1
Come il patrimonio teorico dell’operaismo italiano è servito a
comprendere la realtà del lavoro postfordista
di Sergio Bologna
Il sistema di pensiero che viene riassunto con il nome di “operaismo italiano” non è un
sistema organico, racchiuso in un testo fondamentale, in una qualche Bibbia, ma è la
somma di diversi contributi teorici provenienti da alcuni intellettuali militanti che
hanno fondato le riviste “Quaderni Rossi” e “Classe Operaia”.1 Raniero Panzieri, Mario
Tronti, Toni Negri e Romano Alquati sono quelli che hanno posto le fondamenta del
sistema, altri, come Gaspare De Caro, Guido Bianchini, Ferruccio Gambino, Alberto
Magnaghi, hanno portato dei contributi essenziali su tematiche specifiche che
completavano l’orizzonte del pensiero operaista e gli davano l’impronta di un
“sistema” coerente al suo interno, come la storiografia, l’agricoltura, le migrazioni, il
territorio.
Operaismo e fordismo
L’esperienza dei gruppi operaisti si è sviluppata in un periodo storico nel quale
sembrava che nelle società capitaliste non ci fosse un’alternativa alla produzione di
massa caratterizzata da grandi imprese in grado di ottenere forti economie di scala. La
grande fabbrica nella quale migliaia di lavoratori svolgevano operazioni sempre più
semplificate - mentre le macchine svolgevano operazioni sempre più complesse sembrava il punto d’arrivo di un processo storico che aveva origine nella nascita
dell’industrialismo. La produzione di massa era il modo migliore per produrre beni che
costavano poco sul mercato e potevano essere acquistati da tutti, in primo luogo dagli
1
Per coloro che hanno partecipato alla nascita del pensiero operaista scriverne la storia non è
facile, si rischia sempre d’introdurre delle forzature soggettive; pertanto questo articolo va
interpretato come una testimonianza piuttosto che una ricostruzione storica; forse per una
deformazione professionale ho cercato altre volte di scrivere la storia dell’operaismo in forma
di testimonianza, v. Sergio Bologna, Workerism: An inside View. From the Mass-Worker to
Self-employed Labour, in “Beyond Marx. Theorising the Global Labour Relations of the TwentyFirst century”, ed. by Marcel van den Linden and Karl Heinz Roth, in collaboration with Max
Henninger, Brill, Leyden-Boston 2014, p. 121-143; il testo italiano è pubblicato in
“L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico. Vol. III, Il sistema e i movimenti,
Europa 1945-1989”, a cura di Pier Paolo Poggio, Jaca Book, Milano, 2011, pp. 205-222.
L’opera più completa sulla storia dell’operaismo è “L’operaismo degli Anni Sessanta. Da
‘Quaderni Rossi’ a ‘Classe Operaia’”, a cura di Giuseppe Trotta e Fabio Milana, introduzione di
Mario Tronti, Derive&Approdi editore, Roma 2008, in allegato un CD con tutta la collezione di
“Classe Operaia”.
2
stessi lavoratori che li producevano, anche se si trattava di beni complessi come
l’automobile. Così si creavano le premesse per realizzare l’insostituibile integrazione
alla produzione di massa, cioè il consumo di massa. Un sistema tanto perfetto e ben
funzionante che era stato adottato anche dai paesi dove aveva trionfato la rivoluzione
comunista. Anzi, la rivoluzione comunista aveva trionfato in paesi nei quali questo
sistema era ancora molto imperfetto, poco sviluppato o addirittura inesistente, sono
stati i governi usciti dalla rivoluzione a portare a compimento lo sviluppo del sistema
della produzione di massa organizzandola in grandi Kombinat, in complessi industriali
con migliaia di lavoratori, estendendola anche all’agricoltura. In Occidente questo
sistema veniva chiamato per comodità “fordismo” perché aveva trovato la sua
applicazione pratica e teorica più compiuta nell’organizzazione delle fabbriche
dell’automobile di Henry Ford. L’idea di base dell’operaismo, mutuata ovviamente
dalla teoria marxiana, era che la grande fabbrica con le sue migliaia di operai potesse
trasformarsi in un grande terreno fertile per un progetto rivoluzionario e diventare da
sede della produzione di massa a spazio liberato dall’oppressione capitalistica. Il
capitalismo doveva essere imprigionato nella sua stessa dimora, le mura della sua
casa dovevano diventare le sbarre della sua prigione. Il lavoro fordista alla catena di
montaggio doveva diventare il terreno di formazione del soggetto rivoluzionario,
dell’operaio massa. Come si vede, l’idea primordiale dell’operaismo era il calco,
l’impronta rovesciata del fordismo. Senza un’organizzazione sociale come quella della
fabbrica fordista l’operaismo avrebbe avuto difficoltà a elaborare il suo progetto
rivoluzionario, l’operaio massa si formava come classe dentro un sistema produttivo
con particolari caratteristiche tecnologiche, era tutt’uno con questo sistema, che gli
forniva i mezzi di sussistenza. L’operaio massa era innanzitutto un salariato, la
struttura della sua busta paga era composta da una parte fissa, il salario base, da un
parte variabile, collegata alla produttività e da altre voci che corrispondevano ad
altrettante conquiste contrattuali come il recupero dell’inflazione, gli assegni familiari,
le ore straordinarie, i premi di produzione, le indennità per lavori notturni o nocivi ecc..
L’organizzazione produttiva fordista non era il sistema dominante solo all’interno della
fabbrica ma proiettava i suoi rigidi schemi anche sulla società, sulla mobilità urbana
ed extraurbana, sugli insediamenti abitativi, sugli orari dei negozi. Migliaia di operai
uscivano al mattino presto dalle fabbriche dopo aver fatto il turno di notte ed
altrettante migliaia erano in attesa fuori dai cancelli per entrare al primo turno del
mattino. Era questo il momento migliore per distribuire e diffondere i volantini di
“Classe Operaia” e di “Potere Operaio”, volantini che quasi sempre erano stati scritti
3
su indicazioni fornite da operai delle stesse fabbriche, dopo un lungo lavoro di
“conricerca”, di dialogo e di scambio di opinioni e informazioni tra militanti operaisti e
operai di fabbrica. L’operaismo quindi è stato in tutto e per tutto l’immagine
rovesciata del fordismo, era tutt’uno con il fordismo, viveva in simbiosi con esso, non
sembrava immaginabile un operaismo senza una società fordista, senza una
produzione di massa, senza l’operaio massa. Con la morte del fordismo avrebbe
dovuto morire anche l’operaismo. La società postfordista, la società dell’informazione,
la società della prevalenza del terziario e della finanza, del lavoro precario e del lavoro
indipendente, avrebbero dovuto essere incomprensibili a chi si era formato sul
fordismo. L’operaismo avrebbe dovuto estinguersi lentamente man mano che la figura
dell’operaio massa diventava sempre più marginale nelle società occidentali. Invece
ciò non è avvenuto, i militanti, gli attivisti, gli intellettuali che avevano condiviso
l’esperienza operaista sono stati in grado meglio di altri di cogliere le caratteristiche
della
nuova
formazione
capitalistica
–
che
per
comodità
abbiamo
chiamato
“postfordista”. Anzi, di tutte le organizzazioni ed i gruppi extraparlamentari degli Anni
70 operanti in Italia, gli eredi dell’operaismo sono rimasti gli unici a tentare, a volte
con successo, di elaborare una nuova teoria della liberazione praticabile nella società
postfordista, sono gli unici che sono riusciti a tallonare l’evoluzione del capitalismo da
Henry Ford a Steve Jobs, producendo analisi convincenti e pratica politica sia con il
lavoro salariato sia con il lavoro non salariato. Com’è stato possibile?
Il ruolo dell’intellettuale
Innanzitutto occorre ricordare che l’operaismo non è stato una semplice riproposizione
dell’anarcosindacalismo o del Linkskommunismus, gli operaisti non hanno mai creduto
che il sistema capitalista, assediato da conflitti industriali sempre più estesi, con una
classe operaia sempre più aggressiva, disposta a praticare il blocco della produzione e
di qualunque attività propria del lavoro subordinato, sarebbe crollato in seguito a uno
sciopero generale prolungato e irreversibile. Queste utopie non appartengono alla
tradizione operaista, anche se le tecniche del conflitto industriale che l’operaismo ha
cercato di promuovere erano le stesse dell’anarcosindacalismo. L’operaismo non è mai
stato indulgente con le semplificazioni, con le facili parole d’ordine, a costo di apparire
esercizio di intellettualismo, a costo di essere accusato di eccesso di pensiero astratto.
Prima di tutto l’operaismo non ha mai preteso di poter “insegnare” agli operai la via
della rivolta o della rivoluzione, al contrario, la pratica operaista della “conricerca” vuol
dire semplicemente che il militante deve “imparare” dagli operai, deve saperli
4
ascoltare, mantenendo però sempre il suo ruolo d’intellettuale, che gli consente di
trasmettere strumenti di pensiero e di analisi che possono essere utili all’operaio che
intende affrontare un percorso collettivo di liberazione. L’operaismo ha sempre
rifiutato l’atteggiamento populista, che era molto comune tra i militanti dei gruppi
extraparlamentari degli anni 70 in Italia, di camuffarsi da operai, di vestire la tuta blu
per assomigliare agli operai, di nascondere con vergogna le proprie origini borghesi. Al
contrario, chi ha avuto la fortuna di poter studiare, di frequentare l’Università, di
avere a disposizione strumenti per arricchire le proprie conoscenze, per sviluppare uno
spirito critico, chi ha avuto la fortuna di poter studiare all’estero, di imparare le lingue,
di conoscere meglio e da vicino il pensiero del capitale, chi ha avuto la fortuna di
conoscere la storia del movimento operaio, il pensiero marxista, ha il dovere di
perfezionare al massimo questi strumenti di conoscenza, di raggiungere con i suoi
lavori i livelli più alti di produzione scientifica e di mettere a disposizione di tutti ma in
particolare dei lavoratori il suo sapere, le sue conoscenze. Deve concepire se
medesimo come una cellula di una struttura di servizio. Questo atteggiamento degli
operaisti veniva trattato con disprezzo, venivano chiamati spregiativamente “i
professori”, in realtà anche quando i loro principali esponenti si sono trovati a ricoprire
ruoli accademici (da Negri a Tronti, da Alquati a Gambino, da Bianchini a Magnaghi)
hanno sempre svolto il loro insegnamento come una missione politica, hanno sempre
fatto ricerca come fosse una “conricerca”, hanno sempre parlato e scritto lo stesso
linguaggio nelle loro pubblicazioni scientifiche e nel materiale di propaganda politica. Il
principio regolatore della loro vita d’intellettuali è stato quello di essere sempre se
stessi, non di sdoppiarsi in un ruolo di professori ed uno di militanti, facendo gli
accademici di giorno e gli operaisti di sera o nei week end. Ed infatti sono stati gli
unici professori universitari ad essere messi in galera o ad essere espulsi
dall’Università. La repressione si è abbattuta in maniera selettiva su di loro.
La classe operaia come organismo complesso
Da quanto si è detto è facile intuire che il sistema di pensiero operaista non ama gli
schematismi e le semplificazioni, al contrario, consapevole dell’estrema complessità
della realtà capitalistica, cerca di scandagliare a fondo questa realtà, di rendersi conto
dei suoi aspetti palesi e meno palesi. Potremmo dire
che ha una grande
considerazione dell’avversario, sa che deve combattere una potenza raffinata, brutale
e seducente al tempo stesso. Sottovalutare l’avversario è proprio degli stupidi,
destinati a sicura sconfitta. Il primo aspetto del sistema capitalistico al quale
5
l’operaismo ha prestato la sua attenzione è stato quello della tecnologia. L’impulso
decisivo lo ha dato Raniero Panzieri con la sua lettura innovativa del “Frammento sulle
macchine” di Marx pubblicato sul n. 1 dei “Quaderni Rossi”.2 La tecnologia è lavoro
incorporato, essa svolge un ruolo ambivalente, perché “libera” l’operaio da una certa
fatica ma al tempo stesso “sottopone” l’operaio ad un maggiore e più rigido controllo.
La tecnologia ha il potere di plasmare un certo tipo di forza lavoro, di determinare
certe sue caratteristiche professionali, che possono avere dei risvolti specifici anche
nella sua mentalità, nella sua cultura e quindi nel suo agire politico. L’operaismo dice
che la tecnologia ha il potere di determinare “la composizione tecnica della classe
operaia”. Facciamo un esempio. Nelle fabbriche dell’auto degli anni 70 c’erano dei
reparti nei quali l’operaio aveva un rapporto individuale con la macchina, ne
conosceva tutti i segreti, era in grado di “prepararla”, di attrezzarla ed era molto
orgoglioso di questa sua conoscenza che era anche la fonte del suo piccolo potere. Si
trattava di operai specializzati con una forte coscienza del proprio ruolo, che venivano
considerati la cosiddetta “aristocrazia operaia” ed in genere erano anche i più
combattivi, moltissimi erano comunisti e consideravano il loro essere comunisti come
una naturale conseguenza del loro essere i più specializzati, i più qualificati, non solo
per quanto riguardava la macchina loro affidata, una pressa, un tornio, una fresa, una
saldatrice, ma per quanto riguardava l’intero ciclo produttivo; conoscevano la fabbrica
in ogni suo angolo, erano in grado quindi di organizzare scioperi improvvisi, blocchi
della produzione, fermando i punti nevralgici del ciclo. Trasmettevano il loro sapere ai
più giovani ma al tempo stesso avevano un forte senso della gerarchia, ritenevano
giusto un sistema salariale fortemente differenziato, il giovane doveva salire gradino
dopo gradino la scala della specializzazione. In altri reparti della fabbrica invece
c’erano le catene di montaggio, cioè un tipo di tecnologia che non permette un
approccio individuale, dove potevano essere inseriti operai e operaie senza nessuna
qualificazione. A Milano agli inizi degli Anni 60 nelle fabbriche elettromeccaniche, dove
il lavoro alla catena non era spesso pesante come nell’auto, nei reparti del montaggio
venivano impiegate le donne, operaie generiche, pagate ovviamente molto meno degli
operai addetti alle macchine. Questa classe operaia era quella che l’operaismo definì
“operaio
massa”,
con
una
mentalità
molto
diversa
dall’operaio
specializzato
dell’aristocrazia operaia e quindi con delle rivendicazioni opposte: aumenti salariali
uguali per tutti, abolizione del cottimo individuale. Rivendicazioni che dovevano
2
Raniero Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, in “Quaderni Rossi”,
n. 1, p. 53 sgg, 1961.
6
suonare come una bestemmia alle orecchie del vecchio operaio comunista che
lavorava come attrezzista sulle macchine individuali.
Cosa succede quando negli Anni 80 la fabbrica si disintegra e poco alla volta si
diffonde e poi dilaga la tecnologia dell’informazione? Cosa succede quando gli operai
di fabbrica, specializzati o meno, operai massa o meno, vengono in parte sostituiti dai
robot, in parte vengono licenziati perché la produzione si delocalizza verso i paesi
emergenti, perdono la loro forza sociale, la tradizione comunista viene buttata a mare
dai partiti di sinistra e la classe operaia non è più un soggetto politico? Succede che il
mondo del lavoro si adatta alle nuove tecnologie, viene plasmato dalle nuove
tecnologie. Chi proviene dall’esperienza operaista si trova ad avere degli strumenti
intellettuali in grado di capire cosa sta succedendo. Come prima aveva osservato il
rapporto tra operaio specializzato e macchina individuale o tra operaio massa e catena
di montaggio ora osserva il rapporto tra personal computer e soggetto che lo sta
utilizzando, mette a confronto due modi di lavorare totalmente differenti, un modo di
lavorare fordista, inquadrati in una rigida organizzazione che comprende migliaia di
persone in spazi dedicati, ed un modo di lavorare solitario, senza spazi dedicati,
capace di determinare i propri ritmi e di accedere in permanenza ad un universo
d’informazioni potenzialmente infinito. Al primo momento l’uomo che lavora al
personal computer gli appare come un puzzle. E’ un uomo libero? Ha un grado di
libertà maggiore dell’operaio schiavo della catena di montaggio? Apparentemente sì.
E’ un uomo che ha potere? Potere di negoziazione nei confronti del suo datore di
lavoro, quanto ne avevano gli operai che collettivamente fermavano la produzione e
trattavano con la direzione? Apparentemente no, anzi sicuramente no, il potere sociale
lo si ottiene solo con la coalizione, l’individuo da solo è sempre subalterno. Come dice
Michel Serres, “la connettività ha sostituito la collettività”, il lavoratore non vive
insieme ad altri lavoratori come lui, a tu per tu, è connesso con altri lavoratori dei
quali non conosce né il volto né la voce ma solo l’indirizzo mail. La massa
d’informazioni che può procurarsi tramite Internet gli conferisce maggiore potere,
maggiore capacità di negoziazione rispetto all’operaio che, schiavo della macchina,
non aveva la possibilità di accedere al mondo dell’informazione? No, non ha maggior
potere, il solo vantaggio che può avere nei confronti del lavoratore subordinato,
operaio o impiegato che sia, è quello di potere usare quelle informazioni per vivere
come lavoratore indipendente, come non salariato. Sono bastate quindi poche
domande che il vecchio operaista ha rivolto a se stesso sulla natura del lavoro
postfordista per capire che il capitalismo aveva fatto un enorme salto in avanti nella
7
capacità di controllare la forza lavoro; il nuovo soggetto, al quale mancava ancora un
nome, non aveva soprattutto la possibilità immediata di coalizzarsi, di porsi in maniera
negoziale con il datore di lavoro, anzi non sapeva chi fosse il suo datore di lavoro, se
medesimo o una terza persona? Per immaginare un percorso di liberazione era
necessario ricominciare daccapo, mantenendo fermo però il punto di partenza, quello
che tutti ritenevano ormai superato: il problema del lavoro. Era ancora possibile
immaginare un percorso di liberazione partendo dal lavoro? Era ancora possibile
vedere nell’uomo del personal computer un lavoratore o questa parola “lavoratore”,
worker, Arbeiter, travailleur, trabajador, doveva essere cancellata dal vocabolario,
perché appartenente ad un’epoca ormai tramontata, cioè all’epoca fordista?
L’idea di lavoro nel postfordismo
La forza dell’elaborazione teorica operaista consiste, come si è detto, nell’affrontare la
complessità dei problemi, nell’andare a fondo delle cose, evitando le semplificazioni, le
scorciatoie. L’esempio più illuminante lo si può vedere osservando come gli operaisti
trattavano il concetto di classe operaia. Per la maggior parte dei militanti politici degli
anni 60 e 70 il termine “classe operaia” era una specie di mantra, una parola magica
onnicomprensiva. Bastava richiamarsi alla classe operaia per essere considerato una
persona appartenente alla “Sinistra”, al movimento operaio, per essere considerato un
comunista. Per gli operaisti invece la classe operaia era un universo inesplorato,
estremamente differenziato e complesso o, meglio, era il punto di arrivo di un
processo lunghissimo, irto di ostacoli, nel corso del quale la forza lavoro prendeva
coscienza del proprio ruolo e della propria forza e si presentava sulla scena della
società come un protagonista, non come l’appendice del sistema di produzione
capitalista. Come ho avuto modo di scrivere in un mio saggio sull’operaismo, “il lavoro
collettivo che la pattuglia operaista stava conducendo a contatto diretto con il mondo
della produzione di fabbrica cercava di andare a fondo dei diversi piani che
compongono il sistema dei rapporti di produzione: l’organizzazione sequenziale del
ciclo produttivo, i meccanismi gerarchici che esso produce spontaneamente, le
tecniche di disciplinamento e di integrazione che vengono elaborate, l’evoluzione delle
tecnologie e dei sistemi di lavorazione, le reazioni ai comportamenti spontanei della
forza lavoro, le dinamiche interpersonali all’interno del reparto, i sistemi di
comunicazione degli operai durante l’orario di lavoro, la trasmissione dei saperi dagli
operai più anziani a quelli più giovani, la formazione di una cultura del conflitto, le
divisioni interne alla forza lavoro, l’uso delle pause e dell’orario di mensa, i sistemi
8
retributivi e la loro applicazione differenziata, la presenza del sindacato e le forme di
propaganda politica, la coscienza del rischio e i metodi per tutelare la propria integrità
fisica e la propria salute, il rapporto con i militanti esterni, il controllo dei tempi e il
rapporto con il cottimo, l’ambiente di lavoro e via dicendo”.3 L’uomo con il personal
computer, in quanto lavoratore, cioè persona che cede un determinato prodotto
intellettuale a terzi in cambio di una retribuzione per poter sopravvivere, doveva
presentare la stessa, se non maggiore, complessità. Cominciamo dalle cose più
semplici. Per esempio: quale forma assume la sua retribuzione? La vecchia forma del
salario oppure
la forma dell’onorario? Viene pagato a ore o a prestazione
professionale? Ha un orario di lavoro? I parametri fondamentali per definire un
lavoratore sono il salario e l’orario, la sua vita privata, la sua esistenza personale, la
sua quotidianità, i suoi consumi, i suoi rapporti di coppia, il suo standard di vita sono
determinati in tutto o in parte da questi due parametri. E’ una visione molto
materialista, rozzamente materialista, alla quale l’ideologia della modernità oppone la
teoria che ciò che conta nell’individuo non è la sua condizione materiale ma è la sua
personalità, il suo carattere, se è ottimista o pessimista, socievole o scontroso,
seducente o scostante, portato alla leadership o sottomesso, espansivo o silenzioso,
disinvolto o timido, che ha “carattere” o non ne ha. Ma, a ben vedere, il più rozzo
materialismo è meno ingannevole del soggettivismo esasperato, dell’individualismo
sterile e illusorio, che sono, a ben vedere, dispositivi ideologici che hanno lo scopo di
dissolvere la nozione di “lavoro”. La concezione moderna di lavoro contenuta
nell’ideologia della modernità è che esso non è più un’attività umana conto terzi in
cambio di mezzi di sussistenza ma attività in cui l’individuo estrinseca la propria
personalità, conosce meglio se stesso, è quasi un incontro mistico. “Il lavoro è un
dono di Dio” ho sentito un giorno dire da un dirigente sindacale cattolico, il lavoro non
rientra nel mondo delle merci ma in quello della psicologia umana. Da questa
ideologia nasce l’idea del lavoro come “dono” dell’individuo alla collettività, nasce la
giustificazione del lavoro gratuito, del lavoro malpagato. Il principio marxista che
considera il lavoro il terreno primordiale sia dell’antagonismo sociale che della
cooperazione tra individui, il terreno sia del conflitto che della solidarietà, viene
completamente cancellato.
White collar e knowledge worker
3
“L’altronovecento” cit., vol III, pp. 205-206, testo inglese in “Beyond Marx” cit., p. 122.
9
Che nome diamo all’uomo con il personal computer? Abbiamo accettato il nome che
gli aveva affibbiato l’ideologia dominante, knowledge worker, ci sembrava utile perché
conteneva la parola “worker” e quindi nessuno poteva negare che si trattasse di una
persona la cui essenza viene definita dal lavoro. Abbiamo cominciato a ragionare su
questa definizione. Poteva assomigliare al white collar del fordismo? La risorsa
analitica che potevamo mettere in campo era quella delle inchieste sui tecnici di
produzione apparse sin dai primi numeri di “Classe Operaia” e poi divenute una
costante della teoria e della pratica operaista. Quanto più complessa diventava la
tecnologia, quanto più sofisticate diventavano le macchine, tanto maggiore era
l’importanza della forza lavoro dotata di conoscenze tecniche. Il capitalismo
incorporava dentro i suoi processi produttivi sempre maggiori contenuti scientifici, la
produzione industriale di massa aveva alle spalle i laboratori di ricerca delle università
e dei reparti specializzati delle aziende. I tecnici potevano essere rappresentati come
una nuova classe, che avrebbe potuto avere uno sviluppo analogo a quello della classe
operaia. Già nella storia del movimento operaio, durante i movimenti rivoluzionari dei
consigli alla fine della prima guerra mondiale, i brain worker avevano svolto un ruolo
positivo ed erano stati considerati dal comunismo delle origini una componente
essenziale della classe rivoluzionaria. Non è un caso che l’operaismo, durante le rivolte
studentesche del ’68, era più diffuso nella facoltà scientifiche che in quelle
umanistiche. Ma l’uomo con il personal computer non poteva esser definito
banalmente un white collar perché il mondo del lavoro non era costituito soltanto da
lavoro subordinato, da lavoro salariato, bensì da tanti lavoratori indipendenti che
fornivano le loro prestazioni, anche se avevano un solo committente, lavorando a casa
o in spazi di coworking o in un caffé Starbuck. Il white collar condivideva con gli
operai gli spazi dell’azienda, aveva orari di lavoro simili, era a contatto quotidiano con
i problemi della produzione. Ci trovavamo di fronte ad un mutamento antropologico,
non solo a un mutamento sociologico. Se avessimo dovuto ragionare ancora in
termini sociologici avremmo dovuto dire che la divisione chiara tra classi che il sistema
fordista aveva determinato non era più riconoscibile nella società dell’informazione e
quindi i nostri parametri dovevano cambiare. Restava fermo invece il punto di
partenza, cioè la convinzione che la tecnologia ha un effetto fortissimo sulla vita e la
mentalità del soggetto che usa questa tecnologia per stare nel mondo, per lavorare,
per guadagnarsi da vivere, per comunicare. Il nostro interesse, la nostra analisi,
dovevano
concentrarsi
sulla
figura
del
knowledge
worker
e
scandagliare
le
caratteristiche intrinseche a quella moltitudine che formava la nuova middle class, un
10
aggregato sociale che ormai non aveva più i valori della vecchia borghesia, che non
era più capace di sfruttare il lavoro altrui perché ancora non capiva come faceva a non
sfruttare se stesso. L’estrazione di plusvalore ormai si trasferiva sempre più dalla
sfera produttiva alla sfera finanziaria, le enormi disuguaglianze di reddito che sempre
più si accumulavano nelle società capitaliste, l’impoverimento progressivo della middle
class, si spiegavano meglio analizzando le dinamiche finanziarie che quelle della
produzione di massa. Anche su questo terreno l’operaismo poteva mostrare una sua
superiorità, perché, unico tra le componenti dei movimenti di protesta degli Anni 70,
aveva affrontato le problematiche della politica monetaria e dei grandi flussi finanziari
internazionali, soprattutto con il lavoro svolto dalla redazione della rivista “Primo
maggio”.
Il caso italiano
Infine, la ragione forse decisiva per la quale l’operaismo ha avuto gioco facile nel
comprendere la natura del postfordismo è stata la sua origine italiana. Tra tutti gli
stati del capitalismo avanzato l’Italia è stata il paese che ha portato avanti la
disgregazione della grande fabbrica in maniera più radicale. L’Italia è stata
all’avanguardia nel cosiddetto “decentramento produttivo”, nella frammentazione
dell’impresa in tante piccole e minuscole aziende artigiane. Nel giro di un decennio,
dal 1980 al 1990, l’Italia diventa il paese dei “distretti industriali”, aree specializzate in
determinate produzioni, soprattutto in produzioni a basso valore aggiunto (tessileabbigliamento, cuoio e calzature, arredo per la casa), caratterizzate dalla presenza di
piccole e medie imprese. Il sistema del decentramento produttivo comporta due
vantaggi rispetto alla fabbrica fordista: diminuisce i costi di produzione e riduce il
rischio di conflitti industriali. Una parte delle lavorazioni vengono date in outsourcing,
spesso agli stessi operai che vengono trasformati in artigiani fornitori, il numero dei
dipendenti diminuisce drasticamente e si riduce la massa salariale e l’effetto di
rivendicazioni sindacali. Siamo a metà tra fordismo e postfordismo o, se vogliamo,
siamo in presenza di un postfordismo “dall’alto”. I vantaggi di questo sistema
consentono la formazione anche di grandi imprese multinazionali, come Benetton e
Luxottica. I distretti industriali si diffondono in particolare nelle regioni a forte
controllo sociale, nel Veneto cattolico e nell’Emilia Romagna comunista. Il Partito
Comunista
Italiano
sposa
l’ideologia
del
decentramento
produttivo
come
un
“capitalismo dal volto umano” sostenibile perché privo di conflitti, il fine principale di
una comunità civile sembra quello, dopo il decennio di forti conflitti e scontri di classe,
11
della pace sociale. Gli intellettuali che provengono dall’esperienza operaista colgono
immediatamente questa trasformazione, che viene accentuata e resa più radicale
anche dai movimenti di protesta del ’77, i quali rappresentano con le tematiche della
soggettività, dell’ambiente, del rifiuto del lavoro normato, disciplinato, irreggimentato,
una specie di postfordismo “dal basso”, un desiderio di liberazione che non teme di
contrapporsi alla stessa classe operaia. Sin dalle prime grandi ristrutturazioni di
aziende dell’auto (Innocenti di Milano, anni 1974-75) con l’uso massiccio della Cassa
Integrazione, gli operaisti seguono da vicino queste trasformazioni, l’analisi del
decentramento produttivo è uno dei temi centrali sia di riviste come “Primo Maggio”
che di gruppi universitari di ricerca, in particolare a Milano alla Facoltà di Architettura
dove insegna Alberto Magnaghi.4 Non sono gli unici, anzi molti laboratori universitari,
nel Veneto, in Emilia Romagna, in Toscana, nel Mezzogiorno, seguono con interesse la
trasformazione del modello fordista, la differenza sta che nell’analisi dei gruppi che
mantengono il retaggio dell’operaismo il decentramento produttivo viene visto come
un attacco all’unità della classe operaia, come una rivincita del capitalismo dalle
sconfitte dell’”autunno caldo”, mentre gli altri gruppi di ricercatori vedono nel
decentramento produttivo solo una nuova frontiera del capitalismo, con molti risvolti
positivi. E’ il periodo in cui Toni Negri promuove il movimento di Autonomia e teorizza
l’emergere dell’”operaio sociale”. Quindi la percezione del cambiamento e di un
cambiamento epocale è, si può dire, immediata. Il movimento del ’77 sembra per un
momento intravedere uno sbocco libertario del postfordismo, ma è solo una fiammata,
l’anno successivo i gruppi della lotta armata alzano il tiro e raggiungono l’apice della
loro azione con il rapimento Moro (marzo 1978). Un anno dopo, il 7 aprile 1979, parte
l’ondata di arresti di tutti i militanti del disciolto “Potere Operaio”. Non ci sarà più
nessuna “via libertaria al postfordismo”, il cambiamento di paradigma del capitale
porterà solo ed unicamente il segno della rivincita di classe.
L’operaismo e le nuove generazioni degli Anni 90
Per un decennio la talpa operaista smette di scavare. In realtà “il periodo d’oro”
dell’operaismo si era chiuso già da un pezzo. Per Tronti, Asor Rosa, Cacciari ed altri si
era chiuso già prima del ’68 con il loro ingresso nel PCI, per Negri ed altri compagni si
4
Queste analisi sono state pubblicate per la maggior parte sulla rivista “Quaderni del
Territorio”, fondata da Alberto Magnaghi e durata dal 1975 al 1979. Sono appena usciti in una
nuova edizione i quaderni dal carcere che Magnaghi ha scritto tra il 1979 e il 1982, durante la
sua detenzione nelle prigioni di Milano e di Roma, “Un’idea di libertà”, con prefazione di Alberto
Asor Rosa e postfazione di Rossana Rossanda, Derive&Approdi editore, Roma 2014.
12
era chiuso probabilmente con lo scioglimento di “Potere Operaio”.5 Non c’è mai stata
una discussione sulla periodizzazione storica dell’operaismo, non ci sono dubbi sulla
sua data di nascita ma non c’è nessun accordo sulla sua data di morte, anche perché
una teoria politica che è anche una metodologia conoscitiva non muore mai finché c’è
qualcuno che ritiene utilizzabili i suoi strumenti analitici e le sue conseguenze pratiche.
Sicché possiamo ben parlare di un “post-operaismo” intendendo con questo il
riaffiorare di un interesse per i suoi paradigmi presso una nuova generazione di
militanti e di ricercatori nati alla fine degli Anni Sessanta e che all’inizio degli Anni
Novanta avevano vent’anni. La rivista “Primo Maggio” è stata senza dubbio
un’iniziativa
culturale
che
esplicitamente
si
richiamava
all’operaismo,
le
sue
pubblicazioni cessano nell’autunno 1988 con il numero 29, ma proprio negli ultimi anni,
quando a dirigerla erano Cesare Bermani e Bruno Cartosio, s’erano avvicinati alla
redazione alcuni giovani che in seguito avrebbero avuto un ruolo nella critica al
postfordismo e nei tentativi di organizzare il precariato, il lavoro cognitivo, all’interno
dei centri sociali. 6 Altri si erano buttati a capofitto nell’informatica e nella cultura
digitale contribuendo a creare l’area italiana del movimento cyberpunk e del
movimento hacker, avendo come punto di riferimento iniziale la Libreria Calusca di
Primo Moroni a Milano, che era stata anche il centro propulsore della distribuzione di
“Primo maggio”. Raffaele “Valvola” Scelsi e Ermanno “Gomma” Guarneri7 saranno tra i
fondatori della rivista “Decoder” e poi della casa editrice Shake, che ha svolto un ruolo
fondamentale nella diffusione della “civiltà del computer” e della cultura digitale. Essi,
assieme a Rosie Ficocelli, Paola Mezza e Marco Philopat (il quale fonderà poi una
propria casa editrice), appartengono alle nuove generazioni fortemente influenzate
dall’operaismo, che intraprenderanno dei percorsi politici originali e innovativi. Altri
ancora avevano avuto come maestri e docenti universitari i fondatori dell’operaismo e
quindi facevano tesoro del loro insegnamento, come Devi Sacchetto, allievo di
Ferruccio Gambino, o Emiliana Armano, allieva di Romano Alquati, che oggi è tra le
ricercatrici più attive a livello internazionale sulle tematiche del precariato. 8 Questa
nuova generazione, nata e cresciuta nel postfordismo, si serve per la sua crescita
5
“L’operaismo italiano degli Anni Sessanta comincia con la nascita dei ‘Quaderni Rossi’ e
finisce con la morte di ‘Classe Operaia’. Punto.” (Mario Tronti in “L’operaismo italiano” cit., p.
5).
6
“La rivista ‘Primo Maggio’ (1973-1989)”, a cura di Cesare Bermani, con il DVD di tutti i
numeri della rivista, Derive&Approdi, Roma 2010.
7
V. il suo contributo nel numero 22 di “Primo Maggio”, autunno 1984.
8
Non bisogna dimenticare i contributi importanti di Luciano Ferrari-Bravo, che ha partecipato
all’attività dei gruppi operaisti sin dalle origini; una parte dei suoi scritti sono stati pubblicati
nel volume “Dal fordismo alla globalizzazione. Cristalli di tempo politico”, prefazione di Sergio
Bologna, Il Manifesto Libri, 2001.
13
teorica e per le sue prime produzioni di saggi e di riflessioni della rivista “Altreragioni”,
nata nel 1991 nel clima di tensione politica creato dalla guerra del Golfo, per iniziativa
di alcuni tra i primi collaboratori di “Classe Operaia”, di “Quaderni Piacentini” e
dell’Istituto Ernesto de Martino. Michele Ranchetti, uno dei più importanti intellettuali
italiani del dopoguerra, storico, saggista, direttore editoriale, pittore, poeta, musicista,
Franco Fortini, poeta, scrittore, critico letterario, già vicino ai “Quaderni Rossi”,
Edoarda Masi, sinologa, bibliotecaria, saggista, collaboratrice di “Quaderni piacentini”
assieme a Sergio Bologna, Ferruccio Gambino, Pier Paolo Poggio, Lapo Berti, Guido De
Masi, Cesare Bermani, Bruno Cartosio, Primo Moroni, Giovanna Procacci (tutti nomi
che troviamo anche tra i collaboratori di “Primo Maggio”) ed altri lanciano l’iniziativa
della rivista “Altreragioni” alla quale si avvicinano immediatamente i giovani della
nuova generazione che aveva subìto l’influsso dell’operaismo. Uno di questi è Andrea
Fumagalli, che negli anni successivi, assieme alla compagna Cristina Morini,
rappresenterà un punto di riferimento teorico e politico dei movimenti del precariato e
del “cognitariato”. Dopo i primi numeri la rivista sarà diretta da Ferruccio Gambino e
Giovanna Procacci, mentre Sergio Bologna, Primo Moroni, Lapo Berti, Christian
Marazzi, Pier Paolo Poggio, Mavì Defilippi, Marco Cabassi ed altri daranno vita ad
un’altra iniziativa che ha avuto una certa importanza nel raccogliere l’eredità operaista,
la “Libera Università di Milano e del suo Hinterland (LUMHI)”. Due i temi centrali della
sua attività culturale: la battaglia contro il revisionismo storico e la definizione dei
soggetti sociali del postfordismo. Dall’attività della LUMHI nasce in co-edizione ShakeFeltrinelli l’opera collettiva che rappresenta una svolta nell’analisi di classe postoperaista: “Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in
Italia” a cura di Sergio Bologna e Andrea Fumagalli. 9 E’ il 1997, vecchia e nuova
generazione hanno trovato qui un terreno comune di dialogo e di produzione analitica.
Le tesi e le ricerche di alcuni ex militanti dei gruppi operaisti riguardanti la condizione
dell’uomo moderno nel postfordismo e nell’economia del debito hanno trovato largo
riscontro anche sul piano internazionale, è il caso per esempio di Maurizio Lazzarato,
che si era laureato a Padova ed aveva avuto come insegnanti Toni Negri, Ferruccio
Gambino, Ferrari Bravo e Sergio Bologna. La nuova generazione affronta anche la
storia dell’operaismo, comincia a scriverla a partire dalle testimonianze dei principali
protagonisti.
10
Dall’estero, non soltanto dall’Italia, arrivano altri contributi che,
riflettendo sulla storia dell’operaismo, ne vogliono trarre, come “Storming Heaven” di
9
Il volume è pubblicato in co-edizione Shake-Feltrinelli nel 1997 a Milano.
“Futuro anteriore. Dai ‘Quaderni Rossi’ ai movimenti globali. Ricchezze e limiti dell’operaismo
italiano”, a cura di Guido Borio, Francesca Pozzi e Gigi Roggero, Derive&Approdi, Roma 2002.
10
14
Steve Wright,11 un bilancio culturale e politico. Oggi la fonte principale per i documenti
originali dell’operaismo è la collana “Biblioteca dell’operaismo” della casa editrice
Derive&Approdi di Roma, fondata da un compagno di “Potere Operaio”, Sergio Bianchi.
Uno studio di caso sul passaggio da una società industriale fordista a una società del
terziario avanzato in un quartiere di Milano è stato analizzato nel documentario di
Sabina Bologna “Oltre il ponte. Storie di lavoro.”12
Il ruolo della Libreria Calusca di Milano
A questo punto è necessario mettere a fuoco il ruolo molto importante che ha avuto
Primo Moroni e la sua Libreria Calusca nel creare un ponte tra la cultura operaista e le
nuove generazioni. 13 La Libreria, durante gli anni 70 e 80, ha svolto una funzione
difficilmente classificabile con i parametri tradizionali delle organizzazioni culturali. E’
stata un luogo d’incontro, di convergenza, di dialogo tra tendenze politiche le più
diverse, ma con un’accentuata simpatia per il filone operaista, per i diversi filoni
anarchici, per le tendenze situazioniste e internazionaliste. Tradizioni e tendenze,
come si vede, fortemente diverse tra di loro o anche conflittuali ma che trovavano
accoglienza e rifugio (nei tempi duri) in un luogo che era straordinario perché
eccezionale era la personalità del suo titolare, Primo Moroni, uomo di grande cultura e
di ancora maggiore sensibilità per l’innovazione culturale, pur non avendo nessuna
formazione universitaria. Ex ballerino del varietà, ex rappresentante librario, figlio di
ristoratori toscani immigrati a Milano, cresciuto in quartieri popolari dove la piccola
malavita locale aveva modi e codici di onore molto diversi da quelli della mafia, dove
magari si rubava ai ricchi per dare ai poveri, ultima propaggine di quella “mala”
milanese che agli inizi del ‘900 popolava i quartieri del Ticinese e viveva in simbiosi
nelle “case di ringhiera” con il proletariato industriale e l’artigianato tradizionale
fortemente
influenzati
dal
socialismo.
Ladri,
rapinatori,
ricettatori,
prostitute
indipendenti, scassinatori, falsari vivevano accanto alla pellicciaia, al tipografo,
11
“Storming Heaven. Class composition and struggle in Italian Autonomist Marxism”, Pluto
Press, London 2002.
12
Derive&Approdi ha raccontato com’è nato e come si è realizzato questo progetto
nell’opuscolo “Dalla classe operaia alla creative class. Le trasformazioni di un quartiere di
Milano” che contiene anche il DVD con il documentario, della durata di 39’, con sottotitoli in
inglese.
13
Calusca è il nome di un vicolo che sbocca sulla piazza Sant’Eustorgio, nel quartiere Ticinese
di Milano, la sua origine deriva dall’espressione dialettale ca’ lusc (case losche, postriboli). La
Libreria fu poi spostata qualche centinaio di metri più avanti, in Corso di Porta Ticinese, e
successivamente in via Conchetta, sul Naviglio Pavese, dove esiste tuttora dentro un centro
sociale. Primo Moroni è morto di cancro nel 1998, un suo profilo è pubblicato nel volume 77
(2012) del “Dizionario Biografico degli Italiani” dell’Enciclopedia Treccani.
15
all’operaio elettromeccanico, al bottaio, al falegname e formavano un amalgama molto
resistente alla mentalità della società borghese. Erano i componenti di un’unica cultura
proletaria che difendeva le sue prerogative ed ammetteva al suo interno le pratiche di
illegalità e di esproprio. Attorno a questo mondo sono sorti miti e leggende, è nato un
vero e proprio Canzoniere che negli anni 60 e 70 è tornato di moda, soprattutto tra i
movimenti di protesta che esaltavano molte forme di illegalità. Primo Moroni era
capace di dialogare sia con le ultime tracce di questo mondo sia con gli intellettuali di
“Classe Operaia”. Egli riconosceva nell’operaismo il sistema di pensiero politico più
innovativo, ne era affascinato, così come era attratto dal pensiero situazionista.
Quando nel 1973 gli presentammo il nostro progetto di “Primo maggio” ne colse
immediatamente la ricchezza d’idee ed il rigore scientifico e divenne l’editore e il
distributore della rivista. Quando, dopo il 1971/72, iniziarono le prime azioni di
guerriglia urbana e fecero la loro comparsa le Brigate Rosse e altri gruppi armati,
Primo Moroni non esitò a tenere in libreria e a diffondere le loro pubblicazioni e i loro
scritti; quando le carceri cominciarono a riempirsi di compagni che militavano nei
gruppi extraparlamentari la Libreria di Moroni divenne un punto di riferimento per
l’invio di materiali di lettura nelle carceri. Fu così che la rivista “Primo Maggio” ebbe
una diffusione ampia nelle prigioni (circa 500 copie per numero venivano inviate in
carcere su richiesta dei detenuti). Questa attività naturalmente portò gli inquirenti e la
polizia a considerare “Primo maggio” una rivista vicina al terrorismo e solo grazie a
delle prese di posizione decise di alcuni membri della redazione, anche nei confronti di
Toni Negri, fu possibile evitare l’identificazione tra la nostra rivista e i gruppi
dell’Autonomia o i gruppi armati. Negli Anni 80 e 90 tutta la controcultura giovanile
delle nuove generazioni che entravano nell’èra digitale faceva riferimento alla Calusca,
la quale nel frattempo era diventata anche una struttura di soccorso ai vecchi militanti
che scontavano molti anni di carcere, soprattutto a quelli privi di ogni sostegno, senza
organizzazioni di riferimento, che avevano perduto tutto, casa, famiglia, lavoro.
Abbiamo visto spesso queste persone, sempre ex operai o comunque gente di origine
proletaria, uscire dal carcere a Milano, magari dopo vent’anni trascorsi nelle prigioni di
alta sicurezza di tutta Italia e, non sapendo dove rivolgersi per un aiuto, arrivare in
Libreria Calusca a chiedere un prestito per un biglietto del treno, in modo da andare
sulla tomba dei genitori morti nel frattempo in qualche paesino del Sud. In Primo
Moroni trovavano sempre solidarietà proletaria. La sua Libreria dunque metteva
insieme i superstiti della cultura operaista, i giovani dei centri sociali e dei movimenti
cyberpunk, i reduci della lotta armata ma anche moltissime persone di autentici
16
sentimenti democratici, docenti universitari, professionisti, insegnanti. La Calusca era
una specie di “zona franca” dove persone diversissime e ambienti che non avevano
alcun contatto tra di loro s’incontravano e si rispettavano. Primo Moroni era un
grandissimo affabulatore, non ha scritto molto ma ha rilasciato molte interviste e
testimonianze. Senza Primo Moroni l’operaismo non avrebbe mai raggiunto le giovani
generazioni dell’èra digitale.
Il post-operaismo e la sindacalizzazione dei self employed
La caratteristica specifica del pensiero dell’operaismo è la sua stretta aderenza alla
realtà, è il suo rapporto costante con l’azione, con la pratica militante. Gli scritti della
tradizione operaista non sono destinati alla mera lettura o alla mera propaganda, il
loro rigore scientifico non è destinato alla valutazione accademica, il loro messaggio è
un messaggio puramente politico, esso deve produrre azione, mobilitazione, conflitto,
confronto. L’analisi non deve restare pura analisi, non avrebbe alcun senso se restasse
allo stadio di analisi, anche la più sofisticata. L’analisi può essere anche parziale,
insufficiente, ma deve produrre mobilitazione, deve risvegliare le coscienze, deve
mettere in moto delle dinamiche soggettive che portano le persone a tutelare e
difendere i propri diritti, la propria dignità, sul lavoro, nei rapporti di lavoro. Le analisi
contenute nel volume “Il lavoro autonomo di seconda generazione” sono state anche
duramente criticate dalla sociologia accademica, con qualche ragione, ma quelle
pagine hanno trovato ascolto in coloro che cominciavano a muoversi per conto proprio
per costituire una rappresentanza sindacale dei self employed. E così doveva essere.
Se la critica accademica è arrivata a definire sprezzantemente le nostre analisi del
lavoro autonomo come “inutilizzabili”14 a noi non importa gran che, ne prendiamo atto
ma l’importante per noi è che le nostre analisi vengano comprese, assimilate e
condivise da coloro i quali vivono di lavoro autonomo, da coloro che del lavoro
indipendente non salariato fanno dipendere la loro sopravvivenza. Queste persone
hanno saputo utilizzare le nostre analisi ed hanno smentito in tal modo la critica
accademica. Alla fine degli Anni 90 negli Stati Uniti e agli inizi del nuovo Millennio in
Italia si sono costituite delle associazioni di difesa dei lavoratori indipendenti, dei
freelance, i quali storicamente sia al di qua che al di là dell’Atlantico sono sempre stati
esclusi dal welfare state e dallo stesso diritto del lavoro perché considerati “imprese”.
14
Vedi in particolare la recensione di Paolo Barbieri dell’Università di Trento per l’Istituto
Cattaneo, www.cattaneo.org/archivi/biblio/pdf/Bologna-Fumagalli 1997 (Barbieri).pdf. Questa
critica è stata rivolta in particolare alle “Dieci tesi sul lavoro autonomo di seconda generazione”
nel volume a cura di Bologna e Fumagalli, “Il lavoro autonomo ecc.” cit., pp. 13-42.
17
Poiché
queste
figure
professionali,
esplose
con
l’avvento
dell’informatica,
appartengono socialmente alla lower middle class, l’identificazione con il mondo
dell’imprenditoria piuttosto che con il mondo dei lavoratori è stata un pesante retaggio
della loro cultura borghese. Le organizzazioni sindacali dei lavoratori dipendenti non li
hanno mai presi in considerazione, non li hanno considerati come soggetti facenti
parte del mondo del lavoro. Solo in epoca assai recente, negli ultimi due anni, in Italia
il sindacato CGIL, timoroso di vedersi sfuggire di mano una rappresentanza di questi
gruppi sociali che avevano iniziato ad autoorganizzarsi, ha cominciato a creare dei
gruppi di lavoro dedicati ai professionisti ed ai self employed. Il post operaismo è
riuscito quindi a cogliere questa trasformazione del mondo del lavoro, è riuscito a dare
un pensiero collettivo ai self employed, a renderli consapevoli della loro identità di
lavoratori, ha dimostrato l’assurdità di considerare una persona come un’impresa (the
one-man/one woman business), l’impresa è sempre un’organizzazione complessa di
cooperazione tra più persone con diversi ruoli per la creazione di profitto in cambio
dell’erogazione di salari. Quali sono le principali rivendicazioni dei self employed? In
primo luogo il riconoscimento del loro diritto, come cittadini, a un’assistenza pubblica
in caso di malattia, a sussidi di disoccupazione e ad un trattamento fiscale pari a
quello dei lavoratori dipendenti.15 L’attività di pressione che le associazioni di difesa
dei diritti dei self employed ha esercitato in Europa negli ultimi cinque anni ha
ottenuto qualche risultato, in particolare la dichiarazione del parlamento europeo del
gennaio 2014 nella quale si afferma che tutti i cittadini hanno gli stessi diritti
indipendentemente dal lavoro che svolgono.16
Molto maggiore ampiezza ha assunto invece la sindacalizzazione dei freelance negli
Stati Uniti grazie a una donna, Sara Horowitz, che negli ultimi anni del Novecento ha
saputo creare la Freelancers Union (FU), che oggi conta quasi 250 mila iscritti. Grazie
al sostegno finanziario di molte Fondazioni private, la FU ha costituito una Insurance
Company che offre ai soci copertura finanziaria e assistenza in caso di malattia.17
In Italia l’associazione che ha recepito le analisi post operaiste è l’Associazione
Consulenti Terziario Avanzato (ACTA), fondata a Milano nel 2003, purtroppo ancora
molto piccola, circa 2000 soci, ma riconosciuta come sister organization dalla
15
Un’analisi del processo di sindacalizzazione dei self employed in Dario Banfi, Sergio Bologna,
“Vita de freelance. I lavoratori della conoscenza e il loro futuro.”, Feltrinelli, Milano 2011, in
particolare l’ultimo capitolo.
16
2013/2111 (INI) – 14.01.2014 Texte adopté du Parlement Lecture unique
17
www.freelancersunion.org. Il sito è lo strumento più efficace di propaganda e informazione
sulle attività delle associazioni dei self employed.
18
Freelancers Union. 18 ACTA è membro anche dell’European Forum of Independent
Professionals, di cui detiene la Vicepresidenza.19 Se nella storia del movimento operaio
dei salariati la sindacalizzazione si accompagnava sempre a un’adesione alle idee
socialiste, nella sindacalizzazione dei self employed prevale l’apoliticità, ma anche
perché non esiste più una forza politica di sinistra a livello europeo. In Italia, per
esempio, dove esisteva il più forte Partito Comunista dell’Occidente, non c’è più
traccia di un pensiero sociale d’ispirazione marxista, se non in movimenti sociali che
non sono rappresentati in Parlamento. Il Partito Democratico, che è in parte l’erede
del vecchio Partito Comunista e che nel corso degli anni ha cambiato nome più volte
per cercare di cancellare le tracce delle sue origini marxiste, è oggi una formazione
politica che sposa interamente le dottrine neoliberali delle lobbies finanziarie. Essere
apolitici non significa non avere idee politiche ma non riconoscersi nei partiti
rappresentati nel Parlamento.
Conclusioni
Il pensiero operaista ha dimostrato di sapersi rinnovare e di saper interpretare le
grandi trasformazioni della società e dei modi di lavorare. Ma le speranze
dell’operaismo, i valori morali, civili e sociali per i quali si era battuto sono stati
brutalmente combattuti ed emarginati, quasi cancellati, dal pensiero neoliberale
dell’epoca postfordista ed in particolare dalle classi dirigenti italiane di origine cattolica,
socialista o liberale. La sistematica persecuzione dei militanti di “Potere Operaio”,
talvolta più ossessiva di quella rivolta contro i militanti della guerriglia urbana,
l’emarginazione del pensiero operaista dalla scena culturale ed accademica non sono
riusciti tuttavia a impedire che le nuove generazioni riconoscessero in quel pensiero
uno strumento utile di liberazione. Le classi dirigenti che hanno combattuto con
stupido accanimento l’operaismo sono le stesse che hanno trascinato l’Italia nella
condizione miserevole, sia dal punto di vista economico che dal punto di vista civile, di
oggi. Il 40% di disoccupazione giovanile non è forse l’aspetto più grave della miseria
delle nuove generazioni, il precariato di milioni di persone, i bassi salari, gli stages
gratuiti, oltre all’assenza di tutele, sono altrettanto, se non ancora più gravi. Se
finalmente un giorno questa massa di cittadini umiliati troverà la forza di ribellarsi, il
pensiero operaista e post-operaista tornerà ad avere un’ampia diffusione e forse avrà
ancora lunga vita.
18
www.actainrete.it.
www.efip.org. Joel Dullroy, un attivista di EFIP che risiede a Berlino, ha lanciato quest’anno
la campagna per un movimento dei freelance: www.freelancersmovement.org.
19
19
Sergio Bologna
Scarica

Come il patrimonio teorico dell`operaismo italiano è servito a