Walter
Benjamin,
uno
dei
«profeti»
culturali
del
Novecento,
morì
in
una
piccola
località
sulla
frontiera
spagnola;
fuggiva
dalla
Francia
occupata
e
si
suicidò
per
timore
di
essere
riconsegnat
alla
Gestapo.
Era
ebreo
oltre
che
antinazista.
La
sua
fine
è
abbastanza
nota.
È
invece
per
lo
più
ignota
la
vicenda
delle
personalità
con
cui
più
vivamente
e
drammatica
si
intrecciò
la
sua
storia
e,
in
parte,
la
sua
attività:
Georg,
il
fratello
minore,
medico,
dirigente
comunista,
soppresso
a
Mauthausen
nel
1942,
la
sorellina
Dora,
sociologa
e
attivista,
esule
a
Parigi
con
Walter
dal
1933
e
morta
in
Svizzera
dov’era
in
esilio,
la
cognata
Hilde,
militante
clandestina
antinazista
e
madre
di
un
bambino
«meticcio»
da
sottrarre
allo
sterminio,
poi
giudice
supremo
nella
DDR
e
ministro
della
Giustizia,
distintasi
nella
prosecuzion
giudiziaria
dei
criminali
nazisti.
L’autore
di
questa
inchiesta
storica,
basata
su
documenti
sconosciuti
e
su
conversazio
con
i
protagonist
li
definisce
«una
famiglia
tedesca».
E
infatti
la
loro
vicenda
collettiva
di
disperazion
di
morte
e
di
coraggio,
è
aggrovigliat
in
modo
indistinguib
con
la
stessa
storia
della
Germania.
E
il
racconto
di
essa
si
staglia
sullo
sfondo
della
vita
in
Germania,
prima
e
dopo
il
1933.
A
partire
dal
primo
miracolo
tedesco,
la
grande
crescita
dopo
la
nascita
dell’impero
del
1871,
in
cui
fiorì
la
famiglia
di
agiati
e
colti
ebrei
Benjamin;
fino
agli
anni
Sessanta
del
Novecento
quando,
mentre
i
caporioni
ex
nazisti
completava
le
loro
carriere
indisturbati
ad
Ovest,
l’ultima
dei
Benjamin
si
guadagnava
l’epiteto
di
«Ghigliottin
rossa»
per
il
suo
lavoro
di
giudice
ad
Est,
contro
i
criminali
di
guerra.
Una
ricostruzion
dal
respiro
del
Ventesimo
secolo
europeo,
quella
condotta
dallo
storico
e
giornalista
Heye
che
riesce
a
coniugare
con
passione
l’empatia
esistenziale
di
una
storia
privata
degli
affetti,
con
l’interesse
documentar
della
grande
storia.
UweKarsten
Heye
(1940),
giornalista,
è
stato
autore
di
discorsi
per
Willy
Brandt,
portavoce
del
governo
di
Gerhard
Schroeder
e
autore
di
testi
per
le
reti
televisive
ARD
e
ZDF.
La
nuova
diagonale
111
Uwe-Karsten
Heye
I
Benjamin
Una
famiglia
tedesca
Traduzione
di
Margherita
Carbonaro
Sellerio
editore
Palermo
2014©AufbauVerlag
GmbH&Co.,Berlin
2015©Sellerioeditore
viaSiracusa50Palermo
e-mail:
[email protected]
www.sellerio.it
Titolo
originale:
Die
Benjamin.Einedeutsche
Familie
Quest’opera
è
protetta
dalla
Legge
sul
diritto
d’autore.
È
vietata
ogni
duplicazione,
anche
parziale,
non
autorizzata.
EAN
978-88-389-3416-2
I
Benjamin
Una
famiglia
tedesca
Prefazione
I
fratelli
Walter
e
Georg
con
la
sorella
Dora:
eccoli,
sono
loro
i
Benjamin,
figli
di
una
famiglia
ebrea
altoborghese.
I
genitori,
Emil
e
Pauline
Benjamin,
non
assistettero
alla
fine
del
loro
mondo
dopo
il
1933.
Morirono
negli
anni
Venti.
I
fratelli
e
la
sorella
si
opposero
coraggiosamente
al
terrore
nazista
e
pagarono
con
le
loro
vite.
Nei
documenti
e
nelle
numerose
lettere
conservate
e
ordinate
dalla
moglie
di
Georg,
Hilde
Benjamin,
e,
dopo
la
sua
morte,
dal
figlio
Michael
si
può
leggere
e
ripercorrere
la
loro
resistenza
contro
il
nazionalsocialismo,
di
cui
riconobbero
presto
il
carattere
omicida.
Hilde
Benjamin
e
il
figlio
Michael
erano
gli
unici
sopravvissuti
della
famiglia
in
Germania
quando
l’Armata
rossa
entrò
a
Berlino
e
i
bombardamenti
terminarono.
La
vittoria
degli
alleati
sullo
stato
nazista
rappresentò
per
Michael
la
salvezza.
Dai
nazisti
era
considerato
un
«meticcio
di
primo
grado».
Suo
padre
Georg
era
ebreo,
medico
e
comunista.
Il
fratello
di
Georg,
Walter,
era
scrittore,
critico
letterario
e
filosofo.
Dora
si
era
segnalata
con
i
suoi
saggi
di
critica
sociale.
L’anno
in
cui
nacque
Walter
Benjamin
era
il
1892,
quello
in
cui
morì
sua
cognata
Hilde
il
1989.
Un
secolo
tedesco
attraversato
da
una
scia
di
sangue
che
ebbe
inizio
con
le
conquiste
coloniali
in
Africa
del
casato
Hohenzollern,
prima
del
1914,
e
terminò
con
le
morti
di
massa
nelle
due
guerre
mondiali.
In
entrambe
le
guerre
c’è
una
responsabilità
innegabile
dei
tedeschi,
la
quale
si
riflette
nei
destini
dei
fratelli
Benjamin
e
li
segna.
Dopo
il
1945,
la
fragile
pace
fredda.
La
divisione
del
mondo
in
Est
e
Ovest
e
la
scissione
dell’Europa.
Comincia
una
guerra
delle
parole
anziché
delle
armi,
ma
ugualmente
in
grado
di
distruggere
le
persone.
Hilde
Benjamin
ne
fu
colpita.
In
Germania
Occidentale
gli
alti
esponenti
del
potere
amministrativo
e
politico,
rimasti
nelle
loro
cariche,
mantennero
il
medesimo
atteggiamento
antibolscevico
che
in
precedenza
era
stato
coltivato
per
dodici
anni.
La
guerra
fredda
e
l’assorbimento
dell’Europa
orientale
nella
sfera
di
potere
sovietica
crearono
un
clima
che
agevolò
la
rimozione
dello
stato
hitleriano,
fondato
sul
terrore,
e
della
propria
corresponsabilità.
Nel
tumulto
della
propaganda
fra
Est
e
Ovest
la
Repubblica
Democratica
Tedesca
divenne
il
baluardo
di
ogni
male
che
doveva
far
dimenticare
le
azioni
criminose
dei
nazisti,
e
che
in
ogni
caso
le
faceva
arretrare
in
seconda
posizione.
Ogni
criminale
nazista
condannato
diventava
automaticamente
vittima
dello
«stato
d’ingiustizia»
della
DDR
e
di
Hilde
Benjamin,
che
quale
vicepresidente
della
Corte
suprema
e,
dopo
il
1953,
ministro
della
Giustizia
della
Germania
Est
era
responsabile
della
persecuzione
penale
dei
criminali
nazisti.
Dopo
la
proibizione
del
Partito
comunista
tedesco
in
Occidente,
nessuno
scalpore
suscitarono
invece
le
diverse
migliaia
di
processi
contro
i
suoi
membri
e
funzionari.
Nuovamente
si
perseguivano
i
reati
d’opinione.
Negli
anni
del
dopoguerra,
in
Occidente,
ciò
che
si
collocava
a
sinistra
del
centro
era
investito
rapidamente
dal
sospetto
politico
generale.
Le
classi
dirigenti
vecchie/nuove
provvedevano
alla
continuità.
Il
fatto
che
in
Germania
Occidentale
i
responsabili
del
nazismo
potessero
continuare
a
operare
indisturbati
nelle
istituzioni
e
nelle
amministrazioni,
nella
giustizia
e
nell’economia
non
restò
senza
conseguenze.
Quanto
alla
composizione
del
personale,
la
Polizia
federale
tedesca
(Bundeskriminalamt,
BKA)
per
esempio,
creata
all’inizio
degli
anni
Cinquanta,
non
si
distingueva
quasi
dall’Ufficio
centrale
per
la
sicurezza
del
Reich
(Reichssicherheitshauptam
la
centrale
del
terrore
attiva
nello
stato
nazista.
Uno
studio
in
tre
volumi
pubblicato
di
recente,
commissionato
dallo
stesso
Bundeskriminalamt,
dimostra
che
ancora
nel
1959
la
metà
dei
funzionari
con
mansioni
direttive
era
costituita
da
ex
membri
delle
SS
o
di
unità
speciali
della
polizia,
i
quali
erano
stati
coinvolti
in
uccisioni
di
massa
oltre
le
linee
del
fronte
in
Russia.
Conseguentemente
«infruttuose»
risultavano
le
indagini
della
polizia
ogni
volta
che
bisognava
chiarire
episodi
neonazisti
o
legati
all’estremismo
di
destra.
Somiglianze
sorprendenti
con
gli
«intralci»
verificatisi
nel
corso
delle
indagini
su
una
serie
di
omicidi
compiuti
da
gruppi
clandestini
nazionalsocialisti
ai
nostri
giorni,
e
segno
a
loro
volta
di
una
cecità
della
giustizia
che
perdura
ancora
oggi.
Fino
agli
anni
Sessanta
del
secolo
scorso
la
Repubblica
Federale
Tedesca
sembrava
talvolta
il
teatro,
immerso
nell’atmosfera
da
idillio
agreste
di
uno
Heimatfilm,1
di
un
ritorno
del
nazismo,
solamente
privo
di
Hitler
e
Goebbels.
La
revisione
in
sede
giuridica
del
nazionalsocialismo
cominciò
a
Norimberga.
In
tredici
processi
davanti
al
tribunale
degli
accusatori
alleati
furono
giudicati
elementi
del
partito,
dell’economia
e
dell’esercito,
responsabili
delle
montagne
di
cadaveri
nei
campi
di
sterminio
e
delle
guerre
di
rapina
da
loro
scatenate.
La
denazificazione
dei
colpevoli
e
dei
fiancheggiatori,
avviata
dalle
potenze
vincitrici
occidentali
ed
estremamente
impopolare,
fu
affidata
ben
presto
ad
appositi
tribunali
tedeschi.
In
definitiva
era
ormai
solo
una
farsa
e
nel
giro
di
poco
tempo
fu
sospesa
del
tutto.
Il
parlamento
approvò
una
serie
di
leggi
che
equivalevano
a
un’amnistia
concessa
alle
sfere
direttive
naziste,
leggi
che
in
ogni
caso
permisero
loro
di
continuare
a
ricoprire
le
cariche
occupate.
Ciò
spiega
fra
l’altro
perché
nelle
redazioni
della
BRD,
infiltrate
di
ex
nazisti,
a
differenza
che
nella
DDR
vi
fosse
poco
o
nessun
interesse
a
confrontarsi
con
il
passato
nazista.
Questo
virus
non
doveva
comunque
essere
trasmesso.
Hilde
Benjamin,
che
offriva
senz’altro
spunto
alla
critica,
fu
un
obiettivo
prediletto
di
campagne
legate
a
loro
volta
all’intenzione
di
dipingere
a
tinte
talmente
fosche
il
regime
del
Partito
socialista
unitario
tedesco
(Sozialistische
Einheitspartei
Deutschlands,
SED)
che
l’orrore
nello
stato
delle
SS
sembrava
impallidire.
Una
visione
così
tendenziosa
e
incurante
della
storia
che
ancora
oggi
è
possibile
cogliere.
Solo
nel
1972,
nel
primo
discorso
pronunciato
dal
cancelliere
Willy
Brandt
sullo
stato
della
nazione,
fu
ammessa
la
differenza
fra
i
due
stati
tedeschi
nel
loro
confrontarsi
col
nazionalsocialismo.
Nei
materiali
che
successivamente
furono
pubblicati
dal
Ministero
federale
delle
relazioni
intratedesche
si
può
leggere
come
la
Repubblica
Democratica
Tedesca
avesse
proceduto
con
serietà
alla
rimozione
dei
quadri
direttivi
nazisti
nella
giustizia
e
nell’economia,
nelle
università
e
nei
mezzi
di
informazione.
E
di
conseguenza
crescente
era
il
numero
degli
ex
nazisti
fra
i
profughi
dalla
DDR,
che
nella
Repubblica
Federale
non
dovevano
temere
alcuna
persecuzione.
Dopo
quello
strappo
senza
precedenti
dalla
civiltà,
attuato
dal
governo
di
Hitler,
Adenauer
non
giudicava
prioritario
procedere
a
un’autoepurazione,
cosa
che
ancora
oggi
pregiudica
l’igiene
politica
nel
paese.
Gli
incartamenti
riguardanti
criminali
nazisti
come
Klaus
Barbie
o
Adolf
Eichmann,
i
quali
riuscirono
a
scappare
all’estero,
continuano
a
essere
segreti.
Ciò
evidentemente
vuol
dire
che
non
possono
essere
divulgati
nell’interesse
pubblico
della
Repubblica
Federale
Tedesca,
e
ciò
a
sua
volta
impedisce
che
l’opinione
pubblica
apprenda
qualcosa
di
più
preciso
sul
ruolo
qui
giocato
dal
Servizio
federale
di
informazione
(Bundesnachrichtendiens
nella
sua
sede
di
Pullach,
in
Baviera.
Dopo
la
morte
di
Hilde
Benjamin
nella
primavera
del
1989,
suo
figlio
Michael
con
la
moglie
Ursula
e
i
figli
adulti
si
ritrovarono
nel
1990
nella
Germania
riunificata,
dove
i
nipoti
appena
nati
crebbero.
Per
questi
ultimi
la
DDR
era
già
materia
di
storia.
Tuttavia
è
ancora
difficile
voltarsi
indietro
a
osservare
senza
pregiudizi
e
in
maniera
storicamente
adeguata
la
divisione
della
Germania,
la
BRD
e
la
DDR,
e
il
ruolo
e
la
funzione
che
la
guerra
fredda
assegnò
ai
due
stati.
La
psicoterapeuta
berlinese
Anette
Simon
li
descrisse
come
due
«gemelli
tedeschi,
figli
di
madre
Germania
e
di
padre
Fascismo».
Ormai
riunificati,
il
materiale
genetico
di
padre
Fascismo
torna
ad
affiorare.
Di
nuovo
toni
nazionalistici
e
inclinazioni
all’estremismo
di
destra.
Tutto
questo
ha
una
tradizione
e
non
è
mai
stato
salutare
per
i
tedeschi.
La
tendenza
a
dividere
ancora
in
Est
e
Ovest
il
paese
riunificato
e
a
puntare
il
dito
nell’altra
direzione,
sentendo
solo
là
puzza
di
bruciato,
ha
contribuito
a
sostituire
la
divisione
esterna
con
quella
interna
nella
Germania
unita.
Anche
perciò
è
stato
scritto
questo
libro.
I
Benjamin
con
la
loro
vita
e
le
loro
sofferenze
ci
ricordano
che
nei
libri
di
storia
tedesca
dopo
il
1871,
l’anno
di
fondazione
del
Secondo
Reich,
non
sono
stati
molti
i
momenti
in
cui
la
Germania
ha
risvegliato
buoni
sentimenti.
Uno
di
questi
fu
la
rivoluzione
pacifica
del
1989.
Fu
la
gente
che
allora
prese
in
mano
il
proprio
destino,
conquistando
la
strada.
Il
fatto
che
ciò
sia
stato
possibile
senza
spargimento
di
sangue
e
abbia
avuto
tuttavia
una
forza
rivoluzionaria
è
stato
un
dono
di
cui
dobbiamo
ringraziare
soprattutto,
se
non
in
maniera
esclusiva,
i
cittadini
della
DDR.
Ciò
che
i
molti
gruppi
di
opposizione
si
auguravano
allora
e
che
volevano
portare
nella
Germania
comune
restò
in
gran
parte
inascoltato.
E
in
parte
reca
anzi
il
timbro:
«Domanda
da
ripresentare».
Potsdam,primavera2014
1
Genere
cinematografico
estremamente
popolare
in
Germania
soprattutto
negli
anni
Cinquanta
e
Sessanta.
Le
trame
molto
spesso
sentimentali
si
dipanano
su
sfondi
bucolici.
È
il
mondo
intatto
e
puro
della
Heimat:
terra
natia
e
delle
origini,
casa,
luogo
sorgivo
della
propria
identità
[N.d.T.].
Capitolo
primo
Infanzia
intorno
al
millenovecento.
Un
prologo
Ed
eccoli,
Georg
e
il
fratello
maggiore
Walter,
e
la
sorellina
Dora
seduta
su
una
soffice
pelliccia.
Quattro
cuginette
guardano
nella
macchina
fotografica
insieme
a
loro.
Devono
aver
aspettato
a
lungo,
tutti
concentrati,
che
l’artista
Lili
Strauss
avesse
finalmente
catturato
nella
cassetta
la
foto
scattata
col
flash
al
magnesio.
Georg
Benjamin
sta
a
sinistra,
la
mano
destra
posata
sul
bracciolo
curvo
di
una
sedia
Chippendale,
molto
più
vecchia
dell’età
che
si
otterrebbe
contando
insieme
gli
anni
di
vita
dei
bambini.
Questi
hanno
da
uno
a
undici
anni.
Sulla
sedia,
come
due
bamboline,
ci
sono
le
cugine
più
piccole,
a
destra
accanto
a
Walter
le
due
più
grandi,
e
davanti
a
tutti
Dora.
Una
foto
del
1906.
Una
rappresentazione
di
contentezza
borghese.
Gli
abitini
bianchi,
le
gonnelline
drappeggiate
con
amore
e
leggermente
sollevate
imprimono
uno
slancio
all’immagine:
moda
per
bambini
nell’anno
1906,
in
chintz
e
con
guarnizioni
finemente
lavorate
al
tombolo.
Le
bambine
più
piccole
portano
fiocchetti
e
scarpe
di
vernice,
le
più
grandi
indossano
vestiti
di
tessuto
a
pied-de-poule
con
i
colletti
ampi
e
chiusi,
che
spiccano
bianchi.
Gertrud
ha
un
anno
più
di
Georg,
che
è
nato
il
10
settembre
1895,
tre
anni
dopo
Walter.
I
bambini
portano
vestiti
alla
marinara.
Due
famiglie
ebree:
una
è
quella
dei
Chodziesner,
in
cui
la
sorella
di
Pauline
Benjamin,
nata
Schönflies,
era
entrata
al
momento
di
sposarsi.
Negli
anni
Venti
la
cugina
Gertrud
Chodziesner
scrive
poesie
con
lo
pseudonimo
Gertrud
Kolmar.
I
suoi
volumi
di
liriche
bruciano
nel
1933
sui
roghi
nazisti.
I
piccoli
Benjamin
sono
Walter,
Georg
e
Dora.
Una
schiera
di
bambini
nell’album
ingiallito
di
un’epoca
che
già
otto
anni
dopo
sarebbe
sfociata
nella
prima
grande
guerra
mondiale.
Guerra
e
dopoguerra
segneranno
in
maniera
decisiva
la
vita
dei
bambini.
In
questo
momento
regna
ancora
l’ottimismo
dei
«Gründerjahre»,
l’epoca
del
grande
sviluppo
economico
tedesco
dopo
il
1871.
I
progressi
dell’industrializzazione
e
i
primi
tentativi
di
navigazione
aerea
stanno
sulle
prime
pagine
dei
giornali.
Non
sappiamo
se
nel
maggio
1906
anche
i
piccoli
Benjamin,
come
migliaia
di
altre
famiglie
berlinesi,
fossero
andati
a
Tegel.
Là
avrebbero
visto
salire
in
aria
il
primo
dirigibile
«semirigido»
e
provato
l’intensa
sensazione
di
assistere
al
sorgere
di
una
nuova
era.
Quello
stesso
anno
ebbe
luogo
per
la
prima
volta
una
gara
ciclistica
tutt’intorno
a
Berlino.
E
soltanto
una
supposizione
è
l’eventualità
che
il
padre,
Emil
Benjamin,
avesse
letto
nella
«Vossische
Zeitung»
qualche
notizia
sul
congresso
del
Partito
socialdemocratico
a
Mannheim,
sempre
che
i
giornali
borghesi
ne
avessero
parlato.
Nel
1906
era
in
gioco
niente
meno
che
la
separazione
di
partito
e
sindacati,
contro
cui
si
era
fortemente
opposta
l’ala
sinistra
del
partito
con
Rosa
Luxemburg
e
Karl
Kautsky.
Fu
approvata
tuttavia
a
grande
maggioranza.
Così
si
legge
nella
risoluzione:
«I
sindacati
sono
indispensabili
e
costituiscono
un’organizzazione
necessaria
al
miglioramento
della
condizione
della
classe
operaia
nella
società
borghese;
non
sono
meno
necessari
del
partito
socialdemocratico».
Quali
che
fossero
le
opinioni
politiche
di
Emil
Benjamin,
il
suo
interesse
per
la
cultura
in
ogni
caso
è
certo.
Lui
e
Pauline
avranno
visitato
sia
la
Nationalgalerie
sia
il
Neues
Museum
per
ammirare
l’esposizione
«Un
secolo
di
arte
tedesca
dal
1775
al
1875»,
che
venne
realizzata
nel
1906
con
più
di
duemila
quadri
e
trecento
disegni,
attirando
la
borghesia
colta
berlinese.
Nel
1906
inizia
inoltre
la
sua
carriera
la
cantante
di
cabaret
Claire
Waldoff,
originaria
della
Ruhr
ma
adottata
dai
berlinesi,
le
cui
canzoni
hanno
ancora
oggi
un
loro
pubblico.
Proprio
quell’anno
fu
scattata
la
fotografia
con
i
bambini
delle
due
famiglie
ebree,
altoborghesi
e
assimilate,
che
dovrebbe
mostrare
un
armonico
coesistere
e
non
irradia
invece
nulla
più
che
una
prossimità.
Nella
sua
Infanziaberlineseintorno
al millenovecento,
il
cui
manoscritto
l’autore
continuò
a
rielaborare
fino
all’epoca
in
cui
era
emigrato
a
Parigi,
tanto
che
ne
esistono
edizioni
diverse
e
non
sempre
coincidenti,
Walter
Benjamin
descrive
proprio
l’opposto
di
ciò
che
questa
fotografia
e
la
sua
composizione
studiata
volevano
mostrare.
In
brevi
capitoli,
nell’edizione
che
ho
sottomano,
Benjamin
ordina
la
sua
infanzia
in
una
lingua
sempre
più
densa
e
libera
da
ogni
leggenda,
senza
quei
racconti
di
scherzi
fatti
in
comune
o
di
avventure
con
gli
amici
o
in
compagnia
del
fratello
e
della
sorella
che
facilmente
accompagnano
invece
i
ricordi
d’infanzia.
Il
fratello
e
la
sorella,
le
cugine,
i
genitori
e
i
nonni
«fanno
tutti
il
loro
ingresso
in
scena
nel
libro,
ma
solo
come
servitori
ombra
delle
cose,
mai
come
esseri
umani»,
osservò
un
critico
inglese
a
proposito
dell’Infanzia
berlinese
intorno
al
millenovecento
di
Benjamin.
Lontanissima
aleggiava,
simile
a
una
fata,
la
figura
della
madre
durante
i
primi
anni
del
bambino.
Il
quale
vede
in
lei
una
bellezza
che
persino
retrospettivamente
gli
mozza
il
respiro.
Anche
quando
si
limita
a
descrivere
i
genitori
che,
invitati
a
una
serata,
devono
uscire
di
casa
lascia
capire
quanto
li
ammirasse.
«Ed
erano
sempre
queste
ore
a
confortarmi»
scrive
«anche
nelle
sere
in
cui
stava
per
uscire,
sfiorandomi
sotto
forma
dei
neri
ricami
del
foulard
che
già
aveva
indossato.
[...]
Quando
poi
da
fuori
la
chiamava
mio
padre,
nel
momento
del
distacco
sentivo
solo
l’orgoglio
di
lasciarla
andare
così
splendente
in
società.
E
pur
senza
conoscerlo,
poco
prima
di
prendere
sonno,
nel
mio
letto
avvertivo
la
verità
di
un
piccolo
enigma:
“Ospite
in
ritardo,
ospite
di
riguardo”».
Nei
ricordi
d’infanzia
di
Walter,
Emil
Benjamin
è
il
padre
lontano
e
spesso
assente.
La
sua
ricchezza
viene
da
un
fiorente
commercio
di
oggetti
antichi.
Più
volte
Emil
Benjamin
va
a
Parigi
per
acquistare
là,
con
la
sua
competenza
di
esperto,
tappeti
e
mobili
e
offrirli
sul
mercato
berlinese
dell’antiquariato.
Forse
è
questo
ad
avere
risvegliato
in
Walter
la
curiosità
per
la
lontana
metropoli,
che
in
seguito
divenne
la
sua
città
preferita.
Nei
ricordi
di
questi
anni,
condensati
in
brevissimi
capitoli
che
vanno
dal
1892,
l’anno
della
sua
nascita,
al
1912-13
circa,
appare
chiaro
anche
quanto
fosse
stato
circondato
dagli
attributi
del
benessere.
Per
il
piccolo
Walter
agio
e
lusso
sono
qualcosa
di
ovvio,
tanto
da
non
farci
neppure
caso.
Al
lettore
tuttavia
balzano
subito
all’occhio
quando
egli
descrive
i
preparativi
per
una
serata
in
casa
Benjamin
con
invito
a
cena:
«Era
avvenuto
con
la
manovra
grazie
alla
quale
il
tavolo
da
pranzo
si
apriva,
facendo
comparire
un’asse
che,
dispiegata,
colmava
il
vuoto
tra
le
due
metà
sì
da
far
posto
a
tutti
gli
ospiti».
Walter
aiutava
ad
apparecchiare
con
«pinze
da
aragosta
o
coltelli
da
ostrica».
Racconta
di
verdi
calici
per
il
vino
bianco,
di
altri
bicchieri
per
il
Porto,
dallo
stelo
basso
e
finemente
molati,
di
filigranate
coppe
da
champagne
e
saliere
in
forma
di
piccole
botti
d’argento,
e
dei
tappi
sulle
bottiglie
in
forma
«di
pesanti
gnomi
o
animali
di
metallo.
E
infine,
ecco
che
potevo
collocare
sopra
uno
dei
tanti
bicchieri
di
ogni
coperto
il
cartoncino
che
indicava
all’ospite
il
posto
che
gli
spettava».
Ma
più
la
sera
si
avvicinava
e
la
tavola
doveva
tenere
fede
al
proprio
splendore,
che
soltanto
agli
ospiti
era
dato
di
godere,
«più
si
velava
quel
tanto
di
luminoso,
di
radioso
che
essa
mi
aveva
promesso
verso
mezzogiorno.
E
quando
poi
mia
madre,
malgrado
rimanesse
in
casa,
entrava
solo
di
sfuggita
per
darmi
la
buona
notte,
avvertivo
con
doppia
intensità
quale
regalo
le
altre
volte
mi
deponesse
sulla
coperta
a
quell’ora:
la
consapevolezza
delle
ore
che
la
giornata
ancora
le
riservava
e
che
io,
consolato,
portavo
con
me
nel
sonno
come
un
tempo
il
bambolotto».
E
tuttavia,
nei
ricordi
d’infanzia
di
Walter
Benjamin,
nemmeno
la
madre
prende
forma.
Aveva
la
sensazione
di
essere
quasi
un
figlio
unico?
Spesso
malaticcio
com’era?
Una
volta
dovette
restare
lontano
da
scuola
per
più
di
un
trimestre.
Già
da
bambino
era
molto
miope.
In
seguito
il
collegio
lo
separò
dal
fratello
e
dalla
sorella.
E
c’era
poi
la
differenza
di
età:
tre
anni
rispetto
al
fratello
e
nove
rispetto
alla
sorella.
Con
la
pubertà,
che
all’epoca
cominciava
più
tardi
di
oggi,
essi
dovevano
apparire
a
lui,
ragazzino
solitario,
troppo
infantili
per
essere
menzionati
quali
confidenti
o
compagni
di
conversazione.
Succedeva
evidentemente
di
rado
che
i
tre
bambini
fossero
insieme
ai
genitori.
Li
sostituiva
la
bambinaia,
in
seguito
la
governante.
Non
stupisce
che
Walter
avvertisse
come
un
raro
dono
la
vicinanza
della
madre
a
letto,
alla
sera,
una
rapida
carezza
sui
capelli
o
un
bacio
veloce
sulla
guancia.
Ne
godeva
come
di
un
riconoscimento,
cui
si
legava
un
desiderio
inappagato
di
tenerezza
e
attenzione.
Il
ragazzino
che
viene
descritto
come
molto
introverso
rinveniva
una
vita
fantastica
soprattutto
nel
mondo
delle
cose
intorno
a
sé,
dove
la
madre
appare
talvolta
con
contorni
indistinti.
Un
amico
lo
descrive
«strano,
solitario,
un
bambino
estremamente
egocentrico».
La
sua
profondità
era
spesso
quella
di
un
«pozzo
angusto
e
oscuro,
che
non
comunicava
con
il
mondo
circostante».
La
sua
fantasia
continua
a
rivolgersi
alle
cose
che
gli
riservano
la
sua
stanza
o
l’appartamento
dei
genitori
e
che
lui
risveglia
a
vita
propria.
In
Infanzia berlinese
intornoalmillenovecento,
nel
capitolo
«Mattini
d’inverno»,
Benjamin
racconta
un
piccolo
avvenimento:
una
bambinaia
accende
la
stufa
nella
sua
stanza
e
vi
infila
una
mela
al
forno
attraverso
lo
sportello
in
alto.
A
partire
da
qui
Benjamin
crea
un
mondo
incantato,
rischiarato
dalla
fiamma
della
stufa
che
«non
poteva
quasi
muoversi»
a
causa
del
carbone.
Eppure
era
«qualcosa
di
impetuoso
ciò
che
lì
vicino
iniziava
a
trovare
una
propria
sistemazione,
qualcosa
che
era
più
piccolo
di
me
e
per
raggiungere
il
quale
la
domestica
doveva
chinarsi
più
che
per
avvicinarsi
a
me».
Descrive
un
«viaggio
attraverso
il
paese
oscuro
del
calore
nella
stufa»
e
«lo
spumoso
profumo
della
mela
al
forno,
che
emanava
da
una
cellula
della
giornata
invernale
più
profonda
e
discreta
persino
di
quella
da
cui
proveniva
il
profumo
dell’albero
nella
notte
di
Natale».
Può
essere
il
fatto
di
aver
terminato
il
manoscritto
solo
quando
era
emigrato
a
Parigi,
nella
fase
della
sua
breve
vita
in
cui
si
sentiva
immensamente
perduto
e
in
ristrettezze
materiali,
a
far
sì
che
nel
libro
i
genitori,
come
il
fratello
e
la
sorella,
non
gli
vengano
in
mente.
In
maniera
subliminale
ciò
può
aver
contribuito
al
suo
aggrapparsi
a
immagini
dell’infanzia
in
cui
latte
e
miele
scorrevano
a
fiumi,
dove
regnava
una
sicurezza
materiale
priva
di
pensieri.
È
la
vita
nel
ricco
Westen
di
Berlino,
la
parte
occidentale
della
città:
«In
questo
quartiere
di
persone
abbienti
restai
rinchiuso,
senza
sospettare
la
presenza
di
altri.
I
poveri
–
per
i
bambini
ricchi
della
mia
età
esistevano
solo
come
mendicanti».
Questi,
osservava
il
suo
biografo
Werner
Fuld,
esistevano
per
lui
tutt’al
più
nel
periodo
prima
di
Natale,
quando
agli
artigiani
e
ai
lavoranti
a
domicilio
era
permesso
di
esporre
ai
mercatini
nei
quartieri
delle
ville
i
giocattoli
da
loro
costruiti,
gli
angioletti
dorati
e
le
noci
bronzate.
Il
bambino
avrebbe
potuto
«intuire
oscuramente
che
c’era
un
altro
mondo
oltre
a
quello
della
sua
classe».
Qui
la
realtà
e
le
esperienze
dei
fratelli
e
della
sorella
cominciano
a
diversificarsi.
Walter
conobbe
ancora
il
mondo
intatto
della
grande
borghesia
ebrea
berlinese,
che
con
i
salotti
del
diciottesimo
secolo
e
la
rapida
industrializzazione
nel
diciannovesimo
secolo
aveva
condotto
a
una
società
con
possibilità
di
avanzamento,
il
cui
liberalismo
e
la
cui
impronta
intellettuale
recavano
anche
un
influsso
ebreo.
Georg
e
Dora
non
ebbero
più
modo
di
avvertire
tutto
questo.
Una
società
berlinese
«mossa
da
una
creatività
nel
campo
culturale,
oltre
che
da
una
dinamica
e
brutale
sete
di
guadagno»,
come
si
legge
in
Die Berliner
Gesellschaft
(La
società
berlinese)
di
Klaus
Siebenhaar,
«che
nell’insieme
produssero
un’arte
di
vivere
che
a
poco
a
poco
abbandonò
ogni
angustia
e
provincialismo,
tanto
che
Theodor
Fontane
poté
constatare
rassicurato:
“[...]
lo
sguardo
si
è
ampliato
e
sovrasta
il
mondo”».
L’ingannevole
sicurezza
degli
ebrei
berlinesi,
le
loro
speranze,
i
loro
sentimenti
e
pensieri
ancora
«nel
segno
della
fine
e
della
distruzione
fisica»,
sono
evocati
da
Lion
Feuchtwanger
nel
suo
romanzo
Die
GeschwisterOppermann
(I
fratelli
Oppermann).
I
fratelli
Martin,
Edgar
e
Gustav
rappresentano
il
cosmopolitismo,
la
cultura,
una
vivacità
intellettuale
e,
così
li
vede
Siebenhaar,
sono
figure
guida
di
questo
centro
della
modernizzazione
economica
e
culturale
che
è
Berlino.
Il
romanzo
di
Feuchtwanger,
scritto
nell’esilio
americano
di
Villa
Aurora,
ricorda
lo
«splendore
e
lo
spirito»
della
grande
borghesia
ebraica
che
influenzò
tanto
profondamente
la
società
berlinese.
La
tragedia
di
questa
élite
fu
l’incapacità,
proprio
nella
coscienza
del
profondo
radicamento
culturale
nella
sua
Germania,
di
riconoscere
per
tempo
il
pericolo
di
ciò
che
avvenne
dopo
il
1933.
A
differenza
di
Georg
Benjamin
e
soprattutto
di
Dora,
che
durante
e
dopo
la
Prima
guerra
mondiale
si
sarebbero
volti
alla
politica,
Walter
impiegò
più
tempo
a
manifestare
la
sua
posizione.
Da
soldato
Georg
aveva
abbandonato
l’idea
che
ci
fosse
una
classe
superiore
alla
quale
apparteneva
quasi
per
diritto
di
nascita.
Walter
invece,
che
non
ebbe
grandi
difficoltà
a
farsi
riformare
alla
visita
di
leva,
anche
dopo
la
guerra
trascorre
i
suoi
anni
di
studio
in
diverse
università,
da
Berlino
a
Monaco
e
poi
a
Friburgo
e
a
Berna.
Un
precoce
leader
studentesco,
che
si
mantiene
fedele
a
una
Jugendbewegung
(Movimento
giovanile)
idealistica
e
apolitica.
Un
atteggiamento
che
voleva
trasmettere
alla
gioventù
universitaria.
L’origine
di
queste
idee
è
legata
al
passaggio
dal
Kaiser-FriedrichGymnasium
di
Berlino
al
collegio
di
Haubinda
in
Turingia.
Là
Walter
conosce
il
pensiero
pedagogico
di
Gustav
Wyneken,
che
lo
guiderà
per
più
di
un
decennio.
E,
come
ha
constatato
il
suo
biografo
Werner
Fuld,
«si
avvicinò
all’ideale
di
una
gioventù
volitiva,
diventando
un
protagonista
del
movimento
della
“Gioventù
risoluta”
(Entschiedene
Jugend)».
Fino
alla
rottura
con
Wyneken,
Walter
condivise
un
pensiero
il
cui
vocabolario
stesso
era
carico
di
pathos
e
che
in
seguito
sarebbe
stato
terribilmente
abusato.
Wyneken
veniva
chiamato
«Führer»
e
Martin
Gumpert,
cofondatore
della
rivista
«Der
Anfang»
(L’inizio),
organo
della
Jugendbewegung,
riferendosi
ai
primi
articoli
ivi
apparsi
sul
«Führer»
e
i
«seguaci»
parlò
di
una
«corresponsabilità
mistica
rispetto
al
nazionalsocialismo».
In
seguito
anche
Wyneken
esternerà
il
proprio
sgomento
di
fronte
agli
esiti
del
suo
stesso
pathos,
espresso
in
formule
che
invocavano
l’«impegno
per
la
causa,
la
cessazione
del
singolo,
una
nuova
fede».
«Con
questo
grido»
lo
cita
Fuld
«i
miei
amici
sono
andati
volontari
in
guerra
e
con
questo
grido
sulle
labbra
sono
morti.
La
sua
eco
è
rimasta
nell’aria
e,
predata
e
travisata
dal
falso
Messia,
risuona
oggi
nelle
orecchie
di
una
gioventù
nuova
che
barcolla
incontro
a
una
nuova
miseria».
Walter
Benjamin
aveva
anticipato
il
successivo
giudizio
di
Wyneken,
che
nel
1914
voleva
ancora
infiammare
la
gioventù
alla
guerra,
e
proprio
per
questo
motivo
ruppe
con
lui.
A
differenza
di
Georg,
Walter
faceva
parte
«di
quei
giovani
tra
cui
Hitler
avrebbe
reclutato
in
seguito
i
suoi
seguaci,
e
aveva
già
contribuito
a
creare
il
loro
vocabolario»
conclude
il
suo
biografo.
Solo
aver
preso
le
distanze
da
Wyneken
al
momento
giusto
l’avrebbe
salvato
dalle
formule
retoriche,
apologetiche
e
insieme
distruttive,
che
parlavano
di
«gioventù
abusata
nel
suo
idealismo».
Un
riconoscimento
non
da
poco
da
parte
del
meno
che
diciottenne
Walter
Benjamin,
il
cui
interesse
per
la
politica
si
stava
allora
formando
e
che
in
ogni
caso
si
era
già
sottratto
autonomamente
all’incredibile
infatuazione
bellica
di
quegli
anni.
Nel
1914,
all’inizio
della
Prima
guerra
mondiale,
Dora
aveva
tredici
anni
e
visse
gli
anni
del
conflitto
e
il
crollo
dell’impero
tedesco
senza
il
bagaglio
di
esperienze
dei
fratelli.
Non
era
legata
a
un
mondo
di
corte
ormai
scomparso,
per
Walter
ancora
una
realtà
ma
che
già
per
Georg
non
significava
quasi
più
nulla.
Da
soldato
Georg
visse
la
follia
della
guerra
di
posizione
e
dell’impiego
dei
gas.
Nel
1918
tornò
dal
fronte
nella
Berlino
rivoluzionaria
e
in
tumulto,
e
simpatizzò
con
i
consigli
dei
soldati
e
la
rivoluzione
di
novembre
(1918-19),
cominciata
con
la
rivolta
dei
marinai
di
Kiel
e
la
proclamazione
della
repubblica.
Egon
Erwin
Kisch,
il
cosmopolita
praghese,
racconta
nei
suoi
diari
di
guerra
quel
che
Georg
e
la
sua
generazione
dovettero
sopportare
nelle
«tempeste
d’acciaio».
Un’esperienza
che
condusse
entrambi
nel
Partito
comunista.
Giudicavano
che
il
mondo
borghese
capitalista
fosse
arrivato
alla
sua
fine
e
la
Rivoluzione
di
Ottobre
rappresentasse
l’avvisaglia
di
una
società
di
liberi
e
uguali.
Per
Pauline
e
Emil
Benjamin
era
naturale
offrire
ai
figli
la
migliore
educazione
e
istruzione
possibile.
Tutti
e
tre
terminarono
l’università.
Il
commercio
di
antiquariato
e
tappeti
del
padre
prosperava.
Emil
era
socio
di
una
casa
d’aste,
membro
del
consiglio
di
sorveglianza
e
azionista
di
alcune
società
berlinesi,
e
aveva
inoltre
una
partecipazione
nell’«Eispalast»,
il
«Palazzo
del
ghiaccio»
che
in
seguito
fu
ribattezzato
Berliner
Scala.
Walter
vi
accompagnò
una
volta
il
padre,
e
qui
poté
osservare
molti
dei
bizzarri
personaggi
che
si
incontrano
solo
in
una
grande
città.
Fra
questi
c’era
la
prostituta
con
l’abito
aderente
alla
marinara
che,
come
lui
stesso
dichiarò,
avrebbe
guidato
le
sue
fantasie
erotiche
per
molti
anni.
La
sua
immagine
della
donna
è
stata
descritta
molte
volte
come
conservatrice.
Tuttavia
è
più
complessa,
spesso
tinta
di
un’arroganza
maschile
e
poi
nuovamente
caratterizzata
dalla
consapevolezza
della
superiorità
femminile.
Nelle
sua
vita
le
donne
hanno
spesso
un
ruolo
importante.
Durante
la
giovinezza
Benjamin
vive
la
propria
sessualità
sul
mercato
dell’amore,
cosa
che
non
nasconde,
e
solo
a
poco
a
poco
comprende
quale
sfruttamento
vi
abbia
luogo.
Nel
capitolo
«Tiergarten»
dei
suoi
racconti
di
infanzia
Benjamin
descrive
un
momento
irritante
che
potrebbe
significare
più
di
quanto
fa
apparire
fra
le
righe.
Anche
qui
al
centro
c’è
la
sua
immagine
della
donna.
Uno
sfaccendato
che
si
perde
nella
città:
questa
è
l’immagine
che
fa
da
metafora.
«I
nomi
delle
strade
devono
parlare
all’errabondo
come
lo
scricchiolio
dei
rami
secchi
e
le
viuzze
del
centro
gli
devono
scandire
senza
incertezze,
come
in
montagna
un
avvallamento,
le
ore
del
giorno».
È
un’arte
che
ha
appreso
tardi.
Essa
ha
«esaudito
il
sogno,
le
cui
prime
tracce
furono
i
labirinti
sulle
carte
assorbenti
dei
miei
quaderni».
Poi
gli
viene
in
mente
un’altra
immagine,
un’esperienza
in
un
labirinto,
cui
non
è
mancata
Arianna.
La
via
verso
questo
labirinto
passava
per
il
ponte
Bendler,
«il
cui
dolce
arco
fu
per
me
il
primo
pendio
collinare.
Non
lontano
da
lì
era
la
meta:
Federico
Guglielmo
e
la
regina
Luisa.
Emergevano
dalle
aiuole
su
tondi
piedestalli
e
parevano
ammaliati
dalle
magiche
curve
che
un
corso
d’acqua
disegnava
davanti
a
loro
nella
sabbia».
Accompagnato
dalla
sua
«Fräulein»,
Walter
va
nel
suo
posto
preferito
al
Tiergarten.
Un
posto
che
non
rivelava
affatto
come
là,
a
pochi
passi
appena
dal
corteo
delle
vetture
pubbliche
e
delle
carrozze,
«dormisse
la
parte
più
misteriosa
del
parco.
[...]
In
quel
punto,
infatti,
o
non
lontano,
deve
aver
avuto
la
sua
dimora
quell’Arianna
alla
cui
presenza
per
la
prima
volta
avvertii
ciò
di
cui
solo
più
tardi
appresi
il
nome:
l’amore.
Purtroppo
alla
sua
sorgente
compare
la
“Fräulein”
che
si
posò
su
di
essa
come
algida
ombra».
Questa
esperienza
irritante
è
come
un’allusione
al
fatto
che
il
suo
ideale
femminile
assomiglia
a
Arianna
che,
avvincendolo
al
filo,
lo
riconduce
indietro
quando
si
è
perso,
così
come
l’aveva
guidato
lungo
il
tragitto
verso
la
Luisa
di
pietra,
in
cima
al
suo
piedistallo.
Come
sua
moglie
Dora
Sophie
Pollak
o
il
suo
grande
amore,
Asja
Lacis?
E
anche
sua
madre,
non
stava
per
lui
in
cima
a
un
basamento?
Né
la
madre
né
tantomeno
il
figlio
erano
in
alcun
modo
al
corrente
degli
affari
paterni.
Nel
mondo
patriarcale
intorno
al
1900
questo
era
il
segreto
del
capofamiglia,
il
quale
non
vedeva
perché
mai
avrebbe
dovuto
parlare
del
modo
in
cui
guadagnava
i
mezzi
per
sostentare
la
famiglia.
In
casa,
d’altro
canto,
era
soltanto
la
madre
a
detenere
il
potere
su
tutto
ciò
che
era
nascosto
nei
diversi
armadi
e
comò.
In
svariate
occasioni
Walter
trovò
accesso
a
quel
che
chiamava
il
«tesoro
d’argento»
della
famiglia.
Ne
facevano
parte,
in
servizio
da
trenta,
coltelli
e
forchette,
posate
da
astice,
cucchiai
da
minestra
e
dessert
e
diversi
posacoltelli.
E
poi
tovaglie
e
tovaglioli
di
lino.
In
casa,
alle
pareti,
opere
d’arte
contemporanee
in
pesanti
cornici
e
nel
corridoio
e
in
giardino
copie
di
divinità
greche,
e
sicuramente
anche
pezzi
originali
che
Emil
aveva
acquistato
sul
fiorente
mercato
dell’arte
greca
o
egizia
non
solo
a
Parigi,
ma
anche
a
Berlino.
Non
c’era
infatti
soltanto
Nefertiti,
che
James
Simon
poté
introdurre
in
Germania
del
tutto
legalmente
dopo
che
fu
portata
alla
luce,
con
l’inarrivabile
splendore
delle
sue
proporzioni,
durante
una
campagna
di
scavi
da
lui
finanziata
nella
Valle
dei
Re
in
Egitto.
In
seguito
la
donò
generosamente
alla
città
di
Berlino.
Simon
rappresentava
un
genere
di
mecenatismo
tipico
per
la
società
ebrea
nella
capitale
prussiana.
Eccettuata
l’interruzione
dei
quattro
anni
di
guerra,
anche
Georg
Benjamin
risiedette
a
Berlino,
dove
terminò
gli
studi
di
medicina
diventando
pediatra.
Dora
e
Georg
ebbero
perciò
un
rapporto
molto
stretto.
Quando
i
suoi
studi
glielo
permettevano,
Dora
dava
una
mano
nell’ambulatorio
del
fratello.
Le
esperienze
con
i
bambini
in
cura
presso
Georg,
spesso
malnutriti
e
costretti
a
vivere
sulla
strada,
furono
fondamentali
per
la
sua
tesi
di
dottorato
che
esaminava
la
condizione
delle
lavoratrici
a
domicilio
nei
suoi
riflessi
sulla
famiglia
e
l’educazione
dei
figli.
Solo
negli
anni
Venti,
terminati
gli
studi
e
già
professionalmente
attivi,
i
giovani
Benjamin
si
sarebbero
dimostrati
più
volte
pronti
ad
aiutarsi
a
vicenda,
per
esempio
in
occasione
di
una
mostra
curata
sostanzialmente
da
Dora.
Ciò
svela
come
percepissero
il
mondo
circostante
con
un’affinità
di
opinioni
sempre
maggiore
e
uno
scetticismo
crescente
ma,
in
quanto
intellettuali
di
sinistra,
con
simili
speranze
politiche.
Interessi
comuni
si
svilupparono
a
partire
da
questo
atteggiamento
politico,
anche
se
Walter
poté
essere
con
loro
solo
saltuariamente.
Tutto
cambiò
durante
il
periodo
dell’emigrazione
che
Dora
e
Walter
trascorsero
insieme
a
Parigi,
fino
all’invasione
della
Francia
da
parte
della
Wehrmacht.
In
quest’epoca
si
avvicinarono
più
di
quanto
avessero
avuto
modo
di
fare
in
tutti
gli
anni
precedenti.
Nella
sala
di
lettura
del
Walter
Benjamin
Archiv
a
Berlino,
nella
Luisenstraße,
all’ombra
dell’alto
palazzo
della
Charité,
appaiono
sullo
schermo
del
computer
le
lettere
che
Dora
o
Georg
scrissero
a
Walter.
La
ricercatrice
dell’archivio
le
ha
già
preparate
per
il
visitatore.
Un
clic
e
compaiono.
Conducono
all’epoca
dell’emigrazione
a
Parigi
e
testimoniano
un
intenso
affetto
tra
i
fratelli
e
la
sorella.
Questa
mattina
la
sala
di
lettura
con
le
sei
scrivanie
è
tutta
prenotata.
Fotografie
in
grandi
cornici
nel
guardaroba
e
sulle
pareti
suscitano
l’impressione
che
Walter
Benjamin
osservi
alle
loro
spalle
i
visitatori.
E
io
mi
sento
sempre
a
disagio
quando
leggo
posta
inviata
e
ricevuta
quasi
otto
decenni
fa.
Malgrado
tutti
gli
anni
trascorsi
occorre
sempre
vincere
una
certa
riluttanza
per
introdursi,
quale
terzo
lettore,
nell’intimità
di
una
corrispondenza.
Nel
febbraio
1935
Dora
scrive
per
esempio
da
Parigi
al
fratello
Walter,
il
quale
si
trova
in
Danimarca
ospite
dell’amico
Bertolt
Brecht,
raccontandogli
che
la
sua
salute
va
un
po’
meglio
e
lo
mette
al
corrente
sulle
sue
difficoltà
di
trovare
un
lavoro
pagato.
«Da
Berlino»
dice
«ricevo
regolarmente
buone
notizie»,
e
poi
domanda
se
gli
abbia
già
raccontato
in
un’altra
lettera
di
come
dietro
sua
richiesta
un’amica
abbia
«fatto
a
Natale
bellissime
fotografie
di
Georg».
Non
appena
avesse
avuto
in
mano
le
copie
già
ordinate,
gliene
avrebbe
spedita
una.
Prima
dei
saluti
dice
poi
che
a
Parigi
è
«inverno
profondo,
con
venti
gelidi
e
uno
spesso
strato
di
ghiaccio
sulle
strade».
A
Natale
del
1933
Georg
era
stato
rilasciato
inaspettatamente
dalla
«detenzione
protettiva».2
Migliaia
di
comunisti
e
socialdemocratici
erano
stati
arrestati
dopo
l’incendio
del
Reichstag
e
portati
in
campo
di
concentramento.
Georg
rimase
tre
anni
in
libertà,
prima
di
essere
arrestato
nuovamente
nel
1936.
Ora
che
mantenere
i
contatti
è
più
difficile
i
fratelli
e
la
sorella
si
cercano,
sia
pur
solo
per
lettera
o
nei
loro
buoni
pensieri.
E
a
Parigi
Walter
può
aver
raccontato
a
Dora
del
suo
intimo
amico
Gerhard
Scholem,
del
suo
matrimonio
con
Dora
Sophie
Pollak
e
poi
del
fallimento
di
questo,
e
del
suo
grande
amore
per
Asja
Lacis.
Nel
1915,
durante
una
discussione
a
proposito
di
una
conferenza
di
Kurt
Hiller
sul
«Senso
della
storia»,
Walter
conobbe
Gerhard
Scholem.
Fu
un
incontro
fatale.
Poco
tempo
dopo
Walter
lo
invitò
per
una
conversazione
nella
villa
paterna
a
Grunewald.
Fu
l’inizio
di
un’amicizia
e
di
un
dialogo
che
sarebbero
durati
per
tutta
la
vita,
ma
anche
l’inizio
di
un
epistolario
fondamentale
per
comprendere
il
pensiero
di
Benjamin.
Nel
1917
Walter
aveva
sposato
Dora
Sophie
Pollak,
nata
Kellner,
da
cui
aveva
avuto
un
figlio,
Stefan,
nato
nel
1918.
Gli
amici
descrivono
il
matrimonio
come
difficile.
Fu
sciolto
dopo
tredici
anni.
Il
divorzio
assunse
toni
di
un’asprezza
tale
da
allontanare
Walter
e
Dora
per
anni.
Quando
poi
Walter
fuggì
dalla
Germania
ed
emigrò
a
Parigi,
i
due
si
avvicinarono
nuovamente.
Più
di
una
volta,
quando
lui
si
trovò
in
gravi
difficoltà
finanziarie,
Dora
Sophie
gli
offrì
un
alloggio
gratuito
nella
sua
pensione
sulla
Riviera.
Come
coppia
dovettero
superare
insieme
lo
scontro
con
il
padre
Emil,
il
quale
comunicò
al
figlio
che
non
avrebbe
più
potuto
sostenere
finanziariamente
lui
e
la
sua
famiglia.
Per
ridurre
i
costi,
come
si
può
leggere
nelle
lettere
di
Walter,
la
coppia
dovette
trasferirsi
nella
villa
al
Grunewald
e
rinunciare
così
al
proprio
appartamento.
Nello
stesso
tempo
il
padre
insistette
perché
Walter
si
decidesse
a
provvedere
da
sé
al
suo
sostentamento.
Gli
suggerì
di
dedicarsi
al
commercio
librario
o
al
lavoro
editoriale.
Il
motivo
di
ciò
erano
le
sue
pretese
difficoltà
negli
affari,
e
il
tutto
sfociò
in
una
grande
lite.
A
Walter
pareva
inimmaginabile
tornare
in
casa
dei
genitori
e
mettere
sé
e
la
propria
famiglia
sotto
la
tutela
del
padre.
L’atteggiamento
di
Emil
Benjamin
ottenne
che
Walter
si
trasferisse
temporaneamente,
con
la
moglie
e
il
figlio,
presso
una
coppia
di
amici,
i
Gutkind.
L’atmosfera
in
casa
Gutkind,
che
erano
ebrei,
stimolò
Walter
a
studiare
l’ebraico.
Mentre
né
Georg
né
la
sorella
Dora
si
rifecero
mai
alla
loro
identità
ebraica,
Walter
si
sentì
spinto
dai
Gutkind
e
dall’amico
Gerhard
Scholem
a
confrontarsi
intensamente
con
quel
patrimonio
di
pensiero.
Nello
stesso
tempo
gli
venne
suggerito
di
trasferirsi
in
Palestina,
cosa
che
Scholem,
il
quale
sarebbe
emigrato
là
e
in
seguito
avrebbe
insegnato
all’università
di
Gerusalemme,
continuò
a
consigliargli
di
fare
anche
dopo
il
1933.
Per
Benjamin,
come
lui
stesso
dichiarò,
emigrare
in
Palestina
sarebbe
equivalso
quasi
a
una
fuga
da
parte
di
chi
aveva
fallito
in
Europa,
tanto
che
esitò
sempre
a
considerarla
un’alternativa.
Scholem,
d’altro
canto,
non
vedeva
nella
Palestina
una
fuga
ma
un
ritorno
a
casa,
non
un
gesto
di
rassegnazione
ma
una
speranza.
Walter
sperava
di
poter
compiere
in
Svizzera
l’abilitazione
alla
libera
docenza.
Era
tornato
ancora
una
volta
a
Berlino
per
parlare
con
i
genitori,
ma
la
situazione
là
si
era
inasprita
al
punto
da
fargli
scrivere:
«Qui
la
prima
settimana
è
stata
un
disastro».
Dopo
un
mese
con
la
famiglia
nella
villa
dei
genitori
si
arrivò
alla
rottura
totale.
In
seguito
Walter
disse
a
proposito
di
quell’epoca
che
«ero
stato
male
come
quasi
mai
nella
mia
vita».
Anche
Georg
Benjamin
lascia
la
villa
dei
genitori
e
si
trasferisce
in
un
pensionato
per
scapoli,
dove
ha
la
sensazione
di
essere
più
vicino
a
quelli
la
cui
miseria
conosce
in
quanto
medico
e
per
i
cui
interessi
si
impegnerà
anche
in
politica,
come
rappresentante
di
quartiere
per
il
Partito
comunista.
La
famiglia
si
spaccò.
Troppo
diversi
erano
gli
atteggiamenti
e
i
valori
che
per
Emil
e
Pauline
si
radicavano
in
un
mondo
scomparso,
mentre
per
Walter,
Georg
e
Dora
si
orientavano
verso
una
realtà
auspicata,
che
stava
forse
sorgendo.
A
Emil
e
Pauline
fu
risparmiato
di
assistere
al
crollo
del
loro
mondo
e
alla
catastrofe
culturale
e
di
un’intera
civiltà
durante
l’epoca
nazista.
Emil
morì
nel
1926
e
Pauline
lo
seguì
quattro
anni
più
tardi.
Dora
si
affaccia
nei
ricordi
d’infanzia
di
Walter
una
volta
sola,
raccontata
nel
penultimo
capitolo
intitolato
«La
luna»,
che
racconta
un
sogno.
La
luna
compare
nella
sua
stanza
come
una
visitatrice
notturna,
ed
egli
descrive
un
momento
in
cui
il
satellite
della
terra
diventa
mito
della
sventura
che
si
sta
approssimando.
Una
sventura
che
raggiungerà
anche
Walter,
emigrante
e
profugo,
e
che
nel
suo
presentimento
così
delinea:
«La
luna,
fin
allora
già
piena
in
mezzo
al
cielo,
aveva
d’improvviso
cominciato
a
dilatarsi
sempre
più
vertiginosamente.
Facendosi
vicina,
sempre
più
vicina,
essa
spaccò
in
due
il
pianeta.
La
ringhiera
del
balcone,
su
cui
tutti
ci
eravamo
affacciati
verso
la
strada,
volò
in
mille
pezzi,
e
i
corpi
che
lo
avevano
occupato
si
disintegrarono
ai
quattro
venti».
E:
«Dov’è
Dora?»
sente
sua
madre
esclamare.
Era
stata
Dora
che
un
giorno,
probabilmente
nel
1920,
aveva
portato
con
sé
l’amica
Hilde
Lange
e
l’aveva
presentata
alla
famiglia
a
Grunewald.
Devono
aver
raccontato
anche,
e
ci
piace
pensare
che
l’abbiano
fatto
con
molte
risate,
le
loro
esperienze
all’università,
dove
le
ragazze
erano
ancora
un’eccezione.
Dora
studiava
economia
politica
e
Hilde
giurisprudenza,
un
dominio
maschile
in
cui
erano
necessarie
forza
e
tenacia
per
riuscire
a
resistere.
Dora
e
Hilde
si
sostenevano
e
si
incoraggiavano
a
vicenda
per
opporsi
all’atmosfera
maschilista
che
regnava
nelle
università
e
tra
i
professori.
La
loro
amicizia
sarebbe
durata
letteralmente
una
vita
intera.
Solo
durante
il
periodo
nazista
furono
separate,
quando
Dora
emigrò
a
Parigi
e
successivamente
in
Svizzera.
Hilde
Lange
diventò
Hilde
Benjamin;
lei
e
Georg
si
erano
conosciuti
e
sposati.
Un
amore
al
secondo
sguardo.
2
Schutzhaft:
misura
di
privazione
della
libertà
(«per
la
protezione
del
popolo
e
dello
Stato»)
applicata
contro
gli
oppositori
del
regime,
senza
procedimento
giudiziario
né
possibilità
di
ricorso.
La
«detenzione
protettiva»
era
scontata
in
carceri
e
campi
di
concentramento
[N.d.T.].
Capitolo
secondo
I
Benjamin
Lo
spumante
Rotkäppchen,
«Cappuccetto
rosso»,
frizza
nel
bicchiere.
È
finalmente
il
momento
di
brindare.
La
piccola
donna
dalla
figura
un
po’
tonda
ha
ringraziato
con
un
breve
discorso.
Tutt’intorno
a
lei
bisbigli
e
risate
e
un
nervosismo
amichevole.
Si
porgono
fiori
e
biglietti
di
auguri.
È
il
5
febbraio
1967
e
Hilde
Benjamin,
ministro
della
Giustizia
della
DDR,
festeggia
il
suo
sessantacinquesimo
compleanno.
Il
dono
che
i
collaboratori
del
suo
ministero
le
hanno
appena
solennemente
consegnato
è
una
bella
scatola
di
cartone;
cinque
chili
e
mezzo
pesano
i
documenti
e
i
manoscritti
qui
raccolti,
cento
pagine
esatte
in
dimensioni
A4,
irrobustite
con
cartoncini,
piene
di
date
e
fatti
che
vanno
dalla
nascita
a
Bernburg
fino
al
compleanno
che
si
festeggia
oggi
a
Berlino
Est,
capitale
della
DDR.
Le
si
legge
in
viso
la
gioia.
Curiosa
sfoglia
quello
che
hanno
messo
insieme
i
suoi
collaboratori.
Sulla
prima
pagina,
scritta
a
mano,
spicca
in
bella
grafia
la
dedica:
«Alla
nostra
compagna,
dott.ssa
Hilde
Benjamin...».
I
compagni
hanno
confezionato
signorilmente
il
regalo:
la
scatola
verde
rilucente
sembra
ricoperta
in
pelle.
Tre
eleganti
quadrati,
intrecciati
l’uno
all’altro,
formano
una
cornice
dorata
sulla
copertina;
impressa
in
oro
è
anche
la
firma
dal
tratto
vivace
della
festeggiata
(«Dott.ssa
Hilde
Benjamin»).
Sulle
cento
pagine
numerate,
di
cui
solo
le
ultime
sei
sono
vuote,
si
trovano
documenti
ufficiali,
fotografie,
lettere,
ritagli
di
giornale
offerti
«quale
modesta
fatica
[...]
nel
suo
senso
e
intento»,
come
specifica
la
formula
di
accompagnamento
vergata
per
mano
del
suo
vice.
Quarantasette
anni
dopo
Ursula
Benjamin,
la
nuora
di
Hilde,
solleva
con
una
certa
fatica
la
scatola
ben
conservata
e
la
depone
sul
tavolino
rotondo
nella
biblioteca
del
suo
appartamento.
Vive
in
un
quartiere
orientale
di
Berlino.
Dopo
la
morte
del
marito
Michael
conserva
anche
il
lascito
della
suocera,
che
il
figlio
aveva
messo
in
ordine.
Qui
sediamo
insieme
e
parliamo
di
Hilde
e
di
Michael,
della
madre
e
del
figlio,
della
DDR
e
della
BRD.
Anche
del
motivo
per
cui
da
più
di
vent’anni
la
DDR
è
ormai
parte
della
storia.
Dei
suoi
sei
nipoti
sono
Laura
e
talvolta
Jakob
quelli
che
per
lo
più
vanno
a
trovarla.
Entrambi
hanno
un
rapporto
affettuoso
con
la
nonna,
come
tutti
i
nipoti.
Suo
figlio
Georg,
padre
di
Laura
e
Jakob,
vive
e
lavora
a
Kiev.
Per
evitare
di
far
confusione
fra
lui
e
il
nonno,
che
portava
lo
stesso
nome,
durante
un
soggiorno
a
Berlino
lui
stesso
suggerisce
di
chiamarlo
nel
libro
non
Georg
ma
Grischa,
cioè
col
suo
soprannome:
«Tutti
mi
chiamano
comunque
così».
Beviamo
tè
o
caffè.
A
volte
si
ha
l’impressione
che
insieme
a
noi
al
tavolo
siedano
le
persone
di
cui
fondamentalmente
parliamo
e
delle
quali
vorrei
scrivere;
il
nonno
di
Grischa,
Georg,
e
il
suo
famoso
fratello
Walter
Benjamin.
Le
loro
lettere
sono
custodite
da
Ursula,
e
mi
è
concesso
di
leggerle.
In
ogni
riga
sulla
loro
vita
quotidiana
a
quei
tempi,
nel
periodo
precedente
la
Prima
guerra
mondiale,
durante
la
Repubblica
di
Weimar
e
dopo
la
presa
del
potere
da
parte
dei
nazisti,
trovo
speranze
e
orrore.
Walter
Benjamin
e
Georg
Benjamin,
il
fratello
di
due
anni
più
giovane,
«medico
e
comunista».
Questo
è
anche
il
titolo
di
un
libriccino
su
di
lui,
che
fino
al
suo
arresto
nel
1933
era
stato
medico
scolastico
a
Wedding.
E
c’è
poi
la
moglie
di
Georg,
Hilde
Benjamin
nata
Lange,
e
il
loro
figlio
Mischa,
considerato
«meticcio»
in
epoca
nazista:
il
padre
Georg
Benjamin
era
ebreo,
Hilde
aveva
il
«certificato
di
arianità».
Si
parla
quindi
di
vite
tedesche,
di
biografie
con
successi
ed
errori.
Volevano
un
mondo
più
giusto
e
umano
di
quello
che
trovarono.
In
politica
si
collocano
a
sinistra
e
provano
ripugnanza
per
il
disprezzo
nei
confronti
degli
uomini
dimostrato
dai
nazisti.
Nati
a
cavallo
del
ventesimo
secolo,
vogliono
prendere
in
mano
il
proprio
destino,
segnato
dalla
loro
origine
e
dalle
successive
convinzioni.
Una
storia
di
famiglia.
La
vita
di
Hilde,
raccolta
in
cento
pagine,
è
una
fonte
importante
nel
lascito
dei
Benjamin.
La
mia
ricerca
parte
proprio
da
qui.
Tutti
parteciparono
alla
resistenza
contro
il
nazionalsocialismo.
Hilde
e
Georg
nel
Partito
comunista
e
Walter
Benjamin
con
la
forza
delle
parole,
come
critico
e
autore
ma
anche
collaboratore
dell’Istituto
per
la
ricerca
sociale
di
Francoforte,
dove
insegnavano
e
si
dedicavano
alla
ricerca
i
famosi
professori
Horkheimer
e
Adorno.
Anche
la
minore
dei
Benjamin,
la
sorella
Dora,
ne
faceva
parte.
Ursula
custodisce
anche
il
lascito
di
suo
marito,
cioè
il
figlio
di
Hilde,
Michael
Benjamin,
nato
nel
1932
e
morto
nel
2000,
il
quale
fu
giurista
e
professore,
esperto
di
giurisprudenza
e
di
filosofia
del
diritto.
Anche
lui
era
comunista,
uno
che
dopo
la
fine
del
socialismo
reale
e
di
quel
mondo
dominato
da
Mosca
rifletté
ampiamente
sulle
cause
della
sua
scomparsa.
Michael
Benjamin,
sua
moglie
Ursula
e
i
suoi
figli
adulti,
Grischa
e
Simone,
vissero
la
riunificazione
da
cittadini
della
DDR.
Per
i
nipoti
Laura
e
Jakob
Benjamin,
nati
all’epoca
della
svolta,
la
storia
della
Repubblica
Democratica
Tedesca
è
la
storia
dei
loro
genitori
e
nonni,
e
fa
parte
del
programma
scolastico.
La
loro
vita
comincia
dopo.
Scrivere
sui
Benjamin
significa
immergersi
nel
sanguinoso
ventesimo
secolo.
Significa
anche
trovare
la
propria
collocazione
rispetto
a
due
guerre
e
all’esperienza
della
dittatura
nazista.
Per
me
i
Benjamin,
in
maniera
differente,
sono
emozionanti
testimoni
della
storia
tedesca
contemporanea.
Georg
e
Walter
Benjamin
pagarono
con
la
vita
la
loro
resistenza.
Solo
di
rado
riesce
a
crearsi
un
sentimento
di
vicinanza
tra
i
fratelli
e
la
sorella.
Troppo
spesso
si
ritrovarono
divisi.
Walter,
Georg
e
Dora
vissero
già
la
Prima
guerra
mondiale
in
luoghi
diversi.
I
difficili
anni
che
la
seguirono
furono
decisivi
nel
dar
forma
al
loro
impegno
sociale
e
politico.
Dora
ammira
l’impegno
sociale
di
Georg,
e
terminati
gli
studi
collabora
strettamente
con
lui
per
qualche
tempo.
L’iniziale
entusiasmo
bellico
di
Georg
svanì
in
fretta,
dopo
l’esperienza
della
terribile
guerra
di
posizione
e
alla
luce
dei
milioni
di
soldati
morti.
Ogni
giorno
imparava
a
odiare
quello
che
viveva
in
quanto
soldato.
Suo
fratello
era
riuscito
a
sottrarsi
al
servizio
di
leva.
Era
molto
miope
e
grazie
a
utili
attestati
poté
evitare
la
via
del
fronte
e
proseguire
invece
gli
studi
a
Monaco
e
Berna.
Nel
1918,
tornato
dal
fronte,
Georg
cominciò
a
studiare
medicina
e
divenne
medico
scolastico
e
pediatra
a
Wedding.
La
Berlino
rivoltosa
e
rivoluzionaria
dell’immediato
dopoguerra
e
la
triste
condizione
sociale
della
città
proletaria
lo
fecero
aderire
prima
al
Partito
socialdemocratico
indipendente
tedesco
(Unabhängige
Sozialdemokratische
Partei
Deutschlands,
USDP),
un
gruppo
fuoriuscito
dal
Partito
socialdemocratico
tedesco
(Sozialdemokratische
Partei
Deutschlands,
SPD),
e
poi
al
Partito
comunista
(Kommunistische
Partei
Deutschlands,
KPD).
Georg
Benjamin
si
candidò
e
fu
eletto
rappresentante
del
KPD
nel
consiglio
di
quartiere
a
Wedding.
Si
trasferì
in
un
pensionato
per
scapoli,
dove
poteva
essere
più
vicino
a
coloro
la
cui
condizione
sociale
lo
angustiava,
e
che
cercò
di
alleviare.
Dora,
nata
nel
1901,
ricevette
ugualmente
un’istruzione
universitaria,
com’era
naturale
che
fosse
nelle
famiglie
illuminate
dell’alta
borghesia
ebraica.
Frequentò
i
corsi
liceali
per
ragazze
e
là
conobbe
Hilde
Lange,
che
aveva
un
anno
meno
di
lei
e
di
cui
in
seguito
sarebbe
diventata
amica.
Dora
studiò
economia
politica
e
conseguì
il
dottorato
all’Università
di
Greifswald.
In
seguito
lavorò
in
diversi
ambiti
dell’assistenza
sociale
e
per
il
Gesundheitshaus3
socialista
a
Kreuzberg.
Introdusse
a
casa
l’amica
e
così
accadde
che
Georg
e
Hilde
si
conobbero
e
si
innamorarono.
Si
sposarono
nel
1926.
Hilde
fu
una
delle
prime
donne
a
studiare
giurisprudenza;
soltanto
da
poco
era
concesso
alle
donne
di
sostenere
il
secondo
esame
di
stato.
Nel
1928
si
stabilisce
a
Wedding
come
avvocato,
dove
Georg
aveva
già
il
suo
ambulatorio
di
medico.
Apre
uno
studio
legale,
lascia
l’SPD
e
come
Georg
entra
nel
Partito
comunista.
Fino
alla
presa
del
potere
dei
nazisti
nel
1933
i
due
hanno
davanti
a
sé
ancora
cinque
anni
insieme
–
e
inizialmente
in
grandi
ristrettezze:
solo
negli
ultimi
due
anni
riuscirono
a
tirare
un
sospiro
di
sollievo
anche
da
un
punto
di
vista
materiale.
E
finalmente
le
entrate
bastarono
per
un
appartamento
più
grande.
La
sorella
di
Hilde,
Ruth,
nata
nel
1908,
nel
1927
è
campionessa
tedesca
di
lancio
del
peso
e
segna
più
volte
record
mondiali.
Il
fratello
Heinz
Lange
diventa
ingegnere.
I
genitori,
Adele
e
Walter
Lange,
avevano
offerto
loro
un
ambiente
familiare
liberale.
Dopo
aver
lavorato
presso
le
industrie
Solvay
a
Bernburg,
il
padre
passò
a
dirigere
un’azienda
del
medesimo
complesso
industriale
nella
capitale
del
Reich.
Berlino
divenne
allora
il
nuovo
centro
della
famiglia.
Quando
i
nazisti
arrivano
al
potere
nel
marzo
1933
e
il
Reichstag
in
fiamme
scatena
una
prima
ondata
di
arresti
che
colpisce
comunisti
e
socialdemocratici,
anche
Georg
viene
arrestato
e
rinchiuso
nel
campo
di
concentramento
di
Sonnenburg.
A
Hilde
viene
proibito
l’esercizio
della
sua
professione.
La
comunicazione
reca
la
firma
di
Roland
Freisler,
che
in
qualità
di
presidente
del
Volksgerichtshof4
condannerà
in
seguito
a
morte
anche
i
fratelli
Hans
e
Sophia
Scholl
(La
rosa
bianca)
e
gli
autori
dell’attentato
a
Hitler
del
20
luglio
1944.
Freisler
fu
responsabile
di
migliaia
di
condanne
a
morte.
Nel
1933
Walter
e
Dora
Benjamin
fuggono
dalla
Germania
ed
emigrano
in
Francia.
In
quest’epoca
Georg
viene
messo
in
«detenzione
protettiva»
dai
nazisti
e,
esclusa
la
possibilità
di
emigrare,
comincia
quindi
per
Hilde
l’epoca
terribile
della
politica
razziale
nazionalsocialista.
Hilde
teme
per
la
vita
del
marito
ebreo
e
del
figlio
Michael,
che
ha
appena
compiuto
un
anno
e
in
quanto
«meticcio»
è
soggetto
alle
leggi
razziali.
Sarà
un
martirio
che
durerà
dodici
anni,
prima
che
Berlino
sia
liberata
dall’Armata
Rossa
e
per
Hilde
divenga
possibile
un
nuovo
inizio.
Su
un
lato
del
curriculum,
compilato
dai
suoi
collaboratori,
è
incollata
la
fotografia
ufficiale
che
la
ritrae
nelle
vesti
di
ministro.
Hilde
Benjamin
siede
alla
scrivania.
Sopra,
sfocati,
si
vedono
alcuni
documenti
che
la
mano
sinistra
prende
e
raduna,
mentre
la
mano
destra
è
girata
verso
l’interno,
morbida
e
leggermente
sollevata.
È
manifestamente
la
donna
abituata
a
esporre
le
sue
ragioni,
che
osserva
con
attenzione
quel
che
le
sta
di
fronte.
La
foto
è
anche
una
messinscena,
e
vuole
trasmettere
la
certezza
di
un
obiettivo:
avanti
insieme
per
il
socialismo.
Nel
suo
viso
si
leggono
le
esperienze
di
una
vita.
Nel
momento
in
cui
le
presentano
il
regalo
preparato
con
tanta
cura,
i
suoi
collaboratori
non
possono
ancora
sapere
che
due
anni
dopo
Hilde
Benjamin
sarà
sollevata
dal
suo
incarico
al
ministero.
Non
più
nelle
grazie
di
Ulbricht,
continuerà
tuttavia
a
presiedere
la
Commissione
per
la
riforma
del
codice
penale.
La
terza
pagina
della
raccolta
biografica
porta
la
firma
del
suo
sostituto,
Hans
Ranke,
e
il
titolo
«Introduzione».
C’è
scritto
che
si
tratta
di
un
contributo
in
una
«occasione
solenne»,
che
mostra
un
«segmento
della
vita,
dell’opera
e
della
lotta
di
Hilde
Benjamin
per
il
diritto
e
con
il
diritto,
in
un
duplice
senso».
Viene
onorata
la
sua
battaglia
per
il
«diritto
degli
oppressi»
in
un’epoca
in
cui
«l’avvocato
e
membro
del
Partito
comunista,
compagna
Hilde
Benjamin,
si
schierò
davanti
ai
tribunali
e
ai
tribunali
del
lavoro
per
i
diritti
dei
lavoratori».
Lo
attestano
le
lettere
di
ringraziamento
dei
compagni
che
allora
furono
difesi
con
successo
da
lei
in
tribunale.
Si
parla
anche
di
un
processo
dell’ottobre
1930,
presso
il
tribunale
del
lavoro.
Walter
Kranewitz,
veterano
del
partito
di
Fürstenwalde,
ricorda
che
Hilde
Benjamin
aveva
assunto
la
sua
difesa.
Membro
del
consiglio
di
fabbrica,
Kranewitz
era
stato
licenziato
senza
preavviso:
«Le
sue
conoscenze
legali
erano
maggiori
di
quelle
del
direttore
dell’azienda
che
aveva
ordinato
il
licenziamento;
potemmo
vincere
sull’azienda
mondiale
Pintsch.
Firmato
Walter
Kranewitz».
L’indice
ha
trenta
capitoli.
Parlano
di
lotta
e
giustizia
di
classe,
dell’ingresso
nel
partito
e
di
come
questo
fosse
il
punto
intorno
a
cui
ruotava
tutta
la
vita,
parlano
di
sconfitte
politiche
e
del
suo
sopravvivere
da
comunista
durante
il
nazionalsocialismo.
E
parlano
anche
della
grande
speranza
riposta
nello
stato
socialista
tedesco,
che
avrebbe
vinto
il
fascismo
e
smentito
il
capitalismo.
E
tuttavia
la
vita
raccolta
nell’elegante
scatola
suscita
più
distanza
che
simpatia.
Parla
del
ministro,
dottoressa
Hilde
Benjamin.
Qui
l’altra
Hilde
non
appare,
la
madre
che
fece
da
insegnante
al
proprio
figlio,
perché
dopo
il
1942
gli
era
stato
proibito
di
frequentare
qualsiasi
scuola
superiore.
La
donna
che
ama
e,
senza
curarsi
della
propria
sicurezza,
cerca
ostinatamente
il
prigioniero
Georg
Benjamin
dietro
le
mura
delle
prigioni
naziste,
e
diverse
volte
lo
trova,
fin
quando
non
riesce
più
a
raggiungerlo.
È
strano
quanto
poco
i
trenta
capitoli
della
sua
vita
sappiano
in
fondo
trasmettere.
Sono
come
un
paravento
che
lascia
intravedere
soltanto
l’ombra
della
persona
al
di
là.
Ma
anche
questo
lato
ufficiale
fa
parte
di
Hilde
Benjamin,
vestita
dei
panni
di
combattente
per
il
socialismo,
il
cui
cuore
batte
solo
per
il
partito
e
per
la
causa
del
proletariato.
Ci
sono
indicazioni
che
proprio
così
volesse
essere
vista
durante
i
primi
anni
della
DDR.
Il
paravento
che
fa
emergere
solo
l’immagine
della
brava
soldatessa
del
partito
offre
anche
la
protezione
di
cui
forse
aveva
bisogno.
Diversamente
da
Georg
Benjamin,
Hilde
non
viene
infatti
da
una
famiglia
altoborghese,
ma
è
troppo
intellettuale
per
poter
essere
definita
una
combattente
proletaria.
Quindi
mostra
poco
di
ciò
che
fa
affettuosamente
trapelare
nelle
sue
lettere
a
Georg:
il
coraggio
con
cui
stette
al
suo
fianco
e
che
dimostrò
anche
verso
gli
amici
ebrei,
i
quali
poterono
sempre
contare
sul
suo
aiuto.
Tutto
questo
lo
mantenne
nascosto,
ben
custodito
per
il
figlio
e
in
seguito
per
i
nipoti
e
i
pronipoti,
e
si
può
leggere
nelle
lettere
e
nei
documenti
privati.
Nel
1945,
quando
sulle
rovine
del
Reichstag
sventola
già
la
bandiera
rossa
con
la
falce
e
il
martello,
Hilde
Benjamin
viene
a
sapere
del
suicidio
di
suo
cognato
Walter
Benjamin,
la
cui
fuga
al
di
là
dei
Pirenei
era
terminata
alla
frontiera
spagnola,
a
Portbou
sulla
Costa
Brava.
Con
cinque
anni
di
ritardo
la
notizia
la
raggiunge
in
una
lettera
dell’amica
Dora.
Costei
aveva
trascorso
il
periodo
della
guerra
in
Svizzera.
Deve
aver
raccontato
a
Hilde
anche
del
comune
lavoro
con
suo
fratello
Walter
e
della
loro
difficile
esistenza
durante
l’esilio
a
Parigi,
dove
Dora
rinunciò
alle
proprie
ambizioni
accademiche
e
aiutò
il
fratello
nella
stesura
dei
suoi
manoscritti.
A
Parigi
si
impegnò
inoltre
a
favore
dei
bambini
profughi
attraverso
l’organizzazione
«Assistance
Médicale
aux
Enfants
des
Réfugiés».
Un
anno
dopo,
un’altra
lettera;
questa
volta
è
posta
ufficiale
delle
autorità
svizzere
che
cercano
parenti
di
Dora,
morta
in
esilio.
La
lettera
aveva
fatto
una
lunga
deviazione
fino
a
New
York
e
all’Istituto
di
Francoforte
che
era
stato
là
trasferito,
prima
di
raggiungere
Hilde
a
Berlino.
L’eredità
in
questione
consiste
in
un
paio
di
libri
e
in
pochi
documenti
personali.
Dora
non
possedeva
più
nulla
e
nel
1942
non
venne
rimandata
dalla
Svizzera
in
Francia,
incontro
a
una
morte
certa
in
un
campo
di
sterminio
tedesco,
perché
essendo
già
moribonda
non
sarebbe
sopravvissuta
al
trasporto.
Malata
di
cancro
all’ultimo
stadio,
nel
giugno
1945
Dora
partecipò
tuttavia
a
una
conferenza
di
profughi
a
Montreux.
Come
già
a
Parigi,
anche
qui
lottò
per
migliorare
le
condizioni
dei
bambini
profughi.
La
piccola
donna
con
i
capelli
grigi,
che
ai
partecipanti
alla
conferenza
doveva
apparire
prossima
a
terminare
l’arco
della
sua
vita,
pregò
con
grande
passione
di
non
dimenticare
che
i
bambini
traumatizzati
dalla
fuga
e
dalla
deportazione
dei
loro
genitori
appartenevano
a
quella
gioventù
nelle
cui
mani
sarebbe
stata
la
ricostruzione
dell’Europa.
Un
anno
dopo
Dora
è
morta:
aveva
appena
quarantacinque
anni.
Sei
anni
prima
Walter
Benjamin
si
era
suicidato
per
evitare
l’arresto
da
parte
della
polizia
francese
e
la
consegna
alla
Gestapo.
Walter
aveva
quarantotto
anni.
Due
anni
dopo
di
lui,
nel
1942,
sul
filo
spinato
percorso
dalla
corrente
ad
alta
tensione
del
campo
di
sterminio
di
Mauthausen
suo
fratello
Georg
terminò
la
propria
vita.
Una
famiglia
in
Germania.
Quando
Hilde
Benjamin
riceve
la
lettera
che
per
mano
di
Dora
le
dà
la
notizia
della
morte
di
Walter,
non
immagina
che
la
sua
amica
avrebbe
seguito
tanto
presto
i
fratelli.
Quali
pensieri
la
inseguono
mentre
tiene
in
mano
la
lettera?
Cosa
può
sopportare
un
essere
umano?
Le
resta
il
figlio
Mischa,
che
ha
saputo
strappare
alla
ridda
mortale
dei
nazisti.
Ogni
giorno
le
ricorda
Georg,
la
cui
fede
politica
era
stata
per
lei,
durante
tutto
il
tempo
nella
Germania
di
Hitler,
un
sostegno
a
cui
reggersi.
E
adesso,
un
anno
dopo,
la
notizia
della
morte
di
Dora
in
Svizzera.
Tutti
quelli
che
sentiva
vicini
erano
morti
senza
che
avesse
potuto
dar
loro
un
ultimo
saluto.
Avvertiva
un
obbligo
nei
loro
confronti
e
anche
verso
le
loro
speranze,
a
cui
si
augurava
di
rendere
giustizia
con
il
suo
lavoro
per
l’idea
comune
di
una
Germania
socialista.
Nel
1950-51
Hilde
Benjamin
ricevette
ancora
alcune
lettere
che
avrebbero
influenzato
profondamente
la
sua
vita.
Le
conservò
fino
alla
morte.
Quando
Michael
Benjamin
esaminò
il
suo
lascito,
trovò
una
busta
con
la
scritta
«Ultimo
saluto
di
Utti
–
ultime
lettere
di
mia
madre».
Sono
due
lettere
e
una
cartolina
di
auguri
da
parte
di
Utti
(la
sorella
di
Hilde)
per
il
suo
compleanno.
Entrambe
le
missive
mostrano
l’affetto
che
Adele
Lange
provava
per
sua
figlia.
Così
scrive
nella
prima:
«Mia
cara
piccola
Hilde,
penso
a
te
e
a
Mischa
con
amore
e
nostalgia,
e
il
mio
cuore
è
felice
se
so
che
state
bene».
Adele
Lange
racconta
di
una
dolorosa
contusione
alla
gamba
e
accenna
a
un
piccolo
regalo
per
il
compleanno
di
Hilde.
La
lettera
non
è
datata,
ma
si
può
supporre
che
sia
stata
scritta
per
il
suo
quarantanovesimo
compleanno,
il
2
febbraio
1951.
Il
calore
di
quelle
parole
deve
aver
reso
felice
Hilde
Benjamin,
e
sarebbe
strano
se
non
fosse
così.
La
casa
dei
genitori
fu
sempre
aperta
per
lei.
Durante
l’epoca
nazista
Hilde
era
dipesa
più
volte
dall’aiuto
che
la
famiglia
naturalmente
le
dava.
Anche
la
seconda
lettera
è
segnata
dal
calore
con
cui
la
madre
Adele
parla
alla
figlia.
È
tuttavia
molto
breve,
sette
righe,
piuttosto
un
messaggio
diretto
da
Ovest
a
Est,
sul
cui
contenuto
Hilde
Benjamin
a
quanto
pare
non
volle
mai
dire
nulla.
Eccolo:
Cara
piccola
Hilde!
Oggi
viene
qui
Sophie
e
ti
scrivo
subito
stamattina
per
poterti
dire
con
calma
quello
che
volevo
dirti
da
tempo!
Se
io
dovessi
finire
presto
in
ospedale,
o
se
addirittura
morissi
all’improvviso,
ti
prego
con
tutto
il
cuore:
Non
venire
da
me,
perché
in
questa
terribile
spaccatura
fra
Est
e
Ovest
non
ti
sarebbe
possibile.
Tesoro
mio,
spero
di
vivere
ancora
per
un
po’,
ma
se
la
fine
dovesse
arrivare
in
fretta
non
venire
qui!
Tesoro
mio,
il
bene
che
ci
vogliamo
è
così
grande
che
non
c’è
bisogno
di
dimostrarlo.
Con
amore,
tua
madre
La
Sophie
qui
nominata
potrebbe
essere
la
domestica
di
Hilde,
che
a
quanto
pare
dava
ogni
tanto
una
mano
in
casa
dei
Lange.
La
lettera
voleva
proteggere
la
figlia,
la
cui
fede
politica
non
fu
mai
un
problema
in
casa
dei
genitori.
È
difficile
oggi
giudicare
se
questa
decisione,
che
gravava
su
madre
e
figlia,
fosse
davvero
necessaria.
La
madre
abitava
a
Berlino
Ovest
e
Hilde
stava
nella
parte
orientale
della
città.
Ma
è
chiaro
che
Hilde
era
molto
legata
alla
sua
famiglia
e
che
la
madre
sperava
di
aiutare
la
figlia
ad
affrontare
la
sua
vita
«dall’altra
parte»
senza
una
cattiva
coscienza.
Adele
Lange
non
aveva
che
da
aprire
i
giornali
o
sentire
i
commenti
alla
radio
per
sapere
come
sua
figlia,
vicepresidente
della
Corte
suprema
della
DDR,
veniva
presentata
dai
media
della
Germania
Occidentale.
Nei
titoli
dell’altro
stato
tedesco
Hilde
Benjamin
era
definita
«Hilde
la
Sanguinaria»
o
«Ghigliottina
rossa».
Prima
di
essere
nominata
ministro
della
Giustizia
nel
1953
Hilde
giudicò
i
colpevoli
del
nazifascismo
nell’ambito
della
sua
sfera
di
potere,
ma
anche
quelli
che
riconosceva
come
nemici
della
DDR.
La
violenza
della
contrapposizione
fra
Est
e
Ovest
in
quegli
anni,
quando
la
guerra
di
Corea
sembrava
minacciare
la
pace
mondiale,
si
manifestò
anche,
se
non
in
primo
luogo,
a
Berlino.
Qui
i
cittadini
dell’Ovest
avvertivano
la
particolare
criticità
della
loro
posizione
di
isola,
essendo
ancora
vivo
il
trauma
del
blocco
di
Berlino.
Per
lungo
tempo
ebbero
la
sensazione
di
sedere
su
una
polveriera.
Era
probabilmente
quello
che
intendeva
Adele
quando
parlava
della
terribile
spaccatura
fra
Est
e
Ovest.
La
lettera
della
madre
deve
aver
pesato
su
Hilde
Benjamin.
Evidentemente
non
c’era
nessuno
con
cui
poteva
parlarne,
tanto
più
che
nei
media
occidentali
si
speculava
sulla
supposta
rottura
di
Hilde
Benjamin
con
la
famiglia.
Di
certo
nulla
sarebbe
cambiato
se
avesse
respinto
quelle
speculazioni.
Conservò
le
lettere,
come
tutto
ciò
che
riguardava
la
sua
famiglia.
Anche
questo
mostra
fino
a
che
punto
e
per
quanto
tempo
quelle
sette
righe
abbiano
occupato
la
sua
mente.
Adele
Lange
morì
nel
1952.
A
Hilde
rimase
il
fratello
che
viveva
nella
DDR,
come
lei
membro
della
SED,
che
in
seguito
andò
a
vivere
in
Occidente.
Hilde
era
certamente
in
contatto
anche
con
la
sorella
Utti.
Il
socialismo
scientifico
era
la
fede
da
lei
professata.
All’interno
della
sfera
di
potere
dei
sovietici,
nella
zona
da
essi
occupata
che
divenne
poi
la
Repubblica
Democratica
Tedesca,
Hilde
volle
dare
il
suo
contributo
per
sconfiggere
il
nazionalsocialismo
che
le
aveva
portato
via
il
marito,
il
genero
e
la
cugina
Gertrud
Kolmar,
da
lei
tanto
ammirata.
La
vita
di
Hilde
Benjamin
non
può
essere
raccontata
senza
la
coscienza
che
«la
morte
è
un
maestro
tedesco».
Molti
anni
più
tardi
è
il
figlio
Mischa
a
chiedersi
perché
il
progetto
della
DDR
sia
fallito.
Mischa,
che
nel
1945
poté
riprendere
a
frequentare
la
scuola
e
nel
1948
ottenne
la
maturità
con
eccellenti
voti
–
Hilde
era
stata
evidentemente
una
brava
insegnante
–,
seguì
le
convinzioni
politiche
della
madre
e
vi
rimase
fedele
anche
dopo
la
fine
della
DDR.
La
paura
costante
che
entrambi
ebbero
l’uno
per
l’altra
durante
il
nazismo
segnò
fino
in
fondo
le
loro
vite.
Ciò
spiega
la
gratitudine
del
figlio,
che
aveva
bisogno
della
protezione
materna
e
ne
ebbe
sempre
la
certezza.
Questa
parte
della
vita
di
Hilde
Benjamin
avrebbe
potuto
facilmente
riempire
le
sei
pagine
vuote
della
documentazione
raccolta
dai
suoi
collaboratori
al
Ministero
della
Giustizia,
che
fino
alla
pagina
94
parla
di
Hilde
nelle
sue
vesti
ufficiali.
Chissà
se
simili
pensieri
privati
trovarono
spazio
nella
confusione
della
piccola
festa
di
compleanno.
Hilde
Benjamin
intendeva
sul
serio
eliminare
quelli
che
avevano
quasi
annientato
la
Germania.
Per
quanto
riguarda
la
sua
sfera
di
potere,
gli
alti
funzionari
nazisti
potevano
augurarsi
clemenza
solo
se
non
avevano
le
mani
direttamente
sporche
di
sangue.
Il
contrario
accadeva
nella
nazione
di
Adenauer.
Nessun
giudice
o
procuratore
avrebbe
dovuto
rispondere
delle
decisioni
da
lui
prese
nello
stato
del
terrore
e
delle
leggi
razziali,
o
delle
condanne
a
morte
pronunciate
contro
imputati
appartenenti
all’opposizione.
Per
la
migliore
amica
di
Hilde,
Dora
Benjamin,
sarebbe
stato
desolante
vivere
il
dopoguerra
nella
Germania
Federale.
A
differenza
di
quanto
si
potrebbe
credere,
Dora
non
fu
semplicemente
la
sorellina
messa
in
disparte,
che
ammirava
il
fratello
maggiore.
Nell’Infanzia
berlinese
intorno al millenovecento
viene
menzionata
solo
in
un
breve
passaggio.
Ciò
cambia
in
seguito,
soprattutto
dopo
che
entrambi
emigrarono
a
Parigi
nel
1933.
Per
me
è
importante
farla
uscire
dall’ombra
gettata
dal
celebre
fratello.
Perciò
è
di
lei
che
voglio
cominciare
a
raccontare.
3
Il
Gesundheitshaus
(«casa
della
salute»)
di
Kreuzberg
fu
il
primo
centro
berlinese
di
medicina
preventiva
e
educazione
sanitaria
[N.d.T.]..
4
Volksgerichtshof
(«Corte
di
Giustizia
del
popolo»):
tribunale
speciale
con
sede
a
Berlino,
istituito
su
ordine
di
Hitler,
competente
per
i
crimini
di
alto
tradimento
e
politici
[N.d.T.].
Capitolo
terzo
Dove
resta
Dora...
Dora
Benjamin
e
i
suoi
fratelli
maggiori,
Walter
e
Georg:
chi
desidera
scoprire
qualcosa
su
di
loro
non
può
ignorare
il
fatto
che
Dora
fu
spesso
la
sorellina
sottovalutata
o
semplicemente
non
presa
in
considerazione,
quasi
la
quinta
ruota
del
carro
rispetto
agli
altri
due.
Ciò
non
valeva
per
il
rapporto
dei
fratelli
verso
di
lei,
e
soprattutto
non
per
Georg.
È
un
luogo
comune
dovuto
soltanto
ai
biografi,
il
cui
interesse
si
è
focalizzato
puramente
su
Walter.
Oltre
a
lui
solo
la
moglie
di
Georg,
la
cognata
Hilde,
quale
ministro
della
Giustizia
della
DDR
è
riuscita
a
entrare
nelle
sale
di
lettura
delle
biblioteche.
Si
deve
a
sua
moglie
Hilde
se
Georg
non
scomparve
nell’oscurità
della
storia
tedesca,
brutalizzata
dai
nazionalsocialisti.
Fu
lei
la
sua
biografa,
grazie
alla
quale
egli
ottenne
una
sorta
di
fama
postuma
che
tuttavia
rimase
limitata
sostanzialmente
alla
DDR
e
con
questa
si
estinse.
Si
deve
ugualmente
a
Hilde
e
alla
sua
lunghissima
amicizia
con
Dora
se
quest’ultima
non
fu
dimenticata.
Occorre
ringraziare
Hilde
se
la
tesi
di
dottorato
di
Dora,
discussa
presso
la
ErnstMoritz-ArndtUniversität
a
Greifswald,
divenne
accessibile.
Hilde
Benjamin
scovò
l’originale
nel
1963,
molto
tempo
dopo
la
morte
di
Dora,
nell’archivio
dell’Università
di
Greifswald.
Dora
vi
studia
la
«Condizione
sociale
delle
operaie
berlinesi
occupate
nel
settore
della
confezione».
In
altre
circostanze
e
in
un’altra
epoca
sia
Georg
che
Dora
avrebbero
raggiunto
una
maggiore
notorietà.
Entrambi
erano
colti,
attenti
alla
realtà
degli
altri,
cosa
che
li
esponeva
alle
drammatiche
contraddizioni
sociali
della
Repubblica
di
Weimar,
da
cui
sarebbero
rimasti
scottati.
Qualsiasi
ingiustizia
si
possa
lamentare
nella
Germania
contemporanea,
non
è
comparabile
alla
drammatica
miseria
nel
periodo
successivo
alla
guerra.
Nessuno
dei
tre
Benjamin
poté
ignorarla.
E
questo
è
tanto
più
notevole
in
quanto
l’infanzia
trascorsa
nella
casa
dei
genitori
al
Grunewald
non
aveva
conosciuto
alcun
tipo
di
privazione.
Fu
Walter,
nel
suo
libro
Infanzia
berlinese
intorno
al
millenovecento,
ad
aprire
squarci
sull’agiata
vita
della
famiglia
che
durante
le
ferie
si
trasferiva
nella
dimora
estiva
sul
Brauhausberg,
a
Babelsberg.
Walter
ebbe
bisogno
di
molto
tempo
per
riuscire
a
staccarsi
da
questa
dipendenza
materiale.
Dopo
l’università
e
il
dottorato
Dora
si
ritrovò
più
vicina
al
fratello
Georg,
che
terminati
i
suoi
studi
di
medicina
aveva
lasciato
la
casa
di
famiglia.
Anche
l’impegno
sociale
di
Dora
era
rivolto
in
primo
luogo
ai
bambini.
Il
quartiere
rosso
di
Wedding
era
quel
che
si
definisce
oggi
un
quartiere
a
rischio.
A
quel
tempo
era
la
zona
più
povera
di
Berlino.
Nella
sua
tesi
di
dottorato
Georg
esaminava
la
questione
se
l’istituzione
dei
«centri
per
scapoli»
potesse
migliorare
le
condizioni
di
vita
dei
giovani
che
affluivano
dalle
campagne
verso
le
città
nella
speranza
di
trovare
un
lavoro.
Fino
a
quel
momento
l’unica
possibilità
era
stata
per
lo
più
quella
di
affittare,
come
«pigionanti
a
ore»,
un
letto
e
un
tetto
sopra
la
testa
da
dividere
con
altri,
in
base
ai
diversi
turni
di
lavoro.
Era
un
piccolo
guadagno
extra
per
molte
famiglie
che
abitavano
nei
cortili
interni
dei
caseggiati
e
ospitavano
spesso
due
o
tre
«pigionanti
a
ore».
Che
i
rapporti
con
le
famiglie
si
facessero
talvolta
intimi
appariva
evidente
solo
quando
una
figlia
ormai
grande
si
ritrovava
incinta.
La
miseria
dei
bambini
a
quel
tempo
era
il
tema
di
Dora.
Già
la
sua
tesi
per
il
«conseguimento
del
dottorato
in
Scienze
politiche»
aveva
studiato
la
«Condizione
sociale
delle
operaie
berlinesi
occupate
nel
settore
della
confezione,
con
particolare
riguardo
all’allevamento
dei
figli».
E
anche
nel
sottotitolo
si
chiariva
subito
quale
fosse
l’obiettivo
della
ricerca:
il
«tentativo
di
una
valutazione
del
lavoro
a
domicilio
in
confronto
al
lavoro
in
fabbrica,
relativamente
alla
maniera
migliore
di
allevare
i
figli».
Chiunque
vivesse
a
Berlino
dopo
la
Prima
guerra
mondiale
non
poteva
ignorare
i
bambini
di
strada
denutriti
e
coperti
di
stracci.
Si
aggiravano
per
lo
più
a
gruppi
per
le
strade
e
le
piazze,
sopravvivendo
per
mezzo
di
piccoli
furti.
Molte
ragazzine,
appena
un
po’
cresciute,
si
prostituivano
sulle
strade.
Nell’ambulatorio
di
Georg,
a
Wedding,
Dora
poté
studiare
gli
effetti
che
la
vita
in
strada
produceva
sulla
salute.
Il
tema
della
sua
tesi
di
dottorato
non
era
dunque
affatto
casuale,
come
non
lo
era
stato
lo
studio
dell’economia
politica
che
aveva
concluso
con
ottimi
risultati.
Oltre
alla
tesi
di
dottorato,
alle
lettere
ai
fratelli
e
agli
amici,
alle
descrizioni
del
comune
lavoro
con
Walter
in
esilio,
sono
pochi
i
documenti
biografici
su
Dora.
Trovo
le
indicazioni
più
ampie
in
un
saggio
di
Eva
SchöckQuinteros,
Dora
Benjamin:«dennichhoffe
nach dem Krieg in
America arbeiten zu
können». Stationen einer
vertriebenen
Wissenschaftlerin (19011946)
(Dora
Benjamin:
«perché
spero
di
poter
lavorare
in
America
dopo
la
guerra».
Tappe
di
una
scienziata
profuga,
1901-1946),
pubblicato
in
occasione
di
un
convegno
tenutosi
all’Università
di
Brema
nel
1997,
«Barrieren
und
Karrieren.
100
Jahre
Frauenstudium
in
der
Wissenschaft»
(Barriere
e
carriere.
Cento
anni
di
studio
femminile
nella
scienza).
La
testimonianza
principale
sull’impegno
politico
di
Dora
è
la
sua
tesi
di
dottorato.
A
differenza
dell’amica
Hilde
Lange,
che
studiava
giurisprudenza,
nel
suo
studio
dell’economia
politica
Dora
si
interessò
in
particolare
modo
delle
questioni
legate
a
maternità
e
lavoro.
Hilde
e
Dora,
quasi
coetanee,
si
erano
conosciute
quando
entrambe
si
preparavano
alla
maturità
liceale,
e
furono
da
allora
intime
amiche.
Fatta
eccezione
per
un
semestre
estivo
che
trascorsero
insieme
a
Heidelberg,
Hilde
compì
tutto
il
suo
percorso
universitario
nella
capitale
del
Reich.
Al
termine
dei
suoi
studi
Dora
andò
invece
per
un
semestre
a
Jena,
e
seguì
poi
a
Greifswald
il
suo
relatore,
Karl
Muhs,
che
nel
giugno
1924
giudicò
il
suo
lavoro
«ottimo»
e
raccomandò
che
venisse
ammesso
all’esame.
Le
ampie
ricerche
per
la
tesi
sollecitarono
anche
la
scelta
di
una
materia
secondaria
presso
la
facoltà
di
medicina:
«Igiene».
L’impressione
lasciata
in
lei
dalle
necessarie
visite
nelle
famiglie
o
dall’ambiente
domestico
delle
operaie
dovette
essere
così
incisiva
da
farle
comprendere,
come
afferma
SchöckQuinteros,
l’importanza
dell’igiene
per
la
vita
e
la
salute
delle
donne
e
delle
madri
che
lavoravano
in
casa,
e
soprattutto
per
i
loro
figli.
La
tesi
di
dottorato
è
uno
studio
accademico
sul
tema
«Lavoro
e
maternità».
Mette
in
dubbio
la
convinzione
ampiamente
diffusa
secondo
cui
«solo
l’occupazione
a
domicilio
procura
a
madri
e
bambini
posti
di
lavoro
irrinunciabili,
che
devono
essere
protetti».
Secondo
l’opinione
generale
il
lavoro
in
fabbrica
significava
allora
che
le
madri,
separate
dai
loro
bambini,
potevano
allattarli
troppo
di
rado
e
non
avevano
modo
di
controllarli
a
sufficienza.
A
ciò
veniva
ricondotto
l’aumento
del
tasso
di
mortalità
nei
neonati
e
nei
bambini
piccoli,
ma
anche
il
crescente
abbandono
che
colpiva
i
ragazzi.
La
ricerca
di
Dora
partiva
proprio
da
questo
punto.
Definiva
«immagine
distorta»
il
presunto
idillio
di
una
vita
da
madre
e
lavoratrice
a
domicilio
rispetto
a
quella
di
un’operaia
in
fabbrica,
e
replicava
con
la
tesi
che
proprio
il
lavoro
a
domicilio,
con
i
suoi
orari
di
lavoro
non
regolati,
in
locali
scuri
e
spesso
mal
arieggiati
era
dannoso
per
i
bambini.
Era
perciò
più
sensato
aiutare
le
operaie
delle
fabbriche
attraverso
la
creazione
di
asili
e
asili
nido,
e
di
curare
inoltre
la
formazione
attenta
delle
maestre.
Consigliava
anche
di
istituire
un’assicurazione
sulla
maternità
per
consentire
alle
madri
di
stare
insieme
ai
neonati
fino
al
termine
dell’allattamento.
Ma
soprattutto
Dora
Benjamin
esprimeva
l’opinione
che
il
lavoro
a
domicilio
comportasse
il
coinvolgimento
dei
bambini
nel
lavoro
stesso,
ai
fini
del
sostentamento,
e
che
perciò
promuovesse
il
lavoro
minorile.
Chi
sfoglia
la
tesi
di
Dora
Benjamin
vede
quanto
fossero
avanzate
le
sue
idee
ottantacinque
anni
fa.
Forse
sarebbe
utile
oggi,
nel
2014,
mandarne
una
copia
a
qualche
attivista
che
si
batte
in
favore
di
una
politica
familiare
conservatrice.
Dopo
gli
studi
e
il
dottorato
Dora
si
era
indirizzata
in
realtà
verso
una
carriera
accademica.
Era
fra
i
collaboratori
della
rivista
«Soziale
Praxis»
(Prassi
sociale).
«Le
sue
critiche
ai
tentativi
di
abbellire
la
realtà
del
lavoro
a
domicilio
divennero
sempre
più
taglienti
e
politiche»
scrive
Eva
Schöck-Quinteros.
La
vita
privata
di
Dora
non
viene
purtroppo
descritta
in
nessun
luogo.
Un
paio
di
fotografie
suggeriscono
di
collocarla
nella
serie
delle
donne
emancipate
e
illuminate
che
determinarono
a
quell’epoca
l’immagine
della
donna
moderna
e
consapevole
di
sé.
Il
contributo
di
SchöckQuinteros
su
Dora
rimanda
all’ultimo
suo
saggio
noto
sulla
donna
e
il
lavoro,
pubblicato
nel
1931
nel
volume
collettaneo
DieKulturder
Frau.
Eine
Lebenssymphonie im XX.
Jahrhundert
(La
cultura
della
donna.
Una
sinfonia
della
vita
nel
ventesimo
secolo).
La
sua
posizione
è
univoca
e
tuttora
attuale.
Sono
tre
i
lavori
svolti
dalle
donne:
la
cura
della
casa,
l’accudimento
e
l’educazione
dei
figli
e
l’occupazione
retribuita.
Anche
qui
Dora
mette
in
rilievo
il
pericolo
che,
a
causa
della
bassa
remunerazione,
i
bambini
vengano
fatti
lavorare
e
siano
così
privati
della
loro
infanzia.
La
sua
critica
si
rivolge
anche
alle
comunità
che
mettevano
a
disposizione
pochi
asili,
doposcuola
e
asili
nido.
La
crociata
pubblicistica
di
Dora
contro
la
concezione
dominante
nel
mondo
classista
postguglielmino
circa
i
ruoli
maschili
e
femminili
e
la
subordinazione
della
donna
nella
società
patriarcale
terminò
bruscamente.
Nel
suo
lavoro
Schöck-Quinteros
suppone
che
l’interesse
di
Dora
Benjamin
per
la
psicologia
e
la
pedagogia,
a
scapito
dell’economia
politica,
fosse
dovuto
alla
constatazione
che
«le
sue
analisi
impegnate
sul
lavoro
a
domicilio
come
causa
di
lavoro
minorile
non
avevano
smosso
nulla»
e
«di
fatto
non
avevano
aiutato
un
solo
bambino».
A
colpire
Dora
era
stato
in
primo
luogo
Georg
e
«il
suo
appassionato
impegno
sociale
e
le
sue
idee
per
una
politica
sanitaria
socialista»,
che
egli
sviluppò
insieme
a
importanti
riformatori
come
Ernst
Joel
e
Fritz
Fränkel.
Nasce
qui
la
loro
collaborazione
ai
progetti
del
Gesundheitshaus
socialista,
in
cui
dovevano
essere
ugualmente
messe
in
pratica
sia
l’assistenza
sanitaria
che
un’opera
di
educazione.
Questo
fu
l’obiettivo
perseguito
anche
dalla
mostra
«Nervi
sani»,
esposta
al
Gesundheitshaus
nell’ottobre
1929,
il
cui
motivo
conduttore
fu
così
descritto
da
Walter
Benjamin,
come
riportato
nel
lavoro
di
Schöck-Quinteros:
«Che
cosa
non
diventerà
un
corpus
delicti
per
chi
inesorabilmente
conduce
il
processo
contro
lo
sfruttamento,
la
miseria
e
la
stupidità?».
Per
gli
organizzatori
della
mostra
nulla
conta
più
di
questa
consapevolezza
e
del
piccolo
choc
«che
insieme
a
essa
sorge
dalle
cose
[...]
da
un
interno
dell’ufficio
di
collocamento
un
modulo
in
cui
su
dieci
colonne,
dall’alto
verso
il
basso,
è
stampata
sempre
e
solo
la
parola
“attendere”.
Assomiglia
al
bollettino
di
borsa
in
un
quotidiano.
Sopra,
di
traverso,
in
grassetto:
“Il
listino
del
povero”».
Un
altro
punto
focale
era
l’assistenza
nelle
dipendenze.
Dora
sosteneva
già
un
punto
di
vista
che
oggi,
pur
variamente
dimostrato,
non
è
ancora
condiviso
da
tutti:
cioè
che
la
dipendenza
non
è
un
crimine,
ma
una
malattia
che
deve
essere
curata
fra
l’altro
con
la
somministrazione
di
sostanze
sostitutive.
Come
mi
accade
spesso
quando
rifletto
sui
pochi
squarci
che
le
lettere
e
i
documenti,
insieme
al
saggio
di
Eva
SchöckQuinteros,
mi
aprono
sulla
vita
di
Dora
Benjamin,
anche
qui
ammiro
il
suo
pensiero
progressista
che
si
lascia
alle
spalle
molti
di
quei
pregiudizi
che
ancora
oggi,
più
di
settanta
anni
dopo
la
sua
morte,
determinano
le
azioni
della
nostra
società.
Appena
quattro
anni
più
tardi,
nel
1933,
la
visione
nazista
del
mondo
ha
distrutto
l’ottica
variegata
e
umanistica
del
Gesundheitshaus.
Nessuno
allora
era
dotato
di
sufficiente
fantasia
per
prevedere
che
la
rabbia
piccoloborghese
del
nazionalsocialismo,
satura
d’odio,
avrebbe
fatto
dimenticare
tutto
ciò
che
era
stato
pensato
in
precedenza.
Il
fascismo
hitleriano
eliminò
a
modo
suo
i
pesi
sociali
di
una
realtà
dissestata
dalla
guerra
e
dal
dopoguerra,
e
fece
sognare
alla
gente
un
futuro
libero
da
essi,
perché
avrebbe
separato
con
un
taglio
netto
la
vita
degna
e
quella
indegna.
Sotto
l’insegna
dell’arianizzazione
veniva
depredata
nel
contempo
una
parte
della
popolazione
che
contribuiva
in
maniera
significativa,
sia
in
ambito
culturale
che
economico,
alla
ricchezza
della
società.
In
due
successivi
passi,
dopo
il
1933,
ciò
portò
alla
cosiddetta
«soluzione
finale»
–
attraverso
la
Notte
dei
cristalli
nel
1938,
con
la
distruzione
dei
negozi
ebrei
e
il
furto
dei
loro
beni
privati,
e
nel
1941
con
l’inizio
della
deportazioni
e
lo
sterminio
in
massa
degli
ebrei
europei.
Nel
1933
Dora
aveva
trentadue
anni.
Si
stava
facendo
un
nome
in
campo
accademico
e
avrebbe
avuto
tutte
le
porte
aperte
per
una
carriera
di
successo.
Ma
la
consegna
del
potere
a
Hitler
distrusse
nello
stesso
tempo
«la
rete
di
contatti
professionali,
politici
e
interpersonali»
necessari
per
questo,
come
specifica
SchöckQuinteros
nel
suo
lavoro.
Cominciò
l’epoca
degradante
e
spesso
segnata
dagli
stenti
dell’emigrazione,
l’epoca
delle
persecuzioni,
del
carcere
e
della
fuga
dalla
Germania.
Nel
1933
le
fiamme
dell’incendio
al
Reichstag
illuminarono
un
paese
che
passo
dopo
passo
si
stava
trasformando
in
una
dittatura,
che
utilizzava
come
armi
politiche
la
sua
brama
di
morte
e
di
ricatto
predatorio,
e
che
nel
giro
di
dodici
anni
ridusse
l’Europa
in
macerie.
Per
Dora
l’arresto
del
fratello
Georg
e
del
suo
relatore,
il
professor
Fränkel,
furono
un
avvertimento
che
non
si
poteva
ignorare.
Fritz
Fränkel
fu
rilasciato
soprattutto
grazie
al
coraggioso
intervento
di
sua
moglie
Hilde,
con
l’ordine
di
lasciare
subito
il
Reich
tedesco.
Cosa
che,
a
quanto
pare,
riuscì
a
fare
anche
grazie
allo
scrittore
Wolfgang
Hellmert,
come
dimostra
Schöck-Quinteros.
Hellmert
fu
uno
dei
numerosi
poeti
dimenticati
che
prima
del
1933
si
approssimavano
alla
fama
e
che
oggi
solo
pochi
esperti
ricordano.
Hellmert
faceva
parte
della
cerchia
di
Klaus
Mann,
ed
emigrò
a
Parigi
dove
morì
a
ventotto
anni.
Era
considerato
un
poeta
della
Nuova
oggettività.
I
suoi
libri,
come
quelli
di
molti
altri
scrittori,
finirono
sul
rogo
acceso
nel
1933
dagli
studenti
che
aizzati
dall’araldo
di
Hitler,
Joseph
Goebbels,
sarebbero
diventati
«Herrenmenschen».
I
Fränkel
in
fuga
fecero
una
breve
sosta
in
Svizzera,
prima
di
andare
a
Parigi
dove
Fritz
aprì
uno
studio
medico.
Walter
Benjamin,
che
nel
1933
lasciò
la
Germania,
emigrò
anch’egli
nella
sua
seconda
patria,
a
Parigi,
e
alloggiò
per
qualche
tempo
presso
i
Fränkel.
Là
arrivò
infine
anche
Dora.
La
quale
trascorse
il
periodo
intorno
alla
Pasqua
del
1933
in
Svizzera,
tornò
una
volta
a
Berlino
ma
dovette
riconoscere
che
ogni
speranza
in
una
fine
del
terrore
nazista
era
vana
e,
nell’agosto
1933,
scelse
definitivamente
la
via
dell’esilio
verso
la
Francia.
Fu
anche
un
addio
alla
carriera
e
alla
vita
universitaria.
L’imperativo
divenne
allora
letteralmente
il
sopravvivere.
In
Francia
regnava
una
strana
ambivalenza
nei
confronti
della
Germania
hitleriana.
Il
fatto
che
la
squadra
olimpica
francese
nel
1936
facesse
il
suo
ingresso
all’Olympiastadion
di
Berlino
con
il
braccio
levato
nel
saluto
hitleriano
è
stato
variamente
commentato.
Molti
emigranti
raccontano
nelle
loro
memorie
quanto
scarsa
fosse
la
comprensione,
soprattutto
negli
Uffici
passaporti
e
delle
amministrazioni,
per
quanti
erano
fuggiti
dalla
Germania.
Soprattutto
gli
ebrei
incontravano
riserve.
L’ostacolo
maggiore
–
e
ciò
vale
ancora
oggi
per
la
legislazione
restrittiva
che
regola
il
soggiorno
degli
stranieri
in
Germania
–
era
il
permesso
di
soggiorno
per
gli
emigranti
o
i
profughi.
Subito
dopo
il
suo
arrivo
a
Parigi,
il
17
agosto
1933,
Dora
fa
domanda
per
il
rilascio
della
Carte
d’identité,
che
deve
aspettare
con
inquietudine
fino
al
marzo
1934.
E
poi:
come
guadagnare
del
denaro?
Non
era
previsto
in
tutto
ciò
un
permesso
di
lavoro.
Com’era
possibile
vivere
a
Parigi
in
condizioni
del
genere?
Dora
si
cercò
diversi
impieghi
e
lavorò
come
collaboratrice
domestica
e
donna
delle
pulizie.
Al
più
tardi
nel
1935-36
dovette
prendere
atto
che
soffriva
di
spondilite
o
morbo
di
Bechterev,
una
dolorosa
–
e
incurabile
–
artrite
reumatoide
che
a
poco
a
poco
può
condurre
al
totale
irrigidimento
della
colonna
vertebrale,
ma
anche
di
altre
articolazioni
e
organi.
L’amica
Hilde,
che
fino
allo
scoppio
della
guerra
fu
in
contatto
epistolare
con
Dora,
lo
riferì
a
Georg
in
prigione.
Dal
carcere
preventivo
di
Moabit,
a
Berlino,
Georg
scrisse
nel
1936
una
lettera
allarmata
chiedendo
a
Hilde
se
«Dodo»,
come
chiamava
la
sorella,
fosse
consapevole
della
gravità
del
disturbo.
Georg
era
preoccupato
per
Dora
poiché,
così
scrisse
a
Hilde
nel
settembre
1936,
la
cosa
peggiore
della
malattia
«è
la
sua
inarrestabilità,
pur
essendo
il
progresso
generalmente
molto
lento»
–
com’era
ancora
nel
suo
caso.
Georg
aveva
ragione.
Le
condizioni
di
Dora
peggiorarono
in
maniera
sensibile,
costringendola
a
lasciare
il
faticoso
impiego
di
collaboratrice
domestica.
Nel
suo
piccolo
appartamento
in
rue
Robert
Lindet
7
lavorò
per
una
organizzazione
di
profughi
occupandosi
di
bambini
traumatizzati,
e
quel
che
guadagnava
bastava
appena
per
l’affitto
e
qualche
magro
pasto.
Quando
Walter
le
chiese
se
poteva
aiutarla
finanziariamente
lei
gli
descrisse
la
precarietà
della
sua
situazione,
in
parte
determinata
dalla
malattia.
Il
lavoro
con
i
bambini
esauriva
già
le
sue
forze.
Dora
gli
mandò
una
lettera,
in
cui
fra
l’altro
scriveva:
«Ma
credo
che
tu
non
abbia
ben
chiaro
cosa
significhi
per
me
la
lotta
per
l’esistenza,
cosa
significhi
lavorare
con
forti
dolori
quasi
ogni
giorno».
È
possibile
che
Fritz
Fränkel
le
abbia
parlato
di
uno
specialista
a
Berlino.
I
rapporti
di
Dora
con
i
Fränkel
furono
sempre
stretti
anche
a
Parigi.
Nel
gennaio
1938
Dora
si
azzardò
in
ogni
caso
a
compiere
il
viaggio
a
Berlino,
dove
fu
sottoposta
a
cure
fino
al
marzo
1938.
In
questo
periodo
fu
certo
in
contatto
con
la
cognata
Hilde,
che
molto
probabilmente
aveva
organizzato
ogni
cosa
perché
Dora
si
ristabilisse.
Quali
che
fossero
le
rassicurazioni
ricevute
dal
consolato
tedesco
a
Parigi,
dopo
tre
mesi
di
cure
a
Berlino
poté
tornare
indisturbata
a
Parigi.
Nel
novembre
dello
stesso
anno
le
sinagoghe
in
fiamme
illuminarono
i
terribili
pogrom
nelle
strade
di
Berlino
e
del
Reich.
Il
ritorno
di
Dora
a
Parigi
fu
accompagnato
da
una
felicità
doppia.
Le
cure
a
Berlino
le
avevano
procurato
un
certo
sollievo
dai
dolori,
e
aveva
conosciuto
Gert.
Chi
fosse
Gert
e
cosa
l’avesse
portato
a
Parigi
non
si
sa.
In
luglio
Walter
Benjamin,
che
era
andato
a
trovare
il
suo
amico
Bertolt
Brecht
in
Danimarca,
riceve
un
biglietto
da
Dora
per
il
suo
compleanno,
citato
anche
da
SchöckQuinteros:
«Se
non
torni
troppo
tardi
farai
in
tempo
a
conoscere
Gert.
Resterà
probabilmente
fino
agli
ultimi
giorni
di
settembre.
Ancora
non
sappiamo
quali
saranno
i
nostri
progetti
per
il
futuro.
Naturalmente
non
sarà
facile
e
nel
futuro
più
prossimo
per
me
non
cambierà
niente.
Gert
deve
ancora
sostenere
il
suo
esame».
Non
possiamo
dire
cosa
significasse
per
lei
questa
relazione,
quanto
fosse
stata
importante
e
intensa,
appagamento
e
amore
per
qualche
mese,
quanto
meno
una
breve
pausa
da
tutto
quel
che
l’aveva
assillata
fino
ad
allora
e
che
avrebbe
continuato
ad
assillarla
in
seguito.
Un’estate
d’amore
a
Parigi,
e
un
anno
dopo
Dora
scrisse
a
Walter
che
ignorava
dove
fosse
finito
il
compagno.
Gert
dovette
lasciare
la
Francia
e
tornare
in
Germania
perché
era
scoppiata
la
guerra?
Era
stato
richiamato?
Ed
era
ancora
vivo,
o
aveva
partecipato
come
soldato
all’invasione
della
Polonia
ed
era
caduto?
Chi
fosse
e
quali
fossero
le
sue
idee,
perché
si
trovasse
a
Parigi
e
come
avesse
conosciuto
Dora,
sono
tutte
domande
senza
risposta.
È
del
tutto
possibile
che
un
bel
giorno
fosse
comparso
dai
Fränkel.
Forse
un
amico
l’aveva
portato
con
sé
nel
salotto,
oggi
famoso,
al
numero
10
della
rue
Dombasle,
dove
si
incontrava
spesso
un’illustre
schiera
di
emigrati.
Nonna
Fränkel,
la
madre
di
Fritz,
abitò
per
qualche
tempo
da
Dora
e
si
occupò
della
casa.
Vedo
Dora
in
una
foto
in
bianco
e
nero.
Porta
un
cappello
a
tesa
larga,
come
andavano
al
tempo,
un
po’
obliquo
sul
capo
e
i
capelli
probabilmente
corti,
forse
con
il
caschetto
che
era
di
moda
verso
la
fine
degli
anni
Venti.
Il
suo
viso
è
leggermente
ombreggiato
dall’ampia
tesa.
Uno
sguardo
scettico,
rivolto
a
sinistra
e
distolto
dall’osservatore.
Il
naso
piccolo
e
la
bocca
piena
che
agli
angoli,
con
un
po’
d’autoironia,
soffoca
un
sorriso
e
non
gli
concede
di
schiudersi.
Una
giovane
donna
attraente
e
consapevole
di
sé,
un
ritratto
a
mezzo
busto
che
fa
pensare
a
una
corporatura
di
media
altezza.
Il
15
maggio
1940
Dora
–
scrive
Eva
SchöckQuinteros
–,
come
tutte
le
donne
non
sposate
e
senza
figli
in
un’età
compresa
fra
i
diciassette
e
i
cinquantacinque
anni,
deve
presentarsi
al
Vélodrome
d’Hiver.
Il
bagaglio
non
può
superare
i
trenta
chili
e
oltre
alle
provviste
per
due
giorni,
a
posate
e
stoviglie,
consiste
in
vestiti
e
un
po’
di
biancheria
intima.
Dora
potrebbe
avere
incontrato
là
Lisa
Fittko,
che
in
seguito
avrebbe
condotto
sui
Pirenei,
oltre
la
frontiera
con
la
Spagna,
il
profugo
Walter
Benjamin
e
poi
anche
Hannah
Arendt
e
Fränze
Neumann,
l’amica
di
Fritz
Fränkel
che
nel
1935
si
era
separato
dalla
moglie
Hilde.
Pochi
giorni
dopo
Dora,
insieme
a
più
di
duemila
donne,
fu
consegnata
con
il
primo
trasporto
nel
famigerato
campo
d’internamento
di
Gurs,
nei
Pirenei.
Dopo
l’avanzata
della
Wehrmacht
verso
il
confine
olandese
e
poi
il
bombardamento
e
l’occupazione
del
Benelux
in
maggio
si
poteva
prevedere
quando
Hitler
avrebbe
dominato
l’intera
Europa
occidentale,
compresa
la
Francia.
Il
14
giugno
1940
la
Wehrmacht
occupò
Parigi.
Con
l’armistizio
del
22
giugno
e
l’occupazione
parziale
della
Francia
molti
internati,
nella
Francia
di
Vichy,
poterono
lasciare
Gurs.
Dora
Benjamin
riuscì
a
raggiungere
Lourdes,
dove
trovò
il
fratello
Walter.
Anche
Hannah
Arendt
era
nella
famosa
città
dei
pellegrinaggi.
Là
incontrò
Walter
Benjamin,
con
cui
era
in
rapporti
di
amicizia,
come
raccontò
in
una
lettera
inviata
a
Theodor
W.
Adorno
a
New
York,
senza
tuttavia
dire
se
fosse
presente
anche
Dora.
Forse
non
si
videro
affatto,
se
si
considera
la
possibilità
che
dopo
il
forzato
addio
a
Parigi
e
le
settimane
di
internamento
Dora
soffrisse
di
una
forte
ricaduta
della
sua
malattia
reumatica
e
fosse
costretta
a
letto.
Fratello
e
sorella
abitavano
in
rue
Notre
Dame.
Si
separarono
alla
fine
di
luglio,
quando
Walter
partì
per
Marsiglia.
Sperava
di
espatriare
negli
Stati
Uniti,
paese
per
cui
Max
Horkheimer
gli
aveva
procurato
un
visto.
Non
si
videro
più.
Dal
questionario
delle
autorità
svizzere
si
deduce
che
Dora
rimane
un
altro
anno
a
Lourdes,
prima
di
recarsi
anche
lei
a
Marsiglia
nell’agosto
1941.
Ha
un
affidavit
necessario
per
l’ingresso
negli
Stati
Uniti.
Se
aveva
sperato
di
ottenere
come
Walter
un
visto
tramite
l’Emergency
Rescue
Committee,
era
arrivata
troppo
tardi.
A
quell’epoca
l’ufficio
del
comitato
a
Marsiglia
doveva
essere
già
chiuso
e
il
suo
direttore,
l’americano
Varian
Fry,
era
stato
arrestato.
La
situazione
dei
profughi
ebrei
dalla
Germania
era
drammatica.
Le
autorità
naziste
richiedevano
ai
francesi
di
riconsegnarli.
Cominciarono
le
deportazioni
dalla
Francia.
Nel
1942
la
Wehrmacht
occupò
anche
il
sud
del
paese,
e
a
Dora
restavano
ormai
poche
alternative,
se
voleva
salvarsi
la
vita.
O
la
fuga
al
di
là
dei
Pirenei,
o
la
clandestinità
nel
paese,
o
il
passaggio
illegale
della
frontiera
con
la
Svizzera.
Eva
Schöck-Quinteros
dimostra
che
Dora
scelse
quest’ultima
via.
Sui
suoi
ultimi
mesi
in
Francia
esiste
un
verbale
delle
autorità
svizzere,
citato
da
Eva
SchöckQuinteros:
«Nell’agosto
[1942]
avrei
dovuto
essere
arrestata
dalla
polizia
francese
e
deportata,
ma
fui
rilasciata
grazie
a
un
certificato
medico.
Dopo
l’entrata
dei
tedeschi
nella
zona
libera
fui
costretta
a
tenermi
costantemente
nascosta.
Nonostante
gli
sforzi
impiegati
nel
corso
di
mesi
per
ottenere
il
visto
di
ingresso
in
Svizzera,
non
lo
ottenni.
Nel
timore
di
essere
presa
in
qualsiasi
momento
dai
tedeschi
lasciai
Aix-enProvence
il
17
(dicembre
1942)
e
quello
stesso
giorno
varcai
la
frontiera
svizzera
a
Landecy,
dove
mi
consegnai
spontaneamente
(ci
consegnammo
spontaneamente)
ai
soldati.
Questi
ci
trasferirono
poi
alle
autorità
militari».
La
sua
vita
in
Svizzera
può
essere
ricostruita
attraverso
le
lettere
e
le
fonti
ufficiali
a
cui
poté
avere
accesso
Eva
Schöck-Quinteros,
in
cui
appaiono
evidenti
le
difficoltà
che
dovettero
superare
gli
emigranti
che
volevano
raggiungere
la
Svizzera
e
soggiornarvi
in
sicurezza.
In
una
lettera
del
marzo
1946
a
Theodor
W.
Adorno,
indirizzata
a
New
York,
Dora
descrive
il
modo
in
cui
da
Aix-en-Provence
arrivò
alla
frontiera
svizzera.
«Nell’agosto
1942
avrei
dovuto
essere
presa
e
deportata,
e
fui
salvata
soltanto
da
un
certificato
dell’ufficiale
sanitario
che
confermava
la
mia
inadeguatezza
ad
affrontare
il
trasporto;
all’epoca
avevo
trascorso
diversi
mesi
a
letto
con
forti
reumatismi
articolari.
La
malattia
mi
impedì
di
fuggire
in
Svizzera
prima
che
il
resto
della
Francia
fosse
anch’esso
occupato.
Durante
l’invasione
dei
tedeschi
ebbi
la
fortuna
di
potermi
nascondere
in
una
fattoria
vicino
a
Aixen-Provence,
dove
avevo
vissuto.
Alla
fine
di
dicembre
del
’42
riuscii
a
fuggire
in
Svizzera,
un’impresa
già
allora
molto
rischiosa,
perché
la
frontiera
era
sorvegliata
dai
tedeschi.
In
Francia
viaggiai
con
documenti
falsi.
Il
passaggio
della
frontiera
fu
una
marcia
notturna
a
piedi,
molto
eccitante
e
avventurosa.
Arrivata
in
terra
svizzera
ebbi
la
sfortuna
di
finire
in
un
posto
di
dogana
dove
fui
minacciata
in
un
primo
momento
di
essere
rimandata
al
di
là
della
frontiera.
E
questo
quando
credi
di
avere
raggiunto
la
salvezza!
Fu
un
terribile
choc.
Ero
decisa
a
seguire
l’esempio
di
Walter
pur
di
non
tornare
indietro,
cosa
che
avrebbe
significato
la
deportazione
quasi
sicura.
Per
fortuna
riuscii,
dopo
ore
di
contrattazioni,
a
farmi
ammettere.
Gli
eventi
di
questi
anni
hanno
naturalmente
lasciato
su
di
me
le
loro
tracce,
e
a
ciò
riconduco
in
sostanza
il
peggioramento
del
mio
stato
di
salute».
La
durezza
con
cui
la
Svizzera
respingeva
i
profughi
e
rifiutava
soprattutto
di
accogliere
gli
ebrei
veniva
da
una
disposizione
del
capo
della
Sezione
di
polizia
del
Dipartimento
federale
di
Giustizia
e
Polizia:
i
confini
dovevano
essere
completamente
chiusi.
Tutti
i
profughi
civili,
anche
ebrei,
venivano
mandati
indietro.
Fu
un
ignoto
ufficiale
svizzero
a
ordinare
che
Dora
non
fosse
direttamente
«espulsa»
dalle
guardie
di
frontiera
Ernest
Strasser
e
G.
A.
Schoenbachler,
ma
venisse
invece
arrestata
e
portata
nel
campo
di
Charmilles.
Il
motivo
della
lettera
non
ha
tuttavia
nulla
a
che
fare
con
la
storia
delle
sue
sofferenze.
Queste
sono
descritte
in
ogni
caso
con
un’intima
distanza,
affinché
Adorno
possa
prenderle
solo
come
una
spiegazione
per
l’inconsueta
forma
dello
scritto.
Le
preme
soltanto
che
l’opera
del
fratello
Walter
abbia
un
riconoscimento
adeguato,
che
sia
ordinata
e
il
più
possibile
pubblicata,
cosa
a
cui
esorta
Adorno.
Nello
stesso
tempo
informa
l’amico
di
Walter
a
New
York
che
il
suo
secondo
fratello
Georg,
dopo
aver
scontato
una
pena
carceraria
di
sei
anni,
nell’agosto
1942
era
stato
ucciso
nel
campo
di
concentramento
di
Mauthausen.
Poi
ritorna
a
Walter
e
racconta
di
aver
avuto
grandi
difficoltà
in
Francia
subito
dopo
la
sua
morte
a
Portbou,
e
certo
in
relazione
con
essa.
«Interrogatori,
perquisizioni
domiciliari
ecc.
senza
che
abbia
potuto
capire
cosa
volessero
davvero
da
me».
Questo
generico
accenno
ci
ricorda
ancora
una
volta
come
non
sia
mai
stato
fugato
il
dubbio
se
la
versione
ufficiale
sulla
morte
di
Walter
Benjamin
a
Portbou
corrisponda
davvero
ai
fatti.
Il
sospetto
che
la
Gestapo
dei
nazisti,
in
collegamento
con
i
fascisti
spagnoli
di
Franco,
possa
aver
avuto
la
sua
parte
è
suggerito
anche
dal
documentario
argentino
di
Davi
Mauas
«Chi
ha
ucciso
Walter
Benjamin?»,
uscito
nei
cinema
nel
2005.
Nel
film
si
rivela
come
sia
il
medico
che
attestò
la
causa
della
morte
sia
il
proprietario
della
pensione
in
cui
Benjamin
si
sarebbe
suicidato
ebbero
un
importante
ruolo
tra
i
falangisti
spagnoli
della
regione.
Il
mistero
del
manoscritto
scomparso
che
Walter
Benjamin
portava
con
sé
e
di
cui
disse
a
Lisa
Fittko,
la
sua
guida
fino
al
confine
spagnolo
oltre
i
Pirenei,
che
era
«più
importante
della
sua
vita»
–
dov’è
finito?
Solo
la
sua
cartella
vuota
fu
inventariata.
Chi
prese
con
sé
il
manoscritto
e
perché,
chi
fu
esortato
a
farlo?
Mancano
anche
gli
occhiali,
la
pipa
e
una
radiografia.
Forse
non
verrà
mai
data
una
risposta
a
queste
domande,
e
forse
non
è
nemmeno
importante
che
l’ebreo
Walter
Benjamin
sia
stato
sepolto
in
un
cimitero
cattolico,
cosa
tuttavia
inconsueta.
Per
Dora
l’esilio
in
Svizzera
era
come
una
rete
fatta
di
pregiudizi,
oltre
che
di
ordinanze
e
divieti,
appuntati
in
special
modo
contro
gli
emigranti
ebrei.
Una
rete
che
di
fatto
non
consentiva
nessuna
libertà
di
movimento
ed
era
accompagnata
dal
divieto
di
lavorare.
La
cosa
più
urgente
per
lei
era
uscire
in
fretta
dal
famigerato
campo
di
Charmilles.
Le
lettere
indirizzate
ad
amici
svizzeri
fanno
capire
molto
bene
quale
fosse
la
situazione
degli
emigranti
a
cui
era
consentito
di
rimanere
in
Svizzera.
Persone
abbastanza
influenti
fecero
sì
che
le
fosse
rilasciato
infine
un
permesso
per
motivi
di
salute
e
che
potesse
farsi
curare
a
Zurigo.
L’internamento
nel
Lager
fu
notevolmente
mitigato
da
un
internamento
«privato».
Con
l’aiuto
del
Soccorso
operaio
svizzero
Dora
ottenne
in
effetti
un
posto
non
retribuito
presso
un
insegnante
a
Regensberg,
nel
Canton
Zurigo.
Questi
dirigeva
un
centro
educativo
per
bambini
deboli
di
mente,
ma
in
grado
di
apprendere.
«Dal
5
del
mese
sono
qui
a
Regensberg,
nella
famiglia
dell’insegnante
del
grande
istituto
locale
per
deboli
di
mente»
scrive
Dora
in
una
lettera
del
maggio
1943.
Era
stata
accolta
con
molto
affetto
e
aveva
la
possibilità
di
coniugare
il
riposo
con
un’attività
interessante.
Poiché
non
viveva
all’interno
dell’istituto
era
libera
di
disporre
del
proprio
tempo.
Aveva
già
avuto
i
primi
positivi
contatti
e
poteva
lavorare
nell’ambito
della
sua
specializzazione,
sperando
di
poter
giovare
a
qualche
bambino
anche
dal
punto
di
vista
psicoterapeutico.
Doveva
però
presentarsi
regolarmente
all’amministrazione
militare,
e
per
qualsiasi
spostamento
o
piccolo
viaggio
che
la
allontanava
da
Regensberg
era
necessaria
un’autorizzazione.
Eva
Schöck-Quinteros
evidenzia
come
Dora
avesse
ricominciato
a
pensare
al
futuro,
sperava
che
la
guerra
finisse
e
di
poter
riprendere
il
lavoro
e
le
proprie
ricerche
negli
Stati
Uniti.
«Vivo
qui»
scrive
nel
1943,
«un
po’
stregata
–
in
uno
strano
ambiente
fra
deboli
di
mente
e
sordomuti,
e
fra
i
pochi
abitanti
nominalmente
“normali”
del
nostro
villaggio,
fatto
di
dieci
case.
Ma
naturalmente
sono
felicissima
di
aver
trovato
questa
ospitalità
–
che
è
già
diventata
amicizia
–
e
attendo
con
impazienza
il
momento
in
cui
la
salute
mi
concederà
di
dedicare
molto
più
tempo
alla
ricerca.
Devo
prepararmi
a
poco
a
poco,
perché
spero
di
poter
lavorare
in
America
dopo
la
guerra».
Quattro
settimane
più
tardi
scrive
di
avere
grande
speranza
che
la
guerra
possa
presto
finire.
Voleva
tentare
già
allora
qualche
passo
perché
il
visto
americano
fosse
davvero
pronto
al
momento
buono.
Sembrava
che
sarebbe
stato
possibile
espatriare
attraverso
l’Italia
già
prima
della
fine
della
guerra.
Dora
fu
costretta
tuttavia
nuovamente
a
un’altra
lunga
degenza
nell’Ospedale
cantonale
di
Zurigo,
al
cui
termine
la
attendeva
la
devastante
diagnosi:
cancro
al
seno.
La
sua
aspettativa
massima
di
vita,
secondo
la
stima
dei
medici,
non
superava
i
tre
anni.
Non
ci
sono
commenti
da
parte
sua
o
degli
amici
che
facciano
capire
come
avesse
reagito
alla
notizia.
È
certo
però
che
tornò
a
immergersi
nel
lavoro.
Intrattenne
anche
un
fitto
scambio
sulla
futura
organizzazione
degli
istituti
pedagogici
nella
Germania
del
dopoguerra.
Propose
inoltre
(non
senza
giudicare
la
cosa
«forse
totalmente
irrealizzabile»)
di
introdurre
in
Germania
due
generi
di
passaporti:
quello
comune
e
una
«sorta
di
passaporto
preferenziale
per
le
persone
dal
provato
atteggiamento
antifascista».
Era
convinta
che
in
questo
modo
si
sarebbero
facilitati,
o
comunque
resi
possibili,
i
viaggi
all’estero
per
la
seconda
categoria.
E
tanto
più
riteneva
assolutamente
indispensabile
che
i
futuri
insegnanti
«ampliassero
i
loro
orizzonti
attraverso
la
conoscenza
di
altri
paesi
–
questo
ora
è
più
importante
che
mai».
Come
avrebbe
reagito
se
avesse
visto
il
paese
diviso
e,
in
Germania
Occidentale,
le
vecchie
élite
naziste
che
continuavano
a
occupare
le
loro
cariche
e
uffici?
Si
impegnò
anche
attivamente
nella
formazione
di
chi
allora
e
poi
dopo
la
guerra
si
sarebbe
occupato
dei
bambini
e
dei
giovani
che
i
campi
di
concentramento,
la
fuga
e
la
guerra
avevano
sradicato
dal
loro
mondo.
Dovette
essere
gratificante
vedere
come
il
suo
sapere
e
le
sue
competenze
fossero
richiesti.
Quando
nel
febbraio
1944
si
costituì
un
comitato
di
organizzazioni
umanitarie
svizzere
e
internazionali
che
avrebbe
dovuto
istituire
corsi
di
formazione
per
personale
di
sostegno
nel
dopoguerra,
fra
i
docenti
vennero
inclusi
anche
alcuni
profughi.
Dora
Benjamin
avrebbe
collaborato
nel
campo
della
psicologia
e
della
pedagogia.
Il
tema
specifico
del
suo
seminario
sarebbe
stato
l’assistenza
psicologica
ai
bambini
che
avevano
subito
danni
a
causa
della
guerra.
La
sconfitta
dello
stato
hitleriano
restituì
evidentemente
a
Dora
forza,
speranza
e
fiducia,
tanto
da
allontanare
sullo
sfondo
la
sua
infermità.
Subito
dopo
la
guerra
era
certa
di
riscuotere
l’attenzione
di
una
parte
dell’opinione
pubblica
svizzera.
Ugualmente
certo
è
che
pose
le
basi
per
un
lavoro
psicologico-pedagogico
con
i
bambini
e
i
ragazzi
vittime
di
traumi,
che
avrebbe
permesso
loro
di
ricominciare
a
vivere.
Oggi
la
ricorda
il
parco
intitolato
a
lei
a
Friedrichshain,
nella
parte
orientale
di
Berlino.
Dora
Benjamin
morì
in
esilio
in
Svizzera
nel
1946.
Capitolo
quarto
L’esilio
Nel
1933
Walter
Benjamin
non
aveva
altra
scelta
se
non
Parigi,
quale
luogo
in
cui
voltare
le
spalle
alla
Germania.
Dora
lo
seguì,
e
forse
lo
stesso
avrebbe
fatto
anche
Georg
Benjamin
con
la
sua
famiglia
se,
in
quanto
comunista
e
oppositore
del
nazismo,
non
fosse
stato
rinchiuso
in
«detenzione
protettiva»
già
nel
1933,
subito
dopo
l’incendio
del
Reichstag.
I
due
fratelli
e
la
sorella
furono
così
separati.
Ciò
seguiva
la
logica
di
un’epoca
che
nella
sua
brama
di
rivalsa
era
pronta
a
qualsiasi
orrore
nazionalista.
Il
fascismo
tedesco
aveva
inoltre
l’ambizione
patologica
di
caricare
in
senso
razzista
la
sua
«ideologia
dei
bassifondi»
(Hannah
Arendt).
Era
una
miscela
assassina,
che
si
sarebbe
rivelata
insieme
autodistruttiva.
Nella
scelta
del
paese
in
cui
prendere
la
via
dell’esilio
Walter
e
Dora
Benjamin
seguivano
Heinrich
Heine
o
Ludwig
Börne
e
altri
intellettuali
rivoluzionari
e
sgraditi,
che
nel
corso
della
storia
furono
scacciati
dalla
Germania.
L’ondata
di
emigranti
che
fece
seguito
alla
rivoluzione
sconfitta
del
1848
doveva
ripetersi.
Nel
1934
circa
sessantamila
persone
avevano
lasciato
la
Germania,
due
anni
dopo
erano
già
più
di
centomila.
Nell’insieme
furono
più
di
mezzo
milione
quelli
che
si
lasciarono
alle
spalle
il
paese,
e
fra
questi
un
buon
novanta
per
cento
era
perseguitato
per
motivi
razziali.
Molti
esercitavano
mestieri
proibiti
agli
ebrei
nella
Germania
nazista.
La
scena
culturale
si
impoverì
tutt’a
un
tratto.
Le
opere
degli
«artisti
degenerati»
nelle
arti
figurative
e
in
letteratura
furono
distrutte
o
bruciate,
e
l’esistenza
dei
loro
creatori
fu
così
annientata.
Fuggirono
o
furono
privati
della
cittadinanza,
e
ciò
accadde
a
intellettuali
come
Benjamin
o
a
socialdemocratici
e
comunisti.
Trovarono
dimora
in
Francia,
classica
terra
di
asilo,
che
nel
1933
rilasciava
ancora
generosamente
i
suoi
permessi
di
soggiorno.
Questo
ebbe
termine
però
nel
1940,
quando
in
due
fasi
la
Francia
fu
aggredita
e
occupata
dalla
Wehrmacht.
Il
numero
dei
richiedenti
asilo
in
Francia,
in
drammatico
aumento
dopo
il
1933,
comportò
problemi
sociali
e
politici
per
il
paese,
già
di
per
sé
tutt’altro
che
stabile
al
suo
interno.
A
tratti
la
Francia
minacciava
di
scivolare
nel
fascismo,
come
l’Italia
e
la
Germania
e
in
seguito
la
Spagna.
Fu
un
segno
esplicito
del
clima
politico
imperante
allora
in
Francia
il
fatto
che
la
squadra
nazionale
francese,
il
giorno
di
apertura
delle
Olimpiadi
nel
1936,
sfilasse
davanti
al
palco
del
Führer
nell’Olympiastadion
di
Berlino
facendo
il
saluto
hitleriano.
Fattori
scatenanti
di
rapporti
che
in
certi
momenti
rasentarono
la
guerra
civile
furono
un
montante
e
aggressivo
estremismo
di
destra
e
uno
scandalo
quasi
dimenticato
che
tra
la
fine
del
1933
e
l’inizio
del
1934
portò
a
una
grave
crisi
di
politica
interna.
Al
centro
di
tutto
c’era
il
banchiere
russo
ebreo
Serge
A.
Stavisky,
strettamente
legato
al
mondo
della
politica,
che
dopo
la
scoperta
delle
sue
pesanti
truffe
era
morto
mentre
si
trovava
in
fuga
dalla
polizia.
Per
paura
che
venisse
alla
luce
il
proprio
coinvolgimento
nell’affare
e
soprattutto
nell’uccisione
del
banchiere
la
destra
radicale,
sostenuta
da
una
molesta
stampa
di
destra,
cercò
di
addossare
tutta
la
colpa
sul
regime
liberale
del
primo
ministro
Chautemps.
La
cosa
fu
agevolata
dal
fatto
che
alcuni
membri
del
suo
gabinetto
erano
anch’essi
pesantemente
compromessi.
Le
dimissioni
del
regime
Chautemps
traferirono
sulla
strada
il
conflitto
fra
le
parti
politiche,
ci
furono
morti
e
feriti,
e
una
guerra
civile
minacciò
di
scoppiare.
L’attentato
mortale
dei
nazionalisti
croati
a
Marsiglia
nel
1943
contro
il
re
jugoslavo,
che
si
trovava
in
visita
di
stato
in
Francia
ed
era
accompagnato
dal
ministro
degli
Esteri
francese,
attizzò
nuovamente
la
dilagante
xenofobia
e
l’antisemitismo
nel
paese,
facendo
sì
fra
l’altro
che
gli
emigranti
fossero
consegnati
ai
loro
persecutori,
soprattutto
alla
Germania.
Solo
un’ampia
«tregua
fra
i
partiti»
salvò
la
Terza
Repubblica
e
la
Francia
democratica,
prima
dell’attacco
da
parte
della
Wehrmacht,
che
ne
segnò
la
fine.
Per
molti
profughi
l’incerta
situazione
politica
interna
in
Francia
fu
un
motivo
per
rifugiarsi
temporaneamente
in
Spagna.
Alcuni
scoprirono
l’isola
di
Ibiza,
che
non
conoscevano.
Anche
Walter
Benjamin
andò
là
e
insieme
allo
scrittore
francese
Jean
Selz
si
cimentò
in
una
traduzione
della
sua
Infanziaberlineseintorno
al millenovecento.
Il
progetto
fallì,
e
così
il
tentativo
di
trovare
un
editore
per
la
sua
Strada
a senso unico.
Furono
però
fortissimi
accessi
di
febbre
che
posero
termine
alla
sua
collaborazione
con
Selz
e
costrinsero
Benjamin,
malato
di
malaria,
a
lasciare
Ibiza
e
a
tornare
a
Parigi,
dove
si
affidò
alle
cure
di
un
medico
amico.
Il
biografo
Fuld
ricorda
che
alla
fine
del
1933
Walter
Benjamin,
nuovamente
a
Parigi,
si
trovava
in
una
situazione
totalmente
disperata.
Era
così
indebolito
dalla
malattia
che
non
riusciva
a
salire
i
gradini
fino
al
suo
albergo
di
terza
classe
in
un
sobborgo
parigino.
Per
vergogna
della
propria
povertà
viveva
isolato
e
cercò
tuttavia
di
intrattenere
rapporti
con
quei
letterati
francesi
che
facessero
balenare
qualche
opportunità
di
pubblicazione.
Dopo
il
ritorno
dalle
vacanze
estive,
quando
la
città
sulla
Senna
si
era
in
gran
parte
svuotata,
i
parigini
si
imbatterono
nei
tantissimi
emigranti
che
nelle
sale
d’attesa
sovraffollate
dei
comitati
d’aiuto,
istituiti
in
fretta
e
furia,
speravano
in
un
sostegno.
Fra
questi
c’era
anche
Walter
Benjamin.
Ciò
spiega
la
sua
lettera
alla
sorella,
ugualmente
malata
e
senza
mezzi,
in
cui
le
chiedeva
se
avesse
potuto
mandargli
una
piccola
somma
di
denaro.
Lei
però
guadagnava
così
poco
che
bastava
appena
per
l’affitto
e
a
stento
per
un
pasto
quotidiano.
In
seguito
la
sua
situazione
migliora
quando
Gretel
Adorno,
che
più
di
una
volta
l’avrebbe
sostenuto,
gli
invia
dei
soldi.
Nel
contempo
riceve
dall’Istituto
per
le
ricerche
sociali
un
compenso
mensile
di
500
franchi
per
la
sua
regolare
collaborazione.
L’Istituto
si
era
trasferito
da
Ginevra,
dove
si
era
spostato
in
seguito
all’avvento
al
potere
dei
nazisti,
a
New
York,
perché
Theodor
W.
Adorno
e
Max
Horkheimer
temevano
che
anche
la
Svizzera
potesse
essere
travolta
dal
fascismo.
A
Parigi
Benjamin
incontra
Bertolt
Brecht
e
fra
le
due
personalità
così
contrastanti
si
sviluppa
un’amicizia
che
soprattutto
per
quest’ultimo
è
piuttosto
inconsueta.
Benjamin
è
ospite
almeno
tre
volte
e
per
diverse
settimane
nella
casa
di
Brecht
sull’isola
di
Fünen,
in
Danimarca.
Un’amicizia
che
avrebbe
resistito
alla
tendenza
di
Brecht
a
sequestrare
per
sé
le
persone
a
lui
vicine
e
a
«consumarle».
Quando
aveva
un
po’
di
soldi
Benjamin
li
spendeva
principalmente
per
libri
e
riviste,
sempre
nella
speranza
di
riuscire
a
piazzare
lui
stesso
uno
scritto
in
cambio
di
un
compenso.
Nasce
così
a
Parigi
anche
il
celebre
saggio
L’opera d’arte
nell’epoca
della
sua
riproducibilità
tecnica.
Una
lettera
a
Max
Horkheimer,
inviata
a
New
York,
chiarisce
anche
la
sua
condizione
personale
a
Parigi:
«La
mia
situazione
è
difficile,
quanto
può
esserlo
la
situazione
di
uno
che
non
ha
debiti.
Non
voglio
attribuirmi
alcun
merito,
ma
dire
soltanto
che
ogni
aiuto
che
Lei
mi
dà
significa
per
me
un
sollievo
immediato».
Nella
lettera
Walter
Benjamin
racconta
di
vivere
al
momento
come
subinquilino
in
casa
di
altri
emigranti.
Aveva
ottenuto
inoltre
il
diritto
a
usufruire
di
una
mensa
calda,
istituita
per
gli
intellettuali
francesi.
Ma
la
concessione
era
soltanto
provvisoria,
e
in
secondo
luogo
ne
poteva
approfittare
solo
nei
giorni
che
non
trascorreva
in
biblioteca,
poiché
il
locale
era
distante
da
lì.
Solo
di
passaggio
menziona
di
dover
rinnovare
la
Carte
d’identité,
ma
di
non
avere
i
cento
franchi
necessari.
Nel
diciannovesimo
volume
dei
Werke und
Nachlass
(Opere
e
lascito)
pubblicati
dall’editore
Suhrkamp,
che
contiene
le
tesi
Sul concetto di
storia,
compare
regolarmente
anche
il
nome
di
Dora
Benjamin,
che
approntò
il
dattiloscritto
trascrivendo
gli
appunti
di
Walter.
Un
segno
della
loro
stretta
collaborazione
a
Parigi.
Entrambi
soffrivano
di
una
costante
incertezza
materiale.
Lui
stesso
dichiarò
di
aver
bisogno
di
mille
franchi
al
mese
per
coprire
le
spese
essenziali,
il
che
corrispondeva
a
circa
centocinquanta
marchi.
Il
mercato
degli
onorari
in
campo
scientificoletterario,
ovvero
accademico,
era
limitato
anche
a
Parigi
e
gli
intellettuali
francesi
non
erano
affatto
contenti
della
nuova
concorrenza.
In
altre
parole,
la
possibilità
di
ottenere
compensi
per
saggi
e
conferenze
era
decisamente
scarsa.
E
così
anche
quella
di
abbandonare
l’Europa
assediata
dal
fascismo
e
trovare
accoglienza
in
America
del
Nord
o
del
Sud.
In
una
lettera
a
Gershom
Scholem,
Hannah
Arendt
racconta
degli
ultimi
tempi
trascorsi
insieme
a
Walter
Benjamin.
Scrive
che
allo
scoppio
della
guerra
si
trovava
insieme
ad
alcuni
amici,
fra
cui
Walter
(Benji)
Benjamin,
«in
un
paesino
francese»
vicino
a
Parigi.
La
notizia
della
guerra
l’aveva
spaventato
enormemente.
Come
tutti
i
profughi,
anche
lui
fu
internato.
Nel
campo
provvisorio
di
Colombes
incontrò
poi
il
marito
della
Arendt,
a
cui
apparve
totalmente
privo
di
speranze.
Arrivato
nel
campo
definitivo,
nei
mesi
successivi
scrisse
le
sue
tesi
di
filosofia
della
storia
e
ne
mandò
una
copia
–
«come
lui
mi
disse»
–
anche
a
Scholem.
Nella
sua
lettera
Hannah
Arendt
dice
che
alla
visita
medica
«Benji»
era
stato
giudicato
inabile
al
servizio
di
lavoro
obbligatorio
per
tutti
gli
internati
di
età
inferiore
ai
quarantotto
anni.
Nel
contempo,
alla
metà
di
maggio,
gli
era
stato
risparmiato
«come
per
miracolo»
l’«internamento
più
duro».
Poiché
lei
stessa
allora
era
internata,
erano
stati
alcuni
amici
ad
averle
raccontato
che
Benjamin
non
osava
più
uscire
per
la
strada
e
viveva
in
uno
stato
di
panico
costante.
Era
partito
per
Lourdes
con
l’ultimo
treno
che
aveva
lasciato
Parigi.
Alla
metà
di
giugno
Hannah
Arendt
era
stata
rilasciata
dal
campo
di
Gurs
e
casualmente
era
arrivata
anche
lei
a
Lourdes,
dove
rimase
diverse
settimane
per
desiderio
di
Benjamin.
«Benji
e
io
giocavamo
a
scacchi
dalla
mattina
alla
sera
e
nelle
pause
leggevamo
i
giornali,
quando
ce
n’erano».
Tutto
era
andato
bene
fino
al
momento
in
cui
venne
reso
noto
l’armistizio
con
la
famigerata
clausola
di
estradizione.
Dopodiché
le
cose
si
erano
fatte
molto
più
sgradevoli.
Non
poteva
dire
che
Benji
fosse
caduto
nel
panico,
anche
se
erano
giunte
loro
notizie
sui
primi
suicidi
di
internati
in
fuga
dai
tedeschi.
Ma
per
la
prima
volta,
e
poi
ripetutamente,
lui
aveva
parlato
di
suicidio.
Che
restava
ancora
quella
via
d’uscita.
A
lei
che
ribatteva
con
energia
come
per
questo
ci
fosse
sempre
tempo,
lui
rispondeva
che
non
si
può
mai
sapere
e
in
queste
cose
non
bisogna
arrivare
in
ritardo.
Hannah
Arendt
partì
all’inizio
di
luglio
da
Lourdes
e
fino
a
settembre
restò
in
contatto
epistolare
con
Walter
Benjamin.
Molto
scoraggiato
lui
aveva
scritto
che
la
Gestapo
era
stata
nel
suo
appartamento
parigino
e
aveva
sequestrato
tutto.
Notizie
simili
comunicava
Dora,
che
a
Parigi
era
stata
interrogata
più
volte.
In
settembre
Hannah
Arendt
incontrò
ancora
una
volta
Walter
Benjamin
a
Marsiglia,
perché
erano
arrivati
i
loro
visti
per
gli
Stati
Uniti.
Il
visto
di
Walter
Benjamin
era
stato
procurato
da
Max
Horkheimer.
Benjamin
aveva
anche
i
necessari
documenti
di
transito
per
la
Spagna
e
il
Portogallo,
e
così
partì
per
i
Pirenei
dove
avrebbe
incontrato
Lisa
Fittko
che
attraverso
il
confine
franco-spagnolo
doveva
condurlo
in
Spagna,
oltre
le
montagne.
Capitolo
quinto
L’ultimo
bivacco
prima
di
Portbou
Il
fresco
della
notte.
Un
breve
pendio.
I
suoi
passi,
su
e
giù,
sono
prudenti.
Sa
che
il
cuore
deve
farcela.
Respira
con
affanno,
trema
e
spera
che
il
movimento
aiuti
a
vincere
il
freddo.
Deve
superare
la
notte
in
montagna,
sui
Pirenei,
vicino
alla
frontiera
spagnola
ma
ancora
in
Francia.
Anche
adesso
che
è
rimasto
da
solo,
i
suoi
occhi
non
si
staccano
un
istante
dalla
cartella.
È
più
importante
della
sua
stessa
vita,
aveva
sussurrato
a
Lisa
Fittko
quando,
ore
prima,
si
erano
congedati
dal
sindaco
di
Banyuls-surMer.
Sollevando
la
borsa
Lisa
ne
sente
il
peso
e
ha
paura
che
sia
troppo
per
il
«vecchio
Benjamin»,
così
lo
chiama
dentro
di
sé.
Lui
aveva
mormorato
qualcosa
a
proposito
di
un
manoscritto
infilato
nella
cartella,
che
assolutamente
non
doveva
andare
perduto.
Lisa
aiuta
la
gente
a
fuggire
e
accompagnerà
il
piccolo
gruppo
–
Walter
Benjamin,
Henny
Gurland
e
suo
figlio
Joseph
–
oltre
le
montagne,
fino
alla
frontiera
spagnola.
Hanno
un
visto
per
gli
Stati
Uniti
e
visti
di
transito
validi
per
la
Spagna
e
fino
al
Portogallo,
dove
sperano
di
imbarcarsi
su
una
nave
che
li
porti
in
America.
Lisa
e
suo
marito
Hans
si
erano
conosciuti
a
Praga,
dove
erano
arrivati
nel
1933
fuggendo
da
Berlino.
Facevano
parte
dell’opposizione
di
sinistra
e
all’inizio
della
guerra
erano
dovuti
scappare
in
Francia.
Nel
1940
lavorano
per
l’ufficio
delle
associazioni
sindacali
americane
a
Marsiglia,
occupandosi
di
accompagnare
i
profughi.
L’ufficio
aiuta
gli
oppositori
del
nazismo
a
procurarsi
il
visto
di
ingresso
negli
Stati
Uniti.
I
Fittko
hanno
già
portato
decine
e
decine
di
persone
oltre
i
Pirenei.
Lisa
non
conosce
ancora
la
via
di
fuga
verso
la
vicina
frontiera
spagnola
che
hanno
intenzione
di
prendere
il
giorno
successivo.
Si
scopre
che
è
un
vecchio
sentiero
di
contrabbandieri.
Perciò
vogliono
percorrere
il
primo
terzo
della
via
quel
pomeriggio.
L’ha
consigliato
il
sindaco.
Lo
schizzo
che
egli
dà
loro
mostra
ogni
diramazione,
che
devono
memorizzare
bene
per
non
smarrire
il
percorso.
La
via
consueta
non
era
più
sicura,
ma
erano
stati
messi
in
guardia
per
tempo
dalle
pattuglie
di
frontiera
francesi.
Lisa
e
Walter
con
la
cartella
e
il
manoscritto,
da
cui
non
si
separa
mai,
e
Henny
Gurland
con
il
figlio
Joseph
si
mettono
in
cammino.
Dopo
tre
ore
raggiungono
un
boschetto
di
pini
su
un
pendio.
Da
lì
non
doveva
essere
che
un’ora,
al
massimo
un’ora
e
mezza,
secondo
la
previsione
del
sindaco
di
Banyuls.
Attraverso
la
finestra
dell’ufficio
in
Comune
il
boschetto
era
sì
lontano,
ma
ben
riconoscibile.
«Una
passeggiata»
aveva
aggiunto
con
sollecitudine
il
sindaco,
«come
prova».
Ma
Walter
Benjamin
non
era
abbastanza
forte,
né
il
suo
cuore
gli
avrebbe
fatto
giudicare
una
«passeggiata»
quella
marcia.
Gli
sembrava
perciò
poco
fattibile
ripercorrere
quello
stesso
giorno
il
medesimo
tratto
fino
a
Banyuls,
per
ritornare
lì
il
mattino
dopo,
probabilmente
non
meno
esausto.
E
così
il
«vecchio
Benjamin»
–
aveva
in
effetti
compiuto
da
poco
i
quarantotto
anni
–
dice
all’accompagnatrice:
«Passerò
qui
la
notte».
Ed
eccoli
sotto
un
pino,
lo
sguardo
puntato
sul
sentiero
scosceso
che
conduce
a
Banyuls-surMer.
Di
lassù
salutano
le
luci
della
cittadina
ai
loro
piedi,
che
verso
sera
si
accendono.
Walter
Benjamin
deve
economizzare
le
proprie
forze,
e
non
si
lascia
deviare
dal
suo
proposito.
Dopo
aver
tentato
di
dissuaderlo
Lisa
soffoca
il
proprio
impulso
di
restare
e
non
lasciarlo
solo.
Deve
comunque
procurare
acqua
e
viveri
per
il
giorno
successivo,
quando
si
dirigeranno
verso
la
città
di
frontiera
spagnola,
Portbou.
Così
il
gruppo
si
divide.
Il
piano
di
Lisa
è
quello
di
partire
prestissimo
da
Banyuls-sur-Mer
e
mescolarsi
ai
viticoltori
che
verso
le
quattro
del
mattino
si
incamminano
verso
le
vigne.
Sarebbe
stato
il
mascheramento
migliore,
aveva
assicurato
il
sindaco.
Solo
nel
vigneto,
Walter
deve
innanzitutto
riprendersi;
per
sedersi
adopera,
a
mo’
di
cuscino,
la
cartella
con
il
manoscritto
che
«conta
per
me
più
della
mia
vita»,
come
scrive
Lisa
Fittko
nelle
sue
memorie.
Il
terreno
è
ancora
caldo
per
il
sole
d’autunno.
Walter
cerca
rami
per
accendere
un
fuoco
e
a
mani
nude
scava
una
buca,
perché
il
piccolo
falò
non
si
scorga
da
lontano.
È
sufficiente
per
scaldarsi.
La
notte
è
piena
di
stelle.
La
luna
irradia
una
luce
lattea;
un
cielo
notturno
come
solo
in
montagna
è
possibile
vedere.
L’uomo
lassù
in
cima
tira
un
respiro
profondo,
un
momento
di
quiete
che
sembra
fatto
per
ripercorrere
nel
pensiero
la
sua
vita,
da
Berlino
a
Monaco,
poi
a
Friburgo,
a
Berna
e
a
Francoforte,
e
i
diversi
soggiorni
a
Parigi.
Una
strada
che
l’ha
portato
fino
a
questa
solitudine
in
mezzo
ai
Pirenei.
Vuole
fuggire
la
possente
scossa
che
con
la
sua
forza
distruttiva
colpirà
tutta
l’Europa,
e
ha
visto
giungere
quel
che
si
sta
addensando.
Ci
sono
molte
testimonianze
risalenti
agli
anni
dopo
la
Prima
guerra
mondiale
che
descrivono
il
cammino
politico
dell’intellighenzia
critica,
degli
artisti
e
dei
letterati
in
quest’epoca
travagliata.
Molti
speravano
nella
rivoluzione
desiderata
ardentemente
dai
comunisti
e
attesa
da
loro
come
qualcosa
di
ineluttabile.
Le
masse
non
ne
furono
infiammate.
L’Internazionale
comunista,
che
dopo
la
sua
fondazione
nel
1919
si
riuniva
ogni
anno
a
Mosca,
attendeva
invano
il
legittimo
avvento
della
rivoluzione
mondiale.
La
socialdemocrazia
riformista
non
condivideva
comunque
l’attesa
e
la
fede
che
l’ex
impero
fosse
maturo
per
una
rivoluzione,
sul
modello
dell’Ottobre
rosso.
Lo
scetticismo
di
Benjamin
in
effetti
traspare,
ma
è
minore
di
quello
dello
scrittore
Werner
Kraft,
la
cui
indicazione
di
non
«voler
accogliere
per
ora
il
comunismo
“come
soluzione
per
l’umanità”»
gli
arriva
in
uno
scambio
epistolare.
E
risponde:
«Ma,
attraverso
le
soluzioni
praticabili
che
questo
offre,
occorre
mettere
fine
alla
sterile
pretesa
di
offrire
soluzioni
valide
per
l’umanità,
e
in
generale
all’immodesta
prospettiva
di
“sistemi
totali”,
facendo
almeno
il
tentativo
di
organizzare
la
vita
degli
uomini
in
modo
tale
che
possa
scorrere
con
la
stessa
tranquillità
con
cui
affronta
le
proprie
giornate
un
uomo
ragionevole
che
abbia
ben
dormito».
Qualche
anno
più
tardi
lo
ribadisce
con
un’immagine
che
suggerisce
in
maniera
complessa
e
insieme
chiara
quanto
nel
comunismo
vi
sia
un
«surrogato
della
religione».
Viene
naturale
supporre
che
sul
monte
Benjamin
abbia
pensato
all’«omino
con
la
gobba»:
«È
noto
che
sarebbe
esistito
un
automa
costruito
in
modo
tale
da
reagire
a
ogni
mossa
di
un
giocatore
di
scacchi
con
una
contromossa
che
gli
assicurava
la
vittoria.
Un
manichino
[...]
sedeva
davanti
alla
scacchiera,
posta
su
un
ampio
tavolo.
Con
un
sistema
di
specchi
veniva
data
l’illusione
che
vi
si
potesse
guardare
attraverso
da
ogni
lato.
In
verità
c’era
seduto
dentro
un
nano
gobbo,
maestro
nel
gioco
degli
scacchi,
che
guidava
per
mezzo
di
fili
la
mano
del
manichino.
Un
corrispettivo
di
questo
congegno
si
può
immaginare
nella
filosofia.
Vincere
deve
sempre
il
manichino
detto
“materialismo
storico”.
Esso
può
competere
senz’altro
con
chiunque
se
prende
al
suo
servizio
la
teologia,
che
oggi,
com’è
a
tutti
noto,
è
piccola
e
brutta,
e
tra
l’altro
non
deve
lasciarsi
vedere».
Il
suo
amico
Adorno
parlava
di
«nucleo
teologico»,
senza
cui
il
materialismo
avrebbe
perso
la
sua
fondamentale
forza
propulsiva.
Ma
per
ciò
fu
necessaria
la
morte
di
Stalin
nel
marzo
1953
e
la
sua
successiva
detronizzazione
al
XX
Congresso
del
Partito
comunista
sovietico,
quando
vennero
resi
noti
i
suoi
crimini.
Molti
comunisti
fedeli
che
avevano
venerato
l’uomo
al
Cremlino
furono
profondamente
scossi
nelle
certezze
coltivate
fino
a
quel
momento:
un
dio
che
non
era
tale.
Benjamin
critica
anche
il
Partito
socialdemocratico
tedesco
e
il
suo
concetto
di
progresso
che
non
si
attiene
alla
«realtà»,
ma
mostra
pretese
dogmatiche.
Critica
lo
«sfruttamento
della
natura»
e
l’esaltazione
del
lavoro
in
quanto
«sacro».
E
in
effetti
ci
vollero
il
movimento
ecologico
e
i
Verdi
negli
anni
Ottanta
del
ventesimo
secolo
perché
la
socialdemocrazia
giungesse
alla
«riconciliazione»
fra
lavoro
e
ambiente.
Cosa
avrà
pensato
Walter
Benjamin
nel
leggere
gli
errori
e
le
false
valutazioni
sulla
consegna
del
potere
a
Hitler,
formulate
dal
comitato
esecutivo
dell’Internazionale
comunista
il
1°
aprile
1933?
In
un
comunicato
stampa
diffuso
allora
si
dice:
«L’instaurazione
della
dittatura
scopertamente
fascista,
che
distrugge
tutte
le
illusioni
democratiche
nelle
masse
e
le
libera
dall’influsso
dei
socialdemocratici,
accelera
i
tempi
di
avanzamento
della
Germania
verso
la
rivoluzione
proletaria».
Quale
errore.
La
lotta
contro
i
socialdemocratici,
che
i
comunisti
chiamavano
sprezzantemente
«socialfascisti»,
era
considerata
più
importante
della
resistenza
comune
contro
i
nazisti,
perché
i
socialdemocratici
intralciavano
la
rivoluzione
mondiale.
Mosca
si
sbagliava
e
a
lungo
si
mostrò
cieca
di
fronte
alle
dimensioni
e
agli
esiti
di
questo
errore.
Già
durante
la
guerra
di
Spagna
fu
possibile
cogliere
note
di
questo
genere,
quando
dietro
le
linee
di
combattimento
venivano
liquidati
quei
compagni
che
non
volevano
seguire
i
dettami
di
Mosca.
In
Spagna
era
il
riflesso
del
terrore
stalinista
che
imperversava
già
da
tempo
in
Unione
Sovietica.
L’errato
giudizio
di
Stalin,
convinto
che
Hitler
avrebbe
rispettato
il
patto
di
non
aggressione
con
l’Unione
Sovietica,
prolungò
le
sofferenze
dei
popoli
aggrediti
e
portò
alla
Russia
quattro
anni
di
persecuzioni,
campi
di
sterminio,
invasione
e
genocidio.
Nel
suo
quartier
generale
chiamato
«Wolfsschanze»,
cioè
la
«tana
del
lupo»,
Hitler
si
era
prefisso
niente
di
meno
che
la
conquista
del
territorio
russo
per
il
«popolo
privo
di
spazio».
I
sopravvissuti
avrebbero
servito
come
schiavi
la
razza
padrona.
Questo
progetto
affondò
nel
terreno
senza
fondo
delle
strade
malsicure,
battute
da
costanti
piogge,
o
fu
arrestato
dalle
masse
di
neve
a
quaranta
gradi
sottozero.
I
suoi
pensieri
per
un’analisi
della
condizione
dell’Europa
centrale,
che
in
forma
di
rotolo
Bejamin
aveva
donato
al
suo
amico
Gershom
Scholem
quando
quest’ultimo
era
emigrato
in
Palestina,
sono
un
testo
veggente,
scritto
nel
1923:
«Un
singolare
paradosso:
la
gente,
quando
agisce,
pensa
solo
al
più
gretto
interesse
personale,
ma
al
tempo
stesso
è
più
che
mai
condizionata
nel
suo
comportamento
dagli
istinti
della
massa.
E
ora
più
che
mai
gli
istinti
di
massa
sono
divenuti
insensati
ed
estranei
alla
vita.
[...]
Sicché
in
essa
giunge
a
compimento
l’immagine
della
stupidità:
insicurezza,
anzi
degenerazione
degli
istinti
vitali
e
impotenza,
anzi
decadimento
dell’intelletto.
Questa
è
la
disposizione
di
spirito
della
totalità
dei
borghesi
tedeschi».
Come
va
letto
questo
testo
se
non
come
una
previsione
di
ciò
che
sarebbe
venuto,
dell’ideologia
razzista
del
popolo
che
sfocia
poi
nella
concezione
deragliante
della
razza
padrona?
Lo
Stato
delle
SS,
come
lo
descrive
Eugen
Kogon
dopo
il
collasso
della
Germania
nazista
e
la
tragedia
dei
tedeschi,
qui
già
nebulosamente
si
intravede.
Le
grandi
parate
naziste,
le
fiaccolate
e
le
fantasie
apocalittiche,
le
apparizioni
messianiche
del
suo
Führer
che
guida
la
«provvidenza»,
il
tutto
accompagnato
da
una
borghesia
servile
il
cui
collasso
morale
si
annuncia
con
fanfare
e
musica
possente.
Ma
torniamo
a
Walter
Benjamin
nel
1940,
alla
frontiera
francospagnola.
Quali
stati
d’animo
e
sentimenti
possono
averlo
dominato?
Poteva
rievocare
con
un
sorriso
la
sua
infanzia
e
altre
fasi
della
sua
vita,
così
contraddittorie
e
diverse?
È
Benjamin
stesso
che
mi
incoraggia
a
immaginarlo
là
sognante.
«Nel
1932»
scrive
«mentre
ero
all’estero,
iniziai
a
rendermi
conto
che
presto
avrei
dovuto
dire
addio
per
molto
tempo,
forse
per
sempre,
alla
città
in
cui
ero
nato.
Nella
mia
vita
interiore
avevo
più
volte
sperimentato
come
fosse
salutare
il
metodo
della
vaccinazione;
lo
seguii
anche
in
questa
occasione
e
intenzionalmente
feci
emergere
in
me
le
immagini
–
quelle
dell’infanzia
–
che
in
esilio
sono
solite
risvegliare
più
intensamente
la
nostalgia
di
casa».
In
esilio
a
Parigi
completa
il
manoscritto
della
sua
Infanzia
berlinese
intorno
al
millenovecento.
Chissà
se
guardando
indietro
ha
ricordato
quel
Walter
che
era
stato
a
quindici
o
sedici
anni,
e
un’infanzia
a
Berlino
che
non
era
pensabile
senza
lo
Zoo.
I
ricordi
d’infanzia
e
pubertà
non
sono
estranei
agli
adulti.
Si
accendono
quando
bambini
o
ragazzi
ci
corrono
accanto,
quando
la
loro
risata
risuona
e
ci
ricorda
i
nostri
momenti
di
gioia.
Walter
Benjamin
sulla
montagna.
Me
lo
immagino
seduto
sull’erba,
appoggiato
a
un
albero,
le
mani
incrociate
dietro
la
testa,
e
ora
questo
ora
quello
che
gli
attraversa
i
pensieri.
Ancora
oggi
ci
sono
persone
che
vanno
a
Berlino
solo
per
mettere
piede
nel
famoso
Zoo.
Walter
Benjamin
ci
andò
spesso.
Potrebbe
aver
varcato
la
Porta
del
leone,
quelle
volte
che
fra
il
1908
e
il
1910
fu
parte
anche
lui
dell’interminabile
flusso
dei
visitatori.
Aveva
già
osservato
a
sazietà
tutte
le
bestie
esotiche,
fra
gabbie
e
recinti.
Ma
continuava
a
sentirsi
attirato,
e
lo
scrive,
dagli
«spiazzi
sabbiosi
degli
gnu
e
delle
zebre,
dagli
alberi
spogli
e
dalle
scogliere
dove
nidificavano
condor
e
avvoltoi,
dai
puzzolenti
recinti
dei
lupi
e
dai
luoghi
di
cova
dei
pellicani
e
degli
aironi.
[...]
Questo
era
il
clima
in
cui,
mentre
con
accentuato
zelo
si
rivolgeva
all’amico,
per
la
prima
volta
lo
sguardo
del
ragazzo
cercò
di
stringersi
a
una
passante».
Ciò
fa
capire
quanto
lo
Zoo
attirasse
come
un
sicuro
sfondo
per
i
primi
flirt.
Là
si
passeggiava,
si
scambiavano
sguardi.
Walter,
attorno
ai
sedici
anni,
fece
le
sue
prime
titubanti
esperienze
con
le
elettrizzanti
curve
delle
donne
e
delle
ragazze
che
gli
sfilavano
accanto.
Deve
aver
ghermito
più
di
un
incoraggiante
sguardo
d’invito.
Le
prostitute
berlinesi
non
passano
infatti
inosservate,
e
Walter
Benjamin
non
manca
di
osservarle.
Scopre
la
Berlino
«peccaminosa».
Il
rampollo
della
Delbrückstraße,
nell’elegante
Grunewald,
è
sconvolto
e
insieme
magicamente
attratto,
perché
intuisce
«i
servigi»
che
queste
donne
avrebbero
«reso
agli
istinti
risvegliati».
E
descrive
questo
conflitto
fra
l’educazione
e
il
desiderio,
prigioniero
nel
corsetto
di
un
riserbo
inculcato
e
della
morale
borghese,
che
scatena
l’insorgente
e
sconvolgente
brama
sessuale.
Ricorda
lo
sforzo
compiuto
su
di
sé
per
«abbordare
per
la
strada
una
puttana.
Potevano
volerci
ore
prima
che
accadesse.
L’orrore
che
provavo
era
lo
stesso
che
mi
avrebbe
trasmesso
un
congegno
automatico
per
la
cui
messa
in
funzione
sarebbe
bastata
una
domanda.
E
così
inserivo
la
mia
voce
nella
fessura.
Allora
mi
sentivo
le
orecchie
in
fiamme
e
non
ero
in
grado
di
raccogliere
le
parole
che
cadevano
da
quella
bocca
carica
di
trucco.
Correvo
via,
per
ripetere
nella
stessa
notte
–
quante
volte
ancora
–
la
temeraria
impresa.
Quando
poi,
talvolta
già
verso
mattina,
mi
soffermavo
in
un
passo
carraio,
mi
ero
irrimediabilmente
impigliato
nei
nastri
d’asfalto
della
città,
e
non
erano
le
mani
più
pulite
quelle
che
mi
liberavano».
Un
ricordo
criptico
e
tuttavia
limpido
che
in
seguito
continuò
a
influenzare
la
sua
immagine
della
donna,
già
segnata
dallo
sguardo
precocemente
eccitato,
rivolto
alla
prostituta
con
l’abito
aderente
alla
marinara,
e
che
continuerà
a
riaffiorare
anche
tra
le
righe.
Ciò
che
solo
in
seguito
gli
apparirà
chiaro
è
la
triste
condizione
del
proletariato
a
Berlino,
che
già
nel
1892,
l’anno
della
sua
nascita,
è
una
metropoli
con
più
di
un
milione
di
abitanti.
Le
prostitute
ufficialmente
registrate
erano
almeno
diecimila.
La
cifra
sommersa
era
di
gran
lunga
maggiore.
L’industrializzazione
distruggeva
le
strutture
sociali
di
stampo
rurale;
la
famiglia
estesa
scompariva
e
con
essa
la
relativa
sicurezza
per
gli
anziani
e
i
malati,
che
venivano
assistiti
in
casa.
I
lavoratori
agricoli
cercavano
lavoro
nelle
nuove
fabbriche,
e
il
proletariato
che
si
andava
formando
era
sfruttato
e
privo
di
diritti.
Prima
riempirsi
la
pancia,
poi
la
morale,
come
canta
l’amico
Brecht
nell’Opera da tre
soldi.
Chiesa
e
predica
della
domenica,
che
in
campagna
avevano
determinato
ancora
il
codice
morale,
servivano
a
ben
poco
in
città
e
nella
lotta
per
la
sopravvivenza
in
cui
era
ingaggiato
il
proletariato
privo
di
diritti.
Esistono
molte
testimonianze
letterarie
sugli
anni
a
cavallo
fra
i
due
secoli,
che
al
pari
dei
successivi
anni
Venti
sono
visti
come
un’«epoca
dorata».
Le
fotografie
di
quel
tempo
sono
ingiallite
quanto
il
tempo
a
cui
risalgono.
Le
persone
vi
appaiono
rigidamente
addobbate
e
tutte
identiche,
gli
uomini
con
robuste
scarpe
ai
piedi,
in
abito
e
panciotto,
il
colletto
rigido
con
la
cravatta
a
farfallino
che
li
costringe
a
tenere
ritta
la
testa;
le
donne
portano
vestiti
molto
accollati;
i
bambini
sono
vestiti
alla
marinara
e
le
bambine
hanno
guarnizioni
all’uncinetto
sulle
gonnelline
bianche,
come
nella
foto
con
le
cugine
del
1906.
Le
cloache
puzzolenti
nei
cortili
interni
dei
caseggiati
berlinesi,
la
sofferenza
di
chi
non
ha
più
forze,
il
lavoro
minorile
e
la
settimana
di
settanta
ore,
tutto
ciò
che
produce
rabbia
e
cerca
valvole
di
sfogo
viene
descritto
solo
da
pochi.
Quel
mondo
proletario,
quel
mondo
di
prostitute
e
protettori
è
ritratto
realisticamente
nelle
immagini
di
Heinrich
Zille,
il
pittore
dell’epoca.
Nella
villa
a
Grunewald
o
negli
appartamenti
estivi
della
famiglia
altoborghese
dei
Benjamin,
a
Babelsberg
e
al
Brauhausberg
a
Potsdam,
la
disperazione
di
molti
nella
Berlino
guglielmina
non
è
un
argomento
di
discussione.
E
il
figlio
Walter,
che
i
genitori
erano
certi
sarebbe
diventato
uno
scrittore
fin
dal
momento
della
sua
nascita,
non
vi
avrà
certo
parlato
dei
suoi
desideri
da
adolescente
e
delle
sue
voglie
sessuali.
Può
invece
sfogarle
nei
luoghi
in
cui
la
povertà
costringe
donne
e
ragazze
a
prostituirsi
per
sopravvivere.
Nelle
descrizioni
e
nei
ricordi
sulla
Berlino
intorno
al
1900
e
negli
anni
successivi
i
«boulevard
costellati
di
puttane»
ritorneranno
spesso.
Tutto
solo
sulla
montagna,
nella
frescura
della
notte,
Benjamin
conosceva
il
quadro
di
Ludwig
Kirchner
intitolato
Potsdamer
Platz,
con
le
ancelle
dell’amore
dai
grandi
cappelli.
Per
i
giovani
figli
della
borghesia
abbiente
era
impossibile
non
vederle,
e
ancora
più
difficile
evitarle.
Il
governo
prussiano,
preoccupato
della
morale,
aveva
proibito
i
bordelli
e
alle
donne
che
erano
costrette
in
quel
modo
a
guadagnare
da
vivere
per
sé
o
per
la
famiglia
restava
spesso
solo
il
marciapiede.
Ma
il
mercato
dell’amore,
che
in
ogni
tempo
ha
le
sue
congiunture,
si
allargava
sempre
di
più
e
poteva
trovarsi
anche
altrove.
In
una
biografia
di
Benjamin
si
cita
un
libretto
di
Georg
Zivier
sul
«Romanisches
Café».
Parla
dei
punti
di
incontro
della
bohème
intellettuale
berlinese
a
cavallo
fra
i
due
secoli
e
descrive
ragazze
e
giovani
donne
che
«come
senza
patria
sgusciano
fra
i
tavoli,
si
intrattengono
a
parlare
ora
con
l’uno
ora
con
l’altro,
prendono
posto
qua
e
là
e
subito
ricominciano
il
loro
girovagare
senza
sosta».
Molte
ragazze
in
queste
memorie
di
caffè
«erano
poetesse
o
pittrici,
le
cui
fonti
di
guadagno
apparivano
equivoche».
Di
tanto
in
tanto
vi
si
poteva
incontrare
anche
Walter
Benjamin.
Le
cortigiane
dei
caffè
erano
anche
un
segno
della
disponibilità
femminile
nel
mondo
patriarcale,
prima
e
dopo
la
guerra.
La
morale
borghese
faceva
però
sottili
distinzioni.
Solo
il
marciapiede,
la
forma
più
povera
e
sfruttata
nel
traffico
dell’amore,
era
visto
come
l’ambiente
delle
prostitute.
Cioè
la
vita
fuori
dai
caffè.
L’immagine
femminile
di
Benjamin
fu
influenzata
anche
da
questo;
non
c’era
molto
che
potesse
spingerlo
a
una
concezione
più
avanzata.
Nemmeno
a
Parigi.
Il
giovane
intellettuale
sognante
e
apolitico
fu
scosso
dalla
Prima
guerra
mondiale
e
dalla
brutale
guerra
di
trincea,
e
poi
dalla
tragedia
sociale
seguita
alla
sconfitta
tedesca.
Riconosce
che
la
situazione
di
quanti
si
trovano
al
fondo
della
società
può
essere
migliorata
solo
attraverso
l’azione
politica.
Benjamin
comincia
a
capire
la
rabbia
del
proletariato
privo
di
diritti,
che
dopo
la
Prima
guerra
mondiale
imbocca
la
via
della
rivoluzione,
prima
in
Russia
e
poi
a
Berlino.
Presto
riconosce
il
pericolo
che
questa
rabbia
possa
sfogarsi
anche
in
maniera
reazionaria,
come
variante
fascista.
Il
grande
creatore
delle
idee
rivoluzionarie
e
comuniste
fu
Karl
Marx.
Molti,
fra
cui
Walter
Benjamin,
presero
su
di
lui
le
proprie
misure.
Dall’altro
lato
c’era
il
mondo
della
borghesia
piccola
e
grande
che
si
opponeva
a
ogni
movimento
di
emancipazione,
che
trovò
nella
stampa
prevalentemente
nazional-conservatrice
i
suoi
più
strenui
difensori
e
in
Adolf
Hitler
il
suo
esecutore.
Quella
notte
sul
vigneto
vicino
a
Portbou
io
vedo
meno
il
filosofo
e
il
pensatore
acuto
che
non
l’uomo
in
carne
e
ossa,
i
suoi
desideri,
le
sue
speranze
e
la
sua
disperazione,
anche
a
causa
di
quella
Germania
che
l’aveva
così
ignobilmente
trattato.
Questo
vale
anche
per
la
Goethe-Universität
a
Francoforte
sul
Meno
e
l’atmosfera
antisemita
che
vi
regnava.
Benjamin
aveva
ritirato
la
sua
tesi
sul «Dramma
barocco
tedesco»,
scritta
per
il
conseguimento
della
libera
docenza
universitaria,
in
modo
da
prevenire
il
rifiuto
ufficiale.
L’ultimo
bivacco
prima
di
Portbou.
Walter
Benjamin
aveva
rivisto
forse
i
frammentari
Passages?
Era
un
nuovo
manoscritto
dei
Passages
quello
che
portava
al
di
là
dei
Pirenei,
in
cui
«era
scritto
tutto»
e
che
lui
considerava
«più
importante
della
sua
vita»?
Allora
come
oggi,
per
molti
che
lo
venerano
affascinati
dalla
sua
mente
e
dalla
sua
intelligenza
piena
di
emotività,
egli
possiede
quel
che
Theodor
W.
Adorno
così
delinea:
«Se
mi
si
chiedesse
di
descrivere
l’aspetto
esteriore
dovrei
dire
che
Benjamin
aveva
qualcosa
di
un
mago,
ma
in
un
senso
molto
poco
metaforico
e
molto
letterale.
Sarebbe
stato
possibile
immaginarlo
con
un
altissimo
cappello
e
una
specie
di
bastone
magico».
Hannah
Arendt,
la
buona
amica,
lottò
con
tutte
le
sue
forze
perché
i
manoscritti
di
Benjamin
fossero
pubblicati
e
lui
ottenesse
così
un
posto
al
fianco
dei
grandi
pensatori
–
da
qualche
parte
fra
Kant
e
Karl
Marx.
Un
grande
tedesco
che
i
tedeschi
scacciarono
nell’epoca
orribile
in
cui
il
paese
compì
il
grande
«strappo
dalla
civiltà».
C’erano
anche
altre
voci,
le
quali
vedevano
in
lui
l’eterno
bambino
viziato
che
non
volle
mai
diventare
completamente
adulto.
Anche
a
ciò
avrà
pensato
quella
notte.
A
contestazioni
di
ogni
tipo,
e
forse
non
si
sentiva
pronto
ad
affrontarle
tutte.
Hannah
Arendt,
ugualmente
fuggita
dai
nazisti
come
molti
altri
tedeschi
con
radici
ebraiche,
pochi
mesi
dopo
Walter
Benjamin
superò
l’ostacolo
di
Portbou,
che
lui
non
era
riuscito
a
vincere.
Anche
per
lei
Benjamin
era
avvolto
in
un
mistero.
E
pensandolo
la
accompagnava
questa
sensazione:
«Così
difficile
da
capire
in
Benjamin
era
il
fatto
che
pur
non
essendo
un
poeta
pensava
poeticamente,
e
la
metafora
doveva
essere
quindi
per
lui
il
più
grande
e
misterioso
dono
della
lingua,
perché
nel
trasferimento
consente
di
rendere
sensibile
l’invisibile».
Quel
che
Hannah
Arendt
ammirava
tanto
in
Benjamin,
nessuno
riuscì
a
descriverlo
meglio
di
lui:
«Trovare
parole
per
ciò
che
si
ha
dinnanzi
agli
occhi:
quanto
può
essere
difficile.
Ma
quando
esse
arrivano,
allora
è
come
se
battessero
con
dei
piccoli
colpi
di
martello
contro
la
superficie
del
reale,
sino
a
sbalzarne,
come
da
una
lastra
di
rame,
la
forma».
La
descrizione
dell’immagine
di
San
Gimignano
gli
riesce
soltanto
così:
«Alla
sera
le
donne
si
raccolgono
alla
fontana
davanti
alla
porta
della
città,
per
prendere
acqua
in
grandi
brocche
–
soltanto
quando
ebbi
trovato
queste
parole,
dal
turbamento
delle
impressioni
immediate
emerse,
con
i
suoi
precisi
rilievi
e
le
sue
ombre
pronfonde,
l’immagine.
Cosa
mai
avevo
saputo
prima
dei
salici
fiammeggianti,
che
al
pomeriggio
fanno
guardia
con
le
loro
lingue
di
luce
davanti
ai
bastioni
che
cintano
la
città?
Quanto
strette
prima
dovevano
stare
le
tredici
torri,
e
come
comodamente
ciascuna
trovava
ora
il
suo
posto,
e
anzi
avanzava
ancora
molto
spazio
tra
loro!».
Più
di
un
amico
gli
sarà
venuto
incontro
durante
la
notte
sulla
montagna.
Ricordi
di
una
stretta
di
mano,
un
battere
di
dita
incoraggiante
sulle
spalle.
Forse
pensa
all’amico
Bertolt
Brecht.
E
anche
all’amico
di
più
lunga
data,
a
(Gerhard)
Gershom
Scholem;
il
fondamento
della
loro
amicizia
non
si
spezzò
mai,
nessuna
controversia
per
quanto
accesa
poté
intaccarlo.
Addirittura
essenziali
a
mantenerlo
in
vita
furono
le
amicizie
femminili
che
si
adoperarono
per
farlo
uscire
dal
campo
d’internamento
di
Vernuche.
I
loro
nomi
stanno
nella
sua
rubrica,
rimasta
a
Parigi
insieme
con
altre
carte
e
manoscritti.
Vi
si
trovano
settantuno
nomi
e
indirizzi.
Fra
questi
ci
sono
anche
quelli
di
sei
donne
che
fanno
di
tutto
per
ottenere
il
suo
rilascio.
Accanto
alla
sorella
Dora,
queste
sono
le
libraie
Adrienne
Monnier
e
Sylvia
Beach,
la
scrittrice
inglese
Winifred
Ellermann,
la
fotografa
Gisèle
Freund
e
Juliane
Favez,
la
segretaria
dell’Istituto
per
la
ricerca
sociale
a
New
York.
Benjamin
sorrise
quando
si
vide
davanti
Hans
Fittko?
Un
incontro
nel
campo
di
Vernuche?
Gli
raccontò
che
stava
smettendo
di
fumare
e
gli
descrisse
i
tormenti
della
disassuefazione.
Per
Hans
era
indiscutibilmente
il
momento
sbagliato.
E
tentò
di
trasmettergli
una
regola
fondamentale
che
a
suo
dire
l’aveva
sempre
aiutato
a
superare
le
crisi
e
a
non
perdere
la
ragione:
«Cercare
sempre
cose
che
diano
gioia
e
non
caricarsi
di
ulteriori
difficoltà».
Benjamin
aveva
respinto
la
regola,
scrive
Lisa
nelle
sue
memorie,
e
rivendicato
per
sé
l’esatto
contrario:
«Io
riesco
a
sopportare
le
condizioni
nel
campo
solo
se
sono
costretto
a
concentrare
tutte
le
mie
forze
spirituali
su
una
grande
fatica.
Smettere
di
fumare
mi
costa
questa
fatica,
e
così
diventa
per
me
la
salvezza».
Pensò
forse
a
quel
consiglio
mentre
si
trovava
sulla
montagna?
Lui
e
Hans
Fittko:
due
uomini
che
non
avrebbero
potuto
essere
più
diversi,
e
tuttavia
affini.
E
quella
notte,
prima
della
sua
ultima
decisione,
raggiunse
forse
quello
stato
di
semiannebbiamento
necessario
perché
nella
mente
si
avviasse
un
film
con
le
immagini
che
si
erano
raccolte
negli
anni
prima
e
dopo
la
Grande
guerra?
Un
conflitto
che
aveva
contribuito
a
capovolgere
il
mondo.
Soldati
sacrificati
in
un’accanita
guerra
di
posizione.
Ogni
rilievo
fu
conquistato
più
volte
da
ciascuna
parte
e
nuovamente
perduto,
le
baionette
conficcate
nel
corpo
dei
nemici;
si
uccise
in
maniera
moderna,
con
i
gas
tossici
che
corrodevano
i
polmoni
e
portavano
alla
morte
per
soffocamento.
Dopo
il
grande
macello:
nove
milioni
di
soldati
morti.
Le
città
erano
piene
di
mutilati,
scampati
alla
guerra,
che
chiedevano
l’elemosina.
Walter
Benjamin
era
stato
risparmiato;
l’avevano
dichiarato
inabile
al
fronte.
Eppure
vedeva
da
ogni
parte
inappagati
desideri
di
vendetta.
Voglie
di
rivalsa
pronte
ad
affacciarsi.
Sfociano
nella
Seconda
guerra
mondiale
e
nei
bombardamenti
che
moltiplicheranno
i
numeri
dei
morti.
Quali
immagini
può
avergli
mostrato
il
suo
film
interiore?
In
cima
alla
montagna
è
il
luogo
che
come
nessun
altro
riflette
la
sua
solitudine.
Questa
volta
c’è
in
gioco
la
sopravvivenza
e
non
la
possibilità
di
ritirarsi.
Quante
volte
ha
pensato
il
contrario,
semplicemente
smettere
e
mollare
la
vita.
E
adesso
io
gli
attribuisco
invece
il
desiderio
di
scampare
un’altra
volta.
Negli
anni
precedenti
Arianna
gli
era
rimasta
fedele,
lei
che
tante
volte
e
in
diverse
forme
l’aveva
guidato
quando,
stanco
della
vita,
lui
minacciava
di
smarrirsi.
Come
quella
volta
al
Tiergarten
di
Berlino,
quando
incontra
la
regina
Luisa
sul
piedistallo
di
pietra
e
lo
visita
la
parola
«amore».
Nella
biografia
di
Werner
Fuld
viene
citato
il
suo
Diario dal sette
agosto
millenovecentotrentuno
finoalgiornodellamorte:
«Questo
diario
non
promette
di
diventare
molto
lungo».
Vi
ricorda
anche
le
sue
tre
grandi
esperienze
amorose:
Dora,
Julia,
Asja.
«Ho
conosciuto
nella
vita
tre
diverse
donne,
e
tre
diversi
uomini
in
me».
Dora
Sophie,
la
moglie,
descrive
questa
diversità
della
sua
natura
nel
momento
culminante
dei
contrasti
che
nel
1930
conducono
allo
scioglimento
del
suo
matrimonio
con
Walter.
Non
trova
che
sia
diventato
un
altro,
non
lo
vede
cambiato,
ma
è
accaduto
soltanto
che
certi
lati
della
sua
natura
abbiano
conosciuto
uno
sviluppo
esorbitante.
Si
lamenta
che
Walter
non
si
occupi
più
del
figlio
Stefan.
Traggo
queste
parole
dal
libro
Benjaminiana,
che
Hans
Puttnies
e
Gary
Smith
hanno
pubblicato
nel
1990
in
occasione
della
mostra
«Bucklicht
Männlein
und
Engel
der
Geschichte»
(L’omino
con
la
gobba
e
l’angelo
della
storia).
La
mostra
era
allestita
al
MartinGropius-Bau
a
Berlino.
In
una
lettera
a
Gershom
Scholem,
Dora
deplorava
il
fatto
che
la
«spregiudicata
Asja»
lo
sfruttasse,
«cosa
che
fa
pensare
a
un
cattivo
romanzo,
ma
è
vera».
Tuttavia,
nei
difficili
anni
dell’emigrazione
a
Parigi,
lo
accoglierà
più
volte
consentendogli
di
vivere
gratuitamente
nella
sua
pensione
a
Sanremo,
prima
di
emigrare
lei
stessa
a
Londra.
Il
film
nella
sua
mente,
dove
lui
stesso
recita
la
parte
del
protagonista,
non
è
pensabile
senza
il
figlio
Stefan
e
Dora
Sophie,
la
ex
moglie.
Walter
aveva
incontrato
il
suo
grande
amore,
Asja
Lacis,
a
Capri.
Lei
è
comunista,
ed
era
stata
già
regista,
attrice
e
direttrice
di
teatro.
E
lui
si
precipita
a
raggiungerla
quando
lei,
gravemente
malata,
desidera
vederlo
a
Mosca.
Quando
Walter
finalmente
riesce
ad
arrivare,
Asja
si
sta
già
rimettendo
da
un
esaurimento
nervoso.
Lui
va
a
trovarla
ogni
giorno,
e
lei
scrive:
«Giocava
pazientemente
con
me
a
domino.
Ebbe
la
buona
volontà
di
adattarsi
all’inconsueto
ambiente
e
di
capirlo».
Asja
gli
fece
visita
alla
fine
del
1928
a
Berlino,
dove
si
videro
per
l’ultima
volta.
Quel
che
vede
nell’«inconsueto
ambiente»
moscovita
alimenta
il
suo
scetticismo.
In
una
lettera
a
Scholem
del
dicembre
1928
Benjamin
scrive:
«Non
si
può
affatto
prevedere
che
cosa
si
produrrà
in
Russia.
Forse
una
società
davvero
socialista,
forse
tutt’altro.
La
lotta
è
ancora
in
corso,
senza
sosta.
Essere
oggettivamente
legato
a
questa
situazione
è
qualcosa
di
terribile,
adattarmi
a
essa
in
base
a
considerazioni
di
principio
non
mi
sarebbe
possibile».
Nella
radura
in
montagna
anche
il
fratello
Georg
gli
sarà
stato
vicino;
non
lo
vede
da
più
di
sette
anni.
L’ossessione
della
razza
si
era
diffusa,
come
un
cancro
che
prolifera
in
fretta.
Le
chiese
cristiane
fanno
poco
per
realizzare
con
la
loro
azione
il
messaggio
d’amore
espresso
nel
Discorso
della montagna.
Diverse
cose
suonano
là
altrettanto
razziste,
sebbene
ammantate
nella
religione,
e
non
c’è
quasi
differenza
rispetto
agli
apologeti
di
«sangue
e
terra»
dell’epoca.
A
Sonnenburg
o
nel
carcere
di
Brandeburgo
e
–
due
anni
dopo
la
morte
di
Walter
–
nel
KZ
di
Mauthausen,
sua
ultima
stazione:
Georg
Benjamin
soffrì
soprattutto
perché
era
ebreo
e
per
di
più
comunista.
Come
può
aver
lavorato
la
fantasia
di
Walter
Benjamin,
quando
pensava
al
fratello?
Avevano
dovuto
fare
a
meno
l’uno
dell’altro
per
sette
volte
trecentosessantacinque
giorni,
e
cosa
rimane
a
quel
punto?
Si
erano
persi?
Alla
disperata
razionalizzazione
del
patto
fra
Hitler
e
Stalin,
elaborata
dal
fratello,
Walter
Benjamin
avrebbe
certo
reagito
diversamente
da
Hilde,
che
seguiva
gli
argomenti
di
Georg
nelle
sue
lettere
dal
carcere
e
il
tentativo
di
rinvenire
una
strategia
razionale
dietro
questo
patto
col
diavolo.
Walter
non
si
sarebbe
fatto
convincere.
Il
suo
scetticismo
è
espresso
nel
disegno
di
Paul
Klee,
Angelus novus,
che
Benjamin
interpreta
nello
scritto
Sul concetto
di storia.
Alla
nona
tesi
del
testo
premette
una
citazione
da
una
poesia
di
Scholem:
La mia ala è pronta al
volo
tornerei
volentieri
indietro
perché, rimanessi anche
tempovivo,
avreipocafelicità.
E
scrive:
«[...]
un
angelo
sembra
in
procinto
di
allontanarsi
da
qualcosa
su
cui
ha
fisso
lo
sguardo.
I
suoi
occhi
sono
spalancati,
la
bocca
è
aperta,
e
le
ali
sono
dispiegate.
L’angelo
della
storia
deve
avere
questo
aspetto.
Ha
il
viso
rivolto
al
passato.
Là
dove
davanti
anoi
appare
una
catena
di
avvenimenti,
egli
vede
un’unica
catastrofe,
che
ammassa
incessantemente
macerie
su
macerie
e
le
scaraventa
ai
suoi
piedi.
Egli
vorrebbe
ben
trattenersi,
destare
i
morti
e
riconnettere
i
frantumi.
Ma
dal
paradiso
soffia
una
bufera,
che
si
è
impigliata
nelle
sue
ali,
ed
è
così
forte
che
l’angelo
non
può
più
chiuderle.
Questa
bufera
lo
spinge
inarrestabilmente
nel
futuro,
a
cui
egli
volge
le
spalle,
mentre
cresce
verso
il
cielo
il
cumulo
delle
macerie
davanti
a
lui.
Ciò
che
noi
chiamiamo
il
progresso,
è
questa
bufera».
La
«bufera
dal
paradiso»
che
inesorabilmente
lo
sospinge
«può
essere
decifrata
in
molti
modi»,
così
leggo
in
Sven
Kramer,
un
eccellente
conoscitore
di
Benjamin.
In
combinazione
con
un’altra
sentenza
mi
viene
nuovamente
incontro
un
Benjamin
scettico,
quando
cita
Karl
Marx:
«Le
rivoluzioni
sono
la
locomotiva
della
storia
universale».
Ed
egli,
scetticamente,
obietta:
«Ma
forse
le
cose
stanno
in
modo
del
tutto
diverso.
Forse
le
rivoluzioni
sono
il
ricorso
al
freno
d’emergenza
da
parte
del
genere
umano
in
viaggio
su
questo
treno».
Avrebbe
potuto
opporre
questo
a
Georg,
il
comunista
fedele
che
nel
proprio
credo
vedeva
il
pilastro
a
cui
reggersi
nella
frustrante
realtà
della
sua
cella;
nulla
di
quel
che
arrivava
da
Mosca
poteva
essere
falso.
La
sua
convinzione
divenne
a
sua
volta
per
Hilde
un
lascito
che
lei
continuò
a
onorare:
«Il
partito,
il
partito
ha
sempre
ragione».
Nessuno
può
sapere
davvero
come
Walter
Benjamin
abbia
trascorso
quella
notte
sulla
montagna.
Si
può
suppore
che
l’abbiano
occupato
i
ricordi.
Forse,
come
nella
sua
Infanzia
berlinese
intorno
al
millenovecento,
sono
anche
odori
e
rumori
che
egli
trova
nei
cantucci
più
lontani
e
adopera
per
via
di
associazione.
Così
avviene
con
lo
squillo
del
telefono
e
le
sue
prime
esperienze
con
questa
diavoleria
moderna
e
il
suo
irritante
suono,
per
cui
non
è
sicuro
se
fosse
la
«struttura
dell’apparecchio»
o
quella
della
sua
fragile
«memoria»
a
far
sì
che
le
prime
conversazioni
telefoniche
gli
«si
presentano
all’orecchio
diverse
da
quelle
di
oggi».
Per
lui
erano
«rumori
notturni,
nessuna
musa
li
annuncia.
La
notte
da
cui
provenivano
era
la
stessa
che
precede
ogni
nascita
autentica»
così
leggo.
«E
neonata
era
la
voce
che
sonnecchiava
negli
apparecchi.
Fin
nel
giorno
e
nell’ora
il
telefono
mi
fu
fratello
gemello.
Potei
essere
testimone
di
come
si
lasciò
alle
spalle
le
umiliazioni
del
suo
noviziato».
E
coglie
quel
che
ancora
oggi,
nell’epoca
dei
media
elettronici,
causa
contrasti
grandi
e
piccoli
in
ogni
famiglia,
quando
i
figli
telefonano
per
ore
e
ore.
Forse
gli
risuona
ancora
nell’orecchio,
mentre
i
suoi
pensieri
volano
indietro
al
primo
decennio
del
ventesimo
secolo:
«Non
molti
fra
coloro
che
usano
l’apparecchio
sanno
quale
scompiglio
la
sua
comparsa
provocò
allora
nelle
famiglie.
Il
suono
con
cui
si
annunciava
fra
le
due
e
le
quattro,
quando
l’ennesimo
compagno
di
scuola
desiderava
parlarmi,
era
un
segnale
d’allarme
che
minacciava
non
solo
il
riposo
pomeridiano
dei
miei
genitori,
ma
l’epoca
nel
cui
grembo
essi
si
abbandonavano
al
sonno».
Benjamin
era
anche
un
eccellente
scrittore.
E
così,
in
un
altro
punto
del
manoscritto
che
precede
l’Infanzia,
ricava
la
descrizione
di
un
ricordo
che
non
è
di
ogni
bambino:
«Si
trattava,
per
quanto
inverosimile
possa
apparire,
del
rumore
che
produceva
il
coltello
con
cui
mia
madre
spalmava
i
panini
che,
la
mattina,
mio
padre
portava
con
sé
in
ufficio,
quando
esso
veniva
passato
un’ultima
volta
sui
croccanti
bordi
per
ripulirlo
dal
burro
che
poteva
esservi
rimasto
appiccicato.
Questo
suono,
che
preannunciava
la
giornata
lavorativa
di
mio
padre,
era
per
me
non
meno
eccitante
di
quanto,
anni
più
tardi,
mi
parve
lo
scampanellio
che
a
teatro
annuncia
l’inizio
della
rappresentazione».
Chiunque
abbia
mai
tentato
di
incontrare
l’uomo
sulla
montagna
e
si
sia
avvicinato
a
lui,
concorderà
che
la
sua
vita
assomigliava
davvero
a
una
galleria,
a
un
passage
dove
ogni
fase
aveva
una
propria
entrata
e
uscita.
Allo
stesso
modo
in
cui
le
cose
si
trovano
nelle
mondane
gallerie
commerciali,
abbaglianti
e
simili
a
cattedrali:
libri,
forse
anche
antichi,
e
accanto
a
questi
articoli
di
lusso,
eleganti
negozi
di
abbigliamento
e
sartorie,
gioiellieri,
cappellai
e
raffinati
ristoranti,
il
tutto
gomito
a
gomito
sotto
un
solo
tetto.
Qui
si
ritrovava
il
tout
Paris,
ovvero
il
tout
Madrid
o
il
tout
Budapest
–
i
ricchi
e
i
belli
del
loro
tempo.
È
solo
naturale
che
egli
non
veda
a
Milano
o
a
Londra
la
più
bella
di
queste
gallerie,
ma
nella
sua
città,
a
Parigi,
nel
Palais
Royal.
Qui
matura
l’idea
dei
Passages.
Sull’esempio
di
Parigi
vuole
raccontare
la
storia
del
diciannovesimo
secolo.
E
questa
è
per
me
un’occasione
di
rivolgere
lo
sguardo
ai
membri
dell’intricata
famiglia
Benjamin
e
ai
cammini
delle
loro
vite,
inseparabili
dal
ventesimo
secolo.
Là
si
trovano
le
loro
battaglie
e
conquiste,
sempre
nutrite
dalla
speranza
di
contribuire
a
creare
un
mondo
migliore.
E
per
me
questa
notte
solitaria
è
quasi
un
simbolo
della
sua
lotta
per
la
vita.
In
fuga
da
quelli
che
osserva
con
sguardo
freddamente
analitico,
smascherando
tutte
le
loro
terribili
semplificazioni.
E
in
quelle
ore
solitarie
lassù,
mentre
attende
il
ritorno
di
Lisa
Fittko,
potrebbe
aver
visto
questo
film
della
sua
vita.
Forse
con
altri
dettagli
che
possono
essere
stati
più
importanti
per
lui
di
quanto
io
sappia.
Così
dice
lui
stesso:
«Chi
abbia
dispiegato
una
prima
volta
il
ventaglio
della
memoria
trova
sempre
nuove
componenti,
nuove
ramificazioni,
nessun’immagine
fra
quelle
riconosciute
gli
pare
sufficiente,
perché
ha
capito:
è
possibile
svolgere,
solo
fra
le
pieghe
si
trova
l’essenziale:
quell’immagine,
quel
gusto,
quella
sensazione
tattile
alla
ricerca
dei
quali
abbiamo
scisso,
dispiegato;
ed
ora
la
memoria
passa
dal
piccolo
al
piccolissimo,
e
da
questo
al
minuscolo,
e
ciò
che
incontra
in
questi
microcosmi
diventa
sempre
più
potente».
E
quindi
torno
volentieri
a
citarlo:
«Le
memorie,
anche
quando
entrano
nei
dettagli,
non
sempre
costituiscono
un’autobiografia».
Quando
Walter
Benjamin
batte
alla
porta
della
mansarda
di
Lisa
Fittko
a
Port
Vendres,
nella
tarda
mattinata
del
24
settembre
1940,
erano
già
iniziate
le
prime
deportazioni.
Quello
stesso
anno
era
stato
proibito
agli
ebrei
il
possesso
di
una
connessione
telefonica
o
l’acquisto
di
sapone.
Poco
dopo
vennero
proibiti
gli
animali
domestici.
A
nessun
ebreo
e
a
nessuno
dei
suoi
figli
era
consentito
avere
un
cane,
un
gatto,
un
canarino,
un
criceto
o
un
coniglio.
Fin
quando
fu
tutto
proibito,
persino
sedere
sulla
panchina
di
un
parco.
In
origine
gli
animali
domestici
avrebbero
dovuto
essere
completamente
proibiti
nel
Reich.
Il
ministero
dell’Economia
a
Berlino
sperava
che
in
questo
modo
si
sarebbero
risparmiate
tonnellate
di
cereali,
destinate
a
nutrire
gli
animali
domestici.
Pare
che
sia
stato
Hitler
in
persona
a
voler
rinunciare
al
divieto
che,
nell’ottica
dell’economia
di
guerra,
forse
avrebbe
giovato
alla
popolazione.
Indietreggiò,
e
probabilmente
non
sbagliava
nel
ritenere
che
un
simile
provvedimento
non
sarebbe
stato
compreso.
E
tanto
più
che
in
quel
caso
sarebbe
stato
inevitabile
mettere
al
corrente
gli
appartenenti
alla
«razza
padrona»
della
situazione
effettivamente
critica
dei
rifornimenti.
È
probabile
che
Walter
Benjamin
non
sapesse
niente
di
tutto
questo
quando
bussò
alla
porta
che
una
Lisa
ancora
assonnata
aprì
dopo
un
poco.
Lisa
stessa
non
sa
spiegarsi
il
motivo
per
cui
dentro
di
sé
chiama
il
gentile
visitatore
soltanto
il
«vecchio
Benjamin».
«Davvero
non
so
perché»
scrive.
«Aveva
più
o
meno
quarantotto
anni».
Degli
ultimi
sette
anni
di
esilio
in
Francia,
che
l’avevano
segnato,
Lisa
non
può
sapere
nulla,
ma
certo
dovevano
pesargli
addosso.
A
Parigi
aveva
dovuto
soppesare
ogni
centesimo,
e
il
miglior
cuoco
là
era
stato
la
fame.
Aveva
incontrato
scarsa
disponibilità
a
concedere
all’intellettuale
tedesco
onorari
e
spazi
di
pubblicazione
in
gazzette
e
istituti.
Gli
restavano
solo
i
sussidi
dell’Istituto
per
la
ricerca
sociale
di
New
York.
Né
Max
Horkheimer
né
Theodor
W.
Adorno,
a
cui
era
legato
da
un
rapporto
di
amicizia,
avevano
evidentemente
un’idea
delle
sue
condizioni.
Il
che
induceva
Hannah
Arendt
a
esternazioni
piene
di
rabbia
nelle
sue
lettere
all’amico
Gershom
Scholem.
Quando
l’Istituto
da
Francoforte
si
trasferì
prima
in
Svizzera
e
poi
a
New
York,
verso
la
salvezza,
Benjamin
temette
addirittura
di
perdere
la
sua
unica
fonte
di
guadagno.
In
una
lettera
che
lo
raggiunse
nel
1934
a
Parigi,
Horkheimer
gli
assicurava
in
realtà
che,
nonostante
il
trasferimento
in
America,
Benjamin
avrebbe
continuato
a
collaborare
con
l’Istituto,
e
tuttavia
la
paura
di
perdere
l’unica
fonte
di
guadagno
rimasta
non
lo
lasciò
mai
del
tutto.
Sosteneva
finanziariamente
l’Istituto
per
la
ricerca
sociale
una
fondazione
del
commerciante
di
granaglie
Weil
e,
in
seguito,
una
donazione
del
figlio
Felix.
Ma
torniamo
a
Port
Vendres:
Benjamin
chiede
scusa
all’assonnata
Lisa
Fittko
per
il
disturbo,
e
lo
fa
con
grande
gentilezza,
come
lei
ricorda:
«Spero
di
non
arrivare
in
un
momento
inopportuno»
dice,
e
poi
aggiunge:
«Suo
marito
mi
ha
spiegato
come
trovarla.
Ha
detto
che
lei
mi
avrebbe
portato
oltre
la
frontiera,
in
Spagna».
Lisa
Fittko
descrive
l’inquietudine
che
la
colse
il
mattino
dopo,
quando
si
avvicinò
al
posto
dove
lei
e
gli
altri
due
fuggiaschi
avevano
lasciato
Walter
Benjamin.
«Finalmente
la
radura!
E
il
vecchio
Benjamin?
Vivo!».
E
poi
la
paura
nel
vedere
le
chiazze
marroni
intorno
ai
suoi
occhi
–
sintomi
di
un
infarto?
Lui
la
tranquillizza.
Erano
solo
i
bordi
della
montatura
degli
occhiali
che
nell’umidità
notturna
si
erano
ossidati,
lasciando
tracce
di
colore
intorno
agli
occhi.
Il
cammino
continua
a
essere
faticoso,
e
le
previsioni
del
sindaco
di
Banyuls-sur-Mer
sui
tempi
di
marcia
non
possono
essere
rispettate.
Persino
un
escursionista
sano
e
allenato
farebbe
fatica
ad
avanzare
all’andatura
necessaria
su
questo
sentiero
che
procede
ripido
tra
i
vigneti.
Ogni
dieci
minuti
una
pausa
per
far
riposare
il
cuore.
Poi
di
nuovo
avanti,
a
ritmo
uniforme.
Quando
raggiungono
il
passo
–
uno
sguardo
gettato
all’indietro,
laggiù
in
fondo
c’è
il
Mediterraneo
di
un
blu
intenso
e
sull’altro
lato,
così
descrive
Lisa,
«rocce
scoscese
cadono
su
una
lastra
di
vetro
color
turchese
trasparente
–
un
secondo
mare?».
È
la
costa
della
Spagna,
di
una
straordinaria
bellezza.
Eccoli
in
territorio
spagnolo.
Sebbene
dovesse
stare
attentissima
a
non
farsi
scoprire
dalla
polizia
spagnola
di
frontiera,
Lisa
rimase
con
il
gruppo
e
tornò
indietro
solo
quando
apparvero
le
prime
case
di
Portbou.
A
questo
punto
giudicava
che
i
tre
avrebbero
attraversato
senza
pericoli
la
frontiera
e
preso
il
treno
per
Lisbona.
Arrivato
a
Portbou,
nella
piccola
stanza
all’interno
della
pensione,
Benjamin
scrisse
un
ultimo
biglietto:
era
incappato
in
una
situazione
senza
via
di
uscita,
e
non
aveva
altra
scelta
se
non
mettere
fine
alla
sua
vita.
Non
aveva
più
tempo
per
scrivere
tutte
le
lettere
che
avrebbe
voluto
scrivere.
«Al
momento
del
pericolo
estremo,
cui
non
è
possibile
strappare
nessuna
dilazione
–
e
dunque
nessuna
speranza
–,
a
questo
momento
io
vado
incontro
con
una
risoluzione
esistenziale».
La
cartella
fu
trovata
e
inventariata
per
bene
nel
pubblico
registro
funebre,
ma
non
il
manoscritto.
Henny
Gurland
pagò
in
anticipo
la
tomba
per
cinque
anni.
Ci
si
può
chiedere
se
la
morte
di
Benjamin
abbia
indotto
le
guardie
di
frontiera
spagnole
a
far
passare
i
Gurland
anche
senza
il
timbro
di
uscita
dalla
Francia,
cosa
che
avevano
rifiutato
invece
a
Benjamin.
Ma
l’assenza
del
manoscritto
suggerisce
anche
altre
ipotesi.
Anche
l’ultimo
biglietto
di
Benjamin
consente
ogni
genere
di
interpretazione.
Compresa
quella
affacciata
nel
documentario
dell’argentino
Mauas,
che
mette
in
dubbio
il
suicidio.
Bertolt
Brecht
scrive
nell’epitaffio
Per
il
suicidiodelprofugoW.B.:
Ho saputo che hai alzato
lamanocontrotestesso
prevenendoilmacellaio.
Esule da otto anni,
osservando l’ascesa del
nemico,
spinto alla fine a
un’invalicabilefrontiera
hai valicato, dicono, una
frontierainvalicabile.
Imperi
crollano.
I
capibanda
incedono in veste di
uominidistato.Ipopoli
non si vedono più sotto le
armature.
Così il futuro è nelle
tenebre,eleforzedelbene
sono deboli. Tutto questo
haiveduto
quando hai distrutto il
torturabilecorpo.
Capitolo
sesto
Hilde
Benjamin
«Eccone
uno!».
Una
mano
infantile
prende
il
coleottero
che
sta
aggrappato
al
lato
inferiore
di
una
foglia
di
patata,
piccolissimo
e
giallognolo
con
le
sue
strisce
nere
sulle
ali.
Un’allegria
chiassosa
ha
invaso
il
campo
di
patate,
molti
bambini
corrono
tutt’intorno
scatenati
e
cercano
i
coleotteri
sulle
piante.
Di
continuo
risuona
il
grido:
«Ne
ho
preso
uno!».
Il
coleottero
cade
in
un
grande
vasetto
per
conserve
che
ciascuno
dei
bambini
ha
portato
con
sé
nel
campo.
Un
divertimento
immenso
sotto
il
cielo
azzurro.
L’avevamo
atteso,
contando
su
un’eccitante
avventura.
Quando
la
maestra
aveva
annunciato
che
il
mattino
successivo
saremmo
partiti
subito
dopo
l’inizio
della
scuola
con
un
pullman
che
ci
avrebbe
portati
fuori
città,
con
l’obiettivo
di
raccogliere
i
coleotteri
delle
patate
e
salvare
il
raccolto,
la
risposta
era
stata
un
felice
baccano.
Un
cattivo
raccolto
avrebbe
significato
una
catastrofe,
considerate
le
difficoltà
negli
approvvigionamenti
alimentari
dopo
la
fine
della
Seconda
guerra
mondiale.
E
così
la
salvezza
del
raccolto
divenne
un
dovere
nazionale
a
cui
tutte
le
scuole
e
il
personale
di
fabbriche
e
amministrazioni
dovevano
partecipare.
In
un
giorno
di
scuola
nel
1950
apprendemmo
chi
dovevamo
ringraziare
per
quel
momento
che
nel
ricordo
io
conservo
come
un
insperato
giorno
di
vacanza,
proprio
come
il
pentolone
con
la
zuppa
grassa
di
piselli
che
veniva
mandato
agli
scolari
nei
campi.
Noi
ragazzini
e
le
ragazzine
più
grandi,
che
portavamo
le
camicie
azzurre
della
FDJ
(Freie
Deutsche
Jugend,
Libera
gioventù
tedesca),
prendevamo
ciascuno
due
mestolate
di
zuppa
dal
pentolone.
Facendo
gran
rumore
con
la
bocca
mangiavamo
poi
dalle
scodelle
che
avevamo
portato
da
casa.
Ci
riempivamo
la
pancia.
L’attrezzatura
con
il
pentolone
apparteneva
all’Armata
Rossa,
lo
si
riconosceva
dalla
stella
e
dai
caratteri
cirillici.
Una
splendida
pausa
di
mezzogiorno.
Il
nostro
ringraziamento
per
la
giornata
libera
dalla
scuola
doveva
andare
al
nemico
imperialista.
Ci
fu
spiegato
che
solo
lui
aveva
potuto
far
piovere
sui
campi
i
coleotteri
delle
patate
dagli
aeroplani.
Il
giorno
dopo
apprendemmo
inoltre
che
con
la
guerra
ai
coleotteri
avevamo
combattuto
e
vinto
una
battaglia.
Gli
imperialisti
in
Germania
Occidentale
e
negli
Stati
Uniti
avevano
subito
un’amara
sconfitta.
Noi
eravamo
gli
eroi.
Avevamo
preso
d’assalto
il
fronte
dei
coleotteri.
Così
ricordo
un
particolare
giorno
di
scuola
nella
DDR,
quando
portavo
anch’io
il
fazzoletto
azzurro
dei
pionieri.
Dopo
la
fuga
da
Danzica
e
prima
della
successiva,
avventurosa,
partenza
dalla
DDR
abitavamo
a
Rostock,
nella
Kröpeliner
Straße,
che
era
stata
ribattezzata
Stalin-Straße.
Solo
la
nonna
e
il
nonno
rimasero
là.
Vennero
in
Occidente
quando
ebbero
raggiunto
l’età
della
pensione.
Nel
martellamento
della
propaganda
la
guerra
delle
parole
conobbe
un
ulteriore
capitolo.
Era
condotta
con
violenza
e
con
tutti
i
possibili
mezzi
illeciti.
L’alleanza
bellica
era
ormai
spezzata,
e
l’aveva
seguita
la
guerra
fredda.
Io
sentii
per
la
prima
volta
il
nome
Hilde
Benjamin.
Fino
al
1953
era
stata
vicepresidente
della
Corte
suprema
della
DDR
e
in
seguito
fu
ministro
della
Giustizia.
Nella
DDR
si
mormorava
su
di
lei.
Veniva
chiamata
la
«russa».
La
parola
pronunciata
in
tono
sprezzante
e
quasi
con
la
pelle
d’oca.
Doveva
quel
soprannome
alla
sua
acconciatura:
i
capelli
pettinati
severamente
all’indietro
e
raccolti
in
una
treccia,
arrotolata
poi
attorno
al
capo.
Un’acconciatura
prediletta
dalle
donne
russe.
E
poi
c’era
il
cliché
particolarmente
amato
dai
mezzi
di
informazione
occidentali,
i
quali
vedevano
in
lei
il
giudice
senza
pietà
che
terminava
i
suoi
processi
con
clamorosi
verdetti
punitivi
e
metteva
gli
accusati
dietro
le
sbarre
per
molti
anni.
Le
vengono
attribuite
due
sentenze
di
morte.
In
Occidente
l’opinione
pubblica
era
unanime:
tutti
gli
accusati
erano
vittime
della
giustizia
inumana
vigente
nel
secondo
stato
tedesco,
la
DDR,
la
Repubblica
Democratica
Tedesca
che
per
quarantacinque
anni
volle
considerarsi
la
Germania
antifascista.
Solo
la
lettura
di
una
biografia
mi
consentì
di
collegare
Hilde
e
Walter
Benjamin,
ponendoli
sotto
un
comune
e
familiare
tetto.
Hilde
era
la
cognata
di
Walter
Benjamin,
sposata
con
suo
fratello
Georg.
Allora
non
sapevo
nulla
su
di
lei,
la
sua
famiglia
o
il
suo
destino.
Tante
volte
nel
corso
degli
anni,
dopo
la
nascita
dei
due
stati
tedeschi
quale
esito
della
guerra
hitleriana,
avevo
incontrato
il
suo
nome.
In
Occidente
era
avvolto
spesso
in
una
sfumatura
di
disprezzo,
quando
si
parlava
della
«zona
sovietica»
e
del
suo
supremo
giurista.
Era
chiamata
«Hilde
la
Sanguinaria»,
o
nel
migliore
dei
casi
«Hilde
la
Rossa»,
o
addirittura
veniva
paragonata
a
Roland
Freiser,
giudice
penale
del
Terzo
Reich.
Molto
di
quello
che
lessi
su
di
lei
mi
parve
poco
credibile.
Avevo
passato
sette
anni
della
mia
vita
nella
Zona
di
Occupazione
Sovietica
(Sowjetische
Besatzungszone,
SBZ),
ossia
nella
DDR,
e
nel
1951
fuggii
con
mia
madre
e
mia
sorella
da
uno
stato
tedesco
verso
l’altro.
Già
da
bambino
imparai
che
la
morale
più
alta
pareva
trovarsi
sempre
nella
Germania
dove
stavo
in
quel
momento.
Ma
diversamente
dalla
Repubblica
Federale,
la
Repubblica
Democratica
Tedesca
allontanò
con
coerenza
gli
ex
membri
del
Partito
nazionalsocialista
dei
lavoratori
tedeschi
(Nationalsozialistische
Deutsche
Arbeiterpartei,
NSDAP)
dalle
sfere
della
giustizia,
dell’amministrazione
e
dell’insegnamento.
Fu
Hilde
Benjamin
a
far
sì
che
con
l’istituzione
di
«giudici
del
popolo»
(Volksrichter)
fosse
possibile
continuare
ad
amministrare
la
giustizia,
sia
pure
con
lentezza
e
in
maniera
spesso
contestabile.
Le
autorità
sovietiche
e
tedesche,
la
direzione
politica
e
i
quadri
del
partito
riconobbero
quale
loro
compito
più
urgente
quello
di
formare
in
fretta
nuovi
insegnanti,
giudici
del
popolo
e
funzionari
amministrativi
che
potessero
occupare
i
posti
vacanti.
Puntarono
sulla
voglia
di
apprendere
della
giovane
generazione
e
incontrarono
una
grande
fame
di
sapere.
Non
fu
una
ristrutturazione
priva
di
sussulti
e
i
colpevoli
di
ieri,
espulsi,
si
consideravano
vittime
innocenti
del
«regime
d’ingiustizia»
della
DDR.
Ci
furono
vittime,
per
esempio
al
momento
dell’unione
forzata
fra
Partito
comunista
e
Partito
socialdemocratico,
da
cui
nacque
il
Partito
socialista
unitario
tedesco
(SED),
e
poi
anche
nelle
file
di
quest’ultimo.
Un
partito
che
aveva
«sempre»
ragione
e
sospettava
di
scissionismo
ogni
divergenza
ottenne
facilmente
di
moltiplicare
quotidianamente
il
numero
delle
sue
vittime.
Durante
la
Guerra
fredda
tra
Oriente
e
Occidente
ci
furono
sempre
più
frequentemente
guerre
calde
sostitutive
–
in
Corea
o
in
Africa.
La
realtà
era
l’antagonismo
fra
le
due
superpotenze.
E
scemò
dunque
in
fretta
l’interesse
delle
potenze
vincitrici
per
la
rieducazione
dei
tedeschi
e
la
loro
denazificazione.
Ai
processi
di
Norimberga
non
seguì
nulla
che
potesse
arrestare
la
perdita
di
memoria.
Ma
non
soltanto
fra
gli
intellettuali
fu
posta
la
domanda
se
dopo
Auschwitz
fosse
ancora
possibile
la
poesia.
Erano
così
tanti
i
concetti
svalorizzati,
come
l’onore,
la
fedeltà,
il
popolo,
la
razza,
la
giustizia,
la
morale,
persino
la
patria
e
la
cultura.
Inutilizzabili.
Come
descrivere
allora
quel
che
divenne
storia
e
accadde
in
nome
della
Germania?
Devastazione
totale.
Tabula
rasa.
Com’è
possibile
avvicinarsi
a
Hilde
Benjamin
in
quell’epoca?
Capire
cosa
l’ha
spinta,
cosa
l’ha
segnata,
cosa
ha
fatto
di
lei
il
sanguinario
ventesimo
secolo?
Sarebbe
potuto
diventare
un
secolo
tedesco
se
la
Repubblica
di
Weimar
fosse
diventata
una
forte
democrazia
e
avesse
saputo
affermarsi
contro
Hitler.
Hilde
Benjamin
fu
anche
una
testimone
dell’epoca
successiva
al
1945.
«Cominciò
allora
ciò
per
cui
avevamo
combattuto
durante
i
dodici
anni
trascorsi»
scrisse
al
termine
dell’orrore
e
dopo
che
a
Potsdam
era
stata
suggellata
la
fine,
«e
a
cui
ci
eravamo
preparati
negli
ultimi
mesi».
Dal
comandante
russo
ricevette
l’incarico
di
riorganizzare
il
tribunale
di
Steglitz-Lichterfelde.
Era
il
12
maggio
1945.
Dopo
la
divisione
di
Berlino
in
quattro
settori
Hilde
si
trasferì
nella
parte
della
città
occupata
dai
sovietici.
Era
membro
del
Partito
comunista,
e
poi
della
SED.
Ma
come
poteva
fiorire
quel
che
nella
sfera
di
potere
sovietica
si
andava
sviluppando
come
stato
autonomo
per
grazia
di
Mosca?
Anche
i
comunisti
a
Berlino
Est
si
ritrovarono
di
fronte
una
popolazione
postfascista
che
aveva
vissuto
la
quotidianità
dello
stato
nazista
senza
evidenti
emozioni.
Poteva
svilupparsi
ciò
che
molti
si
attendevano
dalla
DDR?
Alle
spalle
c’erano
ben
dodici
anni
di
martellamento
antibolscevico,
che
con
il
patto
fra
Hitler
e
Stalin
del
23
agosto
1939
aveva
conosciuto
solo
una
breve
pausa,
prima
dell’attacco
lanciato
dalla
Wehrmacht
contro
l’Unione
Sovietica
per
ordine
di
Hitler,
il
12
giugno
1941.
La
campagna
militare
combattuta
come
una
guerra
di
annientamento
contro
la
Russia
e
la
sua
popolazione
divenne
la
più
sanguinosa
carneficina
della
Seconda
guerra
mondiale.
La
gente
sapeva
o
immaginava
in
quali
atrocità
fosse
coinvolta
la
Wehrmacht.
La
paura
della
vendetta
che
l’Armata
Rossa
avrebbe
inflitto
nella
sua
avanzata
indusse
molti
a
Est
ad
abbandonare
tra
il
panico
le
proprie
case
e
i
campi.
Ciò
determinò
in
molti
tedeschi,
dopo
il
1945,
un
atteggiamento
psicologico
difensivo
verso
tutto
quel
che
era
legato
a
Mosca.
Vi
contribuirono
anche
la
vita
quotidiana
durante
l’occupazione
e
non
da
ultimo
i
tabù
imposti
a
seguito
dell’amicizia
forzata
tedescosovietica,
il
silenzio
sui
soprusi
dei
soldati
dell’Armata
rossa
e
le
frequenti
violenze
sessuali
–
che
si
verificavano
ogni
giorno.
Erano
la
risposta
ai
crimini
commessi
nel
nome
della
Germania
e
al
corridoio
della
morte
spianato
dai
tedeschi
attraverso
la
Russia.
I
quadri
dirigenti
della
SED,
come
ricorda
Rudolf
Herrnstadt,
primo
caporedattore
del
quotidiano
«Neues
Deutschland»
(Nuova
Germania),
ignorarono
la
paura
delle
donne
e
le
violenze
di
massa.
La
sfiducia
della
gente
si
appuntò
in
due
direzioni:
contro
gli
occupanti
che
diffondevano
paura
e
orrore,
e
contro
i
comunisti
tedeschi
della
prima
ora
che
non
osavano
opporsi
alla
forza
di
occupazione
e
dare
un
nome
alle
violenze
e
ai
crimini.
Hilde
Benjamin,
insediata
come
procuratrice
a
Steglitz
nel
1945
dal
comandante
dell’Armata
Rossa,
ricordava
che
nei
corridoi
della
pretura
si
potevano
cogliere
forti
espressioni
di
indignazione
per
quei
fatti,
e
non
di
rado
vi
risuonava
anche
la
nostalgia
della
quiete
e
dell’ordine
che
avevano
regnato
in
epoca
nazista.
La
diffidenza
dei
funzionari
verso
gli
umori
di
tipo
fascista
del
proprio
popolo
è
così
già
formata,
e
trova
nella
Sicurezza
di
Stato
(Staatssicherheit),
la
Stasi,
la
sua
corrispondente
forma
di
espressione,
che
con
gli
anni
diventa
sempre
più
abietta.
Durante
i
primi
tempi
della
DDR
molti
speravano
in
una
terza
via
fra
capitalismo
e
fascismo.
Anche
Walter
Benjamin
avrebbe
condiviso
questa
speranza?
Alla
domanda
Hilde
Benjamin
risponde
convinta
che
sarebbe
entrato
nella
SED.
Occorre
mantenersi
scettici.
E
a
questo
punto
mi
viene
in
mente
la
cartolina
che
ho
trovato
sulla
sua
tomba
a
Portbou.
Quasi
un
saluto
tardivo
dalla
DDR
ormai
scomparsa,
svolazzato
fin
sulla
lapide
commemorativa;
posava
sui
fiori
freschi
della
corona
ufficiale
della
città
di
Portbou
per
il
settantunesimo
anniversario
della
sua
morte.
Una
cartolina
non
scritta,
in
bianco
la
parte
destinata
al
messaggio,
senza
un
mittente.
Sul
lato
superiore
l’immagine
dell’Alexanderplatz
nella
Berlino
divisa
degli
anni
Ottanta.
Come
se
qualcuno
volesse
far
presente
che
il
legame
fra
Walter
Benjamin
e
la
DDR
deve
rimanere
uno
spazio
vuoto.
Walter
Benjamin
si
sarebbe
probabilmente
mantenuto
distante
da
entrambi
gli
stati
tedeschi.
Rudolf
Herrnstadt,
caporedattore
di
«Neues
Deutschland»
caduto
in
disgrazia
a
seguito
della
rivolta
del
17
giugno
1953,
che
Hilde
sicuramente
conosceva,
poco
prima
della
sua
morte
nominò
quello
che
per
lui
era
«il
cancro
nelle
proprie
file»:
«Questa
piccola
borghesia
difficilmente
concepibile
e
caratteristicamente
tedesca
che
erige
intorno
a
sé
barricate
comuniste.
Riconosciuta
al
primo
sguardo
da
tutti
i
russi.
Ma
tollerata
da
molti,
per
misteriosi
motivi.
E
che
oggi
non
sono
più
misteriosi:
avevano
bisogno
gli
uni
degli
altri;
il
culto
della
personalità
stalinista
non
era
meno
piccolo
borghese
–
e
il
suo
terrore
aveva
bisogno
di
lacchè».
Molto
fa
credere
che
Walter
Benjamin
avrebbe
pensato
in
maniera
analoga
e
non
avrebbe
tollerato
la
DDR.
Ma
certo
non
avrebbe
accettato
nemmeno
la
Repubblica
Federale
Tedesca
con
la
sua
atmosfera
di
restaurazione,
che
solo
nella
seconda
parte
degli
anni
Sessanta
sarebbe
riuscita
a
riesumare
dalle
zone
profonde
della
memoria
collettiva
rimossa
il
periodo
nazista.
Il
fatto
che
ci
vollero
più
di
quindici
anni
dipende
da
molti
motivi.
Uno
di
questi
è
l’assunzione
delle
classi
dirigenti
nazionalsocialiste
nell’economia,
nell’amministrazione
e
nella
giustizia
della
Repubblica
Federale
Tedesca,
oltre
che
nelle
redazioni
di
giornali
e
riviste,
da
«Zeit»
a
«Spiegel».
Deve
nascere
da
questo
anche
la
reazione
piena
d’odio
dei
mezzi
di
informazione
occidentali
verso
il
tentativo
compiuto
da
Hilde
Benjamin
per
far
piazza
pulita
dei
criminali
nazisti
nella
DDR.
Questo
virus
non
sarebbe
dovuto
penetrare
in
Germania
Occidentale.
Fu
Fritz
Bauer,
procuratore
generale
a
Francoforte,
che
in
Occidente
cominciò
a
mettere
ordine
nella
giustizia.
Una
storia
con
grandi
contraccolpi.
Ed
essenziale
affinché
questa
storia
possa
essere
raccontata
è
il
contributo
di
entrambi,
Fritz
Bauer
a
Ovest
e
Hilde
Benjamin
a
Est.
Helene
Marie
Hildegard
Benjamin
veniva
da
Bernburg
(Saale),
dove
era
nata
nel
1902.
La
sua
famiglia
si
era
trasferita
in
seguito
a
Berlino.
Quarantotto
anni
dopo
Hilde
Benjamin
sarebbe
tornata
nella
sua
città
natale
come
presidente
della
prima
corte
penale
del
tribunale
supremo
della
DDR,
per
pronunciarvi
il
suo
verdetto.
Una
visita
che
avrebbe
potuto
essere
il
modello
per
il
dramma
di
Friedrich
Dürrenmatt:
La
visita
della
vecchia
signora.
Alta
appena
un
metro
e
sessanta
ed
esile:
così
viene
descritta
la
giovane
Hilde.
Il
suo
colorito
scuro
e
i
capelli
neri
le
procurarono
il
soprannome
l’«indiana».
Nella
biografia
Die
Machtfrau
(La
donna
di
potere)
di
Marianne
Brentzel
l’epoca
della
scuola
è
descritta
con
una
certa
superficialità:
«Latino
e
matematica
erano
considerati
poco
femminili»
scrive
l’autrice.
«Al
liceo
le
ragazze
imparavano
solo
quello
che
veniva
ritenuto
adatto
e
utile
alle
future
mogli
di
militari,
funzionari,
imprenditori
e
professori:
lavoro
manuale,
disegno,
religione,
balli
di
società,
conversazione
in
tedesco,
inglese
e
francese.
Le
scienze
naturali
e
la
matematica
avevano
invece
un
ruolo
subordinato».
Michael
Benjamin,
figlio
di
Hilde,
il
quale
trasse
vantaggio
dalla
vasta
cultura
della
madre
poiché
a
lui,
il
«meticcio»,
era
vietato
frequentare
le
scuole
superiori,
giudicò
errata
questa
affermazione
per
ciò
che
si
riferiva
a
lei.
Ricorda
con
affetto
di
doverle
una
buona
parte
delle
sue
nozioni
di
botanica.
Il
loro
comune
«lavoro
di
ricerca»
produsse
addirittura
una
piccola
«monografia»
sui
«fiori
di
Löcknitzwiese».
Michael
racconta
che
Hilde
iniziò
la
scuola
elementare
in
una
«fase
interessante»
per
lo
sviluppo
dell’istruzione
femminile
in
Germania.
Era
iniziata
la
lotta
per
una
più
elevata
istruzione
femminile.
Un
risultato
di
ciò
erano
gli
istituti
e
i
corsi
liceali
a
Berlino,
fondati
da
Helene
Lange
con
l’intento
di
raggiungere
un
pareggiamento
di
principio
dell’istruzione
femminile
e
maschile.
Alle
donne
venne
concesso
di
compiere
studi
universitari,
sia
pure
con
una
minore
possibilità
di
scelta
tra
le
facoltà.
La
motivazione
ufficiale
di
questo
passo
sarebbe
piaciuta
all’Unione
cristianosociale
(ChristlichSoziale
Union,
CSU)
fino
agli
anni
Sessanta,
e
non
solo
in
Baviera:
«Il
rapido
sviluppo
della
nostra
cultura
e
le
conseguenti
trasformazioni
degli
attuali
rapporti
sociali,
nelle
professioni
e
nell’istruzione,
hanno
fatto
sì
che
specialmente
nelle
classi
medie
e
alte
molte
ragazze
non
abbiano
accesso
allo
studio
e
una
gran
parte
della
forza
lavoro
femminile,
preziosa
per
la
collettività,
resti
inutilizzata.
L’eccedenza
della
popolazione
femminile
rispetto
a
quella
maschile
e
il
crescente
numero
di
uomini
che
non
contraggono
matrimonio
nelle
classi
alte
costringono
una
percentuale
sempre
maggiore
di
donne
a
rinunciare
al
proprio
ruolo
naturale
di
spose
e
madri.
Occorre
aprire
loro
le
strade
verso
i
mestieri
adeguati
alla
loro
educazione,
che
nella
maggioranza
dei
casi
devono
offrire
inoltre
i
mezzi
per
il
proprio
sostentamento,
non
solo
come
insegnanti
di
scuola
superiore,
ma
anche
in
quelle
altre
posizioni
accessibili
alle
donne
che
richiedono
uno
studio
universitario».
Hilde
Benjamin
lasciò
nel
1918
l’Auguste-ViktoriaLyzeum
per
passare
al
liceo
scientifico,
dove
ottenne
il
diploma
di
maturità
nel
1921.
Studiò
giurisprudenza
e
nel
1928
superò
il
secondo
esame
di
stato
con
la
valutazione
«ottimo».
Ovunque
io
legga
qualcosa
su
di
lei
scopro
una
donna
intelligente,
aperta
e
colta.
Era
già
così
alla
scuola
elementare,
dove
si
annoiava
perché
sapeva
tutto.
Suonava
il
pianoforte
e
amava
la
musica
classica.
Le
sue
convinzioni
politiche
si
formarono
a
Berlino
dopo
la
Prima
guerra
mondiale,
terminata
con
un
armistizio
che
equivaleva
a
una
capitolazione.
Il
trattato
di
Versailles
fu
un
durissimo
colpo
per
il
paese,
mentre
il
Kaiser
spaccava
la
legna
nel
suo
esilio
in
Olanda.
Il
paese
era
nel
caos.
Allora,
all’inizio
degli
anni
Venti,
lo
spirito
dei
tre
Benjamin
e
della
loro
amica
Hilde
era
colmo
della
certezza
che
i
miseri
resti
del
mondo
borghese
e
del
dispotismo
imperiale
fossero
stati
definitivamente
liquidati
dalla
storia.
Molti
segnali
facevano
pensare
all’imminente
inizio
di
una
nuova
epoca,
in
cui
la
frattura
tra
alto
e
basso,
tra
poveri
e
ricchi
sarebbe
stata
finalmente
superata
e
la
prospettiva
di
sinistra,
socialista,
avrebbe
potuto
essere
realizzata.
Forse
Hilde
si
ricordava
di
escursioni
fatte
insieme
ai
fratelli
Walter
e
Georg
e
all’amica
Dora.
Il
figlio
Michael,
che
sistemò
il
lascito
della
madre
scomparsa
nel
1989,
si
imbatté
per
la
prima
volta
nel
nome
di
Dora
Benjamin
in
un
appunto
di
diario
risalente
all’ottobre
1920.
I
fratelli
di
Dora,
Walter
e
Georg
Benjamin,
avevano
letto
e
discussero
con
le
due
ragazze
le
ultime
opere
di
Heinrich
Mann,
il
diario
moscovita
di
Lion
Feuchtwanger,
Cyankali
di
Friedrich
Wolf,
e
poi
Kurt
Tucholsky,
Walter
Mehring
e
naturalmente
Thomas
Mann.
Grazie
alla
sua
Montagna
incantata,
che
Hilde
non
conosceva
ancora,
lei
e
Georg
si
avvicinarono.
Lui
le
prestò
la
sua
edizione.
Un
buon
pretesto,
non
solamente
per
lui,
per
rivedere
la
ragazza
che
aveva
allora
ventidue
anni
ed
era
nel
pieno
dei
suoi
studi
di
giurisprudenza.
Andavano
nei
teatri
di
Berlino
a
vedere
allestimenti
di
Max
Reinhardt
al
Deutsches
Theater,
oppure
di
Otto
Falckenberg
e
naturalmente
di
Erwin
Piscator.
C’era
poi
il
mondo
del
cabaret
e
i
concerti
della
Berlino
del
swing
e
del
jazz
nell’Opera da tre soldi
di
Brecht,
che
ebbe
la
sua
prima
nel
1928
e
per
quasi
un
anno
attirò
il
pubblico
nel
Theater
am
Schiffbauer
Damm.
La
musica
che
Kurt
Weill
vi
faceva
risuonare
sembrava
dovesse
diventare
il
suono
del
nuovo
secolo.
E
loro
sentivano
di
essere
la
nuova
avanguardia
di
sinistra.
Giovani
com’erano,
non
sorprende
che
la
socialdemocrazia
apparisse
loro
poco
attraente,
troppo
incline
a
compromessi
e,
dopo
l’approvazione
data
ai
crediti
di
guerra
nel
1914,
profondamente
discreditata.
Puntavano
sulla
sinistra
rivoluzionaria,
e
sia
Georg
che
Hilde
entrarono
nel
Partito
comunista.
Gerhart
Hauptmann,
che
in
qualche
modo
era
il
«poeta
di
stato»
e
il
portavoce
della
repubblica,
come
lo
descrisse
euforico
un
contemporaneo,
sperava
in
una
vittoria
definitiva
della
democrazia
e
credeva
nella
rinascita
della
Germania.
Si
sarebbe
rivelato
un
parto
mostruoso.
Lo
slogan
che
inneggiava
alla
rinascita
della
Germania
divenne
parte
della
propaganda
nazista
che
si
concluse
infine
con
il
passo
di
marcia
della
Wehrmacht
nelle
vaste
pianure
europee.
Nella
biografia
La donna
di potere
di
Marianne
Brentzel
viene
quasi
rimproverata
la
particolare
serietà
con
cui
Hilde
Benjamin
affrontò
il
lavoro
politico
all’interno
del
partito.
Era
così.
Hilde
condivideva
le
idee
del
marito
Georg
e
le
sue
opinioni
politiche,
ed
era
certa
che
solo
il
comunismo
avrebbe
portato
la
liberazione
delle
masse.
Più
di
una
frase
del
libro,
apparso
nel
1997,
fa
capire
come
l’autrice
non
approvi
le
convinzioni
di
Hilde.
E
vi
emerge
il
dubbio
sulla
facoltà
del
lettore
di
formare
da
sé
un
giudizio
sulla
protagonista,
il
suo
carattere
e
le
sue
idee.
Misurata
sull’obiettivo
di
occupare
la
metà
del
cielo,
l’emancipazione
femminile
al
tempo
in
cui
Hilde
frequentava
la
scuola
e
poi
l’università
non
era
affatto
qualcosa
di
reale.
Le
compagne
presenti
insieme
a
lei
alle
lezioni
di
giurisprudenza
si
contavano
sulle
dita
di
una
mano.
La
necessità
di
lavorare,
parallelamente
agli
studi,
per
mantenersi
la
rendeva
un’outsider;
i
suoi
compagni
non
ne
avevano
in
genere
bisogno.
Ma
questo
rafforzò
il
suo
impegno
sociale.
Dopo
il
primo
esame
di
stato
Hilde
fece
il
suo
tirocinio
a
Berlino,
presso
il
tribunale
per
i
minori,
all’ufficio
di
assistenza
ai
minorenni
e
nel
carcere
femminile.
Mentre
sto
lavorando
a
questo
testo
un
messaggio
appare
sullo
schermo
del
mio
computer.
Una
e-mail
di
Ursula
Benjamin
mi
annuncia
brani
di
diario
e
lettere
di
Hilde
che
suo
marito
Michael,
figlio
di
Hilde,
aveva
raccolto,
selezionato
e
ordinato
all’epoca
in
cui
esaminava
il
lascito
della
madre.
Il
giorno
dopo
ricevo
per
posta
un
saluto
e
una
spessa
busta.
Carta
scritta
dal
mondo
analogico.
Su
una
cinquantina
di
pagine
trovo
esternazioni
della
giovane
Hilde
Lange,
datate
successivamente
al
1933,
quando
Georg
Benjamin
venne
arrestato
subito
dopo
l’avvento
al
potere
dei
nazisti
e
i
due
si
scambiavano
brevi
lettere
o
messaggi
segreti.
Avevo
mandato
a
Ursula
Benjamin
uno
schema
del
libro
con
i
titoli
provvisori
dei
capitoli
per
agevolarle
la
ricerca,
all’interno
del
voluminoso
lascito,
di
ulteriori
tracce
della
vita
di
Hilde.
Cosa
deve
aver
provato
il
figlio
leggendo
le
annotazioni
della
madre?
In
un
ambiente
tanto
ostile
deve
sorgere
una
particolare
vicinanza.
Lui
condivideva
le
opinioni
politiche
di
lei,
e
come
stupirsi
di
questo?
Le
lettere
parlano
anche
dei
sentimenti
nutriti
dalla
gioventù
dopo
la
Prima
guerra
mondiale.
All’inizio
del
1922
Hilde
cominciò
i
suoi
studi
di
giurisprudenza.
Quella
che
allora
si
riflette
nel
diario
è
l’immagine
di
una
donna
rivolta
decisamente
all’indietro;
con
scarsa
consapevolezza
di
sé
si
chiede
se
debba
sottomettersi
per
ottenere
un
amore.
Questo
tono
carico
di
dubbio
cambia
soltanto
al
fianco
di
Georg
Benjamin.
In
un
appunto
del
1922,
dopo
una
delusione
amorosa,
scrive:
«Hilde
Lange,
adesso
sei
diventata
piccolissima.
Non
hai
nemmeno
più
un’ombra
di
forza.
Piccolissima
e
debole
–
e
ti
lasci
guidare
come
un
bambino
piccolo.
E
tu,
Rudi,
d’un
tratto
hai
la
bontà
di
prendermi
per
mano.
Mi
hai
reso
tanto
piccola,
e
io
avrò
bisogno
di
tempo
per
risollevarmi.
Vorrei
riposarmi
queste
settimane
nella
tua
bontà
–
ma
è
ancora
possibile?».
Il
giorno
dopo
aggiunge:
«Così
gli
ho
scritto
–
e
la
risposta?».
«Trovo
indegno
di
te
che
tu
mi
cerchi
di
nuovo
dopo
che
ti
sei
riposata
qualche
giorno
e
sei
“abbastanza
forte”.
Se
non
vengo
è
anche
per
il
rispetto
che
devo
a
me
stesso».
E
la
reazione
dubbiosa
di
Hilde
a
questa
lettera,
quasi
un
punto
finale
pronunciato
con
fastidio:
«Era
necessario?».
Ma
le
lettere
non
parlano
solo
di
esperienze
personali,
di
innamoramenti
o
del
grande
amore;
vi
rientrano
anche
in
larga
misura
lo
studio,
poi
le
esperienze
professionali
e
un
crescente
interesse
per
la
politica,
che
finisce
per
occupare
un
posto
sempre
più
centrale
nella
sua
vita.
Hilde
cerca
ancora
in
qualche
modo
di
ritrarsene:
«Non
voglio
che
tutto
sia
ingoiato
dal
lavoro
e
dalla
pesantezza
delle
cose
e
da
Berlino.
Spero
che
il
lavoro
possa
coinvolgere
in
futuro
anche
il
sentimento»,
e
poi,
in
tono
pensoso:
«C’è
in
me
forse
un
che
di
artistico,
che
si
fa
avanti».
E
riferendosi
alla
realtà
sempre
più
brutale
e
alla
battaglia
che
si
annuncia,
domanda:
«Il
mio
socialismo?
La
mia
religione?
La
mia
idea,
un’idea?
Niente!».
È
qualcosa
che
conosce
dal
suo
lavoro:
«Come
essere
in
prigione».
L’assassinio
di
Rosa
Luxemburg
e
Karl
Liebknecht
nel
1919
è
per
molti
intellettuali
la
risposta
al
proprio
interrogarsi
sulla
posizione
politica
da
assumere.
La
giovane
repubblica
si
mostrò
incapace
di
impedire
l’esecuzione
dei
due
portavoce
della
Lega
spartachista
da
parte
di
membri
dei
Freikorps,
le
organizzazioni
paramilitari
di
estrema
destra.
Hilde
Benjamin
ricorda
molto
bene
quanto
gli
assassinii
avessero
spaventato
lei
e
la
sua
famiglia:
«Mia
madre
e
io
esprimemmo
in
casa
nostra,
e
io
lo
feci
anche
nella
mia
reazionaria
scuola,
la
nostra
indignazione
e
ripugnanza».
Agli
omicidi
seguirono
lotte
e
scioperi
a
Berlino.
La
rivolta
spartachista
e
la
rivoluzione
di
novembre
divennero
un
mito,
e
a
ogni
mito
è
intrecciata
anche
la
menzogna.
Avviene
anche
qui
quando
–
coprendo
i
propri
errori
–
c’è
chi
grida
accusando
i
socialdemocratici
di
tradimento.
La
frattura
fra
i
partiti
di
sinistra
nati
all’interno
del
movimento
operaio,
cioè
il
Partito
socialdemocratico
e
quello
comunista,
era
profonda
e
incolmabile.
La
brutale
repressione
della
rivolta
spartachista
rimane
legata
al
nome
del
socialdemocratico
Gustav
Noske,
commissario
del
popolo
e
poi
ministro
per
l’Esercito
e
la
Marina
nel
primo
gabinetto
Scheidemann.
Furono
soprattutto
l’estrema
destra
borghese
e
le
forze
reazionarie
a
uscirne
rafforzate.
Fra
i
partiti
di
sinistra
vigeva
un’ostilità
che
contribuì
anch’essa
a
seppellire
il
sogno
rivoluzionario
e
nello
stesso
tempo
a
indebolire
mortalmente
la
repubblica.
«La
repubblica»
scandivano
i
comunisti
«è
vuota,
il
socialismo
è
la
meta».
Era
una
repubblica
senza
repubblicani.
La
Baviera
rifiutò
la
costituzione
di
Weimar
dell’agosto
1919,
come
avrebbe
rifiutato
in
seguito
quella
della
Repubblica
Federale
Tedesca
dopo
la
Seconda
guerra
mondiale.
La
democrazia
di
Weimar
fu
ritenuta
debole
e
incapace
di
superare
il
«trattato
ingiusto»
di
Versailles
e
di
rinnovare
la
Germania.
Né
cambiò
in
questo
senso
nulla
il
fatto
che
nel
1924
l’inflazione,
con
l’emissione
della
nuova
valuta
temporanea,
la
Rentenmark,
grazie
ai
crediti
americani
e
alla
modernizzazione
dell’industria
sembrasse
per
qualche
tempo
superata,
e
avesse
inizio
la
bella
leggenda
dei
«dorati
anni
Venti».
E
dopo
il
1929,
quando
i
crediti
americani
vennero
improvvisamente
a
mancare
con
l’inizio
della
crisi
economica
mondiale
e
le
grandi
banche
chiusero
gli
sportelli,
il
1930
segnò
la
fine
di
tutte
le
illusioni
con
i
suoi
cinque
o
sei
milioni
di
disoccupati.
La
giustizia
era
di
regola
un
baluardo
della
restaurazione.
Era
una
giustizia
di
classe,
dalla
Corte
imperiale
di
Giustizia5
di
Lipsia
in
giù.
Chi
conosce
la
storia
della
giustizia
nella
Repubblica
di
Weimar
non
si
stupisce
che
dopo
il
1933
essa
sia
diventata,
senza
soluzione
di
continuità,
la
compiacente
ancella
del
nazionalsocialismo.
Il
Girotondo
di
Schnitzler
fu
giudicato
osceno
dai
giudici
berlinesi,
Carl
von
Ossietzky
fu
condannato
come
traditore
del
paese
perché
la
sua
«Weltbühne»
(La
scena
mondiale)
aveva
riportato
notizie
sul
riarmo
illegale
dell’esercito.
Con
il
suo
scritto
contro
la
guerra
dei
gas
che
le
industrie
tedesche
avevano
preparato
e
che
avrebbe
reso
possibile
Auschwitz,
Johannes
R.
Becher
sfuggì
per
poco
alla
condanna.
Attraverso
una
sequela
infinita
di
controlli
e
censure
i
nemici
della
repubblica
fecero
delle
aule
dei
tribunali
il
loro
prediletto
campo
di
battaglia.
I
quattro
anni
di
omicidi
politici
(Vier
Jahre politischer Mord),
descritti
già
nel
1924
nel
libro
di
Emil
Julius
Gumbel,
smascherarono
la
sollecitudine
della
giustizia
a
risparmiare
i
nemici
dichiarati
della
repubblica.
Le
indagini
su
omicidi
compiuti
da
estremisti
di
destra
venivano
trascinate
o
archiviate.
Solo
in
casi
molto
rari
si
arrivò
a
un
processo.
Hilde
Benjamin
dapprima
si
rivolse
alla
SPD.
«Per
il
momento
esito»
scrisse
«a
fare
il
passo
decisivo
e
a
impegnarmi
attivamente
nel
partito.
Per
il
momento
–
ma
anche
questo
dev’essere
fatto
presto,
o
non
esserlo
del
tutto.
Sono
ancora
in
uno
stato
di
transizione,
di
un
piacevole
lasciarsi
sospingere
–
è
così
quando
le
forze
ritornano
dopo
una
malattia».
Hilde
deve
aver
conosciuto
in
prima
persona
quella
giustizia,
quando
al
termine
degli
studi
si
stabilì
a
Berlino
come
avvocato.
Stimolata
da
Georg,
cominciò
a
interessarsi
al
comunismo.
Così
si
legge
nel
diario:
«Nelle
mie
discussioni
politiche
con
i
comunisti
mi
imbatto
sempre
in
Georg
Benjamin,
di
cui
tuttavia
riconosco
in
ogni
caso
il
valore
umano».
Fu
un
cauto
avvicinarsi.
Nessuna
accensione
agli
inizi
del
suo
amore
per
Georg.
La
loro
vita
insieme
e
i
pochi
anni
di
comune
lavoro
politico
li
segneranno.
Ma
in
quel
momento,
prima
delle
mezze
vittorie
e
delle
sconfitte
piene
che
avrebbe
vissuto
successivamente
in
tribunale,
Hilde
soffriva
ancora
della
sua
insicurezza
nei
discorsi
politici.
Faceva
fatica
a
motivare
i
suoi
autentici
pensieri,
e
non
si
accontentava
di
ripetere
«frasi
di
giornale».
Così
scrive
nel
diario:
«Mi
sento
come
un
atomo
bivalente,
che
cerca
tutt’intorno
con
la
sua
libera
forza
di
coesione».
Attraverso
il
Partito
socialdemocratico
indipendente
Georg
aveva
trovato
la
strada
verso
il
Partito
comunista.
Di
lui
è
stato
detto
molte
volte
che
non
era
una
mente
dogmatica:
aperto
agli
argomenti
e
comprensivo
nei
dibattiti.
Nella
sua
quotidianità
era
onnipresente
la
miseria
che
la
facciata
dorata
degli
anni
Venti
voleva
nascondere.
Fra
i
suoi
pazienti
a
Wedding
c’erano
anche
bambini
di
strada,
come
quelli
che
a
migliaia
vagavano
mendicando
per
i
quartieri
proletari
di
periferia.
Bambini
che
cercavano
solo
di
sopravvivere,
i
padri
dispersi
o
morti
in
guerra.
Milioni
di
famiglie
senza
un
sostegno.
E
in
più
le
terribili
condizioni
abitative
e
la
fame.
Georg
Benjamin
compilava
rapporti
per
le
autorità
sanitarie.
Durante
un
congresso
sull’assistenza
all’infanzia,
che
si
tenne
nel
1922
a
Ginevra,
la
città
della
Società
delle
Nazioni
precorritrice
delle
Nazioni
Unite,
si
giunse
alla
conclusione
che
in
Germania
due
milioni
di
bambini
erano
«votati
alla
morte»
e
altri
sei
milioni
si
trovavano
in
serio
pericolo.
Il
diario
di
Hilde
e
le
lettere
di
Georg
mostrano
la
cautela
con
cui
entrambi
vivono
la
propria
attrazione
reciproca,
e
la
crescente
fiducia
nei
loro
sentimenti.
Entrambi
avevano
alle
spalle
qualche
delusione.
Quell’amicizia
che
andava
maturando
in
un
amore
sarebbe
durata.
«Giovedì
notte»
scrisse
Georg,
senza
una
data
ma
probabilmente
nel
1926,
«amore,
sono
certo
di
non
provare
nessun
timore.
Anche
tu
devi
stare
tranquilla.
Non
c’è
bisogno
di
aver
paura:
puoi
fare
a
meno
di
guardarmi
a
volte
così
seria
e
triste.
Tuo
Georg».
Una
lettera
di
Hilde:
«Mio
caro,
ho
dimenticato
di
raccontarti
questo:
di
recente,
mentre
ero
in
giro
a
raccogliere
infiorescenze
di
amento,
mi
sono
costruita
un
oracolo:
quando
si
schiuderanno
e
spargeranno
il
polline...
e
adesso
si
sono
schiuse
tutte,
e
anche
i
noccioli,
sul
tavolo
c’è
il
polline
verde,
io
lo
sfioro
appena
e
una
nuvola
intera
si
solleva.
Voglio
leggere
ancora
un
po’,
ma
la
tua
immagine
continua
a
guardarmi,
e
credo
che
questo
mi
disturbi
più
di
quanto
ti
abbia
disturbata
io
ieri.
E
mio
padre
conta
e
fa
la
faccia
lunga,
e
per
molte
cose
dovremo
forse
trovare
altri
mezzi
o
una
sostituzione.
E
io
ti
sento
sempre
ridere
e
dire:
Che
cosa
buffa.
Forse
mi
risuona
così
nelle
orecchie
perché
prima
non
l’avevo
mai
sentito.
Oh
mio
caro.
È
come
vedere
l’amore
crescerti
dentro
un
pezzetto
di
più
ogni
giorno.
[...]
Buona
notte,
e
quanto
vorrei
gridarlo:
Ti
voglio
bene.
Tua».
Poco
tempo
prima
del
loro
matrimonio
Walter
Benjamin
scrisse
a
un
amico:
«Mio
fratello
sposerà
fra
pochi
giorni
una
giovane
e
simpatica
ragazza,
un’amica
di
mia
sorella
di
cui
ha
fatto
una
comunista.
I
suoi
suoceri
cristiani
devono
inghiottire
un
doppio
boccone
amaro».
La
breve
lettera,
citata
volentieri,
tolto
l’annuncio
del
matrimonio
è
piena
di
malintesi.
Nei
suoi
ricordi
Hilde
si
stupisce
della
valutazione
che
Walter
dà
di
suo
fratello.
«Che
Georg
avesse
fatto
di
me
una
comunista»
scrive
«–
sono
entrata
nel
Partito
solo
nel
1927
–
questo
sarebbe
stato
totalmente
estraneo
alla
sua
natura
e
contraddiceva
il
suo
rispetto
per
la
libertà
di
ogni
essere
umano».
Allo
stesso
modo
respingeva
l’illazione
per
cui
i
suoi
«genitori
cristiani»
avrebbero
potuto
opporsi
alla
tradizione
ebrea
dei
Benjamin:
«Non
furono
mai
antisemiti
e
da
molto
tempo
avevano
rapporti
anche
con
famiglie
ebree».
Il
27
febbraio
1926
Hilde
e
Georg
si
sposarono,
e
Hilde
Lange
divenne
Hilde
Benjamin.
Nel
1928
superò
il
secondo
esame
di
stato
e
nell’aprile
1929
cominciò
la
sua
carriera
di
avvocato.
In
due
stanze
ammobiliate
vicino
al
municipio
di
Wedding
aprì
il
suo
primo
studio.
A
quell’epoca
erano
sempre
più
frequenti
gli
scontri
fra
comunisti
e
socialdemocratici
da
un
lato
e
le
squadre
di
picchiatori
nazisti
dall’altro.
È
il
1°
maggio
1929.
Il
capo
della
polizia
di
Berlino
ha
proibito
la
manifestazione
del
Partito
comunista.
Sull’organo
del
partito,
«Rote
Fahne»
(Bandiera
rossa),
i
compagni
leggono:
«No
al
veto,
il
1°
maggio
è
rosso!».
Fu
una
battaglia
con
molti
feriti
e
numerosi
arresti.
Hilde
Benjamin
si
assunse
la
difesa
di
quanti
erano
stati
accusati
di
aver
turbato
l’ordine
pubblico
o
resistito
alle
forze
dell’ordine.
Comincia
a
farsi
un
nome,
le
sue
arringhe
attirano
l’attenzione
e
«Rote
Hilfe»,
l’organizzazione
del
«soccorso
rosso»
vicina
al
Partito
comunista,
incarica
più
volte
la
compagna
Benjamin
di
difendere
i
compagni
accusati.
Fu
il
processo
per
l’attentato
al
nazista
Horst
Wessel
a
portarla
definitivamente
sotto
i
riflettori
e
sul
palcoscenico
della
legge.
Wessel
era
stato
«visitato»
nella
sua
pensione
da
un
gruppo
di
attivisti
vicini
al
Partito
comunista.
La
«ripassata
proletaria»
terminò
con
uno
sparo
che
lo
colpì.
All’inizio
il
KPD
volle
presentare
l’incidente
come
un
«dramma
della
gelosia»
fra
protettori
di
prostitute.
Non
ci
riuscì
e
una
squadra
di
avvocati
esperti,
fra
cui
Hilde
Benjamin,
fu
incaricata
di
difendere
gli
accusati.
Wessel
morì
quattro
settimane
dopo
l’aggressione.
Sarebbe
probabilmente
sopravvissuto
se
non
avesse
rifiutato
di
farsi
curare
da
un
medico
ebreo
del
vicinato.
Hilde
difese
con
efficacia
la
padrona
di
casa
di
Wessel,
riscuotendo
le
lodi
dei
colleghi
e
della
stampa.
Chiese
e
ottenne
l’assoluzione
della
sua
assistita.
Dopo
quel
processo
fu
nel
mirino
dei
nazisti.
E
in
privato?
Così
scrive,
nell’estate
1928:
«Nota
bene:
in
novembre
avrò
un
bambino».
E,
il
10
dicembre
1931,
la
seguente
annotazione:
«Il
16
novembre
è
nato
Peter.
Il
2
dicembre
è
morto.
L’abbiamo
trovato
–
Georg
l’ha
trovato
–
al
mattino,
quando
volevamo
prenderlo
dalla
stanza
grande,
senza
sensi
nella
sua
carrozzina.
Il
faccino
così
dolce
e
grazioso,
il
corpicino
molle
e
inerte;
il
cuoricino
batteva
ancora
e
ha
continuato
a
battere
per
due
ore
–
ma
tutti
i
tentativi
di
riportarlo
in
vita
non
sono
serviti
a
nulla.
Si
suppone
che
siano
state
le
conseguenze
di
un’emorragia
subita
alla
nascita,
che
hanno
bloccato
i
centri
del
respiro.
In
seguito
ci
sono
venute
in
mente
diverse
cose
che
avrebbero
segnalato
un
disturbo:
il
tremore
nelle
braccine,
la
frequente
rigidezza
del
corpo,
la
grande
eccitabilità.
Non
si
deve
pensare
che
potesse
essere
evitato,
bisogna
ritenerla
–
come
l’ha
definita
Georg
–
una
disgrazia.
«Gli
abbiamo
detto
addio
sulle
note
dell’Andante
dell’Incompiuta.
Il
suo
faccino
era
coperto
da
una
corona
di
mughetti.
Teneva
la
manina
posata
sul
visetto,
come
faceva
spesso.
Sulla
sua
bara
c’erano
bianchi
narcisi,
e
Utti
ha
portato
una
coroncina
di
nontiscordardimé
e
margheritine.
Abbiamo
voluto
tanto
bene
al
nostro
Peter
–
gli
abbiamo
voluto
tanto
bene».
E
il
17
luglio
1933
un
appunto
riferito
a
un
fatto
di
molto
anteriore,
probabilmente
annotato
a
posteriori
perché
la
gioia
per
la
nascita
di
Michael,
il
27
dicembre
1932,
aveva
sovrastato
tutto.
Un
fatto
che
è
anche
l’inizio
di
un’epoca
di
sofferenza,
che
segnerà
la
vita
di
Hilde:
«Dall’8
aprile
Georg
è
in
detenzione
protettiva.
Dal
4
luglio
è
nel
campo
di
concentramento
di
Sonnenburg».
Appena
due
righe
–
ma
sono
per
me
come
un
grido
affilato.
Un
grido
che
in
chiunque
lo
ascolti
lascia
vibrare
anche
una
profonda
paura,
dove
a
sua
volta
è
racchiuso
il
presentimento
di
quel
che
inevitabilmente
arriverà.
Un’ombra
scura
che
ancora
non
lascia
capire
quale
figura
la
stia
proiettando.
Quel
genere
di
grido
che
spinge
d’istinto
a
portarsi
la
mano
alla
bocca,
come
se
fosse
possibile
riprenderselo.
È
l’intuizione
del
momento,
simile
a
una
porta
dietro
la
quale
si
nasconde
tutto
ciò
che
intimorisce
e
spaventa.
Il
Lager
di
Sonnenburg
fu
il
primo
«campo
di
rieducazione»
nazista,
cioè
il
primo
campo
di
concentramento,
istituito
contemporaneamente
alla
presa
del
potere
dei
nazisti
nel
1933.
Vi
sono
innumerevoli
testimonianze
su
Sonnenburg.
Non
era
ermeticamente
isolato,
e
si
sa
inoltre
che
le
SS
erano
responsabili
del
Lager
ma
ricettive
ai
cambiamenti.
Dal
1934
tornò
a
essere
un
carcere.
Nel
racconto
di
un
ex
prigioniero,
riguardante
il
breve
periodo
in
cui
Sonnenburg
funzionò
come
campo
di
concentramento,
si
legge
che
l’amministrazione,
il
lazzaretto,
la
cucina,
la
squadra
degli
artigiani
e
altre
funzioni
all’interno
erano
state
assunte
da
compagni
affidabili,
socialdemocratici
o
comunisti.
Il
che
fu
agevolato
dall’«infinita
stupidità,
dalla
pigrizia
o
corruttibilità
di
quasi
tutti
i
funzionari
di
polizia,
delle
SA
e
in
seguito
del
corpo
di
guardia
delle
SS,
oltre
che
dalla
rivalità
fra
polizia,
SA
e
SS».
Fra
i
primi
prigionieri,
accanto
a
Carl
von
Ossietzky,
direttore
della
«Weltbühne»,
allo
scrittore
Erich
Mühsam,
all’avvocato
Hans
Litten
e
a
molti
altri
c’era
anche
Georg
Benjamin.
Insieme
ad
altri
duecento
noti
socialdemocratici
e
comunisti,
arrestati
subito
dopo
l’incendio
del
Reichstag
e
portati
a
Sonnenburg.
In
tutto
il
Reich
furono
messe
in
detenzione
protettiva
più
di
diecimila
persone.
Rinchiuse,
torturate,
e
molte
di
loro
uccise.
Alcune
riuscirono
a
fuggire
da
Sonnenburg.
Dai
loro
racconti
il
mondo
apprese
dei
brutali
maltrattamenti
a
Ossietzky
e
agli
altri.
Nel
1936
Ossietzky
ricevette,
retroattivamente
per
il
1935,
il
premio
Nobel
per
la
pace.
Il
suo
calvario
passò
per
il
KZ
di
Esterwegen.
Morì
di
tubercolosi.
Ci
sono
tracce
che
gli
agenti
patogeni
della
tubercolosi
gli
fossero
stati
iniettati.
Hilde
era
sollevata
per
il
fatto
che
Georg
non
fosse
stato
prelevato
da
uomini
delle
SA
ma
da
poliziotti
in
uniforme,
accompagnati
da
alcuni
individui
in
borghese,
che
si
erano
comportati
in
maniera
apparentemente
corretta.
Non
fu
portato
in
una
delle
cantine
delle
SA,
ma
«soltanto»
al
presidio
di
polizia.
Su
quel
che
Georg
passò
a
Sonnenburg
abbiamo
una
sua
affermazione
del
1942,
quando
dopo
il
carcere
di
Brandeburgo
e
il
Lager
esterno
di
Wuhlheide,
dove
Hilde
e
Georg
si
videro
per
l’ultima
volta,
sperava
ancora
di
essere
trasferito
a
Sachsenhausen:
«Dopo
il
1933
e
negli
ultimi
anni
non
mi
scompongo
tanto
facilmente».
Dietro
questa
frase
c’è
anche
la
sua
esperienza
in
detenzione
protettiva.
La
permanenza
a
Sonnenburg
iniziava
per
ogni
prigioniero
con
un
«barbaro
maltrattamento».
Così,
dopo
la
guerra,
un
sopravvissuto
ricorda
in
una
lettera
a
Hilde
Benjamin.
Il
carcere
di
Sonnenburg
era
stato
chiuso
per
motivi
di
igiene.
L’acqua
potabile
era
contaminata,
nei
sotterranei
umidi
scorrazzavano
topi
e
parassiti.
Anche
la
vita
di
Georg
era
in
pericolo.
Si
sapeva
abbastanza
sulle
condizioni
a
Sonnenburg
–
da
ex
prigionieri
o
da
donne
alle
quali
era
stata
concessa
una
visita.
Dopo
il
1934
vi
furono
imprigionati
soprattutto
stranieri
provenienti
da
tutta
Europa.
Non
esisteva
un
registro
con
i
nomi,
i
prigionieri
avevano
soltanto
numeri.
Nella
notte
fra
il
30
e
il
31
gennaio
1945
le
SS
non
andarono
per
il
sottile:
tutti
i
prigionieri
furono
uccisi
a
colpi
di
arma
da
fuoco.
Il
numero
esatto
dei
morti
è
sconosciuto.
Le
stime
oscillano
fra
settecento
e
mille.
Solo
tre
sopravvissero.
Il
destino
di
Georg
Benjamin
mostra
chiaramente
anche
la
rapidità
con
cui
la
categoria
dei
medici
aderì
alla
dittatura
nazista.
Hilde
chiama
tutto
ciò
«il
meccanismo
dell’esclusione»:
con
una
lettera
del
29
giugno
1933
Georg
Benjamin
fu
espulso
dall’Associazione
dei
medici
di
Berlino
in
quanto
rappresentante
di
quartiere
del
Partito
comunista,
e
con
un’altra
lettera
del
28
luglio
1933
fu
escluso
dall’Ordine
provinciale
berlinese
dei
medici
per
«appartenenza
al
Partito
comunista
e
attività
in
tal
senso
quale
rappresentante
di
quartiere».
La
comunicazione
ufficiale,
in
cui
l’Ordine
comunicava
la
sua
decisione,
mostrava
evidenti
segni
di
una
frettolosa
compiacenza
verso
il
potere.
Conteneva
soltanto,
come
nota
Hilde
Benjamin,
le
parole:
«Motivazione:
appartenenza
al
Partito
comunista»,
senza
specificare
quel
che
doveva
essere
motivato,
cioè
appunto
l’esclusione
dall’Ordine.
Ancora
più
urgente
appariva
ai
rappresentanti
dei
medici
il
rilascio
del
verdetto
della
corte
d’onore.
Georg
Benjamin
fu
accusato
insieme
a
una
collega,
la
dottoressa
Käte
Held,
anche
lei
membro
del
Partito
comunista.
Nel
verdetto
pervenuto
a
Hilde
Benjamin
la
data
della
deliberazione
decisiva
non
è
segnata
(fu
probabilmente
nell’agosto
1933),
e
al
posto
del
nome
proprio
è
scritto
«Erich»
anziché
Georg.
La
motivazione
era
articolata
già
in
formule
tipicamente
naziste:
«Nella
determinazione
della
pena
si
considera
che
il
comportamento
dei
due
accusati
è
indegno
di
un
medico
tedesco.
Avrebbero
dovuto
riconoscere
lo
scopo
dei
certificati
che
si
sono
prestati
a
compilare,
e
secondo
il
parere
della
corte
d’onore
l’hanno
anche
riconosciuto.
Sono
stati
dunque
disposti
a
mettere
la
loro
arte
medica
al
servizio
di
uno
scopo
in
contrasto
con
gli
interessi
della
patria».
Così
la
maggior
parte
dei
medici
ebrei
e
comunisti
aveva
perso
la
propria
base
di
sussistenza.
Il
vuoto
che
si
creava
fu
colmato
dai
medici
«ariani»,
e
i
nazisti
mantenevano
in
questo
modo
la
promessa
di
migliorare
la
situazione
economica
di
quei
medici
che
erano
stati
pronti
a
dichiarare
la
loro
fede
al
regime.
L’iscrizione
all’albo
era
dunque
negata
«quando
l’aspirante
non
potrebbe
ottenere
la
qualifica
di
funzionario
a
causa
delle
proprie
origini
o
di
quelle
del
consorte,
e
se
al
momento
della
sua
domanda
di
iscrizione
la
quota
dei
medici
di
sangue
non
tedesco
rispetto
al
numero
totale
dei
medici
nel
Reich
tedesco
supera
la
quota
degli
individui
di
sangue
non
tedesco
rispetto
alla
popolazione
del
Reich
tedesco.
Il
ministro
degli
Interni
del
Reich
può,
in
circostanze
particolari
e
in
accordo
con
l’Ordine
dei
medici
del
Reich,
consentire
eccezioni».
La
società
ariana,
maggioritaria
nel
senso
dell’«igiene
razziale»
nazista,
approfittò
in
maniera
analoga
in
molti
altri
campi.
Le
imprese
ebree
furono
«arianizzate»,
espropriate
e
trasferite
a
prezzi
vantaggiosi
a
offerenti
ariani.
Opere
d’arte,
denunciate
in
quanto
«degenerate»,
quando
erano
in
possesso
di
ebrei
furono
offerte
sul
mercato
internazionale
con
alti
profitti.
Tutto
questo
portò
miliardi
nelle
casse
del
Reich,
assicurando
in
parte
la
copertura
degli
sgravi
fiscali
per
la
maggioranza
ariana.
E
quando
nel
Reich
non
ci
furono
più
«non
ariani»
che
avrebbero
potuto
essere
espropriati
o
derubati
con
la
sanzione
dello
stato,
Hitler
cominciò
la
Seconda
guerra
mondiale.
Il
riarmo
della
Wehrmacht
aveva
minato
la
situazione
finanziaria
del
Reich.
Agli
occhi
dei
nazisti
le
razzie
nel
resto
dell’Europa
apparivano
dunque
necessarie
per
motivi
materiali.
Da
Sonnenburg
si
sono
conservate
due
lettere
a
Hilde,
in
cui
Georg
chiede
anche
notizie
del
figlio
Michael.
Probabilmente
ne
scrisse
altre,
ma
furono
fatte
sparire.
Così
scrive
il
10
dicembre
1933:
«Continuo
a
stare
bene.
Il
mio
lavoro
è
tutti
i
giorni
lo
stesso;
ogni
tanto
–
come
oggi
–
ho
naturalmente
una
mezza
giornata
o
anche
una
giornata
intera.
All’aperto
esco
in
genere
al
mattino,
prima
di
iniziare
il
lavoro,
e
quando
c’è
tempo
a
volte
anche
al
pomeriggio.
[...]
Naturalmente
si
parla
molto
del
rilascio
dei
cinquemila.
Ti
ho
già
scritto
che
non
mi
attendo
nulla;
spero
che
anche
tu
non
ti
faccia
illusioni.
Se
invece
dovesse
succedere,
tanto
meglio.
Quali
saranno
le
possibilità
di
scrivere
fra
due
settimane,
a
Natale,
ancora
non
lo
so.
E
non
è
neanche
sicuro
se
potrò
scrivere
al
momento
giusto
per
il
compleanno
del
bambino.
Accludo
come
regalo
due
sue
diverse
silhouette.
Come
ricorderai,
sono
ritagliate
seguendo
le
fotografie
di
profilo
fatte
in
luglio.
Spero
che
siano
venute
bene.
A
parte
questo
non
posso
mandare
per
il
compleanno
niente
se
non
tanti
auguri.
«All’occasione
potresti
spedirmi
i
fascicoli
dal
4
al
6
della
Commissione
del
Reich
per
la
salute
del
popolo.
Di
cibo
mi
rifornisci
in
abbondanza;
la
carne
e
la
torta
sono
naturalmente
per
l’intera
camerata,
come
fanno
anche
gli
altri
quando
ricevono
qualcosa.
Da
non
fumatore
il
più
grande
desiderio
sarebbe
quello
di
una
bella
tazza
di
caffè.
Il
freddo
è
diminuito.
Le
temperature
nelle
giornate
più
fredde
vanno
dai
dodici
ai
quindici
gradi.
Il
maglione
va
benissimo,
sia
in
stanza
che
al
lavoro.
La
vostra
richiesta
alla
Gestapo
non
ha
avuto
ancora
risposta?
È
inutile
insistere
e
chiedere
di
nuovo.
Ogni
tanto
leggo
il
settimanale
“Blick
in
die
Zeit”
(Sguardo
nel
tempo),
che
riporta
solo
le
voci
dei
giornali.
Lo
consiglio
anche
a
voi,
qualche
volta.
Se
nella
“Frankfurter
Zeitung”
dovesse
uscire
qualcosa
di
particolare,
ti
prego
di
mandarmelo».
Hilde
avrà
preso
questa
lettera,
che
evita
chiaramente
ogni
accenno
diretto
alla
terribile
realtà
del
Lager,
com’era
previsto
che
fosse:
bisognava
leggere
attraverso
le
righe.
Nel
1945,
al
processo
contro
il
comandante
del
Lager
e
membro
delle
SS
Adrian,
l’ex
deputato
del
Reichstag
per
il
KPD
Fritz
Emmerich
rese
la
sua
testimonianza.
Raccontò
come
si
tentasse
di
tutto
per
far
sistemare
in
una
qualche
speciale
funzione,
«fuori
dalla
linea
di
tiro»,
quei
prigionieri
che
avevano
bisogno
di
una
«protezione
particolare».
Altri
testimoni
raccontarono
come
alcuni
compagni
lavorassero
all’«accoglienza»
e
informassero
la
direzione
del
partito
quando
arrivavano
nuovi
prigionieri.
Tuttavia
non
potevano
impedire
che
le
«brutalità
avvenissero
regolarmente
[...]
quando
Adrian
era
di
guardia».
Un
altro
prigioniero
ricorda
il
dottor
Müller
di
Spandau,
che
in
particolare
«aiutava
i
prigionieri
che
avevano
subito
maltrattamenti,
e
il
suo
infermiere
di
nome
Georg».
Forse
un
indizio
che
Georg
Benjamin
potesse
avere
offerto
anch’egli
soccorso
medico,
secondo
le
sue
possibilità.
Hilde
Benjamin
aveva
letto
la
lettera
di
Georg
insieme
a
Egon
Thurau,
un
ex
compagno
di
prigionia
di
Sonnenburg,
per
poter
decifrare
insieme
a
lui
le
notizie
fra
le
righe.
Georg
si
trovava
in
una
camerata
collettiva.
Così
Thurau
interpretò
in
ogni
caso
il
numero
di
protocollo
N.III.8,
indicato
sulla
lettera.
Può
significare
ala
nord,
reparto
III,
camerata
8.
I
compagni
erano
riconoscibili
nelle
silhouette
che
Georg
aveva
portato
con
sé
al
momento
del
rilascio.
Sul
retro
della
silhouette
incorniciata
Georg
aveva
annotato
i
nomi,
documento
storico
sulla
composizione
di
una
camerata
nel
Lager
di
Sonnenburg
nel
dicembre
1933.
Segue
una
seconda
lettera,
datata
13
dicembre
1933,
questa
volta
senza
numero
di
protocollo.
Se
ne
deduce
che
era
stata
fatta
uscire
clandestinamente:
«Cara
moglie,
ho
ricevuto
ieri
la
tua
lettera
con
la
notizia
della
malattia
di
Mischa
[...].
Spero
che
nel
frattempo
stia
di
nuovo
bene.
Febbre
probabilmente
non
ne
ha
avuta.
Così
immagino,
visto
che
non
lo
scrivi.
[...]
Qui
non
c’è
niente
di
nuovo.
Ti
piacciono
le
silhouette
del
bambino?
Prima
di
Natale
non
riceverai
da
me
altre
lettere!».
Il
messaggio
termina
con
un
saluto
a
tutti
e
l’avvertimento:
«Gli
auguri
allegati
per
Mischa
sono
stati
disegnati
da
un
compagno!».
Con
quale
timore
Hilde
deve
aver
aperto
talvolta
una
lettera
di
Georg,
sempre
attendendosi
qualcosa
di
terribile?
Oppure
la
speranza
di
riavere
il
marito,
sano
e
salvo,
sovrastava
tutto?
Sicuramente
c’era
anche
la
gratitudine
per
aver
ricevuto
comunque
un
segno
di
vita.
Cosa
si
poteva
desumere
davvero
da
queste
lettere
–
oltre
alla
certezza
che
era
ancora
vivo?
Hilde
deve
aver
esaminato
e
studiato
ogni
riga
alla
ricerca
di
un
doppio
senso.
Quanto
meno
sembrava
che
Georg
affrontasse
il
suo
destino
con
una
sorprendente
intima
tranquillità.
Pochi
segnali
soltanto
alludono
alla
sua
profonda
nostalgia
delle
due
creature
là
fuori,
che
come
una
riserva
di
forza
lo
rifornivano
tuttavia
di
fiducia.
Hilde
Benjamin
non
si
sentiva
direttamente
in
pericolo.
Lei
e
il
piccolo
Mischa
erano
registrati
alla
polizia
presso
i
genitori
di
lei
nel
quartiere
berlinese
di
Steglitz.
Dopo
una
perquisizione
domiciliare
seguita
ben
presto
all’arresto,
la
polizia
e
la
Gestapo
a
quanto
pare
non
si
interessarono
più
a
lei.
L’abilitazione
di
avvocato
le
era
stata
già
disconosciuta
nel
maggio
1933.
Un
giurista
davvero
«temibile»
aveva
firmato
il
divieto
di
esercitare
la
professione
forense.
Era
il
dottor
Roland
Freisler,
che
in
seguito
divenne
presidente
del
Volksgerichtshof
di
Hitler.
Subito
dopo
Hilde
si
era
data
alla
clandestinità
per
diverse
settimane,
e
aveva
lasciato
Mischa
dai
nonni.
Quando
poté
ricomparire
si
trasferì
dai
genitori
nella
Dünther
Straße
a
Steglitz
e
si
occupò
del
bambino.
Era
disoccupata.
Natale
1933.
I
preparativi
per
la
festa
sono
in
pieno
corso.
Hilde
Benjamin
non
fa
eccezione,
anche
se
si
è
staccata
dalla
chiesa.
Per
i
genitori
è
tradizione
festeggiare
il
Natale
con
le
figlie
adulte,
Ruth
e
Hilde,
e
con
il
nipotino
Mischa.
Si
sta
organizzando
la
cena.
A
un
certo
punto
del
pomeriggio
squilla
il
telefono.
Una
voce:
«Sono
alla
stazione
dello
Zoo
e
vengo
da
voi
con
il
tram».
La
voce
di
Georg.
Non
sappiamo
se
Hilde
abbia
mantenuto
il
controllo,
se
abbia
singhiozzato,
pianto
o
riso
o
tutto
insieme:
«Georg
è
stato
rilasciato!».
Piena
di
gioia
abbraccia
la
sorella
Ruth.
Mischa
grida
solo
«papà!
papà!»
e
ride,
prima
che
in
fretta
e
furia,
al
posto
delle
ciabattine
da
casa
e
del
maglione,
gli
vengano
fatti
indossare
cappottino
e
scarpe
chiuse.
Anche
Hilde
si
getta
sulle
spalle
il
cappotto
per
correre
insieme
a
Mischa
fino
alla
fermata
del
tram,
che
dista
venti
minuti.
Che
momento
la
spinge
attraverso
la
Berlino
natalizia,
immersa
nel
buio.
Un
bagliore
insperato
che
si
irradia
su
ogni
cosa.
Ancora
poco
prima
stava
adornando
l’albero,
l’ultima
lettera
di
Georg
nella
mente,
e
cercava
di
non
cadere
nella
voragine
profonda
che
le
si
apriva
davanti,
trattenuta
solo
dal
piccolo
Mischa
che
la
guardava
raggiante,
porgendole
i
fili
argentati
e
le
palle
e
ammirando
l’albero
colorato.
E
adesso:
Mischa
corre
incontro
a
Georg,
che
scende
dal
tram.
In
seguito,
nel
1977,
quando
nella
DDR
mette
per
iscritto
i
suoi
ricordi
su
Georg
e
racconta
una
parte
della
sua
stessa
vita,
a
proposito
di
quella
meravigliosa
sera
di
Natale
che
ebbe
un
esito
così
insperato
con
il
bellissimo
regalo,
le
sorge
nella
mente
questa
frase:
«Il
rilascio
di
Georg
Benjamin
fu
un
regalo
per
noi
e
soprattutto
un
obbligo
verso
il
partito,
che
bisognava
utilizzare
e
adempiere...».
Vengono
i
brividi
a
leggere
quel
che
suona
come
la
realizzazione
più
che
zelante,
da
parte
della
compagna
Benjamin,
dei
doveri
imposti
dal
piano.
Non
voglio
credere
che
quella
sera
il
partito
fosse
più
importante
della
gioia
e
della
sorpresa
per
una
fortuna
che
non
si
sarebbe
più
ripetuta.
Restavano
loro
meno
di
due
anni,
in
un
ambiente
ostile
che
avrebbe
trasformato
drammaticamente
le
loro
vite.
Per
Georg
la
professione
di
medico
apparteneva
al
passato.
Per
un
poco
la
fortuna
restò
tuttavia
fedele
alla
famigliola.
Hilde
ottenne
un
lavoro
nell’ufficio
legale
della
rappresentanza
commerciale
sovietica.
Quello
che
guadagnava
era
abbastanza
per
vivere
e
poterono
rinunciare
al
sostegno
dei
suoi
genitori.
5
Il
Reichsgericht
(Corte
imperiale
di
Giustizia)
con
sede
a
Lipsia
fu
il
tribunale
supremo
del
Reich
tedesco
dal
1879
al
1945.
Profondamente
compromesso
con
il
nazismo,
venne
sciolto
subito
dopo
la
fine
della
Seconda
guerra
mondiale
[N.d.T.].
Capitolo
settimo
«Benvenuti»
a
Mauthausen
È
il
«muro
del
pianto».
Il
mio
occhio
inquadra
lo
stesso
taglio
dell’immagine
riportata
nella
piccola
guida
del
memoriale
che
tengo
in
mano.
È
il
muro
accanto
all’imponente
entrata.
Divenne
un
muro
del
pianto
perché
i
prigionieri
che
dovevano
disporsi
là
cominciavano
a
intuire
cosa
li
aspettava.
Alla
mia
destra,
allineate
sul
lato
più
lungo,
le
baracche
di
legno
delimitano
la
strada
che
attraversa
il
Lager,
mentre
a
sinistra
ci
sono
edifici
in
muratura:
l’infermeria,
la
prigione
e
il
bunker,
una
cantina
sotto
l’infermeria.
Alle
pareti
della
cantina
sono
appese
fotografie
di
prigionieri
originari
di
mezza
Europa.
Qui
si
praticava
la
tortura,
i
prigionieri
erano
«interrogati»
e
uccisi,
oppure
puniti,
picchiati
fino
a
essere
ridotti
in
fin
di
vita.
Accanto
c’erano
la
baracca
della
cucina
e
la
lavanderia.
A
destra,
accanto
al
portone
di
ingresso,
la
fureria
e
la
mensa,
e
dietro
a
questa
le
baracche
numero
sei
e
sette.
In
origine
c’erano
cinque
baracche
in
ogni
fila,
e
venticinque
in
tutto
il
Lager,
in
ciascuna
delle
quali
erano
sistemate
trecento
persone.
Di
fatto
ve
ne
erano
ammassate
fino
a
mille.
La
numero
nove
era
quella
degli
ebrei.
Oggi
si
vedono
solo
le
fondamenta.
La
baracca
non
esiste
più.
Nei
crematori
posti
nelle
cantine
dell’infermeria
e
della
prigione
venivano
bruciati
i
cadaveri
dei
prigionieri
uccisi
dalla
fame
o
condotti
altrimenti
alla
morte.
Ai
familiari
veniva
comunicato
brevemente
per
lettera
il
«decesso
inopinato»
del
padre,
dello
zio
o
del
fratello,
senza
chiarimenti
sulle
circostanze
precise
della
morte,
e
anche
senza
il
consueto
«rammarico»
nel
porgere
la
notizia.
Mi
trovo
sulla
strada
all’interno
del
campo
di
sterminio
di
Mauthausen.
L’ex
KZ
è
circondato
da
alti
muri.
La
pioggia
mi
ha
accompagnato
per
tutta
la
giornata.
Anche
adesso
sta
piovigginando.
I
desolati
edifici
si
specchiano
nelle
pozzanghere.
Una
giornata
estiva
del
2011.
Mentre
salivo
la
ripida
strada
d’asfalto
a
due
corsie
–
«strada
della
memoria»,
così
è
scritto
sul
cartello
–
e
la
macchina
entrava
nel
parcheggio
ho
visto
il
massiccio
edificio
costruito
con
le
pietre
squadrate
provenienti
dalle
vicine
cave
di
granito,
quell’edificio
che
ha
reso
famosa
in
tutto
il
mondo
la
cittadina
sul
Danubio:
il
campo
di
concentramento
di
Mauthausen.
Oggi
luogo
della
memoria
e
di
pellegrinaggio
per
visitatori
di
tutta
Europa,
che
qui
piangono
parenti
o
amici.
Molte
scolaresche
vengono
per
farsi
un’idea
dell’aspetto
che
può
avere
uno
dei
molti
inferni
che
l’umanità
si
crea.
Tutto
nel
mostruoso
edificio
esibisce
una
possanza:
l’entrata,
le
mura
con
le
torri.
Si
è
riluttanti
ad
avvicinarsi.
Il
breve
tragitto
dal
parcheggio
al
colosso
murato
è
lungo.
È
consigliabile
andare
innanzitutto
al
centro
visitatori,
posto
in
un
edificio
moderno
con
alte
finestre
a
destra
del
campo
di
concentramento,
dove
si
trovano
luminose
stanze
per
seminari
e
schermi
tattili
che
rispondono
a
ogni
possibile
domanda.
Una
libreria
con
un’abbondante
offerta
di
testi
sulla
storia
del
Lager
e
sull’inferno
di
Mauthausen.
Nell’annesso
caffè
il
visitatore
esitante
può
fare
ancora
una
breve
pausa
prima
di
iniziare
il
percorso
attraverso
il
Lager.
Ma
poi,
insieme
a
un
centinaio
di
visitatori
in
questa
giornata,
ci
si
ritrova
improvvisamente
accodati
e
si
diventa
una
delle
miserabili
figure
che
più
di
settant’anni
fa
scesero
o
si
trascinarono
giù
dai
vagoni
ferroviari
alla
stazione
di
Mauthausen,
creature
semimorte
di
fame,
che
fra
le
grida
dei
comandi
venivano
spinte
nelle
colonne
di
marcia
e
dovevano
poi
incamminarsi
sulla
collina.
Risuonava
forse
alle
loro
orecchie,
come
un’eco,
il
frenetico
consenso
alla
costruzione
di
questo
inferno?
Il
«Völkischer
Beobachter»,
nella
sua
edizione
viennese,
riportava
da
Linz
l’entusiasmo
con
cui
era
stata
accolta
la
notizia
che
il
Gauleiter
della
circoscrizione
dell’Alto
Danubio,
August
Eigruber,
aveva
annunciato
nel
1938
sull’Adolf-Hitler-Platz
a
Gmunden,
nello
Heimatgau,
la
«circoscrizione
natia»
del
Führer:
sarà
costruito
un
«campo
di
concentramento
per
i
traditori
del
popolo»!
«Un
fragoroso
giubilo
accompagna
questo
annuncio,
tanto
che
il
Gauleiter
fatica
a
proseguire
il
suo
discorso».
Questo
il
titolo
del
«Völkischer
Beobachter»:
«Baluardo
Salzkammergut.
In
futuro
l’Alta
Austria
terrà
sotto
sorveglianza
tutti
i
nemici
del
popolo
nel
paese».
Sono
già
prefigurati
i
circa
duecentomila
prigionieri
che
nei
successivi
sette
anni
presero
la
via
del
campo
di
sterminio
di
Mauthausen.
Poiché
molti
non
sopravvivevano
nemmeno
al
trasporto
vennero
create
due
fosse
comuni.
Dodicimila
morti
furono
sotterrati
là.
Una
delle
fosse
si
trova
vicino
alla
stazione,
dove
un
ex
cimitero
militare
risalente
all’epoca
della
Prima
guerra
mondiale
fu
perciò
spianato.
Tuttavia
si
fece
attenzione
a
«seppellire»
là
solo
i
prigionieri
morti
di
una
morte
«naturale».
Gli
altri,
picchiati,
uccisi
a
colpi
d’arma
da
fuoco
o
con
il
gas,
venivano
bruciati
nei
crematori
del
Lager.
Ciò
accadde
sempre
più
spesso
nell’ultimo
anno
di
guerra.
Probabilmente
un
tentativo,
da
parte
della
direzione
del
Lager,
di
cancellare
le
tracce
nel
caso
in
cui
la
vittoria
finale
non
si
fosse
realizzata.
Chi
arrivava
vivo
al
Lager
veniva
rasato
a
zero.
Molti
ricordano
forbici
spuntate
e
rasoi.
I
capelli
non
venivano
tagliati
quanto
piuttosto
strappati.
Gli
uomini
uscivano
dalla
stanza
con
il
cuoio
capelluto
sanguinante
e
venivano
assegnati
alle
loro
baracche.
Già
a
quel
punto
avevano
perso
ogni
rispetto
di
sé
ed
erano
invasi
dal
disgusto
della
propria
persona.
Il
loro
annientamento
cominciava
con
la
sottrazione
del
rispetto.
Erano
stati
trasformati
in
oggetti.
Per
la
costruzione
del
Lager
vennero
portati
a
Mauthausen
prigionieri
da
Dachau
e
altri
campi
di
concentramento.
Così
raccontò
un
testimone
che
trascorse
là
tre
anni,
come
si
può
leggere
nel
piccolo
opuscolo
del
memoriale:
«Arrivammo
in
mille.
Sul
posto
c’erano
pochi
attrezzi,
tanto
che
una
gran
parte
di
noi
dovette
compiere
i
lavori
di
sterro
a
mani
nude.
Costruimmo
quattro
baracche,
era
il
centro
di
raccolta.
[...]
Per
pranzo
ci
davano
tre
quarti
di
litro
di
zuppa,
principalmente
cavolo
e
acqua.
Dopo
mangiato
si
tornava
subito
al
lavoro,
fino
a
quando
faceva
buio.
Soffrivamo
parecchio
la
fame,
ma
il
peggio
era
la
sete.
Siccome
il
Lager
era
stato
costruito
in
cima
alla
montagna
bisognava
portare
su
l’acqua
dalla
città
di
Mauthausen,
che
stava
in
fondo
alla
valle,
per
mezzo
di
una
vecchia
autoinnaffiatrice.
Questa
saliva
solo
tre
volte
al
giorno,
e
la
maggior
parte
dell’acqua
veniva
usata
per
la
cucina
delle
SS
e
il
loro
corpo
di
guardia!».
Poi
ci
fu
la
cava
di
pietra.
«Venne
formata
una
squadra
di
portatori.
Quattro
uomini
trascinavano
sopra
una
barella
fino
a
trecento
chili
di
pietre
su
per
la
ripida
montagna,
e
poi
scendevano
di
nuovo
a
passo
di
corsa
[...].
Le
[...]
sentinelle
erano
pronte
a
picchiare
con
i
manganelli,
se
lungo
la
strada
qualcuno
non
era
più
in
grado
di
correre.
Chi
veniva
richiamato
perché
si
era
rifiutato
di
lavorare
riceveva
nel
Lager
più
di
[...]
venticinque
colpi
con
il
temutissimo
scudiscio».
Dopodiché
«il
sedere
era
nero
come
il
carbone».
La
storia
del
KZ
di
Mauthausen
fa
rabbrividire
ancora
oggi
il
visitatore.
Tutto
vi
parla
di
annichilimento
e
di
una
viltà
disumana.
Fu
questa
la
sua
ultima
stazione
nel
1942:
Georg
Benjamin
resistette
a
Mauthausen
solo
poche
settimane.
Fu
trovato
sopra
il
filo
spinato,
attraversato
dalla
corrente
ad
alta
tensione,
sotto
il
bordo
del
muro.
Le
sentinelle
delle
SS
si
divertivano
a
inseguire
i
prigionieri
verso
il
filo
spinato.
Un
prigioniero
descrisse
gli
ebrei
del
suo
trasporto
che
«vestiti
solo
di
mutande
e
camicia
venivano
braccati
verso
la
rete.
[...]
Là
restarono
fino
al
mattino.
Dopo
che
le
squadre
di
lavoro
ebbero
lasciato
il
Lager,
la
corrente
venne
staccata
e
i
becchini
andarono
a
prendere
i
cadaveri
dal
filo
spinato».
Nel
campo
di
sterminio
di
Mauthausen
e
nei
campi
esterni
di
Melk
e
Ebensee
morirono
centotrentamila
uomini,
fra
cui
venticinquemila
ebrei.
Nella
parte
del
campo
destinata
agli
ebrei
ciascuno
sapeva
che
quella
sarebbe
stata
la
sua
ultima
stazione.
Di
notte
si
dormiva
sul
nudo
pavimento,
non
solamente
vicini
ma
addirittura
ammucchiati
gli
uni
sugli
altri.
Per
i
propri
bisogni
si
utilizzavano
bottiglie,
essendo
impossibile
arrivare
ai
bagni
senza
calpestare
altra
gente.
Si
inciampava
su
braccia
e
gambe
dei
compagni
di
prigionia.
Durante
il
giorno,
lavoro
forzato
nelle
cave
di
pietra.
Chi
non
ce
la
faceva
veniva
picchiato
a
morte
o
atterrato
da
una
pallottola.
Le
condizioni
igieniche
erano
inimmaginabili.
Non
era
prevista
assistenza
medica,
e
i
prigionieri
soffrivano
la
fame
e
la
sete.
L’angoscia
che
mi
ha
assalito
là
impiega
parecchio
tempo
a
svanire.
L’impressione
della
visita
perdura
a
lungo.
Torno
al
parcheggio
e
rifletto
su
specificazioni
come
«le
SS»,
«il
corpo
di
guardia
delle
SS»,
o
anche
«i
nazisti»,
che
trovo
nelle
testimonianze
scritte
sul
Lager.
Non
erano
però
privi
di
un
volto,
ogni
singola
guardia
delle
SS
aveva
un
nome.
In
Austria
si
chiamavano
forse
Sepp,
Xaver
o
Bertl,
ed
erano
figli
e
padri,
mariti
e
fratelli.
Avevano
amici,
famiglie,
avevano
un’infanzia.
Come
diventarono
boia,
SS
e
guardie
senza
un
volto?
Cosa
portavano
in
sé
per
diventarlo?
Cosa
li
rendeva
tanto
spietati?
Cosa
li
educò
a
tanto,
deformandoli
e
facendo
di
loro
simili
creature?
Percorro
all’indietro
la
«strada
della
memoria»
e
leggo
sui
cartelli
che
a
sinistra
si
va
alla
«Corte
delle
trote»
e
a
destra
si
arriva
alle
«Osterie
del
sidro».
Ospitalità
nel
paradiso
delle
vacanze
chiamato
Austria.
E
io
penso
ai
dibattiti
politici
nel
mio
paese
e
al
panorama
dei
partiti
di
quella
estrema
destra,
ancora
molto
vivace,
che
torna
a
raccogliere
seguaci.
All’ingresso
in
città
leggo:
«Un
caloroso
benvenuto
a
Mauthausen»,
ed
è
come
un
pugno
nello
stomaco.
Si
vorrebbe
annullare
la
memoria?
O
c’è
nuova
vita
in
questa
città,
senza
che
questo
significhi
abbandonare
la
propria
storia?
Da
allora
sono
passati
settant’anni.
«Benvenuti
a
Mauthausen»:
sulla
collina
che
sovrasta
la
città
c’è
un
inferno
da
ricordare.
Un
«Benvenuti»
sul
cartello
d’ingresso
di
Mauthausen
sarebbe
stato
probabilmente
del
tutto
normale
per
Georg
Benjamin,
nell’inverno
del
1934.
Nel
paese
dei
crocifissi,
che
si
incontrano
a
ogni
curva
della
strada,
non
sarebbe
stata
una
sorpresa.
Lui
stesso
non
avrebbe
compreso
il
mio
sgomento
nel
vederli.
Il
campo
di
concentramento
non
c’era
ancora.
Fu
osannato
solo
quattro
anni
dopo.
Dopo
il
rilascio
da
Sonnenburg
Georg
era
andato
in
montagna
tutte
le
volte
che
aveva
potuto.
Nel
ricordo
di
Hilde
Benjamin
quelli
erano
stati
«gli
ultimi
momenti
di
libertà,
di
una
primavera
in
montagna».
Visitò
anche
la
Svizzera
e
i
laghi
dell’Italia
settentrionale.
«Anche
quando
incontrava
conoscenti
e
compagni»
precisò
Hilde
«a
cui
forniva
informazioni
e
dai
quali
a
sua
volta
ne
riceveva,
non
aveva
[...]
nessun
particolare
incarico
da
sbrigare».
Era
disoccupato
–
e
cercò
di
trarre
il
meglio
dalla
situazione.
Così
racconta
ancora
Hilde:
«Non
si
poteva
sapere
quanto
sarebbe
durato
il
dono
di
quel
tempo
in
cui
poter
vivere
e
lottare
e
lavorare,
e
Georg
Benjamin
lo
usa
quindi
fin
dall’inizio
[...]
nelle
maniere
più
diverse
per
imparare,
per
lavorare,
e
quando
era
possibile
per
trascorrerlo
insieme
al
suo
bambino,
in
mezzo
alla
natura,
con
i
libri,
e
sempre
a
disposizione
degli
altri».
Prese
appena
in
tempo
la
patente,
prima
che
agli
ebrei
fosse
proibito
nel
1935,
e
studiò
il
russo.
Il
nome
del
suo
insegnante
fu
utilizzato
spesso
in
seguito,
nella
corrispondenza
dal
carcere,
come
parola
cifrata.
Dall’estate
del
1934
frequentò
anche
le
lezioni
dei
corsi
di
aggiornamento
per
medici
ebrei,
organizzati
dall’amministrazione
sanitaria
della
comunità
ebraica.
Hilde
guadagnava
da
vivere
per
la
famiglia.
Il
bambino
riceveva
«amorevole
assistenza
e
un’educazione
nella
colonia
che
la
compagna
Edith
Fürst
aveva
appena
aperto
nel
quartiere
berlinese
di
Niederschönhausen,
dove
alcuni
figli
di
compagni
che
in
parte
si
trovavano
in
carcere
e
in
parte
vivevano
in
clandestinità,
e
insieme
a
loro
alcuni
bambini
ebrei,
trovavano
sicurezza
e
protezione».
Il
14
maggio
1936
Hilde
Benjamin
annota:
«Quando
[...]
sono
tornata
a
casa
dopo
il
lavoro
nella
rappresentanza
commerciale
ho
avvertito
che
qualcosa
era
“diverso”.
Non
ricordo
più
se
fosse
lo
straccio
per
la
polvere
che
faceva
da
segnale,
appeso
fuori
dalla
finestra
della
nostra
stanza
al
pianterreno,
come
avevamo
concordato
con
zia
Grünwald
(la
padrona
di
casa
e
amica).
Ma
c’era
la
sensazione
che
qualcosa
non
quadrasse.
Dalla
nostra
coinquilina
venni
a
sapere
che
al
mattino
diversi
individui
della
Gestapo
erano
venuti
con
Georg
Benjamin
e
avevano
perquisito
la
casa.
Esternamente
era
avvenuto
tutto
in
maniera
corretta
e
ordinata,
la
macchina
da
scrivere
non
era
stata
sequestrata,
né
in
apparenza
era
stato
preso
o
sequestrato
nulla».
Il
16
maggio
arriva
il
primo
segno
di
vita
da
parte
di
Georg.
Scrive
dal
campo
di
concentramento
di
Columbia,
un’ex
prigione
nel
campo
militare
di
Tempelhof,
a
Berlino:
«Mia
carissima
moglie!
Dev’essere
stata
una
brutta
sorpresa
per
te!
Sì,
mia
cara,
la
tua
vita
è
difficile
insieme
a
me,
ma
cerca
ora
di
conquistare
un
po’
dell’imperturbabilità
di
cui
abbiamo
parlato
tanto
spesso.
Pensi
ancora
al
bel
libro
di
(Martin)
Gumpert
con
le
biografie,
che
abbiamo
letto
insieme?».
Hilde
lo
ricorda.
Insieme
hanno
letto
anche
il
destino
di
Miguel
Serveto,
che
Gumpert
descrive,
e
Hilde
lo
cita:
«Al
mattino
del
27
ottobre
1553
le
chiavi
tintinnarono
per
l’ultima
volta
nella
pesante
porta,
e
lui
fu
tirato
fuori
dall’oscuro
buco
dove
aveva
trascorso
gli
ultimi
mesi,
fra
i
pidocchi
e
la
muffa,
per
essere
consegnato
al
rogo».
Serveto
era
stato
bruciato
come
eretico
a
Ginevra.
Fra
le
altre
cose
aveva
messo
in
dubbio
il
dogma
della
trinità,
cioè
la
consustanzialità
del
Padre,
del
Figlio
e
dello
Spirito
Santo.
Calvino
fece
arrestare
Serveto
e
si
premurò
di
ottenere
la
sua
condanna.
Fu
un
antesignano
processo
farsa,
in
cui
la
condanna
a
morte
era
già
scritta.
Lo
zelo
religioso
fu
causa
di
pogrom
che
provocarono
innumerevoli
morti.
Ciò
colpì
soprattutto
la
comunità
ebraica
e
si
ripeté
quasi
quattro
secoli
dopo
con
la
distruzione
degli
shtetl
ebraici
e
dei
loro
abitanti,
dopo
l’invasione
dell’Unione
Sovietica
da
parte
della
Wehrmacht.
Il
ricordo
di
quella
comune
lettura
è
come
un
presagio
della
sventura
che
attende.
La
lettera
di
Georg
tuttavia
continua:
«Cara
Hilde,
ora
devi
trovare
una
maniera
di
vivere
totalmente
autonoma
con
il
nostro
bambino
e
con
gli
amici
e
i
parenti
che
ti
aiuteranno.
Dobbiamo
aspettarci
che
sarà
una
cosa
molto
lunga
e
difficile.
In
futuro
dovrai
prendere
tutte
le
decisioni
sostanzialmente
senza
considerarmi.
Il
mio
bambino,
il
nostro
Mischa,
dovrà
dimenticarmi
un
po’
per
volta.
Spero
che
riesca
a
farlo
abbastanza
in
fretta.
O
vuoi
mandargli
ogni
tanto
qualcosa
da
Georg
che
è
partito?
Fai
come
ritieni
giusto.
Cara
moglie,
quello
che
più
mi
darà
pace
sarà
sapere
che
nemmeno
tu
ti
lasci
abbattere
dal
destino!
«Non
ho
molti
desideri.
Gli
sforzi
per
ottenere
una
qualche
rogatoria
sono,
allo
stato
attuale,
del
tutto
inutili.
Per
il
resto
i
miei
desideri
coincidono
con
le
cose
concesse
e
indicate
in
cima
alla
lettera:
cambio
di
biancheria
una
o
due
volte
alla
settimana
(camicia,
mutande
lunghe,
calze
e
qualche
fazzoletto);
abbonamento
al
“Völkischer
Beobachter”,
come
disposto
sopra,
e
intanto
un
invio
di
5
marchi.
Più
di
tutto
sarò
felice
di
ricevere
le
tue
lettere!
[...]
«Hilde
–
cerca
di
godere
il
più
possibile
l’estate,
come
tre
anni
fa.
Sembra
che
le
giornate
calde
non
siano
ancora
davvero
cominciate.
Già
adesso
una
preghiera
per
la
tua
prima
visita:
porta
sempre
con
te
una
fotografia
di
Mischa.
Nella
macchina
c’è
ancora
una
pellicola
nuova...
«Per
oggi
è
tutto!
Un
saluto
pieno
di
affetto
a
te
e
Mischa.
E
saluti
ai
genitori,
a
Utti,
a
zia
Grünwald
e
a
tutti
gli
altri.
Tuo
Georg».
Il
14
ottobre
1936
giunse
il
verdetto
della
Corte
d’appello
contro
Benjamin
e
altri,
accusati
di
«preparativi
di
alto
tradimento».
L’imputazione:
«L’accusato
ha
continuativamente
tradotto
articoli
da
giornali
stranieri
–
inglesi,
francesi
e
russi
–
riguardanti
la
Germania
e
le
condizioni
del
paese,
ma
anche
articoli
sugli
sviluppi
politici
in
Spagna
e
in
Francia,
al
fine
di
permetterne
la
diffusione
in
ambienti
comunisti,
ovvero
a
scopo
di
propaganda.
[...]
Accanto
alla
sua
attività
di
traduttore,
l’accusato
ha
intrattenuto
contatti
con
individui
i
quali
gli
hanno
fornito
notizie
sui
loro
rapporti
di
lavoro,
su
questioni
salariali,
sugli
umori
presso
i
disoccupati
ecc.
Si
trattava
di
due
lavoratori
occupati
presso
la
AEG
e
di
un
disoccupato,
cioè
il
coimputato
Perleberg.
Questa
informazione
è
stata
fornita
dall’accusato
alla
funzionaria
menzionata».
Georg
Benjamin
fu
condannato
a
sei
anni
di
carcere,
da
cui
venivano
scalati
i
cinque
mesi
di
carcerazione
preventiva,
con
privazione
dei
diritti
civili
per
cinque
anni.
Il
calcolo
della
pena
è
così
motivato:
«L’accusato,
di
razza
ebrea,
appartiene
da
molti
anni
al
movimento
comunista.
È
stato
rappresentante
di
quartiere
per
il
KPD
nel
quartiere
berlinese
di
Wedding,
e
fino
al
1933
medico
scolastico
statale
della
città
di
Berlino.
È
stato
in
detenzione
protettiva
dall’aprile
al
settembre
[di
fatto
dicembre]
1933.
Al
momento
del
rilascio
ha
firmato
una
lettera
di
garanzia
in
cui
si
impegnava
a
non
svolgere
più
alcuna
attività
sovversiva.
Ciò
nonostante
l’accusato,
disoccupato
dal
1933,
ha
lavorato
dalla
primavera
1935
per
il
Partito
comunista».
Il
documento
prosegue,
ricapitolando:
«Occorre
inoltre
concludere
che,
considerata
la
sua
personalità
e
l’ampiezza
del
suo
impegno,
debba
toccare
all’accusato
Benjamin
la
condanna
più
dura.
Quale
aggravante
pesa
nel
suo
caso
il
mancato
rispetto
della
promessa,
resa
al
termine
della
detenzione
protettiva,
di
non
svolgere
più
alcuna
attività
sovversiva.
L’aver
tuttavia
ripreso
con
tale
ampiezza
la
sua
attività
sovversiva
testimonia
l’ostinazione
della
sua
prepotente
volontà.
Tale
attività
deve
essere
considerata
particolarmente
pericolosa.
Benjamin
appartiene
al
numero
degli
intellettuali
ebrei
intenzionati
con
ogni
mezzo
ad
aizzare
i
lavoratori
tedeschi,
al
fine
di
ottenere
la
vittoria
del
comunismo.
A
suo
favore
si
è
potuta
considerare
soltanto
la
circostanza
che,
quanto
a
sé,
egli
ha
confessato
di
aver
combattuto
in
guerra
come
soldato.
Una
pena
di
sei
anni
di
carcere
è
apparsa
in
queste
circostanze
necessaria,
ma
anche
sufficiente».
Più
di
cinque
anni
in
quello
che
era
considerato
il
carcere
«più
moderno»
del
Brandeburgo.
La
sua
finalità
in
ogni
caso
apparve
chiara
a
Hilde
Benjamin,
durante
la
sua
prima
visita
nell’inverno
1937.
Benché
all’epoca
l’edificio
fosse
riscaldato,
Hilde
parla
di
una
«luminosità
fredda
e
limpida,
che
ancora
oggi
si
accompagna
in
me
al
ricordo
le
luogo,
una
luminosità
che
sembrava
voler
nascondere
l’oscurità
del
terrore
e
della
morte
incombente,
la
quale
si
trovava
in
un
incolmabile
contrasto
con
i
versi
ipocriti
e
penosi
sopra
l’ingresso:
Disciplina,
lavoro
e
bontà
/
dell’animo
sciolgon
l’asperità,
/
del
passato
fan
tabula
rasa
/
e
un
giorno
poi
riporteranno
a
casa».
I
tempi
delle
visite,
come
li
ricorda
Hilde,
sono
quattro
volte
quindici
minuti
durante
il
primo
anno,
cioè
un’ora
in
totale,
e
ogni
anno
si
allungano
di
un’ora,
arrivando
in
cinque
anni
a
cinque
ore
e
trenta
minuti.
Nel
parlatorio
Hilde
e
Georg
siedono
l’uno
di
fronte
all’altra,
in
presenza
di
un
funzionario.
Questo
sta
a
un
capo
del
tavolo,
mentre
loro
siedono
ciascuno
a
uno
dei
lati
lunghi.
Nel
diario
di
Hilde
trovo
questa
annotazione:
«Era
naturale
che
l’abbondanza
delle
cose
da
dire,
per
cui
il
tempo
non
bastava
mai»
significasse
una
tensione
mentale
e
psicologica.
La
quale,
soprattutto
per
Georg
Benjamin,
si
risolveva
in
un’ansietà
che
nonostante
la
buona
preparazione,
il
fatto
di
conoscere
bene
le
parole
chiave,
di
leggersi
reciprocamente
nello
sguardo
e
nel
viso,
non
poteva
sempre
essere
vinta.
La
presenza
del
funzionario
non
li
disturbava,
e
a
volte
«al
momento
del
saluto
potevamo
andare
in
fretta
all’altro
lato
del
tavolo
e
abbracciarci».
Per
comprendere
bene
la
loro
corrispondenza
il
lettore
deve
conoscere
le
parole
cifrate
con
cui
si
dissimulavano
certi
fatti
nelle
lettere
e
in
parlatorio.
Nel
rievocarli
Hilde
si
rese
conto
che
non
ricordava
più
tutti
i
codici.
«L’Unione
Sovietica
era
in
genere
“Sophie”
(il
nome
del
nostro
medico,
la
sorella
del
deputato
al
Reichstag
Eduard
Alexander)
oppure
“Utti”,
il
vezzeggiativo
di
mia
sorella,
o
era
indicata
anche
con
il
nome
del
mio
ex
capo.
“Konrad”
significava
il
Partito
comunista
tedesco,
la
Spagna
era
la
signora
Götz
(dal
nome
del
mio
collega,
l’avvocato
Götz
Berger
che
aveva
combattuto
in
Spagna),
la
Mariendorfer
Straße
(con
l’accento
sulla
prima
sillaba)
era
Madrid.
Dietro
il
nome
Dora
o
Walter
c’era
naturalmente
la
Francia,
e
così
via».
Georg
Benjamin
era
il
«baby
papà»
–
come
l’avevano
chiamato
i
bambini
nell’istituto
di
Edith
Fürst
perché
era
il
padre
del
più
piccolo
fra
loro,
nome
che
era
stato
«accolto»
da
tutti.
Con
quanta
forza
quegli
anni,
le
visite
in
carcere,
le
lettere
di
Georg
e
la
sua
nostalgia
della
moglie
e
del
figlio
devono
essersi
impressi
a
fuoco
nell’anima
di
Hilde.
Quante
volte
lui
deve
avere
avvertito
la
propria
impotenza,
l’impossibilità
di
aiutare.
Com’è
ridotta
da
una
simile
esperienza
una
persona
che
non
può
mettere
fine
alla
rovina
che,
senza
il
proprio
concorso,
segna
la
sua
vita?
Come
dev’essersi
sentito
lui,
costretto
a
chiedersi
continuamente
se
la
sua
fede
politica
valesse
il
pericolo
a
cui
esponeva
se
stesso
e
la
sua
famiglia?
Quante
volte
fu
assalito
dai
dubbi?
Anche
le
sue
convinzioni,
la
sua
incrollabile
fede
nei
compagni
a
Mosca,
come
Hilde
Benjamin
la
descrive,
non
poterono
essere
mai
del
tutto
libere
dal
tormento
del
dubbio.
Alla
fine
fu
però
soltanto
la
fede
nella
salvezza
promessa
dall’idea
comunista
a
dargli
la
forza
di
resistere
–
quello
che
Theodor
W.
Adorno
chiamò
il
«nucleo
teologico
incandescente»,
senza
il
quale
il
materialismo
avrebbe
perso
la
sua
principale
forza
propulsiva.
La
fede
infatti
sposta
le
montagne.
Le
lettere
di
sua
moglie
furono
per
lui
il
ponte
verso
un’altra
vita,
da
cui
lo
isolavano
le
mura
del
carcere.
Minuziosamente
lei
gli
descrive
ogni
momento
della
crescita
di
Mischa,
ogni
sua
frase,
ogni
suo
cambiamento.
Hilde
ammirava
il
fatto
che
persino
in
prigione
Georg
continuasse
a
preoccuparsi
per
il
benessere
dei
suoi
familiari,
e
che
volesse
sempre
conoscere
ogni
dettaglio
delle
loro
vite
là
fuori.
Dopo
l’invasione
della
Francia
crebbe
l’ansia
per
il
fratello
Walter
e
la
sorella
Dora,
entrambi
fuggiti
a
Parigi.
Ancora
nel
1938
Walter
Benjamin
aveva
scritto
una
lettera
a
Hilde,
ringraziandola
per
gli
auguri
di
compleanno.
Pregava
«alla
prossima
occasione
di
ringraziare
Georg
per
i
suoi
auguri
e
di
mandargli
un
saluto
affettuoso
da
parte
mia».
La
lettera
veniva
dalla
Danimarca,
dove
Walter
Benjamin
fu
più
volte
ospite
dell’amico
Bertolt
Brecht.
Non
era
facile
per
Georg,
Walter
e
Dora
scambiarsi
informazioni;
le
notizie
li
raggiungevano
solo
dopo
aver
compiuto
intricate
deviazioni
e
con
grande
ritardo.
Georg
chiese
perciò
pressantemente
a
Hilde
di
non
nascondergli
nemmeno
le
notizie
più
brutte.
Quanto
la
stessa
Hilde,
nella
Germania
di
Hitler,
fosse
tagliata
fuori
dal
resto
del
mondo
e
quanto
poco
arrivasse
fino
a
lei
lo
dimostrano
fra
l’altro
gli
anni
di
ritardo
con
cui
apprese
la
notizia
del
suicidio
di
Walter
a
Portbou.
Non
passa
inosservato
–
e
anzi
stupisce
–
che
Georg
Benjamin
non
vedesse
alcuna
necessità
di
riflettere
sulla
politica
estera
del
PCUS.
È
chiaro
che
gli
mancavano
informazioni
affidabili;
e
ci
si
chiede
come
avrebbero
potuto
raggiungerlo.
Ma
come
avrebbe
reagito
alle
parole
dell’Internazionale
comunista
(Comintern),
al
giudizio
secondo
cui
la
rivoluzione
in
Germania,
dopo
l’avvento
al
potere
del
Partito
nazionalsocialista
nel
1933,
fosse
solo
una
questione
di
tempo?
Ovvero:
le
masse
proletarie
scacceranno
sicuramente
il
fascismo.
Forse
non
volle
credere
alle
forniture
di
armi
dall’Unione
Sovietica,
con
cui
già
all’epoca
di
Weimar
e
poi
in
seguito
fu
accelerato
il
riarmo
della
Germania.
A
meno
che
non
trovasse
giustificato
ogni
mezzo
di
alleggerire
la
difficile
situazione
economica
e
la
miseria
in
Russia.
Era
evidente
che
lo
stato
fascista
non
si
sarebbe
accontentato
del
bottino
costituito
dai
Sudeti
e
dall’Austria,
conquistato
in
maniera
incruenta.
E
il
patto
fra
Hitler
e
Stalin,
cos’altro
era
se
non
un
segno
del
fatto
che
Hitler
voleva
avere
mano
libera
per
aggredire
la
Polonia,
cosa
che
scatenò
la
Seconda
guerra
mondiale?
Hilde
si
mostrò
irritata
e
scrisse
in
questo
senso
a
Georg.
«Per
molti
compagni
in
Germania
non
fu
facile
comprendere
subito
il
patto
di
non
aggressione,
e
devo
averlo
anche
accennato
in
una
lettera».
Georg
rispose
limitandosi
al
consiglio
di
non
giudicare
affrettatamente
la
questione.
Il
17
settembre
1939,
appena
due
settimane
dopo
l’attacco
alla
Polonia,
scrisse:
«Non
te
la
prenderai
se
sulla
dialettica
non
sono
d’accordo
con
te.
Questa,
che
in
realtà
è
un
metodo
esplicativo
e
di
pensiero,
non
è
superiore
qui
alla
nostra
concezione
ingenua.
Credo
che
la
migliore
formazione
hegeliana
sia
destinata
a
fallire
quando
manca
una
conoscenza
sufficiente
dei
rapporti
e
dei
fatti
a
cui
si
dovrebbe
applicare
il
pensiero
dialettico.
Del
resto,
per
quanto
molte
cose
mi
siano
parse
dapprincipio
inattese,
ora
mi
sembrano
molto
comprensibili
e
non
più
in
contraddizione
con
il
mio
sapere
ingenuo».
Ci
fu
poi
l’occasione
di
rivedere
Georg
e
di
parlare
con
lui,
e
anche
Mischa
poté
essere
presente.
La
pena
carceraria
di
suo
padre
ebbe
termine
il
14
maggio
1942,
non
però
il
suo
calvario.
Prima
di
essere
consegnato
da
Brandeburgo
alla
Gestapo
poterono
vedersi.
Hilde
andò
a
Brandeburgo,
e
finalmente
Mischa
fu
in
braccio
a
papà.
Alla
famigliola
venne
concessa
un’ora
buona
insieme.
Poi
Georg
fu
portato
a
Berlino,
alla
prigione
della
Gestapo
nella
Prinz-AlbrechtStraße.
Una
telefonata
anonima
raggiunse
Hilde
due
settimane
dopo.
Le
fu
detto
che
Georg
era
stato
portato
alla
questura
in
Alexanderplatz.
Apprese
che
si
poteva
consegnare
là
biancheria
pulita
in
cambio
di
quella
sporca,
e
così
i
familiari
dei
prigionieri
stavano
in
lunga
fila
nel
corridoio
dell’edificio.
In
mezzo
alla
biancheria
pulita
era
possibile
infilare
anche
qualcosa
da
mangiare,
e
qualche
piccolo
messaggio.
Sull’elenco
della
biancheria
c’era
sempre
l’avvertimento:
«Rischio
di
pidocchi,
sterilizzare
tutto».
Nel
biglietto
del
30
maggio
Hilde
decifrò:
«Procurati
permesso
visita.
Manda
posta».
Sul
secondo
biglietto,
una
settimana
dopo:
«Manda
per
favore
anche
asciugamano,
scacchi,
pastiglie
tosse
o
simili,
finora
impossibile
scrivere
lettere,
riprova
visita
settimana
prossima».
E
sul
biglietto
successivo:
«Cibo
e
igiene
qui
assolutamente
carenti,
niente
ore
libere,
affollamento
terribile,
tutti
i
popoli
europei
sono
qui».
Hilde
riuscì
a
ottenere
due
volte
il
permesso
di
una
visita.
Il
28
giugno
ricevette
l’ultima
lettera
dalla
questura:
«Cara
H.
mentre
ti
scrivo
non
so
se
questa
lettera
riuscirà
ad
arrivarti.
Sono
destinato
infatti
a
un
trasporto
verso
il
“Campo
di
educazione
al
lavoro
di
Wuhlheide”
presso
“Karlshorst”.
[...]
Anche
se
qui
non
sento
parlare
bene
di
Wuhlheide,
sarà
certo
meglio
del
campo
di
concentramento;
in
genere
a
termine,
pochi
ebrei,
e
per
questi
nessun
trattamento
speciale,
polizia
e
non
SS.
Sembra
sia
possibile
mandare
lettere
e
ricevere
pacchi
solo
dopo
sei
settimane.
Adesso
devi
cercare
soprattutto
di
stabilire
un
contatto,
forse
in
casi
urgenti
sono
consentite
addirittura
visite?
All’occasione
potresti
andare
a
parlare
al
dipartimento
per
la
detenzione
protettiva.
Scoprire
un
po’
per
volta
che
intenzioni
hanno
con
me.
Pur
con
tutte
le
cautele
nel
giudizio,
voglio
però
vedere
come
positivo
il
fatto
di
non
essere
mandato
in
KZ,
anche
se
ogni
settimana
parte
un
trasporto
per
Sachsenhausen.
Comunque
più
probabile
essere
rilasciati
da
lì
che
dal
KZ
–
per
ora
il
cambiamento
mi
rende
in
ogni
caso
ottimista
–
e
penso
che
ce
la
farò.
Facendo
un
giro
nella
zona
forse
potresti
trovarmi
mentre
sono
al
lavoro!?
«Purtroppo
non
ho
avuto
finora
tue
notizie.
Spero
che
il
bambino
stia
bene,
forse
si
è
già
rimesso
in
piedi?
[...]
Cordiali
saluti
a
tutti
gli
amici,
Opi,
Omi,
Utti.
E
un
bacio
a
te
e
al
bambino.
Tuo
marito.
«In
ogni
caso
assicurati
al
più
tardi
fra
otto
giorni,
oppure
–
per
sapere
dov’è
finito
il
pacco
–
anche
prima,
se
sono
già
partito
o
no;
nel
caso
non
lo
sia,
forse
è
ancora
possibile
una
visita
urgente
qui
alla
questura?
«Nell’ultimo
trasporto
di
evacuazione
è
stato
portato
via
anche
zio
Ludw.?
«Si
dice
che
a
Wuhlheide
la
maggioranza
siano
stranieri
fuggiti
dal
lavoro
che
vengono
“educati”
là
per
qualche
settimana,
e
poi
rispediti
ai
loro
posti
di
lavoro.
Le
condizioni
igieniche
dovrebbero
essere
buone,
peggio
di
qui
non
è
possibile».
E
adesso
un
salto
nel
presente.
È
il
30
dicembre
2011,
l’anno
sta
per
finire.
Non
c’è
neve
ma
gelo,
fino
a
venti
gradi
sotto
zero.
Come
Hilde
Benjamin
quasi
settant’anni
fa,
voglio
compiere
il
tragitto
con
il
treno
urbano
che
lei
fece
per
rivedere
Georg.
La
sua
meta
era
Wuhlheide.
Con
la
sua
descrizione
esatta
del
luogo
nel
bagaglio,
aspetto
il
treno.
Più
volte
Hilde
incontrò
successivamente
Georg
di
nascosto
alla
stazione
di
Wuhlheide,
quando
lui
era
assegnato
al
lavoro
sui
binari.
Ho
con
me
persino
l’originale
di
uno
schizzo
a
matita,
tracciato
decenni
fa
da
Hilde
Benjamin
su
un
foglio
di
carta
a
righe
strappato
da
un
quaderno,
quando
studiava
i
paraggi
della
stazione.
Proviene
dall’armadio
di
Uschi
Benjamin,
dov’è
conservato
il
lascito.
Da
Potsdam
via
Ostkreuz,
con
cambio
sulla
linea
S3
in
direzione
di
Wuhlheide
passando
per
Rummelsburg
e
Karlshorst,
mi
attende
una
buona
ora
di
viaggio.
Sto
accanto
al
binario
della
S-Bahn
alla
stazione
di
Potsdam,
insieme
ad
altri
passeggeri
infreddoliti.
A
destra
c’è
un
treno
in
attesa
e
a
sinistra,
annunciato
sul
tabellone
elettronico,
arrivo
e
partenza
di
un
treno
fra
due
minuti.
Entrambi
viaggiano
nella
mia
direzione.
Sui
tabelloni
che
pendono
dal
soffitto
della
banchina
coperta,
la
partenza
del
treno
a
destra
è
prevista
invece
fra
dodici
minuti.
Davanti
a
me
c’è
un
gruppetto
di
persone
irrequiete.
Russe.
Non
sanno
quale
treno
devono
prendere.
Tre
donne,
cariche
di
bagagli.
Una
posa
a
terra
il
suo.
Esita
a
rivolgersi
a
qualcuno,
e
alla
fine
si
mette
proprio
davanti
a
me.
Capisco
subito
una
parola,
per
la
quale
lei
impiega
sicuramente
tre
«r»:
«Berrrlin?».
Poiché
nel
pronunciarla
la
voce
si
innalza,
la
prendo
per
una
domanda
e
annuisco
indicando
la
scritta
che
fino
a
poco
fa
segnalava
due
minuti
e
adesso
invece
scompare,
annunciando
il
passaggio
di
un
treno.
I
vagoni
attraversano
la
stazione
sferragliando,
senza
fermarsi.
I
tabelloni
elettronici
entrano
di
nuovo
in
movimento.
Poi
l’annuncio
della
S7
diretta
a
Ahrensfelde
attraverso
Zoologischer
Garten,
Hauptbahnhof,
Ostbahnhof.
Nel
frattempo
gli
orari
di
partenza
sono
cambiati:
su
questo
binario,
dove
poco
fa
c’era
scritto
due
minuti,
all’improvviso
bisogna
attenderne
dodici.
Dall’altra
parte
del
binario
la
partenza
del
treno
nella
stessa
direzione
è
annunciata
invece
fra
due
minuti.
Il
traffico
dei
treni
urbani
fra
Potsdam
e
Berlino
è
sempre
pieno
di
sorprese.
Qualche
conoscenza
di
russo
ora
sarebbe
utile
per
avvisare
le
signore
cariche
di
bagagli.
Hilde
Benjamin
lo
parlava
perfettamente.
Agitando
le
mani
dirigo
le
tre
donne
al
treno
che
fino
a
poco
tempo
fa
era
sbagliato
e
adesso
è
quello
giusto.
Ce
la
faccio:
«Il
treno
è
in
partenza,
attenzione
alla
chiusura
delle
porte!».
Durante
il
mio
viaggio
con
la
S-Bahn
verso
il
passato
berlinese
di
Hilde
Benjamin,
è
come
se
lei
fosse
qui
con
me.
Si
sarebbe
stupita
di
sentire,
accanto
e
dietro
il
mio
posto
al
finestrino,
una
vivace
conversazione
in
russo?
A
Potsdam
c’è
una
grande
colonia
russa,
come
a
Berlino.
Raggiungo
Wuhlheide
e
lascio
il
treno,
come
fece
Hilde
che
molto
tempo
fa
stette
accanto
a
questo
binario.
Cercava
di
rintracciare
Georg
e
di
mettersi
in
contatto
con
lui.
Sperava
di
trovarlo
sul
cantiere
delle
ferrovie,
proprio
di
fronte
alla
banchina.
Una
telefonata
anonima
glielo
aveva
sussurrato.
Mi
siedo
su
una
panchina
e
guardo
nella
direzione
che
nel
suo
schizzo
viene
indicata
come
la
zona
in
cui
lavorava
Georg.
A
differenza
di
allora,
vedo
oggi
solo
binari
ordinati,
davanti
a
una
fitta
macchia
di
alberi
e
cespugli.
Hilde
Benjamin
annotò
la
data
esatta
in
cui
ritrovò
suo
marito:
era
il
13
giugno
1942.
Stava
su
un
vagone
merci
carico
di
sabbia
e
portava
«una
specie
di
abito
militare
azzurro».
Così
scrive
ancora
Hilde:
«Ero
rimasta
seduta
a
lungo
accanto
al
binario,
osservando
la
situazione:
[...]
ci
vedemmo
quasi
nello
stesso
istante».
Lui
fece
un
segno
con
il
braccio,
gridò
«là
[...]
e
andai
in
quella
direzione».
Con
grande
precisione
descrisse
quel
che
avvenne
dopo:
«Parallelo
alla
banchina
e
ai
binari
dei
treni
passeggeri,
separato
solo
da
quelli
dove
passavano
i
treni
a
lunga
percorrenza
c’era
un
binario
di
manovra
per
treni
merci.
Dietro
si
stendevano
cumuli
di
sabbia,
con
diverse
rotaie
per
treni
a
vagonetti.
Questi
venivano
riempiti
di
sabbia
e
poi
rovesciati
in
vagoni
merci,
fermi
sul
binario
di
manovra.
Venendo
dalla
stazione
si
doveva
passare
su
un
ponte
che
si
stendeva
sopra
il
corpo
della
stazione
e
a
ciascuno
dei
cui
lati,
in
un
piccolo
casotto,
c’era
un
guardiano.
Il
ponte
proseguiva,
dapprima
ancora
rialzato,
in
una
strada
che
si
inoltrava
nel
bosco.
Al
di
là
della
strada,
su
un
terreno
incolto,
c’era
la
baracca
del
cantiere.
Dietro
la
striscia
incolta,
piuttosto
ampia,
cominciava
un
boschetto».
Hilde
Benjamin
scese
lungo
l’argine,
evitò
di
avvicinarsi
alla
baracca
dove
pensava
si
trovasse
personale
di
vigilanza,
e
attraversò
il
boschetto
in
modo
da
uscire
all’altezza
della
banchina
e
del
cantiere.
Contemporaneamente
si
era
mosso
anche
Georg,
ed
entrambi
si
diressero
«verso
un
mucchio
di
traversine
che
ci
nascondevano
alla
vista
dal
cantiere.
Lui
mi
diede
per
prima
cosa
un
biglietto:
prendi
intanto
questo».
E
poi:
«Scrivi
sempre
quello
che
ti
dico.
Hai
con
te
da
mangiare?».
Nascose
poi
tutto
sul
suo
corpo,
e
disse:
«Torna
la
settimana
prossima,
e
corse
via».
A
quel
punto
Hilde
poté
leggere
il
biglietto
che
le
aveva
dato
Georg:
«Qualche
breve
informazione,
casomai
il
tentativo
riesca.
Situazione
qui
brutta.
Psicologicamente
non
mi
lascio
influenzare,
anche
se
la
mancanza
di
compagni
non
è
facile.
Condizioni
in
molti
sensi
simili
a
quello
che
si
sente
dire
del
KZ.
Fisicamente
è
necessario
l’impiego
di
tutte
le
mie
energie.
Non
tanto
per
il
lavoro,
ma
perché
sonno
e
cibo
non
bastano.
Per
quel
che
sta
a
me,
naturalmente
resisto».
Segnalava
che
sembrava
possibile
far
avere
«pacchi
con
cibo
attraverso
la
questura
sull’Alex».
Non
era
del
tutto
certo
però
se
li
avrebbe
ricevuti
poi
a
Wuhlheide:
«Quando
voi
potete
farne
a
meno,
alimenti
concentrati:
cose
dolci,
zucchero,
grasso,
uova
o
simili.
Anche
tabacco,
però
non
attraverso
Alex,
perché
non
è
consentito.
Come
oggi,
se
possibile
magari
una
volta
alla
settimana,
naturalmente
facendo
grande
attenzione.
E
poi
circa
dieci
marchi
in
banconote
piccole.
Orario
di
lavoro:
dal
lunedì
al
venerdì,
7-4
1/2,
forse
potresti
seguirmi
sulla
strada
del
ritorno,
senza
farti
notare!
«Sali
nel
primo
vagone,
poi
cercami.
Mano
destra
alzata:
momento
buono.
Mano
sinistra
alzata:
possibile
tentare.
Mano
in
tasca:
momento
inopportuno.
Pausa
di
mezzogiorno
circa
12-12
1/2,
ma
anche
prima
o
dopo.
Nel
caso
non
ci
fosse
tempo
per
parlare
o
troppo
poco,
porta
con
te
lettera.
Difficile
poi
da
conservare,
quindi
non
scrivere
troppo!
Ma
anche
per
es.
pane
imburrato.
Per
favore
anche
un
coltellino
con
lama
non
troppo
piccola
per
il
pane.
«Ebrei
solo
2
int.,
più
3/2,
perciò
poche
misure
dirette
specialmente
contro
gli
ebrei».
Hilde
Benjamin
riuscì
a
incontrare
là
Georg
una
volta
alla
settimana,
in
seguito
anche
più
spesso,
quando
si
accordavano.
Anche
sua
sorella
e
una
compagna
riuscirono,
una
volta
ciascuna,
a
portargli
da
mangiare.
Le
informazioni
sul
campo
di
concentramento
di
Wuhlheide,
che
Georg
aveva
ricevuto
durante
i
giorni
di
reclusione
in
questura
all’Alex,
erano
esatte.
Il
Lager
era
un
«campo
di
rieducazione»
per
lavoratori
stranieri
«insubordinati»,
che
venivano
portati
là
per
qualche
settimana.
Ci
si
può
all’incirca
immaginare
che
cosa
aspettasse
i
lavoratori
forzati.
Il
Lager
dipendeva
dalle
SS,
ma
era
sorvegliato
da
poliziotti.
I
prigionieri
erano
impiegati
in
lavori
sui
binari
delle
ferrovie,
assegnati
per
contratto
a
imprese
edili
di
Berlino.
Erano
alloggiati
in
baracche
nel
quartiere
di
Lichtenberg.
Queste
sono
state
demolite
da
tempo,
e
là
dove
si
trovavano
c’è
oggi
una
parte
del
parco
zoologico.
Biglietto
del
20.07.1942:
«Ricevuto
il
18.07
ordine
di
detenzione
protettiva,
quindi
andrò
via
di
qui
forse
fra
otto
o
dieci
giorni.
Probabilmente
Sachsenhausen,
via
Alex.
Se
non
mi
vedi
più
cerca
quindi
di
ottenere
visite
a
Alex.
Non
mi
dispiace
il
cambiamento.
Il
guardiano
del
ponte,
fra
punto
ristoro
e
ponte,
cioè
dopo
averlo
attraversato,
prende
cose
per
baby
papà.
Quindi
fai
pacchetti
piccoli
e
legati
con
lo
spago,
e
anche
lettera
con
indirizzo
per
baby
papà.
Come
ricompensa
va
bene
marmellata
o
qualcosa
di
grasso,
ma
devi
contrattare.
Fanno
i
turni
in
due,
e
sono
brave
persone.
Ho
nuotato
nell’abbondanza
per
due
giorni.
È
stato
un
grande
aiuto.
L’olandese,
che
potrebbe
forse
arrivare,
ha
incarico
solo
di
consegnare
e
raccontare.
Altri
desideri:
sapone
e
giornali
nuovi,
ma
solo
i
principali.
«Se
come
previsto
Franz
–
un
piccolo
tedesco
–
verrà
non
è
sicuro.
Lavoro
non
troppo
pesante,
ma
fisicamente
molto
faticoso
per
me».
Biglietto
del
26.7.1942:
«Carissima
moglie!
«Spero
che
tutto
continui
a
funzionare
bene
così
direttamente.
L’altra
possibilità
al
momento
è
un
po’
incerta.
Non
puoi
immaginare
quanto
le
cose
mi
aiutino.
Non
so
se
potrei
resistere
fisicamente
senza.
È
stato
tutto
un’altra
volta
magnifico.
Per
ora
niente
più
soldi,
ma
sigarette
sì.
Anche
carte
per
adesso
basta.
Probabile
che
vada
questa
settimana
all’Alex
e
poi
in
KZ.
Spero
che
riesca
ancora
una
visita
all’Alex.
Un
motivo
urgente
si
troverà
pure.
In
ogni
caso
mi
aspetto
intanto
qualcosa
giovedì.
«Se
non
arrivo
subito,
tieni
d’occhio
il
sentiero.
Io
arrivo
dalla
parte
dei
binari.
Potrebbe
servirmi
un
po’
di
tempo
prima
di
potermi
allontanare.
Mi
farebbe
comodo
una
bottiglietta
di
Schnaps
per
uno
a
cui
devo
rendere
un
favore».
Hilde
osservò
come
il
carattere
degli
incontri
cambiasse
sempre
di
più:
«Georg
era
più
disinvolto
e
tranquillo,
direi
quasi
più
sereno».
Aveva
inoltre
l’impressione
che
stesse
diventando
un
po’
più
imprudente,
e
lo
esortò
quindi
a
fare
attenzione.
Soprattutto
a
non
dare
nell’occhio
–
il
che
non
era
facile
sulla
banchina
poco
utilizzata,
con
i
treni
della
S-Bahn
che
viaggiavano
sempre
meno
frequentemente.
Il
percorso
passava
poi
regolarmente
accanto
al
guardiano
del
ponte.
Perciò
Hilde
indossava
ogni
volta
qualcosa
di
diverso,
«un
cappello
azzurro,
senza
cappello,
un
cappello
bianco,
un
fazzoletto
sulla
testa».
Si
incontravano
a
cadenza
quasi
regolare,
due
volte
alla
settimana,
e
a
quanto
pare
il
mascheramento
funzionava.
Lei
osò
addirittura
rivolgersi
direttamente
al
guardiano,
il
quale
disse
di
non
averla
mai
vista
in
precedenza.
Una
volta
prese
con
sé
Mischa
e
fu
perciò
molto
cauta.
Avevano
passato
tutto
il
pomeriggio
nelle
vicinanze
del
cantiere.
Da
un
chiosco
osservavano
la
squadra
degli
operai
che
andava
via
e
Georg,
in
fondo
alla
fila,
marciava
proprio
davanti
a
loro.
Il
bambino
vide
il
padre
e
pensò:
«È
molto
diverso
dagli
altri,
molto
più
sano».
Gli
altri
si
trascinavano,
pelle
e
ossa,
a
piedi
nudi
e
spingendo
avanti
un
compagno
che
era
crollato.
Ci
fu
un
incontro
diretto?
Hilde
era
convinta
di
no,
a
differenza
di
Mischa
che
ricordava
esattamente
di
aver
parlato
con
il
padre.
Biglietto
del
30.7.1942:
«Voglio
proprio
vedere
se
domani
riesce,
ora
che
la
faccenda
lassù
in
alto
–
naturalmente
non
a
causa
mia
–
si
è
fatta
un
po’
scottante.
Intanto
è
forse
l’ultima
occasione,
perché
ritengo
molto
probabile
finire
venerdì
mattina
all’Alex
e
forse
già
sabato
mattina
a
Sachsenhausen.
Potresti
cercarmi
magari
venerdì
mattina,
e
se
non
ci
fossi
più
tentare
di
ottenere
una
visita
là
a
mezzogiorno?
«Martedì
cambio
di
personale,
e
non
so
se
sarà
ancora
possibile
un
contatto
diretto.
Il
guardiano
del
ponte
potrebbe
mandare
un
paio
di
pacchetti
per
il
misuratore
attraverso
il
caposquadra.
Malgrado
il
trasferimento
in
KZ,
sono
contento
di
andarmene
da
qui!
Puoi
immaginare
quindi
che
aspetto
ha
questo
posto!».
Hilde
e
Georg
si
videro
in
ogni
caso,
come
deduco
dal
diario,
i
giorni
6,
8
e
10
agosto.
«Tutte
e
tre
le
volte
Georg
ha
oltrepassato
l’argine,
mi
ha
fatto
segno
di
rimanere
nel
bosco
ed
è
venuto».
A
quanto
pare
c’era
un
nuovo
addetto.
Lei
tirò
fuori
l’insalata
di
patate,
le
polpette
e
il
budino
con
le
ciliegie,
ed
erano
entrambi
allegri
nonostante
lui
le
raccontasse
che
il
giorno
prima
si
erano
verificate
scene
terribili.
Gli
ebrei
erano
stati
accusati
di
far
traffico
di
sigarette.
Parlarono
di
nuovo
della
guerra.
Georg
calcolava
che
la
fine
del
fascismo
sarebbe
arrivata
nel
giro
di
uno
o
due
anni
e
le
chiese
preoccupato
se
sarebbe
stata
in
grado
di
fargli
avere
ancora
tanta
roba
da
mangiare;
grazie
a
quei
supplementi
di
cibo
si
sentiva
di
nuovo
bene
e
in
forze.
E
accordarono
di
vedersi
il
mercoledì
successivo.
Ma
il
mercoledì
successivo
lei
attese
invano.
Andò
alla
questura
per
sapere
dove
si
trovava
Georg.
Questo
fu
il
colloquio,
che
appena
tornata
Hilde
annotò:
«Suo
marito
è
stato
mandato
in
un
campo
di
rieducazione.
“E
dov’è
adesso?
Durante
l’ultima
visita
mi
ha
detto
che
sarebbe
stato
trasferito
a
Wuhlheide”.
“Sì,
è
vero.
È
stato
assegnato
a
una
squadra
di
lavoro
ma...
a
partire
da...”.
L’impiegato
si
è
interrotto.
Io:
“è
ancora
là?
Posso
raggiungerlo
da
qualche
parte?”.
Dissi
poi
che
dovevo
almeno
potergli
scrivere,
per
via
della
scuola
del
bambino.
“Non
è
possibile”.
“Dov’è
adesso?”.
“Non
posso
dirlo”.
“Nel
trasporto?”.
“Sì”.
“Posso
ritornare?”.
“Sì,
fra
due
settimane
circa”».
Bisognò
attendere
fino
all’inizio
di
settembre,
poi
la
certezza:
Georg
Benjamin
era
morto.
Una
comunicazione
per
posta
militare
delle
SS
raggiunse
Hilde
da
Mauthausen.
Il
quartier
generale
del
campo
di
concentramento
di
Mauthausen
comunicava:
«L’ebreo
Georg
Benjamin
è
morto
il
26
agosto.
Causa
del
decesso:
suicidio
per
contatto
con
linea
di
alta
tensione».
Nel
registro
delle
morti
a
Mauthausen
è
indicata
la
causa:
«Suicidio
per
corrente
ad
alta
tensione».
Giorno
e
ora
della
morte:
«26.8.1942,
ore
1.30»,
in
piena
notte.
Per
posta
Hilde
ricevette
inoltre
il
certificato
di
morte,
il
berretto,
sei
fazzoletti
e
un
asciugamano.
Estate
1942
–
vita
quotidiana
in
un
paese
e
in
un
ambiente
pieno
di
trappole,
che
in
qualsiasi
momento
poteva
finire
in
un
vicolo
cieco
e
mortale.
Hilde
Benjamin
viveva
seguendo
una
bussola
interiore
che
il
marito
Georg
aveva
regolato.
Continuò
a
frequentare
i
suoi
amici
ebrei.
Non
voleva
farsi
intimidire.
Rimase
dalla
parte
di
quelli
il
cui
unico
«reato»
era
il
fatto
di
essere
ebrei.
La
«soluzione
finale
della
questione
ebraica»
era
stata
decisa
alla
conferenza
del
Wannsee
nel
1941
dai
grigi
funzionari
lacchè
della
«razza
padrona»,
sotto
la
direzione
dell’Obersturmbannführe
delle
SS,
Reinhard
Heydrich.
Da
allora
gli
ebrei
dovettero
portare
la
stella
gialla.
Edith
Fürst,
che
era
ancora
direttrice
della
colonia
per
bambini
ebrei
nell’Auguststraße,
aveva
sposato
in
carcere
il
detenuto
ebreo
Emanuel
Bruck.
Anche
lei
ricevette
la
notizia
che
suo
marito
era
«deceduto»
in
campo
di
concentramento.
Alla
fine
del
1942
gli
impiegati
della
comunità
ebraica
di
Berlino
furono
convocati
nella
Oranienburger
Straße.
La
Gestapo
selezionò
chi
doveva
prepararsi
al
trasporto
nei
giorni
successivi.
Fra
questi
c’era
anche
Edith
Fürst.
Gli
amici
le
consigliarono
di
nascondersi.
Fu
Hilde
a
procurarle
da
mangiare.
La
mise
in
contatto
con
Harald
Poelchau,
cappellano
carcerario
attivo
nella
resistenza
antinazista,
che
la
prese
come
domestica.
Edith
si
chiamava
ora
Gertrud
Heß.
Hilde,
sorvegliata
dalla
Gestapo
in
quanto
comunista,
era
segretamente
in
contatto
con
lei
e
altri
amici
ebrei.
Nascose
le
lettere
di
Edith,
i
suoi
appunti
e
le
sue
fotografie
nella
cantina
dell’appartamento
dei
genitori
a
Steglitz.
Solo
alla
fine
del
1944
anche
Edith
Heß/Bruck/Fürst
fu
scoperta
dalla
Gestapo.
Sua
sorella
Rosa
aveva
lasciato
la
Germania
al
momento
giusto.
Edith
finì
nel
campo
di
concentramento
femminile
di
Ravensbrück
e
sopravvisse.
Nel
1943
Hilde
riuscì
a
procurare
una
nuova
identità
a
Gertrud
Kolmar,
la
cugina
di
Walter,
Georg
e
Dora
Benjamin.
Non
poté
tuttavia
impedire
che
fosse
costretta
a
prestare
lavoro
forzato
in
una
fabbrica.
Hilde
ricordava
con
ammirazione
e
affetto
la
poetessa
Gertrud
Kolmar:
«Una
grande
tranquillità
e
nello
stesso
tempo
un’inquietudine
interiore.
Oscura,
ma
non
cupa.
Protetta
dietro
un
muro
di
modestia
e
singolarità.
Colori
scuri
e
caldi
la
circondavano.
Aspra,
ma
di
un’amarezza
mite.
Distaccata,
mai
però
fredda».
Gertrud
Kolmar
consegnò
a
Hilde
il
manoscritto
di
una
raccolta
di
poesie.
A
un
certo
punto
la
Gestapo
scovò
le
sue
tracce.
La
sua
fine
si
chiama
Auschwitz.
Nel
lascito
fu
trovata
anche
questa
poesia:
L’abbandonata
Tu ti sbagli. Tu credi
d’esserelontano
e che io, assetata, non ti
possapiùritrovare?
Io ti catturo con i miei
occhi,
con questi occhi scuri,
stellati.
Ti attiro sotto queste mie
palpebre,
le chiudo salde e tu resti
dentro,prigioniero.
Comepuoiusciredaimiei
pensieri,
reti da caccia a cui
nessuna selvaggina può
sfuggire?
Tu non mi lascerai più
caderedallatuamano
come un mazzo di fiori
appassiti
chevolagiùnellastrada,
calpestato davanti alla
casa, impolverato da
tutti.
Iotihoavutocaro.Tanto
caro.
Ho pianto tanto... con
cocentipreghiere...
e ti amo anche di più
perchéhosoffertoperte,
mentre la tua penna non
mi ha scritto nessuna
lettera,nessunamai.
Ti
chiamavo
amico,
signore e guardiano del
faro
sopra una sottile striscia
insulare,
tu, giardiniere del mio
frutteto,
e mille erano più saggi di
te,manessunopiùgiusto.
Ho sentito appena che il
mioportos’èinfranto,
il porto che custodiva –
piccolo solo – la mia
giovinezza
e che essa gocciava giù,
assorbitadallasabbia.
Iostavoetiseguivoconlo
sguardo.
Il tuo passaggio è rimasto
neimieigiorni
come perdura in un
vestito
un
dolce,
sconosciutoprofumo
che non si nota, si coglie
appena
purportandolosempre.
La
realtà
quotidiana
di
Hilde,
prima
e
dopo
Georg,
era
il
pensiero
per
le
persone
a
lei
vicine.
Molte
portavano
la
stella
gialla
che
lei,
l’«indiana»,
non
dovette
portare.
Così
nel
1939,
poco
prima
che
la
guerra
iniziasse,
scrisse
nel
diario:
«Ieri
a
Rahnsdorf
ci
siamo
imbattuti
nel
cartello:
Non
sono
graditi
gli
ebrei.
Mischa
ha
chiesto
cosa
voleva
dire.
Poiché
non
eravamo
soli
ho
risposto
che
glielo
avrei
spiegato
a
casa.
Mentre
faceva
il
bagno
è
ritornato
sulla
questione.
Allora
ne
abbiamo
parlato
a
lungo
–
alcune
cose
le
conosceva,
per
esempio
ebrei-ariani.
“Hitler
non
può
sopportare
nemmeno
te...?”
e
poi:
“Perché
non
andiamo
subito
da
Georg?”.
Ha
intuito
da
tempo
cosa
c’è
dietro
la
storia
del
viaggio
di
suo
padre
in
Sudamerica.
Racconta
poi
una
conversazione
fra
bambini.
Lui
aveva
detto
che
Georg
era
“sul
campo”».
Hilde:
«Ma
puoi
dire
quello
che
sai,
che
è
in
Sudamerica».
Lui:
«O
devo
dire
che
è
ebreo?».
Alla
fine
del
1940
andavano
a
trovare
spesso
e
volentieri
i
Rosenberg,
parenti
della
famiglia
Benjamin.
«Le
visite
a
queste
persone
intelligenti
e
buone
erano
molto
piacevoli
per
noi
due».
Mischa
si
infilava
subito
nell’accogliente
biblioteca
e
leggeva
tutto
quello
che
gli
capitava
fra
le
mani.
E
i
Rosenberg
furono
preziosi
anche
per
Hilde.
La
aiutarono
a
superare
i
primi
terribili
anni
dopo
l’arresto
di
Georg.
Si
tolsero
la
vita
nel
1943,
prima
del
trasporto
nel
Lager.
Mischa
Benjamin
avvertiva
sempre
più
nettamente
di
non
avere
il
diritto
di
appartenere
al
mondo
degli
altri,
e
di
essere
escluso
dai
compagni
di
classe.
Alle
sue
domande
la
madre
trovava
spesso
risposte
che
lei
stessa
giudicava
insufficienti.
Un
nuovo
insegnante
aveva
chiesto
quali
padri
servissero
in
guerra
come
soldati,
o
avessero
servito
in
quella
precedente.
Mischa
alzò
la
mano
e
raccontò
che
suo
padre
era
stato
ferito
due
volte
e
aveva
la
Croce
di
ferro.
Fallì
il
tentativo
di
trasferire
il
figlio
al
Ginnasio
francese,
che
aveva
fama
di
essere
tollerante
verso
i
«meticci».
Nel
1942
non
fu
più
consentita
l’iscrizione
alle
scuole
superiori.
Hilde
divenne
l’insegnante
privata
di
Mischa.
E
l’amico
Werner
Wüste
ricorda
con
profonda
ammirazione
che
Mischa
già
nel
1948,
a
sedici
anni,
«superò
brillantemente
l’esame
di
maturità.
Tanto
valide
erano
state
le
lezioni
di
Hilde».
Insieme
al
divieto
della
scuola
arrivarono
le
notti
dei
bombardamenti.
Il
20
luglio
1944
il
fallito
attentato
a
Hitler,
la
sconfitta
dell’esercito
tedesco
a
Stalingrado
–
cominciò
la
fase
finale.
Durante
gli
ultimi
mesi
di
guerra
morirono
più
persone
e
i
bombardamenti
distrussero
più
città
che
negli
anni
precedenti.
Nel
1942
il
padre
di
Hilde
aveva
acquistato
un
terreno
per
la
figlia
a
Brieselang,
un
villaggio
dietro
Finkenkrug
nello
Havelland.
Là
non
si
sentivano
gli
allarmi
antiaereo
che
a
Berlino
erano
all’ordine
del
giorno.
Hilde
Benjamin,
che
per
proteggere
Mischa
aveva
ripreso
a
chiamarsi
Hilde
Lange,
vi
montò
una
tenda
per
i
mesi
estivi.
Coltivavano
l’orto
e
insieme
alla
sorella
Ruth
e
al
suo
compagno
costruirono
un
capanno.
Là
Hilde
conservava
le
lettere
di
Georg,
le
poesie
di
Gertrud,
le
fotografie
e
gli
appunti
di
Edith
Fürst.
Hilde
era
per
Mischa
come
un
faro
che
gli
permetteva
di
orientarsi.
Molte
delle
sue
testimonianze
rivelano
una
profonda
gratitudine
verso
la
madre,
che
non
pensò
mai
di
arrendersi.
Quando
Hilde
Benjamin
negli
anni
Cinquanta
andò
a
Mauthausen
con
una
delegazione
ufficiale
della
DDR,
il
luogo
era
ancora
in
condizioni
simili
a
quelle
che
gli
americani
avevano
trovato
nel
1945,
al
momento
della
liberazione.
Avevano
seppellito
i
cadaveri
trovati
all’interno
del
Lager.
Le
camere
a
gas
erano
state
in
attività
fino
agli
ultimi
giorni
prima
della
liberazione.
Hilde
ebbe
quasi
l’impressione
che
tutto
fosse
successo
appena
il
giorno
prima.
Anche
se
ho
potuto
incontrare
Georg
solo
nelle
sue
lettere
e
nei
ricordi
di
Hilde
Benjamin,
provo
una
sensazione
di
vicinanza.
Come
dev’essersi
sentita
lei
durante
la
visita
compiuta
con
la
delegazione,
mentre
camminava
lungo
la
strada
all’interno
del
Lager?
Ricordava
il
suo
sguardo
amichevole,
la
fronte
alta,
il
naso
fine,
la
sua
umanità
piena
di
gioia
di
vivere,
il
suo
calore
–
la
sua
immagine,
vicinissima?
Forse
pensava
alla
lettera
del
suo
carissimo
amico
e
compagno
di
prigionia
nel
carcere
di
Brandeburgo,
che
Hilde
ricevette
verso
la
fine
del
1944.
Mandata
da
Ernst
Wüste,
il
quale
fu
liberato
nel
1945:
«Di
recente,
mentre
passeggiavo
di
nuovo
nel
grande
cortile
dopo
anni
e
vedevo
comparire
qua
e
là
un
viso
noto,
fui
colto
da
un
ricordo
doloroso
di
Georg.
Cosa
vede
il
mio
occhio
esteriore?
Muri
di
mattoni
rossi,
finestre
munite
di
inferriate,
un
pezzetto
d’orto
in
un
quadrato
racchiuso
da
una
striscia
di
prato
larga
un
metro,
e
il
luminoso
sentiero
bianco
con
le
lastre
di
pietra
calcarea,
tagliate
irregolarmente.
Come
se
nelle
cose
fosse
rimasto
racchiuso
un
pezzo
della
natura
viva
del
mio
buon
compagno:
ho
provato
una
sensazione
così
strana.
Ah,
Hilde,
quasi
mi
vergognavo
di
camminare
ancora
qui
attorno.
No,
Georg,
no,
la
traccia
dei
tuoi
giorni
sulla
terra
non
scomparirà
mai
e
io
prometto
di
fare
la
mia
parte
perché
nessuno
la
disperda.
Quanto
profondamente
deve
essersi
impressa
nel
cuore
della
tua
stirpe».
L’amicizia
dei
padri
diventerà
l’amicizia
dei
figli,
Werner
Wüste
e
Mischa
Benjamin.
Quando
Michael
Benjamin
improvvisamente
muore
dopo
un’operazione
all’ospedale
della
Charité,
il
7
agosto
2000,
è
il
figlio
di
Ernst
Wüste
che
durante
il
rito
funebre
lascia
percepire
in
ogni
sua
parola
la
perdita
dell’amico.
E
considera
anche
«le
madri,
che
si
sono
caricate
di
tutti
i
fardelli.
Che
furono
le
mediatrici
fra
i
padri
e
noi».
In
questo
ultimo
cammino
il
cimitero
è
pieno
di
persone
che
vogliono
porgere
il
loro
addio.
La
guerra
terminò
e
si
poterono
lasciare
i
rifugi
antiaerei,
dove
Walter
e
Adele
Lange
con
il
nipote
Michael
e
le
due
figlie
Ruth
e
Hilde
erano
sopravvissuti
alle
settimane
dei
bombardamenti
sopra
Berlino
e
alla
battaglia
casa
per
casa.
Era
il
22
aprile
1945,
e
un
pensiero
accompagnava
Hilde:
dare
infine
un
senso
alla
morte
di
Georg
e
con
tutte
le
proprie
forze
contribuire
alla
costruzione
dello
stato
antifascista
degli
operai
e
dei
contadini.
Capitolo
ottavo
Padre
e
figlio
Hilde
Benjamin
riceve
una
trentina
di
lettere
dalla
prigione
di
Brandeburgo.
Contengono
anche
poesiole
bizzarre
e
divertenti
per
il
figlio
Mischa,
scritte
in
occasione
di
compleanni
o
feste.
In
ogni
riga
delle
lettere
traspare
il
tentativo
di
trasformare
la
distanza
dal
figlio
in
una
prossimità.
Ogni
parola
è
come
un’amorosa
carezza.
E
sempre
appare
lo
sforzo
fatto
in
prigione
da
Georg,
che
ha
compiuto
da
poco
i
quarant’anni,
per
affrontare
l’incubo
e
non
mostrare
debolezze.
Dev’essere
stato
molto
difficile
per
lui
non
poter
offrire
una
protezione
ai
suoi
cari.
Tutta
la
responsabilità
ricade
su
Hilde
Benjamin.
Già
la
formula
«Cara
moglie»
in
alcune
delle
lettere
è
un
segnale
della
sua
intima
disperazione,
mascherata
attraverso
uno
stile
particolarmente
sobrio.
Anche
considerando
che
nelle
file
della
sinistra
era
presente
un
grande
numero
di
donne
politicamente
coscienti
del
proprio
valore,
da
Rosa
Luxemburg
a
Clara
Zetkin,
il
maschilismo
non
è
meno
evidente
che
all’interno
della
destra
borghese.
Nei
quaranta
anni
di
esistenza
della
DDR
ci
furono
due
donne
ministro:
Hilde
Benjamin
e
Margot
Honecker.
E
nonostante
tutte
le
leggi
progressiste
che
garantivano
la
parità
dei
diritti
colpisce
vedere
quante
poche
donne
abbiano
raggiunto
in
sostanza
posizioni
di
comando.
Il
dibattito
procede
ancora
oggi,
nella
Germania
riunificata
da
tempo,
e
terminerà
soltanto
quando
gli
ostacoli
psicologici,
culturali
ed
economici
saranno
infine
superati.
Nelle
sue
lettere
ed
esternazioni
Georg
mostra
di
non
rispondere
quasi
per
nulla
al
ruolo
maschile
della
sua
epoca.
Hilde
Benjamin
ha
sempre
evidenziato
la
sua
disponibilità
ad
ascoltare,
a
far
valere
gli
argomenti
e
a
guadagnare
nuovi
punti
di
vista.
È
grazie
a
lei
che
le
sue
lettere
si
sono
conservate.
Per
far
sì
che
Mischa,
non
appena
ebbe
imparato
a
leggere,
avesse
un’immagine
di
suo
padre
Hilde
trascrisse
interamente
in
stampatello
le
lettere
di
Georg,
che
adoperava
ancora
il
vecchio
corsivo
tedesco,
in
modo
che
il
figlio
riuscisse
a
leggerle.
Rivolgendo
indietro
lo
sguardo,
mentre
lavorava
alla
biografia
del
marito
che
pubblicò
in
forma
di
libro,
Hilde
trovava
parole
di
ammirazione
per
«il
suo
equilibrio
e
la
sua
calma
interiore,
a
cui
si
legava
il
coraggio
della
persona»,
come
rivelano
le
sue
lettere.
Era
«riservato
e
parco
nell’espressione
dei
suoi
sentimenti»,
e
pieno
di
«un
profondo
amore
e
di
una
tenerezza
schiva
nei
confronti
di
quelli
che
gli
erano
vicini».
Affermazioni
simili
sono
note
anche
da
parte
di
amici:
Georg
viene
descritto
come
un
uomo
onesto,
aperto,
equilibrato.
Malgrado
il
suo
talento
e
la
sua
grande
cultura
era
il
contrario
di
un
intellettuale
puro,
ed
era
invece
desideroso
di
trasformare
i
rapporti
sociali.
Sensibile,
attento
e
modesto,
offriva
il
suo
aiuto
dove
poteva,
cosa
che
gli
procurò
a
Wedding
il
nomignolo
di
«San
Giorgio».
Hilde
ricordava
che
un
recluso
poteva
scrivere
una
lettera
ogni
due
mesi:
quattro
pagine
di
normale
carta
da
lettere
a
righe,
con
un
terzo
della
prima
pagina
occupato
dal
«Regolamento»
che
disciplinava
la
corrispondenza,
a
cui
i
prigionieri
si
dovevano
attenere.
Dal
1942
fu
consentito
soltanto
un
foglio.
La
risposta
doveva
osservare
la
stessa
misura.
Poiché
non
aveva
le
copie
delle
proprie
lettere,
nella
sua
biografia
Hilde
non
poté
presentare
una
corrispondenza
completa.
Affidandosi
alla
memoria,
al
diario
e
ad
altri
appunti
sul
figlio
Mischa
riuscì
però
a
trovare
punti
di
contatto
con
quelle
di
Georg,
tanto
che
è
possibile
ricostruire
il
contenuto
delle
sue
lettere
e,
in
seguito,
di
quelle
scritte
da
Mischa.
Tutto
ciò
mostra
quanto
Hilde
e
Georg
Benjamin
si
sostenessero
a
vicenda
in
una
situazione
che
entrambi
giudicavano
totalmente
disperata,
e
accompagnata
tuttavia
dalla
speranza
che
cambiasse.
Le
lettere
di
Hilde
sono
per
Georg
l’unico
legame
con
la
vita
fuori
dalle
mura
del
carcere.
Perciò
descrivono
minuziosamente
ogni
fase,
ogni
parola,
ogni
sviluppo
di
Mischa.
«Le
visite
e
le
lettere
avevano
una
grande
importanza
per
Georg
Benjamin»
scrive
Hilde.
E
osserva
che
il
suo
rapporto
con
il
figlio
era
«indescrivibile
in
tutto
il
suo
amore
e
la
sua
tenerezza».
Quando
Georg
fu
arrestato
Mischa
aveva
tre
anni.
Era
molto
legato
a
lui
«perché
il
padre,
all’epoca
disoccupato,
assisteva
i
bambini
nell’istituto
della
compagna
Edith
Fürst,
e
lui
lo
vedeva
più
spesso
di
me».
Perciò
sentiva
molto
consapevolmente
la
mancanza
del
padre.
Quando
gli
spiegavo
che
era
partito,
lui
rispondeva:
«Ma
potrebbe
anche
telefonare,
vorrei
sentirlo
ridere».
La
stessa
nostalgia
provava
il
padre.
A
ogni
visita
Hilde
doveva
portare
con
sé
una
fotografia.
Parlavano
costantemente
di
Mischa,
anche
della
sua
educazione.
In
una
delle
sue
prime
lettere
dal
carcere
Georg
parla
della
«prepotenza»
di
Mischa
all’asilo,
e
di
come
affrontarla.
Il
pensiero
corre
sempre
al
piccolo
Mischa,
che
non
ha
ancora
quattro
anni,
e
gli
fa
formulare
diagnosi
a
distanza.
Nulla
era
altrettanto
importante.
E
si
vede
anche
quanto
Georg
sapesse
immedesimarsi
nella
mentalità
infantile.
Mentre
leggo
la
lettera
mi
viene
da
pensare
subito
a
mio
figlio
e
a
un
bambino
un
po’
irruente
che
l’aveva
spaventato.
Nel
campo
giochi,
fra
le
buche
di
sabbia,
era
scoppiato
più
di
un
litigio.
E,
quanto
a
Mischa,
sua
madre
aveva
fatto
capire
più
o
meno
chiaramente
che
era
uno
dei
più
irruenti.
Georg
riprese
un
accenno
che
Hilde
deve
aver
fatto
in
una
lettera
e
consigliò
di
parlare
sempre
con
i
bambini,
quando
si
arrivava
alle
botte
e
alle
zuffe.
Anche
se
non
escludeva
che
le
«botte»,
e
lo
prova
il
modo
in
cui
le
bambine
trattano
le
loro
bambole,
possano
essere
un
istinto
primario.
E
in
un’epoca
in
cui
sia
a
casa
che
a
scuola
la
bacchetta
e
gli
sculaccioni
erano
del
tutto
normali,
Georg
era
convinto
che
bisognasse
combattere
la
stupidità
di
usare
la
violenza
fisica
come
una
misura
pedagogica
o
anche
spinti
dall’ira,
soprattutto
verso
bambini
tanto
piccoli.
Quando
inizia
a
scontare
la
sua
pena
nel
carcere
di
Brandeburgo,
Georg
Benjamin
esprime
a
Hilde
due
desideri,
il
cui
esaudimento
spera
possa
alleviare
la
sua
situazione:
portare
sempre
una
foto
di
Mischa
durante
le
visite,
e
tenere
un
diario.
Modello
per
questo
erano
le
lettere
di
Hilde
all’amica
Dora,
sorella
di
Georg,
emigrata
come
Walter
dalla
Germania
nel
1933
e
che
lei
aggiorna
regolarmente
sulla
loro
vita
a
Berlino
e
sul
destino
del
fratello.
Hilde
annota
coscienziosamente
tutto,
come
desiderava
Georg,
e
glielo
trasmette.
In
questo
modo
lui
può
seguirlo
crescere
in
tutto
e
per
tutto.
In
occasione
del
suo
quarto
compleanno,
nel
dicembre
1936,
Georg
compone
versi
vivaci
per
un
libro
illustrato:
«Andiamo
allo
zoo».
Descrive
quasi
solo
animali
che
il
bambino
possiede
come
statuine
di
legno.
Qui
guarda,
oh
meraviglia:
saltellanolescimmiette,
unatifaunasmorfia,
un’altra
allunga
il
braccio:
vuolelozuccherino.
Edeccolelaggiù
edeccolelassù,
volteggianoscatenate
esempreallegreeliete
sonlescimmietteallozoo.
Già
all’epoca
della
detenzione
protettiva
Georg
scrisse
versi
per
un
libro
illustrato
sugli
animali
e
la
vita
nella
foresta.
Hilde
aveva
il
compito
di
ritagliare
le
figurine
che
si
trovavano
nei
pacchetti
di
sigarette
o
disegnare
lei
stessa
le
immagini,
ricopiare
in
bella
il
testo
e
rilegarlo.
I
libri,
così
fatti,
purtroppo
non
si
sono
conservati.
Per
Pentecoste
Mischa
vuole
mandare
al
padre
una
cartolina
fatta
da
lui,
sulla
quale
si
vedono
dei
fiori
che
Hilde
ha
disegnato
secondo
le
sue
istruzioni
e
che
lui
poi
ha
colorato.
E
dice:
«Forse
anche
Georg
mi
manda
i
fiori
del
suo
giardino!
Cioè
dell’ospedale
dove
lavora».
Solo
a
poco
a
poco
Hilde
si
ricorda
che
alla
domanda
di
Mischa,
tre
settimane
prima,
aveva
risposto
che
Georg
lavorava
in
un
grande
ospedale,
dove
c’erano
molti
malati.
Poiché
in
seguito
non
vi
accennò
più,
Hilde
chiese
notizie
a
Edith
Fürst,
la
quale
ricorda
di
avergli
sentito
raccontare
la
stessa
cosa.
Continuamente
si
chiede
quando
potrà
dire
a
Mischa
la
verità.
Per
il
momento
non
riesce
a
prendere
una
decisione
chiara.
Quindi
non
resta
che
raccontare
nella
sua
cella
a
Georg,
nella
maniera
più
colorita
possibile,
quel
che
Mischa
dice,
pensa,
come
cresce,
e
mantenere
viva
la
speranza
che
un
giorno
ci
sarà
una
via
d’uscita.
Georg
siede
dunque
dietro
le
spesse
mura
del
carcere
di
Brandeburgo
e
maschera
il
proprio
isolamento
con
le
sue
fantasiose
favole,
che
condivide
con
Mischa.
Le
sue
lettere
sono
inoltre
l’unico
mezzo
di
cui
dispone
per
aiutare
la
moglie
e
il
figlio
a
resistere
là
fuori.
Devono
far
vedere
che
anche
lui
è
forte
abbastanza
da
superare
questa
prova
inumana.
Ciò
conduce
all’intero
strumentario
di
storie
eccitanti,
poesiole
per
libri
illustrati,
rime
sugli
animali
e
presto
anche
indovinelli,
e
quando
Hilde
gli
insegna
a
giocare
a
scacchi
si
aggiungono
i
relativi
quesiti.
Questi
sono
i
regali
per
il
figlio,
di
cui
dispone
in
abbondanza.
Mischa
–
e
Hilde
lo
racconta
non
senza
orgoglio
–
è
un
ometto
intelligente
che
molto
presto,
a
cinque
anni,
sa
già
leggere.
Cosa
a
cui
allude
questa
lettera
del
febbraio
1939:
Mio
caro
Maestro
Mischa!
Presto
potrò
scrivere
«caro
scolaro»
e
presto
tu
potrai
scrivermi
con
l’inchiostro.
Il
tuo
disegno
per
Natale
mi
ha
fatto
molto
felice.
Quello
che
non
mi
piace
è
però
che
a
volte
continui
a
buttarti
a
terra;
i
bambini
così
grandi
in
genere
non
lo
fanno.
Allora
neanche
a
te
succederà
più?
–
Ci
vai
mai
su
e
giù
per
il
mondo?
Prova
ad
andare
una
volta
da
Amburgo
a
Shanghai,
in
Cina;
prima
per
nave:
attraverso
quali
mari?
e
poi
con
il
treno:
attraverso
quali
paesi?
E
come
si
potrebbe
viaggiare
più
in
fretta?
E
per
finire
un
indovinello:
L’uccello ce l’ha e pure il
cappello
in mano per scrivere la
prendi...
Fraituoigiocattolicerca
lacodadiunafreccia.
Salutoniebacioni
TUO
GEORG
Stimolato
evidentemente
da
questa
lettera
nasce
un
gioco
di
viaggio,
chiamato
«Visita
a
Georg».
Mischa
vi
recita
una
doppia
parte:
la
propria
e
quella
di
Georg.
Il
figlio
va
in
nave
a
trovare
suo
padre.
Per
Natale
e
per
il
compleanno,
il
27
dicembre
1938,
aveva
ricevuto
un
mappamondo
e
un
libro
intitolato
«Thomas
scrive
dal
Messico».
Tutto
questo
è
scritto
nel
diario
per
non
dimenticare
nemmeno
un
minuto
insieme
a
Mischa,
perché
Georg
possa
essere
vicino
al
figlio
e
viceversa.
Hilde,
che
nel
gioco
degli
indiani
è
l’«amico
bianco»,
in
questo
viaggio
avrà
rischiato
più
volte
di
perdere
la
calma.
Chi
può
resistere
a
una
cosa
del
genere,
senza
commuoversi
per
la
nostalgia
del
proprio
figlio?
Come
riesce
Hilde,
nel
gioco,
a
tenere
sotto
controllo
la
sua
stessa
nostalgia?
Come
si
vive
quando
svanisce
la
speranza
di
uscire
dal
tunnel?
Resistere,
quindi,
andare
avanti.
Leggere
le
lettere
di
Georg
e
sentirvi
l’eco
dell’ultima
visita,
come
in
questa:
«E
poi
le
foto
che
adesso
ho
guardato
con
calma.
Sono
davvero
bellissime».
Segue
un
complimento
alla
fotografa:
«Trovo
che
quella
in
cui
è
seduto
sulla
sabbia
non
sia
da
meno
delle
altre:
così
nitida
–
decisamente
più
nitida
delle
altre,
probabilmente
la
distanza
e
la
luce
erano
regolate
molto
bene
–
e
soprattutto
espressiva.
[...]
Avrei
ancora
un
desiderio:
che
naturalmente
tu
non
parlassi
solo
del
bambino,
ma
anche
di
te».
Alla
fine
della
lettera,
scritta
nell’autunno
1936,
Georg
ritorna
sull’osservazione
di
Hilde,
cioè
sulla
grande
timidezza
di
Mischa,
e
ricorda
di
essere
stato
anche
lui
«molto
timido,
fino
in
età
scolastica».
Poi
affronta
nuovamente
la
questione
se
sia
giusto
ricordare
a
Mischa
il
padre
attraverso
i
suoi
regali
e
le
lettere.
«Ho
già
scritto
la
volta
scorsa
che
con
il
tempo,
inevitabilmente,
il
suo
ricordo
di
me
in
parte
sbiadirà,
in
parte
prenderà
un
carattere
“leggendario”,
non
meno
irreale,
il
che
intanto
sarebbe
una
buona
cosa».
Fino
a
quando
Mischa
inizia
la
scuola
Georg
scambia
una
dozzina
abbondante
di
lettere
con
il
bambino,
che
con
stupore
del
padre
sapeva
scrivere
e
descrivere
in
maniera
sempre
più
efficace.
Georg
è
«sbalordito»
dalla
rapidità
con
cui
Mischa
impara,
e
continua
a
manifestare
la
sua
meraviglia
per
l’esattezza
e
l’ottimo
livello
di
espressione.
Il
24
aprile
1939
Hilde
Benjamin
scrive
nel
suo
diario:
«Si
è
svegliato
raggiante:
oggi
ho
sognato
che
Georg
ritornava.
Non
era
per
niente
cambiato».
Poi
annota:
«Quando
sento
la
parola
“arresto”,
non
posso
fare
a
meno
di
pensare
a
Georg».
E
nel
diario
dell’agosto
1939
si
trova
questa
annotazione:
«Una
volta
ho
detto
che
nei
nostri
cuori
noi
due
sapevamo
di
essere
uniti,
e
lui
ha
corretto:
“Noi
tre!”».
Di
lettera
in
lettera
e
di
anno
in
anno
il
dialogo
scritto
diventa
più
ricco.
Questo
vale
non
solo
per
la
coppia.
Quanto
più
Mischa
diventa
capace
di
capire,
tanto
più
Georg
gli
è
grato
per
ogni
cosa
che
dice.
Ma
si
avvicina
anche
il
momento
in
cui
sarà
possibile
svelare
al
figlio
l’autentica
situazione
del
padre.
Lo
si
deduce
da
una
lettera
del
marzo
1940,
in
cui
Georg
si
mostra
felice
per
l’«autonomia»
del
bambino:
«E
lo
lasci
già
viaggiare
da
solo
sul
tram».
Critiche
sulla
sua
educazione
e
sulla
vita
di
Hilde
non
gli
vengono
in
mente,
«perché
finora
hai
superato
benissimo
tutte
le
grandi
e
piccole
difficoltà».
Orgoglio
anche
per
Mischa:
«Scrive
quasi
senza
errori
e
in
uno
stile
perfetto
e,
per
quanto
riguarda
il
contenuto
[...],
sempre
più
ricco».
E
poi
il
consiglio
medico:
«Cambio
dei
denti:
aspettare
la
terapia.
I
primi
molari
permanenti
ci
sono
già;
arrivano
prima
del
cambio
dei
denti,
come
sesti
in
ogni
emimandibola».
E
infine
il
cenno
pensoso:
«Su
come
far
comprendere
al
bambino
la
mia
situazione
vorrei
farti
una
proposta
alla
tua
prossima
visita».
E
il
papà
orgoglioso,
nell’eventualità
che
la
scuola
non
offra
abbastanza
stimoli:
«Altrimenti
in
materie
in
cui
non
saresti
d’intralcio
–
per
esempio
scienze
naturali,
geografia
o
scacchi
–
potresti
dargli
tu
un’ora
di
lezione.
È
nell’età
in
cui
si
impara
più
in
fretta».
La
lettera
termina
con
alcune
righe
per
Mischa:
Mio
caro
appassionato
delle
racchette
da
neve!
A
Berlino
non
si
sono
visti
quasi
mai
tanto
ghiaccio
e
neve
come
quest’anno.
E
tu
hai
potuto
imparare
bene
ad
andare
con
le
racchette
e
i
pattini!
Presto
arriverà
la
pagella;
scrivimi
i
tuoi
voti.
Andate
a
scuola
adesso
o
è
ancora
chiusa
per
il
freddo?
E
presto
potrai
andare
di
nuovo
a
nuotare
e
farti
promuovere
anche
dal
maestro
di
nuoto?
Io
ce
l’ho
fatta
solo
a
dieci
o
a
undici
anni!
–
Penso
di
avere
trovato
la
risposta
giusta
al
tuo
indovinello:
le
onde.
Eccone
uno
nuovo
per
te:
Quale giocattolo gira e si
avvolge,
viene dall’albero ma non ha
foglie
eanchelamammalousa?
E
poi
una
«frase
magica»:
leggila
prima
dall’inizio:
Itopinonavevanonipoti.
E
poi
leggila
all’incontrario
e
scrivi
cosa
viene
fuori.
TUO
GEORG
«Nel
frattempo
è
scoppiata
la
guerra»
scrive
Hilde
nel
suo
diario:
«Nei
primi
giorni
lui
era
molto
impressionato,
agitato
e
nervoso.
Specialmente
perché
al
primo
allarme
io
non
ero
a
casa.
Si
è
calmato
dopo
qualche
giorno.
Questa
è
stata
la
sua
spontanea
affermazione:
sono
così
contento
che
Georg
non
è
qui.
Segue
l’avanzata
delle
truppe
e
punta
bandierine.
Durante
l’allarme
notturno
è
stato
molto
ragionevole,
si
è
vestito
da
solo
e
continuava
a
dire
che
non
aveva
paura.
A
scuola
hanno
modellato
aeroplanini
con
l’argilla.
Il
suo
a
quanto
pare
era
il
migliore
e
gli
è
stato
permesso
di
mostrarlo
a
tutti
gli
altri
bambini.
A
casa
ne
ha
fatto
poi
un
altro
e
io
sono
rimasta
sorpresa
dalle
sue
doti
di
osservazione.
Nell’autunno
1941,
quando
gli
allarmi
si
sono
intensificati,
è
comparsa
una
serie
di
disturbi
nervosi
–
nessuna
paura
–
che
abbiamo
superato
andando
a
letto
presto,
con
un
sonnellino
al
pomeriggio
e
giornate
il
più
regolate
possibile».
Il
consiglio
che
Georg
diede
a
sua
moglie
durante
la
successiva
visita
si
può
dedurre
dall’ultima
lettera
inviata
a
Hilde
e
Mischa
da
Brandeburgo.
Entrambi
avevano
discusso
a
voce
la
questione
e
si
erano
poi
intesi
sui
tempi
e
il
modo:
nel
dicembre
1941
Hilde
racconta
al
bambino
«la
verità
sul
destino
di
suo
padre».
E
Georg
scrive
a
Mischa:
«Sono
molto
contento
che
Hilde
abbia
potuto
raccontarti
tutto
su
di
me,
perché
ormai
sei
abbastanza
grande
e
giudizioso
per
capire
molte
cose
che
prima
non
ti
si
potevano
dire.
Naturalmente
sono
sempre
felice
di
ricevere
le
tue
lettere».
Riflessioni
su
Georg.
La
sua
sensibilità
pedagogica
e
liberale,
le
sue
affettuose
lettere
al
figlio.
Le
sue
rime,
i
suoi
indovinelli
e
i
problemi
scacchistici
–
tutto
ciò
dice
molto
sulla
sua
generosità,
la
sua
attitudine
a
riflettere
e
il
suo
atteggiamento
antidogmatico.
Gli
amici
sottolineano
sempre
la
sua
pazienza
e
tolleranza.
L’essersi
dedicato
anima
e
corpo
al
suo
lavoro
di
medico
scolastico,
il
dolore
provato
di
fronte
all’ingiustizia
e
alla
discriminazione
sociale;
tutto
ciò
fondava
le
sue
posizioni
di
sinistra.
Ogni
riga
mostra
la
sua
intelligenza,
che
Hilde
apprezzava
tanto
quanto
la
sua
mente
aperta
all’emotività
e
il
suo
amore
per
il
prossimo.
E
nonostante
abbia
sofferto
nelle
prigioni
della
Germania
nazista
ogni
bassezza
di
cui
sono
capaci,
o
a
cui
vengono
condotti,
gli
esseri
umani
fuorviati.
Hilde
Benjamin
riceve
posta
da
Mauthausen
e
il
certificato
di
morte
di
Georg.
Contiene
la
notizia,
registrata
presso
l’anagrafe
II
numero
5348
/
1942:
«Il
medico
Israel
Georg
Benjamin
–
senza
fede
(in
precedenza
mosaica)
–
residente
a
Berlino
–
Pankow
–
Binzstraße
50
–
è
morto
il
26
agosto
1942
alle
ore
1:30
a
Mauthausen.
Il
defunto
era
nato
il
30
settembre
1895
a
Berlino.
Padre:
Emil
Benjamin,
defunto.
Madre:
Pauline,
nata
Schönflies,
defunta.
Il
defunto
era
sposato
con
Hilde,
nata
Lange,
residente
a
Berlino
–
Steglitz,
Dünterstraße
7
–
Mauthauen,
23
novembre
1942».
Hilde
annota
la
reazione
di
Mischa
a
questa
notizia.
Pianissimo,
quasi
in
un
soffio,
percepisce
le
sue
parole:
«Me
lo
sono
sempre
aspettato».
Hilde
avrà
ripensato
anche
a
quel
momento,
durante
il
suo
viaggio
a
Mauthausen
dopo
la
guerra
e
mentre
camminava
lungo
la
strada
all’interno
del
Lager.
Avrà
avuto
davanti
agli
occhi
il
marito
che
aveva
abbracciato
alla
stazione
della
S-Bahn
di
Wuhlheide,
il
10
agosto
1942,
due
settimane
prima
che
venisse
ucciso.
Senza
immaginare
che
sarebbe
stato
il
sempre
temuto
ultimo
abbraccio.
Senza
sapere
che
nel
gennaio
di
quell’anno,
il
1942,
in
una
villa
al
Wannsee
alcuni
alti
funzionari
del
Ministero
degli
Interni,
della
Giustizia
e
dell’Ufficio
centrale
per
la
Sicurezza
del
Reich
stabilivano
il
piano
di
sterminio
autorizzato
dallo
stato,
la
«soluzione
finale
della
questione
ebraica».
Nel
suo
ultimo
biglietto
Georg
Benjamin
aveva
parlato
di
un
pogrom
nel
Lager
esterno
di
Wuhlheide,
contro
i
compagni
di
prigionia
ebrei:
«Sono
state
scene
terribili».
A
lui
era
successo
relativamente
poco.
E
aveva
la
speranza
di
poter
rimanere
ancora
un
po’
perché
venerdì,
il
giorno
del
trasporto,
non
era
stato
trasferito.
Faceva
conto
di
rimanere
ancora.
C’era
un
ennesimo
nuovo
addetto.
Aveva
già
parlato
a
lungo
con
lui.
Nel
suo
diario
Hilde
Benjamin
annotò
il
contenuto
del
biglietto
che
lui
le
aveva
dato
di
nascosto
nei
rapidi
istanti
del
loro
incontro
lungo
il
binario,
e
che
sarebbe
stato
anche
l’ultimo,
descritto
come
un
pezzo
di
carta
strappato
da
un
taccuino,
mentre
altri
erano
scarabocchiati
su
moduli
con
la
scritta
«Storia
clinica».
Mesi
dopo
la
raggiunse
la
notizia
della
fine.
Era
sopravvissuto
a
Mauthausen
appena
pochi
giorni,
prima
di
finire
braccato
nella
morte,
riducendosi
a
un
puro
nome
nello
schedario
della
direzione
del
Lager.
Quanto
dev’essere
stata
difficile
per
lei
la
visita
a
Mauthausen,
pochi
anni
dopo
la
liberazione
del
KZ
da
parte
dell’esercito
americano.
Eccola
nel
campo
di
sterminio,
mentre
ricorda
forse
l’ultimo
incontro
con
lui.
Si
erano
già
salutati
e
Hilde
ritornò
alla
stazione
della
S-Bahn;
da
lì
era
ben
visibile
la
sua
postazione
di
lavoro,
proprio
di
fronte:
«Poi
mi
sedetti
lungo
il
binario
e
lui
mi
mostrò
le
sue
arti.
Saltò
dal
vagone
in
movimento
e
azionò
lo
scambio.
(In
seguito
pensai:
se
solo
fosse
caduto,
forse
questo
gli
avrebbe
salvato
la
vita).
Manovrava
avanti
e
indietro
una
piccola
locomotiva
elettrica.
Ora
faceva
un
cenno
con
la
mano
dall’alto
della
locomotiva,
ora
passava
da
un
vagone
all’altro,
sempre
più
lontano
da
me.
Sul
terrapieno
della
ferrovia,
in
mezzo
ai
boschi,
era
sospesa
la
foschia
del
mezzogiorno
che
annunciava
un
temporale.
Lo
distinsi
a
stento
mentre
si
toglieva
il
berretto,
si
passava
la
mano
sui
capelli,
stringeva
le
mani
in
segno
di
ringraziamento.
Il
treno
scomparve
nella
foschia,
e
non
si
vide
più.
Io
mi
consolavo:
mercoledì.
Ma
il
mercoledì
aspettai
invano».
Capitolo
nono
Dietro
le
mura
Bautzen,
città
dell’Oberlausitz,
mille
anni
di
storia
nonché
centro
della
minoranza
slava
dei
Sorbi.
Ma
Bautzen
vuol
dire
anche
Gestapo,
KGB,
Stasi,
vuol
dire
muri
e
celle.
Il
nome
Bautzen
ha
due
significati:
l’uno
è
la
città,
l’altro
è
la
prigione,
costruita
in
origine
come
riformatorio.
Bautzen
e
la
prigione,
ovvero
vittime
e
carnefici.
Dentro
e
fuori,
il
carcere
viene
chiamato
lo
«squallore
giallo».
Così
detto
per
via
del
clinker
di
questo
colore
che
lo
ricopre
esternamente.
Ma
è
soprattutto
Bautzen
II,
un’ala
di
alta
sicurezza
situata
ai
margini
della
città,
a
far
rabbrividire
quando
si
parla
di
questo
luogo.
Oggi
Bautzen
II
è
un
memoriale,
ed
era
un
luogo
tristemente
noto
già
in
epoca
nazista.
Qui
fu
detenuto
il
segretario
del
KPD,
Ernst
Thälmann,
prima
di
essere
ammazzato
nel
campo
di
concentramento
di
Buchenwald.
La
sua
cella
si
è
conservata
e
all’epoca
della
DDR
doveva
ricordare
le
persecuzioni
attuate
dai
nazisti.
Fra
il
1945
e
il
1956
furono
registrati
a
Bautzen
circa
27.000
prigionieri,
soprattutto
ex
criminali
nazisti.
La
forza
occupante
sovietica
seguiva
le
risoluzioni
prese
a
Potsdam
dalle
potenze
vincitrici.
Nel
difficile
inverno
1946-47
la
fame
all’interno
corrispose
alla
miseria
del
dopoguerra
all’esterno.
Fino
alla
consegna
del
carcere
alla
DDR,
nel
1956,
vi
morirono
circa
3.000
prigionieri.
Nel
1950,
per
ordine
della
Commissione
di
controllo
sovietica
i
campi
di
internamento
di
Buchenwald,
Sachsenhausen
e
Bautzen
furono
chiusi
e
i
3.432
prigionieri,
insieme
ai
fascicoli
di
inchiesta
contro
di
loro,
furono
consegnati
alle
autorità
giudiziarie
della
DDR.
Le
corti
si
riunirono
nella
cittadina
di
Waldheim,
entrando
nella
storia
giudiziaria
della
DDR
come
«processi
di
Waldheim».
Furono
«procedimenti
lampo»,
quasi
del
tutto
privi
dei
formali
requisiti
giuridici.
Le
accuse
furono
trattate
in
tre
mesi
e
i
verdetti
emessi
a
intervalli
di
un’ora
l’uno
dall’altro.
Ciò
suscitò
violente
critiche
nei
media
occidentali,
soprattutto
nella
Repubblica
Federale
Tedesca.
Ci
furono
trentadue
condanne
a
morte,
ventiquattro
delle
quali
furono
eseguite.
Vennero
inflitti
inoltre
146
ergastoli
e
2.745
pene
detentive
superiori
ai
dieci
anni.
I
processi
di
Waldheim
sono
visti
ancora
oggi
come
la
prova
dell’arbitrarietà
della
giustizia
nella
DDR.
Tuttavia
non
ci
si
domanda
mai
quali
persone
sedessero
là
sul
banco
degli
imputati
e
se
si
trattasse
davvero
delle
vittime
innocenti
di
una
giustizia
arbitraria.
Si
tace
per
esempio
che
la
DDR,
dopo
la
revisione
dei
verdetti,
nel
1952
aveva
già
rilasciato
dal
carcere
mille
detenuti
e
che
nuovi
procedimenti
di
grazia
si
susseguivano
ogni
anno,
tanto
che
nel
1956
vi
erano
detenuti
solo
trentacinque
alti
gerarchi
nazisti.
Gli
ultimi
due
furono
rilasciati
nel
1964.
Allo
stesso
modo,
quasi
nessuno
si
dà
pena
di
leggere
le
trecentocinquanta
pagine
della
richiesta
di
rinvio
a
giudizio:
i
condannati
a
morte
erano
in
maggioranza
giuristi
nazisti
che
in
passato
erano
stati
attivi
presso
il
Volksgerichtshof,
in
tribunali
di
guerra
o
speciali.
Tutti,
senza
eccezione,
avevano
emesso
dubbie
condanne
a
morte,
alcune
contro
individui
singoli,
alcune
contro
dozzine
o
centinaia
di
persone.
Lo
stesso
vale
per
gli
esponenti
delle
SS
e
della
Gestapo,
seduti
sul
banco
degli
imputati
durante
i
processi
di
Waldheim.
Le
modalità
di
deduzione
delle
prove,
giudicate
carenti,
seguivano
il
diritto
speciale
degli
alleati,
in
vigore
anche
nelle
zone
occidentali.
La
storia
di
Bautzen
al
tempo
della
DDR
comincia
con
i
prigionieri
speciali
che
dall’agosto
1956
furono
trasferiti
nel
carcere
speciale
Bautzen
II
del
Ministero
per
la
Sicurezza
di
Stato.
Il
detenuto
e
scrittore
Erich
Loest
definì
la
prigione
il
«kombinat
della
giustizia»
della
DDR.
La
sua
descrizione
della
prigionia
a
Bautzen
II
è
estremamente
sobria.
Ma
in
ogni
riga,
in
ogni
parola
risuona
la
ferita
che
gli
era
stata
inferta
con
la
condanna
a
sette
anni
e
mezzo
di
detenzione
in
quanto
«controrivoluzionario».
A
Bautzen
incontrò
Walter
Janka,
direttore
della
casa
editrice
Aufbau,
e
Wolfgang
Harich,
suo
vicedirettore,
e
inoltre
Gustav
Just,
caporedattore
del
settimanale
«Sonntag»,
appartenente
alla
casa
editrice:
nel
1957,
accusati
di
«cospirazione
controrivoluzionaria»,
erano
stati
condannati
come
«gruppo
Marich»
a
cinque
anni
di
reclusione.
Erich
Loest:
«Siamo
sempre
stati
convinti
che
si
trattasse
di
un
pubblico
errore».
E
in
un’intervista
alla
radio
aggiunse:
«Mio
Dio,
volevamo
qualche
miglioramento,
volevamo
un
socialismo
migliore
e
perciò
questi
idioti
ci
hanno
rinchiusi.
Nei
primi
tempi
la
cosa
bruciava
parecchio,
io
avevo
fatto
più
di
un
anno
di
carcerazione
preventiva
e
me
ne
aspettavo
tre».
Sulla
base
delle
loro
discussioni
Harich
aveva
messo
per
iscritto
la
«piattaforma
per
la
speciale
via
tedesca
verso
il
socialismo»,
provocando
l’accusa
di
controrivoluzione.
Loest
e
Walter
Janka
facevano
parte
di
quelli
che,
in
quanto
comunisti,
erano
già
stati
rinchiusi
a
Bautzen
dai
nazisti,
prima
che
Loest
finisse
nel
Lager
di
Sachsenhausen.
Ormai
è
possibile
dar
vita
anche
a
un’altra
immagine.
La
città
cerca
di
staccarsi
sempre
più
dall’immagine
fatta
di
mura
e
prigione,
di
infamia
e
perversità
umana.
Qui
non
si
tratta
di
allontanarsi
dalla
storia
della
città,
quanto
di
elaborarla.
Oggi
la
prigione
della
Stasi
di
Bautzen
II
è
un
memoriale
dell’epoca
successiva
al
1945,
inaugurato
alla
metà
degli
anni
Novanta.
Anche
la
storia
prima
del
1945
deve
diventare
parte
del
memoriale,
ma
il
tempo
per
questo
non
è
ancora
venuto.
Bautzen,
che
in
sorbo
si
chiama
Budyšin,
si
apre
adesso
a
una
nuova
vita.
Invita
a
trascorrervi
del
tempo.
Segnano
il
suo
profilo
la
città
vecchia,
appena
ristrutturata,
le
testimonianze
della
sua
origine
barocca
e
Biedermeier,
così
come
le
torri
che
sovrastano
la
città
fin
dal
Medioevo.
Bautzen
ha
molti
musei,
fra
cui
uno
dedicato
alla
storia
della
famosa
senape
di
Bautzen.
Anche
i
Sorbi
hanno
un
loro
museo.
Durante
il
nazismo
furono
vessati
e
discriminati,
in
quanto
minoranza
slava.
Tutto
questo
ormai
è
passato.
Oggi,
quanto
meno,
ogni
cartello
stradale
è
in
due
lingue.
E
con
il
Teatro
popolare
tedesco-sorbo
la
città
sulla
Sprea
possiede
l’unico
teatro
bilingue
della
Germania.
Ero
stato
invitato
in
occasione
del
ventiduesimo
BautzenForum
della
Fondazione
Friedrich
Ebert,
che
nel
maggio
2011
era
dedicato
alla
costruzione
del
muro
e
alla
separazione,
marcata
dal
cemento,
dei
due
stati
tedeschi.
Vi
incontrai
anche
alcuni
ex
prigionieri.
Fin
dall’apertura
della
conferenza
si
poté
avvertire
quanto
fossero
ancora
vive
le
loro
dolorose
esperienze.
Bautzen
potrebbe
essere
un
luogo
della
memoria
nazionale.
La
sua
storia
è
costituita
in
misura
rilevante
dalla
catastrofe
seguita
al
1933,
ed
è
insieme
parte
di
un
capitolo
oscuro
nella
storia
della
DDR.
Non
c’erano
e
non
ci
sono
scusanti
per
Bautzen,
né
per
il
periodo
precedente
né
per
quello
seguente
il
1945.
Dopo
la
capitolazione
Bautzen
divenne
il
«Lager
speciale
4»
dell’NKVD
(Narodnyj
komissariat
vnutrennich
del,
Commissariato
del
popolo
per
gli
affari
interni),
cioè
la
polizia
segreta
sovietica.
La
guerra
scatenata
dai
nazisti
aveva
portato
all’Unione
Sovietica
una
violenza
inimmaginabile;
la
Wehrmacht
e
le
truppe
speciali
naziste
misero
a
ferro
e
a
fuoco
il
paese,
innumerevoli
città
e
villaggi
furono
rasi
al
suolo,
le
vittime
delle
unità
speciali
tedesche
sotterrate
in
fosse
comuni.
L’Armata
Rossa
lamentava
la
perdita
di
milioni
di
soldati.
Solo
in
Unione
Sovietica
i
morti
furono
trenta
milioni.
Il
tribunale
militare
nella
zona
di
occupazione
sovietica
condannò
in
massa
alla
reclusione
nei
campi
di
lavoro
nelle
distese
siberiane
gli
ex
funzionari
nazisti
e
quanti
venivano
giudicati
tali.
Si
trovarono
là
quasi
in
funzione
di
rappresentanza
per
la
valanga
di
miseria
e
colpa
che
gli
ideologi
della
razza
avevano
lasciato
dietro
di
sé.
La
Russia
aveva
bisogno
di
forza
lavoro.
Nel
1951
la
prigione
di
Bautzen
fu
restituita
alla
DDR,
e
nel
1956
Bautzen
II
fu
sottoposta
alla
Stasi.
Questa
controllava
le
opinioni
nel
paese,
cosa
che
contribuì
allo
stravolgimento
della
DDR
e
finì
poi
per
distruggerla.
Dal
canto
suo
la
Stasi
vedeva
invece
la
propria
azione
come
un’autodifesa
contro
l’attività
di
spionaggio
dell’Occidente,
intesa
a
minare
la
DDR.
Chi
in
queste
zone
grigie
ai
margini
della
legalità
veniva
smascherato
come
agente
o
spia
finiva
ugualmente
a
Bautzen.
In
effetti
il
controspionaggio
non
fu
mai
l’unico
compito
della
Stasi.
Nella
realtà
la
«ditta»
del
compagno
Erich
Mielke
destabilizzò
soprattutto
il
proprio
stato,
del
quale
avrebbe
voluto
essere
«lo
scudo
e
la
spada».
Al
Bautzen-Forum
della
Fondazione
Friedrich
Ebert,
arrivato
nel
frattempo
alla
sua
ventiduesima
edizione,
si
susseguono
i
racconti.
Per
molti
non
è
facile
vedere
le
proprie
sofferenze,
causate
dalla
DDR,
come
parte
di
una
storia
comune
e
di
una
comune
narrazione
tedesca,
ed
è
certo
comprensibile
che
gli
ex
prigionieri
di
Bautzen
ricordino
innanzitutto
cosa
poteva
succedere
in
uno
stato
socialista
di
lavoratori
e
contadini
quando
si
voleva
fare
uso
della
«libertà
d’opinione
garantita».
È
nuovamente
fallito
al
Forum
2011
il
tentativo
di
creare
un
collegamento
fra
la
storia
precedente
il
1945
e
le
esperienze
individuali
all’epoca
della
divisione
delle
due
Germanie,
poiché
queste
ultime
–
inclusa
la
divisione
stessa
–
derivavano
da
ciò
che
le
aveva
precedute.
La
chiusura
suggellata
dal
muro
il
13
agosto
1961
viene
discussa
al
Forum
e
si
cerca
una
risposta
alla
domanda
perché
la
DDR
abbia
in
definitiva
fallito,
sebbene
la
via
di
fuga
verso
Occidente
fosse
stata
in
quel
modo
bloccata.
Abbattere
il
muro
da
Occidente
non
sarebbe
stato
possibile.
Su
questo
tutti
concordano:
avrebbe
condotto
a
una
nuova
guerra.
E
divenne
così
una
guerra
fredda.
Vi
ebbe
la
sua
parte
l’esortazione
a
«votare
con
i
piedi»,
che
fino
al
13
agosto
1961
si
poteva
leggere
quotidianamente
nella
stampa
della
Repubblica
Federale.
Ciò
a
sua
volta
fu
significativamente
un
esito
delle
massicce
ingerenze
nel
diritto
di
autodeterminazione
dei
cittadini
nella
DDR.
L’inesorabile
trasformazione
delle
imprese
familiari
contadine
in
cooperative
agricole
condusse
a
esodi
massicci
–
e
di
conseguenza
a
grandi
problemi
negli
approvvigionamenti.
Il
crescente
flusso
di
profughi
da
Est
a
Ovest
e
lo
spopolamento
della
DDR
indussero
Berlino
Est
e
Mosca
a
chiudere
i
cancelli.
Una
precoce
fine
della
DDR
era
così
temporaneamente
sventata.
Il
muro
concluse
l’esodo
della
popolazione
nel
secondo
stato
della
nazione
tedesca.
Gettò
Bonn
e
i
vertici
del
Senato
di
Berlino
Ovest
in
una
crisi
esistenzialpolitica,
spingendo
molti
a
Oriente
e
a
Occidente
in
un
profondo
scoramento.
Con
il
muro
la
situazione
di
Berlino
Ovest
era
diventata
ancora
più
difficile.
Questo
e,
in
seguito,
la
temporanea
e
vessatoria
chiusura
delle
vie
di
transito
furono
tuttavia
negli
anni
successivi
lo
spunto
per
riaffrontare
politicamente
il
problema
su
come
il
peso
della
divisione
potesse
essere
alleggerito
per
la
gente.
Era
di
questo
che
si
occupava
il
Forum
2011.
In
Occidente
il
motto
di
Egon
Bahr,
«avvicinarsi
per
cambiare»,
segnò
un
cambiamento
nel
modo
di
pensare.
Si
arriva
così
più
o
meno
all’anno
in
cui
i
bicchieri
tintinnavano
nell’ufficio
di
Hilde
Benjamin,
mentre
i
suoi
collaboratori
brindavano.
Le
stazioni
della
sua
vita,
raccolte
in
trenta
capitoli
e
consegnate
nella
scatola
ornata,
riportano
all’inizio,
quando
i
primi
carrarmati
dell’Armata
Rossa
avanzavano
attraverso
la
capitale
tedesca
devastata
e
Hilde
e
Michael
poterono
lasciare
finalmente
il
rifugio
antiaereo.
Quattro
giorni
dopo
la
resa
incondizionata
dello
stato
hitleriano
finiscono
per
lei
dodici
anni
di
paura
e
isolamento
e
il
divieto
di
esercitare
la
propria
professione.
Non
nella
raccolta
ufficiale,
ma
nel
diario
di
Hilde
Benjamin
leggo:
«Il
12
maggio
1945
–
un
sabato
–
vengo
portata
in
tutta
fretta
al
municipio.
Il
comandante
voleva
parlarmi.
Mi
veniva
chiesto
di
organizzare
il
tribunale
per
il
quartiere
di
Steglitz,
entro
lunedì
mattina
bisognava
aver
risolto
la
questione
degli
spazi
e
aver
trovato
anche
i
giudici».
Dovevano
essere
giudici
con
una
formazione
regolare.
Non
però
ex
membri
del
partito
o
appartenenti
a
un’organizzazione
nazista.
Fin
quando
americani,
britannici
e
francesi
non
entrarono
nella
città
che
sarebbe
stata
divisa
in
quattro
settori,
l’Armata
Rossa
ebbe
per
breve
tempo
la
sovranità
amministrativa
su
tutta
Berlino.
Hilde
non
descrive
come
si
incamminò
attraverso
quel
paesaggio
di
rovine
per
raggiungere
la
pretura
di
Steglitz.
Forse
fu
la
parte
più
faticosa
dell’incarico.
Conosceva
in
ogni
caso
la
strada
già
molto
tempo
prima
che
la
città
fosse
bombardata.
Vi
aveva
lavorato
all’epoca
in
cui
era
praticante
procuratrice.
Finalmente
arrivata,
si
ritrovò
di
fronte
un
edificio
intatto.
E
alla
domanda
se
conoscesse
i
giudici,
il
portinaio
di
servizio
diede
la
sconcertante
risposta:
«Sì,
i
signori
hanno
messo
qui
la
loro
firma
ogni
giorno!».
Risultò
che
nelle
pause
fra
i
bombardamenti
degli
alleati
i
giudici
avevano
seguito
la
disposizione
del
presidente
della
corte
d’appello,
che
li
invitava
a
presentarsi
in
un
tribunale
nelle
vicinanze,
nel
caso
in
cui
non
avessero
potuto
raggiungere
il
proprio
ufficio.
Il
collegio
dei
giudici
era
apparso
quindi
«in
servizio»
ogni
giorno,
in
orari
non
prevedibili,
e
aveva
scritto
il
proprio
nome
in
una
lista.
Fu
Hilde
Benjamin
a
separare
il
grano
dal
loglio
e
a
scartare
quelli
con
cui
non
credeva
si
potesse
costruire
uno
stato
socialista.
Si
fece
consegnare
le
liste
contenenti
i
nomi
dei
membri
del
Partito
nazionalsocialista,
indagò
presso
il
portinaio
e
i
dattilografi
per
cercare
di
capire
quali
fossero
i
magistrati
dal
passato
pulito,
che
come
giudici
tutelari
o
del
registro
si
erano
tenuti
il
più
possibile
ai
margini
della
giustizia
nazista.
E
descrisse
tutto
questo
vent’anni
più
tardi,
nelle
sue
memorie:
«Mi
vedo
ancora
oggi
mentre,
fra
l’attenzione
generale,
mi
dirigo
al
comando
con
un
gruppo
di
anziani
signori!».
I
candidati
da
lei
selezionati
vennero
sottoposti
a
nuovo
esame,
e
il
tribunale
distrettuale
di
Steglitz
poté
riprendere
poco
tempo
dopo
il
suo
lavoro
con
tre
giudici
recentemente
designati.
Lei
stessa
fu
nominata
procuratrice.
Il
capo
dell’amministrazione
militare
sovietica
e
comandante
supremo
delle
truppe
sovietiche
in
Germania,
maresciallo
Žukov,
emanò
il
4
settembre
1945
l’ordine
n.
49
sulla
riorganizzazione
dei
tribunali
tedeschi
nelle
province
della
zona
occupata
dalle
truppe
sovietiche.
Una
copia
dell’ordine
si
trova
su
una
delle
cento
pagine
che
i
collaboratori
di
Hilde
Benjamin
al
Ministero
della
Giustizia
hanno
raccolto
per
lei.
Vi
si
dice:
«Al
fine
di
eliminare
le
differenze
nell’organizzazione
dell’attività
delle
autorità
giudiziarie
tedesche
nella
zona
della
Germania
occupata
dalle
truppe
sovietiche,
si
dispone
quanto
segue:
«I
tribunali
tedeschi
in
tutte
le
province
e
le
regioni
sono
riorganizzati
in
base
alla
legislazione
vigente
prima
del
1°
gennaio
1933.
[...]
I
capi
delle
Amministrazioni
militari
sovietiche
nelle
province
e
nelle
regioni
vengono
qui
incaricati
di
prestare
all’Amministrazione
centrale
della
giustizia
tedesca
la
necessaria
assistenza
nella
sua
attività.
Nel
corso
dell’opera
di
ristrutturazione
dei
tribunali
tedeschi
devono
essere
allontanati
da
tutti
i
tribunali
e
da
tutte
le
procure
della
repubblica
gli
ex
membri
del
Partito
nazionalsocialista
dei
lavoratori
tedeschi
(NSDAP)
e
coloro
che
durante
il
regime
hitleriano
hanno
presieduto
l’esecuzione
delle
pene.
Il
controllo
e
la
sorveglianza
sull’esecuzione
dell’ordine
sono
imposti
al
capo
della
sezione
giudiziaria
presso
l’amministrazione
militare
sovietica».
E
alla
pagina
21
della
menzionata
raccolta
dei
collaboratori
trovo
una
copia
del
primo
numero
della
«Deutsche
Volkszeitung»
(Quotidiano
tedesco
del
popolo),
organo
ufficiale
della
KPD.
La
notizia
di
apertura
è
costituita
dall’«APPELLO
del
Partito
comunista
tedesco»,
in
cui
viene
indicata
la
«via
verso
una
nuova
Germania».
«I
compiti
più
immediati
e
urgenti
lungo
questa
via»
sarebbero
a
quanto
si
dice:
– Espropriazione di tutti i
beni degli alti esponenti
nazisti e dei criminali di
guerra
– Liquidazione totale del
regime e del partito
hitleriani
–Lottacontrolafameela
disoccupazione
–[purtroppononleggibile]
– Ricostruzione degli
organi di autogoverno
fondati
su
base
democratica
– Difesa dei lavoratori
dall’arbitrio
degli
imprenditori e da uno
sfruttamentoindebito
– Liquidazione dei fondi
delle grandi proprietà
terriere di Junker, conti e
principi
– Consegna di tutte quelle
imprese
che
servono
bisogni
pubblici
fondamentali
– Convivenza pacifica e
cordiale con gli altri
popoli
– Riconoscimento delle
riparazioni per i danni
provocati ad altri popoli
dalleaggressionidiHitler
Al lavoro con tutte le
forze! Dal bisogno e dalla
morte, dalle rovine e dal
disonore sorgerà la via
verso
una
nuova
Germania!
Queste
affermazioni,
poco
dopo
la
fine
della
guerra,
erano
più
che
semplice
propaganda.
Corrispondevano
al
sentimento
e
al
pensiero
di
molte
persone,
vuoi
socialdemocratici
o
conservatori
o
cristiani,
che
avevano
desiderato
intensamente
la
fine
del
nazismo.
Vi
rientrava
anche
il
fatto
che
la
spinta
verso
l’unificazione
dei
partiti
dei
lavoratori
era
condivisa
anche
da
alcuni
rappresentanti
della
SPD.
Una
foto
del
congresso
fondativo
della
SED
mostra
Wilhelm
Pieck
(KPD)
e
Otto
Grotewohl
(SPD)
che
suggellano
con
una
stretta
di
mano
l’unione
dei
due
partiti
operai,
mentre
accanto
a
loro
è
seduto
Walter
Ulbricht.
Nella
didascalia
si
citano
massime
e
obiettivi
della
SED
nel
1946
che,
se
fossero
stati
imposti
tutti
in
maniera
durevole,
avrebbero
significato
anche
un
distacco
dalla
dittatura
del
proletariato:
«Libertà
di
espressione
attraverso
la
parola,
l’immagine
e
la
scrittura,
per
salvaguardare
la
sicurezza
dello
stato
democratico
dagli
attacchi
reazionari.
Libertà
di
opinioni
e
di
religione,
uguaglianza
di
tutti
i
cittadini
davanti
alla
legge,
senza
distinzione
di
razza
e
di
sesso.
Parità
della
donna
nella
vita
pubblica
e
nel
lavoro.
Protezione
della
persona
da
parte
dello
stato.
Riforma
democratica
della
giustizia
e
del
diritto».
La
carta
è
paziente.
E
chi
richiama
alla
mente
il
crescente
numero
dei
prigionieri
dopo
il
17
giugno
1953
capirà
che
la
giustizia
fu
amministrata
secondo
criteri
di
opportunità.
Essi
furono
arrestati,
benché
il
diritto
di
sciopero
fosse
garantito.
Il
ministro
della
Giustizia,
Max
Fechner,
in
un’intervista
apparsa
su
«Neues
Deutschland»
si
era
pronunciato
contro
la
persecuzione
penale
degli
operai
edili
in
sciopero.
Anche
lui
fu
arrestato
e
condannato
a
nove
anni
di
prigione
in
quanto
«nemico
dello
stato
e
del
partito».
Gli
succedette
Hilde
Benjamin.
La
quale
fece
propria
l’interpretazione
della
SED,
secondo
cui
la
rivolta
del
17
giugno
era
un
putsch
manovrato
da
agenti
occidentali,
che
dovette
essere
soffocato
sul
nascere.
Osservo
questa
donna
dalla
distanza
dell’anno
2012
e
sfoglio
lettere
e
documenti
che
non
sono
in
grado
di
leggere
o
di
decifrare
interamente.
Suppongo
che
il
suo
amore
per
Georg
Benjamin
sia
una
chiave
per
le
sue
motivazioni
e
certezze
ideologiche.
Durante
tutto
il
periodo
nazista
Hilde
ebbe
poca
speranza
di
sopravvivere
con
il
figlio
a
quell’epoca.
Era
sicura
della
buona
causa
di
una
Germania
socialista?
Se
sì,
perché
allora
fu
così
intransigente,
come
nel
1950
al
processo
contro
un
gruppo
di
testimoni
di
Geova,
che
avvertivano
la
contraddizione
esistenziale
in
cui
la
loro
fede
settaria
li
poneva
rispetto
allo
stato
socialista
fondato
sull’adesione
al
partito?
Comminò
molti
anni
di
reclusione;
motivo
bastante
dovette
essere
il
fatto
che
la
chiesa
madre
si
trovasse
a
New
York
–
come
prova
per
l’accusa
di
«congiura
imperialista».
Le
prime
elezioni
comunali
per
l’intera
Berlino
nel
1946
rientrarono
probabilmente
fra
le
esperienze
che
mostrarono
ai
comunisti
tedeschi
quanto
fosse
improbabile
un
successo
elettorale
della
SED,
sostenuta
dal
potere
dell’Armata
Rossa,
presso
una
popolazione
postfascista.
I
nazionalsocialisti
avevano
fatto
tranquillamente
uso
dell’arsenale
ideologico
della
KPD,
cosa
che
non
aveva
impedito
loro
di
dichiarare
i
comunisti
nemici
mortali
del
Reich.
Hilde
Benjamin
si
candidò
a
Steglitz
anche
contro
un
Partito
socialdemocratico
che
a
Berlino
Ovest
era
rimasto
indipendente.
Nella
raccolta
dei
suoi
collaboratori
trovo
una
scelta
degli
strumenti
con
cui
Hilde
Benjamin
si
presentò
agli
elettori.
Il
suo
personale
manifesto
elettorale
mostra
un’immagine
di
mezzo
profilo.
Un
disegno
al
tratto,
bianco
e
nero,
i
capelli
divisi
nel
mezzo
e
severamente
pettinati
all’indietro,
raccolti
in
una
crocchia.
Guarda
con
aria
pensosa,
la
testa
piegata
obliquamente
verso
il
basso.
Un
ritratto
palesemente
lontano
dai
manifesti
delle
moderne
campagne
elettorali.
Alle
elezioni
la
SED,
con
il
venti
per
cento
abbondante
dei
voti,
arrivò
al
terzo
posto
dopo
l’Unione
cristianodemocratica
(CDU).
I
vincitori
furono
i
socialdemocratici,
che
ottennero
quasi
il
cinquanta
per
cento
dei
consensi.
Wolfgang
Leonhard,
membro
del
gruppo
Ulbricht
e
in
seguito
oppositore
della
sua
linea,
ricorda
quanto
poco
l’avesse
sorpreso
il
risultato:
«La
causa
della
sconfitta
mi
era
perfettamente
chiara.
Nel
linguaggio
popolare
eravamo
il
partito
dei
russi.
Il
risultato
elettorale
era
la
conseguenza
logica
della
nostra
dipendenza
dalla
potenza
occupante
sovietica».
La
sconfitta
elettorale
alimentò
anche
la
sfiducia
della
SED
nei
confronti
della
propria
popolazione.
In
questa
sfiducia
nella
lealtà
della
gente
verso
lo
stato
socialista
si
cela
un
problema
fondamentale
della
DDR,
dove
l’entusiasmo
delle
masse
spesso
si
manifestava
solo
a
comando
e
molto
era
pura
messinscena.
Non
sappiamo
quanto
Hilde
Benjamin
l’avesse
compreso.
Combatteva
per
una
riforma
della
giustizia
che
si
sarebbe
lasciata
finalmente
alle
spalle
lo
stato
fascista
e
i
suoi
giudici.
Nella
sua
biografia
Marianne
Brentzel
guarda
con
stupore
il
carico
di
lavoro
quasi
inconcepibile
della
procuratrice
generale
e
vicedirettrice
dell’amministrazione
centrale
della
Giustizia
nella
zona
di
occupazione
sovietica,
il
cui
direttore
era
l’ex
socialdemocratico
Max
Fechner,
che
in
seguito
fu
ministro
della
Giustizia
nella
DDR.
All’impegno
principale
di
Hilde
Benjamin
nell’amministrazione
centrale
della
giustizia
«si
aggiunge
ben
presto
una
serie
di
altri
compiti»,
scrive
Marianne
Brentzel:
«il
lavoro
insieme
alla
commissione
per
la
denazificazione
dei
giuristi,
presso
la
municipalità
di
Berlino,
la
commissione
d’esame
per
l’ammissione
all’Università
di
Berlino»,
che
fu
riaperta
nel
1945,
e
il
suo
«sforzo
per
un
impiego
il
più
possibile
ampio
delle
donne
nella
Giustizia,
in
collaborazione
con
le
commissioni
femminili
e,
in
seguito,
con
l’Unione
democratica
delle
donne».
Questo
elenco
dimostra
dove
Hilde
Benjamin
vedesse
il
punto
focale
del
suo
incarico
di
riformatrice,
al
fine
di
superare
lo
stato
fascista.
Ed
è
anche
una
motivazione
per
il
suo
irrefrenabile
impulso
al
lavoro.
Hilde
sapeva
naturalmente
che
i
suoi
processi
e
il
loro
effetto
propagandistico
avevano
anche
lo
scopo
di
chiarire
alla
popolazione
che
era
vantaggioso
per
tutti
sostenere
lo
stato
della
SED.
Registrazioni
televisive
conservate
presso
l’Archivio
radiofonico
tedesco
(Deutsches
Rundfunkarchiv)
di
Babelsberg
la
mostrano
capace
di
schierarsi
per
il
proprio
stato
anche
in
maniera
meno
veemente.
Qui
la
vedo
per
la
prima
volta,
così
com’era
negli
anni
Sessanta:
piccola
e,
con
il
passare
del
tempo,
quasi
fragile.
Non
traspare
nulla
che
possa
giustificare
l’appellativo
«Hilde
la
Rossa»
o
«Hilde
la
Sanguinaria»,
dato
a
questa
donna
dalla
voce
dimessa,
e
che
ancora
oggi
le
viene
attribuito.
Dal
1945,
così
la
descrive
esprimendosi
nel
tipico
tedesco
di
partito
il
suo
sostituto
Hans
Ranke,
Hilde
Benjamin
si
dedica
alla
«lotta
per
l’avvento
e
l’azione
di
un
nuovo
diritto
che,
dopo
la
sconfitta
del
fascismo,
con
la
creazione
del
potere
degli
operai
e
dei
contadini
cerca
di
affermarsi».
Su
tutto
questo
esistono
naturalmente
valutazioni
divergenti
a
Est
e
a
Ovest.
In
realtà
la
sua
costruzione
di
un
diritto
socialista
non
suscitò
in
Occidente
alcun
dibattito,
ma
tutt’al
più
commenti
sprezzanti.
Quanto
meno
il
diritto
di
famiglia
della
DDR,
che
fu
sostanzialmente
opera
sua,
avrebbe
meritato
più
del
necrologio
con
cui
venne
seppellito
in
Occidente
dopo
la
riunificazione.
Era
così
moderno
e
avanzato
che
i
critici
occidentali
rimasero
senza
parole.
All’opuscolo
con
il
nuovo
diritto
di
famiglia
Hilde
Benjamin
diede
un
titolo
che
fa
capire
di
cosa
la
sua
principale
autrice
avesse
sentito
fortemente
la
mancanza
durante
l’epoca
nazista.
Una felice vita familiare
si
chiama
il
libriccino
sulla
«questione
del
codice
di
famiglia
della
DDR».
Esso
contiene
la
legge
introduttiva,
presentata
il
20
dicembre
1965
alla
diciassettesima
seduta
del
parlamento
della
DDR.
In
precedenza
era
stata
discussa
ampiamente
in
numerose
riunioni
nelle
fabbriche
e
presso
i
sindacati.
La
parità
fra
i
due
sessi
è
garantita,
in
un’epoca
in
cui
le
donne
in
Occidente
avevano
ancora
bisogno
del
consenso
del
marito
per
ottenere
un
credito
o
aprire
un
conto
in
una
banca.
Solo
a
poco
a
poco
i
riformatori
della
giustizia
a
Ovest
riuscirono,
attraverso
proprie
riforme,
a
eguagliare
almeno
per
frammenti
il
diritto
di
famiglia
della
DDR
e
a
rivedere
gradualmente
il
codice
civile
guglielmino,
disseminato
ancora
di
macchie
brune
fasciste.
Lo
stesso
vale
per
il
diritto
del
lavoro
e
la
richiesta
di
uno
«stesso
compenso
per
uno
stesso
impiego»,
una
rivendicazione
che
nella
DDR
fu
quasi
interamente
soddisfatta
e
che
nella
Germania
riunificata
attende
ancora
il
suo
compimento.
La
fama
di
giudice
implacabile
nei
media
occidentali,
con
il
soprannome
«Hilde
la
Rossa»,
la
ottenne
soprattutto
perché
nella
sua
sfera
d’influenza
epurò
le
autorità
giudiziarie
rimuovendo
i
giudici
e
i
procuratori
nazisti,
anche
se
il
cannoneggiamento
occidentale
contro
«Hilde
la
Rossa»
faceva
di
ogni
nazista
da
lei
condannato
una
vittima
del
«disumano
sistema
d’ingiustizia
nella
DDR».
Il
suo
ruolo
di
riformatrice
della
giustizia
non
contava
nulla
per
i
mezzi
di
informazione
occidentali.
Senza
dubbio
fu
severa
e
implacabile,
quando
intuiva
un
pericolo
per
l’intero
progetto
socialista
della
DDR.
E
il
suo
comportamento
offrì
sufficienti
motivi
alle
critiche.
Ma
paragonarla
al
terribile
giudice
nazista
Roland
Freisler
era
ingiusto
quanto
il
tentativo
di
descriverla
come
un’alcolizzata,
mentalmente
incapace
di
intendere
e
di
volere.
Al
di
là
di
tutti
gli
errori
e
le
deformazioni
che
avrebbero
fatto
miseramente
crollare
il
secondo
stato
tedesco:
per
Hilde
Benjamin
soltanto
la
DDR
era
una
risposta
antifascista
alla
Germania
di
Hitler.
Le
reazioni
dell’opinione
pubblica
tedesca
occidentale
alle
riforme
giuridiche
nella
DDR
sono
strettamente
legate
alla
politica
di
Konrad
Adenauer,
che
rinunciò
a
un’analoga
epurazione
degli
ex
membri
del
partito,
degli
alti
gradi
delle
SS
e
dei
funzionari
nazionalsocialisti
nella
giustizia,
nell’amministrazione,
nell’economia
e
nei
mezzi
di
comunicazione.
Risulta
difficile
interpretare
questa
politica
come
un
alto
servizio
reso
da
Adenauer
allo
stato,
ispirato
da
motivazioni
filosofiche.
Nella
politica,
nell’economia
e
nella
burocrazia
della
repubblica
suddivisa
in
tre
zone
vi
erano
legami
di
solidarietà
fra
nazisti
che
cercarono
di
impedire
che,
al
di
là
dei
processi
di
Norimberga,
funzionari
alti
e
medi
del
partito
venissero
chiamati
a
rendere
conto
delle
loro
responsabilità.
Il
settimanale
«Die
Zeit»
mise
allora
in
dubbio
persino
la
legittimità
dei
processi
di
Norimberga
e
nel
numero
del
29
settembre
1950
diede
la
parola
a
Paul
Leverkuehn,
uno
dei
difensori
tedeschi
dei
generali
della
Wehrmacht
là
accusati.
Per
Leverkuehn,
presentato
come
«esperto
di
lunga
data
in
diritto
internazionale»,
l’amministrazione
della
giustizia
nel
tribunale
alleato
fu
un
«fondamentale
errore».
«Scopo
dei
processi
ai
criminali
di
guerra
a
Norimberga»
scrive
Leverkuehn
«era
–
accanto
alla
punizione
dei
colpevoli
–
convincere
il
popolo
tedesco
della
superiore
qualità
della
giustizia
nei
paesi
democratici.
Questo
scopo
non
è
stato
raggiunto».
Il
primo
processo
era
ruotato
intorno
all’invasione
della
Polonia.
E
poiché
vigeva
il
patto
di
non
aggressione
fra
la
Germania
e
la
Russia,
secondo
Leverkuehn
i
russi
avrebbero
preso
parte
almeno
indirettamente
all’attacco.
Quindi
non
potevano
essere
giudici
e
accusatori.
Questo
esempio
mostra
con
«terribile
chiarezza
in
cosa
è
sfociato
il
diritto
internazionale
a
Norimberga».
La
medesima
argomentazione
era
ripetuta
nel
memoriale
degli
ex
generali
nazisti
che
facevano
capo
al
generale
feldmaresciallo
von
Manstein:
la
Wehrmacht
avrebbe
dovuto
essere
prosciolta
da
ogni
correità
nella
guerra
di
annientamento
contro
l’Unione
Sovietica
e
nei
terribili
crimini
commessi
nelle
zone
del
conflitto.
Soprattutto
i
due
settimanali,
considerati
oggi
l’espressione
di
un
giornalismo
serio
e
critico,
durante
i
loro
primi
anni
non
corrispondevano
affatto
al
nomignolo
di
cui
si
era
investito
lo
«Spiegel»:
un
«cannone
della
democrazia».
Ebbene,
non
lo
erano
proprio.
Nel
bilancio
critico
di
Lutz
Hachmeister
e
Friedemann
Siering,
intitolato
Die Herren
Journalisten
(I
signori
giornalisti),
che
reca
l’ironico
sottotitolo
«Le
élites
della
stampa
tedesca
dopo
il
1945»,
è
descritto
come
molti
propagandisti
dello
stato
nazista
avessero
potuto
rioccupare
le
loro
poltrone
direttive
grazie
alle
licenze
rilasciate
dagli
alleati
ai
giornali.
Da
costoro
non
c’era
da
attendersi
alcuna
riflessione
sullo
«strappo
dalla
civiltà»
compiuto
dalla
Germania.
La
guerra
fredda
dava
al
contrario
l’occasione
di
riallacciarsi
direttamente
alle
tirate
anticomuniste
che
erano
uscite
dalle
loro
penne
già
prima
del
1945.
Proprio
il
caporedattore
della
«Zeit»,
Richard
Tüngel,
nel
suo
articolo
natalizio
intitolato
«Friede
auf
Erde»
(Pace
sulla
terra)
espresse
un
clamoroso
rifiuto
di
prendere
atto
dei
crimini
nazionalsocialisti.
Il
suo
predecessore
era
stato
sollevato
dopo
breve
tempo
dal
suo
incarico
per
mano
delle
autorità
responsabili
della
denazificazione.
«Ci
troviamo
oggi
in
una
situazione
simile
a
quella
del
popolo
ebreo»
scrive
Tüngel
«quando
l’annuncio
raggiunse
i
pastori.
Anche
la
Germania
oggi
è
occupata,
anche
noi
abbiamo
soltanto
quei
diritti
che
le
potenze
occupanti
ritengono
giusto
darci.
In
molti
sensi
stiamo
peggio.
Non
abbiamo
abbastanza
spazio
abitativo,
siamo
costretti
a
soffrire
la
fame
e
il
freddo,
non
possiamo
lavorare
liberamente
e
siamo
odiati
nella
comunità
dei
popoli».
Questo
pensava
l’élite
dei
giornalisti,
i
«signori
giornalisti»
nella
Germania
Occidentale
dopo
il
1945.
Hachmeister
e
Siering
si
stupirono
di
fronte
a
un
testo
che
trovarono
«veementemente
nazionalista,
indelicato
e
totalmente
privo
di
sensibilità
verso
la
catastrofe
provocata
poco
tempo
prima
dai
tedeschi».
Per
Tüngel
il
gruppo
dirigente
della
SED
nella
Germania
Orientale
occupata
dai
sovietici
era
«il
regime
bastardo
di
Mosca»,
e
lo
«Spiegel»
descrisse
il
«ministro
della
Giustizia
della
Zona
sovietica,
Hilde
Benjamin»,
come
una
«che
aveva
assunto
le
proporzioni
fisiche
di
una
matrona».
Fra
le
righe
traspare
il
maggior
timore
nutrito
allora
nelle
redazioni:
che
anche
in
Occidente
si
facesse
piazza
pulita
del
passato
nazionalsocialista.
Berlino
Est
non
doveva
fare
quindi
in
alcun
caso
da
esempio:
cannoni
puntati
per
far
fuoco
continuo
contro
Hilde
Benjamin,
schernita
e
sbeffeggiata.
Così
accadde
anche
quando
la
DDR
cercò
di
insediare
giudici
popolari
nei
posti
rimasti
vacanti.
Così
scrive
lo
«Spiegel»:
«I
giudici
e
i
procuratori
popolari»
sarebbero
un
«mezzo
di
fortuna»,
e
comunque
«sangue
nuovo
per
la
giustizia
ormai
anemica»
della
DDR:
per
gli
«autentici
signori
della
Zona
non
strumenti
di
un’astratta
giustizia,
bensì
l’autentica
leva
per
scardinare
il
diritto
borghese
e
spezzare
il
dominio
della
borghesia».
E
segue
poi
il
timore
degli
autori
dello
«Spiegel»:
«Mentre
la
denazificazione
negli
altri
uffici
della
zona
sovietica,
e
fin
nei
comandi
di
polizia,
fu
perseguita
dapprima
in
maniera
elastica,
Hilde
Benjamin
disponeva
dei
pieni
poteri
necessari
per
realizzare
un’epurazione
di
massa
nella
categoria
dei
giuristi,
e
ciò
grazie
all’ordine
n.
49
del
comandante
supremo
dell’amministrazione
militare
sovietica.
La
scrupolosità
con
cui
agì
è
mostrata
dall’esempio
della
Sassonia,
dove
nel
giro
di
un
anno
non
meno
di
ottocento
giudici
e
procuratori
su
mille
furono
buttati
sulla
strada».
Lo
«Spiegel»
non
chiedeva
se
e
quante
condanne
a
morte
questi
giudici
espulsi
avessero
pronunciato
durante
il
nazismo,
quanti
oppositori
la
giustizia
nazista
avesse
mandato
non
«sulla
strada»
ma
sul
patibolo.
Rimuovere
e
sgravare
possibilmente
la
propria
coscienza;
anche
nel
mondo
della
cultura
si
ebbe
uno
sviluppo
simile.
Coloro
che
in
qualità
di
registi,
autori
o
attori
avevano
fatto
la
loro
parte
nei
Durchhaltefilmen
di
Babelsberg6
e
nell’industria
cinematografica
diretta
da
Goebbels,
contribuendo
al
suo
influsso
sul
pubblico
durante
il
Terzo
Reich,
erano
quasi
certi
di
essere
classificati
come
semplici
fiancheggiatori
dopo
il
1945.
E
così
poterono
essere
nuovamente
disponibili
in
Occidente
per
i
film
del
dopoguerra,
nei
centri
di
produzione
a
Monaco
o
ad
Amburgo.
Da
Hans
Albers
a
Marika
Rökk,
da
Heinz
Rühmann
con
il
suo
atterraggio
di
fortuna
a
Zarah
Leander,
che
riprese
subito
a
cantare:
«So
che
accadrà
un
miracolo
e
allora
mille
fiabe
diverranno
realtà».
Prima
del
1945
si
leggeva
in
queste
parole
la
speranza
in
un’arma
miracolosa
che
avrebbe
impresso
una
svolta
alla
guerra;
dopo
il
1945,
invece,
la
speranza
nell’ultimo
verso
della
canzone
era
rivolta
verso
l’eternità:
«Quel
che
avevo
non
può
esser
perduto
per
sempre».
Lo
Heimatfilm
conobbe
una
nuova
fase
di
successo.
Il
cineasta
tedesco
occidentale
Edgar
Reitz,
cofirmatario
nel
1965
del
memorandum
«Papas
Kino
ist
tot»
(Il
cinema
di
papà
è
morto),
definì
questa
continuità
una
«Babelsberg,
soltanto
senza
Goebbels».
La
politica
di
Bonn
non
riuscì
a
impedire
che
la
lotta
della
DDR
per
ottenere
il
proprio
riconoscimento
statale
avesse
infine
successo.
L’aspettativa,
nutrita
nella
DDR,
che
ciò
significasse
anche
una
maggiore
stabilità
politica
all’interno
tuttavia
non
si
realizzò.
Lo
splendido
romanzo
di
Eugen
Ruge,
che
descrive
il
progressivo
sfaldarsi
dell’idealismo
della
generazione
che
aveva
fondato
la
DDR,
porta
il
geniale
titolo
In tempi di
luce declinante.
La
luce
vitale
della
DDR
si
era
indebolita
sempre
più,
fin
quando
le
grida
«Noi
siamo
il
popolo»
e
le
manifestazioni
del
lunedì
finirono
per
spegnerla
del
tutto.
Hilde
Benjamin,
questo
è
il
commento
pensoso
di
suo
figlio
Michael,
non
sarebbe
sopravvissuta
alla
fine
della
DDR.
Per
lei
il
secondo
stato
tedesco
apparteneva
alla
logica
stessa
della
sua
vita.
Chi
volesse
valutare
il
suo
operato
nella
DDR
non
sarebbe
tuttavia
giusto
verso
di
lei
se
non
considerasse
i
dodici
anni
del
fascismo
tedesco
e
del
delirio
razzista.
Per
«Spiegel»,
«Zeit»
e
altre
testate
del
dopoguerra
la
DDR
e
la
possibilità
di
trasferire
là
ogni
male
consentivano
di
rimuovere
la
barbarie
nazionalsocialista.
Ciò
comprendeva
anche
il
rifiuto
di
vedere
la
divisione
in
due
stati
tedeschi
come
una
conseguenza
dei
dodici
anni
hitleriani
e
di
riconoscere
questi
come
la
causa
della
devastazione
del
paese
e
della
distruzione
della
sua
cultura
e
morale.
Ne
è
un
esempio
la
storia
di
copertina
che
lo
«Spiegel»
dedica
a
Hilde
Benjamin
il
18
marzo
1959.
L’«efferatezza»
dei
nazisti,
che
sarebbe
stata
«rivolta
contro
certi
gruppi»,
e
la
loro
micidiale
risoluzione
a
colpire
ebrei,
intellettuali,
socialdemocratici,
comunisti
e
la
Bekennende
Kirche
(Chiesa
Confessante),
a
disseminare
la
guerra
in
Europa
e
a
dividere
l’umanità
in
Herrenmenschen,
cioè
gli
appartenenti
alla
«razza
padrona»,
e
il
suo
miserabile
resto
–
tutto
ciò
viene
liquidato
con
disinvoltura.
Colpisce
la
mancanza
di
rispetto
con
cui
viene
trattato
il
destino
dei
Benjamin.
Il
medico
generico
Georg
Benjamin
è
il
«comunista
idealista»
che
vive
nella
«lussuosa
villa»
dei
genitori.
Al
suo
matrimonio
con
l’avvocatessa
Hilde
Benjamin
si
accenna
per
far
intendere
come
lei
non
potesse
essere
annoverata
tra
gli
avvocati
rossi
di
punta
a
Moabit.
La
situazione
reale
dei
due
traspare
solo
in
una
frase
secondaria,
quasi
un
flash:
«Lo
studio
legale
e
l’ambulatorio
medico
dei
due
“comunisti
idealisti”
nella
“rossa
Wedding”
vengono
devastati
nel
1933
da
una
banda
di
SS».
Il
«dottore
comunista»
sembra
direttamente
colpevole
di
quel
che
poi
gli
accade:
finisce
in
carcere
e
«ricompare»
dopo
dieci
mesi.
Citiamo
dall’articolo:
«La
sua
allegria
umanitaria
si
era
volatilizzata
nel
campo
di
concentramento
di
Sonnenburg.
Al
desco
familiare
sedeva
un
laconico
estraneo».
Lo
sgomento
per
la
«laconicità»
degli
autori
della
storia
di
copertina,
quando
si
tratta
del
nazionalsocialismo,
è
accresciuto
ancora
dal
tono
implacabile
con
cui
sono
elencate
le
successive
stazioni
del
candidato
ebreo
alla
morte,
Georg
Benjamin.
La
prigione
di
Brandeburgo,
dove
trascorre
sei
anni,
viene
così
illustrata
in
una
frase:
«Per
qualche
mese,
in
una
sovraffollata
cella
collettiva
del
carcere
di
Brandeburgo,
Georg
Benjamin
poté
dare
una
mano
al
leccapiedi
dei
secondini
che
si
occupava
della
distribuzione
del
cibo,
poi
le
SS
lo
spedirono
con
un
gruppo
di
prigionieri
politici
nel
campo
di
concentramento
di
Columbia;
da
lì
finì
poi
nel
Lager
provvisorio
di
Wuhlheide,
alla
periferia
orientale
di
Berlino».
E
così
termina
il
passaggio:
«Dopo
un
pogrom
nel
Lager
di
Wuhlheide
i
prigionieri
ebrei
–
che
là
“vivono
come
pascià”
–
vengono
trasferiti».
L’articolo
non
dice
a
chi
si
debba
l’affermazione
secondo
cui
i
prigionieri
ebrei
nel
Lager
esterno
di
Columbia
a
Wuhlheide
avrebbero
vissuto
come
pascià.
Quanto
alla
posizione
di
Hilde
Benjamin
dopo
il
1945,
l’autore
dello
«Spiegel»
riesce
a
fare
la
seguente
valutazione:
«Politicamente
si
sentiva
sempre
più
legata
alla
professione
di
fede
del
marito
Georg
Benjamin,
umanamente
gli
anni
della
persecuzione
l’avevano
indurita».
E
poi:
«Convinta
delle
proprie
capacità,
da
quel
momento
voleva
far
parte
di
quelli
che
calpestano,
anziché
di
quelli
che
sono
calpestati».
Calpestare
o
essere
calpestati:
per
lo
«Spiegel»
era
impensabile
che
le
motivazioni
di
Hilde
Benjamin
potessero
essersi
nutrite
di
altre
esperienze.
Impensabile
che
potesse
auspicare
invece
un
diritto
socialista,
distinto
dalla
giustizia
di
classe
che
aveva
conosciuto
nella
repubblica
di
Weimar.
O
che
volesse
porre
fine
alla
tradizione
della
giustizia
borghese,
che
nutriva
una
simpatia
segreta
per
il
terrore
di
destra.
Il
libro
Vier Jahre
politischerMord
(Quattro
anni
di
delitti
politici),
che
nel
1922
fece
brevemente
scalpore,
mostra
quanto
la
giustizia
fosse
vicina
ai
nemici
della
repubblica.
Il
suo
autore,
Emil
Julius
Gumbel,
è
quasi
dimenticato.
«Die
Zeit»
ha
pubblicato
solo
di
recente
la
storia
della
sua
vita.
Novant’anni
dopo
l’uscita
il
libro
torna
ad
avere
una
spaventosa
attualità.
Accusa
una
magistratura
che
contribuì
a
distruggere
la
prima
democrazia.
La
quarta
edizione,
rivista
nel
1922,
fu
definita
da
Kurt
Tucholsky,
nella
rivista
«Weltbühne»,
un
«libro
della
vergogna
tedesca».
Sulla
base
di
documenti
studiati
con
acribia
e
riguardanti
omicidi
compiuti
per
motivi
politici
emerge
che
nei
pochi
anni
fra
le
due
guerre
furono
attribuiti
alla
destra
trecentocinquantaquattro
omicidi,
mentre
ventidue
furono
quelli
imputati
alla
sinistra.
Trecentoventisei
omicidi
commessi
dalla
destra
restarono
impuniti,
contro
quattro
di
quelli
commessi
dalla
sinistra.
Ma
Gumbel
non
si
limitava
ai
soli
numeri.
Pubblicò
anche
tutti
i
nomi
degli
assassini
di
cui
disponeva,
non
solo
di
quelli
presenti
sul
luogo
del
delitto,
ma
anche
dei
mandanti
e
degli
istigatori
sullo
sfondo,
sulle
cui
liste
della
morte,
prima
di
essere
uccisi,
c’erano
stati
anche
Rosa
Luxemburg
e
Karl
Liebknecht,
Matthias
Erzberger
e
Walther
Rathenau.
Dopo
l’iniziale
scalpore
e
le
minacce
di
azioni
legali
il
libro
non
ebbe
alcuna
ripercussione.
La
destra
nazionalista
poté
praticamente
esercitare,
nell’assenza
di
ogni
diritto,
il
terrore
contro
la
repubblica,
contro
ebrei,
comunisti
e
socialdemocratici
–
cioè
contro
gli
altri.
Circa
novant’anni
dopo
l’espressione
di
Tucholsky,
cioè
la
«vergogna
tedesca»,
viene
nuovamente
utilizzata,
senza
tuttavia
ricordare
lui
e
l’occasione
di
allora.
Fu
la
cancelliera
Angela
Merkel
a
pronunciarla
nel
2012,
durante
una
cerimonia
funebre
per
le
vittime
di
una
serie
di
omicidi
che
scosse
la
Germania.
Dieci
vittime
di
una
cellula
neonazista
che
per
dieci
anni
poté
manifestare
in
incognito
il
proprio
odio
contro
tutto
ciò
che
le
era
estraneo.
Persero
la
vita
nove
immigrati,
otto
dei
quali
di
origine
turca,
e
uno
greco,
oltre
a
una
poliziotta.
Tutti
e
dieci
furono
giustiziati
con
la
medesima
arma.
Nessuno
degli
inquirenti
pensò
mai
di
collegare
la
serie
degli
omicidi
con
gli
ambienti
di
estrema
destra.
Gli
investigatori
cercarono
i
colpevoli
nelle
famiglie,
appuntarono
i
loro
sospetti
sui
parenti
delle
vittime
fin
quando
gli
assassini,
per
caso,
furono
smascherati.
Il
capo
del
governo
parlò
durante
la
cerimonia
funebre
di
«vergogna
tedesca»
e
si
scusò
con
i
parenti
perché
le
autorità
giudiziarie
li
avevano
tormentati
per
dieci
anni,
sospettandoli
di
essere
responsabili
dei
crimini.
Non
le
venne
in
mente
nulla
che
potesse
condurre
a
un
sostanziale
miglioramento
della
condizione
degli
immigrati
in
Germania.
Nel
1922
Gumbel
fece
un
calcolo:
un
omicidio
con
movente
nazionalista
costava
quattro
mesi
di
prigione
e
due
Reichsmark
di
multa.
Gli
assassini
con
opinioni
di
sinistra
dovevano
aspettarsi
in
media
quindici
anni
di
reclusione
o
una
condanna
a
morte.
Nelle
aule
dei
tribunali
la
giovane
avvocatessa
Hilde
Benjamin
poté
osservare
dunque
giudici
indulgenti
verso
i
criminali
di
destra
e
«una
giustizia
nazionalconservatrice
che
agisce
come
fedele
complice
del
terrore»
(Kurt
Tucholsky).
Fra
la
giustizia
penale
del
1922,
cieca
dall’occhio
destro
e
attivamente
partecipe
all’affossamento
della
Repubblica
di
Weimar,
e
il
nuovo
inizio
nella
parte
orientale
della
Germania,
nel
1945,
passano
dodici
anni
abbondanti.
I
collaboratori
di
Hilde
Benjamin
avevano
chiamato
questo
capitolo
della
sua
vita:
«Contributo
alla
democratizzazione
della
giustizia».
Il
titolo
è
dipinto
con
mano
sobria
su
carta
a
mano
e
protetto
da
una
pagina
trasparente,
simile
a
una
pergamena.
Mentre
molte
delle
vecchie
strutture,
comprese
le
tasse
scolastiche
per
i
licei,
sopravvivevano
nelle
zone
occidentali,
la
DDR
aveva
altri
problemi:
dopo
l’allontanamento
dei
collaboratori
con
un
passato
nazionalsocialista
nell’amministrazione,
nella
giustizia
e
nell’istruzione
il
compito
più
urgente
era
quello
di
formare
al
più
presto,
attraverso
corsi
brevi,
giudici
popolari
e
futuri
funzionari
amministrativi
che
potessero
ricoprire
i
posti
vacanti.
Nelle
cento
pagine
raccolte
per
il
sessantacinquesimo
compleanno
di
Hilde
Benjamin
si
trova
a
questo
proposito
una
citazione
di
Walter
Ulbricht,
il
quale
nominava
le
priorità
che
avrebbero
guidato
il
rinnovamento
nella
DDR:
«Io
domando:
quanti
antifascisti
sono
stati
istruiti
in
modo
da
poter
operare
come
giudici
popolari?
I
compagni
dicono
sempre
di
volere
delle
leggi.
Miei
cari
amici,
non
è
affatto
facile.
Dove
sarebbero
i
giuristi
appartenenti
al
nucleo
della
popolazione
attiva
e
in
possesso
di
un’istruzione
che
li
renda
capaci
di
promulgare
leggi
democratiche?
O
volete
lasciare
tutto
ai
vecchi
avvocati?
Così
non
va.
Per
ciò
che
riguarda
l’impiego
e
la
formazione
di
nuove
forze
democratiche
siamo
appena
all’inizio.
Questa
è
la
situazione
reale.
[...]
Ciò
che
conta
sono
i
quadri,
è
rieducare
la
gente,
giungere
a
un
più
rapido
impiego
di
forze
nuove.
Nella
prima
tappa
dello
sviluppo
si
poneva
per
noi
la
necessità
di
un’epurazione».
In
un’intervista
trasmessa
nel
marzo
1946
da
«Deutschlandsender»,
emittente
radio
della
DDR,
Hilde
Benjamin
si
appropriò
del
concetto
di
«giudice
popolare»,
utilizzato
da
Ulbricht.
Pregò
gli
ascoltatori
di
guardarsi
da
due
cose,
quando
si
utilizzava
quella
denominazione:
«Non
si
deve
credere
che
chi
abbia
frequentato
i
corsi
per
giudici
sia
diverso,
e
magari
inferiore,
rispetto
a
chi
ha
ricevuto
una
formazione
universitaria.
È
un
giudice
a
tutti
gli
effetti.
Quello
di
“giudice
popolare”
deve
diventare
anzi
un
titolo
d’onore,
applicabile
a
tutti,
e
il
nostro
sforzo
più
urgente
è
che
presto
tutti
coloro
che
lavorano
nella
giustizia
della
nuova
Germania
siano
davvero
giudici
popolari».
Per
il
futuro
ministro
della
Giustizia
della
DDR
i
giudici
popolari
erano
più
che
un
semplice
strumento
per
riempire
con
mezzi
di
fortuna
i
buchi
sorti
fra
le
fila
dei
giudici
in
seguito
alla
«eliminazione
di
tutti
i
membri
del
partito».
Faceva
notare
che
dei
duecento
studenti
di
giurisprudenza
presso
l’Università
di
Berlino
nel
1946
meno
di
sessanta
erano
al
secondo
e
al
terzo
anno,
tanto
che
un
sufficiente
apporto
da
parte
della
nuova
generazione
non
era
pensabile
prima
di
altri
cinque
o
sei
anni.
I
giovani
giuristi,
questa
era
la
sua
speranza,
sarebbero
«venuti
dal
popolo»
e
avrebbero
mostrato
la
stessa
«pulizia
di
carattere
e
dirittura
antifascista
e
democratica
dei
giudici
che
arrivano
adesso
dalle
scuole
di
formazione».
Le
scuole
per
giudici,
quale
percorso
alternativo
accanto
a
quello
universitario,
avrebbero
dovuto
formare
persone
«di
età
più
matura»
e
caratterizzare
la
nuova
tipologia
dell’«autentico
giudice
popolare»,
non
più
«giurista
di
vecchia
scuola,
appartenente
a
una
corporazione»,
ma
persona
capace
di
garantire
un’amministrazione
della
giustizia
derivante
dalla
conoscenza
di
tutte
le
condizioni
di
vita
e
dei
bisogni
del
popolo.
Nel
verbale
di
una
riunione
dell’Amministrazione
tedesca
della
Giustizia
(Deutsche
Justizverwaltung)7
nell’ottobre
1948
Hilde
Benjamin
descrisse
la
situazione
del
personale
e
riferì
che
alla
metà
di
settembre
di
quell’anno,
nella
zona
915,
erano
impiegati
327
procuratori
e
pubblici
ministeri.
Seguì
attentamente
gli
allievi
dei
corsi
per
giudici
popolari
e
riferì
sull’esame
finale
del
secondo
corso
a
Potsdam
nel
giugno
1947.
In
quell’occasione
Hilde
si
adoperò
per
garantire
una
migliore
alimentazione
agli
allievi.
Sulla
stessa
pagina
campeggiava
una
foto
del
castello
di
Babelsberg:
«un
tempo
castello
di
principi
–
oggi
centro
di
formazione
per
giudici
socialisti»
–
e
sotto
un
passaggio
in
cui
si
descrive
il
misero
aspetto
degli
allievi:
«La
loro
condizione,
per
quanto
riguarda
l’alimentazione,
è
manifestamente
carente.
Nelle
ultime
due
settimane,
come
si
è
riferito,
l’alimentazione
collettiva
del
governo
provinciale
di
Potsdam,
alla
quale
essi
partecipano,
è
stata
molto
insufficiente.
I
loro
risultati
ne
sono
stati
in
parte
compromessi».
Nei
materiali
per
il
Rapporto sullo stato della
nazione
del
1971,
paragonabile
allo
«State
of
the
Union
Message»
negli
Stati
Uniti,
una
raccolta
di
fatti
che
integravano
il
discorso
del
cancelliere
Willy
Brandt
davanti
al
Parlamento
della
Germania
Occidentale,
si
analizzavano
le
differenze
fra
i
due
stati
tedeschi.
Così
è
detto
a
proposito
della
riforma
socialista
del
diritto:
«La
legislazione
della
DDR»
si
riallaccia
alla
«tradizione
giuridica
nazionale;
essa
segue
fondamentalmente
i
procedimenti
utilizzati
da
ogni
legislatore
per
aggiornare
l’ordinamento
giuridico
nazionale,
anche
se
occorre
concedere
qui
notevoli
differenze
quantitative».
In
questo
senso
l’«evoluzione
del
diritto
nella
DDR
è
insieme
uno
sviluppo
del
diritto
tedesco».
Tutto
questo
è
detto
–
cosa
piuttosto
rara
–
senza
acrimonia.
Se
nella
competizione
fra
i
sistemi
la
qualità
del
confronto
sociale
fosse
stata
un’altra,
essi,
il
diritto
socialista
e
quello
borghese,
avrebbero
potuto
fare
a
gara
per
superare
l’epoca
nazista,
e
non
solo
per
screditarsi
l’un
l’altro.
Nei
materiali
relativi
al
Rapporto sullo stato della
nazione
si
trova
una
«prima
descrizione
empirica
fondata
delle
diverse
strutture
della
DDR,
messe
a
confronto
con
quelle
della
Repubblica
Federale
Tedesca».
Nella
prefazione
si
legge
che
la
grande
risonanza
di
cui
ha
goduto
la
pubblicazione
dimostra
l’interesse
rivolto
finalmente
a
un’informazione
spassionata
e
obiettiva
sulla
DDR.
Nell’analisi,
che
si
sviluppa
in
più
di
trecento
pagine,
si
afferma
tra
l’altro
che
tutti
gli
ex
membri
del
Partito
nazionalsocialista
dei
lavoratori
tedeschi
(NSDAP)
erano
stati
–
con
poche
eccezioni
–
allontanati
dalla
giustizia,
dall’amministrazione
e
dalla
scuola,
come
richiesto
nell’accordo
di
Potsdam.
Nella
Repubblica
Federale,
invece,
il
comportamento
verso
la
«generazione
dei
colpevoli»
era
stato
generalmente
un
altro.
Ciò
aveva
condotto
al
clima
di
restaurazione
in
Germania
Occidentale,
che
si
è
variamente
descritto.
Nei
materiali
del
1971
si
dice
ancora:
«L’allontanamento
della
generazione
dei
colpevoli
il
più
rapidamente
possibile
dai
suoi
uffici
e
dalle
sue
funzioni
e
la
cesura
rispetto
al
passato
fascista
sono
seguiti
dalla
necessità
di
sostituire
gli
esperti
eliminati,
e
quindi
non
più
disponibili,
con
altri
che
abbiano
ricevuto
una
rapida
formazione».
In
un
primo
tempo
ciò
avviene
principalmente
fuori
dalle
università
e
dagli
istituti
di
istruzione
superiore.
Ma
le
università
della
DDR
si
aggiornano
in
fretta,
quando
appare
chiaro
che
i
corsi
brevi
possono
trasmettere
solo
una
ridotta
competenza.
Per
rimediare
alla
grande
scarsità
di
giovani
qualificati
nelle
scuole
e
nelle
amministrazioni,
nel
1946-47
vengono
fondate
facoltà
di
pedagogia
in
alcune
università
e
un
anno
dopo
anche
facoltà
di
scienze
sociali
–
a
Lipsia,
Rostock
e
Jena.
Nudi
fatti
che,
elaborati
per
il
pubblico
tedesco
occidentale,
confluirono
nei
materiali
del
Rapporto sullo stato della
nazione,
senza
far
ricorso
a
formule
propagandistiche.
Anche
il
sostegno
ai
bambini
socialmente
svantaggiati,
così
si
legge,
è
un
obiettivo
esplicito
nella
DDR.
I
figli
dotati
degli
operai
e
dei
contadini
devono
godere
di
un
accesso
privilegiato
all’università.
A
questo
scopo
vengono
istituiti
già
nel
1946
«istituti
propedeutici»,
sottoposti
inizialmente
alle
università
popolari,
poi
incorporati
alla
fine
del
1947.
Nel
1949
vengono
trasformati
in
facoltà
operaie
e
contadine.
Alla
dirigenza
della
DDR
preme
innalzare
la
percentuale
degli
studenti
che
provengono
dagli
strati
sociali
più
bassi
e
che,
all’apertura
delle
università,
costituiscono
appena
il
quattro
per
cento.
Ciò
venne
generalmente
accolto
come
un
nuovo
sforzo
di
giustizia
sociale.
Nella
guerra
di
propaganda
fra
Est
e
Ovest,
i
media
occidentali
furono
pronti
ad
annunciare
la
«bolscevizzazione
delle
università».
Le
maggiori
difficoltà
incontrate
dai
giovani
di
famiglie
borghesi
o
lontane
dal
sistema,
che
volevano
accedere
all’università,
rappresenta
l’altro
lato
della
medaglia.
Il
Ministero
per
la
Ricerca
della
BRD
e
l’Opera
universitaria
tedesca
rendono
noti
i
risultati
di
uno
studio,
analizzati
sessantatré
anni
più
tardi,
nella
Germania
del
2012,
dall’Istituto
per
la
ricerca
universitaria:
oggi
il
cinquanta
per
cento
degli
studenti
viene
da
famiglie
di
laureati.
Vent’anni
abbondanti
dopo
la
riunificazione
«Focus»
intitolava:
«All’università
i
figli
di
laureati
fanno
gruppo
a
sé».
Se
l’obiettivo
è
quello
di
liberare
dalla
selezione
sociale
l’accesso
a
un’istruzione
superiore,
la
DDR
ha
avuto
certamente
più
successo
della
Repubblica
Federale.
Uno
sguardo
al
nucleo
della
politica
scolastica
della
DDR
–
se
si
tralascia
lo
strumentario
linguistico
che
ruota
intorno
alle
«facoltà
degli
operai
e
dei
contadini»
–
potrebbe
risultare
molto
stimolante.
Non
è
possibile
considerare
la
seconda
parte
della
vita
di
Hilde
Benjamin
senza
rivolgere
lo
sguardo
ai
due
stati
tedeschi.
Equivalente
dell’antibolscevismo
imposto
dai
nazionalsocialisti
era,
nella
Repubblica
Federale,
il
contegno
politico
che
le
potenze
occidentali
si
aspettavano
da
una
società
appartenente
al
proprio
orientamento.
Quando
la
coalizione
dei
quattro
alleati
si
spezzò
nel
1948
–
e
poi
in
maniera
definitiva
con
la
formazione
di
due
stati
tedeschi
–
gli
Stati
Uniti
vollero
evitare
che
la
Germania
Federale
finisse
anch’essa
sotto
l’egemonia
moscovita.
Konrad
Adenauer
vide
in
ciò
l’occasione
di
sciogliere
dalla
tutela
delle
potenze
vincitrici
occidentali
la
repubblica
renana
con
la
sua
capitale
provvisoria
Bonn,
rendendosi
indispensabile
alle
potenze
occidentali
come
«baluardo»
ideologico
contro
Mosca.
L’immunizzazione
contro
le
offerte
di
Mosca
per
una
Germania
neutrale
ma
unita
funzionò.
Nessuna
delle
proposte
di
Stalin
in
questo
senso
fu
seriamente
accolta
o
presa
in
esame,
e
sarebbe
stata
rifiutata
di
certo
anche
da
Berlino
Est.
Ciò
d’altro
canto
rafforzò
anche
l’autoesaltazione
della
DDR,
che
vedeva
se
stessa
come
un
progetto
antifascista
alternativo
alla
Repubblica
Federale
Tedesca.
È
vero
che
già
nel
1946
anche
la
SED
eliminò
la
norma
che
non
consentiva
l’adesione
nelle
proprie
fila
agli
ex
membri
del
Partito
nazista.
Nel
complesso
la
DDR
mostrò
di
far
seriamente
i
conti
con
il
nazionalsocialismo.
Lo
confermò
la
reimmigrazione
di
molti
intellettuali
di
sinistra
nello
stato
tedesco
orientale.
La
promessa
della
SED,
che
annunciava
di
voler
percorrere
una
propria
via
tedesca
verso
il
socialismo,
era
nel
contempo
un
richiamo
per
quegli
intellettuali
che
ritornavano
dall’emigrazione
e
speravano
di
trovare
una
terza
strada
fra
il
fascismo
e
il
capitalismo.
Questa
speranza
fu
condivisa
da
filosofi
come
Ernst
Bloch
o
dal
critico
letterario
Hans
Mayer.
Entrambi
avevano
insegnato
a
Lipsia,
prima
di
volgere
delusi
le
spalle
(rispettivamente
nel
1961
e
nel
1963)
alla
DDR.
Alcuni
di
quelli
che
lasciarono
la
DDR
negli
anni
prima
e
dopo
la
costruzione
del
muro
avevano
dovuto
constatare
di
persona
come
le
proprie
convinzioni
socialiste,
di
stampo
individualistico,
non
fossero
gradite
alla
SED.
Il
celebre
cantautore
e
poeta
Wolf
Biermann
era
uno
di
questi.
Chi
dopo
il
1961
cercava
di
superare
senza
permesso
la
ben
sorvegliata
linea
di
demarcazione
fra
Est
e
Ovest
rischiava
di
lasciare
la
propria
vita
sulla
striscia
di
frontiera.
E
nella
Germania
Federale
il
clima
restaurativo
degli
anni
Cinquanta
e
Sessanta
era
soffocante.
La
messa
al
bando
del
KPD
nel
1956
da
parte
della
Corte
costituzionale
federale
e
le
circa
duecentomila
indagini
preliminari
fra
il
1951
e
il
1968
evidenziarono
gli
intenti
di
una
propaganda
diretta
contro
ogni
opposizione
di
sinistra,
la
quale
veniva
costantemente
denunciata
come
avversaria
dell’«ordinamento
liberale».
In
entrambi
gli
stati
tedeschi
esisteva
un
«diritto
penale
dell’atteggiamento
interiore»
(Gesinnungsstrafrecht).
La
Germania
Federale
proibiva
ogni
alternativa
socialista
di
sinistra
o
marxista
che
si
andasse
profilando.
La
DDR
aveva
bisogno
di
Bautzen,
Hohenschönhausen
e
delle
altre
prigioni
della
Stasi,
e
demolì
ogni
speranza
in
un
socialismo
dal
volto
umano.
I
detenuti
divennero
una
merce:
la
Repubblica
Federale
riscattò
fra
il
1963
e
il
1990
circa
trentaquattromila
prigionieri
politici,
detenuti
nella
DDR.
In
cambio
Berlino
Est
incassò
valuta
e
merci
per
un
valore
totale
di
3,5
miliardi
di
marchi.
6
Cioè
i
film
che
invitavano
la
popolazione
a
«resistere»
e
«tenere
duro»
(durchhalten);
il
concetto,
e
il
genere
cinematografico
stesso,
nacquero
dopo
la
disfatta
tedesca
a
Stalingrado.
L’«atterraggio
di
fortuna»
nelle
righe
seguenti
rimanda
alla
commedia
Quax der
Bruchpilot
(Quax
il
pilota
di
fortuna),
uno
dei
film
prediletti
di
Hitler,
storia
di
un
apprendista
pilota
per
caso
[N.d.T.].
7
La
Deutsche
Justizverwaltung
fu
l’organismo
preposto
all’amministrazione
della
Giustizia
nella
Zona
di
occupazione
sovietica
fra
il
1945
e
il
1949
[N.d.T.].
Capitolo
decimo
...
tutto
quel
che
è
diritto
La
scarsa
disponibilità
esibita
dalla
giustizia
della
Germania
Occidentale
a
far
chiarezza
sui
crimini
dello
stato
hitleriano
ha
condotto
alla
disperazione
non
soltanto
i
familiari
delle
vittime.
Gli
assassini
o
i
loro
assistenti,
che
non
avevano
mostrato
alcun
dubbio
di
coscienza
nell’uccidere
a
colpi
di
arma
da
fuoco
o
con
il
gas
gli
oppositori
del
nazismo
o
i
perseguitati
per
motivi
razziali,
poterono
far
conto
invece
su
giudici
straordinariamente
comprensivi.
La
regolare
assoluzione
si
fondava,
con
altrettanta
regolarità,
sul
riconoscimento
della
«situazione
senza
via
d’uscita»
in
cui
si
erano
trovati
gli
accusati,
che
potevano
richiamarsi
all’«obbligo
di
eseguire
gli
ordini»,
a
cui
la
maggior
parte
dei
tribunali
dava
ascolto.
Il
genocidio
a
comando
rimase
impunito.
Così
fu
per
esempio
nel
processo
contro
il
commissario
capo
di
polizia
Heinz
Gerhard
Riedel,
che
nel
giugno
1974
poté
lasciare
da
uomo
libero
il
tribunale
di
Kiel:
era
accertato
che
in
quanto
capo
della
Geheime
Feldpolizei
570
aveva
dato
ordine
di
uccidere
sette
partigiani
prigionieri
in
un
camion
speciale
in
cui
venivano
immessi
gas
di
scarico.
Il
tribunale
giudicò
che
l’azione
non
costituiva
omicidio
«poiché
non
era
stata
né
“efferata”
né
realizzata
“a
tradimento”».
I
partigiani
avrebbero
potuto
sapere
che
i
tedeschi
impiegavano
i
cosiddetti
Gaswagen,
cioè
i
«camion
del
gas».
Le
vittime
quindi
non
erano
state
«in
buona
fede»,
«e
il
fatto
non
presentava
perciò
alcun
carattere
di
insidia».
Oppure
il
proscioglimento
di
un
neurologo,
coinvolto
in
innumerevoli
omicidi
per
eutanasia.
La
pretura
di
Colonia
attestò
che
il
medico
accusato
aveva
commesso
quei
delitti
per
«idealismo».
Ciò
si
era
manifestato
non
da
ultimo
nella
sollecitudine
con
cui
«si
era
premurato
di
ottenere
le
bare
necessarie
per
seppellire
le
sue
vittime».
Negli
anni
Settanta
un
tribunale
di
Monaco
rifiutò
l’apertura
di
un
procedimento
contro
ex
appartenenti
alle
SS,
adducendo
quale
motivazione
il
loro
«obbligo
di
eseguire
gli
ordini»:
di
fatto
era
stato
prestato
concorso
nell’omicidio
collettivo
di
un
numero
di
persone
compreso
fra
novantamila
e
quattrocentocinquantami
e
tuttavia
costoro
non
potevano
essere
imputati
perché
avrebbero
«agito
nella
consapevolezza»
di
trovarsi
in
una
situazione
totalmente
senza
via
d’uscita
e
di
non
poter
fare
altro
che
«ubbidire
agli
ordini
loro
impartiti».
Sono
tre
esempi
fra
mille
sul
funzionamento
della
giustizia
nella
Repubblica
Federale
dopo
il
1945.
Dopo
i
tredici
processi
di
Norimberga
si
giunse
nel
giro
di
poco
tempo
a
leggi
che
concedevano
l’amnistia
agli
ex
nazisti.
Con
la
legge
sui
cosiddetti
«131»8
fu
abolito
il
divieto,
sanzionato
dagli
alleati
negli
accordi
di
Potsdam,
di
riassumere
quei
funzionari
che
nel
1937
fossero
stati
membri
di
un’organizzazione
dello
Stato
nazionalsocialista
o
del
Partito.
Nel
1948
i
procedimenti
contro
crimini
nazisti
erano
1819,
nel
1955
si
erano
ridotti
a
21.
Definitivamente
al
riparo
da
ogni
rischio
si
ritrovarono
gli
«assistenti
omicidi»
il
1°
ottobre
1968,
quando
il
Parlamento
federale
approvò
la
legge
introduttiva
alla
legge
sugli
illeciti
amministrativi.
Eduard
Dreher,
alto
funzionario
presso
il
Ministero
della
Giustizia
a
Bonn,
ex
nazista
e
responsabile
a
quel
tempo
per
la
riforma
della
Giustizia,
aveva
introdotto
nel
testo
della
legge
una
modifica
del
codice
penale,
con
la
sconcertante
conseguenza
di
una
piena
e
retroattiva
impunità
per
una
considerevole
parte
dei
burocrati
della
morte
nazisti.
Sapeva
quel
che
faceva,
quando
accorciò
a
quindici
anni
il
termine
di
prescrizione
per
il
concorso
in
omicidio.
I
reati
il
cui
termine
era
di
quindici
anni
erano
quindi
prescritti
già
a
partire
dall’8
maggio
1960.
Con
questa
amnistia
velata,
di
cui
nessuno
parve
accorgersi,
i
pianificatori
dello
sterminio
che
per
esempio
avevano
servito
nell’Ufficio
centrale
per
la
sicurezza
del
Reich
non
potevano
più
essere
chiamati
a
rispondere.
In
epoca
nazista
Dreher
era
procuratore
presso
il
tribunale
speciale
di
Innsbruck,
dove
era
stato
un
propugnatore
intransigente
della
pena
di
morte
che
chiedeva
per
il
più
lieve
reato,
anche
se
non
riusciva
sempre
a
farla
accettare.
Nella
DDR,
invece,
l’epoca
fra
il
1945
e
il
1949
era
considerata
il
periodo
del
«cambiamento
radicale
antifascistademocratico».
Da
una
statistica
della
DDR
si
può
rilevare
che
fra
il
1945
e
il
1965
furono
condannati
complessivamente
1.208
criminali
nazisti.
A
118
persone
fu
comminata
la
pena
di
morte,
e
in
231
casi
l’ergastolo.
Fra
il
1965
e
il
1978
ci
furono
altre
54
condanne.
Poiché
nella
DDR
non
era
prevista
alcuna
verifica
dei
verdetti
da
parte
di
una
corte
d’appello
di
livello
superiore,
non
si
può
dire
se
i
processi
fossero
giuridicamente
ineccepibili
anche
da
un
punto
di
vista
formale
e
includessero
anche
una
difesa
d’ufficio.
Durante
i
primi
cinque
anni
dopo
il
1945
il
diritto
degli
Alleati
era
comunque
il
fondamento
per
le
indagini
contro
i
criminali
nazisti.
Ciò
valeva
a
Est
come
a
Ovest.
Complessivamente
nella
DDR
per
ogni
centomila
abitanti
fu
condannato
per
crimini
nazisti
un
numero
doppio
di
persone
rispetto
alla
Repubblica
Federale.
Il
bilancio
della
revisione
giuridica
dei
crimini
nazisti
durante
il
primo
decennio
del
dopoguerra
in
Germania
Occidentale
fu
dunque
disarmante.
Al
termine
delle
110.000
indagini
preliminari
avviate
dopo
la
guerra,
che
tennero
impegnati
i
tribunali,
furono
condannate
secondo
la
legge
circa
6.500
persone,
166
delle
quali
all’ergastolo.
Giudici
e
procuratori
dello
stato
nazionalsocialista,
i
quali
avevano
pronunciato
complessivamente
50.000
sentenze
a
morte,
non
dovettero
temere
di
essere
tenuti
a
giustificarsi
davanti
a
un
tribunale.
La
generazione
dei
colpevoli
non
voleva
che
si
ricordasse,
i
mezzi
di
informazione
e
la
politica
crearono
il
clima
necessario
a
questo
scopo.
Perciò
era
necessario
contrapporre
a
sé
l’immagine
della
DDR
come
«regno
del
male».
In
questo
il
nazionalsocialismo
era
scivolato
quasi
al
secondo
posto,
diventando
un
che
di
quasi
trascurabile.
I
ricordi
dell’epoca
hitleriana
e
del
suo
«strappo
dalla
civiltà»
furono
intenzionalmente
soffocati
per
molti
anni.
In
un
sondaggio
del
1951
lo
stato
nazionalsocialista,
secondo
l’opinione
del
quaranta
per
cento
dei
tedeschi
occidentali,
aveva
avuto
«anche
del
buono»
e,
fino
agli
anni
Sessanta,
per
una
minoranza
non
trascurabile
Hitler
era
stato
un
«importante
uomo
politico».
Fu
Adenauer
stesso
che
contribuì
a
tutto
questo.
Al
primo
congresso
federale
dell’Unione
Cristiano-Democratica
(CDU)
a
Goslar,
in
cui
si
riunì
la
CDU
di
tutte
e
tre
le
zone
occidentali,
Adenauer
arrivò
a
formulare
questo
paragone:
«La
pressione
che
il
nazionalsocialismo
[...]
ha
esercitato
attraverso
i
campi
di
concentramento
era
contenuta
rispetto
a
quel
che
succede
ora
nella
zona
orientale».
Il
fascismo
hitleriano
era
ufficialmente
descritto
come
un
teatro
di
guerra
secondario,
e
del
tutto
giustificabile,
della
storia
tedesca.
Parole
simili
promossero
la
restaurazione
e
l’ascesa
di
noti
ex
nazisti
nell’epoca
di
Adenauer.
Conseguentemente
cospicuo
era
il
loro
numero
nelle
più
alte
cariche
dello
Stato
e
della
società.
Fra
questi
c’era
anche
Hans
Maria
Globke,
promosso
sottosegretario
di
Stato
nella
Cancelleria.
Rimase
dieci
anni
in
quella
posizione.
Si
dimise
solo
nel
1963,
quando
fu
condannato
all’ergastolo
in
absentia
nella
DDR.
Si
era
segnalato
fra
l’altro
come
commentatore
delle
leggi
razziali.
Lui
come
Theodor
Oberländer
e
Waldemar
Kraft,
e
accanto
a
loro
noti
medici
e
professori,
figuravano
nel
fitto
“libro
bruno”
delle
élite
hitleriane
che
ricoprivano
le
massime
cariche
nella
Repubblica
Federale.
La
guerra
fredda
agevolò
alla
BRD
l’obiettivo
di
dipingere
un
quadro
storico
sorretto
da
una
perdita
di
memoria.
Come
mostra
per
esempio
il
Land
della
Bassa
Sassonia.
Già
nel
1946
si
arrivò
là
a
un’amnistia
«fredda»
per
la
giustizia.
Furono
istituite
«commissioni
di
epurazione»
locali,
mentre
il
regime
militare
si
riservava
ancora
temporaneamente
l’ultima
decisione.
Per
la
giustizia
venne
creato
un
comitato
speciale
apposito,
che
inquadrava
la
maggioranza
dei
giudici
e
dei
pubblici
ministeri
nel
gruppo
dei
«fiancheggiatori»
(Mitläufer,
Livello
IV)
o
degli
«scagionati»
(Entlasteten,
Livello
V).
La
porta
ai
vecchi
impieghi
era
con
ciò
aperta.
La
famigerata
«Fabbrica
dei
fiancheggiatori»
si
mise
in
moto,
e
la
Bassa
Sassonia
divenne
un
rifugio
particolarmente
ambito
per
giuristi
dal
passato
compromesso.
La
percentuale
dei
membri
del
Partito
nazionalsocialista
fra
i
giudici
della
Bassa
Sassonia
salì
dal
65
per
cento,
prima
della
fine
della
guerra,
fino
al
90
per
cento
nel
1948.
I
«terribili»
giuristi
dell’epoca
nazista
continuarono
a
essere
giudici
o
procuratori,
mostrando
in
questo
modo
come
la
giustizia
non
si
adeguasse
solo
a
un
certo
sistema
di
valori
ma
anche
al
potere
stesso,
e
come
in
genere
diventi
norma
giuridica
ciò
che
serve
gli
interessi
di
chi
in
quel
momento
lo
detiene.
In
questa
logica
anche
le
leggi
e
l’igiene
razziali
con
cui
la
vita
«priva
di
valore»
veniva
annientata
erano
giustificate,
e
si
poté
andare
avanti
con
la
coscienza
pulita.
Il
rifiuto
di
confrontarsi
politicamente
e
storicamente
con
l’epoca
nazionalsocialista
non
poteva
tuttavia
reggere
a
lungo.
I
motivi
erano
molti,
e
il
principale
era
la
divisione
del
paese.
Essa
contribuì
a
far
sì
che
le
élite
brune,
che
in
Occidente
avevano
riacquistato
«potere
e
influenza»,
non
potessero
sfuggire
all’ombra
lunga
del
passato.
«Malgrado
il
silenzio
collettivo
e
gli
sforzi
di
occultamento,
la
speranza
nel
grande
oblio
non
si
realizzò»
constatava
giustamente
Norbert
Frei
nel
suo
libro
Carriere.LeélitediHitler.
Poiché
c’erano
di
fatto
due
«Germanie»:
la
DDR
non
lesinava
di
pubblicare
documenti
e
altre
prove
contro
criminali
nazisti,
quando
ciò
le
appariva
politicamente
opportuno.
Per
migliorare
la
reputazione
della
Germania
Federale,
e
poiché
un
tale
sviluppo
suscitava
grande
apprensione
all’estero,
a
Bonn
furono
valutate
diverse
iniziative
di
pubbliche
relazioni.
I
funzionari
responsabili
erano
anch’essi
ex
membri
del
partito.
Questo
valeva
inoltre
per
due
terzi
di
tutti
i
funzionari
di
quello
che
sarebbe
stato
in
seguito
il
Ministero
degli
Affari
esteri
della
Repubblica
Federale,
e
quindi
anche
per
Herbert
Blankenhorn,
temporaneamente
segretario
personale
di
Adenauer,
e
per
l’allora
portavoce
del
governo
Günter
Diehl,
entrambi
incaricati
di
«rendere
più
attraente»
l’apparato
governativo
della
Federazione
con
le
sue
tinte
brune.
E
così
i
crimini
nazisti
e
la
scarsa
disponibilità
occidentale
a
rivedere
criticamente
il
passato
divennero
strumenti
della
guerra
di
propaganda
fra
Est
e
Ovest.
Per
gli
ex
nazisti
nei
media
della
Repubblica
Federale
Hilde
Benjamin
era
un
benvenuto
schermo
di
proiezione.
Lei
non
avrebbe
mai
messo
la
parola
«fine»,
sempre
invocata
tra
le
fila
della
generazione
dei
colpevoli.
Non
la
portò
nemmeno
la
riunificazione,
al
contrario:
negli
anni
a
essa
successivi
un
patrimonio
ideologico
di
estrema
destra,
insieme
a
uno
spontaneo
e
virulento
razzismo
quotidiano,
proruppe
nuovamente
dagli
strati
profondi
e
grezzi
della
rimozione
collettiva.
Nuovamente
i
crimini
d’odio
contro
gli
immigrati
e
i
richiedenti
asilo
a
Est
e
a
Ovest
furono
perseguiti
in
maniera
insufficiente.
Anche
nella
Germania
riunificata
si
assistette
a
un
chiaro
fallimento
delle
istituzioni,
dalla
polizia
ai
Servizi
di
sicurezza
interni.
Solo
di
rado
ci
si
chiese
se
una
delle
cause
fosse
la
scarsa
disponibilità,
nella
Repubblica
Federale
dopo
il
1945,
a
fare
i
conti
con
la
catastrofe
nazista.
Una
mozione
presentata
al
Parlamento
dalla
SPD
e
dai
Verdi,
che
nel
2012
fu
accolta
a
maggioranza
dalla
sua
Commissione
culturale,
chiese
di
effettuare
uno
studio
indipendente
che
accertasse
in
quale
misura
all’interno
dei
tre
ministeri
degli
Interni,
della
Giustizia
e
delle
Finanze
fossero
riscontrabili
«continuità
istituzionali
e
relativamente
alle
persone».
Sette
storici,
udita
la
richiesta
di
una
simile
indagine,
vi
aderirono:
i
professori
Micha
Brumlik
del
FritzBauer-Institut
e
Michael
Stolleis
del
Max-PlanckInstitut
per
la
Storia
giuridica
europea
si
trovarono
d’accordo
con
altri
cinque
storici
di
fama
sul
fatto
che
dopo
il
1945
i
tre
ministeri
avessero
fatto
poco
per
favorire
un
riesame
critico.
In
parte
l’avrebbero
consapevolmente
bloccato.
Se
la
mozione
fosse
accolta
a
maggioranza
anche
nell’assemblea
plenaria
del
Parlamento
potrebbe
aprirsi
un
nuovo
capitolo
nel
confronto
con
la
dittatura
nazista.
Ciò
che
stava
bene
alla
politica
e
alla
giustizia
non
dispiaceva
nemmeno
ai
giornalisti.
Chi
oggi,
quasi
settant’anni
dopo
la
fine
della
guerra,
sfoglia
i
numeri
dello
«Spiegel»
e
della
«Zeit»
fino
alla
fine
degli
anni
Cinquanta
e
legge
quel
che
si
scriveva
sulla
zona
sovietica
divenuta
poi
la
DDR,
deve
sopportare
una
lingua
che
si
avvicinava
molto
al
registro
della
propaganda
di
regime
nazista.
Nei
giornali
non
si
provava
alcuna
vergogna
a
sferrare
attacchi
misogini,
quando
si
trattava
di
screditare
la
nemica
prediletta,
Hilde
Benjamin.
Alcuni
commentatori
proponevano
un’immagine
femminile
ancora
influenzata
dalla
Croce
d’onore
nazista
alle
madri
tedesche.
Il
ministro
della
DDR
non
poteva
che
esservi
rappresentato
come
una
«calzetta
azzurra»,
cioè
come
una
donna
istruita
pedante
e
saccente.
Così
appare
infatti
nel
testo
maschilista
di
una
storia
di
copertina
che
le
dedicò
lo
«Spiegel»
nel
1951:
«Gli
anni
migliori
della
sua
vita
Hilde
Benjamin,
nata
Lange,
li
trascorse
davanti
alle
porte
delle
sale
da
ballo
della
vita.
Né
in
quanto
donna
né
in
quanto
avvocato
le
arrisero
mai
la
fortuna
e
il
successo».
Uno
sguardo
alla
sua
vita
in
epoca
nazista
avrebbe
dovuto
proibire
in
realtà
un
testo
del
genere:
dodici
anni
trascorsi
nel
divieto
di
esercitare
la
professione,
il
matrimonio
con
il
medico
Georg
Benjamin,
che
fu
uno
fra
milioni
di
vittime,
e
la
costante
paura
per
il
figlio
Mischa,
esposto
fin
da
bambino
alle
persecuzioni
in
base
alle
leggi
razziali.
Gli
autori
della
rivista
amano
creare
l’impressione
di
essere
stati
molto
vicini
a
Hilde
per
un
certo
periodo
di
tempo
e
di
averla
conosciuta
come
se
fossero
stati
compagni
di
scuola,
quei
compagni
che
nella
scuola
femminile
«GumbelLyzeum»,
che
lo
«Spiegel»
sosteneva
avesse
frequentato
Hilde,
non
avrebbero
nemmeno
potuto
esserci.
In
realtà
Hilde
era
stata
allieva
dell’AugusteVictoria-Lyzeum
di
Berlino.
Nel
dicembre
1952
si
leggeva
che
le
sue
compagne
di
classe
la
consideravano
un
«freddo
mostro
di
intelligenza».
Si
era
riusciti
infatti
a
scovare
delle
«studentesse
liceali»
che
parlavano
dell’allieva
modello
Hilde
Lange
come
di
«una
creatura
con
le
trecce
nerazzurre
e
la
pelle
giallo
bruno».
L’«indiana»
della
Dünterstraße
era
«un
tipo
interessante,
ma
poco
simpatico».
Nel
paragrafo
successivo
la
ragazza
intelligentissima
e
dinoccolata
aveva
già
messo
su
«del
grasso.
Le
guance
sottolineano
il
mento
sfuggente.
Sopra
gli
occhi
vivaci
e
le
sopracciglia
folte
si
annidano
le
trecce,
raccolte
sul
capo».
L’effetto
sul
lettore
era
calcolato:
dopo
la
guerra,
a
causa
della
scarsità
di
spazio
abitativo,
l’igiene
era
spesso
carente.
In
ogni
scuola,
in
ogni
colonia
infantile
si
annidava
fra
i
capelli
di
adulti,
ragazzi
e
bambini
ben
altro
che
«trecce
raccolte
sul
capo».
Rimandando
a
una
registrazione
dal
vivo
dell’emittente
radiofonica
del
settore
americano
(RIAS)
si
rammentava
un
sondaggio
riguardante
«quella
donna
in
un
processo
farsa
nella
zona
sovietica»,
lei
e
la
sua
«voce
scura,
monotona,
impersonale,
spaventosamente
nota
a
ciascuno
nella
zona
sovietica,
che
risuona
persino
nelle
orecchie
di
milioni
di
ascoltatori
tedeschi
occidentali,
quando
esorta
e
chiede:
“avanti,
imputato,
avanti!”
e
“cos’ha
fatto
poi?”».
Chiaro:
la
donna
che
interrogava,
così
«spaventosamente
nota»,
era
la
cinquantenne
Hilde
Benjamin,
vicepresidente
della
corte
suprema
della
Repubblica
Democratica
Tedesca,
descritta
dallo
«Spiegel»
come
«rappresentante
di
quella
perfida
“giustizia
progressista”
che
si
è
sviluppata
nella
Germania
centrale
durante
gli
ultimi
sette
anni
e
che
proprio
adesso
una
riforma
della
giustizia
trasforma
forzatamente
in
direttive
di
legge».
La
descrizione
della
sinistra
figura
che
ne
era
responsabile
terminava
con
la
frase:
«Nessun
altro
che
non
sia
russo
ha
avuto
una
parte
così
ampia
in
questo
sviluppo
come
Hilde
Benjamin,
la
comunista
venuta
dall’appartamento
di
Steglitz
con
le
poltrone
di
velluto».
Si
può
accennare
di
sfuggita
come
gli
autori
credessero
che
Hilde
fosse
la
vedova
di
Walter
Benjamin,
anziché
del
fratello
Georg.
Più
volte
nell’articolo
i
fratelli
vengono
scambiati.
Ciò
che
lo
«Spiegel»
in
quegli
anni
definiva
«scellerata»
era
la
figura
del
«giudice
popolare»
e
del
«procuratore
popolare»
che,
come
la
rivista
segnalava
ai
suoi
lettori,
non
erano
«strumenti
di
un’astratta
giustizia,
ma
sono
di
fatto
la
leva
per
scardinare
il
diritto
borghese
e
spezzare
così
il
dominio
della
borghesia».
Hilde
Benjamin,
a
cui
nel
gergo
dello
«Spiegel»
veniva
immancabilmente
assegnato
il
nomignolo
«Hilde
la
Sanguinaria»,
era
descritta
come
l’«esecutrice
inesorabile
di
una
[...]
volontà
di
partito
non
ancora
del
tutto
compresa
nella
sua
portata
complessiva».
In
effetti
non
esisteva
quasi
quel
«giudice
popolare
e
antifascista,
dotato
di
giudizio
ed
esperienza
della
vita»
sul
quale
Hilde
Benjamin
puntava,
«che
prima
o
durante
il
periodo
hitleriano,
o
anche
dopo
il
tracollo,
si
era
impegnato
attivamente
per
la
democrazia»,
come
auspicava
in
Meclemburgo
il
quotidiano
«Neuer
Weg».
Si
cercava
il
«combattente
consapevole
per
una
nuova
Germania».
Parlando
del
quarto
corso
di
formazione
per
giudici
popolari,
nell’ottobre
1948,
il
giornale
accennava
alla
preparazione
richiesta
per
i
futuri
magistrati:
«È
sufficiente
aver
terminato
la
scuola
dell’obbligo;
presupposto
per
frequentare
il
corso
con
profitto
sono
tuttavia
una
buona
capacità
di
comprensione,
facoltà
logiche
e
giudizio
logico,
nonché
la
capacità
di
utilizzare
correttamente
le
parole
e
di
esprimersi
fluentemente,
sia
in
forma
orale
che
scritta».
Limite
minimo
di
età
per
i
partecipanti
ai
corsi
erano
venticinque
anni,
quarantacinque
il
limite
massimo.
Il
corso
era
gratuito,
durava
un
anno,
e
veniva
assegnata
inoltre
una
piccola
somma
di
denaro
mensile.
Anche
alla
famiglia
era
garantito
un
sussidio,
a
seconda
del
numero
dei
componenti.
Lo
«scellerato
diritto
progressista»
e
i
«processi
farsa»
della
DDR,
a
essa
legati
e
stigmatizzati
dallo
«Spiegel»,
furono
paragonati
alla
Giustizia
durante
il
nazionalsocialismo.
Si
ricordava
l’interrogatorio
degli
accusati
dopo
l’attentato
a
Hitler
del
20
luglio
da
parte
di
Roland
Freisler,
presidente
del
tribunale
speciale
nazista
e
principale
pubblico
accusatore
dello
stato
hitleriano.
Quel
che
qui
si
considerava
era
solo
la
persona
dell’accusatore
nazista,
non
il
sistema
giuridico
disumano
che
egli
serviva.
Esemplare
il
suo
interrogatorio
a
Peter
Yorck
von
Wartenburg:
«Yorck
von
Wartenburg:
“Signor
presidente,
ho
già
dichiarato
durante
il
mio
interrogatorio
che
lo
sviluppo
preso
dalla
visione
del
mondo
nazionalsocialista...”.
«Freisler
(interrompendo):
“...
non
la
trovava
d’accordo!
Per
dirla
concretamente,
lei
gli
avrebbe
dichiarato
[a
Stauffenberg]
che
in
merito
alla
questione
ebraica
non
le
stava
bene
lo
sterminio
degli
ebrei,
e
nemmeno
la
concezione
nazionalsocialista
del
diritto”».
Almeno
qui
gli
autori
dell’articolo
sullo
«Spiegel»
avrebbero
potuto
introdurre
un
elemento
di
sorpresa,
invocando
una
riforma
del
Codice
civile
che
superasse
il
diritto
nazista
e
–
al
di
là
della
propria
agenda
di
riforme
che
avrebbe
dovuto
attendere
comunque
più
di
un
decennio
–
si
confrontasse
con
la
politica
giuridica
della
DDR.
O
avrebbero
potuto
ricordare
Globke,
sottosegretario
di
stato
di
Adenauer,
i
cui
commenti
alle
leggi
razziali
nazionalsocialiste
erano
stati
citati
da
Freisler.
Proprio
questo
non
fecero
gli
autori
dell’articolo.
Michael,
figlio
di
Hilde
Benjamin,
giurista
anch’egli
e
professore
all’Accademia
di
Stato
e
Diritto
a
Potsdam,
dopo
la
fine
della
DDR
si
occupò
variamente
del
nazionalsocialismo
in
lettere,
articoli
e
innumerevoli
osservazioni
analitiche,
pur
essendo
il
suo
sguardo
rivolto
in
primo
luogo
allo
stato
appena
scomparso.
Lo
mostra
anche
la
sua
reazione
a
un
articolo
dello
storico
Jochen
Czerny
sull’influsso
dell’epoca
nazionalsocialista
sulla
DDR,
scritto
che
Michael
giudicò
«opportuno
considerare
e
discutere».
Czerny
introduceva
nel
suo
confronto
fra
lo
stato
nazista
e
la
DDR
una
necessaria
discriminante:
senza
paragoni
era
«il
modo
in
cui
la
Germania
nazista
faceva
violenza
all’umanità».
E
tuttavia
osservare
il
«fascismo
quotidiano»
lo
sollecitava
a
un
confronto.
Ci
sarebbero
state
«vergognose
somiglianze
fra
il
nazionalsocialismo
e
il
socialismo
praticato
nella
DDR
per
ciò
che
riguardava
le
strutture
del
potere,
i
metodi
e
i
rituali».
Michael
Benjamin
vedeva
le
cose
in
maniera
simile,
relativizzando
tuttavia
ciò
che
Czerny
definiva
«fascismo
quotidiano»
e
che
gli
rammentava
la
DDR,
poiché
per
Benjamin
quello
era
solo
«un
minuscolo
frammento
di
tutta
l’inveterata
meschinità
di
quell’epoca
in
Germania».
E
poi
descrive
la
sua
esperienza
quotidiana
nella
Germania
nazista:
«Razzista
da
cima
a
fondo,
nazionalista,
militarista
e
anticomunista.
Tutto
dipendeva
dalla
certificazione
di
arianità,
quel
che
cioè
si
era
e
si
poteva
fare,
come
si
viveva
e
come
si
moriva,
quel
che
si
poteva
imparare,
mangiare
e
bere.
Quotidianità
furono
all’inizio
i
negozi
ebrei
distrutti,
e
poi
le
famiglie
ebree
arrestate.
Fra
le
cose
più
terribili
del
potere
nazista
c’erano
la
discriminazione
razziale,
la
stella
di
Davide,
gli
emblemi
altrettanto
umilianti
che
polacchi
e
Ostarbeiter
(lavoratori
dell’Est)
dovevano
portare
sugli
abiti.
Quotidianità
erano
le
condanne
per
Rassenschande
(oltraggio
alla
razza)
o
Wehrkraftzersetzung
(corruzione
del
potere
difensivo),
erano
i
campi
di
concentramento,
l’esaltazione
della
razza
padrona,
gli
insegnanti
che
punivano
con
il
bastone,
e
poi
il
popolo
privo
di
spazio
vitale,
il
culto
della
fecondità
per
le
donne
–
eccetera
eccetera».
Benjamin
scrive
che
si
risparmia
di
contrapporre
la
quotidianità
della
DDR
a
queste
realtà.
«Si
può
parlare
di
antifascismo
obbligato,
ma
il
fatto
che
quella
quotidianità
[...]
fosse
stata
eliminata
fu
percepito
come
una
liberazione
da
tutti
quelli
che
ne
erano
stati
colpiti».
A
ciò
aggiunge
un
secondo
pensiero:
«Ma
non
era
così.
L’idea
che
fenomeni
come
l’anticomunismo
e
l’antisemitismo
fossero
stati
estirpati
una
volta
per
tutte,
e
che
nella
DDR
non
fosse
più
necessario
preoccuparsi
di
una
loro
comparsa,
non
si
dimostrò
solo
un’illusione
poco
scientifica
ma
fu
qualcosa
di
esiziale.
La
quotidianità
nazista,
proprio
perché
si
trattava
di
una
quotidianità,
era
radicata
nelle
menti
più
profondamente
di
quanto
noi
volessimo
riconoscere
e
di
quanto
dovemmo
constatare
con
orrore
dopo
il
1989.
Ma
non
era
la
quotidianità
della
DDR».
Dal
1952
il
tono
allo
«Spiegel»
lo
danno
i
due
responsabili
dei
settori
«Esteri»
e
«Affari
internazionali»,
Horst
Mahnke
e
Georg
Wolff,
entrambi
ex
ufficiali
delle
SS
e,
come
puntualizza
Lutz
Hachmeister
nella
sua
raccolta
sui
«signori
giornalisti»
in
tinta
bruna,
«ex
specialisti
del
Servizio
di
Sicurezza
(Sicherheitsdienst,
SD)
di
Reinhard
Heydrich».
Il
capo
dell’intero
Servizio
di
sicurezza
interno,
il
professor
Franz
Alfred
Six,
che
guidò
anche
la
carriera
di
Adolf
Eichmann,
nel
1948
era
stato
condannato
da
un
tribunale
alleato
a
venti
anni
di
reclusione
come
criminale
di
guerra,
ma
già
nel
1952
era
stato
graziato
e
rilasciato
dal
carcere
di
Landsberg.
Anche
lui
si
era
stabilito
ad
Amburgo.
Là
divenne
direttore
di
una
casa
editrice
e
pubblicò
libri
di
alti
gerarchi
nazisti
con
ambizioni
accademiche,
che
a
loro
volta
venivano
recensiti
dallo
«Spiegel».
Per
esempio
l’opera
Der
Frieden hat eine Chance
(La
pace
ha
un’occasione),
a
cui
venne
dedicata
una
breve
recensione
nel
1954.
Gli
autori
erano
i
redattori
e
i
compagni
dei
vecchi
nazisti
Six,
Wolff
e
Mahnke,
che
avevano
scritto
il
libro
«facendo
evidente
ricorso
a
materiali
segreti»,
come
specificava
Hachmeister.
Avevano
buoni
contatti
con
le
cordate
brune,
fino
ai
servizi
segreti
dell’ex
generale
di
brigata
Reinhard
Gehlen
a
Monaco,
precursore
del
Servizio
informazioni
federale
(Bundesnachrichtendiens
BND),
la
cui
vicenda
postbellica
con
le
sue
infiltrazioni
da
parte
di
ex
appartenenti
alle
SS
e
al
Servizio
di
sicurezza
(SD)
è
ugualmente
documentata.
Le
storie
sul
passato
nazista
si
vendevano
benissimo,
e
questo
era
uno
dei
motivi
per
cui
la
rivista
si
era
assicurata
i
loro
servizi.
Si
dava
per
scontato
che
i
vecchi
nazisti
nella
redazione
non
sarebbero
stati
capaci
di
operare
alcuna
differenziazione
rispetto
a
quello
che
chiamavano
«bolscevismo».
Da
qui
veniva
anche
il
tono
disinvolto
da
circolo
ufficiali.
Passarono
altri
anni
prima
che
nel
1959
la
rivista
cominciasse
a
scollare
Hilde
Benjamin
dallo
specchio
deformante
della
guerra
fredda.
Per
la
prima
volta
apparve
un
commento
misurato
sul
suo
lavoro
di
vicepresidente
della
Corte
suprema
della
DDR.
Era
«notevole»,
si
legge
tutt’a
un
tratto,
«quante
poche
condanne
a
morte
avesse
pronunciato
nei
quattri
anni
in
cui
era
stata
in
servizio
e
quante
fossero
state
invece
le
condanne
alla
reclusione».
Segue
poi
un
elenco
dei
suoi
verdetti:
«Dei
sessantasette
accusati
che
in
quattro
anni
sono
apparsi
davanti
al
suo
scranno
due
sono
stati
condannati
a
morte,
dodici
all’ergastolo
e
gli
altri
complessivamente
a
cinquecentotrentasei
anni
di
carcere
duro
e
a
tredici
anni
di
reclusione».
Anche
il
bilancio
della
rivista,
espresso
in
una
lingua
quasi
obiettiva
e
tollerabile,
era
sorprendente:
«Nelle
sue
vesti
di
giudice
la
Benjamin
non
era
una
truculenta
riedizione
femminile
di
Freisler,
bensì
una
fredda
marxista
che
puntava
all’effetto
politico
dei
suoi
verdetti».
Con
il
suo
lavoro
Hilde
Benjamin
non
si
faceva
amici
né
nella
DDR
né
in
Occidente.
Nella
DDR
l’espropriazione
della
grande
industria
e
la
riforma
agraria
erano
considerate
un
importante
contributo
a
ciò
che
Karl
Marx
chiamava
il
superamento
della
contraddizione
fondamentale
fra
il
carattere
sociale
del
lavoro
e
l’appropriazione
economica
privata.
Dovettero
sperimentarlo
anche
i
dirigenti
dei
gruppi
industriali
IG-
Farben
e
Solvay,
accusati
di
reati
economici.
La
sede
del
gruppo
Solvay
era
a
Bernburg,
vicino
a
Magdeburgo,
dove
era
nata
Hilde
Benjamin.
Là
suo
padre
aveva
compiuto
la
sua
formazione
commerciale,
prima
che
la
famiglia
si
trasferisse
a
Berlino.
Gli
accusati
erano
oppositori
convinti
della
statalizzazione
degli
stabilimenti
rimasti
nella
Zona
di
Occupazione
Sovietica.
Era
chiaro
che
la
DDR
si
sarebbe
difesa
contro
il
sabotaggio
e,
come
a
Bernburg,
contro
il
trasferimento
di
capitali
nella
Repubblica
Federale.
Gli
accusati
non
facevano
alcun
mistero
dell’intenzione
di
danneggiare
l’economia
della
DDR.
I
verdetti
oscillano
fra
i
due
e
i
quindici
anni
di
reclusione.
Hilde
Benjamin
fece
capire
subito,
senza
possibilità
di
dubbio,
che
il
procedimento
e
i
verdetti
avrebbero
dovuto
essere
anche
un
avvertimento
a
tutti
quelli
che
intendevano
similmente
danneggiare
la
DDR.
Parlava
perciò
del
«grande
significato
educativo
di
questo
processo»
e
delle
«deprecabili
convinzioni
degli
accusati».
Su
questa
linea
erano
i
titoli
della
stampa
orientale:
«I
criminali
di
Bernburg»
o
«I
sabotaggi
dei
lacchè
della
Solvay».
Il
processo
contro
la
Solvay
a
Bernburg
e,
in
precedenza,
quello
contro
nove
alti
dirigenti
della
Conti-Gas
a
Dessau
contribuirono
a
formare
la
sua
immagine
di
«spietato
giudice».
In
base
agli
accordi
fra
gli
alleati
a
Potsdam,
anche
la
Conti-Gas
era
stata
espropriata.
I
vertici
del
gruppo
industriale
avevano
tentato
di
trasferire
illegalmente
a
Occidente,
cioè
a
Hagen
in
Vestfalia,
sede
della
società
affiliata,
i
capitali
che
si
trovavano
a
Est.
L’ordine
di
grandezza
era
quello
del
milione
di
Reichsmark.
Hilde
Benjamin
non
aveva
per
tutto
ciò
la
minima
comprensione.
Lo
giudicava
un
attacco
al
proprio
stato.
E
sfavorevole
era
dunque
la
sua
predisposizione
verso
«gli
uomini
del
monopolio»,
che
definiva
«caratterialmente
deteriori».
L’immagine
del
giudice
senza
pietà
si
confaceva
alla
Guerra
fredda.
Essa
serviva
a
sua
volta
l’immagine
che
l’Occidente
aveva
di
sé,
cioè
la
sua
convinzione
di
rappresentare
la
parte
migliore
dell’umanità.
Le
responsabilità
della
generazione
dei
colpevoli
dello
stato
nazista
erano
invece
misteriosamente
sbiadite.
L’evidente
pacatezza
con
cui
la
politica
e
i
mezzi
di
informazione
occidentali
guardavano
il
passato
delle
élite
vecchie/nuove
e
la
richiesta,
avanzata
molto
presto,
di
un’amnistia
per
i
criminali
di
guerra
condannati
possono
aver
rafforzato
Hilde
Benjamin
nella
sua
convinzione
che
soltanto
la
DDR
facesse
seriamente
i
conti
con
il
fascismo;
la
sua
vita
doveva
contribuire
a
questo.
Possono
avervi
giocato
un
ruolo
anche
i
ripetuti
attacchi
contro
il
regime
della
DDR,
compiuti
dai
gruppi
della
resistenza
che
agivano
in
clandestinità.
Nei
quotidiani
tedeschi
occidentali
si
riportavano
in
ogni
caso
sempre
nuove
notizie
su
atti
di
sabotaggio
nella
Zona
di
Occupazione
Sovietica.
Anche
queste
azioni
indussero
alla
creazione,
nel
maggio
1950,
del
Ministero
per
la
Sicurezza
di
stato
(Staatssicherheit).
Da
qui
si
sviluppò
la
capillare
struttura
della
sicurezza
interna
nella
Repubblica
Democratica
Tedesca.
Un
anno
dopo
la
fondazione
della
DDR,
nell’autunno
1950,
sui
giornali
irreggimentati
campeggiava
il
titolo
sensazionalistico:
«Gangster,
assassini,
banditi».
Si
fornivano
dati
su
gruppi
della
resistenza
guidati
da
agenti
occidentali.
Lo
«Spiegel»
era
al
corrente
di
una
«lista
dei
danni»,
compilata
nel
corso
di
dieci
giorni.
Una
detonazione
in
una
fabbrica
di
esplosivi
a
Gnaschwitz
aveva
ridotto
del
settanta
per
cento
la
produzione.
A
Tschornau
presso
Aue
era
saltato
in
aria
un
frantoio
a
sfere
per
minerale
metallico.
Il
pilastro
di
una
torre
di
estrazione,
in
una
miniera
a
Niederschlag
presso
Annaberg,
era
crollato
a
seguito
di
un
attacco
con
una
carica
esplosiva.
Lo
stesso
giorno
una
locomotiva
era
esplosa
nel
medesimo
luogo.
Due
speciali
vagoni
frigorifero
delle
ferrovie
orientali
risultavano
distrutti.
In
una
fonderia
di
acciaio
a
Chemnitz
gli
operai
avevano
visto
ridursi
in
mille
pezzi
un
forno
a
cupola
e
un
forno
a
tino
per
fondere
i
metalli.
Fra
i
rottami
in
attesa
di
essere
fusi
si
trovava
una
granata
tagliente
da
15
centimetri.
C’era
poi
la
leggendaria
perdita
di
armi
subita
dagli
appartenenti
alla
Volkspolizei,
la
Polizia
di
Stato,
che
lo
«Spiegel»
aveva
classificato
ugualmente
come
«azione
di
resistenza»:
229
pistole,
23
carabine
e
2
mitragliatrici
nel
corso
degli
ultimi
tre
mesi.
Quanto
al
numero,
la
Turingia
stava
in
cima
alla
lista
delle
perdite.
Soltanto
là
erano
venute
a
mancare
91
pistole
di
calibro
7,65
(portate
esclusivamente
dagli
ufficiali
della
Volkspolizei).
Non
fu
mai
chiarito
se
quelle
azioni
fossero
state
effettivamente
promosse
da
agenti
occidentali
o
se
si
trattasse
di
gruppi
autonomi
della
resistenza.
In
ogni
caso
ciò
deve
avere
rafforzato
ai
vertici
del
partito
la
sensazione
che
la
popolazione
della
DDR
avrebbe
seguito
solo
brontolando
la
via
verso
un’esemplare
repubblica
socialista.
Dure
sentenze
ne
furono
l’esito.
Ciò
valse
soprattutto
per
lo
sciopero
degli
operai
edili
che
il
17
giugno
1953
scesero
sulle
strade
a
Berlino
e
in
molte
altre
città
della
DDR
per
protestare
contro
le
quote
di
produzione,
che
erano
state
aumentate
arbitrariamente.
Lo
sciopero
divenne
una
rivolta
e
la
SED
poté
soffocarla
solo
con
l’aiuto
dell’Armata
Rossa.
Fu
anche
un’insurrezione
dettata
dalla
fame.
Gli
approvvigionamenti
erano
in
una
situazione
critica,
anche
a
causa
delle
espropriazioni,
perseguite
con
intransigenza
ai
danni
dei
contadini,
e
in
seguito
all’assegnazione
delle
fattorie
alle
cooperative
agricole.
Interi
villaggi
si
spopolarono.
I
contadini
espropriati
e
le
loro
famiglie
si
accodarono
al
flusso
dei
profughi
diretti
in
Occidente.
La
risposta
da
parte
della
giustizia
fu
totalmente
contraddittoria.
Dura
e
inflessibile
contro
quelli
che
venivano
identificati
come
i
capi.
Il
ruolo
di
Hilde
Benjamin
sullo
sfondo
viene
descritto
in
maniera
tutt’altro
che
univoca,
ma
lo
caratterizzava
soprattutto
l’intenzione
di
esercitare
un
influsso
politico
sui
procuratori
e
sulle
loro
richieste
nei
processi
in
corso.
Seguì
il
salto
di
carriera
con
cui
Hilde
divenne
ministro
della
Giustizia
della
DDR.
Non
era
nell’interesse
di
Mosca
gonfiare
ancora
di
più
gli
umori
antisovietici
nella
popolazione
adoperando
troppa
durezza
dopo
la
rivolta
del
17
giugno.
La
SED
aveva
istruzioni
di
concludere
i
processi
nella
maniera
più
rapida
e
silenziosa
possibile.
Ciò
valse
infine
anche
per
le
azioni
giudiziarie
contro
reati
commessi
da
ex
membri
della
NSDAP,
in
cui
si
dovette
assumere
un
atteggiamento
più
conciliante.
Il
confronto
con
il
passato
nazionalsocialista
arretrò
a
favore
di
considerazioni
più
storiche.
Così
l’epoca
nazista
divenne
soprattutto
parte
dello
scontro
propagandistico
fra
Est
e
Ovest.
Quando
era
politicamente
opportuno
la
SED
non
lesinava
la
pubblicazione
di
fascicoli
riguardanti
ex
nazisti,
al
fine
di
smascherare
le
vecchie
e
nuove
classi
dirigenti
tedesche
occidentali
nell’economia,
nelle
scienze
e
nell’amministrazione.
Le
élite
brune,
tornate
a
detenere
«potere
e
influsso»
in
Occidente,
non
poterono
sfuggire
tuttavia
all’ombra
lunga
del
passato.
«Malgrado
il
silenzio
e
la
cura
nell’occultamento,
la
speranza
nel
grande
oblio
non
si
compì»
osservò
giustamente
Norbert
Frei
nel
suo
libro
Carriere.LeélitediHitler.
Perché
in
Occidente
la
renitenza
a
rispondere
della
propria
storia
cominciasse
a
mutarsi
fu
necessario
attendere
la
fine
degli
anni
Cinquanta
con
il
loro
clima
di
restaurazione.
Chi
visse
l’epoca
ricorda
i
tavoli
di
formica
marmorizzati
a
forma
di
rene,
sui
quali
pioveva
la
luce
diffusa
da
più
lampade
sorgenti
da
un
unico
stelo.
Pile
di
libri
che
raccontavano
le
eroiche
avventure
della
Wehrmacht
sulle
pianure
russe,
con
cui
la
generazione
di
Stalingrado
poteva
ricrearsi.
Chioschi
di
giornali
con
romanzi
di
guerra
e,
ben
visibile
sugli
espositori,
il
quotidiano
di
estrema
destra
«Deutsche
National-und
SoldatenZeitung».
Oppure
la
serie
televisiva
«Fin
dove
arrivano
i
piedi»
(Soweit
die Füße tragen,
1959),
che
glorificava
il
soldato
semplice
e
celebrava
la
Wehrmacht,
vista
a
sua
volta
come
un’ardita
soldatesca
che
in
realtà
non
aveva
avuto
nulla
a
che
fare
con
la
guerra
di
sterminio
in
Russia.
Tutto
ciò
rientrava
nella
visione
e
nella
psicologia
della
guerra
fredda.
Certi
accessi
di
un
tramandato,
quotidiano
razzismo
sono
rimasti
nella
memoria,
quando
i
padri
o
i
nonni
si
precipitavano
a
volte
nella
stanza
dei
figli
o
dei
nipoti
gridando
«Basta
con
quella
musica
da
negri!»,
trasmessa
dagli
Studios
dell’American
Forces
Network
(AFN)
e
ascoltata
a
tutto
volume.
La
AFN
era
la
radio
della
generazione
postbellica,
che
con
il
swing
e
le
big
band,
il
jazz
e
il
bebop
trovò
la
sua
musica,
la
colonna
sonora
per
un’epoca
politicamente
di
piombo.
L’estremismo
di
destra
ereditato
dalla
generazione
dei
padri
e
dei
nonni
continuava
ad
agire
e
si
infiltrò
nella
generazione
successiva,
cosa
che
non
può
stupire
in
una
società
postfascista.
E
questo
valeva
sia
per
la
Germania
Est
che
per
la
Germania
Ovest.
Se
si
osservano
oggi
i
successi
elettorali
del
Partito
Nazionaldemocratico
Tedesco
(Nationaldemokratische
Partei
Deutschlands,
NPD)
e
se
ne
sovrappone
la
distribuzione
su
una
carta
geografica
del
Reich
prima
del
1945,
si
vede
che
essa
corrisponde
esattamente
a
luoghi
e
regioni
dalla
Bassa
Sassonia
al
BadenWürttemberg,
dalla
Baviera
alla
Turingia
o
alla
Sassonia,
dove
il
partito
di
Hitler
poté
registrare
fin
dall’inizio
grandi
successi.
Nel
1962
l’affare
«Spiegel»
si
abbatté
sullo
stato
di
Adenauer.
Il
governo
federale
con
il
capo
della
CSU
Strauß,
allora
ministro
della
Difesa,
riconobbe
in
un
articolo
sulle
forze
armate
tedesche,
intitolato
«In
parte
pronti
alla
difesa»,
un
«abisso
di
alto
tradimento»
e
fece
arrestare
il
direttore,
Rudolf
Augstein,
il
quale
rimase
centotré
giorni
in
prigione.
Anche
l’autore
dell’articolo
e
altri
quattro
redattori
finirono
in
carcerazione
preventiva.
La
reazione
dei
lettori,
degli
studenti
e
degli
appartenenti
alla
borghesia
liberale
fu
di
grande
sdegno.
La
loro
protesta
discese
sulle
strade
della
politica
tedesca
occidentale.
I
mezzi
di
informazione
della
repubblica
cominciarono
a
trasformarsi.
I
primi
quindici
anni
dello
«Spiegel»
furono
dimenticati.
Per
Hachmeister
questa
fu
una
cesura
storica
che
lo
indusse
a
spostare
la
«data
di
fondazione
mentale»
della
rivista
dal
4
gennaio
1947
al
26
ottobre
1962,
quando
iniziò
l’affare
«Spiegel».
Dopo
la
carcerazione
preventiva
Augstein
definì
l’affare
un
«colpo
di
fortuna»,
che
utilizzò
per
rendere
la
rivista
quel
che
ancora
oggi
vuole
essere:
liberale
di
sinistra
e
un
«cannone
d’assalto
della
democrazia».
8
«131»
(dal
corrispondente
articolo
della
Costituzione
della
Repubblica
Federale)
erano
chiamati
tutti
i
dipendenti
statali
rimasti
senza
impiego
al
termine
della
guerra,
nel
cui
numero
erano
comprese
anche
le
persone
allontanate
dal
servizio
a
causa
della
loro
attività
nel
Terzo
Reich.
Un’apposita
legge
del
1951
consentì
la
riassunzione
di
quanti
non
fossero
stati
classificati
«rei
principali»
(Hauptschuldige)
o
«compromessi»
(Belastete)
nei
procedimenti
di
denazificazione
[N.d.T.].
Capitolo
undicesimo
Madre
e
figlio
La
penna,
intinta
nell’inchiostro,
grattava
sulla
carta
da
lettera.
Era
il
14
aprile
1960.
La
data
sta
in
alto
a
destra
sul
foglio,
a
tre
dita
dall’orlo.
Una
lettera
amorevole
su
due
pagine:
«Mia
carissima
bambina
–
cara
mamma
Usch!».
Hilde
Benjamin
scriveva
alla
nuora
Ursula
(Usch),
che
aveva
appena
partorito.
Georg,
detto
Grischa,
era
venuto
al
mondo.
Nella
sua
lettera
riecheggiava
il
ricordo
delle
proprie
gravidanze:
i
due
parti,
a
poco
più
di
un
anno
l’uno
dall’altro.
Le
era
restato
solo
il
secondogenito,
Michael
(Mischa).
Peter
era
vissuto
appena
due
settimane.
Con
il
pensiero
al
nipote
e
a
sua
madre,
così
leggo
la
lettera
più
di
cinquant’anni
più
tardi,
Hilde
Benjamin
rivisse
ancora
una
volta
le
sue
sensazioni
di
puerpera.
Dolore
per
il
primo
figlio,
gioia
per
il
secondo.
Nell’armadio
che
contiene
il
lascito
di
Hilde
Benjamin,
e
che
Ursula
ha
conservato
e
curato
per
molti
anni,
si
trovano
anche
queste
righe
che
raccontano
molto
su
chi
le
ha
scritte.
Ursula
Benjamin
mi
allunga
sul
tavolo
questa
e
poi
un’altra
lettera
di
sua
suocera,
entrambe
protette
da
una
busta
trasparente.
È
un
gesto
schivo,
del
tutto
discreto.
Avevamo
appena
parlato
di
Bautzen
e
di
quest’altra
Germania
scomparsa
e
io
sento
dalle
sue
parole,
fra
cui
introduce
qualche
osservazione
critica
sull’idea
che
io
ho
di
Bautzen,
che
le
risulta
difficile
conciliare
la
mia
descrizione
con
il
suo
ricordo
della
DDR
e
ancor
più
con
la
sua
immagine
di
Hilde
Benjamin,
legata
piuttosto
a
queste
lettere.
Da
una
sua
frase
capisco
che
ha
avuto
una
lunga
e
accesa
discussione
a
proposito
di
questo
con
suo
figlio
Grischa,
la
cui
nascita
nel
1960
era
stata
l’occasione
per
gli
auguri
di
Hilde.
Esito
a
insistere
con
le
domande.
Lei
torna
a
guardare
gli
appunti
che
ha
preso
sui
passaggi
del
mio
testo
che
riguardano
Bautzen,
e
non
viene
aggiunto
altro
sulla
discussione
telefonica.
Io
lo
interpreto
come
un
desiderio
di
approfondire
tutto
ciò
che
riguarda
Hilde
Benjamin.
Queste
lettere
hanno
in
ogni
caso
un
significato
per
chi
vuole
tratteggiare
il
suo
ritratto.
Dopo
averle
lette
la
vedo
davanti
ai
miei
occhi,
intenta
a
riflettere
sulle
parole.
Sono
frasi
come
questa:
«Forse
però
sei
un
po’
più
contenta
perché
è
un
maschio».
E
poi
prosegue:
«Penso
che
per
noi
donne
sia
così,
perché
un
maschio
–
come
primogenito
–
ci
incarna
un’altra
volta
l’uomo
che
amiamo».
Frasi
che
rimandano
alla
sua
vita
e
al
rapporto
molto
stretto
fra
madre
e
figlio,
rafforzato
ancora
di
più
dalle
circostanze
dell’esistenza.
Hilde
augurava
alla
nuora
gli
stessi
sentimenti
di
gioia
che
aveva
provato
lei
da
puerpera:
«Sono
nella
mia
memoria
giornate
di
una
grande
e
tranquilla
felicità,
giornate
in
cui
il
bambino
appartiene
ancora
solo
a
noi,
e
in
cui
siamo
colme
dell’amore
per
lui,
quell’amore
che
è
cresciuto
durante
nove
mesi».
Quanto
Mischa
costituisse
il
centro
della
sua
vita
si
può
leggere
in
moltissime
lettere
e
in
centinaia
di
pagine.
Hilde
descriveva
ogni
minimo
dettaglio
della
sua
vita,
la
sua
crescita
e
ogni
sua
trasformazione,
in
modo
che
il
padre
lontano
potesse
esserne
al
corrente.
Già
alla
sua
nascita
lei
aveva
avuto
quasi
il
presagio
di
ciò
che
sarebbe
avvenuto
e
che
avrebbe
determinato
anche
il
senso
e
il
valore
del
loro
rapporto.
Hilde
era
la
garanzia
della
sua
sopravvivenza.
Lei
e
il
suo
certificato
di
arianità
erano
il
rifugio
in
cui
Mischa
avrebbe
potuto
crescere
il
più
possibile
libero
dalla
paura.
E
Georg,
che
negli
inferni
dei
Volksgenossen9
e
dei
loro
carnefici
perse
la
vita,
è
vivo
attraverso
le
testimonianze
delle
sue
lettere,
che
Hilde
ugualmente
raccolse
e
conservò.
Là
c’è
quello
che
gli
amici
dicevano
di
lui
e
che
Hilde
amava:
la
sua
tolleranza,
la
capacità
di
ascoltare
e
di
pensare
in
maniera
opposta
a
ogni
dogmatismo.
L’infanzia
di
Mischa,
il
tempo
della
scuola
e
degli
studi
passarono
diversamente
rispetto
a
quelli
dei
bambini
appartenenti
a
famiglie
«di
pura
razza
ariana»,
che
gli
vivevano
accanto.
Solo
quando
mi
fu
chiaro
il
rapporto
simbiotico
fra
Hilde
e
il
figlio
Mischa
e
sentii
di
poter
decifrare
con
relativa
sicurezza
l’eredità
scritta
delle
loro
due
vite,
vidi
i
molti
segni
che
confermavano
quella
sensazione.
Mischa
era
pronto
in
ogni
istante
a
difendere
la
madre.
Irritazione
e
una
crescente
rabbia
lo
assalivano
quando
si
leggevano
su
di
lei
quelle
frasi
ripetute
e
divenute
ormai
rigidi
cliché.
E
respingeva
le
costruzioni
dei
media
occidentali
e
le
formule
provenienti
soprattutto
dall’arsenale
della
guerra
fredda,
che
creavano
l’immagine
della
«gelida
donna
di
potere».
In
quella
biografia
non
aveva
approvato
nemmeno
la
descrizione,
un
po’
superficiale,
della
cultura
e
dell’educazione
femminile
all’inizio
del
ventesimo
secolo,
perché
la
sentiva
rivolta
contro
sua
madre.
Anzi,
come
esempio
e
dimostrazione
della
vasta
cultura
di
Hilde
portava
se
stesso,
poiché
tutto
ciò
che
sapeva
di
botanica
lo
doveva
alle
sue
lezioni.
Vedeva
tra
l’altro
anche
il
divieto
di
frequentare
la
scuola
come
una
conferma
del
senso
di
inferiorità
che
i
nazisti
avvertivano
rispetto
agli
intellettuali
ebrei,
tanto
da
voler
impedire
loro
l’accesso
all’istruzione
e
al
sapere.
Mischa
leggeva
tutto
quello
che
veniva
scritto
o
diffuso
sulla
madre.
E
prendeva
posizione.
Esigeva
comprensione
ed
esattezza,
ed
era
sempre
pronto
a
parlare
quando
gli
sembrava
che
fosse
stata
l’ignoranza
a
far
pronunciare
giudizi
falsi
su
sua
madre.
Dopo
la
sua
morte
nel
1989,
Mischa
si
propose
di
scrivere
un
libro
su
di
lei.
Come
racconta
sua
moglie
Uschi,
cominciò
a
ordinare
il
lascito
e
a
leggere
le
sue
lettere.
La
morte
inattesa
di
Mischa
pose
un’anticipata
fine
al
progetto.
Nessuno
dei
medici
della
Charité
aveva
considerato
pericolosa
la
sua
operazione
al
cuore,
ritenuta
un
intervento
di
routine.
Ci
sono
due
biografie
di
Hilde
Benjamin
che
non
potevano
piacere
a
Michael
Benjamin.
Già
per
questo
motivo
egli
voleva
correggere
giudizi
e
pregiudizi
che
nei
primi
anni
dopo
il
1945
e
al
principio
della
guerra
fredda
si
erano
fatti
strada
in
articoli
o
nelle
pagine
dei
libri.
Malgrado
decine
di
test
atomici,
sopra
e
sotto
la
terra,
almeno
in
Europa
ci
si
limitò
per
fortuna
alla
guerra
delle
parole.
L’equilibrio
dell’angoscia
produsse
i
suoi
effetti:
l’impasse
atomica
era
espressione
della
paura
di
entrambe
le
parti,
la
forza
distruttiva
immagazzinata
negli
arsenali
sarebbe
bastata
a
dare
il
colpo
di
grazia
all’umanità
e
al
pianeta
azzurro.
Ma
anche
nella
guerra
delle
parole
ci
furono
i
soccombenti.
E
per
quanto
riguardava
l’immagine
di
Hilde
Benjamin,
quale
veniva
proposta
nei
mezzi
di
comunicazione,
il
figlio
adulto
non
voleva
concedere
che
l’Occidente
accampasse
diritti
sull’immagine
della
propria
madre.
Nel
marzo
1994
Mischa
Benjamin
scrisse
da
lettore
alla
«Berliner
Zeitung»,
rivolgendosi
a
Stefan
Heym
e
riferendosi
al
suo
necrologio
per
Walter
Janka.
Heym
vi
ricordava
anche
il
processo
contro
quest’ultimo,
accusato
di
«istigazione
al
boicottaggio»,
un
concetto
dalle
mille
sfaccettature
nella
giustizia
penale
politica
della
DDR,
e
imputato
inoltre
di
aver
ordito
un
«complotto
mirante
alla
caduta
di
Walter
Ulbricht».
La
lettera
di
Michael
Benjamin
criticava
solamente
alcune
parole
del
necrologio,
che
si
riferivano
a
sua
madre
e
al
suo
supposto
ruolo
nel
processo
del
1956
contro
Walter
Janka,
ex
direttore
della
casa
editrice
Aufbau,
contro
il
caporedattore
Wolfgang
Harich
e
Gustav
Just,
caporedattore
del
settimanale
«Sonntag».
Il
punto
era
se
Hilde
Benjamin,
in
quanto
ministro
della
Giustizia,
fosse
stata
sempre
presente
come
uditrice
nell’aula
del
processo,
come
Walter
Janka
credeva
di
potersi
ricordare.
E
poiché
ammirava
molto
lo
scrittore
Heym,
Michael
Benjamin
coglie
con
spavento
quella
sfumatura
che
pare
alludere
a
sua
madre
come
a
«Hilde
la
Sanguinaria».
Queste
sono
le
parole:
«con
lui
[Janka],
così
pensavano
i
Melsheimer
e
i
Benjamin
[rispettivamente
presidente
e
vicepresidente
della
corte
suprema
della
DDR
fino
al
1953,
poi
ministro
della
Giustizia],
si
poteva
montare
un
processo».
Nella
sua
lettera
Michael
riprendeva
il
plurale
utilizzato
da
Heym,
cioè
«i
Benjamin»:
«I
Benjamin
–
sono
mio
padre
Georg,
che
i
nazisti
hanno
ammazzato
a
Mauthausen;
mio
zio
Walter
Benjamin,
i
cui
scritti
Lei
certamente
conosce,
che
nel
1940
in
Spagna,
la
notte
prima
di
essere
consegnato
ai
nazisti,
pose
fine
alla
sua
vita;
ne
fa
parte
anche
la
cugina
di
mio
padre,
la
poetessa
Gertrud
Chodziesner-Kolmar,
divenuta
celebre
dopo
il
1945,
che
prese
la
via
di
Auschwitz.
I
Benjamin
–
sono
generazioni
di
commercianti,
fabbricanti
e
librai,
rabbini,
eruditi
e
medici,
borghesi
grandi
e
piccoli,
conservatori
e
liberali
e
rivoluzionari
che
da
trecento
anni,
se
non
da
più,
risiedono
in
Germania».
I
progenitori
dalla
parte
del
nonno
erano
ebrei
venuti
da
Occidente,
che
per
sfuggire
all’Inquisizione
avevano
lasciato
la
Spagna
e
il
Portogallo
e,
attraverso
i
Paesi
Bassi,
erano
arrivati
in
Renania
e
in
Vestfalia.
Lontani
rapporti
di
parentela
sussistevano
con
le
famiglie
di
Heinrich
Heine
(in
ottavo
grado)
e
di
Karl
Marx
(in
tredicesimo
grado).
Dalla
parte
della
nonna
la
famiglia
Schönflies
discendeva
da
ebrei
dell’Est,
che
per
sfuggire
ai
pogrom
del
Medioevo
si
erano
spostati
in
Austria,
Ungheria
e
Polonia.
Un
antenato
della
famiglia
Schönflies,
Simon
Markus,
potrebbe
aver
fatto
parte
di
una
delle
cinquanta
famiglie
ebree
originarie
di
Vienna
a
cui
il
«grande»
principe
elettore
Federico
Guglielmo,
con
l’editto
del
21
maggio
1671,
consentì
di
immigrare
nella
Marca
di
Brandeburgo.
I
Schönflies/Benjamin
appartenevano
all’antica
nobiltà
prussiano-ebrea,
come
Mischa
Benjamin
notava
non
senza
ironia.
Loro
discendente
era
anche
Gertrud
Chodziesner,
cugina
dei
fratelli
Benjamin,
che
con
lo
pseudonimo
di
Gertrud
Kolmar
avrebbe
ottenuto
una
fama
postuma
come
poetessa.
Mischa
Benjamin
era
un
ammiratore
della
sua
lirica.
Capiva
bene
che
Heym
non
si
riferiva
a
tutti
questi
e
che
con
quel
plurale
puntava
soltanto
a
una
persona,
a
Hilde,
sua
madre.
«D’altro
canto»
commentava,
«le
sue
azioni
non
possono
essere
comprese
né
spiegate
senza
gli
altri
Benjamin
e
il
loro
destino».
Per
lui
quella
donna
era
in
primo
luogo
sua
madre,
che
«nelle
condizioni
più
ostili
–
dodici
anni
di
nazismo,
guerra,
dopoguerra,
persecuzioni
razziali
e
anticomuniste,
bombe
e
fame
–
da
sola
l’aveva
tenuto
in
vita
e
cresciuto».
In
ciò
vedeva
un
motivo
sufficiente
per
contrapporsi
a
ogni
«unilateralità
e
prevenzione
nel
giudizio
sulla
sua
vita
e
la
sua
opera».
Dei
ricordi
di
Janka
c’era
comunque
da
dubitare
ma,
anche
se
non
avesse
sbagliato,
la
semplice
presenza
di
lei
non
dimostrava
affatto
che
avesse
avuto
un
ruolo
determinante
nel
processo.
Stefan
Heym,
che
ho
incontrato
diverse
volte
a
Berlino
negli
anni
Ottanta,
lui
stesso
ebreo,
lui
stesso
perseguitato,
non
avrà
reagito
con
imperturbabilità
a
questa
lettera.
Ricordo
lo
sguardo
dei
suoi
occhi
intelligenti
e
cordiali.
La
voce
ruvida,
con
quella
leggerissima
cadenza
sassone.
E
il
cranio
possente
e
i
capelli
bianchi,
sempre
un
po’
arruffati.
Lui,
come
altri
dopo
il
1945,
voleva
trarre
i
corretti
insegnamenti
dalla
storia
e
stare
finalmente
dalla
parte
giusta.
La
sua
fama
di
scrittore
gli
assicurava
il
privilegio
di
viaggiare
anche
all’estero,
nell’Occidente
capitalista.
Il
suo
ideale
era
tuttavia
una
DDR
che
realizzasse
la
visione
di
un
mondo
migliore
e
socialista,
vagheggiata
nell’emigrazione.
Heym
fece
perciò
sempre
ritorno
nel
paese.
Con
la
lettera
di
Mischa
nella
mano
rifletté
forse
sulla
velocità
con
cui
si
è
pronti
ad
accogliere
un’immagine
particolare
di
qualcuno,
senza
conoscerne
davvero
le
circostanze
di
vita.
Il
processo
Janka
risultò
fatale
per
lo
sviluppo
interno
della
DDR.
Il
necrologio
per
la
sua
morte
nel
1994
ricordava
che
lui
e
i
coimputati
Harich,
Just
e
altri
furono
condannati
a
pene
carcerarie
fra
i
cinque
e
i
dieci
anni
perché
accusati
di
«cospirazione
controrivoluzionaria».
Incontrai
Gustav
Just
nell’estate
2011,
poco
prima
del
suo
novantesimo
compleanno,
nella
sua
vecchia
casa
contadina
ristrutturata,
sulla
Dorfstraße
a
Prenden,
fuori
Berlino.
Conobbi
anche
sua
moglie,
la
quale
era
un
po’
più
giovane
e,
diversamente
da
lui,
non
mostrava
alcuna
debolezza
fisica.
Lui
invece
riusciva
a
muoversi
solo
appoggiandosi
a
un
deambulatore,
ma
era
lucido
di
mente.
Entrambi
avevano
ancora
ben
presenti
il
processo
e
le
sue
circostanze.
Anche
Just
era
certo
di
aver
visto
almeno
una
volta
fra
gli
spettatori
«la
signora
Benjamin,
come
un’ombra
minacciosa».
I
due
avevano
pubblicato
i
loro
ricordi
relativi
al
processo.
Parlammo
di
questo
e
poi
degli
anni
di
carcere
a
Bautzen.
Sei
mesi
dopo
il
nostro
incontro
Gustav
Just
morì.
Sul
settimanale
«Sonntag»
aveva
divulgato
i
dibattiti
teorici
in
Polonia
e
Ungheria.
Mentre
ne
parlava
si
notava
ancora
la
delusione
procurata
in
lui
dalla
dirigenza
della
SED
e
dal
gruppo
di
discussione
che
l’avrebbe
portato
in
carcere,
cosa
in
cui
ebbe
parte
l’allora
ministro
della
Cultura,
Johannes
R.
Becher,
che
lo
denunciò
come
controrivoluzionario.
Dopo
le
rivelazioni
sul
terrore
staliniano
al
XX
congresso
del
PCUS
lui
e
i
suoi
compagni
avevano
sperato
in
un
maggior
liberalismo
interno
anche
nella
DDR,
e
furono
incarcerati
come
controrivoluzionari.
La
speranza
morì
con
la
repressione
del
comunismo
riformista
ungherese
e
la
rivolta
del
1956.
Portò
in
Unione
Sovietica
la
fine
della
breve
primavera
che
aveva
seguito
la
morte
del
dittatore
e
rafforzò
gli
stalinisti
nella
DDR.
Quello,
ogni
caso,
non
fu
il
processo
di
Hilde
Benjamin.
Michael
ammette
nella
lettera
a
Stefan
Heym
che,
in
quanto
ministro
della
Giustizia
della
DDR
fino
al
1967,
la
madre
aveva
«preso
parte
in
maniera
significativa
e
in
posizione
di
responsabilità
al
saliscendi,
agli
insuccessi
e
alle
disfunzioni,
alle
traversie
della
giustizia
nella
DDR,
così
come
alle
sue
conquiste».
Quanto
la
promulgazione
e
l’applicazione
delle
leggi
siano
atti
politici
fu
qualcosa
che
Hilde
Benjamin,
come
suo
figlio
Michael,
poté
osservare
direttamente,
nella
repubblica
di
Weimar,
nello
stato
nazista
e
nella
Repubblica
Federale.
Ciò
consolidò
in
lei
l’idea
che
solo
la
DDR
si
opponesse
alla
restaurazione
nella
Germania
Occidentale.
È
soltanto
il
figlio
di
Hilde
che
nel
passaggio
seguente
si
rivolge
a
Stefan
Heym:
«Molti
hanno
odiato
mia
madre;
altri
l’hanno
non
meno
rispettata
e
onorata.
Credo
che
la
storia
non
abbia
ancora
pronunciato
l’ultima
parola
sul
suo
operato.
So
però
una
cosa,
meglio
di
tutti
i
documenti
che
non
conosco
e
che
si
potranno
ancora
trovare:
non
c’era
in
lei
alcun
interesse
personale
né
cinico
calcolo.
Qualsiasi
cosa
abbia
fatto,
è
avvenuta
nella
profonda
convinzione
di
servire
alla
causa
a
cui
aveva
dedicato
la
sua
vita:
la
creazione
di
una
società
migliore
e
socialista».
Michael
fa
capire
del
resto
quanto
condivida
l’opinione
di
Heym
su
Janka
e
con
quanta
partecipazione
abbia
letto
perciò
il
necrologio
nella
«Berliner
Zeitung».
Nel
1994
erano
passati
cinque
anni
dalla
scomparsa
della
DDR
e
la
Germania
nuovamente
riunita
cominciava
a
scrivere
la
storia.
Un
cambiamento
radicale
che
sua
madre,
come
affermava
Michael,
«non
avrebbe
sopportato»
se
avesse
ancora
vissuto.
Fra
le
righe
credo
di
poter
leggere
che
dopo
la
sua
morte
Michael
poté
riflettere
in
maniera
sempre
più
libera
e
indipendente
su
ciò
che
aveva
portato
alla
fine
della
DDR.
Chiedo
a
Georg,
figlio
di
Michael
Benjamin,
se
condivide
questa
mia
ipotesi
sullo
speciale
rapporto
fra
madre
e
figlio.
Georg
riceve
le
bozze
di
questo
libro
nei
diversi
stadi
di
elaborazione
e
corregge,
se
necessario,
numeri,
fatti,
date.
E
così
fanno
anche
la
madre
Ursula
Benjamin
e
i
nipoti
Laura
e
Jakob,
figli
di
Georg,
tutti
quelli
la
cui
storia
si
racconta
in
questo
libro
tedesco
di
lettura
che
supera
i
confini
del
ventesimo
secolo.
Georg,
con
cui
in
genere
ho
solo
contatti
per
email,
siede
con
me,
Ursula,
Laura
e
Jakob
al
tavolino
rotondo
nella
biblioteca,
davanti
agli
scaffali
pieni
di
libri
che
occupano
un’intera
parete
della
stanza.
In
occasione
della
sua
nascita,
nel
1960,
la
nonna
Hilde
aveva
scritto
quella
lettera
affettuosa
a
Uschi.
Un
buon
mezzo
secolo
è
passato
da
allora
sul
paese.
Intorno
a
noi
il
chiasso
e
l’entusiasmo
per
la
partita
di
calcio.
Un’altra
volta
i
campionati
europei,
i
cui
penetranti
echi
ci
raggiungono.
L’interesse
di
Georg
per
il
calcio
è
pari
a
zero,
e
non
cambia
nulla
che
l’Ucraina
sia
il
paese
ospitante
insieme
alla
Polonia.
Non
avrei
mai
pensato
che
alla
mia
preghiera
di
esprimere
la
sua
opinione
sul
capitolo
che
parla
della
madre
Hilde
e
del
figlio
Mischa
lui
potesse
rispondere
venendo
per
il
fine
settimana
da
Kiev
a
Berlino.
Da
alcuni
anni
lavora
in
Ucraina.
Ora
mi
siede
di
fronte,
di
media
statura,
snello,
molto
disinvolto.
Un
uomo
sportivo
sulla
cinquantina,
gli
occhiali
con
la
montatura
a
giorno,
lo
sguardo
intelligente,
i
jeans
con
qualche
buco,
una
maglietta
nera.
Se
deve
leggere
qualcosa
sposta
gli
occhiali
sulla
fronte.
Dove
però
sono
più
che
altro
d’intralcio.
Questa
amichevole
schiettezza
ce
l’hanno
anche
i
suoi
figli,
Laura
e
Jakob.
Già
da
bambino,
dice,
aveva
imparato
a
porre
domande
critiche
di
contro
alle
ovvietà:
«Così
mi
hanno
educato
i
miei
genitori».
Georg
Benjamin
racconta
di
suo
padre,
che
dopo
l’abilitazione
alla
libera
docenza
e
la
nomina
a
professore
aveva
avuto
l’incarico
di
occuparsi
dell’«Organizzazione
scientifica
della
dirigenza
statale».
A
questo
scopo
doveva
creare
un
istituto
a
Mosca
e
nel
1981
ne
assunse
per
quattro
anni
la
vicedirezione.
Dal
1989
al
1991
seguirono
altri
due
anni
all’istituto,
prima
che
fosse
liquidato.
In
quest’epoca
Mischa
Benjamin
viaggiò
anche
in
Occidente,
dove
poté
venire
a
contatto
con
le
tecniche
di
management
e
le
idee
di
good
governance.
Georg,
che
lo
seguì
a
Mosca
per
studiare,
ricorda
che
suo
padre
aveva
riconosciuto
presto
l’irrigidimento
del
socialismo
«amministrativo».
Quando
gli
fu
chiesto
di
sviluppare
altre
strutture
direttive
nella
DDR
era
troppo
tardi.
L’incarico
gli
era
stato
affidato
da
Egon
Krenz,
successore
di
Honecker,
segretario
del
Comitato
centrale
della
SED
che
poco
tempo
dopo,
nel
1990,
fallì
nel
tentativo
di
farsi
eleggere
alle
prime
nonché
ultime
libere
elezioni
per
la
Camera
del
Popolo
(Volkskammer)
della
DDR.
Tutti
nell’istituto,
ricorda
Georg
includendo
se
stesso
e
i
suoi
compagni,
erano
affascinati
quando
entrarono
in
contatto
con
il
«nuovo
pensiero»
di
Gorbačev.
Nessuno
allora
poteva
prevedere
che
la
perestrojka
avrebbe
causato
una
tale
scossa
tellurica,
la
quale
avrebbe
agitato
e
dissolto
il
blocco
orientale
dominato
da
Mosca.
Nemmeno
le
persone
direttamente
coinvolte
in
questo
sviluppo
lo
prevedevano,
nemmeno
lo
stesso
Gorbačev.
Non
era
neppure
il
suo
obiettivo.
Era
semplicemente
accaduto
così.
Georg
Benjamin
contraddice
con
decisione:
no,
non
era
stato
solo
dopo
la
morte
di
sua
madre
che
Michael
si
era
sentito
libero
di
osservare
criticamente
la
realtà
della
DDR.
Non
nega
però
che
parlando
con
la
madre
Michael
possa
aver
espresso
in
maniera
meno
tagliente
le
contraddizioni
che
lo
colpivano.
Uschi
aggiunge
che
lei
e
Mischa
si
erano
ripromessi
di
evitare
possibilmente
il
tema
nelle
conversazioni
con
Hilde.
Georg
crede
tuttavia
di
ricordare
dai
suoi
discorsi
con
la
nonna
un
deciso
accento
di
critica
sulla
situazione
del
paese.
Giudica
esagerata
la
supposizione
di
suo
padre,
vale
a
dire
che
Hilde
non
avrebbe
«sopportato»
la
fine
della
DDR.
Georg
conferma
l’osservazione
di
Uschi,
cioè
che
proprio
i
«compagni
anziani,
dai
settant’anni
in
su»
abbiano
accolto
con
una
sorprendente
tranquillità
la
fine
della
DDR.
Per
loro
non
era
stata
che
una
tappa.
Il
suo
fallimento
rappresentava
una
sconfitta,
ma
non
la
fine
della
battaglia.
La
loro
fede
nel
socialismo
scientifico
restava
immutata.
Uschi
ricorda
soprattutto
le
conversazioni
con
Lotte
Ulbricht,
che
già
due
anni
prima
di
morire
l’aveva
pregata
di
tenere
il
suo
discorso
funebre
per
lei.
Uschi
e
Mischa
vissero
diversamente
la
fine
della
DDR.
Mancava
loro
la
tranquillità
degli
anziani.
Suo
padre,
ricorda
Georg,
aveva
visto
nell’assenza
di
apertura
e
nella
sfiducia
dei
dirigenti
del
partito
verso
l’intelligenza
critica
una
causa
fondamentale
dell’irrigidimento
del
paese,
che
aveva
finito
per
travolgerlo.
Per
Uschi
Benjamin
invece
la
DDR
significò
soprattutto
l’accesso
all’istruzione
e
l’affrancamento
dalla
minorità.
Nella
società
borghese,
ne
è
convinta,
sarebbe
stata
esclusa
dall’istruzione.
Continua
a
ripetere
di
essere
stata
la
prima
della
famiglia
che
poté
conseguire
il
diploma
liceale
e
poi
universitario.
Torna
a
risuonare
il
sentimento
di
gratitudine
e
lealtà
per
lo
stato
che
aveva
reso
possibile
tutto
questo.
E
poi
ricorda
la
prima
visita
di
Hilde,
la
suocera,
il
ministro,
a
Rostock
in
casa
dei
suoi
genitori.
Ricorda
il
proprio
batticuore
prima
del
suo
arrivo
e
poi
la
cordialità
di
Hilde
Benjamin,
che
aveva
reso
tutto
più
facile.
Michael
Benjamin
aveva
conosciuto
la
sua
futura
moglie
a
Leningrado
quando
lei
era
ancora
studentessa;
era
la
figlia
di
una
pescivendola
di
Rostock
e
di
un
operaio
che
aveva
circumnavigato
Capo
Horn
su
una
nave
da
carico.
La
fame
di
studio
in
quella
generazione
era
immensa,
e
molti
conseguivano
una
seconda
laurea
attraverso
corsi
per
corrispondenza;
si
studiava
sempre,
se
necessario
anche
nelle
ore
serali
e
notturne.
La
divisione
in
classi
era
superata
almeno
per
quanto
riguardava
l’accesso
allo
studio.
Anche
negli
studi
superiori
i
figli
dei
proletari
erano
la
regola
e
non
l’eccezione.
Nessuno
metteva
in
dubbio
la
loro
capacità
di
istruzione.
È
vero
d’altro
canto
che
ai
figli
di
famiglie
borghesi
o
dei
parroci
era
impedito
di
conseguire
la
maturità
liceale
e
di
studiare
all’università.
Il
ricordo
della
sua
personale
ascesa
non
consente
a
Uschi
–
anche
a
distanza
di
due
decenni
abbondanti
dalla
fine
del
suo
stato
–
di
tollerare
la
sfumatura
critica
che
traspare
in
diverse
mie
frasi.
Eppure
ci
prova.
Capisco
il
suo
disagio;
dopo
aver
letto
nei
libri
di
Christa
Wolf
le
riflessioni
sul
senso
di
perdita
causato
in
lei
dal
fallimento
della
DDR
posso
immaginare
il
suo
stato
d’animo.
Per
Christa
Wolf
il
congedo
interiore
dalla
DDR
era
cominciato
dopo
l’XI
seduta
plenaria
del
Comitato
centrale
della
SED,
quando
Ulbricht
fece
i
conti
con
gli
esponenti
della
cultura,
e
soprattutto
con
gli
scrittori.
Ne
parlò
in
un
articolo,
uno
dei
cinque
contributi
di
scrittori
tedeschi
orientali
sulla
DDR
e
dei
venti
autori
occidentali
sulla
storia
della
Germania
Ovest.
L’occasione
erano
i
sessant’anni
della
Repubblica
Federale.
Il
rapporto
venti
a
cinque,
questo
il
sospetto
di
Christa
Wolf,
poteva
avere
da
un
lato
la
funzione
di
un
alibi;
d’altro
canto
contribuiva
a
opporre
invece
al
quadro
differenziato
della
Repubblica
Federale
una
visione
esclusivamente
cupa
della
DDR,
soddisfacendo
lo
spirito
del
tempo.
E
tuttavia
lo
scrisse,
certo
anche
perché
l’XI
seduta
plenaria
era
stata
molto
importante
per
l’evoluzione
della
DDR.
Per
lei
era
stata
la
fine
della
speranza
che
dopo
la
costruzione
del
muro
si
potesse
sviluppare
e
affermare
finalmente
un
clima
più
liberale
e
che
la
situazione
economica
della
DDR,
in
drammatico
declino,
tornasse
a
riprendersi.
Due
speranze
che
sarebbero
state
deluse.
Christa
Wolf
aveva
preso
le
parti
dei
colleghi
scrittori,
i
quali
vennero
messi
globalmente
alla
berlina,
come
i
registi
e
altre
persone
che
lavoravano
nel
cinema.
Particolarmente
esposti
alle
critiche
erano
stati
Stefan
Heym,
Wolf
Biermann
e
Werner
Bräunig
con
il
suo
progetto
di
romanzo
Rummelplatz,
sull’estrazione
dell’uranio
nelle
miniere
della
Wismut,
alcune
parti
del
quale
erano
state
pubblicate
sulla
rivista
«Neue
Deutsche
Literatur».
Soprattutto
Bräunig
era
stato
bersaglio
di
una
élite
di
funzionari
aggressiva
e
timorosa
nella
sua
perplessità,
che
vedeva
negli
intellettuali
i
responsabili
del
mancato
compimento
del
postulato
di
Ulbricht:
«Superare
senza
raggiungere»
l’Occidente.10
Nella
sua
premessa
al
romanzo
di
Bräunig,
che
poté
essere
pubblicato
solo
dopo
la
fine
della
DDR,
Christa
Wolf
ammirava
lo
straordinario
materiale
e
il
suo
autore,
sopravvissuto
nove
anni
al
divieto
di
pubblicare.
Ho
letto
sul
ruolo
di
Christa
Wolf
alla
seduta
plenaria.
E
anche
adesso,
mentre
scrivo
queste
frasi,
me
la
rivedo
davanti,
lei
che
per
i
suoi
lettori
in
Occidente
era
solo
geograficamente
lontana,
dietro
le
mura.
Vedo
l’espressione
pensosa
nel
viso
dalla
bellezza
antica
di
una
donna
che
avrebbe
potuto
essere
nel
contempo
Cassandra
e
Medea.
Lei
stessa
diede
a
entrambe
le
donne
una
grande
forza
di
carattere,
una
forza
soprattutto
nelle
loro
sconfitte.
Come
Christa
Wolf
allora:
giunta
in
veste
di
candidata
al
Comitato
centrale
della
SED,
dopo
il
suo
discorso
e
la
sua
appassionata
arringa
a
favore
della
libertà
dell’arte
chiese
di
non
esserlo
più.
In
un’intervista
la
Wolf
illustrò
gli
esiti
di
quella
seduta
plenaria:
dodici
film
furono
proibiti.
Ciò
valeva
anche
per
il
film
basato
sulla
sua
sceneggiatura
«Fräulein
Schmetterling»
[La
signorina
Farfalla],
che
Konrad
Wolf
voleva
realizzare.
Fu
proibito
dopo
il
montaggio
preliminare.
E
così
il
romanzo
Rummelplatz
di
Werner
Bräunig.
Christa
Wolf
divenne
una
sorta
di
autorità
morale
che
invocava
un’immagine
della
DDR
dal
volto
umano
–
un’immagine
che
tuttavia
non
divenne
mai
reale.
La
sua
forte
personalità
e
la
sua
fama
di
scrittrice
la
protessero,
e
tuttavia
il
Ministero
per
la
Sicurezza
di
Stato
utilizzò
ciò
come
un
pretesto
per
tenerla
sotto
controllo,
cosa
che
si
concretizzò
in
quarantadue
fascicoli
su
di
lei.
La
sua
breve
collaborazione
informale
presso
la
Stasi
con
cui,
com’è
dimostrato,
non
danneggiò
nessuno
condusse
dopo
la
svolta
a
una
caccia
alle
streghe
che
doveva
colpire
la
sua
integrità.
Un
anno
dopo
il
plenum
cominciò
a
scrivere
Riflessioni su Christa T.
La
protagonista
muore
a
trentacinque
anni
di
leucemia
e
fallisce
nel
conflitto
fra
le
sue
esigenze
personali
e
quelle
della
società.
Christa
Wolf
ribadì
che
la
trama
era
opera
di
finzione,
nella
quale
tuttavia
era
confluita
anche
la
storia
di
un’amica.
Poiché
gli
organi
di
censura
avevano
fiutato
nel
romanzo
il
«pericolo
di
uno
spaesamento
ideologico»
per
i
lettori,
al
principio
la
prima
edizione
del
1969
non
poté
essere
interamente
consegnata.
Questo
–
insieme
alla
frase
finale
del
romanzo:
«Quando,
se
non
ora?»
–
le
venne
ricordato
durante
una
conversazione
con
il
settimanale
«Die
Zeit».
Gli
intervistatori
supponevano
che
fosse
una
frase
per
la
morte.
Christa
Wolf
contraddisse:
«No,
in
sostanza
è
una
frase
per
la
vita».
Era
l’espressione
condensata
dell’aver
compreso
che
ogni
giorno
è
prezioso,
e
il
libro
sarebbe
nato
dal
lutto
per
la
morte
di
un’amica:
«La
DDR
ha
sempre
rinviato
tutto,
la
realizzazione
di
una
società
perfetta,
di
nuovi
uomini
felici.
Per
un
futuro
luminoso
ci
si
è
fatti
sfuggire
il
passato».
La
frase
può
riferirsi
anche
a
questo.
La città degli angeli:
in
questo
libro
Christa
Wolf
ha
descritto
la
sua
lotta
tra
speranza
e
delusione,
fra
desiderio
e
disgusto.
E
anche
il
dolore
per
la
perdita
della
DDR.
«Abbiamo
fallito.
Il
paese
in
cui
vivo
e
nel
quale
all’inizio
avevo
riposto
ancora
qualche
speranza
si
fossilizza
e
si
pietrifica
di
anno
in
anno
sempre
più,
è
prevedibile
che
presto
se
ne
starà
immobile
come
una
salma,
esposta
lì
per
essere
depredata».
Citiamo
ancora
dalla
conversazione
con
«Die
Zeit»,
in
cui
la
scrittrice
risponde
alla
domanda
su
quale
sia
stato
il
momento
in
cui
si
è
allontanata
dalla
DDR:
«È
stato
un
lungo
congedo,
iniziato
nei
primi
anni
Sessanta.
L’ultimo
periodo
in
cui
sarebbe
stato
possibile
cambiare
davvero
la
DDR
attraverso
le
riforme
fu
il
1968.
Poi
però
i
russi
hanno
soffocato
la
primavera
di
Praga.
A
quel
punto
era
finita.
Dopo
la
riunificazione
si
insinuò
per
breve
tempo
una
sorta
di
dolore
fantasma,
anche
perché
trovavo
troppo
vago
inquadrare
la
DDR
esclusivamente
sotto
il
segno
della
dittatura.
Ma
anche
questo
dolore
è
passato».
Come
chiunque
sia
interessato
può
vedere
e
leggere,
la
DDR
ha
lasciato
dietro
di
sé
una
grande
eredità
letteraria.
Accanto
a
Christa
Wolf
c’è
una
folta
schiera
di
scrittori
importanti,
e
non
è
meno
folto
il
numero
degli
artisti
e
degli
straordinari
attori,
registi
e
autori
teatrali
come
Heiner
Müller,
Peter
Hacks,
Stefan
Heym,
Thomas
Brasch,
Jurek
Becker,
Hans
Joachim
Schädlich,
Kurt
Bartsch,
Peter
Huchel,
Heiner
Kipphardt,
Volker
Braun,
Günter
de
Bruyn,
Christoph
Hein,
Maxie
Wander,
Günter
Kunert,
Erich
Loest,
Wolf
Biermann,
a
cui
si
aggiungono
non
pochi
fra
quanti
lavorarono
negli
studi
cinematografici
della
DEFA,
registi
come
Konrad
Wolf,
Frank
Beyer,
Heiner
Carow,
Egon
Günther
e
Kurt
Maetzig
che
–
quando
i
loro
film
arrivavano
al
pubblico
–
hanno
fatto
grande
cinema.
Michael
Benjamin
aveva
dunque
molto
da
scoprire
nel
momento
in
cui
si
poneva
la
domanda
retorica
se
e
cosa
fosse
rimasto
della
DDR.
C’erano
cause
che
spiegavano
perché,
in
quanto
modello
di
una
società
socialista,
non
avesse
superato
la
«prassi
storica»,
come
lui
l’avrebbe
probabilmente
chiamata.
È
quasi
una
beffa
della
storia
che
sia
soprattutto
la
sua
eredità
culturale,
non
amata
dalla
SED
e
osservata
sempre
con
diffidenza,
a
trovare
posto
nella
quinta
Germania.
Michael
Benjamin
non
era
uno
di
quelli
che
dipingevano
positivamente
la
storia
del
movimento
comunista,
soprattutto
là
dove
esso
mostrava
tratti
di
sgradevolezza.
In
una
lettera
espresse
il
suo
sgomento
per
il
fatto
che
lo
storico
Gossweiler
cercasse
di
«sottacerne,
oppure
di
giustificarne»
proprio
le
«pagine
più
scure».
Quella
fase
del
primo
socialismo
legata
a
Stalin,
che
lui
definiva
«profondamente
contraddittoria»,
non
era
stata
accompagnata
solo
da
errori,
cosa
inevitabile,
ma
anche
da
«ingiustizia,
terrore,
deportazioni
di
interi
popoli,
sterminio
di
comunisti,
oppressione
e
distruzione
di
chi
la
pensava
diversamente
o
semplicemente
non
era
più
gradito.
Proprio
noi
comunisti
dobbiamo
riconoscere
anche
questa
parte
della
nostra
storia
e
trarne
le
conseguenze».
Poi
si
occupò
dei
«processi
contro
i
parassiti»
degli
anni
Trenta,
che
Gossweiler
aveva
giustificato
citando
Brecht,
il
procuratore
della
corona
Pritt,
Lion
Feuchtwanger
e
certi
diplomatici
americani,
i
quali
avevano
dato
una
«valutazione
positiva».
«Purtroppo»
scrisse
Benjamin
«sappiamo
da
molti
anni
che
queste
donne
e
questi
uomini
non
avevano
ragione».
Contro
di
loro
c’erano
le
testimonianze
delle
decine
di
migliaia
di
persone
che
erano
state
liberate
dai
campi
di
lavoro,
delle
altre
centinaia
di
migliaia,
molte
delle
quali
riabilitate
solo
dopo
la
loro
morte,
fra
cui
molti
onesti
comunisti
sovietici
e
anche
tedeschi
che
dopo
tutte
queste
vicissitudini
restarono
fedeli
alla
causa
comunista.
Michael
Benjamin
rimanda
a
«fascicoli
e
documenti,
denunce
e
processi
e
condanne
a
morte».
Avrebbe
potuto
anche
rimandare
a
manoscritti
e
vicende
occorse
all’Hotel
Lux
di
Mosca,
dove
i
membri
dell’Internazionale
comunista
(Comintern),
i
quali
erano
alloggiati
là,
reagivano
a
ogni
colpo
alle
porte
delle
loro
stanze
con
un
timore
panico,
perché
vivevano
nell’angoscia
di
essere
condannati
come
«parassiti»,
uccisi
a
colpi
di
arma
da
fuoco,
impiccati,
arrestati
comunque
dalla
Polizia
segreta
e
nel
migliore
dei
casi
confinati
in
Siberia.
Una
testimonianza
recente
di
tutto
questo
è
data
dalle
memorie,
pubblicate
postume,
di
Wolfgang
Ruge,
noto
storico
della
DDR
e
padre
dello
scrittore
Eugen
Ruge.
Anche
lui
alloggiava
all’Hotel
Lux,
dove
a
quanto
ricorda
vigeva
un
motivo
solo:
«epurazione».
A
lui,
comunista
convinto,
ciò
procurò
quindici
anni
di
Lager
e
il
confino
in
Siberia.
Non
è
facile
rispondere
alla
domanda
perché
i
comunisti
tedeschi
come
Ruge,
che
avevano
provato
sulla
propria
pelle
il
terrore
staliniano,
tacquero
su
queste
esperienze
e
in
moltissimi
casi
mai,
o
solo
dopo
decenni,
riuscirono
a
rielaborarle.
Anche
i
ricordi
di
Ruge
sarebbero
rimasti
sconosciuti
se
il
figlio
Eugen
non
avesse
messo
in
ordine
e
pubblicato
il
lascito
del
padre.
Persino
nel
1953,
dopo
la
morte
del
mostro
al
Cremlino
e
le
rivelazioni
dei
suoi
crimini
al
XX
Congresso
del
Partito
nel
1956,
essi
restarono
per
lo
più
in
silenzio.
Michael
Benjamin
si
è
occupato
sostanzialmente
e
in
maniera
critica
degli
anni
del
terrore
in
Unione
Sovietica,
attorno
al
1930.
Ciò
che
innanzitutto
gli
premeva
era
riaprire
le
vie
ostruite
e
ormai
divenute
impraticabili,
per
non
fallire
già
al
primo
tentativo
di
sincerarsi
della
propria
identità
di
comunista.
È
così
quando
afferma
che
«la
violenza
e
il
terrore
rivoluzionari
possono
essere
imposti
e
giustificati
dalla
storia».
Sostiene
che
essi
non
erano
un
fine
a
sé
per
i
rivoluzionari
e
soprattutto
per
i
comunisti,
ma
erano
per
lo
più
una
risposta
obbligata
alla
«violenza
e
al
terrore
controrivoluzionari».
Ricordava
che
la
Rivoluzione
di
Ottobre
era
cominciata
come
una
delle
meno
sanguinose
della
storia
–
fin
quando
sopraggiunsero
la
controrivoluzione
armata
e
l’intervento
straniero.
D’altro
canto
non
sarebbe
stato
né
giustificato
né
rivoluzionario
aver
annientato
quasi
tutti
i
compagni
di
lotta
di
Lenin,
la
maggioranza
dei
delegati
al
XVI
Congresso
del
PCUS
(il
«congresso
dei
vincitori»),
nonché
gli
oppositori
della
propria
ideologia
nel
partito,
che
da
tempo
non
esercitavano
più
alcun
influsso
politico,
o
le
compagne
e
i
compagni
semplicemente
non
più
graditi.
Respingeva
anche
l’ultimo
argomento
di
Gossweiler:
senza
i
processi
negli
anni
Trenta
non
ci
sarebbe
stata
la
vittoria
in
guerra
contro
il
fascismo
tedesco.
Michael
Benjamin
lo
contraddice:
non
è
possibile
alcuna
giustificazione
del
terrore
e
degli
arresti
di
massa,
dell’annientamento
dei
comunisti
e
di
altri
onesti
cittadini
sovietici.
Al
contrario:
l’eliminazione
a
decine
di
migliaia
dei
quadri
dirigenti
dell’economia
e
la
quasi
totale
rimozione
dei
generali
e
degli
alti
ufficiali
dell’Armata
Rossa
avevano
provocato
gravissimi
danni
all’economia
e
alla
capacità
difensiva
dell’Unione
Sovietica
proprio
nei
momenti
più
critici,
immediatamente
prima
e
dopo
l’aggressione
nazista;
avevano
influenzato
la
fase
iniziale
della
«Grande
guerra
patriottica»
in
maniera
sostanzialmente
sfavorevole
all’Unione
Sovietica,
il
che
era
costato
la
vita
a
milioni
di
persone.
Michael
Benjamin
voleva
il
dialogo
fra
posizioni
differenziate
e
un
pluralismo
di
sinistra
che
si
potesse
sostenere
nell’uso
del
rispetto.
Solo
così
il
partito
giustificava
la
sua
esistenza
e
diventava
l’opposto
di
una
stanca
appendice
della
socialdemocrazia.
Era
convinto
che
non
si
dovesse
escludere
nessuna
corrente
interna
al
partito.
Prese
più
volte
le
difese
di
Sahra
Wagenknecht,
che
dieci
anni
dopo
diventò
la
comunista
esemplare,
invitata
ai
talk
show
dei
programmi
pubblici
e
che
all’occasione
argomentava
in
maniera
piuttosto
efficace,
quando
si
parlava
della
spaccatura
tra
ricchi
e
poveri
all’interno
della
società.
La
sua
ascesa
nel
partito
che
da
Partito
del
socialismo
democratico
(Partei
des
Demokratischen
Sozialismus,
PDS)
si
era
mutato
nella
Sinistra
(Die
Linke)
è
comunque
notevole.
Ancora
pochi
anni
prima,
sotto
il
tiro
continuo
di
influenti
media,
il
partito
era
stato
manifestamente
diviso
sulla
maniera
di
porsi
rispetto
alla
piattaforma
comunista.
Ormai
un
tema
secondario?
Sahra
Wagenknecht
fu
candidata
addirittura
alla
presidenza
del
partito,
e
ne
divenne
vicepresidente.
È
chiaro
–
e
perciò
torno
a
rileggerlo
–
che
Michael
Benjamin
si
interessò
molto
alla
vita
ebraica
nella
DDR.
Anche
qui
riesce
a
evitare
i
soliti
cliché
e
nello
stesso
tempo
a
turbare
l’(auto)certezza
tanto
diffusa
in
Occidente,
cioè
che
il
secondo
stato
tedesco
che
si
definiva
antifascista
non
avesse
affrontato
meglio
questa
parte
della
storia
comune
rispetto
a
quanto
aveva
fatto
l’Occidente.
Un
discorso
tenuto
al
congresso
dell’Associazione
internazionale
dei
giuristi
ebrei
nel
1994
ci
fa
conoscere
il
suo
pensiero.
Nel
contempo
appare
nuovamente
chiaro
quanto
esso
sia
stato
segnato
dalla
sua
drammatica
storia
familiare
e
dal
peso
che
aveva
gravato
su
di
lui,
«meticcio»,
outsider
e
respinto.
Quante
volte
prima
del
1945
Hilde
Benjamin
deve
aver
legato
il
suo
disprezzo
della
«Volksgemeinschaft»11
nazista
alla
speranza
di
un
ordine
sociale
che
non
avrebbe
conosciuto
nulla
del
genere.
Solo
nel
successivo
corso
della
storia
postbellica
Michael
Benjamin
potrebbe
d’altro
canto
aver
capito
che
non
sono
soltanto
l’ideologia
o
la
riflessione
filosofica
a
formare
una
società.
Soltanto
dopo
la
svolta
comprese
anche
lui
che
nel
suo
rifiuto
del
pensiero
di
estrema
destra
la
DDR
non
era
molto
più
avanti
della
Repubblica
Federale.
Michael
Benjamin
descrive
tuttavia
la
DDR
come
una
«collettività
in
cui
l’ebraismo
era
ininfluente,
nello
stato
come
nelle
istituzioni».
Questo
era
stato
per
lui
un
enorme
sollievo.
L’ebraismo
divenne
una
questione
privata
e
«noi
volevamo
che
–
finalmente
–
fosse
questo
e
nient’altro».
Lo
era
anche
rispetto
alla
possibilità
di
ascesa
a
posizioni
elevate.
«Non
si
saliva
in
alto
nonostante
si
fosse
ebrei,
e
tanto
meno
perché
lo
si
era».
In
generale
c’era
di
che
essere
critici
rispetto
ai
meccanismi
di
formazione
delle
élite
nella
DDR,
anzi
era
doveroso
esserlo
perché
in
fin
dei
conti
avevano
fallito,
contribuendo
a
rovinare
il
socialismo.
«Ma
la
sua
indifferenza
nelle
cose
ebraiche
era
uno
dei
suoi
pregi».
Tuttavia
gli
è
chiaro
«che
nessun
tedesco,
membro
di
una
comunità
ebraica
oppure
no»,
poteva
negare
anche
solo
a
se
stesso
la
propria
origine:
«Nella
nostra
storia
recente
è
successo
troppo
perché
ciò
sia
concepibile.
Chi
prima
del
1933
non
sapeva
nulla
delle
proprie
origini
ebraiche,
magari
perché
proveniva
da
una
famiglia
totalmente
assimilata,
o
pur
conoscendole
le
considerava
con
indifferenza,
dopo
dodici
anni
di
nazionalsocialismo
e
persecuzione
non
poteva
più
considerarle
così.
A
quel
punto
era
salda
la
consapevolezza
di
essere
ebreo».
Ricorda
«con
dolore»
che
nella
DDR
era
stata
sempre
avvertibile
un’attitudine
che
non
soltanto
«considerava
ufficialmente
irrilevante
l’ebraismo
(cosa
in
sé
buona),
ma
lo
ignorava
(cosa
in
sé
negativa)».
Essa
era
stata
un
elemento
di
quella
rigidezza
e
quella
distorsione
che
aveva
investito
la
vita
sociale
del
paese,
e
anche
una
componente
del
suo
fallimento.
Vi
rientrava
anche
la
falsa
convinzione
che
l’antisemitismo
nella
DDR
fosse
estirpato
«per
sempre»,
e
che
il
problema
fosse
dunque
risolto.
Nelle
due
Germanie
ci
furono,
sia
pure
in
periodi
diversi,
tentativi
di
far
pulizia
rispetto
allo
stato
hitleriano.
Nei
primi
anni
dopo
il
1945
ciò
parve
riuscire
gradualmente
meglio
nella
DDR.
Sotto
lo
choc
dell’estremismo
di
destra
che
negli
anni
dopo
la
svolta
era
tornato
a
mostrarsi,
Michael
Benjamin
avanzava
dubbi
sulla
profondità
di
tutto
questo.
Anzi,
sarebbe
stato
sorprendente
se
le
società
postfasciste
avessero
potuto
essere
superate
in
meno
di
una
generazione.
Nella
quotidianità
della
DDR,
come
recenti
pubblicazioni
dimostrano,
l’antisemitismo
era
qualcosa
di
avvertibile.
Michael
Benjamin
non
tradì
le
sue
convinzioni.
Dopo
la
morte
di
Hilde
si
mantenne
fedele
alla
sua
causa
e
alla
propria,
e
così
anche
dopo
aver
vissuto
il
crollo
della
DDR.
In
quanto
ebreo
tedesco
(o
«discendente
di
ebrei»)
si
sentiva
parte
peculiare
del
popolo
tedesco
stesso.
Quanto
all’ebraismo
in
Germania
e
al
suo
notevole
contributo
a
ciò
che
in
maniera
poco
specifica
si
chiama
cultura
tedesca,
Michael
cercava
di
distinguere
l’elemento
duraturo
dal
transitorio,
cercando
nel
contempo
una
risposta
all’interrogativo
se
anche
della
DDR
sarebbe
rimasto
qualcosa.
Il
socialismo
democratico
è
legato
per
lui
alla
possibilità,
da
parte
del
Partito
comunista,
di
accettare
anche
di
non
essere
rieletto,
cosa
che
in
elezioni
libere
e
segrete
può
sempre
inevitabilmente
succedere.
Per
Michael
Benjamin
la
DDR,
misurata
sui
suoi
stessi
criteri,
è
fallita
soprattutto
dal
momento
in
cui
princìpi
da
essa
stessa
stabiliti,
come
per
esempio
il
principio
di
partecipazione
e
coorganizzazione,
vennero
erosi
e
infranti
in
misura
sempre
crescente.
In
maniera
altrettanto
critica
giudica
l’operato
della
Sicurezza
di
Stato
e
la
sua
«vigilanza
estesa
oltre
misura»,
soprattutto
sui
propri
cittadini.
Il
suo
credo
per
una
seconda
rincorsa
verso
una
società
socialista
si
trova
nel
terzo
paragrafo
del
programma
del
Partito
del
Socialismo
Democratico
(Partei
des
Demokratischen
Sozialismus,
PDS):
«Lottiamo
per
una
via
che
ci
porti
al
di
là
del
capitalismo
e
non
indietro
nel
socialismo
amministrativo.
E
per
far
questo
abbiamo
bisogno
di
tutte
le
tradizioni
democratiche».
Michael
Benjamin
conobbe
nella
sua
vita
soltanto
il
PDS,
non
ne
vide
l’espansione
alle
vecchie
regioni
della
repubblica
federale
e
il
cambiamento
del
nome
in
«La
Sinistra»,
che
sembra
rimandare
piuttosto
a
un
movimento
composito.
Attualmente
il
pluralismo
che
anche
qui
risuona
sembra
piuttosto
fallire.
Per
lui,
in
ogni
caso,
le
radici
socialdemocratiche
erano
importanti
quanto
quelle
marxiste:
«L’accento
posto
per
esempio
sulla
questione
della
democrazia,
la
battaglia
per
ottenere
miglioramenti
sociali,
la
partecipazione
alle
lotte
sindacali
e
alla
politica
comunale,
e
in
generale
la
visione
del
“socialismo
come
movimento”
rimandano
in
maniera
considerevole
a
tradizioni
socialdemocratiche».
Dell’eredità
anarchica
gli
piacevano
la
critica
alla
statalizzazione
della
società,
il
risalto
dato
all’individuo
e
alle
sue
possibilità
di
autoorganizzarsi.
Tuttavia
non
si
può
nemmeno
ignorare
che
proprio
al
comunismo
risalivano
l’idea
di
eliminare
lo
sfruttamento
dell’uomo
da
parte
dell’uomo
e
il
concetto
dell’uguaglianza
sociale
ottenuta
attraverso
il
superamento
delle
differenze
di
classe.
Così
Michael
Benjamin
descrive
in
maniera
calzante
le
radici
del
movimento
operaio,
e
perciò
pondera
sia
le
vittorie
che
le
sconfitte.
Spesso
madre
e
figlio
ne
avevano
discusso.
Quante
volte
Hilde
Benjamin
deve
aver
pensato
a
Georg
e
alle
sue
opinioni
non
dogmatiche,
che
un
giorno
avrebbero
potuto
metterlo
in
difficoltà.
Il
suo
sguardo
torna
al
marito
assente,
che
per
la
sua
fede
dovette
seguire
il
proprio
calvario
fino
alla
fine.
Tanto
più
la
famiglia
del
figlio
la
circonda
invece
di
un’attenzione
affettuosa,
che
trova
espressione
in
una
lettera
per
il
primo
compleanno
del
nipote
Georg:
«Per
il
primo
compleanno
del
vostro
bambino
i
miei
pensieri
vanno
a
voi,
con
profondo
amore.
Noi
non
parliamo
molto
dei
nostri
sentimenti;
noi
lasciamo
che
il
nostro
legame
sia
percepito
anziché
avvolto
in
parole,
e
nei
miei
pensieri
io
mi
rivolgo
spesso
a
voi.
Questo
primo
anno
in
cui
siete
stati
una
famiglia
non
è
stato
facile
per
voi.
Ma
io
penso:
l’aver
sopportato
insieme
[...]
la
malattia
e
altre
difficoltà
vi
ha
avvicinato
più
in
fretta
e
saldamente.
Il
periodo
che
ho
vissuto
con
voi
è
stato
una
grande
gioia
inattesa.
Dirlo
non
significa
che
io
mi
aspetti
che
questa
convivenza
esterna
debba
continuare
sempre
così.
Ma
al
presente
ne
godo,
e
ne
sono
grata.
Lo
sviluppo
della
vita
cosciente
in
Grischa
è
per
me
–
evidentemente
–
un
miracolo
quasi
più
grande
di
quel
che
ho
vissuto
con
mio
figlio».
La
lettera
con
l’intestazione
«Dott.ssa
Hilde
Benjamin,
Berlin
Niederschönhausen,
Majakowski-Ring
59»
viene
da
Friedensburg,
una
casa
di
riposo
in
Turingia,
ed
è
datata
10
aprile
1961.
Il
Majakowski-Ring,
una
via
trasversale
che
si
diparte
dal
castello
di
Schönhausen,
esiste
ancora,
così
chiamata
in
ricordo
del
poeta
rivoluzionario
russo
e
rappresentante
del
futurismo
Vladimir
Majakovskij.
Era
nato
nel
1893,
un
anno
dopo
Walter
Benjamin,
e
morì
nel
1930
a
Mosca.
Anche
questa
lettera
è
un
segno
della
vicinanza
e
dell’amore
che
Hilde
Benjamin
provò
nella
sua
vita
per
il
figlio,
e
che
ora
trasmette
anche
al
nipote.
Ogni
riga
lascia
intuire
nel
contempo
quanto
avesse
desiderato
una
famiglia
con
suo
marito
Georg.
Ora
vede
una
famiglia
felice,
Michael,
Ursula
e
i
nipoti,
Grischa
e
la
sorellina
Simone,
e
scorge
per
sé
l’occasione
di
recuperare
un
po’
di
quello
che
nella
sua
vita
era
rimasto
uno
spazio
vuoto,
coperto
dal
lutto.
Georg
ricorda
una
nonna
che
fino
alla
fine
si
interessò
alla
politica.
Dopo
aver
lasciato
la
carica
di
ministro
della
Giustizia
Hilde
Benjamin
si
era
ripromessa
varie
volte
di
scrivere
a
Ulbricht,
e
in
seguito
a
Honecker,
per
verbalizzare
la
propria
critica
alla
realtà
della
DDR.
La
sua
morte
giunse
inattesa,
come
lo
sarebbe
stata
undici
anni
dopo
quella
di
suo
figlio
Michael,
padre
di
Georg.
Quest’ultimo
racconta
che
Hilde
aveva
subito
una
complicata
frattura
dell’anca,
che
doveva
essere
operata.
Nessuno
poteva
immaginare
che
non
sarebbe
sopravvissuta.
In
ospedale
contrasse
un’infezione
e
morì
di
polmonite.
9
Attestato
fin
dalla
fine
del
diciottesimo
secolo
nell’accezione
di
«compatriota»,
durante
il
nazionalsocialismo
il
termine
Volksgenosse
si
carica
di
una
valenza
fortemente
ideologica
e
razzista.
«Cittadino
può
essere
soltanto
chi
è
Volksgenosse»
si
legge
nel
programma
del
Partito
nazionalsocialista
dei
lavoratori
tedeschi
nel
1920.
«Volksgenosse
può
essere
soltanto
chi
ha
sangue
tedesco,
indipendentemente
dalla
sua
confessione
religiosa.
Un
ebreo
perciò
non
può
essere
un
Volksgenosse»
[N.d.T.].
10
«Überholen,
ohne
einzuholen»
aveva
annunciato
nel
1959
il
Segretario
generale
e
Presidente
della
SED
Walter
Ulbricht:
superare
economicamente
la
BRD,
seguendo
però
un’altra
via
[N.d.T.].
11
La
«comunità
del
popolo»,
cioè
la
comunità
dei
Volksgenosse,
legati
dal
«sangue»
e
nel
«destino»
[N.d.T.].
Capitolo
dodicesimo
Riflessi
da
una
Germania
all’altra
Era
l’anno
in
cui
Nikita
Chruščev
si
tolse
una
scarpa
nella
grande
sala
per
le
riunioni
delle
Nazioni
Unite
e,
con
mossa
rapida
e
vivace,
ne
picchiò
ritmicamente
il
tacco
sul
tavolino
pieghevole
al
proprio
posto,
battendo
la
cadenza
di
marcia
a
quella
quindicesima
assemblea
plenaria.
Il
tavolino
resse,
la
sua
carriera
no.
Da
New
York
l’immagine
con
la
scarpa
nella
mano
fece
il
giro
del
mondo.
Non
ci
fu
quotidiano
che
il
giorno
dopo
non
stampò
con
ampio
spazio
in
prima
pagina
la
foto.
Negli
Stati
Uniti
il
giovane
John
F.
Kennedy,
candidato
del
Partito
democratico,
vinse
le
elezioni
presidenziali.
Divenne
l’avversario
di
Chruščev
nella
competizione
fra
le
superpotenze
per
la
supremazia
globale.
Il
motivo
dell’ira
di
Chruščev,
sfogata
attraverso
la
scarpa,
era
il
seguente:
nel
maggio
1960
il
pilota
Francis
Gary
Powers
era
per
così
dire
caduto
dal
cielo,
planando
col
paracadute
sopra
il
territorio
sovietico,
ed
era
finito
in
prigione.
I
sovietici
avevano
sparato
al
suo
U2,
un
aereo
spia.
L’episodio
fu
giudicato
da
Mosca
un
atto
di
aggressione.
I
rapporti
con
gli
Stati
Uniti
avevano
raggiunto
un
punto
di
congelamento
già
sotto
il
presidente
Edward
D.
Eisenhower.
Powers
fu
condannato
in
quanto
spia.
Due
anni
più
tardi
sedeva
in
una
limousine
del
KGB,
diretto
a
Potsdam.
L’agente
della
CIA
Powers
era
volato
da
Mosca
a
Berlino
Est
su
un
Il’jušin
e
da
lì
era
stato
portato
in
macchina
al
ponte
di
Glienicke.
A
metà
del
ponte,
davanti
alla
linea
di
demarcazione
che
separava
i
due
blocchi
di
potere,
il
10
febbraio
1962
alle
ore
8.44
del
mattino
Powers
scese
dalla
limousine
di
marca
Volga.
Gli
andò
incontro
l’agente
del
KGB
Rudolf
Ivanovič
Abel,
sospettato
di
aver
spiato
il
programma
atomico
degli
Stati
Uniti,
benché
lo
avesse
sempre
negato.
Era
stato
portato
in
aereo
dagli
Stati
Uniti
a
Berlino
Ovest.
Scambio
di
agenti
segreti
durante
la
guerra
fredda,
una
pura
routine.
E
nella
lontana
Francoforte
sul
Meno
il
procuratore
generale
Fritz
Bauer
sedeva
nel
suo
ufficio,
e
in
questa
giornata
primaverile
del
maggio
1960
dovette
apprendere
con
una
certa
soddisfazione
la
notizia
che
l’ex
SSObersturmbannführer
Adolf
Eichmann
era
stato
rapito
in
Argentina
da
un
commando
israeliano
ed
era
stato
portato
a
Haifa.
Pochi
giorni
dopo,
il
23
maggio
1960,
lo
stato
di
Israele
avviò
un
procedimento
penale
contro
l’uomo
che
aveva
organizzato
i
trasporti
per
le
persone
marchiate
con
la
stella
gialla,
avviando
la
«soluzione
finale
della
questione
ebraica».
Senza
Fritz
Bauer
invece
non
ci
sarebbe
stato
questo
processo:
era
stato
lui
ad
aver
dato
ai
servizi
segreti
israeliani
le
informazioni
decisive
sul
luogo
in
cui
si
trovava
Eichmann,
in
Argentina.
L’anno
di
nascita
di
Grischa
(Georg)
Benjamin,
cioè
il
1960,
offrì
abbondante
materia
ai
radiogiornali,
la
guerra
fredda
era
nuovamente
sul
punto
di
accendersi.
Il
13
agosto,
mentre
Grischa
ancora
gattonava
sulla
moquette,
apportò
un
taglio
netto
nella
vita
dei
genitori:
il
muro.
Quaranta
anni
dopo,
quando
la
DDR
era
ormai
scomparsa
da
tempo,
il
padre
di
Grischa
avrebbe
scatenato
una
controversia
pubblica
con
la
sua
opinione
sul
mostro
di
cemento
e
filo
spinato.
Poteva
essere
fondatamente
visto
come
una
misura
«imposta
dalle
circostanze».
L’indignazione
fu
grande.
E
tuttavia
non
fu
una
misura
capace
di
tenere
in
vita
la
DDR.
Molti
modelli
maturati
nell’infanzia
si
spiegano
a
partire
da
questo
mondo
in
trasformazione:
gli
anni
Sessanta
del
secolo
scorso.
Quando
sorge
qualcosa
che
assomiglia
a
una
coscienza
politica?
In
un
qualche
momento
dopo
i
quattordici
o
i
quindici
anni
di
età?
Di
sicuro
Grischa
fu
influenzato
anche
dalle
serate
dei
Pionieri
o
dai
dibattiti
politici
nei
circoli
della
FDJ,
dove
si
discuteva
la
situazione
mondiale.
La
guerra
fredda
è
al
suo
culmine.
E
rischia
sempre
di
diventare
una
guerra
calda.
Tutto
questo,
e
inoltre
l’atteggiamento
critico
di
suo
padre
verso
le
comunicazioni
ufficiali
del
governo
della
DDR
o
dei
vertici
del
partito,
fa
sì
che
Grischa
viva
quest’epoca
con
una
grande
consapevolezza.
In
ogni
caso
cresce
ai
due
lati
del
muro
una
generazione
incapace
di
credere
che
la
divisione
del
mondo
in
Est
e
Ovest
possa
in
qualche
modo
mutare
nel
corso
della
propria
vita.
O
che
potrebbe
farlo
soltanto
attraverso
una
terza,
e
probabilmente
ultima,
guerra
mondiale
in
cui
si
adopererebbero
le
armi
atomiche.
Una
guerra
per
la
riunificazione
–
impensabile.
Grischa
ricorda
subito
questa
visione
molto
pragmatica
quando
gli
chiedo
se
le
limitazioni
ai
viaggi
in
Occidente
fossero
state
per
lui
un
problema.
«No»
è
la
sua
risposta.
«Forse
sarebbe
stato
diverso
se
avessimo
avuto
parenti
in
Germania
Ovest»
ammette
di
fronte
alla
mia
reazione
stupita.
Non
ricorda
che
questo
gli
sia
mai
pesato.
Era
così
e
non
si
poteva
cambiare.
Poiché
la
visuale
verso
l’Occidente
non
era
libera,
rimaneva
l’Oriente.
Naturalmente
era
desideroso
di
conoscere
anche
altri
paesi
e
immergersi
in
altre
culture.
Per
lui
ciò
significò
innanzitutto
l’Unione
Sovietica.
Suo
padre
aveva
studiato
a
Leningrado,
lui
invece
andò
a
Mosca
a
studiare
politica
internazionale
e
tre
lingue
straniere.
Sarebbe
stata
la
via
per
il
servizio
diplomatico.
Anche
in
Occidente,
negli
anni
Settanta,
l’irreversibilità
della
divisione
del
paese
era
una
certezza
non
solo
per
i
giovani
socialisti
della
SPD
occidentale.
E
benché
i
discorsi
ufficiali
della
politica
di
Bonn
suonassero
diversi,
questa
valutazione
era
condivisa
anche
dai
partiti
conservatori
della
Repubblica
Federale.
Dopo
il
1969
la
coalizione
social-liberale
seppellì
la
dottrina
Hallstein,12
la
quale
implicava
il
non
riconoscimento
della
DDR,
ponendo
fine
con
ciò
alla
ricattabilità
della
Repubblica
Federale
in
politica
estera.
Con
il
Trattato
di
Mosca
(1970)
e
il
Trattato
fondamentale
(Grundlagenvertrag)
del
1972
che
regolava
i
rapporti
fra
la
DDR
e
la
BRD
fu
riconosciuta
la
realtà,
e
con
ciò
la
Repubblica
Democratica
come
secondo
Stato
tedesco.
In
questo
modo
erano
stati
creati
i
presupposti
per
una
politica
di
distensione
e
pace
che
avrebbe
toccato
l’intera
Europa,
iniziata
dalla
Repubblica
Federale
e
legata
ai
nomi
di
Willy
Brandt
e
Egon
Bahr.
Ancora
nel
1960,
e
poi
per
l’ultima
volta
nel
1964,
alle
Olimpiadi
invernali
ed
estive
si
presentò
una
sola
squadra
per
le
due
Germanie.
Le
tensioni
però
non
mancarono
e
fu
tutt’altro
che
una
«gioia,
bella
scintilla
divina»,
come
recita
l’inno
di
Beethoven,
suonato
allora
per
le
vittorie
degli
atleti
tedeschi
al
posto
di
un
inno
nazionale.
La
lotta
della
Repubblica
Federale
per
rivendicare
il
ruolo
di
unica
rappresentante
della
Germania
e,
a
questa
legata,
la
questione
relativa
alla
successione
del
Terzo
Reich
dominarono
la
politica
estera
durante
l’era
di
Adenauer.
Non
restava
spazio
per
un’altra
impronta,
al
di
là
del
forte
vincolo
con
l’Occidente.
Per
il
cancellierato
e
il
ministero
degli
Esteri
c’era
solo
quello
che,
con
termine
indiretto,
veniva
chiamato
«riparazione».
Già
l’astrazione
della
parola
rendeva
chiaro
che
la
dimensione
autentica
del
genocidio
nazista
non
era
ammessa
nell’era
di
Adenauer.
La
storia
doveva
essere
smaltita
in
maniera
sostanzialmente
materiale.
Fritz
Bauer,
giurista
ritornato
dall’emigrazione,
impiegò
quattro
anni,
fino
al
1949,
per
riottenere
il
suo
impiego
statale.
Le
sue
esperienze
al
ritorno
nella
parte
occidentale
dello
Stato
diviso
erano
sintomatiche
del
clima
e
della
consapevolezza
in
cui
versava
il
paese
con
i
suoi
sessanta
milioni
di
abitanti.
Bauer
era
uno
dei
pochi
della
sua
corporazione
a
essersi
prefisso
di
costruire
un
autentico
stato
di
diritto.
Alla
metà
del
gennaio
1949
Bauer,
che
in
quanto
ebreo
tedesco
e
socialdemocratico
era
riuscito
a
prendere
la
via
dell’esilio
dopo
diversi
mesi
in
campo
di
concentramento,
aveva
ricevuto
la
notifica
che
il
suo
«procedimento
di
denazificazione»
aveva
accertato
la
non
applicabilità
a
lui
delle
«relative
norme».
E
nell’aprile
di
quell’anno
ricevette
l’atto
di
nomina
a
direttore
del
tribunale
di
Braunschweig.
Alla
maggioranza
dei
giudici
e
dei
procuratori
che
senza
alcuna
difficoltà
avevano
accolto
le
leggi
razziali
e
condannato
a
morte
migliaia
di
oppositori
del
nazismo,
Bauer
oppose
la
sua
intenzione:
«Volevo
essere
un
giurista
che
serve
la
legge
e
il
diritto,
l’umanità
e
la
pace
non
soltanto
con
parole
vuote».
E
la
mise
in
atto
come
quasi
nessun
altro.
Sarebbe
stata
una
battaglia
con
molte
sconfitte,
ma
anche
successi.
E
ogni
sua
vittoria
sulle
pattuglie
di
combattimento
brune
nella
Giustizia
e
nell’apparato
statale
della
Repubblica
Federale
aumentava
la
loro
aggressività.
Fuori
dalle
sicure
stanze
del
suo
ufficio
Bauer
si
sentiva
come
in
un
paese
nemico.
Gli
fu
contrapposto
ogni
possibile
ostacolo,
anche
quando
mise
sotto
accusa
a
Braunschweig
il
generale
nazista
Otto
Ernst
Remer.
Quest’ultimo,
un
irriducibile
nazionalsocialista,
quale
comandante
del
battaglione
di
guardia
«Großdeutschland»
aveva
arrestato
il
20
luglio
1944
a
Berlino
il
generale
di
divisione
Karl
Paul
von
Hase,
Comandante
della
Piazza
a
Berlino,
dopo
il
fallito
attentato
a
Hitler.
Von
Hase
aveva
partecipato
alla
congiura
del
20
luglio
con
l’incarico
di
arrestare
la
dirigenza
nazista
dopo
l’attentato.
Fu
impiccato
nel
carcere
di
Plötzensee.
Nel
1951
Remer
fondò
il
neonazista
Partito
socialista
del
Reich
(Sozialistische
Reichspartei,
SRP).
La
sua
esaltazione
del
nazionalsocialismo,
in
occasione
delle
elezioni
per
il
parlamento
regionale
della
Bassa
Sassonia,
gli
procurò
l’undici
per
cento
dei
consensi
e
l’ingresso
nell’organo
di
rappresentanza.
Durante
i
comizi
elettorali
Remer
definiva
rei
di
alto
tradimento
i
partecipanti
alla
congiura
del
20
luglio,
che
avevano
pugnalato
alle
spalle
la
Wehrmacht,
rafforzando
così
nella
popolazione
un’immagine
negativa
della
resistenza
e
soprattutto
degli
autori
del
fallito
attentato
a
Hitler.
Sondaggi
dell’epoca
mostrano
che
solo
una
minoranza
giudicava
positivamente
questa
azione.
Il
processo
contro
Remer,
iniziato
nel
1952,
terminò
con
un
verdetto
di
colpevolezza
e
tre
mesi
di
carcere
per
oltraggio
e
diffamazione.
La
SRP
fu
messa
al
bando
dalla
Corte
costituzionale
federale,
in
quanto
organizzazione
discendente
dal
Partito
nazionalsocialista.
Quanto
a
Remer,
riuscì
a
non
scontare
la
pena
fuggendo
in
Egitto.
Là,
come
in
Argentina,
c’era
una
rete
ben
organizzata
di
ex
nazisti
con
le
migliori
connessioni
nella
Repubblica
Federale.
Il
verdetto
fu
per
lungo
tempo
l’ultimo
successo
riportato
nell’ambito
di
una
revisione
giuridica
dell’epoca
nazista
nella
BRD.
Rese
tuttavia
celebre
Fritz
Bauer,
che
nel
frattempo
era
stato
nominato
procuratore
generale
a
Braunschweig,
anche
oltre
i
confini
della
Germania
Federale.
Al
processo
erano
presenti
molti
corrispondenti
internazionali,
che
parlarono
con
ammirazione
delle
sue
strategie
processuali.
Nel
1956
Bauer
fu
nominato
procuratore
generale
a
Francoforte.
Nel
1968,
estenuato
da
anni
di
lotte,
morì
di
infarto.
Il
sospetto
che
si
trattasse
di
suicidio
non
fu
confermato.
Il
suo
è
un
altro
eroismo
rispetto
a
quello
dei
canti
inneggianti
alla
Wehrmacht
nazista,
che
si
levavano
dai
romanzi
di
guerra
esposti
nei
chioschi.
Un
eroismo
che
distinse
anche
Max
Horkheimer
e
Theodor
W.
Adorno
e
molti
altri
che
dall’esilio
tornarono
in
Germania
per
«tenere
testa
al
nuovo
inasprimento
fascista»,
come
lo
definì
Horkheimer,
e
per
«contribuire
all’educazione
alla
resistenza».
Nel
1960
la
Germania
Federale
si
trovò
nuovamente
di
fronte
a
un’ondata
di
attacchi
neonazisti.
La
repubblica
di
Bonn
non
poté
ignorarne
il
danno
in
politica
estera,
tanto
che
il
cancelliere
Adenauer
si
vide
costretto
a
pronunciarsi
sugli
attacchi
e
le
devastazioni
di
cimiteri
e
istituzioni
ebraiche.
In
un
discorso
radiofonico
e
televisivo
condannò
quegli
eccessi.
La
pressoché
ininterrotta
continuità
delle
élite
vecchie/nuove
nella
Repubblica
Federale
aveva
generato
un
clima
intollerante
di
qualsiasi
memoria
critica
del
periodo
nazista.
Erano
ancora
lì,
i
nazisti
in
abito
vecchio
e
nuovo,
e
il
«grembo
era
ancora
fecondo».
Che
paese
era
quello
che
entrava
nel
libro
della
storia
tedesca
come
il
successore
del
Terzo
Reich?
L’attore
e
scrittore
Josef
Bierbichler
ne
ha
offerto
una
descrizione
calzante
nel
suo
recente
romanzo
Mittelreich (Regno
di
mezzo).
«Con
tenacia»
gli
uomini
si
erano
risollevati
«dopo
il
pasticcio
della
guerra
perduta
e
la
cattiva
fama
nel
mondo,
che
si
erano
tirati
addosso
con
la
guerra
e
i
suoi
effetti
collaterali».
Ricorda
la
costruzione
delle
autostrade,
voluta
a
tutti
i
costi
dai
nazisti,
e
la
domanda
che
in
genere
vi
si
legava,
cioè
se
«tutto
fosse
stato
poi
così
malvagio
in
quei
dodici
anni,
quando
il
paese
aveva
perseguito
una
politica
mondiale».
E
poi,
ben
presto,
«non
se
n’era
potuto
più
di
starsene
prostrati
a
capo
chino,
come
si
addice
ai
cani
ma
in
certe
situazioni
anche
agli
esseri
umani
[...]
e
si
cominciò
dunque
a
raddrizzare
la
schiena,
tornando
in
posizione
eretta».
Furono
Margarete
e
Alexander
Mitscherlich
che,
quasi
accompagnando
psicoanaliticamente
lo
stato
tedesco
occidentale,
riconobbero
l’«incapacità
di
affrontare
il
lutto».
Ciò
vale
ancora,
immutato,
per
gli
omicidi
nazisti
ai
nostri
giorni.
Centocinquanta
morti
dalla
riunificazione,
vittime
della
violenza
di
estrema
destra,
e
alcune
centinaia
di
feriti
gravi
non
indussero
a
calare
a
mezz’asta
le
bandiere
per
annunciare
il
lutto.
Ci
volle
tempo
perché
le
generazioni
postbelliche,
l’intellighenzia
critica
tornata
dall’esilio
e
la
resistenza
durante
le
elezioni
potessero
trionfare
sul
resto
della
generazione
dei
colpevoli.
Senza
i
Mitscherlich,
senza
quelli
come
Eugen
Kogon,
il
Gruppo
47,
i
molti
membri
dei
sindacati,
i
successori
della
Chiesa
confessante
e
la
gioventù
in
rivolta
dopo
il
1968,
non
sarebbe
stato
possibile
strappare
ai
bruni
cacciatori
di
eredità,
che
si
erano
già
comodamente
insediati
nei
centri
democratici
del
potere,
la
democrazia
ricevuta
in
dono.
Ma
per
questo
era
necessario
che
qualcuno
come
Fritz
Bauer
lavorasse
per
un
nuovo
inizio,
che
senza
una
revisione
anche
giuridica
degli
omicidi
nazisti
non
sarebbe
stato
credibile.
Nella
società
postfascista
del
dopoguerra
molti,
e
forse
anzi
la
maggioranza,
pensavano
di
essere
le
vittime
di
un
coinvolgimento
fatale.
Parecchi
in
Occidente
vedevano
Willy
Brandt,
che
era
emigrato
in
Norvegia,
come
un
traditore.
E
la
sua
Ostpolitik,
la
sua
politica
di
distensione
che
conteneva
il
germe
di
una
riconciliazione
con
i
popoli
dell’Europa
orientale
e
la
Russia,
era
considerata
da
questi
una
politica
di
rinuncia.
La
destra
nazionalista
lo
perseguitava
con
odio
e
scandiva:
«Willy
Brandt
al
muro».
Nessuno
colse
l’atmosfera
dominante
in
Germania
Occidentale
meglio
di
Hannah
Arendt,
che
nel
1950
tornò
a
visitare
per
la
prima
volta
il
paese:
«La
vista
offerta
dalle
città
tedesche
distrutte
e
la
conoscenza
dei
campi
di
concentramento
e
di
sterminio
hanno
proiettato
sull’Europa
un’ombra
di
profonda
tristezza».
Poi
continua:
«E
tuttavia,
da
nessun’altra
parte
questo
incubo
di
distruzione
e
paura
è
meno
sentito,
e
in
nessun
altro
luogo
se
ne
parla
meno
che
in
Germania».
E
aggiunge
specificando
che
rientra
in
tutto
questo
il
rifiuto
di
provare
il
lutto,
e
inoltre
l’indifferenza,
l’apatia,
l’assenza
di
sentimenti,
l’insensibilità
che
a
volte
era
dissimulata
da
un
sentimentalismo
dozzinale.
Ciò
tuttavia
era
solo
il
sintomo
più
evidente
di
un
rifiuto
profondamente
radicato,
caparbio
e
talvolta
brutale
di
affrontare
ciò
che
era
realmente
avvenuto
e
di
riconoscerlo.
Una
simile
fuga
dalla
realtà
era
naturalmente
anche
una
fuga
dalla
responsabilità.
Fritz
Bauer
imparò
in
fretta
che
gli
emigranti
non
erano
particolarmente
benvenuti.
Anche
Walter
Mehring,
che
con
Kurt
Tucholsky
aveva
espresso
per
iscritto
la
sua
opposizione
al
sorgente
nazionalsocialismo
sulla
«Weltbühne»
di
Ossietzky,
disse
dopo
una
breve
visita
nel
1948:
«Non
ci
perdoneranno
mai
che
non
ci
siamo
fatti
ammazzare
a
colpi
di
bastone
o
almeno
un
po’
dai
gas».
C’era
da
provare
ripugnanza
di
fronte
al
modo
in
cui
vecchi
e
nuovi
nazisti
cercavano
di
scagionarsi
puntando
il
dito
altrove.
Questo
valeva
allo
stesso
modo
in
Germania
Est
e
Ovest.
E
non
occupandosi
dei
procedimenti
o
archiviandoli,
la
giustizia
tedesca
occidentale
contribuì
non
da
ultima
a
destare
l’impressione
che
lo
«strappo
dalla
civiltà»
operato
dai
nazisti
fosse
sostanzialmente
propaganda
dei
vincitori,
e
dunque
irrilevante
da
un
punto
di
vista
giuridico.
Il
dibattito
intorno
al
Zentrum
gegen
Vertreibungen
(Centro
contro
le
espulsioni)13
mostra
come
questa
tendenza
sia
viva
ancora
ai
nostri
giorni.
Quando
Fritz
Bauer
arrivò
a
Braunschweig
nel
1949,
nel
settore
di
sua
competenza
erano
già
state
eseguite
985
indagini
preliminari
contro
criminali
di
epoca
nazista,
e
di
queste
solo
un’ottantina
erano
riuscite
a
superare
le
pastoie
giuridiche;
per
836
procedimenti
era
stata
disposta
l’archiviazione.
Il
«processo
di
Helmstedt»
contro
picchiatori
appartenenti
alle
SA
e
alle
SS,
che
nel
1933
avevano
brutalmente
perseguitato
e
usato
violenza
contro
oppositori
politici
ed
ebrei,
si
era
chiuso
con
verdetti
così
miti
che
nel
1947
ci
furono
accese
proteste
e
manifestazioni,
a
cui
parteciparono
ventimila
persone.
La
guerra
fredda
e
l’opinione
generale,
incline
a
scagionare
tutti,
secondo
cui
la
«zona
sovietica»,
come
diceva
Adenauer,
era
peggio
dei
campi
di
concentramento
nazisti,
fecero
il
resto
per
sospendere
di
fatto,
alla
fondazione
della
Repubblica
Federale
Tedesca,
una
revisione
giuridica.
Nel
Libero
Stato
di
Braunschweig,
il
Land
più
piccolo
dell’ex
Reich,
il
terrore
nazionalsocialista
era
così
agguerrito
che
fin
dal
marzo
1933
i
membri
delle
frazioni
della
SPD
e
del
KPD
non
poterono
più
partecipare
alle
sedute
del
parlamento
regionale.
La
«brutale
edificazione»
del
potere
nazionalsocialista
vi
costò
la
vita,
nella
primavera
e
nell’estate
1933,
ad
almeno
ventisei
persone.
Anche
la
procura
della
repubblica
di
Braunschweig
arrivò
perciò
dopo
il
1945
alla
conclusione
che
già
nel
1933
la
giustizia
era
uno
«strumento
compiacente
del
regime
nazionalsocialista»
e
che
«partecipò
alla
persecuzione».
Il
fatto
che
Hitler
a
Braunschweig
avesse
potuto
acquisire
la
cittadinanza
tedesca
per
vie
traverse
è
solo
una
dimostrazione
di
ciò
che
allora,
nella
città
e
nella
regione,
era
all’ordine
del
giorno
e
che
dopo
la
liberazione
fu
messo
agli
atti
attraverso
mille
indagini
preliminari
contro
millecinquecento
persone,
accusate
di
crimini
nazisti.
L’assoluzione,
pronunciata
dal
tribunale
di
Monaco,
dello
SSStandartenführer
responsabile
dei
procedimenti
di
corte
marziale
nei
campi
di
concentramento
di
Sachsenhausen
e
Flossenbürg,
fu
esemplare
e
del
tutto
all’ordine
del
giorno.
Costui
aveva
ordinato
l’esecuzione
delle
sentenze
di
morte
contro
Hans
von
Dohnanyi,
Dietrich
Bonhoeffer
e
Hans
Oster.
Fu
assolto
con
la
motivazione
che
i
combattenti
della
resistenza
uccisi
si
erano
resi
colpevoli
del
reato
di
alto
tradimento,
in
base
al
diritto
vigente
allora.
Questa
interpretazione
scagionava
in
linea
di
principio
tutti
i
responsabili
del
terrore
nazista
e
si
conformava
all’opinione
dell’Associazione
dei
soldati
tedeschi
e
di
parti
del
Bundestag,
secondo
cui
i
congiurati
del
20
luglio
erano
anch’essi
«colpevoli
di
alto
tradimento».
Fritz
Bauer
invece,
nella
sua
arringa
al
processo
contro
il
vecchio
nazista
Remer,
aveva
chiarito
che
le
sentenze
a
morte
della
giustizia
nazista
contro
gli
attentatori
di
Hitler
dovevano
essere
annullate,
e
la
loro
resistenza
contro
la
tirannia
doveva
essere
riabilitata
incondizionatamente
«in
base
alla
giustizia
eternamente
valida,
allora
come
oggi».
L’astuzia
della
storia
veniva
ogni
volta
in
aiuto
all’evidente
scarsa
sollecitudine
ad
affrontare
il
proprio
passato.
Quando
si
trattò
di
far
accettare
il
riarmo
della
Germania
Occidentale,
Adenauer
si
sentì
obbligato
a
pronunciare
al
Bundestag
un’apologia
della
resistenza
antihitleriana.
Era
necessaria
già
solo
per
smontare
le
diffuse
critiche
alla
riassunzione
nella
Bundeswehr
di
ex
ufficiali
della
Wehrmacht,
e
comunque
per
mostrare
che
un’affinità
con
la
Wehrmacht
nazionalsocialista
non
era
né
auspicata
né
tanto
meno
perseguita.
La
sua
dirigenza
interna
e
l’immagine
del
cittadino
in
uniforme
erano
in
contrasto
con
l’obbedienza
cieca
richiesta
all’epoca
del
nazismo.
La
lotta
di
Fritz
Bauer
conobbe
nuovo
slancio
a
Francoforte.
La
SPD,
sotto
il
primo
ministro
dell’Assia
Georg
August
Zinn,
gli
fu
al
fianco
quando
Bauer
fu
preso
nuovamente
di
mira.
Raccolse
intorno
a
sé
giovani
procuratori
capaci
di
respingere
il
siluramento
di
quei
procedimenti
contro
nazisti
che
erano
stati
trasferiti
a
Francoforte.
La
sua
sfiducia
verso
la
propria
corporazione
era
chiara.
Le
costanti
minacce
di
morte
facevano
parte
della
sua
vita
quotidiana.
Per
alcuni
un
modello,
per
molti
un
oggetto
d’odio:
Hilde
Benjamin
e
Fritz
Bauer
hanno
questo
in
comune.
Entrambi
avevano
compiuto
una
scelta
seguendo
le
proprie
convinzioni.
L’arresto
di
Eichmann
e
il
ruolo
che
Fritz
Bauer
avrebbe
avuto
nella
vicenda
sono
come
una
parabola
che
mostra
la
continuità
politica
delle
élite
vecchie/nuove
in
Occidente.
Fu
la
lettera
di
un
ebreo
tedesco
emigrato
in
Argentina
a
fornire
a
Fritz
Bauer
il
primo
indizio
sul
luogo
in
cui
si
trovava
Eichmann.
Ed
era
stato
probabilmente
il
processo
a
Remer
ad
aver
dato
all’autore
della
lettera
la
certezza
che
Bauer
avrebbe
seguito
la
traccia.
Dopo
che
Bauer
si
fu
accertato
attraverso
intermediari
della
sua
serietà,
occorreva
capire
come
e
tramite
chi
sarebbe
stato
possibile
arrestare
Eichmann.
In
seguito
all’esperienza
che
lui
stesso
ne
aveva
fatto,
la
fiducia
di
Bauer
nella
giustizia
tedesca
e
nelle
autorità
di
sicurezza
era
estremamente
scarsa.
Doveva
presumere
che
Eichmann,
avvertito
per
tempo,
si
sarebbe
sottratto
all’arresto.
Uno
sguardo
al
Bundeskriminalamt
(BKA,
Polizia
federale
tedesca),
creato
nel
1951,
la
cui
collaborazione
Bauer
avrebbe
dovuto
assicurarsi,
mostra
che
un’estradizione
in
Germania
non
sarebbe
stata
possibile.
La
storia
postbellica
della
BKA
è
disponibile
ora
in
tre
volumi,
rispettivamente
intitolati
Schatten der
Vergangenheit. Das BKA
und
seine
Gründungsgeneration in
der
frühen
Bundesrepublik
(Ombre
del
passato.
La
BKA
e
la
generazione
dei
suoi
fondatori
agli
inizi
della
Germania
Federale),
Der
Nationalsozialismus und
die Geschichte des BKA.
Spurensuche in eigener
Sache
(Il
nazionalsocialismo
e
la
storia
della
BKA.
Una
ricerca
di
tracce
al
proprio
interno)
e
Das
Bundeskriminalamt stellt
sich seiner Geschichte
(La
Polizia
federale
affronta
la
propria
storia).
Fino
agli
anni
Sessanta,
la
sua
struttura
era
più
vicina
a
quella
del
Reichssicherheitshauptam
(Ufficio
centrale
per
la
sicurezza
del
Reich),
la
centrale
del
terrore
nello
stato
nazionalsocialista,
che
allo
stato
democratico
che
pure
avrebbe
dovuto
servire.
Alla
fine
degli
anni
Cinquanta
il
personale
direttivo
del
BKA
era
costituito
esclusivamente
da
uomini,
il
novanta
per
cento
dei
quali
avevano
già
servito
nella
polizia
prima
del
1945,
e
fra
questi
ugualmente
alto
(ossia
il
cinquanta
per
cento)
era
il
numero
dei
cosiddetti
«131»,
cioè
di
ex
membri
del
partito
nazista,
al
quale
avevano
aderito
prima
del
1937.
Circa
due
terzi
del
personale
dirigente
erano
costituiti
da
ex
membri
delle
SS.
Nel
terzo
volume
della
storia
postbellica
del
BKA
si
legge
la
nuda
frase:
«Fino
alla
fine
degli
anni
Sessanta
(cioè
al
1969)
non
era
avvenuta
alcuna
frattura
radicale
nella
composizione
del
personale
dirigente».
Si
riallacciarono
così
a
quello
che
già
prima
del
1945
era
stato
il
loro
compito
vitale:
obiettivo
principale
delle
indagini
del
gruppo
di
sicurezza
dell’ufficio
era
«fondamentalmente
il
respingimento
del
“bolscevismo”
dall’esterno
e
la
lotta
al
comunismo
all’interno».
Responsabile
dei
compiti
del
BKA
era
il
Ministero
della
Giustizia
a
Bonn,
in
quanto
sua
autorità
di
sorveglianza.
Le
indagini
contro
neonazisti
e
criminali
nazionalsocialisti
avevano
tutt’al
più
un’«importanza
subordinata».
Il
ministero
partecipò
«preventivamente,
con
tutti
i
mezzi
del
diritto
penale,
alla
lotta
contro
il
nemico
ideologico»,
osservando
e
coordinando
le
decisioni
dei
tribunali
nel
campo
della
difesa
dello
stato.
La
BKA
era
soprattutto
parte
della
«lotta
preventiva»
contro
la
«penetrazione
di
scritti
propagandistici
dalla
zona
sovietica,
capaci
di
mettere
a
repentaglio
lo
stato»,
contro
il
lavoro
di
«infiltrazione
e
sovvertimento
da
parte
di
agenti
e
spie
della
DDR,
ma
anche
contro
l’attività
sovversiva
del
Partito
comunista
illegale»,
dopo
il
suo
divieto
nel
1956.
Ieri
e
oggi
non
facevano
quasi
differenza
nel
lavoro
del
BKA.
Gli
esiti
delle
indagini
tuttavia
non
erano
più
presentati
alle
SS
o
al
Reichssicherheitshauptam
bensì
alla
direzione
del
BKA
o
al
Ministero
della
Giustizia.
Diversamente
succedeva
per
le
azioni
penali
contro
reati
commessi
negli
ambienti
nazisti
vecchi
e
nuovi,
che
per
lo
più
si
insabbiavano.
Le
indagini
erano
compiute
in
ogni
caso
solo
quando
la
reputazione
della
Germania
Federale
entrava
in
pericolo
a
livello
internazionale.
Allora,
come
mostra
l’esempio
dei
fatti
di
Salzgitter,
si
suscitava
almeno
l’impressione
che
si
stesse
indagando
in
ogni
direzione.
Attorno
alla
Pasqua
del
1957
fu
segnalata
«in
un
cimitero
a
Salzgitter
la
profanazione
di
tombe
ebraiche
e
di
un
monumento»
dedicato
agli
ebrei
vittime
della
dittatura
nazionalsocialista.
Sul
braccio
destro
di
una
croce
in
onore
dei
prigionieri
francesi
dei
KZ
era
appesa
una
bambola
di
paglia
con
le
braccia
legate
dietro
la
schiena.
Portava
un
cartello
con
la
croce
uncinata
e
l’invettiva:
«Germania
risvegliati,
Israele
crepa».
Era
l’anniversario
della
nascita
di
Hitler.
I
colpevoli
non
furono
trovati.
In
seguito
a
ciò
il
segretario
generale
del
Consiglio
centrale
ebraico,
Hendrik
George
van
Dam,
intervenne
sulla
«Allgemeine
Wochenzeitung
der
Juden
in
Deutschland»
(Settimanale
nazionale
degli
ebrei
in
Germania)
con
il
sarcastico
commento:
«O
è
presente
nel
popolo
tedesco
una
inestirpabile
inclinazione
alla
delinquenza
che
si
esprime
nella
profanazione
dei
cimiteri,
in
una
misura
ignota
ad
altre
nazioni,
oppure
una
polizia
frammista
di
ex
nazionalsocialisti
manca
dell’energia
sufficiente
a
prevenire
e
combattere
questo
genere
di
crimini».
Van
Dam
sapeva
di
cosa
stava
parlando:
le
indagini
di
una
commissione
straordinaria
composta
di
undici
membri
erano
dirette
da
tre
funzionari
del
BKA.
Due
dei
tre
erano
appartenuti
a
squadre
di
intervento
durante
la
Seconda
guerra
mondiale,
e
contro
uno
di
questi
indagò
in
seguito
la
procura
di
Dortmund
per
sospettato
concorso
in
omicidio.
Già
due
giorni
dopo
il
fatto
gli
inquirenti
avevano
reso
noto
che
i
colpevoli
andavano
cercati
negli
ambienti
dell’estremismo
di
destra,
e
tuttavia
simili
gruppi
non
erano
presenti
a
Salzgitter.
Poiché
il
caso
aveva
avuto
una
risonanza
internazionale
si
costituì
nuovamente
una
commissione
speciale.
Ma
neppure
la
«ricompensa
più
alta
offerta
dopo
la
guerra
per
un
caso
criminale,
cioè
15.000
marchi»
ottenne
qualcosa
e
la
questione
fu
archiviata.
I
profanatori
rimasero
sconosciuti.
Il
rapporto
finale
della
Commissione
speciale
si
può
leggere
nella
storia
postbellica
del
BKA.
L’analisi
degli
storici
afferma
«che
i
funzionari
della
Commissione
speciale
relegarono
i
colpevoli
in
uno
spazio
remoto
–
sia
in
senso
geografico
che
nelle
loro
analisi.
Nella
visione
degli
inquirenti
i
colpevoli
non
potevano
(o
non
dovevano?)
provenire
dalle
fila
dei
cittadini
tedeschi
occidentali».
Gli
inquirenti
trovarono
a
Salzgitter
un
ambiente
a
ciò
propizio,
che
nel
contempo
li
aiutò
ad
archiviare
senza
alcun
esito
le
indagini.
Soltanto
con
il
conglomerato
industriale
dei
«Reichswerke
Hermann
Göring»14
nell’area
di
Salzgitter
c’erano
sessantasette
ex
Lager
per
lavoratori
forzati
e
prigionieri
di
guerra,
a
cui
si
aggiungevano
i
prigionieri
dei
«Lager
esterni».
Il
«Cimitero
degli
stranieri
di
Jammertal»
divenne
una
fossa
comune
per
molti
lavoratori
schiavi.
Alcuni
sopravvissuti
rimasero
inizialmente
nella
regione
dopo
la
fine
della
guerra.
Finirono
subito
nell’obiettivo
degli
inquirenti.
La
lista
delle
persone
controllate
riportava:
77
«appartenenti
al
blocco
arabo»,
144
«appartenenti
al
blocco
baltico»
e
536
«visitatori
della
zona
orientale»,
che
furono
investigati
perché
dietro
di
loro
avrebbe
potuto
esserci
la
Sicurezza
di
stato
della
DDR.
In
soli
159
casi
le
persone
controllate
erano
della
zona
di
Salzgitter.
Soprattutto
gli
arabi,
in
qualità
di
sospetti,
erano
benvenuti
da
parte
della
Commissione.
Prove
non
ce
n’erano.
Per
il
BKA
bastava
la
supposizione
che
essi
e
altri
gruppi
etnici
«fossero
stati
sempre
profondamente
avversi
all’ebraismo».
Pur
tradendosi
nelle
intenzioni,
il
gruppo
di
sicurezza
del
BKA
era
tuttavia
ingegnoso
quando
si
trattava
di
indagare
senza
successo
contro
nazisti
vecchi
o
nuovi.
Bisogna
supporre
che
Fritz
Bauer
conoscesse
la
struttura
«bruna»
del
BKA.
Le
sue
esperienze
nella
sfera
della
Giustizia
dovevano
essere
sufficienti
a
soffocare
ogni
desiderio
di
informare
l’apparato
di
sicurezza
tedesco
circa
l’esistenza
di
Eichmann.
Dal
1956
Bauer
condusse
indagini
a
Francoforte
contro
criminali
nazisti
«di
primo
piano»,
che
avevano
messo
in
opera
il
mostruoso
crimine
contro
l’umanità
rappresentato
dal
genocidio
degli
ebrei
europei.
In
tutto
questo
Adolf
Eichmann
stava
al
primo
posto.
Accanto
a
lui
Josef
Mengele,
il
medico
che
sulla
rampa
di
Auschwitz
selezionava
le
vittime
ebree
e
le
mandava
nelle
camere
a
gas.
Il
terzo
era
Martin
Bormann,
la
mano
destra
di
Hitler.
Soprattutto
grazie
a
questa
cautela
nei
confronti
dei
funzionari
della
sicurezza
tedeschi
risultò
possibile,
con
l’aiuto
dei
servizi
segreti
israeliani,
processare
Eichmann
in
Israele.
Diverso
fu
il
caso
di
Bormann,
di
cui
a
lungo
si
credette
che
fosse
scappato
in
Sudamerica.
Dopo
un’intensa
ricerca
i
suoi
resti
mortali
furono
trovati
e
identificati
vicino
alla
bombardata
Cancelleria
del
Reich
a
Berlino.
Aveva
posto
fine
alla
sua
vita
con
il
cianuro.
Mengele
invece
annegò
nel
1979
nella
località
balneare
di
Bertioga,
in
Brasile,
dopo
che
–
avvertito
per
tempo
–
si
era
sottratto
più
volte
all’arresto.
Dal
1960
Bauer
si
dedicò
alla
preparazione
dei
processi
per
eutanasia
e
su
Auschwitz.
I
puntuali
ritardi
delle
indagini
contro
le
Squadre
di
impiego
(Einsatzgruppen),
che
poterono
essere
processate
infine
a
Ulm
nel
1958,
ottennero
che
gli
indugi
nella
persecuzione
penale
dei
criminali
nazisti
fossero
sempre
più
criticati
anche
nella
Germania
Federale.
Più
di
due
milioni
di
ebrei
uccisi
dalle
unità
di
polizia
e
dalle
Squadre
di
impiego
che
seguirono
la
Wehrmacht
e
il
fronte
in
Unione
Sovietica
e
nel
Baltico
furono
oggetto
del
processo.
In
Germania
Occidentale
tutto
ciò
provocava
un
senso
di
vergogna.
I
ministri
della
Giustizia
dei
Länder
fondarono
perciò
nel
dicembre
1958
la
«Sede
centrale
delle
amministrazioni
regionali
della
giustizia
per
il
chiarimento
dei
crimini
nazionalsocialisti»,
ospitata
a
Ludwigsburg.
Aveva
il
compito
di
preparare
e
coordinare
la
persecuzione
dei
crimini
nazisti
compiuti
fuori
dai
confini
della
Germania
Federale.
Uno
dei
primi
grandi
processi
fu
quello
di
Auschwitz,
di
cui
era
responsabile
Fritz
Bauer.
Furono
trovati
perciò
millecinquecento
testimoni
e
avviate
indagini
contro
novecentocinquanta
ex
appartenenti
ai
corpi
di
guardia
delle
SS.
Durante
le
fasi
preparatorie
del
processo
la
procura
della
repubblica
fu
sommersa
da
un
fiume
di
lettere
minatorie
e
da
minacce
di
morte
in
gran
parte
anonime.
Il
20
dicembre
1963,
dopo
oltre
cinque
anni
di
intense
indagini
in
cui
furono
coinvolte
sia
la
Polonia
che
le
autorità
giudiziarie
della
DDR,
il
processo
si
aprì.
Lo
«strappo
dalla
civiltà»
compiuto
nella
Germania
nazionalsocialista
era
con
ciò
messo
agli
atti.
I
processi
di
Auschwitz
segnarono
una
svolta
nell’opera
di
smascheramento,
fino
ad
allora
insufficientemente
perseguita,
dei
crimini
nazisti
nella
Germania
Federale.
La
crescente
vergogna
collettiva
per
i
crimini
contro
l’umanità
perpetrati
dai
nazisti
e
gli
inizi
della
protesta
mondiale
contro
la
guerra
degli
Stati
Uniti
in
Vietnam
modificarono
il
clima
sociale
anche
nella
Repubblica
Federale.
La
rivolta
contro
l’oblio
comportò
anche
la
graduale
fine
della
Repubblica
di
Adenauer
con
il
suo
clima
di
restaurazione.
La
Germania
postbellica
conobbe
una
politicizzazione
inattesa.
Le
manifestazioni
contro
la
classe
dirigente
dal
passato
bruno
divennero
parte
della
quotidianità.
I
centri
della
rivolta
contro
i
padri
e
i
nonni,
contro
il
grande
silenzio
e
per
una
presa
di
possesso
democratica
della
repubblica
furono
Berlino
e
Francoforte.
Ma
vi
ebbero
un
ruolo
anche
altre
città,
come
Hannover
e
Amburgo,
dove
la
protesta,
accompagnata
dallo
slogan:
«Sotto
le
toghe
–
la
muffa
dei
millenni»,
fece
saltare
le
cerimonie
di
immatricolazione
all’università.
E
accanto
a
Karl
Marx
c’era
Herbert
Marcuse,
la
cui
«filosofia
concreta»
lo
rese
il
filosofo
più
citato
del
movimento
di
protesta
del
’68.
Gli
si
affiancava
tuttavia
un
altro
nome,
che
era
stato
riscoperto
e
riletto:
Walter
Benjamin.
Era
onorato
per
la
sua
resistenza
durante
il
nazionalsocialismo,
e
le
sue
tesi
sul
concetto
di
storia,
i
suoi
saggi
e
il
suo
diario
moscovita
sono
una
parte
del
bagaglio
intellettuale
che
fondò
la
protesta
e
la
condusse
sulle
strade.
Per
seguire
le
sue
tracce
nei
dibattiti
del
movimento
studentesco
e
soprattutto
della
Lega
tedesca
degli
studenti
socialisti
(Sozialistischer
Deutscher
Studentenbund,
SDS)
vado
a
trovare
uno
dei
compagni
di
lotta
di
quel
tempo,
il
mio
amico
G.
Voglio
parlare
con
lui
dell’influsso
esercitato
da
Walter
Benjamin
su
moltissimi
studenti,
più
di
venticinque
anni
dopo
la
sua
morte
a
Portbou.
Per
G.
Benjamin
apparteneva
senza
dubbio,
come
lo
definisce
lui,
al
«contesto
percettivo»
di
quegli
anni.
Lo
scetticismo
di
Benjamin
verso
modelli
di
società
autoritari
o
dogmatici
fu
un’importante
integrazione
alla
teoria
critica
della
Scuola
di
Francoforte,
che
sosteneva
fondamentalmente
un
marxismo
moderno
e
non
dogmatico,
arricchito
da
Freud.
Ci
incontriamo
in
campagna,
dove
G.
ha
una
piccola
casa
di
vacanza.
Ci
avvolge
una
calda
giornata
estiva.
Sediamo
sotto
la
corona
bombata
di
un
sambuco
e,
senza
concederci
lunghe
pause,
torniamo
a
visitare
gli
anni
Sessanta
e
Settanta.
Come
soldatini
di
stagno
si
allineano
i
nomi
degli
ideologi
della
rivolta,
da
Rudi
Dutschke
a
Bernd
Rabehl,
dai
fratelli
Wolff
e
Hans-Jürgen
Krahl
a
Oskar
Negt.
Si
parla
dei
colpi
mortali
sparati
a
Benno
Ohnesorg
e
dello
spiacevole
sospetto
che
il
tiratore
assassino
avesse
fatto
fuoco
dietro
incarico
della
Sicurezza
di
Stato
della
DDR.
Ci
troviamo
presto
d’accordo
su
ciò
che
fu
vano
e
ciò
che
resta
di
quegli
anni.
Ci
rendiamo
conto
del
ruolo
rivestito
dalle
donne
solo
quando
parliamo
della
RoteArmee-Fraktion
e
attraverso
Ulrike
Meinhof,
Gudrun
Ensslin
e
Verena
Becker
riflettiamo
sulle
speranze
ingannevolmente
riposte
nell’azione
che
tuttavia
non
produssero
risultati
sulle
masse
ma
si
risolsero
invece
nella
lotta
armata.
Una
scissione
settaria
che
sfociò
nella
morte
comune.
Continuiamo
a
parlare
della
fase
antiautoritaria
del
’68.
Appare
nuovamente
chiaro
che
esso
fu
anche
–
e
anzi
forse
soprattutto
–
un
movimento
che
intendeva
dare
una
risposta
pratica
agli
atteggiamenti
autoritari
e
ai
modelli
educativi
della
generazione
dei
padri.
All’inizio
c’era
l’educazione.
Questo
valeva
anche
per
Walter
Benjamin.
Il
quale
si
sarebbe
probabilmente
opposto
ad
alcuni
paralleli
avventati
con
cui
abbiamo
confrontato
grandezze
inconfrontabili.
G.
ricorda
con
imbarazzo
l’azione
«Punto
rosso»,
quando
a
Hannover
si
manifestò
contro
l’aumento
dei
biglietti
per
i
mezzi
di
trasporto
cittadini.
In
uno
scontro
con
la
polizia,
inferiore
anche
numericamente,
i
giovani
fecero
ala,
il
braccio
destro
levato,
scandendo:
«Polizia,
SA,
SS».
G.
disse
di
provarne
ancora
vergogna;
non
perché
la
polizia
avesse
reagito
con
misura.
«No,
caricavano
anche
loro
senza
troppa
pietà.
Ma
non
erano
paragonabili
ai
nazisti.
Non
ci
accorgevamo
affatto
che
stavamo
contribuendo
a
minimizzare
l’aberrazione
nazista».
Ma
non
accadeva
lo
stesso
con
la
percezione
della
DDR
da
parte
della
Repubblica
Federale
e
dei
suoi
mezzi
di
informazione?
Nonostante
la
DDR
risultasse
insopportabile
per
molti
dei
suoi
cittadini,
era
lontana
molte
miglia
dallo
Stato
del
terrore
nazista.
L’influsso
di
Walter
Benjamin
perdura
ancora
ai
nostri
giorni.
Parlando
ci
stupiamo
di
quante
volte
ci
riferiamo
a
lui.
Ciò
dovette
valere
specialmente
per
quelli
che
a
Francoforte
seguivano
la
teoria
critica.
Ma
non
solo.
Chi
viene
considerato
oggi
un
conoscitore
di
Benjamin
può
essere
sicuro
di
trovare
davanti
a
sé,
a
Tokio
e
a
Londra
e
in
quasi
ogni
punto
del
mondo,
un
pubblico
interessato.
Un
motivo
per
l’inalterato
valore
del
pensiero
di
Walter
Benjamin
è
probabilmente
anche
il
fatto
che
la
sua
opera
e
la
sua
azione,
non
prive
di
contraddizioni,
non
furono
mai
ripensate
da
un
Benjamin
ormai
anziano.
Come
accadde
invece
nel
caso
di
Adorno,
che
in
vecchiaia
mise
in
dubbio
il
contenuto
e
la
validità
della
Dialettica
dell’Illuminismo,
cosa
che
produsse
il
suo
effetto
sulla
Scuola
di
Francoforte
e
i
suoi
allievi,
delusi
da
lui.
Adorno
stesso,
diversamente
da
Marcuse,
era
piuttosto
scettico
verso
il
movimento
del
’68.
Un
altro
motivo
che
spiega
come
mai
la
figura
di
Walter
Benjamin
si
stagli
così
luminosa
e
con
la
sua
influenza
postuma
abbia
contribuito
al
superamento
della
società
postfascista
dell’era
di
Adenauer
è
ciò
che
G.
chiama
il
lato
esistenziale
della
sua
resistenza.
Già
nel
1938
Benjamin
avrebbe
potuto
scegliere
la
strada
dell’emigrazione.
Ma
sentiva
di
dover
restare:
«Qui
c’è
ancora
bisogno
di
me».
Mise
in
gioco
l’intera
sua
esistenza
e
già
per
questo
gli
è
rivolta
la
nostra
«dolorosa
ammirazione».
Torno
a
Berlino
e
penso
nuovamente
a
quanto
sarebbe
stato
importante
un
autoesame
individuale
e
collettivo
da
parte
dei
sopravvissuti
che
nel
maggio
1945
uscirono
dalle
cantine
delle
città
bombardate
e
inciamparono
nelle
rovine
delle
case
che
li
avevano
sovrastati.
Un
autoesame
che
chiarisse
la
propria
parte
nella
tragedia,
e
non
quell’assenza
di
un
sentimento
di
corresponsabilità
riscontrata
da
Hannah
Arendt.
E
in
seguito,
quando
il
Terzo
Reich
in
frantumi
entrò
nell’ordinamento
postbellico
nella
forma
assunta
dalle
sue
risultanti
schegge,
la
BRD
e
la
DDR,
si
riuscì
nuovamente
a
rimuovere
la
propria
fondamentale
colpa
per
la
divisione
del
paese,
che
sarebbe
durata
quarantacinque
anni.
Questo
almeno
spiega
un
po’
l’atteggiamento
di
molti
tedeschi
occidentali,
un’opinione
diffusa
comunque
nei
primi
venti
anni
dopo
il
1945
e
anche
oltre,
che
imputava
«ai
fratelli
e
alle
sorelle
dietro
la
cortina
di
ferro»
il
fatto
di
non
essere
riusciti
a
ottenere
una
ripresa
materiale
altrettanto
forte,
come
se
ciò
fosse
un
loro
fallimento.
Ma
alla
maggioranza
dei
tedeschi
occidentali
era
totalmente
estranea
l’idea
che
uno
stato
potesse
prosperare
in
condizioni
non
capitalistiche.
Tanto
più
grande
era
lo
sconcerto
per
l’ammirazione
tributata
a
Karl
Marx
dai
figli
della
guerra
che
stavano
crescendo
e
vedevano
in
lui
un
interessante
pensatore.
Se
la
Repubblica
Federale,
in
contrasto
con
i
suoi
inizi,
si
andava
mutando
in
una
struttura
statale
democratica
relativamente
salda,
la
DDR
non
riuscì
invece
a
trasformarsi
in
un
esempio
di
socialismo
democratico
riuscito.
Una
citazione
di
Hans
Mayer,
dalle
sue
memorie
pubblicate
nel
1991
con
il
titolo
Der
Turm von Babel
(La
torre
di
Babele),
illustra
molto
bene
la
parabola
vitale
della
DDR:
«Una
brutta
fine
non
esclude
un
possibile
buon
inizio».
Bisognò
attendere
più
o
meno
il
1960
perché
nella
DDR
le
statue
di
Stalin
fossero
abbattute
dai
loro
piedestalli.
Erano
passati
sette
anni
dalla
sua
morte
e
quattro
da
quando
il
XX
Congresso
del
PCUS
aveva
puntato
lo
sguardo
nei
terribili
abissi
della
sua
era.
Invece
di
affrontare
il
rischio
di
un
intenso
dibattito
su
tutto
questo,
la
SED
informò
i
propri
membri
sugli
esiti
del
congresso
in
riunioni
che
si
tennero
lontano
da
ogni
spazio
pubblico.
Non
era
consentito
prendere
appunti
su
ciò
che
selettivamente
veniva
reso
noto
dai
verbali
tradotti,
né
ai
compagni
era
consentito
esprimersi
pubblicamente
al
proposito.
Il
silenzio
collettivo
fu
il
sudario
tessuto
nella
DDR
per
il
defunto
Stalin.
E
tuttavia
parlare
dell’errore
avrebbe
fatto
bene
a
molti.
Era
ancora
fresco
in
loro
il
ricordo
del
lutto,
quando
avevano
scritto
sgomenti
i
propri
nomi
sui
libri
di
condoglianze
dell’Armata
Rossa,
piangendo
la
scomparsa
del
grande
«piccolo
padre»
Stalin.
Georg
Benjamin
respinge
la
mia
impressione
che
suo
padre
fosse
stato
meno
critico
all’epoca
della
DDR
che
non
successivamente.
Al
contrario,
egli
aveva
ricevuto
stimoli
e
influssi
critici
soprattutto
in
Unione
Sovietica,
dalla
metà
degli
anni
Cinquanta
all’inizio
degli
anni
Sessanta,
quando
studiava
a
Leningrado.
Allora
aveva
visto
bene
ciò
che
le
rivelazioni
sul
«padreterno»
al
Cremlino
significarono
per
la
credibilità
dell’idea
e
dell’equilibrio
interno
del
paese.
E
poi
fu
nuovamente
a
Mosca
nei
primi
anni
Ottanta,
quando
ebbe
inizio
il
«nuovo
pensiero»
con
Gorbačev
e
la
rigidezza
del
sistema
sembrava
eliminata.
Finiva
in
ogni
caso
l’era
dei
vecchi
combattenti,
da
Leonid
Brežnev
a
Andropov
e
Černenko,
i
cui
nomi
quasi
non
si
ricordano
più.
Era
stato
questo
ad
averlo
segnato,
dice
Georg
Benjamin,
non
la
totale
assenza
di
ogni
disponibilità
ad
accogliere
la
sfida
da
parte
dei
dirigenti
della
SED.
Dopo
il
suo
ritorno
nella
DDR
Michael
fu
colpito
dalle
difficoltà
con
cui
la
SED
accoglieva
quegli
sviluppi.
La
sua
critica
si
era
fatta
sentire.
E
Georg
concorda
manifestamente
con
il
padre,
ricordando
come
Michael
Benjamin
avesse
fatto
notare
sempre
ai
suoi
due
figli
le
incongruenze
nella
propaganda
della
SED.
Li
aveva
educati
a
ragionare
criticamente.
E,
come
Laura
ricorda
quando
pensa
alla
sua
infanzia,
prima
e
dopo
la
svolta
ci
furono
occasioni,
come
per
esempio
i
pranzi
con
i
nonni,
in
cui
era
possibile
osservare
il
risultato
di
questa
educazione,
quando
padre
e
figlio
discutevano
in
toni
vibrati
e
veementi.
Georg
è
sicuro
che
a
suo
padre
avesse
giovato
il
fatto
di
non
aver
vissuto
il
vigliacco
silenzio
sull’era
stalinista
nella
DDR,
ma
di
averne
osservato
lo
smascheramento
in
Unione
Sovietica,
o
l’aver
conosciuto
poi
a
Mosca
il
«nuovo
pensiero»,
con
il
forte
cambiamento
da
esso
suscitato
nella
struttura
del
blocco
orientale.
Per
Georg
e
suo
padre
gli
inizi,
nei
primi
anni
Ottanta,
furono
in
ogni
caso
un’esperienza
elettrizzante.
Nessuno
immaginava
allora
dove
avrebbe
portato
la
politica
della
perestrojka
avviata
da
Gorbačev.
Oggi
Georg
vede
l’attuale
governo
russo
più
come
una
ricaduta
nella
Russia
prerivoluzionaria:
chiesa
e
stato
nuovamente
stretti
in
un’alleanza
lontana
dalla
democrazia,
sorrette
dalla
ricchezza
degli
oligarchi
che
così
garantiscono
i
loro
privilegi.
Ma
forse
la
sorprendente
protesta
sulle
strade
non
solo
di
Mosca
riuscirà
ad
acquistare
abbastanza
forza
da
poter
bloccare
l’attuale
sviluppo.
Di
certo
Gorbačev
non
voleva
la
fine
dell’Unione
Sovietica,
eppure
le
aveva
inflitto
il
colpo
mortale,
dice
Georg,
nuovamente
d’accordo
con
suo
padre.
Del
quale
ricorda
bene
lo
sconforto
per
il
fatto
che
la
dirigenza
del
partito
a
Berlino
Est
vedesse
la
perestrojka
solo
come
una
minaccia
e
non
come
un’occasione.
Nessuno
nel
Comitato
centrale
della
SED
sarebbe
stato
davvero
in
grado
di
imprimere
al
movimento
rivoluzionario
sulle
strade
della
DDR
una
direzione
che
corrispondesse
al
manifesto
dei
dimostranti
sull’Alexanderplatz
il
4
novembre
1989.
Più
di
un
milione
di
persone
firmarono
l’appello
«Per
il
nostro
paese»,
che
l’élite
culturale
della
DDR
aveva
pubblicato
nel
novembre
1989.
Soprattutto
gli
scrittori
avevano
sperato
in
un
paese
diverso
da
quello
che
stava
scomparendo.
C’era
ancora
la
speranza
che
fosse
possibile
preservare
l’autonomia
della
socialista
Repubblica
Democratica
Tedesca.
Lo
sguardo
volto
all’indietro
verso
la
storia
postbellica
indugia
sugli
anni
1953,
1956
e
1968,
che
rappresentano
le
speranze
infrante
in
un
socialismo
dal
volto
umano.
Nei
colloqui
con
Georg
ci
sono
momenti
in
cui
fra
le
parole
affiorano
piano
anche
in
lui
la
tristezza
e
il
rammarico
per
il
fatto
che
i
sogni
dei
genitori
siano
così
manifestamente
appassiti.
Immagini
in
movimento
che
gli
corrono
nella
mente
e
ricordano
quanta
autocritica
inespressa,
rispetto
al
fare
o
al
non
fare,
vi
fosse
quando
la
famiglia
si
riuniva
alla
sera
e
ripercorreva
la
giornata.
Molte
cose
nella
DDR
avevano
suscitato
le
critiche
dei
figli,
anche
la
ribadita
semplicità
con
cui
veniva
descritto
ma
non
realizzato
il
futuro.
Al
tempo
stesso
erano
i
genitori,
i
nonni,
i
genitori
degli
amici
che
vi
puntavano
e
si
facevano
coraggio,
convinti
che
l’alternativa
al
capitalismo
avrebbe
potuto
–
prima
o
poi
–
diventare
realtà
con
un
calante
indice
di
errori.
Di
nascosto
i
figli
compiangevano
i
genitori
con
le
loro
speranze
sempre
rinnovate,
ma
vane.
Come
si
potrebbe
intendere
altrimenti
lo
sforzo
fatto
da
Georg
per
restare
vicino
alle
speranze
sbiadite
del
padre
Michael
e
mantenersi
fedele
almeno
un
poco
alla
scomparsa
DDR,
quando
dice:
«Sono
nato
in
un
paese
che
non
esiste
più.
Ho
un
passaporto
tedesco,
ma
non
un
luogo
a
cui
sento
di
appartenere».
Georg
esprime
questo
sentimento
nel
discorso
funebre
sulla
tomba
del
padre.
Nelle
sue
parole
ho
riconosciuto
specialmente
il
lutto
per
le
speranze
perdute
dei
genitori:
E non meritavano che ti
sacrificassi per loro,
pensavamo.
Non che fossimo gelosi.
No, ci dispiaceva soltanto
che tu spendessi la tua
energia per chi non lo
sapevaapprezzare,eforse
nonlomeritava.
E in questo avevamo
ragione.
Eppure in questo non
avevamoragione.
12
In
base
alla
quale
(dal
1955
e
fino
al
1969)
l’instaurazione
di
relazioni
diplomatiche
con
la
DDR
da
parte
di
un
terzo
Stato
era
considerata
un
atto
ostile
verso
la
BRD.
Walter
Hallstein
(CDU)
fu
sottosegretario
del
Ministero
degli
Esteri
della
BRD
dal
1951
al
1958
[N.d.T.].
13
Risale
al
1999
il
progetto
–
elaborato
dall’Associazione
dei
profughi
tedeschi
(Bund
der
Vertriebenen)
–
di
un
centro
di
documentazione
sulle
espulsioni
dei
popoli
e
i
genocidi
del
ventesimo
secolo,
e
in
particolare
sul
trasferimento
obbligato
di
milioni
di
tedeschi,
alla
fine
della
Seconda
guerra
mondiale,
dai
territori
non
più
appartenenti
al
Reich.
Proprio
l’accento
posto
sulle
vicende
tedesche
suscitò
subito
critiche
non
solo
in
Germania,
ma
anche
nella
Repubblica
Ceca
e
in
Polonia,
principalmente
a
causa
del
timore
che
il
proposito
del
centro
potesse
essere
frainteso
e
interpretato
in
senso
revisionista
[N.d.T.].
14
Creato
nel
1937
per
l’estrazione
e
la
lavorazione
dei
minerali
di
ferro,
fu
il
più
grande
complesso
industriale
di
proprietà
statale
del
Terzo
Reich,
con
sede
centrale
a
Salzgitter
in
Bassa
Sassonia.
Il
complesso
inglobò
a
mano
a
mano
impianti
di
produzione
anche
in
paesi
e
territori
occupati
dalla
Germania
nazista
e
fece
amplissimo
uso
di
manodopera
forzata,
prigionieri
di
guerra
e
dei
campi
di
concentramento
[N.d.T.].
Capitolo
tredicesimo
Nella
quinta
Germania
Le
prime
frasi
del
suo
discorso
di
addio
al
padre
morto
lasciano
echeggiare
anche
un’altra
perdita.
Qui
Georg
Benjamin
non
è
solo.
Molti,
nello
scomparso
paese
fratello,
incontrano
difficoltà
crescenti
in
questa
nuova/vecchia
Germania
indivisa.
Così
accade
a
sua
madre,
che
pure
vive
pragmaticamente
la
sua
vita.
Solo
vent’anni
dopo
la
riunificazione
molti
diventano
consapevoli
di
un
dolore
fantasma,
lasciato
dall’amputazione
della
DDR.
Solo
pochi
avevano
previsto
o
immaginato
che
la
sua
scomparsa
potesse
essere
anche
una
perdita.
Lo
slogan
«Noi
siamo
il
popolo»,
gridato
a
migliaia
di
voci,
non
pensava
alla
DDR
reale
come
alla
dimora
del
futuro.
Ma
all’improvviso
questa
perdita
si
avverte.
Molti
sono
presi
anche
dalla
sensazione
di
aver
fatto
troppo
poco
per
l’utopia
DDR,
affinché
potessero
realizzarsi
le
speranze
di
giustizia,
libertà
e
uguaglianza,
e
di
una
cessazione
dello
sfruttamento
e
della
servitù.
Lo
si
poteva
cogliere
già
nel
novembre
1989,
quando
milioni
di
persone
si
riversarono
sull’Alexanderplatz
a
Berlino
per
salvare
nell’ultimo
attimo
immaginabile
ciò
che,
quasi
avvolto
in
un
bozzolo,
era
stato
pur
sempre
presente
come
speranza
nelle
tre
lettere
«DDR».
La
percezione
di
perdere
qualcosa
era
stata
ormai
dimenticata
con
il
Trattato
di
Unificazione,
tanto
più
che
in
esso
non
era
contemplata,
e
perciò
neppure
individuata,
alcuna
«conquista»
di
quella
DDR
che
veniva
fatta
scomparire.
Un
senso
di
estraneità
è
ampiamente
diffuso
ancora
oggi
in
questa
quinta
Germania,
la
quinta
se
considero
prima
Germania
la
Repubblica
di
Weimar
che
successe
all’impero,
seguita
poi
dal
fascismo
hitleriano
del
«Terzo
Reich»,
che
rappresenta
la
seconda,
mentre
le
numero
tre
e
quattro
sarebbero
la
DDR
e
la
BRD,
e
la
quinta
Germania
è
infine
quella
successiva
alla
riunificazione.
Anette
Simon,
psicoterapeuta
berlinese,
descrive
la
Germania
Est
e
quella
Ovest
come
due
stati
gemelli,
figli
di
madre
Germania
e
padre
Fascismo.
Nella
sua
raccolta
di
saggi
intitolata
Versuch, mir
und
anderen
die
ostdeutsche Moral zu
erklären
(Cerca
di
spiegare
a
me
e
agli
altri
la
morale
tedesca
orientale)
vede
i
gemelli
che
dopo
quarantacinque
anni
di
separazione
e
il
primo
entusiasmo
per
la
riconquistata
unità
si
accorgono
di
quanto
siano
diventati
reciprocamente
estranei.
Tutte
le
fasi
della
storia
tedesca
nel
ventesimo
secolo
e
la
loro
interpretazione
giocano
qui
un
ruolo.
I
percorsi
di
vita
dei
Benjamin,
la
loro
condotta
e
le
loro
decisioni
riflettono
le
cinque
Germanie.
Dopo
il
compimento
dell’unità
nel
1990,
quando
la
DDR
tramonta
annullandosi
nella
gonfia
autoconsapevolezza
dello
stato
fratello
di
Occidente
e
si
aggancia
al
suo
rimorchio,
la
fascinazione
scema
e
i
suoi
ex
cittadini
vivono
all’improvviso
in
un
mondo
dove
non
incontrano
pressoché
nulla
di
noto.
Tutto
ciò
che
aveva
odore
di
DDR
sembrava
ormai
inadatto
al
consumo
e
soltanto
adesso,
a
un
secondo
o
terzo
sguardo
nel
passato,
viene
reputato
in
parte
adatto
anche
alla
quinta
Germania
e
richiamato
in
vita:
il
sistema
educativo,
per
esempio,
depurato
dalla
resistenza
ideologica
contro
tutti
quelli
che
la
diffidente
Sicurezza
di
Stato
spingeva
in
disparte
nella
scuola.
Questo
sistema
educativo
potrebbe
offrire
una
speranza
a
molti
nello
stato
borghese
capitalista,
una
speranza
alle
tante
vittime
del
nostro
attuale
dramma
dell’istruzione.
Ogni
esperienza
raccolta
per
dare
aiuto
e
stimolo
alla
nuova
generazione
proletaria
potrebbe
essere
utile.
In
Finlandia
i
suoi
emulatori
hanno
tanto
successo
che
i
giovani
finlandesi
distaccano
per
livello
di
istruzione
i
loro
concorrenti
tedeschi.
Per
non
parlare
degli
asili,
dei
diritti
delle
donne
e
della
parità
di
salario.
L’arte
e
la
cultura
della
DDR
si
introdussero
semplicemente
attraverso
la
porta
posteriore,
fecondando
in
Occidente
la
letteratura
e
il
teatro
e
le
arti
figurative
in
una
misura
tanto
considerevole
da
far
nascere
l’impressione
che
siano
sempre
state
una
parte
del
mondo
culturale
occidentale.
Ma
anche
questo
è
vero:
quelli
che
manifestarono
nelle
strade
delle
città
e
dei
paesi
della
DDR
volevano
l’annessione
e
solo
dopo
si
accorsero
che
in
questo
modo
avevano
espropriato
la
loro
stessa
vita.
Nessuno
tuttavia
si
era
atteso
che,
quasi
contemporaneamente
all’unità,
sarebbe
risorto
come
uno
spettro
ciò
che
la
DDR
credeva
di
essersi
lasciata
alle
spalle.
Anche
nei
nuovi
Länder
si
raccolse
una
marmaglia
che,
brandendo
razzismo
e
antisemitismo,
si
riuniva
e
continua
a
riunirsi
sotto
le
croci
uncinate.
Anette
Simon
dice
acutamente
che
la
storia
tedesca,
insieme
alla
colpa
con
essa
ereditata
e
al
suo
superamento,
è
fallita
perché
è
stata
divisa
in
due
e
interpretata
diversamente
in
due
strutture
statali.
Per
Michael
Benjamin
era
comunque
chiaro
che
la
quotidianità
nazista,
anche
nella
società
postfascista
della
DDR,
perdurava
con
maggiore
forza
in
molte
menti,
e
attraverso
quei
nonni
che
erano
stati
allontanati
dalle
loro
cariche
si
era
infiltrata
in
molti
dei
nipoti
maschi,
e
talvolta
anche
nelle
bambine.
Ad
Anette
Simon
ciò
ricorda
la
Repubblica
di
Weimar
«per
via
della
polarizzazione
fra
skinhead
di
estrema
destra
e
gruppi
di
sinistra.
Le
croci
uncinate,
il
razzismo
e
l’antisemitismo
sono
di
nuovo
qui.
[...]
Dobbiamo
confrontarci
nuovamente
con
il
nazionalsocialismo,
con
la
colpa
vecchia
e
nuova»
dice.
L’annullamento
della
divisione
potrebbe
essere
in
questo
senso
un’opportunità,
ma
i
tedeschi
riunificati
non
si
concedono
tempo
per
ciò.
Anette
Simon:
«Essersi
riunificati
proprio
il
9
novembre
dovrebbe
essere
per
loro
un
cattivo
presagio».
Il
9
novembre,
giorno
fatale
per
la
Germania,
con
la
caduta
del
muro
conosce
un
ulteriore
capitolo,
dopo
la
caccia
ai
tedeschi
di
fede
ebraica
nella
«Notte
dei
cristalli»,
il
9
novembre
1938,
e
la
rivoluzione
di
novembre
del
1918,
sfociata
nella
proclamazione
della
Repubblica
tedesca.
Tutto
questo
va
ricordato
nel
2013,
così
come
occorre
ricordare
la
consegna
del
potere
al
regime
nazista
nel
1933.
Forse
un’occasione
per
riflettere
finalmente
insieme
e
con
maggiore
intensità
sui
motivi
che
hanno
determinato
la
rinascita
dell’estremismo
di
destra
dopo
l’unità.
Ognuno
punta
il
dito
dall’altra
parte.
Raccoglievo
cenni
di
sdegno
quando,
durante
alcune
discussioni
nei
nuovi
Länder,
ricordavo
che
già
ai
tempi
della
DDR
c’erano
neonazisti
nel
paese,
finiti
nei
registri
della
polizia
per
vandalismo.
Secondo
i
miei
interlocutori
non
c’erano
invece
nazisti
ai
tempi
della
DDR.
Per
loro
il
fenomeno
era
emerso
solo
dopo
la
caduta
del
muro,
cioè
dopo
la
riunificazione,
e
non
aveva
nessun
legame
con
la
DDR.
Inutile
persino
richiamare
alla
mente
Lichtenhagen,
dove
una
marmaglia
cresciuta
nella
DDR
appiccò
con
miscele
incendiarie
il
fuoco
a
un
centro
per
asilanti.
In
Occidente
domina
comunque
l’impressione
che
i
neonazisti
siano
un
problema
esclusivo
dei
nuovi
Länder
orientali.
Si
tende
a
sottacere
il
fatto
che
il
Partito
nazionaldemocratico
(NPD)
e
la
Deutsche
Volksunion
(DVU)
[Unione
Popolare
Tedesca]
siano
importazioni
dall’Occidente.
Dopo
l’unificazione
tornano
a
divampare
molte
cose
coperte
evidentemente
solo
da
una
sottile
patina.
E
tuttavia
anche
nella
quinta
Germania
ci
sono
episodi
che
incoraggiano
all’ottimismo.
In
un
solo
giorno
leggo
infatti
nel
quotidiano
«Süddeutsche
Zeitung»
due
notizie
che
riguardano
la
memoria
della
storia.
Una
è
la
dichiarazione
dell’Assemblea
dei
medici
tedeschi,
riunitasi
nel
2012
a
Norimberga,
sul
ruolo
ricoperto
dalla
categoria
durante
il
nazionalsocialismo.
L’annientamento
di
«vite
prive
di
valore»
accadde
con
la
consapevolezza
e
l’aiuto
dei
medici,
che
per
proprio
vantaggio
accolsero
con
tranquillità
il
ritiro
dell’abilitazione
già
rilasciata
ai
colleghi
ebrei.
Chissà
se
il
parlamento
dei
medici,
dopo
la
dichiarazione
di
Norimberga
con
le
sue
frasi
tanto
generiche,
si
occuperà
anche
dei
sopravvissuti
che
da
bambini
furono
forzatamente
sterilizzati
dai
medici?
Il
lungo
silenzio
della
categoria,
i
cui
appartenenti
amano
apparire
come
«semidei
in
bianco»,
sembra
in
ogni
caso
finalmente
terminato.
E
c’è
poi
il
racconto
di
una
scrittrice
che
si
era
trasferita
con
la
famiglia
da
Berlino
a
Heidelberg
e
per
caso
era
venuta
a
sapere
di
aver
affittato
un
appartamento
in
cui,
dopo
il
1940,
avevano
vissuto
ebrei
che
–
come
succedeva
in
genere
nelle
cosiddette
«Judenhäuser»,
nelle
«case
degli
ebrei»
–
attendevano
il
trasporto.
Descrive
l’orrore
che
tutt’a
un
tratto
la
colse.
Per
lungo
tempo
non
poté
aggirarsi
nell’appartamento
di
quell’edificio
storico,
che
tutti
gli
ospiti
trovavano
bellissimo,
senza
continuamente
chiedersi
come
dovevano
essersi
sentite
quelle
persone
che,
talvolta
anche
in
numero
di
nove,
accompagnate
dalla
paura
e
da
un’immensa
angoscia
avevano
vissuto
là.
Ciò
cambiò
solo
quando
la
scrittrice
riuscì
a
trovare
informazioni
negli
archivi
cittadini
e
a
dare
un
nome
e
un
volto
a
quanti
avevano
alloggiato
allora
nell’«appartamento
degli
ebrei».
La
donna
scoprì
che
nel
1940,
quando
Walter
Benjamin
a
Portbou
si
sottraeva
con
il
suicidio
all’arresto
e
alla
consegna
in
un
campo
di
sterminio
nazista,
i
fratelli
Bernd
e
Sigmund
Kaufmann,
rispettivamente
nove
e
dieci
anni,
erano
deportati
nel
famigerato
campo
di
internamento
francese
di
Gurs.
E
nel
1942,
quando
Georg
Benjamin
a
Mauthausen
veniva
braccato
fin
sotto
il
recinto
attraversato
dalla
corrente
ad
alta
tensione,
Emma
Bendix
era
deportata
a
Izbica.
Nessuno
dei
deportati
sopravvisse.
Da
Heidelberg
Betty
Snopek,
dopo
essere
stata
a
Gurs,
finì
ad
Auschwitz.
Ludwig
e
Sara
Snopek,
gli
affittuari
veri
e
propri
dell’«appartamento
degli
ebrei»,
sopravvissero.
Nel
febbraio
1940
poterono
espatriare
negli
Stati
Uniti.
Sara
morì
(per
la
disperazione?
per
il
dolore?)
un
anno
dopo,
mentre
suo
marito
Ludwig
morì
nel
1956.
Il
cammino
di
Philip
Snopek
passò
per
Berlino
e
terminò
a
Riga,
dove
incontrò
la
morte.
Luise
Wolfers,
ugualmente
deportata
nel
1940
a
Gurs,
morì
nel
Lager
di
Nexon,
mentre
Hilde
Wunsch
fu
ammazzata
a
Theresienstadt.
Samuel
Zucker,
avvocato,
sopravvisse
di
due
anni
alla
devastazione
del
suo
studio
e
della
sua
esistenza,
e
morì
nel
1940
a
Heidelberg.
Se
in
precedenza
Maja
Linthe,
la
scrittrice,
aveva
l’impressione
di
sentire
da
ogni
fessura
del
pavimento
di
legno
i
passi
di
quelle
persone,
le
fu
d’aiuto
averli
strappati
all’oblio:
avevano
ottenuto
un
volto.
Linthe
scrive:
poterli
ricordare
aveva
reso
nuovamente
abitabile,
pur
con
difficoltà,
l’appartamento.
La
quiete
familiare
si
era
solcata
di
crepe.
Ma
era
pronta
a
sopportarlo.
Andarsene
sarebbe
equivalso
a
una
fuga
dal
passato,
che
non
poteva
riuscire.
Il
puro
orrore
per
i
crimini
nazisti
«rende
impotenti
–
io
voglio
poter
continuare
ad
agire,
io
voglio
guardare
fino
in
fondo».
Aveva
capito
«che
dev’esserci
sempre
qualcuno
che
scrive
i
nomi
delle
vittime
[...]
perché
si
accorge
della
loro
assenza
e
può
chiedersi
dove
sono
finite».
Questo
è
anche
il
senso
assunto
per
me
dalla
storia
familiare
dei
Benjamin.
Walter,
la
cui
fama
postuma
è
legata
anche
all’aver
avuto
intercessori
instancabili
e
importanti
come
Max
Horkheimer
e
Theodor
W.
Adorno,
o
come
l’amico
Gershom
Scholem,
Bertolt
Brecht
e
la
non
meno
famosa
amica
Hannah
Arendt.
Anche
questo
contribuì
al
rinascimento
benjaminiano,
alla
fine
degli
anni
Sessanta
e
negli
anni
Settanta,
quando
i
giovani
cresciuti
nel
dopoguerra
in
Germania
lo
scoprirono
e
lessero
le
sue
tesi
sulla
storia.
Con
i
suoi
libri
e
i
suoi
saggi
nella
mente
essi,
e
non
erano
pochi,
ripristinarono
formalmente
la
democrazia
all’Ovest,
spianando
la
strada
perché
potesse
giungere
al
cancellierato
un
antifascista
che,
inchinandosi
davanti
al
monumento
alle
vittime
del
ghetto
di
Varsavia,
segnalò
anche
la
necessità
di
riconoscere
la
propria
storia.
Georg
Benjamin
senior
invece
era
noto
solo
nella
DDR,
come
combattente
della
resistenza
contro
i
nazisti:
portavano
il
suo
nome
l’ospedale
circondariale
di
Staaken
e
la
colonia
di
riposo
dell’esercito
a
Sorge,
sulle
montagne
dello
Harz,
e
inoltre
una
scuola
per
portatori
di
handicap
fisici
nel
quartiere
di
Lichtenberg,
a
Berlino.
Il
nome
e
i
cartelli
indicatori
furono
levati
al
momento
dell’unità.
Ebreo
e
comunista
non
era
evidentemente
buona
cosa.
Resta
Hilde
Benjamin,
nella
cui
vita
si
riflette
la
storia
tedesca
prima
e
dopo
il
1933,
prima
e
dopo
il
1945.
Dopo
dodici
anni
trascorsi
nella
costante
angoscia
per
il
figlio
e
il
marito
Georg,
nel
1945
Hilde
si
trovò
di
fronte
a
un
nuovo
inizio.
Come
sarebbe
andata
se
il
crescente
contrasto
fra
Est
e
Ovest
non
avesse
segnato
la
storia
postbellica,
anche
quella
della
DDR?
Le
speranze
di
Georg,
di
cui
sentiva
di
portare
anche
lei
la
responsabilità,
si
sarebbero
forse
realizzate,
almeno
in
parte?
Sarebbe
dunque
tempo
di
prendere
sul
serio
la
quinta
Germania.
Michael
Benjamin
era
su
quella
strada.
Lo
choc
fu
grande
quando
morì
nel
2000
dopo
un’operazione
al
cuore
che
era
considerata
un
semplice
intervento
di
routine.
Disinvolto
e
certo
delle
proprie
motivazioni,
sarebbe
rimasto
sul
terreno
politico
che
la
quinta
Germania
gli
offriva.
Con
le
sue
esperienze
prima
e
dopo
il
1945
avrebbe
probabilmente
ripreso
la
lotta
e
non
avrebbe
mai
disprezzato
i
minuscoli
passi
sui
quali
soltanto
si
misurano
i
successi.
Avrebbe
capito,
ma
non
condiviso,
l’atteggiamento
di
suo
figlio
verso
la
quinta
Germania.
Per
questo,
nonostante
ogni
distanza
scientifica,
il
suo
pensiero
era
troppo
politico.
Non
è
possibile
agire
senza
interferire.
Michael
Benjamin
era
portavoce
della
Piattaforma
comunista
all’interno
del
PDS,
nonché
la
sua
mente
guida.
A
differenza
di
Gesine
Lötzsch,
ex
capo
della
Sinistra,
probabilmente
non
si
sarebbe
lasciato
sottrarre
la
libertà
di
condurre
un
dibattito
sul
futuro
del
comunismo.
Lo
spaventoso
livello
degli
argomenti
con
cui
la
signora
Lötzsch
fu
aggredita
non
solo
dai
conservatori
rasentò
quasi
la
brutale
censura
di
ogni
opinione.
Il
rifiuto
di
Michael
Benjamin
di
cessare
le
proprie
riflessioni
su
questo
tema
si
accompagnò
sempre
a
un
atteggiamento
autocritico
e
a
una
grande
levatura
intellettuale.
L’attuale
aspetto
del
mondo
capitalista
suscita
sempre
più
l’impressione
che
sarebbe
il
caso
di
tornare
a
riflettere
sulle
alternative.
Il
più
grande
istituto
finanziario
tedesco,
la
Deutsche
Bank,
sta
per
esempio
di
fronte
a
una
serie
di
processi
o
di
costose
transazioni
con
accusatori
statali
e
privati,
soprattutto
negli
Stati
Uniti
ma
anche
in
Inghilterra
e
in
Italia,
che
le
rimproverano
intrighi
fraudolenti.
Il
massimo
investment
banker
della
Deutsche
Bank
era
tenuto
fra
l’altro
a
scommettere
sul
declino
e
la
caduta
di
valore
dei
propri
pacchetti
ipotecari
sul
mercato
immobiliare
statunitense.
Già
nel
2005
questi
aveva
avvertito
del
loro
crollo
a
causa
dei
mancati
pagamenti
da
parte
dei
proprietari
di
case
che
erano
rimasti
disoccupati.
In
questo
modo
assicurò
alla
banca
profitti
per
1,5
miliardi
di
dollari,
che
ne
ridussero
le
perdite.
In
cambio
ricevette
premi
per
oltre
50
milioni
di
dollari.
Non
stupisce
che
migliaia
di
persone
siano
scese
in
strada
per
manifestare
contro
il
potere
delle
banche
e
il
sistema
finanziario
globale.
E
tuttavia
i
tribunali
sono
pronti,
come
a
Francoforte,
a
dare
una
mano
ai
banchieri
che
si
trovano
in
posizioni
delicate
e
a
proteggerli
dalla
rabbia
dei
clienti,
proibendo
per
motivi
di
sicurezza
pubblica
le
manifestazioni
nel
quartiere
delle
banche.
Lo
stato
di
diritto
invece
è
molto
pignolo
quando
si
tratta
di
garantire
ai
neonazisti
la
libertà
di
manifestare.
La
crisi
del
capitalismo
stimola
anche
a
riflettere
sul
suo
superamento.
Si
torna
a
leggere
Karl
Marx.
E
ciò
benché
l’opinione
dominante
non
si
stanchi
mai
di
rifiutarne
il
pensiero
in
quanto
erroneo.
Resta
da
chiedersi,
come
se
lo
chiedeva
Michael
Benjamin,
cosa
possa
dialetticamente
restare
dopo
la
DDR,
quale
idea
progressista,
e
il
dubbio
se
davvero
solo
i
compagni
siano
in
grado
di
dare
a
ciò
una
risposta.
Se
Christa
Wolf
fosse
ancora
viva,
Michael
riceverebbe
da
lei
un
eloquente
aiuto.
Con
La
città degli angeli
la
scrittrice
aveva
dedicato
a
questa
domanda
un
libro
intero.
Una
sua
frase
indica
una
direzione
che
forse
conduce
anche
a
quelli
che
potrebbero
dare
la
risposta:
«Avevano
vissuto
da
ultimo
senza
illusioni,
ma
non
senza
ricordare
i
propri
sogni».
A
volte
Ursula
Benjamin
porta
i
lunghi
capelli
grigi
pettinati
all’indietro
e
legati
con
un
nastro
in
una
coda
di
cavallo.
A
volte
li
porta
sciolti
o
raccolti
in
uno
chignon
sulla
nuca.
Spesso
mi
sembra
di
cogliere
uno
sguardo
pensoso
e
assorto.
Contiene
anche
un
po’
di
scetticismo
nel
suo
domandarsi
se
la
DDR
e
l’opera
di
così
tante
persone
possano
essere
comprese
e
onorate
solo
da
loro
stesse.
Un
passaggio
scritto
da
suo
marito
appare
qui
calzante:
«Ancora
più
essenziale
di
una
radicale
critica
alla
DDR
[...]»
era
per
lui
domandarsi
cosa
la
DDR
avesse
prodotto
nel
senso
di
una
rielaborazione
del
concetto
di
socialismo.
Come
molti
altri,
dopo
l’89
si
era
chiesto:
Com’era
potuto
succedere?
Cosa
era
sbagliato?
Quali
ne
erano
le
cause?
E
la
sua
certezza,
sottolineata
con
forza:
«Solo
noi
abbiamo
un
interesse
a
riconoscere
le
cause
autentiche
del
fallimento.
Solo
noi
possiamo
nominare
gli
errori;
e
dobbiamo
farlo,
perché
chi
verrà
dopo
non
li
ripeta.
È
il
compito
della
nostra
generazione».
All’inizio
non
aveva
pensato
che
una
«riflessione
sulla
DDR»
dovesse
avere
anche
quel
secondo
lato
dialettico.
Legate
a
questo
pensiero
sono
anche
alcune
frasi
nel
programma
della
PDS
del
1993,
il
che
fa
supporre
a
Werner
Wüste,
amico
di
Michael
Benjamin,
che
quest’ultimo
vi
abbia
dato
un
contributo
sostanziale.
Wüste
ha
raccolto
lettere
e
manoscritti
di
Michael
Benjamin
e
li
ha
pubblicati
nel
libro
Das
Vermächtnis
(L’eredità).
La
speranza
era
che
il
suo
pensiero
e
la
sua
qualità
intellettuale
potessero
raggiungere
un
pubblico
più
ampio.
Io
sono
stato
raggiunto,
e
questo
ha
suscitato
anche
il
mio
rincrescimento
per
non
averlo
potuto
incontrare.
Almeno
nelle
prime
tre
frasi
e
nell’ultimo
dei
passaggi
qui
citati
traspare
la
sua
mano.
«Milioni
di
persone
si
impegnarono
dopo
il
1945
per
la
costruzione
di
un
miglior
ordinamento
sociale
e
di
una
Germania
amante
della
pace,
che
superasse
l’eredità
fascista.
Qui
non
c’è
bisogno
di
scuse.
Le
trasformazioni
in
senso
antifascista
e
democratico
nell’est
della
Germania
e
in
seguito
lo
sforzo
di
dar
forma
a
una
società
socialista
erano
in
legittimo
contrasto
con
il
salvataggio
del
capitalismo
nella
Germania
dell’Ovest,
quel
capitalismo
indebolito
e
screditato
dal
crimine
senza
precedenti
nella
storia
dell’umanità
che
fu
il
nazismo
tedesco.
Al
tentativo
della
DDR
di
realizzare
il
socialismo
appartengono
preziosi
risultati
ed
esperienze
raccolte
nella
lotta
per
la
giustizia
sociale,
per
la
definizione
degli
obiettivi
della
produzione
nell’interesse
della
popolazione
attiva,
per
una
convivenza
solidale
e
pacifica
sul
suolo
tedesco.
Ci
furono
tuttavia
anche
errori,
traviamenti,
omissioni
e
persino
crimini».
Questo
testo
solleva
la
questione
sui
motivi
per
cui
i
negoziatori
della
DDR
non
tentarono
di
esporre
e
far
accogliere
nel
Trattato
di
unificazione
i
«preziosi
risultati»
ottenuti
nella
lotta
per
la
giustizia
sociale,
per
la
definizione
degli
obiettivi
produttivi
nell’interesse
della
popolazione
attiva.
Chi
ebbe
la
possibilità
di
riscontrare
la
carente
prevenzione
sanitaria
nelle
fabbriche
e
negli
stabilimenti
di
produzione
della
DDR,
l’inquinamento
dell’aria
dovuto
all’assenza
di
impianti
di
filtrazione,
e
ricorda
le
acque,
i
fiumi
e
i
laghi
biologicamente
morti,
può
nominare
cose
che
non
avvengono
più.
La
sconfitta
economica
della
DDR
aveva
le
sue
cause
e
fu
il
motivo
fondamentale
per
l’emigrazione
di
massa
che
trovò
un’espressione
visibile
a
Praga,
nel
giardino
davanti
all’ambasciata
della
BRD.
Jürgen
Habermas,
filosofo
famoso
in
tutto
il
mondo
e
studioso
di
scienze
sociali,
accoglie
con
un
commento
ironico
l’assenza
di
ogni
disponibilità
da
parte
della
CDU
e
del
Libero
partito
democratico
(Freie
Demokratische
Partei,
FDP)
a
prendere
in
considerazione
le
eventuali
conquiste
della
DDR,
e
quindi
la
delusione
che
ne
seguì:
«Quel
contratto
che
il
signor
Schäuble
(CDU
e
mediatore
di
Bonn)
attraverso
la
figura
del
signor
Krause
(CDU
dell’Est
e
mediatore
del
governo
de
Maizière,
emerso
dalle
elezioni)
concluse
con
se
stesso
dovette
fare
da
surrogato
per
un
contratto
sociale
fra
i
cittadini
dei
due
stati».
Sono
sicuro
che
Michael
Benjamin
non
avrebbe
lasciato
che
la
colpa
per
simili
omissioni
nel
processo
di
unificazione
venisse
attribuita
esclusivamente
alla
carente
comprensione
dell’Occidente.
Con
sagge
riflessioni
avrebbe
potuto
arricchire
anche
il
dibattito
su
ciò
che
rimane
e
sui
futuri
spazi
di
azione
che
in
futuro
torneranno
ad
aprirsi
per
la
sinistra
in
seguito
all’evidente
crisi
del
capitalismo.
Il
suo
punto
di
partenza
era
il
«deficit
di
democrazia
nella
DDR»,
che
vedeva
come
«uno
dei
motivi
del
suo
fallimento».
In
una
critica
al
libro
di
André
Brie,
Befreiung
der
Visionen
(Liberazione
delle
visioni),
chiarisce
che
«la
democrazia
è
una
componente
imprescindibile»
anche
della
sua
idea
di
socialismo.
Ciò
lo
condusse
nel
contempo
a
un
confronto
critico
con
le
concezioni
della
DDR
riguardo
alla
costituzione,
allo
stato
e
al
diritto.
A
ragione
contestò
la
piatta
formula
che
parlava
di
«stato
d’ingiustizia».
Nessuno
definirebbe
«stato
d’ingiustizia»
la
repubblica
di
Weimar,
sebbene
l’arbitrio
in
campo
legale
fosse
all’ordine
del
giorno.
Nessuno
criticò
la
giustizia
a
Weimar,
e
con
essa
la
realtà
dello
stato
borghese
di
diritto,
in
maniera
più
calzante
di
Kurt
Tucholsky.
Una
citazione
che
ho
cercato
a
lungo,
e
che
ho
trovato
poi
nella
raccolta
degli
scritti
di
Benjamin
compilata
da
Wüste:
«La
fanciulla
Justitia
tocca
piano
e
forte
i
tasti
dello
strumento,
come
capita.
È
una
fanciulla
delicata.
Morbida
è
nei
confronti
della
nobiltà,
degli
studenti,
degli
ufficiali,
dei
nazionalisti.
Là
non
si
picchia.
E
contro
gli
operai,
invece?
Certamente».
E
chi
osserva
con
attenzione
gli
anni
Venti
arriva
al
medesimo
risultato,
o
quanto
meno
a
una
conclusione
simile
a
quella
che
Michael
Benjamin
aggiunse
alla
citazione
di
Tucholsky:
«Questa
amministrazione
e
questa
giustizia
compirono,
con
pochissime
eccezioni,
il
passaggio
diretto
nello
schieramento
del
nazionalsocialismo
e,
anni
dopo,
un
altro
passaggio
non
meno
diretto
nella
Repubblica
Federale».
A
questa
valutazione
della
«cieca»
giustizia
borghese
faceva
riscontro
la
sua
analisi
del
sistema
giudiziario
della
DDR,
verso
il
quale
non
era
meno
critico
quando
constatava
«...
che
la
concezione
della
DDR
relativa
alla
costituzione,
allo
stato
e
al
diritto,
con
i
suoi
princìpi
come
l’unità
dei
poteri,
la
norma
costituzionale
che
sanciva
il
ruolo
guida
della
SED
(Partito
combattente
marxistaleninista),
il
rifiuto
della
giurisdizione
costituzionale
e
del
controllo
giuridico
delle
decisioni
amministrative
non
ha
superato
in
definitiva
la
prova
della
prassi
storica.
La
tesi
che
sosteneva
l’unità
degli
interessi
sociali
e
individuali
condusse
alla
subordinazione
dei
secondi
ai
primi».
In
questo
modo
i
princìpi
della
collaborazione
diretta
dei
cittadini
e
della
loro
iniziativa
sociale
erano
stati
svuotati
e
subordinati
a
una
politica
economica
sempre
più
discutibile.
Per
Michael
Benjamin
le
«strutture
di
uno
stato
di
diritto
erano
anch’esse
un’importante
conquista
democratica,
che
un
partito
socialista
non
può
impunemente
ignorare»
e
dietro
le
quali
«nessun
principio
di
socialismo
deve
indietreggiare».
Il
suo
interesse
per
la
questione
è
evidenziato
dall’atteggiamento
autocritico
con
cui
osserva
i
propri
errori,
che
non
si
è
perdonato,
come
in
relazione
al
tema
«I
comunisti
e
la
Legge
fondamentale».
Ricordava
il
«dibattito
sullo
stato
di
diritto»
nella
DDR,
che
era
ripreso
nel
1988
–
«nel
tentativo,
compiuto
in
ritardo
e
fondamentalmente
privo
di
efficacia,
di
legittimare
la
DDR».
E
osservò,
testualmente:
«Gli
articoli
che
ho
scritto
allora,
come
per
esempio
“La
Repubblica
Democratica
Tedesca
–
uno
stato
di
diritto”
–
sono
fra
le
mie
cose
peggiori.
Non
per
il
tema,
ma
per
il
loro
carattere
apologetico
e
l’attenzione
con
cui
eludono
i
problemi
e
le
contraddizioni
reali».
Nel
suo
discorso
alla
tomba
del
padre
Grischa
fece
capire
come
tutto
ciò
rientrasse
nelle
personali
riflessioni
di
Michael
Benjamin
già
all’epoca
della
DDR.
Lo
chiamava
il
«costante
conflitto»,
a
cui
sentiva
di
non
essere
esposto
lui
solo.
«Vivevamo
nella
DDR,
nel
nostro
paese,
nel
tuo,
nel
paese
in
cui
cercammo
di
realizzare
i
nostri
ideali
e
in
cui
tante
cose
non
funzionavano
come
avevamo
sperato
o
desiderato.
E
sempre
ci
chiedevamo
come
modificare
le
cose
ed
esercitare
una
critica
attiva,
senza
distruggere
l’intero
edificio
e
tuttavia
ottenendo
qualcosa».
Voltandosi
indietro
il
figlio
riconosce
come
fin
dal
1985
il
padre,
ormai
tornato
da
Mosca
e
divenuto
prorettore
all’Accademia
di
Stato
e
Diritto
di
Balbelsberg,
avesse
cercato
per
cinque
anni
di
far
conoscere
ai
capi
del
partito
e
dello
stato
i
cambiamenti
in
Russia.
«Cercasti
di
mettere
in
pratica
le
esperienze
fatte
a
Mosca
e
di
influire
sui
leader
facendogliele
comprendere
–
non
a
voce
alta,
gridando,
ma
attraverso
colloqui
personali,
presentazioni
e
analisi».
Era
a
piccoli
passi
che
molte
cose
erano
pur
sempre
cominciate
–
«a
piccoli
passi,
come
si
mostrò
nel
1990».
Anche
nella
quinta
Germania
Michael
Benjamin
avrebbe
probabilmente
agito
in
questo
modo,
sebbene
in
altri
contesti
sociali.
Sono
sicuro
che
non
lo
avrei
trovato
in
cima
a
una
tribuna,
intento
a
guardare
dall’alto
il
campo
da
gioco.
Non
avrebbe
mai
smesso
di
immischiarsi.
La
quinta
Germania
fronteggia
grandi
problemi
concreti:
ha
bisogno
per
esempio
di
immigrazione
per
compensare
il
mutamento
demografico
e
il
sensibile
invecchiamento
della
società.
Entrambi
i
nipoti
di
Ursula,
Laura
e
Jakob,
sono
nati
poco
prima
della
svolta
e
sono
cresciuti
nella
Germania
riunificata.
Anche
loro
si
domandano
se
la
sinistra
oggi
possa
contribuire
a
controllare
politicamente
il
processo
di
cambiamento
che
la
Germania
attraversa
in
quanto
paese
di
immigrazione,
senza
suscitare
una
resistenza
aggressiva
da
parte
dei
tedeschi
che
continuano
a
essere
la
maggioranza.
Nel
2012
l’Ufficio
federale
di
statistica
annunciò
un
saldo
positivo
nella
popolazione,
grazie
all’immigrazione
e
malgrado
un
tasso
di
natalità
che
nel
2011
era
nuovamente
rimasto
fermo
al
livello
più
basso
mai
raggiunto,
e
malgrado
inoltre
l’emigrazione
e
la
mortalità;
per
la
prima
volta
dopo
anni
la
popolazione
era
cresciuta.
Ciò
viene
spiegato
con
l’immigrazione
di
giovani
provenienti
dai
paesi
europei
in
crisi,
dalla
Spagna
e
dalla
Grecia,
che
sperano
di
trovare
lavoro
in
Germania.
Si
vedrà
se
la
capacità
di
integrazione
della
società
sarà
sufficiente
e
se
si
renderà
disponibile
la
necessaria
base
finanziaria
affinché
gli
immigranti
ricevano
un
adeguato
sostegno
per
inserirsi
nel
nuovo
paese.
In
generale
si
deciderà
inoltre
se
nel
mondo
globalizzato
la
Germania
potrà
mantenere
il
suo
posto
fra
le
nazioni
maggiormente
orientate
all’esportazione,
o
se
fallirà
per
le
sue
contraddizioni
interne,
soffocando
sotto
il
suo
provincialismo.
Finora
La
Sinistra,
discesa
dalla
DDR,
non
ha
saputo
mostrare
dove
intende
spingersi
politicamente.
Entrambi
i
partiti
moderatamente
democratici
di
sinistra,
l’SPD
e
La
Sinistra,
pensano
ancora
in
gran
parte
secondo
le
categorie
dei
due
stati
divisi
dai
quali
provengono.
Le
dimensioni
del
quinto
stato,
della
Germania
più
ampia,
sono
ben
altre.
Lo
stesso
appare
evidente
nella
politica
europea
dei
partiti
conservatori,
che
agitano
la
forza
economica
del
paese
come
una
clava
con
cui
mettere
in
ginocchio
l’Europa,
e
non
la
aiutano
a
sollevarsi.
La
crisi
finanziaria
forzata
dalle
banche
potrebbe
comportare
uno
spostamento
a
sinistra
delle
maggioranze
nel
parlamento
europeo.
A
Bruxelles
e
a
Strasburgo
potrebbero
crescere
i
presupposti
programmatici
che
renderebbero
pensabile
un
avvicinamento
dei
due
partiti
operai
tedeschi.
In
Europa
potrebbe
svilupparsi
ciò
che
a
sua
volta
in
Germania
potrebbe
fare,
a
quel
punto,
della
maggioranza
strutturale
una
maggioranza
politicamente
utilizzabile.
Non
è
chiaro
però
se
ci
sia
abbastanza
coraggio
politico
dalle
due
parti.
La
quinta
Germania
in
Europa
ha
urgente
bisogno
di
un
dibattito
accelerato
per
impedire
che
la
ricaduta
negli
egoismi
nazionali,
a
cui
spingono
a
grandi
lettere
i
giornali,
conduca
alla
rovina
dell’Unione.
Laura
Benjamin,
studentessa
di
giurisprudenza,
deve
ascoltare
di
continuo
osservazioni
poco
divertenti
sulla
sua
bisnonna,
l’ex
ministro
della
DDR.
In
gran
parte
esse
ignorano
tutto
sulla
vita
di
Hilde
Benjamin.
Laura
dice
che
non
fa
nulla.
Eppure
la
toccano.
Lei
e
il
fratello
non
hanno
conosciuto
la
bisnonna.
Tanto
più
hanno
amato
il
nonno.
Al
funerale
Georg
menziona
l’insofferenza
di
sua
nonna
Hilde,
insofferenza
che
anche
il
figlio
Michael
manifestava
–
sempre
quando
notava
semplici
espressioni
di
malumore,
brontolii
senza
motivo
o
una
carente
disponibilità
a
pensare
e
a
imparare.
«Tu
la
chiamavi
pigrizia
del
pensiero,
e
a
noi,
i
tuoi
figli,
già
venivano
le
lacrime
perché
ci
sentivamo
incompresi».
Nella
«famiglia
profondamente
politica»
il
pensiero
era
qualcosa
di
presupposto.
«I
dubbi
dovevano
essere
possibilmente
motivati.
Se
si
era
capaci
di
motivarli
–
in
maniera
plausibile
–
venivano
presi
sul
serio
e
discussi.
Il
che
non
era
tipico
per
l’epoca,
ma
lo
era
per
noi,
per
voi,
per
te».
Laura
ride
con
aria
smaliziata,
mentre
io
siedo
nella
piccola
cucina
del
suo
accogliente
appartamento
di
studentessa
a
Pankow,
e
ricorda
il
calore
del
nonno,
che
sapeva
unire
intelligenza
e
un
profondo
sapere
con
l’umorismo
e
la
gioia
di
vivere.
Non
aveva
nulla
dell’intellettuale
altezzoso
e
freddo.
Laura
e
Jakob
rammentano
il
biglietto
attaccato
alla
porta
del
suo
studio,
le
cui
parole
recitano
insieme
a
memoria:
«Se
avessi
saputo
quanto
sono
divertenti
i
nipoti
li
avrei
avuti
prima».
Il
suo
interesse
e
il
talento
per
la
cucina
si
mostravano
nelle
dimensioni
crescenti
del
suo
giro
vita.
Ai
figli,
per
il
loro
diciottesimo
compleanno,
regalò
un
libro
di
cucina
compilato
da
lui.
Georg
poté
leggervi
nella
prefazione
che
l’idea
secondo
cui
la
donna
appartiene
ai
fornelli
era
una
favola,
continuamente
riscaldata
ma
«del
tutto
passé».
Restava
vero
però
che
«l’amore
passa
per
lo
stomaco».
Anche
i
nipoti
ricevettero
per
la
Jugendweihe15
la
loro
dote
di
ricette,
insieme
all’invito
ad
arricchire
personalmente
la
raccolta.
Michael
ammira
molto
un
aforisma
di
Walter
Benjamin:
«Sia
detto
soltanto
di
passaggio
che
per
il
pensiero
non
esiste
punto
di
partenza
migliore
della
risata.
E,
in
particolare,
la
vibrazione
del
diaframma
offre
al
pensiero
possibilità
generalmente
migliori
che
non
l’anima».
Laura
studia
giurisprudenza
e
Jakob
architettura.
Sono
già
stati
in
diverse
occasioni
all’estero
per
soggiorni
di
studio
o
qualche
tirocinio,
come
ha
fatto
Laura
a
New
York,
presso
il
consolato
generale
della
Repubblica
Federale.
La
sua
concezione
della
gente
è
influenzata
anche
dal
nonno,
ed
è
lontanissima
dalla
mancanza
di
rispetto
che
contraddistingue
molti
giovani
e
rende
più
difficile,
se
non
impossibile,
un
reciproco
contatto
costruttivo.
Laura
e
Jakob
osservano
attentamente
il
mondo
intorno
a
loro
e
non
sono
sicuri
se
rimarranno
in
Germania
o
andranno
via.
Non
conoscono
barriere
linguistiche.
Se
rimanessero
a
disposizione
di
questa
quinta
Germania
avrebbero
degli
alleati.
L’intero
spettro
dell’attuale
scena
giovanile
tedesca
si
ritrova
da
due
anni,
più
volte
alla
settimana,
nei
sette
spazi
tematici
della
mostra
interattiva
«7xjung»
(7
volte
giovani),
sotto
le
arcate
della
stazione
S-Bahn
di
Bellevue.
L’associazione
«Gesicht
Zeigen!»
(«Mostrare
la
faccia!»)
ha
percorso
nuove
vie
per
allacciare
l’oggi
e
la
storia
recente.
Più
di
quattromila
studenti
delle
scuole
superiori,
fra
i
dodici
e
i
diciotto
anni,
hanno
già
visitato
gli
spazi
artistici
e
trascorso
insieme
molte
ore
partecipando
a
workshop.
Molti
hanno
vissuto
esperienze
di
emarginazione.
Attraverso
l’esempio
di
fatti
molto
personali
vedono
qui
gli
esiti
a
cui
ha
condotto
l’emarginazione
delle
minoranze
nella
storia
tedesca
dopo
il
1933,
e
li
pongono
a
confronto
con
la
realtà
della
loro
vita
odierna.
Il
libro
degli
ospiti
è
pieno
dei
commenti
lasciati
dagli
studenti,
e
anche
delle
lodi
delle
delegazioni
internazionali,
spesso
mandate
dal
Ministero
degli
Esteri,
le
quali
ammirano
il
progetto
che
stimola
per
alcune
ore
le
classi
a
confrontarsi
vicendevolmente.
Nella
realtà
scolastica
di
tutti
i
giorni
se
ne
offre
solo
raramente
l’occasione.
Spesso
arrivano
ragazzi
da
scuole
in
cui
la
percentuale
dei
figli
di
immigrati
arriva
al
novanta
per
cento.
Ogni
tanto
si
incontrano
anche
classi
di
liceali.
E
Jan
ricorda
alcuni
che
hanno
raccontato
qui,
per
la
prima
volta,
le
loro
esperienze
con
giovani
neonazisti,
e
si
sono
sentiti
incoraggiati
a
sviluppare
strategie
per
opporsi
a
loro
senza
ricorrere
alla
violenza.
Sono
cose
che
li
toccano
ogni
giorno,
e
a
volte
sono
anche
scontri
fisici.
«Ma
non
se
ne
parla
con
nessuno,
non
a
scuola
o
con
gli
insegnanti,
e
nemmeno
a
casa».
Anche
negli
altri
progetti
sono
offerti
stimoli
al
rispetto
e
alla
tolleranza,
al
fine
di
riconquistare
una
terraferma
democratica.
Senza
i
molti
che
compiono
il
loro
anno
di
servizio
sociale
volontario
presso
«Gesicht
Zeigen!»,
l’istituzione
non
potrebbe
mantenersi
in
attività.
Ciò
vale
anche
per
altre
iniziative
che
si
oppongono
alla
corrente
delle
crescenti
opinioni
di
destra.
Con
questo
lavoro
contribuiscono
al
rafforzamento
dell’Europa
democratica
che
in
certe
regioni
dell’Italia,
della
Polonia
o
della
Repubblica
Ceca
è
in
ritirata.
Particolarmente
disastrosa
è
la
situazione
in
Ungheria,
dove
si
va
formando
un
regime
dispotico
che
riceve
solo
una
debole
risposta
dall’Europa.
La
quinta
Germania
avrebbe
un
debito
con
la
sua
storia,
e
tanto
più
in
quanto
membro
più
forte
dell’Unione.
Ma
ottempera
a
questa
responsabilità?
È
davvero
falso
quel
che
afferma
il
primo
ministro
lussemburghese,
JeanClaude
Juncker,
quando
dice
che
i
tedeschi
trattano
l’Unione
Europea
come
una
filiale,
con
cui
perseguono
la
loro
politica
interna?
Così
conferma
soltanto
l’impressione,
condivisa
comunque
da
molti
osservatori,
che
Berlino
mantenga
un
comportamento
sconsiderato
verso
l’Europa
comune.
A
ciò
contribuisce
anche
La
Sinistra.
Non
è
ben
chiaro
su
quale
immagine
dell’Europa
intenda
fondare
il
suo
futuro
politico.
In
tempo
di
crisi
è
più
che
evidente
come
le
società
capitalisticoborghesi
vadano
nuovamente
incontro
a
una
stagnazione.
Appena
la
metà
degli
studenti
tedeschi
viene
da
famiglie
in
cui
i
genitori
non
hanno
frequentato
l’università,
e
solo
il
due
per
cento
da
strati
con
un
livello
di
istruzione
decisamente
basso.
Lo
scandalo
risiede
proprio
in
questi
numeri
e
in
altri
simili,
poiché
mostrano
bene
quanto
siano
attivi
nella
società
i
meccanismi
di
selezione
fra
alto
e
basso.
Basti
pensare
al
numero
degli
analfabeti
funzionali,
che
in
Germania
sarebbero
circa
sette
milioni.
Alle
scuole
superiori
il
dieci
per
cento
degli
studenti
non
ottiene
nemmeno
il
diploma
di
grado
più
basso,
ciò
che
significa
ogni
anno
un
numero
compreso
fra
i
60.000
e
gli
80.000,
i
quali
infoltiscono
così
la
schiera
dei
disoccupati
che
beneficiano
dei
sussidi
sociali.
Un
bambino
ogni
cinque
in
Germania
appartiene
a
una
famiglia
che
vive
sotto
la
soglia
ufficiale
di
povertà.
Il
modo
di
affrontare
il
problema
è
descritto
da
Walter
Benjamin.
«“La
povertà
non
è
un
disonore”.
Benissimo.
Loro
però
disonorano
il
povero.
Ciò
fatto,
lo
consolano
con
la
bella
frasetta.
Che
è
di
quelle
che
si
potevano
lasciar
passare
una
volta,
ma
che
sono
ormai
fuori
corso
da
un
pezzo.
Non
diversamente
da
quel
brutale
“Chi
non
lavora
non
mangia”».
Vale
la
pena
di
rimanere
con
Walter
Benjamin
e
di
seguire
la
sua
riflessione:
«Quando
di
lavoro
che
a
uno
dava
da
vivere
ce
n’era,
c’era
anche
una
povertà
che
non
lo
disonorava
se
lo
colpiva
per
un
cattivo
raccolto
o
per
altri
rovesci.
Disonora
invece
questa
vita
grama
che
milioni
di
persone
trovano
venendo
al
mondo
e
in
cui
centinaia
di
migliaia
d’altri
restano
invischiati.
Sudiciume
e
miseria»
così
descrive
in
Strada a senso unico,
«crescono
intorno
a
loro
come
mura
innalzate
da
mani
invisibili».
Benjamin
è
convinto:
«Mai
però
sarà
lecito
a
uno
far
pace
con
la
povertà
se
essa,
come
un’ombra
gigantesca,
si
abbatte
sul
suo
popolo
e
sulla
sua
casa».
Potrebbe
essere
un
commento
ai
numeri
quotidianamente
disponibili
dell’economia
di
oggi,
dove
sempre
più
numerosi
sono
i
posti
di
lavoro
che
non
bastano
a
sfamare
un
uomo
o
una
donna.
Il
lavoro
mal
pagato
distrugge
la
fiducia
in
sé
degli
individui,
che
lavorano
e
non
riescono
tuttavia
a
vivere
e
hanno
bisogno
di
un
secondo
o
terzo
impiego
per
farcela
da
soli
o
con
la
famiglia.
Walter
Benjamin
vuole
che
si
assuma
una
chiara
consapevolezza
rispetto
a
questa
forma
di
sfruttamento
e
autosfruttamento,
e
dice:
«Allora
egli
dovrà
tenere
ben
vigili
i
propri
sensi
di
fronte
a
ogni
umiliazione
che
verrà
loro
inflitta,
e
disciplinarli
finché
la
sua
sofferenza
avrà
aperto
non
più
la
rapida
discesa
dello
sconforto,
ma
il
sentiero
in
salita
della
rivolta».
Alle
sue
parole
così
attuali
segue
la
non
meno
attuale
critica
ai
media
e
alla
loro
incapacità
di
elaborare
almeno
analiticamente
il
caos
economico
dell’epoca,
che
in
definitiva
condusse
alla
catastrofe
della
Seconda
guerra
mondiale,
e
di
illuminarne
le
autentiche
cause.
«Qui
non
c’è
nulla
da
sperare
finché
ogni
più
atroce,
ogni
più
nero
destino,
discusso
ogni
giorno,
anzi
ogni
ora
dalla
stampa,
analizzato
in
tutte
le
sue
fittizie
cause
e
conseguenze,
non
aiuta
nessuno
a
scoprire
le
forze
oscure
alle
quali
la
sua
vita
ha
dovuto
assoggettarsi».
Anche
Georg,
alla
tomba
del
proprio
padre,
non
può
non
menzionare
Walter
Benjamin.
Per
il
padre
egli
era
importante
«al
fine
di
comprendere
e
preservare»,
e
lo
era
anche
nella
sua
storia
personale,
in
cui
«l’elemento
ebraico,
e
con
esso
la
conoscenza
e
il
riconoscimento
di
Walter
Benjamin,
tuo
zio,
divennero
essenziali.
[...]
In
molte
cose
assomigliavi
a
Walter,
l’umanista
costantemente
alla
ricerca».
Georg
ricorda
un
incontro
su
Walter
Benjamin,
tenutosi
cinque
anni
prima,
in
cui
Michael
parlò
di
lui
e
della
propria
concezione
di
sé
e
del
suo
rapporto
con
la
storia.
La
stessa
cosa
potrebbe
dire
Georg
a
proposito
di
suo
padre,
di
cui
in
conclusione
cita
alcune
parole
sulla
«maniera
in
cui
Walter
Benjamin
intendeva
il
proprio
essere
tedesco
e
in
cui
credo
che
noi
dobbiamo
intenderlo.
“Dell’onore
senza
gloria,
della
grandezza
senza
splendore,
della
dignità
senza
mercede”».
15
«Festa
[lett.
consacrazione]
della
gioventù»,
sorta
di
versione
socialista
della
cresima
cattolica
e
della
confermazione
protestante
[N.d.T.].
Capitolo
quattordicesimo
Cosa
resta...
Sopra
la
città
di
Portbou,
su
un
plateau
di
roccia
c’è
il
monumento
a
Walter
Benjamin,
intitolato
Passages.
Un
luogo
della
memoria
che
pare
incollato
sulle
rocce,
opera
dell’artista
israeliano
Dani
Karavan.
Il
fragore
dell’acqua
si
sente
fino
in
alto,
quando
le
onde
coronate
di
schiuma
si
infrangono
sulla
spiaggia.
Il
monumento
è
formato
da
un’esile
scalinata,
abbracciata
da
una
costruzione
di
acciaio
color
ruggine,
una
specie
di
corridoio
chiuso
alla
sommità
e
con
pareti
più
che
ad
altezza
d’uomo.
Sessantotto
gradini
di
ferro
conducono
in
basso,
dove
una
massiccia
parete
di
vetro
impedisce
la
caduta
nel
mare
in
burrasca.
La
vista
attraverso
la
lastra
di
vetro
e
la
sensazione
di
star
sospesi
sul
mare
–
un’illusione
perfetta.
Dietro
il
vetro
–
gli
ultimi
diciassette
gradini
verso
il
nulla.
Incisa
sul
vetro
c’è
una
citazione
dalle
tesi
Sul concetto di storia
di
Walter
Benjamin:
«È
più
difficile
onorare
la
memoria
dei
senza
nome
che
non
quella
degli
uomini
famosi.
Alla
memoria
dei
senza
nome
è
consacrata
la
costruzione
storica».
L’ingresso
nello
stretto
corridoio
di
ferro
è
aperto.
A
mano
a
mano
che
si
scende,
il
pozzo
delle
scale
offre
in
fondo
la
vista
del
mare
e,
quando
poi
invece
si
risale,
la
luce
del
giorno
al
termine
del
tunnel.
Gli
incompiuti
Passages
di
Benjamin
sono
riecheggiati
in
questo
salire
e
scendere.
Un
luogo
del
ricordo
di
lui,
che
nella
notte
fra
il
25
e
il
26
settembre
1940
si
prese
qui
un’ultima
libertà:
decidere
da
sé
della
(propria)
vita
o
morte.
La
piccola
pensione
di
Portbou,
la
stanza
al
primo
piano
sul
retro
dove
fu
trovato
moribondo
dopo
che
aveva
ingerito
pastiglie
di
morfina,
non
esiste
più.
Al
suo
posto
c’è
una
casa
a
due
piani.
Una
piccola
targa
sul
marciapiede
davanti
al
nuovo
edificio
ricorda
lui
e
il
giorno
della
sua
morte.
Il
fascicolo
di
Benjamin
rimase
intatto
presso
le
autorità
spagnole.
Un
provvedimento
di
estradizione
impolverato
e
mai
chiuso,
sulla
smisurata
scrivania
della
storia.
L’ingresso
in
Spagna
gli
fu
negato
perché
nei
suoi
documenti
mancava
il
timbro
di
uscita
dalla
Francia.
I
doganieri
spagnoli
perciò
volevano
rispedire
indietro
il
gruppo
il
mattino
dopo,
cosa
che
per
Benjamin
avrebbe
significato
la
consegna
alla
Germania
nazista.
Dove
si
riuscirebbe
a
ricordarlo
meglio
che
qui,
nel
luogo
in
cui
trovò
la
morte?
A
quel
tempo
Portbou
era
una
tappa
per
molti
profughi,
lungo
il
percorso
che
dalla
Spagna
arrivava
al
Portogallo.
L’amica
Hannah
Arendt
lo
superò
senza
problemi,
pochi
mesi
dopo
il
fallimento
di
Benjamin.
La
disposizione
che
prescriveva
il
timbro
di
uscita
era
ormai
stata
abolita.
Hannah
Arendt
non
sapeva
che
Portbou
era
stata
l’ultima
stazione
di
Benjamin.
Si
erano
visti
poche
settimane
prima
a
Lourdes,
dove
erano
fuggiti
lasciando
Parigi
dopo
l’invasione
tedesca
della
Francia.
Hannah
Arendt
racconta
per
iscritto
a
Theodor
W.
Adorno
di
lunghe
conversazioni
durante
interminabili
partite
a
scacchi.
Questo
paese
di
duemila
anime
arroccato
sopra
il
golfo,
lungo
la
selvaggia
costa
spagnola,
le
apparve
come
«uno
dei
posti
più
belli
e
stupefacenti
del
mondo».
Così
può
apparire
a
chi
è
sfuggito
all’inseguimento
dei
nazisti,
giunto
senza
più
fiato
oltre
l’ultima
cresta
dei
Pirenei
–
la
vista
che
finalmente
spazia
libera
sul
mare
e
la
costa
e
su
Portbou,
la
città
spagnola
di
frontiera
con
la
grande
stazione
di
smistamento.
Nessun
racconto
su
questa
via
di
fuga
e
sulla
città
manca
di
accennare
al
diverso
scartamento
ferroviario
utilizzato
nei
due
paesi.
Fortissimo
perciò
è
il
fragore
che
arriva
dalla
stazione,
quando
i
vagoni
sono
spinti
da
un
binario
all’altro.
Mia
moglie
e
mio
figlio
Tom,
nove
anni,
viaggiano
in
macchina
con
me
lungo
la
strada
piena
di
curve
verso
il
lato
francese
dei
Pirenei,
a
Banyuls-sur-Mer,
il
punto
di
partenza
della
fuga
di
Walter
Benjamin.
Da
lì
vogliamo
seguire
il
suo
percorso
in
direzione
di
Portbou.
È
la
prima
settimana
di
ottobre,
e
sono
magnifiche
giornate
di
sole.
Alla
radio
dicono
che
non
si
sono
mai
avute
giornate
tanto
calde
in
questo
momento
dell’autunno.
Mentre
parcheggio
la
macchina
ai
margini
della
città,
mi
chiedo
se
ciò
sia
dovuto
ai
cambiamenti
climatici.
Pochi
metri
dopo
c’è
il
cartello
dove,
a
scelta,
è
possibile
leggere
Chemin
o
Ruta
Walter
Benjamin.
Qui
cominciò
la
fuga
del
piccolo
gruppo
con
Walter
Benjamin
e
Henny
Gurland,
che
aveva
fra
l’altro
lavorato
come
fotografa
per
il
«Vorwärts»
(Avanti)
socialdemocratico
a
Berlino,
e
suo
figlio
Joseph.
I
tre
avevano
viaggiato
insieme
fin
da
quando
si
erano
incontrati
a
Marsiglia.
Li
guidava
Lisa
Fittko,
emigrata
nel
1933
da
Berlino
in
Francia
e
finita
poi
nei
Pirenei.
Lei
e
suo
marito
Hans
conoscevano
bene
le
montagne
della
zona
di
confine
franco-spagnola,
e
salvarono
decine
e
decine
di
persone
dai
nazisti.
Anche
il
«Chemin
Benjamin»
è
un
sentiero
gradinato,
che
potrebbe
aver
fatto
da
modello
per
il
monumento
Passages.
Un
passaggio
ampio
un
metro
che
costeggia
un
muro
di
case,
limitato
a
destra
e
a
sinistra
da
arbusti
rigogliosi
e
folti,
su
cui
getta
ombra
un
tetto
di
fogliame.
Arrivati
in
fondo,
ci
si
inoltra
nei
vigneti.
La
via,
pochi
metri
su
un
fondo
solido
di
calcare
e
sabbia,
serpeggia
con
morbide
curve
su
per
il
Col
de
Rumpira,
alto
seicento
metri,
incontro
alle
cime
azzurre
dei
Pirenei.
Quarant’anni
dopo
Lisa
racconta
il
suo
incontro
con
Walter
Benjamin.
L’idea
di
scrivere
su
questo
un
libro
era
stata
dell’amico
di
Walter,
Gershom
Scholem,
che
viveva
in
Israele.
Nella
piena
delle
pubblicazioni
apparse
nel
1980
non
l’avevo
visto.
E
trascorsero
così
altri
trent’anni,
fin
quando
mi
cadde
fra
le
mani
in
un
negozio
di
antiquariato.
Leggo
il
racconto
di
questo
incontro
distante,
lontanissimo
nel
tempo,
e
immagino
quali
sentimenti
di
paura
e
speranza
l’abbiano
accompagnato.
Sulla
sovraccoperta
c’è
una
fotografia:
Lisa
con
una
sigaretta
all’angolo
sinistro
della
bocca.
Un
leggero
sorriso
sul
bel
volto.
La
testa
inclinata
a
destra,
lo
sguardo
pensoso.
Un’eroina
della
resistenza,
il
cui
libro
e
la
sollecitazione
che
ne
promana
mi
hanno
attratto
fin
qui
a
settant’anni
di
distanza.
Affaticati
e
riscaldati
dal
sole
autunnale,
percorriamo
in
tre
la
Route
F
(F
sta
per
Fittko),
che
Lisa
e
il
suo
gruppo
avevano
preso.
Nel
1940
la
città
portuale
di
Marsiglia
brulicava
di
profughi
dalla
Germania
e
da
tutta
Europa,
fuggiti
dal
Nord
della
Francia
verso
il
Sud
non
ancora
occupato.
Già
prima
dell’invasione
e
dell’armistizio
nel
giugno
1940,
con
la
conseguente
divisione
del
paese,
era
stato
disposto
l’internamento
«di
tutti
i
tedeschi
e
degli
altri
stranieri
in
un’età
fra
i
diciassette
e
i
quarant’anni».
In
seguito
la
disposizione
fu
estesa
alle
persone
fino
ai
sessantacinque
anni.
Ma
c’era
comunque
sempre
il
rischio
di
essere
consegnati
alla
Germania,
anche
dal
Sud
della
Francia
inizialmente
«libero»,
che
portava
il
nome
della
città
di
Vichy.
Non
mancavano
gli
agenti
e
i
delatori
che
per
denaro
tradivano
i
profughi.
Qui
Walter
Benjamin
aveva
nuovamente
incontrato
Hans,
il
marito
di
Lisa
Fittko,
che
conosceva
dal
campo
di
internamento
di
Vernuche.
Entrambi
erano
riusciti
a
uscirne.
Erano
un
centinaio
i
campi
come
quello
di
Vernuche,
destinati
alle
migliaia
di
tedeschi
emigrati
in
Francia
dopo
il
1933.
Un
incontro
casuale
nell’ufficio
dei
sindacati
americani,
che
lavoravano
insieme
a
una
serie
di
altre
organizzazioni
della
resistenza,
come
il
gruppo
socialdemocratico
«Neu
Beginnen»
(Nuovo
inizio),
gli
«American
Friends
of
German
Freedom»
e
la
«HICEM»,
organizzazione
umanitaria
che
assisteva
i
profughi
ebrei.
Dirigeva
l’ufficio
il
giornalista
americano
Varian
Fry
che
in
meno
di
due
anni,
fino
al
suo
arresto
nel
1941,
fece
passare
clandestinamente
dalla
Francia
in
Spagna
più
di
duemila
persone,
e
poi
da
lì
fino
agli
Stati
Uniti.
Molte
furono
accompagnate
oltre
la
frontiera
da
Hans
e
Lisa
Fittko.
L’ufficio
esisteva
già
un
anno
prima
che
gli
Stati
Uniti
entrassero
in
guerra.
Era
stato
fondato
a
New
York
per
consentire
a
eminenti
oppositori
di
Hitler
o
a
ebrei
in
pericolo
di
vita
l’ingresso
negli
Stati
Uniti.
Il
sindaco
di
Banyulssur-Mer
aveva
suggerito
loro
un
nuovo
percorso
tracciandone
uno
schizzo,
perché
il
tratto
che
da
Cerbère
attraversava
i
vigneti,
preferito
da
Lisa,
non
era
più
sicuro.
«Ora
questo»
si
legge
nel
libro
«era
attentamente
vigilato
dalle
“Gardes
mobiles”,
per
ordine
della
Gestapo».
Il
nuovo
e
sicuro
tragitto
si
trova
più
in
alto
ed
è
più
faticoso.
Molte
delle
persone
scortate
da
Lisa
non
erano
fisicamente
in
grado
di
percorrerlo
o
erano
talmente
indebolite
dallo
scarso
nutrimento
che
spesso
si
crearono
situazioni
critiche.
Walter
Benjamin
soffriva
di
una
miocardite
e
doveva
evitare
il
più
possibile
gli
sforzi
eccessivi.
Ma
voleva
andare
a
tutti
i
costi.
«L’importante
è
che
sia
sicuro»
aveva
risposto
quando
Lisa
gli
aveva
illustrato
il
percorso.
Per
tranquillizzarlo,
e
certamente
con
buone
intenzioni,
il
sindaco
consigliò
di
provare
il
primo
terzo
della
via
il
giorno
stesso
del
loro
arrivo
a
Banyuls,
così
da
memorizzarla:
«Una
bella
passeggiata,
un’ora
al
massimo»
aveva
aggiunto.
Per
questo
tragitto
di
prova
Benjamin
impiegò,
come
sappiamo,
più
di
tre
ore.
Pausa
ogni
dieci
minuti
per
calmare
il
cuore.
Settantuno
anni
più
tardi
copriamo
la
stessa
via
nella
metà
del
tempo.
Ma
ogni
pietra
che
ci
fa
scivolare,
ogni
ostacolo
che
ci
si
para
davanti
quando
avanziamo
a
fatica
sugli
erti
pendii,
coperti
di
fitti
vitigni,
e
ogni
interruzione
che
superiamo
a
volte
solo
con
estrema
cautela
e
sostenendoci
con
le
mani,
fanno
capire
cosa
affrontò
Walter
Benjamin.
Mentre
saliamo
mi
chiedo
dove
sarei
stato
durante
quei
quindici
anni,
dal
1918
al
1933,
se
fossi
stato
un
contemporaneo.
I
difficili
anni
dopo
il
1921
e
poi
l’inflazione
nel
1929,
la
disoccupazione,
i
governi
inadeguati,
dappertutto
una
miseria
tangibile
in
un
paese
dilaniato,
il
movimento
nazista
che
cresceva
alle
porte.
Dove
sarei
stato?
Al
fianco
suo
e
a
quello
del
fratello
Georg
e
della
sorella
Dora,
che
si
lasciarono
alle
spalle
la
ricca
dimora
dei
genitori?
Georg
era
membro
del
Partito
comunista
tedesco,
mentre
Walter
si
avvicinò
a
esso
ma
non
vi
entrò
mai,
scettico
sulla
possibilità
che
un
intellettuale
borghese
riuscisse
ad
abbandonare,
o
addirittura
a
cambiare,
la
sua
appartenenza
di
classe.
Gli
pareva
inevitabile
finire
tra
«i
fronti
delle
classi»,
il
cui
scontro
si
attendeva.
Seguo
il
ripido
cammino,
accanto
a
me
c’è
il
piccolo
Tom
e
davanti
mia
moglie
che
avanza
con
passo
leggero.
Non
faccio
che
passare
dalla
concentrazione
sulle
difficoltà
del
cammino
alle
riflessioni
su
Walter
Benjamin,
che
presumibilmente
era
sospinto
dalla
pura
volontà
di
resistere.
Solo
attraverso
i
ricordi
di
Lisa
Fittko
so
qualcosa
della
sua
notte
solitaria
in
cima
alla
montagna.
Da
allora
leggo
su
di
lui
tutto
quel
che
mi
ritrovo
fra
le
mani.
Avevo
scelto
di
seguire
il
cammino
attraverso
i
Pirenei
come
primo
avvicinamento
a
quest’uomo
e
al
suo
destino.
Molte
cose
si
chiarirono
a
poco
a
poco,
anche
la
certezza
di
poter
attraversare
cinque
Germanie
insieme
ai
Benjamin,
Walter
e
Georg,
poi
a
Hilde
e
suo
figlio
Michael
e
la
moglie
di
lui,
Ursula.
Grazie
a
quest’ultima
ho
la
fortuna
di
poter
accedere
al
lascito
di
Hilde,
le
cui
lettere
e
i
molti
documenti
sono
quasi
i
segnavia
di
ciò
che
a
sua
volta
la
segnò.
Il
fratello
e
la
sorella
di
Walter
ci
divengono
noti
soprattutto
attraverso
Hilde,
la
moglie
di
Georg,
e
suo
figlio
Michael,
nato
alla
fine
della
Repubblica
di
Weimar.
E
Walter
Benjamin:
il
suo
influsso
si
estende
nel
ventesimo
e
fin
nel
ventunesimo
secolo.
Coloro
che
alla
fine
degli
anni
Sessanta
del
secolo
scorso
si
rivoltarono
contro
la
silenziosa
generazione
dei
colpevoli,
contro
i
padri
e
i
nonni,
gli
mostrarono
la
loro
gratitudine
per
ciò
che
trovarono
nei
suoi
scritti.
Crearono
curiosità
verso
di
lui.
Oggi
Walter
Benjamin
è
famoso
in
tutto
il
mondo
e
Portbou
è
la
città
che
con
il
monumento
Passages
racconta
la
sua
aura.
Michael
Benjamin,
che
continuò
a
occuparsi
del
celebre
zio
e
del
suo
pensiero,
all’inaugurazione
del
monumento
Passages a
Portbou,
il
15
maggio
1994,
ricordò
che
Benjamin
morì
come
profugo
a
cui
era
stato
negato
asilo.
Anche
oggi
viene
negato
asilo
ai
profughi,
non
solo
in
Europa.
Chi
conta
tutti
quelli
che
attraverso
il
Mediterraneo
sperano
di
raggiungere
le
coste
dell’Italia
e
quindi
l’Europa,
e
pagano
con
la
vita
il
viaggio
su
barconi
pieni
di
falle?
Chi
nonostante
tutto
raggiunge
la
Germania
e
vuole
essere
riconosciuto
come
profugo
politico
ha
davanti
a
sé
un
lungo
cammino
che
quasi
sempre
termina
con
l’espulsione
e
riconduce
quindi
alla
miseria
a
cui
si
era
cercato
di
sfuggire.
Il
diritto
di
asilo
e
la
legislazione
sugli
stranieri
necessitano
urgentemente
di
una
riforma.
Il
monumento
a
Walter
Benjamin
di
Dani
Karavan
è
stato
il
motivo
che
mi
ha
spinto
ad
andare
là.
Altrimenti
non
avrei
forse
mai
visitato
Portbou.
L’autunno
volge
alla
fine,
solo
pochi
turisti
si
aggirano
ancora
per
le
strade.
Dal
mare
soffia
una
leggera
brezza.
Solleva
la
sabbia
e
irrita
gli
occhi.
La
quiete
del
mezzogiorno.
I
negozi
che
sperano
ancora
in
qualche
cliente
a
quest’ora
chiudono
e
non
riapriranno
prima
delle
cinque.
La
Rambla
di
Portbou
invita
all’ombra
dei
suoi
alberi,
con
i
caffè
e
i
ristoranti.
La
piazza
dev’essere
stata
in
ogni
tempo
un
punto
di
attrazione.
Anche
durante
la
guerra
civile
spagnola,
che
nel
luglio
del
1936
prese
il
suo
avvio
nel
Marocco
spagnolo
e
infuriò
fino
all’aprile
del
1939.
Dalla
Francia
giungeva
un
flusso
di
profughi,
già
provenienti
dalla
Germania
e
dall’Austria,
che
dopo
l’avvento
al
potere
dei
nazisti
e
l’annessione
dell’Austria
dovettero
fuggire.
A
migliaia
passavano
ogni
giorno
la
frontiera.
Nella
vecchia
stazione
di
confine
una
mostra
fotografica
ricorda
oggi
il
dramma
di
un
tempo.
Vi
sono
riflesse
la
paura
e
la
miseria
del
cammino
nell’esilio.
Si
vedono
anche
i
bambini,
gli
occhi
grandi
nelle
facce
scavate,
che
spesso
attraversavano
il
confine
senza
i
genitori.
Furono
creati
dei
campi
per
quelli
che
arrivavano
da
soli,
mandati
là
nella
speranza
che
potessero
sfuggire
almeno
agli
sgherri
nazisti
e
sopravvivessero.
Sul
lato
sinistro
della
Rambla,
vicino
al
porto,
c’è
una
stazione
di
polizia,
ed
è
qui
che
Walter
Benjamin
potrebbe
aver
ricevuto
l’ordine
di
ripresentarsi
il
giorno
dopo
per
essere
consegnato
alle
autorità
francesi.
La
pensione
dove
lui
e
i
Gurland
pernottarono
era
dietro
l’angolo,
qualche
passo
addentro
in
una
stradina
laterale
che
sfocia
sulla
Rambla.
Dopo
la
marcia
di
nove
ore
a
piedi
attraverso
le
montagne
Walter
Benjamin
era
completamente
esausto.
Più
di
una
volta
non
sarebbe
riuscito
a
raggiungere
la
meta
senza
il
soccorso
di
Lisa
e
Joseph,
che
un
po’
spingendolo
e
un
po’
sorreggendolo
lo
aiutarono
a
giungere
in
cima
alla
montagna.
Chissà
se
si
sedette
qui,
quasi
disidratato
dal
calore
e
dalla
fatica,
davanti
a
un
bicchiere
d’acqua
o
a
una
limonata?
E
la
sua
situazione
gli
apparve
tanto
disperata
che
il
pensiero
poteva
guardare
solo
in
una
direzione?
Nove
ore
di
tormentoso
tragitto
per
poi
arenarsi
qui?
Non
aveva
la
forza
per
attraversare
indietro
le
montagne,
verso
Banyuls-sur-Mer,
e
tentare
un’altra
volta.
Ma
un
ritorno
forzato
in
Francia
avrebbe
significato
finire
direttamente
in
un
campo
di
sterminio
tedesco.
Contò
le
pastiglie
di
morfina
che
gli
erano
rimaste.
A
Marsiglia,
prima
di
iniziare
il
viaggio
per
Banyuls-sur-Mer,
aveva
incontrato
Arthur
Koestler
e
spartito
con
lui
la
sua
provvista.
Conosceva
Koestler
da
Parigi,
entrambi
avevano
vissuto
nella
stessa
casa
in
rue
Dombasle.
Anche
Koestler
era
diretto
a
Lisbona.
Venticinque
pastiglie
era
quel
che
restava.
Bisognava
prendere
un’ultima
decisione.
Le
autorità
spagnole
produssero
un
certificato
di
morte
a
cui
era
apposto
il
nome
Dr.
Walter
Benjamin
e
seppellirono
l’ebreo
nel
cimitero
cattolico
di
Portbou.
Il
manoscritto
nella
cartella,
definito
più
importante
della
sua
stessa
vita
e
che
non
sarebbe
dovuto
cadere
nelle
mani
della
Gestapo,
non
fu
mai
trovato.
Nessuno
sa
dove
siano
finiti
gli
oggetti
personali
registrati
dalla
polizia
spagnola,
l’orologio
da
tasca
d’oro,
gli
occhiali,
una
radiografia
e
la
pipa.
Chi
li
ha
presi
e
perché?
A
chi
furono
consegnati
e
in
base
a
quale
ordine?
La
sua
morte
continua
a
porre
enigmi.
Chi
cerca
il
monumento
di
Karavan
trova
presto
il
cartello
che
guida
alle
rocce
sopra
la
città.
Al
termine
della
strada
ombreggiata
c’è
un’ultima
curva,
prima
dello
stretto
pozzo
di
ferro
color
ruggine
che
nasconde
gli
scalini
verso
il
mare.
Nessuna
enfasi,
nulla
che
possa
distrarre
dall’aura
di
Walter
Benjamin.
Il
monumento
commemorativo
dista
pochi
metri
dal
piccolo
cimitero
di
urne,
dove
si
trova
la
tomba
allestita
da
un
gentile
guardiano.
Finalmente
poteva
rispondere,
senza
scuotere
le
spalle
in
segno
di
rincrescimento,
quando
i
turisti
gliene
chiedevano
conto.
La
tomba
originaria
era
stata
spianata.
Henny
Gurland
aveva
pagato
la
tassa
per
cinque
anni,
prima
di
continuare
insieme
al
figlio
il
viaggio
verso
il
Portogallo.
Le
guardie
di
confine,
sconvolte
dal
suicidio
di
Benjamin,
avevano
concesso
loro
di
proseguire
il
cammino.
E
quando
negli
anni
Sessanta
e
poi
successivamente
il
flusso
dei
turisti
alla
ricerca
di
Benjamin
crebbe,
l’amministrazione
cittadina
di
Portbou
pose
una
lapide
che
con
grande
ufficialità
ricorda
il
celebre
defunto.
Non
si
sa
dove
sia
stato
originariamente
sepolto.
Dani
Karavan
descrive
ciò
che
lo
spinse
a
far
sorgere
il
monumento
a
pochi
metri
di
distanza
dal
cimitero:
«Là
ho
capito
che
solo
quello
può
essere
il
luogo
che
ricorda
lui
e
la
sua
tragedia
[...].
Il
rumore
dei
treni
provenienti
dalla
grande
stazione
di
confine,
simile
al
rumore
delle
deportazioni
nei
Lager.
La
morte,
la
frontiera,
la
speranza;
non
avevo
altra
scelta,
non
avevo
scelta,
tutto
mi
fu
dettato.
Sapevo
che
il
posto
dell’omaggio
doveva
essere
vicino
al
piccolo
cimitero.
E
poi,
all’improvviso,
la
natura
mi
offre
uno
spettacolo
straordinario
ed
emozionante,
un
vortice
che
dal
mare
si
infrange
tra
le
rocce.
L’acqua
si
agita
impetuosamente,
precipita
scrosciando,
torna
a
balzare
in
alto
con
fragore,
e
poi
silenzio,
pace.
E
di
nuovo
questo
straordinario
spettacolo
si
ripete,
come
il
battito
di
un
cuore
ferito.
Le
onde
colpiscono
le
rocce,
proprio
come
ci
si
colpisce
il
petto».
E
aveva
visto
poi
«l’olivo,
che
per
sopravvivere
lotta
contro
il
vento
carico
di
sale
e
il
terreno
arido»,
e
l’orizzonte,
la
libertà
chiusa
da
una
barriera,
quella
del
cimitero.
E
tutti
questi
elementi,
dice
Karavan,
che
stavano
là
quando
Walter
Benjamin
aveva
cercato
di
raggiungere
la
libertà,
e
anche
prima,
tutti
raccontano
la
storia
tragica
di
quest’uomo.
Le
sensazioni
di
Karavan
si
trasmettono
anche
al
visitatore,
quando
raggiunge
l’ingresso
del
corridoio
di
ferro.
Proprio
come
Karavan,
sente
che
solo
questo
può
essere
il
luogo.
Mi
dirigo
verso
il
piccolo
cimitero
di
urne.
Fiori
freschi
sono
posati
davanti
alla
lapide.
Una
corona
che
sul
nastro
reca
le
parole:
«La
città
di
Portbou
ricorda
il
giorno
della
morte,
26
settembre
1940».
E
ugualmente
davanti
alla
lapide,
come
portata
dal
vento,
la
già
menzionata
cartolina
della
DDR.
Mostra
l’Alexanderplatz
prima
della
riunificazione
dei
due
stati
tedeschi.
Chi
può
averla
messa
là?
Chissà
se
quell’uomo
o
quella
donna,
che
nessuno
conosce,
era
consapevole
della
forza
simbolica
di
questo
piccolo
gesto.
Un
ricordo,
senza
parole,
di
un
paese
scomparso.
«Filosof
alemany»
c’è
scritto
sulla
lapide.
Si
trova
in
cima
al
lato
anteriore
del
cimitero,
disposto
a
gradinate.
Chissà
se
Walter
Benjamin
avrebbe
accettato
di
farsi
inserire
nella
serie
dei
filosofi
tedeschi.
Per
i
catalani,
in
ogni
caso,
ciò
sembra
ovvio.
Anche
Mischa,
suo
nipote,
pone
la
domanda
e
offre
la
risposta
in
un
discorso
per
l’inaugurazione
della
mostra
«Grenzüberschreitungen»
(Passaggi
di
frontiere)
all’Istituto
di
Storia
sociale
di
Amsterdam
il
16
settembre
1993:
«Avrebbe
accettato
questa
definizione
–
lui
che
si
occupò
della
cabala
e
a
lungo
si
sentì
legato
al
sionismo,
e
che
all’ebraismo
lo
fu
per
l’intera
vita?
Lui
che
era
stato
respinto
dall’erudizione
universitaria
e
scacciato
dalla
Germania?
Lui
che
la
Gestapo
ricercò?
Che
amò
vivere
a
Parigi
e
si
sentiva
affine
ai
francesi
Charles
Baudelaire
e
Marcel
Proust?
Che
pensava
in
contesti
storici
mondiali?».
Eppure
mi
azzarderò
ad
affermare
che
Walter
Benjamin
avrebbe
accettato
questa
definizione.
Davanti
ai
suoi
occhi
c’era
un
altro
genere
di
identità
tedesca
rispetto
a
quella
vigente
allora,
sotto
il
«fragore
saltellante
dei
pezzi
d’ossa
battuti»,
come
scrisse
sua
cugina
Gertrud
Kolmar,
anch’essa
una
combattente
della
parola
la
cui
forza
poetica,
al
pari
della
sua,
si
manifestò
solo
dopo
la
sua
morte
e
la
liberazione
dal
nazifascismo.
Certo
un’altra
identità
tedesca
rispetto
a
quella
che
oggi
comincia
a
ripresentarsi
sotto
elmi
azzurri
o
di
altro
colore,
e
a
cui
il
mondo
dovrà
abituarsi.
La
maniera
«tedesca»
di
pensare
che
fu
propria
a
Benjamin
non
era
affatto
quella
che
oggi
torna
a
mostrarsi
«out
of
area»
e
fuori
dai
confini
tedeschi.
Anch’io
sto
davanti
al
luogo
della
memoria,
come
fece
un
tempo
Michael
Benjamin,
e
poi
in
tre
ci
dirigiamo
a
Banyuls
per
seguire
la
Ruta
Walter
Benjamin.
Per
il
tragitto
di
ritorno
da
Portbou
a
Banyulssur-Mer
Lisa
Fittko
ebbe
bisogno
di
due
ore.
E
ricordava
l’infinito
sollievo
provato
al
pensiero
di
aver
portato
con
sicurezza
alla
meta
il
piccolo
gruppo.
Solo
qualche
giorno
più
tardi
venne
a
sapere
del
suicidio
del
«vecchio»
Benjamin,
del
quale
ammirava
il
«pensiero
cristallino
e
l’irriducibile
forza
interiore»,
e
la
cui
evidente
inettitudine
alla
vita
tornava
spesso
a
strapparle
un
sorriso.
Ci
abbandoniamo
ai
nostri
pensieri.
Sulla
via
del
ritorno
Tom
va
avanti
e
indietro,
fra
mia
moglie
e
me,
e
raddoppia
così
il
cammino.
Lei
–
sia
in
discesa
che
in
salita
–
è
sempre
avanti,
senza
fatica.
Tom
mantiene
il
contatto.
La
calura
è
diminuita,
una
leggera
brezza
ci
porta
un
po’
d’aria.
Il
sentiero
in
salita
aveva
stancato
Tom.
Più
volte
ho
dovuto
incoraggiarlo
a
staccarsi
dal
punto
in
ombra
che
gli
offriva
un
po’
di
frescura.
Sollecitando
quindi
in
lui
la
domanda
scettica
su
come
sapessi
che
proprio
quella
era
la
via
presa
«dal
signor
Benjamin».
E
come
conoscevo
lui
e
la
sua
fuga.
E
se
aveva
dei
figli.
E
io
gli
racconto
quello
che
so,
anche
della
sua
celebre
raccolta
di
libri
per
l’infanzia,
e
di
quanto
amasse
i
bambini.
Chi
ricorda
Walter
Benjamin
e,
senza
lasciarsi
intimidire
dalla
frequente
difficoltà
delle
sue
opere,
ha
colto
l’occasione
di
incontrarlo,
non
seguirà
la
tentazione
di
vagare
nel
passato
ma
ordinerà
testi
e
aforismi
nel
corpo
stesso
del
presente.
Come
il
celebre
saggio
L’opera d’arte nell’epoca
della sua riproducibilità
tecnica,
che
parla
del
modo
in
cui
il
film
sonoro
soppiantò
il
muto,
rafforzando
ancora
di
più
il
potere
delle
immagini.
La
sua
invenzione
avvenne
al
tempo
del
grande
dibattito
ideologico
del
ventesimo
secolo.
Il
ministro
della
Propaganda
hitleriano,
Joseph
Goebbels,
riconobbe
la
seduzione
resa
possibile
dal
nuovo
mezzo,
e
lo
utilizzò
per
i
suoi
scopi.
Molto
di
quello
che
Benjamin
con
grande
acutezza
disse,
analizzando
le
bande
di
assassini
che
circondavano
Hitler,
offriva
già
una
risposta
a
domande
che
sarebbero
sorte
da
tutto
ciò,
ma
vennero
formulate
troppo
tardi.
Il
programma
di
erigere
questo
luogo
del
ricordo
rischiò
fortemente
di
fallire.
Nel
1991
tutto
sembrava
chiarito.
Il
Ministero
degli
Esteri
a
Bonn
era
pronto
a
finanziare
con
un
milione
di
marchi
il
progetto
e
l’esecuzione
del
monumento
Passages
di
Dani
Karavan.
Le
idee
dell’artista
avevano
incontrato
un’approvazione
unanime.
Molti
videro
in
ciò
il
distacco
da
una
discussione
su
monumenti
e
luoghi
commemorativi
per
le
vittime
del
regime
nazista
che
equiparava
ancora
ogni
morto,
carnefice
o
no.
Il
contributo
dei
politici
era
spesso
qualcosa
che
bisognava
temere,
come
scriveva
la
«Frankfurter
Allgemeine
Zeitung»
nel
1991:
«Un
terribile
barcamenarsi
tra
vittime
e
carnefici,
con
zone
grigie
in
cui
persino
le
Waffen-SS
erano
certe
della
devota
indulgenza
che
avrebbero
ricevuto».
Il
quotidiano
di
Francoforte
celebrava
il
progetto
di
Karavan
come
«il
superamento
dell’illustrazione,
così
come
dell’astrazione:
un
dialogo
con
le
figure
del
pensiero
di
Benjamin
e
le
metafore
del
passaggio
di
frontiera,
un
momento
senza
monumentalità
stentorea,
un
esempio
di
un
rapporto
preciso
e
complesso
con
il
paesaggio
e
i
ricordi
del
posto».
La
sollecitazione
a
creare
il
luogo
della
memoria
era
venuta
da
Richard
Weizsäcker,
allora
presidente
della
Repubblica
Federale.
L’inaugurazione
era
prevista
per
l’estate
1992.
Weizsäcker
aveva
invitato
il
suo
omologo
israeliano,
Chaim
Herzog,
come
quest’ultimo
comunicò
per
lettera
a
Dani
Karavan.
La
posa
della
prima
pietra
ebbe
luogo
nel
settembre
1991.
Alla
cerimonia
a
Portbou
vennero
letti
messaggi
di
saluto
da
parte
del
presidente
von
Weizsäcker,
del
ministro
della
Cultura
spagnolo,
lo
scrittore
Jorge
Semprún,
e
del
suo
omologo
francese
Jack
Lang.
I
resoconti
in
Spagna
e
in
Germania
furono
esaurienti
e
apprezzabili.
Nonostante
l’impegno
del
Ministero
degli
Esteri,
il
cui
finanzamento
appariva
certo,
all’improvviso
si
moltiplicarono
gli
ostacoli.
La
Corte
dei
Conti
federale
era
–
con
evidente
intenzione
–
erroneamente
informata.
E
fu
perciò
inevitabile
quel
che
ne
seguì,
cioè
il
titolo
del
quotidiano
scandalistico
«Bild»:
«Quasi
un
milione
per
una
targa».
Il
rotocalco
«Neue
Revue»
mise
il
ministro
degli
Esteri
Genscher
nella
fila
dei
«peggiori
dilapidatori
di
tasse».
La
rivista
pubblicò
una
foto
della
semplice
pietra
che
la
comunità
di
Portbou
aveva
offerto
nel
1990
a
proprie
spese
per
il
cinquantesimo
anniversario
della
morte
di
Walter
Benjamin.
Fu
suscitata
l’impressione
che
per
quella
pietra
si
dovesse
spendere
un
milione
di
marchi.
La
Corte
dei
Conti
aveva
contestato
che
la
«cura
di
una
tomba»
fosse
diventata
«un
progetto
milionario».
Anziché
chiarire
la
questione
l’allora
ministro
degli
Esteri,
Hans-Dietrich
Genscher,
cancellò
ufficialmente
l’incarico.
La
Repubblica
Federale
rischiava
di
fare
una
gran
brutta
figura.
Le
regioni
dell’Assia
e
del
Baden-Württemberg,
che
inizialmente
avevano
voluto
sostenere
una
piccola
parte
dei
costi,
decisero
di
assumersi
tutto
l’onere.
Walter
Benjamin
aveva
lasciato
le
sue
tracce
in
entrambi
i
Länder.
Aveva
trascorso
alcuni
semestri
di
studio
a
Heidelberg.
A
Francoforte
aveva
vissuto
una
grande
delusione,
quando
la
sua
tesi
di
abilitazione
alla
libera
docenza
sull’Origine del dramma
barocco tedesco
era
stata
respinta
dall’università.
Inoltre
era
stato
collaboratore
del
celebre
Istituto
per
la
ricerca
sociale
di
Francoforte.
In
ogni
caso
i
due
Länder
risparmiarono
alla
Repubblica
Federale
Tedesca
un
grande
imbarazzo.
La
realizzazione
del
progetto
di
Karavan
subì
un
ritardo
di
due
anni.
La
«Frankfurter
Allgemeine
Zeitung»
congetturò
una
campagna
di
disinformazione,
guidata
dal
Ministero
degli
Esteri.
Coloro
che
l’avevano
ordita
restarono
sullo
sfondo.
Il
monumento
fu
costruito
e
ultimato
nel
maggio
1994.
Ci
fu
una
cerimonia
alla
quale
intervennero
i
presidenti
dei
due
Länder,
Hans
Eichel
per
l’Assia
e
Erwin
Teufel
per
il
BadenWürttemberg.
Erano
stati
invitati
anche
Dani
Karavan
e
Michael
Benjamin,
sua
moglie
Ursula
e
i
figli
e
i
nipoti
in
età
adulta.
Era
arrivata
anche
Lisa
Fittko.
Michael
Benjamin
appariva
profondamente
commosso
dalla
presenza
ufficiale
della
comunità
catalana
degli
ex
prigionieri
del
campo
di
concentramento
di
Mauthausen,
dove
suo
padre
Georg,
il
fratello
di
Walter,
era
stato
ucciso.
Avevano
contribuito
a
finanziare
l’opera.
Lisa
Fittko
era
giunta
sola
da
New
York
a
Portbou.
Suo
marito
Hans
era
morto.
La
loro
fuga
allora,
attraverso
Cuba
e
fino
a
New
York,
sarebbe
una
storia
a
sé.
Entrambi
fanno
parte
di
quegli
eroi
silenziosi
che
agirono
quando
altri
si
nascosero.
Il
calcolo
di
quanti
volevano
sabotare
tutto
questo
non
si
è
realizzato.
Il
monumento
e
la
sua
forma
espressiva
hanno
trasmesso
l’esperienza
dell’esilio.
Dovevano
passare
altri
venti
anni
prima
che
la
storia
del
Ministero
degli
Esteri
e
il
suo
coinvolgimento
nello
stato
nazista
fossero
studiati
ed
elaborati.
Das
Amt
und
die
Vergangenheit
(Il
Ministero
e
il
passato)
è
il
sobrio
titolo
di
un
voluminoso
libro.
Esso
chiarisce
l’estrema
vicinanza
del
Ministero
e
di
molti
dei
suoi
membri,
dopo
il
1933,
agli
obiettivi
dello
stato
nazionalsocialista.
Anche
la
loro
adesione
all’ideologia
della
razza
e
a
un
antisemitismo
diffuso
fra
i
diplomatici
prevalentemente
dal
sangue
blu.
L’intrigo
del
1991
fu
probabilmente
uno
degli
ultimi
frutti
del
coinvolgimento
«bruno»
all’interno
del
Ministero.
L’analisi
approfondita
della
sua
storia,
durante
i
dodici
anni
della
dittatura
nazista,
trova
un
commento
adeguato
in
Walter
Benjamin:
«Non
è
mai
un
documento
della
cultura
senza
essere
insieme
un
documento
della
barbarie.
E
come
non
è
esente
da
barbarie
esso
stesso,
così
non
lo
è
neppure
il
processo
della
trasmissione
per
cui
è
passato
dall’uno
all’altro».
Cosa
rappresentano
i
Benjamin,
i
due
fratelli
e
la
sorella
Dora?
Furono
perseguitati,
umiliati,
e
non
cedettero.
Come
Gertrud
Kolmar,
la
cugina
di
Walter,
Georg
e
Dora,
la
poetessa
la
cui
arte
Michael
Benjamin
ammirava:
uccisa
a
Auschwitz.
E
Hilde,
che
sopravvisse
a
tutti,
la
giovane
donna
con
la
pelle
scura
e
i
capelli
color
pece,
chiamata
a
scuola
«l’indiana»,
con
la
sua
patente
di
«arianità»
che
offrì
una
protezione
al
figlio.
Nelle
sue
lettere
e
nei
biglietti
traspare
una
speranza
che
non
si
compie
quasi
mai.
Come
suo
marito
Georg,
Hilde
è
membro
del
movimento
comunista
mondiale,
manovrato
da
Mosca.
Mostra
il
suo
coraggio
civile,
si
mantiene
fedele
ai
parenti
e
agli
amici
ebrei,
e
tuttavia
non
può
impedire
che
questi
siano
consegnati,
l’uno
dopo
l’altro,
alla
macchina
nazista
della
morte.
Più
di
settant’anni
dopo
la
fine
della
guerra
e
il
superamento
della
divisione
europea
sembrava
che
il
capitalismo
avesse
trionfato.
Questa
valutazione,
accolta
da
molti,
si
è
incrinata.
Insoddisfazione
per
la
politica
e
stanchezza
della
democrazia
aumentano.
Un
segno
tipico
di
questo
è
lo
slittamento
a
destra
che
dagli
Stati
Uniti
e
il
Tea
Party
arriva
fino
in
Russia,
dove
un
presidente
disorientato
vuole
spezzare
la
voglia
di
libertà
della
giovane
generazione.
Come
un’epidemia,
l’estremismo
di
destra
si
aggira
spettralmente
per
l’Europa.
E,
nel
contempo,
si
avverte
la
ricaduta
negli
egoismi
nazionali.
In
gioco
c’è
niente
di
meno
che
l’integrazione
europea.
È
tempo
di
riflettere.
Il
capitalismo
in
crisi?
Con
la
fine
del
mondo
bipolare
era
scomparso
anche
il
capitalismo
renano
e
democratico,
che
sosteneva
l’economia
sociale
di
mercato.
La
globalizzazione
l’ha
cancellato,
e
da
allora
il
numero
delle
sue
vittime
cresce,
come
quello
dei
giocolieri
della
finanza
e
di
quelli
che
nelle
banche
traggono
vantaggio
dalla
crisi
e
sarebbero
pronti
a
scommettere
persino
sulla
propria
fine,
se
in
questo
modo
fosse
possibile
far
balzare
al
venticinque
per
cento
il
volume
delle
rendite.
Si
cercano
alternative
che
potrebbero
escludere
una
cosa
del
genere.
È
stata
l’unica
rivoluzione
senza
spargimento
di
sangue
a
noi
nota,
e
ha
avuto
luogo
proprio
in
Germania,
dove
si
pensava
in
termini
di
alternative.
Non
c’era
discorso
ufficiale
nel
paese
riunificato
in
cui
non
fosse
ricordata
la
«rivoluzione
pacifica».
In
realtà
si
tende
a
dimenticare
che
gli
iniziatori
di
questa
rivoluzione
speravano
di
trasformare
la
DDR,
e
non
pensavano
né
all’annessione
né
al
capitalismo
come
forma
sociale.
Vale
la
pena
di
rileggere
il
lascito
dei
rivoluzionari
pacifici.
Hanno
scritto
molte
cose
a
cui
oggi
si
potrebbe
apporre
il
timbro
«pratica
da
ripresentare».
Per
esempio
l’appello
con
cui
si
annunciava
la
fondazione
di
«Aufbruch
89
–
Neues
Forum»
(Risveglio
89
–
Nuovo
Forum),
il
10
settembre
1989:
«Vogliamo
un
margine
di
azione
per
l’iniziativa
economica,
ma
non
la
degenerazione
verso
una
società
di
competizione
selvaggia.
Vogliamo
mantenere
ciò
che
è
collaudato
e
creare
tuttavia
spazio
per
il
rinnovamento,
per
vivere
con
più
sobrietà
e
in
maniera
meno
ostile
alla
natura.
Vogliamo
rapporti
ordinati,
ma
nessuna
tutela.
Vogliamo
individui
liberi
e
consapevoli
di
sé,
che
però
agiscano
in
uno
spirito
di
collettività.
Vogliamo
essere
protetti
dalla
violenza,
ma
non
dover
sopportare
uno
stato
di
scagnozzi
e
spie.
Sfaticati
e
gradassi
devono
essere
allontanati
dai
posti
che
ricoprono
senza
fare
nulla,
ma
non
vogliamo
procurare
con
questo
svantaggi
a
persone
inermi
o
in
posizione
socialmente
debole».
Tutto
ciò
parla
della
speranza
di
trasformare
radicalmente
il
proprio
stato
in
senso
democratico
e
socialmente
equo,
come
alternativa
alla
Repubblica
Federale
capitalista.
Non
se
ne
fece
nulla.
E
tuttavia,
chi
come
Michael
Benjamin
chiede
se
la
DDR
abbia
lasciato
qualcosa,
troverebbe
molto
nel
lascito
della
rivoluzione
pacifica.
Walter
Benjamin
l’ha
anticipata.
«Occorre
mettere
fine
alla
sterile
pretesa
di
offrire
soluzioni
valide
per
l’umanità,
e
in
generale
all’immodesta
prospettiva
di
“sistemi
totali”,
facendo
almeno
il
tentativo
di
costruire
la
vita
degli
uomini
in
modo
tale
che
possa
scorrere
con
la
stessa
tranquillità
con
cui
affronta
le
proprie
giornate
un
uomo
ragionevole
che
abbia
ben
dormito».
Postfazione
Il
processo
contro
Clandestinità
nazionalsocialista
(Nationalsozialistischer
Untergrund,
NSU)
e
Beate
Zschäpe
e
i
suoi
complici16
ha
sollecitato
a
prendere
in
esame,
accanto
al
momento
attuale,
anche
il
periodo
postbellico
della
Repubblica
Federale.
Si
tratta
anche
di
vedere
come
la
storia
nazionalsocialista
sia
stata
elaborata
nei
primi
decenni
dopo
il
1945
nei
due
stati
tedeschi.
È
documentato
come
in
Occidente
la
classe
dirigente
nazista
abbia
potuto
diventare
di
fatto
la
nuova
élite.
Non
lo
è
invece
la
continuità
che
si
estese
ai
campi
della
giustizia,
dell’amministrazione
e
dell’economia,
e
nell’elaborazione
della
memoria
di
quei
dodici
anni
di
terribile
storia
tedesca.
Oggi
disponiamo
di
studi
come
quello
sul
Ministero
degli
Esteri
e
il
suo
passato.
Essi
mostrano
quanto
a
lungo,
anche
dopo
il
1949,
i
quadri
del
Partito
nazionalsocialista
abbiano
continuato
a
comandarvi.
O
come
la
ricerca
in
tre
volumi
sul
coinvolgimento
del
Bundeskriminalamt,
che
per
un
certo
tempo
fu
una
copia
dall’Ufficio
centrale
per
la
sicurezza
del
Reich.
Ora
tocca
al
Ministero
della
Giustizia
e
dunque
al
tema
dell’assunzione
diretta
della
Giustizia
nazista
e
dei
suoi
giudici
e
procuratori
nello
stato
democratico.
I
servizi
segreti
a
Pullach
consentono
che
la
loro
storia
postbellica
sia
esaminata,
e
anche
questo
mostrerà
come
le
vecchie
élite
si
fossero
impadronite
del
nuovo
stato.
Soprattutto
negli
anni
Cinquanta
e
Sessanta
la
Repubblica
Federale
sembrava
la
continuazione
dello
stato
nazista
immersa
nell’atmosfera
di
uno
Heimatfilm,
soltanto
senza
Hitler
e
Goebbels.
Nessuno
dei
due
stati
tedeschi,
dopo
il
1945,
poté
uscire
dall’ombra
degli
interessi
della
sua
potenza
guida,
tale
era
il
reciproco
invischiamento
fra
le
due
grandi
potenze
durante
la
guerra
fredda.
Non
era
un’epoca
che
potesse
stimolare
il
lavoro
del
ricordo,
che
per
frammenti
si
impone
oggi
come
una
necessità.
I
Benjamin,
una
famiglia
tedesca.
Le
loro
vite
stanno
contro
la
rimozione
e
una
retorica
che
torna
a
gonfiarsi
di
nazionalismo.
16
Il
processo
contro
Beate
Zschäpe
e
gli
altri
quattro
membri
della
cellula
terroristica
nazista,
accusati
dei
dieci
omicidi
a
sfondo
razzista
che
a
lungo
scossero
la
Germania,
si
è
aperto
nel
maggio
2013
a
Monaco
[N.d.T.].
Bibliografia
e
fonti
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Tiedemann
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all’epoca
della
sua
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vergesse... Erinnerungen an
Gerhart Hauptmann, Thomas
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Leben
der
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dem
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Sebastian,
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was sie wurden. Ärzte und
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Pingel-Schliemann,
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Zersetzen. Strategie einer
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Berlin
2002
Puttnies,
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Smith,
Gary,
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Eine
biographische
Giessen
1991
Recherche,
Rosh,
Lea;
Jäckel,
Eberhard,
«Der Tod ist ein Meister aus
Deutschland».
Deportation
und Ermordung der Juden;
Kollaboration
und
Verweigerung in Europa,
Hamburg
1990
Schreiber,
Jürgen,
Die Stasi
lebt. Berichte aus einem
unterwanderten
Land,
München
2009
Schädlich,
Susanne,
Immer
wieder Dezember. Der Westen,
die Stasi, der Onkel und ich,
München
2009
Schöck-Quinteros,
Eva,
Dora
Benjamin: «... denn ich hoffe
nach dem Krieg in Amerika
arbeiten
zu
können».
Stationen einer vertriebenen
Wissenschaftlerin
(19011946),
in
Barrieren und
Karrieren: Die Anfänge des
Frauenstudiums
in
Deutschland,
volume
pubblicato
in
occasione
del
convegno
«100
Jahre
Frauen
in
der
Wissenschaft»
(100
anni
di
donne
nella
scienza)
tenutosi
nel
febbraio
1997
all’Università
di
Brema,
a
cura
di
Elisabeth
Dickmann
e
Eva
Schöck-Quinteros,
con
la
collaborazione
di
Sigrid
Dauks,
Berlin,
Trafo-Verlag
Weist,
2000,
2a
ed.
2002
(Schriftenreihe
des
HedwigHintze-Instituts
Bremen,
vol.
5,
pp.
71-102.
L’articolo
è
disponibile
all’indirizzo
http://www.hhi-bremen.de).
Sommer,
Theo,
1945. Die
Biographie
eines
Jahres,
Hamburg
2005
Spira,
Leopold,
Feindbild
«Jud». 100 Jahre politischer
Antisemitismus in Österreich,
Wien/München
1981
Stern,
Carola,
In den Netzen
der
Erinnerung.
Lebensgeschichten
zweier
Menschen,
Hamburg
1989
Stulz-Herrnstadt,
Nadja;
Hernnstadt,
Rudolf
(a
cura
di),
Das
HerrnstadtDokument. Das Politbüro der
SEDunddieGeschichtedes17.
Juni1953,
Hamburg
1990
Treß,
Werner,
«Wider den
undeutschen
Geist».
Bücherverbrennung
1933,
Berlin
2003
Winter,
Irena,
Georg
Benjamin,
Arzt
und
Kommunist,
Berlin
1965
Widerstand und Exil der
Deutschen Arbeiterbewegung
1933-1945,
a
cura
di
Bundeszentrale
für
politische
Bildung
Wissenschaft und Gesellschaft
in der DDR,
eingeleitet
von
Christian
Ludz,
München
1971
Wojak,
Irmtrud,
Fritz Bauer
1903-1968,
München
2011
Wolf,
Christa,
EinTagimJahr,
München
2003 (Un giorno
all’anno 1960-2000,
trad.
e
cura
di
Anita
Raja,
Edizioni
e/o,
Roma
2006)
Wolf,
Christa,
Rede, daß ich
dichsehe,
Berlin
2012
Wolf,
Christa,
Stadt der Engel
oder The Overcoat of Dr.
Freud,
Berlin
2010
(La città
degli angeli,
trad.
e
cura
di
Anita
Raja,
Edizioni
e/o,
Roma
2012)
Le
lettere,
i
diari
e
i
biglietti
di
Georg
e
Hilde
Benjamin
provengono
dall’archivio
privato
di
Ursula
Benjamin,
Berlino.
Le
lettere
citate
di
Dora
a
Walter
Benjamin
sono
conservate
nell’archivio
della
Akademie
der
Künste
di
Berlino.
Il
capitolo
«Dove
resta
Dora?»
segue
ampiamente
nella
struttura,
nel
testo
e
nelle
fonti
il
saggio
di
Eva
SchöckQuintero
sopra
citato.
Per
le
traduzioni
dei
brani
citati
sono
state
utilizzate,
oltre
alle
opere
già
indicate
in
bibliografia,
anche
le
seguenti
versioni
italiane:
Arendt,
Hannah,
Ritorno in
Germania,
traduzione
di
Pierpaolo
Ciccarelli,
Donzelli,
Roma
1996
Benjamin,
Walter,
Cronaca
berlinese,
in
Opere complete,
ed.
cit.,
vol.
V,
2003
Benjamin,
Walter,
Immagini
di città,
trad.
di
Marisa
Bertolini,
Nuova
edizione
a
cura
di
Enrico
Ganni,
Einaudi,
Torino
2007
Benjamin,
Walter,
Strada a
senso unico,
Nuova
edizione
accresciuta,
a
cura
di
Giulio
Schiavoni,
Einaudi,
Torino
2006
Brecht,
Bertolt,
Poesie
politiche,
a
cura
di
Enrico
Ganni,
Einaudi,
Torino
2014
Kolmar,
Gertrud,
Il canto del
gallo nero,
traduzione
di
Giuliana
Pistoso,
Essedue,
Verona
1990
Indice
dei
nomi
Abel,
Rudolf
Adenauer,
Konrad
Adorno,
Gretel
Adorno,
Theodor
W.
Albers,
Hans
Alexander,
Eduard
Alexander,
Sophie
Andropov,
Jurij
Arendt,
Hannah
Augstein,
Rudolf
Bahr,
Egon
Barbie,
Klaus
Bartsch,
Kurt
Baudelaire,
Charles
Bauer,
Fritz
Beach,
Sylvia
Becher,
Johannes
R.
Becker,
Jurek,
Becker,
Verena
Beethoven,
Ludwig
van
Bendix,
Emma
Benjamin,
Dora
Benjamin,
Emil
Benjamin,
Georg
Benjamin,
Georg
(Grischa)
Benjamin,
Hilde
(Helene
Marie
Hildegard)
Benjamin,
Jakob
Benjamin,
Laura
Benjamin,
Michael
Benjamin,
Pauline
Benjamin,
Peter
Benjamin,
Simone
Benjamin,
Stefan
Rafael
Benjamin,
Ursula
Benjamin,
Walter
Berger,
Götz
Beyer,
Frank
Bierbichler,
Josef
Biermann,
Wolf
Blankenhorn,
Herbert
Bloch,
Ernst
Bonhoeffer,
Dietrich
Bormann,
Martin
Börne,
Ludwig
Brandt,
Willy
Brasch,
Thomas
Braun,
Volker
Bräunig,
Werner
Brecht,
Bertolt
Brentzel,
Marianne
Brežnev,
Leonid
Brie,
André
Bruck,
Edith
(Fürst)
Bruck,
Emanuel
Brumlik,
Micha
Bruyn,
Günter
de
Carow,
Heiner
Černenko,
Konstantin
Chautemps,
Camille
Chodziesner-Kolmar,
Gertrud
Chruščev,
Nikita
Czerny,
Jochen
Dam,
Hendrik
George
van
Diehl,
Günter
Dohnanyi,
Hans
von
Dreher,
Eduard
Dürrenmatt,
Friedrich
Dutscke,
Rudi
Eichel,
Hans
Eichmann,
Adolf
Eigruber,
August
Eisenhower,
Edward
D.
Ellermann,
Winifred
Emmerich,
Fritz
Ensslin,
Gudrun
Erzberger,
Matthias
Falckenberg,
Otto
Favez,
Juliane
Fechner,
Max
Federico
Guglielmo,
re
Federico
Guglielmo,
principe
Feuchtwanger,
Lion
Fittko,
Hans
Fitto,
Lisa
Fontane,
Theodor
Fränkel,
Fritz
Fränkel,
Hilde
Frei,
Norbert
Freisler,
Roland
Freud,
Sigmund
Freund,
Gisèle
Fry,
Varian
Fuld,
Werner
Fürst,
Edith,
v.
Bruck,
Edith
Fürst,
Rosa
Gehlen,
Reinhard
Genscher,
Hans-Dietrich
Globke,
Hans
Maria
Goebbels,
Joseph
Gorbačev,
Mikhail
Göring,
Hermann
Gossweiler,
Kurt
Grotewohl,
Otto
Gumbel,
Emil
Julius
Gumpert,
Martin
Günther,
Egon
Gurland,
Henny
Gurland,
Joseph
Gutkind,
Curt
Sigmar
Gutkind-Kutzer,
Laura-Maria
Habermas,
Jürgen
Hachmeister,
Lutz
Hacks,
Peter
Harich,
Wolfgang
Hase,
Karl
Paul
Immanuel
von
Hauptmann,
Gerhart
Hein,
Christoph
Heine,
Heinrich
Held,
Käte
Hellmert,
Wolfgang
Herrnstadt,
Rudolf
Herzog,
Chaim
Heydrich,
Reinhard
Heym,
Stefan
Hiller,
Kurt
Hitler,
Adolf
Honecker,
Erich
Honecker,
Margot
Horkheimer,
Max
Huchel,
Peter
Janka,
Walter
Joel,
Ernst
Juncker,
Jean-Claude
Just,
Gustav
Kant,
Immanuel
Karavan,
Dani
Kaufmann,
Sigmund
Kautsky,
Karl
Kennedy,
John
F.
Kipphardt,
Heiner
Kirchner,
Ernst
Ludwig
Kisch,
Egon
Erwin
Klee,
Paul
Koestler,
Arthur
Kogon,
Eugen
Kolmar,
Gertrud,
v.
Chodziesner-Kolmar,
Gertrud
Kraft,
Waldelmar
Kraft,
Werner
Krahl,
Hans-Jürgen
Kramer,
Sven
Kranewitz,
Walter
Krause,
Günther
Krenz,
Egon
Kunert,
Günther
Lacis,
Asja
Lang,
Jack
Lange,
Adele
Lange,
Heinz
Lange,
Helene
Lange,
Hilde,
v.
Benjamin,
Hilde
Lange,
Ruth
Lange,
Walter
Leander,
Zarah
Leonhard,
Wolfgang
Leverkuehn,
Paul
Liebknecht,
Karl
Linthe,
Maja
Litten,
Hans
Loest,
Erich
Lötzsch,
Gesine
Luisa,
regina
di
Prussia
Luxemburg,
Rosa
Maetzig,
Kurt
Mahnke,
Horst
Maizière,
Lothar
de
Majakovskij,
Vladimir
Mann,
Heinrich
Mann,
Klaus
Mann,
Thomas
Manstein,
Erich
von
Marcuse,
Herbert
Marx,
Karl
Mauas,
David
Mayer,
Hans
Mehring,
Walter
Meinhof,
Ulrike
Melsheimer,
Ernst
Mengele,
Josef
Merkel,
Angela
Mielke,
Erich
Mitscherlich,
Alexander
Mitscherlich,
Margarete
Monnier,
Adrienne
Muhs,
Karl
Mühsam,
Heiner
Negt,
Oskar
Neumann,
Fränze
Noske,
Gustav
Oberländer,
Theodor
Ohnesorg,
Benno
Ossietzky,
Carl
von
Oster,
Hans
Pieck,
Wilhelm
Piscator,
Erwin
Poelchau,
Harald
Pollak
(nata
Kellner),
Dora
Sophie
Powers,
Francis
Gary
Pritt,
Denis
Nowell
Proust,
Marcel
Puttnies,
Hans
Rabehl,
Bernd
Ranke,
Hans
Rathenau,
Walther
Reinhardt,
Max
Reitz,
Edgar
Remer,
Otto
Ernst
Riedel,
Heinz
Gerhard
Rökk,
Marika
Ruge,
Eugen
Ruge,
Wolfgang
Rühmann,
Heinz
Schädlich,
Hans
Joachim
Schaüble,
Wolfgang
Scheidemann,
Philipp
Schnitzler,
Arthur
Schoenbachler,
G.
A.
Scholem,
Gerhard
(Gershom)
Scholl,
Hans
Scholl,
Sophie
Schönflies,
Elise
Schönflies,
Simon
Markus
Selz,
Jean
Semprún,
Jorge
Siebenhaar,
Klaus
Siering,
Friedemann
Simon,
Anette
Simon,
James
Six,
Franz
Alfred
Smith,
Gary
Snopek,
Betty
Snopek,
Ludwig
Snopek,
Philip
Snopek,
Sara
Stalin,
Josef
Stauffenberg,
Claus
Schenk
von
Stavisky,
Serge
A.
Stolleis,
Michael
Strasser,
Ernest
Strauss,
Lili
Strauß,
Franz
Josef
Teufel,
Erwin
Thälmann,
Ernst
Thurau,
Egon
Tucholsky,
Kurt
Tüngel,
Richard
Ulbricht,
Lotte
Ulbricht,
Walter
Wagenknecht,
Sahra
Waldoff,
Claire
Wander,
Maxie
Weil,
Felix
Weil,
Hermann
Weill,
Kurt
Weizsäcker,
Richard
von
Wessel,
Horst
Wolf,
Christa
Wolf,
Friedrich
Wolf,
Konrad
Wolfers,
Luise
Wolff,
Frank
Wolff,
Georg
Wolff,
Karl
Dietrich
Wolff,
Reinhart
Wunsch,
Hilde
Wüste,
Ernst
Wüste,
Werner
Wyneken,
Gustav
Yorck
von
Wartenburg,
Peter
Zetkin,
Clara
Zille,
Heinrich
Zinn,
Georg
August
Zivier,
Georg
Zschäpe,
Beate
Zucker,
Samuel
Žukov,
Georgij
Ringraziamenti
Un
libro
di
questo
genere
ha
bisogno
dell’aiuto
di
altre
persone.
Ringrazio
innanzitutto
Franziska
Günther,
la
mia
intelligente
e
ostinata
redattrice,
i
cui
consigli
hanno
contribuito
all’equilibrio
del
racconto.
E
naturalmente
Ursula
Benjamin,
che
mi
ha
donato
la
fiducia
di
poter
affrontare
adeguatamente
questo
tema,
aprendomi
il
lascito
che
ha
reso
possibile
il
libro.
L’amico
Gerd
Weiberg,
che
con
la
sua
grande
conoscenza
di
Walter
Benjamin
mi
è
stato
al
fianco
leggendo
il
testo.
Robert
Jarisch,
che
mi
ha
sollevato
di
un’importante
parte
del
lavoro
di
archivio,
e
Jörg
Hafkemeyer;
e
ancora
gli
altri
lettori
e
le
persone
che
mi
hanno
incoraggiato,
come
Jürgen
Leinemann,
e
in
ogni
momento
mia
moglie
Sabine,
i
cui
giudizi
su
quel
che
era
riuscito
o
meno
sono
stati
uno
sprone
per
me.
U.-K.
H.
Indice
I Benjamin. Una
famigliatedesca
Prefazione
Capitolo
primo
Infanzia
intorno
al
millenovecento.
Un
prologo
Capitolo
secondo
I
Benjamin
Capitolo
terzo
Dove
resta
Dora...
Capitolo
quarto
L’esilio
Capitolo
quinto
L’ultimo
bivacco
prima
di
Portbou
Capitolo
sesto
Hilde
Benjamin
Capitolo
settimo
«Benvenuti»
a
Mauthausen
Capitolo
ottavo
Padre
e
figlio
Capitolo
nono
Dietro
le
mura
Capitolo
decimo
...
tutto
quel
che
è
diritto
Capitolo
undicesimo
Madre
e
figlio
Capitolo
dodicesimo
Riflessi
da
una
Germania
all’altra
Capitolo
tredicesimo
Nella
quinta
Germania
Capitolo
quattordicesimo
Cosa
resta...
Postfazione
Bibliografia
e
fonti
Indice
dei
nomi
Ringraziamenti
Scarica

I Benjamin