Sommario I. Dalla Mostra sull’architettura rurale alla scoperta di una passione: la nascita dell’Archivio fotografico di Giuseppe Pagano a. Il Tour fotografico del XX secolo b. La nascita dell’Archivio c. Una scelta inedita: l’analisi del contesto urbano e sociale attraverso un catalogo fotografico II. In lungo e in largo attraverso il Belpaese alla ricerca delle tracce di un architetto fotografo a. Il corpus dell’Archivio fotografico b. Le tappe del viaggio fotografico di Pagano. Un Tour nell’universo narrativo neorealista c. Ulteriori temi sviluppati nelle foto d’archivio: l’architettura contemporanea, l’archeologia, il fascismo e la guerra, il lavoro e il tempo libero, le forme, i ritratti III. Il panorama internazionale contemporaneo. Fotografia e filmografia degli anni ‘30 a. La ricerca fotografica internazionale e l’evoluzione della tecnica nel XX secolo b. Percorsi fotografici italiani: la produzione di Giuseppe Pagano tra metafisica e realismo c. La fabbrica dei desideri: il cinema e la cultura filmica degli anni Trenta IV. L’eredità spirituale di un protagonista della cultura architettonica moderna a. La ‘scuola’ di Pagano b. Il testamento spirituale di un missionario dell’architettura 1 Appendice bibliografica Saggi di architettura e arte Saggi di fotografia e cinematografia Scritti su Giuseppe Pagano Scritti di Giuseppe Pagano 2 I. Dalla Mostra sull’architettura rurale alla scoperta di una passione: l’Archivio fotografico di Giuseppe Pagano a. Il Tour fotografico del XX secolo L’Archivio fotografico di Giuseppe Pagano è un prezioso resoconto di viaggio che si sviluppa attraverso le storie e la cronaca dell’Italia degli anni Trenta del Novecento. Un viaggio alla scoperta di un mondo in parte inedito, perché nascosto dietro al grigiore del regime e in parte caduto in miseria per quella inconscia necessità di occultare gli anni più bui del nostro Paese pur di rileggerne la storia successiva alla tragedia delle due guerre mondiali. A distanza di un secolo, oggi, questo archivio ci regala la possibilità di mettere a nudo la realtà di quel periodo, per poter rileggerne le pagine seppur dolorose, attraverso le immagini di un uomo che tanto più di altri, per vicende di vita e professionali, ne comprenderà la natura. Il percorso di viaggio compiuto da Giuseppe Pagano in giro per l’Italia, non potrebbe trovare termini di paragone più affascinanti di quelli lasciati in eredità dai viaggiatori romantici del Grand Tour del XVIII e XIX secolo1. Com’è ampiamente noto infatti, la necessità della memoria e del ricordo, aveva già spinto in passato studiosi e amateurs ad intraprendere viaggi e itinerari più o meno insoliti, durante i quali si affidava a sketches e diaries il compito di fermare le immagini più accattivanti e interessanti incontrate 1 Nell’ambito della bibliografia piuttosto ricca esistente sul tema, si selezionano gli studi e il lavoro condotto per anni sull’argomento da Cesare de Seta. I. Zannier, Le Grand Tour nelle fotografie dei viaggiatori del XIX secolo, con una introduzione di Cesare de Seta, Canal & Stamperia ed., Venezia 1991; C. de Seta, L’Italia del Grand Tour: da Montagne a Goethe, Electa, Napoli 1992; Id., Vedutisti e viaggiatori in Italia tra Settecento e Ottocento, Bollati Boringhieri, Torino 1999; Id. (a cura di), Grand Tour. Viaggi narrati e dipinti, Electa, Napoli 2001. 3 lungo il percorso, spesso compiuto per puro diletto o per approfondire cultura e conoscenza. Ma le motivazioni che inducono l’architetto istriano a produrre un materiale tanto copioso a documento dell’Italia degli anni ’30, sono molto più complesse di quelle che avevano guidato le imprese dei viaggiatori tra il Sette e l’Ottocento. Di certo, la necessità di conoscenza del territorio incide in modo notevole sugli scatti prodotti, ma per comprendere realmente il significato e le motivazioni di un Archivio tanto ricco e complesso, vista anche la varietà e l’eterogeneità delle tematiche affrontate, è necessario indagarne le ragioni d’essere nell’ambito della ricerca dell’avanguardia pre e postbellica. Quella che Pagano vuole restituire è una realtà quanto più possibile autentica, non filtrata e in qualche modo deformata dall’eventualità di un condizionamento soggettivo, cosa di cui forse avevano peccato i racconti di viaggio dei touristes dei secoli precedenti; Pagano preferirà guardare il Paese per quel che è, alla ricerca della sua immagine più vera. Potremmo quasi dire che l’indagine fotografica condotta dall’architetto si inserisca in una ricerca neorealista, se non fosse ancora poco prudente lanciarsi in una disquisizione sull’esistenza di un neorealismo prebellico nel momento in cui gli studi sulle origini e la nascita del neorealismo fotografico sono ancora decisamente fermi allo stato embrionale2. Il viaggio fotografico condotto in un periodo di transizione così complesso quale si è dimostrato quello compreso tra le due guerre, non poteva evitare di subirne le conseguenze. Gli intellettuali più raffinati avvertono la ventata di cambiamento introdotta soprattutto dalle avanguardie che cominciano a 2 Come fa acutamente rilevare Giuseppe Pinna in un recente saggio, purtroppo gli studi sulla fotografia dell’età neorealista sono quasi fermi a quelli di Ennery Taramelli che, con il suo volume Viaggio nell’Italia del Neorealismo. La fotografia tra letteratura e cinema, pubblicato nel 1995, restituisce un resoconto puntuale sull’argomento. Cfr. G. Pinna, Italia, Realismo, Neorealismo: la comunicazione visuale nella nuova società multimediale, in E. Viganò (a cura di), Neorealismo. La nuova immagine in Italia 1932-1960, Admira, Milano 2006. 4 spingere verso un’osservazione del reale sempre più ardita e complessa. Con il passaggio dall’Otto al Novecento, la ricerca delle avanguardie figurative sovvertirà definitivamente le regole della rappresentazione mutando profondamente il modo comune di ‘vedere le cose’3. Sketches, e diaries, strumenti fondamentali dei viaggiatori pittoreschi, non possono più assolvere alla funzione di album delle memorie, riducendosi a utili ma riduttivi zibaldoni dei ricordi: si necessita un mezzo capace di fermare gli attimi fuggenti di verità, e catturare la condizione del vivere nella sua natura ed espressione più sincera4. Per dirla con Beaumont Newall5, ‘l’ansia di scoprire la realtà diventava febbrile’. Il 1839 è considerato l’anno di nascita della fotografia6, e quale mezzo poteva esprimere la verità se non la camera da presa diretta, la macchina fotografica. Il Viaggio pittoresco del XX secolo, diventa così, in molti casi come in quello di Pagano, un percorso fotografico, condotto spesso da artisti, in molti casi architetti, con il fine ultimo di documentare, leggere, conoscere il reale, oltre che per dare libero sfogo a quella che diverrà, in molti casi, vera e propria passione per alcuni, raffinato ‘mestiere’ per altri. Tra i viaggiatori fotografi, l’architetto istriano ha avuto indubbiamente illustri precedenti nei primi sperimentatori del mezzo; molti erano stati i 3 Per quanto riguarda il discorso piuttosto complesso relativo alle avanguardie figurative e agli affetti di queste correnti sulla fotografia si rimanda al capitolo III. 4 Molto interessante la considerazione del Galassi che, parlando del passaggio dalla pittura alla fotografia afferma che, ad un certo punto della ricerca pittorica, si è giunti alla convinzione che la fotografia fosse: «l’epìtome del realismo» per poi aggiungere che: «Per i fanatici della camera oscura, la crescente popolarità di questo sussidio meccanico non è che un sintomo della rinvigorita esigenza di accuratezza descrittiva. Altri citano la precisione della pittura Biedermeier oppure l’illusione spettacolare del diorama di Daguerre». In fondo la fotografia non è altro che un modo per produrre automaticamente delle immagini in una prospettiva perfetta. P. Galassi, Prima della fotografia, Bollati Boringhieri, Torino 1989. 5 Beaumont Newhall, storico dell’arte e della fotografia, ha scritto interessanti saggi sull’argomento; tra le opere prodotte si seleziona il suo volume sulla Storia della fotografia, edito dalla Einaudi nel 1984. 6 Claudio Marra evidenzia una considerazione singolare dello Schwarz, il quale rileva la curiosa coincidenza tra l’anno di nascita della fotografia e quello di Cézanne «la cui arte segnò un’importantissima svolta nel processo evolutivo che si era avviato fin dall’epoca del Rinascimento. La sua pittura decretò infatti la fine della prospettiva scientifica». H. Schwarz, Arte e fotografia, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 43, in C. Marra, Fotografia e pittura nel Novecento. Una storia “senza combattimento”, Mondatori, Milano 2000. 5 professionisti a spingersi verso mete in alcuni casi esotiche e inesplorate, si ricordano i viaggi avventurosi in Libano di Edouard Beneke, o quelli che porteranno Maxime Du Champ a fotografare il misterioso ed affascinante Egitto, in uno dei primi reportage fotografici del paese. Ancora nel 1862 un fotografo rilevatore inglese, Francis Bedford, compie un viaggio nel vicino Oriente, da cui viene fuori una pubblicazione in due volumi con 172 fotografie. Ma per ricondurre i casi a quei fotografi che per affinità formative risultano più vicini a Pagano basterà ricordare il viaggio fotografico di Ruskin, o quello del giovane Charles Edouard Janneret7, tourist a tutti gli effetti, visto che nel suo itinerario produrrà schizzi e disegni ancor prima che fotografie. Il giovane Jeanneret, pur criticando apertamente la fotografia, ritenendola uno ‘strumento di pigrizia’ per l’architetto, per primo la utilizzerà, anche come metodo di studio progettuale: «Jeanneret, sia che disegni o che 7 Nella rivista specializzata curata da Italo Zannier, «Fotologia», è inserito un interessante articolo del Prof. Gresleri, nel quale quest’ultimo riprende in sintesi una ricerca particolarmente interessante che lo aveva portato sulle tracce inedite di un giovane Le Corbusier fotografo entusiasta e appassionato, ricerca che aveva dato vita all’interessantissimo volume sui Voyages d’Orient dell’architetto svizzero. L’autore del saggio, puntualizza efficacemente il profilo fotografico di questo inedito Le Corbusier, evidenziandone il percorso formativo ed evolutivo soprattutto nel suo aspetto tecnico. Sono essenzialmente tre i ‘periodi fotografici’ di Le Corbusier individuati da Gresleri, un primo , il “Voyage d’Italie” che risale al 1907, un secondo coincidente con gli anni parigini, intorno al 1908-10, ed un terzo, connotato da una maggior padronanza e sicurezza nell’utilizzo del mezzo, documentato dalla campagna in Oriente. In alcuni passi del suo saggio, Gresleri descrive così l’ultimo percorso fotografico di Le Corbusier: «Durante il viaggio in Oriente, quando il tempo a disposizione è più ridotto, e mano a mano che cresce la sua familiarità con l’obiettivo, alle pose su cavalletto si sostituiscono veloci riprese ottenute appoggiando la camera al petto, determinando spesso scorsi ed obliquità singolari che non disturbano l’autore, preoccupato più che altro cogliere in un breve istante quella particolarità ed unicità che si sarebbero perdute coi tempi lunghi di una normale ripresa su cavalletto». Esistono notevoli affinità tra i due architetti fotografi seppure risulti evidente un differente approccio alla fotografia da parte di Le Corbusier rispetto a Pagano. Mentre il primo infatti sceglie il mezzo fotografico come un ulteriore strumento di scandaglio della realtà, Pagano si troverà al contrario inconsapevolmente fagocitato dalla macchina da presa diretta da cui viene coinvolto al punto tale da affermare che un giorno il ‘mestiere’ di fotografo avrebbe potuto procurargli il pane più del suo lavoro di architetto. Per quanto riguarda l’esperienza fotografica di Le Corbusier si veda: G. Gresleri, Le Corbusier e la fotografia, in «Fotologia» n° 10, Alinari ed., Firenze Autunno/Inverno 1988, pp. 41-45. Id., Le Corbusier, viaggio in Oriente. Gli inediti di Charles Edouard Jeanneret fotografo e reporter, Venezia, Marsilio 1984 e 1985; I. Zannier, Le Corbusier fotografo, in «Parametro» n° 43, gennaio-febbraio, Faenza 1986, pp. 18-25; C. de Seta, L’architettura della modernità tra crisi e rinascita, Bollati-Boringhieri, Torino 2002, pp. 119-186; Id., L’immagine fotografica e architettura della modernità, in G. Celant (a cura di), Arti e Architettura 1900/1968. Scultura, pittura, fotografia, design, cinema e architettura: un secolo di progetti creativi, Skira, Milano 2004, pp. 69-74. 6 fotografi, procede sempre con la stessa logica che è quella di selezionare e tagliare le immagini come se esse avessero subito un processo di scarnificazione per cui l’oggetto compare nella sua nuda volumetria, secondo una procedura e una poetica che sarà essenziale carattere della sua pratica progettuale»8. Una vera rivoluzione in ambito fotografico è rappresentata senza ombra di dubbio, dall’invenzione delle macchine fotografiche compatte, portatili, comode e semplici da usare. Lo stesso Le Corbusier nel suo viaggio in Oriente si servirà di una pratica «Cupido 80». La sostituzione dei vecchi strumenti a treppiedi con quelli nuovi, risulterà comunque piuttosto graduale. I fotografi della prima scuola rimangono infatti decisamente scettici dinanzi a questi piccoli ‘aggeggi’ fotografici un po’ diabolici; tra gli illustri sostenitori degli strumenti di vecchio tipo ci sarà Alfred Stieglitz9, che, in alcuni scritti del 1897, criticherà caparbiamente determinati atteggiamenti dei fotografi ‘moderni’, temendo il dilagare delle nuove macchine, che a suo dire si dimostrano adatte solo «agli scopi dei globe trotter, di chi gira il mondo e desidera prendere ‘appunti fotografici’ nel corso del viaggio». In seguito lo stesso Stieglitz farà uso – seppure in maniera molto controllata – di apparecchi fotografici manuali. Tra gli estimatori delle nuove macchine portatili, diversi saranno i rappresenti della cultura artistica e architettonica del primo Novecento, ricordiamo Carlo Mollino, Gabriele Mucchi, Ugo Sissa, Enrico Peressutti, e appunto Giuseppe Pagano. 8 C. de Seta, L’immagine fotografica e architettura della modernità, cit., p. 70. Alfred Stieglitz, di origini statunitensi (1864-1946), è stato un pittore e un fotografo di grande successo. La sua carriera iniziata in Europa, assumerà in America i suoi connotati più vivaci e complessi. Nel 1903 fonda una rivista fotografica, «Camera Work», cui faranno riferimento molti artisti contemporanei. Stieglitz sarà sempre molto legato al mondo dell’arte, la galleria da lui fondata, la 291 di New York, ospiterà, a partire dal 1906 le opere più interessanti delle avanguardie europee. A. Madesani, Storia della fotografia, Mondatori, Milano 2005, pp. 41-42. 9 7 In questo gruppo di amateurs più o meno avveduti e consapevoli, l’architetto di origini istriane si inserisce come sempre su una linea di confine, un ‘fotografo per caso’. Pagano si avvicina infatti alla fotografia in maniera singolare, l’incontro con il mezzo per lui avviene quasi incidentalmente, un insolito seppur piacevole imprevisto. La sua singolarissima esperienza, infatti, nasce da un’esigenza precisa, ovvero la necessità di documentare la realtà rurale italiana per la Mostra sull’Architettura Rurale organizzata, insieme a Guarniero Daniel, in una delle sale della Triennale di Milano del 1936, ed è proprio grazie a questa circostanza che l’architetto farà di necessità virtù, trasformando il lavoro in un’occasione di conoscenza, nonché nell’inizio di quella che diventerà inaspettatamente una vera e propria attività parallela ed una passione. Ma a differenza di un Le Corbusier, per fare un paragone con un celebre collega, per il quale «la fotografia è compendiaria al disegno e alla scrittura e quasi mai i tre strumenti si sovrappongono fra loro»10, con Pagano succede esattamente il contrario, per lui, la macchina fotografica, diviene una proiezione degli occhi e della mente, uno strumento nuovo che in molti casi si sostituirà agli altri già utilizzati per rappresentare una inedita ‘visione’ del reale, e in senso più vasto, della vita. Luigi Comencini11, parlando dell’avventura fotografica del suo amico Giuseppe Pagano, racconta soprattutto dell’architetto posto dietro l’obiettivo12, non tenendo però del tutto in conto un altro aspetto profondamente importante, che incide in maniera non secondaria sugli 10 G. Gresleri, Le Corbusier e la fotografia, cit., p. 44. Luigi Comencini, noto regista del neorealismo italiano, sarà legato all’architetto istriano da un profondo affetto ed una stima professionale notevole; il regista sarà uno dei primi a recensire l’opera fotografica di Giuseppe Pagano. Cfr. L. Comencini, Le fotografie di Pagano, in F. Albini, G. Palanti, A. Castelli, [a cura di], Giuseppe Pagano Pogatschnig : architetture e scritti, Milano, 1947. 12 «Pagano non era un fotografo nel senso moderno della parola: artista che si serve della macchina fotografica come il pittore del pennello. La fotografia era un mezzo di cui si serviva come architetto: tutto in lui era subordinato all’architettura, alla visione delle cose più che degli uomini, alla notazione delle opere dell’uomo più che dei suoi gesti. […] Ha usato della macchina fotografica come della tradizionale matita con la quale l’architetto errante fissava le sue “impressioni di viaggio”». Ivi. 11 8 scatti del nostro: quella sua spasmodica curiosità di giornalista che lo porta a fermare lo sguardo su ogni espressione di vita non solo costruita dall’uomo ma prodotto stesso della natura, basti pensare alle immagini dedicate alle nuvole, ai rami degli alberi, alle piante rugose e contorte, agli specchi d’acqua. La dimensione che la fotografia assume nella vita del Nostro architetto, è infatti così complessa che può essere forse veramente compresa solo sviscerando in profondità il suo ricco archivio, che va inoltre letto alla luce di una considerazione globale dell’uomo che sta dietro l’obiettivo, un architetto, ma anche un giornalista, un artista, un critico. Purtroppo non sono rimasti taccuini di viaggio né un diario a documentare il percorso fotografico di Pagano13, per fortuna però gli scatti generosi sono in grado di descriverci il giro compiuto, che riprende l’Italia dai suoi luoghi più ameni fino alle province sconosciute. L’attenzione nei confronti del Bel Paese si dimostra totalizzante, tanto che l’archivio si rivela piuttosto povero di immagini che ritraggano realtà differenti da quella italiana; un ciclo di foto racconta il suo viaggio nei paesi nordici e un reportage descrive gli anni di guerra in Grecia e Albania, ma a parte queste, nessun’altra realtà internazionale viene fermata dagli scatti dell’istriano. «Pagano ha amato l’Italia nei suoi monumenti e ne ha lasciato una valida testimonianza. Tutta l’Italia sfila sotto gli occhi di chi sfoglia il suo archivio, l’Italia nelle sue pietre più commoventi, nei particolari minimi, dove brilla l’ingegno della sua umile gente. Questo amore per una Italia profonda e non turistica, bella e non pittoresca è tra le più valide 13 Esiste un diario personale dell’architetto da cui sono stati estratti alcuni brani pubblicati negli anni su scritti e articoli monografici, ma nessuno che parlasse esplicitamente del suo lavoro come fotografo. Cfr. G. Veronesi, Giuseppe Pagano, in Difficoltà politiche dell’architettura in Italia 1920-1940, Libreria editrice politecnica Tamburini, Milano 1953; F. Albini, G. Palanti, A. Castelli (a cura di), Giuseppe Pagano Pogatschnig : architetture e scritti, Milano, 1947. 9 testimonianze che Pagano ci abbia lasciato»14; è ancora Comencini che parla, che ci racconta l’amore di Pagano per quella terra cui nemmeno apparteneva di diritto essendo istriano di nascita, per la quale però ebbe una fede tanto acuta da condurlo al sacrificio più estremo pur di difenderla. Proprio questo suo ‘insano’ patriottismo lo spinge più di ogni altra cosa a ‘correr l’Italia’, come argutamente sottolinea l’amica Giulia Veronesi, un’Italia ancora ignota e tutta da scoprire. Le sue foto diventano una «prova d’amore»; nel momento in cui riprende le città, le campagne, le «luci solari sulle piazze, sui prati e sui mari»15, la miseria nei vicoli, Pagano denuncia, documenta, «perché la vergogna inducesse a lavare le sozzure, a rifare alla patria un volto tutto chiaro e pulito, un volto sano; e qui si incontrano in lui la passione per la fotografia e quella per l’architettura»16. Ma non solo, nella sua ansia di documentare certe realtà umane e sociali, si riconosce la necessità del giornalista di conservare la memoria di fatti e comprendere il profondo significato degli eventi, di celebrare la vita e, nello stesso tempo, di denunciarne la corruzione. I suoi scatti catartici filtrano l’apparenza delle cose, degli oggetti, delle anime ritratte, fino a pervenire alla rivelazione alla loro natura più intima e incontaminata. Quella di Pagano diviene un’indagine psicologica condotta sugli uomini, sull’architettura, sul mondo naturale ed artificiale; tutto viene indagato con l’occhio clinico del giornalista che restituisce nelle immagini la sua idea del mondo, ma anche lo sguardo pietoso dell’uomo in fondo attento conoscitore della natura umana. «Io mi diverto a scorrazzare l’Italia per scovare nuovi documenti fotografici e cinematografici da aggiungere al mio archivio; per scoprire nuovi aspetti di una città, di un paesaggio, di un’opera d’arte. Ho costruito così, a poco a poco, un mio vocabolario d’immagini che parlano dell’Italia 14 L. Comencini, Le fotografie di Pagano, cit. G. Veronesi, Istantanee di un artista (otto fotografie di Giuseppe Pagano Pogatschnig), estr. da: «Le vie d’Italia», rivista mensile del Touring Club Italiano, n. 3, Milano, marzo 1950. 16 Ivi. 15 10 a modo mio e per me. […] Un’Italia di poche parole, fatta di paesaggi ricchi d’inesauribile fantasia plastica: l’Italia provinciale e rude, che dà lievito al mio temperamento moderno assai più delle accademie e dei compromessi delle grandi città»17. Un’Italia ‘a modo mio e per me’ dice Pagano, quasi una dichiarazione d’intenti la sua, che nemmeno tanto velatamente afferma di opporre questa sua immagine a un’altra, quella imposta dal regime; eppure il difficile percorso di affrancamento dalla fede fascista, avverrà in Pagano in maniera molto graduale e non da subito consapevole; il suo percorso di conversione sarà combattuto e pieno di ripensamenti seppure inesorabile. L’architetto non vivrà la caduta del regime semplicemente come il fallimento di una fase politica ma come un fallimento personale, il tradimento estremo di ogni sua fede. Scrive Giulia Veronesi: «Era un sentimentale, un generoso e caldo tribuno, e un uomo probo. Se del fascismo si servì, fu per servire un ideale, non il proprio interesse: Pagano morì povero, e sempre fu sprezzante di onorificenze e di onori»18. Non è condiscendenza passiva o aspirazione alla gloria storica a indurre la fede fascista in Pagano secondo la Veronesi, ma una convinzione sincera e onesta che attraverso il consenso e l’appoggio della dittatura si potesse ‘fare’ realmente architettura19. La storia ci insegna il contrario, ma quello che Persico aveva intuito da subito20, per Pagano sarà invece una consapevolezza raggiunta e maturata solo dopo anni di speranze disilluse. Molti giovani colleghi dell’istriano, straordinari intellettuali, pagheranno con la vita l’insensatezza di quegli anni scellerati: Banfi, Belgiojoso, 17 G. Pagano, Un cacciatore d’immagini, in «Cinema», dicembre 1938. G. Veronesi, Giuseppe Pagano, in Difficoltà politiche …, cit., p. 54. 19 «[…] Abbiamo dovuto conoscere anche noi la rabbia di non poter urlare “basta!”, la sopportazione di compromessi odiosissimi, la mescolanza con persone, cose e atteggiamenti non certo esemplari, pur di difendere qualche brandello delle nostre speranze e salvare, in qualche modo, la nostra libertà di artisti e riuscire a tradurre in realtà almeno qualche frammento dei nostri sogni». G. Pagano, La nostra posizione, «Costruzioni-Casabella», n. 188, agosto 1943. 20 Persico, convinto antifascista sin da giovanissimo, non riporrà mai alcuna fiducia nel regime ed avrà sempre un atteggiamento risolutamente critico nei confronti delle convinzioni politiche dell’amico e collega. 18 11 Giorgio Labò21, il giovane Terragni, Giolli, e gli stessi Persico e Pagano, saranno solo alcune delle migliaia di ‘vittime’ del fascismo. Solo in questa chiave è possibile leggere l’archivio fotografico del Nostro, che, attraverso le sue creature di celluloide porta avanti con un incrollabile fiducioso ottimismo le stesse battaglie condotte in prima linea nei progetti e negli scritti. In una produzione così spontanea come quella fotografica si legge forse l’anima più vera di Giuseppe Pagano, sicuramente quella più libera dalle costrizioni della ratio e dalle imposizioni della sua personale regola e etica morale. b. La nascita dell’Archivio L’Italia viene scoperta dall’architetto poco per volta, confortato, talvolta lasciato sgomento dalle verità addirittura insperate rivelate dai viaggi. È un’Italia rurale, fatta di gente semplice e legata ancora embrionalmente alla terra quella che viene osservata, soprattutto nella prima fase fotografica, e questo perchè ciò che spinge Pagano ad intraprendere il viaggio è un’indagine da condurre sull’architettura rurale. «Mi sono avvicinato, a poco a poco, al bello fotografico, come ad una cosa ben distinta da ogni annotazione figurativa. Arte? Tecnica? […] Io so soltanto che questa caccia d’immagini mi entusiasma»22. Con queste parole estratte da un articolo comparso sulla rivista «Cinema», in un numero del 1938, Giuseppe Pagano racconta tutto il suo trasporto nei 21 Giorgio Labò, figlio dell’architetto Mario Labò, appena laureato e giovanissimo, muore fucilato dai nazisti. Il padre ne lascia un ricordo nello scritto dedicato a Pagano: M. Labò, Pagano scrittore: cronaca e documentazione, in F. Albini, G. Palanti, A. Castelli (a cura di), Giuseppe Pagano Pogatschnig: architetture e scritti, Milano, 1947. 22 G. Pagano, Un cacciatore di immagini, cit. 12 confronti della fotografia, tecnica da lui già utilizzata ma, fino a quel momento, non ancora ‘scoperta’, in quanto eccezionale strumento di rappresentazione e interpretazione della realtà. Sono le parole di un architetto fotografo che si affaccia su un mondo fatto per lo più di specialisti e professionisti con l’ingenuità dell’allievo curioso ed inesperto. L’interesse nei confronti della fotografia viene fuori paradossalmente da un’occasione preferenziale, la necessità di produrre materiale di documentazione per conto della VI Triennale di Milano del 193623. Si tratta di realizzare un vero e proprio reportage foto-giornalistico che possa dar conto delle condizioni della realtà rurale contemporanea. Ciò che si deve realizzare è in pratica un’indagine di carattere socio-urbanistico e architettonico. È probabile però che siano stati soprattutto gli interessi specifici dello studioso a spingere in questa direzione l’analisi, desideroso di dimostrare che la vera arte italiana risiedesse nel patrimonio e nella cultura popolare, culla di una tradizione aulica per troppo tempo sottovalutata e dimenticata dall’uomo. L’universo dell’architettura rurale, era stato fino a quel momento, prudentemente ignorato dalla cultura accademica ufficiale, che si era sempre guardata dal considerare poesia le manifestazioni di architettura spontanea. Molto interessante al riguardo il volumetto di Bruno Zevi sui Dialetti architettonici, in cui il critico evidenzia nei secoli tale aulica indifferenza nei confronti dell’architettura ‘minore’ che dichiara 23 L’architetto racconta delle difficoltà incontrate nel reperimento del materiale per la Triennale in uno dei suoi più vivaci articoli: «Pur essendo di natura molto ottimista, e già in possesso di un apparecchio da presa a passo ridotto e di una ‘rolleiflex’ inappuntabile, ero fiducioso negli specialisti. Con l’egida della Triennale di Milano, mi rivolsi così a tutti i regi sopraintendenti d’Italia pregandoli di fotografare, spese pagate, i cascinali e le case rurali e i villaggi più interessanti della loro regione. Le risposte che allora mi pervennero, scoraggianti, assurde, inverosimili, mi convinsero che dovevo assolutamente fare tutto da me. […] A questo coro di pessimisti che vedeva e vede l’Italia soltanto attraverso le schede delle soprintendenze o le negative di Alinari io devo la mia totale conversione alla fotografia e i miei vagabondaggi per tutta l’Italia a caccia d’immagini». G. Pagano, Un cacciatore d’immagini, cit. 13 effettivamente superata solo negli anni ’30 del Novecento24, grazie proprio alla lucida genialità di Giuseppe Pagano che, per primo, «fruga nel patrimonio edilizio minore, (fino ad allora) quasi totalmente estromesso dalla storiografia artistica»25. Vero è che, a quel letargo culturale cui si assiste in ambito architettonico nei confronti delle specifica realtà rurale, non corrisponde la medesima indifferenza da parte di un’altra cultura, quella della rappresentazione. Ed è proprio a questo universo che Pagano si rivolge per trovare un sostegno alle sue tesi. In pittura e più chiaramente nel vedutismo, l’interesse rivolto al mondo arcadico e bucolico rimane costante nei secoli. Nell’ambito della fotografia, il cui approccio iconografico, soprattutto nel primo periodo, riprende sostanzialmente quello pittorico, accade lo stesso. Se però, in un primo momento, l’attenzione nei confronti del mondo umile e contadino è di carattere essenzialmente estetico e l’obiettivo dei fotografi è volto a catturare l’aspetto arcadico nella sua dimensione più romantica, con il passare del tempo e delle ‘mode’ questa attenzione cambierà, 24 In un rapido excursus sull’incidenza dell’architettura minore nel corso delle fasi storico architettoniche, l’autore giunge all’amara constatazione dell’assenza totale di attenzione, riguardo o interesse nei confronti di certe espressioni architettoniche da parte della cultura accademica di tutti i tempi; Zevi difatti rileva che, dopo l’epoca del Medioevo in cui si raggiunge ‘l’apice dello scambio tra aulicità e prosa’, nei periodi storici successivi si passerà ad uno stato di assoluta indifferenza, se non addirittura ad uno snobistico distacco nei confronti dell’architettura minore: «L’umanesimo rinascimentale tronca il colloquio con i tessuti urbani popolari. […] In realtà, data la resistenza delle strutture medievali, le trasgressioni ai precetti ideologici sono molteplici, e tuttavia, con l’eccezione della Ferrara di Biagio Rossetti, non incentivano permute feconde con i dialetti. Il manierismo intacca, corrode e tradisce i canoni rinascimentali ma non li elimina, … senza giungere ad un livello autenticamente popolare. Lo stesso per il barocco. In quanto mosso da ‘intenti di persuasione occulta’, … deve parlare anche in prosa, talvolta persino in dialetto; ma è un’azione gestita dalla ricerca psicologica di consensi. Il Settecento, specie per impulso illuminista, dirama il raggio dell’influenza linguistica; si tratta di un’aulicità diffusa capillarmente, ricettiva fino al punto da assumere aspetti provinciali e plebei. La vibrante dialettica tra barocco e illuminismo viene repressa dal neoclassicismo. L’edilizia minore torna ad essere bandita dalla cultura. Non sarà legittimata neppure durante l’eclettismo, … che censura un solo contributo, quello appunto dell’edilizia popolare. […] Alla vigilia della prima guerra mondiale, l’eversione futurista ebbe il merito di rompere con il passato eclettico, ma non ottenne consistenti riflessi architettonici. Bisogna attendere il razionalismo degli anni Trenta per codificare un linguaggio valido per una chiesa, un palazzo di giustizia, un quartiere operaio e una casa contadina»; Zevi parla della codificazione condotta da Giuseppe Pagano che ritiene il primo pioniere di questa nuova ricerca. B. Zevi, Controstoria dell’architettura italiana. Dialetti architettonici, Tascabili economici Newton, Roma 1996. 25 Ivi. 14 diventando ben altri gli aspetti fonte di fascino: la natura sociale e umana dei contesti antropizzati rappresenterà nel XX secolo un nuovo, stimolante, spunto di analisi per i fotografi. Le prime riproduzioni dedicate al mondo rurale, riguardano per lo più lavoro e manualità e le attività si svolgono in circostanze spesso improvvisate. Fox Talbot26, e Hippolyte Bayard27 sono tra coloro i quali insisteranno di più sul tema del lavoro, volendo, in alcuni casi anche artificiosamente, ritrovare affinità tra l’arte e la vita quotidiana. In queste prime esperienze però, l’interesse nei confronti della dimensione arcadica è ancora puramente pittoresca, si indaga una bellezza mitica che, per certi versi, poco o nulla ha a che fare con la realtà. In Italia però il percorso della fotografia è una sorta di ‘viaggio in ritardo’ rispetto a ciò che avviene contemporaneamente negli altri paesi, pur risultando l’influenza di questi ultimi, ad ogni modo, determinante. Se nei primi anni di diffusione della fotografia nel nostro Paese, il mezzo risulta quasi un esclusivo appannaggio di nobili capricciosi, un ‘giocattolo per signori danarosi’28, per dirla con Wladimiro Settimelli, che rivolgono 26 Henry Fox Talbot nasce nel 1800 nel Dorset, in Inghilterra; noto come eccellente scienziato, inventore, proprietario terriero, membro del Parlamento e della Royal Society per il suo lavoro di matematico e scienziato, è passato alla storia insieme a Louis-Jacques Mandé Daguerre e a Nicéphore Niepce, come uno degli inventori della fotografia. In particolare allo studioso inglese si deve l’ideazione della colotipia (bella immagine), il processo chimico che, perfezionato nel corso degli anni successivi al brevetto del 1841, rappresenterà il primo passo verso il moderno metodo del positivo-negativo. A. Madesani, Storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 2005. 27 Hippolyte Bayard, fotografo francese , amava fotografare nel silenzio del suo studio e spesso i suoi soggetti erano inanimati. Negli anni 1840-50 erano comunque ancora ben pochi i modelli da imitare e i fotografi procedevano a proprio piacimento, seguendo l’intuizione. Fox Talbot, analogamente a Bayard, fotografa gruppi di attrezzi da giardinaggio. «Da un certo punto di vista queste composizioni non sono altro che illustrazioni della vita di campagna», era evidente quindi la volontà di interpretare un universo per molti versi affascinante, un mondo fatto di fatica e duro lavoro. I. Jeffrey, Fotografia, Rizzoli, gruppo Skira, Milano 2003. 28 Tra questi singolari personaggi, come non ricordare la figura del principe Giulio Cesare Rospigliosi, o quella dei conti Primoli, i due fratelli che girano per Roma con un grande apparecchio fotografico e carrozza con tanto di servitori. W. Settimelli, La fotografia italiana, in J.-A. Keim, Breve storia della fotografia, Einaudi, Torino 1976, ried. 2001. In particolare, il conte Giuseppe Primoli, amateur audace e spiritoso, soprannominato il ‘re delle istantanee’, si dedicò a ritrarre sia l’alta società che la gente umile in Italia e in Francia tra il 1888 e il 1905. Esiste una bibliografia discretamente vasta relativa al conte, nobile sfaccendato con la passione per la fotografia. D. Palazzoli (a cura di), Giuseppe Primoli. Istantanee e fotostorie della Belle Époque, Electa, Milano 1979. Si veda anche I. Jeffrey, Fotografia, cit. 15 all’universo rurale uno sguardo curioso e divertito forse anche pietoso ma poco interessato, la situazione cambierà nel corso degli anni successivi. Il passaggio attraverso le ricerche dell’avanguardia internazionale e l’influenza di una nuova impostazione realistica nell’arte – che soprattutto in letteratura troverà gli spunti e gli sviluppi più concreti – avvierà quel processo di trasformazione che, anche in ambito fotografico, porterà al mutamento profondo nel modo di vedere, indagare e quindi rappresentare anche la realtà contadina. Un fattore che ha indubbiamente inciso sull’indirizzo fotografico dell’Italia degli anni Trenta è stato il percorso intrapreso dall’universo letterario e narrativo; il realismo dell’anteguerra infatti aveva scelto proprio la narrazione quale forma di comunicazione più aderente all’esigenza di esprimere il dissenso e l’insoddisfazione culturale. Scrittori come Elio Vittorini, Cesare Pavese, sfiorano il mondo della provincia americana filtrandolo attraverso i romanzi di Dos Passos, Faulkner, Cain, Hemingway, per dedurne una nuova ricerca assimilata e italianizzata dalle loro voci originali e trasgressive. Gli scrittori sono i primi, in ambito culturale, ad approdare al mondo della provincia indagato in quanto archetipo della ‘cultura popolare’, alla ricerca di una espressione artistica più vera e autentica. In realtà, la tensione verso la realtà rurale in questi anni, si deve indubbiamente anche all’incidenza del fascismo che, nell’ambiente contadino, riconosce quella maggioranza politica capace di sostenerne il governo. Quindi, l’ambiente culturale da un lato, e quello politico dall’altro, contribuiscono in definitiva a fare dell’orizzonte dei ‘vinti’ un nuovo campo di indagine da parte di tutta la cultura italiana del primo Novecento. D’altronde la strada era già stata spianata dal verismo ottocentesco che per primo trova in questo universo dei diseredati i suoi veri eroi. Significativa 16 testimonianza sono gli scritti di Giovanni Verga e ancora di più lo sono le sue fotografie che costituiscono una interessante saldatura ideale tra verismo e fotografia29. Dopo una fase pittorialista, ineludibile anche in Italia, si avvia infatti quel discorso legato alla fotografia documentaria – di cui gli scatti di Verga rappresentano il preludio – che rappresenterà la vera svolta. L’indagine di Giuseppe Pagano si lega direttamente a questo nuovo concetto di fotografia intesa come documento. È del 1936 la pubblicazione, uscita in occasione della Mostra sull’architettura rurale30 allestita nello stesso anno, nella quale Pagano affronta concretamente il tema delle radici più profonde dell’arte nostrana, ricercandole nell’ambito di una tradizione architettonica primitiva. L’opera viene edita da Giuseppe Pagano in collaborazione con Guarniero Daniel che con lui conduce anche la mostra; è probabile che Daniel abbia curato la redazione e la ricerca degli esempi di architettura rurale, mentre il contenuto del testo è da addebitarsi indubbiamente alla felice dialettica di Pagano, che un anno prima, nel ’35, aveva pubblicato su «Casabella» già due articoli sull’argomento: Architettura rurale italiana, e Case rurali31, nei quali anticipa quasi integralmente e con gli stessi termini, il dibattito sviluppato in seguito dall’allestimento fotografico e poi dalla pubblicazione. Il testo pubblicato in occasione della mostra, è un excursus attraverso le tecniche, i materiali, le tipologie utilizzate nell’ambito dell’architettura 29 Giovanni Verga non sarà l’unico intellettuale del XIX secolo a fare un uso tanto all’avanguardia della fotografia. Altri scrittori veristi come Luigi Capuana e Federico De Roberto si dimostreranno fotografi dilettanti in grado di ottenere risultati nell’utilizzo del mezzo, davvero originali. In particolare, «Capuana fa della fotografia uno strumento della sua poetica, non solo fonte di documentazione, ma mezzo per scrivere». L. Criscenti, G. D’Autilia (a cura di), Autobiografia di una nazione. Storia fotografica della società italiana, Editori Riuniti, Roma 1999, p. 68. Per quanto riguarda il lavoro fotografico di Luigi Capuana, si consigliano i saggi scritti da Paolo Morello. 30 G. Pagano, G. Daniel, Architettura rurale italiana, U. Hoepli, Milano 1936. 31 Giuseppe Pagano, Case rurali, in «Casabella», n. 86, gennaio 1935; G. Pagano, Architettura rurale italiana, in «Casabella», n. 96, dicembre 1935. 17 spontanea, caratteristica delle zone agricole e diffusa su tutto il territorio peninsulare. Pagano si sofferma con curiosità ed esperienza ad analizzare puntualmente gli esempi più interessanti di strutture primitive, dalle capanne calabre, siciliane e campane, fino a quella perfezione architettonica raggiunta con i trulli pugliesi. Ogni campione tipologico, selezionato e fotografato, diviene spunto di ricerca, per comprendere e ritrovare le origini delle tecniche contemporanee, in taluni casi per suggerirne di nuove da utilizzare magari nell’ambito delle future realizzazioni, intendendo il patrimonio antico quale fonte di riferimento insostituibile per l’architettura moderna32. Ma dietro la ricerca dell’architetto istriano, c’è anche la volontà di rintracciare quell’ ‘orizzonte onesto ed eroico’ appartenente alla nostra tradizione, celato dietro gli scempi realizzati negli ultimi anni da una cultura architettonica ignorante, incapace di leggere nel passato preziosi ed opportuni modelli di riferimento; afferma infatti Pagano: «l’analisi di questo grande serbatoio di energie edilizie […] può riserbarci la gioia di scoprire motivi di onestà, di chiarezza, di logica, di salute edilizia là dove una volta si vedeva solo arcadia e folclore. È come fare una cura di cibi semplici per chi s’è guastato con la pasticceria delle cariatidi, e constatare quanta distanza vi sia tra le frasi fatte e la realtà»33. La ricerca dell’onestà in architettura diventerà uno dei temi affrontati con maggior caparbietà e tenacia dall’architetto. Egli rifuggirà sempre dalla retorica monumentale di una certa cultura architettonica del Novecento; diversi anni dopo, in occasione di una conferenza tenuta al Centro per le 32 «Questo immenso dizionario della logica costruttiva dell’uomo, creatore di forme astratte e di fantasie plastiche spiegabili con evidenti legami col suolo, col clima, con l’economia, con la tecnica, ci è aperto davanti agli occhi con l’architettura rurale. Un esame dell’architettura rurale perciò, condotto con questi criteri, può essere non soltanto utile ma necessario per comprendere quei rapporti tra causa ed effetto che lo studio della sola architettura stilistica ci ha fatto dimenticare. L’architettura rurale rappresenta la prima e immediata vittoria dell’uomo che trae dalla terra il proprio sostentamento». G. Pagano, G. Daniel, Architettura rurale italiana, cit., pp. 12-13. 33 Ivi, p. 15. 18 arti di Milano nel dicembre 1940, l’architetto affermerà: «Architettura moderna significa anzitutto architettura fatta per uomini appartenenti alla civiltà contemporanea; significa architettura moralmente, socialmente, economicamente, spiritualmente legata alle condizioni del nostro paese; significa costruire per rappresentare la civiltà di un popolo, per soddisfarne i bisogni, per “servire” nel vero senso della parola. È necessario mettersi bene nella testa che tutte le opere di architettura devono sottoporsi a questa schiavitù utilitaria. […] Modestia di obiettivi e modestia di risultati, ma in compenso chiarezza, onestà, rettitudine economica e, soprattutto, buona educazione urbanistica»34. Chiara e concreta, la sua posizione si esaspera trasformandosi spesso in una polemica senza mezzi termini contro ‘i grassi pavoni delle arti ufficiali’, autori di opere prive di qualsiasi valore intrinseco, purtroppo allora appoggiati da una critica ufficiale sottomessa al volere della dittatura, «mentre le riviste che parlano di civiltà, e italiana per giunta, si mettono al servizio della rettorica e sfruttano il grande passato per contrabbandare gli ultimi rifiuti di un neoclassicismo senza patria e senza fantasia»35. Nel catalogo sull’architettura rurale, Pagano rivaluta gli esempi della produzione locale richiamando alla memoria il viaggio in Italia di Ruskin, in cui anche lo studioso si sofferma sull’edilizia contadina della provincia nostrana. Vengono riportati i racconti dell’inglese con il compiacimento di chi trova, nelle parole di un valido collega, le conferme ad una convinzione radicata; scrive Pagano di Ruskin: «Pur in questa sua romantica adorazione del pittoresco, l’illustre e fecondo scrittore, parlando dell’abitazione rurale italiana, riusciva a determinare alcune osservazioni che ancor oggi possono servire per chi si accontenta soltanto di un primo esame superficiale. Egli 34 G. Pagano, Sconfitte e vittorie dell’architettura moderna, conferenza tenuta al Centro per le arti di Milano, dicembre 1940; in F. Albini, G. Palanti, A. Castelli, [a cura di], Giuseppe Pagano Pogatschnig: architetture e scritti, Milano, 1947, p. 20. 35 Ivi, p. 21. 19 ne esaltava la “semplicità di forma”, “il tetto che è sempre piatto o poco inclinato. […] E questa semplicità è forse l’attributo principale per il quale la casa rurale italiana raggiunge la grandiosità di carattere, che desideravamo e attendevamo. Mentre non ha nulla di inadatto alla umiltà dei suoi abitatori, vi è nella sua aria una dignità generale, che armonizza in modo bellissimo con la nobiltà degli edifici vicini e con la gloria del paesaggio circostante”»36. Le annotazioni scritte dallo studioso anglosassone nel 1837, sono riportate nel testo da Pagano, dopo quasi un secolo, con ammirato compiacimento ed approvazione. L’architetto sembra partire proprio da queste riflessioni, per poi rielaborare la ricerca approfondendola di mille inediti spunti ancora oggi utili per lo studio della cultura architettonica spontanea; ma l’indagine del Nostro non si limita ad uno sterile resoconto, trasformando il dibattito e le riflessioni nel punto di partenza per l’elaborazione di un vero e proprio codice stilistico nel quale non è difficile né sbagliato riconoscere la formalizzazione dello stile mediterraneo: «Scopo di questo lavoro è quindi di trovare la legge eterna che ha creato nell’evoluzione della storia dell’uomo meravigliosi documenti: la casa mediterranea, nella sua assoluta onestà, non stilisticamente falsificata, corrisponde in ogni suo particolare ai bisogni della vita agricola, semplice e laboriosa»37. Elementi interessanti al riguardo sono le note dell’autore sulle tracce specifiche di architettura spontanea ereditate dallo stile mediterraneo: «Il tetto a terrazzo è la forma di copertura tipica in tutti i paesi del mezzogiorno e rappresenta la massima conquista tecnica nell’edilizia.[…] A questo punto si potrebbe fare anche una digressione estetica e constatare quanto contributo spirituale abbia dato questo schema di copertura orizzontale alla concezione dell’architettura moderna, quella che certi critici nostrani vogliono considerare ancora come 36 37 G. Pagano, G. Daniel, Architettura rurale italiana, cit., pp. 18-19. Ivi, p. 59. 20 estranea alle tradizioni italiche»38. Non è solo il tetto a terrazzo a colpire l’attenzione del Nostro, ma anche la tipologia delle case con scala esterna, delle case a ballatoio, alcuni tagli di logge e balconi che dimostrano, anche dal punto di vista formale, ‘rapporti con cadenza moderne’, reiterando spesso identici elementi strutturali come fossero ‘standardizzati’, e dimostrando insomma una ‘orgogliosa modestia tanto analoga al sentimento della cultura contemporanea’. A conclusione del volume, Pagano rivela anche il fine ultimo della ricerca, ovvero la possibilità di individuare, in seguito a tali accurati studi, un modello di riferimento progettuale «per affrontare con conoscenza più approfondita il problema pratico delle nuove costruzioni rurali che il Governo fascista sta progettando in tutta Italia. Difatti uno dei problemi particolarmente importanti nel quadro dell’opera grandiosa della bonifica è la soluzione perfetta della casa colonica»39. L’architetto in definitiva dichiara l’intenzione in qualche modo didattica del lavoro, che avrebbe dovuto rappresentare un riferimento prezioso per la progettazione di nuovi quartieri fascisti; ovviamente è necessario tenere in considerazione il fatto che, quando l’architetto istriano inizia lo studio sulla casa rurale, non aveva ancora avuto inizio la sua ‘conversione’ alla Resistenza, essendo ancora viva in lui la fiducia o meglio la speranza nella politica del regime. Convinto e fiero, il ‘fascismo’ di questo primo periodo di Pagano, va letto alla luce della sua personalissima esperienza, in cui l’adesione alla dittatura deriva inizialmente da un radicato spirito patriottico e dall’illusione che nel regime possa inverarsi la nascita di una nuova, giusta società; com’è noto avverrà piuttosto il contrario ma questo l’architetto lo scoprirà purtroppo negli anni e sulla sua pelle. 38 39 Ivi, p. 59. Ivi, pp. 21-23. 21 Il lavoro fotografico dedicato all’architettura rurale, risulta tanto certosino da giungere a contare circa duemila fotografie realizzate e poi successivamente selezionate per la mostra e per il catalogo, di cui un numero non ben specificato eseguito dal collaboratore Guarniero Daniel, più quelle gentilmente fornite da studiosi e architetti, tra i quali Roberto Pane40 che procurerà alcuni degli scatti di Ischia e Capri41. Le riproduzioni diventano un vero e proprio documento atto a testimoniare e a fungere da strumento finalizzato all’analisi del contesto; afferma Pagano: «L’insegnamento estetico che può derivare da questo materiale documentario, raccolto anzitutto per illustrare le tappe evolutive della casa rurale, può essere più intenso di quanto possa sembrare in un primo momento a chi vede soltanto, in queste fotografie, delle case umili, talvolta trascurate, spessissimo considerate come infima materia da capomastro campagnolo»42; al contrario, queste dimore auliche «per questo loro modo di esprimersi, tutt’altro che retorico e non contaminate dalle falsità della mediocre architettura borghese, riescono tanto interessanti all’occhio di un 40 Roberto Pane, storico dell’architettura napoletano, è stato uno dei pochi ad aver continuato sistematicamente gli studi sull’architettura rurale avanzati da Pagano, con il quale per altro era stato spesso in contatto, soprattutto in occasione della mostra allestita dall’architetto istriano. Nell’ambito della vasta bibliografia scritta dallo storico napoletano sull’argomento, il testo più interessante è il volume Architettura rurale campana, pubblicato a Firenze per le edizioni Rinascimento del libro proprio nel 1936, lo stesso anno della Mostra sull’architettura rurale. Lo studio condotto è assolutamente interessante perché sostanzialmente riprende a carattere locale ciò che Pagano stava facendo in un ambito nazionale. Pane perviene in sostanza alla medesima constatazione di Pagano e cioè che «le case rurali ci seducono per il loro carattere di rudimentale necessità» evidenziandone quindi il carattere essenzialmente funzionale cui si aggiunge la serena constatazione della metastoricità delle strutture spontanee, scrive infatti il napoletano: «Come per la nudità dei suoi elementi costruttivi essa (la casa rurale) è senza tempo, antica di pochi anni o di parecchi secoli». 41 Sarà proprio Pagano, nella prefazione al catalogo sull’architettura rurale, a specificare uno per uno i nomi di coloro che avevano fornito parte del prezioso materiale in occasione della mostra: «La maggior parte delle documentazioni fotografiche sono state eseguite da noi direttamente. Ne abbiamo scelte soltanto le essenziali. Hanno con noi collaborato gli architetti: P.N. Berardi di Firenze, per parecchie illustrazioni della casa toscana; M. Buccianti, per informazioni e fotografie delle case rurali del basso Egitto; N. Chiaraviglio di Roma, per informazioni sul Lazio; E. Moya di Madrid, per informazioni e fotografie di architettura rurale spagnola; R. Pane, per informazioni e fotografie di Ischia a Capri; G. Pellegrini per una documentata relazione sulla Tripolitania; G. Pulitzer-Finali, per il Sahara sud algerino e A. Scattolini per preziose indicazioni su tetti di paglia nel veneto. Il R. Politecnico di Palermo ci ha fornito interessanti rilievi delle case rurali della provincia di Palermo. Il Prof. Arch. Gino Chierici, infine ha cortesemente messa a nostra disposizione una ricca raccolta fotografica dei trulli pugliesi». G. Pagano, G. Daniel, premessa introduttiva al testo Architettura rurale italiana, cit. 42 Ivi, p. 72. 22 architetto moderno». Così la sana architettura rurale, portatrice di una bellezza modesta e discreta secondo Pagano, assurge ad unico modello edilizio in grado di ‘vincere il tempo’ e superare le ‘caduche variazioni decorative e stilistiche rinunciando a tutto ciò che è inutile e pleonastico’. È straordinario rilevare, alla luce della conoscenza di tutta la produzione architettonica di Pagano, la straordinaria coerenza delle sue idee politiche, sociali, architettoniche, che a dispetto degli eventi rimarranno sempre saldamente ancorate alle convinzioni e alla fede dei primi tempi: in tutte quante le sue opere rimarrà infatti immutata la ricerca di quella bellezza modesta ma onesta, leggibile nell’Istituto di Fisica di Roma così come nella sede dell’Università Bocconi di Milano. Un unico filo di ricerca che trova tutte le sue tracce proprio nell’analisi condotta in occasione della mostra rurale, che, come una sorta di esperienza formativa, lo aiuterà forse a mettere a fuoco i suoi stessi obiettivi progettuali. Il volume riscuoterà un notevole successo; nel novembre del ’36, sul numero 107 di Casabella esce un interessante articolo di Enzo Carli che commenta entusiasticamente il catalogo definendolo «un documento e una conferma di uno degli aspetti criticamente più significativi della polemica sulla nuova architettura»43. Lo storico d’arte senese si dilunga nell’elogiare la scelta coraggiosa dei due architetti soffermatisi su un tema ancora così poco sviscerato in Italia, dato che, a suo parere, «il meditare sull’architettura rurale» poteva contribuire «a sgombrare il terreno anche delle altre arti dal perpetuarsi infecondo di un errore che, nonostante l’attuale progresso della coscienza critica, seguita a creare artificiose barriere nella classificazione dei più disparati prodotti espressivi, ispira giudizi, giustifica mediocrità o umilia, confinandole nella mitica arcadia delle sagre paesane, autentiche forme di bellezza, là dove dovrebbe regnare 43 E. Carli, Il «genere» architettura rurale e il funzionalismo, in «Casabella», n. 107, novembre 1936. 23 incontrastata una serena e sagace attitudine a discernere e a valutare imparzialmente ogni vero accento di poesia»44. L’aspetto più importante del lavoro condotto in questi studi di Pagano è rivelato dalla sapiente capacità di lettura critica di Bruno Zevi, il quale mette in evidenza un aspetto sostanziale di questo suo lavoro: il vero fine perseguito dall’architetto istriano nel volume sull’architettura rurale, non è quello di scoprire in un ambito ancora non sondato, nuovi ‘eroi’ della progettazione, che a lui così poco interessavano, l’autore si ferma piuttosto ai ‘pezzi’ di architettura ben lieto di ignorarne gli autori, per dimostrare quanto sia grande e ricco il patrimonio architettonico e culturale nel nostro paese, in parte ancora del tutto incompreso e inesplorato. Afferma il critico : « Pagano non si occupò di edilizia popolare per il gusto di aggiungere due o tre nomi all’elenco dei ‘grandi’, ma per rilanciare un’idea di architettura»45. In definitiva, questo volume, assume, nell’ambito della produzione culturale razionalista, il valore di un insegnamento etico di portata assolutamente metastorica. c. Una scelta inedita: l’analisi del contesto urbano e sociale attraverso un catalogo fotografico L’aspetto indubbiamente più originale, la novità assoluta della ricerca condotta dai due autori, oltre che nel tema prescelto, consiste senz’altro nel metodo utilizzato, e nel modo in cui esso viene proposto. L’idea di una mostra e di un catalogo fotografico risulta infatti inedita e vincente46. 44 E. Carli, cit. B. Zevi, Controstoria dell’architettura italiana. Dialetti architettonici, cit., p. 15. 46 Tra le esperienze direttamente collegate alla mostra di Pagano, Cesare de Seta richiama alla memoria quella realizzata in America da Bernard Rudofsky con la mostra Architecture without architects, tenuta al Museum of Modern Art di New York nel 1964. Lo storico napoletano fa evincere la profonda influenza 45 24 Nel lavoro di Pagano e Daniel, si da vita ad una ricerca le cui tesi vengono dimostrate attraverso immagini e testo: le fotografie commentano le pagine scritte e, nello stesso tempo, queste ultime, commentano le immagini. Il potere dell’icona, viene inaspettatamente fuori in tutta la sua capacità comunicativa. L’intenzione è quella di creare uno strettissimo rapporto tra le due forme di comunicazione visiva, realizzando quindi un approccio di valore documentario assoluto. Ciò che più colpisce di questo lavoro è, in definitiva, l’indipendenza dell’elemento fotografico. Le fotografie finiscono per recare anch’esse un messaggio, come il testo, un messaggio e un significato preciso di cui non si potrebbe fare a meno così come delle parole, insomma l’approccio alla materia è quasi di tipo fotogiornalistico. Con una incredibile semplicità, viene adottato nel migliore dei modi il nuovo mezzo di comunicazione e divulgazione, inteso quale strumento di indagine e conoscenza del territorio antropizzato. In Italia è la prima analisi di questo tipo condotta con uno strumento ed un metodo ancora poco sondati di cui si conoscono solo alcune delle infinite potenzialità. Ci si chiede a questo punto quale esempio europeo ed internazionale possa effettivamente essere valso al nostro da riferimento. Quella che si può considerare in assoluto la prima indagine di un certo spessore mai compiuta su un territorio mediante l’utilizzo della fotografia, risale all’estate del 1851 e viene realizzata in Francia, dove la esercitata dalla mostra di Pagano del ’36 su quella poi realizzata da Rudofsky nel ’64, che idealmente viene organizzata come prosieguo e sviluppo della prima. Cfr. C. de Seta, Il destino dell’architettura: Persico, Giolli, Pagano, Laterza, Roma-Bari, 1985, p. 292. Effettivamente in questa occasione, l’architetto viennese che per tanti anni lavora in collaborazione con il napoletano Luigi Cosenza, riprende quel discorso sull’architettura spontanea che trova indubbiamente le sue origini nel lavoro di Pagano. Rudofsky continua le indagini su questo tema specifico anche negli anni a seguire tanto che, nel 1979, darà alle stampe un interessante volume intitolato Le meraviglie dell’architettura spontanea, edito dalla Laterza. Lo studio accurato e puntuale riprende molti dei temi paganiani dell’architettura rurale, collegandosi poi in maniera diretta con altre indagini, che, contemporaneamente a livello internazionale, stavano indirizzando il cammino verso l’architettura mediterranea. Esiste difatti un collegamento evidente tra la ricerca svolta negli anni ’30 da Pagano e quella che avrebbe poi portato alle prime definizioni di casa mediterranea, le cui origini probabilmente si devono proprio all’istriano ed alle sue riflessioni sulla dimensione spontanea dell’abitare che aveva aperto nuovi, impensati, orizzonti architettonici. Cfr. Capitolo IV di questo volume. 25 Commissione per i Monumenti Storici incarica cinque fotografi, fra i quali il celebre Hippolyte Bayard, di documentare una serie di edifici architettonici da restaurare. Nasce la Mission Héliographique, che tocca più di 120 località in 47 dipartimenti francesi47. La fotografia risulta per la prima volta in grado di registrare il territorio, e si tratta di un’operazione oggettiva il cui fine è la conoscenza, in un clima di totale fiducia positiva nel progresso; in questo già allora la tecnica fotografica dimostra di precorrere i tempi, visto che la prima Mission risale appunto alla metà dell’Ottocento ed allora l’uso stesso della fotografia non era per nulla comune, e in alcuni casi nemmeno conosciuto48. Ma l’esperienza più affine per intenti e metodo, e che si svolge quasi in contemporanea con il lavoro realizzato da Pagano è l’indagine condotta sul territorio americano dalla Farm Security Administration (FSA). In effetti non possiamo essere certi che l’architetto, vissuto sempre in Italia, abbia avuto contatti con tali esperienze d’oltreoceano ma, vista la sua sempre dichiarata apertura nei confronti della cultura internazionale, non può di certo passare inosservata la singolare analogia esistente tra l’approccio all’indagine condotto sul territorio americano dalla FSA e quello portata avanti dal Nostro in Italia. I motivi che portano alla nascita della Farm Security Administration, singolare agenzia governativa, costola del Dipartimento dell’Agricoltura americano, sono molteplici, complessi e di grande interesse. 47 A. Madesani, Storia della fotografia, cit. Lo scopo dichiarato è quello di ‘gettare le basi di un museo pittoresco e archeologico’. Bayard parte per la Normandia, la tecnica fotografica di cui si serve prevede l’uso di lastre di vetro all’albumina, Edward Denis Baldus va a Fontainebleau, in Bretagna e nel Delfinato munito di negativi di carta; Grey e Mestral in Turenna e in Aquitania, mentre Le Secq si reca nella Champagne, in Alsazia e in Lorena lavorando su negativo di carta cerata. Le immagini prodotte costituiranno un vero e proprio censimento monumentale della Francia e non saranno mai pubblicate. Cfr. anche J.-A. Keim, Breve storia della fotografia, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2001. Un articolo molto interessante sulla ‘missione’ francese è quello di J.F. Chevier, Architettura e paesaggio. Dalla Mission Héliographique alla DATAR, in «Rassegna», numero monografico sulle Fotografie di architettura, dicembre 1984. 48 26 Salito al governo degli Stati Uniti Franklin Roosevelt, il paese è allo sbaraglio nel tentativo di uscire dalla grande crisi del ’29, causata dal crack della borsa alla quale si aggiunge una calamità terribile che, dal 1932 al 1936, vede l’intera zona degli Stati Uniti compresa tra il Texas e North e South Dakota, colpita da una gravissima siccità che strema e fiacca la condizione già precaria del mondo agricolo. Con l’aggravarsi della situazione il presidente e i suoi consiglieri avvertono la necessità di comprendere e conoscere il territorio americano, onde approntare un appropriato quadro di leggi ed interventi volti al sostegno e miranti alla ripresa dei contesti urbani come di quelli extraurbani e più propriamente agricoli; per questo motivo nel 1935 Roy Stryker, assistente alla cattedra di Economia presso la Columbia University del Prof. Redford Guy Tugwell (consigliere del presidente Roosevelt), viene incaricato di mettere insieme un gruppo di lavoro per documentare la situazione delle zone agricole del paese49. Nasce in questa occasione la più importante missione fotografica della storia: la Farm Security Administration. In realtà il compito affidato a Stryker consiste nel cercare di illustrare i problemi concreti, nonché i rapporti sociali di un certo contesto urbano e contadino della società americana, sarà poi tutta sua, la decisione di assolvere tale incarico conducendo una vera e propria campagna fotografica50. Anche in questo caso, ci si trova di fronte ad una profonda carenza di materiale documentario a disposizione, che spingerà lo studioso americano ad assoldare un gruppo di reporters: sostanzialmente lo stesso presupposto che aveva spinto Pagano ad improvvisarsi fotografo in prima 49 A. Madesani, Storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 2005. È possibile che Stryker abbia avuto notizia della ricerca condotta dal sociologo Paul Schuster Taylor assieme alla fotografa Dorothea Lange (che diventerà membro della FSA) in California sulla crisi dei lavoratori agricoli nel 1935, e che può essere valso a lui da esempio di riferimento. Precedentemente la stessa Lange aveva affrontato, in maniera individuale e non organica, i problemi del proletariato nel 1933, con una pubblicazione che aveva avuto la forza di una denuncia: White Angel Breadline. 50 27 persona, con le dovute differenze dei due casi, considerando il fatto che l’architetto istriano non aveva a disposizione i mezzi economici di Stryker essendo indubbiamente la sua non una missione governativa. Nel testo introduttivo del catalogo uscito nel 1975, in occasione della mostra italiana del materiale raccolto dall’FSA, a cura di Arturo Carlo Quintavalle, vengono evidenziati gli aspetti e i caratteri peculiari di questa esperienza, che rivela notevoli analogie con quella italiana; in entrambi i casi si giunge al medesimo risultato, «il recupero del popolare non come luogo di rifugio mitico ma come momento di inveramento di una cultura ‘nazionale’»51; inoltre, sull’aspetto sociale e documentario della missione americana incidono – come pure accade per l’esperienza italiana di Giuseppe Pagano – «gli sviluppi di una ricerca profondamente impegnata a livello civile, la Neue Sachlickeit, che in Germania assume un rilievo determinante come alternativa, in certo senso, alla posizione del Bauhaus sui temi dell’arte»52. Anche la svolta socialista della politica internazionale in cui si identifica il lavoro della Farm, avrà un discreto seppur non evidente impatto sulla cultura italiana. Bisogna considerare che, negli anni di contestazione in cui si assiste alla nascita dell’FSA, a livello internazionale la piega rivoluzionaria che stavano prendendo certe vicende politiche era chiara; diversi fotografi della Farm, infatti, in special modo Ben Shahn, si dimostrano molto vicini agli ambienti rivoluzionari internazionali. In particolare Shahn seguirà sempre e molto da vicino gli eventi che porteranno alla rivoluzione messicana. Molti artisti messicani di questo periodo rappresenteranno un riferimento esemplare per lui come per tanti altri protagonisti del mondo artistico 51 Aa. Vv., Farm Security Administration (La fotografia sociale americana del New Deal), introduzione di A.C. Quintavalle, catalogo della Mostra itinerante organizzata dal Centro Studi e Museo della fotografia e dell’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Parma, Parma 1975. 52 Ivi, p. XVI. 28 contemporaneo53; figure come quella del pittore Diego Rivera e della moglie Frida Cahlo, ai quali si unisce la voce di una contemporanea fotografa italiana e attivista reazionaria che lo stesso Pagano non poteva ignorare, Tina Modotti54, incidono profondamente con il loro esempio sovversivo e le posizioni d’avanguardia su tutta la cultura internazionale. Si parla, in definitiva, di un fermento diffuso che in maniera diretta o indiretta giunge sicuramente all’ambiente culturale italiano e probabilmente all’architetto istriano, attento come pochi all’agitazione e alle problematiche che scuotevano il mondo fuori dallo stivale. Ciò che Pagano assorbe da queste esperienze d’oltreoceano è un nuovo modo di guardare e indagare il territorio antropizzato alla luce di una lettura che potremmo definire anche sociologica. Questa inedita attenzione nei confronti di una realtà diseredata, problematica, evidenzia niente altro che la nascita di una sensibilizzazione sempre più diffusa nei confronti di determinate realtà fino a quel momento mai prese in considerazione. Nell’ambito di un contesto puramente architettonico, il discorso non è poi slegato dal dibattito sulla casa che pure tribolava la cultura architettonica di quegli anni e che vede in Italia proprio la voce di Pagano alzarsi di un tono più alto su quelle degli altri. 53 Allo stesso Walker Evans è stata accreditata un’influenza profonda da parte della cultura artistica messicana; scrive Ian Jeffrey a questo proposito: «È probabile che Evans abbia tratto ispirazione (per i suoi lavori fotografici) dalle grandi pitture composite, raffiguranti scene di vita americana, dipinte all’inizio degli anni Trenta da Diego Rivera, pittore messicano di murales, studi elaborati e molto spesso critici della società industriale. Evans certamente li conosceva avendoli fotografati alla New Workers’ School di New York per l’inclusione nel volume di Bertram Wolfe Portrait of America (1934). Rivera era un critico feroce che esponeva i suoi punti di vista in modo alquanto brusco in immagini cariche di tratti grotteschi e modelli esemplari contrapposti, accanto ad affollate scene di vita quotidiana. Evans analizza con più calma le situazioni, ma fa uso in American Photographs di una sintassi pittorica simile». I. Jeffrey, Fotografia, cit. 54 Tina Modotti (1896-1942), compagna di Edward Weston, fotografo americano di grande rilievo, è italiana di origini ma vive quasi tutta la sua vita in Messico. Eroina della rivoluzione messicana, le sue foto simboleggiano la dignità e le battaglie delle popolazioni indigene attraverso le immagini di bambini che giocano nella terra e dei volti imperiosi delle donne indie. In seguito all’espulsione per cause politiche dal Messico nel 1930, vive per un periodo in Germania, dove le sue immagini vengono utilizzate da una rivista di sinistra, «Der Arbeiter-Fotograf». A. Madesani, Storia della fotografia, cit., pp. 110-111. 29 Volendo isolare, nell’ambito dell’FSA i singoli fotografi, tra i reclutati forse quello più affine a Pagano per approccio, intenti e per il modo di usare la macchina è Walker Evans che proprio nel 1936, anno della mostra italiana sull’architettura rurale, si stacca dal gruppo per realizzare, insieme a James Agee, un libro sulle condizioni dei mezzadri in Alabama. Singolare la scelta di unirsi proprio ad uno scrittore per condurre a termine il libro, unendo quindi due forme narrative: la scrittura e la fotografia, stesso binomio utilizzato da Pagano nel catalogo seguito alla mostra55. Quello dell’istriano è ‘un occhio lirico e non oblioso’ per usare le parole di Giulia Veronesi, l’occhio del fotografo e dell’architetto, ma anche del giornalista, che nei suoi scatti denuncia, afferma, sottolinea, rivela, insegna, scrivendo pagine di storia e lo stesso in definitiva seppure in modo differente, farà Evans. Di certo, ciò che delle immagini di Evans colpisce per le analogie con gli scatti dell’architetto, è tra le altre cose la scelta dei temi indagati: il paesaggio ad esempio, inteso non solo nella sua dimensione lirica ma anche concreta; Evans riprende non il paesaggio che circonda la città ma piuttosto «la città stessa e il suo rapporto con l’ambiente»56. Confrontando alcune foto del ‘cacciatori d’immagini’ con quelle di Walker Evans, si avverte uno spirito comune, una comune intesa e sensibilità ad esempio nel rivelare la eventuale presenza degli uomini non in maniera diretta ma attraverso le loro tracce, «la strada principale, le strade secondarie sono in Evans, deserte, è l’architettura infatti che presuppone immediatamente, allude, richiama la presenza umana, senza questa i personaggi sarebbero fuori della 55 Nel 1939 giungeva clandestinamente in un’Italia sotto censura fascista American Photographs, un racconto per immagini che causerà un forte choc alle giovani leve della fotografia italiana. L’opuscolo viene pubblicato in quello stesso anno sulla rivista «Corrente» e recensito da Alberto Lattuada. Involontariamente questo lavoro deciderà le sorti del realismo fotografico italiano, influenzando in modo diretto le prime opere inquadrabili nella corrente neorealista, da Occhio Quadrato dello stesso Lattuada all’antologia Americana di Elio Vittoriani, nonché la seconda fase della produzione fotografica di Pagano. 56 Aa. Vv., Farm Security Administration …, cit., p. XX. 30 storia»57. Negli scatti del fotografo americano inoltre, come in quelli del nostro architetto, l’interesse è rivolto all’architettura così detta ‘coloniale’ con la volontà precipua di recuperare una cultura nazionale. Per questo l’occhio del fotografo si posa sul costruito in maniera rigorosamente analitica, utilizzando vedute centrali, serie di immagini staccate, composte, ma su tutte, è evidente uno stile di racconto inconfondibile; in questo ultimo aspetto, dalla maniera di fermare la realtà sin troppo rigorosa di Evans, si distingue invece il lavoro di Pagano, il quale si lascia andare a tagli e punti di vista inediti quasi mai suggeriti da uno regola o una impostazione prestabilita, che, al contrario, rendono un po’ troppo rigidi alcuni scatti del fotografo americano. In questo aspetto forse Pagano potrebbe essere piuttosto associato ad un altro singolare protagonista della FSA: Ben Shahn. La sua tecnica infatti spazia dalle sperimentazioni libere della nuova oggettività con l’utilizzo del fuori fuoco e dello sfumato, ai tagli obliqui e radenti58. Ma per l’impegno ideologico e morale degli scatti di Pagano il confronto con la Lange, che collabora solo per pochi anni con la Farm, è immediato. Dorothea Lange conduce una vera e propria ricerca antropologica che la vedrà sempre in prima linea nella denuncia delle ingiustizie e iniquità del governo americano; inoltre, un altro aspetto la lega all’architetto istriano è la sua esplicita attitudine narrativa, l’intenzione della Lange è quella di «scrivere di una situazione sociale, il suo fotografare vuole essere come un documento; tutto ciò si inserisce in una situazione letteraria che è quella del romanzo-saggio, e del romanzo ‘di 57 Ivi, p. XX. «Le sue immagini hanno il casuale, l’asimmetrico dello sguardo privato, della osservazione del particolare; per questo le sue figure non sono mai messe in posa». Idem, p. XXIII. L’approccio fotografico di Shahn è la risposta ad una chiara visione potremmo dire politica del mondo che lo circonda: il suo eliminare sé come fotografo testimone, come fotografo-giudice, è frutto di una volontà precisa, quella di rifiutare la figura classica dell’intellettuale, dell’esperto che dall’alto del suo sguardo in fondo condiziona il contesto. Evidentemente è una precisa coscienza politica a guidarlo, una scelta di sinistra se non addirittura marxista. 58 31 intervento’»59 insomma nulla di più vicino al carattere giornalistico dell’approccio di Pagano. In definitiva non esiste una certezza del confronto di Pagano con alcune delle campagne fotografiche contemporanee condotte sui territori internazionali, risulta comunque oltremodo probabile che il riflusso di una certa ricerca d’oltreoceano avesse raggiunto il nostro esterofilo giornalista e non stupirebbe affatto se avesse in prima persona preso visione dei lavori condotti in quegli stessi anni in Francia e in America. Giuseppe Pagano, in tutta la sua carriera di architetto, critico, giornalista, si dimostra d’altronde sempre attento a cogliere la germinazione dei nuovi dibattiti internazionali e sappiamo che di certo seguì la questione dell’abbandono delle campagne, cui è saldamente legata l’esperienza della Farm. L’attenzione di Pagano si rivolge ovviamente soprattutto a quegli aspetti più propriamente architettonici conseguenti ai disagi causati dai profondi mutamenti sociali verificatisi nel giro di pochi anni. Quindi se il carattere della campagna della Farm è più legato a un discorso sociale, quello della ricerca di Pagano risulta più interessato al carattere architettonico60 del problema da cui poi fa derivare le conseguenze di carattere sociale. 59 Ivi, p. XXII. L’architetto, come sempre in prima linea nei dibattiti e in particolare nei confronti di quello relativo all’alloggio, punta subito il dito contro le cause di tali disagi, da ricercare a suo parere nella pessima conduzione della politica urbanistica e architettonica. Molto interessanti riguardo al tema della casa e più in generale del problema urbanistico, sono gli articoli pubblicati su «Casabella»; in particolare nel saggio intitolato l’ordine contro il disordine, Pagano recupera ancora una volta il tema della casa rurale facendola assurgere ad esempio e modello di perfezione e ordine: «Nella concezione della casa, se si tolgono le eccezioni dei trulli e dei pagliai, che ripetono ancora alcune fasi di abitazioni antichissime, l’evoluzione verso l’angolo retto e verso lo schema ortogonale è già sufficientemente grande. Ma negli aggregati di case – direi quasi, con termine batteriologico, nelle colture di case – il senso di ordine è ancora gravemente compromesso da molte barriere che si oppongono ad una realizzazione geometrica completa e perfetta. Difatti, dove le barriere sono minori e dove esiste una maggiore libertà di atteggiamenti, l’uomo si abbandona subito, con logica e funzionale eleganza, al suo istintivo ideale geometrico. Una casa rurale, una cascina di pianura, una loggia della collina bergamasca si inseriscono con spontanea grazia lineare entro la grande geometria delle colture e dell’orientamento solare». G. Pagano, l’ordine contro il disordine, in «CasabellaCostruzioni», n. 132, dicembre 1938. 60 32 Pagano però, nell’analizzare i problemi più spinosi della realtà rurale, non si limita a considerare il depauperamento delle risorse dovute all’abbandono delle campagne, ma soprattutto l’impoverimento culturale indotto da tali trasformazioni: la conseguenza più grave verificatasi era stata infatti la sistematica rinuncia alle tradizioni antiche e a quelle conoscenze trasferite di padre in figlio che arricchivano le comunità e che riguardavano ovviamente anche tecniche architettoniche tramandate nei secoli, un patrimonio culturale decisamente troppo prezioso per poter essere perso. Proprio questo delicato aspetto spingerà l’architetto a portare avanti, anche dopo l’esperienza della Mostra del ’36, la catalogazione dei paesi rurali italiani e delle loro realtà; immortalando le più singolari dimensioni arcadiche attraverso gli scatti fotografici, Pagano ne garantisce in qualche modo la sopravvivenza. In definitiva, possiamo dire che, quella sull’architettura rurale italiana di Pagano, si dimostra un’analisi assolutamente inedita sotto molti punti di vista. Le immagini di Matera, delle province lombarde e campane fino alle realtà più isolate del Trentino rappresentano una testimonianza muta eppure irrinunciabile del prezioso patrimonio architettonico e culturale dell’Italia degli anni Trenta, un patrimonio giunto fino a noi anche grazie alla lungimiranza di un eroe della Resistenza. Pagano arricchirà l’ archivio fino agli ultimi anni della sua vita. La fotografia, nelle sue mani sapienti, diviene uno strumento eccellente per documentare e porre a nudo certe realtà, per denunciarle e mettere in guardia la società contro l’ingenua presunzione che si possa progettare il nuovo senza tenere nel giusto conto le tracce e i suggerimenti preziosi del nostro passato. Ma il punto è che di questo nostro passato Pagano non 33 sceglie solo ‘nobili’ esempi di riferimento ma cerca i suoi prototipi nell’ambito di quelle opere che a suo parere più di altre rispecchiano la ‘orgogliosa modestia’ del popolo italiano. 34 II. In lungo e in largo attraverso il Bel Paese seguendo le tracce di un architetto fotografo a. Il corpus dell’Archivio fotografico Il materiale fotografico raccolto negli anni da Giuseppe Pagano, può essere essenzialmente distinto in due parti: il materiale collezionato per la VI Triennale61, che conta circa 1300 immagini e un altro gruppo più folto, realizzato dopo la mostra, consistente in 3558 provini cui corrispondono quasi in ugual numero i negativi. Le fotografie realizzate in occasione della Mostra sull’architettura rurale, sono raccolte in volumi non numerati, che recano incisa in dorato la scritta ‘VI Triennale’, contenenti negativi 6x6 e relativi provini stampati a contatto; in questa prima esperienza, Pagano non compie una schedatura puntigliosa e accurata come farà poi, individuando ciascun negativo con una sola cifra identificativa; a questa indeterminatezza, si aggiunge il fatto che i provini non riportano alcuna informazione sull’oggetto ripreso, eventuali riferimenti topografici, né altre annotazioni. Questa notevole carenza di notizie specifiche relative alle fotografie del primo gruppo, ha comportato inevitabilmente una elevata difficoltà nell’individuazione dei luoghi e degli oggetti architettonici ripresi. La seconda parte dell’archivio invece, prodotta dopo il 1936, viene organizzata in maniera decisamente più scrupolosa, secondo una doppia cifra relativa al volume in cui è contenuto e il numero di identificazione di ciascun negativo, mentre i provini, stampati sempre a contatto, sono 61 Si tratta della VI Triennale di architettura che si tenne a Milano nel 1936. In questa occasione Giuseppe Pagano viene nominato direttore della mostra, insieme a Mario Sironi e al critico Felice. 35 collocati su appositi supporti cartonati corredati da tutta una serie di informazioni fondamentali che hanno permesso una semplice e relativamente veloce conoscenza dell’intero materiale archiviato. Questa prima distinzione nell’ambito della produzione, risulta essenziale onde comprendere il ciclo evolutivo del lavoro fotografico di Pagano che subisce un sostanziale cambiamento nella fase di passaggio tra il primo periodo fotografico – coincidente con la produzione del materiale per la mostra – e il secondo periodo. A dispetto di queste due fasi è possibile ad ogni modo, individuare alcuni fondamentali argomenti oggetto di studio, nati nella maggior parte dei casi dalla curiosità e per certi versi dalla deformazione professionale dell’architetto posto dietro all’obbiettivo, che riprende del mondo ciò che più lo attrae e lo colpisce. Come infatti è stato già evidenziato nei primi studi condotti sull’archivio62, nell’ambito della ricca documentazione fotografica si distinguono alcuni temi peculiari trattati in modo attento e preciso: l’architettura rurale, l’architettura contemporanea, l’archeologia, il fascismo e la guerra, il lavoro ed il tempo libero, le forme, i ritratti. Al di là dei negativi utilizzati in occasione della mostra, davvero pochi ne vengono riprodotti per la pubblicazione in riviste e volumi. Tra questi, alcuni scatti sono impiegati per l’illustrazione di articoli su periodici di vario genere, più specificamente architettonici, nonché di argomento foto e cinematografico; tra le riviste individuate, c’è ovviamente «Casabella», sulla quale Pagano riprodurrà diversi scatti realizzati tra il 1936 e il 193963; 62 Cfr. C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, Electa, Milano 1979; Id., Giuseppe Pagano fotografo, in Il destino dell’architettura, Persico Giolli Pagano, Laterza, Roma-Bari, 1985, p. 259. 63 Su «Casabella» vengono pubblicate le seguenti immagini: Autocamionale vol. 3 num. 2, «Casabella» n°107, novembre 1936; Bandiere vol. 42 num. 10 e num. 17, «Casabella» n° 108, dicembre 1936; Cariatidi vol. 51 num. 33, «Casabella» 1936; Balilla vol 41 num 25 e num 29, «Casabella» n° 116, agosto 1937; Paestum vol. 8 num. 2, Paestum vol. 7 num. 49, «Casabella» n.109, gennaio 1937; Litoceramica vol. 61 num. 21, «Casabella» n. 127, luglio 1938; Gandino vol. 22 num. 47, «Casabella» n. 130, ottobre 1938; Gandino vol. 23 num. 16, «Casabella» n. 130, ottobre 1938; Edolo vol. 17 num. 23, 36 alcuni negativi verranno riproposti su «Domus» tra il 1940 ed il 194164, cioè nel breve periodo in cui Pagano dirige la rivista insieme a Bontempelli e Bega, altre fotografie sono pubblicate sul periodico specializzato «Natura»65, nonché diverse proposte su «Fotografia»66, «Tempo illustrato»67 e «Cinema»68. Non è chiara la ragione di una così esigua pubblicazione del materiale fotografico da parte dell’architetto, è lecito comunque ritenere che non esista un motivo preciso per questo; in effetti bisogna pensare all’archivio «Casabella» n. 130, ottobre 1938; Cattedrale Pienza (il titolo in questo caso non è dell’autore perché non essendoci la stampa a contatto del negativo non siamo in possesso del supporto in cartoncino con le relative informazioni tecniche del fotografo) vol. 8 num. 55, «Casabella» n° 133, gennaio 1939; Loggia del palazzo Piccolomini (titolo non originale) vol. 9 num. 2, «Casabella» n° 133, gennaio 1939; San Quirico cappella della Madonna del Rosario (titolo non originale) vol. 9 num. 5, «Casabella» n° 133, gennaio 1939; Pienza vol. 37 num. 6, Pienza vol. 8 num. 54, Pienza vol. 8 num. 48 e num. 49, «Casabella» n. 133, gennaio 1939; 64 Le foto sono inserite nell’articolo di Pagano intitolato Partenone e partenoidi, in «Domus», n. 168, dicembre 1941. Si tratta di Atene vol. 72 num. 47 e Atene vol. 73 numeri 3 – 4 – 5 – 9 – 10. 65 Le fotografie pubblicate da Pagano in questa rivista sono piuttosto numerose, un interessante resoconto delle stesse viene fatto da Marina Miraglia in C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, Electa, Milano 1979, p. 154. I numeri di «Natura» nei quali sono inserite le immagini dell’architetto sono quelli di giugno 1936, maggio 1938, ottobre 1938, dicembre 1938, gennaio 1939, febbraio 1940, luglio-agosto 1941, maggio-giugno 1942. 66 Il primo numero della rivista «Fotografia» viene pubblicato nel 1932 dall’editoriale Domus. Animatore vivace della rivista specializzata è Giulio Mazzocchi. Cfr. C. de Seta, Giuseppe Pagano fotografo, in Il destino dell’architettura …, cit., p. 272. 67 Immagini delle Cariatidi di Pagano vengono pubblicate su «Il Tempo», settimanale illustrato, nell’articolo di F. Clerici, Stanchezza delle cariatidi, del 13 giugno 1940. Quasi contemporaneamente alla chiusura della rivista «Omnibus» di Leo Longanesi, per imposizione del regime, Alberto Mondadori comincia l’avventura del primo rotocalco italiano illustrato: «Il Tempo». L’idea è quella di proporre una forma inedita di comunicazione giornalistica che utilizzi su tutto il medium fotografico, in linea con la sperimentazione internazionale. Alla fotografia si affida quindi un ruolo di totale autonomia, al quale si accompagna il modello narrativo del documentarismo cinematografico che grande rilevo aveva già assunto oltreoceano. Con la rivista «Tempo» nasce la formula del fototesto: una sorta di film-documentario statico con sequenze narrative di immagini indipendenti dai testi che fungono da commento sonoro. Impaginato da Bruno Munari, il fotogiornale annovera nel suo staff diversi fotografi-architetti tra cui appunto Giuseppe Pagano ma anche Enrico Peressutti e Leonardo Belgioioso; tra gli altri personaggi non può sfuggire il lavoro di Alberto Lattuada e Federico Patellani che daranno un’impronta fondamentale alla rivista. Cfr. E. Taramelli, Federico Patellani, in Viaggio nell’Italia del Neorealismo. La fotografia tra letteratura e cinema, Società editrice internazionale, Torino 1995. 68 Le foto riportate sono inserite nell’articolo intitolato Un cacciatore d’immagini, uscito sul numero di «Cinema» del dicembre 1938 e si tratta di: Procida vol. 25 num. 18 e di Procida vol. 34 num. 44. La rivista «Cinema» viene edita dalla Hoepli, raggiunge il periodo di massimo splendore negli anni della direzione di Vittorio Mussolini, grande appassionato di Cinema e filmografia, soprattutto americana, che se ne occuperà dal 1938 in poi. Nel giro di pochi anni il giornale diviene rapidamente competitivo, grazie ad una nuova veste in linea con i contemporanei rotocalchi, un esempio su tutti quello di «Omnibus» di Leo Longanesi. Divenuta l’organo di tendenza della giovane fronda degli allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia fondato nel 1932 da Alessandro Blasetti, la rivista «Cinema» troverà soprattutto in Giuseppe De Santis il suo più accanito animatore. 37 come ad un lavoro inteso nella sua globalità e autonomia, l’architetto cioè non produce fotogrammi funzionali a un articolo da pubblicare o ad un testo da illustrare ma contestualizzati nell’ambito di un lavoro ben più vasto e organico; ciascuno scatto collabora a definire un’indagine attenta sull’uomo e il suo habitat, che può leggersi proprio attraverso la visione comparata di tutto il materiale prodotto, elaborato in una sorta di sequenza documentaria, all’interno della quale si individuano reportages autonomi. Esclusa infatti l’esperienza per la mostra rurale, Pagano non utilizzerà, se non in rarissimi casi, le foto come prodotto grafico da allegare a quello scritto. L’archivio rappresenta quindi un corpus autonomo che va studiato in quanto tale: il materiale fotografico racconta una storia tutta sua, totalmente indipendente seppure in linea con la ricerca progettuale e giornalistica dell’architetto. L’anima di Pagano non è quella del fotoreporter, del fotogiornalista d’assalto che scatta immagini sulle quali si possano poi scrivere articoli al vetriolo: il percorso è esattamente l’inverso, la sua diviene negli anni una raccolta paziente e certosina; pur restando sempre in lui più forte la dimensione del cronista che utilizza su tutto la parola, la fotografia diviene infatti una conquista fondamentale, uno strumento di comunicazione indispensabile. Non sarebbe fuor di logica supporre che l’architetto stesse preparando, con il suo lavoro d’archivio fotografico, una raccolta organica e completa da studiare a posteriori, una sorta di eredità spirituale: un’eredità fatta d’immagini, ausilio ulteriore di un’altra eredità che l’architetto aveva deciso di lasciare ai posteri, quella scritta, attraverso i suoi saggi e articoli69 e quella costruita, inverata nei suoi progetti. 69 Una interessantissima raccolta antologica di alcuni degli scritti più importanti dell’architetto istriano è pubblicata a cura di Cesare de Seta, Pagano. Architettura e città durante il fascismo, Laterza, Roma-Bari 1976, ried. 1990. 38 Pagano infatti oltre che un architetto, un giornalista, un critico e un fotografo, è stato un maestro per il quale l’insegnamento nei confronti dei giovani, inteso in senso morale ed etico prima ancora che dottrinario, ha rappresentato un carattere essenziale70. La vera conquista del mezzo fotografico da parte di Pagano avverrà come già abbiamo ampiamente evidenziato, solo in seguito alla sua prima esperienza con la mostra rurale71. Nel volume scritto in questa occasione, le foto, utilizzate come documento nel senso più rigido della parola, vengono chiamate ad illustrare un dato preciso. Ovviamente tale circostanza risulterà limitante per l’autore. Guardando infatti le immagini utilizzate nel catalogo salta subito all’occhio la scelta di visuali, tagli e punti di vista, miranti principalmente ad evidenziare le varie tipologie architettoniche selezionate e in taluni casi le specifiche caratteristiche strutturali e tecnologiche che si intendeva illustrare72. Negli anni a seguire, l’approccio fotografico di Pagano muterà profondamente; liberatosi dalla necessità di procurare materiale per un lavoro tanto specifico, l’architetto si affranca dagli schemi di ripresa stereotipati riconoscibili nelle prime immagini, per dare il via ad un linguaggio fotografico del tutto diverso e originale. Dalle foto realizzate nello stesso anno, il ‘36, ma non utilizzate per la mostra e aventi come tema sempre l’architettura rurale, si evince il profondo cambiamento maturato. L’oggetto architettonico viene innanzitutto inserito quasi sempre nel contesto territoriale eventualmente antropizzato e una miriade di dettagli cominciano a prendere forma e a catalizzare l’attenzione dell’obbiettivo. 70 Cfr. Capitolo IV di questo volume. Cfr. Capitolo I di questo volume. 72 Cfr. G. Pagano, G. Daniel, Architettura rurale italiana, Hoepli, Milano 1936. 71 39 Lo sguardo dell’artista si apre su un universo infinito di oggetti e personaggi, viene ampliato decisamente il campo di ripresa e di ricerca, nonché approfondita, negli anni, la tecnica. Sulla maturazione fotografica di Pagano, se pure incide la consapevolezza aquisita negli anni delle sue capacità tecniche per cui la prima esperienza si evolverà in passione e con il tempo in un lavoro, non può essere comunque sottovalutata l’influenza dovuta ai suoi eccezionali percorsi di vita nonché alla controversa vicenda della sua fede fascista. Il dictat dell’assolutismo imponeva infatti in quegli anni, un taglio fotografico che fosse esclusivamente volto all’esaltazione del regime e alla descrizione di un impero che trovasse, nella retorica e nella monumentalità, la sua ragion d’essere73. Se Pagano avesse realmente voluto assecondare tale volontà politica, avrebbe dovuto realizzare una produzione molto più in linea con quella proposta (ma in realtà imposta) dalla dittatura. Non mancavano d’altronde eventuali riferimenti dato che, proprio in quegli anni, nascevano i primi centri sperimentali di fotografia e cinematografia fascista74. Eppure Pagano non avrà mai contatti con questi gruppi, tutt’altro, egli sarà invece costantemente vicino alle fronde delle avanguardie foto e cinematografiche. È del tutto lecito ritenere che, immagini di un’Italia reale pur nella sua povertà e semplicità come quelle che arricchiscono la produzione di Pagano, non sarebbero probabilmente risultate ben accette al regime. Ecco perché forse, in una occasione ufficiale come quella della mostra, Pagano preferisca esporre delle immagini per così dire ‘neutre’ e strettamente funzionali al caso. 73 Cfr. P. Bevilacqua, Il Paesaggio italiano nelle fotografie dell’Istituto Luce, Editori Riuniti, Roma 2002. Nel 1925 nasce l’Istituto Nazionale L.U.C.E. (L’Unione Cinematografica Educatrice), con il precipuo scopo di indirizzare e educare – come indica chiaramente la sigla – la produzione fotografica e cinematografica. 74 40 In effetti va rilevato che, nelle foto dell’architetto, non c’è mai un evidente accanimento volto alla denuncia di uno stato dittatoriale ritenuto deleterio, come invece faranno o tenteranno di fare altri suoi colleghi, perché non è questa la convinzione maturata da Pagano, almeno non da subito75; ciò non toglie che il suo sguardo non si esima dall’osservare il Paese con il lecito turbamento e il dissidio interiore di chi in fondo, il dubbio, ce l’ha nel cuore. In definitiva, la fotografia di Pagano, si dimostra sin dai primi lavori più o meno consapevolmente scevra dalle imposizioni dell’ideologia fascista, librata verso quegli ‘orizzonti eroici’, espressione della realtà più onesta, seppur popolare dell’Italia, indubbiamente lontana dalla retorica del regime. È importante tuttavia ricordare che la storia di quegli anni tormentati, ha lasciato in eredità molti casi illustri di censura. A questo proposito, scrive Giuseppe Pinna, «Il bisogno di verità e la verità di rappresentazione, adottati come princìpi anche in ambiti diversi dal cinema e dalla fotografia, sono però armi pericolose, possono ritorcersi facilmente contro coloro che ritengono di poterle tenere sotto controllo. Con gli stessi mezzi si poteva far vedere anche l’Italia largamente prevalente che il fascismo voleva negare, quella povera, arcaica, analfabeta, incurante dei destini promessi agli eredi di Cesare e di Augusto»76; in 75 Giuseppe Pagano infatti, come molti altri suoi illustri colleghi vivrà per lungo tempo nell’illusione che l’adesione all’impegno politico fascista potesse realmente rappresentare un mezzo per realizzare qualcosa di buono per il Paese; purtroppo la vita e l’esperienza gli dimostrerà il contrario. «Allacciare rapporti con il Fascismo appare com e l’unica via per scavalcare gli ostacoli e l’ostracismo della cultura borghese. […] Il Fascismo rappresenta (oltre a tutta la serie di equivoche illusioni rivoluzionarie in cui cadono quasi tutti i giovani architetti italiani da Pagano a Terragni, Libera, Ridolfi, i BBPR ecc.), la possibilità, altrettanto illusoria, di scavalcare la borghesia: mentre in realtà legarsi al Fascismo significava solo mettersi ingenuamente e strumentalmente al servizio proprio della massima espressione del potere borghese». L. Patetta, Saggio introduttivo a L’Architettura in Italia 1919-1943. Le polemiche, Clup, Milano 1972, pp. 37-38. Cfr. anche C. de Seta, Introduzione a Pagano. Architettura e città …, cit., p. XI; Aa. Vv., Giuseppe Pagano fascista, antifascista, martire numero monografico di «Parametro», n. 35, aprile 1975. 76 G. Pinna, Italia, Realismo, Neorealismo: la comunicazione visuale nella nuova società multimediale, in E. Viganò (a cura di), Neorealismo. La nuova immagine in Italia 1932-1960, Admira, Milano 2006, p. 27. 41 sostanza il materiale fotografico raccolto da Pagano negli anni successivi alla mostra rurale, pur non essendo dichiaratamente antifascista descrive comunque, più o meno velatamente l’Italia di cui parla Pinna: «quella povera, arcaica, analfabeta», frutto di una condizione di indeterminatezza sociale e di una profonda instabilità economica, realtà scomode che se denunciate, potevano effettivamente ripercuotersi negativamente sul quieto vivere della popolazione. Il Regime si dimostra assolutamente consapevole del ‘potere’ che certi mezzi di comunicazione visuale potevano avere sul pubblico, su quelle masse dolenti e influenzabili77. Per questo motivo, proprio in Italia, il governo fascista rivolgerà grande attenzione ai nuovi mezzi di comunicazione mediatica, da un lato sfruttandoli per i propri comodi, dall’altro tenendoli rigidamente sotto controllo, onde evitarne utilizzi pericolosi. A questo proposito vale la pena tener presente che, durante gli anni della dittatura, viene appositamente costituito Il MinCulPop, il Ministero della Cultura Popolare, preposto al controllo di tutta la produzione artistica. L’obiettivo è quello di tenere a bada ed eventualmente ostacolare la pubblicazione di qualsiasi lavoro fosse ritenuto inopportuno o addirittura offensivo e che potesse in qualche modo turbare l’equilibrio politico instaurato78. 77 Un quadro molto completo dell’utilizzo dei media e della pubblicità da parte del governo fascista viene ricostruito da Carlo Bertelli nel saggio Il regime e le nuove tecniche di comunicazione, in C. Bertelli, G. Bollati, Storia d’Italia – annali 2* – L’immagine fotografica 1845-1945, Einaudi, Torino 1979, pp. 169173. 78 Decisamente interessante a questo proposito una nota della Madesani che, nell’ambito del discorso relativo alla censura fascista sottolinea in Italia la presenza di un personaggio straordinario, uno spirito libero: Orio Vergani, una delle ‘penne di punta’ del «Corriere della Sera». «Vergani, amico di Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, durante i quasi cinque anni da inviato speciale nelle trasferte africane, scattò fotografie decisamente diverse da quelle di mera propaganda, che invece era obbligato a realizzare per la stampa. Vergani che nella redazione del giornale per cui lavorava vide immagini sensazionali, decise di illustrare i suoi libri di argomento coloniale con le proprie immagini, che guardavano alla fotografia internazionale, tutt’altro che dilettantesche e matoriali, ma piuttosto di ampio respiro e che davano dell’Africa coloniale una visione critica, in aperto contrasto con quanto andava facendo il regime». La Madesani si riferisce al testo di O. Vergani, La via nera. Viaggio in Etiopia da Massaua a Mogadiscio, Treves, Milano 1938. Cfr. A. Madesani, cit., p. 59. 42 La censura fascista si abbatte ad esempio contro il film di Luchino Visconti, Ossessione, impedendone la programmazione nelle sale perché colpevole di fornire una visione immorale della ‘sana provincia italiana’79. Per lo stesso motivo, un fotografo ebreo, Luciano Morpurgo, evita di proporre durante il regime alcune delle sue più pungenti foto di denuncia sociale80. Ebbene se non è possibile affermare che Pagano possa aver deciso di fare lo stesso con le sue foto d’archivio, preferendo tenere al sicuro nel suo studio il lavoro di anni piuttosto che pubblicarlo, risulta ad ogni modo comprensibile la sua reticenza a mostrare un materiale che avrebbe avuto comunque un certo impatto sociale. Osservando il servizio fotografico che Pagano dedica alla sede del Covo di Mussolini, scaturiscono numerosi spunti di riflessione a questo proposito; concordiamo infatti con la Di Castro nel ritenere che le immagini si rivelino fredde, quasi distaccate e asettiche, non c’è alcun accenno al monumentalismo perseguito dall’ideologia fascista che imponeva di restituire del governo dittatoriale, anche attraverso la produzione fotografica, un’immagine forte e fiera81. Ebbene non c’è forza né fierezza negli scatti dedicati da Pagano al Covo, anzi, l’architetto ce ne dà un’immagine sconcertata e severa ma nello stesso tempo ambigua. L’obiettivo, entrato nel cortile dell’edificio signorile del primo Novecento, cade su un gruppo di bandiere che pende dai davanzali delle finestre, si sposta poi sulla targa di Benito Mussolini, sui ballatoi vuoti; solo in una 79 Sarà soprattutto la produzione cinematografica ad essere maggiormente osteggiata dal veto della dittatura fascista la quale, con l’Rd del 9 aprile 1928, n. 941, stabilirà che, per la prima volta, entrano a far parte della commissione di censura un funzionario del ministero dell’educazione nazionale, uno del ministero delle colonie e un pubblicista di sicura fede, designato dal Partito nazionale fascista (Pnf). Con due leggi successive del 1929 e del 1931, il corpo censorio della commissione viene ulteriormente rafforzato da funzionari ufficiali provenienti dal ministero delle corporazioni, dal Pnf, dal ministero della guerra. Cfr. G.P. Brunetta, Storia del cinema italiano. Il cinema del regime, 1929-1945, Ed. Riuniti, Roma 2001. 80 Cfr. G. Pinna, Italia, Realismo, Neorealismo…, cit. 81 Cfr. F. Di Castro, Il fascismo e la guerra in C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit., pp. 98-121. 43 ripresa si scorgono in parte gli interni del covo fascista vero e proprio, un antro surreale in cui lo sguardo è puntato direttamente sulla scrivania di Mussolini – sottraendo quindi valore a tutto l’ambiente circostante – con il numero de «Il Popolo», una bomba a mano, il gagliardetto con il simbolo scheletrico della morte posto di spalle, funereo monito del regime. Tutto nel servizio fotografico dell’istriano, sembra voler suscitare distaccato disappunto. Come opportunamente ricorda Federica Di Castro, nel 1932 all’interno della Mostra della Rivoluzione Fascista, era stato ricostruito, nel Palazzo delle Esposizioni, lo studio di Mussolini al Covo di Via Paolo da Cannobio, prima sede de «Il Popolo d’Italia»82; ebbene in quella occasione molte erano state le foto scattate, tutte espressione di quell’orgoglio fascista che nel monito ‘credere-obbedire-combattere’ trovava la sua unica ragion d’essere. Il confronto di queste immagini, con quelle realizzate poco dopo da Pagano nella vera sede del Covo, denuncia l’evidente distanza intellettuale della produzione dell’architetto istriano, la cui «scarna regia»83 esprime tutto un profondo conflitto interiore. Singolare il fatto che alcuni dei cartoncini sui quali dovevano essere posti i provini dedicati a questo reportage, siano stati epurati delle foto. È l’unico caso in cui siano presenti dei supporti cartonati con tanto di titolo, annotazioni e schedatura originale dell’architetto, senza i corrispondenti provini allegati. Purtroppo non ci è dato saperne i motivi. Alla luce di queste considerazioni, risulta evidente che l’archivio fotografico inteso nel suo complesso, dalle prime immagini scattate per la mostra rurale fino a quelle che descrivono negli ultimi anni di vita dell’architetto le campagne militari in Albania e Grecia, assume il valore di un patrimonio storico di indiscutibile qualità, una lucida e attendibile testimonianza della storia dell’Italia degli anni ‘30 e ‘40 del Novecento. 82 83 Ivi. Ivi, p. 98. 44 In relazione alla tecnica di riproduzione fotografica sperimentata da Pagano, è interessante notare che, sul retro di alcuni dei provini appartenenti al secondo gruppo di volumi numerati dell’archivio, sono riportati dei timbri in cui viene manifestamente indicata la paternità della produzione: «Foto Pagano. Viale Beatrice d’Este, 7. Milano». Risulta chiaro che l’architetto fosse del tutto autonomo nello sviluppo dei negativi. D’altronde dallo studio dell’archivio si arguisce chiaramente la perizia e la cultura fotografica di Pagano che organizza la catalogazione nonché la conservazione delle riproduzioni fotografiche in maniera decisamente competente. Quasi in posizione antitetica rispetto ai modelli ottocenteschi, la tecnica fotografica dell’architetto risulta di certo più vicina e in qualche modo influenzata dall’idea rinnovata di produzione fotografica figlia delle avanguardie artistiche e perché no anche di marca fascista84, volta alla scoperta di una visione inedita della realtà e del territorio. Scrive Zannier: «Emblematico è l’uso della Rolleiflex che fa Giuseppe Pagano, che negli anni Trenta si dedica a fotografare soprattutto l’architettura rurale, secondo schemi arditi, insoliti specialmente nella fotografia professionale: orizzonte in diagonale, secondo scorci fortemente anamorfici, e poi dettagli di materiali, di elementi della tipologia architettonica»85. La ricerca fotografica di Pagano assume tuttavia una connotazione ancora più inedita, distaccandosi in questo anche dagli studi condotti in contemporanea dalla cultura fotografica d’avanguardia; per l’architetto 84 Forse il primo vero passo avanti verso un’immagine nuova dell’Italia sarà raggiunto concretamente, proprio grazie al nuovo impulso della fotografia del regime, che, pur nella grettezza delle sue rigide regole di produzione sarà comunque la prima istituzione a spingere verso una vera cultura fotografica. In particolare, in occasione della Mostra della Rivoluzione Fascista, nel 1932, ampio spazio verrà dato proprio alla fotografia in tutte le sue forme e manifestazioni. Cfr. Mostra della rivoluzione fascista. Guida storica a cura di Dino Alfieri e Luigi Freddi, 1° decennale della marcia su Roma, Officine dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo 1933. 85 I. Zannier, Architettura e fotografia, Latreza, Roma-Bari 1991, p. 113. 45 istriano, la composizione dell’immagine diviene infatti una vera e propria questione di stile, è quest’ultimo il principale filo conduttore di tutta la sua produzione fotografica; una foglia d’acanto, l’incresparsi di un’onda, il volto di un bambino, il fusto della colonna di un tempio, sono tutti soggetti artistici che introducono una complessa e articolata analisi che coinvolge i rapporti proporzionali tra gli elementi raffigurati, gli spazi geometrici definiti o non definiti, il ripetersi ritmico di elementi ‘standardizzati’: «tutto ciò può essere argomento fotografico ed assumere il valore di uno stile. Stile fatto di rapporti di chiaroscuro, di cadenze prestabilite, di assoluta dedizione alla irreale realtà della fotografia»86. Accade infatti che in molte costruzioni fotografiche, non abbia quasi più valore l’edificio in sé, la tipologia d’albero in sé, o l’espressione che può dipingersi sul volto di un personaggio famoso: ciò che più conta sono i termini compositivi della fotografia, il senso profondo della ricerca formale che travalica gli oggetti stessi sublimati allo stato ibrido di ‘forma pura’. In definitiva, l’indagine che l’architetto istriano compie in giro per l’Italia è un viaggio pittoresco tra le forme del reale che si allontana però dalla ricerca di un Moholy o di un Man Ray87, di cui conserva soprattutto le tecniche, restando sempre e comunque ancorato alla realtà; quello compiuto da Pagano è piuttosto un viaggio ‘neorealista’ – prendendo in prestito una definizione che apparterrà piuttosto ai suoi discepoli – tra le forme dell’universo naturale e costruito, ognuna gravida del proprio profondo significato e ruolo nel mondo visibile e tangibile, mai negato dal fotografo. All’interno dell’archivio di Pagano, organizzato, come è stato già evidenziato, rispetto ad alcune tematiche principali, sono ulteriormente 86 G. Pagano, Un cacciatore d’immagini, in «Cinema», dicembre 1938, ora in F. Albini, G. Palanti, A. Castelli, (a cura di), Giuseppe Pagano Pogatschnig : architetture e scritti, Milano, 1947. 87 Per il profilo di questi due massimi esponenti della fotografia internazionale del XX secolo si rimanda al capitolo III di questo volume. 46 individuabili specifici sottotemi la cui identificazione risulta indispensabile per la comprensione dell’intero materiale, che ripetiamo, va letto nel suo insieme di corpus. Tali sottotemi sono riscontrabili in maniera seppur differente in ciascuno scatto, che si tratti di architettura rurale, dell’immagine di una grande città, di un ritratto o di una specie animale e naturale. Un carattere fondamentale dell’indagine di Pagano è lo studio del dettaglio; l’architetto infatti è portato spesso a condurre l’analisi di un determinato spazio architettonico o ambientale passando dal particolare al generale. Il tema mimetico è un altro elemento costante della ricerca fotografica del Nostro: la scoperta del rapporto simbiotico tra elemento naturale e costruito diviene un fulcro fondamentale nell’indagine88; là dove questa evidenza viene fuori con maggior forza è nelle immagini di città antiche o nelle foto degli scavi archeologici, Di Mauro ci descrive alcune di queste mimesi: «le mura di Cerveteri e di Orvieto perfettamente collegate alla roccia sottostante, la porta del Castello di Tarquinia su cui crescono erbe di ogni tipo»89. A questi due casi si può aggiungere l’immagine del muro della casa di Pompei vicina a quella dei Misteri, alla quale si abbarbicano le foglie di un rampicante (vol. 34, num.4), o quelle in cui la natura, specchiandosi in laghi, torrenti, e fontane si sdoppia riproducendosi nella sua immagine speculare. Altro sottotema individuabile è quello della ricerca del «pittoresco»90, ossia la possibilità di raggiungere attraverso la resa fotografica, quella bellezza sublime intesa nella sua accezione più spontanea. Il pittoresco viene così 88 Il tema mimetico indagato da Pagano nelle sue fotografie viene evidenziato da Leonardo Di Mauro. Cfr. L. Di Mauro, Archeologia e arte, in C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit., p.52. 89 Ivi, p. 52-54. 90 Questo specifico sottotema fotografico indagato da Pagano è stato oggetto di studio da parte del Prof. Leonardo Di Mauro, che ne parla diffusamente in un suo interessante intervento sull’archeologia e l’arte nelle foto dell’architetto istriano. Ivi. 47 indagato in ugual misura nell’ambito dei contesti urbani come in quelli più propriamente rurali. La composizione dell’immagine inoltre non è mai casuale, ma costruita secondo una vera e propria struttura architettonica; lo spazio viene difatti analizzato in base a delle partiture geometriche precise che tendono a individuare ritmi esatti scanditi di sovente dal ripetersi di elementi standardizzati costanti. Risulta molto interessante, a questo proposito, riconoscere nel lavoro fotografico di Pagano, quello stesso percorso compositivo utilizzato nella definizione dei suoi lavori progettuali. Questa necessità di utilizzare la fotografia per compiere una scansione architettonica dello spazio diviene un obiettivo perseguito da Pagano al punto tale che spesso si serve di artifici ottici pur di ottenere i risultati desiderati. Utilizzando fonti luminose, prevalentemente naturali quando ne ha la possibilità, nonché superfici riflettenti, l’architetto determina nelle immagini effetti affascinanti, talvolta sorprendenti (Pisa, vol. 9, num.7/8) (Alberi, vol.1, num. 44). Proprio l’incidentale senso di sorpresa suscitato dall’imprevisto di un elemento subentrato inaspettatamente nell’immagine, diviene un altro fattore individuabile nella ricerca iconografica dell’architetto. Pagano conosce bene quel senso di stupore e meraviglia suscitato dalla prima volta in cui si osserva un’opera d’arte, ed è forse anche per questo che sceglie sempre punti di vista inediti capaci di cogliere, anche di un edificio ben conosciuto, quel carattere inaspettato che desta l’inevitabile conseguente meraviglia dell’osservatore. Esiste tuttavia un unico comune divisore nelle fotografie di Pagano: in ogni scatto, ogni fotogramma, viene fuori con violenza un amore assoluto quasi ossessivo, per la materia in sé, per il suo carattere plastico, il suo rapporto più o meno empatico con il contesto, costruito e non, che induce il 48 fotografo a riprendere con il medesimo rapimento la base del fusto di una colonna dell’Arco di Augusto a Rimini e l’architettura arcadica dei ‘sassi’ di Matera91. Uno studio attento e costante rivolto alla componente materica risulterà una caratteristica peculiare della sua stessa ricerca in qualità di progettista; questo tipo di indagine caratterizzerà infatti gran parte della sua produzione architettonica. Come non pensare alla cura rivolta alla scelta dei materiali nella definizione dei prospetti della sede dell’Università Bocconi di Milano, o alla precisa volontà di utilizzare il mattone semplice nel prospetto dell’Istituto romano di Fisica onde conferire un ulteriore carattere di ‘orgogliosa modestia’ al complesso educativo. In definitiva si può serenamente affermare che nulla sia realmente casuale nell’approccio fotografico di Pagano, ma tutto sia piuttosto il frutto della sua formazione e innata qualità di progettista. Pagano fotografo è in fondo un tékton, un ‘costruttore’ delle sue immagini fotografiche, non si può scindere la figura dell’architetto da quella del fotografo, ma al contrario è possibile piuttosto osservare l’una attraverso l’altra e in virtù di questo comprenderle entrambe. Nell’ambito del multiforme e eterogeneo materiale prodotto, è possibile selezionare l’iconografia relativa alle città e, nello specifico, all’architettura, che rappresenta circa i due terzi dell’intero materiale fotografico prodotto. Seguendo le tracce lasciate dall’istriano attraverso il suo archivio si riesce a definire un ideale percorso condotto sui territori italiani: l’itinerario, sviluppato nell’arco di circa otto anni, dal 1936 al 1944, vede l’obiettivo della rolleiflex spostarsi dal sud al nord della penisola. 91 Cfr. Ivi. 49 b. Le tappe del viaggio fotografico di Pagano. Un Tour nell’universo narrativo neorealista «Cominciando a capire il mondo attraverso l’immagine, capivo l’immagine, la sua forza, il suo mistero»92, è Michelangelo Antonioni che parla, e descrive la nascita della sua prima creatura cinematografica, un documentario sul fiume Po, evidenziando il valore di una ricerca sviluppata per immagini. È ormai diffusa capillarmente, nell’ambito della cultura ‘ufficiale’ a cavallo degli anni Trenta, la ferma convinzione che solo attraverso dei mezzi di comunicazione innovativi come la fotografia e il cinema si possa realmente comprendere ed esprimere la vita e il mondo che ci circonda. La ricerca di Pagano non fa che inserirsi così in questa dinamica per certi versi sociale che sempre più spazio affida alle nuove forme d’indagine. Il viaggio condotto dall’architetto in giro per l’Italia viene sviluppato come una sorta di documentario, in linea, quindi, con le analoghe esperienze visive coeve. Scrive De Santis93 sulle pagine della rivista «Cinema»: «Noi crediamo che la parola documentario debba essere spogliata del suo comune attributo scientifico per un più alto significato poetico, dove i termini di contenuto essenziale siano uomo e natura»94, è inteso proprio in questo senso il percorso fotografico compiuto dal nostro architetto. In linea con la cinematografia coeva, quindi, Pagano realizza con il suo archivio fotografico un reportage il più possibile obiettivo sulla vita del nostro Paese. 92 L’espressione è tratta dalla descrizione che Michelangelo Antonioni fa del suo primo documentario Gente del Po, iniziato nel 1943 e terminato non prima della fine della guerra, nel 1947. Cfr. M. Antonioni, Per un film sul fiume Po, «Cinema», n. 68, 1939; E. Taramelli, Viaggio nell’Italia del Neorealismo …, cit. 93 Protagonista della cinematografia neorealista, cura la regia di Riso amaro nel 1949, film con il quale salirà alla ribalta l’attrice Anna Magnani. 94 Cfr. E. Taramelli, Viaggio nell’Italia del Neorealismo…, cit., p. 22. 50 Dopo le prime foto realizzate sull’architettura rurale, inizia il vero viaggio di Pagano alla scoperta dell’Italia, che lo impegnerà dal 1936 fino al 1944 circa, negli anni fotograficamente più prolifici. Il Gran Tour fotografico del nostro architetto è caratterizzato da un approccio alla rappresentazione del territorio che si potrebbe sintetizzare utilizzando le parole di Roberta Valtorta, storica della fotografia milanese, che scrive in relazione al paesaggio ‘costruito’ in fotografia: «Dal punto di vista non del soggetto che il fotografo sceglie, ma dal significato del gesto che il fotografo, o meglio l’insieme fotografo-macchina, compie, potremmo dunque dire che nessun paesaggio in fotografia è ‘naturale’, e tutti i paesaggi sono invece ‘costruiti’, cioè modellati dalla visione che la macchina a essi sovrappone. Se la fotografia è una relazione con la realtà mediata dalla macchina, questa relazione è sempre segnata da una ‘costruzione’»95. Il percorso compiuto è molto articolato e le destinazioni, selezionate accuratamente dall’istriano, vengono individuate in modo da poter osservare sia il vasto e fittissimo panorama della campagna italiana, ricca di province e realtà locali, che i centri più vivaci e importanti del Paese. Ma lo sguardo dell’architetto posto dietro l’obiettivo si dimostra, nei due casi, profondamente differente. La curiosità nei riguardi dei piccoli centri deriva senza dubbio dal desiderio di comprenderne il modus vivendi nonché la dimensione architettonico urbanistica. In questo ambito, popolare e modesto, l’indagine assume una connotazione sociale tesa alla comprensione e descrizione di un mondo silenzioso e laborioso. Nelle fotografie a tema rurale si riconosce tutta la sensibilità di Pagano nei confronti di quel firmamento dei ‘vinti’ di verghiana memoria; in questi 95 R. Valtorta, Volti della fotografia. Scritti sulla trasformazione di un’arte contemporanea, Skira, Milano 2005, p. 174. 51 scatti è facile imbattersi in personaggi che sembrano usciti da I Malavoglia, protagonisti inconsapevoli di una realtà per certi versi spietata e in virtù di questo straordinariamente vera, seppure surreale nella sua dimensione astratta e lontana. In questo universo verghiano quasi omerico e leggendario, in definitiva un mondo dei ‘semplici’, si riconoscono soprattutto i cineasti, che caricano, l’ispirazione a quel modello, di inedite valenze etiche prima ancora che estetiche e formali96. Pagano, così vicino e affascinato dal mondo della cinematografia italiana e straniera, soprattutto francese, non poteva che avvertire e interpretare queste stesse suggestioni97. Profondamente diverso invece è l’atteggiamento fotografico che viene assunto nei confronti delle grandi città di cui l’architetto indaga l’aspetto urbanistico, architettonico, eventualmente archeologico, spostando quindi automaticamente l’attenzione sul costruito piuttosto che sul ‘materiale’ umano. Nelle immagini urbane, infatti, la presenza dell’uomo è assolutamente incidentale. Per de Seta questo aspetto è direttamente legato ad una ricerca influenzata dalla deformazione professionale che induce il fotografo a soffermarsi principalmente sulle tracce d’architettura e volgendo la sua attenzione alla definizione di un lavoro compositivo che, all’immagine in sé, conferisce un grande, quasi assoluto valore98. Ma è pur vero che Pagano, sembra decisamente meno interessato alle caratteristiche dell’ ‘uomo di città’, considerato per certi versi «senza qualità». D’altronde proprio in questa direzione si rivolge la giovane avanguardia artistica dell’Italia degli anni Trenta, che in qualche modo rifiuta «lo scenario dell’universo metropolitano, visto come il luogo di un ordine estraniante e 96 Cfr. E. Taramelli, Viaggio nell’Italia del Neorealismo…, cit. Cesare de Seta sottolinea la grande passione dell’architetto per la cinematografia francese. Cfr. C. de Seta, Introduzione, in C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit. 98 Cfr. Id., Città e campagna, in C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit. 97 52 di una razionalità astratta»99. L’architetto tuttavia, non nega del tutto la metropoli, almeno non il suo valore architettonico, piuttosto ne deplora le condizioni e la realtà sociale, decidendo di svolgere quindi attraverso le sue foto, una funzione catartica epurandola del fattore umano. Sono solo alcuni i casi in cui l’attenzione di Pagano si sofferma in ambito cittadino su singoli personaggi, ma si tratta comunque di eccezioni individuate e raccolte nell’ambito di una realtà minore: sono ancora una volta i ‘vinti’ ad essere ritratti dal fotografo, gli scugnizzi sulle mura di Cori, gli ambulanti nel mercato milanese di Sinigallia, il venditore di dolci nelle strade di Corfù, protagonisti che in fondo rendono iconograficamente quella stessa sgomenta poesia che in lui, osservatore non imparziale, suscitavano i contadini della provincia dimenticata. Inoltrandosi nell’archivio di Pagano e individuando le singole tappe compiute sul territorio peninsulare, viene fuori un quadro interessante e singolare del percorso compiuto nel nostro Paese. La presenza del suo obiettivo fotografico sul territorio non risulta difatti omogenea, al contrario piuttosto lacunosa in alcune zone dello Stivale. È comprensibile che Pagano, avendo vissuto quasi tutta la sua esistenza tra Milano e Torino, abbia privilegiato per cause eminentemente pratiche, il nord Italia, ma rammarica molto il fatto che abbia lasciato quasi scoperti alcuni territori del centro-sud della penisola. Non è escluso d’altronde che l’architetto avrebbe continuato il suo viaggio e completato il giro se non fosse prematuramente scomparso. Le regioni più indagate e fotografate sono quindi quelle del nord, con una particolare attenzione rivolta al Trentino e alla Lombardia. Il Centro è piuttosto battuto, in particolare l’obiettivo si ferma ampiamente su Toscana e Umbria; interessante è la presenza nelle Marche così come nel Lazio, ma 99 E. Taramelli, Viaggio nell’Italia del Neorealismo…, cit., p. 18. 53 lo stesso non si può dire riguardo alla fascia dell’Appennino Tosco Emiliano che non viene ripresa quasi per nulla. L’analisi del territorio nel sud della penisola si dimostra ancora più lacunoso. L’Abruzzo e il Molise vengono quasi del tutto tralasciate come pure la Calabria; fatta eccezione per la Campania e la Puglia di cui Pagano produrrà numerosi e affascinanti scatti fotografici, soprattutto dedicati alle realtà rurali in queste zone particolarmente sviluppate, per il resto il sud rimane quasi del tutto inesplorato. Sicilia e Sardegna ritornano nelle fotografie dell’architetto istriano che non scandaglia però a tappeto le due isole di cui si riconoscono solo alcune delle città più importanti: della Sicilia, Agrigento con la valle dei templi, Siracusa e Palermo; in Sardegna l’istriano è catturato dal fascino delle città dei minatori, Carbonia e Portoscuso. Quella che viene fuori non è certo, come sottolinea acutamente de Seta, un’Italia ‘da cartolina’, intesa cioè nel suo aspetto più canonico e meno originale, come ce l’avevano propinata per anni le fotografie Alinari e Brogi100 e così come proposta un po’ da tutta l’editoria contemporanea, che tendeva a restituire un’idea stereotipata del Paese attraverso quella che lo stesso Pagano definirà la «volgarità della cartolina illustrata»101. Al contrario, filtrata ancora una volta dalla ricerca di una ‘orgogliosa modestia’, l’immagine dell’Italia viene progressivamente smitizzata dall’architetto, e gli stessi suoi nobili edifici vengono proposti con tagli dinamici e visuali inedite, tese non tanto all’esaltazione monumentale del patrimonio storico quanto all’individuazione dell’intrinseco valore architettonico, urbanistico e ambientale. L’intenzione di Pagano, ben lontano da quell’atteggiamento di distaccato rigore proprio delle riproduzioni canoniche, cerca piuttosto di «aggiungere 100 101 Cfr. C. de Seta, Città e campagna, cit. G. Pagano, Un cacciatore d’immagini, cit. 54 qualcosa di più vero e di più vivo al freddo archivio delle stereotipate immagini scolastiche»102. Potremmo dire che Pagano ‘scorrazzi’ per l’Italia con lo spirito libero del tourist e l’occhio acuto del tecnico. Grazie alle informazioni topografiche riportate in calce ai provini, è semplice ricostruire le mete singolari e più interessanti individuate dall’istriano, che, partendo dal nord della penisola, la attraversa in lungo e in largo. Il Trentino, deve essere stata una delle prime tappe selezionate, alcuni scatti risalgono infatti al 1937, come ci attesta la data riportata su uno dei provini; tra i ricchi e lussureggianti territori si riconoscono la Val Seriana, la Val Camonica, la Val di Fassa. In queste immagini il rapporto con il paesaggio diviene protagonista assoluto; in particolare l’empatia tra natura e costruito cui abbiamo già accennato parlando del tema mimetico indagato da Pagano, diviene fonte d’indagine preferenziale in un contesto così caratterizzato come quello del Trentino. Ma un altro contrappunto interessante messo in evidenza in questo ciclo di foto è quello che spontaneamente si determina tra la natura lasciata libera e selvaggia e quella invece ‘ordinata’ e sistematicamente organizzata. Tema d’indagine caro a Pagano, quello dell’ordine imposto dall’uomo contro il caos naturale103, viene di sovente affrontato dal critico, e sviluppato poi in un interessante articolo uscito sulla rivista «Casabella» nel 1939. Scrive l’architetto: «Dove l’uomo è presente, la natura vien subito sottoposta ad una legge, ad uno schema geometrico, a un ordine. Ai tracciati irregolari dei boschi incolti, ai sentieri tortuosi abbozzati sul letto dei torrenti, al disordine del caos primordiale si sostituiscono i solchi paralleli delle colture, la misurata cadenza delle piantagioni, i nitidi rettifili 102 Ivi. Questo tema, viene messo in luce, seppure in termini diversi, anche da C. de Seta, Città e campagna, cit., pp. 62-83. 103 55 delle strade. La presenza dell’uomo, dall’alto, è denunciata da una ragnatela geometrica di linee dritte, tra loro disposte secondo un’ideale scacchiera ortogonale»104. L’articolo di Pagano sembra descrivere molte delle sue riprese fotografiche, ma soprattutto si dimostra nel suo prosieguo, decisamente caustico nell’evidenziare come questo equilibrio uomo architettura, riconciliato nella dimensione rurale, si sia invece perso completamente nella dimensione urbana in cui la progettazione delle città sempre più disordinate e sviluppate su se stesse, si dimostra incapace di andare al di là della costruzione di una sterile scenografia architettonica in cui spesso l’uomo viene schiacciato e costretto in una dimensione alienante105. Ancora una volta quindi, il reportage fotografico diviene strumento lucido di analisi e denuncia. Non è un caso il fatto che i contesti urbani così come di quelli rurali vengano spesso ripresi dall’alto e ne sono un esempio evidente questi primi scatti realizzati nel Trentino insieme a molti altri106. La veduta aerea o comunque da un punto di vista posto più in alto rispetto al paesaggio ripreso, permette infatti di comprendere meglio la maglia compositiva nonché l’eventuale articolazione architettonica del contesto. Inoltre, osservando i nuclei urbani e rurali da posizioni privilegiate, Pagano riesce a far evincere più chiaramente il rapporto proporzionale che, negli ambienti rurali, si instaura tra spazi costruiti e non costruiti, così come in ambito urbano, tra spazi architettonici, collegamenti 104 G. Pagano, L’ordine contro il disordine, in «Casabella-Costruzioni», n. 144, dicembre 1939. «Accanto alle fotografie dei nuraghi e dei trulli (Pagano) conservava, nelle gelose cartelle, quelle del Partendone, di Paestum, di Pienza: forme filtrate, fino a un limite di semplicità e di purezza, attraverso tutte le stratificazioni geologiche della civiltà e poi sgorgate limpide, come acque sorgive, alla superficie del tempo. Il problema era sempre lo stesso: il problema di un ordine formale, che si organizza nella coscienza e non può incidere sulla libertà e l’immediatezza dell’espressione più di quanto non incida sulla qualità di una poesia il rigore della misura metrica». G.C. Argan, Valore di una polemica, in F. Albini, G. Palanti, A. Castelli, [a cura di], Giuseppe Pagano Pogatschnig : architetture e scritti, Milano, 1947, pp. 28-29. 106 «Affiora qui con evidenza la sua passione di volare, di leggere un territorio e di riprenderlo da un punto di vista per larga parte inedito: da questa sua passione sono venute fuori splendide foto aeree che non hanno la freddezza del rilievo aerofotografico, ma tutta la improvvisa e forse occasionale energia di una immagine colta al momento giusto, con la luce propizia, in una delle ‘strisciate’ o delle virate compiute in aereo». C. de Seta, Città e campagna, cit., p. 70-71. 105 56 stradali e spazi collettivi. Questo tipo di analisi di matrice urbanistica sarà alla base di uno dei temi di studio da lui più indagati. Al problema urbanistico, l’architetto dedicherà infatti molti anni della sua vita, producendo proposte interessanti seppure non sempre risolutive; tra i lavori messi a punto si ricorda il progetto per «Milano verde» e quello di «Città orizzontale», che risentono indubbiamente anche del fascino suscitato dagli esempi internazionali e in particolare di Le Corbusier. I progetti urbanistici proposti da Pagano e dai suoi collaboratori verranno aspramente criticati, l’architetto in particolare sarà accusato di non aver tenuto fede agli obbiettivi preposti; scrive Riccardo Mariani nel 1975: «Pagano passa dalla definizione dell’oggetto architettonico al contesto urbano in cui, pur mostrando una feroce avversione per quanto e come sta avvenendo nelle città italiane sventrate e ricucite secondo le regole del più bieco ordine ottocentesco, di fatto la sua proposta, come quella di altri a lui legati non si disgiunge da una “strana” logica sostanzialmente antiurbanistica»107; lo storico aveva sostanzialmente ripreso un giudizio espresso già nel 1955 da Carlo Melograni che, in un lavoro monografico sull’architetto istriano aveva scritto in proposito al suo lavoro di urbanista: «di fronte a questi problemi, Pagano cade nel medesimo errore da lui rimproverato ad altri quando ne prendeva in esame i singoli edifici»108. Al di là del fallimento più o meno dimostrato in questo campo della ricerca, resta indubbia la validità del metodo di indagine proposto, che, anche mediante l’utilizzo dello strumento fotografico, giunge ad un’analisi puntuale ed esatta del territorio e delle sue problematiche, indipendentemente dal fatto che queste ultime vengano poi nel concreto risolte. 107 R. Mariani, Giuseppe Pagano Pogatschnig, architetto fascista, antifascista, martire, numero monografico di «Parametro», n. 35, aprile 1975, p. 9. 108 C. Melograni, Giuseppe Pagano, Il Balcone, Milano 1955, p. 30. 57 Della Lombardia, ‘il cacciatore d’immagini’109 produce, come già detto, molti scatti. Tra i centri maggiormente ripresi ci sono Torino, Milano, Bergamo, Bologna ma anche cittadine poco conosciute come Gandino e Dalmine nei dintorni di Bergamo, oppure Fino Mornasco e Gorgonzola vicino Milano che rivelano realtà insperate e affascinanti. A Torino, città che lo accoglie in tanti anni di lavoro non dedica stranamente molte fotografie, qualche sguardo al Teatro Regio e alla Porta palatina, del Palazzo Madama ritrae solo i trofei e giusto tre scatti documentano il lavoro condotto per il Palazzo Gualino, realizzato insieme a Levi Montalcini tra il 1928 e il 1930, progetto che tante polemiche avrebbe suscitato per il suo carattere precocemente moderno. La Milano rivelata da Pagano è una città che si esprime in tutta la sua dimensione metropolitana, leggibile attraverso le immagini aeree che ne denunciano lo schema urbanistico; una foto interessante riprende la piazza del Duomo riempita di manifesti pubblicitari (vol 46, num 16): è una natura indubbiamente commerciale e industriale quella che si vuol mettere in evidenza, cui fa da contrappunto una Milano colta e intellettuale che, nel Duomo con i suoi alti pinnacoli, si manifesta in tutta la sua elegante dignità. Ma è alla città di Bologna che Pagano dedica inaspettatamente molti scatti. Riprende praticamente tutto il centro, con i portici, la fontana del Nettuno, l’archiginnasio; alla famosa torre Asinelli dedica le riprese più ispirate, in 109 Questa definizione che Pagano fa di se stesso (G. Pagano, Un cacciatore di immagini, in «Cinema», dicembre 1938), trova conferma in una considerazione di Vilém Flusser, studioso del linguaggio e della cultura, che scrive: «Se osserviamo i movimenti di un uomo munito di apparecchio fotografico (o piuttosto di un apparecchio fotografico munito di un uomo), abbiamo l’impressione di assistere a un agguato: è l’antico gesto venatorio del cacciatore paleolitico della tundra. Con la differenza che il fotografo non insegue la sua cacciagione nella prteria aperta, bensì nella giungla degli oggetti culturali, e i suoi sentieri segreti sono formati da questa taiga artificiale. […] La giun gla fotografica è composta di oggetti culturali, vale a dire di oggetti che sono stati ‘disposti intenzionalmente’. Ognuno di questi oggetti regola lo sguardo del fotografo sulla sua preda. Egli si muove furtivamente fra questi oggetti, per schivare l’intenzione che vi si dissimula». Il gesto fotografico, in V. Flusser, Per una filosofia della fotografia, Mondatori, Milano 2006, p. 39. 58 cui le regole dei tagli diagonali prendono un piacevole sopravvento esasperando quella sensazione di smarrimento già naturalmente indotta dalla singolare struttura architettonica110. Probabilmente la dimensione più umana del centro bolognese rispetto ad altre più grandi metropoli individuate, permette di realizzare, in questa città, un servizio fotografico decisamente efficace. Anche Pavia diviene protagonista delle fotografie dell’istriano. Il Duomo, il Ponte coperto, i dintorni e tutto un reportage dedicato alla sola Certosa, rivelano il profondo interesse che Pagano doveva nutrire nei confronti di questo centro. La Venezia dei Dogi ritorna attraverso la suggestione dei suoi palazzi e il fascino immortale dei canali, ma la chiave di lettura ancora una volta non è quella consueta; i riferimenti architettonici più noti si riconoscono infatti solo attraverso l’individuazione di una singolare serie di dettagli selezionati dal fotografo. Ed ecco il Palazzo Ducale ravvisabile nella teoria di colonne del porticato riflessa nei canali e la Cà d’Oro letta solo attraverso gli elementi decorativi che ne arricchiscono i prospetti. Viene fuori così l’immagine di una città silenziosa e singolarmente frammentata, turbata solo dal rumore delle acque che la pervadono nei suoi mille canali in cui le stesse architetture annegano e si riflettono – ancora una volta l’immagine speculare sembra suscitare e richiamare l’attenzione fotografica dell’architetto più di quella reale. In questa dimensione 110 Pagano rimane indubbiamente affascinato dalla torre Asinelli riconosciuta oggi come la più singolare delle torri bolognesi; costruita intorno al penultimo decennio del XI secolo, verrà completata dalla famiglia cui verrà affidata in seguito alle lotte aspre che si svolsero in città tra le diverse fazioni che appoggiavano Papato e Impero: la famiglia Asinelli. La struttura viene elevata oltre i 60 m originari fino all’altezza attuale, tanto che da allora, la torre verrà utilizzata per le più disparate funzioni anche dopo la cessione da parte della famiglia affidataria allo Stato. La struttura verrà utilizzata come «punto privilegiato di controllo dell’abitato e per l’invio di segnalazioni luminose», come «appoggio per costruzioni in legno addossate all’esterno, come era allora d’uso corrente per le torri bolognesi», come fortezza urbana, come prigione e durante l’ultimo conflitto mondiale, come emergenza più alta della città «per individuare i punti nei quali stavano cadendo in città le bombe d’aereo». Guida di Bologna. Architettura, a cura dei docenti e ricercatori della facoltà di Architettura di Bologna, Allemandi & C., Torino 2004, pp. 32-33. 59 suggestiva, ben poco spazio è concesso alla presenza umana rivelata solo attraverso rare immagini di gondolieri e turisti distratti. Del litorale ligure vengono riprese le città di San Remo, Imperia e Alassio; soprattutto quest’ultima torna spesso nelle immagini di Pagano che sarà legato intimamente alla cittadina in cui trascorrerà diversi dei suoi momenti familiari più sereni e distesi, dove troverà rifugio negli anni angosciosi della guerra e nei fugaci momenti di tregua tra un impegno militare e l’altro. Ed è in questi scatti che riconosciamo la moglie Paola, le care figlie, momenti di preziosa intimità nei quali comunque si rivela la sua natura di fotografo. Della splendida zona del Chianti, Pagano ci regala immagini suggestive dei nuclei rurali ripresi spesso dall’alto secondo quella stessa ricerca formale che aveva già caratterizzato gli scatti in Trentino. A Viterbo, la città dei Papi, sono dedicate poche fotografie tra cui quelle al Palazzo Municipale, e al Palazzo del Conclave ma è nella provincia più prossima alla città che Pagano realizza il reportage più interessante, quello della splendida Villa Lante a Bagnaia111; gli scatti numerosi, evidenziano la bellezza gentile del complesso rinascimentale, raggelata in ogni minima partitura decorativa. La villa, opera dell’architetto Jacopo Barozzi da Vignola, è catturata in immagini dal fascino sospeso nel tempo, nelle quali, ai giardini incantevoli si rivolge gran parte dell’attenzione dell’architetto. In questo servizio riconosciamo molti dei temi e sottotemi cari a Pagano: quello dei rapporti e delle iterazioni tra elementi standard, il tema del riflesso, nelle immagini dei corpi scultorei riflessi nell’acqua della fontana, e soprattutto il soggetto mimetico. Il tema della mimesi natura-architettura 111 Alcuni degli splendidi scatti realizzati da Pagano nella villa rinascimentale, vengono pubblicati in un articolo uscito sulla rivista «Natura» intitolato: Un esempio di architettura: Villa Lante, nel numero del maggio-giugno 1942, pp. 27-34. 60 si esprime in tutta la sua pienezza in questi scorci della villa, in cui le esili colonne si fondono e confondono con i fusti degli alberi. Alla città di Firenze, patria del Rinascimento, il Nostro dedica un lungo servizio fotografico dalla forte carica architettonica, ma ancora una volta il valore storico artistico non viene sublimato attraverso vedute monumentali, tutt’altro; da Santa Maria Novella fino ai minimi dettagli scultorei della fontana di Piazza della Signoria, ogni particolare è catturato con una finezza d’osservazione eccezionale e inconsueta112. Decisamente interessanti sono le foto dall’alto, che regalano del contesto urbano punti di vista insoliti e un’immagine del tutto nuova rispetto ai canoni iconografici contemporanei cui ci avevano abituato soprattutto le immagini Alinari, che fino ad allora avevano restituito una visione convenzionale e ormai obsoleta della splendida città113. Come raramente accade nelle immagini di Pagano, a Firenze la città si anima di gente. Diversi scatti riprendono gruppi di persone in giro per le strade vestite con i costumi d’epoca dell’antico gioco del calcio, nel rispetto di una delle tradizioni fiorentine folcloristiche più belle, durante la quale si faceva rivivere lo spirito di quello storico evento ludico; espediente questo, utile all’architetto per catturare l’anima della città antica attraverso l’immagine che quel centro doveva mostrare anni addietro con le sue tradizioni, i suoi costumi, e nel contempo una maniera certamente singolare e garbata per attraversarne le vie incrociando le architetture più belle. Pagano si dimostra 112 Il servizio fotografico nella città toscana viene realizzato nel 1940, come sottolinea la data riportata su uno dei provini. 113 «Una raffigurazione accurata e sistematica, quella degli Alinari presume immagini nitidissime, con soggetti decontestualizzati e privi di inquinamenti ambientali, dalle quali si escludono, oltre che i fili dell’energia elettrica, perfino i passanti pre strada, considerati per lo meno distraenti. In queste fotografie, la luce è generalmente diffusa, per non nascondere alcunché nel chiaroscuro, il punto di ripresa di solito è alto (circa tre metri dal livello del marciapiede), per evitare le linee cadenti pu riprendendo l’intero edificio nel cono visivo». I. Zannier, Architettura e fotografia, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 25. Cfr. anche Id., Le Grand Tour nelle fotografie dei viaggiatori del XIX secolo, con una introduzione di Cesare de Seta, Canal & Stamperia ed., Venezia 1991. 61 indubbiamente colpito, a Firenze, dal rapporto uomo-architettura che riesce perfettamente ad instaurarsi, in una città come questa toscana, in cui l’ordine dell’urbanistica rinascimentale aveva generato un’armonia inconsueta114. Vista dall’alto, l’euritmia delle strade e degli incroci perpendicolari ai palazzi, emerge in tutta la sua chiarezza. Sempre dall’alto è immortalato il tetto acuto della cupola di Santa Maria del Fiore di cui viene sottolineato l’aspetto dominante rispetto al contesto; ancora vedute aeree ma non centrali per la singolare emergenza stereometrica del Battistero del quale però non sono ripresi gli splendidi interni con il pavimento intarsiato né i ricchi mosaici che ne decorano il soffitto, dettagli che probabilmente non interessano alla ricerca formale dell’architetto. A questo apparente disinteresse per lo specifico carattere artistico e decorativo del Battistero fa eco un atteggiamento indubbiamente singolare nei confronti di tutto il mondo pittorico che sembra infatti non incuriosire particolarmente Pagano, almeno non in questo contesto. Scrive Di Mauro: «Appare subito chiaro che egli non fotografa dipinti; ad essi dedica quasi una dozzina di fotografie e sempre solo di affreschi, mai una tavola, una tela»115. Peraltro, la citata riflessione può essere completata da un’altra, e cioè che a dispetto di questo, l’architetto rivolgerà invece grande attenzione ai gruppi scultorei sparsi per le città italiane, dedicando veri e propri servizi fotografici alla fontana del Nettuno a Firenze, alle sculture della Villa Lante a Bagnaia, mentre a Pisa una sessantina di scatti sono spesi solo per sottolineare i rilievi della porta di San Ranieri del Duomo, opera dell’architetto Bonanno Pisano116. Sarebbe di certo sbagliato parlare di 114 Sin dall’epoca medievale infatti, la città di Firenza sarà caratterizzata da «una articolazione strutturale fondata su un principio di ordine razionale e geometrico che regola qualsiasi situazione particolare e la città intera nel suo territorio». G. Fanelli, Le città nella storia d’Italia. Firenze, Laterza, Roma-Bari 1980, p. 71. 115 L. Di Mauro, Archeologia e arte, cit., p. 42. 116 Alla costruzione del Duomo di Pisa interverranno numerosi architetti tra i quali Rainaldo, Guglielmo, Diotislavi e Bonanno appunto, che intorno al 1180 si occuperà di scolpire le quattro meravigliose porte del Duomo. Quella di San Ranieri, chiamata così perché immetteva nell’omonima cappella, unica 62 indifferenza, da parte dell’architetto, nei confronti delle arti decorative, è ben nota piuttosto l’attenzione costante rivolta nei confronti di tale settore artistico. Pagano pubblica un interessante lavoro sull’argomento, nel 1938; in questo volume dei Quaderni della Triennale, affronta in primo luogo il dibattito sull’arte in architettura, sottolineando la volontà di combattere «la moda delle superfici levigate»117 che rischiava di farsi strada nella cultura moderna, intendendo piuttosto «sfrondare il campo delle idee preconcette, lasciando agli artisti la libertà di ritrovare un linguaggio che parli ai contemporanei e che collabori con l’architettura moderna alla ricostruzione di quella unità delle arti che la divisione artificiosa tra le arti cosiddette pure e quelle cosiddette decorative rendeva ancora impossibile»118. Idee precise e importanti quindi, che grande spazio conferivano all’arte soprattutto in ambito architettonico. Ma quali potrebbero essere quindi i motivi di un’attenzione tanto sollecita e quasi esclusiva nei confronti dei manufatti scultorei? la riflessione da farsi è una sola: la scultura in fondo non è altro che un volume, la definizione di uno spazio plastico che è anch’esso architettonico e che soprattutto con il contesto instaura un rapporto ben preciso e Pagano si dimostra interessato soprattutto a questo rapporto, che nella logica spaziale delle tre dimensioni trova la sua principale espressione. Ritornando alla città di Pisa, suggestive risultano le immagini della famosa torre, la cui caratteristica pendenza viene accentuata nella ripresa dal taglio in diagonale119. Di Siena è possibile riconoscere il Duomo, San Domenico, Piazza del Campo e la fonte Gaja di Jacopo della Quercia. superstite all’incendio del 1595, viene certosinamente ripresa nelle fotografie di Pagano, che si sofferma ampiamente sulle venti formelle che illustrano gli episodi della vita di Cristo. Cfr. E. Tolaini, Le città nella storia d’Italia. Pisa, Laterza, Roma-Bari 1980, p. 37 e segg. 117 G. Pagano, Arte decorativa italiana, Quaderni della Triennale, Hoepli, Milano 1938, p. 35 118 Ivi, p. 32. 119 Il lavoro iconografico definito da Pagano nelle fotografie della torre pendente pisana è del tutto analogo a quello realizzato a Bologna nella ripresa della torre Asinelli. 63 A quella Pienza «moderna e attualissima: motivo di orgoglio e di conforto per ogni architetto»120, Pagano dedica pochi ma puntuali scatti: alla Cattedrale, alla loggia di Palazzo Piccolomini, alla Cappella della Madonna del Rosario a S. Quirico. Pubblicherà alcune di queste fotografie su «Casabella» nell’articolo in cui racconta la città dopo l’intervento di Papa Pio II, «mecenate intelligente che aveva fiducia nell’arte d’avanguardia, che ha scelto bene il proprio architetto e che sapeva valutare senza paura e senza compromessi il valore progressivo, costruttivo e novatore»121, che era riuscito a costruire, grazie al maestro Bernardo Rossellino, un «gioiello pieno di orgogliosa e aristocratica modestia»122. Un particolare sguardo è riservato ad Arezzo; di quest’ultima, l’abside e campanile della Pieve, il Palazzo Comunale, la Piazza del Duomo, la chiesa di San Domenico, Santa Maria delle Grazie, vengono riprodotti con una cura maniacale. Belli gli scatti eseguiti tra Spoleto e Terni con una sosta nella incantevole città di Narni. Ovviamente a Roma è dedicato uno dei più ricchi reportage realizzati in tutta Italia da Pagano: l’Arco di Costantino, la Colonna Traiana, il Quirinale, il Museo Nazionale, Piazza del Popolo e il Colosseo, il Campidoglio, il Mausoleo di Augusto, Santa Maria Maggiore, la Via Appia e il Lungo Tevere con i fori e il Palazzo Venezia, descrivono la fisionomia della capitale quasi completamente, seppure ce la restituiscano essenzialmente nella sua immagine antica, «la città morta» come la definisce de Seta123, quasi come se Pagano volesse affermare che, tutto ciò che è stato fatto dopo non sia degno d’alcuna nota. Le foto che 120 G. Pagano, Un esperimento riuscito, «Casabella», n. 133, gennaio 1939. Ivi. 122 Ivi. 123 «Quando va a Roma privilegia i fori e le aree archeologiche: manifestamente predilige la città morta. Le altre sono foto amare, sarcastiche che intendono essere un atto di denuncia». C. de Seta, Città e campagna, cit., p. 76. 121 64 documentano lo scempio dell’E42 sono di chiara denuncia124: asettiche, fredde, surreali e sconcertanti nella loro essenza metafisica e fuori dalla scala umana; il quartiere di Piacentini viene in definitiva sarcasticamente iconizzato quale esempio di cattiva progettazione del nuovo125. La provincia laziale e campana rappresenta una fonte ricchissima di esempi di architettura rurale, di cui le manifestazioni spontanee nelle isole di Ischia, Capri e Procida, rappresentano le espressioni più interessanti. A Capri in particolare, i numerosi scatti ci regalano l’immagine di un’isola inedita, incorrotta e splendida, quando ancora non era stato compromesso quel suo distintivo carattere selvaggio. Le immagine più belle che ce la restituiscono sono quelle che riprendono le piccole barche a remi che giungono alla grotta azzurra, i lidi poco affollati e il mare cristallino, le architetture uniche e perfette nella loro semplicità, quella semplicità eccezionale di un posto che ‘non si scorda mai’ come recita la frase che si legge sul fronte di una delle case fotografate (vol. 25, num. 12). Scarsa invece l’attenzione rivolta alla città di Napoli, che nelle rare riprese restituisce ben poco della sua millenaria ricchezza. Capo Miseno, Posillipo e i quartieri sono risolti in pochi scatti; delle splendide architetture della città partenopea riprende solo l’arco di trionfo di Castelnuovo e due immagini restituiscono il fronte di Palazzo Reale. Nemmeno una rapidissima sosta nella cittadina incorniciata dallo splendido golfo riuscirebbe a giustificare una tale povertà d’immagini prodotte, della quale comunque non conosciamo il motivo. Di Pompei e Ercolano sono ripresi i 124 Un ‘racconto’ interessante del progetto realizzato a Roma per il quartiere dell’Eur viene fatto da M. Capobianco, Gli anni Quaranta. «La via più dura» dell’architettura italiana, in «ArQ 14-15», Architettura italiana 1940 – 1959, [numero doppio della rivista del giugno-dicembre 1996, pubblicato in formato speciale], Electa Napoli 1998, p. 61 e segg. 125 Scrive Pagano «L’olimpiade della civiltà si trasformò in un famedio di marmorino. […] Vinse l’Accademia, e sulla piallata acropoli delle Tre Fontane i due miliardi finora spesi monumentalizzarono il vuoto». G. Pagano, Occasioni perdute, «Costruzioni-Casabella», n. 158, febbraio 1941. 65 soli scavi senza alcun accenno d’interesse nei confronti del contesto cittadino e lo stesso dicasi per Pozzuoli. Di tutto il litorale adriatico, escluse Pesaro, Fano e Senigallia solo la costa pugliese riceverà la giusta attenzione da parte dell’architetto, che individua nelle province di Bari e Matera, le tappe più importanti, in cui gli esempi di architettura rurale toccano probabilmente i picchi più alti per ingegno e maestria tecnica. A Bari, Pagano si sofferma su alcuni edifici di rilievo quali: il Castello, il Duomo, la chiesa di San Nicola. Matera conquista un insolito spazio nella produzione del Nostro, restituita in un’immagine rurale dalla carica profondamente poetica126; il borgo pietroso viene raccontato attraverso le immagini dei bambini scalzi in giro per le strade, le case scavate nella roccia ancora più suggestive nelle riprese dall’alto, le cave di tufo. Una città «trogloditica»127 il cui fascino sembra risiedere nella sua stessa arcaicità, una dimensione spezzata e fuori dalla realtà in cui uomini e sassi convivono nel medesimo habitat. Centri come Alberobello, Altamura, Gioia del Colle, Casamassima, Fasano, Martina Franca, ritornano generosi nei suoi scatti. Saltando ampiamente la punta calabra dello stivale, Pagano giunge a fotografare la Sicilia, in cui particolare attenzione viene rivolta alla valle dei templi di Agrigento; tra i negativi che documentano questo viaggio in una è ritratto lo stesso Pagano, con i templi alle spalle e la moglie Paola di fianco (vol. 54, num. 47), è questa una delle rarissime immagini in cui l’architetto ritrae anche se stesso. A Palermo incontriamo la Cattedrale, la Fontana Pretoria, San Giovanni degli Eremiti, San Cataldo, nonché 126 Una fonte preziosissima di conoscenza dell’antichissima storia della città di Matera che trae le sue origini addirittura dall’epoca preistorica, è il volume di C.D. Fonseca, R. Demetrio, G. Guadagno, Le città nella storia d’Italia. Matera, Laterza, Roma-Bari 1998. Un saggio molto utile è anche quello di C. de Seta, Matera, in Luoghi e architetture perdute, Laterza, Roma-Bari, 1986, pp. 91-108, nel quale sono tra l’altro riportate diverse fotografie di Giuseppe Pagano. 127 G. Pagano, Un cacciatore d’immagini, cit. 66 particolare attenzione è riservata al porto vecchio e ai vicoli. Della città di Monreale viene fotografato il Palazzo di Ruggiero con il bellissimo chiostro128. Infine riprende la zona archeologica di Segesta. Le foto realizzate in Sardegna dovrebbero risalire al 1940, anno in cui si occupa dello studio delle case dei minatori, di certo a questo periodo risalgono gli scatti di Carbonia, la città creata per ospitare i cavatori, nelle quale l’attenzione si rivolge esclusivamente al lavoro nei depositi caolini. Questa volta è il tema della dignità dell’homo faber quello che viene in qualche modo rappresentato e messo in scena, seppure l’obiettivo dell’architetto venga talvolta ‘distratto’ dalla scoperta di forme insolite, come si riscontra nelle fotografie dei filari di carrelli pieni di rocce, o delle case dei minatori schematicamente disposte tra le cave petrose e impolverate. Diverso invece il fascino suscitato su Pagano dall’altra cittadina sarda, Portoscuso, dove l’obiettivo è catturato dalla dimensione urbana umile e dalle architetture semplici quanto la gente. Sappiamo che oltre alle tappe italiane, Pagano condurrà un discreto percorso di viaggio in Grecia e Albania. Ai territori istriani che gli avevano donato i natali, dedica ben poche immagini, ma è in Grecia e in special modo nelle città di Atene e Corfù che l’istriano realizza due dei suoi reportages più belli. Incide sul felice risultato dei servizi compiuti in questi luoghi, la maturazione fotografica ormai completa dell’architetto, che visiterà i territori della Grecia nel 1941, in piena guerra, in qualità di comandante del 17° reggimento di Fanteria con il grado di Maggiore129. 128 La città di Monreale sorge su uno sperone dominante la valle dell’Oreto e la Conca d’Oro, ed è indubbiamente il principale centro turistico nei dintorni di Palermo. Cfr. Guida del Touring Club italiano, Sicilia, Touring ed., Milano 2005, pp. 221-231. 129 Si rimanda al profilo bibliografico inserito in appendice. 67 L’ampio servizio realizzato nella suggestiva acropoli di Atene potrebbe essere inteso come una sorta di summa magistrale di tutta la sua carriera fotografica. Nel cuore di una delle più spettacolari testimonianze archeologiche del mondo, lo sguardo dell’architetto, del critico, del cronista si fonde con quello del soldato, un soldato in conflitto con la sua stessa fede130. Il dissidio interiore che ne consegue, l’inconsapevole benevolenza del cittadino afflitto da un suo personale dramma, porta Pagano a volgere verso la città antica uno sguardo amorevole, coinvolto, affascinato, ma nello stesso tempo pensoso e sgomento. Come farebbe il regista di un documentario archeologico, l’istriano si aggira tra resti di mura e rocchi di colonne con una curiosità che lo spinge a ricercare i punti di vista più inediti, alla conquista di uno spazio conosciuto fino a quel momento solo attraverso i libri e che invece è ben entusiasta di catturare ‘dal vero’ attraverso la sua ‘formidabile’ rollei. L’analisi che Pagano fa di questa realtà che sotto i suoi occhi ipnotizzati trasuda perfezione stilistica è comunque profondamente obiettiva, l’architetto infatti si dimostra assolutamente consapevole del fatto che il fascino suscitato da quei luoghi sia anche il risultato di una ricostruzione ‘pittoresca’ influenzata dalla visione accademica della storia, ritenendo infatti che: «non piccolo aiuto all’ammirazione di oggi sia da attribuire al fascino della rovina che ha ricondotta l’architettura alla sua bellezza essenziale, al suo più schematico lirismo, alla pura necessità di 130 Poco prima di partire, in un delicato e sofferto frammento di diario Pagano avanza legittimi dubbi sull’opportunità della sua partecipazione alla guerra correndo «il rischio della vita per poter poi dimostrare che non valeva la pena di rischiarla per difendere un sistema politico così contrario a tutto ciò che di sacro, di bello, di santo, di giusto» aveva cercato di realizzare attraverso la sua vita e la sua arte. Estr. da un frammento di diario del 17 gennaio 1941, in C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano, Architettura e città …, cit.; F. Albini, G. Palanti, A. Castelli, (a cura di), Giuseppe Pagano Pogatschnig …, cit. 68 un’emozione estetica assoluta, liberata da tutti gli accessori, esonerata da qualsiasi ragione utilitaria, senza attributi decorativi»131. Il prodotto che viene fuori da questo servizio fotografico è davvero mirabile ma come sempre capace di suscitare dibattiti più che sterile ammirazione: sarà questo uno dei rari casi in cui dalle fotografie verrà fuori un articolo sarcastico e come sempre pieno d’acume, scritto dall’architetto poco dopo il suo viaggio ad Atene e pubblicato sulla rivista «Domus» nel dicembre 1941, con allegate alcune delle sue fotografie. La visione dell’estatica e irraggiungibile bellezza dell’Acropoli spinge il Nostro a dibattere sull’opportunità del lavoro di quegli architetti che con l’alibi della ricerca del monumentale, costruivano presuntuosamente «costosi minestroni archeologici»132, quelli che l’istriano ironicamente definirà ‘i partenoidi’. Scrive Pagano: «Animati dalla più diligente erudizione, frementi per una sadica gioia profanatrice, fiduciosi di potersi salvare nel mondo della cultura più facile, architetti poco sensibili si sono piegati alle esigenze di committenti superficiali ed hanno dato vita ai ‘partenoidi’. Musei e banche e palazzi aulici di tutto il mondo hanno tentato e tentano questa assurda contaminazione. Indigeste ambizioni di monumentalità tracotante, poca cultura o smodata presunzione annebbiano spesso l’intelligenza dei ricchi e dei potenti»133. In fondo ciò che più d’ogni altra cosa preme spiegare all’architetto – ancora una volta l’intento è didattico – è il vero valore della storia, un patrimonio preziosissimo che va tenuto in conto senza essere depredato né tanto meno abusato come fonte da imitare pedissequamente, in nome di un presuntuoso intento virtuosistico. 131 G. Pagano, Partenone e partenoidi, in «Domus», n. 168, dicembre 1941. Ora in C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano, Architettura e città …, cit. 132 Ivi. 133 Ivi. 69 Tra le immagini più belle realizzate ad Atene vale la pena indubbiamente ricordare quelle in cui la perfezione aulica del complesso greco si sposa con l’incidentale presenza dei commilitoni in fila sulle rovine, memori dell’antico splendore, contrasto stridente e straordinario nella sua pungente e brutale realisticità. Nella deliziosa cittadina di Corfù, lo sguardo di Pagano diviene ancora più indulgente, partecipe soprattutto del patimento umano dei cittadini vessati dalla guerra134. Alcune scene toccanti e straordinarie riprese nella comunità greca, come quella di una madre che allatta il bimbo su un cumulo di macerie, immagine di resurrezione e speranza dall’elevato connotato realistico, fino a quella che riprende la sagoma di un uomo posto di spalle, inerme, davanti allo spettacolo tragico di un edificio distrutto dalle bombe, sono diventati emblemi di una sciagura infinita e indelebile nel ricordo. Il valore di un patrimonio iconografico di tale portata, oggi, è indiscusso. Se solo si considera che molte delle città fotografate da Pagano, riporteranno, dopo la seconda guerra mondiale, danni irreversibili – di alcune ne verranno totalmente stravolti i connotati – si ha una dimensione della portata e dell’importanza del lavoro documentario condotto, motivo per cui, l’archivio fotografico dell’istriano, rivalutato e riletto oggi, rappresenta di per sé una fonte storica di elevatissimo valore135. 134 Anche in questo caso il reportage darà vita ad una serie di riflessioni dell’architetto che lo condurranno alla redazione di un intenso articolo pubblicato su «Costruzioni-Casabella», nel n. 183 del marzo 1943. In questo caso, le fotografie che documentavano la città di Corfù distrutta dalla guerra, diventano il punto di partenza per l’articolo La ricostruzione dell’Europa: capitale problema di attualità nel campo edilizio. Diverse immagini di Pagano verranno inserite a corredo di questo suo scritto. 135 Un interessante esempio del lavoro di recupero del patrimonio iconografico di matrice fotografica è quello svolto da Stefano Fittipaldi, Marco Iuliano e Giuliana Leucci con i due fondi fotografici Troncone e Parisio, ospitati nell’Archivio fotografico Parisio che ha sede a Napoli. Gli studiosi stanno faticosamente cercando di organizzare un catalogo multimediale ed interattivo per la valorizzazione e divulgazione del fondo fotografico: «L’importanza dei fondi d’archivio è accresciuta e rafforzata dalla constatazione che queste fotografie molte volte hanno il carattere di vero e proprio inedito: immagini non logorate dalla mercificazione cui i materiali stanno spesso andando incontro, ma spesso testimonianze uniche della trasformazione dei luoghi in divenire, rapida e difficilmente documentabile». M. Iuliano, Dagli archivi fotografici Parisio e Troncone: immagini per la Modern Heritage List, in F. Lucarelli (a cura di), La Mostra d’Oltremare. Un patrimonio storico-architettonico del XX secolo a Napoli, Electa Napoli 2005, p. 27. 70 Ancora troppo ridotto è il ruolo che viene affidato alla fotografia nell’ambito dello studio della città, per non parlare poi di quanto si sottovaluti l’eventuale apporto che un materiale di questo tipo potrebbe avere sugli studi volti a progetti di ricostruzione e restauro di contesti storico artistici. Viollet Le Duc d’altronde, è stato tra i primi a indicare i vantaggi dell’uso della fotografia nel restauro architettonico. «Potrei dirti di quanti gradini sono le vie fatte di scale, di che sesto gli archi dei porticati, di quali lamine di zinco sono ricoperti i tetti; ma so già che sarebbe come non dirti nulla. Non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato. […] Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, nei corrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole»136, è proprio questa la città d’Italia che ci racconta Pagano nei suoi scatti fotografici, collezionando un’opera che è un patrimonio prezioso per fortuna sopravvissuto alle ingiurie del tempo. c. Ulteriori temi sviluppati nelle foto d’archivio: l’architettura contemporanea, l’archeologia, il fascismo e la guerra, il lavoro e il tempo libero, le forme, i ritratti. Parallelamente al materiale realizzato durante il Tour in giro per la penisola, Pagano mette in opera una serie di servizi fotografici che, per l’entità del prodotto e il valore esclusivo degli argomenti trattati, possono essere considerati lavori autonomi seppur correlati e contemporanei alla 136 Le città e la memoria, in I. Calvino, Le città invisibili, nell’edizione Oscar Mondatori, Milano 1993, p. 10. 71 produzione del viaggio in Italia. È un Pagano divertito e affascinato dalla vita quello che si riconosce nelle foto di questa ulteriore porzione dell’archivio. Tra le varie immagini di viaggio i singolari reportages si inseriscono come note di gusto e colore in un materiale dal carattere tanto specifico volto, come abbiamo visto, essenzialmente a costruire una rappresentazione inedita dell’Italia tra le due guerre. Sfogliando le fotografie elencate per lo più topograficamente nell’archivio di Pagano, l’incontro con questi affascinanti servizi produce nella maggior parte dei casi meraviglia e stupore: in questi scatti forse più che negli altri si riconosce infatti la natura più autentica del fotografo, quella che induce l’istriano ad allontanarsi anche solo per qualche istante dalla sua dimensione di architetto, assumendo in toto il ruolo dell’artista sempre distaccato che guarda e annota con gusto, senza per questo esimersi dall’esprimere un giudizio. Volendo scandagliare uno per uno questi ulteriori argomenti d’indagine approntati da Pagano fotografo, risulta utile tenere presente il lavoro analogo condotto dagli autori del primo e unico catalogo fotografico uscito sull’archivio dell’architetto istriano137. In questa occasione alcuni studiosi come Leonardo Di Mauro, Antonio La Stella, Maria Teresa Perone, Federica Di Castro, Marina Miraglia, e, ovviamente, Cesare de Seta, affrontano la difficile analisi critica del materiale relativo ai temi fotografici di Pagano. All’architettura contemporanea, Pagano rivolge una cura e un’attenzione del tutto singolare. Invero, ci si chiede come mai l’architetto dedichi molte più fotografie alle opere antiche piuttosto che a quelle coeve; è una realtà oggettiva il fatto che 137 Ci riferiamo al catalogo di C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit. 72 egli tenda a riconoscere dei modelli positivi di riferimento quasi esclusivamente nell’architettura del passato. Del contemporaneo vero e proprio riprende ben poco, e certamente più che le architetture, richiamano la sua attenzione i materiali, gli aspetti strutturali, gli elementi tecnologici, nonché il carattere seriale della produzione; quasi come un moderno Palladio che nei Quattro libri a corredo del testo richiama oltre alle opere antiche, le sue e nessun’altra, Pagano riprende soltanto alcune delle sue architetture, il cantiere della Bocconi, il Palazzo della Moda e il Palazzo Gualino a Torino. Non c’è alcuno scatto dedicato ad opere, anche importanti, realizzate in Italia in quegli stessi anni: non ci sono immagini della città universitaria di Roma, o della Mostra d’Oltremare di Napoli conclusa nel 1940 – quindi nel pieno degli anni più prolifici dell’attività fotografica di Pagano – nessuna foto documenta inoltre la stazione di Firenze il cui progetto aveva richiamato così tanto l’attenzione dell’architetto138. Troppe le assenze, le lacune, per poter ritenere che esse siano state davvero delle dimenticanze casuali, piuttosto che intenzionalmente volute dall’artista. Quella di Pagano è una figura profondamente controversa; la sua posizione nei confronti dell’architettura contemporanea, ancora più complessa. Leggere tutti i suoi articoli pubblicati negli anni, significa entrare in un labirinto di idee e di posizioni conflittuali che lo porteranno spesso a schierarsi a favore e nello stesso tempo contro l’architettura contemporanea. Il suo si dimostrerà più che altro, negli anni, un ruolo super partes in qualità di critico e osservatore del nuovo. Riguardo, ad esempio, 138 Pagano scriverà un articolo appassionato in difesa del progetto vincitore del concorso per la nuova stazione di Firenze da parte del Gruppo toscano degli architetti Giovanni Michelucci, Nello Baroni, Pier Niccolò Berardi, Italo Gamberoni, Sarre Guarnieri e Leonardo Lusanna. Scrive l’istriano: «Questa volta gli Accademici italiani hanno, con la loro votazione, sanzionata una preferenza inequivocabile per un progetto che rappresenta un indirizzo di avanguardia: posizione di coraggio e di responsabilità che gli architetti moderni da tempo attendevano e che hanno salutato con soddisfazione». G. Pagano, La nuova stazione di Firenze, «Casabella», n. 63, marzo 1933. 73 alla posizione del Nostro sull’architettura razionale, afferma Bruno Zevi: «Pagano era proprio contro il Razionalismo, tanto contro che riuscì a criticare la casa del fascio di Como di Terragni»139. Non solo Pagano non si può definire un razionalista, ma nemmeno un novecentista, né un architetto fascista, Pagano guarda agli sviluppi dell’architettura indirizzato semplicemente dal gusto e dal buon senso, mai in mala fede o per perseguire ambizioni personali, aggiunge ancora Zevi: «Pagano era una persona sanguigna, voleva veramente le cose civili, non gliene importava niente dell’arte – anche se poi aveva ottimo gusto. Quando faceva la facoltà di Fisica, qui a Roma, quando faceva la Bocconi, non mirava per niente a fare della poesia»140. Alla luce di questo suo distacco rispetto ad una certa produzione aulica o imposta, sceglie di non fotografare e rendere così immortale il modello della Casa del Fascio di Terragni, piuttosto che l’Officina Fiat-Lingotto di Giacomo Matté-Trucco, perché forse avverte il sospetto che non necessariamente queste opere avrebbero potuto rappresentare un patrimonio eterno e una fonte imprescindibile per la cultura architettonica del futuro, almeno non quanto le opere greche e romane o quelle del Rinascimento avrebbero certamente fatto, distinguendo così l’«arte di Stato» dall’«arte che resterà»141: Pagano ‘salva’ gli oggetti che ritiene più sacri, i centri storici, le ville d’epoca, le architetture rurali, simbolo di una saggezza antica e ormai perduta. L’unico caso in cui l’obiettivo della rollei si sofferma su un’opera di architettura contemporanea è quello del cantiere dell’E42, ma le immagini come abbiamo già sottolineato, sono piuttosto di denuncia e sofferenza per 139 E. Carreri, Saper vedere l’architettura italiana. Intervista a Bruno Zevi, in «ArQ 14-15», Architettura italiana 1940 – 1959, [numero doppio della rivista del giugno-dicembre 1996, pubblicato in formato speciale], Electa Napoli 1998, p. 49. 140 Ivi, p. 49. 141 G. Pagano, Urgenza di parlar chiaro, «Costruzioni-Casabella», n. 146, febbraio 1940. 74 un uomo, un architetto, che giunge all’amara constatazione, osservando il quartiere romano in costruzione, «della sconfitta e del crollo delle illusioni di una generazione»142. A dispetto di questa indifferenza palesata nei confronti delle opere coeve, Pagano dimostra invece di appassionarsi oltremodo, come abbiamo detto, alle tecniche, ai materiali, alle tipologie e metodi della costruzione moderna. Non è un caso che la rivista da lui diretta assuma, dal 1938 il nome di «Casabella-Costruzioni» a dimostrazione della grande attenzione rivolta dall’architetto a questo specifico settore edilizio143. In definitiva, ciò che interessa realmente Pagano non è il ‘contemporaneo’, piuttosto tutto ciò che è veramente moderno e all’avanguardia e che va contro il bieco accademismo di una certa ‘cultura’ ormai sorpassata; molto più moderno un tempio dell’Acropoli di Atene quindi, oppure un esempio di casa rurale, piuttosto che le opere contemporanee. Molte fotografie ritraggono i caratteri tecnologici del costruire; tre scatti dell’archivio intitolati semplicemente Ferro, riprendono le complesse strutture metalliche di un ponte, in cui grande evidenza viene data ai dettagli costruttivi: le grappe e i bulloni catturano l’attenzione dell’osservatore, rappresentando un punctum della fotografia come direbbe Roland Barthes144, così come l’impatto in primo piano delle travature evidenzia il poderoso carattere materico dell’opera. Ma anche in questo 142 M.T. Perone, Architettura contemporanea, in C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit., p. 38. 143 Il nuovo titolo della rivista viene ufficializzato da una presentazione fatta dallo stesso direttore. G. Pagano, Presentazione, «Casabella-Costruzioni», n. 124, aprile 1938. 144 Critico d’arte di caratura internazionale, Roland Barthes ha indirizzato la sua attenzione anche verso la fotografia, cui ha dedicato pagine preziose ricche di riflessioni acute sulle potenzialità di questo mezzo di comunicazione tanto ‘comune’ e sconosciuto nello stesso tempo. In La camera chiara. Nota sulla fotografia, l’autore riesce con una serie di riflessioni attente a suggerire all’osservatore più o meno preparato una strada da seguire onde poter comprendere i segreti di questa magnifica arte dei sensi. Nel breve ma illuminante saggio, il critico individua l’esistenza di un punctum in ogni scatto fotografico, inteso in quanto punto sensibile, segno che parla più di qualsiasi altro in un’immagine e che contribuisce quindi a disturbarne o a indirizzarne lo studio, scrive a riguardo: «il punctum è una puntura, un piccolo buco, […] quella fatalità che, in essa (la fotografia), mi punge», e quindi mi colpisce, attira fortemente, talvolta inconsapevolmente, la mia attenzione. R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 2003, p. 28. 75 caso, l’intento dell’architetto risulta divulgativo di una certa idea. Delucidante, a questo proposito, l’articolo uscito sulla rivista «CasabellaCostruzioni» del 1939 intitolato L’Autarchia e l’Architettura del ferro; in questo articolo, come sempre veemente, l’autore spiega attraverso un’analisi sagace e acuta, i motivi che spingevano gli architetti moderni a fare a meno dell’utilizzo del ferro nelle proprie opere; motivi militari, perché lo stato non voleva che l’uso del prezioso materiale fosse abusato nelle costruzioni edilizie, e motivi dovuti ad una cultura accademica gretta che poco apprezzava l’uso del ferro a vista in architettura. Pagano scatta così queste immagini per rendere omaggio al nobile materiale e per dare un esempio a quei costruttori che «si rassegnano a impiegare il ferro ‘in segreto’, camuffandolo esteriormente con soprastrutture inutili che offendono le stesse ragioni tecniche ed estetiche del suo impiego»145. Stesso trattamento per le immagini intitolate Legno, in cui ritrae le impalcature utilizzate nella messa in opera di strutture architettoniche, la cui complessa maglia delle assi assemblate per la costruzione, assurge, nella finzione fotografica, al medesimo valore compositivo dell’edificio stesso. Strutture ardite per costruire organismi ancora più complessi in un gioco di scatole ambiguo e affascinante che dà anche una misura dell’atteggiamento divertito e distaccato dell’architetto. Questo complesso gioco di intersezioni, sovrapposizioni strutturali, trova la sua espressione più interessante nelle foto intitolate proprio Strutture, in cui lo scheletro delle impalcature giunge a confondersi totalmente in una sorta di mimesi con quello dell’edificio in opera. Le armature dell’E42, strutture effimere utilizzate come prototipi per le sculture da realizzare, divengono nelle immagini di Pagano delle moderne opere d’arte in cui il materiale umile utilizzato, il legno, ne nobilita ancora 145 G. Pagano, L’Autarchia e l’Architettura del ferro, in «Casabella-Costruzioni», n. 144, dicembre 1939, p.35. 76 di più le mute fattezze146. Lo studio è ancora quello dei materiali, e del modo in cui essi vengono assemblati per comporre le opere. Berlino ed Helsinki sono tra le poche città ‘moderne’ riprese dal nostro selettivo regista147 – alcuni scatti sono dedicati anche ad Oslo. A Berlino fotografa alcuni palazzi, uno scorcio dello stadio e due elementi architettonici decorativi soprannominando sarcasticamente le foto Rettorica, Berlino proponendo l’idea di una città, affascinante ma piena di contraddizioni. Ad Helsinki, Pagano produrrà invece un numero superiore di fotografie e, ancora una volta, ben poco si sofferma sulle architetture per lasciare invece il posto a foto di paesaggi immersi nella neve, mari ghiacciati, baite innevate, che riescono forse ad esprimere più schiettamente la vera natura della città nordica. Di tutto il materiale riguardante l’architettura contemporanea, il ciclo fotografico più prolifico è indubbiamente quello dedicato allo Standard. Sono immagini molto intriganti queste, in cui una moltitudine di temi vengono a sovrapporsi in un controllo compositivo dell’immagine assoluto e totale. La riproduzione seriale di elementi simili, il gusto di comporre delle forme più o meno improbabili davanti all’obiettivo reiterando tali elementi, la capacità di individuare in ambienti qualsiasi, composizioni geometriche inaspettate, portano l’architetto a produrre scatti dal fascino davvero accattivante. In realtà lo studio della componente standardizzata ritorna di continuo negli scatti di Pagano, non solo nei negativi propriamente intitolati Standard, ma uno studio compositivo analogo si riscontra, ad esempio, in diverse immagini realizzate nel mercato di 146 Questi straordinari scatti realizzati da Pagano nel cantiere dell’Eur assumono ad ogni modo un’ulteriore valenza nell’ambito di un discorso piuttosto complesso legato all’incidenza della pittura metafisica sulla produzione fotografica dell’architetto, per il quale si rimanda al capitolo III. 147 Come abbiamo già detto in altra sede, Pagano si recherà a Berlino ed Helsinki in occasione di un ciclo di conferenze tenute sull’architettura italiana contemporanea. 77 Sinigallia, nella serie dedicata alle Vetrine, oppure nelle fotografie del ciclo Litoceramica, nelle quali viene comunque ricostruito quell’«alfabeto moderno da cui scaturisce il linguaggio dell’architettura viva»148. Pagano intende con queste fotografie stimolare una precisa riflessione: «la riproduzione in serie non esclude la fantasia dell’arte ma, anzi, la moltiplica nella importanza e nelle conseguenze»149. Il tema dell’archeologia, è uno dei più cari all’architetto istriano, perché in qualche modo ha a che fare con il recupero del patrimonio storico nazionale. Scrive Pagano: «Se varie ragioni allontanano i giovani dallo studio dell’antico, credo che sia necessario nella scuola e nella cultura degli architetti italiani di evitare questa forma di negazione totalitaria e di vedere accostarci all’antichità non per gioco di cultura o per furti di forme, ma per comprensione di spiriti, per affinità di intenti, per simpatia verso situazioni e realizzazioni analoghe a quelle che agitano il mondo di oggi, per irrobustire quella coscienza moderna che non deve dipendere dal capriccio dei giornali di moda ma imperniarsi in una profonda convinzione morale»150. Da questa affermazione risulta chiaro il motivo della predilezione che l’architetto dimostrerà nel suo lavoro di fotografo, nei confronti dei tesori del mondo antico e del patrimonio archeologico. Pompei, Paestum, Ostia, Olimpia, Segesta, Ercolano, sono solo alcune delle città classiche studiate con grande attenzione dall’obiettivo della rollei, soprattutto perché l’architetto nelle opere del passato riconosce i germi dell’architettura moderna: «Ogni volta che io ho percorso il pompeiano vicolo del balcone pensile o quei suggestivi meandri che circondano i granai di Ostia, mi si è presentato uno strano desiderio di completare modernamente quelle illustri rovine, come se fossero cose lasciate 148 Cfr. G. Pagano, Le costruzioni in serie, in «Casabella-Costruzioni», n. 144, dicembre 1939, p. 2. Ivi, p. 2. 150 Cfr. G. Pagano, L’insegnamento degli antichi, in «Casabella», n. 80, agosto 1934. Ora in C. de Seta (a cura di), Pagano, Architettura e città …, cit. 149 78 momentaneamente incomplete da un Le Corbusier o da un Mies van der Rohe che non avessero ancora conosciuto né il ferro né il cemento armato»151. Pagano produce in alcuni dei luoghi più belli del paese, veri e propri documentari di archeologia restituendo l’immagine di queste città addormentate, sepolte dal tempo, con un lirismo indiscusso. Le immagini realizzate nella valle dei templi di Paestum sembrano uscite dai disegni dei pittori del XVIII e XIX secolo, il taglio visuale delle foto ricorda infatti vedute di un Ducros, di un Hackert, di un Piranesi – senza dubbio il più ‘fotografico’ di questi pittori. Sappiamo che il vedutismo pestano reitera delle matrici costanti in tutti e due i secoli, ebbene Pagano sembra ripercorrere e seguire questa scia, riprendendo nelle sue immagini quella stessa tipologia iconografica. Concordiamo ad ogni modo con Di Mauro quando sottolinea che nessuno degli studi fotografici di Pagano sull’archeologia, quello realizzato a Paestum, ma anche ad Ercolano, a Roma ad Agrigento etc. riesca a raggiungere «il nitore e la naturalezza dell’Acropoli ateniese»152. Al di là delle differenti caratteristiche di questi reportage archeologici, sono comunque individuabili metodi e tecniche comuni soprattutto nelle tipologie di ripresa fotografica; ad esempio si riscontra un metodo simile nelle riprese delle colonne, con la macchina puntata dal basso verso l’alto153, nel chiaro intento di farle emergere dal suolo come robusti tronchi d’albero: una sorta di foreste pietrificate. Stessa analogia è riscontrabile nelle foto dei dettagli decorativi rispetto ai quali, lo scatto, indugia sul particolare piuttosto che riprendere l’elemento nel suo complesso: dell’Ara 151 Cfr. G. Pagano, Architettura moderna di venti secoli fa, in «La Casa Bella», n. 47, novembre 1931. Ora in C. de Seta (a cura di), G. Pagano, Architettura e città …, cit. 152 L. Di Mauro, Archeologia e arte, in C. de Seta, Giuseppe Pagano fotografo, cit. p. 58. 153 Evidente in questi scatti l’influenza della fotografia di marca tedesca e russa, come non pensare a un Moholy-Nagy oppure ad un Rodtscenko che critica apertamente quelle che definirà le ‘vedute ombelicali’, suggerendo piuttosto ‘le riprese colte dall’alto in basso o dal basso in alto, o quelle in diagonale’ . Cfr. capitolo III. 79 Pacis si riconosce solo il dettaglio del fregio, dell’Arco di Costantino l’obiettivo è puntato sui bassorilievi del basamento. Il tema del fascismo e della guerra è uno dei più delicati tra quelli trattati dall’architetto. Pagano non si definirà mai un politico ma nella politica sarà sempre invischiato così come nella guerra. Ed è forse anche per questo che le immagini su i due argomenti risultano relativamente poche: egli preferisce non soffermarsi più di tanto su temi tanto spinosi, e quando lo fa’, la sua è una maniera sempre delicata, attenta, quasi silenziosa. Non c’è accanimento nelle sue immagini di carattere ‘bellico’ né tanto meno si avverte quel desiderio a volte un po’ cinico di denuncia che hanno posseduto e possiedono certe immagini dei reporter di guerra, piuttosto è evidente un rispetto quasi religioso che gli deriva essenzialmente dalla consapevolezza maturata che la guerra non sia altro che una triste necessità e un dramma senza vincitori né vinti154. Cercando in archivio voci come ‘fascismo’, ‘soldati’, ‘guerra’, viene fuori un unico titolo: Soldati, e si tratta di un solo scatto in cui si vedono un gruppo di militari messi in fila secondo il consueto carattere compositivo seriale dell’immagine. In tutti gli altri casi fotografici dedicati a tali argomenti, e ne sono comunque parecchi, il soggetto militare o politico non è mai palesato chiaramente, è un fattore che si intuisce, che si legge tra le righe, in molti casi assolutamente secondario. Recuperando ancora una riflessione riportata nelle Note di Barthes, la fotografia permette infatti «di accedere ad un infra-sapere»155 cioè può sollecitare in un certo modo l’attenzione dello «spectator» e del suo 154 Molto interessante a questo proposito la riflessione di Carlo Bertelli che, riguardo a questo tema, scrive: «Pagano aveva documentato la guerra come il passaggio da un’era storica e le rovine e gli appostamenti e le batterie sono già visti a distanza, come se già fossero dentro la storia con una terribile premonizione di morte». C. Bertelli, G. Bollati, Storia d’Italia – annali 2* – L’immagine fotografica …, cit., p. 192. 155 R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, cit., p. 12. 80 «studium»156 al punto tale da far cogliere in essa significati che prescindono dallo stesso oggetto rappresentato. Pagano non fotografa la guerra in sé per sé, quanto gli effetti della sua devastazione, come nel caso del reportage realizzato a Corfù; allo stesso modo non riprende i cortei o le assemblee fasciste quanto le scritte sui muri volte ad inneggiare o denigrare il Regime (Puglia_Vol43_Num4, Milano_Vol47_Num12): è una chiave di lettura molto acuta questa individuata, che solo un vero, grande fotografo avrebbe potuto restituire. Il tema del lavoro e del tempo libero viene approfondito sviluppando una miriade di interessanti sottotemi. Protagonisti di questi scatti sono gli uomini, personaggi sconosciuti, ma anche intellettuali, o magari gente comune catturata tra la folla, operai, bambini, un universo di volti e di espressioni che, attraverso le immagini di lavoro e nelle ore di relax, racconta la propria esistenza semplice ed eccezionale. Del lavoro, Pagano, tende a far evincere l’essenza più nobile, considerando tale attività un’arte nella quale ogni individuo si identifica e si ritrova; l’architetto realizza quindi un percorso fotografico costellato di scene, ambienti, personaggi d’una poesia sublime. Vengono individuate alcune specifiche categorie di lavoro, come i Ceramisti, i Pittori, gli Operai, gli Spaccalegna, i Fotografi, i Gondolieri, che richiamano particolarmente la sua attenzione. Le immagini degli spaccalegna nella Val di Fassa riconciliano l’autore con la semplice realtà arcadica della dimensione rurale. L’incontro con la gente a lavoro, gli suscita emozioni complesse tutte straordinariamente interpretate dalla sua rollei, che osserva con delicata maestria e dignitoso rispetto, soprattutto il lavoro artigianale. Anche 156 Ivi. 81 quando riprende gli operai, infatti, non si tratta mai di categorie impiegate nell’industria, e conveniamo con la Miraglia nel rilevare che non si avverte alcun accento polemico nel tipo di reportage dedicato dall’architetto a questa problematica sociale: «Non c’è assolutamente alcuna intenzione polemica nei confronti della grande industria e del conseguente passaggio dallo strumento alla macchina, ma solo uno sguardo nostalgico ad un mondo, quello del lavoro le cui strutture artigianali andavano lentamente estinguendosi»157. In definitiva, Pagano ha un interesse esclusivo per quelle maestranze che ancora riuscivano a servirsi delle nozioni, degli strumenti e delle conoscenze ereditate da antiche tradizioni custodite nei secoli. Non c’è polemica sociale, nulla che ricordi neppure vagamente le immagini di denuncia del lavoro sottopagato o minorile realizzate soprattutto in America, da fotografi come Lewis W. Hine158. Come sempre l’architetto strizza piuttosto l’occhio ai tesori di un mondo in estinzione che sopravvive ancora solo grazie al popolo dei ‘vinti’. Nelle foto dedicate al tempo libero, riconosciamo un Pagano ‘leggero’ e spensierato. Scorrendo i titoli dei provini si incontrano voci come: Giostre, Costumi, Mare, Barche, Smorfia, Sorriso, Turismo, Varietà, che ci regalano diverse tra le immagini più singolari di tutto l’archivio. In alcuni scatti, come nelle foto dedicate al Varietà – sottolinea argutamente Marina Miraglia – lo sguardo dell’architetto diviene un po’ voyeur, in un continuo indugiare sui volti ambigui del mondo dello spettacolo, icone di una realtà talvolta frivola più spesso mistificante, che sono tra le più incisive di questa categoria. Si deve tenere in conto il fatto che, proprio negli anni ’30 ci sarà un grande sviluppo dell’avanspettacolo in Italia, inizia la stagione della rivista con Totò, Macario, Nino Taranto. 157 M. Miraglia, Il lavoro e il tempo libero, in C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit., p. 128. 158 Cfr. B. Newhall, Storia della fotografia, Einaudi, Torino 1984; I. Jeffrey, Fotografia, Skira, Milano 2003. 82 Nel giro di pochi anni nascono sul territorio molti luoghi di svago e ritrovo; tra i caffè celebri, si ricordano il Pedrocchi a Padova, il Greco a Roma, il Cova a Milano, il Paskowsky a Firenze, il Florian a Venezia, mentre per l’intrattenimento serale si propongono numerosi i cafè-chantant e appunto il teatro di varietà. Nel frattempo si sviluppa, fiorente, l’industria cinematografica, e sorgono le prime case di produzione come la Cines, la Lux e tante altre159. In questo sfavillio di luci e palcoscenici, le immagini, rubate molto spesso da Pagano nei camerini dei teatri, rendono l’orgiastico colore dei costumi e dei trucchi di scena delle ballerine e degli attori, persi nel caos rutilante dello show, che inaspettatamente raggiunge momenti di vera poesia nei bellissimi ritratti di personaggi più o meno celebri: la ballerina con il costume da farfalla, esile e fragile marionetta della macchina teatrale, o quello raffinato ed elegante di Paola Borboni, ripresa in alcuni istanti di finzione scenica. Al mito in crescita nel XX secolo del Turismo, Pagano dedica diversi scatti, pieni di quel suo atteggiamento attento e un po’ sornione. Nelle immagini fiumi di persone si affollano sui traghetti, riempiono monumenti d’architettura, rispondendo a quella che oramai era diventata una vera e propria moda, alla quale Pagano e la sua famiglia neppure si sottrae, come testimoniano i viaggi in Sicilia e nei dintorni di Napoli. Le foto intitolate Mare, ritraggono alcuni tra i momenti più sereni della vita dell’architetto; si riconoscono infatti, in parecchie di queste foto, la moglie Paola con le figlie. Alle Forme, Pagano dedica uno studio attento e complesso, possiamo dire che in realtà tutto il suo archivio fotografico sviluppi il tema generico della 159 Cfr. G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano. Il cinema del regime 1929-1945, Editori Riuniti, Roma 2001; L. Criscenti, G. D’Autilia (a cura di), Autobiografia di una nazione. Storia fotografica della società italiana, Editori Riuniti, Roma 1999. 83 ‘forma’ della materia, intesa come materia umana, materia architettonica, materia naturale. Tutto, attraverso gli occhi del Nostro fotografo, prende forma. Nelle sue fotografie spesso la morphé è imposta attraverso la disposizione degli elementi nell’immagine in modo da creare precisi organismi spaziali; così assumono una ‘forma’ i filari dei carrelli per il materiale caolino delle cave che disegnano, disposti sul suolo, serpentine e giochi concentrici, lo stesso accade ai rami degli alberi che definiscono arabeschi nelle trame del celo, alle tracce d’impronte impresse dal passaggio di persone su un lembo di spiaggia, o ancora al groviglio di cactus sul ciglio di una strada. Molto spesso accade, in questi giochi di forme, che si perda l’entità stessa dell’oggetto ripreso, colto in maniera assolutamente funzionale ad un’idea che l’architetto vuole esprimere; in questo Pagano tende indubbiamente ad una trasfigurazione astratta del reale160. Ciò accade ad esempio nella foto intitolata Acqua (Vol33, Num44), in cui l’obiettivo è puntato direttamente su una superficie leggermente increspata dal moto ondoso che restituisce, anche attraverso il riflesso del sole, un’immagine per certi versi surreale, lo stesso dicasi per la foto intitolata Ghiaccio (Vol44, Num24). Ma l’esempio più interessante di questa ricerca fotografica si invera nei due bellissimi cicli dedicati alle Nuvole e ai Sassi, dei quali quest’ultimo, successivamente pubblicato in un piccolo opuscolo, dall’autore161. Nel caso delle fotografie scattate alle Nuvole, davvero impressionante risulta l’affinità con il ciclo degli Equivalenti, realizzato da Alfred Stieglitz. Il parallelo tra le due produzioni quasi coeve162, molto più sostanziale che di superficie rispetto a 160 Per quanto riguarda l’influenza della matrice espressionista sulla produzione fotografica dell’architetto istriano si rimanda al capitolo III. 161 G. Pagano, Immagini, I Sassi, Panorama, Milano-Roma, 1939. 162 Il ciclo di foto dedicato alle nuvole è prodotto da Stieglitz tra il 1922 ed il 1928 circa; la pubblicazione viene data alle stampe nel 1929. Oltre alla specifica bibliografia monografica del fotografo, si consiglia un interessante opuscolo uscito nel 2004 in occasione della mostra allestita in seguito alla donazione al Musée d’Orsay di Parigi, da parte della Fondazione Giorgia O’Keeffe, di diversi lavori del fotografo, tra cui alcune stampe degli Equivalenti. In questo lavoro Stieglitz fotografò centinaia di nuvole, affascinato 84 quanto possa realmente sembrare, viene brillantemente evidenziato dalla Miraglia, che scrive: «Il titolo di Equivalenti, con cui Stieglitz definisce le proprie nuvole, ci indica come nella concezione del fotografo l’assunzione del dato naturale, da cui ovviamente non può prescindere, diventa pretesto per un’indagine di tipo analitico in cui l’immagine del referente viene ad essere investita di significati ‘equivalenti’, che rimandano solo a se stessi e alla soggettività espressiva dell’operatore-fotografo. Le nuvole di Pagano, i suoi alberi, spesso in controluce, le sue pietre denunciano un’accezione fotografica paritetica»163. In definitiva, l’architetto attraverso lo studio delle forme in continua variazione dei corpi nuvolosi, studia il continuo mutare della natura nel tempo e nello spazio, obbiettivo analogo a quello perseguito con lo studio degli Alberi, e soprattutto dei Sassi. In particolare in quest’ultimo ciclo fotografico, Pagano studia l’analogia esistente tra forme della natura e forme costruite dall’uomo mettendo a confronto il disegno dei sassi naturali e quello delle pietre scolpite e costruite; il lavoro che ne viene fuori è un percorso interessante e inaspettato attraverso la storia e gli effetti del tempo che passa su tutto lasciando un segno profondo e indelebile. I Ritratti di Pagano, sono eccezionali pur nella loro esiguità numerica. Ben pochi e accuratamente selezionati sono infatti i personaggi noti, scelti mai casualmente nel mondo dell’élite artistica come Aalto, Carrà, Casorati, Paola Borbone, Frassinelli cui l’architetto dedica un ciclo fotografico esclusivo. A corredo di questi ritratti ‘aulici’, una miriade di altri individui sconosciuti, popolano le immagini dell’architetto, che ci regala attraverso dal loro continuo cambiamento di forma e luce. Il ciclo di foto dedicato alle nuvole è prodotto tra il 1922 ed il 1928 circa; la pubblicazione viene data alle stampe nel 1929. F. Heilbrun, Alfred Stieglitz (18641946), 5Continent ed., Milano 2004. 163 M. Miraglia, Forme, cit., p. 149. 85 questi scatti un saggio della ritrattistica fotografica contemporanea, in alcuni casi anche d’avanguardia. Senza dubbio ciò che Pagano indaga in queste fotografie non sono le caratteristiche formali del soggetto quanto la sua anima. In una delle riprese di Aalto, il mezzo busto dell’architetto è abbacinato dalla luce del sole tanto da permetterne la visualizzazione di un solo lato del suo profilo, quello in ombra, che rivela dietro la rugosa espressione corrucciata e severa, un aspetto dell’indole del maestro. Impostato su un complesso gioco di superfici riflettenti, il ritratto del pittore Carlo Carrà, fotografato attraverso il piano vitreo di un tavolo e lo specchio di una porta vetrata, risulta ancora più raffinato nella sua ricercatezza, soprattutto perché insinua, ancora una volta, «l’ambiguità della lettura fotografica»164, destabilizzando quindi qualsiasi certezza relativa all’oggettività della visione. Il ritratto di Casorati è forse uno dei più interessanti tra quelli riservati da Pagano ai personaggi più illustri165. L’autore scompone l’immagine del pittore attraverso mille frammenti che raccontano la storia della sua vita e del suo lavoro. Di tutto il materiale raccolto, soltanto un’immagine ci restituisce infatti il volto del Maestro; nelle altre riconosciamo il suo studio, la sua casa, la stanza dei figli ricolma di giochi e oggetti preziosi e privati, un ‘antro’ parlante che, molto più profondamente descrive il Maestro, la sua vita, il suo mirabile lavoro. Tra gli altri personaggi illustri Pagano ritrarrà Paola Borbone, Frassinelli ma anche Stellino e Garan, la tanto amata moglie Paola, spesso in compagnia delle figlie e infine il ritratto di un personaggio non ben identificato che ritorna in tre dei suoi scatti con una ripresa che non lascia 164 Ivi, p. 146. Cesare de Seta ci fornisce una lettura davvero interessante di questo ciclo ritrattistico di Casorati. Cfr. C. de Seta, Ritratti, in C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit. pp. 93-94. 165 86 spazio alla possibilità che si trattasse di uno sconosciuto, ma che comunque non è stato possibile individuare (vedi negativi). Dell’architetto non abbiamo ritratti a parte quello in cui è ripreso – si tratta di diapositive a colori – appoggiato ad una finestra della facoltà Bocconi di Milano, e un’altra in primo piano in abiti militari (C’É ANCHE QUELLA DAVANTI ALLA BOCCONI). Al di là dei ritratti di personaggi illustri, Pagano dimostrerà un grande interesse nei confronti di gente assolutamente sconosciuta attraverso il ritratto dei quali, ricostruirà un interessante mosaico di tipologie umane, di ‘caratteri’ unici, oggetto di uno studio affascinante e in linea con le ricerche fotografiche contemporanee. L’attenzione per il ‘materiale umano’ tra gli anni Venti e Trenta del Novecento diviene infatti molto acuta in ambito fotografico. Tra i protagonisti di questo filone c’è indubbiamente André Kertész, attento osservatore dell’affascinante mondo di relazioni interpersonali più o meno intime che si instaurano nelle città; con lui si allinea Brassäi che preferisce mostrare però nei suoi scatti, un universo notturno e misterioso, alla ricerca della quinta essenza della vita166. Contemporanea a queste indagini per certi versi anche sociali, condotte in Europa, anche Pagano impressiona sulla sua pellicola un numero interessante di ‘protagonisti inconsapevoli’; tra gli scatti più belli tutti quelli intitolati Bimbi, Bimbe, Bambini, in cui sono 166 La tentazione sarebbe quella di inserire in questo ventaglio di fotografi ritrattisti anche lo straordinario August Sander se non fosse di altra natura la sua tipologia ritrattistica rispetto a quella dei fotografi menzionati e dello stesso Pagano. In Germania, Sander, ritrattista di professione, «nel 1910 diede avvio ad un ambizioso programma: creare un ampio atlante di tipi tedeschi di ogni classe, di ogni estrazione sociale. Non cercò la personalità individuale, ma i tipi rappresentativi di professioni, mestieri, attività diverse, nonché i membri di gruppi sociali e politici». Nel 1929 pubblicherà il suo lavoro con il titolo Antlitz der Keit (La faccia del nostro tempo). Questo volume e gli altri pubblicati negli anni successivi, non riscuoterà successo nell’ambiente nazista, che distruggerà moltissimi dei suoi negativi. É chiaro che il programma di Sannder avesse ben poca affinità con i lavori contemporanei di Kertész e Brassäi e dai quali Pagano aveva tratto spunto, ma risulta di certo un’esperienza sociologica molto interessante. B. Newhall, cit. pp. 341-342. 87 ritratte anche le figlie, rivelano con deliziosa delicatezza l’incanto dell’età dell’innocenza. Il suo sguardo diviene invece più assorto, quasi triste, davanti all’immagine intitolata Pensionati, in cui la sagoma di spalle di un vecchietto seduto sulla panchina di un parco a guardare dei bambini che fanno ginnastica, trasmette tutta la nostalgia profonda della terza età della vita. Nelle foto intitolate Grasso e Grassone, Pagano si diverte a riprendere dei personaggi in soprappeso, con uno sguardo ironico, a tratti davvero esilarante. Questo stesso carattere ironico si rivela nella serie di fotografie intitolate Disgrazie, in cui lo sguardo dell’architetto che si mostra partecipe ma divertito, riflette in realtà sugli inevitabili imprevisti della vita. Una tra le foto più bizzarre, che si può inserire di diritto nella categoria dei ritratti, è quella intitolata ironicamente Cilindri; nell’immagine sono riprese tre persone: due donne vestite in costumi carnascialeschi e un uomo in frac con un simpatico cilindro che suggerisce il nome alla fotografia. Non è dato sapere chi siano i personaggi fotografati, né tanto meno la circostanza della ripresa, ma è chiaro che il titolo stesso della foto evidenzi una volontà precisa da parte dell’architetto, ossia quella di dichiarare protagonista vero e proprio del ritratto non uno dei tre personaggi ripresi nella scena quanto un unico oggetto catalizzatore di ogni attenzione da parte del fotografo: il cilindro, un punctum dichiarato della fotografia. Ma il ciclo di ritratti più belli tra quelli realizzati da Pagano ad illustri sconosciuti è prodotto nell’ambito del reportage del mercato milanese di Sinigallia, il più cinematografico tra quelli realizzati167. 167 Cesare de Seta e Marina Miraglia concordano nel rivelare questo aspetto cinematografico nel ciclo dedicato al mercato di Sinigallia. C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit. É interessante rilevare come nello stesso periodo in cui Pagano realizzava questo reportage, un vero cineasta riprendeva, con un taglio decisamente analogo al suo, lo stesso mercato: si tratta di Alberto Lattuada, che in Occhio quadrato realizza diversi scatti nella struttura mercatale milanese. Cfr. capitolo III di questo volume. 88 In questa occasione l’architetto cattura alcuni momenti della vita mercatale con una sensibilità acutissima; l’occhio della rollei si aggira curioso tra i mille aggeggi ed utensili messi in vendita sulle bancarelle, fermando nei suoi scatti, dietro ai banconi, il volto dei personaggi più pittoreschi, sguardi spesso aspri e indispettiti, altre volte aperti e socievoli. La venditrice assorta che a fine giornata conta i pochi soldi realizzati con le vendite, il sorriso lievemente accennato e soddisfatto del vecchietto che ha appena acquistato il suo oggetto, il gruppo familiare che mentre osserva le cose in vendita nota la macchina fotografica e si mette in posa davanti all’obiettivo, un mondo vitale e quasi sospeso nel tempo del quale Pagano realizza un ritratto dal fascino indubbiamente eccezionale e che non sarebbe improprio definire già neorealista. Il valore che, nell’ambito dell’archivio fotografico, assumono questi ulteriori temi d’indagine risulta fondamentale. Molto più che nel ciclo dedicato al viaggio si riesce a cogliere, infatti, l’anima passionale e vivace dell’istriano che, con uno spirito decisamente più rilassato in queste composizioni fotografiche, dà libero sfogo a tutta la sua creatività, collaborando inoltre a costruire quel mosaico, in questo caso soprattutto umano, che racconta di un Paese e della sua storia fatta prima ancora che di architetture, di uomini e costumi. 89 III. Il panorama internazionale contemporaneo. Fotografia filmografia degli anni ‘30 e a. La ricerca fotografica internazionale e l’evoluzione della tecnica nel XX secolo L’archivio fotografico di Giuseppe Pagano si è rivelato, alla luce della puntuale rilettura sviluppata in questa ricerca, un patrimonio culturale di notevole interesse architettonico nonché di profonda valenza scientifica. Osservando l’approccio tecnico utilizzato dall’istriano, si evince infatti un’attenzione tutta particolare e una spiccata propensione ad indagare e sondare i nuovi orizzonti della cultura fotografica del XX secolo. Così come Pagano si è rivelato sotto molti punti di vista un precursore di ricerche inedite in architettura e nell’ambito dell’attività editoriale e giornalistica168, allo stesso modo in fotografia, si spingerà oltre le tecniche consuete, indirizzando piuttosto la sperimentazione verso le nuove istanze della ricerca fotografica d’avanguardia169. Il suo archivio va quindi letto alla luce di una conoscenza approfondita delle metodologie e delle ricerche che, nel campo dell’immagine, avrebbero condotto intorno agli anni Trenta del Novecento, alla ‘nuova visione’ della fotografia contemporanea170. La 168 Per quanto riguarda il lavoro di Giuseppe Pagano come architetto e giornalista esiste una vasta bibliografia, si devono comunque a Cesare de Seta gli studi più recenti sull’istriano. Gfr. C. de Seta, La cultura architettonica in Italia tra le due guerre, Laterza, Bari 1972; Id., Il destino dell’architettura: Persico, Giolli, Pagano, Laterza, Roma-Bari, 1985; Id., Architetti italiani del Novecento, Laterza, RomaBari, 1987; Id. (a cura di), Giuseppe Pagano, Architettura e città durante il fascismo, Laterza, Roma-Bari ristampa 1990. Per altri approfondimenti si rimanda alla fonti bibliografiche di questo volume. 169 Con il XX secolo si apre, in un contesto internazionale, il dibattito delle avanguardie, ovvero di quelle fronde, gruppi organizzati di giovani artisti e architetti che intuiscono la necessità di proiettare la ricerca verso indirizzi e strade inedite, nell’intenzione di definire una nuova cultura visuale. In fotografia tale indagine porterà ad alcuni degli sviluppi più interessanti del secolo scorso. Per il dibattito sulle avanguardie figurative in fotografia si consigliano i seguenti testi: B. Newhall, Storia della fotografia, Einaudi, Torino 1984; A. De Paz, L’immagine fotografica. Storia, estetica, ideologie. Prefazione di Italo Zannier. Ed. Clueb, Bologna 1986; I. Zannier, Architettura e fotografia, Laterza, Roma-Bari 1991; R. Krauss, Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 1996. 170 Il termine ‘nuova visione’ o Neue Sachlichkeit tende ad individuare una nuova corrente di indagine figurativa che ha caratterizzato in ugual misura tutti i campi dell’arte compresa l’architettura, agli inizi del XX secolo. Il nome di questa inedita filosofia visuale deriva dal titolo omonimo di una mostra di pittura 90 stessa tecnica fotografica di Pagano, si affinerà e si modificherà con il trasformarsi di questa ricerca sul campo che assumerà, soprattutto in ambito internazionale gli sviluppi più interessanti; seguire quindi l’evoluzione di studi tanto specifici, ai quali saranno strettamente connessi i più interessanti progressi del dibattito culturale in campo artistico, risulta un passaggio fondamentale per potersi addentrare nel complesso mondo fatto di immagini che ci ha lasciato in eredità l’architetto. Scrive Benedetto Croce: «La fotografia, se ha alcunché di artistico, lo ha in quanto trasmette, almeno in parte, l’intuizione del fotografo, il suo punto di vista, l’atteggiamento e la situazione che egli si è industriato di cogliere»171; dalle parole dell’intellettuale abruzzese si evince la nuova apertura anche in Italia – siamo nel 1902 – nei confronti del mezzo, ma, nello stesso tempo si avverte il dubbio profondo rispetto alla possibilità che tale disciplina potesse davvero assurgere al valore dell’arte. La cultura fotografica, vivrà profondamente il peso dello scetticismo generale mai nascosto e che in fondo sarà poi uno dei motivi per i quali non risulterà affatto semplice definire in maniera organica e sistematica, le tappe dell’evoluzione della fotografia. Troppo spesso infatti, le sorti di questa disciplina sono state indissolubilmente legate a quelle di altre forme d’arte riconosciute, come la pittura e la scultura, che hanno portato ad una confusione rispetto alle fila di un discorso evolutivo rigorosamente fotografico. «Per sua natura e destino culturale, stretta fra produzione, comunicazione, ricerca riflessiva, la fotografia sviluppa la sua storia su un terreno accidentato. E se osserviamo le storie della fotografia, le vediamo organizzata a Mannheim dal direttore del Kunsthalle, G.F. Hartlaub. In effetti gli artisti che hanno sviluppato la ricerca del Sachlichkeit intendevano principalmente dimostrare il primato di una visione oggettiva nell’arte. Per il dibattito sulla ‘nuova visione’ in fotografia si consigliano i seguenti testi: W.D. Coke, Avanguardia fotografica in Germania 1919-1939, Il Saggiatore, Milano 1982; B. Newhall, Storia della fotografia, Einaudi, Torino 1984; A. De Paz, L’immagine fotografica. Storia, estetica, ideologie. Prefazione di Italo Zannier. Ed. Clueb, Bologna 1986; R. Krauss, Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 1996. 171 B. Croce, Estetica, Laterza, Bari 1902, nell’edizione del 1909, pp. 20-21. 91 snodarsi ora per tappe storico-cronologiche legate all’evoluzione del mezzo tecnico; ora per ambiti produttivi e per funzioni alle quali di volta in volta la fotografia risponde; ora per generi, fondamentalmente mutuati dalla pittura, rispetto ai quali l’immagine fotografica si organizza e si determina; ora, qua e là, per autori portatori di una poetica individuale, cime che emergono dal paesaggio della produzione; ora, infine, per legami con altri ‘mondi’, dalla pittura alla scienza, alla letteratura, alla politica, ai quali essa, duttile, aderisce e si allea, rivelando le sue caratteristiche formidabili di ‘ancella’»172; con queste parole Roberta Valtorta sottolinea la questione che, specifica la storica, assume una connotazione ancora più rilevante proprio in Italia, dove il percorso fotografico giunge decisamente in ritardo rispetto ad altri paesi. «La tardiva e problematica unificazione, segnale del faticoso strutturarsi del capitalismo italiano, è alla base del lento sviluppo delle industrie del settore fotografico. D’altro canto, il sempre vivo regionalismo tiene fra loro isolati gli operatori e l’assenza di un ben definito senso dello stato impedisce l’adozione del nuovo strumento in ampi progetti di documentazione territoriale e sociale che abbiano il respiro di analoghe esperienze promosse dai governi in altri paesi»173; la Valtorta si riferisce ovviamente alla Mission Héliographique francese e alla Farm and Security Administration americana174. Eppure, come abbiamo visto, proprio Giuseppe Pagano rappresenta con la sua produzione fotografica una rara eccezione, l’anello di congiunzione tra queste esperienze d’oltralpe e la sua, condotta però in un ambito rigorosamente italiano175. Il tassello che 172 R. Valtorta, Linee di sviluppo della fotografia italiana. Riflessioni e spunti, in R. Valtorta, Volti della fotografia. Scritti sulla trasformazione di un’arte contemporanea, Skira, Milano 2005, p. 187. 173 Ivi, p. 188. 174 Per approfondimenti riguardo a queste ‘missioni’ fotografiche si rimanda al capitolo I di questo volume nonché alla relativa bibliografia. 175 La Madesani, riguardo alle esperienze fotografiche sul territorio in ambito internazionale, menziona il caso poco noto dell’esperienza tedesca: «Durante la seconda guerra mondiale una delle armi preferite dalla propaganda nazista è la fotografia di linguaggio più amatoriale realizzata dai Propaganda Kompanien, che giravano nei luoghi di guerra con l’apparecchio fotografico a tracolla. I fotografi accettati dal regime, Ranger-Patzsch compreso, furono inoltre coinvolti in una serie di missioni 92 probabilmente manca alla storia della fotografia del nostro Paese per poter definire un percorso compiuto, è forse rappresentato proprio da tutte quelle produzioni ‘non ufficiali’, come nel caso del patrimonio fotografico di Pagano, che una volta del tutto note, aiuterebbero di certo a ricostruire più precisamente il percorso compiuto e il successo avuto in Italia dal nuovo media. Ecco perché, proprio partendo dal materiale fotografico dell’architetto, si vuol delineare l’evoluzione compiuta dalla fotografia del XX secolo, seguendo più che un itinerario propriamente cronologico, un percorso ragionato, passando per quelle correnti anche di carattere internazionale che ebbero, sull’approccio fotografico del Nostro, un apporto determinante. Si deve considerare che, così come la pittura176, anche la fotografia vive delle trasformazioni tecniche fondamentali, legate indubbiamente alle mutazioni sociali, culturali e all’aggiornamento scientifico dei mezzi strumentali. Nei primi Trenta anni del Novecento, cambia del tutto la percezione del reale e la ricerca delle avanguardie smuove gli ambienti culturali influenzandoli profondamente. All’inizio del XX secolo il mondo artistico si dibatte alla ricerca della definizione di un nuovo stile che potesse esprimere e raccontare il presente. L’architettura in particolare è scossa profondamente dalla condizione di indeterminatezza lasciata in eredità dell’eclettismo storicistico177. Dopo il breve e in fondo poco incisivo capitolo dell’Art Nouveau, cominciano a fotografiche di documentazione del territorio tedesco: in questo caso si tratta di fotografie di aperta propaganda nazista e nazionalista». A. Madesani, Storia della fotografia, Bruno Mondatori, Milano 2005, p. 58. 176 Le ricerche in ambito pittorico, nel secolo scorso, hanno rappresentato un passaggio fondamentale per l’evoluzione di tutte le altre discipline artistiche. Molteplici sono stati gli studi condotti sugli effetti di tali progressi specificatamente artistici sull’architettura. Si selezionano nell’ambito della vasta bibliografia di storia dell’architettura: C. de Seta, La cultura architettonica…, cit.; R. De Fusco, Storia dell’architettura contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1996. 177 Un quadro molto chiaro della delicata fase di transizione che porterà, in Italia, al superamento dell’eclettismo storicistico è descritto nel volume di Cesare de Seta, La cultura architettonica…, cit. Per il contesto internazionale si veda anche K. Frampton, Storia dell’architettura moderna, Zanichelli, Bologna, terza edizione italiana 1993, R. De Fusco, Storia dell’architettura contemporanea, cit. 93 nascere una moltitudine di voci differenti, ognuna con una propria suggestione da raccontare, da inseguire e, nella miriade di contraddizioni delle avanguardie, si disperde il filo della ricerca per poi approdare, in campo architettonico, alla necessità di adeguare forma e funzione, urgenza principale degli architetti del Novecento178. Questo passaggio, come tutte le fasi di transizione storica, sarà caratterizzato da un inevitabile senso di ‘straniamento’ – prendendo in prestito un’espressione del formalismo russo – e di smarrimento da parte degli artisti, dovuto alla mancanza di riferimenti culturali precisi; tale situazione indirizzerà verso una ricerca spasmodica di verità assolute e in questa fase la fotografia diverrà àncora di salvataggio, mezzo di indagine e comprensione della realtà nella sua verità oggettiva, libera dal giudizio talvolta fuorviante dell’uomo179. Gli stessi pittori d’avanguardia «vedono nella fotografia una liberazione: non si sentivano più costretti a rappresentare qualcosa con le loro immagini»180, si rendono conto cioè che non è più affidata a loro la missione di rappresentare la realtà, sono liberi di ricercarne l’essenza. Ma anche questo rifugio dell’arte nella certezza fotografica, durerà ben poco, pure in questo ambito infatti, cominceranno presto nuovi slanci rivolti verso una ricerca più complessa, influenzata indubbiamente anche dagli studi che nel contempo si stavano sviluppando in campo artistico. Dopo una prima, embrionale fase della ricerca fotografica successiva alla scoperta del mezzo, tesa quindi essenzialmente all’affinamento di una tecnica incerta, si sviluppa, nell’Ottocento la così detta fotografia 178 Profilo efficacissimo del percorso seguito in Italia per la definizione di un ‘stile nazionale’, è quello delineato da Luciano Patetta nel saggio introduttivo all’antologia critica degli scritti di architettura comparsi sulle riviste italiane più importanti, tra il 1919 e il 1943. L. Patetta, L’architettura in Italia 1919-1943. Le polemiche, Clup, Milano 1972, pp. 13-53. 179 La tesi relativa alla funzione fondamentale svolta dalla fotografia in questa fase di transizione delicatissima, è supportata dal giudizio di diversi storici della fotografia, uno su tutti Beaumont Newhall. Cfr. B. Newhall, Storia della fotografia, cit. 180 Ivi, p. 235. 94 pittorialista. Scrive in merito Italo Zannier: «I pittorialisti, che per anni indagarono sulle possibilità espressive della fotografia, avviando gli studi del suo linguaggio, operarono nella convinzione (avallata dalla incipiente massificazione dovuta alla tecnica ‘facile’ della gelatina-bromuro d’argento, dopo il 1880), che essa realizzasse ‘incontestabilmente, con la facilità più ridicola’, come scriveva Robinson, maître à penser del pittoricismo britannico, ‘l’imitazione più esatta’»181. L’ansia di avvicinarsi sempre più alle ‘Belle Arti’, spinge i primi sperimentatori del mezzo fotografico alla manipolazione del fotogramma, mediante l’uso di colori o procedimenti chimici particolari, pur di ottenere uno specifico risultato ottico182. Si sviluppano, quindi, due differenti correnti di pensiero: quella che difendeva a spada tratta l’originalità dello scatto fotografico – che non doveva in alcun modo essere manomesso – e quella che invece suggeriva piuttosto tutta una serie di trattamenti anche artificiali volti all’esaltazione di luci, colori etc. Anche Alfred Stieglitz viene introdotto alla fotografia pittorica dal suo maestro, Hermann W. Vogel, ma questa fase per lui sarà solo un rapido passaggio183. In opposizione a queste forme sterili di ricerca fotografica, si porrà la nuova scuola d’avanguardia, alla quale si devono i principali passi avanti ottenuti negli anni e a cui soprattutto si deve la nascita della fotografia moderna. Si passa nel giro di poco tempo da una visione prospettica tradizionale, per intenderci quella utilizzata, in Italia, nelle riprese degli Alinari184, ad un 181 I. Zannier, Il soggetto ‘architettura’ nel divenire della fotografia, in «Rassegna», numero speciale sulle ‘Fotografie d’architettura’, n. 20, dicembre 1979, p. 80. Le citazioni virgolettate sono tratte da H.P. Robinson, Les élements d’une photographie artistique, Gauthier-Villars, Parigi 1898, p. 10. 182 La fotografia pittorialista è stata oggetto di approfonditi studi per i quali si rimanda alla bibliografia specifica di questo volume. 183 Cfr. B. Newhall, Storia della fotografia, cit. 184 Un interessante saggio sulla produzione e la storia degli Alinari è stato scritto ad opera di Italo Zannier. I. Zannier, Gli Alinari, in Architettura e fotografia, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 21-29. Si veda anche W. Settimelli, F. Zevi, Gli Alinari a Firenze 1852-1920, Alinari ed., Firenze 1977, e il saggio di G. 95 taglio totalmente diverso. Se dal 1839, anno della diffusione della notizia dell’invenzione della fotografia, la rassicurante visione ottocentesca aveva permesso di istituire un rapporto sereno con l’immagine iconografica del mondo resa artificialmente, nel primo ‘900, l’ansia di cogliere la natura più intima e nascosta delle cose, spingerà gli artisti fotografi ad indagare nuove dimensioni del conscio e dell’inconscio alla ricerca di una visione fotografica più complessa ma completa del reale. Il Cubismo con la quarta dimensione, l’Espressionismo con la ricerca del rapporto empatico arte-vita, il Costruttivismo attraverso la lettura simbolista dell’arte mediata dal filtro politico del marxismo, conducono le istanze della ricerca verso orizzonti nuovi, arditi e sconosciuti185. Tutta questa ricerca rivoluzionaria in campo artistico non poteva che avere degli effetti speculari sulla fotografia, che infatti compirà i primi passi verso un distacco sempre più profondo dal pittorialismo. Questo passaggio dalla fotografia di stampo ottocentesco a quella così detta diretta, la ‘straight photography’186, nonché alle tecniche sperimentali, rappresenta il momento cruciale nella storia della camera da presa. Un passaggio che risulta tanto più determinante se si tiene conto che, in un primo periodo, coincidente con gli anni di sperimentazione del mezzo, la fotografia viene utilizzata come una delle tante espressioni artistiche esistenti, in fondo un surrogato della pittura; soltanto in seguito, le verrà riconosciuta una concreta valenza artistica, risolvendo l’annosa questione che da sempre l’aveva fatta ritenere un’arte minore. Calvenzi, C. Colombo, Gli Alinari. Storia di una dinastia e di un archivio fotografico, in «Rassegna», numero monografico sulle Fotografie di architettura, dicembre 1984. 185 Sulle rivoluzioni introdotte dal cubismo, dall’espressionismo, dal costruttivismo e dalle altre avanguardie figurative, si rimanda al volume di R. De Fusco, Storia dell’architettura contemporanea, cit. 186 Interessanti studi sulla straight photography sono sviluppati in un discreto numero di testi più o meno recenti; si selezionano tra gli altri: I. Jeffrey, Fotografia, Skira, Milano 2003; B. Newhall, Storia della fotografia, cit. Si rimanda inoltre alle fonti bibliografiche di questo volume. 96 Uno dei critici d’arte e di fotografia più importanti che ci siano stati, Sadakichi Hartmann, sarà tra i primi a lodare la ‘fotografia pura’, esortando gli autori a fare ‘un lavoro diretto’; è proprio lui a dare i primi suggerimenti per la composizione di una straight photography: «Affidatevi al vostro apparecchio, al vostro occhio, al vostro buon gusto, alla vostra conoscenza della composizione, considerate ogni variazione di colori, di luce e d’ombra, studiate linee, valori, divisione degli spazi, aspettate pazientemente che la scena o l’oggetto che vi siete proposti di raffigurare si riveli nel suo supremo momento di bellezza; in poche parole componete l’immagine in modo tale che il negativo sia assolutamente perfetto e non abbia bisogno di alcuna o tutt’al più di una modestissima manipolazione»187. Nel 1907, Stieglitz metteva esattamente in pratica, seppure inconsapevolmente, le parole di Hartmann realizzando The Steerage (il ponte di terza classe), scatto che lo stesso maestro, in seguito, non esiterà a definire il suo capolavoro, e che rappresenta uno dei primi grandi esempi di fotografia diretta188. Nell’immagine, realizzata sul ponte di un transatlantico di lusso, il Kaiser Wilhelm II, è ripresa una scena piuttosto consueta, che vede gruppi di persone accalcate sul pontile di una nave. Osservando però con occhio attento l’immagine, se ne coglie la matrice compositiva che lo stesso Stieglitz sintetizza così: «una paglietta rotonda, la 187 Le affermazioni del critico d’arte sono inserite all’interno della recensione della mostra di PhotoSecession tenuta al Carnegie Institute nel 1904. Il gruppo Photo-Secession è fondato da Alfred Stieglitz a New York nel 1902. Il nome di questa unione di artisti deriva dalla precisa volontà di emulare gli esempi proposti dall’avanguardia tedesca e austriaca che avevano deciso di creare una secessione, una scissione dal gruppo dell’accademia. Tra il 1903-07 dal gruppo viene fondata una rivista che riscuoterà presto fama internazionale, parliamo di «Camera Work». Le pagine di questo giornale ricche di monografie di fotografi, saggi di critica d’arte e rubriche, diventeranno un riferimento culturale internazionale nonché una documentazione accurata delle evoluzioni e ricerche che si stavano sviluppando in ogni sfera dell’arte. Cfr. B. Newhall, Storia della fotografia, cit. 188 Scrive Alfredo De Paz: «Stieglitz ruppe radicalmente, grazie a un’argomentazione teorica precisa, con la fotografia ‘artistica’, condannando, fra l’altro, il ritocco e l’ingrandimento. […] egli giocò un ruolo determinante nella storia della fotografia in quanto fu il primo a considerarla come un mezzo di espressione interamente artistico che non bisogna opporre agli altri in quanto possiede una specificità e un’autenticità sue proprie». A. De Paz, La fotografia come simbolo del mondo. Storia, sociologia, estetica, Clueb ed., Bologna 1993, p. 208. 97 ciminiera inclinata a sinistra, la scaletta inclinata a destra, la passerella bianca racchiusa fra due file di catene, un paio di bretelle bianche che si incrociavano sulla schiena di un uomo sul ponte sottostante di terza classe, forme rotonde di congegni di ferro, un albero che tagliava il cielo disegnando un triangolo… Vidi tutte queste forme composte in un’immagine, quasi un simbolo della concezione che io avevo della vita»189; nella ‘visione’ del fotografo si legge una nuova sete di realtà e nello stesso tempo una tensione inedita verso un’analisi sempre più complessa del mondo, volta ad isolare e analizzare i dettagli da cui far evincere il significato e il senso stesso delle cose, della vita. Dall’avvento della straight photography il percorso che condurrà alla tecnica fotografica scelta e utilizzata da Pagano risulta assai breve. La fotografia diretta annovera tra i maggiori esponenti oltre allo stesso Stieglitz, anche Paul Strand190, Henri Cartier-Bresson, e tanti altri, grandi nomi le cui fotografie indimenticabili hanno avuto il merito d’essere riuscite a catturare quell’unico ‘istante decisivo’, per dirla con CartierBresson, che è poi la sintesi di tutta la ricerca fotografica del XX secolo191. Il filone della fotografia diretta però, non sarà l’unico a farsi strada in questi anni né tanto meno il solo da dover tenere in conto per analizzare le scelte tecniche dell’architetto istriano, perché se l’evoluzione della fotografia inciderà profondamente in questi anni sul corso della pittura, è pur vero anche il contrario. Le sperimentazioni artistiche in ambito 189 Alfred Stieglitz in una conversazione con Dorothy Norman, in «Twice – A Year», nn. 8-9, 1942, p.128; ora in B. Newhall, Storia della fotografia, cit, p. 237. 190 Paul Strand, straordinario fotografo statunitense rappresenta indubbiamente uno dei massimi esponenti e teorizzatori della fotografia diretta. In un articolo del 1917 scrive: «Il problema del fotografo è di vedere chiaramente i limiti e nello stesso tempo le qualità potenziali del suo mezzo, giacché l’onestà, non meno della potenza dell’occhio, è presupposto di un’espressione viva. […] A una realizzazione (fotografica) esemplare si arriva senza trucchi né manipolazioni, ma semplicemente facendo uso dei metodi della fotografia diretta». P. Strand, Photography, in «Seven Arts», vol. 2, 1917, pp. 524-525; ora in Ivi, p. 245. 191 «Andavo in giro tutto il giorno, i nervi tesi, cercando per le strade di prendere delle foto dal vivo come fragranti delitti. Soprattutto ero ansioso di captare con una sola immagine l’essenziale della scena che mi si presentava». H. Cartier-Bresson, L’immaginario dal vero, Abscondita, Milano 2005. 98 pittorico e scultoreo avranno difatti un riflesso profondamente rilevante sulla ricerca condotta in fotografia. Ritornando agli studi delle avanguardie ad esempio, la contemporaneamente quarta anche dimensione in cubista fotografia, con verrà il indagata risultato della sperimentazione della doppia posa sovrapposta utilizzata ad esempio da Rodčenko. Negli stessi anni, le rayografie di Man Ray, i fotogrammi di Moholy-Nagy, le vortografie di Langdom Coburn, le schadografie di Christian Schad, restituiscono le stesse suggestioni delle opere degli artisti dada, per non parlare della ricerca sul movimento, condotta in quegli anni dai futuristi e probabilmente risolta proprio in fotografia e cinema da autori quali Anton Giulio Bragaglia e Giacomo Balla192. In questo stesso contesto culturale si inserisce l’indagine condotta da Erich Mendelsohn, architetto e pioniere dello ‘Stile Internazionale’, tra i primi a sperimentare nelle foto, i tagli drammatici che puntano l’obiettivo guardando l’oggetto verso l’alto e verso il basso, creando linee convergenti in contraddizione con qualsiasi tipo di prospettiva tradizionale193. Grandissimo spazio nell’ambito delle più interessanti rivoluzioni fotografiche, sarà infatti quello acquisito di diritto dagli architetti fotografi, tra i primi artisti a sperimentare, in taluni casi a condurre le fila della ricerca sul campo194. Questo soprattutto perché l’oggetto architettura, in quanto statico e non necessariamente in divenire, meglio si prestava alle nuove sperimentazioni fotografiche. Non è da escludersi che Pagano abbia seguito da vicino e assorbito contestualmente l’evoluzione delle tecniche fotografiche anche attraverso le sperimentazioni di Stieglitz, Strand, 192 Una interessante e chiara dissertazione su queste raffinate e singolari tecniche grafiche ci viene data da B. Newhall, Storia della fotografia, cap. XI. 193 Nel 1926 a Berlino, l’architetto Erich Mendelsohn pubblica un libro con la raccolta delle fotografie scattate ai grattacieli americani. E. Mendelsohn, Amerika: Bilderbuch eines Architekten, Rudolf Mosse Buchverlagh, Berlin 1926. Cfr. B. Newhall, cit., pp. 282-285. 194 Sugli architetti fotografi Italo Zannier ha scritto un saggio molto convincente, nel quale vengono citate e discusse le più interessanti esperienze selezionate in ambito internazionale e italiano. I. Zannier, Architettura e fotografia, cit., pp. 41-48. 99 Rodčenko e che avesse visto le fotografie di Mendelsohn, essendo comunque attento alle novità provenienti dall’avanguardia architettonica internazionale e vista anche la notevole cassa di risonanza che le più importanti mostre fotografiche cui parteciparono negli anni questi artisti, ebbero in tutto il mondo. Proprio Aleksandr Rodčenko continuerà la sperimentazione oggettiva di Mendelsohn fino a produrre opere in cui la rara e sapiente maestria tecnica si sposa con un incredibile lirismo poetico195. A lui si deve la negazione del ‘punto di vista dell’ombelico’, che equivale ad affermare una nuova percezione di spazio realizzabile attraverso la fotografia. Afferma il protagonista dell’avanguardia russa: «In fotografia vige il vecchio punto di vista, l’angolo visuale di un uomo in piedi che guarda dritto davanti a sé e fa quelle che io chiamo ‘riprese ombelicali’… Io combatto questo punto di vista e lo combatterò insieme ai miei colleghi della nuova fotografia. Oggi le riprese più interessanti sono quelle colte ‘dall’alto in basso’ o ‘dal basso in alto’, o quelle in diagonale»196. In queste parole si dichiara apertamente la nascita di una nuova ricerca in campo fotografico, ed è proprio seguendo le fila di questo indirizzo inedito che si ritrova il percorso fotografico compiuto da Pagano e si riconosce e comprende la sua tecnica, elegante ma ricca di sfumature e sperimentazioni di matrice indubbiamente internazionale. Con l’evolversi delle tecniche si trasformano anche i soggetti e l’attenzione dei professionisti si sposta verso nuovi campi d’indagine. Come sempre nel mondo delle arti, la vita vera incide profondamente sugli esiti della ricerca, e dopo la prima guerra mondiale, il capitolo della ‘Nuova Fotografia’, sposta il suo obiettivo sulla società piuttosto che sulla natura; questo perché 195 Angela Madesani dedica alla figura di questo fotografo russo una scheda piuttosto dettagliata e interessante in: A. Madesani, cit., p. 67. 196 Alexander Rodtscenko: Fotografien 1920-1938, Wienand Verlag, Köln 1978, pp. 50-57; ora in B. Newhall, Alla ricerca di forme nuove, cit., p. 285. 100 l’attenzione si rivolge verso l’uomo e sostanzialmente l’antica fede in un ordine superiore dell’universo cede il passo all’interesse nei confronti dell’ordine artificiosamente creato dagli individui che lo popolano, che deliberatamente costruiscono, organizzano. Tutte le ricerche intanto confluiscono in quel bacino culturale che più d’ogni altro si rivela una fucina delle nuove tendenze e sperimentazioni, là dove le stesse tecniche si dimostrano più all’avanguardia: la Germania. Sarebbe lecito chiedersi come mai proprio la Germania, appena uscita sconfitta dalla Prima guerra mondiale, rappresenti il paese più attivo rispetto alla ricerca nel campo delle avanguardie; una risposta interessante ed esauriente a riguardo ci viene data da uno studioso di fotografia americano, Van Deren Coke, che scrive: «anziché abbandonarsi a sentimentalismi sulla loro dura sorte o scivolare nell’inerzia, i tedeschi affrontarono la situazione e guardarono al futuro per sottrarsi allo stato di sottomissione causato dalla sconfitta. Poiché il passato non aveva avuto per loro il ruolo di guida, si guardava al presente e all’immediato futuro […]. Così in Germania si incominciò ad apprezzare moltissimo, per ragioni psicologiche, tutto ciò che era nuovo o aveva un’apparenza di novità»197. In questo crogiuolo di studi e sperimentazioni, un momento artistico importante sarà quello coincidente con gli anni della scuola tedesca del Bauhaus198 che darà un impulso assolutamente innovativo alla ricerca in ambito fotografico, soprattutto nel periodo che vede la felice collaborazione con l’istituto, di Laszlo Moholy-Nagy, il primo ad affermare che ‘Gli analfabeti del futuro non saranno tanto coloro che ignorano l’arte dello scrivere, quanto quelli che non sapranno nulla di fotografia’. Molti 197 V. Deren Coke, Avanguardia fotografica in Germania 1919-1939, Il Saggiatore, Milano 1982, p. 12. La bibliografia relativa alla scuola del Bauhaus è molto vasta; un volume interessante è quello di Magdalena Droste, Bauhaus 1919-1933, Taschen, Berlino 1990, ried. 2006. Riguardo agli sviluppi specifici della fotografia nella scuola tedesca viene dedicato ampio spazio nel volume a cura di J. Fiedler e P. Feierabend, Bauhaus, Könemann ed., Köln 1999, pp. 152-159 e pp. 506-531. 198 101 aspetti dell’evoluzione della cultura fotografica internazionale ritrovano, proprio nella ricerca del Bauhaus, le proprie origini. In occasione della prima esposizione d’opere d’arte di Laszlo MoholyNagy alla galleria Der Sturm di Berlino, tra i visitatori che rimangono ipnotizzati dalle sperimentazioni del maestro c’è Walter Gropius, il quale viene talmente impressionato dalle sue opere, da insistere per averlo tra gli insegnanti del Bauhaus. L’educazione impartita nell’ambito della scuola di Weimar prevedeva la formazione dell’allievo in varie discipline artistiche come la pittura, la scultura, l’architettura, ed in seguito anche la fotografia, concepite non come materie separate ma come un unicum disciplinare. Si tratta di un approccio alla formazione artistica particolarmente interessante, che ha come obiettivo finale quello di iniziare gli studenti al concetto della totalità dell’arte. In questa officina artistica, Moholy-Nagy sviluppa la sua nuova idea di fotografia, basata essenzialmente sul concetto di forma e luce. Come chiaramente specifica Paolo Costantini199, l’artista ungherese non avrà mai una cattedra di fotografia nella scuola e inserirà l’insegnamento solo nell’ambito di alcuni corsi preliminari per i Bauhäusler200; sarà Walter Peterhans, matematico e fotografo raffinato, ad inaugurare di fatto la cattedra nel 1929, negli anni in cui a dirigere la scuola, è l’architetto Hannes Meyer. La fotografia, scrive Moholy-Nagy, può «ampliare i limiti della rappresentazione naturalistica»201, permettendo di vedere magari anche ciò 199 Cfr. P. Costantini (a cura di), La fotografia al Bauhaus, Marsilio, Venezia 1993. Le lezioni di Moholy al Bauhaus si chiamavano ‘studi di composizione’ e si concentravano sulla composizione dello spazio. In particolare il maestro – come pure altri insegnanti della scuola come Ittens e Albers – si serve di tavole ‘tattili’ allo scopo di affinare la sensibilità degli studenti per il materiale, anche se la maggior parte delle creazioni tridimensionali, in qualche modo avvicinabili a sculture e giunte a oggi grazie a foto eseguite, appaiono come semplici esercitazioni spaziali. Si utilizza vetro, ferro, plexiglas, legno per creazioni per lo più asimmetriche, definite nei modi più disparati, come ‘esercizio di equilibrio’, ‘sculture sospese nell’aria’. Cfr. Ivi. 201 L. Moholy-Nagy, Pittura Fotografia Film, riedizione della Einaudi, Torino 1987. 200 102 che non appare. Nell’ottavo volume nella collana dei «Bauhausbücher»202, intitolato Pittura Fotografie Film, pubblicato per la prima volta nel 1925, l’autore dà vita ad un’opera di indubbia audacia, che avvia un nuovo corso della cultura fotografica, riconoscendo per la prima volta la potenzialità del mezzo ai fini di un ampliamento della nostra visione. «L’inevitabile brancolare in forme di conformazione ottica tradizionale è adesso dietro di noi e non deve più ostacolare la nuova attività.[…] Il quadro tradizionale è entrato nella storia e ormai superato. Occhi e orecchie aperte si appagano ad ogni istante con la ricchezza di meraviglie ottiche e fonetiche. Ci vorranno ancora alcuni anni di vitali progressi, e ancora alcuni fautori entusiasti delle tecniche fotografiche, dopodiché diverrà acquisizione comune il fatto che la fotografia sia stata uno dei fattori più importanti che hanno dato inizio a una nuova vita»203. Risulta quanto mai evidente la rivoluzione compiuta dalla disciplina fotografica che, nel giro di pochi anni, perviene ad una complessità e un avanzamento tecnico che è possibile osservare in poche altre espressioni artistiche contemporanee. Così, gli approcci profondamente differenti dei due docenti di fotografia del Bauhaus, Laszlo Moholy-Nagy e Walter Peterhans, convergono alla formazione di una duplice anima fotografica all’interno della scuola tedesca, che coincide poi con la doppia anima della fotografia contemporanea internazionale204. 202 La collana dei «Bauhausbücher» viene fondata da Walter Gropius e Laszlo Moholy-Nagy. Sulle possibilità e le esigenze tecniche, in Laszlo Moholy-Nagy, Pittura Fotografia …, cit., pp. 42-43. 204 «In contrasto con lo sguardo irrequieto di quest’ultimo (si parla di Moholy), Peterhans ritraeva soggetti avvolti in un’atmosfera totalmente contemplativa, e attribuiva importanza alla precisione tecnica e all’accuratezza dell’esecuzione. Mentre Moholy nei suoi esperimenti scandagliava i confini del medium, il nuovo maestro del Bauhaus era invece interessato a una rappresentazione adeguata, persino utile, della realtà concreta. La capacità di rappresentare il mondo degli oggetti in maniera appropriata e precisa – davvero “oggettiva” – al di là di qualsiasi divagazione soggettiva o artistica, per Peterhans era il punto di partenza per poter impiegare questa tecnica in contesti pratici ed economici». J. Fiedler, P. Feierabend (a cura di), cit., p. 519. 203 103 Dalla fusione di queste differenti tecniche, quella sperimentale di MoholyNagye quella ‘oggettiva’ di Peterhans, derivano le correnti fotografiche che si riscontrano negli anni ’20 anche in Italia, dove comunque l’atteggiamento più spregiudicato dei tedeschi, dei russi, degli americani, è mediato dall’influenza della cultura tradizionale, che per molti anni ancora vedrà prevalentemente apprezzata da noi la tecnica Alinari, soprattutto nell’ambito della fotografia editoriale. Ma da queste due scuole tedesche, Pagano verrà di certo ugualmente affascinato seppure si tenda ad associare il suo lavoro piuttosto alla ricerca di Laszlo Moholy-Nagy. Il primo ad aver messo in relazione la tecnica fotografica dell’architetto con quella dell’illustre maestro ungherese è stato Cesare de Seta che infatti scrive: «Non è certo azzardato supporre che Pagano abbia avuto tra le mani il numero 8 dei Bauhausbücher: in alcuni studi milanesi se ne possono ancora oggi trovare esemplari e persino collezioni complete, e poi è noto che, ancor prima dell’avvento del nazismo, i rapporti con la Germania erano intensi forse più che con la Francia e certamente assai di più che con l’Inghilterra»205. Esistono indubbiamente affinità e collegamenti anche diretti tra i due approcci fotografici, laddove però l’esperienza dell’istriano risulterà di certo più sdrammatizzata e distante rispetto ad alcune sperimentazioni del maestro ungherese, come nel caso dello studio dei fotomontaggi, che non verrà mai approfondito da Pagano. Interessante ed avvincente la critica sorta riguardo alla diatriba relativa all’esistenza di una vera e propria fotografia bauhaus: in realtà per molti non si può parlare di un fenomeno autonomo all’interno dell’istituto, piuttosto della sperimentazione di nuove tecniche206; nella scuola si inizia a fotografare essenzialmente per riprendere e fermare momenti di vita 205 206 C. de Seta, Il destino dell’architettura. Persico Giolli Pagano, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 271. Cfr. P. Costantini ( a cura di), La fotografia al Bauhaus, cit. 104 quotidiana, successivamente lo strumento verrà utilizzato soprattutto per riprodurre su carta ciò che si realizzava progettualmente, un modo per documentare l’architettura207. Nascerà tra il 1924 ed il 1928 il ruolo del ‘documentarista’, un professionista appositamente preposto alla riproduzione del materiale, ruolo svolto per anni da Lucia Moholy e più tardi ereditato da Erich Cosemüller. Grazie a questi due sensazionali fotografi è giunto fino a noi un vasto archivio di fotografie, di prodotti e di vedute architettoniche del Bauhaus che ancora oggi testimoniano l’immagine della scuola e dei suoi lavori. Questo è stato indubbiamente uno degli aspetti della grande rivoluzione della ricerca condotta nell’ambito dell’istituto di Weimar: la comprensione di quanto potesse essere utile documentare un’architettura riproducendola con lo sguardo di chi l’aveva progettata e di chi la viveva, catturandola da punti di vista non più statici quali quelli della ripresa prospettica tradizionale, che non permettevano una empatia profonda e totale con l’oggetto architettonico. Sarà certamente questo, uno dei più importanti insegnamenti che Pagano riceverà dall’esempio della scuola tedesca, la fotografia intesa cioè come strumento utile e necessario a decifrare il codice visivo e progettuale dell’oggetto architettonico. Così come il cubismo, il simbolismo, il surrealismo, e le altre correnti dell’avanguardia figurativa avevano portato a comprendere in ambito artistico, la necessità di una nuova visione208, allo stesso modo la fotografia grazie anche alla ricerca del Bauhaus si emancipa, proponendo nuove ed ardite prospettive sghembe, punti di vista poco tempo prima inconcepibili: «le sperimentazioni fotografiche facevano in genere ricorso a procedimenti tecnici già impiegati nelle riviste, nella pubblicità, nella propaganda 207 A. Haus, Fotografia come documentazione del lavoro Bauhaus, in Ivi, pp. 25-27. Abbiamo già accennato agli effetti delle avanguardie pittoriche sulle evoluzioni della ricerca fotografica – si veda la nota n. 2 e n. 9 di questo capitolo. 208 105 politica, nel cinema, come il montaggio, il fotogramma, l’esposizione multipla, il dettaglio ravvicinato, le angolazioni nuove di ripresa»209. Nel 1929 la Germania ospita a Stoccarda la mostra Film und Photo che avrà un impatto deflagrante sulle sorti della fotografia, l’obiettivo infatti è principalmente quello di scardinare in maniera definitiva il primato della fotografia pittorialista a favore della ‘nuova visione’ della fotografia moderna210. L’impatto di questo evento a livello internazionale risulterà di vastissima portata e in Italia la vicenda viene seguita con grande attenzione dalle riviste e da tutto l’ambiente artistico. Esperienze come questa di Stoccarda incideranno in maniera concreta sul passaggio in Italia al nuovo corso della fotografia, mediato ovviamente dagli esponenti intellettuali più vivaci; in ambito architettonico sarà proprio Giuseppe Pagano uno dei rappresentanti principali di questa rivoluzione; proprio l’istriano infatti, con la complicità del critico napoletano Edoardo Persico, sarà tra i primi a sperimentare l’utilizzo di nuove tecniche e in definitiva un nuovo approccio al mezzo, pubblicando fotografie dal taglio spregiudicato e sperimentale nelle varie riviste con le quali collabora ed in particolare su «Casabella». Tutto il suo archivio fotografico d’altronde, rappresenta una concreta testimonianza di questa sua apertura verso le nuove istanza della fotografia internazionale contemporanea; secondo Luigi Comencini proprio Giuseppe Pagano con il suo lavoro «ha distrutto la fotografia Alinari»211 in Italia. 209 P. Costantini (a cura di), La fotografia al Bauhaus, cit., p. 18. Nell’ambito della mostra, Edward Steichen e Edward Weston si occupano del settore della fotografia americana, mentre El Lissitzky di quella sovietica. L’esposizione si sviluppa in tredici sale, di cui una, a cura di Laszlo Moholy-Nagy, ricostruisce la storia della fotografia, mentre altre due sono interamente dedicate a John Heartfield e allo stesso Moholy-Nagy. Prendono parte all’esposizione alcuni dipartimenti del Bauhaus. Per un interessante approfondimento sulla storia della mostra Film und Photo si veda: A. Madesani, cit., p. 57-58. 211 F. Albini, G. Palanti, A. Castelli (a cura di), Giuseppe Pagano Pogatschnig. Architetture e scritti, Milano 1947. 210 106 L’influenza della cultura tedesca su Pagano, risulterà notevole e complessa; indubbiamente molteplici si rivelano gli aspetti carpiti dall’architetto istriano nell’ambito della fotografia sviluppatasi in seno al Bauhaus. Il tema dell’indagine psicologica condotta attraverso il ritratto ritorna di consueto nelle riprese dei Bauhäusler; spesso difatti gli allievi della scuola, si divertivano a fotografare se stessi e i compagni in immagini intense e pregne di significato, talvolta invece più ludiche e spensierate212; rapido e diretto il confronto con alcuni scatti realizzati da Pagano ad Aalto, o a quelli dedicati a Carrà, o magari ad altri dal fascino più anonimo, in cui l’obiettivo della rolleiflex si ferma sui volti sconosciuti di persone colte per le strade, nei mercati, tra le campagne delle province italiane. Rimanendo nell’ambito del tema del ritratto, un vero e proprio culto del Bauhaus sarà rappresentato dalla fotografia di gruppo213, che pure ritorna a più riprese nella produzione del Nostro, soprattutto in virtù di un gusto squisitamente compositivo dell’immagine; in questi scatti, infatti, Pagano assembla i volti e le sagome in modo da affollare il campo visuale del negativo; costruzione analoghe le possiamo osservare in alcune fotografie di Moholy-Nagy, Munkácsi214, Krause. Innegabile poi l’influenza di certi percorsi compositivi introdotti per la prima volta da Moholy-Nagy, o quelli proposti da Feninger, per cui le vedute sono colte lungo un piano inclinato, secondo tagli sghembi o punti di vista in movimento, come pure la sperimentazione di fenomeni ottici: giochi d’ombra, effetti di specchio e trasparenza di scuola tedesca, esperienze indubbiamente assimilate seppure di certo rielaborate da Pagano. 212 I temi ‘fotografici’ al Bauhaus vengono individuati da Andreas Haus nel suo saggio sulla Fotografia al Bauhaus: la scoperta di un mezzo, in P. Costantini (a cura di), La fotografia al Bauhaus, cit., pp. 23-25. 213 Ivi. 214 Alcune fotografie di Munkácsi furono riprodotte in «La Casa Bella» nel numero di ottobre 1931 e del gennaio 1932. 107 Una vera e propria ossessione del gruppo Bauhaus recuperata in qualche modo dall’architetto, sono inoltre dei «segni» speciali, tra questi, immagini di sfere di vetro, frammenti di apparecchiature tecniche e di parti architettoniche riprese in dettagli spesso molto ravvicinati215; ma il più significativo di questi oggetti simbolo, resta indubbiamente quello delle ‘mani’216, mani gesticolanti, o che si lasciano riprendere immobili come puro oggetto statico del ritratto217. Proprio alle mani Pagano dedicherà alcuni dei suoi ritratti più suggestivi, mani nude, coperte da guanti neri, che ricordano la Goulou di Toulose-Lautrect, magari congiunte a nascondere un volto. Ancora più interessanti sono gli studi del Bauhaus sugli effetti fotografici luce-specchio; l’universo parallelo catturato attraverso questi filtri artificiali genera possibilità visuali inaspettate, sfruttate e indagate approfonditamente dall’architetto in alcuni dei suoi scatti più originali. Un altro tema studiato dai fotografi gravitanti intorno alla scuola del Bauhaus sarà quello del mondo naturale, ripreso in più battute anche in altre esperienze coeve internazionali sulle quali ci soffermeremo in seguito. Tra i maggiori esponenti della scuola tedesca si ricorda Karl Blossfeldt218 che nel 1928 pubblica il suo libro più significativo: Unformen der Kunst che colpirà profondamente l’attenzione nazionale e internazionale. «Nelle 215 Cfr. A. Haus, cit. Marina Miraglia sottolinea il tema delle ‘mani-ritratto’ di Pagano, evidenziandolo in una delle fotografie scattate a Carrà, in cui l’immagine è ritratta attraverso la superficie vetrata di un tavolo , in cui si vedono in primo piano proprio le mani dell’artista appoggiate sul supporto vitreo. Cfr. M. Miraglia, Forme, in C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit., p. 146. 217 «Riguardo al motivo della mano, può venir preso in considerazione un emblema costruttivista e forse anche un riflesso delle asserzioni di Gropius circa la creazione del Bauhaus secondo “spirito” e “mano”. Forse a volte non è da escludere anche una associazione politica, perché c’erano dei locali del Bauhaus nei quali John Heartfield appendeva il manifesto elettorale del partito comunista “…la mano a cinque dita” del 1928. Anche una fotografia più tarda di Marcel Breuer rimanda al motivo Bauhaus della mano». Cfr. P. Costantini (a cura di), La fotografia al Bauhaus, cit., p. 24. 218 Fotografo tedesco nato nel 1865, dedicherà gran parte del suo lavoro alla ripresa di soggetti botanici. Alla base del suo lavoro, come acutamente osserva la Madesani, «ci sarebbe una contemplazione della natura di taglio romantico, il più delle volte evocativa di altre dimensioni e una critica al funzionalismo e al darwinismo». Molto all’avanguardia nello studio delle nuove tecniche, sarà tra i primi a servirsi di diapositive per la proiezione delle sue immagini. Anche per questo sarà tenuto in grande considerazione dai fotografi d’avanguardia che considereranno il suo un lavoro di grande esempio. Uno su tutti, Moholy Nagy che ci terrà ad averlo come ospite della sua mostra Film und Photo a Stoccarda nel 1929. Cfr. A. Madesani, cit., scheda n. 25, p. 74. 216 108 immagini di Blossfeldt, i delicati capolavori di ‘ingegneria’ del mondo vegetale sono ripetutamente ingranditi per mettere a disposizione una approfondita conoscenza degli organismi riprodotti»219: il fotografo cioè riproduce per far conoscere, per divulgare un mondo affascinante e poco conosciuto e come non ravvisare in questa ricerca, quella stessa di Pagano che fotografa in maniera quasi ossessiva l’universo vegetale. Dalla Germania, i fermenti della nuova intenzione fotografica sono percepiti ben presto in molti altri paesi attenti alle evoluzioni della tecnica e della ricerca nel campo. Sarà indubbiamente la Russia, un altro polo di divulgazione della ‘Neue Sachlichkeit’. Tra gli esponenti più versatili si distingue, come abbiamo precedentemente evidenziato, Aleksandr Rodčenko220 che nel suo paese natio viene addirittura accusato di plagio nei confronti di Moholy-Nagy; il fotografo per tutta risposta sottolineerà l’esistenza di un progetto comune che trascendeva i confini nazionali. Proprio questo concetto di ricerca comune sarà la chiave più significativa degli studi delle avanguardie. Ovviamente, soprattutto in un primo momento, saranno molti gli oppositori delle nuove tecniche a sostegno di metodi più tradizionali, ritenendo sterili distorsioni le immagini sperimentate dai fotografi d’avanguardia. Alcuni di questi audaci artisti, tra i quali lo stesso Rodčenko, saranno accusati di badare troppo alla forma piuttosto che ai contenuti. In realtà la loro sperimentazione portata in alcuni casi agli eccessi – per qualcuno incomprensibili – dell’arte astratta, indagavano la realtà nella sua pura oggettività molto più di quanto non apparisse221. 219 V. Deren Coke, cit., p. 34. Nel 1921 l’artista sovietico realizza un Manifesto produttivista in cui dichiara apertamente: «Abbasso l’arte, viva la tecnica»; è chiara la sua posizione antiestetica, che sarà tra l’altro uno dei principali motivi per cui verrà accusato d’essere un formalista, critica ritenuta assolutamente infondata dagli studiosi contemporanei. Cfr. A. Madesani, cit. 221 Cfr. B. Newhall, cit. 220 109 Anche Man Ray222, fotografo e pittore americano che lavora a Parigi a partire dal 1921, rappresenta un capitolo importante della ‘Nuova Fotografia’. Le sue foto dall’anima surrealista, esprimono emozioni e suggestioni che aprono nuovi universi di indagine visuale: i suoi primi piani fortemente illuminati, i nudi splendenti, i volti sognanti e le immagini fatte di ombre e tracce di luce faranno di lui un esponente di spicco della fotografia del primo Novecento, nonché uno dei fotografi più importanti di tutti i tempi. Come Blossfeldt, anche tra i temi indagati da Man Ray ci sarà l’universo floreale. In generale un po’ tutta la cultura fotografica rimarrà profondamente affascinata da questo tema, che darà il via ad un ciclo fotografico molto più espressivo che obiettivo. Riprendendo infatti, attraverso primi piani spesso molto ravvicinati, sommità degli alberi, semi, fiori, virgulti e boccioli, si ottenevano immagini spesso lontane dall’effettiva realtà delle cose, tendendo piuttosto a ricostruire una visione organica e talvolta surreale della forza vitale e potente, persino minacciosa, presente in natura. La realtà più ‘banale’ delle cose veniva quindi esasperata e portata alle sue estreme conseguenze nel divenire di un’analisi sempre più complessa. Tra i fotografi che sviluppano questo soggetto, ritroviamo oltre Man Ray e Karl Blossfeldt anche lo stesso Moholy-Nagy, Grete Stern e Albert Ranger-Patzsch223; tra gli autori italiani impossibile 222 Man Ray è un fotografo e teorico statunitense (1890-1976), che avrà la sua prima occasione espositiva nella galleria 291 di New York di Alfred Stieglitz, il primo a riconoscerne la grandezza. Inizia a lavorare a Parigi dove, tra le altre cose si interesserà di fotografia di moda. Sua sarà l’invenzione della rayografia e i primi esperimenti di solarizzazione dell’immagine. Autore di saggi e scritti di grande interesse, così ci racconta la sua idea di fotografia: «Il fotografo non è limitato soltanto al ruolo di copista. È un meraviglioso esploratore di quegli aspetti che la nostra retina non registrerà mai e che, ogni giorno, infliggono così’ crudeli smentite agli idolatri delle visioni conosciute, così poco numerose e delle quali il giro è stato fatto beh prima che un navigatore audace non faccia il giro del mondo. Ho tentato di afferrare quelle visioni che il crepuscolo o la luce troppo viva o la loro fugacità o la lentezza del nostro apparato oculare derubano ai nostri sensi. Sono però sorpreso, spesso affascinato, a volte letteralmente ‘rapito’». A. Madesani, cit., p. 85. Un’interessante monografia sull’artista è stata realizzata da C. de Seta, Ray Man, Art&, Udine 1989. 223 Di origini tedesche (1897-1966), Albert Ranger-Patzsch, si dimostrerà un osservatore puntuale, un intellettuale brillante, nonché un vero esteta della fotografia. La sua è una fotografia plastica, in cui si 110 non ricordare il lavoro fotografico di incantevole bellezza realizzato dalla bravissima Tina Modotti224. Gli scatti di Pagano del mondo naturale subiscono indubbiamente l’influenza esercitata da queste esperienze internazionali: il ciclo dedicato agli Alberi e nello specifico agli Abeti o ai Clitumni, oppure le foto delle piante di Agave, dichiarano proprio questa stessa matrice di stampo espressionista. Ma nelle foto del nostro architetto si aggiunge alla ricerca una ragione in più, lo sguardo è teso a catturare, della natura, quell’ordine insito nel caos. Dover cogliere anche in un particolare il suo carattere geometrico, o magari quel punto in cui la natura si manifesta in tutta la sua potenza, diviene per Pagano una necessità incontrovertibile. In alcuni scatti appartenenti al gruppo intitolato Agave ad esempio, il punto di vista cade spesso nella sezione della pianta in cui le foglie si diramano a formare il fiore, cioè nel punto in cui l’universo si manifesta magistralmente in tutta la sua complessa perfezione. A questa divina perfezione fa però da contrappunto il passaggio distruttivo esalta essenzialmente la forma del soggetto, di qualunque soggetto si tratti; per questo riprende con la medesima forza espressiva materiale botanico, architettura industriale, fili elettrici, animali, paesaggi. È considerato dalla maggior parte della critica il rappresentante tedesco della ‘fotografia diretta’ americana, ma il suo è un taglio del tutto particolare, molto attento ai dettagli che compongono il tutto, esaltati nei suoi scatti da un uso sapiente del mezzo fotografico e dalle raffinate tecniche di stampa. Numerosi i libri pubblicati e le mostre a lui dedicate. A. Madesani, cit. 224 Assunta Saltarini Modotti (1896-1942), detta Tina, è la fotografa italiana della prima metà del XX secolo più interessante nell’ambito del panorama contemporaneo. Famosa anche per essere stata compagna e modella di Edward Weston, scopre la sua passione per la fotografia proprio insieme al già noto maestro, pur essendosi indubbiamente guadagnata in seguito un posto autonomo di assoluto rilievo nella storia della fotografia. Attiva rivoluzionaria, trascorrerà quasi tutta la vita a combattere contro le iniquità del governo messicano. Tra i compagni di battaglia nomi illustri del calibro di Diego Rivera e Frida Cahlo cui scatterà una delle sue fotografie più intense. Le prime immagini realizzate risalgono al 1924-25 e hanno come oggetto fiori e piante. Le fotografie cui dà vita, sono cariche di una forza espressiva di indubbia bellezza, di una sensualità mai conquistata prima. In seguito alla conclusione del suo rapporto con Weston e soprattutto in seguito all’accrescersi dell’impegno politico, muta profondamente il suo modo di ‘sentire’ la realtà che la circonda e di conseguenza cambia il modo di rappresentarla; la sua attenzione si sposta sui paesaggi, le architetture, l’uomo, in una ricerca che la porta man mano a indagare il mondo nelle sue pieghe più inaspettate e dolorose. Sono gli anni della denuncia sociale dell’arte messicana e la Modotti si unisce a quelle voci che, attraverso le varie forme di rappresentazione, cercano di esprimere il dolore di un paese. Muore d’infarto in un taxi a Città del Messico, di ritorno da una cena a casa di Hannes Mayer, noto architetto (direttore della scuola del Bauhaus dopo Gropius), concludendo una vita da passionaria, da artista, da eroina. Cfr. anche A. Madesani, cit. 111 dell’uomo che, nel caso delle immagini dell’Agave, si esplicita attraverso le scritte dei nomi di passanti sprovveduti, incise sulle foglie. Tra le foto dedicate agli alberi, particolarmente interessanti sono quelle in cui l’istriano riprende gli arbusti in filari schematicamente ordinati come per un distribuzione precostituita, oppure selezionati singolarmente con il tronco ripreso dal basso a ricordare il fusto di una colonna, o magari con il cono visuale che si perde nel punto in cui i rami più fitti formano un magico groviglio che ricama il cielo225. Molte delle foto dedicate al tema naturale sono intitolate ‘forme’ proprio perché ciò a cui tiene principalmente l’autore è evidenziare quell’ordine, quella forma ‘precisa’ e perfetta che esiste in natura a prescindere da tutto, cui l’uomo continuamente anela, e che in effetti cerca di simulare nelle sue architetture, e nelle opere cui in genere dà vita. Un altro protagonista della cultura fotografica internazionale, che avrà indubbiamente un peso notevole sulla crescita fotografica di Pagano è Eugène Atget226, fotografo francese che lavorerà prevalentemente a Parigi tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del nuovo secolo. In realtà, considerando il periodo nel quale lavora Atget, è difficile immaginare attinenze con un protagonista del XX secolo come Pagano, eppure il tutto si spiega considerando la modernità quasi ‘inquietante’ delle immagini del fotografo francese, visti anche i mezzi utilizzati. Il maestro si spostava infatti per la città di Parigi, con una pesante apparecchiatura munita di treppiede che permetteva solo riprese statiche, alle quali però riesce a conferire una profondità di spirito forse mai eguagliata, anche grazie ad ‘un 225 In alcuni casi, accanto al nome delle varie specie, sul provino, è riportato anche il mese della ripresa come a voler specificare la condizione di qualsiasi organismo vivente che, in quanto tale, è sottoposto alla legge di trasformazione della natura, che vive e si modifica con il trascorrere inesorabile del tempo. 226 Esplicito riferimento ad Atget rispetto alla produzione fotografica di Pagano viene fatto da Marina Miraglia che scrive: «Una sezione dell’archivio Pagano è dedicata ai manichini che, come si sa, costituiscono un tema particolarmente ricorrente, per l’implicito riferimento alla matrice del surrealismo, nella produzione di Atget». Cfr. Cfr. M. Miraglia, Forme, cit., p. 142. 112 taglio’ – come sottolinea acutamente Edoardo Persico – decisamente metafisico227. Gli scatti nei quali riconosciamo una certa affinità con alcuni dei prodotti di Pagano, sono quelli dedicati ai personaggi più umili della Parigi di fine secolo, come lo scatto del Cenciaiolo, che rivela nella sua straordinarietà la dignità del lavoro, tema sappiamo molto caro all’istriano, ma sono soprattutto le fotografie di Atget e quelle di Pagano dedicate alle vetrine e ai manichini che ci permettono di collegare l’opera dei due fotografi228. É evidente che, al passaggio definitivo dalla fotografia ottocentesca a quella moderna si perviene essenzialmente grazie alla nascita delle macchine fotografiche di piccolo formato e all’invenzione delle istantanee. La rivoluzione degli apparecchi di piccolo formato è indiscutibile; essi apriranno la strada a nuove possibilità estetiche. L’innovazione deriva innanzitutto dalla possibilità di maneggiare lo strumento fotografico con estrema facilità, tanto da permettere al fotografo di catturare vedute insolite e di cogliere particolari della vita nel suo continuo fluire. Se Pagano non ne avesse avuta una a disposizione probabilmente non avrebbe mai potuto fermare alcuni degli attimi più suggestivi e di inaspettata bellezza che arricchiscono il suo archivio, foto come quelle realizzate a Corfù durante la guerra, ad esempio, non sarebbero forse state possibili senza uno strumento portatile. Ed è grazie a questi stessi apparecchi se abbiamo la possibilità di 227 E. Persico, Camille Recht: Atget, in «La Casa Bella», n. 38, febbraio 1931; ora in I. Zannier, P. Costantini, Cultura fotografica in Italia. Antologia di testi sulla fotografia 1839-1949, Franco Angeli, Milano 1985. 228 Anche in ambito internazionale risultano numerose le emulazioni e sperimentazioni analoghe. In Germania il soggetto statico del manichino diviene un vero e proprio ‘oggetto dei desideri’ per i fotografi. Interessante il caso di Heinrich Zille, che fotografa in una strada di Berlino dei manichini disposti in fila per esporre delle pellicce; la fotografia risale al 1910 ca. «C’è una curiosa somiglianza fra le immagini di Parigi prese da Atget e quelle di Berlino prese dal suo contemporaneo Heinrich Zille. Ambedue scelsero gli stessi soggetti: strade, vetrine di negozi, venditori ambulanti, mercati all’aperto, nei quartieri più poveri della città. Le fotografie di Zille, con la loro viva sensibilità per l’ambiente urbano e con la loro simpatia per la classe lavoratrice, sono frammenti di vita». Cfr. B. Newhall, cit., p. 271. 113 ammirare i lavori straordinari di André Kertész, o la Parigi notturna e sfuggente di Brassäi, o gli ‘istanti decisivi’ catturati da Cartier-Bresson. Ultima conquista fondamentale della fotografia che influenzò decisamente la produzione dell’architetto istriano è quella della ‘scoperta’ dell’utilizzo del mezzo come fonte documentaria. All’idea di utilizzare la fotografia come prova, base di partenza e riferimento per ricerche o analisi di vario genere si perverrà nel tempo e in maniera graduale. La stessa pratica fotografica porterà con il passare degli anni e l’affinamento delle tecniche a tale conquista e consapevolezza229. Nell’America del New Deal vengono realizzati i primi reportages fotografici di contestazione sociale, si comincia cioè ad utilizzare la fotografia come mezzo di documento e denuncia. Tra i migliori documentaristi di questo periodo spicca il nome di Jacob Riis, reporter per il «Tribune» newyorchese nonché per l’Associated Press, che rivela le spaventose condizioni di vita degli slums di New York nell’ultimo decennio dell’Ottocento. Le sue orme vengono seguite da Lewis W. Hine che, tra il 1907-18, partecipa alle lotte contro lo sfruttamento del lavoro minorile cui dedicherà sconcertanti servizi fotografici230. Hine si rende conto, come Riis prima di lui, della forza soggettiva insita nelle fotografie che, quanto più era grande la capacità del fotografo di esasperarne il significato, tanto più erano in grado di richiamare l’attenzione nei confronti di eventuali problematiche sociali. L’opera di Hine, ricca di ‘documenti umani’ come egli stesso li definisce, è concepita sotto forma di illustrazioni e testo che accompagna le immagini. Questa rivoluzionaria tipologia di pubblicazione-denuncia viene definita photo-story. In seguito il fotografo 229 Cfr. B. Newhall, La fotografia-documento, in B. Newhall, cit. Ancora prima di Riis e Hine, Charles Sheeler aveva realizzato sul territorio americano un reportage documento, nel suo specifico caso, teso a richiamare l’attenzione sull’architettura rurale. «Il fotografo visse nella contea di Bucks fino al 1919 e qui dipinse e fotografò edifici rurali tipici, come fienili e fattorie, in uno stile semiastratto che abbandonava drasticamente lo sfocato in voga nella fotografia tra il 1900 e il 1920». I. Jeffrey, Fotografia, cit., p. 116. 230 114 statunitense non si occuperà solo di denuncie in negativo della società; celebre il caso del volume intitolato Man at work, del 1932, che ci ha regalato immagini splendide e suggestive della costruzione dell’Empire State Building di New York. In realtà, in questo progetto fotografico Hine non cerca il sensazionale, vuole solo produrre delle immagini immediate in grado di documentare un lavoro come un altro, dove però le persone mettevano in ogni istante a repentaglio la propria vita. Il tema dell’homo faber, ripreso nella sua realtà più oggettiva, sarà trattato con particolare attenzione da Pagano231. D’altronde, il concetto di illustrazione utilizzata come strumento di denuncia si fa strada in questi anni anche in altre manifestazioni artistiche ad esempio in pittura. Non si può infatti tralasciare l’esempio di fondamentale importanza esercitato sull’arte dalla pittura messicana, che, attraverso una singolare forma d’espressione artistica, i murales, denuncia tutta una serie d’iniquità sociali. É chiaro che il valore documentario affidato alla fotografia avrà un effetto notevolissimo sull’approccio fotografico di Pagano, tutto il suo archivio rappresenta indubbiamente un documento storico preziosissimo. Incisive le parole di Giò Ponti che, in un articolo uscito su «Domus», scriveva: «una delle funzioni della pittura, in passato, era quella documentaria. […] Questa funzione documentaria le è stata tolta dalla fotografia. Prima timidamente, attraverso il ritratto, poi in pieno, moltiplicata dalla stampa, ed oggi ad abundatiam, poiché la fotografia ci dà degli uomini e dei fatti immagini plurime e simultanee; essa, come documento, ci dà quantitativamente più che non desse la pittura che è sintesi. Questo è il carattere della fotografia come mezzo documentario: essa delle cose ci mostra infiniti accenti, e fra questi accenti taluno, 231 Cfr. il capitolo II di questo volume. 115 strappato da tempisti eccezionali ad un istante critico, coglie un’espressione culminante, indimenticabile, diremmo totale. […] Così la fotografia giunge ‘per eccezione’, ad un valore, ad una carattere documentario quasi assoluti, carattere al quale la pittura giungeva per sintesi. Ma le due arti oggi sono fatalmente dissociate. L’una, l’arte di servirsi della fotografia, è l’arte di ‘vedere’ le immagini; l’altra, la pittura, l’arte di ‘creare’ le immagini. L’una è vista pura; l’altra visione»232. L’aderenza alla realtà diviene un aspetto peculiare dei documentaristi, che spesso rifuggono dalle connotazioni ‘artistiche’ della fotografia alla ricerca di una onesta autenticità negli scatti233. Abbiamo già ampiamente parlato del valore documentario di un’altra importante esperienza americana, quella della Farm Security Administration, che porterà avanti un’interessante analisi sul territorio. Ma questo stile troverà molti altri adepti in America; Margaret Bourke-White, fotografa per le riviste «Fortune» e «Life», produrrà con lo scrittore Erskine Caldwell un’inchiesta fotografica sugli Stati Uniti del Sud, mentre Berenice Abbot dedicherà il suo lavoro alle più belle e inedite riprese delle metropoli americane, decisa a rappresentarne non solo l’aspetto ma anche l’anima. Ma un punto fondamentale sulla fotografia documentaria, viene messo da Beaumont Newhall che afferma: «è un paradosso, ma perché una fotografia possa essere accettata come documento, deve essere essa stessa ‘documento’, collocata nel tempo e nello spazio»234. Un documento quindi ha la necessità intrinseca di essere collocato temporalmente e spazialmente e sarà proprio questa una delle ragioni per le quali Pagano realizzerà il suo archivio fotografico: l’architetto, ordinando i negativi in un accurato 232 G. Ponti, Discorso sull’arte fotografica, in «Domus» n. 32, aprile 1932. È di questo periodo la nascita dei primi film documentario, che Walt Whitman definirà ‘un mezzo che si serve delle facoltà artistiche per vivificare la realtà’. 234 Ivi. 233 116 database ce ne rivela la volontà documentaria, realizza un archivio da poter ‘usare’ come strumento di conoscenza, magari di denuncia, per il suo studio di architetto ma anche come eredità preziosa per la società. b. Percorsi fotografici italiani: la produzione di Giuseppe Pagano tra metafisica e realismo. Anche in Italia, all’inizio del Novecento, mentre ancora molti fotografi si limitano a riprodurre sterili reminiscenze dello stile pittorico inglese e francese, alcuni più interessanti pionieri della nuova ricerca, producono i primi timidi tentativi di fotografia documentaria. Celebri gli scatti sul terremoto di Messina, o le immagini realizzate da anonimi ufficiali che, nel 1911, vanno in Libia ad occupare Tripoli235. Dopo la prima guerra mondiale, gli scempi e la terribile distruzione provocata dal tragico evento scuotono gli animi, al punto che il mondo della fotografia si stacca completamente dal pittorialismo per rispondere all’urgenza di documentare una realtà tanto martoriata. Sarà proprio questo infatti, lo scatto decisivo che permetterà, anche nel nostro Paese, di superare lo scetticismo che impediva di accettare la fotografia documentaria. Da noi si verifica infatti, come sottolinea la Valtorta: «un rifuggire, dal ‘documento’, quasi che la specificità di una concreta adesione al linguaggio della fotografia al linguaggio del reale potesse contrapporsi a una piena soggettività creativa»236. Dopo lo choc della prima guerra mondiale questa difficoltà espressiva verrà superata e si darà il via anche in Italia ad un nuovo approccio fotografico, soprattutto in seguito al 235 Cfr. W. Settimelli, La fotografia italiana, in J.A. Keim, Breve storia della fotografia, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1976, ristampa 2001. 236 R. Valtorta, cit., p. 189. 117 sopraggiungere della dittatura fascista, che tenterà di sottomettere anche la fotografia alla folle logica del regime. In questo contesto le immagini di Pagano si inseriscono, come una sorta di voce fuori dal coro, con la forza necessaria e quel coraggio sufficiente per abbracciare le nuove, audaci istanze della fotografia internazionale e nello stesso tempo capace di cogliere i germi della rinascita della cultura italiana del XX secolo, che troverà anche in alcune espressioni artistiche squisitamente nazionali, interessanti spunti di crescita. Per un lungo periodo, in Italia, fotografia e filmografia ufficiale saranno un esclusivo appannaggio dell’Istituto Luce, organismo di propaganda voluto da Mussolini, un ‘carrozzone totalmente asservito al regime’ come lo definisce Wladimiro Settimelli, che tenterà di inchiodare il nostro Paese ad un’immagine intellettualmente molto povera237. La politica di sottocultura imposta dal regime imbriglierà infatti anche l’ambiente fotografico sottoponendolo ad una severa e intransigente censura. In realtà, l’Istituto Luce, si proponeva di svolgere un’attività di completamento dell’istruzione e dell’elevazione della cultura nazionale, occupandosi di cinema in primo luogo e, dal 1927 esercitando «un servizio sistematico di raccolta delle ‘attualità fotografiche’»238, per poi occuparsi dell’ordinamento, della conservazione e del completamento dell’Archivio Fotografico Nazionale. Per quanto organo asservito al regime quindi, questo Istituto, svolgerà comunque una funzione rilevante e importantissima per la conservazione del patrimonio fotografico: «con l’acquisizione delle raccolte pubbliche già esistenti sulle bellezze artistiche 237 Per la storia del periodo fascista e i suoi effetti sulla cultura, la società e nello specifico sulla fotografia italiana si consigliano i seguenti testi: L. Criscenti, G. D’Autilia (a cura di), Autobiografia di una nazione. Storia fotografica della società italiana, Editori Riuniti, Roma 1999; P. Bevilacqua, Il paesaggio italiano nelle fotografie dell’Istituto Luce, Editori Riuniti, Roma 2002; G. D’Autilia, L’indizio e la prova. La storia nella fotografia, Mondatori, Milano 2005. 238 L. Criscenti, G. D’Autilia (a cura di), Autobiografia di una nazione…, cit., p. 76. 118 e paesaggistiche italiane, il Luce perpetua, almeno nelle intenzioni, la tradizione catalografica nata con l’unificazione del paese»239. Ma l’attenzione nei confronti dei media, da parte del fascismo si dimostrerà, ovviamente strumentale. Mussolini in primo luogo, punterà moltissimo all’immagine nei suoi anni di governo240, imponendo però delle regole precise nell’ambito della stessa disciplina fotografica, per cui il clima culturale risulterà tanto pesante da non permettere lo sviluppo di alcuna espressione artistica libera da tale asservimento. L’unica voce capace di una reale rottura con il dictat politico sarà quella di Luigi Veronesi241 il primo in Italia a lasciarsi avvincere dalle nuove ricerche internazionali sulla scia di Man Ray, del Bauhaus e Moholy-Nagy, di Ranger-Patszch e di El Lissitskij. La sperimentazione di Veronesi troverà espressione degna anche nella filmografia, con la sua attività di cineasta e scenografo242. Di certo differente la linea seguita da Pagano che come Veronesi però, accoglierà la spinta stimolante proveniente dalle voci al di fuori dei confini italiani, e come l’artista milanese opererà queste ‘sperimentazioni’ in un momento tanto delicato come quello dell’Italia fascista; di certo i contatti tra questi due protagonisti della cultura del Novecento saranno continui e Veronesi collabora in diverse occasioni con la rivista «Casabella» per cui non possiamo escludere una certa incidenza del lavoro del poliedrico artista 239 Ivi. Lo stesso Mussolini opererà negli anni una propaganda dal sapore assolutamente moderno, proponendo una diffusione della sua immagine quasi ossessiva. Le fotografie divulgate negli anni del regime, vedranno il duce ritratto in mille momenti di vita, durante le adunate, nel silenzio del suo studio, sulle piste da sci, insomma un vero e proprio bombardamento iconografico che sembra ricordare vagamente una certa abitudine politica degli ultimi anni. Tra l’altro, come acutamente sottolineano Criscenti e D’Autilia, «la sua iconografia ha un’evoluzione nel tempo, passando da un’atmosfera borghese e paterna a quella cesarea e aggressiva della metà degli anni Trenta». L. Criscenti, G. D’Autilia (a cura di), cit. p. 75. 241 Un profilo accurato della figura di Luigi Veronesi lo troviamo nel volume della Madesani. A. Madesani, cit., pp. 88-89. Si rimanda anche alla scheda di R. Valtorta in Pagine di fotografia italiana 1900-1998, Charta, Milano 1998, p. 58. 242 Cfr. G.P. Brunetta, Un’esperienza di cinema d’avanguardia: Luigi Veronesi, in Storia del cinema italiano. Il cinema del regime 1929-1945, II riedizione, Editori Riuniti, Roma 2001, pp. 278-280. 240 119 italiano su quello dell’architetto istriano. Sostanzialmente la differenza più profonda tra i due, consiste nel fatto che, se per Veronesi la fotografia è uno dei mezzi utilizzati per ‘esplorare’ il mondo spingendosi fino ai limiti dell’astrattismo, per Pagano invece questo strumento rappresenta un oggetto autonomo utile per rappresentarlo e documentarlo oggettivamente. Nel frattempo, mentre Veronesi continua a indagare le plaghe dell’astrattismo, in Italia assume una connotazione sempre più concreta la ricerca dei futuristi, dai quali tra l’altro, l’artista milanese si terrà ben lontano. Non si può ignorare ad ogni modo, l’importanza che la cultura futurista avrà per la formazione dei giovani fotografi del nostro Paese243. Questa corrente d’avanguardia tutta italiana, seppure di breve durata, sperimenterà alcune delle più affascinanti espressioni della tecniche artistica ritagliandosi un notevole spazio anche nella fotografia244, soprattutto in relazione alle ricerche sul movimento, attraverso il fotodinamismo245. Non si rileva comunque alcuna relazione tra la ricerca futurista e l’approccio fotografico di Pagano, che forse aveva già spinto la sua indagine oltre quella di questo gruppo d’avanguardia. D’altronde «per quanto profondo fosse il colpo inferto dal futurismo alla fitta trama della tradizione, esso esaurì la propria carica in un tempo certamente brevissimo»246. L’esperienza metafisica rappresenterà invece un momento importantissimo di conquista artistica per il percorso dell’architetto. 243 Un saggio interessante sulla fotografia futurista è quello di C. Bertelli, Fotografi futuristi, in C. Bertelli, G. Bollati, Storia d’Italia – annali 2* – L’immagine fotografica 1845-1945, Einaudi, Torino 1979, pp. 146-153. 244 Nel 1930 viene pubblicato il Manifesto della fotografia futurista ad opera di Martinetti e Tato. 245 «Con ogni probabilità, il primo artista futurista che ha avuto l’ambizione di esplorare la propria identità attraverso il mezzo fotografico è Umberto Boccioni. […] La rivoluzione estetica della fotografia futurista aveva una forte coscienza teorica e pragmatica. La loro è un’operazione perfettamente studiata e finalizzata completamente al risultato da ottenere, senza tuttavia poter progettare in anticipo l’esito puntuale dell’operazione». A. Madesani, cit., p. 90. 246 C. de Seta, Da Metafisica a Novecento, in La cultura architettonica in Italia …, cit. 120 In Italia, la ricerca fotografica, seguirà sostanzialmente due opposte strade: il realismo da una parte e la lettura astratta del reale dall’altra, nel quale si inseriscono le esperienze di Veronesi e in altro modo dei futuristi. In un certo senso, la Metafisica pare riuscire a conciliare queste due differenti correnti. Affascinato di certo dalla ricerca estetica di De Chirico e compagni, Pagano rivela accenti metafisici nell’organizzazione e composizione degli spazi urbani, che poi sono spazi architettonici, in parecchie delle sue fotografie di città italiane247. Con questo non si vuol trovare nella logica compositiva delle sue architetture una matrice metafisica248, piuttosto si intende individuare tale matrice nella definizione fotografica di alcuni spazi urbani da lui ripresi. Per riconoscere questa componente metafisica nella ricerca iconografica di Pagano è necessario però fare un passo indietro, e puntare l’attenzione in primo luogo sull’idea di spazio urbano ricostruito nella pittura dechirichiana; scrive de Seta: «lo spazio urbano, strutturato prospetticamente, diventa l’affascinante e ossessiva trama»249 delle tele di De Chirico. Ma, in questo suo spazio pittorico, l’uomo contemporaneo diventa «un birillo, un manichino, una musa inquietante, cosa tra cose più grandi di lui»250. In alcune città fotografate da Pagano riconosciamo questa stessa dimensione metafisica ricostruita nelle ‘visioni’ di De Chirico. La sua città, come quella del pittore, non si mostra «convulsa e violenta, 247 Lo storico napoletano Cesare de Seta è stato indubbiamente uno dei primi studiosi a sottolineare l’apporto fondamentale della pittura metafisica sugli sviluppi dell’architettura del Novecento. Cfr. C. de Seta, La cultura architettonica in Italia tra le due guerre, cit. Lo storico napoletano invero sottolinea che «una architettura metafisica non esiste e sarebbe pretestuoso cercarla». C. de Seta, L’architettura degli anni Venti: da Milano a Roma, in Architetti italiani del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1987. 248 Scrive la Mazzucchelli: «nulla è meno conforme al temperamento di Pagano che un’idea metafisica dell’architettura»; ciò non toglie che egli possa aver sviluppato comunque una sensibilità metafisica che inciderà più o meno consapevolmente sulla sua idea di spazio urbano e fotografico. M. Mazzucchelli, Pagano architetto, in F. Albini, G. Palanti, A. Castelli, [a cura di], Giuseppe Pagano Pogatschnig …, cit., p. 32. 249 C. de Seta, Città futurista e città metafisica: lo spazio urbano nella pittura di Giorgio De Chirico, in La cultura architettonica in Italia…, cit., p. 70. 250 Ivi. 121 disordinata e orribile» ma è «la città rinascimentale», in cui «non v’è posto per le folle, ma solo per mute effigi di quel passato in cui De Chirico si è tuffato con disperata freddezza, cercando di fuggire un presente storico da cui non ci si può sottrarre se non attraverso la magica rarefazione del sentimento e della poesia»251; alcune fotografie scattate da Pagano risultano in questo senso straordinariamente metafisiche, si pensi alle immagini realizzate in alcune città appositamente ‘svuotate’ come Bologna (Vol46_Num28), Pienza, a «quella ‘Ferrara’ che è la ‘più metafisica di tutte le città’», o la stessa Roma, nella quale il momento metafisico più penetrante si raggiunge nella fissità delle immagini dell’E42 in costruzione con le armature in legno delle statue – ‘manichini’, ‘muse inquietanti’ – che sarebbero poi state costruite come ‘arredo urbano’ del complesso residenziale252. Il dibattito sulla possibilità di associare la ricerca Metafisica alla fotografia si è rivelato negli anni, piuttosto complesso253. La Valtorta, concorda ampiamente con Claudio Marra254 nel considerare possibile ed opportuna tale associazione, ritenendo che vi sia nella Metafisica, «un elemento profondamente fotografico»255. In particolare, Marra sviluppa una serie di considerazioni delucidanti su questo punto. Muovendosi infatti dal 251 C. de Seta, cit. p. 74. Con questo non si intende assolutamente attribuire un valore metafisico alle costruzioni dell’E42, semmai è la sensibilità di Pagano che conferisce tale carattere alle inquietanti architetture del quartiere romano, attraverso le sue riprese fotografiche. Concordiamo infatti pienamente con Cesare de Seta quando afferma che: «sarebbe del tutto erroneo riconoscerla (l’architettura metafisica) nelle spettrali prospettive dell’E42 di Roma che di metafisico non hanno nulla, sono topoi formali solo apparentemente simili ma di fatto profondamente diversi; sono, al contrario, l’immagine di uno straniamento dell’architettura in balia di un accademismo classicista povero, rozzo e vanaglorioso. Proprio il contrario della contenuta, solida e tersa condizione classica e metafisica della città d’Italia di dechirichiana memoria». C. de Seta, L’architettura degli anni Venti: da Milano a Roma, in Architetti italiani del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1987. In realtà Pagano, attraverso i suoi scatti al quartiere romano, intendeva proprio denunciare quella sensazione di ‘straniamento’ provocata da ‘un accademismo classicista povero, rozzo e vanaglorioso’, accentuandone l’apparente carattere metafisico. 253 In effetti già de Seta parla di una «fissità metafisica» per descrivere alcune fotografie di Pagano come quelle realizzate nella città di Bologna. Cfr. C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit., p. 76. 254 C. Marra, Fotografia e pittura nel Novecento. Una storia ‘senza combattimento’, Bruno Mondatori, Milano 2000. 255 R. Valtorta, cit., p. 195. 252 122 presupposto che Metafisica e fotografia partano da due condizioni apparentemente antitetiche cioè l’una, la Metafisica, presupponga un recupero nostalgico del passato a dispetto dell’altra la fotografia, che, suo malgrado cattura invece il presente, lo storico riesce a scardinare tale assunto, evidenziando piuttosto che la fotografia non rifiuti affatto il passato ma al contrario, che in fondo essa non rappresenti altro che un mezzo per eternarlo, congelarlo, per conservare sulla lastra sensibile le «impronte»256 del tempo. D’altronde, la composizione propria dei quadri metafisici basata spesso sulla prospettiva rinascimentale è la medesima che caratterizza molte fotografie pittorialiste e non solo; per di più, sottolinea lo storico bolognese, nei quadri metafisici come in alcune fotografie, esiste una certa propensione ad ‘inquadrare’ il paesaggio; scrive De Chirico: «Il paesaggio, chiuso nell’arcata del portico, come nel quadrato o nel rettangolo della finestra, acquista maggior valore metafisico, poiché si solidifica e viene isolato dallo spazio che lo circonda»257. Sappiamo che la prima fotografia della storia, realizzata da Nicéphore Niépce era stata scattata proprio inquadrando il paesaggio tagliato dalla cornice della finestra di Gras (1826-27). In definitiva non è certo difficile riconoscere nei quadri metafisici «un analogo rilevante ruolo di straniamento svolto dall’inquadratura in fotografia»258. Nelle fotografie dell’istriano incontriamo continuamente paesaggi ‘stranianti’ inquadrati attraverso il portale di una cascina, piuttosto che tra i profili disegnati dai rocchi diruti di colonne classiche. Scrive inoltre De Chirico: «L’opera d’arte metafisica è quanto all’aspetto serena; dà però l’impressione che qualcosa di nuovo debba accadere in quella stessa serenità e che altri segni, oltre quelli già palesi, debbano 256 G. De Chirico, Noi Metafisici, 1919. G. De Chirico, in «Valori Plastici», maggio-giugno 1920. Ora in C. Marra, cit., p. 80. 258 Ivi. 257 123 entrare sul quadrato della tela. Tale è il sintomo rivelatore della profondità abitata»259; in queste stesse «profondità abitate» di De Chirico riconosciamo le iconografie urbane di Pagano, spazi reali e surreali, rivelati e nascosti ma comunque percepiti, dimensioni in cui il non visto, tutto ciò che si nasconde dietro gli angoli, è ricostruito dalla fantasia creatrice dell’osservatore; Walter Benjamin scriveva che il grande fascino della fotografia consiste proprio nel suo invitarci ad andare oltre la superficie dell’immagine, nel farci intendere come da un frammento unico si possa ricostruire tutto un mondo, un universo parallelo e sconosciuto260. Ma se da un lato l’universo pittorico e in questo caso metafisico suggerisce una strada fondamentale per l’esperienza fotografica del nostro architetto, dall’altra un gruppo di interessanti sperimentatori del mezzo fotografico cominciano a farsi avanti e ad attirare l’attenzione di Pagano: sono professionisti del fotoreportage, della ritrattistica, della fotografia industriale e quelli che si occuperanno delle prime forme di fotografia pubblicitaria come Mario Crimella – che firmerà molte delle fotografie comparse sulla rivista «Casabella» di Pagano e Persico –, ma anche Alfredo Ornano, Ghitta Carrell, Achille Bologna. Eppure, l’esperienza che più di ogni altra avrà un effetto fondamentale sulla carriera fotografica di Pagano, ma forse sarebbe più corretto parlare in questo caso di un’influenza reciproca, è quella di Alberto Lattuada ed il suo Occhio Quadrato261. Il piccolo libretto fotografico del regista italiano, esce 259 G. De Chirico, in «Valori Plastici», aprile-maggio 1919. Ora in C. Marra, cit., p. 80. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, Einaudi, Torino 1966, ried. 2000. 261 Occhio Quadrato è un piccolo fotolibro pubblicato ad opera di Alberto Lattuada nel 1941. Siamo nel pieno dell’attività fotografica di Pagano che conosce ed è molto vicino al regista anche grazie alla comune passione cinematografica. Tra l’altro i motivi d’incontro tra questi due protagonisti della cultura del primo Novecento sono decisamente numerosi, dato che Lattuada, redattore della rivista «Corrente», è anche fotografo, giornalista e critico cinematografico per le riviste «Domus» e «Tempo» con le quali sappiamo collaborasse attivamente anche l’architetto istriano. Il lavoro pubblicato da Lattuada nel ’41, nasce dai vagabondaggi solitari del giovane intellettuale nelle periferie di Milano e Venezia. Quella che ne viene fuori è l’immagine di un paese in cui vive un’umanità tutt’altro che eroica, ben lungi da quella 260 124 come inserto monografico della rivista «Corrente», nel 1941. Il titolo del volume viene suggerito al giovane Lattuada dal regista Mario Soldati cui faceva allora da assistente nella regia del film Piccolo mondo antico; il motivo della scelta di un titolo apparentemente ermetico, deriva dal formato sei per sei delle fotografie realizzate, la macchina è una Rollei settantacinque millimetri: stesso strumento e stesso formato fotografico scelto da Pagano nelle sue immagini. Seppure Lattuada abbia scelto come unico campo d’indagine la città di Milano e in parte di Venezia, a differenza del collega istriano che rivolge la sua attenzione a tutto il territorio nazionale, gli obiettivi, gli spunti, i motivi ispiratori dei due prodotti si riveleranno comunque profondamente affini. Scrive Angela Madesani: «la novità di Occhio Quadrato sta nel modo di proporre il paesaggio italiano, privo di retorica e di finalità celebrative, dove la fotografia è alla pari con altre discipline. Una fotografia diretta, finalmente vicina alle ricerche europee degli stessi anni. Il paesaggio raccontato è fatto di uomini e di cose e parla di un mondo povero in aperta contraddizione con l’immagine voluta dal fascismo. In quegli anni il regime stava costruendo l’E42 a Roma e Lattuada racconta un mondo fatto di catapecchie e di stracci, che gli avrebbe fruttato anche un richiamo da parte della polizia. Una chiara anticipazione del neorealismo»: ebbene si sarebbero potute usare le stesse parole per descrivere il racconto per immagini ricostruibile attraverso l’archivio di Giuseppe Pagano. Di certo, Lattuada, si dimostra più convinto ed ha una posizione più chiara e definita riguardo a certe idee politiche rispetto a quelle dell’istriano, o meglio è pienamente consapevole delle sue scelte e questo gli permetterà di far evincere ancora più chiaramente il carattere della sua indagine fotografica volta ad esprimere un dissenso profondo nei confronti delle iniquità del mostrata e imposta dalla fotografia fascista. Cfr. E. Taramelli, Viaggio nell’Italia del Neorealismo. La fotografia tra letteratura e cinema, Società editrice internazionale, Torino 1995; A. Madesani, cit. 125 regime262; ciò non toglie che lo spirito dei due maestri si riveli, attraverso i rispettivi universi iconografici, straordinariamente simile263. È nota la vicinanza culturale di questi due protagonisti del Novecento, grazie anche alla comune passione per l’arte cinematografica che li porterà a frequentare gli stessi gruppi cinefili. Fino ad oggi la critica fotografica ha riconosciuto ampiamente il debito di Occhio Quadrato nei confronti di un’esperienza come American Photographs di Walker Evans, giunta in Italia clandestinamente e recensita sulla rivista «Corrente» proprio ad opera di Lattuada264. Invero, considerando che nel 1941, anno di pubblicazione del libretto di Lattuada, l’archivio fotografico di Pagano aveva già raggiunto più della metà del suo materiale, e visti i legami esistenti tra i due artisti, si potrebbe ipotizzare un precedente concreto nel lavoro realizzato e sistematicamente pubblicato da Lattuada, anche in quello di Pagano. In fondo l’istriano, nel 1941, aveva prodotto già gran parte del suo lavoro fotografico e pubblicato alcuni fotolibri, si pensi a Sassi265 e Una Porta266 che risalgono al 1939, mentre il catalogo sull’architettura rurale era uscito già nel 1936. Per cui se è certo che un’influenza notevole sul lavoro di Lattuada è dovuto all’esperienza di Evans, non si può comunque escludere che una certa incidenza l’avesse avuta probabilmente anche la produzione del Nostro, che per primo 262 La posizione antitetica di Lattuada nei confronti del fascismo diviene ufficiale dopo la pubblicazione del suo fotolibro, è interessante infatti ciò che sottolinea a riguardo Carlo Bertelli: «la censura fascista non fu disattenta e chiamò Lattuada per avere una spiegazione circa la sua scarsa attenzione per le opere del fascismo e l’interesse per i poveri, i diseredati, ecc. Solo la bassa tiratura evitò il blocco del libro». C. Bertelli,G. Bollati, Storia d’Italia – annali 2* – L’immagine fotografica 1845-1945, cit., p. 302. 263 «Con la sua Rolleiflex, Lattuada si spinge verso gli estremi confini della periferia delle cinta urbane per fissare l’inquietante teatro dove vive una umanità tutt’altro che eroica: almeno non nel senso messo al bando dalla retorica fascista», la Taramelli descrive con queste parole la realtà fotografica di Lattuada, rivelandone la profonda affinità con quella di Pagano, le «squallide botteguccie, i mercati dell’usato, le effigi modeste sui muri scrostati dei miseri interni domestici» di Lattuada sono gli stessi che incontriamo nelle fotografie di Pagano. Cfr. E. Taramelli, Viaggio nell’Italia del Neorealismo …, cit., p. 75. 264 La Taramelli sottolinea ampiamente l’influenza del fotografo statunitense sul lavoro di Alberto Lattuada, che tra l’altro non negò mai l’ascendente avuto su di lui dalla suggestione di alcuni album di fotografie americani. Cfr. E. Taramelli, cit., p. 75-76. 265 G. Pagano, Sassi, Panorama, Milano 1939. 266 Id., Una Porta, Panorama, Milano 1939. 126 scandagliò l’universo tutt’altro che ‘eroico’ della remota e sconosciuta provincia italiana nelle sue fotografie. Così come è certo che la cultura cinematografica di Lattuada abbia inciso profondamente sul prosieguo del lavoro fotografico di Pagano e forse anche sui suoi interessi relativi alla filmografia. Alberto Lattuada realizzerà negli anni successivi alla pubblicazione di Occhio Quadrato, anche altre immagini, pur portando avanti contemporaneamente la carriera di regista, e smetterà definitivamente di fotografare nel 1948, tre anni dopo la morte di Pagano267. I suoi scatti rappresentano probabilmente la sintesi di tutta la ricerca italiana, rappresentando quella giusta dimensione in bilico tra la bellezza pura e autentica della fotografia e quella dinamica e più costruita del prodotto filmografico. Dalla produzione di Giuseppe Pagano, di Alberto Lattuada, di Albe Stainer, di Lamberti Sorrentino, di Federico Patellani, si apriranno nuove strade nel mondo della fotografia; di certo un fondamentale passo avanti verrà compiuto anche grazie allo sviluppo del settore fotogiornalistico e delle riviste. In questo ambito, un vero pioniere sarà proprio Pagano. In effetti in Italia il dibattito relativo ai nuovi sviluppi della fotografia, verrà condotto principalmente in ambito giornalistico, saranno cioè le riviste e i rotocalchi più importanti che conferiranno all’immagine fotografica uno spazio ed un valore sempre crescente, soprattutto tra gli anni ‘20 e gli anni ‘30 del Novecento268. Notevole indubbiamente sarà l’apporto delle riviste estere. Sul finire degli anni ‘20 in Germania si pubblicavano più riviste illustrate 267 Cfr. A. Madesani, cit., p. 92-93; si veda anche il piccolo intervento di C. Bertelli, L’occhio quadrato, in C. Bertelli, G. Bollati, Storia d’Italia – annali 2* – L’immagine fotografica 1845-1945, cit., p. 184. 268 Cfr. L. Crescenti, G. D’Autilia, Gli anni del fotogiornalismo, in L. Crescenti, G. D’Autilia (a cura di), Autobiografia di una nazione …, cit., pp. 82-86. 127 che in qualsiasi altro paese del mondo269, anche se grandissimo risulterà l’eco internazionale che avranno alcune riviste americane come «Life»270 e «Look», così come quelle francesi, si pensi a «Vu» e «Regards»271. Negli anni in cui la televisione non aveva ancora fatto il suo ingresso nella società, la carta stampata diviene infatti il mezzo di divulgazione e cultura per eccellenza. In questa società ancora prevalentemente analfabeta272, l’immagine fotografica diviene una realtà mediata di indiscusso valore, un ausilio irrinunciabile della cultura divulgata verbalmente. In effetti il primo intellettuale a sottolineare la rivoluzione operata anche in campo letterario dalla fotografia era stato Paul Valéry, che in occasione del discorso per il Centenarie de la Photographie tenuto alla Sorbona nel 1939, puntualizza: «l’impero delle lettere non si limita affatto alle province della poesia e del romanzo. Si estende agli immensi domini della storia e della filosofia, le cui frontiere indecise si disperdono talvolta dal versante dei territori organizzati della scienza e delle foreste della leggenda. É qui, in queste regioni incerte della conoscenza, che l’intervento della fotografia, – e persino, la sola nozione di fotografia, assume un’importanza precisa e notevole, poiché introduce in queste venerabili discipline una nuova condizione, forse una nuova inquietudine, una sorta di reattivo nuovo di cui non si sono senza dubbio, ancora considerati abbastanza gli effetti»273. 269 Tra le varie testate, si distingue il «Berliner Illustrierte Zeitung», fondato nel 1890, il «Münchner Illustrierte Presse», fondato nel 1923, e l’«Arbeiter Illustrierte Zeitung» (il giornale dei lavoratori detto comunemente «AIZ»), fondato nel 1921. Cfr. B. Newhall, cit., p. 356. 270 Un interessante lavoro sulla produzione fotografica di «Life» è: M. Kornely, J. Hirschfeld (a cura di), Moving. Il viaggio e il movimento nelle fotografie di Life, Contrasto, Roma 1999. 271 Cfr. B. Newhall, cit. 272 L’alfabetizzazione della Penisola rappresenterà un passaggio fondamentale per l’emancipazione del nostro Paese. Grazie alla legge Coppino del 1877 verrà estesa l’istruzione obbligatoria a tutto il territorio nazionale, mentre nel 1911, con la legge Daneo-Credaro, lo Stato àvoca alla sua amministrazione l’intero ciclo dell’istruzione primaria. Cfr. L. Criscenti, G. D’Autilia (a cura di), cit., p. 11. 273 P. Valéry, Discorso sulla fotografia, Filema, Napoli 2005, pp. 31-33, il corsivo è dell’autore. Nel volume è riportato integralmente il testo originale del Discours de M. Paul Valéry a la Sorbonne le 7 janvier 1939, Centenarie de la Photographie, typographie de Firmin-Didot, Paris 1939, con traduzione italiana a fronte. 128 Il delicato lavoro di emancipazione dell’immagine fotografica dal testo scritto, o comunque il raggiungimento di un equilibrio tra queste due forme d’espressione viene raggiunto essenzialmente proprio grazie alla produzione giornalistica, e quindi alle riviste, ai quotidiani, ai rotocalchi, media per eccellenza di divulgazione culturale negli anni Trenta del Novecento. L’eco dei modelli stranieri, si pensi a «Berliner Illustrierte» in Germania, a «Vu» in Francia, «Life» negli Stati Uniti, giunge nel nostro Paese molto velocemente, trovando subito una risposta italiana in «Tempo» che esce dal 1939 al 1942274. La rivista vedrà la collaborazioni di diversi fotografi professionisti e non, come Lattuada, Patellani e lo stesso Pagano che si dimostrano da subito in grado di caratterizzare con un forte accento di italianità il giornale. «Il dominio della parola scritta, cadeva»275, per cedere piuttosto il posto ad un nuovo rivoluzionario modo di fare informazione e cultura. «Le immagini superavano quantitativamente i testi, nasceva il ‘fototesto’, un’ampia didascalia scritta dal fotogiornalista stesso guidava il racconto e spesso sostituiva l’articolo»276. D’altronde l’esperienza di «Tempo» non è isolata, già qualche anno prima lo stesso percorso era stato sperimentato dalla rivista «Omnibus» di Leo Longanesi, edita dal 1937 al 1939. L’uso «longanesiano»277 dell’immagine avrà un effetto dirompente per quel carattere ironico e inaspettato ed il «gioco surrealista dell’accostamento di immagini apparentemente incongruenti»278 che diviene un corredo della pagina scritta eppure un elemento essenziale per l’effetto comunicativo della stessa. 274 Cfr. nota 3 del capitolo II. R. Valtorta, cit., p. 201. 276 Ivi. 277 P. Prunas, Quando nacque il fotogiornalismo ‘totale’, in Aa. Vv., Stelle di carta, Oberon, Roma 1984, p. 20. 278 L. Criscenti, G. D’Autilia (a cura di), cit., p. 78. 275 129 Negli anni dell’occupazione tedesca e della guerra civile molti giovani reporters testimoniano l’assurdità degli scontri e delle lotte intestine, quelle stesse incomprensibili battaglie cui Pagano assisterà e alle quali sarà costretto in alcuni casi ad intervenire con animo sempre più dubbioso e che saranno di certo tra i motivi principali della sua adesione alla Resistenza; Porry Pastorel, Mario Rosi, Aldo Moisio, Fedele Toscani – padre di Oliviero – mostrano in tutta la loro crudeltà, l’assurda devastazione perpetrata in quegli anni dalla guerra nel nostro Paese, rompendo i filtri di una censura ottusa279. Intanto nascono le prime agenzie fotografiche: Tullio Farabola e Giovan Battista Colombo a Milano, Carlo Riccardi a Roma280 e ancora la Publifoto di Vincenzo Carrese che rappresenterà forse l’esempio italiano più interessante, proiettato verso le esperienze estere analoghe, con un buon numero di fotografi alle dipendenze e diversi contatti con le agenzie americane più importanti come l’Associated Press281. Siamo effettivamente dinanzi ad una rivoluzione epocale straordinaria dell’immagine, in alcuni casi anche esasperata nelle riviste che assumeranno con il tempo un atteggiamento sempre più cinico nell’uso delle fotografie. La partecipazione di Pagano a questa rivoluzione mediatica si dimostrerà decisamente essenziale e sarà testimoniata dall’esiguo numero di immagini d’archivio che l’architetto deciderà di pubblicare in questi anni, quasi esclusivamente sulle riviste illustrate. 279 «A Firenze le immagini di Giulio Torrini parlano di ponti sull’Arno ridotti a cumuli di sassi. A Torino quelle di Aldo Misio e degli altri fotografi che lavorano a ‘La Stampa’ e a ‘La Gazzetta del Popolo’, mostrano gli effetti delle bombe sugli stabilimenti della Fiat. A Milano Fedele Toscani fotografa le devastazioni dei magazzini della Rinascente o della Galleria Vittorio Emanuele, mentre Bruno Stefani (un fotografo raffinato, che nel ’35 collaborava alle campagne del Touring Club Italiano, e tra i primi a usare fotocamere da 35 mm) mostra la distruzione di Palazzo Brera». L. Criscenti, G. D’Autilia (a cura di), cit., p. 82. 280 Ivi, p. 83 281 Aa. Vv., Flash! The Associated Press covers the world, introduzione di P. Arnett, Abrams, New York 1998. 130 Alcune testate come L’«Europeo» di Benedetti (1945) faranno un uso molto più parsimonioso delle immagini, come anche nel caso del «Mondo» di Pannunzio (1949) e poi dell’«Espresso» dello stesso Benedetti (1955), ma resta il fatto che ormai un certo meccanismo comunicativo era stato innescato. Scriverà Patellani che aveva collaborato con Pagano alla rivista «Tempo» e che continuerà per molti anni ancora, dopo la seconda guerra mondiale, a produrre immagini piene di evasione e speranza, simbolo di quel desiderio profondo di rinascita italiana: «è nata una nuova specie di giornalista inseparabile dalla macchina fotografica, che gli è indispensabile strumento di mestiere. […] La fotografia ha vinto: per la sua impareggiabile comunicatività ed infine perché infrena e inquadra tanta fantasia spesso inutile. Sta qui la ragione del successo dei servizi giornalistici a base di fotografie […]la fotografia cioè costringe a presentare i fatti nella maniera più incisiva, più comunicativa, più giornalistica. E (vuol dire anche) che l’inviato fotografo considera la propria attività non arte, ma mestiere. […] Ciò che conta , nel giornalista ‘nuova formula’, è che egli sappia fare fotografie che documentino il lettore; se vuole, se è capace, faccia poi delle belle fotografie, interpreti ciò che vede. Il campo è aperto, non ci sono strettoie, non ci sono limitazioni»282. Pagano incarna da subito tutto questo, seppur inconsapevolmente, facendo dell’attività di giornalista fotografo un ‘mestiere’: «Io so soltanto che questa caccia di immagini mi entusiasma e che mi procurerà forse un giorno il pane quotidiano, come illustratore fotografico, quando Interlandi e Pensabene, Ojetti e Della Porta avranno partita vinta contro l’architettura moderna»283. 282 F. Patellani, Il giornalista nuova formula, in Aa. Vv., Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, Domus, Milano 1943. Ora in R. Valtorta, cit. pp. 203-204. 283 G. Pagano, Un cacciatore d’immagini, in «Cinema», dicembre 1938. 131 Il percorso tracciato dall’esempio di riviste straordinarie come «Tempo», «Omnibus», il «Mondo», rappresenterà un passaggio fondamentale nell’universo della comunicazione284. Determinanti in questo senso, si dimostreranno anche altre testate gravitanti nell’area della sinistra italiana e dell’antifascismo, parliamo de «Il Politecnico» di Elio Vittoriani (19451947) e de le «Vie Nuove» di Luigi Crocenzi (1949) che rappresenteranno una voce importante di opposizione soprattutto nell’ambito dell’informazione politica, con le quali Pagano non avrà contatti diretti essendo morto nel ‘45, ma che probabilmente avevano ricevuto dall’esperienza fotografica dell’architetto e dalla sua edizione di «Casabella», una lezione di grande valore. Le due riviste dimostreranno un legame speciale con il mondo della cinematografia e utilizzeranno la fotografia nella forma della sequenza narrativa o del montaggio sulla pagina, aprendo la strada in Italia a quel concetto di ‘documentario’, adottato poi dai cineasti e in questo ambito portato alle sue vette più elevate, che non si può escludere avesse trovato nel lavoro di Pagano un precedente validissimo; molti dei reportages dell’architetto vengono infatti costruiti con un’intenzione filmografia. L’istriano, sarà indubbiamente uno dei primi professionisti della fotografia ad avvertire la tensione verso l’affascinante linguaggio del cinematografo. c. La fabbrica dei desideri: il cinema e la cultura filmica degli anni Trenta Un ruolo di assoluto primo piano nella formazione e nella crescita dei giovani intellettuali a cavallo degli anni Trenta del Novecento spetta di 284 Per quanto riguarda la storia dei rotocalchi italiani che diedero ampio spazio alla fotografia Cfr. nota n. 45 di questo capitolo. Si vedano inoltre i due saggi di C. Bertelli, «Omnibus» e Altri rotocalchi in C. Bertelli, G. Bollati, Storia d’Italia – annali 2* – L’immagine fotografica 1845-1945, cit., pp. 186-192. 132 diritto all’incredibile e sfavillante fabbrica di sogni che rappresentò il Cinema. Visione onirica, evasione, fuga da una realtà spesso troppo dura e incomprensibile, lo schermo cinematografico agli inizi del secolo scorso, inghiotte le più avide e giovani menti, che riconoscono, nei mondi paralleli ricostruiti attraverso le macchine da presa una surrealtà possibile seppure improbabile ma desiderata al punto tale che negli anni del boom cinematografico le fila al botteghino segneranno presenze di pubblico da record. Per noi figli della terza generazione della filmografia, quello che di certo rappresentò il cinema allora è difficile da interpretare; utili, onde comprendere la portata di quello storico evento che prese il via dalla prima proiezione dei fratelli Lumiére del 28 dicembre 1895, possono risultare le parole di alcuni dei protagonisti della cultura intellettuale che allora, quella rivoluzione straordinaria, la vissero davvero. Scrive Gesualdo Bufalino: «Per me e suppongo per molti coetanei miei, contò allora più degli Steinbeck e Saroyan vittoriniani, la fantasmagoria che s’accendeva ogni sera su un bianco telone di periferia»285; quello di Bufalino era lo stesso telone bianco dal quale partivano i sogni di Leonardo Sciascia, che dalla remota provincia siciliana dichiarava: «per me, per altri della nostra generazione e della nostra vocazione, il cinema allora era tutto. Tutto»286. Ipnotizzato dalle immagini dei primi proiettori, anche Italo Calvino visse profondamente gli anni dell’avvento cinematografico, descrivendoli così: «Ci sono stati anni in cui andavo al cinema quasi tutti i giorni e magari due volte al giorno, ed erano anni, tra, diciamo, il 1936 e la guerra, l’epoca insomma della mia giovinezza. Anni in cui il cinema è stato per me il 285 G. Bufalino, Cere Perse, Sellerio, Palermo 1985, ora in G.P. Brunetta, Storia del cinema italiano. Il cinema del regime 1929-1945, Editori Riuniti, Roma 2001, p. 300. 286 L. Sciascia, C’era una volta il cinema, in Fatti diversi di storia letteraria e civile, Sellerio, Palermo 1989, p. 123, ora in G. P. Brunetta, cit., p. 308. 133 mondo. Un altro mondo da quello che mi circondava, ma per me solo ciò che vedevo sullo schermo possedeva la proprietà di un mondo, la pienezza, la necessità, la coerenza»287. A queste voci se ne uniscono tante altre, come quella di Umberto Saba, di Pier Paolo Pasolini o di Umberto Eco che scrive: «Noi tutti sappiamo che la nostra immaginazione, forse la nostra stessa cultura può essere stata attivata, nutrita, animata, da un pessimo film»288. Il fil rouge che lega tutte queste affermazioni è quella netta consapevolezza che nel Cinema si riuscisse a raggiungere il Tutto, quel Mondo ‘altro’ dal reale che diveniva però l’unica realtà riconosciuta, la sola desiderata: «lo schermo è uno spazio più reale del reale e tutto ciò che si verifica sullo schermo, o nella sala, coincide con le tappe di scoperta della propria identità e individualità da parte di milioni di persone a cui i film forniscono un humus e una sorta di plancton, o di inesauribile giacimento affettivo e immaginativo»289. A questo giacimento di cultura, immagini, vita, si nutre, tra i tanti, lo spirito avido di Giuseppe Pagano che si lascia stimolare, plasmare ed ‘educare’ – per usare un termine che allora fu tanto caro alla politica del Regime – dall’universo cinematografico. L’architetto istriano parla indirettamente ma per la prima volta del suo interesse nei confronti del mondo della cinepresa nello stesso importante articolo che, oggi, rappresenta la sua eredità fotografica spirituale, ovvero quello comparso sul numero di «Cinema» del 1938. In questa occasione infatti egli dichiara tra le righe, un’altra passione nascente oltre a quella fotografica, rivelando d’essere «già in possesso di un apparecchio da presa a passo ridotto»290 negli anni in cui inizierà il suo peregrinare in giro per 287 I. Calvino, Autobiografia di uno spettatore, in Quattro Film di F. Fellini, Einaudi, Torino 1974, p. II, ora in G. P. Brunetta, cit., p. 307. 288 U. Eco, Il manifesto, 11 agosto 1985, ora in G. P. Brunetta, cit., p. 303. 289 G.P. Brunetta, cit., p. 301. 290 G. Pagano, Un cacciatore d’immagini, cit. 134 l’Italia a raccogliere, con la sua ‘formidabile’ rollei, le immagini per la mostra rurale. La cinepresa di cui dispone il nostro architetto è di piccolo formato; come sempre quindi tecnologicamente all’avanguardia, Pagano utilizzerà per i suoi microfilm una pellicola da 16 mm291, di tipico utilizzo amatoriale ma di buona qualità anche nel caso di necessità di riprese più impegnative e professionali. Un piccolo numero di sequenze filmiche realizzate dall’istriano sono state conservate insieme alle fotografie, nell’archivio giunto fino a noi che testimoniano il suo interesse assolutamente non virtuale e teorico nei confronti del magico mondo della macchina da presa; tanto più che la passione nei confronti della cinematografia è certamente precedente a quella poi manifestata per la macchina fotografica che, come abbiamo visto, viene presa in considerazione da Pagano solo in virtù della necessità concreta di produrre materiale per la Triennale del ‘36. L’architetto infatti, come sempre molto attento all’aspetto documentario del materiale prodotto, si premura anche nel caso dei films di riportare su ciascun contenitore almeno il soggetto della ripresa, nonché in diversi casi anche la data che ci ha permesso di avere un’idea del periodo di utilizzo della macchina da presa da parte dell’istriano, circoscrivibile al quinquennio compreso tra il 1933 ed il 1938. Si tratta in tutto di 2 pellicole Eastman Kodak, Kodascope reel da 16 mm purtroppo senza indicazioni relative ai soggetti ripresi, 7 pellicole Agfa di cui sono riportati i seguenti titoli: Roma, Costruzione – Casa acciaio Triennale 1933, su due scatole è riportato il titolo Sicilia, su un’altra Viaggio in Sicilia, un’altra ancora è senza titolo e infine sull’unica pellicola agfa a colori è riportata la scritta Pompei e Ercolano a colori 1938. Sono 291 Il formato cinematografico da 16 mm viene introdotto nel 1923 dalla Eastman Kodak Company, per essere destinato all’amatore non professionista. In seguito la Kodak proporrà nuovi filmati amatoriali, più economici da 8 mm. 135 poi conservate in archivio 6 pellicole Ciné Kodak Panchromatic safety film 16 mm che riportano i seguenti titoli: Venezia, Venezia – Paola in vaporetto, Piazza Vittorio – la fiera corretto, Città Universitaria – Paola e la tavola Alassio, In gondola – Paola a Venezia 1932, Venezia canali 2°; su questo secondo gruppo di scatole è riportata la data di consegna delle pellicole da parte del tecnico che si era occupato dello sviluppo: si tratta quasi in tutti i casi del 1933, è probabile quindi che le riprese fossero state fatte tutte in questo stesso anno o nel precedente. Dal rimessaggio delle pellicole sul comodo supporto in Dvd, è stato possibile ammirare alcuni di questi momenti di vita privata fermati dalla camera dell’architetto; nelle sequenze si vede l’istriano in giro per Torino – si riconosce lungo il percorso l’edificio Gualino – con la moglie Paola e la prima figlia ancora piccola, le vacanze estive trascorse ad Alassio, i viaggi in Sicilia, con un reportage particolarmente interessante nella città di Monreale, i giorni trascorsi a Venezia cui sono dedicati molti metri di pellicola, davvero interessanti inoltre le riprese agli scavi di Pompei e di Ercolano, nella fiera di Piazza Vittorio a Roma e nel cantiere della casa d’acciaio per la Triennale del ‘33. Un limitato numero di passaggi filmici riprendono un viaggio compiuto su di una nave per quel che si riesce a ricostruire, in partenza da Genova, in cui l’occhio scrutatore di questo improvvisato regista si ferma su alcune scene di un realismo affascinante, come quella del pingue capitano che saluta, nel momento della partenza, i colleghi delle navi vicine, o dei passeggeri che chiacchierano, che soffrono il mal di mare durante il tragitto, i mozzi alle prese con le manovre di viaggio, il mare in burrasca, un prete che dorme sul pontile della nave. Scene dal sapore squisitamente realista che rendono lo spessore di una passione che sondava spesso i sentieri del professionismo. 136 Oggi, queste riprese, oltre a rappresentare una fonte documentaria preziosa, come nel caso dei viaggi in Sicilia e Campania, possono essere considerate indubbiamente un materiale eccellente di studio delle tecniche di ripresa, seppur amatoriali, comunque di ottimo livello professionale. L’ascendente che, su Pagano ebbe l’universo cinematografico, si dimostrerà notevole e sfaccettato; de Seta, tra i critici, sarà uno dei primi ad evidenziarne la portata. Lo storico napoletano sottolinea infatti l’influenza suscitata sull’avida mente dell’istriano dalla cultura filmografico tedesca e soprattutto francese; Clair, Pabst, Dreyer ma in primo luogo Renoir292, saranno i registi che più di altri cattureranno l’attenzione del Nostro293. La materia cinematografica rappresenterà per Pagano una ulteriore forma di ‘sfogo’ per la sua insaziabile ingordigia culturale; non solo appassionato amateur della pellicola ma anche spregiudicato sperimentatore, l’architetto aderisce ad alcuni cineclub294 – come verranno chiamati in quegli anni i gruppi cinefili – cui faranno parte diversi nomi illustri del mondo intellettuale contemporaneo come Peressutti e Banfi, tra gli architetti, ma anche Comencini – di cui Pagano diverrà notoriamente grande amico –, Lattuada, Pasinetti che influiranno profondamente sul giovane protagonista della cultura architettonica del XX secolo, ‘corrompendo’ indelebilmente la sua anima di fotografo, critico e ovviamente di architetto. Non può essere sottovalutato inoltre il fatto che Pagano in quegli anni gravitasse in un mondo pregno di stimoli provenienti in gran parte anche 292 «Nel cinema la maggior passione di Pagano restava Renoir. E questo non sorprende affatto: nel realismo di Toni del 1935 – un titolo che si potrebbe trovare nel suo schedario fotografico – tutto si amalgama al filtro di una fotografia lucida e scarna in cui personaggi, ambiente e paesaggio fanno unico corpo nella lenta sequenza delle scene. Sono congeniali al gusto fotografico di Pagano lo spiccato interesse di Renoir per il mondo popolare, per le cose semplici, così bene evidenziate nei suoi primi film che hanno fatto parlare di una elegiaca ‘vena’ populista». C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit., p. 7. 293 Il filone è quello del cinema realista internazionale che, dalle prime esperienze del cinema muto di registi come Pabst, René Clair, Dupont, King Vidor, giunge appunto alla scuola francese di Jean Renoir. Cfr. E. Taramelli, cit., p. 19. 294 Dell’adesione di Pagano a questi cineclub ce ne parla de Seta. Cfr. C. de Seta (cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit., p. 7. 137 dall’universo sfavillante della macchina dello spettacolo; il Palazzo degli uffici per l’industriale Gualino viene costruito su progetto di Pagano e Levi-Montalcini tra il 1928 ed il 1930, di lì a poco, intorno al 1934, ad opera di quello stesso Riccardo Gualino sarebbe nata, sempre a Torino, la Compagnia Italiana cinematografica Lux «a cui spetterà il merito di puntare nel decennio successivo ad una produzione di alto profilo culturale e stilistico»295. Attorno alla Lux si riuniranno autori, sceneggiatori, registi come Alessandrini, Soldati, Castellani, Lattuada, Blasetti, Bragaglia, Bonnard e tanti altri, «grazie ai quali il cinema italiano potrà alzare il tiro delle sue ambizioni e puntare a sostituire i prodotti americani scomparsi dal mercato»296. Pagano quindi risulta totalmente immerso in quel mondo stimolante e accattivante che avrà un effetto sulla sua carriera evidentissimo. D’altronde l’occhio del regista, Pagano lo aveva già rivelato in alcuni reportage fotografici che, se montati in sequenza, non avrebbero fatto altro che restituire tante diverse microstorie, probabilmente qualcosa di molto simile a quello che oggi, con un termine tanto in voga, chiameremmo un ‘corto’: basti pensare all’episodio raccontato dalle fotografie nel mercato milanese di Sinigallia297, o quello ricostruito dagli scatti realizzati tra le stanze della casa del pittore Felice Casorati, nel Covo di Mussolini, o magari il ‘cortometraggio’ realizzato per le strade di Firenze durante la celebrazione dell’antica festa del calcio in costume. Pagano in realtà, dall’esperienza cinematografica carpisce un certo modo di guardare il mondo nonché alcuni concreti temi e spunti decisamente 295 G.P. Brunetta, cit., p.10. Dal 1938 infatti, per volere della dittatura fascista che tentava in tutti i modi di frenare, com’è noto, il riflusso ‘pericoloso’ della cultura d’oltreoceano, viene sistematicamente proibita l’importazione di pellicole soprattutto di provenienza statunitense. Cfr. G.P. Brunetta, cit. 297 Riguardo al reportage realizzato da Pagano in questo mercato della periferia milanese, si ritiene interessante sottolineare che, probabilmente in contemporanea all’architetto istriano, anche Lattuada faceva cadere il suo ‘occhio quadrato’ sulle stesse scene dal sapore neorealista, sugli stessi volti dei popolani, sulle stesse ‘cianfrusaglie’ sparpagliate sui teli sdruciti. 296 138 interessanti di riflessione, che verranno poi rielaborati nella sua mente ai fini di una rilettura degli stessi in ambito di ricerche di ben altra natura, certo anche più affini alla sua formazione professionale d’architetto. Il tema rurale, ad esempio, introdotto dalla cultura fascista anche in filmografia, viene probabilmente sviluppato da Pagano proprio in virtù delle suggestioni dovute alla visione dei film dei primi anni ’30 come quelli di Blasetti, Soldati, Camerini che scriveranno alcune delle pagine più ‘umbratili e malinconiche’ – per dirla con de Seta – del Cinema del Novecento. Un ruolo importantissimo per lo sviluppo del media cinematografico è assunto in quegli anni dalla cultura fascista che, come è stato più volte sottolineato, si servì avidamente di tutti i mezzi di comunicazione ai fini della propaganda politica. Eppure, proprio con il cinema il rapporto si dimostrerà sempre particolarmente conflittuale, essendo costantemente vigile, in seno a questo nuovo strumento di comunicazione e d’espressione artistica, il germe insidioso della contestazione politica, che nei giovani gruppi dei Guf e delle riviste specializzate298 troverà i rappresentanti più motivati. Ma come argutamente sottolinea lo storico cinematografico Brunetta, il Regime non si dimostrerà mai sprovveduto nei confronti di tali ‘fronde’ antifasciste ‘della carta e della celluloide’, tutt’altro, sarà al contrario sempre estremamente e meditatamente tollerante, tanto che anche sotto dittatura, lo spettacolo avrà sempre, in Italia, libera cittadinanza. Questo principalmente perché Mussolini identifica con il mondo frivolo e leggero del teatro, del cinema, dell’avanspettacolo, un’opportuna valvola di sfogo e una tollerabile forma di ‘distrazione’ per la popolazione avvinta e 298 Tra il 1934 ed il 1935 e ancor di più negli anni successivi, in Italia sarà un continuo fiorire di riviste di critica e cultura cinematografica. Nel novero delle più famose e interessanti si ricordano «Intercine», «Cine-Radio», «Cinema» che raggiungerà livelli notevolissimi sotto la direzione di Vittorio Mussolini, e ancora ricordiamo «Bianco e Nero», «Lo Schermo», «Film» – di marca spiccatamente fascista. Un interessante e accurato punto sulla situazione delle riviste specializzate di cinema sorte tra il ’34 ed il ’38, viene sviluppato da Gian Piero Brunetta in cit., pp. 213-230. 139 vessata dalle imposizioni fasciste. In fondo lo spettacolo viene utilizzato per fini politici un po’ come tante altre forme di svago collettivo proposte o meglio imposte dal regime per il tempo libero dei cittadini; le stesse attività ginniche venivano ‘consigliate’ vivamente dalla dittatura, tanto che in questi anni sorgeranno numerose le colonie balilla anche per i giovanissimi, documentate spesso negli scatti di Pagano. Scrive Giuseppe Bottai, ministro dell’educazione, nel 1931: «Io vado raramente al cinema, ma ho sempre constatato che il pubblico invariabilmente si annoia quando il cinematografo lo vuole educare. Il pubblico vuole essere divertito ed è precisamente su questo terreno che noi oggi vogliamo aiutare l’industria italiana»299. Sebbene Bottai puntualizzi la non necessità di un intento educativo del cinema, in realtà quello stesso pubblico verrà comunque inconsapevolmente e silenziosamente educato a non pensare, a non riflettere sulla realtà contingente. Gioco calcolato quindi, e astuta manovra politica questa, che ‘usa’ anche il Cinema come strumento di propaganda e quiete pubblica. A questo si aggiunga che «Il regime vuole attribuire al cinema una funzione separata, non di strumento diretto di trasmissione dei suoi modelli. […] Mentre la radio, la stampa, i cinegiornali agiscono come strumenti diretti di trasmissione delle regole che il fascismo introduce nella vita sociale, il cinema risulta essere un mediatore parziale e al tempo stesso un terreno privilegiato attraverso cui tentare ad esempio di ricucire le fratture generazionali e di classe dimostrando sempre più la continuità storica rispetto al passato».300 Il duce si dimostrerà d’altronde sempre convinto 299 G. Bottai, Dichiarazione a favore della legge, in «Lo spettacolo italiano», a. II, n. 7, luglio-agosto 1931, ora in G.P. Brunetta, cit., p. 37. 300 G. P. Brunetta, cit., p. 124. 140 della possibilità di capovolgere a proprio favore anche le dichiarazioni e le attività degli intellettuali sostenitori dell’antifascismo più intransigente301. Tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento, in effetti, non si registra un vero e proprio ‘cinema fascista’, piuttosto si può parlare della nascita di una serie di tipologie filmiche che si identificheranno con le ideologie della destra più estrema. «Il primo volto del fascismo che il cinema trasmette, assumendolo immediatamente come modello della rinascita, è quello dell’ideologia ruralista»302: ancora una volta il tema dell’universo rurale sale alla ribalta richiamando su di sé l’attenzione dei cineasti dopo quello degli scrittori, dei poeti, ma prima di quello degli architetti. Numerosi saranno i film che si iscriveranno in questo stesso filone come Sole (1929) e Terra madre (1931) di Blasetti, nei quali verrà trattato diffusamente il tema del culto del mondo contadino e dei problemi ad esso connessi. Interessante notare come le date di questi film precedano di poco la pubblicazione del volume sull’architettura rurale di Pagano: è ovvio che il lavoro dell’istriano si inserisca nell’ambito di una tematica comune che ovviamente sul grande schermo raggiungerà un canale di mediazione con il pubblico di certo più rapido e diretto. La cultura diffusa in titoli come Toni di Renoir o Quattro passi tra le nuvole di Alessandro Blasetti, oppure attraverso testate come il «Selvaggio», organo ufficiale della corrente ‘Strapaese’303, favoriscono un ulteriore sviluppo di queste tematiche legate 301 Cfr. Ivi. Ivi, p. 125. 303 «Il “Selvaggio”, periodico fondato e diretto da Mino Maccari con la collaborazione di Leo Longanesi, sosteneva le posizioni più retrive e astiose della cultura italiana in nome delle tradizioni, individuate nell’ambiente e nelle convenzioni rurali, che coincidevano di fatto con gli aspetti più conservatori, aggressivi e volgari dell’elemento agrario del fascismo di provincia. […] La corrente Strapaese si trovò spesso a fiancheggiare, pur senza un fine comune, la posizione ufficiale del monumentalismo accademico fascista, anche se in realtà era una forma vaga e marginale di fronda antifascista». L. Patetta, L’architettura in Italia …, cit., p. 42. 302 141 al mondo mitologico dei ‘vinti’ che già così grande successo aveva riscosso nell’ambito elitario dell’universo letterario304. In quegli stessi anni Mussolini operava sul territorio italiano il suo lavoro puntuale di bonifica delle zone paludose e la costruzione dei nuovi quartieri, motivo ulteriore – o forse l’unico vero motivo – per il quale gli starà di certo profondamente a cuore, magnificare l’immagine del contesto rurale anche attraverso il canale mediatico del cinema. Ma questa fabbrica dei desideri rappresenterà per Pagano anche un mondo cui attingere per la costruzione di una cultura moderna dell’iconografia del paesaggio costruito e non. Sono proprio i cineasti infatti – e questo Pagano lo capirà anzitempo – i primi a sottolineare l’importanza del contesto nella costruzione di ‘una’ storia. Le prime riprese di contesti urbani e rurali che vengono realizzate ad esempio da Blasetti in Sole (1929) e Terra madre (1931), oppure in Resurrectio che esce nelle sale ancora prima, segneranno indelebilmente le giovani menti degli artisti contemporanei. Pagano ne resterà indubbiamente colpito, tanto che, nel suo archivio fotografico, riconosciamo di continuo quegli stessi paesaggi raccontati dai più sensibili cineasti coevi: fotografando la tanto amata Milano, Pagano avrà di certo tenuto presente la prima inquadratura de Gli uomini che mascalzoni di Mario Camerini che cattura l’icona imponente del Duomo dall’interno di un negozio nel momento in cui viene alzata la saracinesca nelle prime ore del mattino305. Dimostrazione del fatto che Pagano ‘scopra’ nel mondo cinematografico un potenziale, importante punto d’incontro con l’architettura, come sottolinea 304 «La realtà rurale appare come il luogo geometrico nei confronti del quale le bussole ideologiche sembrano smagnetizzarsi e consentire un movimento centripeto di rappresentanti di movimenti d’avanguardia post-futurista, ex anarchici, comunisti travestiti, fascisti di sinistra». G.P. Brunetta, cit., p. 127. 305 Scrive F. Sacchi nella sua recensione al film di Camerini: «É la prima volta che vediamo Milano sullo schermo; ebbene, chi poteva supporre che fosse tanto fotogenica». F. Sacchi, Gli uomini che mascalzoni, in «Corriere della Sera», 12 agosto 1932. Ora in G.P. Brunetta, cit., p. 241. 142 la Di Castro, è la pubblicazione di un articolo su «Casabella» nel febbraio del 1933, nel quale Pagano suggerisce alla Cines, una delle più importanti case produttrici di quegli anni, «di raccogliere in archivio gli ambienti moderni costruiti per il cinema così da poter offrire un collage della fantasia contemporanea, mettendo in evidenza ‘le qualità migliori dei nostri costruttori di effimeri ambienti moderni, paradisiaco documentario di una modernità di domani’»306; l’architetto in effetti, continua la Di Castro, suggerisce una vera e propria «raccolta per soggetti – che poi sarà la stessa organizzata nel suo archivio fotografico – una sorta di dizionario dell’effimero che solo nella fotografia abbia il suo termine di confronto»307. Ma soprattutto, osservando tali ambienti, Pagano «intuisce come attraverso la ripresa cinematografica gli ambienti assumano una diversa definizione che ne modifica la struttura spazio-temporale e arricchisce la nostra nozione di architettura»308. La spazialità colta in movimento infatti, apre nuovi orizzonti visuali che Pagano cerca già di definire e ‘scoprire’ in fotografia ma che, catturati nel loro divenire attraverso la cinepresa, rivelano matrici nuove e inediti indirizzi potenziali di ricerca ancora tutti da sondare soprattutto in ambito architettonico. Non v’è dubbio che le stesse suggestioni avvertite da Pagano e che di certo avevano avuto un peso di tutto rilievo sulla sua formazione professionale, incideranno anche sulla crescita di tanti altri architetti contemporanei aperti come lui ad accogliere la rivoluzione introdotta, nel modo di osservare il mondo, dalla cinematografia. Questo fenomeno, ovviamente, si accrescerà con la fine della seconda guerra mondiale, durante gli anni faticosi della rinascita italiana, durante i quali, spentasi la voce dell’architetto istriano, 306 F. Di Castro, Fotografia e tipografia: immagini di «Casabella», in C. de Seta (a cura di), cit. p. 24. La citazione virgolettata inserita dalla Di Castro nel discorso è di Giuseppe Pagano, introduzione all’articolo di Eugenio Giovannetti, Architettura cinematografica: G. Capponi per ‘la voce lontana’, in «Casabella», n. 2, febbraio 1933. 307 F. Di Castro, cit. pp. 24-26. 308 Ivi. 143 molti altri protagonisti della cultura architettonica e non, raccoglieranno tra le altre la grande eredità da lui lasciata, il cui spessore alla luce di tutte le considerazioni fatte, si dimostra davvero straordinario. A Giuseppe Pagano si deve infatti a questo punto riconoscere un ruolo preciso svolto nell’ambito della definizione di un nuovo modo di indagare il mondo ed il reale che preluderà di certo la stagione neorealista italiana. Molti film del primo dopoguerra, in termini di lavoro sulle immagini filtrato dall’influenza della ricerca d’avanguardia, dovrebbero probabilmente riconoscere l’esistenza di un debito nei confronti delle indagini sviluppate all’interno di quei gruppi di intellettuali appassionati di cinema e fotografia cui faceva parte l’architetto istriano – come non riconoscere, nella ripresa della scala interna del palazzo in cui abita l’eroina interpretata da Anna Magnani in Roma città aperta, la suggestione delle immagini di scale fotografate da Feninger o da Moholy-Nagy. Le riprese romane di Rossellini in Roma città aperta (1945), e Paisà (1946) ma anche de Il sole sorge ancora di Aldo Vergano (1946), o gli scorci catturati da Vittorio De Sica in Ladri di biciclette (1948) e Sciuscià (1946), rappresentano ormai quel passaggio decisivo proiettato finalmente verso una nuova espressione cinematografica che aprirà l’importante pagina del neorealismo italiano, terreno fertilissimo di indagine visuale anche e soprattutto per gli architetti309. Questi film, che possono essere considerati i corrispondenti italiani dei ‘documentari’ americani, riescono a dare della condizione italiana pre e post bellica un’immagine chiara e di sconcertante, drammatica bellezza. Ma su questi stessi prodotti cinematografici non si può sottovalutare l’incidenza del lavoro fotografico di molti artisti d’avanguardia e tra questi quello di Pagano che di certo in linea con il nascituro cinema neorealista 309 Cfr. G.P. Brunetta, cit.; Aa. Vv., I favolosi anni Trenta. Cinema italiano 1929-1944, Electa, Milano 1979. 144 punterà l’obiettivo su alcuni aspetti indubbiamente sconcertanti della realtà italiana di quegli anni. L’architetto, fissando attraverso gli scatti della sua rollei, alcune scene come quelle realizzate tra le strade di Corfù, darà letteralmente vita a personaggi di caratura e spessore sociale notevole, che in fondo non rappresenteranno altro che il preludio alla costruzione di alcuni protagonisti mitici del cinema neorealista italiano310. Federica Di Castro riconosce opportunamente nel profilo spossato del personaggio ritratto davanti alla sua casa distrutta dalla guerra a Corfù, la sagoma di quegli stessi eroi della Resistenza che prenderanno vita nei fotogrammi de i Ladri di biciclette, Ossessione, La terra trema311. Così come ritengo risulti facile associare alle esili figure di donna tracciate nelle fotografie di Pagano intitolate Varietà, le stesse attricette riprese da Rossellini in Roma, città aperta, eroine disperate di una società ai margini. Pagano quindi è stato, alla luce degli studi e delle ricerche portate avanti soprattutto nell’ambito del suo archivio iconografico privato, uno straordinario fotografo nonché un sensibile ed attento appassionato di cinema, oltre che un critico, un giornalista, un architetto; lo studio di un patrimonio tanto prezioso come quello conservato nel suo archivio, è servito quindi essenzialmente per aggiungere un tassello in più alla ricostruzione del mosaico di questa poliedrica, eccezionale figura. Da questo puntuale resoconto sulla produzione artistica di Pagano viene fuori il ritratto di un uomo per il quale pare non ci sia stato spunto o stimolo culturale e artistico che non valesse la pena di cogliere e sviluppare. 310 Il cinema neorealista trae le proprie origini proprio dalla cinematografia e dalla cultura in Italia tra le due guerre: «A parte il fatto, di non secondaria importanza, che i quadri che hanno fatto il neorealismo si sono formati praticamente tutti in ambito fascista, che l’industria del cinema a parte i danni di guerra è rimasta quella costruita da Luigi Freddi e dalla direzione generale della cinematografia a partire dal 1934 e che il neorealismo è largamente debitore del professionismo che si è sviluppato in queste strutture industriali, va rilevato che alcuni dei temi attorno ai quali si sviluppò la poetica del neorealismo erano stati anticipati negli anni ‘30». A. Aprà, P. Pistagnesi, Il cinema italiano, questo sconosciuto, in Aa. Vv., I favolosi anni Trenta…, cit., p. 31. 311 F. Di Castro, Il Fascismo e la guerra, in C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, cit., p. 121. 145 L’istriano si è raccontato nei suoi scatti, nei film ripresi, nelle parole dei suoi articoli, negli edifici che ancora conservano la memoria del suo ingegno eppure, questa complessa personalità ad oggi, sembra ancora sfuggirci. Probabilmente l’unica cosa sensata che si possa fare per cercare di sentirsi in pace con la memoria di un protagonista di tale spessore della cultura del XX secolo, è cercare esclusivamente di trarre dal multiforme materiale lasciatoci in eredità, il giusto insegnamento, considerare cioè la vita e le opere di Giuseppe Pagano un pozzo di conoscenza e un riferimento preziosissimo cui attingere, tanto più oggi, che il suo insegnamento si dimostra così straordinariamente moderno. 146 IV. L’eredità spirituale di un protagonista della cultura architettonica moderna a. La ‘scuola’ di Pagano In relazione al patrimonio fotografico di Giuseppe Pagano si è utilizzata spesso la parola ‘eredità’. Effettivamente tutta la ricerca condotta in questo ambito, è stata in primo luogo volta all’analisi puntuale di una parte dell’eredità, quella fotografica, lasciataci da questo istrionico protagonista a tutto tondo della cultura architettonica e intellettuale del XX secolo. In definitiva si può affermare che, visti gli interessi molteplici ed eterogenei dell’istriano, davvero pochi siano stati i campi dell’arte e della cultura, con i quali egli non si sia misurato e confrontato. Il ruolo che Giuseppe Pagano ha assunto a cavallo delle due guerre come animatore dei dibattiti più importanti in campo artistico ed architettonico, ridiscusso oggi, rivela senza dubbio un apporto di straordinaria attualità. In questo concordiamo con il Melograni quando afferma, e con lui de Seta312, che la polemica e le controversie sollevate da Pagano si dimostrino ancora oggi attualissime. Lo stesso Melograni è stato tra i primi a parlare di Pagano come di un ‘maestro’ per tutta la generazione dei giovani architetti degli anni Trenta: «un maestro, nel senso letterale della parola, perché la sua azione contrapposta all’educazione accademica ha avuto un peso determinante nella formazione di moltissimi di noi, e soprattutto di coloro che oggi sono fra i trenta e quarant’anni»313. Sarà poi Rogers a specificare i termini dell’aspetto didattico da lui assunto affermando che: «Maestro, nel 312 313 Cfr. C. de Seta, La cultura architettonica in Italia tra le due guerre, Electa Napoli, 1998, pp. 180-188. C. Melograni, Giuseppe Pagano, Il Balcone, Milano 1955, p. 9. 147 senso profondo, forse non fu, perché il suo fare spadaccino e polemico, il suo fare politico metteva lui e gli altri, gelosi della propria intimità, una lieve diffidenza che, pur non impedendo che lo seguissero (o a lui si accompagnassero) nel grande assalto contro i nemici dell’arte, era d’impaccio, invece, a più pacati colloqui, quale si addicono tra maestro e discepoli»314. In questo modo l’architetto toccava uno dei punti salienti della questione, e cioè che in fondo Pagano fosse rimasto, negli anni delle sue battaglie, eccessivamente coinvolto nella sua stessa polemica, dibattuta in un ambito esclusivamente architettonico laddove quest’ultima andava piuttosto spostata su un altro terreno, quello politico. Di certo l’aspetto pedagogico delle intenzioni di Pagano, rappresenta una delle caratteristiche peculiari del suo lavoro. Volendo trovare un carattere costante nel contributo educativo da lui assunto nei confronti del mondo intellettuale e architettonico e della società in senso più ampio, allora vale la pena puntualizzare che l’architetto dimostrò sempre di qualificare la sua produzione e il suo messaggio come momento di crescita collettiva. Scrive Argan: «Tutto il suo sforzo verso lo ‘standard’ si fondava su di un solo principio: pensare la forma come pensata dalla collettività, divenuta consueta e abituale, come levigata da un uso continuo. Nel suo frequente riferirsi all’ordine geometrico di certe culture agricole, che poi poneva ad insegna delle più meditate proposte urbanistiche, o alle forme semplici dei nuraghi e dei trulli, si cercherebbe inutilmente un qualsiasi affetto naturalistico, un tardivo primitivismo o ‘fovismo’ architettonico. Quelle forme non erano, per lui, iniziali o primarie: erano il prodotto di una selezione secolare, la somma dell’esperienza d’innumerevoli generazioni. 314 E. N. Rogers, Catarsi, in F. Albini, G. Palanti, A. Castelli (a cura di), Giuseppe Pagano Pogatschnig : architetture e scritti, Milano, 1947, p. 40. 148 Ritrovava nel tempo, nei sedimenti successivi delle culture, il senso della collettività»315. Questo ideale collettivo, che non sarà mai sterile utopia, ma precisa intenzione e volontà, troverà la sua manifestazione più concreta proprio nel lavoro educativo, rivolto anzi proteso verso le nuove generazioni che lui sperava, potessero davvero riprendere in mano le sorti dell’architettura. In realtà, collegandoci alle parole di Melograni e di Rogers, quando si parla di una ‘scuola’ di Pagano, si intende un’attività mai ufficiale. Sappiamo che l’istriano insegnerà alla scuola di Mistica Fascista316, ma al di là di questa esperienza non ve ne sarà altra in ambito accademico; anzi sarà proprio contro l’Accademia che egli spingerà la sua polemica più veemente. Di certo un punto di riferimento culturale elevatissimo lo è stato e lo è tutt’ora, se si considera il lavoro di erudizione, indirizzato principalmente ad una ‘classe’ di professionisti, svolto negli anni di attività critica attraverso le pagine di «Casabella», la vera cattedra dalla quale Pagano insegnerà per anni. Scrive Enea Manfredini: «Lo ricordo amico dei giovani, io ero allora giovane; li scovava ancora nelle scuole e con grande generosità li valorizzava. Basta sfogliare le Casabella di quegli anni per constatarlo317. Animatore: un contatto personale con Pagano o un contatto epistolare significava un programma di lavoro»318. Anche il modo rivoluzionario con il quale, insieme e soprattutto grazie a Persico, deciderà di trasformare la rivista, conferendole quella veste che 315 G.C. Argan, Valore di una polemica, in F. Albini, G. Palanti, A. Castelli (a cura di), Giuseppe Pagano Pogatschnig …, cit., pp. 28-29. 316 Nel 1937, Pagano entra a far parte dell’organico della Scuola di Mistica Fascista. 317 Interessanti a riguardo due articoli di Pagano: Anche i giovani possono insegnare (uscito su «Casabella-Costruzioni», n. 131, novembre 1938) e Un giovane progetta una borgata rurale a struttura d’acciaio («Casabella-Costruzioni», n. 132, dicembre 1938), nei quali l’istriano proponeva i progetti di due giovanissimi studenti ponendoli quasi alla stregua di altri professionisti le cui opere occupavano le pagine del suo giornale. 318 E. Manfredini, Pagano dei giovani, in Giuseppe Pagano fascista, antifascista, martire numero monografico di «Parametro», n. 35, aprile 1975, p. 62. 149 sotto alcuni punti di vista ancora oggi conserva, è stato straordinario319. Il nuovo modo di utilizzare il mezzo giornalistico negli anni della direzione di Pagano e Persico, e dopo la morte di quest’ultimo nel 1936, ha rappresentato un modello indubbiamente insuperato320. É stato grazie a questa ‘illuminata’ direzione se la redazione milanese è diventata in pochi anni il punto di riferimento italiano del gotha culturale internazionale. Grazie al direttore e al redattore capo, «Casabella» assumerà infatti negli anni Trenta, il ruolo di organo attraverso il quale verranno filtrate in Italia le esperienze più interessanti del dibattito europeo e nel contempo, gli architetti italiani verranno inseriti in quest’ultimo321. Tra Pagano e Persico ci sarà sempre profonda intesa rispetto all’indirizzo da dare alla rivista322 seppure l’apertura del critico napoletano nei confronti dell’avventura europea si sia dimostrata più libera e lontana da forme di prevenzione rispetto alla posizione di Pagano, vincolato da un rigore razionalista e funzionalista che in qualche modo gli farà avere un atteggiamento più conflittuale, ma nello stesso tempo un interesse costante, nei confronti delle esperienze d’oltralpe323. Resta comunque il fatto che Pagano, dopo la morte del suo miglior redattore continuerà la politica 319 Cfr. Edoardo Persico e Giuseppe Pagano a «Casabella», in C. de Seta, Il destino dell’architettura: Persico, Giolli, Pagano, Laterza, Roma-Bari, 1985, pp. 51-59. 320 «Gli anni che vanno dal ’33 alla morte di Persico sono tra gli anni più belli della rivista per la scelta e la ricchezza della documentazione, per l’apertura versi tutti gli aspetti delle arti: da quelle più propriamente intese, alla tipografia, arredamento, pubblicità, cinema, fotografia. Ma sono anche gli anni più creativi della rivista». Edoardo Persico e Giuseppe Pagano a «Casabella», cit. 321 La rivista milanese prende il via intorno al 1927 sotto la direzione di Guido Marangoni con il titolo approssimativo di «Rivista per gli amatori de La Casa Bella». Il 1929 segna l’inizio di un’attività più interessante con i primi contributi saltuari di Sartoris, Gino Levi Montalcini e Giuseppe Pagano che intervengono però con articoli di arredamento e design. Nel 1930 si registra la prima collaborazione anonima di Edoardo Persico ma sarà con il passaggio direttivo nelle mani di Arrigo Bonfiglioli che Persico e Pagano diventeranno collaboratori fissi, «se non veri e propri redattori». Nel 1932 con un articolo di Pagano in cui vengono tracciate le linee del programma della nuova direzione, la rivista passa nelle mani di Persico nella figura di redattore unico e Pagano come direttore di «Casabella». Cfr. C. de Seta, Il destino dell’architettura …, cit. 322 Il rapporto umano tra i due protagonisti del dibattito architettonico tra le due guerre si dimostrò invece piuttosto complesso e a tratti conflittuale, principalmente a causa dei pareri discordi in campo politico, seppure profonda e costante sia stata la stima reciproca tra i due. Cfr. Ivi. 323 Cesare de Seta racconta l’aneddoto secondo il quale Pagano risponderà con profonda reticenza all’invito del Raggianti di scrivere una monografia di Wright: «il maestro americano certamente risultava ai suoi occhi scarsamente a fuoco. La sua scelta era marcatamente ‘funzionalista’». Ivi, p. 54. 150 d’apertura di «Casabella» verso l’Europa, anche grazie ad una collaboratrice straordinaria come Anna Maria Mazzucchelli324. Di certo l’utilizzo rivoluzionario della fotografia intesa non più come strumento ausiliario ma, al contrario, come parte integrante e imprescindibile della composizione di articoli e saggi, ha rappresentato una novità e un modello di riferimento assoluto, anche e soprattutto in ambito editoriale. Scrive de Seta: «le foto di Pagano furono indubbiamente il primo tentativo meditato di usare il mezzo tecnico con un’intenzionalità interpretativa ed esse hanno certamente profondamente influenzato il nuovo modo di vedere l’architettura di tutta la generazione di professionisti cresciuti sfogliando «Casabella»»325. Il riflesso di questo insegnamento si riverbererà non solo sull’attività di questa ma di tante altre riviste contemporanee. Testate come «Omnibus» di Leo Longanesi, «Domus», con Giò Ponti, «Metron» di Bruno Zevi terranno certamente in gran conto l’esempio di «Casabella»; la nuova impaginazione a formato pieno, l’utilizzo di «illustrazioni più documentate» e di «descrizioni tecniche più diffuse»326, ma anche l’impiego stesso del reportage come strumento narrativo, faranno di questa una rivista all’avanguardia e molto più in linea con gli esempi internazionali che con quelli italiani327. Abbiamo visto che Pagano propone ben poche delle sue fotografie sui numeri della rassegna milanese invero, saranno diversi negli anni i fotografi invitati a interpretare gli articoli con le loro illustrazioni. Mario 324 «Elemento di unione tra la prima e la seconda «Casabella» (quella di Persico e Pagano e successivamente del solo Pagano) è senza alcun dubbio Anna Maria Mazzucchelli. […] Il ruolo di questa giovane redattrice credo vada riesaminato, […] per il ruolo complessivo che essa giocò in quel difficile dialogo tra Pagano e Persico. Dopo la morte di questo, ella seppe svolgere un ruolo vigile ed attento che esercitò soprattutto nei confronti di Pagano». Ivi, p. 58. 325 C. de Seta, La cultura architettonica…, cit., p. 182. 326 G. Pagano, Programma, 1933, «Casabella», n. 60, dicembre 1932. In questo articolo Pagano descrive per grandi linee il programma che avrebbe avuto la rivista. 327 Cfr. Paragrafo ‘b’ e ‘c’ del capitolo III di questo volume. 151 Crimella in primo luogo, firmerà numerosi interventi fotografici della rivista, ma anche il gruppo Ferrini comparirà di fianco ad alcune fotografie; di certo si deve sottolineare l’aspetto rivoluzionario consistente nel fatto stesso di riportare il nome del fotografo allegato al servizio, cosa decisamente inconsueta per le abitudini editoriali dell’epoca: l’intenzione era quella di conferire la giusta dignità al professionismo di mestiere. Sarà proprio per volontà di Pagano, estimatore della fotografia internazionale e assiduo lettore di «Architectural Review»328, che rappresenterà per lui un modello di riferimento costante, che verranno inserite su «Casabella» fotografie di Moholy-Nagy, come quella della casa a Chelsea degli architetti Gropius e Frey329, o di Man Ray, di cui compare l’immagine dell’ospedale a Ismaïlia330. Sempre grazie a Pagano, collaborerà con la rivista Luigi Veronesi331, illustrando per anni la rubrica tenuta da Alfonso Gatto. La rivista di Persico e Pagano avrà indubbiamente un effetto deflagrante sulla formazione delle giovani leve dell’architettura che, filtrando l’esempio suggerito, assorbiranno indubbiamente un nuovo modo di guardare la città e registrarne la realtà, ma soprattutto una maniera inedita di partecipare vivamente al dibattito architettonico europeo. L’apertura di Pagano verso nuovi metodi d’analisi, tra cui indubbiamente anche quello fotografico, rappresentano un preziosissimo insegnamento per i giovani che si affacciano alla professione. Guardando il corpus del materiale fotografico, raccolto negli anni dall’architetto, è possibile individuare tutti gli insegnamenti che Pagano riesce ad impartire attraverso le pagine di «Casabella». 328 Nel numero 122 di «Casabella», febbraio 1928, in copertina è riportata una foto estratta dalla rivista «Architectural Review», si tratta dell’incrocio della 49a strada a New York. 329 La fotografia è riportata nell’articolo dedicato da Pagano ad Edoardo Persico, nel n. 109 di «Casabella» del gennaio 1937, ad un anno dalla morte del critico napoletano. 330 Cfr. «Casabella», n. 113, maggio 1937, p. 12. 331 Cfr. Il capitolo III di questo volume per l’attività di Luigi Veronesi. 152 Il messaggio che l’istriano ha cercato di trasmettere in primo luogo con la sua rivista è stato quello di restituire all’architettura del passato il ruolo opportuno di fonte preziosa e straordinariamente attuale da cui attingere. Nel saggio L’insegnamento degli antichi, uscito nel ‘34, Pagano sviluppa in maniera organica questo discorso, condannando quegli architetti che usavano i modelli del passato imitandoli pedissequamente senza coglierne l’aspetto istruttivo, con l’atteggiamento di chi «confondeva la conoscenza delle antiche esperienze con la copiatura delle antiche forme»332. A questo messaggio, Pagano darà ‘voce’ attraverso i suoi articoli ma è con le fotografie che riuscirà a costruirlo in tutta la sua profonda intensità. Soprattutto il modo di utilizzare il materiale fotografico diviene in questo senso rivoluzionario; il caso dell’articolo uscito nel ‘31, Architettura moderna di venti secoli fa333, è decisamente indicativo. In questa occasione, l’architetto compone fotografie di strutture architettoniche rilevate negli scavi di Pompei con quelle di quartieri di Dudok e con alcune opere di Mies Van der Rohe. L’intenzione è quella di mettere in evidenza elementi comuni e analogie, così da sottolineare la medesima chiarezza compositiva delle due esperienze architettoniche, seppur distanti secoli l’una dall’altra. Mediante lo strumento del confronto visivo, Pagano riesce a suggerire così un’idea, facendo delle immagini un documento altamente informativo e non un semplice sussidio al testo scritto334. 332 G. Pagano, L’insegnamento degli antichi, «Casabella», n. 80, agosto 1934. G. Pagano, Architettura moderna di venti secoli fa, «La Casa Bella», n. 47, novembre 1931; ora in C. de Seta (a cura di), Pagano. Architettura e città durante il fascismo, Laterza, Roma-Bari 1990. 334 Un lavoro analogo verrà fatto anche da Edoardo Persico che, nell’opuscolo Arte romana, edito dalla Domus, realizza un’antologia di sculture romane. «Ispirata a criteri di semplice propaganda dell’arte, è, per così dire, una storia figurata della scultura romana attraverso alcune opere tra le più significative». E. Persico, Arte romana, dicembre 1935, ora in G. Veronesi (a cura di), Edoardo Persico. Tutte le opere (1923-1935), Volume I, Edizione di Comunità, Milano 1964, pp. 216-217. In questo lavoro si realizza un percorso fotografico teso proprio alla costruzione di una cultura per immagini. Scrive infatti la Veronesi in nota al testo di Persico: «É l’ultima opera, compiuta poche settimane prima della morte. Persico ha scritto il testo, ha scelto con criterio critico le illustrazioni, ed ha curato, su uno schema grafico assolutamente originale (per cui questo doveva essere il prototipo di tanti libri d’arte) l’impaginazione del volume, creando un’opera perfetta, largamente imitata ma non superata nella sua unità». Cfr., nota 1 in G. Veronesi (a cura di), Edoardo Persico …, cit. p. 216. 333 153 Gran parte dell’archivio, come abbiamo visto, è dedicato alla catalogazione di architetture del passato, eppure il metodo di ripresa da parte dell’architetto si dimostra senza dubbio eccezionale; egli non si limita infatti alla descrizione dell’oggetto, quanto all’attenta interpretazione dello stesso, riletto e non rilevato, come facevano i vari Alinari e Brogi, secondo quella pratica ritenuta desueta e per certi versi sterile dall’istriano335. Le fotografie assumono così il valore di un materiale informativo importantissimo; la catalogazione di questa produzione soprattutto ai fini dello studio degli esempi canonici del passato riletti con uno ‘sguardo’ moderno, diviene una vera rivoluzione per i giovani architetti che cominciano a concepire un modo nuovo di utilizzare e leggere le fotografie come matrice progettuale e punto di partenza per l’elaborazione del prodotto architettonico: «affiora cioè l’ipotesi che la fotografia possa addirittura entrare, come fonte ispiratrice, nella fase progettuale dell’architettura»336. L’esempio di Pagano può essere considerato indubbiamente un ‘caso’ inedito sotto questo punto di vista e il banco di prova e sperimentazione di una nuova ‘filosofia’ dell’immagine in architettura. La fotografia comincia ad intervenire come strumento utile non solo alla conoscenza dell’oggetto una volta costruito, ma rendendosi indispensabile già nell’a-priori progettuale, come mezzo di studio e ricerca e quindi come matrice ideativa e creativa. Innegabile in questo senso il contributo dell’esempio della scuola tedesca del Bauhaus337. 335 «Triste destino, questo dei rilievi, quasi come quello della morfina. Nati da un senso di amore e di rispetto verso gli sforzi del mondo antico, rischiano di accecare nell’idolatria chi per essi si affanna». Con questa frase, Pagano non faceva un riferimento esplicito al rilievo fotografico, ma il concetto di fondo restava lo stesso, ovvero un evidente scetticismo nei confronti della ‘copiatura’ di opere del passato, indipendentemente dalla tecnica grafica utilizzata per metterla a punto. G. Pagano, L’insegnamento degli antichi, cit. 336 M. Miraglia, Forme, in C. de Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, Electa, Milano 1979, p. 136. 337 «La lezione del Bauhaus fu soprattutto l’indicazione o la rivoluzione di un metodo, che attraverso l’uso del fotogramma, smaschera, in maniera drastica e definitiva, la pretesa di una fotografia come registrazione del reale, ponendo consapevolmente i presupposti critici verso una più puntuale definizione di fotografia come linguaggio e, quindi, come espressione». Ivi, p. 153. 154 La fotografia intesa come mezzo di divulgazione, di informazione, di testimonianza, assume un valore straordinario nella ‘campagna’ di Pagano a favore del recupero dei valori architettonici primitivi e rurali. Questo obiettivo perseguito dall’architetto con la Mostra sull’architettura rurale e poi continuato con il suo lavoro di catalogazione delle masserie, dei ruderi, e di tutte le strutture rurali che incontrava nel suo peregrinare in giro per l’Italia338, apre o comunque si inserisce in un rivoluzionario dibattito in campo architettonico. L’idea che nell’architettura semplice ed essenziale, in fondo pregna di ‘un’orgogliosa’, ‘coraggiosa modestia’, si potessero non solo riconoscere ma recuperare tutti quegli spunti di studio necessari onde approntare una logica costruttiva innovativa e moderna, aprirà un dibattito che inciderà notevolmente sul percorso di numerosi architetti del periodo pre e post bellico. Molti infatti saranno coloro che tenteranno di collegarsi e in alcuni casi continuare la ricerca dell’istriano, seppure questo suo messaggio verrà talvolta male interpretato o addirittura strumentalizzato. Roberto Pane, che inizia gli studi sull’architettura primitiva e rurale in contemporanea con Pagano collaborando tra l’altro, seppure in piccola parte, alla mostra339 del ’36 con il contributo di alcuni negativi, dimostra per certi versi di mettersi in linea con tale messaggio, per altri invece quasi in posizione antitetica. Pane, come pure Pagano aveva fatto, intende recuperare la memoria dell’architettura passata ricercando in essa un modello in cui individuare i cardini della ricerca contemporanea ma le considerazioni cui giunge in seguito ai suoi studi non collimano esattamente con quelle dell’istriano340. 338 Ivi. Cfr. Capitolo I di questo volume. 340 Cfr. R. Pane, Architettura rurale campana, con 53 disegni dell’autore, Rinascimento del libro, Firenze, 1936; Dimore rurali, in Id., Campania: La casa e l’albero, Mostra delle Regioni 1961, Montanino ed., Napoli 1961. 339 155 Interessante a tal proposito mettere a confronto le rispettive ricerche sull’architettura rurale. Seppure infatti Pane, riconosca evidenti affinità tra questa architettura e quella razionale, come «la tendenza ad eliminare ogni decorazione per obbedire soltanto ad una necessità»341, nello stesso tempo stigmatizza quell’arte che persegue «la sincerità e la funzionalità a tutti i costi»342, andando quindi in un certo senso in conflitto con le posizioni di Pagano, che presupponeva piuttosto imprescindibile il carattere funzionale nell’opera razionalista. A questo si aggiunga che Pane, riconoscendo l’attributo di razionalità solo all’architettura rurale – dato che, spiega lo storico napoletano, l’architetto ‘contadino’ era libero di utilizzare tecniche e materiali che gli compiacessero pur di perseguire il proprio utile a differenza dell’architetto razionalista che invece si dimostrava schiavo della tecnologia – dichiarava indirettamente il suo scetticismo nei confronti dell’architettura contemporanea343. Tale posizione propria di una certa cultura accademica napoletana era decisamente in conflitto con quella di Pagano. Lo storico crociano continuerà per anni questi suoi studi sulla casa rurale e nel 1951 seguirà da vicino, nell’ambito della IX Triennale di Milano, il settore dedicato all’architettura spontanea344. In questa successiva esperienza, il collegamento più interessante, in definitiva l’aspetto della ricerca di Pagano colto da Pane consiste nell’intenzionale recupero dei valori folcloristici e dell’arte popolare, nel senso di un riscatto delle antiche tradizioni di costume e architettura. 341 R. Pane, Architettura rurale campana, cit. Ivi. 343 Cfr. R. De Fusco, Mediterraneità minimalista, in F.D. Moccia (a cura di), Luigi Cosenza, scritti e progetti di architettura, Clean, Napoli 1994, pp. 21-23. 344 Lo stesso Roberto Pane in un suo articolo uscito su «Metron» poco tempo prima dell’apertura della mostra del ‘51, ne sottolineerà la germinazione diretta, della sezione dedicata all’architettura spontanea, dalla mostra del ‘36 organizzata da Pagano e Daniel: «La mostra dell’architettura spontanea che la IX Triennale va preparando, riprende, in forma assai più ampia e con quel carattere sistematico che è premessa di una più approfondita esperienza di cultura, il tentativo intrapreso, molti anni or sono, dal compianto Pagano». R. Pane, Puglia inedita, in «Metron», n. 39, dicembre 1950. 342 156 Scrive Pane: «l’edilizia nata dal più umile bisogno della vita associata (la casa costruita dai pastori, dai contadini, dai pescatori) ripropone necessariamente la definizione del concetto di folclore o di arte popolare»345. A Pane si deve riconoscere il merito di avere in qualche modo sviluppato un aspetto della indagine dell’istriano, e cioè quello di aver spostato l’attenzione dall’architettura all’urbanistica rurale, d’altronde l’archivio fotografico di Pagano era già ricchissimo di interessanti spunti e suggerimenti in questo senso346. Un percorso analogo a quello condotto dall’istriano sulle tracce dell’architettura rurale è sviluppato contemporaneamente da alcuni colleghi, che spostano però l’attenzione sull’accezione ‘mediterranea’ dell’architettura. In effetti, una certa rappresentanza della cultura architettonica contemporanea, sembrava avere l’intenzione di strumentalizzare la ricerca di Pagano onde giustificare o trovare sostegno per i propri studi; la circostanza è ben evidenziata da Silvia Danesi che infatti, riportando la definizione di architettura mediterranea di Peressutti347, afferma che quest’ultimo intendeva rifarsi all’architettura spontanea «per dimostrare che la ‘mediterraneità’ è un cavallo di ritorno, un patrimonio nostrano di cui è legittimo riappropriarsi»348. La Danesi sottolinea l’intenzione capziosa condotta dalla rivista «Quadrante» che, attraverso le parole di Peressutti perorava a tutti i costi la causa della nuova architettura ‘del sole e del mare’ sponsorizzata dal Gruppo 7 anche a discapito del valore autonomo dell’indagine condotta dall’architetto 345 R. Pane, Puglia inedita, cit. Cfr. Le tappe del viaggio fotografico di Pagano. Un Tour nell’universo narrativo neorealista, nel capitolo II di questo volume. 347 Cfr. E. Peressutti, Architettura mediterranea, in «Quadrante», n. 21, gennaio 1935. 348 S. Danesi, Aporie dell’architettura italiana in periodo fascista – mediterraneità e purismo, in S. Danesi, L. Patetta (a cura di), Il razionalismo e l’architettura in Italia durante il fascismo, Electa, Milano 1976. 346 157 istriano349. Si intendeva sostanzialmente riconoscere nella nostra architettura spontanea, in maniera forzosa, le origini che avrebbero condotto allo studio sulla casa mediterranea di Gropius, Le Corbusier, Mies Van der Rohe. In effetti, lo stesso Peressutti, ‘allievo’ di Pagano, cade nella facile lusinga della semplificazione del discorso mediterraneo europeo in quello spontaneo e rurale nostrano. Come sempre attento e sensibile alle sfumature dei dibattiti condotti sull’architettura, Pagano sarà tra i primi a denunciare la capziosità e la presuntuosa intenzione della tesi che, questo gruppo di razionalisti italiani, intendeva dimostrare. Scrive ancora la Danesi: «A questo proposito è opportuno ricordare come Pagano, assertore di un’architettura di contenuti sociali, fosse contrario all’uso e abuso che si faceva dell’espressione ‘architettura mediterranea’ in cui vedeva accentuazioni formalistiche che non voleva condividere»; concordiamo pienamente con la studiosa nel ritenere che la stessa mostra sull’architettura rurale, fosse stata una chiara intenzione da parte dell’istriano di assumere una posizione netta a riguardo, indicando piuttosto la ‘giusta via’, rispetto a quella tracciata dagli architetti ‘mediterranei’ italiani: «la mostra può essere considerata anche una replica intesa ad aggiustare il tiro in materia di ‘genealogia’ del Razionalismo; oltre ad enunciazioni, a cui forse non era estranea la lettura di Laugier, di derivazione dell’architettura dalla capanna col tetto di paglia»350. Il «populismo»351 di Pagano intendeva distinguersi apertamente dagli intenti 349 Per ‘architettura mediterranea’ in Italia si intendeva: «l’architettura di pareti bianche, rettangole o quadrate, orizzontali o verticali: architettura di vuoti e di pieni, di colori e di forme, di geometria e proporzioni. […] Geometria che parla, architettura che dalle sue pareti lascia trasparire una vita, un canto. Ecco le caratteristiche dell’architettura mediterranea, dello spirito mediterraneo». E. Peressutti, Architettura mediterranea, cit. 350 S. Danesi, Aporie dell’architettura italiana…, cit., p. 24. 351 Il termine «populista» viene associato a Pagano dallo storico Giorgio Ciucci, intendendo la volontà dell’istriano di «reintrodurre i contenuti etici del mondo rurale all’interno del fascismo, contro la corruzione simboleggiata dal monumentalismo classicista». G. Ciucci, Il classicismo di Persico e il 158 aulici e nazionalistici della ‘mediterraneità’ del MIAR e del Gruppo 7 che perseguivano ‘l’orgoglio del primato’ piuttosto che quello della ‘modestia’. «Nella sua assoluta onestà, non stilisticamente falsificata, corrisponde in ogni suo particolare ai bisogni della vita agricola, semplice e laboriosa»352, Pagano descriveva così la sua casa mediterranea, differenziandosi in maniera chiara da quell’idea piuttosto artificiosa del MIAR per cui le caratteristiche della casa ‘del sole e del mare’ andavano individuate nell’«architettura di pareti bianche, rettangole o quadrate, orizzontali o verticali: architettura di vuoti e di pieni, di colori e di forme, di geometria e proporzioni»353. Le fotografie conservate in archivio denunciano questa idea di casa mediterranea per Pagano: l’architetto va scovando gli esempi più affascinanti e sconosciuti dell’architettura vernacolare sparsi nelle nostre regioni, riconoscendo esclusivamente in essi, le più straordinarie premesse dell’architettura moderna. Pagano individua nell’architettura rurale quei caratteri funzionalisti che, attraverso la catalogazione delle tipologie rurali minori, definivano l’«immenso dizionario della logica costruttiva»354, in questo senso riconosceva nella logica progettuale rurale una antesignana dell’architettura razionale nonché un modello imperituro e matastorico di riferimento. Ma la sua ‘casa mediterranea’ riconosceva caratteri funzionalisti nelle architetture minori in opposizione quindi rispetto «all’evocazione di canoni greci e di ideali neoplatonici che comporta il mare Mediterraneo»355 richiamati piuttosto dagli architetti del gruppo di «Quadrante». populismo di Pagano, in Gli architetti e il fascismo. Architettura e città 1922-1944, Einaudi, Torino 1989, p. 164. 352 G. Pagano, G. Daniel, Architettura rurale italiana, U. Hoepli, Milano 1936, p. 23. 353 E. Peressutti, Architettura mediterranea, cit. 354 G. Pagano, G. Daniel, Architettura rurale …, cit., p. 12. 355 S. Danesi, Aporie dell’architettura italiana…, cit., p. 24. 159 In linea con la posizione di Pagano, anche Persico, seppure inizialmente solidale con il MIAR356, si allontanerà dalle posizioni di questo gruppo riguardo al dibattito sull’architettura mediterranea, affermando che troppo superficialmente e velocemente si era passati dall’«europeismo» alla «romanità» e alla «mediterraneità»357. Non si può sottovalutare il fatto che Pagano giunga a fare di queste idee delle certezze e una posizione definitiva rispetto alla quale rimarrà fedele per tutta la sua vita professionale, proprio dopo gli studi fotografici sviluppati; l’obiettivo fotografico cioè, diviene per l’istriano un occhio critico indispensabile e prezioso: una rivoluzione di certo, rispetto all’uso che anche altri architetti-fotografi suoi contemporanei avevano fatto del mezzo, compresi Peressutti e Banfi. Diretta filiazione dell’indagine condotta da Pagano sull’architettura rurale sarà l’allestimento di un settore della IX Triennale di Milano dedicato all’architettura spontanea. Completo resoconto dell’esperienza della T9 viene sviluppato in un numero monografico di «Metron» nel quale si dedicano alcune pagine alla Mostra sull’Architettura Spontanea allestita dagli architetti Ezio Cerutti, Giancarlo De Carlo, Giuseppe Samonà ed altri collaboratori compreso Albe Steiner358 che si occuperà del progetto grafico. L’allestimento, organizzato quindici anni dopo quello di Pagano, si poneva 356 É proprio il Movimento degli Architetti Razionalisti Italiani che introdurrà per la prima volta il termine ‘mediterraneo’ a proposito della nuova ricerca architettonica; nella presentazione alla Esposizione del MIAR (1931) infatti si afferma che: «É soprattutto doveroso riconoscere come si accentua sempre più la tendenza ad esaltare quel carattere di latinità, che ha permesso a questa architettura di definirsi come mediterranea». Cfr. Ivi. 357 «Il ‘razionalismo’ italiano è necessariamente refrattario all’impeto delle tendenze europee, perché in esso non è mai stata una fede. Così, all’europeismo del primo ‘razionalismo’, si è passati, con fredda intelligenza delle situazioni pratiche, alla ‘romanità’ e alla ‘mediterraneità’, fino all’ultimo proclama dell’architettura corporativa». E. Persico, Punto ed a capo per l’architettura, in «Domus», novembre 1934; ora in G. Veronesi (a cura di), Edoardo Persico …, cit.; ed in C. Melograni, Passato e presente nell’architettura italiana contemporanea (1926-1945), estratto da «Rassegna dell’Istituto di Architettura e Urbanistica», anno V, nn. 13-14, aprile-agosto 1969, pp. 44-46. 358 Noto grafico e fotografo, lavorerà soprattutto per le riviste contemporanee, anche a lui si deve la cura di un importante pubblicazione sulla fotografia, edita dalla Domus, in cui vengono pubblicati anche alcuni scatti di Pagano. E.F. Schopinic, A. Ornano, A. Steiner, Fotografia, annuario dell’attività fotografica in Italia, Gruppo Editoriale Domus, Milano 1943. 160 l’obiettivo di «identificare e rappresentare al pubblico della Triennale alcuni esempi di queste manifestazioni (di architettura spontanea) e di dimostrare come la loro validità – anche estetica – sia nel loro essere ‘vere’, cioè aderenti ai fatti economici, sociali, storici, geografici, culturali, etc. del loro ambiente»359. In questa seconda esperienza si evince una lieve caduta delle motivazioni e del valore delle intenzioni perseguite dagli allestitori rispetto alla ricerca di Pagano, ma non si intende con questo sminuire l’intenzione positiva del gruppo milanese, tesa a recuperare e riaprire un dibattito introdotto tra le due guerre dall’istriano e troppo a lungo abbandonato360. Anche nella mostra del ’51, i prototipi vengono recuperati nelle varie regioni d’Italia, ma in questo caso la fitta rete di collaborazione tra professionisti delle varie zone, male organizzata, porterà ad un difficoltoso sviluppo del lavoro, a differenza di quanto era successo invece con l’esperienza di Pagano che, esclusi piccoli interventi da parte di alcuni colleghi, aveva sviluppato la maggior parte del lavoro da solo con il supporto tecnico di Guarniero Daniel361. L’idea del gruppo della T9 di organizzare l’incarico utilizzando come unico strumento della ricerca il supporto fotografico, denuncia esplicitamente il peso dell’esempio suggerito dalla mostra del ‘36 allestita da Pagano. In esposizione viene proposto quasi esclusivamente materiale fotografico cui sono allegati disegni esplicativi e brevi didascalie «per un’interpretazione critica dell’argomento»362. In definitiva si realizza un progetto del tutto 359 Bilancio della 9a Triennale di Milano, Panorama delle sezioni della T9: Architettura spontanea, in «Metron», n. 43, settembre-dicembre 1951, pp. 38-40. 360 Incisiva in questo senso la frase di chiusura della presentazione dell’allestimento su «Metron»: «la mostra apre un problema complesso e inesplorato e rappresenta l’inizio di uno studio che merita di essere approfondito e completato». Bilancio della 9a Triennale di Milano …, cit. 361 Cfr. G. Pagano, G. Daniel, Architettura rurale italiana, cit. 362 Bilancio della 9a Triennale di Milano …, cit. 161 analogo a quello realizzato dall’istriano nel 1936, che aveva indubbiamente in questo senso, fatto scuola. Un’eco dell’esperienza italiana di Pagano si avverte anche nella Mostra Architecture without architects, allestita al Museo di Arte Moderna nel 1964 ad opera di Bernard Rudofsky. In questa occasione, e nel catalogo uscito successivamente ad opera dello stesso architetto363, non si fa alcuna menzione al contributo dell’istriano che, con il suo esemplare modello di studio volto alla riscoperta dell’architettura anonima e spontanea, aveva di certo dovuto rappresentare un interessante punto di partenza per gli studi del viennese, che ad ogni modo sposterà l’indagine da un ambito più ristretto quale fu quello italiano di Pagano, ad una dimensione internazionale. In occasione della mostra americana del ‘64 – come d’altronde si era verificato con la IX Triennale in cui le fotografie non erano state realizzate in prima persona dagli allestitori ma piuttosto da esperti – le immagini sono «generosamente donate»364 da studiosi e ricercatori di tutte le parti del mondo. Questo aspetto non potrà che incidere in maniera profonda sull’approccio al lavoro fotografico, di certo inevitabilmente meno diretto e coinvolgente rispetto a quello compiuto da Pagano. Nel catalogo della mostra americana, Rudofsky sottolinea il carattere di una ricerca che si era sviluppata negli anni: «Molte illustrazioni furono ottenute per caso o per semplice curiosità per l’argomento, curiosità mantenutasi viva per più di quarant’anni». Dato che la mostra viene allestita nel ‘64, ne deriva che quaranta anni prima, intorno al 1924, il viennese si allineava, 363 Da questo allestimento verrà fuori un catalogo molto interessante di B. Rudofsky, Architetture senza architetti, nell’edizione italiana «La Buona Stampa», Napoli 1977. Per il seguito di questa esperienza si veda anche Id., Le meraviglie dell’architettura spontanea. Nota per una storia naturale dell’architettura con speciale riferimento a quelle specie che vengono tradizionalmente neglette o del tutto ignorate, Laterza, Roma-Bari 1979; Vent’anni fa. Bernard Rudofsky collaboratore di Luigi Cosenza, in «Architettura. Cronache e Storia», n. 50, dicembre 1959; L. Sinisgalli, Rudofsky, in Furor Mathematicus, Silva, Torino 1967, pp. 173-177. 364 B. Rudofsky, Ringraziamenti, in Architetture senza architetti, cit. 162 con la sua ricerca sull’architettura spontanea, a quella europea. Di conseguenza Rudofsky sviluppa questo suo studio probabilmente in parallelo rispetto all’istriano, seppure il prodotto del suo lavoro non vedrà la luce prima della morte di quest’ultimo. Le analogie e le affinità d’intenti, ponendo a confronto i due cataloghi, quello dell’Architettura rurale italiana e dell’Architettura senza architetti, risultano numerose. Innanzitutto, ancora una volta, alle fotografie è affidato il compito di interpretare il discorso architettonico, seppure Rudofsky invero impieghi in maniera differente l’immagine rispetto all’istriano, tornando ad affidare alla fotografia un ‘semplice’ compito illustrativo. Per quanto riguarda invece gli argomenti sviluppati dai due architetti, le teorie supportate e proposte risultano per grandi linee affini. «Architetture senza architetti tenta di intaccare una ristretta visione dell’arte del costruire, presentando il mondo sconosciuto dell’architettura ‘non-blasonata»365: Rudofsky, come Pagano prima di lui, intendeva cioè evidenziare la propensione degli storici dell’architettura a tenere in conto, degli esempi del passato, solo i casi aulici. Continua l’architetto: «tale interesse esclusivo per l’architettura nobile e la nobiltà architettonica poteva essere comprensibile fino alla scorsa generazione, quando le vestigia e le rovine dell’antichità erano per l’architetto l’unico modello di perfezione, […] ma oggi che il recupero di forme storiche è in declino, che le banche e le stazioni ferroviarie non devono più necessariamente somigliare ad inni di pietra per ispirare fiducia, una simile autolimitazione pare assurda». In effetti Rudofsky riprendeva nella sostanza le parole di Pagano che già, nel lontano 1936, parlava del recupero della tradizione dell’architettura rurale come fonte ‘immunizzante’ contro la ‘retorica ampollosa’ perché «la conoscenza delle leggi di funzionalità e il rispetto 365 B. Rudofsky, Prefazione in Architetture senza architetti, cit. 163 artistico del nostro imponente e poco conosciuto patrimonio di architettura rurale sana ed onesta, […] ci darà l’orgoglio di conoscere la vera tradizione autoctona dell’architettura italiana: chiara, logica, lineare, moralmente e anche formalmente vicinissima al gusto contemporaneo»366. Il campo d’azione dell’indagine dei due studiosi si rivela ad ogni modo differente, Rudofsky ricerca i suoi modelli in un contesto internazionale, sondando ‘casi’ più o meno noti di agglomerati urbani in Cina, in Egitto, in Italia, in Grecia, a Madrid, ecc., mentre Pagano conduce l’analisi esclusivamente nelle province italiane, eppure il metodo e soprattutto le conclusioni cui giungono si dimostrano essere le stesse; anche Rudofsky infatti arriva ad affermare che: «la filosofia e le cognizioni dei costruttori anonimi rappresentano la fonte più ampia ed inesplorata dell’ispirazione architettonica per l’uomo industriale»367. Interessante la nota di de Seta che, in relazione alla mostra del viennese afferma che essa «nasceva da quell’antica passione di andare a far rilievi delle case di Procida negli anni della sua giovinezza»368, rilievi che Rudofsky andava facendo con Luigi Cosenza, durante i primi anni della loro collaborazione professionale e che erano continuati nel periodo in cui più costante era divenuto il rapporto di Pagano con Cosenza e quindi, forse, con lo stesso Rudofsky. É lecito quindi supporre che il viennese non solo conoscesse Pagano ma che ne avesse seguito gli studi sull’architettura rurale. Coerentemente con la posizione assunta in occasione della prima pubblicazione sull’argomento, anche nella successiva, Le meraviglie dell’architettura spontanea, pubblicato nel nostro paese nel 1979369, 366 G. Pagano, G. Daniel, Introduzione in Architettura rurale italiana, cit. B. Rudofsky, Prefazione in Architetture senza architetti, cit. 368 C. de Seta, Architetti italiani del Novecento, Laterza, Roma-Bari, 1987, p. 71. 369 «Queste note per una storia naturale dell’architettura compendiano ragionamenti avviati in Architecture without Architects un precedente libro sull’architettura sprovvista di quarti di nobiltà. 367 164 Rudofsky non farà alcun riferimento al ‘caso’ italiano di Pagano. É comunque impensabile che egli non avesse visto il modello e letto le considerazioni dell’istriano alla luce dell’affinità delle ricerche condotte, e dato che il direttore di «Casabella», aveva più volte concesso uno spazio alla presentazione delle opere di architettura realizzate in Italia dal viennese in collaborazione con Luigi Cosenza370. Proprio quest’ultimo, architetto e ingegnere napoletano, denuncerà più apertamente del suo nordico collega, le influenze ricevute dalla ‘scuola’ di Pagano. Molti critici si sono interrogati sull’opportunità di riconoscere, nello ‘stile’ di Cosenza, l’influenza della cultura architettonica del razionalismo del MIAR e del Gruppo 7, piuttosto che quella di altre correnti che perseguivano un indirizzo piuttosto volto alla definizione di un ‘gusto’ antiaccademico come quello supportato da architetti e critici come Venturi, Persico e Pagano371. Di certo Cosenza si porrà in netta contrapposizione al ‘piacentinismo’ dilagante negli anni della dittatura fascista, tanto che Argan affermerà: «nessuno ha deriso Piacentini e gli architetti del regime come li ha derisi Luigi Cosenza»372. Anche rispetto all’accezione ‘mediterranea’ della produzione del napoletano sono state molteplici e conflittuali le posizioni; Renato De Fusco in proposito scrive: «la scoperta della mediterraneità, alla quale il Nostro fu almeno morfologicamente sensibile, non fu operazione solitaria Trattano dell’architettura quale espressione tangibile di un modo di vivere, e non quale arte del costruire. Per di più, il materiale disponibile viene presentato dal punto di vista del naturalista, in quanto distinto da quello dello storico. Le digressioni, le divulgazioni del testo mirano a spezzare le barriere che ci separano dai costruttori di architetture a noi aliene e arcaiche, gente cui non occorreva affatto le si dicesse quanto le conveniva. Le loro realizzazioni, schiette e talvolta imponenti, meritano attenzione; architetture sorpassate, a mio modo di vedere, non esistono, quando operino per l’uomo anziché contro l’uomo». B. Rudofsky, Introduzione a Le meraviglie dell’architettura spontanea …, cit. 370 Cfr. G. Pagano, Un architetto: Luigi Cosenza, in «Casabella», n. 100, aprile 1936; ora in C. de Seta (a cura di), Pagano. Architettura e città …, cit. 371 Cfr. R. De Fusco, Mediterraneità minimalista, cit. 372 G.C. Argan, L’architettura ragionata di Luigi Cosenza, in F.D. Moccia (a cura di), Luigi Cosenza…, cit., p. 13-14. 165 ma condotta in collaborazione con il giovane architetto viennese Bernard Rudofsky. La cui presenza non solo affranca tale ricerca dagli intenti nazionalistici, ma attesta un interesse personale da sempre coltivato da Rudofsky per l’architettura spontanea»373, in questo modo De Fusco allinea la ricerca di Cosenza più a quella di spessore, delineata dal gruppo dei polemisti di «Casabella» piuttosto che a quella decisamente formalista in linea con il dibattito sostenuto su «Quadrante». Analoga posizione è quella dichiarata da de Seta che però sottolinea comunque l’adesione dell’architetto napoletano ad un ‘clima di ricerca’ che trovava nel mito mediterraneo che «era sole, luce, mare: chiarezza di profili, semplicità di volumi, aderenza al sito…»374, il proprio campo d’indagine ed azione, seppure quella di Cosenza si fosse dimostrata una «scoperta domestica del Mediterraneo»375, condotta entro i confini del golfo partenopeo. Invero de Seta sottolinea chiaramente l’influenza di Pagano sul lavoro di Cosenza denunciando, in relazione al linguaggio «scarno, secco ed essenziale» del partenopeo, un contributo evidente da parte dell’istriano, con il quale il rapporto, «che risale agli anni 1935-36, è certamente importante: l’architetto istriano era divenuto un vero e proprio studioso dell’architettura ‘spontanea’, facendosi fotografo della più ricca inchiesta che si sia mai condotta in Italia sulla casa contadina padana, alpina e mediterranea»376. Chiarificatrice in questo senso anche la posizione di Francesco Domenico Moccia che afferma: «egli (Cosenza) non sembra parteggiare affatto per l’architettura moderna, quanto per i caratteri stabili dell’architettura. Per 373 R. De Fusco, Mediterraneità minimalista, cit., p. 22. C. de Seta, Architetti italiani …, cit., p. 67. 375 Ivi. 376 Ivi, p. 68. L’ulteriore testimonianza di Cesare de Seta circa la vicinanza concreta tra Cosenza e Pagano ci rende ancora più difficile pensare che il napoletano non avesse mai parlato al collaboratore viennese Bernard Rudofsky, delle ricerche tutte italiane condotte dall’istriano sull’architettura rurale. 374 166 questo motivo il suo interesse si appunta sulla stabilità delle forme spontanee e l’analisi si addentra a rintracciarne le cause»377. In realtà si possono individuare le attinenze della ricerca di Cosenza con quella di Pagano semplicemente leggendo i 17 punti sull’architettura rurale378, scritti di suo pugno dall’architetto napoletano, nei quali risulta palese l’influenza del maestro istriano. Non si può del tutto escludere, nella formazione di Luigi Cosenza, un apporto concreto della scuola di Pagano e della sua rivista, anche in relazione all’uso che il maestro napoletano farà del mezzo fotografico, nel suo processo progettuale. L’architetto-ingegnere infatti, utilizzerà il supporto fotografico sia nella fase precedente che successiva alla produzione architettonica; non è escluso che questa sua propensione per tale supporto tecnico tragga le origini proprio dall’assidua frequentazione con il maestro istriano e la sua rivista. Lo studio di Luigi Cosenza, in Via Mergellina a Napoli, conserva ancora oggi, grazie all’amorevole cura dei figli dell’architetto, gran parte del suo originale materiale di lavoro. In questo crogiuolo prezioso di fonti storiche, numerosi spuntano i negativi – realizzati da fotografi professionisti – utilizzati dal maestro per studiare il progetto attraverso gli scatti dei plastici ripresi nelle varie visuali, onde comprendere l’impatto volumetrico dell’architettura in fase di realizzazione, oppure negativi di documentazione, realizzati subito dopo la messa in opera del lavoro ai fini illustrativi379. Un processo progettuale che ricorda incredibilmente quello 377 F.D. Moccia, Luigi Cosenza: scritti e progetti, in F.D. Moccia (a cura di), Luigi Cosenza…, cit., p. 55. L. Cosenza, 17 punti sull’architettura rurale, ora in F.D. Moccia (a cura di), Luigi Cosenza…, cit., p. 153-154. 379 . Cfr. A. Buccaro, G. Mainini (a cura di), Luigi Cosenza oggi 1905-2005, Clean, Napoli 2006. 378 167 sviluppato dagli studenti del Bauhaus e importato in Italia anche grazie a Pagano e alle pagine di «Casabella»380. Tra i più recettivi allievi dell’istriano, oltre a Luigi Cosenza, ci sarà Franco Albini, che aderisce a tutto quanto andava dicendo negli anni il suo maestro. Cesare de Seta, lo definirà «il più paganiano degli architetti vicini al direttore di «Casabella»»381, riferendosi soprattutto alla completa adesione «morale» del giovane Albini alla discussione aperta da Pagano sulla casa per tutti, la ‘casa popolarissima’. Utilizziamo il ‘caso’ di Albini per collegarci al dibattito sul problema delle case a basso costo, uno dei temi più vivaci trattati dall’istriano in cui, il suo piglio didattico si farà veemente ed accorato. L’insegnamento dell’istriano riguardo al modello costruttivo economico, sottolinea de Seta, è in primo luogo volto alla definizione di «un codice povero e scarnito di ogni elemento che non fosse assolutamente essenziale»382, ed è questo il modello assorbito dal giovane pupillo, che metterà in pratica l’indottrinamento in quello che lo stesso maestro istriano definirà un’oasi di ordine383, ovvero il quartiere Fabio Filzi, realizzato da Franco Albini con Giancarlo Palanti e Renato Camus tra il 1936 ed il 1938384. Del quartiere vengono lodate le soluzioni architettoniche che erano riuscite ad accordare «i motivi superiori dell’estetica con le ragioni dell’igiene, 380 Cfr. J. Fiedler, P. Feierabend, Bauhaus, Könemann ed., Köln 1999; M. Droste, Bauhaus 1919-1933, Taschen, Berlino 1990, ried. 2006. 381 C. de Seta, Franco Albini architetto, fra razionalismo e tecnologia. L’impegno sulla casa popolare, in Architetti italiani…, cit., pp. 137-198. 382 Ivi. 383 «Il valore architettonico di questo quartiere e la lezione di urbanistica che esso impartisce ai ‘ricami’ tradizionali e accademici sono così grandi da augurarci di veder imitato questo esempio di lottizzazione e di veder esteso in più larga misura questo buon senso edilizio». G. Pagano, Un’oasi di ordine, «Casabella-Costruzioni», n. 144, dicembre 1939; ora in C. de Seta (a cura di), Pagano. Architettura e città…, cit., pp. 257-258. 384 Al 1934 risalgono i primi progetti di Albini di S. Siro a Milano e di Bologna, ma la realizzazione più interessante è il quartiere Fabio Filzi, realizzato in collaborazione con Camus e Palanti. Cfr. C. de Seta, Architetti italiani…, cit. 168 della economia, della funzionalità»385, realizzando «case aperte su tutti i lati, […] fatte per la salute degli abitanti, […] ben allineate e razionalmente disposte»386. Ma quello che risulta probabilmente il carattere vincente agli occhi di Pagano del quartiere milanese, è l’illuminata supervisione dei lavori da parte dell’Istituto Autonomo delle Case Popolari di Milano, che, grazie alla «larghezza di idee dei dirigenti»387 aveva conferito agli architetti prescelti il giusto ruolo, senza trattarli come «disegnatori di facciate», ma garantendo collaborazione e consulenza. Ancora una volta l’istriano – dopo aver discusso con trasporto anche maggiore questa stessa posizione nell’articolo sulla Pienza realizzata da Bernardo Rossellino grazie all’illuminante mecenatismo di Papa Pio II388 – sottolinea l’importanza della committenza nella realizzazione dei migliori prodotti architettonici. Anche in relazione al dibattito sulla ‘casa popolarissima’ corrono in nostro soccorso le fotografie dell’archivio Pagano: in esse è sottolineato e discusso diffusamente il problema, che assume per l’istriano un valore sociale assoluto e in quanto tale etico. Per Pagano la questione è strettamente connessa a quella delle costruzioni in serie e della standardizzazione degli elementi costruttivi nonché dell’uso dei nuovi materiali in virtù delle più aggiornate tecnologie. Non era possibile infatti secondo l’architetto, trovare una soluzione alla produzione di alloggi ‘per tutti’ senza entrare in un’ottica moderna che prevedeva l’utilizzo dei materiali più innovativi e dei processi edilizi più all’avanguardia. Tali presupposti avrebbero garantito secondo l’istriano, una maggior economia nel computo delle spese, in linea quindi con quanto 385 G. Pagano, Un’oasi di ordine, cit. Ivi. 387 Ivi. 388 G. Pagano, Un esperimento riuscito, in «Casabella-Costruzioni», n. 133, gennaio 1939; ora in C. de Seta (a cura di), Pagano. Architettura e città …, cit., pp. 128-134. 386 169 contemporaneamente si andava proponendo e sperimentando in ambito internazionale389. Tutti questi argomenti di discussione si trasformano in soggetti fotografici per l’istriano che nei suoi scatti evidenzia, sottolinea, denuncia, erudisce. Pagano è consapevole del fatto che «centomila galantuomini contorcono disgustati le labbra quando si parla di introdurre il principio industriale della produzione in serie nel campo dell’edilizia»390 per questo contemporaneamente punta il suo obiettivo su un universo composto da oggetti iterati in modo da definire composizioni seriali, pur di dimostrare che «la riproduzione in serie non esclude la fantasia dell’arte ma, anzi, la moltiplica nella importanza e nelle conseguenze»391. Ma la lezione più significativa che Pagano impartirà ai giovani predisposti ad accogliere i suoi insegnamenti, sarà il messaggio di un’architettura umile, semplice, antiretorica e lontana dalle presuntuose mode del Monumentale che si andavano diffondendo negli anni del Regime Fascista. Si può affermare che tutto il suo archivio fotografico e di certo il suo lavoro come critico sulle riviste, sia volto principalmente a combattere in maniera talvolta ironica e dissacrante, altre severa e preoccupata, il messaggio di chi riteneva che l’architettura monumentalista potesse assurgere al valore di ‘arte di Stato’. Bersaglio della critica e della polemica più vivace e dissacrante condotta da Pagano tra le due guerre, sarà infatti quel gruppo di 389 Cfr. C. de Seta, L’architettura del Novecento, UTET, Torino 1981; K. Frampton, Storia dell’architettura moderna, Zanichelli, Bologna, terza edizione italiana 1993; R. De Fusco, Storia dell’architettura contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1996. 390 G. Pagano, Le costruzioni in serie, «Casabella-Costruzioni», n. 144, dicembre 1939. Il dibattito sulla produzione in serie ritorna anche in altri suoi articoli tra cui: L’estetica delle costruzioni in acciaio, «Casabella», agosto-settembre 1933; Estetica delle strutture sottili, «Costruzioni-Casabella», n. 129, settembre 1938; Contro i costruttori di ferro, «Costruzioni-Casabella», nn. 138-139-140, giugno-luglioagosto 1939; Modelli d’arte per la produzione in serie, «Casabella-Costruzioni», n. 155, novembre 1940. 391 G. Pagano, Le costruzioni in serie, cit. 170 architetti «culturaloide, prudenziale e pompiere»392 con a capo Piacentini e Ojetti. Scrive Pagano: «nelle mani di questo artificiale Vitruvio (parla di Piacentini) la critica architettonica si risolve in una così sfacciata esaltazione dei più grossolani formalismi da far credere veramente alla morte delle buoni tradizioni italiane»393, ed è della perdita delle buone tradizioni italiane che Pagano principalmente si preoccupa, per questo ostinatamente fotografa, da un lato le opere del passato che potessero servire da modello corretto per i giovani architetti, dall’altro poche opere contemporanee, caso eclatante l’Esposizione dell’E42, per denunciare tali «aberrazioni monumentali»394. La polemica sull’architettura monumentale, inizia prestissimo. Già nei primi articoli pubblicati su «Casabella», si evince infatti l’attenzione rivolta da Pagano a questo dibattito. Ancora dichiaratamente fascista infatti, Pagano difendendo la sua idea di razionalismo, volgeva aspra la sua critica contro coloro che intendevano identificare l’architettura di Mussolini con quella ‘degli archi e delle colonne’. Risale al 1931, l’articolo di Pagano più intenso, teso a spodestare la pretesa supremazia dell’architettura piacentiniana. Nel saggio: Del «monumentale» nell’architettura moderna395, l’istriano enuncia tutti quei punti per i quali si doveva individuare nell’architettura razionalista di respiro europeo l’unico modello opportuna nel quale identificare l’ ‘Arte di Stato’. Pagano sottolinea che, il vero spirito monumentale in un’opera non poteva esser reso manifesto attraverso un lavoro formale che affidava ad un 392 Id., Potremo salvarci dalle false tradizioni e dalle ossessioni monumentali?, in «CostruzioniCasabella», n. 157, gennaio 1941; ora in C. de Seta (a cura di), Pagano. Architettura e città…, cit., pp. 68-82. 393 Ivi. 394 Ivi. 395 G. Pagano, Del «monumentale» nell’architettura moderna, in «La Casa Bella», n. 40, aprile 1931; ora in C. de Seta (a cura di), Pagano. Architettura e città…, cit., pp. 95-102. 171 «vestito di cerimonia» questo carattere. Per l’architetto, la monumentalità di un’opera, si realizzava mediante il giusto sistema di rapporti tra le masse e un sottile lavoro di dimensionamento delle parti dell’oggetto architettonico. Il percorso dimostrativo compiuto da Pagano in questo articolo è lucido ed efficace, tanto è forte la sua convinzione che quella e soltanto quella potesse essere la ‘giusta via’ dell’architettura. Attraverso gli editoriali supportati da immagini fotografiche mirate e ‘significanti’, Pagano sferrerà negli anni i suoi colpi più duri, sollevando polemiche, attirando l’attenzione sui temi che più gli stavano a cuore e impartendo più o meno direttamente brillantissime lezioni, assorbite da quegli allievi più recettivi e ovviamente più in linea con la sua sensibilità e le sue ideologie, lezioni di modestia e sincerità costruttiva, insegnamenti tutt’ora incredibilmente attuali. Alla luce di queste considerazioni ciò che emerge con maggior chiarezza è la grande generosità di Pagano che, supportando anche gli architetti in erba e i colleghi che riteneva più brillanti e promettenti, sollecitava la cultura architettonica contemporanea a spingersi oltre gli orizzonti gretti di una certa sottocultura architettonica provinciale e dilagante. «Ecco i B.B.P.R., Albini, Gardella, e tanti altri, puntualmente segnalati all’attenzione delle future generazioni»396, in questi giovani professionisti Pagano riponeva la sua più ceca fiducia. In un toccante memoriale, Rogers racconta della indiscutibile propensione dell’istriano nei confronti dell’universo incorrotto dei giovani, soprattutto 396 E. Gentili Tedeschi, La scuola di Pagano, in Aa. Vv., Giuseppe Pagano tra guerre e polemiche, Atti del seminario tenuto a Milano nel 1990. Momenti di Architettura Moderna. Quaderni, Alinea, Firenze 1991, p. 71. 172 in virtù del suo idealismo e della sua vitalità397, con lui, Anna Maria Mazzucchelli, descrive questo aspetto del carattere dell’architetto, sottolineando espressamente la sua «inclinazione per l’architettura legata a una funzione didattica, cioè articolata secondo l’esigenza di un insegnamento e di un organico lavoro di ricerca e di analisi»398. E ancora Manfredini: «Sento, e come me credo lo sentano anche altri che hanno vissuto vicino a Pagano, che la nostra opera ha cercato inconsapevolmente di continuare quella storia interrotta. In altre parole, noi architetti cresciuti a contatto di Pagano, della sua fervida fantasia, nonché della sua cultura completa e della sua profonda umanità, non saremmo quelli che siamo se prima di noi non ci fosse stato lui. Penso anche, che se Pagano fosse vissuto ancora, l’architettura italiana sarebbe forse diversa»399. Con questo gruppo di colleghi e amici di Pagano si allineerà tutta una schiera di giovani architetti cresciuti a contatto dell’istriano o che comunque avevano vissuto direttamente gli effetti della sua ‘scuola’. b. Il testamento spirituale di un missionario dell’architettura Bruno Zevi riconosce nell’architetto istriano un vero ‘elemento di continuità’ tra la fase precedente e successiva alla seconda guerra 397 «Il suo idealismo, la sua vitalità, facevano sì ch’egli si trovasse assai meglio, che con i coetanei, con i giovani; mentre l’ambizione lo spronava a farsene paladino». E. N. Rogers, Catarsi, in F. Albini, G. Palanti, A. Castelli, [a cura di], Giuseppe Pagano Pogatschnig: architetture e scritti, Milano, 19 47, p. 40. 398 M. Mazzucchelli, Pagano architetto, in Ivi, p. 32. 399 Ivi. 173 mondiale, individuando in questo senso in Giuseppe Pagano uno dei pochi veri protagonisti della cultura architettonica moderna400. A lui, come abbiamo visto, si deve l’apertura di molti di quei dibattiti architettonici che, preso il via durante gli anni del Fascismo, troveranno una nuova epifania nel periodo successivo ai due grandi conflitti. Questo soprattutto perché Pagano lascerà un filo sospeso al quale potranno facilmente collegarsi le ricerche e gli studi della cultura architettonica postbellica che riconoscerà all’architetto istriano il grande merito di aver scritto le pagine indubbiamente più fertili del dibattito culturale degli anni Trenta. Questo fil rouge viene tracciato dall’istriano ancora in vita attraverso l’attività critica condotta in tutti gli anni della sua carriera professionale e infine, per mezzo di due dei suoi ultimi appelli ai giovani architetti e alla cultura intellettuale contemporanea usciti sulle colonne di «Casabella» nel 1943, due anni prima della sua tragica morte. Si tratta di due saggi di natura eminentemente tecnica, nei quali Pagano tenterà di suggerire un indirizzo per la formazione dei giovani architetti, nonché una via progettuale ed un programma di ‘politica edilizia’ mirata invece ad una classe già formata di professionisti. I due articoli vengono realizzati in successione e pubblicati nei numeri di «Casabella» dei mesi di aprile-maggio e giugno del 1943: è evidente uno spirito e un intento comune nonché un collegamento tra i due progetti. Nell’articolo intitolato Programma per una scuola di architettura401, Pagano propone una struttura accademica ideale, indubbiamente ispirata ad un modello corporativo di marca fascista. Sappiamo che nel ‘43, la posizione politica dell’architetto viveva la sua crisi più profonda, ma di 400 Cfr. E. Carreri, Saper vedere l’architettura italiana. Intervista a Bruno Zevi, in «ArQ 14-15», Architettura italiana 1940 – 1959, [numero doppio della rivista del giugno-dicembre 1996, pubblicato in formato speciale], Electa Napoli 1998, p. 49. 401 G. Pagano, Programma per una scuola di architettura, «Costruzioni-Casabella», n. 184-185, aprilemaggio 1943. 174 certo la sua apertura nei confronti della dittatura era ormai definitivamente giunta al suo drastico epilogo. Il modello corporativo permane comunque nella formazione dell’istriano che in fondo conserva dell’antica fede, quei caratteri e quelle idee più compatibili con la sua nuova coscienza402. Invero la struttura educativa di livello universitario proposta da Pagano risulta ancora oggi illuminante sotto diversi punti di vista. Il maestro auspicava innanzitutto che il gruppo degli operatori didattici fosse rappresentato da professionisti preparati e nello stesso tempo «gente veramente entusiasta ed economicamente soddisfatta». Prevedeva che non ci fosse spazio per «cattedratiche rigidezze» o «ridicole gerarchie formali» ma presupponeva piuttosto una vera collaborazione fra insegnanti, mirante all’unico scopo di formare al meglio le classi dei futuri professionisti. Una scuola straordinariamente democratica in sostanza, moderna e all’avanguardia nel vero senso della parola, in quanto, auspicando un lavoro formativo concreto da svolgersi anche in opportuni laboratori sperimentali, riprendeva esplicitamente il modello europeo che riconosceva nell’esempio del Bauhaus un riferimento prezioso403. Il modello tedesco è denunciato dallo stesso istriano che infatti, sottolineando l’eventualità che per ogni materia ci fosse l’opportunità di scelta tra due insegnanti con metodi e tecniche differenti, riportava come esempio proprio «certe grandi università tedesche»404. A Pagano si deve indubbiamente riconoscere il merito della lungimiranza nell’aver compreso, così in anticipo sui tempi, la necessità di svecchiamento della classe docente e di conseguenza la possibilità di dar vita ad un istituto formativo che fosse in grado di preparare i giovani 402 Un anno prima, nel 1942, Pagano era uscito definitivamente dal Partito Fascista. Cfr. E. Gentili Tedeschi, La scuola di Pagano, in Aa. Vv., Giuseppe Pagano tra guerre e polemiche, cit., pp. 65-72. 404 G. Pagano, Programma per una scuola… , cit. 403 175 professionisti nel modo più opportuno e liberale, affrancandoli da una formazione sottoposta a regole rigide e sterili. L’altro articolo che rappresenta l’estremo commiato della polemica e dell’insegnamento di Pagano a favore di una ‘nuova’ architettura, è quello che Mario Labò definisce «il testamento di un apostolo, di un missionario dell’architettura». Il pezzo, scritto in un momento di altissima tensione interiore e personale di Pagano, rappresenta «l’ultimo atto di fede, ed è sempre eguale la fede che (l’architetto) portò con sé fino al martirio»405. Parliamo dei Presupposti per un programma di politica edilizia406, scritto dall’istriano negli anni trascorsi a Carrara, i più delicati, dato che proprio in questa città avrebbe preso i primi contatti con i gruppi clandestini della Resistenza. Lo scritto di Pagano, efficace, sintetico e chiaro, corredato di numerose note esplicative, definisce i punti principali da tenere in conto alla luce della definizione di un programma sistematico di ricostruzione post bellica. Attraverso queste pagine, l’architetto scrive un saggio di pura teoria architettonica: una sorta di manuale per i giovani architetti, speranze per un futuro che allora, durante gli anni della guerra, si presentava più che incerto e che ancora oggi può esser letto come punto di riferimento e partenza per una cultura architettonica moderna. Con lucida onestà e concretezza, l’istriano pone l’attenzione su una questione fondamentale, cioè il tipo di approccio da assumere nei confronti della ricostruzione di un Paese dopo il disastro della guerra. Pagano aveva già affrontato qualche mese prima, seppure in altri termini, questo 405 Ora in E. Manfredini, Pagano dei giovani, cit., p. 62. G. Pagano, Presupposti per un programma di politica edilizia, in «Costruzioni-Casabella», n. 186, giugno 1943. Ora in C. de Seta (a cura di), Pagano. Architettura e città …, cit. 406 176 problema scottante nell’articolo: La ricostruzione dell’Europa: capitale problema di attualità nel campo edilizio407. In quella occasione aveva rivolto il suo sguardo preoccupato a quei paesi che la guerra stava lentamente distruggendo. Le fotografie, denunciano gli scempi per la prima volta in maniera esplicita; le immagini a corredo dell’articolo sono proprio quella scattate da Pagano, durante il periodo trascorso in Grecia a capo del 17° reggimento di Fanteria con il grado di Maggiore408. Partendo da questa analisi in ambito Europeo, sviluppata nell’articolo del marzo 1943, Pagano si sposta sul dibattito italiano nel successivo pezzo uscito nel mese di giugno, nel quale sollecita il lettore a riflettere su una falsa convinzione diffusa, secondo la quale, a guerra finita, sarebbe stato facile ricostruire l’Italia. Pagano è consapevole della sprovvedutezza di tale illusione409. Da questo assunto parte il suo ‘testamento’, nel quale vengono toccati i temi più importanti e più spinosi, recuperando in fondo questioni portate avanti in tutti gli anni della sua attività di critico dell’architettura. Il Programma, può essere considerato una sorta di summa di tutta la sua polemica architettonica. Ponendo ancora una volta la questione come contraddittorio volto a scardinare gli assunti proposti da Piacentini nell’ambito di un articolo apparso su il «Popolo d’Italia» del 18 marzo 1943, Pagano sottolinea quali dovevano essere i punti ed i caratteri più corretti per un programma di politica edilizia accorto, moderno, intelligente. 407 G. Pagano, La ricostruzione dell’Europa: capitale problema di attualità nel campo edilizio, in «Costruzioni-Casabella», n. 183, marzo 1943. 408 Cfr. Capitolo II di questo volume. 409 «Molti credono, o fingono di credere che, finita la guerra, il mondo si rimetterà rapidamente in carreggiata. […] Ben pochi pensano alla enorme distruzione di ricchezza causata da questa guerra, allo spostamento di molti orientamenti sociali, alla difficoltà di una collaborazione internazionale dopo tanta propaganda di odio e di disprezzo». G. Pagano, Presupposti per un programma di politica edilizia, cit. 177 Scrive Pagano: «Le questioni vanno poste in questo ordine: primo, il cosiddetto ‘esame dei materiali e dei metodi edilizi’; il secondo, il ‘problema della casa per tutti’; terzo quello del ‘restauro (dico ‘restauro’) dei monumenti e dei danni di guerra’»410; l’architetto utilizza gli stessi termini usati da Piacentini nel suo articolo – che riporta tra virgolette – ma ne cambia l’ordine di priorità e soprattutto sottolinea quello che considera l’errore più macroscopico dell’architetto dello stile littorio411, ovvero che l’intervento sugli edifici distrutti dalla guerra doveva essere sviluppato nei termini di un «restauro» e non di una «ricostruzione» laddove la differenza tra i due tipi di intervento si dimostrava sostanziale412. Nell’«esame dei materiali e dei metodi edilizi», Pagano propone un preciso indirizzo da seguire, «una guida sicura», che riprenda sostanzialmente modelli europei, pur osservando e non dimenticando «le caratteristiche e le risorse regionali, le condizioni ambientali, le razionali necessità dei nostri bisogni psicologici, le giustificate e giustificabili tradizioni tecniche senza però rinunciare a quell’idea di progresso». Pagano si dimostra negli anni assolutamente coerente con quell’idea di rispetto delle tradizioni nostrane in linea con un aggiornamento costante del lavoro in relazione al mutare dei tempi e dei momenti storici, che già aveva avanzato nelle sue prime polemiche – nelle fotografie realizzate d’altronde è sempre presente il sentimento di rispetto profondo, quasi una venerazione, nei confronti delle tecniche e delle antiche maestranze, delle tecniche arcaiche e straordinarie nella loro immutata perfezione. Pagano recupera così i termini di una discussione iniziata molti anni prima in occasione della VI Triennale e 410 Ivi. Piacentini viene univocamente riconosciuto il padre del cosiddetto ‘stile littorio’; scrive il Frampton: «a Piacentini fu lasciato il compito di proporre il suo ‘stile littorio’, estremamente eclettico, come ‘stile’ ufficiale del Partito». K. Frampton, Storia dell’architettura moderna, cit. 412 Cfr. M. Piacentini, Problemi edilizi del dopoguerra, «Popolo d’Italia», 18 marzo 1943. 411 178 l’inaugurazione della sua Mostra sull’architettura rurale, che, a distanza di anni si dimostra comunque attuale. Il «problema della casa per tutti», come abbiamo visto è un altro elemento cardine del dibattito paganiano e, in occasione di questo articolo raggiunge forse il suo momento cruciale. Pagano sottolinea per l’ennesima volta «l’urgenza di risolvere il problema della penuria delle abitazioni»413, questione non solo sottovalutata ma malamente gestita dai quegli ‘accademici’ che avevano creduto di risolvere la cosa con l’architettura «dei monumenti conditi di ambigua romanità e degli sventramenti plutocratici»414. L’argomento diviene in questa circostanza un’occasione per Pagano di togliersi diverse ‘pietre dalla scarpa’ e denunciare le accuse subite, tra le quali non ultime quelle di ‘comunismo’, da parte di coloro che male interpretavano «l’umano interessamento per la ‘casa per tutti’»415 che lui da sempre, con alcuni colleghi, aveva manifestato. Rispetto al dibattito sulla casa Pagano afferma: «Non nego che qualcosa si sia fatto, ma più sulla carta e con sporadiche realizzazioni quasi individuali, che per merito di un indirizzo coerente»416. Ed è un modo per indicare una via, per sottolineare il fatto che, ‘un indirizzo coerente’ andava stabilito. Il modello che Pagano proponeva era quello della Germania, della Finlandia, dell’America, che da tempo ormai avevano individuato la soluzione nella costruzione standardizzata e per componenti seriali delle abitazioni. La lettura completa di questo scritto lascia intuire una nuova luce nelle idee dell’architetto istriano, già straordinariamente proiettato verso 413 G. Pagano, Presupposti per un programma di politica edilizia, cit. Ivi. 415 Ivi. 416 Ivi. 414 179 quell’indirizzo che, nel secondo dopoguerra, avrebbe sottoscritto le ‘campagne’ politiche dell’Italia post-fascista. L’ultimo punto toccato da Pagano, relativo al problema dell’intervento sul patrimonio architettonico danneggiato dalla guerra, risulta il più delicato e quindi trattato dall’architetto con estrema attenzione rivolta agli aspetti economici uniti a quelli di natura puramente estetica, intendendo i beni pubblici nel loro valore etico e morale. L’attacco è violentemente sferrato contro quegli architetti che come «il lupo di Cappuccetto Rosso»417, in una circostanza tanto tragica, miravano esclusivamente all’accaparramento di succulenti appalti pubblici, mascherando dietro ipocriti slanci mistificanti amor di patria, un intento piuttosto speculativo, lontano da qualsivoglia forma di etica o morale. Riguardo ad aspetti di natura puramente estetica, Pagano recupera il concetto ruskiniano di restauro418, secondo il quale si doveva assumere nei confronti dell’oggetto architettonico danneggiato, un atteggiamento conservativo ma poco invasivo in termini di restauro419. Bisognava essenzialmente appurare fino a che punto fosse il caso di intervenire nel momento in cui il valore artistico dell’opera fosse inevitabilmente compromesso. Secondo Pagano infatti «per ragioni d’arte» era giusto preferir lasciare mutilato un rudere, purché «saturo ancora di genuini suggerimenti quando una cauta mano pietosa lo abbia curato nelle sue piaghe più gravi riducendolo a simbolo puro di ‘memoria’, a segno assoluto 417 Ivi. Pagano si dimostrerà in diverse occasioni, un grande estimatore delle teorie e degli studi del critico anglosassone John Ruskin. Nel suo lavoro sull’Architettura rurale in Italia, l’istriano prenderà spesso come termine di paragone e spunto di ricerca la lezione del maestro inglese. Cfr. Capitolo I di questo volume. 419 Cfr. J. Ruskin, The seven lamps of architecture, il volume è stato più volte ripubblicato dopo la prima edizione, una delle prime stampe londinesi quella dell’editore Smith Elder and C., risale al 1855. L’edizione italiana è pubblicata a cura e con la presentazione di R. De Stefano, dalla Jaca Book, Milano 1982. 418 180 di ‘documento’ libero da ogni funzione rettorica e trasformato in ‘pura bellezza’ al di là dell’utile e dell’interesse pratico dei contemporanei»420. Ciò che colpisce in definitiva di questi due articoli dell’istriano è la capacità lucida, in fondo alla fine seppur inconsapevole di una carriera, di mettere in discussione tutti gli aspetti della progettazione e della costruzione che, in tutti gli anni della sua attività critica e polemica aveva in vario modo e maniera trattato. É come se l’architetto, avesse tirato le somme di una vita di lavoro passata a combattere contro tutti ma soprattutto contro se stesso. Giuseppe Pagano infatti, a dispetto di qualsiasi critica più o meno approfondita che si possa fare, viene fuori come una figura complessa e contraddittoria, ma coraggiosamente capace di mettersi in discussione in prima persona e continuamente in gioco e sotto esame. Le sue, si dimostreranno negli anni, lotte e polemiche soprattutto interiori e di una profondità forse incomprensibile. Non si stancherà mai, anche nei momenti più difficili della sua vicenda umana prima ancora che professionale, di cercare le ragione più nobili per i suoi ideali, ponendo in maniera intelligente costantemente in crisi le sue stesse convinzioni e, destabilizzandosi, cercando continuamente una verità e una sincerità costruttiva che rendessero onore al suo spirito e alla sua coscienza. Di tutti gli insegnamenti più o meno consapevolmente impartiti, forse il Programma di politica edilizia appare il più organico e completo e per certi versi anche il più chiaro e approfondito. Certamente il ‘testamento’ spirituale più prezioso di questo intellettuale che seppe, educando una generazione, lasciare le basi per una disciplina architettonica nuova: una coscienza professionale moderna, che forse anche le attuali generazioni di 420 G. Pagano, Presupposti per un programma di politica edilizia, cit. 181 professionisti troppo spesso e con leggerezza sconfessano, e senza neanche troppi ripensamenti. Pagano seppe far onore invece a tale coscienza e disciplina, ancor di più a questa fede, fino al punto di «pagar di persona». 182 Fonti Bibliografiche Saggi di Architettura e Arte B. Croce, Estetica, Laterza, Bari 1902, nell’edizione del 1909. G. De Chirico, Noi Metafisici, 1919. D. Alfieri, L. Freddi (a cura di), Mostra della rivoluzione fascista. Guida storica, 1° decennale della marcia su Roma, Officine dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo 1933. E. Peressutti, Architettura mediterranea, in «Quadrante», n. 21, gennaio 1935. A. Pica, Nuova architettura italiana, Hoepli, Milano 1936. R. Giolli, VI Triennale di Milano: il nuovo padiglione, in «Casabella», n. 102-103, giugno-luglio 1936. R. Pane, Architettura rurale campana, con 53 disegni dell’autore, Rinascimento del libro, Firenze, 1936. A. 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Un cacciatore di immagini, in «Cinema», dicembre 1938. L’ordine contro il disordine, in «Casabella-Costruzioni», n. 132, dicembre 1938. Presentazione, «Casabella-Costruzioni», n. 124, aprile 1938. Anche i giovani possono insegnare, «Casabella-Costruzioni», n. 131, novembre 1938. Un giovane progetta una borgata rurale a struttura d’acciaio, «CasabellaCostruzioni», n. 132, dicembre 1938. Estetica delle strutture sottili, «Costruzioni-Casabella», n. 129, settembre 1938. Un esperimento riuscito, «Casabella», n. 133, gennaio 1939. Un’oasi di ordine, «Casabella-Costruzioni», n. 144, dicembre 1939. L’Autarchia e l’Architettura del ferro, in «Casabella-Costruzioni», n. 144, dicembre 1939. Le costruzioni in serie, in «Casabella-Costruzioni», n. 144, dicembre 1939. Contro i costruttori di ferro, «Costruzioni-Casabella», nn. 138-139-140, giugno-luglio-agosto 1939. Urgenza di parlar chiaro, «Costruzioni-Casabella», n. 146, febbraio 1940. 200 Modelli d’arte per la produzione in serie, «Casabella-Costruzioni», n. 155, novembre 1940. Potremo salvarci dalle false tradizioni e dalle ossessioni monumentali?, in «Costruzioni-Casabella», n. 157, gennaio 1941. Occasioni perdute, «Costruzioni-Casabella», n. 158, febbraio 1941. Partenone e partenoidi, in «Domus», n. 168, dicembre 1941. La nostra posizione, «Costruzioni-Casabella», n. 188, agosto 1943. Programma per una scuola di architettura, «Costruzioni-Casabella», n. 184-185, aprile-maggio 1943. Presupposti per un programma di politica edilizia, in «CostruzioniCasabella», n. 186, giugno 1943. La ricostruzione dell’Europa: capitale problema di attualità nel campo edilizio «Costruzioni-Casabella», nel n. 183 del marzo 1943. 201