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L'AVVOCATURA EUROPEA TRA AUTONOMIA
E REGOLAZIONE STATALE (XIX-XX SECOLO)
di Maria Malatesta
La conquista dell'autonomia è una tappa fondamentale nel processo di costruzione di una professione moderna, grazie alla quale essa costituisce la propria identità raggiungendo un livello più o meno elevato di differenziazione rispetto ad altri gruppi professionali e si dota di proprie istituzioni rappresentative. L'autonomia e l'autogestione non si esercitano mai in assenza di agenti
esterni di riferimento, quali il potere politico o economico, i soli capaci di
creare le condizioni all'interno delle quali le professioni possono sviluppare e
regolare la loro attività1. Tutte le professioni occidentali hanno bisogno dello
stato e di forme di riconoscimento e di disciplinamento da parte dei poteri
pubblici. Le hanno invocate nella fase della modernizzazione (e continuano a
farlo anche oggi) per ottenere la legittimazione della loro funzione pubblica e
dispositivi capaci di proteggere il loro mercato e di innalzare le loro credenziali. Non si tratta però di una relazione a senso unico: anche lo stato ha bisogno
dei professionisti e della loro competenza per mediare il rapporto con la società civile e far funzionare la pubblica amministrazione2.
Ma il self-government è anche un indicatore del grado di indipendenza di
una professione rispetto ai pubblici poteri. Esso riveste un'importanza speciale
nel caso delle professioni giuridiche, caratterizzate da una contiguità strutturale con lo stato, del quale rappresentano la legge e amministrano la giustizia.
Non c'è da stupirsi se, soprattutto negli stati europei a forte tradizione burocratica, le professioni legali fossero oggetto di un interesse speciale. Nel caso
degli avvocati, poi, la questione dell'autonomia e della regolazione statale si
presenta in termini ancor più complessi perchè essi non sono, come i giudici,
1. E. Freidson, Metodo e contenuto per uno studio comparato delle professioni, in M.
Giannini, E. Minardi (a cura di), I gruppi professionali, Milano, FrancoAngeli, 1999, p. 51.
2. R. Torstendahl, Introduction: Promotion and strategies of knowledge-based groups,
in R. Torstendhal, M. Burrage (a cura di), The formation of professions: knowledge, state
and strategy, Londra, Sage Publications, 1990; M. Burrage, K. Jarausch, H. Siegrist, An actor based framework for the study of the professions, in M. Burrage, R. Torstendahl (a cura
di), Professions in theory and history. Rethinking the study of the professions, Londra, Sage
Publications, 1990.
Società e storia n. 108, 2005
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funzionari statali. Ciò non toglie che il loro mestiere di difensori del cittadino
davanti alla legge abbia scatenato periodicamente pulsioni fortissime da parte
dei pubblici poteri a controllarli, se non addirittura ad eliminarli, mentre nulla
di simile è accaduto con le altre professioni liberali.
Alcuni storici dell'avvocatura hanno proposto una lettura meno rigida del
paradigma della professionalizzazione, basato sulla contrapposizione tra il modello anglo-sassone, caratterizzato da una modernizzazione indotta dai corpi
professionali, e quello continentale, dove il ruolo principale è stato invece
svolto dallo stato. Dal confronto tra l'avvocatura prussiana, francese, italiana e
svizzera, Hannes Siegrist ha concluso che una forte presenza dello stato non
ha significato sempre una professionalizzazione gestita dall'alto così come è
avvenuta in Prussia3. In modo ancor più esplicito Jean-Louis Halpérin ha asserito che l'autonomia professionale e la regolazione statale non sono due termini contrapposti, ma possono coesistere e combinarsi tra loro in modo non conflittuale4.
L'autonomia e la regolazione statale sono due concetti storicamente determinati, comuni alle professioni legali di tutti i paesi occidentali, che hanno rivestito significati specifici a seconda dei contesti nazionali e dei periodi storici. In determinate congiunture la contrapposizione tra questi due elementi ha
assunto forme drammatiche, come è avvenuto tra le due guerre nei paesi toccati dal nazifascismo. Questi periodi vanno oggi valutati all'interno di un arco
temporale bisecolare, nel corso del quale le avvocature continentali hanno percorso una strada assai più difficile e accidentata rispetto a quella britannica. La
turbolenza dei regimi politici che si sono succeduti sul continente ha condizionato le professioni legali che operavano in stati con una forte tradizione burocratica e una spiccata propensione a estendere il proprio controllo sulla società. Vi è dunque un'enorme differenza rispetto alla continuità costituzionale
britannica, grazie alla quale le professioni legali hanno prosperato all'insegna
di una cultura dell'autonomia orgogliosamente difesa.
Se le rivoluzioni e i mutamenti politici hanno indotto profondi cambiamenti nelle avvocature europee5, la loro trasformazione è stata influenzata anche
da altri fattori, quali le tradizioni consolidatesi durante l'Antico regime e la capacità del corpo professionale di incidere sulle politiche pubbliche, o al contrario, di resistere ai cambiamenti proposti da amministrazioni illuminate. A
rappresentare gli interessi degli avvocati sono le associazioni forensi. Nel
mondo britannico esse formano un universo compatto, diviso al suo interno tra
3. H. Siegrist, State and legal profession, France,Germany, Italy and Switzerland 18th
to early 20th centuries, in Università degli studi di Macerata, Annali della Facoltà di Giurisprudenza,1989/II.
4. J. L. Halpérin, Avocats et notaires en Europe. Les professions judiciaires et juridiques dans l'histoire contemporaine, Parigi, L.G.D.J, 1996, p. 72.
5. M. Burrage, Revolution as a starting point for the comparative analysis of the French, American, and English legal professions, in R. L. Abel, P.C. Lewis (a cura di), Lawyers
in society, III, Comparative theories, Berkeley-Los Angeles- Londra, University of California press, 1989.
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la funzione istituzionale e quella di difesa degli interessi professionali. Sul
continente sono invece sorte sul terreno privato e si sono affiancate alle istituzioni statali. L'organizzazione delle professioni continentali ha così assunto
dall'ottocento un'articolazione più complessa rispetto al modello britannico,
perchè essa si basa sul dualismo tra rappresentanza pubblica e associazionismo privato.
Anche le avvocature continentali non sono state un oggetto immobile della
regolazione statale. La dialettica con i pubblici poteri fu a volte molto vivace.
Responsabili di questo dinamismo furono soprattutto le associazioni che combatterono in prima linea per difendere gli interessi della categoria. In molti
casi l'associazionismo forense ha contribuito a orientare le politiche pubbliche
a favore delle professioni legali mitigando, quando non rovesciando, il rapporto di dipendenza dallo stato a favore di una condivisa partecipazione professionale. In alcune congiunture ha invece svolto un ruolo decisivo nella costruzione del consenso del ceto forense nei riguardi dei regimi politici. Si tratta in
ogni caso di una complessa dinamica tra corpi e stato, tra privato e pubblico
che ha vivacizzato la storia delle professioni forensi anche nei paesi più statalisti.
Il perfetto self-goverment britannico
Nell'immaginario collettivo europeo i barristers rappresentano l'esempio
della perfetta autonomia professionale, prodotto di una storia non interrotta da
alcun trauma dopo la Gloriosa rivoluzione. L'autonomia dell'avvocatura inglese si è consolidata nei secoli grazie all'intreccio di più fattori: l'assenza di un
Ministro della giustizia che vigila, come accade sul continente, sul corpo forense; il controllo della formazione e dell'accesso; il potere di disciplina; l'organizzazione della sociabilità professionale e per finire il dominio sullo spazio
urbano. Questa autonomia venne strenuamente difesa dai tentativi di regolazione avanzato dai pubblici poteri, tentativi assai modesti, se paragonati a
quanto accadde sul continente e rimasti rigorosamente all'interno di quel rispetto per 1'autonomia delle professioni giuridiche che rappresenta uno dei
fondamenti costituzionali della storia britannica. Mentre i solicitors si appellarono ripetutamente al governo e al parlamento perchè venisse emanata una legislazione a sostegno della loro professione, i barristers respinsero finchè poterono ogni intromissione del governo e del parlamento.
L'autonomia dell'avvocatura britannica fa tutt'uno con la storia degli Inns
ed è indissolubilmente intrecciata con la funzione di sociabilità che essi esercitarono e che rappresentò uno dei fattori costitutivi della professione forense
britannica. Gli Inns sorsero nel XIV secolo come una sorta di colleges per accogliervi gli studenti. Nel XVI secolo dopo la separazione dei barristers dai
solicitors, presero il nome di Inns of Court in contrapposizione agli Inns of
Chancery dove si raccoglievano gli avvocati di grado inferiore. Lincoln's Inn,
Gray's Inns Middle Temple, Inner Temple erano luoghi nei quali gli avvocati
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vivevano, lavoravano, studiavano. Essi rappresentavano il centro della sociabilità forense e il nucleo ideale dell'identità dei barristers. Il legame tra sociabilità e identità professionale traspare ad esempio dall'obbligo che gli aspiranti
alla professione avevano di consumare un certo numero di pasti all'interno degli Inns. Era un obbligo di natura economica, ma rappresentava simbolicamente 1'idea di realizzare l'integrazione nel corpo professionale attraverso la condivisione del cibo.
La sociabilità funzionava anche da strumento di controllo informale dei
barristers. Nel XIX secolo l'lnghilterra era divisa in sei zone dove erano raggruppate le corti di assise, a una sola delle quali un barrister poteva aderire e
dove si recava per svolgere la sua attività due volte l'anno. I bar messes erano
dei clubs dove il barrister in trasferta mangiava e dormiva. Essi esercitavano
anche una vigilanza sulla sua condotta, in modo che non trasgredisse le regole
della professione e dell'etichetta, che garantivano il rispetto dell'esprit de corps. Ad esempio un barrister non poteva familiarizzare con un solicitor, viaggiare in una carrozza pubblica o dormire in un hotel del luogo6. Gli Inns occupavano un quartiere nel centro di Londra che ancora oggi costituisce una vera
cittadella del diritto. Infatti gli Inns affittarono (e lo fanno anche oggi) una parte degli immobili di cui erano proprietari alle chambers, gli studi che riunivano un certo numero di barristers allo scopo di dividere le spese e integrare i
giovani nella professione. Non si tratta di studi associati, né di partnerships,
ma di società finalizzate alla socializzazione delle spese7. Anche negli altri
paesi europei gli ordini professionali possiedono un patrimonio immobiliare
nel quale sono investite le quote riscosse dai loro iscritti, ma la particolarità
dell'avvocatura inglese sta nel fatto che essa si identifica con un quartiere di
Londra. Questa identità urbana è il risultato dell'accentramento di buona parte
dell'attività forense nella capitale inglese verificatosi nel corso dei secoli.
Gli Inns of Court nacquero nel medioevo come corporazioni private a cui i
giudici riconobbero il diritto esclusivo di autorizzare l'ingresso nella professione. A differenze delle altre professioni, le loro prerogative non sono mai
state confermate da una royal charter, ossia da un riconoscimento ufficiale da
parte dei pubblici poteri. L'avvocatura britannica si autolegittimò, perché furono i giudici, ossia il gradino più alto del corpo stesso, ad attribuire agli Inns il
controllo dell'accesso, della formazione e della disciplina. Nel riconoscimento
da parte dello stato dell'autonomia e dell'autolegittimazione dell'avvocatura
sta quel potere costituzionale che essa ha storicamente condiviso con la magistratura. La peculiarità dell'avvocatura britannica rispetto a quella continentale
non risiede tuttavia nel suo carattere privato. Ad esempio oggi gli ordini francesi sono istituzioni private con funzioni pubbliche. E non sta neppure nel detenere il potere di disciplina, condiviso da tutti gli ordini europei. Non possia-
6. D. Duman, The English and colonial Bar in the Nineteenth Century, Londra-Camberra, Croom Helm, 1983, p.37-46.
7. N. Warren, The Inns of Court, in Robert Hazell (a cura di), The Bar on trial, LondraMelbourne-New York, Quartet Books, 1978, p. 38.
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mo neppure sostenere che la peculiarità britannica consistette nel dualismo tra
Inns e avvocatura, tra istituzione e corpo professionale perchè questi due
aspetti erano presenti anche nelle altre avvocature europee. La differenza sta
nel fatto che, sul continente, questi fattori erano parte di un sistema in cui era
lo stato a stabilire le regole necessarie per diventare avvocato, a partire dal
controllo sulla formazione, mentre in Inghilterra coesistevano con i poteri di
controllo della formazione e dell'accesso detenuti in esclusiva dagli Inns of
Court.
In questi poteri era racchiusa l'autonomia dell'avvocatura britannica e il
suo ruolo costituzionale. Questo spiega perchè i barristers esercitarono una
strenua resistenza di fronte a ogni tentativo di modificare il loro assetto da qualunque parte provenisse, compresa la magistratura, di cui respinsero nel 1825
le sollecitazioni a modificare i criteri di ammissione agli Inns8. Ma il conflitto
più forte fu quello creatosi con il Parlamento, al cui interno si formò nel corso
del XIX secolo una corrente che criticava la struttura gerarchica degli Inns, la
loro eccessiva autonomia, i metodi di formazione e selezione dei futuri avvocati, lo scarso uso che facevano del loro potere disciplinare9.
Il potere legislativo tentò più volte di riformare l'avvocatura inglese e la
sua organizzazione corporativa, gerarchica e autoreferenziale. Nella prima
metà del secolo prevalse la fase inquirente. Nel 1834, 1846 e 1854 tre commissioni parlamentari indagarono sugli Inns e conclusero i loro lavori auspicando la creazione di una Facoltà di legge10 e l'introduzione di esami selettivi
all'inizio e alla fine degli studi, in modo da limitare l'«incontrollato e irresponsabile» potere del bencher ( ossia il capo dell'Inn), dalla cui decisione dipendeva 1'ammissione degli studenti. Ma dal momento che le commissioni
avevano solo un potere consultivo, si limitarono a fornire delle indicazioni
che vennero pervicacemente ignorate dagli Inns. Per questi ultimi - così si
espressero nel 1854 - era inaccettabile qualsiasi forma di imposizione del Parlamento, mentre un'eventuale azione riformatrice poteva scaturire solo da una
loro decisione.
Negli anni sessanta e settanta, alle commissioni di inchiesta si sostituì l'azione legislativa diretta. Nel 1875, 1877 e 1878 furono presentati in Parlamento disegni di legge concernenti la formazione giuridica, 1'organizzazione interna degli Inns e la professione forense. Alcuni di questi, ad esempio quello presentato negli anni sessanta da tre deputati-barristers appartenenti alla corrente
riformatrice, miravano a democratizzare gli Inns riducendo il potere dei benchers. Un'altra sfida fu lanciata da cinque deputati, di professione mercanti,
8. B. Abel-Smith, R. Stevens, Lawyers and the courts, Londra, Heinemann educational
books, 1970, III ed, p. 63.
9. R. Cocks, Foundation of the modern Bar, Londra, Sweet and Maxwell, 1983, p. 22.
10. Sui progetti di costituzione di una Facoltà di legge, v. C. W. Brooks, M. Lobban,
Apprentiship or academy? The idea of a Law university, 1830-1860, in J. A. Bush, A. Wijffels (a cura di), Learning the law. Teaching and the transmission of law in England 11501900, Londra-Rio Grande, The Hambledon press, 1999.
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banchieri e solicitors, i quali proposero che il barrister esigesse direttamente
l'onorario, rendendolo responsabile di fronte al cliente. La relazione tra il barristers e il cliente, tradizionalmente mediata dal solicitors, doveva trasformarsi
in un contratto con obbligazioni reciproche11.
I risultati non furono quelli sperati. Gli Inns opposero ai venti del cambiamento una resistenza passiva, che riuscì a far accantonare ogni iniziativa. La
componente conservatrice del Bar ebbe la meglio su quella riformatrice, che
pure era stata assai vivace e propositiva. Altri fattori contribuirono alla vittoria
del fronte dello status quo. L'intoccabilità degli Inns era un principio condiviso dalla maggior parte della classe politica, alla quale appartenevano molti
barristers. Fu quest'ultima a difendere 1'avvocatura da qualsiasi mutamento
proprio negli anni in cui il Parlamento stava modificando lo statuto delle maggiori professioni britanniche come l'esercito, la medicina, il clero anglicano, il
pubblico impiego. I cambiamenti che alla fine furono introdotti, furono solo
quelli decisi all'interno della professione forense. Nel 1872 gli Inns introdussero un curriculum di studi per gli studenti di legge e un esame obbligatorio finale, mentre si rafforzava 1'idea che la professione potesse essere insegnata
non per via accademica. Nel 1861 fu così riconosciuto formalmente dagli Inns
il pupillage, ossai l'apprendistato, come canale di accesso alla professione.
Esso è rimasto sotto il loro controllo fino a che, nel 1958 è diventato obbligatorio12.
La seconda novità fu il Bar Council, sorto nel 1895 come evoluzione del
Bar Committee, organismo fondato dai giovani avvocati per reagire alle penalizzazioni subite a causa delle semplificazioni introdotte dalle riforme giudiziarie degli anni Ottanta. Il Bar Council fu la prima associazione professionale
che raggruppava tutti i barristers, dai juniors all'Attorney-General, e che aveva il compito di interloquire con il governo, il parlamento, i giudici e la stampa a nome dell'intera categoria. In realtà il Bar Council non rivoluzionò nulla,
ma si limitò a spartire con gli Inns compiti e aree di influenza, diventando l'istituzione preposta alla difesa degli interessi dei giovani avvocati e alla consulenza sulle regole della condotta professionale13. La professione del barrister
arrivò nel XX secolo senza che nulla al suo interno fosse cambiato in modo
decisivo e per questo motivo è ritenuta dagli studiosi una sfida alle teorie della
professionalizzazione. Nel periodo in cui le altre professioni innalzavano le
loro credenziali e mutavano l'organizzazione, il Bar restò squisitamente arcaico, guardando con disprezzo alla modernizzazione professionale e continuando a trarre autorevolezza e legittimazione dall'immutato sistema del self-government.
Diversamente dai barristers, i solicitors usarono tutti i mezzi a disposizione per scalare la gerarchia professionale e conquistarsi una legittimità pari a
ll. Duman, The English and colonial Bar, cit., p. 56-61.
12. M. Lobban, The English legal profession and its education in historical perspective,
in G. Alpa, R. Danovi (a cura di), Un progetto di ricerca sulla storia dell'avvocatura, Bologna, ilMulino, 2003, p. 236.
13. Abel-Smith, Stevens, Lawyers, cit., p. 219.
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quella delle altre professioni giuridiche. Partivano svantaggiati. Non godevano
di un' autonomia pari a quella dei barristers. Infatti dal 1729 erano stati posti
dal Parlamento sotto il controllo dei giudici, che detenevano il potere disciplinare e sovrintendevano all'accesso alla professione. Una barriera invisibile separava le due professioni: a metà ottocento era ancora radicata l'opinione che
un solicitor potesse entrare nella casa di un barrister solo dalla porta di servizio14. La realtà era però diversa dalla rappresentazione. Infatti non solo gli
aspiranti barristers facevano spesso pratica presso i solicitors, ma alcuni di
questi ultimi avevano nella City studi professionali importanti e influenti dal
punto di vista politico. Anche per questo motivo i solicitors mal sopportavano
di essere ritenuti dei tradesmen, semplici esercenti un'attività pratica, ed essere contrapposti ai gentlemen, dotati di una cultura umanistica, sui quali era stata costruita la rappresentazione dei barristers. Per realizzare il loro progetto di
autonomia e di status si dotarono di una potente associazione, usarono la legislazione e collaborarono col governo.
Le origini della Law Society sono settecentesche e molto britanniche. Essa
nacque nel 1739 come Society of gentlemen practioner e divenne ben presto il
più autorevole tra i molti clubs giuridici che si riunivano nelle taverne e nei
caffè attorno a Chancery Lane15. Nel periodo aureo di formazione dell'opinione pubblica16, questi circoli consentirono la crescita e la diffusione di una sfera pubblica giuridica a Londra e in provincia. La sociabilità fu usata dai solicitors in chiave di lobbyng, allo scopo di migliorare le condizioni della professione. Ufficialmente la Law Society venne fondata nel 1823 e fu dotata di un
suo immobile, in Chancery Lane. Il cuore del palazzo era la Hall, dove si ritrovavano i membri della società; vi era anche una biblioteca e stanze da affittare ai solicitors come studi. Insomma, fu riprodotto, sia pure su scala e con
regole diverse, il modello degli Inns, che si basava sulla fusione tra sociabilità
e corporazione professionale. La Law Society ebbe inizialmente la forma di
un'associazione privata. Nel 1831 ottenne il riconoscimento pubblico. Dieci
anni dopo si trasformò in un ente professionale, i cui membri erano ammessi a
pagamento e le cui proprietà divennero un corporate body11.
Gli studiosi considerano la Law Society come la prima, moderna associazione professionale, in grado di perseguire i propri scopi grazie ad un'azione
di lobbying e di tutela dei propri membri di tipo sindacale. Raggiunse il perfetto self-goverment nell'arco di circa cento anni ottenendo la gestione dell'albo
professionale (nel 1843), il potere di disciplina, il controllo della formazione e
dell'accesso. Più lungo fu l'iter per sottrarre ai giudici il potere di disciplina
sui propri membri. La prima conquista fu il Solicitor Act del 1888, grazie al
14. Ivi, p. 187.
15. D. Sugarman, Bourgeois collectivism, professional power and the boundaries of the
state. The private and public life of the Law Society, 1825 to 1914, in «International Journal
of the legal profession>>, vol. 3, nn. 1/2, 1996, p. 88.
16. J. Habermas, Storia e critica dell'opinione pubblica, Roma-Bari, Laterza, 1977.
17. Sugarman, Bourgeois collectivism, cit., p. 92
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quale la Law Society ottenne il potere di investigare sui propri membri, ma
non quello di punirli, ancora riservato all'High Court. Nel 1919 l'intera proced u r a disciplinare venne attribuita alla Law Society, con diritto di appello davanti alle Corti. Negli anni trenta si concluse la conquista del self-government
quando le fu attribuita la facoltà di stilare un codice professionale. L'autonomia raggiunta nel campo disciplinare fu alla fine pari a quella detenuta dai
barristers e risultò assai superiore a quella delle altre professioni britanniche
per le quali il potere disciplinare e il controllo della formazione, fu spartito tra
gli esponenti della professione e i membri laici, provenienti dall'esterno18.
Il secondo obiettivo della Law Society fu l'autonomia nel campo della formazione, eliminando ogni controllo da parte dei giudici e costruendo un sistema educativo e di selezione capace di innalzare il loro status e di differenziarli
dai barristers. Mentre questi ultimi difesero ad oltranza la cooptazione come
metodo per entrare nella professione, i solicitors decisero di qualificarsi controllando l'intero percorso formativo e adottando criteri di merito. Il progetto
si completò nel 1877, quando venne eliminate ogni controllo sull'accesso ancora esercitato dai giudici. I solicitors conquistarono il self-government per
via legislativa. Essi riuscirono ad ottenere dal Parlamento ciò di cui i barristers godevano da secoli per diritto costituzionale. La partenza era diversa, ma
i risultati furono gli stessi. Rimase tuttavia una differenza fondamentale. Ancora oggi gli Inns of Court non sono equiparabili alle altre associazioni professionali, che hanno carattere volontario. Essere membro di un Inn è la condizione per esercitare la professione di barrister, mentre un solicitor può esercitare
anche senza essere membro della Law Society19.
I solicitors migliorarono continuamente la loro condizione professionale
sia dal punto di vista dell'autonomia, che da quello della sfera di attività e
delle tariffe professionali. Fu riservato loro un trattamento di favore da parte
di tutti i governi che si succedettero alla guida della Gran Bretagna. Questa
posizione privilegiata fu dovuta in buona parte ai rapporti che la Law Society seppe immediatamente intessere con l'establishment, fino a diventare
uno degli interlocutori privilegiati dei vari governi. Lo stato vittoriano aveva
un carattere minimalista che lo rendeva assai diverso dalle pesanti burocrazie
continentali. Restava leggero perchè affidava ad esperti esterni lo svolgimento di funzioni che non erano ricoperte, o lo erano in misura insufficiente, al1'interno della pubblica amministrazione. Uno di questi vuoti era rappresentato dall'assenza di un ufficio legale all'interno del governo, che venne creato in pianta stabile solo nel 1919. Per tutto il periodo precedente la Law Society ottenne di occuparsi della preparazione e della revisione dei testi legislativi. Per questo motivo essa diventò una delle artefici delle politiche pubbliche britanniche e fu considerata più influente degli stessi membri del Parlamento.
18. Abel-Smith, Stevens, Lawyers, cit., p. 192.
19. G. Millerson, The qualifying associations. A study in professionalization, Londra,
Routledge and Kegan Paul, 1964, p. 15.
L 'avvocatura europea tra autonomia e regolazione statale (XIX-XX secolo) 327
La delega di funzioni pubbliche alla Law Society non si limitò al periodo
vittoriano, ma continuò anche nel secondo dopoguerra. Nel 1949 il governo laburista di Attlee le affidò l'amministrazione e la distribuzione dei fondi pubblici stanziati per il gratuito patrocinio. Questa concentrazione di poteri nelle
mani dell'associazione creò dei problemi soprattutto all'epoca delle grandi
riforme giuridiche di fine ottocento. La Law Society svolgeva due distinte funzioni: quella di interesse pubblico, che consisteva nell'aiuto fornito al Lord
Cancelliere nell'attività legislativa,e quella di carattere sindacale in difesa degli interessi della professione. Ma i due piani spesso si sovrapposero, creando
un'insoddisfazione diffusa. Alcuni politici sostennero che la Law Society
avesse ostacolato la realizzazione di quelle riforme giuridiche che ampliavano
la sfera di intervento dello stato nella società sottraendo importanti fette di attività ai solicitors, come la legislazione di fine ottocento sulla proprietà. Dall'altro lato la base dei solicitors, dislocata in provincia, si lamentava che la
Law Society fosse un'agenzia che lavorava per il gruppo di potere formato dai
grandi studi della City di Londra e per il governo, piuttosto che difendere gli
interessi di tutta la professione20. Un'ambiguità non dissimile fu presente anche nel rapporto che la Law Society intrecciò con lo stato. Da un lato, infatti,
l'associazione difese a spada tratta lo «stato minimo», in nome dell'autonomia
e della identità della classe media britannica, ma questo non le impedì di continuare a collaborare con i governi, anche quelli laburisti del secondo dopoguerra.
L'autonomia delle professioni britanniche non esclude una loro dipendenza
dallo stato. Anche la burocrazia inglese, seppure in misura inferiore rispetto al
continente, ha impiegato dei legali e il mercato statale si è ampliato grazie allo
sviluppo del Welfare state. Il Legal Aid and Advice Act del 1949, ha creato tra
i barristers e la pubblica amministrazione un rapporto prima sconosciuto. Il
gratuito patrocinio delle cause penali è diventato la principale fonte di attività
degli avvocati. Nel 1971 copriva il 91% dei loro redditi21. Negli anni ottanta la
percentuale dei barristers impiegati nel Legal aid oscillava tra il 38 e il 40%.
La loro dipendenza dallo Stato è ancora più forte perché nel sistema del gratuito patrocinio, il barrister riceve l'incarico direttamente dallo stato, senza la
mediazione del solicitor e ne trae maggior vantaggio perché la parcella non va
più divisa con quest'ultimo. Si comprende allora perché la contrattazione tra il
Bar Council e lo stato sul tariffario per il gratuito patrocinio, abbia costituito
uno dei momenti più importanti per l'avvenire dei barristers22. Infine, negli
anni del governo thatcheriano, si è avuto un inusitato aumento della burocrazia
statale anche nel campo legale. Nel 1986 è stato creato il Crown Prosecution
Service, ossia l'ufficio della Pubblica accusa centralizzato, che ha ampliato la
preesistente struttura, autonoma e rivolta solo a casi di particolare importanza,
20. Sugarman, Bourgeois collectivism, cit, p. 105-107.
21. E. Krause, Death of the guilds. Professions, states, and the advance of capitalism,
1930 to the present, New Haven-Londra, Yale University press, 1996, p. 107.
22. Halperin, Avocats et notaires, cit., p. 52; Abel-Smith, Stevens, Lawyers, cit., p. 116.
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passando dall'impiego di 80 barristers (nel 1968) a 1.700 nel 1990.
Il fatto che anche in Gran Bretagna fosse cresciuto il mercato statale delle
professioni legali, non aveva avuto alcun riflesso sulla loro organizzazione. Un
tentativo in questa direzione è stato fatto durante l'era di Margaret Thatcher.
La politica della Lady di ferro mirava a liberalizzare la società britannica, allineandola ai meccanismi del mercato; in realtà essa ha indotto un processo di
accentramento statale prima sconosciuto. Il progetto neo-liberista e neo-burocratico di riforma delle professioni legali ha rappresentato, per alcuni osservatori, qualcosa di più un'offesa al tradizionale self-government dei corpi professionali. Esso è stato un v e r o e proprio attacco ai fondamenti costituzionali britannici23. Il progetto thacheriano di riscrivere il rapporto tra lo stato e le professioni legali, si articolava in tre punti.
La prima tappa era costituita dallo svuotamento di alcune delle autonomie
godute dall'amministrazione della giustizia. Rientrano in questo progetto la
nascita del Crown Prosecution Service, la centralizzazione delle magistrate
courts e la revoca delle deleghe storiche che lo stato aveva affidato alle professioni. Infatti nel 1985 fu sottratta alla Law Society la gestione del Legal Aid e
avocata allo stato. La seconda fu il tentativo di riformare la professione legale
lungo le direttrici della filosofia thacheriana, ossia la liberalizzazione selvaggia
e 1'accentramento. I due aspetti erano intrecciati tra loro. Il progetto di riforma
delle professioni legali presentato nel 1989 intendeva eliminare ogni residuo di
monopolio della difesa nei tribunali, consentire la formazione di studi associati, liberalizzare l'attività dei barristers staccandoli dai solicitors ( a cui spetta
tradizionalmente di stabilire il contatto tra il cliente e l'avvocato che lo difenderà in tribunale) consentendo loro di fissare le tariffe e farsi pubblicità.
Ma la riforma, che intendeva adeguare le professioni britanniche ai principi
di libera concorrenza e di libera circolazione del capitale umano propugnati
dalla comunità europea, avrebbe dovuto realizzarsi paradossalmente sotto il
controllo dello stato e a spese della storica autonomia delle due professioni legali. Un comitato nominato dai Lord Cancelliere e formato in prevalenza da
membri esterni al mondo dell'avvocatura, avrebbe dovuto stabilire i criteri di
ammissione, tirocinio e esercizio professionale dei licensed advocates24. Come
se ciò non bastasse, il Bar Council e la Law Society avrebbero dovuto fare domanda per essere riconosciuti come istituzioni capaci di formare i futuri avvocati e sottoporre i propri codici etici all'approvazione della commissione, in
modo che potesse valutare in che misura le due istituzione fossero in grado di
controllare i propri membri. Lo stato in definitiva si arrogava un potere di controllo sulla condotta degli avvocati, al punto tale che le procedure disciplinari
fatte dalle due istituzioni e i ricorsi sarebbero in futuro stati supervisionati da
un ombusdman dei servizi legali.
23. M. Burrage, Margareth Thatcher against the «Little Republics>>: ideology, precedents, and reactions, in T. C. Halliday & L. Karpik (a cura di), Lawyers and the rise of political liberalism. Europe and North America from the eighteen to twentieth centuries,
Oxford, Clarendon press, 1997, p. 148-154.
24. Ivi, p. 139.
L'avvocatura europea tra autonomia e regolazione statale (XIX-XX secolo) 329
Visto con gli occhi della storia britannica tutto ciò appariva inaudito. Le
reazioni ai Green Papers provenienti dal mondo legale furono tali per cui nel
passaggio alla legge buona parte del progetto cadde e si arrivò ad un accordo
che tutelò gli interessi di entrambe le professioni25. La passione espressa dalla
Lady di ferro per il libero mercato e per il controllo statale era pari al suo disprezzo per 1'autonomia dei corpi professionali. Ne risultò un tentativo sostanzialmente abortito, di vanificare trecento anni di storia inglese. Visto con
gli occhi di un osservatore continentale la politica della Thatcher ha significato l'introduzione all'interno del sistema britannico di comportamenti noti agli
stati continentali e il tentativo di cancellare attraverso la burocratizzazione le
peculiarità delle professioni britanniche davanti al Continente europeo.
L'ordine francese «padrone dell'albo»
Tra le avvocature continentali, quella francese costituisce un caso estremo.
Nella storia della sua organizzazione emerge in modo esemplare quell'intreccio tra il condizionamento esercitato dalle congiunture politiche e dai pubblici
poteri e il peso della tradizione, quella dialettica tra corpi e stato che rappresenta uno degli aspetti più affascinanti della storia d'Europa. L'avvocatura
francese si è nutrita del «mito politico>> delle sue origini26. Durante l'antico regime essa assunse una configurazione particolare, dato che non era una corporazione di mestiere, né un corpo dotato di privilegi concessi dall'alto. Diceva
nel 1750 D'Aguesseau, il più famoso dei procuratori generali dell'epoca: «Gli
avvocati sono uniti tra loro dall'esercizio dello stesso ministero: sono individui
molteplici che si dedicano tutti alla difesa delle parti, non membri di un unico
corpo, se si assume questo termine nel suo signiflcato più esatto. Il nome di
professione o di ordine è quello che meglio esprime la condizione o lo stato
degli avvocati. E se tra loro è stata stabilita una specie di disciplina per tutelare l'onore e la reputazione dell'ordine, essa altro non è se non l'effetto di una
convenzione volontaria, non l'opera dell'autorità pubblica ... Se gli avvocati
hanno acquisito dei meriti grazie alle loro capacità, queste sono prerogative
connesse alla professione che esercitano, non privilegi accordati dal re»27. Per
il procuratore generale tre erano gli elementi di distinzione dell'avvocatura: la
libertà, la competenza e l'onore. L'ordine era un'associazione volontaria di individui liberi, la cui socializzazione era data dal possesso condiviso della competenza professionale. Ed era la competenza professionale a costituire il «merito» degli avvocati. L'ordine non era uno dei corpi di antico regime, era la
stessa professione forense, il cui capitale simbolico era rappresentato dall'ono25. Krause, Death of the guilds, cit., p. 108-109.
26. L. Karpik, Les avocats. Entre l'Etat, le public et le marché, XIIIe-XXe siecles, Parigi, NRF, 1995, p. 149.
27. La citazione è riportata in A. Appleton, Traité de la professione d'avocat, Parigi,
1928, p. 123-124.
330 M. Malatesta
re. L'onore produceva distinzione e creava un sistema deontologico in base al
quale fu attribuito all'ordine il potere disciplinare.
Il «foro classico» - come lo definisce Lucien Karpik - nacque nel XVI secolo, quando l'avvocatura iniziò a differenziarsi dai poteri dello stato con cui
fino a quel momento si confondeva. Emancipatosi dal controllo del Parlamento, l'ordre conquistò gradatamente la sua autonomia28. Il batonnier29 era scelto
ogni anno con un criterio che univa elettività, anzianità e cooptazione. Egli nominava i membri del consiglio dell'ordine, che dal 1781 furono eletti dall'assemblea generale degli avvocati la quale, formalmente sovrana, si riuniva in
realtà solo eccezionalmente. Anche il potere disciplinare dell'ordine fu una
conquista lenta. Rimasto nelle mani del Parlamento fino alla metà del XVII secolo, iniziò ad essere delegato all'ordine per quanta riguardava le sanzioni più
leggere. Nel XVIII secolo la delega, seppure informale, divenne totale e l'ordine ebbe il potere di sospendere e radiare i propri membri. L'avvocato radiato
poteva appellarsi all'assemblea degli avvocati e al Parlamento. Quello di Parigi aveva la facoltà di reinserire nell'albo un avvocato che era stato radiato.
L'ordine stilò inoltre un codice deontologico, in base al quale l'esercizio della
professione doveva essere improntato alla probità, alla moderazione e al disinteresse. E per finire accrebbe il proprio controllo sull'apprendistato, che diventa più lungo (da 2 a 5 anni) e difficile.
Il «foro classico» francese fu l'incunabolo dell'avvocatura europea continentale. Due punti essenziali vennero stabiliti in quel periodo. Le regole della
formazione e dell'esercizio professionale erano fissate dallo stato e consistevano nel possesso della laurea in diritto, nell'iscrizione a un registro speciale
conservato presso il Parlamento, in un tirocinio e nell'iscrizione all'albo. In secondo luogo era riconosciuta all'ordine l'autonomia organizzativa e disciplinare, che non escludeva il ricorso al potere giudiziario. Infine lo stage, ossia l'apprendistato professionale, le cui regole vennero stabilite a metà seicento, fu
posto sotto il controllo degli ordini.
La professione di avvocato all'epoca del «foro classico» si realizzò attorno
al concetto di indipendenza, inteso come il risultato di un'azione culturale. Dal
primo settecento la strategia degli ordini consistette nel coniugare il miglioramento della cultura giuridica con l'etica. La fusione tra universo cognitivo e
universo normativo30 divenne così la base della professione forense di antico
regime e della sua antropologia. La Rivoluzione pose fine a questa condizione
ideale di equilibrio. L'ordine fu spazzato via, travolto dalla distruzione del sistema corporativo e dalla volontà giacobina di porre al centro del sistema giuridico il diritto naturale, eliminando la professione di avvocato e la conoscenza
astratta, che ne era il fondamento e di cui l'ordine era il paladino31.
28. Karpik, Les avocats, cit., p. 57 sgg.
29. Il nome del presidente dell'ordine derivava dal bastone di San Nicola che veniva
portato nelle cerimonie ufflciali.
30. Karpik, Les avocats, cit., p. 80
31. Sugli avvocati durante la rivoluzione francese v. M. P. Fitzsimmons, The Parisian
order of barristers and the French Revolution, Cambridge (Mass)-Londra, Harvard University press, 1987.
L'avvocatura europea tra autonomia e regolazione statale (XIX-XX secolo)
331
Alla fine del periodo giacobinb iniziò la riorganizzazione delle professioni.
Ma all'epoca del consolato e dell'impero, il nuovo progetto di corporativizzazione delle professioni ruotò attorno a una nozione di «pubblico» intesa ora
come regolamentazione e non più - come in passato - come etica32. L'ordine
fu riattivato per esercitare un controllo costante sul ceto forense, tuttavia la
legge del 1810 non può essere considerata solo un atto poliziesco nei confronti di una categoria che Napoleone mal sopportava, ritenendola pericolosa per
la sua «faziosità». Infatti la ricostituzione dell'ordine non era solo un disciplinamento, ma anche un riconoscimento della specialità della professione forense. Solo l'ordine degli avvocati francesi riuscì ad imporsi sul fantasma delle
corporazioni che continuò ad aleggiare fino al 1884, quando fu abrogata la legge Le Chapelier e riconosciuto il diritto di associazione. Ma anche allora l'ordine degli avvocati restò e tale restò fino a che il governo di Vichy lo estese
anche alle altre professioni. Inoltre, con la legge del 1810 lo stato delegò all'ordine il governo del corpo forense33. E' però indubbio che, dato il clima generale del periodo, si trattasse di un autogoverno che soffriva di severe limitazioni a causa del controllo da parte della magistratura e del ministero della
giustizia a cui erano sottoposti gli ordini.
L'assemblea generale dell'ordine non aveva alcun potere deliberante. Gli
ordini con più di venti iscritti erano dotati di un consiglio di disciplina che non
era eletto dall'assemblea, ma era nominato dal Procuratore generale presso la
Corte d'appello sulla base di una doppia lista presentata dagli appartenenti all'ordine. Al procuratore spettava anche la nomina del batonnier, scelto tra i
membri del consiglio di disciplina. L'ordine riacquistava il potere di disciplina,
ma poteva essere scavalcato dal tribunale e dal Ministero della giustizia, che
avevano la facolta di punire direttamente un avvocato che aveva trasgredito;anche l'ordine era sottoposto, per le sanzioni più gravi, all'appello davanti alla
corte imperiale. Il giuramento di fedeltà all'imperatore rappresentava simbolicamente il legame tra gli avvocati e lo stato.
Con la Restaurazione iniziò una graduale riappropriazione delle antiche
prerogative degli ordini, quali il riconoscimento degli usi locali inerenti l'esercizio della professione forense. Ma fu soltanto con l'avvento della Monarchia
di luglio, periodo nel quale iniziò la fase aurea dell'avvocatura francese, che
gli ordini acquistarono un vero self-governement. L'ordinanza del 27 agosto
1830 riconobbe all'assemblea generale il diritto di eleggere ogni anno il consiglio di disciplina e il batonnier. Questa conquista venne revocata nel corso del
Secondo Impero, quando il consiglio di disciplina tornò ad essere formato dagli avvocati con una certa anzianità che eleggevano il batonnier. La battaglia
sferrata dagli avvocati liberali contro il ripristino di regole oligarchiche sortì il
suo effetto nel 1870, quando venne nuovamente introdotta l'elezione diretta
32. F. Sofia, Le professioni prima delle «libere professioni»: gli ordinamenti dell'età
napoleonica, in L. Betri, A. Pastore (a cura di), Avvocati, medici, ingegneri. Alle origini
delle professioni moderne, Bologna, Clueb, 1997, p. 69-80.
33. Halpérin, Avocats et notaires., cit., p. 69.
332 M.Malatesta
del batonnier da parte di tutti gli avvocati iscritti in una Corte d'appello. Questa pratica (che non ha riscontro nell'ordine italiano) è rimasta immutata nella
nuova normativa del 27 luglio 1944, che ha regolato le professioni dopo l'abrogazione della legislazione di Vichy e il ripristino della libertà sindacale.
Il rapporto tra avvocati e poteri dello stato ha attraversato fasi alterne, ma nel
complesso l'ordine forense francese ha goduto di una forte e autonomia. Esso
ha avuto per lungo tempo due prerogative che sono riscontrabili nella tradizione
britannica piuttosto che in quella continentale: il controllo sull'apprendistato e
sull'ingresso nella professione. In Italia il tirocinio si è sempre svolto negli studi privati, mentre 1'esame di stato rappresenta il controllo finale prima dell'ammissione alla professione;in Germania si svolge per la maggior parte nel pubblico (ossia in tribunale) e in misura minore nel privato. Al contrario in Francia
l'ordine, pur non avendo voce in capitolo sulla formazione giuridica di base, ha
conservato dall'Antico regime fino ad oggi il controllo sull'apprendistato.
Fino agli anni venti lo stage durava tre anni e si svolgeva in buona parte all'intemo dell'ordine. Gli aspiranti avvocati dovevano partecipare alle due conferenze annuali, nelle quali venivano illustrati da un membro anziano i diritti, i
doveri e i costumi della professione forense, e essere presenti alla seduta settimanale della Conference du stage. Istituzionalizzata nel 185234, essa era di fatto un concorso di retorica, dove i tirocinanti si cimentavano dibattendo questioni giuridiche e facendo esercizi di eloquenza. I segretari della Conference
erano i dodici giovani selezionati ogni anno dagli stagisti e dal batonnier, e
che lo affiancavano nella giuria dell'anno successivo35. La Conference funzionò come una palestra per la formazione delle élites della professione, parte
delle quali destinate alla carriera politica. Tra il 1870 e il 1914, ben vent'otto
segretari divennero ministri36. L'ordine svolse così un ruolo attivo nella formazione della futura classe dirigente perché al suo interno venivano selezionati i
giovani più brillanti.
Il declino degli ordini nella formazione professionale iniziò in concomitanza con la crisi occupazionale degli anni venti e trenta. Da più parti si iniziò a
chiedere uno stage più rigoroso e con un indirizzo più professionalizzante.
L'Association des avocats francais (l'ANA) fu la prima a chiedere che si rendesse obbligatorio il tirocinio in uno studio privato sotto la responsabilità dell'avvocato anziano37. La linea dell'ANA fu recepita dal decreto del 15 novembre 1930, che rendeva obbligatorio un anno di tirocinio presso lo studio di un
34. Ivi, p. 179.
35. Y. Ozanam, L'ordre des avocats à la cour de Paris de 1910 à 1930, in G. Le Béguec (a cura di), Avocats et barreaux en France 1910-1930, Nancy, Press Universitarie de
Nancy, Nancy, 1994, p. 50; G. Le Béguec, La Republique des avocats, Parigi, Armand Colin, p. 53-62.
36. Ch. Charle, Méritocratic et profession juridique: les secretaires de la Conference
du stage des avocats de Paris. Une étude de promotions 1860-1870 et 1879-1889, in «Paedagogica Historica>> XXX, 1994, 1, p. 311.
37. J.-B. Sialelli, Les avocats de 1920 à 1987. L'Association National des avocats. La
Confederation syndicale, Parigi, Lytec, 1987, p. 73-74.
L'avvocatura europea tra autonomia e regolazione statale (XIX-XX secolo) 333
avvocato, un avouè, un notaio o la procura di un tribunale. Nel corso del primo
anno era vietato esercitare la professione, salva autorizzazione del batonnnier.
Per diminuire il numero degli avvocati, l' ANA suggerì anche di attuare una selezione prima di accedere allo stage. La sua proposta fu resa operativa dal governo di Vichy che introdusse nel 1941 il CAPA, ossia il certificato di attitudine alla professione di avvocato, che si otteneva dopo un corso annuale tenuto
presso le Facoltà di diritto. Questo esame di ingresso al tirocinio, pensato per
escludere i francesi naturalizzati attraverso la selezione linguistica, è ancora in
vigore; è però cambiato nella sostanza perché, da esame universitario qual'era,
è diventato un esame professionale. La ragione del mutamento sta nel nuovo
sistema formativo introdotto negli anni settanta, che non ruota più attorno agli
ordini, ma ai centri di formazione professionale creati nel 1971 in ogni corte
d'appello38. Contestualmente lo stage è stato portato a due anni. Sebbene i
centri di formazione professionale siano ora il fulcro dell'avviamento alla professione forense, gli ordini continuano a giocare un ruolo importante sul piano
formativo e sul tirocinio, dal momento che i contratti di collaborazione tra praticanti e studi sono sottoposti al loro controllo.
Durante l'antico regime l'ordine era maitre de son tableau e tale è rimasto
per lungo tempo. Essere il padrone dell'albo significava decidere autonomamente se accettare o rifiutare l'iscrizione di un avvocato sulla base di giudizi
morali o politici, oppure di regole introdotte dal consiglio dell'ordine per restringere l'accesso alla professione39. Questo potere è stato messo in discussione nella seconda metà dell'ottocento, quando le Corti d'appello furono incaricate di controllare le decisioni degli ordini in materia di radiazione e di limitazione dell'accesso. Col passare degli anni la giurisprudenza ha impedito che
gli ordini imponessero regole per l'accesso che andavano oltre quelle imposte
dalla legge40. Il decreto 20 giugno del 1920 si inserì all'interno di una tendenza che nel novecento ha sottoposto gli ordini forensi ad un nuovo tipo di disciplina pubblica. In primo luogo difese il titolo di avvocato, da quel momento riservato a coloro che erano laureati in giurisprudenza e iscritti ad un ordine,
mentre in precedenza poteva essere usato dai laureati in legge che avessero
pronunciato il giuramento professionale; dall'altro razionalizzò gli ordini, stabilendo le prerogative amministrative, finanziarie, disciplinari, deontologiche e
regolamentari dei consigli degli ordini e imponendo loro di redigere dei regolamenti interni. Ma soprattutto tolse all'ordine il controllo sull'albo e il potere
di decidere autonomamente le regole dell'accesso41.
L'altro fattore che ha rafforzato 1'autonomia degli ordini forensi è stato il
38. A. Boigeol, The French Bar: the difficulty of unifying a divided profession, in R. L.
Abel, Ph. S. C. Lewis (a cura di), Lawyers in society, vol. II, The civil world, Berkeley-Los
Angeles-New York, University of California press, 1988.
39. Halpérin, Avocats et notaires, cit, p. 76.
40. C. Fiorenza, Professioni e ordini professionali in Francia, in S. Cassese (a cura di),
Professioni e ordini professionali in Europa, Milano, Il Sole24 ore, 1999, p. 139.
41. Ozanam, L'ordre des avocats à la cour de Paris, cit., p. 53.
334 M. Malatesta
potere normativo. Essi lo hanno custodito gelosamente e dopo il 1944 è stato
esteso ad altre professioni42. Nel XIX secolo il potere normativo consisteva
negli usi locali che ogni ordine conservava in materia di diritti e doveri dell'avvocato e che nel corso dell'ottocento hanno esercitato un ruolo fondamentale nella definizione della professione fino a trasformarsi in una sorta di giurisprudenza diffusa dai manuali dell'epoca sulla professione di avvocato43. E'
sfociato nell'elaborazione da parte degli ordini di codici deontologici, ma
oggi è stato avocato allo stato per tutte le professioni (salvo che per i veterinari). Il secondo potere normativo è più recente e riguarda il regolamento interno che, a partire dalla legge del 1920, ogni ordine è tenuto a redigere e pubblicare.
L'ordine degli avvocati francesi ha detenuto a lungo un potere disciplinare
quasi assoluto. Ancora oggi i consigli di disciplina degli ordini forensi sono tra
quelli che conservano una composizione esclusivamente interna44. Per tutto
l'ottocento, le decisioni sull'iscrizione all'albo e le sanzioni leggere emesse
dall'ordine non erano impugnabili e gli avvocati potevano ricorrere alla magistratura solo in corso di sanzione grave. Nel novecento, anche il potere degli
ordini in materia disciplinare iniziò ad essere messo in discussione. Il decreto
del 1920 riconobbe il diritto - riaffermato nella legge del 26 giugno 1941 - di
appellarsi contro le decisioni degli ordini in materia di iscrizione. Si dovrà attendere il 1954 perché venga ammesso il ricorso in appello per la sanzioni più
leggere. Nel corso del novecento è così venuto modificandosi quell'autonomia
che l'ordine aveva ereditato dall'antico regime e difeso dai ripetuti attacchi del
potere politico.
L'ordine francese è stato sottoposto ad una più stretta regolamentazione
statale mano a mano che si definivano le nuove regole della professione forense e ha finito per avvicinarsi a quello italiano molto più di quanto non accadesse nell'ottocento. Per alcuni versi si è addirittura assistito a una sorta di rovesciamento delle parti. L'ordine italiano ha acquistato dopo la seconda guerra
mondiale un' autonomia totale, sancita dalla nascita del Consiglio Nazionale
Forense. In Francia al contrario gli ordini forensi non hanno avuto fino al 1990
un organismo nazionale di rappresentanza e di coordinamento. Il Conseil National des Barreaux, creato con la legge del 31 dicembre 1990 è un ente di utilità pubblica, la cui finalità consiste nel rappresentare l'avvocatura davanti al
governo, nel vigilare sulle regole e gli usi della professione. Ma non ha alcun
potere disciplinare e per questo le decisioni prese da un ordine sono deferibili
ancora oggi alla Corte d'appello.
C'è da domandarsi perchè l'avvocatura francese, a differenza di altre professioni, non si sia preoccupata di dotarsi di un organismo rappresentativo su
scala nazionale. Si possono addurre varie spiegazioni. In primo luogo va sottdlineato il ruolo esercitato dall'ordine di Parigi, che per lungo tempo è stato
42. Fiorenza, Professioni e ordini professionali in Francia, cit., p. 139.
43. Halpérin, Avocats et notaires, cit., p. 71.
44. Fiorenza, Professioni e ordini professionali in Francia, cit., p.141.
L'avvocatura europea tra autonomia e regolazione statale (XIX-XX secolo) 335
di fatto il rappresentante di tutta l'avvocatura francese. Le regole e gli usi professionali che mise a punto nel XIX e XX secolo, entrarono nei manuali sulla
professione di avvocato e si irradiarono su tutto il territorio nazionale45; era
consultato dagli altri ordini perchè desse pareri su questioni di ammissioni, incompatibilità ecc; infine, dato che molti degli avvocati membri del governo o
del Parlamento erano iscritti al foro parigino, l'ordine rivestì un ruolo politico
eccezionale ed esercitò una mediazione tra le esigenze della professione forense e il governo non dissimile da quello della Law Society. L'ordine di Parigi svolse dunque una funzione di rappresentanza nazionale con il consenso
generale della avvocatura francese. Questo primato fu contestato nel primo
novecento, quando gli ordini provinciali crearono la Conference des Batonniers des Départements; ma fu soprattutto la nascita dei primi sindacati forensi a infliggere un duro colpo all'ordine di Parigi e all'intero sistema della rappresentanza pubblica forense46. Ed è proprio nello sviluppo del sindacalismo
forense che va rintracciata non solo una delle ragioni dell'indebolimento del
potere degli ordini, ma anche un fattore distintivo dell'organizzazione forense
francese.
Il primo dopoguerra fu anche per la Francia un periodo di forte malcontento sociale. La crisi occupazionale colpì i ceti medi e innescò un processo diffuso di sindacalizzazione. La nascita nel 1922 dell'Union des Jeunes Avocats
rappresentò una contestazione al tradizionalismo del foro e la volontà degli avvocati di meno di quarant'anni di avere un ruolo riconosciuto all'interno della
professione47. Nel 1921 nasceva 1'Association Nationale des avocats, il potente sindacato che ha contribuito più di ogni altro alla ridefinizione della professione forense. Fondata da Jean Appleton, avvocato e professore a Lione, l' ANA pose immediatamente al centro del suo programma una riforma della giustizia francese che sottraesse la magistratura all'influenza del potere politico.
Tra le due guerre l'ANA (che nel 1938-39 aveva 2340 iscritti) fu la maggiore
ispiratrice della legge di riforma della professione forense e da allora si battè
per l'unità della difesa in giustizia e per l'esclusività della difesa da parte degli
avvocati. Coerentemente con questa linea, l'ANA si impegnò nel secondo dopoguerra nella lunga battaglia per la riunificazione delle varie professioni legali e per la creazione dell'avvocato unico. Rappresentativa fin dal 1920 della
componente più dinamica e moderna della professione, l'associazione incontrò
sul suo cammino l'indifferenza della maggior parte degli avvocati, legati ad
una concezione individualistica della professione48 e l'ostilità degli ordini, che
45. E. G. Cresson, A. Mollot, Régles de la profession d'avocat, 2° ed. Parigi, 1866, 2
voll.; Abrègé des usages et règles de la profession d'avocat, Parigi, 1896; F. Payen, E. Duveau, Les règles de la profession d'avocat, Parigi, 1926.
46. Ozanam, L'ordre des avocats à la cour de Paris, cit., p. 53-54.
47. G. Le Béguec, Le jeune barreau parisien au début des années vingts, in Le Béguec,
(a cura di), Avocats et barreaux en France, cit., p. 129-135.
48. C. Fillon, L'histoire de la profession d'avocat en France. Une histoire en pointilles,
in Alpa, Danovi (a cura di), Un progetto, cit., p. 179.
336 M. Malatesta
costituivano l'opinione conservatrice dell'avvocatura francese. Dagli anni
trenta ai sessanta, la Conference des Batonniers fu ferocemente ostile all'idea
di riunificare la professione legale. Più complesso fu il rapporto con l'ordine di
Parigi, che aveva appoggiato l'ANA al momento della sua fondazione e nel
suo processo di crescita. Favorevole a una fusione prudente nel 1970, l'ordine
di Parigi si mise nel 1988 alla testa della campagna per la «grande fusione» nel
198849.
Gli anni settanta hanno visto una crescita esponenziale del sindacalismo forense che è andata di pari passo con la mancata approvazione della «grande fusione», passata nel 1991. La sindacalizzazione degli avvocati francesi è diventata un fatto di normale amministrazione grazie all'ANA e alla sua politica di
tutela della professione, che nel 1938 portò alla fondazione della prima Cassa
pensioni per avvocati50. I sindacati forensi hanno proseguito nel secondo dopoguerra la difesa sociale della professione, stimolando in questa direzione la legislazione. Dal 1948 il regime pensionistico degli avvocati fu dichiarato obbligatorio e la Caisse Centrale des retraites divenne la Caisse nationale du Barreau Francais. Una funzione analoga fu esercitata dalle associazioni nei riguardi della riforma della professione e dello stage. In questo senso il sindacalismo
forense ha indebolito il potere degli ordini e ha fatto sì che non fosse avvertita
all'interno della professione la necessità di avere un organismo di rappresentanza centrale dell'avvocatura.
L'associazionismo forense francese ha sofferto, soprattutto nel secondo dopoguerra, di una grande frammentarietà e di una scarsa rappresentatività. Secondo Jean Louis Halpérin51 queste caratteristiche lo hanno condannato a una
debolezza, che emerge nettamente nel paragone con l'avvocatura britannica.
Posto in questi termini il confronto è ineguale, perché non tiene in giusto conto delle diverse tradizioni nazionali e dei differenti percorsi storici. Viceversa,
paragonata alle avvocature continentali, quella francese si distingue per aver
conservato, all'interno di un contesto statalizzato, un carattere spiccatamente
corporativo e di aver contemperato le spinte dall'alto con una forte autogestione.
Stato e corporazione forense in Italia
La storia dell'avvocatura italiana dall'Unità alla Repubblica è stata segnata
assai più delle altre libere professioni dalle decisioni dei governi che, in coincidenza con i momenti cruciali della storia nazionale, la vollero riformare. La
necessità di compiere la nazionalizzazione giuridica dopo quella politica, indusse la classe del nuovo stato ad emanare una legge che uniformasse su tutto
il territorio la professione forense. In questa prima fase, la riforma dell'avvo49. Karpik, Lea avocats, cit., cap. XII.
50. Sialelli, Les avocats de 1920 à 1987, cit., p. 50.
51. Halpérin, Avocats, cit., p. 82.
L'avvocatura europea tra autonomia e regolazione statale (XIX-XX secolo)
337
catura si realizzò grazie all'identificazione che essa aveva con la classe politica nazionale, piuttosto che essere sollecitata, come avvenne invece in Germania, dalla dinamica tra associazioni forensi e stato. La seconda riforma fu messa a punto dal fascismo, per soddisfare un'esigenza di modernizzazione e al
tempo stesso di maggior controllo dell'avvocatura da parte dello stato. In entrambi i casi, le leggi professionali risposero ad una logica di stato, ma soddisfecero anche le domande provenienti dal basso o, al contrario, suscitarono le
reazioni di un corpo spesso riottoso ad ogni forma di regolamentazione e con
assai chiare su cosa dovesse ritenersi per autonomia professionale. Questo
spiega perché non furono infrequenti né le richieste del corpo forense, né le
manovre per impedire ulteriori appesantimenti della presenza statale. I risultati non furono sempre positivi, ma gli avvocati italiani dimostrarono di essere a
volte molto turbolenti. Il limite del loro agire è stato semmai quello di avere
spesso disperso quella carica lungo divisioni regionali o politiche, che furono
il principale ostacolo alla realizzazione di un modello unitario di autoregolazione52.
L'avvocatura italiana fu attraversata da forti clivages regionali che rappresentarono uno dei costi pagati per un'unificazione professionale tardiva e debolmente condivisa. Il nuovo codice civile fu emanato nel 1865, ma si dovranno attendere ancora nove anni per avere una riforma dell'avvocatura che amalgamasse le tradizioni vigenti negli stati pre-unitari. Gli ostacoli furono molti.
Le resistenze manifestate ad esempio dagli avvocati lombardi di fronte alla separazione tra la funzione di rappresentanza e quella di difesa furono tali che la
legge previde alla fine tanto la separazione quanto il cumulo «da parte di chi
abbia i requisiti stabiliti dalle leggi tanto per l'una quanto per l'altra»53. Uguali resistenze emersero nel 1888, quando fu creata la Corte di cassazione unica
in materia penale con sede a Roma, in nome degli interessi locali offesi dall'eliminazione delle sedi periferiche54.
L'iter della legge professionale del 1874 durò otto anni e fu condizionato
dall'opinione pubblica degli avvocati. Le critiche si incentrarono soprattutto
sul progetto di creazione dell'ordine, grazie al quale avrebbe dovuto realizzarsi - nell'ottica del legislatore - l'identita nazionale forense55. Le motivazioni
erano diverse. Chi temeva il risorgere delle corporazioni, e chi paventava
un'eccessiva regolamentazione dello stato, ritenendola dannosa per l'idea stessa di libera professione56. Apparteneva a questo gruppo Francesco Carrara che
52. V. Olgiati, Self-regulation of legal professions in contemporary Italy, in <<International journal of the legal professions>>, vol. 4, 1997, p. 93.
53. Art. 2. p. 1039.
54. F. Tacchi, Gli avvocati italiani dall'Unità alla Repubblica, Bologna, il Mulino,
2002, p. 89-94.
55. H. Siegrist, Advocat, Burger, Staat.Sozialgeschichte der Rechtsanwalte in Deutschland, Italien und der Schweiz (18.20Jh), Francoforte sul Meno, V. Klostermann, 1996, vol. 2,
p. 697.
56. M. Malatesta, L'ordine professionale, ovvero l'espansione del paradigma avvocatizio, in «Parolechiave», 7/8, 1995, p. 272
338 M. Malatesta
vedeva nel nuovo ordine un dispositivo inventato dall'esecutivo per diminuire
l'autonomia del ceto forense. Solo un'autonomia effettiva avrebbe consentito
alla professione forense di adempiere alla missione sociale che le era propria,
«che consiste nel frenare gli abusi del potere esecutivo e servire di appoggio al
potere giudiziario nella eterna lotta che si è agitata fra queste due forze vivificatrici della società civile>>57. Secondo Carrara non si controbilanciava lo strapotere dell'esecutivo potenziando la funzione del Parlamento, ma cercando gli
anticorpi all'interno della società. Di fronte a posizioni così diverse, fu decisivo il parere favorevole all'ordine espresso nel 1872 dal Congresso giuridico,
che diede il consenso finale al progetto governativo58.
La legge del 1874 non era perfetta. Una delle carenze maggiori stava nella
mancata specificazione di quali fossero esattamente le funzioni dell'avvocato e
del procuratore, per le quali ci si doveva rifare al Codice civile e ad altre leggi.
Ma essa rivestì un significato speciale, storico e simbolico. Fu la prima legge
del Regno d'ltalia che dettò le condizioni per l'esercizio delle professioni e fissò i caratteri della loro rappresentanza. Fu l'incunabolo della regolazione pubblica delle professioni e esercitò un'influenza decisiva sulle altre occupazioni
intellettuali. Per tutte rappresentò il modello da imitare, e dal momento che per
più di trent'anni restò l'unica legge professionale, creò una gerarchia delle libere professioni al vertice della quale stavano quelle giuridiche
La condizione indispensabile era l'iscrizione all'albo, tenuto dall'ordine (o
collegio, come veniva anche chiamato nel testo legislativo). Non era certo una
novità, dato che anche in Italia l'albo era un sistema di certificazione usato
dall'antico regime. Bisognava inoltre possedere il titolo di studio adeguato e
aver superato un esame di abilitazione teorico-pratico davanti a una commissione composta da due magistrati e tre membri del consiglio dell'ordine (compreso il presidente). L'ordine era, come nel caso francese, il corpo di tutti gli
avvocati e dei procuratori che praticavano nel distretto di una determinata Corte d'appello, e al tempo stesso l'istituzione professionale. Il corpo forense si
definiva attraverso l'iscrizione all'albo, che ne delimitava i confini e l'appartenenza59. Ma vi erano alcune differenze sostanziali rispetto all'ordre francese.
Come disse Giuseppe Zanardelli rivolgendosi agli avvocati appartenenti all'ordine di Brescia di cui era presidente: «Noi non siamo una società, non siamo
una corporazione che goda di alcun privilegio; noi siamo, secondo le parole
che ereditammo dalle tradizioni romane, un ordine»60. L'ordine italiano era un
ente di diritto pubblico, un'istituzione a cui lo stato delegava il governo del-
57. F. Carrara, Il passato, il presente e l'avvenire degli avvocati in Italia (1874), in
Opuscoli d diritto criminale, VI, Prato, 1980, p. 83.
58. Tacchi, Gli avvocati, cit., p. 61.
59. Legge che regola l'esercizio delle professioni di avvocatura e di procuratore, 8 giugno 1874, «Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d'Italia», vol. XLI, 1874,
serie II, Stamperia Reale, Firenze, artt. 4, 5, p. 1040.
60. G. Zanardelli, L'avvocatura. Discorsi, Milano, 1920, p. 8.I discorsi furono pronunciati nel 1875 e 1876.
L'avvocatura europea tra autonomia e regolazione statale (XIX-XX secolo) 339
l'avvocatura, intesa come un corpo sociale autonomo e indipendente61. Perciò
non era «il padrone del suo albo», perché tale era solo la legge. Lo Stato dettava le regole per definire le professioni forensi, delimitava il loro mercato riservandolo solo a coloro che erano in possesso delle credenziali indicate dalla
legge, riconosceva l'autonomia del ceto forense delegando all'ordine la funzione di garante dell'autonomia professionale.
L'ordine italiano non aveva in buona sostanza la discrezionalità posseduta
nel XIX secolo da quello francese nei confronti dell'accesso alla professione e
nel campo deontologico. La sua funzione consisteva nella certificazione dei requisiti richiesti per legge, in base ai quali poteva rifiutare l'iscrizione all'albo.
Il regolamento interno che ogni consiglio dell'ordine era tenuto a stilare (art.
33) si limitava ad assicurare 1'esercizio delle funzioni che gli erano state attribuite per legge. L'albo ebbe per tutto il periodo liberale un carattere accertativo: questo spiega i numerosi abusi del titolo che continuarono ad essere perpetrati. Bisognerà aspettare il fascismo perché l'iscrizione all'albo diventi la condizione obbligatoria per 1'esercizio della professione e per la tutela del titolo di
avvocato. L'altro elemento di differenziazione rispetto alla Francia e alle associazioni britanniche, e per converso, 1'elemento di contatto con la Germania, è
dato dal fatto che gli ordini italiani sono rimasti estranei alla formazione professionale e all'apprendistato, affidati all'università e agli studi professionali
privati. Solo recentemente, le cose sono cambiate grazie alla nascita delle
scuole forensi organizzate dagli ordini.
La natura burocratica dell'ordine forense italiano non gli impedì di godere
di una forte autonomia. Il Consiglio dell'ordine era formato da avvocati e procuratori, eletti dal corpo di tutti gli esercenti la professione iscritti nel distretto
della Corte d'appello, mentre il presidente era eletto dal consiglio e non, come
in Francia, dall'intero corpo professionale e tale è rimasto fino ad oggi. Il consiglio era totalmente autonomo nell'istruzione di provvedimenti disciplinari di
natura amministrativa, contro i quali gli interessati potevano ricorrere in appello. Le pene che il consiglio pronunciava comprendevano 1'avvertimento, la
censura, la sospensione dell'esercizio professionale fino a sei mesi, la cancellazione dall'albo. L'intervento della magistratura era limitato ai casi di violazione della legge: il Pubblico ministero poteva sollecitare la cancellazione nei
casi di incompatibilità, di condanna carceraria o in altri casi di interdizione all'esercizio professionale, oppure impugnare la sospensione della cancellazione
dall'albo. Le cose erano nella pratica più complicate perché la legge professionale si era aggiunta, senza cancellarli, agli articoli dei codici che prevedevano
il perseguimento d'ufficio da parte della magistratura per reati quali gli abusi
della difesa62. Così, come accadde in Francia, anche le sentenze della magistratura italiana ora limitavano, ora estendevano il potere di disciplinare del
Consiglio.
61. V. Olgiati, Saggi sull'avvocatura, Milano, 1990, p. 108
62. Tacchi, Gli avvocati, cit, p. 83.
340 M. Malatesta
L'autonomia dell'avvocatura fu messa più volte in discussione durante il
periodo liberale. I progetti che intendevano aumentare il controllo del potere
giudiziario e di quello esecutivo sugli ordini erano la spia di una deriva all'interno della classe dirigente che si rifiutava di accettare l'esistenza di forti autonomie radicate nella società. Queste tendenze autoritarie furono tenute sotto
controllo durante il periodo liberale grazie all'azione del corpo forense, per
realizzarsi poi durante il regime fascista. La volontà di estendere il controllo
del potere giudiziario sugli ordini emerse già nel corso dei lavori preparatori
alla legge del 1874, ma nella discussione alla Camera prevalse la linea favorevole ad attribuire agli ordini una piena autonomia e l'intervento del pubblico
ministero restò così circoscritto ai casi di violazione della legge63 . La legge
professionale del 1933, emanata in pieno regime totalitario, introdusse un'importante variazione su questo punto. Infatti tutti i provvedimenti disciplinari,
fino alla cancellazione dall'albo, potevano essere pronunciati dal Consiglio
dell'ordine o su richiesta del Pubblico ministero. Una presenza costante della
magistratura si è infine avuta nelle commissioni di esame per abilitare all'esercizio dell'avvocatura. La commissione dell'esame di abilitazione previsto dalla legge del 1874 era composto da due magistrati, e da tre membri del Consiglio dell'ordine, tra i quali il Presidente. Nella legge del 1933 che istituiva gli
esami di stato per diventare procuratori, la commissione era nominata dal Ministero di grazia e giustizia e composta da due avvocati, due magistrati, (tutti
iscritti nello stesso distretto di Corte d'appello) e un professore universitario di
materie giuridiche64. E tale è rimasta fino ad oggi.
Il disegno di legge presentato dal Ministro di grazia e giustizia Camillo Finocchiaro-Aprile nel 1914, fu un tentativo esplicito di estendere il controllo
del governo sull'avvocatura. Esso prevedeva l'introduzione del numero chiuso
per i procuratori, l'incompatibilità tra avvocati e deputati; lo scioglimento da
parte del Ministro di grazia e giustizia dei consigli degli ordini per violazione
o rifiuto di adempiere gli obblighi di legge; infine la creazione di un Consiglio
superiore degli ordini forensi composto di 15 membri, due terzi dei quali avvocati eletti dagli ordini e un terzo magistrati a riposo nominati dal governo.
Le proteste degli avvocati furono vivacissime e riuscirono ad affossare il progetto, ripreso poi nelle sue linee essenziali nella legge di riforma del 192665.
Il fascismo ha impresso all'ordinamento delle professioni un indirizzo che,
depurato degli elementi ispirati alla politica del regime, è ancora oggi vigente.
La «filosofia» fascista consistette nell'accentuare quella componente pubblica
delle professioni già presente nella legge forense del 1874. Fu aumentato il
controllo dello stato ed eliminato l'autogoverno dei corpi professionali inserendoli nel sistema corporativo. La prima tappa della riforma professionale fu
63. Ivi, p. 62-63.
64. Art. 22 del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito con modifiche in L. 22
gennaio 1934, n. 36, Ordinamento della professione di avvocato, in Codice dell'avvocato, a
cura di G. Gianturco, Napoli, 1998.
65. Tacchi, Gli avvocati, cit, p. 353-354.
L'avvocatura europea tra autonomia e regolazione statale (XIX-XX secolo)
341
la legge del 25 marzo 1926, che modificò la rappresentanza dell'avvocatura
senza tuttavia toccare gli ordini. Pare infatti che Alfredo Rocco, il guardasigilli ispiratore della legge, ritenesse la struttura sindacale fascista ancora troppo
fragile per sostituire interamente gli ordini, che vennero eliminati nel 1933,
quando la sindacalizzazione dell'avvocatura era aumentata considerevolmente66. La legge del 1926 diede vita a quell'organismo nazionale di rappresentanza che era stato previsto nel progetto Finocchiaro-Aprile. La nascita del Consiglio superiore forense ha un duplice significato: Da un lato rispondeva alle esigenze di una rappresentanza nazionale67 dell'avvocatura espresse da tempo dal
corpo forense Era un organo dotato - come lo sarà il futuro Consiglio nazionale forense - di poteri giurisdizionali. Contro le sue decisioni era possibile ricorrere solo in Cassazione. Dall'altro rispondeva a un evidente disegno di limitazione dell'autogoverno dell'avvocatura, dal momento che era composto
per metà da membri eletti dai consigli degli ordini, mentre l'altra metà era nominata dal governo, che aveva il potere di scioglierli.
Le reazioni del corpo forense furono ancora più vivaci e tempestive di
quanto lo fossero state in occasione del progetto Finocchiaro-Aprile, perché in
questo Consiglio superiore la componente governativa era ulteriormente
rafforzata. Le proteste degli avvocati furono represse duramente dall'autorità
pubblica, che arrivò a sequestrare l'ordine del giorno nel quale il consiglio dell'ordine di Milano esprimeva il suo parere contrario. Ma a differenza di quanto avvenne nel 1914, esse non arrivarono in Parlamento e non influirono sul
progetto di legge, che passò così indisturbato nelle due Camere68.
La legge del 1926 conteneva altre due novità: l'introduzione del giuramento, in verità piuttosto generico e non rivolto in modo specifico all'autorita politica. E del concetto di condotta «specialissima e illibata», come condizione per
l'iscrizione all'albo, mentre in precedenza si richiedeva solo di non avere dei
carichi penali. Questo nuovo principio diede un margine di manovra straordinario alle commissioni reali che se ne servirono negli anni successivi, assieme
alla revisione degli albi, per allontanare gli avvocati sgraditi al regime 69.
La fascistizzazione dell'avvocatura proseguì rapidamente. Nel 1928 i consigli degli ordini furono sostituiti dalle commissioni reali, i cui membri erano
in parte scelti tra i professionisti designati dalle associazioni sindacali e in parte designati dal governo. Col decreto del 22 novembre 1928, gli ordini furono
sottoposti al controllo congiunto dei sindacati e del governo, per essere definitivamente eliminati, assieme alle commissioni reali, con la nuova legge forense del 27 novembre 1933, n. 157870. I sindacati divennero i depositari delle
66. Ivi, 436-7.
67. M. Santoro, Le trasformazioni del campo giuridico. Avvocati, procuratori e notai
dall'Unità alla Repubblica, in I professionisti, a cura di M. Malatesta, in Annale 10-Storia
d'ltalia, Torino, Einaudi, 1996, p. 126.
68. Tacchi, Gli avvocati, cit., p. 439-443.
69. Ivi, p. 450-458.
70. P. Jannelli, Avvocati e procuratori, in Nuovo digesto italiano, II, Torino, 1937.
342 M. Malatesta
due funzioni principali esercitate dai consigli dell'ordine: la custodia degli albi
e 1'esercizio del potere disciplinare. Era il trionfo dello stato corporativo che si
presentava sotto l'aspetto di Giano bifronte. Da un lato proclamava il ritorno
alle corporazioni per meglio radicare gli individui nella società, dall'altro toglieva ogni autonomia ai corpi intermedi usando la loro rappresentanza corporativa71.
La legge del 1933 concluse un progetto professionale nel quale, come molti altri aspetti della modernizzazione fascista, il controllo politico si intrecciava
con istanze innovatrici e razionalizzatici. L'impronta autoritaria era visibile
nella correzione del principio, presente nella legge del 1874, secondo il quale
non erano oggetto di provvedimento disciplinare gli atti e le opinioni politiche
di un membro dell'ordine. Ora lo diventavano, se costituivano «una manifestazione di attività contraria agli interessi della nazione». Al tempo stesso la legge del 1933 ebbe un'indubbia valenza istituzionale, perché protesse il titolo di
avvocato e innalzò le credenziali della professione introducendo un esame di
abilitazione assai più selettivo del precedente72. La legge prevedeva anche la
limitazione del numero dei procuratori. La perdita dell'autonomia fu così compensata con l'introduzione di quel principio maltusiano, vecchio cavallo di
battaglia del corpo forense, riproposto con martellante insistenza negli anni
della crisi post-bellica73.
Il passaggio alla Repubblica non ha comportato per l'avvocatura, allo stesso modo delle altre professioni regolamentate, dei cambiamenti radicali. Fu infatti applicato un criterio improntato a una duplice continuità, che consistette
nel ripristinare l'autonomia che aveva guidato l'avvocatura nell'età liberale e
in base ad esso furono corrette le leggi fasciste. I decreti luogotenenziali del
1944 abolirono il regime corporativo eliminando i sindacati e riattivando gli
ordini; cancellarono gli aspetti più legati al regime e diedero vita al Consiglio
Nazionale forense74 realizzando con questo il perfetto self-goverment della
professione forense. Il Consiglio Nazionale Forense è, a differenza dei precedenti esperimenti, totalmente composto da avvocati, eletti uno per ogni Corte
d'appello; ha potere giurisdizionale in materia disciplinare e le sue sentenze
possono essere impugnate solo in Cassazione. Fissa inoltre gli onorari degli
avvocati, che sono stabiliti dal giudice a conclusione del procedimento giudiziario.
Il passaggio al regime repubblicano fece riaffiorare i problemi che avevano
afflitto la rappresentanza dell'avvocatura nell'età liberale e che erano stati, per
così dire, risolti dal fascismo con il metodo autoritario. Nonostante i buoni
propositi del legislatore, gli ordini non svolsero mai, durante il periodo liberale, una vera funzione di sociabilità e di identificazione collettiva che era stata
71. P. C. Schmitter, Ancora il secolo del corporativismo?, in M. Maraffi (a cura di), La
società neo-corporativa, Bologna, Il Mulino, 1981, p. 79-82.
72. Santoro, Le trasformazioni del campo giuridico, cit., p. 127.
73. Tacchi, Gli avvocati, cit., p. 351; 370-371.
74. D.Lgs. lgt. 23.11.1944, n. 382.
L'avvocatura europea tra autonomia e regolazione statale (XIX-XX secolo) 343
auspicata. La partecipazione alle elezioni dei consigli era generalmente scarsa,
a volte esse si trasformavano in lotte furibonde tra fazioni avverse, come avveniva a Napoli e a Roma. Lo scontento nei confronti degli ordini era forte e furono avanzate varie proposte per aumentare la loro rappresentatività e per sburocratizzarli75. Il distacco degli avvocati dai loro organi di autogoverno alimentò la formazione di un tessuto associativo forense sparso su tutto il territorio nazionale con scopi culturali, corporativi, assistenziali. Ma questo pullulare di iniziative locali non sortì alcun effetto duraturo e di respiro nazionale tanto che, per tutto il periodo liberale il maggiore punto di incontro restarono i
congressi giuridici, dove gli avvocati si confrontavano con le altre professioni
legali sui grandi temi di diritto.
L'effervescenza sociale dell'età giolittiana non lasciò indenne l'avvocatura. In quella stagione della conquista dei diritti, essa adottò i metodi usati
dalle altre categorie occupazionali per dar voce allo scontento strisciante che
la caratterizzava da anni: gli scioperi e la sindacalizzazione. Nel 1911 la nascita della Federazione nazionale degli avvocati e dei procuratori (FNAP)
diede avvio a quel duplice sistema, formato dalla rappresentanza sindacale e
da quella pubblica, comune ad altri paesi dell'Europa continentale. La FNAP
guidò lo sciopero contro l'introduzione del giudice unico nel processo civile
di primo grado e del nuovo codice di procedura civile. La «guerra degli avvocati indusse il governo a rivedere il codice e a ripristinare il giudice collegiale. La FNAP ebbe un rapporto controverso con i consigli degli ordini.
Guardata con interesse da alcuni di essi, osteggiata da altri, restò autonoma.
Il superamento del dualismo della rappresentanza avvenne nel 1922 e fu di
breve durata. La Federazione Nazionale Forense nacque col proposito di conciliare la rappresentanza sindacale con quella pubblica, ma questo aspetto
passò in secondo piano di fronte allo spostamento di una parte dei suoi iscritti verso il fascismo e all'inizio dello smantellamento degli ordini ad opera dei
sindacati fascisti76.
La duplicità della rappresentanza professionale si è ripresentata nel periodo
repubblicano in termini più drammatici. Gli ordini sono enti pubblici, perché
perseguono finalità che investono tutta la cittadinanza;al tempo stesso rappresentano gli interessi del gruppo professionale perché questi sono di natura tale
da assumere anch'essi un carattere pubblico. La natura ancipite degli ordini
non ha però risolto la questione degli interessi corporativi della professione.
Con la ripresa del sindacalismo forense, avvenuta nel 1944, si è giunti ad una
divisione formale delle competenze, attribuendo ai sindacati la difesa degli interessi esclusivamente categoriali (dunque privati) delle professioni. La questione è rimasta tuttavia irrisolta sul piano politico. I governi democristiani
hanno riproposto in più occasioni un progetto di legge - presentato per la prima volta al Senato nel 1959 dal Ministro guardasigilli Gonella e rimasto una
75 Tacchi, Gli avvocati, tit, p. 321-333.
76. Ivi, p. 346-347; 406 sgg.
344 M. Malatesta
mina vagante fino agli anni settanta - che assegnava agli ordini l'esclusività
della rappresentanza77. Era un nuovo tentativo di statalizzazione e controllo dei
corpi professionali attraverso il potenziamento della rappresentanza pubblica
su quella privata, per porre fine al pluralismo.
Il clima degli anni cinquanta non fu favorevole alla riorganizzazione su
scala nazionale che si realizzò solo con l'avvento del centro-sinistra. Nel
1964 nasceva la Federazione dei Sindacati degli avvocati d'ltalia [FISAPI]
dalla fusione dei due principali sindacati nazionali, FISAP e FIAP, e di vari
sindacati locali. La FISAPI si è caratterizzata per due tipi di azione. La prima, comune alle altre organizzazioni forensi europee, è stata la previdenza.
La Cassa avvocati fu istituita nel 1952, ma le sue prestazioni erano inadeguate e non comprendevano l'assistenza sanitaria. La FISAPI si impegnò su questo terreno fino a far passare in Parlamento una legge che migliorava sensibilmente le prestazioni e introduceva l'assistenza sanitaria. L'altra azione
svolta dalla FISAPI fu l'impegno profuso nella costruzione del «nuovo avvocato», che assunse tra il 1968 e il 1970 un colorito politico progressista. L'obiettivo di ridisegnare il profilo dell'avvocatura nel moderno stato democratico si sposò in quegli anni di dura lotta politica ai progetti di riforma dell'ordinamento professionale, che andavano dalla richiesta dell'avvocato unico
alla difesa del pluralismo della rappresentanza, all'introduzione del requisito
dell'effettivo esercizio professionale per restare iscritti alla Cassa previdenziale e all'albo78.
La rappresentanza forense ha subito dagli anni settanta un processo di accelerazione e drammatizzazione all'insegna della crescita delle associazioni
settoriali, corrispondenti alle nuove specializzazioni e alle nuove identità professionali giuridiche. Questa superfetazione ha messo in crisi il sindacalismo
unitario, che aveva raggiunto un nuovo obiettivo con la nascita, nel 1988, del
Sindacato Unitario Nazionale, da cui però si staccò la Assoavvocati. Stando al
giudizio di Francesco e Giuliano Berti Arnoaldi Veli, i sindacati forensi italiani hanno avuto una funzione civile, perché hanno garantito lo sviluppo di quella dinamica politica e corporativa che era estranea agli ordini. Non pare invece
che abbiano ottenuto, se si esclude l'aspetto previdenziale, dei clamorosi successi come gruppo di pressione. Il confronto con i sindacati forensi francesi,
che sono stati in buona parte gli artefici della riforma dell'ordinamento professionale è oltremodo significativo. Infine negli anni Novanta la nuova sfida al
sindacalismo è giunta dal Consiglio nazionale forense che per la prima volta si
è accreditato come referente dell'avvocatura italiana anche sul piano politico79. A ben vedere, però, la novità è solo apparente. Dietro di essa s'intravede
quel confronto perenne tra rappresentanza pubblica e privata all'interno della
quale continua a giocare un ruolo preminente l'ente pubblico, fattore strutturale della storia d'ltalia.
77. F. e G. Berti Arnoaldi Veli, La storia dei sindacati forensi, in «Rassegna forense»,
1, 1997, p. 87.
78. Ivi, p. 91-98.
79. Ivi, p. 151.
L'avvocatura europea tra autonomia e regolazione statale (XIX-XX secolo)
345
Statalismo e liberalismo nell'avvocatura tedesca
La modernizzazione dell'avvocatura tedesca è avvenuta grazie al contributo di più soggetti. Il secondo Reich rispose in modo affermativo alle spinte
provenienti dall'interno del campo giuridico e con la legge del 1878 riconobbe
all'avvocatura il carattere di libera professione. L'avvocatura prussiana aveva
raggiunto tra sette e ottocento un livello estremo di funzionarizzazione. In essa
erano presenti aspetti riscontrabili anche in altre avvocature europee, quali il
controllo statale della formazione, il giuramento politico, o il potere disciplinare affidato ai giudici. Ciò che la rendeva peculiare era l'unione di tutti questi
elementi, a cui si aggiungeva il numero chiuso controllato dallo stato, la designazione d'ufficio della sede dove esercitare e per finire l'assenza di una rappresenta pubblica della professione. Per questo motivo essa è considerata una
variante del modello statalista continentale80.
La rappresentazione dell'avvocato-funzionario occupò un posto importante
nell'immaginario politico ottocentesco. La battaglia per la «libera avvocatura>>
divenne uno degli obiettivi del liberalismo tedesco e si caricò di significati che
travalicavano la mera questione professionale e che finirono per intrecciarsi
con il discorso nazionale. Alla sua vittoria diede un contributo rilevante l'associazionismo legale che era fiorito nella Germania di metà ottocento81 e che
avrebbe assunto nei decenni successivi un ruolo cruciale nello sviluppo della
professione forense. La sua incisività fu tale per cui dopo il 1878 la rappresentanza dell'avvocatura tedesca assunse una struttura binaria, pubblico/privata,
assai più marcata di quella francese e soprattutto di quella italiana. Il peso dell'associazionismo volontario in tutte le professioni tedesche fu tale per cui
oggi gli storici concordano nel ritenere il cosiddetto «modello di professionalizzazione dall'alto», o statalista, insufficiente per spiegare la loro storia82.
L'associazionismo forense tedesco iniziò negli anni trenta e quaranta a livello locale e regionale. Ben presto si fece strada l'idea di creare un'associazione nazionale allo scopo di preparare la riunificazione giuridica tedesca. Tutti i tentativi che andavano in questa direzione naufragarono negli anni cinquanta a causa della repressione esercitata dai vari governi nei confronti delle
forme di sociabilità sospettate di avere finalità politiche Anche la Deutscheanwaltverein, fondata nel 1848 non sopravvisse all'ondata reazionaria
successiva83. L'impulso decisivo alla riforma del sistema giuridico e della pro80. H. Siegrist, Public office or free profession? German attorneys in the nineteenth
and early twentieth Centuries, in G. Cocks, K. H. Jarausch (a cura di), German professions
1800-1950, New York-Oxford, Oxford University press, 1990, p. 63.
81. K. F. Ledford, From general estate to special interest. German lawyers 1878-1933,
Cambridge, Cambridge University press, 1996, cap. IV.
82. G. Cocks, K. H. Jarausch, Introduction, in Cocks-Jarausch (a cura di), German professions, cit, p. 14-17.
83. M. John, Between estate and profession: lawyers and the development of the legal
profession in nineteenth century Germany, in D. Blackbourn, R. J. Evans, The German
bourgeoisie: essays on the social history of the German middle class from the late eighteen
to the early twentieth centuries, Londra, Routledge, 1991, p. 170-173.
346 M. Malatesta
fessione forense avvenne nel decennio preparatorio all'unificazione. Nel 1861
vide la luce il Deutscher Juristentag, associazione mista di giudici, professori
universitari e avvocati84, col compito di preparare il terreno per l'unificazione
del sistema giuridico tedesco. Nello stesso anno vennero fondate 1'associazione forense prussiana e bavarese, fusesi dieci anni dopo nella nuova e potente
Deutscher Anwaltverein (DAV).
L'associazionismo post-quarantottesco mise a punto le due questioni fondamentali per la modernizzazione della professione forense: la creazione di organi di autogoverno, a cui affidare la disciplina del corpo, e la liberalizzazione
del foro. Nella prima metà dell'ottocento prevalse l'obiettivo dell'autogoverno.
In assenza di strutture riconosciute dallo stato, furono le associazioni volontarie a esercitare un controllo sull'etica e la dignità professionale85 e diffondere
una cultura dell'autogoverno, di fronte alla quale alcuni stati tedeschi non restarono indifferenti. Il primo ordine forense [anwaltkammer] fu creato nel Regno di Hannover nel 1850; seguirono la Sassonia, 1'Oldenburg e il Braunsweig. La Prussia restò estranea a questi cambiamenti e si limitò a creare le
Ehrenrate, corti d'onore formate da avvocati e pubblici funzionari che esercitavano la disciplina sul corpo forense, ma le cui decisioni potevano essere annullate dai magistrati.
Negli anni sessanta il dibattito e la spinta riformatrice si concentrarono sul
concetto di «libera avvocatura». Esso designava un modello di professione
aperta a tutti, governata dalla concorrenza sul mercato, sottratta al controllo
dell'esecutivo e al disciplinamento della magistratura. «Libera avvocatura» era
un concetto politico, che veicolava la domanda di cambiamento espressa dalle
frange avanzate della borghesia tedesca. In questo contesto gli avvocati svolsero una funzione costituzionale di grande rilievo. Si impegnarono in una battaglia che, prima ancora di essere corporativa, era nazionale e implicava una visione globale del rapporto tra corpi professionali, stato e mutamento sociale. A
fungere da manifesto fu il libro Freie Advockatur, che il grande giurista e teorico del liberalismo Rudolph von Gneist pubblicò nel 1867. Per Gneiss, era indispensabile trasformare la professione forense se si voleva creare una nuova
classe borghese. Il suo presupposto era il libero accesso, concetto che in Gneist aveva un esplicito significato politico, in quanto stava ad indicare un foro
sottratto a governi che infierivano su avvocati e magistrati di fede liberale86.
Gli avvocati erano d'accordo sull'autogoverno; lo erano molto meno sull'eliminazione del numero chiuso. Tutte le associazioni forensi si erano schierate a
favore della liberalizzazione dell'accesso nel corso degli anni sessanta, ma i
dubbi serpeggiavano alla base, soprattutto tra gli avvocati prussiani87. L'idea
84. Ch. Mc Clelland, The German experience of professionalization. Modern learned
professions and their organizations from the early nineteenth century to the Hitler era,
Cambridge, Cambridge University press, 1991, p. 58-59.
85. Siegrist, Public office, cit, p. 58-59.
86. Ledford, From general estate, cit., p. 48-54.
87. J. Between estate and profession, cit., p, 177.
L'avvocatura europea tra autonomia e regolazione statale (XIX-XX secolo) 347
del libero mercato si impose alla fine sulla paura di perdere i vecchi privilegi.
Il numero chiuso fu presentato all'opinione pubblica come sinonimo di arretratezza e di autoritarismo, perché impediva l'ampliamento dei servizi legali
ed era uno strumento di controllo nelle mani dello stato e degli stessi avvocati
che rifiutavano i casi poco importanti o quelli politicamente pericolosi.
La Rechtsanwaltordnung (RAO) del 1878 diede avvio alla modernizzazione dell'avvocatura tedesca88 e rappresentò un compromesso accettabile tra le
tendenze liberali estreme e le resistenze annidate nel governo e tra gli avvocati. Tre richieste delle associazioni forense furono pienamente corrisposte: il libera accesso alla professione; l'equiparazione della formazione tra giudici e
avvocati; la creazione degli organi di autogoverno; l'emancipazione dell'avvocatura dai controlli pubblici e dalla magistratura fu invece parziale. Il libero
accesso alla professione fu concepito come una conseguenza dell'equiparazione tra magistrati e avvocati. Da quel momento, alla fine del secondo esame di
stato il Referendar diventava giudice o poteva chiedere l'ammissione al foro in
ognuno degli stati federali, previa ammissione nello stato in cui aveva superato l'esame. Praticare l'avvocatura diventava così una scelta del candidato, non
era più vincolata dalla programmazione della pubblica amministrazione.
L'autonomia dell'avvocatura tedesca fu rafforzata dalla nascita delle
Anwaltkammern. Istituzioni rappresentative di diritto pubblico, esse erano dislocate - come in Italia e in Francia - in ogni Corte d'appello, avevano un consiglio direttivo composto da nove a quindici membri eletti nel corso della assemblea generale annuale; la loro iscrizione era obbligatoria. Godevano di un
autogoverno esteso, ma non esente da limiti. Avevano da un lato un margine di
discrezionalità molto elevato sull'ammissione dei candidati al foro. Ufficialmente era il ministro della giustizia ad ammettere un candidato alla magistratura e in un secondo tempo al foro, ma questo avveniva dopo aver sentito il parere del consiglio della Kammer. Come negli ordini francesi ottocenteschi, i
consiglieri delle Kammern potevano rifiutare 1'ammissione di un candidato
giudicato colpevole di un atto lesivo della dignità professionale o ritenuto fisicamente o intellettualmente non idoneo a svolgere la professione.
Per converso il potere disciplinare delle Kammern era minore rispetto a
quello degli ordini francesi e italiani. Il consiglio nominava un giurì, a cui
spettava il compito di decidere se iniziare o meno il procedimento. Se la decisione era affermativa, il caso veniva inviato a un giudice inquirente della Corte
d'appello. L'udienza avveniva davanti al giurì della Kammer, in presenza del
pubblico ministero e di un avvocato che difendeva l'accusato. L'appello si
svolgeva presso una Corte d'onore, composta da quattro giudici e tre avvocati
che patrocinavano nella Suprema corte imperiale. La disciplina del corpo forense rimaneva così in buona parte in mano ai giudici, ma gli avvocati tedeschi, a differenza di quelli italiani, non misero mai in discussione questo impianto. Vi era da un lato una cultura radicata che riconosceva ai giudici una
88. Ledford, Conflict within the legal profession, in Cocks, Jarausch (a cura di), German professions, cit., p. 263
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posizione di dominio all'interno del campo giuridico; dall'altro il nuovo sistema disciplinare gratificava l'élite degli avvocati, che veniva chiamata a far parte delle corti d'onore89.
La liberalizzazione della professione forense fu accompagnata dallo sviluppo dell'associazionismo volontario, a cui gli avvocati demandarono la rappresentanza dei loro interessi corporativi. La Deutsche Anwaltverein (DAV), risorta nel 1871, divenne la potente rappresentante degli interessi degli avvocati
tedeschi, tre quarti dei quali vi erano iscritti alla vigilia della prima guerra
mondiale90. Durante il secondo Reich si riuscì a mantenere un equilibrio tra la
rappresentanza pubblica (le Kammern) e la rappresentanza privata (la DAV)
per il fatto o che i vertici di entrambe erano in mano all'élite dell'avvocatura
tedesca, composta da quegli avvocati che patrocinavano nelle corti superiori e
che incarnavano il modello dell'avvocato della Belle Epoque, ossia il professionista-notabile. Questo equilibrio iniziò a incrinarsi nel primo novecento
quando le divisioni interne al corpo forense diedero vita a gruppi di pressione
autonomi.
La frammentazione della rappresentanza e il rafforzamento delle tendenze
corporative, provocate da ragioni essenzialmente economiche, si aggravarono
nel dopoguerra e culminarono nella «guerra forense», scoppiata durante la repubblica di Weimar. In quegli anni turbolenti, la RAO e l'intero assetto della
professione furono oggetto di violenti attacchi che ne misero in discussione i
fondamenti. Il primo riguardava il principio della «localizzazione», ossia il
vincolo territoriale che impediva agli avvocati tedeschi di esercitare in tutti i
gradi delle corti, distrettuali, regionali e d'appello. Dopo una battaglia estenuante condotta dagli avvocati inquadrati nelle corti inferiori, che scavalcarono tutte le altre associazioni e presentarono direttamente al Reichstag il progetto di legge, la «localizzazione» fu smantellata nel 1927 e approvata l'ammissione simultanea degli avvocati a tutte le corti di giustizia. La legge sull'ammissione simultanea segnò la fine del sistema binario Kammern/DAV. Le
Kammern, dal 1878 nelle mani dell'élite forense che patrocinava nelle corti
superiori, si pronunciarono contro di essa e resistettero ai tentativi di scalata
dei loro consigli sferrati dall'Associazione degli avvocati distrettuali tedeschi.
Dal canto suo la DAV cercò di difendere il suo ruolo di rappresentante di tutta
l'avvocatura tedesca che aveva avuto prima della guerra. Fallì miseramente,
perché non riuscì ad imporre un progetto di ammissione simultanea che mediasse tra gli interessi contrastanti; fu scavalcata dagli stessi avvocati superiori, che crearono nel 1921 una propria associazione91.
Il secondo elemento che colpì al cuore l'avvocatura liberale, fu la richiesta
di ripristinare il numero chiuso. Il libero accesso alla professione rappresentava per i riformatori ottocenteschi il simbolo delle libertà politiche, la conquista
che avrebbe impedito ogni discriminazione ideologica. L'aumento degli iscrit89. Siegrist, Public office, cit, p. 59.
90. Mc Clelland, The German experience, cit., p. 158.
91. Ledford, From general estate, cit., p. 233.
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ti all'università, iniziato alla fine del secolo, suscitò i primi malcontenti e una
parte degli avvocati chiese nel 1894 e nel 1911 un controllo dell'accesso92 Il
problema scoppiò in tutta la sua drammaticità negli anni venti quando, alla disoccupazione dei ceti medi fece riscontro - in base a un modello sociologico
ben noto93- un aumento vertiginoso delle iscrizioni universitarie. Da bandiera
politica, il libero accesso divenne per molti un nemico da abbattere; ma non
per tutti. Gli avvocati superiori non temevano il libero mercato: sicuri della
loro condizione di notabili, erano legati al codice d'onore praticato dalle Kammern per tenere sotto controllo la concorrenza94. La DAV assistette ancora una
volta impotente alla frammentazione dei suoi iscritti, i cui rappresentanti erano
nel 1930 divisi a metà sulla questione del numero chiuso. Con l'aggravarsi
della situazione economica, nel 1931 furono le stesse Kammern a pronunciarsi
a favore di una temporanea chiusura degli accessi alla professione. A dicembre
del 1932 gli equilibri interni alla DAV si rovesciarono. Invertendo una linea
durata quasi cento anni, 1'associazione propose di chiudere l'ammissione al
foro per tre anni e successivamente di limitarne l'accesso.
Nell'ultimo periodo di Weimar il governo, subissato dalle richieste di tutte
le libere professioni, aveva limitato le iscrizioni all'università. Il nazismo affrontò il problema in tempi rapidissimi applicando la sua peculiare visione del
mondo. Il sovraffollamento nelle professioni fu infatti risolto non introducendo ulteriori esami selettivi, ma applicando una selezione razziale e di genere.
La legge del 25 aprile 1933 prescriveva che le immatricolazioni all'università
degli studenti ebrei non superassero il 5% degli iscritti ad ogni facoltà. Questo
significò la riduzione dei due terzi degli studenti ebrei e un ridimensionamento
drastico delle loro facoltà preferite, legge e medicina. Seguivano le donne, la
cui iscrizione non doveva superare il 10% di quelle maschili e che si videro
decurtata della metà la loro presenza negli atenei95. Infine gli studenti poco dotati dovevano essere scoraggiati dal continuare gli studi e privati di ogni sostegno finanziario.
Il nazismo emanò il 20 luglio 1933 la prima legge sull'avvocatura, a cui
seguirono altre norme volte a germanizzare gli avvocati. Il paragone con l'Italia è interessante. Innanzitutto, i tempi impiegati dal fascismo per arrivare alla
legge forense furono biblici a confronto con la rapidità sconvolgente del nazismo. Il fascismo ci arrivò per tappe, impiegando undici anni a fronte di sei
mesi. Ma non si trattò solo di differenze temporali. Oltre ad imbavagliare l'avvocatura, la legge fascista del 1933 ne completò la professionalizzazione, definendo gli aspetti istituzionali che erano rimasti incerti. La legge nazista del
1933 e le norme successive ebbero un significato istituzionale di minore portata.
92. John, Between estate and profession, cit., p. 180.
93. M. Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia, Bologna, il
Mulino, 1974.
94. Ledford, From general estate, cit, p. 271-272.
95. K. H. Jarausch, The unfree professions. German lawyers, teachers, and engineers,
1900-1950, Oxford University press, New York- Oxford, 1990, p. 126-127.
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La rapida nazificazione degli avvocati tedeschi fu premiata da Hilter difendendo la loro posizione economica con tre dispositivi: l'esclusione degli ebrei,
delle donne e di alcune categorie di giuristi e l'apertura di nuovi mercati. Furono esclusi dai tribunali i giudici e i funzionari in pensione, e tutti i consulenti legali. Fu anche proibito di svolgere azione di rappresentanza nelle cause civili e negli arbitrati agli avvocati che venivano impiegati dalle aziende96. Le
esclusioni colpivano così le nuove forme professionali, mentre proteggevano
gli strati tradizionali dell'avvocatura. La strategia di esclusione fu perfezionata
con le disposizioni dell'ottobre del 1934 che vietavano l'ammissione al foro a
colore che non offrivano garanzie di svolgere la professione in linea con un'etica corretta. In questo modo venne praticamente chiuso il foro alle donne. Infine un'ultima disposizione perfezionò la chiusura del mercato, andando incontro alla richiesta di differenziare l'apprendistato forense rispetto a quello
dei giudici. Infatti nel 1935 fu introdotto un tirocinio di un anno nello studio di
un avvocato, seguito da tre anni di pratica come Anwaltassessor, figura semiindipendente e retribuita con un modesto stipendio. La chiusura del mercato
professionale fu il risultato di un insieme di disposizioni senza che fosse introdotto il numero chiuso. La strategia ad excludendum fu compensata con l'apertura di nuovi mercati, ammettendo gli avvocati nelle giurisdizioni del lavoro, da dove erano stati esclusi all'epoca di Weimar.
Le istituzioni rappresentative furono nazificate, e vennero sostituite solo
parzialmente da un nuovo sistema, come invece avvenne sotto il fascismo. Le
Kammern restarono al loro posto, opportunamente epurate e private della personalità giuridica e dell'autogoverno. I loro presidenti non erano più eletti dal
corpo forense ma nominati dal ministro della giustizia, mentre i consiglieri
erano nominati dalla Reichzechtsanwaltskammer. La Camera imperiale era
l'organo superiore di rappresentanza che gli avvocati tedeschi avevano invocato senza successo dal primo novecento. Il nazismo rispose positivamente anche a questa richiesta, attribuendo all'organo nazionale la funzione disciplinare che prima era svolta dalle Corti imperiali e il controllo sul territorio di tutta
l'avvocatura97. Le Kammern furono esautorate dalla nuova rappresentanza nazista. Nel 1928 venne fondato il Bund Nationalsozialisticher Deutscher Juristen, la lega dei giuristi nazisti che contribuì alla nazificazione degli avvocati
dopo il 1933. Assorbì la DAV, scioltasi definitivamente nell'ottobre 1933, e nei
due anni successivi anche le altre associazioni giuridiche. La BNSD divenne
l'unica associazione volontaria forense e le fu attribuito il potere di scegliere i
membri degli organi direttivi delle Kammern e della Camera dell'impero. L'intera rappresentanza della professione finì così sotto il suo controllo
Dopo la nascita della Repubblica Federale Tedesca fu ripristinato il sistema
di rappresentanza precedente l'avvento del nazismo, formato dalle Kammern e
dalla DAV98. Nell'assetto definitivo, messo a punto nel 1959, sono state intro96. Ivi, p. 131-132.
97. Halpérin, Avocats, cit, p. 105-106.
9 8 . D. Reuschemeyer, Lawyers and their society, University of Chicago press, Chicago,
1973, p. 20.
L'avvocatura europea tra autonomia e regolazione statale (XIX-XX secolo) 351
dotte alcune novità rispetto al passato, prima fra tutte la Camera federale,
(Bundsrechtsanswaltkammer). Formata dai presidenti delle Kammern, contribuisce all'elaborazione della deontologia, ma - a differenza del Consiglio Nazionale Forense - non ha potere disciplinare né tanto meno giurisdizionale. Il
potere disciplinare è tornato nelle mani delle Corti d'onore, oggi composte da
tre avvocati nominati per quattro anni dal ministro della giustizia. L'appello
viene presentato davanti a un tribunale d'onore, presso la Corte d'appello, e
formato da tre avvocati e due magistrati. L'ultimo grado è rappresentato dall'Anwaltsenat, presso la Corte federale di giustizia, formato da quattro magistrati e tre avvocati. Il nuovo assetto federale ha aumentato in modo considerevole l'autogoverno dell'avvocatura. Tuttavia - come osserva J. L. Halpérin99 l'esercizio della disciplina da parte degli avvocati diminuisce mano a mano
che cresce la gerarchia degli organi disciplinari, mentre aumenta parallelamente la presenza dei giudici. Questo particolare è la spia di un'intera vicenda nazionale. La magistratura è ancora oggi un fattore di regolazione dell'avvocatura tedesca, mentre restano sullo sfondo le tracce delle antiche gerarchie che
strutturavano il campo giuridico nel XIX secolo.
99. Halpérin, Avocats, cit., p. 106.
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