associazione culturale Larici – http://www.larici.it
Nicolas Brian-Chaninov
La Chiesa russa
L’Eglise russe
19281
1 Editions Grasset, Paris 1928; trad. it. Edizioni Cristofari, Vicenza 1931. Trascrizione a cura
dell’associazione culturale Larici, 2006.
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INDICE2
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Prefazione
CAPITOLO I — Evangelizzazione della Russia
CAPITOLO II — Bisanzio e lo Scisma d’Oriente
CAPITOLO III — La Russia e il mondo cattolico sino alla caduta di
Bisanzio
CAPITOLO IV — Il movimento «Uniate» nella Russia del Sud-Ovest
CAPITOLO V — Mosca - «Terza Roma»
CAPITOLO VI — Il monachismo
CAPITOLO VII — La Chiesa Russa al tempi degli Imperatori
CAPITOLO VIII — Liturgia e musica di Chiesa
Bibliografia
PREFAZIONE
Il celebre metropolita Macario ha dedicato tredici volumi a una storia
della Chiesa russa. Non potendolo seguire in così lungo cammino dobbiamo
limitarci a questo piccolo libro.
Un certo numero di fatti, alcuni avvenimenti decisivi intorno ai quali si
raggruppano e ordinano figure di alto rilievo, — ecco che cosa è importante
conoscere per rendersi conto, con esattezza, del posto che la Chiesa russa
occupa nella storia religiosa dei popoli, e di ciò che la distingue dalle altre.
Resta però da apprendere la cosa più difficile: la religiosità del popolo russo,
o come viene chiamata laggiù «la fede russa» (rousskaia véra).
Per descrivere questa religiosità noi ricorreremo non tanto alla storia
della Chiesa propriamente detta quanto allo storico di certi ambienti che in
tutti i tempi non hanno avuto che degli attacchi molto radi con la gerarchia
ecclesiastica del loro paese e che ci danno a questo soggetto delle luci
preziose.
Da molti secoli tra il popolo russo e il resto del mondo cristiano, esiste,
ahimè!, un muro granitico contro il quale fu fiaccata la buona volontà di
coloro che, nell’interminabile corso del tempo avevano voluto far rientrare
quel numerosissimo popolo nell’unità della Chiesa.
2 In originale la Prefazione è a p. 7, il Cap. I a p. 9, il Cap. II a p. 33, il Cap III a p. 73, il
Cap. IV a p. 105, il Cap. V a p. 119, il Cap. VI a p. 137, il Cap. VII a p. 171, il Cap. VIII a
p. 219 e la Bibliografia a p. 225.
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Però, a dispetto della rigorosa intransigenza adottata ufficialmente dalla
Chiesa russa riguardo all’idea di unione con Roma, la speranza in un tempo
di perfetta concordia e di pace non venne mai meno in Russia; la si trova
espressa persino nelle parole della preghiera recitata ogni giorno dal
diacono e che si trova anche nella liturgia di san Giovanni Crisostomo: «per
la pace del mondo intero, per la conservazione delle Sante Chiese di Dio e
l’unione di tutti. Preghiamo il Signore».
E tutto ciò è naturale, poichè in realtà, come giustamente dice il R. P.
Pierling, nel primo volume della sua opera magistrale: «La Russia e la Santa
Sede» «invano si cercherebbe una data precisa o un fatto illustre che possa
essere segnalato come punto di partenza della separazione tra la Russia e il
centro cattolico.
La separazione avvenne implicitamente, a poco a poco, senza preciso
motivo, in virtù della sottomissione gerarchica della Chiesa russa al
patriarcato di Costantinopoli, ma senza che i Russi abbiano preso parte sia
alle lotte dottrinali, sia alle lotte politiche dei Bizantini».
Però noi non dobbiamo lasciarci scoraggiare dall’apparenza dei fatti, non
dobbiamo arrestarci a mezzo del cammino sotto pretesto che la strada è
lunga e difficile. Rileggiamo piuttosto le belle parole che un eminente
teologo russo, l’arciprete Maltzerw, ha premesso al suo Monologium: «Possa
Dio affrettare il giorno in cui le venerabili e antiche Chiese dell’Oriente e
dell’Occidente si riuniranno nel primo amore, affinchè si compia l’intimo
desiderio del cuore del Redentore nell’ora estrema della sua vita: «Ut
omnes unum sint».
Settembre 1927
CAPITOLO I.
L’evangelizzazione della Russia
I.
Il cristianesimo fu instaurato ufficialmente in Russia a mezzo
dell’intermediario di Bisanzio alla fine del sec. X, esattamente nel 988-991.3
Veramente, molto prima di questa data erano avvenute altre conversioni
3 Anno 991. Il patriarca (di Costantinopoli) invia a Volodimer — che era stato battezzato nel
988 o 989 — Leone, in qualità di primo metropolita di Kiev. Volodimer fa costruire dai
Greci una chiesa dedicata alla Santa Vergine — Cf. Muralt, Essai de chronografie
byzantine, T. I, pag. 572.
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individuali e collettive, come quella, ad esempio, della principessa russa
Olga (Elga) vedova del defunto principe Igor e reggente il principato di Kiev
durante la fanciullezza del figlio Sviatoslav, e anche di un gruppo di così
detti guerrieri «russi» che furono battezzati dal patriarca di Bisanzio, a
Costantinopoli. — Vedere la nota A alla fine del seguente capitolo. — D’altra
parte, dalla fine del IX secolo esisteva a Kiev una piccola Comunità cristiana
di rito greco che possedeva una Chiesa dedicata al profeta Elia, il Santo
giudeo-cristiano per eccellenza.
Questa Chiesa, come dice la cronaca russa di Nestore, — Nestore 6459,
comp. 6477 e 6490 — era situata sulle alture a strapiombo del Dnieper
accanto al luogo che servì all’intervista dei Russi con i Khazars. Del resto
questa parte della Russia fu evangelizzata da missionari venuti dal sud-est
della Russia, cioè dal paese stesso degli Khazars. Il regno orientale degli
Khazars era popolato da un numero abbastanza considerevole di Giudei che
abitavano principalmente i villaggi situati lungo le rive del mar d’Azof.4
Tutta questa contrada era continuamente in relazione con Bisanzio donde
riceveva con molte altre cose, brevi spunti di civiltà, del Basso Impero. È
certo che il Cristianesimo vi penetrò assai per tempo, ma è d’altra parte
certo che non conservò la sua primitiva purezza, essendosi confuso ben
presto a reminiscenze del culti dell’Iran e sopratutto allo spirito e alle
dottrine giudaiche la cui presenza in questi luoghi era evidente. Ma
l’esistenza d’un cristianesimo che sapeva di Giudaismo non avea niente di
sbalorditivo, causa i legami reali, esistenti fra le due religioni, tanto vero
che, naturalmente, gli abitanti di queste contrade, la cui coltura generale a
quest’epoca lasciava molto a desiderare, non ne percepivano punto le
differenze ed erano portati a confonderle. Però, a dire la verità, un simile
miscuglio del cristianesimo con il giudaismo esisteva nel IX secolo in paesi
ben più civilizzati della Russia meridionale d’allora, per esempio in Bulgaria.
— Malichevski: Evrei v ioujnoi Rossii i Kiévé v. X-XII vekakh (I Giudei nella
Russia del Sud e a Kiev nei secoli X-XII) Raccolte dell’Accademia
ecclesiastica di Kiev, 1878 — Parkhomenko, Natchalo, Khristianstva Rousi
(Il principio della Cristianità della Russia) Poltava 1913.
In Russia e anche fuori si è molto discusso per sapere dove e quando la
principessa Olga si fece battezzare e anche qual’era, con certezza, la sua
nazionalità. Alcuni storici russi, che altre volte non hanno mai voluto
ammettere, per ragioni d’un nazionalismo stretto, la provenienza
4 Il dotto filologo russo Vsévolod Miller: Materialy dlia izoutehenia évreïsko-tatarskago
iazika (documenti per lo studio della lingua ebraico-tartata), St. Petersb., 1892) era
d’avviso che la culla del popolo giudaico del Caucaso si trovasse nel nord-ovest dell’antico
impero dei Medi conosciuto ai nostri tempi sotto il nome di Azerbeïdjan. L’influenza
giudaica nella Georgia risale al tempo di Nabuchodonosor. Nel secolo VII, i Giudei erano
considerati come un popolo abitante già da lungo tempo i villaggi della Georgia.
Al principio della nostra êra essi si sparsero per tutto il Caucaso donde ben presto
passarono sul Don in Crimea e nella penisola di Taman.
A Kertch vi era sin dal primo secolo una grande colonia giudaica che aveva una sinagoga.
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scandinava dei primi principi russi,5 hanno, ugualmente e per le medesime
ragioni, contestato le origini nordiche della sposa del principe Igor. — «
Inger, rex Russorum…» Liutprando di Cremona, Antapodosis Lib. V 327 (Ed.
Pertz, Monum. Germ. hist. Ser. t. III, pag. 264, 363). — Ma non si può più
avere alcun dubbio a questo riguardo.
Olga era d’origine scandinava, il suo primo nome Elga lo prova già
sufficentemente (Helga voleva dire «Chiarezza» nella lingua dei primi
Germani). — Goloubinskyi, Istoria rousskôï tserkvi (Storia della Chiesa
russa) t. I, pag. 74.
Riguardo al luogo e alla data esatta della sua conversione al
cristianesimo, non si può dir niente di preciso, se non che questo
avvenimento dovette avvenire verso l’anno 960, epoca in cui Olga inviò
degli ambasciatori all’imperatore Ottone il Grande.
Degli storici ortodossi, stando a quanto dice la Cronaca di Nestore, hanno
tentato di provare che la principessa Olga fu battezzata a Costantinopoli dal
patriarca Poliecte. Però nessun documento serio serve d’appoggio alla loro
opinione. Persino l’imperatore Costantino VII Porfirogenete, facendo
menzione nei suoi scritti, della visita che Olga fece alla corte di Bisanzio,
non parla assolutamente del suo battesimo a Costantinopoli. — Costant.
Porphirogenetus, De ceremoniis Aulae Byzantinae Lib. II. Cap. 15 (Alia
receptio Elgae Russae) Ed. Reiski, Corp. Scrip. hist. byz., Bonn, 1829.
Al contrario noi conosciamo bene l’intenso desiderio di Olga di avvicinarsi
all’Occidente e i suoi tentativi di stringere delle relazioni con l’imperatore
Ottone perchè mandasse al «paese di Kiev» alcuni missionari di rito latino.6
Alla richiesta di Olga, di inviarle dei predicatori, l’imperatore Ottone uomo
molto zelante per l’evangelizzazione dei pagani, domandò all’arcivescovo di
Magonza, Guglielmo, un missionario esperto. Questo prelato, fece uscire dal
monastero di San Martino di Treveri Adalberto, figlio del conte Mosellan di
Remiche (vecchio ducato di Lussemburgo) personaggio di grandi meriti.
5 L’origine normanna o scandinava dello Stato russo non è più contestata seriamente da
nessuno, poichè posa su fondamenta solide. Ma non va così per la provenienza del nome
Rouss.
Gli storici russi della Scuola detta normanna affermano l’origine scandinava del nome
Rouss, perchè gli Scandinavi si davano essi stessi questo appellativo. Gli Svedesi furono
chiamati dai Finni successivamente Ruotsi (dal Livii) Rot’s, (dagli abitanti dell’Est) — Rötsi
(nel Vatland), Ruotsi, Ruossi, Ruonti, Ruohti e Ruotti, (in Finlandia e in Germania). Questo
appellativo poteva derivare dalla vecchia parola germanica «Krôp» (la sillaba «p»
corrisponderebbe al th inglese), come lo fa notare il celebre linguista russo Ernesto Kunik
nei suoi commentari all’opera di B. Dorn Gaspia e come lo ha dimostrato recentemente un
altro dotto russo, Braun. Però potrebbe darsi che la parola Rouss fosse di provenienza
gotica, che sia passata poi nei dialetti finnici per divenire in seguito padronanza della
lingua slava.
La parola « Krôp » da principio può aver indicato esclusivamente i Goti del continente ed
essere stata applicata più tardi ai Goti dell’isola Gotland, poi ai Gaouts della Svezia
meridionale. Di là non c’era che un passo per indicare sotto questo nome tutti gli abitanti
della Svezia, fatto che avvenne naturalmente.
6 Annali di Hildesheim, anno 960; Annali di Corvey (Cfr. Jaffé, Monumenta Corbelensia,
anno 959.
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Consacrato nel 962 a Magonza, Adalberto partì subito per la nuova
destinazione. Ma s’accorse che i grandi del paese e il popolo russo non
aveano le stesse disposizioni della sovrana: Adalberto non poteva istruirli, e
riceveva solo dei cattivi trattamenti; alquanti dei suoi compagni furono
massacrati ed egli stesso fu costretto a ritornare in Germania. — Acta S.
ord. S. Benedicti (ed. Mabillon) 1685, V, pp. 579, 584. Annales Ottenburani
(Pertz, Monum. Germ. hist. Sacr, t. V anno 960).
Senza dubbio i costumi che regnavano in quei tempi nella Russia
meridionale erano depravati. Si può dire anche che furono d’una grande
rudezza. Il che si spiega per mezzo della condotta di vita degli abitanti del
principato di Kiev attraverso le loro occupazioni ordinarie e anche, mediante
ciò che vi era di primitivo e di grossolano nelle loro concezioni religiose. Per
molti secoli questi Slavi-Russi vissero sopratutto di rapine e di brigantaggi.
— Ibn Dasta (Abou-Ali Ahmed ben Omar) Izvestia o Khozarakk… i Rousskikh
(Informazioni sopra i Khazars… e i Russi) tradotti e pubblicati da D. A.
Chwolson. St. Petersb. 1869 p. 55 paragrafo 2.
D’altra parte erano i loro capi che ne davano l’esempio saccheggiando i
loro vicini per interesse personale o qualche rara volta per conto della
comunità a cui essi erano a capo.
Riguardo alle credenze dei primi Russi, consistevano, come vedremo più
innanzi, in una sorte di naturalismo; nella venerazione d’una forza psicofisica, ma non formavano in alcun modo una religione di un popolo
civilizzato.
Evidentemente, con il tempo, vale a dire dopo l’introduzione del
Cristianesimo, i costumi dei Russo-Slavi primitivi si addolcirono
considerevolmente. Ma la vendita degli schiavi, che costituiva uno dei mezzi
più lucrativi e più fiorenti del commercio esterno del principato di Kiev, si
mantenne sino all’XI secolo. — Ibn Foszlan (Cf. Froehn: Ibn Foszlan ’s und
anderer Araber Berichte über die Russen aelterer Zeit, St. Petersbourg,
1823, S. 7). — Però il fatto più ripugnante era che le schiave prima d’essere
vendute, dovevano essere concubine del loro proprietario. Il principe
essendo il primo mercante, il primo «negriero» del principato, era colui che
avea il maggior numero di concubine. Lo storico Arabo Ibn Foszlan (o
Fodhlan) contemporaneo di Vladimiro di Kiev, afferma che questo principe
possedeva un vero harem che contava non meno di quaranta donne. — Ibn
Foszlan, op. cit. 21.
Per le donne pagane di Vladimiro vedere la Saga de Snorre Sturleson e
anche Soloviev, Storia di Russia (L. I. t. I. p. 191).
Del resto, questo Vladimiro, sino alla sua conversione al Cristianesimo fu
un corrotto saguinario, non privo però di attitudine al governo. — Thietmar
di Mersebourg (Chronicon, L. VII cap. 25). «Regisque Ruscorum Vlodimiri…
fornicator immensus et crudelis».
Sebbene avesse sotto gli occhi l’illustre esempio della nonna, la
principessa Olga e attorno a sè altri esempi fra i cortigiani e i suoi «soldati»,
Vladimiro «il gaio sole», esitò lungo tempo a convertirsi al cristianesimo.
È molto probabile, tesi che sostiene lo storico russo Goloubinskyi, —
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Goloubinskyi, Istoria rousskoï tserkvi (Storia della Chiesa russa) t. I, prima
parte p. 157, — che i «droujinniki» con i quali Vladimiro gozzovigliava,
quando non combatteva, gli abbiano parlato spesso della nuova fede e lo
abbiano incoraggiato a seguire il loro esempio. Però, dato che in quel tempo
la Chiesa non era ancora divisa in due campi irreconciliabili, quantunque il
rancore tra papa Nicola I e il patriarca Fozio avesse un po’ raffreddate le
relazioni dei Greci con i cattolici romani, i «Vareghi» del seguito del principe
non avean alcun interesse a spingere Vladimiro a farsi battezzare dai Greci.
Del resto sarebbe stato ben difficile a Vladimiro di prendere parte allo
scisma nascente e di fare una scelta, causa la sua ignoranza riguardo ai
canoni e ai dogmi della vita cristiana.
Inoltre, in questo tempo, era della massima indifferenza verso tutto ciò
che non era compreso nella cerchia della sua vita privata e delle sue
preoccupazioni di sovrano.
Stando alla cronaca russa, Vladimiro fu un campione convinto del
cristianesimo che egli stentava di introdurre nei suoi stati. In verità è un
lato della personalità di questo principe che non fu mai sottolineato da alcun
storico dell’epoca e non ci ha affatto illuminati sulla questione di sapere da
chi e quando fu canonizzato. È possibile d’altronde che per questa
conversione abbiano avuto influenza ragioni d’ordine politico ed economico:
la possibilità di farsi amica Bisanzio, come mezzo possente per procurare
nuovi sbocchi ai prodotti e alle mercanzie del paese di Kiev e, in fine, la
possibilità d’introdurre alla corte principesca i principi politici che la Chiesa
d’Oriente si faceva un dovere d’appoggiare con tutta la sua autorità.
Dalla parte di Bisanzio c’erano press’a poco gli stessi motivi.
Ridotto all’aspettativa dalla rivolta di Bardas Skléros e Bardas Foca,
Basilio mandò ambasciatori presso Vladimiro per pregarlo di venirgli in
aiuto. Nella primavera dell’anno 988, fu conchiuso un trattato fra
l’imperatore e il principe mediante il quale Vladimiro si impegnava di tenere
a disposizione di Bisanzio 6000 uomini di truppa per parecchi anni. Gli
ambasciatori a loro volta gli promisero la mano della sorella dell’imperatore.
Dopo la sconfitta di Foca nella sanguinosa battaglia di Chrysophis,
l’attuale Scutari, di fronte a Costantinopoli, sulla riva dell’Asia, grazie
all’intervento dei guerrieri di Vladimiro, l’imperatore tentò di sottrarsi agli
impegni relativi al matrimonio della sorella, tanto più che la principessa non
era affatto disposta a immolarsi alla politica divenendo sposa d’un principe
barbaro. Ma Vladimiro assediò Khorsum, il che obbligò Basilio a mantenere
la promessa. Allora la principessa Anna, accompagnata da un seguito
brillante, fu mandata a Kiev nel 989 e il clero greco convertì i Russi al
Cristianesimo. — Regel, Anacleta byzantino-russica, Petropoli 1891, pp.
LXX-LXXIII.
Schlumberger, L’Epopée byzantine à la fin du X° siècle, Paris 1900, I.
parte pp. 703 e 716.
II.
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La religione dei primi Slavi era basata sull’adorazione delle forze della
natura e sul culto degli antenati.
Il Dio supremo del loro Panteon si chiamava Peruno. Era il creatore dei
lampi. Ma molto spesso lo si confondeva con il dio Svarog — il nome Svarog
proviene dalla parola sanscrita sur (brillare). Esiste una analogia fra questo
nome e quello sanscrito del dio del sole: Svarga — che personificava il cielo
che si muove, altrimenti detto il cielo nuvoloso. Gli altri dei erano i figli di
Svarog ed erano il sole e il fuoco. Più tardi, quando avvenne lo
sminuzzamento del popolo slavo in tribù distinte, e più o meno indipendenti
le une dalle altre, di conseguenza il numero degli dei aumentò; ebbero una
fisionomia particolare e a ciascuno fu assegnato un posto determinato.
Appunto per questo gli Slavi del Baltico veneravano un Dio Sviatovii che
per molto tempo si credette personificato da un idolo a tre teste chiamato
Triglav. Nella città di Rhetra, questo dio supremo, figlio di Svarog, era
chiamato Radgost, mentre nelle leggende ceche e polacche lo si trova sotto
il nome di Krock. Alcuni storici hanno creduto di poter scoprire in Sviatovit
una traduzione del nome di San Guido (Sanctus Vitus), poichè in russo sviat
vuol dire Santo. Anche Radgost fu così chiamato dalla città dove era
venerato, e il nome Krock fu dato a un dio in ricordo del principe Krock, che
secondo il cronista Cosma da Praga7 era un uomo giusto e clemente.
Ma, qualunque sia il valore di tutte queste supposizioni, senza dubbio
questi diversi nomi si riferivano a un solo dio supremo e la loro apparizione
è d’un’epoca molto posteriore alla prima formazione della razza slava.
Insomma noi possiamo dire, appoggiandoci al folklore degli slavi primitivi,
che i loro dei personificavano le varie forze della natura nelle lotte eterne; la
lotta della luce con le tenebre, del freddo con il caldo, della abbondanza con
la carestia, della vita con la morte.
A questo culto della natura si univa una scialba concezione della vita
d’oltre tomba e il culto degli antenati. Gli Slavi credevano che le anime dei
morti abitassero una regione lontana, una regione all’estremità del mondo,
al di là dell’orizzonte, oltre il quale ogni sera spariva l’astro della vita.
Inoltre bisognava preparare il morto a questo lungo viaggio per mezzo di
funerali appositi, poichè nel caso contrario l’anima del defunto, non potendo
trovare il cammino verso l’al di là, errava su questa terra essendo causa di
noie ai viventi e di sofferenze a sè stessa.
Per facilitare l’ultimo viaggio ai loro morti, gli Slavi erano ricorsi alla
cremazione. Il fuoco del rogo separava con prestezza l’anima dal corpo,
rimandandola nelle regioni celesti.
Il fuoco, come dicono i commentori di P. Milioukov, — Milioukov (P.),
Religia Slavian (La religione degli Slavi), Mosca, 1896 — univa due sistemi
di concezioni religiose, nati indipendentemente l’uno dall’altro: la
deificazione delle forze della natura e il culto degli antenati. Da una parte
7 Su Cosma da Praga V. Fontes rerum Bohemicarum. Köpke in Pertz, Mon. ger. Hist. Scr. t.
IX. (Cosmae chronica Boemorum), Regel, Ueber die chronik Cosmas von Prag (Dorpat,
1892).
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questo fuoco personificava quaggiù il dio solare : era il messaggero celeste.
Dall’altra aiutava a purificare l’anima del defunto stesso, perciò sotto diversi
appellativi, prendeva gli attributi del Dio domestico, protettore della famiglia
e della tribù. In questo modo il rogo sostituiva per gli Slavi il Tempio dove
avrebbero potuto venire per adorare gli dei celesti, — forze della natura — e
implorare la divinità famigliare, protettrice del focolare.
Nel tempo in cui il cristianesimo cominciò a far breccia fra il popolo slavo,
la mitologia di questo popolo continuava ad essere rudimentale e imprecisa.
Gli dei slavi continuavano a frammettersi nelle forze della natura che
personificavano e conseguentemente non avevano sempre una forma
antropomorfica ben distinta. Anche il culto degli antenati non potè mai
acquistare un carattere preciso e ben definito come quello dei Greci e dei
Romani. La mitologia slava, che s’era formata a linee così ampie molto
prima della storia della razza non progredì in alcun modo lungo il corso dei
secoli. Si mummificò prima ancora di espandersi e restò come qualche cosa
d’incompleto, come un abbozzo. E ciò spiega perchè le tribù slave,
eccettuate quelle del Baltico, che ebbero sempre frequenti relazioni con
rappresentanti d’altri popoli, non ebbero mai nè un culto definito, nè templi
per la celebrazioni di esso, nè collegi di sacerdoti, nè un assortimento di
idoli. Si ebbe una piccola eccezione nella Russia meridionale. Ivi però gli
idoli apparvero molto tardi e furono introdotti per impulso dei Normanni
(Vareghi).
Curiosa particolarità, il principe Vladimiro, che più tardi fu chiamato «il
Clodoveo della Russia» fece coronare le alture che circondano Kiev di
immagini rozze di Peruno, Khors e Dajbog, e fece costruire dei templi dove,
secondo la Saga d’Olaf Trygvason, gli piacque esercitare l’ufficio di
sacrificatore.8
Ma alcuni anni più tardi si convertiva al cristianesimo.
III.
Il battesimo degli abitanti di Kiev, sotto il principato di Vladimiro, è stato
raccontato da molti autori, ma sempre in modo molto sommario. — Vedere
la nota B alla fine del presente capitolo — Sembra che sia stato impartito
8 Antiquités russes. t. 1. Copenh. 1850.
Se facciamo qui menzione di questo monumento di folklore nordico, è perchè molte
leggende islandesi e dano-norvegesi hanno origini slave, come per esempio l’OrvardOddsaga. E d’altra parte un certo numero di bylines (poemi epici russi) hanno una
provenienza nordica. Ciò è spiegato dal fatto che per tre o quattro secoli si ebbe un
cambiamento continuo d’idee, di credenze e di popoli tra la Russia e la Scandinavia. Le
scoperte archeologiche e le iscrizioni runiche sopra gli steli funerari trovate in Svezia lo
confermano in moda evidente, perchè queste pietre sepolcrali furono erette tutte in
memoria di eroi morti o spariti «in Oriente», in Russia.
Infine noi possediamo ancora un’altra prova dell’intensità delle relazioni scandinavo-russe,
è il grande numero di nomi propri, puramente russi. di quelli che si trovano di solito nei
monumenti russi del secolo IX e X decifrati fra le iscrizioni runiche e nei diversi documenti
provenienti dalle provincie orientali della Svezia.
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come si deve e in modo tutto militare. Dapprima Vladimiro aveva dato
ordine di infrangere gli idoli che ornavano le alture a strapiombo del Dnieper
e di gettarli nel fiume. Poi tutta la popolazione della città, uomini e donne,
bambini e vecchi, entrò nelle acque del fiume sino a mezzo corpo e i
sacerdoti greci che Vladimiro aveva condotti con sè dal Chersoneso, dove si
era fatto battezzare personalmente, lessero le preghiere appropriate alla
circostanza. Uno degli idoli — il famoso Peruno — invece di andare a fondo
si fermò sulla riva. Immediatamente, un certo numero di Kievensi,
dimenticando che erano divenuti Cristiani, si precipitarono verso la vecchia
divinità e incominciarono ad adorarla di nuovo. Appreso il fatto Vladimiro
fece disperdere la folla dei fedeli con la forza armata e bruciare il dio
ricalcitrante.
Ciò che avvenne in seguito, cioè in che modo fu evangelizzato il resto
della Russia, è ancora molto meno conosciuto. — Goloubinskyi, Istoria
rousskoï (Storia della Chiesa russa) t. I. pagina 173. — Pertanto, affermare,
come fanno certi storici ortodossi, che tutto avvenne con la massima
tranquillità e che il cristianesimo fu ricevuto in tutta la Russia a braccia
aperte, è, io credo, intaccare la verità storica. Che, se non abbiamo sotto gli
occhi un disegno d’insieme, ci sono noti alcuni dettagli, come dei fatti
isolati, che provano il contrario e ci danno un’idea molto diversa del modo
con cui l’avvenimento si svolse su tutto il territorio russo. Certo per far
trionfare la fede nuova a Novgorod si dovette usare un metodo ferreo. Gli
abitanti di Novgorod si erano accanitamente opposti all’introduzione di una
nuova religione nella loro città. Che la sollevazione popolare sia stata
repressa con rigore assoluto, ce lo accerta il detto del popolo che sopravisse
a tutta la storia di Novgorod: «Pontiata battezzò col ferro, e Dobrynia col
fuoco». — Goloubinskyi, op. cit. t. I. p. 185.
Del resto, per molto tempo, i Novgorodiensi restarono dei cristiani che
erano stati battezzati per ordine e per forza, e la loro ignoranza riguardo
alla nuova fede fu tale, che persino nel XII secolo, come riferisce nel suo
Questionario (Voprochanié) Kyrik, diacono e «domesticus» del monastero di
Sant’Antonio, le donne di Novgorod conducevano i loro figli
indifferentemente nelle chiese cattoliche dirette da missionari stranieri o
presso i bizantini.9 Le stesse difficoltà per far accettare dal popolo la nuova
fede si ripeterono a Rostov.
La propagazione del cristianesimo in questa contrada ancora selvaggia,
abitata quasi esclusivamente da meticci slavo-finnici, fu accompagnata da
crudeli rappresaglie.
Un certo Ian (Giovanni) Vychatich, comandante d’armi e valoroso, vi
stabilì l’ordine nel 1070, facendo impiccare o bruciare vivi numerosi auguri
che incitavano la folla a resistere alle autorità. Però i Rostoviensi non si
9 In quei tempi Novgorod possedeva due chiese cattoliche: la chiesa Santo Olaf che
apparteneva alla Società dei mercanti scandinavi ed era stata costruita verso il 1152 e la
chiesa San Pietro che costituiva la proprietà della «Ghilde» dei mercanti Germani,
quest’ultima era stata eretta nel 1184. — Goloubinskyi, Istoria rouskoï tserkvi, t. I. pag.
814.
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ritennero per vinti, cacciarono i due primi vescovi, Teodoro e Ilario, che
erano stati mandati fra loro, e qualche anno più tardi massacrarono, il
terzo: Leone. — Cronaca dì Rostov-Souzdal.
Scene analoghe di ribellione si ripeterono nelle inacessibili e folte foreste
di Mourom. Là delle ricche famiglie, sotto l’influenza dei loro vicini, i Bulgari
maomettani della Kama, si fecero mussulmane, o restarono ostinatamente
ligie al paganesimo. — Karamzine, Istoria gosoudarstva Rossyiskavo (Storia
dello stato russo), III, pag. 113.
Dappertutto o quasi l’introduzione della religione di Cristo tra popolazioni
barbare fu accompagnata da sollevazioni, da malcontenti e da rappresaglie.
Può darsi, ma non si sa niente di preciso, che nel paese di Kiev, abitato, a
quest’epoca, quasi esclusivamente da Slavi dal carattere molto flessibile e
condiscendente le cose siano andate a favore. Ma è certo che al nord e
all’est della Russia, le cui popolazioni di ceppo finnico erano conosciute per il
loro spirito critico, per la loro intransigenza, e mancanza totale di flessibilità,
l’opposizione alla nuova religione è stata accanita e lunga, tanto più che ivi
erano stabiliti da molto tempo dei collegi di sacerdoti ben organizzati e
numerosi luoghi di riunione per la celebrazione dei culti pagani.
Qualunque sia stato il grado di resistenza alla religione di Cristo da parte
dei vari popoli abitanti la Russia, la Chiesa, per combattere e assoggettare il
paganesimo, dovette ricorrere, tanto nel mezzogiorno come nel Nord, all’Est
e all’Ovest, a molti stratagemmi, mostrare molta abilità e una considerevole
tolleranza riguardo alle vecchie superstizioni fortemente radicate.
Non si poteva giungere sino al punto di strappare bruscamente dallo
spirito di quelle popolazioni, ancora rozze, ogni ricordo dei culti idolatri
tradizionali, sopprimere di colpo le vecchie costumanze pagane, fare sparire
d’un tratto le inclinazioni superstiziose così vive della razza. La Chiesa
dunque in Russia agì, come molto legittimamente aveva fatto dovunque.
Tentò di mantenere ciò che poteva essere mantenuto di quelle forze
religiose male applicate, per purificarle sempre più e usarle a una
comprensione e a una pratica crescente della nuova fede.10
La Chiesa russo-bizantina riuscì nel suo intento? Non completamente,
senza dubbio, poichè in ogni tempo e in ogni luogo le vecchie superstizioni
sono difficili da estirpare; è considerevole quello che la chiesa russa ha
distrutto; ma non è sorprendente che sussista ancora qualche cosa del
passato. Ed è per questo che ancor oggi è facile ritrovare presso il popolo
russo una sopravvivenza della primitiva religiosità.
Bisogna inoltre notare che i sacerdoti e i monaci bizantini cercavano di
introdurre nella Russia, insieme con l’evangelo, anche l’ideale politico che
predominava nella loro patria in quel tempo, vale a dire: l’idea del potere
per diritto divino e il principio della cooperazione completa e costante dello
10 Come facevano altri popoli pagani, gli Slavi consideravano i cambiamenti delle stagioni
sotto l’aspetto d’una lotta e di una vittoria alternativa delle differenti forze della natura. Il
punto di partenza di questo movimento circolare era il primo giorno di un nuovo sole
(solstizio d’inverno) e conseguentemente il primo d’un nuovo anno.
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spirituale con il temporale.
Ma non persistettero nel loro scopo, perchè il paese di Kiev, la cui
popolazione era molto impregnata dello spirito democratico e molto gelosa
delle sue prerogative e libertà comunali, non vi acconsentì. Anche questa
concezione fu presa in considerazione e messa in pratica molti secoli più
tardi.
In realtà, i Greci riuscirono soltanto a confondere lo spirito dei Russi, a
distoglierli dal loro cammino e a trascinarli definitivamente in una «sorte di
ansa inacessibile alle agitazioni e a ogni specie di movimenti, allora quando i
popoli dell’Europa occidentale, imbarcati sul vassello romano, entrarono in
un mare infinito di attività, di rischi, di poesia e di creazione, al che si
mescolò un nascosto e tremendo travaglio interno». — Rozanov, L’Eglise
russe (trad. da Limont Saint-Jean e Denis Roche) Paris, 1912.
NOTE
Nota A. — Ecco come gli storici bizantini raccontano questa storia. Si
sarebbe trattato d’un corpo di spedizione russo montato su 200 navi e che,
dopo avere devastato le coste dell’Asia Minore, avrebbe minacciato
Costantinopoli.
La città venne risparmiata dal sacco per vero miracolo. Le vesti della
Madonna erano state poste nel mare. Immediatamente si sollevò una
orrenda tempesta che scompigliò tutte le navi russe. Le relazioni degli
scrittori bizantini riguardo a questo episodio sono: Le due omelie di Fozio
(Müller, Frag. hist. graec, t. V, pp. 162-173), Georgius Monachus Cont. (Cor.
scr. hist. byz, col. 21), Teofane Cont. (Cor. scr. hist. byz. L. IV Cap. 33) e
Giovanni Zonaras (Cor. scr. hist. byz. T, III - p. 404). I russi allora si
sarebbero ritirati per ritornare due anni più tardi a farsi battezzare dal
patriarca Fozio. Per il nome «Russi» usato in questi racconti, e che può
generare confusione, noi abbiamo visto più sopra che i Finni chiamavano
così, tutti i guerrieri e avventurieri scandinavi che soggiornavano nella loro
terra o che passavano di là per andare nel paese di Kiev. Però bisogna
ritenere ben presente che nei codici bizantini il vocabolo oi’ ‘Pvz (i Russi)
indica i Vareghi Normanni. In una antica versione della Cronaca Veneta il cui
autore è un certo Giovanni (Urseolus) Diacono, contemporaneo di Vladimiro
«il gaio sole» principe di Kiev, è detto che i nemici di Bisanzio che
assediarono Costantinopoli nell’865 furono dei Normanni «Normannorum
gentes» (Pertz, Monum. Germ. Hist. Scr. VII, pp. 1-4 (Johannis Diaconi
Chronicon Venetum 18.25). Liutprando di Cremona era del medesimo avviso
quando dava a questi Russi il nome di Normanni «Rusios quos allo nos
nomine Nordmannos apellamus» (Liutprandi Antapodosis p. 277 ed. Pertz,
t. III). Infine, proprio a loro testimonianza, raccolta dall’imperatore Luigi il
Bonario e confermata da Prudenzio Galindo vescovo di Troyes (Annalium
Bertianorum, parte seconda, pag. 22-35) questi «Rhos» si dicevano
d’origine svedese (sueonum).
Adunque la spedizione contro Costantinopoli, nell’anno 865, non fu opera
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dei cittadini nati nel paese di Kiev, ma d’un gruppo di Normanni, sia
assoldati dal principe di quella contrada, sia spinti volontariamente da
interesse personale, come avveniva spesso allora. A meno che questa
spedizione non sia stata organizzata dagli abitanti delle spiagge del Mar
Nero, miscuglio di Goti e di Iranici.
Su questi popoli noi troviamo delle informazioni presso lo storico Procopio
di Cesarea nelle sue opere De bello Ghotico e De aedificiis e anche presso
Niceta di Paflagonia il quale accerta che sono stati gli abitanti lungo le rive
della Tauride, coloro che diressero questa spedizione. Che questi GoticoIranici o Normanni siano ritornati a Costantinopoli due anni più tardi per
farsi battezzare, dapprima può sembrare un fatto singolare, sebbene allora
essere battezzati dai Greci era una cosa comune. Ma i Goti della Tauride
aveano già conosciuto il cristianesimo durante il loro soggiorno nell’Asia
Minore. Ebbero per loro primo vescovo, nel IV secolo, un certo Ounila, che
rivecette la investitura dalle mani stesse del patriarca di Costantinopoli,
Giovanni Crisostomo. Più tardi fecero parte della diocesi di Tauride che
Bisanzio creò secondo il loro desiderio, nella speranza di conglobarli più
facilmente nell’impero.
Quanto ai Normanni viventi a Kiev presso i principi o facenti parte della
loro «legione» (droujinniki) non era raro il caso di vederli convertirsi
secondo il rito greco. Ma ciò che può far dubitare di fronte al racconto del
battesimo collettivo dei Normanni a Costantinopoli, è il fatto che non s’è mai
precisata la data d’un tale avvenimenti. Alcuni affermano che avvenne sotto
il regno dell’imperatore Michele III il quale fu assassinato nel settembre
dell’anno 867, alcuni vogliono che non sta stato Fozio colui che battezzò
quei «Russi», ma il patriarca Ignazio sotto l’imperatore Basilio.
Nota B. — Una della versioni di questo racconto fu edita da Anselmo
Bandouri nel suo testo greco accompagnato da una traduzione latina. Nella
edizione di Bonn del Corpus bizantino, costituisce un’appendice alle opere
complete di Costantino Porfirogeneto (III, p. 358-364).
A questo racconto mancava il principio che W. Regel ebbe la fortuna di
trovare nell’anno 1866 nella biblioteca del monastero di S. Giovanni
Evangelista nell’isola di Patmos. Ma, preso nel suo insieme o nei suoi
dettagli, questo racconto costituisce una molto povera compilazione del XIII
o XIV secolo fondata quasi esclusivamente su fonti scritte e di seconda
mano. L’autore, che doveva essere un monaco greco, confonde data, epoca
e regione.
È così che, riferendosi a una fonte a noi perfettamente ignota, fa andare
il filosofo Cirillo da Costantinopoli a Kiev, soltanto per insegnare ai Russi il
suo famoso alfabeto slavo.
Disgraziatamente attraverso questo Greco anonimo noi sappiamo
convenevolmente che Cirillo non andò mai a Kiev durante il regno di
Vladimiro e ciò per la semplice ragione che a quest’epoca egli era morto già
da lungo tempo.
È perfettamente vero che nell’anno 858 o 860 avea ricevuto la missione
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da parte del patriarca di Costantinopoli di andare a catechizzare i pagani
Khazars. Ma per andarvi fece prudentemente il giro delle possessioni dei
principi di Kiev e ritornò a Costantinopoli dopo aver convertiti 200 Iranici.
(Zivot sv. Konstantina recenego Cyrilla; C. VIII-lX. «Fontes Rerum
Bohemicarum», T. I., Praze, 1873). Tutto ciò approva una volta di più come
siano vaghi e contradittorii i dati che possediamo su i principali avvenimenti
di quell’epoca lontana.
CAPITOLO II.
Bisanzio e lo scisma d’Oriente
Per trovare la spiegazione precisa e netta dell’avvenimento capitale della
storia della Chiesa ecumenica, che si chiama «Scisma d’Oriente» non basta
studiarlo come una questione astratta di teologia.
Isolandolo dalle circostanze in mezzo alle quali avvenne, si corre il rischio
di farne un avvenimento anormale; lo si spiega naturalmente, se lo si pone
nel clima che gli corrisponde, cioè a dire nella società bizantina dei secoli IXXI. Perciò prima di parlare dello scisma, noi getteremo uno sguardo sul
luogo dove nacque, si sviluppò e si affermò.
I.
Trasformando l’antica colonia della Megaride Byzantium in una capitale e
dandole il proprio nome, Costantino il Grande compì il gesto iniziale che
doveva ben presto rompere definitivamente l’unità dell’impero romano.
Veramente, Costantino e i suoi successori immediati credevano di
continuare a governare nello stesso tempo le provincie dell’Oriente e
dell’Occidente; e questo, unicamente perchè non s’erano accorti dell’abisso
profondo che, dal punto di vista morale e materiale, separava le loro due
capitali, e non si erano reso giusto conto che tutte e due rappresentavano
un mondo a parte, realmente separato e diversamente basato.
La differenza di razza fra Greci e Latini, così accentuata all’epoca pagana,
ma temperata nei primi secoli del cristianesimo per il comune ardore nella
nuova fede, riapparve al momento in cui questo ardore diminuì e quando
alla popolazione puramente greca della nuova capitale si aggiunsero,
sempre in maggior numero, degli elementi etnici d’origine slava e asiatica.
Anche i successori di Costantino si chiamarono imperatori dei romani e si
sforzarono di mantenere sulle rive del Bosforo, almeno in parte, l’uso del
latino, ma perdevano sempre più non solamente il diritto di portare questo
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titolo, ma anche l’aspetto fisico del Romano.
Divenivano Greci per essere in fine dei despoti orientali. Evidentemente
questa trasformazione non avvenne da oggi a domani; vi occorsero dei
secoli; ma dopo la morte di Giustiniano l’orientalizzazione dell’impero di
Bisanzio marciò a gran passi. Al principio del IX secolo le impronte
dell’anima bizantina sul mondo asiatico erano considerevoli; bastò qualche
altra dozzina d’anni per trasformare Costantinopoli in una capitale
esclusivamente orientale. — Dvornik, Les Slaves, Rome et Byzance au IX°
siècle, Paris 1926 (pag. 28).
«Un fatto, scrive M. Dvornik, caratterizza mirabilmente questa
orientalizzazione e ne mostra i tratti principali: il movimento iconoclasta. Per
rendersene conto basta considerare lo sviluppo di questa eresia. La stessa
sua apparizione è un fenomeno asiatico: le idee iconoclastiche vengono
dall’Oriente. Anche nell’impero bizantino, i promotori di tali idee erano
originari dalle provincie orientali, Leone Isaurico era nato in Siria, a
Germanicia, e più tardi fu stratega nell’Anatolia, dove allora certamente
sotto influenze orientali, c’era ostilità verso il culto delle immagini.
Dopo le lotte iconoclastiche nient’altro ci spiega meglio l’orientalizzazione
di Bisanzio, dell’arte che ivi si coltivava allora.
Bagdad, la capitale del Califfato degli Abbassidi, servì di modello agli
architetti e agli artisti bizantini. La capitale dell’impero divenne talmente
orientale che poteva rivaleggiare con la stessa Bagdad». — Dvornik, op. cit.
p. 29.
Una sì fatta evoluzione dell’impero doveva necessariamente avere una
profonda ripercussione sulla Chiesa bizantina, tanto più che questa chiesa,
nel corso dei secoli, aveva permesso all’imperatore erede del grande
pontificato degli imperatori romani, di esercitare su di essa un’autorità
sempre più gravosa.
Infeudata allo stato, dovette seguirlo fatalmente sullo stesso cammino. Si
allontanava così, poco a poco e sempre più, dalla Chiesa occidentale, sua
sorella. Il giorno in cui l’impero, grazie ai mutamenti che avvennero in
Europa, per le grandi emigrazioni, si vide obbligato ad abbandonare le sue
aspirazioni all’egemonia universale, la Chiesa bizantina perdette a sua volta
il proprio aspetto d’universalità. Però, molto prima d’ora, era stata divisa e
scossa da lotte dogmatiche sterili e spossanti.
Ancora ai suoi tempi Aristotele avea notata la tendenza dell’orientale alla
metafisica, alle sottigliezze dialettiche e alle discussioni su tutto e su nulla.
Tutte queste particolarità si trovavano riunite a Bisanzio in proporzioni tali,
che alla fine dei conti posero la Chiesa in uno stato d’immobilità dal quale
non doveva più togliersi.
Le numerose eresie che dividevano l’Oriente cristiano dopo il IV secolo
aveano fatto nascere, in modo impressionante, le passioni popolari.
Gli imperatori, che, quasi sempre, si davano l’aria di teologi e, come
abbiamo già detto, intendevano governare la Chiesa come lo Stato, erano
intervenuti in tali questioni. Tali interposizioni però erano state novella
causa di tumulti e di sedizioni.
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Per reciproca conseguenza: se lo Stato agitava la Chiesa, la Chiesa
agitava lo Stato; i monaci, con lena sempre crescente, esercitavano sul
popolo una influenza fanatica; se lo rendevano fedele con forme esteriori di
culto, ad esempio, con le immagini, con reliquie, lo trascinavano a loro agio
contro i vescovi, i patriarchi, i funzionari e persino contro gli imperatori. —
Bayet, Grande Encycl. t. VIII, pp. 550 e seg. — L’opera degli imperatori
iconoclasti fu solamente una reazione contro tale entusiasmo per le forme
esteriori del culto, che si opponevano all’azione del potere imperiale, come
vogliono alcuni storici?
Checchè ne sia, se avevano in mente soltanto questo disegno,
s’intromisero a sproposito nell’affare, poichè non scatenarono soltanto una
formidabile lotta nell’interno dell’Impero, lotta che durò molti anni, ma la
loro politica per conseguenza fu causa della separazione dall’Oriente della
Chiesa romana e dell’Italia.
Difatti, l’Italia centrale e Roma obbedivano piuttosto al Papa che
all’imperatore e, nel conflitto fra questi due poteri, Roma era sempre con i
papi. Quando gli editti contro le immagini arrivarono in Italia, le popolazioni
pensarono di rendersi indipendenti, mentre Gregorio II, Gregorio III e
successori da parte loro difendevano con energia il culto delle immagini.
Questo fu il primo momento di vera discordia fra la Chiesa romana e quella
di Bisanzio. Ma si presentò ben presto una nuova causa di discordia.
Il papato, minacciato dai Longobardi, non potendo più contare su
Bisanzio, che, tutto occupato nelle lotte contro i Persiani e gli Arabi si
staccava sempre più dalle provincie occidentali dell’antico impero romano,
domandò aiuto ai Franchi. Conseguenza di questa domanda fu che, nel
Natale dell’anno di grazia 800, Carlomagno venne incoronato a Roma dal
papa Leone III, perchè «allora a Costantinopoli non c’era imperatore, dice
un contemporaneo, e i Greci erano governati da una donna». Questo gesto
sorprese e poi scandalizzò Bisanzio.
E quantunque non si sia mai misconosciuta la supremazia del patriarca di
Roma, della presbutera Romé, e sebbene, d’altra parte Carlomagno,
desiderando salvare l’idea dell’Impero uno e universale, volesse sposare
l’imperatrice Irene, Bisanzio e la sua Chiesa continuarono a persistere in
rivendicazioni storiche, del resto puramente teoriche.
Alla fine questa intransigenza e questo orgoglio di Bisanzio si rivolsero
contro di essa. Poichè, se crollava l’idea dell’Impero universale, non spariva
l’idea di universalità. I papi la salvarono sbarazzandola dalle circonscrizioni
territoriali e formulando in tutta la sua ampiezza, l’idea evangelica della
Chiesa universale. — Dvornik. Op. cit. p. 80.
Lo scacco subito da Bisanzio a Roma nell’anno 800 era tanto più sensibile
al suo amor proprio e alla sua vanità, in quanto che la liquidazione delle
questioni iconoclastiche apportava proprio in questo momento nuovo vigore
alla Chiesa d’Oriente.
Per celebrare questa vittoria e consolidare la dottrina ortodossa, gli
iconoclasti stabilirono la festa dell’ortodossia, che fu celebrata per la prima
volta nell’843.
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Ma, siccome Roma non vi prese parte, la cerimonia non fu che una
riunione famigliare e non una festa della cristianità.
Del resto, stava per essere ingaggiata una lotta aspra ed estremamente
serrata fra i pontefici romani e i patriarchi di Costantinopoli, lotta che
doveva inasprire ben presto Fozio. — Hergenröther, Photius, Patriarch von
Konstantinopol, Regensburg 1867-1869. — Il futuro patriarca, nato verso
l’anno 827, apparteneva ad una famiglia ricca e di alto lignaggio. Il padre di
Fozio era lo spatario Sergio. Il patriarca Tarasio era suo prozio ed era
imparentato con Teodora e Bardas, il reggente dell’impero durante il regno
di Michele III, per mezzo di uno dei suoi zii, che avea sposato Salomaria,
sorella della celebre imperatrice.
Venuto al mondo nel momento in cui Bisanzio ritrovava un’apparenza
della sua gloria passata nella rinascenza delle lettere e della filosofia, Fozio
potè acquistare un sapere quasi universale. È certo, che ancora giovanetto,
esercitò una grande influenza sul fiore della gioventù bizantina, e fu un
eccellente professore di teologia e di filosofia e un brillante conferenziere
dalla parola flessibile e persuasiva. Ma la professione di scolaro e di oratore
non poteva contentarlo. S’introdusse nell’amministrazione imperiale e
avendo ottenuto e compiuto con successo una delicata missione in Oriente,
si vide ben tosto ricompensato con l’elezione a segretario di Stato e con la
dignità di protospatario.
Al tempo in cui Fozio era al servizio dell’imperatore e occupava dei posti
amministrativi, il seggio patriarcale era occupato da un santo monaco e pio
asceta, l’eunuco Ignazio. Era un uomo cocciuto, severissimo verso sè e gli
altri e inoltre un nemico giurato della filosofia e delle letterature profane che
considerava come i peggiori nemici della chiesa.
Ma le sue opinioni, sebbene fossero viste di mal’occhio da un gran
numero di dignitari dell’impero, non avrebbero potuto interrompere la
carriera del patriarca, se non si fosse fatto nemico mortale il reggente,
privandolo un giorno della comunione pasquale, per punirlo delle sue
dissolutezze e rifiutandosi d’imporre la Corona monacale a l’imperatrice
Teodora e alle sue figlie religiose.
Per questo fatto i giorni del patriarca erano contati. Bardas portò
all’imperatore che si chiamava Michele III, il decreto che deponeva Ignazio.
Ma Ignazio rifiutò di. sottomettersi. — Théophanis Cont. (Corp. scr. hist.
byz., Lib. IV, 32), e anche Simeone Magister, 28.
Per mettere alla ragione l’ostinato vecchio, che era difeso soltanto dai
monaci, la cui potenza e prestigio erano molto diminuiti, il reggente e il suo
amico e parente Fozio precipitarono le cose.
Bardas invitò il compagno a sostituire Ignazio. Fozio accettò. In quattro
giorni gli furono amministrati i quattro ordini minori. Il quinto fu ordinato
sacerdote; il sesto fu consacrato dal vescovo di Siracusa, Gregorio Asbestas.
Quest’ultimo era stato deposto da Ignazio. Agendo così Bardas e Fozio
erano sicuri d’avere dietro di sè la corte e una gran parte del clero, che le
severità d’Ignazio avevano rese molto malcontente.
Ma si erano dimenticati di far conto di Roma, E questa dimenticanza pesò
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sino al punto di rompere l’ultimo filo che teneva unite le due Chiese.
Divenuto patriarca, Fozio s’occupò molto della Chiesa e del suo prestigio
tanto all’interno come all’estero. Mise termine all’eresia delle immagini e
riuscì a far ritornare all’unità dei monofisiti e persino dei pauliniani.
Insomma, egli vedeva e voleva fare cose grandi e lo disse in una sua lettera
al Papa Nicola I (861) enumerando i suoi successi contro gli eretici. Ma
bisognava essere riconosciuto dalla Santa Sede come patriarca di Bisanzio.
Fozio si dichiarava pronto a confessare pubblicamente il primato del
pontefice romano. — Photii Costantinopolitani patriarchiae, Opera omnia,
Tomus secundus. Epist. II, (Migne, Patrologia graeca t. 102 cc. 585-618).
Ma Nicola I non si affrettava a troncare la contesa. — Nicolai papae I
Epistolae et Decreta (Migne, Patrologia Latina t. 119).
Ignazio non avea mai avuto con la Santa Sede relazioni cordiali. Anche lui
era un Bizantino che mirava al prestigio della sua Chiesa e desiderava di
estendere la sua influenza.
Per di più questa non era la prima volta che a Bisanzio si vedevano in
contesa la corte e l’autorità ecclesiastica, non era la prima volta che un
patriarca era deposto e veniva nominato il successore, lui vivo. Perciò
quando i messi dell’imperatore e di Fozio vennero a Roma, all’inizio
dell’anno 862, benchè la deposizione d’Ignazio fosse chiaramente poco
canonica, il Papa si guardò bene dal prendere la difesa per lui senza riserve.
Ciò che cambiò la situazione fu il giungere a Roma di numerosi monaci
partigiani del patriarca scaduto, i quali erano fuggiti da Costantinopoli per
paura di rappresaglie. — Vedere la nota A alla fine del presente capitolo. —
Col pretesto del concilio convocato per la primavera dell’anno 863, Nicola I
indirizzò al pseudo-patriarca una lettera che lo privava di ogni dignità
ecclesiastica. — Dvornik, op. it. p. 63.
La partita era definitivamente perduta per Fozio. Ma, inaugurando la sua
campagna contro i Latini, non portò subito la controversia sul terreno delle
prerogative del papa. Tanto più che la supremazia del vescovo di Roma era
riconosciuta dalla grande maggioranza dei suoi compatrioti. Da principio la
lotta fu esclusivamente dogmatica. Fu in questo modo che Fozio gettò sulla
bilancia la imbrogliata questione della processione dello Spirito Santo.
II.
La chiesa d’Oriente differiva dalla chiesa di Occidente per certe
costumanze. Ammetteva infatti il matrimonio dei preti e non obbligava i suoi
fedeli a digiunare il sabato. Invece aveva la quaresima più lunga e più
rigorosa. Fatto più importante, essa era il luogo dove sorse la maggior parte
delle eresie conosciute. Una delle prime fu quella degli Ariani, della quale,
dopo la morte di Ario furono propagatori influenti, Macedonio vescovo di
Costantinopoli, che sviluppò la sua eresia in ciò che concerne lo Spirito
Santo, e Maratonio, vescovo di Nicomedia. Si sa che il primo concilio
ecumenico, riunito a Nicea nell’anno 325, condannò la dottrina di Ario e
definì la consustanzialità e la coeternità del Padre e del Figlio. Ma, siccome
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non stabilì alcun dogma riguardo allo Spirito Santo, dovette essere
completato con quello di Costantinopoli nel 381 (secondo concilio ecumenico
), che condannò i seguaci di Macedonio aggiungendo al simbolo di Nicea un
paragrafo così concepito:
«Credimus in Spiritum Sanctum, Dominum et vivificantem, et Patre
procedentem, et cum Patre et Filio adorandum et conglorificandum, qui
locutus est per prophelas». — Mansi (Collectio Conc. Concilium Constantin.
II, t. III, c. 566).
La formula «ex Patre procedens» fu adottata ad hominem (dal Vangelo
secondo S. Giovanni, XV, 26). — Spiritum veritatis, qui a Patre procedit —
non in un senso esclusivo, ma affermativo, quantunque apparisse chiaro che
lo Spirito Santo non è una creatura, e non procede solamente dal Figlio, ma
anche dal Padre.
Però, una volta ammessa la divinità delle tre persone, sulla questione di
sapere quali erano, in Dio, le relazioni del Figlio con lo Spirito Santo, i concili
di Nicea e di Constantinopoli, preoccupati sopratutto di reagire contro
l’eresia ariana, restavano muti. Anche la Chiesa greca preferì tenersi alla
lettera e, sebbene in nessuna parte si trovasse cenno di una espressione
esclusiva, come: «ex solo Patre», generalmente fu per questa soluzione.
Fu più tardi che uscì da questa riserva e ancora molto timidamente; e in
casi isolati. Però il giorno in cui il patriarca di Costantinopoli, San Tarasio,
lesse la professione di fede dinanzi al dodicesimo concilio di Nicea (787) il
settimo ecumenico:
«Credo in unum Deum Patrem omnipotentem et in unum D. J. C. Filium
Dei et Deum nostrum… et in Spiritum Sanctum, D. et vivificatem, ex Patre
per Filium procedentem…», procede dal Padre per mezzo del Figlio (Mansi
Col. S. Conc. t. XII col. 1121), formulò un théologumenon, cioè emise una
opinione dogmatica, che fu riconosciuta ufficialmente da un concilio
ecumenico. Del resto, molto prima del concilio, il patriarca aveva avuto cura
di mandare la sua professione di fede a tutti i patriarchi d’Oriente, e d’altra
parte la lettura pubblica di questa professione, lungi dal provocare sorprese,
fu ammessa con tutta naturalezza dai legati e da tutti i Padri presenti al
Concilio.
Frattanto la Chiesa Occidentale, appoggiandosi all’insegnamento dei suoi
Padri, Sant’Ambrogio, Sant’Ilario e sopratutto Sant’Agostino,11 fu ben presto
11 I Libri carolingi, compilati nel 799 per ordine di Carlomagno riferiscono un attacco contro il
Concilio di Nicea e biasimano San Tarasio d’aver detto che lo Spirito Santo procede dal
Padre per mezzo del Figlio invece di dire: Lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio
come crede universalmente tutta la Chiesa : Ex Patre et Filio Spiritum Sanctum, non ex
Patre per Filium, procedere recte creditur et usitate confitetur. Queste ultime parole
lasciano intravvedere che alla fine dell’VIII secolo la dottrina del Filioque era estesa a
tutto l’impero Franco.
Il papato rispose come si doveva a queste ingiuste recriminazioni. Adriano I (772-795)
alzò la voce in favore del concilio di Nicea e dell’ortodossia di Tarasio. S’appellò alla
testimonianza dei Padri per dimostrare che la formula del patriarca era ortodossa e che
bisognava accettare con venerazione i decreti del II Concilio di Nicea (cfr. Palmieri, in Dict.
de Théol. cath., t. V. col. 2313).
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costretta a esprimere e fissare in modo preciso e logico la dottrina che
presiedeva alla processione dello Spirito Santo.
Mansi Collect. S. Conciliorum, t. IX col. 981.
Fu durante il terzo Concilio di Toledo, in Spagna, che si riunì nel 589,
come i due precedenti, per combattere il Sabellianismo che, si inserì, si
crede, per la prima volta nel simbolo il Filioque, — (o del Figlio). L’origine
spagnola del Filioque non solleva alcun dubbio, non è certa soltanto la data
di questa aggiunta.
E fu all’altra sponda del Mediterraneo dove risuonò la prima protesta de’
Greci non contro la dottrina stessa del Filioque, ma contro la sua inserzione
nel simbolo. A Gerusalemme, nell’808, dei monaci d’Occidente furono
accusati da monaci orientali di cantare il Credo con l’aggiunta di questa
nuova parola. Si deferì il caso a Leone III. Il Papa affermò (809) che lo
Spirito Santo procedeva ugualmente dal Padre e dal Figlio, ma si dolse che
gli occidentali avessero cominciato, per propria iniziativa, a cantare il
Simbolo con tale aggiunta.
Bisognava riportarsi alle spiegazioni date recentemente sul dogma, al
concilio d’Aix-la-Chapelle (tenuto lo stesso anno, 809) senza aggiungere
niente al Simbolo di Nicea-Constantinopoli il cui testo latino e greco era
inciso su insegne d’argento appese alla soglia della confessione di San
Pietro.
Leone III, parlando così, aveva semplicemente giudicato che il momento
non era favorevole per aggiungere al Simbolo una nuova formola
dogmatica. Ma era talmente convinto della verità del Filioque ch’egli non
domandò la soppressione immediata di detta formula; — Il concilio di Roma
dell’810 confermò la dottrina del Filioque, ma senza aggiungere la parola al
Simbolo. Non condannò le chiese di Spagna e delle Gallie, perchè si
attenevano ai loro costumi e non seguivano i suoi consigli. (Palmieri, Op.
cit., t. v. col. 2330-2331). Del resto, è fuor dubbio che i papi si siano
sempre pronunciati in favore della processione dello Spirito Santo dal Figlio
ma per quello che concerne l’aggiunta ufficiale del Filioque al Simbolo di
Costantinopoli, la Chiesa romana ha giudicato bene di indugiare. A più
riprese, non ha ceduto alle istanze reiterate dei figli più devoti. Temeva che
l’inserzione nel Simbolo d’una formula dogmaticamente vera sgomentasse
lo spirito bizantino, e seminasse nella Chiesa la zizzania di nuove eresie. I
fatti disgraziatamente confermarono queste tristi previsioni.
L’uso di recitare il Simbolo col Filioque finì per prevalere a Roma, ma non
si sa bene in qual tempo. Secondo un anonimo greco, il primo a inserire nel
Simbolo il Filioque sarebbe stato papa Cristoforo (903-904), ma
generalmente si ammette che ciò avvenne dietro istanza dell’imperatore
Enrico II (1002-1024) e che il Papa Benedetto VIII (1012-1024) permise
che fosse cantato a Roma il Simbolo alla messa con l’aggiunta del Filioque.
Il papa si decise a questa innovazione dopo aver domandato consiglio a
una Commissione composta di vescovi e di cardinali. — Palmieri, Dict. de
Théol. cath. t. v. col. 2317.
Così adunque, se vi era qualche divergenza di vedute tra Orientali e
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Occidentali riguardo all’interpretazione e all’applicazione del dogma della
processione dello Spirito Santo, detta divergenza non costituiva un conflitto
dogmatico e non usciva affatto dal dominio dell’ortodossia, tanto più che i
concili non aveano definito niente a questo riguardo. Infatti è fuor di dubbio
che molto prima di Fozio la dottrina del Filioque era conosciuta e professata
dalle Chiese di Spagna e delle Gallie.
I Greci però, sempre alle prese con nuove eresie non protestarono contro
questa «novità antievangelica».
Per bocca dei suoi dottori più illustri (Fozio stesso cita nella sua grande
opera Mystagogia, — Hergenröther, Photii Constantinopolitani Liber de
Spiritus Sancti Mystagogia, (Ratisbona 1857) e anche Migne (Pat. gr. t. 102
col. 263-542) — come favorevoli al Filioque Sant’Agostino e Sant’Ambrogio),
la teologia latina si pronunzia per il Filioque. Il Filioque penetra nelle
professioni di fede dei concili d’Occidente, e anche nel Simbolo di
Costantinopoli. Ma la Chiesa greca non trova niente da ridire. I monaci greci
di Palestina si sgomentano sentendo i loro fratelli cantare il Simbolo con il
Filioque, però la gerarchia greca da parte sua non si dà cura per la difesa
dell’Ortodossia. Ma il papa Nicola I si rifiuta energicamente d’appoggiare la
causa di Fozio e d’abbandonare Ignazio alle persecuzioni de’ suoi nemici.
La Santa Sede proclama illegale l’elevazione di Fozio al seggio patriarcale.
E il Filioque è posto sul tappeto. — Palmieri, Dict. de Théol. cath. t. v. col.
2311-12. — Dunque, se Fozio fosse stato assolto e riconosciuto da Roma,
egli non avrebbe neppure accennato alla questione del Filioque, non
avrebbe rotte le sue relazioni con la Chiesa romana. Più che al Filioque gli
autori dello scisma greco, miravano al primato dei papi. In una lunga lettera
indirizzata ai patriarchi d’Oriente, — Photii Op. cit. part. sec. Epist. XIII
(Migne, Patr. graec. t. 102, col. 721 e seg) —, immediatamente dopo un
concilio convocato a Costantinopoli nell’867, Fozio accusava i Latini
d’oltraggiare la fede e la disciplina della Chiesa perché avevano aggiunto il
Filioque al Simbolo, facendo così procedere lo Spirito Santo dal Figlio come
dal Padre; perchè favorivano il despotismo del Papa, imponevano il digiuno
di sabato, permettevano l’uso del latte, delle uova e del formaggio in
quaresima e imponevano il celibato ai preti.
Riguardo al concilio, suo compito principale sembra (gli atti del concilio
stesso non sono stati conservati) che sia stato di deporre il Papa, di
scomunicare anticipatamente tutti coloro che avessero relazioni con lui e di
proclamare Fozio patriarca universale.12
Dava ancora a Fozio la giurisdizione suprema della Chiesa. — Labbe (P.
Filippo) Sacrosancta concilia, vol. VIII, pag. 471. — Inoltre, per fare
accettare agli Orientali il suo nuovo titolo e tutte le prerogative che
seguivano, il patriarca e i suoi partigiani procurarono in ogni modo di fare
12 Una copia degli atti del concilio fu indirizzata all’imperatore Luigi il Bonario (il Pio). Al
concilio si aveva pregato per lui e l’imperatrice Ingelbert, dando loro il titolo di
Augustissimi. Fozio forse sperava di trovare in loro degli alleati per la lotta contro il
papato.
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entrare nella testa dei Bizantini l’idea che i papi dovevano il loro primato al
solo fatto d’essere stati vescovi della capitale dell’Impero e che l’avevano
perduto a profitto del vescovo di Costantinopoli il giorno in cui la capitale
era stata trasferita in questa città. — Vedere la nota B alla fine del presente
capitolo.
Per rendere definitiva la scissione con Roma, Fozio s’affrettò a cacciare da
Bisanzio i legati romani Domenico e Formoso. Dopo ciò egli poteva
giustamente credersi all’apogeo della fortuna. Ma in una città come a
Costantinopoli e in un luogo dove tutto gravitava intorno al trono del
«basileus» si era più che in qualunque altro luogo esposti a un ritorno della
sorte la più crudele e imprevista. Fozio non attese lungo tempo per farne
esperienza.
L’anno 867, in cui s’era tenuto il concilio che avea consacrato il suo
trionfo, perdette nella persona di Michele III il suo più grande protettore.
L’imperatore bizantino, spinto dall’opinione pubblica aveva dovuto
associare agli affari dello stato uno degli ufficiali della sua corte, giovane
barbaro, poco civilizzato, che sapeva appena leggere e scrivere, ma che era
ritenuto un uomo energico e intelligente. Basilio, figlio d’un contadino
macedone, venuto all’età di 25 anni a Costantinopoli, seppe farsi strada a
forza d’intrighi e grazie al prestigio della sua forza fisica. Infatti quando
delle persone gli davano eccessivamente noia, egli le sopprimeva: in tal
guisa procedette con il reggente Bardas, che gli sbarrava la via, e con lo
stesso imperatore. Un bel giorno il 24 Settembre 867, lo giudicò un
sovrappiù su questa terra e conseguentemente lo fece assassinare in un
banchetto che gli offriva Teodora, sua madre. Poi fu la volta di Fozio, che era
stato sempre antipatico a Basilio. Ma siccome non si poteva uccidere un
patriarca palesemente e proprio a Bisanzio, lo rinchiuse in un convento per
mandarlo più tardi in esilio.
Però era stato scritto che facilmente non si sarebbe avuta ragione di
Fozio. Profittando dei cambiamenti che s’erano manifestati nell’opinione
pubblica riguardo a Basilio, cambiamenti causati specialmente dalla
necessità di dare dei pegni alla parte nazionalista, di cui il patriarca
decaduto era uno dei cardini, Fozio ottenne grazia e ritornò a
Costantinopoli. Proprio allora il patriarca Ignazio, che, dopo la disgrazia di
Fozio, era stato solennemente reintegrato nella sua alta carica dall’VIII
concilio ecumenico, tenuto nell’869 a Costantinopoli e che condannò Fozio,
moriva. Fozio non frappose indugio a farsi nominare per la sede vacante.
Riuscì anche a essere riconosciuto dal papa Giovanni VIII come successore
legittimo di S. Ignazio.
Però non restò per lungo tempo in buoni rapporti con Roma. Ben presto
spinto dello spirito cattivo incominciò nuovamente ad imprecare contro il
papato e contro i Latini.
Per contrapposizione all’VIII concilio ecumenico che l’aveva giudicato,
Fozio riunì nell’879 un sinodo composto unicamente da vescovi appartenenti
alla Chiesa d’Oriente che, sulle sue istanze, anatematizzò il concilio
precedente, proclamò l’uguaglianza fra il patriarca di Roma e di
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Costantinopoli e proibì di accordare delle nuove prerogative al seggio di
Roma e sostenne che non si doveva aggiungere niente (aggiungere cioè il
Filioque) al Simbolo. — Mansi, Pseudo-Synodus Photiana. Coll., t. XVIII° col.
366-519.
Tre anni più tardi, con un nuovo gesto, allontanò ancor più la Chiesa
greca da Roma e dall’Occidente in generale. Questo gesto fu la lettera al
Patriarca d’Aquileia, nella quale, per la prima volta, usò la parola Eresia a
proposito dell’aggiunta del Filioque al Simbolo. — Vedere la nota C alla fine
del presente capitolo.
Dopo la morte di Basilio il Macedone (886) il governo di Leone VI, detto il
Filosofo, fu caratterizzato da una reazione sistematica contro gli uomini e la
politica del regno precedente. Nell’888 Fozio era una volta di più costretto
ad abbandonare il suo seggio, che fu dato a Stefano, fratello
dell’imperatore. Fu relegato in un monastero d’Armenia dove morì.
III.
Dopo la seconda deposizione di Fozio sino al patriarca Michele Cerulario
(1043-1058), fatta eccezione degli anni del patriarcato di Sisinio (995998),13 cessarono le contese fra Roma e Bisanzio a proposito del Filioque,
senza che le relazioni fra le due chiese avessero preso un aspetto normale.
Le relazioni fra l’Oriente e l’Occidente divenivano giorno per giorno
sempre più tese. I pretesti non mancavano.
Bisanzio aveva ogni potere spirituale sulla Bulgaria ed evidenti erano i
progressi della Chiesa greca nell’Italia meridionale, grazie alla fondazione di
chiese e di monasteri. — Liutprando di Cremona, De Legatione
Costantinopolitana (Pertz, Monum. Germ. hist. t. III). — D’altra parte, nel
dominio politico gli imperatori bizantini persistevano a non volere ratificare
l’avvenimento dell’anno 800. Per essi nel mondo v’era un solo potere
imperiale, il loro, dopo che Costantino aveva trasferito a Bisanzio tutta la
potenza politica dell’antica Roma. Così adunque il patriarca d’Antiochia
poteva annunciare la sua elezione al papa Leone IX, inviandogli la sua
professione di fede e poteva ricevere dal papa nel 1053 una risposta molto
affabile e piena di gioia, per avere il patriarca fatto «rifiorire lo zelo della
Chiesa d’Antiochia», senza che queste cortesie diplomatiche fossero in
grado di attenuare l’ostilità nascente o di dissipare i malintesi. Il disaccordo
che esisteva fra Roma e Bisanzio e che era la conseguenza naturale
dell’agitazione creata da Fozio nella Chiesa, era già troppo grande, troppo
profonda, perchè un caso isolato, qualunque fosse la sua importanza,
potesse agire da freno.
E frattanto si poteva affermare che nessuna rottura brutale, completa e
13 Seguendo le traccie di Fozio, Sisinio firmò — o forse un copista ignorante gliela ha
attribuita, — una lettera enciclica nella quale rimproverava ai latini l’aggiunta del Filioque.
Ma questa lettera non ha niente di originale nè pel suo tono nè per la sua forma, non è
che un rifacimento della famosa missiva di Fozio ai patriarchi d’Oriente.
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definitiva si sarebbe prodotta fra la chiesa greca e la chiesa romana, se tale
non fosse stata la volontà espressa di Michele Cerulario.
Per le sue origini e per il suo carattere, Michele Cerulario superava di
molto Fozio. Meno sapiente del celebre predecessore sul seggio patriarcale
di Costantinopoli, sebbene fosse molto versato nella dialettica e nella
teologia, Cerulario da principio non sembra destinato alla Chiesa. Figlio d’un
onorevole funzionario imperiale, venne alla corte e si trovò subito a capo
d’un complotto diretto nel 1040 contro il governo oppressore di Michele il
Paflagone. Quale scopo aveva nell’agire così? «Simpatizzava per la tirannia
— scriveva uno dei suoi biografi, — Giovanni Seylitzès (il Curopalata, Opere
(Corpus. Scrip. His. Byz.) Bonn, 1838, t. II. — Migne — Patr: gr. t. CXXIl.
col. 368 — cioè desiderava di farsi imperatore. A Bisanzio tali ambizioni
erano possibili e anche realizzabili. Però Cerulario non ebbe fortuna, il suo
complotto fu sventato, egli fu arrestato e deportato. Questo doloroso
episodio della giovinezza ebbe un’influenza decisiva sulla sua carriera,
poichè lo spinse verso il sacerdozio e il misticismo.
Ritornato a Costantinopoli dopo l’avvenimento di Costantino IX
Monomaco, Michele Cerulario divenne subito uno dei consiglieri più ascoltati
dell’imperatore per salire infine sul trono patriarcale.
Psello, — Migne, Patr. gr. t. CXXII — afferma che egli fece ciò in modo
molto poco onorevole, corrompendo i suoi elettori, poichè vi furono più
candidati. Checchè ne sia, divenuto patriarca, Michele Cerulario, dandosi
tutto nel suo palazzo di Santa Sofia all’alchimia e alla ricerca della pietra
filosofale, spiegò una grande attività che non si limitava soltanto al dominio
puramente spirituale e religioso. Ma, nato per comandare, incapace di ogni
combinamento, spesso brutale e per nulla diplomatico, come molti dei suoi
compatrioti, Cerulario non poteva accontentarsi di presiedere agli uffici
religiosi di Santa Sofia assiso sul trono pontificale. Egli aveva bisogno di
allargare la sua attività, egli aveva un bisogno ancora più grande, quello di
manifestare la sua potenza. Volle che la sua chiesa divenisse onnipotente,
cioè che essa fosse libera da ogni attacco e che potesse opporsi
vittoriosamente all’ingerenza di ogni autorità spirituale, straniera e alla sua
propria gerarchia.
Insomma, bisognava definitivamente finirla con Roma e sottrarsi
completamente alla tutela papale. Cerulario, come tutti i bizantini dell’XI
secolo, persino i più moderati, era convnito della superiorità degli usi della
chiesa greca sopra tutti gli altri. Adunque, è con la completa conoscenza di
causa e volontariamente che Michele Cerulario dichiarò guerra alla Chiesa
romana e tutte le ingiurie che egli pronunciò, tutte le violenze alle quali si
lasciò trasportare erano da lungo tempo premeditate. Ancora agli inizi rese
difficile la sua posizione e quasi impossibile l’opera di coloro (ed erano
numerosi) che avevano interesse nella conciliazione delle due Chiese. Non
attaccò Roma, come Fozio, per difendere se stesso; stimò venuto il
momento della separazione e volle imporla a tutti». — L. Bréhier, Le
Schisme oriental au XI° siècle; Paris, 1899 p. 97.
Nell’anno 1053 Cerulario scatenò la lotta contro Roma. Il momento
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sembrava opportuno, poichè in quell’anno il papa Leone IX, dopo la grave
sconfitta presso Civitella, che aveva rovinato ogni speranza di dominazione
sopra l’Italia, si trovava a Benevento, se non prigioniero dei Normanni,
almeno sottomesso alla loro rude sorveglianza. — Wiberto, Vita S. Leonis IX
papae, (Ed. Mabillon, Acta s. ord. S. Benedicti). O. Delac, Un pape alsacien,
saint Leon IX, Paris 1876.
Là lo raggiunse il primo colpo inferto da Cerulario sotto la forma benigna
d’una lettera d’un vescovo greco a un vescovo romano.
Questa lettera fu indirizzata da Leone, vecchio chierico della Chiesa di
Costantinopoli e arcivescovo d’Achrida, in Bulgaria, a Giovanni, vescovo di
Trani, nella Puglia. — Leonis bulgariae archiepiscopi epistola (Migne, Patr. gr.
t. CXX, col. 836-844). — Ma, come diceva il suo autore in principio, aveva
una portata più generale di una semplice missiva e in realtà era destinata
«a tutti i vescovi franchi e all’onorevolissimo Papa» (ipsum
reverendissimum papam). Era un vero atto d’accusa contro tutti gli usi della
Chiesa latina. Specialmente due erano i costumi presi di mira; il digiuno del
sabato e l’uso dei pani azzimi nell’Eucaristia.14 Leone d’Achrida diceva che
erano due usi prettamente giudaici, che erano stati rigettati nella Nuova
Legge, la conservazione dei quali assomigliava la Chiesa latina a una
semplice comunità mosaica. La lettera si chiudeva con un invito di ritornare
ai veri costumi della Chiesa. Giovanni rimandò subito la lettera al Cardinale
Umberto. Costui la tradusse in latino e la presentò al papa.
Nello stesso tempo, per cura di Michele Cerulario, veniva sparso in tutta
la Chiesa greca un trattato scritto in latino da un monaco del monastero di
Studa, Nicetas Stethatos o Pectoratus. — Nicetas Stethatos, Adversus
Latinos (Migne, Patr. gr. t. CXX, col. 845-850) — nel quale gli attacchi contro
i Latini erano presentati sotto una forma più violenta che nella lettera
dell’Arcivescovo di Bulgaria. Niceta Stethatos non soltanto gli azzimi e il
digiuno del sabato denunziava come eresia, ma ancora, la proibizione del
matrimonio dei preti. Del resto, questo monaco fu uno de’ più preziosi
compagni di Michele Cerulario, perchè fu lui l’incaricato della redazione degli
opuscoli del patriarca di Bisanzio.
Per tagliar corto ad ogni tentativo di conciliazione e manifestare in modo
decisivo il suo desiderio dt separazione, Michele Cerulario non si contentò di
parole: passò agli atti, ordinando di chiudere le chiese latine che esistevano
a Costantinopoli. Però la lettera di Leone d’Achridia, lungi dall’intimidire il
Papa, lo determinò al contrario ad uscire dalla sua riserva abituale e gli
dettò una risposta che per ampiezza e portata generale differiva
sensibilmente dalla lettera dell’Arcivescovo di Bulgaria che si limitava
volontariamente alla discussione meschina di alcuni punti di liturgia. La
lettera di Leone IX era indirizzata non soltanto all’Arcivescovo, ma anche al
14 La Chiesa generalmente crede che Gesù Cristo si sia servito di pane azzimo (senza lievito)
nell’ultima Cena. È per questo che essa usa di questo pane. Nella Chiesa russa si fa uso
soltanto di pane con lievito (prosphora). (Cfr. U. Chevalier, Répertoire des sources
historiques du Moyen-Age, Topo-biografia, I parte col. 289. — Parisot, in Dict. de Thèol.
cathol. t. I. col. 2664.
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patriarca di Costantinopoli. — S. Leonis IX epistola 50. (Migne, Patr. Lat. t.
CXLIII).
Finalmente Leone IX poneva la lotta sopra il vero terreno, il primato del
seggio di Roma, e si rifiutava, per il momento, di discutere le questioni
sollevate dall’Arcivescovo di Bulgaria. Insomma, prima di giustificare gli usi
della Chiesa latina, Leone IX esigeva la sottomissione preliminare di Michele
Cerulario.
L’effetto della lettera del Papa fu di far indietreggiare il patriarca
Cerulario, per ordine dell’imperatore che temeva, non senza ragione, che le
questioni religiose venissero a frapporsi alla politica bizantina in Italia,
mandò al Papa una lettera piena di moderazione e riguardo. Ma le
apparenze rispettose di questa lettera non ingannarono Leone IX. La
pretesa di Michele Cerulario di trattare con lui su piede di uguaglianza
mostrò al Papa che non era possibile nessun accomodamento, poichè il
patriarca di Costantinopoli si rifiutava di sottomettersi alla condizione che
doveva precedere ogni negoziato: riconoscere la giurisdizione del seggio di
Roma e accettare le sue ordinanze. Inoltre, Leone IX credette trovare nelle
circostanze un nuovo mezzo per superare le difficoltà.
L’imperatore aveva imposto silenzio al suo patriarca a nome dei suoi
interessi politici; il papa risolvette di indirizzarsi a lui per ottenere la
sottomissione piena e intera del ribelle.
Mandò dunque a Costantinopoli tre legati «con le richieste della Santa
Sede» con l’ordine di dare le sue lettere all’imperatore e al patriarca e
risolvere in seguito tutte le divergenze. — Bréhier, Op. cit. p. 105.
Arrivati a Costantinopoli, gli ambasciatori, che erano il Cardinale
Umberto, il cancelliere della Chiesa Federico e l’arcivescovo d’Amalfi, Pietro,
cercarono di mettersi in relazione con Michele Cerulario. Ma alle loro
proposte il patriarca rispondeva con termini che non ammettevano udienza.
Si chiuse nel silenzio e fece mostra di vedere che i messi della Santa Sede
non avessero i poteri necessari per trattare con lui.
Insomma, la tattica di Michele Cerulario consisteva nel rifiutare il più
breve colloquio con gli inviati dal Papa o nel tirare le cose per le lunghe a
fine di preparare una imponente manifestazione dei vescovi d’Oriente. Ma i
legati, dopo aver aspettato quasi un mese, mandarono a vuoto il suo piano;
si decisero di compiere il grande atto che le circostanze imponevano loro:
stabilirono la rottura.
Pertanto andarono a Santa Sofia, il sabato 15 Luglio 1054 e deposero
sopra la Tavola Santa una bolla di scomunica che colpiva il patriarca e tutti i
suoi seguaci. Dopo di ciò, uscendo, scossero la polvere dai loro piedi e
gridarono le parole del Vangelo:
«Videat Deus et iudicet»
— Bréhier, op. cit. pp. 117 e 118. —
La bolla della scomunica fu portata al patriarca che da principio si rifiutò
di ricevere; poi per impedire, disse, che venisse divulgata, la guardò e se la
fece tradurre in greco.
La conclusione prevista pertanto aveva avuto luogo, ma questa non era
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una vittoria per i Latini. Non avevano ottenuto nè la riconciliazione di
Michele Cerulario con la Santa Sede nè la sua deposizione. S’arrestarono a
una via di mezzo. Agendo così non fecero altro che ridare delle nuove armi
al loro tremendo nemico.
Questa scomunica che lo aveva fulminato fu la causa del suo trionfo e gli
permise in fine di mandare ad effetto, a sua volta, il grande atto il cui
pensiero lo preoccupava da lungo tempo. — Bréhier, op. cit. p. 119.
Dopo la cerimonia della scomunica, i legati passarono ancora un giorno a
Costantinopoli, e prima di partire, consacrarono delle nuove chiese di rito
latino.
Umberto e i suoi compagni erano appena partiti, che, sia
spontaneamente, o sia anche sollecitato dal suo sovrano, Michele Cerulario
dichiarò che acconsentiva di avere una intervista con loro. — Bréhier, op.
cit. p. 120.
Bisognò pertanto richiamarli e l’imperatore scrisse loro per richiamarli.
Rifecero il cammino in tutta fretta e ritornarono a Costantinopoli nella loro
vecchia residenza, il palazzo Pigi.
Là attesero gli ordini dell’imperatore. Costantino IX, da alcuni indizi,
aveva dubitato che l’intervista proposta da Cerulario agli ambasciatori non
fosse altro che un tranello che tendeva loro. Sospetto che fu poi accertato
dal racconto di Umberto. Il colloquio doveva aver luogo a Santa Sofia.
Michele avrebbe mostrato al popolo una bolla falsa, da lui dettata, e
l’avrebbe spinto a massacrare i legati. — Bréhier, op. cit. p. 125. — Ma
l’imperatore mise come condizione a questa intervista, ch’egli stesso
avrebbe dovuto esservi presente. Forse egli contava, dice Bréhier, di riunire
nella Chiesa forze tali da poter mettere in salvo gli ambasciatori. Michele
Cerulario non permise, e come scusa di questo rifiuto disse dei terribili
sospetti che gravavano su di lui. Allora l’imperatore consigliò i legati di
riprendere il loro viaggio.
Il colpo di vendetta adunque non era riuscito, ma il patriarca non si tenne
per vinto. Non potendo sfogare il suo odio contro i Romani fece sentire la
sua collera all’imperatore. Per sua istigazione un gran tumulto mise
sossopra le vie di Costantinopoli e furono in pericolo la corona e persino la
vita di Costantino IX il Monomaco. — Michele Psello, Règne de Costantin IX
(tradotto dal greco da E. Renauld), Fascicolo N. 12 di «Commerce» 1927.
Michele Cerulario, dopo aver ottenuto dall’imperatore, con la violenza,
l’autorizzazione di convocare un sinodo, radunò rappresentanti di tutta la
Chiesa russa nelle gallerie di Santa Sofia, là dove si era tenuto l’ottavo
concilio ecumenico che aveva condannato Fozio nell’869.
Firmarono gli atti dodici metropoliti e due arcivescovi. L’editto sinodale
che fu pubblicato in seguito a questa assemblea era la riproduzione letterale
dell’enciclica di Fozio ai vescovi d’Oriente e questo fatto soltanto indicava
con quale spirito era stato concepito.
Il 20 luglio 1054, nel tribunale del patriarca fu pubblicata una sentenza
contro la bolla empia e ancora contro coloro che avevano contribuito alla
sua redazione. Cinque giorni dopo, lo stesso anatema fu rinnovato
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solennemente dinanzi al popolo e tutti gli esemplari della bolla di scomunica
che era stata tradotta in greco e divulgata da due cittadini di Bisanzio (per
ciò sferzati) furono bruciati ad eccezione d’un solo che fu posto negli archivi
del chartophilax — Bréhier, op. cit. p. 124.
Oramai la separazione diveniva un fatto compiuto. L’anno 1054 è la data
decisiva della storia del grande scisma d’Oriente. Però i contemporanei di
Michele Cerulario, come a Roma anche a Bisanzio, non si sono accorti della
gravità degli atti compiuti. Si rifiutavano di rassomigliare a scismi le azioni
di Fozio e di Michele Cerulario.
Le consideravano come dei semplici malintesi o degli incidenti molesti che
non era difficile regolare o appianare con il tempo e la buona volontà.15
Per ciò si cercherebbe invano, presso gli storici greci ufficiali dei dettagli
sopra gli avvenimenti del 1054. — Bréhier, Op. cit., (prefazione) p. XVII. —
Non vedevano, come noi, in ciò che stavano per compiere un Fozio o un
Michele, un atto rivoluzionario, ma un semplice fatto, indegno di essere
ricordato o di passare alla posterità.
Occorsero molti secoli per far loro comprendere il significato. S’accorsero
dell’importanza dello scisma del 1054 soltanto dopo averne subito le lontane
conseguenze. — Bréhier, Op. cit. pag. 238.
Ma ciò che aveva indotto in errore gli spiriti al tempo di Michele Cerulario,
era lo stesso ricordo di Fozio. Ora non si trattava come nel IX secolo d’una
semplice rivolta contro l’autorità di San Pietro, ma d’una rottura definitiva.
Appellandosi molte volte al Papa, cercando di transigere con lui, Fozio
aveva reso implicitamente omaggi alle pretese dei suoi avversari.
Michele Cerulario, invece, rifiutò, sin dal primo giorno, di entrare in
rapporti con Leone IX. Non volle neppure ammettere l’idea che le sue
allegazioni potessero essere discusse. Lontano dall’essere un ribelle o un
accusato, si pose come giudice e accusatore: dichiarò eretiche le Chiese che
si rifiutavano di comunicare con Costantinopoli e di seguire i suoi usi.
Perciò fondò un nuovo ordine di cose e proclamò l’indipendenza della
Chiesa greca. In seguito, Greci e Latini poterono fare delle concessioni
scambievoli, ma non poterono oltrepassare l’abisso che Michele Cerulario
aveva scavato tra loro; non si trovarono mai d’accordo sulla questione
dell’autorità dogmatica nella Chiesa. — Bréhier, Op. cit., pag. 310.
15 Fu un secolo più tardi che cominciarono ad affacciarsi le illusioni. San Bernardo si lagna
vivamente presso papa Eugenio III dell’ostinazione dei Greci, sopra i quali non si può
fondare niente di solido, «Essi sono con noi, e non lo sono, scriveva. La fede li lega, la
pace li divide e pertanto, anche nella fede sono zoppicanti scostandosi dal diritto
cammino». (San Bernardo, Lettere, citate da Bréhier, Pref. XXV e poi Gfrörer
Byzantinische Geschichte). E dalla parte dei Greci, c’è un monaco sconosciuto del
dodicesimo secolo che per primo parla dello scisma. Però l’allusione che vi fa è in gran
parte errata, poichè pone lo scisma non nel 1054 ma nel momento stesso
dell’inalzamento (al seggio) di Michele Cerulario, «Il nuovo patriarca, dice, alla sua
incoronazione soppresse il nome del papa dai dittici. Questo avvenimento ebbe luogo a
proposito della questione del pane azzimo. A fianco di Michele si posero Pietro, patriarca
di Antiochia, Leone, arcivescovo della Bulgaria, e tutto l’altro clero». (Cfr. Bréhier e
Gfrörer).
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NOTE
Nota A. — Fu un certo archimandrita Teognosto che, in pericolo di vita,
travestito con abiti secolari, affine di sfuggire alla sorveglianza della polizia
imperiale, portò per primo a Roma la nuova della deposizione brutale di
Ignazio, come pure la supplica del patriarca decaduto presso il Papa.
Del resto, questo racconto (uno dei brani principali della storia dello
scisma foziano) delle ingiustizie e degli insulti che Ignazio aveva subiti dopo
l’espulsione violenta dal trono patriarcale, l’aveva scritto Teognosto stesso
(Theognostus Monachus, Libellus ad Nicolaum Papam in causa Ignatii,
archiepiscopi constan., Migne, Patr. graeca t. 105, col. 855-856). Per ciò il
vecchio patriarca, sotto il colpo degli oltraggi, che l’avevano oppresso, non
aveva più la forza necessaria per difendersi personalmente, Il papa Nicola I
accolse questo messaggero con la bontà e la generosità che gli erano
naturali. Onorò Teognosto della sua confidenza e lo pose, si crede (Jugie, La
vie et les oeuvres du moine Théognoste, «Bessarione» vol. 34, 1928) a
capo dei numerosi monasteri greci che esistevano ancora a Roma a
quest’epoca.
Pertanto Fozio e i suoi partigiani e amici, l’imperatore Michele e il
reggente Bardas, saputo che tutti i loro piani erano sventati, fecero
l’impossibile per attenuare la triste impressione che i loro atti certamente
producevano a Roma. Indovinando subito che i monaci, i quali, per la
maggior parte, erano rimasti fedeli a Ignazio e si segnalavano per la loro
devozione alla Santa Sede, non farebbero a meno di denunciarlo a Roma,
Fozio nella lettera che scrisse al papa Nicola, dopo il famoso concilio dell’861
(Photii Epist. II, Migne, Patr. graec. t. 102. col. 616) non dimenticò di
metterlo in guardia contro i discorsi dei monaci disertori. Ma Nicola non fu
gabbato da queste insinuazioni che miravano specialmente a Teognosto.
Così, quando l’imperatore Michele, in una lettera insolente e dove senza
difficoltà si riconosceva la mano di Fozio, osò di intimargli a liberarsi
dell’archimandrita e dei monaci che lo avevano seguito nella città eterna, il
papa, in una risposta piena di nobiltà, di calma e dignità rifiutò
categoricamente di ottemperare alla domanda del «basileus» (Epistola
Nicolai papae I ad Michaelem imperatorem, Migne, P. L. t. CXIX. col. 952).
Dopo tutto ciò, Teognosto visse a Roma per sette anni e ritornò a Bisanzio
dopo la caduta dei suoi nemici.
Nota B. — La medesima idea fu emessa molto prima di Fozio dall’autore
anonimo del breve commentario del 28° canone del concilio di Calcedonia
(tenuto nell’anno 451). Si sa che questo famoso canone 28, contro il quale i
papi non cessarono di protestare, pose il principio dello scisma greco,
affermando che i Padri avevano accordato la preminenza al seggio di Roma
perchè questa città era la città imperiale e reclamando per il seggio della
nuova Roma, Costantinopoli, dei privilegi uguali a quelli della vecchia e il
secondo posto dopo di quella. La conclusione logica che derivava da queste
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affermazioni era che la Sede di Roma avrebbe perduto il primato e sarebbe
passata da primo a secondo posto nel giorno in cui Roma avesse cessato
d’essere capitale dell’impero. Questo appunto è il ragionamento dell’autore
sconosciuto del commento del canone 28. «Bisogna sapere, scriveva, che i
Padri diedero il secondo posto alla Chiesa di Costantinopoli, perchè allora la
vecchia Roma era anche capitale dell’impero. Se dunque, come afferma
questo santo concilio, i Padri hanno accordato il primato alla vecchia Roma,
a causa del suo posto di capitale, essendo ora per benevolenza di Dio,
questa città (Costantinopoli) l’unica capitale è giusto che possegga essa il
primo posto». (Jugie, Le plus ancien recueil canoniqne slave et lo primauté
du Pape, «Bessarione» vol. XXXIV, 1918). Ecco ciò che si scriveva a Bisanzio
durante il VII o al principio dell’VIII secolo. Veramente in quel tempo si
esprimevano così, soltanto voci isolate di alcuni scrittori. La maggior parte
del clero greco era ancora composto dei partigiani convinti del primato
romano. Per di più, nessun patriarca, nè alto dignitario della Chiesa
bizantina aveva avuto, prima di Fozio, l’idea di rivaleggiare col Papa. Ma al
tempo di Fozio non c’era più nessuno che potesse impedire seriamente di
ingaggiare una lotta contro Roma. Il patriarca Ignazio, che aveva sempre
riconosciuto la supremazia dei «sovrani pastori e pontefici dell’antica Roma»
(Mansi, Col. S. Concil. t. XVI, col. 47) era in disgrazia; altri spiriti
chiaroveggenti, come quel monaco Teognosto, del quale abbiamo
precedentemente parlato, che vedevano la salvezza della Chiesa bizantina
contro le usurpazioni del cesaropapismo in una stretta unione colla Sede
apostolica, erano lontani e le loro proteste non potevano essere che
puramente platoniche.
Però, se non si poteva agire direttamente sugli spiriti bizantini, esaltati
dalle parole sottili e lusinghiere d’un Fozio, si poteva e si doveva farlo per
delle vie nascoste, affinchè la verità non fosse messa sotto il moggio.
Questa, era anche l’opinione di San Metodio (+ 885).
È per questo che, traducendo dal greco in slavo per i suoi catecumeni
slavi il nomocanon, cioè: la raccolta delle leggi speciali e dei canoni
ecclesiastici fatte verso la metà del VI secolo da Giovanni lo Scolastico,
l’apostolo degli Slavi occidentali, credette suo dovere di rifiutare, per due
aggiunte, il commento visibilmente unito al 28° canone in una data
posteriore. «Non è vero, come afferma questo canone, egli scrive, che i
Santi Padri abbiano accordato la supremazia all’antica Roma perchè essa era
la capitole dell’impero, ma è dall’alto, è dalla grazia divina che questa
supremazia ha avuto origine. Per il grado della sua fede, Pietro, il maggiore
degli apostoli, ha inteso queste parole dalla bocca stessa di Nostro Signor
Gesù Cristo: «Pietro mi ami tu? Pasci le mie pecorelle». È per questo che fra
le gerarchie possiede la più eminente e il primo seggio… Perciò i privilegi
dell’antica Roma sono eterni; così pensano tutte le Chiese».
Il testo slavo di questa magistrale dichiarazione è stato pubblicato dal
russo Pavlov nel fascicolo IV della rivista russa Vizantyiskyi Vriemennik
(1897) con a fianco l’originale greco che lo stesso Pavlov ebbe la fortuna di
trovare nella biblioteca laurentiana di Firenze. Antecedentemente questo
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stesso autore aveva fatto pubblicare uno studio sostanziale sopra il
nomocanon stesso (Pavlov, Pervonatchalnyi slavianorousskyi nomocanon,
Odessa, 1874) di cui una copia manoscritta del XV secolo si trova nel
monastero di Solovetsk e un’altra presso l’abbazia (laure) di San Sergio a
Mosca. Questo nomocanon tradotto da Metodio fu molto divulgato presso gli
Slavi occidentali e i Russi sino al XIII secolo. E anche dopo quest’epoca dei
brani importanti sono passati in raccolte posteriori, come il passo sulla
supremazia romana, che si trova ancora in una kormtchaïa (nome che i
Russi danno alla loro collezione canonica) del XV secolo e in un’altra del XVI
secolo. «Questo fatto, nota Jugie (Op. cit. p. 55) ci mostra che i copisti
bulgari, serbi e russi non sono stati troppo spauriti dall’affermazione dei
privilegi di Pietro e dei suoi successori».
Nota C. — Questa parola «eresia» applicata al Filioque fu ripresa molto
tempo dopo Fozio e divenne un termine corrente solo nel XII secolo, grazie
sopratutto agli scritti del canonista Teodoro Balsamon.
Nel secolo precedente, la questione dell’aggiunta al Simbolo ha tenuto un
posto dei tutto secondario, persino nello spirito tormentato e aggressivo
d’un Michele Cerulario. Infatti è da ricordare che nè la lettera di Leone
d’Achrida al vescovo di Trani, nè quelle di Michele Cerulario a Pietro
d’Antiochia, per parlare solamente dei Greci, non fanno la minima allusione
al Filioque. Pertanto alcuni fatti ci provano che questa questione non
lasciava indifferenti gli uomini dell’epoca. È per questo che la bolla della
scomunica deposta dai legati romani sull’altare maggiore di Santa Sofia
contiene nell’articolo VII l’accusa seguente: «… come i nemici di Dio essi (i
Greci) tolgono dal Simbolo la processione del Figlio» (Bréhier, Le Schisme
oriental au XI siècle, p. 132). E Michele Cerulario rispose a questo attacco
nel suo editto sinodale, riproducendo parola per parola il passo dell’enciclica
di Fozio relativo alla medesima questione e facendo seguire a questa
trascrizione un riassunto di tutti gli argomenti proposti dal suo
predecessore.
Tutti i Greci non furono così intransigenti, sulla questione della
processione dello Spirito Santo, come un Fozio o un Balsamon. Fra loro se
ne trovano alcuni, come quel Teofilatto, arcivescovo d’Achrida, che,
rimproverando i Latini d’aver fatta un’aggiunta al Simbolo, trovano pel loro
abuso delle circostanze attenuanti. «Secondo il mio parere, scriveva
Teofilatto, in un’opuscolo a un certo diacono Nicola, di Costantinopoli (1090
), in questa questione del Filioque i Latini errano meno di cattiveria che di
ignoranza. Non comprendono il senso della parola processione sulla quale si
svolge tutta la questione e in ciò sono scusabili; la loro lingua è così povera
che manca di termini per esprimere le sfumature del pensiero». (Il testo
greco-latino dell’opuscolo dell’arcivescovo d’Achrida, Liber de iis quorum
Latini incusantur, edito da Bonifacio Finetti, Ord. Praedicatorum, si trova in
Migne, Patr. gr. t. CXXVI, 001. 221-249).
Più tardi, al Concilio di Lione (1274), degli altri Greci cantarono il Simbolo
con l’aggiunta latina, senza essere obbligati, poichè Gregorio X domandava
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loro soltanto che riconoscessero la verità dogmatica del Filioque. Al concilio
di Firenze (1439) furono tenute parecchie sessioni per la discussione sulla
legittimità dell’aggiunta del Filioque al Simbolo. E se è perfettamente vero
che Marco di Efeso non cessò di ripetere che quell’aggiunta era stata la
causa dello scisma e l’origine di tutti gli scandali, Nil Cabasilas, metropolita
di Tessalonica, i cui scritti dovevano servire d’argomento allo stesso Marco e
a Giorgio Scholarius al concilio di Firenze, ammetteva che dal punto di vista
dogmatico la questione rimaneva sospesa, e si rifiutava così di accusare
Roma d’eresia.
D’altra parte, il metropolita di Mosca Filarete non ammetteva che la
Chiesa d’Oriente avesse il diritto di formare da sola un concilio universale,
ciò a dire anche egli non voleva pronunciarsi contro Roma. Infine,
nell’enciclica del papa Leone XIII, con la data del 20 giugno 1894, non è in
verun modo fatta menzione di eresia o di scisma, ma solamente di discordia
(dissensio).
Così, poco a poco, si venne a un più giusto apprezzamento della
questione. E, se da parte dei Greci si trovano ancora alcune reticenze, alcuni
resti di formalismo e delle traccie d’intransigenza, la Chiesa latina non
insiste sulla necessità dell’inserimento del Filioque nel Simbolo purchè essa
sia sicura che si crede alla dottrina dogmatica espressa da questa formula.
Essa non obbliga dunque le Chiese orientali a recitare il Simbolo con il
Filioque (Palmieri, Dict. de Théol. Cathol. t. V. col. 2340).
CAPITOLO III.
La Russia e il mondo cattolico sino alla caduta di Bisanzio
I.
I Russi avevano abbracciato il cristianesimo prima della scissione
definitiva e formale della Chiesa. Però, anche dopo l’anno fatidico 1054, le
relazioni di Kiev con l’Europa occidentale continuarono come per l’innanzi.
Le relazioni commerciali con la Polonia, l’Ungheria, la Germania, senza
parlare dei paesi balcanici, non furono per nulla compromesse da questo
fatto, allo stesso modo che le relazioni politiche e famigliari dei principi dì
Kiev con i loro vicini immediati, i re di Boemia, di Ungheria e di Polonia. —
Vedere la nota A alla fine del presente capitolo —. Inoltre, quasi sino alla
fine del XII secolo, i Russi fecero ogni sforzo per tenere un completo
equilibrio fra l’Occidente e l’Oriente, nè perdettero mai l’occasione di
manifestare una perfetta indipendenza.
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Evidentemente un simile stato di cose doveva favorire la penetrazione in
Russia di influenze occidentali nella misura in cui queste influenze parevano
trovarvi una possente eco.
Difatti, per molti secoli, la Russia meridionale, senza parlare della regione
di Novgorod, restò un vasto campo per l’attività di differenti categorie di
stranieri appartenenti più agli ambienti laici che ai religiosi.
E all’epoca in cui le ostilità fra Roma e Bisanzio non erano che
intermittenti, il paese di Kiev fu visitato da Bruno di Querfurt, monaco di
Sant’Alessio di Roma e discepolo di San Romualdo. — Heine, Der heil. Bruno
von Querfurt, der Apostel der Petchenegem. Querfurt, 1887 —. Scopo del
viaggio lungo e periglioso di Bruno era d’andare a predicare il Vangelo ai
Pesceneghi tribù nomade e mezzo selvaggia accampata alle frontiere sudest della terra di Kiev.
Per arrivarvi dunque dovette passare per Kiev dove Vladimiro,
decisamente mutato, lo ricevettè con grande cordialità e lo tenne presso di
sè per un mese cercando di distorglierlo dalla sua pericolosa missione. Non
riuscendovi, l’accompagnò in persona per due giorni di marcia sino ai confini
del principato. Là gli augurò buona fortuna, non sperando di vederlo più.
Però Bruno ritornò sano e salvo a Kiev e potè annunciare al suo ospite, il
principe, il battesimo di circa trenta Pesceneghi.
Dopo il suo secondo passaggio per Kiev, Bruno indirizzò nel 1007 una
lettera al futuro imperatore Enrico II lo Zoppo, nella quale descrisse
lungamente e particolarmente il suo viaggio, il soggiorno alla corte di Kiev e
la cordiale accoglienza da parte di Vladimiro. — Biblioteca di Amburgo.
Sezione «Istoria» n. 321 (Fond. Uffenbach). Hilferding, Neizdannoié
svidetelstvo sovremennika o Vladimiré Sviatom (Testimonianza inedita di un
contemporaneo su Vladimiro il Santo) Mosca, 1856.
Frattanto, cioè nell’anno 1000, Vladimiro riceveva colle medesime
accoglienze calorose gli emissari del primo Papa francese, del coltissimo e
piissimo Silvestro II, vecchio Arcivescovo di Reims e precettore
dell’imperatore Ottone III.16 Ottone era nipote della sposa di Vladimiro, la
principessa Anna, la cui sorella Teofania o Teofano, come la si chiamava in
Oriente, aveva sposato nel 972 il padre d’Ottone, l’imperatore Ottone II, il
Rosso. — Schlumberger, L’Epopée byzantine à la fin du X° siècle, Paris
1900. Prima parte, pp. 192, 202, seconda parte, pp. 250, 252, — Murr,
Theophaniae Augustae, Ottonis II imperatoris conjugis, corona aurea,
(Norimbergae, 1804). — Silvestro, inviando la sua ambasciata a Kiev,
credeva di poter fare alleanza grazie a queste strette relazioni fra Roma e la
Russia. Però non riuscì e il grave incidente che successe pochi anni dopo a
un prelato cattolico di nome Reinberg non giovò affatto per stabilire le cose.
Vladimiro aveva sposato il figlio suo adottivo Sviatopolk con la figlia di
Boleslao il Grande, re di Polonia. La giovane principessa arrivò a Kiev
16 Nella cronaca niconiana, dell’anno l000 è detto: «In questo stesso anno, sono arrivati i
messi del Papa da Roma e quelli dei re di Boemia e d’Ungheria» (togo gé liéta pridé posly
ot papy Rimskago i ot koroley Tcheskikh i Ougorskikh).
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accompagnata dal suo cappellano, il vecchio vescovo di Kolobreg o Colberg,
Reinberg. Poco tempo dopo il matrimonio, Sviatopolk, spinto di nascosto dal
suocero si ribellò al padre suo e volle farlo abdicare.
Ma Vladimiro lo gettò in prigione in compagnia della moglie e del
cappellano di quest’ultima. — Thietmar di Mersebourg, Chronicon, Lib. VII,
cap. 52 .
Evidentemente questo gesto di difesa non era per niente diretto da
Vladimiro contro Reinberg, vescovo, ma contro Reinberg, complice politico
di suo figlio ribelle. Da ciò non si poteva dedurre che Vladimiro fosse
sistematicamente ostile alla Chiesa romana. Però l’imprigionamento di
Reinberg, durante il quale il vescovo di Colberg, secondo quanto dice
Thietmar, sarebbe riuscito a convertire Sviatopolk al cattolicesimo, raffreddò
le relazioni di Kiev con la cattolicità e ci volle almeno un quarto di secolo
perchè le cose ritornassero al loro stato primitivo.
Si crede che sia stato l’arrivo a Kiev di tre vescovi francesi che ruppe
definitivamente il ghiaccio.
Questi vescovi, Gautier di Meaux, Goscelin di Chalignac e Roger di
Châlons — Aubert, Etudes biographiques v. 1867. — Chronique de
Champaigne (1837), II, 89, 99 — venivano dalla Francia per domandare al
principe di Kiev, Iaroslav, la mano della figlia Anna per il re Enrico I. Inoltre,
Roger de Châlons era incaricato da Odalarico, prevosto della Chiesa di Santa
Maria di Reims, — Dom Ceillier, Histoire des auteurs ecclesiastiques (2.°
XIII 492). Hist. litteraire de France (1746) VII, 86, 7 — di verificare le
leggende sopra San Clemente le reliquie del quale si crede siano state
trasportate un tempo dal Chersoneso a Chiev.17
Ottenuto il consenso di Iaroslav pel matrimonio di sua figlia con il re di
Francia e constatato la venerazione e il culto degli abitanti lungo il Dnieper
per il quarto Papa di Roma, i vescovi francesi condussero nella loro patria la
giovane principessa russa. Le nozze furono celebrate verso la Pentecoste
dell’anno seguente; la consacrazione della regina fu fatta solennemente a
Reims.18
La morte di Iaroslav, quel principe famoso, che alcuni storici chiamano «il
Carlomagno della Russia», sopravvenuta, strana coincidenza, lo stesso anno
in cui avvenne la scissione definitiva fra la Chiesa d’Occidente e quella
d’Oriente, aprì l’era della divisione delle terre russe e suscitò delle gravi
questioni fra numerosi ereditari. Da quest’epoca data il principio della
decadenza di Kiev e, parallelamente, la consolidazione e l’affermazione
sempre più grande del potere personale del principe, congiunte
all’allontanamento sempre più visibile della Russia dal resto dell’Europa.
17 Le reliquie del papa, che, secondo una antica tradizione, sarebbe stato esiliato in Crimea
da Traiano e ivi sarebbe morto, dovevano essere state portate a Roma verso l’860 da San
Cirillo, che le trovò nei dintorni del Chersoneso.
18 Benzelstierna (Gust) Genealogia Annae, reginae Gallicae, coniugis Henrici I, in «Acta Soc.
Upsal» (1740) 68 trad. franc. in Biblioth. académ. (1811) VII, 1-5. — Lobanoff di Rostoff
(Ales.), Recueil de pièces historiques sur la reine Anne ou Agnès, epouse de Henri I, roi
de France, Paris, 1825.
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Fatto strano, sebbene i Russi non avessero mai preso alcun partito, sia nelle
lotte dottrinali, come nelle lotte politiche dei Bizantini, dovettero però
partecipare a tutti i mutamenti e tutto ciò, semplicemente per la ragione
che erano stati uniti dopo la loro conversione al cristianesimo, al patriarcato
d’Oriente. Così, come lo nota molto giustamente il R. P. Pierling, «si
cercherebbe invano una data precisa o un fatto noto che possa essere
segnalato come punto di partenza della separazione fra la Russia e Roma.
Avvenne implicitamente, senza scosse, senza motivo apparente, in virtù
della sottomissione gerarchica al patriarcato di Costantinopoli». — R. P.
Pierling, La Russie et le Saint-Siège, t. I, p. XIII (Introduzione).
Pertanto, nell’XI secolo come nel secolo seguente, la Russia non era
ancora divisa dal mondo occidentale come fece 300 anni più tardi e se allora
gli ambasciatori dei papi e degli imperatori non potevano modificare il fondo
delle cose e non erano in grado di deviare il corso delle idee, essi però
portavano con loro «lo spirito europeo» che allora era lo spirito della
cattolicità, cosa che mancava quasi del tutto alla Moscovia dei secoli XVXVII.
Evidentemente questo «spirito europeo» non fu sempre apprezzato dai
Russi nel suo giusto valore. Fu questo spirito però che insegnò loro un po’ di
urbanità, una civiltà fine, che fece sì che la Russia del Medio-Evo fosse in
relazioni strette e continue con il resto dell’Europa, che il numero degli
stranieri che si maritavano con i Russi fosse considerevole e che infine ci
fossero delle pratiche da parte di principi russi, per richiedere a delle alte
personalità dell’estero d’esser arbitri delle contese che sorgevano fra loro. È
ciò che fece Iziaslav, l’ereditario diretto di Iaroslav, quando fu cacciato da
Kiev dai suoi fratelli, e indegnamente abbandonato dal suo alleato, Boleslao
II l’Ardito, re di Polonia. — Pichler (Fritz), Boleslaw II von Polen, Budapest,
1892 —. L’imperatore Enrico IV aveva mandato una ambascieria a Kiev per
mettere a posto la contesa all’amichevole, ma egli tratteneva Iziaslav dal
rientrare ne’ suoi domini e dal ricuperare il suo avere. Perciò per accelerare
il ritorno egli mandò suo figlio a Roma con la missione di sottomettere
l’affare al Papa e di mettere sotto la protezione della Santa Sede il
principato di Kiev.
Gregorio VII (Ildebrando) intimò nel 1075 a Boleslao di rendere
integralmente tutto ciò che lui e i suoi avevano rapito «al re dei Russi» e
non contento d’agire con la penna, mandò degli emissari presso Iziaslav per
dargli coraggio. Non è cosa provata che sia unicamente per l’intervento del
Papa che Iziaslav potè risalire al trono dei padri suoi, benchè sia del tutto
possibile che Boleslao, per deferenza verso Gregorio VII, abbia cambiato la
sua politica a riguardo del principe russo. Iziaslav ritornò a Kiev nel 1076,
dopo la morte del fratello Sviatoslav, che occupava il trono e dopo una
transazione amichevole fra lui e il fratello più giovane, Vsévolod, che rese
Kiev volontariamente, — dicono le cronache russe — sotto la minaccia di un
intervento delle truppe polacche di Boleslao accampate sotto le mura di
Kiev, — dicono gli annali polacchi, — e per conto suo s’accontentò del
principato di Tchernigov. — Versione laurentiana della cronaca russa. —
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Polnoié sobranié rousskikh Lietopiseï. (Raccolta completa delle cronache
russe), volumi III, IV e V.
II.
Il secolo XI, così ricco di incidenti d’ogni sorta e di «promesse» per la
Russia futura, non finì senza che una nuova ambasciata romana venisse
presso la corte di Kiev. È probabile che siano state le trattative di Iziaslav
con Gregorio VII, di cui l’eco fu grande allora, a determinare l’antipapa
Clemente III di tentare la fortuna da parte sua. Il pretesto che l’obbligato
dall’imperatore Enrico IV aveva trovato per mandare in Russia degli emissari
era di un ordine molto delicato e che solo l’ignoranza totale di Clemente III
delle cose russe poteva benissimo spiegare. Poichè si trattava d’una unione
fra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa di Russia. Ma la Chiesa di Russia
non esisteva in quanto a personalità distinta e autonoma; era una filiale di
Bisanzio e, se il Papa desiderava una unione con la Russia, bastava che
s’indirizzasse al patriarca di Costantinopoli e al Concilio dei metropoliti della
Chiesa d’Oriente. Tale fu, in sostanza, la risposta, formulata, del resto, nei
termini più cortesi, mandata a Clemente III dal metropolita di Kiev,
Giovanni II, prelato d’origine greca,19 perchè, allora, c’erano pochi veri Russi
fra gli alti dignitari della Chiesa.
Tutti i grandi affari della Chiesa erano trattati dai Greci, poichè erano essi
soli che, in generale, si davano profondamente agli studi canonici e alla
interpretazione sottile dei dogmi. — Vedere la nota B alla fine del presente
capitolo. — Così pertanto, credendo di parlare alla Chiesa russa, in realtà la
cattolicità, per molti secoli s’indirizzava ai Bizantini; i Russi propriamente
detti furono raggiunti molto raramente dalle parole romane e quando
arrivarono, era già troppo tardi. Così l’errore che commise l’antipapa
Clemente III lo commisero a loro volta molti papi che, sembra avessero una
posizione migliore, per conoscere la verità.20
19 Il metropolita Giovanni, mandato in Russia nel 1077 dal patriarca di Costantinopoli, era un
uomo molto istruito e intelligente, ma profondamente bizantino. Non accontentandosi
d’una risposta verbale ai messi di Gilberto (Clemente III) gli indirizzò una lunga lettera, di
tono amichevole, ma piena di ammonizioni e di consigli: «Vi scongiuro d’abbandonare i
vostri errori, specialmente quelli che trattano degli azzimi e dello Spirito Santo, poichè i
primi compromettono la Santa Comunione, i secondi l’ortodossia della fede», scriveva il
metropolita al «Santissimo e venerabilissimo fratello in Nostro Signore, Clemente, papa
dell’antica Roma». E più oltre: «Io prego Vostra Santità di voler indirizzarsi di nuovo al
nostro santissimo patriarca di Costantinopoli e a tutti i santissimi metropoliti che lo
circondano. In seguito, se vi piace, scrivete a me, ultimo di tutti».
20 È per questo che ancora alla fine del XV secolo in Vaticano non si sapeva niente di positivo
riguardo ai Russi. Quando nel 1472 venne a Roma un’ambasciata del principe Ivan III
incaricata di domandare per lui la mano di Sofia (Zoé) nipote dell’ultimo imperatore di
Bisanzio, allevata nella città eterna alle spese e sotto la protezione del Papa, fu convocato
un Consiglio di cardinali per discutere su questa domanda. Ma, fa notare lo storico, chi
consegnò scrupolosamente per iscritto questa deliberazione di Cardinali, «non s’era
sufficientemente informato sulla fede dei Ruteni».
Però si approvò il matrimonio e si permise persino che la mutua promessa avesse luogo
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Fu qui l’origine di disprezzi e d’un grande numero di disillusioni e di
collere. Ma nell’XI secolo non si prevedeva ancora niente di quelle lotte
future; si era completamente in pace, c’era larga tolleranza e persino, ciò
che non si vedrà più alcuni secoli più tardi, si rispettava la religione altrui.
Dunque sono queste particolarità della mentalità dei Russi d’allora che
incoraggiarono la cattolicità a domandare loro l’ospitalità per i propri preti e
per i proprii monaci.
Nel 1130, San Bernardo di Chiaravalle accarezzava l’idea di andare fra i
Russi; però, nonostante gli incoraggiamenti di Matteo, vescovo di Cracovia,
non realizzò mai il suo progetto. Invece, all’indomani della fondazione
dell’ordine dei «Frati Predicatori» (1216) un certo numero di loro fu
mandato in Polonia, d’onde passarono ben presto in Russia.
La data esatta della loro prima apparizione a Kiev non si conosce; fu
probabilmente verso il 1228, ma noi troviamo ricordato nella storia
dell’ordine, dell’anno 1233, l’esistenza a Kiev d’una Chiesa retta dai
domenicani.21 Questa Chiesa, dedicata alla Santa Vergine Maria (Sancta
Maria) non era stata costruita da loro, ma fu loro ceduta dalla ricca
corporazione dei mercanti italiani e tedeschi che ne possedevano molte a
Kiev stessa. — Malichevskyi, Dominikanetz Jatzek Ondrovong («raccolte
dell’Accademia ecclesiastica di Kiev», 1867 t. II). — Nel 1232, il Papa
Gregorio IX, desiderando di incoraggiare i domenicani nelle loro opere pie,
accordò loro per mezzo di una bolla particolare alcuni diritti speciali riguardo
alle indulgenze. — Historica Russiae momumenta, Petropoli 1841, I, 35.
Pertanto la loro attività assidua e il grande successo della loro
predicazione, presso i Russi, causò dei sospetti da parte del principe
regnante a Kiev, che allora era un certo Vladimiro Rurikovich. Intimò che
fossero cacciati con la proibizione formale di ritornare nei suoi Stati (1233).
nella basilica di Pietro e Paolo, a Roma. Per qual ragione? Perchè, ci dice ancora lo storico,
«i Ruteni hanno accettato il concilio di Firenze, e hanno avuto un arcivescovo latino
nominato dalla Santa Sede (mentre i Greci per la scelta dei loro vescovi si rivolgono ai
Patriarchi di Costantinopoli); ora domandano che si mandi presso di loro un ambasciatore
per conoscere la loro fede, studiare la situazione, correggere ciò che sarà giudicato
erroneo e ricevere la loro professione di obbedienza. Infine quand’anche i Ruteni fossero
del tutto più eretici, i matrimoni fra loro secondo il diritto pontificio non sarebbero invalidi
(non tamen ex iure pontificio irrita cum iis coniugia habentur). Però i figli smarriti
sembrano dover essere richiamati verso il seno della Chiesa, loro madre, dagli onori e
dalla benevolenza». Cfr. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, XXIII, an. 1472, col. 88.
— Nuova edizione, t. XIII, parte II, (Diario Concistoriale del Cardinale Ammanati) pp.
144-145.
Strana illusione e non meno strana ignoranza dei fatti, nota molto giustamente il R. P.
Pierling. «Da principio, il concilio di Firenze non fu mai riconosciuto a Mosca. Al contrario,
appena promulgato nel 1441, fu subito rigettato con orrore. È vero che la bolla di Eugenio
IV fu ammessa a Kiev, centro religioso delle provincie russe della Polonia; ma queste
provincie stabilite in metropoli dal 1458, riconobbero l’autorità del papa e si staccarono
completamente da Mosca».
21 R. P. Giacomo Quetif e R. P. Giacomo Echard, Scriptores ordinis Praedicatorum MDCCXIX,
Tomus Secundus, p. XVI (notitia), — Mamachi, Annal. ordinis Praedicatorum, Roma, 1756.
Tomo II.
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— Goloubinski, Istoria rousskoï tserkvy, (Storia della Chiesa russa), Mosca,
1901-1904, t. I, pp. 808-809.
Circa la stessa epoca, alla parte opposta dell’estesa pianura russa,
incominciava a sorgere la figura del Savoiardo Guglielmo, vescovo di
Modena. — Krosta (Fried), Wilhelm von Modena, Königsberg, 1867.
Non era la prima volta che visitava le rive del Baltico; a più riprese egli
aveva già soggiornato in Prussia, in Livonia, in Svezia, in Danimarca
predicando il Vangelo, introducendo le riforme, raccogliendo l’obolo di San
Pietro. Questa volta, stava per stabilirsi a Riga, — Winkelmann, Bibl. Livon
hist. (1869) — quando fu prevenuto che una commissione di abitanti di
Novgorod, voleva vederlo per mostrargli gli atti della loro transazione con i
cavalieri teutonici che, dopo frequenti contese, venivano a combinare con
loro una tregua.
Tale modo di procedere dei Russi, che aveva solamente importanza
giuridica, cioè il desiderio d’avere la firma del legato del Papa in fondo alla
pergamena perchè avesse maggior valore agli occhi dei cavalieri cattolici, fu
interpretato dal Vaticano, — sempre a causa dell’ignoranza della mentalità e
della vita russa in generale, — come il desiderio di quelli di Novgorod di farsi
istruire nella fede cattolica e di ricevere un legato di Roma. Il papa Onorio
III mandò, pertanto nel 1227, un messaggio «a tutti i re di Russia» (ad
universos reges Russiae) in cui li teneva sospesi sulla conferma delle voci
arrivate sino a lui del loro desiderio di stringere delle relazioni continuate
con la Santa Sede. — Questo messaggio del papa Onorio III è citato per
intero in Historica Russiae monumenta, t. I p. 20 n. 21.
Il messaggio restò senza risposta, perchè nessun principe russo e
nessuna città russa aveva mai domandato niente di simile. In più, le
repubbliche russe vicine al mar Baltico, cioè quelle di Pskov e di Novgorod
avevano orrore dei re e anche dei principi; quanto ai principati russi erano
ben lontani e i loro capi a quest’epoca non avevano a che fare nelle
questioni religiose.
Del resto, quali erano in quei tempi i principati che potevano occuparsi
ancora di cose astratte? L’invasione mongolica si era scatenata e la terra
russa, almeno nella parte orientale, gemeva già sotto gli zoccoli dei tartari
cavalli.
D’altra parte, Kiev, città esclusivamente dedita al commercio, sorta un
tempo su un nodo di strade commerciali, aveva perduta tutta la sua
importanza dal giorno in cui il commercio Europeo con l’Oriente aveva
trovato un cammino più diretto e meno costoso.
Il ducato di Galizia, infossato come un cuneo fra l’Ungheria e la Polonia, e
che si manteneva ancora, grazie all’energia del suo principe Daniele, era
paralizzato dalla paura continua d’essere assalito dai Mongoli o tratto in una
guerra con i vicini dell’Ovest, cosa che, fra parentesi, non era poi una
novità. Riguardo al principato di Rostov-Souzdale, culla del futuro regno
(tsarstvo) di Mosca, creato press’a poco nel secolo precedente, dall’energia
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indomabile del cervello freddo e calcolatore di Andrea Bogolioubskyi,22 allora
era proprio la preda delle orde asiatiche.
Di questi anni sanguinosi e disordinati rischiarati dalla luce sinistra degli
incendi, noi abbiamo alcuni testimoni veridici,23 che spiccano sull’ammasso
degli scritti posteriori, confusi, contradittori, e molto spesso sospetti. Ora
possiamo dire che nei primi anni d’invasione, la dominazione mongolica non
fu unicamente un disastro e un accumulamento di rovine. Poichè non
solamente essa rassicurò la coscienza religiosa del popolo russo, ma ancora
fu una buona scuola amministrativa e militare per i dirigenti del paese e
preparò l’unità politica della Russia che realizzarono i grandi principi di
Mosca. Insomma lo scopo dei Mongoli non era tanto la persecuzione
religiosa, quanto invece la dominazione universale e il trionfo delle loro
armi. I Khans dell’Orda d’Oro sottomisero la Russia al loro potere, ma non
alterarono le leggi fondamentali nè la costituzione ecclesiastica. Per tutto il
tempo che rimasero attaccati al paganesimo non toccarono il dominio della
religione cristiana. «I Tartari, dice uno scrittore contemporaneo, (Giovanni
da Pian dei Carpini) non costringono nessuno a rinunziare alla sua fede o
alle sue leggi».24
D’altra parte, i Mongoli «avevano messo un ordine relativo nel paese. La
pulizia delle strade sopratutto era ben fatta grazie a un servizio postale
organizzato con cura, Ma avevano una pronta giustizia e la mano ferma. E
lo si sapeva; dalla Polonia fino al mar Ionio, neppure un cane osava
abbaiare senza il loro permesso. I loro squadroni disciplinati avevano
stabilito fra i popoli sottomessi «la pace mongolica» con il ferro, come le
legioni romane avevano imposto «la pace romana» nel mondo antico».
Gabriele Bonvalot, Marco Polo, Parigi, 1924. — Vedere anche fa nota C alla
22 Andrea Bogolioubskyi che si sforzava di riportare verso l’Oriente il centro di gravità della
Russia, desiderava vivamente di erigere la capitale del suo principato, la città di Vladimiro,
in sede metropolitana. Ma non vi riuscì e d’allora ebbe dei rancori con il Patriarca di
Costantinopoli, il che apprendendo, il papa Alessandro III gli mandò nel 1169
un’ambasciata (Cronaca Niconiana). Non abbiamo alcun dato preciso riguardo allo scopo
che fu assegnato a questa ambasciata, come non sappiamo niente di ciò che Andrea
rispose.
Al contrario la storia ci dice che è proprio in quest’anno 1169 che Bogoloubskyi si gettò su
Kiev a capo di molti principi vassalli e mise a fuoco e a sangue la «madre delle città
russe» (mat gorodov rousskikh) che, politicamente non si risollevò più dopo questo
disastro. (Cfr. Pogodine Kniaz Andreï Iourievitch Bogolioubskyi. — Giovanni Martynov,
Annus ecclesiasticus greco-slavicus (Dies XXIX, Memoriae Slaviae) p. 164. Goloubinskyi,
Istoria rousskoï tserkvi (Storia della Chiesa russa), t. I, I parte, pp. 330-332, 597.
23 Petoukhov, Serapion Vladimirski, rousskyï propovednik XIII veka (Serapion di Vladimiro,
predicatore russo del XIII secolo), St. Petersbourg 1888. — Slovo o poguibeli rousskia
zemli (sulla perdizione delle terre russe), (Cfr. Loparev, Pamiatniki drevnei pismennosti),
St. Petersbourg, 1892 vol. 84). — Srezniévski Drevnia pamiatniki (monumenti antichi) St.
Petersbourg, 1882. — Povest o prikhode Batya (racconto sulla venuta di Baty).
«Vremennik» XIV.
24 Giovanni da Pian dei Carpini, Re1ations des Mongols o Tartares. Trad. franc. e note
d’Avezac, Parigi 1838. — Voyages très curieux faits et écrits par les R. P. ]ean Du Plan de
Carpin et N. Ascelin en qualité de lègats apostoliques et ambassadeurs vers les Tartares
et autres peuples orientaux, L’Aia, 1735.
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fine del presente capitolo.
Però questa invasione e la lunghissima dominazione asiatica ebbero per
conseguenza l’apparizione in Russia d’una aristocrazia di ceppo
semiorientale, risultato di numerosi matrimoni misti fra i principi e i dignitari
russi e le figlie o i parenti dei Khan mongoli. Naturalmente questa
aristocrazia non mostrò alcun gusto per le idee occidentali e per il modo di
vivere, di credere e di pensare europeo. È dunque da quest’epoca che data
l’orientamento verso l’est della vita domestica dei Russi. Ciò non vuol dire
che nessuna influenza orientale non si facesse sentire in Russia prima dei
secoli XIII-XIV: il popolo russo ha troppo sangue turanico e finnico nelle sue
vene per poterlo contestare; però tale influenza si esercitò piuttosto nella
grande massa del popolo a piccoli colpi, a sbalzi. Infine non fu mai
unilaterale. Mentre l’influenza tartara o mongolica si manifestò quasi
unicamente nella classe dirigente del paese. Inoltre, non ebbe a vincere
nessuna contrarietà. I principi, i nobili russi erano a quanto pare, più docili e
influenzabili, meno resistenti in ogni cosa, d’un semplice «Krestianino», un
moujik rozzo.
Pertanto non si lasciarono «mongolizzare» tutti a dispetto dei frequenti
viaggi e soggiorni ripetuti all’Orda d’Oro. Si trovò tra la massa qualche
principe e qualche nobile che, grazie al suo carattere altiero, alla sua prima
educazione o ancora alle sue simpatie o inclinazioni per quello «spirito
europeo» che era rappresentato dalla cattolicità, era debitamente
immunizzato contro il veleno orientale.
Tale fu quel Danilo Romanovitch la vita del quale fu così intimamente
legata ai destini del principato di Galizia. — Dachkevitch, Kniajenié Daniila
Galitzkago, (Il regno di Danilo di Galizia). Kiev, 1873, — Soloviev, Daniil
Galitsky («Sovremennik», 1874).
III.
Quella che si chiama ancora oggi «la Russia pre-carpatica»
(Prikarpatskaïa Rouss) o ancora «la Russia Rossa» (Tchérvonnïa Rouss) si
eresse a feudo indipendente nel momento in cui il principato di Kiev andava
declinando. Fu chiamato il principato di Galizia dal nome della sua capitale
d’allora, attualmente piccola città decaduta della Galizia detta orientale.
Abitata dagli Slavi che si dicevano giustamente fratelli degli abitanti di
Kiev, Galizia ebbe pertanto una storia molto differente e differenti destini.
Fu perchè, incuneata fra la Polonia e la Ungheria, essa dovette, per
conservare la propria indipendenza, fondare per sè e ben presto un esercito
considerevole alla testa del quale fu posto la parte scelta degli antichi capi
militari del paese di Kiev, ai quali s’aggiunsero ben presto altri profughi
dell’Est e dell’Ovest, cioè e della parte russa e della parte polacca e
magiara. Così a poco a poco si formò nel principato di Galizia una nobiltà di
spada che trasmise il potere a una oligarchia di magnati a tendenze
aristocratiche agli occhi della quale il principe rappresentava solo il potere
esecutivo. Evidentemente un paese governato da tal partito non poteva
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conservare con il resto della Russia profondamente democratica e più tardi
fortemente aristocratica, che legami federali i quali si ruppero da sè quando
la Russia meridionale cessò d’esistere come unità politica indipendente. —
Hilferding, Sobranie, sotchinenyi (Opere complete), St. Petersbourg, 1868,
t. II, p. 433.
Il principe Daniele, che era succeduto al suo illustre padre Romano, primo
principe della Galizia indipendente, ebbe molte noie da parte dei suoi boiardi
altezzosi e dei suoi vicini avidi e ostili. Inoltre, dovette fare l’impossibile per
preservare il suo ducato dalla cupidigia dei messi del grande Kan dei
Mongoli. Insomma, era senza pazienza e forte quando, ritornando dalla
Orda d’Oro dove era dovuto andar per presentare i suoi omaggi, trovò a
casa Fra Giovanni da Pian dei Carpini che aveva condotto da Cracovia suo
fratello, il giovane Vassilko. —Johannis De Plano Carpini Istoria Mongolorum
quos nos Tartaros appellamus, Cap. ultimum, parag. III 2 e parag. IV 2.
L’illustre francescano, che era stato mandato nel 1245 o 1246 da
Innocenzo IV presso i Kan dei Mongoli con una missione pacifica, s’interessò
molto per la sorte della regione di Galizia e del suo principe. Disse adunque
della possibilità d’un intervento o d’un aiuto del Papa, e Daniele, il quale non
domandava di meglio che d’unire il suo nome a un atto d’unione con Roma,
non rifiutò l’aiuto che gli veniva promesso, tanto più che egli sapeva che
una parte considerevole del clero, per un accordo compiuto, era con la
Santa Sede.
Sul rapporto di Giovanni da Piano dei Carpini, Innocenzo IV promise a
Daniele il suo appoggio contro i Tartari e gli mandò una corona reale con la
quale quest’ultimo si fece incoronare nel 1253 a Drogitchine, re di Galizia
dal legato Opizoni.25
Nello stesso anno, il Papa bandì una crociata contro i Mongoli. Ma il suo
appello rimase senza risposta; nessuno venne in soccorso della terra di
Galizia e del suo nuovo re. Allora costui, rompendola con la Santa Sede, si
preparò a resistere con le sue forze all’irruenza tartara.
Dopo la morte di Daniele, sopravvenuta nel 1264, il principato di Galizia
passò a diversi principi della sua famiglia, dei quali l’ultimo fu un certo
Boleslao-Iouryi, assassinato nel 1340, che un documento del tempo chiama
«Dei gratia natus dux minoris Russiae». Questa espressione «minoris
Russiae», era usata per la prima volta. Nel XIV secolo la Galizia fu unita al
regno di Polonia; nel 1361, a Lwow, la nuova capitale del ducato e sede
d’una metropoli ortodossa, veniva eletto un vescovo cattolico; il 13 febbraio
1375, fu promulgata la bolla Debitum pastoralis officii che servì di base
all’organizzazione completa per la GaIizia d’un clero cattolico di rito latino.
La terra di Galizia era definitivamente perduta per la Russia.
IV.
Dopo che il ducato di Galizia ebbe perduta la sua indipendenza, avvenne
25 Historica Russiae Monumenta, Petropoli, 1841, t. I, p. 57, n. 62.
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a Mosca un fatto isolato che suscitò nel suo tempo dei vivi commenti. Noi
vogliamo parlare del ritorno a Firenze, nella sua residenza metropolitana,
del celebre prelato russo Isidoro.
Si diceva già, prima che il metropolita Isidoro venisse in Italia al concilio
ecumenico convocato dal papa Eugenio IV per l’anno 1438, che egli non era
ostile in principio ad una unione con Roma e che considerava che solo un
molesto malinteso nell’interpretazione di alcuni dogmi aveva potuto
separare le due Chiese. Del resto, c’era qualche lettera d’Isidoro scritta
prima della sua promozione al seggio metropolitano di Russia che poteva
appoggiare queste dicerie. — Queste lettere, sei di numero, sono state
pubblicate da Regel nei suoi Anacleta byzantino-russica. Petropoli, 1891.
Ma ciò che faceva sì che tutti se ne infischiassero apertamente, era la
parte sostenuta da Isidoro al Concilio di Firenze26 e il fatto unico nella storia,
che questo prelato ortodosso ritornava nella sua diocesi con la porpora
romana e con il titolo di legato apostolico per la Russia.
L’accoglienza che fecero, al ritorno dall’Italia, gli abitanti di Kiev e il
principe Alessandro al loro «padre metropolita» fu molto filiale. —
Istoritcheskia akty, (Documenti storici), t. I, n. 259.
Per Isidoro incominciarono le difficoltà nel 1441, quando andò a Mosca
per consegnare al grande principe Vassilyi una lettera amichevole del Papa.
Durante la prima messa pontificale nella cattedrale dell’Assunzione in
presenza del grande principe, Isidoro sostituì alle preghiere per i patriarchi
della Chiesa d’Oriente una preghiera per il Santo Padre il Papa e fece
leggere, dopo l’uffizio, dall’alto dell’ambone, la decisione del concilio di
Firenze. Questo fu un grande scandalo. Il principe Vassilyi, al colmo del
furore, dimenticando la santità del luogo, rinfacciò volgarmente a Isidoro ciò
che lui chiamava cattiveria e tradimento. Lo fece discendere con forza
dall’altare e lo chiuse nel monastero di Tchoudov, sotto buona custodia. Però
Isidoro riuscì a fuggire e poi si arrese a Tver. Mal per lui però, ché il principe
di Tver lo fece gettare in prigione. Ma, ancora una volta, Isidoro fuggì e
andò rifugiarsi a Novgorod.
Di là andò a Roma dove passò il rimanente della sua vita. — Strahl. Der
Russische Metropolit Isidor. Tubingen, 1823. — Migne, Patrologia (Series
graeca posterior). t. 159. — Archiv. soc. Orient lat. (1884). II, 228-293. —
Hofmann (G.), S. I Kardinal Isidor von Kiev («Orientalia christiana» n. 26,
Roma, 1926.
Ma il suo ufficio di mediatore fra Mosca e la Santa Sede era terminato,
perchè dopo il suo primo imprigionamento il grande principe Vassilyi,
convocato un Sinodo di vescovi ortodossi, proclamò la deposizione
ecclesiastica del metropolita ribelle e rigettò a nome di tutto il popolo russo
l’unione progettata con Roma.
26 Pelesz, Geschichte der Union, Vienna 1878. — J.-D. Mansi, Collectio S. Conciliorum,
(Florentinum aecumenicum Concilium), t. 31 a. pp. 459-1085.
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NOTE
Nota A. — La separazione delle Chiese non ebbe alcuna ripercussione
molesta sui matrimoni fra i sovrani russi e i principi stranieri, o viceversa:
questo, almeno sino alla metà del secolo XII. Così il grande principe
Iaroslav, che aveva sposata nel 1019 la principessa Svedese Inghiguarda
(che fu chiamata Irene dai Russi) sposò tre figli e tre figlie a delle
principesse e principi cattolici romani. Quanto a suo figlio Vsevolod, fu
sicuramente il sovrano il più imparentato in Europa in quel tempo; era
suocero dell’imperatore di Germania, Enrico IV, e contava fra i cognati il re
di Francia, Enrico I, il re di Norvegia, Araldo, il re di Danimarca, Sven, ecc.
Al contrario, nei secoli XI-XII si ebbero soltanto tre principi russi che
sposarono delle Greche (Cf. N. di Baumgarten, Généalogie et mariages
occidentaux des Rurikides russes. «Orientalia christiana». Vol. IX - I. 1927).
Tutte queste alleanze dispiacevano sommamente ai Bizantini;
specialmente pel disegno di separare i Russi dai cattolici romani, i
rappresentanti del patriarca di Costantinopoli a Kiev facevano tutto il
possibile per dipingere le corti straniere i loro sovrani sotto i colori più neri.
Uno dei prelati greci, il famoso metropolita Giovanni II giunse al punto di
dichiarare pubblicamente (nelle sue famose Risposte Canoniche indirizzate a
un certo monaco Giacobbe, secondo l’ipotesi di Goetz, Kirchenrechtliche
Abhandlungen, Stuttgart, 1905) «è cosa indegna e indecente che le figlie
del gran principe sposino coloro che si comunicano con gli azzimi. Pertanto
se il principe piissimo e ortodosso per grazia di Dio fa contrarre tali unioni ai
figli suoi, sarà punito dalla Chiesa». (Pavlov, Otryvki gretcheskago teksta
kanonitcheskikh otviétov rousskago métropolita Ioanna II (Frammenti del
testo greco delle risposte canoniche del metropolita Giovanni II, St. Pietr.
1873). E probabilmente per rinforzare questa minaccia non falsa aggiunse:
«Non è permesso avere delle relazioni o di celebrare in comune la Santa
Messa con coloro che usano del pane fermentato, e, durante la settimana
della Tirofagia (Tyrophagias, è l’ultima settimana delle quattro settimane
preparatrici alla grande quaresima che in russo si chiama: syropoustnaïa
nedelia) mangiano della carne e si nutrono di sangue e di carne». (Cfr.
Maitzew, Fasten und Blumen-Triodion, Berlin, 1899). Questa intolleranza
per gli altri culti e queste proposte non erano proprie del carattere dei Russi,
che, del resto, non avevano alcun motivo per avere di mira il papa e le genti
dell’occidente. Anzi essi fecero per lungo tempo i sordi alle recriminazioni
dei bizantini. Certamente, l’ostilità dei greci per i Latini era ben conosciuta
in Russia al principio del XII secolo, tuttavia passò uno spazio di tempo
abbastanza considerevole prima che i principi di Kiev acconsentissero a far
proprio l’odio dei Greci contro i cattolici romani.
Fra i prelati greci che si erano dedicati a quest’opera, i più ardenti furono
nel XII secolo il metropolita Niceforo e l’igumeno della laure (abbazia) delle
catacombe a Kiev, Teodosio. Si conoscono di Niceforo due lettere indirizzate
al principe di Kiev Vladimiro Monomaco e che trattano, la prima, della
divisione delle chiese d’oriente e d’occidente e la seconda del digiuno. In
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quanto a Teodosio egli è l’autore d’un trattato sulle eresie dei latini. (Cf.
Popov, lstoriko litératournyi obsor drevne roussikikh polemitcheskikh
otnochenyi protiv Latynian. (Scoperta storica e letteraria degli antichi
trattati polemici russi contro i Latini, Mosca, 1875).
Rotto il ghiaccio, qualche ecclesiastico russo giudicò bene imitare i Greci
componendo a loro volta dei libretti contro i Latini, di cui un certo numero fu
attribuito, in seguito, arbitrariamente, ad autori del secolo precedente: si
operò con lo stesso spirito anche con le Risposte Canoniche e con la lettera
a Clemente III del metropolita Giovanni II, avendo cura di sopprimere il
nome dell’Antipapa e le parole d’elogio per gli occidentali. Così troncata, la
lettera di Giovanni apparve sotto il titolo sensanzionale di «Istruzione dei
sette concili contro i Latini» e assunse tutte le apparenze d’una diatriba
contro i cattolici romani.
Nota B. — Le relazioni della chiesa bizantina con la Russia si
manifestarono nel corso degli anni sotto la forma di una tutela giuridica e
canonica e di una influenza spirituale e dogmatica. Tuttavia, così nel primo
come nel secondo di questi dominii, Bisanzio trovò ben presto una seria
resistenza da parte dei Russi sui quali trionfò il più delle volte per l’astuzia o
per l’appoggio prestato dal potere supremo. Così, se la tutela bizantina
nell’ordine giuridico non fu abolita ufficialmente che nel XVI secolo, per la
creazione d’un patriarcato nazionale, non dobbiamo dimenticare che le
velleità d’indipendenza religiosa si manifestarono fin dal principio del XII
secolo, tanto nella società laica come in mezzo al clero.
Il difensore più energico e più convinto di questa libertà d’azione fu, in
quel tempo, il metropolita Clemente di Kiev, uno dei rari prelati d’origine
puramente russa, e inoltre uomo molto istruito per l’epoca e l’ambiente,
poichè leggeva Omero, Platone e Aristotele nel testo originale e ne faceva
gran conto.
Sostenuto dal principe reggente Iziaslav II, intraprese una vigorosa
campagna per sottrarre la chiesa russa alla tutela bizantina. Egli fallì nel suo
tentativo a causa dell’opposizione di una parte del clero russo e degli intrighi
dei Greci, ma la semente che aveva gettata non andò perduta. Dopo la
morte di Clemente, il movimento fu ripreso di nascosto dai monaci del
grande monastero delle Catacombe a Kiev, guardiani gelosi dei principi
democratici e protagonisti convinti dell’idea nazionale (ciò a dispetto del
fatto che certi priori (igoumeny) di detto convento furono d’origine greca e
di tendenze puramente bizantine). Esso si manifestò nella stessa epoca con
le parole seguenti, che furono pronunciate da un principe di Kiev (Rostislav)
agli inviati da Bisanzio nell’occasione della nomina d’un nuovo metropolita
sostenuto dal patriarca di Costantinopoli: «Per amicizia e per rispetto
all’augusta persona dell’imperatore (di Bisanzio), noi accettiamo volentieri
fra le nostre mura il nuovo metropolita (Giovanni). Tuttavia, se il fatto si
ripete, e se, senza avvisarci e senza domandare il nostro consenso,
contrariamente alle prescrizioni degli apostoli, s’invia da Bisanzio un
metropolita, allora non solo non lo riceveremo, ma emaneremo una legge
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eterna con la quale il diritto di scegliere e di nominare i vescovi spetterà,
d’ora innanzi, solo alla volontà del gran principe». Più tardi questa sete di
indipendenza si perdette nei meandri della vita religiosa russa, per
riapparire definitivamente alla corte dei primi czar moscoviti.
L’influenza spirituale di Bisanzio fu combattuta non meno energicamente.
Ma la lotta in questo terreno fu intrapresa in un’epoca molto più lontana,
cioè dopo che la Chiesa russa giunse a proporre una mistica propria.
D’altronde il suo progredire fu lento, essendo ostacolato da ritorni offensivi
dei Bizantini all’epoca del grande principe Ivan III, il quale, essendosi
sposato con una principessa bizantina, si vide circondato da un
ragguardevole numero di Greci arrivati in Russia al seguito della loro
augusta compatriota, poi nell’epoca in cui «regnava» l’autoritario patriarca
Nikone, che non pensava che per i Greci e cercava d’imitarli in tutto. Questa
tendenza al ritorno verso il bizantinismo integrale, dopo che la Moscovia per
mezzo dei predicatori e dei teologi, come Silvestro Médvédiév, aveva più
volte contrastata «l’ortodossia» dei Greci, e la purità della loro fede, e
quando essa s’allontanò maggiormente dal loro modo di pensare, fu una
delle cause della disgrazia e della decadenza di questo patriarca. Dopo la
disgrazia di Nikone, vi fu un nuovo affievolimento dell’influenza bizantina, e
questa volta definitivo. Ma ritirandosi le onde greche lasciarono sulla
spiaggia uno straordinario ammasso di cose singolari.
Nota C. — Non si è ancora d’accordo sull’etimologia della parola
«mongolo». L’opinione che raccoglie il più gran numero di approvazioni è
quella di Sanang Setzen (SSanang SSetsen, Chung Taidschi, Geschichte der
Ost-Mongolen. Trad. dal mongolo di J. J. Schmidt. St. Petersbourg, 1829) il
quale crede che questo nome di «Mongolo» provenga dalla parola mong che
in cinese vuol dire «bravo». Quanto alla parola «tartaro» si deve, per
conformarsi alla sua pronuncia corretta, che è quella che si usa in Persia, in
Russia e in Oriente, privarla del primo r che fu introdotto del tutto
arbitrariamente da certi Europei al tempo del Papa Innocenzo IV e dallo
stesso Papa. (Ad sua Tartara Tartari detrudentnr).
Il Medio Evo Europeo ha conosciuto un gran numero di leggende e di
storie, le une più fantastiche delle altre, intorno all’origine dei Mongoli
(Matthew Paris, Chronica Major, ed. Rolls. pp. 76 ssg., 386 ssg). Ruggero
Bacone assicurava ch’erano là i soldati dell’Anticristo. Giovanni da Piano dei
Carpini credeva di vedere in essi i discendenti delle dieci tribù sperdute
d’Israele, che Alessandro il Grande aveva fermate sulle alte montagne che si
spingono fino al mare Caspio, e per quello stesso fatto attribuiva loro
un’origine semitica. Infine vi erano di quelli che si persuadevano, e
cercavano di persuadere gli altri, che i Mongoli erano i sudditi del misterioso
prete Giovanni, di cui si parlava molto in quel tempo, senza poter precisare
nè la sua origine nè il territorio del regno fantastico di cui egli era creduto il
sovrano. Ci volle dunque alquanto tempo per chiarire tutte queste dicerie e
molto anche per vedere se non si potevano evangelizzare queste terribili
genti (perchè, in Europa si diceva che una volta convertiti alla religione di
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Cristo, i Mongoll evidentemente rinuncerebbero a invadere l’Occidente e a
saccheggiare le terre cristiane). Perciò fu mandato in Oriente Giovanni da
Piano dei Carpini dal Papa Innocenzo IV, nel 1245, e Guglielmo Rubrouck
(Rubruquis) nel 1253, da Luigi IX il re cristianissimo. Dal punto di vista
diplomatico e confessionale, queste missioni non ebbero alcun successo: in
compenso aumentarono in modo molto apprezzabile le conoscenze esatte
che noi possediamo dei Mongoli di quel tempo. Così si possono mettere
senza timore le relazioni dei viaggi di questi due monaci accanto a quelle di
Marco Polo e di Don Clavijo.
(Vedere l’opera classica di Howorth, History of Mongols. 3 vol., London,
1876-1888); Hammer Purgstalb, Geschichte der goldener Hord von
Kiptschak, Buda-Pest, 1840; Curtin, The Mongols in Russia, London, 1904;
Herbert M. J. Loewe, The Mongols, dans The Eastern Roman Empire, vol. IV
de «The Cambridge Medieval History», Cambridge, 1923; infine, Bouvat L.,
l’Empire Mongol, Col. «La Storia del Mondo», Parigi, 1927).
CAPITOLO IV.
Il movimento “Uniate” nella Russia del Sud-Ovest
I.
La vecchia terra di Kiev, dopo molte vicende e delusioni, fu riunita, verso
la metà del XIV secolo, al ducato russo lituano di Guédimine.27
Ma qualche decina d’anni più tardi, grazie al matrimonio d’uno dei
discendenti di questo principe con la regina di Polonia, si trovò a far parte
del nuovo Stato polacco-lituano di Wladyslaw Jagellon.28
Sottratta in seguito alla giurisdizione di Mosca, ma continuando a
dipendere da Bisanzio, perchè l’idea d’una unione con Roma non vi aveva
fatto ancora che una apparizione effimera, la Russia di Sud-Ovest fu
trasformata, dopo il principio del secolo XIV, in una metropoli particolare.
Però, dopo l’atto d’unione di Lublino, nel 1569, che restringeva ancor di più i
legami politici che riunivano la Lituania alla Polonia, «le terre ortodosse»
(Kiev, la Volynie e il Polésie) passarono alla dipendenza di Cracovia.
Improvvisamente, l’idea d’un riavvicinamento con Roma prese un’ampiezza
27 Hrouchevskyi, Otcherk istorii Kiévskoï Roussi ot smerti Iaroslava do kontza XIV stolétia
(storia della terra di Kiev dopo la morte di Iaroslav fino alla fine del XIV secolo), Kiev,
1891.
28 Galitzine (A.), Nuova biografia generale — Klaczko, Una annessione d’altri tempi:
Hedwige e Jagellon («Revue des deux mondes». 1869, tavola LXXXII.
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ed un valore del tutto nuovi fino allora. Il fatto è che il dipendere
continuamente, per ogni nomina e per qualsiasi rinnovazione, dal patriarca
di Costantinopoli, che non era ormai che l’ombra di un’ombra, cominciava
ad essere sempre più pesante, se non insopportabile ed umiliante, a molti
prelati ed anche a semplici preti russi.
Ma tutte queste ragioni non avrebbero mai potuto far sì che essi soli
tentassero un movimento decisivo, se prima il terreno non fosse stato
preparato da una propaganda molto attiva e condotta con molta
intelligenza, anche dalla volontà espressa degli alti dignitari della chiesa
Russa di Polonia. Fu un certo Pietro Skarga, gesuita e rettore del collegio di
Vilna, che, per primo nel 1557, svolse con erudizione e calore, in un libro
pubblicato in lingua polacca, la tesi dell’unità della chiesa.29 Ritoccata,
tradotta in russo e ristampata nel 1590, quest’opera ebbe una grande
rinomanza e preparò innegabilmente la prima riunione dei grandi prelati
della Chiesa russa, a Brest (Litovsk) nel 1595.
Il libro di Skarga metteva anzitutto in luce le cause che facevano
pericolare la Chiesa russa e vi creavano la discordia: 1) il matrimonio dei
preti; 2) l’uso della lingua slava nella liturgia; 3) l’ingerenza dei laici negli
affari della chiesa e la subordinazione del clero alla volontà di questi laici.30
Come rimedio l’opera riconosceva un’unione con Roma che non impediva
per nulla quasi i riti della Chiesa russa. Però per preparare il terreno al
ritorno dell’unità della Chiesa, il dotto gesuita pensava che si doveva
anzitutto: 1) accettare il Credo dei latini nella sua integrità; 2) trasferire da
Costantinopoli a Roma il diritto di nominare il metropolita di Kiev; 3)
riconoscere il Papa come capo supremo della Chiesa. In questi sforzi per
arrivare allo scopo proposto, Skarga fu aiutato ben presto da un altro
gesuita, il celebre Antonio Possevino.31
Possevino, ch’era uomo di attività esuberante, sempre in moto, correndo
da Varsavia a Mosca e da Cracovia a Roma, sognava da molto tempo
l’unione dei «pravoslavny» con la Santa Sede. Per riuscirvi era stato per un
certo tempo in continue relazioni con un ricchissimo ed illustre magnate
russo-polacco, principe d’Ostrog o Ostrogsky, che, sempre attorniato da
preti e da monaci greco-slavi, aveva una grandissima influenza sulla
popolazione russa di tutto il paese. Ma questa «vecchia volpe», come lo
chiama il P. Pierling, che sotto il punto di vista religioso cercava di
accontentare tanto Roma quanto Bisanzio, e sotto il punto di vista politico,
Mosca e Cracovia, non era in realtà che un pazzo egoista dal quale non si
potevano avere che delle vaghe promesse o delle parole evasive. Così
29 Skarga (P.), O jednosci Kosciola Bozego (Dell’unità della chiesa di Dio), Vilna, 1557. —
Berga (A.), Un predicatore della corte di Polonia, Pietro Skarga, Parigi 1916.
30 Queste sono le ragioni che nel suo zelo mal informato, Skarga sviluppa nella prima
edizione del suo libro. Ma nella seconda edizione (1590), ricordandosi meglio che la chiesa
cattolica rispetta i differenti riti ed ammette il matrimonio dei preti nella chiesa d’Oriente,
egli soppresse quelle dichiarazioni.
31 Possevino (Antonius), Biblioteca selecta de ratione studiorum (Venetiis, 1603). —
Moscovia et alia opera, 1587. — P. Pierling, La Russia e la Santa Sede, (Vol. II, 1898).
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Possevino, avendo perduto ogni speranza di indurre il principe di Ostrog ad
abbracciare le sue stesse idee, s’affrettò a portare il suo aiuto a Skarga e,
siccome aveva le sue grandi e piccole entrate alla corte di Polonia, parlò
della cosa al successore di Stefano Batory. Il re Sigismondo si lasciò
convincere tanto più facilmente in quanto ch’egli vide subito tutto il profitto
che avrebbe potuto trarre, sotto il punto di vista politico, dalla realizzazione
di questa unione dei suoi sudditi russi con la Chiesa romana. Infatti,
l’ortodossia conciliava i popoli a Mosca, mentre che il cattolicesimo li
avvicinava alla Polonia.32
Possevino pensava che il miglior modo di addivenire al più presto ad una
unione stava in una intesa diretta coi prelati russi malcontenti o stanchi
della tutela Bizantina. Così, essendosi assicurata la simpatia e il tacito aiuto
del re di Polonia, avendogli fatto promettere che i vescovi russi avrebbero
diritto di sedere in Senato con lo stesso titolo dei prelati cattolici,33
Possevino cominciò la sua campagna e dopo lunghe e misteriose trattative
riuscì a riunire tre alti prelati della Chiesa russa: il metropolita di Kiev,
Michele Ragoza, suo vicario, il vescovo di Loutzk, Cirillo, e il vescovo Hypace
(Adam) Poteyi, uomo di forte carattere e di grande intelligenza; tutti e tre
firmarono un atto di adesione alla Santa Sede. Tutto ciò avveniva nel 1594.
L’anno seguente si tenne a Brest la prima riunione dei vescovi russi, che
riconobbero il primato papale sulla giurisdizione ed accettarono l’accordo
dogmatico con Roma, che fu regolato secondo i principi del concilio di
Firenze: cioè unità nella fede, varietà dei riti. Dopo di ciò, questi prelati
stessi indirizzarono una lettera al Papa, che due di loro Hypace Poteyi e
Cirillo Terletzky, portarono a Roma e deposero solennemente ai piedi di
Clemente VIII, il 23 dicembre 1595. «Ruthenis receptis», diceva una
medaglia coniata per questa occasione. Ohimè, nessuno poteva allora capire
quanta amara ironia contenessero quelle parole.
Ritornati ai loro paesi, gli inviati del clero russo presentarono la loro
relazione in una solenne riunione che ebbe luogo nell’ottobre del 1596 nella
stessa città di Brest. Erano presenti, oltre ai promotori del movimento con a
capo Skarga e il metropolita di Kiev, un gran numero d’altri vescovi e preti,
32 Un’altra particolarità della politica tradizionale della Polonia era consistita nell’opporsi a
qualsiasi riavvicinamento di Roma con la Moscovia. Così, durante il regno dello Czar Ivan
IV, «invano Pio IV, Pio V, Gregorio XIII tentarono fino a sei volte d’inviare i loro agenti al
Kremlino; mai costoro riuscirono a penetrarvi; non che 1van li avesse respinti — egli non
sospettava neppure delle ambasciate che gli si destinavano, — ma furono Sigismondo
Augusto, Massimiliano II, e lo stesso Stefano Batory che alternativamente opposero
ostacoli insormontabili al passaggio degli inviati pontifici». (P. Pierling, La Russia e la
Santa Sede, II, Intr. XXVIII). Operando in questo modo, la Polonia credeva di difendere il
privilegio che aveva da molti secoli di rappresentare il cattolicesimo presso i popoli slavi.
Ma in realtà i suoi timori non avevano ragione d’essere; mai la Moscovia le avrebbe tolta
questa prerogativa, per la semplice ragione che i grandi principi e gli czar di Mosca non
videro mai possibile un riavvicinamento con la Santa Sede, e meno ancora una unione
intima.
33 Questa promessa disgraziatamente non fu mai mantenuta: essa non fu una delle minori
cause della mezza sconfitta dell’unione.
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tanto «unitari» che cattolici.34
È probabile che tutto sarebbe avvenuto nel più perfetto accordo e per il
meglio della Chiesa, perchè l’opposizione ecclesiastica all’unione era
scarsamente rappresentata, se, nello stesso tempo in cui si teneva questo
concilio, non si fosse tenuta nella stessa città un’altra riunione convocata da
laici e principalmente dai membri di quelle famose «confraternite» che
davano molto da pensare al clero russo. Si ebbe torto, dal lato ecclesiastico,
di non avere sufficientemente preparati i parrocchiani ai cambiamenti
progettati, e di non avere saputo rendere inefficace l’azione delle
confraternite le quali, dopo che la Chiesa russa in Polonia si trovò priva d’un
appoggio potente e altolocato, s’immischiavano sempre più nella vita
ecclesiastica, di cui controllavano ogni atto. I laici hanno sempre avuto,
nella Chiesa d’Oriente, un diritto di considerazione maggiore che in
Occidente riguardo al governo ecclesiastico. Inoltre il patriarca di
Costantinopoli, appoggiato dagli altri patriarchi orientali, sentendo, che l’alto
clero ortodosso della Repubblica di Polonia s’orientava verso Roma, formò
fra il popolo queste «confraternite» dette «stavropigiales», i membri delle
quali avevano il privilegio di non essere sottoposti alla giurisdizione dei
vescovi locali e di dipendere direttamente dal patriarca di Costantinopoli. La
manovra riuscì magnificamente. Le confraternite fondarono delle scuole,
delle tipografie fuori dal controllo dell’episcopato e vigilarono seriamente
alla difesa dell’ortodossia.
Dunque, essendosi riuniti nelle vicinanze della casa dove si teneva la
riunione dei vescovi, i laici fecero fuoco e fiamma contro l’unione e i suoi
difensori. Sobillati da un rappresentante del patriarca di Costantinopoli, che
era riuscito a penetrare in Polonia quantunque quel re avesse vietato di
inviarvi emissari; come pure dal principe d’Ostrog, che gettò nella bilancia il
suo nome e la sua immensa fortuna, la riunione dei delegati delle
confraternite religiose, non contenta di decretare il suo biasimo a quei
vescovi che avevano seguito gli Skarga e i Ragoza, decise di rompere ogni
relazione con i cattolici, e di conseguenza anche con Roma.
Fu quello il punto di partenza d’una lotta sterile e lunga fra due fazioni
della popolazione delle provincie russe di Polonia; la quale lotta ben tosto,
abbandonato il terreno puramente religioso, divenne nazionale, politica,
amministrativa. Prese subito proporzioni grandiose e minacciose; tutte le
classi se ne occuparono; i tribunali ne furono investiti e la Dieta dovette
intervenire per proteggere i vescovi e difendere le loro chiese. Per colmo di
sventura si fece ricorso, non solo all’autorità secolare, ma anche alla forza
brutale; alcune bande di saccheggiatori comparvero nel paese, devastando
di preferenza le proprietà degli uniti. — P. Pierling, Op. cit., t. II —
Rousskaïa Istoritcheskaïa Bibliotéka (Biblioteca storica russa), vol. VII.
La pace, o piuttosto un’apparenza di pace, non tornò che parecchie
34 Likowski (Mg. Edward), Unia Brzeska (L’Unione di Brest), Poznan, 1896 (2° edizione
corretta, Varsavia, 1907). Traduzione francese; Unione della Chiesa greco-rutena in
Polonia con la Chiesa romana, Parigi (Lethielleux), s. d.
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decine d’anni dopo la seconda riunione di Brest; la qual pace fu ancora
turbata, di tanto in tanto, da insurrezioni di cosacchi che amavano mostrarsi
campioni convinti dell’ortodossia; un capo dei quali, l’etmano Konachevitch
Sagaïdatchnyi, ebbe una parte importante, al principio del XVII secolo, nella
restaurazione delle diocesi ortodosse. Nel 1620, il patriarca di
Costantinopoli, Théophane, di passaggio per Kiev, consacrò sei vescovi.
Infine, nel 1632, il re di Polonia, Wladyslao, volle riconoscere la legittimità
della sede metropolitano-ortodossa di Kiev e la nomina di quattro vescovi
come appartenenti alla Chiesa russo-greca, ciò che apportò, senza dubbio,
una grande calma negli spiriti e nei cuori. Quanto alla Chiesa unita,
sussistette, a dispetto d’ogni sorta di ostilità, anche dopo la divisione della
Polonia e i provvedimenti della Grande Caterina a suo riguardo. Fu il ferreo
potere di Nicola I che ebbe ragione di essa nel 1839. Per decisione
imperiale, tutti gli «unitari» delle provincie di Sud-Ovest della Russia furono
incorporati per forza nel grembo della Chiesa russo-greca. Sotto Alessandro
II, dal 1866 al 1875, nel paese di Chelm scomparvero con la violenza le
ultime vestigia dell’Unione sul territorio russo. Questa persecuzione fu il
soggetto d’un romanzo di Reymont, che M. Paolo Cazin tradusse sotto il
titolo di Apostolato del knout. Ma la Chiesa unitaria sussistette sotto il
governo austriaco in Galizia, ed anche oggi conta più di tre milioni di fedeli,
organizzati in tre vescovadi, il capo supremo dei quali è il metropolita di
Lwow (Leopoli-Lemberg), S. E. Mgr. Andrea Szepticky.
II.
La Chiesa unita della Russia di Sud-Ovest fu illustrata, oltre che dai suoi
primi organizzatori, anche da uomini ragguardevoli per intelligenza, per
energia, per il loro sapere e per la santità di vita. Non è temerario affermare
che fu in gran parte merito di costoro, se seppe trionfare delle insidie che le
avevano tese i Bizantini, e degli assalti che dovette subire da parte di certi
capi cosacchi ribelli.
Uno degli apostoli più puri e più popolari dell’unione con Roma fu il
celebre arcivescovo di Polotzk, Giosafatte Kounzevitch (Kuncewicz). Egli fu
martirizzato nel 1623 e dal papa Pio IX fu annoverato fra i santi.35
Un uomo saggio, se non santo, fu Mélétyi Smotritzky. La sua vita fu assai
agitata e ricca di fatti che illustrarono in modo ammirevole i costumi e la
mentalità del tempo in cui visse. Ritornato dalla Germania, dove era stato
per finire i suoi studi, incominciati nel collegio dei gesuiti di Vilna, Mélétyi fu
nominato, dal patriarca di Costantinopoli, vescovo di Polotzk. Però, molto
prima di questa nomina, egli aveva sognato di ritornare all’obbedienza di
Roma, ed ebbe anche l’idea di proporre ai Greco-Russi di riunirsi per
discutere sulla grande questione del ritorno all’unità della Chiesa. Gli
ortodossi, dapprima, finsero di arrendersi a questa proposta, ma in fine
35 Guépin (Don Alfonso), Un apostolo dell’unione delle Chiese nel XVII secolo. San
Giosafatte e la Chiesa greco-slava in Polonia e in Russia, Parigi, 1897-98, 2 vol.
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giudicarono fosse meglio astenersene. Frattanto Smotritzky, poco disposto a
sopportare la tutela del patriarca, e non avendo nessuna inclinazione per
una carica amministrativa, chiese di essere esonerato dal suo ufficio.
Avendo ottenuto ciò che domandava, si ritirò nel monastero di Dermansk, di
cui fu ben presto nominato priore. Fu là ch’egli si diede definitivamente, nel
1627, alla Chiesa unita, raccomandando di tenere nascosta la sua
conversione per potersi occupare, com’egli diceva, più facilmente del
proselitismo. Infatti nel 1628, facendo parte d’un concilio (sobor) a Grodek,
Smotritzky difese calorosamente e con molta dottrina la causa della
riunione. Fece notare ai prelati presenti la poca importanza, sotto il punto di
vista dogmatico, delle contese che separavano le due Chiese, e sottolineò
che, solo l’ostinazione dei «pravoslavny» nell’attenersi alla lettera, impediva
questa unione. Il concilio ammise la verità delle osservazioni di Mélétyi e
decise d’intensificare la diffusione di queste idee nella massa dei fedeli.
Nel frattempo Smotritzky fece un viaggio in Palestina, d’onde riportò gli
elementi della sua grande opera, che intitolò Apologia peregrinaciey do
krajow wschodnych.36 Questo libro, che enumerava tutti gli «errori» dei
teologi greco-russi, dispiacque moltissimo agli ortodossi di Kiev. Smotritzky
fu mandato colà dal suo capo diretto, il metropolita, poichè, ufficialmente,
egli continuava ad appartenere alla Chiesa bizantina, e dovette assistere
alla condanna della sua opera, che fu bruciata e calpestata. Però, partito
immediatamente da Kiev dopo questi fatti, Smotritzky protestò in un nuovo
libro37 contro il trattamento di cui era stato vittima da parte dei Russi
ortodossi. Dopo ciò, non essendo più trattenuto da nessun scrupolo, si
proclamò apertamente unito alla Chiesa di Roma e visse i suoi ultimi giorni
nel monastero da lui prescelto. Mori il 23 dicembre 1633.
Ma queste due grandi figure non devono farci dimenticare l’opera
ammirabile, quantunque anonima, che compirono poi, durante due secoli, i
monaci basiliesi (così chiamati perchè vivevano conforme alle regole
stabilite da S. Basilio il Grande), per sostenere e propagare la Chiesa
unitaria. Il loro zelo non arrivò, tuttavia, fino a consigliare la riforma dei riti
della Chiesa unitaria per avvicinarli sempre più a quelli di Roma. A questo
mirò piuttosto, l’opera di certi prelati, che desideravano un po’ troppo di far
noto il loro nome.
Nel 1595 non si era giunti che a riconoscere la sovranità papale e gli
«articoli ai fede» dei Latini, ma nel 1720 si fece un gran passo avanti. Il
concilio unitario, che si riunì in quell’anno a Zamoïsk, stabilì di aggiungere al
Credo la parola Filioque, di riconoscere certe feste cattoliche, come ad
esempio la Festa del Corpus Domini, di modificare i paramenti sacerdotali e
di rivedere i libri liturgici per renderli più conformi alla pratica cattolica. Ci
affrettiamo a dire che queste «riforme» furono giudicate a Roma fuori di
36 «Apologia delle peregrinazioni fino ai paesi del Levante». — Lwow, 1628. L’Apologia fu
ristampata dal P. Martynov S. J. a Leipzig nel 1863.
37 Quest’ultima opera intitolata Rozprava (Punizione) procacciò al suo autore il soprannome
di Cicerone polacco.
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luogo e deplorevoli.38 Del resto, esse durarono per poco tempo, poichè
qualche decina d’anni dopo rinacque, negli Unitari, il desiderio di ritornare
alla celebrazione del culto divino secondo il rito bizantino-slavo.
CAPITOLO V.
Mosca - «Terza Roma»
La sconfitta subita dalle truppe tartare sulle rive del fiume Ougra
nell’autunno 1480, e l’assassinio di Ahmed, l’ultimo kan della Orda d’Oro,
avevano definitivamente liberata la Russia dal giogo mongolo ed aperta la
strada che conduceva a Costantinopoli. Ma i tempi avevano molto cambiato,
Bisanzio non esisteva più. Al contrario, sotto il vigoroso impulso dei grandi
principi di Mosca, si costituiva nel centro dell’immensa pianura russa un
grande Stato autonomo, al quale non mancava che un capo. Così ben presto
parve ai sovrani moscoviti che la condizione essenziale dell’autocrazia
politica stesse nel sottrarre i loro sudditi a qualsiasi dominazione religiosa
straniera. Del resto, già molto prima, cioè dopo la seconda metà del XV
secolo, la dipendenza della Chiesa russa dal patriarca di Costantinopoli non
era che nominale. Il colpo funesto apportato all’autorità della Chiesa
d’Oriente dal concilio di Firenze, la diminuzione agli occhi dei Russi, del suo
prestigio di guardiana delle tradizioni della vera fede ed infine la caduta di
Bisanzio, che fu interpretata in Moscovia come un segno della collera divina,
tutto ciò non fece che affrettare il momento della proclamazione ufficiale
dell’autonomia completa della Chiesa russa. Appunto nel 1589 il patriarca di
Costantinopoli Geremia, di passaggio per Mosca, fu invitato a consacrare il
metropolita di quella città, Giobbe, primo patriarca di tutta la Russia. Fu così
ad un tratto costituita nella sua prima forma, la Chiesa nazionale e
l’autocrazia russa a cui, quarantadue anni prima, Giovanni IV il Terribile,
aveva data inizio facendosi consacrare czar (Cesare) dal metropolita di
Mosca. Pur tuttavia mancava ancora qualche cosa alla solidità ed alla
grandezza del nuovo edificio: cioè dei titoli di nobiltà ed una mistica. Si
pensò dunque a provvedervi. Avendo lasciato Roma per Costantinopoli, per
ragioni in gran parte politiche, gli imperatori d’Oriente credevano di aver
portato con sè, non solo il simbolo di questo sacro Impero romano, ma
anche i privilegi, i diritti e l’idea mistica che vi si riferivano. In tutta sincerità
essi credevano d’essere i successori diretti dei Cesari e fu con questo
sentimento che rivendicavano, in favore della loro nuova capitale, il primato
38 Korolevsky, L’Uniatismo, 1927, (Irenikon collezione).
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divinamente unito alla sede di S. Pietro. Dunque Bisanzio, ai loro occhi, era
la nuova Roma, la vera capitale dei «basileis», il centro della vita religiosa
universale. Così pure essi consideravano Carlo Magno come un astuto
usurpatore, e non vollero mai riconoscere agli Ottoni ed agli Hohenstaufens
il diritto alla corona imperiale. Ma in realtà, tutte queste pretese non
avevano alcuna base solida. E se anche si poteva dimostrare che Costantino
XI discendeva in linea diretta dall’imperatore Augusto, l’Impero d’Oriente,
per la sua struttura interiore, per la sua cultura, per la sua formazione
etnica e per lo spirito che lo dominava, specialmente a partire dai Comneni,
non aveva niente a che fare con l’Impero romano propriamente detto. Gli è
per ciò, ed è il parere di Bury (A History of the later Roman Empire, v. I,
Londra, 1923), che è del tutto fuori di luogo dargli il titolo «d’Impero
Romano d’Oriente» o ancora quello di «Basso Impero», se questo non sia
come termine storico.
Tuttavia i Russi, avendo ricevuto da Bisanzio la loro istruzione religiosa e
la mistica del potere per diritto divino, credevano fermamente all’esistenza
di questa «Seconda Roma», e consideravano il suo imperatore come loro
capo spirituale, come custode delle pure tradizioni della Chiesa apostolica.
Ma ecco che questo capo e la sua potenza crollavano; ecco che Bisanzio,
questo puro calice che conteneva l’acqua viva della vera fede, cadeva sotto i
colpi degli infedeli. Bisognava forse per questo avvenimento affliggersi oltre
misura? No, certamente, poichè la caduta di Bisanzio non significava punto
lo sfacelo dell’Impero ortodosso, e ciò per la semplice ragione che un
Impero simile non poteva scomparire del tutto. Per il fatto che il vaso era
infranto, non ne seguiva per nulla che il suo contenuto si fosse volatilizzato.
Iddio aveva permesso agli infedeli di trionfare sui Greci, ma Egli si sarebbe
opposto alla distruzione della vera fede o alla sua sommissione ai Latini ed
agli Ismaeliti. La vera fede è eterna: essa non finirà che il giorno in cui tutto
sarà consumato. Ma poichè, per il momento, il mondo continuava ad essere
bisognava sostituire il vaso rotto con uno nuovo, perchè l’acqua viva della
fede, ch’esso conteneva, fosse d’ora innanzi al sicuro da ogni
contaminazione. Questo nuovo vaso doveva essere dunque Mosca, «la Terza
Roma».
Queste erano le idee ardite e nuove che sviluppava, nel corso del XVI
secolo, nelle sue lettere a varie persone altolocate, un pio monaco del
monastero d’Eleazaro, a Pskov, di nome Filoteo.39
È certo che la esposizione di questa mistica non avrebbe trovato una
grande eco in Moscovia, se il terreno non vi fosse stato meravigliosamente
preparato da molto tempo da vari avvenimenti, cioè: l’ingrandimento del
territorio nazionale grazie alla conquista dei regni tartari di Kazan e di
Astrakhan; la conferma del patriarca universale di Costantinopoli dei
pomposi titoli che s’era attribuiti Ivan IV, — Vedere la nota A alla fine del
presente capitolo —, infine e sopratutto il matrimonio di Ivan III con Sofia
39 Malinine, Staretz Eléazarova manastyrla, Féofil, i égo poslania (Il vecchio del monastero
di Eleazaro, Philotheo e le sue lettere), Kiev, 1891.
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(Zoë) Paleologo, nipote, e per così dire erede della Corona dell’ultimo
imperatore di Bisanzio. Così dunque l’idea di dare a Mosca il significato che
aveva avuto prima Bisanzio agli occhi dei Russi, e di attribuire ai suoi
principi il diritto di considerarsi come i successori legittimi d’un Impero
cristiano ortodosso, aveva delle forti ragioni di essere, e di passare anche
dal dominio puramente speculativo, a quello della realtà.40
Tuttavia, come se ciò non bastasse, per giustificare le pretese di Mosca
alla successione di Bisanzio nell’elenco dei custodi dei principi della vera
fede e dell’idea teocratica, o può darsi, per trovare i simboli che, agli occhi
dei semplici mortali, avessero il valore e l’importanza di dogmi indiscutibili,
si creò tutto un ciclo di leggende che attribuivano a Mosca il principato
universale, laico e religioso. Così si supponeva che l’imperatore Comneno
avesse mandato le insegne imperiali (la corona e le «spalline» barmes) di
Costantino IX Monomaco al gran principe Vladimiro, lui pure Monomaco. —
Vedere la nota B alla fine del presente capitolo. — Ciò, come si credeva,
doveva dimostrare molto chiaramente che la trasmissione del diritto di
successione e del principio della sovranità, non era affatto una invenzione di
Mosca. V’era ancora la leggenda che stabiliva la parentela di Rurik, primo
principe russo e capo della dinastia regnante a Mosca, con Prouss, fratello
dell’imperatore Augusto, ed infine quella ch’era stata tratta dalla bianca
tiara consegnata da Costantino il Grande al papa Silvestro, come simbolo
dell’indipendenza della Chiesa. Ma si diceva in Moscovia che i successori di
Silvestro, «non sentendosi degni di portarla», la consegnarono alla lor volta
al patriarca di Costantinopoli. Essa toccò più tardi ai vescovi di Novgorod
per essere definitivamente portata dal metropolita di Mosca.
Il nuovo titolo e le nuove cariche che s’erano appropriate i sovrani
moscoviti, esigevano una nuova orientazione politica ed una nuova
concezione della parte che doveva rappresentare lo czar nel mantenimento
delle prerogative e degli splendori della Chiesa ortodossa.
Una Russia autocrate-czarista e ortodosso-autonoma era obbligata a
vegliare alla conservazione dei principi che formavano le basi della vera
fede, e a combattere, se ve ne fosse stato il bisogno, i nemici di questa
fede. Però quest’obbligo di lottare, con le armi alla mano, contro gli
avversari della religione ortodossa, non fu considerato dai sovrani moscoviti
che a cominciare dalle prime guerre coi Turchi. Ed anche allora esso non
ebbe punto le apparenze d’un programma ben definito. Ma tutt’altra sorte
toccò al principio della sovranità dello czar. Fondata sulla tradizione
bizantina, che faceva del monarca l’unto del Signore e suo vicario sulla
40 Questo diritto dei principi russi sulla rivendicazione dell’eredità bizantina, non fu loro mai
conteso seriamente da nessuno. Vi furono anche degli Stati che, per diverse ragioni,
riconobbero questo diritto affatto spontaneamente e senza alcuna pratica da parte loro.
Fu così che fin dall’anno 1473 «il Senato di Venezia, sempre prudente e regolato, osserva
il P. Pierling (Il matrimonio d’uno czar… «Rivista delle questioni storiche» 1 ottobre 1887),
riconosceva di sua propria iniziativa, i diritti di Ivan III sull’impero di Bisanzio in mancanza
di una successione maschia nella linea dei Paleologhi. Il doge non temeva di esprimere
apertamente questa convinzione nelle sue lettere al gran principe».
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terra, essa permise ai sovrani moscoviti, e più tardi agli imperatori della
Russia, di arrogarsi il diritto di dominare tutti e di governare tutto. E così,
infine dei conti, il potere spirituale, come anche il temporale, furono a loro
sottoposti completamente per il loro titolo di protettori sovrani della Chiesa.
Questa onnipotenza degli czar annullò ben presto l’indipendenza,
l’autorità ed il prestigio del patriarcato, creato, del resto, in Moscovia per la
spinta delle preoccupazioni politiche molto più che per necessità di culto. Fra
i dieci patriarchi della Chiesa greco-russa, che succedettero dopo
l’istituzione di questa alta carica fino alla sua soppressione da parte di Pietro
il Grande, ve ne furono appena due o tre dei quali la storia parli altrimenti
che citandone i soli nomi, e non ve ne fu che uno di cui essa si sia occupata
lungamente. Ma anche quello (Nikone) finì i suoi giorni nell’oblio e nell’esilio.
Del resto, l’autorità, se non l’indipendenza del capo supremo della Chiesa
nazionale, era stata già battuta in breccia dal potere laico molto prima della
creazione del patriarcato.
In Moscovia, alla fine del XV secolo e al principio del secolo seguente, i
«metropoliti di tutta la Russia» (mitropolity vséa Rousi) non godevano più
dello stesso prestigio e della stessa venerazione di uno o due secoli prima.
Tuttavia, a dispetto del fatto che non si era loro lasciato che un’ombra del
potere, i metropoliti moscoviti, e più tardi i patriarchi, continuarono per
tradizione a godere di grandi privilegi nell’ordine materiale. In possesso di
immensi beni fondiarii (bisogna ricordarsi che nel XVI secolo la Chiesa russa
possedeva da sola il terzo di tutto il territorio della Russia), di tesori
incalcolabili e di centinaia di migliaia di servi, il patriarca, le abbazie, ed in
generale quasi tutto il clero secolare, erano molto largamente al riparo da
ogni bisogno. Ma fu questo che li rovinò. Per conservare i loro dominii, i loro
lasciti, e, in generale, tutto il loro avere, i dignitari della Chiesa diventarono
eccessivamente servili coi grandi, non osarono più alzare la voce contro le
ingiustizie flagranti commesse dalle autorità laiche o dal sovrano. Inoltre,
sempre per conservare le loro ricchezze materiali e la loro posizione sociale,
chiudevano completamente gli occhi su tutti i vizi che rovinavano la società
laica, e su tutti i mali costumi che si radicavano sempre più in mezzo agli
ecclesiastici ed ai monastici: crapula, usurpazione, accidia, cupidigia.
Un tale stato di cose non poteva certo durare indefinitamente senza
provocare severe critiche. L’autocrazia era ancora di fresca data e non
poteva chiudere la bocca a tutti i Moscoviti.
Dunque vi furono veementi proteste contro la debolezza dell’alto clero,
contro la sua mancanza di dignità e la sua condiscendenza nel coprire, colla
sua autorità, ogni atto arbitrario del potere civile: e ciò tanto da parte di
certi cenobiti, durante quelle riunioni di ecclesiastici che si chiamavano
sobors,41 quanto da parte dei laici ed anche di qualche straniero. Del resto
41 L’istituzione dei sobors (concili) fu trasmessa alla Russia da Bisanzio. Nella Russia
mediovale i concili avevano luogo, ciascuno alla sua volta, nelle diverse grandi città e da
esse venivano denominati. Più tardi, al tempo dei patriarchi, vi furono dei sobors semplici,
che non riunivano che i vescovi presenti a Mosca, e dei sobors straordinari composti di
prelati convocati specialmente da tutte le parti della Moscovia. Pietro il Grande soppresse,
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anche Massimo il Greco — Vedere la nota C alla fine del presente capitolo —
si permetteva di dichiarare che fra il clero russo del suo tempo (XVI secolo),
si sarebbe potuto cercare invano un Samuele, un Elia o un Giovanni
Crisostomo (Opere di Massimo il Greco, II 336-337, III 155). Dello stesso
parere era il suo illustre discepolo, il principe A. Kourbsky, allorchè scriveva
«che i vescovi non dicevano punto la verità allo czar, ma si accontentavano
d’essere del suo parere».
Quanto ai corrotti costumi della società d’allora (la sodomia infatti era il
vizio più diffuso), erano oggetto d’un numero considerevole d’infiammate
filippiche, come la lettera del metropolita Daniele «sul pericolo di conversare
con uomini effeminati»,42 e la lettera anonima indirizzata ad Ivan IV, nella
quale il suo autore affermava che buon numero dei suoi compatrioti
«paragonavano le loro spose alle tenebre e non trovavano vaghezza che
nelle bellezze insipide, che erano il sole ai loro occhi».43
Tuttavia tutte queste critiche contro il clero, non diedero nessun risultato
tangibile, perchè il potere non fece quasi niente per rimediare a quello stato
di cose; quando esso cominciò ad occuparsene seriamente, era troppo tardi.
Pietro soppresse il patriarcato, non perchè il patriarca facesse ombra alla
sua onnipotenza di sovrano autocrate, (egli faceva poco conto dell’ideologia
bizantino-moscovita), ma perchè vedeva, da amministratore inquieto
dell’ordine pubblico, che il patriarcato, in decadenza e ricco di beni
materiali, non era più in grado di far tornare il clero all’obbedienza delle
leggi e al rispetto dei buoni costumi. Vi fu però, prima di Pietro il Grande, un
energico tentativo per frenare la decadenza morale dell’alto clero. Fu fatto
dal celebre Nikone, sesto patriarca di Russia.44 La sua grande amicizia con lo
czar Alessio Mikhaïlovitch, padre di Pietro I, che lo considerava come «il suo
più caro amico», e la piena confidenza che godeva presso il sovrano,
confidenza che era giunta al punto da fargli ottenere il titolo di «grande
signore» (vélikyi gosoudar), permettevano a Nikone di compiere moltissime
cose in questo ordine d’idee, che i suoi predecessori non avrebbero giammai
osato intraprendere. Si deve dire però che egli li superava tutti di gran
lunga, e per la sua energia quasi selvaggia e per la vasta intelligenza e per
l’idea mistica che egli giustamente aveva della grandezza del potere
patriarcale. «Il sacerdozio sorpassa la sovranità» gli piaceva dire, e
volentieri paragonava l’astro notturno al potere temporale, e quello del
giorno all’autorità spirituale. Insomma, durante il patriarcato di Nikone, la
concezione bizantina della Chiesa unita allo Stato a tal punto da non avere
azione esteriore che per mezzo suo, era virtualmente rovesciata. Il vero
sovrano era il patriarca. Del resto, nella prefazione che orna il messale
nel 1721, questa istituzione dei sobors.
42 «Poslanié o tom iako vrédno iest besédovati s mougi genovidnymi» («Sofyiskaia
Biblioteka» n. 1281, foglio 292).
43 Tmoyou zovout genou, a sviétom zovout détinou («Tchténié v obchtchestvé istorii i
drevnostey Rossyishikh», 1874 v. I, parte 1-81.
44 Ikonnikov, Novyé matérialy i troudi o patriarkhé Nikoné (Notizie date e lavori intorno al
patriarca Nikone), Kiev, 1888 — Palmer (W.), The Patriarch and the Tsar, Londra, 1905.
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(sloujébnik) pubblicato al tempo di Nikone (1655), lo czar ed il patriarca
sono paragonati ad «una dualità scelta ed innalzata da Dio», per la quale
«tutti quelli che vivono sotto il loro comando e la loro sovrana volontà, una
ed indivisibile, devono ringraziare il Signore con canti di gioia45». Tuttavia,
come se ciò non bastasse, lo czar, cedendo all’esercito, due anni più tardi,
elevò Nikone alla dignità di reggente del «tsarstvo» e gli impose di
occuparsi della sua famiglia.
Tutti questi insoliti lavori e i molti e ricchissimi doni di cui fu colmato,
erano da Nikone accettati non come fossero dovuti a lui, ma al patriarca di
tutta la Russia. «Noi non andremo mai a prostrarci davanti allo czar per i
suoi doni, scriveva egli, perchè per tutto ciò ch’egli ci ha regalato, avrà una
ricompensa centuplicata nel cielo e di più meriterà il paradiso».
Però la sgarbatezza e i modi alteri di Nikone, e la sua mancanza di
riconoscenza, di cui le ragioni sfuggivano allo czar, fecero alla fine
allontanare Alessio dal suo amatissimo patriarca. Di questo momento
approffittarono i numerosi nemici di Nikone. Ben presto lo denunciarono allo
czar come intrigante e ingannatore. Nikone fu giudicato da un concilio
composto di patriarchi d’Alessandria e di Antiochia, e anche da qualche
metropolita: fu accusato di lesa maestà, e dopo averlo dichiarato decaduto
dalle sue alte cariche, fu mandato in un monastero molto lontano dalla
capitale.
Tuttavia, a dispetto della sua intransigenza che rovinò la sua carriera,
Nikone fu una figura di alto valore, che si stacca nettamente sullo sfondo
grigiastro della seconda metà del XVII secolo russo. D’altronde, questo figlio
d’un semplice contadino, che raggiunse l’alta posizione da lui occupata
unicamente per i suoi meriti, era un letterato ed un amante del sapere. Fu
lui che salvò la vita allo scholar Arsenio il Greco, relegato nel monastero di
Solovetzk, posto in un’isola del mar Bianco, per aver professato delle eresie,
insegnando il greco e il latino alla gioventù moscovita. Fu lui pure che dotò
certi monasteri di ricche biblioteche e fece venire dalla Grecia parecchie
centinaia di manoscritti preziosi, contenenti specialmente opere di Omero,
di Esiodo, di Eschilo, di Plutarco, di Tucidide e di Demostene. Ma la sua
principale opera, quella a cui legò il suo nome, fu la revisione dei libri sacri
secondo gli originali greci. Questo lavoro, incominciato molto timidamente
dal suo predecessore, il patriarca Giuseppe, Nikone portò a compimento.
Per liberare i testi dalle interpolazioni che li alteravano, egli scelse dei
grammatici greci e teologi di Kiev, per la qual cosa suscitò la collera degli
ultra-nazionalisti, quali il pope Avvakoum ed altri, che non avevano alcuna
fiducia nell’ortodossia dei Bizantini e del popolo di Kiev. Ma in verità,
quest’opera di Nikone tornò a danno di lui, poichè non solamente diede
origine ad uno scisma (raskol) — Vedere la nota D alla fine del presente
capitolo. — nel seno della Chiesa russa, ma fu anche ricordata il giorno in
cui si decise di toglierlo e bandirlo da questa Chiesa, di cui sognava la
45 «Vsi givouchtchia pod derjavoï ikh… i pod iédinym ikh gosoudarskim povéléniem…
outéchitelnimi pesnymi slovami imout vozdvigchago ikh istinnago Boga nachégo».
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grandezza e la purezza.
Così dunque Nikone fu un riformatore ed un precursore. Dopo la sua
disgrazia, nel 1660, la Russia dovette aspettare quasi mezzo secolo prima
d’avere un altro uomo della stessa tempra: Pietro il Grande.
NOTE
Nota A. — Giovanni IV, che operava di solito di sua testa, amava tuttavia
di rivestire i suoi atti con un’apparenza di legittimità, quando ciò gli
sembrasse utile. Sapendo perfettamente che il diritto d’una consacrazione
legale non apparteneva nè al metropolita di Mosca, nè a un qualsiasi
patriarca, ma unicamente al Papa ed al patriarca ecumenico di
Costantinopoli, si rivolse a quest’ultimo pregandolo di sanzionare la sua
incoronazione e di riconoscerlo come czar di tutta la Russia. È pur vero
ch’egli avrebbe potuto astenersi dal chiedergli quest’ultimo favore, dato che
il titolo di czar era stato portato prima di lui da grandi principi moscoviti, fra
cui Giovanni III, e che questo titolo era stato riconosciuto ufficialmente
anche al gran principe Vassili III dall’imperatore Massimiliano I. Ma
evidentemente Giovanni IV bramava molto di ottenere da Costantinopoli un
titolo che lo riconoscesse solennemente come czar e unto del Signore. Il
patriarca di Costantinopoli, che in quel tempo era un certo Giosafatte, non
aveva alcuna seria ragione per declinare la domanda dello czar moscovita,
anzi aveva tutte le scuse per accontentare questo potente monarca. Però gli
era difficile il convocare un sinodo di vescovi che doveva, com’era prescritto
dalla legge, firmare il documento che riconoscesse ad Ivan IV il titolo di
«Basileus». Così prese su di sè la responsabilità di scrivere un atto falso.
Egli firmò dunque la carta attesa a Mosca e la fece firmare dal suo vicario:
in quanto alle altre trentacinque firme dei metropoliti e dei vescovi, si
accontentò di farle imitare da un cancelliere del Phanar. (Cf. Regel, Analecta
byzantino-russica, pp. LIII-LVI).
Nota B. — Che questa storia della trasmissione delle insegne imperiali da
Costantino Monomaco al gran principe di Kiev, sia una semplice leggenda, è
provato sufficientemente dal fatto che la corona detta di Vladimiro
Monomaco, della quale si cingevano gli czar della Russia, non presenta
alcuna somiglianza con le corone bizantine del X secolo e dei secoli
posteriori. Anzitutto le manca il cerchio o «stemma», che costituisce
l’elemento principale di tutte le corone bizantine. La sua speciale forma
conica è piuttosto d’origine asiatica. In somma questa «cuffia» di
Monomaco, poichè è una cuffia (chapka) e non una corona (vénétz) doveva
provenire dalla rive del Volga o dai paesi vicini al mar Caspio. È probabile
che sia stata inviata come regalo a uno dei grandi principi russi da qualche
kan tartaro. È un lavoro orientale molto ben fatto, ma che non risale più in
là del XIII o XIV secolo. Del resto è di essa che si deve trattare nel
testamento del gran principe Ivan II, che risale al 1356, nel quale si fa
parola di una certa «chapka».
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La menzione che la corona e gli altri ornamenti, di cui si ornavano gli czar
moscoviti, erano di origine bizantina, non apparve che nel XVI secolo,
poichè fu nel testamento di Giovanni IV che se ne parlò in questo senso. Nel
tempo in cui i sovrani moscoviti non erano che grandi principi, la loro corona
si chiamava «cuffia» e non se ne conosceva affatto la augusta origine. Ma
quando diventarono czar, la loro cuffia fu la «cuffia» di Monomaco (chapka
Monomakha) e le si attribuì una leggenda alla quale nel XVII secolo fu unito
un racconto favoloso delle circostanze in cui questa cuffia era toccata ai
sovrani moscoviti. Fu, si diceva, nel corso d’una spedizione contro
Costantinopoli
che
il
principe
Vladimiro
(1113-1125)
ricevette
dall’imperatore Costantino la detta corona e il soprannome di «Monomaco».
Ma la veridicità di questo racconto è smentita dalla Storia, che c’insegna
come questi due Monomaci vissero in epoche ben diverse. (Cf. Regel,
Analecta byzantino-russica, pp. LVII-LXXXVII).
Nota C. — Questo Massimo il Greco, discendente d’una illustre famiglia
albanese, fu veramente una grande e nobile figura. Dopo un lungo
soggiorno in Italia, durante il quale si dedicò agli studi filosofici e teologici, e
dove strinse amicizia con vari uomini illustri dell’epoca, entrò in religione
sotto l’influenza degli infiammati discorsi del Savonarola, e si ritirò in un
monastero sul monte Athos. Per sua disgrazia, qualche anno dopo (1515),
fu scelto dal capitolo del suo convento perchè si recasse in Moscovia, il cui
principe chiedeva insistentemente un dotto traduttore e commentatore delle
Sacre Scritture. Ben presto, a Mosca, Massimo riuscì a radunare attorno a
sè qualche giovane avido di sapere e di conoscere la vera religione, ma
anche si attirò l’odio cieco dell’alto clero russo e dei boiardi, cui egli non
temeva d’accusare d’immoralità, di cupidigia e di crassa ignoranza. Alla fine
furono questi ultimi che ebbero il sopravvento. Massimo fu mandato in un
convento molto lontano dalla città, rinchiuso in una prigione e privato del ss.
Sacramento; tutto ciò sotto il futile pretesto d’eresia nell’interpretazione dei
testi sacri. Egli vi restò parecchi anni e non potè mai, neppure dopo la
morte del suoi persecutori, ricuperare una piena libertà e la possibilità di
lasciare la Moscovia. Le autorità di quel paese temevano che Massimo
facesse allo straniero delle sensazionali rivelazioni sulle idee e sui costumi
della loro patria.
Nota D. — Quella parte dei Russi che non volle accettare la riforma di
Nikone, ma pretese di attenersi alla fede e sopratutto al rito esatto dei loro
padri, furono chiamati raskolnikis (dalla parola raskol = scisma) oppure
«vecchi credenti» (starovery o staroobriatzy). Erano, in generale, genti
ostinate e selvagge. Perseguitati per più secoli, seppero essere i martiri
della loro convinzione religiosa. Davanti alle autorità civili ed ecclesiastiche
gettavano l’anatema alla Chiesa, ch’essi paragonavano alla donna pubblica
dell’Apocalisse. Sofisticoni abilissimi, avendo, sembra, ereditato dai
grammatici bizantini il gusto delle finezze dialettiche e delle dlscussioni
teologiche, i predicatori e gli scrittori «vecchi credenti», passavano il loro
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tempo diffamando e schernendo la Chiesa ufficiale; facendo rilevare, per
esempio, che non era col confronto dei vecchi testi slavi che Nikone aveva
fatto la revisione dei libri, ma togliendo dai libri greci «stampati presso gli
Alemanni», cioè presso gli stranieri (alludendo all’Eucologio greco pubblicato
a Venezia nel 1602).
CAPITOLO VI.
Il Monachismo
I.
Essendo stati i Russi convertiti al cristianesimo da Bisanzio, era naturale
che il monachismo venisse loro dalla stessa sorgente. Ma all’epoca in cui si
fece l’evangelizzazione della Russia, la vita monastica a Bisanzio era già in
piena decadenza.46 «Però noi non eravamo per nulla chiamati a restaurarla e
a farla risalire ai tempi di Pacôme il Grande e di S. Basilio, osserva lo storico
russo Goloubinskyi.47 Tutto ciò che potevamo fare, era che l’accettassimo
tale quale era in quel tempo in cui fummo convertiti al cristianesimo, e
giacchè presso di noi, come presso i Greci, il voto di castità era libero da
qualsiasi ostacolo, ma esposto alle tentazioni che lo trascinavano alla
perdizione, si poteva forse immaginare che le cose sarebbero andate
diversamente che in Grecia? Certamente, presso di noi, i laici non presero
mai parte attiva, come in Grecia, alla depravazione dei monaci. In Russia, i
monasteri non erano case di campagna, o ville di ricchi proprietari fondiarii,
che vi venissero a passare le vacanze e vi portassero l’eco della vita
esteriore, ma anche da noi, fin dai tempi più lontani, si cominciò a
corrompere i monaci, sia pure in altro modo, invitandoli a far feste e
organizzando in loro onore, tra le stesse mura del monastero, sontuosi
banchetti a cui prendevano parte anche donne».48
Che simili cose potessero accadere, si spiega per il fatto che ben pochi
monasteri russi avevano una organizzazione interna modellata su quella dei
conventi occidentali. Si tentò, è vero, nei primi tempi in cui si fondarono i
primi monasteri russi, d’introdurvi le regole di S. Teodoro Studita, ma
queste non ottennero che un successo relativo, e non si mantennero in tutta
46 Vedi a questo proposito la lettera di S. Nilo il vecchio (m. verso il 430), Basiliano del
monte Sinaï, all’archimandrita Nicon. Migne, Patr. graeca, LXXIX, col. 437.
47 Istoria rousskoï tserkvi (Storia della Chiesa russa), t. I, II parte, pp. 644-645.
48 Cf. Giovanni II, metropolita di Kiev, Tzerkovnyia pravila (Regole ecclesiastiche), Ediz.
Pavlov «Biblioteca storica russa», VI, St. Petersbourg, 1880.
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la loro integrità che per uno spazio di tempo assai breve. Ciò accadde
perchè la grande maggioranza dei monasteri della Russia, fino alla metà del
XVIII secolo, come vedremo più tardi, non erano che delle comunità, dove i
monaci vivevano in stanze separate o in casupole costruite per essi o di loro
proprietà. Essi si riunivano solo nelle ore dell’ufficio e durante i pasti. Il cibo
era uguale per tutti, ma non era proibito di mutarlo, avendo i cenobiti diritto
di possedere una fortuna propria e di spenderla a loro piacimento. Del resto
il capriccio che presiedeva all’esistenza di queste comunità non aveva di
uguale che la noncuranza che vi regnava; alcuni conventi erano misti, cioè
abitati in parte da uomini, in parte da donne. — Vassilenko, Diz. encicl.
russo, vol. 38, p. 727. — Altri di religiose, erano diretti da priori, altri infine
erano proprietà esclusiva di persone ricche e titolate che trattavano i loro
monaci come fossero servi.
Ma furono appunto tutte queste miserie, tutte queste imperfezioni della
vita cenobitica russa d’un tempo, che permisero al monachismo russo di
durare e che lo fermarono sulla soglia dell’abisso. Poichè là pure,
profondamente nauseati della vita fiacca, oziosa e viziosa che si conduceva
nel monastero dove vivevano certi religiosi, anelanti ad una vita interiore,
pura e austera, un bel giorno lo lasciarono e se ne andarono lontano a
cercare un luogo adatto per crearvi l’ambiente che richiedeva il loro stato
d’animo.
Così si moltiplicarono, sulla superficie della grande pianura russa,
conventi ed eremitaggi: così si dissodava l’impenetrabile selva moscovita, si
fondavano città e borghi e s’allontanava sempre più il paganesimo dei popoli
autoctoni. Questo fenomeno, che è uno dei più notevoli di tutta la storia del
monachismo russo. non deve essere confuso con l’altro, che era la piaga
della vita cenobitica dei tempi antichi, tanto in Russia, quanto nell’Europa
occidentale, cioè il vagabondaggio dei monaci.
In Russia, non si riuscì ad aver ragione dei monaci vagabondi 49 che alla
fine del XVIII secolo, dopo che furono fatte leggi draconiane per questo
scopo, e venne istituito un corpo di polizia speciale incaricata di vigilarli.50
Ma i religiosi che lasciavano il loro monastero per ragioni di alta morale e
di religione, non avevano che una mira: fondare una comunità che per la
sua costituzione s’avvicinasse il più possibile al loro ideale di vita cenobitica.
Erano costoro, in generale, uomini eletti, asceti, riformatori ed anime sante.
Ordinariamente sceglievano, per stabilirsi, luoghi disabitati: qualche
radura in mezzo a una foresta, o le rive solitarie d’un lago.51
49 S. Francesco d’Assisi chiamava questi monaci vagabondi: «Miei fratelli moscerini».
50 Al tempo dell’imperatrice Elisabetta Pétrovna (1741-1762), si doveva ancora punire, con
le verghe e con le catene, i monaci che si ubbriacavano ed erano animati da spirito di
ribellione. Siccome pure allora esisteva un mercato dei preti, dove i popi andavano ad
offrire i loro servigi, esso venne proibito sotto pena di castighi corporali. Cfr. Timofeev,
Istoria telesnykh nakazanyi v rousskom pravé. (Storia delle punizioni corporali nel diritto
russo). St. Petersbourg, 1904.
51 Avveniva anche, alle volte, che una piccola comunità di monaci si raggruppasse attorno a
una modesta Chiesa di villaggio. Casi simili si ebbero sopratutto al principio della vita
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Ben presto, grazie all’indefesso lavoro dei monaci, s’innalzò, fra le
capanne che loro servivano di cella, una piccola chiesa in legno che divenne
il punto di riunione per altri malcontenti e per altri disertori. Così, a mano a
mano che aumentavano i cenobiti, che si edificavano nuove celle e che la
chiesa veniva abbellita, il paese circostante perdeva sempre più del suo
aspetto selvaggio e spopolato. Ben presto, attorno alla nuova Tebaide
sorgeva un piccolo borgo che si trasformava più tardi in villaggio per
diventare infine città. Tali furono le modeste origini di molte città della
Russia del Nord, ed anche di molti fra i celebri monasteri, i cui fondatori
erano, oltre che ricchi di grandi virtù e santità, dei zelanti colonizzatori e
coraggiosi pionieri, che recavano, anche a rischio della propria vita, la buona
parola a popolazioni semi-barbare.
Certamente, non era raro il caso che i monasteri, dimenticando le regole
che erano loro state imposte dai fondatori, si lasciassero andare ad una vita
di indolenza, di piaceri terreni ed intenta al guadagno: però si trovava
sempre qualche monaco che, fuggendo la comunità decaduta, portava
altrove la fiamma di cui un tempo quella si illuminava. Così la vita di molti
monasteri russi potè essere degna di biasimo; l’ideale cenobitico tuttavia
durò in Russia e continuò di secolo in secolo.
II.
Fu nel «paese di Kiev» che sorse la vita monastica. Essa cominciò con
queste piccole comunità di cenobiti, di cui stiamo parlando, e che ancora
oggidì si chiamano skits. Evidentemente questa specie di beghinaggi non
avevano nè regole precise, seriamente stabilite, nè superiori chiamati a
dirigerli.
Del resto nessuno dei religiosi che ne faceva parte, era ancora vincolato
da voti. A quanto dicono certi scritti del tempo, i veri monasteri apparvero
poco dopo la conversione al cristianesimo del gran principe Vladimiro.52
Innegabilmente essi esistevano già al tempo di Iaroslav il Grande, nel
principio dell’XI secolo,53 ma differivano pochissimo, per il loro genere di vita
monacale, allorchè il numero dei cenobiti era ancora limitato, quando ben pochi di loro
erano sacerdoti consacrati; ed infine vi era ancora posto nel mondo perchè non si sentisse
il bisogno di cacciarsi nelle solitudini del Nord e dell’Est.
Tuttavia, in certi paesi della Russia, queste abitudini di raggrupparsi attorno ad una chiesa
già esistente, durò per più secoli. Goloubinskyi trovò in un vecchio repertorio della
provincia di Novgorod, la seguente menzione: «La chiesa ed il presbiterio d’Imotchenitzyi
sull’Oiaty, sono costruiti su terra dello czar e gran principe; nel presbiterio, vi sono il pope
Filippo, il suddiacono Romachka Grigoriev, lo scaccino Mikitka, la panifera Agata e inoltre
dieci celle nelle quali vivono dodici fratelli monaci». (Istoria rousskoï tserkvi, t. I, II parte,
p. 553).
52 È ciò che c’insegna il metropolita Hilarion nei suoi «Discorsi sulla Legge e la Grazia».
D’altra parte le saghe nordiche ci parlano d’un certo Islandese, Horwald, che avrebbe
fondato un monastero in Russia all’epoca della conversione al cristianesimo di Vladimiro.
53 La cronaca di Nestore (anno 1051) ci dice che il beato Antonio, venuto a Kiev negli ultimi
anni del regno di Iaroslav, soggiornò in vari monasteri della città («hody po
monastyriam») prima di ritirarsi a vivere nella grotta che fu l’embrione del futuro
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e per la loro costituzione, dalle comunità cenobitiche primitive. Il vero
monastero, in tutto il significato della parola, fece la sua apparizione molto
più tardi, e fu la futura laure (abbazia) di Kiev, detta delle Catacombe
(Kiévo-Pétcherska Lavra).
Un certo Hilarion, curato di Béréstov, villaggio dei dintorni di Kiev, sentì,
nel 1051, d’essere chiamato alla vita eremitica. Lasciò dunque il suo
presbiterio e sulla scoscesa riva del Dnieper scavò, per vivervi, una specie di
grotta o piuttosto una cripta (pestchera). Però non vi rimase che poco
tempo, perchè fu nominato ben presto metropolita di Kiev. Fu allora che la
grotta abbandonata venne occupata dal monaco Antonio, venuto dal monte
Athos poco tempo prima. Antonio era un asceta pieno di zelo, d’umiltà e di
fede ardente. Il suo esempio trovò imitatori.
Perciò fu raggiunto ben presto da altri uomini pii fra i quali si distingueva
per il suo ardore il giovane Teodosio. Quando gli eremiti raggiunsero il
numero di dodici, edificarono una piccola chiesa e si costruirono delle celle.
Antonio pose a capo di costoro come superiore, un certo Barlaam,54 ed egli
si ritirò a qualche distanza dal monastero in una nuova grotta che s’era
preparata sul modello di quelle che i guerrieri normanni della scorta del
principe avevano scavata nelle vicinanze per nascondervi il loro bottino.
Però, aumentando sempre più i cenobiti, fu stabilito di lasciare le cripte,
perchè troppo anguste, e si costruirono, oltre al primitivo ricovero, delle
celle ed una nuova chiesa consacrata all’Assunzione della Santa Vergine. Il
gran-principe di Kiev, Iziaslav, figlio di Iaroslav, fece dono alla comunità di
tutto il terreno ch’essa occupava, come pure d’una gran parte della vicina
riva boscosa del Dnieper. In quei tempi il priore del nuovo monastero era
Teodosio. Fu lui che per primo mise in pratica, in Russia, la regola di vita
cenobitica di S. Teodoro Studita.55
Teodosio era uomo di pietà e di ascetismo rari. Passava gran parte delle
sue giornate e delle sue notti in preghiere e meditazioni. Ma il suo
ascetismo si manifestava in tutto il suo rigore, specialmente durante la
grande quaresima. Di solito, dopo d’essersi accomiatato dai fratelli e di aver
loro fatto le sue raccomandazioni, si ritirava in una grotta abbandonata
monastero di Kievo-Pétchersk.
54 Si troveranno dei particolari biografìci su Teodosio e Barlaam in Martynov, Annus
Ecclesiaslicus graeco-slavicus, («Acta Sanctorum» Octobris. t. XI), 1864.
55 S. Teodoro, soprannominato lo Studita, celebre riformatore della vita monacale, fu uno dei
personaggi più importanti del IX secolo bizantino. Zelante, molto istruito, fermo e risoluto,
insegnava una dottrina ascetica, opposta a quella degli hésychastes e degli eremiti. Nel
suo Piccolo Catechismo (Migne, Patr. graeca, t. 99 col. 509-688, e così Van de Vorst, La
piccola catachesi di S. Teodoro Studita, «Annalecta Bollandiana», vol. 33, 1919), egli ha
pure parole assai dure contro di essi. Con quei monaci riformati cui egli aveva dato una
nuova regola di vita, uscì dall’inattivo misticismo in cui s’erano addormentati i religiosi
d’Oriente. Teodoro parteggiò sempre per il Papa ed esprimeva in termini scelti
l’apostolicità della Sede di Roma e l’autorità del Papa in questioni dogmatiche. Nelle sue
opere, Teodoro chiama il Papa l’aposlolico e il «successore di Pietro». Sulla vita e la
dottrina di Teodoro, v. Schneider, Der heilige Theodor von Studion (Münster, 1900), Marin,
San Teodoro (Parigi, 1906), ed anche I. Hausherr, S. Teodoro Studita: l’uomo e l’asceta,
(«Orientalia christiana», vol. VI, 22).
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ch’egli faceva murare, non lasciando che un piccolo pertugio per il quale
trattava, una volta la settimana, gli affari della comunità. Restava così nella
più austera solitudine, in questa cripta o caverna, per tutte le lunghe
settimane della grande quaresima, e non ne usciva che alla vigilia del giorno
in cui si commemorava la risurrezione di Lazzaro.
L’esempio di Teodosio stimolò certamente lo zelo di molti cenobiti che
vivevano con lui.56 Però le severe regole ch’egli aveva introdotte nel
monastero di Petchersk non si mantennero in tutto il loro rigore che poco
tempo. Dopo la sua morte esse furono abbandonate a poco a poco e
sostituite da altre che, come le precedenti, non furono in verità mai
riconosciute dalla Chiesa. — Goloubinskyi, Op. cit. p. 633). — Del resto,
anche durante la vita dei fondatori del convento delle Catacombe di Kiev, le
defezioni non erano rare e numerosi erano i monaci che, dopo un soggiorno
più o meno lungo nel monastero, lo lasciavano per Costantinopoli o per il
monte Athos, che era già, in quel tempo, esclusivamente popolato da
cenobiti. La data esatta della fondazione d’un monastero russo sull’Athos,
non è nota: Goloubinskyi ed il vescovo Porfiro (Storia d’Athos, Kiev, 1877)
ritengono che sia avvenuta verso la metà del XII secolo. Infatti fu verso
quell’epoca che vari monaci, d’origine russa, ebbero l’autorizzazione di
riedificare un vecchio monastero caduto in rovina, ed al quale si diede per
conseguenza il nome del santo martire Pantalemone. Questo convento fu
chiamato «roussik» dagli Slavi balcanici. Però il monastero russo dei nostri
giorni non è affatto quel «roussik». L’attuale monastero russo del monte
Athos fu edificato nel corso dell’ultimo secolo, sul luogo dell’antico. È una
sontuosa costruzione che manca di sostentamento, perchè la cassa che la
manteneva è esaurita ed a sua volta minaccia rovina.57
Ma la Grecia non era il solo paese che fosse visitato dai monaci russi:
anche la Palestina li attirava. È certo che Gerusalemme fu molto presto la
meta dei pellegrinaggi russi, e che vi esisteva nel XII secolo un monastero
abitato esclusivamente da cenobiti venuti dalla Russia. D’altronde, non era
raro il caso d’incontrare sulla soglia del Sepolcro di Nostro Signore,
frammischiati coi monastici, persone di spada e personaggi d’alto rango,
oriundi da Kiev e da Novgorod. Che fossero attirati da Alessio Commeno per
56 I monaci solitari o rinchiusi sono sempre esistiti in Russia. Gli annali ecclesiastici citano un
certo inok Giovanni «la vittima» (mnogostradalnyi) che si fece sotterrare a metà e passò
così la sua vita. Un altro monaco, al principio del monachismo russo, Isaac, del monastero
di Petchersk, essendosi coperto d’una pelle recentemente levata ad un capro, la lasciò
seccare sul suo corpo. Poi si rinchiuse in una cripta di quattro cubiti e si fece murare.
Come unico cibo, aveva un pane di comunione (prosfora) che gli veniva passato per un
finestrino ogni due giorni. Egli non si coricava mai e dormiva accoccolato in un angolo
della cella. Dopo due anni d’un simile regime di vita, divenne pazzo e ci vollero altri due
anni per guarirlo. Guarito, non tornò più nella sua cripta. Però in generale gli abati e gli
higoumènes (priori) dei monasteri, non erano affatto favorevoli a questi eccessi
d’ascetismo e non concedevano che raramente l’autorizzazione di praticare la reclusione.
57 Si trovano particolari notizie sui monasteri del monte Athos in Giovanni Commine —
Descrizione della santa montagna d’Athos (in greco), Bucarest, 1701. Opera tradotta in
russo nel 1706 dall’ierodiacono del convento di Tchoudov, Damaskine.
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combattere gli infedeli, come affermano taluni:58 o che vi venissero per
compiere un atto di fede, il fatto è che seguivano invariabilmente un
itinerario già tracciato dai loro compatrioti venuti antecedentemente in
Palestina. Così lasciò scritto il monaco di Tchernigov, l’archimandrita
Daniele, (1006 o 1007) che ci ha lasciato una descrizione tanto chiara che
deliziosa e pittoresca di tutte le peripezie del suo lungo viaggio in Terra
Santa.59
La storia del monastero Kiévo-Petcherskyi è molto conosciuta. Dopo
d’essersi arricchito d’una sontuosa cattedrale consacrata alla Madre di Dio,
tanto bella, dice l’annalista, che gli artisti bizantini, che l’avevano decorata,
non vollero più lasciare quel luogo e vi furono seppelliti. Il monastero fu
distrutto dalle orde mongole di Batyi, nel 1240, per risorgere sui suoi resti
un secolo dopo e divenire, fin dalla fine del XVI secolo, la più ricca abbazia
della Russia meridionale.
Certamente il Monastero delle Catacombe ebbe una gran parte nella
propagazione della nuova fede. Durante i secoli XI e XII da esso uscirono
più di venti prelati russi, ed ebbe molte volte l’occasione d’intervenire nelle
contese dei principi che talvolta si disputavano l’egemonia del mondo russo
diviso in un certo numero di principati. Ma si esagerò abbastanza la parte da
esso rappresentata come sede del sapere.60 Per più secoli i suoi scrittori e
dottori furono in parte copisti o compilatori senza genio. Per molto tempo si
credette che la famosa «Cronaca iniziale» russa (Poviest vreménnikh liet), a
torto attribuita al monaco Nestore, fosse stata scritta o composta nel
monastero di Kiévo-Petchersk. Oggidì sappiamo che non è vero. Questa
famosa Cronaca fu frutto del lavoro di molte generazioni di monaci
appartenenti a diversi monasteri russi che vissero molto tempo prima di
Nestore,61 al quale non si può attribuire che una Vita di Teodosio scritta in
lingua slava nel 1088, e tradotta in lingua russa nel 1856. Rimane il Paterik,
questa raccolta delle vite dei Padri del monastero delle Catacombe. È in
verità questo uno dei monumenti più preziosi dell’agiografia russa, sebbene
parli meno della stessa vita dei Padri che dei miracoli avvenuti al loro
tempo. Tuttavia sarebbe temerario il paragonarla, per esempio, agli Acta
Sanctorum.62 Insomma l’importanza del monastero di Kiev non si fece
veramente sentire, sotto il punto di vista intellettuale, che alla fine del XVI
secolo, quando la laure s’arricchì d’una importante biblioteca e d’una
tipografia, ed incominciò a pubblicare libri di preghiere, opere di teologia e
di polemica. Fu in fine alla stessa epoca che, grazie all’energia dell’eminente
prelato che governava allora la diocesi di Kiev, il metropolita Pietro Moguila,
58 Bernardo Leib, Roma, Kiev e Bisanzio, Parigi, 1924, p. 279.
59 A. Palmieri, I pellegrinaggi in Terra Santa, «Bessarione» 1900 t. VIII, pp. 571-605.
60 Goetz, Der Kiévo-Hohlenkloster als Kulturzentrum des Vormongolischen Russlands,
Passau, 1904.
61 Chakhmatov, Skazanié o prizvanii Variagov. (La relazione della rassegna dei Vareghi). St.
Petersbourg, 1904.
62 Chakhmatov, Kiévo-Pétcherskyi Paterik i petcherskaïa lietopis («Izvestia otd. rous. iazyka
i slov. Imp. Akademii Naouk», 1897, Lib. III).
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il monastero delle Catacombe fu dotato di una scuola, che divenne in
seguito la celebre Accademia di Kiev.
III.
Così dunque nell’XI e XII secolo furono fondati in Russia i primi
monasteri, principalmente nelle città e negli immediati dintorni, nelle
campagne, e sopratutto nel mezzogiorno, mentre era ancora infestato dalle
bande dei guerrieri nomadi e saccheggiatori.
Dopo Kiev, anche le città di Péréyiaslav, Tchernigov e Vladimiro di
Volinnia, furono rispettivamente dotate ciascuna d’un convento su modello
greco, cioè, soggetto all’autorità d’un superiore e possedendo una regola di
vita monastica. Poi venne la volta di Novgorod, dove la vita cenobitica prese
bentosto una tale estensione che alla fine del XII secolo vi si contava già
una ventina di monasteri. Certo, non tutti erano all’altezza delle esigenze
della vera vita monastica, ma ebbero tutti, alla lor volta, una ragione
d’essere ed una parte da compiere. Ma fu sopratutto nel Nord e nell’Est che
i primi monasteri, ivi stabiliti, rappresentarono una parte civilizzatrice ed
anche politica. La ricca abbazia della Trinità di S. Sergio, che trovasi alle
porte di Mosca, e che fu fondata al principio del XIV secolo da S. Sergio del
Radoneje,63 fu uno di quei conventi.
All’epoca della sua fondazione, tutto il paese circostante, pochissimo
popolato, era coperto da foreste impenetrabili. Ma S. Sergio non era
soltanto un gran santo, bensì anche un ragguardevole amministratore ed un
accorto politico. Alcune decine d’anni gli bastarono per trasformare quel
luogo selvaggio in un paese coltivato, e non di più c’impiegò per fare del suo
convento un centro attivo della potenza moscovita. Così quando il gran
principe di Mosca, Dimitri, soprannominato Donskoï, dopo la sua vittoria sui
Tartari nella battaglia di Koulikovo, ebbe la prima velleità di misurarsi coi
Mongoli, venne a consultare S. Sergio: costui lo equipaggiò in gran parte
per la lotta contro gli invasori, e lo fece accompagnare da due dei suoi
migliori monaci soldati: Ossliabia e Pérèsviet. Con la croce in una mano e la
spada nell’altra, coperti d’un giaco di maglia, ma con la visiera dell’elmo
rialzata, essi si misero alla testa delle truppe moscovite e le condussero alla
vittoria.
Un secolo dopo la morte di S. Sergio, il monastero da lui fondato, colmato
di doni, di privilegi e dotato d’un gran numero di servi paesani, era
diventato, sotto la direzione di igumeni energici ed intraprendenti, una vera
cittadella che sostenne, al tempo delle discordie, l’idea nazionale, e davanti
la quale s’infranse la potenza militare polacca. Più tardi ancora Pietro I,
fuggendo i suoi presunti assassini, trovò un sicuro rifugio fra le alte mura
63 Goloubinskyi, Prepodobnyi Serguei Radonejskyi (1892). — Einhorn, O znatchenii prep.
Sergia v rousskoi istorii (Dell’importanza di S. Sergio nella storia russa), Mosca, 1899. —
Boris Zaïzev, Prepodobnyi Serguéï Radonejski (1927). — Boulgakov, Sviatoï Serguéï
Radonejskii, (La Rivista Pout (La via) n. 5, 1926).
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del potente monastero, che gli venne pecunialmente in aiuto al tempo delle
sue prime campagne. Del resto non era la prima volta che la ricca abbazia
aiutava, col suo denaro, i suoi principi, al corto di mezzi.
Una parte non meno importante, sotto il punto di vista civilizzatore,
politico e militare, toccò al famoso monastero dell’isola Solovetsk.
Certamente i due pii cenobiti, Zosima e Savvatyi, che lo fondarono nel
1429, non potevano prevedere la sorte che era riservata alla loro
fondazione. Essi avevano fuggito i luoghi abitati dagli uomini «per essere
più vicini al Signore», cioè per ritemprarsi nella solitudine e nel silenzio
propizi alla preghiera ed alla meditazione. E, a questo proposito, non
potevano trovare niente di meglio di quest’isola deserta e fredda, perduta in
mezzo ad un mare boreale. Ma la Tebaide che avevano fondata all’estremo
limite delle possessioni russe, doveva divenire, per questo semplice fatto,
una sentinella avanzata della potenza moscovita, e nello stesso tempo un
centro importante di colonizzazione.64 Avendo ottenuto da Novgorod, da cui
dipendeva questa terra lontana, un documento che concedeva loro il diritto
di proprietà su tutto il paese circostante, i monaci di Solovetsk s’occuparono
a popolarlo ed a far valere il loro nuovo dominio creando luoghi di pesca e
masserie, aprendo strade, comunicazioni fluviali e marittime fra i villaggi dei
pescatori, dei cacciatori di fiere ed il monastero. Introdussero nel paese una
buonissima razza di vacche da latte e fecero del loro meglio per incoraggiare
la caccia delle bestie di pelo prezioso. Insomma, furono fin da principio bravi
dissodatori, amministratori e coloni.65 Ma un malaugurato colpo di mano
degli Svedesi fece, nel 1571, di quegli abitanti altrettanti soldati. In questo
tempo il monastero e le sue adiacenze erano già circondati da un’alta
muraglia, per innalzare la quale, con massi di granito e pietre molari, erano
occorsi dodici anni. Mosca vi aveva mandata una guarnigione che era
distribuita su tutto il territorio appartenente al convento, il mantenimento
della quale spettava al monastero. Ma i monaci alla fine se ne liberarono
sostituendola con un corpo scelto fra i più giovani e robusti di loro. Il suo
64 Tutto ciò in un paese che è immerso per quattro mesi dell’anno nella notte artica e dove,
per sei mesi, fa sì freddo da spezzare le pietre. Che la vita in quelle latitudini sia un vero
incubo, non può essere meglio dimostrato che da questo breve passo a una descrizione
del monastero di Solovetsk, fatta al principio del XVII secolo da un certo Damaskine,
ierodiacono del convento di Tchoudov a Mosca: «Il monastero di Solovetsk, scrive il pio
monaco, è posto in un paese che ricorda gli orrori del Tartaro. Ivi le notti d’inverno sono
lunghe, tristi e fredde; la breve estate non può riscaldare l’uomo che, inoltre, in quel
periodo dell’anno è assalito e martirizzato da uno sciame di zanzare, di vespe e di
moscerini. L’isola di Solovetsk è abitata da un grandissimo numero di uccelli chiamati
gabbiani. Sono bestie insopportabili che stridono con voce acuta tutta la giornata e spesso
anche la notte. In causa di tutti questi stridi, i monaci sono privati della loro tranquillità e
del loro raccoglimento. Inoltre, i sollazzi, i giochi e gli amori di questi volatili turbano lo
spirito degli uomini e li distraggono in modo increscioso». (Hiérodiakon Damaskine,
Sravnenié sviatoï afonskoï gory s Solovelskim monastyrem, «Pamiatniki Drevneï
Pismennosti» t. 43. St. Petersbourg, 1883).
65 Klioutchevskyi, Khoziaistvennaia déiatelnost Solovetzkago monastyria. (L’attività
economica del monastero di Solovetsk). Cf. Opyty i izslédovania (Studi e ricerche), Mosca,
1912.
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valore militare fu ben presto messo alla prova e si dimostrò degno del suo
compito, poichè immobilizzò, davanti alle mura del monastero, per sette
anni, le truppe dello czar di Mosca, inviate nel 1667 per condurre alla
ragione i monaci fortemente contrari all’introduzione delle riforme
ecclesiastiche decretate dal celebre patriarca Nikone.
La decadenza dei monasteri, come ad esempio quello di Solovetsk o del
lago Bianco (Belozerskyi) (quest’ultimo fondato nel 1397 dal beato Cirillo,
abate del convento Simonov a Mosca, che divenne dopo la morte del suo
fondatore una importante posta militare nelle marce del Nord-Ovest), seguì
da vicino la decadenza della loro parte militare e colonizzatrice. Costruiti da
pii eremiti per essere luoghi di preghiere e di meditazioni, trasformati dal
capriccio dei tempi e dalla volontà degli uomini in potenti strumenti di
dominazione e propaganda, dovevano fatalmente decadere in un tempo più
o meno lungo, perchè la loro parte era talvolta guastata fin dal principio.
Certamente le magnifiche casse in argento massiccio, come quelle di
Solovetsk, che contenevano le reliquie del loro fondatore, attiravano
annualmente delle decine di migliaia di pellegrini da tutti i punti della vasta
Russia.
Ma la presenza nel monastero di questi evidenti ricordi d’un lontano e
glorioso passato non stimolava sempre lo zelo delle nuove generazioni di
monaci, che, d’altronde, vi trovavano una sorgente di profitto. Così i
monasteri, spesso pieni di ricchezze materiali, godendo d’ogni specie di
privilegi e non frenati, per la maggior parte, da rigorose e severe regole di
vita inferiore, diventavano, talvolta, il ritrovo d’avventurieri che speravano
sottrarsi alla giustizia del loro paese, ed anche di oziosi.
IV.
Però, andando le cose di male in peggio, le autorità ecclesiastiche, ed
anche laiche, se ne preoccuparono seriamente. Già gli czar, i metropoliti e i
vescovi, ai quali certi grandi monasteri appartenevano, o dai quali
dipendevano, avevano loro mandato molte volte energiche ammonizioni
(come ad esempio la lettera di Giovanni il Terribile ai monaci di Cirillo
Belozersk), intimando loro di seguire i regolamenti prescritti, scongiurandoli
di non mostrare davanti al popolo i loro difetti ecc. Ma a nulla riuscirono.
Così vari concili (sobors) di vescovi presero una serie di severe misure per
frenare la decadenza del monachismo. Fu così che i sobors del 1667 e del
1681 proibirono la fondazione di nuovi monasteri (ve n’erano in quell’epoca
più di due mila), e ordinarono la chiusura di quelli dove il numero dei
monaci era troppo esiguo. Per fermare l’onda sempre crescente di persone
che indossavano la tonaca soltanto per ragioni materiali, o per sfuggire alla
giustizia del loro paese, i vescovi stabilirono che fosse valida solo la
vestizione fatta nel monastero stesso, dopo un noviziato, la cui durata
doveva essere rigorosamente fissata. (Per l’addietro si poteva vestire l’abito
religioso anche fuori del monastero, ed avveniva che questa cerimonia fosse
presieduta da un pseudo-monaco o da un monaco impostore). Essi
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vietarono pure che si imponesse per forza la tonaca a sposi senza il mutuo
consenso. Insomma, l’alto clero moscovita della fine del XVII secolo fece
molto per rialzare la vita del monachismo nazionale. Se non riuscì che in
parte nel suo scopo, fu perchè gli mancavano l’indipendenza e l’autorità
necessarie, le quali non mancarono invece al grande riformatore della
Russia, Pietro il Grande.
Pietro, sotto l’influenza del suo cattivo genio, il luteraneggiante
Théophane Prokopovitch (del quale si parlerà nel capitolo seguente) da
principio era ostile al monachismo. Pietro, per certi aspetti, era un
anticlericale ed un ardente partigiano della «morale laica». Aveva
dimenticato i servigi che gli avevano resi i religiosi nella sua giovinezza, i
quali lo avevano salvato da una sicura morte e gli avevano facilitato la
realizzazione dei suoi progetti militari. Il famoso Regolamento ecclesiastico
rispecchia l’opinione di Pietro sui cenobiti, «profittatori del lavoro degli altri,
propagatori di eresie e di superstizioni». Egli proibì la fondazione di nuovi
monasteri senza l’autorizzazione dell’imperatore; preparò la più larga
fusione di quelli che esistevano, e la trasformazione delle loro chiese in
parrocchie indipendenti. Inoltre il Sinodo fu invitato dallo czar a combattere
il sentimento dei Russi che credevano di guadagnarsi più facilmente il
paradiso, facendosi monaci. Nel 1723 fu fatto il censimento di tutti i
religiosi. L’imperatore fece pubblicare un editto che proibiva la vestizione
monacale; fu decretato che i posti vacanti nei monasteri fossero riservati
agli invalidi di guerra, agli infermi e ai poveri.
Questa era la morte del monachismo russo. Qualche anno dopo, questo
decreto fu annullato a condizione però che solo persone molto conosciute
dal governo potessero essere nominate a dirigere i monasteri; queste
dovevano giurare di non ricevere nel loro convento dei «solitari bigotti o altri
propagatori di superstizioni». Era proibito ai monaci di possedere inchiostro
e penne, e di scrivere qualsiasi cosa senza il permesso dei superiori.66 I
monaci non potevano uscire dal loro monastero che quattro volte all’anno, e
non potevano ricevere visite che in presenza d’una terza persona e dopo il
consenso dei superiori. Tutte queste leggi draconiane, come quelle che
avevano rapporto con la vita interiore del convento, con le occupazioni dei
religiosi e con la loro preparazione al sacerdozio, si spiegavano in gran parte
per l’opposizione che avevano incontrato le ardite riforme di Pietro nei centri
monastici.
Le leggi promulgate da Pietro, furono sensibilmente mitigate
dall’imperatrice Elisabetta. Nel 1760 il permesso di vestire l’abito monacale
fu esteso a tutte le classi della popolazione. Al principio del regno di
Caterina la Grande esistevano in Russia 1072 conventi. La promulgazione,
nel 1764, delle «Liste ecclesiastiche», ne ridussero considerevolmente il
numero.67
66 Oukazy Petra Vélikago (i decreti di Pietro il Grande), Ed. del 1739, anno 1732, p. 28.
67 La promulgazione delle «Liste ecclesiastiche» insomma, aveva lo scopo di spogliare i
monasteri delle loro proprietà fondiarie (votchiny) in cambio d’un abbastanza magro
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Gli edifici dei monasteri disciolti o soppressi furono trasformati in
caserme, ospitali e scuole. Per incoraggiare i religiosi che si applicavano agli
studi, si concessero pensioni oltre agli onorari che ricevevano come
professori o maestri di scuola. Infine, sempre a loro vantaggio, l’imperatrice
abolì il decreto di Pietro l che proibiva ai monaci che vivevano in conventi
dov’era la regola delle comunità, di far testamento e di possedere effetti
personali. Durante il regno di Alessandro I, che aveva molta simpatia per i
cenobiti, la loro situazione migliorò di molto. Nel XIX secolo il numero dei
monasteri aumentò di poco, specialmente per la fondazione di un certo
numero di «comunità femminili» (genskia obchtiny) le quali non differivano
dai conventi ordinari se non in questo, che non si esigeva da chi ne faceva
parte la pronuncia dei voti.
I monasteri che durarono in Russia fino a questi ultimi tempi diventarono,
per la maggior parte, conventi provvisti di una regola di vita comune
(obchtéjiterlnia). Erano governati o da priori (igoumeni), o da abati
(archimandrity) che, di solito, erano eletti dal capitolo del monastero. Gli
abati delle grandi Laure (Lavry), ed anche quelli di qualche vecchio
«monastero stavropigial», avevano certi privilegi che li mettevano alla
stessa altezza dei vescovi. (Fu così ch’essi ebbero il diritto di portare la
mitria, e di benedire i fedeli, durante la Messa, con il «trikirion» e il
«dikirion», cioè tenendo in una mano un candeliere a due rami,
simboleggianti il primo la S.S. Trinità, e il secondo le due nature di N. S.
Gesù Cristo).
Nella maggior parte dei monasteri russi del nostro tempo il clero è
composto esclusivamente da monaci-preti (hiéromonakhi) e da monaci
diaconi (hiérodiakony) facenti parte della stessa comunità.
V.
«Nè per l’originalità del loro carattere o della loro opera, nè per
l’influenza, sulla storia o sulla civilizzazione, i santi della Chiesa russa si
possono paragonare ai santi della Chiesa latina o d’una sola nazione
cattolica, come ad es. l’Italia, la Francia, la Spagna», scrive A. LeroyBeaulieu nella sua grande opera sull’Impero degli Czar (volume III, pag.
compenso fisso, del quale furono gratificati tutti i conventi ad eccezione delle due abbazie
(Kiévo-Petchersk e Trinità di S. Sergio), e di quei due monasteri chiamati «monasteri
cattedrali» perchè destinati ad essere l’abitazione di arcivescovi e di metropoliti. Questi
conservarono i loro averi come per il passato; quanto agli altri conventi, furono divisi in
tre classi e il numero dei monaci che potevano abitarvi fu strettamente limitato.
I monasteri di prima classe avevano diritto a 33 religiosi o a un numero da 52 a 101
religiose; quelli di seconda classe avevano diritto a 17 monaci o ad altrettante monache;
infine quelli di terza classe non potevano avere più di 12 monaci o lo stesso numero di
monache. Nel 1764 vi erano in tutto 318 monasteri e 67 conventi di religiose.
Nel XIX secolo il numero dei monasteri detti «della lista» (chtatnya), cioè quelli il cui
mantenimento toccava allo Stato, diminuì sensibilmente. Al contrario il numero dei
conventi che vivevano delle proprie rendite aumentò assai, come migliorò la loro condotta
generale e lo spirito che li animava.
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140). «Vi si cercherebbero invano delle figure da opporre a un Gregorio VII
o ad un S. Bernardo, a un Tommaso d’Aquino, a un Vincenzo de’ Paoli». È
presto detto. Del resto non è per questo che il monachismo russo differisce
sensibilmente da quello dell’Europa occidentale, perchè non sarebbe difficile
dimostrare che la Russia dei tempi antichi ebbe non solo i suoi «monaci
guerrieri e uomini d’azione» — A. Leroy-Beaulieu, Op. cit. p. 225, — ma
anche dei cenobiti che esercitarono una vera influenza sulla storia del loro
paese e la sua colonizzazione. S. Sergio di Radojene contribuì potentemente
alla fondazione del «tsarstvo» moscovita; Giuseppe Volotskoï (Volokolamsky
) definì nel XVI secolo, in scritti di alto stile letterario, l’essenza stessa
dell’autorità dello «czar autocrate»,68 e combattè con la penna e l’azione,
finchè visse, i dissensi nascenti nel seno della Chiesa russa; Abramo
Palitzine fu uno dei campioni della rinascita nazionale dopo i torbidi anni;
infine Nil Sorsky e i suoi compagni dei monasteri «d’oltre il Volga», pur
essendo semplici contemplativi, non sdegnarono d’entrare in lizza e di
combattere, al sobor dei vescovi nel 1490, il diritto del monastero di
possedere da beni fondiarii e dei servi;69 non citiamo altri nomi per non
allungare troppo l’elenco.
No, in realtà ciò che ha sempre dato l’impressione dello stato non
progressivo del monachismo russo, fu che non venne mai liberata
abbastanza dalla confusione storica questa parte attiva e, si potrebbe dire,
«laica» di certi grandi monaci russi. Non fu messa abbastanza in rilievo,
come non furono studiate sufficientemente massime dallo straniero, le vere
origini della storia della Russia. Del resto se i religiosi russi sono vissuti,
hanno lavorato e agito, si può dire, in un vaso chiuso; e se le loro azioni non
hanno avuto alcuna eco nel resto dell’Europa, nè alcuna influenza
sull’evoluzione del cristianesimo nel mondo occidentale, come fu per le
grandi figure del monachismo cattolico, la cosa si spiega per il fatto che il
loro paese, dopo il XIII secolo, non ebbe più alcun contatto diretto con
l’Occidente.
D’altra parte, se il popolo russo preferì i pii reclusi e gli anacoreti, non fu
soltanto perchè ammirasse il loro genere di vita, ma anche perchè quei
cenobiti, intonandosi al suo modo di vivere, divennero i suoi maestri
spirituali, cioè degli Startsy.70
68 Ecco questa definizione: «Per la sua natura lo czar rassomiglia a tutti gli altri uomini, ma
per la sua potenza rassomiglia a Dio. Egli è il vicario di Dio in terra, il Capo supremo dello
Stato e della Chiesa».
69 I cenobiti che nel XV e XVI secolo erano chiamati «i vecchi d’oltre Volga» (zavolgskia
Startsy), vivevano in poveri conventi sparsi nelle provincie boscose della Russia del Nord,
lontano dai grandi monasteri e dalle ricche abbazie. Essi erano più partigiani d’una severa
disciplina morale, che di regole d’astinenza e d’ascetismo fisico. La loro influenza sul
popolo fu sempre grandissima e salutare.
70 L’origine della parola Starets (plurale Startsy), che vuol dire «vecchio», risale all’epoca
delle prime istituzioni degli Slavi orientali. Il grande storico russo Klioutchevskyi dimostrò
che già si chiamavano con questo nome, o piuttosto adoperando questa forma primitiva di
Stareïchiny (plurale), i capi militari delle città russo-slave. Più tardi questo termine fu
adoperato per indicare le persone dabbene, coloro che dirigevano i temi da svolgersi nelle
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Oh! evidentemente, essi trascinavano quel popolo alquanto fuori della
Chiesa. Ma non si può veramente rimproverar loro che disponessero le cose
un po’ a proprio piacimento, considerato che l’insegnamento ch’essi
impartivano fu d’una sì alta importanza morale. Si può solo deplorare che il
loro numero non sia stato maggiore, perchè, se gli startsy abituavano il
popolo russo a considerare il cielo sopra le multicolori cupole delle belle
cattedrali ortodosse, si sforzavano pure di inculcargli l’orrore del male,
l’indulgenza per i peccati altrui e il dovere di contenere la propria collera: in
altre parole, essi gli insegnavano l’umiltà, il perdono e il dominio di sè
stessi. È là, del resto, la essenza stessa della dottrina francescana. Il
Poverello «raccomandava ai Fratelli, come ci riporta la leggenda dei tre
Compagni (trad. Pichard, Parigi, 1926), di non giudicare nessuno». Ed
ancora diceva loro: «Che la vostra dolcezza attiri tutti gli uomini alla pace,
alla bontà ed alla concordia».
Ciò era da parte degli startsy tanto più meritorio poichè molti di loro
erano uomini estremamente violenti per natura tanto che molto facilmente
si adiravano. Essi continuavano a lottare contro sè stessi fino ad arrivare al
«completo dominio dei nervi» (Rozanov, la Chiesa russa), a tal punto da
contentarsi, per tutto rimprovero, di una leggera «ammonizione fatta quasi
di sfuggita, come parlando a sè stessi».71
Così, dunque, non fu per la mancanza di alte personalità nei suoi ranghi
che il monachismo russo differì da quello dell’Europa occidentale, e neppure
fu ciò che gli impedì di risplendere di una luce più viva, ma fu l’assenza
d’una massa monastica. E ciò spiega «che vi si cercherebbero invano» dei
monumenti di lavoro intellettuale collettivo simili agli «Atti» dei Benedettini,
all’opera dei Bollandisti o degli «Annali» dei Frati dell’ordine dei Predicatori.
La colpa ricade sui prelati e gli alti dignitari della Chiesa russa d’un tempo,
che non seppero far opera di selezione e di autorità; e ancor più sulle
autorità civili, che si opposero per molto tempo alla penetrazione, nel paese,
di un vasto sapere e di una efficace corrente di pensiero;72 ed infine sullo
assemblee di cittadini. Infine, nel corso degli anni, si diede origine alla parola Starchina,
molto diffusa in Russia fin’ora per indicare sia il capo d’un distaccamento militare (presso i
cosacchi), sia il podestà d’un villaggio o, semplicemente, un personaggio d’importanza.
71 Si racconta che un giorno il celebre monaco educatore, Tikhon Zadonskyi, che fu quasi del
nostro tempo, poichè visse alla fine del XVIII secolo, ebbe una violenta discussione su
soggetti religiosi con un laico detto «libero pensatore»; ad un certo punto quest’ultimo, a
corto d’argomenti, schiaffeggiò il santo uomo. Che fece allora Tikhon Zadonskyi? Si gettò
subito ai piedi della rozza persona e le domandò umilmente perdono di averla condotta,
con le sue risposte, a perdere ogni discrezione. Nondimeno Tikhon era uomo combattivo
che, all’epoca in cui dirigeva la diocesi di Voronèje, aveva dato prova, accanto ad una
scienza vasta e profonda, di vere qualità di capo.
72 Una delle cause, se non la prima, dell’inferiorità intellettuale del monachismo russo e del
suo allontanamento dalla cristianità occidentale, consisteva nella sua ignoranza del latino
appunto nell’epoca in cui questa lingua formava il legame fra i popoli civili ed era la lingua
della scienza e del pensiero. Avevano potuto accontentarsi, durante il basso Medio-Evo,
della conoscenza del greco. La lingua greca fu, fino alla metà del III secolo, la lingua della
Chiesa romana, ed è perciò che si potè vedere nella Russia dei secoli XI e XII, dei prelati
russi come Cirillo di Tourov o il metropolita di Kiev, Clemente, partecipare a dispute
72
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stesso popolo russo che, malgrado tutte le sue belle qualità, si dimostra
spesso incapace di piegarsi volontariamente ad una vera disciplina, ad un
lavoro metodico e non interrotto, e di limitarsi nello spazio e nel tempo.
CAPITOLO VII.
La Chiesa russa al tempo degli imperatori
I.
Pietro il Grande salendo al trono nel 1682 trovò la sede patriarcale
occupata da un uomo timorato, nemico d’ogni relazione con l’Occidente e
che aveva un modo tutto suo personale di pensare. Il suo successore
(Andrieu), al quale egli aveva fatto giurare, sul suo letto di morte, di seguire
il suo esempio, cioè di continuare la lotta contro l’Occidente, di non
permettere agli ortodossi di frequentare gli eretici, di impedire a quest’ultimi
di costruire chiese e di fare distruggere quelle che esistevano in Moscovia,
cercò di seguire i suoi consigli; ma ricevette subito dallo czar una severa
ammonizione. Morì dieci anni più tardi, avendo perduto ogni autorità. Ed
allora, quando lo czar fu pregato di nominare il successore, rispose: «D’ora
innanzi sarò io il vostro patriarca». E mantenne la sua parola. Sopprimendo
il patriarcato, Pietro aveva assai più di mira, come l’abbiamo fatto notare
sopra, di stabillre la Chiesa nazionale che di premunirsi contro la dubbia
rivalità di un rappresentante del potere spirituale. Certo, vi era il caso di
Nikone. Ma il fatto che Nikone aveva lottato contro un sovrano sprovvisto di
qualsiasi volontà, e non ne era stato meno vinto, dimostrava abbastanza
oratorie o a polemiche scritte con l’aiuto dei testi greci, su questioni di esegesi biblica o di
scienze speculative, dichiarandosi gli uni della scuola filosofica di Alessandria, e gli altri
della sua rivale, la scuola di Antiochia. Ma col tempo, decadendo Bisanzio per esaurimento
e per vecchiaia, e disinteressandosi la Russia sempre più dell’Occidente, la lingua slava
assunse una grande importanza e soppiantò ben presto la lingua letteraria dei Greci.
Ma, evidentemente, la lingua slava non poteva sostituire il greco e bastare a trasmettere
il pensiero ed il sapere. Dunque l’impiego esclusivo della «scrittura cirillica» (kirilliza), del
tutto sconosciuta al mondo civilizzato d’allora, non fece che contribuire all’isolamento e al
ristagno della Russia.
Si tradussero dal greco alcuni libri liturgici e filosofici, come pure si tentò più tardi di
tradurne altri dal latino ma, in generale, queste traduzioni furono incomplete ed
approssimative. Del resto la lingua slava non si prestava affatto ai motti sottili dello
spirito, ed alla terminologia dotta. Così gli autori decisero infine di adoperare la lingua
popolare, sempre conservando però qua e là certe espressioni slave. Ai nostri giorni la
lingua slava non è più adoperata in Russia che nella celebrazione del culto.
73
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che uno czar energico, tenendo bene fra le mani le redini del governo,
avrebbe avuto presto ragione di qualunque tentativo di rapirgli sia pure una
piccola parte del suo potere. Tuttavia la diffidenza, che presso Pietro si
univa ad una eccessiva attività e ad una asprezza, sotto la quale si
nascondeva malamente una innata timidezza, gli aveva suggerito di
sostituire il patriarca con un consiglio di funzionari laici ed ecclesiastici,
avente a capo una specie di segretario di Stato (procuratore generale) che
aveva il diritto di veto ed era l’incarnazione stessa del potere imperiale.
In questa ardita riforma, e sopratutto nel fatto d’incaricare dei laici
d’occuparsi della vita interna della Chiesa, Pietro non vedeva alcun male,
perchè, considerando la Chiesa come un meccanismo, sia pure essenziale
della macchina governativa, e non come una società divinamente stabilita,
era persuaso che questo meccanismo avrebbe funzionato molto meglio, se
fosse stato maneggiato da un funzionario responsabile davanti all’autorità
suprema, anzichè da un ecclesiastico, che sarebbe stato difficile licenziare o
punire. D’altronde, per ben definire i diritti e i doveri di ciascuno, Pietro dotò
la nuova istituzione, che fu chiamata del «S. Sinodo dirigente», d’un
«Regolamento ecclesiastico»,73 copiato su quello che reggeva le attribuzioni
di un’altra istituzione che gli faceva riscontro: «Il Senato dirigente».
Si discusse per sapere se Pietro il Grande fosse un credente o un briccone
ateo. Dei romanzieri, spinti da una fervida immaginazione, lo dipinsero, gli
uni come un pagano nascosto, gli altri come l’incarnazione stessa
dell’Anticristo. In realtà, Pietro era un impulsivo ed un curioso. Nella sua
adolescenza non aveva avuto alcuna salda istruzione religiosa, nè alcun
insegnamento morale. Così, quando più tardi conobbe un uomo di alta
intelligenza e molto persuasivo, s’assoggettò ben presto al suo modo di
pensare e di esaminare i problemi della vita. Parliamo di Théophane
Prokopovitch. Antico allievo del collegio greco di S. Atanasio, fondato a
Roma sotto il pontificato di Gregorio XIII, e destinato specialmente agli
Elleni ed agli Slavi, Prokopovitch, tornato in Russia, abiurò la fede cattolica
e si diede totalmente ad una ammirazione malintesa del baconismo e del
cartesianismo, che gli fece ammettere le più ardite teorie protestanti in
materia di dogmi e di vita sociale e religiosa. Pietro, seguendo Prokopovitch,
ammise la superiorità della morale laica sugli insegnamenti della Chiesa, e
la concezione dello Stato che sorveglia la vita spirituale del paese. Fu molto
incline al luteranesimo, frequentò chiese protestanti, assistè a riunioni di
quacqueri e protesse gli stranieri appartenendo alla Confessione di Augusta.
Ma coloro che, fidandosi di queste prove di simpatia, attribuivano a Pietro
dei profondi sentimenti religiosi, venivano ben presto disingannati dai fatti:
lo czar non s’era forse incontrato a Rava (borgata della Galizia) con un certo
P. Vota, gesuita; non aveva assistito all’indomani alla messa del gesuita, e
73 Il Sinodo fu solennemente inaugurato da Pietro il 14 febbraio 1721. Dapprima era
composto di undici membri, più il «procuratore generale». In seguito il numero dei
membri del Sinodo fu ridotto a sei. Il primo paragrafo del Regolamento ecclesiastico dice:
«Il Sinodo non ha, al di sopra di sè, altra autorità che quella dell’augusta persona del
sovrano autocrate».
74
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non era stato forse di una amabilità estrema con il nunzio del Papa? «In
realtà, scriveva il nunzio Santa-Croce, nessuno conosce la religione dello
czar Pietro». Ed un altro ecclesiastico, il Padre Milan, aggiungeva in una
lettera ai suoi superiori: «A meno che non avvenga un miracolo, non v’è
speranza che lo czar Pietro si cambi e si metta d’accordo col Vaticano.
Troppo grandi ostacoli vi si oppongono; bisognerebbe sottomettersi
all’autorità del Papa ed ai rigori della morale, rinunciare ai capricci ed agli
abusi del potere». — P. Pierling, La Russia e la Santa Sede, vol. IV, pag.
227.
E tuttavia questa speranza d’una riunione delle Chiese, era Pietro stesso
che la faceva nascere, tanto a Roma e a Parigi, quanto nell’animo di tutti i
cattolici che l’avvicinavano. Durante il suo soggiorno a Parigi, trattò la
questione dell’unione con i dottori della Sorbona, e loro domandò di offrirgli
un memoriale ch’egli avrebbe fatto esaminare dai prelati russi, al suo
ritorno a Pietroburgo. Cosa ne derivò? Che i sorbonesi prepararono in tutta
fretta la loro relazione, che fu presentata allo czar e da lui consegnata a
vescovi che lo circondavano, i quali respinsero amabilmente, ma
fermamente, le proposte e gli incitamenti venuti da Parigi. — P. Pierling, La
Sorbona e la Russia, Parigi, 1882.
Così un dilemma assai spinoso si presentò nel 1702, al nunzio del Papa a
Vienna, Antonio Davia: o accordarsi nel tempo di un mese sulla riunione
delle Chiese, o sopportare che lo czar Pietro trattasse coi protestanti. I
protestanti di Pietroburgo avevano approfittato delle simpatie dello czar, ma
un piano d’unione con gli ortodossi non era ancora nato in quell’epoca nei
loro animi.
Furberia? calcolo? No, ma piuttosto una grande noncuranza per le
conseguenze che potevano produrre delle parole dette sconsideratamente,
ed anche una certa dose d’espansività, risultato d’una ricca e sfrenata
natura.
Ma, mentre Pietro trattava sulla questione dei dogmi con i dottori della
Sorbona, faceva sue le idee d’un Leibnitz sulla riunione delle Chiese, e
mandava a Roma abili e diligenti ambasciatori, persone a lui devote, che
riattaccavano sempre più saldamente la Chiesa nazionale al carro dello
Stato. Il Sinodo, questo «occhio dello czar» (oko gosoudarevo), ogni
membro del quale, alla sua elezione, doveva giurare di difendere in qualsiasi
circostanza gli interessi dello Stato, imponeva ai vescovi l’obbligo di
verificare costantemente le azioni del basso clero. Era proibito ai vescovi di
costruire un numero troppo grande di nuove chiese, di lanciare anatemi
sconsideratamente, e sopratutto di prender parte attiva negli affari pubblici.
D’altra parte erano sorvegliati da poliziotti speciali chiamati «fiskaly».74
Le spese sempre crescenti del giovane Stato obbligavano costantemente
il Tesoro a cercare nuove sorgenti di rendite. Fu così che si arrivò al punto di
proibire ai vescovi ed ai monasteri d’occuparsi dell’amministrazione dei loro
74 Oukazy Petra Vélikago (gli editti di Pietro il Grande), Ediz. del 1739 anno 1714, p. 2. —
Regolamento Ecclesiastico, Ediz. del 1861, p. 251, par. 4 e 7.
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beni mobili ed immobili e di disporre a piacere delle loro rendite; lo Stato
s’incaricava di questo lavoro, prelevando a suo pro’ la maggior parte di
queste entrate. Del resto, i favori di cui godeva la Chiesa erano soppressi, e
spesso il ritardo nel pagamento delle imposte e delle decime cagionava la
confisca pura e semplice della proprietà immobiliare del debitore.
D’altra parte il bisogno di colmare nell’armata i vuoti causati da una serie
di guerre micidiali e costose, condusse il governo di Pietro a limitare il
numero dei preti e dei diaconi nelle diocesi.
La legge del 1711 non permetteva che un solo pope ed un solo diacono
per parrocchia; tutti gli ecclesiastici non titolari d’una carica dovevano
venire incorporati nell’armata. Questa legge fu rafforzata nel 1722 da un
regolamento che stabiliva il numero delle parrocchie in tutto l’Impero. Il
reclutamento e la sostituzione del clero secolare, quello che si chiama ancor
oggi «clero bianco» (biéloié doukhovenstvo) per distinguerlo dai monaci che
formano il «clero nero» (tchernoiè doukhovenstvo), si facevano per
elezione, o con la vendita della carica, o per eredità. I nobili avevano diritto
di essere preti a condizione d’avere più di quarant’anni e di non possedere
beni immobili ereditati. Questo stesso diritto fu concesso, in un dato tempo,
anche alla classe paesana, ma soltanto per completare i quadri ecclesiastici
disorganizzati dalle riforme dello czar Pietro. Per frenare il vagabondaggio di
quei preti a cui piaceva cambiare parrocchia, ed anche diocesi, si
decretarono severi regolamenti. I popi che avevano abbandonato la loro
parrocchia senza permesso, vi erano ricondotti per forza e sottoposti alla
sorveglianza delle notabilità del luogo; e quelli che non volevano
sottomettersi erano senz’altro spretati.
Così la situazione, tanto materiale che morale del clero, al tempo di Pietro
e dei suoi immediati successori, fu molto dolorosa. Il Regolamento
ecclesiastico, avendo trasformato i ministri del culto in giudici, li obbligava,
per questo semplice fatto, a riferire alle autorità ogni colpa delle loro
pecorelle, a spiare la loro vita privata, ed anche, ciò che era ben più grave,
a denunciare coloro che non andavano alla messa o s’astenevano dal
confessarsi.75
Tutto ciò, evidentemente, non faceva che allontanare il popolo dai suoi
pastori spirituali. Ma questo allontanamento aveva anche un’altra ragione,
ed era la dipendenza del clero rispetto ai parrocchiani. Miseramente
retribuiti dallo Stato, e quasi sempre carichi d’una numerosa famiglia, i popi
e i diaconi, sopratutto quelli delle campagne, vivevano letteralmente a
carico del popolo, esso stesso povero, se non indigente. I conflitti che
nascevano continuamente riguardo al mantenimento del clero dai
parrocchiani, non erano certo fatti per stabilire la concordia fra i pastori ed il
gregge.
Alla fine del regno di Pietro fu reso alla Chiesa il diritto di amministrare
essa stessa il suo avere, ma si continuò sempre a ricorrere ai suoi beni per
riempire la cassa del Tesoro, o anche per far fronte alle spese della corte.
75 Oukazy Petra Vélikago (gli editti di Pietro il Grande), Anno 1722. Editto del 16 luglio.
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Specialmente durante il regno di Anna Ioannovna la Chiesa fu dissanguata.
Il favorito dell’imperatrice, che era anche l’amministratore dell’Impero, il
poco scrupoloso Ernesto Beiron, non aveva riguardo di gravare i palazzi
vescovili di un oneroso tributo per conservare le sue belle razze di cavalli e
di puledri. La riscossione delle imposte era spesso esercitata dalla forza
armata. Così successe quello che doveva succedere: la Chiesa si trovò ben
presto a corto di mezzi, ed il «Collegio economico» si trovò ad un tratto
nell’impossibilità di pagare ai membri del Sinodo i loro stipendi. Fu allora
che i consiglieri di Pietro III ebbero l’idea di confiscare, puramente e
semplicemente a profitto dello Stato, tutti i beni della Chiesa. Ma non fu che
sotto Caterina II, nel 1764, che questo ardito progetto fu messo in
esecuzione. Furono lasciati all’alto clero i suoi palazzi e le sue case di
campagna, ed anche qualche pezzo di terreno: in cambio delle ricchezze
usurpate, fu concesso ai vescovi, agli arcivescovi ed ai metropoliti, uno
stipendio fisso, più certi privilegi generalmente di pura forma. Si trovò un
prelato, Arsène Matsiévitch, metropolita di Rostov, che protestò
vigorosamente contro l’ingiusta confisca dei beni della Chiesa, agognati da
lungo tempo dagli czar. Quest’atto coraggioso, impostogli dalla coscienza, gli
procurò terribili rappresaglie. Arrestato e consegnato al Sinodo, Arsène fu
condannato alla degradazione ed all’esilio, con la proibizione di dargli penne
ed inchiostro. Caterina mitigò anzitutto la dura sentenza, salvò il vecchio
dalla tortura, ch’era di rigore, gli conservò la veste monacale, ma, tornando
ben presto sulla sua decisione e mescolandovi la politica, lo fece trascinare
di prigione in prigione e custodire nel fondo d’una segreta dove moriva di
fame e di freddo. Il suo stesso nome doveva sparire: fu chiamato Andrea
vral, cioè Andrea il rimbambito.76
Verso la fine del XVIII secolo, la nomina dei titolari di parrocchie per
elezione era caduta in disuso. Del resto questo modo di reclutamento
sembrava, a certi alti prelati e teologi russi, contrario ai canoni della Chiesa.
La partecipazione di qualche prete a sollevazioni popolari ed a sommosse,
che ebbero luogo durante il regno di Paolo I, affrettò la completa abolizione
del principio elettivo. D’allora in poi, fu per via ereditaria e qualche volta per
transazione, che le parrocchie cambiarono titolare. Spesso una carica di
parrocchia costituiva una dote, oppure era data ad orfanelli o a poveri. Così
era raro il caso che un giovane chierico, che aspirava a divenire parroco,
scegliesse per sposa una fanciulla non appartenente al mondo ecclesiastico.
Certamente la legge non glielo proibiva, ma gli usi stabiliti avevano forza di
legge, e di solito prima di ottenere una parrocchia, era costume di sposare
la figlia di un pope o d’un diacono.77 Così dunque tutto contribuì a fare del
clero russo una classe ben distinta nella società russa. La rigidità di questa
classe ecclesiastica, ed il suo particolare spirito, furono seriamente battuti in
76 Bilbassov, Istoria Ekateriy Vtoroï, Berlino, 1900. t. II. pp. 264-271. — Popov, Arsenyi
Matsiévitch, mitropolit Rostovskyi, Pietroburgo, 1905.
77 Poichè per divenire preti in Russia bisogna essere già sposati: non si può però
riammogliarsi.
77
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breccia nella seconda metà dell’ultimo secolo. La legge del 26 maggio 1869
proibì il reclutamento dei preti per via ereditaria, e diede a tutti i Russi,
senza distinzione di classe, il diritto di far parte del clero secolare.
I seminari russi non erano regolati come quelli cattolici. Nei primi anni vi
si dava un’istruzione quasi simile a quella dei ginnasi o licei classici; negli
ultimi anni gli studi teologici si sovrapponevano agli studi classici. I
programmi dei corsi erano esagerati e di solito si durava fatica a
conformarvisi in sei anni di studio. Per i seminaristi più ricchi vi erano
quattro accademie ecclesiastiche (a Pietroburgo, a Mosca, a Kiev e a Kazan)
che loro aprivano il cammino dell’episcopato, se volevano far professione di
vita religiosa.
Sebbene appartenesse, dopo il principio del XVIII secolo, alle «classi
privilegiate» della nazione, essendo stato dispensato dal servizio militare, e
non potendo essere requisito per «andare a lavorare nelle case dei signori
ufficiali», il clero russo restò ancora per lungo tempo passibile, come sudditi
non privilegiati, delle punizioni corporali. Nel 1767 il Sinodo vietò alle
autorità ecclesiastiche di battere con le verghe i preti. Nel 1771 estese
questa proibizione ai diaconi, ma i tribunali civili non se ne curarono. Sotto
Paolo I il Sinodo sollecitò dall’imperatore il permesso di sottrarre il clero
all’umiliazione della frusta; l’imperatore vi acconsentì, ma l’ordine imperiale
non fu applicato perchè coincideva con l’editto che ristabiliva le punizioni
corporali per gli stessi nobili. Però si cercò un compenso: fu decretato che i
membri del clero potessero essere decorati con lo stesso diritto dei nobili e
dei militari.78
Nel 1801 finalmente questa mancanza di riguardi del governo verso il
clero, e questa noncuranza nel salvaguardare il suo decoro agli occhi del
popolo, ebbe termine. Sette anni più tardi furono a loro volta dispensate
dalle punizioni corporali le famiglie dei prelati e del diaconi. Però non fu che
nel 1862, l’anno dell’abolizione della servitù, che i suddiaconi e i sacrestani
furono chiamati a godere dello stesso privilegio.
Ecco dunque a quale rude scuola fu educato il clero russo al tempo degli
imperatori. Bisogna meravigliarsi allora che la sua influenza sulle masse sia
stata inferiore a quella che avrebbe dovuto essere? O piuttosto non bisogna
meravigliarsi che, costretto per molto tempo ad essere un ausiliario
dell’organizzazione poliziesca dell’Impero, costretto ad assoggettarsi sempre
davanti ai rappresentanti del potere civile, vivendo spesso in dura povertà
che non conveniva alla sua condizione, esso abbia potuto offrire tuttavia nel
corso di questi due ultimi secoli, qualche figura di grande rilievo, qualche
personalità d’una certa onestà, d’un certo sapere e di una intelligenza
78 Bisogna rendere questa giustizia al clero russo, o a certi suoi alti dignitari, che furono
piuttosto ostili in principio alla concessione della decorazione agli ecclesiastici. Anche il
metropolita Platone, che fu il precettore di Paolo I, scrisse al suo antico scolaro una lettera
sconsigliandolo di mettere in pratica il suo progetto. Ma Paolo, che non amava d’essere
contraddetto, passò oltre, raccomandando vivamente all’eminente prelato di non
immischiarsi negli affari che non lo riguardavano. Da questo incidente nacque la definitiva
discordia fra l’imperatore ed il metropolita.
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veramente notevole?
II.
Dopo la morte di Pietro I fino alla divisione della Polonia, che mise
necessariamente l’imperatrice Caterina II a contatto col Capo Spirituale dei
suoi nuovi sudditi si può dire vi sia stata una rottura quasi completa delle
relazioni ufficiali tra la Russia e la Santa Sede. — P. Pierling, La Russia e la
Santa Sede, t. IV.
Al contrario, le relazioni private tra ortodossi e cattolici non furono mai
così frequenti e continue. La strada che conduceva a Roma, che fu
conosciuta dai Russi fin dalla fine del XVII secolo sia per la visita che fece al
Vaticano quel gran signore che fu Boris Pétrovitch Chérémétiev, sia per il
prolungato soggiorno nell’eterna città dell’avveduto e fine diplomatico
principe Boris Kourakine, era spesso percorsa in quei tempi da molti
Moscoviti di alto rango. Che un viaggio all’estero fosse una grande attrattiva
per molti di loro, non si può dubitarne. Però s’univano spesso, a questa sete
di nuovi orizzonti ed a questo entusiasmo per l’Occidente, preoccupazioni di
ordine superiore; andavano a Roma perchè v’erano spinti da un bisogno
intenso di trovarvi una risposta e una pacificazione a tutte le inquietudini e a
tutte le incertezze che tanto angustiavano il loro cuore e il loro spirito fino a
traboccare. E questa specie di pellegrinaggi era tanto più meritoria, in
quanto il rischio che si correva facendoli era vero e conosciuto da tutti: per
quanto incerta fosse a loro riguardo la legislazione penale, gli ortodossi che
passavano al cattolicesimo erano tuttavia considerati come criminali di
Stato. Così quindi, erano pure scusabili quei Russi che nascondevano
premurosamente la loro adesione alla Chiesa romana. Una principessa, Irina
Dolgoroukyi, discendente da una aristocratica famiglia russo-lituana (era
una Galitzine) imparentata con uno dei più grandi nomi dell’Impero, subì
vessazioni su vessazioni, e fu anche condannata all’esilio, per aver
proclamato francamente e pubblicamente d’appartenere alla religione
cattolica. Il colloquio ch’essa ebbe, prima della sua partenza, con
l’imperatrice Anna Ioannovna dimostra chiaramente quale fosse la posizione
esatta che occupava in quei tempi l’aristocrazia russa riguardo al potere
supremo. L’imperatrice ricevette la principessa Dolgoroukyi nella camera
delle sue damigelle d’onore, vicino al gabinetto imperiale. «Quando la mia
trisavola, narra Pietro Dolgoroukyi nelle sue Memorie, secondo l’etichetta, si
abbassò per baciare la mano all’imperatrice, costei le diede un vigoroso
schiaffo, la coprì d’ingiurie come solo un cocchiere avrebbe potuto fare, e
terminò l’udienza con queste parole: «Fuori di qui, briccona!» (pochla von,
merzavka!). — Principe Pietro Dolgoroukyi, Memorie, Ginevra, 1867, t. I, p.
364.
Quando salì al trono Caterina II, la Russia riprese il suo spirito innovatrice
e si videro prove di riforma più o meno vigorosamente applicate. La
preoccupazione dominante di Caterina, suggeritale dal suo spirito d’ordine e
dalla sua intelligenza fredda e calcolatrice, fu la sommissione della Chiesa
79
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allo Stato. Pietro il Grande, come vedremo più avanti, aveva incarnato
questa idea, ma limitandola all’ortodossia ufficiale: Caterina la estese ai
cattolici. La concezione di una Chiesa divinamente stabilita, incaricata
quaggiù d’una missione soprannaturale, sottomessa al vicario di Cristo, le
era del tutto estranea. — P. Pierling, La Russia e la Santa Sede, t. V
(prefazione). — Di qui i suoi continui sforzi per limitare l’azione del Papa: di
qui pure difficoltà inestricabili con la Santa Sede. L’organizzazione e
l’esistenza delle Chiese latina e unitaria, nell’Impero furono sottoposte da
Caterina al controllo ed alla dipendenza del governo di Pietroburgo. Per
intimorire il Vaticano, l’imperatrice vietò la pubblicazione in Russia della
lettera pontificia (1773), ponendo fine all’esistenza della Compagnia di
Gesù, ed aperse largamente le frontiere dell’Impero a tutti coloro che ne
facevano parte. E sebbene ben pochi gesuiti avessero approfittato di questa
generosità imperiale, Caterina se ne fece una gloria e considerò il suo atto
come una vittoria diplomatica su Roma. Ma, in fine, siccome non si poteva
vivere sempre in lotta con la Santa Sede, sopratutto quando si contavano
fra i propri sudditi milioni di cattolici, furono ripresi, penosamente, negoziati
per l’invio d’un nuovo ambasciatore della Curia Romana in Russia, quando,
prima che finissero, l’imperatrice morì.
Paolo I, suo figlio e successore, durante il suo regno si preoccupò
specialmente di disfare quanto era stato fatto e ordinato dalla sua illustre
madre. Ma, siccome questo monarca non aveva nessun piano determinato
nella sua mente, ordini e contrordini si susseguivano, s’incrociavano e si
contraddicevano continuamente. Del resto Paolo era innanzi tutto un
mistico, che aveva un’idea esagerata del suo potere autocratico e della sua
divina missione. Vi fu un punto sul quale non cambiò mai: la profonda
convinzione d’essere l’unto del Signore, e di rappresentare tutta la Chiesa
nazionale. Perciò fu un vero spettacolo la sua incoronazione a Mosca nel
1797. E si circondò di una gran pompa; alla quale intendeva di dare un alto
significato. L’imperatore, nel suo mantello di stoffa d’oro, foderato
d’ermellino, portava, come i cesari di Bisanzio, una dalmatica di velluto
rosso. Ricevuta la sacra unzione, si avvicinò alla Santa Tavola e si mise egli
stesso la corona sul capo, indi incoronò la sua Sposa.79 — Poi si lessero
alcuni atti legislativi d’alta importanza, che furono posti sull’altare e affidati
alla guardia del clero. Fra essi v’era la Carta che regolava la successione al
trono, nella quale l’imperatore si dava il titolo, d’altra parte semplicemente
onorifico, di «Caput Ecclesiae» (Glava tsekvi).80
Però, sebbene ortodosso fervente e convinto, Paolo I non era ostile, da
principio, agli alti culti. Del resto, nella sua qualità di gran maestro
79 Accade durante la solennità dell’incoronazione un piccolo incidente molto caratteristico.
Notando che Paolo non aveva deposto la spada prima di avvicinarsi alla Santa Tavola, il
primate di Mosca, il celebre metropolita Platone (Levchine), lo fermò con queste parole:
«Deponi la tua spada, o piissimo czar, in questo santuario si offrono soltanto sacrifici
incruenti». E Paolo, autocrate com’era, non fece che inchinarsi all’invito del prelato.
(Schilder, Impérator Pavel I, vol. 1, p. 343).
80 Schilder, Impérator Pavel I, (Pietroburgo, 1901, p. 344).
80
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dell’ordine dei cavalieri di Malta, la maggior parte dei quali erano cattolici ed
anche gesuiti, gli sarebbe stato difficile dimostrare una viva ostilità per i non
ortodossi. D’altronde era in ottimi rapporti col Papa Pio VII, che teneva
corrispondenza con lui. Ciò spiega perchè Paolo I abbia chiuso
volontariamente gli occhi su un fatto unico negli annali della storia religiosa
della Russia moderna: il ritorno alla unità della Chiesa di migliaia di
ortodossi delle provincie del Sud-Ovest. D’altra parte l’odio implacabile della
rivoluzione giacobina faceva scoprire a Paolo degli alleati in Roma. Malgrado
le sue tendenze dispotiche, giungeva fino al punto da annunciare al Padre
Gruber, generale dei gesuiti, che aveva facile accesso al gabinetto imperiale,
che da allora innanzi gli affari dei cattolici sarebbero stati regolati secondo i
canoni del concilio di Trento. Nel momento poi che una cospirazione di
palazzo poneva una tragica fine ai suoi giorni, partiva per Roma un progetto
d’unione fra le Chiese di Oriente e d’Occidente «e, aggiunge il P. Pierling,
per ordine dell’imperatore, i vescovi ortodossi spezzavano le loro penne». —
P. Pierling, La Russia e la Santa Sede. t. V, p. 309.
Le relazioni della Russia con la Santa Sede, come pure la politica
imperiale riguardo alla Chiesa russa, ebbero, durante il regno del successore
di Paolo I, degli alti e bassi inevitabili. Al principio del regno di Alessandro I
si ritornò al sistema di Caterina, ma con meno rigore e meno logica
nell’applicazione. Era allora proibito rigorosamente di mantenere
corrispondenza con Roma al di fuori della via ufficiale. Le loggie massoniche
erano considerate con più favore, e l’imperatore stesso fu iniziato alla
massoneria. Ma qualche anno dopo il vento cambiò. L’imperatore cominciò a
stancarsi dei frammassoni.81 Allora vi fu un grande entusiasmo per la
Società Biblica, i cui statuti, portati in Russia nel 1613 dal pastore John
Paterson, erano copiati da quelli della British and Foreign Bible Society. Per
ordine dell’imperatore, che s’era vivamente interessato dell’opera di questo
pastore, un certo numero di alti dignitari della Chiesa ortodossa fu obbligato
ad assistere alle riunioni di questa società, ed anche a far parte del suo
comitato.
Ma anche questo non durò molto. L’imperatore, divenendo sempre più
inquieto e sospettoso, cercava la solitudine e si circondava volentieri di
mistero. Si afferma che nel 1825 abbiano avuto luogo degli abboccamenti
segreti fra Pietroburgo e Roma. Si dice anche che Alessandro abbia fatto
conoscere al Papa la sua ferma volontà di abiurare personalmente
l’ortodossia, e di ricondurre all’unità i popoli soggetti al suo scettro. —
Boudou, la santa Sede e la Russia, t. I, p. 136.
81 La presenza dei frammassoni in Russia fu segnalata per la prima volta da autentici
documenti nel 1731. L’imperatrice Elisabetta Pétrovna li lasciò in pace. Pietro III li favorì.
Caterina II, dapprima indifferente, divenne ben presto ostile. Paolo I, che detestava tutto
ciò che aveva fatto sua madre, sembrò, al principio del suo regno, corrispondere alle
speranze massoniche; ma nel 1799 proibì le associazioni segrete. Infine Alessandro, dopo
averli più che tollerati, cambiò bruscamente opinione a loro riguardo; divenne loro ostile e
fece chiudere, con un editto, in data del 1 agosto 1822, tutte le loggie e sciogliere tutte le
società segrete. (Cf. A. Boudou, la Santa Sede e la Russia, t. 1. p. 102).
81
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Ma cosa non s’è detto sul conto di Alessandro? E si poteva fare
assegnamento sulle sue parole? Ohimè, no, poichè Alessandro fu uno spirito
tormentato, un grande inquieto che non poteva fidarsi di nessuno e di
niente. Checchè ne fosse, Alessandro s’ingegnava di alternare con le lunghe
conversazioni con la baronessa Krudener, altre conversazioni con quacqueri,
con pietisti di tutti i gradi, con monaci ortodossi e capuccini, con
l’archimandrita Fozio e Mgr. Hohenlohe. Ma sentiamo anche che cosa dice
con Giuseppe De Maistre sulla chiesa universale e la grandezza del
cattolicesimo; e riportiamo questi ragionamenti alla risposta che diede nel
1817, allo Svedese luterano Witberg, che parlava di farsi ortodosso e
consultava a questo proposito l’imperatore. «Per conto mio, mi è
indifferente, diceva Alessandro, che si appartenga a questa o a quella
confessione, poichè tutte le Chiese sono buone». Quindi non possiamo
accogliere che come una favola la storia, che fece gran rumore un tempo,
della conversione di Alessandro, sul suo letto di morte, al cattolicesimo. «Le
relazioni più particolari e più autorevoli, nota molto giustamente A. Boudou
— Boudou, Op. cit. t. I, p. 139. — ci presentano al suo capezzale l’arciprete
ortodosso Alessio Fédotov».
Però un’altra leggenda un po’ più verosimile si è formata attorno alla
morte di Alessandro. Si diceva e si credeva che non fosse morto a Taganrog
nel 1825, ma che fosse fuggito in Siberia; e si fosse nascosto qualche anno
dopo sotto i tratti d’un certo vecchio chiamato Fedoro Kouzmitch. Non si
sapeva niente del passato di questo Fedoro Kouzmitch, e sembrava che i
prenomi sotto i quali era conosciuto non fossero suoi. Però il suo aspetto, la
sua statura imponente ed il suo sguardo ricordavano in modo da ingannare i
tratti e il maestoso portamento del defunto czar. Il rettore del seminario di
Tomsk, che andò a visitarlo nel 1859 in un villaggio di questo governo,
riportò dalla sua visita l’impressione che Fedoro Kouzmitch fosse un teologo
unito della Russia occidentale, oppure un filosofo mistico frammassone.
Durante i vent’anni passati in Siberia, Fedoro Kouzmitch cambiò più volte di
residenza per evitare la notorietà che gli si univa, e non lasciò che il ricordo
di alcuni atti e ragionamenti stravaganti. Morì a Tomsk il 20 gennaio 1864,
dopo aver rifiutato, come il solito, la SS. Eucarestia. Ma ecco qui dove
comincia l’inesplicabile: questo straniero, morto fuori della comunione
ufficiale, fu tuttavia sepolto nel monastero di S. Alessio, e sulla sua tomba
fu posta una croce con l’iscrizione: «Qui riposa il corpo del grande e
benedetto (blagoslovennyi è il soprannome che fu dato dalla Chiesa russa
ad Alessandro primo) vecchio Fedoro Kouzmitch». Più tardi il governatore di
Tomsk fece cancellare le parole «grande e benedetto» e le autorità
provinciali dovettero prendere delle misure per contenere la intempestiva
devozione dei visitatori che affluivano alla tomba del misterioso vecchio.82
82 P. Peeters, La canonizzazione dei Santi nella Chiesa russa, «Analecta Bollandiana» t.
XXXIII, 1919, p. 419). — Gr. Duca Nicola Mikhaïlovitch, Legenda o kontchiné impératora
Alexandra I v Sibjré (Leggenda della morte dell’Imperatore Alessandro 1 in Siberia),
Pietroburgo, 1907.
82
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La politica di Nicola I tanto riguardo a Roma, quanto alla Chiesa nazionale,
fu di una rigidezza più che militare. Fu sotto il suo regno che si tennero a
Polotzk, nel 1839, le famose assise che hanno sottratto all’obbedienza di
Roma parecchi milioni di Russi uniti. La medaglia commemorativa che fu
coniata in quella occasione, portava queste parole: «Separati dalla violenza
(1596), riuniti dall’amore (1839)».
Tuttavia questo atto di politica arbitraria non impedì la conclusione, nel
1847, di un accordo fra la Santa Sede e la Russia. Questo non era un
concordato regolare, ma semplicemente un accomodamento. Forse per
questo cadde nel 1866 di fronte alla politica russa riguardo ai cattolici,
politica che seguì da vicino la seconda insurrezione polacca nel 1863.
Le relazioni bruscamente interrotte fra Roma e Pietroburgo, furono
riprese nel 1883 al tempo dell’incoronazione di Alessandro III. Il cardinale
Vincenzo Vannutelli andò allora a recare a Mosca la parola di pace del S.
Padre. Alessandro III gli fece un’ottima accoglienza e s’affrettò a rispondere
a Leone XIII con una lettera piena di deferenza e di rispetto. Ma le cose non
andarono allora più in là; solamente dieci anni dopo fu finalmente firmato
un accordo che si poteva chiamare concordato.
La politica degli imperatori riguardo alla Chiesa nazionale durante il
secolo XIX, fu simile a quella dei loro predecessori. L’idea che la dignità
imperiale fosse una specie di ministero religioso, simile al sacerdozio, e che
lo czar, facendosi incoronare, ricevesse un crisma o una grazia straordinaria,
era radicata nell’animo della maggioranza dei Russi.
Ma questo potere degli czar moscoviti, che «si presumerebbe in potenza
come universale, se non avesse un significato eccezionale che per la Chiesa
ortodossa», come notava Vladimiro Soloviev, questo potere fu esso
veramente creato dagli imperatori? A considerare bene i fatti, escludendo
Pietro il Grande e Paolo I, sembrerebbe che fosse piuttosto il risultato delle
sottili speculazioni e delle mistiche meditazioni di pochi spiriti, e ad un
tempo dell’opera di coloro che, nella Moscovia dei tempi passati, avevano
elaborato l’inebriante idea della «Terza Roma».
III.
Più di due terzi del XVIII secolo religioso russo furono notevoli per la lotta
che ebbe luogo nel seno stesso della Chiesa ortodossa fra l’influenza
cattolica e l’influenza protestante. Forti dell’appoggio che trovavano, o
almeno s’immaginavano di trovare presso Pietro il Grande, i luterani, con a
capo il focoso Théophane Prokopovitch, speravano niente meno che di
condurre a poco a poco la Chiesa greco-russa a condividere le loro idee sugli
scritti tradizionali, sulla processione dello Spirito Santo ed anche sulla
necessità di studiare le Sacre Scritture fondandosi sulla storia e la filologia.
A quest’ultimo punto specialmente ci teneva Prokopovitch. Egli ne era
partigiano convinto, come era convinto della necessità di separare
nettamente la teologia morale dalla dogmatica, ch’egli considerava come
una scienza positiva. — Theophani Prokopovitch theologia dogmatica.
83
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Lipsiae, 1782-1792. — Ma imbevuto di protestantesimo, Prokopovitch non
concepiva la Chiesa che come una assemblea di persone riunite unicamente
per un disegno pratico e determinato. L’idea che la Chiesa fosse un corpo
divinamente stabilito, incaricato quaggiù d’una missione soprannaturale, gli
era estranea. Ciò fece risaltare un altro teologo russo, Stefano Iavorskyi,
nella sua opera intitolata «La pietra della fede» (Kamien very) in cui tutte le
opinioni degli antichi stranieri, ai quali Prokopovitch amava riferirsi, erano
considerate come delle «ineptae opiniones».
Come Prokopovitch, Stefano Iavorskyi era un antico scolaro
dell’Accademia ecclesiastica di Kiev (Kievomoguilianskyi Kollegium), che fu
per lungo tempo il semenzaio dei dottori e teologi russi. Dopo aver compiuti
i suoi studi a Kiev, andò all’estero, si convertì al cattolicesimo romano (ciò
che non era raro in quei tempi), e visse qualche anno a Lwow ed a Poznan
per seguire il corso dei grandi seminari di queste due città. Ritornato in
Russia nel 1687, abiurò il cattolicesimo; gli fu perdonata la sua fuga e, per
consiglio del suo protettore, il metropolita di Kiev Barlaam Iasinskyi, vestì
due anni più tardi l’abito monacale, ciò che gli offrì la possibilità di far parte
dell’episcopato. Ma l’insegnamento dei gesuiti e la scienza dei dottori
cattolici avevano avuto una tale influenza su Stefano, ch’egli non potè mai
liberarsene completamente. Tutti i suoi scritti ne risentono, ne sono la forza,
e ne accusano i metodi. Sopratutto utilizzando Bellarmino, Iavorskyi scrisse
la sua opera diretta contro la dottrina di Prokopovitch, il quale gli rispose
con uno scritto pubblicato a Iéna nel 1729, in forma di lettera del filosofo
alemanno Budde o Buddeus, ad un amico russo di Mosca. Era una lettera di
tono assai aspro, ed in sostanza ingiusta; Iavorskyi vi era trattato da
gesuita, da papista e da animo limaccioso. La difesa di Iavorskyi fu presa
dal domenicano Bernardo Ribera, elemosiniere dell’ambasciatore di Spagna
in Russia. Disgraziatamente, agli occhi di Prokopovitch, Ribera non aveva
alcuna autorità. La sua opinione sul domenicano, che da lungo tempo
conosceva per discussioni avute all’Accademia ecclesiastica di Pietroburgo,
era fatta: vero ignorante e povero latininista, dal portamento meridionale e
dai grandi atteggiamenti ridicoli. Così la risposta di Ribera non fu che un
gran colpo di spada nell’acqua. Ma tutt’altro fu il valore delle acerbe critiche
drette contro Prokopovitch da un secondo partigiano di Stefano, il teologo
russo Théophilacte Lopatinskyi, le cui lezioni, come quelle dell’archimandrita
Silvestro Kouliabka, fatte all’Accademia di Kiev negli anni 1741-46 sulla
dogmatica, in uno spirito scolastico moderato, che non tentava punto di
separare la dogmatica dalla teologia morale, fecero prevalere durante la
prima metà del secolo XVIII, nell’insegnamento ecclesiastico che si dava in
Russia, la tesi e i metodi dei grandi dottori del cattolicesimo. L’influenza
protestante di Théophane Prokopovitch non si fece sentire veramente che
dopo gli anni 1750, ma fu a tal punto profonda e durevole che sussistette
nell’insegnamento delle accademie ecclesiastiche durante tutta la prima
metà del XIX secolo.
Le idee di Prokopovitch si trovavano al principio delle lezioni date nella
fine del XVIII secolo da vari teologi russi, come Giorgio Konisskyi, Ireneo
84
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Falkovskyi, e sopratutto Théophilacte Gorskyi, che univa l’insegnamento di
Budda e di Schubert. Ma non furono i soli. Gli scritti di due dignitari della
Chiesa russa della stessa epoca, il metropolita Platone e l’archimandrita
Macario, (catechismo, teologia, dogmatica, ecc.), non erano più esenti
d’influenza luterana. E in somma non fu che con le celebri opere del
metropolita Macario83 apparve alla metà del secolo seguente, che il punto di
vista puramente russo sulla Chiesa, la cristianità e i dogmi, cominciò a
predominare tanto nell’insegnamento quanto nelle opere teologiche.
Però la lotta delle influenze contradditorie nel seno della Chiesa russa, e
l’elaborazione, per mezzo dei dottori di questa Chiesa, di una dottrina russoortodossa, interessavano poco i laici e ne snervavano un certo numero. In
generale non si capiva molto delle controversie impegnate dai teologi di
professione.
IV.
L’idea che laici ed ecclesiastici avevano il dovere e il diritto di partecipare
tutti in eguale misura alla vita interiore della Chiesa, al suo insegnamento,
al mantenimento della sua dottrina e dei suoi canoni, al suo splendore ed al
suo trionfo universale; che la Chiesa doveva vivere una vita ecclesiastica
popolare, perchè in essa solamente il popolo partecipava conciliarmente
(soborno) agli affari della Chiesa; che questa era veramente la Chiesa del
Cristo; quest’idea insomma si manifestò sopratutto alla metà dell’ultimo
secolo, grazie al movimento slavofilo rinforzato dalla dichiarazione circolare
dei patriarchi d’Oriente, che proclamava solennemente, nel 1848, che il
«vero custode della religione cristiana è il Corpo di N. S. Gesù Cristo, cioè il
popolo nel suo insieme».
Ben presto essa diventò, se non la chiave di volta di tutto l’edificio politico
sociale dei panslavisti, almeno un articolo essenziale della loro dottrina
religiosa brillantemente definita dai Khomiakov e dai Samarine;84 essa fu
ben presto riunita con un’altra idea esposta da Dostoiévski nei — Fratelli
Karamazov, — cioè che non è la Chiesa che deve rassomigliare allo Stato,
ma lo Stato che deve confondersi con la Chiesa.85
83 Pravoslavno-dogmatitcheskoié bogoslovié (Teologia dogmatica ortodossa) Pietroburgo,
1849-1853. Vvédpénié v pravoslavnoié bogoslovié (Introduzione alla teologia ortodossa),
Pietroburgo, 1855.
84 A. Khomiakov, Alcune parole di un cristiano ortodosso, Parigi, 1859. — La Chiesa latina e
il protestantesimo sotto il punto di vista della Chiesa d’Oriente, Losanna, 1872. —
Zavitnévitch. A. Khomiakov, Kiev, 1902. — Liaskovskyi, A. Khomiakov. Ego jizn i
sotchinénia (A. Khomiakov, La sua vita e le sue opere), Mosca, 1897. B. Noldé, Iouryi
Samarine i égo vremia (Giorgio Samarine ed il suo tempo), Parigi, 1926.
85 «Non è la Chiesa che si trasforma in Stato, comprendetemi bene, fa dire Dostoiévski al
padre Païsyi. È là un sogno romano e la terza tentazione del Diavolo. Al contrario, è lo
Stato che si trasforma in Chiesa, che risale verso la Chiesa e che diventa la Chiesa
Universale. Cosa del tutto differente, che non ha niente a che fare nè con Roma, nè con
l’oltramontanismo, ma è la grande predestinazione dell’ortodossia su questa terra. È
all’Est che questa stella apparirà». (I fratelli Karamazov, Prima parte — Libro II. Capitolo
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Però gli slavofili non riuscirono che a generare confusione nello spirito dei
Russi; confusione che un Vladimiro Soloviev s’accanì per lunghi anni a
mettere in evidenza, ma che non riuscì a togliere malgrado il suo cuore e la
sua vasta intelligenza. Gli slavofili ed i loro discepoli hanno spesso
rimproverato alla Chiesa nazionale la sua indifferenza per il popolo, e la sua
mancanza di sollecitudine a suo riguardo. Ma essi dimenticavano facilmente
che il clero secolare, costretto com’era ad una certa linea di condotta, ed
impedito dall’insegnamento che aveva ricevuto, si trovava, il più delle volte,
nell’impossibilità di precedere o anche di seguire il popolo nella via che gli
tracciava la sua mistica. Ma d’altra parte gli slavofili consideravano i Russi
come un popolo eletto, come il solo che portasse in sè l’idea divina, il culto
della verità e della santità. Ed allora i loro rimproveri suonano falsi: «Far
sapere qualche cosa a colui che sa tutto, è sconcertarlo completamente»,
dice un proverbio russo. Del resto, se i ministri della chiesa costituita
secondo gli slavofili, non s’occupavano che molto poco del popolo, era per
ciò che questo popolo spesso si sottraeva alla loro opera. Secondo
un’opinione di N. Berdiaiev, il popolo qualche volta si rifugiava in una certa
religiosità colorita di paganesimo, ch’egli descrive così: «L’antico
paganesimo russo si è frammischiato al cristianesimo russo e gli ha data
una fisionomia tutta speciale. L’ortodossia nasconde in sè un certo
dionisismo cristiano, che non s’incontra nell’ortodossia bizantina. Vi è in
qualche parte un punto di contatto fra l’ortodossia russa e la straordinaria
setta mistico-dionisiaca dei flagellanti russi (khlisty), setta in cui il
cristianesimo s’è mescolato in modo bizzaro, ed anche terrificante, ad un
vecchio paganesimo russo. Nel culto che professano i Russi per la Madre di
Dio, che bene spesso vela l’immagine del suo Figlio Divino, si scorge
facilmente il culto della terra russa. L’immagine di questa terra russa, madre
nutritiva, è quella della Madre di Dio, qualche volta si confondono nell’animo
del popolo. Il cristianesimo russo è più una credenza d’essenza femminile
che una religione di sesso maschile».86
Checchè ne sia, il cristianesimo russo, o più esattamente parlando «la
fede russa popolare», se si sottrae spesso all’opera ufficiale, è la religione
dell’al di là e non di quaggiù: cioè il suo avvenire si trova nel mondo
trascendente e non nel mondo delle realtà tangibili. Per i Russi la vera vita
comincerà solo in cielo, cioè nel regno ultimo, nel vero senso della parola.
Così fino a quel momento, e detto in altre parole, attendendo il glorioso e
beatificante possesso di Dio, l’uomo dovrà applicarsi perchè il suo corpo,
quando risusciterà, non sia grave di impedimenti terreni, ma leggero e
diafano. E questo stato non si potrà ottenere che con il disprezzo dei piaceri
e dei beni terreni, con l’indifferenza verso l’acquisto della civiltà materiale,
con la disubbidienza alle leggi ed ai doveri imposti con la violenza.
V).
86 N. Berdiaiev, Rousskaia religuioznaia idéa (L’idea religiosa russa, pp. 63, 64. Estr. dalla
collezione intitolata: «Problemy rousskago religuioznago soznania», The I. M. C. A. Press
Ltd. Berlino, 1924). Un’analisi molto dettagliata di quest’opera è stata pubblicata sotto la
firma di Konrad Weber, nella Benediktinische Monatschift, n. 3-4 e 5-6, 1925.
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Questo modo di considerare l’esistenza terrena e di prepararsi a quella
dell’al di là, fu inculcato nel popolo russo dai numerosi startsy che,
ripetiamo, furono in ogni tempo le guide-naturali del Russo: ciò per la
semplice ragione che il loro insegnamento non era che una semplice
conversazione amichevole, e anche perchè non imponevano obblighi molto
complicati, ma soltanto delle genuflessioni, molte orazioni,87 e solo una
costrizione: quella d’amare il prossimo. Insomma, con una forma di spirito
molto orientale, essi comunicarono ai loro discepoli un modo tutto orientale,
anche nel considerare le cose di quaggiù, e le relazioni con Dio. Ma,
pretende Berdiaiev, «l’Oriente è più vicino dell’Occidente alle fonti religiose,
ed è all’Est che si alza il sole, e non è che laggiù che Dio parla all’uomo
faccia a faccia senza nessun intermediario». — N. Berdiaiev, Op. cit. pag.
55.
Così è verso questo Dio clementissimo e vicino che la Russia corre da
secoli per monti e per valli: «Essi errano (i pellegrini), vagabondano da una
regione all’altra, attraverso la vecchia Russia, per le feste e le lande, cacciati
dal vento delle steppe. E tutto questo mondo canta… il vecchio canto
gregoriano della Chiesa bulgara… raccontano la storia di Lazzaro, il
pustoloso, di Alessio, l’uomo di Dio, che nella sua sete di povertà e di
martirio, lasciò la casa paterna per andare non si sa dove» — Ivan Bounine,
Silenzio (Tr. Maurizio. Parigi, 1922).
«Noi tutti siamo quaggiù pellegrini senza casa nè tetto, continua N.
Berdiaiev: è della città futura che abbiamo fame e sete. Il vagabondaggio
spirituale è uno dei tratti più salienti del carattere nazionale russo. Esso
corrisponde perfettamente a ciò che si può chiamare «l’idea russa». Il tipo
del pellegrino uscito dal popolo è uno dei più notevoli che la terra abbia
generato. — Vedere la nota A alla fine del presente capitolo. — Ma c’erano
pure pellegrini che appartenevano, per nascita e per ingegno,
all’aristocrazia. Tutti i pensatori e tutti gli scrittori russi sono pellegrini alla
ricerca della Verità Divina, Il vagabondaggio russo è il rovescio del nostro
disinteresse per le cose di quaggiù: è agli antipodi dello spirito borghese».
— N. Berdiaiev, Op. cit. p. 98.
Ma non bisogna credere che questo vagabondaggio sia la manifestazione
d’uno stato costante ed invariabile dell’animo del Russo. In verità, non è che
uno dei suoi aspetti che riflette la profonda confusione, ma imprecisa ed
inconscia, nella quale si muove quest’animo, nello stesso tempo che la sua
sete riflessa dalla celeste Gerusalemme. D’altronde se «la vita, per il Russo,
non sogna chiari colori e non prende uno splendore che all’appressarsi della
morte, come affermano gli scrittori mistici del suo paese (Rozanov), è
talvolta per stanchezza, anche fisica, per l’incapacità di limitarsi e di
adattarsi all’ambiente, nello stesso tempo che per un’aspirazione verso l’al
87 Così Serafino di Sarov, il celebre eremita che fu canonizzato per espresso ordine di Nicola
II, prescriveva ai suoi visitatori, per il mattino e la sera tre Pater, tre Ave, un Credo, e
durante la giornata, frequenti invocazioni al Salvatore ed alla Sua Santa Madre: «abbiate
pietà di me peccatore». (Pomilouyi mia grechnago). Certe preghiere vocali dovevano
essere ripetute dalle 12 alle 100 volte il giorno.
87
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di là, dettata da un sentimento religioso.
Insomma non è permesso basarsi su tale o tal’altro contegno del Russo
per farsi un’idea della sua psicologia, ma si deve interrogare la storia, la
geografia ed il clima del suo paese. Tutto vi è eccessivo, confuso ed
accidentale: nel miscuglio di razze da cui il Russo è nato, nel clima,
nell’evoluzione della sua storia, e nella natura del suolo. Così il Russo, in
continua lotta con le ostili condizioni della vita, contro un clima rigido, e
contro un potere oppressore, e privato da secoli d’una ferma direzione
morale o religiosa, ha sconcertato il suo animo, l’ha fatto a pezzi, ed è
nell’impossibilità di riunirli. Tutta la sua tragedia è là. La sua tragedia, che è
la lotta continua fra le parti disgiunte del suo animo. Così è per sopportare
questa lotta che s’immerge nel fondo del suo essere, ch’egli cerca
continuamente un aiuto o un potente eccitante, che trova ora nella
sofferenza e nella mortificazione, ora nella colpa e nella bestemmia, ed
ancora in una completa rinuncia di sè. Di qui deriva questo bisogno di moto,
che lo coglie ogni momento e lo fa pellegrinare attraverso l’immensità d’un
paese di cui egli non conosce punto i limiti. Ma che cos’è ch’egli cerca
veramente? Il Cielo? Sì, ma questo Cielo si chiama la pace dell’animo.
NOTE
Nota A.— La categoria più interessante di questi pellegrini, «uomini di
Dio», come sono chiamati in Russia, fu, fino a questi ultimi tempi, quella
degli iourodivyé: Il iourodstvo o Khristé, o il iourodstvo Krista radi, cioè la
«follia per il Cristo», indicava questa specie d’ascesa, che consisteva
nell’imitare l’idiota, nell’essere ritenuto pazzo, nell’esporsi alle beffe, alle
ingiurie ed alle busse per amore del Signore, per esserGli graditi e
guadagnare rapidamente la vita eterna. Il iourodstvo si fondava
specialmente su certe parole e versetti delle lettere di S. Paolo. Così
l’Apostolo Paolo aveva parlato della «follia della Croce» e nella prima Lettera
al Corinzii (III, 18) egli dice: «Se qualcuno di voi pensa di essere saggio in
questo secolo, divenga pazzo per diventare saggio».
La «follia per il Cristo» sorse nell’Oriente ellenistico nei primi secoli del
cristianesimo. (In Grecia, gli iourodivyé erano chiamati «salos»; cf. Sofocle,
Greek Lexicon of the Roman and Byzantine periode, Boston, 1870). Ma fu in
Russia che essa trovò la sua terra di predilezione, probabilmente a causa
della tendenza «estremista» dell’animo russo in materia religiosa, come in
tutte le altre cose. Però il numero dei «semplici», che nel paese di Kiev era
chiamato pokhabe, e le loro azioni pokhabstvo, cioè «impudente» ed
«impudenza») durante il periodo premongolo della storia russa fu assai
ristretto. Del resto allora si annoveravano quasi esclusivamente fra i
cenobiti. Solo a partire dal XIV secolo il loro numero cominciò a progredire,
ed essi seppero attirare sopra di sè la stima e la considerazione del popolo e
la benevolenza della Chiesa, che beatificò e canonizzò anche qualcuno di
essi (Goloubinskyi, Istoriia kanonizazii sviatykh v rousskoï tserkvi, Mosca,
1903). Ricordiamoci che fu per invocazione di un iourod, chiamato Basilio
88
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(Vassilyi), che la devozione popolare ha fondato una delle chiese più
notevoli della Russia: Vassilyi Blagennyi di Mosca.
La maggior parte degli iourods russi si contentavano, in generale, di
commettere delle stravaganze e delle eccentricità, camminare scalzi o in
vesti bizzarre; imitare i gridi delle bestie; non dire che parole vuote e farsi
credere sordi e muti; mangiare detriti, dormire come cani erranti, ecc. Ma
ve n’erano taluni, come quel Nicola Salos che tenne testa a Giovanni il
Terribile, che, credendosi i porta-voce della coscienza popolare, passavano il
loro tempo a dire cose spiacevoli agli czar ed ai loro consiglieri, o a sollevare
le folle, durante le carestie, contro i profittatori e gli sfruttatori del povero
popolo. Nel XVIII secolo, al tempo di Pietro il Grande e dei suoi immediati
successori, i «semplici» volontari perdettero tutto il loro prestigio nell’alta
nobiltà e nella società. Essi dovettero dunque abbassarsi fino ai reietti e
confondersi nella grande massa del popolo. Ma nel secolo seguente
rialzarono la testa: un Alessandro I ed un Nicola I, autocrati ed unti del
Signore come furono, ne conoscevano qualcuno. E il regno degli czar
moscoviti non finì senza la riapparizione, alla corte di Nicola II, di autentici
iourods, quali furono un certo monaco Antonio ed un orribile gnomo,
chiamato Mitia Kouliaba, che non gettava che muggiti inarticolati, che un
altro «semplice« della setta s’incaricava d’interpretare.
CAPITOLO VIII.
Liturgia e musica di Chiesa
I.
Un occidentale che assistesse per la prima volta alla celebrazione della
Santa Messa in una Chiesa russa rimarrebbe meravigliato dapprima,
sopratutto se fosse una messa pontificale, per la sua magnificenza, pompa,
sfoggio di riti e intenso arcaismo. Soltanto più tardi, essendosi familiarizzato
con l’esteriorità di questa cerimonia religiosa, potrà gustare il lato mistico,
scoprire i simboli che vi si nascondono e stimare lo spirito d’umiltà e di
devozione che ne costituiscono il fondamento. Allora, e allora solamente,
egli non sarà più distornato dall’artifizio e dall’ornamentazione del luogo; il
suo orecchio si assuefarà ai clamori, alle volte, eccessivi, del diacono,
impegnato in un interminabile dialogo con il coro, — e in questa prodigiosa
polifonia di suoni, di colori e di gesti che caratterizzano la liturgia russobizantina cesserà di vedere unicamente una manifestazione della pietà
orientale. È molto naturale che l’apparato e l’ornamentazione d’una chiesa
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russa, come anche la forma antica delle cerimonie religiose che vi si
celebrano, siano fatte per meravigliare da principio un europeo; in
Occidente non esiste niente di simile. Le Chiese russe continuano ad essere
costruite e disposte internamente come le chiese primitive che avevano una
grande analogia con le sinagoghe giudaiche. Come quelle, le Chiese russe
sono divise in tre parti: l’abside, l’atrio, che si chiama ambone e che, nelle
chiese romane è stato sostituito dal pergamo e la navata. I corridoi che
conducono all’altare si chiamano soléa. Il santuario rinchiude il tabernacolo;
sopra l’altare, che è sempre quadrato e rivolto verso l’Oriente, a ricordo
della Stella che ha annunziato la venuta del Salvatore e si è mostrata all’Est,
stanno il Vangelo, la croce, i calici; il messale, che non è un libro
consacrato, è posto sopra un leggio a sinistra dell’officiante. Fra gli oggetti
consacrati, che si trovano solamente nel rito orientale e per conseguenza
nelle Chiese russe, bisogna nominare l’antimension, biancheria consacrata
che racchiude reliquie e ricopre una parte dell’altare, il piccolo coltello che
simboleggia la lancia con la quale fu ferito il fianco di Nostro Signore e che
serve per togliere dalla prosfora simboleggiante la Santa Vergine la
particella rappresentante l’agnello di Dio, la spugna che ricorda quella della
crocifissione e serve per purificare le mani del sacerdote e i vasi sacri, il
cucchiaio della comunione, in fine l’asterisco (zvézditsa), croce convessa,
che posta sopra la patena protegge i frammenti da ogni contatto. Porta,
sospesa nel mezzo, una stella, immagine di quella di Betlemme.
Il santuario è separato dalla navata dalla porta reale (tsarkia vrata) e da
un assito ornato d’immagini sante che si chiama iconostasi. Sono aperte
due porte laterali. La porta reale ha di più una cortina in seta malva che si
tira prima della celebrazione del Sanro Sacrificio, ma dopo che il diacono ha
obbligato i catecumeni a uscire dalla Chiesa.88
Ogni cristiano laico, eccettuate le donne, può essere ammesso al
santuario, ma non può passare fra la porta reale e l’altare; deve ogni volta
girarlo. Il diacono stesso può andar oltre la porta reale solo quando tiene il
Vangelo in mano. Infine, particolarità che ha il suo significato, in chiesa non
ci sono sedie, tutti i fedeli, come nei primi tempi del cristianesimo devono
stare in piedi.
Ecco quanto riguarda l’apparato delle chiese russe. Riguardo alle
cerimonie religiose che vi si celebrano, si può dire che sono quasi della
stessa epoca del disegno dal quale fu concepita la disposizione interna. La
chiesa russa, non conosce e non celebra che tre liturgie; le due prime sono
quelle di San Basilio il Grande e quella di San Giovanni Crisostomo; la terza,
detta «liturgia dei Presantificati» (analoga alla liturgia cattolica del venerdì
88 Le parole che il diacono pronuncia in questa occasione sono le seguenti: izydé
oglachennyé! Oglachennyé izyde (Voi che siete i catecumeni, uscite! uscite, catecumeni!).
Questa particolarità della messa bizantino-slava è una reminiscenza dei primi tempi del
cristianesimo, allora quando, il numero dei pagani che si convertivano alla legge di Cristo,
essendo considerevole, non si voleva che quelli i quali erano poco iniziati nei dogmi della
fede assistessero alla celebrazione del Santo Sacrificio il cui senso non poteva essere da
loro compreso.
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santo), è celebrata durante tutta la quaresima ad eccezione dei venerdì e
delle domeniche.
Una antichissima tradizione insegna che i primi elementi della liturgia
furono riuniti dall’apostolo Giacomo (per le Chiese di Gerusalemme e
d’Antiochia) e dall’apostolo Marco (per le Chiese d’Egitto). La liturgia di San
Basilio (IV secolo) è una rifusione, una abbreviazione e un rimaneggiamento
della messa che si celebrava nei patriarcati di Gerusalemme e d’Antiochia, e
che si attribuiva all’apostolo Giacomo. La liturgia di Basilio il Grande fu a sua
volta rifusa e allegerita (principalmente da un certo numero di preghiere
eucaristiche) da S. Giovanni Crisostomo.
Nè la liturgia di S. Basilio, nè quella di S. Giovanni Crisostomo sono
arrivate sino a noi nella loro forma primitiva. La messa di San Basilio fu
adottata ben presto da tutta l’Asia, donde passò in Egitto, presso i Copti e
più tardi in Etiopia.
Tradotta negli idiomi di queste differenti contrade, s’arricchì di un buon
numero di preghiere che non figuravano nella prima versione. La messa di
San Giovanni Crisostomo, — Si troverà la liturgia di san Giovanni
Crisostomo in Migne, Patr. gr., t. LXIII, col 90 e seg. — rifusione di una delle
liturgie palestiniane, fu adottata dalla Chiesa russa nella sua versione detta
di Costantinopoli, attribuita al patriarca Filoteo (XIV secolo). In Russia, nel
corso dei secoli subì delle modificazioni per nulla importanti, e,
conseguentemente, può essere considerata come il tipo della liturgia
orientale.
Contrariamente alla liturgia di Basilio il Grande, che è celebrata in Russia
dieci volte all’anno, le cinque prime domeniche della quaresima, il giovedì
santo, il venerdì santo, la vigilia della Natività di Nostro Signore e
dell’Epifania, infine il primo gennaio (giorno della festa di San Basilio), la
messa di San Giovanni Crisostomo vien celebrata tutti i giorni dell’anno
eccettuati i giorni della settimana in quaresima.
La liturgia di Giovanni Crisostomo si compone di due parti ben distinte.89
La prima che è la parte preparatoria, si chiama «Liturgia dei catecumeni»
(litourgia oglachennykh) e conseguentemente non fa alcuna allusione alla
parte essenziale della messa, l’Eucaristia. Ciò che dapprima la caratterizza è
la lettura delle Epistole e del Vangelo, poi lunghe litanie delle quali la più
89 La liturgia bizantino-slava è preceduta dalla preparazione materiale della messa e dalle
preghiere dell’offertorio (proskomidia) che si dicono a voce bassa dietro l’iconostasi. Tutta
questa parte preparatoria si svolge intorno al piccolo altare della protesi cioè dell’offerta;
a sinistra dell’altare principale. È sopra questo altare — dove brillano due ceri e dove sono
disposti il calice, la patena (diskos), l’asterisco, i veli, le ampolline contenenti il vino e
l’acqua e infine i pani della comunione (prosfori), — che ha luogo la preparazione della
materia del sacrificio, cioè la divisione dei prosfori e l’estrazione dei frammenti, in
triangoli, che devono servire per il Santo Sacramento. Vi sono cinque sorta di pane per la
comunione: il pane di Gesù Cristo, quello della Vergine, quello dei Santi; il pane dei
viventi e il pane dei morti. Il pane di Gesù Cristo si taglia completamente; si estrae dalla
parte superiore degli altri un triangolo. Al tempo degli imperatori, si tagliava del pane dei
viventi in tante particelle, quanti erano i membri della famiglia imperiale. Il pane di Gesù
Cristo si distribuisce in piccoli pezzi agli assistenti; gli altri si danno interi ai privilegiati.
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bella è la commovente preghiera (vélikaïa ektenia) «per la pace del mondo
intero, per la prosperità delle Sante Chiese di Dio e l’unione di tutte». Infine
vengono delle orazioni per i catecumeni seguite dal loro rinvio, come
abbiamo già visto, seguendo una formula molto vecchia.
La seconda parte della messa è chiamata «liturgia dei fedeli» (litourgia
vernykh). Incomincia, dopo alcune parole dell’officiante con il canto mistico
dell’«Inno dei Cherubini» (Kherouvimskaïa); dopo v’è la «grande entrata»
(vélikyi vykhod), processione che porta sull’altare la patena con le particelle
da consacrare, ricoperte d’un velo che simboleggia il Santo Sudario, e il
calice riempito di vino e d’acqua; poi ha luogo il canto del Credo, la
celebrazione del Santo Sacrificio, l’inno della Santa Vergine, il Pater, la
Comunione.90
La liturgia che è identica nelle due Chiese, in quella d’Oriente e in quella
d’Occidente
è
la
«missa
praesanctificatorum»
(litourgia
prejdéosviachtchtennikh darov). Essa è conosciuta anche in Russia, non si
sa bene come, col nome di «liturgia di San Gregorio il Grande» (Grigoria
Dvoiéslova). Checchè ne sia, la sua origine è molto antica; si attribuisce a
San Basilio il suo ordinamento asiatico. Nel 615 s’arrichì dell’inno celebre in
tutta la Chiesa orientale: Nyné sily nébésnya snami nevidimo sloujat (in
questo istante le potenze celesti, invisibili, uniscono le loro preghiere alle
nostre). Il patriarca San Germano e il patriarca Filoteo (XIV secolo)
rielaborarono ciascuno per conto proprio la messa dei presantificati per la
Chiesa orientale. In occidente, apparisce nei manoscritti latini dell’VIII
secolo; — Thibaut, Origines de la messe des Presanctifiés. «Echos
d’Orient». Gennaio-Marzo 1920 — ed è prescritta pel venerdì Santo. Ma
solamente la Chiesa romana continua ai nostri giorni a conformarsi a questa
prescrizione; la Chiesa di Costantinopoli e di conseguenza la Chiesa russa
abbandonarono l’antico uso, rispettivamente nel secolo XIII e XIV, per
celebrare la liturgia dei Presantificati tre volte per settimana durante tutta la
quaresima.
L’officio della sera, chiamato in Russia Vsenochtchnoié bdenié,
letteralmente «la veglia notturna» è una particolarità della Chiesa russobizantina. Viene celebrato la vigilia delle domeniche e i giorni di festa.
L’ufficio della sera si compone dell’ordinario dei vesperi (vetchernia) e dei
mattutini (outrenia) o dei vesperi solenni (vélikoié povétcherié) e dei
mattutini che erano composti dalla lettura di passi del Vangelo, degli Atti,
degli Apostoli e degli scritti dei padri della Chiesa.
Attualmente la vsenochtchnaïa comprende l’essenziale dei vesperi e dei
mattutini e non si fa più la lettura degli Atti e degli scritti di Padri. Di più, la
veglia, cioè il prolungamento dell’ufficio della sera fino all’alba, si usa
90 La comunione nella Chiesa russa, come del resto in tutte le Chiese d’Oriente si fa sotto le
due specie. La celebrazione dell’Eucaristia, è sempre preceduta da una preghiera
(épiclèse) dell’officiante che invoca la discesa del Paraclito sopra i sacramenti offerti («Noi
vi offriamo ancora l’atto di adorazione che si dice e si fa senza effusione di sangue e noi Vi
chiamiamo e Vi invochiamo e Vi supplichiamo di far discendere lo Spirito Santo sopra di
noi e sopra i doni offerti qui dinanzi a Voi»).
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recitarla solamente in qualche monastero obbligato da una regola
severissima.
—
Malizew,
Die
Nachtwache
oder
Abend
und
Morgengottersdienst der orthodox-katholischen Kirche des Morgenlandes.
Berlino, 1892.
II.
Il canto avendo sempre occupato in Russia un largo posto nella
celebrazione del culto, ha bisogno che gli sia accordata tutta l’attenzione
che merita.
I primi cantori di Chiesa in Russia furono dei Bulgari condotti a Kiev dal
grande principe Vladimiro, nello stesso tempo in cui i sacerdoti greci erano
incaricati di catechizzare i Russi. Un po’ più tardi, ne vennero altri
direttamente da Costantinopoli, al seguito della principessa Anna, fidanzata
a Vladimiro. La Chiesa russa pertanto fin dal suo inizio fu dotata di un canto
liturgico già ben formato e di composizione puramente bizantina. Ma,
essendo il grano caduto sopra un eccellente terreno, accadde che gli allievi
ben presto non ebbero niente, o quasi, da imparare dai loro maestri. Al
principio dell’XI secolo, i Greci insegnavano ancora ai Russi le sottigliezze e
le finezze del sistema delle otto «armonie» (glass) che costituiscono la base
del canto liturgico russo; qualche dozzina d’anni più tardi, i Russi
componevano già delle stichery (cantici di lode) nell’occasione del trasporto
dei resti di San Nicola a Bari (1087), in onore di Teodosio di Petchersk
(1095) e dei santi Boris e Gleb (1108).
L’annotazione dei vecchi libri di canto era fatta per mezzo di segni
chiamati da principio segni (znamena), pilastri (stolpy), più tardi gruppi
(kriuki) o segni in gruppi (kriukovia znamena). che si ponevano come i
«neumi» latini direttamente sopra il testo, senza alcun allineamento.
Questo modo di scrittura musicale si mantenne in Russia sino alla fine del
secolo XIV, come la melodia che questa notazione doveva riprodurre —
Smolenskyi, O drevne-rousskikh pevtcheskikh notaziakh. (Le antiche
notazioni vocali russe), Pietroburgo, 1901. — Più tardi la purità del canto in
gruppi (kriukovoié penié) fu sensibilmente alterata dall’introduzione di temi
del tutti differenti dalla sua linea musicale. Pur tuttavia, nonostante la
grande concorrenza nel XVII secolo da parte della cantilena greca, bulgara e
Kievense, la notazione in gruppi si mantenne ancora per lungo tempo in
certi monasteri e viene utilizzata sino ai nostri giorni da diverse comunità di
«vecchi credenti» (starovers).
«Il canto di Kiev» (kiévsckyi raspev) si è formato con l’assorbimento di
melodie che ebbero origine dalla Galizia e dalla Volinnia e anche in parte
sotto l’influenza delle scuole greche e bulgare. Fu armonizzato da
confraternite religiose ortodosse del Sud-Ovest della Russia alla fine del XVI
secolo e durante il XVII. Di lì passò a Mosca dove fu accolto subito grazie
sopratutto alla sua brevità, semplicità e facilità ad essere adottato a
qualunque cerimonia religiosa. Fu poco dopo la stessa epoca (XVII secolo)
che si conobbe in Mosca la melodia neo-greca. Vi pervenne per mezzo degli
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Slavi del Sud, grazie ai libri liturgici greci che il patriarca Nicone faceva
comperare in grande numero, e infine con i cantori elleni venuti a Mosca.
Come il canto di Kiev, anche il canto greco fu ben presto adottato dalla
Chiesa russa che lo trovò molto appropriato per l’interpretazione delle
tropaires delle condakes, delle irmes della domenica e, in generale, per tutti
i canti dei giorni di festa e delle grandi solennità. Notiamo che il canto
greco, come quello venuto da Kiev, si eseguisce, generalmente su note
quadrate o rotonde.
Fu la preoccupazione d’opporre al canto delle chiese latine e uniate un
canto più ampio, più sostenuto, breve, un canto polifonico, che spinse nel
XVII secolo le confraternite religiose della Russia del Sud-Ovest ad
armonizzare le melodie sacre della Chiesa russa e ad abbandonare
definitivamente l’antica forma di concerto.
I primi saggi furono fatti su melodie del territorio e su canti a una voce
presi in prestito dai Greci e dagli Slavi del Sud. Le relazioni continue fra le
confraternite religiose con i monasteri ortodossi del Monte Athos ebbero i
loro effetti su questi saggi di armonia del canto liturgico; buon numero di
canti e di inni della Scuola musicale del Sud-ovest delle Russia denotano la
loro provenienza dal monte Athos.
Ma, tutto sommato, il canto armonico (partesnoié penié, come si dice in
Russia) del Sud-ovest, quantunque un tempo avesse una certa influenza in
Mosca, attualmente non è che un monumento storico dimenticato; persino
nelle raccolte musicali edite dalla scuola sinodale di Mosca non occupa che
un posto molto ristretto.
Il canto armonico moscovita fu sopratutto l’opera di compositori e di
teorici della produzione. Un grande impulso gli fu dato dal celebre patriarca
Nikone. Nel 1667 i cantori del palazzo patriarcale eseguirono per la prima
volta, con due cori riuniti, il canto di zbrannyi voévodé per tre voci. Alla fine
del XVII secolo, Mosca possedeva entro le sue mura un buon numero di
specialisti eruditi del canto polifonico, come il chierico (diak) Giovanni
Korenev, autore d’un’opera teorica sulla musica sacra (Mousikia), Tikhon
Makarievskyi e il cantore dello tsar Vassilyi Titov, autore della musica di
numerosi salmi e di una «grande preghiera per la longevità» (bolchoié
mnogoletié) che si cantava ancora sino a questi ultimi tempi.
Nella maggior parte delle opere corali del XVII secolo russo, era il tenore,
un po’ più tardi l’alto, che tracciava la linea musicale; le altre voci gli
servivano di semplice accompagnamento armonico. Tuttavia c’era qualche
canto sacro in cui il tema principale era affidato alle voci acute in sesta,
ovvero alle voci di mezzo in terza.
In questa condizione e sotto questo aspetto il canto di Chiesa apparve
all’inizio del XVIII secolo e sì mantenne sino al momento in cui fu
sopraffatto dalle opere di alcuni musici italiani accorsi in Russia verso la
metà di questo secolo.
L’influenza italiana sul canto liturgico russo fu grandissima e non meno
duratura. Veramente, un Zoppis, direttore d’orchestra del teatro Locatelli al
tempo dell’imperatrice Elisabetta Pétrovna, e professore alla scuola dei
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cantori della corte, lasciò poche traccie del suo passaggio. Invece, un
Giuseppe Sarti e un Baldassare Galluppi ebbero un’influenza reale e furono i
maestri esclusivi di tutta una generazione di musici russi a cominciare da
Berezovskyi e sopratutto Bortnianskyi (1751-1825) le cui opere di musica
sacra, principalmente i suoi Kherouvimskia (inno dei Cherubini), furono
imitati, spesso malamente, durante la maggior parte del XIX secolo. —
Lebedev, Berezovskyi i Bortnianskyi kak kompository zerkovnago penia.
Pietroburgo, 1882.
Bortnianskyi era un eccellente teorico, amatore del «bel canto», ma
mancava di sobrietà e di vero sentimento religioso. Ch’egli abbia goduta
durante la sua vita d’una grande notorietà, è molto naturale; il gusto del
pubblico d’allora era guastato a tal punto che ascoltava senza esitare dei
laboriosi racconciamenti della musica di certe opere italiane a dei testi sacri,
come, per esempio, l’adattamento della romanza del prete dell’opera di
Spontini, La Vestale, alle parole dell’inno sacro: «Noi ti salutiamo, Signore»,
(Tébé poiem), o ancora l’adattamento della musica di uno dei cori
dell’oratorio di Haydn, La Creazione del Mondo, alle parole dell’«Inno dei
Cherubini».
Il primo saggio, molto timido, del resto, per reagire contro l’italianesimo
che s’era impadronito del canto liturgico russo, fu composto nella prima
metà dell’ultimo secolo da un certo Tourtchaninov, ma il vero iniziatore della
rinnovazione della musica sacra fu Michele Glinka, il quale ripeteva
continuamente che l’armonizzazione delle vecchie melodie sacre come
anche delle opere originali scritte per essere cantate durante gli uffici divini
doveva fondarsi sulle vecchie «modulazioni» della Chiesa e non sulla minore
o maggiore gamma della musica europea. Insomma quello che sopratutto
voleva Michele Glinka, era di rendere al canto liturgico il suo carattere
diatonico e perciò stesso rimetterlo nella tradizione nazionale.
Disgraziatamente una morte prematura interrupe il nobile lavoro di Glinka
nel campo della restaurazione della musica sacra.
L’armonizzazione delle vecchie melodie sacre fu continuata da Balakirev
(Vsenochtchnoié bdenié drevnikh napévov, 1887) e anche da Rimskyi
Korsakov, in modo un po’ fantastico e troppo pittorico.
L’ultimo dei musici russi che vi si sia applicato, con un garbo, sapere e
coscienza del tutto straordinari, fu Kastalskyi. Che valore abbiano le sue
opere in mezzo allo scompiglio generale, noi non ne sappiamo niente; infatti
di canto liturgico russo noi all’estero non udiamo niente, all’infuori di
qualche esecuzione più o meno mediocre delle opere di un Vinogradov o di
un Grétchaninov, povere cose senza stile e senza vita.
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