IL DIRITTO 1 Il diritto e il dovere Mentre la pedagogia esamina il rapporto specifico tra educatore ed alunno, il diritto allarga il campo d’interesse, perché studia i rapporti che ogni persona deve avere con le altre persone. Tali rapporti sono guidati da un groviglio di diritti-doveri che fanno capo, come alla loro sorgiva, a dei principi. E lo studio di Rosmini sul diritto è una ricerca filosofica, cioè uno studio sulle ragioni ultime, sui principi del diritto. In altre parole, egli vuole individuare l’esssenza, la natura del diritto. La filosofia del diritto è la scienza della giustizia, perché la giustizia costituisce la radice e l’essenza di tutte le leggi. Nella morale Rosmini aveva espresso la suprema legge della giustizia con la formula riconosci praticamente ogni essere nel suo ordine. Ed è proprio l’analisi accurata di questa legge, nella quale è contenuto il principio della morale, a rivelarci l’essenza del diritto. Essa infatti contiene alcune caratteristiche: suppone l’attività di un soggetto intelligente, cioè la capacità di operare in seguito alla conoscenza avuta (attività che è appunto l’atto del « riconoscere »); l’attività, a sua volta, dev’essere esplicata da 1 Il principale scritto rosminiano sull’argomento è la Filosofia del diritto. 117 una persona, vale a dire da una volontà libera; inoltre si tratta di un’attività buona per chi la esercita; lecita, cioè in armonia con la legge morale; protetta dalla legge morale stessa. Queste cinque caratteristiche costituiscono l’essenza del diritto, definito da Rosmini « una facoltà di operare ciò che piace, protetta dalla legge morale, che ne ingiunge ad altri il rispetto » 2. Il diritto, dunque, è una potenza di operare, entro i confini fissati e tutelati dalla legge morale di giustizia. Come dire che il diritto si svolge non al di fuori, ma entro la legge morale: esso è una derivazione del principio morale, e come tale assume tutta l’autorevolezza della morale stessa. Quest’autorevolezza emerge soprattutto nei momenti in cui il diritto viene violato: « Quando la forza bruta opprime l’uomo che ha per sé il diritto, allora questi eccita un interesse straordinario di sé negli altri uomini: il suo diritto pare che brilli da quel momento di uno splendore insolito: esso trionfa, perché si sottrae all’azione della violenza come un’entità immortale, inaccessibile a tutta la potenza materiale che non giunge pur a toccarlo, rimanendosi tutti i suoi sforzi esclusi da quella sfera alta e spirituale in cui abita il diritto » 3. Diritto, quindi, non come espressione di una data area geografica o culturale, non come volontà suprema di un monarca o di un popolo, ma come derivazione dalla legge oggettiva universale. Ecco perché alla domanda se viene prima il diritto o il dovere, Rosmini risponde che il dovere precede il diritto: prima vengono fissati dalla legge i confini che non si devono oltrepassare; poi la libertà di operare entro quei confini. « Il dovere ha un’esistenza sua propria, e precedente nell’uomo a quella del diritto: il dovere viene imposto dall’oggetto, mentre il diritto scaturi2 Filosofia del diritto, 6 voll., a cura di Rinaldo Orecchia, Cedam, Padova 1967-1969, vol. 1, p. 107. 3 Filosofia del diritto, cit., vol. 1, pp. 103, 104. 118 sce, quanto alla sua materia, dal soggetto. Come l’oggetto ha un essere indipendente dal soggetto umano, così il dovere ha un’esistenza indipendente dal diritto » 4. Se il diritto scende dal dovere, cioè dalla legge morale, allora diventa chiara l’altra teoria rosminiana, che afferma non possa esserci diritto all’immoralità. L’uomo può rivendicare diritti solo entro la sfera di azioni lecite e oneste. Tuttavia, dal diritto che ho io di operare nasce a sua volta il dovere degli altri di rispettare questa mia zona di attività. Per cui tra diritto e dovere finisce con l’esserci correlazione, nel senso che non vi può essere diritto senza dovere; ma il concetto di dovere è anteriore al diritto, perché risiede nella obbligatorietà insita nella legge morale. Per questo non necessariamente ogni dovere richiama un diritto. Il diritto individuale Fissata l’essenza del diritto, bisogna trovare un principio valido per derivare dall’essenza generale i diritti particolari. Poichè il diritto, come abbiamo detto, è essenzialmente un’attività, bisogna individuare quali tra le varie attività umane possano acquistare il titolo di diritto. Rosmini individua nella proprietà il carattere che rende le attività umane (cioè i soggetti uomini) capaci di diritto. La proprietà infatti è « il dominio che una persona ha di una cosa » 5. E questo legame di dominio, per il quale la persona può fare della cosa propria ciò che vuole, costituisce la libertà giuridica, cioè quella zona entro la quale l’uomo è e deve essere lasciato libero: « La proprietà costituisce una sfera intorno alla persona, di cui la persona è il centro; nella quale sfera niun altro può entrare; niuno potendo 4 5 Filosofia del diritto, cit., vol. 1, pp. 125, 126. Filosofia del diritto, cit., vol. 1, p. 158. 119 staccare dalla persona ciò che le è congiunto della detta congiunzione; giacché questo distacco cagionerebbe dolore alla persona; e ogni dolore cagionato ad una persona, per se stesso considerato, è proibito dalla legge morale come un male » 6. Ogni volta che un uomo esce dalla propria sfera di competenza, per entrare nella sfera altrui, lede un diritto. Trovato il principio o criterio di derivazione dei diritti, Rosmini passa alla sua applicazione. I diritti possono essere razionali (Rosmini preferisce il termine « razionale » al termine classico « naturale »), oppure positivi. I diritti razionali, a loro volta, possono essere individuali e sociali, connaturali (innati) e acquisiti. Il diritto connaturale per essenza è la persona umana. Essa, come abbiamo visto, è principio e attività suprema, investita – per mezzo del lume della ragione o essere intelligibile – di dignità infinita, che la rende fine rispetto ad ogni altra attività. La persona, scrive Rosmini, non ha il diritto ma è il diritto, non ha la libertà ma è la libertà: la persona dell’uomo è il diritto umano sussistente 7. Che la persona umana sia l’essenza, il principio, l’attività suprema del diritto, lo si ricava confrontando insieme le definizioni della persona e del diritto: la prima è stata definita un soggetto intellettivo in quanto contiene un principio attivo supremo; il secondo è un’attività fisicomorale che non può essere lesa dalle altre persone. Non è difficile accorgersi che esse si fondono sino a coincidere. Il principio attivo supremo della persona è la stessa attività del diritto; questo principio poi partecipa del lume della ragione, dal quale riceve la legge di giustizia: « Ma poiché la dignità del lume della ragione (essere ideale) è infinita, perciò niente può stare sopra il principio personale, niente può stare sopra quel principio che opera di 6 7 Filosofia del diritto, cit., vol. 1, p. 160. Filosofia del diritto, cit., vol. 1, n. 49, p. 191. 120 sua natura dietro un maestro e signore di dignità infinita; quindi viene che esso è principio naturalmente supremo, di maniera che nessuno ha diritto di comandare a quello che sta ai comandi dell’infinito » 8. Ogni tentativo di togliere alla persona la supremazia sulle altre attività, o di interrompere il rapporto tra il soggetto uomo e l’oggetto che lo illumina, diventa lesione di persona, lesione di diritto. Tali lesioni si verificano quando si tenta di sottrarre all’uomo la verità, la virtù o legame col bene morale, la felicità alla quale tende per natura. Strettamente legata alla persona è la natura umana. Le varie facoltà di cui l’uomo è fornito per natura costituiscono la prima proprietà della persona, nel senso che sono state date a lei come mezzi per crescere e perfezionarsi. Di conseguenza l’uomo ha il diritto a non essere ostacolato nello sviluppo onesto delle proprie facoltà naturali, purché tale sviluppo non presuma di entrare nella zona delle altrui libertà o proprietà giuridiche. Mentre la proprietà che la persona ha sulla sua natura è connaturale all’uomo, quella che essa ha sui beni esterni è acquisita. L’acquisizione avviene mediante un’azione, con la quale la persona congiunge a sé cose diverse da sé, per farle servire ai propri fini: ed è questo legame, tra le cose possedute e la persona che le possiede, a fare della proprietà esterna un diritto. Per poter acquistare tale diritto di proprietà sono tuttavia necessarie alcune condizioni: da un lato il bene posseduto deve recare qualche giovamento o utilità alla persona (acquista infatti il titolo di diritto proprio perchè serve ad una persona); dall’altro dev’esserci un cosciente desiderio di appropriazione, seguito dall’atto fisico o reale, col quale avviene concretamente l’occupazione del bene. Se viene a mancare qualcuna di queste condizioni, il diritto di proprietà, pur rimanendo in astratto, in realtà cessa, perché bisogna tenere conto del 8 Filosofia del diritto, cit., vol. 1, n. 52, p. 192. 121 concreto tessuto sociale. Se, ad esempio, la cosa da noi posseduta non serve più, oppure se l’impossibilità di usarla impedisce agli altri un aumento dei loro beni, o reca danno alla società, allora il bene in questione può essere occupato da altri « e può talora mantenersi fin colla forza » 9. La proprietà infine, e quindi il diritto alla proprietà, può passare da una persona all’altra in varie forme: per scioglimento del vincolo precedente, per prescrizione, per contratto formato dal consenso delle parti interessate. Ogni diritto è inviolabile per legge morale, quindi ogni infrazione del diritto è un male morale. Né le circostanze, né i luoghi, né i tempi, e neppure le diversità dei soggetti scalfiscono tale inviolabilità. L’inviolabilità infatti è radicata nella persona, la persona nella legge morale, e la legge morale nell’oggettività dell’essere, il quale va immune da tutte le malizie e i limiti spazio-temporali. Neppure la società può ergersi al di sopra della persona. C’è qui una chiara opposizione alla dottrina di Hegel (e indirettamente a quella di Marx), il quale nel passaggio dallo stato individuale al sociale contempla prima una specie di negazione dei diritti personali (il diritto sociale sorge sulla negazione-antitesi del diritto individuale), e quindi un assorbimento sia dei diritti degli individui sia di quelli delle società nei diritti dello Stato (concezione etica dello Stato). Per Rosmini, invece, quando l’individuo entra a far parte della società e dello Stato, continua a mantenere i suoi diritti personali; la nuova situazione non cancella i diritti precedenti né li assorbe, ma aggiunge ai diritti che aveva precedentemente altre relazioni, altre attività e quindi nuovi diritti-doveri. La società arricchisce la persona, ma non l’annulla, perché se l’annullasse si perderebbe la fonte stessa del diritto. Qualunque tipo di società getta le sue fondamenta sulla persona, e se si dovesse per assurdo scegliere chi salvare dei due, Rosmini non 9 Filosofia del diritto, cit., vol. 2, n. 958, p. 414. 122 ha dubbi: « Perisca [...] cioè si sciolga la società civile, s’egli è bisogno acciocchè si salvino gl’individui [...]. Il cittadino deve servire all’uomo, e non questo a quello; la società è propriamente il mezzo, e gl’individui sono il fine » 10. La persona è la base della società, mentre le varie società che si vengono a costruire attorno alla persona non sono essenziali alla persona stessa. Per mantenere i propri diritti ogni persona può esercitare il diritto di difesa anche con la forza; e se il diritto fosse già leso, essa può esercitare il diritto di soddisfacimento. Il diritto sociale Il diritto sociale nasce, e si aggiunge a quello individuale, quando l’uomo stringe dei vincoli con altre persone intelligenti. Perché esista una società bisogna che più persone coscientemente e liberamente mettano in comunione dei beni per raggiungere un determinato scopo. Tutti gli uomini hanno il diritto di formare delle società, purché queste siano giuste (non ledano i diritti altrui) e lecite (non siano immorali né nel fine né nei mezzi). Tra l’infinita gamma di società cui si può dare vita, ve ne sono tre che sono necessarie, perché senza di esse il genere umano « né potrebbe vivere sulla terra, né svilupparsi al conseguimento della sua terrena perfezione e dei suoi immortali destini » 11. Esse sono la società teocratica (religione), la domestica (famiglia) e la civile (Stato). 1. La società teocratica, o divina, è quella che Dio volle stringere con tutti gli esseri umani. Costituisce la prima società, la società del genere umano, base e fondamento 10 11 Filosofia del diritto, cit., vol. 3, n. 1660, pp. 604, 605. Filosofia del diritto, cit., vol. 4, n. 483, p. 848. 123 delle altre. Essa ha inizio con la creazione del primo uomo, e lega ciascun individuo al suo Creatore fin dalla nascita, perché il primo legame tra Dio e l’uomo sta proprio nell’infinito essere intelligibile che brilla in ogni uomo, costituendolo intelligente e immettendo in lui qualcosa di divino. E dal momento che l’essere, dalle caratteristiche divine, brilla unico in ogni uomo, questo inizio ideale di divinità, oltre unire ogni uomo con Dio, lo unisce anche con tutti i suoi simili. Gli uomini quindi, per il semplice fatto di essere uomini, sono uniti con Dio e tra loro in società. I beni che tutti gli uomini hanno in comune sono la verità, la virtù e la felicità. E siccome Dio ha questi beni in modo sommo – perché è, al tempo stesso, Verità, Principio di essere e Bene assoluto – egli costituisce il fine ultimo di ciascun uomo; mette in comunione con gli uomini quel Bene che è egli stesso, e acquista un dominio di diritto che esprime con molte iniziative: leggi positive, governo del mondo, comunicazione di sé, invio di ministri che esprimano la sua volontà. Il legame stabilito con la creazione fa nascere una società tra Dio e il genere umano, ma si tratta di una società rudimentale, un inizio o abbozzo di società. Infatti dei tre beni messi in comune, solo l’essere ideale (la verità) è goduto insieme (e in modo diverso) da Dio e dall’uomo; mentre la virtù e la felicità, almeno quelle accessibili all’uomo nello stato naturale, sono beni terreni, non sono Dio stesso. Però, su iniziativa di Dio, questa prima società è destinata a diventare gradualmente perfetta. Dapprima Dio si manifesta agli uomini per via di prodigi, quindi con la grazia si dà a percepire lui stesso all’uomo, infine con l’incarnazione mette in comunione tutto il bene che egli stesso è. L’incarnazione di Cristo fa acquistare alla società teocratica iniziale lo stato perfetto, la fa diventare Chiesa e le dà alcune caratteristiche, le principali delle quali sono l’unità, la santità, l’universalità. 124 L’aggregazione alla Chiesa viene operata liberamente, tramite il battesimo. Il potere che Dio esercita nella Chiesa si esprime come potere, rispettivamente, costitutivo, liturgico, eucaristico, medicinale, ierogenetico (diritto di porre i coniugi a servizio di questa società), didattico, disciplinare. La Chiesa ha alcuni diritti connaturali (innati), che tutti devono rispettare: diritto di esistere, di essere riconosciuta, di agire liberamente, di crescere, di possedere. Essa è destinata a realizzare il disegno di Dio, che vuole tutti gli uomini uniti sotto un solo Pastore. 2. La società domestica è composta, a sua volta, dalla società coniugale (marito-moglie) e dalla società parentale (genitori-figli). L’uomo ha per natura la tendenza ad unirsi coi propri simili, cioè a mettere in comunione i propri beni. I beni da fruire in comunione possono essere di origine spirituale, quali la verità, la virtù, la felicità, l’umanità, l’amore e, altissimo fra tutti, Dio stesso; oppure di origine animale, quali ad esempio la bellezza di un corpo, la grazia e l’armonia di un’anima, l’attrazione irresistibile che nasce misteriosamente fra due anime. L’eterogeneità che esiste tra uomo e donna porta ad un peculiare tipo di unione, che consiste nel mettere insieme, allo scopo di goderne, qualità complementari. È proprio questa comunione di persone di sesso diverso che forma l’essenza della società coniugale. Quando essa viene messa in atto, e stabilita con un contratto, si chiama matrimonio: « Il marito e la moglie sono due esseri umani, che si uniscono con tutta la pienezza possibile a realizzarsi fra persone di sesso diverso, secondo la retta ragione. Tale è il vero concetto di matrimonio » 12. La specificità del matrimonio consiste nel diritto all’unione sessuale, diritto che può esistere in potenza come libertà di esercitarlo, oppure in atto nel momento in cui 12 Filosofia del diritto, cit., vol. 4, n. 997, p. 996. 125 viene esercitato. Questo particolare tipo di unione fra l’uomo e la donna per Rosmini è molto più della semplice comunione dei corpi; e volerlo spogliare della ricchezza in esso implicita, comporta il rischio di ridurre la nobile istituzione del matrimonio a ben misera cosa. L’unione sessuale infatti non è un atto staccato dal resto dell’uomo. Al contrario, essa dovrebbe coinvolgere tutte le unioni possibili, di ordine spirituale e intellettuale, fra l’uomo e la donna. Come dire che si acquista diritto a tale atto quando tutto l’uomo (animale-razionale-volitivo) è disposto a mettersi in comunione con tutta la donna. Una unione piena, attuata con la parte più alta dell’uomo che è la persona, portatrice e perfezionatrice delle altre unioni possibili. In tale concezione l’unione sessuale costituisce prima di tutto una mutua comunicazione di anime o persone, della quale l’atto materiale è solo la materia o segno sensibile. È questa piena comunione di persone che fa la differenza fra il bruto e l’uomo, trasformando la sessualità in amore, cioè in un atto intelligente e libero. Ed è ancora la trasformazione della sessualità in atto d’amore a dar ragione di alcune caratteristiche presenti nel fenomeno amoroso di tutti i tempi: l’esclusività dell’amore (da una persona che dichiara di darci tutta se stessa si esige che non possa concedersi a nessun altro), l’unicità del coniuge (una comunione piena non può avvenire se non tra due persone), l’indissolubilità del contratto matrimoniale (non è piena una unione che pone limiti di tempo), il bisogno di condivisione dei beni e della vita dei coniugi (beni già impliciti nella persona che si mette in comunione). Il vincolo matrimoniale, già indissolubile per natura, acquista una nuova forza in un primo tempo dal comando di Dio 13, in un secondo tempo dal sacramento cristiano. Nel sacramento del matrimonio è Dio stesso ad 13 « Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola » Gen 2, 24. 126 intervenire: egli con la grazia soprannaturale rafforza il vincolo naturale, conferendogli la capacità di resistere ad ogni tentazione che possa sorgere dalla fragilità umana. E l’uomo ha bisogno di quest’aiuto. Infatti per Rosmini le forze contrarie all’indissolubilità sono talmente numerose e intense, che al di fuori del sacramento diventa molto difficile mantenere a lungo l’unione e l’armonia del matrimonio. Con la nascita dei figli la società coniugale acquista una nuova relazione e diventa anche società parentale. I genitori trasmettono al bambino la natura, Dio crea in lui la persona. Di conseguenza, i diritti dei genitori sui figli riguardano la natura, non la persona, che mantiene tutti i suoi diritti inalienabili (cioè non trasferibili ad altri). Questi diritti sulla natura del figlio, poi, vanno lentamente scemando, man mano che la persona del piccolo, crescendo, diventa in grado di governare la propria natura. Di conseguenza, compito dei genitori è quello di condurre il figlio verso l’autonomia, fino al punto in cui non vanteranno più su di lui alcun diritto. Compito delicato e difficile da attuarsi, perché i genitori, ingannati dall’affetto che portano al bambino e dalla debolezza di volontà della persona da educare, tendono ad invadere la sua personalità, abusando del loro diritto ad intervenire nella vita del fanciullo. Una spia preziosa, che segnala ai genitori la presenza di un abuso di diritto sul loro figlio, la si può avere, purché si sappia leggerla, quando nel bambino sorge il risentimento giuridico, vale a dire la sensazione dolorosa di ricevere torti che non si merita. 3. La società civile sorge quando più capi-famiglia accettano, coscientemenete e liberamente, che la conservazione e la regolamentazione dei loro diritti sia affidata ad un’unica mente, individuale o collettiva, chiamata governo. Essa si distingue dalle due società precedenti (la teo- 127 cratica e la domestica-parentale), in quanto quelle hanno come fine gli oggetti dei diritti, cioè i beni della natura e della persona, mentre quest’ultima ha come fine la modalità dei diritti, cioè il modo migliore di metterli in atto. Di conseguenza, le altre due società hanno ragione di fine, mentre la società civile ha ragione di mezzo rispetto a quelle. Le altre due sono fonti di diritto, quest’ultima è solo regolatrice di diritti già presenti. La società civile ha caratteristiche proprie. È universale, perché regola non un particolare ramo di diritti, ma tutti i diritti; suprema, rispetto a tutte le altre possibili società particolari; perpetua, almeno nell’intenzione di chi ne fa parte. Essa ha come scopo fondamentale il bene comune o bene di tutti; e subordinatamente al bene comune sia il bene pubblico o bene del corpo sociale, sia il bene privato o bene di una particolare fetta della società. Adopera i mezzi esterni adeguati a rendere effettive le leggi, ha il potere di prevenire e scoraggiare l’abuso dei diritti, è composta di più membri che mettono in comune un fondo per ricavarne vantaggio. Il potere che ha il governo risiede, come in sua prima radice, nelle persone che si associano. Ma non tutti i soci hanno lo stesso potere. E qui Rosmini introduce una distinzione che non ebbe fortuna lungo il processo di formazione delle odierne democrazie liberali, ma che fa riflettere per le stimolanti riflessioni cui può dar luogo. Egli ritiene che bisognerebbe tenere distinte, in ogni cittadino, ciò che è la sua persona da ciò che è la sua natura. In quanto persona, tutti i cittadini sono uguali perché di uguale dignità, e concorrono con voto universale alla formazione o elezione degli organi di governo (Rosmini li chiama Tribunali di giustizia), cui viene demandata l’amministrazione dei soli diritti personali. In quanto natura, invece, ciascuno contribuisce alla formazione della società in proporzione ai beni materiali che possiede, quindi in propor- 128 zione alla proprietà di cui dispone. Di conseguenza, ciascuno dovrebbe partecipare di questo potere governativo, come capita nelle società per azioni, in modo proporzionato ai beni che egli mette in comune: il suo voto nelle elezioni dei deputati all’amministrazione delle proprietà (deputati che Rosmini divide in due camere: la prima rappresentativa delle grandi proprietà, la seconda delle piccole) sarebbe quindi proporzionato al cumulo di benidiritti da lui posseduti. Il titolo a governare non si acquista solo col contratto sociale, ma in vari modi. Dio, ad esempio, ha dominio sull’uomo a titolo di creazione, il padre verso i figli a titolo di paternità responsabile, il padrone verso i servi a titolo di signoria, il possessore di un campo sui coloni a titolo di proprietà. Spesso questi domini si estendono legittimamente e diventano impero civile o governo, per un consenso tacito spontaneo e pacifico. Polemizzando con Hobbes e Rousseau, Rosmini nega che fonte del potere civile sia il popolo; infatti l’autorità civile non esiste prima che sorga una comune amministrazione della modalità dei diritti; e nessuno può essere possessore di un’autorità che non esiste ancora. In realtà, risponde egli, è il bisogno di evitare i mali sorgenti dalla mancanza di tale amministrazione, la ragione che spinge i cittadini ad associarsi ed a sottomettersi ad un uomo. Lo stimolo ad unirsi viene dato dalla natura stessa, e dal bisogno di difendersi dagli altri aggregati familiari o sociali. La società civile avrà una forma ideale, o perfetta, quando le sue leggi si limiteranno a regolare la modalità dei diritti, in modo che all’interno tutti i membri abbiano di fronte ai tribunali una perfetta uguaglianza, e colle persone esterne vengano mantenute le norme del diritto razionale o naturale. Effetti di questa società saranno la tutela di tutti i diritti, la garanzia a ciascun cittadino di poter concorrere liberamente a tutte le attività politiche giu- 129 ridiche e amministrative (purché si possegga l’idoneità a concorrere), l’uniformità politica nel rispetto delle diversità, la scomparsa di tutti quei gruppi politici (Rosmini li chiama « partiti » nel senso che sono « di parte », ma non bisogna confonderli con gli odierni « partiti » che pur chiamandosi tali si propongono il bene comune) che perseguono un bene particolare in contrapposizione al bene comune. Perchè la società conservi l’equilibrio politico sono necessarie due virtù: la giustizia, che si propone il fine ultimo della società, cioè la piena realizzazione dell’uomo; e la prudenza, che si propone il fine prossimo, cioè l’equa distribuzione e godimento dei beni terreni. Per garantire la prima Rosmini propone, come abbiamo visto, l’istituzione di un tribunale politico di giustizia presente in tutto il territorio e a vari livelli, i cui membri devono essere eletti a voto universale e scelti fra uomini retti e onesti: suo compito principale, quello di decidere se e quando venga violata la giustizia nei rapporti Stato-cittadini. La prudenza, a sua volta, deve favorire una sapiente distribuzione dei beni della società (che per Rosmini sono sei: popolazione, ricchezza, autorità civile, forze armate, scienza, virtù), tenendo conto delle leggi naturali secondo cui questi beni si muovono. Infatti i sei principali beni della società civile tendono spontaneamente ad unirsi in modo tale, che il primo cerca il secondo (gli individui tendono ad ammassare ricchezza), il secondo cerca il terzo (chi è ricco tende a impossessarsi del potere), e così di seguito. Per evitare continui disordini nella società civile, dovuti a queste tendenze, bisogna favorire l’equilibrio tra i beni, cioè una giusta proporzione fra popolazione e ricchezza (ad esempio, l’eccesso di popolazione in un paese poverissimo provocherebbe continui disordini), ricchezza e autorità civile, potere civile e potere militare, forza militare e scienza, 130 scienza e virtù. La virtù, che è l’ultimo dei beni, è quella che sa mantenere vivo questo equilibrio, suggerendo di volta in volta il senso delle proporzioni e conducendo tutti gli altri beni verso un progresso armonico. I pericoli delle sorgenti democrazie liberali Nella rosminiana filosofia del diritto c’è costante attenzione all’evoluzione verificatasi durante il passaggio dal medioevo alla modernità. Rosmini riconosce all’illuminismo ed alla rivoluzione francese il merito di aver attuato il passaggio dalla società signorile alla società civile. Sotto le società medioevali, segnate dal rapporto signoreservo, una larga fascia di popolazione non aveva coscienza di tanti suoi diritti. I margini di libertà dei sudditi erano molto ristretti, ma non avendo essi consapevolezza di essere privati di qualcosa cui avevano diritto, non sorgeva in loro il risentimento giuridico, quindi sotto quest’aspetto non creavano grossi problemi a chi li governava. L’avvento della modernità coincide proprio con la graduale presa di coscienza, da parte dei cittadini, dei propri diritti. I popoli spingono i governi a concedere le libertà dovute, e non possono essere fermati, perché la giustizia, una volta che se ne ha coscienza, più è calpestata più splende davanti ai popoli, tenendoli inquieti fino all’attuazione del diritto violato. Era questa, per Rosmini, la parte sana dei fermenti politici che stavano dando forma alle sorgenti democrazie liberali: le nazioni chiedevano sostanzialmente di passare dallo Stato signorile alla Stato di diritto; da una situazione, in cui la legge si immedesimava col principe sotto il pretesto che egli riceveva l’autorità direttamente da Dio, ad un’altra, in cui il principe non era se non l’amministratote del diritto fissato in una costituzione. Entro quest’orizzonte Rosmini non nega, ma reinterpreta il detto biblico ogni autorità viene da Dio, 131 usato nel passato per sostenere che il re riceveva la sua autorità non dal popolo ma dall’alto. L’autorità, di cui qui si parla, dice egli, non è né quella del principe (come si pensava prima), né quella del popolo (come si cominciava a pensare già ai tempi di Rosmini), ma semplicemente quella della legge morale, nella quale – come abbiamo visto – si radica ogni diritto, autorità che scende veramente da Dio, ma attraverso l’essere ideale, che detta le norme di giustizia. Tradotta in termini di diritti, l’affermazione vuole sottolineare che ogni diritto, ogni autorità, sia della persona che governa sia delle persone governate, è sacro e intangibile, perché ha ricevuto il sigillo dell’autorità di Dio. E tuttavia Rosmini, pur riconoscendo agli Stati moderni la tendenza ad aprirsi verso il diritto dei cittadini, allo stesso tempo vede in essi una spinta uguale e contraria verso una radicalizzazione dei diritti del cittadino. L’autorità, che un tempo era prerogativa del principe, ora si accingeva a diventare esclusiva prerogativa del cittadino. Si voleva cioè dare al popolo quel diritto illimitato di legiferare su ogni cosa, che un tempo era saldamente nelle mani dei principi; e siccome questo diritto, con le libere elezioni delle moderne democrazie, lo si metteva nelle mani dei deputati, il parlamento finiva col diventare il depositario di ogni diritto. Conseguenza: il germe del dispotismo, che nel passato veniva alimentato dal sovrano, passava senza essere sradicato nelle mani dello Stato moderno, il quale si ergeva ad assoluto depositario e dispensatore di ogni diritto. Si stava verificando non una sconfitta del dispotismo, ma un semplice passaggio dello stesso dalle mani di uno solo (monarca) alle mani di più (deputati dal popolo). Con grandi rischi per la libertà, perché dove a comandare senza vincoli sono i più, i diritti delle minoranze tendono ad essere sacrificate e lo Stato mortifica ogni tipo di diversità in nome dell’uniformità. Si avrà lo Stato uniforme e pigliatutto, che spegne la libera creatività degli individui e delle società intermedie. 132 Un altro grande pericolo di tale tendenza era l’eccessiva importanza data al diritto, con la conseguente messa in ombra di tutta la sfera dei doveri. Come abbiamo visto, quando il diritto è sganciato dal dovere o legge morale, quando diventa prioritario rispetto al dovere, scivola gradualmente verso una libertà senza limiti, assorbe sotto maschera di diritto anche ciò che esula dalla sfera etica, ciò che è immorale. Da qui la tendenza a moltiplicare i diritti, senza preoccuparsi se siano fondati su un precedente dovere e su una legge di giustizia, il proliferare delle libertà senza remore o confini; libertà che, costituendo in sostanza autentici abusi dei propri diritti, da una parte tengono sempre in agitazione la società civile, perché non esiste un limite alla libertà trasformata in licenza; dall’altra provocano reazioni uguali e contrarie da parte di chi si trova a dover subire l’abuso. Ambedue i rischi, cioè il ritorno del dispotismo o assolutismo statale in nome della collettività e l’indiscriminato proliferare delle libertà, si sono verificati ripetutamente lungo il secolo e mezzo che ci separa dalla morte di Rosmini. 133 LA POLITICA 1 La filosofia della politica e i suoi fini Il pensiero politico entra anch’esso, come il diritto, nell’ambito della scienza morale. Infatti la filosofia della morale ha come scopo la ricerca del bene in tutta la sua estensione; la filosofia del diritto si propone il bene della giustizia, che è una parte della morale, ed ha sede nella stessa morale (riconosci l’essere nel suo ordine); determinare invece la distribuzione di quel bene che è utile all’uomo, in modo però che non venga violata la giustizia (perciò entro la sfera del lecito), è il compito della filosofia della politica. Questa scienza, quindi, presuppone da una parte la conoscenza della morale e del diritto, dall’altra l’esistenza di una società civile o governo politico. Nella società civile sono presenti essenzialmente due ordini di beni: quelli immediati e prossimi, raggiungibili a breve e medio termine, beni materiali che accrescono il godimento dell’animo; e quelli remoti, raggiungibili a lungo termine, beni morali che favoriscono il fine ultimo dell’uomo, cioè la perfezione morale della sua persona. 1 Gli scritti principali di Rosmini sull’argomento sono: Filosofia della politica, Saggio sul comunismo e socialismo, Progetti di costituzione, La costituente del regno dell’Alta Italia, Sull’unità d’Italia, Saggi sul matrimonio, Le principali questioni politico-religiose della giornata brevemente risolte, Della libertà d’insegnamento. 135 La detta compresenza di beni eudemonologici ed etici spiega perchè i movimenti delle società siano occasionati da due forze prevalenti. La prima forza, una specie di istinto sociale, che Rosmini chiama ragione pratica delle masse perché è tipica delle moltitudini, porta a volere i beni immediati e particolari. Beni che non sono sempre gli stessi, ma variano col succedersi delle varie fasi delle società: agli inizi della vita di un popolo, il suo bene prossimo e immediato è la propria conservazione e sopravvivenza; quando invece la società ha raggiunto una sufficiente stabilità, allora i cittadini cercano la potenza e la gloria; ottenuti anche questi beni, essi tendono a godersi il benessere accumulato. Sono, questi, tre passaggi che per Rosmini possiamo trovare sia nella storia romana sia in quella di tante altre civiltà passate: dapprima si coltiva sopra ogni cosa l’unione che rende forti, quindi si adopera la forza accumulata per fiorire ed espandersi, infine ci si spegne consumandosi nei propri vizi. Contraria alla ragione pratica delle masse è la seconda forza, che Rosmini chiama ragione speculativa degli individui perché è propria di pochi, cioè dei migliori uomini destinati a guidare un popolo. Costoro conoscono bene le leggi generali secondo cui si muovono le società, sanno prevedere gli effetti lontani delle scelte presenti, si esercitano a pensare a lungo termine; e quando le esigenze della vita politica li occupano talmente, da non poter riflettere con agio sugli esiti futuri delle decisioni che premono al momento, ricorrono all’aiuto e al consiglio di persone sagge. In questo senso Platone auspicava la presenza dei filosofi nel governo delle città. In particolare, i politici conducono le nazioni verso un futuro di progresso e di civiltà, se sanno guardare alle esigenze sostanziali o primarie della società, ed hanno cura di subordinare a tali esigenze ciò che è accidentale o secondario. Per capire poi che cosa è essenziale, e cosa accessorio, bisogna meditare costantemente sulla storia dei 136 grandi popoli, allenarsi a vedere le vicende del proprio popolo nel quadro universale delle vicende umane, la cui efficacia si misura sui secoli. Chi invece isola gli accidenti dalla sostanza, i beni eudemonologici o materiali dai beni morali, il progresso tecnico da quello spirituale, è un politico « astratto »: vede alcune parti dell’uomo, ma trascura l’uomo intero. Bisogna tenere sempre a mente che ogni persona, prima di essere cittadino, è uomo. La persona non esaurisce le sue funzioni nell’appartenere ad uno Stato (come vorrebbero Hegel e Marx), perché è portatrice di una dignità e nobiltà che lo Stato deve rispettare. Considerare poi i cittadini solo in funzione dell’utilità che essi possono arrecare allo Stato, significa abbassarli dalla condizione di fini o per-sone « alla condizione di cose » o strumenti, e « sotto un tal punto di vista, un branco di pecore può valere di più di un branco di uomini » 2. L’utopia e il perfettismo La società « ha un suo movimento naturale e legittimo. L’opporsi a questo movimento è un opporsi alla natura, e a Dio che n’è l’autore » 3. Al tempo di Rosmini, chi si opponeva al movimento legittimo delle società politiche, illudendosi di bloccarlo, erano i conservatori, i fautori della restaurazione che respingevano in blocco ogni novità. Essi erano utopisti, perché mossi dalla velleità di poter fermare un movimento spontaneo con idee e progetti slegati dalla realtà presente. Ma erano utopisti anche i rivoluzionari, perché partivano dalla falsa idea che ogni movimento fosse legittimo (mentre esistono movimenti artificiali, creati dai limiti, 2 Filosofia della politica, a cura di Mario D’Addio, Città Nuova, Roma 1997, p. 394. 3 Filosofia della politica, cit., p. 495. 137 dalle passioni e dalle velleità umane), e quindi promuovevano, mescolandoli senza discernimento, fermenti leciti e fermenti illeciti, non rendendosi conto che questi ultimi, se accarezzati e portati all’esasperazione, tengono i cittadini in perpetua tensione. Il criterio per stabilire quali movimenti siano legittimi e quali no, per Rosmini è l’appagamento degli animi 4. L’appagamento è uno stato interiore, nel quale il cittadino si sente psichicamente e moralmente gratificato a sufficienza: non è la felicità piena, ma l’accontentarsi sostanzialmente di ciò che si è e di ciò che si ha; non è neppure il raggiungimento di ingenti ricchezze materiali intellettuali e spirituali, ma la sensazione che, considerati i momenti e le circostanze, non ci si può legittimamente aspettarsi di più; né si può confondere con l’aurea mediocritas, o con l’indifferenza generalizzata dei periodi dominati dal nichilismo passivo, perché l’appagamento inteso da Rosmini è la serenità interiore che si ottiene attraverso una vigile tensione etica. Esso, in altre parole, è il versante interno di quel sano equilibrio esterno tra i beni realmente disponibili (popolazione, ricchezza, governo, forza, scienza, virtù), che Rosmini auspicava in ogni società. Se all’esterno l’equilibrio si raggiunge favorendo l’equa distribuzione dei beni di un popolo, all’interno l’appagamento si ha quando si stabilisce un equo rapporto tra gl’innumerevoli desideri dell’uomo e la loro realizzazione. Ottima regola del politico è quella di non scatenare desideri, cui non si può dare appagamento, perché farebbe nascere false speranze, seguite a cocenti delusioni, che si trasformerebbero presto in sordo rancore. Pericoloso anche slegare le tante passioni del cuore umano dalla virtù o legge di giustizia, che risiede nella persona. Dove la tensione etica è alta, l’appagamento si raggiunge facilmente, e la società vive tranquilla e forte anche in uno stato di so4 Cfr. Filosofia della politica, cit., pp. 195 ss. 138 brietà materiale; al contrario, dove la tensione etica cala, si assiste ad uno stato di crescente inquietudine anche fra società che hanno raggiunto un ottimale livello di progresso materiale e intellettuale. Fomentatrice di false speranze, e quindi creatrice di società inquiete, è quella dottrina politica che Rosmini chiama perfettismo. Esso è « quel sistema che crede possibile il perfetto nelle cose umane, e che sacrifica i beni presenti alla immaginata futura perfezione ». Il perfettismo è « effetto dell’ignoranza », sia del cuore umano, sia della realtà sociale; esso « giudica dell’umana natura troppo favorevolmente », e « con mancanza assoluta di riflessione ai naturali limiti delle cose » 5. Ogni società è un misto di beni e di mali, di carte buone e di carte meno buone. Ottimo politico non è colui che s’illude di eliminare tutti i mali per conservare tutti i beni: cosa impossibile, perché i limiti dei cittadini non si possono mai rimuovere totalmente; ma colui che sa ottenere il massimo bene totale possibile da quella società concreta che gli è stata affidata. « Tutto l’avvedimento starà in provvedere, che mentre si studia di rendere migliore in qualche parte questo organismo o compaginamento, non lo si danneggi in qualche altra più essenziale; e che insomma si miri nel ben generale di tutta la macchina, senza fermarsi con soverchia parzialità a qualche sua parte » 6. Marcate venature di utopismo e di perfettismo Rosmini trovava nel socialismo e nel comunismo del suo tempo. Fourier, Sait-Simon, Owen e tanti altri riformatori finivano col sacrificare la libertà – certamente limitata ma concreta – dell’individuo, in nome di una libertà astratta, da raggiungere col tempo. Non consideravano inoltre l’enorme importanza dell’appagamento, e quindi del consenso interno del cittadino, consenso che essi – inesperti dei mo5 6 Filosofia della politica, cit., p. 104. Filosofia della politica, cit., p. 105. 139 vimenti del cuore umano – davano per implicito una volta ottenute certe trasformazioni esteriori. Così finivano per considerare l’organismo sociale come una macchina, e attendevano « da un puro meccanismo l’universale prosperità », dimenticando « che le macchine sociali non son di legno o di ferro formate » 7. Altre velleità, l’abolizione della famiglia o società domestica e delle società intermedie tra la famiglia e lo Stato. Il genitore finiva coll’essere privato di ogni libertà nell’educare, formare e dirigere i propri figli; il cittadino perdeva tutti i diritti naturali, civili e domestici, diritti che « s’inabissano nell’assolutismo govenativo » 8. A volte l’utopismo dei socialisti rasentava l’ingenuità. Con la conoscenza infatti che abbiamo dell’uomo e della storia, come potevano essi illudersi che i futuri governanti si sarebbero addossati un cumulo così enorme di responsabilità (distribuzione equa delle ricchezze, controllo capillare dell’industria, delle pulsioni, del lavoro, ecc.) senza abusarne? Come presumere che tutti i cittadini avrebbero accettato spontaneamente il tipo di vita comune che essi promuovevano? Un’altra contraddizione di questi riformatori: mettono sotto accusa le società precedenti, ma si mostrano estremamente indulgenti verso gli individui di quelle società che condannano. Ora, come possono essersi mantenuti buoni gli individui di una società cattiva? La conclusione di Rosmini è chiara: le dottrine utopiche, astratte, perfettiste inneggiano alle libertà e ai diritti, ma finiscono col generare, se ascoltate, assolutismo e dispotismo. Inesperte della dinamica dei desideri e dell’appagamento del cuore umano, trascurano il consenso interiore della moltitudine dei cittadini a favore del consenso 7 Saggio sul comunismo e socialismo, in Opuscoli politici, a cura di Gianfreda Marconi, Città Nuova, Roma 1978, p. 93. 8 Saggio sul comunismo e socialismo, cit., p. 103. 140 esterno. Formano così società artificiali che appaiono molto forti ed uniformi all’esterno, ma sono corpi senza vita interna, perché manca loro il consenso interiore che è l’anima di una società. Esse sono destinate a crollare improvvisamente, o per il sorgere di una reazione violenta interna alla società stessa, o per l’irruzione di una forza esterna. La storia dell’impero Romano costituiva un esempio brillante ai tempi di Rosmini; il crollo del fascismo, del nazismo e del comunismo confermano la lettura rosminiana oggi. Partiti politici, unità d’Italia, federalismo, costituzioni Partiti politici per Rosmini sono quei gruppi di persone che si associano per difendere e promuovere non il bene comune, ma i privati interessi e le opinioni del gruppo di appartenenza; oltre che per interesse, essi a volte sorgono sotto l’effetto di temporanee passioni popolari, utilizzate da persone abili. La loro durata e consistenza si misura sugli interessi economici che vogliono difendere. Proprio perché sorgono con lo scopo di promuovere il bene di una parte (da qui il termine originario di partito), difficilmente i partiti sono in grado di realizzare la giustizia, che è la base di ogni società civile. Rosmini si augura che lo Stato riesca a prevenire il formarsi di tali gruppi, non usando la forza, ma promuovendo la formazione politica alla virtù, fonte della giustizia. E perché i politici possano essere più liberi nel loro esercizio al servizio del bene comune, suggerisce che ciascun deputato, una volta eletto, non possa ricevere regali pena la destituzione, e debba rispondere non al gruppo dei suoi elettori ma a tutti i cittadini della nazione. Sul grande problema di allora circa l’unità d’Italia, Rosmini prospetta una soluzione che contempli insieme un grande Stato unitario, frutto però di una federazione di 141 Stati italiani. La premessa da cui parte è che l’Italia, a differenza di altri popoli, conosce per tradizione storica geografica e intellettuale una grande varietà di espressioni: essa è cresciuta nella diversità dei dialetti, dei climi, delle espressioni culturali. Ora le diversità, quando sono positive, non vanno mortificate ma rispettate, perché sono il frutto di altrettante attività umane, e quindi costituiscono autentici diritti. Esse inoltre non solo non contrastano l’unità, ma la rafforzano, la rendono più viva e più ricca, perché ogni diritto è frutto della libera creatività dei popoli, quindi è un bene per la nazione. L’Italia che egli prevedeva doveva dunque essere uno Stato unitario e federalista: « L’unità nella varietà è la definizione della bellezza. Ora la bellezza è per l’Italia. Unità la più stretta possibile in una sua naturale varietà: tale sembra dover essere la formula della organizzazione italiana » 9. Quando poi pensava ai futuri Stati che avrebbero dovuto confederarsi, egli non voleva un pulviscolo di piccole comunità politiche o « repubblichette del medio evo » 10; ma delle macroregioni, che ai suoi tempi potevano essere costituite da Piemonte, Lombardia, Veneto, Toscana, Stato Pontificio, Regno di Napoli. Nella polemica del tempo circa l’utilità di concedere o meno la costituzione ai popoli, Rosmini era dell’opinione che le costituzioni fossero frutto di una accresciuta maturità giuridica e politica degli Stati moderni; il fatto stesso che se ne facesse una diffusa richiesta da parte dell’opinione pubblica, era di per sé un segno lampante della presa di coscienza dei diritti del cittadino. Però egli metteva anche in guardia dalla facile illusione di pensare che bastasse qualsiasi costituzione per segnare il passaggio dallo Stato di diritto signorile a quello di diritto civile. Esi19 Sull’unità d’Italia, in Scritti politici, a cura di Umberto Muratore, Edizioni Rosminiane, Stresa 1997, p. 256. 10 Della libertà d’insegnamento, in Opuscoli politici, cit., p. 218. 142 stevano costituzioni, come ad esempio quelle appiattite sul modello francese, al quale purtroppo quasi tutti allora guardavano, che mortificavano grandemente sia i diritti di giustizia sia quelli di proprietà. Queste costituzioni, come abbiamo detto parlando del diritto, più che sconfiggere l’assolutismo regio ne conservavano il germe, limitandosi a spostarlo dai principi al popolo, e dal popolo al parlamento che lo rappresentava. Bisognava invece formare costituzioni che esprimessero adeguatamente l’accresciuta legittima sete di giustizia delle popolazioni. Le libertà chieste dalla gente, se intese in profondità, erano quelle legittime, cioè i diritti radicati entro la sfera della giustizia politica, e la giustizia doveva essere derivazione della morale che riconosce a ciascuna persona ciò che le spetta. E siccome la persona è sorgente di libertà, e la libertà lecitamente esercitata crea a catena uno sciame di attività che costituiscono altrettanti beni-diritti, nella libera espressione delle persone e delle comunità una nazione ha la sua più grande sorgente potenziale di ricchezza materiale, intellettuale e morale. Le costituzioni devono allora proteggere, sempre entro la sfera del giusto, ogni tipo di libertà, favorendone lo sviluppo e vigilando solo affinché non si trasformino in abuso di libertà, cioè in libertà che si espandono a spese della libertà degli altri. Il pericolo di abusare dei propri diritti non è presente solo nei singoli cittadini e nei piccoli-grandi gruppi sociali intermedi, ma anche nello Stato, che potrebbe trasformarsi da semplice amministratore a padrone dei diritti altrui. A vigilare affinché il governo non violi i diritti di giustizia nei riguardi del cittadino e delle altre società Rosmini vorrebbe l’istituzione dei tribunali politici di giustizia; a neutralizzare poi la tentazione che chi deve amministrare i beni materiali di un popolo si trasformi in padrone di questi beni, dilapidatore delle sostanze altrui, propone che ogni cittadino nell’eleggere i deputati a tale 143 compito abbia un peso politico pari alla ricchezza materiale di cui risulta proprietario, cioè « il voto elettorale proporzionato all’imposta diretta che ciascun cittadino paga allo Stato » 11. Cristianesimo e governo politico Più Rosmini si ferma a riflettere sul ruolo avuto dal cristianesimo nella formazione della civiltà europea, e sulle potenzialità di bene per il singolo e per le comunità che esso racchiude, più gli appaiono insensate le dottrine di chi invita i popoli ad allontanarsi da esso. Il cristianesimo costituisce la materia prima del comune tessuto sociale dell’Occidente, i frutti più belli raccolti sull’albero della civiltà europea sono merito suo, escluderlo dalla formazione degli Stati moderni significherebbe privarsi a lungo termine delle proprie radici e del proprio domani, dell’unità nella varietà dei popoli, della comune tensione etica e intellettuale, quindi dei valori morali e culturali che lo caratterizzano; significherebbe, in una parola, perdere la propria identità di cittadini europei. C’è di più. La società cristiana, ospitando in sé la Chiesa, la quale ha nei sacramenti i mezzi per risollevarsi dalle cadute e per autorigenerarsi, non segue la sorte naturale delle civiltà non cristiane, il cui processo prevede una nascita, una fioritura e la morte. Il cristianesimo porta alle nazioni che lo accettano il germe dell’autoriforma permanente, e non permetterà mai che esse periscano del tutto. L’apertura al soprannaturale, avvenuta con l’irrompere della rivelazione, apre all’uomo cieli nuovi: l’intelletto può spaziare su orizzonti sconosciuti prima, la volontà ha a portata di mano beni che senza l’aiuto della grazia non 11 La costituzione secondo la giustizia sociale, in Scritti politici, cit., p. 51. 144 poteva neppure immaginare di raggiungere, la fantasia può creare progetti arditi e sperare di poterli attuare perché con l’aiuto di Dio tutto diventa possibile. Il cristianesimo insomma innesca dentro la persona dell’uomo un meccanismo che dilata e potenzia enormemente le sue facoltà, e accende speranze in altri tempi ritenute impossibili, giovando al progresso della scienza, della tecnica, della morale, del diritto, della politica. Proponendosi il bene ultimo dell’uomo, il cristianesimo moltiplica la ragione speculativa degli individui. Rivelando agli uomini che possono unirsi tutti indistintamente all’Assoluto e che nessuno deve essere ostacolato al raggiungimento di tale unione, dà più ampie prospettive ai concetti di uguaglianza e di libertà. Completa le norme morali dei filosofi, i quali al massimo possono indicare il fine naturale dell’uomo senza, peraltro, poter fornire i mezzi adeguati per raggiungerlo; mentre nel cristianesimo viene svelato il fine soprannaturale dell’uomo, e vengono offerti i mezzi adeguati (la grazia) a raggiungerlo. La dottrina del cristianesimo è universale: si libra sui tempi, sugli spazi, sulle culture; assicura, di conseguenza, durata e stabilità alle società, le abitua a pensare in grande, tutela gli uomini contro i tiranni e i despoti di turno, smaschera i mistificatori, getta le premesse per un governo universale che superi l’egoismo tribale, quello delle società particolari e l’egoismo delle nazioni, abbatte insomma tutti gli steccati. Non è vero che il cristianesimo ostacoli il perseguimento delle ricchezze materiali. Anzi, insegnando a considerare i beni terreni nel loro giusto valore di mezzi per il raggiungimento della perfezione della persona, da una parte mette in guardia le società contro tutti i malesseri di chi considera questi beni come fini e sperimenta puntualmente che non sono tali, dall’altra garantisce il modo migliore di trattarli. Si giunge così alla sorprendente conclu- 145 sione che il cristianesimo, proprio perché cerca costantemente i beni celesti, si trova agevolato anche nei beni terreni. E la ragione sta nel fatto che i beni materiali tendono spontaneamente ad accumularsi nelle mani di chi li tratta per quello che sono; per cui la giustizia (riconosci l’essere per quello che è) finisce col diventare la migliore alleata dell’eudemonologia. Ecco perché Rosmini al saintsimonismo del suo tempo, ed a quanti considerano l’utilità materiale unico scopo della società civile, risponde che « i beni temporali messi per fine conducono le nazioni a distrugger se stesse e l’uomo ad imbrutire » 12. La società che maggiormente tutela lo spirito del cristianesimo è la Chiesa. Essa è governata da Gesù Cristo, e deve muoversi secondo le indicazioni dello Spirito Santo, per adeguarsi alle quali le è indispensabile una grande libertà interna di movimento e di organizzazione. Il suo influsso benevolo sulla società è proporzionato alla capacità di mantenersi fedele al messaggio evangelico, di cui è custode. E per rafforzare questa fedeltà, « la Religione cattolica non ha bisogno di protezioni dinastiche, ma di libertà: ha bisogno che sia protetta la sua libertà e non altro » 13. Lo Stato che pensa alla Chiesa come ad un suo concorrente da eliminare, scambia la Chiesa per una potenza terrena (mentre il suo regno non è di questo mondo), e osteggiandola si priva insensatamente di un prezioso alleato nel governo degli uomini. Ma anche lo Stato che le concede privilegi contrari alla giustizia politica, o che cerca di influire sul suo governo interno, al fine di controllarla o di usarla per i suoi scopi temporali, finisce col nuocere alla Chiesa: la appesantisce di fardelli temporali (Rosmini li chiama piaghe), che rendono opaco il suo messaggio spirituale, e non le permettono di dare il meglio di 12 13 Filosofia della politica, cit., p. 352. La costituzione secondo la giustizia sociale, cit., p. 71. 146 se stessa. La migliore soluzione è che la Chiesa e lo Stato siano pienamente liberi nel perseguire i rispettivi fini, si riconoscano e stimino reciprocamente ma rimanendo autonomi, cooperino in armonia alla formazione del cittadino, il quale, pur avendo rapporti differenziati con l’uno e con l’altra, rimane sempre uno nel suo operare. Ai tempi di Rosmini i rapporti Stato-Chiesa erano disturbati da interferenze e animosità che in parte erano state ereditate, in parte erano dovute ai fermenti della modernità. Uno dei nodi non risolti era l’elezione dei vescovi, nella quale il potere temporale aveva diritto di intervenire per indicare il nome o porre veti. Rosmini propone come soluzione di restituire alla Chiesa l’antica usanza, secondo la quale i nomi dei nuovi vescovi venivano liberamente indicati dai fedeli uniti al clero della diocesi interessata, e la Santa Sede ne sanciva definitivamente l’elezione: « Il solo clero unito col popolo può restituire i suoi grandi vescovi alla Chiesa » (14). Così, in un tempo in cui i popoli rivendicavano diritti evasi da secoli, anche la Chiesa avrebbe riottenuto la libertà di scegliersi al proprio interno i suoi pastori. L’attenzione posta da Rosmini al riconoscimento di tutte le libertà legittime, lo colloca fra quei pensatori che furono chiamati cattolici liberali. La sua dottrina giuridica e politica è realmente centrata sul valore insostituibile della persona, la quale con la sua libera attività crea in continuazione diritti che diventano altrettanti beni per la nazione. La migliore ricchezza di uno stato è la libera creatività delle persone e delle comunità che lo costituiscono. Da qui l’attenzione a che questa libertà non venga mortificata, e allo stesso tempo non si trasformi nel suo contrario, degradandosi a licenza: libertà affiancata da una seria tensione etica. All’interno di questo orizzonte si comprende perché Rosmini appoggi la libera concorrenza, lo 14 La costituzione secondo la giustizia sociale, cit., p. 77. 147 spontaneo fiorire di industrie e commerci, le pubbliche assemblee e discussioni, il dialogo tra le culture, la libera associazione e circolazione dei beni e delle persone, il rispetto delle diversità e delle minoranze. Mentre considera scorretto che lo stato intervenga, usando il denaro pubblico, a competere sul mercato con industrie e commerci propri, oppure scoraggi l’iniziativa privata con imposte mal distribuite, oppure adoperi il denaro dei contribuenti non per spronare ma per assopire la creatività della persona e delle comunità intermedie: « Il maggior benefizio che può farsi all’uomo non è di dargli il bene, ma di fare che di questo bene sia egli autore a sé medesimo » 15. La coniugazione armonica di diritto e dovere, libertà e giustizia: sono queste le armi migliori di uno Stato che voglia mantenersi all’altezza dei suoi compiti. 15 Teodicea, a cura di Umberto Muratore, Città Nuova, Roma 1977, n. 371, p. 242. 148