Sommario
I.
Dalla Mostra sull’architettura rurale alla scoperta di una passione: la
nascita dell’Archivio fotografico di Giuseppe Pagano
a. Il Tour fotografico del XX secolo
b. La nascita dell’Archivio
c. Una scelta inedita: l’analisi del contesto urbano e sociale attraverso un catalogo
fotografico
II.
In lungo e in largo attraverso il Belpaese alla ricerca delle tracce di
un architetto fotografo
a. Il corpus dell’Archivio fotografico
b. Le tappe del viaggio fotografico di Pagano. Un Tour nell’universo narrativo
neorealista
c. Ulteriori temi sviluppati nelle foto d’archivio: l’architettura contemporanea,
l’archeologia, il fascismo e la guerra, il lavoro e il tempo libero, le forme, i ritratti
III.
Il panorama internazionale contemporaneo. Fotografia e filmografia
degli anni ‘30
a. La ricerca fotografica internazionale e l’evoluzione della tecnica nel XX secolo
b. Percorsi fotografici italiani: la produzione di Giuseppe Pagano tra metafisica e
realismo
c. La fabbrica dei desideri: il cinema e la cultura filmica degli anni Trenta
IV.
L’eredità spirituale di un protagonista della cultura architettonica
moderna
a. La ‘scuola’ di Pagano
b. Il testamento spirituale di un missionario dell’architettura
1
Appendice bibliografica
Saggi di architettura e arte
Saggi di fotografia e cinematografia
Scritti su Giuseppe Pagano
Scritti di Giuseppe Pagano
2
I. Dalla Mostra sull’architettura rurale alla scoperta di una passione:
l’Archivio fotografico di Giuseppe Pagano
a. Il Tour fotografico del XX secolo
L’Archivio fotografico di Giuseppe Pagano è un prezioso resoconto di
viaggio che si sviluppa attraverso le storie e la cronaca dell’Italia degli anni
Trenta del Novecento. Un viaggio alla scoperta di un mondo in parte
inedito, perché nascosto dietro al grigiore del regime e in parte caduto in
miseria per quella inconscia necessità di occultare gli anni più bui del
nostro Paese pur di rileggerne la storia successiva alla tragedia delle due
guerre mondiali.
A distanza di un secolo, oggi, questo archivio ci regala la possibilità di
mettere a nudo la realtà di quel periodo, per poter rileggerne le pagine
seppur dolorose, attraverso le immagini di un uomo che tanto più di altri,
per vicende di vita e professionali, ne comprenderà la natura.
Il percorso di viaggio compiuto da Giuseppe Pagano in giro per l’Italia, non
potrebbe trovare termini di paragone più affascinanti di quelli lasciati in
eredità dai viaggiatori romantici del Grand Tour del XVIII e XIX secolo1.
Com’è ampiamente noto infatti, la necessità della memoria e del ricordo,
aveva già spinto in passato studiosi e amateurs ad intraprendere viaggi e
itinerari più o meno insoliti, durante i quali si affidava a sketches e diaries
il compito di fermare le immagini più accattivanti e interessanti incontrate
1
Nell’ambito della bibliografia piuttosto ricca esistente sul tema, si selezionano gli studi e il lavoro
condotto per anni sull’argomento da Cesare de Seta. I. Zannier, Le Grand Tour nelle fotografie dei
viaggiatori del XIX secolo, con una introduzione di Cesare de Seta, Canal & Stamperia ed., Venezia
1991; C. de Seta, L’Italia del Grand Tour: da Montagne a Goethe, Electa, Napoli 1992; Id., Vedutisti e
viaggiatori in Italia tra Settecento e Ottocento, Bollati Boringhieri, Torino 1999; Id. (a cura di), Grand
Tour. Viaggi narrati e dipinti, Electa, Napoli 2001.
3
lungo il percorso, spesso compiuto per puro diletto o per approfondire
cultura e conoscenza.
Ma le motivazioni che inducono l’architetto istriano a produrre un
materiale tanto copioso a documento dell’Italia degli anni ’30, sono molto
più complesse di quelle che avevano guidato le imprese dei viaggiatori tra
il Sette e l’Ottocento.
Di certo, la necessità di conoscenza del territorio incide in modo notevole
sugli scatti prodotti, ma per comprendere realmente il significato e le
motivazioni di un Archivio tanto ricco e complesso, vista anche la varietà e
l’eterogeneità delle tematiche affrontate, è necessario indagarne le ragioni
d’essere nell’ambito della ricerca dell’avanguardia pre e postbellica.
Quella che Pagano vuole restituire è una realtà quanto più possibile
autentica, non filtrata e in qualche modo deformata dall’eventualità di un
condizionamento soggettivo, cosa di cui forse avevano peccato i racconti di
viaggio dei touristes dei secoli precedenti; Pagano preferirà guardare il
Paese per quel che è, alla ricerca della sua immagine più vera.
Potremmo quasi dire che l’indagine fotografica condotta dall’architetto si
inserisca in una ricerca neorealista, se non fosse ancora poco prudente
lanciarsi in una disquisizione sull’esistenza di un neorealismo prebellico
nel momento in cui gli studi sulle origini e la nascita del neorealismo
fotografico sono ancora decisamente fermi allo stato embrionale2.
Il viaggio fotografico condotto in un periodo di transizione così complesso
quale si è dimostrato quello compreso tra le due guerre, non poteva evitare
di subirne le conseguenze. Gli intellettuali più raffinati avvertono la ventata
di cambiamento introdotta soprattutto dalle avanguardie che cominciano a
2
Come fa acutamente rilevare Giuseppe Pinna in un recente saggio, purtroppo gli studi sulla fotografia
dell’età neorealista sono quasi fermi a quelli di Ennery Taramelli che, con il suo volume Viaggio
nell’Italia del Neorealismo. La fotografia tra letteratura e cinema, pubblicato nel 1995, restituisce un
resoconto puntuale sull’argomento. Cfr. G. Pinna, Italia, Realismo, Neorealismo: la comunicazione
visuale nella nuova società multimediale, in E. Viganò (a cura di), Neorealismo. La nuova immagine in
Italia 1932-1960, Admira, Milano 2006.
4
spingere verso un’osservazione del reale sempre più ardita e complessa.
Con il passaggio dall’Otto al Novecento, la ricerca delle avanguardie
figurative sovvertirà definitivamente le regole della rappresentazione
mutando profondamente il modo comune di ‘vedere le cose’3.
Sketches, e diaries, strumenti fondamentali dei viaggiatori pittoreschi, non
possono più assolvere alla funzione di album delle memorie, riducendosi a
utili ma riduttivi zibaldoni dei ricordi: si necessita un mezzo capace di
fermare gli attimi fuggenti di verità, e catturare la condizione del vivere
nella sua natura ed espressione più sincera4. Per dirla con Beaumont
Newall5, ‘l’ansia di scoprire la realtà diventava febbrile’.
Il 1839 è considerato l’anno di nascita della fotografia6, e quale mezzo
poteva esprimere la verità se non la camera da presa diretta, la macchina
fotografica.
Il Viaggio pittoresco del XX secolo, diventa così, in molti casi come in
quello di Pagano, un percorso fotografico, condotto spesso da artisti, in
molti casi architetti, con il fine ultimo di documentare, leggere, conoscere
il reale, oltre che per dare libero sfogo a quella che diverrà, in molti casi,
vera e propria passione per alcuni, raffinato ‘mestiere’ per altri.
Tra i viaggiatori fotografi, l’architetto istriano ha avuto indubbiamente
illustri precedenti nei primi sperimentatori del mezzo; molti erano stati i
3
Per quanto riguarda il discorso piuttosto complesso relativo alle avanguardie figurative e agli affetti di
queste correnti sulla fotografia si rimanda al capitolo III.
4
Molto interessante la considerazione del Galassi che, parlando del passaggio dalla pittura alla fotografia
afferma che, ad un certo punto della ricerca pittorica, si è giunti alla convinzione che la fotografia fosse:
«l’epìtome del realismo» per poi aggiungere che: «Per i fanatici della camera oscura, la crescente
popolarità di questo sussidio meccanico non è che un sintomo della rinvigorita esigenza di accuratezza
descrittiva. Altri citano la precisione della pittura Biedermeier oppure l’illusione spettacolare del diorama
di Daguerre». In fondo la fotografia non è altro che un modo per produrre automaticamente delle
immagini in una prospettiva perfetta. P. Galassi, Prima della fotografia, Bollati Boringhieri, Torino 1989.
5
Beaumont Newhall, storico dell’arte e della fotografia, ha scritto interessanti saggi sull’argomento; tra le
opere prodotte si seleziona il suo volume sulla Storia della fotografia, edito dalla Einaudi nel 1984.
6
Claudio Marra evidenzia una considerazione singolare dello Schwarz, il quale rileva la curiosa
coincidenza tra l’anno di nascita della fotografia e quello di Cézanne «la cui arte segnò
un’importantissima svolta nel processo evolutivo che si era avviato fin dall’epoca del Rinascimento. La
sua pittura decretò infatti la fine della prospettiva scientifica». H. Schwarz, Arte e fotografia, Bollati
Boringhieri, Torino 1992, p. 43, in C. Marra, Fotografia e pittura nel Novecento. Una storia “senza
combattimento”, Mondatori, Milano 2000.
5
professionisti a spingersi verso mete in alcuni casi esotiche e inesplorate, si
ricordano i viaggi avventurosi in Libano di Edouard Beneke, o quelli che
porteranno Maxime Du Champ a fotografare il misterioso ed affascinante
Egitto, in uno dei primi reportage fotografici del paese. Ancora nel 1862
un fotografo rilevatore inglese, Francis Bedford, compie un viaggio nel
vicino Oriente, da cui viene fuori una pubblicazione in due volumi con 172
fotografie.
Ma per ricondurre i casi a quei fotografi che per affinità formative risultano
più vicini a Pagano basterà ricordare il viaggio fotografico di Ruskin, o
quello del giovane Charles Edouard Janneret7, tourist a tutti gli effetti, visto
che nel suo itinerario produrrà schizzi e disegni ancor prima che fotografie.
Il giovane Jeanneret, pur criticando apertamente la fotografia, ritenendola
uno ‘strumento di pigrizia’ per l’architetto, per primo la utilizzerà, anche
come metodo di studio progettuale: «Jeanneret, sia che disegni o che
7
Nella rivista specializzata curata da Italo Zannier, «Fotologia», è inserito un interessante articolo del
Prof. Gresleri, nel quale quest’ultimo riprende in sintesi una ricerca particolarmente interessante che lo
aveva portato sulle tracce inedite di un giovane Le Corbusier fotografo entusiasta e appassionato, ricerca
che aveva dato vita all’interessantissimo volume sui Voyages d’Orient dell’architetto svizzero. L’autore
del saggio, puntualizza efficacemente il profilo fotografico di questo inedito Le Corbusier,
evidenziandone il percorso formativo ed evolutivo soprattutto nel suo aspetto tecnico. Sono
essenzialmente tre i ‘periodi fotografici’ di Le Corbusier individuati da Gresleri, un primo , il “Voyage
d’Italie” che risale al 1907, un secondo coincidente con gli anni parigini, intorno al 1908-10, ed un terzo,
connotato da una maggior padronanza e sicurezza nell’utilizzo del mezzo, documentato dalla campagna
in Oriente. In alcuni passi del suo saggio, Gresleri descrive così l’ultimo percorso fotografico di Le
Corbusier: «Durante il viaggio in Oriente, quando il tempo a disposizione è più ridotto, e mano a mano
che cresce la sua familiarità con l’obiettivo, alle pose su cavalletto si sostituiscono veloci riprese ottenute
appoggiando la camera al petto, determinando spesso scorsi ed obliquità singolari che non disturbano
l’autore, preoccupato più che altro cogliere in un breve istante quella particolarità ed unicità che si
sarebbero perdute coi tempi lunghi di una normale ripresa su cavalletto». Esistono notevoli affinità tra i
due architetti fotografi seppure risulti evidente un differente approccio alla fotografia da parte di Le
Corbusier rispetto a Pagano. Mentre il primo infatti sceglie il mezzo fotografico come un ulteriore
strumento di scandaglio della realtà, Pagano si troverà al contrario inconsapevolmente fagocitato dalla
macchina da presa diretta da cui viene coinvolto al punto tale da affermare che un giorno il ‘mestiere’ di
fotografo avrebbe potuto procurargli il pane più del suo lavoro di architetto. Per quanto riguarda
l’esperienza fotografica di Le Corbusier si veda: G. Gresleri, Le Corbusier e la fotografia, in «Fotologia»
n° 10, Alinari ed., Firenze Autunno/Inverno 1988, pp. 41-45. Id., Le Corbusier, viaggio in Oriente. Gli
inediti di Charles Edouard Jeanneret fotografo e reporter, Venezia, Marsilio 1984 e 1985; I. Zannier, Le
Corbusier fotografo, in «Parametro» n° 43, gennaio-febbraio, Faenza 1986, pp. 18-25; C. de Seta,
L’architettura della modernità tra crisi e rinascita, Bollati-Boringhieri, Torino 2002, pp. 119-186; Id.,
L’immagine fotografica e architettura della modernità, in G. Celant (a cura di), Arti e Architettura
1900/1968. Scultura, pittura, fotografia, design, cinema e architettura: un secolo di progetti creativi,
Skira, Milano 2004, pp. 69-74.
6
fotografi, procede sempre con la stessa logica che è quella di selezionare e
tagliare le immagini come se esse avessero subito un processo di
scarnificazione per cui l’oggetto compare nella sua nuda volumetria,
secondo una procedura e una poetica che sarà essenziale carattere della sua
pratica progettuale»8.
Una vera rivoluzione in ambito fotografico è rappresentata senza ombra di
dubbio, dall’invenzione delle macchine fotografiche compatte, portatili,
comode e semplici da usare. Lo stesso Le Corbusier nel suo viaggio in
Oriente si servirà di una pratica «Cupido 80».
La sostituzione dei vecchi strumenti a treppiedi con quelli nuovi, risulterà
comunque piuttosto graduale. I fotografi della prima scuola rimangono
infatti decisamente scettici dinanzi a questi piccoli ‘aggeggi’ fotografici un
po’ diabolici; tra gli illustri sostenitori degli strumenti di vecchio tipo ci
sarà Alfred Stieglitz9, che, in alcuni scritti del 1897, criticherà
caparbiamente determinati atteggiamenti dei fotografi ‘moderni’, temendo
il dilagare delle nuove macchine, che a suo dire si dimostrano adatte solo
«agli scopi dei globe trotter, di chi gira il mondo e desidera prendere
‘appunti fotografici’ nel corso del viaggio». In seguito lo stesso Stieglitz
farà uso – seppure in maniera molto controllata – di apparecchi fotografici
manuali.
Tra gli estimatori delle nuove macchine portatili, diversi saranno i
rappresenti della cultura artistica e architettonica del primo Novecento,
ricordiamo Carlo Mollino, Gabriele Mucchi, Ugo Sissa, Enrico Peressutti, e
appunto Giuseppe Pagano.
8
C. de Seta, L’immagine fotografica e architettura della modernità, cit., p. 70.
Alfred Stieglitz, di origini statunitensi (1864-1946), è stato un pittore e un fotografo di grande successo.
La sua carriera iniziata in Europa, assumerà in America i suoi connotati più vivaci e complessi. Nel 1903
fonda una rivista fotografica, «Camera Work», cui faranno riferimento molti artisti contemporanei.
Stieglitz sarà sempre molto legato al mondo dell’arte, la galleria da lui fondata, la 291 di New York,
ospiterà, a partire dal 1906 le opere più interessanti delle avanguardie europee. A. Madesani, Storia della
fotografia, Mondatori, Milano 2005, pp. 41-42.
9
7
In questo gruppo di amateurs più o meno avveduti e consapevoli,
l’architetto di origini istriane si inserisce come sempre su una linea di
confine, un ‘fotografo per caso’. Pagano si avvicina infatti alla fotografia in
maniera singolare, l’incontro con il mezzo per lui avviene quasi
incidentalmente, un insolito seppur piacevole imprevisto.
La sua singolarissima esperienza, infatti, nasce da un’esigenza precisa,
ovvero la necessità di documentare la realtà rurale italiana per la Mostra
sull’Architettura Rurale organizzata, insieme a Guarniero Daniel, in una
delle sale della Triennale di Milano del 1936, ed è proprio grazie a questa
circostanza che l’architetto farà di necessità virtù, trasformando il lavoro in
un’occasione di conoscenza, nonché nell’inizio di quella che diventerà
inaspettatamente una vera e propria attività parallela ed una passione.
Ma a differenza di un Le Corbusier, per fare un paragone con un celebre
collega, per il quale «la fotografia è compendiaria al disegno e alla scrittura
e quasi mai i tre strumenti si sovrappongono fra loro»10, con Pagano
succede esattamente il contrario, per lui, la macchina fotografica, diviene
una proiezione degli occhi e della mente, uno strumento nuovo che in molti
casi si sostituirà agli altri già utilizzati per rappresentare una inedita
‘visione’ del reale, e in senso più vasto, della vita.
Luigi Comencini11, parlando dell’avventura fotografica del suo amico
Giuseppe Pagano, racconta soprattutto dell’architetto posto dietro
l’obiettivo12, non tenendo però del tutto in conto un altro aspetto
profondamente importante, che incide in maniera non secondaria sugli
10
G. Gresleri, Le Corbusier e la fotografia, cit., p. 44.
Luigi Comencini, noto regista del neorealismo italiano, sarà legato all’architetto istriano da un
profondo affetto ed una stima professionale notevole; il regista sarà uno dei primi a recensire l’opera
fotografica di Giuseppe Pagano. Cfr. L. Comencini, Le fotografie di Pagano, in F. Albini, G. Palanti, A.
Castelli, [a cura di], Giuseppe Pagano Pogatschnig : architetture e scritti, Milano, 1947.
12
«Pagano non era un fotografo nel senso moderno della parola: artista che si serve della macchina
fotografica come il pittore del pennello. La fotografia era un mezzo di cui si serviva come architetto: tutto
in lui era subordinato all’architettura, alla visione delle cose più che degli uomini, alla notazione delle
opere dell’uomo più che dei suoi gesti. […] Ha usato della macchina fotografica come della tradizionale
matita con la quale l’architetto errante fissava le sue “impressioni di viaggio”». Ivi.
11
8
scatti del nostro: quella sua spasmodica curiosità di giornalista che lo porta
a fermare lo sguardo su ogni espressione di vita non solo costruita
dall’uomo ma prodotto stesso della natura, basti pensare alle immagini
dedicate alle nuvole, ai rami degli alberi, alle piante rugose e contorte, agli
specchi d’acqua.
La dimensione che la fotografia assume nella vita del Nostro architetto, è
infatti così complessa che può essere forse veramente compresa solo
sviscerando in profondità il suo ricco archivio, che va inoltre letto alla luce
di una considerazione globale dell’uomo che sta dietro l’obiettivo, un
architetto, ma anche un giornalista, un artista, un critico.
Purtroppo non sono rimasti taccuini di viaggio né un diario a documentare
il percorso fotografico di Pagano13, per fortuna però gli scatti generosi sono
in grado di descriverci il giro compiuto, che riprende l’Italia dai suoi luoghi
più ameni fino alle province sconosciute.
L’attenzione nei confronti del Bel Paese si dimostra totalizzante, tanto che
l’archivio si rivela piuttosto povero di immagini che ritraggano realtà
differenti da quella italiana; un ciclo di foto racconta il suo viaggio nei
paesi nordici e un reportage descrive gli anni di guerra in Grecia e Albania,
ma a parte queste, nessun’altra realtà internazionale viene fermata dagli
scatti dell’istriano.
«Pagano ha amato l’Italia nei suoi monumenti e ne ha lasciato una valida
testimonianza. Tutta l’Italia sfila sotto gli occhi di chi sfoglia il suo
archivio, l’Italia nelle sue pietre più commoventi, nei particolari minimi,
dove brilla l’ingegno della sua umile gente. Questo amore per una Italia
profonda e non turistica, bella e non pittoresca è tra le più valide
13
Esiste un diario personale dell’architetto da cui sono stati estratti alcuni brani pubblicati negli anni su
scritti e articoli monografici, ma nessuno che parlasse esplicitamente del suo lavoro come fotografo. Cfr.
G. Veronesi, Giuseppe Pagano, in Difficoltà politiche dell’architettura in Italia 1920-1940, Libreria
editrice politecnica Tamburini, Milano 1953; F. Albini, G. Palanti, A. Castelli (a cura di), Giuseppe
Pagano Pogatschnig : architetture e scritti, Milano, 1947.
9
testimonianze che Pagano ci abbia lasciato»14; è ancora Comencini che
parla, che ci racconta l’amore di Pagano per quella terra cui nemmeno
apparteneva di diritto essendo istriano di nascita, per la quale però ebbe una
fede tanto acuta da condurlo al sacrificio più estremo pur di difenderla.
Proprio questo suo ‘insano’ patriottismo lo spinge più di ogni altra cosa a
‘correr l’Italia’, come argutamente sottolinea l’amica Giulia Veronesi,
un’Italia ancora ignota e tutta da scoprire. Le sue foto diventano una «prova
d’amore»; nel momento in cui riprende le città, le campagne, le «luci solari
sulle piazze, sui prati e sui mari»15, la miseria nei vicoli, Pagano denuncia,
documenta, «perché la vergogna inducesse a lavare le sozzure, a rifare alla
patria un volto tutto chiaro e pulito, un volto sano; e qui si incontrano in lui
la passione per la fotografia e quella per l’architettura»16. Ma non solo,
nella sua ansia di documentare certe realtà umane e sociali, si riconosce la
necessità del giornalista di conservare la memoria di fatti e comprendere il
profondo significato degli eventi, di celebrare la vita e, nello stesso tempo,
di denunciarne la corruzione. I suoi scatti catartici filtrano l’apparenza delle
cose, degli oggetti, delle anime ritratte, fino a pervenire alla rivelazione alla
loro natura più intima e incontaminata. Quella di Pagano diviene
un’indagine psicologica condotta sugli uomini, sull’architettura, sul mondo
naturale ed artificiale; tutto viene indagato con l’occhio clinico del
giornalista che restituisce nelle immagini la sua idea del mondo, ma anche
lo sguardo pietoso dell’uomo in fondo attento conoscitore della natura
umana. «Io mi diverto a scorrazzare l’Italia per scovare nuovi documenti
fotografici e cinematografici da aggiungere al mio archivio; per scoprire
nuovi aspetti di una città, di un paesaggio, di un’opera d’arte. Ho costruito
così, a poco a poco, un mio vocabolario d’immagini che parlano dell’Italia
14
L. Comencini, Le fotografie di Pagano, cit.
G. Veronesi, Istantanee di un artista (otto fotografie di Giuseppe Pagano Pogatschnig), estr. da: «Le
vie d’Italia», rivista mensile del Touring Club Italiano, n. 3, Milano, marzo 1950.
16
Ivi.
15
10
a modo mio e per me. […] Un’Italia di poche parole, fatta di paesaggi
ricchi d’inesauribile fantasia plastica: l’Italia provinciale e rude, che dà
lievito al mio temperamento moderno assai più delle accademie e dei
compromessi delle grandi città»17. Un’Italia ‘a modo mio e per me’ dice
Pagano, quasi una dichiarazione d’intenti la sua, che nemmeno tanto
velatamente afferma di opporre questa sua immagine a un’altra, quella
imposta dal regime; eppure il difficile percorso di affrancamento dalla fede
fascista, avverrà in Pagano in maniera molto graduale e non da subito
consapevole; il suo percorso di conversione sarà combattuto e pieno di
ripensamenti seppure inesorabile. L’architetto non vivrà la caduta del
regime semplicemente come il fallimento di una fase politica ma come un
fallimento personale, il tradimento estremo di ogni sua fede. Scrive Giulia
Veronesi: «Era un sentimentale, un generoso e caldo tribuno, e un uomo
probo. Se del fascismo si servì, fu per servire un ideale, non il proprio
interesse: Pagano morì povero, e sempre fu sprezzante di onorificenze e di
onori»18. Non è condiscendenza passiva o aspirazione alla gloria storica a
indurre la fede fascista in Pagano secondo la Veronesi, ma una convinzione
sincera e onesta che attraverso il consenso e l’appoggio della dittatura si
potesse ‘fare’ realmente architettura19. La storia ci insegna il contrario, ma
quello che Persico aveva intuito da subito20, per Pagano sarà invece una
consapevolezza raggiunta e maturata solo dopo anni di speranze disilluse.
Molti giovani colleghi dell’istriano, straordinari intellettuali, pagheranno
con la vita l’insensatezza di quegli anni scellerati: Banfi, Belgiojoso,
17
G. Pagano, Un cacciatore d’immagini, in «Cinema», dicembre 1938.
G. Veronesi, Giuseppe Pagano, in Difficoltà politiche …, cit., p. 54.
19
«[…] Abbiamo dovuto conoscere anche noi la rabbia di non poter urlare “basta!”, la sopportazione di
compromessi odiosissimi, la mescolanza con persone, cose e atteggiamenti non certo esemplari, pur di
difendere qualche brandello delle nostre speranze e salvare, in qualche modo, la nostra libertà di artisti e
riuscire a tradurre in realtà almeno qualche frammento dei nostri sogni». G. Pagano, La nostra posizione,
«Costruzioni-Casabella», n. 188, agosto 1943.
20
Persico, convinto antifascista sin da giovanissimo, non riporrà mai alcuna fiducia nel regime ed avrà
sempre un atteggiamento risolutamente critico nei confronti delle convinzioni politiche dell’amico e
collega.
18
11
Giorgio Labò21, il giovane Terragni, Giolli, e gli stessi Persico e Pagano,
saranno solo alcune delle migliaia di ‘vittime’ del fascismo.
Solo in questa chiave è possibile leggere l’archivio fotografico del Nostro,
che, attraverso le sue creature di celluloide porta avanti con un incrollabile
fiducioso ottimismo le stesse battaglie condotte in prima linea nei progetti e
negli scritti. In una produzione così spontanea come quella fotografica si
legge forse l’anima più vera di Giuseppe Pagano, sicuramente quella più
libera dalle costrizioni della ratio e dalle imposizioni della sua personale
regola e etica morale.
b. La nascita dell’Archivio
L’Italia viene scoperta dall’architetto poco per volta, confortato, talvolta
lasciato sgomento dalle verità addirittura insperate rivelate dai viaggi. È
un’Italia rurale, fatta di gente semplice e legata ancora embrionalmente alla
terra quella che viene osservata, soprattutto nella prima fase fotografica, e
questo perchè ciò che spinge Pagano ad intraprendere il viaggio è
un’indagine da condurre sull’architettura rurale.
«Mi sono avvicinato, a poco a poco, al bello fotografico, come ad una cosa
ben distinta da ogni annotazione figurativa. Arte? Tecnica? […] Io so
soltanto che questa caccia d’immagini mi entusiasma»22.
Con queste parole estratte da un articolo comparso sulla rivista «Cinema»,
in un numero del 1938, Giuseppe Pagano racconta tutto il suo trasporto nei
21
Giorgio Labò, figlio dell’architetto Mario Labò, appena laureato e giovanissimo, muore fucilato dai
nazisti. Il padre ne lascia un ricordo nello scritto dedicato a Pagano: M. Labò, Pagano scrittore: cronaca
e documentazione, in F. Albini, G. Palanti, A. Castelli (a cura di), Giuseppe Pagano Pogatschnig:
architetture e scritti, Milano, 1947.
22
G. Pagano, Un cacciatore di immagini, cit.
12
confronti della fotografia, tecnica da lui già utilizzata ma, fino a quel
momento, non ancora ‘scoperta’, in quanto eccezionale strumento di
rappresentazione e interpretazione della realtà. Sono le parole di un
architetto fotografo che si affaccia su un mondo fatto per lo più di
specialisti e professionisti con l’ingenuità dell’allievo curioso ed inesperto.
L’interesse nei confronti della fotografia viene fuori paradossalmente da
un’occasione preferenziale, la necessità di produrre materiale di
documentazione per conto della VI Triennale di Milano del 193623. Si tratta
di realizzare un vero e proprio reportage foto-giornalistico che possa dar
conto delle condizioni della realtà rurale contemporanea. Ciò che si deve
realizzare è in pratica un’indagine di carattere socio-urbanistico e
architettonico.
È probabile però che siano stati soprattutto gli interessi specifici dello
studioso a spingere in questa direzione l’analisi, desideroso di dimostrare
che la vera arte italiana risiedesse nel patrimonio e nella cultura popolare,
culla di una tradizione aulica per troppo tempo sottovalutata e dimenticata
dall’uomo.
L’universo dell’architettura rurale, era stato fino a quel momento,
prudentemente ignorato dalla cultura accademica ufficiale, che si era
sempre guardata dal considerare poesia le manifestazioni di architettura
spontanea. Molto interessante al riguardo il volumetto di Bruno Zevi sui
Dialetti architettonici, in cui il critico evidenzia nei secoli tale aulica
indifferenza
nei
confronti
dell’architettura
‘minore’
che
dichiara
23
L’architetto racconta delle difficoltà incontrate nel reperimento del materiale per la Triennale in uno dei
suoi più vivaci articoli: «Pur essendo di natura molto ottimista, e già in possesso di un apparecchio da
presa a passo ridotto e di una ‘rolleiflex’ inappuntabile, ero fiducioso negli specialisti. Con l’egida della
Triennale di Milano, mi rivolsi così a tutti i regi sopraintendenti d’Italia pregandoli di fotografare, spese
pagate, i cascinali e le case rurali e i villaggi più interessanti della loro regione. Le risposte che allora mi
pervennero, scoraggianti, assurde, inverosimili, mi convinsero che dovevo assolutamente fare tutto da me.
[…] A questo coro di pessimisti che vedeva e vede l’Italia soltanto attraverso le schede delle
soprintendenze o le negative di Alinari io devo la mia totale conversione alla fotografia e i miei
vagabondaggi per tutta l’Italia a caccia d’immagini». G. Pagano, Un cacciatore d’immagini, cit.
13
effettivamente superata solo negli anni ’30 del Novecento24, grazie proprio
alla lucida genialità di Giuseppe Pagano che, per primo, «fruga nel
patrimonio edilizio minore, (fino ad allora) quasi totalmente estromesso
dalla storiografia artistica»25.
Vero è che, a quel letargo culturale cui si assiste in ambito architettonico
nei confronti delle specifica realtà rurale, non corrisponde la medesima
indifferenza da parte di un’altra cultura, quella della rappresentazione. Ed è
proprio a questo universo che Pagano si rivolge per trovare un sostegno alle
sue tesi.
In pittura e più chiaramente nel vedutismo, l’interesse rivolto al mondo
arcadico e bucolico rimane costante nei secoli. Nell’ambito della fotografia,
il cui approccio iconografico, soprattutto nel primo periodo, riprende
sostanzialmente quello pittorico, accade lo stesso.
Se però, in un primo momento, l’attenzione nei confronti del mondo umile
e contadino è di carattere essenzialmente estetico e l’obiettivo dei fotografi
è volto a catturare l’aspetto arcadico nella sua dimensione più romantica,
con il passare del tempo e delle ‘mode’ questa attenzione cambierà,
24
In un rapido excursus sull’incidenza dell’architettura minore nel corso delle fasi storico architettoniche,
l’autore giunge all’amara constatazione dell’assenza totale di attenzione, riguardo o interesse nei
confronti di certe espressioni architettoniche da parte della cultura accademica di tutti i tempi; Zevi difatti
rileva che, dopo l’epoca del Medioevo in cui si raggiunge ‘l’apice dello scambio tra aulicità e prosa’, nei
periodi storici successivi si passerà ad uno stato di assoluta indifferenza, se non addirittura ad uno
snobistico distacco nei confronti dell’architettura minore: «L’umanesimo rinascimentale tronca il
colloquio con i tessuti urbani popolari. […] In realtà, data la resistenza delle strutture medievali, le
trasgressioni ai precetti ideologici sono molteplici, e tuttavia, con l’eccezione della Ferrara di Biagio
Rossetti, non incentivano permute feconde con i dialetti. Il manierismo intacca, corrode e tradisce i
canoni rinascimentali ma non li elimina, … senza giungere ad un livello autenticamente popolare. Lo
stesso per il barocco. In quanto mosso da ‘intenti di persuasione occulta’, … deve parlare anche in prosa,
talvolta persino in dialetto; ma è un’azione gestita dalla ricerca psicologica di consensi. Il Settecento,
specie per impulso illuminista, dirama il raggio dell’influenza linguistica; si tratta di un’aulicità diffusa
capillarmente, ricettiva fino al punto da assumere aspetti provinciali e plebei.
La vibrante dialettica tra barocco e illuminismo viene repressa dal neoclassicismo. L’edilizia minore torna
ad essere bandita dalla cultura. Non sarà legittimata neppure durante l’eclettismo, … che censura un solo
contributo, quello appunto dell’edilizia popolare. […] Alla vigilia della prima guerra mondiale,
l’eversione futurista ebbe il merito di rompere con il passato eclettico, ma non ottenne consistenti riflessi
architettonici. Bisogna attendere il razionalismo degli anni Trenta per codificare un linguaggio valido per
una chiesa, un palazzo di giustizia, un quartiere operaio e una casa contadina»; Zevi parla della
codificazione condotta da Giuseppe Pagano che ritiene il primo pioniere di questa nuova ricerca. B. Zevi,
Controstoria dell’architettura italiana. Dialetti architettonici, Tascabili economici Newton, Roma 1996.
25
Ivi.
14
diventando ben altri gli aspetti fonte di fascino: la natura sociale e umana
dei contesti antropizzati rappresenterà nel XX secolo un nuovo, stimolante,
spunto di analisi per i fotografi.
Le prime riproduzioni dedicate al mondo rurale, riguardano per lo più
lavoro e manualità e le attività si svolgono in circostanze spesso
improvvisate. Fox Talbot26, e Hippolyte Bayard27 sono tra coloro i quali
insisteranno di più sul tema del lavoro, volendo, in alcuni casi anche
artificiosamente, ritrovare affinità tra l’arte e la vita quotidiana.
In queste prime esperienze però, l’interesse nei confronti della dimensione
arcadica è ancora puramente pittoresca, si indaga una bellezza mitica che,
per certi versi, poco o nulla ha a che fare con la realtà.
In Italia però il percorso della fotografia è una sorta di ‘viaggio in ritardo’
rispetto a ciò che avviene contemporaneamente negli altri paesi, pur
risultando l’influenza di questi ultimi, ad ogni modo, determinante.
Se nei primi anni di diffusione della fotografia nel nostro Paese, il mezzo
risulta quasi un esclusivo appannaggio di nobili capricciosi, un ‘giocattolo
per signori danarosi’28, per dirla con Wladimiro Settimelli, che rivolgono
26
Henry Fox Talbot nasce nel 1800 nel Dorset, in Inghilterra; noto come eccellente scienziato, inventore,
proprietario terriero, membro del Parlamento e della Royal Society per il suo lavoro di matematico e
scienziato, è passato alla storia insieme a Louis-Jacques Mandé Daguerre e a Nicéphore Niepce, come
uno degli inventori della fotografia. In particolare allo studioso inglese si deve l’ideazione della colotipia
(bella immagine), il processo chimico che, perfezionato nel corso degli anni successivi al brevetto del
1841, rappresenterà il primo passo verso il moderno metodo del positivo-negativo. A. Madesani, Storia
della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 2005.
27
Hippolyte Bayard, fotografo francese , amava fotografare nel silenzio del suo studio e spesso i suoi
soggetti erano inanimati. Negli anni 1840-50 erano comunque ancora ben pochi i modelli da imitare e i
fotografi procedevano a proprio piacimento, seguendo l’intuizione. Fox Talbot, analogamente a Bayard,
fotografa gruppi di attrezzi da giardinaggio. «Da un certo punto di vista queste composizioni non sono
altro che illustrazioni della vita di campagna», era evidente quindi la volontà di interpretare un universo
per molti versi affascinante, un mondo fatto di fatica e duro lavoro. I. Jeffrey, Fotografia, Rizzoli, gruppo
Skira, Milano 2003.
28
Tra questi singolari personaggi, come non ricordare la figura del principe Giulio Cesare Rospigliosi, o
quella dei conti Primoli, i due fratelli che girano per Roma con un grande apparecchio fotografico e
carrozza con tanto di servitori. W. Settimelli, La fotografia italiana, in J.-A. Keim, Breve storia della
fotografia, Einaudi, Torino 1976, ried. 2001. In particolare, il conte Giuseppe Primoli, amateur audace e
spiritoso, soprannominato il ‘re delle istantanee’, si dedicò a ritrarre sia l’alta società che la gente umile in
Italia e in Francia tra il 1888 e il 1905. Esiste una bibliografia discretamente vasta relativa al conte, nobile
sfaccendato con la passione per la fotografia. D. Palazzoli (a cura di), Giuseppe Primoli. Istantanee e
fotostorie della Belle Époque, Electa, Milano 1979. Si veda anche I. Jeffrey, Fotografia, cit.
15
all’universo rurale uno sguardo curioso e divertito forse anche pietoso ma
poco interessato, la situazione cambierà nel corso degli anni successivi.
Il passaggio attraverso le ricerche dell’avanguardia internazionale e
l’influenza di una nuova impostazione realistica nell’arte – che soprattutto
in letteratura troverà gli spunti e gli sviluppi più concreti – avvierà quel
processo di trasformazione che, anche in ambito fotografico, porterà al
mutamento profondo nel modo di vedere, indagare e quindi rappresentare
anche la realtà contadina.
Un fattore che ha indubbiamente inciso sull’indirizzo fotografico dell’Italia
degli anni Trenta è stato il percorso intrapreso dall’universo letterario e
narrativo; il realismo dell’anteguerra infatti aveva scelto proprio la
narrazione quale forma di comunicazione più aderente all’esigenza di
esprimere il dissenso e l’insoddisfazione culturale.
Scrittori come Elio Vittorini, Cesare Pavese, sfiorano il mondo della
provincia americana filtrandolo attraverso i romanzi di Dos Passos,
Faulkner, Cain, Hemingway, per dedurne una nuova ricerca assimilata e
italianizzata dalle loro voci originali e trasgressive.
Gli scrittori sono i primi, in ambito culturale, ad approdare al mondo della
provincia indagato in quanto archetipo della ‘cultura popolare’, alla ricerca
di una espressione artistica più vera e autentica. In realtà, la tensione verso
la realtà rurale in questi anni, si deve indubbiamente anche all’incidenza
del fascismo che, nell’ambiente contadino, riconosce quella maggioranza
politica capace di sostenerne il governo. Quindi, l’ambiente culturale da un
lato, e quello politico dall’altro, contribuiscono in definitiva a fare
dell’orizzonte dei ‘vinti’ un nuovo campo di indagine da parte di tutta la
cultura italiana del primo Novecento.
D’altronde la strada era già stata spianata dal verismo ottocentesco che per
primo trova in questo universo dei diseredati i suoi veri eroi. Significativa
16
testimonianza sono gli scritti di Giovanni Verga e ancora di più lo sono le
sue fotografie che costituiscono una interessante saldatura ideale tra
verismo e fotografia29. Dopo una fase pittorialista, ineludibile anche in
Italia, si avvia infatti quel discorso legato alla fotografia documentaria – di
cui gli scatti di Verga rappresentano il preludio – che rappresenterà la vera
svolta.
L’indagine di Giuseppe Pagano si lega direttamente a questo nuovo
concetto di fotografia intesa come documento.
È del 1936 la pubblicazione, uscita in occasione della Mostra
sull’architettura rurale30 allestita nello stesso anno, nella quale Pagano
affronta concretamente il tema delle radici più profonde dell’arte nostrana,
ricercandole nell’ambito di una tradizione architettonica primitiva.
L’opera viene edita da Giuseppe Pagano in collaborazione con Guarniero
Daniel che con lui conduce anche la mostra; è probabile che Daniel abbia
curato la redazione e la ricerca degli esempi di architettura rurale, mentre il
contenuto del testo è da addebitarsi indubbiamente alla felice dialettica di
Pagano, che un anno prima, nel ’35, aveva pubblicato su «Casabella» già
due articoli sull’argomento: Architettura rurale italiana, e Case rurali31,
nei quali anticipa quasi integralmente e con gli stessi termini, il dibattito
sviluppato
in
seguito
dall’allestimento
fotografico
e
poi
dalla
pubblicazione.
Il testo pubblicato in occasione della mostra, è un excursus attraverso le
tecniche, i materiali, le tipologie utilizzate nell’ambito dell’architettura
29
Giovanni Verga non sarà l’unico intellettuale del XIX secolo a fare un uso tanto all’avanguardia della
fotografia. Altri scrittori veristi come Luigi Capuana e Federico De Roberto si dimostreranno fotografi
dilettanti in grado di ottenere risultati nell’utilizzo del mezzo, davvero originali. In particolare, «Capuana
fa della fotografia uno strumento della sua poetica, non solo fonte di documentazione, ma mezzo per
scrivere». L. Criscenti, G. D’Autilia (a cura di), Autobiografia di una nazione. Storia fotografica della
società italiana, Editori Riuniti, Roma 1999, p. 68. Per quanto riguarda il lavoro fotografico di Luigi
Capuana, si consigliano i saggi scritti da Paolo Morello.
30
G. Pagano, G. Daniel, Architettura rurale italiana, U. Hoepli, Milano 1936.
31
Giuseppe Pagano, Case rurali, in «Casabella», n. 86, gennaio 1935; G. Pagano, Architettura rurale
italiana, in «Casabella», n. 96, dicembre 1935.
17
spontanea, caratteristica delle zone agricole e diffusa su tutto il territorio
peninsulare. Pagano si sofferma con curiosità ed esperienza ad analizzare
puntualmente gli esempi più interessanti di strutture primitive, dalle
capanne calabre, siciliane e campane, fino a quella perfezione
architettonica raggiunta con i trulli pugliesi. Ogni campione tipologico,
selezionato e fotografato, diviene spunto di ricerca, per comprendere e
ritrovare le origini delle tecniche contemporanee, in taluni casi per
suggerirne di nuove da utilizzare magari nell’ambito delle future
realizzazioni, intendendo il patrimonio antico quale fonte di riferimento
insostituibile per l’architettura moderna32.
Ma dietro la ricerca dell’architetto istriano, c’è anche la volontà di
rintracciare quell’ ‘orizzonte onesto ed eroico’ appartenente alla nostra
tradizione, celato dietro gli scempi realizzati negli ultimi anni da una
cultura architettonica ignorante, incapace di leggere nel passato preziosi ed
opportuni modelli di riferimento; afferma infatti Pagano: «l’analisi di
questo grande serbatoio di energie edilizie […] può riserbarci la gioia di
scoprire motivi di onestà, di chiarezza, di logica, di salute edilizia là dove
una volta si vedeva solo arcadia e folclore. È come fare una cura di cibi
semplici per chi s’è guastato con la pasticceria delle cariatidi, e constatare
quanta distanza vi sia tra le frasi fatte e la realtà»33.
La ricerca dell’onestà in architettura diventerà uno dei temi affrontati con
maggior caparbietà e tenacia dall’architetto. Egli rifuggirà sempre dalla
retorica monumentale di una certa cultura architettonica del Novecento;
diversi anni dopo, in occasione di una conferenza tenuta al Centro per le
32
«Questo immenso dizionario della logica costruttiva dell’uomo, creatore di forme astratte e di fantasie
plastiche spiegabili con evidenti legami col suolo, col clima, con l’economia, con la tecnica, ci è aperto
davanti agli occhi con l’architettura rurale. Un esame dell’architettura rurale perciò, condotto con questi
criteri, può essere non soltanto utile ma necessario per comprendere quei rapporti tra causa ed effetto che
lo studio della sola architettura stilistica ci ha fatto dimenticare. L’architettura rurale rappresenta la prima
e immediata vittoria dell’uomo che trae dalla terra il proprio sostentamento». G. Pagano, G. Daniel,
Architettura rurale italiana, cit., pp. 12-13.
33
Ivi, p. 15.
18
arti di Milano nel dicembre 1940, l’architetto affermerà: «Architettura
moderna significa anzitutto architettura fatta per uomini appartenenti alla
civiltà contemporanea; significa architettura moralmente, socialmente,
economicamente, spiritualmente legata alle condizioni del nostro paese;
significa costruire per rappresentare la civiltà di un popolo, per soddisfarne
i bisogni, per “servire” nel vero senso della parola. È necessario mettersi
bene nella testa che tutte le opere di architettura devono sottoporsi a questa
schiavitù utilitaria. […] Modestia di obiettivi e modestia di risultati, ma in
compenso chiarezza, onestà, rettitudine economica e, soprattutto, buona
educazione urbanistica»34. Chiara e concreta, la sua posizione si esaspera
trasformandosi spesso in una polemica senza mezzi termini contro ‘i grassi
pavoni delle arti ufficiali’, autori di opere prive di qualsiasi valore
intrinseco, purtroppo allora appoggiati da una critica ufficiale sottomessa al
volere della dittatura, «mentre le riviste che parlano di civiltà, e italiana per
giunta, si mettono al servizio della rettorica e sfruttano il grande passato per
contrabbandare gli ultimi rifiuti di un neoclassicismo senza patria e senza
fantasia»35.
Nel catalogo sull’architettura rurale, Pagano rivaluta gli esempi della
produzione locale richiamando alla memoria il viaggio in Italia di Ruskin,
in cui anche lo studioso si sofferma sull’edilizia contadina della provincia
nostrana. Vengono riportati i racconti dell’inglese con il compiacimento di
chi trova, nelle parole di un valido collega, le conferme ad una convinzione
radicata; scrive Pagano di Ruskin: «Pur in questa sua romantica adorazione
del pittoresco, l’illustre e fecondo scrittore, parlando dell’abitazione rurale
italiana, riusciva a determinare alcune osservazioni che ancor oggi possono
servire per chi si accontenta soltanto di un primo esame superficiale. Egli
34
G. Pagano, Sconfitte e vittorie dell’architettura moderna, conferenza tenuta al Centro per le arti di
Milano, dicembre 1940; in F. Albini, G. Palanti, A. Castelli, [a cura di], Giuseppe Pagano Pogatschnig:
architetture e scritti, Milano, 1947, p. 20.
35
Ivi, p. 21.
19
ne esaltava la “semplicità di forma”, “il tetto che è sempre piatto o poco
inclinato. […] E questa semplicità è forse l’attributo principale per il quale
la casa rurale italiana raggiunge la grandiosità di carattere, che
desideravamo e attendevamo. Mentre non ha nulla di inadatto alla umiltà
dei suoi abitatori, vi è nella sua aria una dignità generale, che armonizza in
modo bellissimo con la nobiltà degli edifici vicini e con la gloria del
paesaggio
circostante”»36.
Le
annotazioni
scritte
dallo
studioso
anglosassone nel 1837, sono riportate nel testo da Pagano, dopo quasi un
secolo, con ammirato compiacimento ed approvazione. L’architetto sembra
partire proprio da queste riflessioni, per poi rielaborare la ricerca
approfondendola di mille inediti spunti ancora oggi utili per lo studio della
cultura architettonica spontanea; ma l’indagine del Nostro non si limita ad
uno sterile resoconto, trasformando il dibattito e le riflessioni nel punto di
partenza per l’elaborazione di un vero e proprio codice stilistico nel quale
non è difficile né sbagliato riconoscere la formalizzazione dello stile
mediterraneo: «Scopo di questo lavoro è quindi di trovare la legge eterna
che ha creato nell’evoluzione della storia dell’uomo meravigliosi
documenti: la casa mediterranea, nella sua assoluta onestà, non
stilisticamente falsificata, corrisponde in ogni suo particolare ai bisogni
della vita agricola, semplice e laboriosa»37. Elementi interessanti al
riguardo sono le note dell’autore sulle tracce specifiche di architettura
spontanea ereditate dallo stile mediterraneo: «Il tetto a terrazzo è la forma
di copertura tipica in tutti i paesi del mezzogiorno e rappresenta la massima
conquista tecnica nell’edilizia.[…] A questo punto si potrebbe fare anche
una digressione estetica e constatare quanto contributo spirituale abbia dato
questo schema di copertura orizzontale alla concezione dell’architettura
moderna, quella che certi critici nostrani vogliono considerare ancora come
36
37
G. Pagano, G. Daniel, Architettura rurale italiana, cit., pp. 18-19.
Ivi, p. 59.
20
estranea alle tradizioni italiche»38. Non è solo il tetto a terrazzo a colpire
l’attenzione del Nostro, ma anche la tipologia delle case con scala esterna,
delle case a ballatoio, alcuni tagli di logge e balconi che dimostrano, anche
dal punto di vista formale, ‘rapporti con cadenza moderne’, reiterando
spesso identici elementi strutturali come fossero ‘standardizzati’, e
dimostrando insomma una ‘orgogliosa modestia tanto analoga al
sentimento della cultura contemporanea’.
A conclusione del volume, Pagano rivela anche il fine ultimo della ricerca,
ovvero la possibilità di individuare, in seguito a tali accurati studi, un
modello di riferimento progettuale «per affrontare con conoscenza più
approfondita il problema pratico delle nuove costruzioni rurali che il
Governo fascista sta progettando in tutta Italia. Difatti uno dei problemi
particolarmente importanti nel quadro dell’opera grandiosa della bonifica è
la soluzione perfetta della casa colonica»39.
L’architetto in definitiva dichiara l’intenzione in qualche modo didattica
del lavoro, che avrebbe dovuto rappresentare un riferimento prezioso per la
progettazione di nuovi quartieri fascisti; ovviamente è necessario tenere in
considerazione il fatto che, quando l’architetto istriano inizia lo studio sulla
casa rurale, non aveva ancora avuto inizio la sua ‘conversione’ alla
Resistenza, essendo ancora viva in lui la fiducia o meglio la speranza nella
politica del regime. Convinto e fiero, il ‘fascismo’ di questo primo periodo
di Pagano, va letto alla luce della sua personalissima esperienza, in cui
l’adesione alla dittatura deriva inizialmente da un radicato spirito
patriottico e dall’illusione che nel regime possa inverarsi la nascita di una
nuova, giusta società; com’è noto avverrà piuttosto il contrario ma questo
l’architetto lo scoprirà purtroppo negli anni e sulla sua pelle.
38
39
Ivi, p. 59.
Ivi, pp. 21-23.
21
Il lavoro fotografico dedicato all’architettura rurale, risulta tanto certosino
da giungere a contare circa duemila fotografie realizzate e poi
successivamente selezionate per la mostra e per il catalogo, di cui un
numero non ben specificato eseguito dal collaboratore Guarniero Daniel,
più quelle gentilmente fornite da studiosi e architetti, tra i quali Roberto
Pane40 che procurerà alcuni degli scatti di Ischia e Capri41.
Le riproduzioni diventano un vero e proprio documento atto a testimoniare
e a fungere da strumento finalizzato all’analisi del contesto; afferma
Pagano: «L’insegnamento estetico che può derivare da questo materiale
documentario, raccolto anzitutto per illustrare le tappe evolutive della casa
rurale, può essere più intenso di quanto possa sembrare in un primo
momento a chi vede soltanto, in queste fotografie, delle case umili, talvolta
trascurate, spessissimo considerate come infima materia da capomastro
campagnolo»42; al contrario, queste dimore auliche «per questo loro modo
di esprimersi, tutt’altro che retorico e non contaminate dalle falsità della
mediocre architettura borghese, riescono tanto interessanti all’occhio di un
40
Roberto Pane, storico dell’architettura napoletano, è stato uno dei pochi ad aver continuato
sistematicamente gli studi sull’architettura rurale avanzati da Pagano, con il quale per altro era stato
spesso in contatto, soprattutto in occasione della mostra allestita dall’architetto istriano. Nell’ambito della
vasta bibliografia scritta dallo storico napoletano sull’argomento, il testo più interessante è il volume
Architettura rurale campana, pubblicato a Firenze per le edizioni Rinascimento del libro proprio nel
1936, lo stesso anno della Mostra sull’architettura rurale. Lo studio condotto è assolutamente
interessante perché sostanzialmente riprende a carattere locale ciò che Pagano stava facendo in un ambito
nazionale. Pane perviene in sostanza alla medesima constatazione di Pagano e cioè che «le case rurali ci
seducono per il loro carattere di rudimentale necessità» evidenziandone quindi il carattere essenzialmente
funzionale cui si aggiunge la serena constatazione della metastoricità delle strutture spontanee, scrive
infatti il napoletano: «Come per la nudità dei suoi elementi costruttivi essa (la casa rurale) è senza tempo,
antica di pochi anni o di parecchi secoli».
41
Sarà proprio Pagano, nella prefazione al catalogo sull’architettura rurale, a specificare uno per uno i
nomi di coloro che avevano fornito parte del prezioso materiale in occasione della mostra: «La maggior
parte delle documentazioni fotografiche sono state eseguite da noi direttamente. Ne abbiamo scelte
soltanto le essenziali. Hanno con noi collaborato gli architetti: P.N. Berardi di Firenze, per parecchie
illustrazioni della casa toscana; M. Buccianti, per informazioni e fotografie delle case rurali del basso
Egitto; N. Chiaraviglio di Roma, per informazioni sul Lazio; E. Moya di Madrid, per informazioni e
fotografie di architettura rurale spagnola; R. Pane, per informazioni e fotografie di Ischia a Capri; G.
Pellegrini per una documentata relazione sulla Tripolitania; G. Pulitzer-Finali, per il Sahara sud algerino e
A. Scattolini per preziose indicazioni su tetti di paglia nel veneto. Il R. Politecnico di Palermo ci ha
fornito interessanti rilievi delle case rurali della provincia di Palermo. Il Prof. Arch. Gino Chierici, infine
ha cortesemente messa a nostra disposizione una ricca raccolta fotografica dei trulli pugliesi». G. Pagano,
G. Daniel, premessa introduttiva al testo Architettura rurale italiana, cit.
42
Ivi, p. 72.
22
architetto moderno». Così la sana architettura rurale, portatrice di una
bellezza modesta e discreta secondo Pagano, assurge ad unico modello
edilizio in grado di ‘vincere il tempo’ e superare le ‘caduche variazioni
decorative e stilistiche rinunciando a tutto ciò che è inutile e pleonastico’. È
straordinario rilevare, alla luce della conoscenza di tutta la produzione
architettonica di Pagano, la straordinaria coerenza delle sue idee politiche,
sociali, architettoniche, che a dispetto degli eventi rimarranno sempre
saldamente ancorate alle convinzioni e alla fede dei primi tempi: in tutte
quante le sue opere rimarrà infatti immutata la ricerca di quella bellezza
modesta ma onesta, leggibile nell’Istituto di Fisica di Roma così come nella
sede dell’Università Bocconi di Milano. Un unico filo di ricerca che trova
tutte le sue tracce proprio nell’analisi condotta in occasione della mostra
rurale, che, come una sorta di esperienza formativa, lo aiuterà forse a
mettere a fuoco i suoi stessi obiettivi progettuali.
Il volume riscuoterà un notevole successo; nel novembre del ’36, sul
numero 107 di Casabella esce un interessante articolo di Enzo Carli che
commenta entusiasticamente il catalogo definendolo «un documento e una
conferma di uno degli aspetti criticamente più significativi della polemica
sulla nuova architettura»43. Lo storico d’arte senese si dilunga nell’elogiare
la scelta coraggiosa dei due architetti soffermatisi su un tema ancora così
poco sviscerato in Italia, dato che, a suo parere, «il meditare
sull’architettura rurale» poteva contribuire «a sgombrare il terreno anche
delle altre arti dal perpetuarsi infecondo di un errore che, nonostante
l’attuale progresso della coscienza critica, seguita a creare artificiose
barriere nella classificazione dei più disparati prodotti espressivi, ispira
giudizi, giustifica mediocrità o umilia, confinandole nella mitica arcadia
delle sagre paesane, autentiche forme di bellezza, là dove dovrebbe regnare
43
E. Carli, Il «genere» architettura rurale e il funzionalismo, in «Casabella», n. 107, novembre 1936.
23
incontrastata una serena e sagace attitudine a discernere e a valutare
imparzialmente ogni vero accento di poesia»44.
L’aspetto più importante del lavoro condotto in questi studi di Pagano è
rivelato dalla sapiente capacità di lettura critica di Bruno Zevi, il quale
mette in evidenza un aspetto sostanziale di questo suo lavoro: il vero fine
perseguito dall’architetto istriano nel volume sull’architettura rurale, non è
quello di scoprire in un ambito ancora non sondato, nuovi ‘eroi’ della
progettazione, che a lui così poco interessavano, l’autore si ferma piuttosto
ai ‘pezzi’ di architettura ben lieto di ignorarne gli autori, per dimostrare
quanto sia grande e ricco il patrimonio architettonico e culturale nel nostro
paese, in parte ancora del tutto incompreso e inesplorato.
Afferma il critico : « Pagano non si occupò di edilizia popolare per il gusto
di aggiungere due o tre nomi all’elenco dei ‘grandi’, ma per rilanciare
un’idea di architettura»45. In definitiva, questo volume, assume, nell’ambito
della produzione culturale razionalista, il valore di un insegnamento etico
di portata assolutamente metastorica.
c. Una scelta inedita: l’analisi del contesto urbano e sociale attraverso un
catalogo fotografico
L’aspetto indubbiamente più originale, la novità assoluta della ricerca
condotta dai due autori, oltre che nel tema prescelto, consiste senz’altro nel
metodo utilizzato, e nel modo in cui esso viene proposto. L’idea di una
mostra e di un catalogo fotografico risulta infatti inedita e vincente46.
44
E. Carli, cit.
B. Zevi, Controstoria dell’architettura italiana. Dialetti architettonici, cit., p. 15.
46
Tra le esperienze direttamente collegate alla mostra di Pagano, Cesare de Seta richiama alla memoria
quella realizzata in America da Bernard Rudofsky con la mostra Architecture without architects, tenuta al
Museum of Modern Art di New York nel 1964. Lo storico napoletano fa evincere la profonda influenza
45
24
Nel lavoro di Pagano e Daniel, si da vita ad una ricerca le cui tesi vengono
dimostrate attraverso immagini e testo: le fotografie commentano le pagine
scritte e, nello stesso tempo, queste ultime, commentano le immagini. Il
potere dell’icona, viene inaspettatamente fuori in tutta la sua capacità
comunicativa. L’intenzione è quella di creare uno strettissimo rapporto tra
le due forme di comunicazione visiva, realizzando quindi un approccio di
valore documentario assoluto. Ciò che più colpisce di questo lavoro è, in
definitiva,
l’indipendenza
dell’elemento
fotografico.
Le
fotografie
finiscono per recare anch’esse un messaggio, come il testo, un messaggio e
un significato preciso di cui non si potrebbe fare a meno così come delle
parole, insomma l’approccio alla materia è quasi di tipo fotogiornalistico.
Con una incredibile semplicità, viene adottato nel migliore dei modi il
nuovo mezzo di comunicazione e divulgazione, inteso quale strumento di
indagine e conoscenza del territorio antropizzato. In Italia è la prima analisi
di questo tipo condotta con uno strumento ed un metodo ancora poco
sondati di cui si conoscono solo alcune delle infinite potenzialità.
Ci si chiede a questo punto quale esempio europeo ed internazionale possa
effettivamente essere valso al nostro da riferimento.
Quella che si può considerare in assoluto la prima indagine di un certo
spessore mai compiuta su un territorio mediante l’utilizzo della fotografia,
risale all’estate del 1851 e viene realizzata in Francia, dove la
esercitata dalla mostra di Pagano del ’36 su quella poi realizzata da Rudofsky nel ’64, che idealmente
viene organizzata come prosieguo e sviluppo della prima. Cfr. C. de Seta, Il destino dell’architettura:
Persico, Giolli, Pagano, Laterza, Roma-Bari, 1985, p. 292.
Effettivamente in questa occasione, l’architetto viennese che per tanti anni lavora in collaborazione con il
napoletano Luigi Cosenza, riprende quel discorso sull’architettura spontanea che trova indubbiamente le
sue origini nel lavoro di Pagano. Rudofsky continua le indagini su questo tema specifico anche negli anni
a seguire tanto che, nel 1979, darà alle stampe un interessante volume intitolato Le meraviglie
dell’architettura spontanea, edito dalla Laterza. Lo studio accurato e puntuale riprende molti dei temi
paganiani dell’architettura rurale, collegandosi poi in maniera diretta con altre indagini, che,
contemporaneamente a livello internazionale, stavano indirizzando il cammino verso l’architettura
mediterranea. Esiste difatti un collegamento evidente tra la ricerca svolta negli anni ’30 da Pagano e
quella che avrebbe poi portato alle prime definizioni di casa mediterranea, le cui origini probabilmente si
devono proprio all’istriano ed alle sue riflessioni sulla dimensione spontanea dell’abitare che aveva aperto
nuovi, impensati, orizzonti architettonici. Cfr. Capitolo IV di questo volume.
25
Commissione per i Monumenti Storici incarica cinque fotografi, fra i quali
il celebre Hippolyte Bayard, di documentare una serie di edifici
architettonici da restaurare. Nasce la Mission Héliographique, che tocca più
di 120 località in 47 dipartimenti francesi47. La fotografia risulta per la
prima volta in grado di registrare il territorio, e si tratta di un’operazione
oggettiva il cui fine è la conoscenza, in un clima di totale fiducia positiva
nel progresso; in questo già allora la tecnica fotografica dimostra di
precorrere i tempi, visto che la prima Mission risale appunto alla metà
dell’Ottocento ed allora l’uso stesso della fotografia non era per nulla
comune, e in alcuni casi nemmeno conosciuto48.
Ma l’esperienza più affine per intenti e metodo, e che si svolge quasi in
contemporanea con il lavoro realizzato da Pagano è l’indagine condotta sul
territorio americano dalla Farm Security Administration (FSA).
In effetti non possiamo essere certi che l’architetto, vissuto sempre in Italia,
abbia avuto contatti con tali esperienze d’oltreoceano ma, vista la sua
sempre dichiarata apertura nei confronti della cultura internazionale, non
può di certo passare inosservata la singolare analogia esistente tra
l’approccio all’indagine condotto sul territorio americano dalla FSA e
quello portata avanti dal Nostro in Italia.
I motivi che portano alla nascita della Farm Security Administration,
singolare agenzia governativa, costola del Dipartimento dell’Agricoltura
americano, sono molteplici, complessi e di grande interesse.
47
A. Madesani, Storia della fotografia, cit.
Lo scopo dichiarato è quello di ‘gettare le basi di un museo pittoresco e archeologico’. Bayard parte per
la Normandia, la tecnica fotografica di cui si serve prevede l’uso di lastre di vetro all’albumina, Edward
Denis Baldus va a Fontainebleau, in Bretagna e nel Delfinato munito di negativi di carta; Grey e Mestral
in Turenna e in Aquitania, mentre Le Secq si reca nella Champagne, in Alsazia e in Lorena lavorando su
negativo di carta cerata. Le immagini prodotte costituiranno un vero e proprio censimento monumentale
della Francia e non saranno mai pubblicate. Cfr. anche J.-A. Keim, Breve storia della fotografia, Piccola
Biblioteca Einaudi, Torino 2001. Un articolo molto interessante sulla ‘missione’ francese è quello di J.F.
Chevier, Architettura e paesaggio. Dalla Mission Héliographique alla DATAR, in «Rassegna», numero
monografico sulle Fotografie di architettura, dicembre 1984.
48
26
Salito al governo degli Stati Uniti Franklin Roosevelt, il paese è allo
sbaraglio nel tentativo di uscire dalla grande crisi del ’29, causata dal crack
della borsa alla quale si aggiunge una calamità terribile che, dal 1932 al
1936, vede l’intera zona degli Stati Uniti compresa tra il Texas e North e
South Dakota, colpita da una gravissima siccità che strema e fiacca la
condizione già precaria del mondo agricolo.
Con l’aggravarsi della situazione il presidente e i suoi consiglieri avvertono
la necessità di comprendere e conoscere il territorio americano, onde
approntare un appropriato quadro di leggi ed interventi volti al sostegno e
miranti alla ripresa dei contesti urbani come di quelli extraurbani e più
propriamente agricoli; per questo motivo nel 1935 Roy Stryker, assistente
alla cattedra di Economia presso la Columbia University del Prof. Redford
Guy Tugwell (consigliere del presidente Roosevelt), viene incaricato di
mettere insieme un gruppo di lavoro per documentare la situazione delle
zone agricole del paese49.
Nasce in questa occasione la più importante missione fotografica della
storia: la Farm Security Administration.
In realtà il compito affidato a Stryker consiste nel cercare di illustrare i
problemi concreti, nonché i rapporti sociali di un certo contesto urbano e
contadino della società americana, sarà poi tutta sua, la decisione di
assolvere tale incarico conducendo una vera e propria campagna
fotografica50. Anche in questo caso, ci si trova di fronte ad una profonda
carenza di materiale documentario a disposizione, che spingerà lo studioso
americano ad assoldare un gruppo di reporters: sostanzialmente lo stesso
presupposto che aveva spinto Pagano ad improvvisarsi fotografo in prima
49
A. Madesani, Storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 2005.
È possibile che Stryker abbia avuto notizia della ricerca condotta dal sociologo Paul Schuster Taylor
assieme alla fotografa Dorothea Lange (che diventerà membro della FSA) in California sulla crisi dei
lavoratori agricoli nel 1935, e che può essere valso a lui da esempio di riferimento. Precedentemente la
stessa Lange aveva affrontato, in maniera individuale e non organica, i problemi del proletariato nel 1933,
con una pubblicazione che aveva avuto la forza di una denuncia: White Angel Breadline.
50
27
persona, con le dovute differenze dei due casi, considerando il fatto che
l’architetto istriano non aveva a disposizione i mezzi economici di Stryker
essendo indubbiamente la sua non una missione governativa.
Nel testo introduttivo del catalogo uscito nel 1975, in occasione della
mostra italiana del materiale raccolto dall’FSA, a cura di Arturo Carlo
Quintavalle, vengono evidenziati gli aspetti e i caratteri peculiari di questa
esperienza, che rivela notevoli analogie con quella italiana; in entrambi i
casi si giunge al medesimo risultato, «il recupero del popolare non come
luogo di rifugio mitico ma come momento di inveramento di una cultura
‘nazionale’»51; inoltre, sull’aspetto sociale e documentario della missione
americana incidono – come pure accade per l’esperienza italiana di
Giuseppe Pagano – «gli sviluppi di una ricerca profondamente impegnata a
livello civile, la Neue Sachlickeit, che in Germania assume un rilievo
determinante come alternativa, in certo senso, alla posizione del Bauhaus
sui temi dell’arte»52.
Anche la svolta socialista della politica internazionale in cui si identifica il
lavoro della Farm, avrà un discreto seppur non evidente impatto sulla
cultura italiana.
Bisogna considerare che, negli anni di contestazione in cui si assiste alla
nascita dell’FSA, a livello internazionale la piega rivoluzionaria che
stavano prendendo certe vicende politiche era chiara; diversi fotografi della
Farm, infatti, in special modo Ben Shahn, si dimostrano molto vicini agli
ambienti rivoluzionari internazionali. In particolare Shahn seguirà sempre e
molto da vicino gli eventi che porteranno alla rivoluzione messicana. Molti
artisti messicani di questo periodo rappresenteranno un riferimento
esemplare per lui come per tanti altri protagonisti del mondo artistico
51
Aa. Vv., Farm Security Administration (La fotografia sociale americana del New Deal), introduzione
di A.C. Quintavalle, catalogo della Mostra itinerante organizzata dal Centro Studi e Museo della
fotografia e dell’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Parma, Parma 1975.
52
Ivi, p. XVI.
28
contemporaneo53; figure come quella del pittore Diego Rivera e della
moglie Frida Cahlo, ai quali si unisce la voce di una contemporanea
fotografa italiana e attivista reazionaria che lo stesso Pagano non poteva
ignorare, Tina Modotti54, incidono profondamente con il loro esempio
sovversivo e le posizioni d’avanguardia su tutta la cultura internazionale. Si
parla, in definitiva, di un fermento diffuso che in maniera diretta o indiretta
giunge sicuramente all’ambiente culturale italiano e probabilmente
all’architetto
istriano,
attento
come
pochi
all’agitazione
e
alle
problematiche che scuotevano il mondo fuori dallo stivale.
Ciò che Pagano assorbe da queste esperienze d’oltreoceano è un nuovo
modo di guardare e indagare il territorio antropizzato alla luce di una
lettura che potremmo definire anche sociologica.
Questa inedita attenzione nei confronti di una realtà diseredata,
problematica, evidenzia niente altro che la nascita di una sensibilizzazione
sempre più diffusa nei confronti di determinate realtà fino a quel momento
mai prese in considerazione. Nell’ambito di un contesto puramente
architettonico, il discorso non è poi slegato dal dibattito sulla casa che pure
tribolava la cultura architettonica di quegli anni e che vede in Italia proprio
la voce di Pagano alzarsi di un tono più alto su quelle degli altri.
53
Allo stesso Walker Evans è stata accreditata un’influenza profonda da parte della cultura artistica
messicana; scrive Ian Jeffrey a questo proposito: «È probabile che Evans abbia tratto ispirazione (per i
suoi lavori fotografici) dalle grandi pitture composite, raffiguranti scene di vita americana, dipinte
all’inizio degli anni Trenta da Diego Rivera, pittore messicano di murales, studi elaborati e molto spesso
critici della società industriale. Evans certamente li conosceva avendoli fotografati alla New Workers’
School di New York per l’inclusione nel volume di Bertram Wolfe Portrait of America (1934). Rivera era
un critico feroce che esponeva i suoi punti di vista in modo alquanto brusco in immagini cariche di tratti
grotteschi e modelli esemplari contrapposti, accanto ad affollate scene di vita quotidiana. Evans analizza
con più calma le situazioni, ma fa uso in American Photographs di una sintassi pittorica simile». I.
Jeffrey, Fotografia, cit.
54
Tina Modotti (1896-1942), compagna di Edward Weston, fotografo americano di grande rilievo, è
italiana di origini ma vive quasi tutta la sua vita in Messico. Eroina della rivoluzione messicana, le sue
foto simboleggiano la dignità e le battaglie delle popolazioni indigene attraverso le immagini di bambini
che giocano nella terra e dei volti imperiosi delle donne indie. In seguito all’espulsione per cause politiche
dal Messico nel 1930, vive per un periodo in Germania, dove le sue immagini vengono utilizzate da una
rivista di sinistra, «Der Arbeiter-Fotograf». A. Madesani, Storia della fotografia, cit., pp. 110-111.
29
Volendo isolare, nell’ambito dell’FSA i singoli fotografi, tra i reclutati
forse quello più affine a Pagano per approccio, intenti e per il modo di
usare la macchina è Walker Evans che proprio nel 1936, anno della mostra
italiana sull’architettura rurale, si stacca dal gruppo per realizzare, insieme
a James Agee, un libro sulle condizioni dei mezzadri in Alabama. Singolare
la scelta di unirsi proprio ad uno scrittore per condurre a termine il libro,
unendo quindi due forme narrative: la scrittura e la fotografia, stesso
binomio utilizzato da Pagano nel catalogo seguito alla mostra55.
Quello dell’istriano è ‘un occhio lirico e non oblioso’ per usare le parole di
Giulia Veronesi, l’occhio del fotografo e dell’architetto, ma anche del
giornalista, che nei suoi scatti denuncia, afferma, sottolinea, rivela, insegna,
scrivendo pagine di storia e lo stesso in definitiva seppure in modo
differente, farà Evans.
Di certo, ciò che delle immagini di Evans colpisce per le analogie con gli
scatti dell’architetto, è tra le altre cose la scelta dei temi indagati: il
paesaggio ad esempio, inteso non solo nella sua dimensione lirica ma anche
concreta; Evans riprende non il paesaggio che circonda la città ma piuttosto
«la città stessa e il suo rapporto con l’ambiente»56. Confrontando alcune
foto del ‘cacciatori d’immagini’ con quelle di Walker Evans, si avverte uno
spirito comune, una comune intesa e sensibilità ad esempio nel rivelare la
eventuale presenza degli uomini non in maniera diretta ma attraverso le
loro tracce, «la strada principale, le strade secondarie sono in Evans,
deserte, è l’architettura infatti che presuppone immediatamente, allude,
richiama la presenza umana, senza questa i personaggi sarebbero fuori della
55
Nel 1939 giungeva clandestinamente in un’Italia sotto censura fascista American Photographs, un
racconto per immagini che causerà un forte choc alle giovani leve della fotografia italiana. L’opuscolo
viene pubblicato in quello stesso anno sulla rivista «Corrente» e recensito da Alberto Lattuada.
Involontariamente questo lavoro deciderà le sorti del realismo fotografico italiano, influenzando in modo
diretto le prime opere inquadrabili nella corrente neorealista, da Occhio Quadrato dello stesso Lattuada
all’antologia Americana di Elio Vittoriani, nonché la seconda fase della produzione fotografica di Pagano.
56
Aa. Vv., Farm Security Administration …, cit., p. XX.
30
storia»57. Negli scatti del fotografo americano inoltre, come in quelli del
nostro architetto, l’interesse è rivolto all’architettura così detta ‘coloniale’
con la volontà precipua di recuperare una cultura nazionale. Per questo
l’occhio del fotografo si posa sul costruito in maniera rigorosamente
analitica, utilizzando vedute centrali, serie di immagini staccate, composte,
ma su tutte, è evidente uno stile di racconto inconfondibile; in questo
ultimo aspetto, dalla maniera di fermare la realtà sin troppo rigorosa di
Evans, si distingue invece il lavoro di Pagano, il quale si lascia andare a
tagli e punti di vista inediti quasi mai suggeriti da uno regola o una
impostazione prestabilita, che, al contrario, rendono un po’ troppo rigidi
alcuni scatti del fotografo americano. In questo aspetto forse Pagano
potrebbe essere piuttosto associato ad un altro singolare protagonista della
FSA: Ben Shahn. La sua tecnica infatti spazia dalle sperimentazioni libere
della nuova oggettività con l’utilizzo del fuori fuoco e dello sfumato, ai
tagli obliqui e radenti58. Ma per l’impegno ideologico e morale degli scatti
di Pagano il confronto con la Lange, che collabora solo per pochi anni con
la Farm, è immediato. Dorothea Lange conduce una vera e propria ricerca
antropologica che la vedrà sempre in prima linea nella denuncia delle
ingiustizie e iniquità del governo americano; inoltre, un altro aspetto la lega
all’architetto istriano è la sua esplicita attitudine narrativa, l’intenzione
della Lange è quella di «scrivere di una situazione sociale, il suo
fotografare vuole essere come un documento; tutto ciò si inserisce in una
situazione letteraria che è quella del romanzo-saggio, e del romanzo ‘di
57
Ivi, p. XX.
«Le sue immagini hanno il casuale, l’asimmetrico dello sguardo privato, della osservazione del
particolare; per questo le sue figure non sono mai messe in posa». Idem, p. XXIII. L’approccio
fotografico di Shahn è la risposta ad una chiara visione potremmo dire politica del mondo che lo circonda:
il suo eliminare sé come fotografo testimone, come fotografo-giudice, è frutto di una volontà precisa,
quella di rifiutare la figura classica dell’intellettuale, dell’esperto che dall’alto del suo sguardo in fondo
condiziona il contesto. Evidentemente è una precisa coscienza politica a guidarlo, una scelta di sinistra se
non addirittura marxista.
58
31
intervento’»59 insomma nulla di più vicino al carattere giornalistico
dell’approccio di Pagano.
In definitiva non esiste una certezza del confronto di Pagano con alcune
delle campagne fotografiche contemporanee condotte sui territori
internazionali, risulta comunque oltremodo probabile che il riflusso di una
certa ricerca d’oltreoceano avesse raggiunto il nostro esterofilo giornalista e
non stupirebbe affatto se avesse in prima persona preso visione dei lavori
condotti in quegli stessi anni in Francia e in America.
Giuseppe Pagano, in tutta la sua carriera di architetto, critico, giornalista, si
dimostra d’altronde sempre attento a cogliere la germinazione dei nuovi
dibattiti internazionali e sappiamo che di certo seguì la questione
dell’abbandono delle campagne, cui è saldamente legata l’esperienza della
Farm. L’attenzione di Pagano si rivolge ovviamente soprattutto a quegli
aspetti più propriamente architettonici conseguenti ai disagi causati dai
profondi mutamenti sociali verificatisi nel giro di pochi anni. Quindi se il
carattere della campagna della Farm è più legato a un discorso sociale,
quello della ricerca di Pagano risulta più interessato al carattere
architettonico60 del problema da cui poi fa derivare le conseguenze di
carattere sociale.
59
Ivi, p. XXII.
L’architetto, come sempre in prima linea nei dibattiti e in particolare nei confronti di quello relativo
all’alloggio, punta subito il dito contro le cause di tali disagi, da ricercare a suo parere nella pessima
conduzione della politica urbanistica e architettonica.
Molto interessanti riguardo al tema della casa e più in generale del problema urbanistico, sono gli articoli
pubblicati su «Casabella»; in particolare nel saggio intitolato l’ordine contro il disordine, Pagano
recupera ancora una volta il tema della casa rurale facendola assurgere ad esempio e modello di
perfezione e ordine: «Nella concezione della casa, se si tolgono le eccezioni dei trulli e dei pagliai, che
ripetono ancora alcune fasi di abitazioni antichissime, l’evoluzione verso l’angolo retto e verso lo schema
ortogonale è già sufficientemente grande. Ma negli aggregati di case – direi quasi, con termine
batteriologico, nelle colture di case – il senso di ordine è ancora gravemente compromesso da molte
barriere che si oppongono ad una realizzazione geometrica completa e perfetta. Difatti, dove le barriere
sono minori e dove esiste una maggiore libertà di atteggiamenti, l’uomo si abbandona subito, con logica e
funzionale eleganza, al suo istintivo ideale geometrico. Una casa rurale, una cascina di pianura, una
loggia della collina bergamasca si inseriscono con spontanea grazia lineare entro la grande geometria
delle colture e dell’orientamento solare». G. Pagano, l’ordine contro il disordine, in «CasabellaCostruzioni», n. 132, dicembre 1938.
60
32
Pagano però, nell’analizzare i problemi più spinosi della realtà rurale, non
si limita a considerare il depauperamento delle risorse dovute
all’abbandono delle campagne, ma soprattutto l’impoverimento culturale
indotto da tali trasformazioni: la conseguenza più grave verificatasi era
stata infatti la sistematica rinuncia alle tradizioni antiche e a quelle
conoscenze trasferite di padre in figlio che arricchivano le comunità e che
riguardavano ovviamente anche tecniche architettoniche tramandate nei
secoli, un patrimonio culturale decisamente troppo prezioso per poter
essere perso.
Proprio questo delicato aspetto spingerà l’architetto a portare avanti, anche
dopo l’esperienza della Mostra del ’36, la catalogazione dei paesi rurali
italiani e delle loro realtà; immortalando le più singolari dimensioni
arcadiche attraverso gli scatti fotografici, Pagano ne garantisce in qualche
modo la sopravvivenza.
In definitiva, possiamo dire che, quella sull’architettura rurale italiana di
Pagano, si dimostra un’analisi assolutamente inedita sotto molti punti di
vista.
Le immagini di Matera, delle province lombarde e campane fino alle realtà
più isolate del Trentino rappresentano una testimonianza muta eppure
irrinunciabile del prezioso patrimonio architettonico e culturale dell’Italia
degli anni Trenta, un patrimonio giunto fino a noi anche grazie alla
lungimiranza di un eroe della Resistenza. Pagano arricchirà l’ archivio fino
agli ultimi anni della sua vita.
La fotografia, nelle sue mani sapienti, diviene uno strumento eccellente per
documentare e porre a nudo certe realtà, per denunciarle e mettere in
guardia la società contro l’ingenua presunzione che si possa progettare il
nuovo senza tenere nel giusto conto le tracce e i suggerimenti preziosi del
nostro passato. Ma il punto è che di questo nostro passato Pagano non
33
sceglie solo ‘nobili’ esempi di riferimento ma cerca i suoi prototipi
nell’ambito di quelle opere che a suo parere più di altre rispecchiano la
‘orgogliosa modestia’ del popolo italiano.
34
II. In lungo e in largo attraverso il Bel Paese seguendo le tracce di un
architetto fotografo
a. Il corpus dell’Archivio fotografico
Il materiale fotografico raccolto negli anni da Giuseppe Pagano, può essere
essenzialmente distinto in due parti: il materiale collezionato per la VI
Triennale61, che conta circa 1300 immagini e un altro gruppo più folto,
realizzato dopo la mostra, consistente in 3558 provini cui corrispondono
quasi in ugual numero i negativi.
Le fotografie realizzate in occasione della Mostra sull’architettura rurale,
sono raccolte in volumi non numerati, che recano incisa in dorato la scritta
‘VI Triennale’, contenenti negativi 6x6 e relativi provini stampati a
contatto; in questa prima esperienza, Pagano non compie una schedatura
puntigliosa e accurata come farà poi, individuando ciascun negativo con
una sola cifra identificativa; a questa indeterminatezza, si aggiunge il fatto
che i provini non riportano alcuna informazione sull’oggetto ripreso,
eventuali riferimenti topografici, né altre annotazioni. Questa notevole
carenza di notizie specifiche relative alle fotografie del primo gruppo, ha
comportato inevitabilmente una elevata difficoltà nell’individuazione dei
luoghi e degli oggetti architettonici ripresi.
La seconda parte dell’archivio invece, prodotta dopo il 1936, viene
organizzata in maniera decisamente più scrupolosa, secondo una doppia
cifra relativa al volume in cui è contenuto e il numero di identificazione di
ciascun negativo, mentre i provini, stampati sempre a contatto, sono
61
Si tratta della VI Triennale di architettura che si tenne a Milano nel 1936. In questa occasione Giuseppe
Pagano viene nominato direttore della mostra, insieme a Mario Sironi e al critico Felice.
35
collocati su appositi supporti cartonati corredati da tutta una serie di
informazioni fondamentali che hanno permesso una semplice e
relativamente veloce conoscenza dell’intero materiale archiviato.
Questa prima distinzione nell’ambito della produzione, risulta essenziale
onde comprendere il ciclo evolutivo del lavoro fotografico di Pagano che
subisce un sostanziale cambiamento nella fase di passaggio tra il primo
periodo fotografico – coincidente con la produzione del materiale per la
mostra – e il secondo periodo.
A dispetto di queste due fasi è possibile ad ogni modo, individuare alcuni
fondamentali argomenti oggetto di studio, nati nella maggior parte dei casi
dalla curiosità e per certi versi dalla deformazione professionale
dell’architetto posto dietro all’obbiettivo, che riprende del mondo ciò che
più lo attrae e lo colpisce.
Come infatti è stato già evidenziato nei primi studi condotti sull’archivio62,
nell’ambito della ricca documentazione fotografica si distinguono alcuni
temi peculiari trattati in modo attento e preciso: l’architettura rurale,
l’architettura contemporanea, l’archeologia, il fascismo e la guerra, il
lavoro ed il tempo libero, le forme, i ritratti.
Al di là dei negativi utilizzati in occasione della mostra, davvero pochi ne
vengono riprodotti per la pubblicazione in riviste e volumi. Tra questi,
alcuni scatti sono impiegati per l’illustrazione di articoli su periodici di
vario genere, più specificamente architettonici, nonché di argomento foto e
cinematografico; tra le riviste individuate, c’è ovviamente «Casabella»,
sulla quale Pagano riprodurrà diversi scatti realizzati tra il 1936 e il 193963;
62
Cfr. C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, Electa, Milano 1979; Id., Giuseppe Pagano
fotografo, in Il destino dell’architettura, Persico Giolli Pagano, Laterza, Roma-Bari, 1985, p. 259.
63
Su «Casabella» vengono pubblicate le seguenti immagini: Autocamionale vol. 3 num. 2, «Casabella»
n°107, novembre 1936; Bandiere vol. 42 num. 10 e num. 17, «Casabella» n° 108, dicembre 1936;
Cariatidi vol. 51 num. 33, «Casabella» 1936; Balilla vol 41 num 25 e num 29, «Casabella» n° 116,
agosto 1937; Paestum vol. 8 num. 2, Paestum vol. 7 num. 49, «Casabella» n.109, gennaio 1937;
Litoceramica vol. 61 num. 21, «Casabella» n. 127, luglio 1938; Gandino vol. 22 num. 47, «Casabella» n.
130, ottobre 1938; Gandino vol. 23 num. 16, «Casabella» n. 130, ottobre 1938; Edolo vol. 17 num. 23,
36
alcuni negativi verranno riproposti su «Domus» tra il 1940 ed il 194164,
cioè nel breve periodo in cui Pagano dirige la rivista insieme a Bontempelli
e Bega, altre fotografie sono pubblicate sul periodico specializzato
«Natura»65,
nonché
diverse
proposte
su
«Fotografia»66,
«Tempo
illustrato»67 e «Cinema»68.
Non è chiara la ragione di una così esigua pubblicazione del materiale
fotografico da parte dell’architetto, è lecito comunque ritenere che non
esista un motivo preciso per questo; in effetti bisogna pensare all’archivio
«Casabella» n. 130, ottobre 1938; Cattedrale Pienza (il titolo in questo caso non è dell’autore perché non
essendoci la stampa a contatto del negativo non siamo in possesso del supporto in cartoncino con le
relative informazioni tecniche del fotografo) vol. 8 num. 55, «Casabella» n° 133, gennaio 1939; Loggia
del palazzo Piccolomini (titolo non originale) vol. 9 num. 2, «Casabella» n° 133, gennaio 1939; San
Quirico cappella della Madonna del Rosario (titolo non originale) vol. 9 num. 5, «Casabella» n° 133,
gennaio 1939; Pienza vol. 37 num. 6, Pienza vol. 8 num. 54, Pienza vol. 8 num. 48 e num. 49,
«Casabella» n. 133, gennaio 1939;
64
Le foto sono inserite nell’articolo di Pagano intitolato Partenone e partenoidi, in «Domus», n. 168,
dicembre 1941. Si tratta di Atene vol. 72 num. 47 e Atene vol. 73 numeri 3 – 4 – 5 – 9 – 10.
65
Le fotografie pubblicate da Pagano in questa rivista sono piuttosto numerose, un interessante resoconto
delle stesse viene fatto da Marina Miraglia in C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, Electa,
Milano 1979, p. 154. I numeri di «Natura» nei quali sono inserite le immagini dell’architetto sono quelli
di giugno 1936, maggio 1938, ottobre 1938, dicembre 1938, gennaio 1939, febbraio 1940, luglio-agosto
1941, maggio-giugno 1942.
66
Il primo numero della rivista «Fotografia» viene pubblicato nel 1932 dall’editoriale Domus. Animatore
vivace della rivista specializzata è Giulio Mazzocchi. Cfr. C. de Seta, Giuseppe Pagano fotografo, in Il
destino dell’architettura …, cit., p. 272.
67
Immagini delle Cariatidi di Pagano vengono pubblicate su «Il Tempo», settimanale illustrato,
nell’articolo di F. Clerici, Stanchezza delle cariatidi, del 13 giugno 1940.
Quasi contemporaneamente alla chiusura della rivista «Omnibus» di Leo Longanesi, per imposizione del
regime, Alberto Mondadori comincia l’avventura del primo rotocalco italiano illustrato: «Il Tempo».
L’idea è quella di proporre una forma inedita di comunicazione giornalistica che utilizzi su tutto il
medium fotografico, in linea con la sperimentazione internazionale.
Alla fotografia si affida quindi un ruolo di totale autonomia, al quale si accompagna il modello narrativo
del documentarismo cinematografico che grande rilevo aveva già assunto oltreoceano. Con la rivista
«Tempo» nasce la formula del fototesto: una sorta di film-documentario statico con sequenze narrative di
immagini indipendenti dai testi che fungono da commento sonoro.
Impaginato da Bruno Munari, il fotogiornale annovera nel suo staff diversi fotografi-architetti tra cui
appunto Giuseppe Pagano ma anche Enrico Peressutti e Leonardo Belgioioso; tra gli altri personaggi non
può sfuggire il lavoro di Alberto Lattuada e Federico Patellani che daranno un’impronta fondamentale
alla rivista. Cfr. E. Taramelli, Federico Patellani, in Viaggio nell’Italia del Neorealismo. La fotografia
tra letteratura e cinema, Società editrice internazionale, Torino 1995.
68
Le foto riportate sono inserite nell’articolo intitolato Un cacciatore d’immagini, uscito sul numero di
«Cinema» del dicembre 1938 e si tratta di: Procida vol. 25 num. 18 e di Procida vol. 34 num. 44.
La rivista «Cinema» viene edita dalla Hoepli, raggiunge il periodo di massimo splendore negli anni della
direzione di Vittorio Mussolini, grande appassionato di Cinema e filmografia, soprattutto americana, che
se ne occuperà dal 1938 in poi. Nel giro di pochi anni il giornale diviene rapidamente competitivo, grazie
ad una nuova veste in linea con i contemporanei rotocalchi, un esempio su tutti quello di «Omnibus» di
Leo Longanesi. Divenuta l’organo di tendenza della giovane fronda degli allievi del Centro
Sperimentale di Cinematografia fondato nel 1932 da Alessandro Blasetti, la rivista «Cinema» troverà
soprattutto in Giuseppe De Santis il suo più accanito animatore.
37
come ad un lavoro inteso nella sua globalità e autonomia, l’architetto cioè
non produce fotogrammi funzionali a un articolo da pubblicare o ad un
testo da illustrare ma contestualizzati nell’ambito di un lavoro ben più vasto
e organico; ciascuno scatto collabora a definire un’indagine attenta
sull’uomo e il suo habitat, che può leggersi proprio attraverso la visione
comparata di tutto il materiale prodotto, elaborato in una sorta di sequenza
documentaria, all’interno della quale si individuano reportages autonomi.
Esclusa infatti l’esperienza per la mostra rurale, Pagano non utilizzerà, se
non in rarissimi casi, le foto come prodotto grafico da allegare a quello
scritto. L’archivio rappresenta quindi un corpus autonomo che va studiato
in quanto tale: il materiale fotografico racconta una storia tutta sua,
totalmente indipendente seppure in linea con la ricerca progettuale e
giornalistica dell’architetto.
L’anima di Pagano non è quella del fotoreporter, del fotogiornalista
d’assalto che scatta immagini sulle quali si possano poi scrivere articoli al
vetriolo: il percorso è esattamente l’inverso, la sua diviene negli anni una
raccolta paziente e certosina; pur restando sempre in lui più forte la
dimensione del cronista che utilizza su tutto la parola, la fotografia diviene
infatti una conquista fondamentale, uno strumento di comunicazione
indispensabile. Non sarebbe fuor di logica supporre che l’architetto stesse
preparando, con il suo lavoro d’archivio fotografico, una raccolta organica
e completa da studiare a posteriori, una sorta di eredità spirituale:
un’eredità fatta d’immagini, ausilio ulteriore di un’altra eredità che
l’architetto aveva deciso di lasciare ai posteri, quella scritta, attraverso i
suoi saggi e articoli69 e quella costruita, inverata nei suoi progetti.
69
Una interessantissima raccolta antologica di alcuni degli scritti più importanti dell’architetto istriano è
pubblicata a cura di Cesare de Seta, Pagano. Architettura e città durante il fascismo, Laterza, Roma-Bari
1976, ried. 1990.
38
Pagano infatti oltre che un architetto, un giornalista, un critico e un
fotografo, è stato un maestro per il quale l’insegnamento nei confronti dei
giovani, inteso in senso morale ed etico prima ancora che dottrinario, ha
rappresentato un carattere essenziale70.
La vera conquista del mezzo fotografico da parte di Pagano avverrà come
già abbiamo ampiamente evidenziato, solo in seguito alla sua prima
esperienza con la mostra rurale71. Nel volume scritto in questa occasione, le
foto, utilizzate come documento nel senso più rigido della parola, vengono
chiamate ad illustrare un dato preciso. Ovviamente tale circostanza risulterà
limitante per l’autore.
Guardando infatti le immagini utilizzate nel catalogo salta subito all’occhio
la scelta di visuali, tagli e punti di vista, miranti principalmente ad
evidenziare le varie tipologie architettoniche selezionate e in taluni casi le
specifiche caratteristiche strutturali e tecnologiche che si intendeva
illustrare72.
Negli anni a seguire, l’approccio fotografico di Pagano muterà
profondamente; liberatosi dalla necessità di procurare materiale per un
lavoro tanto specifico, l’architetto si affranca dagli schemi di ripresa
stereotipati riconoscibili nelle prime immagini, per dare il via ad un
linguaggio fotografico del tutto diverso e originale.
Dalle foto realizzate nello stesso anno, il ‘36, ma non utilizzate per la
mostra e aventi come tema sempre l’architettura rurale, si evince il
profondo cambiamento maturato.
L’oggetto architettonico viene innanzitutto inserito quasi sempre nel
contesto territoriale eventualmente antropizzato e una miriade di dettagli
cominciano a prendere forma e a catalizzare l’attenzione dell’obbiettivo.
70
Cfr. Capitolo IV di questo volume.
Cfr. Capitolo I di questo volume.
72
Cfr. G. Pagano, G. Daniel, Architettura rurale italiana, Hoepli, Milano 1936.
71
39
Lo sguardo dell’artista si apre su un universo infinito di oggetti e
personaggi, viene ampliato decisamente il campo di ripresa e di ricerca,
nonché approfondita, negli anni, la tecnica.
Sulla maturazione fotografica di Pagano, se pure incide la consapevolezza
aquisita negli anni delle sue capacità tecniche per cui la prima esperienza si
evolverà in passione e con il tempo in un lavoro, non può essere comunque
sottovalutata l’influenza dovuta ai suoi eccezionali percorsi di vita nonché
alla controversa vicenda della sua fede fascista.
Il dictat dell’assolutismo imponeva infatti in quegli anni, un taglio
fotografico che fosse esclusivamente volto all’esaltazione del regime e alla
descrizione di un impero che trovasse, nella retorica e nella monumentalità,
la sua ragion d’essere73. Se Pagano avesse realmente voluto assecondare
tale volontà politica, avrebbe dovuto realizzare una produzione molto più in
linea con quella proposta (ma in realtà imposta) dalla dittatura. Non
mancavano d’altronde eventuali riferimenti dato che, proprio in quegli
anni, nascevano i primi centri sperimentali di fotografia e cinematografia
fascista74. Eppure Pagano non avrà mai contatti con questi gruppi,
tutt’altro, egli sarà invece costantemente vicino alle fronde delle
avanguardie foto e cinematografiche.
È del tutto lecito ritenere che, immagini di un’Italia reale pur nella sua
povertà e semplicità come quelle che arricchiscono la produzione di
Pagano, non sarebbero probabilmente risultate ben accette al regime. Ecco
perché forse, in una occasione ufficiale come quella della mostra, Pagano
preferisca esporre delle immagini per così dire ‘neutre’ e strettamente
funzionali al caso.
73
Cfr. P. Bevilacqua, Il Paesaggio italiano nelle fotografie dell’Istituto Luce, Editori Riuniti, Roma 2002.
Nel 1925 nasce l’Istituto Nazionale L.U.C.E. (L’Unione Cinematografica Educatrice), con il precipuo
scopo di indirizzare e educare – come indica chiaramente la sigla – la produzione fotografica e
cinematografica.
74
40
In effetti va rilevato che, nelle foto dell’architetto, non c’è mai un evidente
accanimento volto alla denuncia di uno stato dittatoriale ritenuto deleterio,
come invece faranno o tenteranno di fare altri suoi colleghi, perché non è
questa la convinzione maturata da Pagano, almeno non da subito75; ciò non
toglie che il suo sguardo non si esima dall’osservare il Paese con il lecito
turbamento e il dissidio interiore di chi in fondo, il dubbio, ce l’ha nel
cuore.
In definitiva, la fotografia di Pagano, si dimostra sin dai primi lavori più o
meno consapevolmente scevra dalle imposizioni dell’ideologia fascista,
librata verso quegli ‘orizzonti eroici’, espressione della realtà più onesta,
seppur popolare dell’Italia, indubbiamente lontana dalla retorica del
regime.
È importante tuttavia ricordare che la storia di quegli anni tormentati, ha
lasciato in eredità molti casi illustri di censura.
A questo proposito, scrive Giuseppe Pinna, «Il bisogno di verità e la verità
di rappresentazione, adottati come princìpi anche in ambiti diversi dal
cinema e dalla fotografia, sono però armi pericolose, possono ritorcersi
facilmente contro coloro che ritengono di poterle tenere sotto controllo.
Con gli stessi mezzi si poteva far vedere anche l’Italia largamente
prevalente che il fascismo voleva negare, quella povera, arcaica, analfabeta,
incurante dei destini promessi agli eredi di Cesare e di Augusto»76; in
75
Giuseppe Pagano infatti, come molti altri suoi illustri colleghi vivrà per lungo tempo nell’illusione che
l’adesione all’impegno politico fascista potesse realmente rappresentare un mezzo per realizzare qualcosa
di buono per il Paese; purtroppo la vita e l’esperienza gli dimostrerà il contrario.
«Allacciare rapporti con il Fascismo appare com e l’unica via per scavalcare gli ostacoli e l’ostracismo
della cultura borghese. […] Il Fascismo rappresenta (oltre a tutta la serie di equivoche illusioni
rivoluzionarie in cui cadono quasi tutti i giovani architetti italiani da Pagano a Terragni, Libera, Ridolfi, i
BBPR ecc.), la possibilità, altrettanto illusoria, di scavalcare la borghesia: mentre in realtà legarsi al
Fascismo significava solo mettersi ingenuamente e strumentalmente al servizio proprio della massima
espressione del potere borghese». L. Patetta, Saggio introduttivo a L’Architettura in Italia 1919-1943. Le
polemiche, Clup, Milano 1972, pp. 37-38. Cfr. anche C. de Seta, Introduzione a Pagano. Architettura e
città …, cit., p. XI; Aa. Vv., Giuseppe Pagano fascista, antifascista, martire numero monografico di
«Parametro», n. 35, aprile 1975.
76
G. Pinna, Italia, Realismo, Neorealismo: la comunicazione visuale nella nuova società multimediale, in
E. Viganò (a cura di), Neorealismo. La nuova immagine in Italia 1932-1960, Admira, Milano 2006, p. 27.
41
sostanza il materiale fotografico raccolto da Pagano negli anni successivi
alla mostra rurale, pur non essendo dichiaratamente antifascista descrive
comunque, più o meno velatamente l’Italia di cui parla Pinna: «quella
povera, arcaica, analfabeta», frutto di una condizione di indeterminatezza
sociale e di una profonda instabilità economica, realtà scomode che se
denunciate, potevano effettivamente ripercuotersi negativamente sul quieto
vivere della popolazione. Il Regime si dimostra assolutamente consapevole
del ‘potere’ che certi mezzi di comunicazione visuale potevano avere sul
pubblico, su quelle masse dolenti e influenzabili77. Per questo motivo,
proprio in Italia, il governo fascista rivolgerà grande attenzione ai nuovi
mezzi di comunicazione mediatica, da un lato sfruttandoli per i propri
comodi, dall’altro tenendoli rigidamente sotto controllo, onde evitarne
utilizzi pericolosi.
A questo proposito vale la pena tener presente che, durante gli anni della
dittatura, viene appositamente costituito Il MinCulPop, il Ministero della
Cultura Popolare, preposto al controllo di tutta la produzione artistica.
L’obiettivo è quello di tenere a bada ed eventualmente ostacolare la
pubblicazione di qualsiasi lavoro fosse ritenuto inopportuno o addirittura
offensivo e che potesse in qualche modo turbare l’equilibrio politico
instaurato78.
77
Un quadro molto completo dell’utilizzo dei media e della pubblicità da parte del governo fascista viene
ricostruito da Carlo Bertelli nel saggio Il regime e le nuove tecniche di comunicazione, in C. Bertelli, G.
Bollati, Storia d’Italia – annali 2* – L’immagine fotografica 1845-1945, Einaudi, Torino 1979, pp. 169173.
78
Decisamente interessante a questo proposito una nota della Madesani che, nell’ambito del discorso
relativo alla censura fascista sottolinea in Italia la presenza di un personaggio straordinario, uno spirito
libero: Orio Vergani, una delle ‘penne di punta’ del «Corriere della Sera». «Vergani, amico di Galeazzo
Ciano, genero di Mussolini, durante i quasi cinque anni da inviato speciale nelle trasferte africane, scattò
fotografie decisamente diverse da quelle di mera propaganda, che invece era obbligato a realizzare per la
stampa. Vergani che nella redazione del giornale per cui lavorava vide immagini sensazionali, decise di
illustrare i suoi libri di argomento coloniale con le proprie immagini, che guardavano alla fotografia
internazionale, tutt’altro che dilettantesche e matoriali, ma piuttosto di ampio respiro e che davano
dell’Africa coloniale una visione critica, in aperto contrasto con quanto andava facendo il regime». La
Madesani si riferisce al testo di O. Vergani, La via nera. Viaggio in Etiopia da Massaua a Mogadiscio,
Treves, Milano 1938. Cfr. A. Madesani, cit., p. 59.
42
La censura fascista si abbatte ad esempio contro il film di Luchino
Visconti, Ossessione, impedendone la programmazione nelle sale perché
colpevole di fornire una visione immorale della ‘sana provincia italiana’79.
Per lo stesso motivo, un fotografo ebreo, Luciano Morpurgo, evita di
proporre durante il regime alcune delle sue più pungenti foto di denuncia
sociale80. Ebbene se non è possibile affermare che Pagano possa aver
deciso di fare lo stesso con le sue foto d’archivio, preferendo tenere al
sicuro nel suo studio il lavoro di anni piuttosto che pubblicarlo, risulta ad
ogni modo comprensibile la sua reticenza a mostrare un materiale che
avrebbe avuto comunque un certo impatto sociale.
Osservando il servizio fotografico che Pagano dedica alla sede del Covo di
Mussolini, scaturiscono numerosi spunti di riflessione a questo proposito;
concordiamo infatti con la Di Castro nel ritenere che le immagini si
rivelino fredde, quasi distaccate e asettiche, non c’è alcun accenno al
monumentalismo perseguito dall’ideologia fascista che imponeva di
restituire del governo dittatoriale, anche attraverso la produzione
fotografica, un’immagine forte e fiera81. Ebbene non c’è forza né fierezza
negli scatti dedicati da Pagano al Covo, anzi, l’architetto ce ne dà
un’immagine sconcertata e severa ma nello stesso tempo ambigua.
L’obiettivo, entrato nel cortile dell’edificio signorile del primo Novecento,
cade su un gruppo di bandiere che pende dai davanzali delle finestre, si
sposta poi sulla targa di Benito Mussolini, sui ballatoi vuoti; solo in una
79
Sarà soprattutto la produzione cinematografica ad essere maggiormente osteggiata dal veto della
dittatura fascista la quale, con l’Rd del 9 aprile 1928, n. 941, stabilirà che, per la prima volta, entrano a far
parte della commissione di censura un funzionario del ministero dell’educazione nazionale, uno del
ministero delle colonie e un pubblicista di sicura fede, designato dal Partito nazionale fascista (Pnf). Con
due leggi successive del 1929 e del 1931, il corpo censorio della commissione viene ulteriormente
rafforzato da funzionari ufficiali provenienti dal ministero delle corporazioni, dal Pnf, dal ministero della
guerra. Cfr. G.P. Brunetta, Storia del cinema italiano. Il cinema del regime, 1929-1945, Ed. Riuniti,
Roma 2001.
80
Cfr. G. Pinna, Italia, Realismo, Neorealismo…, cit.
81
Cfr. F. Di Castro, Il fascismo e la guerra in C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit., pp.
98-121.
43
ripresa si scorgono in parte gli interni del covo fascista vero e proprio, un
antro surreale in cui lo sguardo è puntato direttamente sulla scrivania di
Mussolini – sottraendo quindi valore a tutto l’ambiente circostante – con il
numero de «Il Popolo», una bomba a mano, il gagliardetto con il simbolo
scheletrico della morte posto di spalle, funereo monito del regime. Tutto
nel servizio fotografico dell’istriano, sembra voler suscitare distaccato
disappunto. Come opportunamente ricorda Federica Di Castro, nel 1932
all’interno della Mostra della Rivoluzione Fascista, era stato ricostruito, nel
Palazzo delle Esposizioni, lo studio di Mussolini al Covo di Via Paolo da
Cannobio, prima sede de «Il Popolo d’Italia»82; ebbene in quella occasione
molte erano state le foto scattate, tutte espressione di quell’orgoglio fascista
che nel monito ‘credere-obbedire-combattere’ trovava la sua unica ragion
d’essere. Il confronto di queste immagini, con quelle realizzate poco dopo
da Pagano nella vera sede del Covo, denuncia l’evidente distanza
intellettuale della produzione dell’architetto istriano, la cui «scarna regia»83
esprime tutto un profondo conflitto interiore.
Singolare il fatto che alcuni dei cartoncini sui quali dovevano essere posti i
provini dedicati a questo reportage, siano stati epurati delle foto. È l’unico
caso in cui siano presenti dei supporti cartonati con tanto di titolo,
annotazioni e schedatura originale dell’architetto, senza i corrispondenti
provini allegati. Purtroppo non ci è dato saperne i motivi.
Alla luce di queste considerazioni, risulta evidente che l’archivio
fotografico inteso nel suo complesso, dalle prime immagini scattate per la
mostra rurale fino a quelle che descrivono negli ultimi anni di vita
dell’architetto le campagne militari in Albania e Grecia, assume il valore di
un patrimonio storico di indiscutibile qualità, una lucida e attendibile
testimonianza della storia dell’Italia degli anni ‘30 e ‘40 del Novecento.
82
83
Ivi.
Ivi, p. 98.
44
In relazione alla tecnica di riproduzione fotografica sperimentata da
Pagano, è interessante notare che, sul retro di alcuni dei provini
appartenenti al secondo gruppo di volumi numerati dell’archivio, sono
riportati dei timbri in cui viene manifestamente indicata la paternità della
produzione: «Foto Pagano. Viale Beatrice d’Este, 7. Milano». Risulta
chiaro che l’architetto fosse del tutto autonomo nello sviluppo dei negativi.
D’altronde dallo studio dell’archivio si arguisce chiaramente la perizia e la
cultura fotografica di Pagano che organizza la catalogazione nonché la
conservazione delle riproduzioni fotografiche in maniera decisamente
competente.
Quasi in posizione antitetica rispetto ai modelli ottocenteschi, la tecnica
fotografica dell’architetto risulta di certo più vicina e in qualche modo
influenzata dall’idea rinnovata di produzione fotografica figlia delle
avanguardie artistiche e perché no anche di marca fascista84, volta alla
scoperta di una visione inedita della realtà e del territorio.
Scrive Zannier: «Emblematico è l’uso della Rolleiflex che fa Giuseppe
Pagano, che negli anni Trenta si dedica a fotografare soprattutto
l’architettura rurale, secondo schemi arditi, insoliti specialmente nella
fotografia professionale: orizzonte in diagonale, secondo scorci fortemente
anamorfici, e poi dettagli di materiali, di elementi della tipologia
architettonica»85.
La ricerca fotografica di Pagano assume tuttavia una connotazione ancora
più inedita, distaccandosi in questo anche dagli studi condotti in
contemporanea dalla cultura fotografica d’avanguardia; per l’architetto
84
Forse il primo vero passo avanti verso un’immagine nuova dell’Italia sarà raggiunto concretamente,
proprio grazie al nuovo impulso della fotografia del regime, che, pur nella grettezza delle sue rigide
regole di produzione sarà comunque la prima istituzione a spingere verso una vera cultura fotografica. In
particolare, in occasione della Mostra della Rivoluzione Fascista, nel 1932, ampio spazio verrà dato
proprio alla fotografia in tutte le sue forme e manifestazioni. Cfr. Mostra della rivoluzione fascista. Guida
storica a cura di Dino Alfieri e Luigi Freddi, 1° decennale della marcia su Roma, Officine dell’Istituto
Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo 1933.
85
I. Zannier, Architettura e fotografia, Latreza, Roma-Bari 1991, p. 113.
45
istriano, la composizione dell’immagine diviene infatti una vera e propria
questione di stile, è quest’ultimo il principale filo conduttore di tutta la sua
produzione fotografica; una foglia d’acanto, l’incresparsi di un’onda, il
volto di un bambino, il fusto della colonna di un tempio, sono tutti soggetti
artistici che introducono una complessa e articolata analisi che coinvolge i
rapporti proporzionali tra gli elementi raffigurati, gli spazi geometrici
definiti o non definiti, il ripetersi ritmico di elementi ‘standardizzati’: «tutto
ciò può essere argomento fotografico ed assumere il valore di uno stile.
Stile fatto di rapporti di chiaroscuro, di cadenze prestabilite, di assoluta
dedizione alla irreale realtà della fotografia»86.
Accade infatti che in molte costruzioni fotografiche, non abbia quasi più
valore l’edificio in sé, la tipologia d’albero in sé, o l’espressione che può
dipingersi sul volto di un personaggio famoso: ciò che più conta sono i
termini compositivi della fotografia, il senso profondo della ricerca formale
che travalica gli oggetti stessi sublimati allo stato ibrido di ‘forma pura’.
In definitiva, l’indagine che l’architetto istriano compie in giro per l’Italia è
un viaggio pittoresco tra le forme del reale che si allontana però dalla
ricerca di un Moholy o di un Man Ray87, di cui conserva soprattutto le
tecniche, restando sempre e comunque ancorato alla realtà; quello
compiuto da Pagano è piuttosto un viaggio ‘neorealista’ – prendendo in
prestito una definizione che apparterrà piuttosto ai suoi discepoli – tra le
forme dell’universo naturale e costruito, ognuna gravida del proprio
profondo significato e ruolo nel mondo visibile e tangibile, mai negato dal
fotografo.
All’interno dell’archivio di Pagano, organizzato, come è stato già
evidenziato, rispetto ad alcune tematiche principali, sono ulteriormente
86
G. Pagano, Un cacciatore d’immagini, in «Cinema», dicembre 1938, ora in F. Albini, G. Palanti, A.
Castelli, (a cura di), Giuseppe Pagano Pogatschnig : architetture e scritti, Milano, 1947.
87
Per il profilo di questi due massimi esponenti della fotografia internazionale del XX secolo si rimanda
al capitolo III di questo volume.
46
individuabili specifici sottotemi la cui identificazione risulta indispensabile
per la comprensione dell’intero materiale, che ripetiamo, va letto nel suo
insieme di corpus.
Tali sottotemi sono riscontrabili in maniera seppur differente in ciascuno
scatto, che si tratti di architettura rurale, dell’immagine di una grande città,
di un ritratto o di una specie animale e naturale.
Un carattere fondamentale dell’indagine di Pagano è lo studio del dettaglio;
l’architetto infatti è portato spesso a condurre l’analisi di un determinato
spazio architettonico o ambientale passando dal particolare al generale.
Il tema mimetico è un altro elemento costante della ricerca fotografica del
Nostro: la scoperta del rapporto simbiotico tra elemento naturale e costruito
diviene un fulcro fondamentale nell’indagine88; là dove questa evidenza
viene fuori con maggior forza è nelle immagini di città antiche o nelle foto
degli scavi archeologici, Di Mauro ci descrive alcune di queste mimesi: «le
mura di Cerveteri e di Orvieto perfettamente collegate alla roccia
sottostante, la porta del Castello di Tarquinia su cui crescono erbe di ogni
tipo»89. A questi due casi si può aggiungere l’immagine del muro della casa
di Pompei vicina a quella dei Misteri, alla quale si abbarbicano le foglie di
un rampicante (vol. 34, num.4), o quelle in cui la natura, specchiandosi in
laghi, torrenti, e fontane si sdoppia riproducendosi nella sua immagine
speculare.
Altro sottotema individuabile è quello della ricerca del «pittoresco»90, ossia
la possibilità di raggiungere attraverso la resa fotografica, quella bellezza
sublime intesa nella sua accezione più spontanea. Il pittoresco viene così
88
Il tema mimetico indagato da Pagano nelle sue fotografie viene evidenziato da Leonardo Di Mauro.
Cfr. L. Di Mauro, Archeologia e arte, in C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit., p.52.
89
Ivi, p. 52-54.
90
Questo specifico sottotema fotografico indagato da Pagano è stato oggetto di studio da parte del Prof.
Leonardo Di Mauro, che ne parla diffusamente in un suo interessante intervento sull’archeologia e l’arte
nelle foto dell’architetto istriano. Ivi.
47
indagato in ugual misura nell’ambito dei contesti urbani come in quelli più
propriamente rurali.
La composizione dell’immagine inoltre non è mai casuale, ma costruita
secondo una vera e propria struttura architettonica; lo spazio viene difatti
analizzato in base a delle partiture geometriche precise che tendono a
individuare ritmi esatti scanditi di sovente dal ripetersi di elementi
standardizzati costanti. Risulta molto interessante, a questo proposito,
riconoscere nel lavoro fotografico di Pagano, quello stesso percorso
compositivo utilizzato nella definizione dei suoi lavori progettuali.
Questa necessità di utilizzare la fotografia per compiere una scansione
architettonica dello spazio diviene un obiettivo perseguito da Pagano al
punto tale che spesso si serve di artifici ottici pur di ottenere i risultati
desiderati. Utilizzando fonti luminose, prevalentemente naturali quando ne
ha la possibilità, nonché superfici riflettenti, l’architetto determina nelle
immagini effetti affascinanti, talvolta sorprendenti (Pisa, vol. 9, num.7/8)
(Alberi, vol.1, num. 44).
Proprio l’incidentale senso di sorpresa suscitato dall’imprevisto di un
elemento subentrato inaspettatamente nell’immagine, diviene un altro
fattore individuabile nella ricerca iconografica dell’architetto. Pagano
conosce bene quel senso di stupore e meraviglia suscitato dalla prima volta
in cui si osserva un’opera d’arte, ed è forse anche per questo che sceglie
sempre punti di vista inediti capaci di cogliere, anche di un edificio ben
conosciuto, quel carattere inaspettato che desta l’inevitabile conseguente
meraviglia dell’osservatore.
Esiste tuttavia un unico comune divisore nelle fotografie di Pagano: in ogni
scatto, ogni fotogramma, viene fuori con violenza un amore assoluto quasi
ossessivo, per la materia in sé, per il suo carattere plastico, il suo rapporto
più o meno empatico con il contesto, costruito e non, che induce il
48
fotografo a riprendere con il medesimo rapimento la base del fusto di una
colonna dell’Arco di Augusto a Rimini e l’architettura arcadica dei ‘sassi’
di Matera91.
Uno studio attento e costante rivolto alla componente materica risulterà una
caratteristica peculiare della sua stessa ricerca in qualità di progettista;
questo tipo di indagine caratterizzerà infatti gran parte della sua produzione
architettonica. Come non pensare alla cura rivolta alla scelta dei materiali
nella definizione dei prospetti della sede dell’Università Bocconi di
Milano, o alla precisa volontà di utilizzare il mattone semplice nel
prospetto dell’Istituto romano di Fisica onde conferire un ulteriore carattere
di ‘orgogliosa modestia’ al complesso educativo. In definitiva si può
serenamente affermare che nulla sia realmente casuale nell’approccio
fotografico di Pagano, ma tutto sia piuttosto il frutto della sua formazione e
innata qualità di progettista. Pagano fotografo è in fondo un tékton, un
‘costruttore’ delle sue immagini fotografiche, non si può scindere la figura
dell’architetto da quella del fotografo, ma al contrario è possibile piuttosto
osservare l’una attraverso l’altra e in virtù di questo comprenderle
entrambe.
Nell’ambito del multiforme e eterogeneo materiale prodotto, è possibile
selezionare
l’iconografia
relativa
alle
città
e,
nello
specifico,
all’architettura, che rappresenta circa i due terzi dell’intero materiale
fotografico prodotto. Seguendo le tracce lasciate dall’istriano attraverso il
suo archivio si riesce a definire un ideale percorso condotto sui territori
italiani: l’itinerario, sviluppato nell’arco di circa otto anni, dal 1936 al
1944, vede l’obiettivo della rolleiflex spostarsi dal sud al nord della
penisola.
91
Cfr. Ivi.
49
b. Le tappe del viaggio fotografico di Pagano. Un Tour nell’universo
narrativo neorealista
«Cominciando a capire il mondo attraverso l’immagine, capivo
l’immagine, la sua forza, il suo mistero»92, è Michelangelo Antonioni che
parla, e descrive la nascita della sua prima creatura cinematografica, un
documentario sul fiume Po, evidenziando il valore di una ricerca sviluppata
per immagini.
È ormai diffusa capillarmente, nell’ambito della cultura ‘ufficiale’ a cavallo
degli anni Trenta, la ferma convinzione che solo attraverso dei mezzi di
comunicazione innovativi come la fotografia e il cinema si possa realmente
comprendere ed esprimere la vita e il mondo che ci circonda. La ricerca di
Pagano non fa che inserirsi così in questa dinamica per certi versi sociale
che sempre più spazio affida alle nuove forme d’indagine.
Il viaggio condotto dall’architetto in giro per l’Italia viene sviluppato come
una sorta di documentario, in linea, quindi, con le analoghe esperienze
visive coeve. Scrive De Santis93 sulle pagine della rivista «Cinema»: «Noi
crediamo che la parola documentario debba essere spogliata del suo
comune attributo scientifico per un più alto significato poetico, dove i
termini di contenuto essenziale siano uomo e natura»94, è inteso proprio in
questo senso il percorso fotografico compiuto dal nostro architetto.
In linea con la cinematografia coeva, quindi, Pagano realizza con il suo
archivio fotografico un reportage il più possibile obiettivo sulla vita del
nostro Paese.
92
L’espressione è tratta dalla descrizione che Michelangelo Antonioni fa del suo primo documentario
Gente del Po, iniziato nel 1943 e terminato non prima della fine della guerra, nel 1947. Cfr. M.
Antonioni, Per un film sul fiume Po, «Cinema», n. 68, 1939; E. Taramelli, Viaggio nell’Italia del
Neorealismo …, cit.
93
Protagonista della cinematografia neorealista, cura la regia di Riso amaro nel 1949, film con il quale
salirà alla ribalta l’attrice Anna Magnani.
94
Cfr. E. Taramelli, Viaggio nell’Italia del Neorealismo…, cit., p. 22.
50
Dopo le prime foto realizzate sull’architettura rurale, inizia il vero viaggio
di Pagano alla scoperta dell’Italia, che lo impegnerà dal 1936 fino al 1944
circa, negli anni fotograficamente più prolifici.
Il Gran Tour fotografico del nostro architetto è caratterizzato da un
approccio alla rappresentazione del territorio che si potrebbe sintetizzare
utilizzando le parole di Roberta Valtorta, storica della fotografia milanese,
che scrive in relazione al paesaggio ‘costruito’ in fotografia: «Dal punto di
vista non del soggetto che il fotografo sceglie, ma dal significato del gesto
che il fotografo, o meglio l’insieme fotografo-macchina, compie, potremmo
dunque dire che nessun paesaggio in fotografia è ‘naturale’, e tutti i
paesaggi sono invece ‘costruiti’, cioè modellati dalla visione che la
macchina a essi sovrappone. Se la fotografia è una relazione con la realtà
mediata dalla macchina, questa relazione è sempre segnata da una
‘costruzione’»95.
Il percorso compiuto è molto articolato e le destinazioni, selezionate
accuratamente dall’istriano, vengono individuate in modo da poter
osservare sia il vasto e fittissimo panorama della campagna italiana, ricca
di province e realtà locali, che i centri più vivaci e importanti del Paese. Ma
lo sguardo dell’architetto posto dietro l’obiettivo si dimostra, nei due casi,
profondamente differente.
La curiosità nei riguardi dei piccoli centri deriva senza dubbio dal desiderio
di comprenderne il modus vivendi nonché la dimensione architettonico
urbanistica. In questo ambito, popolare e modesto, l’indagine assume una
connotazione sociale tesa alla comprensione e descrizione di un mondo
silenzioso e laborioso.
Nelle fotografie a tema rurale si riconosce tutta la sensibilità di Pagano nei
confronti di quel firmamento dei ‘vinti’ di verghiana memoria; in questi
95
R. Valtorta, Volti della fotografia. Scritti sulla trasformazione di un’arte contemporanea, Skira, Milano
2005, p. 174.
51
scatti è facile imbattersi in personaggi che sembrano usciti da I Malavoglia,
protagonisti inconsapevoli di una realtà per certi versi spietata e in virtù di
questo straordinariamente vera, seppure surreale nella sua dimensione
astratta e lontana.
In questo universo verghiano quasi omerico e leggendario, in definitiva un
mondo dei ‘semplici’, si riconoscono soprattutto i cineasti, che caricano,
l’ispirazione a quel modello, di inedite valenze etiche prima ancora che
estetiche e formali96. Pagano, così vicino e affascinato dal mondo della
cinematografia italiana e straniera, soprattutto francese, non poteva che
avvertire e interpretare queste stesse suggestioni97.
Profondamente diverso invece è l’atteggiamento fotografico che viene
assunto nei confronti delle grandi città di cui l’architetto indaga l’aspetto
urbanistico, architettonico, eventualmente archeologico, spostando quindi
automaticamente l’attenzione sul costruito piuttosto che sul ‘materiale’
umano.
Nelle immagini urbane, infatti, la presenza dell’uomo è assolutamente
incidentale. Per de Seta questo aspetto è direttamente legato ad una ricerca
influenzata dalla deformazione professionale che induce il fotografo a
soffermarsi principalmente sulle tracce d’architettura e volgendo la sua
attenzione alla definizione di un lavoro compositivo che, all’immagine in
sé, conferisce un grande, quasi assoluto valore98. Ma è pur vero che
Pagano, sembra decisamente meno interessato alle caratteristiche dell’
‘uomo di città’, considerato per certi versi «senza qualità». D’altronde
proprio in questa direzione si rivolge la giovane avanguardia artistica
dell’Italia degli anni Trenta, che in qualche modo rifiuta «lo scenario
dell’universo metropolitano, visto come il luogo di un ordine estraniante e
96
Cfr. E. Taramelli, Viaggio nell’Italia del Neorealismo…, cit.
Cesare de Seta sottolinea la grande passione dell’architetto per la cinematografia francese. Cfr. C. de
Seta, Introduzione, in C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit.
98
Cfr. Id., Città e campagna, in C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit.
97
52
di una razionalità astratta»99. L’architetto tuttavia, non nega del tutto la
metropoli, almeno non il suo valore architettonico, piuttosto ne deplora le
condizioni e la realtà sociale, decidendo di svolgere quindi attraverso le sue
foto, una funzione catartica epurandola del fattore umano.
Sono solo alcuni i casi in cui l’attenzione di Pagano si sofferma in ambito
cittadino su singoli personaggi, ma si tratta comunque di eccezioni
individuate e raccolte nell’ambito di una realtà minore: sono ancora una
volta i ‘vinti’ ad essere ritratti dal fotografo, gli scugnizzi sulle mura di
Cori, gli ambulanti nel mercato milanese di Sinigallia, il venditore di dolci
nelle strade di Corfù, protagonisti che in fondo rendono iconograficamente
quella stessa sgomenta poesia che in lui, osservatore non imparziale,
suscitavano i contadini della provincia dimenticata.
Inoltrandosi nell’archivio di Pagano e individuando le singole tappe
compiute sul territorio peninsulare, viene fuori un quadro interessante e
singolare del percorso compiuto nel nostro Paese. La presenza del suo
obiettivo fotografico sul territorio non risulta difatti omogenea, al contrario
piuttosto lacunosa in alcune zone dello Stivale.
È comprensibile che Pagano, avendo vissuto quasi tutta la sua esistenza tra
Milano e Torino, abbia privilegiato per cause eminentemente pratiche, il
nord Italia, ma rammarica molto il fatto che abbia lasciato quasi scoperti
alcuni territori del centro-sud della penisola. Non è escluso d’altronde che
l’architetto avrebbe continuato il suo viaggio e completato il giro se non
fosse prematuramente scomparso.
Le regioni più indagate e fotografate sono quindi quelle del nord, con una
particolare attenzione rivolta al Trentino e alla Lombardia. Il Centro è
piuttosto battuto, in particolare l’obiettivo si ferma ampiamente su Toscana
e Umbria; interessante è la presenza nelle Marche così come nel Lazio, ma
99
E. Taramelli, Viaggio nell’Italia del Neorealismo…, cit., p. 18.
53
lo stesso non si può dire riguardo alla fascia dell’Appennino Tosco
Emiliano che non viene ripresa quasi per nulla.
L’analisi del territorio nel sud della penisola si dimostra ancora più
lacunoso. L’Abruzzo e il Molise vengono quasi del tutto tralasciate come
pure la Calabria; fatta eccezione per la Campania e la Puglia di cui Pagano
produrrà numerosi e affascinanti scatti fotografici, soprattutto dedicati alle
realtà rurali in queste zone particolarmente sviluppate, per il resto il sud
rimane quasi del tutto inesplorato. Sicilia e Sardegna ritornano nelle
fotografie dell’architetto istriano che non scandaglia però a tappeto le due
isole di cui si riconoscono solo alcune delle città più importanti: della
Sicilia, Agrigento con la valle dei templi, Siracusa e Palermo; in Sardegna
l’istriano è catturato dal fascino delle città dei minatori, Carbonia e
Portoscuso.
Quella che viene fuori non è certo, come sottolinea acutamente de Seta,
un’Italia ‘da cartolina’, intesa cioè nel suo aspetto più canonico e meno
originale, come ce l’avevano propinata per anni le fotografie Alinari e
Brogi100 e così come proposta un po’ da tutta l’editoria contemporanea, che
tendeva a restituire un’idea stereotipata del Paese attraverso quella che lo
stesso Pagano definirà la «volgarità della cartolina illustrata»101.
Al contrario, filtrata ancora una volta dalla ricerca di una ‘orgogliosa
modestia’, l’immagine dell’Italia viene progressivamente smitizzata
dall’architetto, e gli stessi suoi nobili edifici vengono proposti con tagli
dinamici e visuali inedite, tese non tanto all’esaltazione monumentale del
patrimonio
storico quanto
all’individuazione dell’intrinseco valore
architettonico, urbanistico e ambientale.
L’intenzione di Pagano, ben lontano da quell’atteggiamento di distaccato
rigore proprio delle riproduzioni canoniche, cerca piuttosto di «aggiungere
100
101
Cfr. C. de Seta, Città e campagna, cit.
G. Pagano, Un cacciatore d’immagini, cit.
54
qualcosa di più vero e di più vivo al freddo archivio delle stereotipate
immagini scolastiche»102. Potremmo dire che Pagano ‘scorrazzi’ per l’Italia
con lo spirito libero del tourist e l’occhio acuto del tecnico.
Grazie alle informazioni topografiche riportate in calce ai provini, è
semplice ricostruire le mete singolari e più interessanti individuate
dall’istriano, che, partendo dal nord della penisola, la attraversa in lungo e
in largo.
Il Trentino, deve essere stata una delle prime tappe selezionate, alcuni scatti
risalgono infatti al 1937, come ci attesta la data riportata su uno dei provini;
tra i ricchi e lussureggianti territori si riconoscono la Val Seriana, la Val
Camonica, la Val di Fassa. In queste immagini il rapporto con il paesaggio
diviene protagonista assoluto; in particolare l’empatia tra natura e costruito
cui abbiamo già accennato parlando del tema mimetico indagato da
Pagano, diviene fonte d’indagine preferenziale in un contesto così
caratterizzato come quello del Trentino. Ma un altro contrappunto
interessante messo in evidenza in questo ciclo di foto è quello che
spontaneamente si determina tra la natura lasciata libera e selvaggia e
quella invece ‘ordinata’ e sistematicamente organizzata.
Tema d’indagine caro a Pagano, quello dell’ordine imposto dall’uomo
contro il caos naturale103, viene di sovente affrontato dal critico, e
sviluppato poi in un interessante articolo uscito sulla rivista «Casabella»
nel 1939. Scrive l’architetto: «Dove l’uomo è presente, la natura vien
subito sottoposta ad una legge, ad uno schema geometrico, a un ordine. Ai
tracciati irregolari dei boschi incolti, ai sentieri tortuosi abbozzati sul letto
dei torrenti, al disordine del caos primordiale si sostituiscono i solchi
paralleli delle colture, la misurata cadenza delle piantagioni, i nitidi rettifili
102
Ivi.
Questo tema, viene messo in luce, seppure in termini diversi, anche da C. de Seta, Città e campagna,
cit., pp. 62-83.
103
55
delle strade. La presenza dell’uomo, dall’alto, è denunciata da una
ragnatela geometrica di linee dritte, tra loro disposte secondo un’ideale
scacchiera ortogonale»104. L’articolo di Pagano sembra descrivere molte
delle sue riprese fotografiche, ma soprattutto si dimostra nel suo prosieguo,
decisamente caustico nell’evidenziare come questo equilibrio uomo
architettura, riconciliato nella dimensione rurale, si sia invece perso
completamente nella dimensione urbana in cui la progettazione delle città
sempre più disordinate e sviluppate su se stesse, si dimostra incapace di
andare al di là della costruzione di una sterile scenografia architettonica in
cui spesso l’uomo viene schiacciato e costretto in una dimensione
alienante105. Ancora una volta quindi, il reportage fotografico diviene
strumento lucido di analisi e denuncia. Non è un caso il fatto che i contesti
urbani così come di quelli rurali vengano spesso ripresi dall’alto e ne sono
un esempio evidente questi primi scatti realizzati nel Trentino insieme a
molti altri106. La veduta aerea o comunque da un punto di vista posto più in
alto rispetto al paesaggio ripreso, permette infatti di comprendere meglio la
maglia compositiva nonché l’eventuale articolazione architettonica del
contesto. Inoltre, osservando i nuclei urbani e rurali da posizioni
privilegiate, Pagano riesce a far evincere più chiaramente il rapporto
proporzionale che, negli ambienti rurali, si instaura tra spazi costruiti e non
costruiti, così come in ambito urbano, tra spazi architettonici, collegamenti
104
G. Pagano, L’ordine contro il disordine, in «Casabella-Costruzioni», n. 144, dicembre 1939.
«Accanto alle fotografie dei nuraghi e dei trulli (Pagano) conservava, nelle gelose cartelle, quelle del
Partendone, di Paestum, di Pienza: forme filtrate, fino a un limite di semplicità e di purezza, attraverso
tutte le stratificazioni geologiche della civiltà e poi sgorgate limpide, come acque sorgive, alla superficie
del tempo. Il problema era sempre lo stesso: il problema di un ordine formale, che si organizza nella
coscienza e non può incidere sulla libertà e l’immediatezza dell’espressione più di quanto non incida sulla
qualità di una poesia il rigore della misura metrica». G.C. Argan, Valore di una polemica, in F. Albini, G.
Palanti, A. Castelli, [a cura di], Giuseppe Pagano Pogatschnig : architetture e scritti, Milano, 1947, pp.
28-29.
106
«Affiora qui con evidenza la sua passione di volare, di leggere un territorio e di riprenderlo da un
punto di vista per larga parte inedito: da questa sua passione sono venute fuori splendide foto aeree che
non hanno la freddezza del rilievo aerofotografico, ma tutta la improvvisa e forse occasionale energia di
una immagine colta al momento giusto, con la luce propizia, in una delle ‘strisciate’ o delle virate
compiute in aereo». C. de Seta, Città e campagna, cit., p. 70-71.
105
56
stradali e spazi collettivi. Questo tipo di analisi di matrice urbanistica sarà
alla base di uno dei temi di studio da lui più indagati.
Al problema urbanistico, l’architetto dedicherà infatti molti anni della sua
vita, producendo proposte interessanti seppure non sempre risolutive; tra i
lavori messi a punto si ricorda il progetto per «Milano verde» e quello di
«Città orizzontale», che risentono indubbiamente anche del fascino
suscitato dagli esempi internazionali e in particolare di Le Corbusier.
I progetti urbanistici proposti da Pagano e dai suoi collaboratori verranno
aspramente criticati, l’architetto in particolare sarà accusato di non aver
tenuto fede agli obbiettivi preposti; scrive Riccardo Mariani nel 1975:
«Pagano passa dalla definizione dell’oggetto architettonico al contesto
urbano in cui, pur mostrando una feroce avversione per quanto e come sta
avvenendo nelle città italiane sventrate e ricucite secondo le regole del più
bieco ordine ottocentesco, di fatto la sua proposta, come quella di altri a lui
legati non si disgiunge da una “strana” logica sostanzialmente
antiurbanistica»107; lo storico aveva sostanzialmente ripreso un giudizio
espresso già nel 1955 da Carlo Melograni che, in un lavoro monografico
sull’architetto istriano aveva scritto in proposito al suo lavoro di urbanista:
«di fronte a questi problemi, Pagano cade nel medesimo errore da lui
rimproverato ad altri quando ne prendeva in esame i singoli edifici»108.
Al di là del fallimento più o meno dimostrato in questo campo della ricerca,
resta indubbia la validità del metodo di indagine proposto, che, anche
mediante l’utilizzo dello strumento fotografico, giunge ad un’analisi
puntuale
ed
esatta
del
territorio
e
delle
sue
problematiche,
indipendentemente dal fatto che queste ultime vengano poi nel concreto
risolte.
107
R. Mariani, Giuseppe Pagano Pogatschnig, architetto fascista, antifascista, martire, numero
monografico di «Parametro», n. 35, aprile 1975, p. 9.
108
C. Melograni, Giuseppe Pagano, Il Balcone, Milano 1955, p. 30.
57
Della Lombardia, ‘il cacciatore d’immagini’109 produce, come già detto,
molti scatti. Tra i centri maggiormente ripresi ci sono Torino, Milano,
Bergamo, Bologna ma anche cittadine poco conosciute come Gandino e
Dalmine nei dintorni di Bergamo, oppure Fino Mornasco e Gorgonzola
vicino Milano che rivelano realtà insperate e affascinanti.
A Torino, città che lo accoglie in tanti anni di lavoro non dedica
stranamente molte fotografie, qualche sguardo al Teatro Regio e alla Porta
palatina, del Palazzo Madama ritrae solo i trofei e giusto tre scatti
documentano il lavoro condotto per il Palazzo Gualino, realizzato insieme a
Levi Montalcini tra il 1928 e il 1930, progetto che tante polemiche avrebbe
suscitato per il suo carattere precocemente moderno.
La Milano rivelata da Pagano è una città che si esprime in tutta la sua
dimensione metropolitana, leggibile attraverso le immagini aeree che ne
denunciano lo schema urbanistico; una foto interessante riprende la piazza
del Duomo riempita di manifesti pubblicitari (vol 46, num 16): è una natura
indubbiamente commerciale e industriale quella che si vuol mettere in
evidenza, cui fa da contrappunto una Milano colta e intellettuale che, nel
Duomo con i suoi alti pinnacoli, si manifesta in tutta la sua elegante
dignità.
Ma è alla città di Bologna che Pagano dedica inaspettatamente molti scatti.
Riprende praticamente tutto il centro, con i portici, la fontana del Nettuno,
l’archiginnasio; alla famosa torre Asinelli dedica le riprese più ispirate, in
109
Questa definizione che Pagano fa di se stesso (G. Pagano, Un cacciatore di immagini, in «Cinema»,
dicembre 1938), trova conferma in una considerazione di Vilém Flusser, studioso del linguaggio e della
cultura, che scrive: «Se osserviamo i movimenti di un uomo munito di apparecchio fotografico (o
piuttosto di un apparecchio fotografico munito di un uomo), abbiamo l’impressione di assistere a un
agguato: è l’antico gesto venatorio del cacciatore paleolitico della tundra. Con la differenza che il
fotografo non insegue la sua cacciagione nella prteria aperta, bensì nella giungla degli oggetti culturali, e i
suoi sentieri segreti sono formati da questa taiga artificiale. […] La giun gla fotografica è composta di
oggetti culturali, vale a dire di oggetti che sono stati ‘disposti intenzionalmente’. Ognuno di questi oggetti
regola lo sguardo del fotografo sulla sua preda. Egli si muove furtivamente fra questi oggetti, per schivare
l’intenzione che vi si dissimula». Il gesto fotografico, in V. Flusser, Per una filosofia della fotografia,
Mondatori, Milano 2006, p. 39.
58
cui le regole dei tagli diagonali prendono un piacevole sopravvento
esasperando quella sensazione di smarrimento già naturalmente indotta
dalla singolare struttura architettonica110. Probabilmente la dimensione più
umana del centro bolognese rispetto ad altre più grandi metropoli
individuate, permette di realizzare, in questa città, un servizio fotografico
decisamente efficace.
Anche Pavia diviene protagonista delle fotografie dell’istriano. Il Duomo, il
Ponte coperto, i dintorni e tutto un reportage dedicato alla sola Certosa,
rivelano il profondo interesse che Pagano doveva nutrire nei confronti di
questo centro.
La Venezia dei Dogi ritorna attraverso la suggestione dei suoi palazzi e il
fascino immortale dei canali, ma la chiave di lettura ancora una volta non è
quella consueta; i riferimenti architettonici più noti si riconoscono infatti
solo attraverso l’individuazione di una singolare serie di dettagli selezionati
dal fotografo. Ed ecco il Palazzo Ducale ravvisabile nella teoria di colonne
del porticato riflessa nei canali e la Cà d’Oro letta solo attraverso gli
elementi decorativi che ne arricchiscono i prospetti.
Viene fuori così l’immagine di una città silenziosa e singolarmente
frammentata, turbata solo dal rumore delle acque che la pervadono nei suoi
mille canali in cui le stesse architetture annegano e si riflettono – ancora
una volta l’immagine speculare sembra suscitare e richiamare l’attenzione
fotografica dell’architetto più di quella reale. In questa dimensione
110
Pagano rimane indubbiamente affascinato dalla torre Asinelli riconosciuta oggi come la più singolare
delle torri bolognesi; costruita intorno al penultimo decennio del XI secolo, verrà completata dalla
famiglia cui verrà affidata in seguito alle lotte aspre che si svolsero in città tra le diverse fazioni che
appoggiavano Papato e Impero: la famiglia Asinelli. La struttura viene elevata oltre i 60 m originari fino
all’altezza attuale, tanto che da allora, la torre verrà utilizzata per le più disparate funzioni anche dopo la
cessione da parte della famiglia affidataria allo Stato. La struttura verrà utilizzata come «punto
privilegiato di controllo dell’abitato e per l’invio di segnalazioni luminose», come «appoggio per
costruzioni in legno addossate all’esterno, come era allora d’uso corrente per le torri bolognesi», come
fortezza urbana, come prigione e durante l’ultimo conflitto mondiale, come emergenza più alta della città
«per individuare i punti nei quali stavano cadendo in città le bombe d’aereo». Guida di Bologna.
Architettura, a cura dei docenti e ricercatori della facoltà di Architettura di Bologna, Allemandi & C.,
Torino 2004, pp. 32-33.
59
suggestiva, ben poco spazio è concesso alla presenza umana rivelata solo
attraverso rare immagini di gondolieri e turisti distratti.
Del litorale ligure vengono riprese le città di San Remo, Imperia e Alassio;
soprattutto quest’ultima torna spesso nelle immagini di Pagano che sarà
legato intimamente alla cittadina in cui trascorrerà diversi dei suoi momenti
familiari più sereni e distesi, dove troverà rifugio negli anni angosciosi
della guerra e nei fugaci momenti di tregua tra un impegno militare e
l’altro. Ed è in questi scatti che riconosciamo la moglie Paola, le care figlie,
momenti di preziosa intimità nei quali comunque si rivela la sua natura di
fotografo.
Della splendida zona del Chianti, Pagano ci regala immagini suggestive dei
nuclei rurali ripresi spesso dall’alto secondo quella stessa ricerca formale
che aveva già caratterizzato gli scatti in Trentino.
A Viterbo, la città dei Papi, sono dedicate poche fotografie tra cui quelle al
Palazzo Municipale, e al Palazzo del Conclave ma è nella provincia più
prossima alla città che Pagano realizza il reportage più interessante, quello
della splendida Villa Lante a Bagnaia111; gli scatti numerosi, evidenziano la
bellezza gentile del complesso rinascimentale, raggelata in ogni minima
partitura decorativa. La villa, opera dell’architetto Jacopo Barozzi da
Vignola, è catturata in immagini dal fascino sospeso nel tempo, nelle quali,
ai giardini incantevoli si rivolge gran parte dell’attenzione dell’architetto.
In questo servizio riconosciamo molti dei temi e sottotemi cari a Pagano:
quello dei rapporti e delle iterazioni tra elementi standard, il tema del
riflesso, nelle immagini dei corpi scultorei riflessi nell’acqua della fontana,
e soprattutto il soggetto mimetico. Il tema della mimesi natura-architettura
111
Alcuni degli splendidi scatti realizzati da Pagano nella villa rinascimentale, vengono pubblicati in un
articolo uscito sulla rivista «Natura» intitolato: Un esempio di architettura: Villa Lante, nel numero del
maggio-giugno 1942, pp. 27-34.
60
si esprime in tutta la sua pienezza in questi scorci della villa, in cui le esili
colonne si fondono e confondono con i fusti degli alberi.
Alla città di Firenze, patria del Rinascimento, il Nostro dedica un lungo
servizio fotografico dalla forte carica architettonica, ma ancora una volta il
valore storico artistico non viene sublimato attraverso vedute monumentali,
tutt’altro; da Santa Maria Novella fino ai minimi dettagli scultorei della
fontana di Piazza della Signoria, ogni particolare è catturato con una
finezza d’osservazione eccezionale e inconsueta112.
Decisamente interessanti sono le foto dall’alto, che regalano del contesto
urbano punti di vista insoliti e un’immagine del tutto nuova rispetto ai
canoni iconografici contemporanei cui ci avevano abituato soprattutto le
immagini Alinari, che fino ad allora avevano restituito una visione
convenzionale e ormai obsoleta della splendida città113.
Come raramente accade nelle immagini di Pagano, a Firenze la città si
anima di gente.
Diversi scatti riprendono gruppi di persone in giro per le strade vestite con i
costumi d’epoca dell’antico gioco del calcio, nel rispetto di una delle
tradizioni fiorentine folcloristiche più belle, durante la quale si faceva
rivivere lo spirito di quello storico evento ludico; espediente questo, utile
all’architetto per catturare l’anima della città antica attraverso l’immagine
che quel centro doveva mostrare anni addietro con le sue tradizioni, i suoi
costumi, e nel contempo una maniera certamente singolare e garbata per
attraversarne le vie incrociando le architetture più belle. Pagano si dimostra
112
Il servizio fotografico nella città toscana viene realizzato nel 1940, come sottolinea la data riportata su
uno dei provini.
113
«Una raffigurazione accurata e sistematica, quella degli Alinari presume immagini nitidissime, con
soggetti decontestualizzati e privi di inquinamenti ambientali, dalle quali si escludono, oltre che i fili
dell’energia elettrica, perfino i passanti pre strada, considerati per lo meno distraenti. In queste fotografie,
la luce è generalmente diffusa, per non nascondere alcunché nel chiaroscuro, il punto di ripresa di solito è
alto (circa tre metri dal livello del marciapiede), per evitare le linee cadenti pu riprendendo l’intero
edificio nel cono visivo». I. Zannier, Architettura e fotografia, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 25. Cfr.
anche Id., Le Grand Tour nelle fotografie dei viaggiatori del XIX secolo, con una introduzione di Cesare
de Seta, Canal & Stamperia ed., Venezia 1991.
61
indubbiamente colpito, a Firenze, dal rapporto uomo-architettura che riesce
perfettamente ad instaurarsi, in una città come questa toscana, in cui
l’ordine dell’urbanistica rinascimentale aveva generato un’armonia
inconsueta114. Vista dall’alto, l’euritmia delle strade e degli incroci
perpendicolari ai palazzi, emerge in tutta la sua chiarezza. Sempre dall’alto
è immortalato il tetto acuto della cupola di Santa Maria del Fiore di cui
viene sottolineato l’aspetto dominante rispetto al contesto; ancora vedute
aeree ma non centrali per la singolare emergenza stereometrica del
Battistero del quale però non sono ripresi gli splendidi interni con il
pavimento intarsiato né i ricchi mosaici che ne decorano il soffitto, dettagli
che probabilmente non interessano alla ricerca formale dell’architetto.
A questo apparente disinteresse per lo specifico carattere artistico e
decorativo del Battistero fa eco un atteggiamento indubbiamente singolare
nei confronti di tutto il mondo pittorico che sembra infatti non incuriosire
particolarmente Pagano, almeno non in questo contesto. Scrive Di Mauro:
«Appare subito chiaro che egli non fotografa dipinti; ad essi dedica quasi
una dozzina di fotografie e sempre solo di affreschi, mai una tavola, una
tela»115. Peraltro, la citata riflessione può essere completata da un’altra, e
cioè che a dispetto di questo, l’architetto rivolgerà invece grande attenzione
ai gruppi scultorei sparsi per le città italiane, dedicando veri e propri servizi
fotografici alla fontana del Nettuno a Firenze, alle sculture della Villa
Lante a Bagnaia, mentre a Pisa una sessantina di scatti sono spesi solo per
sottolineare i rilievi della porta di San Ranieri del Duomo, opera
dell’architetto Bonanno Pisano116. Sarebbe di certo sbagliato parlare di
114
Sin dall’epoca medievale infatti, la città di Firenza sarà caratterizzata da «una articolazione strutturale
fondata su un principio di ordine razionale e geometrico che regola qualsiasi situazione particolare e la
città intera nel suo territorio». G. Fanelli, Le città nella storia d’Italia. Firenze, Laterza, Roma-Bari
1980, p. 71.
115
L. Di Mauro, Archeologia e arte, cit., p. 42.
116
Alla costruzione del Duomo di Pisa interverranno numerosi architetti tra i quali Rainaldo, Guglielmo,
Diotislavi e Bonanno appunto, che intorno al 1180 si occuperà di scolpire le quattro meravigliose porte
del Duomo. Quella di San Ranieri, chiamata così perché immetteva nell’omonima cappella, unica
62
indifferenza, da parte dell’architetto, nei confronti delle arti decorative, è
ben nota piuttosto l’attenzione costante rivolta nei confronti di tale settore
artistico. Pagano pubblica un interessante lavoro sull’argomento, nel 1938;
in questo volume dei Quaderni della Triennale, affronta in primo luogo il
dibattito sull’arte in architettura, sottolineando la volontà di combattere «la
moda delle superfici levigate»117 che rischiava di farsi strada nella cultura
moderna, intendendo piuttosto «sfrondare il campo delle idee preconcette,
lasciando agli artisti la libertà di ritrovare un linguaggio che parli ai
contemporanei e che collabori con l’architettura moderna alla ricostruzione
di quella unità delle arti che la divisione artificiosa tra le arti cosiddette
pure e quelle cosiddette decorative rendeva ancora impossibile»118. Idee
precise e importanti quindi, che grande spazio conferivano all’arte
soprattutto in ambito architettonico.
Ma quali potrebbero essere quindi i motivi di un’attenzione tanto sollecita e
quasi esclusiva nei confronti dei manufatti scultorei? la riflessione da farsi
è una sola: la scultura in fondo non è altro che un volume, la definizione di
uno spazio plastico che è anch’esso architettonico e che soprattutto con il
contesto instaura un rapporto ben preciso e Pagano si dimostra interessato
soprattutto a questo rapporto, che nella logica spaziale delle tre dimensioni
trova la sua principale espressione.
Ritornando alla città di Pisa, suggestive risultano le immagini della famosa
torre, la cui caratteristica pendenza viene accentuata nella ripresa dal taglio
in diagonale119. Di Siena è possibile riconoscere il Duomo, San Domenico,
Piazza del Campo e la fonte Gaja di Jacopo della Quercia.
superstite all’incendio del 1595, viene certosinamente ripresa nelle fotografie di Pagano, che si sofferma
ampiamente sulle venti formelle che illustrano gli episodi della vita di Cristo. Cfr. E. Tolaini, Le città
nella storia d’Italia. Pisa, Laterza, Roma-Bari 1980, p. 37 e segg.
117
G. Pagano, Arte decorativa italiana, Quaderni della Triennale, Hoepli, Milano 1938, p. 35
118
Ivi, p. 32.
119
Il lavoro iconografico definito da Pagano nelle fotografie della torre pendente pisana è del tutto
analogo a quello realizzato a Bologna nella ripresa della torre Asinelli.
63
A quella Pienza «moderna e attualissima: motivo di orgoglio e di conforto
per ogni architetto»120, Pagano dedica pochi ma puntuali scatti: alla
Cattedrale, alla loggia di Palazzo Piccolomini, alla Cappella della Madonna
del Rosario a S. Quirico. Pubblicherà alcune di queste fotografie su
«Casabella» nell’articolo in cui racconta la città dopo l’intervento di Papa
Pio II, «mecenate intelligente che aveva fiducia nell’arte d’avanguardia,
che ha scelto bene il proprio architetto e che sapeva valutare senza paura e
senza compromessi il valore progressivo, costruttivo e novatore»121, che
era riuscito a costruire, grazie al maestro Bernardo Rossellino, un «gioiello
pieno di orgogliosa e aristocratica modestia»122.
Un particolare sguardo è riservato ad Arezzo; di quest’ultima, l’abside e
campanile della Pieve, il Palazzo Comunale, la Piazza del Duomo, la chiesa
di San Domenico, Santa Maria delle Grazie, vengono riprodotti con una
cura maniacale. Belli gli scatti eseguiti tra Spoleto e Terni con una sosta
nella incantevole città di Narni.
Ovviamente a Roma è dedicato uno dei più ricchi reportage realizzati in
tutta Italia da Pagano: l’Arco di Costantino, la Colonna Traiana, il
Quirinale, il Museo Nazionale, Piazza del Popolo e il Colosseo, il
Campidoglio, il Mausoleo di Augusto, Santa Maria Maggiore, la Via Appia
e il Lungo Tevere con i fori e il Palazzo Venezia, descrivono la fisionomia
della
capitale
quasi
completamente,
seppure
ce
la
restituiscano
essenzialmente nella sua immagine antica, «la città morta» come la
definisce de Seta123, quasi come se Pagano volesse affermare che, tutto ciò
che è stato fatto dopo non sia degno d’alcuna nota. Le foto che
120
G. Pagano, Un esperimento riuscito, «Casabella», n. 133, gennaio 1939.
Ivi.
122
Ivi.
123
«Quando va a Roma privilegia i fori e le aree archeologiche: manifestamente predilige la città morta.
Le altre sono foto amare, sarcastiche che intendono essere un atto di denuncia». C. de Seta, Città e
campagna, cit., p. 76.
121
64
documentano lo scempio dell’E42 sono di chiara denuncia124: asettiche,
fredde, surreali e sconcertanti nella loro essenza metafisica e fuori dalla
scala umana; il quartiere di Piacentini viene in definitiva sarcasticamente
iconizzato quale esempio di cattiva progettazione del nuovo125.
La provincia laziale e campana rappresenta una fonte ricchissima di esempi
di architettura rurale, di cui le manifestazioni spontanee nelle isole di
Ischia, Capri e Procida, rappresentano le espressioni più interessanti.
A Capri in particolare, i numerosi scatti ci regalano l’immagine di un’isola
inedita, incorrotta e splendida, quando ancora non era stato compromesso
quel suo distintivo carattere selvaggio. Le immagine più belle che ce la
restituiscono sono quelle che riprendono le piccole barche a remi che
giungono alla grotta azzurra, i lidi poco affollati e il mare cristallino, le
architetture uniche e perfette nella loro semplicità, quella semplicità
eccezionale di un posto che ‘non si scorda mai’ come recita la frase che si
legge sul fronte di una delle case fotografate (vol. 25, num. 12).
Scarsa invece l’attenzione rivolta alla città di Napoli, che nelle rare riprese
restituisce ben poco della sua millenaria ricchezza. Capo Miseno, Posillipo
e i quartieri sono risolti in pochi scatti; delle splendide architetture della
città partenopea riprende solo l’arco di trionfo di Castelnuovo e due
immagini restituiscono il fronte di Palazzo Reale. Nemmeno una
rapidissima sosta nella cittadina incorniciata dallo splendido golfo
riuscirebbe a giustificare una tale povertà d’immagini prodotte, della quale
comunque non conosciamo il motivo. Di Pompei e Ercolano sono ripresi i
124
Un ‘racconto’ interessante del progetto realizzato a Roma per il quartiere dell’Eur viene fatto da M.
Capobianco, Gli anni Quaranta. «La via più dura» dell’architettura italiana, in «ArQ 14-15»,
Architettura italiana 1940 – 1959, [numero doppio della rivista del giugno-dicembre 1996, pubblicato in
formato speciale], Electa Napoli 1998, p. 61 e segg.
125
Scrive Pagano «L’olimpiade della civiltà si trasformò in un famedio di marmorino. […] Vinse
l’Accademia, e sulla piallata acropoli delle Tre Fontane i due miliardi finora spesi monumentalizzarono il
vuoto». G. Pagano, Occasioni perdute, «Costruzioni-Casabella», n. 158, febbraio 1941.
65
soli scavi senza alcun accenno d’interesse nei confronti del contesto
cittadino e lo stesso dicasi per Pozzuoli.
Di tutto il litorale adriatico, escluse Pesaro, Fano e Senigallia solo la costa
pugliese riceverà la giusta attenzione da parte dell’architetto, che individua
nelle province di Bari e Matera, le tappe più importanti, in cui gli esempi di
architettura rurale toccano probabilmente i picchi più alti per ingegno e
maestria tecnica.
A Bari, Pagano si sofferma su alcuni edifici di rilievo quali: il Castello, il
Duomo, la chiesa di San Nicola.
Matera conquista un insolito spazio nella produzione del Nostro, restituita
in un’immagine rurale dalla carica profondamente poetica126; il borgo
pietroso viene raccontato attraverso le immagini dei bambini scalzi in giro
per le strade, le case scavate nella roccia ancora più suggestive nelle riprese
dall’alto, le cave di tufo. Una città «trogloditica»127 il cui fascino sembra
risiedere nella sua stessa arcaicità, una dimensione spezzata e fuori dalla
realtà in cui uomini e sassi convivono nel medesimo habitat.
Centri come Alberobello, Altamura, Gioia del Colle, Casamassima, Fasano,
Martina Franca, ritornano generosi nei suoi scatti.
Saltando ampiamente la punta calabra dello stivale, Pagano giunge a
fotografare la Sicilia, in cui particolare attenzione viene rivolta alla valle
dei templi di Agrigento; tra i negativi che documentano questo viaggio in
una è ritratto lo stesso Pagano, con i templi alle spalle e la moglie Paola di
fianco (vol. 54, num. 47), è questa una delle rarissime immagini in cui
l’architetto ritrae anche se stesso. A Palermo incontriamo la Cattedrale, la
Fontana Pretoria, San Giovanni degli Eremiti, San Cataldo, nonché
126
Una fonte preziosissima di conoscenza dell’antichissima storia della città di Matera che trae le sue
origini addirittura dall’epoca preistorica, è il volume di C.D. Fonseca, R. Demetrio, G. Guadagno, Le città
nella storia d’Italia. Matera, Laterza, Roma-Bari 1998. Un saggio molto utile è anche quello di C. de
Seta, Matera, in Luoghi e architetture perdute, Laterza, Roma-Bari, 1986, pp. 91-108, nel quale sono tra
l’altro riportate diverse fotografie di Giuseppe Pagano.
127
G. Pagano, Un cacciatore d’immagini, cit.
66
particolare attenzione è riservata al porto vecchio e ai vicoli. Della città di
Monreale viene fotografato il Palazzo di Ruggiero con il bellissimo
chiostro128. Infine riprende la zona archeologica di Segesta.
Le foto realizzate in Sardegna dovrebbero risalire al 1940, anno in cui si
occupa dello studio delle case dei minatori, di certo a questo periodo
risalgono gli scatti di Carbonia, la città creata per ospitare i cavatori, nelle
quale l’attenzione si rivolge esclusivamente al lavoro nei depositi caolini.
Questa volta è il tema della dignità dell’homo faber quello che viene in
qualche modo rappresentato e messo in scena, seppure l’obiettivo
dell’architetto venga talvolta ‘distratto’ dalla scoperta di forme insolite,
come si riscontra nelle fotografie dei filari di carrelli pieni di rocce, o delle
case dei minatori schematicamente disposte tra le cave petrose e
impolverate.
Diverso invece il fascino suscitato su Pagano dall’altra cittadina sarda,
Portoscuso, dove l’obiettivo è catturato dalla dimensione urbana umile e
dalle architetture semplici quanto la gente.
Sappiamo che oltre alle tappe italiane, Pagano condurrà un discreto
percorso di viaggio in Grecia e Albania. Ai territori istriani che gli avevano
donato i natali, dedica ben poche immagini, ma è in Grecia e in special
modo nelle città di Atene e Corfù che l’istriano realizza due dei suoi
reportages più belli. Incide sul felice risultato dei servizi compiuti in questi
luoghi, la maturazione fotografica ormai completa dell’architetto, che
visiterà i territori della Grecia nel 1941, in piena guerra, in qualità di
comandante del 17° reggimento di Fanteria con il grado di Maggiore129.
128
La città di Monreale sorge su uno sperone dominante la valle dell’Oreto e la Conca d’Oro, ed è
indubbiamente il principale centro turistico nei dintorni di Palermo. Cfr. Guida del Touring Club italiano,
Sicilia, Touring ed., Milano 2005, pp. 221-231.
129
Si rimanda al profilo bibliografico inserito in appendice.
67
L’ampio servizio realizzato nella suggestiva acropoli di Atene potrebbe
essere inteso come una sorta di summa magistrale di tutta la sua carriera
fotografica.
Nel cuore di una delle più spettacolari testimonianze archeologiche del
mondo, lo sguardo dell’architetto, del critico, del cronista si fonde con
quello del soldato, un soldato in conflitto con la sua stessa fede130. Il
dissidio interiore che ne consegue, l’inconsapevole benevolenza del
cittadino afflitto da un suo personale dramma, porta Pagano a volgere verso
la città antica uno sguardo amorevole, coinvolto, affascinato, ma nello
stesso tempo pensoso e sgomento.
Come farebbe il regista di un documentario archeologico, l’istriano si
aggira tra resti di mura e rocchi di colonne con una curiosità che lo spinge a
ricercare i punti di vista più inediti, alla conquista di uno spazio conosciuto
fino a quel momento solo attraverso i libri e che invece è ben entusiasta di
catturare ‘dal vero’ attraverso la sua ‘formidabile’ rollei. L’analisi che
Pagano fa di questa realtà che sotto i suoi occhi ipnotizzati trasuda
perfezione stilistica è comunque profondamente obiettiva, l’architetto
infatti si dimostra assolutamente consapevole del fatto che il fascino
suscitato da quei luoghi sia anche il risultato di una ricostruzione
‘pittoresca’ influenzata dalla visione accademica della storia, ritenendo
infatti che: «non piccolo aiuto all’ammirazione di oggi sia da attribuire al
fascino della rovina che ha ricondotta l’architettura alla sua bellezza
essenziale, al suo più schematico lirismo, alla pura necessità di
130
Poco prima di partire, in un delicato e sofferto frammento di diario Pagano avanza legittimi dubbi
sull’opportunità della sua partecipazione alla guerra correndo «il rischio della vita per poter poi
dimostrare che non valeva la pena di rischiarla per difendere un sistema politico così contrario a tutto ciò
che di sacro, di bello, di santo, di giusto» aveva cercato di realizzare attraverso la sua vita e la sua arte.
Estr. da un frammento di diario del 17 gennaio 1941, in C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano,
Architettura e città …, cit.; F. Albini, G. Palanti, A. Castelli, (a cura di), Giuseppe Pagano Pogatschnig
…, cit.
68
un’emozione estetica assoluta, liberata da tutti gli accessori, esonerata da
qualsiasi ragione utilitaria, senza attributi decorativi»131.
Il prodotto che viene fuori da questo servizio fotografico è davvero
mirabile ma come sempre capace di suscitare dibattiti più che sterile
ammirazione: sarà questo uno dei rari casi in cui dalle fotografie verrà fuori
un articolo sarcastico e come sempre pieno d’acume, scritto dall’architetto
poco dopo il suo viaggio ad Atene e pubblicato sulla rivista «Domus» nel
dicembre 1941, con allegate alcune delle sue fotografie. La visione
dell’estatica e irraggiungibile bellezza dell’Acropoli spinge il Nostro a
dibattere sull’opportunità del lavoro di quegli architetti che con l’alibi della
ricerca
del
monumentale,
costruivano
presuntuosamente
«costosi
minestroni archeologici»132, quelli che l’istriano ironicamente definirà ‘i
partenoidi’.
Scrive Pagano: «Animati dalla più diligente erudizione, frementi per una
sadica gioia profanatrice, fiduciosi di potersi salvare nel mondo della
cultura più facile, architetti poco sensibili si sono piegati alle esigenze di
committenti superficiali ed hanno dato vita ai ‘partenoidi’. Musei e banche
e palazzi aulici di tutto il mondo hanno tentato e tentano questa assurda
contaminazione. Indigeste ambizioni di monumentalità tracotante, poca
cultura o smodata presunzione annebbiano spesso l’intelligenza dei ricchi e
dei potenti»133. In fondo ciò che più d’ogni altra cosa preme spiegare
all’architetto – ancora una volta l’intento è didattico – è il vero valore della
storia, un patrimonio preziosissimo che va tenuto in conto senza essere
depredato né tanto meno abusato come fonte da imitare pedissequamente,
in nome di un presuntuoso intento virtuosistico.
131
G. Pagano, Partenone e partenoidi, in «Domus», n. 168, dicembre 1941. Ora in C. de Seta (a cura di),
Giuseppe Pagano, Architettura e città …, cit.
132
Ivi.
133
Ivi.
69
Tra le immagini più belle realizzate ad Atene vale la pena indubbiamente
ricordare quelle in cui la perfezione aulica del complesso greco si sposa
con l’incidentale presenza dei commilitoni in fila sulle rovine, memori
dell’antico splendore, contrasto stridente e straordinario nella sua pungente
e brutale realisticità.
Nella deliziosa cittadina di Corfù, lo sguardo di Pagano diviene ancora più
indulgente, partecipe soprattutto del patimento umano dei cittadini vessati
dalla guerra134. Alcune scene toccanti e straordinarie riprese nella comunità
greca, come quella di una madre che allatta il bimbo su un cumulo di
macerie, immagine di resurrezione e speranza dall’elevato connotato
realistico, fino a quella che riprende la sagoma di un uomo posto di spalle,
inerme, davanti allo spettacolo tragico di un edificio distrutto dalle bombe,
sono diventati emblemi di una sciagura infinita e indelebile nel ricordo.
Il valore di un patrimonio iconografico di tale portata, oggi, è indiscusso.
Se solo si considera che molte delle città fotografate da Pagano,
riporteranno, dopo la seconda guerra mondiale, danni irreversibili – di
alcune ne verranno totalmente stravolti i connotati – si ha una dimensione
della portata e dell’importanza del lavoro documentario condotto, motivo
per cui, l’archivio fotografico dell’istriano, rivalutato e riletto oggi,
rappresenta di per sé una fonte storica di elevatissimo valore135.
134
Anche in questo caso il reportage darà vita ad una serie di riflessioni dell’architetto che lo
condurranno alla redazione di un intenso articolo pubblicato su «Costruzioni-Casabella», nel n. 183 del
marzo 1943. In questo caso, le fotografie che documentavano la città di Corfù distrutta dalla guerra,
diventano il punto di partenza per l’articolo La ricostruzione dell’Europa: capitale problema di attualità
nel campo edilizio. Diverse immagini di Pagano verranno inserite a corredo di questo suo scritto.
135
Un interessante esempio del lavoro di recupero del patrimonio iconografico di matrice fotografica è
quello svolto da Stefano Fittipaldi, Marco Iuliano e Giuliana Leucci con i due fondi fotografici Troncone
e Parisio, ospitati nell’Archivio fotografico Parisio che ha sede a Napoli. Gli studiosi stanno
faticosamente cercando di organizzare un catalogo multimediale ed interattivo per la valorizzazione e
divulgazione del fondo fotografico: «L’importanza dei fondi d’archivio è accresciuta e rafforzata dalla
constatazione che queste fotografie molte volte hanno il carattere di vero e proprio inedito: immagini non
logorate dalla mercificazione cui i materiali stanno spesso andando incontro, ma spesso testimonianze
uniche della trasformazione dei luoghi in divenire, rapida e difficilmente documentabile». M. Iuliano,
Dagli archivi fotografici Parisio e Troncone: immagini per la Modern Heritage List, in F. Lucarelli (a
cura di), La Mostra d’Oltremare. Un patrimonio storico-architettonico del XX secolo a Napoli, Electa
Napoli 2005, p. 27.
70
Ancora troppo ridotto è il ruolo che viene affidato alla fotografia
nell’ambito dello studio della città, per non parlare poi di quanto si
sottovaluti l’eventuale apporto che un materiale di questo tipo potrebbe
avere sugli studi volti a progetti di ricostruzione e restauro di contesti
storico artistici. Viollet Le Duc d’altronde, è stato tra i primi a indicare i
vantaggi dell’uso della fotografia nel restauro architettonico.
«Potrei dirti di quanti gradini sono le vie fatte di scale, di che sesto gli archi
dei porticati, di quali lamine di zinco sono ricoperti i tetti; ma so già che
sarebbe come non dirti nulla. Non di questo è fatta la città, ma di relazioni
tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato. […] Ma la
città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto
negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, nei corrimano delle scale,
nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento
rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole»136, è proprio
questa la città d’Italia che ci racconta Pagano nei suoi scatti fotografici,
collezionando un’opera che è un patrimonio prezioso per fortuna
sopravvissuto alle ingiurie del tempo.
c. Ulteriori temi sviluppati nelle foto d’archivio: l’architettura
contemporanea, l’archeologia, il fascismo e la guerra, il lavoro e il tempo
libero, le forme, i ritratti.
Parallelamente al materiale realizzato durante il Tour in giro per la
penisola, Pagano mette in opera una serie di servizi fotografici che, per
l’entità del prodotto e il valore esclusivo degli argomenti trattati, possono
essere considerati lavori autonomi seppur correlati e contemporanei alla
136
Le città e la memoria, in I. Calvino, Le città invisibili, nell’edizione Oscar Mondatori, Milano 1993, p.
10.
71
produzione del viaggio in Italia. È un Pagano divertito e affascinato dalla
vita quello che si riconosce nelle foto di questa ulteriore porzione
dell’archivio.
Tra le varie immagini di viaggio i singolari reportages si inseriscono come
note di gusto e colore in un materiale dal carattere tanto specifico volto,
come abbiamo visto, essenzialmente a costruire una rappresentazione
inedita dell’Italia tra le due guerre.
Sfogliando le fotografie elencate per lo più topograficamente nell’archivio
di Pagano, l’incontro con questi affascinanti servizi produce nella maggior
parte dei casi meraviglia e stupore: in questi scatti forse più che negli altri
si riconosce infatti la natura più autentica del fotografo, quella che induce
l’istriano ad allontanarsi anche solo per qualche istante dalla sua
dimensione di architetto, assumendo in toto il ruolo dell’artista sempre
distaccato che guarda e annota con gusto, senza per questo esimersi
dall’esprimere un giudizio.
Volendo scandagliare uno per uno questi ulteriori argomenti d’indagine
approntati da Pagano fotografo, risulta utile tenere presente il lavoro
analogo condotto dagli autori del primo e unico catalogo fotografico uscito
sull’archivio dell’architetto istriano137. In questa occasione alcuni studiosi
come Leonardo Di Mauro, Antonio La Stella, Maria Teresa Perone,
Federica Di Castro, Marina Miraglia, e, ovviamente, Cesare de Seta,
affrontano la difficile analisi critica del materiale relativo ai temi
fotografici di Pagano.
All’architettura contemporanea, Pagano rivolge una cura e un’attenzione
del tutto singolare.
Invero, ci si chiede come mai l’architetto dedichi molte più fotografie alle
opere antiche piuttosto che a quelle coeve; è una realtà oggettiva il fatto che
137
Ci riferiamo al catalogo di C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit.
72
egli tenda a riconoscere dei modelli positivi di riferimento quasi
esclusivamente nell’architettura del passato. Del contemporaneo vero e
proprio riprende ben poco, e certamente più che le architetture, richiamano
la sua attenzione i materiali, gli aspetti strutturali, gli elementi tecnologici,
nonché il carattere seriale della produzione; quasi come un moderno
Palladio che nei Quattro libri a corredo del testo richiama oltre alle opere
antiche, le sue e nessun’altra, Pagano riprende soltanto alcune delle sue
architetture, il cantiere della Bocconi, il Palazzo della Moda e il Palazzo
Gualino a Torino. Non c’è alcuno scatto dedicato ad opere, anche
importanti, realizzate in Italia in quegli stessi anni: non ci sono immagini
della città universitaria di Roma, o della Mostra d’Oltremare di Napoli
conclusa nel 1940 – quindi nel pieno degli anni più prolifici dell’attività
fotografica di Pagano – nessuna foto documenta inoltre la stazione di
Firenze il cui progetto aveva richiamato così tanto l’attenzione
dell’architetto138. Troppe le assenze, le lacune, per poter ritenere che esse
siano
state
davvero
delle
dimenticanze
casuali,
piuttosto
che
intenzionalmente volute dall’artista.
Quella di Pagano è una figura profondamente controversa; la sua posizione
nei confronti dell’architettura contemporanea, ancora più complessa.
Leggere tutti i suoi articoli pubblicati negli anni, significa entrare in un
labirinto di idee e di posizioni conflittuali che lo porteranno spesso a
schierarsi
a
favore
e
nello
stesso
tempo
contro
l’architettura
contemporanea. Il suo si dimostrerà più che altro, negli anni, un ruolo super
partes in qualità di critico e osservatore del nuovo. Riguardo, ad esempio,
138
Pagano scriverà un articolo appassionato in difesa del progetto vincitore del concorso per la nuova
stazione di Firenze da parte del Gruppo toscano degli architetti Giovanni Michelucci, Nello Baroni, Pier
Niccolò Berardi, Italo Gamberoni, Sarre Guarnieri e Leonardo Lusanna. Scrive l’istriano: «Questa volta
gli Accademici italiani hanno, con la loro votazione, sanzionata una preferenza inequivocabile per un
progetto che rappresenta un indirizzo di avanguardia: posizione di coraggio e di responsabilità che gli
architetti moderni da tempo attendevano e che hanno salutato con soddisfazione». G. Pagano, La nuova
stazione di Firenze, «Casabella», n. 63, marzo 1933.
73
alla posizione del Nostro sull’architettura razionale, afferma Bruno Zevi:
«Pagano era proprio contro il Razionalismo, tanto contro che riuscì a
criticare la casa del fascio di Como di Terragni»139. Non solo Pagano non si
può definire un razionalista, ma nemmeno un novecentista, né un architetto
fascista,
Pagano
guarda
agli
sviluppi
dell’architettura
indirizzato
semplicemente dal gusto e dal buon senso, mai in mala fede o per
perseguire ambizioni personali, aggiunge ancora Zevi: «Pagano era una
persona sanguigna, voleva veramente le cose civili, non gliene importava
niente dell’arte – anche se poi aveva ottimo gusto. Quando faceva la facoltà
di Fisica, qui a Roma, quando faceva la Bocconi, non mirava per niente a
fare della poesia»140.
Alla luce di questo suo distacco rispetto ad una certa produzione aulica o
imposta, sceglie di non fotografare e rendere così immortale il modello
della Casa del Fascio di Terragni, piuttosto che l’Officina Fiat-Lingotto di
Giacomo Matté-Trucco, perché forse avverte il sospetto che non
necessariamente
queste
opere
avrebbero
potuto
rappresentare
un
patrimonio eterno e una fonte imprescindibile per la cultura architettonica
del futuro, almeno non quanto le opere greche e romane o quelle del
Rinascimento avrebbero certamente fatto, distinguendo così l’«arte di
Stato» dall’«arte che resterà»141: Pagano ‘salva’ gli oggetti che ritiene più
sacri, i centri storici, le ville d’epoca, le architetture rurali, simbolo di una
saggezza antica e ormai perduta.
L’unico caso in cui l’obiettivo della rollei si sofferma su un’opera di
architettura contemporanea è quello del cantiere dell’E42, ma le immagini
come abbiamo già sottolineato, sono piuttosto di denuncia e sofferenza per
139
E. Carreri, Saper vedere l’architettura italiana. Intervista a Bruno Zevi, in «ArQ 14-15», Architettura
italiana 1940 – 1959, [numero doppio della rivista del giugno-dicembre 1996, pubblicato in formato
speciale], Electa Napoli 1998, p. 49.
140
Ivi, p. 49.
141
G. Pagano, Urgenza di parlar chiaro, «Costruzioni-Casabella», n. 146, febbraio 1940.
74
un uomo, un architetto, che giunge all’amara constatazione, osservando il
quartiere romano in costruzione, «della sconfitta e del crollo delle illusioni
di una generazione»142.
A dispetto di questa indifferenza palesata nei confronti delle opere coeve,
Pagano dimostra invece di appassionarsi oltremodo, come abbiamo detto,
alle tecniche, ai materiali, alle tipologie e metodi della costruzione
moderna. Non è un caso che la rivista da lui diretta assuma, dal 1938 il
nome di «Casabella-Costruzioni» a dimostrazione della grande attenzione
rivolta dall’architetto a questo specifico settore edilizio143. In definitiva, ciò
che interessa realmente Pagano non è il ‘contemporaneo’, piuttosto tutto
ciò che è veramente moderno e all’avanguardia e che va contro il bieco
accademismo di una certa ‘cultura’ ormai sorpassata; molto più moderno
un tempio dell’Acropoli di Atene quindi, oppure un esempio di casa rurale,
piuttosto che le opere contemporanee.
Molte fotografie ritraggono i caratteri tecnologici del costruire; tre scatti
dell’archivio intitolati semplicemente Ferro, riprendono le complesse
strutture metalliche di un ponte, in cui grande evidenza viene data ai
dettagli costruttivi: le grappe e i bulloni catturano l’attenzione
dell’osservatore, rappresentando un punctum della fotografia come direbbe
Roland Barthes144, così come l’impatto in primo piano delle travature
evidenzia il poderoso carattere materico dell’opera. Ma anche in questo
142
M.T. Perone, Architettura contemporanea, in C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit.,
p. 38.
143
Il nuovo titolo della rivista viene ufficializzato da una presentazione fatta dallo stesso direttore. G.
Pagano, Presentazione, «Casabella-Costruzioni», n. 124, aprile 1938.
144
Critico d’arte di caratura internazionale, Roland Barthes ha indirizzato la sua attenzione anche verso la
fotografia, cui ha dedicato pagine preziose ricche di riflessioni acute sulle potenzialità di questo mezzo di
comunicazione tanto ‘comune’ e sconosciuto nello stesso tempo. In La camera chiara. Nota sulla
fotografia, l’autore riesce con una serie di riflessioni attente a suggerire all’osservatore più o meno
preparato una strada da seguire onde poter comprendere i segreti di questa magnifica arte dei sensi. Nel
breve ma illuminante saggio, il critico individua l’esistenza di un punctum in ogni scatto fotografico,
inteso in quanto punto sensibile, segno che parla più di qualsiasi altro in un’immagine e che contribuisce
quindi a disturbarne o a indirizzarne lo studio, scrive a riguardo: «il punctum è una puntura, un piccolo
buco, […] quella fatalità che, in essa (la fotografia), mi punge», e quindi mi colpisce, attira fortemente,
talvolta inconsapevolmente, la mia attenzione. R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia,
Einaudi, Torino 2003, p. 28.
75
caso, l’intento dell’architetto risulta divulgativo di una certa idea.
Delucidante, a questo proposito, l’articolo uscito sulla rivista «CasabellaCostruzioni» del 1939 intitolato L’Autarchia e l’Architettura del ferro; in
questo articolo, come sempre veemente, l’autore spiega attraverso
un’analisi sagace e acuta, i motivi che spingevano gli architetti moderni a
fare a meno dell’utilizzo del ferro nelle proprie opere; motivi militari,
perché lo stato non voleva che l’uso del prezioso materiale fosse abusato
nelle costruzioni edilizie, e motivi dovuti ad una cultura accademica gretta
che poco apprezzava l’uso del ferro a vista in architettura. Pagano scatta
così queste immagini per rendere omaggio al nobile materiale e per dare un
esempio a quei costruttori che «si rassegnano a impiegare il ferro ‘in
segreto’, camuffandolo esteriormente con soprastrutture inutili che
offendono le stesse ragioni tecniche ed estetiche del suo impiego»145.
Stesso trattamento per le immagini intitolate Legno, in cui ritrae le
impalcature utilizzate nella messa in opera di strutture architettoniche, la
cui complessa maglia delle assi assemblate per la costruzione, assurge,
nella finzione fotografica, al medesimo valore compositivo dell’edificio
stesso. Strutture ardite per costruire organismi ancora più complessi in un
gioco di scatole ambiguo e affascinante che dà anche una misura
dell’atteggiamento divertito e distaccato dell’architetto. Questo complesso
gioco di intersezioni, sovrapposizioni strutturali, trova la sua espressione
più interessante nelle foto intitolate proprio Strutture, in cui lo scheletro
delle impalcature giunge a confondersi totalmente in una sorta di mimesi
con quello dell’edificio in opera.
Le armature dell’E42, strutture effimere utilizzate come prototipi per le
sculture da realizzare, divengono nelle immagini di Pagano delle moderne
opere d’arte in cui il materiale umile utilizzato, il legno, ne nobilita ancora
145
G. Pagano, L’Autarchia e l’Architettura del ferro, in «Casabella-Costruzioni», n. 144, dicembre 1939,
p.35.
76
di più le mute fattezze146. Lo studio è ancora quello dei materiali, e del
modo in cui essi vengono assemblati per comporre le opere.
Berlino ed Helsinki sono tra le poche città ‘moderne’ riprese dal nostro
selettivo regista147 – alcuni scatti sono dedicati anche ad Oslo. A Berlino
fotografa alcuni palazzi, uno scorcio dello stadio e due elementi
architettonici
decorativi
soprannominando
sarcasticamente
le
foto
Rettorica, Berlino proponendo l’idea di una città, affascinante ma piena di
contraddizioni.
Ad Helsinki, Pagano produrrà invece un numero superiore di fotografie e,
ancora una volta, ben poco si sofferma sulle architetture per lasciare invece
il posto a foto di paesaggi immersi nella neve, mari ghiacciati, baite
innevate, che riescono forse ad esprimere più schiettamente la vera natura
della città nordica.
Di tutto il materiale riguardante l’architettura contemporanea, il ciclo
fotografico più prolifico è indubbiamente quello dedicato allo Standard.
Sono immagini molto intriganti queste, in cui una moltitudine di temi
vengono a sovrapporsi in un controllo compositivo dell’immagine assoluto
e totale. La riproduzione seriale di elementi simili, il gusto di comporre
delle forme più o meno improbabili davanti all’obiettivo reiterando tali
elementi, la capacità di individuare in ambienti qualsiasi, composizioni
geometriche inaspettate, portano l’architetto a produrre scatti dal fascino
davvero accattivante. In realtà lo studio della componente standardizzata
ritorna di continuo negli scatti di Pagano, non solo nei negativi
propriamente intitolati Standard, ma uno studio compositivo analogo si
riscontra, ad esempio, in diverse immagini realizzate nel mercato di
146
Questi straordinari scatti realizzati da Pagano nel cantiere dell’Eur assumono ad ogni modo
un’ulteriore valenza nell’ambito di un discorso piuttosto complesso legato all’incidenza della pittura
metafisica sulla produzione fotografica dell’architetto, per il quale si rimanda al capitolo III.
147
Come abbiamo già detto in altra sede, Pagano si recherà a Berlino ed Helsinki in occasione di un ciclo
di conferenze tenute sull’architettura italiana contemporanea.
77
Sinigallia, nella serie dedicata alle Vetrine, oppure nelle fotografie del ciclo
Litoceramica, nelle quali viene comunque ricostruito quell’«alfabeto
moderno da cui scaturisce il linguaggio dell’architettura viva»148. Pagano
intende con queste fotografie stimolare una precisa riflessione: «la
riproduzione in serie non esclude la fantasia dell’arte ma, anzi, la moltiplica
nella importanza e nelle conseguenze»149. Il tema dell’archeologia, è uno
dei più cari all’architetto istriano, perché in qualche modo ha a che fare con
il recupero del patrimonio storico nazionale.
Scrive Pagano: «Se varie ragioni allontanano i giovani dallo studio
dell’antico, credo che sia necessario nella scuola e nella cultura degli
architetti italiani di evitare questa forma di negazione totalitaria e di vedere
accostarci all’antichità non per gioco di cultura o per furti di forme, ma per
comprensione di spiriti, per affinità di intenti, per simpatia verso situazioni
e realizzazioni analoghe a quelle che agitano il mondo di oggi, per
irrobustire quella coscienza moderna che non deve dipendere dal capriccio
dei giornali di moda ma imperniarsi in una profonda convinzione
morale»150. Da questa affermazione risulta chiaro il motivo della
predilezione che l’architetto dimostrerà nel suo lavoro di fotografo, nei
confronti dei tesori del mondo antico e del patrimonio archeologico.
Pompei, Paestum, Ostia, Olimpia, Segesta, Ercolano, sono solo alcune delle
città classiche studiate con grande attenzione dall’obiettivo della rollei,
soprattutto perché l’architetto nelle opere del passato riconosce i germi
dell’architettura moderna: «Ogni volta che io ho percorso il pompeiano
vicolo del balcone pensile o quei suggestivi meandri che circondano i
granai di Ostia, mi si è presentato uno strano desiderio di completare
modernamente quelle illustri rovine, come se fossero cose lasciate
148
Cfr. G. Pagano, Le costruzioni in serie, in «Casabella-Costruzioni», n. 144, dicembre 1939, p. 2.
Ivi, p. 2.
150
Cfr. G. Pagano, L’insegnamento degli antichi, in «Casabella», n. 80, agosto 1934. Ora in C. de Seta (a
cura di), Pagano, Architettura e città …, cit.
149
78
momentaneamente incomplete da un Le Corbusier o da un Mies van der
Rohe che non avessero ancora conosciuto né il ferro né il cemento
armato»151. Pagano produce in alcuni dei luoghi più belli del paese, veri e
propri documentari di archeologia restituendo l’immagine di queste città
addormentate, sepolte dal tempo, con un lirismo indiscusso. Le immagini
realizzate nella valle dei templi di Paestum sembrano uscite dai disegni dei
pittori del XVIII e XIX secolo, il taglio visuale delle foto ricorda infatti
vedute di un Ducros, di un Hackert, di un Piranesi – senza dubbio il più
‘fotografico’ di questi pittori. Sappiamo che il vedutismo pestano reitera
delle matrici costanti in tutti e due i secoli, ebbene Pagano sembra
ripercorrere e seguire questa scia, riprendendo nelle sue immagini quella
stessa tipologia iconografica.
Concordiamo ad ogni modo con Di Mauro quando sottolinea che nessuno
degli studi fotografici di Pagano sull’archeologia, quello realizzato a
Paestum, ma anche ad Ercolano, a Roma ad Agrigento etc. riesca a
raggiungere «il nitore e la naturalezza dell’Acropoli ateniese»152.
Al di là delle differenti caratteristiche di questi reportage archeologici,
sono comunque individuabili metodi e tecniche comuni soprattutto nelle
tipologie di ripresa fotografica; ad esempio si riscontra un metodo simile
nelle riprese delle colonne, con la macchina puntata dal basso verso
l’alto153, nel chiaro intento di farle emergere dal suolo come robusti tronchi
d’albero: una sorta di foreste pietrificate. Stessa analogia è riscontrabile
nelle foto dei dettagli decorativi rispetto ai quali, lo scatto, indugia sul
particolare piuttosto che riprendere l’elemento nel suo complesso: dell’Ara
151
Cfr. G. Pagano, Architettura moderna di venti secoli fa, in «La Casa Bella», n. 47, novembre 1931.
Ora in C. de Seta (a cura di), G. Pagano, Architettura e città …, cit.
152
L. Di Mauro, Archeologia e arte, in C. de Seta, Giuseppe Pagano fotografo, cit. p. 58.
153
Evidente in questi scatti l’influenza della fotografia di marca tedesca e russa, come non pensare a un
Moholy-Nagy oppure ad un Rodtscenko che critica apertamente quelle che definirà le ‘vedute
ombelicali’, suggerendo piuttosto ‘le riprese colte dall’alto in basso o dal basso in alto, o quelle in
diagonale’ . Cfr. capitolo III.
79
Pacis si riconosce solo il dettaglio del fregio, dell’Arco di Costantino
l’obiettivo è puntato sui bassorilievi del basamento.
Il tema del fascismo e della guerra è uno dei più delicati tra quelli trattati
dall’architetto.
Pagano non si definirà mai un politico ma nella politica sarà sempre
invischiato così come nella guerra. Ed è forse anche per questo che le
immagini su i due argomenti risultano relativamente poche: egli preferisce
non soffermarsi più di tanto su temi tanto spinosi, e quando lo fa’, la sua è
una maniera sempre delicata, attenta, quasi silenziosa. Non c’è
accanimento nelle sue immagini di carattere ‘bellico’ né tanto meno si
avverte quel desiderio a volte un po’ cinico di denuncia che hanno
posseduto e possiedono certe immagini dei reporter di guerra, piuttosto è
evidente un rispetto quasi religioso che gli deriva essenzialmente dalla
consapevolezza maturata che la guerra non sia altro che una triste necessità
e un dramma senza vincitori né vinti154.
Cercando in archivio voci come ‘fascismo’, ‘soldati’, ‘guerra’, viene fuori
un unico titolo: Soldati, e si tratta di un solo scatto in cui si vedono un
gruppo di militari messi in fila secondo il consueto carattere compositivo
seriale dell’immagine. In tutti gli altri casi fotografici dedicati a tali
argomenti, e ne sono comunque parecchi, il soggetto militare o politico non
è mai palesato chiaramente, è un fattore che si intuisce, che si legge tra le
righe, in molti casi assolutamente secondario.
Recuperando ancora una riflessione riportata nelle Note di Barthes, la
fotografia permette infatti «di accedere ad un infra-sapere»155 cioè può
sollecitare in un certo modo l’attenzione dello «spectator» e del suo
154
Molto interessante a questo proposito la riflessione di Carlo Bertelli che, riguardo a questo tema,
scrive: «Pagano aveva documentato la guerra come il passaggio da un’era storica e le rovine e gli
appostamenti e le batterie sono già visti a distanza, come se già fossero dentro la storia con una terribile
premonizione di morte». C. Bertelli, G. Bollati, Storia d’Italia – annali 2* – L’immagine fotografica …,
cit., p. 192.
155
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, cit., p. 12.
80
«studium»156 al punto tale da far cogliere in essa significati che
prescindono dallo stesso oggetto rappresentato. Pagano non fotografa la
guerra in sé per sé, quanto gli effetti della sua devastazione, come nel caso
del reportage realizzato a Corfù; allo stesso modo non riprende i cortei o le
assemblee fasciste quanto le scritte sui muri volte ad inneggiare o denigrare
il Regime (Puglia_Vol43_Num4, Milano_Vol47_Num12): è una chiave di
lettura molto acuta questa individuata, che solo un vero, grande fotografo
avrebbe potuto restituire.
Il tema del lavoro e del tempo libero viene approfondito sviluppando una
miriade di interessanti sottotemi.
Protagonisti di questi scatti sono gli uomini, personaggi sconosciuti, ma
anche intellettuali, o magari gente comune catturata tra la folla, operai,
bambini, un universo di volti e di espressioni che, attraverso le immagini di
lavoro e nelle ore di relax, racconta la propria esistenza semplice ed
eccezionale.
Del lavoro, Pagano, tende a far evincere l’essenza più nobile, considerando
tale attività un’arte nella quale ogni individuo si identifica e si ritrova;
l’architetto realizza quindi un percorso fotografico costellato di scene,
ambienti, personaggi d’una poesia sublime. Vengono individuate alcune
specifiche categorie di lavoro, come i Ceramisti, i Pittori, gli Operai, gli
Spaccalegna, i Fotografi, i Gondolieri, che richiamano particolarmente la
sua attenzione.
Le immagini degli spaccalegna nella Val di Fassa riconciliano l’autore con
la semplice realtà arcadica della dimensione rurale.
L’incontro con la gente a lavoro, gli suscita emozioni complesse tutte
straordinariamente interpretate dalla sua rollei, che osserva con delicata
maestria e dignitoso rispetto, soprattutto il lavoro artigianale. Anche
156
Ivi.
81
quando riprende gli operai, infatti, non si tratta mai di categorie impiegate
nell’industria, e conveniamo con la Miraglia nel rilevare che non si avverte
alcun accento polemico nel tipo di reportage dedicato dall’architetto a
questa problematica sociale: «Non c’è assolutamente alcuna intenzione
polemica nei confronti della grande industria e del conseguente passaggio
dallo strumento alla macchina, ma solo uno sguardo nostalgico ad un
mondo, quello del lavoro le cui strutture artigianali andavano lentamente
estinguendosi»157. In definitiva, Pagano ha un interesse esclusivo per quelle
maestranze che ancora riuscivano a servirsi delle nozioni, degli strumenti e
delle conoscenze ereditate da antiche tradizioni custodite nei secoli. Non
c’è polemica sociale, nulla che ricordi neppure vagamente le immagini di
denuncia del lavoro sottopagato o minorile realizzate soprattutto in
America, da fotografi come Lewis W. Hine158.
Come sempre l’architetto strizza piuttosto l’occhio ai tesori di un mondo in
estinzione che sopravvive ancora solo grazie al popolo dei ‘vinti’.
Nelle foto dedicate al tempo libero, riconosciamo un Pagano ‘leggero’ e
spensierato. Scorrendo i titoli dei provini si incontrano voci come: Giostre,
Costumi, Mare, Barche, Smorfia, Sorriso, Turismo, Varietà, che ci
regalano diverse tra le immagini più singolari di tutto l’archivio.
In alcuni scatti, come nelle foto dedicate al Varietà – sottolinea
argutamente Marina Miraglia – lo sguardo dell’architetto diviene un po’
voyeur, in un continuo indugiare sui volti ambigui del mondo dello
spettacolo, icone di una realtà talvolta frivola più spesso mistificante, che
sono tra le più incisive di questa categoria. Si deve tenere in conto il fatto
che, proprio negli anni ’30 ci sarà un grande sviluppo dell’avanspettacolo
in Italia, inizia la stagione della rivista con Totò, Macario, Nino Taranto.
157
M. Miraglia, Il lavoro e il tempo libero, in C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit., p.
128.
158
Cfr. B. Newhall, Storia della fotografia, Einaudi, Torino 1984; I. Jeffrey, Fotografia, Skira, Milano
2003.
82
Nel giro di pochi anni nascono sul territorio molti luoghi di svago e ritrovo;
tra i caffè celebri, si ricordano il Pedrocchi a Padova, il Greco a Roma, il
Cova a Milano, il Paskowsky a Firenze, il Florian a Venezia, mentre per
l’intrattenimento serale si propongono numerosi i cafè-chantant e appunto
il teatro di varietà. Nel frattempo si sviluppa, fiorente, l’industria
cinematografica, e sorgono le prime case di produzione come la Cines, la
Lux e tante altre159.
In questo sfavillio di luci e palcoscenici, le immagini, rubate molto spesso
da Pagano nei camerini dei teatri, rendono l’orgiastico colore dei costumi e
dei trucchi di scena delle ballerine e degli attori, persi nel caos rutilante
dello show, che inaspettatamente raggiunge momenti di vera poesia nei
bellissimi ritratti di personaggi più o meno celebri: la ballerina con il
costume da farfalla, esile e fragile marionetta della macchina teatrale, o
quello raffinato ed elegante di Paola Borboni, ripresa in alcuni istanti di
finzione scenica.
Al mito in crescita nel XX secolo del Turismo, Pagano dedica diversi scatti,
pieni di quel suo atteggiamento attento e un po’ sornione. Nelle immagini
fiumi di persone si affollano sui traghetti, riempiono monumenti
d’architettura, rispondendo a quella che oramai era diventata una vera e
propria moda, alla quale Pagano e la sua famiglia neppure si sottrae, come
testimoniano i viaggi in Sicilia e nei dintorni di Napoli.
Le foto intitolate Mare, ritraggono alcuni tra i momenti più sereni della vita
dell’architetto; si riconoscono infatti, in parecchie di queste foto, la moglie
Paola con le figlie.
Alle Forme, Pagano dedica uno studio attento e complesso, possiamo dire
che in realtà tutto il suo archivio fotografico sviluppi il tema generico della
159
Cfr. G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano. Il cinema del regime 1929-1945, Editori Riuniti, Roma
2001; L. Criscenti, G. D’Autilia (a cura di), Autobiografia di una nazione. Storia fotografica della società
italiana, Editori Riuniti, Roma 1999.
83
‘forma’ della materia, intesa come materia umana, materia architettonica,
materia naturale. Tutto, attraverso gli occhi del Nostro fotografo, prende
forma.
Nelle sue fotografie spesso la morphé è imposta attraverso la disposizione
degli elementi nell’immagine in modo da creare precisi organismi spaziali;
così assumono una ‘forma’ i filari dei carrelli per il materiale caolino delle
cave che disegnano, disposti sul suolo, serpentine e giochi concentrici, lo
stesso accade ai rami degli alberi che definiscono arabeschi nelle trame del
celo, alle tracce d’impronte impresse dal passaggio di persone su un lembo
di spiaggia, o ancora al groviglio di cactus sul ciglio di una strada.
Molto spesso accade, in questi giochi di forme, che si perda l’entità stessa
dell’oggetto ripreso, colto in maniera assolutamente funzionale ad un’idea
che l’architetto vuole esprimere; in questo Pagano tende indubbiamente ad
una trasfigurazione astratta del reale160. Ciò accade ad esempio nella foto
intitolata Acqua (Vol33, Num44), in cui l’obiettivo è puntato direttamente
su una superficie leggermente increspata dal moto ondoso che restituisce,
anche attraverso il riflesso del sole, un’immagine per certi versi surreale, lo
stesso dicasi per la foto intitolata Ghiaccio (Vol44, Num24). Ma l’esempio
più interessante di questa ricerca fotografica si invera nei due bellissimi
cicli dedicati alle Nuvole e ai Sassi, dei quali quest’ultimo, successivamente
pubblicato in un piccolo opuscolo, dall’autore161. Nel caso delle fotografie
scattate alle Nuvole, davvero impressionante risulta l’affinità con il ciclo
degli Equivalenti, realizzato da Alfred Stieglitz. Il parallelo tra le due
produzioni quasi coeve162, molto più sostanziale che di superficie rispetto a
160
Per quanto riguarda l’influenza della matrice espressionista sulla produzione fotografica dell’architetto
istriano si rimanda al capitolo III.
161
G. Pagano, Immagini, I Sassi, Panorama, Milano-Roma, 1939.
162
Il ciclo di foto dedicato alle nuvole è prodotto da Stieglitz tra il 1922 ed il 1928 circa; la pubblicazione
viene data alle stampe nel 1929. Oltre alla specifica bibliografia monografica del fotografo, si consiglia
un interessante opuscolo uscito nel 2004 in occasione della mostra allestita in seguito alla donazione al
Musée d’Orsay di Parigi, da parte della Fondazione Giorgia O’Keeffe, di diversi lavori del fotografo, tra
cui alcune stampe degli Equivalenti. In questo lavoro Stieglitz fotografò centinaia di nuvole, affascinato
84
quanto possa realmente sembrare, viene brillantemente evidenziato dalla
Miraglia, che scrive: «Il titolo di Equivalenti, con cui Stieglitz definisce le
proprie nuvole, ci indica come nella concezione del fotografo l’assunzione
del dato naturale, da cui ovviamente non può prescindere, diventa pretesto
per un’indagine di tipo analitico in cui l’immagine del referente viene ad
essere investita di significati ‘equivalenti’, che rimandano solo a se stessi e
alla soggettività espressiva dell’operatore-fotografo. Le nuvole di Pagano, i
suoi alberi, spesso in controluce, le sue pietre denunciano un’accezione
fotografica paritetica»163. In definitiva, l’architetto attraverso lo studio delle
forme in continua variazione dei corpi nuvolosi, studia il continuo mutare
della natura nel tempo e nello spazio, obbiettivo analogo a quello
perseguito con lo studio degli Alberi, e soprattutto dei Sassi. In particolare
in quest’ultimo ciclo fotografico, Pagano studia l’analogia esistente tra
forme della natura e forme costruite dall’uomo mettendo a confronto il
disegno dei sassi naturali e quello delle pietre scolpite e costruite; il lavoro
che ne viene fuori è un percorso interessante e inaspettato attraverso la
storia e gli effetti del tempo che passa su tutto lasciando un segno profondo
e indelebile.
I Ritratti di Pagano, sono eccezionali pur nella loro esiguità numerica. Ben
pochi e accuratamente selezionati sono infatti i personaggi noti, scelti mai
casualmente nel mondo dell’élite artistica come Aalto, Carrà, Casorati,
Paola Borbone, Frassinelli cui l’architetto dedica un ciclo fotografico
esclusivo.
A corredo di questi ritratti ‘aulici’, una miriade di altri individui
sconosciuti, popolano le immagini dell’architetto, che ci regala attraverso
dal loro continuo cambiamento di forma e luce. Il ciclo di foto dedicato alle nuvole è prodotto tra il 1922
ed il 1928 circa; la pubblicazione viene data alle stampe nel 1929. F. Heilbrun, Alfred Stieglitz (18641946), 5Continent ed., Milano 2004.
163
M. Miraglia, Forme, cit., p. 149.
85
questi scatti un saggio della ritrattistica fotografica contemporanea, in
alcuni casi anche d’avanguardia.
Senza dubbio ciò che Pagano indaga in queste fotografie non sono le
caratteristiche formali del soggetto quanto la sua anima. In una delle riprese
di Aalto, il mezzo busto dell’architetto è abbacinato dalla luce del sole
tanto da permetterne la visualizzazione di un solo lato del suo profilo,
quello in ombra, che rivela dietro la rugosa espressione corrucciata e
severa, un aspetto dell’indole del maestro.
Impostato su un complesso gioco di superfici riflettenti, il ritratto del
pittore Carlo Carrà, fotografato attraverso il piano vitreo di un tavolo e lo
specchio di una porta vetrata, risulta ancora più raffinato nella sua
ricercatezza, soprattutto perché insinua, ancora una volta, «l’ambiguità
della lettura fotografica»164, destabilizzando quindi qualsiasi certezza
relativa all’oggettività della visione.
Il ritratto di Casorati è forse uno dei più interessanti tra quelli riservati da
Pagano ai personaggi più illustri165. L’autore scompone l’immagine del
pittore attraverso mille frammenti che raccontano la storia della sua vita e
del suo lavoro. Di tutto il materiale raccolto, soltanto un’immagine ci
restituisce infatti il volto del Maestro; nelle altre riconosciamo il suo studio,
la sua casa, la stanza dei figli ricolma di giochi e oggetti preziosi e privati,
un ‘antro’ parlante che, molto più profondamente descrive il Maestro, la
sua vita, il suo mirabile lavoro.
Tra gli altri personaggi illustri Pagano ritrarrà Paola Borbone, Frassinelli
ma anche Stellino e Garan, la tanto amata moglie Paola, spesso in
compagnia delle figlie e infine il ritratto di un personaggio non ben
identificato che ritorna in tre dei suoi scatti con una ripresa che non lascia
164
Ivi, p. 146.
Cesare de Seta ci fornisce una lettura davvero interessante di questo ciclo ritrattistico di Casorati. Cfr.
C. de Seta, Ritratti, in C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit. pp. 93-94.
165
86
spazio alla possibilità che si trattasse di uno sconosciuto, ma che comunque
non è stato possibile individuare (vedi negativi).
Dell’architetto non abbiamo ritratti a parte quello in cui è ripreso – si tratta
di diapositive a colori – appoggiato ad una finestra della facoltà Bocconi di
Milano, e un’altra in primo piano in abiti militari (C’É ANCHE QUELLA
DAVANTI ALLA BOCCONI).
Al di là dei ritratti di personaggi illustri, Pagano dimostrerà un grande
interesse nei confronti di gente assolutamente sconosciuta attraverso il
ritratto dei quali, ricostruirà un interessante mosaico di tipologie umane, di
‘caratteri’ unici, oggetto di uno studio affascinante e in linea con le ricerche
fotografiche contemporanee.
L’attenzione per il ‘materiale umano’ tra gli anni Venti e Trenta del
Novecento diviene infatti molto acuta in ambito fotografico. Tra i
protagonisti di questo filone c’è indubbiamente André Kertész, attento
osservatore dell’affascinante mondo di relazioni interpersonali più o meno
intime che si instaurano nelle città; con lui si allinea Brassäi che preferisce
mostrare però nei suoi scatti, un universo notturno e misterioso, alla ricerca
della quinta essenza della vita166. Contemporanea a queste indagini per certi
versi anche sociali, condotte in Europa, anche Pagano impressiona sulla sua
pellicola un numero interessante di ‘protagonisti inconsapevoli’; tra gli
scatti più belli tutti quelli intitolati Bimbi, Bimbe, Bambini, in cui sono
166
La tentazione sarebbe quella di inserire in questo ventaglio di fotografi ritrattisti anche lo straordinario
August Sander se non fosse di altra natura la sua tipologia ritrattistica rispetto a quella dei fotografi
menzionati e dello stesso Pagano. In Germania, Sander, ritrattista di professione, «nel 1910 diede avvio
ad un ambizioso programma: creare un ampio atlante di tipi tedeschi di ogni classe, di ogni estrazione
sociale. Non cercò la personalità individuale, ma i tipi rappresentativi di professioni, mestieri, attività
diverse, nonché i membri di gruppi sociali e politici». Nel 1929 pubblicherà il suo lavoro con il titolo
Antlitz der Keit (La faccia del nostro tempo). Questo volume e gli altri pubblicati negli anni successivi,
non riscuoterà successo nell’ambiente nazista, che distruggerà moltissimi dei suoi negativi. É chiaro che il
programma di Sannder avesse ben poca affinità con i lavori contemporanei di Kertész e Brassäi e dai
quali Pagano aveva tratto spunto, ma risulta di certo un’esperienza sociologica molto interessante. B.
Newhall, cit. pp. 341-342.
87
ritratte anche le figlie, rivelano con deliziosa delicatezza l’incanto dell’età
dell’innocenza.
Il suo sguardo diviene invece più assorto, quasi triste, davanti all’immagine
intitolata Pensionati, in cui la sagoma di spalle di un vecchietto seduto sulla
panchina di un parco a guardare dei bambini che fanno ginnastica,
trasmette tutta la nostalgia profonda della terza età della vita.
Nelle foto intitolate Grasso e Grassone, Pagano si diverte a riprendere dei
personaggi in soprappeso, con uno sguardo ironico, a tratti davvero
esilarante. Questo stesso carattere ironico si rivela nella serie di fotografie
intitolate Disgrazie, in cui lo sguardo dell’architetto che si mostra partecipe
ma divertito, riflette in realtà sugli inevitabili imprevisti della vita.
Una tra le foto più bizzarre, che si può inserire di diritto nella categoria dei
ritratti, è quella intitolata ironicamente Cilindri; nell’immagine sono riprese
tre persone: due donne vestite in costumi carnascialeschi e un uomo in frac
con un simpatico cilindro che suggerisce il nome alla fotografia. Non è dato
sapere chi siano i personaggi fotografati, né tanto meno la circostanza della
ripresa, ma è chiaro che il titolo stesso della foto evidenzi una volontà
precisa da parte dell’architetto, ossia quella di dichiarare protagonista vero
e proprio del ritratto non uno dei tre personaggi ripresi nella scena quanto
un unico oggetto catalizzatore di ogni attenzione da parte del fotografo: il
cilindro, un punctum dichiarato della fotografia.
Ma il ciclo di ritratti più belli tra quelli realizzati da Pagano ad illustri
sconosciuti è prodotto nell’ambito del reportage del mercato milanese di
Sinigallia, il più cinematografico tra quelli realizzati167.
167
Cesare de Seta e Marina Miraglia concordano nel rivelare questo aspetto cinematografico nel ciclo
dedicato al mercato di Sinigallia. C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit.
É interessante rilevare come nello stesso periodo in cui Pagano realizzava questo reportage, un vero
cineasta riprendeva, con un taglio decisamente analogo al suo, lo stesso mercato: si tratta di Alberto
Lattuada, che in Occhio quadrato realizza diversi scatti nella struttura mercatale milanese. Cfr. capitolo
III di questo volume.
88
In questa occasione l’architetto cattura alcuni momenti della vita mercatale
con una sensibilità acutissima; l’occhio della rollei si aggira curioso tra i
mille aggeggi ed utensili messi in vendita sulle bancarelle, fermando nei
suoi scatti, dietro ai banconi, il volto dei personaggi più pittoreschi, sguardi
spesso aspri e indispettiti, altre volte aperti e socievoli.
La venditrice assorta che a fine giornata conta i pochi soldi realizzati con le
vendite, il sorriso lievemente accennato e soddisfatto del vecchietto che ha
appena acquistato il suo oggetto, il gruppo familiare che mentre osserva le
cose in vendita nota la macchina fotografica e si mette in posa davanti
all’obiettivo, un mondo vitale e quasi sospeso nel tempo del quale Pagano
realizza un ritratto dal fascino indubbiamente eccezionale e che non
sarebbe improprio definire già neorealista.
Il valore che, nell’ambito dell’archivio fotografico, assumono questi
ulteriori temi d’indagine risulta fondamentale. Molto più che nel ciclo
dedicato al viaggio si riesce a cogliere, infatti, l’anima passionale e vivace
dell’istriano che, con uno spirito decisamente più rilassato in queste
composizioni fotografiche, dà libero sfogo a tutta la sua creatività,
collaborando inoltre a costruire quel mosaico, in questo caso soprattutto
umano, che racconta di un Paese e della sua storia fatta prima ancora che di
architetture, di uomini e costumi.
89
III. Il panorama internazionale contemporaneo. Fotografia
filmografia degli anni ‘30
e
a. La ricerca fotografica internazionale e l’evoluzione della tecnica nel XX
secolo
L’archivio fotografico di Giuseppe Pagano si è rivelato, alla luce della
puntuale rilettura sviluppata in questa ricerca, un patrimonio culturale di
notevole interesse architettonico nonché di profonda valenza scientifica.
Osservando l’approccio tecnico utilizzato dall’istriano, si evince infatti
un’attenzione tutta particolare e una spiccata propensione ad indagare e
sondare i nuovi orizzonti della cultura fotografica del XX secolo. Così
come Pagano si è rivelato sotto molti punti di vista un precursore di
ricerche inedite in architettura e nell’ambito dell’attività editoriale e
giornalistica168, allo stesso modo in fotografia, si spingerà oltre le tecniche
consuete, indirizzando piuttosto la sperimentazione verso le nuove istanze
della ricerca fotografica d’avanguardia169. Il suo archivio va quindi letto
alla luce di una conoscenza approfondita delle metodologie e delle ricerche
che, nel campo dell’immagine, avrebbero condotto intorno agli anni Trenta
del Novecento, alla ‘nuova visione’ della fotografia contemporanea170. La
168
Per quanto riguarda il lavoro di Giuseppe Pagano come architetto e giornalista esiste una vasta
bibliografia, si devono comunque a Cesare de Seta gli studi più recenti sull’istriano. Gfr. C. de Seta, La
cultura architettonica in Italia tra le due guerre, Laterza, Bari 1972; Id., Il destino dell’architettura:
Persico, Giolli, Pagano, Laterza, Roma-Bari, 1985; Id., Architetti italiani del Novecento, Laterza, RomaBari, 1987; Id. (a cura di), Giuseppe Pagano, Architettura e città durante il fascismo, Laterza, Roma-Bari
ristampa 1990. Per altri approfondimenti si rimanda alla fonti bibliografiche di questo volume.
169
Con il XX secolo si apre, in un contesto internazionale, il dibattito delle avanguardie, ovvero di quelle
fronde, gruppi organizzati di giovani artisti e architetti che intuiscono la necessità di proiettare la ricerca
verso indirizzi e strade inedite, nell’intenzione di definire una nuova cultura visuale. In fotografia tale
indagine porterà ad alcuni degli sviluppi più interessanti del secolo scorso. Per il dibattito sulle
avanguardie figurative in fotografia si consigliano i seguenti testi: B. Newhall, Storia della fotografia,
Einaudi, Torino 1984; A. De Paz, L’immagine fotografica. Storia, estetica, ideologie. Prefazione di Italo
Zannier. Ed. Clueb, Bologna 1986; I. Zannier, Architettura e fotografia, Laterza, Roma-Bari 1991; R.
Krauss, Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 1996.
170
Il termine ‘nuova visione’ o Neue Sachlichkeit tende ad individuare una nuova corrente di indagine
figurativa che ha caratterizzato in ugual misura tutti i campi dell’arte compresa l’architettura, agli inizi del
XX secolo. Il nome di questa inedita filosofia visuale deriva dal titolo omonimo di una mostra di pittura
90
stessa tecnica fotografica di Pagano, si affinerà e si modificherà con il
trasformarsi di questa ricerca sul campo che assumerà, soprattutto in
ambito internazionale gli sviluppi più interessanti; seguire quindi
l’evoluzione di studi tanto specifici, ai quali saranno strettamente connessi i
più interessanti progressi del dibattito culturale in campo artistico, risulta
un passaggio fondamentale per potersi addentrare nel complesso mondo
fatto di immagini che ci ha lasciato in eredità l’architetto.
Scrive Benedetto Croce: «La fotografia, se ha alcunché di artistico, lo ha in
quanto trasmette, almeno in parte, l’intuizione del fotografo, il suo punto di
vista, l’atteggiamento e la situazione che egli si è industriato di
cogliere»171; dalle parole dell’intellettuale abruzzese si evince la nuova
apertura anche in Italia – siamo nel 1902 – nei confronti del mezzo, ma,
nello stesso tempo si avverte il dubbio profondo rispetto alla possibilità che
tale disciplina potesse davvero assurgere al valore dell’arte.
La cultura fotografica, vivrà profondamente il peso dello scetticismo
generale mai nascosto e che in fondo sarà poi uno dei motivi per i quali non
risulterà affatto semplice definire in maniera organica e sistematica, le
tappe dell’evoluzione della fotografia. Troppo spesso infatti, le sorti di
questa disciplina sono state indissolubilmente legate a quelle di altre forme
d’arte riconosciute, come la pittura e la scultura, che hanno portato ad una
confusione rispetto alle fila di un discorso evolutivo rigorosamente
fotografico. «Per sua natura e destino culturale, stretta fra produzione,
comunicazione, ricerca riflessiva, la fotografia sviluppa la sua storia su un
terreno accidentato. E se osserviamo le storie della fotografia, le vediamo
organizzata a Mannheim dal direttore del Kunsthalle, G.F. Hartlaub. In effetti gli artisti che hanno
sviluppato la ricerca del Sachlichkeit intendevano principalmente dimostrare il primato di una visione
oggettiva nell’arte. Per il dibattito sulla ‘nuova visione’ in fotografia si consigliano i seguenti testi: W.D.
Coke, Avanguardia fotografica in Germania 1919-1939, Il Saggiatore, Milano 1982; B. Newhall, Storia
della fotografia, Einaudi, Torino 1984; A. De Paz, L’immagine fotografica. Storia, estetica, ideologie.
Prefazione di Italo Zannier. Ed. Clueb, Bologna 1986; R. Krauss, Teoria e storia della fotografia, Bruno
Mondadori, Milano 1996.
171
B. Croce, Estetica, Laterza, Bari 1902, nell’edizione del 1909, pp. 20-21.
91
snodarsi ora per tappe storico-cronologiche legate all’evoluzione del mezzo
tecnico; ora per ambiti produttivi e per funzioni alle quali di volta in volta
la fotografia risponde; ora per generi, fondamentalmente mutuati dalla
pittura, rispetto ai quali l’immagine fotografica si organizza e si determina;
ora, qua e là, per autori portatori di una poetica individuale, cime che
emergono dal paesaggio della produzione; ora, infine, per legami con altri
‘mondi’, dalla pittura alla scienza, alla letteratura, alla politica, ai quali
essa, duttile, aderisce e si allea, rivelando le sue caratteristiche formidabili
di ‘ancella’»172; con queste parole Roberta Valtorta sottolinea la questione
che, specifica la storica, assume una connotazione ancora più rilevante
proprio in Italia, dove il percorso fotografico giunge decisamente in ritardo
rispetto ad altri paesi. «La tardiva e problematica unificazione, segnale del
faticoso strutturarsi del capitalismo italiano, è alla base del lento sviluppo
delle industrie del settore fotografico. D’altro canto, il sempre vivo
regionalismo tiene fra loro isolati gli operatori e l’assenza di un ben
definito senso dello stato impedisce l’adozione del nuovo strumento in
ampi progetti di documentazione territoriale e sociale che abbiano il respiro
di analoghe esperienze promosse dai governi in altri paesi»173; la Valtorta si
riferisce ovviamente alla Mission Héliographique francese e alla Farm and
Security Administration americana174. Eppure, come abbiamo visto, proprio
Giuseppe Pagano rappresenta con la sua produzione fotografica una rara
eccezione, l’anello di congiunzione tra queste esperienze d’oltralpe e la
sua, condotta però in un ambito rigorosamente italiano175. Il tassello che
172
R. Valtorta, Linee di sviluppo della fotografia italiana. Riflessioni e spunti, in R. Valtorta, Volti della
fotografia. Scritti sulla trasformazione di un’arte contemporanea, Skira, Milano 2005, p. 187.
173
Ivi, p. 188.
174
Per approfondimenti riguardo a queste ‘missioni’ fotografiche si rimanda al capitolo I di questo
volume nonché alla relativa bibliografia.
175
La Madesani, riguardo alle esperienze fotografiche sul territorio in ambito internazionale, menziona il
caso poco noto dell’esperienza tedesca: «Durante la seconda guerra mondiale una delle armi preferite
dalla propaganda nazista è la fotografia di linguaggio più amatoriale realizzata dai Propaganda
Kompanien, che giravano nei luoghi di guerra con l’apparecchio fotografico a tracolla. I fotografi
accettati dal regime, Ranger-Patzsch compreso, furono inoltre coinvolti in una serie di missioni
92
probabilmente manca alla storia della fotografia del nostro Paese per poter
definire un percorso compiuto, è forse rappresentato proprio da tutte quelle
produzioni ‘non ufficiali’, come nel caso del patrimonio fotografico di
Pagano, che una volta del tutto note, aiuterebbero di certo a ricostruire più
precisamente il percorso compiuto e il successo avuto in Italia dal nuovo
media.
Ecco perché, proprio partendo dal materiale fotografico dell’architetto, si
vuol delineare l’evoluzione compiuta dalla fotografia del XX secolo,
seguendo più che un itinerario propriamente cronologico, un percorso
ragionato, passando per quelle correnti anche di carattere internazionale
che ebbero, sull’approccio fotografico del Nostro, un apporto determinante.
Si deve considerare che, così come la pittura176, anche la fotografia vive
delle trasformazioni tecniche fondamentali, legate indubbiamente alle
mutazioni sociali, culturali e all’aggiornamento scientifico dei mezzi
strumentali. Nei primi Trenta anni del Novecento, cambia del tutto la
percezione del reale e la ricerca delle avanguardie smuove gli ambienti
culturali influenzandoli profondamente.
All’inizio del XX secolo il mondo artistico si dibatte alla ricerca della
definizione di un nuovo stile che potesse esprimere e raccontare il presente.
L’architettura in particolare è scossa profondamente dalla condizione di
indeterminatezza lasciata in eredità dell’eclettismo storicistico177. Dopo il
breve e in fondo poco incisivo capitolo dell’Art Nouveau, cominciano a
fotografiche di documentazione del territorio tedesco: in questo caso si tratta di fotografie di aperta
propaganda nazista e nazionalista». A. Madesani, Storia della fotografia, Bruno Mondatori, Milano 2005,
p. 58.
176
Le ricerche in ambito pittorico, nel secolo scorso, hanno rappresentato un passaggio fondamentale per
l’evoluzione di tutte le altre discipline artistiche. Molteplici sono stati gli studi condotti sugli effetti di tali
progressi specificatamente artistici sull’architettura. Si selezionano nell’ambito della vasta bibliografia di
storia dell’architettura: C. de Seta, La cultura architettonica…, cit.; R. De Fusco, Storia dell’architettura
contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1996.
177
Un quadro molto chiaro della delicata fase di transizione che porterà, in Italia, al superamento
dell’eclettismo storicistico è descritto nel volume di Cesare de Seta, La cultura architettonica…, cit. Per il
contesto internazionale si veda anche K. Frampton, Storia dell’architettura moderna, Zanichelli,
Bologna, terza edizione italiana 1993, R. De Fusco, Storia dell’architettura contemporanea, cit.
93
nascere una moltitudine di voci differenti, ognuna con una propria
suggestione da raccontare, da inseguire e, nella miriade di contraddizioni
delle avanguardie, si disperde il filo della ricerca per poi approdare, in
campo architettonico, alla necessità di adeguare forma e funzione, urgenza
principale degli architetti del Novecento178.
Questo passaggio, come tutte le fasi di transizione storica, sarà
caratterizzato da un inevitabile senso di ‘straniamento’ – prendendo in
prestito un’espressione del formalismo russo – e di smarrimento da parte
degli artisti, dovuto alla mancanza di riferimenti culturali precisi; tale
situazione indirizzerà verso una ricerca spasmodica di verità assolute e in
questa fase la fotografia diverrà àncora di salvataggio, mezzo di indagine e
comprensione della realtà nella sua verità oggettiva, libera dal giudizio
talvolta fuorviante dell’uomo179.
Gli stessi pittori d’avanguardia «vedono nella fotografia una liberazione:
non si sentivano più costretti a rappresentare qualcosa con le loro
immagini»180, si rendono conto cioè che non è più affidata a loro la
missione di rappresentare la realtà, sono liberi di ricercarne l’essenza.
Ma anche questo rifugio dell’arte nella certezza fotografica, durerà ben
poco, pure in questo ambito infatti, cominceranno presto nuovi slanci
rivolti verso una ricerca più complessa, influenzata indubbiamente anche
dagli studi che nel contempo si stavano sviluppando in campo artistico.
Dopo una prima, embrionale fase della ricerca fotografica successiva alla
scoperta del mezzo, tesa quindi essenzialmente all’affinamento di una
tecnica incerta, si sviluppa, nell’Ottocento la così detta fotografia
178
Profilo efficacissimo del percorso seguito in Italia per la definizione di un ‘stile nazionale’, è quello
delineato da Luciano Patetta nel saggio introduttivo all’antologia critica degli scritti di architettura
comparsi sulle riviste italiane più importanti, tra il 1919 e il 1943. L. Patetta, L’architettura in Italia
1919-1943. Le polemiche, Clup, Milano 1972, pp. 13-53.
179
La tesi relativa alla funzione fondamentale svolta dalla fotografia in questa fase di transizione
delicatissima, è supportata dal giudizio di diversi storici della fotografia, uno su tutti Beaumont Newhall.
Cfr. B. Newhall, Storia della fotografia, cit.
180
Ivi, p. 235.
94
pittorialista. Scrive in merito Italo Zannier: «I pittorialisti, che per anni
indagarono sulle possibilità espressive della fotografia, avviando gli studi
del suo linguaggio, operarono nella convinzione (avallata dalla incipiente
massificazione dovuta alla tecnica ‘facile’ della gelatina-bromuro
d’argento, dopo il 1880), che essa realizzasse ‘incontestabilmente, con la
facilità più ridicola’, come scriveva Robinson, maître à penser del
pittoricismo britannico, ‘l’imitazione più esatta’»181.
L’ansia di avvicinarsi sempre più alle ‘Belle Arti’, spinge i primi
sperimentatori del mezzo fotografico alla manipolazione del fotogramma,
mediante l’uso di colori o procedimenti chimici particolari, pur di ottenere
uno specifico risultato ottico182. Si sviluppano, quindi, due differenti
correnti di pensiero: quella che difendeva a spada tratta l’originalità dello
scatto fotografico – che non doveva in alcun modo essere manomesso – e
quella che invece suggeriva piuttosto tutta una serie di trattamenti anche
artificiali volti all’esaltazione di luci, colori etc. Anche Alfred Stieglitz
viene introdotto alla fotografia pittorica dal suo maestro, Hermann W.
Vogel, ma questa fase per lui sarà solo un rapido passaggio183.
In opposizione a queste forme sterili di ricerca fotografica, si porrà la
nuova scuola d’avanguardia, alla quale si devono i principali passi avanti
ottenuti negli anni e a cui soprattutto si deve la nascita della fotografia
moderna.
Si passa nel giro di poco tempo da una visione prospettica tradizionale, per
intenderci quella utilizzata, in Italia, nelle riprese degli Alinari184, ad un
181
I. Zannier, Il soggetto ‘architettura’ nel divenire della fotografia, in «Rassegna», numero speciale
sulle ‘Fotografie d’architettura’, n. 20, dicembre 1979, p. 80. Le citazioni virgolettate sono tratte da H.P.
Robinson, Les élements d’une photographie artistique, Gauthier-Villars, Parigi 1898, p. 10.
182
La fotografia pittorialista è stata oggetto di approfonditi studi per i quali si rimanda alla bibliografia
specifica di questo volume.
183
Cfr. B. Newhall, Storia della fotografia, cit.
184
Un interessante saggio sulla produzione e la storia degli Alinari è stato scritto ad opera di Italo
Zannier. I. Zannier, Gli Alinari, in Architettura e fotografia, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 21-29. Si veda
anche W. Settimelli, F. Zevi, Gli Alinari a Firenze 1852-1920, Alinari ed., Firenze 1977, e il saggio di G.
95
taglio totalmente diverso. Se dal 1839, anno della diffusione della notizia
dell’invenzione della fotografia, la rassicurante visione ottocentesca aveva
permesso di istituire un rapporto sereno con l’immagine iconografica del
mondo resa artificialmente, nel primo ‘900, l’ansia di cogliere la natura più
intima e nascosta delle cose, spingerà gli artisti fotografi ad indagare nuove
dimensioni del conscio e dell’inconscio alla ricerca di una visione
fotografica più complessa ma completa del reale.
Il Cubismo con la quarta dimensione, l’Espressionismo con la ricerca del
rapporto empatico arte-vita, il Costruttivismo attraverso la lettura
simbolista dell’arte mediata dal filtro politico del marxismo, conducono le
istanze della ricerca verso orizzonti nuovi, arditi e sconosciuti185. Tutta
questa ricerca rivoluzionaria in campo artistico non poteva che avere degli
effetti speculari sulla fotografia, che infatti compirà i primi passi verso un
distacco sempre più profondo dal pittorialismo.
Questo passaggio dalla fotografia di stampo ottocentesco a quella così detta
diretta, la ‘straight photography’186, nonché alle tecniche sperimentali,
rappresenta il momento cruciale nella storia della camera da presa. Un
passaggio che risulta tanto più determinante se si tiene conto che, in un
primo periodo, coincidente con gli anni di sperimentazione del mezzo, la
fotografia viene utilizzata come una delle tante espressioni artistiche
esistenti, in fondo un surrogato della pittura; soltanto in seguito, le verrà
riconosciuta una concreta valenza artistica, risolvendo l’annosa questione
che da sempre l’aveva fatta ritenere un’arte minore.
Calvenzi, C. Colombo, Gli Alinari. Storia di una dinastia e di un archivio fotografico, in «Rassegna»,
numero monografico sulle Fotografie di architettura, dicembre 1984.
185
Sulle rivoluzioni introdotte dal cubismo, dall’espressionismo, dal costruttivismo e dalle altre
avanguardie figurative, si rimanda al volume di R. De Fusco, Storia dell’architettura contemporanea, cit.
186
Interessanti studi sulla straight photography sono sviluppati in un discreto numero di testi più o meno
recenti; si selezionano tra gli altri: I. Jeffrey, Fotografia, Skira, Milano 2003; B. Newhall, Storia della
fotografia, cit.
Si rimanda inoltre alle fonti bibliografiche di questo volume.
96
Uno dei critici d’arte e di fotografia più importanti che ci siano stati,
Sadakichi Hartmann, sarà tra i primi a lodare la ‘fotografia pura’, esortando
gli autori a fare ‘un lavoro diretto’; è proprio lui a dare i primi suggerimenti
per la composizione di una straight photography: «Affidatevi al vostro
apparecchio, al vostro occhio, al vostro buon gusto, alla vostra conoscenza
della composizione, considerate ogni variazione di colori, di luce e
d’ombra,
studiate
linee,
valori,
divisione
degli
spazi,
aspettate
pazientemente che la scena o l’oggetto che vi siete proposti di raffigurare si
riveli nel suo supremo momento di bellezza; in poche parole componete
l’immagine in modo tale che il negativo sia assolutamente perfetto e non
abbia
bisogno
di
alcuna
o
tutt’al
più
di
una
modestissima
manipolazione»187.
Nel
1907,
Stieglitz
metteva
esattamente
in
pratica,
seppure
inconsapevolmente, le parole di Hartmann realizzando The Steerage (il
ponte di terza classe), scatto che lo stesso maestro, in seguito, non esiterà a
definire il suo capolavoro, e che rappresenta uno dei primi grandi esempi di
fotografia
diretta188.
Nell’immagine,
realizzata
sul
ponte
di
un
transatlantico di lusso, il Kaiser Wilhelm II, è ripresa una scena piuttosto
consueta, che vede gruppi di persone accalcate sul pontile di una nave.
Osservando però con occhio attento l’immagine, se ne coglie la matrice
compositiva che lo stesso Stieglitz sintetizza così: «una paglietta rotonda, la
187
Le affermazioni del critico d’arte sono inserite all’interno della recensione della mostra di PhotoSecession tenuta al Carnegie Institute nel 1904. Il gruppo Photo-Secession è fondato da Alfred Stieglitz a
New York nel 1902. Il nome di questa unione di artisti deriva dalla precisa volontà di emulare gli esempi
proposti dall’avanguardia tedesca e austriaca che avevano deciso di creare una secessione, una scissione
dal gruppo dell’accademia. Tra il 1903-07 dal gruppo viene fondata una rivista che riscuoterà presto fama
internazionale, parliamo di «Camera Work». Le pagine di questo giornale ricche di monografie di
fotografi, saggi di critica d’arte e rubriche, diventeranno un riferimento culturale internazionale nonché
una documentazione accurata delle evoluzioni e ricerche che si stavano sviluppando in ogni sfera
dell’arte. Cfr. B. Newhall, Storia della fotografia, cit.
188
Scrive Alfredo De Paz: «Stieglitz ruppe radicalmente, grazie a un’argomentazione teorica precisa, con
la fotografia ‘artistica’, condannando, fra l’altro, il ritocco e l’ingrandimento. […] egli giocò un ruolo
determinante nella storia della fotografia in quanto fu il primo a considerarla come un mezzo di
espressione interamente artistico che non bisogna opporre agli altri in quanto possiede una specificità e
un’autenticità sue proprie». A. De Paz, La fotografia come simbolo del mondo. Storia, sociologia,
estetica, Clueb ed., Bologna 1993, p. 208.
97
ciminiera inclinata a sinistra, la scaletta inclinata a destra, la passerella
bianca racchiusa fra due file di catene, un paio di bretelle bianche che si
incrociavano sulla schiena di un uomo sul ponte sottostante di terza classe,
forme rotonde di congegni di ferro, un albero che tagliava il cielo
disegnando un triangolo… Vidi tutte queste forme composte in
un’immagine, quasi un simbolo della concezione che io avevo della
vita»189; nella ‘visione’ del fotografo si legge una nuova sete di realtà e
nello stesso tempo una tensione inedita verso un’analisi sempre più
complessa del mondo, volta ad isolare e analizzare i dettagli da cui far
evincere il significato e il senso stesso delle cose, della vita.
Dall’avvento della straight photography il percorso che condurrà alla
tecnica fotografica scelta e utilizzata da Pagano risulta assai breve.
La fotografia diretta annovera tra i maggiori esponenti oltre allo stesso
Stieglitz, anche Paul Strand190, Henri Cartier-Bresson, e tanti altri, grandi
nomi le cui fotografie indimenticabili hanno avuto il merito d’essere
riuscite a catturare quell’unico ‘istante decisivo’, per dirla con CartierBresson, che è poi la sintesi di tutta la ricerca fotografica del XX secolo191.
Il filone della fotografia diretta però, non sarà l’unico a farsi strada in
questi anni né tanto meno il solo da dover tenere in conto per analizzare le
scelte tecniche dell’architetto istriano, perché se l’evoluzione della
fotografia inciderà profondamente in questi anni sul corso della pittura, è
pur vero anche il contrario. Le sperimentazioni artistiche in ambito
189
Alfred Stieglitz in una conversazione con Dorothy Norman, in «Twice – A Year», nn. 8-9, 1942,
p.128; ora in B. Newhall, Storia della fotografia, cit, p. 237.
190
Paul Strand, straordinario fotografo statunitense rappresenta indubbiamente uno dei massimi esponenti
e teorizzatori della fotografia diretta. In un articolo del 1917 scrive: «Il problema del fotografo è di vedere
chiaramente i limiti e nello stesso tempo le qualità potenziali del suo mezzo, giacché l’onestà, non meno
della potenza dell’occhio, è presupposto di un’espressione viva. […] A una realizzazione (fotografica)
esemplare si arriva senza trucchi né manipolazioni, ma semplicemente facendo uso dei metodi della
fotografia diretta». P. Strand, Photography, in «Seven Arts», vol. 2, 1917, pp. 524-525; ora in Ivi, p. 245.
191
«Andavo in giro tutto il giorno, i nervi tesi, cercando per le strade di prendere delle foto dal vivo come
fragranti delitti. Soprattutto ero ansioso di captare con una sola immagine l’essenziale della scena che mi
si presentava». H. Cartier-Bresson, L’immaginario dal vero, Abscondita, Milano 2005.
98
pittorico e scultoreo avranno difatti un riflesso profondamente rilevante
sulla ricerca condotta in fotografia. Ritornando agli studi delle avanguardie
ad
esempio,
la
contemporaneamente
quarta
anche
dimensione
in
cubista
fotografia,
con
verrà
il
indagata
risultato
della
sperimentazione della doppia posa sovrapposta utilizzata ad esempio da
Rodčenko. Negli stessi anni, le rayografie di Man Ray, i fotogrammi di
Moholy-Nagy, le vortografie di Langdom Coburn, le schadografie di
Christian Schad, restituiscono le stesse suggestioni delle opere degli artisti
dada, per non parlare della ricerca sul movimento, condotta in quegli anni
dai futuristi e probabilmente risolta proprio in fotografia e cinema da autori
quali Anton Giulio Bragaglia e Giacomo Balla192.
In questo stesso contesto culturale si inserisce l’indagine condotta da Erich
Mendelsohn, architetto e pioniere dello ‘Stile Internazionale’, tra i primi a
sperimentare nelle foto, i tagli drammatici che puntano l’obiettivo
guardando l’oggetto verso l’alto e verso il basso, creando linee convergenti
in contraddizione con qualsiasi tipo di prospettiva tradizionale193.
Grandissimo spazio nell’ambito delle più interessanti rivoluzioni
fotografiche, sarà infatti quello acquisito di diritto dagli architetti fotografi,
tra i primi artisti a sperimentare, in taluni casi a condurre le fila della
ricerca sul campo194. Questo soprattutto perché l’oggetto architettura, in
quanto statico e non necessariamente in divenire, meglio si prestava alle
nuove sperimentazioni fotografiche. Non è da escludersi che Pagano abbia
seguito da vicino e assorbito contestualmente l’evoluzione delle tecniche
fotografiche anche attraverso le sperimentazioni di Stieglitz, Strand,
192
Una interessante e chiara dissertazione su queste raffinate e singolari tecniche grafiche ci viene data da
B. Newhall, Storia della fotografia, cap. XI.
193
Nel 1926 a Berlino, l’architetto Erich Mendelsohn pubblica un libro con la raccolta delle fotografie
scattate ai grattacieli americani. E. Mendelsohn, Amerika: Bilderbuch eines Architekten, Rudolf Mosse
Buchverlagh, Berlin 1926. Cfr. B. Newhall, cit., pp. 282-285.
194
Sugli architetti fotografi Italo Zannier ha scritto un saggio molto convincente, nel quale vengono citate
e discusse le più interessanti esperienze selezionate in ambito internazionale e italiano. I. Zannier,
Architettura e fotografia, cit., pp. 41-48.
99
Rodčenko e che avesse visto le fotografie di Mendelsohn, essendo
comunque attento alle novità provenienti dall’avanguardia architettonica
internazionale e vista anche la notevole cassa di risonanza che le più
importanti mostre fotografiche cui parteciparono negli anni questi artisti,
ebbero in tutto il mondo.
Proprio Aleksandr Rodčenko continuerà la sperimentazione oggettiva di
Mendelsohn fino a produrre opere in cui la rara e sapiente maestria tecnica
si sposa con un incredibile lirismo poetico195. A lui si deve la negazione del
‘punto di vista dell’ombelico’, che equivale ad affermare una nuova
percezione di spazio realizzabile attraverso la fotografia.
Afferma il protagonista dell’avanguardia russa: «In fotografia vige il
vecchio punto di vista, l’angolo visuale di un uomo in piedi che guarda
dritto davanti a sé e fa quelle che io chiamo ‘riprese ombelicali’… Io
combatto questo punto di vista e lo combatterò insieme ai miei colleghi
della nuova fotografia. Oggi le riprese più interessanti sono quelle colte
‘dall’alto in basso’ o ‘dal basso in alto’, o quelle in diagonale»196. In queste
parole si dichiara apertamente la nascita di una nuova ricerca in campo
fotografico, ed è proprio seguendo le fila di questo indirizzo inedito che si
ritrova il percorso fotografico compiuto da Pagano e si riconosce e
comprende la sua tecnica, elegante ma ricca di sfumature e sperimentazioni
di matrice indubbiamente internazionale.
Con l’evolversi delle tecniche si trasformano anche i soggetti e l’attenzione
dei professionisti si sposta verso nuovi campi d’indagine. Come sempre nel
mondo delle arti, la vita vera incide profondamente sugli esiti della ricerca,
e dopo la prima guerra mondiale, il capitolo della ‘Nuova Fotografia’,
sposta il suo obiettivo sulla società piuttosto che sulla natura; questo perché
195
Angela Madesani dedica alla figura di questo fotografo russo una scheda piuttosto dettagliata e
interessante in: A. Madesani, cit., p. 67.
196
Alexander Rodtscenko: Fotografien 1920-1938, Wienand Verlag, Köln 1978, pp. 50-57; ora in B.
Newhall, Alla ricerca di forme nuove, cit., p. 285.
100
l’attenzione si rivolge verso l’uomo e sostanzialmente l’antica fede in un
ordine superiore dell’universo cede il passo all’interesse nei confronti
dell’ordine artificiosamente creato dagli individui che lo popolano, che
deliberatamente costruiscono, organizzano.
Tutte le ricerche intanto confluiscono in quel bacino culturale che più
d’ogni altro si rivela una fucina delle nuove tendenze e sperimentazioni, là
dove le stesse tecniche si dimostrano più all’avanguardia: la Germania.
Sarebbe lecito chiedersi come mai proprio la Germania, appena uscita
sconfitta dalla Prima guerra mondiale, rappresenti il paese più attivo
rispetto alla ricerca nel campo delle avanguardie; una risposta interessante
ed esauriente a riguardo ci viene data da uno studioso di fotografia
americano, Van Deren Coke, che scrive: «anziché abbandonarsi a
sentimentalismi sulla loro dura sorte o scivolare nell’inerzia, i tedeschi
affrontarono la situazione e guardarono al futuro per sottrarsi allo stato di
sottomissione causato dalla sconfitta. Poiché il passato non aveva avuto per
loro il ruolo di guida, si guardava al presente e all’immediato futuro […].
Così in Germania si incominciò ad apprezzare moltissimo, per ragioni
psicologiche, tutto ciò che era nuovo o aveva un’apparenza di novità»197.
In questo crogiuolo di studi e sperimentazioni, un momento artistico
importante sarà quello coincidente con gli anni della scuola tedesca del
Bauhaus198 che darà un impulso assolutamente innovativo alla ricerca in
ambito
fotografico,
soprattutto
nel
periodo
che
vede
la
felice
collaborazione con l’istituto, di Laszlo Moholy-Nagy, il primo ad affermare
che ‘Gli analfabeti del futuro non saranno tanto coloro che ignorano l’arte
dello scrivere, quanto quelli che non sapranno nulla di fotografia’. Molti
197
V. Deren Coke, Avanguardia fotografica in Germania 1919-1939, Il Saggiatore, Milano 1982, p. 12.
La bibliografia relativa alla scuola del Bauhaus è molto vasta; un volume interessante è quello di
Magdalena Droste, Bauhaus 1919-1933, Taschen, Berlino 1990, ried. 2006. Riguardo agli sviluppi
specifici della fotografia nella scuola tedesca viene dedicato ampio spazio nel volume a cura di J. Fiedler
e P. Feierabend, Bauhaus, Könemann ed., Köln 1999, pp. 152-159 e pp. 506-531.
198
101
aspetti dell’evoluzione della cultura fotografica internazionale ritrovano,
proprio nella ricerca del Bauhaus, le proprie origini.
In occasione della prima esposizione d’opere d’arte di Laszlo MoholyNagy alla galleria Der Sturm di Berlino, tra i visitatori che rimangono
ipnotizzati dalle sperimentazioni del maestro c’è Walter Gropius, il quale
viene talmente impressionato dalle sue opere, da insistere per averlo tra gli
insegnanti del Bauhaus.
L’educazione impartita nell’ambito della scuola di Weimar prevedeva la
formazione dell’allievo in varie discipline artistiche come la pittura, la
scultura, l’architettura, ed in seguito anche la fotografia, concepite non
come materie separate ma come un unicum disciplinare. Si tratta di un
approccio alla formazione artistica particolarmente interessante, che ha
come obiettivo finale quello di iniziare gli studenti al concetto della totalità
dell’arte. In questa officina artistica, Moholy-Nagy sviluppa la sua nuova
idea di fotografia, basata essenzialmente sul concetto di forma e luce.
Come chiaramente specifica Paolo Costantini199, l’artista ungherese non
avrà mai una cattedra di fotografia nella scuola e inserirà l’insegnamento
solo nell’ambito di alcuni corsi preliminari per i Bauhäusler200; sarà Walter
Peterhans, matematico e fotografo raffinato, ad inaugurare di fatto la
cattedra nel 1929, negli anni in cui a dirigere la scuola, è l’architetto
Hannes Meyer.
La fotografia, scrive Moholy-Nagy, può «ampliare i limiti della
rappresentazione naturalistica»201, permettendo di vedere magari anche ciò
199
Cfr. P. Costantini (a cura di), La fotografia al Bauhaus, Marsilio, Venezia 1993.
Le lezioni di Moholy al Bauhaus si chiamavano ‘studi di composizione’ e si concentravano sulla
composizione dello spazio. In particolare il maestro – come pure altri insegnanti della scuola come Ittens
e Albers – si serve di tavole ‘tattili’ allo scopo di affinare la sensibilità degli studenti per il materiale,
anche se la maggior parte delle creazioni tridimensionali, in qualche modo avvicinabili a sculture e giunte
a oggi grazie a foto eseguite, appaiono come semplici esercitazioni spaziali. Si utilizza vetro, ferro,
plexiglas, legno per creazioni per lo più asimmetriche, definite nei modi più disparati, come ‘esercizio di
equilibrio’, ‘sculture sospese nell’aria’. Cfr. Ivi.
201
L. Moholy-Nagy, Pittura Fotografia Film, riedizione della Einaudi, Torino 1987.
200
102
che non appare. Nell’ottavo volume nella collana dei «Bauhausbücher»202,
intitolato Pittura Fotografie Film, pubblicato per la prima volta nel 1925,
l’autore dà vita ad un’opera di indubbia audacia, che avvia un nuovo corso
della cultura fotografica, riconoscendo per la prima volta la potenzialità del
mezzo ai fini di un ampliamento della nostra visione.
«L’inevitabile brancolare in forme di conformazione ottica tradizionale è
adesso dietro di noi e non deve più ostacolare la nuova attività.[…] Il
quadro tradizionale è entrato nella storia e ormai superato. Occhi e orecchie
aperte si appagano ad ogni istante con la ricchezza di meraviglie ottiche e
fonetiche. Ci vorranno ancora alcuni anni di vitali progressi, e ancora
alcuni fautori entusiasti delle tecniche fotografiche, dopodiché diverrà
acquisizione comune il fatto che la fotografia sia stata uno dei fattori più
importanti che hanno dato inizio a una nuova vita»203.
Risulta quanto mai evidente la rivoluzione compiuta dalla disciplina
fotografica che, nel giro di pochi anni, perviene ad una complessità e un
avanzamento tecnico che è possibile osservare in poche altre espressioni
artistiche contemporanee.
Così, gli approcci profondamente differenti dei due docenti di fotografia
del Bauhaus, Laszlo Moholy-Nagy e Walter Peterhans, convergono alla
formazione di una duplice anima fotografica all’interno della scuola
tedesca, che coincide poi con la doppia anima della fotografia
contemporanea internazionale204.
202
La collana dei «Bauhausbücher» viene fondata da Walter Gropius e Laszlo Moholy-Nagy.
Sulle possibilità e le esigenze tecniche, in Laszlo Moholy-Nagy, Pittura Fotografia …, cit., pp. 42-43.
204
«In contrasto con lo sguardo irrequieto di quest’ultimo (si parla di Moholy), Peterhans ritraeva soggetti
avvolti in un’atmosfera totalmente contemplativa, e attribuiva importanza alla precisione tecnica e
all’accuratezza dell’esecuzione. Mentre Moholy nei suoi esperimenti scandagliava i confini del medium,
il nuovo maestro del Bauhaus era invece interessato a una rappresentazione adeguata, persino utile, della
realtà concreta. La capacità di rappresentare il mondo degli oggetti in maniera appropriata e precisa –
davvero “oggettiva” – al di là di qualsiasi divagazione soggettiva o artistica, per Peterhans era il punto di
partenza per poter impiegare questa tecnica in contesti pratici ed economici». J. Fiedler, P. Feierabend (a
cura di), cit., p. 519.
203
103
Dalla fusione di queste differenti tecniche, quella sperimentale di MoholyNagye quella ‘oggettiva’ di Peterhans, derivano le correnti fotografiche che
si riscontrano negli anni ’20 anche in Italia, dove comunque
l’atteggiamento più spregiudicato dei tedeschi, dei russi, degli americani, è
mediato dall’influenza della cultura tradizionale, che per molti anni ancora
vedrà prevalentemente apprezzata da noi la tecnica Alinari, soprattutto
nell’ambito della fotografia editoriale.
Ma da queste due scuole tedesche, Pagano verrà di certo ugualmente
affascinato seppure si tenda ad associare il suo lavoro piuttosto alla ricerca
di Laszlo Moholy-Nagy. Il primo ad aver messo in relazione la tecnica
fotografica dell’architetto con quella dell’illustre maestro ungherese è stato
Cesare de Seta che infatti scrive: «Non è certo azzardato supporre che
Pagano abbia avuto tra le mani il numero 8 dei Bauhausbücher: in alcuni
studi milanesi se ne possono ancora oggi trovare esemplari e persino
collezioni complete, e poi è noto che, ancor prima dell’avvento del
nazismo, i rapporti con la Germania erano intensi forse più che con la
Francia e certamente assai di più che con l’Inghilterra»205. Esistono
indubbiamente affinità e collegamenti anche diretti tra i due approcci
fotografici, laddove però l’esperienza dell’istriano risulterà di certo più
sdrammatizzata e distante rispetto ad alcune sperimentazioni del maestro
ungherese, come nel caso dello studio dei fotomontaggi, che non verrà mai
approfondito da Pagano.
Interessante ed avvincente la critica sorta riguardo alla diatriba relativa
all’esistenza di una vera e propria fotografia bauhaus: in realtà per molti
non si può parlare di un fenomeno autonomo all’interno dell’istituto,
piuttosto della sperimentazione di nuove tecniche206; nella scuola si inizia a
fotografare essenzialmente per riprendere e fermare momenti di vita
205
206
C. de Seta, Il destino dell’architettura. Persico Giolli Pagano, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 271.
Cfr. P. Costantini ( a cura di), La fotografia al Bauhaus, cit.
104
quotidiana, successivamente lo strumento verrà utilizzato soprattutto per
riprodurre su carta ciò che si realizzava progettualmente, un modo per
documentare l’architettura207. Nascerà tra il 1924 ed il 1928 il ruolo del
‘documentarista’,
un
professionista
appositamente
preposto
alla
riproduzione del materiale, ruolo svolto per anni da Lucia Moholy e più
tardi ereditato da Erich Cosemüller. Grazie a questi due sensazionali
fotografi è giunto fino a noi un vasto archivio di fotografie, di prodotti e di
vedute architettoniche del Bauhaus che ancora oggi testimoniano
l’immagine della scuola e dei suoi lavori. Questo è stato indubbiamente
uno degli aspetti della grande rivoluzione della ricerca condotta nell’ambito
dell’istituto di Weimar: la comprensione di quanto potesse essere utile
documentare un’architettura riproducendola con lo sguardo di chi l’aveva
progettata e di chi la viveva, catturandola da punti di vista non più statici
quali quelli della ripresa prospettica tradizionale, che non permettevano una
empatia profonda e totale con l’oggetto architettonico. Sarà certamente
questo, uno dei più importanti insegnamenti che Pagano riceverà
dall’esempio della scuola tedesca, la fotografia intesa cioè come strumento
utile e necessario a decifrare il codice visivo e progettuale dell’oggetto
architettonico.
Così come il cubismo, il simbolismo, il surrealismo, e le altre correnti
dell’avanguardia figurativa avevano portato a comprendere in ambito
artistico, la necessità di una nuova visione208, allo stesso modo la fotografia
grazie anche alla ricerca del Bauhaus si emancipa, proponendo nuove ed
ardite prospettive sghembe, punti di vista poco tempo prima inconcepibili:
«le sperimentazioni fotografiche facevano in genere ricorso a procedimenti
tecnici già impiegati nelle riviste, nella pubblicità, nella propaganda
207
A. Haus, Fotografia come documentazione del lavoro Bauhaus, in Ivi, pp. 25-27.
Abbiamo già accennato agli effetti delle avanguardie pittoriche sulle evoluzioni della ricerca
fotografica – si veda la nota n. 2 e n. 9 di questo capitolo.
208
105
politica, nel cinema, come il montaggio, il fotogramma, l’esposizione
multipla, il dettaglio ravvicinato, le angolazioni nuove di ripresa»209.
Nel 1929 la Germania ospita a Stoccarda la mostra Film und Photo che
avrà un impatto deflagrante sulle sorti della fotografia, l’obiettivo infatti è
principalmente quello di scardinare in maniera definitiva il primato della
fotografia pittorialista a favore della ‘nuova visione’ della fotografia
moderna210. L’impatto di questo evento a livello internazionale risulterà di
vastissima portata e in Italia la vicenda viene seguita con grande attenzione
dalle riviste e da tutto l’ambiente artistico.
Esperienze come questa di Stoccarda incideranno in maniera concreta sul
passaggio in Italia al nuovo corso della fotografia, mediato ovviamente
dagli esponenti intellettuali più vivaci; in ambito architettonico sarà proprio
Giuseppe Pagano uno dei rappresentanti principali di questa rivoluzione;
proprio l’istriano infatti, con la complicità del critico napoletano Edoardo
Persico, sarà tra i primi a sperimentare l’utilizzo di nuove tecniche e in
definitiva un nuovo approccio al mezzo, pubblicando fotografie dal taglio
spregiudicato e sperimentale nelle varie riviste con le quali collabora ed in
particolare su «Casabella». Tutto il suo archivio fotografico d’altronde,
rappresenta una concreta testimonianza di questa sua apertura verso le
nuove istanza della fotografia internazionale contemporanea; secondo Luigi
Comencini proprio Giuseppe Pagano con il suo lavoro «ha distrutto la
fotografia Alinari»211 in Italia.
209
P. Costantini (a cura di), La fotografia al Bauhaus, cit., p. 18.
Nell’ambito della mostra, Edward Steichen e Edward Weston si occupano del settore della fotografia
americana, mentre El Lissitzky di quella sovietica. L’esposizione si sviluppa in tredici sale, di cui una, a
cura di Laszlo Moholy-Nagy, ricostruisce la storia della fotografia, mentre altre due sono interamente
dedicate a John Heartfield e allo stesso Moholy-Nagy. Prendono parte all’esposizione alcuni dipartimenti
del Bauhaus. Per un interessante approfondimento sulla storia della mostra Film und Photo si veda: A.
Madesani, cit., p. 57-58.
211
F. Albini, G. Palanti, A. Castelli (a cura di), Giuseppe Pagano Pogatschnig. Architetture e scritti,
Milano 1947.
210
106
L’influenza della cultura tedesca su Pagano, risulterà notevole e complessa;
indubbiamente molteplici si rivelano gli aspetti carpiti dall’architetto
istriano nell’ambito della fotografia sviluppatasi in seno al Bauhaus.
Il tema dell’indagine psicologica condotta attraverso il ritratto ritorna di
consueto nelle riprese dei Bauhäusler; spesso difatti gli allievi della scuola,
si divertivano a fotografare se stessi e i compagni in immagini intense e
pregne di significato, talvolta invece più ludiche e spensierate212; rapido e
diretto il confronto con alcuni scatti realizzati da Pagano ad Aalto, o a
quelli dedicati a Carrà, o magari ad altri dal fascino più anonimo, in cui
l’obiettivo della rolleiflex si ferma sui volti sconosciuti di persone colte per
le strade, nei mercati, tra le campagne delle province italiane.
Rimanendo nell’ambito del tema del ritratto, un vero e proprio culto del
Bauhaus sarà rappresentato dalla fotografia di gruppo213, che pure ritorna a
più riprese nella produzione del Nostro, soprattutto in virtù di un gusto
squisitamente compositivo dell’immagine; in questi scatti, infatti, Pagano
assembla i volti e le sagome in modo da affollare il campo visuale del
negativo; costruzione analoghe le possiamo osservare in alcune fotografie
di Moholy-Nagy, Munkácsi214, Krause.
Innegabile poi l’influenza di certi percorsi compositivi introdotti per la
prima volta da Moholy-Nagy, o quelli proposti da Feninger, per cui le
vedute sono colte lungo un piano inclinato, secondo tagli sghembi o punti
di vista in movimento, come pure la sperimentazione di fenomeni ottici:
giochi d’ombra, effetti di specchio e trasparenza di scuola tedesca,
esperienze indubbiamente assimilate seppure di certo rielaborate da
Pagano.
212
I temi ‘fotografici’ al Bauhaus vengono individuati da Andreas Haus nel suo saggio sulla Fotografia al
Bauhaus: la scoperta di un mezzo, in P. Costantini (a cura di), La fotografia al Bauhaus, cit., pp. 23-25.
213
Ivi.
214
Alcune fotografie di Munkácsi furono riprodotte in «La Casa Bella» nel numero di ottobre 1931 e del
gennaio 1932.
107
Una vera e propria ossessione del gruppo Bauhaus recuperata in qualche
modo dall’architetto, sono inoltre dei «segni» speciali, tra questi, immagini
di sfere di vetro, frammenti di apparecchiature tecniche e di parti
architettoniche riprese in dettagli spesso molto ravvicinati215; ma il più
significativo di questi oggetti simbolo, resta indubbiamente quello delle
‘mani’216, mani gesticolanti, o che si lasciano riprendere immobili come
puro oggetto statico del ritratto217. Proprio alle mani Pagano dedicherà
alcuni dei suoi ritratti più suggestivi, mani nude, coperte da guanti neri, che
ricordano la Goulou di Toulose-Lautrect, magari congiunte a nascondere
un volto. Ancora più interessanti sono gli studi del Bauhaus sugli effetti
fotografici luce-specchio; l’universo parallelo catturato attraverso questi
filtri artificiali genera possibilità visuali inaspettate, sfruttate e indagate
approfonditamente dall’architetto in alcuni dei suoi scatti più originali.
Un altro tema studiato dai fotografi gravitanti intorno alla scuola del
Bauhaus sarà quello del mondo naturale, ripreso in più battute anche in
altre esperienze coeve internazionali sulle quali ci soffermeremo in seguito.
Tra i maggiori esponenti della scuola tedesca si ricorda Karl Blossfeldt218
che nel 1928 pubblica il suo libro più significativo: Unformen der Kunst
che colpirà profondamente l’attenzione nazionale e internazionale. «Nelle
215
Cfr. A. Haus, cit.
Marina Miraglia sottolinea il tema delle ‘mani-ritratto’ di Pagano, evidenziandolo in una delle
fotografie scattate a Carrà, in cui l’immagine è ritratta attraverso la superficie vetrata di un tavolo , in cui
si vedono in primo piano proprio le mani dell’artista appoggiate sul supporto vitreo. Cfr. M. Miraglia,
Forme, in C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit., p. 146.
217
«Riguardo al motivo della mano, può venir preso in considerazione un emblema costruttivista e forse
anche un riflesso delle asserzioni di Gropius circa la creazione del Bauhaus secondo “spirito” e “mano”.
Forse a volte non è da escludere anche una associazione politica, perché c’erano dei locali del Bauhaus
nei quali John Heartfield appendeva il manifesto elettorale del partito comunista “…la mano a cinque
dita” del 1928. Anche una fotografia più tarda di Marcel Breuer rimanda al motivo Bauhaus della mano».
Cfr. P. Costantini (a cura di), La fotografia al Bauhaus, cit., p. 24.
218
Fotografo tedesco nato nel 1865, dedicherà gran parte del suo lavoro alla ripresa di soggetti botanici.
Alla base del suo lavoro, come acutamente osserva la Madesani, «ci sarebbe una contemplazione della
natura di taglio romantico, il più delle volte evocativa di altre dimensioni e una critica al funzionalismo e
al darwinismo». Molto all’avanguardia nello studio delle nuove tecniche, sarà tra i primi a servirsi di
diapositive per la proiezione delle sue immagini. Anche per questo sarà tenuto in grande considerazione
dai fotografi d’avanguardia che considereranno il suo un lavoro di grande esempio. Uno su tutti, Moholy
Nagy che ci terrà ad averlo come ospite della sua mostra Film und Photo a Stoccarda nel 1929. Cfr. A.
Madesani, cit., scheda n. 25, p. 74.
216
108
immagini di Blossfeldt, i delicati capolavori di ‘ingegneria’ del mondo
vegetale sono ripetutamente ingranditi per mettere a disposizione una
approfondita conoscenza degli organismi riprodotti»219: il fotografo cioè
riproduce per far conoscere, per divulgare un mondo affascinante e poco
conosciuto e come non ravvisare in questa ricerca, quella stessa di Pagano
che fotografa in maniera quasi ossessiva l’universo vegetale.
Dalla Germania, i fermenti della nuova intenzione fotografica sono
percepiti ben presto in molti altri paesi attenti alle evoluzioni della tecnica e
della ricerca nel campo. Sarà indubbiamente la Russia, un altro polo di
divulgazione della ‘Neue Sachlichkeit’. Tra gli esponenti più versatili si
distingue,
come
abbiamo
precedentemente
evidenziato,
Aleksandr
Rodčenko220 che nel suo paese natio viene addirittura accusato di plagio nei
confronti di Moholy-Nagy; il fotografo per tutta risposta sottolineerà
l’esistenza di un progetto comune che trascendeva i confini nazionali.
Proprio questo concetto di ricerca comune sarà la chiave più significativa
degli studi delle avanguardie. Ovviamente, soprattutto in un primo
momento, saranno molti gli oppositori delle nuove tecniche a sostegno di
metodi più tradizionali, ritenendo sterili distorsioni le immagini
sperimentate dai fotografi d’avanguardia. Alcuni di questi audaci artisti, tra
i quali lo stesso Rodčenko, saranno accusati di badare troppo alla forma
piuttosto che ai contenuti. In realtà la loro sperimentazione portata in alcuni
casi agli eccessi – per qualcuno incomprensibili – dell’arte astratta,
indagavano la realtà nella sua pura oggettività molto più di quanto non
apparisse221.
219
V. Deren Coke, cit., p. 34.
Nel 1921 l’artista sovietico realizza un Manifesto produttivista in cui dichiara apertamente: «Abbasso
l’arte, viva la tecnica»; è chiara la sua posizione antiestetica, che sarà tra l’altro uno dei principali motivi
per cui verrà accusato d’essere un formalista, critica ritenuta assolutamente infondata dagli studiosi
contemporanei. Cfr. A. Madesani, cit.
221
Cfr. B. Newhall, cit.
220
109
Anche Man Ray222, fotografo e pittore americano che lavora a Parigi a
partire dal 1921, rappresenta un capitolo importante della ‘Nuova
Fotografia’. Le sue foto dall’anima surrealista, esprimono emozioni e
suggestioni che aprono nuovi universi di indagine visuale: i suoi primi
piani fortemente illuminati, i nudi splendenti, i volti sognanti e le immagini
fatte di ombre e tracce di luce faranno di lui un esponente di spicco della
fotografia del primo Novecento, nonché uno dei fotografi più importanti di
tutti i tempi.
Come Blossfeldt, anche tra i temi indagati da Man Ray ci sarà l’universo
floreale. In generale un po’ tutta la cultura fotografica rimarrà
profondamente affascinata da questo tema, che darà il via ad un ciclo
fotografico molto più espressivo che obiettivo. Riprendendo infatti,
attraverso primi piani spesso molto ravvicinati, sommità degli alberi, semi,
fiori, virgulti e boccioli, si ottenevano immagini spesso lontane
dall’effettiva realtà delle cose, tendendo piuttosto a ricostruire una visione
organica e talvolta surreale della forza vitale e potente, persino minacciosa,
presente in natura. La realtà più ‘banale’ delle cose veniva quindi
esasperata e portata alle sue estreme conseguenze nel divenire di un’analisi
sempre più complessa. Tra i fotografi che sviluppano questo soggetto,
ritroviamo oltre Man Ray e Karl Blossfeldt anche lo stesso Moholy-Nagy,
Grete Stern e Albert Ranger-Patzsch223; tra gli autori italiani impossibile
222
Man Ray è un fotografo e teorico statunitense (1890-1976), che avrà la sua prima occasione espositiva
nella galleria 291 di New York di Alfred Stieglitz, il primo a riconoscerne la grandezza. Inizia a lavorare
a Parigi dove, tra le altre cose si interesserà di fotografia di moda. Sua sarà l’invenzione della rayografia e
i primi esperimenti di solarizzazione dell’immagine. Autore di saggi e scritti di grande interesse, così ci
racconta la sua idea di fotografia: «Il fotografo non è limitato soltanto al ruolo di copista. È un
meraviglioso esploratore di quegli aspetti che la nostra retina non registrerà mai e che, ogni giorno,
infliggono così’ crudeli smentite agli idolatri delle visioni conosciute, così poco numerose e delle quali il
giro è stato fatto beh prima che un navigatore audace non faccia il giro del mondo. Ho tentato di afferrare
quelle visioni che il crepuscolo o la luce troppo viva o la loro fugacità o la lentezza del nostro apparato
oculare derubano ai nostri sensi. Sono però sorpreso, spesso affascinato, a volte letteralmente ‘rapito’». A.
Madesani, cit., p. 85. Un’interessante monografia sull’artista è stata realizzata da C. de Seta, Ray Man,
Art&, Udine 1989.
223
Di origini tedesche (1897-1966), Albert Ranger-Patzsch, si dimostrerà un osservatore puntuale, un
intellettuale brillante, nonché un vero esteta della fotografia. La sua è una fotografia plastica, in cui si
110
non ricordare il lavoro fotografico di incantevole bellezza realizzato dalla
bravissima Tina Modotti224. Gli scatti di Pagano del mondo naturale
subiscono indubbiamente l’influenza esercitata da queste esperienze
internazionali: il ciclo dedicato agli Alberi e nello specifico agli Abeti o ai
Clitumni, oppure le foto delle piante di Agave, dichiarano proprio questa
stessa matrice di stampo espressionista. Ma nelle foto del nostro architetto
si aggiunge alla ricerca una ragione in più, lo sguardo è teso a catturare,
della natura, quell’ordine insito nel caos. Dover cogliere anche in un
particolare il suo carattere geometrico, o magari quel punto in cui la natura
si manifesta in tutta la sua potenza, diviene per Pagano una necessità
incontrovertibile. In alcuni scatti appartenenti al gruppo intitolato Agave ad
esempio, il punto di vista cade spesso nella sezione della pianta in cui le
foglie si diramano a formare il fiore, cioè nel punto in cui l’universo si
manifesta magistralmente in tutta la sua complessa perfezione. A questa
divina perfezione fa però da contrappunto il passaggio distruttivo
esalta essenzialmente la forma del soggetto, di qualunque soggetto si tratti; per questo riprende con la
medesima forza espressiva materiale botanico, architettura industriale, fili elettrici, animali, paesaggi. È
considerato dalla maggior parte della critica il rappresentante tedesco della ‘fotografia diretta’ americana,
ma il suo è un taglio del tutto particolare, molto attento ai dettagli che compongono il tutto, esaltati nei
suoi scatti da un uso sapiente del mezzo fotografico e dalle raffinate tecniche di stampa. Numerosi i libri
pubblicati e le mostre a lui dedicate. A. Madesani, cit.
224
Assunta Saltarini Modotti (1896-1942), detta Tina, è la fotografa italiana della prima metà del XX
secolo più interessante nell’ambito del panorama contemporaneo. Famosa anche per essere stata
compagna e modella di Edward Weston, scopre la sua passione per la fotografia proprio insieme al già
noto maestro, pur essendosi indubbiamente guadagnata in seguito un posto autonomo di assoluto rilievo
nella storia della fotografia. Attiva rivoluzionaria, trascorrerà quasi tutta la vita a combattere contro le
iniquità del governo messicano. Tra i compagni di battaglia nomi illustri del calibro di Diego Rivera e
Frida Cahlo cui scatterà una delle sue fotografie più intense. Le prime immagini realizzate risalgono al
1924-25 e hanno come oggetto fiori e piante. Le fotografie cui dà vita, sono cariche di una forza
espressiva di indubbia bellezza, di una sensualità mai conquistata prima. In seguito alla conclusione del
suo rapporto con Weston e soprattutto in seguito all’accrescersi dell’impegno politico, muta
profondamente il suo modo di ‘sentire’ la realtà che la circonda e di conseguenza cambia il modo di
rappresentarla; la sua attenzione si sposta sui paesaggi, le architetture, l’uomo, in una ricerca che la porta
man mano a indagare il mondo nelle sue pieghe più inaspettate e dolorose. Sono gli anni della denuncia
sociale dell’arte messicana e la Modotti si unisce a quelle voci che, attraverso le varie forme di
rappresentazione, cercano di esprimere il dolore di un paese. Muore d’infarto in un taxi a Città del
Messico, di ritorno da una cena a casa di Hannes Mayer, noto architetto (direttore della scuola del
Bauhaus dopo Gropius), concludendo una vita da passionaria, da artista, da eroina. Cfr. anche A.
Madesani, cit.
111
dell’uomo che, nel caso delle immagini dell’Agave, si esplicita attraverso
le scritte dei nomi di passanti sprovveduti, incise sulle foglie.
Tra le foto dedicate agli alberi, particolarmente interessanti sono quelle in
cui l’istriano riprende gli arbusti in filari schematicamente ordinati come
per un distribuzione precostituita, oppure selezionati singolarmente con il
tronco ripreso dal basso a ricordare il fusto di una colonna, o magari con il
cono visuale che si perde nel punto in cui i rami più fitti formano un
magico groviglio che ricama il cielo225.
Molte delle foto dedicate al tema naturale sono intitolate ‘forme’ proprio
perché ciò a cui tiene principalmente l’autore è evidenziare quell’ordine,
quella forma ‘precisa’ e perfetta che esiste in natura a prescindere da tutto,
cui l’uomo continuamente anela, e che in effetti cerca di simulare nelle sue
architetture, e nelle opere cui in genere dà vita.
Un altro protagonista della cultura fotografica internazionale, che avrà
indubbiamente un peso notevole sulla crescita fotografica di Pagano è
Eugène Atget226, fotografo francese che lavorerà prevalentemente a Parigi
tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del nuovo secolo. In realtà,
considerando il periodo nel quale lavora Atget, è difficile immaginare
attinenze con un protagonista del XX secolo come Pagano, eppure il tutto si
spiega considerando la modernità quasi ‘inquietante’ delle immagini del
fotografo francese, visti anche i mezzi utilizzati. Il maestro si spostava
infatti per la città di Parigi, con una pesante apparecchiatura munita di
treppiede che permetteva solo riprese statiche, alle quali però riesce a
conferire una profondità di spirito forse mai eguagliata, anche grazie ad ‘un
225
In alcuni casi, accanto al nome delle varie specie, sul provino, è riportato anche il mese della ripresa
come a voler specificare la condizione di qualsiasi organismo vivente che, in quanto tale, è sottoposto alla
legge di trasformazione della natura, che vive e si modifica con il trascorrere inesorabile del tempo.
226
Esplicito riferimento ad Atget rispetto alla produzione fotografica di Pagano viene fatto da Marina
Miraglia che scrive: «Una sezione dell’archivio Pagano è dedicata ai manichini che, come si sa,
costituiscono un tema particolarmente ricorrente, per l’implicito riferimento alla matrice del surrealismo,
nella produzione di Atget». Cfr. Cfr. M. Miraglia, Forme, cit., p. 142.
112
taglio’ – come sottolinea acutamente Edoardo Persico – decisamente
metafisico227. Gli scatti nei quali riconosciamo una certa affinità con alcuni
dei prodotti di Pagano, sono quelli dedicati ai personaggi più umili della
Parigi di fine secolo, come lo scatto del Cenciaiolo, che rivela nella sua
straordinarietà la dignità del lavoro, tema sappiamo molto caro all’istriano,
ma sono soprattutto le fotografie di Atget e quelle di Pagano dedicate alle
vetrine e ai manichini che ci permettono di collegare l’opera dei due
fotografi228.
É evidente che, al passaggio definitivo dalla fotografia ottocentesca a
quella moderna si perviene essenzialmente grazie alla nascita delle
macchine fotografiche di piccolo formato e all’invenzione delle istantanee.
La rivoluzione degli apparecchi di piccolo formato è indiscutibile; essi
apriranno la strada a nuove possibilità estetiche. L’innovazione deriva
innanzitutto dalla possibilità di maneggiare lo strumento fotografico con
estrema facilità, tanto da permettere al fotografo di catturare vedute insolite
e di cogliere particolari della vita nel suo continuo fluire. Se Pagano non ne
avesse avuta una a disposizione probabilmente non avrebbe mai potuto
fermare alcuni degli attimi più suggestivi e di inaspettata bellezza che
arricchiscono il suo archivio, foto come quelle realizzate a Corfù durante la
guerra, ad esempio, non sarebbero forse state possibili senza uno strumento
portatile. Ed è grazie a questi stessi apparecchi se abbiamo la possibilità di
227
E. Persico, Camille Recht: Atget, in «La Casa Bella», n. 38, febbraio 1931; ora in I. Zannier, P.
Costantini, Cultura fotografica in Italia. Antologia di testi sulla fotografia 1839-1949, Franco Angeli,
Milano 1985.
228
Anche in ambito internazionale risultano numerose le emulazioni e sperimentazioni analoghe. In
Germania il soggetto statico del manichino diviene un vero e proprio ‘oggetto dei desideri’ per i fotografi.
Interessante il caso di Heinrich Zille, che fotografa in una strada di Berlino dei manichini disposti in fila
per esporre delle pellicce; la fotografia risale al 1910 ca. «C’è una curiosa somiglianza fra le immagini di
Parigi prese da Atget e quelle di Berlino prese dal suo contemporaneo Heinrich Zille. Ambedue scelsero
gli stessi soggetti: strade, vetrine di negozi, venditori ambulanti, mercati all’aperto, nei quartieri più
poveri della città. Le fotografie di Zille, con la loro viva sensibilità per l’ambiente urbano e con la loro
simpatia per la classe lavoratrice, sono frammenti di vita». Cfr. B. Newhall, cit., p. 271.
113
ammirare i lavori straordinari di André Kertész, o la Parigi notturna e
sfuggente di Brassäi, o gli ‘istanti decisivi’ catturati da Cartier-Bresson.
Ultima conquista fondamentale della fotografia che influenzò decisamente
la produzione dell’architetto istriano è quella della ‘scoperta’ dell’utilizzo
del mezzo come fonte documentaria.
All’idea di utilizzare la fotografia come prova, base di partenza e
riferimento per ricerche o analisi di vario genere si perverrà nel tempo e in
maniera graduale. La stessa pratica fotografica porterà con il passare degli
anni e l’affinamento delle tecniche a tale conquista e consapevolezza229.
Nell’America del New Deal vengono realizzati i primi reportages
fotografici di contestazione sociale, si comincia cioè ad utilizzare la
fotografia come mezzo di documento e denuncia. Tra i migliori
documentaristi di questo periodo spicca il nome di Jacob Riis, reporter per
il «Tribune» newyorchese nonché per l’Associated Press, che rivela le
spaventose condizioni di vita degli slums di New York nell’ultimo
decennio dell’Ottocento. Le sue orme vengono seguite da Lewis W. Hine
che, tra il 1907-18, partecipa alle lotte contro lo sfruttamento del lavoro
minorile cui dedicherà sconcertanti servizi fotografici230. Hine si rende
conto, come Riis prima di lui, della forza soggettiva insita nelle fotografie
che, quanto più era grande la capacità del fotografo di esasperarne il
significato, tanto più erano in grado di richiamare l’attenzione nei confronti
di eventuali problematiche sociali. L’opera di Hine, ricca di ‘documenti
umani’ come egli stesso li definisce, è concepita sotto forma di illustrazioni
e testo che accompagna le immagini. Questa rivoluzionaria tipologia di
pubblicazione-denuncia viene definita photo-story. In seguito il fotografo
229
Cfr. B. Newhall, La fotografia-documento, in B. Newhall, cit.
Ancora prima di Riis e Hine, Charles Sheeler aveva realizzato sul territorio americano un reportage
documento, nel suo specifico caso, teso a richiamare l’attenzione sull’architettura rurale. «Il fotografo
visse nella contea di Bucks fino al 1919 e qui dipinse e fotografò edifici rurali tipici, come fienili e
fattorie, in uno stile semiastratto che abbandonava drasticamente lo sfocato in voga nella fotografia tra il
1900 e il 1920». I. Jeffrey, Fotografia, cit., p. 116.
230
114
statunitense non si occuperà solo di denuncie in negativo della società;
celebre il caso del volume intitolato Man at work, del 1932, che ci ha
regalato immagini splendide e suggestive della costruzione dell’Empire
State Building di New York. In realtà, in questo progetto fotografico Hine
non cerca il sensazionale, vuole solo produrre delle immagini immediate in
grado di documentare un lavoro come un altro, dove però le persone
mettevano in ogni istante a repentaglio la propria vita. Il tema dell’homo
faber, ripreso nella sua realtà più oggettiva, sarà trattato con particolare
attenzione da Pagano231.
D’altronde, il concetto di illustrazione utilizzata come strumento di
denuncia si fa strada in questi anni anche in altre manifestazioni artistiche
ad esempio in pittura. Non si può infatti tralasciare l’esempio di
fondamentale importanza esercitato sull’arte dalla pittura messicana, che,
attraverso una singolare forma d’espressione artistica, i murales, denuncia
tutta una serie d’iniquità sociali. É chiaro che il valore documentario
affidato alla fotografia avrà un effetto notevolissimo sull’approccio
fotografico di Pagano, tutto il suo archivio rappresenta indubbiamente un
documento storico preziosissimo.
Incisive le parole di Giò Ponti che, in un articolo uscito su «Domus»,
scriveva: «una delle funzioni della pittura, in passato, era quella
documentaria. […] Questa funzione documentaria le è stata tolta dalla
fotografia. Prima timidamente, attraverso il ritratto, poi in pieno,
moltiplicata dalla stampa, ed oggi ad abundatiam, poiché la fotografia ci dà
degli uomini e dei fatti immagini plurime e simultanee; essa, come
documento, ci dà quantitativamente più che non desse la pittura che è
sintesi. Questo è il carattere della fotografia come mezzo documentario:
essa delle cose ci mostra infiniti accenti, e fra questi accenti taluno,
231
Cfr. il capitolo II di questo volume.
115
strappato da tempisti eccezionali ad un istante critico, coglie un’espressione
culminante, indimenticabile, diremmo totale. […] Così la fotografia giunge
‘per eccezione’, ad un valore, ad una carattere documentario quasi assoluti,
carattere al quale la pittura giungeva per sintesi. Ma le due arti oggi sono
fatalmente dissociate. L’una, l’arte di servirsi della fotografia, è l’arte di
‘vedere’ le immagini; l’altra, la pittura, l’arte di ‘creare’ le immagini. L’una
è vista pura; l’altra visione»232.
L’aderenza alla realtà diviene un aspetto peculiare dei documentaristi, che
spesso rifuggono dalle connotazioni ‘artistiche’ della fotografia alla ricerca
di una onesta autenticità negli scatti233.
Abbiamo già ampiamente parlato del valore documentario di un’altra
importante
esperienza
americana,
quella
della
Farm
Security
Administration, che porterà avanti un’interessante analisi sul territorio. Ma
questo stile troverà molti altri adepti in America; Margaret Bourke-White,
fotografa per le riviste «Fortune» e «Life», produrrà con lo scrittore
Erskine Caldwell un’inchiesta fotografica sugli Stati Uniti del Sud, mentre
Berenice Abbot dedicherà il suo lavoro alle più belle e inedite riprese delle
metropoli americane, decisa a rappresentarne non solo l’aspetto ma anche
l’anima.
Ma un punto fondamentale sulla fotografia documentaria, viene messo da
Beaumont Newhall che afferma: «è un paradosso, ma perché una fotografia
possa essere accettata come documento, deve essere essa stessa
‘documento’, collocata nel tempo e nello spazio»234. Un documento quindi
ha la necessità intrinseca di essere collocato temporalmente e spazialmente
e sarà proprio questa una delle ragioni per le quali Pagano realizzerà il suo
archivio fotografico: l’architetto, ordinando i negativi in un accurato
232
G. Ponti, Discorso sull’arte fotografica, in «Domus» n. 32, aprile 1932.
È di questo periodo la nascita dei primi film documentario, che Walt Whitman definirà ‘un mezzo che
si serve delle facoltà artistiche per vivificare la realtà’.
234
Ivi.
233
116
database ce ne rivela la volontà documentaria, realizza un archivio da poter
‘usare’ come strumento di conoscenza, magari di denuncia, per il suo
studio di architetto ma anche come eredità preziosa per la società.
b. Percorsi fotografici italiani: la produzione di Giuseppe Pagano tra
metafisica e realismo.
Anche in Italia, all’inizio del Novecento, mentre ancora molti fotografi si
limitano a riprodurre sterili reminiscenze dello stile pittorico inglese e
francese, alcuni più interessanti pionieri della nuova ricerca, producono i
primi timidi tentativi di fotografia documentaria. Celebri gli scatti sul
terremoto di Messina, o le immagini realizzate da anonimi ufficiali che, nel
1911, vanno in Libia ad occupare Tripoli235.
Dopo la prima guerra mondiale, gli scempi e la terribile distruzione
provocata dal tragico evento scuotono gli animi, al punto che il mondo
della fotografia si stacca completamente dal pittorialismo per rispondere
all’urgenza di documentare una realtà tanto martoriata. Sarà proprio questo
infatti, lo scatto decisivo che permetterà, anche nel nostro Paese, di
superare lo scetticismo che impediva di accettare la fotografia
documentaria. Da noi si verifica infatti, come sottolinea la Valtorta: «un
rifuggire, dal ‘documento’, quasi che la specificità di una concreta adesione
al linguaggio della fotografia al linguaggio del reale potesse contrapporsi a
una piena soggettività creativa»236. Dopo lo choc della prima guerra
mondiale questa difficoltà espressiva verrà superata e si darà il via anche in
Italia ad un nuovo approccio fotografico, soprattutto in seguito al
235
Cfr. W. Settimelli, La fotografia italiana, in J.A. Keim, Breve storia della fotografia, Piccola
Biblioteca Einaudi, Torino 1976, ristampa 2001.
236
R. Valtorta, cit., p. 189.
117
sopraggiungere della dittatura fascista, che tenterà di sottomettere anche la
fotografia alla folle logica del regime.
In questo contesto le immagini di Pagano si inseriscono, come una sorta di
voce fuori dal coro, con la forza necessaria e quel coraggio sufficiente per
abbracciare le nuove, audaci istanze della fotografia internazionale e nello
stesso tempo capace di cogliere i germi della rinascita della cultura italiana
del XX secolo, che troverà anche in alcune espressioni artistiche
squisitamente nazionali, interessanti spunti di crescita.
Per un lungo periodo, in Italia, fotografia e filmografia ufficiale saranno un
esclusivo appannaggio dell’Istituto Luce, organismo di propaganda voluto
da Mussolini, un ‘carrozzone totalmente asservito al regime’ come lo
definisce Wladimiro Settimelli, che tenterà di inchiodare il nostro Paese ad
un’immagine intellettualmente molto povera237. La politica di sottocultura
imposta dal regime imbriglierà infatti anche l’ambiente fotografico
sottoponendolo ad una severa e intransigente censura.
In realtà, l’Istituto Luce, si proponeva di svolgere un’attività di
completamento dell’istruzione e dell’elevazione della cultura nazionale,
occupandosi di cinema in primo luogo e, dal 1927 esercitando «un servizio
sistematico di raccolta delle ‘attualità fotografiche’»238, per poi occuparsi
dell’ordinamento, della conservazione e del completamento dell’Archivio
Fotografico Nazionale. Per quanto organo asservito al regime quindi,
questo
Istituto,
svolgerà
comunque
una
funzione
rilevante
e
importantissima per la conservazione del patrimonio fotografico: «con
l’acquisizione delle raccolte pubbliche già esistenti sulle bellezze artistiche
237
Per la storia del periodo fascista e i suoi effetti sulla cultura, la società e nello specifico sulla fotografia
italiana si consigliano i seguenti testi: L. Criscenti, G. D’Autilia (a cura di), Autobiografia di una
nazione. Storia fotografica della società italiana, Editori Riuniti, Roma 1999; P. Bevilacqua, Il paesaggio
italiano nelle fotografie dell’Istituto Luce, Editori Riuniti, Roma 2002; G. D’Autilia, L’indizio e la prova.
La storia nella fotografia, Mondatori, Milano 2005.
238
L. Criscenti, G. D’Autilia (a cura di), Autobiografia di una nazione…, cit., p. 76.
118
e paesaggistiche italiane, il Luce perpetua, almeno nelle intenzioni, la
tradizione catalografica nata con l’unificazione del paese»239.
Ma l’attenzione nei confronti dei media, da parte del fascismo si
dimostrerà, ovviamente strumentale.
Mussolini in primo luogo, punterà moltissimo all’immagine nei suoi anni di
governo240, imponendo però delle regole precise nell’ambito della stessa
disciplina fotografica, per cui il clima culturale risulterà tanto pesante da
non permettere lo sviluppo di alcuna espressione artistica libera da tale
asservimento. L’unica voce capace di una reale rottura con il dictat politico
sarà quella di Luigi Veronesi241 il primo in Italia a lasciarsi avvincere dalle
nuove ricerche internazionali sulla scia di Man Ray, del Bauhaus e
Moholy-Nagy, di Ranger-Patszch e di El Lissitskij. La sperimentazione di
Veronesi troverà espressione degna anche nella filmografia, con la sua
attività di cineasta e scenografo242.
Di certo differente la linea seguita da Pagano che come Veronesi però,
accoglierà la spinta stimolante proveniente dalle voci al di fuori dei confini
italiani, e come l’artista milanese opererà queste ‘sperimentazioni’ in un
momento tanto delicato come quello dell’Italia fascista; di certo i contatti
tra questi due protagonisti della cultura del Novecento saranno continui e
Veronesi collabora in diverse occasioni con la rivista «Casabella» per cui
non possiamo escludere una certa incidenza del lavoro del poliedrico artista
239
Ivi.
Lo stesso Mussolini opererà negli anni una propaganda dal sapore assolutamente moderno,
proponendo una diffusione della sua immagine quasi ossessiva. Le fotografie divulgate negli anni del
regime, vedranno il duce ritratto in mille momenti di vita, durante le adunate, nel silenzio del suo studio,
sulle piste da sci, insomma un vero e proprio bombardamento iconografico che sembra ricordare
vagamente una certa abitudine politica degli ultimi anni. Tra l’altro, come acutamente sottolineano
Criscenti e D’Autilia, «la sua iconografia ha un’evoluzione nel tempo, passando da un’atmosfera
borghese e paterna a quella cesarea e aggressiva della metà degli anni Trenta». L. Criscenti, G. D’Autilia
(a cura di), cit. p. 75.
241
Un profilo accurato della figura di Luigi Veronesi lo troviamo nel volume della Madesani. A.
Madesani, cit., pp. 88-89. Si rimanda anche alla scheda di R. Valtorta in Pagine di fotografia italiana
1900-1998, Charta, Milano 1998, p. 58.
242
Cfr. G.P. Brunetta, Un’esperienza di cinema d’avanguardia: Luigi Veronesi, in Storia del cinema
italiano. Il cinema del regime 1929-1945, II riedizione, Editori Riuniti, Roma 2001, pp. 278-280.
240
119
italiano su quello dell’architetto istriano. Sostanzialmente la differenza più
profonda tra i due, consiste nel fatto che, se per Veronesi la fotografia è
uno dei mezzi utilizzati per ‘esplorare’ il mondo spingendosi fino ai limiti
dell’astrattismo, per Pagano invece questo strumento rappresenta un
oggetto autonomo utile per rappresentarlo e documentarlo oggettivamente.
Nel frattempo, mentre Veronesi continua a indagare le plaghe
dell’astrattismo, in Italia assume una connotazione sempre più concreta la
ricerca dei futuristi, dai quali tra l’altro, l’artista milanese si terrà ben
lontano. Non si può ignorare ad ogni modo, l’importanza che la cultura
futurista avrà per la formazione dei giovani fotografi del nostro Paese243.
Questa corrente d’avanguardia tutta italiana, seppure di breve durata,
sperimenterà alcune delle più affascinanti espressioni della tecniche
artistica ritagliandosi un notevole spazio anche nella fotografia244,
soprattutto in relazione alle ricerche sul movimento, attraverso il
fotodinamismo245. Non si rileva comunque alcuna relazione tra la ricerca
futurista e l’approccio fotografico di Pagano, che forse aveva già spinto la
sua indagine oltre quella di questo gruppo d’avanguardia. D’altronde «per
quanto profondo fosse il colpo inferto dal futurismo alla fitta trama della
tradizione, esso esaurì la propria carica in un tempo certamente
brevissimo»246.
L’esperienza metafisica rappresenterà invece un momento importantissimo
di conquista artistica per il percorso dell’architetto.
243
Un saggio interessante sulla fotografia futurista è quello di C. Bertelli, Fotografi futuristi, in C.
Bertelli, G. Bollati, Storia d’Italia – annali 2* – L’immagine fotografica 1845-1945, Einaudi, Torino
1979, pp. 146-153.
244
Nel 1930 viene pubblicato il Manifesto della fotografia futurista ad opera di Martinetti e Tato.
245
«Con ogni probabilità, il primo artista futurista che ha avuto l’ambizione di esplorare la propria
identità attraverso il mezzo fotografico è Umberto Boccioni. […] La rivoluzione estetica della fotografia
futurista aveva una forte coscienza teorica e pragmatica. La loro è un’operazione perfettamente studiata e
finalizzata completamente al risultato da ottenere, senza tuttavia poter progettare in anticipo l’esito
puntuale dell’operazione». A. Madesani, cit., p. 90.
246
C. de Seta, Da Metafisica a Novecento, in La cultura architettonica in Italia …, cit.
120
In Italia, la ricerca fotografica, seguirà sostanzialmente due opposte strade:
il realismo da una parte e la lettura astratta del reale dall’altra, nel quale si
inseriscono le esperienze di Veronesi e in altro modo dei futuristi. In un
certo senso, la Metafisica pare riuscire a conciliare queste due differenti
correnti. Affascinato di certo dalla ricerca estetica di De Chirico e
compagni, Pagano rivela accenti metafisici nell’organizzazione e
composizione degli spazi urbani, che poi sono spazi architettonici, in
parecchie delle sue fotografie di città italiane247. Con questo non si vuol
trovare nella logica compositiva delle sue architetture una matrice
metafisica248, piuttosto si intende individuare tale matrice nella definizione
fotografica di alcuni spazi urbani da lui ripresi.
Per riconoscere questa componente metafisica nella ricerca iconografica di
Pagano è necessario però fare un passo indietro, e puntare l’attenzione in
primo luogo sull’idea di spazio urbano ricostruito nella pittura
dechirichiana;
scrive
de
Seta:
«lo
spazio
urbano,
strutturato
prospetticamente, diventa l’affascinante e ossessiva trama»249 delle tele di
De Chirico. Ma, in questo suo spazio pittorico, l’uomo contemporaneo
diventa «un birillo, un manichino, una musa inquietante, cosa tra cose più
grandi di lui»250. In alcune città fotografate da Pagano riconosciamo questa
stessa dimensione metafisica ricostruita nelle ‘visioni’ di De Chirico. La
sua città, come quella del pittore, non si mostra «convulsa e violenta,
247
Lo storico napoletano Cesare de Seta è stato indubbiamente uno dei primi studiosi a sottolineare
l’apporto fondamentale della pittura metafisica sugli sviluppi dell’architettura del Novecento. Cfr. C. de
Seta, La cultura architettonica in Italia tra le due guerre, cit. Lo storico napoletano invero sottolinea che
«una architettura metafisica non esiste e sarebbe pretestuoso cercarla». C. de Seta, L’architettura degli
anni Venti: da Milano a Roma, in Architetti italiani del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1987.
248
Scrive la Mazzucchelli: «nulla è meno conforme al temperamento di Pagano che un’idea metafisica
dell’architettura»; ciò non toglie che egli possa aver sviluppato comunque una sensibilità metafisica che
inciderà più o meno consapevolmente sulla sua idea di spazio urbano e fotografico. M. Mazzucchelli,
Pagano architetto, in F. Albini, G. Palanti, A. Castelli, [a cura di], Giuseppe Pagano Pogatschnig …, cit.,
p. 32.
249
C. de Seta, Città futurista e città metafisica: lo spazio urbano nella pittura di Giorgio De Chirico, in
La cultura architettonica in Italia…, cit., p. 70.
250
Ivi.
121
disordinata e orribile» ma è «la città rinascimentale», in cui «non v’è posto
per le folle, ma solo per mute effigi di quel passato in cui De Chirico si è
tuffato con disperata freddezza, cercando di fuggire un presente storico da
cui non ci si può sottrarre se non attraverso la magica rarefazione del
sentimento e della poesia»251; alcune fotografie scattate da Pagano risultano
in questo senso straordinariamente metafisiche, si pensi alle immagini
realizzate in alcune città appositamente ‘svuotate’ come Bologna
(Vol46_Num28), Pienza, a «quella ‘Ferrara’ che è la ‘più metafisica di tutte
le città’», o la stessa Roma, nella quale il momento metafisico più
penetrante si raggiunge nella fissità delle immagini dell’E42 in costruzione
con le armature in legno delle statue – ‘manichini’, ‘muse inquietanti’ – che
sarebbero poi state costruite come ‘arredo urbano’ del complesso
residenziale252.
Il dibattito sulla possibilità di associare la ricerca Metafisica alla fotografia
si è rivelato negli anni, piuttosto complesso253. La Valtorta, concorda
ampiamente con Claudio Marra254 nel considerare possibile ed opportuna
tale associazione, ritenendo che vi sia nella Metafisica, «un elemento
profondamente fotografico»255. In particolare, Marra sviluppa una serie di
considerazioni delucidanti su questo punto. Muovendosi infatti dal
251
C. de Seta, cit. p. 74.
Con questo non si intende assolutamente attribuire un valore metafisico alle costruzioni dell’E42,
semmai è la sensibilità di Pagano che conferisce tale carattere alle inquietanti architetture del quartiere
romano, attraverso le sue riprese fotografiche. Concordiamo infatti pienamente con Cesare de Seta
quando afferma che: «sarebbe del tutto erroneo riconoscerla (l’architettura metafisica) nelle spettrali
prospettive dell’E42 di Roma che di metafisico non hanno nulla, sono topoi formali solo apparentemente
simili ma di fatto profondamente diversi; sono, al contrario, l’immagine di uno straniamento
dell’architettura in balia di un accademismo classicista povero, rozzo e vanaglorioso. Proprio il contrario
della contenuta, solida e tersa condizione classica e metafisica della città d’Italia di dechirichiana
memoria». C. de Seta, L’architettura degli anni Venti: da Milano a Roma, in Architetti italiani del
Novecento, Laterza, Roma-Bari 1987. In realtà Pagano, attraverso i suoi scatti al quartiere romano,
intendeva proprio denunciare quella sensazione di ‘straniamento’ provocata da ‘un accademismo
classicista povero, rozzo e vanaglorioso’, accentuandone l’apparente carattere metafisico.
253
In effetti già de Seta parla di una «fissità metafisica» per descrivere alcune fotografie di Pagano come
quelle realizzate nella città di Bologna. Cfr. C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit., p. 76.
254
C. Marra, Fotografia e pittura nel Novecento. Una storia ‘senza combattimento’, Bruno Mondatori,
Milano 2000.
255
R. Valtorta, cit., p. 195.
252
122
presupposto che Metafisica e fotografia partano da due condizioni
apparentemente antitetiche cioè l’una, la Metafisica, presupponga un
recupero nostalgico del passato a dispetto dell’altra la fotografia, che, suo
malgrado cattura invece il presente, lo storico riesce a scardinare tale
assunto, evidenziando piuttosto che la fotografia non rifiuti affatto il
passato ma al contrario, che in fondo essa non rappresenti altro che un
mezzo per eternarlo, congelarlo, per conservare sulla lastra sensibile le
«impronte»256 del tempo. D’altronde, la composizione propria dei quadri
metafisici basata spesso sulla prospettiva rinascimentale è la medesima che
caratterizza molte fotografie pittorialiste e non solo; per di più, sottolinea lo
storico bolognese, nei quadri metafisici come in alcune fotografie, esiste
una certa propensione ad ‘inquadrare’ il paesaggio; scrive De Chirico: «Il
paesaggio, chiuso nell’arcata del portico, come nel quadrato o nel
rettangolo della finestra, acquista maggior valore metafisico, poiché si
solidifica e viene isolato dallo spazio che lo circonda»257. Sappiamo che la
prima fotografia della storia, realizzata da Nicéphore Niépce era stata
scattata proprio inquadrando il paesaggio tagliato dalla cornice della
finestra di Gras (1826-27). In definitiva non è certo difficile riconoscere nei
quadri metafisici «un analogo rilevante ruolo di straniamento svolto
dall’inquadratura
in
fotografia»258.
Nelle
fotografie
dell’istriano
incontriamo continuamente paesaggi ‘stranianti’ inquadrati attraverso il
portale di una cascina, piuttosto che tra i profili disegnati dai rocchi diruti
di colonne classiche.
Scrive inoltre De Chirico: «L’opera d’arte metafisica è quanto all’aspetto
serena; dà però l’impressione che qualcosa di nuovo debba accadere in
quella stessa serenità e che altri segni, oltre quelli già palesi, debbano
256
G. De Chirico, Noi Metafisici, 1919.
G. De Chirico, in «Valori Plastici», maggio-giugno 1920. Ora in C. Marra, cit., p. 80.
258
Ivi.
257
123
entrare sul quadrato della tela. Tale è il sintomo rivelatore della profondità
abitata»259; in queste stesse «profondità abitate» di De Chirico
riconosciamo le iconografie urbane di Pagano, spazi reali e surreali, rivelati
e nascosti ma comunque percepiti, dimensioni in cui il non visto, tutto ciò
che si nasconde dietro gli angoli, è ricostruito dalla fantasia creatrice
dell’osservatore; Walter Benjamin scriveva che il grande fascino della
fotografia consiste proprio nel suo invitarci ad andare oltre la superficie
dell’immagine, nel farci intendere come da un frammento unico si possa
ricostruire tutto un mondo, un universo parallelo e sconosciuto260.
Ma se da un lato l’universo pittorico e in questo caso metafisico suggerisce
una strada fondamentale per l’esperienza fotografica del nostro architetto,
dall’altra un gruppo di interessanti sperimentatori del mezzo fotografico
cominciano a farsi avanti e ad attirare l’attenzione di Pagano: sono
professionisti del fotoreportage, della ritrattistica, della fotografia
industriale e quelli che si occuperanno delle prime forme di fotografia
pubblicitaria come Mario Crimella – che firmerà molte delle fotografie
comparse sulla rivista «Casabella» di Pagano e Persico –, ma anche
Alfredo Ornano, Ghitta Carrell, Achille Bologna.
Eppure, l’esperienza che più di ogni altra avrà un effetto fondamentale
sulla carriera fotografica di Pagano, ma forse sarebbe più corretto parlare in
questo caso di un’influenza reciproca, è quella di Alberto Lattuada ed il suo
Occhio Quadrato261. Il piccolo libretto fotografico del regista italiano, esce
259
G. De Chirico, in «Valori Plastici», aprile-maggio 1919. Ora in C. Marra, cit., p. 80.
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa,
Einaudi, Torino 1966, ried. 2000.
261
Occhio Quadrato è un piccolo fotolibro pubblicato ad opera di Alberto Lattuada nel 1941. Siamo nel
pieno dell’attività fotografica di Pagano che conosce ed è molto vicino al regista anche grazie alla
comune passione cinematografica. Tra l’altro i motivi d’incontro tra questi due protagonisti della cultura
del primo Novecento sono decisamente numerosi, dato che Lattuada, redattore della rivista «Corrente», è
anche fotografo, giornalista e critico cinematografico per le riviste «Domus» e «Tempo» con le quali
sappiamo collaborasse attivamente anche l’architetto istriano. Il lavoro pubblicato da Lattuada nel ’41,
nasce dai vagabondaggi solitari del giovane intellettuale nelle periferie di Milano e Venezia. Quella che
ne viene fuori è l’immagine di un paese in cui vive un’umanità tutt’altro che eroica, ben lungi da quella
260
124
come inserto monografico della rivista «Corrente», nel 1941. Il titolo del
volume viene suggerito al giovane Lattuada dal regista Mario Soldati cui
faceva allora da assistente nella regia del film Piccolo mondo antico; il
motivo della scelta di un titolo apparentemente ermetico, deriva dal
formato sei per sei delle fotografie realizzate, la macchina è una Rollei
settantacinque millimetri: stesso strumento e stesso formato fotografico
scelto da Pagano nelle sue immagini.
Seppure Lattuada abbia scelto come unico campo d’indagine la città di
Milano e in parte di Venezia, a differenza del collega istriano che rivolge la
sua attenzione a tutto il territorio nazionale, gli obiettivi, gli spunti, i motivi
ispiratori dei due prodotti si riveleranno comunque profondamente affini.
Scrive Angela Madesani: «la novità di Occhio Quadrato sta nel modo di
proporre il paesaggio italiano, privo di retorica e di finalità celebrative,
dove la fotografia è alla pari con altre discipline. Una fotografia diretta,
finalmente vicina alle ricerche europee degli stessi anni. Il paesaggio
raccontato è fatto di uomini e di cose e parla di un mondo povero in aperta
contraddizione con l’immagine voluta dal fascismo. In quegli anni il
regime stava costruendo l’E42 a Roma e Lattuada racconta un mondo fatto
di catapecchie e di stracci, che gli avrebbe fruttato anche un richiamo da
parte della polizia. Una chiara anticipazione del neorealismo»: ebbene si
sarebbero potute usare le stesse parole per descrivere il racconto per
immagini ricostruibile attraverso l’archivio di Giuseppe Pagano. Di certo,
Lattuada, si dimostra più convinto ed ha una posizione più chiara e definita
riguardo a certe idee politiche rispetto a quelle dell’istriano, o meglio è
pienamente consapevole delle sue scelte e questo gli permetterà di far
evincere ancora più chiaramente il carattere della sua indagine fotografica
volta ad esprimere un dissenso profondo nei confronti delle iniquità del
mostrata e imposta dalla fotografia fascista. Cfr. E. Taramelli, Viaggio nell’Italia del Neorealismo. La
fotografia tra letteratura e cinema, Società editrice internazionale, Torino 1995; A. Madesani, cit.
125
regime262; ciò non toglie che lo spirito dei due maestri si riveli, attraverso i
rispettivi universi iconografici, straordinariamente simile263. È nota la
vicinanza culturale di questi due protagonisti del Novecento, grazie anche
alla comune passione per l’arte cinematografica che li porterà a frequentare
gli stessi gruppi cinefili.
Fino ad oggi la critica fotografica ha riconosciuto ampiamente il debito di
Occhio Quadrato nei confronti di un’esperienza come American
Photographs di Walker Evans, giunta in Italia clandestinamente e recensita
sulla rivista «Corrente» proprio ad opera di Lattuada264. Invero,
considerando che nel 1941, anno di pubblicazione del libretto di Lattuada,
l’archivio fotografico di Pagano aveva già raggiunto più della metà del suo
materiale, e visti i legami esistenti tra i due artisti, si potrebbe ipotizzare un
precedente concreto nel lavoro realizzato e sistematicamente pubblicato da
Lattuada, anche in quello di Pagano. In fondo l’istriano, nel 1941, aveva
prodotto già gran parte del suo lavoro fotografico e pubblicato alcuni
fotolibri, si pensi a Sassi265 e Una Porta266 che risalgono al 1939, mentre il
catalogo sull’architettura rurale era uscito già nel 1936. Per cui se è certo
che un’influenza notevole sul lavoro di Lattuada è dovuto all’esperienza di
Evans, non si può comunque escludere che una certa incidenza l’avesse
avuta probabilmente anche la produzione del Nostro, che per primo
262
La posizione antitetica di Lattuada nei confronti del fascismo diviene ufficiale dopo la pubblicazione
del suo fotolibro, è interessante infatti ciò che sottolinea a riguardo Carlo Bertelli: «la censura fascista non
fu disattenta e chiamò Lattuada per avere una spiegazione circa la sua scarsa attenzione per le opere del
fascismo e l’interesse per i poveri, i diseredati, ecc. Solo la bassa tiratura evitò il blocco del libro». C.
Bertelli,G. Bollati, Storia d’Italia – annali 2* – L’immagine fotografica 1845-1945, cit., p. 302.
263
«Con la sua Rolleiflex, Lattuada si spinge verso gli estremi confini della periferia delle cinta urbane
per fissare l’inquietante teatro dove vive una umanità tutt’altro che eroica: almeno non nel senso messo al
bando dalla retorica fascista», la Taramelli descrive con queste parole la realtà fotografica di Lattuada,
rivelandone la profonda affinità con quella di Pagano, le «squallide botteguccie, i mercati dell’usato, le
effigi modeste sui muri scrostati dei miseri interni domestici» di Lattuada sono gli stessi che incontriamo
nelle fotografie di Pagano. Cfr. E. Taramelli, Viaggio nell’Italia del Neorealismo …, cit., p. 75.
264
La Taramelli sottolinea ampiamente l’influenza del fotografo statunitense sul lavoro di Alberto
Lattuada, che tra l’altro non negò mai l’ascendente avuto su di lui dalla suggestione di alcuni album di
fotografie americani. Cfr. E. Taramelli, cit., p. 75-76.
265
G. Pagano, Sassi, Panorama, Milano 1939.
266
Id., Una Porta, Panorama, Milano 1939.
126
scandagliò l’universo tutt’altro che ‘eroico’ della remota e sconosciuta
provincia italiana nelle sue fotografie. Così come è certo che la cultura
cinematografica di Lattuada abbia inciso profondamente sul prosieguo del
lavoro fotografico di Pagano e forse anche sui suoi interessi relativi alla
filmografia.
Alberto Lattuada realizzerà negli anni successivi alla pubblicazione di
Occhio
Quadrato,
anche
altre
immagini,
pur
portando
avanti
contemporaneamente la carriera di regista, e smetterà definitivamente di
fotografare nel 1948, tre anni dopo la morte di Pagano267. I suoi scatti
rappresentano probabilmente la sintesi di tutta la ricerca italiana,
rappresentando quella giusta dimensione in bilico tra la bellezza pura e
autentica della fotografia e quella dinamica e più costruita del prodotto
filmografico.
Dalla produzione di Giuseppe Pagano, di Alberto Lattuada, di Albe Stainer,
di Lamberti Sorrentino, di Federico Patellani, si apriranno nuove strade nel
mondo della fotografia; di certo un fondamentale passo avanti verrà
compiuto anche grazie allo sviluppo del settore fotogiornalistico e delle
riviste. In questo ambito, un vero pioniere sarà proprio Pagano. In effetti in
Italia il dibattito relativo ai nuovi sviluppi della fotografia, verrà condotto
principalmente in ambito giornalistico, saranno cioè le riviste e i rotocalchi
più importanti che conferiranno all’immagine fotografica uno spazio ed un
valore sempre crescente, soprattutto tra gli anni ‘20 e gli anni ‘30 del
Novecento268. Notevole indubbiamente sarà l’apporto delle riviste estere.
Sul finire degli anni ‘20 in Germania si pubblicavano più riviste illustrate
267
Cfr. A. Madesani, cit., p. 92-93; si veda anche il piccolo intervento di C. Bertelli, L’occhio quadrato,
in C. Bertelli, G. Bollati, Storia d’Italia – annali 2* – L’immagine fotografica 1845-1945, cit., p. 184.
268
Cfr. L. Crescenti, G. D’Autilia, Gli anni del fotogiornalismo, in L. Crescenti, G. D’Autilia (a cura di),
Autobiografia di una nazione …, cit., pp. 82-86.
127
che in qualsiasi altro paese del mondo269, anche se grandissimo risulterà
l’eco internazionale che avranno alcune riviste americane come «Life»270 e
«Look», così come quelle francesi, si pensi a «Vu» e «Regards»271.
Negli anni in cui la televisione non aveva ancora fatto il suo ingresso nella
società, la carta stampata diviene infatti il mezzo di divulgazione e cultura
per eccellenza. In questa società ancora prevalentemente analfabeta272,
l’immagine fotografica diviene una realtà mediata di indiscusso valore, un
ausilio irrinunciabile della cultura divulgata verbalmente. In effetti il primo
intellettuale a sottolineare la rivoluzione operata anche in campo letterario
dalla fotografia era stato Paul Valéry, che in occasione del discorso per il
Centenarie de la Photographie tenuto alla Sorbona nel 1939, puntualizza:
«l’impero delle lettere non si limita affatto alle province della poesia e del
romanzo. Si estende agli immensi domini della storia e della filosofia, le
cui frontiere indecise si disperdono talvolta dal versante dei territori
organizzati della scienza e delle foreste della leggenda. É qui, in queste
regioni incerte della conoscenza, che l’intervento della fotografia, – e
persino, la sola nozione di fotografia, assume un’importanza precisa e
notevole, poiché introduce in queste venerabili discipline una nuova
condizione, forse una nuova inquietudine, una sorta di reattivo nuovo di cui
non si sono senza dubbio, ancora considerati abbastanza gli effetti»273.
269
Tra le varie testate, si distingue il «Berliner Illustrierte Zeitung», fondato nel 1890, il «Münchner
Illustrierte Presse», fondato nel 1923, e l’«Arbeiter Illustrierte Zeitung» (il giornale dei lavoratori detto
comunemente «AIZ»), fondato nel 1921. Cfr. B. Newhall, cit., p. 356.
270
Un interessante lavoro sulla produzione fotografica di «Life» è: M. Kornely, J. Hirschfeld (a cura di),
Moving. Il viaggio e il movimento nelle fotografie di Life, Contrasto, Roma 1999.
271
Cfr. B. Newhall, cit.
272
L’alfabetizzazione della Penisola rappresenterà un passaggio fondamentale per l’emancipazione del
nostro Paese. Grazie alla legge Coppino del 1877 verrà estesa l’istruzione obbligatoria a tutto il territorio
nazionale, mentre nel 1911, con la legge Daneo-Credaro, lo Stato àvoca alla sua amministrazione l’intero
ciclo dell’istruzione primaria. Cfr. L. Criscenti, G. D’Autilia (a cura di), cit., p. 11.
273
P. Valéry, Discorso sulla fotografia, Filema, Napoli 2005, pp. 31-33, il corsivo è dell’autore. Nel
volume è riportato integralmente il testo originale del Discours de M. Paul Valéry a la Sorbonne le 7
janvier 1939, Centenarie de la Photographie, typographie de Firmin-Didot, Paris 1939, con traduzione
italiana a fronte.
128
Il delicato lavoro di emancipazione dell’immagine fotografica dal testo
scritto, o comunque il raggiungimento di un equilibrio tra queste due forme
d’espressione
viene
raggiunto
essenzialmente
proprio
grazie
alla
produzione giornalistica, e quindi alle riviste, ai quotidiani, ai rotocalchi,
media per eccellenza di divulgazione culturale negli anni Trenta del
Novecento.
L’eco dei modelli stranieri, si pensi a «Berliner Illustrierte» in Germania, a
«Vu» in Francia, «Life» negli Stati Uniti, giunge nel nostro Paese molto
velocemente, trovando subito una risposta italiana in «Tempo» che esce dal
1939 al 1942274. La rivista vedrà la collaborazioni di diversi fotografi
professionisti e non, come Lattuada, Patellani e lo stesso Pagano che si
dimostrano da subito in grado di caratterizzare con un forte accento di
italianità il giornale. «Il dominio della parola scritta, cadeva»275, per cedere
piuttosto il posto ad un nuovo rivoluzionario modo di fare informazione e
cultura. «Le immagini superavano quantitativamente i testi, nasceva il
‘fototesto’, un’ampia didascalia scritta dal fotogiornalista stesso guidava il
racconto e spesso sostituiva l’articolo»276. D’altronde l’esperienza di
«Tempo» non è isolata, già qualche anno prima lo stesso percorso era stato
sperimentato dalla rivista «Omnibus» di Leo Longanesi, edita dal 1937 al
1939. L’uso «longanesiano»277 dell’immagine avrà un effetto dirompente
per quel carattere ironico e inaspettato ed il «gioco surrealista
dell’accostamento di immagini apparentemente incongruenti»278 che
diviene un corredo della pagina scritta eppure un elemento essenziale per
l’effetto comunicativo della stessa.
274
Cfr. nota 3 del capitolo II.
R. Valtorta, cit., p. 201.
276
Ivi.
277
P. Prunas, Quando nacque il fotogiornalismo ‘totale’, in Aa. Vv., Stelle di carta, Oberon, Roma 1984,
p. 20.
278
L. Criscenti, G. D’Autilia (a cura di), cit., p. 78.
275
129
Negli anni dell’occupazione tedesca e della guerra civile molti giovani
reporters testimoniano l’assurdità degli scontri e delle lotte intestine, quelle
stesse incomprensibili battaglie cui Pagano assisterà e alle quali sarà
costretto in alcuni casi ad intervenire con animo sempre più dubbioso e che
saranno di certo tra i motivi principali della sua adesione alla Resistenza;
Porry Pastorel, Mario Rosi, Aldo Moisio, Fedele Toscani – padre di
Oliviero – mostrano in tutta la loro crudeltà, l’assurda devastazione
perpetrata in quegli anni dalla guerra nel nostro Paese, rompendo i filtri di
una censura ottusa279.
Intanto nascono le prime agenzie fotografiche: Tullio Farabola e Giovan
Battista Colombo a Milano, Carlo Riccardi a Roma280 e ancora la Publifoto
di Vincenzo Carrese che rappresenterà forse l’esempio italiano più
interessante, proiettato verso le esperienze estere analoghe, con un buon
numero di fotografi alle dipendenze e diversi contatti con le agenzie
americane più importanti come l’Associated Press281.
Siamo effettivamente dinanzi ad una rivoluzione epocale straordinaria
dell’immagine, in alcuni casi anche esasperata nelle riviste che
assumeranno con il tempo un atteggiamento sempre più cinico nell’uso
delle fotografie.
La partecipazione di Pagano a questa rivoluzione mediatica si dimostrerà
decisamente essenziale e sarà testimoniata dall’esiguo numero di immagini
d’archivio che l’architetto deciderà di pubblicare in questi anni, quasi
esclusivamente sulle riviste illustrate.
279
«A Firenze le immagini di Giulio Torrini parlano di ponti sull’Arno ridotti a cumuli di sassi. A Torino
quelle di Aldo Misio e degli altri fotografi che lavorano a ‘La Stampa’ e a ‘La Gazzetta del Popolo’,
mostrano gli effetti delle bombe sugli stabilimenti della Fiat. A Milano Fedele Toscani fotografa le
devastazioni dei magazzini della Rinascente o della Galleria Vittorio Emanuele, mentre Bruno Stefani (un
fotografo raffinato, che nel ’35 collaborava alle campagne del Touring Club Italiano, e tra i primi a usare
fotocamere da 35 mm) mostra la distruzione di Palazzo Brera». L. Criscenti, G. D’Autilia (a cura di), cit.,
p. 82.
280
Ivi, p. 83
281
Aa. Vv., Flash! The Associated Press covers the world, introduzione di P. Arnett, Abrams, New York
1998.
130
Alcune testate come L’«Europeo» di Benedetti (1945) faranno un uso
molto più parsimonioso delle immagini, come anche nel caso del «Mondo»
di Pannunzio (1949) e poi dell’«Espresso» dello stesso Benedetti (1955),
ma resta il fatto che ormai un certo meccanismo comunicativo era stato
innescato. Scriverà Patellani che aveva collaborato con Pagano alla rivista
«Tempo» e che continuerà per molti anni ancora, dopo la seconda guerra
mondiale, a produrre immagini piene di evasione e speranza, simbolo di
quel desiderio profondo di rinascita italiana: «è nata una nuova specie di
giornalista inseparabile dalla macchina fotografica, che gli è indispensabile
strumento di mestiere. […] La fotografia ha vinto: per la sua
impareggiabile comunicatività ed infine perché infrena e inquadra tanta
fantasia spesso inutile. Sta qui la ragione del successo dei servizi
giornalistici a base di fotografie […]la fotografia cioè costringe a
presentare i fatti nella maniera più incisiva, più comunicativa, più
giornalistica. E (vuol dire anche) che l’inviato fotografo considera la
propria attività non arte, ma mestiere. […] Ciò che conta , nel giornalista
‘nuova formula’, è che egli sappia fare fotografie che documentino il
lettore; se vuole, se è capace, faccia poi delle belle fotografie, interpreti ciò
che vede. Il campo è aperto, non ci sono strettoie, non ci sono
limitazioni»282.
Pagano
incarna
da
subito
tutto
questo,
seppur
inconsapevolmente, facendo dell’attività di giornalista fotografo un
‘mestiere’: «Io so soltanto che questa caccia di immagini mi entusiasma e
che mi procurerà forse un giorno il pane quotidiano, come illustratore
fotografico, quando Interlandi e Pensabene, Ojetti e Della Porta avranno
partita vinta contro l’architettura moderna»283.
282
F. Patellani, Il giornalista nuova formula, in Aa. Vv., Fotografia. Prima rassegna dell’attività
fotografica in Italia, Domus, Milano 1943. Ora in R. Valtorta, cit. pp. 203-204.
283
G. Pagano, Un cacciatore d’immagini, in «Cinema», dicembre 1938.
131
Il percorso tracciato dall’esempio di riviste straordinarie come «Tempo»,
«Omnibus», il «Mondo», rappresenterà un passaggio fondamentale
nell’universo della comunicazione284. Determinanti in questo senso, si
dimostreranno anche altre testate gravitanti nell’area della sinistra italiana e
dell’antifascismo, parliamo de «Il Politecnico» di Elio Vittoriani (19451947) e de le «Vie Nuove» di Luigi Crocenzi (1949) che rappresenteranno
una
voce
importante
di
opposizione
soprattutto
nell’ambito
dell’informazione politica, con le quali Pagano non avrà contatti diretti
essendo morto nel ‘45, ma che probabilmente avevano ricevuto
dall’esperienza fotografica dell’architetto e dalla sua edizione di
«Casabella», una lezione di grande valore. Le due riviste dimostreranno un
legame speciale con il mondo della cinematografia e utilizzeranno la
fotografia nella forma della sequenza narrativa o del montaggio sulla
pagina, aprendo la strada in Italia a quel concetto di ‘documentario’,
adottato poi dai cineasti e in questo ambito portato alle sue vette più
elevate, che non si può escludere avesse trovato nel lavoro di Pagano un
precedente validissimo; molti dei reportages dell’architetto vengono infatti
costruiti con un’intenzione filmografia. L’istriano, sarà indubbiamente uno
dei primi professionisti della fotografia ad avvertire la tensione verso
l’affascinante linguaggio del cinematografo.
c. La fabbrica dei desideri: il cinema e la cultura filmica degli anni Trenta
Un ruolo di assoluto primo piano nella formazione e nella crescita dei
giovani intellettuali a cavallo degli anni Trenta del Novecento spetta di
284
Per quanto riguarda la storia dei rotocalchi italiani che diedero ampio spazio alla fotografia Cfr. nota n.
45 di questo capitolo. Si vedano inoltre i due saggi di C. Bertelli, «Omnibus» e Altri rotocalchi in C.
Bertelli, G. Bollati, Storia d’Italia – annali 2* – L’immagine fotografica 1845-1945, cit., pp. 186-192.
132
diritto all’incredibile e sfavillante fabbrica di sogni che rappresentò il
Cinema.
Visione onirica, evasione, fuga da una realtà spesso troppo dura e
incomprensibile, lo schermo cinematografico agli inizi del secolo scorso,
inghiotte le più avide e giovani menti, che riconoscono, nei mondi paralleli
ricostruiti attraverso le macchine da presa una surrealtà possibile seppure
improbabile ma desiderata al punto tale che negli anni del boom
cinematografico le fila al botteghino segneranno presenze di pubblico da
record.
Per noi figli della terza generazione della filmografia, quello che di certo
rappresentò il cinema allora è difficile da interpretare; utili, onde
comprendere la portata di quello storico evento che prese il via dalla prima
proiezione dei fratelli Lumiére del 28 dicembre 1895, possono risultare le
parole di alcuni dei protagonisti della cultura intellettuale che allora, quella
rivoluzione straordinaria, la vissero davvero. Scrive Gesualdo Bufalino:
«Per me e suppongo per molti coetanei miei, contò allora più degli
Steinbeck e Saroyan vittoriniani, la fantasmagoria che s’accendeva ogni
sera su un bianco telone di periferia»285; quello di Bufalino era lo stesso
telone bianco dal quale partivano i sogni di Leonardo Sciascia, che dalla
remota provincia siciliana dichiarava: «per me, per altri della nostra
generazione e della nostra vocazione, il cinema allora era tutto. Tutto»286.
Ipnotizzato dalle immagini dei primi proiettori, anche Italo Calvino visse
profondamente gli anni dell’avvento cinematografico, descrivendoli così:
«Ci sono stati anni in cui andavo al cinema quasi tutti i giorni e magari due
volte al giorno, ed erano anni, tra, diciamo, il 1936 e la guerra, l’epoca
insomma della mia giovinezza. Anni in cui il cinema è stato per me il
285
G. Bufalino, Cere Perse, Sellerio, Palermo 1985, ora in G.P. Brunetta, Storia del cinema italiano. Il
cinema del regime 1929-1945, Editori Riuniti, Roma 2001, p. 300.
286
L. Sciascia, C’era una volta il cinema, in Fatti diversi di storia letteraria e civile, Sellerio, Palermo
1989, p. 123, ora in G. P. Brunetta, cit., p. 308.
133
mondo. Un altro mondo da quello che mi circondava, ma per me solo ciò
che vedevo sullo schermo possedeva la proprietà di un mondo, la pienezza,
la necessità, la coerenza»287. A queste voci se ne uniscono tante altre, come
quella di Umberto Saba, di Pier Paolo Pasolini o di Umberto Eco che
scrive: «Noi tutti sappiamo che la nostra immaginazione, forse la nostra
stessa cultura può essere stata attivata, nutrita, animata, da un pessimo
film»288.
Il fil rouge che lega tutte queste affermazioni è quella netta consapevolezza
che nel Cinema si riuscisse a raggiungere il Tutto, quel Mondo ‘altro’ dal
reale che diveniva però l’unica realtà riconosciuta, la sola desiderata: «lo
schermo è uno spazio più reale del reale e tutto ciò che si verifica sullo
schermo, o nella sala, coincide con le tappe di scoperta della propria
identità e individualità da parte di milioni di persone a cui i film forniscono
un humus e una sorta di plancton, o di inesauribile giacimento affettivo e
immaginativo»289. A questo giacimento di cultura, immagini, vita, si nutre,
tra i tanti, lo spirito avido di Giuseppe Pagano che si lascia stimolare,
plasmare ed ‘educare’ – per usare un termine che allora fu tanto caro alla
politica del Regime – dall’universo cinematografico.
L’architetto istriano parla indirettamente ma per la prima volta del suo
interesse nei confronti del mondo della cinepresa nello stesso importante
articolo che, oggi, rappresenta la sua eredità fotografica spirituale, ovvero
quello comparso sul numero di «Cinema» del 1938. In questa occasione
infatti egli dichiara tra le righe, un’altra passione nascente oltre a quella
fotografica, rivelando d’essere «già in possesso di un apparecchio da presa
a passo ridotto»290 negli anni in cui inizierà il suo peregrinare in giro per
287
I. Calvino, Autobiografia di uno spettatore, in Quattro Film di F. Fellini, Einaudi, Torino 1974, p. II,
ora in G. P. Brunetta, cit., p. 307.
288
U. Eco, Il manifesto, 11 agosto 1985, ora in G. P. Brunetta, cit., p. 303.
289
G.P. Brunetta, cit., p. 301.
290
G. Pagano, Un cacciatore d’immagini, cit.
134
l’Italia a raccogliere, con la sua ‘formidabile’ rollei, le immagini per la
mostra rurale. La cinepresa di cui dispone il nostro architetto è di piccolo
formato; come sempre quindi tecnologicamente all’avanguardia, Pagano
utilizzerà per i suoi microfilm una pellicola da 16 mm291, di tipico utilizzo
amatoriale ma di buona qualità anche nel caso di necessità di riprese più
impegnative e professionali.
Un piccolo numero di sequenze filmiche realizzate dall’istriano sono state
conservate insieme alle fotografie, nell’archivio giunto fino a noi che
testimoniano il suo interesse assolutamente non virtuale e teorico nei
confronti del magico mondo della macchina da presa; tanto più che la
passione nei confronti della cinematografia è certamente precedente a
quella poi manifestata per la macchina fotografica che, come abbiamo
visto, viene presa in considerazione da Pagano solo in virtù della necessità
concreta di produrre materiale per la Triennale del ‘36.
L’architetto infatti, come sempre molto attento all’aspetto documentario del
materiale prodotto, si premura anche nel caso dei films di riportare su
ciascun contenitore almeno il soggetto della ripresa, nonché in diversi casi
anche la data che ci ha permesso di avere un’idea del periodo di utilizzo
della macchina da presa da parte dell’istriano, circoscrivibile al
quinquennio compreso tra il 1933 ed il 1938.
Si tratta in tutto di 2 pellicole Eastman Kodak, Kodascope reel da 16 mm
purtroppo senza indicazioni relative ai soggetti ripresi, 7 pellicole Agfa di
cui sono riportati i seguenti titoli: Roma, Costruzione – Casa acciaio
Triennale 1933, su due scatole è riportato il titolo Sicilia, su un’altra
Viaggio in Sicilia, un’altra ancora è senza titolo e infine sull’unica pellicola
agfa a colori è riportata la scritta Pompei e Ercolano a colori 1938. Sono
291
Il formato cinematografico da 16 mm viene introdotto nel 1923 dalla Eastman Kodak Company, per
essere destinato all’amatore non professionista. In seguito la Kodak proporrà nuovi filmati amatoriali, più
economici da 8 mm.
135
poi conservate in archivio 6 pellicole Ciné Kodak Panchromatic safety film
16 mm che riportano i seguenti titoli: Venezia, Venezia – Paola in
vaporetto, Piazza Vittorio – la fiera corretto, Città Universitaria – Paola e
la tavola Alassio, In gondola – Paola a Venezia 1932, Venezia canali 2°;
su questo secondo gruppo di scatole è riportata la data di consegna delle
pellicole da parte del tecnico che si era occupato dello sviluppo: si tratta
quasi in tutti i casi del 1933, è probabile quindi che le riprese fossero state
fatte tutte in questo stesso anno o nel precedente.
Dal rimessaggio delle pellicole sul comodo supporto in Dvd, è stato
possibile ammirare alcuni di questi momenti di vita privata fermati dalla
camera dell’architetto; nelle sequenze si vede l’istriano in giro per Torino –
si riconosce lungo il percorso l’edificio Gualino – con la moglie Paola e la
prima figlia ancora piccola, le vacanze estive trascorse ad Alassio, i viaggi
in Sicilia, con un reportage particolarmente interessante nella città di
Monreale, i giorni trascorsi a Venezia cui sono dedicati molti metri di
pellicola, davvero interessanti inoltre le riprese agli scavi di Pompei e di
Ercolano, nella fiera di Piazza Vittorio a Roma e nel cantiere della casa
d’acciaio per la Triennale del ‘33. Un limitato numero di passaggi filmici
riprendono un viaggio compiuto su di una nave per quel che si riesce a
ricostruire, in partenza da Genova, in cui l’occhio scrutatore di questo
improvvisato regista si ferma su alcune scene di un realismo affascinante,
come quella del pingue capitano che saluta, nel momento della partenza, i
colleghi delle navi vicine, o dei passeggeri che chiacchierano, che soffrono
il mal di mare durante il tragitto, i mozzi alle prese con le manovre di
viaggio, il mare in burrasca, un prete che dorme sul pontile della nave.
Scene dal sapore squisitamente realista che rendono lo spessore di una
passione che sondava spesso i sentieri del professionismo.
136
Oggi, queste riprese, oltre a rappresentare una fonte documentaria preziosa,
come nel caso dei viaggi in Sicilia e Campania, possono essere considerate
indubbiamente un materiale eccellente di studio delle tecniche di ripresa,
seppur amatoriali, comunque di ottimo livello professionale.
L’ascendente che, su Pagano ebbe l’universo cinematografico, si
dimostrerà notevole e sfaccettato; de Seta, tra i critici, sarà uno dei primi ad
evidenziarne la portata. Lo storico napoletano sottolinea infatti l’influenza
suscitata sull’avida mente dell’istriano dalla cultura filmografico tedesca e
soprattutto francese; Clair, Pabst, Dreyer ma in primo luogo Renoir292,
saranno i registi che più di altri cattureranno l’attenzione del Nostro293. La
materia cinematografica rappresenterà per Pagano una ulteriore forma di
‘sfogo’ per la sua insaziabile ingordigia culturale; non solo appassionato
amateur della pellicola ma anche spregiudicato sperimentatore, l’architetto
aderisce ad alcuni cineclub294 – come verranno chiamati in quegli anni i
gruppi cinefili – cui faranno parte diversi nomi illustri del mondo
intellettuale contemporaneo come Peressutti e Banfi, tra gli architetti, ma
anche Comencini – di cui Pagano diverrà notoriamente grande amico –,
Lattuada, Pasinetti che influiranno profondamente sul giovane protagonista
della cultura architettonica del XX secolo, ‘corrompendo’ indelebilmente la
sua anima di fotografo, critico e ovviamente di architetto.
Non può essere sottovalutato inoltre il fatto che Pagano in quegli anni
gravitasse in un mondo pregno di stimoli provenienti in gran parte anche
292
«Nel cinema la maggior passione di Pagano restava Renoir. E questo non sorprende affatto: nel
realismo di Toni del 1935 – un titolo che si potrebbe trovare nel suo schedario fotografico – tutto si
amalgama al filtro di una fotografia lucida e scarna in cui personaggi, ambiente e paesaggio fanno unico
corpo nella lenta sequenza delle scene. Sono congeniali al gusto fotografico di Pagano lo spiccato
interesse di Renoir per il mondo popolare, per le cose semplici, così bene evidenziate nei suoi primi film
che hanno fatto parlare di una elegiaca ‘vena’ populista». C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano
fotografo, cit., p. 7.
293
Il filone è quello del cinema realista internazionale che, dalle prime esperienze del cinema muto di
registi come Pabst, René Clair, Dupont, King Vidor, giunge appunto alla scuola francese di Jean Renoir.
Cfr. E. Taramelli, cit., p. 19.
294
Dell’adesione di Pagano a questi cineclub ce ne parla de Seta. Cfr. C. de Seta (cura di), Giuseppe
Pagano fotografo, cit., p. 7.
137
dall’universo sfavillante della macchina dello spettacolo; il Palazzo degli
uffici per l’industriale Gualino viene costruito su progetto di Pagano e
Levi-Montalcini tra il 1928 ed il 1930, di lì a poco, intorno al 1934, ad
opera di quello stesso Riccardo Gualino sarebbe nata, sempre a Torino, la
Compagnia Italiana cinematografica Lux «a cui spetterà il merito di
puntare nel decennio successivo ad una produzione di alto profilo culturale
e stilistico»295. Attorno alla Lux si riuniranno autori, sceneggiatori, registi
come Alessandrini, Soldati, Castellani, Lattuada, Blasetti, Bragaglia,
Bonnard e tanti altri, «grazie ai quali il cinema italiano potrà alzare il tiro
delle sue ambizioni e puntare a sostituire i prodotti americani scomparsi dal
mercato»296. Pagano quindi risulta totalmente immerso in quel mondo
stimolante e accattivante che avrà un effetto sulla sua carriera
evidentissimo.
D’altronde l’occhio del regista, Pagano lo aveva già rivelato in alcuni
reportage fotografici che, se montati in sequenza, non avrebbero fatto altro
che restituire tante diverse microstorie, probabilmente qualcosa di molto
simile a quello che oggi, con un termine tanto in voga, chiameremmo un
‘corto’: basti pensare all’episodio raccontato dalle fotografie nel mercato
milanese di Sinigallia297, o quello ricostruito dagli scatti realizzati tra le
stanze della casa del pittore Felice Casorati, nel Covo di Mussolini, o
magari il ‘cortometraggio’ realizzato per le strade di Firenze durante la
celebrazione dell’antica festa del calcio in costume.
Pagano in realtà, dall’esperienza cinematografica carpisce un certo modo di
guardare il mondo nonché alcuni concreti temi e spunti decisamente
295
G.P. Brunetta, cit., p.10.
Dal 1938 infatti, per volere della dittatura fascista che tentava in tutti i modi di frenare, com’è noto, il
riflusso ‘pericoloso’ della cultura d’oltreoceano, viene sistematicamente proibita l’importazione di
pellicole soprattutto di provenienza statunitense. Cfr. G.P. Brunetta, cit.
297
Riguardo al reportage realizzato da Pagano in questo mercato della periferia milanese, si ritiene
interessante sottolineare che, probabilmente in contemporanea all’architetto istriano, anche Lattuada
faceva cadere il suo ‘occhio quadrato’ sulle stesse scene dal sapore neorealista, sugli stessi volti dei
popolani, sulle stesse ‘cianfrusaglie’ sparpagliate sui teli sdruciti.
296
138
interessanti di riflessione, che verranno poi rielaborati nella sua mente ai
fini di una rilettura degli stessi in ambito di ricerche di ben altra natura,
certo anche più affini alla sua formazione professionale d’architetto.
Il tema rurale, ad esempio, introdotto dalla cultura fascista anche in
filmografia, viene probabilmente sviluppato da Pagano proprio in virtù
delle suggestioni dovute alla visione dei film dei primi anni ’30 come quelli
di Blasetti, Soldati, Camerini che scriveranno alcune delle pagine più
‘umbratili e malinconiche’ – per dirla con de Seta – del Cinema del
Novecento.
Un ruolo importantissimo per lo sviluppo del media cinematografico è
assunto in quegli anni dalla cultura fascista che, come è stato più volte
sottolineato, si servì avidamente di tutti i mezzi di comunicazione ai fini
della propaganda politica. Eppure, proprio con il cinema il rapporto si
dimostrerà sempre particolarmente conflittuale, essendo costantemente
vigile, in seno a questo nuovo strumento di comunicazione e d’espressione
artistica, il germe insidioso della contestazione politica, che nei giovani
gruppi dei Guf e delle riviste specializzate298 troverà i rappresentanti più
motivati. Ma come argutamente sottolinea lo storico cinematografico
Brunetta, il Regime non si dimostrerà mai sprovveduto nei confronti di tali
‘fronde’ antifasciste ‘della carta e della celluloide’, tutt’altro, sarà al
contrario sempre estremamente e meditatamente tollerante, tanto che anche
sotto dittatura, lo spettacolo avrà sempre, in Italia, libera cittadinanza.
Questo principalmente perché Mussolini identifica con il mondo frivolo e
leggero del teatro, del cinema, dell’avanspettacolo, un’opportuna valvola di
sfogo e una tollerabile forma di ‘distrazione’ per la popolazione avvinta e
298
Tra il 1934 ed il 1935 e ancor di più negli anni successivi, in Italia sarà un continuo fiorire di riviste di
critica e cultura cinematografica. Nel novero delle più famose e interessanti si ricordano «Intercine»,
«Cine-Radio», «Cinema» che raggiungerà livelli notevolissimi sotto la direzione di Vittorio Mussolini, e
ancora ricordiamo «Bianco e Nero», «Lo Schermo», «Film» – di marca spiccatamente fascista. Un
interessante e accurato punto sulla situazione delle riviste specializzate di cinema sorte tra il ’34 ed il ’38,
viene sviluppato da Gian Piero Brunetta in cit., pp. 213-230.
139
vessata dalle imposizioni fasciste. In fondo lo spettacolo viene utilizzato
per fini politici un po’ come tante altre forme di svago collettivo proposte o
meglio imposte dal regime per il tempo libero dei cittadini; le stesse attività
ginniche venivano ‘consigliate’ vivamente dalla dittatura, tanto che in
questi anni sorgeranno numerose le colonie balilla anche per i giovanissimi,
documentate spesso negli scatti di Pagano.
Scrive Giuseppe Bottai, ministro dell’educazione, nel 1931: «Io vado
raramente al cinema, ma ho sempre constatato che il pubblico
invariabilmente si annoia quando il cinematografo lo vuole educare. Il
pubblico vuole essere divertito ed è precisamente su questo terreno che noi
oggi vogliamo aiutare l’industria italiana»299. Sebbene Bottai puntualizzi la
non necessità di un intento educativo del cinema, in realtà quello stesso
pubblico verrà comunque inconsapevolmente e silenziosamente educato a
non pensare, a non riflettere sulla realtà contingente.
Gioco calcolato quindi, e astuta manovra politica questa, che ‘usa’ anche il
Cinema come strumento di propaganda e quiete pubblica. A questo si
aggiunga che «Il regime vuole attribuire al cinema una funzione separata,
non di strumento diretto di trasmissione dei suoi modelli. […] Mentre la
radio, la stampa, i cinegiornali agiscono come strumenti diretti di
trasmissione delle regole che il fascismo introduce nella vita sociale, il
cinema risulta essere un mediatore parziale e al tempo stesso un terreno
privilegiato attraverso cui tentare ad esempio di ricucire le fratture
generazionali e di classe dimostrando sempre più la continuità storica
rispetto al passato».300 Il duce si dimostrerà d’altronde sempre convinto
299
G. Bottai, Dichiarazione a favore della legge, in «Lo spettacolo italiano», a. II, n. 7, luglio-agosto
1931, ora in G.P. Brunetta, cit., p. 37.
300
G. P. Brunetta, cit., p. 124.
140
della possibilità di capovolgere a proprio favore anche le dichiarazioni e le
attività degli intellettuali sostenitori dell’antifascismo più intransigente301.
Tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento, in effetti, non si registra un
vero e proprio ‘cinema fascista’, piuttosto si può parlare della nascita di una
serie di tipologie filmiche che si identificheranno con le ideologie della
destra più estrema. «Il primo volto del fascismo che il cinema trasmette,
assumendolo immediatamente come modello della rinascita, è quello
dell’ideologia ruralista»302: ancora una volta il tema dell’universo rurale
sale alla ribalta richiamando su di sé l’attenzione dei cineasti dopo quello
degli scrittori, dei poeti, ma prima di quello degli architetti.
Numerosi saranno i film che si iscriveranno in questo stesso filone come
Sole (1929) e Terra madre (1931) di Blasetti, nei quali verrà trattato
diffusamente il tema del culto del mondo contadino e dei problemi ad esso
connessi. Interessante notare come le date di questi film precedano di poco
la pubblicazione del volume sull’architettura rurale di Pagano: è ovvio che
il lavoro dell’istriano si inserisca nell’ambito di una tematica comune che
ovviamente sul grande schermo raggiungerà un canale di mediazione con il
pubblico di certo più rapido e diretto. La cultura diffusa in titoli come Toni
di Renoir o Quattro passi tra le nuvole di Alessandro Blasetti, oppure
attraverso testate come il «Selvaggio», organo ufficiale della corrente
‘Strapaese’303, favoriscono un ulteriore sviluppo di queste tematiche legate
301
Cfr. Ivi.
Ivi, p. 125.
303
«Il “Selvaggio”, periodico fondato e diretto da Mino Maccari con la collaborazione di Leo Longanesi,
sosteneva le posizioni più retrive e astiose della cultura italiana in nome delle tradizioni, individuate
nell’ambiente e nelle convenzioni rurali, che coincidevano di fatto con gli aspetti più conservatori,
aggressivi e volgari dell’elemento agrario del fascismo di provincia. […] La corrente Strapaese si trovò
spesso a fiancheggiare, pur senza un fine comune, la posizione ufficiale del monumentalismo
accademico fascista, anche se in realtà era una forma vaga e marginale di fronda antifascista». L. Patetta,
L’architettura in Italia …, cit., p. 42.
302
141
al mondo mitologico dei ‘vinti’ che già così grande successo aveva riscosso
nell’ambito elitario dell’universo letterario304.
In quegli stessi anni Mussolini operava sul territorio italiano il suo lavoro
puntuale di bonifica delle zone paludose e la costruzione dei nuovi
quartieri, motivo ulteriore – o forse l’unico vero motivo – per il quale gli
starà di certo profondamente a cuore, magnificare l’immagine del contesto
rurale anche attraverso il canale mediatico del cinema.
Ma questa fabbrica dei desideri rappresenterà per Pagano anche un mondo
cui attingere per la costruzione di una cultura moderna dell’iconografia del
paesaggio costruito e non. Sono proprio i cineasti infatti – e questo Pagano
lo capirà anzitempo – i primi a sottolineare l’importanza del contesto nella
costruzione di ‘una’ storia. Le prime riprese di contesti urbani e rurali che
vengono realizzate ad esempio da Blasetti in Sole (1929) e Terra madre
(1931), oppure in Resurrectio che esce nelle sale ancora prima, segneranno
indelebilmente le giovani menti degli artisti contemporanei.
Pagano ne resterà indubbiamente colpito, tanto che, nel suo archivio
fotografico, riconosciamo di continuo quegli stessi paesaggi raccontati dai
più sensibili cineasti coevi: fotografando la tanto amata Milano, Pagano
avrà di certo tenuto presente la prima inquadratura de Gli uomini che
mascalzoni di Mario Camerini che cattura l’icona imponente del Duomo
dall’interno di un negozio nel momento in cui viene alzata la saracinesca
nelle prime ore del mattino305.
Dimostrazione del fatto che Pagano ‘scopra’ nel mondo cinematografico un
potenziale, importante punto d’incontro con l’architettura, come sottolinea
304
«La realtà rurale appare come il luogo geometrico nei confronti del quale le bussole ideologiche
sembrano smagnetizzarsi e consentire un movimento centripeto di rappresentanti di movimenti
d’avanguardia post-futurista, ex anarchici, comunisti travestiti, fascisti di sinistra». G.P. Brunetta, cit., p.
127.
305
Scrive F. Sacchi nella sua recensione al film di Camerini: «É la prima volta che vediamo Milano sullo
schermo; ebbene, chi poteva supporre che fosse tanto fotogenica». F. Sacchi, Gli uomini che mascalzoni,
in «Corriere della Sera», 12 agosto 1932. Ora in G.P. Brunetta, cit., p. 241.
142
la Di Castro, è la pubblicazione di un articolo su «Casabella» nel febbraio
del 1933, nel quale Pagano suggerisce alla Cines, una delle più importanti
case produttrici di quegli anni, «di raccogliere in archivio gli ambienti
moderni costruiti per il cinema così da poter offrire un collage della
fantasia contemporanea, mettendo in evidenza ‘le qualità migliori dei nostri
costruttori di effimeri ambienti moderni, paradisiaco documentario di una
modernità di domani’»306; l’architetto in effetti, continua la Di Castro,
suggerisce una vera e propria «raccolta per soggetti – che poi sarà la stessa
organizzata nel suo archivio fotografico – una sorta di dizionario
dell’effimero che solo nella fotografia abbia il suo termine di confronto»307.
Ma soprattutto, osservando tali ambienti, Pagano «intuisce come attraverso
la ripresa cinematografica gli ambienti assumano una diversa definizione
che ne modifica la struttura spazio-temporale e arricchisce la nostra
nozione di architettura»308. La spazialità colta in movimento infatti, apre
nuovi orizzonti visuali che Pagano cerca già di definire e ‘scoprire’ in
fotografia ma che, catturati nel loro divenire attraverso la cinepresa,
rivelano matrici nuove e inediti indirizzi potenziali di ricerca ancora tutti da
sondare soprattutto in ambito architettonico.
Non v’è dubbio che le stesse suggestioni avvertite da Pagano e che di certo
avevano avuto un peso di tutto rilievo sulla sua formazione professionale,
incideranno anche sulla crescita di tanti altri architetti contemporanei aperti
come lui ad accogliere la rivoluzione introdotta, nel modo di osservare il
mondo, dalla cinematografia. Questo fenomeno, ovviamente, si accrescerà
con la fine della seconda guerra mondiale, durante gli anni faticosi della
rinascita italiana, durante i quali, spentasi la voce dell’architetto istriano,
306
F. Di Castro, Fotografia e tipografia: immagini di «Casabella», in C. de Seta (a cura di), cit. p. 24. La
citazione virgolettata inserita dalla Di Castro nel discorso è di Giuseppe Pagano, introduzione all’articolo
di Eugenio Giovannetti, Architettura cinematografica: G. Capponi per ‘la voce lontana’, in «Casabella»,
n. 2, febbraio 1933.
307
F. Di Castro, cit. pp. 24-26.
308
Ivi.
143
molti altri protagonisti della cultura architettonica e non, raccoglieranno tra
le altre la grande eredità da lui lasciata, il cui spessore alla luce di tutte le
considerazioni fatte, si dimostra davvero straordinario.
A Giuseppe Pagano si deve infatti a questo punto riconoscere un ruolo
preciso svolto nell’ambito della definizione di un nuovo modo di indagare
il mondo ed il reale che preluderà di certo la stagione neorealista italiana.
Molti film del primo dopoguerra, in termini di lavoro sulle immagini
filtrato
dall’influenza
della
ricerca
d’avanguardia,
dovrebbero
probabilmente riconoscere l’esistenza di un debito nei confronti delle
indagini sviluppate all’interno di quei gruppi di intellettuali appassionati di
cinema e fotografia cui faceva parte l’architetto istriano – come non
riconoscere, nella ripresa della scala interna del palazzo in cui abita l’eroina
interpretata da Anna Magnani in Roma città aperta, la suggestione delle
immagini di scale fotografate da Feninger o da Moholy-Nagy.
Le riprese romane di Rossellini in Roma città aperta (1945), e Paisà (1946)
ma anche de Il sole sorge ancora di Aldo Vergano (1946), o gli scorci
catturati da Vittorio De Sica in Ladri di biciclette (1948) e Sciuscià (1946),
rappresentano ormai quel passaggio decisivo proiettato finalmente verso
una nuova espressione cinematografica che aprirà l’importante pagina del
neorealismo italiano, terreno fertilissimo di indagine visuale anche e
soprattutto per gli architetti309.
Questi film, che possono essere considerati i corrispondenti italiani dei
‘documentari’ americani, riescono a dare della condizione italiana pre e
post bellica un’immagine chiara e di sconcertante, drammatica bellezza.
Ma su questi stessi prodotti cinematografici non si può sottovalutare
l’incidenza del lavoro fotografico di molti artisti d’avanguardia e tra questi
quello di Pagano che di certo in linea con il nascituro cinema neorealista
309
Cfr. G.P. Brunetta, cit.; Aa. Vv., I favolosi anni Trenta. Cinema italiano 1929-1944, Electa, Milano
1979.
144
punterà l’obiettivo su alcuni aspetti indubbiamente sconcertanti della realtà
italiana di quegli anni. L’architetto, fissando attraverso gli scatti della sua
rollei, alcune scene come quelle realizzate tra le strade di Corfù, darà
letteralmente vita a personaggi di caratura e spessore sociale notevole, che
in fondo non rappresenteranno altro che il preludio alla costruzione di
alcuni protagonisti mitici del cinema neorealista italiano310. Federica Di
Castro riconosce opportunamente nel profilo spossato del personaggio
ritratto davanti alla sua casa distrutta dalla guerra a Corfù, la sagoma di
quegli stessi eroi della Resistenza che prenderanno vita nei fotogrammi de i
Ladri di biciclette, Ossessione, La terra trema311. Così come ritengo risulti
facile associare alle esili figure di donna tracciate nelle fotografie di Pagano
intitolate Varietà, le stesse attricette riprese da Rossellini in Roma, città
aperta, eroine disperate di una società ai margini.
Pagano quindi è stato, alla luce degli studi e delle ricerche portate avanti
soprattutto nell’ambito del suo archivio iconografico privato, uno
straordinario fotografo nonché un sensibile ed attento appassionato di
cinema, oltre che un critico, un giornalista, un architetto; lo studio di un
patrimonio tanto prezioso come quello conservato nel suo archivio, è
servito quindi essenzialmente per aggiungere un tassello in più alla
ricostruzione del mosaico di questa poliedrica, eccezionale figura. Da
questo puntuale resoconto sulla produzione artistica di Pagano viene fuori
il ritratto di un uomo per il quale pare non ci sia stato spunto o stimolo
culturale e artistico che non valesse la pena di cogliere e sviluppare.
310
Il cinema neorealista trae le proprie origini proprio dalla cinematografia e dalla cultura in Italia tra le
due guerre: «A parte il fatto, di non secondaria importanza, che i quadri che hanno fatto il neorealismo si
sono formati praticamente tutti in ambito fascista, che l’industria del cinema a parte i danni di guerra è
rimasta quella costruita da Luigi Freddi e dalla direzione generale della cinematografia a partire dal 1934
e che il neorealismo è largamente debitore del professionismo che si è sviluppato in queste strutture
industriali, va rilevato che alcuni dei temi attorno ai quali si sviluppò la poetica del neorealismo erano
stati anticipati negli anni ‘30». A. Aprà, P. Pistagnesi, Il cinema italiano, questo sconosciuto, in Aa. Vv., I
favolosi anni Trenta…, cit., p. 31.
311
F. Di Castro, Il Fascismo e la guerra, in C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit., p.
121.
145
L’istriano si è raccontato nei suoi scatti, nei film ripresi, nelle parole dei
suoi articoli, negli edifici che ancora conservano la memoria del suo
ingegno eppure, questa complessa personalità ad oggi, sembra ancora
sfuggirci. Probabilmente l’unica cosa sensata che si possa fare per cercare
di sentirsi in pace con la memoria di un protagonista di tale spessore della
cultura del XX secolo, è cercare esclusivamente di trarre dal multiforme
materiale lasciatoci in eredità, il giusto insegnamento, considerare cioè la
vita e le opere di Giuseppe Pagano un pozzo di conoscenza e un riferimento
preziosissimo cui attingere, tanto più oggi, che il suo insegnamento si
dimostra così straordinariamente moderno.
146
IV. L’eredità spirituale di un protagonista della cultura architettonica
moderna
a. La ‘scuola’ di Pagano
In relazione al patrimonio fotografico di Giuseppe Pagano si è utilizzata
spesso la parola ‘eredità’. Effettivamente tutta la ricerca condotta in questo
ambito, è stata in primo luogo volta all’analisi puntuale di una parte
dell’eredità, quella fotografica, lasciataci da questo istrionico protagonista a
tutto tondo della cultura architettonica e intellettuale del XX secolo. In
definitiva si può affermare che, visti gli interessi molteplici ed eterogenei
dell’istriano, davvero pochi siano stati i campi dell’arte e della cultura, con
i quali egli non si sia misurato e confrontato.
Il ruolo che Giuseppe Pagano ha assunto a cavallo delle due guerre come
animatore dei dibattiti più importanti in campo artistico ed architettonico,
ridiscusso oggi, rivela senza dubbio un apporto di straordinaria attualità. In
questo concordiamo con il Melograni quando afferma, e con lui de Seta312,
che la polemica e le controversie sollevate da Pagano si dimostrino ancora
oggi attualissime. Lo stesso Melograni è stato tra i primi a parlare di
Pagano come di un ‘maestro’ per tutta la generazione dei giovani architetti
degli anni Trenta: «un maestro, nel senso letterale della parola, perché la
sua azione contrapposta all’educazione accademica ha avuto un peso
determinante nella formazione di moltissimi di noi, e soprattutto di coloro
che oggi sono fra i trenta e quarant’anni»313. Sarà poi Rogers a specificare i
termini dell’aspetto didattico da lui assunto affermando che: «Maestro, nel
312
313
Cfr. C. de Seta, La cultura architettonica in Italia tra le due guerre, Electa Napoli, 1998, pp. 180-188.
C. Melograni, Giuseppe Pagano, Il Balcone, Milano 1955, p. 9.
147
senso profondo, forse non fu, perché il suo fare spadaccino e polemico, il
suo fare politico metteva lui e gli altri, gelosi della propria intimità, una
lieve diffidenza che, pur non impedendo che lo seguissero (o a lui si
accompagnassero) nel grande assalto contro i nemici dell’arte, era
d’impaccio, invece, a più pacati colloqui, quale si addicono tra maestro e
discepoli»314. In questo modo l’architetto toccava uno dei punti salienti
della questione, e cioè che in fondo Pagano fosse rimasto, negli anni delle
sue battaglie, eccessivamente coinvolto nella sua stessa polemica, dibattuta
in un ambito esclusivamente architettonico laddove quest’ultima andava
piuttosto spostata su un altro terreno, quello politico.
Di certo l’aspetto pedagogico delle intenzioni di Pagano, rappresenta una
delle caratteristiche peculiari del suo lavoro. Volendo trovare un carattere
costante nel contributo educativo da lui assunto nei confronti del mondo
intellettuale e architettonico e della società in senso più ampio, allora vale
la pena puntualizzare che l’architetto dimostrò sempre di qualificare la sua
produzione e il suo messaggio come momento di crescita collettiva.
Scrive Argan: «Tutto il suo sforzo verso lo ‘standard’ si fondava su di un
solo principio: pensare la forma come pensata dalla collettività, divenuta
consueta e abituale, come levigata da un uso continuo. Nel suo frequente
riferirsi all’ordine geometrico di certe culture agricole, che poi poneva ad
insegna delle più meditate proposte urbanistiche, o alle forme semplici dei
nuraghi e dei trulli, si cercherebbe inutilmente un qualsiasi affetto
naturalistico, un tardivo primitivismo o ‘fovismo’ architettonico. Quelle
forme non erano, per lui, iniziali o primarie: erano il prodotto di una
selezione secolare, la somma dell’esperienza d’innumerevoli generazioni.
314
E. N. Rogers, Catarsi, in F. Albini, G. Palanti, A. Castelli (a cura di), Giuseppe Pagano Pogatschnig :
architetture e scritti, Milano, 1947, p. 40.
148
Ritrovava nel tempo, nei sedimenti successivi delle culture, il senso della
collettività»315.
Questo ideale collettivo, che non sarà mai sterile utopia, ma precisa
intenzione e volontà, troverà la sua manifestazione più concreta proprio nel
lavoro educativo, rivolto anzi proteso verso le nuove generazioni che lui
sperava, potessero davvero riprendere in mano le sorti dell’architettura.
In realtà, collegandoci alle parole di Melograni e di Rogers, quando si parla
di una ‘scuola’ di Pagano, si intende un’attività mai ufficiale. Sappiamo che
l’istriano insegnerà alla scuola di Mistica Fascista316, ma al di là di questa
esperienza non ve ne sarà altra in ambito accademico; anzi sarà proprio
contro l’Accademia che egli spingerà la sua polemica più veemente.
Di certo un punto di riferimento culturale elevatissimo lo è stato e lo è
tutt’ora, se si considera il lavoro di erudizione, indirizzato principalmente
ad una ‘classe’ di professionisti, svolto negli anni di attività critica
attraverso le pagine di «Casabella», la vera cattedra dalla quale Pagano
insegnerà per anni. Scrive Enea Manfredini: «Lo ricordo amico dei giovani,
io ero allora giovane; li scovava ancora nelle scuole e con grande
generosità li valorizzava. Basta sfogliare le Casabella di quegli anni per
constatarlo317. Animatore: un contatto personale con Pagano o un contatto
epistolare significava un programma di lavoro»318.
Anche il modo rivoluzionario con il quale, insieme e soprattutto grazie a
Persico, deciderà di trasformare la rivista, conferendole quella veste che
315
G.C. Argan, Valore di una polemica, in F. Albini, G. Palanti, A. Castelli (a cura di), Giuseppe Pagano
Pogatschnig …, cit., pp. 28-29.
316
Nel 1937, Pagano entra a far parte dell’organico della Scuola di Mistica Fascista.
317
Interessanti a riguardo due articoli di Pagano: Anche i giovani possono insegnare (uscito su
«Casabella-Costruzioni», n. 131, novembre 1938) e Un giovane progetta una borgata rurale a struttura
d’acciaio («Casabella-Costruzioni», n. 132, dicembre 1938), nei quali l’istriano proponeva i progetti di
due giovanissimi studenti ponendoli quasi alla stregua di altri professionisti le cui opere occupavano le
pagine del suo giornale.
318
E. Manfredini, Pagano dei giovani, in Giuseppe Pagano fascista, antifascista, martire numero
monografico di «Parametro», n. 35, aprile 1975, p. 62.
149
sotto alcuni punti di vista ancora oggi conserva, è stato straordinario319. Il
nuovo modo di utilizzare il mezzo giornalistico negli anni della direzione di
Pagano e Persico, e dopo la morte di quest’ultimo nel 1936, ha
rappresentato un modello indubbiamente insuperato320.
É stato grazie a questa ‘illuminata’ direzione se la redazione milanese è
diventata in pochi anni il punto di riferimento italiano del gotha culturale
internazionale. Grazie al direttore e al redattore capo, «Casabella»
assumerà infatti negli anni Trenta, il ruolo di organo attraverso il quale
verranno filtrate in Italia le esperienze più interessanti del dibattito europeo
e nel contempo, gli architetti italiani verranno inseriti in quest’ultimo321.
Tra Pagano e Persico ci sarà sempre profonda intesa rispetto all’indirizzo
da dare alla rivista322 seppure l’apertura del critico napoletano nei confronti
dell’avventura europea si sia dimostrata più libera e lontana da forme di
prevenzione rispetto alla posizione di Pagano, vincolato da un rigore
razionalista e funzionalista che in qualche modo gli farà avere un
atteggiamento più conflittuale, ma nello stesso tempo un interesse costante,
nei confronti delle esperienze d’oltralpe323. Resta comunque il fatto che
Pagano, dopo la morte del suo miglior redattore continuerà la politica
319
Cfr. Edoardo Persico e Giuseppe Pagano a «Casabella», in C. de Seta, Il destino dell’architettura:
Persico, Giolli, Pagano, Laterza, Roma-Bari, 1985, pp. 51-59.
320
«Gli anni che vanno dal ’33 alla morte di Persico sono tra gli anni più belli della rivista per la scelta e
la ricchezza della documentazione, per l’apertura versi tutti gli aspetti delle arti: da quelle più
propriamente intese, alla tipografia, arredamento, pubblicità, cinema, fotografia. Ma sono anche gli anni
più creativi della rivista». Edoardo Persico e Giuseppe Pagano a «Casabella», cit.
321
La rivista milanese prende il via intorno al 1927 sotto la direzione di Guido Marangoni con il titolo
approssimativo di «Rivista per gli amatori de La Casa Bella». Il 1929 segna l’inizio di un’attività più
interessante con i primi contributi saltuari di Sartoris, Gino Levi Montalcini e Giuseppe Pagano che
intervengono però con articoli di arredamento e design. Nel 1930 si registra la prima collaborazione
anonima di Edoardo Persico ma sarà con il passaggio direttivo nelle mani di Arrigo Bonfiglioli che
Persico e Pagano diventeranno collaboratori fissi, «se non veri e propri redattori». Nel 1932 con un
articolo di Pagano in cui vengono tracciate le linee del programma della nuova direzione, la rivista passa
nelle mani di Persico nella figura di redattore unico e Pagano come direttore di «Casabella». Cfr. C. de
Seta, Il destino dell’architettura …, cit.
322
Il rapporto umano tra i due protagonisti del dibattito architettonico tra le due guerre si dimostrò invece
piuttosto complesso e a tratti conflittuale, principalmente a causa dei pareri discordi in campo politico,
seppure profonda e costante sia stata la stima reciproca tra i due. Cfr. Ivi.
323
Cesare de Seta racconta l’aneddoto secondo il quale Pagano risponderà con profonda reticenza
all’invito del Raggianti di scrivere una monografia di Wright: «il maestro americano certamente risultava
ai suoi occhi scarsamente a fuoco. La sua scelta era marcatamente ‘funzionalista’». Ivi, p. 54.
150
d’apertura di «Casabella» verso l’Europa, anche grazie ad una
collaboratrice straordinaria come Anna Maria Mazzucchelli324.
Di certo l’utilizzo rivoluzionario della fotografia intesa non più come
strumento ausiliario
ma,
al contrario, come
parte integrante e
imprescindibile della composizione di articoli e saggi, ha rappresentato una
novità e un modello di riferimento assoluto, anche e soprattutto in ambito
editoriale. Scrive de Seta: «le foto di Pagano furono indubbiamente il
primo tentativo meditato di usare il mezzo tecnico con un’intenzionalità
interpretativa ed esse hanno certamente profondamente influenzato il
nuovo modo di vedere l’architettura di tutta la generazione di professionisti
cresciuti sfogliando «Casabella»»325. Il riflesso di questo insegnamento si
riverbererà non solo sull’attività di questa ma di tante altre riviste
contemporanee.
Testate come «Omnibus» di Leo Longanesi, «Domus», con Giò Ponti,
«Metron» di Bruno Zevi terranno certamente in gran conto l’esempio di
«Casabella»; la nuova impaginazione a formato pieno, l’utilizzo di
«illustrazioni più documentate» e di «descrizioni tecniche più diffuse»326,
ma anche l’impiego stesso del reportage come strumento narrativo, faranno
di questa una rivista all’avanguardia e molto più in linea con gli esempi
internazionali che con quelli italiani327.
Abbiamo visto che Pagano propone ben poche delle sue fotografie sui
numeri della rassegna milanese invero, saranno diversi negli anni i
fotografi invitati a interpretare gli articoli con le loro illustrazioni. Mario
324
«Elemento di unione tra la prima e la seconda «Casabella» (quella di Persico e Pagano e
successivamente del solo Pagano) è senza alcun dubbio Anna Maria Mazzucchelli. […] Il ruolo di questa
giovane redattrice credo vada riesaminato, […] per il ruolo complessivo che essa giocò in quel difficile
dialogo tra Pagano e Persico. Dopo la morte di questo, ella seppe svolgere un ruolo vigile ed attento che
esercitò soprattutto nei confronti di Pagano». Ivi, p. 58.
325
C. de Seta, La cultura architettonica…, cit., p. 182.
326
G. Pagano, Programma, 1933, «Casabella», n. 60, dicembre 1932. In questo articolo Pagano descrive
per grandi linee il programma che avrebbe avuto la rivista.
327
Cfr. Paragrafo ‘b’ e ‘c’ del capitolo III di questo volume.
151
Crimella in primo luogo, firmerà numerosi interventi fotografici della
rivista, ma anche il gruppo Ferrini comparirà di fianco ad alcune fotografie;
di certo si deve sottolineare l’aspetto rivoluzionario consistente nel fatto
stesso di riportare il nome del fotografo allegato al servizio, cosa
decisamente inconsueta per le abitudini editoriali dell’epoca: l’intenzione
era quella di conferire la giusta dignità al professionismo di mestiere. Sarà
proprio per volontà di Pagano, estimatore della fotografia internazionale e
assiduo lettore di «Architectural Review»328, che rappresenterà per lui un
modello di riferimento costante, che verranno inserite su «Casabella»
fotografie di Moholy-Nagy, come quella della casa a Chelsea degli
architetti Gropius e Frey329, o di Man Ray, di cui compare l’immagine
dell’ospedale a Ismaïlia330. Sempre grazie a Pagano, collaborerà con la
rivista Luigi Veronesi331, illustrando per anni la rubrica tenuta da Alfonso
Gatto.
La rivista di Persico e Pagano avrà indubbiamente un effetto deflagrante
sulla formazione delle giovani leve dell’architettura che, filtrando
l’esempio suggerito, assorbiranno indubbiamente un nuovo modo di
guardare la città e registrarne la realtà, ma soprattutto una maniera inedita
di partecipare vivamente al dibattito architettonico europeo. L’apertura di
Pagano verso nuovi metodi d’analisi, tra cui indubbiamente anche quello
fotografico, rappresentano un preziosissimo insegnamento per i giovani che
si affacciano alla professione.
Guardando il corpus del materiale fotografico, raccolto negli anni
dall’architetto, è possibile individuare tutti gli insegnamenti che Pagano
riesce ad impartire attraverso le pagine di «Casabella».
328
Nel numero 122 di «Casabella», febbraio 1928, in copertina è riportata una foto estratta dalla rivista
«Architectural Review», si tratta dell’incrocio della 49a strada a New York.
329
La fotografia è riportata nell’articolo dedicato da Pagano ad Edoardo Persico, nel n. 109 di
«Casabella» del gennaio 1937, ad un anno dalla morte del critico napoletano.
330
Cfr. «Casabella», n. 113, maggio 1937, p. 12.
331
Cfr. Il capitolo III di questo volume per l’attività di Luigi Veronesi.
152
Il messaggio che l’istriano ha cercato di trasmettere in primo luogo con la
sua rivista è stato quello di restituire all’architettura del passato il ruolo
opportuno di fonte preziosa e straordinariamente attuale da cui attingere.
Nel saggio L’insegnamento degli antichi, uscito nel ‘34, Pagano sviluppa in
maniera organica questo discorso, condannando quegli architetti che
usavano i modelli del passato imitandoli pedissequamente senza coglierne
l’aspetto istruttivo, con l’atteggiamento di chi «confondeva la conoscenza
delle antiche esperienze con la copiatura delle antiche forme»332.
A questo messaggio, Pagano darà ‘voce’ attraverso i suoi articoli ma è con
le fotografie che riuscirà a costruirlo in tutta la sua profonda intensità.
Soprattutto il modo di utilizzare il materiale fotografico diviene in questo
senso rivoluzionario; il caso dell’articolo uscito nel ‘31, Architettura
moderna di venti secoli fa333, è decisamente indicativo. In questa occasione,
l’architetto compone fotografie di strutture architettoniche rilevate negli
scavi di Pompei con quelle di quartieri di Dudok e con alcune opere di
Mies Van der Rohe. L’intenzione è quella di mettere in evidenza elementi
comuni e analogie, così da sottolineare la medesima chiarezza compositiva
delle due esperienze architettoniche, seppur distanti secoli l’una dall’altra.
Mediante lo strumento del confronto visivo, Pagano riesce a suggerire così
un’idea, facendo delle immagini un documento altamente informativo e
non un semplice sussidio al testo scritto334.
332
G. Pagano, L’insegnamento degli antichi, «Casabella», n. 80, agosto 1934.
G. Pagano, Architettura moderna di venti secoli fa, «La Casa Bella», n. 47, novembre 1931; ora in C.
de Seta (a cura di), Pagano. Architettura e città durante il fascismo, Laterza, Roma-Bari 1990.
334
Un lavoro analogo verrà fatto anche da Edoardo Persico che, nell’opuscolo Arte romana, edito dalla
Domus, realizza un’antologia di sculture romane. «Ispirata a criteri di semplice propaganda dell’arte, è,
per così dire, una storia figurata della scultura romana attraverso alcune opere tra le più significative». E.
Persico, Arte romana, dicembre 1935, ora in G. Veronesi (a cura di), Edoardo Persico. Tutte le opere
(1923-1935), Volume I, Edizione di Comunità, Milano 1964, pp. 216-217. In questo lavoro si realizza un
percorso fotografico teso proprio alla costruzione di una cultura per immagini. Scrive infatti la Veronesi
in nota al testo di Persico: «É l’ultima opera, compiuta poche settimane prima della morte. Persico ha
scritto il testo, ha scelto con criterio critico le illustrazioni, ed ha curato, su uno schema grafico
assolutamente originale (per cui questo doveva essere il prototipo di tanti libri d’arte) l’impaginazione del
volume, creando un’opera perfetta, largamente imitata ma non superata nella sua unità». Cfr., nota 1 in G.
Veronesi (a cura di), Edoardo Persico …, cit. p. 216.
333
153
Gran parte dell’archivio, come abbiamo visto, è dedicato alla catalogazione
di architetture del passato, eppure il metodo di ripresa da parte
dell’architetto si dimostra senza dubbio eccezionale; egli non si limita
infatti alla descrizione dell’oggetto, quanto all’attenta interpretazione dello
stesso, riletto e non rilevato, come facevano i vari Alinari e Brogi, secondo
quella pratica ritenuta desueta e per certi versi sterile dall’istriano335.
Le fotografie assumono così il valore di un materiale informativo
importantissimo; la catalogazione di questa produzione soprattutto ai fini
dello studio degli esempi canonici del passato riletti con uno ‘sguardo’
moderno, diviene una vera rivoluzione per i giovani architetti che
cominciano a concepire un modo nuovo di utilizzare e leggere le fotografie
come matrice progettuale e punto di partenza per l’elaborazione del
prodotto architettonico: «affiora cioè l’ipotesi che la fotografia possa
addirittura entrare, come fonte ispiratrice, nella fase progettuale
dell’architettura»336. L’esempio di Pagano può essere considerato
indubbiamente un ‘caso’ inedito sotto questo punto di vista e il banco di
prova e sperimentazione di una nuova ‘filosofia’ dell’immagine in
architettura. La fotografia comincia ad intervenire come strumento utile
non solo alla conoscenza dell’oggetto una volta costruito, ma rendendosi
indispensabile già nell’a-priori progettuale, come mezzo di studio e ricerca
e quindi come matrice ideativa e creativa. Innegabile in questo senso il
contributo dell’esempio della scuola tedesca del Bauhaus337.
335
«Triste destino, questo dei rilievi, quasi come quello della morfina. Nati da un senso di amore e di
rispetto verso gli sforzi del mondo antico, rischiano di accecare nell’idolatria chi per essi si affanna». Con
questa frase, Pagano non faceva un riferimento esplicito al rilievo fotografico, ma il concetto di fondo
restava lo stesso, ovvero un evidente scetticismo nei confronti della ‘copiatura’ di opere del passato,
indipendentemente dalla tecnica grafica utilizzata per metterla a punto. G. Pagano, L’insegnamento degli
antichi, cit.
336
M. Miraglia, Forme, in C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, Electa, Milano 1979, p.
136.
337
«La lezione del Bauhaus fu soprattutto l’indicazione o la rivoluzione di un metodo, che attraverso
l’uso del fotogramma, smaschera, in maniera drastica e definitiva, la pretesa di una fotografia come
registrazione del reale, ponendo consapevolmente i presupposti critici verso una più puntuale definizione
di fotografia come linguaggio e, quindi, come espressione». Ivi, p. 153.
154
La fotografia intesa come mezzo di divulgazione, di informazione, di
testimonianza, assume un valore straordinario nella ‘campagna’ di Pagano
a favore del recupero dei valori architettonici primitivi e rurali. Questo
obiettivo perseguito dall’architetto con la Mostra sull’architettura rurale e
poi continuato con il suo lavoro di catalogazione delle masserie, dei ruderi,
e di tutte le strutture rurali che incontrava nel suo peregrinare in giro per
l’Italia338, apre o comunque si inserisce in un rivoluzionario dibattito in
campo architettonico.
L’idea che nell’architettura semplice ed essenziale, in fondo pregna di
‘un’orgogliosa’, ‘coraggiosa modestia’, si potessero non solo riconoscere
ma recuperare tutti quegli spunti di studio necessari onde approntare una
logica costruttiva innovativa e moderna, aprirà un dibattito che inciderà
notevolmente sul percorso di numerosi architetti del periodo pre e post
bellico. Molti infatti saranno coloro che tenteranno di collegarsi e in alcuni
casi continuare la ricerca dell’istriano, seppure questo suo messaggio verrà
talvolta male interpretato o addirittura strumentalizzato.
Roberto Pane, che inizia gli studi sull’architettura primitiva e rurale in
contemporanea con Pagano collaborando tra l’altro, seppure in piccola
parte, alla mostra339 del ’36 con il contributo di alcuni negativi, dimostra
per certi versi di mettersi in linea con tale messaggio, per altri invece quasi
in posizione antitetica.
Pane, come pure Pagano aveva fatto, intende recuperare la memoria
dell’architettura passata ricercando in essa un modello in cui individuare i
cardini della ricerca contemporanea ma le considerazioni cui giunge in
seguito ai suoi studi non collimano esattamente con quelle dell’istriano340.
338
Ivi.
Cfr. Capitolo I di questo volume.
340
Cfr. R. Pane, Architettura rurale campana, con 53 disegni dell’autore, Rinascimento del libro, Firenze,
1936; Dimore rurali, in Id., Campania: La casa e l’albero, Mostra delle Regioni 1961, Montanino ed.,
Napoli 1961.
339
155
Interessante a tal proposito mettere a confronto le rispettive ricerche
sull’architettura rurale. Seppure infatti Pane, riconosca evidenti affinità tra
questa architettura e quella razionale, come «la tendenza ad eliminare ogni
decorazione per obbedire soltanto ad una necessità»341, nello stesso tempo
stigmatizza quell’arte che persegue «la sincerità e la funzionalità a tutti i
costi»342, andando quindi in un certo senso in conflitto con le posizioni di
Pagano, che presupponeva piuttosto imprescindibile il carattere funzionale
nell’opera razionalista. A questo si aggiunga che Pane, riconoscendo
l’attributo di razionalità solo all’architettura rurale – dato che, spiega lo
storico napoletano, l’architetto ‘contadino’ era libero di utilizzare tecniche
e materiali che gli compiacessero pur di perseguire il proprio utile a
differenza dell’architetto razionalista che invece si dimostrava schiavo
della tecnologia – dichiarava indirettamente il suo scetticismo nei confronti
dell’architettura contemporanea343. Tale posizione propria di una certa
cultura accademica napoletana era decisamente in conflitto con quella di
Pagano.
Lo storico crociano continuerà per anni questi suoi studi sulla casa rurale e
nel 1951 seguirà da vicino, nell’ambito della IX Triennale di Milano, il
settore dedicato all’architettura spontanea344. In questa successiva
esperienza, il collegamento più interessante, in definitiva l’aspetto della
ricerca di Pagano colto da Pane consiste nell’intenzionale recupero dei
valori folcloristici e dell’arte popolare, nel senso di un riscatto delle antiche
tradizioni di costume e architettura.
341
R. Pane, Architettura rurale campana, cit.
Ivi.
343
Cfr. R. De Fusco, Mediterraneità minimalista, in F.D. Moccia (a cura di), Luigi Cosenza, scritti e
progetti di architettura, Clean, Napoli 1994, pp. 21-23.
344
Lo stesso Roberto Pane in un suo articolo uscito su «Metron» poco tempo prima dell’apertura della
mostra del ‘51, ne sottolineerà la germinazione diretta, della sezione dedicata all’architettura spontanea,
dalla mostra del ‘36 organizzata da Pagano e Daniel: «La mostra dell’architettura spontanea che la IX
Triennale va preparando, riprende, in forma assai più ampia e con quel carattere sistematico che è
premessa di una più approfondita esperienza di cultura, il tentativo intrapreso, molti anni or sono, dal
compianto Pagano». R. Pane, Puglia inedita, in «Metron», n. 39, dicembre 1950.
342
156
Scrive Pane: «l’edilizia nata dal più umile bisogno della vita associata (la
casa costruita dai pastori, dai contadini, dai pescatori) ripropone
necessariamente la definizione del concetto di folclore o di arte
popolare»345. A Pane si deve riconoscere il merito di avere in qualche modo
sviluppato un aspetto della indagine dell’istriano, e cioè quello di aver
spostato l’attenzione dall’architettura all’urbanistica rurale, d’altronde
l’archivio fotografico di Pagano era già ricchissimo di interessanti spunti e
suggerimenti in questo senso346.
Un percorso analogo a quello condotto dall’istriano sulle tracce
dell’architettura rurale è sviluppato contemporaneamente da alcuni
colleghi, che spostano però l’attenzione sull’accezione ‘mediterranea’
dell’architettura. In effetti, una certa rappresentanza della cultura
architettonica
contemporanea,
sembrava
avere
l’intenzione
di
strumentalizzare la ricerca di Pagano onde giustificare o trovare sostegno
per i propri studi; la circostanza è ben evidenziata da Silvia Danesi che
infatti,
riportando
la definizione di
architettura
mediterranea di
Peressutti347, afferma che quest’ultimo intendeva rifarsi all’architettura
spontanea «per dimostrare che la ‘mediterraneità’ è un cavallo di ritorno,
un patrimonio nostrano di cui è legittimo riappropriarsi»348. La Danesi
sottolinea l’intenzione capziosa condotta dalla rivista «Quadrante» che,
attraverso le parole di Peressutti perorava a tutti i costi la causa della nuova
architettura ‘del sole e del mare’ sponsorizzata dal Gruppo 7 anche a
discapito del valore autonomo dell’indagine condotta dall’architetto
345
R. Pane, Puglia inedita, cit.
Cfr. Le tappe del viaggio fotografico di Pagano. Un Tour nell’universo narrativo neorealista, nel
capitolo II di questo volume.
347
Cfr. E. Peressutti, Architettura mediterranea, in «Quadrante», n. 21, gennaio 1935.
348
S. Danesi, Aporie dell’architettura italiana in periodo fascista – mediterraneità e purismo, in S.
Danesi, L. Patetta (a cura di), Il razionalismo e l’architettura in Italia durante il fascismo, Electa, Milano
1976.
346
157
istriano349.
Si
intendeva
sostanzialmente
riconoscere
nella
nostra
architettura spontanea, in maniera forzosa, le origini che avrebbero
condotto allo studio sulla casa mediterranea di Gropius, Le Corbusier, Mies
Van der Rohe.
In effetti, lo stesso Peressutti, ‘allievo’ di Pagano, cade nella facile lusinga
della semplificazione del discorso mediterraneo europeo in quello
spontaneo e rurale nostrano.
Come sempre attento e sensibile alle sfumature dei dibattiti condotti
sull’architettura, Pagano sarà tra i primi a denunciare la capziosità e la
presuntuosa intenzione della tesi che, questo gruppo di razionalisti italiani,
intendeva dimostrare. Scrive ancora la Danesi: «A questo proposito è
opportuno ricordare come Pagano, assertore di un’architettura di contenuti
sociali, fosse contrario all’uso e abuso che si faceva dell’espressione
‘architettura mediterranea’ in cui vedeva accentuazioni formalistiche che
non voleva condividere»; concordiamo pienamente con la studiosa nel
ritenere che la stessa mostra sull’architettura rurale, fosse stata una chiara
intenzione da parte dell’istriano di assumere una posizione netta a riguardo,
indicando piuttosto la ‘giusta via’, rispetto a quella tracciata dagli architetti
‘mediterranei’ italiani: «la mostra può essere considerata anche una replica
intesa ad aggiustare il tiro in materia di ‘genealogia’ del Razionalismo;
oltre ad enunciazioni, a cui forse non era estranea la lettura di Laugier, di
derivazione dell’architettura dalla capanna col tetto di paglia»350. Il
«populismo»351 di Pagano intendeva distinguersi apertamente dagli intenti
349
Per ‘architettura mediterranea’ in Italia si intendeva: «l’architettura di pareti bianche, rettangole o
quadrate, orizzontali o verticali: architettura di vuoti e di pieni, di colori e di forme, di geometria e
proporzioni. […] Geometria che parla, architettura che dalle sue pareti lascia trasparire una vita, un canto.
Ecco le caratteristiche dell’architettura mediterranea, dello spirito mediterraneo». E. Peressutti,
Architettura mediterranea, cit.
350
S. Danesi, Aporie dell’architettura italiana…, cit., p. 24.
351
Il termine «populista» viene associato a Pagano dallo storico Giorgio Ciucci, intendendo la volontà
dell’istriano di «reintrodurre i contenuti etici del mondo rurale all’interno del fascismo, contro la
corruzione simboleggiata dal monumentalismo classicista». G. Ciucci, Il classicismo di Persico e il
158
aulici e nazionalistici della ‘mediterraneità’ del MIAR e del Gruppo 7 che
perseguivano ‘l’orgoglio del primato’ piuttosto che quello della ‘modestia’.
«Nella sua assoluta onestà, non stilisticamente falsificata, corrisponde in
ogni suo particolare ai bisogni della vita agricola, semplice e laboriosa»352,
Pagano descriveva così la sua casa mediterranea, differenziandosi in
maniera chiara da quell’idea piuttosto artificiosa del MIAR per cui le
caratteristiche della casa ‘del sole e del mare’ andavano individuate
nell’«architettura di pareti bianche, rettangole o quadrate, orizzontali o
verticali: architettura di vuoti e di pieni, di colori e di forme, di geometria e
proporzioni»353. Le fotografie conservate in archivio denunciano questa
idea di casa mediterranea per Pagano: l’architetto va scovando gli esempi
più affascinanti e sconosciuti dell’architettura vernacolare sparsi nelle
nostre regioni, riconoscendo esclusivamente in essi, le più straordinarie
premesse dell’architettura moderna.
Pagano individua nell’architettura rurale quei caratteri funzionalisti che,
attraverso la catalogazione delle tipologie rurali minori, definivano
l’«immenso dizionario della logica costruttiva»354, in questo senso
riconosceva nella logica progettuale rurale una antesignana dell’architettura
razionale nonché un modello imperituro e matastorico di riferimento. Ma la
sua ‘casa mediterranea’ riconosceva caratteri funzionalisti nelle architetture
minori in opposizione quindi rispetto «all’evocazione di canoni greci e di
ideali neoplatonici che comporta il mare Mediterraneo»355 richiamati
piuttosto dagli architetti del gruppo di «Quadrante».
populismo di Pagano, in Gli architetti e il fascismo. Architettura e città 1922-1944, Einaudi, Torino
1989, p. 164.
352
G. Pagano, G. Daniel, Architettura rurale italiana, U. Hoepli, Milano 1936, p. 23.
353
E. Peressutti, Architettura mediterranea, cit.
354
G. Pagano, G. Daniel, Architettura rurale …, cit., p. 12.
355
S. Danesi, Aporie dell’architettura italiana…, cit., p. 24.
159
In linea con la posizione di Pagano, anche Persico, seppure inizialmente
solidale con il MIAR356, si allontanerà dalle posizioni di questo gruppo
riguardo al dibattito sull’architettura mediterranea, affermando che troppo
superficialmente e velocemente si era passati dall’«europeismo» alla
«romanità» e alla «mediterraneità»357.
Non si può sottovalutare il fatto che Pagano giunga a fare di queste idee
delle certezze e una posizione definitiva rispetto alla quale rimarrà fedele
per tutta la sua vita professionale, proprio dopo gli studi fotografici
sviluppati; l’obiettivo fotografico cioè, diviene per l’istriano un occhio
critico indispensabile e prezioso: una rivoluzione di certo, rispetto all’uso
che anche altri architetti-fotografi suoi contemporanei avevano fatto del
mezzo, compresi Peressutti e Banfi.
Diretta filiazione dell’indagine condotta da Pagano sull’architettura rurale
sarà l’allestimento di un settore della IX Triennale di Milano dedicato
all’architettura spontanea. Completo resoconto dell’esperienza della T9
viene sviluppato in un numero monografico di «Metron» nel quale si
dedicano alcune pagine alla Mostra sull’Architettura Spontanea allestita
dagli architetti Ezio Cerutti, Giancarlo De Carlo, Giuseppe Samonà ed altri
collaboratori compreso Albe Steiner358 che si occuperà del progetto grafico.
L’allestimento, organizzato quindici anni dopo quello di Pagano, si poneva
356
É proprio il Movimento degli Architetti Razionalisti Italiani che introdurrà per la prima volta il
termine ‘mediterraneo’ a proposito della nuova ricerca architettonica; nella presentazione alla Esposizione
del MIAR (1931) infatti si afferma che: «É soprattutto doveroso riconoscere come si accentua sempre più
la tendenza ad esaltare quel carattere di latinità, che ha permesso a questa architettura di definirsi come
mediterranea». Cfr. Ivi.
357
«Il ‘razionalismo’ italiano è necessariamente refrattario all’impeto delle tendenze europee, perché in
esso non è mai stata una fede. Così, all’europeismo del primo ‘razionalismo’, si è passati, con fredda
intelligenza delle situazioni pratiche, alla ‘romanità’ e alla ‘mediterraneità’, fino all’ultimo proclama
dell’architettura corporativa». E. Persico, Punto ed a capo per l’architettura, in «Domus», novembre
1934; ora in G. Veronesi (a cura di), Edoardo Persico …, cit.; ed in C. Melograni, Passato e presente
nell’architettura italiana contemporanea (1926-1945), estratto da «Rassegna dell’Istituto di Architettura
e Urbanistica», anno V, nn. 13-14, aprile-agosto 1969, pp. 44-46.
358
Noto grafico e fotografo, lavorerà soprattutto per le riviste contemporanee, anche a lui si deve la cura
di un importante pubblicazione sulla fotografia, edita dalla Domus, in cui vengono pubblicati anche
alcuni scatti di Pagano. E.F. Schopinic, A. Ornano, A. Steiner, Fotografia, annuario dell’attività
fotografica in Italia, Gruppo Editoriale Domus, Milano 1943.
160
l’obiettivo di «identificare e rappresentare al pubblico della Triennale
alcuni esempi di queste manifestazioni (di architettura spontanea) e di
dimostrare come la loro validità – anche estetica – sia nel loro essere
‘vere’, cioè aderenti ai fatti economici, sociali, storici, geografici, culturali,
etc. del loro ambiente»359. In questa seconda esperienza si evince una lieve
caduta delle motivazioni e del valore delle intenzioni perseguite dagli
allestitori rispetto alla ricerca di Pagano, ma non si intende con questo
sminuire l’intenzione positiva del gruppo milanese, tesa a recuperare e
riaprire un dibattito introdotto tra le due guerre dall’istriano e troppo a
lungo abbandonato360.
Anche nella mostra del ’51, i prototipi vengono recuperati nelle varie
regioni d’Italia, ma in questo caso la fitta rete di collaborazione tra
professionisti delle varie zone, male organizzata, porterà ad un difficoltoso
sviluppo del lavoro, a differenza di quanto era successo invece con
l’esperienza di Pagano che, esclusi piccoli interventi da parte di alcuni
colleghi, aveva sviluppato la maggior parte del lavoro da solo con il
supporto tecnico di Guarniero Daniel361.
L’idea del gruppo della T9 di organizzare l’incarico utilizzando come unico
strumento della ricerca il supporto fotografico, denuncia esplicitamente il
peso dell’esempio suggerito dalla mostra del ‘36 allestita da Pagano. In
esposizione viene proposto quasi esclusivamente materiale fotografico cui
sono allegati disegni esplicativi e brevi didascalie «per un’interpretazione
critica dell’argomento»362. In definitiva si realizza un progetto del tutto
359
Bilancio della 9a Triennale di Milano, Panorama delle sezioni della T9: Architettura spontanea, in
«Metron», n. 43, settembre-dicembre 1951, pp. 38-40.
360
Incisiva in questo senso la frase di chiusura della presentazione dell’allestimento su «Metron»: «la
mostra apre un problema complesso e inesplorato e rappresenta l’inizio di uno studio che merita di essere
approfondito e completato». Bilancio della 9a Triennale di Milano …, cit.
361
Cfr. G. Pagano, G. Daniel, Architettura rurale italiana, cit.
362
Bilancio della 9a Triennale di Milano …, cit.
161
analogo a quello realizzato dall’istriano nel 1936, che aveva indubbiamente
in questo senso, fatto scuola.
Un’eco dell’esperienza italiana di Pagano si avverte anche nella Mostra
Architecture without architects, allestita al Museo di Arte Moderna nel
1964 ad opera di Bernard Rudofsky. In questa occasione, e nel catalogo
uscito successivamente ad opera dello stesso architetto363, non si fa alcuna
menzione al contributo dell’istriano che, con il suo esemplare modello di
studio volto alla riscoperta dell’architettura anonima e spontanea, aveva di
certo dovuto rappresentare un interessante punto di partenza per gli studi
del viennese, che ad ogni modo sposterà l’indagine da un ambito più
ristretto quale fu quello italiano di Pagano, ad una dimensione
internazionale.
In occasione della mostra americana del ‘64 – come d’altronde si era
verificato con la IX Triennale in cui le fotografie non erano state realizzate
in prima persona dagli allestitori ma piuttosto da esperti – le immagini sono
«generosamente donate»364 da studiosi e ricercatori di tutte le parti del
mondo. Questo aspetto non potrà che incidere in maniera profonda
sull’approccio al lavoro fotografico, di certo inevitabilmente meno diretto e
coinvolgente rispetto a quello compiuto da Pagano.
Nel catalogo della mostra americana, Rudofsky sottolinea il carattere di una
ricerca che si era sviluppata negli anni: «Molte illustrazioni furono ottenute
per caso o per semplice curiosità per l’argomento, curiosità mantenutasi
viva per più di quarant’anni». Dato che la mostra viene allestita nel ‘64, ne
deriva che quaranta anni prima, intorno al 1924, il viennese si allineava,
363
Da questo allestimento verrà fuori un catalogo molto interessante di B. Rudofsky, Architetture senza
architetti, nell’edizione italiana «La Buona Stampa», Napoli 1977. Per il seguito di questa esperienza si
veda anche Id., Le meraviglie dell’architettura spontanea. Nota per una storia naturale dell’architettura
con speciale riferimento a quelle specie che vengono tradizionalmente neglette o del tutto ignorate,
Laterza, Roma-Bari 1979; Vent’anni fa. Bernard Rudofsky collaboratore di Luigi Cosenza, in
«Architettura. Cronache e Storia», n. 50, dicembre 1959; L. Sinisgalli, Rudofsky, in Furor Mathematicus,
Silva, Torino 1967, pp. 173-177.
364
B. Rudofsky, Ringraziamenti, in Architetture senza architetti, cit.
162
con la sua ricerca sull’architettura spontanea, a quella europea. Di
conseguenza Rudofsky sviluppa questo suo studio probabilmente in
parallelo rispetto all’istriano, seppure il prodotto del suo lavoro non vedrà
la luce prima della morte di quest’ultimo.
Le analogie e le affinità d’intenti, ponendo a confronto i due cataloghi,
quello dell’Architettura rurale italiana e dell’Architettura senza architetti,
risultano numerose. Innanzitutto, ancora una volta, alle fotografie è affidato
il compito di interpretare il discorso architettonico, seppure Rudofsky
invero impieghi in maniera differente l’immagine rispetto all’istriano,
tornando ad affidare alla fotografia un ‘semplice’ compito illustrativo.
Per quanto riguarda invece gli argomenti sviluppati dai due architetti, le
teorie supportate e proposte risultano per grandi linee affini.
«Architetture senza architetti tenta di intaccare una ristretta visione
dell’arte del costruire, presentando il mondo sconosciuto dell’architettura
‘non-blasonata»365: Rudofsky, come Pagano prima di lui, intendeva cioè
evidenziare la propensione degli storici dell’architettura a tenere in conto,
degli esempi del passato, solo i casi aulici. Continua l’architetto: «tale
interesse esclusivo per l’architettura nobile e la nobiltà architettonica
poteva essere comprensibile fino alla scorsa generazione, quando le
vestigia e le rovine dell’antichità erano per l’architetto l’unico modello di
perfezione, […] ma oggi che il recupero di forme storiche è in declino, che
le banche e le stazioni ferroviarie non devono più necessariamente
somigliare ad inni di pietra per ispirare fiducia, una simile autolimitazione
pare assurda». In effetti Rudofsky riprendeva nella sostanza le parole di
Pagano che già, nel lontano 1936, parlava del recupero della tradizione
dell’architettura rurale come fonte ‘immunizzante’ contro la ‘retorica
ampollosa’ perché «la conoscenza delle leggi di funzionalità e il rispetto
365
B. Rudofsky, Prefazione in Architetture senza architetti, cit.
163
artistico del nostro imponente e poco conosciuto patrimonio di architettura
rurale sana ed onesta, […] ci darà l’orgoglio di conoscere la vera tradizione
autoctona dell’architettura italiana: chiara, logica, lineare, moralmente e
anche formalmente vicinissima al gusto contemporaneo»366.
Il campo d’azione dell’indagine dei due studiosi si rivela ad ogni modo
differente, Rudofsky ricerca i suoi modelli in un contesto internazionale,
sondando ‘casi’ più o meno noti di agglomerati urbani in Cina, in Egitto, in
Italia, in Grecia, a Madrid, ecc., mentre Pagano conduce l’analisi
esclusivamente nelle province italiane, eppure il metodo e soprattutto le
conclusioni cui giungono si dimostrano essere le stesse; anche Rudofsky
infatti arriva ad affermare che: «la filosofia e le cognizioni dei costruttori
anonimi rappresentano la fonte più ampia ed inesplorata dell’ispirazione
architettonica per l’uomo industriale»367.
Interessante la nota di de Seta che, in relazione alla mostra del viennese
afferma che essa «nasceva da quell’antica passione di andare a far rilievi
delle case di Procida negli anni della sua giovinezza»368, rilievi che
Rudofsky andava facendo con Luigi Cosenza, durante i primi anni della
loro collaborazione professionale e che erano continuati nel periodo in cui
più costante era divenuto il rapporto di Pagano con Cosenza e quindi, forse,
con lo stesso Rudofsky. É lecito quindi supporre che il viennese non solo
conoscesse Pagano ma che ne avesse seguito gli studi sull’architettura
rurale.
Coerentemente con la posizione assunta in occasione della prima
pubblicazione sull’argomento, anche nella successiva, Le meraviglie
dell’architettura spontanea, pubblicato nel nostro paese nel 1979369,
366
G. Pagano, G. Daniel, Introduzione in Architettura rurale italiana, cit.
B. Rudofsky, Prefazione in Architetture senza architetti, cit.
368
C. de Seta, Architetti italiani del Novecento, Laterza, Roma-Bari, 1987, p. 71.
369
«Queste note per una storia naturale dell’architettura compendiano ragionamenti avviati in
Architecture without Architects un precedente libro sull’architettura sprovvista di quarti di nobiltà.
367
164
Rudofsky non farà alcun riferimento al ‘caso’ italiano di Pagano. É
comunque impensabile che egli non avesse visto il modello e letto le
considerazioni dell’istriano alla luce dell’affinità delle ricerche condotte, e
dato che il direttore di «Casabella», aveva più volte concesso uno spazio
alla presentazione delle opere di architettura realizzate in Italia dal viennese
in collaborazione con Luigi Cosenza370.
Proprio quest’ultimo, architetto e ingegnere napoletano, denuncerà più
apertamente del suo nordico collega, le influenze ricevute dalla ‘scuola’ di
Pagano.
Molti critici si sono interrogati sull’opportunità di riconoscere, nello ‘stile’
di Cosenza, l’influenza della cultura architettonica del razionalismo del
MIAR e del Gruppo 7, piuttosto che quella di altre correnti che
perseguivano un indirizzo piuttosto volto alla definizione di un ‘gusto’
antiaccademico come quello supportato da architetti e critici come Venturi,
Persico e Pagano371. Di certo Cosenza si porrà in netta contrapposizione al
‘piacentinismo’ dilagante negli anni della dittatura fascista, tanto che Argan
affermerà: «nessuno ha deriso Piacentini e gli architetti del regime come li
ha derisi Luigi Cosenza»372.
Anche rispetto all’accezione ‘mediterranea’ della produzione del
napoletano sono state molteplici e conflittuali le posizioni; Renato De
Fusco in proposito scrive: «la scoperta della mediterraneità, alla quale il
Nostro fu almeno morfologicamente sensibile, non fu operazione solitaria
Trattano dell’architettura quale espressione tangibile di un modo di vivere, e non quale arte del costruire.
Per di più, il materiale disponibile viene presentato dal punto di vista del naturalista, in quanto distinto da
quello dello storico. Le digressioni, le divulgazioni del testo mirano a spezzare le barriere che ci separano
dai costruttori di architetture a noi aliene e arcaiche, gente cui non occorreva affatto le si dicesse quanto le
conveniva. Le loro realizzazioni, schiette e talvolta imponenti, meritano attenzione; architetture
sorpassate, a mio modo di vedere, non esistono, quando operino per l’uomo anziché contro l’uomo». B.
Rudofsky, Introduzione a Le meraviglie dell’architettura spontanea …, cit.
370
Cfr. G. Pagano, Un architetto: Luigi Cosenza, in «Casabella», n. 100, aprile 1936; ora in C. de Seta (a
cura di), Pagano. Architettura e città …, cit.
371
Cfr. R. De Fusco, Mediterraneità minimalista, cit.
372
G.C. Argan, L’architettura ragionata di Luigi Cosenza, in F.D. Moccia (a cura di), Luigi Cosenza…,
cit., p. 13-14.
165
ma condotta in collaborazione con il giovane architetto viennese Bernard
Rudofsky. La cui presenza non solo affranca tale ricerca dagli intenti
nazionalistici, ma attesta un interesse personale da sempre coltivato da
Rudofsky per l’architettura spontanea»373, in questo modo De Fusco allinea
la ricerca di Cosenza più a quella di spessore, delineata dal gruppo dei
polemisti di «Casabella» piuttosto che a quella decisamente formalista in
linea con il dibattito sostenuto su «Quadrante».
Analoga posizione è quella dichiarata da de Seta che però sottolinea
comunque l’adesione dell’architetto napoletano ad un ‘clima di ricerca’ che
trovava nel mito mediterraneo che «era sole, luce, mare: chiarezza di
profili, semplicità di volumi, aderenza al sito…»374, il proprio campo
d’indagine ed azione, seppure quella di Cosenza si fosse dimostrata una
«scoperta domestica del Mediterraneo»375, condotta entro i confini del
golfo partenopeo. Invero de Seta sottolinea chiaramente l’influenza di
Pagano sul lavoro di Cosenza denunciando, in relazione al linguaggio
«scarno, secco ed essenziale» del partenopeo, un contributo evidente da
parte dell’istriano, con il quale il rapporto, «che risale agli anni 1935-36, è
certamente importante: l’architetto istriano era divenuto un vero e proprio
studioso dell’architettura ‘spontanea’, facendosi fotografo della più ricca
inchiesta che si sia mai condotta in Italia sulla casa contadina padana,
alpina e mediterranea»376.
Chiarificatrice in questo senso anche la posizione di Francesco Domenico
Moccia che afferma: «egli (Cosenza) non sembra parteggiare affatto per
l’architettura moderna, quanto per i caratteri stabili dell’architettura. Per
373
R. De Fusco, Mediterraneità minimalista, cit., p. 22.
C. de Seta, Architetti italiani …, cit., p. 67.
375
Ivi.
376
Ivi, p. 68. L’ulteriore testimonianza di Cesare de Seta circa la vicinanza concreta tra Cosenza e Pagano
ci rende ancora più difficile pensare che il napoletano non avesse mai parlato al collaboratore viennese
Bernard Rudofsky, delle ricerche tutte italiane condotte dall’istriano sull’architettura rurale.
374
166
questo motivo il suo interesse si appunta sulla stabilità delle forme
spontanee e l’analisi si addentra a rintracciarne le cause»377.
In realtà si possono individuare le attinenze della ricerca di Cosenza con
quella di Pagano semplicemente leggendo i 17 punti sull’architettura
rurale378, scritti di suo pugno dall’architetto napoletano, nei quali risulta
palese l’influenza del maestro istriano.
Non si può del tutto escludere, nella formazione di Luigi Cosenza, un
apporto concreto della scuola di Pagano e della sua rivista, anche in
relazione all’uso che il maestro napoletano farà del mezzo fotografico, nel
suo processo progettuale. L’architetto-ingegnere infatti, utilizzerà il
supporto fotografico sia nella fase precedente che successiva alla
produzione architettonica; non è escluso che questa sua propensione per
tale supporto tecnico tragga le origini proprio dall’assidua frequentazione
con il maestro istriano e la sua rivista.
Lo studio di Luigi Cosenza, in Via Mergellina a Napoli, conserva ancora
oggi, grazie all’amorevole cura dei figli dell’architetto, gran parte del suo
originale materiale di lavoro. In questo crogiuolo prezioso di fonti storiche,
numerosi spuntano i negativi – realizzati da fotografi professionisti –
utilizzati dal maestro per studiare il progetto attraverso gli scatti dei plastici
ripresi nelle varie visuali, onde comprendere l’impatto volumetrico
dell’architettura
in
fase
di
realizzazione,
oppure
negativi
di
documentazione, realizzati subito dopo la messa in opera del lavoro ai fini
illustrativi379. Un processo progettuale che ricorda incredibilmente quello
377
F.D. Moccia, Luigi Cosenza: scritti e progetti, in F.D. Moccia (a cura di), Luigi Cosenza…, cit., p. 55.
L. Cosenza, 17 punti sull’architettura rurale, ora in F.D. Moccia (a cura di), Luigi Cosenza…, cit., p.
153-154.
379
. Cfr. A. Buccaro, G. Mainini (a cura di), Luigi Cosenza oggi 1905-2005, Clean, Napoli 2006.
378
167
sviluppato dagli studenti del Bauhaus e importato in Italia anche grazie a
Pagano e alle pagine di «Casabella»380.
Tra i più recettivi allievi dell’istriano, oltre a Luigi Cosenza, ci sarà Franco
Albini, che aderisce a tutto quanto andava dicendo negli anni il suo
maestro. Cesare de Seta, lo definirà «il più paganiano degli architetti vicini
al direttore di «Casabella»»381, riferendosi soprattutto alla completa
adesione «morale» del giovane Albini alla discussione aperta da Pagano
sulla casa per tutti, la ‘casa popolarissima’.
Utilizziamo il ‘caso’ di Albini per collegarci al dibattito sul problema delle
case a basso costo, uno dei temi più vivaci trattati dall’istriano in cui, il suo
piglio didattico si farà veemente ed accorato.
L’insegnamento dell’istriano riguardo al modello costruttivo economico,
sottolinea de Seta, è in primo luogo volto alla definizione di «un codice
povero e scarnito di ogni elemento che non fosse assolutamente
essenziale»382, ed è questo il modello assorbito dal giovane pupillo, che
metterà in pratica l’indottrinamento in quello che lo stesso maestro istriano
definirà un’oasi di ordine383, ovvero il quartiere Fabio Filzi, realizzato da
Franco Albini con Giancarlo Palanti e Renato Camus tra il 1936 ed il
1938384.
Del quartiere vengono lodate le soluzioni architettoniche che erano riuscite
ad accordare «i motivi superiori dell’estetica con le ragioni dell’igiene,
380
Cfr. J. Fiedler, P. Feierabend, Bauhaus, Könemann ed., Köln 1999; M. Droste, Bauhaus 1919-1933,
Taschen, Berlino 1990, ried. 2006.
381
C. de Seta, Franco Albini architetto, fra razionalismo e tecnologia. L’impegno sulla casa popolare, in
Architetti italiani…, cit., pp. 137-198.
382
Ivi.
383
«Il valore architettonico di questo quartiere e la lezione di urbanistica che esso impartisce ai ‘ricami’
tradizionali e accademici sono così grandi da augurarci di veder imitato questo esempio di lottizzazione e
di veder esteso in più larga misura questo buon senso edilizio». G. Pagano, Un’oasi di ordine,
«Casabella-Costruzioni», n. 144, dicembre 1939; ora in C. de Seta (a cura di), Pagano. Architettura e
città…, cit., pp. 257-258.
384
Al 1934 risalgono i primi progetti di Albini di S. Siro a Milano e di Bologna, ma la realizzazione più
interessante è il quartiere Fabio Filzi, realizzato in collaborazione con Camus e Palanti. Cfr. C. de Seta,
Architetti italiani…, cit.
168
della economia, della funzionalità»385, realizzando «case aperte su tutti i
lati, […] fatte per la salute degli abitanti, […] ben allineate e razionalmente
disposte»386. Ma quello che risulta probabilmente il carattere vincente agli
occhi di Pagano del quartiere milanese, è l’illuminata supervisione dei
lavori da parte dell’Istituto Autonomo delle Case Popolari di Milano, che,
grazie alla «larghezza di idee dei dirigenti»387 aveva conferito agli architetti
prescelti il giusto ruolo, senza trattarli come «disegnatori di facciate», ma
garantendo collaborazione e consulenza. Ancora una volta l’istriano – dopo
aver discusso con trasporto anche maggiore questa stessa posizione
nell’articolo sulla Pienza realizzata da Bernardo Rossellino grazie
all’illuminante mecenatismo di Papa Pio II388 – sottolinea l’importanza
della committenza nella realizzazione dei migliori prodotti architettonici.
Anche in relazione al dibattito sulla ‘casa popolarissima’ corrono in nostro
soccorso le fotografie dell’archivio Pagano: in esse è sottolineato e
discusso diffusamente il problema, che assume per l’istriano un valore
sociale assoluto e in quanto tale etico.
Per Pagano la questione è strettamente connessa a quella delle costruzioni
in serie e della standardizzazione degli elementi costruttivi nonché dell’uso
dei nuovi materiali in virtù delle più aggiornate tecnologie. Non era
possibile infatti secondo l’architetto, trovare una soluzione alla produzione
di alloggi ‘per tutti’ senza entrare in un’ottica moderna che prevedeva
l’utilizzo dei materiali più innovativi e dei processi edilizi più
all’avanguardia. Tali presupposti avrebbero garantito secondo l’istriano,
una maggior economia nel computo delle spese, in linea quindi con quanto
385
G. Pagano, Un’oasi di ordine, cit.
Ivi.
387
Ivi.
388
G. Pagano, Un esperimento riuscito, in «Casabella-Costruzioni», n. 133, gennaio 1939; ora in C. de
Seta (a cura di), Pagano. Architettura e città …, cit., pp. 128-134.
386
169
contemporaneamente si andava proponendo e sperimentando in ambito
internazionale389.
Tutti questi argomenti di discussione si trasformano in soggetti fotografici
per l’istriano che nei suoi scatti evidenzia, sottolinea, denuncia, erudisce.
Pagano è consapevole del fatto che «centomila galantuomini contorcono
disgustati le labbra quando si parla di introdurre il principio industriale
della produzione in serie nel campo dell’edilizia»390 per questo
contemporaneamente punta il suo obiettivo su un universo composto da
oggetti iterati in modo da definire composizioni seriali, pur di dimostrare
che «la riproduzione in serie non esclude la fantasia dell’arte ma, anzi, la
moltiplica nella importanza e nelle conseguenze»391.
Ma la lezione più significativa che Pagano impartirà ai giovani predisposti
ad accogliere i suoi insegnamenti, sarà il messaggio di un’architettura
umile, semplice, antiretorica e lontana dalle presuntuose mode del
Monumentale che si andavano diffondendo negli anni del Regime Fascista.
Si può affermare che tutto il suo archivio fotografico e di certo il suo lavoro
come critico sulle riviste, sia volto principalmente a combattere in maniera
talvolta ironica e dissacrante, altre severa e preoccupata, il messaggio di chi
riteneva che l’architettura monumentalista potesse assurgere al valore di
‘arte di Stato’. Bersaglio della critica e della polemica più vivace e
dissacrante condotta da Pagano tra le due guerre, sarà infatti quel gruppo di
389
Cfr. C. de Seta, L’architettura del Novecento, UTET, Torino 1981; K. Frampton, Storia
dell’architettura moderna, Zanichelli, Bologna, terza edizione italiana 1993; R. De Fusco, Storia
dell’architettura contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1996.
390
G. Pagano, Le costruzioni in serie, «Casabella-Costruzioni», n. 144, dicembre 1939. Il dibattito sulla
produzione in serie ritorna anche in altri suoi articoli tra cui: L’estetica delle costruzioni in acciaio,
«Casabella», agosto-settembre 1933; Estetica delle strutture sottili, «Costruzioni-Casabella», n. 129,
settembre 1938; Contro i costruttori di ferro, «Costruzioni-Casabella», nn. 138-139-140, giugno-luglioagosto 1939; Modelli d’arte per la produzione in serie, «Casabella-Costruzioni», n. 155, novembre 1940.
391
G. Pagano, Le costruzioni in serie, cit.
170
architetti «culturaloide, prudenziale e pompiere»392 con a capo Piacentini e
Ojetti.
Scrive Pagano: «nelle mani di questo artificiale Vitruvio (parla di
Piacentini) la critica architettonica si risolve in una così sfacciata
esaltazione dei più grossolani formalismi da far credere veramente alla
morte delle buoni tradizioni italiane»393, ed è della perdita delle buone
tradizioni italiane che Pagano principalmente si preoccupa, per questo
ostinatamente fotografa, da un lato le opere del passato che potessero
servire da modello corretto per i giovani architetti, dall’altro poche opere
contemporanee, caso eclatante l’Esposizione dell’E42, per denunciare tali
«aberrazioni monumentali»394.
La polemica sull’architettura monumentale, inizia prestissimo. Già nei
primi articoli pubblicati su «Casabella», si evince infatti l’attenzione rivolta
da Pagano a questo dibattito. Ancora dichiaratamente fascista infatti,
Pagano difendendo la sua idea di razionalismo, volgeva aspra la sua critica
contro coloro che intendevano identificare l’architettura di Mussolini con
quella ‘degli archi e delle colonne’.
Risale al 1931, l’articolo di Pagano più intenso, teso a spodestare la pretesa
supremazia dell’architettura piacentiniana. Nel saggio: Del «monumentale»
nell’architettura moderna395, l’istriano enuncia tutti quei punti per i quali si
doveva individuare nell’architettura razionalista di respiro europeo l’unico
modello opportuna nel quale identificare l’ ‘Arte di Stato’.
Pagano sottolinea che, il vero spirito monumentale in un’opera non poteva
esser reso manifesto attraverso un lavoro formale che affidava ad un
392
Id., Potremo salvarci dalle false tradizioni e dalle ossessioni monumentali?, in «CostruzioniCasabella», n. 157, gennaio 1941; ora in C. de Seta (a cura di), Pagano. Architettura e città…, cit., pp.
68-82.
393
Ivi.
394
Ivi.
395
G. Pagano, Del «monumentale» nell’architettura moderna, in «La Casa Bella», n. 40, aprile 1931; ora
in C. de Seta (a cura di), Pagano. Architettura e città…, cit., pp. 95-102.
171
«vestito di cerimonia» questo carattere. Per l’architetto, la monumentalità
di un’opera, si realizzava mediante il giusto sistema di rapporti tra le masse
e un sottile lavoro di dimensionamento delle parti dell’oggetto
architettonico.
Il percorso dimostrativo compiuto da Pagano in questo articolo è lucido ed
efficace, tanto è forte la sua convinzione che quella e soltanto quella
potesse essere la ‘giusta via’ dell’architettura.
Attraverso gli editoriali supportati da immagini fotografiche mirate e
‘significanti’, Pagano sferrerà negli anni i suoi colpi più duri, sollevando
polemiche, attirando l’attenzione sui temi che più gli stavano a cuore e
impartendo più o meno direttamente brillantissime lezioni, assorbite da
quegli allievi più recettivi e ovviamente più in linea con la sua sensibilità e
le sue ideologie, lezioni di modestia e sincerità costruttiva, insegnamenti
tutt’ora incredibilmente attuali.
Alla luce di queste considerazioni ciò che emerge con maggior chiarezza è
la grande generosità di Pagano che, supportando anche gli architetti in erba
e i colleghi che riteneva più brillanti e promettenti, sollecitava la cultura
architettonica contemporanea a spingersi oltre gli orizzonti gretti di una
certa sottocultura architettonica provinciale e dilagante. «Ecco i B.B.P.R.,
Albini, Gardella, e tanti altri, puntualmente segnalati all’attenzione delle
future generazioni»396, in questi giovani professionisti Pagano riponeva la
sua più ceca fiducia.
In un toccante memoriale, Rogers racconta della indiscutibile propensione
dell’istriano nei confronti dell’universo incorrotto dei giovani, soprattutto
396
E. Gentili Tedeschi, La scuola di Pagano, in Aa. Vv., Giuseppe Pagano tra guerre e polemiche, Atti
del seminario tenuto a Milano nel 1990. Momenti di Architettura Moderna. Quaderni, Alinea, Firenze
1991, p. 71.
172
in virtù del suo idealismo e della sua vitalità397, con lui, Anna Maria
Mazzucchelli, descrive questo aspetto del carattere dell’architetto,
sottolineando espressamente la sua «inclinazione per l’architettura legata a
una funzione didattica, cioè articolata secondo l’esigenza di un
insegnamento e di un organico lavoro di ricerca e di analisi»398. E ancora
Manfredini: «Sento, e come me credo lo sentano anche altri che hanno
vissuto vicino a Pagano, che la nostra opera ha cercato inconsapevolmente
di continuare quella storia interrotta. In altre parole, noi architetti cresciuti a
contatto di Pagano, della sua fervida fantasia, nonché della sua cultura
completa e della sua profonda umanità, non saremmo quelli che siamo se
prima di noi non ci fosse stato lui. Penso anche, che se Pagano fosse
vissuto ancora, l’architettura italiana sarebbe forse diversa»399.
Con questo gruppo di colleghi e amici di Pagano si allineerà tutta una
schiera di giovani architetti cresciuti a contatto dell’istriano o che
comunque avevano vissuto direttamente gli effetti della sua ‘scuola’.
b. Il testamento spirituale di un missionario dell’architettura
Bruno Zevi riconosce nell’architetto istriano un vero ‘elemento di
continuità’ tra la fase precedente e successiva alla seconda guerra
397
«Il suo idealismo, la sua vitalità, facevano sì ch’egli si trovasse assai meglio, che con i coetanei, con i
giovani; mentre l’ambizione lo spronava a farsene paladino». E. N. Rogers, Catarsi, in F. Albini, G.
Palanti, A. Castelli, [a cura di], Giuseppe Pagano Pogatschnig: architetture e scritti, Milano, 19
47, p. 40.
398
M. Mazzucchelli, Pagano architetto, in Ivi, p. 32.
399
Ivi.
173
mondiale, individuando in questo senso in Giuseppe Pagano uno dei pochi
veri protagonisti della cultura architettonica moderna400.
A lui, come abbiamo visto, si deve l’apertura di molti di quei dibattiti
architettonici che, preso il via durante gli anni del Fascismo, troveranno
una nuova epifania nel periodo successivo ai due grandi conflitti.
Questo soprattutto perché Pagano lascerà un filo sospeso al quale potranno
facilmente collegarsi le ricerche e gli studi della cultura architettonica postbellica che riconoscerà all’architetto istriano il grande merito di aver scritto
le pagine indubbiamente più fertili del dibattito culturale degli anni Trenta.
Questo fil rouge viene tracciato dall’istriano ancora in vita attraverso
l’attività critica condotta in tutti gli anni della sua carriera professionale e
infine, per mezzo di due dei suoi ultimi appelli ai giovani architetti e alla
cultura intellettuale contemporanea usciti sulle colonne di «Casabella» nel
1943, due anni prima della sua tragica morte.
Si tratta di due saggi di natura eminentemente tecnica, nei quali Pagano
tenterà di suggerire un indirizzo per la formazione dei giovani architetti,
nonché una via progettuale ed un programma di ‘politica edilizia’ mirata
invece ad una classe già formata di professionisti.
I due articoli vengono realizzati in successione e pubblicati nei numeri di
«Casabella» dei mesi di aprile-maggio e giugno del 1943: è evidente uno
spirito e un intento comune nonché un collegamento tra i due progetti.
Nell’articolo intitolato Programma per una scuola di architettura401,
Pagano propone una struttura accademica ideale, indubbiamente ispirata ad
un modello corporativo di marca fascista. Sappiamo che nel ‘43, la
posizione politica dell’architetto viveva la sua crisi più profonda, ma di
400
Cfr. E. Carreri, Saper vedere l’architettura italiana. Intervista a Bruno Zevi, in «ArQ 14-15»,
Architettura italiana 1940 – 1959, [numero doppio della rivista del giugno-dicembre 1996, pubblicato in
formato speciale], Electa Napoli 1998, p. 49.
401
G. Pagano, Programma per una scuola di architettura, «Costruzioni-Casabella», n. 184-185, aprilemaggio 1943.
174
certo la sua apertura nei confronti della dittatura era ormai definitivamente
giunta al suo drastico epilogo. Il modello corporativo permane comunque
nella formazione dell’istriano che in fondo conserva dell’antica fede, quei
caratteri e quelle idee più compatibili con la sua nuova coscienza402.
Invero la struttura educativa di livello universitario proposta da Pagano
risulta ancora oggi illuminante sotto diversi punti di vista. Il maestro
auspicava innanzitutto che il gruppo degli operatori didattici fosse
rappresentato da professionisti preparati e nello stesso tempo «gente
veramente entusiasta ed economicamente soddisfatta». Prevedeva che non
ci fosse spazio per «cattedratiche rigidezze» o «ridicole gerarchie formali»
ma presupponeva piuttosto una vera collaborazione fra insegnanti, mirante
all’unico scopo di formare al meglio le classi dei futuri professionisti.
Una scuola straordinariamente democratica in sostanza, moderna e
all’avanguardia nel vero senso della parola, in quanto, auspicando un
lavoro formativo concreto da svolgersi anche in opportuni laboratori
sperimentali, riprendeva esplicitamente il modello europeo che riconosceva
nell’esempio del Bauhaus un riferimento prezioso403.
Il modello tedesco è denunciato dallo stesso istriano che infatti,
sottolineando l’eventualità che per ogni materia ci fosse l’opportunità di
scelta tra due insegnanti con metodi e tecniche differenti, riportava come
esempio proprio «certe grandi università tedesche»404.
A Pagano si deve indubbiamente riconoscere il merito della lungimiranza
nell’aver compreso, così in anticipo sui tempi, la necessità di
svecchiamento della classe docente e di conseguenza la possibilità di dar
vita ad un istituto formativo che fosse in grado di preparare i giovani
402
Un anno prima, nel 1942, Pagano era uscito definitivamente dal Partito Fascista.
Cfr. E. Gentili Tedeschi, La scuola di Pagano, in Aa. Vv., Giuseppe Pagano tra guerre e polemiche,
cit., pp. 65-72.
404
G. Pagano, Programma per una scuola… , cit.
403
175
professionisti nel modo più opportuno e liberale, affrancandoli da una
formazione sottoposta a regole rigide e sterili.
L’altro articolo che rappresenta l’estremo commiato della polemica e
dell’insegnamento di Pagano a favore di una ‘nuova’ architettura, è quello
che Mario Labò definisce «il testamento di un apostolo, di un missionario
dell’architettura». Il pezzo, scritto in un momento di altissima tensione
interiore e personale di Pagano, rappresenta «l’ultimo atto di fede, ed è
sempre eguale la fede che (l’architetto) portò con sé fino al martirio»405.
Parliamo dei Presupposti per un programma di politica edilizia406, scritto
dall’istriano negli anni trascorsi a Carrara, i più delicati, dato che proprio in
questa città avrebbe preso i primi contatti con i gruppi clandestini della
Resistenza.
Lo scritto di Pagano, efficace, sintetico e chiaro, corredato di numerose
note esplicative, definisce i punti principali da tenere in conto alla luce
della definizione di un programma sistematico di ricostruzione post bellica.
Attraverso queste pagine, l’architetto scrive un saggio di pura teoria
architettonica: una sorta di manuale per i giovani architetti, speranze per un
futuro che allora, durante gli anni della guerra, si presentava più che incerto
e che ancora oggi può esser letto come punto di riferimento e partenza per
una cultura architettonica moderna.
Con lucida onestà e concretezza, l’istriano pone l’attenzione su una
questione fondamentale, cioè il tipo di approccio da assumere nei confronti
della ricostruzione di un Paese dopo il disastro della guerra. Pagano aveva
già affrontato qualche mese prima, seppure in altri termini, questo
405
Ora in E. Manfredini, Pagano dei giovani, cit., p. 62.
G. Pagano, Presupposti per un programma di politica edilizia, in «Costruzioni-Casabella», n. 186,
giugno 1943. Ora in C. de Seta (a cura di), Pagano. Architettura e città …, cit.
406
176
problema scottante nell’articolo: La ricostruzione dell’Europa: capitale
problema di attualità nel campo edilizio407.
In quella occasione aveva rivolto il suo sguardo preoccupato a quei paesi
che la guerra stava lentamente distruggendo. Le fotografie, denunciano gli
scempi per la prima volta in maniera esplicita; le immagini a corredo
dell’articolo sono proprio quella scattate da Pagano, durante il periodo
trascorso in Grecia a capo del 17° reggimento di Fanteria con il grado di
Maggiore408.
Partendo da questa analisi in ambito Europeo, sviluppata nell’articolo del
marzo 1943, Pagano si sposta sul dibattito italiano nel successivo pezzo
uscito nel mese di giugno, nel quale sollecita il lettore a riflettere su una
falsa convinzione diffusa, secondo la quale, a guerra finita, sarebbe stato
facile ricostruire l’Italia. Pagano è consapevole della sprovvedutezza di tale
illusione409. Da questo assunto parte il suo ‘testamento’, nel quale vengono
toccati i temi più importanti e più spinosi, recuperando in fondo questioni
portate avanti in tutti gli anni della sua attività di critico dell’architettura.
Il Programma, può essere considerato una sorta di summa di tutta la sua
polemica architettonica.
Ponendo ancora una volta la questione come contraddittorio volto a
scardinare gli assunti proposti da Piacentini nell’ambito di un articolo
apparso su il «Popolo d’Italia» del 18 marzo 1943, Pagano sottolinea quali
dovevano essere i punti ed i caratteri più corretti per un programma di
politica edilizia accorto, moderno, intelligente.
407
G. Pagano, La ricostruzione dell’Europa: capitale problema di attualità nel campo edilizio, in
«Costruzioni-Casabella», n. 183, marzo 1943.
408
Cfr. Capitolo II di questo volume.
409
«Molti credono, o fingono di credere che, finita la guerra, il mondo si rimetterà rapidamente in
carreggiata. […] Ben pochi pensano alla enorme distruzione di ricchezza causata da questa guerra, allo
spostamento di molti orientamenti sociali, alla difficoltà di una collaborazione internazionale dopo tanta
propaganda di odio e di disprezzo». G. Pagano, Presupposti per un programma di politica edilizia, cit.
177
Scrive Pagano: «Le questioni vanno poste in questo ordine: primo, il
cosiddetto ‘esame dei materiali e dei metodi edilizi’; il secondo, il
‘problema della casa per tutti’; terzo quello del ‘restauro (dico ‘restauro’)
dei monumenti e dei danni di guerra’»410; l’architetto utilizza gli stessi
termini usati da Piacentini nel suo articolo – che riporta tra virgolette – ma
ne cambia l’ordine di priorità e soprattutto sottolinea quello che considera
l’errore più macroscopico dell’architetto dello stile littorio411, ovvero che
l’intervento sugli edifici distrutti dalla guerra doveva essere sviluppato nei
termini di un «restauro» e non di una «ricostruzione» laddove la differenza
tra i due tipi di intervento si dimostrava sostanziale412.
Nell’«esame dei materiali e dei metodi edilizi», Pagano propone un preciso
indirizzo da seguire, «una guida sicura», che riprenda sostanzialmente
modelli europei, pur osservando e non dimenticando «le caratteristiche e le
risorse regionali, le condizioni ambientali, le razionali necessità dei nostri
bisogni psicologici, le giustificate e giustificabili tradizioni tecniche senza
però rinunciare a quell’idea di progresso». Pagano si dimostra negli anni
assolutamente coerente con quell’idea di rispetto delle tradizioni nostrane
in linea con un aggiornamento costante del lavoro in relazione al mutare
dei tempi e dei momenti storici, che già aveva avanzato nelle sue prime
polemiche – nelle fotografie realizzate d’altronde è sempre presente il
sentimento di rispetto profondo, quasi una venerazione, nei confronti delle
tecniche e delle antiche maestranze, delle tecniche arcaiche e straordinarie
nella loro immutata perfezione. Pagano recupera così i termini di una
discussione iniziata molti anni prima in occasione della VI Triennale e
410
Ivi.
Piacentini viene univocamente riconosciuto il padre del cosiddetto ‘stile littorio’; scrive il Frampton:
«a Piacentini fu lasciato il compito di proporre il suo ‘stile littorio’, estremamente eclettico, come ‘stile’
ufficiale del Partito». K. Frampton, Storia dell’architettura moderna, cit.
412
Cfr. M. Piacentini, Problemi edilizi del dopoguerra, «Popolo d’Italia», 18 marzo 1943.
411
178
l’inaugurazione della sua Mostra sull’architettura rurale, che, a distanza di
anni si dimostra comunque attuale.
Il «problema della casa per tutti», come abbiamo visto è un altro elemento
cardine del dibattito paganiano e, in occasione di questo articolo raggiunge
forse il suo momento cruciale.
Pagano sottolinea per l’ennesima volta «l’urgenza di risolvere il problema
della penuria delle abitazioni»413, questione non solo sottovalutata ma
malamente gestita dai quegli ‘accademici’ che avevano creduto di risolvere
la cosa con l’architettura «dei monumenti conditi di ambigua romanità e
degli sventramenti plutocratici»414.
L’argomento diviene in questa circostanza un’occasione per Pagano di
togliersi diverse ‘pietre dalla scarpa’ e denunciare le accuse subite, tra le
quali non ultime quelle di ‘comunismo’, da parte di coloro che male
interpretavano «l’umano interessamento per la ‘casa per tutti’»415 che lui da
sempre, con alcuni colleghi, aveva manifestato.
Rispetto al dibattito sulla casa Pagano afferma: «Non nego che qualcosa si
sia fatto, ma più sulla carta
e con sporadiche realizzazioni quasi
individuali, che per merito di un indirizzo coerente»416. Ed è un modo per
indicare una via, per sottolineare il fatto che, ‘un indirizzo coerente’ andava
stabilito.
Il modello che Pagano proponeva era quello della Germania, della
Finlandia, dell’America, che da tempo ormai avevano individuato la
soluzione nella costruzione standardizzata e per componenti seriali delle
abitazioni.
La lettura completa di questo scritto lascia intuire una nuova luce nelle idee
dell’architetto
istriano,
già
straordinariamente
proiettato
verso
413
G. Pagano, Presupposti per un programma di politica edilizia, cit.
Ivi.
415
Ivi.
416
Ivi.
414
179
quell’indirizzo che, nel secondo dopoguerra, avrebbe sottoscritto le
‘campagne’ politiche dell’Italia post-fascista.
L’ultimo punto toccato da Pagano, relativo al problema dell’intervento sul
patrimonio architettonico danneggiato dalla guerra, risulta il più delicato e
quindi trattato dall’architetto con estrema attenzione rivolta agli aspetti
economici uniti a quelli di natura puramente estetica, intendendo i beni
pubblici nel loro valore etico e morale.
L’attacco è violentemente sferrato contro quegli architetti che come «il
lupo di Cappuccetto Rosso»417, in una circostanza tanto tragica, miravano
esclusivamente
all’accaparramento
di
succulenti
appalti
pubblici,
mascherando dietro ipocriti slanci mistificanti amor di patria, un intento
piuttosto speculativo, lontano da qualsivoglia forma di etica o morale.
Riguardo ad aspetti di natura puramente estetica, Pagano recupera il
concetto ruskiniano di restauro418, secondo il quale si doveva assumere nei
confronti dell’oggetto architettonico danneggiato, un atteggiamento
conservativo ma poco invasivo in termini di restauro419. Bisognava
essenzialmente appurare fino a che punto fosse il caso di intervenire nel
momento in cui il valore artistico dell’opera fosse inevitabilmente
compromesso. Secondo Pagano infatti «per ragioni d’arte» era giusto
preferir lasciare mutilato un rudere, purché «saturo ancora di genuini
suggerimenti quando una cauta mano pietosa lo abbia curato nelle sue
piaghe più gravi riducendolo a simbolo puro di ‘memoria’, a segno assoluto
417
Ivi.
Pagano si dimostrerà in diverse occasioni, un grande estimatore delle teorie e degli studi del critico
anglosassone John Ruskin. Nel suo lavoro sull’Architettura rurale in Italia, l’istriano prenderà spesso
come termine di paragone e spunto di ricerca la lezione del maestro inglese. Cfr. Capitolo I di questo
volume.
419
Cfr. J. Ruskin, The seven lamps of architecture, il volume è stato più volte ripubblicato dopo la prima
edizione, una delle prime stampe londinesi quella dell’editore Smith Elder and C., risale al 1855.
L’edizione italiana è pubblicata a cura e con la presentazione di R. De Stefano, dalla Jaca Book, Milano
1982.
418
180
di ‘documento’ libero da ogni funzione rettorica e trasformato in ‘pura
bellezza’ al di là dell’utile e dell’interesse pratico dei contemporanei»420.
Ciò che colpisce in definitiva di questi due articoli dell’istriano è la
capacità lucida, in fondo alla fine seppur inconsapevole di una carriera, di
mettere in discussione tutti gli aspetti della progettazione e della
costruzione che, in tutti gli anni della sua attività critica e polemica aveva
in vario modo e maniera trattato.
É come se l’architetto, avesse tirato le somme di una vita di lavoro passata
a combattere contro tutti ma soprattutto contro se stesso.
Giuseppe Pagano infatti, a dispetto di qualsiasi critica più o meno
approfondita che si possa fare, viene fuori come una figura complessa e
contraddittoria, ma coraggiosamente capace di mettersi in discussione in
prima persona e continuamente in gioco e sotto esame. Le sue, si
dimostreranno negli anni, lotte e polemiche soprattutto interiori e di una
profondità forse incomprensibile. Non si stancherà mai, anche nei momenti
più difficili della sua vicenda umana prima ancora che professionale, di
cercare le ragione più nobili per i suoi ideali, ponendo in maniera
intelligente costantemente in crisi le sue stesse convinzioni e,
destabilizzandosi, cercando continuamente una verità e una sincerità
costruttiva che rendessero onore al suo spirito e alla sua coscienza.
Di tutti gli insegnamenti più o meno consapevolmente impartiti, forse il
Programma di politica edilizia appare il più organico e completo e per certi
versi anche il più chiaro e approfondito. Certamente il ‘testamento’
spirituale più prezioso di questo intellettuale che seppe, educando una
generazione, lasciare le basi per una disciplina architettonica nuova: una
coscienza professionale moderna, che forse anche le attuali generazioni di
420
G. Pagano, Presupposti per un programma di politica edilizia, cit.
181
professionisti troppo spesso e con leggerezza sconfessano, e senza neanche
troppi ripensamenti.
Pagano seppe far onore invece a tale coscienza e disciplina, ancor di più a
questa fede, fino al punto di «pagar di persona».
182
Fonti Bibliografiche
Saggi di Architettura e Arte
B. Croce, Estetica, Laterza, Bari 1902, nell’edizione del 1909.
G. De Chirico, Noi Metafisici, 1919.
D. Alfieri, L. Freddi (a cura di), Mostra della rivoluzione fascista. Guida
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Aa. Vv., Giuseppe Pagano tra guerre e polemiche, Atti del seminario
tenuto a Milano nel 1990. Momenti di Architettura Moderna. Quaderni,
Alinea, Firenze 1991.
A. Bassi, L. Castagno, I designer. Giuseppe Pagano, Bari-Laterza, 1994.
F. Brunetti, Giuseppe Pagano e l’Università Bocconi di Milano, Alinea,
Firenze 1997.
M. Gramigni (a cura di), Giuseppe Pagano. Poesie, Orti d’Arte, Milano
2002.
C. Sangiorgi, Appunti sul costruire. Attualità di Giuseppe Pagano,
LibreriaClup, Milano, 2005.
Scritti di Giuseppe Pagano
I fanti e Giovanni Randaccio, La vedetta d’Italia, Fiume 1919.
Rilievi, in A. Telluccini, Il Palazzo Madama di Torino, Lattes, Torino
1928.
Repertorio 1934 dei materiali per l’edilizia e l’arredamento, Ed. Domus,
Milano 1934.
Struttura e architettura, in Dopo Sant’Elia, Ed. Domus, Milano 1935, pp.
37-119.
Architettura rurale italiana, Quaderni della Triennale (con G. Daniel),
Hoepli, Milano 1936.
Tecnica dell’abitazione, Quaderni della Triennale, Hoepli, Milano 1936
Edoardo Persico, volume pubblicato in occasione dell’anniversario della
morte, Milano 1937; in «Casabella», n. 109, gennaio 1937.
Prefazione a A. Pica, Nuova architettura nel mondo, Quaderni della
Triennale, Hoepli, Milano 1938, pp. VII.
198
Prefazione a P. Bottoni, Urbanistica, Quaderni della Triennale, Hoepli,
Milano 1938.
Arte decorativa italiana, Quaderni della Triennale, Hoepli, Milano 1938.
Immagini: Sassi, Panorama, Milano, 1939.
Immagini: Una porta, Panorama, Milano 1939.
Prefazione a I. Diotallevi, F. Marescotti, Ordine e destino della casa
qualunque, ed. Domus, Milano 1941.
Miserie e grandezza dell’architettura moderna a Milano, in La Luna nel
corso, ed. Corrente, Milano 1941.
G. Pagano, N. Bertocchi, M. Labò (a cura di), Salvatore Fancello, Domus,
Milano 1942.
Sconfitte e vittorie dell’architettura moderna, conferenza tenuta al Centro
per le arti di Milano, dicembre 1940, in F. Albini, G. Palanti, A. Castelli (a
cura di), Giuseppe Pagano Pogatschnig : architetture e scritti, Milano,
1947, pp. 18-22.
Lettera a Raggianti del 20 luglio 1942, in «Il pungolo dell’arte», Venezia
1956, pp. 368-374.
Lettera a Edoardo Persico (Torino, 19 agosto, 1930), in G. Veronesi (a
cura di), Edoardo Persico. Tutte le opere, Comunità, Milano 1964, p. 331.
Articoli di Giuseppe Pagano [dei numerosi scritti dell’architetto usciti dal
1926 in poi, sono stati riportati esclusivamente quelli utilizzati nel testo]
Architettura moderna di venti secoli fa, in «La Casa Bella», n. 47,
novembre 1931.
Programma, 1933, «Casabella», n. 60, dicembre 1932.
La nuova stazione di Firenze, «Casabella», n. 63, marzo 1933.
L’estetica delle costruzioni in acciaio, «Casabella», agosto-settembre 1933.
199
L’insegnamento degli antichi, in «Casabella», n. 80, agosto 1934.
Case rurali, in «Casabella», n. 86, gennaio 1935.
Architettura rurale italiana, «Casabella», n. 96, dicembre 1935.
Architettura nazionale, «Casabella», n. 85, gennaio 1935.
L’Istituto di Fisica della città universitaria di Roma, «Casabella», n. 99,
marzo 1936.
Un architetto: Luigi Cosenza, in «Casabella», n. 100, aprile 1936.
Un cacciatore di immagini, in «Cinema», dicembre 1938.
L’ordine contro il disordine, in «Casabella-Costruzioni», n. 132, dicembre
1938.
Presentazione, «Casabella-Costruzioni», n. 124, aprile 1938.
Anche i giovani possono insegnare, «Casabella-Costruzioni», n. 131,
novembre 1938.
Un giovane progetta una borgata rurale a struttura d’acciaio, «CasabellaCostruzioni», n. 132, dicembre 1938.
Estetica delle strutture sottili, «Costruzioni-Casabella», n. 129, settembre
1938.
Un esperimento riuscito, «Casabella», n. 133, gennaio 1939.
Un’oasi di ordine, «Casabella-Costruzioni», n. 144, dicembre 1939.
L’Autarchia e l’Architettura del ferro, in «Casabella-Costruzioni», n. 144,
dicembre 1939.
Le costruzioni in serie, in «Casabella-Costruzioni», n. 144, dicembre 1939.
Contro i costruttori di ferro, «Costruzioni-Casabella», nn. 138-139-140,
giugno-luglio-agosto 1939.
Urgenza di parlar chiaro, «Costruzioni-Casabella», n. 146, febbraio 1940.
200
Modelli d’arte per la produzione in serie, «Casabella-Costruzioni», n. 155,
novembre 1940.
Potremo salvarci dalle false tradizioni e dalle ossessioni monumentali?, in
«Costruzioni-Casabella», n. 157, gennaio 1941.
Occasioni perdute, «Costruzioni-Casabella», n. 158, febbraio 1941.
Partenone e partenoidi, in «Domus», n. 168, dicembre 1941.
La nostra posizione, «Costruzioni-Casabella», n. 188, agosto 1943.
Programma per una scuola di architettura, «Costruzioni-Casabella», n.
184-185, aprile-maggio 1943.
Presupposti per un programma di politica edilizia, in «CostruzioniCasabella», n. 186, giugno 1943.
La ricostruzione dell’Europa: capitale problema di attualità nel campo
edilizio «Costruzioni-Casabella», nel n. 183 del marzo 1943.
201
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