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A tutti gli allievi che, grazie al loro
non comune lodevole impegno,
nel corso degli anni hanno reso
possibile, con contributi diversi,
la realizzazione del presente lavoro.
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LUIGI GAGLIANO
PERCORSI DI STORIA
1789/1989
Alle radici del presente
Bonfirraro Editore
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© 2012 by Bonfirraro Editore
Viale Ritrovato, 5 94012 Barrafranca Enna
Tel. 0934.464646 0934.400091 telefax 0934.1936565
E-mail: [email protected]
ISBN 978-88-6272-038-0
Impaginazione: Salvatore Lo Pinzino
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Presentazione
“Solo ciò che si fa per sé
ha importanza per gli altri,
non ciò che si fa direttamente
per gli altri”.
(Arthur Schopenhauer)
Un paio di considerazioni preliminari mi sembrano utili anche per una giusta prospettiva da
cui valutare il lavoro stesso. Innanzi tutto, quella che chiamiamo “Storia” è una disciplina che consta sostanzialmente di due aspetti: quello della narrazione dei fatti e l’altro relativo alla problematizzazione storiografica (e alla presentazione di fonti e documenti storici). Negli ultimi anni, almeno negli ultimi due-tre decenni, il primo aspetto ha finito con l’essere, in buona parte, sacrificato
al secondo. Nei vari manuali presenti sul mercato editoriale (o comunque nella stragrande maggioranza di essi), infatti, solo un terzo delle pagine, grosso modo, vengono utilizzate per la descrizione degli avvenimenti, i rimanenti due terzi sono spesso dedicate al dibattito storiografico e ai
documenti. I quali sono indubbiamente importanti, ma non supportati da un’ adeguata conoscenza dei fatti, degli eventi, degli accadimenti e dei protagonisti storici, finiscono col risultare indigesti e culturalmente irrilevanti.
Ancor giovane studente di Pedagogia, uno dei primi principi appresi è stato il seguente:«Chi
nulla conosce, nulla apprezza», che equivale a dire, ovviamente, che «più si conosce più si
apprezza». Nel corso degli anni la validità di tale principio mi ha sempre più convinto, nel senso
che ho potuto personalmente verificare che più si resta alla superficie di un «oggetto d’apprendimento» ( qualunque sia la natura di esso ) meno si comprende, meno se ne coglie la significatività e meno, conseguentemente, sono le probabilità che si sviluppi la motivazione ad apprendere. Il risultato è di attivare processi di apprendimento puramente meccanici e ripetitivi, con la
conseguenza (e il rischio) di sviluppare nell’allievo – e questo è il danno maggiore – un atteggiamento negativo, e di ripulsa, nei confronti della disciplina medesima.
Qualsiasi specifico argomento, in quanto oggetto d’apprendimento, fa parte di un tutto. Il tutto
e la parte sono collegati in modo circolare: per comprendere il tutto occorre conoscere le singole parti, le quali – a loro volta – risultano incomprensibili o comunque poco significative, se non
si conosce il tutto del quale fanno parte. E’ vero che tale principio preso in assoluto rimanda a un
“tutto” il cui orizzonte è illimitato, ma non vi è dubbio che esso, nel suo significato necessariamente relativo, costituisca principio didattico-metodologico di grande rilevanza pedagogica.
D’altronde la Cultura è di per sé un fatto unitario: ha un fondamentale carattere di sistematicità.
Profondamente convinto, per quanto detto, che - relativamente alla storia - i problemi di interpretazione storiografica (e la stessa lettura di documenti) devono partire dalla “descrizione” degli
avvenimenti, dalla loro “narrazione” e che, d’altra parte, andare (relativamente) “a fondo” nelle
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questioni affrontate sia l’unico modo perché si possa ragionevolmente sperare di interessare e
coinvolgere, in qualche misura, gli allievi, ho sempre ritenuto prioritario - nell’attività didattica - il
momento del “racconto” storico; un racconto quanto più ricco possibile di dati e informazioni. Per
essere esplicito dirò non che la quantità faccia “aggio” sulla qualità, ma che - in questo caso non è ad essa alternativa.
Un insegnamento-apprendimento critico della storia – cioè consapevole che non ci sono fatti
ma testimonianze, ovvero avvenimenti filtrati dalla mente dell’uomo, e che pertanto la ricostruzione storica non è mai “rispecchiamento” del passato, bensì frutto di un’attività di interpretazione di esso - costituisce indubbiamente obiettivo educativo non secondario; obiettivo però che può
essere conseguito, nel quotidiano lavoro svolto in classe, facendo emergere tale consapevolezza (acquisizione unanime, peraltro, della storiografia contemporanea) attraverso alcuni casi,
pochi e mirati, particolarmente significativi. Senza ridurre lo studio della storia a una rassegna tanto ostica quanto sterile - di fonti e documenti e di letture storiografiche.
In quanto alle caratteristiche generali del libro, esse sono strettamente legate alla genesi dello
stesso: le sue pagine sono nate, di volta in volta (nel corso di un ventennio), con lo scopo di integrare e approfondire il manuale di storia in adozione. Quello che, nel raccoglierle in volume, è
stato loro aggiunto sono le immagini (foto, cartine, grafici) e le relative didascalie. Le quali, così
come le note, sono vistosamente traboccanti perché anch’esse “integrative”, finalizzate cioè ad
ampliare l’orizzonte della conoscenza della specifica questione affrontata.
Poiché frutto di passione e genuino interesse per la storia, se anche un solo lettore dovesse
leggere le pagine del libro col medesimo entusiasmo con cui sono state scritte, per chi vi ha lavorato sarà motivo di intima gratificazione.
Luigi Gagliano
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Illuminismo e lotta ai privilegi
Che l’Illuminismo costituisca una delle principali “radici” del presente è tesi che non richiede
di essere dimostrata. Basti pensare, ad esempio, all’ispirazione illuminista della solenne
Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, la quale in pochi articoli scolpiva quelli che, ancora oggi, sono i principi cardine che stanno alla base di ogni sistema politico liberaldemocratico; oppure, compiendo un salto di oltre due secoli, al Preambolo della Costituzione
europea (sottoscritta a Roma il 29 ottobre 2004 dai leader dei 25 Paesi dell’Ue) nel quale, relativamente ai “Valori dell’Unione”, contro chi avrebbe voluto un esplicito inserimento delle “radici
cristiane”, sono stati indicati testualmente “i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della
persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello Stato di diritto”. Valori di chiara
matrice illuministica.
L’idea centrale dell’Illuminismo è quella di critica razionale. La ragione non deve svolgere
soltanto un ruolo conoscitivo, per esempio nella comprensione
dei fenomeni naturali. Essa deve avere anche un ruolo pratico
e politico e deve perciò sottoporre a critica ogni forma di irrazionalismo: dall’intolleranza al fanatismo, dal pregiudizio alla
superstizione, dall’autoritarismo politico a quello religioso, dalla
discriminazione ai vari privilegi.
Se è a quest’ultimo aspetto (lotta ai privilegi) che qui limitiamo la critica illuministica è perché l’affermazione del “diritto” sul
“privilegio” rappresenta indubbiamente uno degli aspetti costitutivi fondamentali del lungo processo che, dalla società feudale,
conduce allo Stato moderno e, più specificamente, allo Stato
liberal-democratico. Ci conforta in tale convinzione Gustavo
Zagrebelsky, insigne giurista ed esperto di Diritto costituzionale, che scrive: «la democrazia, nella sua essenza, è anche il
regime che non conosce privilegi».
Con l’espressione “privilegi feudali” si intende un insieme di
norme giuridiche eccezionali in favore di pochi, ovvero di un
gruppo, in deroga alla norma generale che riguarda tutti.
Nell’età feudale il privilegio, legato sia alla particolare struttura
dello Stato sia alla debolezza del potere centrale1, era una condizione di favore concessa dal sovrano a una persona, un ente,
Voltaire (pseudonimo di François
Marie Arouet). Il deismo, la tolleranza
religiosa, il liberalismo, il progresso
hanno costituito fondamentali aspetti
della sua battaglia contro le strutture
dell’ancien régime. Simbolo e modello del philosophe, dell’intellettuale
illuminista impegnato socialmente e
politicamente, Voltaire (1694-1778)
ha svolto un’intensa attività di diffusione delle idee illuministiche e ha
vissuto come una missione il compito
di “illuminare” il popolo e di combattere l’oscurantismo clericale, i pregiudizi, le superstizioni e i privilegi.
«Dove la forza dello Stato - scrive Franco Salvo - è ridotta a mera parvenza, la libertà non può sussistere che a questo titolo [cioè come privilegio]: in mancanza di una tutela superiore e comune, le singole forze cercano di tutelarsi da sé,
riunendosi insieme in ragione delle loro affinità più prossime, e così si procurano quel tanto di sicurezza che è indispensabile allo spiegamento della loro attività. L’aristocrazia feudale, le comunità urbane e rurali, le corporazioni di mestieri,
sono gruppi privilegiati, cioè liberi nella propria sfera». (Franco Salvo, I diritti di libertà, Palumbo, Palermo 1988, p.23).
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una categoria e assicurava ai concessionari un certo grado di libertà, entro la propria sfera (il privilegio è stato anche definito “la forma medievale della libertà”).
Tra i principali privilegi feudali troviamo:
privilegi della chiesa
* esenzione dalle tasse (così come per la nobiltà)
* diritto d’asilo (proteggeva dall’arresto chiunque si rifugiasse in un luogo sacro);
* foro ecclesiastico (“privilegio del foro”: tribunale speciale riservato esclusivamente agli ecclesiastici anche se accusati di delitti comuni);
* manomorta: il patrimonio immobiliare, soprattutto beni fondiari, accumulato dalla Chiesa attraverso le donazioni private e pubbliche; su tali beni dichiarati inalienabili, la Chiesa esercitava il
diritto di proprietà perpetua. Tale istituto giuridico, fra l'altro, riduceva la capacità impositiva dello
Stato poiché i beni della manomorta, per la loro inalienabilità, non davano luogo né al pagamento di imposte sulla vendita né a imposte di successione.
privilegi nobiliari
* servitù personali, (per esempio le corvèes: obbligo, per i contadini, di lavoro gratuito sulle terre
signorili; in molti casi sostituite da corresponsioni in denaro);
* servitù reali, cioè sulle cose, res (per esempio case e terreni destinati al contadino). In questo
caso i tributi, che dovevano essere corrisposti al signore, erano distinti in :
a) ordinari (in denaro o in natura) per l’uso;
b) straordinari, nei casi di vendita o di successione2.
* monopoli feudali: i contadini erano obbligati ad avvalersi dei servizi del signore (quali il mulino, il forno, il frantoio…).
* fedecommesso. Già conosciuto dai Romani (serviva a proteggere gli interessi delle persone
incapaci e dei loro eredi, impedendo che tutori e amministratori disonesti dilapidassero il loro
patrimonio o se ne appropriassero), il fedecommesso è la forma di trasmissione dell’eredità per
cui chi è nominato erede gode l’usufrutto dei beni ricevuti, senza poterli vendere ( inalienabilità
del patrimonio) ed è vincolato al rispetto della norma che gli impone di lasciare a sua volta il patrimonio a un solo erede maschio. Lo scopo era quello di salvare la base del potere della classe
dominante e di evitare la scomparsa del sistema feudale stesso.
* maggiorascato. Istituto giuridico di origine spagnola (sin dal sec. XVI), il maggiorascato era
una nuova forma di fedecommesso; esso infatti intendeva garantire che il patrimonio venisse trasmesso - come eredità indivisibile - al parente maschio più prossimo nel grado di parentela all’ultimo possessore e, in caso di parenti di ugual grado, al maggiore di età. Il maggiorascato,
sopravvissuto anche nell’Ottocento in Germania, ostacolava la divisione delle proprietà nobiliari
e mirava a garantire la trasmissione del patrimonio familiare al figlio primogenito, escludendo
quindi i cadetti. I quali, privati di ogni bene si indirizzavano verso la carriera delle armi o quella
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Anche nel caso in cui il contadino avesse la facoltà di vendere o trasmettere in eredità la terra coltivata, questa non
era in realtà detenuta in piena e libera proprietà, dovevano infatti essere corrisposti al signore particolari tributi.
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ecclesiastica3.
Contro i privilegi feudali, il pensiero illuminista dichiarò “guerra aperta”, ritenendo legittimo solo
ciò che è razionale. In particolare, furono i borghesi, fisiocrati e liberisti, a lottare contro fedecommesso, maggiorascato e manomorta4: in tutti questi casi, infatti, la terra non poteva trasferirsi nelle
mani di chi avrebbe saputo coltivarla in maniera più profittevole. (Ricordiamo che in Inghilterra,
patria della prima Rivoluzione industriale, il regime feudale era scomparso sin dal XVII secolo).
I privilegi in quanto tali5, saranno eliminati solo quando si affermerà il principio dell'uguaglianza
giuridica di tutti gli uomini. Il che è avvenuto grazie alla Rivoluzione6 francese, della quale è simbolo sì la presa della Bastiglia, 14 luglio 1789, ma soprattutto la citata Dichiarazione del successivo
26 agosto (definita "atto di morte dell'ancien régime"). Essa, infatti, dopo aver affermato all'art.1: "Gli
uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti…", all'art. 6 recita: "La legge […] deve essere
uguale per tutti, sia che protegga, sia che punisca […]".
Non è certo un caso che il 1789 venga considerato, nell'immaginario collettivo, l'inizio di quella piena modernità legata ad alcuni fondamentali conquiste tuttora alla base delle società democratiche: l'uguaglianza giuridica dei cittadini; il principio della sovranità popolare; la Costituzione come
garanzia della separazione dei poteri e dei diritti dei cittadini.
Il maggiorascato, come pure il fedecommesso, fu abolito dalla Rivoluzione francese e dal Codice napoleonico, che
hanno cambiato il diritto di successione (riducendo, così, considerevolmente le vocazioni religiose dell’aristocrazia). In
Italia i due istituti scomparvero definitivamente con la legislazione dello Stato unitario, il cui codice civile del 1865 confermò e aggravò i divieti napoleonici.
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Alla fine del XVIII secolo la manomorta entrò nel mirino del potere temporale. In Francia i giacobini nel corso della
Rivoluzione incamerarono e distribuirono (“principalmente a se stessi”, aggiunge qualcuno) i beni della Chiesa.
L’esempio fu seguito, settant’anni dopo, dai Piemontesi che, unificando l’Italia, trasferirono al neonato Stato nazionale
gran parte del patrimonio ecclesiastico presente nelle varie regioni e città italiane. Sui beni non incamerati venne applicata l’imposta di manomorta, consistente in un aliquota del 7,20% sulle rendite degli enti ecclesiastici (chiese, seminari,
santuari) e una dello 0,90% sui beni degli istituti di carità, di beneficenza e di istruzione (“enti morali”). Tale imposta, già
introdotta da Cavour per il regno di Sardegna, fu soppressa da De Gasperi nel 1954 (legge n. 408 del 31 luglio).
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"Privilegio", dal latino privus e legem "privo di legge" (o, secondo altra lettura, "legge privata"), indica il vantaggio
derivante dal non dover rispettare tutti gli obblighi prescritti dalle leggi.
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Vale la pena annotare, a inizio "percorso", una precisazione linguistico-concettuale relativa ai termini rivolta (o insurrezione) e rivoluzione. "Rivoluzione", innanzitutto, è un fatto dell'età moderna; quelle avvenute in passato «sono state scrive Giovanni Sartori - per lo più rivolte di contadini che non hanno mai portato a nulla perché erano soltanto rivolte. Le
rivoluzioni sono una cosa diversa e sono soltanto moderne. La prima ad essere chiamata tale fu la "gloriosa rivoluzione"
inglese del 1688-89. Ma fu una rivoluzione anomala. Rivoluzione perché trasformò la monarchia inglese in una monarchia parlamentare; ma anomala perché avvenne quasi senza colpo ferire. Pertanto la rivoluzione per antonomasia, la
rivoluzione "modello", fu la rivoluzione francese del 1789. Che fa testo perché fu una conquista violenta del potere dal
basso, che poi ristruttura il potere. Il che sottintende che una rivoluzione è tale perché incorpora un progetto che poi realizza. Alle spalle della rivoluzione francese c'era l'età dei lumi, l'illuminismo. Invece alle spalle delle insurrezioni non c'è
nulla. Sono esplosioni senza progetto». (Giovanni Sartori, Corriere della Sera, 15 aprile 2011).
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Prima rivoluzione industriale e “microrivoluzioni”
Il fenomeno della prima rivoluzione industriale (la quale viene definita “la più rivoluzionaria
delle rivoluzioni”)1 è il risultato, l’effetto cumulativo di una serie di microrivoluzioni, in stretto rapporto di interdipendenza2.
* Rivoluzione demografica. Nel corso del Settecento la popolazione europea aumentò di
oltre il 50 %, passando da 120 a 188 milioni. In particolare, dopo centinaia di anni di relativo
immobilismo, la popolazione inglese passò dai 6 milioni del 1750 ai circa 14 milioni del 1840. E
l’aumento della popolazione costituì, indubbiamente, fattore fondamentale dello sviluppo dell’economia. Le ragioni del forte incremento demografico sono molteplici: dal miglioramento delle
condizioni igieniche ai progressi della medicina, dalla migliore alimentazione al rallentamento fino alla scomparsa - delle epidemie e di conseguenza alla diminuizione della mortalità.
* Rivoluzione agraria. La rivoluzione in agricoltura si sostanziò in un notevole incremento
della produttività della terra, ossia in un considerevole aumento della disponibilità di cibo ottenuto grazie all’innovazione delle tecniche agronomiche (rotazione pluriennale, sostituzione del
maggese con pascoli per il bestiame e conseguente uso del concime naturale) e alla modernizzazione capitalistica delle aziende agrarie. Essa è legata alla rivoluzione industriale sia in quanto consentì l’accumulazione di capitali, sia in quanto determinò un esubero di manodopera che,
associato all’incremento demografico, andò a costituire un’enorme massa di proletariato cui attingevano, a basso costo, le grandi imprese manifatturiere3.
* Rivoluzione commerciale. Nel corso del Settecento Londra diviene centro mondiale del
commercio di intermediazione: raccoglie nei suoi porti le merci straniere che, poi, ridistribuisce
agli acquirenti esteri (si tenga presente che ciò era supportato, in Inghilterra, dagli importanti pos-
La rivoluzione industriale ha effettivamente rivoluzionato i modi di vivere dell’umanità come forse solo il passaggio
dalla civiltà pastorale a quella agricola aveva fatto molte migliaia di anni prima (la cosiddetta Rivoluzione agricola si verificò nell’età neolitica, intorno al 9.000 a.C.). Pare che il primo ad usare l’espressione Rivoluzione industriale, nel 1837,
sia stato l’economista francese Adolphe Blanqui, che più tardi fu imitato da Marx, il quale pubblicò, nel 1867, il primo volume del Capitale. Nel linguaggio storiografico, invece, la formula venne introdotta da A. J. Toynbee, che nel 1880-81 tenne
un celebre corso universitario intitolato, appunto, Lezioni sulla Rivoluzione industriale del 18° secolo in Inghilterra. Da
quel momento l’espressione è entrata nel linguaggio corrente per descrivere l’insieme dei mutamenti che hanno subito,
tra il 1770 e il 1850, dapprima l’economia britannica e poi quella di numerosi altri Stati del continente europeo.
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Tale interpretazione (per cui si parla di organicità del processo di trasformazione industriale) se da un lato sposta l’enfasi,
tradizionalmente incentrata sulle innovazioni tecnologiche in campo tessile e metallurgico, verso innovazioni in altri settori (primo
tra tutti quello agricolo), dall’altro cambia la datazione della rivoluzione industriale: non più collocata nel breve periodo a cavallo
tra Sette e Ottocento, ma sull’arco di oltre due secoli, dalla metà del Seicento alla metà dell’Ottocento.
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Tra gli storici dell’economia, chi ha sottolineato più di tutti il nesso tra rivoluzione industriale e “rivoluzione agraria” è Paul
Bairoch (1930-1999). Secondo questo studioso, l’invenzione del high farming o “agricoltura moderna” è stato «il vero e unico
motore della successiva rivoluzione industriale, fornendo materie prime (ad esempio lino e cotone per l’industria tessile), forza
lavoro espulsa dalle campagne in ragione della razionalizzazione produttiva che consentiva di risparmiare lavoro nelle nuove
grandi aziende capitalistiche, quantità crescenti di derrate per alimentare un’ altrettanto crescente domanda urbana, offrendo un
ampio mercato ai nuovi beni industriali (ad esempio, attrezzi agricoli in ferro) e mettendo a disposizione dello sviluppo infrastrutturale e industriale, capitali accumulati nell’attività agricola». (www. Storia contemporanea mario banti paul bairoch).
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sedimenti coloniali e da una grande flotta, costituita sia da navi da carico che di navi da guerra).
* Rivoluzione dei trasporti. Se il forte aumento della produzione (quale primo effetto della
rivoluzione industriale) comportò una necessaria espansione del commercio, quest’ultima, a sua
volta, spinse verso l’attuazione di una vera e propria rivoluzione dei trasporti. Simbolo della rivoluzione dei trasporti in Inghilterra tra Settecento e Ottocento è il canale, che divenne, appunto,
fattore strategico della prima industrializzazione in quel Paese. L’incremento di tale via di trasporto subì un’impennata, nella seconda metà del Settecento, grazie anche all’iniziativa dei privati
che nell’ultimo trentennio del secolo investirono 7/8 milioni di sterline nello scavo e nella sistemazione di canali navigabili4.
A partire, poi, dal 1830 si assiste al passaggio dal finanziamento/investimento in vie d’acqua
a quello in ferrovie. Ciò dopo che l’inglese George Stephenson, grazie all’applicazione della
macchina a vapore di James Watt alla locomotiva, aveva costruito, nel 1814, la prima locomotiva a vapore5.
A proposito di rivoluzione dei trasporti, va anche detto che già nel 1803 l’americano Robert
Fulton aveva applicato la macchina a vapore alle imbarcazioni e nel 1807 il primo battello con
propulsione per mezzo del vapore risalì il fiume Hudson da New York ad Albany.
Con l’inaugurazione, nel 1830, della prima ferrovia Liverpool-Manchester (e dopo che nel
1819 il battello a vapore era in grado di attraversare l’Atlantico) aveva ormai inizio la vera e propria rivoluzione dei trasporti e, in particolare, l’era delle strade ferrate6.
Lo sviluppo della navigazione attraverso canali è collegato soprattutto al trasporto del carbone (che, ancor prima di
essere applicato alle attività industriali, gli inglesi utilizzavano nel riscaldamento e nella cucina). Ciò che aveva frenato,
infatti, lo sviluppo dei bacini carboniferi – che in Inghilterra erano diffusi un po’ dappertutto – era stato l’eccessivo costo
di trasporto: bastava un percorso di una decina di chilometri sul sistema stradale per far raddoppiare il prezzo del carbone. Il quale, peraltro, era troppo pesante e voluminoso per essere trasportato su strade carrozzabili. Fu quindi solo la
messa in opera di una rete artificiale di navigazione interna che consentì all’Inghilterra di raddoppiare nel corso della
seconda metà del XVIII secolo la propria produzione tenendo così il passo con l’aumento della popolazione.
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Ricordiamo che i primi sistemi di sfruttamento dell’energia del vapore vennero messi a punto già negli ultimi anni
del XVII secolo: risale al 1698 il brevetto del marchingegno noto come miner’s friend (“l’amico del minatore”), un rudimentale macchinario che, inventato da Thomas Savery, sfruttava la forza del vapore e veniva impiegato nel prosciugamento dei pozzi più profondi delle miniere di carbone (consentiva di sollevare l’acqua fino a 30 metri). Successivamente,
Thomas Newcomen brevettava, nel 1712, una nuova, più potente e sicura macchina a vapore. Il salto di qualità si ebbe
però col modello realizzato da Watt.
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L’invenzione della locomotiva e della ferrovia si può considerare come una conseguenza diretta della rivoluzione
industriale inglese, in particolare del grande sviluppo assunto dall’industria carbonifera. Infatti fu ancora una volta l’esigenza di trasportare quantità sempre maggiori di carbone dalle miniere ai luoghi di imbarco, o direttamente alle industrie
consumatrici, a suggerire l’idea di far viaggiare i vagoni contenitori su rotaie fisse di metallo e di farli trainare da macchine a vapore mobili (le locomotive). Il risparmio che così si otteneva, rispetto al trasporto su carri a trazione animale attraverso strade spesso accidentate e sconnesse, era tale da incoraggiare gli investimenti assai elevati che erano necessari per la costruzione di vere e proprie linee ferroviarie su percorsi sempre più lunghi, da adibire anche al trasporto dei
passeggeri. Locomotiva e ferrovia, va però precisato, costituirono anche un potente fattore per il diffondersi dell’industrializzazione: infatti lo sviluppo delle ferrovie, oltre ad offrire nuove possibilità di trasportare merci in mercati lontani, stimolava direttamente la produzione delle industrie siderurgiche e meccaniche. E così l’industria pesante finiva per superare
in importanza la stessa industria tessile.
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Costituiscono altre “microrivoluzioni” l’introduzione nel processo produttivo (che si svolge
negli opifici, i quali hanno ormai sopraffatto le vecchie strutture produttive dell’artigianato urbano
e del lavoro a domicilio nelle campagne) delle macchine e, collegata a queste, della divisione
del lavoro7.
Watt e la macchina a vapore. Incaricato, nel 1763, di
riparare la macchina a vapore di Newcomen, James
Watt (1736-1814) ne realizzò un modello nettamente
superiore per praticità, convenienza e potenza erogata
rispetto alle precedenti. Non si può non rilevare l’enorme importanza che la macchina a vapore (il modello
perfezionato da Watt fu brevettato nel 1769) ebbe nella
rivoluzione industriale, al punto da potersi affermare,
come scrivono Camera-Fabietti, che “senza macchina a
vapore la rivoluzione industriale sarebbe abortita sul
nascere”. E infatti essa, trasformando l’energia termica
in energia meccanica, fu applicata ben presto a molteplici settori: usata inizialmente nell’estrazione del carbone per aspirare l’acqua dai pozzi delle miniere, ulteriormente perfezionata fu applicata, dal 1783, alle macchine soffianti degli altiforni con la conseguenza di una
maggiore produzione di ghisa; fu applicata successivamente nel settore tessile per azionare altre macchine,
come i telai che ora non funzionavano più ad acqua ma
a vapore; fu infine applicata ai mezzi di trasporto che
ricevettero un impulso straordinario in seguito ai minori
costi di esercizio e agevolarono la produzione industriale facilitando la conquista di mercati prima aperti solo a
merci indispensabili come il grano.
La divisione del lavoro, che nell’evoluzione dell’organizzazione industriale fa la sua comparsa già nel periodo della
manifattura, costituisce la premessa perché vengano concepite e costruite macchine: solo suddividendo il complesso
lavoro necessario a creare un prodotto in una serie di operazioni molto semplici, si possono affidare tali operazioni a una
macchina. Annotiamo, infine, che gli storici dell’economia sono soliti distinguere nello sviluppo della prima rivoluzione
industriale due fasi. La prima è quella che interessò l’Inghilterra nella seconda metà del XVIII secolo; la seconda fase,
invece, interessò principalmente il Belgio, la Francia , alcune regioni della Germania e, fuori dall’Europa, gli Stati Uniti.
Questi Paesi tra il 1830 e il 1850 entrarono, infatti, nel gruppo di paesi industrializzati e in via di industrializzazione. E
ciò, nonostante “i severi divieti apposti dalle autorità britanniche all’esportazione delle macchine e delle innovazioni tecniche e all’emigrazione di operai e di personale specializzato” (A. Brancati).
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Rivoluzione americana e nascita degli Usa
Le cause del malcontento dei coloni americani
Causa della rivolta coloniale nel Nord America fu sia un contrasto economico sia uno scontro
di idee e di concezioni politiche1. Riportiamo i principali provvedimenti e fatti che, in una escalation di malcontento, portarono i coloni americani a dichiarare guerra all’Inghilterra.
1763: Proclamation line. A conclusione della Guerra dei sette anni (1756-63), che aveva
posto fine alla dominazione francese sui territori americani (Canada e Louisiana, che vengono
spartiti tra Gran Bretagna e Spagna), i coloni si aspettavano che la Louisiana fosse aperta alla
loro libera espansione; invece il Parlamento inglese, per
volere del re Giorgio III (1760-1820), precluse immediatamente questa possibilità stabilendo, appunto, il divieto per le
tredici colonie di espandersi sui territori occidentali (il Far
West, il “lontano Ovest”), oltre la linea dei monti Appalachi,
verso la Louisiana2. Il divieto di espansione, che sarebbe
diventato sempre più rigido negli anni successivi, trovava la
sua spiegazione nel timore del governo inglese che gli
Americani potessero diventare troppo ricchi e potenti e, di
conseguenza, pretendere l’indipendenza dalla madrepatria.
1764: Sugar act (legge sullo zucchero). Vengono colpite
con un forte dazio le importazioni di zucchero e di numerosi
altri prodotti (caffè,vino, tessuti) non provenienti dai domini
inglesi.
1765: Stamp act (legge sul bollo). Alle colonie viene imposta una tassa di bollo, cioè l’applicazione di una marca (da
acquistare in apposite rivendite autorizzate) sugli atti legali (contratti, atti notarili…), sulle fatture commerciali e persino sui giornali. A quel punto in tutte le colonie si organizza il partito o movimento dei
Se i motivi politico-ideali sono da ricercare nelle idee illuministiche di libertà e uguaglianza, nella concezione dello
Stato come garante dei diritti naturali, nella legittimità dell’opposizione al sovrano dispotico; in quelli economici hanno
giocato un decisivo ruolo l’insofferenza per il forte incremento della pressione fiscale e per una serie di leggi commerciali di ispirazione mercantilistica imposte ai coloni dall’Inghilterra. Secondo la concezione dominante nell’età del mercantilismo, le colonie avevano la funzione di favorire lo sviluppo economico della madrepatria: fornirle a basso prezzo materie prime e acquistare da essa - ad alto prezzo - i manufatti. Subordinata agli interessi degli industriali e dei mercanti
inglesi, che tendevano a impedire sia la trasformazione industriale dei prodotti nelle colonie che il libero commercio, l’economia coloniale era quindi destinata a rimanere depressa.
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A proposito della Louisiana occorre dire che con il Trattato di Parigi, febbraio 1763, la parte a oriente del Mississippi era
andata all’Inghilterra, mentre la parte a ovest alla Spagna (in compenso della Florida, ceduta all’Inghilterra). Nel 1800
Napoleone riacquistò alla Francia la Louisiana spagnola (un territorio in realtà molto più grande dello Stato americano che
porta oggi questo nome, comprendendo l’intera regione tra il Mississippi e le Montagne Rocciose), che vendette tre anni dopo
agli Usa per 80 milioni di franchi. Nel 1812 il territorio della Louisiana venne ammesso all’Unione come suo 18° Stato.
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“Figli della Libertà” (Sons of liberty), per protestare contro le illegalità del Parlamento inglese e, in
particolare, per resistere allo Stamp act, che all’inizio dell’anno successivo, febbraio 1766, il
Parlamento britannico revocò, sostituendolo, però, con una serie di imposte indirette su alcune merci
(carta, vernici, tè, piombo) che le colonie importavano dall’Inghilterra.3
1770 (5 marzo): Massacro di Boston. Reparti dell’esercito inglese, presenti nella città per
assicurare l’esazione dei dazi da parte dei funzionari inglesi delle dogane, sentendosi provocati
da una manifestazione di protesta che si stava svolgendo in città reagirono sparando sulla folla
causando cinque morti. L’agitazione dei coloni (che sfruttarono l’episodio per la propaganda antiinglese) costrinse il governo inglese a cedere sulla questione fiscale, e così tutte le imposte indirette furono abolite, a eccezione di quella sul tè (il cui mantenimento aveva soprattutto lo scopo
di affermare il diritto del parlamento di imporre tasse ai coloni).
1773 (marzo): Tea act. Il Parlamento inglese, dopo che le colonie avevano boicottato l’importazione di tè inglese ricorrendo di contrabbando a quello olandese, concede alla londinese
Compagnia delle Indie Orientali (East India Company) il monopolio esclusivo della vendita
del tè sul mercato americano.
1773 (16 dicembre).
Boston tea party: inizia
la rivolta delle colonie.
Alcuni americani del
gruppo “Figli della libertà”,
camuffati da indiani, salirono
su
tre
Compagnia
navi
della
delle
Indie
Orientali e gettarono le
casse
di
tè
in
mare.
L’Inghilterra rispose con
l’approvazione
di
leggi
repressive e “intollerabili”.
Boston Tea Party. Fu un atto di protesta dei coloni americani contro il governo britannico
e la sua politica di tassazione: la sera del 16 dicembre 1773, nel porto di Boston, una cinquantina di patrioti americani travestiti da pellerossa gettarono in mare 45 tonnellate di tè.
E’ significativo che il Parlamento abbia accompagnato al provvedimento di revoca dello Stamp act una solenne
Dichiarazionie di principi (detta Declaratory act ) in cui affermava di avere il diritto di legiferare per le colonie “in qualunque
caso, su qualunque cosa”. La ferma opposizione dei coloni a questi primi provvedimenti legislativi del Parlamento, più che da
ragioni di tipo economico muoveva proprio da considerazioni di ordine politico, o meglio costituzionale. Fino ad allora le colonie americane avevano goduto di un’autonomia amministrativa pressoché totale: ogni colonia aveva la propria assemblea
legislativa dotata in pratica di pieni poteri. Con i provvedimenti degli anni 1763-65 il Parlamento inglese si arrogava - per la
prima volta - il diritto di legiferare anche per i coloni d’America, venendo meno, in particolare, al fondamentale principio-diritto valido in Inghilterra e cioè: “No taxation without representation“. Si comprende, quindi, come nelle rivolte americane, il vero
e principale antagonista delle colonie non era il re d’Inghilterra, bensì il Parlamento di Londra, che intendeva far valere il suo
diritto di tassare tutti i sudditi dell’impero, indipendentemente dall’approvazione dei rappresentanti dei contribuenti.
3
15
Una di queste, che portò al colmo l’irritazione dei coloni, fu il Quebec act.
1774: Quebec act. Con esso il Parlamento inglese decideva di:
riconoscere ai francesi (nuovi sudditi inglesi) residenti nella nuova colonia del Canada- sottratta
alla Francia nel 1760- la più ampia libertà religiosa, vale a dire il diritto di professare la fede cattolica;
annettere, ovvero assegnare alla nuova colonia del Canada le terre a nord del fiume Ohio ( a
ovest degli Allegheny): terre verso le quali tendevano ad espandersi i coloni americani.
“Intolerable act” : così fu, appunto, ribattezzato dai coloni il Quebec act, poiché favoriva a loro
danno i “papisti francesi”.
1774 (sett.). Primo congresso continentale di Filadelfia: dichiarazione dei diritti.
I delegati di dodici colonie (era assente la Georgia) approvano una Dichiarazione dei diritti, con
la quale gli americani chiedono, sostanzialmente, di divenire cittadini inglesi a pieno titolo: “governo legittimo - sostengono tra l’altro - è quello che governa con il consenso dei governati”.
In quel primo congresso di Filadelfia (in Pennsylvania) si affermava, in sostanza, il disconoscimento formale dell’autorità del Parlamento inglese sulle colonie americane, le quali rivendicavano la
loro autonomia amministrativa (per il momento non si parlava di secessione) e decidevano il boicottaggio delle merci inglesi ovvero la sospensione dei commerci con l’Inghilterra. La corona inglese, per tutta risposta, considerò tale iniziativa dei coloni americani un puro atto di ribellione che, come
tale, doveva essere soffocato con la forza. Insomma i coloni dovevano restare sudditi.
La guerra d’indipendenza
1775 (19 aprile). Sparatoria di Lexington: inizia la guerra d’indipendenza.
Un ordine di confisca di armi, impartito dal comandante militare britannico di Boston, provocò uno
scontro tra milizie irregolari dei coloni e truppe britanniche. La presa di posizione del re Giorgio
III, che dichiarò ribelli gli Americani e ordinò la repressione, fecero precipitare la situazione:
aveva inizio la guerra civile.
1775 (maggio). Secondo congresso continentale di Filadelfia. La notizia che l’Inghilterra
stava allestendo un esercito da inviare in America convinse i coloni che non c’era più spazio per
i compromessi e che lo scontro militare era inevitabile. E così a Filadelfia i delegati delle 13 colonie decisero l’organizzazione di un esercito americano comune, al comando di G.Washington
(un proprietario terriero del sud che si era distinto come generale nella guerra contro i francesi).
Tuttavia, i delegati al Congresso non parlavano di distacco, ovvero di indipendenza dalla madrepatria, speravano ancora nella conciliazione con l’Inghilterra.
1776 . E’ l’anno decisivo per la Rivoluzione americana:
a) gennaio. L’inglese Thomas Paine, un quacchero giunto in America nel 1775, pubblica un
opuscolo politico, intitolato Common Sense, in cui teorizza apertamente la separazione
16
dall’Inghilterra e l’ideale repubblicano. In quello scritto, infatti, l’ideologo inglese criticava aspramente la politica inglese nei confronti delle colonie americane : il re – egli argomentava – avendo privato i sudditi americani dei loro diritti, aveva rotto il contratto con loro; era diventato un tiranno contro il quale la ribellione era non solo una cosa giusta, ma un dovere da compiere in nome
dell’intera umanità. ( È chiarissima, qui, come pure nel prologo della Dichiarazione d’indipendenza, la fedele ripresa del pensiero di Locke).
b) 4 luglio. La situazione ormai stava irrimediabilmente precipitando, gli scontri con l’esercito britannico si moltiplicavano. E così nel corso del Secondo congresso (riunitosi a partire dal 10
maggio 1775) venne ratificata e resa pubblica la Dichiarazione d’indipendenza preparata dalla
Commissione dei Cinque, composta da John Adams, Benjamin Franklin, Robert Livingston,
Roger Sherman e Thomas Jefferson, giovane avvocato della Virginia cui si deve la definitiva stesura. I coloni si divisero in Rivoluzionari indipendentisti (o “patrioti”) e lealisti, avversari della
secessione, cittadini abbienti delle colonie centro-meridionali.4
1777 (15 marzo). Il Congresso approva la prima Costituzione della “Confederazione” americana, i cosiddetti Articoli di confederazione, elaborati nel 1777 e ratificati nei diversi stati fra il
1778 e il 1781. Al Congresso e agli organi centrali vennero assegnati (dietro la pressione di gruppi radicali che nella creazione di un forte potere centrale vedevano una minaccia antidemocratica) poteri piuttosto limitati: difesa e politica estera. Tutti gli altri poteri restavano prerogativa dei
singoli Stati e delle loro assemblee legislative.
1777 (17 ottobre). Vittoria di Saratoga. Dopo molte difficoltà iniziali (dovute sia alla carenza
di armi e di munizioni a disposizione dell’esercito americano, sia alla scarsa coesione e disciplina al suo interno), Washington ottenne una decisiva vittoria a Saratoga contro le truppe inglesi.
Thomas Jefferson (1743-1826). Nato in un’agiata famiglia di proprietari
terrieri, nel 1769 fu eletto nel parlamento della Virginia, dove divenne presto uno dei maggiori esponenti dell’opposizione alla politica coloniale inglese. Nel 1775-76 fece parte del secondo Congresso continentale e fu tra gli
autori della Dichiarazione di Indipendenza, alla cui stesura diede il maggior
contributo, ispirandosi alla filosofia politica di Locke. Eletto presidente degli
Usa nel 1800, l’atto di governo probabilmente più importante fu l’acquisto
della Lousiana dalla Francia (1803) che, con l’annessione dell’immenso
territorio fra il Mississippi e le Montagne Rocciose, consentì all’Unione di
raddoppiare la propria superficie ponendo le basi della futura egemonia
continentale. Riconfermato a grandissima maggioranza nelle elezioni presidenziali del 1804, rifiutò, come già Washington, un terzo mandato e si ritirò
(1809) a vita privata dedicandosi agli studi e ai progetti di riforma del sistema educativo che si concretizzarono nel 1819 con l’istituzione
dell’Università della Virginia.
Non va dimenticato che la Rivoluzione americana fu anche una guerra civile, tant’è che alla fine del conflitto il numero di coloro che scelsero di emigrare dal nuovo Stato indipendente fu di oltre 70.000 persone.
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17
Quel successo fu particolarmente importante e decisivo «in quanto dimostrò che gli Americani
erano abbastanza solidi e risoluti perché i governi europei se ne potessero fidare. La Francia,
che da tempo li sosteneva con l’invio di armi, di munizioni e di danaro e che attendeva solo l’occasione propizia per vendicare la sconfitta subita nella guerra dei sette anni, si decise infatti a
intervenire direttamente contro l’Inghilterra nel febbraio del 1778 e fu seguita nel 1779 dalla
Spagna»5
1781 (19 ottobre). Dopo due mesi di assedio della città, l’esercito inglese subisce una pesante sconfitta a Yorktown da parte delle truppe franco-americane. Dopo un altro anno di conflitto,
nell’autunno del 1782 il governo inglese prende atto che la guerra risulta più costosa e più difficile del previsto, data la lontananza dello scenario bellico, e ritiene più vantaggioso chiudere il
conflitto e ristabilire normali rapporti economici con le ex colonie. Vengono così avviati i negoziati di pace che si concludono con il trattato di Versailles.
1783 (3 sett.). Trattato di Versailles: il re di Inghilterra, Giorgio III, riconosce le ex colonie
come Stati indipendenti e rinuncia, inoltre, ai domini del Senegal e delle Antille (ceduti alla
Francia) e della Florida e Minorca (consegnati alla Spagna). Con esso gli Usa ottenevano anche
la sovranità sui territori indiani situati fra i monti Allegheny e la Luisiana (in quelle regioni negli
anni successivi sarebbero sorti altri Stati).
1787. Il 25 maggio si apre a Filadelfia la Convenzione costituzionale, sotto la presidenza di
G. Washington, al fine di rivedere la Costituzione del 1777 (“Articoli di confederazione”). Il 17 settembre è approvata la Costituzione federale6 degli Stati Uniti d’America ( che entrò in vigore nel
1789, dopo la sua ratifica da parte di ciascuna delle sue 13 ex colonie). Rispetto agli “Articoli di
confederazione”, limitava la sovranità dei singoli Stati, a vantaggio del potere esecutivo e del
Presidente. I membri della Convenzione (55 rappresentanti dei diversi Stati) accolsero solo in
parte l’esperienza del sistema parlamentare inglese; rifacendosi a Montesquieu, elaborarono una
nuova Carta costituzionale il cui principio ispiratore fu quello della limitazione e divisione del
potere. James Madison (1751-1836), uno dei più autorevoli costituenti di Filadelfia, definì il sistema istituzionale sancito dalla Costituzione del 1787 come un sistema di Checks and balances
(“pesi e contrappesi”), cioè di controlli incrociati.
1787 (13 luglio). Ordinanza del Nord-Ovest. Mentre a Filadelfia erano in corso i lavori della
Convenzione costituzionale veniva emanata la cosiddetta Ordinanza del Nord-Ovest, un provve-
Augusto Camera - Renato Fabietti, Elementi di Storia, vol. 2°, Zanichelli, Bologna 1997, p. 624.
Gli americani erano imbevuti nella cultura liberale europea, in primo luogo del pensiero di Locke e di Montesquieu.
Ma quando procedettero a dotarsi di proprie istituzioni, avendo il compito di coniugare esigenze diverse, quello di costituire un vincolo unitario tra le varie ex colonie trasformatesi in Stati, da una parte, e lasciare agli stessi, alle contee e ai
comuni spazi di autogoverno, dall’altra, allora la cultura e le forze politiche americane procedettero a elaborare una loro
concezione del liberalismo, che trovò nel federalismo il suo nucleo più originale. Nasceva il primo Stato federale della
storia; uno Stato nel quale il potere Sovrano è diviso fra il governo centrale e i singoli Stati membri dell’Unione.
5
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dimento che riguardava l’amministrazione del vasto territorio compreso tra i monti Allegheny e il
Mississippi. L’Ordinanza stabiliva, innanzitutto, che quelle terre (popolate da tribù pellerossa)
erano territorio nazionale sotto la sovranità dell’Unione, aperte (dietro pubblica vendita) alla
libera colonizzazione; inoltre, regolamentava la nascita di nuovi Stati, che dovevano essere
costituiti da almeno 60 mila abitanti e dotati di Costituzione repubblicana: a tali condizioni essi
sarebbero stati ammessi all’Unione con gli stessi diritti dei tredici Stati originari.
1789 (4 marzo). A
pochi mesi dallo scoppio della Rivoluzione
Francese, gli Stati Uniti
d’America eleggono il
primo Presidente della
nuova Repubblica federale, G. Washington (J.
Adams ne è il vicepresidente).
George Washington (1732-1799). Figlio di un
ricco proprietario terriero della Virginia, decise
sin da giovanissimo di non occuparsi delle
piantagioni di famiglia, ma di intraprendere la
carriera militare. Distintosi, a capo delle truppe
della Virginia, combattendo contro i Francesi
nella guerra dei Sette anni, nel 1775, allo
scoppio della guerra, fu nominato dal
Congresso comandante in capo dell’esercito
statunitense, riuscendo a creare disciplina e
organizzazione in un esercito eterogeneo e
mal equipaggiato e a condurlo – nel corso di
otto anni – alla vittoria finale. Eletto all’unanimità primo presidente degli Stati Uniti nel 1789 e
accettato con riluttanza un secondo mandato,
rifiutò il terzo e si ritirò a vita privata, non prima
di avere pronunciato un famoso “discorso d’addio” in cui esortava il proprio Paese a non
immischiarsi nelle vicende della politica europea, con parole che costituirono a lungo il
credo politico dell’isolazionismo.
Gli emendamenti alla Costituzione federale
Il testo della Costituzione federale americana quando nacque, nel 1787, mostrava scarso interesse per i diritti di libertà dell’individuo. Esso - costituito da un breve preambolo e da soli sette
articoli - era privo di una vera e propria Dichiarazione dei diritti. Proprio per rispondere alla critica di chi riteneva7 che i diritti dell’individuo non fossero sufficientemente tutelati dal dettato costituzionale, nel dicembre 1791 il Congresso degli Usa approvò e introdusse in esso i primi dieci
emendamenti (in effetti articoli aggiuntivi), noti come Bill of rights. Essi stabiliscono i limiti che il
governo centrale deve rispettare nei confronti dei singoli individui e nei confronti degli Stati dell’Unione. Il primo emendamento tutela la libertà di religione, di riunione, di stampa e di parola
(free speech); il secondo afferma l’inviolabilità del «diritto dei cittadini a tenere e portare armi»; i
diritti che devono essere riconosciuti ai cittadini sottoposti a processo sono sanciti in ben tre
emendamenti (V-VII).
Ai primi dieci sono stati aggiunti più tardi altri emendamenti che sanciscono il riconoscimento
di diritti non meno fondamentali. Tra i più importanti segnaliamo l’emendamento XIII, del 1865,
Tale critica era sostenuta dai repubblicani e dagli Stati contrari a un eccesso di accentramento federale. Il punto di
compromesso raggiunto nel 1787 circa l’architettura costituzionale era stata, in effetti, più vicino ai federalisti che ai
repubblicani.
7
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che sancì ufficialmente la fine dello schiavismo e abolì, quindi, la schiavitù dei neri; il XV che
concesse loro il diritto di voto (1870), riconoscendo tale diritto a tutti gli uomini “senza distinzione di colore”; il XIX, del 1920, che ha esteso il diritto di voto alle donne (suffragio femminile) a
tutti gli Stati dell’Unione.
A questa prima categoria di emendamenti, che regolano l’espansione delle libertà individuali civili e politiche (è del 1971 l’emendamento – il XXVI – che estende a tutto il territorio della
Federazione il diritto di voto a 18 anni), si è accompagnata una seconda categoria comprendente aggiustamenti e ritocchi adottati per meglio definire la distribuzione dei poteri fra la
Federazione e gli Stati, soprattutto in materia giudiziaria e fiscale: importanti ma non tali da modificare il carattere originale degli Stati Uniti.
Vi è poi una terza categoria che comprende emendamenti istituzionali, vale a dire norme che
incidono sull’ intero sistema statuale: il XVII (del 1912) sulla composizione del Senato, il XX
(1932) sulla durata della legislatura, il XXII (1947) con cui fu proibito il secondo rinnovo del mandato presidenziale, il XXV (1965) sul trasferimento delle responsabilità presidenziali in caso di
impedimento del capo dello Stato8.
L’ultimo emendamento, il XXVII (del maggio 1992), limita l’aumento degli stipendi del
Congresso.
Al di fuori di qualsiasi categoria, e con una storia particolare, è l’emendamento XVIII che riguardava la proibizione,
su scala federale, di vendere alcool e liquori: approvato nel 1919 (e diventato esecutivo nel gennaio ’20) fu abrogato nel
febbraio 1933 dall’emendamento XXI, il quale restituiva ai singoli Stati il diritto di consentire o di vietare il consumo, il
commercio e la distribuzione delle bevande alcoliche.
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Rivoluzione francese: il fallimento della soluzione moderata
Nella Rivoluzione francese è possibile distinguere tre fasi:
- monarchico-costituzionale (1789-92), a prevalenza borghese e aristocratico-liberale;
- repubblicano-democratica (1792-95), fondata sull’alleanza tra borghesia avanzata e forze
popolari sanculotte;
- repubblicano-moderata (1795-99), che assicura ai gruppi di centro il definitivo trionfo1.
Dopo l’autoproclamazione (17 giugno ’89) del Terzo Stato in
Assemblea Nazionale, Mirabeau rappresentò il tentativo di conciliare
la rivoluzione con l’istituzione monarchica, in quanto personaggio
accetto sia al re che all’Assemblea e abbastanza abile da guidare il re
verso la riforma e l’Assemblea lontano dalla rivoluzione2. Per due anni
egli lavorò a questo compito che però si rivelò superiore anche al suo
ingegno e al suo realismo politico. La sua morte avvenuta nel 1791
(21 aprile), coincise con la fine di quella speranza di una riforma
senza rivoluzione. Alla morte di Mirabeau, infatti, il re finì col legarsi
del tutto con gli aristocratici più intransigenti e concepì il progetto della
propria fuga (20 giugno 1791), finita a Varennes, dove fu riconosciuto
e arrestato3.
Un altro nobile che nel 1789 si pose alla testa della frazione liberale dell’aristocrazia, e tentò di guadagnare Luigi XVI al progetto di
un’alleanza con l’aristocrazia liberale e la borghesia moderata, fu il
marchese La Fayette. Ma anche lui vide fallire la sua politica di
compromesso, cioè il progetto di affermare in Francia un regime
Honorè Gabriel Riqueti, conte di
Mirabeau. Rappresentante del
Terzo stato agli Stati generali del
1789 e membro dell’Assemblea
costituente fu favorevole alla
monarchia costituzionale; partecipò alla stesura della
Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino e propose la
nazionalizzazione dei beni del
clero. Eletto nel marzo 1791 presidente dell’Assemblea legislativa, morì improvvisamente il
mese successivo, all’età di 42
anni.
monarchico costituzionale. Ciò apparve già evidente quando, a
seguito della fuga del re, ci fu una grande manifestazione - oltre 5000 partecipanti - a Campo di
Marte per scuotere l’indecisione dei deputati dell’Assemblea a porre fine alla monarchia e La
Nel corso delle tre fasi l’organo esecutivo era rappresentato, rispettivamente, dal sovrano, dal Comitato di Salute
pubblica (costituito da nove membri) dal Direttorio (cinque membri ).
1
Ricordiamo che l’Assemblea Nazionale (cui aderirono anche alcuni rappresentanti della nobiltà e molti altri del
basso clero) dopo lo storico “giuramento della Pallacorda” (20 giugno ’89) si proclamò Assemblea Nazionale Costituente
(successivo 9 luglio) rivendicando a se stessa, ormai, il diritto-dovere di modificare non solo le leggi ordinarie, ma le strutture stesse dello Stato, emanando una nuova Costituzione.
3
Luigi XVI, mal consigliato, aveva concepito il proposito di espatriare con la propria famiglia per raggiungere l’imperatore Leopoldo II, suo cognato, e chiedergli di muovere guerra alla Francia e di schiacciare la rivoluzione.
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Fayette, a capo della Guardia nazionale4, represse la manifestazione repubblicana provocando una quarantina di morti tra i
manifestanti. L’eccidio di Campo di Marte, 17 luglio 1791, fu,
appunto, un altro episodio che indicava la difficoltà di una soluzione moderata della Rivoluzione francese.
Le cose precipitarono quando, da lì a un anno, il 10 agosto
del 1792, ci fu l’assalto da parte del popolo, al palazzo delle
Tuileries (sede del re). La Fayette, disperando ormai di poter
riportare l’ordine in Francia e di istaurarvi un governo monarchico moderato, passò (il 9 agosto 1792) dalla parte delle armate
austro-prussiane che si apprestavano ad invadere la Francia.
Il passaggio di La Fayette dalla parte della controrivoluzione
(definito come “Il tradimento di La Fayette”) segnò la sconfitta
definitiva del progetto di una rivoluzione moderata5 e l’inizio
della “Seconda rivoluzione”, come fu chiamata la vicenda dell’agosto-settembre 1792. Essa non portò solo alla rottura definitiva del movimento rivoluzionario con la monarchia e l’ala
liberale della nobiltà, ma produsse una frattura incolmabile
nelle file dello schieramento borghese: mentre il gruppo dei
Girondini assunse un atteggiamento intransigente contro le
crescenti rivendicazioni popolari, i Montagnardi divennero
Marie Joseph Motier, marchese di La
Fayette (1757-1834). Già combattente in America per l’indipendenza
delle colonie dall’Inghilterra, era stato
eletto nel 1789 agli Stati generali,
dove si mostrò incline alla riforma e
ad un accordo con il Terzo stato.
Dopo la presa della Bastiglia fu nominato comandante della Guardia
nazionale, ma a seguito dell’episodio
di Campo di Marte perse rapidamente popolarità. Separatosi dal club dei
Giacobini per fondare il club dei
Foglianti gli venne tolto (12 settembre
1791) il comando della Guardia
nazionale.
espressione di quegli stati borghesi ancora disposti ad un’alleanza con i ceti popolari.
La creazione in ogni città e paese della Francia, sin dall’inizio della Rivoluzione, di un corpo di milizia cittadina (poi
chiamata Guardia nazionale) fu opera della borghesia, interessata a impedire soluzioni di forza tentate dal monarca e a
contenere le minacce aristocratiche, da una parte, e a controllare le spinte popolari, dall’altra. Durante la seconda fase
della Rivoluzione, la Guardia nazionale sarà costituita non più dai borghesi ma da popolani e sanculotti.
5
Il fallimento di una “soluzione moderata”, va detto, dipese soprattutto dal re, il quale in quella prima fase del processo rivoluzionario guidata dalla borghesia, non seppe cogliere l’opportunità di una reale collaborazione con l’Assemblea
Nazionale (17 giugno ’89 - 30 settembre ’91), anzi si irrigidì nell’assurdo rifiuto di concedere la propria sanzione alle iniziative da essa decise, quali: - abolizione (4 agosto ’89) dei privilegi del clero e della nobiltà e dei diritti feudali (servitù
della gleba, corvèe, ecc…); - dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (26 agosto ’89). In siffatto atteggiamento,
d’altra parte, il re perseverò anche negli anni successivi. Infatti nei primi di giugno 1792 i Girondini per rassicurare il popolo - che, di fronte alle prime sconfitte francesi, accusava il re di congiurare col nemico - proposero nell’ambito
dell’Assemblea legislativa alcuni provvedimenti, quali la deportazione dei preti refrattari (che fossero denunciati da almeno 20 concittadini), lo scioglimento della guardia personale del re e la formazione di un corpo di 20.000 popolani armati, inviati dalle varie province francesi, Luigi XVI si oppose. Da qui, il primo assalto, 20 giugno ’92, al Palazzo delle
Tuileries, seguito da una seconda invasione dell’antica reggia delle Tuileries, 10 agosto ’92, dopo che il minaccioso manifesto del duca di Brunswick, 25 luglio ’92, mostrava chiaramente che il re di Francia era protetto e tutelato dai nemici
della Francia!
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Dalla “seconda rivoluzione” alla Reazione Termidoriana
In seguito alla vicenda dell’agosto 17926, l’Assemblea legislativa7, per non essere travolta dal
movimento popolare, decise di sospendere il Re dalle proprie funzioni (rinchiudendolo, insieme
alla famiglia, nell’antico monastero “Torre del Tempio”) e di eleggere, a suffragio universale
maschile, una nuova Assemblea Costituente chiamata Convenzione Nazionale col precipuo
compito di risolvere la questione istituzionale8.
Scomparsi i sostenitori della monarchia (i moderati
costituzionali di La Fayette), a destra stavano i Girondini
(circa 200 deputati) da sempre portatori degli interessi
della ricca borghesia e fautori di una politica moderata
che tenesse a freno le rivendicazioni egualitarie dei
Sanculotti. A sinistra sedevano, in posizione minoritaria
ma forti dell’appoggio della Comune insurrezionale parigina, i gruppi dei Giacobini Montagnardi e Cordiglieri,
Gli
orientamenti
politico-sociali
alla
Convenzione del primo periodo repubblicano
(settembre ’92- giugno ’93).
espressione degli strati intellettuali (avvocati, medici,
giornalisti) e di quella borghesia che si era arricchita con l’acquisto dei beni nazionali. Il centro
dello schieramento politico era infine costituito dalla “Palude” (o “Pianura”), il gruppo più numeroso della Convenzione, pronto a spostarsi, a seconda delle circostanze, in appoggio all’uno o
all’altro dei due gruppi politicamente più caratterizzati.
«Era ormai chiaro – scrive Antonio Brancati – che le sorti della Rivoluzione e con essa del
Paese si sarebbero giocate sul contrasto fra il legalismo moderato espresso dai Girondini e la
violenta agitazione del popolo parigino, che riuscì, con la mediazione della borghesia giacobina,
ad avere, ben presto, la meglio».
Prendeva avvio la Seconda Rivoluzione a carattere democratico giacobino. Infatti la
Convenzione, riunitasi in prima seduta il 21 settembre ’92, lo stesso giorno (sull’onda dell’entusiasmo popolare per la vittoria delle truppe francesi sull’esercito austro-prussiano a Valmy) abolì
la monarchia, proclamò la Repubblica e, dopo un aspro dibattito, svoltosi nei mesi successivi,
decretò la condanna a morte del Re, nonostante la strenua difesa messa in atto dai girondini. La
decapitazione del re (21 gennaio 1793) determinò lo scatenarsi di due nemici: quelli interni (sollevazione della Vandea), e quelli esterni (prima coalizione anti-francese, febbraio 1793). Ormai
l’intera Europa, timorosa che la rivoluzione dilagasse sul continente e, pertanto, interessata ad
In risposta all’arrogante proclama, 25 luglio ’92, del duca di Brunswick - che minacciava di distruggere Parigi se i
Francesi non si fossero sottomessi al loro Re – nel Municipio di Parigi si insediò la Comune Rivoluzionaria, diretta da
Danton, che sobillò la massa parigina ad assaltare il palazzo delle Tuileries, residenza del Sovrano; palazzo che fu conquistato dopo un aspro combattimento in cui rimasero uccisi circa quattrocento sanculotti. Era il “colpo di stato” del 10
agosto 1792.
7
Creata dalla Costituzione del 1791, l’Assemblea legislativa (1° ottobre 1791-21 settembre 1792) fu il primo Parlamento
francese frutto di libere elezioni, seppure con diritto di voto riservato soltanto a chi possedeva un certo reddito.
8
La decisione di eleggere una nuova Assemblea Costituente (con diritto di voto - tra l’altro - esteso a tutti i cittadini
francesi maggiorenni) rappresentava la presa d’atto, da parte dell’Assemblea legislativa (guidata dai girondini ed espressione, comunque, della borghesia e del desiderio di questa di contenere il moto rivoluzionario) che il progetto di un sistema istituzionale moderato sul modello inglese era fallito.
6
23
arginare la minaccia rivoluzionaria, era in guerra contro la Francia.
Minacciata dall’esterno e dall’interno, la Repubblica francese si difese con una serie di misure
eccezionali decise dal Comitato di Salute Pubblica, un nuovo organo di governo (istituito il 5 aprile ’93 e preceduto dalla istituzione di un Tribunale rivoluzionario) in cui prevalevano i Montagnardi
e, dal luglio ’93 (dopo che i
girondini erano stati estromessi,
2 giugno, dalla Convenzione),
dominato da Robespierre9.
Le principali misure prese del
Comitato di Salute Pubblica
furono:
- Istituzione della Coscrizione
obbligatoria;
- Legge dei sospetti (17 settembre ’93), la quale definiva
con criteri amplissimi e totalmente discrezionali10 le categorie dei “sospetti”, dei “nemici del
popolo” (termine che verrà
spesso utilizzato in futuro dalle
Luigi XVI (Versailles 1754-Parigi
1793). Re di Francia dal 1774 al
1792, ereditò dal nonno Luigi XV
un regno dissestato e corrotto. Per
rimediare all’impopolarità della
monarchia si circondò di ministri
che tentarono di avviare un’opera
di riforma. Onesto, ma debole, non
seppe sostenere fino in fondo i tentativi di riforme dei suoi ministri
Turgot e Necker contro l’ostilità dei
ceti privilegiati appoggiati dalla
regina Maria Antonietta. Convocati
gli Stati Generali per calmare il
malcontento della borghesia, tenne
una condotta incerta e venne a
conflitto con l’Assemblea costituente. Il tentativo di fuga all’estero e i
negoziati con gli emigrati diedero
l’ultimo colpo al suo prestigio.
Imprigionato e giudicato dalla
Convenzione, fu condannato a
morte e ghigliottinato il 21 gennaio
1793.
dittature per colpire ogni opposizione e dissenso).
- Istituzione del calmiere dei prezzi - soprattutto del grano, che veniva requisito - e dei salari (29 settembre ’93);
Ma stroncata, anche a prezzo di orribili stragi, la controrivoluzione vandeana e bloccata l’offensiva esterna (il 26 giugno ’94, giunse la grande notizia della vittoria a Fleurus, in Belgio)11, moltissimi membri della Convenzione si convinsero che quel regime di terrore12 istaurato da
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Intanto, il 24 giugno 1793 la Convenzione aveva approvato la nuova Costituzione dell’anno I della repubblica fran-
cese (che per l’incalzare degli eventi non entrò mai in vigore), la quale era preceduta da una nuova Dichiarazione dei
diritti dell’uomo e del cittadino e introduceva, tra l’altro, il suffragio universale maschile, il diritto di tutti al lavoro, all’istruzione e ai beni di sussistenza (all’art. 1 della Dichiarazione si poneva l’obiettivo di “realizzare la felicità comune”).
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Ricordiamo che dopo l’eliminazione delle “fazioni” di sinistra (Arrabbiati) e di destra (Indulgenti) Robespierre, mentre vedeva ridursi la base politica e popolare del consenso, faceva approvare una seconda e più spietata “legge dei
sospetti” (10 giugno ’94), sulla base della quale vennero eseguiti arresti in massa ed esecuzioni capitali anche su semplici indizi e senza processo. E’ il periodo del “Grande terrore”.
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Nella battaglia di Fleurus l’esercito repubblicano francese, guidato dal generale Jourdan, sconfisse le truppe collegate austro-germaniche e anglo-olandesi, aprendosi la strada all’occupazione del Belgio. Se la vittoria di Valmy (20 settembre 1792) con l’afflusso di volontari al fronte aveva impedito l’invasione della Francia, quella di Fleurus – conseguita
grazie alla mobilitazione del popolo da parte dei Giacobini – apriva l’Europa alla conquista.
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Per avere l’idea di cosa sia stato il periodo del Terrore, basti pensare che fra l’autunno del ’93 e l’estate del ’94 furono eseguite, soprattutto mediante ghigliottina, 16.594 sentenze di morte; significa, mediamente, oltre 50 esecuzioni al
giorno!
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Robespierre non si giustificava più. E così il 27 luglio ’94 (corrispondente al 9 Termidoro, secondo il nuovo calendario rivoluzionario o repubblicano)13, una congiura di deputati della
Convenzione esautora Robespierre che, arrestato insieme ai suoi più stretti collaboratori (tra cui
Saint-Just), subisce l’estremo supplizio14. Era la “reazione termidoriana”, con la quale la grande borghesia finanziaria e commerciale riprendeva in mano il
potere dopo la parentesi giacobina.
La Costituzione dell’anno I venne sostituita con la
Costituzione dell’anno III (agosto ’95) che riaffermava la separazione tra potere esecutivo e potere
legislativo ed era rivolta soprattutto a difendere la
proprietà e gli interessi della borghesia (si veda, in
particolare, l’introduzione del liberismo economico).
La nuova Costituzione, che divise nuovamente i cittadini in attivi e passivi (reintroducendo così il diritto
di voto su base censitaria), affidava il potere esecutivo a un Direttorio ed il potere legislativo a due
Assemblee elette a suffragio molto ristretto: il
Consiglio degli anziani ed il Consiglio dei
Cinquecento. Il 26 ottobre ’95, dopo lo svolgimento
delle elezioni per i due nuovi organi legislativi si ebbe
lo scioglimento della Convenzione e venne ufficialmente dicharato concluso il processo rivoluzionario.
Nella primavera del ’96, in un contesto di grandi
difficoltà economiche e di tumulti sociali per i prezzi
che aumentavano vertiginosamente e i ceti più poveri che sprofondavano nella miseria più nera e chiedevano “Pane e Costituzione del ‘93”, si avrà l’estremo
Maria Antonietta d’Asburgo (Vienna 1755-Parigi
1793). Figlia di Maria Terasa d’Asburgo e di
Francesco Stefano di Lorena, imperatori d’Austria,
sposò nel 1770 Luigi di Borbone, allora delfino di
Francia. Leggera e intrigante, si resa invisa a corte
e all’opinione pubblica per l’appoggio prestato ai ceti
privilegiati nella loro opposizione al proposito riformatore timidamente sostenuto da Luigi XVI.
Imprigionata dopo il 10 agosto 1792 e processata,
dimostrò fierezza e dignità. Morì sulla ghigliottina il
16 ottobre 1793.
tentativo di ricondurre la Rivoluzione nelle mani della
sinistra (“Congiura degli Eguali” di Babeuf e Buonarroti), tentativo rivoluzionario alla cui repressione partecipò un giovane generale, Napoleone Bonaparte.
Istituito dalla Convenzione il 24 novembre 1793 su pressione del Comitato di salute pubblica, ma fatto iniziare dal
22 settembre '92 (primo giorno dell'era repubblicana), il nuovo calendario nasceva, in primo luogo, dalla volontà di sostituire un "tempo laico" ad un "tempo religioso". Al posto della settimana, che ricorda i sette giorni della creazione biblica,
fu introdotta la decade (con il risultato di perdere una domenica al mese); i mesi presero il nome da una loro caratteristica specifica: il vento (ventoso), la nebbia (brumaio), la raccolta delle messi (messidoro), il caldo estivo (termidoro), e così
via. In ciò la riforma era coerente con la politica di laicizzazione o, meglio, di scristianizzazione del governo giacobino. Il
calendario repubblicano, che non sostituì mai completamente quello tradizionale, fu abolito il 31 dicembre 1805.
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Come già i Girondini nel 1792, anche i Giacobini prepararono la propria rovina nel momento in cui proseguirono,
dopo giugno '94, nell'attuazione di un programma politico (il Terrore) ed economico-sociale (blocco dei prezzi e dei salari) che, comprensibile in un periodo di emergenza, appariva ormai ingiustificato e intollerabile.
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I Club politici nella Francia rivoluzionaria
I moderni partiti politici hanno i loro precursori nei vari club sorti in Francia all’indomani dello
scoppio della Rivoluzione. Erano associazioni politiche sorte per influire sulle opinioni del popolo e nelle decisioni dell’Assemblea nazionale Costituente, attraverso la redazione e la diffusione
di volantini, opuscoli e giornali.
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Note:
1. Il nome deriva dal convento dei Frati Minori ( detti cordeliers ) che fu la sede del club.
2. Fondato il 16 luglio ’91, il club dei Foglianti fu sciolto nell’agosto 1792, con l’inizio della “ Seconda rivoluzione”.
3. Se durante la prima fase dell’attività dell’Assemblea legislativa, nel 1791, i girondini rappresentavano - insieme con
i giacobini - tendenze radicali e caldeggiarono ferme misure verso i controrivoluzionari, quali i nobili emigrati e i preti
refrattari, nel 1792 il dibattito sulla guerra, alla quale erano favorevoli, li allontanò dai giacobini e li avvicinò alle posizioni più moderate di La Fayette. I girondini - ricordiamo - erano favorevoli alla guerra all’Austria e alla Prussia (e fiduciosi
che anche il re si sarebbe messo lealmente alla testa della nazione ) perché convinti che per salvare la rivoluzione borghese in Francia, ovvero per impedire che la controrivoluzione potesse avere il soppravvento, fosse necessario diffondere la rivoluzione negli altri Paesi europei e battere il dispotismo e le consuetudini dell’ Ancien Regime. Il loro limite fu
quello di non rendersi conto che per vincere la guerra bisognava mobilitare le masse popolari, il cui apporto era decisivo. O meglio, sapevano che la vittoria sui fronti di guerra poteva essere assicurata solo mobilitando tutte le risorse nazionali: coscrizione obbligatoria, razionamento dei consumi, requisizioni, controllo dell’economia, calmiere dei prezzi. Ma si
trattava di provvedimenti che comportavano un prezzo politico che i girondini non erano disposti a pagare, in quanto
incompatibili con gli interessi della borghesia. Da qui la nuova insurrezione del popolo parigino che circondò, 2 giugno
’93, l’edificio in cui si riuniva la Convenzione e chiese la loro estromissione da essa, con l’accusa di tramare “ manovre
controrivoluzionari ”.
4. Tra gli arrabbiati, sostenitori di drastiche riforme sociali, il roussoniano Marat ebbe gran parte nella caduta della
Gironda e quindi nell’istaurazione del Terrore. Per tale motivo fu assassinato il mese successivo ( 13 luglio ), da Charlotte
de Corday una giovane aristocratica monarchica di idee girondine, che si era fatta ricevere col pretesto di presentargli la
supplica di un’amica ( quattro giorni dopo aver ucciso Marat, la Corday fu ghigliottinata).
5. Erano militanti politici ( operai, artigiani, impiegati, piccoli commercianti, ecc… ) di orientamento radicale rivoluzionario, per lo più giacobini, cordiglieri ed hebertisti. Il nome, in origine dispregiativo, deriva dal fatto che non indossavano
il calzone corto ( la culotte ) dei borghesi e dei nobili, ma il pantalone lungo indossato dal popolo minuto.
6. Contrari alle rendite degli aristocratici e ai grandi profitti della nascente borghesia, gli Arrabbiati sostenevano il progetto politico di una società socialista, una società in cui il diritto di proprietà fosse fondato sul lavoro personale e sulla
certezza dei beni di prima necessità per tutti; non a caso propagandavano l’assistenza agli indigenti.
7. Raggruppamento politico, formato da ca. 250 deputati (in gran parte giacobini) della Convenzione. In maggioranza all’interno di essa, i Montagnardi si insediarono nei principali organismi che governarono la Francia nel periodo del
Terrore ( di cui furono promotori ) come il Comitato di salute pubblica e il Tribunale rivoluzionario. Il nome deriva dalla collocazione dei deputati del gruppo nei seggi in alto e a sinistra dell’aula della Convenzione, nell’area chiamata “montagna”
in contrapposizione alla “palude” dei banchi posti in basso e in posizione centrale.
8. L’opposizione di Robespierre alla maggioranza girondina in seno alla Convenzione, toccò i momenti più drammatici nel corso del processo a Luigi XVI ( dicembre ’92 - gennaio ’93) quando egli si espresse per una condanna politica
del sovrano, e poi nel momento in cui a seguito del tradimento ( marzo ’93 ) del generale Demouriez - illustre esponete
grondino, passato al nemico nel corso della guerra - spinse il popolo parigino all’epurazione che portò alla caduta della
Gironda (2 giugno ‘ 93). “Nel giugno del ’93 - scrive lo storico Lucio Villari - con la sconfitta dei girondini, non abbastanza decisi a combattere la guerra civile con le armi della rivoluzione più dura, c’è la fine di quel regime parlamentare che
fino ad allora aveva garantito un certo gioco politico “. Dopo l’estromissione dei girondini dalla Convenzione inizia, infatti, il Terrore, “macchina che si mette in moto per salvare la Rivoluzione, ma anche la patria minacciata ai confini dalla
guerra” .
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9. Ricordiamo che il 10 marzo ’93 ben 600 paesi della Vandea ( regione occidentale della francia, oggi uno dei 100
dipartimenti in cui è diviso il territorio francese) insorsero contro le truppe della Repubblica dando vita a quello che è il
caso più feroce e tragico della guerra civile scoppiata in tutta la Francia in seguito alla proclamazione della Repubblica
e alla condanna a morte di Luigi XVI. I motivi che scatenarono la rivolta della Vandea furono almeno quattro:
* coscrizione obbligatoria: imposta del governo repubblicano (nei primi di marzo ‘93) per difendere la Francia dall’
invasione nemica. Fu il motivo che innescò la ribellione vandeana;
* insoddisfazione dei contadini: per il modo con cui stava procedendo la vendità dei “beni nazionali” (accaparrati
dai borghesi della città), oltre che delusi perchè la rivoluzione non li aveva alleggeriti dal peso dei tributi;
* requisizione del grano (e blocco dei prezzi agricoli) per l’approvvigionamento della popolazione e delle truppe.
Per comprendere la necessità di questa misura, bisogna tener presente le condizioni di fame, carovita e quindi, i tumulti popolari che caratterizzavano la Francia dopo che l’ Inghilterra, proprio per colpire l’economia francese, aveva attuato
il “blocco dei mari” , quale prima risposta al suo coinvolgimento, assieme all’ Olanda, nella guerra dall’ 1 febbraio ‘93;
* motivo religioso: ostilità dei rivoluzionari contro il clero “refrattario” che assunse le forme di una persecuzione
generale contro la Chiesa (in Vandea soltanto una parte minima del clero nel 1791 aveva prestato il giuramento costituzionale la popolazione aveva dato il suo appoggio ai preti refrattari che rifiutavano di essere destituiti e sostituiti da quelli costituzionali). I vandeani, da questo punto di vista, furono massacrati anche perchè cattolici.
* «Ma il vero dato - scrive Lucio Villari - è che la Vandea era forse la parte più povera dellla Francia, e che il passaggio dei poteri aveva fatto emergere una borghesia locale prepotente e onnivora, lasciando immutate le miserevoli condizioni dei contadini e proletari». Da qui la sollevazione vandeana con finalità controrivoluzionarie.
10. Gli indulgenti chiedevano, quindi, il ripristino della libera iniziativa economica contro la politica dei calmieri e del
controllo statale dell’ economia e il ritorno ad una politica più tollerante nei confronti dei controrivoluzionari e degli accaparratori.
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La stanza di MONTANELLI
Quel monumento al rivoluzionario Danton
Caro Montanelli,
ora che anche il Papa ha riconosciuto la validità dei principi che hanno ispirato la rivoluzione francese,
gradirei molto sapere cosa pensa del fatto che i francesi abbiano innalzato un monumento al rivoluzionario Danton (processato per ladrocinio con prove inoppugnabili) e, per contro, non abbiamo dedicato nemmeno una strada all’ incorruttibile Maximilien Robespierre, l’ unico tra l’ altro assassinato con i suoi amici
senza l’ ombra di un processo. La ringrazio se vorrà regalarmi una risposta che terrei molto cara, anche
se, come dubito, contrasterà con i miei convincimenti.
Franco Del Fabbro, Milano
Caro Del Fabbro,
i suoi dubbi sono più che fondati. Con ciò non voglio dire che sono un incondizionato ammiratore di Danton. Anzi, al contrario, specie sul piano morale. Che nella sua vita privata fosse
quanto di peggio si può immaginare: impenitente puttaniere (e questo e’ il meno), ma anche
spergiuro, ladro, baro al gioco, e chi più ne ha, più ne metta perché le mette giuste. Però se si
considera la Rivoluzione Francese - e non vedo come si possa non considerarla - una delle grandi svolte della Storia d’ Europa, bisogna riconoscere che Danton vi ebbe una parte di protagonista per il suo coraggio, per la sua genialità strategica, per la trascinante forza della sua eloquenza, e infine per la impassibilità, e quasi strafottenza, con cui salì sul palco della ghigliottina istituito da una Rivoluzione di cui era egli stesso un padre. Colui che ce lo aveva mandato,
Robespierre, quando toccò a lui di salirvi, offrì tutt’ altro spettacolo.
Ma non e’ per questo motivo, di natura quasi estetica, che lo detesto. Lo detesto come il fondatore di quel “giacobinismo”, che tuttora seguita ad affliggerci sotto altri nomi: massimali-
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smo, estremismo, fondamentalismo, tutti sinonimi di fanatismo. Piace a lei il fanatismo? A me,
no. E quindi non può piacermi nemmeno l’ inventore della sua versione moderna, il fanatismo
ideologico. In nome della “Libertà , Uguaglianza e Fraternità”, l’ ascetico, puro, immacolato
Robespierre mandò al capestro tutti i suoi nemici e fornì a tutti i grandi despoti del mondo contemporaneo - rossi, neri, gialli e di qualsiasi altro colore - il modello del loro instrumentum
regni: la “purga”.
Nell’ Assemblea rivoluzionaria francese che doveva redigere la nuova Costituzione, la
Convenzione, c’ era naturalmente dibattito fra gli estremisti giacobini che discendevano da
Rousseau e i riformisti girondini che discendevano da Voltaire. Approfittando delle circostanze
esterne (la coalizione delle Potenze europee in armi contro la Francia rivoluzionaria),
Robespierre istituì un “Comitato di salute pubblica”, che fu in pratica la sua arma di sterminio
non solo degli avversari, ma anche dei possibili concorrenti al suo assoluto potere. Per liberarsi di lui si dovette ricorrere, e’ vero, non ad un processo, ma ad una congiura, com’ e’ destino di
tutti despoti. Caro Del Fabbro, il suo Robespierre ebbe paura e tentò di fuggire: la ghigliottina
gli era piaciuta solo finché si abbatteva sul collo altrui, ed anche questa e’ una specialità dei
despoti.
In Italia ebbe un allievo che avrebbe voluto diventarne anche il successore e continuatore:
Filippo Buonarroti, che ha avuto anche autorevoli apologeti come Galante Garrone e Saitta, ma
non mi pare che se li meritasse. Robespierre è, per le dimensioni dei suoi crimini, un mostro;
Buonarroti, un mostricciattolo. Danton, con tutti i suoi difetti, fu un uomo, e lo rimase anche di
fronte al boia.
Corriere della sera, 3 dicembre 1996
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Ventennio napoleonico (1795 – 1815)
Premessa
Il 1795 fu un anno importante per la Rivoluzione sia perché vennero stipulati tre trattati di pace
rispettivamente con: a) Prussia, aprile ’95; b)Olanda, maggio ’95; c)Spagna, luglio ’95 (restavano da combattere: l’Austria, il Piemonte, l’Inghilterra e la Russia), sia perché era stata approvata una nuova Costituzione, Costituzione dell’anno III dell’ agosto 1795, e un nuovo organo di
governo, il Direttorio.
La nuova Costituzione, a differenza di quella del ’93, aveva carattere borghese e moderato
(aboliva il suffragio universale e ripristinava quello basato sul censo, anche se con criteri più larghi rispetto al 1791). Uno dei suoi punti più importanti fu l’istituzione del Direttorio – cui era affidato il potere esecutivo – costituito da 5 membri (che erano nominati dal Consiglio degli
Anziani su una lista di 50 uomini presentata dal Consiglio dei Cinquecento; ai due Consigli
era affidato il potere legislativo). Gli anni che vanno dal 1795 al 1799 formano il cosiddetto
Periodo del Direttorio, che inaugura un regime moderato, inteso a restaurare l’ordine interno e
a realizzare un dominio imperialistico sull’Europa; ciò attraverso la prosecuzione della guerra contro la I coalizione (1793 – 1797), nella quale si mise in luce il generale Napoleone
Bonaparte.
Tappe principali
1795 (5 ottobre). Le truppe comandate dal giovane Napoleone reprimono il moto realista
del 13 vendemmiaio (questo episodio fece riguadagnare a Napoleone, che era stato amico del
Robespierre e al cui partito aveva aderito, la fiducia del Direttorio che, infatti, gli affidò il
comando dell’Armata d’Italia).
1796/97. Prima campagna d’Italia:
- Aprile/Maggio 1796, Napoleone al comando dell’Armata d’Italia sbaraglia gli austro-piemontesi.
- Ottobre 1797. Pace di Campoformio: il Veneto (assieme a Istria e Dalmazia) viene ceduto
all’Austria; in cambio la Francia ottiene dall’Austria il Belgio (di fatto annesso alla Francia nel
1795) e la Lombardia. Con la Pace di Campoformio aveva termine la guerra della Prima coalizione. Soltanto l’Inghilterra restava ancora irriducibilmente in armi contro la Francia.
1798. Respinta la proposta del Direttorio di condurre uno sbarco in Inghilterra, Napoleone
guida un corpo di spedizione francese in Egitto per interrompere le comunicazioni tra Inghilterra
e India, fonte principale della potenza commerciale britannica.
1799 (9 novembre /18 brumaio). Napoleone, tornato dall’Egitto, attua un colpo di stato militare: scioglie con forza il Direttorio e le Assemblee e forma un governo provvisorio composto da
3 consoli (eletti per dieci anni dal Senato). E’ l’inizio del Consolato che, rovesciando il regime
del Direttorio, poneva fine ad ogni forma di sovranità popolare e di idealità democratica.
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1799 (15 dicembre). Emanazione di una nuova Costituzione (la Costituzione dell’anno VIII)
che - affidando il governo al Primo console, naturalmente lo stesso Napoleone - accentrava nelle
sue mani tutto il potere.
gennaio 1800: viene fondata la Banca di Francia destinata ad incoraggiare e stimolare le
attività imprenditoriali e commerciali della borghesia.
1802 (10 maggio). Napoleone si fa rieleggere Primo console per 10 anni.
1802 (2 agosto). Napoleone si fa proclamare dal Senato Console a vita1.
1804. Viene promulgato il Codice civile napoleonico2 che, ispirato ai principi del diritto romano, stabiliva i fondamenti giuridici della nuova società borghese e laica: diritto di proprietà, principio dell’ eguaglianza giuridica, laicità dello Stato – con conseguente libertà di culto – introduzione del matrimonio civile e del divorzio ( col codice penale, del 1810, veniva legalizzata l’omosessualità: i rapporti omosessuali tra adulti consenzienti non erano più considerati un crimine nei
paesi, tra cui l’Italia, in cui vigeva il codice Napoleonico)3
1804 (2 dic.). Dopo che il Senato, sottomesso alla volontà di Bonaparte, aveva formalmente
chiesto il precedente 18 maggio4, che il primo console venisse proclamato “imperatore dei francesi” e la “proposta” fu ratificata da un nuovo plebiscito popolare (6 novembre), il 2 dicembre successivo nella cattedrale di Notre- Dame a Parigi Napoleone, alla presenza5 del pontefice, cinge
Poiché si trattava di violazioni della Costituzione dell’anno VIII, Napoleone fece apportare ad essa le necessarie
modifiche, che non intaccavano comunque l’impianto della fondamentale Carta del 1799. E cosi si avrà la Costituzione
dell’anno X (1802) per la trasformazione del primo console in una carica vita; quella dell’anno XII (1804) per l’istituzione
dell’ Impero e della sua ereditarietà.
2
Il codice civile - preparato da una speciale commissione insediata nei primi tempi del consolato e discusso dal Consiglio
di stato, spesso alla presenza di Napoleone - fu promulgato nel marzo 1804, dopo l’approvazione delle trentasei leggi che,
redatte tra il 1801 e il 1803, lo componevano. Il testo completo consta di 2281 articoli ed è suddiviso in tre libri (Delle persone; Dei beni e delle differenti modificazioni della proprietà; Dei differenti modi coi quali si acquista la proprietà).
Chiamato nel 1807 Codice Napoleone, esso trovò applicazione in tutti i territori europei sottoposti al dominio diretto
o indiretto dell’imperatore francese, che era ben conscio della sua importanza come strumento di razionalizzazione del
diritto e di modernizzazione della proprietà, tanto da dichiarare a Sant’Elena: «La mia vera gloria non è di aver vinto sessanta battaglie…Ciò che vivrà eternamente è il mio Codice Civile ».
3
E’ utile precisare, per non incorrere in valutazioni non corrispondenti al vero, che il Codice civile – come tutta l’opera politica e amministrativa di Napoleone - realizzava un compromesso tra i principi gerarchici e autoritari derivati dalla
tradizione dell’antico regime e i valori affermatesi nell’età dei lumi e nella Rivoluzione francese.
In nessun campo la commistione tra vecchio e nuovo è così evidente come nelle parti del codice che riguardano il
diritto di famiglia, cioè i rapporti tra coniugi e tra genitori e figli, l’eredità e le successioni. Tra le norme più rilevanti vi sono
quella che dispone la divisione in parti uguali dell’eredità tra tutti i figli, maschi e femmine (art. 745) e quella che vieta le
“sostituzioni”, cioè l’obbligo fatto all’erede di trasmettere a sua volta il patrimonio a persona designata dal testatore (art.
896), come avveniva in gran parte d’Europa col sistema dei fedecommessi. D’altra parte sono numerose nel Codice
Napoleone le disposizioni che tutelano l’autorità del padre di famiglia e che sanciscono l’inferiorità giuridica della donna
e la sua subordinazione al marito. Esso riflette, insomma, i lati progressivi ma anche i pregiudizi di una società borghese quale doveva pienamente affermarsi nel secolo XIX.
4
Il 18 maggio 1804 (28 floreale anno XII) è la data che, con la proclamazione del Primo Impero, poneva fine al Consolato.
5
La cerimonia di incoronazione di Napoleone I a Imperatore non aveva nulla in comune con la tradizione. La “presenza” del papa non significava affatto che Bonaparte avesse accolto una concezione discendente del potere e quindi
attribuisse al pontefice un qualche ruolo liturgico o politico: Napoleone, diversamente da tutti i sovrani del passato., si
incoronò personalmente.
1
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Incoronazione di Napoleone, dipinto di Jacques
Louis David. Il 2 dicembre 1804 in una cerimonia
svoltasi nella cattedrale parigina di Notre- Dame,
papa Pio VII consegnò la corona imperiale a
Napoleone, che con un gesto significativo e spettacolare la prese dalle sue mani e se la pose sul
capo. Il gesto aveva un chiaro significato simbolico: evitando l'incoronazione da parte del pontefice, Napoleone volle affermare che il suo potere
non derivava da Dio, ma dal suo agire politico e
dal consenso del popolo.
la corona di Imperatore dei francesi (titolo trasmissibile agli eredi). Era la restaurazione di fatto
della monarchia ereditaria.
1805 (21 ottobre). Battaglia navale di Trafalgar (promontorio della Spagna, tra Cadice e
Gibilterra): nella celebre battaglia la flotta franco-spagnola di Napoleone fu sconfitta da quella britannica comandata dall’ ammiraglio Horatio Nelson, che morì nel corso del combattimento.
1805 (2 dic.).
Battaglia di
Austerlitz.
Sconfitto sul mare (fallito attacco
all’Inghilterra,
nella
battaglia
di
Trafalgar), Napoleone fu vittorioso in
terra. I soldati della Grande Armée
napoleonica erano arrivati, in una
spedizione sino a quel momento vittoriosa, sulle colline di Austerlitz, in
Moravia ( attuale Rep. Ceca). Li
aspettava l’impresa che sarebbe passata alla storia come la battaglia dei
tre imperatori (Francesco I d’Austria,
Alessandro I di Russia e Napoleone
Bonaparte). Lo scontro che si protrasse dall’alba al tramonto del 2 dicem-
Napoleone nella battaglia di Austerlitz (dipinto di Francois Gerard).
Il 2 dicembre 1805, primo anniversario dell'incoronazione imperiale,
Napoleone compie quello che è considerato il capolavoro del suo
genio strategico. Con grande abilità induce il nemico, ben più numeroso, a portarsi nelle posizioni che lui stesso aveva scelto. Le truppe
austro-russe si ritrovarono infatti in un avvallamento, circondate da
un mare di nebbia, mentre l'esercito francese si era posizionato su
un'altura illuminata dal sole.
bre, fu una carneficina: oltre 16.000 morti, di cui 11 mila russi, 4 mila austriaci, 1.300 francesi.
La battaglia di Austerlitz ebbe come conseguenza immediata la fine della III coalizione (formata
nell’agosto 1804 da Gran Bretagna, Svezia, Russia e Austria). Padrone ormai dell’Europa occidentale, Napoleone nel luglio 1806, con la creazione della Confederazione del Reno, un agglomerato
di staterelli filo-francesi, costrinse l’imperatore d’Austria Francesco I a deporre la corona dell’Impero:
aveva fine, dopo mille anni, il Sacro Romano Impero. Restava invitta l’Inghilterra.
1806 (nov.). A Berlino Napoleone emana il decreto sul Blocco continentale, col quale si vietava ai francesi e ai loro alleati ogni rapporto commerciale con l’Inghilterra, nel tentativo di
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isolarla economicamente. Esso, tuttavia, non solo non diede i risultati sperati, ma creò difficoltà
alla stessa economia francese e degli Stati controllati e alleati. La Russia, in particolare, alleata
della Francia dal 1807, contestò la prosecuzione del blocco commerciale, rivendicando la propria autonomia economica e la libertà di commercio con la Gran Bretagna. Anche per questo
Napoleone nel 1811 cominciò a predisporre l'invasione dell'impero russo.
1809-1812: Pio VII è tenuto prigioniero da Napoleone a Savona, in un appartamento adiacente il Duomo.
1812. (giugno-novembre). Campagna di Russia. Napoleone invade la Russia che non si
vuole piegare al blocco continentale. L’imperatore francese presumeva di distruggere l’esercito
dello zar nel giro di poche settimane, ma i russi, adottando la tattica già sperimentata da Pietro
il Grande all’inizio del Settecento contro gli svedesi di Carlo XII, si ritirarono attirando il nemico
all’interno del loro sconfinato paese.
Tra ottobre-novembre si ebbe la disastrosa ritirata dalla Russia della Grande
Armata, che aveva lasciato sul campo
circa 400 mila dei 600 mila soldati che
formavano l’esercito.
1813 (16–18 ottobre). Sconfitta di
Lipsia. Approfittando del disastroso
esito della campagna di Russia, tutti gli
avversari di Napoleone unirono le proprie forze (costituendo la VI coalizione
30 marzo 1814. Le truppe alleate entrano a Parigi. I nemici di
Napoleone cavalcano gli Champs-Elysèes alla testa delle truppe
vittoriose. Era la prima volta, dopo la guerra dei Cento anni, che un
esercito straniero entrava nella capitale francese.
antifrancese: Gran Bretagna, Austria, Prussia, Russia e Svezia) e diedero inizio alle guerre di
liberazione dall’imperatore francese. Con la cocente disfatta di Lipsia Napoleone dovette ritirarsi
al di là del Reno: era la fine dell’impero napoleonico.
1814 (30 marzo). Parigi capitola. Dopo aver sconfitto Napoleone a Lipsia, gli Alleati passano il Reno ed entrano (dicembre 1813) in Francia. Il 30 marzo ‘14 lo zar Alessandro, il re di
Prussia e quello d’Austria entrano a Parigi.
1814 (6 aprile). Abdicazione di Napoleone. Dopo che le armate della coalizione occuparono Parigi, Napoleone fu costretto ad abdicare, firmando l’atto che avvallava la restaurazione della
monarchia nella persona di Luigi XVIII, e venne relegato nell’isola d’Elba (nel Tirreno, a circa
dieci chilometri dalla costa toscana). Dopo 22 anni, in Francia veniva restaurata la monarchia.
1814 (novembre). Si apre il Congresso di Vienna.
1815 (18 giugno). Disfatta di Waterloo. Sfuggendo alla sorveglianza inglese, Napoleone
lascia l’isola d’ Elba, sbarca in Francia e rientra (marzo 1815) a Parigi. Postosi alla testa di un
nuovo esercito affronta le potenze coalizzate, ma viene definitivamente sconfitto nei dintorni della
cittadina di
Waterloo, in Belgio in una battaglia durata otto ore (dalle 11.30 alle 19.30).
Consegnatosi agli Inglesi viene esiliato a Sant’Elena, piccola isola dell’Oceano Atlantico, dove
si spense sei anni più tardi il 5 maggio 1821.
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Napoleone e la nascita dello Stato accentrato
Il colpo di Stato del 18 brumaio segnava la fine della rivoluzione francese: nel giro di poche
ore il Direttorio fu esentato, i due Consigli legislativi sciolti, la Costituzione del 1795 abrogata. Lo
stesso giorno i poteri passarono a un Consolato, composto da tre membri, Bonaparte, Sieyès e
Ducos; i quali nominarono una commissione per l’elaborazione di una nuova Costituzione che,
promulgata nel dicembre del 1799, ridisegnava totalmente l’intelaiatura dello Stato francese.
Con la Costituzione dell’anno VIII, entrata in vigore il 25 dicembre 1799, Napoleone creava
il modello di Stato accentrato1, che avrebbe esercitato un’influenza decisiva sull’evoluzione dell’intera Europa continentale, ponendosi come modello da imitare2.
Vediamo brevemente qual’era l’impianto dello Stato disegnato dalla Costituzione dell’anno
VIII (che non a caso mancava, a differenza delle precedenti, di una Dichiarazione dei diritti), nella
cui redazione prevalsero, ovviamente, le direttive e la volontà di Bonaparte.
Primo console, carica assunta, logicamente, da Napoleone, coadiuvata da altri due consoli
in posizione subordinata ovvero con una funzione puramente consultiva. Al Primo console era
attribuito interamente il potere esecutivo, ma deteneva anche l’iniziativa legislativa (ossia il diritto di proporre le leggi) unitamente al:
Consiglio di Stato, organo tecnico (composto da una cinquantina di membri nominati dal
Primo console), col compito di preparare e redigere le leggi proposte dal Primo console.
La Costituzione prevedeva anche tre assemblee legislative cui erano affidati i residui poteri
legislativi, nel senso che il:
- Tribunato (100 membri, ridotti a 50 dalla Costituzione dell’anno X) : discuteva i progetti di
legge allo stesso sottoposte dal governo; dava il proprio parere senza poterli votare.
- Corpo legislativo (300 membri) votava i progetti di legge, approvandoli o respingendoli
senza poterli discutere.
- Senato (60 membri nominati a vita dall’esecutivo) ne controllava la costituzionalità
prima della promulgazione3.
Si definisce Stato accentrato, o centralizzato, l’organizzazione politico-amministrativa nella quale tutte le decisioni
rilevanti riguardanti l’intero territorio competono a un unico organo di governo e sono realizzate da un’unica amministrazione, sia l’una che l’altra collocati nella città capitale. In Francia l’accentramento era stato avviato già nel 1793-94 in
periodo giacobino, allorchè si volle bloccare l’insurrezione (estate del ’93) dei dipartimenti filo girondini; insurrezione che
rischiava di travolgere la stessa Rivoluzione, la quale rompendo con la tradizione dell’assolutismo accentratore aveva
liberato tutte le forze delle autonomie locali.
2
Nel febbraio del 1800 (da qui la denominazione di “anno VIII”) la Costituzione venne sottoposta a un plebiscito che,
con più di tre milioni di voti favorevoli e solo un migliaio contrario, ne approvò il testo. Sebbene oltre quattro milioni di
francesi non parteciparono affatto alla votazione, Napoleone si ritenne ugualmente investito del potere di legiferare e
governare in nome dell’intera nazione e nei mesi seguenti instaurò un regime personale e dittatoriale.
3
Era il senato che nominava i membri delle due assemblee legislative rappresentative (Corpo legislativo e Tribunato)
traendoli da una “ lista nazionale di confidenza”. In pratica il popolo “ sovrano” si limitava a votare delle liste di “notabili”
che avevano poi il compito non di eleggere ma semplicemente di proporre delle candidature; spettava infine al senato,
appunto, scegliere fra i candidati i membri delle due assemblee rappresentative. La Costituzione dell’anno VIII ristabiliva
il suffragio universale maschile, ma lo svuotava di contenuto.
1
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E’ facile notare come dietro la moltiplicazione dei corpi e degli organi di governo si celasse la
sostanza di un potere dittatoriale che ruotava intorno alla figura di Bonaparte. A fronte della
sostanziale atrofia del potere legislativo si ha un rafforzamento dell’esecutivo, caratteristica, questa, di ogni regime autoritario. Di fatto, con la Costituzione dell’anno VIII, tutto il potere è nelle
mani del Bonaparte.
Centralismo amministrativo
A un disegno di accentramento del potere e di pacificazione sociale rispose la riforma amministrativa locale attuata da Napoleone; riforma che costituisce la più duratura delle realizzazioni
napoleoniche (rimarrà sostanzialmente in vigore per oltre 150 anni e influenzerà, come già detto,
l’organizzazione amministrativa negli stati europei nel corso dell’Ottocento). Nel sistema amministrativo disegnato da Napoleone sparisce ogni autorità locale4. Lo Stato venne fondato sull’onnipotenza del ministro
che
degli
Interni
rispondeva
esclusivamente al
Primo console; il
ministro degli Interni
agiva nei dipartimenti (una specie di
province) attraverso
il potere dei prefetti5 i cui compiti oltre
Napoleone e l’accentramento statale. Il concetto di
decentramento politico-amministrativo è del tutto
estraneo allo spirito di Napoleone, per il quale il
modello organizzativo più efficiente è quello militare. E
così con legge del febbraio 1800 Napoleone introduce
il sistema amministrativo accentrato, conferendo ogni
potere decisorio a un apparato di funzionari, organizzato secondo il principio gerarchico. Il punto più
importante della legge è l’istituzione dei prefetti; gli
amministratori locali vedono svuotata la loro funzione,
ridotta al ruolo di semplici esecutori di decisioni prese
dall’alto. Dal febbraio 1800 Napoleone, quasi a voler
sottolineare l’identificazione coi sovrani dell’Ancien
regime, prende residenza al Palazzo delle Tuileries,
dove si era progressivamente installata una corte in
costante crescita.
che amministrativi erano politici: applicavano le direttive del governo ed esercitavano il controllo
sullo “spirito pubblico” e quindi soprattutto sulle opposizioni. I prefetti furono le “masse di granito” (l’immagine è dello stesso Napoleone) su cui si edificò il regime Napoleonico, ma destinati a
sopravvivere a quel regime.
A capo di ogni Circondario (o Distretto) in cui si articolavano i Dipartimenti, era posto un sottoprefetto; alla guida di ogni Comune era posto, invece, un sindaco (maire), carica non più elettiva, ma di nomina prefettizia (nei comuni più piccoli) o consolare, nei comuni più grandi.
Con la Rivoluzione si era affermato il diritto del popolo a partecipare alla vita amministrativa dei dipartimenti e dei
comuni con propri amministratori liberamente eletti; con la riforma amministrativa quel diritto venne soppresso.
5
I prefetti - creati con legge del 17 febbraio 1800 (28 piovoso dell’anno VIII), dipendenti direttamente dal primo console e, in seguito, dall’Imperatore - rappresentavano il governo in ogni dipartimento. Essi furono il principale strumento
della centralizzazione burocratica e amministrativa. Il loro ruolo decisivo permette di affermare che il risultato effettivo
della Rivoluzione consistette nell‘assicurare la continuità dell’assolutismo, divenuto ora più efficiente, razionale e impersonale. I prefetti (termine di origine romana) se per un verso appaiono eredi degli intendenti dell’ancien regime, tuttavia
si differenziano in quanto le loro funzioni non erano più controbilanciate, come nel caso degli intendenti, dall’esistenza di
autonomie locali e di corpi privilegiati.
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