- ANNO XXXVI N. 12 DICEMBRE 1988 MENSILE DELL'AICCRE ASSOCIAZIONE UNITARIA DI COMUNI PROVINCE REGIONI dal quartiere alla regione per una Comunità europea federale * * * * ** ** COMUNE DI PONSACCO COMUNE O'EUROPA PROVINCIA 01 PIsA Ponsacco per l'Europa Andare oltre il Mercato unico europeo (testo approvato alliunanimità nella seduta del Consiglio Comunale del 28H011988) I I Noi non vogliamo soltanto u n Mercato europeo unico. Noi vogliamo l a piena occupazione, l'eliminazione progressiva degli squilibri esistenti tra le regioni, la protezione dell'ambiente, il miglioramento della qualità della vita e u n adeguato progresso scientifico e culturale. Noi vogliamo una moneta comune che rappresenti la convergenza delle nostre economie nazionali, e vogliamo favorire l'equilibrio economico internazionale. Noi vogliamo realizzareuna politica estera europea, difendere la sicurezza in comune, contribuire concretamente alla pace. Proporsi tali' obiettivi significa battersi per il passaggio dalla Comunità economica europea all'Unione politica. Il Consiglio dei Comuni e delle Regioni d'Europa organizza una grande riflessione dei nostri popoli, ai quali propone di partecipare direttamente al processo d'unificazione attraverso I'iniziativa degli Enti locali e regionali che sono invitati ad approvare nei loro Consigli migliaia di petizioni e riempire dei «quaderni di protesta e di proposta)) (cahiers de doléances) da trasmet tere al Parlamento Europeo, ai Governi e ai Parlamenti nazionali. Noi siamo convinti che una grande mobilitazione dei popoli europei farà si che le prossime elezioni europee diano un mandato morale e politico, costituente, al Parlamento Europeo. Quelli che vorranno potranno gettare immediatamente le basi dell'Unione europea. IL CONSIGLIO MI COMUNI E DELLE REGIONI D'EUROPA II IL CONSIGLIO COMUNALE DI PONSACCO Riflessione di fine anno (utile anche per il 1989) di Umberto Serafini H o amari ricordi, nella mia gioventù disperatamente antifascista - anni trenta -, di quel che, al di là dei confini del regime tirannico, dicevano e facevano i governi e i partiti h = democratici, i singoli statisti, i «sapienti» conaa clamati nelle arti, nelle scienze e nella filosofia. I n fondo è emblematica l'esclamazione di '3 Churchill «se fossi italiano, vestirei la camicia 3 nera»: senza vestirla, Austen Chamberlain L' m se la memoria non m'inganna - portava a n spasso Mussolini sul suo panfilo per il Medi1 7 terraneo, mentre il «comunista» - si fa per Q dire - Bernard Shaw parlava con entusiasmo del corporativismo: a sua volta Stafford Cripps fu espulso dal Partito laburista perché voleva il riarmo contro il nazismo (figuriamoci! il governo conservatore inglese nel 1935 fece addirittura un patto navale con Hitler). Rosselli, immediatamente dopo l'avvento al potere del Fuehrer, scrisse il famoso articolo «la guerra che torna» e - a parte l'attacco di Nenni (che in fatto d i storiche cantonate non è stato secondo a nessuno) - subì il giudizio ironico di quelli «che contavano» nel Paese ospitante, la Francia: la quale, quando scoppiò l'insurrezione fascista in Spagna, pur avendo un governo di «fronte popolare» (Blum) lasciò perire la libertà nel Paese contiguo e non reagì agli «aiuti» a Franco dell'Italia di Mussolini e della Germania di Hitler (la viltà del «non intervento»). Non ricordo queste cose per rifare una storia nota a tutti - o a molti -, ma per spiegare la nessuna fiducia che, nei riguardi della costruzione europea, ho nei governi attuali, non meno mediocri e miopi d i quelli degli anni trenta (pensate, spero con ribrezzo, al can- celliere Kohl, che dopo la commemorazione della «notte dei Cristalli» abbandona l'amico Jenninger per aver fatto uno splendido discorso antinazista dispiaciuto - a torto - ad avversari ma soprattutto ad alleati che «fanno voti di appoggio»). I governi (e i partiti nazionali, i nostri partiti democratici) bisogna costringerli a far l'Europa: da soli non la faranno mai. Ma c'è dell'altro. C'è dell'altro, perché nei Paesi ex-fascisti e negli stessi Paesi democratici di anteguerra (mi riferisco ovviamente al secondo conflitto mondiale) gli effetti della trahison des clercs negli «anni difficili» hanno ora una incidenza ritardata e devastante su molti uomini politici, su intere classi politiche, sui dirigenti emergenti. Alla cosiddetta crisi dell'ideologia - ci verremo specificamente tra un momento - subentra frequentemente un pragmatismo strabico e rozzo, che certamente blocca i grandi voli verso quella pacifica rivoluzione che è la costruzione degli Stati Uniti d'Europa (beninteso, non quelli strumentali del nazionalista Churchill): e accanto al pragmatismo si insinua una vera cultura para-fascista che condiziona uomini pubblici di tutte le età. Particolarmente raccapricciante è il perdurare in Italia della cultura fascista vera e propria - della peggiore, della più insidiosa - in uomini politici e statisti che tutto sommato hanno fatto, sia pure nel declinare del fascismo e del nazismo, una coraggiosa Resistenza (penso al culto, duro a morire, per i1 giurista Santi Romano, che lavorò, dopo il delitto Matteotti, per affossare quel che di liberale c'era nello Statuto albertino e fini dopo 1'8 settembre a Salò, inchinandosi al Fuehrerprinzip). Ma occorrerebbe analizzare i guasti che la «cultura» (se è cultura) antidemocratica produce, in maniera sotterranea, nella «classe dirigente» tedesca occidentale, ma anche francese, inglese ...: e la costruzione dell'Europa federale è invece un fatto di democrazia e si realizza solo se si cred e fermamente nella democrazia - nella fraternità, nella libertà, nella eguaglianza - e si fa del suo espandersi al rapporto tra gli Stati un obiettivo prioritario e un imperativo morale. Nell'appello d i Esslingen del CCRE per la Costituente europea - che è del 1955! esclamavamo, rivolgendoci «a tutti i responsabili delle comunità locali europee»: «I governi sono stati lenti o, peggio, insufficienti nella creazione del Potere politico sovranazionale»; e continuavamo: «è necessario che ogni organismo locale divenga un centro attivo di propaganda federalista, in modo che al più pre(continua a som ma r1o "$ 322 9".+&',u;,, >x:$.y*? , COMUNI D'EUROPA pdg. 22) SCURO Agli amici tedeschi sul caso Jenninger Umberto Serafini ha scritto al presidente del CCRE, Hofmann, e al presidente della sezione tedesca, Gebauer, il primo CDU e il secondo SPD, una lettera a proposito del caso Jenninger che ci pare interessante far conoscere ai lettori di «Comuni d'Europa» Cari Hofmann e Gebauer, uoi sapete che l'autore che m i ha più influenzato, in senso europeo e federalista, è stato (negli anni di liceo: 1933-1935) i l Kant della ((Paceperpetua)). Voi sapete che sono stato antifascistu fin da ragazzo: la prima uolta la polizia fascista m i ha schedato nel 1933, quando aueuo sedici anni. Voi sapete che sono stato ferocemente contrario alle leggi razziste emanate da Mussolini nel 1938 e che ho avuto ed ho tra i miei migliori amici molti ebrei. Voi sapete anche - io credo - che ultimamente ho letto e meditato, a proposito del nazismo di Heidegger, «La mia vita in Germania ~ ebreo e tedesco Karl prima e dopo il 1 9 3 3 delfilosofo Lowith. Voi sapete infine che conduco in Italia. con altri concittadini, una campagna perché sia fatto conoscere ai giouani il terribile genocidio di arabi operato dalgenerale Graziani, un autentico criminale, e dai suoi collaboratori italiani in Cirenaica (Libia): ma la rimozione di questo ricordo da parte di uomini politici, uomini di cultura e educatori è impressionante e m i procura qualche dispiacere. Voi, insomma, m i conoscete abbastanza bene. Ebbene, io non riesco ancora a capire perché tutta la Germania democratica e intelligente non abbia applaudito l'ottimo discorso che Philip Jenninger, presidente del Bundestag, ha tenuto per ricordare la «notte dei cristalli»: un discorso storicamente ineccepibile e assai coraggioso. Ho letto e riletto la traduzione italiana integrale del discorso di Jenninger, che ho fatto uerificare sul testo tedesco originale. Io non so se è obbligatorio per i presidenti del Bundestag un esame di lettura a voce alta, e quindi non posso sapere se il discorso sia stato letto bene o male: ma m i pare che, anche letto male, il discorso non doueva dare adito a malintesi. Non solo in esso è chiarissima la condanna del nazismo e di ogni razzismo; non solo si critica ironicamente la Repubblica di Weimar, di cui si ricorda che con essa è caduta in Germania la democrazia parlamentare, che è il nostro fondamentale sistema politico (Jenninger lo ribadisce): ma si scaua sapientemente nella storia tedesca per trouare le radici profonde del nazismo; quindi non si accetta minimamente la tesi «revisionista»auanzata nel 1986 dallo storico Emst Nolte. Forse è que- sto che ha irritato alcuni leaders tedeschi, democratici a parole, nazionalisti (e pertanto antieuropei) nella sostanza. Osserverei comunque all'on. Wilfried Penner, che è uscito dall'aula del Bundestag dopo appena dieci minuti del discorso, che, quando Jenninger si pone la domanda retorica «Hitler non realizzava forse quello che Guglielmo secondo aueva promesso?)), non esprime i suoi sentimenti personali, ma descrive quelli del cittadino medio tedesco in quel momento storico: l'on. Penner, che è relativamente giouane (quando è nato, io aueuo venti anni), doveva im'tarsi non contro il presidente Jenninger, che può darsi sia personalmente un conservatore (il che nulla ha a che fare col discorso), ma contro una maggioranza di tedeschi degli anni trenta, che non erano progressisti e neanche coraggiosi e preferiuano le prospettiue politiche offerte da un Fuehrer alle diff2coltà offerte dalla democratica Repubblica di Weimar. Io, che sono un socialista come Penner, ho letto e giudicato il testo del presidente Jenninger per quel che affermava, non m i sono viceversa preoccupato dello schieramento politico delsuo autore: schieramento che l'on. Penner conosceva già prima che Jenninger aprisse bocca e che temo l'abbia indotto a uscire dall'aula del Bundestag troppo presto. Purtroppo ho letto sui giornali che ciò è accaduto anche a parecchi altri deputati del Bundestag. Anche in Italia ci sono molti democratici supevficiali che non uogliono indagare sulle storiche e profonde radici del fascismo, così come in Francia si nasconde quanto larga parte del Paese e quanti intellettuali si rispecchiauano nel fascismo e nel razzismo di Vichy. L'Europa democratica non può auanzare con queste rimozioni psicologiche, con questo rifiuto di guardare alle nostre storie. Ha avuto pienamente ragione Jenninger di dire, dopo le sue dimissioni: «non tutte le cose possono essere chiamate col loro nome, in Germania));io direi: «non tutte le cose possono essere chiamate col loro nome, in Europa)). Penso per ora che dobbiamo batterci con tutte le nostre forze e senza esitare a fauore del mandato costituente al Parlamento Europeo, ispirandoci ai principi del nostro Manifesto di Bordeaux per I'Unione europea: il tempo stringe e l'Europa dei mercanti minaccia di offuscare i valori del federalismo. Penso anche che, accanto all'autocritica, dobbiamo ricordare che nei momenti più bui e crudeli della storia nascono miracoli come quelli dei ragazzi della «Rosa bianca)) (Weisse Rose) e del loro professor Huber, che non uoh a iradire I'imperahuo caiegorico della kantiana «Critica della ragion pratica)). Con molta amicizia, Umberto Serafini 3 - Il documento dell'AICCRE sulle Autonomie 5 - Jean Monnet: l'Europa e l'organizzazione della pace 7 - A Monaco il Comitato direttivo del CCRE, di gc. p. 9 - I Sindaci delle grandi città e i loro banchieri, di Maria Magnani Noia 13 - Istituzioni comunitarie e Regioni, di Serena Angioli 15 - I «piedi di argilla), del Colosso di Rodi, di Pier Virgilio Dastoli 17 - Chiesti rapporti diretti tra Regioni e Comunità, di Roberto Santaniello 18 - La Risoluzione della I1 Conferenza nazionale dell'emigrazione 20 - Lettera dall'America, di Gianfranco Martini INSERTO: Minoranze, diritti civili e federalismo il documento del Consiglio nazionale La riforma delle autonomie regionali e locali nel quadro europeo e nella prospettiva del '92 Il contenuto politico-istituzionale e i necessari riferimenti culturali hanno come base la Carta europea delle libertà locali del CCRE. I rapporti tra autonomie locali e l'ordinamento regionale; l 'interdipendenza tra istituzioni e risorse finanziarie; potere centrale e potere locale nella ripartizione delle risorse globali; riforma delle autonomie e riforma dell'arnministrazione centrale; province e aree metropolitane; mercato dei capitali e armonizzazione fiscale; perequazione; partecipazione democratica; stabilità delle amministrazioni elettive Il lavoro collegiale deltAICCRE, che ora pubblichiamo, richiederà nei prossimi numeri della nostra rivista un dibattito, che esprima le singole vedute, i dubbi e gli emendamenti dei nostri COL leghi e degli esperti interessati al nuovo quadro istituzionale europeo (da costruire). Ci piace comunque ricordare subito che nel senso del nostro documento si sono già espressi a Torino, aG l'Assemblea dellJANCI,il vicepresidente vicario delllAICCRE, Giuseppe Bufardeci, e il vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio, Gabriele Panizzi, che - oltre ad essere membro della Giunta nazionale dell'AICCRE - è attualmente il responsabile del Comitato per le questioni regionali di tutto il CCRE. 4 * Premessa Per la riforma e il progresso delle autonomie territoriali in Italia occorre tener conto di quella visione d'insieme del «sistema delle autonomie», dalla quale sarebbe senza senso e inconcludente prescindere: d'altra parte è evidente la necessità di considerare constantemente il nuovo quadro di riferimento europeo nel quale il nostro Paese si trova sempre più inserito e che è destinato ad incidere profondamente su tutta la società nazionale e, quindi, anche sull'attuale situazione delle autonomie territoriali. La scadenza politica delle elezioni europee del 1989, con l'attuazione e l'impegno che essa dovrà provocare per i futuri sviluppi, anche istituzionali, del processo di unificazione, e l'altra data, ormai anch'essa prossima, del 1992 (completamento del grande mercato unico europeo), non consentono ripiegamenti puramente nazionali nel dibattito sulle autonomie locali e regionali. I nuovi traguardi accentueranno il confronto tra i Paesi (e le rispettive società) della Comunità negli anni novanta e ogni disfunzione nel sistema degli Enti locali e delle Regioni in Italia renderà precario il sostenere positivamente questo confronto: ma ancor più che il confronto il progresso delle autonomie in Italia richiama il fatto che esso sarà condizionato dal e condizionerà il progresso federativo dell'intera Comunità, e il suo avvio all'autentica Unione politica sovranazionale, il suo sviluppo, la sua democrazia. Questa riflessione, che I'AICCRE desidera sollecitare, ha dunque risvolti giuridici e economico-finanziari, ma apparirà assolutamente evidente il suo prioritario contenuto politico-istituzionale e i suoi necessari riferimenti culturali. I problemi di fondo di un ordinamento locale e regionale delle autonomie si radicano infatti in una maturata concezione di valori essenziali, in una corretta percezione dei mutamenti in corso, nell'individuazione dei bisogni reali della gente, nella capacità di considerare globalmente le convergenze e le contrapposizioni proprie di una società complessa come la nostra, e anche la comprensione profonda di quel che vuol dire l'edificazione di una nuova democrazia europea. Una risposta puramente «tecnica» sarebbe perciò del tutto inadeguata e illusoria. Di questa impostazione si fece, del resto, portavoce, fin dal 1953, il Consiglio dei Comuni e delle Regioni d'Europa con l'approvazione a Versailles della Carta Europea delle libertà locali: essa merita la dovuta attenzione da parte dei governi e dei parlamenti nazionali, compreso quello italiano, per la sua ratifica ed applicazione. I n pari tempo sin dalle origini - cioè negli anni cinquanta - il CCRE delineò la strategia di una Europa delle Regioni e la prospettiva di un Senato europeo delle Regioni, verso il quale è oggi un passaggio intermedio - che acquisterà tutto il suo rilievo e l'esigenza di una consultazione obbligatoria a partire dal 1993 - il Consiglio consultivo dei Poteri regionali e locali della Comunità. Sulla base di queste precisazioni, il Consiglio nazionale dell'AICCRE, riunito a Roma 1'11 ottobre '88, ha sottolineato, pur in forma schematica, alcune esigenze di fondo, alle quali una democratica, efficace e non settoriale, riforma dell'ordinamento istituzionale e finanziario delle autonomie locali dovrà ispirarsi nel nostro Paese. Riforma delle autonomie locali e ordinamento regionale Non è concepibile una riforma delle autonomie infra-regionali senza che vengano chiariti definitivamente il ruolo e le caratteristiche della Regione: ciò vale in sede italiana, ciò vale tanto più in un contesto europeo. La Regione italiana, nella prospettiva di unlEuropa delle Regioni, deve divenire sempre più un ente programmatorio: gli artt. 117-118 della Costituzione - già criticati dalla cultura più avanzata nella stagione della Costituente appaiono ora del tutto superati. Alla Regione spettano compiti di governo e, simultaneamente, di sintesi a fylori, di base, di programmazione economica e pianificazione del territorio, ivi includendo tutti i problemi posti dal- l'ecologia. Inoltre la Regione ha un ruolo essenziale per assicurare la convivenza di tradizioni locali e, talvolta, di etnie diversificate. Non si può quindi procedere ad una seria riforma delle autonomie locali, stralciando i problemi delle Province e dei Comuni da quelli di una riforma delle Regioni, che tenga conto delle profonde trasformazioni, avvenute sul piano interno del nostro paese e nei suoi rapporti esterni, dalla data di entrata in vigore della Costituzione repubblicana. Ciò che comunque prometteva più di un decennio fa la legge 616 è rimasto largamente lettera morta: così si intralcia la riforma delle autonomie infraregionali. Istituzioni e risorse finanziarie: una interdipendenza da non dimenticare Problemi istituzionali e finanziari sono indissolubilmente legati: la riforma delle autonomie non può dunque fare astrazione da un simultaneo regime di finanza locale e regionale che dia reale consistenza, sui versanti delle entrate e delle spese, all'autonomia degli Enti e alla responsabilità dei loro amministratori. Problema questo che si ritrova puntualmente nel contesto europeo, ove una autonomia impositiva, accanto ad una finanza di trasferimento, caratterizza la stragrande maggioranza delle esperienze. Poiché fa parte degli obiettivi irrinunciabili di uno Stato moderno e democratico che i cittadini godono degli stessi servizi, quando questi corrispondano alla soddisfazione di diritti riconosciuti ai cittadini stessi (trasporti, salute, istruzione, etc.); e poiché le risorse locali variano da territorio a teritorio, per cui l'affidarsi solo alle entrate autonome degli Enti locali e delle Regioni determinerebbe disparità di trattamento lesive proprio di quei diritti che si riconoscono a tutti i cittadini, ne deriva che il sistema della finanza locale non può che essere un sistema misto, composto da trasferimenti e da autonomia impositiva sostenuta da adeguate forme di perequazione (che nella Germania federale è sia verticale - del Bund e dai Laender sino alle autonomie di base - e sia orizzontale - tra Enti omologhi). In tal modo dovrebbero essere assicurate ad ogni Comune, Provincia e Regione sia entrate sufficienti a garantire, per tutti, uguali servizi di uguale qualità, sia le disponibilità destinate a finanziare le opzioni proprie di ogni comunità. La finanza locale e regionale nel nostro Paese è caratterizzata da un alto grado di incerCOMUNI D'EUROPA tezza, che blocca qualsiasi impostazione a medio e lungo termine del lavoro degli Enti territoriali. La raffica di provvedimenti ricorrenti e diversi tarpa, alla base, ogni corretta amministrazione e si ripercuote negativamente sulle giuste attese dei cittadini. La gestione della finanza pubblica deve essere unitaria; su questo l'accordo non può non essere totale. Ma come ottenere questa unità, senza cedere in un nuovo centralismo? La risposta a questo interrogativo non può che essere istituzionale: occorre inserire, nelle procedure di approvazione dei bilanci (e non solo di quelli), un momento non tanto di confronto quanto di codecisione in un organo politico, rappresentantivo delle Regioni e delle autonomie. In tutti gli Stati federali esiste un ramo del Parlamento - il Bundesrat della Repubblica federale di Germania - che rappresenta appunto gli enti sub-federali. Occorre che su questa strada si ponga anche il nostro Paese, modificando la base elettorale del senato e affidando ad esso, tra l'altro, compiti specifici nella «contrattazione» relativa alla distribuzione delle risorse tra centro e periferia e tra i diversi livelli istituzionali, fermo restando l'attribuzione al governo della definizione dello «spendibile» globale. A sua volta la spesa centrale dovrà essere resa più trasparente. Riforma delle autonomie e riforma dell'amministrazione centrale Una seria, organica riforma in prospettiva europea del sistema nazionale delle autonomie non può prescindere in Italia da una simultanea modifica del decentramento burocratico del potere centrale, che implica una coerente riforma dell'amministrazione statuale. In altri termini una ristrutturazione dell'apparato dello Stato nazionale non è rinviabile all'infinito né bastano insignificanti ritocchi. Province e aree metropolitane Chiarite le caratteristiche e i compiti delle Regioni si potrà parlare ragionevolmente delle Province. C'è infatti il problema, con una Regione prevalentemente programmatoria, del decentramento burocratico e anche autarchico delle Regioni: così si affronta la questione dell'Ente intermedio. Un problema che non va affatto sottovalutato è in pari tempo quello delle piccole province rurali (si pensi ai Landkreise della Germania federale), enti che dovrebbero contribuire ad un equilibrio di servizi, di finanza, ecc., nell'ambito regionale, tra le metropoli e anche soltanto i grandi Comuni che tendono a prevaricare e ad egemonizzare l'andamento generale delle cose - e i Comuni polvere e, in generale, il territorio marginale del tutto indifeso. I1 problema della Provincia va quindi visto dall'alto (Regioni) e dal basso (esigenze dei Comuni minori). I1 regime metropolitano non sarebbe più né provinciale né comunale, ma un regime del tutto particolare, con problemi di decentramento istituzionale al suo interno. Va messo in rilievo, a proposito dei gravi problemi metropolitani, il nesso irrinunciabi- le tra la loro soluzione e il problema del governo dei suoli: la rendita fondiaria urbana, come ogni e qualsiasi rendita strettamente parassitaria, non può condizionare lo sviluppo razionale di una metropoli. L'arretratezza legislativa italiana in materia rende particolarmente precaria la situazione delle aree urbane nel nostro paese: ma più in generale rende irrazionale e con gravi conseguenze ambientali l'assetto di tutto il territorio regionale. Finanza locale, sviluppo equilibrato, mercato dei capitali e armonizzazione fiscale Nella prospettiva europea i problemi della finanza locale sono legati a diversi fattori. I1 primo fattore da considerare è uno sviluppo economico equilibrato di tutto il territorio della Comunità e una relativa politica regionale realmente incisiva, talché l'attribuzione di una larga capacità esattiva (tributaria) ai poteri locali non risulti una presa in giro per le zone povere, dove non si trova neanche quanto si deve esigere per ottemperare agli strettissimi compiti di istituto. I1 secondo fattore è più immediatamente finanziario: è quello di garantire equamente il crescente fabbisogno delle Regioni e degli Enti locali con un accesso diretto o indiretto al mercato comunitario dei capitali. Ciò implica una istituzione di dimensione sovranazionale in grado di garantire di fatto questo accesso a finanziamenti non domestici, estendendo alle autonomie territoriali i vantaggi goduti dal sistema delle imprese; ciò implica tuttavia anche un'autorità democratica comunitaria (un Esecutivo dotato di poteri adeguati e responsabile al Parlamento Europeo), capace di fissare il livello massimo dell'indebitamento aggregato, la subordinazione a questo vincolo del bilancio dei singoli Stati, delle Regioni e degli Enti locali (cioè la finanza locale non può divenire una variabile indipendente); ciò implica prioritariamente una moneta comune e un sistema fiscale europeo. Ripartizione federale deiia spesa e perequazioni Tuttavia occorre sottolineare attentamente altri due punti. Anzitutto, se il mercato unico, con la libera circolazione dei capitali, non può prescindere da un governo economico (che preveda anche un indirizzo coordinato di commercio estero) e da una decisione comunitaria sul tetto dello spendibile - correlato al controllo sovranazionale del sistema monetario -, occorrerà poi, sempre a livello comunitario, una sede istituzionale, ove i limiti della spesa ai diversi livelli si possano determinare democraticamente, come già abbiamo accennato in sede nazionale riferendoci al Bundesrat della Germania occidentale o Senato delle Regioni (in via transitoria si può pensare ad una competenza del Consiglio dei Ministri della Comunità, evoluto in Senato degli Stati, ma con la consultazione obbligatoria del Consiglio Consultivo dei Poteri regionali e locali). In secondo luogo in tutta l'area comunitaria occorrerà via via estendere il federalismo fiscale della Germania occidentale e la sua perequazione finanziaria verticale e orizzontale. Riforma delle autonomie e partecipazione democratica Riandando ad un passaggio fondamentale della Carta europea delle libertà locali del CCRE (1953), sarà necessario che nelle comunità autonome di base si dia vita ad una parte- cipazione democratica permanente della popolazione, che non può limitarsi a referendum locali saltuari e spesso strumentalizzati. La Carta del CCRE prevedeva «mezzi stabili (Pmanent Facilities) perché ogni cittadino, cosciente di essere membro della Comunità e vincolato alla collaborazione per il sano sviluppo della Comunità stessa, prenda parte attiva alla vita locale». Qui si pone una buona volta, in maniera rigorosa, il problema dei quartieri democratici delle città, dei legami culturali e di espressione democratica fra Comuni minori e villaggi, di una struttura diffusa e garantita di centri comunitari e sociali, che determinino la stessa crescita democratica, dalla base, dei partiti politici. Un esigenza diffusa: la maggiore stabilità delle amministrazioni elettive Una riforma dell'ordinamento locale e regionale non può non fare riferimento al profondo bisogno di stabilità nelle amministrazioni elettive. Si sottolinea spesso che questo carattere di stabilità si riscontra più facilmente in altri Paesi europei, ma questa constatazione richiede un approfondito esame delle sue cause, che spesso appaiono diverse da Paese a Paese e radicate in tradizioni storiche e psicologiche o in strutture specifiche, tutte da analizzare. Diciamo questo perché non si possono cercare risposte semplici a problemi complessi. In ogni caso l'introduzione della «sfiducia costruttiva», prevista dal disegno di legge in discussione al Parlamento, può costituire una parziale risposta. La giusta risposta ai processi di internazionalizzazione: più forti autonomie, Unione europea Si associano spesso gli attuali crescenti processi di internazionalizzazione e di transnazionalizzazione (che investono i fenomeni finanziari, imprenditoriali, monetari, ecc.) ad una spinta, ritenuta ineludibile, verso una maggiore centralizzazione che metterebbe in crisi il tradizionale modello delle autonomie. La risposta dell'AICCRE è che non vi è nessun automatismo in questa pretesa correlazione: anzi il sovraccarico di domande sociali e la loro selezione devono portare all'ampliamento della sfera delle autonomie e dell'autogoverno. Viceversa la guida ultima, ma democratica, dei grandi processi internazionali non può trovare risposta sufficiente ed adeguata negli Stati nazionali e richiede perciò la rapida realizzazione dell'lJnione federale, col suo governo e il suo Parlamento dotato di poteri reali, istituti atti a far procedere nell'alveo della democrazia processi di internazionalizzazione di fatto sempre più vanificanti il potere politico nazionale. I1 federalismo accresce e garantisce la massima libertà a tutti i livelli: per esso si deve battere il fronte unito delle autonomie ter• ritoriali europee. il testo integrale del discorso di Mitterrand al Pantheon Jean Moniiet: l'Europa e l'organizzazione della pace A 26 anni egli era già «l'uomo del silenzio, per il quale ogni parola è un atto». Commissario generale allapianificazione «comprende che occorre estirpare alla radice i germi della divisione europea e costruire tra i nemici di ieri un avvenire di solidarietà. Perché l'Europa non ha che una scelta: l'unità o il declino». «Il secolo che finisce e quello che verrà avranno conosciuto e conosceranno l'avvento di un nuovo mondo, l'Europa che resterà, qualunque cosa succe. sappiamo anche che è necessario proseguire l'opera di Monnet «che la moneta da, l'Europa di Jean M o n n e t ~Noi europea è solo ai primi vagiti, che l'Europa non si farà se lascerà strada facendo il maggior numero dei suoiproduttori, dei suoi lavoratori, coloro senza i quali non vi sarebbe una vera costruzione e tutto il resto crollerebbe» Esattamente cent'anni fa, il 9 novembre 1888, Jean Monnet nasceva a Cognac, in Charente, e la sua vita che fu lunga e feconda racconta come un piccolo provinciale di Saintonge divenne il primo cittadino dell'Europa. Non si capirebbe Jean Monnet senza un riferimento costante al paesaggio della sua infanzia, alla natura del suo suolo, a un certo tipo di società in cui cooperarono da generazioni viticoltori, artigiani, distiliatori e negozianti, legati da una passione esigente, scrupolosa: quella della qualità. Ora, la qualità si ottiene solo con un'estrema attenzione, una competenza simile a quella usata nella distillazione: compromesso sottile tra il desiderio di preservare le qualità originali di un frutto e la necessità di eliminarne le pesantezze. I1 paziente lavoro della terra, il doppio passaggio negli alambicchi, la lenta maturazione all'ombra delle cantine a pianterreno di queste acqueviti chiamate «le belle addormentate nel bosco», più ancora che per un modo di fare testimoniano per un modo di essere. Di ceppo terriero, il padre di Jean Monnet si orienta verso il commercio. Per vendere il cognac e più ancora imporre sui mercati lontani una marca ancora poco conosciuta, viaggia, impara lingue straniere, riceve clienti venuti da tutte le parti del mondo. Jean Monnet ha descritto quest'atmosfera: «non si faceva che una cosa con concentrazione e lentezza. Ma attraverso questa cosa si aveva un immenso campo di osservazione e uno scambio di idee molto attivo. Imparavo lì, o partendo da lì, sugli uomini e gli affari internazionali più di quanto avrei fatto con un'educazione specializzata*. E soggiunge: «so aspettare a lungo le circostanze. A Cognac, sappiamo aspettare. È il solo modo per fare un buon prodotto». Sin dall'età di 16 anni, egli lavora nella piccola azienda familiare e parte pure lui per formarsi in loco in Inghilterra, in America, in Oriente. Lì impara a commerciare, a conoscere altre usanze. Mette in pratica la pazienza avuta in eredità. Scopre che la fiducia e l'aiuto reciproco fanno più dell'egoismo e del segreto. Nella città londoniana dell'epoca egli ammira una comunità molto forte all'interno della quale l'azione individuale ha un esito felice solo se coadiuvata dallo sforzo collettivo. In America, a 18 anni, proprio all'inizio del secolo, egli incontra uomini la cui marcia verAllocuzione pronunziata da Franqois Mitterand, Presidente della Repubblica francese, in cccasione della tumulazione di Jean Monnet al Pantheon Washington 1958: Jean Monnet, a sinistra, D<q l a s Dillon, al centro, sottosegretario di stato USA per gli affari economici, Samuel Waugh, presidente della Export-Import Bank so Ovest sembra non avere limiti, un popolo impegnato a sviluppare più che a gestire, il dinamismo di un mondo in movimento che rende molto statici ai suoi occhi i costumi della vecchia Europa. Queste tre lezioni della sua giovinezza: prendere il tempo senza deviare dallo scopo, adattarsi al proprio interlocutore così com'è, cooperare per riuscire, egli le applicherà al momento giusto agli affari pubblici. Ma perché ho indugiato su questi inizi che sembreranno lontani dall'argomento che ci occupa? Perché voglio mostrare come Jean Monnet non sia separabile da una forma di civiltà in cui lavoro e perfezione sono sinonimi, in cui ogni opera esige tanta cura quanto rispetto. Quando scoppia la prima guerra mondiale Jean Monnet, sebbene riformato per motivi di salute, vuol partecipare, a modo suo, alla mobilitazione. Avendo osservato che le navi che giungevano dall'Inghilterra cariche, tornavano in Francia vuote, mentre l'approvigionamento s'imponeva come una questione strategica vitale, convince René Viviani, Presidente del Consiglio dei Ministri francese, che avvicina a Bordeaux, e tramite Viviani, il Governo britannico, che è urgente coordinare gli sforzi. H a solo 26 anni e non rappresenta nulla. Ad ogni tappa di questo sorprendente percorso ci si meraviglia. Come? I potenti ed i poteri sono così accoglienti, così aperti al sogno o all'idea nuova che si possa ottenere da loro tutti i visti per il futuro? Si sa che, invece, non vi è nulla di più difficile che ottenere sugli uomini e sulle cose uno sguardo nuovo. Ma Jean Monnet è già quest'uomo di silenzio, per il quale ogni parola è atto. Egli trae forza e chiarezza dalla meditazione alla quale si dedica ogni giorno della vita. Egli ha capito, fin dall'infanzia, che un uomo vale solo per la padronanza di sé e che un potere che non derivi da una maturazione interna non s'impone né dura. Incaricato di mettere in opera a Londra, per gli acquisti di grano poi per i trasporti marittimi, il sistema che egli preconizza, traccia il primo abbozzo, in tempo di guerra, di un'organizzazione franco-britannica integrata. Quando le armi tacciono, Jean Monnet è favorevole ad un'azione internazionale capace, secondo le sue parole, «di organizzare la pace» e di prevenire nuovi conflitti con un trattamento equo e realistico dei problemi economici e territoriali, quelli dei vinti come quelli dei vincitori. L'esperienza dei Comitati interalleati della guerra è valsa a farlo chiamare aila Società delle Nazioni da Clemenceau e Balfour. Segretario di Balfour egli viene scelto da Clemenceau per il posto di Collaboratore del Segretario Generale, Sir Eric Drummond. Ha poco più di trent'anni e si mette al lavoro. Ma né lo strumento, né lo spirito del tempo sono all'altezza di ciò che lo attende. Vi fa l'esperienza, che non dimenticherà, dell'impotenza alla quale condannano la preminenza degli egoismi nazionali, la persistenza dello spirito di rivalsa, il potere di veto di uno solo contro gli altri. Egli lascia allora la Società delle Nazioni, torna agli affari privati. Innanzitutto a quelli di suo padre che toglie dalle difficoltà in cui l'assenza d'innovazione li aveva insabbiati. Poi COMUNI D'EUROPA entra in una banca di investimento americana le cui attività lo portano a partecipare agli sforzi di risanamento delle monete polacca e rumena. Banchiere a San Francisco, guida una missione economica in Cina. I n poche parole, durante tutto questo periodo, viaggia, osserva e intuisce che la salita del nazismo unita all'incapacità dei democratici d i contenere il pericolo, condanna il mondo ad uno scontro che egli giudica inevitabile e che intende d'ora in poi preparare. Convince il Presidente Roosevelt, nel 1938, che il dovere del suo paese è di fornire alle democrazie le armi di cui avranno bisogno. Sebbene gli Stati Uniti vogliano restare lontano dal conflitto imminente, egli ottiene la promessa che l'industria aeronautica americana consegnerà alla Francia e all'Inghilterra più di 2.000 aerei d a combattimento. Poi ritorna a Londra dove si mette a capo del Comitato franco-britannico per la preparazione e il coordinamento dello sforzo d a compiere. I1 disastro della primavera del '40, in Francia, provoca in lui un colpo, come un'illuminazione. Egli lancia la famosa proposta di un'unione indissolubile fra la Francia e la Gran Bretagna: una sola cittadinanza, un solo esercito, un solo parlamento, una sola moneta, temi che verranno ripresi da Winston Churchill e dal governo britannico. Sappiamo ciò che accadrà ma Jean Monnet non si arrende: agisce ancora presso Roosevelt, entra ad Algeri nel Comitato d i Liberazione Nazionale. Nuovamente negli Stati Uniti egli organizza l'acquisto e il trasferimento delle merci di cui la Francia avrà una maggiore necessità appena ristabilita la pace. Qui avviene l'incontro dei due uomini che, per quanto diversi e talvolta opposti, daranno più di tutti gli altri alla Francia e alla stessa epoca il sussulto e la spinta, la forza di essere se stessi e quella di cambiare. Alla Liberazione il General De Gaulle chiama Jean Monnet a partecipare alla ripresa del paese. Per ricostruire occorre un'azione coerente, di lungo respiro, e che associ le forze vive della nazione. Jean Monnet sa che non vi è semplicemente da ricostruire ciò che la guerra ha distrutto ma da modernizzare un'economia che si è lasciata superare. La debolezza della produzione è per lui il sintomo di un male più profondo: il cedimento dello spirito d'iniziativa. «La modernizzazione, dice, non è uno stato di fatto, è uno stato d'animo». Così nasce il piano che verrà chiamato piano Monnet, di cui sarà il primo Commissario generale. Con una piccola équipe, in modesti locali, una grande idea prenderà forma. Egli compila l'inventario dei fabbisogni, crea delle commissioni d i modernizzazione in cui vengono discussi e definiti gli obiettivi di primaria importanza, mette l'accento sulle scelt e necessarie. E pratica il suo metodo, il suo metodo costante: unire nella riflessione uomini e forze di origini diverse che fino ad ora si erano ignorati. E ciò che uno dei suoi collaboratori chiamerà «l'economia concertata». Nello stesso momento, Jean Monnet intuisce che occorre estirpare d a radice i germi della divisione europea e costruire tra i nemici di ieri un avvenire solidale. Poiché l'Europa non ha più scelta essa deve unirsi o declinare. A COMUNI D'EUROPA due riprese egli aveva visto l'Europa lacerarsi, uscire esangue dai conflitti in cui il mondo era precipitato. Aveva visto all'Ovest e d ' E s t vacillare delle democrazie che non avevano resistito né alle crisi interne né alle cupidigie esterne. Egli ha voluto spezzare questo circolo malefico. Altri, prima di lui, avevano nutrito il sogno di unire pacificamente i popoli dell'Europa. Convinto che «Là dove manca l'immaginazione, i popoli periscano», egli ne fece un progetto. Perché, lo cito, «non è più ora di tentare d i ottenere un futuro precario a scapito di altri», volle che l'Europa, almeno quella sulla quale poteva agire, riconquistasse con la sua coesione e unità una sovranità reale commisurata al mondo. Poiché avevano sofferto una a causa dell'altra, egli ritenne che la Germania e la Francia avevano in questa costruzione di un'Europa riconciliata una responsabilità particolare. Poiché né gli uomini, né le nazioni possono can- Jean Monnet: come penetrare nello spazio portandosi dietro liti che ci attaccano alla Terra? cellare d'un tratto dalla loro memoria le diffidenze e le violenze, le tracce del passato, volle provare il movimento strada facendo, avviare in strutture comunitarie i paesi - erano sei in origine - pronti a tentare insieme la grand e avventura di cui si dirà un giorno che nacque dalla più stupefacente audacia intellettuale e politica del secolo. Ci volle anche l'indispensabile virtù d i perseveranza per cementare l'Europa. Jean Monnet possedeva questa virtù. Essa rimane, siatene certi, all'ordine del giorno. Jean Monnet aveva scelto, secondo le sue stesse parole, «di fare qualche cosa piuttosto che d i essere qualcuno» e questo qualche cosa fu l'Europa, ma essa non si sarebbe potuta fare senza qualcuno o, riconosciamolo, alcuni fra i quali Jean Monnet in prima fila. L'eccezionale cerimonia solenne che ci riunisce davanti al Panthéon delle nostre glorie nazionali ne fa fede, Jean Monnet, come altri l'avevano fatto prima di lui, secondo le necessità dell'epoca, le realtà della storia e l'esigenza dello spirito ha spinto più in là lo sforzo e l'ambizione d i un popolo la cui vocazione è di tendere all'universale. Ecco perché i francesi debbono in questo giorno ricordare e sapere che anche altri ricordano con noi; sono qui presenti: i rappresentanti più alti che ringrazio, i rappresentanti dei popoli ora riuniti per un'opera comune che allo stesso tempo li realizza e li supera. Per costruire la nuova Europa e suggellare la riconciliazione franco-tedesca, Jean Monnet intuì che occorreva istituire una solidarietà di fatto attorno ad una ricchezza comune: il carbone e l'acciaio. Robert Schuman, allora Ministro francese degli Affari Esteri capì molto presto la portata di questo progetto. La Germania e il Lussemburgo, il Belgio, i Paesi Bassi e l'Italia vi aderirono. Ovviamente Jean Monnet presiedette l'Alta Autorità della Comunità Europea del carbone e dell'acciaio ed ecco che tutto incomincia. Un po' più tardi egli fonda il comitato d'azione per gli Stati Uniti d'Europa. Dalle sue idee nascono la Comunità europea dell'energia atomica Euratom, poi la Comunità economica europea che estende a tutti i campi dell'attività industriale e agricola le'basi della cooperazione. Certamente Jean Monnet sapeva che il cammino sarebbe stato lungo, che le tentazioni solitarie sarebbero ricomparse poiché la via verso l'Europa è spesso ardua. Si può pensare ad ogni istante che l'ostacolo che si para sul cammino non verrà superato, ma tuttavia la semplice enumerazione dei progressi compiuti in trent'anni offre in prospettiva una ben altra idea della Storia che si sta facendo e attribuisce a Jean Monnet la sua vera dimensione. Dal discorso del salone dell'Orologio pronunciato da Robert Schuman nel 1950, alle recenti decisioni del Consiglio europeo di Hannover che hanno dotato la Comunità degli strumenti che le permetteranno di raggiungere e di vincere il grande appuntamento del 1992, passando dal Trattato d i Roma, la politica agricola comune, i Summit europei, le successive aperture a nove, a dieci, a dodici, gli accordi di Lomé, la creazione del Consiglio europeo, il sistema monetario, l'elezione del Parlamento a suffragio universale, l'Europa tecnologica, l'Europa della ricerca, e che cosa ancora per giungere all'Atto unico che unirà l'esistenza per una storia comune d i 320 milioni d i esseri umani portatori e eredi di una delle grandi civiltà della terra, il secolo che finisce e quello che verrà avranno conosciuto e conosceranno l'avvento d i un nuovo mondo, 1'Europa che resterà, qualunque cosa succede, sarà l'Europa di Jean Monnet. E d ecco che ora occorre continuare l'impresa nelle direzioni fissate dai fondatori. E sempre molto difficile citare nomi senza commettere ingiustizie, ma come non associare all'elogio di oggi rivolto a Jean Monnet, Robert Schuman, Alcide d e Gasperi, Paul Spaak, Conrad Adenauer, Altiero Spinelli? Dovrei aggiungere Walter Alchtern? Dovrei citare il primo di loro, che parlò degli Stati Uniti d'Europa: Winston Churchill? Non si dovrebbe menzionare Joseph . . Beche? Non bisogna anche citare tutti quegli artigiani che sono ancora dei nostri e che rappresentano degnamente la lun(segue a pag. 8) a Monaco il Comitato Direttivo CCRE: una associazione per un progetto politico Riprendere il dibattito su obiettivi e strumenti L'esigenza di una presenza incisiva e diffusa almeno in tutti i paesi della Comunità è condizione del successo delle iniziative programmate. Il ruolo e le responsabilità della segreteria europea e l'esigenza della creazione di un 'area di raccordo e di osservazione con le altre associazioni europeiste. Collocare l'attività delle sezioni in una linea coerente, federalista europea e democratica; sostenere la crescita delle sezioni meno forti; favorire un dibattito ampio e sereno sulle linee strategiche a medio e lungo termine I1 Comitato direttivo del CCRE si è riunit o a Monaco di Baviera nei giorni 17 e 18 novembre, per discutere un nutrito ordine del giorno che comprendeva, tra l'altro, l'approvazione del bilancio consuntivo del 1987, del bilancio preventivo del 1989, oltre a varie questioni di interesse politico e organizzativo. Tra le prime vanno ricordate la ricognizione sullo stato di attuazione della campagna per la Costituente europea, le iniziative da assumere per dare contenuto sempre più concreto alla Commissione regionale del CCRE (dando unanimemente mandato a Gabriele Panizzi di assumere le iniziative collegate a questo scopo), la composizione e gli obiettivi politici del Consiglio consultivo dei Poteri locali e regionali e la individuazione dei criteri per rendere pienamente efficaci i mezzi che saranno messi a disposizione degli Enti locali dal Fondo europeo dei gemellaggi. Tra le questioni organizzative, il Comitato direttivo ha approvato la composizione d i una Commissione incaricata della selezione di un nuovo membro con mansioni politiche, che dovrà operare alla segreteria europea di Parigi. Dalla discussione dei temi politici (ma anche di quelli organizzativi) è emersa evidente la necessità che il CCRE rifletta con attenzione sull'attuale momento politico dell'Europa e delle autonomie locali e sulle sue capacità di incidere in misura adeguata, e territorialmente diffusa, nel dibattito politico, istituzionale e culturale in atto in Europa. L'Europa è un progetto politico del quale fanno ovviamente parte, con piena legittimità, gli Enti locali e regionali. Se questo è vero - e pare difficile negarlo - il CCRE possied e - per sua natura - caratteristiche specifiche che non gli consentono di essere assimilato a nessun altro organismo - nazionale e internazionale - rappresentativo di regioni, province e comuni. Non può considerarsi né il sindacato che difende gli interessi settoriali di comuni, province e regioni, n é il fornitore di servizi chiesti dai propri soci in funzione dello sviluppo della legislazione, della tecnologia, dell'organizzazione della società. 0 , meglio, non può essere solo questo, anche se deve essere tutto questo. I1 CCRE deve essere innanzitutto l'organizzatore politico delle autonomie locali e regionali nella battaglia per la costruzione dell'Unione europea. Rispetto al perseguimento di questo obiettivo (a favore del quale può anche essere sacrificata qualche cosa, quando risulta meno importante), non può legittimamente manifestare incertezze né pause: se malauguratamente cosi facesse, subirebbe un ir- Monaco di Baviera: la Feldherrnhalle e la Theiatinerkirche rimediabile effetto di spiazzamento che ne comprometterebbe il ruolo, il significato politico, la sua stessa ragion d'essere. La sua azione politica non può essere limitata ad un numero ristretto d i nazioni, deve tendere ad espandersi - con incisiva intensità - in tutti i paesi coinvolti nella costruzione dell'unione europea. Oggi, d i fatto, questa azione politica deve riguardare, almeno, con iniziative di adeguato livello, tutti i paesi della Comunità. Non ha senso quindi per il CCRE - né lo ha mai avuto nella sua storia (e del resto il suo Statuto parla chiaro in proposito) - considerarsi una sorta di associazione internazionale di associazioni nazionali ciascuna delle quali è custode gelosa della sua autonomia, al limite di non accettare giudizi sui suo impegno concreto nel perseguimento di obiettivi comuni. I1 CCRE deve sentirsi impegnato nel sostenere, sollecitare, guidare se necessario, al limite integrare organizzativamente, l'attività delle singole sezioni, perché i divari troppo accentuati nell'impegno europeo sono destinati inesorabilmente a compromettere l'efficacia dell'azione politica complessiva. La situazione di fatto del CCRE - e la riunione di Monaco lo ha rivelato con una certa chiarezza - non si identifica attualmente in modo soddisfacente con questo modello ideale: presidente e segreteria europei non sembrano avvertire questa minore tensione e una non adeguata azione comune sovranazionale e politica. I grandi progetti che devono impegna- re le autonomie locali e regionali nella costruzione dell'Europa; le scadenze della vita della Comunità (elezione del Parlamento Europeo; Banca europea e moneta unica) più rilevanti per il processo d i integrazione non sempre costituiscono i punti fondamentali del dibattito dell'associazione e del suo impegno organizzativo. Ad altri temi, meno politici e più «concreti» (per usare un termine assolutamente inesatto ancorché diffuso: perché concretezza vuol dire affrontare i problemi veri e non eluderli o inventarne di apparenti), è attribuito un peso determinante. Con le conseguenze, per quanto fin qui detto, ben facilmente intuibili. Una indagine attenta della situazione politica e organizzativa di talune Sezioni del CCRE rivela indubbie insufficienze, che deve essere impegno di tutta l'Associazione ma in primo luogo della Segreteria di Parigi - affrontare e, se possibile, risolvere. Occorre che in ciascun Paese si dia vita ad un collegamento tra tutte le forze europeiste non solo per costruire un fronte comune capace di dar vita ad attività incisive, ma anche per consentire a ciascuna forza di intervenire a sostegno di quelle che possono subire crisi momentanee. Questo obiettivo non lo si raggiunge senza una area di collegamento tra i movimenti europeisti e un comune punto di osservazione. Avvertono in coscienza il CCRE, il suo presidente e il segretario europeo Philippovich, di muoversi in misura inadeguata lungo questo indirizzo? I1 complesso di queste questioni avrebbe doCOMUNI D'EUROPA vuto essere - quanto meno - il filo conduttore del Comitato direttivo di Monaco. Lo imponeva la constatazione delle difficoltà obiettive esistenti in alcune sezioni (malgrado la rilevante crescita di altre, come la spagnola e la portoghese) a realizzare alcune deliberazioni degli organi statutari del CCRE (per esempio per quanto riguarda le petizioni e i cahiers d e doléances); lo richiedeva la prossima riunione del Consiglio consultivo dei Poteri locali e regionali, che deve chiaramente superare i limiti operativi imposti dal decreto istitutivo; lo sollecitava in modo pressante la decisione assunta di rafforzare la segreteria di Parigi con un nuovo componente, che nella situazione attuale non può non essere scelto con criteri corrispondenti all'intento di incrementare l'impegno politico e sovranazionale del CCRE e non con quella «burocratica» della semplice (anche se necessaria) individuazione di un buon «curriculum» operativo personale. La delegazione italiana - Serafini, Martini, Pellegrini, Panizzi, Cappelli, Piombino, oltre a Dozio nella sua qualità di revisore dei conti del CCRE e Zorzetto, interessato ai problemi della difesa dall'inquinamento marino e presidente del Comitato ad hoc - ha cercato insistentemente di richiamare tutto il Direttivo alla consapevolezza di quale era il filo logico e politico che univa la maggior parte degli argomenti in discussione. Si è preferito, quasi sempre, tuttavia, d a parte del presidente, seguire un'altra strada: spezzettare i temi, condannandoli inevitabilmente in un ambito di basso profilo; affrettare le conclusioni al di là del giusto; troncare certi dissensi (come sul bilancio preventivo) con un troppo rapido ricorso alla votazione. I1 risultato non è stato positivo, né per le decisioni assunte né per l'atmosfera che si è necessariamente creata nel Direttivo (anche se per il criterio di composizione del Comitato incaricato di operare la selezione del candidato alla Segreteria i delegati italiani hanno ottenuto, contrastati tenacemente e con poca eleganza dal presidente Hofmann, la maggioranza). Occorre che il CCRE abbia la sensibilità di riportare in discussione le questioni che Monaco non solo ha trascurato ma, in taluni casi, ha volutamente trascurato, non attribuendo ad esse il peso che obiettivamente posseggono. Per questo, sono tuttavia necessarie alcune condizioni preliminari. E necessario che le sezioni, tutte le sezioni, posseggano la volontà di collocare la propria attività in una linea coerentemente federalista, europea e democratica, senza incertezze o cadute di tono (come sembra accadere, troppo spesso, per la sezione inglese); bisogna che la segreteria d i Parigi si senta impegnata a garantire la crescita politica e organizzativa delle sezioni nazionali (senza limitarsi - o quasi - alla presa d'atto delle situazioni esistenti), a promuovere e mantenere, a questo fine, stretti collegamenti non soltanto con le altre associazioni degli Enti locali e regionali, ma anche con le associazioni europeiste nel cui ambito militano amministratori locali e regionali; deve essere, infine, compiuto ogni sforzo per favorire un ampio e sereno dibattito negli organi statutari. L'efficientismo e il decisionismo non sono i mezzi più idonei quando occorre individuare linee strategiche a medio e lungo termine. Le grandi attese che il 1992 va suscitando un po' ovunque non possono non trovare in prima linea le associazioni degli europeisti militanti (qual è e deve essere il CCRE). L'AICCRE, è stato detto chiaramente a Monaco, si sente impegnata a collaborare perché il CCRE, anche in questo momento, risulti capace di quelle iniziative e di quei risultati che la sua storia palesemente richiede. U n risultato possibile, a portata di mano. Ma che richiama il lucido e appassionato lavoro di tutti: il CCRE rimane tuttora il maggiore, se non l'unico, organismo di massa dell'europeismo democratico militante, gli Stati generali di Glasgow hanno indicato lo scorso giugno a stragrande maggioranza una linea politica senza dubbio esaltante. Occorre seguirla senza esitazioni. gc.P. I giovani e le istituzioni europee Giovani studenti, insegnanti ed amministratori della Provincia e del Comune di Lucca in visita a Strasburgo, nell'ambito delle manifestazioni per la Giornata europea della scuola COMUNI D'EUROPA I1 discorso di Mitterrand (segue da pag. 6) ga catena dei fondatori che, più tardi, altri citeranno? E sappiamo anche che occorre proseguire l'opera, che la moneta europea è solo ai primi vagiti, che l'Europa non si farà se lascerà strad a facendo il maggior numero dei suoi produttori, dei suoi lavoratori, coloro senza i quali non vi sarebbe una vera costruzione e tutto il resto crollerebbe, voglio dire lo spazio sociale europeo. E la cultura? Jean Monnet ricordava poco prima di morire che se dovesse ricominciare, sarebbe dalla cultura. Che cosa vi è oggi di più culturale e di più diffuso dell'audiovisivo che rischia di sfuggire ai paesi dell'Europa per appartenere ormai a coloro che vengono da più lontano, portatori di altre forme di civiltà, di altre culture, di altri linguaggi? Ecco perché ci siamo impegnati a creare quell'Europa, come quella dell'ambiente che non conosce frontiere, meno ancora degli uomini. E poi ancora l'Europa rivolta verso il Terzo Mondo, capace di parlargli, capace di capirlo, capace di aiutarlo a svilupparsi, capace di promuovere le nuove virtù che faranno i secoli futuri. E più tardi con ciò con cui bisogna incominciare subito: l'Europa consapevole che senza la capacità di garantire d a sola la propria sicurezza, voglio dire la propria difesa, non avrebbe realtà politica. Questa realtà politica, obiettivo fissato fin dal primo giorno, rimane oggi l'essenziale del compito. Prima di finire, penso a Jean Monnet che si è preparato a concepire l'Europa così come l'aveva trovata: alla fine di un'epoca, all'inizio di un'altra. E immagino futuri progettisti, futuri fondatori che, dopo Jean Monnet, si guarderanno intorno e vedranno in un primo tempo l'altra Europa, l'altra parte dell'Europa: questo continente che ha attinto alle stesse fonti, che ha partecipato allo stesso modo alla costruzione della nostra società, anche se le divisioni e le lacerazioni hanno spesso preso il sopravvento sulla volontà unitaria, l'altra Europa che vedrà attraverso i prossimi decenni dei progetti, degli accordi, le evoluzioni, le ambizioni e gli altri sogni che ci permetteranno un giorno di sapere che l'Europa sono tutti gli europei. Signori Presidenti, Signore e Signori, ecco d a parecchi anni il terzo dei nostri grandi attori della nostra vita nazionale, nostri ma anche grandi attori della vita contemporanea dell'Europa che sono venuti uno dopo l'altro, circondati dall'affetto e dal rispetto di un popolo, fino al Pantheon in cui ci troviamo. Ognuno simbolizza un momento della storia, un atteggiamento davanti alla vita, un mod o di essere se stessi: Jean Monnet e la resistenza per l'amore della patria. René Cassin, la difesa ed il progresso del diritto, Jean Monnet, l'Europa e l'organizzazione della pace. È bello che tante personalità dell'Europa comunitaria di oggi siano venute qui fra noi. Esse sono benvenute, esse sono soprattutto per Jean Monnet i grandi testimoni, esse vogliono qui testimoniare che la storia ha già ricevuto colui che salutiamo in questo giorno in cui Jean Monnet entra al ~ a n t h e o n . i Sindaci delle grandi città e i loro banchieri Senza Banca centrale europea moneta unica precarie le finanze degli Enti locali nel '92 di Maria Magnani Nojaq pOccorre attuare le condizioni per Tre condizioni per un successo Il «mitico» 1992 promette: libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi, dei capitali. Comuni, Province e Regioni sono ovviamente interessati allampliamento e al completamento del mercato. E lo sono non solo come rappresentanti democratici delle aspirazioni, degli interessi e degli ideali delle collettività locali e regionali, ma anche come soggetti che <perla realizzazione dei fini che sono ad essi propri» agiscono direttamente sul libero mercato. Ovviamente tale interesse riguarda ogni aspetto del mercato; in primo luogo il libero movimento dei capitali, per la grande incidenza che esso assume nella politica di investimento degli Enti locali e delle Regioni. La quota degli investimenti degli enti substatuali finanziata con la contrazione di prestiti è, come noto, assai elevata: ed essa lo sarà tanto più quanto maggiore sarà la disponibilità di capitali e ridotto il saggio di interesse. Entrambi gli obiettivi sono meno difficilmente raggiungibili in un mercato ampio, quale il mercato che si realizzerà in Europa dopo il 1992, ma a patto che si verifichino alcune condizioni. Su queste, Regioni ed Enti locali devono puntare la loro attenzione, per evitare che quello che si annuncia come un traguardo positivo possa poi rivelarsi, nei fatti, un affare assai discutibile. Prima condizione. La raccolta del risparmio deve avvenire, anche per gli Enti locali e regionali, a livello europeo. Occorre cioè un istituto (uno «sportello») che possa essere presente in tutta Europa per convogliare le risorse destinabili agli investimenti degli Enti locali e regionali in ogni parte d'Europa. Come le banche commerciali ri «europeizzano», cosìdeve avvenire per quelle banche che trattano soprattutto i finanziamenti a livello locale. In caso contrario, questo settore del mercato dei capitali risulterà segmentato in modo negativo, penalizzando quelle aree «le più deboli» già colpite negativamente nel loro sviluppo da altri fattori. Seconda condizione. L'intervento statale che, nell'ambito dello spendibile globale, deve garantire agli Enti locali e regionali le quote di loro spettanza, non deve avvenire in forme tali da offuscare l'efficienza del mercato. In altri termini gli Enti locali e regionali non devono essere costretti a rivolgersi per i loro finanziamenti ad una banca che goda di una posizione privilegiata, perché «in modo più o meno palese» chiamata dallo Stato ad esercitare un controllo sull'attività finanziaria de- gli Enti locali. La libertà degli Enti locali di rivolgersi a tutto il mercato europeo deve essere ribadita. Terza (efondamentale) condizione. L'Ente locale e regionale, di fronte alla dinamicità imprenditoriale che si spera sarà attivata dalla realizzazione del mercato unico, deve mostrare altrettanta dinamicità, se non vuole accentuare gli squilibri sociali ed economici tra aree e gruppi. A questo fine, essenziale diventa la possibilità di accedere al mercato dei capitali per finanziare i propri investimenti. Ma esiste - nel caso specifico - una dgferenza decisiva tra l'imprenditore e l'ente locale. Il primo - grazie a tecniche finanziarie le più varie - anche se costretto a muoversi tra monete diverse e tra saggi di cambio variabili può investire riducendo al minimo il proprio rischio. Non altrettanto può dirsi per il secondo, dato che, realizzando le sue entrate sempre e necessariamente con una sola divisa, quella nazionale, non può dar vita a nessuna forma di compensazione. Per l'Ente locale e regionale diventa pertanto essenziale che il mercato unico dei capitali si realizzi contestualmente algoverno unitario delle monete europee (Banca centrale europea) e al conseguente determinarsi di una moneta unica (o più monete con saggio di cambio fisso tra i paesi della Comunità). Di questi argomenti ha discusso il Convegno su «I sindaci delle grandi città e i loro banchieri» (Roma 1-2 dicembre 1988). Esso ha dimostrato - anche sulla base delle considerazioni fin qui svolte - che il legame tra mercato unico, progresso delle comunità locali e regionali,finanziamento dei loro investimenti, creazione di istituzioni comunitarie sovranazionali in campo monetario è non solo strettissimo, ma chiaramente ineludibile. Chi pensasse o di ridurre, attuato il mercato unico, il problema monetario ad un fatto settoriale e intergovernativo (come vuol far intendere la signora Thatcher) o di escludere da esso i Comuni, le Province e le Regioni come interlocutori interessati, sbaglierebbe. E sbaglierebbe due volte: non comprenderebbe né il «passaggio» vero, istituzionale, che occorre compiere per realizzare un autentico mercato unico europeo, né quali devono essere i protagonisti del riequilibrio delle diverse aree europee, obiettivo del grande disegno del mercato unico. Un riequilibrio impensabile se di esso non saranno protagoniste le autonomie regionali e locali. Giancarlo Piombino una apertura al mercato delle attività delle autonomie che consenta di avviare un nuovo circuito di efficienza e di accumulazione. Non più alternative tra fonti di finanziamento pubblico o privato, ma sviluppo dimensionale e qualitativo di un grande mercato finanziario locale. Creare le istituzioni per governare l'Europa: nel caso del finanziamento delle attività di Regioni, Province e Comuni questo significa prevedere l'istituzione di organi specifici nel settore e realizzare condizioni di equilibrio e di stabilità monetaria Non è possibile concepire un recupero della centralità dell'Europa sul piano mondiale che non passi attraverso la rinascita delle sue città e delle sue regioni. Del resto, la storia del nostro continente è stata sempre caratterizzata da una stretta correlazione tra i cicli storici e il destino delle città che sono passate da periodi d i crisi a periodi di splendore seguendo il ritmo delle vittorie o delle sconfitte belliche oppure dello sviluppo dei commerci e del progresso tecnico o ancora delle carestie e delle conseguenti epidemie: come la Roma del periodo tardo-imperiale è il riflesso della decadenza politico-militare dell'impero, così il fiorire della cultura medicea nella Firenze rinascimentale non è nient'altro che il risvolto nel mondo civile della favorevole fase politica e economica-commerciale del periodo. Se da un lato la lettura della secolare civiltà europea attraverso la storia delle sue città ci affascina, allo stesso tempo ci lascia disorientati di fronte d'interpretazione dell'ultimo capitolo: lo stato attuale delle nostre metropoli. Forse dai tempi della Rivoluzione industriale non si era mai sperimentato un tale divario tra la favorevole fase del ciclo del reddito nell'economia e le condizioni di vita delle popolazioni urbane, in continuo deterioramento. In effetti, anche se le città europee sono passate da centri di sviluppo industriale a poli direzionali di uno sviluppo produttivo tendenzialmente decentrato, il degrado urbano non sembra essersi arrestato. Al contrario, i gravi problemi della viabilità, della circolazione del traffico, dell'inquinamento atmosferico e acustico, dell'assenza di adeguate aree verdi rischiano di essere ag" Sindaco di Torino COMUNI D'EUROPA gravati dalla tendenza alla sovrappopolazione indotta dalla crescente ondata di immigrazione dai paesi del Terzo Mondo, i1 cui accoglimento non è stato ancora opportunamente programmato né dal punto di vista socioeconomico né dal punto di vista urbanistico. È necessario ripensare i1 riassetto del territorio in funzione delle nuove esigenze dettate dalla crescente mobilità della popolazione, dalla terziarizzazione dell'economia che richiede la creazione d i opportune aree da destinare a parchi tecnologici e il riuso delle vecchie aree industriali; il tutto tenendo conto delle priorità ecologiche e di salvaguardia ambientale. I n tal senso occorre senz'altro prevedere la creazione di aree verdi per il tempo libero, ma anche inserire l'intera pianificazione territoriale in un quadro armonico che risolva adeguarnente i1 problema delle grandi infrastrutture e dei trasporti, il cui impulso rischierebbe altrimenti di vanificare gli sforzi fatti sul fronte del riassetto urbano. I n questo contesto diviene sempre più chiaro come il consolidamento della rinascita del- pagnate da misure atte a scongiurarne i pericoli di squilibrio che sono insiti nella logica della liberalizzazione pura e semplice. Sia che si tratti del rapporto fra aree più o meno sviluppate oppure del rapporto fra sistemi finanziari più o meno forti, la vera minaccia è quella dello squilibrio. Quando si parla di integrazione europea, occorre specificare sempre quale Europa si intende realizzare. I1 Manifesto di Bordeaux per l'Unione Europea, approvato dal CCRE nel novembre dell'anno scorso ha chiarito inequivocabilmente la priorità di cui i1 processo integrativo deve tener conto: la ricerca del progresso economico deve mirare ad eliminare gli squilibri fra le diverse regioni dell'Europa. Ma lo sviluppo armonico non può prescindere dalla creazione delle istituzioni in grado di gestirlo. Fino a che ogni piccolo passo in direzione dell'Europa sarà sottoposto alla contrattazione dei governi la vittoria degli interessi nazionali delle minoranze corporative è scontata. Occorre tener conto di ciò se si vuole im- Un momento del Convegno nel19Auletta dei Gruppi di Montecitorio l'Europa non possa prescindere da una rinascita delle sue città e delle sue regioni, così come è sempre avvenuto nella storia, perché la città post-industriale può continuare a essere il primo livello di guida politica, economica e sociale solo in quanto riesca a garantire la qualità della vita e la ricchezza di cultura di cui il «rinascimento» europeo avrà bisogno. L'anno scorso, in occasione del I1 Colloquio Europeo su «Le grandi città e i loro banchieri» abbiamo esaminato il rapporto fra la politica degli investimenti degli Enti locali e i loro finanziatori nella prospettiva aperta dal mercato unico del 1992. In quella sede f u rilevato che se da un lato le esigenze degli Enti locali sono destinate a crescere parallelamente e proporzionalmente alla integrazione europea, dall'altro la creazione di uno spazio finanziario di dimensioni continentali è foriera di enormi potenzialità per il finanziamento dei progetti dei Comuni, delle Regioni e degli altri Enti locali. D'altra parte, non bisogna cadere in inganno: sia la realizzazione del mercato unico nel senso più generale, sia la realizzazione dello spazio finanziario europeo non raggiungeranno il loro obbiettivo se non verranno accomCOMUNI D'EUROPA postare correttamente anche il problema dei rapporti fra gli Enti locali e i loro finanziatori nella prospettiva del mercato unico intanto perché la politica locale non deve divenire localistica, ma anzi inserirsi nelle linee strategiche tracciate a livello comunitario, e poi perché se veramente si vuole facilitare il finanziamento degli Enti locali occorre creare uno spazio finanziario non solo per l'offerta di capitali e servizi, ma anche per la domanda e in particolare per la domanda di risorse da parte degli Enti locali per la realizzazione della politica degli investimenti e per lo sfruttamento delle effettive opportunità di accumulazione. Entrambe le cose non sono possibili in assenza delle istituzioni europee, o perlomeno non è possibile realizzarle solamente nell'ottica di un'armonizzazione progressiva. I1 principio di fondo è tutt'altro che nuovo: creare le istituzioni per governare l'Europa. Con riferimento alla questione che ci riguarda, due sono le conseguenze che ne derivano: a) da un lato, occorre prevedere l'istituzione di organi specificamente preposti al finanziamento degli Enti locali; b) dall'altro, se si vuole che i finanziatori degli Enti locali possano agire in uno spazio di dimensioni continentali, occorre crearne le condizioni di equilibrio e di stabilità: la moneta europea e la Banca centrale europea. L'istituzione della Banca centrale europea appare come un punto cardine del processo unificatore e anzi ne é un requisito fondamentale se si vuole scongiurare il periodo che l'arbitrio delle politiche monetarie nazionali torni a dividere e a discriminare il mercato. Nel compimento di questo ulteriore passo, come succede anche in altri casi, i paesi membri incontrano l'ostacolo decisivo che a tutt'oggi non sono stati in grado di superare: il passaggio finale d d a politica dell'integrazione negativa, consistente nel semplice smantellamento delle barriere, a quella dell'integrazione positiva, incentrata sulla creazione delle istituzioni. I successi relativi dello SME non devono trarre in inganno: è vero che fino ad oggi il cammino della cooperazione si è dimostrato relativamente facile, però l'istituzione di una Banca centrale non è una forma di cooperazione, ma la rinuncia permanente ad ampi margini di sovranità monetaria. Le singole banche nazionali, coordinate dalla Banca centrale europea nell'ambito di un sistema di tipo federale garante dell'autonomia necessaria dovranno poter disporre del potere di rendere unica la politica monetaria e la politica del cambio dell'ECU nei confronti delle altre aree valutarie. Necessario complemento dell'unificazione monetaria è la realizzazione del sistema fiscale europeo. Occorre anzitutto chiedersi che significato ha la politica fiscale nell'ottica del mercato unico. L'unificazione del mercato e l'aumento della competitività che ne conseguirà è fenomeno largamente discusso e divulgato per quello che riguarda le conseguenze sul sistema delle imprese pubbliche e private, industriali e di servizi, mentre un'attenzione minore è stata fino ad ora rivolta alle conseguenze per gli Enti locali, sebbene gran parte del potenziale competitivo delle stesse imprese è subordinato anche alla coerenza delle scelte delle autorità locali. I1 fatto che la formazione di una mentalità concorrenziale nell'ambito degli Enti locali non si sia ancora diffusa con pari velocità in tutta l'Europa, non significa che non si sia già accesa la competizione tra le aree per attrarre sviluppo e investimenti. Dal punto di vista del finanziamento degli operatori pubblici non si può disconoscere che una maggior logica di mercato nella.gestione della cosa pubblica implichi il ricorso alla stessa logica anche per quanto riguarda il finanziamento della gestione. Ciò significa che una parte crescente del fabbisogno degli Enti locali dovrà essere finanziato direttamente o indirettamente sul mercato. Sempre tenendo ben presente l'obiettivo del riassorbimento degli squilibri tra le diverse aree, se ne deduce che il margine di potere decisionale delle autorità locali debba inquadrarsi nelle linee di indirizzo strategico disegnate a livello comunitario. Ne derivano alcune conseguenze d a considerare in sede di definizione della politica fiscale attiva della Conunità e degli Enti locali. Innanzitutto, tenendo conto della netta dictomia tipica della tradizione anglosassone fra «provision» e «production» ovvero fra la funzione decisionale e la funzione strettamente produttiva, bisogna riconoscere che non tutta l'azione degli Enti locali deve sfociare nella produzione dei beni pubblici che tradizionalmente rientrano nella loro competenza. Occorre ripensare in molti casi l'opportunità dell'intervento pubblico nella fase produttiva e, anche dove le condizioni oggettive lo richiedano, concepirlo alla luce di una logica di efficenza da mutuare dal settore privato. Nella prospettiva del '92, gli Enti locali non sono i soli a dover rivedere la loro posizione rispetto ai meccanismi di accesso e ripartizione del risparmio comunitario: è indispensabile riformulare tutta la posizione dell'operatore pubblico dal livello comunale al livello comunitario. Affinché l'obiettivo dell'autonomia dell'autorità di politica economica europea non confligga con l'autonomia degli amministratori locali, il modello proponibile potrebbe incentrarsi sulla capacità dell'autorità federale di fissare il livello massimo dell'indebitamento aggregato e sulla subordinazione a questo vincolo dei bilanci dei singoli Stati e degli Enti locali. I n tal modo si verrebbe a slegare la manovra di bilancio per il raggiungimento degli obiettivi di equilibrio macroeconomico su base federale dai bisogni di spesa nazionale e locali. Alle autorità locali rimarrebbe però la scelta fra l'imposizione fiscale locale addizionale e il ricorso al mercato nell'ambito del vincolo globale stabilito a livello comunitario. Nel primo caso, ricorrendo al prelievo diretto nei confronti degli elettori-contribuenti, esse sono costrette a sottoporre a controllo democratico la validità degli investimenti addizionali da finanziare, mentre nel secondo caso il giudizio del mercato sarebbe garante di una maggiore efficienza. Questo sistema consentirebbe alle autorità di perseguire obiettivi di sviluppo addizionale innescando processi moltiplicativi del reddito a livello locale. La legittimità democratica del vincolo federale all'indebitamento aggregato sarebbe assicurata dalla partecipazione del Parlamento Europeo al processo legislativo. Anche sul piano fiscale, quindi, la soluzione democratica richiede il passaggio all'integrazione politica: senza l'eliminazione dell'attuale deficit democratico e la realizzazione dell'unione politica è ben difficile ipotizzare soluzioni radicali anche al problema della finanza pubblica. I n questa prospettiva i problemi della decisione sull'ammontare e sulla qualità della spesa sono risolti contemporaneamente nel senso che ogni autorità - comunitaria, statale o locale -, essendo costretta ad agire in un modello verticale di «bilancia dei poteri», deve operare tra i progetti di spesa approvabili una selezione in funzione della desiderabilità o comunque delì'utilità pubblica di questi, ispirandosi alle priorità stabilite in ambito federale, ma in armonia con gli interessi locali: il raggiungimento della piena occupazione, il ricomponimento degli squilibri territoriali, la tutela dell'ambiente, il progresso culturale dei cittadini, la conservazione del patrimonio artistico, il riassetto urbano ecc ... Ogni eventuale ulteriore spesa, non strettamente riconducibile alle priorità stabilite in sede comunitaria dovrebbe essere giustificata di fronte all'elettorato locale e coperta tramite la leva fiscale o creditizia. Inoltre, in questo modo potrebbero essere realizzate maggiori sinergie fra la spesa delle autorità locali e il finanziamento delle grandi opere infrastrutturali. Se l'aspetto strettamente logistico è senza dubbio di fondamentale importanza, non essendo possibile concepire un mercato unico in assenza di collegamenti efficienti, la centralità di quest'ultimo argomento si coglie considerando l'indispensabilità di un programma di investimenti che sia il fulcro di una politica economica espansiva capace di sostenere la domanda globale e il riassorbimento della disoccupazione. Quasi un decennio fa il rapporto MacDougall aveva messo in luce l'importanza di un aumento della spesa comunitaria che raggiungesse almeno il livello pre-federale del 2,5%, ma si è ancora fermi alla previsione di circa 1'1,5% per il 1992. È doveroso a questo proposito richiamare il dettato di Einaudi che già nel 1919 auspica- II ministro francese del commercio estero Jean Mafie Rausch e il Sindaco di Roma Pietro Giubilo va la capacità impositiva degli organi federali, consentendo loro di riscuotere tributi diretti dai cittadini in connessione con la loro rappresentatività popolare e in opposizione al «metodo dei ratizzio che prevede il finanziamento degli organi centrali per il tramite dei singoli stati. I vantaggi economici conseguibiii con la realizzazione del mercato unico sono enormi: alle economie di scala connesse all'abbattimento delle barriere, stimate intorno al 2% del PIL dal Rapporto Cecchini, si aggiunge l'effetto disinflazionistico conseguente alla diminuzione dei costi e al recupero d i efficenza e concorrenzialità. Ne risulterebbe un impatto sul Prodotto Interno Lordo pari al 4,5% e la creazione di 2 milioni di posti di lavoro. Il che potrebbe essere considerato uno scenario accettabile solo se non si tenesse in considerazione il contesto mondiale, condizionato ancora da troppi squilibri di natura reale, in cui il riassorbimento del disavanzo statuni- tense richiede uno spostamento del motore dello sviluppo al di fuori degli Stati Uniti e la fuoriuscita dei paesi del Terzo Mondo dalla spirale del sottosviluppo domanda all'Europa un comportamento coerente con la sopravvivenza del genere umano, in quanto si tratta di legare lo sviluppo socio-economico della maggior parte dell'umanità alla necessità d i salvaguardare l'equilibrio ecologico del pianeta. Secondo le stime della Commissione, se alla realizzazione del mercato unico si accompagnasse una politica macroeconomica più attiva, l'impatto sul PIL potrebbe raggiungere il 7% e quello sull'occupazione i 5 milioni di nuovi posti d i lavoro. Vogliamo ribadire quanto questi potenziali risultati siano importanti non solo alla luce di considerazioni di carattere interno d'Europa, pur essendo il mercato integrato l'unica occasione futura per intaccare lo zoccolo duro di una disoccupazione ormai strutturale, ma anche alla luce delle accennate considerazioni di equilibrio internazionale. Appurata la necessità e il senso della politica fiscale attiva, ci si deve domandare a quali interlocutori gli Enti locali dovrebbero rivolgersi per il finanziamento dei loro investimenti. Tradizionalmente nel credito alle autorità locali hanno giocato un ruolo di primo piano sia le banche che gli organismi pubblici specificamente istituiti allo scopo: la Cassa Depositi e Prestiti in Italia, la Caisse des Dép6ts et Consignations in Francia, il sistema delle Casse di Risparmio in Germania Federale ecc.. ... . Le condizioni a cui il credito viene elargito sono evidentemente differenti, ma, salvo qualche raro caso, si tratta di canali finanziari nazionali o locali spesso vincolanti e comunque non aperti alla concorrenza. La recente trasformazione della Caisse d e Dép6ts et Consignations in società di diritto privato - il Crédit Local d e France - è la testimonianza di una tendenza al rinnovamento nel settore dei finanziamenti agli Enti locali che va tenuta in considerazione da parte delle autorità comunitarie. Non più quindi un'alternativa tra fonti di finanziamento pubblico e privato, ma sviluppo dimensionale e qualitativo di un unico mercato finanziario locale in cui operatori pubblici e privati competano secondo le regole della libera concorrenza. Per realizzare ciò occorre che vengano eliminati tutti gli ostacoli che impediscono il raggiungimento delle condizioni di perfetto equilibrio nel mercato finanziario europeo: l'effettiva equiparazione degli operatori è possibile solo se verranno completamente eliminati i canali privilegiati di accesso alla raccolta e le discriminazioni fiscali che frammentano tutt'ora il mercato e verrà dato impulso allo sviluppo intensivo di prodotti finanziari in ECU che riduca fino ad annullarli i rischi di cambio e unifichi i tassi d i interesse. I n definitiva, è il mercato che tutti gli intermediari, sia pubblici che privati, si attendono per attingere le risorse finanziarie necessarie alla loro politica di investimento. La sua affermazione dovrebbe avvenire parallelamente allo sviluppo della «securitisation),, essendo il canale dei depositi bancari e postali nelle singole valute necessariamente localistico e non esaustivo delle esigenze di ampiezza richieste dalla prospettiva COMUNI D'EUROPA del mercato unico. Perlomeno, dovrebbe venire a crearsi una osmosi tale da assicurare l'assenza di disequilibri strutturali tra i due comparti del mercato finanziario. La tendenza è già in atto e va solo assecondata: sempre in Francia, una buona parte delle banche ha già cominciato a ricollocare una fetta dei prestiti alle autorità locali sul mercato dei titoli, spinte in tal senso dall'esigenza di snellire i bilanci in prospettiva dell'applicazione dei nuovi ratios richiesti a livello comunitario. La necessità di un grande mercato di prodotti finanziari in ECU per il finanziamento degli Enti locali è tanto più evidente se si tiene conto del fatto che il mercato delle grandi commesse ha una dimensione continentale e che quindi il problema del finanziamento dell'Ente locale acquirente verrebbe comunque a connettersi al problema del finanziamento di un fornitore o costruttore potenzialmente estero, realizzandosi così la concorrenza di più valute nel finanziamento di una stessa operazione. I1 problema di ottimizzare la raccolta delle risorse finanziarie da destinare al finanziamento degli Enti locali non può d'altronde essere abbandonato alla logica della concorrenza fra gli intermediari nazionali, visto anche che non dovrebbe escludersi a priori il ricorso al risparmio extra-comunitario date le ottime capacità di assorbimento dimostrate negli ultimi tempi da mercati come quello giapponese nei confronti di strumenti denominati in scudi europei. Di fronte a questi prestatori occorre porre organismi di standing internazionale, altrimenti sarebbe di fatto impossibile pensare di estendere alle autorità locali quei vantaggi di basso costo dei finanziamenti di cui godono, ad esempio, i progetti finanziati dalla BEI. I1 potenziale di integrazione del progetto non ha bisogno di essere ulteriormente sottolineato, basti pensare a come un'istituzione simile potrebbe inserirsi a complemento del progetto federale di gestione della politica fiscale di cui abbiamo parlato all'inizio di questa relazione introduttiva. Si verrebbe a realizzare una felice coincidenza fra il livello dell'autorità che fissa democraticamente il massimale comunitario di ricorso al credito da parte degli Enti locali e il livello primario che può provvedere alla materiale raccolta delle risorse si11 mercato interno europeo e sugli altri mercati internazionali. Ma la creazione di una tale istituzione come più in generale l'unione monetaria, la realizzazione del sistema fiscale europeo e la riforma degli Enti locali hanno come requisito preliminare l'eliminazione del deficit democratico che frena lo sviluppo della Comunità verso l'unione. La pregiudiziale è dunque poljticoistituzionale: senza un Parlamento Europeo investito della sovranità popolare non è possibile compiere nessuno di questi passi fondamentali. La formazione del mercato unico nel 1993 costituirà un progresso nella misura in cui il beneficio economico che ne deriverà potrà essere esteso alla maggior parte dei cittadini europei e non europei: un mero aumento del graCOMUNI D'EUROPA d o di efficienza economica del sistema Europa non è di per sé garanzia di progresso storico, ma anzi, costituisce un potenziale rischio di regresso se induce ulteriore concentrazione della ricchezza, distorsione dei meccanismi allocativi e aumento degli squilibri. La posta in gioco è enorme e supera i confini spaziali del nostro continente. Non ci si stancherà mai di ribadire il contenuto rivoluzionario implicito in quel paradosso storico che è l'unione europea: l'ottenimento di una federazione di nazioni diverse, perseguito senza il ricorso alla violenza, costituirebbe un precedente unico nella storia e un modello politico «esportabile». Una politica estera comunitaria che si faccia carico dei problemi mondiali sarebbe, al contempo, lo strumento di un recupero della centralità europea come acme della civiltà mondiale e il supremo riconoscimento della dignità della diversità culturale dei popoli e della relativa possibilità di convivenza pacifica. Non si tratta di una revanche del ruolo dell'utopia nel pensiero politico moderno: l'apparente velleitarismo di tale visione è smentito vigorosamente dalla constatazione della comunanza di destini che lega oggi l'umanità. Sembra quasi petulante ripetere ancora una I1 vicepresidente del P.E. Guido Fanti volta che il progresso tecnologico, con le sue terribili conseguenze sul piano militare e le sue fantastiche implicazioni sul piano culturale e civile, ha reso largamente anacronistici gran parte dei confini politici che dividono il mondo. Ma per progredire nell'integrazione occorre realizzare, oltre l'unità economica, anche l'unità politica dell'Europa. Si tratta di progettare quel sistema istituzionale che consenta la delega politica da parte di tutti i cittadini europei e al contempo favorisca l'incontro e il comporsi dei differenti interessi che la determinano, in ultima analisi si tratta di costruire il giusto sistema federale per l'Europa di domani. Del resto, l'evidenza storica suggerisce che I'unico sistema che è stato in grado di unire nella democrazia è il sistema federale. In un sistema federale gli Enti locali non sono mere articolazioni amministrative prone di fronte al potere centrale, ma organi politici autonomi con veri e propri poteri di governo, nella misura in cui è trasferito al livello gerarchico superiore soltanto quello che al livello inferiore non offre garanzia di riuscita. È per questo che abbiamo così tanto insistito sul federalismo fiscale come necessario complemento dell'Europa federale: la riscossione del tributo pone gli eletti in diretta posizione di responsabilità di fronte agli elettori, accrescendone sì la gravità del mandato, ma anche la legittimazione. Inoltre, in un sistema federale gli Enti locali sono diretti interlocutori delle autorità federali centrali per tutte le materie che competono loro: l'organizzazione del territorio e la salvaguardia dell'ambiente, lo sviluppo dell'imprenditoria locale ecc.. ..., rompendo l'asse gerarchico verticale Comunità - stato nazionale - Ente locale di derivazione feudale. A più di trent'anni dai Trattati di Roma, l'Europa è ancora divisa tra «l'unità nella diversità», quale risposta alle esigenze di pace, sviluppo e democrazia provenienti dal suo interno e dal contesto mondiale e gli interessi di breve periodo delle minoranze corporative e nazionalistiche che trovano, tuttora, nell'arretratezza delle amministrazioni e nell'immobilismo dei governi un valido supporto. L'«impasse» è enorme e rischia di trasformarsi in una pausa di dimensioni storiche. È giunto il momento di rigenerare il processo di evoluzione istituzionale dell'Europa comunitaria, conferendo al Parlamento Europeo il mandato politico di riproporre un progetto di unione direttamente ai popoli della Comunità, senza passare attraverso organi esecutivi che non sono costituzionalmente legittimati a decidere in merito in quanto non sono esplicitamente depositari della volontà popolare. Di fronte al passaggio dell'Europa economica all'Europa democratica la maggior part.e dei partiti politici europei è timida, incerta, timorosa di compiere passi falsi che ne compromettano il residuo potere nazionale; ma sul fronte popolare i sondaggi di opinione mostrano che circa il 76% dei cittadini europei e 1' 84% degli italiani è favorevole all'unità europea e chiede di esserne direttamente promotrice attraverso il referendum. Uno dei paesi membri deve pur iniziare! L'esperienza italiana costituirà un imperativo difficilmente ignorabile dalla classe politica degli altri paesi europei. Nella misura in cui il referendum sarà esteso ad un numero crescente di paesi della Comunità il problema della conoscenza della volontà politica del popolo europeo verrà risolto direttamente, senza alchimie istituzionali che ne alterino il significato: solo ponendo i singoli stati nazionali di fronte alla volontà dei popoli è possibile uscire dall'immobilismo attuale. Gli Enti locali di tutta Europa devono comunque realizzare la campagna del Consiglio dei Comuni e delle Regioni d'Europa - le petizioni per il mandato costituente al prossimo Parlamento Europeo, i quaderni di protesta e di proposta, la Convenzione del popolo europeo insieme alle altre forze del fronte democratico europeo -: essi hanno una storica responsabilità e anche una missione politica urgente, perché le elezioni europee del 1989 sono ormai assai vicine e l'opinione dei nostri cittadini, più avanzata di quella dei governi, deve essere rappresentata. m Minoranze, diritti civili e federalismo som ma rio DICEMBRE 1988 54 - Ii ruolo dell'unione europea, di U.S. 55 - Frontiere nazionali e federalismo, di Lucio Levi 59 - Il valore di infinite variazioni, di Tullio D e Mauro 60 - Minoranze linguistiche e diritti civili, di Piero Ardizzone 61 - La situazione nella Comunità europea, di Donali O'Riagain 62 - Una concezione pluralistica del19Europa, di Moreno Bucci 63 - Il ruolo degli Enti locali, di Pierino Donada 65 - La risoluzione del Consiglio d'Europa COMUNI D'EUROPA Minoranze etniche e linguistiche e il ruolo dell'unione europea Una Unione sovranazionale realmente democratica potrà garantire l'autogoverno delle minoranze e le relative tutele dei suoi diritti e offrire allo Stato nazionale una sua capacità di evitare ipotesi di secessione delle minoranze. Il blocco storico tra coloro che lottano per la salvaguardia della propria identità e la democrazia federale Lapponi in un campo del Finnmark vicino a Capo Nord Si può utilizzare la nozione (gramsciana e, prima, soreliana) di «blocco storico» parlando del rapporto fra minoranze etniche, linguistiche, religiose, che lottano per la propria salvaguardia e la propria autonomia, e il «fronte» di coloro che lottano per la democrazia sovranazionale (nella fattispecie europea, per 1'Unione politica democratica). Entrambi trovano avversari negli Stati nazionali dalla sovranità illimitata, basati su interessi costituiti e privilegiati e su un giacobinismo aperto o mascherato; entrambi (per ripetere famose parole di Alexander Hamilton, nell'Introduzione generale del «The Federalist~- siamo tra il 1787 e i1 1788 -) trovano l'ostacolo «costituito dall'interesse evidente, di una determinata classe dirigente in ogni stato, a resistere ad ogni innovazione che implichi, comunque, una diminuzione di potere, d i emolumenti, e di prestigio nelle cariche da essa attualmente coperte nelle amministrazioni degli stati*: diminuzione di potere - nel nostro caso - verso il basso e verso l'alto. L'alleanza col potere democratico di una Unione federale da parte delle minoranze evita l'emarginazione, l'isolamento e - possiamo dire - la frustrazione e la disperazione delle minoranze stesse, donde una orgogliosa e spesso irrazionale difesa della propria identità, un latente micronazionalismo e, talvolta, un terrorismo d i tipo particolare - che non di rado si associa ad altri terrorismi attraverso la migrazione «provvisoria» dei suoi elementi più poveri o meno legati a un assetto socio- economico soddisfacente, elementi che assommeranno lo smarrimento degli sradicati alla difesa «armata», in loco, dell'etnia -. Una Unione sovranazionale realmente democratica potrà garentire, obiettivamente, I'autogoverno della minoranza e la relativa tutela dei suoi diritti, arbitro - per così dire tra lo Stato nazionale e la minoranza; a sua volta l'Unione potrà garentire allo Stato nazionale «subordinato» una sua capacità di evitare ipotesi di secessione della minoranza. I n realtà questo è un punto delicato, che va studiato: la tutela di una minoranza deve accompagnarsi ai progressi di una società, ove è obiettivo etico e universalmente condiviso quello di vigilare sui diritti di ciascuno, ma di esigere la disponibilità a sottomettersi ai doveri di una legge comune. Quando si ha la piena tutela delle proprie «virtù storiche» diventa patologico il rifiutarsi di capire le altrui identità e il temere confronto e convivenza. Una esasperazione di un federalismo male inteso è la prospettiva di una Federazione sovranazionale basata su Regioni monoetniche - monadi senza finestre -: questa sarebbe l'Europa del prof. Guy Héraud, autore del libro assai noto «L'Europe des ethnies*. I n senso opposto a Héraud procede, se bene intesa, la cosiddetta intercultura: questo orientamento culturale e pedagogico dovrebbe produrre l'apporto di patrimoni particolari (di tradizioni e di valori) a un patrimonio comune, di ambito sempre più vasto. I n effetti esistono, teoricamente, due sole linee di con- I n prima pagina: matrimonio secondo il rito orientale a Piana degli Albanesi in Sicilia COMUNI D'EUROPA dotta da prospettare: il nazionalismo, di grandi o piccoli spazi ma tendente inevitabilmente al razzismo; e il federalismo, che persegue l'unità nelle diversità. , l'alto, di federalismo piutSi è ~ a r l a t overso tosto che di astratto cosmopolitismo, perché questo re tende una omogeneità forzata, matrice di appiattimento. Del resto di mano in mano che si proceda verso una sovranazionalità sempre più vasta, che - per la tutela della pace (rendere la guerra impossibile) - dovrà coincidere alla fine con una estensione planetaria, diviene ovvia l'esigenza di creare dei contrappesi e, per quanto ci riguarda in questo momento, una controcultura, che si serva di istituzioni adeguate. Questa «difesa locale* non può non basarsi su una solidarietà orizzontale ai piccoli livelli (regionali e locali), che si oppone alla «difesa» di minoranze etniche, diverse e conviventi, in base alla parola d'ordine intollerante «essere divisi per coabitare, ignorandosi, trariquillamente insieme*. I1 federalismo è un assetto che prende atto dell'interdipendenza, economica, sociale, culturale fra uomini, minoranze, gruppi, popoli, nazioni. Alcuni cosiddetti «Federalisti integrali» (federalismo non solo politico ma anche economico: è in fondo una discutibile derivazione proudhoniana) sembrano per altro inquinati di corporativismo. I1 corporativismo è dare dignità giuridica, rappresentativa, istituzionale alle categorie economiche (e quindi alle posizioni di privilegio precostituito) e, se del caso, alle minoranze etniche come tali, staticamente (e torniamo alla filosofia di Héraud): il diritto invece deve avere un valore egualizzante e, invece d i premiare gli interessi costituiti, deve favorire una società dinamica, in evoluzione; fu il feudalismo che formalizzò e premiò il potere in atto, mentre una autentica civiltà giuridica, contro ogni paternalismo, dà certezza e posizioni eguali di partenza per tutti. Questa apparente disgressione dal tema delle «minoranze» era necessaria per chiarire insidie, che si celano dietro una incauta trattazione del tema. Su queste premesse, infine, si dovranno non solo esaminare le forze in giuoco e il potenziamento del «blocco storico», ma anche il concreto progetto di Unione europea, che dia, nella sua struttura socio-economica e nel suo profilo istituzionale, le immediate garanzie richieste dalle «minoranze», in una comune dinamica federalista. Ciascuno dei tre poteri della Unione - legislativo, esecutivo, giudiziario - dovrà avere, tra l'altro, una adeguata formulazione. A sua volta il sistema delle autonomie dell'unione dovrà tener conto dei diritti ma anche dei doveri delle minoranze coabitanti in uno stesso territorio, appunto il nome di un ~Federalismoorizzontale» di cui abbiamo fatto cenno (non solo giuridico o culturale, ovviamente, ma anche socioeconomico, finanziario e «fiscale»). Nel quadro ora disegnato pensiamo che le «minoranze» possano dare un contributo essenziale alla campagna del CCRE di ~ q u a d e r ni di protesta e di proposta* e partecipare consapevolmente alla Convenzione del popolo europeo e alle elezioni europee del giugno '89. U.S. DICEMBRE 1988 frontiere nazionali e federalismo Una contrad~onedi fondo della nostra epoca: potere nazionale e realtà economica e sociale di Lucio Levi* La dimensione internazionale dei principali problemi di fronte ai quali si trova l'umanità è incompatibile con le misure dello Stato sovrano. Il principio federale permette infatti di concepire diversi livelli di governo che siano nello stesso tempo coordinati e indipendenti. Il processo di integrazione della Comunità europea costituisce nel mondo contemporaneo la manifestazione più significativa della trasformazione delle frontiere esterne in linee di demarcazione interne nell'ambito di unità politiche pluristatali e plurinazionali Tutte le relazioni sociali (economiche e politiche) sono profondamente condizionate da10 spazio nel quale si svolgono. Ma sono pochi gli autori che ne tengono conto. È merito del geografo tedesco Walter Christaller aver sviluppato i concetti indispensabili a comprendere e a spiegare la dimensione spaziale delle attività umane nel quadro di una ricerca diretta a individuare le leggi che regolano il numero e la distribuzione degli insediamenti umani sul territorio. Questa teoria è stata poco utilizzata per comprendere la natura delle frontiere e lo stesso Christaller dedica scarsa attenzione allo studio del fenomeno. Ma è evidente che le frontiere, in quanto linee di divisione tra comunità umane indipendenti (gli Stati), costituiscono un aspetto rilevante dell'organizzazione delle attività sociali nello spazio. A me pare che la concezione del Christaller possa dare un contributo essenziale a spiegare il ruolo delle frontiere nell'organizzazione del territorio. H o ritenuto quindi opportuno premettere alla mia esposizione una breve sintesi dei principi fondamentali di questa teoria. Frontiere e organizzazione del territorio Secondo il Christaller, gli insediamenti umani si dispongono sul territorio in modo da gravitare attorno a località centrali. La centralità di un luogo è determinata dalle attività economiche che vi si svolgono. L'influenza di ogni bene o servizio si esercita uniformemente sul territorio e tende a coprire un'area circolare. Quanto più un bene o un servizio è specializzato tanto più numerosa sarà la popolazione e tanto più ampio sarà il territorio che gravita attorno ad essi. Se, per esempio, prendiamo in considerazione tre diversi tipi di negozi che vendono generi alimentari (una panetteria, una pasticceria, un negozio di frutta esotica) si potrà constatare che essi si troveranno al centro di territori di diversa ampiezza a seconda della loro specializzazione. Mentre la panetteria soddisfa un bisogno quotidiano ed elementare della popolazione, la pasticceria e il negozio di frutta esotica soddisfano bisogni più inconsueti e raffinati e servono quindi territori comprendenti un numero maggiore di persone. In termini generali, l'estensione di ogni ambito territoriale è funzione di due parametri: a) un limite superiore, che è determinato dal- * - Professore di Scienze politiche all'università di Tcrinc DICEMBRE 1988 la distanza massima che i consumatori sono disposti a percorrere per acquistare un bene offerto in una località centrale; b) un limite inferiore, che è determinato dall'estensione minima di territorio e di popolazione necessaria a sostenere una certa attività economica. Ne consegue che attorno a ogni località centrale gravitano territori concentrici di dimensione crescente a seconda del grado di specializzazione dei beni e dei servizi offerti. Quindi le località di uguale livello tendono a distribuirsi sul territorio a distanza uguale (e più precisamente ai vertici di triangoli equilateri) e a raggrupparsi in esagoni. La figura geometrica dell'esagono permette intatti, meglio del cerchio, di rappresentare, senza intersezioni e sovrapposizioni, territori confinanti appartenenti a località centrali contigue. Le leggi del mercato tendono quindi a organizzare il territorio in modo aperto e articolato, cioé in modo tale che ogni località centrale svolga il ruolo di centro di un territorio e di cerniera di tre territori d i ordine superiore. I1 che impedisce che si formi una rigida organizzazione del territorio, fondata sulla gerarchia tra centro e periferia. Vediamo quali conseguenze si possono trarre da queste considerazioni teoriche per quanto riguarda i territori situati ai confini degli Stati e cioé le regioni di frontiera. Se il principio del mercato fosse il solo fattore determinante la distribuzione degli insediamenti e delle funzioni sul territorio, le località di frontiera appartenenti a uno Stato svolgerebbero il ruolo di cerniera con le località corrispondenti appartenenti allo Stato confinante. Da questo schema risulta che il punto di massima differenza tra due Stati confinanti non è situato lungo la frontiera, ma al centro dei due Stati. E in effetti spesso è possibile descrivere le popolazioni di frontiera insediate su territori appartenenti a due Stati confinanti come un'unica popolazione. Per esempio, le popolazioni basche o le popolazioni catalane insediate a cavallo della frontiera franco-spagnola hanno tra loro legami culturali più stretti che con il resto degli spagnoli e dei francesi. Questa affinità può essere osservata nella popolazione dell'Alsazia e del Baden, della Lorena e della Saar, della Va1 d'Aosta e della Savoia, della Lombardia e del Canton Ticino, del Tirolo del Sud e del Nord e c?sì via. E evidente che le irontiere politiche sono percepite da queste popolazioni come qualcosa di artificioso, un ostacolo allo sviluppo dei rapporti di comunicazione e di scambio. Secondo il Christaller esistono due fattori che modificano la distribuzione sul territorio degli insediamenti e delle funzioni configurate dallo schema basato sul principio del mercato. I1 primo fattore è il «principio del traffico», che tende a distribuire le località centrali lungo le più importanti vie di comunicazione. I1 secondo fattore, che il Christaller chiama «principio dell'isolamento», è indubbiamente quello che ha maggiore rilevanza ai fini della comprensione del fenomeno delle frontiere. Si tratta di un principio di carattere politico, mentre quello del mercato e quello del traffico hanno natura economica. Esso è espressione dell'esigenza del potere politico di organizzare lo Stato in forma accentrata, di garantire una forte coesione della comunità umana insediata nel suo territorio e di assicurare a questa comunità la difesa più efficace contro i pericoli di aggressione. Secondo il Christaller, la struttura ideale di questo tipo di Stato è organizzata nel modo seguente: «al centro il capoluogo (una località centrale d i ordine superiore), attorno ad esso una corona di località satelliti, sedi amministrative, e alla periferia del territorio, zone scarsamente popolate e persino disabitate». Più precisamente le esigenze di controllo e di difesa del territorio determinano: a) la concentrazione delle funzioni politiche nella capitale e nella città, sedi periferiche dell'amministrazione statale (prefetture nel modello francese); b) l'organizzazione delle risorse produttive in funzione della sicurezza dello Stato più che del benessere dei cittadini; C) la congestione del centro politico e amministrativo e lo spopolamento della periferia. La Francia rappresenta l'esempio di uno Stato che ha sviluppato fino alle estreme conseguenze questo modello. Le frontiere e la formazione dello Stato moderno Ecco come Herbert Luthy descrive il ruolo centralizzatore di Parigi, capitale politica ed economica, nel processo di formazione di quello che divenne il modello dello stato nazionale unitario: «Si può vedere formarsi intorno al centro della città sovrana una tela di ragno ... intessuta di infiniti fili convergenti .... Come la limatura di ferro verso la calamita, così tutte le linee di forza della Francia - traffico, commercio, politica e cultura - convergono a un solo punto centrale». La nozione di frontiera si impone nel linguaggio politico in corrispondenza con la forCOMUNI D'EUROPA mazione dello Stato moderno e coincide con l'affermazione del principio della sovranità territoriale. Uno dei requisiti costitutivi dello Stato moderno è l'esercizio della sovranità esclusiva su un determinato territorio e sugli spazi accessori (le acque territoriali e l'atmosfera). La frontiera, in quanto segna il confine territoriale entro il quale si esercita la sovranità dello Stato, definisce il limite al di là del quale incomincia l'area di giurisdizione degli altri Stati. Anche se siamo abituati a considerare le frontiere nel mondo contemporaneo come un limite e una costrizione alla libertà di movimento, bisogna riconoscere che esse hanno rappresentato un progresso nel170rganizzazione della vita politica, perché hanno contribuito all'affermazione di un migliore ordine internazionale e di una maggiore certezza del diritto. Hegel ha espresso bene questo concetto nella Filosofia del diritto, quando afferma: «I1 popolo, in quanto Stato,.. ... è il potere assoluto sul territorio.. .. Essere riconosciuto è il suo primo assoluto diritto». Le frontiere hanno soprattutto un significato militare: al di là dei confini c'è il nemico e la minaccia alla sicurezza dello Stato. Le frontiere delimitano l'area entro la quale agisce una volontà pubblica dotata del monopolio della forza. Esse segnano d i conseguenza il confine tra l'ordine e l'anarchia, tra il diritto e la forza, tra la sfera della pace e la sfera della guerra. Le relazioni internazionali appartengono infatti alla sfera pregiuridica dello stato di natura, dove la guerra, se non è in atto, è sempre potenziale. Sul piano economico la frontiera delimita il confine tra il mercato nazionale e il mercato internazionale, tra l'area entro la quale l'economia è governata con gli strumenti della moneta, del fisco, delle dogane e cosl via e l'area nella quale dominano i rapporti d i forza tra gli Stati. D i conseguenza l'economia nazionale tend e a essere usata a fini difensivi e offensivi mediante politiche autarchiche e protezionistiche. E ciò pregiudica l'affermazione del principio Case delle minoranze Walser nell'alta Valsesia COMUNI D'EUROPA dell'impiego più ~ r o d u t t i v odelle risorse sul piano internazionale. Con l'affermazione dello Stato nazionale il concetto di frontiera subisce un'evoluzione. Questa formazione politica crea un'ideologia che ha lo scopo di giustificare la fusione d i Stato e nazione e offre al governo nazionale uno strumento che permette d i pretendere dai cittadini un lealismo esclusivo più forte dei vincoli che legano gli individui alle classi e alle comunità più piccole e più grandi della nazione. Le esigenze difensive dello Stato continentale, che hanno lunghe frontiere in comune con altri Stati, determinano un'organizzazione accentrata del potere e una forte coesione sociale, indispensabili a fronteggiare con la necessaria energia i pericoli di aggressione. Stato nazionale e frontiere naturali Mentre invece negli Stati insulari, come la Gran Bretagna, a causa della protezione naturale del mare, che la circonda, le esigenze difensive sono più deboli. Non sussistono quindi le condizioni per la formazione di comunità chiuse e bellicose e per la diffusione dell'ideologia nazionale. Non è un caso che la Gran Bretagna sia uno Stato multinazionale fortemente decentrato. Sulla base di questa analisi si può quindi giungere alla conclusione che l'ideologia nazionale è l'ideologia dello Stato burocratico e accentrato. L'idea di frontiera naturale è un aspetto dell'ideologia nazionale. Anche se è stata formulata in precedenza, cioé all'epoca dell'Illuminismo nel contesto della teoria del diritto naturale (il concetto è enunciato nelle opere di Locke, di Montesquieu e di Rousseau), essa diventa uno strumento di lotta politica solo durante la rivoluzione francese. «L'idea di frontiera naturale*, scrivono Guichonnet e Raffestin, «non è come si è creduto, una creazione del XVII secolo, ma una creazione del XVIII secolo.. . Ai vecchi diritti ereditari e storici che erano prevalsi nel secolo precedente come criteri di definizione del- le frontiere si sostituirono quelli che la natura sembrava imporre. I rivoluzionari, posti di fronte ai problemi di integrazione territoriale a causa del loro principio del «diritto dei popoli a disporre di se stessi», esitarono dapprima sulla scelta di una politica e alla fine si legarono alla politica delle frontiere naturali sviluppata da parecchi autori alla fine del XVIII secolo». Durante la rivoluzione francese il concetto d i frontiera naturale divenne lo strumento di una politica. Per esempio, fu impiegato dall'abate Grégoire per giustificare l'annessione della Savoia da parte della Francia. D'altra parte, Carnot affermò che i confini naturali della Francia si estendevano fino al Reno, alle Alpi e ai Pirenei. I1 riferimento alla natura per giustificare le frontiere, per giustificare cioé il potere di un governo su un determinato territorio, serve ad affermare il principio che le frontiere sono immutabili e indiscutibili. Anche Aristotele era ricorso alla natura per giustificare la schiavitù. Egli aveva compiuto la stessa operazione mentale (che caratterizza i processi di automistificazione ideologica) dei seguaci dell'ideologia nazionale: attribuire d ' a u torità della natura ciò che invece è il risultato d i determinati rapporti di potere, da conquistare o da mantenere. Un illustre studioso, Owen Lattimore, riassumendo i risultati delle sue vaste ricerche sul tema delle frontiere ha scritto che esse «hanno un'origine sociale e non geografica. Solo dopo che, in una comunità, si è formata l'idea che esista una frontiera, questa idea può essere ricollegata a una certa configurazione geografica». I n ultima analisi le frontiere tra gli Stati sono un prodotto della politica e dei rapporti di forza tra gli Stati. Esse hanno assunto la configurazione attuale non per opera della natura, ma della diplomazia e della guerra. «I limiti degli Stati», ho osservato Proudhon, «sono una creazione della politica, non una previsione della natura». Per illustrare il carattere ideologico dell'idea di nazione, vale la pena di ricordare i due diversi criteri per definire i confini della nazione che prevalsero rispettivamente in Francia e in Germania dopo la Rivoluzione francese. In Francia si affermò la teoria ekttiua in base alla quale l'appartenza alla nazione si fonda sulla volontà e sulla scelta dei cittadini, Renan la chiamò «il plebiscito d i tutti i giorni». I n Germania prevalse invece la teoria naturale, che considerava soprattutto la comunanza di lingua, il criterio in base al quale definire la nazione. La polemica coinvolse grandi intellettuali come Fustel de Coulanges e Mommsen, Renan e Treitschke. M a oggi sembra evidente che la base reale della divergenza era di natura politica. Infatti la scelta dell'uno o dell'altro criterio serviva a giustificare l'appartenenza deli' Alsazia e della Lorena alla Francia o alla Germania. È accaduto che il medesimo Stato, l'Italia, abbia fatto ricorso contro ogni logica contemporaneamente a due diversi criteri per giustificare le proprie conquiste territoriali alla fine della prima guerra mondiale. La conquista di Trento e Trieste fu giustificata in base al DICEMBRE 1988 criterio della lingua, mentre l'occupazione del Sud-Tirolo, dove si parla tedesco, fu giustificata in base alla pretesa che la frontiera naturale dell'Italia arrivava al Brennero. I n realtà nessuno di questi criteri è in grado di definire i confini di una nazione. La fusione di Stato e nazione è il risultato di un'operazione politica, nella quale è decisiva I'affermazione di un centro di potere su un territorio. Come abbiamo visto l'ideologia nazionale ha precisamente la funzione di giustificare questo potere. Processi di integrazione e superamento delle frontiere Un fiume, un lago, una catena di montagne, alle origini hanno ben potuto rappresentare un ostacolo di carattere geografico allo sviluppo di relazioni tra le comunità umane insediate sulle due rive del fiume o del lago o sui due versanti della catena di montagne. Tuttavia, la storia modifica continuamente questi dati naturali, e ciò che si presentava come una linea di divisione può trasformarsi in una via di comunicazione e in un luogo di incontro e d i scambio. Soprattutto io sviluppo tecnologico nel settore delle comunicazioni e dei trasporti ha accorciato straordinariamente le distanze e fatto cadere le barriere fisiche che un tempo separavano i popoli, rendendo accessibile ciò che un tempo era lontano ed estraneo. I processi di integrazione economica e sociale rendono il pianeta sempre più strettamente interdipendente nelle sue parti, creando le condizioni materiali della trasformazione delle frontiere esterne in linee di demarcazione interne nell'ambito di unità politiche pluristatali e plurinazionali. I1 processo di integrazione tra i paesi della Comunità europea costituisce nel mondo contemporaneo la manifestazione più significativa di questa trasformazione delle frontiere. La seconda guerra mondiale segna la nascita, sulle rovine del vecchio sistema europeo, del sistema mondiale degli Stati, fondato sul predominio degli Stati Uniti e delllUnione Sovietica. Gli Stati nazionali europei hanno perduto la loro indipendenza, si sono trasformati in satelliti delle due superpotenze e si sono dimostrati, ormai senza possibilità di contraddizione, incapaci di garantire entro i loro ristretti confini lo sviluppo economico e la sicurezza ai loro cittadini. Essi sono destinati a sopravvivere soltanto come un anacronismo in un mondo che si sta evolvendo verso forme di organizzazione politica di dimensioni continentali e a carattere multinazionale. La crisi storica dello Stato nazionale costituisce la base dell'unificazione europea, che rappresenta un vero e proprio rovesciamento delle tendenze politiche d i fondo, che hanno caratterizzato la storia del sistema europeo degli Stati. Essa ha sostituito al tradizionale antagonismo tra gli Stati forme sempre più strette di cooperazione politica ed economica e ha aperto, per la prima volta nella storia, la possibilità di superare nazioni storicamente consolidate. I n questa nuova situazione storica, nella quale la sicurezza non scatena più gli antagonismi tra gli Stati e questi ultimi sono costretti a collaborare per sopravvivere, avviene il tramonto DICEMBRE 1988 Gruppo folcloristico dell'Anjou in Francia del nazionalismo e l'inizio di una nuova epoca storica, che Proudhon nel secolo scorso aveva chiamato l'«era delle federazioni». Infatti, le frontiere tra i paesi aderenti alla Comunità europea hanno perso il loro significato strategico. La linea di massima tensione che oppone gli stati sul sistema mondiale non passa più tra Francia e Germania, ma tra i due blocchi, la cui formazione ha collocato i paesi dell'Europa occidentale nello stesso campo. Questa è la premessa politica e militare dell'integrazione europea. Essa ha trasformato gli Stati da sistemi tendenzialmente isolati e autosufficienti, che sviluppavano tra di loro rapporti fortemente antagonistici, in unità strettamente interdipendenti che tendono a fondersi in un unico sistema. L'abbattimento delle barriere doganali nel 1968 e la prospettiva dell'unificazione completa del mercato interno nel 1992, mettono d'ordine del giorno la completa eliminazione degli ostacoli agli scambi tra i paesi della Comunità europea. Ma il mercato non si regge senza istituzioni. Di conseguenza, il 1992 pone il problema della creazione delle istituzioni monetarie (banca federale europea e moneta comune), degli strumenti di bilancio necessari a correggere gli squilibri generati dall'unificazione del mercato e delle istituzioni politiche (attribuzione al Parlamento Europeo del potere legislativo, da esercitarsi congiuntamente con il Consiglio, e alla Commissione del potere di governo, da esercitarsi con il sostegno della maggioranza del Parlamento Europeo) necessarie a governare il mercato europeo. Benché l'aspetto più appariscente della situazione del Terzo Mondo sia costituito dal diffondersi del nazionalismo, va rilevato che anche i movimenti di liberazione nazionale sono accompagnati dalla coscienza che lo Stato nazionale non costituisce più una base sufficiente a garantire nel mondo contemporaneo sviluppo economico e indipendenza politica. A questo proposito, è opportuno ricordare che gli stessi protagonisti dei movimenti di liberazione nazionale, da Bolivar a Nkrumah, era- no anche sostenitori dell'organizzazione federale rispettivamente delle nazioni latino americane e africane. La tendenza a costituire raggruppamenti regionali di Stati ha dimensioni mondiali e ha la sua base nell'internazionalizzazione del processo produttivo nella formazione del sistema mondiale degli Stati. Essa opera non solo nell'Europa occidentale con la creazione delle Comunità europee e nell'Europa orientale con Ia costituzione del COMEC O N , ma anche in America Latina, in Africa, nel mondo arabo e nel sud-est asiatico. Anche il muro che divide Berlino e le due Germanie, che è l'ultima frontiera che ancora si avvicina alla concezione tradizionale di una linea che separa gruppi umani ostili tra di loro, divisi da ragioni politiche, militari e ideologiche, il simbolo della divisione del mondo in due blocchi e in due sistemi antagonistici, sembra destinato a cadere sotto la pressione dell'interdipendenza globale. Soprattutto le armi nucleari (e il pericolo della scomparsa della vita sul pianeta che vi è connessa) hanno determinato un mutamento dei fondamenti delle dottrine strategiche, hanno fatto prevalere l'imperativo della cooperazione tra le due superpotenze e i due sistemi e hanno imposto la scelta del disarmo nucleare. Ma la soluzione d i tutti i più gravi problemi di fronte ai quali si trova l'umanità, dalla protezione dell'ambiente allo sviluppo dei paesi del Terzo Mondo, esige la cooperazione e la solidarietà mondiale. L'evoluzione della storia mostra dunque come la contraddizione di fondo della nostra epoca sia quella tra la sovranità nazionale come quadro delle decisioni politiche e l'internazionalizzazione della vita economica e sociale, tra la dimensione nazionale del potere politico e la dimensione internazionale dei principali problemi di fronte ai quali si trova l'umanità. È una contraddizione che illumina la crisi dello Stato sovrano, il carattere anacronistico delle sue frontiere e d e l l ' i d e ~ l o ~ nazionale ia che ne giustifica la sopravvivenza, la resistenza che esso oppone al progresso storico. COMUNI D'EUROPA La tendenza generale che ha accompagnato l'affermazione dello Stato moderno e la sua ricerca di sicurezza e di ricchezza è l'occupazione progressiva di tutti gli spazi disponibili sul pianeta e la loro attribuzione alla sovranità di uno Stato. I1 progresso tecnico e scientifico ha aperto all'utilizzazione e allo sfruttamento da parte dell'uomo - e quindi al controllo da parte degli Stati - spazi in precedenza inaccessibili come il fondo dei mari e lo spazio extraatmosferico. Malgrado questa tendenza, esistono tuttora spazi non ancora attribuiti a nessuno Stato, come il fondo del mare, l'alto mare, lo spazio extra-atmosferico e l'Antartide. Rispetto al regime di questi spazi si scontrano due tendenze contraddittorie: da una parte il nazionalismo, che aspira a estendere l'area sulla quale si esercitano le sovranità degli Stati in conflitto tra loro; dall'altra il federalismo, che afferma il principio, stabilito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, che questi spazi sono un «patrimonio'comune dell'umanità». La crescente interdipendenza tra gli Stati, determinata dalla tendenza all'unificazione del mondo, fa infatti emergere con forza l'esigenza di far prevalere l'interesse comune dell'umanità sugli egoismi nazionali e di cominciare a fondare questo interesse sull'attribuzione alle Nazioni Unite del potere di amministrare questi beni comuni e di utilizzarli a favore di tutto il genere umano. Federalismo e frontiere I1 federalismo può dare un contributo importante alla definizione di una teoria scientifica delle frontiere. Utilizzando la concezione materialistica della storia, che mette in luce la relazione che esiste tra ogni fase dell'evoluzione del modo di produrre e l'allargamento della base territoriale dello Stato, il federalismo interpreta le fasi dell'ampliamento delle dimensioni dello Stato come le tappe del processo di costruzione della pace. Innanzi tutto il materialismo storico mostra come l'evoluzione del modo di produrre determini, in ultima istanza, la forma delle relazioni che si stabiliscono tra gli uomini, il loro grado di dipendenza reciproca e i limiti entro i quali è possibile organizzare gruppi umani. Quanto alla dimensione dello Stato, si può affermare che l'evoluzione del modo di produrre tende a moltiplicare e intensificare costantemente le relazioni sociali e a unificarle in aree sempre più vaste, che a ogni stadio di tale evoluzione le dimensioni dello Stato si sono allargate dalla città, alla regione, alla nazione, al continente, e che si stanno formando le condizioni sociali per creare una comunità politica di dimensioni mondiali. Dal punto di vista sociale, questo processo non è il risultato di un'azione cosciente degli uomini, ma si realizza indipendentemente dalla loro volontà, ed è il risultato della trama complessiva delle azioni reciproche degli individui appartenenti a Stati differenti. Esso non si realizza senza contrasti. In effetti, il mutamento sociale e il movimento storico avvengono nel quadro di istituzioni, le COMUNI D'EUROPA quali sono sostenute dalle forze politiche e sociali dominanti. Quando, con lo sviluppo della società, tali istituzioni, invece di favorire lo sviluppo delle forze produttive, lo ostacolano, si apre la crisi rivoluzionaria. I1 mutamento delle strutture politiche è un momento di rottura rivoluzionaria, nel quale la coscienza si innesta sul corso della storia e lo orienta verso il superamento delle sue contraddizioni, realizza ci06 il riadattamento delle istituzioni politiche allo sviluppo della società e una diversa distribuzione del potere tra le forze politiche e sociali. La rivoluzione agraria ha creato le condizioni del superamento della comunità primitiva e della formazione della città-Stato. E quest'ultima ha fatto cessare la guerra tra tribù. Ma lo stesso fattore storico-sociale che ha rappresentato la base della costituzione della cittàStato (l'evoluzione del modo di produrre, che con la rivoluzione agraria ha creato le condizioni che hanno reso possibile la prima forma di Stato) ne ha determinato la decadenza. Infatti la rivoluzione industriale, estendendo l'integrazione sociale al di là delle frontiere tra città e tra regioni, ha distrutto le basi dell'indipendenza di queste formazioni politiche e ha creato le condizioni per la formazione dello Stato nazionale, che ha eliminato le guerre tra città e tra regioni tramite la loro unificazione nazionale. Così la rivoluzione scientifica ha creato le condizioni del superamento della divisione del mondo in Stati nazionali, della cessazione delle guerre tra nazioni e della formazione di federazioni di nazioni appartenenti allo stesso continente, intese come tappe sulla via della federazione mondiale. Queste fasi della storia dell'allargamento della dimensione dello Stato e della costruzione della pace coincidono con le fasi dell'ampliamento del governo democratico. E questa coincidenza, che è stata identificata da Kant e approfondita d a Lord Lothian, permette di qualificare la pace non come un ordine politico qualsiasi, ma come un ordine democratico. Gli strumenti istituzionali che hanno permesso di creare la pace con l'unione delle tribù nella città, con l'unione delle città nella nazione e con l'unione delle nazioni nella federazione sono rispettivamente la democrazia diretta, la democrazia rappresentativa e la democrazia federale. I1 principio federale permette infatti di concepire diversi livelli di governo che siano nello stesso tempo «coordinati e indipendenti» (Wheare) anche su scala mondiale. Se consideriamo la possibilità di unificare il mondo, le istituzioni federali si presentano come l'unica alternativa a un ordine internazionale fondato su un impero mondiale. I1 processo di integrazione sociale che va estendendo l'interdipendenza materiale degli uomini al di là delle frontiere che li dividono in gruppi antagonistici non crea spontaneamente le istituzioni che permettono di costruire la pace. Certo il progetto della costruzione della pace non avrebbe una base senza il processo di unificazione del genere umano. Tuttavia l'evoluzione storica si limita a porre dei problemi, che la. ragione deve risolvere attraverso la creazione di istituzioni adeguate. Le grandi tappe che segnano il progresso storico dell'umanità non corrispondono solo alle fasi dell'evoluzione del modo di produrre, ma anche all'evoluzione delle istituzioni, intese come strumenti per sottoporre la storia alla programmazione umana. I n un mondo che non vi è predestinato, le innovazioni istituzionali che sopra ho ricordato (democrazia diretta, democrazia rappresentativa, democrazia federale) segnano le tappe che hanno permesso agli uomini di intraprendere la lunga marcia d i avvicinamento verso il traguardo della pace. E nella concezione federalistica la realizzazione della pace coincide con una tappa fondamentale nel processo di emancipazione del genere umano: l'espulsione della violenza della storia e il controllo democratico e razionale della politica mondiale. I1 punto di arrivo di questo processo di pacificazione, la federazione mondiale, rappresenta una forma di organizzazione politica nella quale le frontiere perderanno il loro significato militare. Di conseguenza, il territorio, la popolazione, le risorse e tutto ciò che è incluso entro i confini di questo S ~ a t ocesseranno di essere strumenti attraverso i quali si esprimerà la potenza dello Stato, perché la federazione mondiale non avrà una politica estera. Nello stesso tempo, si esaurirà la spinta all'accentramento del potere, all'autoritarismo e alla militarizzazione della società, alimentata dall'antagonismo militare tra gli Stati. Grazie a questa organizzazione, che permette di creare un potere al di sopra degli Stati e di sostituire il diritto alla violenza nelle relazioni internazionali, le frontiere cesseranno di segnare i confini tra comunità esclusive, che sviluppano tra d i loro rapporti di forza e la cui coesione si fonda sulla necessità e sulla paura, per trasformarsi in zone di incontro e di scambio tra popolazioni contigue. Così le zone d i frontiera cesseranno di essere periferie con un ruolo marginale rispetto alla capitale e alle sedi decentrate dell'amministrazione statale per assumere il ruolo di cerniera tra territori contigui e popolazioni vicine. Nella prospettiva della costruzione della Federazione europea è pensabile che si possano formare delle regioni di frontiera, che comprendano territori appartenenti a due Stati, come la Regione basca e tirolese, o a tre Stati, come la cosiddetta Regio basiliensis. I n questa prospettiva è possibile la costituzione più a lungo termine di una regione tedesca comprendente territori appartenenti alla Federazione dell'Europa occidentale e a quella dell'Europa orientale. Ma fino a quando il mondo sarà diviso in una pluralità di Stati sovrani, l'antagonismo tra questi ultimi tenderà a spostare funzioni e risorse verso il centro e a impoverire le zone di frontiera. Ciò significa che solo nella Federazione mondiale (che avrà un governo senza la responsabilità della politica estera) verrà meno l'esigenza di un centro politico-ditare, pur restando l'esigenza di centro politicoamministrativo. E ciì, consentirà di raggiungere, grazie a una programmazione mondiale globale e articolata su una pluralità di livelli il migliore equilibrio nella distribuzione delle funzioni e delle risorse sul territorio del piaE neta. DICEMBRE 1988 il valore di infinite variazioni I1 linguaggio: prezioso patrimonio di cultura costruito dalle menti umane nella loro storia di Tullio De Mauro " I contrasti tra più lingue e l'idea di una universale. Il caso dell'Esperanto. Le previsioni del de Saussure e del Carnap. L'attuazione dell'articolo 6 della Costituzione ed il ruolo dellYEuropaplurilingue che sta nascendo «La lingua è il vessillo dei popoli soggetti»: così scriveva all'inizio del secolo scorso un poeta fiammingo. E guardando al mondo d'oggi occorre dire che queste parole non hanno ancora perduto attualità, e non soltanto fuori d'Europa. Ma, occorre anche aggiungere, qualche lingua è stata spesso anche vessillo di dominio e oppressione: e non solo quando essa è stata forzatamente imposta, con armi e leggi di snazionalizzazione, ma anche, più abilmente, quando è stata negata ai molti e concessa a pochi. (A questa forma più sottile di predominio ricorsero a tratti i romani nel mondo antico e, pih o meno consapevolmente, hanno fatto ricorso diversi gruppi dirigenti nell'Europa moderna). La stanchezza e l'avversione alle conseguenze perfino cruente, talvolta, di questi contrasti tra lingue e su lingue hanno dato alimento più volte, nei secoli, all'idea di una l i n g ~ auniversale, che sostituisse tutte le altre e fosse la lingua unica del genere umano. Tra le creazioni artificiali più recenti la più fortunata è quella anch'essa ormai centenaria, dovuta al medico oculista polacco Leizer Ludovik Zamenhof, che nel 1887 pubblicò i suoi primi saggi con lo pseudonimo d i «dott. Esperanto». Dall'inventore il nome passò alla lingua stessa. Oggi si contano a centinaia di migliaia nel mondo gli «esperantisti». I1 caso dell'esperanto è specialmente interessante. Nato come lingua ausiliaria, che servisse cioè a scopi tecnici limitati, I'esperanto, che utilizza e media strutture fonologiche e sintattiche e elementi lessicali delle maggiori lingue europee, è diventato qua e là lingua d'uso anche quotidiano, anche familiare. E come gli studiosi più attenti di esperanto hanno meritoriamente osservato e comunicato, in questo passaggio da un uso solo tecnico e formale all'uso corrente si sono cominciati a notare germi e indizi crescenti di differenziazione. All'inizio del nostro secolo fu proprio questa la previsione fatta, indipendentemente, da un grande linguista, Ferdinand d e Saussure, e da un grande logico e matematico, Rudolf Carnap, che affermarono: se mai l'esperanto dovesse diventare la lingua abituale di estesi gruppi etnici e sociali, anch'esso entrerà nella storia e conoscerà le dinamiche del cambiamento e della differenziazione. Del resto, su scale ben più estese, ciò è avvenuto nei diversi paesi al latino scritto in fase medievale e moderna (e al latino usato dalla Chiesa anche nel * Docente di filosofia del linguaggio all'Università "La Sapienza" di Roma DICEMBRE 1988 Coppia di ladini in costume in Va1 Badia parlato) ed è avvenuto e sta avvenendo sotto i nostri occhi a francese, arabo, inglese, spagnolo, portoghese, la cui iniziale tradizione relativamente unitaria (ma l'omogeneità assoluta d'uso non è mai stata di nessuna lingua ...) si frange e differenzia in varietà sempre più accentuatamente diverse. Insomma, il germe della differenziazione è insito nella natura stessa della parola umana, quando essa sia chiamata ad assolvere a tutti i compiti per i quali ne abbiamo avuto e abbiamo necessità: ritrovarci e amarci, azzuffarci e scherzare, concepire teoremi e dirci bagattelle, conversare oziosamente e pregare Domineddio, chiedere un favore e scrivere ponderosi trattati, azzecare uno slogan televisivo o elettorale e confidarsi tra amiche o amici. Eccetera. All'eccetera non c'è limite, come una volta ha dimostrato un grande filosofo, Ludwig Wittgenstein, e così non c'è limite alle potenzialità di variazione di una qualsiasi lingua degli esseri umani. Questa variabilità scandalizza i puristi e infastidisce i vagheggiatori di lingue universali. Ma è ben per essa che una lingua può aderire ai multiformi bisogni profondi degli esseri umani e farsi volta a volta una e diversa al loro mutare. E d è ben per questo che una lingua è non solo e tanto specchio, ma è l'organarsi stesso delle culture costruite dalle menti umane nella loro storia. Perciò una lingua, ogni lingua, con la sua tradizione e le sue varianti, è un prezioso patrimonio di cultura, indipendentemente dal nu- mero di persone che se ne sono servite e se ne servono: in tutte, nell'umile dialetto locale come nella lingua usata da decine e centinaia di milioni di persone nel pianeta, in tutte traluce la capacità di adattamento, di ordinamento, di invenzione che è scritta nel patrimonio genetico più profondo degli esseri umani. E perciò, quando a ciò non provvedano grandi e possenti collettività con la loro stessa consistenza, col prestigio delle loro opere e iniziative, perciò è interesse di ogni persona responsabile adoperarsi perché di tutte le lingue dell'uomo sia salvaguardata l'esistenza e, quando non siano più in attivo uso, la memoria e comprensione. Terre ricche di storia e cultura, come sono l'Europa e l'Italia, sono state e sono - per quel che s'è detto - ricche d i molteplici tradizioni linguistiche tra loro preziosamente intrecciate. Si può e si deve sperare che, sull'esempio dei paesi più attenti, dalla Svezia alla Spagna, dall'Irlanda alla Francia degli ultimi anni, si moltiplichino le politiche linguistiche scolastiche ed extrascolastiche le quali promuovano conservazione e sviluppo delle lingue, specie, ovviamente, delle meno diffuse. I n Italia, poi, sarebbe tempo che il bell'articolo 6 della costituzione sancito più di quarant'anni f a trovasse finalmente attuazione legislativa. Lo chiede la gente e c'è da sperare che, presto, con la forza di persuasione delle autorità sovranazionali, lo chieda la plurilingue Europa che viene nascendo. m COMUNI D'EUROPA superare il divario tra legislazioni nazionali e iniziative europee Minoranze linguistiche e diritti civili: «da lunga marcia» verso una legge di tutela di Piero Ardizzone"' Dalla Carta di Chivasso del marzo 1944 all'articolo 6 della Carta Costituzionale. Nei fatti, differente è stato il trattamento delle ((minoranzedi frontiera» rispetto alle altre. Prossimo il varo da parte della Camera della legge quadro, già approvata dalla Commissione Affari Costituzionali L'esaltazione nazionalistica propria del periodo fascista comportò come naturale conseguenza un'oppressione tanto feroce quanto ottusa delle comunità di lingua minoritaria, in particolare di quelle di frontiera e di recente annessione, come la comunità di lingua tedesca della provincia di Bolzano e la slovena della Venezia Giulia. Si può dire che ancora oggi, in molti casi, permangono tensioni e si paghi il prezzo di tale violenza, che non risparmiò neanche i defunti: si era difatti arrivati al punto di imporre la trasformazione in italiano dei nomi incisi sulle lapidi sepolcrali. Non mancò, per contro, nella Resistenza italiana la coscienza del buon diritto delle minoranze alla propria identità linguistica e culturale. Nel 1932 appariva difatti un opuscolo di «Giustizia e Libertà», intitolato «I1 martirio delle minoranze linguistiche», anonimo per ovvie ragioni di sicurezza, ma che sembra potersi attribuire a Silvio Trentin. L'opuscolo costituisce un documentato atto di accusa contro la violenza fascista e rappresenta al contempo un impegno per una futura Italia democratica, quando, scomparsa la dittatura, si sarebbe dovuto riservare un ben diverso trattamento ai cittadini di lingua non italiana. E d a testimonianza dell'attenzione dedicata dall'antifascismo al problema delle minoranze linguistiche può citarsi ancora la «carta di Chivasso», del marzo 1944, al culmine cioé della guerra partigiana, che costituisce un comune impegno dei combattenti antifascisti di Francia e d'Italia (per l'esattezza occitani del Piemonte, come Osvaldo Coisson e Gustavo Malan) a favore dei diritti delle minoranze linguistiche (con particolare riguardo agli occitani). Ovviamente, è ancora da ricordare il notevole contributo dei partigiani di lingua non italiana alla guerra antifascista, costituendo questa la naturale prosecuzione di un'opposizione politica mai venuta meno e l'occasione per ristabilire una comunità di ideali e di intenti con i partigiani di lingua italiana, uniti contro lo stesso avversario nazista e fascista. Deriva quindi da queste premesse (e non dalla umiliazione della sconfitta del vecchio stato fascista, che comportò anche mutilazioni territoriali e rettifiche di frontiera) l'attenzione dedicata dall'Assemblea Costituente ai problemi delle minoranze linguistiche. Anima* Presidente del Comitato nazionale federativo minoranze linguistiche d'Italia (CONFEMILII COMUNI D'EUROPA tore e protagonista del dibattito fu Tristano Codignola, che propose di assicurare con norma costituzionale il riconoscimento dei diritti delle minoranze etniche. Nel corso della discussione prevalse poi la dizione «minoranze linguistiche», che ha poi permesso di considerare come destinatarie dell'art. 6 della Costituzione anche quelle comunità di antico insediamento, come albanesi, catalani, croati, greci, che hanno i loro tratti caratteristici nella lingua piuttosto che nell'etnia. Purtroppo al dettato costituzionale non hanno poi fatto seguito provvedimenti legislativi di attuazione per tutte le comunità di lingua minoritaria. Le «minoranze di frontiera» sono state in varia misura riconosciute e tutelat e (francofoni della Valle d'Aosta, germanofoni e ladini della provincia di Bolzano, sloveni di Trieste e Gorizia), ma per gli altri nulla è stato fatto, creando a volte clamorose disparità di trattamento all'interno della stessa comunità, come avviene per i ladini di Belluno, le isole germanofone disseminate lungo l'arco alpino, i franconfoni della Puglia, gli sloveni dell'udinese, tutti totalmente ignorati di fronte al ben diverso trattamento riservato alle comunità prima ricordate e che già fruiscono di un riconoscimento legislativo. A cosa imputare tali ritardi ed omissioni nell'adempiere il dettato costituzionale? Permanenza di un nazionalismo di marca fascista, xenofobia? Forse la spiegazione è più semplice ed al tempo stesso più desolante: indifferenza. In effetti, l'unica minoranza nota al gran pubbiico (forse anche per il fragore delle bombe) è quella germanofona di Bolzano. Per il resto, le altre comunità sono considerate semplice oggetto di curiosità folkloristica. È sintomatico al riguardo il fatto che nello schieramento politico non esista una precisa linea di demarcazione tra fautori ed oppositori della causa delle minoianze. Fatta eccezione per i missini, sostenitori dell'orgoglio italico basato anche sulla discriminazione linguistica, si può dire che lo schieramento favorevole e quello contrario alle minoranze corrano trasversalmente all'interno delle varie forze politiche. Ed anche per questo le numerose proposte di legge succedutesi nel corso delle varie legislature sono a lungo rimaste insabbiate, senza arrivare neanche alla discussione in commissione, fino a quando nella scorsa legislatura Loris Fortuna ha formulato un testo unificato di proposta di legge-quadro, approvato dalla Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati e pervenuto in aula nel marzo '87. Lo scioglimento anticipato delle Camere ha impedito che si arrivasse all'approvaziòne che sembrava ormai assicurata dal vasto consenso realizzatosi intorno a tale testo. Per non disperdere appunto tale consenso la Commissione Affari Costituzionali della Camera ha approvato nuovamente senza modifiche i1 testo Fortuna (cui è succeduto come relatore l'on. Silvano Labriola, Presidente della Commissione Affari Costituzionali) il 18 dicembre 1987, con l'intesa che nel corso del dibattito in aula si sarebbero discussi gli eventuali emendamenti. I1 9 giugno 1988 si è iniziata la discussione in aula, con la bocciatura a grande maggioranza delle eccezioni di costituzionalità avanzate dal M.S.I. A tale promettente inizio ha poi fatto seguito un lungo periodo di stasi, dovuto anche alle pressanti scadenze politiche cui la Camera è stata chiamata (riforma del regolamento, approvazione della legge finanziaria). La ripresa della discussione è stata inclusa nel programma del trimestre ottobre-dicembre '88: però, al momento di affidare il presente scritto alla tipografia, non è stata ancora fissata una data certa per il dibattito in aula. Ben felici se incorreremo nell'infortunio giornalistico di essere smentiti dai fatti (nel caso che la discussione avvenga nel corso dei tempi tipografici propri di un mensile), oggi si deve costatare una volta di più il ritardo nell'affrontare un problema che sta da tempo in lista di attesa. I1 Confemili ha compiuto numerosi passi sia presso la Presidenza della Camera che presso i singoli gruppi parlamentari, ottenendo la cortese attenzione della Presidente Jotti e ripetute assicurazioni che il problema non sarebbe stato oggetto di ulteriori e prolungati rinvii. Occorre ancora sottolineare come l'esigenza di dare attuazione alle norme costituzionali si sia fatta più urgente di fronte alle ripetute e significative prese di posizione da parte degli organismi europei: ultima in ordine di tempo la carta dei diritti delle minoranze approvata il 4 ottobre '88 dallJAssemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa, che viene riportata in questo stesso numero. I1 gap fra legislazione nazionale ed iniziative europee dovrebbe essere colmato quanto prima. Anche questo è un modo per prepararsi a divenire veramente europei, al di là di ogni retorica esaltazione o generica professione di W fede europeista. DICEMBRE 1988 la situazione nella Comunità europea Per quaranta d o n i di cittadini la lingua madre è diversa da quella del loro paese di appartenenza Lo sviluppo del regionalismo potrebbe fare molto per questo problema. La storia e l'azione dell'European Bureau for Lesser Used Languages. Il rapporto Arfé del 1981 e iprimi stanziamenti della Commissione CE. L'arduo compito di far comprendere alle minoranze 'l'importanza di una vicendevole collaborazione James Connolly, uno dei più grandi patrioti e rappresentanti del pensiero socialista in Irlanda, scrisse una volta che l'Irlanda senza la sua gente non aveva per lui alcun significato. Io posso dire, e mi si perdonerà la parafrasi, che una regione senza la sua gente non ha per me alcun significato. I1 regionalismo è per se stesso una filosofia socio-politica che pone la collettività dei cittadini al centro dell'attenzione. A favore di una struttura regionalista di governo possono essere addotti validissimi argomenti quali la ripartizione geografica, un miglioramento nell'informazione, una maggiore efficienza, una gestione più efficace della struttura amministrativa e via di seguito. Ma ciò che in ultima analisi la maggior parte dei regionalisti addurebbe a sostegno della propria causa è il fatto che il regionalismo riduce l'eccessiva concentrazione di potere in determinanti centri per restituirlo invece a chi spetta - cioè ai cittadini. Ogni regione ha la propria storia e i suoi particolari problemi da affrontare. Chi condivide queste esperienze comuni, sa trovarvi risposta meglio di ogni altro. Inoltre, troviamo che popolazioni di molte regioni hanno lingue e cultute a loro proprie, ben distinte da quelle predominanti. Molto spesso queste lingue e culture sono state disprezzate e oppresse dalle autorità accentratrici che, nella conformità, ricercavano un'unità ingannevole, in quanto imposta. La storia ci insegna che tale tipo di approccio in più occasioni ha provocato risentimenti, ha spinto taluni a credere nella superiorità della propria razza, ha portato alla violenza - ma non all'unità. I1 regionalismo si propone invece delle strutture che offrono alla pluralità dei cittadini l'opportunità di determinare il proprio destino e di salvaguardare la propria identità. L'oppressione è una cosa orribile e assume diverse forme. Ad un popolo può essere negato il diritto all'autogoverno, la sua terra può venir confiscata e sfruttata, il suo credo religioso e le sue usanze possono essere osteggiati, ma di certo una delle forme più vili di aggressione deve essere l'imposizione di una lingua e una cultura estranee. Ciò priva un popolo della propria dignità, del rispetto di sé, e lo fa vergognare della propria identità. Nel , delibro di George Orwell ~ 1 9 8 4 0l'ultima gradazione d i Winston Smith prima del suo annientamento è proprio questo tipo di condizionamento che gli fa credere di essere stato lui a sbagliare, mentre il grande Fratello e * Segretario dcll'European Bureau for Lesser Languages DICEMBRE 1988 il sistema avevano ragione in tutto. I difensori dei diritti umani, i regionalisti e i sostenitori di minoranze linguistiche e lingue regionali (o lingue di minor uso, come alcuni di noi preferiscono definirle) possono far causa comune nel riaffermare per ciascun popolo il diritto di conservare e sviluppare la propria lingua, contribuendo in tal modo a salvaguardare quel meraviglioso mosaico linguisticoculturale che noi chiamiamo E u ~ o p a . Che cos'è 1'European Bureau for Lesser Used Languages? Qual è la sua origine? Quali sono i suoi obiettivi? I1 Bureau, in un certo qual modo, è un prodotto del «foots phenomenon» - questo movimento indefinito di popoli che rivendicano la propria identità e i diritti umani derivanti dalla loro etnicità. La creazione del Bureau si deve agli esiti di una conferenza tenuta a Bruxelles nel maggio 1982 e indetta allo scopo di esaminare le implicazioni del Rapporto Arfé, le cui risoluzioni erano state adottate dal Parlamento Europeo nell'ottobre dell'anno precedente. I rappresentanti d i diversi «small people», presenti alla conferenza, si espressero a favore della creazione di un organo che si facesse loro portavoce a livello comunitario, presso il Consiglio d'Europa e le varie istituzioni CEE. L'obiettivo generale del Bureau è così definito: «conservare e promuovere le lingue autoctone di minor uso dei paesi menibri della Comunità Europea, insieme alle culture a loro connesse». Nella Comunità Europea vi sono circa 40 milioni di cittadini la cui lingua madre è di- versa dalle lingue ufficiali dello stato-membro in cui vivono. In concreto ciò significa che una parte consistente dell'intera popolazione all'interno della Comunità non gode dello stesso status linguistico dei cittadini che parlano la lingua di maggioranza nei loro rispettivi paesi di appartenenza. Le comunità che usano queste lingue meno diffuse possono essere suddivise nelle seguenti categorie: 1. Piccoli stati-nazione indipendenti le cui lingue non sono ampiamente diffuse a livello europeo, né sono lingue di lavoro ufficiali della Comunità Europea, come ad esempio I'irlandese e il l u ~ s e m b u r ~ h e s e . 2. Piccole nazioni senza un proprio stato (ad esempio, le comunità dei gallesi, dei bretoni, dei frisoni occidentali) che risiedono in uno degli stati-membri. 3. Popolazioni come quelle indicate al punto (2) ma che risiedono in più di uno stato membro (come, ad esempio, i catalani, gli occitani, che vivono in Francia, Spagna e Italia). 4. Minoranze trans-frontiera, owero comunità che vivono in un paese in cui si parla la lingua di maggioranza di un altro paese, sia che si tratti o meno di uno stato-membro della CEE ad esempio, la minoranza di lingua danese dello Schleswig meridionale, gli sloveni di Trieste, i francofoni della Valle d'Aosta. Si può facilmente comprendere come queste comunità appartenti a minoranze linguistiche non siano prive di problemi ed effettivamente viene da chiedersi se sia concretamente possibile per loro un futuro nel mondo mo- - (segue a pag. 64) Ragazzi con costume tradizionale bretone COMUNI D'EUROPA iniziato un cammino difficile La Carta. delle lingue minoritarie o regionali per una concezione plumlistica dell'Europa di Moreno Bucci* La formula magica dell'unità europea (l'unità nella diversità) è specialmente adatta a spiegare la situazione delle lingue regionali e minoritarie. Anzi, proprio in questo campo si vede come sia necessario impiegare tutte le doti di comprensione e di buona volontà per superare i retaggi del passato. La storia degli ultimi 1500 anni (ma anche di prima delle invasioni barbariche dell'impero romano) ha sedimentato sul suolo europeo una situazione molto complessa dal punto di vista linguistico. Se si trattasse soltanto delle lingue ufficiali parlate nei 12 stati aderenti alla Comunità la questione, di per sé già complessa, sarebbe relativamente facile. Se si onsiderano invece anche le lingue regionali e minoritarie (e non i semplici dialetti, sia ben chiaro), e se si allarga il quadro dalla Comunità europea a quello ben più ampio del Consiglio d'Europa ci si accorge perché una questione di questo tipo ha preso quattro anni di lavori preparatori e 2 anni di discussioni in sede di assemblea plenaria della Conferenza dei poteri locali e regionali d'Europa per sfornare un primo testo di «carta delle lingue regionali o minoritarie». Vi sono stati plurilinguisti (la Svizzera ne è l'esempio più brillante con le sue quattro lingue ufficiali; il Belgio, la Spagna, l'Italia) ma vi sono anche stati molto centralizzati ove parlare di lingue regionali e minoritarie sembra far paventare pericoli di disgregazione dello stato unitario (e in testa a tutti vi è ancora la giacobinissima - ma forse solo per la lingua - Francia, ma in ottima compagnia). Del problema delle lingue minoritarie si sono occupate le due maggiori istituzioni europee: il Parlamento Europeo e il Consiglio d'Europa. I1 P.E. ha approvato nell'ottobre '87 una risoluzione del parlamentare Kuijpers, mentre il Consiglio d'Europa sin dal 1981 interviene con la Raccomandazione n. 928 dell'Assemblea parlamentare che, tra l'altro, indica la necessità di elaborare una carta europea delle lingue regionali o minoritarie. Sulla scorta d i questa raccomandazione la Commissione Affari culturali e sociali della CPLRE, tenendo conto della Dichiarazione di Galway del '75 e della dichiarazione di Bordeaux del '78, inizia nel 1983 l'elaborazione di questo importante documento. Si è partiti dalla preparazione di un inventario ragionato delle lingue regionali e minoritarie e nel 1984 con un'audizione pubblica che riunì i rappresentanti di 40 lingue minoritarie. Fu possibile così considerare le diverse situazioni presenti in Europa dal punto di vista linguistico. È stato anche possibile dimostrare tutta la ricchezza di un'eredità storica * Consigliere comunale di Viareggio COMUNI D'EUROPA come quella costituita dalle lingue minoritarie ed è anche emersa la necessità di una difesa accurata e convinta di quel patrimonio. La CPLRE ha in seguito costituito un gruppo di esperti che ha lavorato, insieme alla Commissione Affari culturali e sociali, alla preparazione del testo della Carta. Le lingue minoritarie sono considerate principalmente come un elemento culturale e sociale. Ogni stato deve farsi carico deIIa realtà esistente nel proprio territorio e, tenendo conto della realtà statuale e territoriale, impegnarsi a prendere misure di promozione delle lingue regionali o minoritarie. Queste ultime non vengono considerate in contrapposizione alle lingue nazionali, anzi la conoscenza della lingua nazionale (e di più lingue cazionali, meglio ancora) va considerata come un fatto naturale. Si tende piuttosto alla contemporanea conoscenza sia della lingua nazionale, sia della lingua minoritaria. La carta non definisce quali siano le lingue minoritarie; il concetto di lingua che sta alla base della carta è fondato essenzialmente sulla funzione culturale della lingua minoritaria. Si evita così il dover far riferimento al cone si insiste sulcetto di min~ranzelin~uistiche, la necessità dj proteggere e di promuovere le lingue minoritarie in quanto tali. È chiaro tuttavia che la difesa della lingua non può essere separata nettamente da chi quella lingua parla: ma così facendo si evita di contribuire ad incrementare tutti quei conflitti che fanno della differenza linguistica un pretesto per coprire divisioni di altro tipo e conflitti aperti per altre ragioni. Certo è che questo problema non è di quelli asettici, che si prestano ad una trattazione di carattere esclusivamente accademico. Lo dimostra la vivacità della discussione in seno alla CPLRE, svi!uppatasi in occasione di ben due sessioni plenarie, nel 1987 e nel 1988. Dopo i lavori preparatori del gruppo di studio ed il lavoro della Commissione Affari culturali e sociali 1'11/9/87 venne licenziato il testo della «Carta» ed inviato in seduta plenaria del successivo ottobre. Nella discussione si poté constatare quanto fosse delicata la questione all'ordine del giorno. Vi furono 22 interventi nella discussione: effettivamente un record se teniamo conto dell'andamento normale dei lavori nella CPLRE. Per l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa intervenne d e Puig chiedendo che la carta fosse votata, ma da molte parti si levarono voci contrarie: i paesi scandinavi, i greci, alcuni francesi ed inglesi avanzarono riserve e chiesero il rinvio della carta in commissione. Non bastarono gli interventi a favore degli italiani, spagnoli, svizzeri, inglesi e francesi (questi ultimi molto divisi entro le rispettive delegazioni e l'appello del relatore, il tedesco Kohn, e del presidente della Commissione. Venne chiesto formalmente il rinvio in commissione ed il voto vide prevalere per pochissimi suffragi il rinvio. Fu una delle più contrastate sedute della CPLRE ed anche quella ove prevalse l'elemento politico rispetto alla composizione nazionale. Sinceramente mi pare d i potere dire che vi fu una divisione tra conservatori e progressisti, anche se n o i sempre è facile nella CPLRE effettuare divisioni così nette. Insomma, chi sapeva quanto era importante questa «carta» si rendeva conto della necessità di dare un segnale importante (il Parlamento Europeo stava discutendo in quel periodo gli stessi temi); chi temeva per la propria concezione accentrata e nazionalista era pronto a fronteggiare qualsiasi iniziativa per potersi garantire significativi ritocchi alla Carta. E così fu. La Carta tornò in commissione ed ebbe gli emendamenti che potevano permetterle di superare lo scoglio del voto qualificato (sono necessari i 213 per adottare una risoluzione nella CPLRE). La Commissione lavorò a fondo: dedicò un'intera seduta agli emendamenti (anche questo fu un fatto eccezionale: vennero rinviati tutti gli altri punti all'ordine del giorno). Quando nel marzo 1988 la carta, revisionata ampiamente per poter permetterne l'approvazione, giunse in discussione non erano del tutto sopite le velleità di ridurne ancora il significato politico e sociale. L'elemento politico però venne in suo aiuto. Così come la qualificazione più schiettamente «politica» l'aveva fatta rimandare in commissione un evento politico ne facilitò l'approvazione. Nella discussione precedente l'assemblea della CPLRE aveva affrontato il problema del Mediterrano ed era stato proposto un emendamento che raccomandava la sistemazione dei problemi del Medio Oriente. Anche qui prevalse l'elemento moderato e nella votazione vi fu ancora una volta il rinvio in commissione di quella risoluzione. Non potevano, subito dopo questo atto, reiterare il rinvio in commissione della «carta». Ecco allora che alla discussione, numerosa per interventi ma meno animata sia per il precedente episodio sia per gli emendamenti già apportati al progetto di carta, fece seguito un voto non unanime ma sufficiente per poter adottare la risoluzione che lanciava la Carta nel tragitto che la porterà ad essere una delle più avanzate convenzioni del Consiglio d'Europa. I1 suo cammino non è che all'inizio: è importante però che essa sia stata impostata perché costituisce una buona base per il lavoro successivo ed una speranza per tutti coloro che attendono il riconoscimento della loro lingua «madre». m DICEMBRE 1988 il ruolo degli Enti locali È tempo per le minoranze di far riferimento a livelli democratici più vicini al cittadino di Pierino Donada* Il richiamo alla Carta costituzionale come fondamento giuridico della propria tutela. L'azione che Regioni, Province e Comuni possono concretare nei confronti delle minoranze. L 'efficacia del lavoro culturale da promuovere, con legislazione regionale. Il caso del Friuli Venezia Giulia Elemento essenziale per un'adepata valorizzazione del ruolo delle minoranze nell'ambito del territorio della Repubblica è innanzitutto la consapevolezza, da parte dei cittadini appartenenti a gruppi minoritari ed a maggior ragione dei loro amministratori, di avere nella Carta costituzionale il fondamento giuridico della propria tutela. Oltre alla convinzione, direi meglio alla certezza, culturale di essere portatori di valori inalienabili e di costituire con la propria «diversità» un arricchimento del tessuto socioculturale del Paese, i cittadini appartenenti alle minoranze di qualsiasi natura, ma in particolare a quelle linguistiche devono anche sapere che solamente, o meglio principalmente, in loro stsssi è celata la forza che li garantirà dall'om~~eneizzazione e che l'uso degli strumenti legislativi e dei mezzi di comunicazione di massa ai fini della tutela e valorizzazione del patrimonio d i cui sono depositari sarà direttamente proporzionale alla «coscienza di popolo» che collettivamente riusciranno ad esprimere. Non è la prima volta infatti, in questo Paese, che forti movimenti di opinione pubblica o agguerriti gruppi di pensiero riescono a condizionare lo «jus conditum et condendum~influenzando viepiù sia i pronunciamenti della magistratura ordinaria e della Corte Costituzionale, sia il Parlamento nella emanazione di provvedimenti legislativi che hanno raccolto, di fatto, orientamenti culturali divenuti prevalenti nell'opinione pubblica. Alla distanza, anche fisica, dai centri maggiori del potere politico, aditi per ottenere la parità costituzionalmente garantita, fa riscontro, nei risultati ottenuti finora, un'efficacia inversamente proporzionale agli sforzi di coloro che si sono battuti per il cambiamento di norme ritenute inconciliabili con la Costituzione e con la stessa proclamazione dei Diritti dell'uomo. È forse tempo per le minoranze di porre rinnovato interesse, nelle more della definizione di una legge-quadro e nella latitanza del Parlamento, ai livelli di democrazia più vicini al cittadino, agli Enti Locali che ne sono l'espressione di governo territoriale più immediata, per riscoprire una potenzialità che dal basso, dal «costume politico di base» oserei dire, dia la sensazione del radicarsi di un'esigenza del popolo minoritario e dell'urgenza, comunque, d i una risposta delle istitiizioni alla doinunda Sindaco di Codroipo (Udine) e Presidente dclla Federazione AICCRE del Friiili Venczia Giulia % DICEMBRE 1988 di tutela culturale globale che si configura tra i bisogni primari del cittadino in quanto gli garantisce una identità specifica pur nella riconosciuta ed indiscussa appartenenza ad una comunità nazionale più ampia, nell'ambito dello stato unitario. In questo quadro si colloca l'azione che Regioni, Province e Comuni possono concretare nei confronti delle minoranze. Esistono comunque di fatto due tipi profondamente diversi di tutela delle minoranze iinguistiche nel nostro Paese. La prima è quella riconosciuta a minoranze solitamente collocate lungo le fasce di confine e tutelate in base a trattati internazionali in cui l'Italia si è obbligata a garantire un minimo di diritti a minoranze che, di regola, trovano nel vicino stat o confinante, dove risiede il gruppo etnico maggioritario di cui sono considerate espressione, legittimazione culturale e politica oltre che strumenti di comunicazione (TV, radio, giornali) e didattici (libri, sussidi, ecc.) che ne garantiscono di fatto la sopravvivenza. Diverso è invece il caso delle minoranze interne alla penisola italica non collegate a culture di stati contigui, ma autoctone o derivanti da migrazioni storicamente definite, o in continua migrazione, come la cultura del popolo zingaro. In questo caso soltanto l'elaborazione autonoma e la capacità di coesione culturale, nonostante l'invadenza della cultura dominante, possono offrire qualche garanzia di sopravvivenza alla cultura più marginale. I1 ruolo degli Enti locali viene valorizzato al massimo in queste specifiche situazioni. Se gli Statuti regionali non consentono praticamente nulla dal punto di vista degli ordinamenti possono però offrire spazi ad una legislazione regionale complementare di notevole efficacia sul piano dei risultati culturali. In attesa delle norme della legge quadro che daranno la possibilità di esprimersi nella lingua minoritaria all'interno dei consessi elettivi, potranno essere favorite, come attività culturali, la stampa e la diffusione di atti legislativi e deliberativi nella lingua delle minoranze e nulla vieta che nei programmi dei corsi di formazione promossi con fondi regionali possa essere inserito anche lo studio e l'uso della lingua delie minoranze, anzi, proprio in questo tipo di corsi l'azione sarebbe particolarmente efficace per la concretezza dei contenuti culturali e pratici che offrirebbe un magnifico terreno di lavoro agli insegnanti tecnici. Le Regioni ed i Comuni possono deliberare, come diversi hanno già fatto, di affiancare alla toponomastica ufficiale anche i toponimi locali adottando criteri unificati per una adeguata segnaletica. Lo stesso dicasi per i Comuni che hanno la possibilità di affiggere avvisi e manifesti in lingua italiana, quale lingua ufficiale, affiancati dalla traduzione nella lingua della minoranza presente sul territorio. Si noti però che queste iniziative possono soltanto «affiancarsi» all'uso della lingua italiana e mai essere sostitutive, pena la invalidità, se trattasi di atti ufficiali. Si consiglia per- Festa campestre in Sud-Tirolo COMUNI D'EUROPA ciò di considerarle sempre come attività culturali dell'ente locale. Le scuole gestite direttamente dai Comuni o con programmi di estensione deii'orario a cura delle Amministrazioni locali hanno la possibilità di ricorrere ad esperti, reclutati sovente tra gli stessi insegnanti, per l'inserimento tra le attività complementari della lingua minoritaria. Ciò beninteso non costituisce che un palliativo in attesa dell'ingresso ufficiale delle lingue e delle culture locali nell'insegnamento «curricolare» di tutte le scuole. Diverse amministrazioni infine hanno già assunto iniziative nella formazione di «esperti» e nella organizzazione di corsi dz e in lingua minoritaria per studenti ed adulti. I n particolare è fortemente sentita l'esigenza di predisporre sin d'ora una serie di strumenti didattici (in previsione della nuova legge di tutela) per gli insegnanti e per gli alunni delle scuole in cui sarà introdotto lo studio della lingua delle minoranze (libri di testo, di ricerca, quaderni di lavoro, vocabolari, atlanti, carte geografiche, audiovisivi, ecc.). La creazione di centri di documentazione, di biblioteche specializzate, l'edizione di opere originali, l'apporto alle trasmittenti radiotelevisive locali, sono alcuni dei settori in cui può esprimersi l'attività culturale di amministrazioni provinciali e comunali. I1 sostegno alla pubblicistica locale, a gruppi di ricerca folclorica e ad associazioni che si prefiggono come obiettivo la diffusione del patrimonio artistico, musicale, linguistico delle minoranze, è un'altra delle strade quasi obbligate per gli Enti locali che ospitano nel proprio territorio comunità alloglotte. Sono da ricordare infine i premi letterari, banditi da Comuni e Province, per la valorizzazione di opere e di autori in lingua minoritaria, specialmente se accompagnati dalla pubblicazione a stampa dei testi vincitori. Nel Friuli-Venezia Giulia è da segnalare la recente legge regionale sul «decentramento» di funzioni alle Province ed ai Comuni, nella quale una norma specifica attribuisce alle tre Province del Friuli storico (Udine, Gorizia e Pordenone), in qualche modo collegate attraverso una consulta, potere di indirizzo e di spesa in materia di valorizzazione delia lingua e deiia cultura friulana. Va a questo proposito ricordata anche l'iniziativa assunta autonomamente dalla Provincia di Udine tendente alla normalizzazione della grafia della lingua friulana, attraverso una commissione di esperti che ha presentato nel corrente anno una sua proposta definitiva che viene suggerita, non senza le inevitabili polemiche, agli operatori culturali friulani. Come si vede, spazi operativi si creano e sono praticabili anche in assenza di una legislazione di tutela, se c'è la volontà politica di superare gli ostacoli burocratico-normativi, ma soprattutto se esiste la coscienza, da parte deiie minoranze, che la prima tutela è nella propria orgogliosa appartenenza ad una cultura e ad una lingua che possiedono il diritto di essere salvate come patrimonio di tutta l'umanità, ma anche nella capacità di far emergere questo diritto tra le ragioni stesse della democrazia e degli obblighi morali di qualsivoglia maggio¤ ranza. COMUNI D'EUROPA I La situazione nella Comunità europea derno. Chiare indicazioni fanno ritenere che questa possibilità esista; che esista un futuro capace di sviluppi, una volta riconosciute determinate realtà e diritti fondamentali. Nel 1983 la C E E , per la prima volta, includeva nel suo budget uno stanziamento di 100.000 ECU per la promozione di lingue e culture delle minoranze. La Commissione stabiliva che una parte di tali fondi venisse spesa per progetti approvati e quindi affidati al Bureau. Nel 1984 il governo irlandese assegnava al Bureau una piccola sovvenzione che doveva contribuire parzialmente al finanziamento di un suo ufficio. A metà del 1984 il Bureau apriva la sua sede, un monolocale, a Dublino. La struttura del Bureau si articola in comitati nazionali con un Consiglio a livello comunitario, composto dai rappresentanti di tali comitati. Di norma le riunioni del Consiglio vengono indette tre volte l'anno in tre diverse località. Va detto che sono in corso degli sviluppi molto interessanti anche nell'ambito delle attività della Commissione O N U per i Diritti Umani. Qui i lavori sono incentrati sui diritti degli appartenenti a minoranze nazionali, etniche, religiose e linguistiche. I lavori della Commissione O N U procedono notoriamente con lentezza, tuttavia i risultati dei suoi sforzi in quest'area potrebbero essere di enorme e decisiva importanza per le minoranze di tutto il mondo. Sin dall'inizio, lJEuropean Bureau for Lesser Used Languages è stato dell'avviso che gli organismi internazionali e le stesse comunità appartenenti a minoranze linguistiche non avrebbero preso in seria considerazione il Bureau se non avessero visto concretizzarsi il suo impegno in programmi di lavoro miranti a riscontri d'immediata utilità pratica, in quanto un organo che possa vantare risultati concreti, con grande probabilità verrà ascoltato con maggiore attenzione rispetto ad un altro organo che sostanzialmente si limiti a fare dell'accademia. I! Bureau, in collaborazione con la Commissione della Comunità Europea, ha organizzato, a partire dal 1984, programmi di visitestudio per chi si occupa attivamente del problema delle minoranze linguistiche. Tale iniziativa è volta a promuovere uno scambio di idee ed esperienze tra i rappresentanti dei settori scuola, mass media e amministrazione pubblica, interessati alle minoranze linguistiche. Solo quest'anno sono state assegnate oltre 60 borse di studio che hanno portato i borsisti, suddivisi in 7 gruppi, in Catalogna, Galizia, Alto Adige, Valle d'Aosta, Irlanda del Nord, Provenza e nella Repubblica d'Irlanda. Le relazioni che i borsisti presenteranno al termine delle loro visite costituiranno per il Bureau una preziosa fonte d'informazione. Arfé, nel suo rapporto presentato al Parlamento Europeo, identificava specificamente tre aree in cui alle lingue meno usate dovrebbe essere concesso un particolare riconoscimento, ovvero la scuola, l'amministrazione pubblica e i mass media. Forse il compito più arduo che il Bureau ab- bia di fronte a sé è quello di far comprendere alle minoranze l'importanza d i una collaborazione fra loro. Secoli di oppressione e discriminazione hanno lasciato segni profondi e troppe volte i sostenitori di minoranze linguistiche danno sfogo alla loro rabbia e frustrazione indirizzandosi non contro i loro reali oppositori, ma contro coloro che dovrebbero essere i loro alleati - ad esempio, membri di altre associazioni che lavorano per la stessa minoranza o anche membri di un altro gruppo di minoranza che sembra godere di un trattamento di preferenza da parte del governo dello stato-membro cui appartengono oppure da Bruxelles. I1 Bureau non pretende di avere una panacea a questi mali, ma sostiene e pratica instancabilmente uiia politica di cooperazione e di unità. La cooperazione, tuttavia, non può essere realizzata con un semplice desiderio: è una capacità che va acquisita con molta pazienza ed essendo molto ben disposti alla comprensione. Le somme stanziate dalla Comunità Europea per le lingue regionali e delle minoranze, seppure modeste - all'inizio, nel 1983, soltanto 100.000 ECU - sono tuttavia aumentate nel corso degli anni. Nel 1986 il budget per questa voce ammontava a 680.000 ECU e nel 1987 a 714.000 ECU. Naturalmente, solo una parte di questi fondi viene spesa dalla Commissione attraverso il Bureau. La Commissione C E E sovvenziona soltanto progetti specifici e i fondi devono essere spesi direttamente per i programmi stessi, mentre non possono essere considerati come reddito disponibile. La fonte principale di finanziamento per coprire i costi delle strutture proviene da sovvenzioni statali elargite dai governi del Lussemburgo e dell'Irlanda. Per assolvere tutti i suoi compiti il Bureau deve far fronte ad un notevolissimo carico di lavoro. I membri del Consiglio e dei comitati negli stati-membri partecipano ai lavori intrapresi dal Bureau impegnandosi su base volontaria e con orario di lavoro a tempo parziale, in quanto molti di loro hanno anche notevoli impegni organizzativi all'interno delle comunità linguistiche di appartenenza. Ciò significa che, in pratica, tutto il lavoro quotidiano ricade sullo staff del Bureau, composto da tre impiegati. La mancanza di fondi impedisce l'assunzione di altro personale. Secondo le stime circa 40 milioni di cittadini deiia Comunità Europea parlano una deile lingue di minoranza. L'idea di una conformità linguistica e culturale è stata decisamente respinta dalla Comunità Europea, mentre la visione dell'Europa che si cercherà di realizzare è quella di un'unità nella diversità. Lo sviluppo del regionalismo potrebbe dare un grosso contributo per la realizzazione di questo sogno. Le minoranze potrebbero fare molto per questo tipo di Europa e lo scopo dell'European Bureau for Lesser Used Languages è proprio quello di garantire a queste minoranze la possibilità di dare il loro prezioso apporto. L'impresa è ardua, ma siamo certi che ne valga la pena. DICEMBRE 1988 il testo della risoluzione del Consiglio d'Europa Il diritto alla tutela della propria lingua La Conferenza permanente, l. Ricordando i lavori già svolti dall'Assemblea parlamentare e in particolar modo le relazioni presentate dal Sig. Cirici Pellicer sui problemi educativi e culturali posti dalle lingue minoritarie e dai dialetti europei; 2. Ricordando inoltre i lavori del Parlamento europeo: elaborazione da parte dell'onorevole Arfé di una relazione in previsione di una Carta comunitaria delle lingue e delle culture regionali nonché di una Carta sui diritti delle minoranze etniche e preparazione delle relazioni Kuijpers e von Staufinberg sul Diritto europeo dei gruppi etnici; 3. Considerando che lo scopo del Consiglio d'Europa consiste nel realizzare un'unione pi2 stretta fra i suoi membri, segnatamente allo scopo di tutelare e di promuovere gli ideali ed i principi che costituiscono il loro patrimonio comune; 4. Considerando che il diritto delle popolazioni ad esprimersi nelle loro lingue regionali o minorìtarie nella loro vita privata e sociale rappresenta un diritto imprescrittibile conforme ai principi contenuti nel Patto internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite, nella Convenzione di Salvaguardia dei Diritti dell'liomo e delle Libertà fondamentali del Consiglio d'Europa e nellJAttofinale della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa; 5. Consapevole che la tutela, lo sviluppo e la promozione delle lingue e delk culture regionali non devono pregiudicare né il processo di integrazione dellJEuropa, né la facilità di contatti tra i suoi popoli; CARTA EUROPEA DELLE LINGUE REGIONALI O MINORITARIE PREAMBOLO Gli Stati firmatari della presente Carta, Considerando che lo scopo del Consiglio d'Europa è realizzare una più stretta unione tra i suoi membri, in particolare al fine di tutelare e di promuovere gli ideali ed i principi che costituiscono il loro patrimon~o comune; Considerando che certe lingue regionali o minoritarie rischiano di sparire e che questa sparizione indebolirebbe la tradizione e la ricchezza culturale dell'Europa, e considerando perciò legittimo e necessario di prendere delle misure speciali per salvarle e svilupparle; Considerando che il diritto delle popolazioni ad esprimersi nelle loro lingue regionali o minoritarie nell'ambito della loro vita privata e sociale costituisce un diritto imprescrittibile conforme ai principi contenuti nel Patto Internazionale relativo ai diritti civili e politici delle Nazioni Unite, nella Convenzione di Salvaguardia dei Diritti dell'uomo e delle Libertà fondamentali del Consiglio d'Europa nonché all'atto finale della Conferenza sulla sicurezza e la Cooperazione in Europa; Consapevoli del fatto che la difesa e il rafforzamento delle lingue regionali o minoritarie nei vari paesi e nelle varie regioni di Europa. lungi dal costituire un ostacolo alle lingue nazionali, rappresentano un contributo importante all'edificazione di un'Europa basata sui principi di democrazia e di diversità culturale, nell'ambito della sovranità nazionale e dell'integrità territoriale; Tenuto conto delle condizioni specifiche e delle tradizioni storiche caratteristiche di ogni regione dei paesi d'Europa: Si sono accordati su quanto segue: PARTE I DISPOSIZIONI GENERALI Articolo 1 Definizioni - 6. Considerando che lo scopo della Carta non è di incidere sulle regobmentazioni specifiche già esistenti in alcune regioni e la cui portata è superiore ai precetti contenuti nella stessa Carta; 7. Cosciente dal fatto che la difesa ed il rafforzamento delle lingue regionali o minoritarie nei vari paesi e nelle varie regioni d'Europa rappresentano un contributo rilevante alla costruzione di unlEuropa basata sui principi della democrazia e della diversità culturale; 8. Decide di sottoporre al Comitato dei Ministri il progetto di Carta Europea delle lingue regionali o minoritarie il cui testo figura in allegato alla presente risoluzione, chiedendo loro: 8. I di attendere il parere dellJAssembleaparlamentare e, in particolare, della sua Commissione della cultura e dell'educazione; 8.2 di procedere, tenuto conto di questo parere ed a seguito delle altre consultazioni necessarie, all'adozione di tale Carta europea delle lingue regionali o minoritarie, con l'invito agli Stati membri di aderirvi; 8.3 di prevedere: - che questa Carta dovrà essere a carattere convenzionale, conformemente agli impegni previsti dall'articolo 2 del progetto di Carta; - che k Parti Contraenti dovranno presentare al Segretano Generale una relazione biennale riguardante l'applicazione della Parte II e delle disposizioni della Parte III della Carta da Esse accettate e che queste relazioni saranno esaminate conformemente alle disposizioni dell'articolo 12 del progetto di Carta. i) tradizionalmente parlate in un territorio da persone - cittadini dello Stato - che costituiscono un gruppo numericamente inferiore al resto della popolazione dello Stato; e ii) diverse dalla lingua parlata (o dalle lingue parlate) dal resto della popolazione di quello Stato; b. con 4erritorio in cui è parlata una lingua regionale o minoritaria)>S'intende l'area geografica in cui questa lingua costituisce il mezzo di espressione di un numero di persone tale da giustificare l'approvazione dei vari provvedimenti in tutela previsti dalla presente Convenzione; C. con l'espressione ((discriminazione* s'intende qualsiasi distinzione. esclusione, restrizione o preferenza riguardante l'uso di una lingua o I'appartenenza ad una minoranza linguistica avente lo scopo o l'effetto di scoraggiare, compromettere o impedire la conservazione o lo sviluppo di una lingua regionale o minoritaria o che rechi pregiudizio all'uguaglianza dei diritti dei locutori di queste lingue rispetto ai locutori delle lingue più diffuse nei settori della vita privata o pubblica; d. con <<lingueprive di territorio,, s'intendono le lingue appartenenti al patrimonio culturale europeo, parlate da cittadini dello Stato. diverse dalla lingua parlata (o dalle lingue parlate) dal resto della popolazione dello Stato ma che, seppur tradizionalmente parlate nel territorio dello Stato. non possono venir collegate ad un'area geografica specifica di esso Articolo 2 Impegni 1. Ogni Parte della presente Convenzione s'impegna ad applicare la Parte Il all'insieme delle lingue regionali o minoritarie parlate nel proprio territorio e corrispondenti alle definizioni dell'articolo 1 2. Ogni Parte s'impegna ad applicare alle lingue che avrà indicato al momento della ratifica, conformemente all'articolo 3. almeno 35 paragrafi scelti tra le disposizioni della Parte III di questa Convenzione fra cui almeno 12 scelti tra i seguenti paragrafi: articolo 6. a., b. (ii), c., d . (ii), e. (ii), g . ; articolo 7, a. (il), b. (ii), C. (iii), m.; articolo 8, a,. b. (il). C. (i;), e.; articolo 9, 1 . a. e c.; articolo 10. 1, a,. b., C , d., e 2. b. e C. Articolo 3 Modalità Ai sensi della presente Convenzione: a. con <(lingueregionali o minoritarie. si intendono le lingue appartenenti al patrimonio culturale europeo; DICEMBRE 1988 1. Ogni Stato contraente deve precisare nel pr.oprio strumento di ratifica, di accettazione o di approvazione, ogni lingua regionale o minorita- COMUNI D'EUROPA ria cui si applicano i paragrafi scelti conformemente al paragrafo 2. dello articolo 2. 2. Ogni Parte può, ulteriormente ed in qualsiasi momento, dichiarare al Segretario Generale che essa accetta gli obblighi derivanti dalle disposizioni di qualsiasi altro paragrafo della Convenzione che non sia stato specificato nel proprio strumento di ratifica, di accettazione o di approvazione o che ha l'intenzione di applicare il paragrafo 1. del presente articolo ad altre lingue regionali minoritarie. 3. Gli impegni previsti al paragrafo precedente saranno ritenuti parte integrante della ratifica, dell'accettazioneo dell'approvazione e comporteranno effetti non appena avvenuta la notifica. 4. Le parti s'impegnano a cercare mezzi idonei a seconda del loro sistema costituzionale e10 legislativo per garantire il rispetto dei diritti e delle garanzie, riconosciuti dalla presente Convenzione da parte delle loro collettività territoriali e degli organismi pubblici dipendenti da esse nonché da parte dei privati cittadini. Articolo 4 Statuti di protezione esistenti Le disposizioni della presente Convenzione non recano pregiudizio alle disposizioni più favorevoli previste dallo statuto giuridico delle minoranze già in vigore in una Parte Contraente o previste da pertinenti accordi internazionali bilaterali o multilaterali PARTE Il OBIETTIVI E PRINCIPI GENERALI PERSEGUITI CONFORMEMENTE AL PARAGRAFO 1 DELL'ARTICOLO 2 Articolo 5 Obiettivi e principi 1. Le parti s'impegnano, per quanto riguarda le lingue regionali o mino ritarie parlate nel loro territorio a prendere come fondamento della loro politica, della loro legislazione e della loro prassi. gli obiettivi ed i principi seguenti: a. il riconoscimento delle lingue regionali o minoritarie, in quanto attributo di una comunità; b. il rispetto dell'area geografica di ciascuna lingua regionale o minoritaria, facendo in modo che le divisioni amministrative, attuali o future, non costituiscano un ostacolo allo sviluppo di quella lingua regionale o minoritaria; C. la necessità di un'azione risolutamente a favore delle lingue regionali o minoritarie, al fine di tutelarle; d. la soppressione di qualsiasi discriminazione riguardante I'uso delle lingue regionali o minoritarie, così come di qualsiasi azione che porti a tale discriminazione, nello spirito della Convenzione europea dei Diritti dell'uomo; e. promuovere I'uso orale e scritto delle lingue regionali o minoritarie nella vita pubblica, sociale ed economica; f. il diritto di ogni comunità che utilizza una lingua regionale o minoritaria a mantenere e ad accrescere rapporti di solidarietà con altre comunità analoghe dello Stato; g I'insegnamento e lo studio delle Iingue regionali o minoritarie a tutti i livelli opportuni h offrire delle agevolazioni affinché le persone che non parlano queste Iingue residenti nel territorio in cui vengono utilizzate queste Iingue e che lo desiderino possano imparare tali Iingue regionali o minoritarie i. promuovere gli studi e delle ricerche sulle Iingue regionali o minorita rie in un ambito universitario o equivalente; i. far in modo che il rispetto la comprensione e la tolleranza nei confronti delle Iingue regionali o minoritarie diventano gli obiettivi nel campo dell'educazione e della formazione impartite nel loro territorio, nonche iiicoraggiare i mezzi di comunicazione di massa a ricercare gli stessi obiettivi k studiare la possibilita di applicare le forme di scambi transnazionali idonei alle Iingue regionali o minoritarie utilizzate in maniera identica o analoga in due o più Stati contraenti, 2 Le Parti s'impegnano ad applicare, mutatis mutandis, i principi elen cati al punto 1 . di cui sopra alle Iingue prive di territorio. 3. Le Parti sono incoraggiate a creare organ incaricati di consigliare le autorità riguardo a tutte le questioni attinenti alle Iingue regionali o mino ritarie COMUNI D'EUROPA PARTE 111 PROVVEDIMENTI A FAVORE DELL'USO DELLE LINGUE REGIONALI O MINORITARIE 'NELLA VITA PUBBLICA DA PRENDERE IN CONFORMITÀ AGLI IMPEGNI SOTTOSCRITTI IN VIRTU DEL PARAGRAFO 2 DELL'ARTICOLO 2 Articolo 6 Insegnamento il In fatto d'insegnamento, le Parti s'impegnano, per quanto riguarda territorio in cui vengono usate queste lingue: a. a far in modo che l'istruzione prescolastica ed elementare sia impartita in gran parte o completamente nelle lingue regionali o minoritarie, perlomeno per le famiglie che lo desiderino; b. (i) a far in modo che l'istruzione secondaria - ivi compresa quella tecnica e professionale - venga impartita principalmente nelle lingue regionali o minoritarie, perlomeno agli studenti che lo desiderino; o b. (ii) a prevedere almeno I'insegnamento di queste lingue, nel caso in cui il paragrafo b. (i) non sia suscettibile d'applicazione data la situazione delle lingue in questione, rielle scuole medie, tecniche e professionali; C.a offrire la possibilità a coloro che non parlano queste lingue di impa rarle grazie a corsi organizzati nell'ambito dei programmi prescolastici. scolastici, elementari e della scuola media; d. (i) a prevedere un insegnamento universitario e superiore impartito nelle lingue regionali o minoritarie; o d. (ii) a prevedere lo studio di queste lingue in quanto materie di insegnamento universitario e superiore, in particolare nel caso in cui il paragrafo d. (i) non sia suscettibile di venir applicato a motivo della situazione delle lingue in questione; e. (i) a prendere dei provvedimenti per impartire lezioni di educazione degli adulti e di educazione permanente in gran parte o completamente nelle lingue regionali o minoritarie; o e. (ii) a proporre, specie nel caso in cui il paragrafo e. (i) non sia suscettibile d'applicazione, queste lingue in quanto materie di insegnamento degli adulti e per l'educazione permanente; f. a prendere dei provvedimenti per garantire ivi compreso per coloro che non parlano queste lingue - I'insegnamento della storia e della CUItura che sono alla base della lingua regionale o minoritaria, in quanto componenti del patrimonio europeo; g. a garantire la formazione iniziale e permanente degli insegnanti, necessaria alla messa in opera di quelli tra i paragrafi che vanno da a. a f. che siano stati accettati dalla Parte; h. a garantire, con specifici provvedimenti ed in particolare tramite aiuti materiali e finanziari supplementari, la messa a disposizione di mezzi pedagogici e personale necessario alla 'attuazione di quelli tra i paragrafi che vanno da a.g. che siano stati accettati dalla Parte; i. a incaricare un organo di controllo di sorvegliare i provvedimenti presi e i progressi conseguiti nell'istituto scolastico o lo sviluppo dell'insegnamento delle lingue regionali o minoritarie e di redigere su questi punti rapporti periodici che saranno resi pubblici. Articolo 7 Servizi pubblici, autorità amministrative e giustizia Per quanto riguarda i rapporti con i servizi pubblici e con le autorità amministrative e giudiziarie, le Parti s'impegnano. rispetto al territorio in cui queste Iingue vengono parlate e nella misura in cui ciò sia ragionevolmente possibile: a. (i) a far si che le Iingue regionali o minoritarie siano utilizzate dalle autorità amministrative o far si che quelle autorità, o perlomeno coloro tra i loro agenti che si trovano a contatto con il pubblico. facciano uso delle lingue regionali o minoritarie nei loro rapporti con le persone che si ri~~olgono ad essi in quelle lingue; o a. (ii) a far in modo che coloro che si rivolgono all'amministrazione nel caso in cui il paragrafo a. (i) non sia suscettibile di applicazione data la situazione specifica della lingua regionale o minoritaria - possano redigere validamente un atto o formulare una richiesta in quella lingua: b. (i) a far in modo che le lingue regionali o minoritarie siano utilizzate dai servizi pubblici incaricati di fornire delle prestazioni o che questi ser~ vizi - o perlomeno coloro tra i loro agenti che sono a contatto con I pubblico - utilizzino le Iingue regionali o minoritarie nei loro rapporti con le persone che si rivolgono ad essi in queste lingue; o b. (ii) a far sì che gii utenti, nel caso in cui il paragrafo b. (i) non sia suscettibile di applicazione per via della situazione particolare della lingua regionale o minoritaria, possano redigere validamente un atto o formulare una richiesta in quella lingua; C. (i) a badare che i servizi giudiziari utilizzino le lingue regionali o minoritarie nelle procedure; o C.(ii) nel caso in cui il paragrafo C. (i) non sia suscettibile di applicazione a motivo della situazione delle lingue di cui trattasi. a badare che i servizi giudiziari: - redigano nelle lingue regionali o rninoritarie, dietro richiesta, gli atti che si ricollegano ad una procedura giudiziaria, - consentano l'esercizio del diritto di ricorso e di difesa nelle lingue regionali o minoritarie e garantiscano, con mezzi idonei, la comprensione di queste lingue da parte del personale giudiziario; o C. (iii) nel caso in cui i paragrafi C. (i) e (li) non siano suscettibili di applicazione data la situazione delle lingue in questione. a badare che i servizi giudiziari garantiscano la possibilità per l'imputato di esprimersi nella propria lingua regionale o minoritaria e riconoscano in ogni caso la validità degli atti e delle richieste, scritti e orali, presentati da una persona in una lingua regionale o minoritaria; d. a prendere provvedimenti per far in modo che I'utilizzazione delle li?gue regionali o minoritarie nei casi di cui trattano i paragrafi da a. a C. sopraccitati, non implichi spese aggiuntive per gli interessati: e. a far in modo che le autorità pubbliche possano redigere atti in una lingua regionale o minoritaria; f. a proporre formulari e testi amministrativi d'uso corrente per la popolazione nelle lingue regionali o minoritarie; g. a rendere accessibili, nelle lingue regionali o minoritarie, i testi fondamentali dello Stato e i testi concernenti in particolare le popolazioni che parlano quelle lingue, h. a incoraggiare le collettività regionali a garantire la pubblicazione, nelle lingue regionali o minoritarie, dei testi ufficiali di cui sono alla fonte; i. a incoraggiare le collettività locali a garantire la pubblicazione, nelle Iingue regionali o minoritarie, dei testi ufficiali di cui sono all'origine: j. a favorire il rispetto o l'adozione di forme corrette dei patronimici. su richiesta degli interessati, nelle lingue regionali o minoritarie; k. a permettere l'utilizzazione o l'adozione. eventualmente abbinata ad un'altra denominazione, delle forme esatte della toponimia, nelle lingue regionali o minoritarie; I. a garantire alle collettività regionali il diritto di adoperare le lingue regionali o minoritarie nei dibattiti delle loro assemblee; m. a garantire alle collettività locali il diritto di adoperare le Iingue regionali o minoritarie nei dibattiti delle loro assemblee, n. a creare o a promuovere e a finanziare servizi di traduzione e di ricerca terminologica, in previsione in particolare dell'applicazione dei punti di cui sopra e più genericamente per il mantenimento e lo sviluppo di una terminologia amministrativa, commerciale, economica, sociale, tecnologica o giuridica adeguata in ogni lingua regionale o minoritaria; o. a garantire il reclutamento e, all'occorrenza, la formazione dei funzionari o dei pubblici dipendenti necessari alla messa in opera di quelli, tra i paragrafi che vanno da a. a n,, che siano accettati dalla Parte contraente; p. a privilegiare, dietro loro richiesta, l'assegnazione dei pubblici dipendenti che conoscono una lingua regionale o minoritaria nel territorio in cui è parlata quella lingua; q. a garantire, tramite provvedimenti specifici ed in particolare mediante aiuti materiali e finanziari supplementari, le condizioni, i mezzi tecnici ed il personale necessario all'applicazione di quelli tra i paragrafi che vanno da a. a n. che siano accettati dalla Parte contraente; Articolo 8 Mezzi di comunicazione di massa Per quanto riguarda i mezzi di comunicazione di massa, le Parti s'impegnano, nel territorio in cui vengano parlate queste Iingue e nella misura in cui le autorità pubbliche fruiscono di competenze, di potere o di influenza in questo settore: a. a bandire dalla loro legislazione o dai loro regolamenti qualsiasi disposizione discriminatoria nei confronti dell'uso delle lingue regionali o minoritarie nei mass media; b. (i) a favorire I'esistenzadi organi di stampa pubblicati nelle lingue regionali o minoritarie; o b. (ii) se tali organi non possono esistere, a favorire la pubblicazione regolare in tutti i settori di articoli scritti nelle lingue regionali o minoritarie; C. (i) a garantire I'esistenzadi almeno un canale televisivo che trasmetta in gran parte o totalmente nella lingua regionale o minoritaria; o l DICEMBRE 1988 (ii) a garantire, nel caso in cui il paragrafo C. (i) non sia suscettibile di applicazione, a motivo della situazione delle lingue prese in considerazione, la diffusione regolare e in tutti i settori di trasmissioni televisive in quelle lingue, salvo nel caso in cui fossero previste altre modalità al riguardo; d. a non ostacolare minimamente la ricezione dei programmi dei mass media dei paesi confinanti di identica Iingua e cultura e, se possibile. a favorire tale ricezione; e. a garantire l'esistenzadi almeno una stazione radio che trasmetta nella lingua regionale o minoritaria, salvo clie nel caso in cui fossero previste altre modalità al riguardo; g. a favorire, tramite programmi trasmessi alla radio o alla televisione. I'acquisizione ed il recupero dei patrimoni culturali connessi con le lingue regionali o minoritarie; h. ad appoggiare la formazione ed il reclutamento dei giornalisti e del personale dei mass media. necessari alla messa in opera dei paragrafi di quelli tra i paragrafi che vanno da b. a g. che siano accettati dalla Parte contraente; i. a garantire la partecipazione diretta di rappresentanti delle comunità che fanno uso di una lingua regionale o minoritaria alle strutture di controllo della pluraiità dei mass media, quand'esse esistono; i. in previsione della messa in opera di quelli. tra i paragrafi che vanno da b. a. i., che siano accettati dalla parte contraente; - a garantire, tramite aiuti supplementari, l'equilibrio finanziario dei mass mediache si dedicano esclusivamente o in modo particolare alle lingue regionali o minoritarie; - a creare o a mantenere mediante provvedimenti specifici le condizioni e i mezzi tecnici necessari allo sviluppo delle lingue e delle culture regionali nei mass media; k. a prendere in considerazione l'interesse delle lingue regionali o minoritarie nella definizione dei regolamenti relativi alla diffusione scritta. radiofonica e televisiva: C. Articolo 9 Attrezzature e attività culturali I. In materia di attrezzature e di attività culturali - in particolare biblioteche, videoteche. centri culturali. musei, archivi, accademie. teatri, ci ne^ ma e altro, nonché in materia di produzione letteraria e cinematografica, dell'espressione culturale popolare, di festival, delle industrie culturali, comprendenti fra l'altro I'utilizzazione delle nuove tecnologie - le Parti s'impegnano, per quanto riguarda il territorio in cui sono parlate queste iingue e nella misura in cui le autorità pubbliche dispongono di competenze, di poteri e d'influenza in questo settore; a. a incoraggiare l'espressione e le iniziative specifiche delle Iingue regionali o minoritarie; b. a favorire lo sviluppo delle tecniche e delle attività di traduzione, di doppiaggio e di sovrimpressione dei sottotitoli, al fine di promuovere o la conoscenza di opere prodotte nelle lingue regionali o minoritarie, o l'accessibilità in quelle lingue a opere prodotte in lingue più diffuse. C. a badare che gli organismi incaricati di avviare o di appoggiare queste attività culturali nelle loro varie forme integrino in gran parte la conoscenza e l'uso delle lingue e delle culture regionali o minoritarie nelle attività di cui hanno l'iniziativa o cui recano il loro appoggio; , d. a badare che gli organismi incaricati di avviare o di appoggiare le attività culturali nelle loro varie forme abbiano a disposizione un personale che padroneggi la lingua regionale o minoritaria; e. a favorire la partecipazione diretta, per quanto concerne gli impianti e i programmi di attività culturali, di rappresentanti delle comunità che parlano quella lingua regionale o minoritaria; f. a facilitare, per ogni lingua regionale o minoritaria, la creazione di un organismo incaricato di raccogliere, di ricevere in deposito e di presentare o di pubblicare le opere in quella lingua; g. a garantire, mediante misure particolari e segnatamente tramite aiuti materiali e finanziari supplementari, le condizioni e i mezzi tecnici necessari alla messa in opera di quelli tra i paragrafi che vanno da a. a e. che siano stati accettati dalla Parte contraente; 2. Le Parti s'impegnano ad attribuire alle lingue ed alle culture regionali o minoritarie il posto che compete loro nell'ambito dellg loro politica di sviluppo linguistico e culturale all'estero. Articolo 10 Vita economica e sociale I. Per quanto concerne le attività economiche e sociali, le Parti s'impegnano, per tutto il loro territorio: a. a escludere dalla loro legislazione qualsiasi disposizione tendente a vietare o a limitare I'uso delle lingue regionali o minoritarie negli atti della vita economica o sociale ed in particolare nei contratti di lavoro e nei documenti tecnici, quali le istruzioni per I'uso di prodotti o di attrezzature; b. a vietare l'inserzione in atti privati quali i contratti di lavoro o i regolamenti di un'impresa, di clausole che escludano o limitino l'uso di lingue regionali o minoritarie; C. a combattere le prassi miranti a scoraggiare l'uso delle lingue regionali o minoritarie nell'ambito delle attività economiche o sociali e, in mo. generale, a tutelare i locutori di quelle lingue contro provvedi. do menti discriminatori che potrebbero subire nella vita economica e sociale a causa dell'uso di quelle lingue; d, a riconoscere la validità degli atti giuridici redatti i? una lingua regionaie o minoritaria; 2, nel settore delle attività e sociali, le parti s',mpegnano, per quanto concerne i territori in cui vengono utilizzate le lingue regionali o minoritarie e nella misura ciò sia ragionevolmente possibile; a. a verificare che la loro regolamentazione finanziaria e bancaria definisca le modalità miranti a rendere possibile nelle condizioni compatibili con le usanze commerciali, l'utilizzazione delle lingue regionali o minoritarie per la redazione di atti di pagamento (assegni, cambiali, ecc.) o di altri documenti finanziari; b. nei settori economici e sociali direttamente dipendenti dal loro controllo (settore pubblico), ad effettuare azioni promozionali tendenti ad incoraggiare l'utilizzazione delle lingue regionali o minoritarie; C. a badare in particolar modo che l'organizzazione degli impianti sociali quali gli ospedali, le case di riposo. i pensionati, consentano alle persone ricoverate o ospitate di essere accolte, curate e assistite nella loro lingua, allo scopo di migliorare la situazione delle persone dipendenti, per motivi di salute, di età o per via di altri handicap, che si esprimono in lingue regionali o minoritarie; d. a far si che le norme, di sicurezza siano redatte nelle lingue regionali o minoritarie, secondo modalità appropriate; e. a rendere accessibile nelle lingue regionali o minoritarie la informazione dei consumatori e degli utenti, a seconda della domanda esistente in materia. Articolo 11 Scambi transfrontalieri In materia di cooperazione transfrontaliera, le Parti s'impegnano: a. a mantenere, a sviluppare relazioni specifiche attraverso le frontiere a favore delle lingue regionali o minoritarie che, in forma identica o arialoga, siano utilizzate in vari Stati membri e b. ad agevolare, a favore delle lingue regionali o minoritarie: utilizzate in maniera identica o analoga in due o più Stati membri, le varie forme di scambi e di cooperazione transnazionale, in tutti i settori della cultura, dell'insegnamento, della formazione professionale e dell'educazione permanente. PARTE IV APPLICAZIONE DELLA CARTA Articolo 12 Rapporti periodici Le parti presentano al Segretario Generale del Consiglio d'Europa, in forma che sarà determinata dal Comitato dei Ministri, un rapporto bien- AICCRE nale relativo all'applicazione della Parte Il e delle disposizioni della Parte III della Carta da Esse accettate. Articolo 13 Esame dei Rapporti 1. I rapporti presentati al Segretario Generale del Consiglio d'Europa in applicazione dell'articolo 12 saranno esaminati da un Comitato di conformemente all'articO10 14. 2. Gli organismi e gruppi legalmente costituiti in una Parte contraente potranno attirare I'attenzIone del Comitato di esperti SU sltuazloni che fossero contrarie agli impegni presi da detta Parte. Previa verifica presso la Parte interessata, il Comitato di esperti potrà tener conto di queste informazioni Per la preparazione del rapporto di cui al ~ a r a ~ r a3f .odel presente articolo. 3. In base ai rapporti di cui al paragrafo 1. ed alle informazioni menzionate al paragrafo 2, il Comitato di esperti preparerà un rapporto all'intenzione del Comitato dei Ministri. Questo rapporto comprenderà le 0sservazioni che le Parti saranno invitate a formulare e potrà essere reso pubblico dal Comitato dei Ministri. 4. 11 rapporto di cui al paragrafo 3 conterrà in particolare le proposte del Comitato di esperti indipendenti al Comitato dei Ministri in previsione della preparazione necessaria di raccomandazioni di quest'ultimo a una o più parti. 5. 11 Segretario Generale del Consiglio d'Europa farà un rapporto biennale dettagliato sull'applicazione della Carta. Articolo 14 Comitato di esperti 1 , Il Comitato di esperti sarà composto di un membro per ogni Parte contraente, designato dal Comitato dei Ministri a partire da un elenco di persone della massima integrità, e con competenze riconosciute nelle materie trattate dalla Carta, che saranno proposte dalla Parte interessata. 2 . 1 membri del Comitato saranno nominati per una durata di sei anni ed il loro mandato potrà essere rinnovato. Se un membro non potesse adempiere al proprio mandato, sarebbe sostituito conformemente alla procedura prevista dal paragrafo 1 . ed il membro nominato in sostituzione Porta a termine il mandato del suo predecessore. 3 . 11 Comitato di esperti adotterà il proprio Regolamento interno. Il SUO segretariato sarà assicurato dal Segretario Generale del Consiglio d'Europa. PARTE V (Questa parte includerà la seguente clausola territoriale) 1. Ogni Parte Contraente può, al momento della firma o del deposito del suo strumento di ratifica, accettazione. approvazione o adesione. o ad un momento ulteriore, designare la porzione o le porzioni del suo Territorio che desidera sottrarre all'applicazione della presente Convenzione. 2. Qualsiasi dichiarazione fatta in virtù del precedente paragrafo in merito ad una porzione di Territorio in essa specificata potrà essere ritirata tramite notifica indirizzata al Segretario Generale del Consiglio d'Europa. Il ritiro diventerà effettivo il primo del mese successivo allo scadere del termine di sei mesi dalla data di ricevimento della notifica da parte del Segretario Generale. ASSOCIAZIONE ITALIANA PER IL CONSIGLIO DEI COMUNI E DELLE REGIONI D'EUROPA ASSOCIAZIONE EUROPEA DEI COMUNI, DELLE PROVINCE, DELLE REGIONI E DELLE ALTRE COMUNITÀ LOCALI 00187 ROMA COMUNI D'EUROPA PIAZZA DI TREVI, 86 W TELEFONO 67.84.556 - 67.95.712 - 67.97.320 FAX 6793275 DICEMBRE 1988 a Genova il convegno su «Istituzioni comunitarie e Regioni)) Inammissibile divaricazione tra due momenti: quello della concezione e quello dell'attuazione di Serena ~ n G o l i Paradossale incongruenza che porta le regioni ad assumere la responsabilità di attuare scelte definite nel contesto di decisioni da cui esse sono interamente escluse. Senza seguito la positiva esperienza dei Programmi integrati mediterranei. Il significato politico della insufficiente partecipazione regionale alla vita comunitaria non riguarda solo I'aspetto economico ma comporta la marginalizzazione delle istanze democratiche dei meccanismi decisionali della Comunità europea. La preoccupante simmetria con il versante comunitario e quello nazionale Di matrice prevalentemente economica è la ragione che ha favorito negli ambienti comunitari l'attuale momento di riflessione circa il contributo che le autorità regionali possono fornire al rafforzamento della coesione economica e sociale. Tale obiettivo rappresenta il riferimento fondamentale a cui ricoiiegare, in sede comunitaria, ogni collegamento circa il ruolo che le autorità regionali e locali sono in grado di svolgere nel risanamento dei principali squilibri economici. I1 rafforzamento della coesione economica e sociale costituisce un obiettivo da tempo dichiarato, ma che solo recentemente è stato specificato e approfondito (art. 13014 e segg. dell'Atto Unico europeo), per la cui realizzazione la Comunità dispone di alcuni strumenti. come per esempio le politiche strutturali. La loro attuazione sta subendo un delicato e contraddittorio ripensamento che inevitabilmente si riflette sul ruolo sia economico sia politico che le autorità regionali, quali enti portatori di proprie esigenze di sviluppo, devono svolgere nella costruzione di un'Europa i cui vantaggi siano distribuiti, da un punto di vista geografico, più equamente. Tale processo, che ha già percorso diverse fasi, trova la sua massima espressione nel Regolamento C E E n. 2088185 sui Programmi Mediterranei Integrati (P.I.M.), che cosiituisce l'unica norma comunitaria il cui dispositivo coinvolge e responsabilizza direttamente le autorità regionali, superando la tradizionale posizione di assoluta neutralità comunitaria circa la ripartizione delle competenze all'interi10 dei singoli ordinamenti statali. Per la prima volta, infatti, una disposizione comunitaria si è spinta così all'interno del sistema nazionale, da investire specificatamente le Regioni di una precisa competenza. L'enfasi comunitaria verso l'approfondiinento di una problematica fino ad oggi solo parzialmente affrontata ha trasmesso una linfa vitale allo spinoso dibattito in sede italiana sui rapporti tra Stato e Regioni, che costantemente si ripropone nell'affrontare questioni connesse all'attuazione e alla formazione delle disposizioni comunitarie incidenti su interessi e competenze regionali. È in questo clima di grandi attese che si è positivamente svolto a Genova, nei giorni 18 e 19 novembre 1988, su iniziativa del Consigli0 Regionale della Liguria, il Convegno nazionale di studio «Istituzioni comunitarie e re- gioni - Effetti della normativa comunitaria sulle competenze regionali», che fa seguito alle precedenti esperienze del 1984 e 1987. 11 Convegno, grazie all'alto livello sia accademico, sia politico dei relatori e dei partecipanti, ha inteso fornire, come ha dichiarato il Presidente del Consiglio della Regione Liguria, il prof. G.L. Verda, «un contributo per una migliore definizione dei rapporti tra RegioniComunità Europea, vuoi sul piano istituzionale e giuridico, vuoi su quello operativo». L'attuale dibattito sulla definizione del ruolo delle Regioni nel processo comunitario si inserisce in una astmosfera che diventa sempre più sensibile a questa problematica, grazie anche alla pressione di importanti politiche e nuovi settori di intervento a cui l'Atto Unico da uri lato, il mercato unico dall'altro, hanno conferito una collocazione più esplicita. Tematiche come l'ambiente, la ricerca scientifica e lo sviluppo, il ruolo e le potenzialità delle nuove tecnologie, il Mercato Unico, la concorrenza, la politica industriale etc ... sono tutte politiche che non possono più essere affrontate settorialmente, prescindendo dalle loro interrelazioni, ma soprattutto dalle impli- cazioni regionali che la loro attuazione comporta. L'Atto Unico ribadisce tale principio, nell'affermare che l'obiettivo della ottimale realizzazione del mercato unico è inscindibilmente connesso a queiio della coesione economica e sociale. I1 perseguimento di questi obiettivi ha indotto ad una profonda revisione delle scelte operative di carattere strutturale. Si sono messe in discussione linee politiche, criteri e forme di intervento precedentemente adottati e si è prodotta la riforma dei Fondi strutturali (approvata dal Consiglio C E E nel giugno 1988 con il Regolamento n. 2052188) che sarà presto completata dalla imminente adozione delle conseguenti riforme dei singoli Fondi strutturali. Questi nuovi orientamenti, dettati soprattutto dalla costante ricerca della migliore realizzazione possibile degli interventi e della perfetta coerenza tra obiettivi perseguiti e strumenti mobilitati, sembrano dirigersi verso la preferenza di soluzioni specifiche per risolvere problemi geograficamente localizzati, rivalutando così un approccio di tipo territoriale ai problemi dello sviluppo. Tale situazione non è priva di implicazioni Città gemelle manifestano per la pace I1 Sindaco di Rivoli, Antonino Saitta, insieme ai Sindaci delle città gemelle, Montelimar (F), Ravensburg (D), Mollet del Valles (E), Kranj (YU), assiste alle celebrazioni al Col del Lys per la commemorazione dei caduti di tutte le guerre (3 luglio, 1988) COMUNI D'EUROPA istituzionali che dal versante comunitario inevitabilmente si riflettono su quello nazionale e che hanno il loro anello di congiunzione proprio nel ruolo che in questo processo le autorità regionali, in qualità di migliori interpreti delle proprie esigenze di sviluppo, dovranno svolgere. Presupposto fondamentale per affrontare con successo i problemi dello sviluppo è una costruttiva connessione tra i soggetti principalmente interessati: istituzioni comunitarie organi centrali nazionali - autorità regionali. Da qui nasce l'esigenza di individuare soluzioni tecniche per inserire le regioni in un contesto giuridico di legalità che finalmente consenta loro di esercitare effettivamente un ruolo attivo e propositivo nell'ambito della politica regionale comunitaria. A questo proposito molto si attendeva dalla riforma dei Fondi strutturali che, secondo i più attenti sostenitori di una politica regionale comunitaria più incisiva, avrebbe dovuto approfondire e perfezionare il modello di programmazione, quello di partnership e quello di gestione integrata, sperimentati con i PIM. Sebbene talune di queste espressioni ricorrano frequentemente anche nel Regolamento n. 2052188, bisogna purtroppo constatare che di fatto ci si è sostanzialmente allontananti dalla precedente esperienza compiendo un marcato arretramento soprattutto, nei confronti del ruolo delle Regioni le cui competenze, col nuovo Regolamento, sfumano: le Regioni infatti, dietro designazione dello Stato, possono divenire «partner nella concertazione» (denominata «partnership»), concetto non ben precisato, che dovrebbe consentire una sorta di associazione tra Comunità, Stato e «competenti autorità designate da quest'ultimo a livello nazionale, regionale, locale o altro...», diretta a produrre l'azione comunitaria. I1 Regolamento cioè, riconoscendo solo allo Stato la qualità di «partner» e di esclusiva autorità interlocutrice, conferma che l'eventuale coinvolgimento regionale non è implicitamente dovuto, bensì rimesso alla discrezionalità statale; perfino i Comitati consultivi, previsti per assistere la Commissione nell'attuazione del Regolamento n. 2052188 (art. 17) sono composti esclusivamente da rappresentanti degli Stati membri! Di contratto di programma inoltre non vi è traccia. Di scarso rilievo infine, e certamente non in grado di supplire al vuoto partecipativo degli Enti re- NUOVE ADESIONI DI ENTI TERRITORIALI LOCALI ALL'A.1.C.C.R.E. Cornunz Baia e Latina (CE) Ponza (LT) Borgo San Lorenzo (FI) Caste1 Del Piano (GR) Montignoso (MS) Castellina Marittima (PI) Lajatico (PI) Massa e Cozzile (PT) Monsummano Terme (PT) Radicondoli (SI) COMUNI D'EUROPA Ab 2121 3176 14794 4445 8737 1831 1580 5885 17300 1073 gionali e locali al processo comunitario, è la recente istituzione del Consiglio consultivo degli Enti regionali e locali (Decisione della Commissione CEE del 26 giugno 1988, n. 88/487), i cui limiti e contraddizioni sono stati già evidenziati da Gabriele Panizzi in un precedente numero di questa rivista («Comuni d'Europa, n. 9 settembre 1988). Se le soluzioni ad oggi proposte dalla Comunità non soddisfano le grandi attese generate dalla portata rivoluzionaria dei PIM, non ci si può certamente ritenere soddisfatti trasferendo l'ottica dal versante comunitario a quello nazionale. Si deve innanzitutto riconoscere che troppo spesso l'analisi di questa tematica, sia da un punto di vista dottrinale, sia giurisprudenziale, si è concentrata su problemi prevalentemente derivanti dalla attuazione delle disposizioni comunitarie trascurando (non perché meno importante) un altro aspetto della medesima questione, ossia quello relativo alla cosiddetta «fase ascendente» e cioè al processo di concezione e formazione delle medesime disposizioni. I lavori del Convegno di Genova hanno ampiamente ribadito I'inammissibilità del permanere di questa arbitraria scissione tra il momento della «concezione» e quello della «attuazione» di certe decisioni che, in definitiva, porta al paradosso di conferire alle autorità regionali la responsabilità di attuare scelte concordate nel contesto di istanze da cui esse sono interamente escluse. Le soluzioni legislative italiane in risposta a queste problematiche sono ancora insufficienti e anzi sembrano spesso riproporre, in nome del rispetto di alti principi ed esigenze unitarie, tradizionali tendenze accentratrici che non lasciano spazio ad una attiva partecipazione regionale. Carenti risultano infatti le leggi n. 183187, 400188, nonché l'attuale disegno di legge sull'esecuzione degli obblighi comunitari approvato il 9-11-1988 dal Senato che, pur perfezionando il ruolo della Conferenza Stato Regioni (istituzionalizzata con la legge n. 400188) e riaffermando la competenza delle Regioni per attuare le direttive comunitarie nel rispetto della sola normativa statale di principio, prevede comunque la normativa statale di dettaglio e lascia trasparire ancora la concezione del timore delle invasioni del potere estero che conferma una tendenza centralista. I1 significato politico della insufficiente partecipazione regionale alla vita comunitaria non si eSaurisce all'ambito esclusivo dei problemi strettamente connessi alla massimazione dello sviluppo economico ma, travalicando questo aspetto, induce alla amara constatazione della marginalizzazione delle classiche istanze democratiche dai meccanismi decisionali comunitari, fenomeno che, tra l'altro, si riscontra progressivamente anche sul versante nazionale. Ad entrambi i livelli infatti è affievolita la partecipazione degli organi rappresentativi e le decisioni vengono sempre più spesso adottate da quelli che sono l'espressione solo dell'esecutivo degli Stati e che con crescente facilità si sostituiscono al Parlamento. Atti normativi comunitari sono adottati senza una incisiva partecipazione del Parlamento Europeo, così come, a livello nazionale, pur non disconoscendosi l'interesse del Parlamento agli affari comunitari, si deve constatare che qualsiasi sua eventuale azione è negativamente condizionata da proprie carenze strutturali, cosicché la sua partecipazione si esaurisce in una serie di inadeguate consultazioni con il Governo. Tale fenomeno è ancora più grave se si considera la totale inefficienza di altre sedi in cui si possa preventivamente concordare, tra le diverse autorità interessate, la posizione che eventualmente i Ministri saranno chiamati ad esprimere in sede comunitaria. La soluzione che in definitiva verrà adottata, non potrà che alimentare quello iato già profondo che troppo spesso si verifica tra la decisione finale e le esigenze reali. È perciò indispensabile recuperare forme ed istituti democratici necessari anche per riconquistare la fiducia dell'opinione pubblica sempre più sensibilizzata ai problemi di un'Europa che non sia il risultato di una pressione puramente economico-mercantilistica, asetticamente guidata dalle sole leggi di mercato, ma che si erga su quella ricchezza costituita dalla dimensione politica dell'integrazione europea, che nasce anche dall'attuazione di riforme promosse dal basso, volte a recuperare fiducia e credibilità nei confronti di un'Europa più tangibile e più vicina alle esigenze della gente coH mune. CRONACHE DELLE ISTITUZIONI EUROP I ((piedi di argilla» del Colosso di Rodi di Pier Virgilio Dastoli Il Consiglio europeo si è chiuso ((nella serenità» non affrontando alcuno degli ostacoli emersi nella realizzazione del mercato unico. Aver scelto la via del ((quieta non movere» farà assumere al Vertice di Madrid del giugno I989 il ruolo non felice «di ultima spiaggia» Il Consiglio europeo di Rodi si è chiuso «nella serenità», come hanno scritto tutti i giornali europei, fatta eccezione per il vivace scontro fra Martens e la signora Thatcher sull'estradizione richiesta e non concessa di un presunto terrorista irlandese e le bombe fatte esplodere davanti all'ufficio di informazione delle Comunità europee di Atene. Poiché il Consiglio europeo di Hannover aveva rinviato ogni decisione sulle questioni comunitarie più controverse al successivo Consiglio europeo di Madrid nel giugno 1989, nessuno aveva formalmente richiesto e nessuno si attendeva un vero dibattito sugli ostacoli emersi nella realizzazione del mercato unico e sull'evoluzione politica ed istituzionale della Comunità alla vigilia delle terze elezioni europee. Cosicché i capi di Stato e di Governo, sapientemente aiutati dalle diplomazie nazionali, hanno potuto compiere esercizi di stile in tema di integrazione europea, di ruolo dell'Europa nel mondo, di politica dell'ambiente e di sistema audiovisivo. Alcuni fatti successi dopo Hannover avrebbero tuttavia dovuto stimolare i dodici governi europei a compiere non solo un sforzo di immaginazione, mettendo da parte la pessima letteratura prodotta dai ministeri degli esteri, ma ad assumere precise responsabilità in ordine all'obiettivo del 1992, al rafforzamento istituzionale della Comunità e all'azione a favore della soluzione delle più acute crisi internazionali. I capi di Stato e di Governo dovevano tenere nel dovuto conto le dichiarazioni pronunziate dalla signora Thatcher a Bruges il 20 settembre in tema di mercato unico, di federalismo e di.. .socialismo e gli «altolà» pronunziati in particolare in materia di armonizzazione fiscale, di Banca centrale e di spazio sociale. I capi di Stato e di Governo dovevano tenere conto in secondo luogo dell'allarme lanciato dalla Commissione europea, nel rapporto di «metà cammino>>sull'attuazione del Libro Bianco, in materia di armonizzazione fiscale, di soppressione delle barriere fisiche e di Europa dei cittadini, di dimensione sociale del mercato interno. I capi di Stato e di Governo dovevano infine tenere conto dell'apertura al dialogo effettuata dal Consiglio dell'Olp ad Algeri per una soluzione negoziata della crisi medio-orientale. I capi di Stato e di Governo hanno preferito scegliere invece la via del «quieta non movere», cosicché il Consiglio europeo di Madrid sarà destinato ad assumere Chiedono la moneta unica imprenditori ed economisti È sempre più attivo il fronte democratico europeo. Pubblichiamo il manifesto su moneta unica-banca centrale sottoscritto da 78 esponenti deiia cultura, deii'economia, della finanza e dell'impresa Sta per concludersi il primo decennio di vita del Sistema monetario europeo. È stato, nell'insieme, un accordo che ha avuto successo. In un periodo di grandi trasformazioni e rapide moluzioni monetarie e finanziarie, caratterizzato in particolare, da violente flz~ttztazioni del dollaro, lo Sme ha contribuito a mantenere più stabili i cambi ezrropei, più viva la collaborazione fra le autorità monetarie, pizì severe la disciplina della liquidità e la lotta all'inflazione nei Paesi meno «virtuosi». Tutto ciò è stato finora possibile senza sacrificare la libertà valutaria, che si è anzi accrescizrta insieme all'integrazione finanziaria fra le economie europee. A fianco del paniere monetario zrfficialesu cui si basa il sistema, si è sviltrppato un ampio mercato privato dell'Ecu che interessa anche operatori extraeuropei. Nonostante il suo successo, lo Sme è oggi in una condizione instabile. Se non si rafforza e non avanza verso l'obiettivo dell'unione monetaria, diverrà sempre piiì difficileda gestire e sempre meno compatibile con lo sviluppo della libertà di movimento dei capitali. Infatti, la convergenza delle politiche economiche è ancora troppo limitata e il sistema consente comportamenti nazionali autonomi e diversi, di fronte ai quali la crescente mobilità dei capitali favorisce le speculazioni sugli aggiustamenti delle parità. Per rendersi conto del problema, basta pensare all'ingente dzfierenziak di interesse che oggi è necessario per sostenere ilcambio della lira con il marco. Il permanere di significativi differenziali di inflazione fa si che l'aggiustamento ritardato e frenato delle parità produca distorsioni a bngo non sostenibili nelle competitivita intereuropee. Ciò alimenta i dzrbbi sulla solidità del sistema e accresce la probabilità che si ricada in un regime meno disciplinato. Solo zlna più esplicita perdita di autonomia delle politiche monetarie nazionali sembra in grado di mantenere un clima di credibilità attorno agli accordi di cambio. Le imprese e il mondo produttivo sono profondamente interessati al progresso delllUnione monetaria europea. Essa è indispensabile per l'effettiva integrazione dei mercati dei beni, dei servizi e dei capitali, e per il rafforzamento delle altre istituzioni comunitarie che devono dare allJEuropaforza e spessore nel gioco della concorrenza globale. V i è inoltre la convinzione che, rinunciando allautonomia monetaria, diventi più trasparente il vincolo di bilancio del settore pubblico e venga ostacolato il finanziamento di spese che sottraggono risorse ad usi più produttivi. Poiché la condizione attuale dello Sme, come si è detto, tende ad essere instabile, è az~spicabile che si passi al pizì presto alle tappe successive dell'unijicazione monetaria. Si può prevedere ancora un periodo di transizione, in cui si deleghi ad una azrtorità souranazionale l'eventuale mutamento delle parità centrali. Perché sia credibile ed efficace, questa fase dovrebbe avere una durata breve e predeterminata, dovrebbe essere eseguito ogni sforzo affinché la sterlina entri nello Sme e, contemporaneamente dovrebbe essere deliberato: 1) che la liberalizzazione dei movimenti di capitali sia irreversibile, rinunciando all'autonomia nazionale anche per quanto riguarda l'imposizione di controlli valutari; 2) che, tramite l'immediato recepimento di direttive comunitarie, vengano segnati alczrni sostanziali progressi nell'uniformare le strutture e le regolamentazioni finanziarie nazionali e i criteri di tassazione delle attività finanziarie. Dovrebbe poi subentrare l'adozione di una vera e propria moneta unica e di una sola banca centrale in grado, fra l'altro, di far valere la forza contrattuale delllEuropa nella concertazione monetaria mondiale, in vista del ristabilimento di un regime di cambi fissi, in particolare con il dollaro. A tale istitz~zioneandrebbe assegnato esplicitamente il compito di mantenere la stabilità dei prezzi e garantita stdficiente autonomia dai ~overninazionale e comunitario. l Giovanni Agnelli, Urbano Aletti, Nino Andreatta, Mario Arcelli, Luigi Arcuti, Paolo Baratta, Pietro Barilla, Piero Barucci, Piero Bassetti, Ottorino Beltrami, Adolfo Beria D'Argentine, Tancredi Bianchi, Rodolfo Bonetto, Franco Bruni, Lino Cardarelli, Guido Carli, Mario Casella, Francesco Cetti Serbelloni, Umberto Colombo, Luigi Dadda, Cecilia Danieli, Carlo De Benedetti, Fabiano Fabiani, Alberto Falck, Michele Ferrero, Walter Fontana, Luciano Forcellini, Ettore Fumagalli, Raul Gardini, Giuseppe Glisenti, Franzo Grande Stevens, Giuliano Graziosi, Giuseppe Guarino, Luigi Guatri, Carlo Maria Guerci, Natalino Irti, Pier Giusto Jaeger, Daniel Kraus, Luigi Lang, Vincenzo Lodigiani, Luigi Lucchini, Giancarlo Lunati, Mario Lupo, Maurizio ~Maffeis,Gavino Manca, Pietro Marzotto, Roberto Mazzetta, Vittorio Merloni, Ariberto Mignoli, Gian Marco Moratti, Franco Morganti, Antonio L. Necci, Nerio Nesi, Vincenzo Palladino, Carlo Peretti, Sergio Pininfarina, Leopoldo Pirelli, Romano Prodi, Franco Reviglio, Cesare Romiti, Lucio Rondellf Michele Salvati, Enrico Sassoon, Carlo Scognamiglio, Giuseppe Sena, Paolo Sylos Labini, Andrea Sommariva, Piero Stucchi Prinetti, Mario Talamona, Paola Tarchini, Sergio Travaglia, Roberto Tronchetti Provera, Rolando Valiani, Arrigo Vallatta, Gustavo Visentini, Guido Venturini, Giancarlo Vigorelli, Franco Viezzoli. COMUNI D'EUROPA il ruolo di «ultima spiaggia», attribuito negli scorsi anni ad una serie infinita di riunioni. Per quanto riguarda la realizzazione del mercato interno, cinque elementi appaiono sempre di più come condizioni preliminari per non mancare l'appuntamento del 1992: si tratta dell'armonizzazione del sistema delle imposte indirette e dei redditi di capitale e del conseguente rafforzamento del potere fiscale della Comunità, della soppressione totale dei controlli sulle persone alle frontiere, dell'integrazione monetaria attraverso la creazione di una moneta unica e di una Banca centrale, della creazione di un potere politico europeo con un governo responsabile di fronte al Parlamento Europeo, della dimensione sociale del mercato interno. Per quanto riguarda l'armonizzazione fiscale, i capi di Stato e di Governo hanno sottoscritto un'amletica dichiarazione secondo la quale essa sarà effettuata «nella misura in cui essa sarà necessaria alla realizzazione e al funzionamento del mercato interno», dando così un colpo al cerchio di Delors ed uno alla botte della signora Thatcber e lasciando ambedue convinti che a Madrid prevarrà la loro posizione di principio. Per quanto riguarda la soppressione delle barriere fisiche, essa sarà l'effetto dei progressi della cooperazione intergovernativa nella lotta contro il terrorismo, la criminalità, la droga ed i... traffici di ogni natura. «A questo fine - afferma il comunicato finale - ogni Stato membro designerà un responsabile per il necessario coordinamento». Si può ben dire che la libera circolazione delle persone è ora rinviata alle «calende greche». Per quanto riguarda l'integrazione monetaria, il compito di fare passi in avanti per il trasferimento di poteri reali dalle Banche centrali nazionali ad una Banca centrale europea è stato, come è noto, affidato ai governatori delle Banche centrali nazionali; si vedrà in primavera il risultato della loro volontà di «suicidio collettivo» e la risposta che i governi daranno a Madrid. Per quanto riguarda l'evoluzione istituzionale della Comunità, i capi di Stato e di Governo hanno accuratamente riposto nelle loro borse i propositi europeisti manifestati dopo il discorso della signora Thatcher (limitandosi a pronunziare le abituali litanie ad uso della stampa internazionale), sottoscrivendo la stessa formula propinata loro ad Hannover dai consiglieri diplomatici: «il Consiglio europeo sottolinea il ruolo indispensabile del Parlament o Europeo nel processo di unificazione europea». Con buona pace della richiesta di un mandato costituente decisa dai capi di Governo appartenenti al PPE, rivendicata ora esplicitamente da Lord Plumb e sostenuta dalla maggioranza dei cittadini europei. Per quanto riguarda infine la dimensione sociale, il Consiglio europeo si è limitato a ripetere le controverse formulazioni dell'Atto unico, lasciando alla Commissione il compito di gettare acqua nel suo vino, per consentire un'approvazione unanime di un pacchetto che a Madrid sarà già divenuto inconsistente. Di quest'argilla sono state impastate a Rodi le fondamenta della costruzione europea. m COMUNI D'EUROPA dibattito dell'AICCRE sulla regionalizzazione Piena concordanza tra P.E. ed Enti Locali Il Ministro per gli affari comunitari La Pergola, i l presidente della Commissione regionale del Parlamento Europeo De Pasquale, il rappresentante della Commissione esecutiva di Bruxelles sono intewenuti ai lavori sui problemi della regionalizzazione in Europa, promossi dalla Sezione italiana del Consiglio dei Comuni e delle Regioni d'Europa e aperti dal Presidente della Regione Lazio, Landi, il l O novembre a Roma. Scopo dell'incontro, presieduto da Serafini, presidente dell'AICCRE - e al quale sono intervenuti, tra gli altri, il Presidente della Regione Liguria, Magnani, il vicepresidente della Giunta provinciale di Bolzano, Benedikter, l'assessore della Regione Campania, Ardias Cortese, il vicepresidente del Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia, Braida, il consigliere comunale di Napoli, Picardi, e rappresentanti di altri enti provinciali e comunali - era quello di aprire un dibattito in vista della sessione di novembre del Parlamento Europeo in gran parte dedicata al tema della regionalizzazione. La perfetta concordanza tra l'azione del Parlamento Europeo e l'impegno degli enti regionali e locali è risultato evidente in particolare nell'intewento del Presidente della Regione Lazio, Landi, che ha visto nella Regione, da una parte, la cerniera tra lo sviluppo politico ed economico della Comunità e la dimensione ideale ed umana per la sua realizzazione e, dall'altra, il giusto livello per superare la microconflittualità degli enti subregionali. Da parte sua De Pasquale, illustrando le quattro proposte di regolamento della Commissione presentate al Consiglio dei Ministri della Comunità, ha sostenuto che finalmente si potrà realizzare il progetto che vede la politica regionale diventare l'elemento centrale dello sviluppo economico e istituzionale comunitario, rendendo così sempre più stabile e costruttivo il rapporto tra le Regioni, lo Stato e la Comunità. De Pasqzrale ha però concluso denunciando il pericolo che le Regioni vengano escluse da questa grande riforma dal governo centrale, che intende presentare un suo progetto globale contro il diritto di ogni Regione di elaborare il proprio programma, naturalmente con i necessari coordinamenti. Questo perché, forse, c'è la speranza di incamerare i fondi comunitari per compensare i tagli della legge finanziaria. È importante quindi il ruolo del Consiglio consultivo, promosso dal Consiglio dei Comuni e delle Regioni d'Europa, per un'opera di sostegno e di vigilanza sulla realizzazione della politica regionale comunitaria. Dopo l'intervento del rappresentante della Commissione di Bruxelles, che ha illustrato la proposta di riforma dei fondi strutturali avanzata dalla Commissione nelgiugno scorso, e l'intervento di numerosi esponenti regionali e locali, il Ministro La Pergola ha chiuso i lavori illustrando il disegno di legge approvato il 9 novembre al Senato contenente le norme generali sulle procedure per l'esecuzione degli obblighi comunitari. Tale disegno di legge, che dovrebbe diventare legge entro l'anno, prevede importanti innovazioni fra cui quella di una legge comunitaria con cadenza annuale, concepita e proposta come forma ordinaria di esercizio dell'iniziativa legislativa del governo a garantire continuità all'azione di adeguamento all'ordinamento comunitario. La Pergola ha anche sottolineato come il disegno di legge conferisca maggior rilievo all'autonomia delle Regioni nel produrre direttamente la normativa di adattamento alle direttive CEE. Bruxelles - ha detto La Pergola - guarda oggi con nuovo e crescente interesse ai soggetti del decentramento, e vuole coinvolgerli con compiti e responsabilità a loro appropriati, nel rafforzamento della coesione economica e sociale in tutto il territorio della Comunità. L'Italia, per la sua struttura ed esperienza di Stato regionalista, è particolarmente uocata alla coesione che significa, prima di tutto, risanamento delle aree in ritardo o in crisi. Il disegno di legge - ha concluso La Pergola - tiene in debito conto questo processo evolutivo del ruolo regionale in campo comunitario, perché data la tendenza verso il regionalismo in tutta Europa, è necessario sviluppare tutte le occasioni offerte dall'attuazione del mercato unico alfine di sviluppare il grande processo verso l'unità su basi regionali. Chiesti rapporti diretti tra Regioni e Comunità Approvata la Carta europea della regionalizzazione di Roberto Santaniello" Il dibattito sulla regionalizzazione al Parlamento Europeo. Le singole regioni devono essere considerate destinatarie delle misure adottate in materia di riequilibrio territoriale e soggetti attivi nella definizione e nella gestione dei programmi. Il cammino verso I 'unità politica del1'Europa non deve però limitarsi alla cooperazione tra strutture statali, ma fondarsi anche sulle comunità regionali. La presenza delle regioni deve essere generalizzata e potenziata Siamo oramai giunti alla conclusione del lungo iter legislativo che dovrebbe portare all'attuazione della riforma dei fondi a finalità strutturale. Durante la sessione di novembre, attraverso la procedura di cooperazione con il Consiglio dei Ministri, il Parlamento Europeo ha esaminato in prima lettura i quattro testi di applicazione dei tre Fondi strutturali comunitari: il Fondo sociale europeo, il Fondo europeo di sviluppo regionale e il Feoga sezione orientamento. Come è noto, la ristrutturazione degli interventi strutturali comunitari ha come obiettivo quello di realizzare tra gli Stati membri della CEE un sufficiente grado di coesione economica e sociale. L'obiettivo «coesione» deve accompagnare quel vasto processo di liberalizzazione che sta avvenendo all'interno del sistema economico comunitario. Da più parti, si è sempre sostenuto che la realizzazione «dello sviluppo armonioso delle attività economiche nell'insieme degli Stati membri» (così il Trattato di Roma definiva l'obiettivo della coesione) i fondi strutturali rappresentano semplicemente degli strumenti parziali ed inefficaci. È meglio ricordarlo ancora: gli interventi strutturali della CEE agiscono sugli effetti ultimi di un processo di integrazione limitato e parziale, mentre è necessario agire sulle cause reali degli squilibri economici e sociali all'interno della Comunità. La conclusione è dunque quella di superare la marginalità delle politiche strutturali comunitarie che, malgrado qualche passo in avanti, rimangono ancora politiche compensative e parziali. Con jl raddoppio delle risorse in dotazione dei fondi comunitari e con i nuovi regolamenti si resta ancora ber1 lontani dalla soglia minima di efficacia necessaria a far decollare i sistemi economici delle aree deboli. Questa è in breve l'analisi che ha sviluppato il presidente della commissione per gli affari regionali e l'assetto territoriale Pancrazio De Pasquale presentando alllAssemblea di Strasburgo, la relazione riguardante la politica regionale comunitaria e il ruolo delle regioni. Non è stato un caso che la discussione su questo rapporto sul «processo di regionalizzazione della C E E » sia avvenuta nel momento conclusivo della riforma degli interventi strutturali. La relazione D e Pasquale che ha rappresentanto il punto di partenza di una approfondi- ' Assistente al Parlamento Europeo ta discussione dell'Assemblea, si basa sul lavoro preparatorio iniziato ben sette mesi fa e portato avanti d a sei relatori appartenenti a gruppi politici differenti e provenienti da diversi aree geografiche della CEE. Si tratta del gollista francese Musso, dell'ecologista fiammingo Vandemelembroucke, del conservatore britannico Beazley, del democristiano irlandese O'Donnel, della belga Andrè e del socialista spagnolo Arbeloa Muru. I1 coordinamento delle sei relazioni di base è stato effettuato dallo stesso presidente della commissione regionale. La risoluzione De Pasquale è stata adottata aii'unanimità e con essa la Carta comunitaria della regionalizzazione (1).Per l'Assemblea di Strasburgo, la politica regionale comunitaria deve diventare un'autentica politica di riequilibrio: dunque una politica generale, aperta, con diversi gradi di concentrazione, a tutte le aree che presentino problemi di natura strutturale e congiunturale. Inoltre, la politica regionale deve essere considerata come parte integrante di tutte le politiche comunitarie, partecipando alla definizione degli obiettivi ad esse assegnati. Solo in questo modo sarà possibile per la politica regionale realizzare l'obiettivo coesione. Quest'ultimo non significherà solamente controllare l'evoluzione monetaria o l'equilibrio delle bilance dei pagamenti, ma realizzare un reale ravvicinamento dei livelli di vita e di reddito ed abbassare il tasso di disoccupazione specie nelle regioni dove maggiormente è concentrata la domanda di lavoro. Affinché la politica regionale eserciti i suoi effetti è indispensabile che sia centrata sui soggetti ultimi di tale politica, ovvero sulle regioni. Per fare questo è necessario fare in modo che le regioni siano protagoniste delle loro scelte politiche attraverso quel processo che viene definito «regionalizzazione». La presenza delle regioni deve essere generalizzata e potenziata, sia rispettando le competenze regionali, ove già esistano delle regioni, sia creandone ove non vi siano. Certamente, la definizione della Carta comunitaria della regionalizzazione rappresenta un passo in avanti importante, una presa di posizione decisa del Parlamento: essa infatti lancia un chiaro messaggio politico agli Stati membri della C E E . I1 processo di regionalizzazione della C E E va di pari passo con il processo di integrazio(1) Pubblicata sul numero di ottobre di «Comuni d'Europa>> ne europea. I1 rafforzamento delle competenze comunitarie, fino ad arrivare all'istituzione dell'unione europea, attraverso il progressivo trasferimento di potere alle istituzioni comunitarie, deve andare di pari passo con il decentramento di determinate funzioni non solo amministrative, ma anche di co-decisione e di co-gestione, ad autorità regionali che siano rappresentative della volontà popolare. Come si vede si tratta di un esplicito messaggio da parte dell'Assemblea. I1 rapporto diretto Comunità/Regione consentirebbe l'informazione e il coinvolgimento della cittadinanza europea in merito alle politiche comunitarie, nella convinzione che il cammino verso l'unità politica dell'Europa non possa limitarsi alla cooperazione tra strutture statali, ma debba fondarsi anche sulle comunità regionali e sul potenziamento della loro autonomia: un tale rapporto valorizzerebbe le particolarità delle regioni e rispetterebbe gli interessi, le aspirazioni e il patrimonio storico, linguistico e culturale che sono propri di ciascuna Regione. La relazione De Pasquale riconosce l'importante ruolo che hanno svolto associazioni delle regioni e dei poteri locali in Europa come il CCRE «onde sviluppare la consapevolezza sulla necessità di istituire le regioni nel contesto europeo e altresì riguardo al ravvicinament o delle competenze riconosciute alle regioni nei diversi Stati membri*. I1 Parlamento Europeo formula anche delle precise proposte: chiede infatti alla Commissione esecutiva di favorire l'instaurazione di relazioni dirette con le singole regioni. Chied e inoltre che le Regioni siano sempre riconosciute quali destinatarie delle misure comunitarie e come soggetti attivi nella definizione e nella gestione dei programmi. Si prevede inoltre l'istituzionalizzazione dei rapporti tra l'Assemblea stessa e le singole amministrazioni regionali e locali. In conclusione, il Parlamento Europeo, che in corrispondenza delle terze elezioni dirette si appresta ad iniziare una nuova fase costituente al fine di realizzare l'Unione europea, ritiene fondamentale che qualsiasi passo in avanti sulla via dell'unità politica dell'Europa offra la possibilità di istituzionalizzare la rappresentanza democratica delle regioni e conferisca alle autorità regionali e locali le competenze necessarie affinché queste possano partecipare attivamente alla realizzazione dell'unione politica, sociale ed economica dell'Europa. W COMUNI D'EUROPA la risoluzione conclusiva della I1 Conferenza nazionale Il nuovo volto dell'emigrazione non esclude un forte impegno per i diritti civili e sociali Portare le decisioni a livello locale Si è conclusa sabato 3 dicembre la II Conferenza nazionale dell'emigrazione. Senza entrare nel merito di una cronaca che tempestivamente tutti i quotidiani nazionali hanno già riportato, ricordiamo che il Consiglio dei Comuni e delle Regioni d'Europa, già il 16 settembre, a Madrid, aveva approvato una risoluzione sull'esercizio dei diritti elettorali a livello comunale da parte dei cittadini di paesi della Comunità e residenti in un altro Stato membro. Inoltre I'AICCRE aveva partecipato tramite il segretario generale e il segretario generale aggiunto alla preconferenza europea di Strasbulgo sui medesimi temi. In quell'occasione, Martini e Pellegrini avevano collegato, in particolare, i problemi degli emigranti alla prospettiva della cittadinanza europea e alla necessità, in vista del 1992, di armonizzare i diritti dei cittadini europei ai livelli più alti, eliminando discriminazioni, ingiustizie e squilibri. «Comuni d'Europa» aveva ospitato in settembre un articolo del segretario generale del Comitato organizzativo della II Conferenza nazionale dell'emigrazione, Mario Sica, suii'estensione del voto ai cittadini di altri paesi comunitari. Infine, sempre «Comuni d'Europa» ha diffuso, durante i giorni della Conferenza, un ampio inserto del numero di novembre della rivista, interamente dedicato al voto agli emigranti, dove, insieme ad una vasta documentazione, appariva un articolo del parlamentare italiano Alberto Aiardi, presidente della Federazione abruzzese dellJAICCRE,un'intervista al commissario CE Carlo Ripa di Meana ed un articolo della parlamentare europea Francesca Marinaro: ad essi rimandiamo il lettore. L'AICCRE intende svolgere un ruolo rilevante nella sensibilizzazione, in sede europea e nazionale, delle istituzioni competenti per l'attuazione delle conclusioni e proposte emerse dalla II Conferenza dell'emigrazione e in particolare di Comuni, Province e Regioni nella loro azione non solo nel campo della libera circolazione all'intemo della Comunità, ma anche per la soluzione dei problemi sempre più attuali posti dai flussi migratori di paesi terzi verso il nostro paese. Pubblichiamo qui a fianco il testo della risoluzione finale della Conferenza. COMUNI D'EUROPA Richiesta una incisiva azione del Parlamento, del Governo e delle Regioni in materia di sicurezza e previdenza sociale, assistenza sanitaria, integrazione sociale e partecipazione politica nel Paese di residenza. Le questioni particolari relative all'area della Comunità europea: rivendicato il diritto di voto e l'eleggibilità sia a livello comunale che nelle liste locali per le elezioni europee. Discussi i problemi relativi ai settori della cultura e della scuola, della stampa e dell'informazione, del voto all'estero, del volontariato e dei rapporti con le comunità all'estero nel campo economico La seconda Conferenza nazionale dell'emigrazione, riunita in Roma dal 28 novembre al 3 dicembre 1988. rivela le profonde modificazioni intervenute nella condizione generale e nell'evoluzione del processo di integrazione delle nostre comunità all'estero e l'istanza di una loro nuova soggettività sociale, economica e politica, quali sono emerse nel corso degli incontri nazionali organizzati nei singoli paesi, nelle quattro preconferenze continentali di New York, Buenos Aires, Strasburgo e Melbourne, ed infine negli stessi dibattiti in assemblea plenaria e nelle commissioni d i lavoro della seconda Conferenza prende atto che, pur nella mutata situazione generale del nostro Paese contrassegnata oggi da significative innovazioni produttive e da importanti cambiamenti socio-culturali, sussiste un profondo divario tra i ritmi di sviluppo e di occupazione del Centro Nord e del Sud del Paese, con la conseguenza del grave fenomeno della disoccupazione di milioni di lavoratori, particolarmente giovani e donne, cui si accompagna il recente instaurarsi di un importante flusso immigratorio dal Terzo Mondo ritiene particolarmente importante in questo quadro garantire sia in Italia che all'estero il pieno rispetto dei diritti dei lavoratori e dei livelli di protezione e sicurezza sociale. La Conferenza - facendo proprie critiche, rilievi e giudizi da più parti espresse per carenze, ritardi e disattenzioni sui problemi degli italiani all'estero, anche rispetto alla prima Conferenza nazionale dell'emigrazione - afferma che la politica dell'emigrazione e delle comunità all'estero deve rappresentare una questione nazionale. Nelle mutate condizioni storiche la Conferenza afferma la convinzione che le comunità all'estero rappresentano un valore positivo per la crescita della società locale e di quella italiana, e costituiscono oggi più che ieri una risorsa strategica che esige di essere riconosciuta e valorizzata, anche in quanto fattore essenziale della politica interna ed estera del Paese. La Conferenza esprime la riconoscenza della Nazione ai connazionali che in ogni continente in più di un secolo hanno testimoniato e testimoniano, con il loro lavoro e sacrificio, le capacità del nostro popolo e, nella fedeltà alle radici e agli ideali della madrepatria, hanno contribuito al civile progresso di ogni Paese del mondo. Per il loro impegno e per i loro sentimenti, per le prestigiose opere realizzate ovunque, per i valori morali e spirituali e gli interessi e materiali che interpretano, per l'apporto economico dato all'Italia nel corso degli anni, gli italiani all'estero ed i loro discendenti sono e rimangono componenti vivi delle comunità nazionale. La Conferenza rivolge un cordiale saluto ai popoli dei Paesi in cui risiedono le comunità italiane all'estero e di cui esse costituiscono parte integrante. I n conseguenza di ciò, la Conferenza avanza la richiesta di un puntuale programma di iniziative legislative, di azione politica e di efficaci interventi amministrativi dai quali emerga chiara ed inconfondibile la volontà politica del Parlamento, del Governo e delle Regioni di dar corso ad atti concreti e decisioni precise, in modo da determinare una prassi ed un indirizzo nuovi. La Conferenza impegna quindi il Governo ed il Parlamento e le Regioni, ciascuno per la parte di propria competenza, a sviluppare una politica articolata, flessibile e maggiormente coordinata, adatta alle diverse esigenze dei vari Paesi ed aree continentali, sulle linee seguenti: a) nel campo della tutela e dei diritti, è necessario un costante impegno anche negoziale del Governo in materia di sicurezza e previdenza sociale, assistenza sanitaria e contro le doppie imposizioni, basato su una ampia consultazione delle forze sociali e dei patronati; si rende indilazionabile il definitivo superamento degli attuali ritardi nel pagamento delle pensioni; è inoltre urgente una specifica considerazione della situazione degli emigrati anziani indigenti, in particolare nell'America Latina, con l'istituzione a loro favore di un apposito assegno sociale; è urgente l'approvazione di un prowedimento legislativo volto ad accrescere le garanzie per i lavoratori al seguito delle imprese, o comunque assunti o distaccati presso filiali estere di società italiane o da esse controllate, anche tramite l'istituzione di un fondo speciale; un'azione al fine di migliorare e rendere meno precaria la condizione sociale e giuridica del lavoratore frontaliero; infine un'azione più coordinata di Stato e Regioni a favore degli emigrati che rimpatriano, in primo luogo mediante una sollecita approvazione del disegno di legge sul rapporto StatoRegioni; b) nel campo dell'integrazionesociale e della partecipazione politica nel Paese di residenza, si sottolinea la necessità di progressi maggiori in materia di integrazione; tale processo deve soprattutto svilupparsi nell'attenzione alle esigenze delle giovani generazioni e nel sostegno a politiche di integrazione sociale degli anziani e degli invalidi; esso deve poi trovare il suo sbocco coerente in un'attiva partecipazione alla vita del Paese di residenza, tramite il libero esercizio, anche nel campo politico , dei diritti di espressione, riunione e associazione, ed il diritto di voto e di eleggibilità almeno a livello comunale; C) in particolare è nellarea della Comunità Europea che il principio «da emigrato a cittadino» deve diventare una realtà, tramite la realizzazione di un'effettiva parità nel campo economico e sociale e l'istituzione della «cittadinanza europea* che comporti - almeno per ogni cittadino comunitario - il diritto di voto e eleggibilità sia a livello comunale che nelle liste locali per le elezioni europee, il diritto di accesso ai pubblici uffici e il diritto di soggiorno in ogni punto del territorio della Comunità. L'Italia dovrà quindi continuare ed intensificare un'azione in questo senso, riconoscendo essa stessa, per prima, questi diritti ai cittadini degli altri paesi comunitari residenti nel suo territorio; in questo contesto si sottolinea l'importanza del disegno di legge per la revisione degli art. 48, 50, 5 1 e 54 della Costituzione, recentemente approvato dal Governo, e se ne auspica una sollecita approvazione parlamentare anche al fine di recepire le indicazioni più volte espresse in materia dal Parlamento Europeo e dalla Commissione delle Comunità Europee; d) per quanto riguarda la particolare condizione della donna emigrata, che soffre di difficoltà aggiuntive in quanto donna, si chiede al Governo di adottare ogni opportuna iniziativa di sostegno per una effettiva parità nei diritti del lavoro, della formazione professionale, dell'integrazione sociale; si chiede alle associazioni e ai partiti di offrire alla componente femminile maggiori spazi di presenza e di partecipazione anche rappresentative; si sollecita la Commissione per la parità uomo-donna ad inserire nelle proprie strutture rappresentanti delle donne residenti all'estero; e) per quanto riguarda il vasto settore dell'educazione, della scuola, della cultura e della formazione professionale si chiede al Governo e al Parlamento di approvare sollecitamente i disegni di legge sulle «iniziative scolastiche e interventi educativi» (riforma della legge 153), sull'«insegnamento della lingua italiana» e sulla «riforma degli Istituti di Cultura*, e di adeguare le iniziative riferite agli interventi di preformazione e di formazione professionale; ciò per rendere finalmente più ampi e flessibili gli interventi in tali settori, ai quali occorrerà anche destinare maggiori risorse; gli interventi proposti dovranno inserirsi nel sistema scolastico e formativo locale e favorire una dinamica ed un confronto interculturale tali da arricchire la società locale e le stesse comunità italiane; la riforma degli istituti di Cultura dovrà metterne l'attività anche in rapporto con le esigenze delle comunità italiane e con le iniziative culturali delle Regioni; occorrerà giungere - particolarmente nell'Europa del '92 - ad una migliore applicazione della direttiva scolastica del 1977, ad una progressiva integrazione dei sistemi scolastici nazionali e ad un riconoscimento completo ed automatico dei titoli di studio e delle qualifiche professionali, per venire incontro alle nuove esigenze di mobilità. In particolare nei paesi transoceanici opportune iniziative nel campo dell'informazione e della cultura debbono consentire alle comunità italiane all'estero di conservare o riscoprire le proprie origini e tradizioni culturali e acquisire una migliore conoscenza dell'Italia di oggi. Infine - nel prendere atto dei positivi risultati dell'accordo CONI-MAE del 1984 - si chiede di intensificare l'azione nel settore dello sport italiano all'estero e delle attività di tempo libero, anche per quanto concerne gli anziani, aumentando i relativi stanziamenti di bilancio e migliorandone l'articolazione operativa; - voto all'estero: la Conferenza conferma il principio - finora disatteso - che il cittadino residente all'estero deve esser messo in grado d i esercitare il diritto di voto nelle elezioni italiane senza dover rientrare in Italia. A tal fine, superate le pregiudiziali dell'anagrafe e del censimento e in via di superamento quella della cittadinanza, la Conferenza, tenendo anche conto delle iniziative legislative e dei lavori parlamentari sviluppati in tale materia nel corso delle precedenti legislature, impegna il Governo e i1 Parlamento ad approvare, conformemente ai principi della Costituzione, una normativa relativa all'esercizio del diritto di voto all'estero; - l'associazionismo ed il volontariato, nelle diverse forme in cui sono riusciti ad esprimersi e ad operare pur in un quadro istituzionale precario, hanno rappresentanto un riferimento prezioso per le comunità italiane all'estero. La platea della I1 Conferenza nazionale dell'emigrazione f) per il settore della stampa, dell'inforrnaxione, della radioteleuisione e degli audiovisivi in genere, si sottolinea la necessità di realizzare un coordinamento - tramite una legge quadro o in altro modo - degli interventi dello Stato e degli altri enti pubblici in tale materia. Poiché si ritiene necessario rendere più moderno e razionale il sistema informativo scritto e parlato, considerato unitariamente come sistema multimediale prodotto all'estero ovvero prodotto in Italia e destinato all'estero - ma collegato alla rete informativa italiana, appare indispensabile un'adeguata utilizzazione delle norme vigenti affinché un flusso di notizie mirate, di messaggi pubblicitari istituzionali, di rinnovata professionalità, consenta una migliore informazione delle nostre comunità e una migliore promozione dell'«immagine Italia». Accordi internazionali dovrebbero consentire di raggiungere nei più brevi termini di tempo con le immagini televisive dall'Italia tutte le comunità italiane nel mond o (iniziando da quelle in Europa). g) per quanto concerne la domanda delle comunità all'estero di partecipare alle scelte della società italiana, in particolare a quelle che le concernono direttamente, si sottolineano i seguenti punti: L'associazionismo resta, anche nel nuovo contesto, una risorsa da valorizzare e tutelare. I1 dibattito sulla situazione attuale e sulle prospettive d'ordine sociale, culturale e politico ha posto in evidenza tra i diritti dei cittadini all'estero anche quello di associazione, finora non sufficientemente tutelato. I n particolare, la seconda Conferenza, sottolinea il legame vitale tra i nuovi organismi di rappresentanza e l'associazionismo, che devono trovare modalità efficaci di raccordo e di collaborazione nel rispetto dei relativi ruoli e finalità istituzionali; - Coemit: la Conferenza - assumendo come riferimento l'ordine del giorno presentato dal gruppo di lavoro istituito dal comitato organizzatore nel tema dei Coemit - ritiene che ai Comitati dell'emigrazione italiana, quali nuovi strumenti di partecipazione democratica delle comunità all'estero, debbano essere attribuiti, se necessario tramite una modifica legislativa, un supporto di segreteria e funzioni definite con precisione, che - in pieno coordinamento con le Rappresentanze diplomatiche e consolari - consentano un'azione efficace nei settori previsti dalla legge; a tal fine (segue a pag. 21) COMUNI D'EUROPA lettera dall'America Un'opera di ragione da ricominciare mille volte di Gianfranco Martini L'incontro con alcuni studiosi del gruppo di Chicago (fondato negli anni '40per approfondire il tema di una autorità mondiale dal punto di vista della filosofia politica» e le recenti giornate di studio dedicate a Maritain, sollecitano alcune riflessioni tra il pensiero del filosofo francese e l'impegno culturale e politico dei federalisti. Il passaggio dagli stati sovrani ad una organizzazione sovranazionale basata sul libero consenso di uomini e donne è opera di lunga durata «il cui progresso non è compromesso che quando essa disperi in se stessa» Caro direttore, ho scelto la forma di una (troppo lunga?) «Lettera al Direttore))a preferenza di un normale articolo perché più consona, mi pare, ad esprimere considerazioni personali suggerite da un mio recente viaggio negli Stati Uniti - e precisamente alla Notre Dame University -, su invito dell'American Maritain Association e come membro dell'lstituto Internazionale Jacques Maritain. Non quindi una visita direttamente collegata al mio impegno europeo e tanto meno alla mia qualifica di Segretario generale dell'AICCRE ma, come si vedrà nel seguito di questa lettera, tale da suggerire interessanti motivi di riflessione che a questo impegno e a tale qualifica si riannodano, arricchendoli in termini di cultura politica. Ciò chiarisce perché scrivo al Direttore di «Comuni d'Europa» chiedendo ospitalità sulla rivista. Chi ha letto «L'uomo e io Stato» di Jacques Maritain, pubblicato nel 1951 negli Stati Uniti dalla «The University of Chicago Press» e scritto in inglese frutto di sei lezioni tenute nel 1949 sotto gli auspici della Charles R. WoigreenFoundationfor the Study of American Institution), ricorderà l'ultimo capitolo dal titolo «Il problema del governo mondiale». Questo tema è stato evocato nel Simposio della Notre Dame University, con la partecipazione anche di alcuni studiosi che in quell'epocafacevano parte del «Gruppo di Chicago»,fondato proprio per approfondire il problema di una autorità mondiale dal punto di vista della filosofia politica: non si dimentichi che tale Gruppo cominciò a svolgere la sua rifessione proprio 6 giorni prima dello sganciamento della bomba atomica su Hiroschima, quando acutissimo era l'interesse per l'assetto che le relazioni mondiali avrebbero dovuto assumere per evitare il ripetersi delle immuni tragedie della guerra. Tema questo che, rapportato ad una realtà più circoscritta ma decisiva per il destino dei popoli, cioè quella europea, ha dato vita ad analoghe riflessioni e proposte per unautorità politica «europea», cioè per un «govmo europeo». Basti pensare allo slogan dei federalisti «unificarel'Europa per unificare il mondo». Il Gruppo di Chicago si diede il compito di preparare e risvegliare la coscienza comune alla necessità imperiosa di avanzare verso la meta dell'unificazionepolitica nel mondo, con un lavoro approfondito e continuo prima di tutto di educazione e di illuminazione, di discussione e di studio avente ad oggetto il problema fondamentale della pace duratura nel mondo, che poi corrisponde a quello della sopravvivenza dei popoli. Il punto di partenza fu la convinzione (siamo nel 1944) della interdipendenza dei popoli, non COMUNI D'EUROPA solo economica, ma politica, e quindi basata non solo, come scrive Maritain, sulla natura e sulla materia, ma sulla ragione e sulla libertà come essenziali determinanti del processo politico. Forse la signora Thatcher potrebbe utilmente rileggere quelle pagine, per verificare la compatibilità della sua apertura all'interdipendenza economica tra i paesi europei e la sua chiusura alla in- Jacques Maritain terdipendenza politica, cioè, in altre parole, ail'esercizio in comune della sovranità. La questione della sovranità nazionale era infatti ben presente al Gruppo di Chicago e a Maritain. Ricordarlo è utile ancor oggi quando personalità politiche della Comunità europea e di alcuni Stati che la compongono riscoprono questo problema fondamentale e, quindi, il federalismo. Le pagine di «L'uomo e lo Stato» hanno espressioni fortissime a questo proposito. Unfattore - scrive Maritain - gioca una parte decisiva nello sviluppo dell'alternativa «o pace dure- vole o vero rischio di distruzione totale»: ed è «lo Stato moderno con la sua falsa pretesa ad essere persona, persona sovraumana, e di godere, conseguentemente, il diritto alla sovranità assoluta». Di qui il giudizio di Maritain sulla Lega delle Nazioni e poi sull'ONU, il cui lavoro, che non va certo sottovalutato, rimane inevitabilmente precario e sussidiario, perché ((questeistituzioni sono organi creati e messi in azione da Stati sovrani di cui possono solo registrare le decisioni)). Alla cosiddetta sovranità assoluta degli Stati moderni si aggiunge, come ostacolo alla pace durevole, «l'urto dell'interdipendenza economica sulla fase presente, irrazionale, di evoluzione politica, in cui nessuna organizzazionepolitica mondiale corrisponde alla unificazione materiale del mondo» (sono ancora citazioni testuali dal libro di Maritain, più volte richiamato). Mortimer Aùier, un amico di Marituin e membro delgruppo di Chicago (che ho incontrato alla Notre Dame University e che è docente all'Università di Chicago), scriveva allora nel suo «How to think about War and Peace~(1944) che «l'unica causa di guerra è l'anarchia» cioè «la condizione di quelli che cercano di vivere insieme senza governo))(cioèsenza che ciascuno rinunci alla propria sovranità). Non è forse la condizione attuale degli europei o, quantomeno, di quegli europei (siano essi responsabili degli Stati o cittadini) che non si pongono o respingono il problema del «governo democratico europeo»? Maritain, come è noto, appartiene alla scuola filosofica neo-tomista e alcuni concetti tradizionali di S. Tommaso (e prima di lui, di Aristotele) gli sono abituali; tra questi quello di «società perfetta))alla quale è essenziale l'autosufficienza reale (anche se relativa) e che è chiamata ad assicurare il bene primario della pace. Ma quando regioni, nazioni, stati particolari non sono più capaci (come avviene oggi in Europa e nel mondo) di raggiungere né la pace né l'autosufficienza, non sono più società perfette e nasce la necessità di una società più ampia, determinata daila sua capacità di raggiungere l'autosufficienza e la pace: nell'attuale stadio della storia dell'umanità, ciò è rappresentato dalla Comunità internazionale organizzata politicamente, di cui una Unione europea può esser prefigurazione e tappa parziale. Utopia? Sì, se attribuiamo a questa parola il significato di una realtà non ancora realizzata, ma razionalmente possibile e auspicabile: Maritain si pone ilproblema e conclude che è dovere dell'energia e dell'intelligenza umana di non renderla, alla lunga, impossibile. Il nodo è proprio qui: non contemplare puramente e semplicemente l'idea del governo mondiale (e prima di esso, europeo) ma avanzare proposte tali - dice Maritain - da esasperare i «realisti» pessimisti e stimolare invece il pensiero e la meditazione di uomini di buona volontà e di lungimirante inventiva. Del resto proprio il gruppo di Chicago elaborò e pubblicò nel 1948 un «Disegno preliminare di una Costituzione mondiah, la cui lettura, dopo 40 anni, è ancora stimolante. Come non riannodare l'attuale battaglia dei federalisti europei per una «Carta Costituzionale» dell'unione europea (e quindi per un processo costituente svolto dal Parlamento Europeo che sarà espresso dalle elezioni del giugno 1989) a questa intuizione del Gruppo di Chicago (ma anche di altri) di tanti anni fa? Si noti che il passaggio dal sistema degli Stati sovrani ad una organizzazione politica mondiale (che, precisiamo non esclude ma anzi postula un approccio graduale passando per il livello europeo) non è un cambiamento solo nella dimensione dell'estensione, bensi prima di tutto nella dimensione della profondità. Maritain aggiunge: «un cambiamento nella intima struttura della moralità e socialità dell'uomo». Quanti oggi (uomini politici e di cultura, forze politiche, mass media, ecc.) sono convinti di questo passaggio da un «ordine» ad un altro? E se pure ne sono convinti, quanti ne parlano, quanti vi fanno riferimento nei loro discorsi, nei loro scritti, nella loro azione? Quanti ne faranno in questa ottica corretta, quando si tratterà, tra pochi mesi, di affrontare le elezioni per il Parlamento Europeo? Se fosse solo il pessimismo a ispirarli, la sfiducia nelfuturo, potrebbero leggere una piccola nota de «L'uomo e lo Stato»: «quest'opera di ragione (il passaggio dagli Stati sovrani allJorganizzazione politica che potremo chiamare sovranazionale, con unautorità corrispondente basata sul libero suffragio di uomini e donne) è opera di lunga durata, da ricominciare mille volte (il corsivo è mio), ma il cui progresso non è compromesso che quando essa disperi di se stessa». E, per finire questo troppo lungo «souvenir d'tlmerique*, Maritain fa un rijerimento che si ricollega a quella filosofia che ha sempre ispirato il CCRE e I'AICCRE. Esso scrive testualmente: «questo pluralistico colpo politico mondiale (è una distinzione di fondo del suo pensiero politico, quella tra Stato e colpo politico o società politica) sarebbe formato non solo da istituzioni nazionali e sovranazionali richieste dall'autorità mondiale, ma prima di tutto anche dai colpi politici particolari in sé, con h propria struttura, la propria entità nazionale e culturale, le proprie multiformi istituzioni e comunità». Il che equivale ad auspicare una società e una organizzazione politica ispirata ai principi del federalismo. Del resto Maritain, fin da1 1940 ancora all'inizio della seconda guerra mondiale, aveva sottolineato che «una soluzione federale apparirà come l'unica via di uscita per l'Europa e per la stessa Germania». Vecchia tentazione dei filosofi che vorrebbero che la ragione, tramite certi saggi, fosse accettata come autorità nelle questioni umane? Tentazione sempre meno pericolosa, risponde Maritain, della convinzione di tantifatalisti per i quali si deve evitare con cura ogni fiducia nella ragione, per quanto riguarda la condotta dell'uomo e dello Stato. ¤ I1 nuovo volto dell'emigrazione (segue dn pag. 13) deve anche essere adeguatamente aumentato il capitolo di bilancio relativo ai contributi per il funzionamento dei Coernit; infine, specie nei paesi transoceanici si raccomanda di prevedere nell'ambito dei Coemit uno spazio maggiore alle persone di origine italiana che siano attive nell'ambito della comunità italiana; - Consiglio Generale degl'ltaliani all'Estero: nel far proprie le proposte del gruppo di lavoro istituito dal comitato organizzatore, che tendono a rendere più incisivi il ruolo e le funzioni del Consiglio Generale degli Italiani all'Estero, si sottolinea l'urgenza dell'istituzione di tale organismo, che ai compiti permanenti di rappresentanza generale degl'italiani al- di bilancio adeguati, e l'attribuzione di nuovi compiti, in particolare nei settori della cultura e dell'economia, anche nell'ottica deila scadenza europea del 1992; h) per quanto riguarda i rapporti con le comunità all'estero nel campo economico si chiede: - l'introduzione di strumenti adeguati alle esigenze del moderno sistema finanziario e industriale che agevolino l'impiego redditizio e produttivo di tali risparmi e la loro tutela al momento del rientro in patria; - nei Paesi in via di sviluppo ove risiedono consistenti comunità italiane, il coinvolgimento di queste ultime nelle attività realizzate mediante i fondi messi a disposizione dalla politica di cooperazione allo sviluppo; - l'incremento dell'utilizzazione dello strumento delle joint ventures tra aziende in cui Un momento della presidenza della Conferenza. Da sinistra: Storti presidente del CNEL, Bona- lumi sottosegretario agii esteri, Andreotti ministro degli esteri 1 l'estero unisce quello essenziale di seguire l'attuazione delle conclusioni della Conferenza; la Conferenza accoglie altresì la proposta di conferire al Consiglio una «dignità costituzionale» (ciò che consentirebbe di attribuirgli il potere di iniziativa legislativa); essa sottolinea infine la necessità che la legge sia approvata entro i primi 6 mesi del 1989 e che in tale periodo venga convocata un'ultima riunione del comitato organizzatore della Conferenza per l'esame dei risultati della stessa; - Cittadinanza: si esprime accordo coi principi ispiratori del testo approvato dal Governo, che consentirà la possibilità di mantere o riacquistare la cittadinanza italiana per i naturalizzati, e se ne auspica una sollecita approvazione parlamentare, cui dovrà far seguito un'accurata informazione all'estero; - Rapporto Stato-Regioni: il Governo è sollecitato ad emanare senza ulteriori indugi il disegno di legge relativo al coordinamento degli interventi dello stato e delle Regioni a favore delle comunità all'estero e all'istituzione del Fondo sociale per gli italiani che rimpatriano; - Ristrutturazione della rete consolare: si chiede che nell'ambito della riforma del Ministero degli Affari Esteri sia ristrutturata e potenziata la rete consolare, tramite l'assegnazione di personale sufficiente e ben qualificato, la dotazione di mezzi tecnici e moderni e fondi operano italiani all'estero e aziende italiane. La Conferenza chiede inoltre che la spesa a favore delle comunità italiane all'estero effettuata dai vari Ministeri, dalle Regioni e da altri Enti pubblici sia meglio coordinata e finalizzata, utilizzando anche lo strumento del Consiglio Generale degl'Italiani all'Estero come organo di proposta e di programmazione della spesa. La Conferenza, memore delle sofferenze legate alla vicenda secolare dell'emigrazione italiana la cui memoria storica va studiata, preservata e valorizzata, sottolinea la necessità inderogabile per l'Italia di sviluppare una politica immigratoria basata sul rispetto della dignità umana e dei diritti dei lavoratori che respinga ogni forma di xenofobia e di razzismo, e chiede al Governo la convocazione di una Conferenza nazionale ~ull'immi~razione. La Conferenza infine, cosciente delllimportante e crescente funzione delle vaste e radicate comunità italiane all'estero - patrimonio che l'Italia, unica tra tutti i Paesi industrializzati, può vantare - afferma che l'attuazione di una politica di maggior interconnessione tra comunità residenti nella madrepatria e comunità italiane all'estero è e sarà garanzia di un comune sviluppo e crescita civile, e strumento di cooperazione tra i Paesi, di solidarietà tra gli uomini, di pace nel mondo. . COMUNI D'EUROPA Riflessione di fine anno (segue da pag. 2) sto le popolazioni costringano i governi nazionali a convocare l'Assemblea Costituente». Venti anni dopo (Alessandro Dumas non c'entra), nel 1975 agli Stati generali di Vienna, insistemmo perché le prossime elezioni europee dirette (che poi si svolsero nel 1979) trasformassero il Parlamento Europeo in una Costituente (e Spinelli ciò tentò audacemente: i governi nazionali s'incaricarono poi di calpestare il progetto di Unione politica, che i1 Parlamento Europeo aveva approvato a larga maggioranza nel febbraio 19841. Nel 1955 i governi nazionali in luogo di costruire l'Europa federata stavano ricostruendo l'Europa prebellica di nazioni contrastanti e litigiose (solo che i litigi dovevano ora fermarsi alle soglie della guerra - le armi servivano per «difendersi» dall'URSS - e un po' d'Europa, nei limiti in cui si presentava come «un buon affare» per gli interessi privilegiati, poteva anche costruirsi, a condizione che non fosse controllata democraticamente). La storia del piano Marshall - quello, beninteso, che era nelle intenzioni di alcuni roosveltiani - è stata clamorosa in proposito. I1 generale Marshall dichiarò subito: «Una cosa è chiara già ora: prima che gli Stati Uniti continuino i loro sforzi per il miglioramento della situazione e possano contribuire al processo di risanamento del mondo europeo, i paesi d'Europa debbono raggiungere un'unione fra di loro». Questa considerazione concordava con un disegno della Resistenza europea (di cui Walter Lipgens è il maggior storico) - la costituzione di una federazione democratica sovranazionale -, che ebbe un riflesso nella creazione a Montreux (1947) delllUnion euvopéenne des fédéralistes. Ma - c'è un «ma» questo disegno fu bruciato dai governi nazionali di un'Europa distrutta, in cui tuttavia burocrazie (di Stato e di partito), corporazioni, interessi privilegiati stavano riprendendo fiato: i governi nazionali di sedici paesi europei non solo respinsero la parte politica del disegno della Resistenza (bloccato anche, in Francia e in Italia, col contributo del «comunismo nazionale»), ma non seppero neanche elaborare un comune programma economico (perciò niente mercato comune, ma ricostruzione d i tante economie separate e «protette»: oggi siamo ancora ad aspettare il mercato unicoj. Di qui originarono le dimissioni di William Clayton, sottosegretario americano agli esteri per gli affari economici, quando vide che il governo americano cedeva all'antifederalismo dei governi nazionali europei: anche il piano Marshall poteva regredire al livello di un «buon affare». Dietro le spalle di Clayton c'era idealmente il progetto di risoluzione presentato al Congresso (21 marzo 1947) da Fullbright e dal senatore Thomas dell'utah, perché il Congresso stesso favorisse «the creation of United States of Europe within the framework of the United Nations». Oggi Delors ci annuncia che, per il momento, di moneta comune e di banca centrale europea non se ne parla: questi continuano ad essere i governi nazionali, che sen- za una poderosa e consapevole spinta dal basso COMUNI D'EUROPA non riusciranno mai a costvuire lJEuvopasovranazionale e democvatica. L'avanguardia che manda avanti la forza federalista - e che dovrebbe mobilitare, contro il circuito corporativo, il fronte democratico europeo - non è affatto massimalista, accetta il gradualismo, si è «compromessa» con la politica. Abbiamo deciso di non bocciare l'Atto unico (il «topolino» di Lussemburgo), ma di prenderlo in parola e lavorarci dentro: lavorarci, perché preso così, nudo e crudo, oltre che un mito è un'aberrazione e ne pagherebbero tutti le spese, produttori (non di rapina ) compresi. Quindi moneta comune e banca centrale, armonizzazione fiscale, spazio sociale, politica regionale come orientamento di tutto lo sviluppo (sviluppo comune, basato su politiche economiche convergenti), sicurezza comune, commercio estero comune, comune aiuto ai Paesi della fame (senza ambiguità neoimperialiste), superamento del preoccupante - a dir poco - deficit democratico. Ma la Thatcher arriva provvidenziale in ogni momento per offrire una pezza ai buchi dell'europeismo degli altri governi: rappresenta l'alibi benedetto per governi che non sanno o non vogliono o non possono fare l'Europa; come altra volta l'alibi era d e Gaulle. Quindi spetta a noi, spetta ai federalisti, spetta al CCRE se vuole e sa esser una associazione realmente politica (non puramente sindacale) e federalista, spetta ai democratici coerenti di dare una spinta decisiva ai governi: coi governi o contro i governi si deve unire l'Europa, come si deve difendere democrazia e libertà di tutti fino all'ultimo briciolo di energia. Lavoriamo pure dentro l'Atto unico, combattiamo per il mandato costituente al Parlamento Europeo, diamoci da fare per gli strumenti politici che permettano questo mandato: ma ricordiamo che non esiste ultima spiaggia e che nessuno scacco politico segnerà la fine della nostra guerra. Siamo noi, che dobbiamo rimanere il motore del processo federalista - gradualisti, finché la pazienza ci basta: mai opportunisti -, noi e con noi le nuove generazioni che educheremo e che stiamo educando: ma chi o cosa darà l'impulso a questo nostro motore? Quale visione della vita e del mondo, quale filosofia, quale intima persuasione mobiliterà costantemente i mobilitanti? Siamo nella stagione - pare - in cui l'ideologia è morta: vediamo. Trascurando i varii significati che alla parola ha attribuito il Settecento, in Marx l'ideologia aveva acquistato una accezione negativa, di rappresentazione illusoria che ricopre la realtà vera delle cose e della storia; o, se volete, di rappresentazione degli aspetti sovrastrutturali di una società rispetto agli aspetti strutturali, che in realtà la determinano e la muovono. I n Sorel o in Gramsci, tuttavia, e direi nell'accezione comune il termine ha acquisito un significato meno illusorio: per Sorel l'ideologia è un mito, che può svolgere la funzione di polo attrattivo e quindi ne è positivamente uno stimolo dell'azione sociale e politica; per Gramsci è una concezione del mondo, senza la quale l'azione politica è frammentaria e disorganizzata. Per altro l'ideologia è via via sempre più apparsa con due caratteristiche: come, cioè, una visione del mondo che continua a muovere gli uomini anche quando, sul mondo e sugli stessi uomini, si sono acquisiti nuovi dati, che dovrebbero modificare alcuni punti di partenza dell'ideologia stessa - la quale tende a presentarsi invece come ossificata -; e come una visione del mondo esclusivista, e pertanto dogmatica e totalizzante - fonte dunque di incomprensione tra gli uomini e di imposizioni forzose sugli uomini -. Si spiega così donde è mossa la critica più ragionevole dell'ideologia e dell'ideologismo: ma sorge subito anche il dubbio che, con una lotta politica basata su una visione che si dice puramente pragmatica, l'umanità sia allo sbando: il pragmatismo diviene presto opportunismo, l'homo homini lupus non ha mediazione, si finisce (prima di Un gemellaggio sul cammino per l'Unione europea Un momento della manifestazione per il gemellaggio tra Baschi e Vernoux en Vivarais ' Locke c'è Hobbes!) per cadere nell'alternativa «o il caos o il Fuehrer» (che può prendere le vesti più strane, anche quelle religiose: la paura del caos può assumere aspetti mistici). Qui nasce il problema: dobbiamo con l'ideologia rinunciare anche all'utopia? Con il corollario, per altro fondamentale, che lo «spirito della nostra epoca» esige sia affrontato: chi e cosa ci muoverà a batterci per l'Utopia nella stagione della morte di Dio, dell'Amor Fati cioè della contemplazione disincantata del fluire degli eventi giudicati immodificabili o, almeno, immodificabili con un «velleitario» eroismo individuale -, della demistificazione dello storicismo, dell'alternativa fra il ritorno ai presocratici e il pensiero «debole»? Recentemente l'istituto italiano «Jacques Maritain» ha organizzato un breve e utile seminario - «Convergenze morali e pluralismo politico nella realtà italiana e nella coscienza giovanile» -, nel quale ha chiamato a riferire tre studiosi, rispettivamente di area cattolica, di area marxista e di area liberal-democratica. Ecco: mi pare che dal seminario sia scaturita una conclusione, che si fa oggi strada nel mondo pensante - ivi inclusi quei rari uomini politici che pensano -, a Ovest e a Est, a Nord e a Sud. Il seminario ha in qualche modo preso le mosse dal discorso, che va ricordato, di Maritain (quale capo della delegazione francese alla Conferenza internazionale dell'uneSCO),pronunciato a Città del Messico 1'1 novembre 1947 e dal titolo «Le possibilità di cooperazione in un mondo diviso». Diviso, ovviamente, non solo dalie diverse e contrastanti ragion di Stato, ma anche dalle contrastanti ideologie. I1 cattolico, il marxista, il liberaldempocratico hanno nel seminario, con diverse motivazioni, riconosciuto la prevalenza, in sede di filosoia politica, degli obiettivi comuni a tutta l'umanità sugli obiettivi dogmatici delle singole ideologie. E quanto - aggiungo io ha finito per concludere Gorbaciov al termine delle sue coraggiose riflessioni, fatte stando a capo di una grande comunità sovranazionale che soffre proprio di una ossificazione ideologica. Gorbaciov si è reso conto che occorre dare la priorità, nel mondo, all'unità nella diversità - e quindi dare il congruo potere alle Nazioni Unite, embrione di governo mondiale -: no, per sempre, alla guerra; attenzione comune alla casa di tutti (l'ecologia) - pertanto uno sviluppo comune, giusto e concordato -. In questo quadro si capisce il passaggio dall'idea di violenza, matrice di storia, alla non violenza: è l'addio al letto di Procuste utilizzato da tutte le ideologie, ma non è il pragmatismo che rinuncia all'utopia, ossia al fine razionale ed etico che può essere condiviso da tutti, ma che la sclerotica società umana non offre a portata di mano. L'utopia, dunque, per la quale dobbiamo batterci: e una utopia che, in definitiva, è il federalismo. H o citato Gorbaciov, si badi, per quel che ha detto di pensare - che è fondamentale -, non nella previsione sicura del suo successo, che tanto dispiacerebbe ai profeti di sciagure e ai nemici della «imprudente» distensione. Enzo Bettiza, autore non sospetto, ha citato in questi giorni con favore il libro «Gorbaciov, la trama della svolta» di Fernando Mezzetti e ne ha riportato con simpatia un passo: «In- dipendentemente da quello che potrà ancora fare, Michail il Segnato si è già guadagnato un posto di rilievo nella storia». Cioè: lanciare da un posto di alta responsabilità, in una situazione che ti ribolle sotto, certe idee è già un'operazione pratica, che incide inevitabilmente - nel successo o nell'insuccesso - sulla prossima storia. Viviamo per altro in tutto il mondo - se ne tenga conto - tra un opportunismo, che deride l'utopia, e un dogmatismo duro a morire, che ricompare anche settorialmente o in forme metapolitiche (integralismo religioso): la 1 la paura dell'incontro genera alla fin fine l'impossibilità della convivenza, la resistenza a sottomettersi - per ragioni etiche, prima che di comodo - a una legge comune, l'affossamento degli obiettivi federalisti. La pace e il rapporto fra l'umanità e l'ambiente naturale si costruiscono sulla cultura dell'interdipendenza. Veniamo al corollario. Quante volte mi sono domandato: a parte le premesse ideologiche, cosa o chi induceva a tener duro Gramsci giunto in punto di morte? e quale profondo motivo ha spinto ciascuno di noi nella lotta contro la tirannide e l'ingiustizia, nella co- «Solo una repubblica federale europea darà la pace al mondo» I Il nostro primo atto sarà l'armistizio immediato su tutti i fronti ed zrna conferenza dei popoli per discutere le condizioni di una pace democratica. La pace che noi otterremo sarà tanto più democratica quanto pizì lo spiato rivoluzionario sarà vivace in Europa. Se noi fonderenzo qui il governo dei Soviet, questo sarà un potente fattore per la pace immediata in Europa, perché tale governo si rivolgerà direttamente, senza intermediario, a tutti i popoli per proporre loro un armistizio al di sopra dei governi. Nella concbrsione della pace, la Russia rivoluzionaria avrà come direttive: nessuna annessione, nessuna indennità, diritto dei popoli a rlisporre di se stessi, creazione della Repubblica federale europea.. . Alla fine di questa guerra, io vedo l'Europa vigenerata non dai diplonzatici, ma dal proletariato. La Repubblica federale europea - gli Stati Uniti d'Europa, - ecco ciò che dovremo avere. La autonomia nazionale non è pizì sufficiente. L'evolzizione economica esige l'abolizione delle frontiere nazionali. Se l'Europa resta spezzettata in aggruppamenti nazionali, l'imperialismo viconzincerà la sua azione. Solo una repubblica federale europea darà la pace al nzondo. E, con il suo fine sorriso, leggermente ironico, egli terminò: - Ma senza l'entrata in azione delle masse europee, questi scopi non potranno essere raggiunti O@. . . (dull'in~ewfitrid i John Rerd ti Trohksi lotta per la priorità federalista è difficile e va condotta con chiarezza strategica. Pensate: mentre la forza federalista e il fronte democratico europeo - nel. gradualismo, per il momento - propongono nobili obiettivi per la Federazione europea (la pace, la piena occupazione, la fine del mondo della fame, 1'Europa multirazziale e democratica, il salvataggio dell'ecosistema), si può leggere su una gazzetta: «I1 '93 fa paura ai tedeschi - apprensioni per il mercato unico e l'inflazione ...)> Ma dall'altra parte c'è l'islamismo radicale (attenzione: a parte i rapporti esterni della Comunità europea, molti musulmani sono già in Europa e di più vi saranno nell'avvenire), che va studiato nelle sue cause: dobbiamo dire che in materia la cultura politica e la prassi dell'Europa democratica sono state molto deboli e impreparate. Ma non basta. L'arcivescovo di Milano, i1 cardinale Martini, ha acutamente individuato, di recente, un «dogmatismo settoriale», una «ideologia di settore», che - ossservo io - si rifiuta di coordinarsi in una complessiva strategia politica e federalista, che ha come fine ultimo il bene delle persone e non un «mito» - soreliano o no -. Martini (si veda anche il relativo documento dei vescovi cattolici di Lombardia) si è riferito particolarmente alla questione ambientale e ha insistito su una «sacralizzazione paganeggiante della natura». Sta di fatto che pace e ambiente non si possono trattare a se stanti e idoleggiare, ma debbono informare di sé una complessiva politica federalista. Federalismo e intercultura: spirazione, di fronte al pericolo e alla morte, a essere coerenti con le idee in cui credevamo, cioè a ritenerle valide fino in fondo? La bomba atomica ha accelerato la caduta della fede nella storia, del dolce abbandono - al di là del nostro modesto io esistenziale - nella storia, che «rimane quando noi siamo spariti». In fondo questa unica nostra storia di un mond o solo - col suo valore assoluto - aveva già subito un colpo fatale con quel che Giordano Bruno aveva ricavato da Copernico: Bruno, se voleva trovare un punto fisso d'approdo, era dovuto ricorrere, accanto d a Mente insita nelle infinite cose dell'universo privo di un suo centro, a una Mente al di sopra delle cose e, ovviamente, della storia. Ora, nella crisi dell'ideologia, della fede nella storia, della stessa storia della filosofia - con l'oscillazione fra il ritorno, archeologico, all'Essere dei presocratici e il «pensiero debole» -, nella crisi della verità e della stessa legittimità della sua ricerca, ci si presenta uno scenario con diverse opzioni. Una è l'abbandono radicale del laicismo immanentista e il ritorno totale d a fede nella trascedenza: questo presenta, agli effetti del perseguire l'Utopia «costi quel che costi» e con l'appoggio crescente degli uomini e dei popoli, due difficoltà. La prima è che la fede non si comanda - o, almeno, non è scritto a priori che si possa comandare -: quindi chi si appoggia alla trascedenza non può contare su chi non è disposto a questo punto di riferimento. La seconda difficoltà - che è un pericolo COMUNI D'EUROPA è che chi si appoggia d a trascendenza tenda a dogmatizzare, a non avere - per così dire - fede nella Provvidenza e quindi ad anteporre la «crociata» per il trascendente al lavoro comune «con gli altri» per attuare l'Utopia terrena, nella quale è implicita la tolleranza, la libertà, la possibilità di credere o non credere a prescindere da qualsiasi coercizione. Tornando al seminario dell'istituto Maritain, qui mi rifarei un momento a una conclusione apprezzabile del relatore di area cattolica, Armando Rigobello. Rigobello dice: «Nel declino delle ideologie, e quindi della rilevanza ideologica nella organizzazione della vita, nel progressivo affermarsi delle soluzioni tecnologiche, spetta al politico, alle forze politiche nel loro pluralismo istituzionale e nelle loro tradizioni ideali trovare le motivazioni per rendere più umana la convivenza e la stessa vita singola di fronte al funzionalismo tecnologico, di fronte a quella che Gabriel Marce1 chiamava la "soffocante tristezza di un mondo organizzato attorno all'idea di funzione". Se così stanno le cose, o comunque se le cose si orientano verso questi sbocchi», continua Rigobello, «si potrebbe anche paradossalmente concludere che ci potremmo trovare di fronte ad una convergenza politica, in quanto il declino delle ideologie riavvicina i partiti e rende meno accentuato il pluralismo politico, e ad un pluralismo morale. I1 tema del discorrere potrebbe quindi essere non tanto pluralismo politico e convergenze morali, ma convergenze politiche e pluralismo morale». Sembra l'approdo al federalismo, ma le cose non sono così semplici. Vediamo (seconda opzione) il fronte di coloro che non si rifanno - o non si rifanno a priovi - alla trascendenza. Heidegger ancora influenza, apertamente o copertamente, direttamente o indirettamente, una parte non trascurabile dei pensosi contemporanei. Praticamente? Bé, praticamente mi viene spesso in mente Heidegger, che ha rinunciato alla carica di Rettore dell'università di Friburgo ma non alla tessera nazionalsocialista (non si può mutare il flusso della storia), se ne sta a meditare nella sua capanna campestre, fa la merendina, legge Holderlin (la poesia come destino) Lettore, partecipa all'impegno per l'Unione Europea con l'abbonamento a «Comuni d'Europa», di cui sta per iniziare il 37' anno di vita coraggiosa* *utilizzando l'allegato bollettino di c/c postale e non si scompone più che tanto per i bambini ebrei cremati nei Lager. (Sul quotidiano italiano delle persone intelligenti ho letto in questi giorni la testimonianza, che fa venire i brividi, del figlio del generale Jodl: «... Non si dica che i tedeschi non sapevano cosa succedeva con Hitler. Io abitavo a pochi chilometri da Auschwitz e i domestici, ogni volta che facevo i capricci, minacciavano di portarmi nelle camere a gas».) Una parte dei contemporanei non vogliono, sia pure senza dogmatismi, «cambiare il mondo». Non si costruisce più per la storia, ma non si sa più neanche co- «1989-1992: gli anni decisivi per l'Europa» La presidenza del convegno promosso dalla Federazione regionale del17AICCREper I'Emilia Romagna, in collaborazione con il MFE e I'AEDE, in Provincia a Bologna s'è la verità e anzi ci si domanda se sia o no il caso di cercarla; chi subisce la tecnica e ci si dedica, e chi la odia; chi cerca l'Essere (Natura? Dio? ma chi o cos'è Dio?) e chi si contenta del pensiero debole. D'altra parte il «pensiero forte» dello scientismo evita taluni effetti disastrosi dell'irrazionalismo come bussola della scienza, ma non ci aiuta a trovare il fine ultimo del nostro agire. Si dimentica che al di là della verità (quidest vevitas?) c'è una certezza: che la nostra coscienza vive nel presupposto del pluralismo delle coscienze - per cominciare: delle coscienze di coloro che ci circondano, famiglia, popolo, umanità di oggi -, della gioia e del dolore degli uomini. L'arte dà gioia nel presupposto del prossimo: cosi l'amicizia, così l'amore. I1 mondo degli uomini vive nel dialogo; il dolore degli altri è il nostro dolore e ci spinge a reagire e ad agire al di là del pensiero della nostra morte. Come vivere di Holderlin finché c'è un fanciullo che piange? I1 federalismo e la lotta per esso, senza ri- mensile delllAICCRE Direttore responsabile: Umberto Sefarini Condirettore: Giancarlo Piombino Redattore capo: Edmondo Paolini Questo numero è stato chiuso il 29/12/1988 Direzione e redazione: Piazza di Trevi 8 6 - 00187 Roma Indir. telegrafico: Comuneuropa - Roma te1 6784556 (red.) 6795712 (amm.) Abbonamento annuo: per la Comunità europea, inclusa l'Italia L. 30.000; Estero L. 40.000; per Enti L. 150.000. Sostenitore L. 500.000. Benemerito L. 1.000.000 COMUNI D'EUROPA posarci nell'astrazione intellettuale, vive nella trascendenza o nell'assenza di ogni consolazione metafisica - nell'amore che, solo, può farci trascendere le preoccupazioni della nostra limitata esistenza. Queste ultime possono essere considerazioni personali, discutibili finché si vuole: ma è certo che non si costruisce la Federazione europea né, tanto meno, si lotta per unire una Europa che unisca - contribuisca ad unire - il mond o senza la ricerca di inflessibili valori morali. Non so quanto disincantato - cioè spoglio o meno di qualsiasi postulato metafisico - fos- se l'imperativo categorico del professor Huber, decapitato da Hitler insieme ai ragazzi della «Rosa bianca»: ma sicuramente è Huber che ci aiuta a costruire gli Stati Uniti democratici d'Europa e non la prospettiva aperta dall'Atto unico, il cinismo dei governi e dei partiti «nazionalizzati», come diceva Ignazio Silone. Nazionalizzati e corporativi, aggiungo io. É ora che si affermi che I'europeismo generico non ci piace, è ambiguo, non può vincere, anzi è bene che non vinca. Deve vincere il federalismo. deve vincere una società basata su «valori» e sulla pietà per gli uomini. Al di là del federalismo, cosi come abbiamo cercato di fondarlo, non ci sono coerentemente - a ben vedere - che due alternative: l'acquiescenza a qualsiasi nazismo o il suicidio di Michelstaedter (quando ero studente, lo conoscevamo in pochi: ora Michelstaedter si cornincia a diffondere per le stampe e a leggere). 0, se volete - perché no? - la droga. m Una copia L. 3.000 (arretrata L. 5.0001 I versamenti devono essere effettuati: 1) sul c/c bancario n. 300.008 intestato: AICCRE c/o Istituto bancario San Paolo di Torino. sede di Roma, Via della Stamperia, 64 - 00187 Roma, specificando la caiisale del versamento: 2) sul c.c.p. n. 38276002 intestato a "Comuni d'Europan, piazza di Trevi, 86 00187 Roma: 3) a mezzo assegno circolare - non trasferibile - intestato a. AICCRE, specificando la causale del versamento. Aut. Trib. di Roma n. 4696 dell'll-6.1955. Tip. 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