GIUSEPPE CASARRUBEA UOMINI E TERRA A PARTINICO 1981 (testo rivisto) 1 Introduzione Questa storia non è una silloge di avvenimenti, né tanto meno una storia patria. E’, al contempo, un primo tracciato del processo di formazione della proprietà terriera in un comune rurale siciliano; una prima lettura delle classi sociali, delle dinamiche demografiche e dei fatti che concorsero nel determinarle, a cominciare dai notevoli flussi immigratori che caratterizzarono Partinico a partire dal secolo XVI. E’ anche una storia di lotte per l’affrancamento dalle servitù, per l’affermazione dei diritti, per le libertà e la democrazia, lungo il corso di sette secoli. Un periodo lunghissimo che necessariamente ha comportato il ritaglio di confini precisi per evitare lo smarrimento nell’oceano dei fatti umani. Preferisco, perciò, definire il lavoro condotto, sia pure in un ambito geografico delimitato, come provvisorio, con l’auspicio di non essere frainteso. Concepisco la storia, infatti, come uno scavo continuo, in un punto, in tanti punti; come una sorta di scandaglio, una messa a nudo degli strati che lentamente si vanno mettendo in luce, un processo ininterrotto di navigazione, avendo come bussola solo alcuni interrogativi ai quali tentare di rispondere. Negli spaccati emergenti, a saperli leggere, c’è la storia degli uomini. Sia di quelli che ‘appaiono’ dalla notte oscura dei tempi, sia di quegli altri, quasi tutti gli altri, che non hanno avuto questa fortuna. Poco importa che sia la storia di una grande impresa, di un fatto eclatante, di un lungo processo costruttivo, o, al contrario, la storia di singoli o gruppi che non hanno mai avuto storia, ai quali la storia è stata negata. Il lettore non troverà quindi un lavoro esaustivo, al quale, per altro, mancherebbe una ricognizione completa della notevole presenza documentaria sulla storia di Partinico (dagli archivi di Stato a quelli comunali, dagli archivi parrocchiali alle fonti manoscritte inedite giacenti presso la biblioteca comunale di Palermo, dalle cancellerie dei tribunali alle altre fonti istituzionali: in Italia e all’estero). In questo sforzo, ci si imbatte nell’eredità delle vecchie storie locali, nell'eccessiva dispersione delle fonti, e nella stessa selettività delle storie finora tentate. Storie che hanno privilegiato la bibliografia preferendola al documento. Esse, pertanto, sono state facilmente onnicomprensive e, correndo in superficie, non hanno posto problemi. Non è un caso che tutte hanno avuto la caratteristica di indurre il rimando alle cronicizzate questioni delle origini, reputate tanto più degne e nobili, quanto più addentrate nella notte buia dei tempi, in cui tutto e dovunque poteva essere accaduto. Tale atteggiamento è stato per lo più espressione di una certa vocazione degli intellettuali aristocratici, portati tendenzialmente a far risalire le loro storie blasonate a quelle dei paesi che ne avevano tratto i primi impulsi durante il loro primo manifestarsi come centri abitati. Ma la regola non era generale, e sfuggiva di norma alle sorti di una vicenda nella quale tutti avessero il diritto di esistere e di essere rappresentati. 2 A queste storie di avvenimenti e di cronaca, di cui è ricca la Sicilia dei nobili, tuttavia si può fare riferimento per segnare i confini tra retorica e filologia da un lato, e lettura critica dei documenti dall’altro, consapevoli, come siamo, che la vera storia è quella che va ben al di là non solo dei documenti, specie se ufficiali, istituzionali, ma degli stessi fatti e personaggi che li contemplano (Edward Carr). Tra la fine del Settecento e gli albori del nuovo secolo ne compilò una quell'infaticabile annotatore di fatti e, spesso anche, di minuzie del suo tempo, quale fu Francesco Emmanuele Maria e Gaetani, marchese di Villabianca (1720-1802). Questi, a ottant'anni, quasi cieco e malaticcio, scrisse una Storia della Sala di Partinico che, nel 1981 trovai manoscritta alla Biblioteca comunale di Palermo tra la mole inedita dei suoi lavori: segno, questo, che se il marchese ebbe la ventura di trascorrere gli anni della sua vita e della sua vecchiaia, tra la comprensione e il rispetto dei suoi contemporanei, che lo tennero in grande considerazione nelle accademie e nelle conversazioni di circolo, ebbe anche la sventura di cadere in disgrazia della stessa posterità dei siciliani, che lo dimenticarono quasi subito, già a partire dai primi sintomi risorgimentali e lo tennero come fonte d'archivio per introvabili documenti di cronaca e di costume della Palermo settecentesca. Ancora oggi il Villabianca non ha perduto questo suo ruolo, se si eccettua il bozzetto pamphlettistico che nel 1969 tracciò Leonardo Sciascia per la sua raccolta di scrittori e cose della Sicilia La corda pazza, pubblicata a Torino da Einaudi, nell'anno successivo. Sciascia, piuttosto che relegare il marchese a questo ruolo, sia pur modesto, di fornitore di dettagli e valutazioni utili a una migliore comprensione dell'atteggiamento dell'aristocrazia siciliana del secondo Settecento, mette in discussione la stessa validità della fonte, perché sterile nel suo ridursi a una cronologia di nascite, morti, matrimoni e funerali. In effetti il Villabianca visse da aristocratico e scrisse da cappellano, difficilmente vedendo oltre il suo naso. Il suo stile è leguleico, freddo, distaccato, privo di mordenti; la sua prosa è ostica, come quella del Di Bartolomeo, non eccita interessi particolari. E tuttavia la Storia della Sala di Partinico mette in rilievo un aspetto inedito della sua vita e del suo modo di vivere e pensare tra i suoi contemporanei. All’indomani della rivoluzione francese e del tentativo giacobino di Francesco Paolo Di Blasi (1795), il marchese considerava in una luce diversa quelle che erano state le due antinomie dei suoi anni giovanili: il mondo dei suoi rustici da un lato e quello di certi signori feudali dall'altro, come erano gli abati commendatari di Altofonte, rappresentanti del braccio ecclesiastico nei parlamenti di Sicilia, un tempo proprietari di un immenso feudo, antico retaggio dell'adempimento di un voto di Federico II d'Aragona (III di Sicilia: 1296-1337). Tra i cistercensi che erano stati abati fino al secolo XV e i commendatari che li avevano seguiti, il Villabianca non fa molta differenza: erano stati per lui, sembra incredibile a dirsi, corrotti e «scialacquatori »; avevano «succhiato il sangue dei poveri »; avevano goduto di benefici immensi; nulla avevano fatto per alleviare le sofferenze delle loro popolazioni. Senonché quei “poveri” non sono, per il marchese, i ceti meno abbienti, ma gli aristocratici e i gabelloti sfruttati dalla nobiltà ecclesiastica. La Storia della Sala di Partinico è difatti, sostanzialmente, la storia di una polemica e di una denunzia con le quali il Villabianca, non rinunziando al suo conservatorismo, mette in evidenza le storture e le immoralità di eminenti rappresentanti della Chiesa, ai quali, giova ricordarlo, gli autorevoli Opuscoli Siciliani, quasi a canonizzarli, avevano dedicato, alcuni decenni prima, dei tomi. Non era un’operazione disinteressata, la sua. Il marchese a Partinico possedeva alcuni « notabili predij » ereditatigli dal padre, marchese Benedetto Emmanuele: Albaciara, Ramotta, Cutò, Garofalo. Scrive dunque da proprietario, pro domo sua, 3 per affermare le vessazioni dell’aristocrazia assenteista ecclesiastica (i cistercensi originariamente proprietari di tutta la piana di Partinico, se ne stavano per lo più in Spagna o in Toscana) e in tale veste si scontra in primis contro l'abate Barlotta, «che per sua disgrazia non era dotato di mente quadra » ed ebbe la fortuna o la sventura di essere diventato, suo malgrado, bersaglio inconsapevole del marchese. L’antagonismo tra la nobiltà del clero e quella laica durava da tempo e si fondava sul particolare tipo di contratto in base al quale gli abati avevano cominciato, già dal ‘400, a concedere i loro feudi in enfiteusi. Tale contratto consolidò nei secoli le seguenti caratteristiche, che è bene tenere sempre presenti in tutta la storia di Partinico, fino all’ascesa al potere della borghesia agraria: gli enfiteuti venivano individuati attraverso i bandi, affissi solitamente nelle chiese, tra coloro che risultavano i migliori offerenti nel pagamento del canone enfiteutico annuo, fissato sotto la modalità della “quarta generatione o nominazione”; gli aggiudicatari erano per lo più aristocratici che, per trarre il massimo vantaggio dalle terre concesse, ricorrevano alla figura del gabelloto, intermediario tra l’enfiteuta e la manodopera. Essi riscuotevano dal gabelloto la parte del canone annuo versato e avevano inoltre il diritto sulla produzione; i gabelloti avevano l’interesse a sottopagare la manodopera, a sfruttarla al massimo, per abbassare sempre più i costi del lavoro e innalzare in tal modo i livelli di accumulazione finanziaria selvaggia, e investire in acquisto di beni “al sole”, successivamente. Mediando tra proprietà e lavoro essi avevano l’interesse a mantenere il sistema di produzione dentro una logica parassitaria. la manodopera non aveva vie di scampo, e, spesso, per superare le annate agrarie, per lo più tormentate dalle crisi epidemiche e dalle carestie, era costretta a indebitarsi con gli stessi gabelloti che diventavano, in tal modo, l’ossatura principale dello sfruttamento; gli abati cistercensi provvedevano, periodicamente, alla misurazione dei terreni concessi (“ricordiazioni”), in quanto non erano infrequenti i casi di nobili e gabelloti che estendevano illegalmente i confini delle terre concesse, mantenendo inalterati i canoni; o che aspiravano a diventare i legittimi proprietari delle terre da loro stessi trasformate. Gli enfiteuti, così, specialmente nel secolo XVIII, entrarono in sofferenza, mal tollerando le intromissioni, e le vessazioni dei continui censi, sempre più pressati, dai legittimi proprietari degli originari feudi, ormai frammentati dalle diffuse e secolari pratiche di concessione, e trasformati da terreni boschivi in terreni redenti all’agricoltura e, soprattutto, a vigneti (a partire dal secolo XV). Contemporaneo del Villabianca, ma di una generazione più giovane, fu Giuseppe Di Bartolomeo, che nacque a Partinico il 19 marzo 17531, lasciandoci del suo paese 1 Cfr. FRANCESCO EMMANUELE MARIA e GAETANI., MARCHESE DI VILLABIANCA, Storia della Sala di Partinico, Bibl. comunale di Palermo, ms. Qq. E. 109, n. 4, ff. 347-358. Figlio di Domenico, uno dei più grandi gabelloti del tempo, e di Crescenzia Oddo, sua terza moglie, il Di Bartolomeo è uno di quegli sconosciuti letterati del Settecento che di meriterebbero di essere portati alla luce se non altro perché il Settecento siciliano è ancora oggi poco conosciuto. Il Villabianca ce ne dà un quadro sommario: “Da giovinetto questi dotato dalla natura del bel genio di coltivare le muse e la leggiadria della comica teatrale ne ha professato egli in tutti i tempi della sua età gloriosamente le belle arti. Ne vagano quindi 4 una storia manoscritta - rintracciata, nel 2001, dall’arciprete Giuseppe Geracifonte diretta degli studi di Stefano Marino, che continuò il lavoro del suo conterraneo fino alla metà dell'Ottocento.2 Al 1919 risale la storia di Partenico del carmelitano Daniele Lo Grasso, pubblicata nel 1935 per interessamento di Pio Moscatelli,3 e al 1922 il Contributo alla storia di Partinico di Vittorio Emanuele Orlando4. Questi, in contrasto con l'affermazione del Dizionario Topografico di Vito Amico, afferma l'esistenza di Partinico prima del sec. XIV, risalendo fino al periodo romano. Si tratta di un testo senza note; dobbiamo ritenere, quindi, che sia stato basato in gran parte sugli studi del Marino e del Lo Grasso, il cui manoscritto certamente il deputato ebbe per le mani. Dalla lettura è rilevabile altresì che l'autore non ha consultato le fonti dell'Archivio comunale, dell'Archivio di Stato, e della stessa Biblioteca comunale di Palermo. Un notevole aiuto ebbe, invece, dallo storico Carlo Alberto Garufi dal quale gli furono consegnate copie di documenti originali esistenti all’Archivio capitolare di Patti, e gli furono riferiti documenti utili all'esame del periodo che prende in considerazione (dagli Arabi agli aragonesi). Il pregio del saggio sta tutto nella valutazione che l'autore fa di questi documenti. Si tratta di diplomi del 1110, 1114 e 1133, dallo studio dei quali fa cadere la tesi che Partinico fosse stata soggetta al dominio feudale dei Normanni Avenello (p. 16). La tesi è infondata, perché, come vedremo, i milites che incontriamo fino al confine del territorio musulmano di Jato, che era estesissimo e andava da Sagana a Calatafimi, le di lui composizioni e parti graziosamente lavorate su tal talento per le mani dei letterati e quasi tutte esse quantunque inedite sono state portate in scena con sommo applauso e stimate degne della luce dei Torchij”. Una delle sue opere è la commedia dei Golosi [o gelosi, nda] scherniti stampata a Palermo da Pietro Bentivegna nel 1779. Ai torchi furono dati anche parecchi suoi sonetti in lode di alcuni scrittori di opere scientifiche. Ma il Di Bartolomeo fu soprattutto «autore di commedie e tragedie che si àn fatto nome ne' teatri e montato più volte in scena portando il carattere per lo più buffo». 2 Cfr. STEFANO MARINO, Partinico e i suoi dintorni, Palermo, Tip. e Legatoria Clamis e Roberti, 1855 3 Cfr. DANIELE LO GRASSO, Partinico e il culto di Maria SS. di Altofonte e del Ponte, Partinico, Gaspare Puccio, 1935-36. 4 Cfr. V. E. ORLANDO, Contributo alla Storia di Partinico, in Archivio Storico Siciliano, N. S., Anno XLIV. Palermo, 1932, pp. 1.35. Il deputato c'informa che tra i mano- scritti della Biblioteca comunale di Palermo si conservano, oltre alla monografia su Partinico del Villabianca, due «memorie»: una di Antonino Mongitore e l'altra del barone De Francisco intitolata Notizie storiche di Partinico. .Per quanto concerne la prima si tratta del ms. Qq. E. 32. Ma il riferimento più importante che siamo riusciti a trovare è quello di Domenico Scinà, che nel suo Prospetto della Storia letteraria di Sicilia nel secolo decimottavo (oggi pubblicato per iniziativa dell'Assemblea Regionale Siciliana nella collana comprendente le opere più significative della cultura siciliana fra Sette e Ottocento in occasione del XX anniversario dell'Autonomia. Palermo, 1969, vol. I, p. 196, nn. 2.3) riporta in nota una Notitia S. Mariae de Altofonte seu de Parco di A. Mongitore che fu stampata da Vo Amico nelle sue aggiunte alla Sicilia Sacra di Rocco Pirro sui monasteri e le abazie: Siciliae Sacrae libri quarti, pars tertia, ecc. Catanae, typis Bisagni, 1773. La « memona» del De Francisco, va precisato, altro non è che una lettera informativa che il barone, nella qualità di sindaco del comune di Partinico, aveva spedito a Gioacchino Di Marzo (in data 24 luglio 1855) come risposta alla circolare che quest'ultimo aveva inviato a tutti i sindaci siciliani per la continuazione del Lexicon topographicum siculum di Vito Amico. Le notizie fornite possono leggersi. anche tra quelle del Dizionario Topografico che il Di Marzo annotò e tradusse dal latino (Palermo, 1855-56). Il ms. può trovarsi alla segnatura Qq. G. 97, lettera P. Segue una lettera indirizzata allo studioso palermitano da Stefano Marino con la quale l'avvocato partinicese informava il Di Marzo che era in corso di stampa il suo lavoro. Cfr, Bibl. Com. di Palermo ms. cit. Più rilevante è invece il ms. del Villabianca che si può trovare alla segnatura Qq. E. 78 che contiene una storia della casa Villabianca, stampata a Palermo nel 1780. Vi si attinge la notizia che nel 1775 il vicerè Stigliani Colonna promosse il marchese a deputato e commissario generale di sanità di Partinico, con la podestà di Vices et Voces principis (pp. 75.76). Vi si riscontrano inoltre alcune altre notizie (una lunga e sterile elencazione) su Capitani e Giudici della città di Partinico novellamente istituiti. Cfr. ivi, ms. Qq. E. 78, n. 6. Inoltre si possono consultare nella stessa bibl. i ms.: 2 Qq. H. 156. f. 435 (giurisdizioni di ufficiali); Qq. D. 123, ff. 237-251; 2 Qq. H. 156, f. 439, riguardanti il primo delle iscrizioni raccolte dal Villabianca e il secondo i diritti da esigere da parte degli ufficiali. In quest'ultimo al f. 823 sono contenute istruzioni civili e criminali, e in ultimo le Allegationes pro Parco et Partinico contra ill. deputationem novarum gabellarum; ms. del XVIII. 2 Qq. H. 88, f. 473. 5 stavano a testimoniare la presenza nel territorio di Partinico di un istituto feudale, precedente la concessione del feudo fatta nel 1307 da Federico Il d'Aragona ai cistercensi di Altofonte (Parco). A parte questo Contributo poco è stato aggiunto dalle cose successive ai lavori che qui abbiamo preso in considerazione. Il testo del Lo Grasso, utilissimo soprattutto per la storia delle tradizioni popolari, è stato l'unica fonte dell'opuscolo di Michele Gulino Partinico dai tempi antichi sino al 1573 (Partinico, Puccio, 1935-‘36) ed è stato largamente utilizzato anche da Salvatore Bonnì (Partinico nella Storia, Palermo, 1969).Va detto ancora che il l0 marzo 1915 una delibera del Comune di Partinico (n. 33) stabiliva la pubblicazione a spese dell'Amministrazione di una monografia su Partinico di Francesco Gibellina, con prelievo della spesa dall'articolo anticipazioni diverse delle partite di giro del bilancio. Di rilievo ci sembra invece un recente saggio di Enrico Mazzarese Fardella che attraverso i diplomi già utilizzati dall'Orlando conferma il dominio normanno su Partinico con l'apporto di uno studio su una pergamena del Tabulario Belmonte.5 Non va trascurato, in ultimo, il fatto che l’interesse culturale per la storia dell’isola e di un paese come Partinico, ha sollecitato l’impegno di alcuni studiosi locali, interessati ora alla storia della Sicilia archeologica (Vittorio Giustolisi e Leonardo D’Asaro) ora al recupero di alcuni suoi beni architettonici, come le torri (Salvo Vitale). Lavori certamente utili in quanto rompono i ponti, finalmente, con la vecchia storia patria e pongono il problema della valorizzazione delle risorse del territorio, attraverso scelte tematiche di fondo: i miti, i beni urbanistici e monumentali, i siti archeologici. G.C. 5 Cfr. E. MAZZARESE FARDELLA, Partinico, il suo territorio, i suoi domini, in una pergamena del Tabulario Belmonte, in Archivio Storico Siciliano, serie IV, vol. IV, Palermo,1978, pp. 41-54. 6 I NEGLI ANTICHI FEUDI 1. Una frontiera militare Gli Arabi vissero dalle nostre parti quasi tre secoli. Poi furono sottomessi dai Normanni. Si trattò di una vera e propria crociata contro gli infedeli che, come tutte le crociate, aveva in realtà ragioni economiche e di potere. Gli Arabi non avevano amministrato male i paesi che avevano conquistato. Avevano introdotto il cotone, l’arancio, l’albicocco, il carciofo; avevano costruito ingegnosi sistemi di irrigazione, avevano portato l’acqua nei terreni assetati. Erano stati anche degli ottimi artigiani del vetro e dei metalli, abili costruttori di tappeti e tessuti e soprattutto avevano sviluppato le loro conoscenze nel campo dell’astronomia, della matematica, della filosofia e della medicina, studiando Platone e Aristotele, Galeno e Ippocrate, Tolomeo ed Euclide. Per quanto l’Impero carolingio avesse sconvolto gli assetti produttivi e di proprietà con l’introduzione degli istituti feudali, basati, cioè, sulle unità produttive e istituzionali dei feudi, con i loro elementi costitutivi (beneficio, vassallaggio e immunità), tuttavia è certo che gli Arabi rimasero estranei alle sovrastrutture di tale potere gerarchico dipendente direttamente dai sovrani. Le cose avevano cominciato a cambiare col sorgere della potenza dei Normanni nel secolo XI, nella temperie della lotta tra Papato e Impero, quando l’imperatore Enrico III dovette riconoscere nel Mezzogiorno d’Italia la contea di Melfi già di Guglielmo d’Altavilla (1042), e il papa Leone IX, sconfitto e fatto prigioniero (1053), dovette prendere atto che non aveva altra via di scelta che fare dei suoi vincitori, i suoi vassalli, aprendo loro, così, la conquista della Sicilia. Vennero così introdotti per la prima volta gli antichi istituti feudali, e al loro interno una funzione particolare ebbero i milites, e cioè gli uomini dediti al servizio militare a cavallo che costituivano il primo anello della nobiltà. Tuttavia essi non avevano un feudo, costituivano la massa di manovra dei signori feudali direttamente dipendenti dal sovrano, e si prestavano perciò ad avere una certa autonomia sia nel senso dell’avventura, sia anche in quello più negativo dello stato di anarchia e di brigantaggio. Le lotte di Ruggero I contro gli Arabi durarono trent’anni a conclusione dei quali , il figlio, Ruggero II d’Altavilla fu riconosciuto re del nuovo Regno di Sicilia e di Puglia (1130) e coronato a Palermo. Tra i sudditi del conte Ruggero, che dopo la conquista della Sicilia ebbero concesse estese proprietà, vi furono Rinaldo e Roberto Avenello, distintisi nella lotta contro i musulmani e pertanto abilitati a rientrare nella graduatoria delle donazioni che il conte avrebbe fatto dei suoi domini. Fu concessa loro l'araba Barstanin, e cioé Partinico, non diversamente da come a Goffredo de Sagejo e a Ridolfo Bonello erano state concesse rispettivamente Caccamo e Carini, che assieme alle innumerevoli altre donazioni rientravano nel quadro di una «nuova distribuzione» che il dominio dei Normanni comportava «dei beni e delle proprietà» 7 dell'isola.6 Il rapporto di vassallaggio che legò gli Avenello fu stabilito, secondo il costume dei Normanni, con l'omaggio e il giuramento di fedeltà che crearono il vincolo della dipendenza feudale. Partinico non fu tuttavia una donazione eccezionale: non era un contado (aggregato di baronie), ma una semplice baronia (aggregato di più feudi). In particolare sorse come baronia di militi (e cioè feudo di second'ordine). La qualifica di miles, rientrava nell'ordine delle distinzioni nobiliari: ‘milite’, come ‘barone’, era un termine proprio del vassallaggio, presupponeva la soggezione alla gerarchia feudale, e comportava, pertanto, a sua volta, donazioni di terre e castelli.7 Sull'esistenza di una baronia di militi a Partinico non ci sono dubbi. Ne fanno testimonianza il Pirro e il Malaterra. Il primo in particolare riporta dei diplomi degli anni 1094, 1104 e 1111: quest'ultimo è firmato da un « Johannes miles de Partheniaco jussu domini sui Roberti Avenelli ». Del resto ai militi di Partinico e Coniglione ricorrerà il conte Ruggero per combattere i « ribelli saracini» di Giato.8 Ma oltre al diploma del 1111 col quale Raynaldo Avenel offriva alcuni beni e il casale di Mirto alla Chiesa di San Bartolomeo di Lipari, sono diversi i diplomi che confermano l'esistenza della baronia: -nel 1114, in un documento che porta la stessa firma vengono definiti i confini del casale di Mirto e ne vengono descritte le terre limitrofe; per la definizione dei confini intervengono abitanti di Jato, Jatina e Mirto, scelti tra latini e saraceni, questi ultimi in maggior numero; -in un altro diploma scritto in lingua greca ed araba, del 1133 vengono confermate da Ruggero alcune donazioni fatte dagli Avenello. Anche questa volta la firma del testimone è quella di Johannes (Giovanni Caballaro) ; -altri due diplomi del 1149 e del 1154 « danno il titolo di Amil o Stratego di Giato ad un Obu-Taib, il quale insieme con degli sceikh cristiani e musulmani di Partinico, Desisa e Giato medesimo, designava il sito ed i confini di un terreno conceduto dal demanio regio »; -in due donazioni fatte nel 1157 da Guglielmo I, ed essendo morto questi per «terribile dissenteria» il 7 maggio 1166, da Guglielmo II nel 1167, troviamo la firma di testimonianza di un altro milite: Matteo da Partinico9; l'esistenza, qui, di 6 Cfr. ROSARIO GREGORIO, Considerazioni sopra la Storia di Sicilia, Palermo, Dalla Reale Stamperia, 1805, tomo I, p. 23, oggi ristampate sulla terza edizione che ne fece a Palermo la tipografia Garofalo nel 1845: Edizioni della Regione Siciliana, Palermo 1972. Da ora in poi ci rifaremo a questa edizione. 7 Cfr. GREGORIO, cit., p. 71. Sulla collocazione del milite in questa gerarchia il Gregorio ci fornisce maggiori ragguagli: «...un feudo risultava da venti once annuali di rendita, o a dir più chiaramente, che per ogni once venti annuali dovea somministrare un milite armato, la qual somma costituiva un feudo intero, e il milite armato ne costituiva il servizio diretto e principale, ossia di servire in guerra. Spenti gli antichi ordini militari romani, il milite nei tempi feudali valea il cavaliere l'uomo armato a cavallo, e servienti chiamaronsi i fanti. Quantunque nel diritto comune non fosse precisamente determInata la maniera e la qualità del servizio personale del milite, pure generalmente il milite importava il servizio di un cavaliere e di due scudieri, o di uno scudiero e di un famiglio, e di tre cavalli» (p. 220). Ai Normanni lega pure l'origine della «signoria» di Partinico, Ludovico Bianchini nella sua Storia economico-civile della Sicilia, Napoli, 1841, vol. I, p. 119. 8 Cfr. Pirrum, in Chron. p. 7, et ibid. dipl. anno 1094, tomo II, p. 773. Dipl. Tancredi comitis Syrac. anno 1104, apud Pirrum, tomo I, p. 619. «Johannes miles de Partheniaco jussu domini sui Roberti Avenelli »; dipl. anno 1111, loc. cito tomo II, pp.774, 772; e Malaterra apud Caruso, Bibl. Hist. pp. 213, 214, 235: cit. da Gregorio, cit., pp. 68-71 e 76. 9 Cfr. D. Lo GRASSO, cito, pp. 46-48; ORLANDO, cito, pp. 17-22. Il Mattheus de Partenico testis, come si evince dal documento riportato dal Siragusa nel Regno di Guglielmo I in Sicilia (Palermo, 1885, I, pp. 193-196), si accompagnava con Riccardo di Mandra e i fratelli Normanni Malconvenant, e soprattutto con Giovanni che possedeva, per concessione reale, il feudo di Calatrasi. 8 nuclei familiari Normanni viene confermata dal diploma del Tabulario di Belmonte del 1165, dal quale risulta una donazione di Maria, domina di Partinico, alla chiesa di S. Giorgio di Gratteri. Inoltre una descrizione di Partinico è fatta dal califfo Edrisi nel 1154: « Partinico è graziosa terra, piacevole, piana, di bello aspetto e proprio ridente, circondata di fertili poderi, nei quali si lavora gran copia d’hinnah e di altre specie di piante qatani. Il territorio abbonda di acque si grosse da muovere molte macine. La fortezza che prende nome da Partinico, sorge in un luogo detto Gabban il quale sta a cavaliere sulla terra. Questa ha un porto chiamato' Ar-rukn' (il cantone) distante due miglia all'incirca verso tramontana ».10 Dall 'insieme di questi documenti si può dedurre che se Partinico si trovava al centro della controversia che dopo la conquista normanna contrappose musulmani e cattolici, e cioé gli Arabi del territorio di Giato e i conquistatori Normanni, è anche vero che interveniva nella disputa al servizio dei dominatori, e cioè come feudo che, ai confini di Giato, era tenuto a fornire un contingente armato per contenere l'area musulmana, prestandosi anche a svolgere un ruolo mediatorio. Se si dovesse altrimenti seguire la tesi di V. E. Orlando che, dall'esame del documento del 1111, escludendo che il casale di Mirto facesse parte del partinicese, giunge alla conclusione che gli Avenello non avevano mai avuto un dominio sul suo territorio, non si riuscirebbe più a capire la funzione reale dei militi Giovanni e Matteo. Ma va da sé che, essendo essi, militi al servizio degli Avenello, dislocati a Partinico per la loro funzione istituzionale, si debba trattare di militi operanti nell'ambito del territorio feudale dei nuovi conquistatori. La presenza di militi come Johannes e Mattheus non depone solo per l’esistenza di una baronia di militi, ma ribadisce un particolare tipo di rapporto fiduciario e di sudditanza, stabilitosi sin dall'inizio, tra vassalli di Ruggero e il loro entourage cortigiano; rappresenta la testimonianza del permanere di solidi e ristretti legami feudali, al di fuori della semplice prestazione, quale poteva essere quella del testimone di professione. La descrizione di Edrisi, poi, non fa riferimento a un agglomerato urbano, ma a poderi, macine e roccaforti che ci confermano nella convinzione che se i militi rappresentavano una classe privilegiata al servizio dei signori Normanni, doveva essere di una certa consistenza la presenza di una forma di vita radicata nella terra col denominatore comune della servitù e del villanaggio. Del resto anche per il periodo svevo-angioino-aragonese i documenti in cui si fa menzione di Partinico attestano più che altro l'esistenza di qualche casale di proprietà prevalentemente ecclesiastica, come dimostra il documento dato in Messina il 18 agosto 1340, VIII indizione, nel quale Pietro II d'Aragona stabiliva (si tratta di un privilegio in favore dell'abazia di Altofonte) che «i confini della foresta di Partinico erano quelli stessi che esistevano quando essa era tenuta dai baroni al tempo di Manfredi, re Carlo e Pietro d'Aragona».11 10 Cfr. EL.EDRISI, Il libro di Ruggero, Palermo, 1967, trad. di U. Rizzitano; e anche Goffredo Malaterra, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliane comitis, Bologna, 1927, traduzione dii E. Pontieri. 11 Cfr. anche il diploma dd luglio 1210 col quale Federico Il accettava la donazione di P. che Malgerio D'Altavilla aveva fatto ai Templari, ai quali, dunque, il feudo di P. era appartenuto, prima del 1307; le lettere regie date in Messina il 9 setto 1294, VIII ind. con le quali veniva regolato uno sconfinamento dal feudo di Borgetto; Arch. di Stato di Palermo, fondo Magione, Abazia di Altofonte, vol. 155, f. 335. 9 2.La trasformazione della terra e la nascita della borghesia agraria imprenditrice Prima degli Aragonesi, i principali interventi in quella che era – come abbiamo visto- l’estesa area boschiva della piana, erano stati fatti dagli Arabi con l’introduzione delle palme, del cotone, degli impianti d’acqua, dei mulini, e dai Normanni con la sostituzione di parte delle terre boschive e delle colture intensive con le varie monocolture cerealicole. Queste ultime costavano meno, non richiedevano praticamente particolari interventi, tranne in un paio di occasioni all’anno (semina, raccolto e magari la sarchiatura del terreno) e consentivano ai ceti più bassi della gerarchia feudale una certa mobilità che non li legasse strettamente alla terra. Le cose cominciarono a cambiare con la fondazione dell'abazia di Altofonte, come atto di riconoscenza religiosa di Federico II d’Aragona, di cui parlano tutti gli storici locali, a cominciare dal Villabianca. L'effettiva donazione della foresta ai cistercensi avvenne alla presenza di Gualterio di Manna, dell'abate del monastero di Santo Spirito di Palermo, di Giovanni di Cammarana, e di altre «rispettabili» persone «con privilegio spedito in Messina il 28 giugno 1307 ». Il monastero, in tutto simile a quello dei monaci cistercensi d' Aragona fu sottoposto al monastero delle Sante Croci di Barcellona «serbante la tomba dei regi avoli aragonesi » di Federico, e venne considerato una « filiale» di questo monastero «colle leggi e regolamenti istessi, e tali quali il sacro ordine Cistercense già prescriveva nel suo istituto ». Si iniziò con la stesura della regia pergamena contenente le dotazioni dei due Parchi: il vecchio e il nuovo, che erano stati ville reali, luoghi di spasso dei re, oltre che feudi di grande estensione. Il primo era più che altro una zona di caccia nel 'contado' palermitano; il secondo un feudo ricco di acque, giardini, vigne che prendeva il suo nome dal vecchio monte Parco, posto quasi al centro dell'estesa conca di Palermo « in distanza di sei miglia ». Fu concesso poi al monastero lo 'stato' di Partinico di proprietà di Giovanni Cammarana « signore del casale di Misilicurto e maggiordomo di Leonora moglie regina del re Federico »; in compenso gli vennero dati « feudi e notabili fondi » in altri posti.12 Una delle ragioni per cui, oltre ai due parchi siano state concesse ai cistercensi anche le terre di Partinico, potrebbe passare dalla posizione che il Cammarana occupava nel giro della corte reale, oltre che dal rapporto personale che teneva con la famiglia reale. In sostanza egli avrebbe potuto avere più interesse a possedere un feudo coltivabile che non una foresta, dove, al massimo, poteva esistere qualche casale. Per la sua stessa configurazione boschiva, ancora nel secolo XIV, Partinico non era molto abitata; tanto che, come nota il Garufi in Patti agrari e comuni feudali di nuova fondazione dallo scorcio del secolo XI agli albori del Settecento, una iniziativa di popolamento fu la concessione fatta da Federico III ai monaci, di fondare un casale nel bosco di Partinico e di permettere che si formasse un nucleo residenziale in loco nemoris con gli stessi diritti di cui facevano uso feudatari e baroni, con l'agevolazione dell'esenzione da qualunque forma contributiva per un 12 Cfr. VILLABIANCA, cit., ff. 18-29. 10 quinquennio.13 Il Villabianca aggiunge che questa «nuova terra di novella popolazione » sarebbe dovuta sorgere a condizione « di doversi chiamare col nome di Sala» .14 La concessione di questi «ampij contadi e foreste» all'abazia di Altofonte costituisce l'avvio di tradizioni locali strettamente correlate, e determinanti sul piano delle vicende economiche e dei fatti sociali propri dei comuni di Parco e Partinico. Si passava con fra' Michele e Pietro Guzio, primi abati, ad un momento di reviviscenza cristiana, sotto l'insegna della tutela regia, il cui esercizio era finalizzato a fare dell'abazia un «corpo d'aiuto dell'azienda di Cesare».15 Ci informa il Villabianca che il potere economico degli abati era smisurato: «La Chiesa, ed Abazia reale di Santa Maria di Altofonte del fu ord.ne cisterciense, e conosciuta sotto il vocabolo del Parco e Partinico, è la massima, francamente può dirsi, tra le parlamentarie abbadìe della Sicilia, mercè gli Stati immensi che và a godere con rendita in essi da ver straricca e maggiore pure di quella contegiata sù un vescovado di alcune chiese vescovili di detto Regno... Le tenute e fondi che si hanno in questo Stato del Parco non lascian di essere di pregevol nota al considerare solo, che il feudo, che passa ora sotto la dinominazione del Parco vecchio... va a sorpassare le 384 salme della corda di Palermo. Con tutto ciò non han che fare tali terreni con quelli di Partinico li quali donano all'Abate il quintuplo di più dell'azienda di questa del Parco. Venne donata parimenti al nostro Monastero la Foresta, e Bosco di Partinico che in distanza di 18 miglia di cammino dalla città dominante va a campeggiare coll'antico casale in esso reliquia della Terra che era stata una volta della denominazione di Partinico ».16 L'abazia ebbe inoltre i seguenti privilegi: 1) «mantenimento libero della barca piscatoria nei mari e nel porto di Palermo» per le provviste quotidiane di pesce, con relativa franchigia da dogane e dazi; 2) franchigia da qualunque sorta di gabelle e dogane sia sul « distretto» di Partinico, sia su tutto il territorio isolano: non avrebbero dovuto pagare nessuna tassa i viveri, gli animali e i generi di qualunque specie « a condizione che fossero spettanti e provenienti a quei monaci dalle loro masserie e pertinenze rusticane e civiche »; 3) facoltà di portare armi proibite (privilegio del 27 aprile 1318); 4) diritto di fregiarsi con una propria marca e con un proprio stemma conformemente al « segno e al suggello delle altre terre baronali».17 13 «utantur illis iuribus, quibus barones, et feudatarii insulae nostrae Siciliae in terris, et locis eorum habitatis, et in habitatoribus terrarum, et locum ipsorum utentur, et quod etiam habitatores, et incolae dicti loci, usque ad numerum familiarum centum ». C. A. GARUFl, cit., e R: GREGORIO, cit:, p. 241. «Ex tunc in antea numerandum a taxatione, solutione et contributione pecuniae subventionis Curiae nostrae in terris, et locis Siciliae pro dicto quinquennario imponenda, sint, et esse debent liberi, exempti et immunes...» (ibidem). Garufi -scrive Illuminato Peri - accoglie da Pirro la data del 1309, ind. VI, ma si tratta di «anno dell'incarnazione anticipato e quindi, dal gennaio al 24 marzo 1308 ». Cfr. I. PERI, Il Villanaggio in Sicilia, Palermo, Manfredi, 1965, p. 107n. e VILLABIANCA, cit., ff. 34 e 41. Al 1318 risale invece la concessione fatta a Pietro Guzio di costruire una fortezza per i monaci e la servitù del monastero. Cfr. VILLABIANCA, cit., f. 42. Copia dell'originale Privilegium fundationis Abatiae Sanctae Mariae de Altofonte sub vocabulo Parco diocesis Montis Regalis Cisterciensis ordinis (1510) è reperibile integralmente in Archivio di Stato di Palermo, fondo Magione, vol. 190. ff. 246-258 (ex regia Cancelleria Regni Siciliae). 14 Cfr. VILLABIANCA, cit., ff. 34 e 41-42. Il marchese avanza l'ipotesi che il termine Sala possa avere qualche attinenza col significato di sala nel «volgar toscano »: «è quella stanza principale della casa, e la maggiore, e più comune di tutte, dove si apparecchiavano ordinariamente le menze, così lo stesso dovea fare la novella Terra chiamandosi Sala, come la massima contrada provigionale di governo su tutte le altre del contado partinicese, onde tanto valere sala quanto luogo di corte» (f. 30). Non molto diversa è l'interpretazione del Lo Grasso: «più tardi i grandi poderi si ebbero il nome di Sala, Mansa o Manzum, donde la voce massaria, e di Corte o Curtis: parole che denotano un vasto podere con casamento e palazzo, corredato del necessario per l'abitazione del padrone, con cortile, stalle, ed altri edifizi per i servi, gli agricoltori, ed altre persone alla coltura necessarie» (cit. p. 27). Complementare ci sembra l'interpretazione dell'Orlando che mette in evidenza come il termine Sala sia comune a diversi comuni siciliani o italiani, (ad esempio Salaparuta). Il Villabianca non nega, inoltre, che il nome Sala possa derivare dal capitano spagnolo Sala. Cfr. ivi, f. 35. 15 Ibidem, f. 47. 16 Ibidem, ff. 27-28. 17 Ibidem, ff. 40-42. 11 Ma pur non eccettuando la natura e il carattere prettamente feudaledi Partinico in questo periodo, non va trascurato il fatto che un «grande impulso al superamento dei rapporti di villanaggio» e quindi a una consistente pratica riformistica, era stata avviata già ai tempi di Federico II di Svevia, per cui, non è escluso che durante la fondazione del casale ad opera dei cistercensi potessero esistere nuovi gruppi sociali di contadini liberi, di villani affrancati dal servaggio che con l'opportunità della esenzione dalle contribuzioni prestassero più facilmente la loro manodopera. Anche se fino all'epoca fridericiana il quadro delle classi sociali comprendeva una gamma gerarchica che vedeva privilegiati militi, baroni e conti, la legislazione di Federico II recepiva sia le disposizioni di Ruggero II sulla condizione degli ascrittizi (e cioé su quei coloni che non essendo nati nel feudo vi erano tuttavia destinati vita natural durante, come parte della proprietà stessa) sia il rescriptum di Guglielmo II che ribadiva la suddivisione che esisteva all'interno del villanaggio, tra ascrittizi e villani «qui non respectu tenimentorum vel alii beneficii servire debent»; tuttavia era stata «posta una seria difficoltà alla creazione di nuovi rapporti di villanaggio» ed era stato «dato impulso alle censuazioni con la proibizione che in cambio dei fondi ricevuti, le persone fossero obbligate a servizi personali, e consentendo solo la corresponsione di prestazioni in moneta e in natura».18 L'autorizzazione regia a fondare un casale creò una certa gravitazionalità d'interessi attorno ai cistercensi, che non potendo coltivare i loro feudi, li colonizzarono, ricorrendo alla concessione della terra mediante una forma di contratto che apportava notevoli ed immediati miglioramenti: l’ enfiteusi. Alla base di questa scelta stava la convinzione che occorreva imprimere una svolta alla sedentarietà dell’economia boschiva mediante una progressiva estensione del terreno coltivabile. Buona dunque questa amministrazione riformatrice: molti palermitani, si industriarono («multi cives panormitani…faciunt et laborant »); Capodirigano di Palermo e Benedetto di Catania possedevano nel « tenimento» di Partinico masserie e vi esercitavano « varie colture e industrie ». Buona fino ad un certo punto perché, se da un lato l'espansione demografica corrispondeva a un piano preciso degli abati, dall'altro, a mano a mano che cresceva la popolazione, venivano limitati gli iniziali privilegi fino ad evitare il jus legnandi.19 Un bel colpo ricevettero questi cistercensi ai tempi dell’abate Guglielmo Ninot quando andò al trono Martino I il Vecchio, amico e parente dell’antipapa Benedetto XIII. Cosa fecero allora i baroni, i vassalli del luogo, insomma tutta l'aristocrazia feudale che più o meno gravitava attorno all'abazia? Con in testa l'abate chiesero che gli potesse essere consentito di perseverare nella loro fede verso la Chiesa. E certoil re questo diritto doveva concederlo, salve le prerogative reali. Questo volle significare che alla morte del Ninot, la gestione dell'abazia fu affidata dal monarca a un prete vicario dell'arcivescovo di Palermo. E la comunicazione che ne diede il re all'arcivescovo non fu poi tanto garbata: 18 Cfr. I. PERI, cit., pp. 22 e 27. Cfr. Lo GRASSO, cit., p. 83: ci informa di un incidente insorto tra i monaci e alcuni coloni che erano andati a far legna nel bosco dell’abazia, e, trovando l’opposizione dei primi, «protestarono che si sarebbe proceduto in città contro i beni del monastero fino al valore degli oggetti sequestrati e a quello dei danni e degli interessi sofferti ». 19 12 “Chi statim li facciati cunsignari la dicta abbazia cum omnibus iuribus spectantibus suis sencza exepectari altro cumandamentu, qualunque dilacione et occasione remotis, et di serviri alla nostra Maiestati”20 I In sostanza i monaci vollero accattivarsi la simpatia del re, interessati com'erano, a fare in modo che i contrasti in merito all'elezione di prelati ecclesiastici non portassero, anche dopo la «pacificazione », alla elezione di un abate non riconoscente la figura del legittimo pontefice. Il passaggio alla gestione degli abati commendatari non dovette comportare un grosso sviluppo delle strutture edilizie, o un allargamento del centro abitato, almeno per i primi tempi, e fino a buona parte del '400, mentre nella seconda metà del secolo successivo l'incremento demografico era arrivato a tal punto da consentire l'istituzione della parrocchia nel1573. In questo periodo, scrive il Fazello, il bosco era stato in parte tagliato; alla foresta era subentrata la coltura della vite e delle cannamele grazie anche alla grande disponibilità di acqua; c'erano inoltre un fondaco e una taverna.21 Disboscamento e incremento demografico produssero inevitabilmente un consistente tentativo di revisione della politica amministrativa del feudo di cui fu tipica espressione l'abate De Pazos, uno spagnolo di Compastella, capitale della Galizia, che era stato inquisitore di fede a Siviglia e Toledo. Eletto abate di Altofonte nel 1580, il De pazos ebbe l'idea di « rivocare» alla sua mensa abaziale tutti i feudi e terreni che si trovavano censiti nelle terre boschive o adibite a seminativi e a vigneti «niente incaricandosi di non piacere nè a Dio nè al re tali novità ». I terreni pagavano un terraggiolo sopra una salmata di grano, le vigne la decima, e per ogni salma di terra o campo rampante e selvatico coloni ed enfiteuti pagavano il canone di 6-8 tarì I canoni enfiteutici sui terreni rampanti erano molto bassi, ma si alzavano su quelli lavorativi e boschivi a seconda dei diversi feudi. Nel feudo Margi l'annuo censo per qualità di terreni, a salma, negli anni compresi tra il 1612 e il 1639 era il seguente: lavorativi once 1, tarì18; boschivi once 1, tarì 9; rampanti tarì 12. Tra i più grossi enfiteuti, in questo periodo, incontriamo il notaio palermitano Vincenzo Di Franco che a Margi ebbe concesse 94,4 salme di terra per un importo annuale di once 92,26,12 e Giovan Domenico Cicala che ebbe a Margi e a Falconeria 101 salme di terra per complessive once 112,18,10. Il Cicala impiantò il vigneto, e nel giro di alcuni decenni poté vantare di essere uno dei più grossi produttori di vino del palermitano. Tra il 1651 e il 1656, secondo i suoi riveli, aveva prodotto 664 carrozzate di racine, in terreni che egli stesso aveva contribuito a trasformare, sostituendo al manto boschivo il vigneto e l'oliveto.22 20 Cfr. D. LO GRASSO, cit., p. 90 Ibidem, p. 100. Nel primo '500 -secondo Vito Amico -Partinico non era altro che un casale, e non contava che 70 case. Cfr. Lexicon Topographicum, cit., tomo II, f. 74; e Archivio di Stato di Palermo, fondo Magione, Abazia di Altofonte, vol. 151, f. 9; inoltre TOMMASO FAZELLO, Le due deche dell'Historia di Sicilia, tradotte dal latino in lingua toscana dal R.P. M. Remigio Fiorentino, Palermo, Dal Ciotti, MDCXXVIII 22 Cfr. ASP., cit., vol. 190, ff. 13-50, Concessione di una tenuta di te"e nel feudo Margi a Vincenzo Di Franco. Al f. 47 dell'atto di concessione troviamo la firma del testimone Stefano D'Avantaggio alias la Blasa, di cui ci occuperemo nel testo. I terreni restavano naturalmente gravati dal terraggiolo e dalla decima. Il primo veniva corrisposto in natura (una salma di frumento per una salma di terra da consegnare all'aera dei primi frumenti) se si trattava di frumento, o in denari (se si seminavano «orgio o altri legumi »); il secondo si corrispondeva sulle «prime racine vendemmiate »; e ivi, Rilaxatione di 26 salme di terra fatta dal notaio Vincenzo di Franco a Francesco Pisci, 14 agosto 1615, con l'onere del terraggiolo e della decima «et cum eisdem pactis, clausulis, cautelis promissionibus, obligacionibus et aliis in quibus et sub quibus dicte terre concesse fuerunt dicto De Franco »; Concessione di una tenuta di terre nel fego della Falconeria per Francesco De Franco a Francesco Pisci. Per li atti del notar Francesco Sergio a 13 maggio 1616; Prestazione di consenso fatta per il Cardinale Borghesio a Gio. Domenico Cicala aggiudìcatario di certi feudi concessi per Francesca Pixi a Francesco Lo Tinto. Per li atti del notar Trabona, a 27 agosto 1627; Censo annuo dovuto da 21 13 Documenti attestanti l'esistenza del vigneto prima del 1580, sono reperibili al fondo Magione dell' Archivio di Stato di Palermo (ASP), tra le carte dell' Abazia di Altofonte; ma si tratta di una presenza irrisoria rispetto al sistematico ricorso a questa coltura avviata con criteri di accumulazione capitalistica dall'aristocrazia e dalla grossa borghesia palermitana nei feudi di Partinico, a partire dal 1611, e secondo una chiara volontà politica che beneficiava l'abazia di una consistente rendita parassitaria, ma avviava, per un altro verso, un massiccio ricorso alle trasformazioni agrarie. Del resto, fino al 1610, la prevalenza del manto boschivo e dei terreni rampanti sulle colture lavorative era abbastanza netta come risulta dalla ripartizione qualitativa dei terreni di alcuni feudi abaziali.23 Antonio Maurino De Pazos, vescovo di Patti, presidente del real consiglio di sua maestà di Spagna, e abate dell'abazia di Altofonte, fu il primo, tra gli abati che lo avevano preceduto, a porsi il problema giuridico-amministrativo del rapporto tra l' abazia e i suoi feudi e tese a superarlo nello sforzo di reintegrazione di tutte le proprietà che nel corso dei secoli passati l'assenteismo degli abati aveva destinato all'usurpazione di baroni e gabelloti.24 Gio. Domenico Cicala all'abate a partire dal 15 agosto 7 ind. 1639, oltre la decima di tutta l'uva e terraggiolo, previsti dal contratto. Le terre boschive erano in gran parte adatte all'impianto di vigneti. Nel 1610 furono ingabellate unitamente a tutte le altre terre e feudi dell'abazia per poi essere concesse a censo annuale «a beneficiari di ben fatti utili e necessarij ». Le lavorative e boschive per un censo annuale di tarì 24 la salma e le rampanti a tarì 8. Se si confronta il livello del canone del 1610 con quello riportato nel testo, ci si accorge che in un biennio il costo in censo delle terre lavorative e boschive era salito del 50% aumentando del 30% in quelle rampanti. 23 Cfr. AS., cit., Magione, vol. 154, ff. 18-60. « Delle ditte terre boschigne -scriveva il procuratore dell'abate- ci ni sono la maggior parte atti a potirsici fare e piantare vigne» (f. 18) e -continuava -«volendosi detti feghi e comuni concedere a censo annuali et beneficiari di ben fatti utili et necessari (...) si porriano concedere le terre lavorative e boschigne l'uno per l'altro a tarì 24 incirca la salma di censo annuali et li rampanti à ragione di tarì 8 ». L'abazia ne avrebbe ricavato 2.500 once annuali di censo, oltre alla gabella; lo Stato avrebbe incassato da parte sua le tratte del frumento e del vino. Relationi ricevute per l'utilità delle concessioni di terreni in Partinico nel 1610, ai ff. 17-25. 24 Il De Paczos ottenne da Filippo II delle lettere dirette al presidente Cifontes «per le quali si ordinava che per occasione della mutatione delli abati soi predecessori e per la loro absentia da questo Regno li beni et feudali renditi raggioni acqui et pertinentij di detta abbazia se retrovavano in gran parti indebitamente occupati da diversi personi, che perciò dovendosi reintegrare et reuniri alla suddetta abbazia si doversi per banno pubblico ingiungere et intimare a tutti et qualsivoglia personi di qualsivoglia stato et grado et conditione che fossero, dovessero sotto pena di perdere detti beni raggioni renditi predij territorij fegi et qualsivoglia altra cosa che possedessiro spettanti a ditta abbatia et qudIi applicarsi in caso di convenzioni a detta abbatia havessero dovuto comparere innanzi detto Ill.mo Presidente Cifontes et decliarare li loro nomi et cognomi et a demonstrare li scripturi et cauteli con li quali et in virtù delli quali tenevano et possedevano detti beni et raggioni a finche si potessiro trovandosi inlicitamenti occupati reunirsi SUIa ditta abbatia ». Cfr. AS., cit., vol. 190, Memoriale dei procuratori dell'abate Simone Rao e Giovanni Largaria, al Cardinale Scipione Borghese, f. 274, e Bando promulgato b d'ordine del re~io delegato Cifontes nel 1580, ai fI. 276-279. e Molto utili le prove fornite dai Testimoni giurati ricevuti ad istanza del Cardinale og Terranova abbate, nel 1601, ai ff. 280-283, e passim; si tratta di testimoni di parte, ma ci dànno il quadro dell'entità del problema. Ne erano coinvolti, in contrapposizione tra qu di loro, gli stessi gabelloti: Antonino Tituni alias lo Palermo, pratico delle terre d'Alcamo mi e Partinico da oltre trentacinque anni, testimoniava che i feudi Ogliastro, Giambruno, Margi, e Boschetto erano stati ingabellati da Giuseppe Severino a Fabritio Di Trapani se che nei primi due decenni del '600 fu, assieme a Giuseppe Di Carlo (che dal Borghese te nd 1613 ottenne il feudo Margi) il più grosso gabelloto degli abati (a lui si deve la costruzione del convento dei cappuccini nel 1619). I suoi feudi confinavano con le baie- d~strate di Cola di Bologna che aveva piantato cannamele al confine segnato da un « poczo 0di maramma sdirrupata» chiamato « li pileri» o « chi ano di lo inferno ». Il testimone afferma che al presente il confine non è più segnato dai « pilieri» trovandosi da oltre « vent'anni ben dentro le terre di Cola di Bologna. Vi Sull'argomento cfr. ancora Testimoni per li quali si descrive la qualità delle terre del Parco e si dichiara il beneficio che ne risulta all'abate. Ad istanza del cardinale Borghese, 1610, ivi, ai ff. 286-298. Fu necessaria l'emanazione di una licenza di concessione delle terre (contratto entiteutico per quarta generatione o nominatione) da parte del re di Spagna a Scipione Bor- Sighese. Le lettere furono date a Madrid il 23 marzo 1611, ed esecutoriate nel Regno di Sicilia in virtù delle lettere viceregine date a Palermo il 5 luglio 1612. Cfr. ivi, vol. 154, ai ff. 33-39 (contenente il testo integrale e le disposizioni successive). 14 L’abazia possedeva i feudi di Ogliastro, Giambruno, Margi, Boschetto, Cala del Giudeo, Cannavata, Falconeria, Lavatore, Comuni, con possibilità di concederli ad enfiteusi “a quarta generatione e nominatione” a norma della lettera regia data a Madrid il 27 marzo 1611. Per l’esecuzione dovevano precedere prima dei bandi pubblici a Palermo e Monreale; la concessione veniva fatta al maggior offerente, a questi patti: 1) l’enfiteuta era obbligato per sé e successori a pagare ogni anno, durante la ‘quarta generatione o nominatione’, all’abate o ai suoi successori, il censo in denari col quale si erano liberate le terre “a tanto la salmata”; facendo il pagamento in Palermo ogni anno alli quindici di augusto”; 2) a concessione avvenuta si dovevano misurare le terre concesse, nei termini fissati dal cardinale (o successori), con la corda di Palermo, fermo restando che in caso di controversia si sarebbero preparate dalle parti delle tavole da consegnare al giudice dell’abate per essere confrontate fino alla coincidenza; 3) la remisurazione poteva essere richiesta da una delle parti in qualsiasi tempo; 4) l’enfiteuta (successori) era obbligato “aumentare et beneficiare” le terre concessegli; in particolare era tenuto “della quantità delle terre atte a seminerio e vigne smarginarne due terze parti”. In queste erano incluse tutte quelle terre che fossero lavorative. Doveva avere finito di “smargiarle” entro sei anni da contarsi dal giorno della concessione. In caso contrario l’abate o il suo procuratore potevano procedere a nuove concessioni “per abundante cautela”, restando l’enfiteuta o i suoi eredi sempre obbligati”; 5) l’enfiteuta (successori) era obbligato, per le terre che si sarebbero seminate, a pagare il terraggiolo “a ragione di uno per salma, cioè ogni salmata di terre una salma di formento seminando formento et quello consegnare nell’aera delli primi frumenti che si annetteranno, altrimenti sia al maggior prezzo et valuta di detti frumenti”. Per le terre seminate a orzo e legumi doveva pagare il censo in denari e non il terraggiolo; per le terre che non si seminavano doveva pagare il censo in denari secondo la concessione. Per le vigne che avrebbe piantato era obbligato, ogni anno, a consegnare all’abate o al suo procuratore, la “intera decima parte di tutte le racine che produciranno tutte le dette vigne”; 6) le terre nelle quali si sarebbe seminato frumento si dovevanostimare e misurare, da un esperto scelto dal cardinale, con la corda di Palermo usata nella “esigenza del terraggiolo”, mentre la decima delle uve si doveva rapportare alla stima delle uve fatta dall’abate. In caso di controversia il giudice era scelto dall’abate; 7) le terre piantate a vigna erano sottoposte a censo in denari fino alla prima produzione di racine; a partire da questa data cessava il censo e subentrava la decima. Inoltre l'enfiteuta (successori) si obbligava «a tutti li patti emphiteotici soliti e consueti et statuti dalla lege» e cioè: 1) per tutta la materia concernente i contratti sarebbe stato giudice l'abate; 2) chi dava inizio a una nominatione o generatione era obbligato, entro sei mesi, «far atto per mano di pubblico notaro di nova riconoscenza et nova obbligatione» all'abate, obbligarsi al contratto della concessione, e presentare la copia dell'atto di «reconoscenza » nell'ufficio del consultore del «regio patrimonio»; 3) compiuta la quarta generatione o nominatione, volendo l'abate riavere le terre concesse, si dovevano subito stimare «tutti li ben fatti legittimi» apportati nelle terre, da due esperti scelti uno dall'abate e l'altro dall'enfiteuta cui si poteva aggiungerne un terzo scelto dalle due parti; della stima si sarebbe fatto atto notarile 15 e l'enfiteuta avrebbe avuto pagato «in denari contanti in unica soluzione» il prezzo di detti «ben fatti». Il pagamento sarebbe avvenuto a Palermo. L'abate non poteva in alcun modo avere «possessione o dominio » delle terre migliorate, se non dopo il pagamento; se questo non avveniva l'enfiteuta o i suoi successori avevano «dominio o possessione» delle terre concesse e dei «ben fatti», come se continuasse ancora la concessione.25 I bandi venivano pubblicati, oltre che a Palermo e Monreale, anche ad Alcamo, Carini, e nel casale del Parco in diversi giorni di agosto. La liberazione delle terre si doveva al « maggior offerente », nella logia pubblica di Palermo. La documentazione degli interventi degli enfiteuti da destinare agli abati a testimonianza del loro interesse nel miglioramento delle terre, ci serve anche a conoscere il prevalente orientamento della borghesia intraprendente nel processo di trasformazione agraria. Valgano per tutti i «ben fatti » di Giovan Domenico Cicala « nel suo loco in Partinico » tra il 1626 e il 1638: forza lavoro impiegata Giuseppe Centorbi Importazioni olivi da Mazara Spesa in onze e tarì 8 Lorenzo Cudia Piantatura di 3.500 ulivi 0,2 al giorno Lorenzo Cudia e Gius. Centorbi Francesco Ingrassia Potatura di 3.376 ulivi 15,24 Lavorazione di 80 ‘balatoni’ di pietra Per ‘cantara’ 2,7 di ferrotondo di Genova dovuto alla sua bottega per fare ‘gradi’ Acquisto di 350 ‘girelli’ Acquisto di 50 ‘girelli’ 200 ‘girelli’ e 12 ‘castagnoli’ per la fabbrica di lo casino della torre e magaseni del suo loco Acquisto di 2000 canali per la fabbrica del suo ‘loco’ 8 ‘gradi’ di ferro Per 26 giornate di imbranchiate e murare (a compenso di onze 3,7) A compenso di onze 8 da pagare per la ‘rina portata per l’imbranchiato della fabrica’ 1,26 Vincenzo Calandra (‘pirriaturi’) Giacomo Di Cesare Francesco Petruso Luca Di Cesare Andrea Lobbulo Mastro Pietro Gentile Mastro Vincenzo Sottile Mastro Leonardo Calvaccanti per mano di Carlo Lo Nobile curatolo del Cicala Mastro Vincenzo Sottile Giovanni Petrotta Giuseppe Centorbi Mastro Pietro Lo Re Antonino Di Costa Vito Caronna Mastro Marco Majiorana Mastro Pietro Sottile scopo A compenso di onze 16,24 per 80 giornate impiegate per la costruzione delle porte e finestre delle stanze Lavori manuali Travi, tavole, porte e finestre Tavole, tini, botti ( a compenso di 28 onze) ‘Tapparelli’ di olivi di Salemi Zappe, aratri, ferramenti ( a compenso di onze 26) Per 33 giornate lavorative nella cantina ( a compenso) Per servizio nei magazzini 25 6,25 17 3,7 11,6 4 3,4 1,29 6,3 6,24 3,2 23,10 5 6,22 2,3 3,23 5 Cfr. ASP., Magione, vol. 190, 1597.1657: Concessione enfiteutica d'una tenuta di terre nel fego delli Margi, concessa per il Cardinale Borghesio abbate della Abbazia del Parco in Vincenzo Di Franco con tutti li solennità. Per li atti di notar Vincenzo Ferranti a 18 marzo 1613, ff. 1.13 e sgg. 16 Mastro Marco Majorana Mastro Francesco Lo Monaco Collocazione travi nei magazzini ( a compenso) Scavo di una cisterna 4,2 1 26 Come si vede ci si trova di fronte a una intraprendenza notevole dovuta sia al riformismo degli abati e del governo spagnolo, sia anche alla capacità e al coraggio imprenditoriale della borghesia delle città che era stata capace di investire anche a fronte dei ricorrenti rischi che si presentavano in quegli anni: la mancanza di braccia dovuta allo spopolamento provocato dalle pestilenze e dalle carestie (1624 e 1643); le lotte intestine tra i baroni del regno; delle incursioni ‘turche’; le scorrerie dei ladri di campagna; ecc. Da aggiungere l’aggravante che, secondo il Fazello, Partinico era considerata «locus ad latrocinandum notissimus », in tutta l'isola. Naturamente, quindi, si deve ritenere che gli investitori dovevano avere preventivamente, da quest’ultimo punto di vista, delle precise garanzie. In ogni caso essi si trovavano di fronte a difficoltà obiettive che avrebbero dovuto mettere gli abati di fronte a una maggiore disponibilità rispetto al loro progetto di trasformazione produttiva del territorio. Prevalse in loro, invece, la logica parassitaria delle rendite, tipica dell’aristocrazia assenteista. Gli abati scatenarono una vera e propria guerra contro gli enfiteuti che si concluse con un apparente appannaggio dell'abazia. Essi ottennero l'aumento dei censi sulle terre boschive in favore dell'abate, del terraggiolo e delle decime sulle terre fruttifere; fissarono un terraggio unico e inoltre ottennero che venissero stabilite le tariffe dell'ottava parte delle collette delle uve. In compenso vennero affrancati dai censi gli alberi fruttiferi, e soprattutto gli ulivi, su cui gli abati non potevano avere diritto essendo stati piantati dagli enfiteuti. L'accordo fu concluso grazie a due sentenze dei tribunali secondo le quali le pretese di ‘rivocazione’ dei terreni dovevano essere ricompensate col pagamento dei lavori sostenuti dai coloni che avevano piantati ulivi e alberi vari, e costruito «fabbriche» e torri. Ma il De Pazos non accettò mai tali remunerazioni che, d'altra parte non poteva sostenere. Il gioco non valeva la candela. Nel transatto gli enfiteuti, nelle sottoconcessioni e nelle gabelle, fecero ricadere il costo delle nuove tariffe sui «poveri rustici », ed ebbero dunque il vantaggio del possesso definitivo dei loro fondi (e si capisce come due secoli dopo a questo discorso potesse essere interessato il Villabianca, la cui famiglia già dalla fine del '400 aveva ottenuto dei terreni nel partinicese). La lite durò due anni e il «villano spagnolo» abate - scrive il nostro marchese finì male assieme ai suoi ufficiali. Tra questi ultimi il più « miserabile» era stato G. Battista Salamone, procuratore generale dell'abate e artefice delle «novità» che morì pazzo alla notizia della morte del suo signore27. Le pretese del De Pazos andavano in realtà al di là di una semplice vicenda personale e riflettevano appieno il particolare clima col quale gli abati affrontavano il problema degli originari loro diritti di proprietari. 26 Cfr. AS., cit., vol. 190, ff. 236-240 Cfr. VILLABIANCA, cit., ff. 285 e sgg. La transazione che riportò la pace si trova negli atti del notaio Antonino Occhipinti di Palermo sotto la data del 17 luglio 1582. Cfr. anche Archivio domestico Villabianca nel vol. I di Cutò, f. 21 e dell'Albaciara, f. 146 ivi cit.; e V. DI GIOVANNI, Del Palermo Restaurato, di cui esiste copia anche presso la biblioteca di San Martino delle Scale, ms. segnato III.F.27. L'accordo ebbe l'assenso del vicerè Marco Antonio Colonna nella sua qualità di procuratore istituito appositamente da Filippo II. A conferma della transazione fu pronunciata la sentenza dal delegato apostolico Ludovico De Torres, arcivescovo di Monreale che minacciava la scomunica papale ai contravventori degli accordi. Nella transazione del 1582 non fu compreso il solo fondo di Gambacurta (altrimenti Galvina e Raccuglia), perchè il padrone Leonardo De Scorza fece valere una privata antica concessione. 27 17 Gli atti concernenti la giurisdizione del senato palermitano28 sul territorio di Partinico, diligentemente trascritti da notai come Aloisio Leto, Mariano Milone e Francesco Muzio (almeno per quanto riguarda numerose illegalità commesse da abati e notabili), stanno a testimoniare, quanto tormentati siano stati i rapporti d'ordinaria amministrazione del governo spagnolo con le classi dirigenti del paese direttamente influenzate dal potere degli abati. Le controversie riguardavano soprattutto il monopolio della vendita dei generi di prima necessità (pane, olio, vino, farina, ecc.) e la manomissione di pesi e misure nella compravendita dei prodotti. Una lettera senatoriale del 6 settembre 1615 ci informa che l'università (comune), nonostante fosse sottoposta alle disposizioni e ai mandati palermitani, era impossibilitata a metterli in opera perchè un certo Stefano La Blanca, gabelloto del fondaco, imponeva prezzi arbitrari. Il senato palermitano assumeva un atteggiamento molto duro, chiedeva una raccolta di testimonianze, la carcerazione dei testimoni restii a deporre la verità, o la loro messa al bando; procedura che si sarebbe dovuto seguire anche per il La Blanca e i suoi compagni. L'istanza avanzata dall'università di Partinico era stata preceduta da una lettera dello stesso Stefano D'Avantaggio alias La Blanca (anche La Blasa), nella quale il gabelloto faceva presente al senato palermitano come il pane venduto nello zagato datogli in gabella no corrispondeva al prezzo giusto perchè questo si sarebbe potuto desumere dal prezzo del frumento al momento dell'acquisto; e come conseguentemente ne nascesse una controversia sul peso. Ma il La Blanca -chiariva il Comune -intrallazzava su tutti i generi alimentari: «sfacciatamente» pretendeva che «li poveri cittadini» comprassero vino a prezzo maggiorato; non teneva conto soprattutto della meta stabilita (il prezzo medio sui mercati dei prodotti agricoli). Intrallazzi simili passavano anche attraverso le botteghe di «speziali, chirurgici, merceri, mammani, et altri sudditi a detto Ufficio di Protomedico» che facevano passare per buone medicine che erano tutt'altra cosa.29 La speculazione più grossa -e più documentata del resto negli atti senatoriali -era quella che abati e gabelloti assieme portavano avanti per il mantenimento del privilegio baronale non solo del monopolio del forno, ma anche della vendita al minuto dei generi alimentari, sulla cui qualità le rimostranze del Comune e dei cittadini furono insistenti.30 Nella primavera del 1625 Marco Antonio di Marchese, giudice dell'illustrissimo abate cardinale del Parco, pubblicava un bando nella piazza del paese «proibendo che nessuna persona» presumesse «vendere, comprare pane, olio, sapone, vermicelli, cascavalli et altre cose comestibili et potabili fora del zagato di detta terra, sotto pene contenute in detto bando ». Più che un bando questo poteva essere considerato come la proclamazione di una specie di spirito di mafiosità con cui l'abazia trattava l'intero paese ad onta anche degli stessi regolamenti e disposizioni di legge del governo spagnolo, la cui 28 Partinico, il 20 aprile 1615 fu dichiarata quinto quartiere di Palermo dal viceré Pietro duca D'Ossuna e cominciò ad essere considerata un « borgo» o un « quartiere » della capitale. Evidentemente i nobili laici ed ecclesiastici avevano conquistato già un notevole potere contrattuale di tipo politico, facendolo pesare a salvaguardia dei loro interessi. La sovrintendenza all'annona spettò al Senato della felicissima urbs che ebbe tra l'altro il compito di eleggere quattro deputati di piazza (accatapani). L'iniziativa era partita dagli abati e dai notabili che avevano interesse a fare del paese un territorio privilegiato, come territorio proprio di Palermo (immissione di generi, marchio dell'aquila, ecc.) cfr. VILLABIANCA, cit., ff. 82-83. 29 Cfr. Archivio Comunale di Palermo, Carte varie, voce Partinico, n. 75, lettere del Senato palermitano del 28 giugno 1617 e del 15 sett., V ind. 1621. 30 Cfr. ivi, lettera del S. P. a Domenico Del Colle deputato platearum, 27 ottobre 1622. 18 giurisdizione sul territorio di Partinico, escludeva che fosse impedito a qualcuno di esercitare la professione del commerciante. Questo atteggiamento di apparente liberalità corrispondeva in effetti a un aperto conflitto tra le arroganze degli abati e il governo, non sempre disponibile alle facili concessioni e abituato all'applicazione intransigente, ma talvolta anche compromissoria, della legge. In quella situazione, però, era il Comune a farsi carico dello scontento popolare, spinto dal tentativo delle sommosse dovute alle annate di carestia, e alle continue vessazioni dei potentati locali. Così, la lettera del 2 maggio VIII ind. 1625 del Senato palermitano ordinava al deputato di piazza Antonio Bonamente di recarsi a Partinico con « alcuni officiali et compagni benvisti» per annullare il bando dell'abate, e riportare ogni cosa «ad pristinum », «non convenendo l'abitatori et persone exenti in d.ta terra siano vacati et privati della loro libertà, et per evitare tali inconvenienti potriano succedere ». Cinque anni dopo la situazione è profondamente cambiata. Gli abati circuiscono l'amministrazione dell'università e impongono al capitano e al castellano di pubblicare un nuovo bando che, contrariamente alle disposizioni, ristabilisca il monopolio dello zagato e colpisca eventuali molinari fuori regola con la confisca della farina e una multa di 5 dinari da devolvere al denunciatore, agli ufficiali e ad opera pia. Il bando non si sa come veniva annullato, e a quel Vincenzo La Liarda che per sua sventura teneva un mulino a censo, concessogli dall'abazia, veniva fatto in modo che non venisse data «molia alcuna circa il poter vendere detti frumenti a chi li vorrà comprare non obstante il detto asserto pretenso bando et qualsivoglia altri fosse da promulgarsi: quali tutti intendiamo essere nulli et invalidi, spettando anzi a questa città et suo Ill.mo Senato l'administrazione di vittovaglie di d.ta terra».31 Che al La Liarda non sia andata bene è un dubbio lecito. Come si vede il senato di Palermo dettava legge sull’amministrazione di Partinico, ma riusciva a mediare col potere degli abati. La guerra per la liberalizzazione del commercio andava in realtà al di là delle controversie tra qualche bottegaio e l'abate; era la guerra combattuta dalla grande proprietà privata ansiosa di liberarsi dalla soggezione del potere abbaziale, forte, in questo suo tentativo, della larga rappresentanza delle classi dirigenti di notai, giudici, capitani, e nobili che da amministratori dettavano legge da Palermo. Il braccio di ferro tra la nobiltà terriera e l'abazia vedeva prevalere ora una parte ora l'altra, con le dovute e alterne mediazioni di potere, volte ad appoggiare l'abate nei momenti di maggiore debolezza dei grandi censuari e gabelloti. Tra la fine del '500 e i primi decenni del secolo successivo si registra un notevole ampliamento delle concessioni e sottoconcessioni che abati da un lato e ricchi enfiteuti dall'altro avevano cominciato a praticare da tempo.32 In questo periodo 31 Cfr. ivi, lettera dell'8 novembre 1630, ex registro prov. sum, anni 14 ind., 1630. Cfr. A.S., cit., fondo Magione, Abazia di Altofonte, vol. 151, ff. 64-84. L'intero volume è utile in quanto può fornire una statistica esatta del movimento dei contratti di concessione e subconcessione nel primo quindicennio del '600. Vi sono compresi i nomi dei traenti, le particolari condizioni del contratto, le contrade relative, i diversi tipi di coltura, l'indicazione dei terraggi, delle gabelle e altro. Ma sarebbe di notevole importanza, ai fini della storia della formazione della proprietà terriera in un comune rurale come Partinico, studiare attentamente i numerosissimi volumi riguardanti le concessioni di terra esistenti nello stesso fondo all'A.S. Rimando, pertanto, all'inventario della Magione, n. 28, consultato da me nel lontano 1980. Qui do solo alcune indicazioni: vol. 151 anni 1307-1619: fondazione e dotazione dell'abazia (comprende i feudi di Margi, Lavatore, Falconeria e Comuni). » 154 » 1455-1670 Concessioni, assegnazioni, prestazioni, contratti. » 156 » 1510-1635 Idem. Zagato, privilegi, bandi. 32 19 Giuseppe Antonio Ballo, barone di Calattuno, possedeva diversi luoghi coltivati a frutteto, vigneto e uliveto, come quelli di Sirignano; i baroni di Cesarò possedevano ampi vigneti; a Benedetto Ramo appartenevano «terri vignati di migliara centocinquanta in circa» oltre a varie terre «non lavorative, alberate, orti, giardino e palazzo ai confini delle proprietà dei baroni Cesarò; Martino e Filippo Raccuglia avevano «vigne e terre scapole» sottoposte a decima, non diversamente dagli altri terreni che dovevano pagare le ottine, i censi, i terraggi e gli altri gravami.33 Al palermitano Francesco Galeazzo fu dato in enfiteusi il Boschitto, dotato di acque: 60 salme a onze 2 e tarlì12 la salma, con la decima delle racine e il terraggiolo di grano così come risultava dal contratto stipulato dall'interessato direttamente con l'abate cardinale Borghese nel 1613.34 Altre concessioni furono fatte nel feudo Margi che si estendeva per 496 salme e sette tumoli, concessi in enfiteusi ad quartum nello stesso anno, e quindi dati in sottoconcessioni a frazioni varianti da una a diverse decine di salme. Simili concessioni e sottoconcessioni furono operate con una sorprendente facilità nei feudi di Lavatore, Falconeria e in quello dei cosiddetti Comuni.35 Lo spezzettamento del feudo creò aggregazioni e disaggregazioni varie; ma le più sostanziali, in quest'epoca, furono quelle che portarono all'annullamento della concessione del paese, a titolo di principato, fatta da Filippo IV a Benedetto Frelles, marchese di Torralba e a Elisabetta Alliata. Partinico, di fatto, incluso nel territorio di Palermo, e venne dichiarato demaniale. Ovviamente gli abitanti preferivano alla giurisdizione del baronaggio quella demaniale, anche se comportava l'obbligo di concorrere nelle decime ai donativi e alle tande regie. Di fatto, nonostante un’influente nobiltà laica fosse interessata al territorio partinicese, tanto da dichiararlo, ad un certo punto, “quinto quartiere di Palermo”, tuttavia, era evidente che il comune si collocava come parte antagonistica alle proprietà e alle pretese abbaziali e preferiva un’amministrazione politicamente più vicina a quanti fossero in grado di mediare, localmente, tra gli interessi dei ceti produttivi e il governo politico del baronaggio. Dal 1306 al 1764 gli abati furono ventotto: nella gerarchia ecclesiastica venivano dopo i vescovi, ed erano rappresentanti del clero nei parlamenti di Sicilia. Dopo la morte del nono abate Giovanni Di Stefano (1435), l'abazia, fu dichiarata commendataria. Monaci e abati rimasero, e furono mantenuti per l'osservanza dell'istituto; ma non più fedeli ai regolamenti monastici furono ad un certo punto » 157 » 1511-1606 Feudo del Parco vecchio, concessioni, transazioni, sentenze, visite regie, notamenti di censuari, memoriali. » 158 » 1519-1660 Concessioni nei feudi di Falconeria, Comuni e Lavatore. » 160 » 1534-1645 Zagato, bandi, ricorsi. » 161 » 1547-1756 Idem. Bandi, gabelle, lettere, memoriali, procure, relazioni. » 177 » 1581-1750 Molini e terre di Falconera e di S. Leonardo. Concessioni, processi, atti di possesso, bandi, apoche, gabelle. » 200 » 1612-1621 Concessioni nei feudi di Margi, Ogliastro, Giambruno, Lonovo, Superiori. » 203 »1613 Feudo Margi: concessioni. » 213 » 1621-1793 Note di misurazione di terre, calcoli, apoche. » 217 » 1626-1660 Gabella a terraggio, lettere, memoriali, contratti enfiteutici, sentenze, note di spese, liste di debitori e censuari. » 226 » 1538-1702 Consensi, concessioni, atti ricognitori, vendite, divisioni, rilasci di terre, affrancazioni di decime. Ma i volumi da prendere in considerazione vanno dal 151 al 333, e dal 2295 al 2563. Fondamentale è anche la consultazione del Tabulario della Magione n. 97 (diplomi e altro). 33 Cfr. A.S., cit., vol. 151, ff. 64-80. 34 Ibidem, f. 84. 35 Ibidem, ff. 84 e sgg.; oltre ai volumi citati nella nota 30, i voll.. 212-214, 217-218, 223, 229, 233. 20 sostituiti, dall'arcivescovo di Monreale, con dei cappellani, finché nel 1770 venne sciolto l'ordine.36 Nonostante il declassamento del secolo XV, gli abati continuarono ad avere posti chiave nel potere temporale, come Giacomo Tedeschi, consigliere regio sotto Alfonso; Nicolò Leonfante, patrizio palermitano che fu usciere e falconiere maggiore del re, e poi luogotenente e maestro giustiziere del regno. L'istituzione dell'arcipretura è invece legata a Scipione Rebiba, eletto abate nel 1568 dal re di Spagna Filippo II: fu inquisitore del tribunale del Sant'Uffizio, come il De Pazos, al quale si deve però l'aggravante di quel «notabile incremento» sul canone annuale dovuto dagli enfiteuti all'abazia.37 Giovanni Sanchez fu invece deputato del regno nel 1511, oltre che abate; fece parte di quella schiera di abati e baroni che al parlamento « ligi ai voleri della Spagna ubbidivano ciecamente ai cenni del principe lontano e del vicerè presente».38 Questa era una posizione di comodo dovuta alla condizione di certa nobiltà ecclesiastica che, a differenza dei nobili laici, era tendenzialmente più vicina al governo di Madrid e a quello dei viceré. Simone Tagliavia Aragona Ventimiglia Emmanuele e Moncada fu infatti un abate nobile, figlio del duca di Terranova, principe di Castelvetrano e primo conte di Borgetto; di estrazione aristocratica come quasi tutti gli altri, del resto: Ascanio Colonna, figlio di Marc'Antonio duca di Tagliacozzo e vicerè di Sicilia; Andrea Mastrilli, eletto da Filippo III nel 1608 (il suo casato aveva come stemma un leone, un listone con uno scorpione ed una M incompleta); Scipione Borghese (il cui stemma gentilizio aveva « due aquile, una soprastante coronata, separate da un listone »); D. Sigismondo di Austria, figlio di una arciduchessa d'Austria: dopo la sua elezione avvenuta nel 1635 ad opera di Filippo IV « ottenne dal monarca la esenzione e la franchigia dalla tanda regia nel territorio dell'abazia» per sei anni; Francesco Maria Medici, figlio del Gran duca di Toscana Ferdinando II, che presto aveva rifiutato l'incarico e si era sposato in mancanza di «ceppo maschile che conservasse la stirpe dei Medici », lasciando un'abazia che con una rendita di oltre 2.200 scudi era, dopo quella di S. Maria di Fossanova e pochissime altre, uno dei posti più ambiti dalla grande nobiltà. 36 Cfr. S. MARINO, cit., p. 51 Ibidem, p. 56. 38 Ibidem, p. 58. 37 21 3.Strutture e dinamiche demografiche nel secolo XVII39 Come abbiamo visto, dal 130740 alla prima metà del ‘500 lo sviluppo urbanistico e demografico fu molto contenuto, al tal punto che ai tempi di Carlo V il comune non contava più di 70 case41, con una popolazione presumibile di non oltre 500 abitanti, che Rocco Pirro fa salire a 2032 al tempo della prima edizione della sua Sicilia Sacra (1630).42 Purtroppo non è possibile seguire il movimento demografico attraverso i riveli: Partinico, come università privilegiata, oltre che quinto “quartiere di Palermo”, non è presa in considerazione. I registri parrocchiali rappresentano, così, una fonte di informazione insostituibile, non solo per lo studio demografico (nascite, matrimoni, morti, flussi immigratori ed emigratori, ecc.), ma anche per un primo tentativo di analisi delle strutture e dei comportamenti sociali, delle spinte economiche che si nascondevano dietro i momenti di aggregazione urbana e di maggiore concentrazione della manodopera. Dallo studio dei registri della Chiesa Madre emerge una configurazione unitaria la cui dinamica oscilla tra la gestione feudale e le aggregazioni demografiche. All’interno di questa dinamica una data importante è segnata dal privilegio, concesso dal re di Spagna all’abazia, di potere dare ad enfiteusi “a quarta generatione o nominatione”43 una porzione consistente del feudo, e precisamente Ogliastro, Giambruno, Margi, Boschetto, Cala del Giudeo, Cannavata, Falconeria, Lavatore, Comuni (Madrid, 27 maggio 1611). Prima di questa data, improvvisati gabelloti palermitani, approfittando dell’assenteismo degli abati, avevano occupato grosse porzioni di terra, avviando una consistente pratica di trasformazioni agrarie.44 Probabilmente, fino a quel tempo, molti aspetti della gestione feudale, erano rimasti normativamente insoluti. Ancora al 1610 il territorio era prevalentemente boschivo, come risulta da alcune Relationi reperibili all’Archivio di Stato di Palermo: feudi salme Cala del Giudeo 375 Cannavata 450 Falconeria 400 Qualità dei terreni lavorativi boschivi rampanti lavorativi boschivi rampanti lavorativi Salme 80 285 10 50 384 16 30 39 I dati completi sulle strutture demografiche del periodo si trovano nei miei studi Uomini e terra a Partinico, cit., e I parrocchiani di Partinico e Montelepre. Crisi demografiche e nuclei familiari: secoli XVII-XIX, Partinico, Centro Jatino di Studi e promozione sociale ‘N.Barbato’, 1988, ai quali rimando per gli approfondimenti e le tavole annesse. 40 Cfr. ASP, Magione,vol. 190, Privilegium fundationis Abatiae Sanctae Mariae de Altofonte sub vocabolo Parco, diocesis Montis Regalis Cisterciensis Ordinis, ai ff. 246-258 41 Cfr. VITO AMICO, Dizionario topografico della Sicilia, tradotto dal latino e annotato da G. Di Marzo, Palermo, Morvillo, 1855, ad vocem 42 Cfr. Sicilia Sacra in qua Episcopatuum nunc florentium, ac eorum dioceseon Notitiae traduntur, Liber tertius Autore Abbate Netino D. Roccho Pirro, Panormi, typis Hieronymi De Rossellis, anno MDCXXXI, p. 582. Alla data del ’31 il Pirro assegnava ancora al paese 420 fuochi e lo definiva “oppidum aquis irriguum, vinetis, fregetis, et cannae melitae nobile”. Assegnava poi alla Madrice il borgo di Santa Margherita con 200 abitanti a 1500 passi, facendo rientrare nel territorio della Sala (Partinico) il dominatus di Valguarnera con 81 fuochi e 309 abitanti di Andrea Saladino, nonché il villaggio di Ragali con 70 abitanti. 43 Cfr. ASP, cit., vol. 190, ff. 1-50 e sgg. (contenenti il testo del patto enfiteutico e alcuni atti di concessione), e infra. 44 Il problema dell’abusivismo fu sollevato dal De Paczos che ottenne da Filippo II una regolamentazione. Cfr. Bando per la revelatione promulgato d’ordine del Regio delegato Cifontes, nel 1580, ivi, ff. 276-279 22 Lavatore 550 Comuni 500 boschivi rampanti lavorativi boschivi rampanti lavorativi boschivi rampanti 335 35 50 490 10 10 484 6 45 Come si vede, su 2.275 salme, le terre boschive si stendevano per 1978 salme (86,94%), le lavorative per 220 (9,67%), le rampanti per 77 (3,38%). A partire dal ’12 la situazione cambia in ragione del massiccio ricorso all’istituto dell’enfiteusi. Gli investitori sono persone che hanno grande disponibilità di denaro liquido, spirito di intraprendenza e una qualche spregiudicatezza: Giovan Domenico Cicala,46 Fabrizio Di Trapani, il notaio Vincenzo Di Franco, Giovanni Ballo, Lucio Pollastra.47 A questo precesso si legano la formazione dei nuclei colonici alla periferia della Sala (Valguarnera, Santa Margherita, S.Caterina, Ragali, Trappeto della Sala, Sicciara, Raccuglia, Todaro) e il potenziamento del vicino centro abitativo di Borgetto, ad opera degli immigrati dalle diverse parti dell’isola e del continente. L’immigrazione, che abbiamo seguito puntualmente attraverso gli atti conijugatorum e defunctorum, ci dà la consistenza della posta in gioco in una delle tre regioni vitivinicole costituitesi in Sicilia alla fine del ‘500 ( le altre sono la zona di Marsala-Castelvetrano, e quella delle falde orientali e meridionali dell’Etna), il cui sviluppo, per dirla con Maurice Aymard, “è animato dalla domanda e dai capitali urbani, di città che chiedono di più alle loro campagne, ma vi provocano anche l’intensificarsi della coltura”.48 I registri parrocchiali ci hanno consentito di analizzare il versante demografico di questa scelta, una sorta di rifondazione economica dell’assetto capitalistico-feudale. Baroni e gabelloti, abati e amministratori dell’università, i colletti bianchi dell’epoca, giocarono una parte determinante per le sorti dei singoli e della collettività, decisero delle condizioni di vita, ma furono sovrastati anche loro dai grandi protagonisti della storia di quel tempo: le epidemie e le ricorrenti crisi economiche. A parte il colera, per tutta la seconda metà del ‘600 il paese fu travagliato da mortalità di diversa natura che ne bloccarono la crescita, soprattutto nei trentacinque anni che vanno dal 1658 al 1692. L'esame, come vedremo, prefigura la persistenza di malattie sociali e ambientali tipiche come la malaria e il tifo esantematico, che, come è risaputo, hanno una scadenza stagionale e colpiscono rispettivamente nei mesi estivo-autunnali e in inverno. A un'analisi della curva di natalità, migliori appaiono le condizioni di vita nella prima metà del secolo: la curva, contrassegnata dalle punte basse note agli studiosi di demografia storica europea, appare meno piatta, e complessivamente in ascesa. Purtroppo non si sono potuti utilizzare gli atti di morte dal 1608 al 1649, gli atti di nascita fino al 1611 e quelli di matrimonio fino al 1658, risultando mancanti. 45 Cfr., ivi, vol. 154, ff. 1-18 e Testimoni per li quali si descrive la qualità delle terre del Parco e Partinico, ivi, vol. 190, ff. 286-298. Relationi ricevute per l’utilità delle concessioni di terreni in Partenico nel 1610, ivi, vol 154, ff. 17-25. Ai ff. 33-35 il testo reale della licenza di concessione ad enfiteusi dei feudi dell’abazia, e disposizioni relative. 46 Del Cicala, cfr. gli atti di concessione e i riveli di uva nel vol. 190 più volte citato, ff. 161-240 e passim. 47 Cfr. ivi, ff. 409-443. 48 Cfr. MAURICE AYMARD, Sicilia: sviluppo demografico e sue differenziazioni geografiche, 1500-1800, in AA.VV., Demografia storica, a cura di Ercole Sori, Bologna, Il Mulino, 1975, pp. 211-212. Qui l’inizio delle concessioni enfiteutiche viene fatto risalire al 1580. 23 La panoramica, tuttavia, è pressoché completa per la seconda metà del secolo. L'esame del diagramma delle nascite comprese nel periodo 1612-1701 ci consente di verificare un'ascesa quasi continua della natalità he passa dalle 76 unità del 1612 alle 335 del 1701, pari ad un aumento del 440,78%. Si tratta di un andamento nel complesso costante al cui interno s'individuano, però, le cadute, piuttosto sensibili, nel passaggio da un anno all'altro, nei seguenti bienni: 1612-'13, 1619-'20, 1623-'24, 1626-'27, 1635-'36, 1642-'43, 1658-'59, 1679-'80, 1693-'94. Il calo più consistente si registra nel 1643 (- 40,09%), nel 1659 (- 34,56%) e nel 1680 (- 21 82%). Tenendo conto delle annate disponibili della corrispondente serie dei decessi, possiamo dire che queste date scandiscono momenti di gravi crisi demografiche, anche se non sempre l'aumento dei decessi determina un brusco abbassamento della natalità, come dimostrano i dati del 1672 in cui a fronte di 219 nascite -pari alla media del quinquennio 1670-'74 -si ebbero 525 decessi, con un rapporto di 0,41, il più basso del cinquantennio preso in considerazione. La crescita media decennale nel sessantennio 1612-'71 è del 26,56%, cui fa seguito la brusca caduta del decennio 1672-'81 (- 9,21%), la ripresa del successivo (+22,11%) e il grande balzo del decennio 1692-1701(+60,83%). Nel complesso si passa da 891 nascite nel decennio 1612-'21 alle 2968 del decennio 1692-1701 corrispondenti al 333,10%, con un totale di 16.985 nascite. Considerate dal punto di vista della loro distribuzione mensile e stagionale si rileva che la massima concentrazione si ha nel mese di gennaio (10,63%), cui seguono immediatamente i mesi di novembre (10,03%). ottobre (9,90%), dicembre (9,82%), settembre (9,53%); le punte più basse si hanno nei mesi di giugno (5,91%), aprile (6,26%) e maggio (6,29%). Le nascite si concentrano dunque nei trimestri settembre-novembre (29,46%) e dicembrefebbraio (29,25%) mentre, le quote più basse si hanno a primavera (20,08%) e in estate (21,14%). Ne deriva che il più alto numero dei concepimenti si ha da dicembre a maggio con le punte più alte nei mesi di aprile e febbraio. Nascite: 1612-1701 Andamento decennale decenni 1612-'21 1622-'31 1632-'41 1642-'51 1652-'61 1662-'71 1672-'81 1682-'91 1692-'01 1612-'01 % 400 300 Serie1 200 Serie2 100 Serie3 73 55 37 19 0 1 valori assoluti Partinico: 1612-1701- Andamento annuale delle nascite per sesso anni: serie 1 m aschi, serie 2 fem m ine, serie 3 tot. graf .1 24 maschi 461 593 670 841 924 1149 1111 1198 1445 8392 49,4 femmine 430 472 740 862 1058 1162 1118 1228 1523 8593 50,59 totali 891 1065 1410 1703 1982 2311 2229 2426 2968 16985 100 nascite: 1612-1701- Andamento decennale 1600 valori assoluti 1400 1200 1000 maschi femmine 800 600 400 200 1 1 92 -'0 16 72 -'8 16 52 -'6 1 1 16 32 -'4 16 16 12 -'2 1 0 Graf.2 nascite e concepimenti: 1612-1701movimento mensile aprile gennaio 2000 1800 maggio febbraio 1600 giugno marzo 1400 luglio aprile 1200 agosto maggio 1000 800 settembre giugno ottobre luglio 600 400 200 0 1 Graf.3 il primo mese indicato è quello dei concepimenti, il secondo quello delle nascite novembre agosto dicembre settembre gennaio ottobre febbraio novembre marzo dicembre 25 Il rapporto di mascolinità oscilla dai valori alti del primo ventennio preso in considerazione (valore medio di 116,41) a quelli molto bassi del decennio 1652-'61 (87,33); la media complessiva del novantennio è comunque al di sotto della norma (99,88); conseguentemente il tasso di femminilità risulta elevato, pari a 0,50158. Utili elementi di valutazione si ricavano dai dati totali degli illegittimi. Si osservache il fenomeno è crescente nei primi due decenni considerati con un vertice di 2,44%, ma è costantemente decrescente a partire dal 1632 fino a scomparire quasi del tutto alla fine del secolo. Al contrario, il fenomeno dell'esposizione, quasi inesistente nel trentennio 1612-'41, è in progressiva ascesa a partire dal 1642. Il significato di questi dati si può cogliere meglio se si tiene conto da un lato del particolare processo di aggregazione demografica nell'università, e dall'altro dell'elevato grado di mortalità nell'ultimo trentennio in cui l'eccedenza dei morti sui nati è di 1257 unità. Lo stato di mortalità e morbilità a partire dalla crisi del 1672 aveva fatto diminuire l'ondata immigratoria che l'assalto ai feudi da parte della grossa borghesia agraria palermitana aveva determinato già dalla fine del '500; la correlazione immigrazione-esposizione appare pertanto inconsistente. Il fenomeno deve piuttosto legarsi alla disgregazione dei nuclei familiari sotto l'impatto delle croniche crisi di sussistenza dovute alle ripetute annate di carestia e di epidemia, che se non mancarono nella primametà del secolo (nel '24 e nel '43 ad esempio) assunsero nella seconda metà un carattere diverso: da cicliche divennero permanenti. I dati dell'esposizione – e cioè del fenomeno dell’abbandono dei neonati- sono, a questo proposito, eloquenti: nessun esposto si registra nel decennio 1612-'21; nei decenni successivi, fino al '71, furono in ordine di successione cronologica: 7, 4, 15, 32, 36. A partire dal decennio 1672-'81 salgono cronologicamente a 49, 106, 87. Il salto va dallo 0% e 0,65% dei primi due decenni al 4,37% e 2,93% degli ultimi due, con una media percentuale totale dell'1,98. Il fenomeno interessa l'esposizione maschile e femminile, in percentuali pressoché corrispondenti, nell'insieme rispettivamente dell'1,99% e dell'1,96%. L'andamento nel corso degli anni comunque non segue sempre la vicenda stagionale delle nascite. Se sul totale delle nascite il 58,71 % si concentra nel semestre settembre-febbraio, nello stesso periodo l'esposizione è pari al 57,1% con uno scarto dell'1,61% che si distribuisce invece nell'altro semestre. È significativo ancora il fatto che l'esposizione non segue il ritmo stagionale delle nascite nel bimestre novembredicembre mentre il dato di maggio si mantiene il più basso. Gli esposti, abbandonati per lo più nelle vie pubbliche, o lasciati furtivamente davanti alle abitazioni private, in mancanza di ruote, venivano allevati o da famiglie che se ne assumevano il carico, o da enti religiosi e pubblici; in ogni caso venivano loro assicurate delle nutrici, e finivano per lo più, per rimanervi fino all'età di 7-8 anni, all'Ospedale Grande di Palermo. Il rapporto tra ricoverati in questo istituto e totale degli esposti dà, come vedremo, un indice molto elevato, espressione sintomatologica e punta di iceberg di un esteso status di emarginazione sociale cui soltanto molto più tardi, sotto il riformismo tanucciano e poi con Caracciolo, si penserà di porre rimedio. Si può dire che il neonato abbandonato, relativamente al Seicento e a buona parte del Settecento, acquistava importanza solo da un punto di vista teologico e religioso, incorrendo pertanto in una casistica che qui non è forse inutile accennare. Si potevano dare almeno cinque casi: 1) l'esposto veniva battezzato dal sacerdote e aveva come uno dei due padrini l'ostetrica; allora 26 prendeva il nome, se maschio del padrino o dei genitori di quest'ultimo, se femmina dell'ostetrica o dei suoi genitori; 2) veniva battezzato dal sacerdote e aveva come padrini una coppia di coniugi, prendendo il nome di uno dei due, a seconda del sesso; 3) veniva battezzato dal sacerdote e aveva come padrini una coppia non sposata prendendo il nome di uno dei due, a seconda del sesso; 4) veniva battezzato dall'ostetrica in caso di pericolo imminente di morte; sopravvivendo veniva portato in chiesa (a prescindere dalle sue condizioni di salute) e battezzato sub condicione dal sacerdote; prendeva per lo più il nome dell'ostetrica o del sacerdote; 5) battezzato dal sacerdote, aveva come madrina l'ostetrica, ma prendeva un nome qualsiasi. Accanto al gabelloto e al sacerdote la mammana era la figura sociale più rappresentativa. Gabelloti e mammane, infatti, si contesero i primi posti nelle prestazioni di padrinato durante il periodo demograficamente più contrastato dopo la nota crisi europea del Trecento, nella storia della fondazione del centro abitato. Rilevate nominativamente si hanno in tutto 27 ostetriche i cui nomi, al momento della cerimonia battesimale, non ricorrono quasi mai unitamente a quelli dei personaggi più in vista del paese. La circostanza non è casuale ed obbliga ad una riflessione sul ruolo sociale della mammana, e cioé della levatrice-contadina che l'esperienza popolare collocava agli antipodi della scienza medica ufficiale. Elisabetta la Massara alias la mammana, madrina per un centinaio di volte, fu in questo senso il personaggio più indiscusso, nel ventennio1612-'32. Il suo vero nome era Elisabetta Crastonovo (più tardi Castronovo), che faceva parte di una delle più numerose e socialmente influenti famiglie del paese. La sua importanza, come del resto il peso avuto dalle mammane che la seguirono, erano determinati non tanto dalla prestazionesu richiesta, quanto invece dal segreto professionale e dalla onorabilità che ne derivava. La mammana infatti non era tenuta a rivelare il nome della madre nei casi di parti illegittimi, come dimostrano diversi atti baptizatorum che riportano solo la paternità e indicano la prestazione della mammana come madrina e levatrice. Nei decenni seguenti, tra le levatrici più in vista abbiamo ancora Margherita Furnari alias la Palermo che esercitò incontrastata influenza fino a tutta la prima metà del secolo; Francesca De Lauro e Joanna De Giorgio i cui nomi s'incontrano solo per pochi anni nel decennio 1650-'60, e quindi, oltre a Maria Suriano, l'indiscussa Joanna De Aijena che ebbe il controllo quasi incontrastato delle nascite dal 1671 al 1692, e fu validamente sostituita fino ai primi anni del nuovo secolo da Anna Sarro, alias l'Avanzata. I motivi che spingevano la levatrice a diventare madrine erano per lo più di ordine civile (basti pensare ai numerosi casi di levatrici madrine di bambini abbandonati o illegittimi) e riflettono anche particolari bisogni di rapporto propri delle famiglie contadine. I dati sulla mortalità Dal 1650 al 1701, escluso il biennio 1670-'71, si ebbero 13.323 decessi. Un confronto con la serie parallela delle nascite e con gli unici riferimenti antecedenti della serie dei decessi, i dati del novennio 1599-1607, ci consente di stabilire che il paese a partire dai primi decenni del secolo subì una notevole crisi demografica: le nascite passano da 100 a 250% dal 1612 al 1650 (e considerando il carattere costante dell'andamento del diagramma si può affermare che rispetto agli inizi del secolo, e alla fine di un cinquantennio, le nascite si siano triplicate), i decessi passano da 478 nel novennio ricordato a 2031 nel novennio 1650-'58 con un aumento del 424,89%. 27 A un'analisi più attenta gli anni 1599-1607 anticipano alcuni caratteri indicativi delle condizioni e dello stato di mortalità nella seconda metà del secolo: la stagionalità, la prevalenza della mortalità maschile su quella femminile, la notevole incidenza sui processi di aggregazione urbana dell'ondata immigratoria che investì il paese già a partire dalla fine del '500 e che durò, con alterne vicende, per tutto il '600. Come si può vedere dai grafici la curva della mortalità maschile sovrasta costantemente quella femminile, secondo un rapporto di mascolinità pari a 146,39 e con una concentrazione stagionale dei decessi nel trimestre settembre-novembre (35,77%). La percentuale della componente immigratoria appare notevole, pari al 23,43%. Si tratta di immigrati provenienti principalmente da Monreale, Palermo, Alcamo, Castania (sic), Carini, nonché dalla Calabria, che si stabilivano nella Sala} o andavano ad abitare nei casali del suo territorio, evitando cosi i continuispostamenti dal paese ai feudi, e dando origine o potenziando in tal modo nuclei colonici o bracciantili -al seguito di baroni e gabelloti -piuttosto stabili nel corso di alcuni decenni: Santa Caterina, Valguarnera, Raxhali (Ragali), Raccuglia, Comuni, Calatasi, Mirto, o destinati come Borgetto e Trappito della Sala e diventare centri abitativi in crescita. L'esame dei libri defunctorum relativo a questi anni ci c fornisce ancora la documentazione dell'esistenza nell'università di un ospedale dove nel corso del novennio furono ricoverati, tra i deceduti, solo 23 ammalati, pari al 4,81 % del totale dei morti in quegli anni, e il ricorso all 'Ospedale Grande di 33 deceduti (6,90%). La carestia del 1606 ebbe come effetto un brusco innalzamento della curva di mortalità nell'anno successivo nel quale toccò la sua punta massima. ,La gravità della situazione dopo questa data, si evince anche dalla riforma della prima compagnia di religiosi laici, sorta nel paese nel 1599, ma in via di estinzione nei primi anni del '600. Riformata il 15 maggio 1611, ebbe, tra i suoi principali scopi, l'assistenza ai malati eai moribondi.49 Le altre date, la peste del 1624-'25 e le carestie del1634, 1646-'47, sono segnate nella loro drammaticità dalle scansioni delle crisi demografiche che colpirono la Sicilia e l'Europa, nella prima metà del '600, come testimoniano, in assenza dei libri defunctorum 1608-1649, alcuni documenti rinvenuti all'Archivio comunale di Palermo e gli stessi libri baptizatorum. La carestia del' 46-' 47 trova riscontro nella citata lettera che l' arciprete del paese Pietro Palazzolo indirizzava al vicerè per chiedergli, a prezzi ragionevoli, urgenti provviste di frumento «per lo vitto pubblico e seminerio del territorio » a causa della grave penuria « nelli magazzini »50. La peste del '24 è attestata dalle continue trascrizioni di atti baptizatorum in tempore pestis nonché dalla reviviscenza del culto di Santa Rosalia, successiva, come è noto, all'invenzione del corpo della patrona palermitana, avvenuta il 15 luglio 1624,51 in coincidenza della grave epidemia. L'andamento delle percentuali delle infantes che prendono il nome di Rosalea è indicativo della gravità della pestilenza: 49 Cfr. Partinico, Archivio parrocchiale del Carmine. S. Leonardo, Capitoli della venerabile compagnia del SS. Sacramento della città di Partinico, ms. non inventariato, 1611. 50 Archivio comunale di Palermo, vol. 75, Partinico, lettera del procuratore generale e arciprete della Terra della Sala di Partinico al vicerè, l0 ottobre 1647. 51 Cfr. Enciclopedia cattolica, Città del Vaticano, 1953, ad vocem, pp. 1346-1349, e Bibliotheca Sanctorum, Istituto Giovanni XXIII della Pontificia Università lateranense, Roma, 1968, ad vocem, pp. 427-433. 28 anni 1620 1621 1622 1623 1624 1625 1626 1627 1628 1629 % 15,55 (ultimo quadrimestre) 43,47 39,28 37,5 21,27 15,55 I libri defunctorum cominciano ad avere un decorso continuo, salvo il vuoto del biennio 1670-'71, a partire dal 1650, e presentano una situazione stazionaria nel primo ventennio (1650-69), un'impennata nel secondo (1672-1691), e una leggera flessione nell'ultimo decennio. Si passa dai 2260 decessi nel decennio '50-'59 ai 3061 del decennio 1672-'81 con un aumento del 35,44%. Gli anni in cui il rapporto B/S scende al di sotto dell'unità sono 29 su 50, quelli in cui tale rapporto scende al di sotto dello 0,80 (quando cioé la prevalenza dei morti sui nati diventa molto sensibile) sono 17, i più neri forse nella storia del paese: 1650-'51,1654, 1658, 1659, 1668-'69, 1672, 1673, 1679, 1680, 1681, 1682,1683, 1684, 1688, 1691. I più critici furono il 1658 (0,56 con un saldo negativo BIS di 186 unità), il 1672 (0,41, con 306 unità), i sei anni che corrono dal 1679 al 1684 (rapporto medio BIS 0,63 con un totale di 801) e il 1691 (0,74 con 81 unità). Le crisi di mortalità seguono un andamento biennale di tipo ciclico, raggiungendo la soglia del saldo attivo solo dopo qualche anno, per ripresentarsi drammaticamente e bruscamente dopo i brevi momenti di recupero. Seguendo l'andamento stagionale si hanno le seguenti massime concentrazioni: % 1650-1659 agosto-ottobre 39,23 1660-1669 settembre-novembre 35,91 1672-1681 agosto-ottobre 38,25 1682-1691 agosto-ottobre 33,55 1692-1701 agosto-ottobre 33,35 1650-1701 agosto-ottobre 35,78 La curva si innalza bruscamente ad agosto raggiungendo il suo massimo punto ad ottobre, per poi abbassarsi gradatamente nel periodo invernale e primaverile, raggiungendo il punto più basso a giugno. L'andamento stagionale per sessi è pressoché uniforme: le malattie colpiscono indistintamente sia i maschi sia le femmine da agosto ad ottobre, ferma restando la costante prevalenza quantitativa della mortalità maschile su quella femminile, con l'unica eccezione di settembre. Nel complesso si hanno il 53,35% di decessi maschili contro il 46,64% di decessi femminili. La mortalità femminile è sensibilmente più alta, invece, nella fascia di età più bassa: se sul totale dei deceduti maschi il 45,67% muore entro il primo anno di vita,sul totale dei decessi femminili tale percentuale si alza al 48,90, mantenendosi ancora più alta fino al terzo anno di vita, e scendendo al di sotto delle percentuali maschili nelle fasce di età compresa tra i 4 e i 55 anni; quindi le percentuali si alzano di nuovo a favore del sesso femminile dal 56° anno in poi. Le cose cambiano se si sta attenti alle differenze percentuali nei due sessi nel trimestre agosto-ottobre. Al 33,78% di deceduti si contrappone il 38,06% di decedute, in entrambi i casi dopo il brusco passaggio da luglio ad agosto. Se si 29 confrontano mese per mese i valori stagionali si evince chiaramente una sensibile anticipazione della mortalità maschile su quella femminile e cioé una minore resistenza femminile alle malattie endemiche estivo-autunnali e alle epidemie estive in genere. Al costante maggiore rapporto percentuale del semestre gennaio-giugno (40,77% del totale dei deceduti contro il 36,32 di decessi femminili) si contrappone uno scarto del 4,28% a svantaggio della popolazione femminile preannunciato dalla differenza delle percentuali di luglio (+0,54). Significativo ancora il quadro degli scarti mensili per i due sessi: . M Gennaio Febbraio Marzo Aprile Maggio Giugno Luglio Agosto Settembre Ottobre Novembre Dicembre F +0,11 +0,62 +0,53 +1,39 +1,35 +0,67 +0,54 + 1,09 +2,41 +0,78 +0,33 +0,71 Come si vede la maggiore differenza della mortalità maschile si ha da febbraio a giugno, quella femminile da luglio a novembre. Gli scarti indicano che percentualmente, rispetto al sesso femminile, muoiono più maschi nella stagione primaverile, col massimo scarto del 2,74% nel bimestre aprile-maggio, e più femmine in estate-autunno, col massimo scarto nel bimestre agosto-settembre (3,50%). La minore resistenza femminile alle malattie in quest'ultimo periodo va attribuita alle peggiori condizioni di vita della donna, soprattutto nei primi tre anni di vita: nel cinquantennio muoiono entro questa fascia d'età il 48,94% del totale dei maschi, ma il 53,24% del totale delle femmine. Il rapporto, come abbiamo visto, si mantiene equilibrato dal quarto al ventesimo anno, ma s'inverte nella fascia d'età compresa tra il 210 e il 550 anno. Entro questa fascia muoiono il 31,49% dei maschi ma solo il 25,17% delle femmine. Il confronto delle percentuali torna ancora a vantaggio delle donne nelle fasce d'età successiva; mantenendosi costante. I valori percentuali della mortalità femminile dopo il 550 anno sono infatti più alti di quelli dell'altro sesso, segno evidente che una maggiore percentuale di donne riusciva nonostante tutto a invecchiare con più facilità degli uomini (1'11,74 contro 1'8,25%). Nell'insieme 1'83,39% della popolazione muore entro il 45 anno di vita; gli ultrasessantenni rappresentano solo il 4,29%, gli ultrasettantenni appena 1'1,36%. Il rapporto di mascolinità alla morte è di 114,40 e si mantiene molto alto dal 40 al 550 anno di vita, con la punta più alta nella fascia di età compresa tra i 21 e i 35 anni (150,91 cui fanno seguito in ordine la fascia tra i 7 e i 12 anni (148,14) e quella tra i 36 e i 45 anni (145,20). La maggiore esposizione maschile alla mortalità è dovuta, stando alla costanza dei dati decennali, al lavoro minorile e alle pessime condizioni di lavoro nelle campagne; altre spiegazioni sono meno probanti, anche in considerazione del fatto che, come vedremo, le percentuali della mortalità maschile si innalzano proprio in relazione all'afflusso di manodopera salariata nel territorio della Sala, alla forte componente bracciantile che il processo di colonizzazione dei feudi riusciva a spostare e a convogliare dalle più diverse aree dei tre valli siciliani e anche dalla penisola. 30 Interessanti valutazioni possono trarsi anche dall'esame dei dati relativi all'esposizione (abbandono dei neonati esposti alla carità pubblica o alle ruote delle opere pie), ai servizi sanitari, e agli omicidi. Mentre appare inconsistente il fenomeno dell'illegittimità, quello dei deceduti esposti si rivela in continua ascesa, passando dall'l,0l% del primo decennio preso in considerazione al 5,28% del decennio '82-'91, per accennare a una diminuzione alla fine del secolo. Il fenomeno, evidenzia ancora una volta, qualora ce ne fosse bisogno, la grave crisi di sussistenza della popolazione martoriata dalle continue annate di malattie a diffusione epidemica ed endemica (malaria) e di carestie. A fronte di questo quadro drammatico i servizi sanitari appaiono assolutamente insufficienti. Su 13.323 deceduti solo il 2,25% risultano ricoverati all'Ospedale Grande di Palermo e solo 1'1,2% nell'ospedale della Sala (la percentuale potrebbe salire al 2,4 se si considerano come ospedalizzati anche i deceduti sepolti in ecclesia Hospitalis. Naturalmente i registri parrocchiali consentono solo il rilevamento degli ospedalizzati deceduti e non anche di quelli dimessi. Al riguardo, quindi, i dati si devono ritenere solo indicativi). I morti per morte violenta si mantengono sempre al di sotto dell'l% con la punta più alta nel decennio 1660-'69 di 0,84% (19 omicidi). Non si può prescindere, per una più netta comprensione del quadro, dallo studio dell'età media, anno per anno, e a seconda dei sessi e del fatto che si escludano o comprendano i deceduti entro il primo anno di vita.52 Ne derivano alcune considerazioni fondamentali: A) Se si considera l'età media del totale dei deceduti in un anno questa si abbassa bruscamente negli anni di maggiore mortalità infantile, quando il rapporto tra infantes deceduti entro il primo anno di vita e popolazione adulta aumenta a svantaggio dei primi. Sono gli anni in cui muoiono meno giovani e anziani mentre risultano prevalentemente colpiti i neonati. Viceversa un innalzamento dell'età è indicativo di una minore mortalità infantile e, conseguentemente, di una maggiore o stazionaria mortalità degli adulti.53 Naturalmente sono i passaggi rapidi a indicare l'intervento di fatti straordinari che si verificano: 1) quando aumentano solo i decessi degli infantes, 2) quando aumentano solo i decessi degli adulti, 3) quando epidemie e carestie alzando i livelli di mortalità in modo drammatico colpiscono indiscriminatamente tutte le fasce d'età modificando i normali equilibri tra una classe d'età e l'altra, e rendendo più difficile la decifrazione del quadro. B) Se si considera solo l'età media dei deceduti che hanno superato il primo anno di vita ci si aspetterebbe di constatare un innalzamento del livello quando sulla corrispondente colonna delle percentuali dei decessi nell'età compresa tra i 21 e i 45 anni, si registra un calo percentuale, e viceversa. Al contrario non succede cosi, perché le continue crisi di mortalità e le epidemie squilibrano l'andamento annuale dell'età media che subisce delle forti oscillazioni da un anno all'altro. Una maggiore stabilità si registra invece nei calcoli sul medio e lungo periodo: 52 Nel calcolo dell’età media del 1661 si è escluso il bimestre agosto-settembre perché il libro è mutilo. In entrambi i casi l'età media può essere assunta solo come una variabile dipendente dal movimento di immigrazione-emigrazione i cui dati esatti possono aversi solo attraverso la ricostruzione dei nuclei familiari. Le oscillazioni dell'età media nel breve e nel lungo periodo hanno tuttavia una loro validità perché sono comunque indicative di processi demografici dinamici, talvolta anche incontrollabili. 53 31 ETA MEDIA Esclusi i deceduti entro il primo anno di vita 1650-1659 M F 36,89 35,89 1660-1669 34,43 35,65 1670-1679 34,45 37,73 1682-1691 37,45 37,39 1692-1701 32,88 35,66 1650-1701 35,22 36,46 Risulta impressionante il notevole abbassamento dell'età media maschile nel decennio 1692-1701; nel complesso, però, l'elevata mortalità infantile tende ad avvicinare i livelli dell'età media considerata nel suo insieme, mentre lo stacco si fa più netto se si considerano le fasce di età successiva, in quanto la morte colpisce più decisamente la popolazione adulta maschile, con un anticipo medio di un anno e tre mesi su quella femminile. Va rilevato ancora che l'innalzamento dell'età media complessiva non è dovuto a migliori condizioni di vita, ma al fatto che le ripetute e gravi epidemie, specialmente nel ventennio 1672-'91, colpiscono tutte le fasce d'età e non solo gli infantes. In condizioni di normalità morire tra i 45 e i 60 anni è un privilegio di pochi; ma in annate di accentuazione delle crisi questo equilibrio, alzandosi la percentuale dei decessi, si rompe anticipando la mortalità delle classi più avanzate. A ulteriore completamento del quadro si deve sottolineare che quasi sempre i decessi dell'ammalato avvenivano o «in domo sua» o «in domo parentis », fatto quest'ultimo non infrequente che comproverebbe i tempi brevi entro i quali si era determinato il flusso immigratorio e che attesta il decesso di giovani che ancora non si erano formati un nucleo familiare e che pertanto non avevano una fissa dimora nella Sala, essendo sforniti di residenza stabile. La circostanza è confermata dalla percentuale di decessi in ospedale. In questo caso infatti occorre distinguere tra gli originari del luogo e gli immigrati. La percentuale dei primi è irrilevante; gli altri, al contrario, appunto perché privi di assistenza erano costretti a ripiegare verso un servizio pubblico che quanto meno avrebbe dovuto loro garantire un minimo di assistenza.54 Ripetuti casi di decessi sono dovuti a «morte repentina », formula con la quale venivano registrati anche i morti per cause accidentali (repentinum accidens), come dimostrano, tra l'altro, diversi casi di « morte repentina » in età adolescenziale. Purtroppo solo raramente veniva indicata la causa della morte, come nel caso dei ragazzi Mario Di Giorgi e Vincenzo Lembo « demersi in flumine a Giancaudara» nel 1663. Il lavoro minorile nei campi, come in genere gli incidenti nei campi di lavoro, dovevano incidere sensibilmente sia sul basso livello dell'età media sia sul complesso dei decessi. Le indicazioni non sono sempre chiare, ma qualche esempio basta a titolo indicativo: nel '94 viene trovato morto nel territorio di Ramotta, nella 54 Vengono considerati anche i totali annuali dei deceduti desumibili dalle indicazioni delle sepolture «in ecclesia hospitalis », ma per i quali non si fa diretto riferimento alla presenza dell'ammalato nell'ospedale. Per questa casistica databile dal 1682 nessun elemento fa ritenere che si tratti di circostanze diverse dalle ospedalizzazioni; analoga la casistica dei sepolti «in hospitali huius terrae» che induce a ritenere che si tratti se non nella totalità dei casi, almeno in una parte considerevole, di deceduti passati dall'ospedale. 32 proprietà di Carlo Sciortino, un bambino di 7 anni di genitori palermitani, Vincenzo Gruppo; e qualche giorno dopo ne viene trovato morto accidentalmente in una locanda un altro di l0 anni «obiter exanimi inventus in deversorio ». Molto scarsa risulta invece l'incidenza dei delitti di sangue che interessano entrambi i sessi in età giovanile (20-40 anni) e che possono spiegarsi, in parte, dentro la logica dei delitti d'onore. Un alto numero di omicidi 55 si ebbe nel 1664: in aprile fu uccisa Domenica Gagliano originaria di Palazzo Adriano, segui l'eliminazione, a luglio, del quarantenne Matteo Giaganti, e a novembre del ventenne NicolòValenti che annotava il cappellano -non potè ricevere i sacramenti «quia fuit interfectus propter probam ac bonam famam ». A dicembre fu, poi, eliminato Francesco Mancia di vent'anni. Ma i fatti di sangue più clamorosi si ebbero nel 1667 e anche se non è possibile spiegarne la dinamica, le causalità e le correlazioni, è certo che alcuni di essi si verificarono dentro la stessa vicenda in un clima da cavalleria rusticana: il 25 febbraio mori senza sacramenti Laurea Sparacia, ventenne, « propter vulnera gravia atque mortalia ». Si sconosce l'arma del delitto, ma si sa che, alcuni giorni dopo, il 9 marzo, venne uccisa Nuncia Spinelli, di 35 anni, originaria di Palermo «graviter ex instrumento ignivomo lesa et vulnerata ». II 25 dello stesso mese venne quindi uccisa Angela De Joanne, e cinque giorni dopo Antonino De Joanne, anche lui colpito da arma da fuoco. Sul conto di quest'ultimo, il cappellano annotava che «propter scandala in publico commissa fuit extra ecchIesiam sepultus ». Lo si riteneva vittima di scandali pubblici e di non avere sopportato nel silenzio il disonore o, al contrario, lo si considerava colpevole di rapporti illeciti lesivi della legge dell'onore? La risposta non è facile anche perché occorrerebbe stabilire se hanno una correlazione con questi delitti, altri due omicidi avvenuti nel successivo mese di giugno: quelli di Salvatore Sgroi, di 42 anni, anche lui colpito mortalmente da «in strumento ignivomo» (altrove ictu scopette) e di Pietro Pezzino, 36 anni, «interfectus mortali gladij ictu ». Alla ricorrente prevalenza della mortalità sulla natalità è legata la comparsa progressiva durante il corso del secolo di tutta una serie di chiese e compagnie di religiosi laici. A parte la chiesa della SS. Annunziata (madrice) risultante dagli atti parrocchia a partire dal 1605, sorsero nel 1619 il convento dei cappuccini, ad opera del palermitano Fabrizio Di Trapani, gabelloto dei feudi Ogliastro, Giambruno, Margi e Boschetto di proprietà dell'abazia di Alfonte 56, nel 1632 il convento dei carmelitani, nel 1681 la chiesa dell'Opera Santa, e nel '93 quella degli Agonizzanti. Oltre a queste, e alla chiesa dell'ospedale, esistevano ancora, nella seconda metà del secolo, la chiesa di Sant'Antonio di Padova e la confraternita del SS. Rosario, che s'aggiungeva adesso alla quasi secolare compagnia del SS. Sacramento, esistente, come abbiamo visto, dal 1599. Dal 1679 si registra ancora una societas di S. Francesco, con annessa chiesa. Tra la fine del '500 e i primi anni del secolo successivo chiese nel territorio della Sala si registravano ancora a Valguarnera, S. Caterina, Ragali e Borgetto. Erano più che altro succursali del principale luogo di sepoltura qual era la madrice, i cui sotterranei non bastavano più già dai primi decenni del secolo al seppellimento delle ricorrenti ondate di cadaveri che peste, colera, carestie, malaria, tifo consegnavano in tempi brevi alle cure sacramentali di cappellani e predicatori. Nel '58, ad esempio, nel solo trimestre settembre-novembre si ebbe il 60,37% dei decessi dell'anno, durante il quale fu toccata la punta più alta del decennio '50-'59 55 Nel 1691, nell'incertezza dei casi, non sono stati registrati come uccisi due morti «in campis» e uno «trovato davanti la porta della chiesa di S. Antonino ». 56 Cfr. Archivio di Stato di Palermo, fondo Magione, tra le carte dell'Abazia di Parco Partinico, vol. 190, ff. 280-283. 33 con 429 morti, di cui 117 nel solo mese di ottobre, furono superati del 243% i morti dell'anno precedente e del 268% quelli del '56. Nel '72, anno di carestia, il numero fu ancora più elevato (525 morti): molti cadaveri rimasero insepolti nelle campagne, molti ammalati morirono sconosciuti nell'ospedale. La nascita delle chiese dell'Opera Santa e degli Agonizzanti segna ancora queste scadenze: la prima sorge nell'8l, anno in cui si contarono 228 nascite e 440 morti, la seconda nel '93, a seguito della crisi del '91-'92. Crisi demografica e nuclei familiari L'indicazione dell'ampiezza della crisi che travagliò il paese per tutta la seconda metà del secolo si evince ancora da un'analisi dei dati sui matrimoni57. Visti nella loro dinamica dal '59 al 1701 confermano la parabola discendente dei processi aggregativi in corso. Lungo questo periodo infatti si sposarono 5146 persone, di cui 3529 della Sala e 1617 provenienti dai tre valli dell'isola e in numero sparuto (23) dalla Calabria (17), da Genova (1), da Nizza Savoia (1) e Sardegna (4). Nell'insieme il 68,57% degli sposati -stando questa volta ai libri matrimoniali erano figli di genitori che abitavano nel luogo, il 31,42 % risultavano invece immigrati. L'immigrazione interessava principalmente la manodopera maschile (1039 casi pari al 64,25% del totale degli immigrati, e al 40,38% del totale dei maschi sposati); l'immigrazione femminile pur se consistente era meno vistosa (578 casi, pari al 35,74% e al 22,46% del totale delle donne sposate). Visti nella loro evoluzione questi dati aggregativi ci forniscono con la dimensione di quei processi uno spaccato che può essere assunto come indicativo della portata della crisi di cui abbiamo parlato. La parabola discendente del fenomeno immigratorio è di per sè eloquente. Al contrario si consolida il nucleo stabile del posto. I luoghi di provenienza degli immigrati sono oltre un centinaio ma i più importanti sono quelli della fascia Palermo-Castellammare, interessati alla coltura del vigneto e dell'oliveto (e cioè la manodopera bracciantile o specializzata), nonché della fascia delle colture estensive che aveva a Piana dei Greci, Corleone e Bisacquino, i suoi centri più importanti. Se si eccettuano Borgetto e Valguarnera (Campoflorido) che rientravano sotto l'amministrazione religiosa e civile della Sala, si può constatare che i comuni che, per motivi, ruoli ed esiti diversi, giocarono la parte da leone nel ricorso alla terra, alle concessioni enfiteutiche e sottoconcessioni che vi si legavano, furono in ordine Alcamo, Carini, Palermo e Monreale che da soli coprivano il 51,4 % del totale dei movimenti che coinvolsero i diversi comuni siciliani attorno alla politica di trasformazioni agrarie degli abati di Altofonte. Da Palermo e da Monreale, dove solevano pubblicarsi i bandi previsti per la messa all'asta dei feudi assegnati normalmente al «miglior offerente»58, affluiva la media e 57 I registri conijugatorum -tranne alcuni -dividono i singoli fogli in tre parti: la prima, in alto, comprende le denunce (pubblicazioni); la seconda, centrale, riporta le tre date delle denunce; l'ultima, in basso, costituisce l'atto di celebrazione del matrimonio. L'ordine seguito è quello cronologico delle denunce e non delle singole celebrazioni; non sono rari i casi di matrimoni celebrati non «tribus diebus festinis continuis intermissis », ma addirittura dopo cinque mesi, naturalmente dopo la riedizione delle denunce. Quando il matrimonio si celebrava fuori dal comune, nella parrocchia di appartenenza della sposa, venivano trascritte solo le pubblicazioni, secondo le norme consuetudinarie con la debita annotazione marginale «fides exstracta ». Si è potuto così ricostruire il movimento dei matrimoni fuori dal Comune, e un quadro completo dei luoghi di provenienza delle singole coppie. Nei casi di matrimonio fuori parrocchia, mancando l'atto di matrimonio, si è preso in considerazione l'ultima data delle pubblicazioni come la più vicina alla data di nozze. 58 Cfr. A.S.P., cit., b. 190: Concessione enfiteutica di una tenuta di terre nel fego delli Margi concessa per il Cardinale Borghesio abbate a Vin.zo Di Franco, con tutti li solennità per li atti di notar Vinc.o Ferranti a 18 marzo 1613 34 grossa borghesia cittadina, fatta da professionisti e mestieranti del commercio, trafficanti e gabelloti, interessati a investimenti produttivi a basso costo e fortemente legati ai centri burocratici e del potere della capitale; dagli altri comuni la manodopera affluiva sulla base delle insodisfazioni prodotte dalla politica baronale e dalla estesa crisi economica che investiva l'isola. Gli spostamenti più consistenti si ebbero dai comuni baronali. I dati fin qui forniti si devono considerare orientativi, in quanto ai fini di un calcolo quanto più possibile esatto delle effettive immigrazioni è necessario considerare che i matrimoni fuori parrocchia degli abitanti del posto comportano normalmente un naturale trasferimento delle donne (i matrimoni avvenivano nella parrocchia della sposa) solo quando queste sposano abitanti di altre parrocchie (emigrazione). Non conta quindi conoscere il numero dei matrimoni fuori dal comune, quanto i luoghi di provenienza distinti per sesso, delle coppie che abitano in altra sede, tenendo conto del fatto che normalmente il numero delle donne che alla vigilia del matrimonio abitano fuori parrocchia deve considerarsi compreso in quello degli effettivi immigrati, mentre il numero dei maschi che abitano fuori parrocchia deve considerarsi detrattivo. Il problema non è di poco conto perchè consente di studiare nella sua completezza l'effettiva mobilità demografica sotto il duplice aspetto dell'emigrazione e dell'immigrazione. Nei 43 anni presi in esame il problema non ha per noi una rilevanza considerevole. In tutto 222 casi dai quali si devono detrarre i 92 di Borgetto e Valguarnera in quanto centri del territorio della Sala. Si ottengono così 130 matrimoni fuori parrocchia. Se si considerano, poi, come probabili trasferimenti nella Sala i 98 casi di donne che sposano fuori, si ottiene un numero irrilevante di possibili casi di effettivo trasferimento ad altra sede (32), fatto che del resto è confermato dalle pochissime coppie per le quali risulta l'indicazione « abierunt ex hac terra ». Del resto, come abbiamo visto, il fatto che aumentano sistematicamente i matrimoni tra gli abitanti della Sala, in rapporto alla progressiva diminuzione della corrente immigratoria, dimostra che la risposta data alla crisi dalla popolazione fu una sorta di reazione biologica, un inconscio e appassionato cimentarsi comune per la sopravvivenza, contro la morte invadente. Il basso limite dell'età media, ad esempio, comportava una corresponsabilizzazione di primo piano delle funzioni sociali e familiari della donna, un'anticipazione dei ruoli sociali dei due sessi; e se epidemie e carestie interrompevano bruscamente il corso normale della vita, ponevano anche immediatamente problemi di reinserimento sociale e di gestione della stessa economia familiare per entrambi i sessi. Si direbbe -come ha dimostrato Delille per un altro contesto 59 - che a una maggiore mortalità si rispondesse con un altrettanto maggiore impulso alla vita nel ritmo delle frequenze che aprivano e chiudevano le crisi. Nel caso di Partinico queste furono doppiamente liquidatorie, perché rallentarono l'afflusso di nuove forze dall'esterno e costrinsero la popolazione indigena a trovare in se stessa gli strumenti di difesa: malthusianamente si creavano cioé le condizioni di un nuovo equilibrio. Nella seconda metà del secolo, il rapporto tra la Sala e i feudi che la interessavano è profondamente cambiato. Sono scomparsi i nuclei abitativi che abbiamo incontrato negli anni 1599-1607 (Santa Caterina, Santa Margherita, Ragali, Raccuglia, Todaro), si sono potenziate le popolazioni stabili della Sala e del feudo di Borgetto (l'arresto delle immigrazioni comporta naturalmente una loro 59 Cfr. GÉRARD DELILLE, Dalla peste al colera: la mortalità in un villaggio del beneventano, 16001840, in AA.VV., Demografia storica, cit., pp. 237-255; e IDEM, Un problema di demografia storica: uomini e donne di fronte alla morte, ivi, pp. 257-284. 35 complessiva diminuzione determinata in prima istanza dalla crisi). La popolazione subisce un movimento di contrazione difensiva, determinante per il grande balzo in avanti del '700. Detto questo occorre vedere quali sono le interne dinamiche e articolazioni forniteci dai dati sui matrimoni. Seguendo l'andamento mensile e stagionale riscontriamo i vuoti secolari60 dei mesi di marzo (1,82 % ) e dicembre (1,74%), seguiti da quelli di agosto (3,61%), maggio (5,24%) e ottobre (5,05%). Il maggior numero di matrimoni si concentra, invece nei mesi di febbraio (14,88%) e aprile (14,14%) cui seguono in ordine, novembre (12,43%), gennaio (12,32%) e settembre (10,33 %); è preferita la stagione invernale da gennaio a febbraio che con la bassa percentuale di dicembre raccoglie il 28,59%, del totale dei matrimoni dell'anno, la punta più bassa si registra nella stagione primaverile, da marzo a maggio col 21,22% . Lo stato civile al matrimonio è notevolmente influenzato dall'elevata mortalità. Nell'insieme il 43,06% dei matrimoni avvengono tra coppie di cui almeno un membro è in stato di vedovanza. I matrimoni tra vedovi e vedove sono il 18,92%, e quelli tra celibi e vedove e vedovi e nubili rispettivamente il 12,47% e 1'11,65%. Su 5146 persone che si sposano 1595 sono vedovi (15,29%) e vedove (15,70%). Questi dati sintetici si colgono meglio se disarticolati nel tempo. La crisi di mortalità abbassa il numero dei matrimoni tra celibi e nubili, a partire dal 1672 e per tutto un ventennio facendo registrare una sensibile ripresa nell 'ultimo decennio. Al contrario, i matrimoni tra vedovi e vedove raggiungono la punta massima nel decennio 1672-'81 col 22,08% per passare alla punta minima del 16,46% del '92 all'alba del nuovo secolo. Il decennio '72-'81, escluso il triennio ’59-’61 appare come il più critico, raggiungendo valori assoluti: i celibi e le nubili toccano la punta più bassa rispettivamente col 33,75% e col 33,39%; vedovi e vedove raggiungono invece le punte più alte rispettivamente col 16,24% e col 16,60%; in particolare, ancora, se nel decennio '62-’71 il 30,64% dei coniugati giunge al matrimonio dopo una vedovanza, tale percentuale sale nel decennio successivo al 32,85%. Naturalmente in questi casi, in genere, vanno inclusi i casi di vedovanza «al terzo e quarto loco », di cui si deve tener conto nel calcolo del rapporto B/M che, per questo motivo, deve sempre considerarsi più alto. [1980] 60 Cfr. DOMENICO LIGRESTI, Leonforte, un paese nuovo, in AA. W., Studi di Demografia storica siciliana, Catania, 1979, p. 93, e gli altri saggi di Longhitano, Raffaele,Grillo, Nicotra, passim. 36 PARTINICO- BATTESIMI, SEPOLTURE: 1650-1701 Anni battesimi sepolture matrimoni 1650 191 256 182 248 1651 1652 195 161 196 187 1653 1654 190 246 182 168 1655 1656 183 160 215 176 1657 1658 243 429 159 229 62 1659 1660 215 203 55 205 197 62 1661 1662 211 204 96 253 196 63 1663 1664 231 186 53 1665 228 281 55 1666 247 210 45 1667 229 194 52 223 313 59 1668 1669 225 287 56 37 4. Farina e forca Oltre alla gabella del tarì sei per ciascuna botte di vino (è pari a 11 ettolitri e 4 decilitri) contrastata dall'abate principe Francesco Maria Medici dei gran duchi di Toscana nel 168861, il paese dovette pagare un grano per ogni rotolo di pesce62 sul pubblico mercato, un grano a rotolo su ogni specie di animale domestico (assegnato dal consiglio civico al convento del Carmine il 17 febbraio 1634), 5 tarì e 8 grana per ogni salma di terra per complessive once 826,20,14 all'anno. Questa imposta surrogò «l'antico appalto sul tabacco» che era stato diviso per «testatica» sulle famiglie, e quello sulle finestre delle case. Altra partita di terre fu assoggettata a 4 tarì e a 2 tarì per ogni salma, per complessive 500 once all'anno. Bisognava ancora aggiungere la gabella del torchio che consisteva in tre tarì per ogni salma di ulivi, i 14 tornesi che pagavano i pescivendoli, la tassa di 1 tarì che pagava ogni «vettura carica che entrava sul pubblico mercato nella quaresima », la «privativa del forno e dello zagato» che abati e commendatori davano in appalto traendone una cospicua rendita.63 D'altra parte, una serie di tasse erano andate a beneficio anche degli arcipreti, fin da quando l'abate commendatario Scipione Rebiba aveva eletto, 1'8 marzo 1573, a primo arciprete e rettore del paese il prete Luca Lombardo. Si cominciò con l'imposta di tre tarì a famiglia, invertita nel 1581 col diritto di primizia che consisteva per i borghesi nel pagamento di un tumulo di frumento, e per tutti gli altri in una tassa di 35 grana a famiglia.64 Gli arcipreti avevano ottenuto anche dei terreni a Tremmestieri per once 6 all'anno, e 20 once per la manutenzione della chiesa di San Cristoforo, successivamente portate a 3 tarì per famiglia e quindi convertite col diritto di primizia. In questa chiesa convergevano gli abitanti del circondario che, oltre al diritto di primizia, dovevano pagare anche i diritti di «stuola» e di « funerali », e particolari contribuzioni, come quelle che pagavano gli abitanti di Borgetto, per l'ingrandimento della campana del Duomo di Partinico. In compenso i borgettani ebbero il diritto di farla suonare a mortorio gratuitamente nei loro funerali65. La fissazione dei prezzi dei prodotti vendibili era di pertinenza dell'amministrazione civica e dei rappresentanti delle chiese locali che ogni anno fissavano la meta alla presenza del maestro notaro e di «due probi cittadini scelti ». La meta (prevalentemente quella delle uve e degli olii) serviva da bussola 61 La controversia promossa dall'abate si tradusse in uno scontro tra il senato di Palermo e la popolazione partinicese e diede luogo, nel marzo 1692 a un biglietto viceregio di Felice della Croce Haedo e ad una transazione (17 marzo 1692) che sciolse il contratto, fermo restando il dazio di 6 tarì su ogni botte di vino pagato dai proprietari dei vigneti di Parco, Cinisi e Partinico al senato. Questa anche la conferma del viceré duca di Uzeda conte di Montalbano che l'assegnò alla deputazione delle nuove gabelle. Cfr. S. MARINO, cit., pp. 79 e sgg. Va detto che gli ecclesiastici sulle botti di vino prodotto ebbero l'agevolazione dell'esenzione fino a sette botti e successivamente fino a 20 botti. 62 II rotolo (dall'arabo ratl) variava da 0,89 a 0,79 kg. 63 Cfr. STEFANO MARINO, cit., pp. 80-81. Del resto erano loro a fissare ogni anno, nel giorno di San Leonardo (6 novembre) la meta. 64 Dopo una richiesta di aumento della congrua avanzata alla fine del ‘700 dall'arciprete Vito Bordonaro, le entrate della madrice salirono a once 73,8,2, per il mantenimento del culto e a once 20 «per il consumo dei sacri arredi ». Da aggiungere le 58,20 once, più altre 25 dovute per il mantenimento della chiesa che si sarebbero dovute «rimpiazzare alla regia amministrazione della Magione ». 65 Cfr. S. MARINO, cit., pp. 83.85. 38 regolatrice per tutta una serie di commercianti e costituiva, perciò, uno strumento di controllo dell'economia nelle mani dell'aristocrazia, della borghesia latifondistica e del clero. Nel 1631 il paese66, non aveva un numero considerevole di abitanti e tale da rendere difficile a un consiglio civico di approntare le dovute disposizioni a servizio della popolazione; ci troviamo quindi di fronte, ancora una volta, a un momento in cui all'interno dell'amministrazione locale erano prevalenti le influenze dell'abazia, di fronte alle quali, se è vero che il paese non sopporterà di essere sottoposto al principato del Frelles che venne annullato, poco dopo essere stato costituito, nel gennaio del 1660, gli « utili dominari » non erano riusciti a impostare una politica amministrativa capace di evidenziare una presenza attiva dei grandi borghesi. Partinico, città libera e privilegiata alle dipendenze del senato palermitano, visse così in modo drammatico i limiti e le contraddizioni del suo processo di formazione come centro abitato: se non fu sottoposta mai, a partire dal sec. XIV, al dominio di un vero e proprio baronaggio, in quanto la comunità non fu mai infeudata a un nobile unico intestatario della proprietà e dei diritti sul territorio, rimase tuttavia come un paese ai margini della più grande rendita feudale, area della frammentazione di molteplici interessi sulle risorse del territorio da parte delle varie forme di nobiltà e di alcuni nodali elementi della borghesia latifondistica. Restava cronicizzato nel tempo lo stato d'impotenza della popolazione, il suo abbandono fideistico alla tutela della patrona, imposto e regolamentato da Filippo IV, con dispaccio del 31 gennaio 1644. Il papa Innocenzo X, dal canto suo, rispondeva alle annate di peste, siccità e ai rischi dell'invasione dei “turchi”, con l'istituzione immediata di solenni processioni, con esplicito invito a designare le chiese da visitarsi, e, ovviamente, cosa più importante, di digiunare.67 Ora, quest'ultimo invito, cadde in un periodo quanto meno disgraziato, se è vero che la Sicilia, specialmente nella fascia che andava da Palermo a Trapani, era colpita dalla carestia, dalla fame e dalla mortalità. Il 1647 fu forse l'anno più tragico: non pioveva da tempo e la particolare congiuntura economica aveva portato alla diminuzione del peso del pane quando potè essere venduto -di circa due once. Coloni, piccoli e medi proprietari, artigiani, braccianti, vagabondi e mendicanti, vennero così a trovarsi stretti in una morsa mortale, tra tasse, balzelli, canoni imposti persino sull’aria che respiravano, e la fame. E così dalla fede si passò ai tumulti. Sono noti quelli guidati dal “battiloro” Giuseppe D'Alesi e dai conciapelli Vincenzo Ragona e Francesco Danieli, nel 1647. Ma non furono i soli visto che le congiunture e le forme del governo baronale, erano omogenei su tutta la Sicilia. Tumulti si verificarono anche a Partinico che, assieme ad altri comuni isolani, seguì l'esempio della rivolta palermitana. Gli insorti bruciarono gli archivi, liberarono i carcerati, saccheggiarono le case dei nobili, imposero l'abolizione delle gabelle.68 Questa anche la versione del Marino, che contrasta con quella del Lo Grasso, secondo il quale, invece, l'intervento tempestivo dell'arciprete Palazzolo evitò nel paese manifestazioni di violenta rivolta. Ovviamente va tenuto conto, nella storia del carmelitano, di una certa esaltazione della capacità d'intervento del clero, come si può desumere, del resto, da un’analisi delle singole biografie degli arcipreti 66 Cfr. V. AMICO, cit. da VILLABIANCA, op. cit., ff. 69-70; e infra, p. 55, n. 3. Cfr. D. Lo GRASSO, cit., pp. 119-134. 68 Cfr. V. AURIA, Diario di Palermo, 27 maggio 1647; COLLURAFI, Tumulti di Palermo, parte I, p. 67, cit. in S. MARINO, cit., p. 62. 67 39 nel suo Partenico. Per cui, ridurre, come vuole il Lo Grasso, la vicenda del 1647 a un semplice e superficiale stato di disagio dovuto alla carestia, pare molto limitativo, anche in considerazione della gravità di quegli avvenimenti che si conclusero, almeno a Palermo, con una spietata e macchinosa repressione.69 Non sappiamo come siano realmente andate le cose a partitico. E’ certo però che se anche l’arciprete era costretto a intervenire, questi si era reso ben conto che la popolazione era stata ridotta allo stremo. La sua lettera al vicerè (con la quale, faceva presente la mancanza di frumento da destinare alla popolazione, e la sua personale disponibilità ad acquistare in contanti le scorte accumulate nei magazzini del territorio), sollevava in realtà il problema delle speculazioni sulle scorte di grano da parte dei nobili che ne avevano il prezzo fissato a 4 onze e più a salma, e avevano l’obiettivo di trarre il massimo vantaggio nelle situazioni di crisi che essi stessi, frequentemente, provocavano. L’arciprete, perciò, pregò sua eminenza perchè si benignasse scegliere un « arbitro» per la definizione del problema. Se dal documento possiamo dedurre che a Partinico esisteva una terribile carestia, dietro la sollecitazione del Marino e dello stesso Auria, non è possibile escludere un movimento popolare teso quanto meno a porre un riparo al triste problema della fame ma che fu lontano dal porsi, come avvenne a Palermo, nei momenti più lucidi, sul piano della lotta al baronaggio. L'intervento dell'arciprete, d'altra parte se fu «illuminato» e responsabile, sta a testimoniare quanto a livello di contrattualità, e quindi di potere, fosse capace un arciprete, e prima di tutto come procuratore e amministratore generale dell'abazia di Altofonte, e cioè anche della terra della Sala di Partinico. Il '600 fu ancora il secolo delle congregazioni religiose, dei conventi e delle chiese. Nel 1619 per iniziativa del grande enfiteuta palermitano Fabrizio Di Trapani fu costruito il convento dei Cappuccini; più tardi, ad opera del mastro Bonaventura, fu fondato (1632) il convento del Carmine; due anni dopo fu eretta la chiesa di San Leonardo ad opera della compagnia del SS. Sacramento, fondata per la prima volta nella madrice nel 1599.70 Questa chiesa ebbe diverse rendite che percepì da fondi di case, magazzini, costruzioni diverse, soggiogazioni e impieghi in favore della stessa compagnia che ebbe pure in proprietà gli ulivi e gli ogliastri delle trazzere in base ad una donazione regia e degli antichi abati. Nel 1651 sorse la compagnia del Carmine (che ebbe un appezzamento di terra in contrada Bosco di alcune decine di salme), nel 1656 quella del Rosario. Nel 1681, poi, alcuni benemeriti cittadini ebbero un pezzo di terra dal conte Agostino Zefferino, procuratore generale dell'abate Medici e fondarono l'Opera Santa, cioé una pia istituzione destinata a raccogliere i corpi degli impiccati nel largo dei cappuccini. Nel 1692 alcuni tumoli di terra furono concessi alla compagnia degli Agonizzanti per la costruzione di una chiesa (benemerito il barone di Castellana, Matteo Scammacca).71 La chiesa dell'Opera santa è certamente quella, fra tutte, che desta maggiore interesse, e non perché vi si può ammirare, come suppone il Villabianca, un'opera di Pietro Novelli, ma perché la sua istituzione è legata all'avvio di un'incredibile pratica liquidatoria della delinquenza comune, o di quella che si riteneva delinquenza comune, ma che era il frutto, invece, delle gravissime condizioni di 69 Cfr. ISIDORO LA LUMIA, Storie Siciliane, Palermo, ed. della Regione Sic. 1969, vol. IV, pp. 7-144. Cfr. Partinico, archivio parrocchiale della chiesa del Carmine, S. Leonardo, Capitoli della venerabile Compagnia del 55. Sacramento della città di Partinico, ms. non inventariato. 71 Cfr. VILLABIANCA, cit" in particolare i ff. 116, 122-125, 130, 141-153. 70 40 miseria in cui vivevano estese popolazioni. Un'esemplificazione di questa pratica ci è data dal Villabianca nei suoi appunti sui «terrazzani di Partinico giustiziati di forca si in patria che in Palermo», e che vogliono essere nelle intenzioni del nostro marchese «esempio ed avviso ai sopravvissuti che per sangue o per cognome ànno con essi qualche ingerenza» .Vale la pena riportarli qui per intero: 1679 « Il primo atto di giustizia adunque ce lo presenta per questo assunto la miseranda persona di Lorenzo Zappata nativo di Partinico stato condannato a morte di forca dalla Regia Corte Capitaneale di Palermo ed afforcato ivi nel piano della Marina sotto li 25 febraio 1679, giorno di sabato. Assistettero al suo conforto di Cappella Vincenzo Ramondetta che fu poi duca della fabbrica, capo di cappella, padre di Giovanni de' chierici minori, confortato da Bartolomeo del Castillo poi marchese di S. Onofrio, sac. Vincenzo di Leo confessante novizio. 1682 La Regia Corte Capitaneale di Palermo condannò a morte di forca Gio: Batt. e Porcasi Giuseppe calabrese, alias Francaviglia, Giuseppe Calandra e Matteo La Barbera tutti quattro della terra di Partinico. Per tre però di costoro si essegul la giustizia nell'aprile del 1682 nel piano della Marina mentre il solo Calandra si salvò la vita col mezzo di essere chierico ed ordinato dal Vescovo in prima tonsura. I confortanti di questi afflitti furono Gio. Battista Platanino capo di cappella, padre Ferdinando Andres teatino, ecc. 1701 Filippo Badalamenti di Partinico. Entrò in cappella a 25 settembre 1701 e a 28 detto fu gistiziato sul piano della Marina con morte di forca. Questa la sentenza della Santa Corte come scorridore credesi di campagna e per delitto d'omicidio (...). 1729 30 ottobre Pietro di Benedetto fu afforcato nel Piano della Marina con 17 ore di Cappella assieme a Francesco Causabianca come due sommi stradari per sentenza della Gran Corte. 1732 Antonino Lombardo di Partinico per agnome Sferrazzolo condannato a morte dalla Gran Corte doppo li due giorni di tenutavi Cappella ebbe la grazia di vita per l'impegno presovi da mons. Matteo Basile arcivescovo di Palermo che volle fatta buona dal foro ecclesiastico che si dovea godere come caratterizzato di prima tonsura. 1741 Vincenzo Cusimano nativo di Partinico fu afforcato in Palermo per sentenza della Gran Corte come reo di furti in campiis e assai facinoroso. Fu preso in Partinico e nella torre di campagna chiamata Orecchio di Pollastra. Qui fece un giorno di fuoco con la compagnia di giustizia, ne mai si volle rendere se non gli andava il padre guardiano de' Cappuccini Giuseppe Rizzo. La testa già decollata fu condotta in Partinico e posta in gabbia su i meragli della Torre della pubblica carcere. 1778 31 gennaio, sabato. Niccolò Mirabella alias lo Parnitanello d'anni 38 e Filippo Giarraffa d'anni 28 di Partinico furono appesi alle forche del Piano della Marina come stradarij condannati a morte dalla Gran Corte. Assisterono al loro conforto Carlo Castelli e Lo Faso marchese di Capizzi e Barone Palumbo. 1779 Giustizia di forca esseguita nel Piano dei Cappuccini che precede al Piano dei Cappuccini di Partinico su la persona di Francesco Prainito figlio di Paolo d'anni 24 naturale partinicoto 41 condannato a morte dal tribunale della Gran Corte per delitti di furti ed omicidj. Li di lui confortanti à ben morire furono il sac. Matteo Longo e Mariano d'Accardoe due FF. Cappuccini. 1788 Giuseppe Bambina e Giuseppe Romeo condannati a morte vennero entrambi dalla R. Gran Corte come scorridori di campagne tutti due partinicoti e giustiziati si furono di forca nel Piano di Gambacorta di Partinico lor patria. Assistirono al loro conforto li sacerdoti Rosario Rizzo e Giuseppe Catania e Gaetano Tripodo. 1792 Francesco Cusimano nato a Partinico verso l'anno 1762 condannato a morte dalla R. G. Corte per reità solamente di rubare in strada pubblica, e rigorosamente perciò ne fu esseguita la prammatica. Non fu reo mai d'omicidio. Fu giustiziato quindi di forca nel Piano di Gambacorta adiacente al Convento de' Cappuccini dell'istessa città di Partinico sua patria. Li sacerdoti Gaetano Trippodo e Salvatore Tosco gli fecero la carità di consolarlo a ben morire. La Compagnia del Sacramento fece la funzione della Compagnia de' Bianchi di Palermo. Il cadavere fu dato in sepoltura all'opera santa. 72 Abbiamo motivo di ritenere che le esecuzioni avvenivano senza regolari processi, quando non si risolvevano addirittura secondo la «ricetta» trovata nel 1798 dall'avvocato fiscale Paolo Leone, che per combattere i banditi pensò di farli ammazzare « inaspettatamente » dai suoi sbirri. Fatti analoghi faranno ‘scuola’ anche per il futuro. 72 Cfr. VILLABIANCA, cit., ff. 427-433. 42 5.La crescita del '700 A giudicare da quanto scrive il Villabianca, nel secolo dei lumi, le condizioni di vita dei partinicesi non furono molto disgraziate. La popolazione era passata dai 2032 abitanti del 1631 ai 9772 del 179873 che, a giudicare dal numero dei notai presenti, avrebbero potuto essere anche 15.000 compresi i residenti nei «feudi di Sicciara, Trappeto, Albaciara,Giudeo, Santa Caterini ed altri suburbij ». Lo stesso marchese ci informa inoltre di una certa agiatezza dei cittadini: Le fabbriche delle case ve ne sono appalazzate se bene in poco numero... Aggregati alle case quasi in tutte di paro stanno granai e con essi maggiori in numero magazzini, ed arbitrij di vini per essere la Terra, può dirsi, uno dei carricadori in Regno di grani e vini . Florida anche l'attività dei mulini che sorgevano a San Cataldo, Capo dell'Acqua (qui ve ne erano tre), Cuba o Abazia, Cirasedda (che lavorava con l'acqua del Finocchio), Cuti, Passo di Conti (che lavorava con l'acqua del Nocella), San Giuseppe (lungo il Giancaldaja; qui sorgeva anche una cartiera che fabbricava carta «di assai buona qualità », fondata da Palma Sirignano). Non trascurabile era poi l'attività dei tappeti di Taurru, degli stazzoni, che lavoravano la creta, e delle fabbriche di panni e sete.74 Un'agiatezza, questa, tuttavia, che non riguardava certo i contadini (sui quali i grandi padroni facevano cadere i sistemi di tassazione) impegnati da sempre a respingere la «poliza della farina» e cioé la tassa sul macinato («danno nelle furie appena quando vi si intuoni il minimo motto che senta di poliza di macina») e che nel 1773, dopo la cacciata del vicerè Fogliani da Palermo, avevano partecipato ai tumulti che in quel frangente si erano verificati anche a Montelepre, Carini, Monreale, Parco, Palazzo Adriano e in altri paesi.75 Tuttavia Partinico nel corso del '700 conosce un’espansione demografica e urbanistica progressiva; ne sono prova i registri parrocchiali e ne sono testimoni diretti il nostro marchese e il notaio Di Bartolomeo. Il primo, nel «maggior caldo di studio», scrisse questa ottava in endecasillabi: Citati Partinicu ora è chiamata Chiesi avi grandi e casi appalazzati La sua campagna tutta è abbivirata D} acqui sorgivi} e frutti prilibati In idda ùn c}è terra chi spugghiata Fussi di olivi} vigni e siminati: La sua conca pri mia è chiù }ndurata Di chidda di la domina citati. Forse, naturalmente; perché non sono pochi i punti in cui la Storia della Sala di Partinico, è più opera di retorica e di cronaca che di storia. 73 Cfr. F. MAGGIORE PERNI, La popolazione di Sicilia e di Palermo dal X al XVIII secolo, Palermo, 1892, p. 531 (la cifra è comprensiva anche degli abitanti di Balestrate). Per il dato del 1631 cfr. Rocco PIRRO, Sicilia sacra ecc., Panormi, typis Hieronymi De Rossellis, MDCXXXI, p. 582 74 Cfr. VILLABIANCA, cit., f.243 75 Cfr. LODOVICO BIANCHINI, Della storia economico-civile della Sicilia, Palermo, dalla stamperia di Francesco Lao, 1841, vol. Il, p. 13; e G. E. DI BLASI, Storia cronologica de' vicerè, Palermo, Ed. della Regione siciliana, 1975, vol. V, p. 89. 43 Forse per l’innalzamento delle condizioni di vita generali della popolazione sembrò cosa opportuna a qualche abate, di assumere delle iniziative a favore dell’abazia. Ci pensò l'abate Barlotta l’inventore delle elemosine.76 Di lui il Marino ci dice che si era messo a fare prodigi di carità nell'anno di fame 1763. I prezzi del grano si erano elevati a 9-10 once la salma, ma le pagnotte del peso di 13 once continuarono a vendersi -grazie al suo intervento -a 8 grana.77 Ma chi era veramente il Barlotta? Principe di San Giuseppe, il trapanese Giuseppe Barlotta aveva ottenuto in assegnazione l'abazia dopo il Medici e il napoletano Francesco M. Acquaviva, nel 1726. Da giovane era stato arrestato perché accusato di attività antispagnola; ma presto era stato liberato perché rivelatosi innocente.78 Nel 1724, sotto la dominazione austriaca, aveva occupato un posto importante nell'apparato scenografico preparato per bruciarvi vivi i molinisti fra Romualdo e suor Geltrude.79 Dotato di «talento credulo e inclinato solo al buono per sè» -scrive il Villabianca - il nuovo abate «menato pel naso» era ritornato alle iniziative di Maurino De Pazos e si era circondato di uomini come Nunzio Minore che era stato nel giro del bandito, famoso ai suoi tempi, Cicc' Antonio Papaseudi e dei suoi affiliati: Antonino Di Benedetto e Francesco Causabianca.80 Introdotto nella corte dell'abate il Minore fu eletto relatore abaziale ed entrò in grandi dimestichezze col Barlotta, che, ascoltando i suoi suggerimenti, impose, nel 1731 l'ottina (chiamata anche decina) su tutti gli alberi e piante fruttifere del territorio, e particolarmente sugli ulivi che nel partinicese erano molto estesi. Il risultato fu l'apertura di una nuova lite e una successiva pretesa di riscossione dell'ottina «sulle racine dei lignaggi e moscati». L'obiettivo fu raggiunto nel 1734, nonostante le lettere viceregie del principe Filiberto di Savoia che ne avevano ordinato la consecuzione solo sulle «racine semplici», e a scorno di proprietari come Francesco Ramo, Francesco Bellacera, Guglielmo Susinno, Lucio Pollastra e Virginia Bisazza. Alle pretese dell'abate si oppose solo il marchese Benedetto Emanuele Villabianca, padre dello scrittore che, però, vedendosi abbandonato dagli altri padroni interessati, dovette desistere. Il braccio di ferro non poteva che andare a favore dell'abate perché -come vuole il Marino -gli enfìteuti erano ormai ridotti in uno stato di «negligenza e di povertà». Ma l'iniziativa più spettacolare del Barlotta furono le ricordiazioni a danno dei «tenutari utili domini » dei principali fondi e contrade abaziali che si videro misurati i terreni che possedevano «in buona pace» sulla base delle antiche cordiazioni alle quali erano rapportati i censi dell'abazia, secondo la misura della 76 Ibidem, pp. 56-64. Sul Medici cfr. GIUSEPPE POMA, L'Italia impoverita, Palermo, Antonino Cortese, MDCCXI. Si tratta di una orazione funebre scritta in occasione della morte dell'abate avvenuta nel 1711. Cfr. anche LODOVICO BIANCHINI, Della storia economica e civile della Sicilia, Napoli, 1841, vol. I, p. 164. 77 In precedenza la politica interna di Carlo di Borbone (1734-1759) anche se apparentemente illuminata, come vuole il Falzone, aveva rispecchiato una gestione di tipo assistenziale, al di fuori di radicali interventi economici. Interessante poteva essere quella lotta al brigantaggio che si spingeva a considerare come responsabili di furti capitani di giustizia e baroni, o una certa limitazione dei diritti ecclesiastici e feudali. Cfr. G. FALZONE, Il regno di Carlo di Borbone, Bologna, '64, pp. 3941 e S. MARINO, cit., p. 66. 78 Cfr. A. MONGITORE, Diario palermitano, in Biblioteca storica e letteraria di Sicilia, Palermo, Luigi Pedone Lauriel, 187; ristampa anastatica, Sala Bolognese, Arnaldo Forni. 1973, vol. VIII, p. 85. 79 Cfr. A. MONGITORE, ivi, vol. IX, pp. 72 e segg. 80 Cfr. VILLABIANCA, cit., ff. 295 e sgg. Il Di Benedetto ebbe la testa tagliata dal boia, e cosi il Papaseudi, che cadde in un conflitto con la giustizia in una grotta del monte Caputo di Monreale. Il Papaseudi era francese; in patria faceva il merciere; in Sicilia si era fermato a Corleone da un suo zio, vivendo di furti. Catturato con i suoi compagni fu afforcato il 29-30 aprile 1729 (ib.). 44 corda di Palermo. I cordiatori si spinsero fino al feudo di Giambruno del duca della Ferla Tarallo81 contro il quale gli agrimensori si abbatterono accanitamente, in quanto nel computo della vecchia misurazione delle terre del duca non erano state comprese le colline, gli avvallamenti, i poggi ineguali. Il Ferla si difese molto bene e riuscì a spuntarla tra gli evviva del popolo. In questo periodo agente primario di casa Barlotta fu il barone Tommaso Coppola che non fece nulla per «smorzare il fuoco» e mettersi quindi dalla stessa parte degli altri baroni o duchi e marchesi. I tempi erano cambiati, e a differenza del passato, gli abati non avevano più l'interesse di facilitare il popolamento delle loro terre largheggiando nelle misurazioni con gli enfiteuti. Al contrario, trasformato ormai il bosco in terreno produttivo, e bonificati molti terreni ad opera dei coloni, l'interesse degli abati era adesso quello di rivedere le loro antiche concessioni, rimisurare i terreni, e rivalutarli sulla base delle effettive capacità produttive col conseguente aumento di canoni e censi. Impostarono quindi una escalation delle rendite parassitarie passando sugli interessi della stessa aristocrazia laica che (come i Villabianca) non poté fare a meno di registrare amare considerazioni: Veramente facea dello stomaco, e a me rompevasi la lingua in biasimi e duoli il vedere banchettare lussuriosamente, e a crepapanza ogni anno le genti, ed uffiziali dell'abate nei giorni vendemmiali e di esigenza colla festa infine che si facea da essi in lode de' cornuti volontari; apparando a tale effetto la camera di corna di bovi, e becchi lunghe e corte e risuonar facendola di canzoni oscene e scandalose. Non mai contenti finalmente costoro di tracannar vino ne determinavano la vergognosa allegria con rimbrottar la spesa che si facea in quella facchinata con brindis ludibriosi al poco o nulla scrupoloso abate, che permettea farsi lo spargimento del sangue dei poveri, e lo scialacquamento della robba di chiesa in simili briccunerie, e bagordi per dar piacere agl'indegni suoi adulatori.82 Altro urto tra abati e proprietari avvenne sulla questione dei «fabbricati », che, sorgendo su antichi terreni concessi dall'abazia, erano soggetti a un censo perpetuo annuale, secondo la quantità dei terreni. Ma a parte l'episodio Barlotta, lo scontro tra enfiteuti e baroni da un lato e gestione abaziale dall'altro, dovette verificarsi sin dall'inizio, perchè gli abati, non potendo coltivare il feudo, avevano cominciato a concedere, già nel Trecento, la terra ad enfiteusi perpetua, grazie alla quale si era formato un particolare tipo di proprietà basata sull'utilità intera della terra, con una conseguente frammentazione dei feudi, e una loro eccessiva parcellizazione. Con la sostituzione delle colture al manto boschivo, i livelli dei profitti erano saliti, e con essi la forza economica e contrattuale delle baronie; per cui gli abati, volendo ristabilire un equilibrio aggiunsero al vecchio canone, la iunta che elevò l'imposta per ogni salma di terra a tarì 24 all'anno. Quindi si aggiunsero il «terraggiolo» e l'ottina da pagarsi sull'uva, esclusi i frutteti e gli uliveti. Così, quando dopo la sua elezione ad abate, nel 1580, Antonio Maurino De Pazos aumentò il canone degli enfiteuti, Leonardo de Scorza, proprietario delle terre di Gambacurta e Raccuglia, si oppose, e tuttora -scriveva il Marino nel 1855 - i 81 Ai Tarallo, e precisamente a Francesco Simone, duca della Ferla, andrà il merito della fondazione a Partinico (1776) dell' Accademia degli Scientifici Agricoltori che dal 1794 continuerà a riunirsi grazie a Francesco Paolo del Castillo, marchese della Gran Montagna, cfr. D. SCINÀ’, Prospetto della Storia letteraria di Sicilia, cit., vol. I, p. 70. Si tratta, tra le innumerevoli, di una delle poche accademie siciliane che si occupassero degli «studi particolari »; aveva come simbolo un aratro tirato da una coppia di buoi e dal '94 una torre rossa listata obbliquamente. Cfr. VILLABIANCA, cit., ff. 393-394. 82 Cfr. ibidem. 45 successori di Pietro e Maria Antonia Puccio corrispondono 24 annuali tarì per ogni salma di terra.83 Le cose si aggravarono col Barlotta. Pretese che gli enfiteuti pagassero anche il canone sulle fruttificazioni degli alberi e delle piante, da sempre esclusi dalle tassazioni; ma la pretesa fu per fortuna respinta dal giudice del tribunale della regia monarchia. Superata la contestazione il Barlotta fu teatrale: si scatenò con «notai, agrimensori, soldati e sergenti a misurare e rimisurare le terre date ad enfiteusi » e non ottenne che uno scarno incremento di canone, insufficiente a coprire le ingenti spese da lui fatte, e somma maledizione e indignazione dei suoi sudditi ». Rappresentava, questo, uno dei tanti episodi della conflittualità di cui ci siamo occupati: mentre ai due poli opposti, i baroni cercavano una reciproca autonomia e si contendevano -anche se isolatamente –il controllo e l'accaparramento del territorio, gli abati non volevano perdere terreno e agivano anche in barba alle disposizioni del governo regio. Per somma sventura, col Barlotta giunse anche la peste. Questa volta l'abate fece costruire alcune mura attorno al paese per evitare il contagio. La convinzione diffusa era che i malanni venissero sempre da fuori, e che le comunità fossero ‘geneticamente’ indenni. Da allora Partinico cominciò ad avere la caratteristica dei comuni chiusi, con le loro porte, i loro controlli in entrata e in uscita. Ottimi per il pagamento di tasse e balzelli. Nel caso specifico la precauzione accelerò la carestia. Qualche decennio prima era stata la fame a spingere Benedetta Campo Lo Iacono a dedicarsi a un'opera di beneficienza e di assistenza alle orfane povere, raccogliendo essa stessa elemosine e organizzando una specie di collegio. Una simile opera filantropica e cristiana aveva avuto l'appoggio degli aristocratici e della stessa chiesa, compreso naturalmente il Barlotta che, così, diede la dimostrazione che anche lui aveva in fondo una vocazione cristiana. Dopo la morte dell'abate il governo borbonico fece delle elemosine il fondamento della sua azione amministrativa.84 Ma al tempo del Villabianca che scriveva la sua storia a cavallo dei due secoli, il Barlotta, che pure con tanta ammirazione era stato guardato nel 1760 -quando Pietro Bentivegna, editore di Palermo, definendolo «protettore dei letterati» e «cultore della musica» o «abate dal generoso cuore », gli aveva dedicato il terzo volume dei suoi Opuscoli –era solo un ricordo: antecedente tragico di un malinteso rapporto tra potere dello Stato e autonomia abaziale. Verso la fine del secolo l'abazia fu incamerata nella real Corte e -dietro le pressioni dei cappelli, o come meglio possiamo definirli, dei galantuomini, interessati alla piena autonomia della loro università per le cariche che avrebbero potuto assumere- ebbe per la prima volta amministratori locali. L'abazia, resa già commenda, fu assegnata in cespite del real ordine costantiniano in favore del 83 Cfr. S. MARINO, cit., pp. 74-75. Nel 1790 le somme distribuite ai poveri di Partinico consistevano in 315 onze e 12 tarì, con un balzo di circa 240 onze rispetto al 1732. Un altro monastero di vergini sarà fondato alla fine del secolo. E’ questo quel famoso reclusorio che merita di andare alla storia perchè segna la prima lite fra monaci per questioni «d'illecite interferenze». Cos'era successo? «A causa delle aperture fatte nella attigua chiesa di Gesù e Maria per la costruzione del comunichino, del confessionale nella parte inferiore, e del coro nella parte superiore, accanitissima guerra suscitarono i confrati della congregazione di Gesù e Maria, che... si era trasferita nella suddetta chiesa per cooperazione dei con- frati edificata nel 1733. Menati buoni i ricorsi presentati a superiori ecclesiastici e secolari, i confrati cacciarono dalla chiesa le moniali, demolirono il coro, chiusero le praticate aperture e fecero sloggiare dall'amato sito quelle buone vergini...». Cfr. S. MARINO, cit., p. 151. La conclusione è però a lieto fine, perchè le moniali ebbero il loro reclusorio a condizione laicale e «regolato con gli statuti dell'ordine di Sant'Antonio». Famiglie di benestanti, come quelle dei Rizzo e di Castrenze di Bella, furono abbastanza larghe di donazioni. 84 46 principe reale D. Leopoldo di Borbone, figlio secondogenito di Ferdinando III, e fu scelto come ministro e amministratore generale di Partinico («commendato stato») e dell'abazia, il cav. costantiniano Felice Lioy, che ebbe anche il governo e la procura della grossa abazia della Magione, trasformata anch'essa in commenda. [1976] 47 II L'ASCESA DEI CAPPELLI 1.Lo sviluppo della borghesia agraria La rivoluzione napoletana del 1799, come è ormai risaputo, costrinse il re a rifugiarsi nella monarchica Palermo. Nell'isola, Ferdinando III pensò di trascorrere il tempo dandosi alla caccia e agli svaghi, e nonostante si fosse disinteressato di sudditi e Stato, riscosse un notevole consenso. Improvvisati poeti misero in moto la loro servile fantasia, masse consistenti di popolo gli si mossero incontro al suo passaggio per paesi e contrade. Nell'occasione del suo soggiorno a Partinico, al rientro dalla caccia d'Inici, il notaio Girolamo Cannizzo gli dedicò dei sonetti e un ditirambo, e altri sonetti scrisse a onore e gloria della sovrana Maria Carolina.85 Lodi certamente non inutili, perché non erano il frutto di una vena poetica, ma la prova dell’affermazione politica di una nuova classe sociale: la borghesia agraria, proprietaria di estesi vigneti, e aspirante al governo della città. Quelle lodi perciò produssero il loro aspettato effetto. A parte l'immediato acquisto che il re volle fare della villetta e «casena» di F. P. del Castillo, marchese della Gran Montagna86 che diventò una grossa azienda vinicola, il dato di maggiore interesse fu la dichiarazione di completa autonomia dell'università, al pari delle altre università demaniali. Ciò comportò una revisione della gestione del comune, di cui si occupò Felice Lioy. Questi trovò il paese in disordini amministrativi e nello scontento popolare, e fu pertanto costretto a destituire dalla carica fiscale Giuseppe Rizzo, e da procuratore dell'abazia Vito Gigante che sostituì con Sebastiano Cannizzo. Furono nominati allora gli ufficiali della nuova amministrazione, scelti, tutti tra i gentiluomini del paese, e muniti di regie patenti (marzo 1800). Licenziato il capitano giustiziere e il giudice Francesco Bufalo, destituiti i deputati di piazza e tutti gli altri ufficiali, fu nominato Nicolò Troisi, primo capitano giustiziere, e furono eletti i primi giurati, il giudice criminale (Giovanni Cannizzo), il giudice civile (Ignazio Provenzale) , il giudice delle appellazioni (Gaetano Minaci), il procuratore fiscale (Toscano Ferro), il sindaco (Giuseppe Bonura); il «maestro di mazziero con robiglia e mazza magistrale», il primo giudice della corte superiore (Salvatore Cusimano).87 Aveva quindi inizio la scalata al potere dei cappelli, che rappresentavano la media e grossa borghesia delle campagne ed erano, secondo il Villabianca, i veri « tiranni 85 Il ditirambo In occasione di presentare la fedele popolazione di Partinico al di lei saggio Sovrano Ferdinando III una lieta offerta di liquori nazionali è un inno ai vini tipici di Partinico, quelli delle contrade Suvararo (pregiati per la cura che ne aveva il vinaiolo Gaetano RaccugIia), Galeazzo e Passarello. Cfr. VILLABIANCA, cit., ff. 469 e sgg. 86 La cifra concordata fu di 4700 onze, pari a 2.000 scudi; ivi, f. 263 e sgg. 45 87 Ibidem, ff. 462-463, e GIOVANNI D'ANGELO, Giornale della città di Palermo scritto da G. D. regio abate commendatario di Mandanici, per servire di continuazione al giornale della medesima città scritto da Gabriello Lancillotto Castello, principe di Torremuzza: si trova alla Bibl. Comunale di Palermo ai segni Qq.E.149 (il testo della descrizione di Partinico col «nome e titolo di città» (25 aprile 1800) ai fogli 792-793). 48 della povera gente ». Si trattava adesso «di vestire da capo a piedi una persona nuda che aveva bisogno di tutto per esistere al mondo ». L'avversione verso la nuova gestione, che aveva un suo riscontro nell'amarezza con la quale il Villabianca considerava il cambio di guardia nell'amministrazione comunale, rispecchiava il mutamento del clima politico generale e la perdita di terreno del ruolo egemonico della vecchia aristocrazia. Il nostro marchese quindi, assieme a una pleiade di borghesi asserviti al baronaggio, tra i quali vanno ricordati Francesco Catalano, Nicolò Minore, Giuseppe Di Lisi, Francesco Saluzzo alias Panazza, che per la loro opposizione furono mandati in galera, fu tra coloro che videro e documentarono, con impotenza, l'affermarsi di una nuova classe sociale che se nel corso del '700 in Sicilia aveva avuto un ruolo importante ma non dominante, si attestava adesso su posizioni di forza e di prestigio politico. L'attenzione della nuova amministrazione si rivolse prima di tutto verso i proprietari di fondi e soprattutto verso la borghesia insoddisfatta delle campagne e non trascurò 1'« aborrimento » col quale il popolo s'era atteggiato nei confronti della tassa sulla farina che si era sempre rifiutato di pagare. Ma le terre restarono gravate dalla tassa per la costruzione della strada Partinico-Palermo, e da quella sul tabacco che avevano notevolmente ridotte le rendite dei proprietari. All'università furono devoluti gli 8 tarì per salma che si pagavano dagli “utili domini” per la guardiania delle vigne e dei terreni, e con questi proventi furono istituiti i campieri che ebbero livrea e marca in testa. Fu loro assegnato il salario di 3 tarì al giorno, compreso il mantenimento del cavallo, e furono considerati soldati di cavalleria, configurandosi come «una delle compagnie rusticane d'armi del Regno» in tutto simile alla compagnia Sancimino di Monreale. Si tentò così di mettere un riparo ai pascoli abusivi e ai danni provocati dai viandanti che in mancanza di strade regie, attraversavano i fondi privati. Ma i campieri non liberarono i coloni dai continui furti e ruberie che suscitarono numerose lamentele popolari .88 Si dava avvio, quindi, ma con uno spirito diverso da quello con cui l'avevano condotta il De Pazos e il Barlotta, a una nuova cordiazione. Nel mese di agosto del 1800 l'agrimensore Giovanni Inga presentava pertanto all'amministrazione della Magione una relazione dalla quale risultava che il territorio di Partinico comprendeva 5487,8 salme di terra.89 88 Per quanto concerneva l'abolizione degli abusi feudali bisognava attendere il decreto reale dell'll dicembre 1841 che si rifaceva a sua volta a leggi precedenti non attuate, come quella sull’abolizione della feudalità del 1812, che prescrivevano lo sganciamento delle proprietà dalle signorie. Ma tutte le leggi di riforma del periodo si risolsero a favore dei latifondisti e degli aristocratici. Si arrivava così a nuove sottoconcessioni di terre di cui furono utili «dominari », i Villabianca, il barone Pietro Miceli, il marchese Pietro Bellaroto, il barone del Grano, il barone Andrea Gallo, Salvatore Mottola, e a una nuova costituzione di fondi con un connesso incremento demografico. Le nuove enfiteusi diffusero la proprietà degli «stabili del suolo ». Cfr. MARINO, cit., pp. 77-78, e inoltre VILLABIANCA, cit., ff. 434 e sgg. e 295-308. 89 Contrade e luoghi avevano questa estensione in salme: «Ramo, 70,8; Monte della baronessa, inteso Cesarò, 32; Capo dell'Acqua, 8,13; Crocifisso, 28,4; Margi Soprani e Sottani, 500; Giorgentana, 7,13; Galeazzo, 60,4; Torrisi Soprano, 41,13; Pollastra, 28,10; Raccugli, 36; Mezzavilla, Bracco e Monti, 44,8; Albaciara, Garofalo, Cutò e Ra- motta, 10,2,3; Parrini ossia Gesuiti, 163,8,2; Piano del Re, Giannella, 52,12,3; Ballo e Sovaro con casina, chiesa, torre ed officine, 11,9,3; Bisaccia, 79,2; Trappeto, Balestrate del barone Miceli, 100; San Cataldo Balestrate, 55; Milioto, 18,8; Badia e Badietta di S. Castro, 36,11,3; San Carlo, 33,6; San Francesco di Paola, ossia Seregnano, 55; Carrozza della Zisa, 32,12; Paggino Sottano, 15,4; Sirignano, 20,15; Torrisi Sottano, 28; San Giuseppe, cioè Pellizza, Ogliastro e Tremmestieri con molino e vestigi di una cartera diruta, 54,2,3; Giambruno, Federico, Raccugli, S. Caterina, Lenzotti, 247,3; Piano d'Inferno Balestrate, 60; Spadafora, 75,8,3; Timpanelli e Corso, 45,13; Giannella, 4,2,3; Cicala, Bellacera, Cannizzaro, Gencaria e Ponti, 18,5,15; Randazzo e Monacelli, 40,8,1; Credenzerio, 8,6,2; Carrozza di Parisi, 6,2,3; Carrozza dell'abazia, 3,5,2; Mottola, 33,6; Rognone, ossia Randazzo, 8,10,2,3. Totale della piana salme 2523,13,3; Bosco di Partinico 2776,2,3,1; Rapitalà 187,7, Parco Vecchio 388. Ad eccezione di Rapitalà le suddette contrade tutte devono un canone all'abazia in onze 5243,5,6,2 all'anno ». Cfr. MARINO, cit., p. 11. 49 Queste, secondo Stefano Marino, erano divise in undici sezioni, relative a 5.000 proprietari, dei quali qualche centinaio erano i grossi borghesi o agrari, come i baroni Sant' Anna, Romano, Russotto o i marchesi Di Gregorio e Vannucci, e fruttavano 5243,5,6,2 onze.90 Al tempo del Marino, che pubblicava la sua Storia nel 1855, vi erano a Partinico 17 chiese, 41 preti, 9 frati francescani e carmelitani; il paese aveva un circuito di due miglia e mezzo, contava 13.809 abitanti al 1831 e 14.699 al 1853 (potevano essere anche 18.000 se si consideravano gli «esteri »); aveva anche un maestro segreto, un ricevitore di dogana, il cancelliere e il giudice del circondario.91 Alla periferia si potevano contare dodici torri e numerosi mulini e stazzoni.92 La sua stessa estensione territoriale, che il Di Marzo annotando il Lexicon dell'Amico, dava in 5236,584 salme di terra, con una leggera flessione rispetto ai dati ufficiali, era chiaramente indicativa di un particolare sviluppo del paese le cui campagne, se conoscevano la cerealicoltura, e cioè la coltivazione tipica del feudo, erano invece caratterizzate da un massiccio e secolare ricorso alla coltura intensiva. La superficie agraria era così suddivisa: Tipo di coltura Estensione in salme giardini orti alberati orti semplici canneti pioppeti seminativi alberati seminativi semplici pascoli oliveti vigneti alberati vigneti semplici sommaccheti frassineti Case campestri altro totale 30,312 19,463 47,815 38,127 1,787 267,635 664,063 773,804 347,619 1236,310 1530,459 213,980 12,701 5,509 20 5236,58493 Le principali produzioni erano dunque quelle del vino, dei cereali, dell'olio e del sommacco, che, tranne i cereali, costituivano prodotti di esportazione.94 Ma non 90 Cfr. ibidem. Cfr. Ibidem, pp. 125-126. Per il dato del 1831 cfr. Giornale dell'Intendenza di Palermo, 30 settembre 1837, n. CCXXXI, pp. 178-179. 92 Importanti anche le torri di campagna: Albaciara, Antiochia (Pollastra), Bracco, Regia Corte, Carrozza, Gesuiti, Giambruno, Cicala, Girgentana, S. Giuseppe, Passo di del nu?' Conti, Madonna del Ponte, Raccuglia, Federico, Milioto, Rapitalà, Pacino, Ramotta, del Re, Spatafora, Rognone, Trappeto, Solitano, Turrisi. Le migliori erano quelle di Milioto, Bisazza, Cicala, Albaciara. Le torri urbane di cui fa menzione il Villabianca sono quelle di Bisazza, Scammacca e Bellaroto (sul finire del paese verso nord), Camillo (all’angolo del Carmine), Madonna di Ballo del marchese della Gran Montagna, Torre dell'antico campanile della madrice, Ragona (di fronte alla Chiesa del Crocifissello), Castello (delle pubbliche carceri) che si incontrava entrando nell'abitato da oriente: non più utilizzabile a partire dal 1791. Vi erano poi due torri vicino l'ospedale e la torre di Vito d’Urso. Cfr. VILLABIANCA, cit., ff. 169-171. 93 Cfr. GIOACCHINO DI MARZO, Dizionario Topografico della Sicilia di Vito Amico, Cit., vol. II, pp. 324326, n. 1. 91 50 scarsa importanza economica e sociale avevano i pascoli che presupponevano una notevole presenza di bestiame da allevamento e quindi l’attività di una articolata categoria di ‘vaccari’, pastori, allevatori di cavalli da tiro, da sella e da soma, curatoli, annalori e via di seguito, che nel loro insieme costituivano un mondo quasi autonomo. I cicli e i metodi produttivi, la lontananza dai centri urbani, l’assenza delle figure dei grandi proprietari, l’intermediazione dei sovrastanti e dei gabelloti rendevano questo mondo, per lo più legato alle masserie, svincolato dal sistema delle regole prevalenti nelle comunità abitative; un sistema gerarchico legato alla sedentarietà delle imprese produttive e perciò più soggetto ai vincoli della dipendenza feudale. L'abbondante produzione di uva aveva dato origine, già all'inizio del secolo, a un fatto straordinario: la costruzione, quale modello di una concezione microefficiente dell'agricoltura, della «cantina del real podere », in un latifondo di 84 salme di fertili terreni irrigati dalle acque del Lago e di Mirto, attraversati da vie carrozzabili, e adibiti a frutteto (3.600 alberi da frutta), vigneto, oliveto, agrumeto, e alla coltura del sommacco.95 Da aggiungere una villa e un palazzo con teatrino già di proprietà del marchese di Gran Montagna. I lavori, ultimati nel 1803, avevano comportato una spesa di 18.000 scudi, eccettuate le spese vive destinate ai terreni. Vale la pena dare una sommaria descrizione della cantina, anche perché questa rappresentava la maggiore realizzazione regia per i partinicesi. Sentiamo il Marino: La vasta piazza della medesima dividesi con simmetria in tre corpi. Una scala pianamente uguale fa scendere i muli carichi d'uva, e l'introduce nel corpo della loggia, ove in prospettiva un atrio più largo li fa salendo uscire in prospetto della montagnola di Cesarò. Soprastano gli altri due corpi con muraglie di grosse pietre riquadrate. Sono esse maestose, senza ornamento, e ben sostenute in più parti da chiavi di ferro, dominando un magazzino si vasto da conservare i prodotti di quella industria agraria. Tutto ispira li dentro il compiuto disegno sovrano e la cantina, il Castellaccio, il lago, le stradelle carreggiabili, gli acquedotti di pietra viva e calce, le macchine più adatte per la estrazione dell'olio e del vino mustale con organi ed altri strumenti agrari venuti dall'estero, costituiscono nel real podere un grandissimo monumento di agricoltura.96 La cantina poteva assorbire manodopera ed impiegati in un rapporto di lavoro imprenditoriale di stampo non padronale. Nell'azienda trovavano posto un commissionato, poi detto maestro segreto, col soldo di once 28 e tarì 24 annui, un contabile con once 36, un guardabosco con once 36, un cassiere con once 24, un facchino con once 12, un notaro con once 24 , 94 Ibidem, e G. PITRÈ, Palermo nel Settecento, Palermo, Remo Sandron, 1916, p. 36. 95 Si può avanzare l'ipotesi che «l'esperimento dd vino» fatto a Partinico in contrada Giancaldaia dal cav. D. F. Lioy e pubblicato per espresso desiderio del re nel 1800, sia stato uno dei primi stimoli alla costruzione di questa cantina. In seguito ad alcune indagini fatte dal Lioy a Partinico e a Marineo, tra la fine del '700 e le soglie del nuovo secolo, erano state denunciate le tecniche antiproduttive usate dai contadini nella produzione del vino. Si trattava di una condizione legata alla mancata disponibilità di aree e mezzi idonei e sufficienti alla lavorazione del prodotto. A Prizzi e a Palazzo Adriano il deterioramento del vino era dovuto a cause igieniche. Scrive, infatti, il Lioy: «Tentai di cacciare il fumo dalle abitazioni... dove per introdurre le ciminiere proposi di farne costruire per modello a spese del re in quelle dei poveri, ma non fu possibile persuadere coloro, i quali se la presero contro di me, come se così avessi voluto togliere il beneficio del calore, che loro dava il fumo in tempo d'inverno»; «la forma dei palmenti è quadrilunga, di piccola profondità, a cielo scoperto con evaporazione e perdita strabocchevole dello spirito di vino»; «il torchio è poco meglio disposto dal primo inventato dall'uomo»; ecc. Cfr. F. LIOY, Memoria per la manipolazione dei vini, Palermo, Real Stamperia, 1800. Il prezioso documento è allegato al mio volume Uomini e terra a Partinico, Palermo, Vittorietti, 1981, pp.119-126. 96 Cfr. S. MARINO, cit., p. 122. 51 e successivamente un curatolo con once 36, uno scrivano con once 48, un giardiniere con once 84, un cantiniere dei magazzini con once 36, un soprastante con once 48, un custode del real casino con once 60, un cappellano con once 48, un carrettiere con once 36, una portinaia con once 6, due custodi con once 72.97 Ma a parte questa realizzazione statale, tornava prevalente il quadro di un sistema che si manteneva con la consueta pratica assistenziale, on la concessione di «elemosine vitalizie» che vennero accordate a molte famiglie. Tali elemosine assommavano a 550 once annuali ed erano sensibilmente diminuite, quando il Marino scriveva la sua storia. Ci troviamo quindi di fronte a evidenti contraddizioni, indicative dello stato di miseria di estese popolazioni e dell'incapacità di dare una impostazione organica al problema dello sviluppo economico, nonostante gli sforzi compiuti in questo senso dal governo. In questa situazione, particolari difficoltà doveva affrontare la piccola impresa, non agevolata da alcuna incentivazione non assistenzialistica e schiacciata dalla continua pratica dell'usura: ...essa bene spesso considerevolmente alta fra noi somministra forte argomento del grave disagio, che aspramente sperimentasi per la concorrenza accresciuta nel domandare e nella scemata nel dare ad imprestito. I nostri agricoltori vedonsi spesso nell'obbligo di vendere con perdita i prodotti non ancora perfezionati, e trovano difficoltà e costosi gli imprestiti, cadono malvolentieri in questo inconveniente per soddisfare i pesi gravanti su i terreni, per accorrere alle spese della coltura e allo scarso pane della loro famiglia, obbligati essendo a pagare interessi ruinosi.98 Così scriveva il Marino e indicava alcune sanatorie, come il miglioramento delle attrezzature nella produzione del vino (necessità individuata più di mezzo secolo prima dal Lioy), dell'olio, della frutta e degli ortaggi; 1'« istituzione civile di una banca agraria con una cassa di risparmio» che intervenisse con prestiti a basso interesse; la costruzione di nuove strade, come la trasversale Gibellina-SalaparutaPartinico-S. Cataldo-Terrasini. Era quella del Marino una posizione riformista, che avendo assimilato il programma federalista della dottrina giobertiana e neoguelfa, ripiegava nel sogno della causa nazionale prima (come dimostrano i suoi Stati Uniti d’Italia) e ristagnava, poi, nell'ambito degli interventi dall'alto, al di fuori dell'iniziativa popolare e dell'organizzazione dello stato di disagio. Il Marino ereditava la concezione di una specie di «delega al parlamento », qual era, ad esempio, quella dell'avvocato Gaetano Bonura, eletto deputato di Partinico al parlamento di Palermo, riunito nel 1812, e che era propria ormai di una borghesia che aveva cominciato a fare dello strumento risorgimentale il reale terreno di battaglia del riformismo moderato. Altra cosa sarà – come vedremo- l'antiborbonico Vito Ragona, un prete formatosi nella milizia della rivoluzione del '48. I .Maestri segreti, sostituiti al tempo del Marino dal ricevitore del registro, furono anche i notai locali come Sebastiano Cannizzo. Notai troviamo anche tra i ricevitori 97 Ibidem, p. 123. 1 oncia = 12,75 lire; 1 tarì= 8 soldi e 2 cent.e mezzo; 1 rano = 2 centesimi; 100 once = 1275 lire. Per i bilanci dell'azienda commendale cf. A.S.P., Real Segreteria, Incartamenti e reali dispacci, busta 5468 (anno 1811, Conto di introito dell' Amministraz. della Commenda della Magione, Parco, Partinico e R. Podere). Tra le Collettanee e Materiali a parte. 76 Cfr. ibidem, p. 137. 52 di dogana, come Silvestre Patti, che fu procommissario della repubblica francese, giudice e sindaco. Sindaci furono notai, dottori, marchesi e baroni: il notaio Raffaele Cannizzo dal 1819 al '23; Pietro Colina fino al '26; il barone della Leggia Giuseppe M. De Francisco fino al '28; il marchese Ferdinando Bellaroto dal '46 al '48 e dal '49 al '50 (gli succederà dal '53 al '55 Gian Michele De Francisco, barone della Leggia); il dottore Ignazio Bonura nel '45. Al barone De Francisco si doveva il merito di avere piantato la magnifica fontana di marmo in piazza duomo, di avere migliorato l'illuminazione notturna, di avere costruito la strada consolare lastricata. Ma la detenzione del potere da parte di certa borghesia, era ancora il riflesso della feudalità agraria, ancora estesa, anche se non sempre omogenea; tuttavia la posizione del Marino è indicativa dei tempi nuovi e di una realtà economica e sociale in piena trasformazione, grazie alla grande disponibilità di acqua. L'estensione dei canali d'irrigazione aveva riproposto in termini drammatici l'annoso problema del canone delle acque.99 Ogni anno il mese di aprile era infatti un mese disgraziato per i contadini, specialmente per gli ortolani e i proprietari più poveri. Un bando pubblico preannunciava il pagamento della gabella. Al padrone della sorgente erano dovuti un'oncia e due tarì per un'ora d'acqua somministrata ai giardini e due once e quattro tarì per un'ora d'acqua data agli ortaggi. Col tempo il canone (che si pagava in due rate: a novembre e a febbraio) fu accresciuto a un'oncia e sei tarì per i giardini, e a due once e 12 tarì per gli ortaggi. Considerata questa assurda condizione di feudalità il Marino auspicava «nell'interesse dell'agricoltura» una legge abolitiva che regolando l'utilizzazione delle acque abolisse la feudalità del 6 agosto 1806. Ma era questo uno degli ultimi sintomi del permanere di angherie medievali in un'epoca in cui ormai cominciava ad affermarsi in modo sempre più decisivo la piccola e media borghesia, unitamente alla significativa presenza della piccola azienda. Antiche attività erano quelle esercitate dai mulini, dalle cartiere, dai tappeti di cannamela (canna da zucchero, e olio), dagli ‘stazzoni’. Un quadro dettagliato ci viene fornito, per i primi anni dell’’800, dal notaio Di Bartolomeo: Sono diverse, e in diverse tenute del territorio nostro le fabriche, ovvero arbitrii a varie cose destinati: infiniti – per così dire – i torchi volgarmente appellati stringitori da spremer l'uva, oltre agli infiniti esistono nella città e suborghi: molti i trappeti da olio di olive, e lino; apparte di quei numero sette nella città, che inservono pubblicamente a comodo di tutti, cioè: quello de' fratelli D. Niccola, e D. Luigi Minore nel quartiere dell'Agonizzanti: l'altro di D. Antonino Ragona nel suo terreno e quartiere di San Giuseppe; quello del Dr. D. Domenico Puma nel piano del Collegio di Maria: quell'altro di D. Giuseppe Zaccaria nel quartiere di D. Domenico Sapienza alla fine dello stradone: il quinto di D. Domenico Randisi nel quartiere de lo Presti: il sesto di Mastro Giuseppe Patti nel quartiere di Bisazza: ed il settimo del Marchese D. Pietro Bellaroto in detto quartiere, e dentro il recinto, e case della torre del medesimo. Vi ha similmente l'ordegno da estrar la seta dal verme, detto il mangano in fine dell'abitato, e in principio del luogo del capo d'acqua. Sino a dieci anni sono esisteano e lavoravano della carta da straccio due cartiere nella contrada di S. Francesco di Paola appartenente a D. Palmina Seregnano e Crapanzano – oggi l'una distrutta e l'altra lavora dette lane di albraggio, detta il paratore di Seregnano – Giace questo arbitrio presso la famosa collina detta del Re Cucco; e dessa tutta ingombra e di edere e di fichi d'india; si aprono ai di lei fianchi vaste bocche d'orride caverne quali si stradano in vastissimi sotterranei. Quivi vuole l'antica superstiziosa ignoranza del vulgo, che vi siano de' nascosti tesori impossessati da spiriti infernali, e giunge a segno la guasta fantasia di cotesti avidi creduli, ad assicurare altrui costantemente, aver udito, e veduto colà dell'urli, strida e gemiti, e dei spettri, e larve terribili, farvi frattanto in esse gli uccelli di rapina i loro nidi, ed è altresì lo ricovro 99 Ibidem, p. 132. 53 degli altri di passa in differenti stagioni partendo da libeccio per indi avvanzarsi a ritrovar altro asilo a greco su le vette della montagna ov'era Elima ossia Palamita. Assicura ne suoi opuscoli e notizie istoriche Francesco Maria Emanuele Conte Marchese di Villabianca, che amendue le riferite cartiere di Seregnano nel passato secolo lavoravano perfettamente della carta di scrivere; ed egli stesso dice possederne ancora identificamente dei fogli; soggiungendosi all'ugual tempo, che intanto si sospesero i lavori di tal carta, non già perché non riesciva perfetta, ma in quanto la spesa eccedeva poi il prezzo della carta nel comune spaccio se ne faceva. Ch'eravi ancora nei tempi andati nella nostra campagna l'ordegno di estrar lo zucchero dalle cannamele va ciò senza contrasto come abbiam prima di adesso riferito, e perché il luogo ne ritiene sino a dì nostri la denominazion di Trappeto, e perché lo assicura nella sua Sicilia il Fazello. Sonovi di presente, e vi sono stati mai sempre nella nostra città dei stazzoni i cui si lavorano a dovere i vasi di creta cotta per uso d'acqua, per tegole, e mattoni da pavimento, e per fabriche di dammusi finti, osia, volte di camere. Vero si è che quest'arte di costrurre detti finti dammusi di mattoni la portò nel passato secolo in questa nostra città il celebre Maestro Francesco Brù spagnolo, ma i di lui scolari nostri concittadini l'appresero sì finamente, che non è ardire l'assicurare che superarono e tutt'ora superano il lor maestro, ed inventore. I vasi poi anzidetti per conservarvi dell'acqua e potabili, come in servigio da cucina, e per piantarvi de' fiori e simili; i nostri stazonari non invidiano alcuno della lor arte: e tanto sono abbondanti tai vasi, che vanno di buon mercato, e se ne provvedono altresì le vicine terre e città. Due sono le tonnare appartenenti al nostro contado: l'una è quella denominata li Magasenazzi posta alla punta dove termina il littorale in cui succede quello d'Alcamo. Cotal denominazione ella l'ha tolta dal vallone detto Magasenazzo, il quale parte dalla surriferita città a trovare il mare. Le sta alle rive una torre di guardia per difesa della pescagione de' tonni, ed alelonghe. Di essa tonnara ne è la proprietaria Signora la Eredità [?] de' Baroni Specchi di Naro. E' l'altra la Sicciara, che sulla punta fondata circoscrivesi, e si arroga il nome del villaggio, o sia casale ancor detto Sicciara, suborgo tuttora della città nostra, malgrado la dismembrazione nello spirituale dalla nostra Madrice, come si è detto nel suo precedente capitolo. Vien quella fiancheggiata dalla Cala del Lagone. L'antica di lei signoria la tenne in prima il Principe di Paceco in forza dell'avvenutogli retaggio dell'illustre famiglia Fardella da Trapani; adesso però è posseduta da D. Cristina di Gaetani, e Basile di Palermo; riescendo alle volte la pesca così abbondante, che reca alla popolazione del vantaggio notabile. Oltre alla pescaggione delle anzidette tonnare non manca il littorale di suddetti mari de' magasenazzi, Sicciara, Trappeto, Salvina, e S. Cataldo di abbondare della pesca d'ogni sorta di pesci di bellissima qualittà; in uso a comodo dei cittadini in cui vengono dai pescivendoli a smerciarsi diariamente a discreto prezzo. Nell'anzidette fiumare non meno, che nei valloni e laghi ben anco si fan delle pesche continue di pesci d'acqua dolce; come a dire di anguille, moletti, tenchie, gorgioni, corinella, minusa, gambaro, granchi, ranocchie, e simili di eccellente e saporita condizione: e tante delle volte queste diarie pesche suppliscono e correggono la mancanza del pesce marittimo nei tempi sterili, cattivi, o tempestosi, a gran comodo, e piacere della popolazione. Delle anguille poi particolarmente n'è dovizioso e perenne – ed anco de' moletti, e tenchie – tutto il corso del Jato sino alla di lui foce, nonché delli Cuti, e soprattutto il Lago della Cubba, pesca riserbata ad uso, e diporto peculiare di S.Maestà nostro signore; e ne' tempi trasandati, da' nostri illustri Abbati e Commendatarii.100 E, da buon notaio, il Di Bartolomeo ci dà anche un quadro sintetico delle principali produzioni del suo tempo: 100 Cfr. GIUSEPPE MARIA DI BARTOLOMEO Storia di Partinico, Con cenni alla storia di Altofonte, Borgetto, Balestrate e Tappeto, Memorie storiche intorno alla fondazione, progresso e stato della Venerabile Reale Abbadia di Santa Maria d'Altofonte sotto titolo del Parco e Partinico, e delle stesse popolazioni e contadi: ricavate e scritte da notar Don Giuseppe Maria di Bartolomeo di detta Città di Partinico. Consacrate a Sua Altezza il principe D. Leopoldo di Borbone secondo genito del Re Signore Delle Due Sicilie Ferdinando primo Regio Commendatore di suddetta Abbazia, oggidì aggregata alla Real Commenda della Maggione , 1805; nel capitolo: Fiumi, fonti d'acque, mulini, cartiere, stazzoni, trappeti, mangani da seta, tonnare, e laghi di pesci d'acqua dolce, che si trovano nella città di Partinico e suo territorio e di lui produzioni. Manoscritto in possesso di Giuseppe Geraci, arciprete di Partinico. 54 Non è finalmente da passarsi in silenzio la insigne feracità del nostro territorio: può quella con franchezza arguirsi dalla di lui doviziosa annuale produzione de' generi, principali capi del commercio. Diamo di essi un brieve dettaglio a soltanto appagare la curiosa intelligenza di chi mai l'ignorasse. Vino: botti ottomila circa. Olio da ulivo: da circa quintali settemila. Canape: da circa dugento quintali. Lino: da circa quintali cento. Melloni d'acqua e da pane: sopra quintali trentamila. Melogranati Ricci, napoletani, valenziani, ed agrodolci, portogalli, agrumi, noci, fichi secchi, e simili, frutti in copia tanto considerevole, quanto apparte di restarne la città provveduta, ne avanza un'infinità capace ad abbondare le vicine terre, e città, e se ne estrarregna per Napoli ed isole aggiacenti alla nostra Sicilia. Tartaro da botte: da circa quintali dugento. Cenere di feccia, e di soda: in circa quintali cinquecento. Manna: in pochissima quantità, e par che il paese non la comporti. Gli ortaggi e frutta d'ogni specie, e genere, a riserba delle cireggie dolci, che il suolo non le produce, sono in abbondanza straordinaria, ed in eccellente qualittà. Riguardo poi al grano, ed orzo non son costoro della primaria produzione, ma non sono frattanto dell'ultima. [Se ne produce] però tal quantità che Partinico vien riputata per caricatore: assegnoché provvista la città ne avanza tanto quanto i suoi mercatanti ne fan l'abbasto, e provista alli convicini paesi di Valguarniera Ragali, Borgetto, Montilepre, Giardinelli, Favarotta, Cinisi, Torretta, Capaci e Carini come annualmente da varii atti pubblici si rimarca.101 È questo un quadro che serve a dare un'idea della condizione in cui viveva il partinicese tra i tempi del Di Bartolomeo e quelli del Marino (1800-1850)102 e che appare indicativo anche del particolare tipo di cultura materiale proprio delle classi sociali di quel tempo. Il Marino definisce il partinicoto «fervido nelle passioni »; il «villano» è per lui «fatalista », «alieno dall'enfasi loquace»; anche se «industre e laborioso» ha il torto «di non lasciarsi dominare da quelle pratiche,che sono necessarie alla riuscita dei vini buoni e da pasto »; «potrebbe e dovrebbe concorrere alla perfezione nelle piantagioni delle viti, e nella fattura e fermentazione dei vini », ma è diffidente e non lo fa. La sua concezione del mondo del lavoro è statica e limitata, ma ciò nonostante egli non guarda a questo mondo con estraneità, lo confina piuttosto in un quadro d'insieme in cui pare che le classi non esistano, anche se qua e la è possibile cogliere delle differenziazioni tra il mondo dei « galantuomini » e quello delle «maestranze », che vede in «un lusso maggiore ». 101 Cfr. ibidem. Per gli approfondimenti sulle condizioni di vita e la cultura materiale del partinicese Cfr. G. CasarrubeaG. Cipolla, Quotidiano e immaginario in Sicilia. Burgisi, santi e poveri diavoli nel partinicese, Palermo, Vittorietti, 1984, e, degli stessi autori, Società e storia di un territorio. Il partinicese, Palermo, Vittorietti, 1982; sono per altro utili il Progetto di Opere pubbliche del Comune di Partinico, Palermo, stabilimento tip. di F. Giliberti, 1871 reperibile alla B.C.P., ai segni CXXXVI-F-218 n. 1-22, n. 5; il Regolamento di polizia urbana e il Regolamento di polizia rurale dello stesso comune, stampati a Palermo nella tip. di F. Nocera rispettivamente nel 1877 e nel 1878 e reperibili nella stessa biblioteca ai segni CXXXVI.F .218, n. 1-22, n. 15 e n. 16. 102 55