associazione culturale Larici – http://www.larici.it Nicolas Brian-Chaninov La Chiesa russa L’Eglise russe 19281 1 Editions Grasset, Paris 1928; trad. it. Edizioni Cristofari, Vicenza 1931. Trascrizione a cura dell’associazione culturale Larici, 2006. 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it INDICE2 p. p. p. p. 2 3 14 37 p. p. p. p. p. p. 46 52 60 73 89 96 Prefazione CAPITOLO I — Evangelizzazione della Russia CAPITOLO II — Bisanzio e lo Scisma d’Oriente CAPITOLO III — La Russia e il mondo cattolico sino alla caduta di Bisanzio CAPITOLO IV — Il movimento «Uniate» nella Russia del Sud-Ovest CAPITOLO V — Mosca - «Terza Roma» CAPITOLO VI — Il monachismo CAPITOLO VII — La Chiesa Russa al tempi degli Imperatori CAPITOLO VIII — Liturgia e musica di Chiesa Bibliografia PREFAZIONE Il celebre metropolita Macario ha dedicato tredici volumi a una storia della Chiesa russa. Non potendolo seguire in così lungo cammino dobbiamo limitarci a questo piccolo libro. Un certo numero di fatti, alcuni avvenimenti decisivi intorno ai quali si raggruppano e ordinano figure di alto rilievo, — ecco che cosa è importante conoscere per rendersi conto, con esattezza, del posto che la Chiesa russa occupa nella storia religiosa dei popoli, e di ciò che la distingue dalle altre. Resta però da apprendere la cosa più difficile: la religiosità del popolo russo, o come viene chiamata laggiù «la fede russa» (rousskaia véra). Per descrivere questa religiosità noi ricorreremo non tanto alla storia della Chiesa propriamente detta quanto allo storico di certi ambienti che in tutti i tempi non hanno avuto che degli attacchi molto radi con la gerarchia ecclesiastica del loro paese e che ci danno a questo soggetto delle luci preziose. Da molti secoli tra il popolo russo e il resto del mondo cristiano, esiste, ahimè!, un muro granitico contro il quale fu fiaccata la buona volontà di coloro che, nell’interminabile corso del tempo avevano voluto far rientrare quel numerosissimo popolo nell’unità della Chiesa. 2 In originale la Prefazione è a p. 7, il Cap. I a p. 9, il Cap. II a p. 33, il Cap III a p. 73, il Cap. IV a p. 105, il Cap. V a p. 119, il Cap. VI a p. 137, il Cap. VII a p. 171, il Cap. VIII a p. 219 e la Bibliografia a p. 225. 2 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it Però, a dispetto della rigorosa intransigenza adottata ufficialmente dalla Chiesa russa riguardo all’idea di unione con Roma, la speranza in un tempo di perfetta concordia e di pace non venne mai meno in Russia; la si trova espressa persino nelle parole della preghiera recitata ogni giorno dal diacono e che si trova anche nella liturgia di san Giovanni Crisostomo: «per la pace del mondo intero, per la conservazione delle Sante Chiese di Dio e l’unione di tutti. Preghiamo il Signore». E tutto ciò è naturale, poichè in realtà, come giustamente dice il R. P. Pierling, nel primo volume della sua opera magistrale: «La Russia e la Santa Sede» «invano si cercherebbe una data precisa o un fatto illustre che possa essere segnalato come punto di partenza della separazione tra la Russia e il centro cattolico. La separazione avvenne implicitamente, a poco a poco, senza preciso motivo, in virtù della sottomissione gerarchica della Chiesa russa al patriarcato di Costantinopoli, ma senza che i Russi abbiano preso parte sia alle lotte dottrinali, sia alle lotte politiche dei Bizantini». Però noi non dobbiamo lasciarci scoraggiare dall’apparenza dei fatti, non dobbiamo arrestarci a mezzo del cammino sotto pretesto che la strada è lunga e difficile. Rileggiamo piuttosto le belle parole che un eminente teologo russo, l’arciprete Maltzerw, ha premesso al suo Monologium: «Possa Dio affrettare il giorno in cui le venerabili e antiche Chiese dell’Oriente e dell’Occidente si riuniranno nel primo amore, affinchè si compia l’intimo desiderio del cuore del Redentore nell’ora estrema della sua vita: «Ut omnes unum sint». Settembre 1927 CAPITOLO I. L’evangelizzazione della Russia I. Il cristianesimo fu instaurato ufficialmente in Russia a mezzo dell’intermediario di Bisanzio alla fine del sec. X, esattamente nel 988-991.3 Veramente, molto prima di questa data erano avvenute altre conversioni 3 Anno 991. Il patriarca (di Costantinopoli) invia a Volodimer — che era stato battezzato nel 988 o 989 — Leone, in qualità di primo metropolita di Kiev. Volodimer fa costruire dai Greci una chiesa dedicata alla Santa Vergine — Cf. Muralt, Essai de chronografie byzantine, T. I, pag. 572. 3 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it individuali e collettive, come quella, ad esempio, della principessa russa Olga (Elga) vedova del defunto principe Igor e reggente il principato di Kiev durante la fanciullezza del figlio Sviatoslav, e anche di un gruppo di così detti guerrieri «russi» che furono battezzati dal patriarca di Bisanzio, a Costantinopoli. — Vedere la nota A alla fine del seguente capitolo. — D’altra parte, dalla fine del IX secolo esisteva a Kiev una piccola Comunità cristiana di rito greco che possedeva una Chiesa dedicata al profeta Elia, il Santo giudeo-cristiano per eccellenza. Questa Chiesa, come dice la cronaca russa di Nestore, — Nestore 6459, comp. 6477 e 6490 — era situata sulle alture a strapiombo del Dnieper accanto al luogo che servì all’intervista dei Russi con i Khazars. Del resto questa parte della Russia fu evangelizzata da missionari venuti dal sud-est della Russia, cioè dal paese stesso degli Khazars. Il regno orientale degli Khazars era popolato da un numero abbastanza considerevole di Giudei che abitavano principalmente i villaggi situati lungo le rive del mar d’Azof.4 Tutta questa contrada era continuamente in relazione con Bisanzio donde riceveva con molte altre cose, brevi spunti di civiltà, del Basso Impero. È certo che il Cristianesimo vi penetrò assai per tempo, ma è d’altra parte certo che non conservò la sua primitiva purezza, essendosi confuso ben presto a reminiscenze del culti dell’Iran e sopratutto allo spirito e alle dottrine giudaiche la cui presenza in questi luoghi era evidente. Ma l’esistenza d’un cristianesimo che sapeva di Giudaismo non avea niente di sbalorditivo, causa i legami reali, esistenti fra le due religioni, tanto vero che, naturalmente, gli abitanti di queste contrade, la cui coltura generale a quest’epoca lasciava molto a desiderare, non ne percepivano punto le differenze ed erano portati a confonderle. Però, a dire la verità, un simile miscuglio del cristianesimo con il giudaismo esisteva nel IX secolo in paesi ben più civilizzati della Russia meridionale d’allora, per esempio in Bulgaria. — Malichevski: Evrei v ioujnoi Rossii i Kiévé v. X-XII vekakh (I Giudei nella Russia del Sud e a Kiev nei secoli X-XII) Raccolte dell’Accademia ecclesiastica di Kiev, 1878 — Parkhomenko, Natchalo, Khristianstva Rousi (Il principio della Cristianità della Russia) Poltava 1913. In Russia e anche fuori si è molto discusso per sapere dove e quando la principessa Olga si fece battezzare e anche qual’era, con certezza, la sua nazionalità. Alcuni storici russi, che altre volte non hanno mai voluto ammettere, per ragioni d’un nazionalismo stretto, la provenienza 4 Il dotto filologo russo Vsévolod Miller: Materialy dlia izoutehenia évreïsko-tatarskago iazika (documenti per lo studio della lingua ebraico-tartata), St. Petersb., 1892) era d’avviso che la culla del popolo giudaico del Caucaso si trovasse nel nord-ovest dell’antico impero dei Medi conosciuto ai nostri tempi sotto il nome di Azerbeïdjan. L’influenza giudaica nella Georgia risale al tempo di Nabuchodonosor. Nel secolo VII, i Giudei erano considerati come un popolo abitante già da lungo tempo i villaggi della Georgia. Al principio della nostra êra essi si sparsero per tutto il Caucaso donde ben presto passarono sul Don in Crimea e nella penisola di Taman. A Kertch vi era sin dal primo secolo una grande colonia giudaica che aveva una sinagoga. 4 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it scandinava dei primi principi russi,5 hanno, ugualmente e per le medesime ragioni, contestato le origini nordiche della sposa del principe Igor. — « Inger, rex Russorum…» Liutprando di Cremona, Antapodosis Lib. V 327 (Ed. Pertz, Monum. Germ. hist. Ser. t. III, pag. 264, 363). — Ma non si può più avere alcun dubbio a questo riguardo. Olga era d’origine scandinava, il suo primo nome Elga lo prova già sufficentemente (Helga voleva dire «Chiarezza» nella lingua dei primi Germani). — Goloubinskyi, Istoria rousskôï tserkvi (Storia della Chiesa russa) t. I, pag. 74. Riguardo al luogo e alla data esatta della sua conversione al cristianesimo, non si può dir niente di preciso, se non che questo avvenimento dovette avvenire verso l’anno 960, epoca in cui Olga inviò degli ambasciatori all’imperatore Ottone il Grande. Degli storici ortodossi, stando a quanto dice la Cronaca di Nestore, hanno tentato di provare che la principessa Olga fu battezzata a Costantinopoli dal patriarca Poliecte. Però nessun documento serio serve d’appoggio alla loro opinione. Persino l’imperatore Costantino VII Porfirogenete, facendo menzione nei suoi scritti, della visita che Olga fece alla corte di Bisanzio, non parla assolutamente del suo battesimo a Costantinopoli. — Costant. Porphirogenetus, De ceremoniis Aulae Byzantinae Lib. II. Cap. 15 (Alia receptio Elgae Russae) Ed. Reiski, Corp. Scrip. hist. byz., Bonn, 1829. Al contrario noi conosciamo bene l’intenso desiderio di Olga di avvicinarsi all’Occidente e i suoi tentativi di stringere delle relazioni con l’imperatore Ottone perchè mandasse al «paese di Kiev» alcuni missionari di rito latino.6 Alla richiesta di Olga, di inviarle dei predicatori, l’imperatore Ottone uomo molto zelante per l’evangelizzazione dei pagani, domandò all’arcivescovo di Magonza, Guglielmo, un missionario esperto. Questo prelato, fece uscire dal monastero di San Martino di Treveri Adalberto, figlio del conte Mosellan di Remiche (vecchio ducato di Lussemburgo) personaggio di grandi meriti. 5 L’origine normanna o scandinava dello Stato russo non è più contestata seriamente da nessuno, poichè posa su fondamenta solide. Ma non va così per la provenienza del nome Rouss. Gli storici russi della Scuola detta normanna affermano l’origine scandinava del nome Rouss, perchè gli Scandinavi si davano essi stessi questo appellativo. Gli Svedesi furono chiamati dai Finni successivamente Ruotsi (dal Livii) Rot’s, (dagli abitanti dell’Est) — Rötsi (nel Vatland), Ruotsi, Ruossi, Ruonti, Ruohti e Ruotti, (in Finlandia e in Germania). Questo appellativo poteva derivare dalla vecchia parola germanica «Krôp» (la sillaba «p» corrisponderebbe al th inglese), come lo fa notare il celebre linguista russo Ernesto Kunik nei suoi commentari all’opera di B. Dorn Gaspia e come lo ha dimostrato recentemente un altro dotto russo, Braun. Però potrebbe darsi che la parola Rouss fosse di provenienza gotica, che sia passata poi nei dialetti finnici per divenire in seguito padronanza della lingua slava. La parola « Krôp » da principio può aver indicato esclusivamente i Goti del continente ed essere stata applicata più tardi ai Goti dell’isola Gotland, poi ai Gaouts della Svezia meridionale. Di là non c’era che un passo per indicare sotto questo nome tutti gli abitanti della Svezia, fatto che avvenne naturalmente. 6 Annali di Hildesheim, anno 960; Annali di Corvey (Cfr. Jaffé, Monumenta Corbelensia, anno 959. 5 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it Consacrato nel 962 a Magonza, Adalberto partì subito per la nuova destinazione. Ma s’accorse che i grandi del paese e il popolo russo non aveano le stesse disposizioni della sovrana: Adalberto non poteva istruirli, e riceveva solo dei cattivi trattamenti; alquanti dei suoi compagni furono massacrati ed egli stesso fu costretto a ritornare in Germania. — Acta S. ord. S. Benedicti (ed. Mabillon) 1685, V, pp. 579, 584. Annales Ottenburani (Pertz, Monum. Germ. hist. Sacr, t. V anno 960). Senza dubbio i costumi che regnavano in quei tempi nella Russia meridionale erano depravati. Si può dire anche che furono d’una grande rudezza. Il che si spiega per mezzo della condotta di vita degli abitanti del principato di Kiev attraverso le loro occupazioni ordinarie e anche, mediante ciò che vi era di primitivo e di grossolano nelle loro concezioni religiose. Per molti secoli questi Slavi-Russi vissero sopratutto di rapine e di brigantaggi. — Ibn Dasta (Abou-Ali Ahmed ben Omar) Izvestia o Khozarakk… i Rousskikh (Informazioni sopra i Khazars… e i Russi) tradotti e pubblicati da D. A. Chwolson. St. Petersb. 1869 p. 55 paragrafo 2. D’altra parte erano i loro capi che ne davano l’esempio saccheggiando i loro vicini per interesse personale o qualche rara volta per conto della comunità a cui essi erano a capo. Riguardo alle credenze dei primi Russi, consistevano, come vedremo più innanzi, in una sorte di naturalismo; nella venerazione d’una forza psicofisica, ma non formavano in alcun modo una religione di un popolo civilizzato. Evidentemente, con il tempo, vale a dire dopo l’introduzione del Cristianesimo, i costumi dei Russo-Slavi primitivi si addolcirono considerevolmente. Ma la vendita degli schiavi, che costituiva uno dei mezzi più lucrativi e più fiorenti del commercio esterno del principato di Kiev, si mantenne sino all’XI secolo. — Ibn Foszlan (Cf. Froehn: Ibn Foszlan ’s und anderer Araber Berichte über die Russen aelterer Zeit, St. Petersbourg, 1823, S. 7). — Però il fatto più ripugnante era che le schiave prima d’essere vendute, dovevano essere concubine del loro proprietario. Il principe essendo il primo mercante, il primo «negriero» del principato, era colui che avea il maggior numero di concubine. Lo storico Arabo Ibn Foszlan (o Fodhlan) contemporaneo di Vladimiro di Kiev, afferma che questo principe possedeva un vero harem che contava non meno di quaranta donne. — Ibn Foszlan, op. cit. 21. Per le donne pagane di Vladimiro vedere la Saga de Snorre Sturleson e anche Soloviev, Storia di Russia (L. I. t. I. p. 191). Del resto, questo Vladimiro, sino alla sua conversione al Cristianesimo fu un corrotto saguinario, non privo però di attitudine al governo. — Thietmar di Mersebourg (Chronicon, L. VII cap. 25). «Regisque Ruscorum Vlodimiri… fornicator immensus et crudelis». Sebbene avesse sotto gli occhi l’illustre esempio della nonna, la principessa Olga e attorno a sè altri esempi fra i cortigiani e i suoi «soldati», Vladimiro «il gaio sole», esitò lungo tempo a convertirsi al cristianesimo. È molto probabile, tesi che sostiene lo storico russo Goloubinskyi, — 6 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it Goloubinskyi, Istoria rousskoï tserkvi (Storia della Chiesa russa) t. I, prima parte p. 157, — che i «droujinniki» con i quali Vladimiro gozzovigliava, quando non combatteva, gli abbiano parlato spesso della nuova fede e lo abbiano incoraggiato a seguire il loro esempio. Però, dato che in quel tempo la Chiesa non era ancora divisa in due campi irreconciliabili, quantunque il rancore tra papa Nicola I e il patriarca Fozio avesse un po’ raffreddate le relazioni dei Greci con i cattolici romani, i «Vareghi» del seguito del principe non avean alcun interesse a spingere Vladimiro a farsi battezzare dai Greci. Del resto sarebbe stato ben difficile a Vladimiro di prendere parte allo scisma nascente e di fare una scelta, causa la sua ignoranza riguardo ai canoni e ai dogmi della vita cristiana. Inoltre, in questo tempo, era della massima indifferenza verso tutto ciò che non era compreso nella cerchia della sua vita privata e delle sue preoccupazioni di sovrano. Stando alla cronaca russa, Vladimiro fu un campione convinto del cristianesimo che egli stentava di introdurre nei suoi stati. In verità è un lato della personalità di questo principe che non fu mai sottolineato da alcun storico dell’epoca e non ci ha affatto illuminati sulla questione di sapere da chi e quando fu canonizzato. È possibile d’altronde che per questa conversione abbiano avuto influenza ragioni d’ordine politico ed economico: la possibilità di farsi amica Bisanzio, come mezzo possente per procurare nuovi sbocchi ai prodotti e alle mercanzie del paese di Kiev e, in fine, la possibilità d’introdurre alla corte principesca i principi politici che la Chiesa d’Oriente si faceva un dovere d’appoggiare con tutta la sua autorità. Dalla parte di Bisanzio c’erano press’a poco gli stessi motivi. Ridotto all’aspettativa dalla rivolta di Bardas Skléros e Bardas Foca, Basilio mandò ambasciatori presso Vladimiro per pregarlo di venirgli in aiuto. Nella primavera dell’anno 988, fu conchiuso un trattato fra l’imperatore e il principe mediante il quale Vladimiro si impegnava di tenere a disposizione di Bisanzio 6000 uomini di truppa per parecchi anni. Gli ambasciatori a loro volta gli promisero la mano della sorella dell’imperatore. Dopo la sconfitta di Foca nella sanguinosa battaglia di Chrysophis, l’attuale Scutari, di fronte a Costantinopoli, sulla riva dell’Asia, grazie all’intervento dei guerrieri di Vladimiro, l’imperatore tentò di sottrarsi agli impegni relativi al matrimonio della sorella, tanto più che la principessa non era affatto disposta a immolarsi alla politica divenendo sposa d’un principe barbaro. Ma Vladimiro assediò Khorsum, il che obbligò Basilio a mantenere la promessa. Allora la principessa Anna, accompagnata da un seguito brillante, fu mandata a Kiev nel 989 e il clero greco convertì i Russi al Cristianesimo. — Regel, Anacleta byzantino-russica, Petropoli 1891, pp. LXX-LXXIII. Schlumberger, L’Epopée byzantine à la fin du X° siècle, Paris 1900, I. parte pp. 703 e 716. II. 7 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it La religione dei primi Slavi era basata sull’adorazione delle forze della natura e sul culto degli antenati. Il Dio supremo del loro Panteon si chiamava Peruno. Era il creatore dei lampi. Ma molto spesso lo si confondeva con il dio Svarog — il nome Svarog proviene dalla parola sanscrita sur (brillare). Esiste una analogia fra questo nome e quello sanscrito del dio del sole: Svarga — che personificava il cielo che si muove, altrimenti detto il cielo nuvoloso. Gli altri dei erano i figli di Svarog ed erano il sole e il fuoco. Più tardi, quando avvenne lo sminuzzamento del popolo slavo in tribù distinte, e più o meno indipendenti le une dalle altre, di conseguenza il numero degli dei aumentò; ebbero una fisionomia particolare e a ciascuno fu assegnato un posto determinato. Appunto per questo gli Slavi del Baltico veneravano un Dio Sviatovii che per molto tempo si credette personificato da un idolo a tre teste chiamato Triglav. Nella città di Rhetra, questo dio supremo, figlio di Svarog, era chiamato Radgost, mentre nelle leggende ceche e polacche lo si trova sotto il nome di Krock. Alcuni storici hanno creduto di poter scoprire in Sviatovit una traduzione del nome di San Guido (Sanctus Vitus), poichè in russo sviat vuol dire Santo. Anche Radgost fu così chiamato dalla città dove era venerato, e il nome Krock fu dato a un dio in ricordo del principe Krock, che secondo il cronista Cosma da Praga7 era un uomo giusto e clemente. Ma, qualunque sia il valore di tutte queste supposizioni, senza dubbio questi diversi nomi si riferivano a un solo dio supremo e la loro apparizione è d’un’epoca molto posteriore alla prima formazione della razza slava. Insomma noi possiamo dire, appoggiandoci al folklore degli slavi primitivi, che i loro dei personificavano le varie forze della natura nelle lotte eterne; la lotta della luce con le tenebre, del freddo con il caldo, della abbondanza con la carestia, della vita con la morte. A questo culto della natura si univa una scialba concezione della vita d’oltre tomba e il culto degli antenati. Gli Slavi credevano che le anime dei morti abitassero una regione lontana, una regione all’estremità del mondo, al di là dell’orizzonte, oltre il quale ogni sera spariva l’astro della vita. Inoltre bisognava preparare il morto a questo lungo viaggio per mezzo di funerali appositi, poichè nel caso contrario l’anima del defunto, non potendo trovare il cammino verso l’al di là, errava su questa terra essendo causa di noie ai viventi e di sofferenze a sè stessa. Per facilitare l’ultimo viaggio ai loro morti, gli Slavi erano ricorsi alla cremazione. Il fuoco del rogo separava con prestezza l’anima dal corpo, rimandandola nelle regioni celesti. Il fuoco, come dicono i commentori di P. Milioukov, — Milioukov (P.), Religia Slavian (La religione degli Slavi), Mosca, 1896 — univa due sistemi di concezioni religiose, nati indipendentemente l’uno dall’altro: la deificazione delle forze della natura e il culto degli antenati. Da una parte 7 Su Cosma da Praga V. Fontes rerum Bohemicarum. Köpke in Pertz, Mon. ger. Hist. Scr. t. IX. (Cosmae chronica Boemorum), Regel, Ueber die chronik Cosmas von Prag (Dorpat, 1892). 8 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it questo fuoco personificava quaggiù il dio solare : era il messaggero celeste. Dall’altra aiutava a purificare l’anima del defunto stesso, perciò sotto diversi appellativi, prendeva gli attributi del Dio domestico, protettore della famiglia e della tribù. In questo modo il rogo sostituiva per gli Slavi il Tempio dove avrebbero potuto venire per adorare gli dei celesti, — forze della natura — e implorare la divinità famigliare, protettrice del focolare. Nel tempo in cui il cristianesimo cominciò a far breccia fra il popolo slavo, la mitologia di questo popolo continuava ad essere rudimentale e imprecisa. Gli dei slavi continuavano a frammettersi nelle forze della natura che personificavano e conseguentemente non avevano sempre una forma antropomorfica ben distinta. Anche il culto degli antenati non potè mai acquistare un carattere preciso e ben definito come quello dei Greci e dei Romani. La mitologia slava, che s’era formata a linee così ampie molto prima della storia della razza non progredì in alcun modo lungo il corso dei secoli. Si mummificò prima ancora di espandersi e restò come qualche cosa d’incompleto, come un abbozzo. E ciò spiega perchè le tribù slave, eccettuate quelle del Baltico, che ebbero sempre frequenti relazioni con rappresentanti d’altri popoli, non ebbero mai nè un culto definito, nè templi per la celebrazioni di esso, nè collegi di sacerdoti, nè un assortimento di idoli. Si ebbe una piccola eccezione nella Russia meridionale. Ivi però gli idoli apparvero molto tardi e furono introdotti per impulso dei Normanni (Vareghi). Curiosa particolarità, il principe Vladimiro, che più tardi fu chiamato «il Clodoveo della Russia» fece coronare le alture che circondano Kiev di immagini rozze di Peruno, Khors e Dajbog, e fece costruire dei templi dove, secondo la Saga d’Olaf Trygvason, gli piacque esercitare l’ufficio di sacrificatore.8 Ma alcuni anni più tardi si convertiva al cristianesimo. III. Il battesimo degli abitanti di Kiev, sotto il principato di Vladimiro, è stato raccontato da molti autori, ma sempre in modo molto sommario. — Vedere la nota B alla fine del presente capitolo — Sembra che sia stato impartito 8 Antiquités russes. t. 1. Copenh. 1850. Se facciamo qui menzione di questo monumento di folklore nordico, è perchè molte leggende islandesi e dano-norvegesi hanno origini slave, come per esempio l’OrvardOddsaga. E d’altra parte un certo numero di bylines (poemi epici russi) hanno una provenienza nordica. Ciò è spiegato dal fatto che per tre o quattro secoli si ebbe un cambiamento continuo d’idee, di credenze e di popoli tra la Russia e la Scandinavia. Le scoperte archeologiche e le iscrizioni runiche sopra gli steli funerari trovate in Svezia lo confermano in moda evidente, perchè queste pietre sepolcrali furono erette tutte in memoria di eroi morti o spariti «in Oriente», in Russia. Infine noi possediamo ancora un’altra prova dell’intensità delle relazioni scandinavo-russe, è il grande numero di nomi propri, puramente russi. di quelli che si trovano di solito nei monumenti russi del secolo IX e X decifrati fra le iscrizioni runiche e nei diversi documenti provenienti dalle provincie orientali della Svezia. 9 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it come si deve e in modo tutto militare. Dapprima Vladimiro aveva dato ordine di infrangere gli idoli che ornavano le alture a strapiombo del Dnieper e di gettarli nel fiume. Poi tutta la popolazione della città, uomini e donne, bambini e vecchi, entrò nelle acque del fiume sino a mezzo corpo e i sacerdoti greci che Vladimiro aveva condotti con sè dal Chersoneso, dove si era fatto battezzare personalmente, lessero le preghiere appropriate alla circostanza. Uno degli idoli — il famoso Peruno — invece di andare a fondo si fermò sulla riva. Immediatamente, un certo numero di Kievensi, dimenticando che erano divenuti Cristiani, si precipitarono verso la vecchia divinità e incominciarono ad adorarla di nuovo. Appreso il fatto Vladimiro fece disperdere la folla dei fedeli con la forza armata e bruciare il dio ricalcitrante. Ciò che avvenne in seguito, cioè in che modo fu evangelizzato il resto della Russia, è ancora molto meno conosciuto. — Goloubinskyi, Istoria rousskoï (Storia della Chiesa russa) t. I. pagina 173. — Pertanto, affermare, come fanno certi storici ortodossi, che tutto avvenne con la massima tranquillità e che il cristianesimo fu ricevuto in tutta la Russia a braccia aperte, è, io credo, intaccare la verità storica. Che, se non abbiamo sotto gli occhi un disegno d’insieme, ci sono noti alcuni dettagli, come dei fatti isolati, che provano il contrario e ci danno un’idea molto diversa del modo con cui l’avvenimento si svolse su tutto il territorio russo. Certo per far trionfare la fede nuova a Novgorod si dovette usare un metodo ferreo. Gli abitanti di Novgorod si erano accanitamente opposti all’introduzione di una nuova religione nella loro città. Che la sollevazione popolare sia stata repressa con rigore assoluto, ce lo accerta il detto del popolo che sopravisse a tutta la storia di Novgorod: «Pontiata battezzò col ferro, e Dobrynia col fuoco». — Goloubinskyi, op. cit. t. I. p. 185. Del resto, per molto tempo, i Novgorodiensi restarono dei cristiani che erano stati battezzati per ordine e per forza, e la loro ignoranza riguardo alla nuova fede fu tale, che persino nel XII secolo, come riferisce nel suo Questionario (Voprochanié) Kyrik, diacono e «domesticus» del monastero di Sant’Antonio, le donne di Novgorod conducevano i loro figli indifferentemente nelle chiese cattoliche dirette da missionari stranieri o presso i bizantini.9 Le stesse difficoltà per far accettare dal popolo la nuova fede si ripeterono a Rostov. La propagazione del cristianesimo in questa contrada ancora selvaggia, abitata quasi esclusivamente da meticci slavo-finnici, fu accompagnata da crudeli rappresaglie. Un certo Ian (Giovanni) Vychatich, comandante d’armi e valoroso, vi stabilì l’ordine nel 1070, facendo impiccare o bruciare vivi numerosi auguri che incitavano la folla a resistere alle autorità. Però i Rostoviensi non si 9 In quei tempi Novgorod possedeva due chiese cattoliche: la chiesa Santo Olaf che apparteneva alla Società dei mercanti scandinavi ed era stata costruita verso il 1152 e la chiesa San Pietro che costituiva la proprietà della «Ghilde» dei mercanti Germani, quest’ultima era stata eretta nel 1184. — Goloubinskyi, Istoria rouskoï tserkvi, t. I. pag. 814. 10 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it ritennero per vinti, cacciarono i due primi vescovi, Teodoro e Ilario, che erano stati mandati fra loro, e qualche anno più tardi massacrarono, il terzo: Leone. — Cronaca dì Rostov-Souzdal. Scene analoghe di ribellione si ripeterono nelle inacessibili e folte foreste di Mourom. Là delle ricche famiglie, sotto l’influenza dei loro vicini, i Bulgari maomettani della Kama, si fecero mussulmane, o restarono ostinatamente ligie al paganesimo. — Karamzine, Istoria gosoudarstva Rossyiskavo (Storia dello stato russo), III, pag. 113. Dappertutto o quasi l’introduzione della religione di Cristo tra popolazioni barbare fu accompagnata da sollevazioni, da malcontenti e da rappresaglie. Può darsi, ma non si sa niente di preciso, che nel paese di Kiev, abitato, a quest’epoca, quasi esclusivamente da Slavi dal carattere molto flessibile e condiscendente le cose siano andate a favore. Ma è certo che al nord e all’est della Russia, le cui popolazioni di ceppo finnico erano conosciute per il loro spirito critico, per la loro intransigenza, e mancanza totale di flessibilità, l’opposizione alla nuova religione è stata accanita e lunga, tanto più che ivi erano stabiliti da molto tempo dei collegi di sacerdoti ben organizzati e numerosi luoghi di riunione per la celebrazione dei culti pagani. Qualunque sia stato il grado di resistenza alla religione di Cristo da parte dei vari popoli abitanti la Russia, la Chiesa, per combattere e assoggettare il paganesimo, dovette ricorrere, tanto nel mezzogiorno come nel Nord, all’Est e all’Ovest, a molti stratagemmi, mostrare molta abilità e una considerevole tolleranza riguardo alle vecchie superstizioni fortemente radicate. Non si poteva giungere sino al punto di strappare bruscamente dallo spirito di quelle popolazioni, ancora rozze, ogni ricordo dei culti idolatri tradizionali, sopprimere di colpo le vecchie costumanze pagane, fare sparire d’un tratto le inclinazioni superstiziose così vive della razza. La Chiesa dunque in Russia agì, come molto legittimamente aveva fatto dovunque. Tentò di mantenere ciò che poteva essere mantenuto di quelle forze religiose male applicate, per purificarle sempre più e usarle a una comprensione e a una pratica crescente della nuova fede.10 La Chiesa russo-bizantina riuscì nel suo intento? Non completamente, senza dubbio, poichè in ogni tempo e in ogni luogo le vecchie superstizioni sono difficili da estirpare; è considerevole quello che la chiesa russa ha distrutto; ma non è sorprendente che sussista ancora qualche cosa del passato. Ed è per questo che ancor oggi è facile ritrovare presso il popolo russo una sopravvivenza della primitiva religiosità. Bisogna inoltre notare che i sacerdoti e i monaci bizantini cercavano di introdurre nella Russia, insieme con l’evangelo, anche l’ideale politico che predominava nella loro patria in quel tempo, vale a dire: l’idea del potere per diritto divino e il principio della cooperazione completa e costante dello 10 Come facevano altri popoli pagani, gli Slavi consideravano i cambiamenti delle stagioni sotto l’aspetto d’una lotta e di una vittoria alternativa delle differenti forze della natura. Il punto di partenza di questo movimento circolare era il primo giorno di un nuovo sole (solstizio d’inverno) e conseguentemente il primo d’un nuovo anno. 11 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it spirituale con il temporale. Ma non persistettero nel loro scopo, perchè il paese di Kiev, la cui popolazione era molto impregnata dello spirito democratico e molto gelosa delle sue prerogative e libertà comunali, non vi acconsentì. Anche questa concezione fu presa in considerazione e messa in pratica molti secoli più tardi. In realtà, i Greci riuscirono soltanto a confondere lo spirito dei Russi, a distoglierli dal loro cammino e a trascinarli definitivamente in una «sorte di ansa inacessibile alle agitazioni e a ogni specie di movimenti, allora quando i popoli dell’Europa occidentale, imbarcati sul vassello romano, entrarono in un mare infinito di attività, di rischi, di poesia e di creazione, al che si mescolò un nascosto e tremendo travaglio interno». — Rozanov, L’Eglise russe (trad. da Limont Saint-Jean e Denis Roche) Paris, 1912. NOTE Nota A. — Ecco come gli storici bizantini raccontano questa storia. Si sarebbe trattato d’un corpo di spedizione russo montato su 200 navi e che, dopo avere devastato le coste dell’Asia Minore, avrebbe minacciato Costantinopoli. La città venne risparmiata dal sacco per vero miracolo. Le vesti della Madonna erano state poste nel mare. Immediatamente si sollevò una orrenda tempesta che scompigliò tutte le navi russe. Le relazioni degli scrittori bizantini riguardo a questo episodio sono: Le due omelie di Fozio (Müller, Frag. hist. graec, t. V, pp. 162-173), Georgius Monachus Cont. (Cor. scr. hist. byz, col. 21), Teofane Cont. (Cor. scr. hist. byz. L. IV Cap. 33) e Giovanni Zonaras (Cor. scr. hist. byz. T, III - p. 404). I russi allora si sarebbero ritirati per ritornare due anni più tardi a farsi battezzare dal patriarca Fozio. Per il nome «Russi» usato in questi racconti, e che può generare confusione, noi abbiamo visto più sopra che i Finni chiamavano così, tutti i guerrieri e avventurieri scandinavi che soggiornavano nella loro terra o che passavano di là per andare nel paese di Kiev. Però bisogna ritenere ben presente che nei codici bizantini il vocabolo oi’ ‘Pvz (i Russi) indica i Vareghi Normanni. In una antica versione della Cronaca Veneta il cui autore è un certo Giovanni (Urseolus) Diacono, contemporaneo di Vladimiro «il gaio sole» principe di Kiev, è detto che i nemici di Bisanzio che assediarono Costantinopoli nell’865 furono dei Normanni «Normannorum gentes» (Pertz, Monum. Germ. Hist. Scr. VII, pp. 1-4 (Johannis Diaconi Chronicon Venetum 18.25). Liutprando di Cremona era del medesimo avviso quando dava a questi Russi il nome di Normanni «Rusios quos allo nos nomine Nordmannos apellamus» (Liutprandi Antapodosis p. 277 ed. Pertz, t. III). Infine, proprio a loro testimonianza, raccolta dall’imperatore Luigi il Bonario e confermata da Prudenzio Galindo vescovo di Troyes (Annalium Bertianorum, parte seconda, pag. 22-35) questi «Rhos» si dicevano d’origine svedese (sueonum). Adunque la spedizione contro Costantinopoli, nell’anno 865, non fu opera 12 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it dei cittadini nati nel paese di Kiev, ma d’un gruppo di Normanni, sia assoldati dal principe di quella contrada, sia spinti volontariamente da interesse personale, come avveniva spesso allora. A meno che questa spedizione non sia stata organizzata dagli abitanti delle spiagge del Mar Nero, miscuglio di Goti e di Iranici. Su questi popoli noi troviamo delle informazioni presso lo storico Procopio di Cesarea nelle sue opere De bello Ghotico e De aedificiis e anche presso Niceta di Paflagonia il quale accerta che sono stati gli abitanti lungo le rive della Tauride, coloro che diressero questa spedizione. Che questi GoticoIranici o Normanni siano ritornati a Costantinopoli due anni più tardi per farsi battezzare, dapprima può sembrare un fatto singolare, sebbene allora essere battezzati dai Greci era una cosa comune. Ma i Goti della Tauride aveano già conosciuto il cristianesimo durante il loro soggiorno nell’Asia Minore. Ebbero per loro primo vescovo, nel IV secolo, un certo Ounila, che rivecette la investitura dalle mani stesse del patriarca di Costantinopoli, Giovanni Crisostomo. Più tardi fecero parte della diocesi di Tauride che Bisanzio creò secondo il loro desiderio, nella speranza di conglobarli più facilmente nell’impero. Quanto ai Normanni viventi a Kiev presso i principi o facenti parte della loro «legione» (droujinniki) non era raro il caso di vederli convertirsi secondo il rito greco. Ma ciò che può far dubitare di fronte al racconto del battesimo collettivo dei Normanni a Costantinopoli, è il fatto che non s’è mai precisata la data d’un tale avvenimenti. Alcuni affermano che avvenne sotto il regno dell’imperatore Michele III il quale fu assassinato nel settembre dell’anno 867, alcuni vogliono che non sta stato Fozio colui che battezzò quei «Russi», ma il patriarca Ignazio sotto l’imperatore Basilio. Nota B. — Una della versioni di questo racconto fu edita da Anselmo Bandouri nel suo testo greco accompagnato da una traduzione latina. Nella edizione di Bonn del Corpus bizantino, costituisce un’appendice alle opere complete di Costantino Porfirogeneto (III, p. 358-364). A questo racconto mancava il principio che W. Regel ebbe la fortuna di trovare nell’anno 1866 nella biblioteca del monastero di S. Giovanni Evangelista nell’isola di Patmos. Ma, preso nel suo insieme o nei suoi dettagli, questo racconto costituisce una molto povera compilazione del XIII o XIV secolo fondata quasi esclusivamente su fonti scritte e di seconda mano. L’autore, che doveva essere un monaco greco, confonde data, epoca e regione. È così che, riferendosi a una fonte a noi perfettamente ignota, fa andare il filosofo Cirillo da Costantinopoli a Kiev, soltanto per insegnare ai Russi il suo famoso alfabeto slavo. Disgraziatamente attraverso questo Greco anonimo noi sappiamo convenevolmente che Cirillo non andò mai a Kiev durante il regno di Vladimiro e ciò per la semplice ragione che a quest’epoca egli era morto già da lungo tempo. È perfettamente vero che nell’anno 858 o 860 avea ricevuto la missione 13 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it da parte del patriarca di Costantinopoli di andare a catechizzare i pagani Khazars. Ma per andarvi fece prudentemente il giro delle possessioni dei principi di Kiev e ritornò a Costantinopoli dopo aver convertiti 200 Iranici. (Zivot sv. Konstantina recenego Cyrilla; C. VIII-lX. «Fontes Rerum Bohemicarum», T. I., Praze, 1873). Tutto ciò approva una volta di più come siano vaghi e contradittorii i dati che possediamo su i principali avvenimenti di quell’epoca lontana. CAPITOLO II. Bisanzio e lo scisma d’Oriente Per trovare la spiegazione precisa e netta dell’avvenimento capitale della storia della Chiesa ecumenica, che si chiama «Scisma d’Oriente» non basta studiarlo come una questione astratta di teologia. Isolandolo dalle circostanze in mezzo alle quali avvenne, si corre il rischio di farne un avvenimento anormale; lo si spiega naturalmente, se lo si pone nel clima che gli corrisponde, cioè a dire nella società bizantina dei secoli IXXI. Perciò prima di parlare dello scisma, noi getteremo uno sguardo sul luogo dove nacque, si sviluppò e si affermò. I. Trasformando l’antica colonia della Megaride Byzantium in una capitale e dandole il proprio nome, Costantino il Grande compì il gesto iniziale che doveva ben presto rompere definitivamente l’unità dell’impero romano. Veramente, Costantino e i suoi successori immediati credevano di continuare a governare nello stesso tempo le provincie dell’Oriente e dell’Occidente; e questo, unicamente perchè non s’erano accorti dell’abisso profondo che, dal punto di vista morale e materiale, separava le loro due capitali, e non si erano reso giusto conto che tutte e due rappresentavano un mondo a parte, realmente separato e diversamente basato. La differenza di razza fra Greci e Latini, così accentuata all’epoca pagana, ma temperata nei primi secoli del cristianesimo per il comune ardore nella nuova fede, riapparve al momento in cui questo ardore diminuì e quando alla popolazione puramente greca della nuova capitale si aggiunsero, sempre in maggior numero, degli elementi etnici d’origine slava e asiatica. Anche i successori di Costantino si chiamarono imperatori dei romani e si sforzarono di mantenere sulle rive del Bosforo, almeno in parte, l’uso del latino, ma perdevano sempre più non solamente il diritto di portare questo 14 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it titolo, ma anche l’aspetto fisico del Romano. Divenivano Greci per essere in fine dei despoti orientali. Evidentemente questa trasformazione non avvenne da oggi a domani; vi occorsero dei secoli; ma dopo la morte di Giustiniano l’orientalizzazione dell’impero di Bisanzio marciò a gran passi. Al principio del IX secolo le impronte dell’anima bizantina sul mondo asiatico erano considerevoli; bastò qualche altra dozzina d’anni per trasformare Costantinopoli in una capitale esclusivamente orientale. — Dvornik, Les Slaves, Rome et Byzance au IX° siècle, Paris 1926 (pag. 28). «Un fatto, scrive M. Dvornik, caratterizza mirabilmente questa orientalizzazione e ne mostra i tratti principali: il movimento iconoclasta. Per rendersene conto basta considerare lo sviluppo di questa eresia. La stessa sua apparizione è un fenomeno asiatico: le idee iconoclastiche vengono dall’Oriente. Anche nell’impero bizantino, i promotori di tali idee erano originari dalle provincie orientali, Leone Isaurico era nato in Siria, a Germanicia, e più tardi fu stratega nell’Anatolia, dove allora certamente sotto influenze orientali, c’era ostilità verso il culto delle immagini. Dopo le lotte iconoclastiche nient’altro ci spiega meglio l’orientalizzazione di Bisanzio, dell’arte che ivi si coltivava allora. Bagdad, la capitale del Califfato degli Abbassidi, servì di modello agli architetti e agli artisti bizantini. La capitale dell’impero divenne talmente orientale che poteva rivaleggiare con la stessa Bagdad». — Dvornik, op. cit. p. 29. Una sì fatta evoluzione dell’impero doveva necessariamente avere una profonda ripercussione sulla Chiesa bizantina, tanto più che questa chiesa, nel corso dei secoli, aveva permesso all’imperatore erede del grande pontificato degli imperatori romani, di esercitare su di essa un’autorità sempre più gravosa. Infeudata allo stato, dovette seguirlo fatalmente sullo stesso cammino. Si allontanava così, poco a poco e sempre più, dalla Chiesa occidentale, sua sorella. Il giorno in cui l’impero, grazie ai mutamenti che avvennero in Europa, per le grandi emigrazioni, si vide obbligato ad abbandonare le sue aspirazioni all’egemonia universale, la Chiesa bizantina perdette a sua volta il proprio aspetto d’universalità. Però, molto prima d’ora, era stata divisa e scossa da lotte dogmatiche sterili e spossanti. Ancora ai suoi tempi Aristotele avea notata la tendenza dell’orientale alla metafisica, alle sottigliezze dialettiche e alle discussioni su tutto e su nulla. Tutte queste particolarità si trovavano riunite a Bisanzio in proporzioni tali, che alla fine dei conti posero la Chiesa in uno stato d’immobilità dal quale non doveva più togliersi. Le numerose eresie che dividevano l’Oriente cristiano dopo il IV secolo aveano fatto nascere, in modo impressionante, le passioni popolari. Gli imperatori, che, quasi sempre, si davano l’aria di teologi e, come abbiamo già detto, intendevano governare la Chiesa come lo Stato, erano intervenuti in tali questioni. Tali interposizioni però erano state novella causa di tumulti e di sedizioni. 15 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it Per reciproca conseguenza: se lo Stato agitava la Chiesa, la Chiesa agitava lo Stato; i monaci, con lena sempre crescente, esercitavano sul popolo una influenza fanatica; se lo rendevano fedele con forme esteriori di culto, ad esempio, con le immagini, con reliquie, lo trascinavano a loro agio contro i vescovi, i patriarchi, i funzionari e persino contro gli imperatori. — Bayet, Grande Encycl. t. VIII, pp. 550 e seg. — L’opera degli imperatori iconoclasti fu solamente una reazione contro tale entusiasmo per le forme esteriori del culto, che si opponevano all’azione del potere imperiale, come vogliono alcuni storici? Checchè ne sia, se avevano in mente soltanto questo disegno, s’intromisero a sproposito nell’affare, poichè non scatenarono soltanto una formidabile lotta nell’interno dell’Impero, lotta che durò molti anni, ma la loro politica per conseguenza fu causa della separazione dall’Oriente della Chiesa romana e dell’Italia. Difatti, l’Italia centrale e Roma obbedivano piuttosto al Papa che all’imperatore e, nel conflitto fra questi due poteri, Roma era sempre con i papi. Quando gli editti contro le immagini arrivarono in Italia, le popolazioni pensarono di rendersi indipendenti, mentre Gregorio II, Gregorio III e successori da parte loro difendevano con energia il culto delle immagini. Questo fu il primo momento di vera discordia fra la Chiesa romana e quella di Bisanzio. Ma si presentò ben presto una nuova causa di discordia. Il papato, minacciato dai Longobardi, non potendo più contare su Bisanzio, che, tutto occupato nelle lotte contro i Persiani e gli Arabi si staccava sempre più dalle provincie occidentali dell’antico impero romano, domandò aiuto ai Franchi. Conseguenza di questa domanda fu che, nel Natale dell’anno di grazia 800, Carlomagno venne incoronato a Roma dal papa Leone III, perchè «allora a Costantinopoli non c’era imperatore, dice un contemporaneo, e i Greci erano governati da una donna». Questo gesto sorprese e poi scandalizzò Bisanzio. E quantunque non si sia mai misconosciuta la supremazia del patriarca di Roma, della presbutera Romé, e sebbene, d’altra parte Carlomagno, desiderando salvare l’idea dell’Impero uno e universale, volesse sposare l’imperatrice Irene, Bisanzio e la sua Chiesa continuarono a persistere in rivendicazioni storiche, del resto puramente teoriche. Alla fine questa intransigenza e questo orgoglio di Bisanzio si rivolsero contro di essa. Poichè, se crollava l’idea dell’Impero universale, non spariva l’idea di universalità. I papi la salvarono sbarazzandola dalle circonscrizioni territoriali e formulando in tutta la sua ampiezza, l’idea evangelica della Chiesa universale. — Dvornik. Op. cit. p. 80. Lo scacco subito da Bisanzio a Roma nell’anno 800 era tanto più sensibile al suo amor proprio e alla sua vanità, in quanto che la liquidazione delle questioni iconoclastiche apportava proprio in questo momento nuovo vigore alla Chiesa d’Oriente. Per celebrare questa vittoria e consolidare la dottrina ortodossa, gli iconoclasti stabilirono la festa dell’ortodossia, che fu celebrata per la prima volta nell’843. 16 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it Ma, siccome Roma non vi prese parte, la cerimonia non fu che una riunione famigliare e non una festa della cristianità. Del resto, stava per essere ingaggiata una lotta aspra ed estremamente serrata fra i pontefici romani e i patriarchi di Costantinopoli, lotta che doveva inasprire ben presto Fozio. — Hergenröther, Photius, Patriarch von Konstantinopol, Regensburg 1867-1869. — Il futuro patriarca, nato verso l’anno 827, apparteneva ad una famiglia ricca e di alto lignaggio. Il padre di Fozio era lo spatario Sergio. Il patriarca Tarasio era suo prozio ed era imparentato con Teodora e Bardas, il reggente dell’impero durante il regno di Michele III, per mezzo di uno dei suoi zii, che avea sposato Salomaria, sorella della celebre imperatrice. Venuto al mondo nel momento in cui Bisanzio ritrovava un’apparenza della sua gloria passata nella rinascenza delle lettere e della filosofia, Fozio potè acquistare un sapere quasi universale. È certo, che ancora giovanetto, esercitò una grande influenza sul fiore della gioventù bizantina, e fu un eccellente professore di teologia e di filosofia e un brillante conferenziere dalla parola flessibile e persuasiva. Ma la professione di scolaro e di oratore non poteva contentarlo. S’introdusse nell’amministrazione imperiale e avendo ottenuto e compiuto con successo una delicata missione in Oriente, si vide ben tosto ricompensato con l’elezione a segretario di Stato e con la dignità di protospatario. Al tempo in cui Fozio era al servizio dell’imperatore e occupava dei posti amministrativi, il seggio patriarcale era occupato da un santo monaco e pio asceta, l’eunuco Ignazio. Era un uomo cocciuto, severissimo verso sè e gli altri e inoltre un nemico giurato della filosofia e delle letterature profane che considerava come i peggiori nemici della chiesa. Ma le sue opinioni, sebbene fossero viste di mal’occhio da un gran numero di dignitari dell’impero, non avrebbero potuto interrompere la carriera del patriarca, se non si fosse fatto nemico mortale il reggente, privandolo un giorno della comunione pasquale, per punirlo delle sue dissolutezze e rifiutandosi d’imporre la Corona monacale a l’imperatrice Teodora e alle sue figlie religiose. Per questo fatto i giorni del patriarca erano contati. Bardas portò all’imperatore che si chiamava Michele III, il decreto che deponeva Ignazio. Ma Ignazio rifiutò di. sottomettersi. — Théophanis Cont. (Corp. scr. hist. byz., Lib. IV, 32), e anche Simeone Magister, 28. Per mettere alla ragione l’ostinato vecchio, che era difeso soltanto dai monaci, la cui potenza e prestigio erano molto diminuiti, il reggente e il suo amico e parente Fozio precipitarono le cose. Bardas invitò il compagno a sostituire Ignazio. Fozio accettò. In quattro giorni gli furono amministrati i quattro ordini minori. Il quinto fu ordinato sacerdote; il sesto fu consacrato dal vescovo di Siracusa, Gregorio Asbestas. Quest’ultimo era stato deposto da Ignazio. Agendo così Bardas e Fozio erano sicuri d’avere dietro di sè la corte e una gran parte del clero, che le severità d’Ignazio avevano rese molto malcontente. Ma si erano dimenticati di far conto di Roma, E questa dimenticanza pesò 17 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it sino al punto di rompere l’ultimo filo che teneva unite le due Chiese. Divenuto patriarca, Fozio s’occupò molto della Chiesa e del suo prestigio tanto all’interno come all’estero. Mise termine all’eresia delle immagini e riuscì a far ritornare all’unità dei monofisiti e persino dei pauliniani. Insomma, egli vedeva e voleva fare cose grandi e lo disse in una sua lettera al Papa Nicola I (861) enumerando i suoi successi contro gli eretici. Ma bisognava essere riconosciuto dalla Santa Sede come patriarca di Bisanzio. Fozio si dichiarava pronto a confessare pubblicamente il primato del pontefice romano. — Photii Costantinopolitani patriarchiae, Opera omnia, Tomus secundus. Epist. II, (Migne, Patrologia graeca t. 102 cc. 585-618). Ma Nicola I non si affrettava a troncare la contesa. — Nicolai papae I Epistolae et Decreta (Migne, Patrologia Latina t. 119). Ignazio non avea mai avuto con la Santa Sede relazioni cordiali. Anche lui era un Bizantino che mirava al prestigio della sua Chiesa e desiderava di estendere la sua influenza. Per di più questa non era la prima volta che a Bisanzio si vedevano in contesa la corte e l’autorità ecclesiastica, non era la prima volta che un patriarca era deposto e veniva nominato il successore, lui vivo. Perciò quando i messi dell’imperatore e di Fozio vennero a Roma, all’inizio dell’anno 862, benchè la deposizione d’Ignazio fosse chiaramente poco canonica, il Papa si guardò bene dal prendere la difesa per lui senza riserve. Ciò che cambiò la situazione fu il giungere a Roma di numerosi monaci partigiani del patriarca scaduto, i quali erano fuggiti da Costantinopoli per paura di rappresaglie. — Vedere la nota A alla fine del presente capitolo. — Col pretesto del concilio convocato per la primavera dell’anno 863, Nicola I indirizzò al pseudo-patriarca una lettera che lo privava di ogni dignità ecclesiastica. — Dvornik, op. it. p. 63. La partita era definitivamente perduta per Fozio. Ma, inaugurando la sua campagna contro i Latini, non portò subito la controversia sul terreno delle prerogative del papa. Tanto più che la supremazia del vescovo di Roma era riconosciuta dalla grande maggioranza dei suoi compatrioti. Da principio la lotta fu esclusivamente dogmatica. Fu in questo modo che Fozio gettò sulla bilancia la imbrogliata questione della processione dello Spirito Santo. II. La chiesa d’Oriente differiva dalla chiesa di Occidente per certe costumanze. Ammetteva infatti il matrimonio dei preti e non obbligava i suoi fedeli a digiunare il sabato. Invece aveva la quaresima più lunga e più rigorosa. Fatto più importante, essa era il luogo dove sorse la maggior parte delle eresie conosciute. Una delle prime fu quella degli Ariani, della quale, dopo la morte di Ario furono propagatori influenti, Macedonio vescovo di Costantinopoli, che sviluppò la sua eresia in ciò che concerne lo Spirito Santo, e Maratonio, vescovo di Nicomedia. Si sa che il primo concilio ecumenico, riunito a Nicea nell’anno 325, condannò la dottrina di Ario e definì la consustanzialità e la coeternità del Padre e del Figlio. Ma, siccome 18 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it non stabilì alcun dogma riguardo allo Spirito Santo, dovette essere completato con quello di Costantinopoli nel 381 (secondo concilio ecumenico ), che condannò i seguaci di Macedonio aggiungendo al simbolo di Nicea un paragrafo così concepito: «Credimus in Spiritum Sanctum, Dominum et vivificantem, et Patre procedentem, et cum Patre et Filio adorandum et conglorificandum, qui locutus est per prophelas». — Mansi (Collectio Conc. Concilium Constantin. II, t. III, c. 566). La formula «ex Patre procedens» fu adottata ad hominem (dal Vangelo secondo S. Giovanni, XV, 26). — Spiritum veritatis, qui a Patre procedit — non in un senso esclusivo, ma affermativo, quantunque apparisse chiaro che lo Spirito Santo non è una creatura, e non procede solamente dal Figlio, ma anche dal Padre. Però, una volta ammessa la divinità delle tre persone, sulla questione di sapere quali erano, in Dio, le relazioni del Figlio con lo Spirito Santo, i concili di Nicea e di Constantinopoli, preoccupati sopratutto di reagire contro l’eresia ariana, restavano muti. Anche la Chiesa greca preferì tenersi alla lettera e, sebbene in nessuna parte si trovasse cenno di una espressione esclusiva, come: «ex solo Patre», generalmente fu per questa soluzione. Fu più tardi che uscì da questa riserva e ancora molto timidamente; e in casi isolati. Però il giorno in cui il patriarca di Costantinopoli, San Tarasio, lesse la professione di fede dinanzi al dodicesimo concilio di Nicea (787) il settimo ecumenico: «Credo in unum Deum Patrem omnipotentem et in unum D. J. C. Filium Dei et Deum nostrum… et in Spiritum Sanctum, D. et vivificatem, ex Patre per Filium procedentem…», procede dal Padre per mezzo del Figlio (Mansi Col. S. Conc. t. XII col. 1121), formulò un théologumenon, cioè emise una opinione dogmatica, che fu riconosciuta ufficialmente da un concilio ecumenico. Del resto, molto prima del concilio, il patriarca aveva avuto cura di mandare la sua professione di fede a tutti i patriarchi d’Oriente, e d’altra parte la lettura pubblica di questa professione, lungi dal provocare sorprese, fu ammessa con tutta naturalezza dai legati e da tutti i Padri presenti al Concilio. Frattanto la Chiesa Occidentale, appoggiandosi all’insegnamento dei suoi Padri, Sant’Ambrogio, Sant’Ilario e sopratutto Sant’Agostino,11 fu ben presto 11 I Libri carolingi, compilati nel 799 per ordine di Carlomagno riferiscono un attacco contro il Concilio di Nicea e biasimano San Tarasio d’aver detto che lo Spirito Santo procede dal Padre per mezzo del Figlio invece di dire: Lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio come crede universalmente tutta la Chiesa : Ex Patre et Filio Spiritum Sanctum, non ex Patre per Filium, procedere recte creditur et usitate confitetur. Queste ultime parole lasciano intravvedere che alla fine dell’VIII secolo la dottrina del Filioque era estesa a tutto l’impero Franco. Il papato rispose come si doveva a queste ingiuste recriminazioni. Adriano I (772-795) alzò la voce in favore del concilio di Nicea e dell’ortodossia di Tarasio. S’appellò alla testimonianza dei Padri per dimostrare che la formula del patriarca era ortodossa e che bisognava accettare con venerazione i decreti del II Concilio di Nicea (cfr. Palmieri, in Dict. de Théol. cath., t. V. col. 2313). 19 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it costretta a esprimere e fissare in modo preciso e logico la dottrina che presiedeva alla processione dello Spirito Santo. Mansi Collect. S. Conciliorum, t. IX col. 981. Fu durante il terzo Concilio di Toledo, in Spagna, che si riunì nel 589, come i due precedenti, per combattere il Sabellianismo che, si inserì, si crede, per la prima volta nel simbolo il Filioque, — (o del Figlio). L’origine spagnola del Filioque non solleva alcun dubbio, non è certa soltanto la data di questa aggiunta. E fu all’altra sponda del Mediterraneo dove risuonò la prima protesta de’ Greci non contro la dottrina stessa del Filioque, ma contro la sua inserzione nel simbolo. A Gerusalemme, nell’808, dei monaci d’Occidente furono accusati da monaci orientali di cantare il Credo con l’aggiunta di questa nuova parola. Si deferì il caso a Leone III. Il Papa affermò (809) che lo Spirito Santo procedeva ugualmente dal Padre e dal Figlio, ma si dolse che gli occidentali avessero cominciato, per propria iniziativa, a cantare il Simbolo con tale aggiunta. Bisognava riportarsi alle spiegazioni date recentemente sul dogma, al concilio d’Aix-la-Chapelle (tenuto lo stesso anno, 809) senza aggiungere niente al Simbolo di Nicea-Constantinopoli il cui testo latino e greco era inciso su insegne d’argento appese alla soglia della confessione di San Pietro. Leone III, parlando così, aveva semplicemente giudicato che il momento non era favorevole per aggiungere al Simbolo una nuova formola dogmatica. Ma era talmente convinto della verità del Filioque ch’egli non domandò la soppressione immediata di detta formula; — Il concilio di Roma dell’810 confermò la dottrina del Filioque, ma senza aggiungere la parola al Simbolo. Non condannò le chiese di Spagna e delle Gallie, perchè si attenevano ai loro costumi e non seguivano i suoi consigli. (Palmieri, Op. cit., t. v. col. 2330-2331). Del resto, è fuor dubbio che i papi si siano sempre pronunciati in favore della processione dello Spirito Santo dal Figlio ma per quello che concerne l’aggiunta ufficiale del Filioque al Simbolo di Costantinopoli, la Chiesa romana ha giudicato bene di indugiare. A più riprese, non ha ceduto alle istanze reiterate dei figli più devoti. Temeva che l’inserzione nel Simbolo d’una formula dogmaticamente vera sgomentasse lo spirito bizantino, e seminasse nella Chiesa la zizzania di nuove eresie. I fatti disgraziatamente confermarono queste tristi previsioni. L’uso di recitare il Simbolo col Filioque finì per prevalere a Roma, ma non si sa bene in qual tempo. Secondo un anonimo greco, il primo a inserire nel Simbolo il Filioque sarebbe stato papa Cristoforo (903-904), ma generalmente si ammette che ciò avvenne dietro istanza dell’imperatore Enrico II (1002-1024) e che il Papa Benedetto VIII (1012-1024) permise che fosse cantato a Roma il Simbolo alla messa con l’aggiunta del Filioque. Il papa si decise a questa innovazione dopo aver domandato consiglio a una Commissione composta di vescovi e di cardinali. — Palmieri, Dict. de Théol. cath. t. v. col. 2317. Così adunque, se vi era qualche divergenza di vedute tra Orientali e 20 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it Occidentali riguardo all’interpretazione e all’applicazione del dogma della processione dello Spirito Santo, detta divergenza non costituiva un conflitto dogmatico e non usciva affatto dal dominio dell’ortodossia, tanto più che i concili non aveano definito niente a questo riguardo. Infatti è fuor di dubbio che molto prima di Fozio la dottrina del Filioque era conosciuta e professata dalle Chiese di Spagna e delle Gallie. I Greci però, sempre alle prese con nuove eresie non protestarono contro questa «novità antievangelica». Per bocca dei suoi dottori più illustri (Fozio stesso cita nella sua grande opera Mystagogia, — Hergenröther, Photii Constantinopolitani Liber de Spiritus Sancti Mystagogia, (Ratisbona 1857) e anche Migne (Pat. gr. t. 102 col. 263-542) — come favorevoli al Filioque Sant’Agostino e Sant’Ambrogio), la teologia latina si pronunzia per il Filioque. Il Filioque penetra nelle professioni di fede dei concili d’Occidente, e anche nel Simbolo di Costantinopoli. Ma la Chiesa greca non trova niente da ridire. I monaci greci di Palestina si sgomentano sentendo i loro fratelli cantare il Simbolo con il Filioque, però la gerarchia greca da parte sua non si dà cura per la difesa dell’Ortodossia. Ma il papa Nicola I si rifiuta energicamente d’appoggiare la causa di Fozio e d’abbandonare Ignazio alle persecuzioni de’ suoi nemici. La Santa Sede proclama illegale l’elevazione di Fozio al seggio patriarcale. E il Filioque è posto sul tappeto. — Palmieri, Dict. de Théol. cath. t. v. col. 2311-12. — Dunque, se Fozio fosse stato assolto e riconosciuto da Roma, egli non avrebbe neppure accennato alla questione del Filioque, non avrebbe rotte le sue relazioni con la Chiesa romana. Più che al Filioque gli autori dello scisma greco, miravano al primato dei papi. In una lunga lettera indirizzata ai patriarchi d’Oriente, — Photii Op. cit. part. sec. Epist. XIII (Migne, Patr. graec. t. 102, col. 721 e seg) —, immediatamente dopo un concilio convocato a Costantinopoli nell’867, Fozio accusava i Latini d’oltraggiare la fede e la disciplina della Chiesa perché avevano aggiunto il Filioque al Simbolo, facendo così procedere lo Spirito Santo dal Figlio come dal Padre; perchè favorivano il despotismo del Papa, imponevano il digiuno di sabato, permettevano l’uso del latte, delle uova e del formaggio in quaresima e imponevano il celibato ai preti. Riguardo al concilio, suo compito principale sembra (gli atti del concilio stesso non sono stati conservati) che sia stato di deporre il Papa, di scomunicare anticipatamente tutti coloro che avessero relazioni con lui e di proclamare Fozio patriarca universale.12 Dava ancora a Fozio la giurisdizione suprema della Chiesa. — Labbe (P. Filippo) Sacrosancta concilia, vol. VIII, pag. 471. — Inoltre, per fare accettare agli Orientali il suo nuovo titolo e tutte le prerogative che seguivano, il patriarca e i suoi partigiani procurarono in ogni modo di fare 12 Una copia degli atti del concilio fu indirizzata all’imperatore Luigi il Bonario (il Pio). Al concilio si aveva pregato per lui e l’imperatrice Ingelbert, dando loro il titolo di Augustissimi. Fozio forse sperava di trovare in loro degli alleati per la lotta contro il papato. 21 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it entrare nella testa dei Bizantini l’idea che i papi dovevano il loro primato al solo fatto d’essere stati vescovi della capitale dell’Impero e che l’avevano perduto a profitto del vescovo di Costantinopoli il giorno in cui la capitale era stata trasferita in questa città. — Vedere la nota B alla fine del presente capitolo. Per rendere definitiva la scissione con Roma, Fozio s’affrettò a cacciare da Bisanzio i legati romani Domenico e Formoso. Dopo ciò egli poteva giustamente credersi all’apogeo della fortuna. Ma in una città come a Costantinopoli e in un luogo dove tutto gravitava intorno al trono del «basileus» si era più che in qualunque altro luogo esposti a un ritorno della sorte la più crudele e imprevista. Fozio non attese lungo tempo per farne esperienza. L’anno 867, in cui s’era tenuto il concilio che avea consacrato il suo trionfo, perdette nella persona di Michele III il suo più grande protettore. L’imperatore bizantino, spinto dall’opinione pubblica aveva dovuto associare agli affari dello stato uno degli ufficiali della sua corte, giovane barbaro, poco civilizzato, che sapeva appena leggere e scrivere, ma che era ritenuto un uomo energico e intelligente. Basilio, figlio d’un contadino macedone, venuto all’età di 25 anni a Costantinopoli, seppe farsi strada a forza d’intrighi e grazie al prestigio della sua forza fisica. Infatti quando delle persone gli davano eccessivamente noia, egli le sopprimeva: in tal guisa procedette con il reggente Bardas, che gli sbarrava la via, e con lo stesso imperatore. Un bel giorno il 24 Settembre 867, lo giudicò un sovrappiù su questa terra e conseguentemente lo fece assassinare in un banchetto che gli offriva Teodora, sua madre. Poi fu la volta di Fozio, che era stato sempre antipatico a Basilio. Ma siccome non si poteva uccidere un patriarca palesemente e proprio a Bisanzio, lo rinchiuse in un convento per mandarlo più tardi in esilio. Però era stato scritto che facilmente non si sarebbe avuta ragione di Fozio. Profittando dei cambiamenti che s’erano manifestati nell’opinione pubblica riguardo a Basilio, cambiamenti causati specialmente dalla necessità di dare dei pegni alla parte nazionalista, di cui il patriarca decaduto era uno dei cardini, Fozio ottenne grazia e ritornò a Costantinopoli. Proprio allora il patriarca Ignazio, che, dopo la disgrazia di Fozio, era stato solennemente reintegrato nella sua alta carica dall’VIII concilio ecumenico, tenuto nell’869 a Costantinopoli e che condannò Fozio, moriva. Fozio non frappose indugio a farsi nominare per la sede vacante. Riuscì anche a essere riconosciuto dal papa Giovanni VIII come successore legittimo di S. Ignazio. Però non restò per lungo tempo in buoni rapporti con Roma. Ben presto spinto dello spirito cattivo incominciò nuovamente ad imprecare contro il papato e contro i Latini. Per contrapposizione all’VIII concilio ecumenico che l’aveva giudicato, Fozio riunì nell’879 un sinodo composto unicamente da vescovi appartenenti alla Chiesa d’Oriente che, sulle sue istanze, anatematizzò il concilio precedente, proclamò l’uguaglianza fra il patriarca di Roma e di 22 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it Costantinopoli e proibì di accordare delle nuove prerogative al seggio di Roma e sostenne che non si doveva aggiungere niente (aggiungere cioè il Filioque) al Simbolo. — Mansi, Pseudo-Synodus Photiana. Coll., t. XVIII° col. 366-519. Tre anni più tardi, con un nuovo gesto, allontanò ancor più la Chiesa greca da Roma e dall’Occidente in generale. Questo gesto fu la lettera al Patriarca d’Aquileia, nella quale, per la prima volta, usò la parola Eresia a proposito dell’aggiunta del Filioque al Simbolo. — Vedere la nota C alla fine del presente capitolo. Dopo la morte di Basilio il Macedone (886) il governo di Leone VI, detto il Filosofo, fu caratterizzato da una reazione sistematica contro gli uomini e la politica del regno precedente. Nell’888 Fozio era una volta di più costretto ad abbandonare il suo seggio, che fu dato a Stefano, fratello dell’imperatore. Fu relegato in un monastero d’Armenia dove morì. III. Dopo la seconda deposizione di Fozio sino al patriarca Michele Cerulario (1043-1058), fatta eccezione degli anni del patriarcato di Sisinio (995998),13 cessarono le contese fra Roma e Bisanzio a proposito del Filioque, senza che le relazioni fra le due chiese avessero preso un aspetto normale. Le relazioni fra l’Oriente e l’Occidente divenivano giorno per giorno sempre più tese. I pretesti non mancavano. Bisanzio aveva ogni potere spirituale sulla Bulgaria ed evidenti erano i progressi della Chiesa greca nell’Italia meridionale, grazie alla fondazione di chiese e di monasteri. — Liutprando di Cremona, De Legatione Costantinopolitana (Pertz, Monum. Germ. hist. t. III). — D’altra parte, nel dominio politico gli imperatori bizantini persistevano a non volere ratificare l’avvenimento dell’anno 800. Per essi nel mondo v’era un solo potere imperiale, il loro, dopo che Costantino aveva trasferito a Bisanzio tutta la potenza politica dell’antica Roma. Così adunque il patriarca d’Antiochia poteva annunciare la sua elezione al papa Leone IX, inviandogli la sua professione di fede e poteva ricevere dal papa nel 1053 una risposta molto affabile e piena di gioia, per avere il patriarca fatto «rifiorire lo zelo della Chiesa d’Antiochia», senza che queste cortesie diplomatiche fossero in grado di attenuare l’ostilità nascente o di dissipare i malintesi. Il disaccordo che esisteva fra Roma e Bisanzio e che era la conseguenza naturale dell’agitazione creata da Fozio nella Chiesa, era già troppo grande, troppo profonda, perchè un caso isolato, qualunque fosse la sua importanza, potesse agire da freno. E frattanto si poteva affermare che nessuna rottura brutale, completa e 13 Seguendo le traccie di Fozio, Sisinio firmò — o forse un copista ignorante gliela ha attribuita, — una lettera enciclica nella quale rimproverava ai latini l’aggiunta del Filioque. Ma questa lettera non ha niente di originale nè pel suo tono nè per la sua forma, non è che un rifacimento della famosa missiva di Fozio ai patriarchi d’Oriente. 23 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it definitiva si sarebbe prodotta fra la chiesa greca e la chiesa romana, se tale non fosse stata la volontà espressa di Michele Cerulario. Per le sue origini e per il suo carattere, Michele Cerulario superava di molto Fozio. Meno sapiente del celebre predecessore sul seggio patriarcale di Costantinopoli, sebbene fosse molto versato nella dialettica e nella teologia, Cerulario da principio non sembra destinato alla Chiesa. Figlio d’un onorevole funzionario imperiale, venne alla corte e si trovò subito a capo d’un complotto diretto nel 1040 contro il governo oppressore di Michele il Paflagone. Quale scopo aveva nell’agire così? «Simpatizzava per la tirannia — scriveva uno dei suoi biografi, — Giovanni Seylitzès (il Curopalata, Opere (Corpus. Scrip. His. Byz.) Bonn, 1838, t. II. — Migne — Patr: gr. t. CXXIl. col. 368 — cioè desiderava di farsi imperatore. A Bisanzio tali ambizioni erano possibili e anche realizzabili. Però Cerulario non ebbe fortuna, il suo complotto fu sventato, egli fu arrestato e deportato. Questo doloroso episodio della giovinezza ebbe un’influenza decisiva sulla sua carriera, poichè lo spinse verso il sacerdozio e il misticismo. Ritornato a Costantinopoli dopo l’avvenimento di Costantino IX Monomaco, Michele Cerulario divenne subito uno dei consiglieri più ascoltati dell’imperatore per salire infine sul trono patriarcale. Psello, — Migne, Patr. gr. t. CXXII — afferma che egli fece ciò in modo molto poco onorevole, corrompendo i suoi elettori, poichè vi furono più candidati. Checchè ne sia, divenuto patriarca, Michele Cerulario, dandosi tutto nel suo palazzo di Santa Sofia all’alchimia e alla ricerca della pietra filosofale, spiegò una grande attività che non si limitava soltanto al dominio puramente spirituale e religioso. Ma, nato per comandare, incapace di ogni combinamento, spesso brutale e per nulla diplomatico, come molti dei suoi compatrioti, Cerulario non poteva accontentarsi di presiedere agli uffici religiosi di Santa Sofia assiso sul trono pontificale. Egli aveva bisogno di allargare la sua attività, egli aveva un bisogno ancora più grande, quello di manifestare la sua potenza. Volle che la sua chiesa divenisse onnipotente, cioè che essa fosse libera da ogni attacco e che potesse opporsi vittoriosamente all’ingerenza di ogni autorità spirituale, straniera e alla sua propria gerarchia. Insomma, bisognava definitivamente finirla con Roma e sottrarsi completamente alla tutela papale. Cerulario, come tutti i bizantini dell’XI secolo, persino i più moderati, era convnito della superiorità degli usi della chiesa greca sopra tutti gli altri. Adunque, è con la completa conoscenza di causa e volontariamente che Michele Cerulario dichiarò guerra alla Chiesa romana e tutte le ingiurie che egli pronunciò, tutte le violenze alle quali si lasciò trasportare erano da lungo tempo premeditate. Ancora agli inizi rese difficile la sua posizione e quasi impossibile l’opera di coloro (ed erano numerosi) che avevano interesse nella conciliazione delle due Chiese. Non attaccò Roma, come Fozio, per difendere se stesso; stimò venuto il momento della separazione e volle imporla a tutti». — L. Bréhier, Le Schisme oriental au XI° siècle; Paris, 1899 p. 97. Nell’anno 1053 Cerulario scatenò la lotta contro Roma. Il momento 24 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it sembrava opportuno, poichè in quell’anno il papa Leone IX, dopo la grave sconfitta presso Civitella, che aveva rovinato ogni speranza di dominazione sopra l’Italia, si trovava a Benevento, se non prigioniero dei Normanni, almeno sottomesso alla loro rude sorveglianza. — Wiberto, Vita S. Leonis IX papae, (Ed. Mabillon, Acta s. ord. S. Benedicti). O. Delac, Un pape alsacien, saint Leon IX, Paris 1876. Là lo raggiunse il primo colpo inferto da Cerulario sotto la forma benigna d’una lettera d’un vescovo greco a un vescovo romano. Questa lettera fu indirizzata da Leone, vecchio chierico della Chiesa di Costantinopoli e arcivescovo d’Achrida, in Bulgaria, a Giovanni, vescovo di Trani, nella Puglia. — Leonis bulgariae archiepiscopi epistola (Migne, Patr. gr. t. CXX, col. 836-844). — Ma, come diceva il suo autore in principio, aveva una portata più generale di una semplice missiva e in realtà era destinata «a tutti i vescovi franchi e all’onorevolissimo Papa» (ipsum reverendissimum papam). Era un vero atto d’accusa contro tutti gli usi della Chiesa latina. Specialmente due erano i costumi presi di mira; il digiuno del sabato e l’uso dei pani azzimi nell’Eucaristia.14 Leone d’Achrida diceva che erano due usi prettamente giudaici, che erano stati rigettati nella Nuova Legge, la conservazione dei quali assomigliava la Chiesa latina a una semplice comunità mosaica. La lettera si chiudeva con un invito di ritornare ai veri costumi della Chiesa. Giovanni rimandò subito la lettera al Cardinale Umberto. Costui la tradusse in latino e la presentò al papa. Nello stesso tempo, per cura di Michele Cerulario, veniva sparso in tutta la Chiesa greca un trattato scritto in latino da un monaco del monastero di Studa, Nicetas Stethatos o Pectoratus. — Nicetas Stethatos, Adversus Latinos (Migne, Patr. gr. t. CXX, col. 845-850) — nel quale gli attacchi contro i Latini erano presentati sotto una forma più violenta che nella lettera dell’Arcivescovo di Bulgaria. Niceta Stethatos non soltanto gli azzimi e il digiuno del sabato denunziava come eresia, ma ancora, la proibizione del matrimonio dei preti. Del resto, questo monaco fu uno de’ più preziosi compagni di Michele Cerulario, perchè fu lui l’incaricato della redazione degli opuscoli del patriarca di Bisanzio. Per tagliar corto ad ogni tentativo di conciliazione e manifestare in modo decisivo il suo desiderio dt separazione, Michele Cerulario non si contentò di parole: passò agli atti, ordinando di chiudere le chiese latine che esistevano a Costantinopoli. Però la lettera di Leone d’Achridia, lungi dall’intimidire il Papa, lo determinò al contrario ad uscire dalla sua riserva abituale e gli dettò una risposta che per ampiezza e portata generale differiva sensibilmente dalla lettera dell’Arcivescovo di Bulgaria che si limitava volontariamente alla discussione meschina di alcuni punti di liturgia. La lettera di Leone IX era indirizzata non soltanto all’Arcivescovo, ma anche al 14 La Chiesa generalmente crede che Gesù Cristo si sia servito di pane azzimo (senza lievito) nell’ultima Cena. È per questo che essa usa di questo pane. Nella Chiesa russa si fa uso soltanto di pane con lievito (prosphora). (Cfr. U. Chevalier, Répertoire des sources historiques du Moyen-Age, Topo-biografia, I parte col. 289. — Parisot, in Dict. de Thèol. cathol. t. I. col. 2664. 25 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it patriarca di Costantinopoli. — S. Leonis IX epistola 50. (Migne, Patr. Lat. t. CXLIII). Finalmente Leone IX poneva la lotta sopra il vero terreno, il primato del seggio di Roma, e si rifiutava, per il momento, di discutere le questioni sollevate dall’Arcivescovo di Bulgaria. Insomma, prima di giustificare gli usi della Chiesa latina, Leone IX esigeva la sottomissione preliminare di Michele Cerulario. L’effetto della lettera del Papa fu di far indietreggiare il patriarca Cerulario, per ordine dell’imperatore che temeva, non senza ragione, che le questioni religiose venissero a frapporsi alla politica bizantina in Italia, mandò al Papa una lettera piena di moderazione e riguardo. Ma le apparenze rispettose di questa lettera non ingannarono Leone IX. La pretesa di Michele Cerulario di trattare con lui su piede di uguaglianza mostrò al Papa che non era possibile nessun accomodamento, poichè il patriarca di Costantinopoli si rifiutava di sottomettersi alla condizione che doveva precedere ogni negoziato: riconoscere la giurisdizione del seggio di Roma e accettare le sue ordinanze. Inoltre, Leone IX credette trovare nelle circostanze un nuovo mezzo per superare le difficoltà. L’imperatore aveva imposto silenzio al suo patriarca a nome dei suoi interessi politici; il papa risolvette di indirizzarsi a lui per ottenere la sottomissione piena e intera del ribelle. Mandò dunque a Costantinopoli tre legati «con le richieste della Santa Sede» con l’ordine di dare le sue lettere all’imperatore e al patriarca e risolvere in seguito tutte le divergenze. — Bréhier, Op. cit. p. 105. Arrivati a Costantinopoli, gli ambasciatori, che erano il Cardinale Umberto, il cancelliere della Chiesa Federico e l’arcivescovo d’Amalfi, Pietro, cercarono di mettersi in relazione con Michele Cerulario. Ma alle loro proposte il patriarca rispondeva con termini che non ammettevano udienza. Si chiuse nel silenzio e fece mostra di vedere che i messi della Santa Sede non avessero i poteri necessari per trattare con lui. Insomma, la tattica di Michele Cerulario consisteva nel rifiutare il più breve colloquio con gli inviati dal Papa o nel tirare le cose per le lunghe a fine di preparare una imponente manifestazione dei vescovi d’Oriente. Ma i legati, dopo aver aspettato quasi un mese, mandarono a vuoto il suo piano; si decisero di compiere il grande atto che le circostanze imponevano loro: stabilirono la rottura. Pertanto andarono a Santa Sofia, il sabato 15 Luglio 1054 e deposero sopra la Tavola Santa una bolla di scomunica che colpiva il patriarca e tutti i suoi seguaci. Dopo di ciò, uscendo, scossero la polvere dai loro piedi e gridarono le parole del Vangelo: «Videat Deus et iudicet» — Bréhier, op. cit. pp. 117 e 118. — La bolla della scomunica fu portata al patriarca che da principio si rifiutò di ricevere; poi per impedire, disse, che venisse divulgata, la guardò e se la fece tradurre in greco. La conclusione prevista pertanto aveva avuto luogo, ma questa non era 26 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it una vittoria per i Latini. Non avevano ottenuto nè la riconciliazione di Michele Cerulario con la Santa Sede nè la sua deposizione. S’arrestarono a una via di mezzo. Agendo così non fecero altro che ridare delle nuove armi al loro tremendo nemico. Questa scomunica che lo aveva fulminato fu la causa del suo trionfo e gli permise in fine di mandare ad effetto, a sua volta, il grande atto il cui pensiero lo preoccupava da lungo tempo. — Bréhier, op. cit. p. 119. Dopo la cerimonia della scomunica, i legati passarono ancora un giorno a Costantinopoli, e prima di partire, consacrarono delle nuove chiese di rito latino. Umberto e i suoi compagni erano appena partiti, che, sia spontaneamente, o sia anche sollecitato dal suo sovrano, Michele Cerulario dichiarò che acconsentiva di avere una intervista con loro. — Bréhier, op. cit. p. 120. Bisognò pertanto richiamarli e l’imperatore scrisse loro per richiamarli. Rifecero il cammino in tutta fretta e ritornarono a Costantinopoli nella loro vecchia residenza, il palazzo Pigi. Là attesero gli ordini dell’imperatore. Costantino IX, da alcuni indizi, aveva dubitato che l’intervista proposta da Cerulario agli ambasciatori non fosse altro che un tranello che tendeva loro. Sospetto che fu poi accertato dal racconto di Umberto. Il colloquio doveva aver luogo a Santa Sofia. Michele avrebbe mostrato al popolo una bolla falsa, da lui dettata, e l’avrebbe spinto a massacrare i legati. — Bréhier, op. cit. p. 125. — Ma l’imperatore mise come condizione a questa intervista, ch’egli stesso avrebbe dovuto esservi presente. Forse egli contava, dice Bréhier, di riunire nella Chiesa forze tali da poter mettere in salvo gli ambasciatori. Michele Cerulario non permise, e come scusa di questo rifiuto disse dei terribili sospetti che gravavano su di lui. Allora l’imperatore consigliò i legati di riprendere il loro viaggio. Il colpo di vendetta adunque non era riuscito, ma il patriarca non si tenne per vinto. Non potendo sfogare il suo odio contro i Romani fece sentire la sua collera all’imperatore. Per sua istigazione un gran tumulto mise sossopra le vie di Costantinopoli e furono in pericolo la corona e persino la vita di Costantino IX il Monomaco. — Michele Psello, Règne de Costantin IX (tradotto dal greco da E. Renauld), Fascicolo N. 12 di «Commerce» 1927. Michele Cerulario, dopo aver ottenuto dall’imperatore, con la violenza, l’autorizzazione di convocare un sinodo, radunò rappresentanti di tutta la Chiesa russa nelle gallerie di Santa Sofia, là dove si era tenuto l’ottavo concilio ecumenico che aveva condannato Fozio nell’869. Firmarono gli atti dodici metropoliti e due arcivescovi. L’editto sinodale che fu pubblicato in seguito a questa assemblea era la riproduzione letterale dell’enciclica di Fozio ai vescovi d’Oriente e questo fatto soltanto indicava con quale spirito era stato concepito. Il 20 luglio 1054, nel tribunale del patriarca fu pubblicata una sentenza contro la bolla empia e ancora contro coloro che avevano contribuito alla sua redazione. Cinque giorni dopo, lo stesso anatema fu rinnovato 27 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it solennemente dinanzi al popolo e tutti gli esemplari della bolla di scomunica che era stata tradotta in greco e divulgata da due cittadini di Bisanzio (per ciò sferzati) furono bruciati ad eccezione d’un solo che fu posto negli archivi del chartophilax — Bréhier, op. cit. p. 124. Oramai la separazione diveniva un fatto compiuto. L’anno 1054 è la data decisiva della storia del grande scisma d’Oriente. Però i contemporanei di Michele Cerulario, come a Roma anche a Bisanzio, non si sono accorti della gravità degli atti compiuti. Si rifiutavano di rassomigliare a scismi le azioni di Fozio e di Michele Cerulario. Le consideravano come dei semplici malintesi o degli incidenti molesti che non era difficile regolare o appianare con il tempo e la buona volontà.15 Per ciò si cercherebbe invano, presso gli storici greci ufficiali dei dettagli sopra gli avvenimenti del 1054. — Bréhier, Op. cit., (prefazione) p. XVII. — Non vedevano, come noi, in ciò che stavano per compiere un Fozio o un Michele, un atto rivoluzionario, ma un semplice fatto, indegno di essere ricordato o di passare alla posterità. Occorsero molti secoli per far loro comprendere il significato. S’accorsero dell’importanza dello scisma del 1054 soltanto dopo averne subito le lontane conseguenze. — Bréhier, Op. cit. pag. 238. Ma ciò che aveva indotto in errore gli spiriti al tempo di Michele Cerulario, era lo stesso ricordo di Fozio. Ora non si trattava come nel IX secolo d’una semplice rivolta contro l’autorità di San Pietro, ma d’una rottura definitiva. Appellandosi molte volte al Papa, cercando di transigere con lui, Fozio aveva reso implicitamente omaggi alle pretese dei suoi avversari. Michele Cerulario, invece, rifiutò, sin dal primo giorno, di entrare in rapporti con Leone IX. Non volle neppure ammettere l’idea che le sue allegazioni potessero essere discusse. Lontano dall’essere un ribelle o un accusato, si pose come giudice e accusatore: dichiarò eretiche le Chiese che si rifiutavano di comunicare con Costantinopoli e di seguire i suoi usi. Perciò fondò un nuovo ordine di cose e proclamò l’indipendenza della Chiesa greca. In seguito, Greci e Latini poterono fare delle concessioni scambievoli, ma non poterono oltrepassare l’abisso che Michele Cerulario aveva scavato tra loro; non si trovarono mai d’accordo sulla questione dell’autorità dogmatica nella Chiesa. — Bréhier, Op. cit., pag. 310. 15 Fu un secolo più tardi che cominciarono ad affacciarsi le illusioni. San Bernardo si lagna vivamente presso papa Eugenio III dell’ostinazione dei Greci, sopra i quali non si può fondare niente di solido, «Essi sono con noi, e non lo sono, scriveva. La fede li lega, la pace li divide e pertanto, anche nella fede sono zoppicanti scostandosi dal diritto cammino». (San Bernardo, Lettere, citate da Bréhier, Pref. XXV e poi Gfrörer Byzantinische Geschichte). E dalla parte dei Greci, c’è un monaco sconosciuto del dodicesimo secolo che per primo parla dello scisma. Però l’allusione che vi fa è in gran parte errata, poichè pone lo scisma non nel 1054 ma nel momento stesso dell’inalzamento (al seggio) di Michele Cerulario, «Il nuovo patriarca, dice, alla sua incoronazione soppresse il nome del papa dai dittici. Questo avvenimento ebbe luogo a proposito della questione del pane azzimo. A fianco di Michele si posero Pietro, patriarca di Antiochia, Leone, arcivescovo della Bulgaria, e tutto l’altro clero». (Cfr. Bréhier e Gfrörer). 28 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it NOTE Nota A. — Fu un certo archimandrita Teognosto che, in pericolo di vita, travestito con abiti secolari, affine di sfuggire alla sorveglianza della polizia imperiale, portò per primo a Roma la nuova della deposizione brutale di Ignazio, come pure la supplica del patriarca decaduto presso il Papa. Del resto, questo racconto (uno dei brani principali della storia dello scisma foziano) delle ingiustizie e degli insulti che Ignazio aveva subiti dopo l’espulsione violenta dal trono patriarcale, l’aveva scritto Teognosto stesso (Theognostus Monachus, Libellus ad Nicolaum Papam in causa Ignatii, archiepiscopi constan., Migne, Patr. graeca t. 105, col. 855-856). Per ciò il vecchio patriarca, sotto il colpo degli oltraggi, che l’avevano oppresso, non aveva più la forza necessaria per difendersi personalmente, Il papa Nicola I accolse questo messaggero con la bontà e la generosità che gli erano naturali. Onorò Teognosto della sua confidenza e lo pose, si crede (Jugie, La vie et les oeuvres du moine Théognoste, «Bessarione» vol. 34, 1928) a capo dei numerosi monasteri greci che esistevano ancora a Roma a quest’epoca. Pertanto Fozio e i suoi partigiani e amici, l’imperatore Michele e il reggente Bardas, saputo che tutti i loro piani erano sventati, fecero l’impossibile per attenuare la triste impressione che i loro atti certamente producevano a Roma. Indovinando subito che i monaci, i quali, per la maggior parte, erano rimasti fedeli a Ignazio e si segnalavano per la loro devozione alla Santa Sede, non farebbero a meno di denunciarlo a Roma, Fozio nella lettera che scrisse al papa Nicola, dopo il famoso concilio dell’861 (Photii Epist. II, Migne, Patr. graec. t. 102. col. 616) non dimenticò di metterlo in guardia contro i discorsi dei monaci disertori. Ma Nicola non fu gabbato da queste insinuazioni che miravano specialmente a Teognosto. Così, quando l’imperatore Michele, in una lettera insolente e dove senza difficoltà si riconosceva la mano di Fozio, osò di intimargli a liberarsi dell’archimandrita e dei monaci che lo avevano seguito nella città eterna, il papa, in una risposta piena di nobiltà, di calma e dignità rifiutò categoricamente di ottemperare alla domanda del «basileus» (Epistola Nicolai papae I ad Michaelem imperatorem, Migne, P. L. t. CXIX. col. 952). Dopo tutto ciò, Teognosto visse a Roma per sette anni e ritornò a Bisanzio dopo la caduta dei suoi nemici. Nota B. — La medesima idea fu emessa molto prima di Fozio dall’autore anonimo del breve commentario del 28° canone del concilio di Calcedonia (tenuto nell’anno 451). Si sa che questo famoso canone 28, contro il quale i papi non cessarono di protestare, pose il principio dello scisma greco, affermando che i Padri avevano accordato la preminenza al seggio di Roma perchè questa città era la città imperiale e reclamando per il seggio della nuova Roma, Costantinopoli, dei privilegi uguali a quelli della vecchia e il secondo posto dopo di quella. La conclusione logica che derivava da queste 29 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it affermazioni era che la Sede di Roma avrebbe perduto il primato e sarebbe passata da primo a secondo posto nel giorno in cui Roma avesse cessato d’essere capitale dell’impero. Questo appunto è il ragionamento dell’autore sconosciuto del commento del canone 28. «Bisogna sapere, scriveva, che i Padri diedero il secondo posto alla Chiesa di Costantinopoli, perchè allora la vecchia Roma era anche capitale dell’impero. Se dunque, come afferma questo santo concilio, i Padri hanno accordato il primato alla vecchia Roma, a causa del suo posto di capitale, essendo ora per benevolenza di Dio, questa città (Costantinopoli) l’unica capitale è giusto che possegga essa il primo posto». (Jugie, Le plus ancien recueil canoniqne slave et lo primauté du Pape, «Bessarione» vol. XXXIV, 1918). Ecco ciò che si scriveva a Bisanzio durante il VII o al principio dell’VIII secolo. Veramente in quel tempo si esprimevano così, soltanto voci isolate di alcuni scrittori. La maggior parte del clero greco era ancora composto dei partigiani convinti del primato romano. Per di più, nessun patriarca, nè alto dignitario della Chiesa bizantina aveva avuto, prima di Fozio, l’idea di rivaleggiare col Papa. Ma al tempo di Fozio non c’era più nessuno che potesse impedire seriamente di ingaggiare una lotta contro Roma. Il patriarca Ignazio, che aveva sempre riconosciuto la supremazia dei «sovrani pastori e pontefici dell’antica Roma» (Mansi, Col. S. Concil. t. XVI, col. 47) era in disgrazia; altri spiriti chiaroveggenti, come quel monaco Teognosto, del quale abbiamo precedentemente parlato, che vedevano la salvezza della Chiesa bizantina contro le usurpazioni del cesaropapismo in una stretta unione colla Sede apostolica, erano lontani e le loro proteste non potevano essere che puramente platoniche. Però, se non si poteva agire direttamente sugli spiriti bizantini, esaltati dalle parole sottili e lusinghiere d’un Fozio, si poteva e si doveva farlo per delle vie nascoste, affinchè la verità non fosse messa sotto il moggio. Questa, era anche l’opinione di San Metodio (+ 885). È per questo che, traducendo dal greco in slavo per i suoi catecumeni slavi il nomocanon, cioè: la raccolta delle leggi speciali e dei canoni ecclesiastici fatte verso la metà del VI secolo da Giovanni lo Scolastico, l’apostolo degli Slavi occidentali, credette suo dovere di rifiutare, per due aggiunte, il commento visibilmente unito al 28° canone in una data posteriore. «Non è vero, come afferma questo canone, egli scrive, che i Santi Padri abbiano accordato la supremazia all’antica Roma perchè essa era la capitole dell’impero, ma è dall’alto, è dalla grazia divina che questa supremazia ha avuto origine. Per il grado della sua fede, Pietro, il maggiore degli apostoli, ha inteso queste parole dalla bocca stessa di Nostro Signor Gesù Cristo: «Pietro mi ami tu? Pasci le mie pecorelle». È per questo che fra le gerarchie possiede la più eminente e il primo seggio… Perciò i privilegi dell’antica Roma sono eterni; così pensano tutte le Chiese». Il testo slavo di questa magistrale dichiarazione è stato pubblicato dal russo Pavlov nel fascicolo IV della rivista russa Vizantyiskyi Vriemennik (1897) con a fianco l’originale greco che lo stesso Pavlov ebbe la fortuna di trovare nella biblioteca laurentiana di Firenze. Antecedentemente questo 30 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it stesso autore aveva fatto pubblicare uno studio sostanziale sopra il nomocanon stesso (Pavlov, Pervonatchalnyi slavianorousskyi nomocanon, Odessa, 1874) di cui una copia manoscritta del XV secolo si trova nel monastero di Solovetsk e un’altra presso l’abbazia (laure) di San Sergio a Mosca. Questo nomocanon tradotto da Metodio fu molto divulgato presso gli Slavi occidentali e i Russi sino al XIII secolo. E anche dopo quest’epoca dei brani importanti sono passati in raccolte posteriori, come il passo sulla supremazia romana, che si trova ancora in una kormtchaïa (nome che i Russi danno alla loro collezione canonica) del XV secolo e in un’altra del XVI secolo. «Questo fatto, nota Jugie (Op. cit. p. 55) ci mostra che i copisti bulgari, serbi e russi non sono stati troppo spauriti dall’affermazione dei privilegi di Pietro e dei suoi successori». Nota C. — Questa parola «eresia» applicata al Filioque fu ripresa molto tempo dopo Fozio e divenne un termine corrente solo nel XII secolo, grazie sopratutto agli scritti del canonista Teodoro Balsamon. Nel secolo precedente, la questione dell’aggiunta al Simbolo ha tenuto un posto dei tutto secondario, persino nello spirito tormentato e aggressivo d’un Michele Cerulario. Infatti è da ricordare che nè la lettera di Leone d’Achrida al vescovo di Trani, nè quelle di Michele Cerulario a Pietro d’Antiochia, per parlare solamente dei Greci, non fanno la minima allusione al Filioque. Pertanto alcuni fatti ci provano che questa questione non lasciava indifferenti gli uomini dell’epoca. È per questo che la bolla della scomunica deposta dai legati romani sull’altare maggiore di Santa Sofia contiene nell’articolo VII l’accusa seguente: «… come i nemici di Dio essi (i Greci) tolgono dal Simbolo la processione del Figlio» (Bréhier, Le Schisme oriental au XI siècle, p. 132). E Michele Cerulario rispose a questo attacco nel suo editto sinodale, riproducendo parola per parola il passo dell’enciclica di Fozio relativo alla medesima questione e facendo seguire a questa trascrizione un riassunto di tutti gli argomenti proposti dal suo predecessore. Tutti i Greci non furono così intransigenti, sulla questione della processione dello Spirito Santo, come un Fozio o un Balsamon. Fra loro se ne trovano alcuni, come quel Teofilatto, arcivescovo d’Achrida, che, rimproverando i Latini d’aver fatta un’aggiunta al Simbolo, trovano pel loro abuso delle circostanze attenuanti. «Secondo il mio parere, scriveva Teofilatto, in un’opuscolo a un certo diacono Nicola, di Costantinopoli (1090 ), in questa questione del Filioque i Latini errano meno di cattiveria che di ignoranza. Non comprendono il senso della parola processione sulla quale si svolge tutta la questione e in ciò sono scusabili; la loro lingua è così povera che manca di termini per esprimere le sfumature del pensiero». (Il testo greco-latino dell’opuscolo dell’arcivescovo d’Achrida, Liber de iis quorum Latini incusantur, edito da Bonifacio Finetti, Ord. Praedicatorum, si trova in Migne, Patr. gr. t. CXXVI, 001. 221-249). Più tardi, al Concilio di Lione (1274), degli altri Greci cantarono il Simbolo con l’aggiunta latina, senza essere obbligati, poichè Gregorio X domandava 31 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it loro soltanto che riconoscessero la verità dogmatica del Filioque. Al concilio di Firenze (1439) furono tenute parecchie sessioni per la discussione sulla legittimità dell’aggiunta del Filioque al Simbolo. E se è perfettamente vero che Marco di Efeso non cessò di ripetere che quell’aggiunta era stata la causa dello scisma e l’origine di tutti gli scandali, Nil Cabasilas, metropolita di Tessalonica, i cui scritti dovevano servire d’argomento allo stesso Marco e a Giorgio Scholarius al concilio di Firenze, ammetteva che dal punto di vista dogmatico la questione rimaneva sospesa, e si rifiutava così di accusare Roma d’eresia. D’altra parte, il metropolita di Mosca Filarete non ammetteva che la Chiesa d’Oriente avesse il diritto di formare da sola un concilio universale, ciò a dire anche egli non voleva pronunciarsi contro Roma. Infine, nell’enciclica del papa Leone XIII, con la data del 20 giugno 1894, non è in verun modo fatta menzione di eresia o di scisma, ma solamente di discordia (dissensio). Così, poco a poco, si venne a un più giusto apprezzamento della questione. E, se da parte dei Greci si trovano ancora alcune reticenze, alcuni resti di formalismo e delle traccie d’intransigenza, la Chiesa latina non insiste sulla necessità dell’inserimento del Filioque nel Simbolo purchè essa sia sicura che si crede alla dottrina dogmatica espressa da questa formula. Essa non obbliga dunque le Chiese orientali a recitare il Simbolo con il Filioque (Palmieri, Dict. de Théol. Cathol. t. V. col. 2340). CAPITOLO III. La Russia e il mondo cattolico sino alla caduta di Bisanzio I. I Russi avevano abbracciato il cristianesimo prima della scissione definitiva e formale della Chiesa. Però, anche dopo l’anno fatidico 1054, le relazioni di Kiev con l’Europa occidentale continuarono come per l’innanzi. Le relazioni commerciali con la Polonia, l’Ungheria, la Germania, senza parlare dei paesi balcanici, non furono per nulla compromesse da questo fatto, allo stesso modo che le relazioni politiche e famigliari dei principi dì Kiev con i loro vicini immediati, i re di Boemia, di Ungheria e di Polonia. — Vedere la nota A alla fine del presente capitolo —. Inoltre, quasi sino alla fine del XII secolo, i Russi fecero ogni sforzo per tenere un completo equilibrio fra l’Occidente e l’Oriente, nè perdettero mai l’occasione di manifestare una perfetta indipendenza. 32 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it Evidentemente un simile stato di cose doveva favorire la penetrazione in Russia di influenze occidentali nella misura in cui queste influenze parevano trovarvi una possente eco. Difatti, per molti secoli, la Russia meridionale, senza parlare della regione di Novgorod, restò un vasto campo per l’attività di differenti categorie di stranieri appartenenti più agli ambienti laici che ai religiosi. E all’epoca in cui le ostilità fra Roma e Bisanzio non erano che intermittenti, il paese di Kiev fu visitato da Bruno di Querfurt, monaco di Sant’Alessio di Roma e discepolo di San Romualdo. — Heine, Der heil. Bruno von Querfurt, der Apostel der Petchenegem. Querfurt, 1887 —. Scopo del viaggio lungo e periglioso di Bruno era d’andare a predicare il Vangelo ai Pesceneghi tribù nomade e mezzo selvaggia accampata alle frontiere sudest della terra di Kiev. Per arrivarvi dunque dovette passare per Kiev dove Vladimiro, decisamente mutato, lo ricevettè con grande cordialità e lo tenne presso di sè per un mese cercando di distorglierlo dalla sua pericolosa missione. Non riuscendovi, l’accompagnò in persona per due giorni di marcia sino ai confini del principato. Là gli augurò buona fortuna, non sperando di vederlo più. Però Bruno ritornò sano e salvo a Kiev e potè annunciare al suo ospite, il principe, il battesimo di circa trenta Pesceneghi. Dopo il suo secondo passaggio per Kiev, Bruno indirizzò nel 1007 una lettera al futuro imperatore Enrico II lo Zoppo, nella quale descrisse lungamente e particolarmente il suo viaggio, il soggiorno alla corte di Kiev e la cordiale accoglienza da parte di Vladimiro. — Biblioteca di Amburgo. Sezione «Istoria» n. 321 (Fond. Uffenbach). Hilferding, Neizdannoié svidetelstvo sovremennika o Vladimiré Sviatom (Testimonianza inedita di un contemporaneo su Vladimiro il Santo) Mosca, 1856. Frattanto, cioè nell’anno 1000, Vladimiro riceveva colle medesime accoglienze calorose gli emissari del primo Papa francese, del coltissimo e piissimo Silvestro II, vecchio Arcivescovo di Reims e precettore dell’imperatore Ottone III.16 Ottone era nipote della sposa di Vladimiro, la principessa Anna, la cui sorella Teofania o Teofano, come la si chiamava in Oriente, aveva sposato nel 972 il padre d’Ottone, l’imperatore Ottone II, il Rosso. — Schlumberger, L’Epopée byzantine à la fin du X° siècle, Paris 1900. Prima parte, pp. 192, 202, seconda parte, pp. 250, 252, — Murr, Theophaniae Augustae, Ottonis II imperatoris conjugis, corona aurea, (Norimbergae, 1804). — Silvestro, inviando la sua ambasciata a Kiev, credeva di poter fare alleanza grazie a queste strette relazioni fra Roma e la Russia. Però non riuscì e il grave incidente che successe pochi anni dopo a un prelato cattolico di nome Reinberg non giovò affatto per stabilire le cose. Vladimiro aveva sposato il figlio suo adottivo Sviatopolk con la figlia di Boleslao il Grande, re di Polonia. La giovane principessa arrivò a Kiev 16 Nella cronaca niconiana, dell’anno l000 è detto: «In questo stesso anno, sono arrivati i messi del Papa da Roma e quelli dei re di Boemia e d’Ungheria» (togo gé liéta pridé posly ot papy Rimskago i ot koroley Tcheskikh i Ougorskikh). 33 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it accompagnata dal suo cappellano, il vecchio vescovo di Kolobreg o Colberg, Reinberg. Poco tempo dopo il matrimonio, Sviatopolk, spinto di nascosto dal suocero si ribellò al padre suo e volle farlo abdicare. Ma Vladimiro lo gettò in prigione in compagnia della moglie e del cappellano di quest’ultima. — Thietmar di Mersebourg, Chronicon, Lib. VII, cap. 52 . Evidentemente questo gesto di difesa non era per niente diretto da Vladimiro contro Reinberg, vescovo, ma contro Reinberg, complice politico di suo figlio ribelle. Da ciò non si poteva dedurre che Vladimiro fosse sistematicamente ostile alla Chiesa romana. Però l’imprigionamento di Reinberg, durante il quale il vescovo di Colberg, secondo quanto dice Thietmar, sarebbe riuscito a convertire Sviatopolk al cattolicesimo, raffreddò le relazioni di Kiev con la cattolicità e ci volle almeno un quarto di secolo perchè le cose ritornassero al loro stato primitivo. Si crede che sia stato l’arrivo a Kiev di tre vescovi francesi che ruppe definitivamente il ghiaccio. Questi vescovi, Gautier di Meaux, Goscelin di Chalignac e Roger di Châlons — Aubert, Etudes biographiques v. 1867. — Chronique de Champaigne (1837), II, 89, 99 — venivano dalla Francia per domandare al principe di Kiev, Iaroslav, la mano della figlia Anna per il re Enrico I. Inoltre, Roger de Châlons era incaricato da Odalarico, prevosto della Chiesa di Santa Maria di Reims, — Dom Ceillier, Histoire des auteurs ecclesiastiques (2.° XIII 492). Hist. litteraire de France (1746) VII, 86, 7 — di verificare le leggende sopra San Clemente le reliquie del quale si crede siano state trasportate un tempo dal Chersoneso a Chiev.17 Ottenuto il consenso di Iaroslav pel matrimonio di sua figlia con il re di Francia e constatato la venerazione e il culto degli abitanti lungo il Dnieper per il quarto Papa di Roma, i vescovi francesi condussero nella loro patria la giovane principessa russa. Le nozze furono celebrate verso la Pentecoste dell’anno seguente; la consacrazione della regina fu fatta solennemente a Reims.18 La morte di Iaroslav, quel principe famoso, che alcuni storici chiamano «il Carlomagno della Russia», sopravvenuta, strana coincidenza, lo stesso anno in cui avvenne la scissione definitiva fra la Chiesa d’Occidente e quella d’Oriente, aprì l’era della divisione delle terre russe e suscitò delle gravi questioni fra numerosi ereditari. Da quest’epoca data il principio della decadenza di Kiev e, parallelamente, la consolidazione e l’affermazione sempre più grande del potere personale del principe, congiunte all’allontanamento sempre più visibile della Russia dal resto dell’Europa. 17 Le reliquie del papa, che, secondo una antica tradizione, sarebbe stato esiliato in Crimea da Traiano e ivi sarebbe morto, dovevano essere state portate a Roma verso l’860 da San Cirillo, che le trovò nei dintorni del Chersoneso. 18 Benzelstierna (Gust) Genealogia Annae, reginae Gallicae, coniugis Henrici I, in «Acta Soc. Upsal» (1740) 68 trad. franc. in Biblioth. académ. (1811) VII, 1-5. — Lobanoff di Rostoff (Ales.), Recueil de pièces historiques sur la reine Anne ou Agnès, epouse de Henri I, roi de France, Paris, 1825. 34 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it Fatto strano, sebbene i Russi non avessero mai preso alcun partito, sia nelle lotte dottrinali, come nelle lotte politiche dei Bizantini, dovettero però partecipare a tutti i mutamenti e tutto ciò, semplicemente per la ragione che erano stati uniti dopo la loro conversione al cristianesimo, al patriarcato d’Oriente. Così, come lo nota molto giustamente il R. P. Pierling, «si cercherebbe invano una data precisa o un fatto noto che possa essere segnalato come punto di partenza della separazione fra la Russia e Roma. Avvenne implicitamente, senza scosse, senza motivo apparente, in virtù della sottomissione gerarchica al patriarcato di Costantinopoli». — R. P. Pierling, La Russie et le Saint-Siège, t. I, p. XIII (Introduzione). Pertanto, nell’XI secolo come nel secolo seguente, la Russia non era ancora divisa dal mondo occidentale come fece 300 anni più tardi e se allora gli ambasciatori dei papi e degli imperatori non potevano modificare il fondo delle cose e non erano in grado di deviare il corso delle idee, essi però portavano con loro «lo spirito europeo» che allora era lo spirito della cattolicità, cosa che mancava quasi del tutto alla Moscovia dei secoli XVXVII. Evidentemente questo «spirito europeo» non fu sempre apprezzato dai Russi nel suo giusto valore. Fu questo spirito però che insegnò loro un po’ di urbanità, una civiltà fine, che fece sì che la Russia del Medio-Evo fosse in relazioni strette e continue con il resto dell’Europa, che il numero degli stranieri che si maritavano con i Russi fosse considerevole e che infine ci fossero delle pratiche da parte di principi russi, per richiedere a delle alte personalità dell’estero d’esser arbitri delle contese che sorgevano fra loro. È ciò che fece Iziaslav, l’ereditario diretto di Iaroslav, quando fu cacciato da Kiev dai suoi fratelli, e indegnamente abbandonato dal suo alleato, Boleslao II l’Ardito, re di Polonia. — Pichler (Fritz), Boleslaw II von Polen, Budapest, 1892 —. L’imperatore Enrico IV aveva mandato una ambascieria a Kiev per mettere a posto la contesa all’amichevole, ma egli tratteneva Iziaslav dal rientrare ne’ suoi domini e dal ricuperare il suo avere. Perciò per accelerare il ritorno egli mandò suo figlio a Roma con la missione di sottomettere l’affare al Papa e di mettere sotto la protezione della Santa Sede il principato di Kiev. Gregorio VII (Ildebrando) intimò nel 1075 a Boleslao di rendere integralmente tutto ciò che lui e i suoi avevano rapito «al re dei Russi» e non contento d’agire con la penna, mandò degli emissari presso Iziaslav per dargli coraggio. Non è cosa provata che sia unicamente per l’intervento del Papa che Iziaslav potè risalire al trono dei padri suoi, benchè sia del tutto possibile che Boleslao, per deferenza verso Gregorio VII, abbia cambiato la sua politica a riguardo del principe russo. Iziaslav ritornò a Kiev nel 1076, dopo la morte del fratello Sviatoslav, che occupava il trono e dopo una transazione amichevole fra lui e il fratello più giovane, Vsévolod, che rese Kiev volontariamente, — dicono le cronache russe — sotto la minaccia di un intervento delle truppe polacche di Boleslao accampate sotto le mura di Kiev, — dicono gli annali polacchi, — e per conto suo s’accontentò del principato di Tchernigov. — Versione laurentiana della cronaca russa. — 35 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it Polnoié sobranié rousskikh Lietopiseï. (Raccolta completa delle cronache russe), volumi III, IV e V. II. Il secolo XI, così ricco di incidenti d’ogni sorta e di «promesse» per la Russia futura, non finì senza che una nuova ambasciata romana venisse presso la corte di Kiev. È probabile che siano state le trattative di Iziaslav con Gregorio VII, di cui l’eco fu grande allora, a determinare l’antipapa Clemente III di tentare la fortuna da parte sua. Il pretesto che l’obbligato dall’imperatore Enrico IV aveva trovato per mandare in Russia degli emissari era di un ordine molto delicato e che solo l’ignoranza totale di Clemente III delle cose russe poteva benissimo spiegare. Poichè si trattava d’una unione fra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa di Russia. Ma la Chiesa di Russia non esisteva in quanto a personalità distinta e autonoma; era una filiale di Bisanzio e, se il Papa desiderava una unione con la Russia, bastava che s’indirizzasse al patriarca di Costantinopoli e al Concilio dei metropoliti della Chiesa d’Oriente. Tale fu, in sostanza, la risposta, formulata, del resto, nei termini più cortesi, mandata a Clemente III dal metropolita di Kiev, Giovanni II, prelato d’origine greca,19 perchè, allora, c’erano pochi veri Russi fra gli alti dignitari della Chiesa. Tutti i grandi affari della Chiesa erano trattati dai Greci, poichè erano essi soli che, in generale, si davano profondamente agli studi canonici e alla interpretazione sottile dei dogmi. — Vedere la nota B alla fine del presente capitolo. — Così pertanto, credendo di parlare alla Chiesa russa, in realtà la cattolicità, per molti secoli s’indirizzava ai Bizantini; i Russi propriamente detti furono raggiunti molto raramente dalle parole romane e quando arrivarono, era già troppo tardi. Così l’errore che commise l’antipapa Clemente III lo commisero a loro volta molti papi che, sembra avessero una posizione migliore, per conoscere la verità.20 19 Il metropolita Giovanni, mandato in Russia nel 1077 dal patriarca di Costantinopoli, era un uomo molto istruito e intelligente, ma profondamente bizantino. Non accontentandosi d’una risposta verbale ai messi di Gilberto (Clemente III) gli indirizzò una lunga lettera, di tono amichevole, ma piena di ammonizioni e di consigli: «Vi scongiuro d’abbandonare i vostri errori, specialmente quelli che trattano degli azzimi e dello Spirito Santo, poichè i primi compromettono la Santa Comunione, i secondi l’ortodossia della fede», scriveva il metropolita al «Santissimo e venerabilissimo fratello in Nostro Signore, Clemente, papa dell’antica Roma». E più oltre: «Io prego Vostra Santità di voler indirizzarsi di nuovo al nostro santissimo patriarca di Costantinopoli e a tutti i santissimi metropoliti che lo circondano. In seguito, se vi piace, scrivete a me, ultimo di tutti». 20 È per questo che ancora alla fine del XV secolo in Vaticano non si sapeva niente di positivo riguardo ai Russi. Quando nel 1472 venne a Roma un’ambasciata del principe Ivan III incaricata di domandare per lui la mano di Sofia (Zoé) nipote dell’ultimo imperatore di Bisanzio, allevata nella città eterna alle spese e sotto la protezione del Papa, fu convocato un Consiglio di cardinali per discutere su questa domanda. Ma, fa notare lo storico, chi consegnò scrupolosamente per iscritto questa deliberazione di Cardinali, «non s’era sufficientemente informato sulla fede dei Ruteni». Però si approvò il matrimonio e si permise persino che la mutua promessa avesse luogo 36 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it Fu qui l’origine di disprezzi e d’un grande numero di disillusioni e di collere. Ma nell’XI secolo non si prevedeva ancora niente di quelle lotte future; si era completamente in pace, c’era larga tolleranza e persino, ciò che non si vedrà più alcuni secoli più tardi, si rispettava la religione altrui. Dunque sono queste particolarità della mentalità dei Russi d’allora che incoraggiarono la cattolicità a domandare loro l’ospitalità per i propri preti e per i proprii monaci. Nel 1130, San Bernardo di Chiaravalle accarezzava l’idea di andare fra i Russi; però, nonostante gli incoraggiamenti di Matteo, vescovo di Cracovia, non realizzò mai il suo progetto. Invece, all’indomani della fondazione dell’ordine dei «Frati Predicatori» (1216) un certo numero di loro fu mandato in Polonia, d’onde passarono ben presto in Russia. La data esatta della loro prima apparizione a Kiev non si conosce; fu probabilmente verso il 1228, ma noi troviamo ricordato nella storia dell’ordine, dell’anno 1233, l’esistenza a Kiev d’una Chiesa retta dai domenicani.21 Questa Chiesa, dedicata alla Santa Vergine Maria (Sancta Maria) non era stata costruita da loro, ma fu loro ceduta dalla ricca corporazione dei mercanti italiani e tedeschi che ne possedevano molte a Kiev stessa. — Malichevskyi, Dominikanetz Jatzek Ondrovong («raccolte dell’Accademia ecclesiastica di Kiev», 1867 t. II). — Nel 1232, il Papa Gregorio IX, desiderando di incoraggiare i domenicani nelle loro opere pie, accordò loro per mezzo di una bolla particolare alcuni diritti speciali riguardo alle indulgenze. — Historica Russiae momumenta, Petropoli 1841, I, 35. Pertanto la loro attività assidua e il grande successo della loro predicazione, presso i Russi, causò dei sospetti da parte del principe regnante a Kiev, che allora era un certo Vladimiro Rurikovich. Intimò che fossero cacciati con la proibizione formale di ritornare nei suoi Stati (1233). nella basilica di Pietro e Paolo, a Roma. Per qual ragione? Perchè, ci dice ancora lo storico, «i Ruteni hanno accettato il concilio di Firenze, e hanno avuto un arcivescovo latino nominato dalla Santa Sede (mentre i Greci per la scelta dei loro vescovi si rivolgono ai Patriarchi di Costantinopoli); ora domandano che si mandi presso di loro un ambasciatore per conoscere la loro fede, studiare la situazione, correggere ciò che sarà giudicato erroneo e ricevere la loro professione di obbedienza. Infine quand’anche i Ruteni fossero del tutto più eretici, i matrimoni fra loro secondo il diritto pontificio non sarebbero invalidi (non tamen ex iure pontificio irrita cum iis coniugia habentur). Però i figli smarriti sembrano dover essere richiamati verso il seno della Chiesa, loro madre, dagli onori e dalla benevolenza». Cfr. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, XXIII, an. 1472, col. 88. — Nuova edizione, t. XIII, parte II, (Diario Concistoriale del Cardinale Ammanati) pp. 144-145. Strana illusione e non meno strana ignoranza dei fatti, nota molto giustamente il R. P. Pierling. «Da principio, il concilio di Firenze non fu mai riconosciuto a Mosca. Al contrario, appena promulgato nel 1441, fu subito rigettato con orrore. È vero che la bolla di Eugenio IV fu ammessa a Kiev, centro religioso delle provincie russe della Polonia; ma queste provincie stabilite in metropoli dal 1458, riconobbero l’autorità del papa e si staccarono completamente da Mosca». 21 R. P. Giacomo Quetif e R. P. Giacomo Echard, Scriptores ordinis Praedicatorum MDCCXIX, Tomus Secundus, p. XVI (notitia), — Mamachi, Annal. ordinis Praedicatorum, Roma, 1756. Tomo II. 37 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it — Goloubinski, Istoria rousskoï tserkvy, (Storia della Chiesa russa), Mosca, 1901-1904, t. I, pp. 808-809. Circa la stessa epoca, alla parte opposta dell’estesa pianura russa, incominciava a sorgere la figura del Savoiardo Guglielmo, vescovo di Modena. — Krosta (Fried), Wilhelm von Modena, Königsberg, 1867. Non era la prima volta che visitava le rive del Baltico; a più riprese egli aveva già soggiornato in Prussia, in Livonia, in Svezia, in Danimarca predicando il Vangelo, introducendo le riforme, raccogliendo l’obolo di San Pietro. Questa volta, stava per stabilirsi a Riga, — Winkelmann, Bibl. Livon hist. (1869) — quando fu prevenuto che una commissione di abitanti di Novgorod, voleva vederlo per mostrargli gli atti della loro transazione con i cavalieri teutonici che, dopo frequenti contese, venivano a combinare con loro una tregua. Tale modo di procedere dei Russi, che aveva solamente importanza giuridica, cioè il desiderio d’avere la firma del legato del Papa in fondo alla pergamena perchè avesse maggior valore agli occhi dei cavalieri cattolici, fu interpretato dal Vaticano, — sempre a causa dell’ignoranza della mentalità e della vita russa in generale, — come il desiderio di quelli di Novgorod di farsi istruire nella fede cattolica e di ricevere un legato di Roma. Il papa Onorio III mandò, pertanto nel 1227, un messaggio «a tutti i re di Russia» (ad universos reges Russiae) in cui li teneva sospesi sulla conferma delle voci arrivate sino a lui del loro desiderio di stringere delle relazioni continuate con la Santa Sede. — Questo messaggio del papa Onorio III è citato per intero in Historica Russiae monumenta, t. I p. 20 n. 21. Il messaggio restò senza risposta, perchè nessun principe russo e nessuna città russa aveva mai domandato niente di simile. In più, le repubbliche russe vicine al mar Baltico, cioè quelle di Pskov e di Novgorod avevano orrore dei re e anche dei principi; quanto ai principati russi erano ben lontani e i loro capi a quest’epoca non avevano a che fare nelle questioni religiose. Del resto, quali erano in quei tempi i principati che potevano occuparsi ancora di cose astratte? L’invasione mongolica si era scatenata e la terra russa, almeno nella parte orientale, gemeva già sotto gli zoccoli dei tartari cavalli. D’altra parte, Kiev, città esclusivamente dedita al commercio, sorta un tempo su un nodo di strade commerciali, aveva perduta tutta la sua importanza dal giorno in cui il commercio Europeo con l’Oriente aveva trovato un cammino più diretto e meno costoso. Il ducato di Galizia, infossato come un cuneo fra l’Ungheria e la Polonia, e che si manteneva ancora, grazie all’energia del suo principe Daniele, era paralizzato dalla paura continua d’essere assalito dai Mongoli o tratto in una guerra con i vicini dell’Ovest, cosa che, fra parentesi, non era poi una novità. Riguardo al principato di Rostov-Souzdale, culla del futuro regno (tsarstvo) di Mosca, creato press’a poco nel secolo precedente, dall’energia 38 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it indomabile del cervello freddo e calcolatore di Andrea Bogolioubskyi,22 allora era proprio la preda delle orde asiatiche. Di questi anni sanguinosi e disordinati rischiarati dalla luce sinistra degli incendi, noi abbiamo alcuni testimoni veridici,23 che spiccano sull’ammasso degli scritti posteriori, confusi, contradittori, e molto spesso sospetti. Ora possiamo dire che nei primi anni d’invasione, la dominazione mongolica non fu unicamente un disastro e un accumulamento di rovine. Poichè non solamente essa rassicurò la coscienza religiosa del popolo russo, ma ancora fu una buona scuola amministrativa e militare per i dirigenti del paese e preparò l’unità politica della Russia che realizzarono i grandi principi di Mosca. Insomma lo scopo dei Mongoli non era tanto la persecuzione religiosa, quanto invece la dominazione universale e il trionfo delle loro armi. I Khans dell’Orda d’Oro sottomisero la Russia al loro potere, ma non alterarono le leggi fondamentali nè la costituzione ecclesiastica. Per tutto il tempo che rimasero attaccati al paganesimo non toccarono il dominio della religione cristiana. «I Tartari, dice uno scrittore contemporaneo, (Giovanni da Pian dei Carpini) non costringono nessuno a rinunziare alla sua fede o alle sue leggi».24 D’altra parte, i Mongoli «avevano messo un ordine relativo nel paese. La pulizia delle strade sopratutto era ben fatta grazie a un servizio postale organizzato con cura, Ma avevano una pronta giustizia e la mano ferma. E lo si sapeva; dalla Polonia fino al mar Ionio, neppure un cane osava abbaiare senza il loro permesso. I loro squadroni disciplinati avevano stabilito fra i popoli sottomessi «la pace mongolica» con il ferro, come le legioni romane avevano imposto «la pace romana» nel mondo antico». Gabriele Bonvalot, Marco Polo, Parigi, 1924. — Vedere anche fa nota C alla 22 Andrea Bogolioubskyi che si sforzava di riportare verso l’Oriente il centro di gravità della Russia, desiderava vivamente di erigere la capitale del suo principato, la città di Vladimiro, in sede metropolitana. Ma non vi riuscì e d’allora ebbe dei rancori con il Patriarca di Costantinopoli, il che apprendendo, il papa Alessandro III gli mandò nel 1169 un’ambasciata (Cronaca Niconiana). Non abbiamo alcun dato preciso riguardo allo scopo che fu assegnato a questa ambasciata, come non sappiamo niente di ciò che Andrea rispose. Al contrario la storia ci dice che è proprio in quest’anno 1169 che Bogoloubskyi si gettò su Kiev a capo di molti principi vassalli e mise a fuoco e a sangue la «madre delle città russe» (mat gorodov rousskikh) che, politicamente non si risollevò più dopo questo disastro. (Cfr. Pogodine Kniaz Andreï Iourievitch Bogolioubskyi. — Giovanni Martynov, Annus ecclesiasticus greco-slavicus (Dies XXIX, Memoriae Slaviae) p. 164. Goloubinskyi, Istoria rousskoï tserkvi (Storia della Chiesa russa), t. I, I parte, pp. 330-332, 597. 23 Petoukhov, Serapion Vladimirski, rousskyï propovednik XIII veka (Serapion di Vladimiro, predicatore russo del XIII secolo), St. Petersbourg 1888. — Slovo o poguibeli rousskia zemli (sulla perdizione delle terre russe), (Cfr. Loparev, Pamiatniki drevnei pismennosti), St. Petersbourg, 1892 vol. 84). — Srezniévski Drevnia pamiatniki (monumenti antichi) St. Petersbourg, 1882. — Povest o prikhode Batya (racconto sulla venuta di Baty). «Vremennik» XIV. 24 Giovanni da Pian dei Carpini, Re1ations des Mongols o Tartares. Trad. franc. e note d’Avezac, Parigi 1838. — Voyages très curieux faits et écrits par les R. P. ]ean Du Plan de Carpin et N. Ascelin en qualité de lègats apostoliques et ambassadeurs vers les Tartares et autres peuples orientaux, L’Aia, 1735. 39 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it fine del presente capitolo. Però questa invasione e la lunghissima dominazione asiatica ebbero per conseguenza l’apparizione in Russia d’una aristocrazia di ceppo semiorientale, risultato di numerosi matrimoni misti fra i principi e i dignitari russi e le figlie o i parenti dei Khan mongoli. Naturalmente questa aristocrazia non mostrò alcun gusto per le idee occidentali e per il modo di vivere, di credere e di pensare europeo. È dunque da quest’epoca che data l’orientamento verso l’est della vita domestica dei Russi. Ciò non vuol dire che nessuna influenza orientale non si facesse sentire in Russia prima dei secoli XIII-XIV: il popolo russo ha troppo sangue turanico e finnico nelle sue vene per poterlo contestare; però tale influenza si esercitò piuttosto nella grande massa del popolo a piccoli colpi, a sbalzi. Infine non fu mai unilaterale. Mentre l’influenza tartara o mongolica si manifestò quasi unicamente nella classe dirigente del paese. Inoltre, non ebbe a vincere nessuna contrarietà. I principi, i nobili russi erano a quanto pare, più docili e influenzabili, meno resistenti in ogni cosa, d’un semplice «Krestianino», un moujik rozzo. Pertanto non si lasciarono «mongolizzare» tutti a dispetto dei frequenti viaggi e soggiorni ripetuti all’Orda d’Oro. Si trovò tra la massa qualche principe e qualche nobile che, grazie al suo carattere altiero, alla sua prima educazione o ancora alle sue simpatie o inclinazioni per quello «spirito europeo» che era rappresentato dalla cattolicità, era debitamente immunizzato contro il veleno orientale. Tale fu quel Danilo Romanovitch la vita del quale fu così intimamente legata ai destini del principato di Galizia. — Dachkevitch, Kniajenié Daniila Galitzkago, (Il regno di Danilo di Galizia). Kiev, 1873, — Soloviev, Daniil Galitsky («Sovremennik», 1874). III. Quella che si chiama ancora oggi «la Russia pre-carpatica» (Prikarpatskaïa Rouss) o ancora «la Russia Rossa» (Tchérvonnïa Rouss) si eresse a feudo indipendente nel momento in cui il principato di Kiev andava declinando. Fu chiamato il principato di Galizia dal nome della sua capitale d’allora, attualmente piccola città decaduta della Galizia detta orientale. Abitata dagli Slavi che si dicevano giustamente fratelli degli abitanti di Kiev, Galizia ebbe pertanto una storia molto differente e differenti destini. Fu perchè, incuneata fra la Polonia e la Ungheria, essa dovette, per conservare la propria indipendenza, fondare per sè e ben presto un esercito considerevole alla testa del quale fu posto la parte scelta degli antichi capi militari del paese di Kiev, ai quali s’aggiunsero ben presto altri profughi dell’Est e dell’Ovest, cioè e della parte russa e della parte polacca e magiara. Così a poco a poco si formò nel principato di Galizia una nobiltà di spada che trasmise il potere a una oligarchia di magnati a tendenze aristocratiche agli occhi della quale il principe rappresentava solo il potere esecutivo. Evidentemente un paese governato da tal partito non poteva 40 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it conservare con il resto della Russia profondamente democratica e più tardi fortemente aristocratica, che legami federali i quali si ruppero da sè quando la Russia meridionale cessò d’esistere come unità politica indipendente. — Hilferding, Sobranie, sotchinenyi (Opere complete), St. Petersbourg, 1868, t. II, p. 433. Il principe Daniele, che era succeduto al suo illustre padre Romano, primo principe della Galizia indipendente, ebbe molte noie da parte dei suoi boiardi altezzosi e dei suoi vicini avidi e ostili. Inoltre, dovette fare l’impossibile per preservare il suo ducato dalla cupidigia dei messi del grande Kan dei Mongoli. Insomma, era senza pazienza e forte quando, ritornando dalla Orda d’Oro dove era dovuto andar per presentare i suoi omaggi, trovò a casa Fra Giovanni da Pian dei Carpini che aveva condotto da Cracovia suo fratello, il giovane Vassilko. —Johannis De Plano Carpini Istoria Mongolorum quos nos Tartaros appellamus, Cap. ultimum, parag. III 2 e parag. IV 2. L’illustre francescano, che era stato mandato nel 1245 o 1246 da Innocenzo IV presso i Kan dei Mongoli con una missione pacifica, s’interessò molto per la sorte della regione di Galizia e del suo principe. Disse adunque della possibilità d’un intervento o d’un aiuto del Papa, e Daniele, il quale non domandava di meglio che d’unire il suo nome a un atto d’unione con Roma, non rifiutò l’aiuto che gli veniva promesso, tanto più che egli sapeva che una parte considerevole del clero, per un accordo compiuto, era con la Santa Sede. Sul rapporto di Giovanni da Piano dei Carpini, Innocenzo IV promise a Daniele il suo appoggio contro i Tartari e gli mandò una corona reale con la quale quest’ultimo si fece incoronare nel 1253 a Drogitchine, re di Galizia dal legato Opizoni.25 Nello stesso anno, il Papa bandì una crociata contro i Mongoli. Ma il suo appello rimase senza risposta; nessuno venne in soccorso della terra di Galizia e del suo nuovo re. Allora costui, rompendola con la Santa Sede, si preparò a resistere con le sue forze all’irruenza tartara. Dopo la morte di Daniele, sopravvenuta nel 1264, il principato di Galizia passò a diversi principi della sua famiglia, dei quali l’ultimo fu un certo Boleslao-Iouryi, assassinato nel 1340, che un documento del tempo chiama «Dei gratia natus dux minoris Russiae». Questa espressione «minoris Russiae», era usata per la prima volta. Nel XIV secolo la Galizia fu unita al regno di Polonia; nel 1361, a Lwow, la nuova capitale del ducato e sede d’una metropoli ortodossa, veniva eletto un vescovo cattolico; il 13 febbraio 1375, fu promulgata la bolla Debitum pastoralis officii che servì di base all’organizzazione completa per la GaIizia d’un clero cattolico di rito latino. La terra di Galizia era definitivamente perduta per la Russia. IV. Dopo che il ducato di Galizia ebbe perduta la sua indipendenza, avvenne 25 Historica Russiae Monumenta, Petropoli, 1841, t. I, p. 57, n. 62. 41 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it a Mosca un fatto isolato che suscitò nel suo tempo dei vivi commenti. Noi vogliamo parlare del ritorno a Firenze, nella sua residenza metropolitana, del celebre prelato russo Isidoro. Si diceva già, prima che il metropolita Isidoro venisse in Italia al concilio ecumenico convocato dal papa Eugenio IV per l’anno 1438, che egli non era ostile in principio ad una unione con Roma e che considerava che solo un molesto malinteso nell’interpretazione di alcuni dogmi aveva potuto separare le due Chiese. Del resto, c’era qualche lettera d’Isidoro scritta prima della sua promozione al seggio metropolitano di Russia che poteva appoggiare queste dicerie. — Queste lettere, sei di numero, sono state pubblicate da Regel nei suoi Anacleta byzantino-russica. Petropoli, 1891. Ma ciò che faceva sì che tutti se ne infischiassero apertamente, era la parte sostenuta da Isidoro al Concilio di Firenze26 e il fatto unico nella storia, che questo prelato ortodosso ritornava nella sua diocesi con la porpora romana e con il titolo di legato apostolico per la Russia. L’accoglienza che fecero, al ritorno dall’Italia, gli abitanti di Kiev e il principe Alessandro al loro «padre metropolita» fu molto filiale. — Istoritcheskia akty, (Documenti storici), t. I, n. 259. Per Isidoro incominciarono le difficoltà nel 1441, quando andò a Mosca per consegnare al grande principe Vassilyi una lettera amichevole del Papa. Durante la prima messa pontificale nella cattedrale dell’Assunzione in presenza del grande principe, Isidoro sostituì alle preghiere per i patriarchi della Chiesa d’Oriente una preghiera per il Santo Padre il Papa e fece leggere, dopo l’uffizio, dall’alto dell’ambone, la decisione del concilio di Firenze. Questo fu un grande scandalo. Il principe Vassilyi, al colmo del furore, dimenticando la santità del luogo, rinfacciò volgarmente a Isidoro ciò che lui chiamava cattiveria e tradimento. Lo fece discendere con forza dall’altare e lo chiuse nel monastero di Tchoudov, sotto buona custodia. Però Isidoro riuscì a fuggire e poi si arrese a Tver. Mal per lui però, ché il principe di Tver lo fece gettare in prigione. Ma, ancora una volta, Isidoro fuggì e andò rifugiarsi a Novgorod. Di là andò a Roma dove passò il rimanente della sua vita. — Strahl. Der Russische Metropolit Isidor. Tubingen, 1823. — Migne, Patrologia (Series graeca posterior). t. 159. — Archiv. soc. Orient lat. (1884). II, 228-293. — Hofmann (G.), S. I Kardinal Isidor von Kiev («Orientalia christiana» n. 26, Roma, 1926. Ma il suo ufficio di mediatore fra Mosca e la Santa Sede era terminato, perchè dopo il suo primo imprigionamento il grande principe Vassilyi, convocato un Sinodo di vescovi ortodossi, proclamò la deposizione ecclesiastica del metropolita ribelle e rigettò a nome di tutto il popolo russo l’unione progettata con Roma. 26 Pelesz, Geschichte der Union, Vienna 1878. — J.-D. Mansi, Collectio S. Conciliorum, (Florentinum aecumenicum Concilium), t. 31 a. pp. 459-1085. 42 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it NOTE Nota A. — La separazione delle Chiese non ebbe alcuna ripercussione molesta sui matrimoni fra i sovrani russi e i principi stranieri, o viceversa: questo, almeno sino alla metà del secolo XII. Così il grande principe Iaroslav, che aveva sposata nel 1019 la principessa Svedese Inghiguarda (che fu chiamata Irene dai Russi) sposò tre figli e tre figlie a delle principesse e principi cattolici romani. Quanto a suo figlio Vsevolod, fu sicuramente il sovrano il più imparentato in Europa in quel tempo; era suocero dell’imperatore di Germania, Enrico IV, e contava fra i cognati il re di Francia, Enrico I, il re di Norvegia, Araldo, il re di Danimarca, Sven, ecc. Al contrario, nei secoli XI-XII si ebbero soltanto tre principi russi che sposarono delle Greche (Cf. N. di Baumgarten, Généalogie et mariages occidentaux des Rurikides russes. «Orientalia christiana». Vol. IX - I. 1927). Tutte queste alleanze dispiacevano sommamente ai Bizantini; specialmente pel disegno di separare i Russi dai cattolici romani, i rappresentanti del patriarca di Costantinopoli a Kiev facevano tutto il possibile per dipingere le corti straniere i loro sovrani sotto i colori più neri. Uno dei prelati greci, il famoso metropolita Giovanni II giunse al punto di dichiarare pubblicamente (nelle sue famose Risposte Canoniche indirizzate a un certo monaco Giacobbe, secondo l’ipotesi di Goetz, Kirchenrechtliche Abhandlungen, Stuttgart, 1905) «è cosa indegna e indecente che le figlie del gran principe sposino coloro che si comunicano con gli azzimi. Pertanto se il principe piissimo e ortodosso per grazia di Dio fa contrarre tali unioni ai figli suoi, sarà punito dalla Chiesa». (Pavlov, Otryvki gretcheskago teksta kanonitcheskikh otviétov rousskago métropolita Ioanna II (Frammenti del testo greco delle risposte canoniche del metropolita Giovanni II, St. Pietr. 1873). E probabilmente per rinforzare questa minaccia non falsa aggiunse: «Non è permesso avere delle relazioni o di celebrare in comune la Santa Messa con coloro che usano del pane fermentato, e, durante la settimana della Tirofagia (Tyrophagias, è l’ultima settimana delle quattro settimane preparatrici alla grande quaresima che in russo si chiama: syropoustnaïa nedelia) mangiano della carne e si nutrono di sangue e di carne». (Cfr. Maitzew, Fasten und Blumen-Triodion, Berlin, 1899). Questa intolleranza per gli altri culti e queste proposte non erano proprie del carattere dei Russi, che, del resto, non avevano alcun motivo per avere di mira il papa e le genti dell’occidente. Anzi essi fecero per lungo tempo i sordi alle recriminazioni dei bizantini. Certamente, l’ostilità dei greci per i Latini era ben conosciuta in Russia al principio del XII secolo, tuttavia passò uno spazio di tempo abbastanza considerevole prima che i principi di Kiev acconsentissero a far proprio l’odio dei Greci contro i cattolici romani. Fra i prelati greci che si erano dedicati a quest’opera, i più ardenti furono nel XII secolo il metropolita Niceforo e l’igumeno della laure (abbazia) delle catacombe a Kiev, Teodosio. Si conoscono di Niceforo due lettere indirizzate al principe di Kiev Vladimiro Monomaco e che trattano, la prima, della divisione delle chiese d’oriente e d’occidente e la seconda del digiuno. In 43 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it quanto a Teodosio egli è l’autore d’un trattato sulle eresie dei latini. (Cf. Popov, lstoriko litératournyi obsor drevne roussikikh polemitcheskikh otnochenyi protiv Latynian. (Scoperta storica e letteraria degli antichi trattati polemici russi contro i Latini, Mosca, 1875). Rotto il ghiaccio, qualche ecclesiastico russo giudicò bene imitare i Greci componendo a loro volta dei libretti contro i Latini, di cui un certo numero fu attribuito, in seguito, arbitrariamente, ad autori del secolo precedente: si operò con lo stesso spirito anche con le Risposte Canoniche e con la lettera a Clemente III del metropolita Giovanni II, avendo cura di sopprimere il nome dell’Antipapa e le parole d’elogio per gli occidentali. Così troncata, la lettera di Giovanni apparve sotto il titolo sensanzionale di «Istruzione dei sette concili contro i Latini» e assunse tutte le apparenze d’una diatriba contro i cattolici romani. Nota B. — Le relazioni della chiesa bizantina con la Russia si manifestarono nel corso degli anni sotto la forma di una tutela giuridica e canonica e di una influenza spirituale e dogmatica. Tuttavia, così nel primo come nel secondo di questi dominii, Bisanzio trovò ben presto una seria resistenza da parte dei Russi sui quali trionfò il più delle volte per l’astuzia o per l’appoggio prestato dal potere supremo. Così, se la tutela bizantina nell’ordine giuridico non fu abolita ufficialmente che nel XVI secolo, per la creazione d’un patriarcato nazionale, non dobbiamo dimenticare che le velleità d’indipendenza religiosa si manifestarono fin dal principio del XII secolo, tanto nella società laica come in mezzo al clero. Il difensore più energico e più convinto di questa libertà d’azione fu, in quel tempo, il metropolita Clemente di Kiev, uno dei rari prelati d’origine puramente russa, e inoltre uomo molto istruito per l’epoca e l’ambiente, poichè leggeva Omero, Platone e Aristotele nel testo originale e ne faceva gran conto. Sostenuto dal principe reggente Iziaslav II, intraprese una vigorosa campagna per sottrarre la chiesa russa alla tutela bizantina. Egli fallì nel suo tentativo a causa dell’opposizione di una parte del clero russo e degli intrighi dei Greci, ma la semente che aveva gettata non andò perduta. Dopo la morte di Clemente, il movimento fu ripreso di nascosto dai monaci del grande monastero delle Catacombe a Kiev, guardiani gelosi dei principi democratici e protagonisti convinti dell’idea nazionale (ciò a dispetto del fatto che certi priori (igoumeny) di detto convento furono d’origine greca e di tendenze puramente bizantine). Esso si manifestò nella stessa epoca con le parole seguenti, che furono pronunciate da un principe di Kiev (Rostislav) agli inviati da Bisanzio nell’occasione della nomina d’un nuovo metropolita sostenuto dal patriarca di Costantinopoli: «Per amicizia e per rispetto all’augusta persona dell’imperatore (di Bisanzio), noi accettiamo volentieri fra le nostre mura il nuovo metropolita (Giovanni). Tuttavia, se il fatto si ripete, e se, senza avvisarci e senza domandare il nostro consenso, contrariamente alle prescrizioni degli apostoli, s’invia da Bisanzio un metropolita, allora non solo non lo riceveremo, ma emaneremo una legge 44 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it eterna con la quale il diritto di scegliere e di nominare i vescovi spetterà, d’ora innanzi, solo alla volontà del gran principe». Più tardi questa sete di indipendenza si perdette nei meandri della vita religiosa russa, per riapparire definitivamente alla corte dei primi czar moscoviti. L’influenza spirituale di Bisanzio fu combattuta non meno energicamente. Ma la lotta in questo terreno fu intrapresa in un’epoca molto più lontana, cioè dopo che la Chiesa russa giunse a proporre una mistica propria. D’altronde il suo progredire fu lento, essendo ostacolato da ritorni offensivi dei Bizantini all’epoca del grande principe Ivan III, il quale, essendosi sposato con una principessa bizantina, si vide circondato da un ragguardevole numero di Greci arrivati in Russia al seguito della loro augusta compatriota, poi nell’epoca in cui «regnava» l’autoritario patriarca Nikone, che non pensava che per i Greci e cercava d’imitarli in tutto. Questa tendenza al ritorno verso il bizantinismo integrale, dopo che la Moscovia per mezzo dei predicatori e dei teologi, come Silvestro Médvédiév, aveva più volte contrastata «l’ortodossia» dei Greci, e la purità della loro fede, e quando essa s’allontanò maggiormente dal loro modo di pensare, fu una delle cause della disgrazia e della decadenza di questo patriarca. Dopo la disgrazia di Nikone, vi fu un nuovo affievolimento dell’influenza bizantina, e questa volta definitivo. Ma ritirandosi le onde greche lasciarono sulla spiaggia uno straordinario ammasso di cose singolari. Nota C. — Non si è ancora d’accordo sull’etimologia della parola «mongolo». L’opinione che raccoglie il più gran numero di approvazioni è quella di Sanang Setzen (SSanang SSetsen, Chung Taidschi, Geschichte der Ost-Mongolen. Trad. dal mongolo di J. J. Schmidt. St. Petersbourg, 1829) il quale crede che questo nome di «Mongolo» provenga dalla parola mong che in cinese vuol dire «bravo». Quanto alla parola «tartaro» si deve, per conformarsi alla sua pronuncia corretta, che è quella che si usa in Persia, in Russia e in Oriente, privarla del primo r che fu introdotto del tutto arbitrariamente da certi Europei al tempo del Papa Innocenzo IV e dallo stesso Papa. (Ad sua Tartara Tartari detrudentnr). Il Medio Evo Europeo ha conosciuto un gran numero di leggende e di storie, le une più fantastiche delle altre, intorno all’origine dei Mongoli (Matthew Paris, Chronica Major, ed. Rolls. pp. 76 ssg., 386 ssg). Ruggero Bacone assicurava ch’erano là i soldati dell’Anticristo. Giovanni da Piano dei Carpini credeva di vedere in essi i discendenti delle dieci tribù sperdute d’Israele, che Alessandro il Grande aveva fermate sulle alte montagne che si spingono fino al mare Caspio, e per quello stesso fatto attribuiva loro un’origine semitica. Infine vi erano di quelli che si persuadevano, e cercavano di persuadere gli altri, che i Mongoli erano i sudditi del misterioso prete Giovanni, di cui si parlava molto in quel tempo, senza poter precisare nè la sua origine nè il territorio del regno fantastico di cui egli era creduto il sovrano. Ci volle dunque alquanto tempo per chiarire tutte queste dicerie e molto anche per vedere se non si potevano evangelizzare queste terribili genti (perchè, in Europa si diceva che una volta convertiti alla religione di 45 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it Cristo, i Mongoll evidentemente rinuncerebbero a invadere l’Occidente e a saccheggiare le terre cristiane). Perciò fu mandato in Oriente Giovanni da Piano dei Carpini dal Papa Innocenzo IV, nel 1245, e Guglielmo Rubrouck (Rubruquis) nel 1253, da Luigi IX il re cristianissimo. Dal punto di vista diplomatico e confessionale, queste missioni non ebbero alcun successo: in compenso aumentarono in modo molto apprezzabile le conoscenze esatte che noi possediamo dei Mongoli di quel tempo. Così si possono mettere senza timore le relazioni dei viaggi di questi due monaci accanto a quelle di Marco Polo e di Don Clavijo. (Vedere l’opera classica di Howorth, History of Mongols. 3 vol., London, 1876-1888); Hammer Purgstalb, Geschichte der goldener Hord von Kiptschak, Buda-Pest, 1840; Curtin, The Mongols in Russia, London, 1904; Herbert M. J. Loewe, The Mongols, dans The Eastern Roman Empire, vol. IV de «The Cambridge Medieval History», Cambridge, 1923; infine, Bouvat L., l’Empire Mongol, Col. «La Storia del Mondo», Parigi, 1927). CAPITOLO IV. Il movimento “Uniate” nella Russia del Sud-Ovest I. La vecchia terra di Kiev, dopo molte vicende e delusioni, fu riunita, verso la metà del XIV secolo, al ducato russo lituano di Guédimine.27 Ma qualche decina d’anni più tardi, grazie al matrimonio d’uno dei discendenti di questo principe con la regina di Polonia, si trovò a far parte del nuovo Stato polacco-lituano di Wladyslaw Jagellon.28 Sottratta in seguito alla giurisdizione di Mosca, ma continuando a dipendere da Bisanzio, perchè l’idea d’una unione con Roma non vi aveva fatto ancora che una apparizione effimera, la Russia di Sud-Ovest fu trasformata, dopo il principio del secolo XIV, in una metropoli particolare. Però, dopo l’atto d’unione di Lublino, nel 1569, che restringeva ancor di più i legami politici che riunivano la Lituania alla Polonia, «le terre ortodosse» (Kiev, la Volynie e il Polésie) passarono alla dipendenza di Cracovia. Improvvisamente, l’idea d’un riavvicinamento con Roma prese un’ampiezza 27 Hrouchevskyi, Otcherk istorii Kiévskoï Roussi ot smerti Iaroslava do kontza XIV stolétia (storia della terra di Kiev dopo la morte di Iaroslav fino alla fine del XIV secolo), Kiev, 1891. 28 Galitzine (A.), Nuova biografia generale — Klaczko, Una annessione d’altri tempi: Hedwige e Jagellon («Revue des deux mondes». 1869, tavola LXXXII. 46 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it ed un valore del tutto nuovi fino allora. Il fatto è che il dipendere continuamente, per ogni nomina e per qualsiasi rinnovazione, dal patriarca di Costantinopoli, che non era ormai che l’ombra di un’ombra, cominciava ad essere sempre più pesante, se non insopportabile ed umiliante, a molti prelati ed anche a semplici preti russi. Ma tutte queste ragioni non avrebbero mai potuto far sì che essi soli tentassero un movimento decisivo, se prima il terreno non fosse stato preparato da una propaganda molto attiva e condotta con molta intelligenza, anche dalla volontà espressa degli alti dignitari della chiesa Russa di Polonia. Fu un certo Pietro Skarga, gesuita e rettore del collegio di Vilna, che, per primo nel 1557, svolse con erudizione e calore, in un libro pubblicato in lingua polacca, la tesi dell’unità della chiesa.29 Ritoccata, tradotta in russo e ristampata nel 1590, quest’opera ebbe una grande rinomanza e preparò innegabilmente la prima riunione dei grandi prelati della Chiesa russa, a Brest (Litovsk) nel 1595. Il libro di Skarga metteva anzitutto in luce le cause che facevano pericolare la Chiesa russa e vi creavano la discordia: 1) il matrimonio dei preti; 2) l’uso della lingua slava nella liturgia; 3) l’ingerenza dei laici negli affari della chiesa e la subordinazione del clero alla volontà di questi laici.30 Come rimedio l’opera riconosceva un’unione con Roma che non impediva per nulla quasi i riti della Chiesa russa. Però per preparare il terreno al ritorno dell’unità della Chiesa, il dotto gesuita pensava che si doveva anzitutto: 1) accettare il Credo dei latini nella sua integrità; 2) trasferire da Costantinopoli a Roma il diritto di nominare il metropolita di Kiev; 3) riconoscere il Papa come capo supremo della Chiesa. In questi sforzi per arrivare allo scopo proposto, Skarga fu aiutato ben presto da un altro gesuita, il celebre Antonio Possevino.31 Possevino, ch’era uomo di attività esuberante, sempre in moto, correndo da Varsavia a Mosca e da Cracovia a Roma, sognava da molto tempo l’unione dei «pravoslavny» con la Santa Sede. Per riuscirvi era stato per un certo tempo in continue relazioni con un ricchissimo ed illustre magnate russo-polacco, principe d’Ostrog o Ostrogsky, che, sempre attorniato da preti e da monaci greco-slavi, aveva una grandissima influenza sulla popolazione russa di tutto il paese. Ma questa «vecchia volpe», come lo chiama il P. Pierling, che sotto il punto di vista religioso cercava di accontentare tanto Roma quanto Bisanzio, e sotto il punto di vista politico, Mosca e Cracovia, non era in realtà che un pazzo egoista dal quale non si potevano avere che delle vaghe promesse o delle parole evasive. Così 29 Skarga (P.), O jednosci Kosciola Bozego (Dell’unità della chiesa di Dio), Vilna, 1557. — Berga (A.), Un predicatore della corte di Polonia, Pietro Skarga, Parigi 1916. 30 Queste sono le ragioni che nel suo zelo mal informato, Skarga sviluppa nella prima edizione del suo libro. Ma nella seconda edizione (1590), ricordandosi meglio che la chiesa cattolica rispetta i differenti riti ed ammette il matrimonio dei preti nella chiesa d’Oriente, egli soppresse quelle dichiarazioni. 31 Possevino (Antonius), Biblioteca selecta de ratione studiorum (Venetiis, 1603). — Moscovia et alia opera, 1587. — P. Pierling, La Russia e la Santa Sede, (Vol. II, 1898). 47 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it Possevino, avendo perduto ogni speranza di indurre il principe di Ostrog ad abbracciare le sue stesse idee, s’affrettò a portare il suo aiuto a Skarga e, siccome aveva le sue grandi e piccole entrate alla corte di Polonia, parlò della cosa al successore di Stefano Batory. Il re Sigismondo si lasciò convincere tanto più facilmente in quanto ch’egli vide subito tutto il profitto che avrebbe potuto trarre, sotto il punto di vista politico, dalla realizzazione di questa unione dei suoi sudditi russi con la Chiesa romana. Infatti, l’ortodossia conciliava i popoli a Mosca, mentre che il cattolicesimo li avvicinava alla Polonia.32 Possevino pensava che il miglior modo di addivenire al più presto ad una unione stava in una intesa diretta coi prelati russi malcontenti o stanchi della tutela Bizantina. Così, essendosi assicurata la simpatia e il tacito aiuto del re di Polonia, avendogli fatto promettere che i vescovi russi avrebbero diritto di sedere in Senato con lo stesso titolo dei prelati cattolici,33 Possevino cominciò la sua campagna e dopo lunghe e misteriose trattative riuscì a riunire tre alti prelati della Chiesa russa: il metropolita di Kiev, Michele Ragoza, suo vicario, il vescovo di Loutzk, Cirillo, e il vescovo Hypace (Adam) Poteyi, uomo di forte carattere e di grande intelligenza; tutti e tre firmarono un atto di adesione alla Santa Sede. Tutto ciò avveniva nel 1594. L’anno seguente si tenne a Brest la prima riunione dei vescovi russi, che riconobbero il primato papale sulla giurisdizione ed accettarono l’accordo dogmatico con Roma, che fu regolato secondo i principi del concilio di Firenze: cioè unità nella fede, varietà dei riti. Dopo di ciò, questi prelati stessi indirizzarono una lettera al Papa, che due di loro Hypace Poteyi e Cirillo Terletzky, portarono a Roma e deposero solennemente ai piedi di Clemente VIII, il 23 dicembre 1595. «Ruthenis receptis», diceva una medaglia coniata per questa occasione. Ohimè, nessuno poteva allora capire quanta amara ironia contenessero quelle parole. Ritornati ai loro paesi, gli inviati del clero russo presentarono la loro relazione in una solenne riunione che ebbe luogo nell’ottobre del 1596 nella stessa città di Brest. Erano presenti, oltre ai promotori del movimento con a capo Skarga e il metropolita di Kiev, un gran numero d’altri vescovi e preti, 32 Un’altra particolarità della politica tradizionale della Polonia era consistita nell’opporsi a qualsiasi riavvicinamento di Roma con la Moscovia. Così, durante il regno dello Czar Ivan IV, «invano Pio IV, Pio V, Gregorio XIII tentarono fino a sei volte d’inviare i loro agenti al Kremlino; mai costoro riuscirono a penetrarvi; non che 1van li avesse respinti — egli non sospettava neppure delle ambasciate che gli si destinavano, — ma furono Sigismondo Augusto, Massimiliano II, e lo stesso Stefano Batory che alternativamente opposero ostacoli insormontabili al passaggio degli inviati pontifici». (P. Pierling, La Russia e la Santa Sede, II, Intr. XXVIII). Operando in questo modo, la Polonia credeva di difendere il privilegio che aveva da molti secoli di rappresentare il cattolicesimo presso i popoli slavi. Ma in realtà i suoi timori non avevano ragione d’essere; mai la Moscovia le avrebbe tolta questa prerogativa, per la semplice ragione che i grandi principi e gli czar di Mosca non videro mai possibile un riavvicinamento con la Santa Sede, e meno ancora una unione intima. 33 Questa promessa disgraziatamente non fu mai mantenuta: essa non fu una delle minori cause della mezza sconfitta dell’unione. 48 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it tanto «unitari» che cattolici.34 È probabile che tutto sarebbe avvenuto nel più perfetto accordo e per il meglio della Chiesa, perchè l’opposizione ecclesiastica all’unione era scarsamente rappresentata, se, nello stesso tempo in cui si teneva questo concilio, non si fosse tenuta nella stessa città un’altra riunione convocata da laici e principalmente dai membri di quelle famose «confraternite» che davano molto da pensare al clero russo. Si ebbe torto, dal lato ecclesiastico, di non avere sufficientemente preparati i parrocchiani ai cambiamenti progettati, e di non avere saputo rendere inefficace l’azione delle confraternite le quali, dopo che la Chiesa russa in Polonia si trovò priva d’un appoggio potente e altolocato, s’immischiavano sempre più nella vita ecclesiastica, di cui controllavano ogni atto. I laici hanno sempre avuto, nella Chiesa d’Oriente, un diritto di considerazione maggiore che in Occidente riguardo al governo ecclesiastico. Inoltre il patriarca di Costantinopoli, appoggiato dagli altri patriarchi orientali, sentendo, che l’alto clero ortodosso della Repubblica di Polonia s’orientava verso Roma, formò fra il popolo queste «confraternite» dette «stavropigiales», i membri delle quali avevano il privilegio di non essere sottoposti alla giurisdizione dei vescovi locali e di dipendere direttamente dal patriarca di Costantinopoli. La manovra riuscì magnificamente. Le confraternite fondarono delle scuole, delle tipografie fuori dal controllo dell’episcopato e vigilarono seriamente alla difesa dell’ortodossia. Dunque, essendosi riuniti nelle vicinanze della casa dove si teneva la riunione dei vescovi, i laici fecero fuoco e fiamma contro l’unione e i suoi difensori. Sobillati da un rappresentante del patriarca di Costantinopoli, che era riuscito a penetrare in Polonia quantunque quel re avesse vietato di inviarvi emissari; come pure dal principe d’Ostrog, che gettò nella bilancia il suo nome e la sua immensa fortuna, la riunione dei delegati delle confraternite religiose, non contenta di decretare il suo biasimo a quei vescovi che avevano seguito gli Skarga e i Ragoza, decise di rompere ogni relazione con i cattolici, e di conseguenza anche con Roma. Fu quello il punto di partenza d’una lotta sterile e lunga fra due fazioni della popolazione delle provincie russe di Polonia; la quale lotta ben tosto, abbandonato il terreno puramente religioso, divenne nazionale, politica, amministrativa. Prese subito proporzioni grandiose e minacciose; tutte le classi se ne occuparono; i tribunali ne furono investiti e la Dieta dovette intervenire per proteggere i vescovi e difendere le loro chiese. Per colmo di sventura si fece ricorso, non solo all’autorità secolare, ma anche alla forza brutale; alcune bande di saccheggiatori comparvero nel paese, devastando di preferenza le proprietà degli uniti. — P. Pierling, Op. cit., t. II — Rousskaïa Istoritcheskaïa Bibliotéka (Biblioteca storica russa), vol. VII. La pace, o piuttosto un’apparenza di pace, non tornò che parecchie 34 Likowski (Mg. Edward), Unia Brzeska (L’Unione di Brest), Poznan, 1896 (2° edizione corretta, Varsavia, 1907). Traduzione francese; Unione della Chiesa greco-rutena in Polonia con la Chiesa romana, Parigi (Lethielleux), s. d. 49 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it decine d’anni dopo la seconda riunione di Brest; la qual pace fu ancora turbata, di tanto in tanto, da insurrezioni di cosacchi che amavano mostrarsi campioni convinti dell’ortodossia; un capo dei quali, l’etmano Konachevitch Sagaïdatchnyi, ebbe una parte importante, al principio del XVII secolo, nella restaurazione delle diocesi ortodosse. Nel 1620, il patriarca di Costantinopoli, Théophane, di passaggio per Kiev, consacrò sei vescovi. Infine, nel 1632, il re di Polonia, Wladyslao, volle riconoscere la legittimità della sede metropolitano-ortodossa di Kiev e la nomina di quattro vescovi come appartenenti alla Chiesa russo-greca, ciò che apportò, senza dubbio, una grande calma negli spiriti e nei cuori. Quanto alla Chiesa unita, sussistette, a dispetto d’ogni sorta di ostilità, anche dopo la divisione della Polonia e i provvedimenti della Grande Caterina a suo riguardo. Fu il ferreo potere di Nicola I che ebbe ragione di essa nel 1839. Per decisione imperiale, tutti gli «unitari» delle provincie di Sud-Ovest della Russia furono incorporati per forza nel grembo della Chiesa russo-greca. Sotto Alessandro II, dal 1866 al 1875, nel paese di Chelm scomparvero con la violenza le ultime vestigia dell’Unione sul territorio russo. Questa persecuzione fu il soggetto d’un romanzo di Reymont, che M. Paolo Cazin tradusse sotto il titolo di Apostolato del knout. Ma la Chiesa unitaria sussistette sotto il governo austriaco in Galizia, ed anche oggi conta più di tre milioni di fedeli, organizzati in tre vescovadi, il capo supremo dei quali è il metropolita di Lwow (Leopoli-Lemberg), S. E. Mgr. Andrea Szepticky. II. La Chiesa unita della Russia di Sud-Ovest fu illustrata, oltre che dai suoi primi organizzatori, anche da uomini ragguardevoli per intelligenza, per energia, per il loro sapere e per la santità di vita. Non è temerario affermare che fu in gran parte merito di costoro, se seppe trionfare delle insidie che le avevano tese i Bizantini, e degli assalti che dovette subire da parte di certi capi cosacchi ribelli. Uno degli apostoli più puri e più popolari dell’unione con Roma fu il celebre arcivescovo di Polotzk, Giosafatte Kounzevitch (Kuncewicz). Egli fu martirizzato nel 1623 e dal papa Pio IX fu annoverato fra i santi.35 Un uomo saggio, se non santo, fu Mélétyi Smotritzky. La sua vita fu assai agitata e ricca di fatti che illustrarono in modo ammirevole i costumi e la mentalità del tempo in cui visse. Ritornato dalla Germania, dove era stato per finire i suoi studi, incominciati nel collegio dei gesuiti di Vilna, Mélétyi fu nominato, dal patriarca di Costantinopoli, vescovo di Polotzk. Però, molto prima di questa nomina, egli aveva sognato di ritornare all’obbedienza di Roma, ed ebbe anche l’idea di proporre ai Greco-Russi di riunirsi per discutere sulla grande questione del ritorno all’unità della Chiesa. Gli ortodossi, dapprima, finsero di arrendersi a questa proposta, ma in fine 35 Guépin (Don Alfonso), Un apostolo dell’unione delle Chiese nel XVII secolo. San Giosafatte e la Chiesa greco-slava in Polonia e in Russia, Parigi, 1897-98, 2 vol. 50 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it giudicarono fosse meglio astenersene. Frattanto Smotritzky, poco disposto a sopportare la tutela del patriarca, e non avendo nessuna inclinazione per una carica amministrativa, chiese di essere esonerato dal suo ufficio. Avendo ottenuto ciò che domandava, si ritirò nel monastero di Dermansk, di cui fu ben presto nominato priore. Fu là ch’egli si diede definitivamente, nel 1627, alla Chiesa unita, raccomandando di tenere nascosta la sua conversione per potersi occupare, com’egli diceva, più facilmente del proselitismo. Infatti nel 1628, facendo parte d’un concilio (sobor) a Grodek, Smotritzky difese calorosamente e con molta dottrina la causa della riunione. Fece notare ai prelati presenti la poca importanza, sotto il punto di vista dogmatico, delle contese che separavano le due Chiese, e sottolineò che, solo l’ostinazione dei «pravoslavny» nell’attenersi alla lettera, impediva questa unione. Il concilio ammise la verità delle osservazioni di Mélétyi e decise d’intensificare la diffusione di queste idee nella massa dei fedeli. Nel frattempo Smotritzky fece un viaggio in Palestina, d’onde riportò gli elementi della sua grande opera, che intitolò Apologia peregrinaciey do krajow wschodnych.36 Questo libro, che enumerava tutti gli «errori» dei teologi greco-russi, dispiacque moltissimo agli ortodossi di Kiev. Smotritzky fu mandato colà dal suo capo diretto, il metropolita, poichè, ufficialmente, egli continuava ad appartenere alla Chiesa bizantina, e dovette assistere alla condanna della sua opera, che fu bruciata e calpestata. Però, partito immediatamente da Kiev dopo questi fatti, Smotritzky protestò in un nuovo libro37 contro il trattamento di cui era stato vittima da parte dei Russi ortodossi. Dopo ciò, non essendo più trattenuto da nessun scrupolo, si proclamò apertamente unito alla Chiesa di Roma e visse i suoi ultimi giorni nel monastero da lui prescelto. Mori il 23 dicembre 1633. Ma queste due grandi figure non devono farci dimenticare l’opera ammirabile, quantunque anonima, che compirono poi, durante due secoli, i monaci basiliesi (così chiamati perchè vivevano conforme alle regole stabilite da S. Basilio il Grande), per sostenere e propagare la Chiesa unitaria. Il loro zelo non arrivò, tuttavia, fino a consigliare la riforma dei riti della Chiesa unitaria per avvicinarli sempre più a quelli di Roma. A questo mirò piuttosto, l’opera di certi prelati, che desideravano un po’ troppo di far noto il loro nome. Nel 1595 non si era giunti che a riconoscere la sovranità papale e gli «articoli ai fede» dei Latini, ma nel 1720 si fece un gran passo avanti. Il concilio unitario, che si riunì in quell’anno a Zamoïsk, stabilì di aggiungere al Credo la parola Filioque, di riconoscere certe feste cattoliche, come ad esempio la Festa del Corpus Domini, di modificare i paramenti sacerdotali e di rivedere i libri liturgici per renderli più conformi alla pratica cattolica. Ci affrettiamo a dire che queste «riforme» furono giudicate a Roma fuori di 36 «Apologia delle peregrinazioni fino ai paesi del Levante». — Lwow, 1628. L’Apologia fu ristampata dal P. Martynov S. J. a Leipzig nel 1863. 37 Quest’ultima opera intitolata Rozprava (Punizione) procacciò al suo autore il soprannome di Cicerone polacco. 51 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it luogo e deplorevoli.38 Del resto, esse durarono per poco tempo, poichè qualche decina d’anni dopo rinacque, negli Unitari, il desiderio di ritornare alla celebrazione del culto divino secondo il rito bizantino-slavo. CAPITOLO V. Mosca - «Terza Roma» La sconfitta subita dalle truppe tartare sulle rive del fiume Ougra nell’autunno 1480, e l’assassinio di Ahmed, l’ultimo kan della Orda d’Oro, avevano definitivamente liberata la Russia dal giogo mongolo ed aperta la strada che conduceva a Costantinopoli. Ma i tempi avevano molto cambiato, Bisanzio non esisteva più. Al contrario, sotto il vigoroso impulso dei grandi principi di Mosca, si costituiva nel centro dell’immensa pianura russa un grande Stato autonomo, al quale non mancava che un capo. Così ben presto parve ai sovrani moscoviti che la condizione essenziale dell’autocrazia politica stesse nel sottrarre i loro sudditi a qualsiasi dominazione religiosa straniera. Del resto, già molto prima, cioè dopo la seconda metà del XV secolo, la dipendenza della Chiesa russa dal patriarca di Costantinopoli non era che nominale. Il colpo funesto apportato all’autorità della Chiesa d’Oriente dal concilio di Firenze, la diminuzione agli occhi dei Russi, del suo prestigio di guardiana delle tradizioni della vera fede ed infine la caduta di Bisanzio, che fu interpretata in Moscovia come un segno della collera divina, tutto ciò non fece che affrettare il momento della proclamazione ufficiale dell’autonomia completa della Chiesa russa. Appunto nel 1589 il patriarca di Costantinopoli Geremia, di passaggio per Mosca, fu invitato a consacrare il metropolita di quella città, Giobbe, primo patriarca di tutta la Russia. Fu così ad un tratto costituita nella sua prima forma, la Chiesa nazionale e l’autocrazia russa a cui, quarantadue anni prima, Giovanni IV il Terribile, aveva data inizio facendosi consacrare czar (Cesare) dal metropolita di Mosca. Pur tuttavia mancava ancora qualche cosa alla solidità ed alla grandezza del nuovo edificio: cioè dei titoli di nobiltà ed una mistica. Si pensò dunque a provvedervi. Avendo lasciato Roma per Costantinopoli, per ragioni in gran parte politiche, gli imperatori d’Oriente credevano di aver portato con sè, non solo il simbolo di questo sacro Impero romano, ma anche i privilegi, i diritti e l’idea mistica che vi si riferivano. In tutta sincerità essi credevano d’essere i successori diretti dei Cesari e fu con questo sentimento che rivendicavano, in favore della loro nuova capitale, il primato 38 Korolevsky, L’Uniatismo, 1927, (Irenikon collezione). 52 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it divinamente unito alla sede di S. Pietro. Dunque Bisanzio, ai loro occhi, era la nuova Roma, la vera capitale dei «basileis», il centro della vita religiosa universale. Così pure essi consideravano Carlo Magno come un astuto usurpatore, e non vollero mai riconoscere agli Ottoni ed agli Hohenstaufens il diritto alla corona imperiale. Ma in realtà, tutte queste pretese non avevano alcuna base solida. E se anche si poteva dimostrare che Costantino XI discendeva in linea diretta dall’imperatore Augusto, l’Impero d’Oriente, per la sua struttura interiore, per la sua cultura, per la sua formazione etnica e per lo spirito che lo dominava, specialmente a partire dai Comneni, non aveva niente a che fare con l’Impero romano propriamente detto. Gli è per ciò, ed è il parere di Bury (A History of the later Roman Empire, v. I, Londra, 1923), che è del tutto fuori di luogo dargli il titolo «d’Impero Romano d’Oriente» o ancora quello di «Basso Impero», se questo non sia come termine storico. Tuttavia i Russi, avendo ricevuto da Bisanzio la loro istruzione religiosa e la mistica del potere per diritto divino, credevano fermamente all’esistenza di questa «Seconda Roma», e consideravano il suo imperatore come loro capo spirituale, come custode delle pure tradizioni della Chiesa apostolica. Ma ecco che questo capo e la sua potenza crollavano; ecco che Bisanzio, questo puro calice che conteneva l’acqua viva della vera fede, cadeva sotto i colpi degli infedeli. Bisognava forse per questo avvenimento affliggersi oltre misura? No, certamente, poichè la caduta di Bisanzio non significava punto lo sfacelo dell’Impero ortodosso, e ciò per la semplice ragione che un Impero simile non poteva scomparire del tutto. Per il fatto che il vaso era infranto, non ne seguiva per nulla che il suo contenuto si fosse volatilizzato. Iddio aveva permesso agli infedeli di trionfare sui Greci, ma Egli si sarebbe opposto alla distruzione della vera fede o alla sua sommissione ai Latini ed agli Ismaeliti. La vera fede è eterna: essa non finirà che il giorno in cui tutto sarà consumato. Ma poichè, per il momento, il mondo continuava ad essere bisognava sostituire il vaso rotto con uno nuovo, perchè l’acqua viva della fede, ch’esso conteneva, fosse d’ora innanzi al sicuro da ogni contaminazione. Questo nuovo vaso doveva essere dunque Mosca, «la Terza Roma». Queste erano le idee ardite e nuove che sviluppava, nel corso del XVI secolo, nelle sue lettere a varie persone altolocate, un pio monaco del monastero d’Eleazaro, a Pskov, di nome Filoteo.39 È certo che la esposizione di questa mistica non avrebbe trovato una grande eco in Moscovia, se il terreno non vi fosse stato meravigliosamente preparato da molto tempo da vari avvenimenti, cioè: l’ingrandimento del territorio nazionale grazie alla conquista dei regni tartari di Kazan e di Astrakhan; la conferma del patriarca universale di Costantinopoli dei pomposi titoli che s’era attribuiti Ivan IV, — Vedere la nota A alla fine del presente capitolo —, infine e sopratutto il matrimonio di Ivan III con Sofia 39 Malinine, Staretz Eléazarova manastyrla, Féofil, i égo poslania (Il vecchio del monastero di Eleazaro, Philotheo e le sue lettere), Kiev, 1891. 53 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it (Zoë) Paleologo, nipote, e per così dire erede della Corona dell’ultimo imperatore di Bisanzio. Così dunque l’idea di dare a Mosca il significato che aveva avuto prima Bisanzio agli occhi dei Russi, e di attribuire ai suoi principi il diritto di considerarsi come i successori legittimi d’un Impero cristiano ortodosso, aveva delle forti ragioni di essere, e di passare anche dal dominio puramente speculativo, a quello della realtà.40 Tuttavia, come se ciò non bastasse, per giustificare le pretese di Mosca alla successione di Bisanzio nell’elenco dei custodi dei principi della vera fede e dell’idea teocratica, o può darsi, per trovare i simboli che, agli occhi dei semplici mortali, avessero il valore e l’importanza di dogmi indiscutibili, si creò tutto un ciclo di leggende che attribuivano a Mosca il principato universale, laico e religioso. Così si supponeva che l’imperatore Comneno avesse mandato le insegne imperiali (la corona e le «spalline» barmes) di Costantino IX Monomaco al gran principe Vladimiro, lui pure Monomaco. — Vedere la nota B alla fine del presente capitolo. — Ciò, come si credeva, doveva dimostrare molto chiaramente che la trasmissione del diritto di successione e del principio della sovranità, non era affatto una invenzione di Mosca. V’era ancora la leggenda che stabiliva la parentela di Rurik, primo principe russo e capo della dinastia regnante a Mosca, con Prouss, fratello dell’imperatore Augusto, ed infine quella ch’era stata tratta dalla bianca tiara consegnata da Costantino il Grande al papa Silvestro, come simbolo dell’indipendenza della Chiesa. Ma si diceva in Moscovia che i successori di Silvestro, «non sentendosi degni di portarla», la consegnarono alla lor volta al patriarca di Costantinopoli. Essa toccò più tardi ai vescovi di Novgorod per essere definitivamente portata dal metropolita di Mosca. Il nuovo titolo e le nuove cariche che s’erano appropriate i sovrani moscoviti, esigevano una nuova orientazione politica ed una nuova concezione della parte che doveva rappresentare lo czar nel mantenimento delle prerogative e degli splendori della Chiesa ortodossa. Una Russia autocrate-czarista e ortodosso-autonoma era obbligata a vegliare alla conservazione dei principi che formavano le basi della vera fede, e a combattere, se ve ne fosse stato il bisogno, i nemici di questa fede. Però quest’obbligo di lottare, con le armi alla mano, contro gli avversari della religione ortodossa, non fu considerato dai sovrani moscoviti che a cominciare dalle prime guerre coi Turchi. Ed anche allora esso non ebbe punto le apparenze d’un programma ben definito. Ma tutt’altra sorte toccò al principio della sovranità dello czar. Fondata sulla tradizione bizantina, che faceva del monarca l’unto del Signore e suo vicario sulla 40 Questo diritto dei principi russi sulla rivendicazione dell’eredità bizantina, non fu loro mai conteso seriamente da nessuno. Vi furono anche degli Stati che, per diverse ragioni, riconobbero questo diritto affatto spontaneamente e senza alcuna pratica da parte loro. Fu così che fin dall’anno 1473 «il Senato di Venezia, sempre prudente e regolato, osserva il P. Pierling (Il matrimonio d’uno czar… «Rivista delle questioni storiche» 1 ottobre 1887), riconosceva di sua propria iniziativa, i diritti di Ivan III sull’impero di Bisanzio in mancanza di una successione maschia nella linea dei Paleologhi. Il doge non temeva di esprimere apertamente questa convinzione nelle sue lettere al gran principe». 54 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it terra, essa permise ai sovrani moscoviti, e più tardi agli imperatori della Russia, di arrogarsi il diritto di dominare tutti e di governare tutto. E così, infine dei conti, il potere spirituale, come anche il temporale, furono a loro sottoposti completamente per il loro titolo di protettori sovrani della Chiesa. Questa onnipotenza degli czar annullò ben presto l’indipendenza, l’autorità ed il prestigio del patriarcato, creato, del resto, in Moscovia per la spinta delle preoccupazioni politiche molto più che per necessità di culto. Fra i dieci patriarchi della Chiesa greco-russa, che succedettero dopo l’istituzione di questa alta carica fino alla sua soppressione da parte di Pietro il Grande, ve ne furono appena due o tre dei quali la storia parli altrimenti che citandone i soli nomi, e non ve ne fu che uno di cui essa si sia occupata lungamente. Ma anche quello (Nikone) finì i suoi giorni nell’oblio e nell’esilio. Del resto, l’autorità, se non l’indipendenza del capo supremo della Chiesa nazionale, era stata già battuta in breccia dal potere laico molto prima della creazione del patriarcato. In Moscovia, alla fine del XV secolo e al principio del secolo seguente, i «metropoliti di tutta la Russia» (mitropolity vséa Rousi) non godevano più dello stesso prestigio e della stessa venerazione di uno o due secoli prima. Tuttavia, a dispetto del fatto che non si era loro lasciato che un’ombra del potere, i metropoliti moscoviti, e più tardi i patriarchi, continuarono per tradizione a godere di grandi privilegi nell’ordine materiale. In possesso di immensi beni fondiarii (bisogna ricordarsi che nel XVI secolo la Chiesa russa possedeva da sola il terzo di tutto il territorio della Russia), di tesori incalcolabili e di centinaia di migliaia di servi, il patriarca, le abbazie, ed in generale quasi tutto il clero secolare, erano molto largamente al riparo da ogni bisogno. Ma fu questo che li rovinò. Per conservare i loro dominii, i loro lasciti, e, in generale, tutto il loro avere, i dignitari della Chiesa diventarono eccessivamente servili coi grandi, non osarono più alzare la voce contro le ingiustizie flagranti commesse dalle autorità laiche o dal sovrano. Inoltre, sempre per conservare le loro ricchezze materiali e la loro posizione sociale, chiudevano completamente gli occhi su tutti i vizi che rovinavano la società laica, e su tutti i mali costumi che si radicavano sempre più in mezzo agli ecclesiastici ed ai monastici: crapula, usurpazione, accidia, cupidigia. Un tale stato di cose non poteva certo durare indefinitamente senza provocare severe critiche. L’autocrazia era ancora di fresca data e non poteva chiudere la bocca a tutti i Moscoviti. Dunque vi furono veementi proteste contro la debolezza dell’alto clero, contro la sua mancanza di dignità e la sua condiscendenza nel coprire, colla sua autorità, ogni atto arbitrario del potere civile: e ciò tanto da parte di certi cenobiti, durante quelle riunioni di ecclesiastici che si chiamavano sobors,41 quanto da parte dei laici ed anche di qualche straniero. Del resto 41 L’istituzione dei sobors (concili) fu trasmessa alla Russia da Bisanzio. Nella Russia mediovale i concili avevano luogo, ciascuno alla sua volta, nelle diverse grandi città e da esse venivano denominati. Più tardi, al tempo dei patriarchi, vi furono dei sobors semplici, che non riunivano che i vescovi presenti a Mosca, e dei sobors straordinari composti di prelati convocati specialmente da tutte le parti della Moscovia. Pietro il Grande soppresse, 55 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it anche Massimo il Greco — Vedere la nota C alla fine del presente capitolo — si permetteva di dichiarare che fra il clero russo del suo tempo (XVI secolo), si sarebbe potuto cercare invano un Samuele, un Elia o un Giovanni Crisostomo (Opere di Massimo il Greco, II 336-337, III 155). Dello stesso parere era il suo illustre discepolo, il principe A. Kourbsky, allorchè scriveva «che i vescovi non dicevano punto la verità allo czar, ma si accontentavano d’essere del suo parere». Quanto ai corrotti costumi della società d’allora (la sodomia infatti era il vizio più diffuso), erano oggetto d’un numero considerevole d’infiammate filippiche, come la lettera del metropolita Daniele «sul pericolo di conversare con uomini effeminati»,42 e la lettera anonima indirizzata ad Ivan IV, nella quale il suo autore affermava che buon numero dei suoi compatrioti «paragonavano le loro spose alle tenebre e non trovavano vaghezza che nelle bellezze insipide, che erano il sole ai loro occhi».43 Tuttavia tutte queste critiche contro il clero, non diedero nessun risultato tangibile, perchè il potere non fece quasi niente per rimediare a quello stato di cose; quando esso cominciò ad occuparsene seriamente, era troppo tardi. Pietro soppresse il patriarcato, non perchè il patriarca facesse ombra alla sua onnipotenza di sovrano autocrate, (egli faceva poco conto dell’ideologia bizantino-moscovita), ma perchè vedeva, da amministratore inquieto dell’ordine pubblico, che il patriarcato, in decadenza e ricco di beni materiali, non era più in grado di far tornare il clero all’obbedienza delle leggi e al rispetto dei buoni costumi. Vi fu però, prima di Pietro il Grande, un energico tentativo per frenare la decadenza morale dell’alto clero. Fu fatto dal celebre Nikone, sesto patriarca di Russia.44 La sua grande amicizia con lo czar Alessio Mikhaïlovitch, padre di Pietro I, che lo considerava come «il suo più caro amico», e la piena confidenza che godeva presso il sovrano, confidenza che era giunta al punto da fargli ottenere il titolo di «grande signore» (vélikyi gosoudar), permettevano a Nikone di compiere moltissime cose in questo ordine d’idee, che i suoi predecessori non avrebbero giammai osato intraprendere. Si deve dire però che egli li superava tutti di gran lunga, e per la sua energia quasi selvaggia e per la vasta intelligenza e per l’idea mistica che egli giustamente aveva della grandezza del potere patriarcale. «Il sacerdozio sorpassa la sovranità» gli piaceva dire, e volentieri paragonava l’astro notturno al potere temporale, e quello del giorno all’autorità spirituale. Insomma, durante il patriarcato di Nikone, la concezione bizantina della Chiesa unita allo Stato a tal punto da non avere azione esteriore che per mezzo suo, era virtualmente rovesciata. Il vero sovrano era il patriarca. Del resto, nella prefazione che orna il messale nel 1721, questa istituzione dei sobors. 42 «Poslanié o tom iako vrédno iest besédovati s mougi genovidnymi» («Sofyiskaia Biblioteka» n. 1281, foglio 292). 43 Tmoyou zovout genou, a sviétom zovout détinou («Tchténié v obchtchestvé istorii i drevnostey Rossyishikh», 1874 v. I, parte 1-81. 44 Ikonnikov, Novyé matérialy i troudi o patriarkhé Nikoné (Notizie date e lavori intorno al patriarca Nikone), Kiev, 1888 — Palmer (W.), The Patriarch and the Tsar, Londra, 1905. 56 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it (sloujébnik) pubblicato al tempo di Nikone (1655), lo czar ed il patriarca sono paragonati ad «una dualità scelta ed innalzata da Dio», per la quale «tutti quelli che vivono sotto il loro comando e la loro sovrana volontà, una ed indivisibile, devono ringraziare il Signore con canti di gioia45». Tuttavia, come se ciò non bastasse, lo czar, cedendo all’esercito, due anni più tardi, elevò Nikone alla dignità di reggente del «tsarstvo» e gli impose di occuparsi della sua famiglia. Tutti questi insoliti lavori e i molti e ricchissimi doni di cui fu colmato, erano da Nikone accettati non come fossero dovuti a lui, ma al patriarca di tutta la Russia. «Noi non andremo mai a prostrarci davanti allo czar per i suoi doni, scriveva egli, perchè per tutto ciò ch’egli ci ha regalato, avrà una ricompensa centuplicata nel cielo e di più meriterà il paradiso». Però la sgarbatezza e i modi alteri di Nikone, e la sua mancanza di riconoscenza, di cui le ragioni sfuggivano allo czar, fecero alla fine allontanare Alessio dal suo amatissimo patriarca. Di questo momento approffittarono i numerosi nemici di Nikone. Ben presto lo denunciarono allo czar come intrigante e ingannatore. Nikone fu giudicato da un concilio composto di patriarchi d’Alessandria e di Antiochia, e anche da qualche metropolita: fu accusato di lesa maestà, e dopo averlo dichiarato decaduto dalle sue alte cariche, fu mandato in un monastero molto lontano dalla capitale. Tuttavia, a dispetto della sua intransigenza che rovinò la sua carriera, Nikone fu una figura di alto valore, che si stacca nettamente sullo sfondo grigiastro della seconda metà del XVII secolo russo. D’altronde, questo figlio d’un semplice contadino, che raggiunse l’alta posizione da lui occupata unicamente per i suoi meriti, era un letterato ed un amante del sapere. Fu lui che salvò la vita allo scholar Arsenio il Greco, relegato nel monastero di Solovetzk, posto in un’isola del mar Bianco, per aver professato delle eresie, insegnando il greco e il latino alla gioventù moscovita. Fu lui pure che dotò certi monasteri di ricche biblioteche e fece venire dalla Grecia parecchie centinaia di manoscritti preziosi, contenenti specialmente opere di Omero, di Esiodo, di Eschilo, di Plutarco, di Tucidide e di Demostene. Ma la sua principale opera, quella a cui legò il suo nome, fu la revisione dei libri sacri secondo gli originali greci. Questo lavoro, incominciato molto timidamente dal suo predecessore, il patriarca Giuseppe, Nikone portò a compimento. Per liberare i testi dalle interpolazioni che li alteravano, egli scelse dei grammatici greci e teologi di Kiev, per la qual cosa suscitò la collera degli ultra-nazionalisti, quali il pope Avvakoum ed altri, che non avevano alcuna fiducia nell’ortodossia dei Bizantini e del popolo di Kiev. Ma in verità, quest’opera di Nikone tornò a danno di lui, poichè non solamente diede origine ad uno scisma (raskol) — Vedere la nota D alla fine del presente capitolo. — nel seno della Chiesa russa, ma fu anche ricordata il giorno in cui si decise di toglierlo e bandirlo da questa Chiesa, di cui sognava la 45 «Vsi givouchtchia pod derjavoï ikh… i pod iédinym ikh gosoudarskim povéléniem… outéchitelnimi pesnymi slovami imout vozdvigchago ikh istinnago Boga nachégo». 57 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it grandezza e la purezza. Così dunque Nikone fu un riformatore ed un precursore. Dopo la sua disgrazia, nel 1660, la Russia dovette aspettare quasi mezzo secolo prima d’avere un altro uomo della stessa tempra: Pietro il Grande. NOTE Nota A. — Giovanni IV, che operava di solito di sua testa, amava tuttavia di rivestire i suoi atti con un’apparenza di legittimità, quando ciò gli sembrasse utile. Sapendo perfettamente che il diritto d’una consacrazione legale non apparteneva nè al metropolita di Mosca, nè a un qualsiasi patriarca, ma unicamente al Papa ed al patriarca ecumenico di Costantinopoli, si rivolse a quest’ultimo pregandolo di sanzionare la sua incoronazione e di riconoscerlo come czar di tutta la Russia. È pur vero ch’egli avrebbe potuto astenersi dal chiedergli quest’ultimo favore, dato che il titolo di czar era stato portato prima di lui da grandi principi moscoviti, fra cui Giovanni III, e che questo titolo era stato riconosciuto ufficialmente anche al gran principe Vassili III dall’imperatore Massimiliano I. Ma evidentemente Giovanni IV bramava molto di ottenere da Costantinopoli un titolo che lo riconoscesse solennemente come czar e unto del Signore. Il patriarca di Costantinopoli, che in quel tempo era un certo Giosafatte, non aveva alcuna seria ragione per declinare la domanda dello czar moscovita, anzi aveva tutte le scuse per accontentare questo potente monarca. Però gli era difficile il convocare un sinodo di vescovi che doveva, com’era prescritto dalla legge, firmare il documento che riconoscesse ad Ivan IV il titolo di «Basileus». Così prese su di sè la responsabilità di scrivere un atto falso. Egli firmò dunque la carta attesa a Mosca e la fece firmare dal suo vicario: in quanto alle altre trentacinque firme dei metropoliti e dei vescovi, si accontentò di farle imitare da un cancelliere del Phanar. (Cf. Regel, Analecta byzantino-russica, pp. LIII-LVI). Nota B. — Che questa storia della trasmissione delle insegne imperiali da Costantino Monomaco al gran principe di Kiev, sia una semplice leggenda, è provato sufficientemente dal fatto che la corona detta di Vladimiro Monomaco, della quale si cingevano gli czar della Russia, non presenta alcuna somiglianza con le corone bizantine del X secolo e dei secoli posteriori. Anzitutto le manca il cerchio o «stemma», che costituisce l’elemento principale di tutte le corone bizantine. La sua speciale forma conica è piuttosto d’origine asiatica. In somma questa «cuffia» di Monomaco, poichè è una cuffia (chapka) e non una corona (vénétz) doveva provenire dalla rive del Volga o dai paesi vicini al mar Caspio. È probabile che sia stata inviata come regalo a uno dei grandi principi russi da qualche kan tartaro. È un lavoro orientale molto ben fatto, ma che non risale più in là del XIII o XIV secolo. Del resto è di essa che si deve trattare nel testamento del gran principe Ivan II, che risale al 1356, nel quale si fa parola di una certa «chapka». 58 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it La menzione che la corona e gli altri ornamenti, di cui si ornavano gli czar moscoviti, erano di origine bizantina, non apparve che nel XVI secolo, poichè fu nel testamento di Giovanni IV che se ne parlò in questo senso. Nel tempo in cui i sovrani moscoviti non erano che grandi principi, la loro corona si chiamava «cuffia» e non se ne conosceva affatto la augusta origine. Ma quando diventarono czar, la loro cuffia fu la «cuffia» di Monomaco (chapka Monomakha) e le si attribuì una leggenda alla quale nel XVII secolo fu unito un racconto favoloso delle circostanze in cui questa cuffia era toccata ai sovrani moscoviti. Fu, si diceva, nel corso d’una spedizione contro Costantinopoli che il principe Vladimiro (1113-1125) ricevette dall’imperatore Costantino la detta corona e il soprannome di «Monomaco». Ma la veridicità di questo racconto è smentita dalla Storia, che c’insegna come questi due Monomaci vissero in epoche ben diverse. (Cf. Regel, Analecta byzantino-russica, pp. LVII-LXXXVII). Nota C. — Questo Massimo il Greco, discendente d’una illustre famiglia albanese, fu veramente una grande e nobile figura. Dopo un lungo soggiorno in Italia, durante il quale si dedicò agli studi filosofici e teologici, e dove strinse amicizia con vari uomini illustri dell’epoca, entrò in religione sotto l’influenza degli infiammati discorsi del Savonarola, e si ritirò in un monastero sul monte Athos. Per sua disgrazia, qualche anno dopo (1515), fu scelto dal capitolo del suo convento perchè si recasse in Moscovia, il cui principe chiedeva insistentemente un dotto traduttore e commentatore delle Sacre Scritture. Ben presto, a Mosca, Massimo riuscì a radunare attorno a sè qualche giovane avido di sapere e di conoscere la vera religione, ma anche si attirò l’odio cieco dell’alto clero russo e dei boiardi, cui egli non temeva d’accusare d’immoralità, di cupidigia e di crassa ignoranza. Alla fine furono questi ultimi che ebbero il sopravvento. Massimo fu mandato in un convento molto lontano dalla città, rinchiuso in una prigione e privato del ss. Sacramento; tutto ciò sotto il futile pretesto d’eresia nell’interpretazione dei testi sacri. Egli vi restò parecchi anni e non potè mai, neppure dopo la morte del suoi persecutori, ricuperare una piena libertà e la possibilità di lasciare la Moscovia. Le autorità di quel paese temevano che Massimo facesse allo straniero delle sensazionali rivelazioni sulle idee e sui costumi della loro patria. Nota D. — Quella parte dei Russi che non volle accettare la riforma di Nikone, ma pretese di attenersi alla fede e sopratutto al rito esatto dei loro padri, furono chiamati raskolnikis (dalla parola raskol = scisma) oppure «vecchi credenti» (starovery o staroobriatzy). Erano, in generale, genti ostinate e selvagge. Perseguitati per più secoli, seppero essere i martiri della loro convinzione religiosa. Davanti alle autorità civili ed ecclesiastiche gettavano l’anatema alla Chiesa, ch’essi paragonavano alla donna pubblica dell’Apocalisse. Sofisticoni abilissimi, avendo, sembra, ereditato dai grammatici bizantini il gusto delle finezze dialettiche e delle dlscussioni teologiche, i predicatori e gli scrittori «vecchi credenti», passavano il loro 59 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it tempo diffamando e schernendo la Chiesa ufficiale; facendo rilevare, per esempio, che non era col confronto dei vecchi testi slavi che Nikone aveva fatto la revisione dei libri, ma togliendo dai libri greci «stampati presso gli Alemanni», cioè presso gli stranieri (alludendo all’Eucologio greco pubblicato a Venezia nel 1602). CAPITOLO VI. Il Monachismo I. Essendo stati i Russi convertiti al cristianesimo da Bisanzio, era naturale che il monachismo venisse loro dalla stessa sorgente. Ma all’epoca in cui si fece l’evangelizzazione della Russia, la vita monastica a Bisanzio era già in piena decadenza.46 «Però noi non eravamo per nulla chiamati a restaurarla e a farla risalire ai tempi di Pacôme il Grande e di S. Basilio, osserva lo storico russo Goloubinskyi.47 Tutto ciò che potevamo fare, era che l’accettassimo tale quale era in quel tempo in cui fummo convertiti al cristianesimo, e giacchè presso di noi, come presso i Greci, il voto di castità era libero da qualsiasi ostacolo, ma esposto alle tentazioni che lo trascinavano alla perdizione, si poteva forse immaginare che le cose sarebbero andate diversamente che in Grecia? Certamente, presso di noi, i laici non presero mai parte attiva, come in Grecia, alla depravazione dei monaci. In Russia, i monasteri non erano case di campagna, o ville di ricchi proprietari fondiarii, che vi venissero a passare le vacanze e vi portassero l’eco della vita esteriore, ma anche da noi, fin dai tempi più lontani, si cominciò a corrompere i monaci, sia pure in altro modo, invitandoli a far feste e organizzando in loro onore, tra le stesse mura del monastero, sontuosi banchetti a cui prendevano parte anche donne».48 Che simili cose potessero accadere, si spiega per il fatto che ben pochi monasteri russi avevano una organizzazione interna modellata su quella dei conventi occidentali. Si tentò, è vero, nei primi tempi in cui si fondarono i primi monasteri russi, d’introdurvi le regole di S. Teodoro Studita, ma queste non ottennero che un successo relativo, e non si mantennero in tutta 46 Vedi a questo proposito la lettera di S. Nilo il vecchio (m. verso il 430), Basiliano del monte Sinaï, all’archimandrita Nicon. Migne, Patr. graeca, LXXIX, col. 437. 47 Istoria rousskoï tserkvi (Storia della Chiesa russa), t. I, II parte, pp. 644-645. 48 Cf. Giovanni II, metropolita di Kiev, Tzerkovnyia pravila (Regole ecclesiastiche), Ediz. Pavlov «Biblioteca storica russa», VI, St. Petersbourg, 1880. 60 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it la loro integrità che per uno spazio di tempo assai breve. Ciò accadde perchè la grande maggioranza dei monasteri della Russia, fino alla metà del XVIII secolo, come vedremo più tardi, non erano che delle comunità, dove i monaci vivevano in stanze separate o in casupole costruite per essi o di loro proprietà. Essi si riunivano solo nelle ore dell’ufficio e durante i pasti. Il cibo era uguale per tutti, ma non era proibito di mutarlo, avendo i cenobiti diritto di possedere una fortuna propria e di spenderla a loro piacimento. Del resto il capriccio che presiedeva all’esistenza di queste comunità non aveva di uguale che la noncuranza che vi regnava; alcuni conventi erano misti, cioè abitati in parte da uomini, in parte da donne. — Vassilenko, Diz. encicl. russo, vol. 38, p. 727. — Altri di religiose, erano diretti da priori, altri infine erano proprietà esclusiva di persone ricche e titolate che trattavano i loro monaci come fossero servi. Ma furono appunto tutte queste miserie, tutte queste imperfezioni della vita cenobitica russa d’un tempo, che permisero al monachismo russo di durare e che lo fermarono sulla soglia dell’abisso. Poichè là pure, profondamente nauseati della vita fiacca, oziosa e viziosa che si conduceva nel monastero dove vivevano certi religiosi, anelanti ad una vita interiore, pura e austera, un bel giorno lo lasciarono e se ne andarono lontano a cercare un luogo adatto per crearvi l’ambiente che richiedeva il loro stato d’animo. Così si moltiplicarono, sulla superficie della grande pianura russa, conventi ed eremitaggi: così si dissodava l’impenetrabile selva moscovita, si fondavano città e borghi e s’allontanava sempre più il paganesimo dei popoli autoctoni. Questo fenomeno, che è uno dei più notevoli di tutta la storia del monachismo russo. non deve essere confuso con l’altro, che era la piaga della vita cenobitica dei tempi antichi, tanto in Russia, quanto nell’Europa occidentale, cioè il vagabondaggio dei monaci. In Russia, non si riuscì ad aver ragione dei monaci vagabondi 49 che alla fine del XVIII secolo, dopo che furono fatte leggi draconiane per questo scopo, e venne istituito un corpo di polizia speciale incaricata di vigilarli.50 Ma i religiosi che lasciavano il loro monastero per ragioni di alta morale e di religione, non avevano che una mira: fondare una comunità che per la sua costituzione s’avvicinasse il più possibile al loro ideale di vita cenobitica. Erano costoro, in generale, uomini eletti, asceti, riformatori ed anime sante. Ordinariamente sceglievano, per stabilirsi, luoghi disabitati: qualche radura in mezzo a una foresta, o le rive solitarie d’un lago.51 49 S. Francesco d’Assisi chiamava questi monaci vagabondi: «Miei fratelli moscerini». 50 Al tempo dell’imperatrice Elisabetta Pétrovna (1741-1762), si doveva ancora punire, con le verghe e con le catene, i monaci che si ubbriacavano ed erano animati da spirito di ribellione. Siccome pure allora esisteva un mercato dei preti, dove i popi andavano ad offrire i loro servigi, esso venne proibito sotto pena di castighi corporali. Cfr. Timofeev, Istoria telesnykh nakazanyi v rousskom pravé. (Storia delle punizioni corporali nel diritto russo). St. Petersbourg, 1904. 51 Avveniva anche, alle volte, che una piccola comunità di monaci si raggruppasse attorno a una modesta Chiesa di villaggio. Casi simili si ebbero sopratutto al principio della vita 61 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it Ben presto, grazie all’indefesso lavoro dei monaci, s’innalzò, fra le capanne che loro servivano di cella, una piccola chiesa in legno che divenne il punto di riunione per altri malcontenti e per altri disertori. Così, a mano a mano che aumentavano i cenobiti, che si edificavano nuove celle e che la chiesa veniva abbellita, il paese circostante perdeva sempre più del suo aspetto selvaggio e spopolato. Ben presto, attorno alla nuova Tebaide sorgeva un piccolo borgo che si trasformava più tardi in villaggio per diventare infine città. Tali furono le modeste origini di molte città della Russia del Nord, ed anche di molti fra i celebri monasteri, i cui fondatori erano, oltre che ricchi di grandi virtù e santità, dei zelanti colonizzatori e coraggiosi pionieri, che recavano, anche a rischio della propria vita, la buona parola a popolazioni semi-barbare. Certamente, non era raro il caso che i monasteri, dimenticando le regole che erano loro state imposte dai fondatori, si lasciassero andare ad una vita di indolenza, di piaceri terreni ed intenta al guadagno: però si trovava sempre qualche monaco che, fuggendo la comunità decaduta, portava altrove la fiamma di cui un tempo quella si illuminava. Così la vita di molti monasteri russi potè essere degna di biasimo; l’ideale cenobitico tuttavia durò in Russia e continuò di secolo in secolo. II. Fu nel «paese di Kiev» che sorse la vita monastica. Essa cominciò con queste piccole comunità di cenobiti, di cui stiamo parlando, e che ancora oggidì si chiamano skits. Evidentemente questa specie di beghinaggi non avevano nè regole precise, seriamente stabilite, nè superiori chiamati a dirigerli. Del resto nessuno dei religiosi che ne faceva parte, era ancora vincolato da voti. A quanto dicono certi scritti del tempo, i veri monasteri apparvero poco dopo la conversione al cristianesimo del gran principe Vladimiro.52 Innegabilmente essi esistevano già al tempo di Iaroslav il Grande, nel principio dell’XI secolo,53 ma differivano pochissimo, per il loro genere di vita monacale, allorchè il numero dei cenobiti era ancora limitato, quando ben pochi di loro erano sacerdoti consacrati; ed infine vi era ancora posto nel mondo perchè non si sentisse il bisogno di cacciarsi nelle solitudini del Nord e dell’Est. Tuttavia, in certi paesi della Russia, queste abitudini di raggrupparsi attorno ad una chiesa già esistente, durò per più secoli. Goloubinskyi trovò in un vecchio repertorio della provincia di Novgorod, la seguente menzione: «La chiesa ed il presbiterio d’Imotchenitzyi sull’Oiaty, sono costruiti su terra dello czar e gran principe; nel presbiterio, vi sono il pope Filippo, il suddiacono Romachka Grigoriev, lo scaccino Mikitka, la panifera Agata e inoltre dieci celle nelle quali vivono dodici fratelli monaci». (Istoria rousskoï tserkvi, t. I, II parte, p. 553). 52 È ciò che c’insegna il metropolita Hilarion nei suoi «Discorsi sulla Legge e la Grazia». D’altra parte le saghe nordiche ci parlano d’un certo Islandese, Horwald, che avrebbe fondato un monastero in Russia all’epoca della conversione al cristianesimo di Vladimiro. 53 La cronaca di Nestore (anno 1051) ci dice che il beato Antonio, venuto a Kiev negli ultimi anni del regno di Iaroslav, soggiornò in vari monasteri della città («hody po monastyriam») prima di ritirarsi a vivere nella grotta che fu l’embrione del futuro 62 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it e per la loro costituzione, dalle comunità cenobitiche primitive. Il vero monastero, in tutto il significato della parola, fece la sua apparizione molto più tardi, e fu la futura laure (abbazia) di Kiev, detta delle Catacombe (Kiévo-Pétcherska Lavra). Un certo Hilarion, curato di Béréstov, villaggio dei dintorni di Kiev, sentì, nel 1051, d’essere chiamato alla vita eremitica. Lasciò dunque il suo presbiterio e sulla scoscesa riva del Dnieper scavò, per vivervi, una specie di grotta o piuttosto una cripta (pestchera). Però non vi rimase che poco tempo, perchè fu nominato ben presto metropolita di Kiev. Fu allora che la grotta abbandonata venne occupata dal monaco Antonio, venuto dal monte Athos poco tempo prima. Antonio era un asceta pieno di zelo, d’umiltà e di fede ardente. Il suo esempio trovò imitatori. Perciò fu raggiunto ben presto da altri uomini pii fra i quali si distingueva per il suo ardore il giovane Teodosio. Quando gli eremiti raggiunsero il numero di dodici, edificarono una piccola chiesa e si costruirono delle celle. Antonio pose a capo di costoro come superiore, un certo Barlaam,54 ed egli si ritirò a qualche distanza dal monastero in una nuova grotta che s’era preparata sul modello di quelle che i guerrieri normanni della scorta del principe avevano scavata nelle vicinanze per nascondervi il loro bottino. Però, aumentando sempre più i cenobiti, fu stabilito di lasciare le cripte, perchè troppo anguste, e si costruirono, oltre al primitivo ricovero, delle celle ed una nuova chiesa consacrata all’Assunzione della Santa Vergine. Il gran-principe di Kiev, Iziaslav, figlio di Iaroslav, fece dono alla comunità di tutto il terreno ch’essa occupava, come pure d’una gran parte della vicina riva boscosa del Dnieper. In quei tempi il priore del nuovo monastero era Teodosio. Fu lui che per primo mise in pratica, in Russia, la regola di vita cenobitica di S. Teodoro Studita.55 Teodosio era uomo di pietà e di ascetismo rari. Passava gran parte delle sue giornate e delle sue notti in preghiere e meditazioni. Ma il suo ascetismo si manifestava in tutto il suo rigore, specialmente durante la grande quaresima. Di solito, dopo d’essersi accomiatato dai fratelli e di aver loro fatto le sue raccomandazioni, si ritirava in una grotta abbandonata monastero di Kievo-Pétchersk. 54 Si troveranno dei particolari biografìci su Teodosio e Barlaam in Martynov, Annus Ecclesiaslicus graeco-slavicus, («Acta Sanctorum» Octobris. t. XI), 1864. 55 S. Teodoro, soprannominato lo Studita, celebre riformatore della vita monacale, fu uno dei personaggi più importanti del IX secolo bizantino. Zelante, molto istruito, fermo e risoluto, insegnava una dottrina ascetica, opposta a quella degli hésychastes e degli eremiti. Nel suo Piccolo Catechismo (Migne, Patr. graeca, t. 99 col. 509-688, e così Van de Vorst, La piccola catachesi di S. Teodoro Studita, «Annalecta Bollandiana», vol. 33, 1919), egli ha pure parole assai dure contro di essi. Con quei monaci riformati cui egli aveva dato una nuova regola di vita, uscì dall’inattivo misticismo in cui s’erano addormentati i religiosi d’Oriente. Teodoro parteggiò sempre per il Papa ed esprimeva in termini scelti l’apostolicità della Sede di Roma e l’autorità del Papa in questioni dogmatiche. Nelle sue opere, Teodoro chiama il Papa l’aposlolico e il «successore di Pietro». Sulla vita e la dottrina di Teodoro, v. Schneider, Der heilige Theodor von Studion (Münster, 1900), Marin, San Teodoro (Parigi, 1906), ed anche I. Hausherr, S. Teodoro Studita: l’uomo e l’asceta, («Orientalia christiana», vol. VI, 22). 63 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it ch’egli faceva murare, non lasciando che un piccolo pertugio per il quale trattava, una volta la settimana, gli affari della comunità. Restava così nella più austera solitudine, in questa cripta o caverna, per tutte le lunghe settimane della grande quaresima, e non ne usciva che alla vigilia del giorno in cui si commemorava la risurrezione di Lazzaro. L’esempio di Teodosio stimolò certamente lo zelo di molti cenobiti che vivevano con lui.56 Però le severe regole ch’egli aveva introdotte nel monastero di Petchersk non si mantennero in tutto il loro rigore che poco tempo. Dopo la sua morte esse furono abbandonate a poco a poco e sostituite da altre che, come le precedenti, non furono in verità mai riconosciute dalla Chiesa. — Goloubinskyi, Op. cit. p. 633). — Del resto, anche durante la vita dei fondatori del convento delle Catacombe di Kiev, le defezioni non erano rare e numerosi erano i monaci che, dopo un soggiorno più o meno lungo nel monastero, lo lasciavano per Costantinopoli o per il monte Athos, che era già, in quel tempo, esclusivamente popolato da cenobiti. La data esatta della fondazione d’un monastero russo sull’Athos, non è nota: Goloubinskyi ed il vescovo Porfiro (Storia d’Athos, Kiev, 1877) ritengono che sia avvenuta verso la metà del XII secolo. Infatti fu verso quell’epoca che vari monaci, d’origine russa, ebbero l’autorizzazione di riedificare un vecchio monastero caduto in rovina, ed al quale si diede per conseguenza il nome del santo martire Pantalemone. Questo convento fu chiamato «roussik» dagli Slavi balcanici. Però il monastero russo dei nostri giorni non è affatto quel «roussik». L’attuale monastero russo del monte Athos fu edificato nel corso dell’ultimo secolo, sul luogo dell’antico. È una sontuosa costruzione che manca di sostentamento, perchè la cassa che la manteneva è esaurita ed a sua volta minaccia rovina.57 Ma la Grecia non era il solo paese che fosse visitato dai monaci russi: anche la Palestina li attirava. È certo che Gerusalemme fu molto presto la meta dei pellegrinaggi russi, e che vi esisteva nel XII secolo un monastero abitato esclusivamente da cenobiti venuti dalla Russia. D’altronde, non era raro il caso d’incontrare sulla soglia del Sepolcro di Nostro Signore, frammischiati coi monastici, persone di spada e personaggi d’alto rango, oriundi da Kiev e da Novgorod. Che fossero attirati da Alessio Commeno per 56 I monaci solitari o rinchiusi sono sempre esistiti in Russia. Gli annali ecclesiastici citano un certo inok Giovanni «la vittima» (mnogostradalnyi) che si fece sotterrare a metà e passò così la sua vita. Un altro monaco, al principio del monachismo russo, Isaac, del monastero di Petchersk, essendosi coperto d’una pelle recentemente levata ad un capro, la lasciò seccare sul suo corpo. Poi si rinchiuse in una cripta di quattro cubiti e si fece murare. Come unico cibo, aveva un pane di comunione (prosfora) che gli veniva passato per un finestrino ogni due giorni. Egli non si coricava mai e dormiva accoccolato in un angolo della cella. Dopo due anni d’un simile regime di vita, divenne pazzo e ci vollero altri due anni per guarirlo. Guarito, non tornò più nella sua cripta. Però in generale gli abati e gli higoumènes (priori) dei monasteri, non erano affatto favorevoli a questi eccessi d’ascetismo e non concedevano che raramente l’autorizzazione di praticare la reclusione. 57 Si trovano particolari notizie sui monasteri del monte Athos in Giovanni Commine — Descrizione della santa montagna d’Athos (in greco), Bucarest, 1701. Opera tradotta in russo nel 1706 dall’ierodiacono del convento di Tchoudov, Damaskine. 64 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it combattere gli infedeli, come affermano taluni:58 o che vi venissero per compiere un atto di fede, il fatto è che seguivano invariabilmente un itinerario già tracciato dai loro compatrioti venuti antecedentemente in Palestina. Così lasciò scritto il monaco di Tchernigov, l’archimandrita Daniele, (1006 o 1007) che ci ha lasciato una descrizione tanto chiara che deliziosa e pittoresca di tutte le peripezie del suo lungo viaggio in Terra Santa.59 La storia del monastero Kiévo-Petcherskyi è molto conosciuta. Dopo d’essersi arricchito d’una sontuosa cattedrale consacrata alla Madre di Dio, tanto bella, dice l’annalista, che gli artisti bizantini, che l’avevano decorata, non vollero più lasciare quel luogo e vi furono seppelliti. Il monastero fu distrutto dalle orde mongole di Batyi, nel 1240, per risorgere sui suoi resti un secolo dopo e divenire, fin dalla fine del XVI secolo, la più ricca abbazia della Russia meridionale. Certamente il Monastero delle Catacombe ebbe una gran parte nella propagazione della nuova fede. Durante i secoli XI e XII da esso uscirono più di venti prelati russi, ed ebbe molte volte l’occasione d’intervenire nelle contese dei principi che talvolta si disputavano l’egemonia del mondo russo diviso in un certo numero di principati. Ma si esagerò abbastanza la parte da esso rappresentata come sede del sapere.60 Per più secoli i suoi scrittori e dottori furono in parte copisti o compilatori senza genio. Per molto tempo si credette che la famosa «Cronaca iniziale» russa (Poviest vreménnikh liet), a torto attribuita al monaco Nestore, fosse stata scritta o composta nel monastero di Kiévo-Petchersk. Oggidì sappiamo che non è vero. Questa famosa Cronaca fu frutto del lavoro di molte generazioni di monaci appartenenti a diversi monasteri russi che vissero molto tempo prima di Nestore,61 al quale non si può attribuire che una Vita di Teodosio scritta in lingua slava nel 1088, e tradotta in lingua russa nel 1856. Rimane il Paterik, questa raccolta delle vite dei Padri del monastero delle Catacombe. È in verità questo uno dei monumenti più preziosi dell’agiografia russa, sebbene parli meno della stessa vita dei Padri che dei miracoli avvenuti al loro tempo. Tuttavia sarebbe temerario il paragonarla, per esempio, agli Acta Sanctorum.62 Insomma l’importanza del monastero di Kiev non si fece veramente sentire, sotto il punto di vista intellettuale, che alla fine del XVI secolo, quando la laure s’arricchì d’una importante biblioteca e d’una tipografia, ed incominciò a pubblicare libri di preghiere, opere di teologia e di polemica. Fu in fine alla stessa epoca che, grazie all’energia dell’eminente prelato che governava allora la diocesi di Kiev, il metropolita Pietro Moguila, 58 Bernardo Leib, Roma, Kiev e Bisanzio, Parigi, 1924, p. 279. 59 A. Palmieri, I pellegrinaggi in Terra Santa, «Bessarione» 1900 t. VIII, pp. 571-605. 60 Goetz, Der Kiévo-Hohlenkloster als Kulturzentrum des Vormongolischen Russlands, Passau, 1904. 61 Chakhmatov, Skazanié o prizvanii Variagov. (La relazione della rassegna dei Vareghi). St. Petersbourg, 1904. 62 Chakhmatov, Kiévo-Pétcherskyi Paterik i petcherskaïa lietopis («Izvestia otd. rous. iazyka i slov. Imp. Akademii Naouk», 1897, Lib. III). 65 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it il monastero delle Catacombe fu dotato di una scuola, che divenne in seguito la celebre Accademia di Kiev. III. Così dunque nell’XI e XII secolo furono fondati in Russia i primi monasteri, principalmente nelle città e negli immediati dintorni, nelle campagne, e sopratutto nel mezzogiorno, mentre era ancora infestato dalle bande dei guerrieri nomadi e saccheggiatori. Dopo Kiev, anche le città di Péréyiaslav, Tchernigov e Vladimiro di Volinnia, furono rispettivamente dotate ciascuna d’un convento su modello greco, cioè, soggetto all’autorità d’un superiore e possedendo una regola di vita monastica. Poi venne la volta di Novgorod, dove la vita cenobitica prese bentosto una tale estensione che alla fine del XII secolo vi si contava già una ventina di monasteri. Certo, non tutti erano all’altezza delle esigenze della vera vita monastica, ma ebbero tutti, alla lor volta, una ragione d’essere ed una parte da compiere. Ma fu sopratutto nel Nord e nell’Est che i primi monasteri, ivi stabiliti, rappresentarono una parte civilizzatrice ed anche politica. La ricca abbazia della Trinità di S. Sergio, che trovasi alle porte di Mosca, e che fu fondata al principio del XIV secolo da S. Sergio del Radoneje,63 fu uno di quei conventi. All’epoca della sua fondazione, tutto il paese circostante, pochissimo popolato, era coperto da foreste impenetrabili. Ma S. Sergio non era soltanto un gran santo, bensì anche un ragguardevole amministratore ed un accorto politico. Alcune decine d’anni gli bastarono per trasformare quel luogo selvaggio in un paese coltivato, e non di più c’impiegò per fare del suo convento un centro attivo della potenza moscovita. Così quando il gran principe di Mosca, Dimitri, soprannominato Donskoï, dopo la sua vittoria sui Tartari nella battaglia di Koulikovo, ebbe la prima velleità di misurarsi coi Mongoli, venne a consultare S. Sergio: costui lo equipaggiò in gran parte per la lotta contro gli invasori, e lo fece accompagnare da due dei suoi migliori monaci soldati: Ossliabia e Pérèsviet. Con la croce in una mano e la spada nell’altra, coperti d’un giaco di maglia, ma con la visiera dell’elmo rialzata, essi si misero alla testa delle truppe moscovite e le condussero alla vittoria. Un secolo dopo la morte di S. Sergio, il monastero da lui fondato, colmato di doni, di privilegi e dotato d’un gran numero di servi paesani, era diventato, sotto la direzione di igumeni energici ed intraprendenti, una vera cittadella che sostenne, al tempo delle discordie, l’idea nazionale, e davanti la quale s’infranse la potenza militare polacca. Più tardi ancora Pietro I, fuggendo i suoi presunti assassini, trovò un sicuro rifugio fra le alte mura 63 Goloubinskyi, Prepodobnyi Serguei Radonejskyi (1892). — Einhorn, O znatchenii prep. Sergia v rousskoi istorii (Dell’importanza di S. Sergio nella storia russa), Mosca, 1899. — Boris Zaïzev, Prepodobnyi Serguéï Radonejski (1927). — Boulgakov, Sviatoï Serguéï Radonejskii, (La Rivista Pout (La via) n. 5, 1926). 66 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it del potente monastero, che gli venne pecunialmente in aiuto al tempo delle sue prime campagne. Del resto non era la prima volta che la ricca abbazia aiutava, col suo denaro, i suoi principi, al corto di mezzi. Una parte non meno importante, sotto il punto di vista civilizzatore, politico e militare, toccò al famoso monastero dell’isola Solovetsk. Certamente i due pii cenobiti, Zosima e Savvatyi, che lo fondarono nel 1429, non potevano prevedere la sorte che era riservata alla loro fondazione. Essi avevano fuggito i luoghi abitati dagli uomini «per essere più vicini al Signore», cioè per ritemprarsi nella solitudine e nel silenzio propizi alla preghiera ed alla meditazione. E, a questo proposito, non potevano trovare niente di meglio di quest’isola deserta e fredda, perduta in mezzo ad un mare boreale. Ma la Tebaide che avevano fondata all’estremo limite delle possessioni russe, doveva divenire, per questo semplice fatto, una sentinella avanzata della potenza moscovita, e nello stesso tempo un centro importante di colonizzazione.64 Avendo ottenuto da Novgorod, da cui dipendeva questa terra lontana, un documento che concedeva loro il diritto di proprietà su tutto il paese circostante, i monaci di Solovetsk s’occuparono a popolarlo ed a far valere il loro nuovo dominio creando luoghi di pesca e masserie, aprendo strade, comunicazioni fluviali e marittime fra i villaggi dei pescatori, dei cacciatori di fiere ed il monastero. Introdussero nel paese una buonissima razza di vacche da latte e fecero del loro meglio per incoraggiare la caccia delle bestie di pelo prezioso. Insomma, furono fin da principio bravi dissodatori, amministratori e coloni.65 Ma un malaugurato colpo di mano degli Svedesi fece, nel 1571, di quegli abitanti altrettanti soldati. In questo tempo il monastero e le sue adiacenze erano già circondati da un’alta muraglia, per innalzare la quale, con massi di granito e pietre molari, erano occorsi dodici anni. Mosca vi aveva mandata una guarnigione che era distribuita su tutto il territorio appartenente al convento, il mantenimento della quale spettava al monastero. Ma i monaci alla fine se ne liberarono sostituendola con un corpo scelto fra i più giovani e robusti di loro. Il suo 64 Tutto ciò in un paese che è immerso per quattro mesi dell’anno nella notte artica e dove, per sei mesi, fa sì freddo da spezzare le pietre. Che la vita in quelle latitudini sia un vero incubo, non può essere meglio dimostrato che da questo breve passo a una descrizione del monastero di Solovetsk, fatta al principio del XVII secolo da un certo Damaskine, ierodiacono del convento di Tchoudov a Mosca: «Il monastero di Solovetsk, scrive il pio monaco, è posto in un paese che ricorda gli orrori del Tartaro. Ivi le notti d’inverno sono lunghe, tristi e fredde; la breve estate non può riscaldare l’uomo che, inoltre, in quel periodo dell’anno è assalito e martirizzato da uno sciame di zanzare, di vespe e di moscerini. L’isola di Solovetsk è abitata da un grandissimo numero di uccelli chiamati gabbiani. Sono bestie insopportabili che stridono con voce acuta tutta la giornata e spesso anche la notte. In causa di tutti questi stridi, i monaci sono privati della loro tranquillità e del loro raccoglimento. Inoltre, i sollazzi, i giochi e gli amori di questi volatili turbano lo spirito degli uomini e li distraggono in modo increscioso». (Hiérodiakon Damaskine, Sravnenié sviatoï afonskoï gory s Solovelskim monastyrem, «Pamiatniki Drevneï Pismennosti» t. 43. St. Petersbourg, 1883). 65 Klioutchevskyi, Khoziaistvennaia déiatelnost Solovetzkago monastyria. (L’attività economica del monastero di Solovetsk). Cf. Opyty i izslédovania (Studi e ricerche), Mosca, 1912. 67 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it valore militare fu ben presto messo alla prova e si dimostrò degno del suo compito, poichè immobilizzò, davanti alle mura del monastero, per sette anni, le truppe dello czar di Mosca, inviate nel 1667 per condurre alla ragione i monaci fortemente contrari all’introduzione delle riforme ecclesiastiche decretate dal celebre patriarca Nikone. La decadenza dei monasteri, come ad esempio quello di Solovetsk o del lago Bianco (Belozerskyi) (quest’ultimo fondato nel 1397 dal beato Cirillo, abate del convento Simonov a Mosca, che divenne dopo la morte del suo fondatore una importante posta militare nelle marce del Nord-Ovest), seguì da vicino la decadenza della loro parte militare e colonizzatrice. Costruiti da pii eremiti per essere luoghi di preghiere e di meditazioni, trasformati dal capriccio dei tempi e dalla volontà degli uomini in potenti strumenti di dominazione e propaganda, dovevano fatalmente decadere in un tempo più o meno lungo, perchè la loro parte era talvolta guastata fin dal principio. Certamente le magnifiche casse in argento massiccio, come quelle di Solovetsk, che contenevano le reliquie del loro fondatore, attiravano annualmente delle decine di migliaia di pellegrini da tutti i punti della vasta Russia. Ma la presenza nel monastero di questi evidenti ricordi d’un lontano e glorioso passato non stimolava sempre lo zelo delle nuove generazioni di monaci, che, d’altronde, vi trovavano una sorgente di profitto. Così i monasteri, spesso pieni di ricchezze materiali, godendo d’ogni specie di privilegi e non frenati, per la maggior parte, da rigorose e severe regole di vita inferiore, diventavano, talvolta, il ritrovo d’avventurieri che speravano sottrarsi alla giustizia del loro paese, ed anche di oziosi. IV. Però, andando le cose di male in peggio, le autorità ecclesiastiche, ed anche laiche, se ne preoccuparono seriamente. Già gli czar, i metropoliti e i vescovi, ai quali certi grandi monasteri appartenevano, o dai quali dipendevano, avevano loro mandato molte volte energiche ammonizioni (come ad esempio la lettera di Giovanni il Terribile ai monaci di Cirillo Belozersk), intimando loro di seguire i regolamenti prescritti, scongiurandoli di non mostrare davanti al popolo i loro difetti ecc. Ma a nulla riuscirono. Così vari concili (sobors) di vescovi presero una serie di severe misure per frenare la decadenza del monachismo. Fu così che i sobors del 1667 e del 1681 proibirono la fondazione di nuovi monasteri (ve n’erano in quell’epoca più di due mila), e ordinarono la chiusura di quelli dove il numero dei monaci era troppo esiguo. Per fermare l’onda sempre crescente di persone che indossavano la tonaca soltanto per ragioni materiali, o per sfuggire alla giustizia del loro paese, i vescovi stabilirono che fosse valida solo la vestizione fatta nel monastero stesso, dopo un noviziato, la cui durata doveva essere rigorosamente fissata. (Per l’addietro si poteva vestire l’abito religioso anche fuori del monastero, ed avveniva che questa cerimonia fosse presieduta da un pseudo-monaco o da un monaco impostore). Essi 68 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it vietarono pure che si imponesse per forza la tonaca a sposi senza il mutuo consenso. Insomma, l’alto clero moscovita della fine del XVII secolo fece molto per rialzare la vita del monachismo nazionale. Se non riuscì che in parte nel suo scopo, fu perchè gli mancavano l’indipendenza e l’autorità necessarie, le quali non mancarono invece al grande riformatore della Russia, Pietro il Grande. Pietro, sotto l’influenza del suo cattivo genio, il luteraneggiante Théophane Prokopovitch (del quale si parlerà nel capitolo seguente) da principio era ostile al monachismo. Pietro, per certi aspetti, era un anticlericale ed un ardente partigiano della «morale laica». Aveva dimenticato i servigi che gli avevano resi i religiosi nella sua giovinezza, i quali lo avevano salvato da una sicura morte e gli avevano facilitato la realizzazione dei suoi progetti militari. Il famoso Regolamento ecclesiastico rispecchia l’opinione di Pietro sui cenobiti, «profittatori del lavoro degli altri, propagatori di eresie e di superstizioni». Egli proibì la fondazione di nuovi monasteri senza l’autorizzazione dell’imperatore; preparò la più larga fusione di quelli che esistevano, e la trasformazione delle loro chiese in parrocchie indipendenti. Inoltre il Sinodo fu invitato dallo czar a combattere il sentimento dei Russi che credevano di guadagnarsi più facilmente il paradiso, facendosi monaci. Nel 1723 fu fatto il censimento di tutti i religiosi. L’imperatore fece pubblicare un editto che proibiva la vestizione monacale; fu decretato che i posti vacanti nei monasteri fossero riservati agli invalidi di guerra, agli infermi e ai poveri. Questa era la morte del monachismo russo. Qualche anno dopo, questo decreto fu annullato a condizione però che solo persone molto conosciute dal governo potessero essere nominate a dirigere i monasteri; queste dovevano giurare di non ricevere nel loro convento dei «solitari bigotti o altri propagatori di superstizioni». Era proibito ai monaci di possedere inchiostro e penne, e di scrivere qualsiasi cosa senza il permesso dei superiori.66 I monaci non potevano uscire dal loro monastero che quattro volte all’anno, e non potevano ricevere visite che in presenza d’una terza persona e dopo il consenso dei superiori. Tutte queste leggi draconiane, come quelle che avevano rapporto con la vita interiore del convento, con le occupazioni dei religiosi e con la loro preparazione al sacerdozio, si spiegavano in gran parte per l’opposizione che avevano incontrato le ardite riforme di Pietro nei centri monastici. Le leggi promulgate da Pietro, furono sensibilmente mitigate dall’imperatrice Elisabetta. Nel 1760 il permesso di vestire l’abito monacale fu esteso a tutte le classi della popolazione. Al principio del regno di Caterina la Grande esistevano in Russia 1072 conventi. La promulgazione, nel 1764, delle «Liste ecclesiastiche», ne ridussero considerevolmente il numero.67 66 Oukazy Petra Vélikago (i decreti di Pietro il Grande), Ed. del 1739, anno 1732, p. 28. 67 La promulgazione delle «Liste ecclesiastiche» insomma, aveva lo scopo di spogliare i monasteri delle loro proprietà fondiarie (votchiny) in cambio d’un abbastanza magro 69 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it Gli edifici dei monasteri disciolti o soppressi furono trasformati in caserme, ospitali e scuole. Per incoraggiare i religiosi che si applicavano agli studi, si concessero pensioni oltre agli onorari che ricevevano come professori o maestri di scuola. Infine, sempre a loro vantaggio, l’imperatrice abolì il decreto di Pietro l che proibiva ai monaci che vivevano in conventi dov’era la regola delle comunità, di far testamento e di possedere effetti personali. Durante il regno di Alessandro I, che aveva molta simpatia per i cenobiti, la loro situazione migliorò di molto. Nel XIX secolo il numero dei monasteri aumentò di poco, specialmente per la fondazione di un certo numero di «comunità femminili» (genskia obchtiny) le quali non differivano dai conventi ordinari se non in questo, che non si esigeva da chi ne faceva parte la pronuncia dei voti. I monasteri che durarono in Russia fino a questi ultimi tempi diventarono, per la maggior parte, conventi provvisti di una regola di vita comune (obchtéjiterlnia). Erano governati o da priori (igoumeni), o da abati (archimandrity) che, di solito, erano eletti dal capitolo del monastero. Gli abati delle grandi Laure (Lavry), ed anche quelli di qualche vecchio «monastero stavropigial», avevano certi privilegi che li mettevano alla stessa altezza dei vescovi. (Fu così ch’essi ebbero il diritto di portare la mitria, e di benedire i fedeli, durante la Messa, con il «trikirion» e il «dikirion», cioè tenendo in una mano un candeliere a due rami, simboleggianti il primo la S.S. Trinità, e il secondo le due nature di N. S. Gesù Cristo). Nella maggior parte dei monasteri russi del nostro tempo il clero è composto esclusivamente da monaci-preti (hiéromonakhi) e da monaci diaconi (hiérodiakony) facenti parte della stessa comunità. V. «Nè per l’originalità del loro carattere o della loro opera, nè per l’influenza, sulla storia o sulla civilizzazione, i santi della Chiesa russa si possono paragonare ai santi della Chiesa latina o d’una sola nazione cattolica, come ad es. l’Italia, la Francia, la Spagna», scrive A. LeroyBeaulieu nella sua grande opera sull’Impero degli Czar (volume III, pag. compenso fisso, del quale furono gratificati tutti i conventi ad eccezione delle due abbazie (Kiévo-Petchersk e Trinità di S. Sergio), e di quei due monasteri chiamati «monasteri cattedrali» perchè destinati ad essere l’abitazione di arcivescovi e di metropoliti. Questi conservarono i loro averi come per il passato; quanto agli altri conventi, furono divisi in tre classi e il numero dei monaci che potevano abitarvi fu strettamente limitato. I monasteri di prima classe avevano diritto a 33 religiosi o a un numero da 52 a 101 religiose; quelli di seconda classe avevano diritto a 17 monaci o ad altrettante monache; infine quelli di terza classe non potevano avere più di 12 monaci o lo stesso numero di monache. Nel 1764 vi erano in tutto 318 monasteri e 67 conventi di religiose. Nel XIX secolo il numero dei monasteri detti «della lista» (chtatnya), cioè quelli il cui mantenimento toccava allo Stato, diminuì sensibilmente. Al contrario il numero dei conventi che vivevano delle proprie rendite aumentò assai, come migliorò la loro condotta generale e lo spirito che li animava. 70 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it 140). «Vi si cercherebbero invano delle figure da opporre a un Gregorio VII o ad un S. Bernardo, a un Tommaso d’Aquino, a un Vincenzo de’ Paoli». È presto detto. Del resto non è per questo che il monachismo russo differisce sensibilmente da quello dell’Europa occidentale, perchè non sarebbe difficile dimostrare che la Russia dei tempi antichi ebbe non solo i suoi «monaci guerrieri e uomini d’azione» — A. Leroy-Beaulieu, Op. cit. p. 225, — ma anche dei cenobiti che esercitarono una vera influenza sulla storia del loro paese e la sua colonizzazione. S. Sergio di Radojene contribuì potentemente alla fondazione del «tsarstvo» moscovita; Giuseppe Volotskoï (Volokolamsky ) definì nel XVI secolo, in scritti di alto stile letterario, l’essenza stessa dell’autorità dello «czar autocrate»,68 e combattè con la penna e l’azione, finchè visse, i dissensi nascenti nel seno della Chiesa russa; Abramo Palitzine fu uno dei campioni della rinascita nazionale dopo i torbidi anni; infine Nil Sorsky e i suoi compagni dei monasteri «d’oltre il Volga», pur essendo semplici contemplativi, non sdegnarono d’entrare in lizza e di combattere, al sobor dei vescovi nel 1490, il diritto del monastero di possedere da beni fondiarii e dei servi;69 non citiamo altri nomi per non allungare troppo l’elenco. No, in realtà ciò che ha sempre dato l’impressione dello stato non progressivo del monachismo russo, fu che non venne mai liberata abbastanza dalla confusione storica questa parte attiva e, si potrebbe dire, «laica» di certi grandi monaci russi. Non fu messa abbastanza in rilievo, come non furono studiate sufficientemente massime dallo straniero, le vere origini della storia della Russia. Del resto se i religiosi russi sono vissuti, hanno lavorato e agito, si può dire, in un vaso chiuso; e se le loro azioni non hanno avuto alcuna eco nel resto dell’Europa, nè alcuna influenza sull’evoluzione del cristianesimo nel mondo occidentale, come fu per le grandi figure del monachismo cattolico, la cosa si spiega per il fatto che il loro paese, dopo il XIII secolo, non ebbe più alcun contatto diretto con l’Occidente. D’altra parte, se il popolo russo preferì i pii reclusi e gli anacoreti, non fu soltanto perchè ammirasse il loro genere di vita, ma anche perchè quei cenobiti, intonandosi al suo modo di vivere, divennero i suoi maestri spirituali, cioè degli Startsy.70 68 Ecco questa definizione: «Per la sua natura lo czar rassomiglia a tutti gli altri uomini, ma per la sua potenza rassomiglia a Dio. Egli è il vicario di Dio in terra, il Capo supremo dello Stato e della Chiesa». 69 I cenobiti che nel XV e XVI secolo erano chiamati «i vecchi d’oltre Volga» (zavolgskia Startsy), vivevano in poveri conventi sparsi nelle provincie boscose della Russia del Nord, lontano dai grandi monasteri e dalle ricche abbazie. Essi erano più partigiani d’una severa disciplina morale, che di regole d’astinenza e d’ascetismo fisico. La loro influenza sul popolo fu sempre grandissima e salutare. 70 L’origine della parola Starets (plurale Startsy), che vuol dire «vecchio», risale all’epoca delle prime istituzioni degli Slavi orientali. Il grande storico russo Klioutchevskyi dimostrò che già si chiamavano con questo nome, o piuttosto adoperando questa forma primitiva di Stareïchiny (plurale), i capi militari delle città russo-slave. Più tardi questo termine fu adoperato per indicare le persone dabbene, coloro che dirigevano i temi da svolgersi nelle 71 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it Oh! evidentemente, essi trascinavano quel popolo alquanto fuori della Chiesa. Ma non si può veramente rimproverar loro che disponessero le cose un po’ a proprio piacimento, considerato che l’insegnamento ch’essi impartivano fu d’una sì alta importanza morale. Si può solo deplorare che il loro numero non sia stato maggiore, perchè, se gli startsy abituavano il popolo russo a considerare il cielo sopra le multicolori cupole delle belle cattedrali ortodosse, si sforzavano pure di inculcargli l’orrore del male, l’indulgenza per i peccati altrui e il dovere di contenere la propria collera: in altre parole, essi gli insegnavano l’umiltà, il perdono e il dominio di sè stessi. È là, del resto, la essenza stessa della dottrina francescana. Il Poverello «raccomandava ai Fratelli, come ci riporta la leggenda dei tre Compagni (trad. Pichard, Parigi, 1926), di non giudicare nessuno». Ed ancora diceva loro: «Che la vostra dolcezza attiri tutti gli uomini alla pace, alla bontà ed alla concordia». Ciò era da parte degli startsy tanto più meritorio poichè molti di loro erano uomini estremamente violenti per natura tanto che molto facilmente si adiravano. Essi continuavano a lottare contro sè stessi fino ad arrivare al «completo dominio dei nervi» (Rozanov, la Chiesa russa), a tal punto da contentarsi, per tutto rimprovero, di una leggera «ammonizione fatta quasi di sfuggita, come parlando a sè stessi».71 Così, dunque, non fu per la mancanza di alte personalità nei suoi ranghi che il monachismo russo differì da quello dell’Europa occidentale, e neppure fu ciò che gli impedì di risplendere di una luce più viva, ma fu l’assenza d’una massa monastica. E ciò spiega «che vi si cercherebbero invano» dei monumenti di lavoro intellettuale collettivo simili agli «Atti» dei Benedettini, all’opera dei Bollandisti o degli «Annali» dei Frati dell’ordine dei Predicatori. La colpa ricade sui prelati e gli alti dignitari della Chiesa russa d’un tempo, che non seppero far opera di selezione e di autorità; e ancor più sulle autorità civili, che si opposero per molto tempo alla penetrazione, nel paese, di un vasto sapere e di una efficace corrente di pensiero;72 ed infine sullo assemblee di cittadini. Infine, nel corso degli anni, si diede origine alla parola Starchina, molto diffusa in Russia fin’ora per indicare sia il capo d’un distaccamento militare (presso i cosacchi), sia il podestà d’un villaggio o, semplicemente, un personaggio d’importanza. 71 Si racconta che un giorno il celebre monaco educatore, Tikhon Zadonskyi, che fu quasi del nostro tempo, poichè visse alla fine del XVIII secolo, ebbe una violenta discussione su soggetti religiosi con un laico detto «libero pensatore»; ad un certo punto quest’ultimo, a corto d’argomenti, schiaffeggiò il santo uomo. Che fece allora Tikhon Zadonskyi? Si gettò subito ai piedi della rozza persona e le domandò umilmente perdono di averla condotta, con le sue risposte, a perdere ogni discrezione. Nondimeno Tikhon era uomo combattivo che, all’epoca in cui dirigeva la diocesi di Voronèje, aveva dato prova, accanto ad una scienza vasta e profonda, di vere qualità di capo. 72 Una delle cause, se non la prima, dell’inferiorità intellettuale del monachismo russo e del suo allontanamento dalla cristianità occidentale, consisteva nella sua ignoranza del latino appunto nell’epoca in cui questa lingua formava il legame fra i popoli civili ed era la lingua della scienza e del pensiero. Avevano potuto accontentarsi, durante il basso Medio-Evo, della conoscenza del greco. La lingua greca fu, fino alla metà del III secolo, la lingua della Chiesa romana, ed è perciò che si potè vedere nella Russia dei secoli XI e XII, dei prelati russi come Cirillo di Tourov o il metropolita di Kiev, Clemente, partecipare a dispute 72 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it stesso popolo russo che, malgrado tutte le sue belle qualità, si dimostra spesso incapace di piegarsi volontariamente ad una vera disciplina, ad un lavoro metodico e non interrotto, e di limitarsi nello spazio e nel tempo. CAPITOLO VII. La Chiesa russa al tempo degli imperatori I. Pietro il Grande salendo al trono nel 1682 trovò la sede patriarcale occupata da un uomo timorato, nemico d’ogni relazione con l’Occidente e che aveva un modo tutto suo personale di pensare. Il suo successore (Andrieu), al quale egli aveva fatto giurare, sul suo letto di morte, di seguire il suo esempio, cioè di continuare la lotta contro l’Occidente, di non permettere agli ortodossi di frequentare gli eretici, di impedire a quest’ultimi di costruire chiese e di fare distruggere quelle che esistevano in Moscovia, cercò di seguire i suoi consigli; ma ricevette subito dallo czar una severa ammonizione. Morì dieci anni più tardi, avendo perduto ogni autorità. Ed allora, quando lo czar fu pregato di nominare il successore, rispose: «D’ora innanzi sarò io il vostro patriarca». E mantenne la sua parola. Sopprimendo il patriarcato, Pietro aveva assai più di mira, come l’abbiamo fatto notare sopra, di stabillre la Chiesa nazionale che di premunirsi contro la dubbia rivalità di un rappresentante del potere spirituale. Certo, vi era il caso di Nikone. Ma il fatto che Nikone aveva lottato contro un sovrano sprovvisto di qualsiasi volontà, e non ne era stato meno vinto, dimostrava abbastanza oratorie o a polemiche scritte con l’aiuto dei testi greci, su questioni di esegesi biblica o di scienze speculative, dichiarandosi gli uni della scuola filosofica di Alessandria, e gli altri della sua rivale, la scuola di Antiochia. Ma col tempo, decadendo Bisanzio per esaurimento e per vecchiaia, e disinteressandosi la Russia sempre più dell’Occidente, la lingua slava assunse una grande importanza e soppiantò ben presto la lingua letteraria dei Greci. Ma, evidentemente, la lingua slava non poteva sostituire il greco e bastare a trasmettere il pensiero ed il sapere. Dunque l’impiego esclusivo della «scrittura cirillica» (kirilliza), del tutto sconosciuta al mondo civilizzato d’allora, non fece che contribuire all’isolamento e al ristagno della Russia. Si tradussero dal greco alcuni libri liturgici e filosofici, come pure si tentò più tardi di tradurne altri dal latino ma, in generale, queste traduzioni furono incomplete ed approssimative. Del resto la lingua slava non si prestava affatto ai motti sottili dello spirito, ed alla terminologia dotta. Così gli autori decisero infine di adoperare la lingua popolare, sempre conservando però qua e là certe espressioni slave. Ai nostri giorni la lingua slava non è più adoperata in Russia che nella celebrazione del culto. 73 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it che uno czar energico, tenendo bene fra le mani le redini del governo, avrebbe avuto presto ragione di qualunque tentativo di rapirgli sia pure una piccola parte del suo potere. Tuttavia la diffidenza, che presso Pietro si univa ad una eccessiva attività e ad una asprezza, sotto la quale si nascondeva malamente una innata timidezza, gli aveva suggerito di sostituire il patriarca con un consiglio di funzionari laici ed ecclesiastici, avente a capo una specie di segretario di Stato (procuratore generale) che aveva il diritto di veto ed era l’incarnazione stessa del potere imperiale. In questa ardita riforma, e sopratutto nel fatto d’incaricare dei laici d’occuparsi della vita interna della Chiesa, Pietro non vedeva alcun male, perchè, considerando la Chiesa come un meccanismo, sia pure essenziale della macchina governativa, e non come una società divinamente stabilita, era persuaso che questo meccanismo avrebbe funzionato molto meglio, se fosse stato maneggiato da un funzionario responsabile davanti all’autorità suprema, anzichè da un ecclesiastico, che sarebbe stato difficile licenziare o punire. D’altronde, per ben definire i diritti e i doveri di ciascuno, Pietro dotò la nuova istituzione, che fu chiamata del «S. Sinodo dirigente», d’un «Regolamento ecclesiastico»,73 copiato su quello che reggeva le attribuzioni di un’altra istituzione che gli faceva riscontro: «Il Senato dirigente». Si discusse per sapere se Pietro il Grande fosse un credente o un briccone ateo. Dei romanzieri, spinti da una fervida immaginazione, lo dipinsero, gli uni come un pagano nascosto, gli altri come l’incarnazione stessa dell’Anticristo. In realtà, Pietro era un impulsivo ed un curioso. Nella sua adolescenza non aveva avuto alcuna salda istruzione religiosa, nè alcun insegnamento morale. Così, quando più tardi conobbe un uomo di alta intelligenza e molto persuasivo, s’assoggettò ben presto al suo modo di pensare e di esaminare i problemi della vita. Parliamo di Théophane Prokopovitch. Antico allievo del collegio greco di S. Atanasio, fondato a Roma sotto il pontificato di Gregorio XIII, e destinato specialmente agli Elleni ed agli Slavi, Prokopovitch, tornato in Russia, abiurò la fede cattolica e si diede totalmente ad una ammirazione malintesa del baconismo e del cartesianismo, che gli fece ammettere le più ardite teorie protestanti in materia di dogmi e di vita sociale e religiosa. Pietro, seguendo Prokopovitch, ammise la superiorità della morale laica sugli insegnamenti della Chiesa, e la concezione dello Stato che sorveglia la vita spirituale del paese. Fu molto incline al luteranesimo, frequentò chiese protestanti, assistè a riunioni di quacqueri e protesse gli stranieri appartenendo alla Confessione di Augusta. Ma coloro che, fidandosi di queste prove di simpatia, attribuivano a Pietro dei profondi sentimenti religiosi, venivano ben presto disingannati dai fatti: lo czar non s’era forse incontrato a Rava (borgata della Galizia) con un certo P. Vota, gesuita; non aveva assistito all’indomani alla messa del gesuita, e 73 Il Sinodo fu solennemente inaugurato da Pietro il 14 febbraio 1721. Dapprima era composto di undici membri, più il «procuratore generale». In seguito il numero dei membri del Sinodo fu ridotto a sei. Il primo paragrafo del Regolamento ecclesiastico dice: «Il Sinodo non ha, al di sopra di sè, altra autorità che quella dell’augusta persona del sovrano autocrate». 74 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it non era stato forse di una amabilità estrema con il nunzio del Papa? «In realtà, scriveva il nunzio Santa-Croce, nessuno conosce la religione dello czar Pietro». Ed un altro ecclesiastico, il Padre Milan, aggiungeva in una lettera ai suoi superiori: «A meno che non avvenga un miracolo, non v’è speranza che lo czar Pietro si cambi e si metta d’accordo col Vaticano. Troppo grandi ostacoli vi si oppongono; bisognerebbe sottomettersi all’autorità del Papa ed ai rigori della morale, rinunciare ai capricci ed agli abusi del potere». — P. Pierling, La Russia e la Santa Sede, vol. IV, pag. 227. E tuttavia questa speranza d’una riunione delle Chiese, era Pietro stesso che la faceva nascere, tanto a Roma e a Parigi, quanto nell’animo di tutti i cattolici che l’avvicinavano. Durante il suo soggiorno a Parigi, trattò la questione dell’unione con i dottori della Sorbona, e loro domandò di offrirgli un memoriale ch’egli avrebbe fatto esaminare dai prelati russi, al suo ritorno a Pietroburgo. Cosa ne derivò? Che i sorbonesi prepararono in tutta fretta la loro relazione, che fu presentata allo czar e da lui consegnata a vescovi che lo circondavano, i quali respinsero amabilmente, ma fermamente, le proposte e gli incitamenti venuti da Parigi. — P. Pierling, La Sorbona e la Russia, Parigi, 1882. Così un dilemma assai spinoso si presentò nel 1702, al nunzio del Papa a Vienna, Antonio Davia: o accordarsi nel tempo di un mese sulla riunione delle Chiese, o sopportare che lo czar Pietro trattasse coi protestanti. I protestanti di Pietroburgo avevano approfittato delle simpatie dello czar, ma un piano d’unione con gli ortodossi non era ancora nato in quell’epoca nei loro animi. Furberia? calcolo? No, ma piuttosto una grande noncuranza per le conseguenze che potevano produrre delle parole dette sconsideratamente, ed anche una certa dose d’espansività, risultato d’una ricca e sfrenata natura. Ma, mentre Pietro trattava sulla questione dei dogmi con i dottori della Sorbona, faceva sue le idee d’un Leibnitz sulla riunione delle Chiese, e mandava a Roma abili e diligenti ambasciatori, persone a lui devote, che riattaccavano sempre più saldamente la Chiesa nazionale al carro dello Stato. Il Sinodo, questo «occhio dello czar» (oko gosoudarevo), ogni membro del quale, alla sua elezione, doveva giurare di difendere in qualsiasi circostanza gli interessi dello Stato, imponeva ai vescovi l’obbligo di verificare costantemente le azioni del basso clero. Era proibito ai vescovi di costruire un numero troppo grande di nuove chiese, di lanciare anatemi sconsideratamente, e sopratutto di prender parte attiva negli affari pubblici. D’altra parte erano sorvegliati da poliziotti speciali chiamati «fiskaly».74 Le spese sempre crescenti del giovane Stato obbligavano costantemente il Tesoro a cercare nuove sorgenti di rendite. Fu così che si arrivò al punto di proibire ai vescovi ed ai monasteri d’occuparsi dell’amministrazione dei loro 74 Oukazy Petra Vélikago (gli editti di Pietro il Grande), Ediz. del 1739 anno 1714, p. 2. — Regolamento Ecclesiastico, Ediz. del 1861, p. 251, par. 4 e 7. 75 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it beni mobili ed immobili e di disporre a piacere delle loro rendite; lo Stato s’incaricava di questo lavoro, prelevando a suo pro’ la maggior parte di queste entrate. Del resto, i favori di cui godeva la Chiesa erano soppressi, e spesso il ritardo nel pagamento delle imposte e delle decime cagionava la confisca pura e semplice della proprietà immobiliare del debitore. D’altra parte il bisogno di colmare nell’armata i vuoti causati da una serie di guerre micidiali e costose, condusse il governo di Pietro a limitare il numero dei preti e dei diaconi nelle diocesi. La legge del 1711 non permetteva che un solo pope ed un solo diacono per parrocchia; tutti gli ecclesiastici non titolari d’una carica dovevano venire incorporati nell’armata. Questa legge fu rafforzata nel 1722 da un regolamento che stabiliva il numero delle parrocchie in tutto l’Impero. Il reclutamento e la sostituzione del clero secolare, quello che si chiama ancor oggi «clero bianco» (biéloié doukhovenstvo) per distinguerlo dai monaci che formano il «clero nero» (tchernoiè doukhovenstvo), si facevano per elezione, o con la vendita della carica, o per eredità. I nobili avevano diritto di essere preti a condizione d’avere più di quarant’anni e di non possedere beni immobili ereditati. Questo stesso diritto fu concesso, in un dato tempo, anche alla classe paesana, ma soltanto per completare i quadri ecclesiastici disorganizzati dalle riforme dello czar Pietro. Per frenare il vagabondaggio di quei preti a cui piaceva cambiare parrocchia, ed anche diocesi, si decretarono severi regolamenti. I popi che avevano abbandonato la loro parrocchia senza permesso, vi erano ricondotti per forza e sottoposti alla sorveglianza delle notabilità del luogo; e quelli che non volevano sottomettersi erano senz’altro spretati. Così la situazione, tanto materiale che morale del clero, al tempo di Pietro e dei suoi immediati successori, fu molto dolorosa. Il Regolamento ecclesiastico, avendo trasformato i ministri del culto in giudici, li obbligava, per questo semplice fatto, a riferire alle autorità ogni colpa delle loro pecorelle, a spiare la loro vita privata, ed anche, ciò che era ben più grave, a denunciare coloro che non andavano alla messa o s’astenevano dal confessarsi.75 Tutto ciò, evidentemente, non faceva che allontanare il popolo dai suoi pastori spirituali. Ma questo allontanamento aveva anche un’altra ragione, ed era la dipendenza del clero rispetto ai parrocchiani. Miseramente retribuiti dallo Stato, e quasi sempre carichi d’una numerosa famiglia, i popi e i diaconi, sopratutto quelli delle campagne, vivevano letteralmente a carico del popolo, esso stesso povero, se non indigente. I conflitti che nascevano continuamente riguardo al mantenimento del clero dai parrocchiani, non erano certo fatti per stabilire la concordia fra i pastori ed il gregge. Alla fine del regno di Pietro fu reso alla Chiesa il diritto di amministrare essa stessa il suo avere, ma si continuò sempre a ricorrere ai suoi beni per riempire la cassa del Tesoro, o anche per far fronte alle spese della corte. 75 Oukazy Petra Vélikago (gli editti di Pietro il Grande), Anno 1722. Editto del 16 luglio. 76 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it Specialmente durante il regno di Anna Ioannovna la Chiesa fu dissanguata. Il favorito dell’imperatrice, che era anche l’amministratore dell’Impero, il poco scrupoloso Ernesto Beiron, non aveva riguardo di gravare i palazzi vescovili di un oneroso tributo per conservare le sue belle razze di cavalli e di puledri. La riscossione delle imposte era spesso esercitata dalla forza armata. Così successe quello che doveva succedere: la Chiesa si trovò ben presto a corto di mezzi, ed il «Collegio economico» si trovò ad un tratto nell’impossibilità di pagare ai membri del Sinodo i loro stipendi. Fu allora che i consiglieri di Pietro III ebbero l’idea di confiscare, puramente e semplicemente a profitto dello Stato, tutti i beni della Chiesa. Ma non fu che sotto Caterina II, nel 1764, che questo ardito progetto fu messo in esecuzione. Furono lasciati all’alto clero i suoi palazzi e le sue case di campagna, ed anche qualche pezzo di terreno: in cambio delle ricchezze usurpate, fu concesso ai vescovi, agli arcivescovi ed ai metropoliti, uno stipendio fisso, più certi privilegi generalmente di pura forma. Si trovò un prelato, Arsène Matsiévitch, metropolita di Rostov, che protestò vigorosamente contro l’ingiusta confisca dei beni della Chiesa, agognati da lungo tempo dagli czar. Quest’atto coraggioso, impostogli dalla coscienza, gli procurò terribili rappresaglie. Arrestato e consegnato al Sinodo, Arsène fu condannato alla degradazione ed all’esilio, con la proibizione di dargli penne ed inchiostro. Caterina mitigò anzitutto la dura sentenza, salvò il vecchio dalla tortura, ch’era di rigore, gli conservò la veste monacale, ma, tornando ben presto sulla sua decisione e mescolandovi la politica, lo fece trascinare di prigione in prigione e custodire nel fondo d’una segreta dove moriva di fame e di freddo. Il suo stesso nome doveva sparire: fu chiamato Andrea vral, cioè Andrea il rimbambito.76 Verso la fine del XVIII secolo, la nomina dei titolari di parrocchie per elezione era caduta in disuso. Del resto questo modo di reclutamento sembrava, a certi alti prelati e teologi russi, contrario ai canoni della Chiesa. La partecipazione di qualche prete a sollevazioni popolari ed a sommosse, che ebbero luogo durante il regno di Paolo I, affrettò la completa abolizione del principio elettivo. D’allora in poi, fu per via ereditaria e qualche volta per transazione, che le parrocchie cambiarono titolare. Spesso una carica di parrocchia costituiva una dote, oppure era data ad orfanelli o a poveri. Così era raro il caso che un giovane chierico, che aspirava a divenire parroco, scegliesse per sposa una fanciulla non appartenente al mondo ecclesiastico. Certamente la legge non glielo proibiva, ma gli usi stabiliti avevano forza di legge, e di solito prima di ottenere una parrocchia, era costume di sposare la figlia di un pope o d’un diacono.77 Così dunque tutto contribuì a fare del clero russo una classe ben distinta nella società russa. La rigidità di questa classe ecclesiastica, ed il suo particolare spirito, furono seriamente battuti in 76 Bilbassov, Istoria Ekateriy Vtoroï, Berlino, 1900. t. II. pp. 264-271. — Popov, Arsenyi Matsiévitch, mitropolit Rostovskyi, Pietroburgo, 1905. 77 Poichè per divenire preti in Russia bisogna essere già sposati: non si può però riammogliarsi. 77 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it breccia nella seconda metà dell’ultimo secolo. La legge del 26 maggio 1869 proibì il reclutamento dei preti per via ereditaria, e diede a tutti i Russi, senza distinzione di classe, il diritto di far parte del clero secolare. I seminari russi non erano regolati come quelli cattolici. Nei primi anni vi si dava un’istruzione quasi simile a quella dei ginnasi o licei classici; negli ultimi anni gli studi teologici si sovrapponevano agli studi classici. I programmi dei corsi erano esagerati e di solito si durava fatica a conformarvisi in sei anni di studio. Per i seminaristi più ricchi vi erano quattro accademie ecclesiastiche (a Pietroburgo, a Mosca, a Kiev e a Kazan) che loro aprivano il cammino dell’episcopato, se volevano far professione di vita religiosa. Sebbene appartenesse, dopo il principio del XVIII secolo, alle «classi privilegiate» della nazione, essendo stato dispensato dal servizio militare, e non potendo essere requisito per «andare a lavorare nelle case dei signori ufficiali», il clero russo restò ancora per lungo tempo passibile, come sudditi non privilegiati, delle punizioni corporali. Nel 1767 il Sinodo vietò alle autorità ecclesiastiche di battere con le verghe i preti. Nel 1771 estese questa proibizione ai diaconi, ma i tribunali civili non se ne curarono. Sotto Paolo I il Sinodo sollecitò dall’imperatore il permesso di sottrarre il clero all’umiliazione della frusta; l’imperatore vi acconsentì, ma l’ordine imperiale non fu applicato perchè coincideva con l’editto che ristabiliva le punizioni corporali per gli stessi nobili. Però si cercò un compenso: fu decretato che i membri del clero potessero essere decorati con lo stesso diritto dei nobili e dei militari.78 Nel 1801 finalmente questa mancanza di riguardi del governo verso il clero, e questa noncuranza nel salvaguardare il suo decoro agli occhi del popolo, ebbe termine. Sette anni più tardi furono a loro volta dispensate dalle punizioni corporali le famiglie dei prelati e del diaconi. Però non fu che nel 1862, l’anno dell’abolizione della servitù, che i suddiaconi e i sacrestani furono chiamati a godere dello stesso privilegio. Ecco dunque a quale rude scuola fu educato il clero russo al tempo degli imperatori. Bisogna meravigliarsi allora che la sua influenza sulle masse sia stata inferiore a quella che avrebbe dovuto essere? O piuttosto non bisogna meravigliarsi che, costretto per molto tempo ad essere un ausiliario dell’organizzazione poliziesca dell’Impero, costretto ad assoggettarsi sempre davanti ai rappresentanti del potere civile, vivendo spesso in dura povertà che non conveniva alla sua condizione, esso abbia potuto offrire tuttavia nel corso di questi due ultimi secoli, qualche figura di grande rilievo, qualche personalità d’una certa onestà, d’un certo sapere e di una intelligenza 78 Bisogna rendere questa giustizia al clero russo, o a certi suoi alti dignitari, che furono piuttosto ostili in principio alla concessione della decorazione agli ecclesiastici. Anche il metropolita Platone, che fu il precettore di Paolo I, scrisse al suo antico scolaro una lettera sconsigliandolo di mettere in pratica il suo progetto. Ma Paolo, che non amava d’essere contraddetto, passò oltre, raccomandando vivamente all’eminente prelato di non immischiarsi negli affari che non lo riguardavano. Da questo incidente nacque la definitiva discordia fra l’imperatore ed il metropolita. 78 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it veramente notevole? II. Dopo la morte di Pietro I fino alla divisione della Polonia, che mise necessariamente l’imperatrice Caterina II a contatto col Capo Spirituale dei suoi nuovi sudditi si può dire vi sia stata una rottura quasi completa delle relazioni ufficiali tra la Russia e la Santa Sede. — P. Pierling, La Russia e la Santa Sede, t. IV. Al contrario, le relazioni private tra ortodossi e cattolici non furono mai così frequenti e continue. La strada che conduceva a Roma, che fu conosciuta dai Russi fin dalla fine del XVII secolo sia per la visita che fece al Vaticano quel gran signore che fu Boris Pétrovitch Chérémétiev, sia per il prolungato soggiorno nell’eterna città dell’avveduto e fine diplomatico principe Boris Kourakine, era spesso percorsa in quei tempi da molti Moscoviti di alto rango. Che un viaggio all’estero fosse una grande attrattiva per molti di loro, non si può dubitarne. Però s’univano spesso, a questa sete di nuovi orizzonti ed a questo entusiasmo per l’Occidente, preoccupazioni di ordine superiore; andavano a Roma perchè v’erano spinti da un bisogno intenso di trovarvi una risposta e una pacificazione a tutte le inquietudini e a tutte le incertezze che tanto angustiavano il loro cuore e il loro spirito fino a traboccare. E questa specie di pellegrinaggi era tanto più meritoria, in quanto il rischio che si correva facendoli era vero e conosciuto da tutti: per quanto incerta fosse a loro riguardo la legislazione penale, gli ortodossi che passavano al cattolicesimo erano tuttavia considerati come criminali di Stato. Così quindi, erano pure scusabili quei Russi che nascondevano premurosamente la loro adesione alla Chiesa romana. Una principessa, Irina Dolgoroukyi, discendente da una aristocratica famiglia russo-lituana (era una Galitzine) imparentata con uno dei più grandi nomi dell’Impero, subì vessazioni su vessazioni, e fu anche condannata all’esilio, per aver proclamato francamente e pubblicamente d’appartenere alla religione cattolica. Il colloquio ch’essa ebbe, prima della sua partenza, con l’imperatrice Anna Ioannovna dimostra chiaramente quale fosse la posizione esatta che occupava in quei tempi l’aristocrazia russa riguardo al potere supremo. L’imperatrice ricevette la principessa Dolgoroukyi nella camera delle sue damigelle d’onore, vicino al gabinetto imperiale. «Quando la mia trisavola, narra Pietro Dolgoroukyi nelle sue Memorie, secondo l’etichetta, si abbassò per baciare la mano all’imperatrice, costei le diede un vigoroso schiaffo, la coprì d’ingiurie come solo un cocchiere avrebbe potuto fare, e terminò l’udienza con queste parole: «Fuori di qui, briccona!» (pochla von, merzavka!). — Principe Pietro Dolgoroukyi, Memorie, Ginevra, 1867, t. I, p. 364. Quando salì al trono Caterina II, la Russia riprese il suo spirito innovatrice e si videro prove di riforma più o meno vigorosamente applicate. La preoccupazione dominante di Caterina, suggeritale dal suo spirito d’ordine e dalla sua intelligenza fredda e calcolatrice, fu la sommissione della Chiesa 79 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it allo Stato. Pietro il Grande, come vedremo più avanti, aveva incarnato questa idea, ma limitandola all’ortodossia ufficiale: Caterina la estese ai cattolici. La concezione di una Chiesa divinamente stabilita, incaricata quaggiù d’una missione soprannaturale, sottomessa al vicario di Cristo, le era del tutto estranea. — P. Pierling, La Russia e la Santa Sede, t. V (prefazione). — Di qui i suoi continui sforzi per limitare l’azione del Papa: di qui pure difficoltà inestricabili con la Santa Sede. L’organizzazione e l’esistenza delle Chiese latina e unitaria, nell’Impero furono sottoposte da Caterina al controllo ed alla dipendenza del governo di Pietroburgo. Per intimorire il Vaticano, l’imperatrice vietò la pubblicazione in Russia della lettera pontificia (1773), ponendo fine all’esistenza della Compagnia di Gesù, ed aperse largamente le frontiere dell’Impero a tutti coloro che ne facevano parte. E sebbene ben pochi gesuiti avessero approfittato di questa generosità imperiale, Caterina se ne fece una gloria e considerò il suo atto come una vittoria diplomatica su Roma. Ma, in fine, siccome non si poteva vivere sempre in lotta con la Santa Sede, sopratutto quando si contavano fra i propri sudditi milioni di cattolici, furono ripresi, penosamente, negoziati per l’invio d’un nuovo ambasciatore della Curia Romana in Russia, quando, prima che finissero, l’imperatrice morì. Paolo I, suo figlio e successore, durante il suo regno si preoccupò specialmente di disfare quanto era stato fatto e ordinato dalla sua illustre madre. Ma, siccome questo monarca non aveva nessun piano determinato nella sua mente, ordini e contrordini si susseguivano, s’incrociavano e si contraddicevano continuamente. Del resto Paolo era innanzi tutto un mistico, che aveva un’idea esagerata del suo potere autocratico e della sua divina missione. Vi fu un punto sul quale non cambiò mai: la profonda convinzione d’essere l’unto del Signore, e di rappresentare tutta la Chiesa nazionale. Perciò fu un vero spettacolo la sua incoronazione a Mosca nel 1797. E si circondò di una gran pompa; alla quale intendeva di dare un alto significato. L’imperatore, nel suo mantello di stoffa d’oro, foderato d’ermellino, portava, come i cesari di Bisanzio, una dalmatica di velluto rosso. Ricevuta la sacra unzione, si avvicinò alla Santa Tavola e si mise egli stesso la corona sul capo, indi incoronò la sua Sposa.79 — Poi si lessero alcuni atti legislativi d’alta importanza, che furono posti sull’altare e affidati alla guardia del clero. Fra essi v’era la Carta che regolava la successione al trono, nella quale l’imperatore si dava il titolo, d’altra parte semplicemente onorifico, di «Caput Ecclesiae» (Glava tsekvi).80 Però, sebbene ortodosso fervente e convinto, Paolo I non era ostile, da principio, agli alti culti. Del resto, nella sua qualità di gran maestro 79 Accade durante la solennità dell’incoronazione un piccolo incidente molto caratteristico. Notando che Paolo non aveva deposto la spada prima di avvicinarsi alla Santa Tavola, il primate di Mosca, il celebre metropolita Platone (Levchine), lo fermò con queste parole: «Deponi la tua spada, o piissimo czar, in questo santuario si offrono soltanto sacrifici incruenti». E Paolo, autocrate com’era, non fece che inchinarsi all’invito del prelato. (Schilder, Impérator Pavel I, vol. 1, p. 343). 80 Schilder, Impérator Pavel I, (Pietroburgo, 1901, p. 344). 80 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it dell’ordine dei cavalieri di Malta, la maggior parte dei quali erano cattolici ed anche gesuiti, gli sarebbe stato difficile dimostrare una viva ostilità per i non ortodossi. D’altronde era in ottimi rapporti col Papa Pio VII, che teneva corrispondenza con lui. Ciò spiega perchè Paolo I abbia chiuso volontariamente gli occhi su un fatto unico negli annali della storia religiosa della Russia moderna: il ritorno alla unità della Chiesa di migliaia di ortodossi delle provincie del Sud-Ovest. D’altra parte l’odio implacabile della rivoluzione giacobina faceva scoprire a Paolo degli alleati in Roma. Malgrado le sue tendenze dispotiche, giungeva fino al punto da annunciare al Padre Gruber, generale dei gesuiti, che aveva facile accesso al gabinetto imperiale, che da allora innanzi gli affari dei cattolici sarebbero stati regolati secondo i canoni del concilio di Trento. Nel momento poi che una cospirazione di palazzo poneva una tragica fine ai suoi giorni, partiva per Roma un progetto d’unione fra le Chiese di Oriente e d’Occidente «e, aggiunge il P. Pierling, per ordine dell’imperatore, i vescovi ortodossi spezzavano le loro penne». — P. Pierling, La Russia e la Santa Sede. t. V, p. 309. Le relazioni della Russia con la Santa Sede, come pure la politica imperiale riguardo alla Chiesa russa, ebbero, durante il regno del successore di Paolo I, degli alti e bassi inevitabili. Al principio del regno di Alessandro I si ritornò al sistema di Caterina, ma con meno rigore e meno logica nell’applicazione. Era allora proibito rigorosamente di mantenere corrispondenza con Roma al di fuori della via ufficiale. Le loggie massoniche erano considerate con più favore, e l’imperatore stesso fu iniziato alla massoneria. Ma qualche anno dopo il vento cambiò. L’imperatore cominciò a stancarsi dei frammassoni.81 Allora vi fu un grande entusiasmo per la Società Biblica, i cui statuti, portati in Russia nel 1613 dal pastore John Paterson, erano copiati da quelli della British and Foreign Bible Society. Per ordine dell’imperatore, che s’era vivamente interessato dell’opera di questo pastore, un certo numero di alti dignitari della Chiesa ortodossa fu obbligato ad assistere alle riunioni di questa società, ed anche a far parte del suo comitato. Ma anche questo non durò molto. L’imperatore, divenendo sempre più inquieto e sospettoso, cercava la solitudine e si circondava volentieri di mistero. Si afferma che nel 1825 abbiano avuto luogo degli abboccamenti segreti fra Pietroburgo e Roma. Si dice anche che Alessandro abbia fatto conoscere al Papa la sua ferma volontà di abiurare personalmente l’ortodossia, e di ricondurre all’unità i popoli soggetti al suo scettro. — Boudou, la santa Sede e la Russia, t. I, p. 136. 81 La presenza dei frammassoni in Russia fu segnalata per la prima volta da autentici documenti nel 1731. L’imperatrice Elisabetta Pétrovna li lasciò in pace. Pietro III li favorì. Caterina II, dapprima indifferente, divenne ben presto ostile. Paolo I, che detestava tutto ciò che aveva fatto sua madre, sembrò, al principio del suo regno, corrispondere alle speranze massoniche; ma nel 1799 proibì le associazioni segrete. Infine Alessandro, dopo averli più che tollerati, cambiò bruscamente opinione a loro riguardo; divenne loro ostile e fece chiudere, con un editto, in data del 1 agosto 1822, tutte le loggie e sciogliere tutte le società segrete. (Cf. A. Boudou, la Santa Sede e la Russia, t. 1. p. 102). 81 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it Ma cosa non s’è detto sul conto di Alessandro? E si poteva fare assegnamento sulle sue parole? Ohimè, no, poichè Alessandro fu uno spirito tormentato, un grande inquieto che non poteva fidarsi di nessuno e di niente. Checchè ne fosse, Alessandro s’ingegnava di alternare con le lunghe conversazioni con la baronessa Krudener, altre conversazioni con quacqueri, con pietisti di tutti i gradi, con monaci ortodossi e capuccini, con l’archimandrita Fozio e Mgr. Hohenlohe. Ma sentiamo anche che cosa dice con Giuseppe De Maistre sulla chiesa universale e la grandezza del cattolicesimo; e riportiamo questi ragionamenti alla risposta che diede nel 1817, allo Svedese luterano Witberg, che parlava di farsi ortodosso e consultava a questo proposito l’imperatore. «Per conto mio, mi è indifferente, diceva Alessandro, che si appartenga a questa o a quella confessione, poichè tutte le Chiese sono buone». Quindi non possiamo accogliere che come una favola la storia, che fece gran rumore un tempo, della conversione di Alessandro, sul suo letto di morte, al cattolicesimo. «Le relazioni più particolari e più autorevoli, nota molto giustamente A. Boudou — Boudou, Op. cit. t. I, p. 139. — ci presentano al suo capezzale l’arciprete ortodosso Alessio Fédotov». Però un’altra leggenda un po’ più verosimile si è formata attorno alla morte di Alessandro. Si diceva e si credeva che non fosse morto a Taganrog nel 1825, ma che fosse fuggito in Siberia; e si fosse nascosto qualche anno dopo sotto i tratti d’un certo vecchio chiamato Fedoro Kouzmitch. Non si sapeva niente del passato di questo Fedoro Kouzmitch, e sembrava che i prenomi sotto i quali era conosciuto non fossero suoi. Però il suo aspetto, la sua statura imponente ed il suo sguardo ricordavano in modo da ingannare i tratti e il maestoso portamento del defunto czar. Il rettore del seminario di Tomsk, che andò a visitarlo nel 1859 in un villaggio di questo governo, riportò dalla sua visita l’impressione che Fedoro Kouzmitch fosse un teologo unito della Russia occidentale, oppure un filosofo mistico frammassone. Durante i vent’anni passati in Siberia, Fedoro Kouzmitch cambiò più volte di residenza per evitare la notorietà che gli si univa, e non lasciò che il ricordo di alcuni atti e ragionamenti stravaganti. Morì a Tomsk il 20 gennaio 1864, dopo aver rifiutato, come il solito, la SS. Eucarestia. Ma ecco qui dove comincia l’inesplicabile: questo straniero, morto fuori della comunione ufficiale, fu tuttavia sepolto nel monastero di S. Alessio, e sulla sua tomba fu posta una croce con l’iscrizione: «Qui riposa il corpo del grande e benedetto (blagoslovennyi è il soprannome che fu dato dalla Chiesa russa ad Alessandro primo) vecchio Fedoro Kouzmitch». Più tardi il governatore di Tomsk fece cancellare le parole «grande e benedetto» e le autorità provinciali dovettero prendere delle misure per contenere la intempestiva devozione dei visitatori che affluivano alla tomba del misterioso vecchio.82 82 P. Peeters, La canonizzazione dei Santi nella Chiesa russa, «Analecta Bollandiana» t. XXXIII, 1919, p. 419). — Gr. Duca Nicola Mikhaïlovitch, Legenda o kontchiné impératora Alexandra I v Sibjré (Leggenda della morte dell’Imperatore Alessandro 1 in Siberia), Pietroburgo, 1907. 82 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it La politica di Nicola I tanto riguardo a Roma, quanto alla Chiesa nazionale, fu di una rigidezza più che militare. Fu sotto il suo regno che si tennero a Polotzk, nel 1839, le famose assise che hanno sottratto all’obbedienza di Roma parecchi milioni di Russi uniti. La medaglia commemorativa che fu coniata in quella occasione, portava queste parole: «Separati dalla violenza (1596), riuniti dall’amore (1839)». Tuttavia questo atto di politica arbitraria non impedì la conclusione, nel 1847, di un accordo fra la Santa Sede e la Russia. Questo non era un concordato regolare, ma semplicemente un accomodamento. Forse per questo cadde nel 1866 di fronte alla politica russa riguardo ai cattolici, politica che seguì da vicino la seconda insurrezione polacca nel 1863. Le relazioni bruscamente interrotte fra Roma e Pietroburgo, furono riprese nel 1883 al tempo dell’incoronazione di Alessandro III. Il cardinale Vincenzo Vannutelli andò allora a recare a Mosca la parola di pace del S. Padre. Alessandro III gli fece un’ottima accoglienza e s’affrettò a rispondere a Leone XIII con una lettera piena di deferenza e di rispetto. Ma le cose non andarono allora più in là; solamente dieci anni dopo fu finalmente firmato un accordo che si poteva chiamare concordato. La politica degli imperatori riguardo alla Chiesa nazionale durante il secolo XIX, fu simile a quella dei loro predecessori. L’idea che la dignità imperiale fosse una specie di ministero religioso, simile al sacerdozio, e che lo czar, facendosi incoronare, ricevesse un crisma o una grazia straordinaria, era radicata nell’animo della maggioranza dei Russi. Ma questo potere degli czar moscoviti, che «si presumerebbe in potenza come universale, se non avesse un significato eccezionale che per la Chiesa ortodossa», come notava Vladimiro Soloviev, questo potere fu esso veramente creato dagli imperatori? A considerare bene i fatti, escludendo Pietro il Grande e Paolo I, sembrerebbe che fosse piuttosto il risultato delle sottili speculazioni e delle mistiche meditazioni di pochi spiriti, e ad un tempo dell’opera di coloro che, nella Moscovia dei tempi passati, avevano elaborato l’inebriante idea della «Terza Roma». III. Più di due terzi del XVIII secolo religioso russo furono notevoli per la lotta che ebbe luogo nel seno stesso della Chiesa ortodossa fra l’influenza cattolica e l’influenza protestante. Forti dell’appoggio che trovavano, o almeno s’immaginavano di trovare presso Pietro il Grande, i luterani, con a capo il focoso Théophane Prokopovitch, speravano niente meno che di condurre a poco a poco la Chiesa greco-russa a condividere le loro idee sugli scritti tradizionali, sulla processione dello Spirito Santo ed anche sulla necessità di studiare le Sacre Scritture fondandosi sulla storia e la filologia. A quest’ultimo punto specialmente ci teneva Prokopovitch. Egli ne era partigiano convinto, come era convinto della necessità di separare nettamente la teologia morale dalla dogmatica, ch’egli considerava come una scienza positiva. — Theophani Prokopovitch theologia dogmatica. 83 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it Lipsiae, 1782-1792. — Ma imbevuto di protestantesimo, Prokopovitch non concepiva la Chiesa che come una assemblea di persone riunite unicamente per un disegno pratico e determinato. L’idea che la Chiesa fosse un corpo divinamente stabilito, incaricato quaggiù d’una missione soprannaturale, gli era estranea. Ciò fece risaltare un altro teologo russo, Stefano Iavorskyi, nella sua opera intitolata «La pietra della fede» (Kamien very) in cui tutte le opinioni degli antichi stranieri, ai quali Prokopovitch amava riferirsi, erano considerate come delle «ineptae opiniones». Come Prokopovitch, Stefano Iavorskyi era un antico scolaro dell’Accademia ecclesiastica di Kiev (Kievomoguilianskyi Kollegium), che fu per lungo tempo il semenzaio dei dottori e teologi russi. Dopo aver compiuti i suoi studi a Kiev, andò all’estero, si convertì al cattolicesimo romano (ciò che non era raro in quei tempi), e visse qualche anno a Lwow ed a Poznan per seguire il corso dei grandi seminari di queste due città. Ritornato in Russia nel 1687, abiurò il cattolicesimo; gli fu perdonata la sua fuga e, per consiglio del suo protettore, il metropolita di Kiev Barlaam Iasinskyi, vestì due anni più tardi l’abito monacale, ciò che gli offrì la possibilità di far parte dell’episcopato. Ma l’insegnamento dei gesuiti e la scienza dei dottori cattolici avevano avuto una tale influenza su Stefano, ch’egli non potè mai liberarsene completamente. Tutti i suoi scritti ne risentono, ne sono la forza, e ne accusano i metodi. Sopratutto utilizzando Bellarmino, Iavorskyi scrisse la sua opera diretta contro la dottrina di Prokopovitch, il quale gli rispose con uno scritto pubblicato a Iéna nel 1729, in forma di lettera del filosofo alemanno Budde o Buddeus, ad un amico russo di Mosca. Era una lettera di tono assai aspro, ed in sostanza ingiusta; Iavorskyi vi era trattato da gesuita, da papista e da animo limaccioso. La difesa di Iavorskyi fu presa dal domenicano Bernardo Ribera, elemosiniere dell’ambasciatore di Spagna in Russia. Disgraziatamente, agli occhi di Prokopovitch, Ribera non aveva alcuna autorità. La sua opinione sul domenicano, che da lungo tempo conosceva per discussioni avute all’Accademia ecclesiastica di Pietroburgo, era fatta: vero ignorante e povero latininista, dal portamento meridionale e dai grandi atteggiamenti ridicoli. Così la risposta di Ribera non fu che un gran colpo di spada nell’acqua. Ma tutt’altro fu il valore delle acerbe critiche drette contro Prokopovitch da un secondo partigiano di Stefano, il teologo russo Théophilacte Lopatinskyi, le cui lezioni, come quelle dell’archimandrita Silvestro Kouliabka, fatte all’Accademia di Kiev negli anni 1741-46 sulla dogmatica, in uno spirito scolastico moderato, che non tentava punto di separare la dogmatica dalla teologia morale, fecero prevalere durante la prima metà del secolo XVIII, nell’insegnamento ecclesiastico che si dava in Russia, la tesi e i metodi dei grandi dottori del cattolicesimo. L’influenza protestante di Théophane Prokopovitch non si fece sentire veramente che dopo gli anni 1750, ma fu a tal punto profonda e durevole che sussistette nell’insegnamento delle accademie ecclesiastiche durante tutta la prima metà del XIX secolo. Le idee di Prokopovitch si trovavano al principio delle lezioni date nella fine del XVIII secolo da vari teologi russi, come Giorgio Konisskyi, Ireneo 84 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it Falkovskyi, e sopratutto Théophilacte Gorskyi, che univa l’insegnamento di Budda e di Schubert. Ma non furono i soli. Gli scritti di due dignitari della Chiesa russa della stessa epoca, il metropolita Platone e l’archimandrita Macario, (catechismo, teologia, dogmatica, ecc.), non erano più esenti d’influenza luterana. E in somma non fu che con le celebri opere del metropolita Macario83 apparve alla metà del secolo seguente, che il punto di vista puramente russo sulla Chiesa, la cristianità e i dogmi, cominciò a predominare tanto nell’insegnamento quanto nelle opere teologiche. Però la lotta delle influenze contradditorie nel seno della Chiesa russa, e l’elaborazione, per mezzo dei dottori di questa Chiesa, di una dottrina russoortodossa, interessavano poco i laici e ne snervavano un certo numero. In generale non si capiva molto delle controversie impegnate dai teologi di professione. IV. L’idea che laici ed ecclesiastici avevano il dovere e il diritto di partecipare tutti in eguale misura alla vita interiore della Chiesa, al suo insegnamento, al mantenimento della sua dottrina e dei suoi canoni, al suo splendore ed al suo trionfo universale; che la Chiesa doveva vivere una vita ecclesiastica popolare, perchè in essa solamente il popolo partecipava conciliarmente (soborno) agli affari della Chiesa; che questa era veramente la Chiesa del Cristo; quest’idea insomma si manifestò sopratutto alla metà dell’ultimo secolo, grazie al movimento slavofilo rinforzato dalla dichiarazione circolare dei patriarchi d’Oriente, che proclamava solennemente, nel 1848, che il «vero custode della religione cristiana è il Corpo di N. S. Gesù Cristo, cioè il popolo nel suo insieme». Ben presto essa diventò, se non la chiave di volta di tutto l’edificio politico sociale dei panslavisti, almeno un articolo essenziale della loro dottrina religiosa brillantemente definita dai Khomiakov e dai Samarine;84 essa fu ben presto riunita con un’altra idea esposta da Dostoiévski nei — Fratelli Karamazov, — cioè che non è la Chiesa che deve rassomigliare allo Stato, ma lo Stato che deve confondersi con la Chiesa.85 83 Pravoslavno-dogmatitcheskoié bogoslovié (Teologia dogmatica ortodossa) Pietroburgo, 1849-1853. Vvédpénié v pravoslavnoié bogoslovié (Introduzione alla teologia ortodossa), Pietroburgo, 1855. 84 A. Khomiakov, Alcune parole di un cristiano ortodosso, Parigi, 1859. — La Chiesa latina e il protestantesimo sotto il punto di vista della Chiesa d’Oriente, Losanna, 1872. — Zavitnévitch. A. Khomiakov, Kiev, 1902. — Liaskovskyi, A. Khomiakov. Ego jizn i sotchinénia (A. Khomiakov, La sua vita e le sue opere), Mosca, 1897. B. Noldé, Iouryi Samarine i égo vremia (Giorgio Samarine ed il suo tempo), Parigi, 1926. 85 «Non è la Chiesa che si trasforma in Stato, comprendetemi bene, fa dire Dostoiévski al padre Païsyi. È là un sogno romano e la terza tentazione del Diavolo. Al contrario, è lo Stato che si trasforma in Chiesa, che risale verso la Chiesa e che diventa la Chiesa Universale. Cosa del tutto differente, che non ha niente a che fare nè con Roma, nè con l’oltramontanismo, ma è la grande predestinazione dell’ortodossia su questa terra. È all’Est che questa stella apparirà». (I fratelli Karamazov, Prima parte — Libro II. Capitolo 85 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it Però gli slavofili non riuscirono che a generare confusione nello spirito dei Russi; confusione che un Vladimiro Soloviev s’accanì per lunghi anni a mettere in evidenza, ma che non riuscì a togliere malgrado il suo cuore e la sua vasta intelligenza. Gli slavofili ed i loro discepoli hanno spesso rimproverato alla Chiesa nazionale la sua indifferenza per il popolo, e la sua mancanza di sollecitudine a suo riguardo. Ma essi dimenticavano facilmente che il clero secolare, costretto com’era ad una certa linea di condotta, ed impedito dall’insegnamento che aveva ricevuto, si trovava, il più delle volte, nell’impossibilità di precedere o anche di seguire il popolo nella via che gli tracciava la sua mistica. Ma d’altra parte gli slavofili consideravano i Russi come un popolo eletto, come il solo che portasse in sè l’idea divina, il culto della verità e della santità. Ed allora i loro rimproveri suonano falsi: «Far sapere qualche cosa a colui che sa tutto, è sconcertarlo completamente», dice un proverbio russo. Del resto, se i ministri della chiesa costituita secondo gli slavofili, non s’occupavano che molto poco del popolo, era per ciò che questo popolo spesso si sottraeva alla loro opera. Secondo un’opinione di N. Berdiaiev, il popolo qualche volta si rifugiava in una certa religiosità colorita di paganesimo, ch’egli descrive così: «L’antico paganesimo russo si è frammischiato al cristianesimo russo e gli ha data una fisionomia tutta speciale. L’ortodossia nasconde in sè un certo dionisismo cristiano, che non s’incontra nell’ortodossia bizantina. Vi è in qualche parte un punto di contatto fra l’ortodossia russa e la straordinaria setta mistico-dionisiaca dei flagellanti russi (khlisty), setta in cui il cristianesimo s’è mescolato in modo bizzaro, ed anche terrificante, ad un vecchio paganesimo russo. Nel culto che professano i Russi per la Madre di Dio, che bene spesso vela l’immagine del suo Figlio Divino, si scorge facilmente il culto della terra russa. L’immagine di questa terra russa, madre nutritiva, è quella della Madre di Dio, qualche volta si confondono nell’animo del popolo. Il cristianesimo russo è più una credenza d’essenza femminile che una religione di sesso maschile».86 Checchè ne sia, il cristianesimo russo, o più esattamente parlando «la fede russa popolare», se si sottrae spesso all’opera ufficiale, è la religione dell’al di là e non di quaggiù: cioè il suo avvenire si trova nel mondo trascendente e non nel mondo delle realtà tangibili. Per i Russi la vera vita comincerà solo in cielo, cioè nel regno ultimo, nel vero senso della parola. Così fino a quel momento, e detto in altre parole, attendendo il glorioso e beatificante possesso di Dio, l’uomo dovrà applicarsi perchè il suo corpo, quando risusciterà, non sia grave di impedimenti terreni, ma leggero e diafano. E questo stato non si potrà ottenere che con il disprezzo dei piaceri e dei beni terreni, con l’indifferenza verso l’acquisto della civiltà materiale, con la disubbidienza alle leggi ed ai doveri imposti con la violenza. V). 86 N. Berdiaiev, Rousskaia religuioznaia idéa (L’idea religiosa russa, pp. 63, 64. Estr. dalla collezione intitolata: «Problemy rousskago religuioznago soznania», The I. M. C. A. Press Ltd. Berlino, 1924). Un’analisi molto dettagliata di quest’opera è stata pubblicata sotto la firma di Konrad Weber, nella Benediktinische Monatschift, n. 3-4 e 5-6, 1925. 86 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it Questo modo di considerare l’esistenza terrena e di prepararsi a quella dell’al di là, fu inculcato nel popolo russo dai numerosi startsy che, ripetiamo, furono in ogni tempo le guide-naturali del Russo: ciò per la semplice ragione che il loro insegnamento non era che una semplice conversazione amichevole, e anche perchè non imponevano obblighi molto complicati, ma soltanto delle genuflessioni, molte orazioni,87 e solo una costrizione: quella d’amare il prossimo. Insomma, con una forma di spirito molto orientale, essi comunicarono ai loro discepoli un modo tutto orientale, anche nel considerare le cose di quaggiù, e le relazioni con Dio. Ma, pretende Berdiaiev, «l’Oriente è più vicino dell’Occidente alle fonti religiose, ed è all’Est che si alza il sole, e non è che laggiù che Dio parla all’uomo faccia a faccia senza nessun intermediario». — N. Berdiaiev, Op. cit. pag. 55. Così è verso questo Dio clementissimo e vicino che la Russia corre da secoli per monti e per valli: «Essi errano (i pellegrini), vagabondano da una regione all’altra, attraverso la vecchia Russia, per le feste e le lande, cacciati dal vento delle steppe. E tutto questo mondo canta… il vecchio canto gregoriano della Chiesa bulgara… raccontano la storia di Lazzaro, il pustoloso, di Alessio, l’uomo di Dio, che nella sua sete di povertà e di martirio, lasciò la casa paterna per andare non si sa dove» — Ivan Bounine, Silenzio (Tr. Maurizio. Parigi, 1922). «Noi tutti siamo quaggiù pellegrini senza casa nè tetto, continua N. Berdiaiev: è della città futura che abbiamo fame e sete. Il vagabondaggio spirituale è uno dei tratti più salienti del carattere nazionale russo. Esso corrisponde perfettamente a ciò che si può chiamare «l’idea russa». Il tipo del pellegrino uscito dal popolo è uno dei più notevoli che la terra abbia generato. — Vedere la nota A alla fine del presente capitolo. — Ma c’erano pure pellegrini che appartenevano, per nascita e per ingegno, all’aristocrazia. Tutti i pensatori e tutti gli scrittori russi sono pellegrini alla ricerca della Verità Divina, Il vagabondaggio russo è il rovescio del nostro disinteresse per le cose di quaggiù: è agli antipodi dello spirito borghese». — N. Berdiaiev, Op. cit. p. 98. Ma non bisogna credere che questo vagabondaggio sia la manifestazione d’uno stato costante ed invariabile dell’animo del Russo. In verità, non è che uno dei suoi aspetti che riflette la profonda confusione, ma imprecisa ed inconscia, nella quale si muove quest’animo, nello stesso tempo che la sua sete riflessa dalla celeste Gerusalemme. D’altronde se «la vita, per il Russo, non sogna chiari colori e non prende uno splendore che all’appressarsi della morte, come affermano gli scrittori mistici del suo paese (Rozanov), è talvolta per stanchezza, anche fisica, per l’incapacità di limitarsi e di adattarsi all’ambiente, nello stesso tempo che per un’aspirazione verso l’al 87 Così Serafino di Sarov, il celebre eremita che fu canonizzato per espresso ordine di Nicola II, prescriveva ai suoi visitatori, per il mattino e la sera tre Pater, tre Ave, un Credo, e durante la giornata, frequenti invocazioni al Salvatore ed alla Sua Santa Madre: «abbiate pietà di me peccatore». (Pomilouyi mia grechnago). Certe preghiere vocali dovevano essere ripetute dalle 12 alle 100 volte il giorno. 87 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it di là, dettata da un sentimento religioso. Insomma non è permesso basarsi su tale o tal’altro contegno del Russo per farsi un’idea della sua psicologia, ma si deve interrogare la storia, la geografia ed il clima del suo paese. Tutto vi è eccessivo, confuso ed accidentale: nel miscuglio di razze da cui il Russo è nato, nel clima, nell’evoluzione della sua storia, e nella natura del suolo. Così il Russo, in continua lotta con le ostili condizioni della vita, contro un clima rigido, e contro un potere oppressore, e privato da secoli d’una ferma direzione morale o religiosa, ha sconcertato il suo animo, l’ha fatto a pezzi, ed è nell’impossibilità di riunirli. Tutta la sua tragedia è là. La sua tragedia, che è la lotta continua fra le parti disgiunte del suo animo. Così è per sopportare questa lotta che s’immerge nel fondo del suo essere, ch’egli cerca continuamente un aiuto o un potente eccitante, che trova ora nella sofferenza e nella mortificazione, ora nella colpa e nella bestemmia, ed ancora in una completa rinuncia di sè. Di qui deriva questo bisogno di moto, che lo coglie ogni momento e lo fa pellegrinare attraverso l’immensità d’un paese di cui egli non conosce punto i limiti. Ma che cos’è ch’egli cerca veramente? Il Cielo? Sì, ma questo Cielo si chiama la pace dell’animo. NOTE Nota A.— La categoria più interessante di questi pellegrini, «uomini di Dio», come sono chiamati in Russia, fu, fino a questi ultimi tempi, quella degli iourodivyé: Il iourodstvo o Khristé, o il iourodstvo Krista radi, cioè la «follia per il Cristo», indicava questa specie d’ascesa, che consisteva nell’imitare l’idiota, nell’essere ritenuto pazzo, nell’esporsi alle beffe, alle ingiurie ed alle busse per amore del Signore, per esserGli graditi e guadagnare rapidamente la vita eterna. Il iourodstvo si fondava specialmente su certe parole e versetti delle lettere di S. Paolo. Così l’Apostolo Paolo aveva parlato della «follia della Croce» e nella prima Lettera al Corinzii (III, 18) egli dice: «Se qualcuno di voi pensa di essere saggio in questo secolo, divenga pazzo per diventare saggio». La «follia per il Cristo» sorse nell’Oriente ellenistico nei primi secoli del cristianesimo. (In Grecia, gli iourodivyé erano chiamati «salos»; cf. Sofocle, Greek Lexicon of the Roman and Byzantine periode, Boston, 1870). Ma fu in Russia che essa trovò la sua terra di predilezione, probabilmente a causa della tendenza «estremista» dell’animo russo in materia religiosa, come in tutte le altre cose. Però il numero dei «semplici», che nel paese di Kiev era chiamato pokhabe, e le loro azioni pokhabstvo, cioè «impudente» ed «impudenza») durante il periodo premongolo della storia russa fu assai ristretto. Del resto allora si annoveravano quasi esclusivamente fra i cenobiti. Solo a partire dal XIV secolo il loro numero cominciò a progredire, ed essi seppero attirare sopra di sè la stima e la considerazione del popolo e la benevolenza della Chiesa, che beatificò e canonizzò anche qualcuno di essi (Goloubinskyi, Istoriia kanonizazii sviatykh v rousskoï tserkvi, Mosca, 1903). Ricordiamoci che fu per invocazione di un iourod, chiamato Basilio 88 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it (Vassilyi), che la devozione popolare ha fondato una delle chiese più notevoli della Russia: Vassilyi Blagennyi di Mosca. La maggior parte degli iourods russi si contentavano, in generale, di commettere delle stravaganze e delle eccentricità, camminare scalzi o in vesti bizzarre; imitare i gridi delle bestie; non dire che parole vuote e farsi credere sordi e muti; mangiare detriti, dormire come cani erranti, ecc. Ma ve n’erano taluni, come quel Nicola Salos che tenne testa a Giovanni il Terribile, che, credendosi i porta-voce della coscienza popolare, passavano il loro tempo a dire cose spiacevoli agli czar ed ai loro consiglieri, o a sollevare le folle, durante le carestie, contro i profittatori e gli sfruttatori del povero popolo. Nel XVIII secolo, al tempo di Pietro il Grande e dei suoi immediati successori, i «semplici» volontari perdettero tutto il loro prestigio nell’alta nobiltà e nella società. Essi dovettero dunque abbassarsi fino ai reietti e confondersi nella grande massa del popolo. Ma nel secolo seguente rialzarono la testa: un Alessandro I ed un Nicola I, autocrati ed unti del Signore come furono, ne conoscevano qualcuno. E il regno degli czar moscoviti non finì senza la riapparizione, alla corte di Nicola II, di autentici iourods, quali furono un certo monaco Antonio ed un orribile gnomo, chiamato Mitia Kouliaba, che non gettava che muggiti inarticolati, che un altro «semplice« della setta s’incaricava d’interpretare. CAPITOLO VIII. Liturgia e musica di Chiesa I. Un occidentale che assistesse per la prima volta alla celebrazione della Santa Messa in una Chiesa russa rimarrebbe meravigliato dapprima, sopratutto se fosse una messa pontificale, per la sua magnificenza, pompa, sfoggio di riti e intenso arcaismo. Soltanto più tardi, essendosi familiarizzato con l’esteriorità di questa cerimonia religiosa, potrà gustare il lato mistico, scoprire i simboli che vi si nascondono e stimare lo spirito d’umiltà e di devozione che ne costituiscono il fondamento. Allora, e allora solamente, egli non sarà più distornato dall’artifizio e dall’ornamentazione del luogo; il suo orecchio si assuefarà ai clamori, alle volte, eccessivi, del diacono, impegnato in un interminabile dialogo con il coro, — e in questa prodigiosa polifonia di suoni, di colori e di gesti che caratterizzano la liturgia russobizantina cesserà di vedere unicamente una manifestazione della pietà orientale. È molto naturale che l’apparato e l’ornamentazione d’una chiesa 89 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it russa, come anche la forma antica delle cerimonie religiose che vi si celebrano, siano fatte per meravigliare da principio un europeo; in Occidente non esiste niente di simile. Le Chiese russe continuano ad essere costruite e disposte internamente come le chiese primitive che avevano una grande analogia con le sinagoghe giudaiche. Come quelle, le Chiese russe sono divise in tre parti: l’abside, l’atrio, che si chiama ambone e che, nelle chiese romane è stato sostituito dal pergamo e la navata. I corridoi che conducono all’altare si chiamano soléa. Il santuario rinchiude il tabernacolo; sopra l’altare, che è sempre quadrato e rivolto verso l’Oriente, a ricordo della Stella che ha annunziato la venuta del Salvatore e si è mostrata all’Est, stanno il Vangelo, la croce, i calici; il messale, che non è un libro consacrato, è posto sopra un leggio a sinistra dell’officiante. Fra gli oggetti consacrati, che si trovano solamente nel rito orientale e per conseguenza nelle Chiese russe, bisogna nominare l’antimension, biancheria consacrata che racchiude reliquie e ricopre una parte dell’altare, il piccolo coltello che simboleggia la lancia con la quale fu ferito il fianco di Nostro Signore e che serve per togliere dalla prosfora simboleggiante la Santa Vergine la particella rappresentante l’agnello di Dio, la spugna che ricorda quella della crocifissione e serve per purificare le mani del sacerdote e i vasi sacri, il cucchiaio della comunione, in fine l’asterisco (zvézditsa), croce convessa, che posta sopra la patena protegge i frammenti da ogni contatto. Porta, sospesa nel mezzo, una stella, immagine di quella di Betlemme. Il santuario è separato dalla navata dalla porta reale (tsarkia vrata) e da un assito ornato d’immagini sante che si chiama iconostasi. Sono aperte due porte laterali. La porta reale ha di più una cortina in seta malva che si tira prima della celebrazione del Sanro Sacrificio, ma dopo che il diacono ha obbligato i catecumeni a uscire dalla Chiesa.88 Ogni cristiano laico, eccettuate le donne, può essere ammesso al santuario, ma non può passare fra la porta reale e l’altare; deve ogni volta girarlo. Il diacono stesso può andar oltre la porta reale solo quando tiene il Vangelo in mano. Infine, particolarità che ha il suo significato, in chiesa non ci sono sedie, tutti i fedeli, come nei primi tempi del cristianesimo devono stare in piedi. Ecco quanto riguarda l’apparato delle chiese russe. Riguardo alle cerimonie religiose che vi si celebrano, si può dire che sono quasi della stessa epoca del disegno dal quale fu concepita la disposizione interna. La chiesa russa, non conosce e non celebra che tre liturgie; le due prime sono quelle di San Basilio il Grande e quella di San Giovanni Crisostomo; la terza, detta «liturgia dei Presantificati» (analoga alla liturgia cattolica del venerdì 88 Le parole che il diacono pronuncia in questa occasione sono le seguenti: izydé oglachennyé! Oglachennyé izyde (Voi che siete i catecumeni, uscite! uscite, catecumeni!). Questa particolarità della messa bizantino-slava è una reminiscenza dei primi tempi del cristianesimo, allora quando, il numero dei pagani che si convertivano alla legge di Cristo, essendo considerevole, non si voleva che quelli i quali erano poco iniziati nei dogmi della fede assistessero alla celebrazione del Santo Sacrificio il cui senso non poteva essere da loro compreso. 90 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it santo), è celebrata durante tutta la quaresima ad eccezione dei venerdì e delle domeniche. Una antichissima tradizione insegna che i primi elementi della liturgia furono riuniti dall’apostolo Giacomo (per le Chiese di Gerusalemme e d’Antiochia) e dall’apostolo Marco (per le Chiese d’Egitto). La liturgia di San Basilio (IV secolo) è una rifusione, una abbreviazione e un rimaneggiamento della messa che si celebrava nei patriarcati di Gerusalemme e d’Antiochia, e che si attribuiva all’apostolo Giacomo. La liturgia di Basilio il Grande fu a sua volta rifusa e allegerita (principalmente da un certo numero di preghiere eucaristiche) da S. Giovanni Crisostomo. Nè la liturgia di S. Basilio, nè quella di S. Giovanni Crisostomo sono arrivate sino a noi nella loro forma primitiva. La messa di San Basilio fu adottata ben presto da tutta l’Asia, donde passò in Egitto, presso i Copti e più tardi in Etiopia. Tradotta negli idiomi di queste differenti contrade, s’arricchì di un buon numero di preghiere che non figuravano nella prima versione. La messa di San Giovanni Crisostomo, — Si troverà la liturgia di san Giovanni Crisostomo in Migne, Patr. gr., t. LXIII, col 90 e seg. — rifusione di una delle liturgie palestiniane, fu adottata dalla Chiesa russa nella sua versione detta di Costantinopoli, attribuita al patriarca Filoteo (XIV secolo). In Russia, nel corso dei secoli subì delle modificazioni per nulla importanti, e, conseguentemente, può essere considerata come il tipo della liturgia orientale. Contrariamente alla liturgia di Basilio il Grande, che è celebrata in Russia dieci volte all’anno, le cinque prime domeniche della quaresima, il giovedì santo, il venerdì santo, la vigilia della Natività di Nostro Signore e dell’Epifania, infine il primo gennaio (giorno della festa di San Basilio), la messa di San Giovanni Crisostomo vien celebrata tutti i giorni dell’anno eccettuati i giorni della settimana in quaresima. La liturgia di Giovanni Crisostomo si compone di due parti ben distinte.89 La prima che è la parte preparatoria, si chiama «Liturgia dei catecumeni» (litourgia oglachennykh) e conseguentemente non fa alcuna allusione alla parte essenziale della messa, l’Eucaristia. Ciò che dapprima la caratterizza è la lettura delle Epistole e del Vangelo, poi lunghe litanie delle quali la più 89 La liturgia bizantino-slava è preceduta dalla preparazione materiale della messa e dalle preghiere dell’offertorio (proskomidia) che si dicono a voce bassa dietro l’iconostasi. Tutta questa parte preparatoria si svolge intorno al piccolo altare della protesi cioè dell’offerta; a sinistra dell’altare principale. È sopra questo altare — dove brillano due ceri e dove sono disposti il calice, la patena (diskos), l’asterisco, i veli, le ampolline contenenti il vino e l’acqua e infine i pani della comunione (prosfori), — che ha luogo la preparazione della materia del sacrificio, cioè la divisione dei prosfori e l’estrazione dei frammenti, in triangoli, che devono servire per il Santo Sacramento. Vi sono cinque sorta di pane per la comunione: il pane di Gesù Cristo, quello della Vergine, quello dei Santi; il pane dei viventi e il pane dei morti. Il pane di Gesù Cristo si taglia completamente; si estrae dalla parte superiore degli altri un triangolo. Al tempo degli imperatori, si tagliava del pane dei viventi in tante particelle, quanti erano i membri della famiglia imperiale. Il pane di Gesù Cristo si distribuisce in piccoli pezzi agli assistenti; gli altri si danno interi ai privilegiati. 91 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it bella è la commovente preghiera (vélikaïa ektenia) «per la pace del mondo intero, per la prosperità delle Sante Chiese di Dio e l’unione di tutte». Infine vengono delle orazioni per i catecumeni seguite dal loro rinvio, come abbiamo già visto, seguendo una formula molto vecchia. La seconda parte della messa è chiamata «liturgia dei fedeli» (litourgia vernykh). Incomincia, dopo alcune parole dell’officiante con il canto mistico dell’«Inno dei Cherubini» (Kherouvimskaïa); dopo v’è la «grande entrata» (vélikyi vykhod), processione che porta sull’altare la patena con le particelle da consacrare, ricoperte d’un velo che simboleggia il Santo Sudario, e il calice riempito di vino e d’acqua; poi ha luogo il canto del Credo, la celebrazione del Santo Sacrificio, l’inno della Santa Vergine, il Pater, la Comunione.90 La liturgia che è identica nelle due Chiese, in quella d’Oriente e in quella d’Occidente è la «missa praesanctificatorum» (litourgia prejdéosviachtchtennikh darov). Essa è conosciuta anche in Russia, non si sa bene come, col nome di «liturgia di San Gregorio il Grande» (Grigoria Dvoiéslova). Checchè ne sia, la sua origine è molto antica; si attribuisce a San Basilio il suo ordinamento asiatico. Nel 615 s’arrichì dell’inno celebre in tutta la Chiesa orientale: Nyné sily nébésnya snami nevidimo sloujat (in questo istante le potenze celesti, invisibili, uniscono le loro preghiere alle nostre). Il patriarca San Germano e il patriarca Filoteo (XIV secolo) rielaborarono ciascuno per conto proprio la messa dei presantificati per la Chiesa orientale. In occidente, apparisce nei manoscritti latini dell’VIII secolo; — Thibaut, Origines de la messe des Presanctifiés. «Echos d’Orient». Gennaio-Marzo 1920 — ed è prescritta pel venerdì Santo. Ma solamente la Chiesa romana continua ai nostri giorni a conformarsi a questa prescrizione; la Chiesa di Costantinopoli e di conseguenza la Chiesa russa abbandonarono l’antico uso, rispettivamente nel secolo XIII e XIV, per celebrare la liturgia dei Presantificati tre volte per settimana durante tutta la quaresima. L’officio della sera, chiamato in Russia Vsenochtchnoié bdenié, letteralmente «la veglia notturna» è una particolarità della Chiesa russobizantina. Viene celebrato la vigilia delle domeniche e i giorni di festa. L’ufficio della sera si compone dell’ordinario dei vesperi (vetchernia) e dei mattutini (outrenia) o dei vesperi solenni (vélikoié povétcherié) e dei mattutini che erano composti dalla lettura di passi del Vangelo, degli Atti, degli Apostoli e degli scritti dei padri della Chiesa. Attualmente la vsenochtchnaïa comprende l’essenziale dei vesperi e dei mattutini e non si fa più la lettura degli Atti e degli scritti di Padri. Di più, la veglia, cioè il prolungamento dell’ufficio della sera fino all’alba, si usa 90 La comunione nella Chiesa russa, come del resto in tutte le Chiese d’Oriente si fa sotto le due specie. La celebrazione dell’Eucaristia, è sempre preceduta da una preghiera (épiclèse) dell’officiante che invoca la discesa del Paraclito sopra i sacramenti offerti («Noi vi offriamo ancora l’atto di adorazione che si dice e si fa senza effusione di sangue e noi Vi chiamiamo e Vi invochiamo e Vi supplichiamo di far discendere lo Spirito Santo sopra di noi e sopra i doni offerti qui dinanzi a Voi»). 92 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it recitarla solamente in qualche monastero obbligato da una regola severissima. — Malizew, Die Nachtwache oder Abend und Morgengottersdienst der orthodox-katholischen Kirche des Morgenlandes. Berlino, 1892. II. Il canto avendo sempre occupato in Russia un largo posto nella celebrazione del culto, ha bisogno che gli sia accordata tutta l’attenzione che merita. I primi cantori di Chiesa in Russia furono dei Bulgari condotti a Kiev dal grande principe Vladimiro, nello stesso tempo in cui i sacerdoti greci erano incaricati di catechizzare i Russi. Un po’ più tardi, ne vennero altri direttamente da Costantinopoli, al seguito della principessa Anna, fidanzata a Vladimiro. La Chiesa russa pertanto fin dal suo inizio fu dotata di un canto liturgico già ben formato e di composizione puramente bizantina. Ma, essendo il grano caduto sopra un eccellente terreno, accadde che gli allievi ben presto non ebbero niente, o quasi, da imparare dai loro maestri. Al principio dell’XI secolo, i Greci insegnavano ancora ai Russi le sottigliezze e le finezze del sistema delle otto «armonie» (glass) che costituiscono la base del canto liturgico russo; qualche dozzina d’anni più tardi, i Russi componevano già delle stichery (cantici di lode) nell’occasione del trasporto dei resti di San Nicola a Bari (1087), in onore di Teodosio di Petchersk (1095) e dei santi Boris e Gleb (1108). L’annotazione dei vecchi libri di canto era fatta per mezzo di segni chiamati da principio segni (znamena), pilastri (stolpy), più tardi gruppi (kriuki) o segni in gruppi (kriukovia znamena). che si ponevano come i «neumi» latini direttamente sopra il testo, senza alcun allineamento. Questo modo di scrittura musicale si mantenne in Russia sino alla fine del secolo XIV, come la melodia che questa notazione doveva riprodurre — Smolenskyi, O drevne-rousskikh pevtcheskikh notaziakh. (Le antiche notazioni vocali russe), Pietroburgo, 1901. — Più tardi la purità del canto in gruppi (kriukovoié penié) fu sensibilmente alterata dall’introduzione di temi del tutti differenti dalla sua linea musicale. Pur tuttavia, nonostante la grande concorrenza nel XVII secolo da parte della cantilena greca, bulgara e Kievense, la notazione in gruppi si mantenne ancora per lungo tempo in certi monasteri e viene utilizzata sino ai nostri giorni da diverse comunità di «vecchi credenti» (starovers). «Il canto di Kiev» (kiévsckyi raspev) si è formato con l’assorbimento di melodie che ebbero origine dalla Galizia e dalla Volinnia e anche in parte sotto l’influenza delle scuole greche e bulgare. Fu armonizzato da confraternite religiose ortodosse del Sud-Ovest della Russia alla fine del XVI secolo e durante il XVII. Di lì passò a Mosca dove fu accolto subito grazie sopratutto alla sua brevità, semplicità e facilità ad essere adottato a qualunque cerimonia religiosa. Fu poco dopo la stessa epoca (XVII secolo) che si conobbe in Mosca la melodia neo-greca. Vi pervenne per mezzo degli 93 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it Slavi del Sud, grazie ai libri liturgici greci che il patriarca Nicone faceva comperare in grande numero, e infine con i cantori elleni venuti a Mosca. Come il canto di Kiev, anche il canto greco fu ben presto adottato dalla Chiesa russa che lo trovò molto appropriato per l’interpretazione delle tropaires delle condakes, delle irmes della domenica e, in generale, per tutti i canti dei giorni di festa e delle grandi solennità. Notiamo che il canto greco, come quello venuto da Kiev, si eseguisce, generalmente su note quadrate o rotonde. Fu la preoccupazione d’opporre al canto delle chiese latine e uniate un canto più ampio, più sostenuto, breve, un canto polifonico, che spinse nel XVII secolo le confraternite religiose della Russia del Sud-Ovest ad armonizzare le melodie sacre della Chiesa russa e ad abbandonare definitivamente l’antica forma di concerto. I primi saggi furono fatti su melodie del territorio e su canti a una voce presi in prestito dai Greci e dagli Slavi del Sud. Le relazioni continue fra le confraternite religiose con i monasteri ortodossi del Monte Athos ebbero i loro effetti su questi saggi di armonia del canto liturgico; buon numero di canti e di inni della Scuola musicale del Sud-ovest delle Russia denotano la loro provenienza dal monte Athos. Ma, tutto sommato, il canto armonico (partesnoié penié, come si dice in Russia) del Sud-ovest, quantunque un tempo avesse una certa influenza in Mosca, attualmente non è che un monumento storico dimenticato; persino nelle raccolte musicali edite dalla scuola sinodale di Mosca non occupa che un posto molto ristretto. Il canto armonico moscovita fu sopratutto l’opera di compositori e di teorici della produzione. Un grande impulso gli fu dato dal celebre patriarca Nikone. Nel 1667 i cantori del palazzo patriarcale eseguirono per la prima volta, con due cori riuniti, il canto di zbrannyi voévodé per tre voci. Alla fine del XVII secolo, Mosca possedeva entro le sue mura un buon numero di specialisti eruditi del canto polifonico, come il chierico (diak) Giovanni Korenev, autore d’un’opera teorica sulla musica sacra (Mousikia), Tikhon Makarievskyi e il cantore dello tsar Vassilyi Titov, autore della musica di numerosi salmi e di una «grande preghiera per la longevità» (bolchoié mnogoletié) che si cantava ancora sino a questi ultimi tempi. Nella maggior parte delle opere corali del XVII secolo russo, era il tenore, un po’ più tardi l’alto, che tracciava la linea musicale; le altre voci gli servivano di semplice accompagnamento armonico. Tuttavia c’era qualche canto sacro in cui il tema principale era affidato alle voci acute in sesta, ovvero alle voci di mezzo in terza. In questa condizione e sotto questo aspetto il canto di Chiesa apparve all’inizio del XVIII secolo e sì mantenne sino al momento in cui fu sopraffatto dalle opere di alcuni musici italiani accorsi in Russia verso la metà di questo secolo. L’influenza italiana sul canto liturgico russo fu grandissima e non meno duratura. Veramente, un Zoppis, direttore d’orchestra del teatro Locatelli al tempo dell’imperatrice Elisabetta Pétrovna, e professore alla scuola dei 94 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it cantori della corte, lasciò poche traccie del suo passaggio. Invece, un Giuseppe Sarti e un Baldassare Galluppi ebbero un’influenza reale e furono i maestri esclusivi di tutta una generazione di musici russi a cominciare da Berezovskyi e sopratutto Bortnianskyi (1751-1825) le cui opere di musica sacra, principalmente i suoi Kherouvimskia (inno dei Cherubini), furono imitati, spesso malamente, durante la maggior parte del XIX secolo. — Lebedev, Berezovskyi i Bortnianskyi kak kompository zerkovnago penia. Pietroburgo, 1882. Bortnianskyi era un eccellente teorico, amatore del «bel canto», ma mancava di sobrietà e di vero sentimento religioso. Ch’egli abbia goduta durante la sua vita d’una grande notorietà, è molto naturale; il gusto del pubblico d’allora era guastato a tal punto che ascoltava senza esitare dei laboriosi racconciamenti della musica di certe opere italiane a dei testi sacri, come, per esempio, l’adattamento della romanza del prete dell’opera di Spontini, La Vestale, alle parole dell’inno sacro: «Noi ti salutiamo, Signore», (Tébé poiem), o ancora l’adattamento della musica di uno dei cori dell’oratorio di Haydn, La Creazione del Mondo, alle parole dell’«Inno dei Cherubini». Il primo saggio, molto timido, del resto, per reagire contro l’italianesimo che s’era impadronito del canto liturgico russo, fu composto nella prima metà dell’ultimo secolo da un certo Tourtchaninov, ma il vero iniziatore della rinnovazione della musica sacra fu Michele Glinka, il quale ripeteva continuamente che l’armonizzazione delle vecchie melodie sacre come anche delle opere originali scritte per essere cantate durante gli uffici divini doveva fondarsi sulle vecchie «modulazioni» della Chiesa e non sulla minore o maggiore gamma della musica europea. Insomma quello che sopratutto voleva Michele Glinka, era di rendere al canto liturgico il suo carattere diatonico e perciò stesso rimetterlo nella tradizione nazionale. Disgraziatamente una morte prematura interrupe il nobile lavoro di Glinka nel campo della restaurazione della musica sacra. L’armonizzazione delle vecchie melodie sacre fu continuata da Balakirev (Vsenochtchnoié bdenié drevnikh napévov, 1887) e anche da Rimskyi Korsakov, in modo un po’ fantastico e troppo pittorico. L’ultimo dei musici russi che vi si sia applicato, con un garbo, sapere e coscienza del tutto straordinari, fu Kastalskyi. Che valore abbiano le sue opere in mezzo allo scompiglio generale, noi non ne sappiamo niente; infatti di canto liturgico russo noi all’estero non udiamo niente, all’infuori di qualche esecuzione più o meno mediocre delle opere di un Vinogradov o di un Grétchaninov, povere cose senza stile e senza vita. 95 1 associazione culturale Larici – http://www.larici.it BIBLlOGRAFIA Annali di Hildesheim (Monum. Germ. Hist. Scr. Tomo III). Annali Ottenburani (Monum. Germ. Hist. Scr. Tomo VI). Annali di Corvey (Jaffé Monumenta Corbeiensa, Monum. Germ. Hist. Scr, T. 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