F. Taviani, M. Schino
Il segreto della Commedia dell’Arte
Firenze, La Casa Usher 1982, pp. 309-29.
La produzione di teatro
SOMMARIO: L’evanescente concetto di improvvisazione – Teatro scritto e teatro non scritto – Le azioni e la dicitura –
La concezione classica della drammaturgia alla base della Commedia dell’Arte.
Un solo elemento attraversa sempre apparentemente uguale i disparati fenomeni e i diversi momenti
di teatro raccolti nell’idea di Commedia dell’Arte: l’improvvisazione. Sembra essere questo il
nocciolo reale di quell’immagine ideale di teatro emanata — soprattutto nell’emigrazione — dalle
multiformi attività dei comici italiani. I loro disparati teatri sarebbero, cioè, riconducibili ad
un’unica varietà, ad una specificità che li apparenta, poiché il tema dell’improvvisazione, dalla metà
del Cinquecento alla fine del Settecento, offrirebbe una continuità tale da giustificare che, a dispetto
di ogni altra considerazione, si parli di un teatro unitario. di uno stile, forma o genere preciso. La
tecnica dell’improvvisare, dagli italiani — soli fra tutti — posseduta, sviluppata, trasmessa di
generazione in generazione, costituirebbe il segreto della Commedia dell’Arte, sia esso un semplice
segreto di fabbricazione o un più sostanziale segno di saggezza teatrale. Nel 1700, quando i comici
italiani erano già stati cacciati da Parigi, Evaristo Gherardi presentando il loro repertorio di
commedie scriveva così:
Non dovete aspettarvi di trovare in questa raccolta tutte intere le commedie [...] Il teatro degli italiani
non può essere stampato, perché sono attori che non imparano testi a memoria e basta loro, per
rappresentare una commedia, d’averne letto il soggetto un attimo prima di entrare in scena.
La più grande bellezza delle loro storie sceniche, per ciò, è inseparabile dall’azione, perché il
successo delle loro commedie dipende in tutto e per tutto dagli attori che le rendono più o meno
piacevoli a seconda che abbiano più o meno abilità e intelligenza o a seconda della situazione in cui
si trovano a recitare. E questa necessita di recitare da un momento all’altro, senza preparazione, che
fa sì che sia tanto difficile sostituire un attore italiano quand’egli viene a mancare. Tutti possono
imparare a memoria un testo e poi recitarlo; ma occorre ben altro per essere un buon attore della
Comédie Italienne.
Chi dice “buon attore della Comédie Italienne” dice un uomo che ha una sua personalità, che recita
più con la propria immaginazione che con la memoria, che compone quel che dice nel momento
stesso in cui lo recita, che sa assecondare colui con il quale si trova sul palcoscenico, che sa, cioè,
sposare cosi bene le proprie parole e le proprie azioni alle parole e alle azioni del compagno da
inserirsi subito nella linea d’azione dell’altro e muoversi così come questa gli richiede, tanto da far
credere a tutti che sia una cosa preparata.
L’intento di Evaristo Gherardi non era, però, quello di spiegare ai lettori quali fossero i
procedimenti degli attori italiani, era piuttosto il desiderio di affermare che solo in loro l’arte
scenica trovava compimento. Affermava, infatti:
Un attore che recita semplicemente a memoria non entra in scena altro che per dir giù la sua parte il
più presto possibile così come l’ha imparata, ed è troppo occupato per prendersi cura dei movimenti
e dei gesti del compagno. Egli va diritto per la sua strada con la sfrenata impazienza di liberarsi della
sua parte come di un peso da gettar via per riposarsi. Di questi attori si può dire che sono come
scolari che vengono a ripetere, tremando, la lezione imparata con cura. O meglio: sono simili all’eco,
che mai parlerebbe se un altro non avesse parlato prima. (Gherardi, 1700, Avertissement)
Più che essere un documento sulla tecnica dell’improvvisazione, la pagina del Gherardi documenta
la volontà di celebrare i comici italiani in un documento in cui la loro fama poteva affidarsi soltanto
al ricordo, alle parole scritte o alle rievocazioni dei pittori. Si può pensare, infatti, che quel che
Gherardi scrive sia altrettanto lontano dalla realtà di quanto lo fossero i quadri e le stampe di Gillot
o Watteau che pretendevano di rappresentare la Comédie Italienne.
L’effetto che il Gherardi ottiene, quell’idealizzazione dell’improvvisazione, cioè, che più tardi,
sposandosi con la mentalità romantica, produrrà l’idea più comune e sbagliata della Commedia
dell’Arte come teatro della spontaneità e della libera fantasia creatrice, deriva da un accostamento
strampalato, che a dispetto d’ogni logica contrappone l’attore che improvvisa non a quello che non
improvvisa, ma semplicemente al cattivo attore. Il trucco è talmente smaccato che rischia d’esser
controproducente, tanto che il Gherardi, prima di chiudere il discorso, si affretta a smorzare l’enfasi
ricordando come vi siano eccellenti attori anche fra quelli che recitano a memoria, ma affermando
che in questo caso essi sono eccellenti proprio perché riescono a mascherare l’arte con l’arte, così
come i pittori fan sembrare naturale l’artificio.
Due dei diversi temi che si alternano nelle testimonianze sull’improvvisazione dei comici italiani, i
due temi più appariscenti, sono ben esemplificati dalla pagina del Gherardi: da una parte lo stretto
collegamento fra idealizzazione dell’improvvisazione e difesa della Commedia dell’Arte; dall’altra
la tendenza ad identificare recitazione naturale e recita improvvisata.
Mario Apollonio (1930, p. 188) avvisa, a proposito delle discussioni intorno ai limiti
dell’improvvisazione dei comici dell’arte, che «sarà bene notare che fra i contemporanei della
Commedia dell’Arte chi le è favorevole ammette la recitazione improvvisa, chi le si oppone parla di
repertorio e di zibaldoni». Il che è vero almeno nel senso che la magnificazione
dell’improvvisazione, come metodo compositivo proprio del modo italiano di far teatro, ritorna ogni
volta in cui siano in pericolo la presenza o gli usi delle compagnie italiane. È questo il contesto, per
esempio, in cui Carlo Gozzi, sul finire del XVIII secolo, alla fine dell’ultima grande battaglia sui
comici dell’Arte — la battaglia che meno servì alla loro vita materiale e più alla loro sopravvivenza
ideale — parla ancora una volta dell’improvvisazione come tecnica della recitazione naturale (cfr.
Gozzi, 1797, parte II, cap. I). La tendenza ad identificare recitazione naturale e recita improvvisata
deriva dalla contrapposizione fra attori italiani e attori francesi; è questa contrapposizione a essere
concretamente sperimentata dagli spettatori, che poi immaginano di individuare la causa
nell’elemento più evidente — o più appariscente e noto — degli italiani. Così Charles De Brosses,
in una delle sue Lettres de l’Italie (cfr. Duchartre, 1955, p. 39), dopo aver rilevato come il sistema
di recitare all’improvviso renda più incerto lo stile, afferma che esso dà però agli attori un’aria
naturale, per cui vanno e vengono sulla scena e parlano fra di loro come se fossero sulla via o nella
propria casa. Ma la connessione improvvisazione-naturalezza avviene, nello sguardo dello
spettatore De Brosses, perché egli — dice — confronta mentalmente gli italiani ai francesi.
Possiamo cioè vedere, nel concreto riflesso condizionato di uno spettatore, l’origine — in senso
logico, non cronologico — della retorica e inconsistente contrapposizione tracciata dal Gherardi. È
bene insistere su questo fatto: è per il confronto con i francesi, non per l’improvvisazione, che gli
italiani appaiono naturali. Ed è perché appaiono naturali, che l’improvvisazione viene identificata
come portatrice di naturalezza. L’idea base, in altre parole, è quella che contrappone stile italiano a
stile francese, una contrapposizione che istituisce un modo di guardare il teatro che Watteau aveva
fissato nei due quadri contrapposti L’Amour au Théâtre Italien e L‘Amour au Théâtre Français e
nelle stampe da essi derivate, e che — naturalmente — colora il modo in cui si guarda
l’improvvisazione scenica, i suoi caratteri, i suoi effetti, la sua giustificazione.
Si direbbe, però, che più ci si allontana dall’ambiente francese e dall’esigenza di difendere la
Commedia dell’Arte, più l’improvvisazione trascolora.
Torniamo, allora, a Luigi Riccoboni, che scrive in Francia per i francesi, ma incarna l’atteggiamento
degli intellettuali italiani verso il teatro. Ne L’Histoire du Théâtre Italien scrive:
L’improvvisazione permette una variazione nel recitare, di modo che, anche se si vede più volte lo
stesso canovaccio, si può vedere ogni sera una diversa rappresentazione. L’attore che recita
all’improvviso recita in maniera più vivace e più naturale di quello che recita una parte imparata a
memoria: è più facile sentire e quindi si dice meglio quel che si è composto da sé, che non quel che
si prende dagli altri con l’aiuto della memoria. Ma questi vantaggi della commedia recitata
all’improvviso sono pagati da molti inconvenienti: essa richiede attori ingegnosi e più o meno
ugualmente bravi, perché lo svantaggio dell’improvvisazione consiste nel fatto che la recitazione del
miglior attore dipende assolutamente da colui con cui dialoga: se si trova con un attore che non sa
cogliere con precisione il momento della replica, e che l’interrompe a sproposito, il suo discorso
langue e la vivacità dei suoi pensieri viene soffocata. (Riccoboni, 1728, pp. 61-62)
Apparentemente, l’impianto del discorso del Riccoboni è simile a quello del Gherardi, anche se con
più attenzione al concreto e maggior ricchezza di dettagli. Ma questi dettagli spostano il discorso
dalla generale valutazione dell’improvvisazione per l’arte dell’attore, ad una sua più circostanziata
valutazione sul piano della drammaturgia e della veste letteraria della commedia. Tutti gli elementi
del brano si muovono con sicurezza in questa direzione: la possibilità di operare variazioni sullo
stesso canovaccio; il vantaggio, per l’attore, di trovar da sé le proprie battute; la difficoltà
d’alternarsi bene nel dialogo quando le battute non siano fissate e non si sappia, quindi, quando il
compagno ha finito di parlare. Nella stessa direzione, infine, Riccoboni spinge il discorso quando
esamina gli aspetti più negativi dell’uso di recitare all’improvviso:
Per facilitare gli attori mediocri a recitare la commedia all’improvviso è stato necessario ricorrere ai
monologhi e a quei luoghi comuni che gli italiani chiamano robbe generiche di cui gli attori si
servono a seconda delle necessità e delle situazioni sceniche. Questo modo di dialogare non vale
nulla, perché spesso accade che si piazzano delle belle massime così mal a proposito che esse non
quadrano con ciò che l’interlocutore ha appena detto e sono del tutto fuori tema. (Riccoboni, 1728, p.
63)
A differenza di ciò che capiscono alcuni moderni, Riccoboni non dice che il ricorso alle robbe
generiche è dannoso perché rompe l’improvvisazione, ma perché è un uso letterariamente
inadeguato di luoghi comuni al posto di testi appropriati ed adattati all’individualità della
situazione. Benché le parole del Riccoboni siano spesso simili a quelle del Gherardi, egli si trova in
una zona del tutto diversa e si occupa dei pregi e dei difetti dell’improvvisazione non per il gioco
scenico degli attori, ma per la composizione della commedia, per la sua scrittura in azione.
Essenziale non è più il fatto che il testo sia improvvisato dall’attore, ma che sia composto da lui.
L’improvvisazione, cioè, viene a significare una personalizzazione del testo, più che una
composizione all’improvviso. È questo l’aspetto che Riccoboni discute per i francesi: la
drammaturgia dell’attore italiano, il quale parla in scena con parole che egli stesso ha composto, che
vengono dalla sua immaginazione e che non ha preso dal di fuori, da un poeta. (cfr. Riccoboni,
1728, p. 63)
Ma negli stessi anni, e forse negli stessi mesi, Riccoboni scrive dell’improvvisazione anche in
italiano e per gli italiani:
Non vi fu mai chi più di me avesse in odio la stravagante usanza di recitar comedie a l’improvviso e
chi forse più di me si sia servito di questo comodo. Per un comico diligente, morigerato e non affatto
ignorante, confesso che l’invenzione non è pericolosa servendogli anzi di stimolo per ben parlare e
per erudirsi. Ma io l’ho sempre abborrita poiché per esperienza ho conosciuto che al comico
ignorante e scostumato (che pur troppo alle volte se ne trovano) l’uso di recitare a l’improvviso gli
serve di facilità per studiar solamente come inserire ne’ suoi discorsi qualche oscenità. (Riccoboni,
Scenari inediti, p. 30)
In questo caso, l’improvvisazione è solo — come Riccoboni (Scenari inediti, p. 11) ha scritto
qualche pagina prima — un «uso inveterato» o un «comodo» che marchia, facilitandolo, il lavoro
teatrale delle compagnie, lo rende più veloce, ma anche più aperto agli arbitri e alle prepotenze
sceniche dell’uno e dell’altro attore.
Cominciamo così lentamente a vedere che il filo dell’improvvisazione, che sembra percorrere tutti i
teatri delle compagnie italiane dal XVI al XVIII secolo e in realtà composto di due fili che spesso
sono fra loro intrecciati, ma che possono anche correre separati: l’uno è costituito dalla
drammaturgia d’ogni singolo attore della commedia; l’altro dall’uso di rappresentare commedie con
poca o punta premeditazione, come per sorpresa o su due piedi.
Si tratta di due cose diverse, che possono essere di fatto unite, ma che non lo sono di diritto, e
possono, quindi, non aver nulla a che vedere l’una con l’altra.
Nelle testimonianze dei contemporanei, per il peso della pratica, le due cose si mischiano, ma se si
osserva bene, ci si accorge che è possibile una commedia premeditata, che però è prodotta dal
comporsi dei diversi interventi drammaturgici dei diversi attori attorno allo scheletro del
canovaccio, mentre d’altra parte è possibile una commedia all’improvviso in cui, però, non c’è
l’intervento della personale drammaturgia degli attori. Il primo caso è quello forse più diffuso nella
Commedia dell’Arte, in cui commedie molte volte recitate e ben concertate risultano dagli apporti
dei loro singoli attori e necessitano una nuova concertazione quando cambia un attore. Il secondo è
quello di commedie stese in ogni loro parte, che però gli attori non imparano a memoria — per
necessità o pigrizia — e che in qualche modo ricostruiscono all’improvviso, in poco tempo.
supplendo con l’invenzione al non saputo o — come si diceva nel gergo teatrale — andando a
suggeritore.
Accenna a questa seconda possibilità una testimonianza della metà del Seicento:
Orsù, diciamo che il virtuoso recitare in scena è una bella grazia, anzi è un compendio di molte
grazie, le quali molti mercenari e moderni comici scuoprono improvvisamente nel moderno teatro.
Non hanno tutte le rappresentazioni stese di parola in parola; o se pur le hanno, essi non le mandano
alla memoria nel modo de’ recitanti fanciulli o de’ verbali auditori, ma, apprendendole bene prima in
sostanza, come per brevi capi e punti ristretti, recitando poi improvvisamente, o quasi
improvvisamente, così addestrandosi ad un modo di recitar libero, naturale e grazioso. (Ottonelli, V,
capo IV, punto VIII)
L’accenno ai «recitanti fanciulli» è forse lo spunto concreto da cui il Gherardi, nel brano citato
all’inizio del capitolo, svilupperà la similitudine fra attore che impara a memoria il testo e scolaro
che ripete tremando la lezione. La testimonianza del gesuita Ottonelli, forse la persona più attenta ai
teatri degli attori fra quante se ne interessarono fra Cinque e Settecento, persona straordinariamente
attenta perché non interessata al teatro per il teatro, ma perché spinta da preoccupazioni morali,
civili, religiose, da simpatie e indignazioni che nascevano fuori dal teatro e al teatro tornavano con
tutta la forza, l’interesse e la fascinazione di una vera vocazione anti-teatrale, la testimonianza
dell’Ottonelli, dunque, passa velocemente dall’uno all’altro dei due poli fra cui oscillano le
testimonianze sull’«uso inveterato», il «comodo» di recitare all’improvviso: la coscienza del
pressappochismo e lo stupore per il virtuosismo. Come la tradizione aneddotica dei comici
dimostra, fino alle soglie del nostro secolo, pressappochismo comico e virtuosismo d’attore sono
l’uno l’altra faccia dell’altro, basta cambiare il punto di vista perché l’uno diventi l’altro e
viceversa. Uno degli schemi più ricorrenti dell’aneddotica teatrale è quello che mostra la bravura di
un attore attraverso il modo in cui ripara ad un errore, ad una trascuratezza o ad una mancanza di
preparazione sua o di un compagno. Le bravure dell’improvvisazione, in questo caso, non sono
altro che il rimedio alle lacune della professione. Ma in questo caso esse non hanno o non
dovrebbero aver nulla a che vedere con ciò che e stata chiamata Commedia all’improvviso. Eppure
il problema dell’improvvisazione nella Commedia dell’Arte è così confuso e poco chiaro che si
fanno confusioni anche fra teatro improvviso e aneddotica del rimedio improvvisato.
È il caso di Carlo Gozzi, che racconta — nelle Memorie inutili — quel che gli capitò un giorno a
Zara, mentre per diletto recitava una farsa improvvisata al teatro di corte, interpretando il
personaggio di Luce, moglie «mal maritata di Pantalone vizioso, rotto e fallito».
A causa del ritardo dell’attore che doveva interpretare Pantalone, Gozzi improvvisò — racconta —
una serie di azioni ed un lungo monologo in cui fece la satira del malcostume di una donna ch’era
tra il pubblico e a causa della quale aveva avuto da soffrire, ottenendo, così, un grande successo
(Gozzi, 1797, parte I, cap. XIII). Aneddoti di questo tipo percorsero le conversazioni, le cronache e
le memorie dei comici, e ancora le percorrono. La morale della favola, al di là del carattere
divertente della storia, è che un buon attore deve saper far fronte all’imprevisto e riempire gli
eventuali buchi della rappresentazione. Ma Gozzi formula così questa conclusione: «Che un buon
Comico all’improvviso non si deve sbigottire e non deve mancare di ciarle», attribuisce, cioè, al
comico all’improvviso una dote che invece dev’esser propria d’ogni comico. La confusione fra
improvvisazione come pratica scenica peculiare delle compagnie italiane e quel tipo di
improvvisazione o capacità di comporre per necessità su due piedi — che caratterizza, invece,
qualsiasi professionista — mostra quanto siano fragili — se osservate da vicino — le testimonianze
sul carattere improvviso della Commedia Italiana che invece, viste dall’alto e prese tutte quante
insieme e all’ingrosso, sembrano individuare con sicurezza un genere di teatro preciso e
circoscrivibile.
C’è, poi, un’altra confusione: quella fra improvvisazione come modo di produzione del teatro e
improvvisazione come dimostrazione ed esercitazione accademica. Questa confusione è facilitata
dal fatto che alcune delle più dettagliate testimonianze sul recitare all’improvviso sono di dilettanti
accademici; dal desiderio dei comici di nobilitare il proprio lavoro; da un generico riconoscimento
di una predisposizione italiana all’improvvisazione visibile sia nel teatro prodotto dalle compagnie
italiane che nel fenomeno tipicamente italiano dei verseggiatori all’improvviso; e infine da alcuni
casi obiettivi di riutilizzazione teatrale di tecniche accademiche di improvvisazione. Persino il
Perrucci, per il quale la recitazione all’improvviso individua un genere preciso di teatro, tende poi a
sovrapporla all’esercitazione e ai giochi accademici basati sull’improvvisazione. (cfr. Perrucci
1699, qui come Ill. Lett., VI, 13)
Ancor più sintomatico il fatto che nelle pagine di Scipione Maffei — colui che con l’alleanza del
Riccoboni condusse la campagna contro la pratica del teatro improvviso, per la formazione di un
repertorio classico nazionale — il tema dell’improvvisazione inneschi il passaggio dalla denuncia
della pigrizia e del pressappochismo dei comici all’ammirazione del loro virtuosismo, fino a
rivendicare agli italiani il genio dell’improvvisazione in generale, mischiando commedia
all’improvviso e poeti estemporanei.
Il Maffei sta parlando dell’uso del verso nelle tragedie e nelle commedie e deprecandone
l’abbandono:
Or benché non poche commedie si venissero poi anche in prosa rappresentando, si ritenne però
insieme l’uso del verso per tutto il secolo decimosesto; ma nel susseguente gustando i comici nel
parlar comune e sciolto il piacere della libertà, per non restar legati a parole e per poter in tal modo
recitare senza applicazione, cotal pigrizia gli fece a poco a poco abbandonare il verso del tutto, tanto
più che l’uso della moderna commedia li costrinse a riempire le compagnie di persone incapaci di
ben proferirlo. Si aggiunse, per invaghirli della prosa, la mirabil facilità loro, affatto incognita ai
comici d’altre nazioni antiche e moderne, di parlare in tal forma ottimamente a soggetto, cioè
all’improvviso. Egli è noto che scene abbiam moltissime volte udito in tal guisa, senza precedente
concerto alcuno, tanto graziose, tanto ben girate e con tal vivezza di facezie e con tal naturalezza di
sentimenti e con tal prontezza di risoluzioni che non sarebbe possibil mai di scriverle meglio al
tavolino. La qual dote cominciò in alcuni di costoro fin nel primo formarsi delle compagnie, poiché
Adriano Valerini, famoso comico veronese e autor di rime e dell’Afrodite tragedia, in un’orazione
che pubblicò il 1570 nella morte d’una donna di tal professione, racconta come l’Accademia de
gl’lntronati di Siena avea giudicato riuscir costei «meglio assai parlando d’improvviso, che i più
costumati autori scrivendo pensatamente» [cfr. Valerini 1570, qui come Ill. Lett. II, 8]. Gli stranieri
che ciò non credono, procurino d’udire i nostri odierni poeti estemporanei, ed abbian per certo che da
poi crederanno de gl’italiani in materia d’ingegno e di talento ogni cosa. Sia lecito il farsi qualche
volta giustizia da sé. (Maffei, 1723, pp. IX-X)
L’andamento del discorso del Maffei può apparire inconseguente: non solo, infatti, egli opera una
digressione dal suo argomento — l’uso del verso nei testi teatrali — ma attraverso minuscoli
slittamenti dell’attenzione passa da un atteggiamento negativo nei confronti degli attori che con i
loro usi contribuiscono ad allontanare il verso dal teatro, ad una chiacchierata in lode dei comici che
recitano all’improvviso. Pochi anni prima del Maffei, il suo amico Ludovico Antonio Muratori
aveva affrontato lo stesso argomento nel 6° capitolo del 3° libro Della perfetta poesia italiana
(pubblicato a Modena nel 1706 e in seconda edizione nel 1724), procedendo in linea retta dalla
considerazione dei pregi del verso nella poesia drammatica alla necessità di buoni attori che
sappiano recitar in versi, e da qui alla condanna di quegli istrioni moderni, «uomini per ordinario
ignoranti», i quali non fanno altro che recitare «quel solo che loro piace» e vanno in scena
servendosi «del solo soggetto, come lo chiamano, cioè della sola ossatura delle commedie, che
poscia all’improvviso è da loro rivestita con le parole». Un discorso talmente rettilineo che il
Muratori concludeva esortando i principi e i governanti delle città a proibire le commedie
all’improvviso ed altre «scipitezze» del genere. Il discorso del Maffei, invece, pur partendo dalle
stesse premesse e svolgendosi alla luce degli stessi principi, è come se si lasciasse a poco a poco
dirottare da una simpatia per la Commedia dell’Arte che si insinuava fra le crepe della sua pur
severa presa di posizione culturale.
Accade cioè al Maffei quel che accade, nello stesso anno 1723, a Pier Jacopo Martello nella lettera
a Giovan Battista Recanati sull’insuccesso della Scolastica dell’Ariosto messa in scena dal
Riccoboni (Ill. Lett. VI, 16): nell’un caso come nell’altro sembra quasi che il discorso scritto si lasci
andare, come nel parlar rilassato può avvenire, a concludere il contrario di ciò per cui era partito.
Ma si tratta soltanto di un’impressione dovuta alla nostra ottica. Per il Maffei, come per il Martello
o per il Riccoboni, non c’è contraddizione fra un giudizio negativo in nome delle virtù dell’Arte e
della Poesia e la curiosità divertita e un po’ campanilistica, sul piano dell’aneddoto, per il
virtuosismo degli attori di mestiere. Il teatro di cui loro parlano è il teatro come «per sua natura
dovrebbe essere», e non ha nulla a che vedere con ciò che in palcoscenico fanno i comici. Ciò non
toglie che quei comici siano bravi e divertenti nel loro genere, anche se abusivi.
È, insomma, l’atteggiamento di autorità e condiscendenza, di commiserazione e tenerezza che
l’intellettuale ha verso una miseria ingegnosa.
Così, mentre nella cultura francese — o parigina — i teatri delle compagnie italiane venivano
proiettati nell’irrealtà di un genere teatrale ideale, che presto coinciderà con l’idea stessa di fiaba
scenica e di grottesco che vivifica l’immaginazione degli uomini di teatro europei; nella cultura
italiana i teatri dell’Arte venivano proiettati nell’irrealtà dell’aneddotica che continuerà a lungo a
suscitare la divertita curiosità di coloro stessi che persevereranno a bollare il fenomeno come
sintomo di decadenza artistica e culturale. Questa distinzione dura fin quasi ai giorni nostri: mentre
gli uomini di teatro e gli studiosi europei rischiano di farsi un’idea completamente immaginaria
della Commedia dell’Arte; gli studiosi italiani, più legati al particolare e apparentemente più attenti
ai fatti, rischiano di perdere continuamente il rispetto per l’argomento del loro studio, e lasciano che
le loro pagine siano percorse dal riso di superiorità di chi si illude d’esser meno futile dei capricci
che scava dal passato. (cfr. nota 36 [qui omessa])
Sia per l’uno che per l’altro atteggiamento, l’improvvisazione di cui tutti parlano per affermarne o
per negarne la presenza nella Commedia dell’Arte, o per limitarne l’estensione, ma sempre come di
cosa che si sa cosa sia, diventa a ben guardare un concetto evanescente in cui si mischiano il
giudizio su un modo naturale di recitare, la definizione di uno stile italiano di recitazione
contrapposto al francese, la drammaturgia degli attori, l’esercitazione e la dimostrazione
accademica, il gioco prestigioso della composizione estemporanea, il rimedio improvvisato e la
ripetizione imprecisa, andando a suggeritore, di un testo mal appreso. A tutto questo deve
aggiungersi ciò che è forse fondamentale per l’improvvisazione scenica: la capacità di improvvisare
usando il pubblico come interlocutore, sorprendendo le sue attese e giocando con le sue reazioni (su
questo cfr. Apollonio 1968, p. 164 e Ill. Lett. VI, 16). Proprio perché si tratta di un elemento
fondamentale, però, riguarda tutto il teatro comico, e non ha nessun titolo per caratterizzare in
particolare la Commedia dell’Arte.
Ma la causa principale della difficoltà ad orientarsi, quando si parla dell’improvvisazione della
Commedia dell’Arte, non sta nel suo ridursi a concetto evanescente. La difficoltà diventa, anzi,
tanto maggiore quanto più si cerca di analizzare con precisione il problema, perché
l’improvvisazione — teatrale o no — si trascina dietro quasi per necessità una serie d’altri problemi
che non si identificano con essa, ma che vi aderiscono così strettamente da ricoprirla quasi del tutto.
Attraverso l’esame delle tecniche dell’improvvisazione e dei problemi pratici e teorici che esse
comportano, infatti, emergono con particolare chiarezza — quasi per l’accelerazione cui sono
sottoposti per il fatto di svolgersi allo scoperto — i problemi riguardanti le tecniche di
composizione. E evidente che una cosa è la composizione scenica e altra cosa l’improvvisazione,
ma altrettanto evidente è che a volte i principi dell’improvvisazione altro non sono che principi di
composizione così ben posseduti da poter essere applicati velocemente e quasi per istinto, così
come — reciprocamente — a volte alcuni problemi per la composizione emergono chiari quando si
immagina che la loro concatenazione logica riproduca una catena cronologica di fatti, come se
elementi implicati logicamente l’uno dall’altro comparissero storicamente uno dopo l’altro nel
corso del lavoro teatrale. Così, per esempio, Maurice Sand (Ill. Lett. 1, 1) crede che ciò che emerge
in una seduta di improvvisazione teatrale rispecchi nelle sue diverse fasi lo sviluppo storico del
teatro dell’Arte; e altri credono che elementi che derivano la loro necessità l’uno dall’altro,
caratterizzino altrettante fasi storiche. Secondo questo modo di guardare, che identifica modello
logico e sviluppo storico, il fatto che la drammaturgia degli attori determini l’esistenza degli
zibaldoni o «robbe generiche» fa credere che nella storia dell’improvvisazione dei comici si siano
succedute fasi ed epoche diverse caratterizzate prima da una vera e propria creazione
drammaturgica, e poi dalla decadenza con l’uso di pezzi precostituiti e generici. Il primo
responsabile di questo equivoco fu probabilmente Francesco Saverio Quadrio che nella seconda
parte del terzo volume Della storia e della ragione d’ogni poesia (Milano 1744, p. 223) dice che il
«provvedersi di certi squarci imparati a memoria, quasi di luoghi topici, onde valersi non pur nei
soliloqui […] ma ancor nei dialoghi» fu dovuto alla decadenza degli attori dopo il 1680. È stata una
lettura approssimativa del Riccoboni (1728, p. 63) a spingere il Quadrio a questa strana
affermazione, contraddetta sia dalle notizie documentate che dal buon senso. È, invece, una lettura
troppo fiduciosa del Quadrio a perpetuare l’equivoco: quando il suo modo meccanico di concepire il
divenire storico viene accettato e riletto con occhi moderni (cfr. ad es. Tessari, 1969, pp. 80 e 225)
esso determina l’abbaglio secondo cui ad una fase dell’improvvisazione come naturalezza e talento
naturale succederebbe un momento di riflusso in cui l’improvvisazione non sarebbe più nient’altro
che una tecnica compositiva. Ma la contrapposizione fra un’inesistente improvvisazione «vera e
propria», naturale e antiletteraria, e un’improvvisazione come composizione e montaggio di pezzi
precostituiti e variazione attorno ad essi è una contrapposizione anacronistica.
Forse la più interessante analisi dell’improvvisazione della Comédie Italienne e quella di JeanAugustin-Julien Desboulmiers, uno scrittore parigino di racconti e romanzi piccanti, specializzato
nell’aneddotica indiscreta, morto quarantenne nel 1771. Nel 1769, Desboulmiers pubblica 7
volumetti di Histoire anedoctique et raisonnée du Théâtre Italien, nel primo dei quali affronta, fra
l’altro, il tema dell’improvvisazione:
Un attore riempie la sua immaginazione di tutte le idee dell’autore e cerca le differenti vie per
condurre il dialogo a coincidere con tutti i punti dell’azione. Un altro, che deve aver parte anche lui
alla stessa scena, la studia anch’egli fra sé, e naturalmente immagina di costruirne il dialogo in
tutt’altra maniera. Ed ora ecco i due attori in scena, pieni ciascuno del proprio carattere e della
propria situazione. Tutti e due tendono allo stesso punto dell’azione, ma obbligati a rispondersi
sensatamente e legati, per necessità, agli stessi argomenti, sono forzati ad abbandonare a poco a poco
la via che avevano premeditato, per adeguarsi a quella che l’altro vuol seguire. È questo che dà alla
scena un carattere di naturalezza e verità tale che anche il miglior scrittore può raggiungerlo solo
raramente. Nasce qualcosa di più di quel che può nascere da un testo scritto, qualcosa che nasce
come per un lampo e nell’istante stesso della rappresentazione. (Desboulmiers, 1769, I, p. 33)
La descrizione che Desboulmiers fa dell’improvvisazione è particolarmente acuta, lascia da parte
tutti i luoghi comuni e si ferma su di un aspetto centrale ed in genere ignorato: come l’effetto di
naturalezza e di verità nasca dal conflitto fra due opere di creazione non coincidenti, da una
tensione che crea energia o dalla sfasatura fra le due ottiche diverse dei due attori, che tendendo per
vie diverse allo stesso punto, creano la profondità del campo drammatico. È evidente, però, che più
che un discorso sull’improvvisazione, Desboulmiers fa un discorso sulla composizione, e cioè su
come la commedia possa essere tessuta tendendo ed intrecciando i fili delle diverse drammaturgie
dei diversi attori. Egli, infatti, continua così:
D’altra parte, quando si rappresenta la stessa commedia, gli attori hanno gran cura di ricordarsi tutti i
particolari che han fatto buon effetto il primo giorno e non mancano di rimetterli allo stesso posto, il
che non impedisce di far sbocciare nuovi fiori improvvisati che si aggiungono ai primi nella memoria
degli attori. La commedia resta in repertorio, cento attori differenti si succedono gli uni agli altri nel
rappresentare lo stesso canovaccio e vi introducono sempre qualcosa di nuovo. Alla fine, le scene
sono così piene che si rimane colpiti dalla quantità di particolari e di trovate teatrali che contengono.
Per recitare perfettamente occorre solo essere ben istruiti della tradizione teatrale. Così,
l’improvvisazione è, in fondo, una questione di memoria. (Ibidem)
L’improvvisazione, insomma, non è l’improvvisazione; e la rappresentazione premeditata si
distingue dall’altra, detta «all’improvviso», perché meno «a memoria», perché si rifà solo ad un testo
fisso, e non ad una tradizione fissata in tutti i suoi particolari. I paradossi cui ci conduce JeanAugustin-Julien Desboulmiers son meno paradossali di quanto sembra. Nel momento in cui il
discorso si fa più preciso e non si aggira più intorno ad un concetto evanescente, esso va oltre
l’improvvisazione e mostra come abbia veramente consistenza, piuttosto, il problema della
composizione delle commedie alla maniera dei comici. È di questo che in realtà parlano studiosi
contemporanei come Mic ed Apollonio nelle pagine che formalmente dedicano, invece,
all’improvvisazione. E da questo punto di vista diventa futile, diventa la traccia di una vecchia
confusione e l’eco di quel concetto vuoto di cui s’è parlato, la discussione, tanto annosa quanto
imprecisa, sui limiti dell’improvvisazione in rapporto all’uso dei pezzi precostituiti. Così come
diventa inutile o per lo meno non essenziale tentare di «salvare» l’esistenza dell’improvvisazione
della Commedia dell’Arte spostandola idealmente, dall’improvvisazione dei materiali
all’improvvisazione del loro montaggio.
Tutto questo può essere vero, e certamente in molti casi lo fu. Ma quel che è più importante rilevare
è che il tema dell’improvvisazione dei comici dell’Arte, con tutte le implicazioni e le associazioni
che esso trascina con sé, è il riflesso di un altro problema e ne è, insieme, lo schermo.
Scrive il Nicoll:
La virtù dell’improvvisazione fa degli attori altrettanti autori. La misura dell’improvvisazione
certamente variò a date diverse, in diverse compagnie e da un attore all’altro; ma dal principio alla
fine essa fu il fattore che determinò la particolare qualità dello stile italiano, distinguendolo da altri
metodi teatrali.
E aggiunge:
Di recente sono stati fatti alcuni tentativi di negare questa virtù, che però rimane tale. (Nicoll, 1963,
pp. 27-28)
Di fronte a frasi come questa, siamo ora in grado di diffidare.
Il luogo comune di un genere teatrale che si distingue dagli altri perché in possesso del segreto
dell’improvvisazione si è dimostrato costruito di pezzi eterocliti, che non stanno insieme. Sappiamo
che non è l’improvvisazione l’essenziale, ma ciò che essa cela, cioè la drammaturgia degli attori. Il
Mic lo dice con queste parole:
Sembra improbabile che un teatro che portava in scena soggetti estremamente complicati, con un
numero rilevante di personaggi, potesse basarsi sulla pura improvvisazione [...] Il carattere essenziale
della Commedia dell’Arte, comunque non consisteva nell’improvvisazione [...] ciò che la
caratterizzava era piuttosto il fatto che uno spettacolo dell’Arte non era sottomesso alla volontà d’un
unico aurore. (Mic, 1927, p. 125)
Il Mic prosegue ripetendo ciò che diceva Riccoboni, in uno dei brani citati nel corso di questo
capitolo, e cioè che per gli attori sarebbe più facile «sentire» ciò che hanno loro stessi composto,
piuttosto che ciò che è stato scritto da altri e da loro imparato a memoria. Ma noi non lo seguiremo
su questa strada. Ci domandiamo, invece, cosa significhi, storicamente, la produzione di uno
spettacolo non sottoposto alla volontà di un unico autore. Per comprenderlo dobbiamo risalire
indietro nel tempo, alla metà del Cinquecento, negli anni in cui s’era svolto il Concilio di Trento e
se ne applicavano le riforme; e in cui nasceva, ad opera delle compagnie italiane, il «teatro moderno
in quanto teatro» (cfr. Ill. Lett. IV, 8).
* * *
La data simbolica per l’origine della Commedia dell’Arte, il 1545, anno a cui risale il primo
contratto a noi noto della formazione d’una compagnia (Ill. Lett. IV, 3), è anche la data d’inizio del
Concilio di Trento. I rapporti fra i comici di professione e gli uomini che rappresentavano
l’ideologia morale e religiosa sancita dal Concilio non furono facili, anche se furono infinitamente
più facili e morbidi di quelli che intercorsero fra i professionisti del teatro e i religiosi delle
confessioni non romane. Se da quei rapporti e da quegli scontri non derivarono atti di intolleranza
definitiva, derivarono, però, pagine e pagine polemiche e predicatorie, editti, lettere, pareri, che
sono, sì, la testimonianza di un’attenzione fatta di minacce e di irritazione, ma che trasmettono più
notizie sull’ambiente del teatro di quante ne abbiano trasmesse tutti assieme i teatri e i loro
spettatori di quegli anni (cfr. Ill. Lett. V; Taviani 1969 e 1971).
C’è, fra queste notizie, anche una delle prime testimonianze sull’improvvisazione degli attori
italiani, e proviene da un Cardinale.
Gabriele Paleotti, creato cardinale il 12 marzo 1564, alla chiusura del Concilio di Trento,
Arcivescovo di Bologna dal 1566, aveva lavorato a lungo alla Curia di Roma, dove s’era fatto una
particolare esperienza in materia di libri proibiti. Come Arcivescovo sapeva quindi servirsi bene
degli strumenti che il Concilio metteva in mano alle autorità ecclesiastiche per regolare la
trasmissione della cultura, dando loro il potere di permettere o proibire le nuove pubblicazioni e le
rappresentazioni teatrali pubbliche che — secondo un’opinione rigorosa — dovevano regolarsi per
analogia con la stampa. Ma nel caso delle commedie fatte dai comici di professione, sosteneva il
Paleotti, esse andavano proibite in blocco: ciò che il Cardinale innanzi tutto notava era che di quelle
commedie mancava il libro. Erano bensì vere commedie, e non zannate, non erano pure e semplici
rappresentazioni carnevalesche e buffonesche, ma erano commedie senza un libro di riferimento.
Nel 1578, il Paleotti comunicava così il suo parere alla Curia di Roma:
Non basta il dire che prima si rivedano queste commedie e si levi il cattivo, perché in pratica non
riesce, perché sempre vi aggiungono parole o motti che non sono scritti, anzi non mettono essi in
iscritto se non il sommario o l’argomento, e il resto fanno tutto all’improvviso (in Taviani, 1969, p.
39).
Un aspetto interessante di questa testimonianza e il modo in cui passa da una generica osservazione
degli usi dei comici («sempre vi aggiungono parole o motti che non sono scritti»), ad uno sguardo
più ravvicinato che individua una precisa organizzazione nella produzione degli spettacoli («non
mettono per iscritto se non il sommario...» ecc.), quasi la frase rispecchiasse, con la ripresa di
quell’anzi, le esperienze sempre più precise fatte dal Cardinale nell’esercizio delle sue funzioni. Già
una decina di anni prima (cfr. Taviani, 1969, p. 38), la Curia bolognese s’era occupata delle
commedie portate in giro dalle compagnie professionistiche: ciò che agli occhi dei giudici della
pubblica moralità era emerso sempre più chiaramente era che il pericolo consisteva in qualcosa che
precedeva il contenuto delle commedie, e si annidava nel fatto stesso per cui esse avvenivano in
assenza di un testo scritto: è solo il testo scritto che permette il controllo prima che lo spettacolo
avvenga. Lo spettacolo senza un libro che lo preceda elude, per definizione, i decreti di controllo
dei libri: è controllabile non in quanto pubblicabile, ma solo in quanto già pubblico. Ma il Cardinale
sa bene — a differenza di molti frettolosi moderni — che dallo spettacolo non è assente un testo, un
testo che può essere in tutto simile ai testi scritti. Ciò che è assente è solo la scrittura che renda
presente (e controllabile) il testo anche senza lo spettacolo.
L’improvvisazione, cioè, non si oppone alla premeditazione, come la parola sembrerebbe indicare;
si oppone, in questo caso, alla scrittura.
La cosa di cui parla il Paleotti, ci porta così a scoprire un altro significato possibile della qualifica di
«improvvisato» data al teatro dei professionisti, il significato più concreto e ristretto di «teatro non
scritto».
Quando torniamo a sentire ancora oggi quel vero e proprio ritornello secondo cui la Commedia
dell’Arte si baserebbe sul rifiuto del testo letterario, non possiamo non meravigliarci di quanto forte
sia l’illusione ottica che fa confondere testo letterario con testo scritto.
Un’illusione ottica pari a quella di chi considera la lingua solo dal punto di vista della lingua scritta,
e che nasce dalla deformazione del letterato e del lettore che nella loro esperienza identificano
composizione e scrittura, conoscenza e lettura, e sono quindi portati a giudicare non composto quel
che non è scritto, e non esistente quel che non è leggibile. Tranne casi estremi, è difficile che esista,
nella nostra civiltà, un poema o un romanzo non scritto. Persino una raccolta di poesie, per lo meno
in ambiente colto, se c’è vuoi dire che è scritta. Ma con il teatro è diverso, e la pratica dei comici
dell’Arte dovrebbe dimostrarlo: in quel caso era quasi normale che esistessero commedie — con il
loro bravo testo letterario — ma non scritte. Dove stava, allora, il testo, ci si domanderà, se non
stava per iscritto? Esso compariva all’improvviso nello spettacolo, non prima. Compariva
all’improvviso non era improvvisato. Il problema dell’improvviso è innanzi tutto un problema del
lettore e del Cardinale Paleotti, che non hanno nulla da leggere. Non degli attori che non avrebbero
nulla di composto prima dello spettacolo.
Ciò che il teatro delle compagnie professionistiche rifiuta — o ciò di cui più semplicemente fa a
meno — non è il primato e la centralità del testo, ma il primato e la centralità del libro.
Se non si vede in tutta la sua complessità questo problema concreto, si devia verso la semplicistica
astrazione di un teatro che — rifiutando il testo drammatico — viene da noi immaginato come un
teatro che privilegia il gesto sulla parola, un teatro della fisicità o della teatralità pura. Sono
equivoci che corrono sul filo delle associazioni arbitrarie di parole: popolano le storie del teatro di
luoghi comuni, di fantasmi privi d’ogni radice storica, e si nutrono della cattiva lettura dei
documenti.
Lo scritto in cui meglio sono rappresentati gli atteggiamenti dei comici professionisti italiani nei
confronti del testo teatrale è il primo dei due prologhi de Il finto marito di Flaminio Scala.
Siamo nel 1618, Flaminio Scala, che ha composto molti scenari di commedie ed è stato accanto ai
più grandi comici del suo tempo, che ha diretto compagnie, ora ha settant’anni, e immagina che un
forestiero giunga nel teatro dove sta per recitarsi una sua commedia scritta — eccezionalmente —
per intero. Scala immagina il disprezzo del forestiero letterato, immagina di non essergli neppure
noto, lui che non è autore vero di libri e che «a’ suoi dì ha fatto mille suggetti» senza scrivere
commedie, e si lascia difendere da un comico. Un professionista del teatro non scritto e un
osservatore del teatro scritto si affrontano, così, su una scena ancora vuota:
Comico
Forestiero
Comico
Forestiero
Comico
Forestiero
— Ma non mi negherete già, che dove lo Scala ha portato i suoi suggetti, sempre
hanno dato gusto e son piaciuti.
— È vero, ma perché? Perché egli ha cercato fargli apparire con le azzioni; e le
buone compagnie di comici son quelle che, ben recitando, nobilitano i suggetti; ma
quella composizione, poich’è solamente scritta sopra un foglio, s’ella non ha in sé
l’arte del bene scrivere che l’accompagni, resta fredda e cade.
— Dunque questa, ora recitata, piacerà, perché hanno fatto scelta de’ personaggi.
— Sta bene; ma essendo imparata a mente, se il disteso non è vago proprio e di
buona lingua, non daranno in nulla.
— Cotesto è vero quando con un bello e nobile encomio si vuol celebrare chi che
sia, o pure narrare un fatto seguìto, ma nella commedia basta che vi sia buona
imitazione et il verisimile, e che la locuzione non sia scabrosa o barbara; anzi la
familiare, senza tanta arte, è la più propria, perché la commedia rappresenta azioni
comuni, e non di uomini di alta qualità; onde l’esquisitezza gli è impropria.
— Ben dite nel troppo; ma per imitare più parti et introdurre ciascuna a parlar
propriamente bisogna saperne assai, perché non si può dilettare con la variazione o
del bergamasco o del veneziano o del bolognese, ma bisogna con la proprietà delle
parole, ancorché non si muti linguaggio, ben imitare; et a questo ci vuol del buono.
Sì che torno a ridire che non spero molto di questa, perché ognuno val ne l’arte sua.
(Scala, 1618, p. CX).
La discussione, come si vede, non riguarda la capacità dei comici a fare un buon teatro — il
forestiero è anche lui d’accordo che il loro teatro funziona — ma la loro capacità di scrivere una
commedia, fissando e traducendo completamente in parole gli effetti delle azioni sceniche. Il
professionista del teatro non scritto sostiene che lo Scala, nel momento in cui vuole, può anche
scrivere una commedia, perché il livello della dicitura, della locuzione, non e il più importante, e la
lingua, purché sia famigliare e corretta, non deve essere particolarmente curata. L’osservatore del
teatro scritto, al contrario, sostiene che tutta la sostanza della commedia scritta si esprime appunto
nella superficie della sua dicitura o locuzione, e che quindi Scala è destinato al fallimento, perché in
questo caso pratica un’arte non sua. E indicativo l’esempio che porta: in una commedia occorre
caratterizzare anche verbalmente i diversi personaggi. Ma mentre gli attori in scena possono
caratterizzarli all’ingrosso, dando direttamente ad ognuno lingue o dialetti diversi, come fanno i
comici di professione che fanno parlare un personaggio in bergamasco, un altro in veneziano e un
altro ancora in bolognese, quando la commedia è scritta le diverse caratterizzazioni linguistiche dei
personaggi debbono essere realizzate attraverso gli strumenti offerti da una sola lingua, debbono
essere, cioè, più raffinate e richiedono la specializzazione di un letterato. Il comico risponde:
Comico
— L’arte vera del ben far commedie credo io che sia di chi ben le rappresenta,
perché se l’esperienza è maestra delle cose, ella può insegnare, a chi ha spirito di
formare o meglio rappresentare i soggetti recitabili, il ben distenderli ancora, quando
però quel tale non sia nato in Voltolina o dove si lascia l’io per il mi.
Ancora una volta, cioè, ribadisce che per scriver bene teatro non occorre nessuna particolare
specializzazione letteraria, ma la conoscenza dell’uso corretto della lingua e nulla più.
Il tema in discussione fra il comico e il letterato è, in fondo, molto limitato: non riguarda il teatro
all’improvviso, non l’arte del recitare e neppure — come si vedrà — il conflitto gesto-parola.
Non è nient’altro che la discussione su quel che serve per scrivere (ancora una volta: scrivere, non
rappresentare) una buona commedia. Attraverso il dialogo fra il comico e il forestiero — e ancor
più attraverso il dialogo a distanza con i suoi moderni interlocutori, gli studiosi della Commedia
dell’Arte — Flaminio Scala mostra quanto siano celate e profonde le conseguenze
dell’identificazione fra testo drammatico e scrittura del testo drammatico; come esse si travestano
in semplici contrapposizioni di poetica e come nascondano la complessità del concreto lavoro
teatrale.
Il primo prologo del Finto marito, infatti, è stato recentemente messo in luce, citato, analizzato più
volte come uno dei documenti migliori della così detta poetica della Commedia dell’Arte (cfr.
Jannaco, 1960; Marotti, 1976, pp. XLVIII-L; Tessari, 1969, pp. 69-78 e 1981, pp. 50-54), ma le
analisi rischiano continuamente di inciampare sulla parola azione» usata dallo Scala e di cadere
nella sfera d’attrazione delle discussioni teatrali dei nostri anni, ritrovando nelle pagine dello Scala
una poetica del gesto o della mimesi cinetica o del diretto rapporto fra gesto dell’attore e reazione
fisica dello spettatore, o — più in generale — una teoria del teatro come arte libera dal legame con
la letteratura. Ma, in realtà, le parole dello Scala riguardano un livello del teatro molto diverso e
molto più raffinato.
Dice Flaminio Scala che «le commedie nell’azzioni consistono propriamente e in sustanzia», perché
«alle azzioni son più simili l’azzioni che le narrazioni » (Scala, 1618, p. CXIII). Poi, per convincere
il suo interlocutore, introduce l’esempio del gesto che è più efficace della parola. Ma notiamo,
intanto, che per lui «gesto» e «azzione» sono due cose ben distinte, e che usa il «gesto» come
esempio per spiegare la forza dell’«azzione»:
Per tale cagione adunque l’orazione o locuzione ancora, e le parole sole, poca arte avranno in questo
dell’imitazione, perché ogni minimo gesto a tempo et affettuoso farà più effetto che tutta la filosofia
di Aristotile, o quanta retorica suppone Demostene e Cicerone. E che sia vero che gl’affetti si
muovono più agevolmente da’ gesti che dalle parole, ciascuno che ha intelletto et anco gli animali
bruti sempre faran più caso e moverannosi più a chi alza il bastone che a chi alza la voce. (Scala,
1618, p. CXIII).
Poco più avanti aggiunge:
E considerisi ciò ne gl’amanti, che più da una lacrimuzza, da uno sguardo, da un bacio, per non dir di
più, e da simili cosarelle vengono dal subbietto amato tirati e mossi, che dalla persuasiva di qual si
voglia gran filosofo morale, che con ben ordinata scrittura, perfetti concetti, ottima locuzione et
esquisite parole e migliori ragioni esorti alla virtù, persuadendo a lasciar da canto la sensualità.
(Scala, 1618, p. CXIV).
Ora è chiaro che qui Flaminio Scala contrappone il gesto alla parola non per contrapporre un teatro
basato sul gesto «gestuale») ad un teatro basato sul testo — come la pubblicistica teatrale dei nostri
anni si è abituata a contrapporre — ma per rafforzare con una similitudine lampante il suo
argomento secondo cui ciò che è importante in una commedia non è la coltre della dicitura ma la
sostanza costituita dalla serie dei fatti. I due termini, «dicitura» e «serie dei fatti», sono una
traduzione moderna e meno aperta ad equivoci di ciò che Scala intende con «azzioni» e
«locuzione». Derivano dal Manzoni, nell’Introduzione a I promessi sposi: «Perché non si potrebbe,
pensai, prender la serie de’ fatti da questo manoscritto, e rifarne la dicitura?». È lecito immaginare
simili parola in bocca ad un comico: perché non si potrebbe fissare l’ossatura delle commedie e
lasciare che la loro epidermide cambi e ondeggi, abbandonandone la responsabilità agli attori? Un
progetto del genere non ha nulla a che vedere con il progetto d’un teatro del gesto. È, piuttosto, un
progetto che vede l’attore come traduttore — alla lettera — d’una commedia letterariamente
composta. Per comprendere come questo possa avvenire, e che cosa significhi il fatto che avvenga,
occorre ritornare alle parole dello Scala e alla deformazione con cui noi oggi siamo tentati di
leggerle. Ci troviamo in uno di quei casi, infatti, in cui per comprendere un fenomeno del passato,
più che impossessarci delle sue categorie, dobbiamo liberarci delle nostre.
Per la nostra mentalità, il livello verbale — la dicitura — di un’opera coincide con il suo livello
sostanziale. Ci troviamo quindi in difficoltà e quasi bloccati quando si tratta di distinguere le
«parole» dalle «azioni» di un dramma.
Parlare di un teatro basato sulle azioni finisce per noi fatalmente con il confondersi con il parlare di
un teatro eminentemente visivo, dove prevale l’espressione fisica e mimica dell’attore, dove si nega
o si svaluta l’importanza della parola e del testo drammatico. La confusione è aumentata dal fatto
che quasi sempre, quando uomini di teatro moderni hanno rivendicato la necessità di basare lo
spettacolo sull’espressione fisica dell’attore, sugli aspetti mimici e visivi del teatro e non sui suoi
aspetti letterari, hanno fatto riferimento alla Commedia dell’Arte.
Ma l’azione di cui parla Flaminio Scala quando si dice che su di essa si basa essenzialmente il teatro
non coincide con l’agire in scena dell’attore. Tanto meno coincide con la sua gestualità.
L’esistenza di un problema dell’azione come problema drammatico che non e pertinente a quello
della gestualità dell’attore o dell’aspetto visivo e cinetico del teatro noi la riconosciamo facilmente
quando pensiamo al cinema e alla sua composizione drammatica.
Nessuno vedrebbe alcun riferimento all’espressione fisica dell’attore, all’idea di uno spettacolo
gestuale, se leggesse che il cinema «nell’azzioni consiste propriamente e in sustanzia», e che per
scrivere un film basta saperne concepire e comporre la serie dei fatti e poi stendere i dialoghi nella
normale lingua famigliare, senza preoccuparsi, addirittura, se gli attori li cambieranno, poi, nel
momento della realizzazione, o se li adatteranno a sé o ne ripeteranno con parole proprie la
sostanza.
Il film, insomma, non e uno spettacolo per cui abbia senso dire che il gesto prevale sulla parola o
che l’elemento visivo in movimento prevale sul racconto. Ha un testo alla base, ma e molto raro che
qualcuno ne giudichi la qualità giudicando il valore letterario dei suoi dialoghi, Il valore strumentale
dei dialoghi, della parola, è qualcosa che viene riconosciuto proprio in rapporto alla composizione
drammatica, non in opposizione ad essa.
Sono simili le constatazioni di Flaminio Scala nel primo prologo al Finto marito: il tessuto
letterario dei dialoghi non è importante in una rappresentazione teatrale e neppure nella scrittura
d’una commedia. Egli non sostiene né un teatro basato sulla fisicità del gesto, né i1 suo contrario —
un teatro basato sulla mediazione della parola: queste distinzioni gli sono estranee. Le azioni di cui
parla non hanno nulla di paragonabile con le azioni che compongono una partitura gestuale in un
teatro moderno: sono, invece, racconto, rappresentazione, messinscena di un intreccio, anche se le
parole che gli attori debbono dire non sono particolarmente importanti. Ma non sono importanti non
perché possano essere eliminate, ma perché possono essere non particolarmente curate dal punto di
vista letterario.
Dovrebbe apparire ormai chiaro che è un errore interpretare le dichiarazioni dello Scala come se
fossero in favore di un teatro basato più sugli elementi visivi e mimici, più sul virtuosismo degli
attori e sulla loro dote d’improvvisare senza testo, che non sulla tecnica di composizione del testo
drammatico. Dovrebbe risultar chiaro, anzi, che è vero il contrario.
Quando parla del teatro come di un’imitazione delle azioni attraverso le azioni, lo Scala intende
sottolineare proprio l’importanza della composizione drammatica contro una concezione che invece
rischia di lasciare in secondo piano il dramma — l’azione — per mettere in rilievo l’eleganza
dell’eloquio, la preziosità del livello verbale. Ciò che a noi sembra paradossale, e cioè che
l’elemento letterario di una commedia venga considerato come un suo materiale, un suo ingrediente
non più importante dell’ambientazione scenografica, è invece opinione comune allo Scala, ai suoi
colleghi, ai suoi contemporanei (cfr. Francesco Andreini nella premessa a Scala, 1611, p. 13, e
Seragnoli, 1980, pp. 174-180).
Per noi, il livello verbale di un dramma è ciò in cui si esprime la sua azione. Per Flaminio Scala e
per molti del suo tempo era esattamente il contrario: ciò che rischiava di nascondere l’azione.
Una preoccupazione, questa, tipicamente classica: «Qualcuno — racconta Plutarco nel suo opuscolo
Dell’udire — domandò a Melanto cosa ne pensasse della tragedia del poeta Dionisio. Melanto
rispose: “Non sono riuscito a vederla, tanto era coperta dal velo delle parole”». Nel momento stesso
in cui Flaminio Scala spiega perché egli — autore di scenari — sia in grado di scrivere per disteso
una commedia, spiega anche perché normalmente di commedie non ne abbia scritte e perché i
comici professionisti potessero recitare un teatro non scritto: perché, appunto, le parole della
commedia altro non sono che un velo che copre l’essenziale, il montaggio delle azioni o secondo la
formula aristotelica — la «composizione dei casi».
Se ne deduce, contro tutte le previsioni, che la visione drammaturgica dello Scala è rigorosamente
classica, e che se essa sembra irregolare, lo sembra solo perché si distingue dalla posizione
classicista che vigeva presso i letterati del suo tempo e che lascia tracce ancora presso il nostro
modo di pensare il problema della drammaturgia.
Ma prima di procedere in questa direzione, conviene voltarci indietro per considerare il cammino
percorso: i luoghi comuni sull’improvvisazione degli attori italiani sembravano celare o un
multiforme intreccio d’usi e abusi comici, o la particolare pratica di produzione di teatro che
affidava agli attori la composizione della commedia. L’antinomia commedia
improvvisata/commedia premeditata, cioè, velava l’antinomia più concreta fra commedia composta
e commedia eseguita. Seguendo questa traccia, e vedendo come la produzione dei comici si
manifestava nei primi decenni di vita delle compagnie, siamo giunti a un’antinomia ancora più
concreta: teatro scritto/teatro non scritto. Quest’ultimo, però, non poteva esser confuso con un teatro
anti-letterario, gestuale, mimico, ma — al contrario — si mostrava come un teatro che svalutava la
stesura della dicitura in nome della composizione dei casi, delle azioni, e che quindi in nessun modo
poteva esser visto come un teatro senza testo letterario, anche se questo testo era prodotto in
maniera tale da comparire solo nello spettacolo. Si possono dedurre da tutto questo ancora due
corollari che riguardano l’improvvisazione.
Innanzi tutto, siamo ora in grado di circoscrivere il livello in cui è possibile vedere all’opera, in
maniera continua e sistematica, l’improvvisazione: il livello estremamente superficiale della
dicitura, cioè della traduzione operata dall’attore, con parole sue, della serie dei fatti e degli
argomenti fissati.
In secondo luogo, risulta ora evidente almeno una ragione per cui è stata l’improvvisazione a
colpire tanto l’immaginazione degli osservatori della Commedia dell’Arte e dei suoi studiosi. Essi
restavano e restano colpiti proprio dall’elemento più superficiale (l’improvvisazione nella
traduzione della coltre della dicitura) a causa dei propri interessi particolari: come il Cardinale che a
causa delle sue funzioni è soprattutto interessato al fatto di non poter leggere le commedie, anche
per lo studioso moderno la non trascrizione dei testi delle compagnie professionistiche diventa il
fatto più importante perché è per lui il più importante: quello che gli impedisce di conoscere a
distanza di secoli le commedie dei professionisti. Se gli attori, infatti, possono tramandarsi le
commedie attraverso la composizione dei casi e la serie degli argomenti trasmessi oralmente o
velocemente appuntati, tali da poter essere poi tradotti nelle parole dello spettacolo; per i lettori le
commedie si trasmettono solo attraverso i dialoghi distesi. Nel primo caso la composizione dei casi
trasmette le parole dei dialoghi sotto forma di «soggetti» che gli attori possono tradurre. Nel
secondo, sono i dialoghi a trasmettere la composizione dei casi attraverso azioni che i lettori
possono immaginare.
Ritorniamo, così, all’ipotesi che si faceva poco fa: la differenza delle compagnie italiane — cioè
della Commedia dell’Arte — dai teatri circonvicini e dall’idea di teatro vigente nell’alta cultura del
secolo XVI e XVII non deriverebbe dal loro distaccarsi dalla tradizione del teatro letterario, ma dal
combinare in maniera diversa gli elementi di quella tradizione.
È legittimo sostenere, infatti, che il teatro ideato dalle compagnie professionistiche italiane, il teatro
all’improvviso, fu, per eccellenza, un teatro classico, e che proprio per questo apparve subito così
diverso dal teatro «di imitazione classica», cioè dal teatro classicista.
Il primo continuava ad utilizzare i processi compositivi classici. Il secondo si ispirava ai risultati.
Il primo era classico perché tutto concentrato sull’azione, sul dramma, da cui tutti gli altri elementi
venivano dedotti.
Il secondo era classicista perché si concentrava sulle reliquie del teatro antico, sui testi
sopravvissuti, e deduceva l’importanza della dicitura non dalla sua essenzialità, ma dalla sua
permanenza.
L’idea classicista vede il teatro come qualcosa che deve discendere dal libro, perché ha i libri
davanti e risale al teatro antico attraverso i libri. Teoricamente, distingue fra «composizione dei
casi» e materiale verbale, ma praticamente trova, nei testi che legge, che l’uno è l’altro. La moderna
ideologia teatrale, cioè, si costruisce ipostatizzando le regole della sua trasmissione, e diventa
incommensurabile con l’idea di teatro dei comici, che si costruiva su altre regole di trasmissione,
quelle per cui, fra composizione dei casi e materiale verbale della commedia, poteva essere
trasmesso l’uno e l’altro o soltanto l’uno.
Quello delle compagnie italiane apparirà presto come una forma bizzarra o mostruosa di teatro, una
varietà folcloristica o eretica, nata non si sa dove né come. Ed in realtà si distingueva davvero dai
teatri che contemporaneamente nascevano in diversi paesi d’Europa. Ma si distingueva perché,
mentre le compagnie professionistiche degli altri paesi si legavano alle composizioni drammatiche
degli scrittori, e quindi ad una drammaturgia che privilegiava lo scritto, gli italiani si legarono al
processo di produzione della letteratura drammatica e lo adattarono, fuori dalla pratica della
scrittura, ad altre pratiche professionali di produzione di teatro. Se il teatro degli italiani, infatti,
appare così diverso dal teatro degli scrittori, è perché gli italiani usano gli stessi metodi degli
scrittori per ottener altri risultati. Il che vuoi dire che l’indipendenza dalla volontà di un unico
autore, che risultava celarsi dietro i luoghi comuni sull’improvvisazione, cela a sua volta più
complesse strategie di rapporti dove i confini fra la produzione di teatro e la politica dei teatri si
fanno labili.
OPERE CITATE IN FORMA ABBREVIATA
Apollonio 1930
Mario Apollonio, Storia della Commedia dell’Arte, Roma-Milano, Augustea, 1930 (reidiz. fotomeccanica: Firenze,
Sansoni, 1982).
Apollonio 1968
Mario Apollonio, Prelezioni sulla Commedia dell’Arte, in AA.VV., Contruti dellIstituto di Filologia Moderna – Serie
Storia del Teatro, vol. I, Milano, Vita e Pensiero, 1968, pp. 144-190.
Desboulmiers 1769
Jean Auguste Jullien dit Desboulmiers, Histoire Anedoctique du Théâtre Italien depuis son rétablissement en France
jusqu’à l’année 1769, Paris, Lacombe, 1769, 7 voll.
Duchartre 1955
Pierre-Louis Duchartre, La Commedia dell’Arte et ses enfants, éd. d’Art et Industrie, 1955, (è la versiona ampliata di
un’opera già apparsa nel 1925).
Gherardi 1700
Le Théâtre Italien de Gherardi ou Recueil général de toutes les Comédies et Scènes Françoises jouées par les
Comédiens Italiens du Roi pendant tout le temps qu’ils ont été au service, Paris, Cusson et Witte, 1700, 6 voll. (ed.
definitiva che fa seguito a quelle parziali, pubblicate a Parigi nel 1694, 1695, 1697 e 1698. L’edizione del 1700 è stata
ripubblicata ad Amsterdam nel 1701, 1707 e 1721 e a Parigi nel 1717, 1738 e 1741. Un’antologia del Recueil del
Gherardi è stata pubblicata da Marcello Spaziani nel 1966 (vedi). È da questa raccolta che vengono tratte le citazioni.
Gozzi 1797
Carlo Gozzi, Memorie inutili della vita di Carlo Gozzi scritte da lui medesimo e pubblicate per umiltà, Venezia, Palese,
1797. (Ed. moderna: Bari, Laterza, 1910, a cura di Giuseppe Prezzolini, 2 voll., collana «Scrittori d’Italia». È da questa
che citiamo).
Jannaco 1960
Carlo Jannaco, Stesura e tendenza letteraria della commedia improvvisa in due prologhi di Flaminio Scala, in «Studi
Secenteschi», I, 1960, pp. 195-207.
Maffei 1723
[Scipione Maffei], Istoria del teatro e difesa di esso, in Teatro italiano, o sia scelte di tragedie per uso della scena,
tomo I, Verona, Vallarsi, 1723, pp. I-XVIV.
Marotti 1976
Studio critico e raccolta di documenti sugli inizi della Commedia dell’Arte a cura di Ferruccio Marotti per il volume
Flaminio Scala, Il Teatro delle Favole Rappresentative, 2 tomi, Milano, Il Polifilo, 1976.
Mic 1927
Constant Mic (Konstantin Miklashevskij), La Commedia dell’Arte, ou le théâtre des comédiens Italien des XVI, XVII et
XVIII siècle, Paris, Schiffrin, aux Editions de la Pléiade, 1927 (traduzione italiana in versione ridotta di Carla Solivetti,
Padova, Marsilio, 1981).
Nicoll 1963
Allardyce Nicoll, The World of Arlequin. A critical Study of the Commedia dell’Arte, Cambridge, University Press,
1963. (Trad. italian, Il mondo di Arlecchino, Milano, Bompiani, 1965. Nuova edizione a cura di Davico Bonino: ivi,
1980. È questa l’edizione da cui sono tratte le citazioni).
Ottonelli V
Giovan Domenico Ottonelli, Della Christiana Moderatione del Theatro. Libro detto l’Istanza, Firenze, Bonardi, 1652.
(Un’ampia antologia dell’opera dell’Ottonelli si trova in Taviani 1969, pp. 320-526).
Perrucci 1699
Andrea Perrucci, Dell’arte rappresentativa premeditata e all’improvviso. Parti due. Giovevole non solo a chi si diletta
di rappresentare, ma a’ predicatori, oratori, accademici e curosi, Napoli, Mutio, 1699.
Riccoboni 1728
Luigi Riccoboni, Histoire du Théâtre Italien depuis la decadence de la Comédie Latine, avec un catalogue des
Tragedies et Comédies imprimées depuis l’an 1500 jusqu’à l’an 1600 et une dissertation sur la tragedie moderne,
Paris, Delormel, 1728. (Rist, anastatica: Bologna, Forni, 1969).
Riccoboni, Scenari inediti
Luigi Riccoboni, Discorso della Commedia all’improvviso e scenari inediti, a cura di Irene Mamczarz, Milano, Il
Polifilo, 1973. (Pubblica un manoscritto inedito di Luigi Riccoboni conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi [...]).
Sand 1862
Maurice Sand, Masques et bouffons. Comédie Italienne, textes et dessins par Maurice Sand, gravures par A. Manceau,
préface par Georges Sand Paris, Lévy, 1862.
Scala 1611
Flaminio Scala, Il teatro delle Favole Rappresentative, overo la ricreazione comica, boscareccia e tragica, divisa in
cinquanta giornate, Venezia, Pulciani, 1611 (ed. moderna a cura di Ferruccio Marotti, Milano, Il Polifilo, 1976, 2 voll..
È questa l’edizione da cui citiamo).
Scala 1618
Flaminio Scala, Il finto marito, Venezia, Baba, 1619 [ma 1618]. (I due prologhi al Finto marito sono pubblicati in
Marotti 1976, pp. CIX-CXVIII).
Seragnoli 1980
Daniele Seragnoli, Il teatro a Siena nel Cinquecento. “Progetto” e “modello” drammaturgico nell’Accademia degli
Intronati, Roma, Bulzoni, 1980.
Spaziani 1966
Il “Théâtre Italien” di Gherardi, otto commedie di Fatouville, Regnard e Dufresny presentate da Marcello Spaziani,
Roma, ed. dell’Ateneo, 1966.
Taviani 1969
Ferdinando Taviani, La Commedia dell’Arte e la società barocca: la fascinazione del teatro, Roma, Bulzoni, 1969.
Taviani 1971
Ferdinando Taviani, Studio introduttivo a N. Barbieri, La Supplica, Milano, Il Polifilo, 1971.
Tessari 1969
Roberto Tessari, Commedia dell’Arte. La maschera e l’ombra, Milano, Mursia, 1981.
Valerini 1570
Adriano Valerini, Oratione in morte della divina Signora Vincenza Armani, comica eccellentissima, Verona, [1570].
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F. Taviani, M. Schino Il segreto della Commedia dell`Arte