RICORDI E FRAMMENTI * di Mario Simone FIUME 1919 I L’estate di quel ‘19 mi trovò tutto una fiamma (febbre di adolescenza alimentata dalla psicosi dell’irredentismo e dal dannunzianesimo) e mi vide abbandonare la scuola diseducatrice, sdegnoso del piccolo mondo borghese che la esprimeva. A Manfredonia chiamai a raccolta i più fedeli e nello stesso fondaco di mio padre al Corso Manfredi (oggi farmacia Centrale) che il 1916 aveva ospitato il Circolo studentesco Cesare Battisti, costituì la Unione sportiva «Nazario Sauro» prima e unica del genere in Capitanata a imprimere alla sua attività agonistica uno spirito politico di intransigenza che, in relazione ai tempi e all’educazione dei giovani di allora, è sembrato un segno anticipatore del fascismo come ha recentemente ricordato il «Giornale d’Italia» (21 giugno). Doveva essere secondo il mio disegno una cellula di quel movimento rinnovatore nazionale che da qualche tempo presagivo attraverso la stampa, ma io ero un capo troppo giovane per impormi all’ambiente dominato da mentalità e psicologia bizantina. Comunque, riuscì a conservarle la sua fisionomia politica e approfittai della commemorazione del Sauro per affermarla in maniera solenne. Come riportò « Il Foglietto » di Lucera (26-8-‘19) dopo il discorso celebrativo da me tenuto al Teatro Eden, « A mezzanotte tutti i giovani della sezione ed altri moltissimi si recarono in corteo sul Ponteporto e lì sulle scogliere dell’estrema punta di esso, dinanzi alla maestà dell’Adriatico nostro, lanciarono in gran coro il grido di guerra di Gabriele D’Annunzio, che l’eco profondo portò certamente ai nostri fratelli dell’altra sponda, come una promessa, come una speranza ».1 * E’ stata operata dai « Ricordi e Frammenti » una scelta accurata. Sono state escluse pagine già pubblicate su giornali e riviste o passi la cui stesura si limita ad una prima provvisoria raccolta di appunti incompleti. 1 La sez. sportiva « Nazario Sauro » - Manfredonia 18 agosto 1919 Una eletta schiera di giovani studiosi ha testè costituita in questa città una Sezione Sportiva, intitolandola, con opportuno sentimento patriottico all’eroe martire « Nazario Sauro ». 13 II In tali condizioni di spirito mi raggiunse la notizia della Marcia di Ronchi. Letto i giornali e deciso a raggiungere il Comandante fu tutt’uno. Con quello che ritenevo il più spregiudicato dei miei compagni, Edoardo Mazzone di Ludovico, decisi d’imbarcarmi subito su uno dei velieri che facevano il piccolo cabotaggio con la Dalmazia. Ma nonostante la nostra riservatezza sui propositi di partenza, il 15 settembre ricevei da Foggia una lettera dello studente Michele Cainazzo: « So in parte le tue intenzioni a proposito dei fatti di Fiume. Animato dai medesimi sentimenti, ti prego di venire a Foggia domani per un abboccamento…… ». Fu il primo contrattempo. Incominciai a fare la spola col Capoluogo che mi ammoniva ogni volta sull’approssimarsi della sessione autunnale e ivi presi contatto col prof. Luigi Natoli, esponente del patriottismo massonico locale, e con qualche altro valentuomo. Essi m’informarono di star preparando una grande spedizione con l’intervento di numerosa rappresentanza delle forze armate e mi consigliarono di collaborare alla buona riuscita di essa. Si trattava di un piano che, riuscendo, avrebbe fatto storia nella nostra provincia. La colonna di uomini (arditi, cavalleggeri, aviatori) avrebbe dovuto raggiungere nottetempo Manfredonia dove alla scogliera dell’« Acqua di Cristo » avrebbe dovuto trovare pronti una passerella e un piroscafo della Società di navigazione « Puglia », già occupato di forza e colà diretto. Ma il tentativo fu sventato dalla Questura, e Manfredonia incominciò ad essere rigorosamente sorvegliata. III Da tempo trovavasi in porto sull’ancora una regia nave vedetta; i suoi sottocapi timoniere e radiotelegrafista erano entrati a far parte dell’Unione Sportiva. Insinuai a questi due marinai l’idea di portare a Fiume la nave Domenica, nell’Eden teatro, tutto imbandierato, l’egregio giovane sig. Mario Simone tenne il discorso inaugurale suscitando il più grande entusiasmo. Evocò l’epiche gesta dellEroe Martire invocò con frase elegante la fede di tutti i giovani, dopo di aver rilevati gli scopi educativi della sezione, concluse, applauditissirno, con una calda perorazione alle speranze della gioventú ed ai piú grandi destini della patria. A mezzanotte poi tutti i giovani della sezione ed altri moltissimi si recarono in corteo sul Ponte-porto e lì sulle scogliere dell’estrema punta di esso dinanzi alla maestà dell’Adriatico nostro, lanciarono in gran coro, il grido di guerra di Gabriele D’Annunzio, che l’eco profondo portò certamente ai nostri fratelli dell’altra sponda, come una promessa, come una speranza. Congratulazioni ed auguri. 14 e non ebbi bisogno di molte parole, per farmi capire. Consigliarono anzi, di affrettare la partenza che s’imponeva prima che facesse ritorno da Bari il loro comandante. Chiamai a raccolta i fedeli di Manfredonia e mi portai a Foggia per avvertire quegli amici. Ebbi l’assicurazione che insieme con pochi borghesi sarebbe venuto al completo il gruppo di arditi. Qualche giorno dopo, ritornando a Manfredonia per organizzare la partenza fissata l’indomoni notte, una sorpresa mi attendeva in treno. Tra gli altri viaggiatori un capitano di Marina mi fece gelare le vene. « li capo non può essere che lui - pensai -tutto dunque svanisce! » Ma il caso sembrava congiurare con me. Ecco che due agenti di Polizia salgono e si fermano nel corridoio per scrutarci uno ad uno. - Che guardano questi ridicoli! - Esclama come seccato il Capitano. Non mi par vero di poter prendere la parola: - Hanno l’aria di essere poliziotti. Temono partenze per Fiume. - Ebbene - dichiara subito quello in modo piú teatrale - Ecco la provocazione più grave per farmi raggiungere subito D’Annunzio! Ebbi l’ingenuità di confidargli il piano. - Quei pirati - gridò - sarebbero dunque partiti senza il loro comandante! La sera nel caffè Castriotta concertammo il da farsi. Si sarebbe partiti la notte successiva, per consentire l’arrivo della gente di Foggia. Avremmo portato a Fiume, oltre i cuori e le armi, sopratutto il danaro esistente in cassa sulla nave. Mi agitai tutta la notte. Alll’alba montai in terrazza, per rivedere la nave, che finalmente ci avrebbe portato trionfanti fino alla meta. Ma il Capitano, prudentemente, aveva già preso il largo. IV Ammaestrato dalle difficoltà delle partenze in grande stile, decisi di ridurre il programma alle originarie modeste proporzioni. Erano quel tempo in corso i lavori del Porto Varano. A Manfredonia il Genio Marino che li eseguiva era allogato nel Castello e aveva come fiduciario un mio affiliato, Michele Cafarelli di Carlo. Con questo misi l’occhio su un rimorchiatore d’alto mare capitanato da un di Romagna, autentico lupo di mare col quale però non si riusciva mai a imbastire un ragionamento perché era o fingeva di essere sempre ubriaco. Decidemmo dunque di agire con la violenza. Imbavagliata la guardia di Finanza del faro, non sarebbe stato difficile raggiungere la nave e obbligare i marinai eventualmente ostili a sbarcare e il capitano a guidarci a destinazione. E saremmo certamente partiti se proprio il giorno stabilito non 15 fosse apparso a Manfredonia il comandante la tenenza Carabinieri di Foggia. Io e Cafarelli ci trovavamo appunto in Castello allorquando quello venne a chiederci di poter telefonare a Foggia. - Pronto! pronto! nessuna novità. Qui tutto bene. E l’indomani di nuovo tutto male perché alla sorveglianza del porto furono addetti anche i Carabinieri. Il rimorchiatore partì per il Varano, e dovemmo così cambiare un’altra volta programma. Ecco il disegno del Cafarelli: « Partire da Foggia - Sansevero - Apricena S. Nicandro G. - S. Nicola Varano - Capoiale. A Capoiale, ove mi farei trovare col rimorchiatore « Lido » vi sarebbero solamente l’ufficiale telegrafico ed il magazziniere. Se vestiti da operai dire che si va in cerca di lavoro, se vestiti ordinariamente dire che si cerca l’ingegnere D’Arienzo o Delli Muti, tanto per avere alloggi e mangiare gratis, la notte e la mattina alle sei, quando il rimorchiatore dovrebbe fare ritorno a Manfredonia, imbarcare tutti, tagliando comunicazioni telegrafiche e fornendosi di una buona scorta di carbone e di olio e indurre il comandantte a sbarcare l’equipaggio. Quindi seguire la rotta ». Progetto anch’esso svanito per la mancata tempestiva azione degli elementi foggiani. FORMIGGINI, CONTI, PETRUCCI (Maestri miei iniziatori) Ad Angelo Fortunato Formìggini debbo le più gioiose emozioni della mia carriera di lettore. A Napoli, dove il 1918 preparavo la licenza liceale, conquistata poi al « Genovesi », ricevetti in libreria un saggio de « L’Italia che scrive »: ritornato a casa ottenni che mio padre pagasse l’abbonamento alla gaietta rivista. Fui conquistato dallo stile magico di quel periodico, in cui lo spirito vivace dell’editore sceglieva e amalgamava le varie collaborazioni, in modo da comporre una unità culturale e tipografica. Trasferitomi a Roma, sapevo trovare le occasioni e le scuse, per farmi ricevere un attimo nello sgabuzzino di lavoro di quel gigante di vicolo Doria, dove uno scantinato ospitava la casa editrice e la Biblioteca circolante, unica istituzione di quel genere nell’Urbe. Sembrava un idillio, l’attività di AFF a Roma, con le gerarchie fasciste; fino a quando queste non decisero di stroncare... l’uomo, lasciato ancora libero e fu l’assalto alla « Leonardo », cui seppe rispondere con La picozza filosofica del fascismo. Stretto ai pochi amici, ne condivisi la pena, e mi esasperai alle prime misure razziali, e non mi rassegnai facilmente dopo lo storico sacrificio dalla Torre di Modena. Rivedere il suo sorriso m’è tuttora di conforto e di incoraggiamento, tra le contraddizioni della vita. A Roma ho avuto la fortuna di esaltarmi vicino ad altri due uomini eccezionali: Giovanni Conti e Alfredo Petrucci. Furono essi 16 Angelo Fortunato Formiggini 17 a « insegnarmi il mestiere ». Conti fu il promotore e, con l’avv. Lanzetta, il realizzatore della editoria politica romana. Quando le altre forze politiche credevano di assolvere tutti i loro compiti nell’azione parlamentare, e poi aventiniana, il discepolo di Arcangelo Ghisleri affermava che il successo di qualsiasi tattica e strategia politica non può non essere condizionata dalla carica morale, dalla preparazione ideologica e dalla esperienza pratica dei protagonisti, i quali non sono soltanto i capi e i dirigenti (parole delle quali aborriva) ma anche e soprattutto il « popolo ». Fondatore e direttore de « La Voce Repubblicana » e della « Libreria Politica Moderna », fu il mio modello di editore, pervaso da un alto ideale di rinnovamento e sdegnoso di tutto quanto costituisce la materia vile della funzione mercantile. Sincero e leale fino a traumatizzare chi non « filava » sulla sua linea, suggestionava e trascinava in virtù di un temperamento virile, vivace ed esuberante, La sua lezione non era fatta per farlo chiamare maestro (altra parola che egli dava ai nemici). Sentivo in lui il padre severo, che non si trattiene dal contestare, senza rinunziare alle prove, la capacità di rinnovamento del vecchio repubblicanesimo meridionale, intellettualistico e settario, e per ciò inconcludente. Petrucci - Poeta ed artista di rara sensibilità e operosità, Alfredo Petrucci, autorevole fratello maggiore, mi ha trasfuso il gusto, i segreti tecnici e il rispetto amorevole della buona stampa, dall’esordio lontano ai suoi ultimi tempi: un periodo di cinquant’anni nel quale è stato per me decisiva la sua collaborazione. I nostri appaiono sui tre volumi dell’« Almanacco Giuridico Forense Italiano » (Lunario della Toga), pubblicati per le nostre cure a Roma negli anni 1930-33, ma essi sono stati sempre vicini, sia che recensissi sue opere, sia che annunciassi quale mia edizione il suo Gargano monumentale (trasfuso poi in Cattedrali di Puglia). Vocino nella pubblicazione della rivistina « La Puglia a Roma », dei « Quaderni Pugliesi » iniziati nella capitale col suo Caldara e dell’altro periodico « Puglia » di entrambi volle affettuosamente disegnare le testate, uscito a Bari il 1926 presso i Laterza. I LATERZA Il 30 maggio 1960, diciassette anni dalla scomparsa, Putignano, comune patrio, murò una lapide su la casa nativa di Giovanni Laterza senior. Nel salone della biblioteca civica, Tommaso Fiore ripercorse la vita di quel grande pugliese con una celebrazione, che attendiamo di vedere a stampa in opuscolo. Varie componenti personali, fanno di Giovanni Laterza il prototipo dell’editore nuovo del Mezzogiorno, destinato ad assicurare alla sua regione un primato insuperabile. Introdotti nella sua straordinaria 18 Biblioteca civica di Putignano. Commemorazione di Giovanni LaTerza 19 utensileria, senza la preparazione richiesta da quel complesso apparato, si rischiava facilmente di uscirne bocciato e deluso. Don Giovanni, uso al dialogo con Benedetto Croce, al centro della rete culturale distesa nel Paese e fuori; e con lui fratelli e figli, legati dal mestiere e dall’indirizzo politico: Giuseppe, Franco, Vito, Peppino, tutti esperti, reduci dalla stessa grande scuola tipografico-editoriale-libraria del Nord e dei paesi esteri scelti a scuola d’esperienza. Affidata alla officina, che si ornava di quei nomi, « Puglia » si illuse di potervi fondare la sua immortalità, lucrando la estesa fama editoriale; ma nessuno si accorse del periodico e della stamperia. Mancò a quel foglio, con tante altre cose, un gruppo redazionale e la organizzazione amministrativa; mentre ebbe una base di lettori bene individuata durante un non breve lavoro preparatorio, assolto con meticolosità tra i numerosi amici corregionali o dimoranti in Puglia; sulle schede da me distribuite essi mi notificarono molti indirizzi interessati a ricevere il periodico. Aiutato solo da una allieva, che preparavo nello svolgimento di una banale tesi di laurea, mi sottoposi a un lavoro in gran parte frustrato dalla disordinata spedizione dei numeri da parte della tipografia e dalla resistenza ad esporre ìl foglio delle edicole giornalistiche, e da tanti altri fattori. Fattori di successo di un periodico sono la tempestiva pubblicazione e diffusione e si sbaglia, affidandone la stampa a un grande stabilimento. Esso, appunto per la sua modesta mole, sarà sempre curato meglio in una piccola tipografia, purché sia animata da gente per bene, modesta, volenterosa di collaborare con gli intellettuali della medesima loro stoffa, sopportandone le interferenze tecniche. ANARCHICI Tramite Filippo Maria Pugliese m’incontrai per corrispondenza con Cesare Teofilato, il solitario pubblicista anarchico di Francavilla Fontana (Brindisi), del quale parla Tommaso Fiore nelle ultime pagine di « Un popolo di formiche ». Mi scrisse di Michele Angiolillo, il giovane foggiano garottato in Spagna, citando lo scritto del Morelli (Rastignac) in suo ricordo: « Germinal ». Di Angiolillo mi parlò il libraio Mancino, di Lucera, ch’era stato suo compagno di scuola. Un altro incontro con anarchici dauni e pugliesi fu alla lettura di « La Puglia nel Risorgimento con particolare riguardo ad Acquaviva delle Fonti » di Antonio Lucarelli. Suggestive le figure di Cafiero e di Covelli. A Roma, nel periodo dell’università (1921-25) mi procurai numerose edizioni anarchiche, politiche e letterarie; di esse non tutte figurano nel mio schedario perché, al fine di sottrarle alle perquisizioni romane, le diseminai tra insospettabili famiglie amiche. Molte di quelle 20 T. Fiore commemora nella Biblioteca civica di Putignano Giovanni Laterza (30-5-1960) 21 possedute, risalgono al periodo foggiano, ai rapporti affettuosi, che mi legarono a due anziani anarchici: i ferrovieri in pensione Quirino Perfetti e Adolfo Valente, questo oriundo di Manfredonia, che non posso ricordare senza commozione, per la dirittura dei loro caratteri, per l’azione educativa svolta e per la solidarietà, che mi dimostrarono quando i miei genitori furono aggrediti e poi abbattuti dal male. Nella pagina pubblicata da « Rassegna pugliese »1, fascicolo in onore di Tommaso Fiore, nomino gli anarchici garganici Bramante e Palladino, che da tempo mi avevano incuriosito, fino a farmi cercare le loro tracce nei paesi di origine: Carpino e Cagnano Varano. Qui mi fu propizio il commissario al Comune, dott. Antonio Papagno, manfredoniano, che riuscì a farmene ottenere il ritratto, del quale volle copia Antonio Lucareli, per il suo scritto biografico apparso con l’immagine « Umanità Nova » e poi in quaderno. Infruttuoso fu, invece l’incontro con le sorelle superstiti del Palladino, mostratesi ingenerose verso la sua memoria, non perdonandogli la tresca adulterina, per la quale una notte del 1896 fu spento dall’uomo tradito. Dei fratelli Bramante, promotori col Palladino della prima internazionale (anarchica) non si serbano molte notizie a Carpino. Lo storico locale, Giuseppe D’Addetta, non mi ha potuto fornire elementi di dettaglio. Il 1921, durante la campagna elettorale a Manfredonia, mi si presentò un bracciante, ritornato in Patria dagli Stati Uniti, Antonio Latosa, per dichiararmi la sua fede repubblicana e donarmi alcuni giornali anarchici in lingua italiana di quel paese, con articoli e cronache relativi al « caso » di Sacco e Vanzetti. Non ero andato ancora a Roma, dove mi sarei arricchito di informazioni politiche, e quella stampa mi fu molto utile. A Roma, dove arrivai all’inizio dei corsi universitari (ottobre 1921) e dimorai fino al gennaio del 1933, conobbi numerosi anarchici, che erano gli amici meno... pericolosi di noi repubblicani. Frequentavo la tipografia « Poligrafica » dove, oltre « la Voce Repubblicana » e altri periodici e numeri unici del PRI e della Federazione giovanile, si stampava anche il settimanale anarchico « Umanità Nova », poi diventato quotidiano. Vi incontravo Enrico Malatesta, che non lesinò suggerimenti bibliografici per la migliore conoscenza storica e ideologica del movimento, allora da lui animato in Italia. Quando, finalmente, presi la laurea, mi disse con l’abituale bonomia: « Mò te ne ritorni al paese, dove la famiglia ti farà trovare l’orgoglio d’oro e una ragazza di buona famiglia per sposa; ti butterai nella professione e sarai simile ad altri giovani, che ho conosciuto, come te, pieni di ardore e di programmi qui, tra noi; perdutisi dopo ». Gli dissi che tutto poteva accadere, ma che, comunque, avrei fatto del mio meglio per non « finire » come qualche altro. Dopo anni di esilio a Foggia, ho scritto questo ricordo agli amici di Roma, che preparavano un quaderno dì ricordi in memoria del 22 Malatesta. Fortunatamente, mi ero salvato (ma a quale prezzo risulta dagli altri paragrafi di queste memorie). Dopo il mio fallimentare rimpatrio del 1933, straziato dall’attività professionale (vedi « La toga e la croce ») a Foggia il mio impegno ideologico-politico fu guastato dalla pena del « natìo loco » e dalla illusione di potermi rendere utile a suo beneficio... Riusciti vani i tentativi di iniziare un colloquio marginale con avvocati già esponenti dell’antifascismo: il repubblicano Colaminè e i socialisti Fioritto, Laporta, Lupino, Maitilasso, Manedes e l’indefinito Raho, massone, tutti affogati nella professione, con l’abituale ingenuità ricevuta da mio padre non capii che, dai loro partiti o congreghe, legati per bisogno o per consuetudine a quella che sembrava alienante pratica forense, fuori da ogni corrente culturale, ma soprattutto perché esauriti e prossimi alla vecchiaia, essi non disponevano più delle energie necessarie a farli resistere ancora sulla linea della opposizione e salvarli dal destino assegnato loro dalla meschina vita provinciale. Un’altra illusione: mi attendevo da costoro un segno di riconoscimento della mia attività culturale romana, della quale erano segni lampanti in alcune riviste e... monumento « Almanacco giuridico-forense italiano » redatto in collaborazione con Alfredo Petrucci. Finii col detestare quei signori, che furono causa non secondaria del mio deterioramento politico (vedi « La toga e la croce »). Tardi conobbi gli esponenti anarchici Perfetti e Valente, e poi Gualano di San Nicandro, e altri. MARTINEZ Tu lo sapevi allora, Gaetano, che sarebbe andata così. Ma non t’immaginavi, confessa, che avresti durato tanto a lungo. Quanti anni da quella sera, che c’incontrammo da Palazzi, al Foro italico? Mettiamo trentaquattro (e tanti approssimativamente sono quelli del tuo martirio), ché da poco eri giunto a Roma dalla nostra Puglia. « Troppi ». Quale gusto poteva darti quella vita, che il Prossimo rendeva così difficile? Se all’ultimo non ti eri fatto frate, dopo essere stato fascista e, forse, cavaliere, dobbiamo proprio concludere che l’Arte, (questa volta ci vuole la maiuscola) che il pane e formaggio che non sempre riusciva a procurarti, bastavano a tenere in piedi il tuo piccolo sacco. Ma, che vuoi? A vedere le Lede e le Ballerine puttaneggiare sui mobilucci borghesi mi si rivoltano le visceri. Dove sono andati a finire i genii che popolavano lo Studio di Via Monserrato? Bovio, Wagner, Carducci, Hugo... e quel Caino che issammo trionfalmente a Palazzo Salviati il 1925 alla Mostra degli Artisti pugliesi ordinata da Alfredo Petrucci? Via Monserrato, il cortile di un vecchio palazzo papalino. Per la scaletta degli stallieri salivo con Laurenzio alla tua stamberga. E lo 23 studio, la fetida rimessa e la fontanella col capelvenere. A volte appariva un cartello: « Dar la voce prima di entrare ». Era per via di una modella, che non amava esibirsi agli « estranei al lavoro » (Pin dove sei, pietrificata nella « Ignara mali »?) In quella spelonca mi donasti alcuni disegni, dicendomi che « domani » avrebbero avuto un prezzo. Eccoli sani e salvi da tutti i naufragi: « Che vuoi, Imbriani? - Dite, Bovio, agli Italiani che li aspetto sul Carnaro. - Sì, sii benedetto... ». Chi ha più disegnato meglio di te quelle immagini del nostro ideale repubblicano? E questo Enrico Ferri, che dalle contrazioni della mano sinistra esprime la dinamica del suo pensiero (dall’altra parte del foglio abbozzi del tuo autoritratto)? Poi gli ultimi doni, che io m’ero già ritirato in provincia, compresa un’autocaricatura, ma fredda, di moda, come t’avevano costretto a diventare. Dunque, dicevo che l’avevi previsto. Ed eccoci tutti a farti onore (forse c’è pure chi ha la colpa di aver troppo atteso). E non manca il premio giornalistico. Dopo averti mummificato, verranno - son già venuti - a ripetere ai portieri che ora sei morto sul serio (Morto, ridi, Gaetano, morto proprio adesso che finalmente sei vivo!) essi che non si sono mai accorti di te quando, come quel personaggio del mito, andavi combattendo ed eri morto. STORIOGRAFIA (MINORE?) Da tempo la grande Editoria va documentando i rinnovati interessi e le vedute nuove della storiografia su la vicenda meridionale nel primo e nel secondo Risorgimento (Resistenza). Purtuttavia, le restano tuttora estranei gli apporti così detti minori (se è lecito ipotizzare una scala di valori comunque riferita ai contenuti) che, affidandosi a collaboratori con impegno culturale più che mercantile, non si avvantaggiano dei comuni canali di propaganda e di diffusione (stampa, fidejussori autorevoli, agenzie librarie ... ), rimanendo il più volte ignorati dalla Bibliografia generale. E’ il caso degli studi di storia contemporanea relativi al processo di formazione nazionale, chiamati a dignità scientifica in Puglia con il costituirsi dei Comitati dell’Istituto per la Storia del Risorgimento, promossi da Giuseppe Petraglione, e sostenuti dalla Società di Storia Patria, dalla Società Dauna di Cultura e dallo Studio Editoriale Dauno. Si deve a quest’ultimo laboratorio la « Biblioteca del Risorgimento Pugliese » edita in Foggia col platonico patrocinio del predetto Istituto, e dilatatasi in prosieguo di tempo nella collana « Quaderni di Risorgimento meridionale », curata dal Centro per la Editoria Scolastica e Popolare (Napoli). Allo Studio e al Centro dobbiamo il « fissaggio » di una serie di temi, che hanno dato nome alle pubblicazioni che ci è gradito segnalare in questa rassegna cui si affida la duplice funzione di documento e di incentivo specie verso i giovani, per convogliarli verso ulteriori ricerche e attese sintesi. 24 I titoli compresi in questa miscellanea sono autentici e autorevoli contributi alla Bibliografia risorgimentale, non risultando mai prima d’oggi trattati « ex professo ». La redazione dei testi e il corredo delle note dei documenti e degli indici corrispondono ai canoni della più severa storiografia; le tavole figurate risultano scelte e collocate in modo di corrispondere insieme ai moderni canoni culturali ed estetici, sì da costituire un altro pregio editoriale con la stampa equilibrata e pulita. 25 APRILE 1971 Quest’intervento oratorio non vuole, non può, né dev’essere meramente convenzionale e decorativo; tanto meno può avvalersi della letteratura epica sulla Resistenza e la Liberazione. D’altra parte, non considerandomi uno storico e non volendo usurparne le prerogative, mi astengo da ogni altra considerazione che sopravvanzi la mia qualità di amministratore e i miei limiti di studioso. Non è mio compito risfogliare le pagine d’oro della Resistenza armata e della Liberazione, che contribuiscono a costituire il patrimonio sapienziale di tutti i Popoli. Sono ormai noti i nomi nostri conterranei, confessori e testimoni della fede civile, combattenti oscuri o martiri consacrati. Tra questi ultimi gli umili figli del popolo lucerino, padre e figlio Bucci, caduti abbracciati in catene alle Fosse Ardeatine, e il giurisperito Teodato Albanese di Cerignola, di nobile parentado, anch’egli, come i primi, vittima del medesimo eccidio, eppure tutti tre cresciuti nel fascismo e come tutti noi delusi, traditi, disingannati e contestatori. Naturalmente anche noi vogliamo elevare un peana per il nuovo trionfo degli eterni valori evangelici su la brutalità degli ultimi pagani d’Europa. Ma quei valori li andremo a cercare e riconoscere nell’area della vita civile dei nostri paesi, tutti impegnati nella lotta di Liberazione. Ricorderemo come, nonostante gli annunci premonitori della strage, sotto forma di adesione all’Asse e di mobilitazione degli spiriti, di richiami ai doveri e di catechismi di resistenza civile, le nostre popolazioni furono lasciate indifese e quindi abbandonate dai poteri centrali all’arbitrio dei tedeschi e poi alla ignoranza degli alleati che, nonostante i loro uffici psicologici, male ci amministrarono nei due periodi dell’Amgot e della successiva Commissione di controllo. Foggia contro le leggi di guerra, fu tutta un deposito tedesco di armi ed armati; nella villa, in alberghi si mascherava un reparto corazzato: fu pertanto, condannata alla distruzione. Sopraggiunti i « liberatori », non alleviarono di certo le condizioni del popolo innocente, occupando gli immobili risparmiati dai bombardamenti, riversandone in strada il contenuto, sottratosi agli « sciacalli ». Di questo nostro contributo mi tocca parlare, ignorato dalla storia della lotta armata, degli oscuri eroi e martiri caduti sotto le macerie 25 delle loro case o scacciatine e umiliati, senza protezione e costretti a rinunce spesso degradanti della dignità umana e civile. Nel vasto e profondo panorama della Resistenza e della Liberazione, oltre le vite e le gesta degne di Plutarco, deve trovar posto il contributo spirituale e materiale dato dalla nostra gente umile. E’ vero: non possiamo vantare gli scioperi politici, che hanno qualificato la lotta nel Nord, le sue azioni partigiane, il sacrificio di uomini subìto con le deportazioni, le torture, le stragi collettive e le esecuzioni individuali; la distruzione o il danneggiamento dei luoghi di produzione e di lavoro. Aggiungo che, per la preminente fisionomia agricola e marittima della nostra provincia, abbiamo patito meno le conseguenze delle misure condizionatrici dell’alimentazione e degli altri approvvigionamenti. Purtuttavia, la Capitanata ha pagato un oneroso contributo alla sua liberazione. Si dice questo non per presentare il conto alla Repubblica, ma per chiederci se facemmo interamente il nostro dovere, se dobbiamo rimproverarci qualcosa. I sacrifici della guerra non finirono con la liberazione. Dal primo sbarco alleato a Manfredonia fino alla resa tedesca, il Tavoliere si offrì alla offensiva apocalittica dell’arma aera, accogliendo la più grande base di lancio mai realizzata, dalla quale s’irradiarono gli stormi per l’Europa, fino agli estremi avamposti in Russia; avamposti alimentati con gli altri servizi mobili, dai sifoni di carburante del nostro Golfo e per le condotte da esso partenti. Una formidabile macchina bellica, e un corrispondente mastodontico apparato di attribuzioni amministrative e civili - in gran parte affidati alla lealtà delle popolazioni - che non subirono danni, così come non si verificarono episodi di malavita e la prostituzione risultò quasi tutta importata. Le popolazioni, costrette a sfollare i paesi o a ridursi in difesa fino alla ritirata tedesca, seppero autoamministrarsi mirabilmente, tagliati fuori dai centri decisionali, disseminati senza alcun criterio razionale a Bovino, a S. Severo, a Troia, a Lucera: e questo nonostante i grandi preparativi all’intervento armato e alla organizzazione del fronte civile. Si può dire che fossero duramente provate non tanto dalla guerra quanto dalla liberazione e dalla ricostruzione. Ogni discorso diventò sempre più difficile e arduo - bisogna riconoscerlo - fu il travaglio dei Comitati di Liberazione Nazionale. Foggia, largamente lacerata e disabitata, si ripopolò lentamente, per infiltrazione, essendo luogo militarizzato. Con lo stesso sentimento e slancio di ripresa; il tronco ferroviario di Manfredonia, anch’esso militarizzato, fu intelligentemente usato dalla popolazione, e Manfredonia stessa si affermò anche in un’altra direzione, dotandosi delle sezioni distaccate di alcuni istituti del Capoluogo, apprestando sedi e attrezzature anche per pubblica sottoscrizione: raro esempio d’iniziativa locale, estranei i pubblici poteri. 26 E che dire del nostro comportamento politico? Inganni, ingiustizia e anche violenze, e non soltanto morali, non erano mancati durante il ventennio: non pochi, anche innocenti « fuor della mischia » avevano pagato lo scotto, così come in ogni trapasso da regime a regime. Purtuttavia non vi fu reazione. Nessun fascista si mostrò pervicace, tutti essendosi affrettati ad accettare l’ordine nuovo. Nessun antifascista profittò delle condizioni vantaggiose in cui lo mettevano le circostanze. A quanto mi risulta, la Polizia alleata chiese invano liste di proscrizioni. Se alcuno si prestò al ruolo d’informatore, lo fece non per vendetta politica, ma per comodo personale. Non soltanto, perché al tempo dei procedimenti contro i fascisti responsabili di aver strafatto, esponenti medesimi dei C.L.N. operarono a favore dei principali accusati, concorrendo al loro salvataggio, come i viventi tra essi testimoniano con la pratica più larga delle libertà democratiche delle quali, in verità, mostrano di non abusare e, vorrei dire, hanno così bene profittato da assumere anche ruoli di prestigio. LA CADUTA DEL FASCISMO Non produsse traumi di particolare gravità. Anche da noi, come in tutto il Mezzogiorno, dopo la prima sfuriata squadrista di Cerignola e Sansevero, il PNF si era burocratizzato così bene, che dopo il 25 luglio andò in fumo come i registri e gli schedari dei suoi uffici. Questa eclissi può farei porre una domanda: se da noi lo squadrismo fu davvero un movimento politico promosso o finanziato dagli agrari, dai reazionari, oppure un movimento di disoccupati - volontari o coatti - tra i più facinorosi, capitanato da furbi, che lasciarono loro le spine della conquista, a guisa delle bande che il 1799 scesero dal Gargano a Manfredonia e raggiunsero la colonna del Ruffo a Bovino. Certo che di tutti i promotori e degli altri protagonisti di quel fascismo in Capitanata non è rimasto traccia e nemmeno il ricordo, sì che sarebbe lieto chiedere su quali eredità di spirito o di realizzazioni può razionalmente e legittimamente fondarsi un movimento eversivo, che si appelli a un passato senza monumenti. Ma che vi siano o non vi siano motivi, non dico di frizione sociale e di polemica politica, fatali, indispensabili alla vita di una nazione civile, da politici responsabili ci sembra che il modo migliore di celebrare questa e tutte le altre date della Resistenza e della Liberazione siano il rifiuto della retorica e l’invito a reprimere ogni impulso, sia pure giustificato, sia pure rivolto soltanto a respingere la violenza e non anche ad eliminare le contraddizioni, spesso corruttori degli uomini di buona fede, tanto da farli indulgere - se non ad aderire - alle iniziative dei facinorosi. 27 Dev’essere nostro impegno - nostra la fedeltà ad esso - di usare i mezzi conosciuti, e nuovi esercitarne, per sostituire una nuova coscienza politica alla coazione della legge. Noi non sappiamo quanti degli Italiani, oggi trascinati a denigrare la Patria con la violenza, provengono dalle generazioni così dette fasciste. Sì, nei cortei, che usiamo chiamare di destra, non mancano uomini maturi, così come non mancarono i bonapartisti dopo la caduta di Napoleone. Ma questi erano i fedelissimi del Corso, del quale avevano spartito il sonno, le fatiche, i pericoli, di un capo, che aveva combattuto fino all’ultimo, di « colonnelli », che non avevano mai rinnegato il generale. DISEGNO DI UN « LIBRO DELLA MIA GENTE » (Manfredonia, 29 novembre 1970) Anzitutto, qual’è la mia gente? Alla porta dei 70 anni, posso dire senza retorica che non riesco più a « battere » a favore dei Manfredoni, i Montanari o i Napoletani o i Foggiani. Ai Manfredoni mi sono sentito figlio e innamorato, da struggermi fino al 1967. Napoli ho incominciato nel 1954 a frequentarla, per svolgervi attività editoriale; a Monte Sant’Angelo mi sono relegato quando vi fui sfrattato da Foggia per la guerra nel 1943. Di tutto questo dirò in appendice, augurandomi adesso di rimanere fedele al tema e parlare pluralmente degli altri, del « prossimo ». Da giovanotto (1922) entrato nel movimento repubblicano sono per la federazione dei popoli, alla Mazzini e alla Cattaneo. Quindi non ho più concepito barriere, che non fossero geografiche. Fin da ragazzo mi sono sentito legato alla gente umile, incontrandola nei locali di mio padre, che era commerciante all’ingrosso. Vi trovavo i vetturali, che ritiravano le merci, i marinai delle barche, che trafficavano con Vieste, Bari e la Dalmazia, questa fornitrice soprattutto di legname, i « vastasi » (facchini che, singolarmente o a squadre, facevano la spola tra le barche - o il piccolo piroscafo « Puglia » - e i carretti, tra questi e i depositi). Erano esseri in movimento, dei quali, ragazzo, non potevo cogliere quella umanità commovente, che poi mi si sarebbe rilevata. Mio nonno, mal consigliato, si era reso aggiudicatario di un fondo rustico in località « Pagliete ». Ad esso per molti anni rimase condizionata la serenità della mia famiglia. Masseria malsana, lungi dalla via maestra, e raggiungibile solo per un tratturo in servitù, infestata da zanzare, arvicole, pulci, erbe parassitarie, mancante di acqua potabile, isterilita da lunghi periodi di siccità o di inondazione. Amara la terra, livido il paesaggio, stagnante e muta l’atmosfera: un invito alla pazzia e alla morte. Imparai molto tardi a chiamare tutte queste cose con il vero loro nome, ma ragazzo, vedendole tutte disegnate nelle carni 28 Mario Simone a colloquio con pescatori in pensione (Manfredonia – 1971) 29 di due poveri uomini, ne rimasi talmente conquiso, che posso attribuire proprio a loro la mia giovanile vocazione populista, poi concretizzatasi nella partecipazione al movimento repubblicano (1921). Tizio e Caio erano i fittuari della masseria. Il contratto prevedeva l’estaglio in danaro, a pagarsi in breve termine, dopo il raccolto. Il tema della « masseria », risuonava in casa poche volte come il tocco di una campana a morte, che mio padre si sforzava di non udire. Eppure con quei tocchi dal 1916 e per oltre 15 anni tirò avanti la mia famiglia, ché la piccola rendita agraria, con quella di alcune case, di mano in mano alienate, sopperì al danno prodotto dalla cessazione dell’attività mercantile, causato dalla guerra di Trento e Trieste. Ma più che di questo, oggi, mi piace parlare della mia inconscia vocazione per la causa proletaria. Perché l’amaro, che arrivava in casa da quel desolato luogo, mi produceva sensazioni come quella che più tardi avrei ricavato dalla narrativa russa? Quanto più mio padre malediceva « quella campagna », tanto più mi veniva di rappresentarla con tutti i suoi malanni e di amarla come avrei amato un innocente condannato a soffrire. Questo amore si acuiva in due circostanze: a Pasqua, con l’arrivo dell’agnello, del formaggio e delle ricotte; a giugno, per regolamento dei conti. E venne l’ora dell’atteso incontro, di maggio, verso il ‘19. Il calesse, era il veicolo leggero e dalle grandi ruote, più idoneo al difficoltoso itinerario. Vi presi posto con Francesco, nostro cocchiere, e un mastro d’ascia per certe riparazioni a farsi, e dopo due ore mi trovai ad approdare innanzi l’edificio a un solo piano, che comprendeva: la stalla per i cavalli e i carretti, il magazzino di deposito degli attrezzi e delle semenze, il dormitorio della gente e si prolungava con una tettoia, sostenuta da pilastri e chiusa in tre lati, che era il riparo delle vacche e delle pecore, fienile insieme e deposito di letame. Partiti col sole basso, arrivati verso le sette, l’atmosfera era ancora respirabile, ma tutto diceva miseria, desolazione e tristezza, dalla fabbrica, messa su in economia e mal tenuta, al pozzo secco, con il boccale quasi a fiori di terra, al pollaio colmo di stabbio, al riparo, vuoto di animali e invaso dalle erbe parassite, con i festoni di fuliggine, pendenti dalla tettoia, tesi tra i vani delle finestre e finanche sulla porta d’ingresso. Quando entrai nel dormitorio, che era la dimora dei fittuari (un lettaccio con baldacchino e sporche tende in giro, per difendersi dalle zanzare), avendo le gambe nude, me le sentii avvolgere come da un velo, erano le pulci, allevate in luogo con generosità commovente. TESTIMONIANZE PER FORMIGGINI Trent’anni dopo la sua scomparsa, Angelo Fortunato Formiggini è ancora in piedi nel mio ricordo. Si consenta che lo rievochi nel bollettino che, affidato alla mia consulenza grafica, riflette l’amore e l’arte 30 trasfusimi da quel loro maestro editore e papà della bibliofilia e bibliografia. Non era pugliese. Di Malena figlio tenace e servizievole (famose le spiritose celebrazioni tressoriane da lui organizzate con stile inimitabile), abbandonato la toga cui non si prestavano le spalle, intolleranti degli onori della Giurisprudenza, s’era fatto editore e, come tale, dopo una esperienza s’era insediato sul Campidoglio. Era lì la sua « casa del ridere », editrice versata in cose, da cui presiedeva la più fine condizione irrinunciabile di una vita interamente dedicata al godimento del genere umano, se sapere è felicità e suo combattere è il leggere. Amare gli Italiani a questa funzione! Non v’eran mezzi che bastassero, di quelli usuali, forse sperimentati e certamente falliti. Sorse quindi una voce affidata ad una rivista, « L’Italia che scrive » in sigla I.C.S., gaietta e robusta », che penetrata subito tra editore e librai sboccò subito tra i lettori più refrattari e molti ne raggiunse lontano, eccitandoli non soltanto a seguire da vicino nelle sue colonne il moto degli astri guidati dagli stampatori nazionali e forestieri ma anche innamorando a quella scienza nuova da essa rappresentata e svolta, quale era la bibliografia. Stanchi di liceo, senza nemmeno la possibilità di conoscere attività socio-educative e scolastiche, un compagno che aveva studiato a Napoli ed io reduce dal foggiano « Lanza » ci esaltammo tra le pagine di quella rassegna che una volta il mese ci recava in provincia le novità librarie sul filo di un discorso brillante per noi nuovissimo. IN TRIBUNALE a Roma Avevo il proposito onesto di svolgere una severa pratica forense, servendo in tutto, anche nelle mansioni umili, un avvocato-docente; non ebbi la fortuna di farmi adottare da qualcuno ben disposto a considerarmi e trattarmi da apprendista. Senza dubbio influirono l’età (ho fatto gli esami di procuratore a 25 anni!), il modo di presentarmi e tenere i rapporti sociali, la presunzione di essere pubblicista o che so altro, un certo aspetto e comportamento professorale. Pur non sapendo distinguere, forse, due requisitorie nei diversi riti, sommario e formale, frequentavo tribunali e corti a fianco di maestri vecchi e non, con i quali si finiva col confondermi: Conti, Niccolai, Trozzi, Russo... e i giovani - diciamo così - de « I Rostri »: Berdini, Liuzzi... A darmi importanza concorsero le prestazioni, sia pur modeste, ai « Repertori » de « Il foro italiano », la rappresentanza nella capitale de « Il tribunale », diretto a Napoli dal collega Gaetano Grimaldi-Fifioli, le edizioni dell’« Almanacco giuridico-forense » o « Lunario della toga » da me inventato. D’altra parte mi suggestionavano le dimensioni e la sede princi32 pale (monumentale palazzo di giustizia a Piazza Cavour) dell'attività forense, i piacevoli rapporti con molti suoi autorevoli esponenti, l'aspirazione di seguirne le orme, sull'esempio dei veri maestri. a Foggia Da Roma a Foggia: un trauma. E' in provincia che ad un esordiente giudiziario appalesa il suo vero contenuto, non avendo, per celarlo, i paludamenti cittadini (nella grande « provincia » meridionale comprendo anche il foro di Napoli, del quale è tipico riflesso Giovanni Leone). « FIAMMA » di Guido Guido Una domenica del mio primo anno romano (1921), in casa di Alfredo Petrucci conobbi lo scultore galatinese Gaetano Martinez. Anch'egli antifascista, non fu difficile intenderci e volerci bene nell'aurea romantica della Roma ottocentesca, che mi piaceva rievocare. Dico meglio di lui al capitolo che gli s'intitola, volendo qui solo occuparmi della Casa d'arte « Fiamma », dove mi introdusse, trovandovisi allestita una sua « personale ». Occupava alcuni vani terranei di un basso edificio in fondo a destra di Piazza Venezia, sull'area oggi occupata dall'esedra verde, con la quale i competenti uffici capitolini eliminarono lo squallore che cingeva il « Vittoriano », esaudendo, bisogna riconoscere, una delle sociali ambizioni di Mussolini. Geniale padrone di casa, era esperto di belle arti, Guido Guido, oriundo foggiano, del quale avevo conosciuto alcuni congiunti: un capostazione in servizio a Manfredonia, una brunissima ragazza e suo fratello, che parteciparono alla nostra filodrammatica. Con lo stesso nome, « Fiamma », l'istituzione, che ospitava mostre individuali e collettive, pubblicava una rivistina in funzione- delle sue attività artistiche e mercantili. Nei primi tempi romani, adempiuti al mattino i doveri scolastici alla Sapienza, trascorsi tutto il mio tempo libero tra gli uffici del PRI, la « Voce Repubblicana » e quella Casa d'arte. Qui, sul tardo pomeriggio, si trattenevano, o solo transitavano, artisti e belle donne, tra le quali appetitose modelle in cerca di ingaggio, e studenti dell'Accademia. Martinez era uno dei frequentatori più assidui; vi trascorreva lunghe ore, taciturno, con l'aria imbambolata di chi non mangia ogni giorno e ad ora fissa, e finisce col perdere l'appetito. Se parlava, la voce sottile, metallica e sincopata, sorprendeva e la si stimolava ed eccitava, per l'ironia, che coloriva ogni esperienza. Le donne più spiritose avrebbero voluto provarsi con quell’eccentrico linguaggio, tutto salentino, tutto Martinez, che lo faceva rimbalzare su se stesso, impietosamente. Ma era tipo che tagliava corto, un riccio, che presto si ritirava, armando gli aculei, per isolarsi nella tristezza del povero 33 ragazzo di provincia, quale sentiva di essere rimasto, nonostante le grandi ambizioni. In quell'ambiente, oltre che nel sodalizio di Alfredo Petrucci, nutrendomi di arti figurative, integrai la mia educazione artistica che a Manfredonia si era iniziata a contatto con le antichità sipontine (architettura e scultura romanico-pugliese). Non posso dir molto del Guida che, sempre indaffarato, mostrava di non aver tempo da spendere in conversazioni con coloro che facevano solo circolo nel suo locale, anche se concorrevano ad animare le sue manifestazioni. Non ricordo nomi di frequentatori, sebbene ad alcuni di essi riesca a dare volti e voci, come quelli dolcissimi di una vivace e laccata signora bionda, che, rientrando a casa, si faceva accompagnare fino al portone di casa, per godere il solletico dei bacetti, che mi aveva insegnato a darle nel cavo delle mani di bambina. LIBRI E CARTE: EREDITA' PAVENTATE « Cambiamo casa » mi disse un giorno Vincenzo Tangaro « ho iniziato la distruzione dei miei scartabelli, l'ossessione di mia nuora ». E un figlio di Piero Delfino Pesce: « Le carte di mio padre? Sono nel suo studio così come le ha lasciate. Nessuno di noi ha avuto il coraggio di mettervi mano ». Su questo ritmo è il ritornello di quasi tutti gli eredi di coloro che, essendo stati « qualcuno », hanno dubitato di essere fisicamente mortali e, potendolo, non hanno dato una destinazione civile alle loro cose di cultura. Ma vi sono casi molto più gravi, come quello delle figlie di uno scrittore e famoso agitatore politico del Gargano, le quali insolentiscono ad ogni richiesta di informazioni sul « de cuius », cui non hanno mai perdonato la rinunzia per « i suoi strambi principi politici », alla posizione privilegiata che gli spettava in paese, quale professionista. Nel paragrafo dedicato a Giovanni Tancredi non mancherò, spero, di ricordare la sorte toccata alla sua biblioteca. Dirò, frattanto, che anche egli commise la ingenuità di morire senza aver assicurato un degno avvenire alle sue raccolte, compresi i manoscritti inediti. Purtroppo egli non è stato l'ultimo della lunga serie, che comprende tra i molti: Fioritto di S. Nicandro G., Del Viscio di Vico G., Centoza di Cagnano V., Petrone e Caruso di Vieste, Del Giudice di Rodi, Capparelli, Pascale e Bellucci di Manfredonia, Rosario di Ascoli S., Maurea di Chieuti, Cerulli di Celenza Valfortore, F. M. Pugliese di Cerignola, Umberto Fraccacreta di San Severo, Serrilli di S. Marco in Lamis. Ma sentite questa. Verso il 1940 viveva a Napoli Pietro Panzini, il vecchio - e discutibile deputato repubblicano di Molfetta. Era stato discepolo e collaboratore di Luigi Zuppetta, personaggio che mi aveva molto incuriosito soprattutto per la storiografia; fino a quando non lo riesumai, pro34 muovendo le onoranze dalla nativa Castelnuovo della Daunia. Vecchio Panzini era ospite di una nipote maritata a Napoli, quartiere Sanità. Costei, quante volte bussai alla sua porta, trovava una risposta buona per licenziarmi: l'onorevole era indisposto a letto o era uscito, fino a quando potè notificarmene il decesso. « Ma che volevate » mi chiese l'ultima volta. « Potrei vedere i libri, le carte che ha lasciato »? « Sicuramente, ma chi ha tempo di aprire la cassa, dove si trova tutta la sua roba? ». « E la carabina del suo maestro Zuppetta » - « Proprio .ieri mio marito l'ha portata allo stagnaro; si è rotta perché ci gioca il mio bambino »! Ma questi non sono nemmeno i casi-limite, perché più gravi e scandalosi « casi » potrei proporre a cattivo esempio, per indurre gli anziani a rivolgere alle loro cose culturali quel rispetto, che meritano. Non solo gli eredi di famiglia, ma anche quelli pubblici si rendono colpevoli, a volte anche penalmente del cattivo uso fatto di cose loro destinate in donazione o successione. E sarei per dire che con la loro responsabilità concorre l'indifferenza della opinione pubblica, che nei nostri paesi lascia tutto correre alla deriva, nonostante la presenza dei partiti, tutti bene alienanti nelle loro beghe. Questo mio sproloquio è rivolto a tre obiettivi: 1) a convincere gli anziani che i loro beni culturali sono conquista della comunità, che pertanto è in diritto di usarli quando vengono lasciati ad amministratori incapaci; 2) a indurre gli enti (comuni, biblioteche, centri di cultura ... ) a sperimentare ogni mezzo, per assicurarsi in via legale la destinazione ad uso pubblico delle biblioteche, degli archivi, di ogni altra raccolta privata; 3) a vigilare perché, raggiunti i primi due obiettivi. non siano abbandonati all'azione corrosiva dell'ambiente. IL FORO ITALIANO Ero a Roma. Giulio Andrea Belloni mi procurò l'amicizia di Corrado Perris, nostro coetaneo, di famiglia napoletana, trasferitosi a Roma (un fratello era dirigente all'Istituto intern. d'Agricoltura che andava a rappresentare, anche all'estero, come in Cina). Giovane modernissimo, simpatico, aperto e colto tra i pochi esperti di lingua e cultura russa e, come tale, essendo laureato in diritto, per lo studio giuridico forense di Gennaro Escobedi e la sua grande rivista “ La giustizia penale” , curava i rapporti culturali con l'U.R.S.S. e le rubriche di dottrine e giurisprudenza sovietiche. Debbo a lui, come a Belloni, la « cotta » per la gius-pubblicistica, che mi avrebbe portato senza dubbio lontano, se avessi avuto l'ambizione della carriera scientifica. Perris era legato da rapporti amichevoli - non ho mai capito se centrasse la politica -col dottor Carlo Sequi, giovane sardo che alla editrice del « Foro Italiano » curava i repertori di giurisprudenza e di bibliografia delle sue prestigiose edizioni. Factotum della editrice 35 era il comm. Carlo Scialoia, nipote del grande Vittorio; un uomo di prim'ordine, per formazione morale e professionale. Fui ammesso in quella specie di università del pubblicismo giuridico con l'incarico di « estrarre » le massime delle sentenze penali, ordinarle alfabeticamente per voci, correderle di richiami a precedenti giurisprudicati e bibliografici. Compenso: venti centesimi la massima. Questa mia collaborazione risulta dai frontespizi dei due volumi, che raccolgono i « Repertori del Foro Italiano degli anni 1936. Nella primavera ricevetti la visita dello Scialoia. Seduto al mio posto dietro il tavolo da lavoro, mentre arrotolava una sigaretta, puntandomi in viso gli occhi che sembrarono sgranati sempre a sorpresa: « Lei ci tiene tanto a questo suo diritto penale? Non accetterebbe per due tre anni la nuova cattedra di diritto agrario in Sardegna? Mi impegnerei ad assicurarle l'incarico e la definitiva sistemazione in Italia dopo il breve periodo di... esilio ». Chiesi un termine: esaminai la situazione di famiglia, la inopportunità di un trasloco nell'isola e la impossibilità economica di mantenere la casa a Roma; ma sopratutto non riuscii a liberarmi dalla suggestione del foro penale, cui mi sentivo incline. Scialoia non insistette, ma non mi sentii più interamente degno della sua amicizia e fiducia, che avevo deluso. Così rimase in boccio il professore universitario! LA MIA « FORMAZIONE GARIBALDINA » (18-10-72 in treno per Napoli) Mia nonna materna fu Teresa Salentini di Napoli, appartenente a buona famiglia borbonica, imparentata con il Capocelatro: parlava francese e, come tutti i « prossimi » alla real corte, beccava « Franceschiello » per la sua timidezza di re e di marito. Conobbi due germani di questa donna vivacissima: un Francesco, chiamato « Ciccillo » e una Virginia, vedova di . . . . . Lazzaro, . . . . . . Ignoro perché queste due famiglie decadessero con l'Unità: se per cause politiche o per la morte o la invalidità dei loro capi. Credo di poter fissare il ricordo dei Lazzaro ai miei undici-dodici anni e descriverli così: la casa linda con la suppellettile modesta, un salottino ove tutto era coperto da tende e giornali; il ritratto di un personaggio barbuto, chiamato con rispetto ed orgoglio « nostro padre ». In un lettino, difeso ai bordi da ringhiera - quasi culla anche per le dimensioni - Virginia, la « mammà », molto vecchia, piccola piccola, rosea e demente; tre figlie zitellone: Benita, Fedora (poi sposa e madre) e Ginevra impiegata ai telegrafi. Zio Ciccillo - 70 - 80 anni - si fermava spesso dai miei nonni per la « tazzulella » di caffè, che sorbiva - sprofondato in poltrona dopo averlo versato nel piattino. Come mia nonna, era molto faceto. Entrambi spiritosamente meglio dire « napoletanamente » - accu36 savano Garibaldi di averli rovinati, avendo aperto la via ai Piemontesi e… alle tasse. Di un altro fratello - Annibale - si diceva che, prima garibaldino, poi tenente del Genio nell'esercito regio, mandato sul Gargano a fare strade, era caduto per piombo di briganti. Ne scoprirà la tomba a San Marco in Lamis mio padre il 1913. *** Questi ricordi furono la prima eco per il mio cuore infantile che - a differenza dell'epopea garibaldina, tutta freschezza giovanile, calore, musica e movimento -non potè subito palpitare agli accenni familiari del « travaglio » carbonico dei Simone al tempo dei moti liberali nel Mezzogiorno. Gargano (1821 e 1848). Ed eccomi conquiso dalle tavole del « Garibaldi », della Jessi Mario, oggi raro, da noi posseduto prima che qualche amico, con la scusa del prestito, non lo aggregasse alla sua libreria; eccomi nei frequenti viaggi a Napoli dai nonni, ancora fanciullo, attendere vigile che si profilasse l'acquedotto di Carlo III detto « ponti della valle » (di Maddaloni), per trovarmi puntuale a scattare in piedi quando, oltre l'arcata aperto al suo passaggio, il convoglio rasentava la radura col monumento ai Caduti nella battaglia del Volturno. REPUBBLICANESIMO E PROLETARIATO La iniziativa repubblicana concorde (sic) e si svolge col movimento proletariato », ma se ne distingue: non mi spetta in questa sede delineare un quadro del movimento operaio e contadino. A Manfredonia la iniziativa repubblicana rinvigorisce con motivi culturali l'organizzazione proletaria che ne è sprovveduta per la lontananza dei suoi giovani promotori - Castigliego, De Marzo, Melucco-e per l'abulia di chi era loro succeduto. Elezioni 1921 1) Comizio Natali accompagnato fino alla Stazione campagna. 2) Celebrazione XX settembre. Pesce, X marzo 1922. Uniche e sole manifestazioni rosse Verifica insegnamento Mazziniano: col Popolo e per il Popolo e intuizione legge politica esterna che quando casa brucia cessa l'accademia e la sostituisce la costituente di tutti gli oppressi, affratellati dal dolore. 37 Dolore prete! Quale poteva ispirare e muovere i Repubblicani? Non vi erano, tra loro, di condizioni servile. Estrazione borghese, mercantile, artigianale, indipendenti. E anche un Avevano da perdere, non da guadagnare. Purtuttavia, oppressi dalle quotidiane manifestazioni periferiche, cioè locali, dall'ordinamento statale imposto alle provincie; liberate e da Garibaldi donate al Savoiardo caracollante a Teano, origine delle nostre nuove e non ultime sventure. Effetti della conquista piemontese. Ulteriore degradazione della vita pubblica, dominata da gruppi di potere. Pantano solo agitato dall'alito dell'affarismo e della conservazione. Atmosfera irrespirabile, vita meschina di pettegolezzi, conformismo, rinuncia-alienazione, analfabetismo, indifferenza verso la cultura. Municipalismo più gretto. PROCESSO DI POLITICIZZAZIONE 1) 2) 3) - Rivelazione degli obiettivi e degli strumenti; Mobilitazione degli spiriti, per la loro acquisizione e utilizzazione; Piano di applicazione e strategia di svolgimento. Tecnici moderni, quali i raffinati marxisti. Noi imparammo da Mazzini, Cattaneo e, per ultimo, Pisacane, che li hanno preceduti e li sopravvanzano. Per ciò non si rimase nelle nuvole e si applicò la cultura politica alla vita municipale. Inutili episodi. ALL'INSEGNA DELLA COERENZA Fummo corteggiati dal fascismo cerignolano, che aveva origini romantiche e repubblicane. Non passammo il ponte lanciatoci. Lottando contro i municipali, guadagnammo come alleati anche i Combattenti, che alla fine si eran dato un capo, preparato e volitivo. Ma rifiutammo la proposta soluzione di un fronte unico e di una lista unica, per la conquista del Comune, che si profilava sicura. P. C. I. Al tempo del C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) il PCI ebbe a Manfredonia un ispiratore e organizzatore in Federico Rolfi, uno della vigilia comunista di Foggia, arricchitosi durante il fascismo 38 Mario Simone docente in un corso per animatori di biblioteche, organizzato dal C.S.C. Società Umanitaria di Manfredonia (1970) 39 col duro lavoro di artigiano tappezziere e di commerciante (sarà selvaggiamente criticato anche in documenti a stampa dall'ex-compagno, Romeo Mangano, ferroviere, servitore dell'OVRA e, dopo il 25 luglio, furbescamente nominatosi capo di una fantomatica centrale foggiana della Internazionale). A Manfredonia era numeroso e attivo anche il Partito d'Azione, nel quadro di una federazione provinciale da me organizzata, sulla base di sezioni e gruppi, quasi in tutti i comuni dauni: tessere pagate nel 1944 circa 5.500! Esponenti dei Partito a Manfredonia l'avv. Michele Lanzetta, il rag. Vincenzo Bissanti... Lanzetta, commissario e poi sindaco della Città, per temperamento e per mancanza di tempo, sembrava tutto preso a ridurre sempre più la presenza politica, facendosi assorbire dalle cure municipali, rese pressanti dal difficile dialogo con gli Alleati. Più volitivo e sensibile alle esigenze e ai problemi della organizzazione era il Rolfi, che poteva permettersi certe « invadenze », che in diversa situazione certamente non si sarebbe permesso. Militava con noi azionisti il rag. Michele Magno, rientrato dalla prigionia. Egli trovò in mezzo a noi alcuni bravi lavoratori che, allo scioglimento del Partito di Parri, come lui avrebbero scelta la via più sicura del socialismo, iscrivendosi al Partito di Togliatti, che rappresentava allora la logica della situazione italiana. Svanito in un mare di chiacchiere il Partito d'Azione, nauseato e scontento (vedi « Partito d'Azione ») - pur senza cedere al « qualunquismo » mi dedicai esclusivamente alle cose di cultura, lasciando così indebolire i rapporti personali con i vecchi compagni ed amici. Essi d'altra parte, non se ne afflissero, curandosi ben poco di me, fino a mostrare di ignorarmi in tante occasioni. Falliti i tentativi di collaborazione con amici della sinistra popolare dovei purtuttavia frequentare Luigi Allegato (vedi « Allegato ») e la « Provincia », della quale curavo le edizioni, mentre a Roma, frequentando Montecitorio, ove feci un lavoro agli « Studi Legislativi », potei incontrarmi alcune volte con Terracini e Di Vittorio. Assurto ad esponente e a parlamentare comunista di Manfredonia, Michele Magno non mi negò mai la sua cordialità, quante volte c'incontravamo in treno sulle strade di Manfredonia o di Roma. Mai, però, una conversazione politica, mai una stampa che dicesse di lui o, almeno del suo partito. Non dovei stentare, pertanto, allorché alla morte del grande proletario di Cerignola, gli proposi di scrivere un articolo per « la Capitanata ». GLI EVANGELICI racconto di Borgomastro Verso il 1929 si registrano le prime presenze di cattolici dissidenti. Si trattava di lavoratori che, incontratisi in campagna con un 40 loro simile di S. Giovanni R., erano stati sensibili alla loro propaganda religiosa. Quegli stessi lavoratori di Manfredonia si fecero zelanti diffusori delle nozioni recepite, e riuscirono a formare un gruppo che si riuniva in casa per la lettura e lo svolgimento dei sacri testi. Si firmarono così « riunioni » di preghiera che, dopo una certa pratica autonoma, presero contatto con altri gruppi di paesi vicini (soprattutto di Foggia) ove da qualche tempo agivano le « Assemblee libere dei fratelli ». Questi rapporti contribuirono a incoraggiare l'iniziativa di Manfredonia che si andò sempre più sviluppando, richiamando in tal modo la considerazione e l'intervento di missionari evangelici, che contribuirono a sostanziare di cultura il movimento locale. Verso il 1940 questo movimento, forse per insinuazione di elementi fanatici di parrocchia, fu preso di mira dalla polizia, che lo qualificò senz'altro come politico e antifascista. Furono arrestati cinque uomini e tenuti in carcere otto giorni, nel corso delle indagini, che si conclusero negativamente, per mancanza di prove. (Nomi?) Con l'arresto furono sequestrati libri di fede, quasi che ne potesse scaturire la prova del dissenso politico. In questa occasione operò l'Ente Morale (dei Fratelli) con sede in Firenze. BORGOMASTRO Figlio di Ciro, con bottega di falegname in via S. Francesco, deceduto, il 1944, lasciando Michele, più grande, (studiava per geometra) che, abbandonata la scuola, si mise al lavoro. Compagni un colonello Adabbo (fratello del prof. Tommaso), Fabiano, D'Andrea (sindaco). . . Sposate le sorelle, lavorando e studiando la notte, licenza abilitazione magistrale 1954, subito contabile cooperativa Sant'Abrogio, fondata dal fratello. Primi 48 aderiti movimento evangelico, nella Comunità di circa 30-40 (una decina di famiglie). Raduni in via Pasubio 64, casa del bracciante Murgo Lorenzo, padre di 12 figli. 1 maggio 1953 aperto luogo di culto in via Mozzillo Iaccarino n. 9, su terreno comprato con risparmi lavoratori. Longo Saverio di Poggio Imperiale, suocero di Borgomastro. BIBLIOTECA DE' GEROLOMINI A NAPOLI Inaspettato premio ai miei interessi fu l'ospitalità guadagnata dai pp. Filippini nella sontuosa prisca sede cinquecentesca di via Duomo. 41 Il carissimo Don Mastrobuoni, a Napoli tanto conosciuto e riverito per gli studi storici oltre che per lo zelo e la severità sacerdotali, mi presentò al vecchio e nobile erudito p. Antonio Bellucci, che mi ammise a godere lunghi periodi nell'appartamentino riservato di quella sede, con le finestre affacciatisi sul grande chiosco folto di agrumi. Credo che pochi « intellettuali » abbiano potuto godere del privilegio allora concessomi, di inebriarmi al profumo delle zagare in un ambiente storico e monumentale, legati al travaglio di Giambattista Vico, dei Filippini e di tutti coloro che concorsero a edificare la mole destinata ad affidare ai secoli la genialità della Congregazione dell'Oratorio. Non sarebbe superfluo un cenno descrittivo delle opere, che costituiscono il grande collegio e la grande Chiesa, che occupano una rispettabile arca tra la detta via Duomo e il largo intitolato appunto ai Girolomini. Rimandando, per ora, a una qualsiasi guida, per la storia e la descrizione della Biblioteca, la più antica di Napoli rinascimentale, dirò che quando mi proposi di andarvi a trascorrere le mie ore di studio lo trovai affidato a un cortese anziano signore alle prese con lo schedario antico, che aveva avuto l'incarico di « rifare ». Mi resi subito conto della sua preparazione, costituita da quell'abecedario nozionistico - e niente affatto pratico - che s'impartisce nei corsi per la direzione delle biblioteche popolari, promossi dalle Soprintendenze regionali bibliografiche, svolti in dodici o ventiquattro ore col contributo ministeriale. Ma come spiegarsi la presenza di costui in una biblioteca « nazionale » come quella? Per speciale « intrallazzo » il Ministero competente mette a conto dello Stato tutte le spese inerenti all'Istituto, lasciando alla Congregazione il compito di dirigere e curare i servizi a mezzo di suoi incaricati. Non sono stato tanto indiscreto da indagare su questo meccanismo « straordinario », ma debbo supporre che il Bellucci e altri padri, quali Borrelli, Spada, Ferrara, congregati in quella sede, fossero titolari di funzioni bibliotecarie, che non sono mai riuscito a constatare. A quel buonuomo successero due giovani, implumi, anch'essi usciti da uno di quei famosi corsi. La ragazza fu applicata alla schedatura - « sommaria, per ora » (sic!) - il giovanotto fu addetto a rivoltare i libri negli scaffali, si che molti di essi, perduta l'originaria collocazione segnata sulle vecchie schede, sarebbero stati irreperibili fino a quando non sarebbero state inserite in catalogo le relative varianti. Sua cura da me ben distinta era quella di... sgusciare i periodici in arrivo. Sorpresolo un giorno a questo lavoro, dissi: « Quante riviste! Ma perché non destinate loro un tavolo, per la consultazione corrente? ». Rispose che tutto quel materiale - e ve n'era, fatto fornire con i ben conosciuti criteri dal Ministero! -giorno per giorno veniva ammassato in un locale a piano terra, dove era progettata la sala di lettura dei periodici (se ne attende ancora l'auspicata inaugurazione). « Ma a che vale prendersi tanta pena » m'insegnava l'uomo delle 42 pulizie della casa (solito comunista brontolone in attesa di una sistemazione salariale) « questa biblioteca è solo un cimitero di grandi e piccoli morti, dove una volta l'anno viene qualcuno a scovare, assistito da Padre Borrelli, quando può allontanarsi dalla sua Casa dello Scugnizzo ». Forse vigeva uno speciale regolamento (?!) che rendeva difficile i rapporti fra libro e lettore; forse era la diffidenza suggerita dalle non lontane peripezie giudiziarie dell'Oratorio (un filippino aveva fatto sparire alcuni pezzi della pinacoteca): certo è che anche a me, ospite della casa e riconosciuto bibliofila, era difficile portarmi in camera financo una edizione ottocentesca del Verne, per via delle « tavole » incise! Un errore fondamentale del Ministero era il considerare quell'antico istituto alla stregua di una biblioteca d'oggi, che pertanto alimentava con la stessa sciatteria usata per le biblioteche popolari, invece d'organizzare un lavoro « sui generis » in relazione ai fondi esistenti. Perché non mettere su un catalogo descrittivo dei fondi manoscritti? La presenza degli eruditi Bellucci e Borrelli agevolava questo lavoro. Sull'attico dell'edificio trovavano alloggio gli studenti universitari, che riuscivano a farsi accettare per efficienti presentazioni. Non si ponevano loro condizioni diverse dal pagamento della retta. La massima libertà era lasciata loro, senza che alcuno esercitasse la benché minima sorveglianza e tutela: non erano infrequenti casi di vandalismo o di semplice monelleria, come la inutilizzazione di un servizio igienico o un danno alla rete illuminante. Inibita la promiscuità di sesso, non c'era modo di evitare che, acceduta al primo piano, dichiarando al portiere di recarsi in biblioteca, una ragazza potesse partecipare a un convegno non culturale. Ma questo non mi risulta mai avvenuto, forse per la timidezza dei ragazzi, che ho potuto verificare, indagando sui loro rapporti con la biblioteca, con il seguente risultato approssimativo: L'l % vi era entrato una volta per conoscerla; lo 0,50% vi aveva studiato, tutti gli altri ne ignoravano la esistenza! TREMITI La tradizione romana del diritto, della quale s'investivano e vantavano i governanti littori, non suggerì mai un espediente, per alleggerire la spesa pubblica nella amministrazione della giustizia. Si pensi al costo delle procedure giudiziarie aperte per Tremiti, già colonia di galeotti e poi sede di confine politico dal 1935 al 1943. Non si contano le denunzie per questo o quel reato a carico degli ospiti e, a volte, anche degli indigeni, quasi sempre definite con assoluzione o pene lievi. Esse comportavano un continuo traffico di prevenuti, a mezzo di un vecchio e piccolo piroscafo della Società « Puglia », lunghe detenzioni preventive ed attese, a volte non brevi, 43 come in tempo di guerra, per il ritorno in sede. Senza contare le trasferte degli addetti alla Pretura di Manfredonia (giudice, ufficiale giudiziario) per interrogatori e notifiche. Eppure, sarebbe costato così poco disporre che fosse il Pretore a recarsi sull'isola, per tenere udienze con un difensore di ufficio trovando sul posto un ufficiale di governo idoneo a fare da pubblico ministero. Ma non conveniva di più allo Stato evitare che s'imbastissero tante procedure? E tutte le contravvenzioni alla « carta del confino » non si sarebbero potute evitare sol che agenti e direttore della colonia fossero stati meno prevenuti e sprovveduti? Rievoco un esempio che vale per tutti. Il confinato benestante Levi acquista un pollo lesso, che gli viene offerto in piazza da una giovanetta. Poi che trattasi di compendio di un furto, Levi, in stato di arresto, è denunciato per ricettazione. Tradotto a Manfredonia e da me difeso, è assolto perché il fatto non costituisce reato. Non rientra a Tremiti, perché è accolta la domanda da me suggeritagli e sostenuta dai parenti ricchissimi, di ottenere un soggiorno vigilato in famiglia e viaggia così mezza Italia nel Nord, con grande gaudio dell'agente accompagnatore. Ho difeso quasi tutti i confinati, tradotti innanzi la pretura di Manfredonia e, a volte, nel Tribunale di Foggia. Di alcuni conservo i fascicoli, ai quali rinvio. Giudice era il dott. Roberto Perfetti di Ascoli Satriano, preparato, di sociali sentimenti e antifascista, che vantava l'amicizia di Mauro del Giudice. Sarebbe stato davvero un « buon samaritano » se disordini fisiologici e psicologici non lo avessero fatto accidioso. Questi umili, spesso immeritevoli, da me patrocinati non avrebbero mai potuto raffigurarsi il mio impegno, senza limiti, nonostante fossi raramente e modestamente retribuito, quando non ci rimettevo le sigarette. Alla maggior parte dei colpevoli non si sarebbe potuto irrogare più di tre mesi di reclusione. Purtroppo a volte la detenzione preventiva superava quel periodo, perché il giudice non era stato sollecito a fissare il dibattimento. Eppure l'ufficio vantava un cancelliere di eccezionale costume morale, di profondo acume e di vasta cultura, il dott. Tommaso Aragiusto, unico e solo funzionario in lotta continua ma sterile col pretore che, contraddicendo le sue convinzioni, non sì comportava in modo irreprensibile (forse per accrescere l'odio dei confinati contro il regime, osservava malignamente un avvocato, che faceva il doppio giuoco). VOCE REPUBBLICANA Con questa testata il quotidiano del Partito Repubblicano Italiano condusse la lotta politica a Manfredonia nel 1921-25. Dopo circa 50 anni la nostra città si esprime autonomamente con una « Voce », tutta sua e per sempre sua: anch'essa voce repubblicana, sebbene sia indipendente 44 dal P.R.I., perché della repubblica popolare sono assercoti convinti coloro che la pubblicano. Una voce che non è il chiasso di dieci o di mille persone, azzuffandosi per i loro privati interessi o per sostenere servilmente una fazione. E' voce di un comizio permanente, che vuol esprimere gli ideali, i bisogni, le istanze, le delusioni e le speranze della intera comunità cittadina. In questo coro è naturale, legittimo e indispensabile che si manifestino opinioni, anche strettamente personali, che non coinvolgono alcun partito, e, purtuttavia, vanno considerate come espressione di pratica politica, cioè attività civica primaria. Orientato a questi concetti, mi sembra doveroso apportare un contributo alla chiarificazione delle idee, che ispirano il dialogo nel nostro contesto. Mi riferisco alla presenza e alla funzione attuale del P.R.I. a Manfredonia. Dal 1921 al 1925 il « partito storico » fu molto attivo a Manfredonia non solo nella lotta antifascista, ma anche quale fattore di educazione politica; promosse l'alleanza con le altre forze democratiche, tra le quali preminenti erano quelle marxiste, alle quali non dimostrò di essere allergico. E fu, si badi, un'alleanza morale, oltre che tattica, fondata sulla reciproca stima; direi una collaborazione « fraterna », se l'espressione non potesse sembrare retorica. Quell'alleanza, che avendo resistito sotto la dittatura, riprese a funzionare nel 1943, quando i vecchi repubblicani, caldi della fiamma di « Giustizia e Libertà », collaborarono con le forze popolari, prima nella strade, poi nel Comitato di Liberazione Nazionale. Tutte queste cose furono ricordate il 26 dicembre 1971 quando la sezione del P.R.I., anticipando l'anno del Centenario mazziniano (1872-1972), rievocò in sede storica l'originario movimento repubblicano locale. Ma una più larga documentazione è offerta dal Magno nel suo libro recente Lotte politico-sociali a Manfredonia durante il periodo fascista. A questa tradizione si richiamava e obbediva la sezione del P.R.I., quando aderì alla Giunta municipale popolare partecipandovi con un suo rappresentante. Chi ne stigmatizza la decisione, quale contraria all'indirizzo della direzione centrale, trascura di considerare che, se fu una infrazione disciplinare, essa interpretò lo stato d'animo generale della base repubblicana, insofferente della sterile partecipazione al Centro-Sinistra. Non solo, ma superando le posizioni meramente intellettualistiche (e classistiche?) dei « puri », realizzò la tendenza dei gruppi avanzati, verso l'autogoverno delle forze produttive del Paese, finalmente libera dalla ipoteca capitalistica. E fu anche coerenza ai precetti della scuola storica repubblicana, che da Mazzini svolge tutti i teoremi della dialettica politica con l'evolversi del pensiero di quel Maestro attraverso Cattaneo e Pisacane, Ferrari e Mario, fino al Quadro e agli ultimi epigoni postrisorgimentali, che nelle prime organizzazioni di categoria, crearono con spirito rivoluzionario le premesse dell'attuale 45 movimento operaio e culturale democratico. Fu uno sbaglio la rinnovata alleanza repubblicana con le forze marxiste? Essa non va forse considerata - e apprezzata - in relazione: 1) ai conseguenti risultati locali raggiunti; 2) alla mutata politica del P.R.I.; 3) alla odierna diversa valutazione da parte « ufficiale », del ruolo rappresentato dal P.C.I. nel Paese? Riflettiamo su questi tre punti: 1) Partecipazione alla Giunta del P.R.I. - Essa ha significato anzitutto che gli artigiani, i commercianti, i professionisti, i giovani che fanno parte del P.R.I. sono rimasti fedeli all'insegnamento della storia, e all'esempio di coloro che con sacrificio di sé e a volte dei congiunti – con la loro alleanza affermarono che l'immacolata bandiera della Giovine Italia risventolata nella « Settimana rossa » di Ancona con tutto lo schieramento di sinistra del paese, compresi gli anarchici, ben poteva marciare con quelle delle leghe proletarie a difesa e affermazione dei comuni ideali umani e sociali. Ha significato, poi, la vitalità di un'amministrazione realizzatrice, sinceramente aperta alla collaborazione con le altre forze democratiche - come dimostrano tante decisioni adottate alla unanimità -, e per ciò idonea ad attuare il precetto informatore dei decentramento e dell'autonomia nel quadro della novazione regionale. Non ha certamente coscienza politica ed è nemico del suo paese, l'uomo qualunque che, in odio agli uomini dei partiti al governo - e non certamente per coscienza politica - arriva a declinare « tutto per tutto: meglio di questi " rossi " un commissario governativo, che è un funzionario al di sopra dei partiti ». La sua è la psicologia di chi, purtroppo, è nato schiavo, ignora il prestigio che gli viene dall'essere elettore, riunzia a pensare, a capire che cosa è la complessa realtà che lo circonda e respinge il governo collegiale, invocando a comandarlo uno solo a nome dello Stato, di quello stato che egli, uomo da niente, forse tradisce in tanti modi, disobbedendo alle sue leggi. Ed è cieco e sordo, oppure si benda gli occhi e si ottura le orecchie, per non ammettere i passi avanti che, bene o male, si sono fatti. 2) Il P.R.I. boccia e smonta il Centro-Sinistra. Dopo averlo sostenuto in un altro tentativo. Esso ha concorso ad eleggere l'on. Leone alla presidenza della Repubblica, determina lo scioglimento delle Camere, e con lo slogan di La Malfa fa credere agli Italiani che « questa volta si può ». Conta il P.R.I., evidentemente, su un mezzo plebiscito di voti, da parte delle categorie medie, ma rimane deluso, perché gli manca la base, privo com'è anche della spinta ad azionare una minoranza propagandistica « di rottura ». Risultato dell'infelice operazione, che rivela anche la debolezza organizzativa del P.S.I. e l'isolamento suicida delle sinistre extraparlamentari, è il vero fascismo della così detta « Destra Nazionale ». Qualcuno, dunque, sbagliò, ma non la modesta sezione di Manfredonia. Logoratisi e non ricostituibili i rapporti di coabitazione e di amministrazione con la D. C., condizionata da una centrale clerico46 artigianale, cadde ogni illusione di intrallazzo, coltivata da qualche « dissidente ». La ricostituzione del Centro-sinistra ricevette la più ospitale sconfessione dal nuovo corso politico autorizzato dal conservatore presidente Leone con il varo del Governo Andreotti. Insegnò all'on. La Malfa e al suo stato maggiore quanto fosse facile un esperimento come quello del Centro-destra, quando il corpo elettorale, per l'anticipato e precipitoso scioglimento delle Camere, è chiamato senza la opportuna preparazione psicologica e informativa, a pronunziarsi sulla situazione politica e sull'avvenire del Paese. Per concludere: se i dirigenti nazionali del PRI hanno finito col riconoscere la impossibilità di collaborare con la DC, nessun dovere avevano ed hanno i repubblicani sipontini di credere a una formula smentita e abortita al Centro! A contestare la presenza dei repubblicani nella Giunta Popolare è sopraggiunta la mutata valutazione della vocazione e disponibilità ministeriale comunista nell'area parlamentare. Dopo la dura prova del Centro-destra, che ha agevolato il crollo finanziario del Paese, indebolendone in stravagante misura la resistenza democratica contro le forze eversive, non c'è motivo di allevare l'opposizione del partito mondiale, che raccoglie il maggior numero di lavoratori e, nonostante l'inesaudimento delle loro istanze, mantiene un atteggiamento pacifico e conciliante, che non può non essere garanzia di ordine e di disciplina, mentre nella piazza si ricompongono le membra spezzate dello squadrismo. Ci sembra di aver detto cose di comune evidenza, in piena buona fede, con l'animo aperto ai frutti della civile convivenza e con l'unico scopo di dimostrare ai male informati e agli scettici, che la nostra situazione amministrativa, valida con la maggioranza di cui fa parte il PRI, è anche politicamente e moralmente legittima. Ma vi è una terza categoria di nemici irriconciliabili del buon senso, ai quali va riservata una particolare ammonizione: sono i pasticcioni, gl'intriganti, i pettegoli, i chiacchieroni, gl'insofferenti, e, non escludo certi romantici. Si credono i depositari della verità e sol perché si trovano con l'avere in tasca la storia con le loro elucubrazioni, di poter spaccare in quattro ogni situazione, di poter accampare dei diritti, per sé e per i parenti; pretendono di far carriera nel partito, e anche se le sue file sono appena sufficienti a dare un eletto al Consiglio comunale, osano ipotizzare ipoteche per l'avvenire, minacciando di rompere il meccanismo, perché nessuno se ne serve. Tutto questo ci è stato esibito recentemente proprio in un ambiente dove, per tanti motivi concorrenti, nessun contestatore si dovrebbe sentire autorizzato ad alzare la voce, senza aver prima esaminata la sua posizione personale alla stregua dei rigorosi canoni morali, o della sapienza politica e del costume, attribuiti della divisa che oggi si ostenta. 47 MAURO DEL GIUDICE Lo conobbi al tempo del crimine Matteotti, vedendolo uscire un giorno dal suo ufficio della Sezione di accusa al Palazzo di Giustizia a Roma. Era molto amico dell'on. Giovanni Conti, che noi giovani amavamo riconoscere l'esponente verace del repubblicanesimo di allora. Rientrato in provincia nel 1933, solo più tardi appresi del suo « pensionamento » e con il pretore di Manfredonia, Perfetto, mi proposi di visitarlo. Ma mi feci troppo assortire da altre cure, nelle quali dispersi tante energie. Pertanto risolse il nostro incontro al 1940, quando mi recai a visitarlo in Vieste, ov'era ospite di un suo fratello. Era ritornato sul Gargano dopo tant'anni, dopo che, messosi in pensione da procuratore generale, ufficio ultimamente esercitato a Catania, erasi fermato alcun tempo a Roma, presso la signora Franca Brunoni (Viale Eritrea, 52), che lo aveva ospitato essendo rimasto celibe. Ma ci trattenemmo lungamente, come avrei voluto, a colloquio: suonava la messa alla sua chiesa e vi andammo per una lunga scalinata. .Mi fece impressione vedere quel vegliardo appoggiarsi a un bastone e a un ombrello, come un proletario qualsiasi. Rientrati, mi fece vedere due diplomi cartacei dedicatigli ultimamente dalla loggia foggiana « Giannone » del G. 0. Un giorno Don Mauro fu prelevato dalla signora di Roma e sua figlia e morì in quella città. Lasciò al comune nativo libri e manoscritti, senza inventario. Il marzo 1951 feci assumere le onoranze in memoria dalla Società Dauna di Cultura. Il 17 e 18 luglio mi fermai a Rodi per la ricognizione delle cose su dette. Era sindaco il generale a riposo Ruggiero imparentato con i Petrucci; segretario comunale il rag. Pasquale Queto, mi fu propizio. Nell'aula, consigliare, senza chiusura di sorta, due grandi casse contenevano quanto aveva costituito il patrimonio intimo del grande Garganico. Come altre volte, quando giovanotto avevo scoperchiato a Manfredonia la cassa del « quarantottista » Murgo, affondai le mie mani in quegli scrigni, sudando non solo per l'atmosfera pesante e fetida della sala, ma anche e sopratutto per l'emozione, per il privilegio del quale mi sentivo investito, di esplorare, per primo, l'aspetto più geloso della vita di quel protagonista, ultimo pensatore di nostra terra. Con la data 17-18 luglio compilai l'inventario dei manoscritti, che feci chiudere nella cassaforte della segreteria. Le onoranze sfumarono, nonostante un contributo di 30.000 lire del Comune di Rodi, sindaco Moretti. Vocino, presidente della Società, pur essendo entusiasta della iniziativa, non sollevò un dito per alleviare i miei solitari conati. Per ovviare in parte alla nostra contumacia, del n. 1-2, 1970, prima parte di « La Capitanata » (Foggia) ho pubblicato la monografia apparsa la prima volta il 1925 in « Studio giuridico Napoletano » 50 (Napoli) vol. XII. « Piero Giannone nella storia dei diritto e nella filosofia della storia ». Com'era doveroso, ho fatto seguire il testo da una lunga nota. Nel nostro incontro di Vieste, ricevetti in dono il dattiloscritto dei « Malfattori e benefattori della Giustizia nella vicenda di un secolo » con questa dedica: « All'amico Mario Simone, per solidarietà nell'ideale repubblicano » Vieste IX febbraio 1940, e un esemplare dell'opuscolo: « La legge penale nel tempo » testi di diritto penale comparato (Napoli, 1882) con le aggiunte autografe ad ogni pagina, destinata a una seconda edizione, una e l'altra dell'opera mi proposi di fare una edizione d'intesa con in Consiglio dell'Ordine degli Avvocati e Procuratori di Foggia. Avrei voluto pubblicare « Malfattori e benefattori », e insieme l'opuscolo stampato il 1950 del collega Scabelloni a Catania « li potere giudiziario al cospetto del nuovo Parlamento », comprendendolo in « Quaderni di risorgimento meridionale », col titolo « La giustizia tra due repubbliche (1799-1948) » per le cure di Vincenzo Tangaro, del quale mi attendevo una presentazione che, oltre a delineare la personalità dell'autore, commentasse il testo. Ma questo mi fu restituito con le sole correzioni formali del dattiloscritto. lo non potei corredare la narrazione critica e polemica, così com'era necessario e doveroso. Il 1970 passai in composizione l'opuscolo « Il potere giudiziario ». Avevo ricevuto il testo, emendandolo, e vi avevo aggiunto una documentazione di eccezionale interesse: le lettere che il Del Giudice aveva indirizzato subito dopo la « liberazione » al predetto Tangaro. Il piombo di questo opuscolo è oggi (15-9-73) ancora « in piedi » nella Tipografia Laurenziana di Napoli. LA PUGLIA A ROMA Verso il 1921, per slancio di un gruppo di corregionali, era viva in Roma una Associazione Pugliese con sede prestigiosa nel Palazzo Marignali al corso Umberto, sopra lo « storico » di Aragno. Ne erano maggiorenni elementi non fascisti quali il dott. Chieffo, magistrato di Cassazione, il suo fedele rag. Antonio Borgia, l'avv. Del Sonno (li si diceva massoni), gli avv. Majolo e Melucco (socialisti)... Con la marcia su Roma e la nomina a sottosegretario alle Poste dell'on. Giuseppe Caradonna, questo fu chiamato a presiedere il sodalizio, per adeguarlo alla nuova realtà politica, e vice presidenti furono creati l'ing. Alessandro Carelli e il comm. Gaetano Petrucci, della direzione generale delle Poste, che presto divenne il « factotum » del sodalizio. Presentato dal fratello Alfredo, gli esposi un progetto di attività culturale per valorizzare la nostra regione e non dovei attendere molto, per ingolfarmi in un lavoro, arduo ma piacevole, che mi alleviò le 51 sofferenze, per la irreparabile crisi politica e, naturalmente, contribuì a distrarmi dalla università e a farmi rimandare l'inizio della pratica forense (che oggi ritengo indispensabile, alla formazione professionale di un giovane, che voglia fare sul serio e per ciò non ingannare se stesso, la famiglia, la società). Al mio exploit nel campo culturale, le attività sociali erano preminentemente costituite da riunioni danzanti di ogni specie e da qualche conferenza: la sala di lettura era dotata di numerosi quotidiani e periodici: letti i primi, appena sfogliati i secondi, anche se riguardavano la nostra regione. Tutta questa mia operosità, nonostante che fosse preminente alla superficie (quella « vitale » era pur sempre il giuoco... sotterraneo!) costituzionalmente rimase fino all'ultimo marginale, perché non mi furono mai dati una investitura e un riconoscimento ufficiali, nonostante gli ampi poteri che gradatamente usurpai, fino a essere considerato il segretario generale e l'esponente culturale del sodalizio. Sono di quell'iniziale periodo alcune esperienze nuove, tra le quali molte amicizie e la Mostra degli artisti pugliesi, ordinata da Alfredo Petrucci (1925). Coinvolto alla sprovvista nell'impegno, nell'ansia, nella tecnica di quella impresa; a contatto con artisti, artigiani specializzati, critici di arte e giornalisti, mi esaltai e mi prodigai nella illusione pirandelliana di costruirmi quale personaggio. Il 1926 dal Palazzo Marignoli ci trasferimmo in via di Torre Argentina n. 12, dove curai numerose iniziative, registrate dalla stampa. Senza far spendere una lira formai una raccolta di pubblicazioni regionali, ottenendole in dono da editori e autori (sistema che oggi detesto, convinto della sua immoralità): opuscoli e libri che solo pochi soci chiesero di leggere. Avendo trovato in libreria un fondo di libri francesi, donati da un giuocatore reduce da Parigi, vi aggiunsi romanzi e novelle, guadagnando molti lettori, in specie tra le ragazze. La distinzione di questi libri, come dire, « profani » l'affidai a un consigliere, il buono e innocuo rag. Miccolis, che volentieri se la faceva a sfogliare pagine con l'elemento femminile alla ricerca del « libro interessante ». Per le conferenze, al fine di presentare agli oratori una sala affollata, convinsi l'amico Petrucci a consentire... quattro salti dopo il... sacrificio. Con questo espediente potemmo assicurarci un uditorio che, oltre gli invitati e i soci « a livello », comprese anche quel pubblico, che più aveva bisogno di penetrare nella cultura e nell'arte di Puglia. Aprimmo la serie con l'autorità massima degli studi pugliesi, mons. Nitti, al quale seguirono altre illustrazioni. Il prof. Federico Hermanin, sovrintendente ai monumenti dei Lazio e degli Abruzzi, e direttore della Galleria Corsini, succedettero sino al prof. Quintino Quagliati. Ma non tutti i conferenziari si mostrarono consapevoli dei limiti che imponevano anzitutto le loro stesse qualità espressive, e poi il 52 tema e l'ambiente. Di essi fu proprio il Quagliati a dover prendere atto quando, fattosi chiaro dopo oltre un'ora di proiezione d'indole archeologica, nella sala si contarono i soli « tenacemente intellettuali » rimasti legati alle sedie in generosa attestazione di solidarietà. Un apporto eccezionale allo sviluppo della mia «linea» culturale perseguita nonostante la palese indifferenza dei «mondani» e degli invidiosi, mi venne dal dott. Vito Reali di Tricase (Lecce), direttore-editore della « Rassegna nazionale di musica », al quale debbo molto della mia educazione musicale. Non si contano i concerti, individuali e collettivi, svolti nell'Associazione per il suo autorevole intervento presso gli esecutori, a volte davvero autorevoli, quali il Casella, lo Schipa, il Chiarozza... E non furono trascurate le arti figurative. Il primo ad essere accolto e festeggiato fu Luigi Schingo di San Severo, patrocinato da Alfredo Petrucci (lo avevo conosciuto, ammirandone i paesaggi a pastello, che erano la sua prerogativa di successo). Lo aiutai a montare nella sede sociale la sua « personale », lo misi in contatto con esponenti del mondo romano, organizzai la vernice e l'inaugurazione, un ricevimento e un pranzo in suo onore. Vendette molti lavori, alcuni dei quali pagati a pronta cassa, mi promise in dono « Golfo di Manfredonia » del quale mi ero innamorato e che oggi attendo ancora. Un altro da noi « valorizzato » fu il pittore Pastina, del quale conobbi un giorno il figlio, vice provveditore agli studi in Foggia, ma la rassegna lasciò freddi, nonostante la presenza in effige e in carne ed ossa di Edy, la giovane modella dagli scandalosi grandi seni a forma di cono. E venne fuori, rivistina mensile illustrata, « La Puglia a Roma », dalla copertina montata da Alfredo con gli stemmi delle cinque provincie della regione: direttore il vice presidente Gaetano Petrucci, redattore capo il sottoscritto, e intelligente, bravo, paziente tipografo il socio cav. Armellini, della provincia di Bari (Tip. dell'Urbe, via Vittoria Colonna n. 27); assiduo frequentatore in finanziera dell'Associazione, padre di una delle più belle signore, che la infioravano. Perché ci si possa rendere conto della validità culturale del mio lavoro anche se la sua influenza fu irrilevante, a causa della limitatissima diffusione -, riproduco in appendice il sommario dei nove numeri pubblicati. La collaborazione ottenuta e i consensi guadagnati incoraggiavano a sviluppare la iniziativa, ma fu soffocata dal consiglio di amministrazione, non appena che da una disavventura estranea alla sua carica nel sodalizio, Gaetano Petrucci se ne dovette allontanare. Anche in questa impresa non ebbi che aiuti marginali dai consoci: non da Peppino Modugno, vecchio compagno nel PRI, assorbito oltre che dall'ufficio, dalla pubblicazione di « La Puglia Letteraria », uscita anche con la mia collaborazione; non dal prof. Salvatore Mininni, insegnante al « Massimo » giovane preparato e volenteroso, ma che purtut53 tavia perdeva il suo tempo a pavoneggiarsi, limitandosi a scrivere qualche recensione. Chi alla rivista e all’attività culturale in genere si mostrava del tutto indifferente, era proprio il Caradonna, che, per temperamento e per prassi di vita, considerava la carica tenuta solo per quel margine di vantaggio, che poteva dargli la presidenza del sodalizio rappresentativo della sua regione. Essendo notorio che, tutte le altre consorelle di carattere regionale, quella nostra ospitava una sala da giuoco, il margine già abbastanza modesto, si ridusse a una mera ipotesi di prestigio quando Mussolini adottò l’equivoco provvedimento di sopprimere i sodalizi regionali di Roma, con i quali si affermavano velleità campanilistiche, che egli si era incaricato di deludere, col senso unitario dello Stato accentratore, burocratico e livellatore. Non ricordo se fu in quella occasione o per altre cause, che l’ambiente ducesco tentò, senza riuscirvi, di schiudere al Caradonna la carriera diplomatica, destinandolo a rappresentare l’Italia a . . . . . (la manovra fu sventata, ma per sempre il comandante delle squadre d’azione Appulo alla marcia di Napoli e di Roma di « emarginato » e non ritornò alla ribalta nazionale fino alla sua « leggendaria » evasione da San Vittore, subito dopo scomparendo. L’Associazione andò sempre più deteriorandosi. Dovette lasciare la sede di Torre Argentina e andò a finire al ghetto, a Piazza Cenci, nel famoso che fu questa famiglia, ove ci fu amico il fantasma della dolce parricida, deliziandoci degli effluvi di Piperno, il maestro dei filetti di baccalà in padella. Il consiglio di amministrazione aveva così decretata la fine del sodalizio. E’ risibile apprendere che tra i provvedimenti diretti a salvare le finanze, si annoverò la soppressione della rivistina, che pure rappresentava l’unica testimonianza di vita, di ideali e di prestigio dell’A s soci azione. Vale la pena consegnare alla storia le generalità dei galantuomini, autori del bel gesto: presidente comm. dott. Giuseppe Mastropasqua, del M.ro alla P. I., com.. rag. Carella, cav. Fortunato. A Torre Argentina, collateralmente al periodico, pubblicai « Alfredo Petrucci, Pittori pugliesi dell’800: Domenico Caldara » (con quattro illustrazioni). Il frontespizio recava, presuntuosamente, tra l’altro : « Quaderni Pugliesi diretti da Mario Simone », cui seguiva nella pubblicitaria: « Seconda serie », con riferimento alla prima, che nel 1925 avrebbe aperta la prima con « Manfredonia e il Gargano » (vedi voce). Questo quaderno gravò solo per poche lire sul bilancio sociale, essendosi utilizzato per il testo il piombo della rivista; purtuttavia come questa parve urtare la suscettibilità dei dirigenti, che mi pregarono di soprassedere, come fu fatto. STUDIO EDITORIALE DAUNO Un modulo per la iscrizione al registro della ditta presso la Camera di Commercio di Foggia (Consiglio dell’Economo - verificare): 54 Riccardo Ricciardi 55 tutto qui l’apparizione a Foggia dello Studio Editoriale Dauno intestato a mio padre Antonio. Non fu ordinato un programma culturale, né un piano finanziario; non vi fu una riunione di amici perché l’iniziativa avesse un decollo più appariscente da una base di consensi e di auspici. Era mio intendimento raccogliere la tradizione tipografica della Capitanata, svolgerla con moduli moderni, creare una editoria « dauna » quale fatto di cultura al servizio della mia Terra. Le circostanze vollero diversamente e lo Studio esordì con i connotati di una editrice giuridica, pubblicando la rivista « La Corte d’Assise », recante i tre nomi dei promotori e redattori: l’avv. Vincenzo Lamedica, direttore, il procuratore del re prof. Cocurullo e Mario Simone. Se fossi stato meno ingenuo, cioè un tantino avvocato, avrei « manovrato » in modo che il... triumvirato si identificasse con lo Studio Editoriale e lo amministrasse: in tal modo, gli avrei assicurata una veste giuridica e un’attività meglio spiegata nello spazio editoriale e nel tempo. Improvvido come sempre, mi... « buttai a pesce » nell’impresa col risultato finanziario di rimetterci le piccole spese personali e quello morale di sapere da nessuno considerato il valore della editoria da me creata. Ancora oggi, dopo quarant’anni, nell’esame critico del libro è raramente considerato e tanto meno discusso il dato editoriale. E’ facile intuire, dunque, come sfuggisse all’attenzione del mondo giuridico-forense e, soprattutto, dell’ambiente di una provincia, come la nostra, dove contenuti e forme delle pubblicazioni « locali » erano ancora arcaici, come documentano i... palinsesti del tempo. Le prime maggiori prove dello Studio Editoriale Dauno furono, dunque, « La Corte d’Assise », i « quaderni » e la « biblioteca omonima ». I primi raccoglievano i contributi apparsi nel periodico (estratti), la seconda i testi, a cominciare da « L’ingiuria e la diffamazione » del Cocurullo, stampata bene dall’avv. Massimo Frattarolo a Firenze, dove da Lucera aveva trapiantata la sua famosa attività tipografica. Oltre queste collane giuridiche, il 1940 venne fuori la « Biblioteca del Risorgimento Pugliese ». In un periodo nuovo dello Studio vanno considerate le mie prestazioni a favore del Consiglio provinciale di Capitanata, che nel 1955 mi chiamò a riordinare e stampare i suoi atti deliberativi dal 1952. A far invitare lo Studio, cui purtuttavia, l’incarico ebbe il crisma della gara, fu il segretario dell’Ente, dott. Luigi Basso, e non per favoritismo ma, com’ebbe a dichiarare, perché solo per le mie cure si sarebbe potuto ottenere la revisione degli originali, compilati in una lingua qui e là un po’ approssimativa. 56 PRO-MEMORIA AGLI INTELLETTUALI DAUNI ... di nulla preoccupati fuori che di sostituirsi in una nuova gerarchia di privilegiati per razziare nei residuali beni spirituali ed economici della nazione. ... li conosciamo questi martiri da carnevale, questi eroi della sesta giornata questi frodatori della pubblica opinione. Rintanatisi il 28 ottobre, hanno a lungo svernato nei comodi «fifaus» dell’antifascismo scudato, non esitando a trafficare all’ombra del Littorio. Oggi ritornano alla luce con la pelle del vittorioso leone, quasi che il 25 luglio segnasse l’inizio di una rivoluzione o almeno di una ribellione in 180 da essi promossa e attuata, e non un oscuro colpo di Stato del quale possono attribuirsi le cause soltanto per quel tanto di collaborazione che prestarono al fascismo, aiutandolo a raggiungere l’estrema antitesi che ne aiutò la caduta. E’ ritornato il tempo dei programmi politici, degli appelli, degli esami di coscienza, e delle decisioni. Per venti anni i nostri uomini di cultura, inquadrati nel partito e nei sindacati del regime totalitario non hanno avuto altro dilemma, ma innanzi a loro: collaborare o non col fascismo. In massima parte lo hanno risolto con una negazione, ma sia gli attivi che i passivi si sono adagiati nella situazione « comodamente » col proposito comune di non farne niente, e niente infatti facendo. I collaborazionisti, tali non per spirito politico, ma per « opportunismo » non riuscendo (in buona o mala fede) a prendere sul serio nemmeno le funzioni loro affidate, non hanno mai sentito il dovere di formarsi una cultura fascista. Gli altri non ne hanno avvertito nemmeno il bisogno, convinti che di cultura fascista non fosse nemmeno a parlarne. 2) Ma al di là della collaborazione e dell’opposizione al fascismo, gli uni e gli altri, si sono trovati tutti d’accordo su un punto dove si è saldata la tradizionale apatia degli intellettuali del Sud: l’ostracismo agli studi politici e sociali. 3) Non si tratta qui di far loro un processo, per il quale io non ho certamente l’entità di giudice, né mi sento di far da pubblico accusatore. Come potrei, del resto(?!). Essa mi porta a ricercare tutte le attenuanti possibili a farne di questa categoria che non possiamo chiamar borghese come classe, perché ad essa specialmente in questi ultimi tempi sono confluiti tanti figli del popolo lavoratore: ma che senza dubbio è « borghese », per mentalità e come borghese ha purtroppo pensato ed agito nei venti anni che l’abbiamo attentamente seguita. E questa ricerca non è difficile sol che siamo tutti d’accordo sul fallimento dello Stato italiano creato dalla truppa piemontese ai danni del popolo delle provincie annesse prevalentemente di quelle meridionali. Volersi fermare al fascismo per attribuirgli tutte le colpe del57 l’attuale disastro d’Italia sarebbe infatti ingenuità imperdonabile. La politica monarchica che culminò con la resa alle squadre d’azione ha una storia che tutti possono facilmente conoscere sol che lo vogliano. Fu essa, per fermarci all’Italia meridionale, che isterilì le forze rinnovatrici della Rivoluzione italiana che avevano redento l’Antico Reame della ignominia barbarica; essa che lasciò insoluta la questione sociale delle nostre provincie tanto fervide e attive nei moti del Risorgimento che seminò la corruttela nella nostra classe borghese e deviò le più intemerate coscienze della loro missione civile. Com’era fatale, nell’ambiente squisitamente « cafone » della provincia, mortificato da una economia primitiva e chiuso alle correnti vivificativi delle idee, gl’intellettuali, anche quelli più svegli finirono con l’adagiarvisi, contribuendo ad aggravare la situazione col politicantismo e con l’agnosticismo più deleteri. Queste due forme di partecipazione alla vita pubblica dei nostri intellettuali si riprodussero dopo la prova redentrice. Pochi uomini di cultura, in verità, si convinsero che i tempi nuovi richiedevano vita nuova, ed elevarono la loro voce per dire una parola di vero al popolo disorientato e sofferente. 1 più, quasi che la guerra forse trascorsa invano sulla scena del mondo, si rigettarono nei personalismi e campanilismi o si misero alla finestra, e finirono con l’accogliere il fascismo come un mezzo più facile per raggiungere i loro obiettivi egoistici o come un nuovo spettacolo che si spiegava alla loro esperienza. Qui non posso esimermi dal rispondere a una domanda che potrebbe essermi facilmente rivolta: « Che cosa si sarebbe potuto fare »? E dico subito il mio pensiero. Ai collaborazionisti era offerta l’occasione di renderci molto utili al loro paese, attraverso le cariche e gli incarichi ad essi assegnati con iniziative culturali che avrebbero potuto prendere e sviluppare anche con aiuto del partito. Agli assentisti nessuno proibì mai di dedicarsi agli studi e di svolgere tutte quelle altre attività sociali dirette al progresso morale e culturale del popolo. Gli uni e gli altri invece si astennero da ogni fatica intellettuale « tirando a campare » fino quasi all’annullamento della loro personalità che essi rinunziarono ad affermare. Quali doveri sociali conferisce infatti a noi la cultura? Indubbiamente quello, sopra tutti gli altri, di volgerla a profitto morale e materiale del popolo prima che nostro. Ed è appunto questa funzione sociale, e non il privilegio naturale ed economico di aver conquistato un titolo di studio, che ci eleva sull’affarismo (utile anch’esso, indubbiamente, ma non nobile) del negoziante; che ci autorizza ad indicare al popolo la via della sua elevazione di farsi interpreti e assertori delle sue esigenze e dei suoi diritti. Chi non compie questo principale dovere è dunque in difetto con la sua missione, colpevoli, se pur con tutte le attenuanti, sono 58 coloro che in venti anni intellettualmente poltrirono. A tanto avevo interesse di giungere, per giustificare questo frettoloso « promemoria ». Gli intellettuali non hanno bisogno più di un lungo discorso per intendere l’imperativo dell’ora. Ancora una volta essi sono di fronte a gravi responsabilità che impongono sollecite e risolutive decisioni. Essi non vorranno certamente ripetere gli errori passati, che questa volta non troverebbero attenuanti. Il Paese, attende da essi tutto quanto da essi è lecito pretendere: sincerità di propositi, idee chiare, azione intellettuale a servizio degli interessi collettivi, dedizione suprema al dovere. Indubbiamente, restituito come le altre di Puglia alla sua missione civile, anche la nostra provincia entrerà tra breve nel movimento ricostruttivo della Nazione. Gli uomini di cultura son chiamati pertanto a costituire le nuove gerarchie che i partiti esprimeranno liberamente. Necessità, dunque, s’impone, di meditare sui casi d’Italia e al lume della storia e delle dottrine, dare un ideale e un programma alla propria attività sociale. Una volta si poteva scegliere un partito secondo le utilità personali da esso offerte senza molto arrossire dell’opportunismo che sacrificava la coscienza, ed era un suicidio morale ed un delitto di lesa Patria. Oggi questo delitto sarebbe anche di lesa umanità, perché dal sangue dei popoli di Europa sorge una civiltà nuova alla quale l’Italia deve dare un alto contributo. 59