariae de Altofonte seu de Parco di A. Mongitore che fu stampata
da Vo Amico nelle sue aggiunte alla Sicilia Sacra di Rocco Pirro sui monasteri e le abazie: Siciliae Sacrae libri
quarti, pars tertia, ecc. Catanae, typis Bisagni, 1773. La « memona» del De Francisco, va precisato, altro non è
che una lettera informativa che il barone, nella qualità di sindaco del comune di Partinico, aveva spedito a
Gioacchino Di Marzo (in data 24 luglio 1855) come risposta alla circolare che quest'ultimo aveva inviato a tutti
i sindaci siciliani per la continuazione del Lexicon topographicum siculum di Vito Amico. Le notizie fornite
possono leggersi. anche tra quelle del Dizionario Topografico che il Di Marzo annotò e tradusse dal latino
(Palermo, 1855-56). Il ms. può trovarsi alla segnatura Qq. G. 97, lettera P. Segue una lettera indirizzata allo
studioso palermitano da Stefano Marino con la quale l'avvocato partinicese informava il Di Marzo che era in
corso di stampa il suo lavoro. Cfr, Bibl. Com. di Palermo ms. cit. Più rilevante è invece il ms. del Villabianca
che si può trovare alla segnatura Qq. E. 78 che contiene una storia della casa Villabianca, stampata a Palermo
nel 1780. Vi si attinge la notizia che nel 1775 il vicerè Stigliani Colonna promosse il marchese a deputato e
commissario generale di sanità di Partinico, con la podestà di Vices et Voces principis (pp. 75.76). Vi si
riscontrano inoltre alcune altre notizie (una lunga e sterile elencazione) su Capitani e Giudici della città di
Partinico novellamente istituiti. Cfr. ivi, ms. Qq. E. 78, n. 6. Inoltre si possono consultare nella stessa bibl. i
ms.: 2 Qq. H. 156. f. 435 (giurisdizioni di ufficiali); Qq. D. 123, ff. 237-251; 2 Qq. H. 156, f. 439, riguardanti il
primo delle iscrizioni raccolte dal Villabianca e il secondo i diritti da esigere da parte degli ufficiali.
In quest'ultimo al f. 823 sono contenute istruzioni civili e criminali, e in ultimo le Allegationes pro Parco et
Partinico contra ill. deputationem novarum gabellarum; ms. del XVIII. 2 Qq. H. 88, f. 473.
5
stavano a testimoniare la presenza nel territorio di Partinico di un istituto feudale,
precedente la concessione del feudo fatta nel 1307 da Federico Il d'Aragona ai
cistercensi di Altofonte (Parco).
A parte questo Contributo poco è stato aggiunto dalle cose successive ai lavori
che qui abbiamo preso in considerazione. Il testo del Lo Grasso, utilissimo
soprattutto per la storia delle tradizioni popolari, è stato l'unica fonte dell'opuscolo
di Michele Gulino Partinico dai tempi antichi sino al 1573 (Partinico, Puccio,
1935-‘36) ed è stato largamente utilizzato anche da Salvatore Bonnì (Partinico
nella Storia, Palermo, 1969).Va detto ancora che il l0 marzo 1915 una delibera del
Comune di Partinico (n. 33) stabiliva la pubblicazione a spese dell'Amministrazione
di una monografia su Partinico di Francesco Gibellina, con prelievo della spesa
dall'articolo anticipazioni diverse delle partite di giro del bilancio. Di rilievo ci
sembra invece un recente saggio di Enrico Mazzarese Fardella che attraverso i
diplomi già utilizzati dall'Orlando conferma il dominio normanno su Partinico con
l'apporto di uno studio su una pergamena del Tabulario Belmonte.5
Non va trascurato, in ultimo, il fatto che l’interesse culturale per la storia
dell’isola e di un paese come Partinico, ha sollecitato l’impegno di alcuni studiosi
locali, interessati ora alla storia della Sicilia archeologica (Vittorio Giustolisi e
Leonardo D’Asaro) ora al recupero di alcuni suoi beni architettonici, come le torri
(Salvo Vitale). Lavori certamente utili in quanto rompono i ponti, finalmente, con la
vecchia storia patria e pongono il problema della valorizzazione delle risorse del
territorio, attraverso scelte tematiche di fondo: i miti, i beni urbanistici e
monumentali, i siti archeologici.
G.C.
5
Cfr. E. MAZZARESE FARDELLA, Partinico, il suo territorio, i suoi domini, in una pergamena del
Tabulario Belmonte, in Archivio Storico Siciliano, serie IV, vol. IV, Palermo,1978, pp. 41-54.
6
I
NEGLI ANTICHI FEUDI
1. Una frontiera militare
Gli Arabi vissero dalle nostre parti quasi tre secoli. Poi furono sottomessi dai
Normanni. Si trattò di una vera e propria crociata contro gli infedeli che, come tutte
le crociate, aveva in realtà ragioni economiche e di potere. Gli Arabi non avevano
amministrato male i paesi che avevano conquistato. Avevano introdotto il cotone,
l’arancio, l’albicocco, il carciofo; avevano costruito ingegnosi sistemi di
irrigazione, avevano portato l’acqua nei terreni assetati. Erano stati anche degli
ottimi artigiani del vetro e dei metalli, abili costruttori di tappeti e tessuti e
soprattutto avevano sviluppato le loro conoscenze nel campo dell’astronomia, della
matematica, della filosofia e della medicina, studiando Platone e Aristotele, Galeno
e Ippocrate, Tolomeo ed Euclide. Per quanto l’Impero carolingio avesse sconvolto
gli assetti produttivi e di proprietà con l’introduzione degli istituti feudali, basati,
cioè, sulle unità produttive e istituzionali dei feudi, con i loro elementi costitutivi
(beneficio, vassallaggio e immunità), tuttavia è certo che gli Arabi rimasero estranei
alle sovrastrutture di tale potere gerarchico dipendente direttamente dai sovrani. Le
cose avevano cominciato a cambiare col sorgere della potenza dei Normanni nel
secolo XI, nella temperie della lotta tra Papato e Impero, quando l’imperatore
Enrico III dovette riconoscere nel Mezzogiorno d’Italia la contea di Melfi già di
Guglielmo d’Altavilla (1042), e il papa Leone IX, sconfitto e fatto prigioniero
(1053), dovette prendere atto che non aveva altra via di scelta che fare dei suoi
vincitori, i suoi vassalli, aprendo loro, così, la conquista della Sicilia. Vennero così
introdotti per la prima volta gli antichi istituti feudali, e al loro interno una funzione
particolare ebbero i milites, e cioè gli uomini dediti al servizio militare a cavallo che
costituivano il primo anello della nobiltà. Tuttavia essi non avevano un feudo,
costituivano la massa di manovra dei signori feudali direttamente dipendenti dal
sovrano, e si prestavano perciò ad avere una certa autonomia sia nel senso
dell’avventura, sia anche in quello più negativo dello stato di anarchia e di
brigantaggio. Le lotte di Ruggero I contro gli Arabi durarono trent’anni a
conclusione dei quali , il figlio, Ruggero II d’Altavilla fu riconosciuto re del nuovo
Regno di Sicilia e di Puglia (1130) e coronato a Palermo.
Tra i sudditi del conte Ruggero, che dopo la conquista della Sicilia ebbero
concesse estese proprietà, vi furono Rinaldo e Roberto Avenello, distintisi nella
lotta contro i musulmani e pertanto abilitati a rientrare nella graduatoria delle
donazioni che il conte avrebbe fatto dei suoi domini. Fu concessa loro l'araba
Barstanin, e cioé Partinico, non diversamente da come a Goffredo de Sagejo e a
Ridolfo Bonello erano state concesse rispettivamente Caccamo e Carini, che
assieme alle innumerevoli altre donazioni rientravano nel quadro di una «nuova
distribuzione» che il dominio dei Normanni comportava «dei beni e delle proprietà»
7
dell'isola.6 Il rapporto di vassallaggio che legò gli Avenello fu stabilito, secondo il
costume dei Normanni, con l'omaggio e il giuramento di fedeltà che crearono il
vincolo della dipendenza feudale. Partinico non fu tuttavia una donazione
eccezionale: non era un contado (aggregato di baronie), ma una semplice baronia
(aggregato di più feudi). In particolare sorse come baronia di militi (e cioè feudo di
second'ordine). La qualifica di miles, rientrava nell'ordine delle distinzioni nobiliari:
‘milite’, come ‘barone’, era un termine proprio del vassallaggio, presupponeva la
soggezione alla gerarchia feudale, e comportava, pertanto, a sua volta, donazioni di
terre e castelli.7
Sull'esistenza di una baronia di militi a Partinico non ci sono dubbi. Ne fanno
testimonianza il Pirro e il Malaterra. Il primo in particolare riporta dei diplomi degli
anni 1094, 1104 e 1111: quest'ultimo è firmato da un « Johannes miles de
Partheniaco jussu domini sui Roberti Avenelli ». Del resto ai militi di Partinico e
Coniglione ricorrerà il conte Ruggero per combattere i « ribelli saracini» di Giato.8
Ma oltre al diploma del 1111 col quale Raynaldo Avenel offriva alcuni beni e il
casale di Mirto alla Chiesa di San Bartolomeo di Lipari, sono diversi i diplomi che
confermano l'esistenza della baronia:
-nel 1114, in un documento che porta la stessa firma vengono definiti i confini del
casale di Mirto e ne vengono descritte le terre limitrofe; per la definizione dei
confini intervengono abitanti di Jato, Jatina e Mirto, scelti tra latini e saraceni,
questi ultimi in maggior numero;
-in un altro diploma scritto in lingua greca ed araba, del 1133 vengono confermate
da Ruggero alcune donazioni fatte dagli Avenello.
Anche questa volta la firma del testimone è quella di Johannes (Giovanni
Caballaro) ;
-altri due diplomi del 1149 e del 1154 « danno il titolo di Amil o Stratego di Giato
ad un Obu-Taib, il quale insieme con degli sceikh cristiani e musulmani di
Partinico, Desisa e Giato medesimo, designava il sito ed i confini di un terreno
conceduto dal demanio regio »;
-in due donazioni fatte nel 1157 da Guglielmo I, ed essendo morto questi per
«terribile dissenteria» il 7 maggio 1166, da Guglielmo II nel 1167, troviamo la
firma di testimonianza di un altro milite: Matteo da Partinico9; l'esistenza, qui, di
6
Cfr. ROSARIO GREGORIO, Considerazioni sopra la Storia di Sicilia, Palermo, Dalla Reale Stamperia,
1805, tomo I, p. 23, oggi ristampate sulla terza edizione che ne fece a Palermo la tipografia Garofalo nel 1845:
Edizioni della Regione Siciliana, Palermo 1972. Da ora in poi ci rifaremo a questa edizione.
7
Cfr. GREGORIO, cit., p. 71. Sulla collocazione del milite in questa gerarchia il Gregorio ci fornisce
maggiori ragguagli: «...un feudo risultava da venti once annuali di rendita, o a dir più chiaramente, che per
ogni once venti annuali dovea somministrare un milite armato, la qual somma costituiva un feudo intero, e il
milite armato ne costituiva il servizio diretto e principale, ossia di servire in guerra.
Spenti gli antichi ordini militari romani, il milite nei tempi feudali valea il cavaliere l'uomo armato a cavallo,
e servienti chiamaronsi i fanti. Quantunque nel diritto comune non fosse precisamente determInata la maniera
e la qualità del servizio personale del milite, pure generalmente il milite importava il servizio di un cavaliere e
di due scudieri, o di uno scudiero e di un famiglio, e di tre cavalli» (p. 220). Ai Normanni lega pure l'origine
della «signoria» di Partinico, Ludovico Bianchini nella sua Storia economico-civile della Sicilia, Napoli, 1841,
vol. I, p. 119.
8
Cfr. Pirrum, in Chron. p. 7, et ibid. dipl. anno 1094, tomo II, p. 773. Dipl.
Tancredi comitis Syrac. anno 1104, apud Pirrum, tomo I, p. 619. «Johannes miles de Partheniaco jussu domini
sui Roberti Avenelli »; dipl. anno 1111, loc. cito tomo II, pp.774, 772; e Malaterra apud Caruso, Bibl. Hist. pp.
213, 214, 235: cit. da Gregorio, cit., pp. 68-71 e 76.
9
Cfr. D. Lo GRASSO, cito, pp. 46-48; ORLANDO, cito, pp. 17-22. Il Mattheus de Partenico testis, come si
evince dal documento riportato dal Siragusa nel Regno di Guglielmo I in Sicilia (Palermo, 1885, I, pp. 193-196),
si accompagnava con Riccardo di Mandra e i fratelli Normanni Malconvenant, e soprattutto con Giovanni che
possedeva, per concessione reale, il feudo di Calatrasi.
8
nuclei familiari Normanni viene confermata dal diploma del Tabulario di Belmonte
del 1165, dal quale risulta una donazione di Maria, domina di Partinico, alla chiesa
di S. Giorgio di Gratteri.
Inoltre una descrizione di Partinico è fatta dal califfo Edrisi nel 1154:
« Partinico è graziosa terra, piacevole, piana, di bello aspetto e proprio ridente, circondata di fertili poderi, nei
quali si lavora gran copia d’hinnah e di altre specie di piante qatani.
Il territorio abbonda di acque si grosse da muovere molte macine. La fortezza che prende nome da Partinico,
sorge in un luogo detto Gabban il quale sta a cavaliere sulla terra. Questa ha un porto chiamato' Ar-rukn' (il
cantone) distante due miglia all'incirca verso tramontana ».10
Dall 'insieme di questi documenti si può dedurre che se Partinico si trovava al
centro della controversia che dopo la conquista normanna contrappose musulmani e
cattolici, e cioé gli Arabi del territorio di Giato e i conquistatori Normanni, è anche
vero che interveniva nella disputa al servizio dei dominatori, e cioè come feudo che,
ai confini di Giato, era tenuto a fornire un contingente armato per contenere l'area
musulmana, prestandosi anche a svolgere un ruolo mediatorio. Se si dovesse
altrimenti seguire la tesi di V. E. Orlando che, dall'esame del documento del 1111,
escludendo che il casale di Mirto facesse parte del partinicese, giunge alla
conclusione che gli Avenello non avevano mai avuto un dominio sul suo territorio,
non si riuscirebbe più a capire la funzione reale dei militi Giovanni e Matteo. Ma va
da sé che, essendo essi, militi al servizio degli Avenello, dislocati a Partinico per la
loro funzione istituzionale, si debba trattare di militi operanti nell'ambito del
territorio feudale dei nuovi conquistatori.
La presenza di militi come Johannes e Mattheus non depone solo per l’esistenza
di una baronia di militi, ma ribadisce un particolare tipo di rapporto fiduciario e di
sudditanza, stabilitosi sin dall'inizio, tra vassalli di Ruggero e il loro entourage
cortigiano; rappresenta la testimonianza del permanere di solidi e ristretti legami
feudali, al di fuori della semplice prestazione, quale poteva essere quella del
testimone di professione. La descrizione di Edrisi, poi, non fa riferimento a un
agglomerato urbano, ma a poderi, macine e roccaforti che ci confermano nella
convinzione che se i militi rappresentavano una classe privilegiata al servizio dei
signori Normanni, doveva essere di una certa consistenza la presenza di una forma
di vita radicata nella terra col denominatore comune della servitù e del villanaggio.
Del resto anche per il periodo svevo-angioino-aragonese i documenti in cui si fa
menzione di Partinico attestano più che altro l'esistenza di qualche casale di
proprietà prevalentemente ecclesiastica, come dimostra il documento dato in
Messina il 18 agosto 1340, VIII indizione, nel quale Pietro II d'Aragona stabiliva (si
tratta di un privilegio in favore dell'abazia di Altofonte) che «i confini della foresta
di Partinico erano quelli stessi che esistevano quando essa era tenuta dai baroni al
tempo di Manfredi, re Carlo e Pietro d'Aragona».11
10
Cfr. EL.EDRISI, Il libro di Ruggero, Palermo, 1967, trad. di U. Rizzitano; e anche Goffredo Malaterra, De
rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliane comitis, Bologna, 1927, traduzione dii E. Pontieri.
11
Cfr. anche il diploma dd luglio 1210 col quale Federico Il accettava la donazione
di P. che Malgerio D'Altavilla aveva fatto ai Templari, ai quali, dunque, il feudo di P. era appartenuto, prima
del 1307; le lettere regie date in Messina il 9 setto 1294, VIII ind. con le quali veniva regolato uno
sconfinamento dal feudo di Borgetto; Arch. di Stato di Palermo, fondo Magione, Abazia di Altofonte, vol.
155, f. 335.
9
2.La trasformazione della terra
e la nascita della borghesia agraria imprenditrice
Prima degli Aragonesi, i principali interventi in quella che era – come abbiamo
visto- l’estesa area boschiva della piana, erano stati fatti dagli Arabi con
l’introduzione delle palme, del cotone, degli impianti d’acqua, dei mulini, e dai
Normanni con la sostituzione di parte delle terre boschive e delle colture intensive
con le varie monocolture cerealicole. Queste ultime costavano meno, non
richiedevano praticamente particolari interventi, tranne in un paio di occasioni
all’anno (semina, raccolto e magari la sarchiatura del terreno) e consentivano ai ceti
più bassi della gerarchia feudale una certa mobilità che non li legasse strettamente
alla terra.
Le cose cominciarono a cambiare con la fondazione dell'abazia di Altofonte,
come atto di riconoscenza religiosa di Federico II d’Aragona, di cui parlano tutti gli
storici locali, a cominciare dal Villabianca. L'effettiva donazione della foresta ai
cistercensi avvenne alla presenza di Gualterio di Manna, dell'abate del monastero di
Santo Spirito di Palermo, di Giovanni di Cammarana, e di altre «rispettabili»
persone «con privilegio spedito in Messina il 28 giugno 1307 ». Il monastero, in
tutto simile a quello dei monaci cistercensi d' Aragona fu sottoposto al monastero
delle Sante Croci di Barcellona «serbante la tomba dei regi avoli aragonesi » di
Federico, e venne considerato una « filiale» di questo monastero «colle leggi e
regolamenti istessi, e tali quali il sacro ordine Cistercense già prescriveva nel suo
istituto ».
Si iniziò con la stesura della regia pergamena contenente le dotazioni dei due
Parchi: il vecchio e il nuovo, che erano stati ville reali, luoghi di spasso dei re, oltre
che feudi di grande estensione. Il primo era più che altro una zona di caccia nel
'contado' palermitano; il secondo un feudo ricco di acque, giardini, vigne che
prendeva il suo nome dal vecchio monte Parco, posto quasi al centro dell'estesa
conca di Palermo « in distanza di sei miglia ».
Fu concesso poi al monastero lo 'stato' di Partinico di proprietà di Giovanni
Cammarana « signore del casale di Misilicurto e maggiordomo di Leonora moglie
regina del re Federico »; in compenso gli vennero dati « feudi e notabili fondi » in
altri posti.12
Una delle ragioni per cui, oltre ai due parchi siano state concesse ai cistercensi
anche le terre di Partinico, potrebbe passare dalla posizione che il Cammarana
occupava nel giro della corte reale, oltre che dal rapporto personale che teneva con
la famiglia reale. In sostanza egli avrebbe potuto avere più interesse a possedere un
feudo coltivabile che non una foresta, dove, al massimo, poteva esistere qualche
casale.
Per la sua stessa configurazione boschiva, ancora nel secolo XIV, Partinico non
era molto abitata; tanto che, come nota il Garufi in Patti agrari e comuni feudali di
nuova fondazione dallo scorcio del secolo XI agli albori del Settecento, una
iniziativa di popolamento fu la concessione fatta da Federico III ai monaci, di
fondare un casale nel bosco di Partinico e di permettere che si formasse un nucleo
residenziale in loco nemoris con gli stessi diritti di cui facevano uso feudatari e
baroni, con l'agevolazione dell'esenzione da qualunque forma contributiva per un
12
Cfr. VILLABIANCA, cit., ff. 18-29.
10
quinquennio.13 Il Villabianca aggiunge che questa «nuova terra di novella
popolazione » sarebbe dovuta sorgere a condizione « di doversi chiamare col nome
di Sala» .14
La concessione di questi «ampij contadi e foreste» all'abazia di Altofonte
costituisce l'avvio di tradizioni locali strettamente correlate, e determinanti sul
piano delle vicende economiche e dei fatti sociali propri dei comuni di Parco e
Partinico. Si passava con fra' Michele e Pietro Guzio, primi abati, ad un momento di
reviviscenza cristiana, sotto l'insegna della tutela regia, il cui esercizio era
finalizzato a fare dell'abazia un «corpo d'aiuto dell'azienda di Cesare».15
Ci informa il Villabianca che il potere economico degli abati era smisurato:
«La Chiesa, ed Abazia reale di Santa Maria di Altofonte del fu ord.ne cisterciense, e conosciuta sotto il vocabolo del Parco e Partinico, è la massima, francamente può dirsi, tra le parlamentarie abbadìe della Sicilia, mercè
gli Stati immensi che và a godere con rendita in essi da ver straricca e maggiore pure di quella contegiata sù un
vescovado di alcune chiese vescovili di detto Regno...
Le tenute e fondi che si hanno in questo Stato del Parco non lascian di essere di pregevol nota al considerare
solo, che il feudo, che passa ora sotto la dinominazione del Parco vecchio... va a sorpassare le 384 salme della
corda di Palermo.
Con tutto ciò non han che fare tali terreni con quelli di Partinico li quali donano all'Abate il quintuplo di più
dell'azienda di questa del Parco. Venne donata parimenti al nostro Monastero la Foresta, e Bosco di Partinico
che in distanza di 18 miglia di cammino dalla città dominante va a campeggiare coll'antico casale in esso
reliquia della Terra che era stata una volta della denominazione di Partinico ».16
L'abazia ebbe inoltre i seguenti privilegi: 1) «mantenimento libero della barca
piscatoria nei mari e nel porto di Palermo» per le provviste quotidiane di pesce, con
relativa franchigia da dogane e dazi; 2) franchigia da qualunque sorta di gabelle e
dogane sia sul « distretto» di Partinico, sia su tutto il territorio isolano: non
avrebbero dovuto pagare nessuna tassa i viveri, gli animali e i generi di qualunque
specie « a condizione che fossero spettanti e provenienti a quei monaci dalle loro
masserie e pertinenze rusticane e civiche »; 3) facoltà di portare armi proibite
(privilegio del 27 aprile 1318); 4) diritto di fregiarsi con una propria marca e con un
proprio stemma conformemente al « segno e al suggello delle altre terre baronali».17
13
«utantur illis iuribus, quibus barones, et feudatarii insulae nostrae Siciliae in terris, et locis eorum
habitatis, et in habitatoribus terrarum, et locum ipsorum utentur, et quod etiam habitatores, et incolae dicti
loci, usque ad numerum familiarum centum ». C. A. GARUFl, cit., e R: GREGORIO, cit:, p. 241. «Ex tunc
in antea numerandum a taxatione, solutione et contributione pecuniae subventionis Curiae nostrae in terris, et
locis Siciliae pro dicto quinquennario imponenda, sint, et esse debent liberi, exempti et immunes...» (ibidem).
Garufi -scrive Illuminato Peri - accoglie da Pirro la data del 1309, ind. VI, ma si tratta di «anno
dell'incarnazione anticipato e quindi, dal gennaio al 24 marzo 1308 ». Cfr. I. PERI, Il Villanaggio in Sicilia,
Palermo, Manfredi, 1965, p. 107n. e VILLABIANCA, cit., ff. 34 e 41. Al 1318 risale invece la concessione
fatta a Pietro Guzio di costruire una fortezza per i monaci e la servitù del monastero. Cfr. VILLABIANCA,
cit., f. 42. Copia dell'originale Privilegium fundationis Abatiae Sanctae Mariae de Altofonte sub vocabulo
Parco diocesis Montis Regalis Cisterciensis ordinis (1510) è reperibile integralmente in Archivio di Stato di
Palermo, fondo Magione, vol. 190. ff. 246-258 (ex regia Cancelleria Regni Siciliae).
14
Cfr. VILLABIANCA, cit., ff. 34 e 41-42. Il marchese avanza l'ipotesi che il termine Sala possa avere
qualche attinenza col significato di sala nel «volgar toscano »: «è quella stanza principale della casa, e la
maggiore, e più comune di tutte, dove si apparecchiavano ordinariamente le menze, così lo stesso dovea fare
la novella Terra chiamandosi Sala, come la massima contrada provigionale di governo su tutte le altre del
contado partinicese, onde tanto valere sala quanto luogo di corte» (f. 30).
Non molto diversa è l'interpretazione del Lo Grasso: «più tardi i grandi poderi si ebbero il nome di Sala,
Mansa o Manzum, donde la voce massaria, e di Corte o Curtis: parole che denotano un vasto podere con
casamento e palazzo, corredato del necessario per l'abitazione del padrone, con cortile, stalle, ed altri edifizi
per i servi, gli agricoltori, ed altre persone alla coltura necessarie» (cit. p. 27). Complementare ci sembra
l'interpretazione dell'Orlando che mette in evidenza come il termine Sala sia comune a diversi comuni
siciliani o italiani, (ad esempio Salaparuta). Il Villabianca non nega, inoltre, che il nome Sala possa derivare
dal capitano spagnolo Sala. Cfr. ivi, f. 35.
15
Ibidem, f. 47.
16
Ibidem, ff. 27-28.
17
Ibidem, ff. 40-42.
11
Ma pur non eccettuando la natura e il carattere prettamente feudaledi Partinico in
questo periodo, non va trascurato il fatto che un «grande impulso al superamento
dei rapporti di villanaggio» e quindi a una consistente pratica riformistica, era stata
avviata già ai tempi di Federico II di Svevia, per cui, non è escluso che durante la
fondazione del casale ad opera dei cistercensi potessero esistere nuovi gruppi sociali
di contadini liberi, di villani affrancati dal servaggio che con l'opportunità della
esenzione dalle contribuzioni prestassero più facilmente la loro manodopera.
Anche se fino all'epoca fridericiana il quadro delle classi sociali comprendeva una
gamma gerarchica che vedeva privilegiati militi, baroni e conti, la legislazione di
Federico II recepiva sia le disposizioni di Ruggero II sulla condizione degli
ascrittizi (e cioé su quei coloni che non essendo nati nel feudo vi erano tuttavia
destinati vita natural durante, come parte della proprietà stessa) sia il rescriptum di
Guglielmo II che ribadiva la suddivisione che esisteva all'interno del villanaggio, tra
ascrittizi e villani «qui non respectu tenimentorum vel alii beneficii servire debent»;
tuttavia era stata «posta una seria difficoltà alla creazione di nuovi rapporti di
villanaggio» ed era stato «dato impulso alle censuazioni con la proibizione che in
cambio dei fondi ricevuti, le persone fossero obbligate a servizi personali, e
consentendo solo la corresponsione di prestazioni in moneta e in natura».18
L'autorizzazione regia a fondare un casale creò una certa gravitazionalità
d'interessi attorno ai cistercensi, che non potendo coltivare i loro feudi, li
colonizzarono, ricorrendo alla concessione della terra mediante una forma di
contratto che apportava notevoli ed immediati miglioramenti: l’ enfiteusi.
Alla base di questa scelta stava la convinzione che occorreva imprimere una
svolta alla sedentarietà dell’economia boschiva mediante una progressiva
estensione del terreno coltivabile.
Buona dunque questa amministrazione riformatrice: molti palermitani, si
industriarono («multi cives panormitani…faciunt et laborant »); Capodirigano di
Palermo e Benedetto di Catania possedevano nel « tenimento» di Partinico masserie
e vi esercitavano « varie colture e industrie ». Buona fino ad un certo punto perché,
se da un lato l'espansione demografica corrispondeva a un piano preciso degli abati,
dall'altro, a mano a mano che cresceva la popolazione, venivano limitati gli iniziali
privilegi fino ad evitare il jus legnandi.19
Un bel colpo ricevettero questi cistercensi ai tempi dell’abate Guglielmo Ninot
quando andò al trono Martino I il Vecchio, amico e parente dell’antipapa
Benedetto XIII. Cosa fecero allora i baroni, i vassalli del luogo, insomma tutta
l'aristocrazia feudale che più o meno gravitava attorno all'abazia? Con in testa
l'abate chiesero che gli potesse essere consentito di perseverare nella loro fede verso
la Chiesa. E certoil re questo diritto doveva concederlo, salve le prerogative reali.
Questo volle significare che alla morte del Ninot, la gestione dell'abazia fu affidata
dal monarca a un prete vicario dell'arcivescovo di Palermo. E la comunicazione che
ne diede il re all'arcivescovo non fu poi tanto garbata:
18
Cfr. I. PERI, cit., pp. 22 e 27.
Cfr. Lo GRASSO, cit., p. 83: ci informa di un incidente insorto tra i monaci e alcuni coloni che erano
andati a far legna nel bosco dell’abazia, e, trovando l’opposizione dei primi, «protestarono che si sarebbe
proceduto in città contro i beni del monastero fino al valore degli oggetti sequestrati e a quello dei danni e degli
interessi sofferti ».
19
12
“Chi statim li facciati cunsignari la dicta abbazia cum omnibus iuribus spectantibus suis sencza exepectari
altro cumandamentu, qualunque dilacione et occasione remotis, et di serviri alla nostra Maiestati”20
I
In sostanza i monaci vollero accattivarsi la simpatia del re, interessati com'erano,
a fare in modo che i contrasti in merito all'elezione di prelati ecclesiastici non
portassero, anche dopo la «pacificazione », alla elezione di un abate non
riconoscente la figura del legittimo pontefice.
Il passaggio alla gestione degli abati commendatari non dovette comportare un
grosso sviluppo delle strutture edilizie, o un allargamento del centro abitato, almeno
per i primi tempi, e fino a buona parte del '400, mentre nella seconda metà del
secolo successivo l'incremento demografico era arrivato a tal punto da consentire
l'istituzione della parrocchia nel1573.
In questo periodo, scrive il Fazello, il bosco era stato in parte tagliato; alla foresta
era subentrata la coltura della vite e delle cannamele grazie anche alla grande
disponibilità di acqua; c'erano inoltre un fondaco e una taverna.21
Disboscamento e incremento demografico produssero inevitabilmente un
consistente tentativo di revisione della politica amministrativa del feudo di cui fu
tipica espressione l'abate De Pazos, uno spagnolo di Compastella, capitale della
Galizia, che era stato inquisitore di fede a Siviglia e Toledo.
Eletto abate di Altofonte nel 1580, il De pazos ebbe l'idea di « rivocare» alla sua
mensa abaziale tutti i feudi e terreni che si trovavano censiti nelle terre boschive o
adibite a seminativi e a vigneti «niente incaricandosi di non piacere nè a Dio nè al
re tali novità ».
I terreni pagavano un terraggiolo sopra una salmata di grano, le vigne la decima,
e per ogni salma di terra o campo rampante e selvatico coloni ed enfiteuti pagavano
il canone di 6-8 tarì
I canoni enfiteutici sui terreni rampanti erano molto bassi, ma si alzavano su
quelli lavorativi e boschivi a seconda dei diversi feudi. Nel feudo Margi l'annuo
censo per qualità di terreni, a salma, negli anni compresi tra il 1612 e il 1639 era il
seguente: lavorativi once 1, tarì18; boschivi once 1, tarì 9; rampanti tarì 12.
Tra i più grossi enfiteuti, in questo periodo, incontriamo il notaio palermitano
Vincenzo Di Franco che a Margi ebbe concesse 94,4 salme di terra per un importo
annuale di once 92,26,12 e Giovan Domenico Cicala che ebbe a Margi e a
Falconeria 101 salme di terra per complessive once 112,18,10. Il Cicala impiantò il
vigneto, e nel giro di alcuni decenni poté vantare di essere uno dei più grossi
produttori di vino del palermitano. Tra il 1651 e il 1656, secondo i suoi riveli, aveva
prodotto 664 carrozzate di racine, in terreni che egli stesso aveva contribuito a
trasformare, sostituendo al manto boschivo il vigneto e l'oliveto.22
20
Cfr. D. LO GRASSO, cit., p. 90
Ibidem, p. 100. Nel primo '500 -secondo Vito Amico -Partinico non era altro che un casale, e non contava
che 70 case. Cfr. Lexicon Topographicum, cit., tomo II, f. 74; e Archivio di Stato di Palermo, fondo Magione,
Abazia di Altofonte, vol. 151, f. 9; inoltre TOMMASO FAZELLO, Le due deche dell'Historia di Sicilia,
tradotte dal latino in lingua toscana dal R.P. M. Remigio Fiorentino, Palermo, Dal Ciotti, MDCXXVIII
22
Cfr. ASP., cit., vol. 190, ff. 13-50, Concessione di una tenuta di te"e nel feudo Margi a Vincenzo Di
Franco. Al f. 47 dell'atto di concessione troviamo la firma del testimone Stefano D'Avantaggio alias la Blasa, di
cui ci occuperemo nel testo. I terreni restavano naturalmente gravati dal terraggiolo e dalla decima. Il primo
veniva corrisposto in natura (una salma di frumento per una salma di terra da consegnare all'aera dei primi
frumenti) se si trattava di frumento, o in denari (se si seminavano «orgio o altri legumi »); il secondo si
corrispondeva sulle «prime racine vendemmiate »; e ivi, Rilaxatione di 26 salme di terra fatta dal notaio
Vincenzo di Franco a Francesco Pisci, 14 agosto 1615, con l'onere del terraggiolo e della decima «et cum
eisdem pactis, clausulis, cautelis promissionibus, obligacionibus et aliis in quibus et sub quibus dicte terre
concesse fuerunt dicto De Franco »; Concessione di una tenuta di terre nel fego della Falconeria per Francesco
De Franco a Francesco Pisci. Per li atti del notar Francesco Sergio a 13 maggio 1616; Prestazione di
consenso fatta per il Cardinale Borghesio a Gio. Domenico Cicala aggiudìcatario di certi feudi concessi per
Francesca Pixi a Francesco Lo Tinto. Per li atti del notar Trabona, a 27 agosto 1627; Censo annuo dovuto da
21
13
Documenti attestanti l'esistenza del vigneto prima del 1580, sono reperibili al
fondo Magione dell' Archivio di Stato di Palermo (ASP), tra le carte dell' Abazia di
Altofonte; ma si tratta di una presenza irrisoria rispetto al sistematico ricorso a
questa coltura avviata con criteri di accumulazione capitalistica dall'aristocrazia e
dalla grossa borghesia palermitana nei feudi di Partinico, a partire dal 1611, e
secondo una chiara volontà politica che beneficiava l'abazia di una consistente
rendita parassitaria, ma avviava, per un altro verso, un massiccio ricorso alle
trasformazioni agrarie. Del resto, fino al 1610, la prevalenza del manto boschivo e
dei terreni rampanti sulle colture lavorative era abbastanza netta come risulta dalla
ripartizione qualitativa dei terreni di alcuni feudi abaziali.23
Antonio Maurino De Pazos, vescovo di Patti, presidente del real consiglio di sua
maestà di Spagna, e abate dell'abazia di Altofonte, fu il primo, tra gli abati che lo
avevano preceduto, a porsi il problema giuridico-amministrativo del rapporto tra l'
abazia e i suoi feudi e tese a superarlo nello sforzo di reintegrazione di tutte le
proprietà che nel corso dei secoli passati l'assenteismo degli abati aveva destinato
all'usurpazione di baroni e gabelloti.24
Gio. Domenico Cicala all'abate a partire dal 15 agosto 7 ind. 1639, oltre la decima di tutta l'uva e terraggiolo,
previsti dal contratto. Le terre boschive erano in gran parte adatte all'impianto di vigneti. Nel 1610 furono
ingabellate unitamente a tutte le altre terre e feudi dell'abazia per poi essere concesse a censo annuale «a
beneficiari di ben fatti utili e necessarij ». Le lavorative e boschive per un censo annuale di tarì 24 la salma e le
rampanti a tarì 8. Se si confronta il livello del canone del 1610 con quello riportato nel testo, ci si accorge che in
un biennio il costo in censo delle terre lavorative e boschive era salito del 50% aumentando del 30% in quelle
rampanti.
23
Cfr. AS., cit., Magione, vol. 154, ff. 18-60. « Delle ditte terre boschigne -scriveva il procuratore
dell'abate- ci ni sono la maggior parte atti a potirsici fare e piantare vigne» (f. 18) e -continuava -«volendosi
detti feghi e comuni concedere a censo annuali et beneficiari di ben fatti utili et necessari (...) si porriano
concedere le terre lavorative e boschigne l'uno per l'altro a tarì 24 incirca la salma di censo annuali et li
rampanti à ragione di tarì 8 ». L'abazia ne avrebbe ricavato 2.500 once annuali di censo, oltre alla gabella; lo
Stato avrebbe incassato da parte sua le tratte del frumento e del vino. Relationi ricevute per l'utilità delle
concessioni di terreni in Partinico nel 1610, ai ff. 17-25.
24
Il De Paczos ottenne da Filippo II delle lettere dirette al presidente Cifontes «per le quali si ordinava che
per occasione della mutatione delli abati soi predecessori e per la loro absentia da questo Regno li beni et
feudali renditi raggioni acqui et pertinentij di detta abbazia se retrovavano in gran parti indebitamente occupati
da diversi personi, che perciò dovendosi reintegrare et reuniri alla suddetta abbazia si doversi per banno
pubblico ingiungere et intimare a tutti et qualsivoglia personi di qualsivoglia stato et grado et conditione che
fossero, dovessero sotto pena di perdere detti beni raggioni renditi predij territorij fegi et qualsivoglia altra cosa
che possedessiro spettanti a ditta abbatia et qudIi applicarsi in caso di convenzioni a detta abbatia havessero
dovuto comparere innanzi detto Ill.mo Presidente Cifontes et decliarare li loro nomi et cognomi et a
demonstrare li scripturi et cauteli con li quali et in virtù delli quali tenevano et possedevano detti beni et
raggioni a finche si potessiro trovandosi inlicitamenti occupati reunirsi SUIa ditta abbatia ». Cfr. AS., cit., vol.
190, Memoriale dei procuratori dell'abate Simone Rao e Giovanni Largaria, al Cardinale Scipione Borghese, f.
274, e Bando promulgato b d'ordine del re~io delegato Cifontes nel 1580, ai fI. 276-279. e Molto utili le prove
fornite dai Testimoni giurati ricevuti ad istanza del Cardinale og Terranova abbate, nel 1601, ai ff. 280-283, e
passim; si tratta di testimoni di parte, ma ci dànno il quadro dell'entità del problema. Ne erano coinvolti, in
contrapposizione tra qu di loro, gli stessi gabelloti: Antonino Tituni alias lo Palermo, pratico delle terre
d'Alcamo mi e Partinico da oltre trentacinque anni, testimoniava che i feudi Ogliastro, Giambruno, Margi, e
Boschetto erano stati ingabellati da Giuseppe Severino a Fabritio Di Trapani se che nei primi due decenni del
'600 fu, assieme a Giuseppe Di Carlo (che dal Borghese te nd 1613 ottenne il feudo Margi) il più grosso
gabelloto degli abati (a lui si deve la costruzione del convento dei cappuccini nel 1619). I suoi feudi
confinavano con le baie- d~strate di Cola di Bologna che aveva piantato cannamele al confine segnato da un «
poczo 0di maramma sdirrupata» chiamato « li pileri» o « chi ano di lo inferno ». Il testimone afferma che al
presente il confine non è più segnato dai « pilieri» trovandosi da oltre « vent'anni ben dentro le terre di Cola di
Bologna. Vi Sull'argomento cfr. ancora Testimoni per li quali si descrive la qualità delle terre del Parco e si
dichiara il beneficio che ne risulta all'abate. Ad istanza del cardinale Borghese, 1610, ivi, ai ff. 286-298.
Fu necessaria l'emanazione di una licenza di concessione delle terre (contratto entiteutico per quarta
generatione o nominatione) da parte del re di Spagna a Scipione Bor- Sighese. Le lettere furono date a Madrid il
23 marzo 1611, ed esecutoriate nel Regno di Sicilia in virtù delle lettere viceregine date a Palermo il 5 luglio
1612. Cfr. ivi, vol. 154, ai ff. 33-39 (contenente il testo integrale e le disposizioni successive).
14
L’abazia possedeva i feudi di Ogliastro, Giambruno, Margi, Boschetto, Cala del
Giudeo, Cannavata, Falconeria, Lavatore, Comuni, con possibilità di concederli ad
enfiteusi “a quarta generatione e nominatione” a norma della lettera regia data a
Madrid il 27 marzo 1611. Per l’esecuzione dovevano precedere prima dei bandi
pubblici a Palermo e Monreale; la concessione veniva fatta al maggior offerente, a
questi patti:
1) l’enfiteuta era obbligato per sé e successori a pagare ogni anno, durante la
‘quarta generatione o nominatione’, all’abate o ai suoi successori, il censo in
denari col quale si erano liberate le terre “a tanto la salmata”; facendo il
pagamento in Palermo ogni anno alli quindici di augusto”;
2) a concessione avvenuta si dovevano misurare le terre concesse, nei termini
fissati dal cardinale (o successori), con la corda di Palermo, fermo restando
che in caso di controversia si sarebbero preparate dalle parti delle tavole da
consegnare al giudice dell’abate per essere confrontate fino alla coincidenza;
3) la remisurazione poteva essere richiesta da una delle parti in qualsiasi tempo;
4) l’enfiteuta (successori) era obbligato “aumentare et beneficiare” le terre
concessegli; in particolare era tenuto “della quantità delle terre atte a
seminerio e vigne smarginarne due terze parti”. In queste erano incluse tutte
quelle terre che fossero lavorative. Doveva avere finito di “smargiarle” entro
sei anni da contarsi dal giorno della concessione. In caso contrario l’abate o
il suo procuratore potevano procedere a nuove concessioni “per abundante
cautela”, restando l’enfiteuta o i suoi eredi sempre obbligati”;
5) l’enfiteuta (successori) era obbligato, per le terre che si sarebbero seminate, a
pagare il terraggiolo “a ragione di uno per salma, cioè ogni salmata di terre
una salma di formento seminando formento et quello consegnare nell’aera
delli primi frumenti che si annetteranno, altrimenti sia al maggior prezzo et
valuta di detti frumenti”. Per le terre seminate a orzo e legumi doveva pagare
il censo in denari e non il terraggiolo; per le terre che non si seminavano
doveva pagare il censo in denari secondo la concessione. Per le vigne che
avrebbe piantato era obbligato, ogni anno, a consegnare all’abate o al suo
procuratore, la “intera decima parte di tutte le racine che produciranno tutte
le dette vigne”;
6) le terre nelle quali si sarebbe seminato frumento si dovevanostimare e
misurare, da un esperto scelto dal cardinale, con la corda di Palermo usata
nella “esigenza del terraggiolo”, mentre la decima delle uve si doveva
rapportare alla stima delle uve fatta dall’abate. In caso di controversia il
giudice era scelto dall’abate;
7) le terre piantate a vigna erano sottoposte a censo in denari fino alla prima
produzione di racine; a partire da questa data cessava il censo e subentrava la
decima.
Inoltre l'enfiteuta (successori) si obbligava «a tutti li patti emphiteotici soliti e
consueti et statuti dalla lege» e cioè:
1) per tutta la materia concernente i contratti sarebbe stato giudice l'abate;
2) chi dava inizio a una nominatione o generatione era obbligato, entro sei mesi,
«far atto per mano di pubblico notaro di nova riconoscenza et nova obbligatione»
all'abate, obbligarsi al contratto della concessione, e presentare la copia dell'atto di
«reconoscenza » nell'ufficio del consultore del «regio patrimonio»;
3) compiuta la quarta generatione o nominatione, volendo l'abate riavere le terre
concesse, si dovevano subito stimare «tutti li ben fatti legittimi» apportati nelle
terre, da due esperti scelti uno dall'abate e l'altro dall'enfiteuta cui si poteva
aggiungerne un terzo scelto dalle due parti; della stima si sarebbe fatto atto notarile
15
e l'enfiteuta avrebbe avuto pagato «in denari contanti in unica soluzione» il prezzo
di detti «ben fatti».
Il pagamento sarebbe avvenuto a Palermo. L'abate non poteva in alcun modo
avere «possessione o dominio » delle terre migliorate, se non dopo il pagamento; se
questo non avveniva l'enfiteuta o i suoi successori avevano «dominio o
possessione» delle terre concesse e dei «ben fatti», come se continuasse ancora la
concessione.25
I bandi venivano pubblicati, oltre che a Palermo e Monreale, anche ad Alcamo,
Carini, e nel casale del Parco in diversi giorni di agosto. La liberazione delle terre si
doveva al « maggior offerente », nella logia pubblica di Palermo.
La documentazione degli interventi degli enfiteuti da destinare agli abati a
testimonianza del loro interesse nel miglioramento delle terre, ci serve anche a
conoscere il prevalente orientamento della borghesia intraprendente nel processo di
trasformazione agraria. Valgano per tutti i «ben fatti » di Giovan Domenico Cicala
« nel suo loco in Partinico » tra il 1626 e il 1638:
forza lavoro impiegata
Giuseppe Centorbi
Importazioni olivi da Mazara
Spesa in onze e
tarì
8
Lorenzo Cudia
Piantatura di 3.500 ulivi
0,2 al giorno
Lorenzo Cudia e Gius.
Centorbi
Francesco Ingrassia
Potatura di 3.376 ulivi
15,24
Lavorazione di 80 ‘balatoni’ di
pietra
Per ‘cantara’ 2,7 di ferrotondo
di Genova dovuto alla sua
bottega per fare ‘gradi’
Acquisto di 350 ‘girelli’
Acquisto di 50 ‘girelli’
200 ‘girelli’ e 12 ‘castagnoli’
per la fabbrica di lo casino della
torre e magaseni del suo loco
Acquisto di 2000 canali per la
fabbrica del suo ‘loco’
8 ‘gradi’ di ferro
Per 26 giornate di imbranchiate
e murare (a compenso di onze
3,7)
A compenso di onze 8 da
pagare per la ‘rina portata per
l’imbranchiato della fabrica’
1,26
Vincenzo Calandra
(‘pirriaturi’)
Giacomo Di Cesare
Francesco Petruso
Luca Di Cesare
Andrea Lobbulo
Mastro Pietro Gentile
Mastro Vincenzo Sottile
Mastro Leonardo
Calvaccanti per mano di
Carlo Lo Nobile curatolo
del Cicala
Mastro Vincenzo Sottile
Giovanni Petrotta
Giuseppe Centorbi
Mastro Pietro Lo Re
Antonino Di Costa
Vito Caronna
Mastro Marco Majiorana
Mastro Pietro Sottile
scopo
A compenso di onze 16,24 per
80 giornate impiegate per la
costruzione delle porte e
finestre delle stanze
Lavori manuali
Travi, tavole, porte e finestre
Tavole, tini, botti ( a compenso
di 28 onze)
‘Tapparelli’ di olivi di Salemi
Zappe, aratri, ferramenti ( a
compenso di onze 26)
Per 33 giornate lavorative nella
cantina ( a compenso)
Per servizio nei magazzini
25
6,25
17
3,7
11,6
4
3,4
1,29
6,3
6,24
3,2
23,10
5
6,22
2,3
3,23
5
Cfr. ASP., Magione, vol. 190, 1597.1657: Concessione enfiteutica d'una tenuta di terre nel fego delli
Margi, concessa per il Cardinale Borghesio abbate della Abbazia del Parco in Vincenzo Di Franco con tutti li
solennità. Per li atti di notar Vincenzo Ferranti a 18 marzo 1613, ff. 1.13 e sgg.
16
Mastro Marco Majorana
Mastro Francesco Lo
Monaco
Collocazione travi nei
magazzini ( a compenso)
Scavo di una cisterna
4,2
1
26
Come si vede ci si trova di fronte a una intraprendenza notevole dovuta sia al
riformismo degli abati e del governo spagnolo, sia anche alla capacità e al coraggio
imprenditoriale della borghesia delle città che era stata capace di investire anche a
fronte dei ricorrenti rischi che si presentavano in quegli anni: la mancanza di
braccia dovuta allo spopolamento provocato dalle pestilenze e dalle carestie (1624 e
1643); le lotte intestine tra i baroni del regno; delle incursioni ‘turche’; le scorrerie
dei ladri di campagna; ecc. Da aggiungere l’aggravante che, secondo il Fazello,
Partinico era considerata «locus ad latrocinandum notissimus », in tutta l'isola.
Naturamente, quindi, si deve ritenere che gli investitori dovevano avere
preventivamente, da quest’ultimo punto di vista, delle precise garanzie. In ogni caso
essi si trovavano di fronte a difficoltà obiettive che avrebbero dovuto mettere gli
abati di fronte a una maggiore disponibilità rispetto al loro progetto di
trasformazione produttiva del territorio. Prevalse in loro, invece, la logica
parassitaria delle rendite, tipica dell’aristocrazia assenteista. Gli abati scatenarono
una vera e propria guerra contro gli enfiteuti che si concluse con un apparente
appannaggio dell'abazia. Essi ottennero l'aumento dei censi sulle terre boschive in
favore dell'abate, del terraggiolo e delle decime sulle terre fruttifere; fissarono un
terraggio unico e inoltre ottennero che venissero stabilite le tariffe dell'ottava parte
delle collette delle uve. In compenso vennero affrancati dai censi gli alberi fruttiferi,
e soprattutto gli ulivi, su cui gli abati non potevano avere diritto essendo stati
piantati dagli enfiteuti.
L'accordo fu concluso grazie a due sentenze dei tribunali secondo le quali le
pretese di ‘rivocazione’ dei terreni dovevano essere ricompensate col pagamento
dei lavori sostenuti dai coloni che avevano piantati ulivi e alberi vari, e costruito
«fabbriche» e torri. Ma il De Pazos non accettò mai tali remunerazioni che, d'altra
parte non poteva sostenere. Il gioco non valeva la candela.
Nel transatto gli enfiteuti, nelle sottoconcessioni e nelle gabelle, fecero ricadere il
costo delle nuove tariffe sui «poveri rustici », ed ebbero dunque il vantaggio del
possesso definitivo dei loro fondi (e si capisce come due secoli dopo a questo
discorso potesse essere interessato il Villabianca, la cui famiglia già dalla fine del
'400 aveva ottenuto dei terreni nel partinicese).
La lite durò due anni e il «villano spagnolo» abate - scrive il nostro marchese finì male assieme ai suoi ufficiali. Tra questi ultimi il più « miserabile» era stato G.
Battista Salamone, procuratore generale dell'abate e artefice delle «novità» che morì
pazzo alla notizia della morte del suo signore27. Le pretese del De Pazos andavano
in realtà al di là di una semplice vicenda personale e riflettevano appieno il
particolare clima col quale gli abati affrontavano il problema degli originari loro
diritti di proprietari.
26
Cfr. AS., cit., vol. 190, ff. 236-240
Cfr. VILLABIANCA, cit., ff. 285 e sgg. La transazione che riportò la pace si trova negli atti del notaio
Antonino Occhipinti di Palermo sotto la data del 17 luglio 1582. Cfr. anche Archivio domestico Villabianca nel
vol. I di Cutò, f. 21 e dell'Albaciara, f. 146 ivi cit.; e V. DI GIOVANNI, Del Palermo Restaurato, di cui esiste
copia anche presso la biblioteca di San Martino delle Scale, ms. segnato III.F.27. L'accordo ebbe l'assenso del
vicerè Marco Antonio Colonna nella sua qualità di procuratore istituito appositamente da Filippo II. A conferma
della transazione fu pronunciata la sentenza dal delegato apostolico Ludovico De Torres, arcivescovo di
Monreale che minacciava la scomunica papale ai contravventori degli accordi. Nella transazione del 1582 non
fu compreso il solo fondo di Gambacurta (altrimenti Galvina e Raccuglia), perchè il padrone Leonardo De
Scorza fece valere una privata antica concessione.
27
17
Gli atti concernenti la giurisdizione del senato palermitano28 sul territorio di
Partinico, diligentemente trascritti da notai come Aloisio Leto, Mariano Milone e
Francesco Muzio (almeno per quanto riguarda numerose illegalità commesse da
abati e notabili), stanno a testimoniare, quanto tormentati siano stati i rapporti
d'ordinaria amministrazione del governo spagnolo con le classi dirigenti del paese
direttamente influenzate dal potere degli abati. Le controversie riguardavano
soprattutto il monopolio della vendita dei generi di prima necessità (pane, olio,
vino, farina, ecc.) e la manomissione di pesi e misure nella compravendita dei
prodotti.
Una lettera senatoriale del 6 settembre 1615 ci informa che l'università
(comune), nonostante fosse sottoposta alle disposizioni e ai mandati palermitani, era
impossibilitata a metterli in opera perchè un certo Stefano La Blanca, gabelloto del
fondaco, imponeva prezzi arbitrari. Il senato palermitano assumeva un
atteggiamento molto duro, chiedeva una raccolta di testimonianze, la carcerazione
dei testimoni restii a deporre la verità, o la loro messa al bando; procedura che si
sarebbe dovuto seguire anche per il La Blanca e i suoi compagni.
L'istanza avanzata dall'università di Partinico era stata preceduta da una lettera
dello stesso Stefano D'Avantaggio alias La Blanca (anche La Blasa), nella quale il
gabelloto faceva presente al senato palermitano come il pane venduto nello zagato
datogli in gabella no corrispondeva al prezzo giusto perchè questo si sarebbe potuto
desumere dal prezzo del frumento al momento dell'acquisto; e come
conseguentemente ne nascesse una controversia sul peso. Ma il La Blanca -chiariva
il Comune -intrallazzava su tutti i generi alimentari: «sfacciatamente» pretendeva
che «li poveri cittadini» comprassero vino a prezzo maggiorato; non teneva conto
soprattutto della meta stabilita (il prezzo medio sui mercati dei prodotti agricoli).
Intrallazzi simili passavano anche attraverso le botteghe di «speziali, chirurgici,
merceri, mammani, et altri sudditi a detto Ufficio di Protomedico» che facevano
passare per buone medicine che erano tutt'altra cosa.29
La speculazione più grossa -e più documentata del resto negli atti senatoriali -era
quella che abati e gabelloti assieme portavano avanti per il mantenimento del
privilegio baronale non solo del monopolio del forno, ma anche della vendita al
minuto dei generi alimentari, sulla cui qualità le rimostranze del Comune e dei
cittadini furono insistenti.30
Nella primavera del 1625 Marco Antonio di Marchese, giudice dell'illustrissimo
abate cardinale del Parco, pubblicava un bando nella piazza del paese «proibendo
che nessuna persona» presumesse «vendere, comprare pane, olio, sapone,
vermicelli, cascavalli et altre cose comestibili et potabili fora del zagato di detta
terra, sotto pene contenute in detto bando ».
Più che un bando questo poteva essere considerato come la proclamazione di una
specie di spirito di mafiosità con cui l'abazia trattava l'intero paese ad onta anche
degli stessi regolamenti e disposizioni di legge del governo spagnolo, la cui
28
Partinico, il 20 aprile 1615 fu dichiarata quinto quartiere di Palermo dal viceré Pietro duca D'Ossuna e
cominciò ad essere considerata un « borgo» o un « quartiere » della capitale. Evidentemente i nobili laici ed
ecclesiastici avevano conquistato già un notevole potere contrattuale di tipo politico, facendolo pesare a
salvaguardia dei loro interessi. La sovrintendenza all'annona spettò al Senato della felicissima urbs che ebbe tra
l'altro il compito di eleggere quattro deputati di piazza (accatapani). L'iniziativa era partita dagli abati e dai
notabili che avevano interesse a fare del paese un territorio privilegiato, come territorio proprio di Palermo
(immissione di generi, marchio dell'aquila, ecc.) cfr. VILLABIANCA, cit., ff. 82-83.
29
Cfr. Archivio Comunale di Palermo, Carte varie, voce Partinico, n. 75, lettere del Senato palermitano del
28 giugno 1617 e del 15 sett., V ind. 1621.
30
Cfr. ivi, lettera del S. P. a Domenico Del Colle deputato platearum, 27 ottobre 1622.
18
giurisdizione sul territorio di Partinico, escludeva che fosse impedito a qualcuno di
esercitare la professione del commerciante.
Questo atteggiamento di apparente liberalità corrispondeva in effetti a un aperto
conflitto tra le arroganze degli abati e il governo, non sempre disponibile alle facili
concessioni e abituato all'applicazione intransigente, ma talvolta anche
compromissoria, della legge. In quella situazione, però, era il Comune a farsi carico
dello scontento popolare, spinto dal tentativo delle sommosse dovute alle annate di
carestia, e alle continue vessazioni dei potentati locali. Così, la lettera del 2 maggio
VIII ind. 1625 del Senato palermitano ordinava al deputato di piazza Antonio
Bonamente di recarsi a Partinico con « alcuni officiali et compagni benvisti» per
annullare il bando dell'abate, e riportare ogni cosa «ad pristinum », «non
convenendo l'abitatori et persone exenti in d.ta terra siano vacati et privati della loro
libertà, et per evitare tali inconvenienti potriano succedere ».
Cinque anni dopo la situazione è profondamente cambiata. Gli abati circuiscono
l'amministrazione dell'università e impongono al capitano e al castellano di
pubblicare un nuovo bando che, contrariamente alle disposizioni, ristabilisca il
monopolio dello zagato e colpisca eventuali molinari fuori regola con la confisca
della farina e una multa di 5 dinari da devolvere al denunciatore, agli ufficiali e ad
opera pia.
Il bando non si sa come veniva annullato, e a quel Vincenzo La Liarda che per
sua sventura teneva un mulino a censo, concessogli dall'abazia, veniva fatto in
modo che non venisse data «molia alcuna circa il poter vendere detti frumenti a chi
li vorrà comprare non obstante il detto asserto pretenso bando et qualsivoglia altri
fosse da promulgarsi: quali tutti intendiamo essere nulli et invalidi, spettando anzi a
questa città et suo Ill.mo Senato l'administrazione di vittovaglie di d.ta terra».31 Che
al La Liarda non sia andata bene è un dubbio lecito. Come si vede il senato di
Palermo dettava legge sull’amministrazione di Partinico, ma riusciva a mediare col
potere degli abati.
La guerra per la liberalizzazione del commercio andava in realtà al di là delle
controversie tra qualche bottegaio e l'abate; era la guerra combattuta dalla grande
proprietà privata ansiosa di liberarsi dalla soggezione del potere abbaziale, forte, in
questo suo tentativo, della larga rappresentanza delle classi dirigenti di notai,
giudici, capitani, e nobili che da amministratori dettavano legge da Palermo.
Il braccio di ferro tra la nobiltà terriera e l'abazia vedeva prevalere ora una parte
ora l'altra, con le dovute e alterne mediazioni di potere, volte ad appoggiare l'abate
nei momenti di maggiore debolezza dei grandi censuari e gabelloti.
Tra la fine del '500 e i primi decenni del secolo successivo si registra un notevole
ampliamento delle concessioni e sottoconcessioni che abati da un lato e ricchi
enfiteuti dall'altro avevano cominciato a praticare da tempo.32 In questo periodo
31
Cfr. ivi, lettera dell'8 novembre 1630, ex registro prov. sum, anni 14 ind., 1630.
Cfr. A.S., cit., fondo Magione, Abazia di Altofonte, vol. 151, ff. 64-84. L'intero volume è utile in quanto
può fornire una statistica esatta del movimento dei contratti di concessione e subconcessione nel primo
quindicennio del '600. Vi sono compresi i nomi dei traenti, le particolari condizioni del contratto, le contrade
relative, i diversi tipi di coltura, l'indicazione dei terraggi, delle gabelle e altro. Ma sarebbe di notevole
importanza, ai fini della storia della formazione della proprietà terriera in un comune rurale come Partinico,
studiare attentamente i numerosissimi volumi riguardanti le concessioni di terra esistenti nello stesso fondo
all'A.S. Rimando, pertanto, all'inventario della Magione, n. 28, consultato da me nel lontano 1980. Qui do solo
alcune indicazioni:
vol. 151 anni 1307-1619: fondazione e dotazione dell'abazia (comprende i feudi di Margi, Lavatore,
Falconeria e Comuni).
» 154 » 1455-1670 Concessioni, assegnazioni, prestazioni, contratti.
» 156 » 1510-1635 Idem. Zagato, privilegi, bandi.
32
19
Giuseppe Antonio Ballo, barone di Calattuno, possedeva diversi luoghi coltivati a
frutteto, vigneto e uliveto, come quelli di Sirignano; i baroni di Cesarò possedevano
ampi vigneti; a Benedetto Ramo appartenevano «terri vignati di migliara
centocinquanta in circa» oltre a varie terre «non lavorative, alberate, orti, giardino e
palazzo ai confini delle proprietà dei baroni Cesarò; Martino e Filippo Raccuglia
avevano «vigne e terre scapole» sottoposte a decima, non diversamente dagli altri
terreni che dovevano pagare le ottine, i censi, i terraggi e gli altri gravami.33 Al
palermitano Francesco Galeazzo fu dato in enfiteusi il Boschitto, dotato di acque:
60 salme a onze 2 e tarlì12 la salma, con la decima delle racine e il terraggiolo di
grano così come risultava dal contratto stipulato dall'interessato direttamente con
l'abate cardinale Borghese nel 1613.34
Altre concessioni furono fatte nel feudo Margi che si estendeva per 496 salme e
sette tumoli, concessi in enfiteusi ad quartum nello stesso anno, e quindi dati in
sottoconcessioni a frazioni varianti da una a diverse decine di salme. Simili
concessioni e sottoconcessioni furono operate con una sorprendente facilità nei
feudi di Lavatore, Falconeria e in quello dei cosiddetti Comuni.35
Lo spezzettamento del feudo creò aggregazioni e disaggregazioni varie; ma le più
sostanziali, in quest'epoca, furono quelle che portarono all'annullamento della
concessione del paese, a titolo di principato, fatta da Filippo IV a Benedetto Frelles,
marchese di Torralba e a Elisabetta Alliata. Partinico, di fatto, incluso nel territorio
di Palermo, e venne dichiarato demaniale. Ovviamente gli abitanti preferivano alla
giurisdizione del baronaggio quella demaniale, anche se comportava l'obbligo di
concorrere nelle decime ai donativi e alle tande regie. Di fatto, nonostante
un’influente nobiltà laica fosse interessata al territorio partinicese, tanto da
dichiararlo, ad un certo punto, “quinto quartiere di Palermo”, tuttavia, era evidente
che il comune si collocava come parte antagonistica alle proprietà e alle pretese
abbaziali e preferiva un’amministrazione politicamente più vicina a quanti fossero
in grado di mediare, localmente, tra gli interessi dei ceti produttivi e il governo
politico del baronaggio.
Dal 1306 al 1764 gli abati furono ventotto: nella gerarchia ecclesiastica venivano
dopo i vescovi, ed erano rappresentanti del clero nei parlamenti di Sicilia.
Dopo la morte del nono abate Giovanni Di Stefano (1435), l'abazia, fu dichiarata
commendataria. Monaci e abati rimasero, e furono mantenuti per l'osservanza
dell'istituto; ma non più fedeli ai regolamenti monastici furono ad un certo punto
» 157 » 1511-1606 Feudo del Parco vecchio, concessioni, transazioni, sentenze, visite regie, notamenti di
censuari, memoriali.
» 158 » 1519-1660 Concessioni nei feudi di Falconeria, Comuni e Lavatore.
» 160 » 1534-1645 Zagato, bandi, ricorsi.
» 161 » 1547-1756 Idem. Bandi, gabelle, lettere, memoriali, procure, relazioni.
» 177 » 1581-1750 Molini e terre di Falconera e di S. Leonardo. Concessioni, processi, atti di possesso,
bandi, apoche, gabelle.
» 200 » 1612-1621 Concessioni nei feudi di Margi, Ogliastro, Giambruno, Lonovo,
Superiori.
» 203 »1613 Feudo Margi: concessioni.
» 213 » 1621-1793 Note di misurazione di terre, calcoli, apoche.
» 217 » 1626-1660 Gabella a terraggio, lettere, memoriali, contratti enfiteutici, sentenze, note di spese, liste
di debitori e censuari.
» 226 » 1538-1702 Consensi, concessioni, atti ricognitori, vendite, divisioni, rilasci di terre, affrancazioni di
decime.
Ma i volumi da prendere in considerazione vanno dal 151 al 333, e dal 2295 al 2563.
Fondamentale è anche la consultazione del Tabulario della Magione n. 97 (diplomi e altro).
33
Cfr. A.S., cit., vol. 151, ff. 64-80.
34
Ibidem, f. 84.
35
Ibidem, ff. 84 e sgg.; oltre ai volumi citati nella nota 30, i voll.. 212-214, 217-218, 223, 229, 233.
20
sostituiti, dall'arcivescovo di Monreale, con dei cappellani, finché nel 1770 venne
sciolto l'ordine.36
Nonostante il declassamento del secolo XV, gli abati continuarono ad avere posti
chiave nel potere temporale, come Giacomo Tedeschi, consigliere regio sotto
Alfonso; Nicolò Leonfante, patrizio palermitano che fu usciere e falconiere
maggiore del re, e poi luogotenente e maestro giustiziere del regno.
L'istituzione dell'arcipretura è invece legata a Scipione Rebiba, eletto abate nel
1568 dal re di Spagna Filippo II: fu inquisitore del tribunale del Sant'Uffizio, come
il De Pazos, al quale si deve però l'aggravante di quel «notabile incremento» sul
canone annuale dovuto dagli enfiteuti all'abazia.37
Giovanni Sanchez fu invece deputato del regno nel 1511, oltre che abate; fece
parte di quella schiera di abati e baroni che al parlamento « ligi ai voleri della
Spagna ubbidivano ciecamente ai cenni del principe lontano e del vicerè
presente».38 Questa era una posizione di comodo dovuta alla condizione di certa
nobiltà ecclesiastica che, a differenza dei nobili laici, era tendenzialmente più vicina
al governo di Madrid e a quello dei viceré. Simone Tagliavia Aragona Ventimiglia
Emmanuele e Moncada fu infatti un abate nobile, figlio del duca di Terranova,
principe di Castelvetrano e primo conte di Borgetto; di estrazione aristocratica come
quasi tutti gli altri, del resto: Ascanio Colonna, figlio di Marc'Antonio duca di
Tagliacozzo e vicerè di Sicilia; Andrea Mastrilli, eletto da Filippo III nel 1608 (il
suo casato aveva come stemma un leone, un listone con uno scorpione ed una M
incompleta); Scipione Borghese (il cui stemma gentilizio aveva « due aquile, una
soprastante coronata, separate da un listone »); D. Sigismondo di Austria, figlio di
una arciduchessa d'Austria: dopo la sua elezione avvenuta nel 1635 ad opera di
Filippo IV « ottenne dal monarca la esenzione e la franchigia dalla tanda regia nel
territorio dell'abazia» per sei anni; Francesco Maria Medici, figlio del Gran duca di
Toscana Ferdinando II, che presto aveva rifiutato l'incarico e si era sposato in
mancanza di «ceppo maschile che conservasse la stirpe dei Medici », lasciando
un'abazia che con una rendita di oltre 2.200 scudi era, dopo quella di S. Maria di
Fossanova e pochissime altre, uno dei posti più ambiti dalla grande nobiltà.
36
Cfr. S. MARINO, cit., p. 51
Ibidem, p. 56.
38
Ibidem, p. 58.
37
21
3.Strutture e dinamiche demografiche nel secolo XVII39
Come abbiamo visto, dal 130740 alla prima metà del ‘500 lo sviluppo urbanistico
e demografico fu molto contenuto, al tal punto che ai tempi di Carlo V il comune
non contava più di 70 case41, con una popolazione presumibile di non oltre 500
abitanti, che Rocco Pirro fa salire a 2032 al tempo della prima edizione della sua
Sicilia Sacra (1630).42 Purtroppo non è possibile seguire il movimento demografico
attraverso i riveli: Partinico, come università privilegiata, oltre che quinto “quartiere
di Palermo”, non è presa in considerazione. I registri parrocchiali rappresentano,
così, una fonte di informazione insostituibile, non solo per lo studio demografico
(nascite, matrimoni, morti, flussi immigratori ed emigratori, ecc.), ma anche per un
primo tentativo di analisi delle strutture e dei comportamenti sociali, delle spinte
economiche che si nascondevano dietro i momenti di aggregazione urbana e di
maggiore concentrazione della manodopera.
Dallo studio dei registri della Chiesa Madre emerge una configurazione unitaria la
cui dinamica oscilla tra la gestione feudale e le aggregazioni demografiche.
All’interno di questa dinamica una data importante è segnata dal privilegio,
concesso dal re di Spagna all’abazia, di potere dare ad enfiteusi “a quarta
generatione o nominatione”43 una porzione consistente del feudo, e precisamente
Ogliastro, Giambruno, Margi, Boschetto, Cala del Giudeo, Cannavata, Falconeria,
Lavatore, Comuni (Madrid, 27 maggio 1611). Prima di questa data, improvvisati
gabelloti palermitani, approfittando dell’assenteismo degli abati, avevano occupato
grosse porzioni di terra, avviando una consistente pratica di trasformazioni
agrarie.44 Probabilmente, fino a quel tempo, molti aspetti della gestione feudale,
erano rimasti normativamente insoluti. Ancora al 1610 il territorio era
prevalentemente boschivo, come risulta da alcune Relationi reperibili all’Archivio
di Stato di Palermo:
feudi
salme
Cala del Giudeo
375
Cannavata
450
Falconeria
400
Qualità
dei
terreni
lavorativi
boschivi
rampanti
lavorativi
boschivi
rampanti
lavorativi
Salme
80
285
10
50
384
16
30
39
I dati completi sulle strutture demografiche del periodo si trovano nei miei studi Uomini e terra a Partinico, cit.,
e I parrocchiani di Partinico e Montelepre. Crisi demografiche e nuclei familiari: secoli XVII-XIX, Partinico,
Centro Jatino di Studi e promozione sociale ‘N.Barbato’, 1988, ai quali rimando per gli approfondimenti e le
tavole annesse.
40
Cfr. ASP, Magione,vol. 190, Privilegium fundationis Abatiae Sanctae Mariae de Altofonte sub vocabolo Parco,
diocesis Montis Regalis Cisterciensis Ordinis, ai ff. 246-258
41
Cfr. VITO AMICO, Dizionario topografico della Sicilia, tradotto dal latino e annotato da G. Di Marzo, Palermo,
Morvillo, 1855, ad vocem
42
Cfr. Sicilia Sacra in qua Episcopatuum nunc florentium, ac eorum dioceseon Notitiae traduntur, Liber tertius
Autore Abbate Netino D. Roccho Pirro, Panormi, typis Hieronymi De Rossellis, anno MDCXXXI, p. 582. Alla data
del ’31 il Pirro assegnava ancora al paese 420 fuochi e lo definiva “oppidum aquis irriguum, vinetis, fregetis, et
cannae melitae nobile”. Assegnava poi alla Madrice il borgo di Santa Margherita con 200 abitanti a 1500 passi,
facendo rientrare nel territorio della Sala (Partinico) il dominatus di Valguarnera con 81 fuochi e 309 abitanti di
Andrea Saladino, nonché il villaggio di Ragali con 70 abitanti.
43
Cfr. ASP, cit., vol. 190, ff. 1-50 e sgg. (contenenti il testo del patto enfiteutico e alcuni atti di concessione), e infra.
44
Il problema dell’abusivismo fu sollevato dal De Paczos che ottenne da Filippo II una regolamentazione. Cfr.
Bando per la revelatione promulgato d’ordine del Regio delegato Cifontes, nel 1580, ivi, ff. 276-279
22
Lavatore
550
Comuni
500
boschivi
rampanti
lavorativi
boschivi
rampanti
lavorativi
boschivi
rampanti
335
35
50
490
10
10
484
6
45
Come si vede, su 2.275 salme, le terre boschive si stendevano per 1978 salme
(86,94%), le lavorative per 220 (9,67%), le rampanti per 77 (3,38%). A partire dal
’12 la situazione cambia in ragione del massiccio ricorso all’istituto dell’enfiteusi.
Gli investitori sono persone che hanno grande disponibilità di denaro liquido,
spirito di intraprendenza e una qualche spregiudicatezza: Giovan Domenico
Cicala,46 Fabrizio Di Trapani, il notaio Vincenzo Di Franco, Giovanni Ballo, Lucio
Pollastra.47 A questo precesso si legano la formazione dei nuclei colonici alla
periferia della Sala (Valguarnera, Santa Margherita, S.Caterina, Ragali, Trappeto
della Sala, Sicciara, Raccuglia, Todaro) e il potenziamento del vicino centro
abitativo di Borgetto, ad opera degli immigrati dalle diverse parti dell’isola e del
continente. L’immigrazione, che abbiamo seguito puntualmente attraverso gli atti
conijugatorum e defunctorum, ci dà la consistenza della posta in gioco in una delle
tre regioni vitivinicole costituitesi in Sicilia alla fine del ‘500 ( le altre sono la zona
di Marsala-Castelvetrano, e quella delle falde orientali e meridionali dell’Etna), il
cui sviluppo, per dirla con Maurice Aymard, “è animato dalla domanda e dai
capitali urbani, di città che chiedono di più alle loro campagne, ma vi provocano
anche l’intensificarsi della coltura”.48
I registri parrocchiali ci hanno consentito di analizzare il versante demografico di
questa scelta, una sorta di rifondazione economica dell’assetto capitalistico-feudale.
Baroni e gabelloti, abati e amministratori dell’università, i colletti bianchi
dell’epoca, giocarono una parte determinante per le sorti dei singoli e della
collettività, decisero delle condizioni di vita, ma furono sovrastati anche loro dai
grandi protagonisti della storia di quel tempo: le epidemie e le ricorrenti crisi
economiche. A parte il colera, per tutta la seconda metà del ‘600 il paese fu
travagliato da mortalità di diversa natura che ne bloccarono la crescita, soprattutto
nei trentacinque anni che vanno dal 1658 al 1692. L'esame, come vedremo,
prefigura la persistenza di malattie sociali e ambientali tipiche come la malaria e il
tifo esantematico, che, come è risaputo, hanno una scadenza stagionale e colpiscono
rispettivamente nei mesi estivo-autunnali e in inverno. A un'analisi della curva di
natalità, migliori appaiono le condizioni di vita nella prima metà del secolo: la
curva, contrassegnata dalle punte basse note agli studiosi di demografia storica
europea, appare meno piatta, e complessivamente in ascesa. Purtroppo non si sono
potuti utilizzare gli atti di morte dal 1608 al 1649, gli atti di nascita fino al 1611 e
quelli di matrimonio fino al 1658, risultando mancanti.
45
Cfr., ivi, vol. 154, ff. 1-18 e Testimoni per li quali si descrive la qualità delle terre del Parco e Partinico, ivi,
vol. 190, ff. 286-298. Relationi ricevute per l’utilità delle concessioni di terreni in Partenico nel 1610, ivi, vol
154, ff. 17-25. Ai ff. 33-35 il testo reale della licenza di concessione ad enfiteusi dei feudi dell’abazia, e
disposizioni relative.
46
Del Cicala, cfr. gli atti di concessione e i riveli di uva nel vol. 190 più volte citato, ff. 161-240 e passim.
47
Cfr. ivi, ff. 409-443.
48
Cfr. MAURICE AYMARD, Sicilia: sviluppo demografico e sue differenziazioni geografiche, 1500-1800, in
AA.VV., Demografia storica, a cura di Ercole Sori, Bologna, Il Mulino, 1975, pp. 211-212. Qui l’inizio delle
concessioni enfiteutiche viene fatto risalire al 1580.
23
La panoramica, tuttavia, è pressoché completa per la seconda metà del secolo.
L'esame del diagramma delle nascite comprese nel periodo 1612-1701 ci consente
di verificare un'ascesa quasi continua della natalità he passa dalle 76 unità del 1612
alle 335 del 1701, pari ad un aumento del 440,78%. Si tratta di un andamento nel
complesso costante al cui interno s'individuano, però, le cadute, piuttosto sensibili,
nel passaggio da un anno all'altro, nei seguenti bienni: 1612-'13, 1619-'20, 1623-'24,
1626-'27, 1635-'36, 1642-'43, 1658-'59, 1679-'80, 1693-'94. Il calo più consistente si
registra nel 1643 (- 40,09%), nel 1659 (- 34,56%) e nel 1680 (- 21 82%). Tenendo
conto delle annate disponibili della corrispondente serie dei decessi, possiamo dire
che queste date scandiscono momenti di gravi crisi demografiche, anche se non
sempre l'aumento dei decessi determina un brusco abbassamento della natalità,
come dimostrano i dati del 1672 in cui a fronte di 219 nascite -pari alla media del
quinquennio 1670-'74 -si ebbero 525 decessi, con un rapporto di 0,41, il più basso
del cinquantennio preso in considerazione. La crescita media decennale nel
sessantennio 1612-'71 è del 26,56%, cui fa seguito la brusca caduta del decennio
1672-'81 (- 9,21%), la ripresa del successivo (+22,11%) e il grande balzo del
decennio 1692-1701(+60,83%). Nel complesso si passa da 891 nascite nel decennio
1612-'21 alle 2968 del decennio 1692-1701 corrispondenti al 333,10%, con un
totale di 16.985 nascite. Considerate dal punto di vista della loro distribuzione
mensile e stagionale si rileva che la massima concentrazione si ha nel mese di
gennaio (10,63%), cui seguono immediatamente i mesi di novembre (10,03%).
ottobre (9,90%), dicembre (9,82%), settembre (9,53%); le punte più basse si hanno
nei mesi di giugno (5,91%), aprile (6,26%) e maggio (6,29%). Le nascite si
concentrano dunque nei trimestri settembre-novembre (29,46%) e dicembrefebbraio (29,25%) mentre, le quote più basse si hanno a primavera (20,08%) e in
estate (21,14%). Ne deriva che il più alto numero dei concepimenti si ha da
dicembre a maggio con le punte più alte nei mesi di aprile e febbraio.
Nascite: 1612-1701
Andamento decennale
decenni
1612-'21
1622-'31
1632-'41
1642-'51
1652-'61
1662-'71
1672-'81
1682-'91
1692-'01
1612-'01
%
400
300
Serie1
200
Serie2
100
Serie3
73
55
37
19
0
1
valori assoluti
Partinico: 1612-1701- Andamento
annuale delle nascite per sesso
anni: serie 1 m aschi,
serie 2 fem m ine, serie
3 tot.
graf .1
24
maschi
461
593
670
841
924
1149
1111
1198
1445
8392
49,4
femmine
430
472
740
862
1058
1162
1118
1228
1523
8593
50,59
totali
891
1065
1410
1703
1982
2311
2229
2426
2968
16985
100
nascite: 1612-1701- Andamento
decennale
1600
valori assoluti
1400
1200
1000
maschi
femmine
800
600
400
200
1
1
92
-'0
16
72
-'8
16
52
-'6
1
1
16
32
-'4
16
16
12
-'2
1
0
Graf.2
nascite e concepimenti: 1612-1701movimento mensile
aprile gennaio
2000
1800
maggio febbraio
1600
giugno marzo
1400
luglio aprile
1200
agosto maggio
1000
800
settembre
giugno
ottobre luglio
600
400
200
0
1
Graf.3
il primo mese
indicato è quello
dei concepimenti, il
secondo quello
delle nascite
novembre
agosto
dicembre
settembre
gennaio ottobre
febbraio
novembre
marzo dicembre
25
Il rapporto di mascolinità oscilla dai valori alti del primo ventennio preso in
considerazione (valore medio di 116,41) a quelli molto bassi del decennio 1652-'61
(87,33); la media complessiva del novantennio è comunque al di sotto della norma
(99,88); conseguentemente il tasso di femminilità risulta elevato, pari a 0,50158.
Utili elementi di valutazione si ricavano dai dati totali degli illegittimi. Si
osservache il fenomeno è crescente nei primi due decenni considerati con un vertice
di 2,44%, ma è costantemente decrescente a partire dal 1632 fino a scomparire
quasi del tutto alla fine del secolo. Al contrario, il fenomeno dell'esposizione, quasi
inesistente nel trentennio 1612-'41, è in progressiva ascesa a partire dal 1642. Il
significato di questi dati si può cogliere meglio se si tiene conto da un lato del
particolare processo di aggregazione demografica nell'università, e dall'altro
dell'elevato grado di mortalità nell'ultimo trentennio in cui l'eccedenza dei morti sui
nati è di 1257 unità. Lo stato di mortalità e morbilità a partire dalla crisi del 1672
aveva fatto diminuire l'ondata immigratoria che l'assalto ai feudi da parte della
grossa borghesia agraria palermitana aveva determinato già dalla fine del '500; la
correlazione immigrazione-esposizione appare pertanto inconsistente.
Il fenomeno deve piuttosto legarsi alla disgregazione dei nuclei familiari sotto
l'impatto delle croniche crisi di sussistenza dovute alle ripetute annate di carestia e
di epidemia, che se non mancarono nella primametà del secolo (nel '24 e nel '43 ad
esempio) assunsero nella seconda metà un carattere diverso: da cicliche divennero
permanenti. I dati dell'esposizione – e cioè del fenomeno dell’abbandono dei
neonati- sono, a questo proposito, eloquenti: nessun esposto si registra nel decennio
1612-'21; nei decenni successivi, fino al '71, furono in ordine di successione
cronologica: 7, 4, 15, 32, 36. A partire dal decennio 1672-'81 salgono
cronologicamente a 49, 106, 87. Il salto va dallo 0% e 0,65% dei primi due decenni
al 4,37% e 2,93% degli ultimi due, con una media percentuale totale dell'1,98. Il
fenomeno interessa l'esposizione maschile e femminile, in percentuali pressoché
corrispondenti, nell'insieme rispettivamente dell'1,99% e dell'1,96%. L'andamento
nel corso degli anni comunque non segue sempre la vicenda stagionale delle
nascite.
Se sul totale delle nascite il 58,71 % si concentra nel semestre settembre-febbraio,
nello stesso periodo l'esposizione è pari al 57,1% con uno scarto dell'1,61% che si
distribuisce invece nell'altro semestre. È significativo ancora il fatto che
l'esposizione non segue il ritmo stagionale delle nascite nel bimestre novembredicembre mentre il dato di maggio si mantiene il più basso.
Gli esposti, abbandonati per lo più nelle vie pubbliche, o lasciati furtivamente
davanti alle abitazioni private, in mancanza di ruote, venivano allevati o da famiglie
che se ne assumevano il carico, o da enti religiosi e pubblici; in ogni caso venivano
loro assicurate delle nutrici, e finivano per lo più, per rimanervi fino all'età di 7-8
anni, all'Ospedale Grande di Palermo. Il rapporto tra ricoverati in questo istituto e
totale degli esposti dà, come vedremo, un indice molto elevato, espressione
sintomatologica e punta di iceberg di un esteso status di emarginazione sociale cui
soltanto molto più tardi, sotto il riformismo tanucciano e poi con Caracciolo, si
penserà di porre rimedio. Si può dire che il neonato abbandonato, relativamente al
Seicento e a buona parte del Settecento, acquistava importanza solo da un punto di
vista teologico e religioso, incorrendo pertanto in una casistica che qui non è forse
inutile accennare. Si potevano dare almeno cinque casi: 1) l'esposto veniva
battezzato dal sacerdote e aveva come uno dei due padrini l'ostetrica; allora
26
prendeva il nome, se maschio del padrino o dei genitori di quest'ultimo, se femmina
dell'ostetrica o dei suoi genitori; 2) veniva battezzato dal sacerdote e aveva come
padrini una coppia di coniugi, prendendo il nome di uno dei due, a seconda del
sesso; 3) veniva battezzato dal sacerdote e aveva come padrini una coppia non
sposata prendendo il nome di uno dei due, a seconda del sesso; 4) veniva battezzato
dall'ostetrica in caso di pericolo imminente di morte; sopravvivendo veniva portato
in chiesa (a prescindere dalle sue condizioni di salute) e battezzato sub condicione
dal sacerdote; prendeva per lo più il nome dell'ostetrica o del sacerdote; 5)
battezzato dal sacerdote, aveva come madrina l'ostetrica, ma prendeva un nome
qualsiasi.
Accanto al gabelloto e al sacerdote la mammana era la figura sociale più
rappresentativa. Gabelloti e mammane, infatti, si contesero i primi posti nelle
prestazioni di padrinato durante il periodo demograficamente più contrastato dopo
la nota crisi europea del Trecento, nella storia della fondazione del centro abitato.
Rilevate nominativamente si hanno in tutto 27 ostetriche i cui nomi, al momento
della cerimonia battesimale, non ricorrono quasi mai unitamente a quelli dei
personaggi più in vista del paese. La circostanza non è casuale ed obbliga ad una
riflessione sul ruolo sociale della mammana, e cioé della levatrice-contadina che
l'esperienza popolare collocava agli antipodi della scienza medica ufficiale.
Elisabetta la Massara alias la mammana, madrina per un centinaio di volte, fu in
questo senso il personaggio più indiscusso, nel ventennio1612-'32. Il suo vero nome
era Elisabetta Crastonovo (più tardi Castronovo), che faceva parte di una delle più
numerose e socialmente influenti famiglie del paese. La sua importanza, come del
resto il peso avuto dalle mammane che la seguirono, erano determinati non tanto
dalla prestazionesu richiesta, quanto invece dal segreto professionale e dalla
onorabilità che ne derivava. La mammana infatti non era tenuta a rivelare il nome
della madre nei casi di parti illegittimi, come dimostrano diversi atti baptizatorum
che riportano solo la paternità e indicano la prestazione della mammana come
madrina e levatrice. Nei decenni seguenti, tra le levatrici più in vista abbiamo
ancora Margherita Furnari alias la Palermo che esercitò incontrastata influenza fino
a tutta la prima metà del secolo; Francesca De Lauro e Joanna De Giorgio i cui
nomi s'incontrano solo per pochi anni nel decennio 1650-'60, e quindi, oltre a Maria
Suriano, l'indiscussa Joanna De Aijena che ebbe il controllo quasi incontrastato
delle nascite dal 1671 al 1692, e fu validamente sostituita fino ai primi anni del
nuovo secolo da Anna Sarro, alias l'Avanzata.
I motivi che spingevano la levatrice a diventare madrine erano per lo più di ordine
civile (basti pensare ai numerosi casi di levatrici madrine di bambini abbandonati o
illegittimi) e riflettono anche particolari bisogni di rapporto propri delle famiglie
contadine.
I dati sulla mortalità
Dal 1650 al 1701, escluso il biennio 1670-'71, si ebbero 13.323 decessi. Un
confronto con la serie parallela delle nascite e con gli unici riferimenti antecedenti
della serie dei decessi, i dati del novennio 1599-1607, ci consente di stabilire che il
paese a partire dai primi decenni del secolo subì una notevole crisi demografica: le
nascite passano da 100 a 250% dal 1612 al 1650 (e considerando il carattere
costante dell'andamento del diagramma si può affermare che rispetto agli inizi del
secolo, e alla fine di un cinquantennio, le nascite si siano triplicate), i decessi
passano da 478 nel novennio ricordato a 2031 nel novennio 1650-'58 con un
aumento del 424,89%.
27
A un'analisi più attenta gli anni 1599-1607 anticipano alcuni caratteri indicativi
delle condizioni e dello stato di mortalità nella seconda metà del secolo: la
stagionalità, la prevalenza della mortalità maschile su quella femminile, la notevole
incidenza sui processi di aggregazione urbana dell'ondata immigratoria che investì
il paese già a partire dalla fine del '500 e che durò, con alterne vicende, per tutto il
'600.
Come si può vedere dai grafici la curva della mortalità maschile sovrasta
costantemente quella femminile, secondo un rapporto di mascolinità pari a 146,39 e
con una concentrazione stagionale dei decessi nel trimestre settembre-novembre
(35,77%). La percentuale della componente immigratoria appare notevole, pari al
23,43%. Si tratta di immigrati provenienti principalmente da Monreale, Palermo,
Alcamo, Castania (sic), Carini, nonché dalla Calabria, che si stabilivano nella Sala}
o andavano ad abitare nei casali del suo territorio, evitando cosi i
continuispostamenti dal paese ai feudi, e dando origine o potenziando in tal modo
nuclei colonici o bracciantili -al seguito di baroni e gabelloti -piuttosto stabili nel
corso di alcuni decenni: Santa Caterina, Valguarnera, Raxhali (Ragali), Raccuglia,
Comuni, Calatasi, Mirto, o destinati come Borgetto e Trappito della Sala e diventare
centri abitativi in crescita.
L'esame dei libri defunctorum relativo a questi anni ci c fornisce ancora la
documentazione dell'esistenza nell'università di un ospedale dove nel corso del
novennio furono ricoverati, tra i deceduti, solo 23 ammalati, pari al 4,81 % del
totale dei morti in quegli anni, e il ricorso all 'Ospedale Grande di 33 deceduti
(6,90%).
La carestia del 1606 ebbe come effetto un brusco innalzamento della curva di
mortalità nell'anno successivo nel quale toccò la sua punta massima. ,La gravità
della situazione dopo questa data, si evince anche dalla riforma della prima
compagnia di religiosi laici, sorta nel paese nel 1599, ma in via di estinzione nei
primi anni del '600. Riformata il 15 maggio 1611, ebbe, tra i suoi principali scopi,
l'assistenza ai malati eai moribondi.49 Le altre date, la peste del 1624-'25 e le
carestie del1634, 1646-'47, sono segnate nella loro drammaticità dalle scansioni
delle crisi demografiche che colpirono la Sicilia e l'Europa, nella prima metà del
'600, come testimoniano, in assenza dei libri defunctorum 1608-1649, alcuni
documenti rinvenuti all'Archivio comunale di Palermo e gli stessi libri
baptizatorum. La carestia del' 46-' 47 trova riscontro nella citata lettera che l'
arciprete del paese Pietro Palazzolo indirizzava al vicerè per chiedergli, a prezzi
ragionevoli, urgenti provviste di frumento «per lo vitto pubblico e seminerio del
territorio » a causa della grave penuria « nelli magazzini »50.
La peste del '24 è attestata dalle continue trascrizioni di atti baptizatorum in
tempore pestis nonché dalla reviviscenza del culto di Santa Rosalia, successiva,
come è noto, all'invenzione del corpo della patrona palermitana, avvenuta il 15
luglio 1624,51 in coincidenza della grave epidemia. L'andamento delle percentuali
delle infantes che prendono il nome di Rosalea è indicativo della gravità della
pestilenza:
49
Cfr. Partinico, Archivio parrocchiale del Carmine. S. Leonardo, Capitoli della venerabile compagnia del
SS. Sacramento della città di Partinico, ms. non inventariato, 1611.
50
Archivio comunale di Palermo, vol. 75, Partinico, lettera del procuratore generale e arciprete della Terra
della Sala di Partinico al vicerè, l0 ottobre 1647.
51
Cfr. Enciclopedia cattolica, Città del Vaticano, 1953, ad vocem, pp. 1346-1349, e Bibliotheca Sanctorum,
Istituto Giovanni XXIII della Pontificia Università lateranense, Roma, 1968, ad vocem, pp. 427-433.
28
anni
1620 1621 1622 1623 1624
1625
1626
1627
1628
1629
%
15,55 (ultimo quadrimestre)
43,47
39,28
37,5
21,27
15,55
I libri defunctorum cominciano ad avere un decorso continuo, salvo il vuoto del
biennio 1670-'71, a partire dal 1650, e presentano una situazione stazionaria nel
primo ventennio (1650-69), un'impennata nel secondo (1672-1691), e una leggera
flessione nell'ultimo decennio. Si passa dai 2260 decessi nel decennio '50-'59 ai
3061 del decennio 1672-'81 con un aumento del 35,44%. Gli anni in cui il rapporto
B/S scende al di sotto dell'unità sono 29 su 50, quelli in cui tale rapporto scende al
di sotto dello 0,80 (quando cioé la prevalenza dei morti sui nati diventa molto
sensibile) sono 17, i più neri forse nella storia del paese: 1650-'51,1654, 1658, 1659,
1668-'69, 1672, 1673, 1679, 1680, 1681, 1682,1683, 1684, 1688, 1691. I più critici
furono il 1658 (0,56 con un saldo negativo BIS di 186 unità), il 1672 (0,41, con 306
unità), i sei anni che corrono dal 1679 al 1684 (rapporto medio BIS 0,63 con un
totale di 801) e il 1691 (0,74 con 81 unità). Le crisi di mortalità seguono un
andamento biennale di tipo ciclico, raggiungendo la soglia del saldo attivo solo
dopo qualche anno, per ripresentarsi drammaticamente e bruscamente dopo i brevi
momenti di recupero. Seguendo l'andamento stagionale si hanno le seguenti
massime concentrazioni:
%
1650-1659 agosto-ottobre 39,23
1660-1669 settembre-novembre 35,91
1672-1681 agosto-ottobre 38,25
1682-1691 agosto-ottobre 33,55
1692-1701 agosto-ottobre 33,35
1650-1701 agosto-ottobre 35,78
La curva si innalza bruscamente ad agosto raggiungendo il suo massimo punto
ad ottobre, per poi abbassarsi gradatamente nel periodo invernale e primaverile,
raggiungendo il punto più basso a giugno. L'andamento stagionale per sessi è
pressoché uniforme: le malattie colpiscono indistintamente sia i maschi sia le
femmine da agosto ad ottobre, ferma restando la costante prevalenza quantitativa
della mortalità maschile su quella femminile, con l'unica eccezione di settembre.
Nel complesso si hanno il 53,35% di decessi maschili contro il 46,64% di decessi
femminili. La mortalità femminile è sensibilmente più alta, invece, nella fascia di
età più bassa: se sul totale dei deceduti maschi il 45,67% muore entro il primo anno
di vita,sul totale dei decessi femminili tale percentuale si alza al 48,90,
mantenendosi ancora più alta fino al terzo anno di vita, e scendendo al di sotto delle
percentuali maschili nelle fasce di età compresa tra i 4 e i 55 anni; quindi le
percentuali si alzano di nuovo a favore del sesso femminile dal 56° anno in poi.
Le cose cambiano se si sta attenti alle differenze percentuali nei due sessi nel
trimestre agosto-ottobre. Al 33,78% di deceduti si contrappone il 38,06% di
decedute, in entrambi i casi dopo il brusco passaggio da luglio ad agosto. Se si
29
confrontano mese per mese i valori stagionali si evince chiaramente una sensibile
anticipazione della mortalità maschile su quella femminile e cioé una minore
resistenza femminile alle malattie endemiche estivo-autunnali e alle epidemie estive
in genere. Al costante maggiore rapporto percentuale del semestre gennaio-giugno
(40,77% del totale dei deceduti contro il 36,32 di decessi femminili) si contrappone
uno scarto del 4,28% a svantaggio della popolazione femminile preannunciato
dalla differenza delle percentuali di luglio (+0,54). Significativo ancora il quadro
degli scarti mensili per i due sessi:
.
M
Gennaio
Febbraio
Marzo
Aprile
Maggio
Giugno
Luglio
Agosto
Settembre
Ottobre
Novembre
Dicembre
F
+0,11
+0,62
+0,53
+1,39
+1,35
+0,67
+0,54
+ 1,09
+2,41
+0,78
+0,33
+0,71
Come si vede la maggiore differenza della mortalità maschile si ha da febbraio a
giugno, quella femminile da luglio a novembre. Gli scarti indicano che
percentualmente, rispetto al sesso femminile, muoiono più maschi nella stagione
primaverile, col massimo scarto del 2,74% nel bimestre aprile-maggio, e più
femmine in estate-autunno, col massimo scarto nel bimestre agosto-settembre
(3,50%). La minore resistenza femminile alle malattie in quest'ultimo periodo va
attribuita alle peggiori condizioni di vita della donna, soprattutto nei primi tre anni
di vita: nel cinquantennio muoiono entro questa fascia d'età il 48,94% del totale dei
maschi, ma il 53,24% del totale delle femmine. Il rapporto, come abbiamo visto, si
mantiene equilibrato dal quarto al ventesimo anno, ma s'inverte nella fascia d'età
compresa tra il 210 e il 550 anno. Entro questa fascia muoiono il 31,49% dei maschi
ma solo il 25,17% delle femmine. Il confronto delle percentuali torna ancora a
vantaggio delle donne nelle fasce d'età successiva; mantenendosi costante. I valori
percentuali della mortalità femminile dopo il 550 anno sono infatti più alti di quelli
dell'altro sesso, segno evidente che una maggiore percentuale di donne riusciva
nonostante tutto a invecchiare con più facilità degli uomini (1'11,74 contro
1'8,25%).
Nell'insieme 1'83,39% della popolazione muore entro il 45 anno di vita; gli
ultrasessantenni rappresentano solo il 4,29%, gli ultrasettantenni appena 1'1,36%. Il
rapporto di mascolinità alla morte è di 114,40 e si mantiene molto alto dal 40 al 550
anno di vita, con la punta più alta nella fascia di età compresa tra i 21 e i 35 anni
(150,91 cui fanno seguito in ordine la fascia tra i 7 e i 12 anni (148,14) e quella tra i
36 e i 45 anni (145,20). La maggiore esposizione maschile alla mortalità è dovuta,
stando alla costanza dei dati decennali, al lavoro minorile e alle pessime condizioni
di lavoro nelle campagne; altre spiegazioni sono meno probanti, anche in
considerazione del fatto che, come vedremo, le percentuali della mortalità maschile
si innalzano proprio in relazione all'afflusso di manodopera salariata nel territorio
della Sala, alla forte componente bracciantile che il processo di colonizzazione dei
feudi riusciva a spostare e a convogliare dalle più diverse aree dei tre valli siciliani e
anche dalla penisola.
30
Interessanti valutazioni possono trarsi anche dall'esame dei dati relativi
all'esposizione (abbandono dei neonati esposti alla carità pubblica o alle ruote delle
opere pie), ai servizi sanitari, e agli omicidi. Mentre appare inconsistente il
fenomeno dell'illegittimità, quello dei deceduti esposti si rivela in continua ascesa,
passando dall'l,0l% del primo decennio preso in considerazione al 5,28% del
decennio '82-'91, per accennare a una diminuzione alla fine del secolo. Il fenomeno,
evidenzia ancora una volta, qualora ce ne fosse bisogno, la grave crisi di sussistenza
della popolazione martoriata dalle continue annate di malattie a diffusione
epidemica ed endemica (malaria) e di carestie. A fronte di questo quadro
drammatico i servizi sanitari appaiono assolutamente insufficienti.
Su 13.323 deceduti solo il 2,25% risultano ricoverati all'Ospedale Grande di
Palermo e solo 1'1,2% nell'ospedale della Sala (la percentuale potrebbe salire al 2,4
se si considerano come ospedalizzati anche i deceduti sepolti in ecclesia Hospitalis.
Naturalmente i registri parrocchiali consentono solo il rilevamento degli
ospedalizzati deceduti e non anche di quelli dimessi. Al riguardo, quindi, i dati si
devono ritenere solo indicativi). I morti per morte violenta si mantengono sempre al
di sotto dell'l% con la punta più alta nel decennio 1660-'69 di 0,84% (19 omicidi).
Non si può prescindere, per una più netta comprensione del quadro, dallo studio
dell'età media, anno per anno, e a seconda dei sessi e del fatto che si escludano o
comprendano i deceduti entro il primo anno di vita.52
Ne derivano alcune considerazioni fondamentali: A) Se si considera l'età media
del totale dei deceduti in un anno questa si abbassa bruscamente negli anni di
maggiore mortalità infantile, quando il rapporto tra infantes deceduti entro il primo
anno di vita e popolazione adulta aumenta a svantaggio dei primi. Sono gli anni in
cui muoiono meno giovani e anziani mentre risultano prevalentemente colpiti i
neonati. Viceversa un innalzamento dell'età è indicativo di una minore mortalità
infantile e, conseguentemente, di una maggiore o stazionaria mortalità degli
adulti.53 Naturalmente sono i passaggi rapidi a indicare l'intervento di fatti
straordinari che si verificano: 1) quando aumentano solo i decessi degli infantes, 2)
quando aumentano solo i decessi degli adulti, 3) quando epidemie e carestie alzando
i livelli di mortalità in modo drammatico colpiscono indiscriminatamente tutte le
fasce d'età modificando i normali equilibri tra una classe d'età e l'altra, e rendendo
più difficile la decifrazione del quadro. B) Se si considera solo l'età media dei
deceduti che hanno superato il primo anno di vita ci si aspetterebbe di constatare un
innalzamento del livello quando sulla corrispondente colonna delle percentuali dei
decessi nell'età compresa tra i 21 e i 45 anni, si registra un calo percentuale, e
viceversa. Al contrario non succede cosi, perché le continue crisi di mortalità e le
epidemie squilibrano l'andamento annuale dell'età media che subisce delle forti
oscillazioni da un anno all'altro. Una maggiore stabilità si registra invece nei calcoli
sul medio e lungo periodo:
52
Nel calcolo dell’età media del 1661 si è escluso il bimestre agosto-settembre perché il libro è mutilo.
In entrambi i casi l'età media può essere assunta solo come una variabile dipendente dal movimento di
immigrazione-emigrazione i cui dati esatti possono aversi solo attraverso la ricostruzione dei nuclei familiari.
Le oscillazioni dell'età media nel breve e nel lungo periodo hanno tuttavia una loro validità perché sono
comunque indicative di processi demografici dinamici, talvolta anche incontrollabili.
53
31
ETA MEDIA
Esclusi i deceduti entro il primo anno di vita
1650-1659
M
F
36,89 35,89
1660-1669
34,43 35,65
1670-1679
34,45 37,73
1682-1691
37,45 37,39
1692-1701
32,88 35,66
1650-1701
35,22 36,46
Risulta impressionante il notevole abbassamento dell'età media maschile nel
decennio 1692-1701; nel complesso, però, l'elevata mortalità infantile tende ad
avvicinare i livelli dell'età media considerata nel suo insieme, mentre lo stacco si fa
più netto se si considerano le fasce di età successiva, in quanto la morte colpisce più
decisamente la popolazione adulta maschile, con un anticipo medio di un anno e tre
mesi su quella femminile. Va rilevato ancora che l'innalzamento dell'età media
complessiva non è dovuto a migliori condizioni di vita, ma al fatto che le ripetute e
gravi epidemie, specialmente nel ventennio 1672-'91, colpiscono tutte le fasce d'età
e non solo gli infantes. In condizioni di normalità morire tra i 45 e i 60 anni è un
privilegio di pochi; ma in annate di accentuazione delle crisi questo equilibrio,
alzandosi la percentuale dei decessi, si rompe anticipando la mortalità delle classi
più avanzate. A ulteriore completamento del quadro si deve sottolineare che quasi
sempre i decessi dell'ammalato avvenivano o «in domo sua» o «in domo parentis »,
fatto quest'ultimo non infrequente che comproverebbe i tempi brevi entro i quali si
era determinato il flusso immigratorio e che attesta il decesso di giovani che ancora
non si erano formati un nucleo familiare e che pertanto non avevano una fissa
dimora nella Sala, essendo sforniti di residenza stabile. La circostanza è confermata
dalla percentuale di decessi in ospedale. In questo caso infatti occorre distinguere
tra gli originari del luogo e gli immigrati. La percentuale dei primi è irrilevante; gli
altri, al contrario, appunto perché privi di assistenza erano costretti a ripiegare verso
un servizio pubblico che quanto meno avrebbe dovuto loro garantire un minimo di
assistenza.54 Ripetuti casi di decessi sono dovuti a «morte repentina », formula con
la quale venivano registrati anche i morti per cause accidentali (repentinum
accidens), come dimostrano, tra l'altro, diversi casi di « morte repentina » in età
adolescenziale.
Purtroppo solo raramente veniva indicata la causa della morte, come nel caso dei
ragazzi Mario Di Giorgi e Vincenzo Lembo « demersi in flumine a Giancaudara»
nel 1663. Il lavoro minorile nei campi, come in genere gli incidenti nei campi di
lavoro, dovevano incidere sensibilmente sia sul basso livello dell'età media sia sul
complesso dei decessi. Le indicazioni non sono sempre chiare, ma qualche esempio
basta a titolo indicativo: nel '94 viene trovato morto nel territorio di Ramotta, nella
54
Vengono considerati anche i totali annuali dei deceduti desumibili dalle indicazioni delle sepolture «in
ecclesia hospitalis », ma per i quali non si fa diretto riferimento alla presenza dell'ammalato nell'ospedale. Per
questa casistica databile dal 1682 nessun elemento fa ritenere che si tratti di circostanze diverse dalle
ospedalizzazioni; analoga la casistica dei sepolti «in hospitali huius terrae» che induce a ritenere che si tratti
se non nella totalità dei casi, almeno in una parte considerevole, di deceduti passati dall'ospedale.
32
proprietà di Carlo Sciortino, un bambino di 7 anni di genitori palermitani,
Vincenzo Gruppo; e qualche giorno dopo ne viene trovato morto accidentalmente in
una locanda un altro di l0 anni «obiter exanimi inventus in deversorio ». Molto
scarsa risulta invece l'incidenza dei delitti di sangue che interessano entrambi i sessi
in età giovanile (20-40 anni) e che possono spiegarsi, in parte, dentro la logica dei
delitti d'onore. Un alto numero di omicidi 55 si ebbe nel 1664: in aprile fu uccisa
Domenica Gagliano originaria di Palazzo Adriano, segui l'eliminazione, a luglio,
del quarantenne Matteo Giaganti, e a novembre del ventenne NicolòValenti che annotava il cappellano -non potè ricevere i sacramenti «quia fuit interfectus propter
probam ac bonam famam ». A dicembre fu, poi, eliminato Francesco Mancia di
vent'anni. Ma i fatti di sangue più clamorosi si ebbero nel 1667 e anche se non è
possibile spiegarne la dinamica, le causalità e le correlazioni, è certo che alcuni di
essi si verificarono dentro la stessa vicenda in un clima da cavalleria rusticana: il 25
febbraio mori senza sacramenti Laurea Sparacia, ventenne, « propter vulnera gravia
atque mortalia ». Si sconosce l'arma del delitto, ma si sa che, alcuni giorni dopo, il 9
marzo, venne uccisa Nuncia Spinelli, di 35 anni, originaria di Palermo «graviter ex
instrumento ignivomo lesa et vulnerata ». II 25 dello stesso mese venne quindi
uccisa Angela De Joanne, e cinque giorni dopo Antonino De Joanne, anche lui
colpito da arma da fuoco. Sul conto di quest'ultimo, il cappellano annotava che
«propter scandala in publico commissa fuit extra ecchIesiam sepultus ».
Lo si riteneva vittima di scandali pubblici e di non avere sopportato nel silenzio il
disonore o, al contrario, lo si considerava colpevole di rapporti illeciti lesivi della
legge dell'onore? La risposta non è facile anche perché occorrerebbe stabilire se
hanno una correlazione con questi delitti, altri due omicidi avvenuti nel successivo
mese di giugno: quelli di Salvatore Sgroi, di 42 anni, anche lui colpito mortalmente
da «in strumento ignivomo» (altrove ictu scopette) e di Pietro Pezzino, 36 anni,
«interfectus mortali gladij ictu ». Alla ricorrente prevalenza della mortalità sulla
natalità è legata la comparsa progressiva durante il corso del secolo di tutta una
serie di chiese e compagnie di religiosi laici. A parte la chiesa della SS. Annunziata
(madrice) risultante dagli atti parrocchia a partire dal 1605, sorsero nel 1619 il
convento dei cappuccini, ad opera del palermitano Fabrizio Di Trapani, gabelloto
dei feudi Ogliastro, Giambruno, Margi e Boschetto di proprietà dell'abazia di
Alfonte 56, nel 1632 il convento dei carmelitani, nel 1681 la chiesa dell'Opera Santa,
e nel '93 quella degli Agonizzanti. Oltre a queste, e alla chiesa dell'ospedale,
esistevano ancora, nella seconda metà del secolo, la chiesa di Sant'Antonio di
Padova e la confraternita del SS. Rosario, che s'aggiungeva adesso alla quasi
secolare compagnia del SS. Sacramento, esistente, come abbiamo visto, dal 1599.
Dal 1679 si registra ancora una societas di S. Francesco, con annessa chiesa. Tra
la fine del '500 e i primi anni del secolo successivo chiese nel territorio della Sala si
registravano ancora a Valguarnera, S. Caterina, Ragali e Borgetto. Erano più che
altro succursali del principale luogo di sepoltura qual era la madrice, i cui
sotterranei non bastavano più già dai primi decenni del secolo al seppellimento
delle ricorrenti ondate di cadaveri che peste, colera, carestie, malaria, tifo
consegnavano in tempi brevi alle cure sacramentali di cappellani e predicatori. Nel
'58, ad esempio, nel solo trimestre settembre-novembre si ebbe il 60,37% dei
decessi dell'anno, durante il quale fu toccata la punta più alta del decennio '50-'59
55
Nel 1691, nell'incertezza dei casi, non sono stati registrati come uccisi due morti «in campis» e uno
«trovato davanti la porta della chiesa di S. Antonino ».
56
Cfr. Archivio di Stato di Palermo, fondo Magione, tra le carte dell'Abazia di Parco Partinico, vol. 190, ff.
280-283.
33
con 429 morti, di cui 117 nel solo mese di ottobre, furono superati del 243% i morti
dell'anno precedente e del 268% quelli del '56.
Nel '72, anno di carestia, il numero fu ancora più elevato (525 morti): molti
cadaveri rimasero insepolti nelle campagne, molti ammalati morirono sconosciuti
nell'ospedale. La nascita delle chiese dell'Opera Santa e degli Agonizzanti segna
ancora queste scadenze: la prima sorge nell'8l, anno in cui si contarono 228 nascite
e 440 morti, la seconda nel '93, a seguito della crisi del '91-'92.
Crisi demografica e nuclei familiari
L'indicazione dell'ampiezza della crisi che travagliò il paese per tutta la seconda
metà del secolo si evince ancora da un'analisi dei dati sui matrimoni57. Visti nella
loro dinamica dal '59 al 1701 confermano la parabola discendente dei processi
aggregativi in corso. Lungo questo periodo infatti si sposarono 5146 persone, di
cui 3529 della Sala e 1617 provenienti dai tre valli dell'isola e in numero sparuto
(23) dalla Calabria (17), da Genova (1), da Nizza Savoia (1) e Sardegna (4).
Nell'insieme il 68,57% degli sposati -stando questa volta ai libri matrimoniali erano figli di genitori che abitavano nel luogo, il 31,42 % risultavano invece
immigrati. L'immigrazione interessava principalmente la manodopera maschile
(1039 casi pari al 64,25% del totale degli immigrati, e al 40,38% del totale dei
maschi sposati); l'immigrazione femminile pur se consistente era meno vistosa (578
casi, pari al 35,74% e al 22,46% del totale delle donne sposate). Visti nella loro
evoluzione questi dati aggregativi ci forniscono con la dimensione di quei processi
uno spaccato che può essere assunto come indicativo della portata della crisi di cui
abbiamo parlato. La parabola discendente del fenomeno immigratorio è di per sè
eloquente. Al contrario si consolida il nucleo stabile del posto.
I luoghi di provenienza degli immigrati sono oltre un centinaio ma i più
importanti sono quelli della fascia Palermo-Castellammare, interessati alla coltura
del vigneto e dell'oliveto (e cioè la manodopera bracciantile o specializzata), nonché
della fascia delle colture estensive che aveva a Piana dei Greci, Corleone e
Bisacquino, i suoi centri più importanti. Se si eccettuano Borgetto e Valguarnera
(Campoflorido) che rientravano sotto l'amministrazione religiosa e civile della Sala,
si può constatare che i comuni che, per motivi, ruoli ed esiti diversi, giocarono la
parte da leone nel ricorso alla terra, alle concessioni enfiteutiche e sottoconcessioni
che vi si legavano, furono in ordine Alcamo, Carini, Palermo e Monreale che da soli
coprivano il 51,4 % del totale dei movimenti che coinvolsero i diversi comuni
siciliani attorno alla politica di trasformazioni agrarie degli abati di Altofonte. Da
Palermo e da Monreale, dove solevano pubblicarsi i bandi previsti per la messa
all'asta dei feudi assegnati normalmente al «miglior offerente»58, affluiva la media e
57
I registri conijugatorum -tranne alcuni -dividono i singoli fogli in tre parti: la prima, in alto, comprende le
denunce (pubblicazioni); la seconda, centrale, riporta le tre date delle denunce; l'ultima, in basso, costituisce
l'atto di celebrazione del matrimonio. L'ordine seguito è quello cronologico delle denunce e non delle singole
celebrazioni; non sono rari i casi di matrimoni celebrati non «tribus diebus festinis continuis intermissis », ma
addirittura dopo cinque mesi, naturalmente dopo la riedizione delle denunce. Quando il matrimonio si celebrava
fuori dal comune, nella parrocchia di appartenenza della sposa, venivano trascritte solo le pubblicazioni,
secondo le norme consuetudinarie con la debita annotazione marginale «fides exstracta ». Si è potuto così
ricostruire il movimento dei matrimoni fuori dal Comune, e un quadro completo dei luoghi di provenienza delle
singole coppie. Nei casi di matrimonio fuori parrocchia, mancando l'atto di matrimonio, si è preso in
considerazione l'ultima data delle pubblicazioni come la più vicina alla data di nozze.
58
Cfr. A.S.P., cit., b. 190: Concessione enfiteutica di una tenuta di terre nel fego delli Margi concessa per il
Cardinale Borghesio abbate a Vin.zo Di Franco, con tutti li solennità per li atti di notar Vinc.o Ferranti a 18
marzo 1613
34
grossa borghesia cittadina, fatta da professionisti e mestieranti del commercio,
trafficanti e gabelloti, interessati a investimenti produttivi a basso costo e
fortemente legati ai centri burocratici e del potere della capitale; dagli altri comuni
la manodopera affluiva sulla base delle insodisfazioni prodotte dalla politica
baronale e dalla estesa crisi economica che investiva l'isola. Gli spostamenti più
consistenti si ebbero dai comuni baronali.
I dati fin qui forniti si devono considerare orientativi, in quanto ai fini di un
calcolo quanto più possibile esatto delle effettive immigrazioni è necessario
considerare che i matrimoni fuori parrocchia degli abitanti del posto comportano
normalmente un naturale trasferimento delle donne (i matrimoni avvenivano nella
parrocchia della sposa) solo quando queste sposano abitanti di altre parrocchie
(emigrazione). Non conta quindi conoscere il numero dei matrimoni fuori dal
comune, quanto i luoghi di provenienza distinti per sesso, delle coppie che abitano
in altra sede, tenendo conto del fatto che normalmente il numero delle donne che
alla vigilia del matrimonio abitano fuori parrocchia deve considerarsi compreso in
quello degli effettivi immigrati, mentre il numero dei maschi che abitano fuori
parrocchia deve considerarsi detrattivo. Il problema non è di poco conto perchè
consente di studiare nella sua completezza l'effettiva mobilità demografica sotto il
duplice aspetto dell'emigrazione e dell'immigrazione. Nei 43 anni presi in esame il
problema non ha per noi una rilevanza considerevole. In tutto 222 casi dai quali si
devono detrarre i 92 di Borgetto e Valguarnera in quanto centri del territorio della
Sala. Si ottengono così 130 matrimoni fuori parrocchia. Se si considerano, poi,
come probabili trasferimenti nella Sala i 98 casi di donne che sposano fuori, si
ottiene un numero irrilevante di possibili casi di effettivo trasferimento ad altra sede
(32), fatto che del resto è confermato dalle pochissime coppie per le quali risulta
l'indicazione « abierunt ex hac terra ».
Del resto, come abbiamo visto, il fatto che aumentano sistematicamente i
matrimoni tra gli abitanti della Sala, in rapporto alla progressiva diminuzione della
corrente immigratoria, dimostra che la risposta data alla crisi dalla popolazione fu
una sorta di reazione biologica, un inconscio e appassionato cimentarsi comune per
la sopravvivenza, contro la morte invadente. Il basso limite dell'età media, ad
esempio, comportava una corresponsabilizzazione di primo piano delle funzioni
sociali e familiari della donna, un'anticipazione dei ruoli sociali dei due sessi; e se
epidemie e carestie interrompevano bruscamente il corso normale della vita,
ponevano anche immediatamente problemi di reinserimento sociale e di gestione
della stessa economia familiare per entrambi i sessi.
Si direbbe -come ha dimostrato Delille per un altro contesto 59 - che a una
maggiore mortalità si rispondesse con un altrettanto maggiore impulso alla vita nel
ritmo delle frequenze che aprivano e chiudevano le crisi. Nel caso di Partinico
queste furono doppiamente liquidatorie, perché rallentarono l'afflusso di nuove
forze dall'esterno e costrinsero la popolazione indigena a trovare in se stessa gli
strumenti di difesa: malthusianamente si creavano cioé le condizioni di un nuovo
equilibrio.
Nella seconda metà del secolo, il rapporto tra la Sala e i feudi che la interessavano
è profondamente cambiato. Sono scomparsi i nuclei abitativi che abbiamo
incontrato negli anni 1599-1607 (Santa Caterina, Santa Margherita, Ragali,
Raccuglia, Todaro), si sono potenziate le popolazioni stabili della Sala e del feudo
di Borgetto (l'arresto delle immigrazioni comporta naturalmente una loro
59
Cfr. GÉRARD DELILLE, Dalla peste al colera: la mortalità in un villaggio del beneventano, 16001840, in AA.VV., Demografia storica, cit., pp. 237-255; e IDEM, Un problema di demografia storica: uomini e
donne di fronte alla morte, ivi, pp. 257-284.
35
complessiva diminuzione determinata in prima istanza dalla crisi). La popolazione
subisce un movimento di contrazione difensiva, determinante per il grande balzo in
avanti del '700.
Detto questo occorre vedere quali sono le interne dinamiche e articolazioni
forniteci dai dati sui matrimoni. Seguendo l'andamento mensile e stagionale
riscontriamo i vuoti secolari60 dei mesi di marzo (1,82 % ) e dicembre (1,74%),
seguiti da quelli di agosto (3,61%), maggio (5,24%) e ottobre (5,05%). Il maggior
numero di matrimoni si concentra, invece nei mesi di febbraio (14,88%) e aprile
(14,14%) cui seguono in ordine, novembre (12,43%), gennaio (12,32%) e settembre
(10,33 %); è preferita la stagione invernale da gennaio a febbraio che con la bassa
percentuale di dicembre raccoglie il 28,59%, del totale dei matrimoni dell'anno, la
punta più bassa si registra nella stagione primaverile, da marzo a maggio col
21,22% .
Lo stato civile al matrimonio è notevolmente influenzato dall'elevata mortalità.
Nell'insieme il 43,06% dei matrimoni avvengono tra coppie di cui almeno un
membro è in stato di vedovanza. I matrimoni tra vedovi e vedove sono il 18,92%, e
quelli tra celibi e vedove e vedovi e nubili rispettivamente il 12,47% e 1'11,65%. Su
5146 persone che si sposano 1595 sono vedovi (15,29%) e vedove (15,70%). Questi
dati sintetici si colgono meglio se disarticolati nel tempo. La crisi di mortalità
abbassa il numero dei matrimoni tra celibi e nubili, a partire dal 1672 e per tutto un
ventennio facendo registrare una sensibile ripresa nell 'ultimo decennio. Al
contrario, i matrimoni tra vedovi e vedove raggiungono la punta massima nel
decennio 1672-'81 col 22,08% per passare alla punta minima del 16,46% del '92
all'alba del nuovo secolo. Il decennio '72-'81, escluso il triennio ’59-’61 appare
come il più critico, raggiungendo valori assoluti: i celibi e le nubili toccano la punta
più bassa rispettivamente col 33,75% e col 33,39%; vedovi e vedove raggiungono
invece le punte più alte rispettivamente col 16,24% e col 16,60%; in particolare,
ancora, se nel decennio '62-’71 il 30,64% dei coniugati giunge al matrimonio dopo
una vedovanza, tale percentuale sale nel decennio successivo al 32,85%.
Naturalmente in questi casi, in genere, vanno inclusi i casi di vedovanza «al terzo e
quarto loco », di cui si deve tener conto nel calcolo del rapporto B/M che, per
questo motivo, deve sempre considerarsi più alto.
[1980]
60
Cfr. DOMENICO LIGRESTI, Leonforte, un paese nuovo, in AA. W., Studi di Demografia storica
siciliana, Catania, 1979, p. 93, e gli altri saggi di Longhitano, Raffaele,Grillo, Nicotra, passim.
36
PARTINICO- BATTESIMI, SEPOLTURE: 1650-1701
Anni
battesimi
sepolture
matrimoni
1650
191
256
182
248
1651
1652
195
161
196
187
1653
1654
190
246
182
168
1655
1656
183
160
215
176
1657
1658
243
429
159
229
62
1659
1660
215
203
55
205
197
62
1661
1662
211
204
96
253
196
63
1663
1664
231
186
53
1665
228
281
55
1666
247
210
45
1667
229
194
52
223
313
59
1668
1669
225
287
56
37
4. Farina e forca
Oltre alla gabella del tarì sei per ciascuna botte di vino (è pari a 11 ettolitri e 4
decilitri) contrastata dall'abate principe Francesco Maria Medici dei gran duchi di
Toscana nel 168861, il paese dovette pagare un grano per ogni rotolo di pesce62 sul
pubblico mercato, un grano a rotolo su ogni specie di animale domestico (assegnato
dal consiglio civico al convento del Carmine il 17 febbraio 1634), 5 tarì e 8 grana
per ogni salma di terra per complessive once 826,20,14 all'anno. Questa imposta
surrogò «l'antico appalto sul tabacco» che era stato diviso per «testatica» sulle
famiglie, e quello sulle finestre delle case. Altra partita di terre fu assoggettata a 4
tarì e a 2 tarì per ogni salma, per complessive 500 once all'anno. Bisognava ancora
aggiungere la gabella del torchio che consisteva in tre tarì per ogni salma di ulivi, i
14 tornesi che pagavano i pescivendoli, la tassa di 1 tarì che pagava ogni «vettura
carica che entrava sul pubblico mercato nella quaresima », la «privativa del forno e
dello zagato» che abati e commendatori davano in appalto traendone una cospicua
rendita.63
D'altra parte, una serie di tasse erano andate a beneficio anche degli arcipreti, fin
da quando l'abate commendatario Scipione Rebiba aveva eletto, 1'8 marzo 1573, a
primo arciprete e rettore del paese il prete Luca Lombardo. Si cominciò con
l'imposta di tre tarì a famiglia, invertita nel 1581 col diritto di primizia che
consisteva per i borghesi nel pagamento di un tumulo di frumento, e per tutti gli
altri in una tassa di 35 grana a famiglia.64 Gli arcipreti avevano ottenuto anche dei
terreni a Tremmestieri per once 6 all'anno, e 20 once per la manutenzione della
chiesa di San Cristoforo, successivamente portate a 3 tarì per famiglia e quindi
convertite col diritto di primizia.
In questa chiesa convergevano gli abitanti del circondario che, oltre al diritto di
primizia, dovevano pagare anche i diritti di «stuola» e di « funerali », e particolari
contribuzioni, come quelle che pagavano gli
abitanti di Borgetto, per
l'ingrandimento della campana del Duomo di Partinico. In compenso i borgettani
ebbero il diritto di farla suonare a mortorio gratuitamente nei loro funerali65.
La fissazione dei prezzi dei prodotti vendibili era di pertinenza
dell'amministrazione civica e dei rappresentanti delle chiese locali che ogni anno
fissavano la meta alla presenza del maestro notaro e di «due probi cittadini scelti ».
La meta (prevalentemente quella delle uve e degli olii) serviva da bussola
61
La controversia promossa dall'abate si tradusse in uno scontro tra il senato di Palermo e la popolazione
partinicese e diede luogo, nel marzo 1692 a un biglietto viceregio di Felice della Croce Haedo e ad una
transazione (17 marzo 1692) che sciolse il contratto, fermo restando il dazio di 6 tarì su ogni botte di vino
pagato dai proprietari dei vigneti di Parco, Cinisi e Partinico al senato. Questa anche la conferma del viceré
duca di Uzeda conte di Montalbano che l'assegnò alla deputazione delle nuove gabelle.
Cfr. S. MARINO, cit., pp. 79 e sgg. Va detto che gli ecclesiastici sulle botti di vino prodotto ebbero
l'agevolazione dell'esenzione fino a sette botti e successivamente fino a 20 botti.
62
II rotolo (dall'arabo ratl) variava da 0,89 a 0,79 kg.
63
Cfr. STEFANO MARINO, cit., pp. 80-81. Del resto erano loro a fissare ogni anno, nel giorno di San
Leonardo (6 novembre) la meta.
64
Dopo una richiesta di aumento della congrua avanzata alla fine del ‘700 dall'arciprete Vito Bordonaro, le
entrate della madrice salirono a once 73,8,2, per il mantenimento del culto e a once 20 «per il consumo dei sacri
arredi ». Da aggiungere le 58,20 once, più altre 25 dovute per il mantenimento della chiesa che si sarebbero
dovute «rimpiazzare alla regia amministrazione della Magione ».
65
Cfr. S. MARINO, cit., pp. 83.85.
38
regolatrice per tutta una serie di commercianti e costituiva, perciò, uno strumento di
controllo dell'economia nelle mani dell'aristocrazia, della borghesia latifondistica e
del clero.
Nel 1631 il paese66, non aveva un numero considerevole di abitanti e tale da
rendere difficile a un consiglio civico di approntare le dovute disposizioni a servizio
della popolazione; ci troviamo quindi di fronte, ancora una volta, a un momento in
cui all'interno dell'amministrazione locale erano prevalenti le influenze dell'abazia,
di fronte alle quali, se è vero che il paese non sopporterà di essere sottoposto al
principato del Frelles che venne annullato, poco dopo essere stato costituito, nel
gennaio del 1660, gli « utili dominari » non erano riusciti a impostare una politica
amministrativa capace di evidenziare una presenza attiva dei grandi borghesi.
Partinico, città libera e privilegiata alle dipendenze del senato palermitano, visse
così in modo drammatico i limiti e le contraddizioni del suo processo di formazione
come centro abitato: se non fu sottoposta mai, a partire dal sec. XIV, al dominio di
un vero e proprio baronaggio, in quanto la comunità non fu mai infeudata a un
nobile unico intestatario della proprietà e dei diritti sul territorio, rimase tuttavia
come un paese ai margini della più grande rendita feudale, area della
frammentazione di molteplici interessi sulle risorse del territorio da parte delle varie
forme di nobiltà e di alcuni nodali elementi della borghesia latifondistica.
Restava cronicizzato nel tempo lo stato d'impotenza della popolazione, il suo
abbandono fideistico alla tutela della patrona, imposto e regolamentato da Filippo
IV, con dispaccio del 31 gennaio 1644.
Il papa Innocenzo X, dal canto suo, rispondeva alle annate di peste, siccità e ai
rischi dell'invasione dei “turchi”, con l'istituzione immediata di solenni processioni,
con esplicito invito a designare le chiese da visitarsi, e, ovviamente, cosa più
importante, di digiunare.67 Ora, quest'ultimo invito, cadde in un periodo quanto
meno disgraziato, se è vero che la Sicilia, specialmente nella fascia che andava da
Palermo a Trapani, era colpita dalla carestia, dalla fame e dalla mortalità.
Il 1647 fu forse l'anno più tragico: non pioveva da tempo e la particolare
congiuntura economica aveva portato alla diminuzione del peso del pane quando
potè essere venduto -di circa due once. Coloni, piccoli e medi proprietari, artigiani,
braccianti, vagabondi e mendicanti, vennero così a trovarsi stretti in una morsa
mortale, tra tasse, balzelli, canoni imposti persino sull’aria che respiravano, e la
fame. E così dalla fede si passò ai tumulti. Sono noti quelli guidati dal “battiloro”
Giuseppe D'Alesi e dai conciapelli Vincenzo Ragona e Francesco Danieli, nel 1647.
Ma non furono i soli visto che le congiunture e le forme del governo baronale,
erano omogenei su tutta la Sicilia.
Tumulti si verificarono anche a Partinico che, assieme ad altri comuni isolani,
seguì l'esempio della rivolta palermitana. Gli insorti bruciarono gli archivi,
liberarono i carcerati, saccheggiarono le case dei nobili, imposero l'abolizione delle
gabelle.68 Questa anche la versione del Marino, che contrasta con quella del Lo
Grasso, secondo il quale, invece, l'intervento tempestivo dell'arciprete Palazzolo
evitò nel paese manifestazioni di violenta rivolta. Ovviamente va tenuto conto, nella
storia del carmelitano, di una certa esaltazione della capacità d'intervento del clero,
come si può desumere, del resto, da un’analisi delle singole biografie degli arcipreti
66
Cfr. V. AMICO, cit. da VILLABIANCA, op. cit., ff. 69-70; e infra, p. 55, n. 3.
Cfr. D. Lo GRASSO, cit., pp. 119-134.
68
Cfr. V. AURIA, Diario di Palermo, 27 maggio 1647; COLLURAFI, Tumulti di Palermo, parte I, p. 67, cit.
in S. MARINO, cit., p. 62.
67
39
nel suo Partenico. Per cui, ridurre, come vuole il Lo Grasso, la vicenda del 1647 a
un semplice e superficiale stato di disagio dovuto alla carestia, pare molto
limitativo, anche in considerazione della gravità di quegli avvenimenti che si
conclusero, almeno a Palermo, con una spietata e macchinosa repressione.69 Non
sappiamo come siano realmente andate le cose a partitico. E’ certo però che se
anche l’arciprete era costretto a intervenire, questi si era reso ben conto che la
popolazione era stata ridotta allo stremo. La sua lettera al vicerè (con la quale,
faceva presente la mancanza di frumento da destinare alla popolazione, e la sua
personale disponibilità ad acquistare in contanti le scorte accumulate nei magazzini
del territorio), sollevava in realtà il problema delle speculazioni sulle scorte di grano
da parte dei nobili che ne avevano il prezzo fissato a 4 onze e più a salma, e
avevano l’obiettivo di trarre il massimo vantaggio nelle situazioni di crisi che essi
stessi, frequentemente, provocavano. L’arciprete, perciò, pregò sua eminenza
perchè si benignasse scegliere un « arbitro» per la definizione del problema. Se dal
documento possiamo dedurre che a Partinico esisteva una terribile carestia, dietro la
sollecitazione del Marino e dello stesso Auria, non è possibile escludere un
movimento popolare teso quanto meno a porre un riparo al triste problema della
fame ma che fu lontano dal porsi, come avvenne a Palermo, nei momenti più lucidi,
sul piano della lotta al baronaggio. L'intervento dell'arciprete, d'altra parte se fu
«illuminato» e responsabile, sta a testimoniare quanto a livello di contrattualità, e
quindi di potere, fosse capace un arciprete, e prima di tutto come procuratore e
amministratore generale dell'abazia di Altofonte, e cioè anche della terra della Sala
di Partinico.
Il '600 fu ancora il secolo delle congregazioni religiose, dei conventi e delle
chiese. Nel 1619 per iniziativa del grande enfiteuta palermitano Fabrizio Di Trapani
fu costruito il convento dei Cappuccini; più tardi, ad opera del mastro Bonaventura,
fu fondato (1632) il convento del Carmine; due anni dopo fu eretta la chiesa di San
Leonardo ad opera della compagnia del SS. Sacramento, fondata per la prima volta
nella madrice nel 1599.70 Questa chiesa ebbe diverse rendite che percepì da fondi di
case, magazzini, costruzioni diverse, soggiogazioni e impieghi in favore della stessa
compagnia che ebbe pure in proprietà gli ulivi e gli ogliastri delle trazzere in base
ad una donazione regia e degli antichi abati. Nel 1651 sorse la compagnia del
Carmine (che ebbe un appezzamento di terra in contrada Bosco di alcune decine di
salme), nel 1656 quella del Rosario. Nel 1681, poi, alcuni benemeriti cittadini
ebbero un pezzo di terra dal conte Agostino Zefferino, procuratore generale
dell'abate Medici e fondarono l'Opera Santa, cioé una pia istituzione destinata a
raccogliere i corpi degli impiccati nel largo dei cappuccini. Nel 1692 alcuni tumoli
di terra furono concessi alla compagnia degli Agonizzanti per la costruzione di una
chiesa (benemerito il barone di Castellana, Matteo Scammacca).71
La chiesa dell'Opera santa è certamente quella, fra tutte, che desta maggiore
interesse, e non perché vi si può ammirare, come suppone il Villabianca, un'opera di
Pietro Novelli, ma perché la sua istituzione è legata all'avvio di un'incredibile
pratica liquidatoria della delinquenza comune, o di quella che si riteneva
delinquenza comune, ma che era il frutto, invece, delle gravissime condizioni di
69
Cfr. ISIDORO LA LUMIA, Storie Siciliane, Palermo, ed. della Regione Sic. 1969, vol. IV, pp. 7-144.
Cfr. Partinico, archivio parrocchiale della chiesa del Carmine, S. Leonardo, Capitoli della venerabile
Compagnia del 55. Sacramento della città di Partinico, ms. non inventariato.
71
Cfr. VILLABIANCA, cit" in particolare i ff. 116, 122-125, 130, 141-153.
70
40
miseria in cui vivevano estese popolazioni. Un'esemplificazione di questa pratica ci
è data dal Villabianca nei suoi appunti sui «terrazzani di Partinico giustiziati di
forca si in patria che in Palermo», e che vogliono essere nelle intenzioni del
nostro marchese «esempio ed avviso ai sopravvissuti che per sangue o per cognome
ànno con essi qualche ingerenza» .Vale la pena riportarli qui per intero:
1679
« Il primo atto di giustizia adunque ce lo presenta per questo assunto la miseranda persona di
Lorenzo Zappata nativo di Partinico stato condannato a morte di forca dalla Regia Corte Capitaneale
di Palermo ed afforcato ivi nel piano della Marina sotto li 25 febraio 1679, giorno di sabato.
Assistettero al suo conforto di Cappella Vincenzo Ramondetta che fu poi duca della fabbrica, capo di
cappella, padre di Giovanni de' chierici minori, confortato da Bartolomeo del Castillo poi marchese
di S. Onofrio, sac. Vincenzo di Leo confessante novizio.
1682
La Regia Corte Capitaneale di Palermo condannò a morte di forca Gio: Batt. e Porcasi Giuseppe
calabrese, alias Francaviglia, Giuseppe Calandra e Matteo La Barbera tutti quattro della terra di
Partinico.
Per tre però di costoro si essegul la giustizia nell'aprile del 1682 nel piano della Marina mentre il
solo Calandra si salvò la vita col mezzo di essere chierico ed ordinato dal Vescovo in prima tonsura.
I confortanti di questi afflitti furono Gio. Battista Platanino capo di cappella, padre Ferdinando
Andres teatino, ecc.
1701
Filippo Badalamenti di Partinico.
Entrò in cappella a 25 settembre 1701 e a 28 detto fu gistiziato sul piano della Marina con morte di
forca. Questa la sentenza della Santa Corte come scorridore credesi di campagna e per delitto
d'omicidio (...).
1729
30 ottobre
Pietro di Benedetto fu afforcato nel Piano della Marina con 17 ore di Cappella assieme a
Francesco Causabianca come due sommi stradari per sentenza della Gran Corte.
1732
Antonino Lombardo di Partinico per agnome Sferrazzolo condannato a morte dalla Gran Corte
doppo li due giorni di tenutavi Cappella ebbe la grazia di vita per l'impegno presovi da mons. Matteo
Basile arcivescovo di Palermo che volle fatta buona dal foro ecclesiastico che si dovea godere come
caratterizzato di prima tonsura.
1741
Vincenzo Cusimano nativo di Partinico fu afforcato in Palermo per sentenza della Gran Corte
come reo di furti in campiis e assai facinoroso. Fu preso in Partinico e nella torre di campagna
chiamata Orecchio di Pollastra. Qui fece un giorno di fuoco con la compagnia di giustizia, ne mai si
volle rendere se non gli andava il padre guardiano de' Cappuccini Giuseppe Rizzo. La testa già
decollata fu condotta in Partinico e posta in gabbia su i meragli della Torre della pubblica carcere.
1778
31 gennaio, sabato.
Niccolò Mirabella alias lo Parnitanello d'anni 38 e Filippo Giarraffa d'anni 28 di Partinico furono
appesi alle forche del Piano della Marina come stradarij condannati a morte dalla Gran Corte.
Assisterono al loro conforto Carlo Castelli e Lo Faso marchese di Capizzi e Barone Palumbo.
1779
Giustizia di forca esseguita nel Piano dei Cappuccini che precede al Piano dei Cappuccini di
Partinico su la persona di Francesco Prainito figlio di Paolo d'anni 24 naturale partinicoto
41
condannato a morte dal tribunale della Gran Corte per delitti di furti ed omicidj. Li di lui confortanti
à ben morire furono il sac. Matteo Longo e Mariano d'Accardoe due FF. Cappuccini.
1788
Giuseppe Bambina e Giuseppe Romeo condannati a morte vennero entrambi dalla R. Gran Corte
come scorridori di campagne tutti due partinicoti e giustiziati si furono di forca nel Piano di
Gambacorta di Partinico lor patria. Assistirono al loro conforto li sacerdoti Rosario Rizzo e
Giuseppe Catania e Gaetano Tripodo.
1792
Francesco Cusimano nato a Partinico verso l'anno 1762 condannato a morte dalla R. G. Corte per
reità solamente di rubare in strada pubblica, e rigorosamente perciò ne fu esseguita la prammatica.
Non fu reo mai d'omicidio. Fu giustiziato quindi di forca nel Piano di Gambacorta adiacente al
Convento de' Cappuccini dell'istessa città di Partinico sua patria. Li sacerdoti Gaetano Trippodo e
Salvatore Tosco gli fecero la carità di consolarlo a ben morire. La Compagnia del Sacramento fece la
funzione della Compagnia de' Bianchi di Palermo. Il cadavere fu dato in sepoltura all'opera santa. 72
Abbiamo motivo di ritenere che le esecuzioni avvenivano senza regolari processi,
quando non si risolvevano addirittura secondo la «ricetta» trovata nel 1798
dall'avvocato fiscale Paolo Leone, che per combattere i banditi pensò di farli
ammazzare « inaspettatamente » dai suoi sbirri. Fatti analoghi faranno ‘scuola’
anche per il futuro.
72
Cfr. VILLABIANCA, cit., ff. 427-433.
42
5.La crescita del '700
A giudicare da quanto scrive il Villabianca, nel secolo dei lumi, le condizioni di
vita dei partinicesi non furono molto disgraziate. La popolazione era passata dai
2032 abitanti del 1631 ai 9772 del 179873 che, a giudicare dal numero dei notai
presenti, avrebbero potuto essere anche 15.000 compresi i residenti nei «feudi di
Sicciara, Trappeto, Albaciara,Giudeo, Santa Caterini ed altri suburbij ». Lo stesso
marchese ci informa inoltre di una certa agiatezza dei cittadini:
Le fabbriche delle case ve ne sono appalazzate se bene in poco numero... Aggregati alle case
quasi in tutte di paro stanno granai e con essi maggiori in numero magazzini, ed arbitrij di vini per
essere la Terra, può dirsi, uno dei carricadori in Regno di grani e vini .
Florida anche l'attività dei mulini che sorgevano a San Cataldo, Capo dell'Acqua
(qui ve ne erano tre), Cuba o Abazia, Cirasedda (che lavorava con l'acqua del
Finocchio), Cuti, Passo di Conti (che lavorava con l'acqua del Nocella), San
Giuseppe (lungo il Giancaldaja; qui sorgeva anche una cartiera che fabbricava carta
«di assai buona qualità », fondata da Palma Sirignano). Non trascurabile era poi
l'attività dei tappeti di Taurru, degli stazzoni, che lavoravano la creta, e delle
fabbriche di panni e sete.74
Un'agiatezza, questa, tuttavia, che non riguardava certo i contadini (sui quali i
grandi padroni facevano cadere i sistemi di tassazione) impegnati da sempre a
respingere la «poliza della farina» e cioé la tassa sul macinato («danno nelle furie
appena quando vi si intuoni il minimo motto che senta di poliza di macina») e che
nel 1773, dopo la cacciata del vicerè Fogliani da Palermo, avevano partecipato ai
tumulti che in quel frangente si erano verificati anche a Montelepre, Carini,
Monreale, Parco, Palazzo Adriano e in altri paesi.75
Tuttavia Partinico nel corso del '700 conosce un’espansione demografica e
urbanistica progressiva; ne sono prova i registri parrocchiali e ne sono testimoni
diretti il nostro marchese e il notaio Di Bartolomeo. Il primo, nel «maggior caldo di
studio», scrisse questa ottava in endecasillabi:
Citati Partinicu ora è chiamata
Chiesi avi grandi e casi appalazzati
La sua campagna tutta è abbivirata
D} acqui sorgivi} e frutti prilibati
In idda ùn c}è terra chi spugghiata
Fussi di olivi} vigni e siminati:
La sua conca pri mia è chiù }ndurata
Di chidda di la domina citati.
Forse, naturalmente; perché non sono pochi i punti in cui la Storia della Sala di
Partinico, è più opera di retorica e di cronaca che di storia.
73
Cfr. F. MAGGIORE PERNI, La popolazione di Sicilia e di Palermo dal X al XVIII secolo, Palermo, 1892,
p. 531 (la cifra è comprensiva anche degli abitanti di Balestrate). Per il dato del 1631 cfr. Rocco PIRRO, Sicilia
sacra ecc., Panormi, typis Hieronymi De Rossellis, MDCXXXI, p. 582
74
Cfr. VILLABIANCA, cit., f.243
75
Cfr. LODOVICO BIANCHINI, Della storia economico-civile della Sicilia, Palermo, dalla stamperia di
Francesco Lao, 1841, vol. Il, p. 13; e G. E. DI BLASI, Storia cronologica de' vicerè, Palermo, Ed. della
Regione siciliana, 1975, vol. V, p. 89.
43
Forse per l’innalzamento delle condizioni di vita generali della popolazione
sembrò cosa opportuna a qualche abate, di assumere delle iniziative a favore
dell’abazia. Ci pensò l'abate Barlotta l’inventore delle elemosine.76 Di lui il Marino
ci dice che si era messo a fare prodigi di carità nell'anno di fame 1763. I prezzi del
grano si erano elevati a 9-10 once la salma, ma le pagnotte del peso di 13 once
continuarono a vendersi -grazie al suo intervento -a 8 grana.77 Ma chi era veramente
il Barlotta?
Principe di San Giuseppe, il trapanese Giuseppe Barlotta aveva ottenuto in
assegnazione l'abazia dopo il Medici e il napoletano Francesco M. Acquaviva, nel
1726. Da giovane era stato arrestato perché accusato di attività antispagnola; ma
presto era stato liberato perché rivelatosi innocente.78 Nel 1724, sotto la
dominazione austriaca, aveva occupato un posto importante nell'apparato
scenografico preparato per bruciarvi vivi i molinisti fra Romualdo e suor
Geltrude.79 Dotato di «talento credulo e inclinato solo al buono per sè» -scrive il
Villabianca - il nuovo abate «menato pel naso» era ritornato alle iniziative di
Maurino De Pazos e si era circondato di uomini come Nunzio Minore che era stato
nel giro del bandito, famoso ai suoi tempi, Cicc' Antonio Papaseudi e dei suoi
affiliati: Antonino Di Benedetto e Francesco Causabianca.80 Introdotto nella corte
dell'abate il Minore fu eletto relatore abaziale ed entrò in grandi dimestichezze col
Barlotta, che, ascoltando i suoi suggerimenti, impose, nel 1731 l'ottina (chiamata
anche decina) su tutti gli alberi e piante fruttifere del territorio, e particolarmente
sugli ulivi che nel partinicese erano molto estesi. Il risultato fu l'apertura di una
nuova lite e una successiva pretesa di riscossione dell'ottina «sulle racine dei
lignaggi e moscati». L'obiettivo fu raggiunto nel 1734, nonostante le lettere
viceregie del principe Filiberto di Savoia che ne avevano ordinato la consecuzione
solo sulle «racine semplici», e a scorno di proprietari come Francesco Ramo,
Francesco Bellacera, Guglielmo Susinno, Lucio Pollastra e Virginia Bisazza. Alle
pretese dell'abate si oppose solo il marchese Benedetto Emanuele Villabianca,
padre dello scrittore che, però, vedendosi abbandonato dagli altri padroni
interessati, dovette desistere. Il braccio di ferro non poteva che andare a favore
dell'abate perché -come vuole il Marino -gli enfìteuti erano ormai ridotti in uno
stato di «negligenza e di povertà».
Ma l'iniziativa più spettacolare del Barlotta furono le ricordiazioni a danno dei
«tenutari utili domini » dei principali fondi e contrade abaziali che si videro
misurati i terreni che possedevano «in buona pace» sulla base delle antiche
cordiazioni alle quali erano rapportati i censi dell'abazia, secondo la misura della
76
Ibidem, pp. 56-64. Sul Medici cfr. GIUSEPPE POMA, L'Italia impoverita, Palermo, Antonino Cortese,
MDCCXI. Si tratta di una orazione funebre scritta in occasione della morte dell'abate avvenuta nel 1711. Cfr.
anche LODOVICO BIANCHINI, Della storia economica e civile della Sicilia, Napoli, 1841, vol. I, p. 164.
77
In precedenza la politica interna di Carlo di Borbone (1734-1759) anche se apparentemente illuminata,
come vuole il Falzone, aveva rispecchiato una gestione di tipo assistenziale, al di fuori di radicali interventi
economici. Interessante poteva essere quella lotta al brigantaggio che si spingeva a considerare come
responsabili di furti capitani di giustizia e baroni, o una certa limitazione dei diritti ecclesiastici e feudali. Cfr.
G. FALZONE, Il regno di Carlo di Borbone, Bologna, '64, pp. 3941 e S. MARINO, cit., p. 66.
78
Cfr. A. MONGITORE, Diario palermitano, in Biblioteca storica e letteraria di Sicilia, Palermo, Luigi
Pedone Lauriel, 187; ristampa anastatica, Sala Bolognese, Arnaldo Forni. 1973, vol. VIII, p. 85.
79
Cfr. A. MONGITORE, ivi, vol. IX, pp. 72 e segg.
80
Cfr. VILLABIANCA, cit., ff. 295 e sgg. Il Di Benedetto ebbe la testa tagliata dal boia, e cosi il Papaseudi,
che cadde in un conflitto con la giustizia in una grotta del monte Caputo di Monreale. Il Papaseudi era francese;
in patria faceva il merciere; in Sicilia si era fermato a Corleone da un suo zio, vivendo di furti. Catturato con i
suoi compagni fu afforcato il 29-30 aprile 1729 (ib.).
44
corda di Palermo. I cordiatori si spinsero fino al feudo di Giambruno del duca della
Ferla Tarallo81 contro il quale gli agrimensori si abbatterono accanitamente, in
quanto nel computo della vecchia misurazione delle terre del duca non erano state
comprese le colline, gli avvallamenti, i poggi ineguali. Il Ferla si difese molto bene
e riuscì a spuntarla tra gli evviva del popolo.
In questo periodo agente primario di casa Barlotta fu il barone Tommaso Coppola
che non fece nulla per «smorzare il fuoco» e mettersi quindi dalla stessa parte degli
altri baroni o duchi e marchesi. I tempi erano cambiati, e a differenza del passato,
gli abati non avevano più l'interesse di facilitare il popolamento delle loro terre
largheggiando nelle misurazioni con gli enfiteuti. Al contrario, trasformato ormai il
bosco in terreno produttivo, e bonificati molti terreni ad opera dei coloni, l'interesse
degli abati era adesso quello di rivedere le loro antiche concessioni, rimisurare i
terreni, e rivalutarli sulla base delle effettive capacità produttive col conseguente
aumento di canoni e censi.
Impostarono quindi una escalation delle rendite parassitarie passando sugli
interessi della stessa aristocrazia laica che (come i Villabianca) non poté fare a
meno di registrare amare considerazioni:
Veramente facea dello stomaco, e a me rompevasi la lingua in biasimi e duoli il vedere
banchettare lussuriosamente, e a crepapanza ogni anno le genti, ed uffiziali dell'abate nei giorni
vendemmiali e di esigenza colla festa infine che si facea da essi in lode de' cornuti volontari;
apparando a tale effetto la camera di corna di bovi, e becchi lunghe e corte e risuonar facendola di
canzoni oscene e scandalose. Non mai contenti finalmente costoro di tracannar vino ne
determinavano la vergognosa allegria con rimbrottar la spesa che si facea in quella facchinata con
brindis ludibriosi al poco o nulla scrupoloso abate, che permettea farsi lo spargimento del sangue dei
poveri, e lo scialacquamento della robba di chiesa in simili briccunerie, e bagordi per dar piacere
agl'indegni suoi adulatori.82
Altro urto tra abati e proprietari avvenne sulla questione dei «fabbricati », che,
sorgendo su antichi terreni concessi dall'abazia, erano soggetti a un censo perpetuo
annuale, secondo la quantità dei terreni.
Ma a parte l'episodio Barlotta, lo scontro tra enfiteuti e baroni da un lato e
gestione abaziale dall'altro, dovette verificarsi sin dall'inizio, perchè gli abati, non
potendo coltivare il feudo, avevano cominciato a concedere, già nel Trecento, la
terra ad enfiteusi perpetua, grazie alla quale si era formato un particolare tipo di
proprietà basata sull'utilità intera della terra, con una conseguente frammentazione
dei feudi, e una loro eccessiva parcellizazione.
Con la sostituzione delle colture al manto boschivo, i livelli dei profitti erano
saliti, e con essi la forza economica e contrattuale delle baronie; per cui gli abati,
volendo ristabilire un equilibrio aggiunsero al vecchio canone, la iunta che elevò
l'imposta per ogni salma di terra a tarì 24 all'anno. Quindi si aggiunsero il
«terraggiolo» e l'ottina da pagarsi sull'uva, esclusi i frutteti e gli uliveti. Così,
quando dopo la sua elezione ad abate, nel 1580, Antonio Maurino De Pazos
aumentò il canone degli enfiteuti, Leonardo de Scorza, proprietario delle terre di
Gambacurta e Raccuglia, si oppose, e tuttora -scriveva il Marino nel 1855 - i
81
Ai Tarallo, e precisamente a Francesco Simone, duca della Ferla, andrà il merito della fondazione a
Partinico (1776) dell' Accademia degli Scientifici Agricoltori che dal 1794 continuerà a riunirsi grazie a
Francesco Paolo del Castillo, marchese della Gran Montagna, cfr. D. SCINÀ’, Prospetto della Storia letteraria
di Sicilia, cit., vol. I, p. 70. Si tratta, tra le innumerevoli, di una delle poche accademie siciliane che si
occupassero degli «studi particolari »; aveva come simbolo un aratro tirato da una coppia di buoi e dal '94 una
torre rossa listata obbliquamente.
Cfr. VILLABIANCA, cit., ff. 393-394.
82
Cfr. ibidem.
45
successori di Pietro e Maria Antonia Puccio corrispondono 24 annuali tarì per ogni
salma di terra.83
Le cose si aggravarono col Barlotta. Pretese che gli enfiteuti pagassero anche il
canone sulle fruttificazioni degli alberi e delle piante, da sempre esclusi dalle
tassazioni; ma la pretesa fu per fortuna respinta dal giudice del tribunale della regia
monarchia. Superata la contestazione il Barlotta fu teatrale: si scatenò con «notai,
agrimensori, soldati e sergenti a misurare e rimisurare le terre date ad enfiteusi » e
non ottenne che uno scarno incremento di canone, insufficiente a coprire le ingenti
spese da lui fatte, e somma maledizione e indignazione dei suoi sudditi ».
Rappresentava, questo, uno dei tanti episodi della conflittualità di cui ci siamo
occupati: mentre ai due poli opposti, i baroni cercavano una reciproca autonomia e
si contendevano -anche se isolatamente –il controllo e l'accaparramento del
territorio, gli abati non volevano perdere terreno e agivano anche in barba alle
disposizioni del governo regio.
Per somma sventura, col Barlotta giunse anche la peste.
Questa volta l'abate fece costruire alcune mura attorno al paese per evitare il
contagio. La convinzione diffusa era che i malanni venissero sempre da fuori, e che
le comunità fossero ‘geneticamente’ indenni. Da allora Partinico cominciò ad avere
la caratteristica dei comuni chiusi, con le loro porte, i loro controlli in entrata e in
uscita. Ottimi per il pagamento di tasse e balzelli. Nel caso specifico la precauzione
accelerò la carestia. Qualche decennio prima era stata la fame a spingere Benedetta
Campo Lo Iacono a dedicarsi a un'opera di beneficienza e di assistenza alle orfane
povere, raccogliendo essa stessa elemosine e organizzando una specie di collegio.
Una simile opera filantropica e cristiana aveva avuto l'appoggio degli aristocratici e
della stessa chiesa, compreso naturalmente il Barlotta che, così, diede la
dimostrazione che anche lui aveva in fondo una vocazione cristiana. Dopo la morte
dell'abate il governo borbonico fece delle elemosine il fondamento della sua azione
amministrativa.84
Ma al tempo del Villabianca che scriveva la sua storia a cavallo dei due secoli, il
Barlotta, che pure con tanta ammirazione era stato guardato nel 1760 -quando Pietro
Bentivegna, editore di Palermo, definendolo «protettore dei letterati» e «cultore
della musica» o «abate dal generoso cuore », gli aveva dedicato il terzo volume dei
suoi Opuscoli –era solo un ricordo: antecedente tragico di un malinteso rapporto tra
potere dello Stato e autonomia abaziale.
Verso la fine del secolo l'abazia fu incamerata nella real Corte e -dietro le
pressioni dei cappelli, o come meglio possiamo definirli, dei galantuomini,
interessati alla piena autonomia della loro università per le cariche che avrebbero
potuto assumere- ebbe per la prima volta amministratori locali. L'abazia, resa già
commenda, fu assegnata in cespite del real ordine costantiniano in favore del
83
Cfr. S. MARINO, cit., pp. 74-75.
Nel 1790 le somme distribuite ai poveri di Partinico consistevano in 315 onze e 12 tarì, con un balzo di
circa 240 onze rispetto al 1732. Un altro monastero di vergini sarà fondato alla fine del secolo. E’ questo quel
famoso reclusorio che merita di andare alla storia perchè segna la prima lite fra monaci per questioni «d'illecite
interferenze». Cos'era successo? «A causa delle aperture fatte nella attigua chiesa di Gesù e Maria per la
costruzione del comunichino, del confessionale nella parte inferiore, e del coro nella parte superiore,
accanitissima guerra suscitarono i confrati della congregazione di Gesù e Maria, che... si era trasferita nella
suddetta chiesa per cooperazione dei con- frati edificata nel 1733. Menati buoni i ricorsi presentati a superiori
ecclesiastici e secolari, i confrati cacciarono dalla chiesa le moniali, demolirono il coro, chiusero le praticate
aperture e fecero sloggiare dall'amato sito quelle buone vergini...». Cfr. S. MARINO, cit., p. 151.
La conclusione è però a lieto fine, perchè le moniali ebbero il loro reclusorio a condizione laicale e «regolato
con gli statuti dell'ordine di Sant'Antonio». Famiglie di benestanti, come quelle dei Rizzo e di Castrenze di
Bella, furono abbastanza larghe di donazioni.
84
46
principe reale D. Leopoldo di Borbone, figlio secondogenito di Ferdinando III, e fu
scelto come ministro e amministratore generale di Partinico («commendato stato»)
e dell'abazia, il cav. costantiniano Felice Lioy, che ebbe anche il governo e la
procura della grossa abazia della Magione, trasformata anch'essa in commenda.
[1976]
47
II
L'ASCESA DEI CAPPELLI
1.Lo sviluppo della borghesia agraria
La rivoluzione napoletana del 1799, come è ormai risaputo, costrinse il re a
rifugiarsi nella monarchica Palermo. Nell'isola, Ferdinando III pensò di trascorrere
il tempo dandosi alla caccia e agli svaghi, e nonostante si fosse disinteressato di
sudditi e Stato, riscosse un notevole consenso. Improvvisati poeti misero in moto la
loro servile fantasia, masse consistenti di popolo gli si mossero incontro al suo
passaggio per paesi e contrade.
Nell'occasione del suo soggiorno a Partinico, al rientro dalla caccia d'Inici, il
notaio Girolamo Cannizzo gli dedicò dei sonetti e un ditirambo, e altri sonetti
scrisse a onore e gloria della sovrana Maria Carolina.85 Lodi certamente non inutili,
perché non erano il frutto di una vena poetica, ma la prova dell’affermazione
politica di una nuova classe sociale: la borghesia agraria, proprietaria di estesi
vigneti, e aspirante al governo della città. Quelle lodi perciò produssero il loro
aspettato effetto. A parte l'immediato acquisto che il re volle fare della villetta e
«casena» di F. P. del Castillo, marchese della Gran Montagna86 che diventò una
grossa azienda vinicola, il dato di maggiore interesse fu la dichiarazione di
completa autonomia dell'università, al pari delle altre università demaniali. Ciò
comportò una revisione della gestione del comune, di cui si occupò Felice Lioy.
Questi trovò il paese in disordini amministrativi e nello scontento popolare, e fu
pertanto costretto a destituire dalla carica fiscale Giuseppe Rizzo, e da procuratore
dell'abazia Vito Gigante che sostituì con Sebastiano Cannizzo. Furono nominati
allora gli ufficiali della nuova amministrazione, scelti, tutti tra i gentiluomini del
paese, e muniti di regie patenti (marzo 1800). Licenziato il capitano giustiziere e il
giudice Francesco Bufalo, destituiti i deputati di piazza e tutti gli altri ufficiali, fu
nominato Nicolò Troisi, primo capitano giustiziere, e furono eletti i primi giurati, il
giudice criminale (Giovanni Cannizzo), il giudice civile (Ignazio Provenzale) , il
giudice delle appellazioni (Gaetano Minaci), il procuratore fiscale (Toscano Ferro),
il sindaco (Giuseppe Bonura); il «maestro di mazziero con robiglia e mazza
magistrale», il primo giudice della corte superiore (Salvatore Cusimano).87
Aveva quindi inizio la scalata al potere dei cappelli, che rappresentavano la media
e grossa borghesia delle campagne ed erano, secondo il Villabianca, i veri « tiranni
85
Il ditirambo In occasione di presentare la fedele popolazione di Partinico al di lei saggio Sovrano
Ferdinando III una lieta offerta di liquori nazionali è un inno ai vini tipici di Partinico, quelli delle contrade
Suvararo (pregiati per la cura che ne aveva il vinaiolo Gaetano RaccugIia), Galeazzo e Passarello. Cfr.
VILLABIANCA, cit., ff. 469 e sgg.
86
La cifra concordata fu di 4700 onze, pari a 2.000 scudi; ivi, f. 263 e sgg. 45
87
Ibidem, ff. 462-463, e GIOVANNI D'ANGELO, Giornale della città di Palermo scritto da G. D. regio abate
commendatario di Mandanici, per servire di continuazione al giornale della medesima città scritto da
Gabriello Lancillotto Castello, principe di Torremuzza: si trova alla Bibl. Comunale di Palermo ai segni
Qq.E.149 (il testo della descrizione di Partinico col «nome e titolo di città» (25 aprile 1800) ai fogli 792-793).
48
della povera gente ». Si trattava adesso «di vestire da capo a piedi una persona nuda
che aveva bisogno di tutto per esistere al mondo ». L'avversione verso la nuova
gestione, che aveva un suo riscontro nell'amarezza con la quale il Villabianca
considerava il cambio di guardia nell'amministrazione comunale, rispecchiava il
mutamento del clima politico generale e la perdita di terreno del ruolo egemonico
della vecchia aristocrazia. Il nostro marchese quindi, assieme a una pleiade di
borghesi asserviti al baronaggio, tra i quali vanno ricordati Francesco Catalano,
Nicolò Minore, Giuseppe Di Lisi, Francesco Saluzzo alias Panazza, che per la loro
opposizione furono mandati in galera, fu tra coloro che videro e documentarono,
con impotenza, l'affermarsi di una nuova classe sociale che se nel corso del '700 in
Sicilia aveva avuto un ruolo importante ma non dominante, si attestava adesso su
posizioni di forza e di prestigio politico.
L'attenzione della nuova amministrazione si rivolse prima di tutto verso i
proprietari di fondi e soprattutto verso la borghesia insoddisfatta delle campagne e
non trascurò 1'« aborrimento » col quale il popolo s'era atteggiato nei confronti
della tassa sulla farina che si era sempre rifiutato di pagare. Ma le terre restarono
gravate dalla tassa per la costruzione della strada Partinico-Palermo, e da quella sul
tabacco che avevano notevolmente ridotte le rendite dei proprietari.
All'università furono devoluti gli 8 tarì per salma che si pagavano dagli “utili
domini” per la guardiania delle vigne e dei terreni, e con questi proventi furono
istituiti i campieri che ebbero livrea e marca in testa. Fu loro assegnato il salario di
3 tarì al giorno, compreso il mantenimento del cavallo, e furono considerati soldati
di cavalleria, configurandosi come «una delle compagnie rusticane d'armi del
Regno» in tutto simile alla compagnia Sancimino di Monreale. Si tentò così di
mettere un riparo ai pascoli abusivi e ai danni provocati dai viandanti che in
mancanza di strade regie, attraversavano i fondi privati. Ma i campieri non
liberarono i coloni dai continui furti e ruberie che suscitarono numerose lamentele
popolari .88
Si dava avvio, quindi, ma con uno spirito diverso da quello con cui l'avevano
condotta il De Pazos e il Barlotta, a una nuova cordiazione.
Nel mese di agosto del 1800 l'agrimensore Giovanni Inga presentava pertanto
all'amministrazione della Magione una relazione dalla quale risultava che il
territorio di Partinico comprendeva 5487,8 salme di terra.89
88
Per quanto concerneva l'abolizione degli abusi feudali bisognava attendere il decreto reale dell'll dicembre
1841 che si rifaceva a sua volta a leggi precedenti non attuate, come quella sull’abolizione della feudalità del
1812, che prescrivevano lo sganciamento delle proprietà dalle signorie. Ma tutte le leggi di riforma del periodo
si risolsero a favore dei latifondisti e degli aristocratici. Si arrivava così a nuove sottoconcessioni di terre di cui
furono utili «dominari », i Villabianca, il barone Pietro Miceli, il marchese Pietro Bellaroto, il barone del Grano,
il barone Andrea Gallo, Salvatore Mottola, e a una nuova costituzione di fondi con un connesso incremento
demografico. Le nuove enfiteusi diffusero la proprietà degli «stabili del suolo ». Cfr. MARINO, cit., pp. 77-78,
e inoltre VILLABIANCA, cit., ff. 434 e sgg. e 295-308.
89
Contrade e luoghi avevano questa estensione in salme: «Ramo, 70,8; Monte della baronessa, inteso
Cesarò, 32; Capo dell'Acqua, 8,13; Crocifisso, 28,4; Margi Soprani e Sottani, 500; Giorgentana, 7,13; Galeazzo,
60,4; Torrisi Soprano, 41,13; Pollastra, 28,10; Raccugli, 36; Mezzavilla, Bracco e Monti, 44,8; Albaciara,
Garofalo, Cutò e Ra- motta, 10,2,3; Parrini ossia Gesuiti, 163,8,2; Piano del Re, Giannella, 52,12,3; Ballo e
Sovaro con casina, chiesa, torre ed officine, 11,9,3; Bisaccia, 79,2; Trappeto, Balestrate del barone Miceli, 100;
San Cataldo Balestrate, 55; Milioto, 18,8; Badia e Badietta di S. Castro, 36,11,3; San Carlo, 33,6; San
Francesco di Paola, ossia Seregnano, 55; Carrozza della Zisa, 32,12; Paggino Sottano, 15,4; Sirignano, 20,15;
Torrisi Sottano, 28; San Giuseppe, cioè Pellizza, Ogliastro e Tremmestieri con molino e vestigi di una cartera
diruta, 54,2,3; Giambruno, Federico, Raccugli, S. Caterina, Lenzotti, 247,3; Piano d'Inferno Balestrate, 60;
Spadafora, 75,8,3; Timpanelli e Corso, 45,13; Giannella, 4,2,3; Cicala, Bellacera, Cannizzaro, Gencaria e Ponti,
18,5,15; Randazzo e Monacelli, 40,8,1; Credenzerio, 8,6,2; Carrozza di Parisi, 6,2,3; Carrozza dell'abazia, 3,5,2;
Mottola, 33,6; Rognone, ossia Randazzo, 8,10,2,3. Totale della piana salme 2523,13,3; Bosco di Partinico
2776,2,3,1; Rapitalà 187,7, Parco Vecchio 388. Ad eccezione di Rapitalà le suddette contrade tutte devono un
canone all'abazia in onze 5243,5,6,2 all'anno ». Cfr. MARINO, cit., p. 11.
49
Queste, secondo Stefano Marino, erano divise in undici sezioni, relative a 5.000
proprietari, dei quali qualche centinaio erano i grossi borghesi o agrari, come i
baroni Sant' Anna, Romano, Russotto o i marchesi Di Gregorio e Vannucci, e
fruttavano 5243,5,6,2 onze.90
Al tempo del Marino, che pubblicava la sua Storia nel 1855, vi erano a Partinico
17 chiese, 41 preti, 9 frati francescani e carmelitani; il paese aveva un circuito di
due miglia e mezzo, contava 13.809 abitanti al 1831 e 14.699 al 1853 (potevano
essere anche 18.000 se si consideravano gli «esteri »); aveva anche un maestro
segreto, un ricevitore di dogana, il cancelliere e il giudice del circondario.91
Alla periferia si potevano contare dodici torri e numerosi mulini e stazzoni.92 La
sua stessa estensione territoriale, che il Di Marzo annotando il Lexicon dell'Amico,
dava in 5236,584 salme di terra, con una leggera flessione rispetto ai dati ufficiali,
era chiaramente indicativa di un particolare sviluppo del paese le cui campagne, se
conoscevano la cerealicoltura, e cioè la coltivazione tipica del feudo, erano invece
caratterizzate da un massiccio e secolare ricorso alla coltura intensiva. La superficie
agraria era così suddivisa:
Tipo di coltura
Estensione in salme
giardini
orti alberati
orti semplici
canneti
pioppeti
seminativi alberati
seminativi semplici
pascoli
oliveti
vigneti alberati
vigneti semplici
sommaccheti
frassineti
Case campestri
altro
totale
30,312
19,463
47,815
38,127
1,787
267,635
664,063
773,804
347,619
1236,310
1530,459
213,980
12,701
5,509
20
5236,58493
Le principali produzioni erano dunque quelle del vino, dei cereali, dell'olio e del
sommacco, che, tranne i cereali, costituivano prodotti di esportazione.94 Ma non
90
Cfr. ibidem.
Cfr. Ibidem, pp. 125-126. Per il dato del 1831 cfr. Giornale dell'Intendenza di Palermo, 30 settembre 1837,
n. CCXXXI, pp. 178-179.
92
Importanti anche le torri di campagna: Albaciara, Antiochia (Pollastra), Bracco, Regia Corte, Carrozza,
Gesuiti, Giambruno, Cicala, Girgentana, S. Giuseppe, Passo di del nu?' Conti, Madonna del Ponte, Raccuglia,
Federico, Milioto, Rapitalà, Pacino, Ramotta, del Re, Spatafora, Rognone, Trappeto, Solitano, Turrisi. Le
migliori erano quelle di Milioto, Bisazza, Cicala, Albaciara. Le torri urbane di cui fa menzione il Villabianca
sono quelle di Bisazza, Scammacca e Bellaroto (sul finire del paese verso nord), Camillo (all’angolo del
Carmine), Madonna di Ballo del marchese della Gran Montagna, Torre dell'antico campanile della madrice,
Ragona (di fronte alla Chiesa del Crocifissello), Castello (delle pubbliche carceri) che si incontrava entrando
nell'abitato da oriente: non più utilizzabile a partire dal 1791. Vi erano poi due torri vicino l'ospedale e la torre
di Vito d’Urso. Cfr. VILLABIANCA, cit., ff. 169-171.
93
Cfr. GIOACCHINO DI MARZO, Dizionario Topografico della Sicilia di Vito Amico, Cit., vol. II, pp. 324326, n. 1.
91
50
scarsa importanza economica e sociale avevano i pascoli che presupponevano una
notevole presenza di bestiame da allevamento e quindi l’attività di una articolata
categoria di ‘vaccari’, pastori, allevatori di cavalli da tiro, da sella e da soma,
curatoli, annalori e via di seguito, che nel loro insieme costituivano un mondo quasi
autonomo. I cicli e i metodi produttivi, la lontananza dai centri urbani, l’assenza
delle figure dei grandi proprietari, l’intermediazione dei sovrastanti e dei gabelloti
rendevano questo mondo, per lo più legato alle masserie, svincolato dal sistema
delle regole prevalenti nelle comunità abitative; un sistema gerarchico legato alla
sedentarietà delle imprese produttive e perciò più soggetto ai vincoli della
dipendenza feudale.
L'abbondante produzione di uva aveva dato origine, già all'inizio del secolo, a un
fatto straordinario: la costruzione, quale modello di una concezione microefficiente
dell'agricoltura, della «cantina del real podere », in un latifondo di 84 salme di
fertili terreni irrigati dalle acque del Lago e di Mirto, attraversati da vie carrozzabili,
e adibiti a frutteto (3.600 alberi da frutta), vigneto, oliveto, agrumeto, e alla coltura
del sommacco.95 Da aggiungere una villa e un palazzo con teatrino già di proprietà
del marchese di Gran Montagna.
I lavori, ultimati nel 1803, avevano comportato una spesa di 18.000 scudi,
eccettuate le spese vive destinate ai terreni. Vale la pena dare una sommaria
descrizione della cantina, anche perché questa rappresentava la maggiore
realizzazione regia per i partinicesi. Sentiamo il Marino:
La vasta piazza della medesima dividesi con simmetria in tre corpi. Una scala pianamente uguale
fa scendere i muli carichi d'uva, e l'introduce nel corpo della loggia, ove in prospettiva un atrio più
largo li fa salendo uscire in prospetto della montagnola di Cesarò. Soprastano gli altri due corpi con
muraglie di grosse pietre riquadrate. Sono esse maestose, senza ornamento, e ben sostenute in più
parti da chiavi di ferro, dominando un magazzino si vasto da conservare i prodotti di quella industria
agraria. Tutto ispira li dentro il compiuto disegno sovrano e la cantina, il Castellaccio, il lago, le
stradelle carreggiabili, gli acquedotti di pietra viva e calce, le macchine più adatte per la estrazione
dell'olio e del vino mustale con organi ed altri strumenti agrari venuti dall'estero, costituiscono nel
real podere un grandissimo monumento di agricoltura.96
La cantina poteva assorbire manodopera ed impiegati in un rapporto di lavoro
imprenditoriale di stampo non padronale.
Nell'azienda trovavano posto
un commissionato, poi detto maestro segreto, col soldo di once 28 e tarì 24 annui, un contabile con
once 36, un guardabosco con once 36, un cassiere con once 24, un facchino con once 12, un notaro
con once 24 ,
94
Ibidem, e G. PITRÈ, Palermo nel Settecento, Palermo, Remo Sandron, 1916, p. 36.
95
Si può avanzare l'ipotesi che «l'esperimento dd vino» fatto a Partinico in contrada Giancaldaia dal cav. D.
F. Lioy e pubblicato per espresso desiderio del re nel 1800, sia stato uno dei primi stimoli alla costruzione di
questa cantina. In seguito ad alcune indagini fatte dal Lioy a Partinico e a Marineo, tra la fine del '700 e le soglie
del nuovo secolo, erano state denunciate le tecniche antiproduttive usate dai contadini nella produzione del
vino. Si trattava di una condizione legata alla mancata disponibilità di aree e mezzi idonei e sufficienti alla
lavorazione del prodotto. A Prizzi e a Palazzo Adriano il deterioramento del vino era dovuto a cause igieniche.
Scrive, infatti, il Lioy: «Tentai di cacciare il fumo dalle abitazioni... dove per introdurre le ciminiere proposi di
farne costruire per modello a spese del re in quelle dei poveri, ma non fu possibile persuadere coloro, i quali se
la presero contro di me, come se così avessi voluto togliere il beneficio del calore, che loro dava il fumo in
tempo d'inverno»; «la forma dei palmenti è quadrilunga, di piccola profondità, a cielo scoperto con
evaporazione e perdita strabocchevole dello spirito di vino»; «il torchio è poco meglio disposto dal primo
inventato dall'uomo»; ecc. Cfr. F. LIOY, Memoria per la manipolazione dei vini, Palermo, Real Stamperia,
1800. Il prezioso documento è allegato al mio volume Uomini e terra a Partinico, Palermo, Vittorietti, 1981,
pp.119-126.
96
Cfr. S. MARINO, cit., p. 122.
51
e successivamente
un curatolo con once 36, uno scrivano con once 48, un giardiniere con once 84, un cantiniere dei
magazzini con once 36, un soprastante con once 48, un custode del real casino con once 60, un
cappellano con once 48, un carrettiere con once 36, una portinaia con once 6, due custodi con once
72.97
Ma a parte questa realizzazione statale, tornava prevalente il quadro di un sistema
che si manteneva con la consueta pratica assistenziale, on la concessione di
«elemosine vitalizie» che vennero accordate a molte famiglie. Tali elemosine
assommavano a 550 once annuali ed erano sensibilmente diminuite, quando il
Marino scriveva la sua storia.
Ci troviamo quindi di fronte a evidenti contraddizioni, indicative dello stato di
miseria di estese popolazioni e dell'incapacità di dare una impostazione organica al
problema dello sviluppo economico, nonostante gli sforzi compiuti in questo senso
dal governo.
In questa situazione, particolari difficoltà doveva affrontare la piccola impresa,
non agevolata da alcuna incentivazione non assistenzialistica e schiacciata dalla
continua pratica dell'usura:
...essa bene spesso considerevolmente alta fra noi somministra forte argomento del grave disagio,
che aspramente sperimentasi per la concorrenza accresciuta nel domandare e nella scemata nel dare
ad imprestito. I nostri agricoltori vedonsi spesso nell'obbligo di vendere con perdita i prodotti non
ancora perfezionati, e trovano difficoltà e costosi gli imprestiti, cadono malvolentieri in questo
inconveniente per soddisfare i pesi gravanti su i terreni, per accorrere alle spese della coltura e allo
scarso pane della loro famiglia, obbligati essendo a pagare interessi ruinosi.98
Così scriveva il Marino e indicava alcune sanatorie, come il miglioramento delle
attrezzature nella produzione del vino (necessità individuata più di mezzo secolo
prima dal Lioy), dell'olio, della frutta e degli ortaggi; 1'« istituzione civile di una
banca agraria con una cassa di risparmio» che intervenisse con prestiti a basso
interesse; la costruzione di nuove strade, come la trasversale Gibellina-SalaparutaPartinico-S. Cataldo-Terrasini.
Era quella del Marino una posizione riformista, che avendo assimilato il
programma federalista della dottrina giobertiana e neoguelfa, ripiegava nel sogno
della causa nazionale prima (come dimostrano i suoi Stati Uniti d’Italia) e
ristagnava, poi, nell'ambito degli interventi dall'alto, al di fuori dell'iniziativa
popolare e dell'organizzazione dello stato di disagio. Il Marino ereditava la
concezione di una specie di «delega al parlamento », qual era, ad esempio, quella
dell'avvocato Gaetano Bonura, eletto deputato di Partinico al parlamento di
Palermo, riunito nel 1812, e che era propria ormai di una borghesia che aveva
cominciato a fare dello strumento risorgimentale il reale terreno di battaglia del
riformismo moderato.
Altra cosa sarà – come vedremo- l'antiborbonico Vito Ragona, un prete formatosi
nella milizia della rivoluzione del '48.
I .Maestri segreti, sostituiti al tempo del Marino dal ricevitore del registro, furono
anche i notai locali come Sebastiano Cannizzo. Notai troviamo anche tra i ricevitori
97
Ibidem, p. 123. 1 oncia = 12,75 lire; 1 tarì= 8 soldi e 2 cent.e mezzo; 1 rano = 2 centesimi; 100 once =
1275 lire. Per i bilanci dell'azienda commendale cf. A.S.P., Real Segreteria, Incartamenti e reali dispacci, busta
5468 (anno 1811, Conto di introito dell' Amministraz. della Commenda della Magione, Parco, Partinico e R.
Podere). Tra le Collettanee e Materiali a parte.
76 Cfr. ibidem, p. 137.
52
di dogana, come Silvestre Patti, che fu procommissario della repubblica francese,
giudice e sindaco. Sindaci furono notai, dottori, marchesi e baroni: il notaio
Raffaele Cannizzo dal 1819 al '23; Pietro Colina fino al '26; il barone della Leggia
Giuseppe M. De Francisco fino al '28; il marchese Ferdinando Bellaroto dal '46
al '48 e dal '49 al '50 (gli succederà dal '53 al '55 Gian Michele De Francisco,
barone della Leggia); il dottore Ignazio Bonura nel '45. Al barone De Francisco si
doveva il merito di avere piantato la magnifica fontana di marmo in piazza duomo,
di avere migliorato l'illuminazione notturna, di avere costruito la strada consolare
lastricata.
Ma la detenzione del potere da parte di certa borghesia, era ancora il riflesso della
feudalità agraria, ancora estesa, anche se non sempre omogenea; tuttavia la
posizione del Marino è indicativa dei tempi nuovi e di una realtà economica e
sociale in piena trasformazione, grazie alla grande disponibilità di acqua.
L'estensione dei canali d'irrigazione aveva riproposto in termini drammatici
l'annoso problema del canone delle acque.99 Ogni anno il mese di aprile era infatti
un mese disgraziato per i contadini, specialmente per gli ortolani e i proprietari più
poveri. Un bando pubblico preannunciava il pagamento della gabella. Al padrone
della sorgente erano dovuti un'oncia e due tarì per un'ora d'acqua somministrata ai
giardini e due once e quattro tarì per un'ora d'acqua data agli ortaggi. Col tempo il
canone (che si pagava in due rate: a novembre e a febbraio) fu accresciuto a
un'oncia e sei tarì per i giardini, e a due once e 12 tarì per gli ortaggi. Considerata
questa assurda condizione di feudalità il Marino auspicava «nell'interesse
dell'agricoltura» una legge abolitiva che regolando l'utilizzazione delle acque
abolisse la feudalità del 6 agosto 1806. Ma era questo uno degli ultimi sintomi del
permanere di angherie medievali in un'epoca in cui ormai cominciava ad affermarsi
in modo sempre più decisivo la piccola e media borghesia, unitamente alla
significativa presenza della piccola azienda. Antiche attività erano quelle esercitate
dai mulini, dalle cartiere, dai tappeti di cannamela (canna da zucchero, e olio), dagli
‘stazzoni’. Un quadro dettagliato ci viene fornito, per i primi anni dell’’800, dal
notaio Di Bartolomeo:
Sono diverse, e in diverse tenute del territorio nostro le fabriche, ovvero arbitrii a varie cose
destinati: infiniti – per così dire – i torchi volgarmente appellati stringitori da spremer l'uva, oltre agli
infiniti esistono nella città e suborghi: molti i trappeti da olio di olive, e lino; apparte di quei numero
sette nella città, che inservono pubblicamente a comodo di tutti, cioè: quello de' fratelli D. Niccola, e
D. Luigi Minore nel quartiere dell'Agonizzanti: l'altro di D. Antonino Ragona nel suo terreno e
quartiere di San Giuseppe; quello del Dr. D. Domenico Puma nel piano del Collegio di Maria:
quell'altro di D. Giuseppe Zaccaria nel quartiere di D. Domenico Sapienza alla fine dello stradone: il
quinto di D. Domenico Randisi nel quartiere de lo Presti: il sesto di Mastro Giuseppe Patti nel
quartiere di Bisazza: ed il settimo del Marchese D. Pietro Bellaroto in detto quartiere, e dentro il
recinto, e case della torre del medesimo.
Vi ha similmente l'ordegno da estrar la seta dal verme, detto il mangano in fine dell'abitato, e in
principio del luogo del capo d'acqua. Sino a dieci anni sono esisteano e lavoravano della carta da
straccio due cartiere nella contrada di S. Francesco di Paola appartenente a D. Palmina Seregnano e
Crapanzano – oggi l'una distrutta e l'altra lavora dette lane di albraggio, detta il paratore di
Seregnano – Giace questo arbitrio presso la famosa collina detta del Re Cucco; e dessa tutta
ingombra e di edere e di fichi d'india; si aprono ai di lei fianchi vaste bocche d'orride caverne quali si
stradano in vastissimi sotterranei. Quivi vuole l'antica superstiziosa ignoranza del vulgo, che vi siano
de' nascosti tesori impossessati da spiriti infernali, e giunge a segno la guasta fantasia di cotesti avidi
creduli, ad assicurare altrui costantemente, aver udito, e veduto colà dell'urli, strida e gemiti, e dei
spettri, e larve terribili, farvi frattanto in esse gli uccelli di rapina i loro nidi, ed è altresì lo ricovro
99
Ibidem, p. 132.
53
degli altri di passa in differenti stagioni partendo da libeccio per indi avvanzarsi a ritrovar altro asilo
a greco su le vette della montagna ov'era Elima ossia Palamita.
Assicura ne suoi opuscoli e notizie istoriche Francesco Maria Emanuele Conte Marchese di
Villabianca, che amendue le riferite cartiere di Seregnano nel passato secolo lavoravano
perfettamente della carta di scrivere; ed egli stesso dice possederne ancora identificamente dei fogli;
soggiungendosi all'ugual tempo, che intanto si sospesero i lavori di tal carta, non già perché non
riesciva perfetta, ma in quanto la spesa eccedeva poi il prezzo della carta nel comune spaccio se ne
faceva.
Ch'eravi ancora nei tempi andati nella nostra campagna l'ordegno di estrar lo zucchero dalle
cannamele va ciò senza contrasto come abbiam prima di adesso riferito, e perché il luogo ne ritiene
sino a dì nostri la denominazion di Trappeto, e perché lo assicura nella sua Sicilia il Fazello.
Sonovi di presente, e vi sono stati mai sempre nella nostra città dei stazzoni i cui si lavorano a
dovere i vasi di creta cotta per uso d'acqua, per tegole, e mattoni da pavimento, e per fabriche di
dammusi finti, osia, volte di camere. Vero si è che quest'arte di costrurre detti finti dammusi di
mattoni la portò nel passato secolo in questa nostra città il celebre Maestro Francesco Brù spagnolo,
ma i di lui scolari nostri concittadini l'appresero sì finamente, che non è ardire l'assicurare che
superarono e tutt'ora superano il lor maestro, ed inventore. I vasi poi anzidetti per conservarvi
dell'acqua e potabili, come in servigio da cucina, e per piantarvi de' fiori e simili; i nostri stazonari
non invidiano alcuno della lor arte: e tanto sono abbondanti tai vasi, che vanno di buon mercato, e se
ne provvedono altresì le vicine terre e città.
Due sono le tonnare appartenenti al nostro contado: l'una è quella denominata li Magasenazzi
posta alla punta dove termina il littorale in cui succede quello d'Alcamo. Cotal denominazione ella
l'ha tolta dal vallone detto Magasenazzo, il quale parte dalla surriferita città a trovare il mare. Le sta
alle rive una torre di guardia per difesa della pescagione de' tonni, ed alelonghe. Di essa tonnara ne è
la proprietaria Signora la Eredità [?] de' Baroni Specchi di Naro. E' l'altra la Sicciara, che sulla punta
fondata circoscrivesi, e si arroga il nome del villaggio, o sia casale ancor detto Sicciara, suborgo
tuttora della città nostra, malgrado la dismembrazione nello spirituale dalla nostra Madrice, come si
è detto nel suo precedente capitolo. Vien quella fiancheggiata dalla Cala del Lagone. L'antica di lei
signoria la tenne in prima il Principe di Paceco in forza dell'avvenutogli retaggio dell'illustre
famiglia Fardella da Trapani; adesso però è posseduta da D. Cristina di Gaetani, e Basile di Palermo;
riescendo alle volte la pesca così abbondante, che reca alla popolazione del vantaggio notabile.
Oltre alla pescaggione delle anzidette tonnare non manca il littorale di suddetti mari de'
magasenazzi, Sicciara, Trappeto, Salvina, e S. Cataldo di abbondare della pesca d'ogni sorta di pesci
di bellissima qualittà; in uso a comodo dei cittadini in cui vengono dai pescivendoli a smerciarsi
diariamente a discreto prezzo.
Nell'anzidette fiumare non meno, che nei valloni e laghi ben anco si fan delle pesche continue di
pesci d'acqua dolce; come a dire di anguille, moletti, tenchie, gorgioni, corinella, minusa, gambaro,
granchi, ranocchie, e simili di eccellente e saporita condizione: e tante delle volte queste diarie
pesche suppliscono e correggono la mancanza del pesce marittimo nei tempi sterili, cattivi, o
tempestosi, a gran comodo, e piacere della popolazione. Delle anguille poi particolarmente n'è
dovizioso e perenne – ed anco de' moletti, e tenchie – tutto il corso del Jato sino alla di lui foce,
nonché delli Cuti, e soprattutto il Lago della Cubba, pesca riserbata ad uso, e diporto peculiare di
S.Maestà nostro signore; e ne' tempi trasandati, da' nostri illustri Abbati e Commendatarii.100
E, da buon notaio, il Di Bartolomeo ci dà anche un quadro sintetico delle
principali produzioni del suo tempo:
100
Cfr. GIUSEPPE MARIA DI BARTOLOMEO Storia di Partinico, Con cenni alla storia di Altofonte,
Borgetto, Balestrate e Tappeto, Memorie storiche intorno alla fondazione, progresso e stato della Venerabile
Reale Abbadia di Santa Maria d'Altofonte sotto titolo del Parco e Partinico, e delle stesse popolazioni e
contadi: ricavate e scritte da notar Don Giuseppe Maria di Bartolomeo di detta Città di Partinico. Consacrate a
Sua Altezza il principe D. Leopoldo di Borbone secondo genito del Re Signore Delle Due Sicilie Ferdinando
primo Regio Commendatore di suddetta Abbazia, oggidì aggregata alla Real Commenda della Maggione , 1805;
nel capitolo: Fiumi, fonti d'acque, mulini, cartiere, stazzoni, trappeti, mangani da seta, tonnare, e laghi di pesci
d'acqua dolce, che si trovano nella città di Partinico e suo territorio e di lui produzioni. Manoscritto in
possesso di Giuseppe Geraci, arciprete di Partinico.
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Non è finalmente da passarsi in silenzio la insigne feracità del nostro territorio: può quella con
franchezza arguirsi dalla di lui doviziosa annuale produzione de' generi, principali capi del
commercio. Diamo di essi un brieve dettaglio a soltanto appagare la curiosa intelligenza di chi mai
l'ignorasse.
Vino: botti ottomila circa.
Olio da ulivo: da circa quintali settemila.
Canape: da circa dugento quintali.
Lino: da circa quintali cento.
Melloni d'acqua e da pane: sopra quintali trentamila.
Melogranati Ricci, napoletani, valenziani, ed agrodolci, portogalli, agrumi, noci, fichi secchi, e
simili, frutti in copia tanto considerevole, quanto apparte di restarne la città provveduta, ne avanza
un'infinità capace ad abbondare le vicine terre, e città, e se ne estrarregna per Napoli ed isole
aggiacenti alla nostra Sicilia.
Tartaro da botte: da circa quintali dugento.
Cenere di feccia, e di soda: in circa quintali cinquecento.
Manna: in pochissima quantità, e par che il paese non la comporti.
Gli ortaggi e frutta d'ogni specie, e genere, a riserba delle cireggie dolci, che il suolo non le
produce, sono in abbondanza straordinaria, ed in eccellente qualittà.
Riguardo poi al grano, ed orzo non son costoro della primaria produzione, ma non sono frattanto dell'ultima.
[Se ne produce] però tal quantità che Partinico vien riputata per caricatore: assegnoché provvista la città ne
avanza tanto quanto i suoi mercatanti ne fan l'abbasto, e provista alli convicini paesi di Valguarniera Ragali,
Borgetto, Montilepre, Giardinelli, Favarotta, Cinisi, Torretta, Capaci e Carini come annualmente da varii atti
pubblici si rimarca.101
È questo un quadro che serve a dare un'idea della condizione in cui viveva il
partinicese tra i tempi del Di Bartolomeo e quelli del Marino (1800-1850)102 e che
appare indicativo anche del particolare tipo di cultura materiale proprio delle classi
sociali di quel tempo.
Il Marino definisce il partinicoto «fervido nelle passioni »; il «villano» è per lui
«fatalista », «alieno dall'enfasi loquace»; anche se «industre e laborioso» ha il torto
«di non lasciarsi dominare da quelle pratiche,che sono necessarie alla riuscita dei
vini buoni e da pasto »; «potrebbe e dovrebbe concorrere alla perfezione nelle
piantagioni delle viti, e nella fattura e fermentazione dei vini », ma è diffidente e
non lo fa. La sua concezione del mondo del lavoro è statica e limitata, ma ciò
nonostante egli non guarda a questo mondo con estraneità, lo confina piuttosto in un
quadro d'insieme in cui pare che le classi non esistano, anche se qua e la è possibile
cogliere delle differenziazioni tra il mondo dei « galantuomini » e quello delle
«maestranze », che vede in «un lusso maggiore ».
101
Cfr. ibidem.
Per gli approfondimenti sulle condizioni di vita e la cultura materiale del partinicese Cfr. G. CasarrubeaG. Cipolla, Quotidiano e immaginario in Sicilia. Burgisi, santi e poveri diavoli nel partinicese, Palermo,
Vittorietti, 1984, e, degli stessi autori, Società e storia di un territorio. Il partinicese, Palermo, Vittorietti, 1982;
sono per altro utili il Progetto di Opere pubbliche del Comune di Partinico, Palermo, stabilimento tip. di F.
Giliberti, 1871 reperibile alla B.C.P., ai segni CXXXVI-F-218 n. 1-22, n. 5; il Regolamento di polizia urbana e
il Regolamento di polizia rurale dello stesso comune, stampati a Palermo nella tip. di F. Nocera rispettivamente
nel 1877 e nel 1878 e reperibili nella stessa biblioteca ai segni CXXXVI.F .218, n. 1-22, n. 15 e n. 16.
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uomini e terra a partinico - Blog di Giuseppe Casarrubea