Società di studi politici
Scuola di alta formazione
dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
BIBLIOTECA DI STUDI UMANISTICI
7
Aldo Trotta
Non-violenza e Guerra fredda
Gli equivoci di Aldo Capitini
Prefazione di Domenico Losurdo
La scuola di Pitagora editrice
2014
Proprietà letteraria riservata
Copyright © 2014 La scuola di Pitagora editrice
Via Monte di Dio, 54
80132 Napoli
[email protected]
www.scuoladipitagora.it
isbn 978-88-6542-360-8 (versione cartacea)
isbn 978-88-6542-361-5 (versione elettronica nel formato PDF)
Finito di stampare nel mese di ottobre 2014
Stampato in Italia – Printed in Italy
INDICE
Prefazione di Domenico Losurdo9
Introduzione17
I. Pacifismo, antimilitarismo e non-violenza
al tramonto del lungo Ottocento
1.L’ideologia nazionalistica come «ideologia della guerra»
2.Tolstoj, il mondo cattolico e il pacifismo democratico
tradizionale
3.Tolstoj e l’antimilitarismo socialista: «La Pace»
4.Tolstoj e l’antimilitarismo anarchico
5.Pacifismo, antimilitarismo e non-violenza: categorie
non equivalenti
25
31
36
41
45
II.
Capitini e il liberalsocialismo nel periodo
della seconda Guerra dei Trent’anni
1.L’esigenza di rinnovamento. Dall’«interventismo
democratico» al ripudio della violenza
2.La «triade liberalsocialista»: Mill, Bernstein,
Ortega y Gasset
3.Aldo Capitini nel solco del revisionismo. L’incontro
con Claudio Baglietto
4.«Elementi di un’esperienza religiosa»: l’ideale assoluto
della non-violenza
5.Ideale e reale. La prospettiva escatologica
della liberazione
47
55
63
73
76
6.Gli «Elementi»: l’opposizione al fascismo come
capolavoro di «poesia»
7.Capitini e Berdjaev: per una «nuova aristocrazia»
8.Liberalsocialismo versus lotta di classe
9.Liberalsocialismo, nazionalismo e questione coloniale
10.Non-violenza: libera aggiunta o elemento
di separazione?
11.Lo spartiacque della guerra: etica della convinzione
o etica della responsabilità?
12.La non-violenza come «prova di sovrabbondanza
interiore»
81
93
106
112
119
126
130
III.L’era atomica. Pacifismo e non-violenza
nella guerra fredda
1.Il ritorno all’impegno
2.Non partecipazione e giudizio storico sulla Resistenza.
«Sogno astratto» ed esigenze concrete
3.La violenza nel passato tra comprensione e condanna.
L’abolizione della schiavitù
4.L’«adesione condizionata» al Fronte democratico
popolare
5.Il movimento pacifista dei Partigiani della Pace
6.Capitini, Bobbio e il pacifismo dei Partigiani
della Pace
7.Guerra, pace, pacifismi e non-violenza nella riflessione
di Bobbio
8.«Terza via», cosmopolitismo e lotte di liberazione
anticoloniali
9.Ripudio di ogni violenza, neutralismo e «disarmo
unilaterale»
10.L’esigenza di una «giustificazione interiore»
e la «tendenza all’unità del mondo»
11.Il Congresso per la libertà della cultura, Silone
e l’antitotalitarismo
12.Danilo Dolci e il Premio Lenin per la Pace
13.La posizione filoisraeliana di Capitini nella «guerra
dei sei giorni»
137
144
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153
160
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185
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197
206
218
227
IV.
Gandhi, Capitini
e l’agiografia della non-violenza
1.L’immagine di Gandhi nell’Italia fascista
233
2.Capitini scopre Gandhi
239
3.Capitini promotore della diffusione agiografica
del pensiero e dell’opera di Gandhi
241
4.Il «fallimento» di un sogno. La non-violenza:
necessità o virtù?
249
5.La partecipazione di Gandhi alle guerre dell’Impero 252
6.Gandhi, il fascismo e il bolscevismo: una doppia
morale
258
7.Ragioni e coerenza dell’appoggio alle guerre:
una morale «pluralistica»262
8.Gandhi, la resistenza non-violenta al nazismo
e la mistica del sacrificio
271
9.«L’equivoco della nonviolenza»: il sacrificio
supremo della vita
278
10.Elogio della non-violenza con qualche forzatura
287
11.Il caso di Antonio Giuriolo
293
12.
L’esplosione del ’68
301
V.
Per un pacifismo sociale realistico
1.L’impronta postmoderna della stagione 1968-1977
2.Dal ripudio del domani al dispotismo del presente
3.Il mito della dilatazione della violenza
4.Fuga dal Novecento e dalla storia: grande
rimozione e delegittimazione della politica
5.Marxismo e non-violenza: lotta di classe e violenza
come «levatrice» della storia
6.Una vittoria dal retrogusto amaro
7.L’imponente «ascesa del Sud» del mondo
8.Libertà di internet, manipolazione delle moltitudini
e non-violenza
9.Falungong e altre nefandezze
10.Per un pacifismo realistico
307
312
315
318
327
340
342
348
361
372
Riferimenti bibliografici
381
Indice dei nomi
393
Prefazione
di Domenico Losurdo
1. Non c’è ideale, per grande e nobile che sia, che non possa
essere distorto e piegato a strumento di lotta spregiudicata e
cinica per il potere e il dominio. Ai giorni nostri i colpi di Stato
e i tentativi di destabilizzazione messi in atto a danno dei paesi
invisi all’Occidente sono regolarmente celebrati come «rivoluzioni colorate», tutte pervase – ci viene assicurato – dall’orrore
per ogni forma di intimidazione e sopraffazione e tutte ispirate
dall’ideale della «non-violenza» nella sua purezza. La tecnica
è ormai consolidata (ed esplicitamente esposta e raccomandata
in testi di larga diffusione che sono veri e propri manuali per
il colpo di Stato): 1) nei paesi in cui Washington e Bruxelles
ritengono necessario imporre il regime change viene promosso e
finanziato con una straordinaria dovizia di mezzi un movimento di opposizione, il cui leader è propagandato da un poderoso
apparato multimediale di portata mondiale come un seguace
scrupoloso della non-violenza, anzi come la reincarnazione
stessa del Mahatma, della «grande anima» di Gandhi. 2) Il
movimento di opposizione così messo in piedi e foraggiato
può rendersi responsabile di qualsiasi illegalità (occupazione
permanente di importanti vie di comunicazione e di edifici pubblici, blocco del funzionamento del governo esistente,
allestimento di un contropotere visibile e subito riconosciuto
dall’Occidente come il solo potere «democratico» e «legittimo»).
10
non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini
Tali pratiche sarebbero immediatamente ed energicamente
represse negli USA e in Europa; ma nel paese in cui gli USA e
l’Europa intendono portare a termine la «rivoluzione colorata»
esse sono considerate legittime e non-violente, mentre il governo esistente che tenta di ristabilire l’ordine e la legalità viene
bollato in quanto violento per definizione e quindi passibile di
sanzioni economiche, diplomatiche (e sullo sfondo militari).
3) La situazione di instabilità e di doppio potere venutasi così
a creare non può proseguire all’infinito: nel paese di volta in
volta investito dalla «rivoluzione colorata», l’opinione pubblica
e le stesse forze di polizia e militari toccano con mano l’impotenza del governo esistente e finiscono col convincersi che i
reali detentori del potere risiedono a Washington e a Bruxelles.
È a questo punto che la pressione economica, diplomatica (e
militare) dell’Occidente ha il sopravvento, il regime change è
portato a termine, e un nuovo paese dopo qualche tempo può
entrare a far parte dell’Unione Europea e della NATO, la quale
rafforza così il suo già formidabile apparato militare e può scatenare nuove guerre anche senza l’approvazione del Consiglio
di Sicurezza dell’ONU. Il tutto in nome della «non-violenza»
e persino del Mahatma Gandhi!
L’Occidente sente il bisogno di consolidare la sua nuova ideologia della guerra anche sul piano della filosofia della storia: ed
ecco allora una sterminata pubblicistica contrapporre all’ideale
gandhiano della non-violenza il culto della violenza, che sin
dagli inizi avrebbe caratterizzato il movimento comunista e le
rivoluzioni anticoloniali da esso spesso ispirate!
Alla confutazione di questa duplice manipolazione, funzionale a un neocolonialismo duro a morire, ho dedicato un libro
recente (La non-violenza. Una storia fuori dal mito). Cominciamo dalla filosofia della storia. Dopo lo scoppio della prima
guerra mondiale, chiamato al fronte, prima di essere arrestato
a causa del suo pacifismo, Karl Liebknecht invia una serie di
lettere alla moglie e ai figli:
prefazione
11
Non posso descriverti il mio stato morale. Involontario
strumento di una forza che odio dal profondo dell’anima! […]
Sopra noi l’inferno è scatenato. Io non sparerò […] Tutti sono
completamente stufi del macello […] Tutti i pericoli non
hanno importanza; soltanto l’uccidersi a vicenda, questo io
non lo posso [tollerare]: questo è troppo […] Io non tirerò
anche se mi fosse ordinato di tirare. Mi si potrebbe per questo
fucilare. Altri sono del mio parere […] Mi sono di nuovo
provvisoriamente liberato del mio fucile. Così vado senz’armi
al lavoro, perciò mi sento interiormente libero.
Piuttosto che inchinarsi alla guerra come a una fatalità, il
socialista tedesco finisce col salutare con entusiasmo la rivoluzione d’ottobre e col fondare il Partito comunista tedesco,
chiamato a emulare in Germania l’impresa dei bolscevichi
russi: sarà poi assassinato assieme a Rosa Luxemburg.
Ben diverso è l’atteggiamento assunto da Gandhi in occasione del primo conflitto mondiale. Non solo egli diviene – per sua
compiaciuta autodefinizione – il «reclutatore capo» dell’esercito
britannico tra i giovani indiani, ma celebra la vita militare e
la partecipazione alla guerra come momenti di realizzazione
dell’autentica vita spirituale. La consueta contrapposizione del
comunismo quale culto della violenza alla religione gandhiana
della non-violenza è semplicemente un mito ideologico.
2. Sottolineare la necessità di una visione più realistica della
personalità di Gandhi, che per qualche tempo ha sperato di
conquistare per il suo paese l’autogoverno o l’indipendenza
chiamando il popolo indiano a combattere nelle file dell’esercito imperiale britannico, non significa liquidare la personalità
del grande leader indipendentista indiano. Questi, sia pure
attraverso un’evoluzione faticosa e contraddittoria, finisce col
considerare il movimento da lui diretto come parte integrante
della rivoluzione anticolonialista mondiale. Nel giugno 1942
egli esprime la sua «profonda simpatia» e la sua «ammirazione
12
non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini
per l’eroica lotta e gli infiniti sacrifici» del popolo cinese, deciso
a difendere «la libertà e l’integrità» del paese nel corso della
guerra di resistenza nazionale contro l’imperialismo giapponese. Poco più di quattro anni dopo, nel settembre 1946 – nel
frattempo Churchill ha aperto la Guerra fredda con il suo
discorso a Fulton – Gandhi rifiuta di accodarsi alla crociata
lanciata contro l’Unione sovietica, in considerazione anche
del fatto che quel paese e quel «grande popolo» sono diretti
da «un grande uomo quale Stalin». L’omaggio è qui rivolto
soprattutto al protagonista di Stalingrado, a colui che aveva
sconfitto il progetto hitleriano di riprendere e radicalizzare la
tradizione coloniale sino al punto da farla valere nella stessa
Europa orientale, dove la Germania avrebbe dovuto edificare
il suo impero coloniale di tipo continentale.
Ai giorni nostri è quasi un luogo comune accostare Hitler
e Stalin quali fratelli gemelli. Agli occhi di Gandhi, invece,
l’eventuale fratello gemello di Hitler è semmai costituito da
Churchill, non da Stalin. Particolarmente eloquente è una
dichiarazione dell’aprile 1941: «In India abbiamo un governo
hitleriano, sia pure camuffato in termini più blandi». Non aveva
Hitler più volte dichiarato di voler edificare in Europa orientale le Indie germaniche? E Churchill non si era impegnato
a difendere a ogni costo le Indie britanniche? L’accostamento
Hitler-Churchill fatto da Gandhi ha il torto di sottovalutare
la particolare brutalità schiavistica del colonialismo promosso
dal Terzo Reich; resta comunque fermo il collocarsi del leader
indipendentista indiano nell’ambito della rivoluzione anticolonialista mondiale, ispirata prima dalla rivoluzione d’ottobre
e poi dalla disfatta subita dalla controrivoluzione colonialista
e schiavista promossa in Europa dal Terzo Reich e in Asia
dall’Impero del Sol Levante. L’odierna ideologia della guerra
che pretende di riaffermare il ruolo imperiale dell’Occidente
agitando la bandiera gandhiana della non-violenza e demonizzando in contrapposizione a essa la storia del movimento
prefazione
13
comunista è falsa e bugiarda per due ragioni. Sì, non si tratta
solo di respingere tale demonizzazione. Si tratta anche di gridare alto e forte: «Giù le mani da Gandhi!». E in modo analogo
occorre procedere in relazione ad altre importanti personalità
del movimento al tempo stesso non-violento e anticolonialista,
come ad esempio Martin Luther King. Diverso e contrapposto
è il ruolo dei sedicenti eredi di Gandhi, dall’Occidente neocolonialista chiamati ad appoggiare i colpi di Stato camuffati
da «rivoluzioni colorate»!
3. Ma in che modo occorre atteggiarsi nei confronti del
principale seguace di Gandhi in Italia? Nel mio libro già citato,
metto in evidenza come la professione convinta di non-violenza
non impedisce ad Aldo Capitini di rendere omaggio, sia pure
a tratti e in modo incerto e contraddittorio, alla «Rivoluzione
francese», alla «rivoluzione collettivistica russa», alla più grande
rivoluzione anticolonialista del Novecento, quella sfociata nella
fondazione della Repubblica popolare di Cina; talvolta si assiste
persino all’accostamento di Lenin e Gandhi.
A tale proposito, nel suo lavoro Aldo Trotta si mostra decisamente più cauto o più diffidente. Grazie alla frequentazione
tenace e attenta di biblioteche e archivi, egli è in grado di
ricostruire una biografia intellettuale di Capitini, pungente e
ricca di sorprese. Si potrebbero prendere le mosse dal primo
conflitto mondiale: sarebbe assurdo attendersi in Capitini una
condanna senza riserve del macello imperialista, alla maniera
di Liebknecht e di Luxemburg (che denuncia il «genocidio»),
o dei bolscevichi. No, in questo momento il futuro seguace
italiano di Gandhi è un fervente interventista: «La guerra che
abbiamo intrapresa è santa, se così si deve chiamare una guerra
giusta e di liberazione… L’Italia aveva bisogno di riorganizzarsi
dopo la guerra libica che l’aveva tanto elevata moralmente e
materialmente tra le potenze». Sembrerebbe una posizione
non dissimile da quella di Gandhi, che però in quegli anni
14
non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini
è già un uomo maturo, essendo nato nel 1869, mentre invece
Capitini è ancora adolescente, essendo nato trent’anni dopo.
In quest’ultimo caso – sottolinea a ragione Trotta – siamo in
presenza di una presa di posizione di «significato poco rilevante». E, tuttavia dà da pensare una presa di posizione così netta
a favore non solo dell’intervento dell’Italia nel primo conflitto
mondiale ma anche di una guerra dichiaratamente coloniale
come quella scatenata qualche anno prima contro la Libia (è
un aspetto ovviamente assente in Gandhi).
Il problema essenziale è comunque la successiva evoluzione
di Capitini. Quando e in che modo matura la sua opposizione al
fascismo e al colonialismo? Soprattutto: negli anni della guerra
fredda sino a che punto la religione della non-violenza riesce
a dare prova di equilibrio nei confronti dei due schieramenti
antagonisti? Ho già detto che la ricostruzione di Trotta è ricca
di novità e di sorprese. In un testo del 1950, dopo aver criticato
il movimento comunista per il fatto di far leva, nella sua lotta
contro le diseguaglianze e le ingiustizie sociali, sull’azione politica rivoluzionaria piuttosto che sul rinnovamento religioso,
Capitini così prosegue:
La riforma sociale può nella sua urgenza e fiducia nei mezzi politici-rivoluzionari militari disdegnare ogni riferimento
religioso. Non so se continuerebbe così nel caso che una guerra sfortunata per l’Unione Sovietica togliesse il potere ai gruppi politici-militari stalinisti. Probabilmente si avrebbe una
svolta, e la ricerca di altri metodi.
Ha ragione Trotta a osservare che «si rimane alquanto stupiti» dinanzi a tale dichiarazione. Che peraltro non è isolata. Anche in una lettera a Ignazio Silone del 16 marzo 1948 Capitini
sembra accarezzare l’idea del passaggio a «un socialismo molto
più che amministrativo» e molto più ricco sul piano umano e
religioso «se la struttura comunista sovietica sarà distrutta in
prefazione
15
una guerra». Ovviamente si tratta di brani che non devono
essere sovra-interpretati. E Trotta non lo fa. Resta il fatto che
a partire dalla sua ricerca, la religione della non-violenza cara
a Capitini appare, anche nella sua fase più matura, non priva
di aspetti problematici e di ombre inquietanti.
Peraltro, il lavoro di Trotta non si limita alla ricostruzione,
sia pure fortemente innovativa, dell’evoluzione di una singola,
rilevante personalità del mondo culturale e politico dell’Italia
del Novecento. La rilettura di Capitini e della storia della fortuna di Gandhi in Italia è anche l’occasione per Aldo Trotta
di rileggere la storia del movimento ispirato dall’ideale della
non-violenza negli anni terribili di una guerra fredda sempre
sul punto di trasformarsi in una guerra così calda da assumere la
forma di un olocausto nucleare. Ed è anche l’occasione per tutti
noi per analizzare e criticare l’odierna ideologia della guerra,
che agita cinicamente la bandiera della non-violenza ma che
non ha nulla a che fare né con Gandhi né con M. L. King né
con lo stesso Capitini.
Introduzione
In circostanze storiche favorevoli i vincitori sono abitualmente ben disposti a magnificare le proprie idee e ragioni e
a denigrare quelle dei perdenti. Ne è una riprova la diffusa
celebrazione delle democrazie liberali suscitata dagli avvenimenti che, a partire dal 1989, hanno scompaginato lo scenario
europeo e posto fine all’assetto bipolare del sistema politico
internazionale. Il trionfalismo è stato tale che la storia dell’umanità si pensava dovesse approdare al capolinea del migliore
dei mondi possibili, anzi che la vittoria dell’Occidente libero
e antitotalitario avrebbe finalmente spalancato porte e finestre
a prospettive di pace e di prosperità per tutti. Altrettanto considerevole, al contempo, il biasimo per il «socialismo reale» e
per il comunismo nel suo complesso, il cui fallimento storico
aveva sollevato il velo mostrandone per sempre il volto brutale
e violento. Per non restare travolti dalle macerie del Muro e
dal crollo dei regimi dell’Europa centro-orientale, agli sconfitti
pareva non restasse altro che l’abiura e l’abbandono della propria
identità e tradizione politica.
La svolta annunciata da Achille Occhetto nell’autunno di
quell’indimenticabile anno si è uniformata con sollecitudine a
questa trama, giungendo dopo alcuni mesi a decretare, con il
plauso di gran parte della stampa e del più complessivo sistema
dei media, la fine del Pci, protagonista della lotta di liberazione
18
non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini
dal nazifascismo e delle conquiste sociali, civili e culturali della
democrazia italiana nata dalla Resistenza. La nuova formazione
politica sorta dalle sue ceneri, il Pds, avrebbe completato negli
anni seguenti la sua metamorfosi, il suo distacco definitivo
dalla propria storia politica e culturale, per presentarsi ai giorni
nostri come un soggetto privo di un’identità politica più o meno
definita e riconoscibile, slegato dagli interessi e dai bisogni delle
classi subalterne che il suo progenitore aveva rappresentato nei
primi «trenta gloriosi» anni della storia repubblicana.
È trascorso un quarto di secolo e il diffuso entusiasmo suscitato dai tumultuosi eventi del 1989 è ormai solo un vago
ricordo. E tuttavia, non si è dovuto attendere così a lungo per
veder svanire le magnifiche e progressive prospettive di pace,
democrazia e benessere che la dissoluzione del campo socialista aveva fatto presagire a molti. Contraddicendo le ingenue
aspettative, la realtà della guerra è tornata presto al centro della
scena. Senza un efficace contrasto e in assenza di un grande
movimento pacifista in grado di rilanciare il tema del disarmo
e di mettere in campo iniziative durature ed efficaci, i conflitti armati si sono riaffacciati, dopo una lunga assenza, anche
sulle terre della vecchia Europa. La sanguinosa disgregazione
della Jugoslavia (1992-95) ha fin da subito testimoniato che la
prima Guerra nel Golfo, legittimata dall’Onu e condotta nei
primi mesi del 1991 da una “coalizione di volenterosi” coordinata dall’unica superpotenza militare rimasta sullo scacchiere
mondiale, non era stata un semplice infortunio sulla strada
della pacificazione del mondo e dell’emancipazione umana.
Spettacolarizzata e sterilizzata dalla potente macchina dei
media, mascherata o giustificata con vecchie e nuove diciture,
spesso accompagnata da una stucchevole retorica umanitaria,
la guerra ha riconquistato un ruolo di primo piano sul terreno
delle relazioni internazionali, assumendo perfino un carattere
«preventivo» e «permanente», esplicitamente teorizzato e rivendicato dai neo-conservatori statunitensi in prospettiva del
introduzione
19
consolidamento dell’egemonia mondiale del proprio Paese e
di un nuovo secolo americano.
Un’egemonia che con l’uscita di scena dell’Urss, proprio
quando sembrava che nulla potesse ostacolare il ridefinirsi di
un nuovo ordine internazionale dominato dagli Usa, era sul
piano economico (per ragioni risalenti agli anni settanta) più
in declino che in espansione. Da allora, a fronte dell’indebolimento crescente delle economie occidentali, in primis di
quella americana, e del conseguente ridimensionamento del
loro ruolo dominante sullo scenario mondiale, si è assistito
alla progressiva ascesa economica di molti Paesi del Sud del
pianeta e all’emergere pacifico di nuove potenze. Queste dinamiche hanno contribuito a riconfigurare la mappa del potere
mondiale in maniera radicalmente diversa rispetto alle pretese
imperiali. La riattualizzazione della guerra e il suo divampare
in aree di importanza geopolitica strategica trovano in ciò la
propria ragione profonda: gli Usa (e la Nato), indisponibili ad
accettare il declino della propria incontrastata supremazia e la
prospettiva di un assetto multipolare, hanno messo in campo
la propria ineguagliabile potenza militare, allo scopo di contrastare il processo di emancipazione del Sud del mondo da una
condizione di sottomissione e l’emergere di nuovi contendenti
nella lotta per l’egemonia mondiale, in particolare la Cina e
la Russia.
La guerra infinita al terrorismo, annunciata subito dopo l’attentato alle Torri gemelle di New York (11 settembre 2001), ha
segnato un’ulteriore radicalizzazione dell’interventismo armato,
accentuando ancor più la corsa vertiginosa agli armamenti e
offrendo nuova linfa alla proliferazione di guerre che, finora,
sono scoppiate e stanno divampando in ambiti regionali limitati. Non è però da escludere l’eventualità che l’inasprimento
delle contraddizioni, che si stanno addensando all’orizzonte –
il conflitto Nord-Sud in primis, ma anche le fratture presenti
all’interno del mondo occidentale, in particolare quella tra Stati
20
non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini
Uniti ed Europa –, possa in futuro portare al coinvolgimento
diretto delle maggiori potenze, destabilizzando ulteriormente
il quadro delle relazioni internazionali e mettendo ancor più a
repentaglio la pace nel mondo.
Alla fine del 2003, in occasione di un convegno sulle foibe,
il segretario di «Rifondazione comunista», Fausto Bertinotti, ha avanzato al suo partito e alla sinistra italiana nel suo
complesso la proposta della non-violenza. Era questa, a suo
avviso, la strada da intraprendere per rinnovare dalle fondamenta l’identità comunista dopo la chiusura del terribile «secolo
breve» e per poter agire la politica in un tempo e in uno scenario dominati dall’intreccio tra guerra infinita e terrorismo.
Con questa nuova forma dell’azione politica si sarebbe potuto
spezzare tale perversa spirale e arginare, con la forza delle coscienze e delle convinzioni, la potenza distruttrice dell’impero
che di essa si alimentava. La conversione alla non-violenza
avrebbe però dovuto comportare un’impietosa resa dei conti
con la propria storia e, di conseguenza, l’ammissione della sua
colpevolezza, del suo peccato originale: l’essere stata profondamente contaminata e permeata dalla violenza. Una violenza
da estirpare, frutto non solo della furia delle masse popolari
desiderose di un riscatto da oppressioni e brutalità lungamente
subite, ma anche, e soprattutto, di «una precisa volontà politica
organizzata», legata all’idea della conquista del potere e della
costruzione di un nuovo ordinamento economico-sociale per
mezzo dell’annientamento del nemico. Un’idea tutt’altro che
delimitata ad alcune realizzazioni storiche: «gran parte della
storia delle costruzioni statuali del movimento operaio nel 900
è passata attraverso l’idea della distruzione fisica del nemico»1.
Nell’intenso dibattito che nel corso del 2004 ha coinvolto
illustri esponenti della sinistra italiana, intellettuali autorevoli,
1
Bertinotti F., La guerra è orrore, pp. 7-16, in La politica della non-violenza,
«Liberazione», 2004, p. 12.
introduzione
21
semplici militanti e personalità del pacifismo, questa lettura
della storia, della cultura e del conflitto politico-sociale messo
in campo durante il secolo dal movimento comunista, è stata
ampiamente condivisa da vari sostenitori del nuovo orizzonte
ideale. L’impeto demolitore se, per un verso, sembrava porsi
in continuità con il percorso di autodissoluzione intrapreso
dal Pci, per un altro verso, era ancora più radicale, sebbene
velato da una presunta intenzione di rigenerazione dell’identità
comunista. Questa, inspiegabilmente, avrebbe dovuto sorgere
su un cumulo di macerie e quasi senza alcun ancoraggio con
il proprio passato, anche mettendo in conto ulteriori strappi e
lacerazioni in una sinistra già lacerata e infiacchita. Non si è
esitato a chiamare sul banco degli accusati il marxismo, tacciato
di aver stabilito un nesso strettissimo tra violenza, pensiero e
pratica della trasformazione della società. Un legame strutturatosi in maniera ancora più forte nel corso della parabola
novecentesca, durante la quale la violenza sarebbe stata enfatizzata, giustificata e inserita «nel quadro assoluto dell’identità
comunista» come «strumento del compimento del corso storico»2.
Molti degli interventi che hanno animato la discussione
erano attraversati da un sostanziale accostamento tra la categoria di rivoluzione e quella di guerra. Ne conseguiva non solo
il dileguarsi della loro radicale differenza sul piano teorico,
morale e storico, ma anche che era stato il pensiero della guerra
il chiodo fisso conficcato, fin nel suo patrimonio genetico, nella
storia e nell’azione del movimento comunista novecentesco. In
quanto elemento centrale, «assoluto», del suo profilo identitario,
la violenza aveva compenetrato perfino la molteplicità di iniziative da esso messe in campo a sostegno della pace. Anche il
pacifismo andava, dunque, rifondato attraverso un’immersione
2
Revelli M., Marxismo, violenza e nonviolenza, pp. 85-116, in Bertinotti F.,
Menapace L., Revelli M., Nonviolenza. Le ragioni del pacifismo, Fazi Editore, Roma,
2004.
22
non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini
nelle acque pure dell’idea e delle pratiche della non-violenza.
Ciò spiega la diffusa, ma alquanto arbitraria, assimilazione
tra la non-violenza e il pacifismo che ha percorso il dibattito.
Per tali aspetti, significativi sia sul piano teorico che politico,
la direzione complessiva della svolta pareva collocarsi, più o
meno consapevolmente, nel solco tracciato da Bobbio con la
sua riflessione sul tema della pace e della guerra. Sembrava,
cioè, pienamente assimilata l’insistenza con la quale il filosofo
torinese ha rimarcato la natura bellicista ed eversiva del «pacifismo sociale», espresso dal movimento internazionale dei
Partigiani della Pace e dal movimento comunista tout court. A
suo avviso, tale pacifismo ambiva all’estinzione dello Stato, alla
distruzione violenta di ogni ordinamento statuale, e pertanto
non era affatto pacifico, quanto predisposto alla rivoluzione
ovvero alla guerra, categorie che egli ha posto insistentemente
sul medesimo piano.
Nei confronti della non-violenza, l’illustre filosofo liberale
non nutriva però la stessa vigorosa fiducia mostrata dai fautori
della ridefinizione del comunismo: la considerava un’alternativa
poco efficace nei confronti della violenza e, nei primi anni
Ottanta, identificandola con la virtù della mitezza, è giunto a
definirla una virtù «impolitica», «la più impolitica delle virtù»,
«l’antitesi della politica»3. Per quanto rivale del marxismo, ha
comunque riconosciuto che «le lotte delle masse in tutte le loro
forme sono state le più grandi manifestazioni di nonviolenza
collettiva che siano state sinora sperimentate», e che i movimenti che si sono ispirati e che si ispirano al pensiero di Marx
«hanno prodotto e continuano ad alimentare azioni nonviolente
collettive, quali sono gli scioperi parziali e generali, le manifestazioni di protesta di massa, le varie forme di disobbedienza
civile, anche se non hanno elaborato e propagandato una vera
3
Bobbio N., Elogio della mitezza, Linea d’Ombra, Milano, 1993, pp. 15 e 21.
introduzione
23
e propria teoria della nonviolenza, come ha fatto Gandhi [...]»4.
Un riconoscimento considerevole nei confronti della storia
del movimento operaio e marxista, assente in diversi neofiti
dell’ideale gandhiano, la cui veemenza chiarisce l’appello a
congedarsi da una tradizione politica accusata di aver avuto
nella violenza il suo peculiare tratto identitario e da una storia
che, pertanto, ha lasciato dietro di sé soltanto una caterva di
nefandezze. Da questo bilancio sorgeva l’invito appassionato
ad abbracciare con persuasione la non-violenza, l’unica opzione
in grado di scongiurare l’inesorabile eterogenesi dei fini delle
rivoluzioni violente e di offrire qualche possibilità all’ineludibile metamorfosi esistenziale, a quel mutamento antropologico
necessario per affrontare le sfide poste dinanzi all’umanità.
Sullo sfondo del rinnovato orizzonte post-comunista si
delineava dunque l’idea di un uomo nuovo radicalmente nonviolento, la prospettiva della tramutazione della natura umana, specifica degli orientamenti etico-religiosi che, slegati da
qualsiasi istanza di conquista del potere e postulando la piena
coerenza tra mezzi e fini, ambiscono ad una realtà diversa e
alla pace duratura attraverso la mitezza e la forza dell’amore.
Occorreva perciò volgere lo sguardo in direzione del pensiero
e dell’azione «fulgida e militante» di Gandhi, protagonista
dell’indipendenza dell’India, e di Capitini, la personalità più
autorevole della non-violenza in Italia, il promotore della prima
marcia per la Pace Perugia-Assisi e di numerose altre iniziative
e lotte all’insegna dell’ideale gandhiano.
Ma sono state realmente così cristalline e pure la riflessione
e l’opera del leader indipendentista indiano? Quale approfondita conoscenza, da parte dei fautori dell’immaginata rinascita
dell’identità comunista, dei dilemmi, delle contraddizioni e
degli aspetti talora sorprendenti che, nelle condizioni oggettive
4
Id., La nonviolenza è un alternativa?, in Id., Il problema della guerra e le vie della
pace, Il Mulino, Bologna, 2a ed., 1984, pp. 161-162.
24
non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini
del loro tempo, hanno contrassegnato la parabola umana e
pratica di tali prestigiose figure della storia della non-violenza?
Le pagine che seguono trovano la propria origine nell’interesse
suscitato da quel dibattito e si pongono, a distanza di un decennio, come un contributo alla ricerca storica e alla riflessione
su un tema che ha lacerato ulteriormente la sinistra italiana,
concorrendo in qualche modo al suo attuale sfacelo intellettuale
e politico.
I
Pacifismo, antimilitarismo
e non-violenza
al tramonto del lungo Ottocento
1. L’ideologia nazionalistica come «ideologia della guerra»
Negli anni che precedettero la prima guerra mondiale il
pianeta era dominato da un pugno di potenze e la maggior parte
dei popoli si trovava sottomessa al giogo del colonialismo. L’Italia era attraversata da una profonda arretratezza economicosociale, contrassegnata prevalentemente da un grave ritardo
dello sviluppo industriale, da una disoccupazione altissima e
da un diffuso analfabetismo. La crisi dell’economia agraria, che
nell’ultimo decennio dell’Ottocento aveva investito l’Europa,
contribuì a rendere ancora più estrema la miseria dei contadini
meridionali, molti dei quali furono costretti a vendere le terre
e a trasformarsi in braccianti al servizio dei proprietari terrieri
o a intraprendere il triste viaggio dell’emigrazione. Privando
il Sud della parte più giovane della popolazione e quindi della
forza lavoro più attiva, i flussi migratori inasprirono ulteriormente la già grave «questione meridionale», facendo aumentare
il divario con il Nord del Paese dove, grazie ad una favorevole
congiuntura economica, si assisteva comunque ad una timida
fase di decollo industriale. Qui, le organizzazioni dei lavoratori
diventavano man mano più capaci di pianificare e coordinare
le lotte, le rivendicazioni si facevano più incisive e le idee del
socialismo si diffondevano tra il proletariato operaio, sempre
26
non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini
più numeroso e combattivo. Anche al Sud, tuttavia, nonostante
l’assenza di un proletariato industriale e una maggiore rassegnazione tra le masse contadine e popolari, la crisi favoriva proteste e ribellioni contro lo sfruttamento da parte dei proprietari
terrieri: i contadini riuscivano ad organizzare scioperi e lotte
per ottenere aumenti salariali, miglioramenti delle condizioni
lavorative e tutele sociali contro la disoccupazione.
In questo scenario di generale sottosviluppo, il conflitto
politico-sociale che andava radicalizzandosi in tutto il Paese, la presenza costante e determinata del movimento operaio
organizzato e la diffusione delle idee socialiste provocavano
inquietudine tra i ceti possidenti (industriali al Nord e grandi
proprietari terrieri nel meridione) e nella borghesia liberale.
Alle rivendicazioni dei lavoratori e delle masse contadine le
classi dirigenti rispondevano in maniera autoritaria, non esitando in alcuni casi a far intervenire l’esercito: nel 1893, il
movimento dei Fasci siciliani, che esigeva la riduzione delle
tasse e una riforma agraria, venne represso nel sangue; cinque
anni dopo, a Milano, i soldati agli ordini del generale Bava
Beccaris fecero una strage, sparando a colpi di cannone sulla
folla che protestava per l’aumento del prezzo del pane e contro
il carovita (molti militanti e i capi socialisti, tra cui Turati e
la sua compagna Anna Kuliscioff, finirono in carcere, mentre
all’alto ufficiale responsabile dell’eccidio venne concesso un
riconoscimento per il valore militare dimostrato).
Per contrastare le richieste avanzate dal movimento operaio e le idee di emancipazione dell’«ignobile socialismo»1,
Così si esprimeva la rivista «Regno» diretta da Enrico Corradini, intorno alla quale si organizzò il movimento nazionalista che, oltre a Corradini,
ebbe quali intellettuali di riferimento, tra gli altri, Gabriele D’Annunzio,
Giosuè Carducci, Alfredo Oriani, Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini,
Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto, in Villari R., Mille anni di storia. Dalla
città medievale all’unità dell’Europa, Laterza, Roma-Bari, 2000, in particolare
cfr. cap. XV, pp. 521-561, e cap. XVI, pp. 562-620, cit. p. 590.
1
pacifismo, antimilitarismo e non-violenza
27
accusato di essere il principale responsabile di ogni male
e di ogni problema sociale, ma anche per tutelare i propri
interessi economici mediante l’espansione e il controllo dei
mercati esteri, in Italia, come in Europa, le classi dominanti
si proposero quali strenui sostenitori dell’ideologia nazionalistica. Dal loro punto di vista, si trattava di convincere le
masse popolari che gli avversari non erano i ceti proprietari
dei rispettivi Paesi, il capitalismo e l’imperialismo, bensì le
potenze straniere, e che pertanto le loro istanze avrebbero
potuto essere soddisfatte soltanto tramite guerre vittoriose
contro altre nazioni. Guerre nelle quali i proletari dovevano
combattere al fianco e per gli stessi interessi della borghesia,
contro i proletari e le borghesie di altri Stati. Per tale scopo
non si esitò a soffiare sul fuoco della retorica patriottica e
comunitaria, della celebrazione dello spirito di sacrificio e
dello sprezzo per la morte e, ancora più irresponsabilmente,
sulla esaltazione della violenza purificatrice della guerra. Questi
motivi, intrecciandosi con una decisa avversione nei confronti
della democrazia, finirono per configurare una vera e propria
«ideologia della guerra»2 , funzionale a depotenziare il conflitto politico all’interno dei singoli Stati e, allo stesso tempo,
a giustificare le ambizioni espansionistiche e le conseguenti
avventure coloniali delle potenze impegnate nella gara imperialistica per l’egemonia extraeuropea.
Un contributo rilevante allo sviluppo della generale atmosfera di entusiasmo e di passioni belliche venne dal movimento
futurista di Tommaso Marinetti, il cui principale intento era
– declama il Manifesto del Futurismo del 1909 – «glorificare la
guerra, sola igiene del mondo; il militarismo, il patriottismo, le
gesta distruttive dei liberati, le belle idee per le quali si muore, e il
2
Cfr. Losurdo D., La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l’«ideologia della guerra», Bollati Boringhieri, Torino, 1991.
28
non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini
disprezzo per la donna»3. Ma il clima di ardore bellico oltrepassò
di gran lunga gli ambiti artistici e letterari del movimento. All’affermazione della temperie spirituale di unità e mobilitazione
corale, di eccitazione per la forza e per la violenza purificatrice, diedero il loro decisivo apporto numerosi intellettuali, che
esaltarono la guerra e la prova delle armi come unico percorso
per una palingenesi individuale e collettiva. Tra i tanti, le due
personalità più autorevoli nel panorama culturale dell’epoca:
Giovanni Gentile, che nell’autunno del 1914 acclamò la guerra
come un «atto assoluto» attraverso cui «l’anima umana si purifica
e ascende ai suoi destini», cogliendo l’autentica «realtà spirituale
[che] non è acqua stagnante, ma fiamma ardente», e Benedetto
Croce, che nel dicembre dello stesso anno, ovvero alcuni mesi
prima dell’intervento italiano nel conflitto mondiale, dichiarò
che la guerra avrebbe potuto rappresentare l’occasione per una
«rigenerazione della presente vita sociale»4.
L’entusiasmo e la celebrazione della violenza della guerra
travalicarono, inoltre, la cerchia degli intellettuali legati ai ceti
dominanti e alle classi proprietarie, e quindi maggiormente predisposti al fascino del nazionalismo e del militarismo. Malgrado
il suo marcato carattere antipopolare e antisocialista, il pervasivo
richiamo dell’ideologia militarista riuscì ad ammaliare anche
uomini politici più sensibili ai bisogni delle classi subalterne.
Ciò spiega l’inadeguato contrasto politico e culturale da parte
del movimento operaio e degli intellettuali democratici e socialisti nei confronti di pulsioni belliche, che via via penetrarono
diffusamente anche tra i ceti popolari. Al Congresso di Basilea
del 1912 la Seconda Internazionale, per quanto lacerata, optò
per una posizione radicalmente pacifista, invitando i lavoratori
In d’Orsi A., I chierici alla guerra. La seduzione bellica sugli intellettuali
da Adua a Bagdad, Bollati Boringhieri, Torino, 2005, p. 18.
4
In Losurdo, La comunità, p. 10 e Id., La non-violenza. Una storia fuori
dal mito, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 4.
3
pacifismo, antimilitarismo e non-violenza
29
a contrastare con tutti i mezzi le decisioni di guerra e, solo qualora fosse scoppiata, a trasformare il malcontento popolare in
una lotta rivoluzionaria che avrebbe dovuto rovesciare i governi
responsabili. Ciò nonostante, alla vigilia del conflitto i maggiori
partiti socialdemocratici europei (tedesco, francese e inglese)
votarono a favore delle spese per gli armamenti dei rispettivi
Paesi, approvando di fatto la guerra. Fecero eccezione il Partito
socialista russo, protagonista dell’esperienza rivoluzionaria del
1905, e il Partito socialista italiano. Quest’ultimo, però, assunse un atteggiamento passivo, rinunciando così ad organizzare
un’opposizione di massa contro la guerra. «Né aderire, né sabotare», era la parola d’ordine che sintetizzava la posizione politica
neutralista del Partito. Essa non impedì a personalità di spicco
come Salvemini, Bissolati, Mussolini, Cesare Battisti, di schierarsi a favore della guerra. Tra gli interventisti figurava a pieno
titolo anche l’anarco-sindacalista Arturo Labriola, già fervente
sostenitore della guerra coloniale italiana del 1911-1912.
Anche il movimento delle donne venne investito in pieno
dall’onda d’urto dell’«ideologia della guerra». Alcune figure di
primo piano, in precedenza impegnate sul fronte dell’emancipazione femminile e della lotta per la pace, abbandonarono le
proprie posizioni per sostenere le scelte interventiste del governo italiano, convinte che la guerra poteva offrire una possibilità
di affermazione e di protagonismo sociale a una élite di donne di estrazione borghese-aristocratica. Nel 1911, la scrittrice
Sibilla Aleramo immaginava «i guerrieri nella gioia rapinosa
dell’oblio pieno, liberi di ogni rimorso, di ogni desiderio, d’ogni
rimpianto»; per quanto esclusa dalla battaglia, la donna «sente
che chi muore così, per una qualunque idea di diritto e di forza,
tocca un vertice della vita. Ma non può esaltarsi, perché non è
lei che è chiamata alla bella morte»5.
5
In Guidi L., a cura di, Vivere la guerra. Percorsi biografici e ruoli di
genere tra Risorgimento e primo conflitto mondiale, ClioPress, Napoli, 2007,
30
non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini
Le profonde divisioni, che il tema della guerra e della
pace stava determinando nel movimento socialista e in quello
delle donne, non lasciarono indenne neppure il mondo cattolico. La complessiva posizione neutralista della Chiesa non
impedì a molti cattolici di allontanarsi dal debole fronte del
pacifismo per allinearsi dalla parte delle decisioni bellicose
dei rispettivi governi: sebbene Benedetto XV, eletto papa
subito dopo lo scoppio del conflitto, avesse «condannato la
guerra, molti vescovi» assunsero «un atteggiamento apertamente filointerventista» 6.
Poche, in definitiva, le voci fuori dal coro interventista,
voci flebili di fronte al fascinoso e assordante richiamo della
battaglia. Persino Gandhi (1869-1948), per quanto consapevole che la partecipazione alle imprese belliche, anche senza
impugnare le armi, fosse in contraddizione con la professione
di fede nella non-violenza, nel corso del conflitto bellico collaborò al fianco degli inglesi come reclutatore di soldati per
l’esercito di Sua Maestà. Anche il giovanissimo Aldo Capitini
(Perugia 1899-1968), che evitò l’arruolamento a causa della sua
cagionevole salute, fu attratto dal nazionalismo patriottico e
dalla letteratura futurista e quindi partecipe del clima di entusiasmo militarista, che precedette e inizialmente accompagnò
la prima guerra mondiale: «È impossibile – scriveva al fratello
Giovanni l’11 settembre 1914 – che l’Italia possa mantenersi
neutrale [...]».
La guerra che abbiamo intrapreso – affermava in un’altra
lettera, scritta mentre infuriava il conflitto – è santa, se così si
p. 108. Tra le interventiste figuravano, tra le altre, le sorelle Irma Melany
e Irene Scodnik, Teresa Labriola, Anna Maria Mozzoni, figura simbolo
del femminismo dell’’800, e Stefania Turr, fondatrice e redattrice di una
rivista mensile per gli orfani di guerra.
6
Cfr. Sabbatucci G., Vidotto V., a cura di, Storia d’Italia, Laterza Roma-Bari, 1997, vol. 4, p. 7.
pacifismo, antimilitarismo e non-violenza
31
deve chiamare una guerra giusta e di liberazione...L’Italia aveva bisogno di riorganizzarsi dopo la guerra libica che l’aveva
tanto elevata moralmente e materialmente tra le potenze...;
[bisogna]...sacrificarsi per la Patria, per questa cosa astratta,
così lontana dalle menti di molti disgraziati, ma sempre nel
cuore di chi ricordi, quanto per essa dettero i nostri...7.
Considerata però la giovane età, le posizioni di Capitini,
diversamente da quelle del quasi cinquantenne leader indiano,
hanno un significato poco rilevante.
2. Tolstoj, il mondo cattolico e il pacifismo democratico tradizionale
Mentre per ragioni politiche, economiche e ideologiche il
mondo precipitava verso la guerra, il pensiero non-violento d’ispirazione religiosa giunse in Italia grazie alla diffusione delle
idee e delle prese di posizione di Tolstoj (1828-1910), il primo
grande autore della non-violenza nell’epoca moderna. La sua
fama, già notevolissima negli ultimi decenni dell’Ottocento,
a partire dai primi anni del XX secolo oltrepassò gli ambiti e
i meriti strettamente letterari. Da allora, Tolstoj cominciò a
suscitare vivo interesse quale personalità di spessore morale e
riformatore religioso, oltre che come oppositore della brutale
autocrazia zarista. Travalicarono i confini della Russia le notizie
della sommossa di operai e studenti scoppiata a Pietroburgo
nel 1901, in seguito alla scomunica che gli era stata inflitta
dal Santo Sinodo per la sua intransigente ostilità nei confronti
delle istituzioni ecclesiastiche e per le sue ricorrenti denunce
delle persecuzioni perpetrate dal regime zarista. Giornali e
riviste europee pubblicavano i suoi interventi di accusa delle
7
In Cavicchi M., Aldo Capitini. Un itinerario di vita e di pensiero, Lacaita,
Manduria, 2005, p. 23.
32
non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini
drammatiche condizioni di miseria del popolo russo, gli appelli
contro la guerra e contro il militarismo, la sua concezione di
un cristianesimo profondamente rinnovato. Articoli, opuscoli
e altri scritti venivano diffusi per iniziativa di case editrici
e giornali vicini al mondo socialista. Nel 1904, in occasione
della pubblicazione della quinta edizione dell’opuscolo Contro
la guerra russo-giapponese, il settimanale socialista «L’Avanti
della Domenica» concedeva ampio risalto allo scritto tolstojano,
invitando i lettori a diffonderne il messaggio antimilitarista8.
Già presenti in Il Regno di Dio è in voi del 1893 – testo che
negli anni seguenti influenzerà in maniera decisiva il pensiero di Gandhi e di Martin Luther King, diventando uno
scritto centrale del pensiero non-violento contemporaneo – e
in altri numerosi interventi pubblicati negli ultimi due decenni dell’Ottocento, tali temi collocano Tolstoj agli antipodi rispetto all’«ideologia della guerra», così diffusa in questa
fase storica e che non ha risparmiato (come vedremo meglio)
neppure Gandhi. Netta è infatti la condanna del militarismo
quale dispositivo che ostacola l’emancipazione degli oppressi:
«Si crede generalmente che i governi aumentano gli eserciti
unicamente per la difesa esterna del paese, mentre gli eserciti
sono loro principalmente necessari per la propria difesa contro
i sudditi oppressi e ridotti in schiavitù».
Le idee sociali e politiche del grande scrittore – che in
Italia stimolarono una certa attenzione in particolar modo tra
il 1900 e il 1906 – configurano nel complesso un pacifismo
integrale fondato sul rifiuto assoluto di qualsiasi forma di violenza, anche di quella rivoluzionaria: Tolstoj era persuaso che il
potere instaurato con la violenza fosse destinato a diventare «più
dispotico e più crudele dell’antico, come è avvenuto durante
8
Mazzoni D., La fortuna di Tolstoj nel movimento operaio italiano,
in «Movimento operaio e socialista», rivista trimestrale, a. III, n. 2-3,
aprile-settembre 1980, Centro studi di Storia sociale, Genova, pp. 175-197.
pacifismo, antimilitarismo e non-violenza
33
tutti i periodi rivoluzionari»9. Una concezione non-violenta
assoluta che iniziò a maturare intorno al 1880, a partire cioè
dagli scritti che segnano la sua conversione religiosa. Meritano
però di essere ricordate le parole tutt’altro che non-violente con
le quali, prima della svolta religiosa, in uno dei suoi capolavori
letterari, il romanzo storico Guerra e pace del 1868, viene esaltata la strenua resistenza che il popolo russo oppose nel 1812
al potente esercito di Napoleone:
[...] il randello della guerra popolare si alzava con tutta la sua
minacciosa e maestosa forza e, senza preoccuparsi del gusto e
delle regole [del cui mancato rispetto si lamentavano i francesi], con una stupida semplicità, ma in modo atto a raggiungere lo scopo, si alzava e si abbassava senza fare distinzioni, a
colpire i francesi, finché non perì tutto l’esercito invasore. [...]
Fortunato quel popolo che, nel momento della prova, senza
domandare come si siano comportati gli altri secondo le regole, in circostanze simili con semplicità e facilità solleva il
primo randello che gli capita davanti e colpisce con quello
finché nella sua anima il sentimento dell’offesa e della vendetta si muti in disprezzo e in pietà!10.
Nel mondo cattolico, il pensiero dello scrittore russo stimolò
una certa attenzione da parte di alcuni esponenti del movimento modernista, che tra l’ultimo decennio del XIX secolo e il
primo del XX, soprattutto in Francia e in Italia, auspicavano
una riforma della dottrina cattolica. L’interesse manifestato
dai modernisti non era però rivolto principalmente al principio
della non-violenza, quanto piuttosto alla sua concezione di
un Cristianesimo rifondato, estraneo ai dogmi della Chiesa e
concretamente più vicino ai bisogni delle masse popolari; al
Tolstoj L., Il regno di Dio è in voi, Publiprint, Trento 1988, riproduzione anastatica dell’edizione dei Fratelli Bocca, Roma, 1894, pp. 191 e 215.
10
Id., Guerra e Pace, Einaudi, Torino, 1990, vol. II, Libro quarto, parte
terza, pp. 1207-1208.
9
34
non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini
contributo, cioè, che la sua visione poteva offrire alle istanze
e alle prospettive di rinnovamento del cattolicesimo avanzate
anche dal movimento. Le gerarchie ecclesiastiche, rendendosi
conto che la sua riflessione si intrecciava con le posizioni teologiche dei modernisti, reagirono con particolare durezza e,
già prima della scomunica del movimento (1907), giudicarono
le idee tolstojane pericolose: in un articolo pubblicato su «La
Civiltà cattolica» del 1902 lo scrittore fu accusato di essere un
«vero nichilista russo» e di avere una visione confusa e distorta
del Cristianesimo11.
Il ripudio assoluto della violenza e la sua concezione religiosa
non riuscirono, dunque, a scalfire le posizioni e le idee sulla
pace e sulla guerra delle gerarchie della Chiesa romana, che
continuarono a essere ben disposte nei confronti del nazionalismo armato, non solo a causa del possibile uso che poteva
farne il movimento modernista, ma anche, e soprattutto, perché
spaventate dall’avanzata del movimento socialista.
Sostanzialmente analogo il risultato dell’incontro tra il
pensiero non-violento di Tolstoj e il pacifismo di matrice non
cattolica, ovvero il pacifismo democratico borghese, le cui radici
affondavano nella tradizione risorgimentale e che ha avuto nel
patriota garibaldino milanese, Ernesto Teodoro Moneta, la
personalità più autorevole e rappresentativa. Questi, nel 1878,
costituì a Milano la Lega Libertà, fratellanza e Pace, il primo
nucleo di un movimento pacifista, che dopo alcuni anni si
strutturò ancor più con la fondazione, su iniziativa dello stesso
aristocratico milanese, dell’Unione lombarda per la pace e l’arbitrato, denominata in seguito Società per la Pace e la Giustizia
internazionale e destinata a diventare la punta più avanzata
del pacifismo democratico. Nel panorama sociale dell’ultimo
quindicennio dell’Ottocento si costituirono però altre associa11
Martellini A., Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento, Donzelli, Roma, 2006, pp. 15-16.
pacifismo, antimilitarismo e non-violenza
35
zioni pacifiste di natura borghese, che insieme alle società di
Moneta diedero vita alla Federazione delle società italiane della
pace. Questo arcipelago di realtà condivideva un’idea della pace
basata sull’adesione e sul rispetto del diritto internazionale,
nonché sulla convinzione che l’azione in suo favore dovesse
concretizzarsi mediante iniziative di sensibilizzazione dei popoli. Pienamente legittime erano considerate le guerre difensive:
in caso di minacce all’indipendenza, alla libertà e all’integrità
territoriale era giusto, anzi doveroso, difendere il proprio Paese anche imbracciando le armi. In definitiva, si trattava di
un pacifismo differente da quello integrale e non-violento di
Tolstoj, ma altresì radicalmente diverso da quello di matrice
socialista o anarchica.
Moneta respingeva con risolutezza il marxismo, in quanto
espressione della violenza e dell’odio di classe. Nel 1907, per
l’impegno profuso a favore della pace e per il progresso civile
dell’intera umanità, gli fu conferito il premio Nobel per la
Pace. Non è tuttavia da escludere che, la sua avversione per il
marxismo e la lotta di classe possa aver influenzato la decisione
di attribuirgli l’ambito premio. Ad ogni modo, pur insignito
del prestigioso riconoscimento, a distanza di pochissimi anni
il patriota milanese giustificò la spedizione coloniale in Libia
per il suo «movente disinteressato e umano», vale a dire «aprire
quelle deserte glebe agli influssi della vita moderna»12. In nome,
cioè, della “missione civilizzatrice” che le potenze dominanti si
erano assegnate e che sbandieravano ogni qualvolta occorreva
legittimare l’espansionismo coloniale di una “razza” e di una
cultura, che si celebravano come “superiori”. Analoga fu la
presa di posizione dei gruppi dirigenti di quasi tutte le altre
associazioni del pacifismo democratico borghese, malgrado
l’appoggio all’impresa italiana in Africa – ovvero a una guerra
12
Moneta E. T., Ai Lettori, in «Almanacco illustrato Pro Pace» per il
1912, p. 14.
36
non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini
di conquista e di aggressione – fosse in evidente contraddizione
con il principio della giustificazione della violenza e dell’uso
delle armi solamente per guerre di natura difensiva. La vicenda
provocò una frattura tra i sostenitori della spedizione e i pochi, come Edoardo Giretti e il Comitato per la pace di Torre
Pellice, che si opposero alla decisione di sostenere l’avventura
coloniale italiana.
A distanza di pochi anni, la lacerazione si aggravò ulteriormente con lo scoppio del conflitto mondiale: oltre allo stesso
Moneta, la confluenza degli stessi pacifisti patriottici tra le fila
degli interventisti (compreso Giretti) segnò la definitiva disfatta
del movimento pacifista borghese. Le defezioni in direzione
dell’interventismo bellico di esponenti del movimento anarchico e socialista, il quale aveva continuato ad opporsi all’italica missione coloniale in Libia, sebbene costretto a lottare in
condizioni di maggiori difficoltà, resero ancora più complessiva
e generale la sconfitta dell’eterogeneo movimento della pace.
3. Tolstoj e l’antimilitarismo socialista: «La Pace»
Nella realtà sociale italiana dei primi del Novecento, l’idea
della non resistenza al male con la violenza venne ad intrecciarsi
con i contrasti sulla pace e sulla guerra che, fin dagli ultimi
decenni del secolo precedente, stavano lacerando il movimento
socialista internazionale. La critica tolstojana della realtà politica e sociale del tempo, le denunce delle condizioni di miseria
e di schiavitù delle masse popolari, gli attacchi alle istituzioni
ecclesiastiche corrotte e corresponsabili del malessere e della
crisi in cui stava precipitando il mondo, stimolarono attenzione
nell’universo socialista. Gli interventi più strettamente politici
dello scrittore contribuirono a rinfocolare la tematica dell’antimilitarismo, sollecitando dibattiti e polemiche in merito alla
possibilità di una prospettiva rivoluzionaria non-violenta. Ma,
pacifismo, antimilitarismo e non-violenza
37
analogamente a ciò che si verificò nel mondo cattolico e nel
pacifismo borghese, anche nell’ambito del movimento socialista
l’idea della non resistenza al male non riuscì a determinare
cambiamenti significativi nei contenuti dell’antimilitarismo,
che andava via via affermandosi già da prima dell’incontro con
il pensiero dello scrittore.
Ancorché diffuso tra le masse popolari, inizialmente l’antimilitarismo ebbe un carattere per così dire impolitico. Non
configurava, cioè, tanto una forma più o meno cosciente di
opposizione agli eserciti e alla guerra, quanto piuttosto una
naturale espressione di rifiuto della leva militare che, allontanando i giovani dalle proprie famiglie, sottraeva risorse preziose per il sostentamento dell’economia domestica13. Non era
pertanto equiparabile con il pacifismo, né tanto meno con il
pensiero del ripudio assoluto di qualsiasi forma di violenza. In
conseguenza della radicalizzazione del conflitto politico e della
propaganda di socialisti e anarchici, i quali, man mano che ci
si avvicinava all’aggressione coloniale della Libia, cercavano di
rendere le loro azioni sempre più intense e incisive, si verificò
una progressiva politicizzazione dell’antimilitarismo. Ma se
ciò, per un verso, contribuì in qualche modo ad accorciare la
sua distanza dal pacifismo, per un altro verso, rese ancora più
marcate le differenze con la non-violenza.
Nel primo quindicennio del XX secolo, l’esperienza politica
e di propaganda della rivista «La Pace», fondata nel 1903 da
Ezio Bartalini e diretta da Enrico Ferri, fu una delle espressioni più significative dell’antimilitarismo socialista italiano. Il
collettivo del periodico genovese si prodigò instancabilmente
per comporre un fronte unitario tra le diverse ramificazioni
del movimento operaio e, malgrado le storiche divisioni tra
anarchici e socialisti, diede un apporto importante alla nascita
di un movimento antimilitarista in qualche modo organizza13
Martellini, op. cit., p. 17.
38
non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini
to, il cui obiettivo principale era portare la propaganda anche
nelle caserme, per sollecitare i giovani soldati a ribellarsi e a
disobbedire agli ordini di colonnelli e generali.
Per i redattori era più che naturale valutare positivamente
la condanna della guerra che Tolstoj aveva pronunciato in più
occasioni, da ultimo contro la contesa imperialistica russogiapponese del 1904-1905. Un conflitto bellico che, precedendo e stimolando il primo tentativo rivoluzionario di abbattere
l’autocrazia degli zar, è una riprova della dialettica tra guerra
e rivoluzione cui faceva riferimento l’antimilitarismo più maturo dell’epoca. Ad ogni modo, ancorché interessato all’idea
della disobbedienza collettiva nelle caserme e all’apporto che
la non-violenza tolstojana poteva offrire per inceppare il dilagante militarismo, in nessun momento della sua poco più che
decennale esistenza (la rivista fu costretta a sospendere definitivamente le pubblicazioni nel 1915) il collettivo antimilitarista
genovese accettò il principio assoluto della non-violenza, ma
non per compiacimento o celebrazione della violenza. Il rifiuto
della non-violenza si basava piuttosto sul riconoscimento della
radice economico-sociale della violenza e del carattere tragico
e talora ineludibile che essa assume in alcuni momenti storici.
Così si esprimeva Bartalini nel 1907:
L’antimilitarismo ha per effetto di limitare la violenza,
permettendo così che la trasformazione si compia senza brutalità, senza spargimento di sangue, come anche nel momento attuale tende a far acquistare al proletariato i mezzi che gli
sono indispensabili per la propria emancipazione, senza troppi contrasti brutali, senza inutili eccidi14.
Il ricorso ai mezzi violenti era perciò considerato giustificabile da necessità di natura difensiva (come per il pacifismo
14
In Giacomini R., Antimilitarismo e pacifismo nel primo novecento. Ezio
Bartalini e “La Pace” 1903-1915, FrancoAngeli, Milano, 1990, p. 75.
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