Palestina – Israele. La rassegna di maggio Palestina - Lettera aperta a Margaret Atwood 5 aprile 2010Gentile Sig.ra Atwood Siamo studenti di Gaza e rappresentiamo più di 10 istituzioni scolastiche della Striscia. I nostri nonni sono profughi che sono stati espulsi dalle loro case durante la Nakba del 1948. Loro conservano ancora le chiavi delle loro casa negli armadi e le trasmetteranno ai loro figli, nostri padri. Molti di noi hanno perduto il proprio padre, altri hanno perduto la propria madre e altri ancora li hanno perduti entrambi nell’ultima aggressione contro la popolazione civile di Gaza. Altri hanno perso una parte del proprio corpo per le bruciature prodotte dal fosforo bianco utilizzato da Israele, e ora si ritrovano del tutto disabili. La maggioranza di noi ha perso la propria casa, e ora viviamo in tende da campeggio , dato che Israele impedisce l’entrata a Gaza dei materiali basici di costruzione. E soprattutto tutti stiamo vivendo comunque in quella che è diventata la piaga purulenta nella coscienza della umanità, il brutale e medievale assedio che Israele sta perpetrando contro di noi, il milione e 500.000 palestinesi della Striscia di Gaza. Molti di noi hanno letto i suoi testi durante gli studi universitari. Benché i suoi libri non siano disponibili a Gaza- questo perché Israele non permette l’entrata di libri, carta e altri materiali- abbiamo familiarizzato con i suoi scritti politici apertamente di sinistra e femministi. E soprattutto conosciamo la sua posizione decisa contro l’apartheid. Conosciamo il suo ammirevole appoggio alle sanzioni contro l’apartheid in Sudafrica e il suo appello alla resistenza ad ogni forma di oppressione. Sappiamo che questa primavera riceverà un premio dall’Università di Tel Aviv. Noi, gli studenti di Gaza le chiediamo di non presenziare. Come solevano dirci i nostri professori, maestri e compagni di lotta contro l’apartheid, non si negoziò con il brutale regime razzista di Pretoria. Non ci fu neanche comunicazione. Solo una parola:Boicottaggio. Lei deve sapere che Israel era uno stato amico del regime di apartheid prima del 1994. Molti eroi antiapartheid del Sudafrica incluso Nelson Mandela e l’arcivescovo Desmond Tutu hanno descritto l’oppressione di Israele come apartheid. Alcuni descrivono il colonialismo e l’occupazione israeliani come apartheid del male. Gli F-16, F-15, F-35,gli elicotteri Apache,i carriarmati Merkava e il fosforo bianco non sono stati utilizzati contro i municipi neri. Sig.ra Atwood, nel campo di concentramento di Gaza, agli studenti che hanno ricevuto borse di studio per studiare in università all’estero, si impedisce anno dopo anno di sfruttare queste opportunità che è loro costato tanto conseguire. Nella Striscia di Gaza sono sempre meno coloro che cercano di ottenere una istruzione superiore, questo a causa dell’aumento della povertà e la scarsità di combustibile per il trasporto, risultato diretto dell’assedio medievale di Israele. Qual’è la posizione dell’Università di Tel Aviv di fronte a questa forma illegale di castigo collettivo descritto come “preludio al genocidio” da Richard Falk, Relatore Speciale per le Nazioni Unite per i Diritti Umani dei Palestinesi nei Territori Occupati? Non si è sentita neanche una parola di condanna da parte di nessuna istituzione accademica! Mantenere relazioni normali con Tel Aviv significa dare tacita approvazione alla sua politica di esclusività razziale contro i cittadini palestinesi di Israele. Siamo convinti che non le piacerebbe appoggiare un’istituzione che difende con tanta lealtà il sistema di apartheid nel suo stato. L’Università di Tel Aviv ha una lunga e ben documentata storia di collaborazione con l’esercito israeliano e i servizi di intelligence. Questo appare particolarmente vergognoso dopo il sanguinoso assalto militare di Israele contro la Striscia di Gaza che, secondo le principali organizzazioni per i diritti umani internazionali e locali ha lasciato 1440 morti e 5380 feriti. Siamo convinti che non le piacerebbe dare il suo sostegno ad una istituzione che appoggia chi ha assassinato 430 bambini. Se accetterà il premio dell’Università di Tel Aviv, starà indirettamente chinando la testa di fronte alla politica israeliana di pulizia etnica e di genocidio. Questa università si è rifiutata di commemorare il villaggio palestinese sulle cui macerie fu costruita. Questo villaggio si chiama Sheikh Muwanis, e non esiste più a seguito della confisca da parte di Israele. I suoi abitanti sono stati espulsi. Ricordiamo le parole dell’Arcivescovo Desmond Tutu:”se scegli di essere neutrale in situazioni di ingiustizia, stai scegliendo la parte dell’oppressore”. Così le chiediamo di dire no alla neutralità, no al muro, no alla normalizzazione dell’apartheid israeliana, no dopo il sangue copioso versato da più di 400 bambini. No all’occupazione, alla repressione, al colonialismo degli insediamenti, all’espansione degli insediamenti, alla demolizione delle case, all’espropriazione delle terre e al sistema di di discriminazione contro la popolazione indigena della Palestina, e no alla formazione di bantustan in Cisgiordania e nella striscia di Gaza. Così come tutti i cittadini sapevano che avevano la responsabilità morale di boicottare l’apartheid in Sudafrica dopo il massacro di Sharpeville, Gaza 2009 ha richiamato l’attenzione da parte di tutto il mondo. Tutte le istituzioni accademiche di Israele sono statali e finanziate dallo stato. Ricevere uno qualunque dei loro premi o accettare le loro lusinghe significa difendere le atroci azioni politiche di quello stato. Israele viola continuamente il Diritto Internazionale sfidando il mondo intero. Sta occupando illegalmente terre palestinesi. Continua la sua aggressione al popolo palestinese. Israele nega le libertà democratiche a tutti i palestinesi, e se ne vanta con tanto orgoglio. Israele è un regime di apartheid che nega ai rifugiati palestinesi il diritto al ritorno così come esige la risoluzione 194 dell’ONU. Presenziare al simposio violerebbe la campagna per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) contro Israele, approvata all’unanimità dalla società civile palestinese. Questo appello è diretto anche agli attivisti internazionali, artisti, accademici e di coscienza, come lei. Siamo convinti che le piacerebbe molto prendere parte alla lotta contro l’apartheid, la colonizzazione e l’occupazione di cui il popolo palestinese è stato oggetto negli ultimi 61 anni, una lotta che è in corso. Sig.ra Atwood, la consideriamo una “intellettuale di opposizione” così come l’intendeva il defunto Edward Said. In questo senso e per la venerazione che abbiamo per il suo lavoro ci sentiremmo feriti sia dal punto di vista emozionale che psicologico, se la vedessimo presenziare al simposio. Lei è una grande donna di parole, di questo non nutriamo alcun dubbia. Però pensiamo che sarà d’accordo sul fatto che le azioni parlano di più delle parole… Tutti aspettiamo la sua decisione. Gaza assediata Campagna degli studenti palestinesi per il Boicottaggio Accademico di Israele (PSCABI) Parere dell’Associazione dei Professori Universitari in Palestina Tratto da: http://australiansforpalestine.com/an-open-letter-to-margaret-atwood-from-gazadon% E2% 80% 99T-pie-en-el-mal-lado-de--la historia 4apr10 *Margaret Eleanor Atwood (Ottawa, 18 de noviembre de 1939). Prolifica poetessa, romanziera, critica letteraria y attivista politica. E’ membro dell’organismo per i diritti umani Amnistía Internacional e copresidente di BirdLife International, in difesa degli uccelli. (Informazione tratta da Wikipedia). E’ stata insignita del premio Premio Príncipe de Asturias de las Letras nell’anno 2006. La pulizia etnica in Palestina Il 15 maggio 2010 segna il 62esimo anniversario della Nakba ("catastrofe"), la pulizia etnica della Palestina da parte delle forze sioniste, prima e durante la creazione dello Stato di Israele. Il 1948 ha visto l'espulsione dalle loro case e dalla loro terre di oltre 700.000 Palestinesi, il massacro indiscriminato di migliaia di civili e la sistematica distruzione di più di 450 villaggi palestinesi. La pulizia etnica in Palestina non è finita, ma continua ancora oggi. Il Muro dell'Apartheid, le colonie in Cisgiordania e Gerusalemme, l'assedio di Gaza, ridotta ormai ad una prigione a cielo aperto, la demolizione delle case palestinesi, le espulsioni dalla Cisgiordania (a cui i due nuovi decreti militari israeliani 1649 e 1650 entrati in vigore il 13 Aprile 2010 danno una forte accelerazione), la detenzione di migliaia di prigionieri tra cui donne e bambini, la repressione e la negazione del diritto al ritorno dei profughi, sono tutte azioni che hanno un unico obiettivo: il completamento della conquista del territorio e della espulsione della popolazione palestinese, cancellandone l'identità. Forum Palestina. Intervista ad Eitan Bronstein, fondatore di Zochrot, che tenta di avvicinare gli israeliani alla tragedia palestinese- Peacereporter scritto per noi da Lorenzo Kamel ''Muri mentali" e verità assolute: questo sembra l'unico scenario possibile quando israeliani e palestinesi approcciano l'eredità storica del 1948. L'organizzazione israeliana Zochrot (in ebraico 'ricordando') è ciò che in molti considerano una terza via, un "messaggio ponte" tra le due comunità. Fondata nel 2002, ha acquisito da allora una crescente notorietà grazie a un'idea tanto complessa quanto ambiziosa: avvicinare l'opinione pubblica israeliana alla Nakba (in arabo 'tragedia') palestinese del 1948. Per farlo organizza tour sulle rovine dei villaggi, pubblica opuscoli, allestisce mostre, cataloga testimonianze. Tutto ad esclusivo uso e consumo della maggioranza ebraica del Paese. Zochrot continua ad attirare critiche serrate, ma anche un forte appoggio e un progressivo interesse. Eitan Bronstein*, il fondatore, non vede alternative: "Riconoscere il passato. Capire il presente. Affrontare il futuro". Per comprendere il suo messaggio lo abbiamo incontrato in due circostanze. La prima nel suo studio, nel pieno centro di Tel Aviv. La seconda nell'antico sito dove sorgeva il villaggio di Deir Yassin, oggi conosciuto come il quartiere ebraico di Har Nof, nel corso di una marcia organizzata da Zochrot per ricordare il 62° anniversario della sua tragica fine. (a Deir Yasssin furono massacrati il 9 aprile del 1948 dall’organizzazione terroristica israeliana Irgun da 170 a 93 palestinesi, secondo le fonti: Ilan Pappe, La pulizia etnica della Palestina, pag.117, Fazi editore) Signor Bronstein, perché ha fondato Zochrot? L'idea mi venne in mente all'inizio dell'ottobre del 2000. L'evento scatenante fu l'uccisione di dodici palestinesi, tutti cittadini di Israele, per mano della nostra polizia. Erano dimostranti e nessuno di essi era armato. Manifestavano in segno di solidarietà con i palestinesi dei Territori Occupati. Era una fase di grande fermento e l'occupazione, sommata ad anni di discriminazioni e povertà crescente, stava favorendo l'esplosione dell'odiosa violenza che ha scandito la Seconda Intifaḍa. Il circolo vizioso che, ancora una volta, stava prendendo vita, mi fece capire l'urgenza di cambiare qualcosa, alla radice. Compresi che solo avvicinandosi alla sofferenza dell'altro fosse possibile raggiungere una reale riconciliazione tra i nostri popoli. Non è un caso che tutti i processi di pace degli ultimi decenni siano falliti. Erano poco più che 'scatole vuote'. Non c'è pace che tenga senza che prima si raggiunga una vera riconciliazione. Ma non avremo alcuna riconciliazione senza che alla base ci sia una genuina volontà di capire la Nakba'. In che modo portate avanti il vostro progetto? "Yediat ha-aretz", la conoscenza della terra: questo è uno dei massimi motivi d'orgoglio per quasi ogni israeliano. Conoscerla palmo a palmo, nelle sue tradizioni, nelle sue peculiarità. Tuttavia sappiamo molto della realtà esistente 2000 anni fa e poco di quella relativa alla prima metà del secolo scorso. Zochrot nasce per colmare tale lacuna. Parlando della Nakba in ebraico puntiamo a sensibilizzare l'opinione pubblica del nostro Paese, spingendola ad assumersi la propria parte di responsabilità. A questo scopo realizziamo vari tipi di iniziative. Organizziamo tour presso i villaggi palestinesi distrutti nel 1948, invitando il pubblico a riconsiderare il paesaggio circostante con nuovi occhi, attraverso le testimonianze dei rifugiati. Durante i tour distribuiamo anche opuscoli contenenti fotografie, mappe e ricerche originali sul villaggio prescelto. Infine affiggiamo cartelli in ebraico e in arabo contrassegnando il punto esatto sul quale sorgevano alcune delle infrastrutture ormai distrutte: scuole, librerie, centri ricreativi e così via. Siamo inoltre impegnati in iniziative a carattere educativo. Dall'allestimento di esposizioni artistiche relative alla Nakba, con fotografie, ceramiche e videoinstallazioni, fino ad arrivare alle lezioni che offriamo nelle scuole e presso la nostra sede di Tel Aviv. Abbiamo anche un centro virtuale, sul sito www.zochrot.org, la prima nonché la più fornita risorsa online riguardante la Nakba in ebraico. Il fine è sempre lo stesso: incoraggiare il pubblico a riesaminare il passato del nostro Paese, senza retorica, con un occhio critico''. Può raccontarci uno dei vostri tour? L'ultimo che abbiamo organizzato è stato a Miska, un antico centro palestinese posto a circa 15 chilometri da Tulkarem. I suoi abitanti furono espulsi il 15 aprile 1948, un mese prima della fondazione dello Stato d'Israele. La distruzione del villaggio venne suggerita da un rapporto scritto da Joseph Weitz, un ufficiale del Fondo Nazionale Ebraico. Rimase in piedi solo una moschea e una scuola elementare. Quest'ultima in anni recenti si è trasformata in un centro culturale usato da rifugiati e attivisti. Per impedire tale utilizzo, la Israel Land Administration [fondata nel 1960; attualmente gestisce il 93 percento del suolo israeliano] ha deciso di costruire un recinto attorno ad essa. Il team di Zochrot, affiancato da decine di volontari, si è recato sul posto e ha trasformato il recinto in una galleria artistica a cielo aperto, decorando il tutto con nostre creazioni. Alla fine della giornata abbiamo creato un cerchio umano attorno alla struttura. Ognuno di noi aveva in mano una lettera. Il messaggio finale era "Miska ze kan", ovvero "Miska è qui". La scuola è stata demolita poche settimane dopo. Per converso il nostro messaggio e le foto che abbiamo scattato rimarranno per le generazioni a venire, a beneficio di chiunque sia disposto a mettere in dubbio la propria verità. Le vostre iniziative non rischiano di mettere in secondo piano gli errori compiuti dalle leadership dei paesi arabi? ''Siamo coscienti del ruolo nefasto svolto da molti Paesi arabi, Stati che sovente ancora oggi usano il dolore dei profughi palestinesi più come pretesti da sfruttare che come cause da difendere. Tuttavia ciò non può essere una scusa per giustificare i nostri errori e soprattutto per avallare i vari tentativi che tuttora vengono effettuati in Israele per cancellare la memoria della Nakba, tanto dalla narrativa ufficiale del paese quanto dal suo paesaggio fisico. A questo riguardo mi permetta di fare un esempio. Qualche anno fa chiesi a mio figlio di fare un'escursione al Canada Park, una riserva fondata dal Keren Kayemet LeYisrael [ovvero il Fondo Nazionale Ebraico, che attualmente controlla circa il 13 percento del suolo israeliano] su terra un tempo appartenuta a Yalu e ‘Imwas, due antichi villaggi palestinesi, il primo già noto in epoca Cananea, distrutti nel 1967 su ordine di Yitzhak Rabin. La superficie in questione, facilmente accessibile da Gerusalemme e da Tel Aviv, è oggi usata in prevalenza come un'area ricreativa per l'organizzazione di picnic. Nel corso della visita fu facile appurare che all'interno del parco non c'era un singolo cartello che menzionasse i villaggi o i loro abitanti. Per contro, i nomi dei donatori canadesi che finanziarono il progetto erano incisi su placche di bronzo. La guida che ci accompagnò lungo il tragitto iniziò a raccontarci una storia grandiosa, omettendo un qualsiasi accenno al carico di sofferenza che sottendeva questa ridente riserva. A seguito di una lunga battaglia legale, il Fondo Nazionale Ebraico ha accettato di segnalare i due villaggi. Il primo cartello è sparito quasi subito, il secondo è stato completamente sfigurato. Zochrot è attualmente impegnato a ripristinare entrambi''. Come reagiscono i palestinesi alle vostre iniziative? Il più delle volte la prima reazione è di smarrimento, accompagnata da una buona dose di sospetti. In un secondo momento diventano, nella maggioranza dei casi, desiderosi di condividere i loro ricordi. Vogliono che l'opinione pubblica israeliana riconosca il loro trauma. Ma prima ancora che per noi, lo fanno per loro stessi, usando il potere delle parole per lenire le loro ferite. Parafrasando un palestinese che si è avvicinato di recente alla nostra organizzazione: "Zochrot sta facendo per i palestinesi più di quanto i palestinesi facciano per loro stessi". Non pensa che un ritorno dei profughi palestinesi possa creare i presupposti per la creazione di nuovi profughi? In primis ci tengo a sottolineare che le iniziative che portiamo avanti sono pensate a beneficio della nostra comunità, ovvero di tutti gli ebrei di Israele. Non miriamo a gettare discredito o a fomentare uno spirito di rivalsa. Il fine è quello di far progredire la nostra società, disincagliandola da un passato che è giunto il momento di affrontare. Molte persone lo hanno già capito, altre lo faranno. Non molto tempo fa il leader dell'opposizione Tzipi Livni ha dichiarato che "i palestinesi celebreranno il loro Stato solo quando avranno cancellato dal loro lessico la parola Nakba". Noi la pensiamo diversamente. Riteniamo che se i palestinesi rimuovessero il loro trauma e rinunciassero una volta per sempre al "diritto al ritorno" dei profughi, ciò non libererebbe noi israeliani da un pesante fardello, ma al contrario ci farebbe rimanere mentalmente intrappolati, chiusi in noi stessi. Ma più che a un "diritto al ritorno" sarebbe opportuno riferirsi a un approccio "pragmatico sul tema del ritorno". Bisogna valutare caso per caso, senza decisioni sommarie. Di certo i palestinesi che decideranno di tornare lo dovranno fare accettando in primo luogo il fatto che gli ebrei sono qui, avendone pieno diritto. Il ritorno dei rifugiati non dovrà creare un solo nuovo profugo. In termini astratti c'è un inalienabile "diritto al ritorno", ma quando si mette in pratica è necessario che sia soggetto a un compromesso, un compromesso che i palestinesi devono accettare. Non ritiene che bisognerebbe tener conto anche dei molti rifugiati ebrei provenienti nel 1948 dai Paesi arabi? Sul piano storico è ormai acclarato che molti ebrei siano stati cacciati da diversi Paesi arabi, anche se non c'è accordo sui numeri e sui diversi modi in cui ciò avvenne. I palestinesi, tuttavia, non hanno avuto alcun ruolo diretto in tale espulsione. Inoltre è bene ricordare che i palestinesi espulsi non avevano, allora come oggi, ciò che per noi rappresentava e rappresenta lo Stato di Israele, ovvero un porto sicuro nel quale rifugiarsi. *Eitan Bronstein (M.A. Bar-Ilan University) è nato in Argentina nel 1960. All'età di cinque anni si è trasferito insieme alla famiglia in Israele, presso il kibbutz Bahan. Prima di dedicarsi a tempo pieno al progetto Zochrot è stato direttore dei programmi educativi della Scuola per la Pace di Neve Shalom, un villaggio cooperativo posto tra Tel Aviv e Gerusalemme, abitato da ebrei e palestinesi di cittadinanza israeliana. Gaza, le armi proibite Peacereporter 11 maggio Studio del New Weapons Research Group rivela che la presenza di metalli tossici nei tessuti e' prova dell'utilizzo di armi sconosciute nelle offensive israeliane nella Striscia Un nuovo studio del New Weapons Research Group (Nwrg) ha rivelato che a Gaza gli israeliani hanno utilizzato armi contenenti metalli tossici e sostanze carcinogene. Per la prima volta sono stati analizzati tessuti di persone ferite nella Striscia durante le operazioni militari del 2006 e del 2009. La commissione di scienziati del Nwrg ha coordinato tre universita' (La Sapienza di Roma, l'universita' di Chalmer in Svezia e quella di Beirut in Libano) nella raccolta e nell'analisi dei dati. La ricerca, che ha messo a confronto il contenuto di 32 elementi rilevati dalle biopsie, mostra come nelle offensive siano state utilizzate armi sconosciute, che non lasciano schegge o frammenti nel corpo, ma metalli e sostanze i cui effetti possono provocare anche mutazioni genetiche. Sono stati analizzati 16 campioni di tessuto appartenenti a 13 vittime, prelevati dall'ospedale Shifa di Gaza, e individuati quattro tipi di ferite: carbonizzazione, bruciature superficiali, bruciature da fosforo bianco e amputazioni. Elementi chimici come alluminio, rame, bario, mercurio e vanadio sono stati individuati nelle persone amputate; sempre alluminio, rame, cobalto, e mercurio nelle ferite da fosforo bianco; piombo e uranio in tutte le ferite; arsenico, manganese, cadmio e cromo in tutte le ferite eccetto quelle da fosforo bianco; nichel solo nelle amputazioni. Alcuni di questi elementi sono carcinogeni, altri potenzialmente carcinogeni, altri tossici per il feto. Mercurio, arsenico, cadmio, cromo, nichel e uranio possono portare a mutazioni genetiche. Cobalto e vanadio producono mutazioni genetiche negli animali ma non e' dimostrato che facciano altrettanto nell'uomo. Alluminio, mercurio, rame, bario, piombo, manganese hanno effetti tossici e provocano danni per il nascituro, nel caso di donne incinte, essendo in grado di oltrepassare la placenta e danneggiare embrione o feto. Tutti i metalli possono determinare patologie croniche ai danni dell'apparato respiratorio, renale, riproduttivo e della pelle. "Nessuno - spiega Paola Manduca, docente di genetica all'università di Genova e portavoce del New Weapons Research Group - aveva mai condotto questo tipo di analisi bioptica su campioni di tessuto appartenenti a feriti. Noi abbiamo focalizzato lo studio su ferite prodotte da armi che non lasciano schegge e frammenti perché ferite di questo tipo sono state riportate ripetutamente dai medici a Gaza e perché esistono armi sviluppate negli ultimi anni con il criterio di non lasciare frammenti nel corpo. Abbiamo deciso di usare questo tipo di analisi per verificare la presenza, nelle armi che producono ferite amputanti e carbonizzanti, di metalli che si depositano sulla pelle e dentro il derma nella sede della ferita". "La presenza - prosegue - di metalli in queste armi che non lasciano frammenti era stata ipotizzata, ma mai provata prima. Con nostra sorpresa, oltre a identificare i metalli presenti nelle armi amputanti, anche le bruciature da fosforo bianco contengono metalli in quantità elevate. La presenza di metalli in tutte queste armi implica anche la loro diffusione nell'ambiente in quantità ed in un'area di dimensioni a noi ignote, variabili secondo il tipo di arma. Questi metalli sono dunque anche inalati dalla persona ferita e da chi si trovava nelle adiacenze anche dopo l'attacco militare. La presenza di questi metalli comporta così un rischio sia per le persone coinvolte direttamente, che per quelle che invece non sono state colpite". Luca Galassi La guerra sporca di Gaza, Umberto de Giovannangeli, L’Unità 15.05.2010 So che c’è chi ci considera dei traditori, dei venduti al nemico. Ero orgoglioso di vestire la divisa di Tsahal e di difendere il mio Paese. Maquello a cui ho assistito è qualcosa che va contro ciò in cui credevo. E se fossi rimasto in silenzio, allora sì che mi sarei sentito un traditore...». Aron ha 24 anni ed ha combattuto in un reparto di élite dell’Idf (l’esercito dello Stato ebraico) durante l’operazione «Piombo Fuso» condotta dalle armate israeliane a Gaza. Aron è a conoscenza delle denunce di associazioni umanitarie internazionali sull’uso di armi non convenzionali a Gaza. «Qualcosa circolava tra noi al riguardo - dice a l’Unità - ma chi provava a saperne di più veniva subito zittito». Le considerazioni di Aron riportano a quanto denunciato in un libretto dall’organizzazione Breaking the silence, organizzazione di veterani israeliani che dal 2004 raccoglie testimonianze dei colleghi sugli abusicommessi dall’esercito nei Territori Occupati. Tutte le 54 testimonianze raccolte sono anonime. Esse mettono in luce la facilità con cui si sono distrutte case e moschee, anche se non erano obiettivi militari; l’uso di bombe al fosforo in zone popolate da civili; l’uccisione di vittime innocenti; la distruzione di proprietà private; regole vaghe su cosa fare di fronte ai palestinesi, che ha permesso un uso spropositato delle armi da fuoco per uccidere. Mikhael Mankin di Breaking the silence afferma che «le testimonianze provano che ilmodoimmorale in cui la guerra è stata condotta è dipeso dal sistema in atto, più che dagli individui». Fosforo banco 1 Testimonianza: Che cos’era la storia dell’uso di bombe di mortaio al fosforo bianco? Il comandante della compagnia dà al comandante del plotone che ha il mortaio un obiettivo e gli ordina di fare fuoco. Che cosa c’era, lo sa? Un obiettivo. Li definiscono obiettivi. Non so veramente dire cosa fosse. Qualche volta si sentiva alla radio: «Via libera, fosforo nell’aria». Tutto qua. Non mi ricordo se venisse confermato dal comandante della compagnia, ma so anche di un ufficiale che sparò senza chiedere l’autorizzazione. Perché sparare fosforo? Perché è divertente. Fantastico. Professionalmente avete del fosforo da usare contro queste minacce? Non so a quale scopo sia usato. Ne stavo proprio parlando ieri. Non capisco come queste munizioni siano tra i nostri rifornimenti se poi non dobbiamo usarle. È ridicolo» Fosforo bianco 2 Poi siamo ritornati a nord, a circa 500 metri dal recinto, e siamo rimasti là di guardia tutta la notte. Non abbiamo visto niente di speciale. Il giorno dopo siamo tornati alla base per prendere nuovi ordini della missione e siamo stati di nuovo assegnati ad un’unità del battaglione *** con cui siamo entrati. Abbiamo camminato con loro sulla spiaggia e abbiamo visto tutte le bombe al fosforo bianco di cui le ho detto, abbiamo visto vetri sulla sabbia. Può descriverlo? Che cosa ha visto?Camminilungo la sabbia e senti questo scricchiolio di qualcosa che viene frantumato. Abbiamo guardato per terra e abbiamo visto delle cose che sembravano frammenti di migliaia di bottiglie di vetro rotte. Che colore avevano? Marrone sporco. Ne ha visto dei resti da altre parti nelle vicinanze? C’era un’area di circa 200-300 metri quadrati di sabbia vetrosa come quella. Abbiamo capito che veniva dal fosforo bianco ed è stato sconvolgente. Perché? Perché durante l’addestramento si impara che il fosforo bianco non si usa, e si impara che non è umano. Si vedono dei film e si vede quello che fa alla gente che ne è colpita, e ti dici “Ecco, è quello che stiamo facendo”. Non è quello che miaspettavo di vedere. Fino a quel momento, avevo pensato di appartenere all’esercito più umano del mondo....». Fosforobianco3Lì è stato senz’altro usato del fosforo bianco, l’ho visto e non ci si può sbagliare, si vedono proprio degli ombrelli infiammati. «È successo qualcosa di nuovo nell’Operazione Piombo Fuso a Gaza, qualcosa che non era mai accaduto», ribadisce Yehuda Shaul, 26 anni, uno dei fondatori di Breaking the Silence. «Non ho mai sentito storie comequeste. L’aggressività dei comandanti, l’uso massiccio dell’artiglieria in un’area urbana, la scomparsa della distinzione tra civili e combattenti. Sono entrati a Gaza senza regole d’ingaggio. Si sparava a tutto ciò che si muoveva e che non si muoveva. Ci sono testimonianze sulla demolizione di massa di abitazioni senza che ce ne fossero necessità operative». Un soldato che operò al cannone di un carro armato al nord est della frangia spiega che se dovevano girare e non c’era visibilità «si sparavano dodici bombe alle case intorno e si continuava». In due settimane di offensiva dice di aver sparato 50 bombe, 32 casse di munizioni da mitragliatrice media (più di 7.000 colpi), 20 colpi di mortaio da 60mm e 300 cariche da mitragliatrice pesante Browning 0.5. «E questo è solo un carro: ce n’erano più di duecento», aggiunge. Unascalacompletamente diversa. Lei ha servito nell’esercito a Gaza per anni, è stata una distruzione in qualche modo simile a quelle che ha conosciuto prima? No, nelmodopiù assoluto. Si è trattato di una scala completamente diversa. Questa è stata una potenza di fuoco come non ne ho mai conosciuto. Non posso dire che quando ero a Gaza non si fosse usata l’aviazione. Ma no, la terra non tremava di continuo. Voglio dire, c’erano tutto il tempo esplosioni. Se fossero lontane o vicine, questa è già semantica. Ma la nostra sensazione di fondo era che la terra tremasse costantemente. Si sentivano tutto il giorno esplosioni, la notte era piena di bagliori, un’intensità che non avevo mai provato prima. Molti bulldozer D-9 operavano 24 ore su 24, erano costantemente occupati. Questa è stata una scala di intensità molto diversa da quelle conosciute prima. Molto più grande... Guardi, quando ci sparavano, non vedevamo veramente il nemico con i nostri occhi. D’altra parte, ci sparavano e noi rispondevamo al fuoco verso punti sospetti. Che cos’è un punto sospetto? Significa che decidevi che era sospetto e potevi riversargli addosso tutta la tua rabbia». Una rabbia «non convenzionale». Come le armi utilizzate. I vertici politici e militari israeliani hanno contestato queste affermazioni e proposto controdeduzioni. Ma la forza di una democrazia - e quella israeliana è tale - sta nel non chiudere gli occhi di fronte alle pagine più nere, alle denunce più gravi. «La risposta ai razzi Qassam è stata sproporzionata e le testimonianze dei soldati non fanno che dimostrare quanto brutale fosse la situazione sul campo», rileva Valentina Azarov. esperta legale di HaMoked, il Centro per la Difesa dell’Individuo associazione dei dirittiumani con sede a Gerusalemme Est. Il dossier Gaza: La guerra di gaza causò mutazioni genetiche di Umberto De Giovannangeli , L’unità 14 maggio 2010 La guerra di Gaza non ha curato la ferita che avevamo disperatamente bisogno di medicare. Al contrario, ha rivelato ancor più i nostri errori di rotta, tragici e ripetuti, e la profondità della trappola in cui siamo imprigionati». Così scriveva David Grossman riflettendo sulle conseguenze dell'operazione Piombo Fuso scatenata da Israele nella Striscia di Gaza. Quella ferita continua a sanguinare e come un tragico Vaso di Pandora da quella prigione a cielo aperto e isolata dal mondo che è Gaza, continuano a uscire notizie raccapriccianti. Come la storia che l'Unità ha deciso di raccontare dopo aver compiuto i necessari riscontri. Una storia sconvolgente. Metalli tossici ma anche sostanze carcinogene, in grado cioè di provocare mutazioni genetiche. È quanto individuato nei tessuti di alcune persone ferite a Gaza durante le operazioni militari israeliane del 2006 e del 2009. L'indagine ha riguardato ferite provocate da armi che non hanno lasciato schegge o frammenti nel corpo delle persone colpite, una particolarità segnalata più volte dai medici di Gaza e che indicherebbe l'impiego sperimentale di armi sconosciute, i cui effetti sono ancora da accertare completamente. La ricerca, che ha messo a confronto il contenuto di 32 elementi rilevati dalle biopsie - attraverso analisi di spettrometria di massa effettuate in tre diverse università, La Sapienza di Roma, l'Università di Chalmer (Svezia) e l'Università di Beirut (Libano) - è stata coordinata da New Weapons Research Group (Nwrg), una commissione indipendente di scienziati ed esperti basata in Italia che studia l'impiego delle armi non convenzionali per investigare i loro effetti di medio periodo sui residenti delle aree in cui vengono utilizzate. La rilevante presenza di metalli tossici e carcinogeni, riferisce la commissione in un comunicato, indica rischi diretti per i sopravvissuti ma anche di contaminazione ambientale. I tessuti sono stati prelevati da medici dell'ospedale Shifa di Gaza City, che hanno collaborato a questa ricerca e classificato il tipo di ferita delle vittime. L'analisi è stata realizzata su 16 campioni di tessuto appartenenti a 13 vittime. I campioni che fanno riferimento alle prime quattro persone risalgono al giugno2006, periodo dell'operazione «Piogge estive». Quelli che appartengono alle altre 9 sono state invece raccolti nella prima settimana del gennaio 2009, nel corso dell'operazione Piombo Fuso. Tutti i tessuti sono stati esaminati in ciascuna delle tre università. Inglobare schegge o respirare micropolveri di tungsteno, metallo pesante e notoriamente cancerogeno, non potrà che provocare nella popolazione sopravvissuta o che vive nei dintorni un aumento della frequenza di insorgenze tumorali. Sono stati individuati quattro tipi di ferite: carbonizzazione, bruciature superficiali, bruciature da fosforo bianco e amputazioni. Gli elementi di cui è stata rilevata la presenza più significativa, in quantità molto superiore a quella rilevata nei tessuti normali, sono: alluminio, titanio, rame, stronzio, bario, cobalto, mercurio, vanadio, cesio e stagno nei campioni prelevati dalle persone che hanno subito una amputazione o sono rimaste carbonizzate, alluminio, titanio, rame, stronzio, bario, cobalto e mercurio nelle ferite da fosforo bianco, cobalto, mercurio, cesio e stagno nei campioni di tessuto appartenenti a chi ha subito bruciature superficiali, piombo e uranio in tutti i tipi di ferite, bario, arsenico, manganese, rubidio, cadmio, cromo e zinco in tutti i tipi di ferite salvo che in quelle da fosforo bianco, nichel solo nelle amputazioni. Alcuni di questi elementi sono carcinogeni (mercurio, arsenico, cadmio, cromo nichel e uranio), altri potenzialmente carcinogeni (cobalto, vanadio), altri ancora fetotossici (alluminio, mercurio, rame, bario, piombo, manganese). I primi sono in grado di produrre mutazioni genetiche, i secondi provocano questo effetto negli animali ma non è dimostrato che facciano altrettanto nell’uomo, i terzi hanno effetti tossici per le persone e provocano danni anche per il nascituro nel caso di donne incinte: sono in grado, in particolare l'alluminio, di oltrepassare la placenta e danneggiare l’embrione o il feto. Tutti i metalli trovati, inoltre, sono capaci anche di causare patologie croniche dell’apparato respiratorio, renale e riproduttivo e della pelle. La differente combinazione della presenza e della quantità di questi metalli rappresenta una «firma metallica». «Nessuno – spiega Paola Manduca, che insegna genetica all'Università di Genova, portavoce del New Weapons Research Group – aveva mai condotto questo tipo di analisi bioptica su campioni di tessuto appartenenti a feriti. Noi abbiamo focalizzato lo studio su ferite prodotte da armi che non lasciano schegge e frammenti perché ferite di questo tipo sono state riportate ripetutamente dai medici a Gaza e perché esistono armi sviluppate negli ultimi anni con il criterio di non lasciare frammenti nel corpo. Abbiamo deciso di usare questo tipo di analisi per verificare la presenza, nelle armi che producono ferite amputanti e carbonizzanti, di metalli che si depositano sulla pelle e dentro il derma nella sede della ferita”. «La presenza – prosegue – di metalli in queste armi che non lasciano frammenti era stata ipotizzata, ma mai provata prima. Con nostra sorpresa, anche le bruciature da fosforo bianco contengono molti metalli in quantità elevate. La loro presenza in tutte queste armi implica anche una diffusione nell'ambiente, in un'area di dimensioni a noi ignote, variabile secondo il tipo di arma. Questi elementi vengono perciò inalati dalla persona ferita e da chi si trovava nelle adiacenze anche dopo l'attacco militare. La loro presenza comporta così un rischio sia per le persone coinvolte direttamente, che per quelle che invece non sono state colpite». L'indagine fa seguito a due ricerche analoghe del Nwrg. La prima, pubblicata il 17 dicembre 2009, aveva individuato la presenza di metalli tossici nelle aree di crateri prodotti dai bombardamenti israeliani a Gaza, indicando una contaminazione del suolo che, associata alle precarie condizioni di vita, in particolare nei campi profughi, espone la popolazione al rischio di venire in contatto con sostanze velenose. La seconda ricerca, pubblicata il 17 marzo scorso, aveva evidenziato tracce di metalli tossici in campioni di capelli di bambini palestinesi che vivono nelle aree colpite dai bombardamenti israeliani all'interno della Striscia di Gaza. Una conferma viene anche da attendibili fonti mediche palestinesi indipendenti a Gaza City contattate dall'Unità. Tra queste, Thabet El-Masri, primario del reparto di terapia intensiva presso l’ospedale Shifa di Gaza, il dottor Ashur, direttore dello Shifa Hospital e il dottor Bassam Abu Warda direttore della struttura medica attiva a Jabalya, il più grande campo profughi della Striscia (300mila persone). «L'occupazione di Gaza – riflette Gideon Levy, una delle firme del giornalismo israeliano- ha semplicemente assunto una nuova forma: un recinto al posto delle colonie. I carcerieri fanno la guardia dall'esterno invece che all'interno». Ed è una «guardia» spietata. [email protected] Gaza, la vendetta israeliana: ridotte in macerie le case palestinesi - Il dossier di Umberto De Giovannangeli L’Unità 17 maggio 2010 Un rapporto di 116 pagine. Un atto d’accusa documentato, con foto, testimonianze, immagini, video. Un nuovo capitolo della guerra di Gaza. A scriverlo è Human Rights Watch (Hrw). Il rapporto sottolinea che vi sono prove che le forze armate israeliane impegnate nell’operazione «Piombo Fuso» hanno distrutto beni di carattere civile abitazioni, fabbriche, aziende agricole e serre - anche se non erano in corso combattimenti. Hrw chiede a Israele di «indagare sulle cause delle azioni illegali dei suoi soldati e assicurare alla giustizia coloro che hanno ordinato o commesso tali atti di distruzione... I militari usando la forza hanno portato via palestinesi e distrutto le loro abitazioni». Un rapporto dettagliato: l’organizzazione non governativa ha ottenuto immagini satellitari di Gaza pre e post conflitto e ha intervistato 94 persone nella Striscia, documentando la distruzione completa di 189 costruzioni, comprese 11 fabbriche, 8 capannoni e 170 abitazioni che ha privato di una casa 971 persone. «Questi casi testimoniano come le forze israeliane hanno compiuto distruzioni massicce senza alcun evidente fine militare», afferma Hrw, secondo cui «i responsabili di questi crimini dovrebbero essere perseguiti». Le distruzioni «si sono avute in aree in cui non erano in corso combattimenti. In diversi casi, la distruzione di abitazioni e altri edifici è avvenuta duranti i giorni finali dell’operazione “Piombo Fuso”, quando un ritiro israeliano era imminente». Immagini satellitari e testimonianze dirette. Come quella di Izbt Abed Rabbo che quando ha ottenuto il permesso di far ritorno a Jabalya, il più popolosi campo profughi della Striscia, ha trovato la sua casa rasa al suolo. «Perché lo hanno fatto? né io né qualcuno della mia famiglia milita in Hamas o in qualche altro gruppo armato... Siamo rovinati», si dispera Rabbo. Quelle distruzioni violano «la Quarta Convenzione di Ginevra del 1949». Israele, da parte sua, sostiene che le sue truppe hanno puntato alle proprietà civili solo se utilizzate dai gruppi palestinesi per attaccare, per immagazzinare armi, per nascondere tunnel o per altri scopi militari, e che molte case sono state distrutte dalle trappole esplosive di Hamas. Ma le prove di Human Rights Watch non confermano. «A quasi 16 mesi dalla guerra, Israele non ha ancora riconosciuto la responsabilità delle truppe che demolirono illegittimamente intere zone civili nelle aree sotto il loro controllo» sostiene Sarah Leah Whitson, direttore di Hrw per il Medio Oriente. «L’assedio israeliano continua a impedire agli abitanti di Gaza di ricostruire le loro case, il che vuol dire che Israele sta ancora punendo i civili, nonostante la guerra sia finita da tempo». In sette dei dodici casi le immagini satellitari confermano le versioni dei testimoni oculari. secondo cui i militari hanno abbattuto molte strutture dopo aver preso il controllo dell’area, e poco prima che Israele annunciasse il cessate il fuoco e ritirasse le truppe da Gaza, il 18 gennaio 2009. Il blocco totale imposto da Israele alla Striscia di Gaza - misura difensiva in risposta al lancio dei razzi Qassam contro le città frontaliere, motiva il governo di Gerusalemme - impedisce ogni ricostruzione. Israele ha permesso solo l’importazione di alcune quantità di cemento destinate a vari progetti di riparazione, ma il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon ha commentato lo scorso mese di marzo che si tratta di «una goccia in un secchio», in confronto ai bisogni dell’edilizia. Quello di Hrw è l’ultimo rapporto in ordine di tempo che documenta una tragedia in atto, nel silenzio complice della comunità internazionale e dei grandi network mediatici. «Le autorità israeliane affermano che il blocco di Gaza, in vigore dal giugno 2007, è la risposta al lancio indiscriminato di razzi contro il sud d’Israele da parte dei gruppi armati palestinesi. La realtà, tuttavia, è che il blocco non prende di mira i gruppi armati ma piuttosto punisce l’intera popolazione di Gaza, limitando l’ingresso di cibo, forniture mediche, strumenti educativi e materiale da costruzione», rileva Malcolm Smart, direttore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. Delle 641 scuole di Gaza, 280 vennero danneggiate e 18 distrutte. Poiché più della metà della popolazione di Gaza ha meno di 18 anni, l’interruzione dei programmi educativi a causa dei danni provocati dall’operazione “Piombo fuso” sta avendo un impatto devastante. Anche Amnesty International, ha parlato con molte famiglie, le cui abitazioni vennero distrutte nel corso dell’operazione militare israeliana e che dopo un anno e quattro mesi vivono ancora in alloggi temporanei. 16 mesi fa Mohammed e Halima Mslih lasciarono il villaggio di Juhor alDik insieme ai loro quattro bambini. Mentre erano assenti, la loro casa venne demolita dai bulldozer israeliani. «Quando siamo tornati, era tutto macerie. La gente ci dava da mangiare, non ci era rimasto più niente», racconta Mohammed Mslih. Gli attacchi israeliani - documenta un recente rapporto di Amnesty - hanno distrutto oltre 3mila abitazioni e ne hanno danneggiate altre 20mila, riducendo in macerie intere zone di Gaza e mandando in rovina una situazione economica già critica. Molte distruzioni sono state indiscriminate e senza alcuna «necessità militare». «Agli autori di crimini di guerra e altre gravi violazioni dei diritti umani non può essere consentito di evadere le proprie responsabilità ed evitare la giustizia», concludeva il rapporto. Ma per Gaza e la sua gente la giustizia non sembra esistere. [email protected] Israele, successo diplomatico: diventerà membro OCSE Israele entrerà a far parte dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), in base a un voto unanime espresso lunedì scorso dai 31 stati membri. Fonti diplomatiche confermano che anche Estonia e Lituania hanno ricevuto un invito per unirsi all'OCSE. "L'adesione di Israele rappresenta un nuovo capitolo per la nostra organizzazione" ha dichiarato il Segretario Generale OCSE, Angel Gurría - "e conferma la nostra vocazione a confrontarci con le sfide globali." Per Israele, diventare un paese membro dell'OCSE è decisamente vantaggioso: dovrebbe favorire il commercio con l'estero, attirare investimenti internazionali e aumentare il prestigio dello Stato a livello mondiale. L'Autorità Nazionale Palestinese, guidata dal primo ministro Salam Fayyad, ha criticato duramente la votazione dell'OCSE. Il Ministro degli Esteri palestinese Riyad al-Maliki ha chiarito in una lettera che: "accettare Israele come paese membro significa dare legittimità alle politiche razziste e aggressive praticate contro la popolazione palestinese." Secondo il ministro, "i posti di blocco israeliani e le altre restrizioni imposte in Cisgiordania, stanno danneggiando l'economia palestinese e sono contrari ai principi del libero commercio proposti dall'OCSE." Israele sarà uno degli stati membri più poveri dell'OCSE. Per rispettare i parametri dell'organizzazione, il governo israeliano dovrà impegnarsi a raggiungere i livelli educativi degli altri paesi e ridurre gli alti indici di povertà della comunità degli Arabi Israeliani e di gran parte degli ebrei ortodossi. Niente premi a chi opprime! Facciamo sentire la voce del diritto e della pace Come si temeva, il voto unanime dei paesi OCSE ha consentito l'ammissione di Israele al "club dei ricchi". Di seguito l'appello di Action for peace Francia È all'unanimità che lunedì 10 maggio 2010, riunita a Parigi, l'OCSE, il “club dei ricchi”, che raggruppa i trentun Stati più sviluppati del mondo, ha accolto al suo interno Israele, e questo sulla base di statistiche includenti la Cisgiordania e le alture del Golan! Questa decisione, contraria al diritto internazionale, avviene in un contesto che la rende ancora più scandalosa. L'OCSE ha ratificato l'adesione di uno Stato che, secondo il rapporto Goldstone, ha commesso “crimini di guerra, crimini contro l'umanità”, e di cui numerosi dirigenti americani ed europei denunciano la politica d'occupazione e di colonizzazione. Detto altrimenti, l'OCSE accorda fiducia ad un governo che sabota sistematicamente ogni sforzo di pace. Sarebbe bastato che un solo membro dell'OCSE si fosse rifiutato, perche Israele non fosse stato accettato. Questa è la responsabilità di trentun Stati, compresi quelli che a parole criticano l'orientamento di tel Aviv. E questa è la responsabilità della Francia, di cui il ministro degli esteri, Bernard Kouchner, è già molto coinvolto in ripetuti tentativi di ‘saldamento’ dei legami tra l'Unione Europea e Israele. Action For Peace Francia, che si è mobilitata massicciamente contro tale adesione, chiama tutte le forze che credono nella giustizia a continuare la battaglia. AFPS, 11 maggio 2010 Dispiegare le vele della solidarietà Lettera aperta all'opinione pubblica italiana per sostenere la flottiglia di aiuti verso Gaza In questi giorni sta salpando dai porti di Irlanda, Turchia e Grecia, alla volta di quello di Gaza City una flotta di otto navi che trasportano materiali da costruzione, impianti di desalinizzazione dell'acqua, impianti fotovoltaici, generatori, materiale per la scuola e farmaci da consegnare alla società civile palestinese. Si tratta di un'azione di alcune organizzazioni e reti di solidarietà internazionale, necessaria per la sopravvivenza della popolazione di Gaza, che da più di tre anni vive sotto un assedio asfissiante, priva di generi di prima necessità e dei materiali indispensabili per ricostruire un territorio martoriato dall'operazione "piombo fuso" dell'esercito israeliano, che ha causato oltre 1400 morti, tra cui 400 bambini, e più di 5000 feriti dovuti anche all'uso di armi proibite dal Diritto Internazionale, quali l'uranio impoverito e quelle al fosforo bianco. Il governo israeliano ha dichiarato che impedirà in tutti i modi possibili (anche con la forza se necessario) l'arrivo delle navi e la consegna dei materiali. Se ciò avvenisse sarebbero in pericolo anche i 600 passeggeri di oltre 40 nazionalità che sono imbarcate sulle navi. Per evitare che ciò avvenga, e permettere che le navi possano consegnare il materiale, chiediamo: a) una chiara e pubblica presa di posizione delle forze politiche, dei parlamentari, degli uomini di cultura e dell'associazionismo che prevenga una ulteriore azione del governo israeliano condotta in spregio delle leggi che regolano il diritto internazionale e la convivenza civile dei popoli b) che l'Italia eserciti una forte pressione politica e diplomatica sul governo israeliano affinché non ostacoli l'arrivo della flotta al porto di Gaza City, ripetendo, in acque internazionali, le azioni di pirateria già effettuate in analoghe circostanze negli scorsi anni. Il silenzio che nel nostro Paese circonda le sofferenze inflitte alla popolazione di Gaza e l'assenza di attenzione verso le iniziative umanitarie di associazioni e comitati di solidarietà è inaccettabile e colpevole: quindi confidiamo in una sua iniziativa. Roma 15 maggio 2010 - giornata della Nakba La Rete Romana di solidarietà con il Popolo palestinese, Forum Palestina, Per non dimenticare Gaza, Donne in Nero, Assopace, Un Ponte per..., Action For Peace