Società di studi politici Scuola di alta formazione dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici BIBLIOTECA DI STUDI UMANISTICI 7 Aldo Trotta Non-violenza e Guerra fredda Gli equivoci di Aldo Capitini Prefazione di Domenico Losurdo La scuola di Pitagora editrice 2014 Proprietà letteraria riservata Copyright © 2014 La scuola di Pitagora editrice Via Monte di Dio, 54 80132 Napoli [email protected] www.scuoladipitagora.it isbn 978-88-6542-360-8 (versione cartacea) isbn 978-88-6542-361-5 (versione elettronica nel formato PDF) Finito di stampare nel mese di ottobre 2014 Stampato in Italia – Printed in Italy INDICE Prefazione di Domenico Losurdo9 Introduzione17 I. Pacifismo, antimilitarismo e non-violenza al tramonto del lungo Ottocento 1.L’ideologia nazionalistica come «ideologia della guerra» 2.Tolstoj, il mondo cattolico e il pacifismo democratico tradizionale 3.Tolstoj e l’antimilitarismo socialista: «La Pace» 4.Tolstoj e l’antimilitarismo anarchico 5.Pacifismo, antimilitarismo e non-violenza: categorie non equivalenti 25 31 36 41 45 II. Capitini e il liberalsocialismo nel periodo della seconda Guerra dei Trent’anni 1.L’esigenza di rinnovamento. Dall’«interventismo democratico» al ripudio della violenza 2.La «triade liberalsocialista»: Mill, Bernstein, Ortega y Gasset 3.Aldo Capitini nel solco del revisionismo. L’incontro con Claudio Baglietto 4.«Elementi di un’esperienza religiosa»: l’ideale assoluto della non-violenza 5.Ideale e reale. La prospettiva escatologica della liberazione 47 55 63 73 76 6.Gli «Elementi»: l’opposizione al fascismo come capolavoro di «poesia» 7.Capitini e Berdjaev: per una «nuova aristocrazia» 8.Liberalsocialismo versus lotta di classe 9.Liberalsocialismo, nazionalismo e questione coloniale 10.Non-violenza: libera aggiunta o elemento di separazione? 11.Lo spartiacque della guerra: etica della convinzione o etica della responsabilità? 12.La non-violenza come «prova di sovrabbondanza interiore» 81 93 106 112 119 126 130 III.L’era atomica. Pacifismo e non-violenza nella guerra fredda 1.Il ritorno all’impegno 2.Non partecipazione e giudizio storico sulla Resistenza. «Sogno astratto» ed esigenze concrete 3.La violenza nel passato tra comprensione e condanna. L’abolizione della schiavitù 4.L’«adesione condizionata» al Fronte democratico popolare 5.Il movimento pacifista dei Partigiani della Pace 6.Capitini, Bobbio e il pacifismo dei Partigiani della Pace 7.Guerra, pace, pacifismi e non-violenza nella riflessione di Bobbio 8.«Terza via», cosmopolitismo e lotte di liberazione anticoloniali 9.Ripudio di ogni violenza, neutralismo e «disarmo unilaterale» 10.L’esigenza di una «giustificazione interiore» e la «tendenza all’unità del mondo» 11.Il Congresso per la libertà della cultura, Silone e l’antitotalitarismo 12.Danilo Dolci e il Premio Lenin per la Pace 13.La posizione filoisraeliana di Capitini nella «guerra dei sei giorni» 137 144 148 150 153 160 174 185 192 197 206 218 227 IV. Gandhi, Capitini e l’agiografia della non-violenza 1.L’immagine di Gandhi nell’Italia fascista 233 2.Capitini scopre Gandhi 239 3.Capitini promotore della diffusione agiografica del pensiero e dell’opera di Gandhi 241 4.Il «fallimento» di un sogno. La non-violenza: necessità o virtù? 249 5.La partecipazione di Gandhi alle guerre dell’Impero 252 6.Gandhi, il fascismo e il bolscevismo: una doppia morale 258 7.Ragioni e coerenza dell’appoggio alle guerre: una morale «pluralistica»262 8.Gandhi, la resistenza non-violenta al nazismo e la mistica del sacrificio 271 9.«L’equivoco della nonviolenza»: il sacrificio supremo della vita 278 10.Elogio della non-violenza con qualche forzatura 287 11.Il caso di Antonio Giuriolo 293 12. L’esplosione del ’68 301 V. Per un pacifismo sociale realistico 1.L’impronta postmoderna della stagione 1968-1977 2.Dal ripudio del domani al dispotismo del presente 3.Il mito della dilatazione della violenza 4.Fuga dal Novecento e dalla storia: grande rimozione e delegittimazione della politica 5.Marxismo e non-violenza: lotta di classe e violenza come «levatrice» della storia 6.Una vittoria dal retrogusto amaro 7.L’imponente «ascesa del Sud» del mondo 8.Libertà di internet, manipolazione delle moltitudini e non-violenza 9.Falungong e altre nefandezze 10.Per un pacifismo realistico 307 312 315 318 327 340 342 348 361 372 Riferimenti bibliografici 381 Indice dei nomi 393 Prefazione di Domenico Losurdo 1. Non c’è ideale, per grande e nobile che sia, che non possa essere distorto e piegato a strumento di lotta spregiudicata e cinica per il potere e il dominio. Ai giorni nostri i colpi di Stato e i tentativi di destabilizzazione messi in atto a danno dei paesi invisi all’Occidente sono regolarmente celebrati come «rivoluzioni colorate», tutte pervase – ci viene assicurato – dall’orrore per ogni forma di intimidazione e sopraffazione e tutte ispirate dall’ideale della «non-violenza» nella sua purezza. La tecnica è ormai consolidata (ed esplicitamente esposta e raccomandata in testi di larga diffusione che sono veri e propri manuali per il colpo di Stato): 1) nei paesi in cui Washington e Bruxelles ritengono necessario imporre il regime change viene promosso e finanziato con una straordinaria dovizia di mezzi un movimento di opposizione, il cui leader è propagandato da un poderoso apparato multimediale di portata mondiale come un seguace scrupoloso della non-violenza, anzi come la reincarnazione stessa del Mahatma, della «grande anima» di Gandhi. 2) Il movimento di opposizione così messo in piedi e foraggiato può rendersi responsabile di qualsiasi illegalità (occupazione permanente di importanti vie di comunicazione e di edifici pubblici, blocco del funzionamento del governo esistente, allestimento di un contropotere visibile e subito riconosciuto dall’Occidente come il solo potere «democratico» e «legittimo»). 10 non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini Tali pratiche sarebbero immediatamente ed energicamente represse negli USA e in Europa; ma nel paese in cui gli USA e l’Europa intendono portare a termine la «rivoluzione colorata» esse sono considerate legittime e non-violente, mentre il governo esistente che tenta di ristabilire l’ordine e la legalità viene bollato in quanto violento per definizione e quindi passibile di sanzioni economiche, diplomatiche (e sullo sfondo militari). 3) La situazione di instabilità e di doppio potere venutasi così a creare non può proseguire all’infinito: nel paese di volta in volta investito dalla «rivoluzione colorata», l’opinione pubblica e le stesse forze di polizia e militari toccano con mano l’impotenza del governo esistente e finiscono col convincersi che i reali detentori del potere risiedono a Washington e a Bruxelles. È a questo punto che la pressione economica, diplomatica (e militare) dell’Occidente ha il sopravvento, il regime change è portato a termine, e un nuovo paese dopo qualche tempo può entrare a far parte dell’Unione Europea e della NATO, la quale rafforza così il suo già formidabile apparato militare e può scatenare nuove guerre anche senza l’approvazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Il tutto in nome della «non-violenza» e persino del Mahatma Gandhi! L’Occidente sente il bisogno di consolidare la sua nuova ideologia della guerra anche sul piano della filosofia della storia: ed ecco allora una sterminata pubblicistica contrapporre all’ideale gandhiano della non-violenza il culto della violenza, che sin dagli inizi avrebbe caratterizzato il movimento comunista e le rivoluzioni anticoloniali da esso spesso ispirate! Alla confutazione di questa duplice manipolazione, funzionale a un neocolonialismo duro a morire, ho dedicato un libro recente (La non-violenza. Una storia fuori dal mito). Cominciamo dalla filosofia della storia. Dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, chiamato al fronte, prima di essere arrestato a causa del suo pacifismo, Karl Liebknecht invia una serie di lettere alla moglie e ai figli: prefazione 11 Non posso descriverti il mio stato morale. Involontario strumento di una forza che odio dal profondo dell’anima! […] Sopra noi l’inferno è scatenato. Io non sparerò […] Tutti sono completamente stufi del macello […] Tutti i pericoli non hanno importanza; soltanto l’uccidersi a vicenda, questo io non lo posso [tollerare]: questo è troppo […] Io non tirerò anche se mi fosse ordinato di tirare. Mi si potrebbe per questo fucilare. Altri sono del mio parere […] Mi sono di nuovo provvisoriamente liberato del mio fucile. Così vado senz’armi al lavoro, perciò mi sento interiormente libero. Piuttosto che inchinarsi alla guerra come a una fatalità, il socialista tedesco finisce col salutare con entusiasmo la rivoluzione d’ottobre e col fondare il Partito comunista tedesco, chiamato a emulare in Germania l’impresa dei bolscevichi russi: sarà poi assassinato assieme a Rosa Luxemburg. Ben diverso è l’atteggiamento assunto da Gandhi in occasione del primo conflitto mondiale. Non solo egli diviene – per sua compiaciuta autodefinizione – il «reclutatore capo» dell’esercito britannico tra i giovani indiani, ma celebra la vita militare e la partecipazione alla guerra come momenti di realizzazione dell’autentica vita spirituale. La consueta contrapposizione del comunismo quale culto della violenza alla religione gandhiana della non-violenza è semplicemente un mito ideologico. 2. Sottolineare la necessità di una visione più realistica della personalità di Gandhi, che per qualche tempo ha sperato di conquistare per il suo paese l’autogoverno o l’indipendenza chiamando il popolo indiano a combattere nelle file dell’esercito imperiale britannico, non significa liquidare la personalità del grande leader indipendentista indiano. Questi, sia pure attraverso un’evoluzione faticosa e contraddittoria, finisce col considerare il movimento da lui diretto come parte integrante della rivoluzione anticolonialista mondiale. Nel giugno 1942 egli esprime la sua «profonda simpatia» e la sua «ammirazione 12 non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini per l’eroica lotta e gli infiniti sacrifici» del popolo cinese, deciso a difendere «la libertà e l’integrità» del paese nel corso della guerra di resistenza nazionale contro l’imperialismo giapponese. Poco più di quattro anni dopo, nel settembre 1946 – nel frattempo Churchill ha aperto la Guerra fredda con il suo discorso a Fulton – Gandhi rifiuta di accodarsi alla crociata lanciata contro l’Unione sovietica, in considerazione anche del fatto che quel paese e quel «grande popolo» sono diretti da «un grande uomo quale Stalin». L’omaggio è qui rivolto soprattutto al protagonista di Stalingrado, a colui che aveva sconfitto il progetto hitleriano di riprendere e radicalizzare la tradizione coloniale sino al punto da farla valere nella stessa Europa orientale, dove la Germania avrebbe dovuto edificare il suo impero coloniale di tipo continentale. Ai giorni nostri è quasi un luogo comune accostare Hitler e Stalin quali fratelli gemelli. Agli occhi di Gandhi, invece, l’eventuale fratello gemello di Hitler è semmai costituito da Churchill, non da Stalin. Particolarmente eloquente è una dichiarazione dell’aprile 1941: «In India abbiamo un governo hitleriano, sia pure camuffato in termini più blandi». Non aveva Hitler più volte dichiarato di voler edificare in Europa orientale le Indie germaniche? E Churchill non si era impegnato a difendere a ogni costo le Indie britanniche? L’accostamento Hitler-Churchill fatto da Gandhi ha il torto di sottovalutare la particolare brutalità schiavistica del colonialismo promosso dal Terzo Reich; resta comunque fermo il collocarsi del leader indipendentista indiano nell’ambito della rivoluzione anticolonialista mondiale, ispirata prima dalla rivoluzione d’ottobre e poi dalla disfatta subita dalla controrivoluzione colonialista e schiavista promossa in Europa dal Terzo Reich e in Asia dall’Impero del Sol Levante. L’odierna ideologia della guerra che pretende di riaffermare il ruolo imperiale dell’Occidente agitando la bandiera gandhiana della non-violenza e demonizzando in contrapposizione a essa la storia del movimento prefazione 13 comunista è falsa e bugiarda per due ragioni. Sì, non si tratta solo di respingere tale demonizzazione. Si tratta anche di gridare alto e forte: «Giù le mani da Gandhi!». E in modo analogo occorre procedere in relazione ad altre importanti personalità del movimento al tempo stesso non-violento e anticolonialista, come ad esempio Martin Luther King. Diverso e contrapposto è il ruolo dei sedicenti eredi di Gandhi, dall’Occidente neocolonialista chiamati ad appoggiare i colpi di Stato camuffati da «rivoluzioni colorate»! 3. Ma in che modo occorre atteggiarsi nei confronti del principale seguace di Gandhi in Italia? Nel mio libro già citato, metto in evidenza come la professione convinta di non-violenza non impedisce ad Aldo Capitini di rendere omaggio, sia pure a tratti e in modo incerto e contraddittorio, alla «Rivoluzione francese», alla «rivoluzione collettivistica russa», alla più grande rivoluzione anticolonialista del Novecento, quella sfociata nella fondazione della Repubblica popolare di Cina; talvolta si assiste persino all’accostamento di Lenin e Gandhi. A tale proposito, nel suo lavoro Aldo Trotta si mostra decisamente più cauto o più diffidente. Grazie alla frequentazione tenace e attenta di biblioteche e archivi, egli è in grado di ricostruire una biografia intellettuale di Capitini, pungente e ricca di sorprese. Si potrebbero prendere le mosse dal primo conflitto mondiale: sarebbe assurdo attendersi in Capitini una condanna senza riserve del macello imperialista, alla maniera di Liebknecht e di Luxemburg (che denuncia il «genocidio»), o dei bolscevichi. No, in questo momento il futuro seguace italiano di Gandhi è un fervente interventista: «La guerra che abbiamo intrapresa è santa, se così si deve chiamare una guerra giusta e di liberazione… L’Italia aveva bisogno di riorganizzarsi dopo la guerra libica che l’aveva tanto elevata moralmente e materialmente tra le potenze». Sembrerebbe una posizione non dissimile da quella di Gandhi, che però in quegli anni 14 non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini è già un uomo maturo, essendo nato nel 1869, mentre invece Capitini è ancora adolescente, essendo nato trent’anni dopo. In quest’ultimo caso – sottolinea a ragione Trotta – siamo in presenza di una presa di posizione di «significato poco rilevante». E, tuttavia dà da pensare una presa di posizione così netta a favore non solo dell’intervento dell’Italia nel primo conflitto mondiale ma anche di una guerra dichiaratamente coloniale come quella scatenata qualche anno prima contro la Libia (è un aspetto ovviamente assente in Gandhi). Il problema essenziale è comunque la successiva evoluzione di Capitini. Quando e in che modo matura la sua opposizione al fascismo e al colonialismo? Soprattutto: negli anni della guerra fredda sino a che punto la religione della non-violenza riesce a dare prova di equilibrio nei confronti dei due schieramenti antagonisti? Ho già detto che la ricostruzione di Trotta è ricca di novità e di sorprese. In un testo del 1950, dopo aver criticato il movimento comunista per il fatto di far leva, nella sua lotta contro le diseguaglianze e le ingiustizie sociali, sull’azione politica rivoluzionaria piuttosto che sul rinnovamento religioso, Capitini così prosegue: La riforma sociale può nella sua urgenza e fiducia nei mezzi politici-rivoluzionari militari disdegnare ogni riferimento religioso. Non so se continuerebbe così nel caso che una guerra sfortunata per l’Unione Sovietica togliesse il potere ai gruppi politici-militari stalinisti. Probabilmente si avrebbe una svolta, e la ricerca di altri metodi. Ha ragione Trotta a osservare che «si rimane alquanto stupiti» dinanzi a tale dichiarazione. Che peraltro non è isolata. Anche in una lettera a Ignazio Silone del 16 marzo 1948 Capitini sembra accarezzare l’idea del passaggio a «un socialismo molto più che amministrativo» e molto più ricco sul piano umano e religioso «se la struttura comunista sovietica sarà distrutta in prefazione 15 una guerra». Ovviamente si tratta di brani che non devono essere sovra-interpretati. E Trotta non lo fa. Resta il fatto che a partire dalla sua ricerca, la religione della non-violenza cara a Capitini appare, anche nella sua fase più matura, non priva di aspetti problematici e di ombre inquietanti. Peraltro, il lavoro di Trotta non si limita alla ricostruzione, sia pure fortemente innovativa, dell’evoluzione di una singola, rilevante personalità del mondo culturale e politico dell’Italia del Novecento. La rilettura di Capitini e della storia della fortuna di Gandhi in Italia è anche l’occasione per Aldo Trotta di rileggere la storia del movimento ispirato dall’ideale della non-violenza negli anni terribili di una guerra fredda sempre sul punto di trasformarsi in una guerra così calda da assumere la forma di un olocausto nucleare. Ed è anche l’occasione per tutti noi per analizzare e criticare l’odierna ideologia della guerra, che agita cinicamente la bandiera della non-violenza ma che non ha nulla a che fare né con Gandhi né con M. L. King né con lo stesso Capitini. Introduzione In circostanze storiche favorevoli i vincitori sono abitualmente ben disposti a magnificare le proprie idee e ragioni e a denigrare quelle dei perdenti. Ne è una riprova la diffusa celebrazione delle democrazie liberali suscitata dagli avvenimenti che, a partire dal 1989, hanno scompaginato lo scenario europeo e posto fine all’assetto bipolare del sistema politico internazionale. Il trionfalismo è stato tale che la storia dell’umanità si pensava dovesse approdare al capolinea del migliore dei mondi possibili, anzi che la vittoria dell’Occidente libero e antitotalitario avrebbe finalmente spalancato porte e finestre a prospettive di pace e di prosperità per tutti. Altrettanto considerevole, al contempo, il biasimo per il «socialismo reale» e per il comunismo nel suo complesso, il cui fallimento storico aveva sollevato il velo mostrandone per sempre il volto brutale e violento. Per non restare travolti dalle macerie del Muro e dal crollo dei regimi dell’Europa centro-orientale, agli sconfitti pareva non restasse altro che l’abiura e l’abbandono della propria identità e tradizione politica. La svolta annunciata da Achille Occhetto nell’autunno di quell’indimenticabile anno si è uniformata con sollecitudine a questa trama, giungendo dopo alcuni mesi a decretare, con il plauso di gran parte della stampa e del più complessivo sistema dei media, la fine del Pci, protagonista della lotta di liberazione 18 non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini dal nazifascismo e delle conquiste sociali, civili e culturali della democrazia italiana nata dalla Resistenza. La nuova formazione politica sorta dalle sue ceneri, il Pds, avrebbe completato negli anni seguenti la sua metamorfosi, il suo distacco definitivo dalla propria storia politica e culturale, per presentarsi ai giorni nostri come un soggetto privo di un’identità politica più o meno definita e riconoscibile, slegato dagli interessi e dai bisogni delle classi subalterne che il suo progenitore aveva rappresentato nei primi «trenta gloriosi» anni della storia repubblicana. È trascorso un quarto di secolo e il diffuso entusiasmo suscitato dai tumultuosi eventi del 1989 è ormai solo un vago ricordo. E tuttavia, non si è dovuto attendere così a lungo per veder svanire le magnifiche e progressive prospettive di pace, democrazia e benessere che la dissoluzione del campo socialista aveva fatto presagire a molti. Contraddicendo le ingenue aspettative, la realtà della guerra è tornata presto al centro della scena. Senza un efficace contrasto e in assenza di un grande movimento pacifista in grado di rilanciare il tema del disarmo e di mettere in campo iniziative durature ed efficaci, i conflitti armati si sono riaffacciati, dopo una lunga assenza, anche sulle terre della vecchia Europa. La sanguinosa disgregazione della Jugoslavia (1992-95) ha fin da subito testimoniato che la prima Guerra nel Golfo, legittimata dall’Onu e condotta nei primi mesi del 1991 da una “coalizione di volenterosi” coordinata dall’unica superpotenza militare rimasta sullo scacchiere mondiale, non era stata un semplice infortunio sulla strada della pacificazione del mondo e dell’emancipazione umana. Spettacolarizzata e sterilizzata dalla potente macchina dei media, mascherata o giustificata con vecchie e nuove diciture, spesso accompagnata da una stucchevole retorica umanitaria, la guerra ha riconquistato un ruolo di primo piano sul terreno delle relazioni internazionali, assumendo perfino un carattere «preventivo» e «permanente», esplicitamente teorizzato e rivendicato dai neo-conservatori statunitensi in prospettiva del introduzione 19 consolidamento dell’egemonia mondiale del proprio Paese e di un nuovo secolo americano. Un’egemonia che con l’uscita di scena dell’Urss, proprio quando sembrava che nulla potesse ostacolare il ridefinirsi di un nuovo ordine internazionale dominato dagli Usa, era sul piano economico (per ragioni risalenti agli anni settanta) più in declino che in espansione. Da allora, a fronte dell’indebolimento crescente delle economie occidentali, in primis di quella americana, e del conseguente ridimensionamento del loro ruolo dominante sullo scenario mondiale, si è assistito alla progressiva ascesa economica di molti Paesi del Sud del pianeta e all’emergere pacifico di nuove potenze. Queste dinamiche hanno contribuito a riconfigurare la mappa del potere mondiale in maniera radicalmente diversa rispetto alle pretese imperiali. La riattualizzazione della guerra e il suo divampare in aree di importanza geopolitica strategica trovano in ciò la propria ragione profonda: gli Usa (e la Nato), indisponibili ad accettare il declino della propria incontrastata supremazia e la prospettiva di un assetto multipolare, hanno messo in campo la propria ineguagliabile potenza militare, allo scopo di contrastare il processo di emancipazione del Sud del mondo da una condizione di sottomissione e l’emergere di nuovi contendenti nella lotta per l’egemonia mondiale, in particolare la Cina e la Russia. La guerra infinita al terrorismo, annunciata subito dopo l’attentato alle Torri gemelle di New York (11 settembre 2001), ha segnato un’ulteriore radicalizzazione dell’interventismo armato, accentuando ancor più la corsa vertiginosa agli armamenti e offrendo nuova linfa alla proliferazione di guerre che, finora, sono scoppiate e stanno divampando in ambiti regionali limitati. Non è però da escludere l’eventualità che l’inasprimento delle contraddizioni, che si stanno addensando all’orizzonte – il conflitto Nord-Sud in primis, ma anche le fratture presenti all’interno del mondo occidentale, in particolare quella tra Stati 20 non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini Uniti ed Europa –, possa in futuro portare al coinvolgimento diretto delle maggiori potenze, destabilizzando ulteriormente il quadro delle relazioni internazionali e mettendo ancor più a repentaglio la pace nel mondo. Alla fine del 2003, in occasione di un convegno sulle foibe, il segretario di «Rifondazione comunista», Fausto Bertinotti, ha avanzato al suo partito e alla sinistra italiana nel suo complesso la proposta della non-violenza. Era questa, a suo avviso, la strada da intraprendere per rinnovare dalle fondamenta l’identità comunista dopo la chiusura del terribile «secolo breve» e per poter agire la politica in un tempo e in uno scenario dominati dall’intreccio tra guerra infinita e terrorismo. Con questa nuova forma dell’azione politica si sarebbe potuto spezzare tale perversa spirale e arginare, con la forza delle coscienze e delle convinzioni, la potenza distruttrice dell’impero che di essa si alimentava. La conversione alla non-violenza avrebbe però dovuto comportare un’impietosa resa dei conti con la propria storia e, di conseguenza, l’ammissione della sua colpevolezza, del suo peccato originale: l’essere stata profondamente contaminata e permeata dalla violenza. Una violenza da estirpare, frutto non solo della furia delle masse popolari desiderose di un riscatto da oppressioni e brutalità lungamente subite, ma anche, e soprattutto, di «una precisa volontà politica organizzata», legata all’idea della conquista del potere e della costruzione di un nuovo ordinamento economico-sociale per mezzo dell’annientamento del nemico. Un’idea tutt’altro che delimitata ad alcune realizzazioni storiche: «gran parte della storia delle costruzioni statuali del movimento operaio nel 900 è passata attraverso l’idea della distruzione fisica del nemico»1. Nell’intenso dibattito che nel corso del 2004 ha coinvolto illustri esponenti della sinistra italiana, intellettuali autorevoli, 1 Bertinotti F., La guerra è orrore, pp. 7-16, in La politica della non-violenza, «Liberazione», 2004, p. 12. introduzione 21 semplici militanti e personalità del pacifismo, questa lettura della storia, della cultura e del conflitto politico-sociale messo in campo durante il secolo dal movimento comunista, è stata ampiamente condivisa da vari sostenitori del nuovo orizzonte ideale. L’impeto demolitore se, per un verso, sembrava porsi in continuità con il percorso di autodissoluzione intrapreso dal Pci, per un altro verso, era ancora più radicale, sebbene velato da una presunta intenzione di rigenerazione dell’identità comunista. Questa, inspiegabilmente, avrebbe dovuto sorgere su un cumulo di macerie e quasi senza alcun ancoraggio con il proprio passato, anche mettendo in conto ulteriori strappi e lacerazioni in una sinistra già lacerata e infiacchita. Non si è esitato a chiamare sul banco degli accusati il marxismo, tacciato di aver stabilito un nesso strettissimo tra violenza, pensiero e pratica della trasformazione della società. Un legame strutturatosi in maniera ancora più forte nel corso della parabola novecentesca, durante la quale la violenza sarebbe stata enfatizzata, giustificata e inserita «nel quadro assoluto dell’identità comunista» come «strumento del compimento del corso storico»2. Molti degli interventi che hanno animato la discussione erano attraversati da un sostanziale accostamento tra la categoria di rivoluzione e quella di guerra. Ne conseguiva non solo il dileguarsi della loro radicale differenza sul piano teorico, morale e storico, ma anche che era stato il pensiero della guerra il chiodo fisso conficcato, fin nel suo patrimonio genetico, nella storia e nell’azione del movimento comunista novecentesco. In quanto elemento centrale, «assoluto», del suo profilo identitario, la violenza aveva compenetrato perfino la molteplicità di iniziative da esso messe in campo a sostegno della pace. Anche il pacifismo andava, dunque, rifondato attraverso un’immersione 2 Revelli M., Marxismo, violenza e nonviolenza, pp. 85-116, in Bertinotti F., Menapace L., Revelli M., Nonviolenza. Le ragioni del pacifismo, Fazi Editore, Roma, 2004. 22 non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini nelle acque pure dell’idea e delle pratiche della non-violenza. Ciò spiega la diffusa, ma alquanto arbitraria, assimilazione tra la non-violenza e il pacifismo che ha percorso il dibattito. Per tali aspetti, significativi sia sul piano teorico che politico, la direzione complessiva della svolta pareva collocarsi, più o meno consapevolmente, nel solco tracciato da Bobbio con la sua riflessione sul tema della pace e della guerra. Sembrava, cioè, pienamente assimilata l’insistenza con la quale il filosofo torinese ha rimarcato la natura bellicista ed eversiva del «pacifismo sociale», espresso dal movimento internazionale dei Partigiani della Pace e dal movimento comunista tout court. A suo avviso, tale pacifismo ambiva all’estinzione dello Stato, alla distruzione violenta di ogni ordinamento statuale, e pertanto non era affatto pacifico, quanto predisposto alla rivoluzione ovvero alla guerra, categorie che egli ha posto insistentemente sul medesimo piano. Nei confronti della non-violenza, l’illustre filosofo liberale non nutriva però la stessa vigorosa fiducia mostrata dai fautori della ridefinizione del comunismo: la considerava un’alternativa poco efficace nei confronti della violenza e, nei primi anni Ottanta, identificandola con la virtù della mitezza, è giunto a definirla una virtù «impolitica», «la più impolitica delle virtù», «l’antitesi della politica»3. Per quanto rivale del marxismo, ha comunque riconosciuto che «le lotte delle masse in tutte le loro forme sono state le più grandi manifestazioni di nonviolenza collettiva che siano state sinora sperimentate», e che i movimenti che si sono ispirati e che si ispirano al pensiero di Marx «hanno prodotto e continuano ad alimentare azioni nonviolente collettive, quali sono gli scioperi parziali e generali, le manifestazioni di protesta di massa, le varie forme di disobbedienza civile, anche se non hanno elaborato e propagandato una vera 3 Bobbio N., Elogio della mitezza, Linea d’Ombra, Milano, 1993, pp. 15 e 21. introduzione 23 e propria teoria della nonviolenza, come ha fatto Gandhi [...]»4. Un riconoscimento considerevole nei confronti della storia del movimento operaio e marxista, assente in diversi neofiti dell’ideale gandhiano, la cui veemenza chiarisce l’appello a congedarsi da una tradizione politica accusata di aver avuto nella violenza il suo peculiare tratto identitario e da una storia che, pertanto, ha lasciato dietro di sé soltanto una caterva di nefandezze. Da questo bilancio sorgeva l’invito appassionato ad abbracciare con persuasione la non-violenza, l’unica opzione in grado di scongiurare l’inesorabile eterogenesi dei fini delle rivoluzioni violente e di offrire qualche possibilità all’ineludibile metamorfosi esistenziale, a quel mutamento antropologico necessario per affrontare le sfide poste dinanzi all’umanità. Sullo sfondo del rinnovato orizzonte post-comunista si delineava dunque l’idea di un uomo nuovo radicalmente nonviolento, la prospettiva della tramutazione della natura umana, specifica degli orientamenti etico-religiosi che, slegati da qualsiasi istanza di conquista del potere e postulando la piena coerenza tra mezzi e fini, ambiscono ad una realtà diversa e alla pace duratura attraverso la mitezza e la forza dell’amore. Occorreva perciò volgere lo sguardo in direzione del pensiero e dell’azione «fulgida e militante» di Gandhi, protagonista dell’indipendenza dell’India, e di Capitini, la personalità più autorevole della non-violenza in Italia, il promotore della prima marcia per la Pace Perugia-Assisi e di numerose altre iniziative e lotte all’insegna dell’ideale gandhiano. Ma sono state realmente così cristalline e pure la riflessione e l’opera del leader indipendentista indiano? Quale approfondita conoscenza, da parte dei fautori dell’immaginata rinascita dell’identità comunista, dei dilemmi, delle contraddizioni e degli aspetti talora sorprendenti che, nelle condizioni oggettive 4 Id., La nonviolenza è un alternativa?, in Id., Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna, 2a ed., 1984, pp. 161-162. 24 non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini del loro tempo, hanno contrassegnato la parabola umana e pratica di tali prestigiose figure della storia della non-violenza? Le pagine che seguono trovano la propria origine nell’interesse suscitato da quel dibattito e si pongono, a distanza di un decennio, come un contributo alla ricerca storica e alla riflessione su un tema che ha lacerato ulteriormente la sinistra italiana, concorrendo in qualche modo al suo attuale sfacelo intellettuale e politico. I Pacifismo, antimilitarismo e non-violenza al tramonto del lungo Ottocento 1. L’ideologia nazionalistica come «ideologia della guerra» Negli anni che precedettero la prima guerra mondiale il pianeta era dominato da un pugno di potenze e la maggior parte dei popoli si trovava sottomessa al giogo del colonialismo. L’Italia era attraversata da una profonda arretratezza economicosociale, contrassegnata prevalentemente da un grave ritardo dello sviluppo industriale, da una disoccupazione altissima e da un diffuso analfabetismo. La crisi dell’economia agraria, che nell’ultimo decennio dell’Ottocento aveva investito l’Europa, contribuì a rendere ancora più estrema la miseria dei contadini meridionali, molti dei quali furono costretti a vendere le terre e a trasformarsi in braccianti al servizio dei proprietari terrieri o a intraprendere il triste viaggio dell’emigrazione. Privando il Sud della parte più giovane della popolazione e quindi della forza lavoro più attiva, i flussi migratori inasprirono ulteriormente la già grave «questione meridionale», facendo aumentare il divario con il Nord del Paese dove, grazie ad una favorevole congiuntura economica, si assisteva comunque ad una timida fase di decollo industriale. Qui, le organizzazioni dei lavoratori diventavano man mano più capaci di pianificare e coordinare le lotte, le rivendicazioni si facevano più incisive e le idee del socialismo si diffondevano tra il proletariato operaio, sempre 26 non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini più numeroso e combattivo. Anche al Sud, tuttavia, nonostante l’assenza di un proletariato industriale e una maggiore rassegnazione tra le masse contadine e popolari, la crisi favoriva proteste e ribellioni contro lo sfruttamento da parte dei proprietari terrieri: i contadini riuscivano ad organizzare scioperi e lotte per ottenere aumenti salariali, miglioramenti delle condizioni lavorative e tutele sociali contro la disoccupazione. In questo scenario di generale sottosviluppo, il conflitto politico-sociale che andava radicalizzandosi in tutto il Paese, la presenza costante e determinata del movimento operaio organizzato e la diffusione delle idee socialiste provocavano inquietudine tra i ceti possidenti (industriali al Nord e grandi proprietari terrieri nel meridione) e nella borghesia liberale. Alle rivendicazioni dei lavoratori e delle masse contadine le classi dirigenti rispondevano in maniera autoritaria, non esitando in alcuni casi a far intervenire l’esercito: nel 1893, il movimento dei Fasci siciliani, che esigeva la riduzione delle tasse e una riforma agraria, venne represso nel sangue; cinque anni dopo, a Milano, i soldati agli ordini del generale Bava Beccaris fecero una strage, sparando a colpi di cannone sulla folla che protestava per l’aumento del prezzo del pane e contro il carovita (molti militanti e i capi socialisti, tra cui Turati e la sua compagna Anna Kuliscioff, finirono in carcere, mentre all’alto ufficiale responsabile dell’eccidio venne concesso un riconoscimento per il valore militare dimostrato). Per contrastare le richieste avanzate dal movimento operaio e le idee di emancipazione dell’«ignobile socialismo»1, Così si esprimeva la rivista «Regno» diretta da Enrico Corradini, intorno alla quale si organizzò il movimento nazionalista che, oltre a Corradini, ebbe quali intellettuali di riferimento, tra gli altri, Gabriele D’Annunzio, Giosuè Carducci, Alfredo Oriani, Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini, Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto, in Villari R., Mille anni di storia. Dalla città medievale all’unità dell’Europa, Laterza, Roma-Bari, 2000, in particolare cfr. cap. XV, pp. 521-561, e cap. XVI, pp. 562-620, cit. p. 590. 1 pacifismo, antimilitarismo e non-violenza 27 accusato di essere il principale responsabile di ogni male e di ogni problema sociale, ma anche per tutelare i propri interessi economici mediante l’espansione e il controllo dei mercati esteri, in Italia, come in Europa, le classi dominanti si proposero quali strenui sostenitori dell’ideologia nazionalistica. Dal loro punto di vista, si trattava di convincere le masse popolari che gli avversari non erano i ceti proprietari dei rispettivi Paesi, il capitalismo e l’imperialismo, bensì le potenze straniere, e che pertanto le loro istanze avrebbero potuto essere soddisfatte soltanto tramite guerre vittoriose contro altre nazioni. Guerre nelle quali i proletari dovevano combattere al fianco e per gli stessi interessi della borghesia, contro i proletari e le borghesie di altri Stati. Per tale scopo non si esitò a soffiare sul fuoco della retorica patriottica e comunitaria, della celebrazione dello spirito di sacrificio e dello sprezzo per la morte e, ancora più irresponsabilmente, sulla esaltazione della violenza purificatrice della guerra. Questi motivi, intrecciandosi con una decisa avversione nei confronti della democrazia, finirono per configurare una vera e propria «ideologia della guerra»2 , funzionale a depotenziare il conflitto politico all’interno dei singoli Stati e, allo stesso tempo, a giustificare le ambizioni espansionistiche e le conseguenti avventure coloniali delle potenze impegnate nella gara imperialistica per l’egemonia extraeuropea. Un contributo rilevante allo sviluppo della generale atmosfera di entusiasmo e di passioni belliche venne dal movimento futurista di Tommaso Marinetti, il cui principale intento era – declama il Manifesto del Futurismo del 1909 – «glorificare la guerra, sola igiene del mondo; il militarismo, il patriottismo, le gesta distruttive dei liberati, le belle idee per le quali si muore, e il 2 Cfr. Losurdo D., La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l’«ideologia della guerra», Bollati Boringhieri, Torino, 1991. 28 non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini disprezzo per la donna»3. Ma il clima di ardore bellico oltrepassò di gran lunga gli ambiti artistici e letterari del movimento. All’affermazione della temperie spirituale di unità e mobilitazione corale, di eccitazione per la forza e per la violenza purificatrice, diedero il loro decisivo apporto numerosi intellettuali, che esaltarono la guerra e la prova delle armi come unico percorso per una palingenesi individuale e collettiva. Tra i tanti, le due personalità più autorevoli nel panorama culturale dell’epoca: Giovanni Gentile, che nell’autunno del 1914 acclamò la guerra come un «atto assoluto» attraverso cui «l’anima umana si purifica e ascende ai suoi destini», cogliendo l’autentica «realtà spirituale [che] non è acqua stagnante, ma fiamma ardente», e Benedetto Croce, che nel dicembre dello stesso anno, ovvero alcuni mesi prima dell’intervento italiano nel conflitto mondiale, dichiarò che la guerra avrebbe potuto rappresentare l’occasione per una «rigenerazione della presente vita sociale»4. L’entusiasmo e la celebrazione della violenza della guerra travalicarono, inoltre, la cerchia degli intellettuali legati ai ceti dominanti e alle classi proprietarie, e quindi maggiormente predisposti al fascino del nazionalismo e del militarismo. Malgrado il suo marcato carattere antipopolare e antisocialista, il pervasivo richiamo dell’ideologia militarista riuscì ad ammaliare anche uomini politici più sensibili ai bisogni delle classi subalterne. Ciò spiega l’inadeguato contrasto politico e culturale da parte del movimento operaio e degli intellettuali democratici e socialisti nei confronti di pulsioni belliche, che via via penetrarono diffusamente anche tra i ceti popolari. Al Congresso di Basilea del 1912 la Seconda Internazionale, per quanto lacerata, optò per una posizione radicalmente pacifista, invitando i lavoratori In d’Orsi A., I chierici alla guerra. La seduzione bellica sugli intellettuali da Adua a Bagdad, Bollati Boringhieri, Torino, 2005, p. 18. 4 In Losurdo, La comunità, p. 10 e Id., La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 4. 3 pacifismo, antimilitarismo e non-violenza 29 a contrastare con tutti i mezzi le decisioni di guerra e, solo qualora fosse scoppiata, a trasformare il malcontento popolare in una lotta rivoluzionaria che avrebbe dovuto rovesciare i governi responsabili. Ciò nonostante, alla vigilia del conflitto i maggiori partiti socialdemocratici europei (tedesco, francese e inglese) votarono a favore delle spese per gli armamenti dei rispettivi Paesi, approvando di fatto la guerra. Fecero eccezione il Partito socialista russo, protagonista dell’esperienza rivoluzionaria del 1905, e il Partito socialista italiano. Quest’ultimo, però, assunse un atteggiamento passivo, rinunciando così ad organizzare un’opposizione di massa contro la guerra. «Né aderire, né sabotare», era la parola d’ordine che sintetizzava la posizione politica neutralista del Partito. Essa non impedì a personalità di spicco come Salvemini, Bissolati, Mussolini, Cesare Battisti, di schierarsi a favore della guerra. Tra gli interventisti figurava a pieno titolo anche l’anarco-sindacalista Arturo Labriola, già fervente sostenitore della guerra coloniale italiana del 1911-1912. Anche il movimento delle donne venne investito in pieno dall’onda d’urto dell’«ideologia della guerra». Alcune figure di primo piano, in precedenza impegnate sul fronte dell’emancipazione femminile e della lotta per la pace, abbandonarono le proprie posizioni per sostenere le scelte interventiste del governo italiano, convinte che la guerra poteva offrire una possibilità di affermazione e di protagonismo sociale a una élite di donne di estrazione borghese-aristocratica. Nel 1911, la scrittrice Sibilla Aleramo immaginava «i guerrieri nella gioia rapinosa dell’oblio pieno, liberi di ogni rimorso, di ogni desiderio, d’ogni rimpianto»; per quanto esclusa dalla battaglia, la donna «sente che chi muore così, per una qualunque idea di diritto e di forza, tocca un vertice della vita. Ma non può esaltarsi, perché non è lei che è chiamata alla bella morte»5. 5 In Guidi L., a cura di, Vivere la guerra. Percorsi biografici e ruoli di genere tra Risorgimento e primo conflitto mondiale, ClioPress, Napoli, 2007, 30 non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini Le profonde divisioni, che il tema della guerra e della pace stava determinando nel movimento socialista e in quello delle donne, non lasciarono indenne neppure il mondo cattolico. La complessiva posizione neutralista della Chiesa non impedì a molti cattolici di allontanarsi dal debole fronte del pacifismo per allinearsi dalla parte delle decisioni bellicose dei rispettivi governi: sebbene Benedetto XV, eletto papa subito dopo lo scoppio del conflitto, avesse «condannato la guerra, molti vescovi» assunsero «un atteggiamento apertamente filointerventista» 6. Poche, in definitiva, le voci fuori dal coro interventista, voci flebili di fronte al fascinoso e assordante richiamo della battaglia. Persino Gandhi (1869-1948), per quanto consapevole che la partecipazione alle imprese belliche, anche senza impugnare le armi, fosse in contraddizione con la professione di fede nella non-violenza, nel corso del conflitto bellico collaborò al fianco degli inglesi come reclutatore di soldati per l’esercito di Sua Maestà. Anche il giovanissimo Aldo Capitini (Perugia 1899-1968), che evitò l’arruolamento a causa della sua cagionevole salute, fu attratto dal nazionalismo patriottico e dalla letteratura futurista e quindi partecipe del clima di entusiasmo militarista, che precedette e inizialmente accompagnò la prima guerra mondiale: «È impossibile – scriveva al fratello Giovanni l’11 settembre 1914 – che l’Italia possa mantenersi neutrale [...]». La guerra che abbiamo intrapreso – affermava in un’altra lettera, scritta mentre infuriava il conflitto – è santa, se così si p. 108. Tra le interventiste figuravano, tra le altre, le sorelle Irma Melany e Irene Scodnik, Teresa Labriola, Anna Maria Mozzoni, figura simbolo del femminismo dell’’800, e Stefania Turr, fondatrice e redattrice di una rivista mensile per gli orfani di guerra. 6 Cfr. Sabbatucci G., Vidotto V., a cura di, Storia d’Italia, Laterza Roma-Bari, 1997, vol. 4, p. 7. pacifismo, antimilitarismo e non-violenza 31 deve chiamare una guerra giusta e di liberazione...L’Italia aveva bisogno di riorganizzarsi dopo la guerra libica che l’aveva tanto elevata moralmente e materialmente tra le potenze...; [bisogna]...sacrificarsi per la Patria, per questa cosa astratta, così lontana dalle menti di molti disgraziati, ma sempre nel cuore di chi ricordi, quanto per essa dettero i nostri...7. Considerata però la giovane età, le posizioni di Capitini, diversamente da quelle del quasi cinquantenne leader indiano, hanno un significato poco rilevante. 2. Tolstoj, il mondo cattolico e il pacifismo democratico tradizionale Mentre per ragioni politiche, economiche e ideologiche il mondo precipitava verso la guerra, il pensiero non-violento d’ispirazione religiosa giunse in Italia grazie alla diffusione delle idee e delle prese di posizione di Tolstoj (1828-1910), il primo grande autore della non-violenza nell’epoca moderna. La sua fama, già notevolissima negli ultimi decenni dell’Ottocento, a partire dai primi anni del XX secolo oltrepassò gli ambiti e i meriti strettamente letterari. Da allora, Tolstoj cominciò a suscitare vivo interesse quale personalità di spessore morale e riformatore religioso, oltre che come oppositore della brutale autocrazia zarista. Travalicarono i confini della Russia le notizie della sommossa di operai e studenti scoppiata a Pietroburgo nel 1901, in seguito alla scomunica che gli era stata inflitta dal Santo Sinodo per la sua intransigente ostilità nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche e per le sue ricorrenti denunce delle persecuzioni perpetrate dal regime zarista. Giornali e riviste europee pubblicavano i suoi interventi di accusa delle 7 In Cavicchi M., Aldo Capitini. Un itinerario di vita e di pensiero, Lacaita, Manduria, 2005, p. 23. 32 non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini drammatiche condizioni di miseria del popolo russo, gli appelli contro la guerra e contro il militarismo, la sua concezione di un cristianesimo profondamente rinnovato. Articoli, opuscoli e altri scritti venivano diffusi per iniziativa di case editrici e giornali vicini al mondo socialista. Nel 1904, in occasione della pubblicazione della quinta edizione dell’opuscolo Contro la guerra russo-giapponese, il settimanale socialista «L’Avanti della Domenica» concedeva ampio risalto allo scritto tolstojano, invitando i lettori a diffonderne il messaggio antimilitarista8. Già presenti in Il Regno di Dio è in voi del 1893 – testo che negli anni seguenti influenzerà in maniera decisiva il pensiero di Gandhi e di Martin Luther King, diventando uno scritto centrale del pensiero non-violento contemporaneo – e in altri numerosi interventi pubblicati negli ultimi due decenni dell’Ottocento, tali temi collocano Tolstoj agli antipodi rispetto all’«ideologia della guerra», così diffusa in questa fase storica e che non ha risparmiato (come vedremo meglio) neppure Gandhi. Netta è infatti la condanna del militarismo quale dispositivo che ostacola l’emancipazione degli oppressi: «Si crede generalmente che i governi aumentano gli eserciti unicamente per la difesa esterna del paese, mentre gli eserciti sono loro principalmente necessari per la propria difesa contro i sudditi oppressi e ridotti in schiavitù». Le idee sociali e politiche del grande scrittore – che in Italia stimolarono una certa attenzione in particolar modo tra il 1900 e il 1906 – configurano nel complesso un pacifismo integrale fondato sul rifiuto assoluto di qualsiasi forma di violenza, anche di quella rivoluzionaria: Tolstoj era persuaso che il potere instaurato con la violenza fosse destinato a diventare «più dispotico e più crudele dell’antico, come è avvenuto durante 8 Mazzoni D., La fortuna di Tolstoj nel movimento operaio italiano, in «Movimento operaio e socialista», rivista trimestrale, a. III, n. 2-3, aprile-settembre 1980, Centro studi di Storia sociale, Genova, pp. 175-197. pacifismo, antimilitarismo e non-violenza 33 tutti i periodi rivoluzionari»9. Una concezione non-violenta assoluta che iniziò a maturare intorno al 1880, a partire cioè dagli scritti che segnano la sua conversione religiosa. Meritano però di essere ricordate le parole tutt’altro che non-violente con le quali, prima della svolta religiosa, in uno dei suoi capolavori letterari, il romanzo storico Guerra e pace del 1868, viene esaltata la strenua resistenza che il popolo russo oppose nel 1812 al potente esercito di Napoleone: [...] il randello della guerra popolare si alzava con tutta la sua minacciosa e maestosa forza e, senza preoccuparsi del gusto e delle regole [del cui mancato rispetto si lamentavano i francesi], con una stupida semplicità, ma in modo atto a raggiungere lo scopo, si alzava e si abbassava senza fare distinzioni, a colpire i francesi, finché non perì tutto l’esercito invasore. [...] Fortunato quel popolo che, nel momento della prova, senza domandare come si siano comportati gli altri secondo le regole, in circostanze simili con semplicità e facilità solleva il primo randello che gli capita davanti e colpisce con quello finché nella sua anima il sentimento dell’offesa e della vendetta si muti in disprezzo e in pietà!10. Nel mondo cattolico, il pensiero dello scrittore russo stimolò una certa attenzione da parte di alcuni esponenti del movimento modernista, che tra l’ultimo decennio del XIX secolo e il primo del XX, soprattutto in Francia e in Italia, auspicavano una riforma della dottrina cattolica. L’interesse manifestato dai modernisti non era però rivolto principalmente al principio della non-violenza, quanto piuttosto alla sua concezione di un Cristianesimo rifondato, estraneo ai dogmi della Chiesa e concretamente più vicino ai bisogni delle masse popolari; al Tolstoj L., Il regno di Dio è in voi, Publiprint, Trento 1988, riproduzione anastatica dell’edizione dei Fratelli Bocca, Roma, 1894, pp. 191 e 215. 10 Id., Guerra e Pace, Einaudi, Torino, 1990, vol. II, Libro quarto, parte terza, pp. 1207-1208. 9 34 non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini contributo, cioè, che la sua visione poteva offrire alle istanze e alle prospettive di rinnovamento del cattolicesimo avanzate anche dal movimento. Le gerarchie ecclesiastiche, rendendosi conto che la sua riflessione si intrecciava con le posizioni teologiche dei modernisti, reagirono con particolare durezza e, già prima della scomunica del movimento (1907), giudicarono le idee tolstojane pericolose: in un articolo pubblicato su «La Civiltà cattolica» del 1902 lo scrittore fu accusato di essere un «vero nichilista russo» e di avere una visione confusa e distorta del Cristianesimo11. Il ripudio assoluto della violenza e la sua concezione religiosa non riuscirono, dunque, a scalfire le posizioni e le idee sulla pace e sulla guerra delle gerarchie della Chiesa romana, che continuarono a essere ben disposte nei confronti del nazionalismo armato, non solo a causa del possibile uso che poteva farne il movimento modernista, ma anche, e soprattutto, perché spaventate dall’avanzata del movimento socialista. Sostanzialmente analogo il risultato dell’incontro tra il pensiero non-violento di Tolstoj e il pacifismo di matrice non cattolica, ovvero il pacifismo democratico borghese, le cui radici affondavano nella tradizione risorgimentale e che ha avuto nel patriota garibaldino milanese, Ernesto Teodoro Moneta, la personalità più autorevole e rappresentativa. Questi, nel 1878, costituì a Milano la Lega Libertà, fratellanza e Pace, il primo nucleo di un movimento pacifista, che dopo alcuni anni si strutturò ancor più con la fondazione, su iniziativa dello stesso aristocratico milanese, dell’Unione lombarda per la pace e l’arbitrato, denominata in seguito Società per la Pace e la Giustizia internazionale e destinata a diventare la punta più avanzata del pacifismo democratico. Nel panorama sociale dell’ultimo quindicennio dell’Ottocento si costituirono però altre associa11 Martellini A., Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento, Donzelli, Roma, 2006, pp. 15-16. pacifismo, antimilitarismo e non-violenza 35 zioni pacifiste di natura borghese, che insieme alle società di Moneta diedero vita alla Federazione delle società italiane della pace. Questo arcipelago di realtà condivideva un’idea della pace basata sull’adesione e sul rispetto del diritto internazionale, nonché sulla convinzione che l’azione in suo favore dovesse concretizzarsi mediante iniziative di sensibilizzazione dei popoli. Pienamente legittime erano considerate le guerre difensive: in caso di minacce all’indipendenza, alla libertà e all’integrità territoriale era giusto, anzi doveroso, difendere il proprio Paese anche imbracciando le armi. In definitiva, si trattava di un pacifismo differente da quello integrale e non-violento di Tolstoj, ma altresì radicalmente diverso da quello di matrice socialista o anarchica. Moneta respingeva con risolutezza il marxismo, in quanto espressione della violenza e dell’odio di classe. Nel 1907, per l’impegno profuso a favore della pace e per il progresso civile dell’intera umanità, gli fu conferito il premio Nobel per la Pace. Non è tuttavia da escludere che, la sua avversione per il marxismo e la lotta di classe possa aver influenzato la decisione di attribuirgli l’ambito premio. Ad ogni modo, pur insignito del prestigioso riconoscimento, a distanza di pochissimi anni il patriota milanese giustificò la spedizione coloniale in Libia per il suo «movente disinteressato e umano», vale a dire «aprire quelle deserte glebe agli influssi della vita moderna»12. In nome, cioè, della “missione civilizzatrice” che le potenze dominanti si erano assegnate e che sbandieravano ogni qualvolta occorreva legittimare l’espansionismo coloniale di una “razza” e di una cultura, che si celebravano come “superiori”. Analoga fu la presa di posizione dei gruppi dirigenti di quasi tutte le altre associazioni del pacifismo democratico borghese, malgrado l’appoggio all’impresa italiana in Africa – ovvero a una guerra 12 Moneta E. T., Ai Lettori, in «Almanacco illustrato Pro Pace» per il 1912, p. 14. 36 non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini di conquista e di aggressione – fosse in evidente contraddizione con il principio della giustificazione della violenza e dell’uso delle armi solamente per guerre di natura difensiva. La vicenda provocò una frattura tra i sostenitori della spedizione e i pochi, come Edoardo Giretti e il Comitato per la pace di Torre Pellice, che si opposero alla decisione di sostenere l’avventura coloniale italiana. A distanza di pochi anni, la lacerazione si aggravò ulteriormente con lo scoppio del conflitto mondiale: oltre allo stesso Moneta, la confluenza degli stessi pacifisti patriottici tra le fila degli interventisti (compreso Giretti) segnò la definitiva disfatta del movimento pacifista borghese. Le defezioni in direzione dell’interventismo bellico di esponenti del movimento anarchico e socialista, il quale aveva continuato ad opporsi all’italica missione coloniale in Libia, sebbene costretto a lottare in condizioni di maggiori difficoltà, resero ancora più complessiva e generale la sconfitta dell’eterogeneo movimento della pace. 3. Tolstoj e l’antimilitarismo socialista: «La Pace» Nella realtà sociale italiana dei primi del Novecento, l’idea della non resistenza al male con la violenza venne ad intrecciarsi con i contrasti sulla pace e sulla guerra che, fin dagli ultimi decenni del secolo precedente, stavano lacerando il movimento socialista internazionale. La critica tolstojana della realtà politica e sociale del tempo, le denunce delle condizioni di miseria e di schiavitù delle masse popolari, gli attacchi alle istituzioni ecclesiastiche corrotte e corresponsabili del malessere e della crisi in cui stava precipitando il mondo, stimolarono attenzione nell’universo socialista. Gli interventi più strettamente politici dello scrittore contribuirono a rinfocolare la tematica dell’antimilitarismo, sollecitando dibattiti e polemiche in merito alla possibilità di una prospettiva rivoluzionaria non-violenta. Ma, pacifismo, antimilitarismo e non-violenza 37 analogamente a ciò che si verificò nel mondo cattolico e nel pacifismo borghese, anche nell’ambito del movimento socialista l’idea della non resistenza al male non riuscì a determinare cambiamenti significativi nei contenuti dell’antimilitarismo, che andava via via affermandosi già da prima dell’incontro con il pensiero dello scrittore. Ancorché diffuso tra le masse popolari, inizialmente l’antimilitarismo ebbe un carattere per così dire impolitico. Non configurava, cioè, tanto una forma più o meno cosciente di opposizione agli eserciti e alla guerra, quanto piuttosto una naturale espressione di rifiuto della leva militare che, allontanando i giovani dalle proprie famiglie, sottraeva risorse preziose per il sostentamento dell’economia domestica13. Non era pertanto equiparabile con il pacifismo, né tanto meno con il pensiero del ripudio assoluto di qualsiasi forma di violenza. In conseguenza della radicalizzazione del conflitto politico e della propaganda di socialisti e anarchici, i quali, man mano che ci si avvicinava all’aggressione coloniale della Libia, cercavano di rendere le loro azioni sempre più intense e incisive, si verificò una progressiva politicizzazione dell’antimilitarismo. Ma se ciò, per un verso, contribuì in qualche modo ad accorciare la sua distanza dal pacifismo, per un altro verso, rese ancora più marcate le differenze con la non-violenza. Nel primo quindicennio del XX secolo, l’esperienza politica e di propaganda della rivista «La Pace», fondata nel 1903 da Ezio Bartalini e diretta da Enrico Ferri, fu una delle espressioni più significative dell’antimilitarismo socialista italiano. Il collettivo del periodico genovese si prodigò instancabilmente per comporre un fronte unitario tra le diverse ramificazioni del movimento operaio e, malgrado le storiche divisioni tra anarchici e socialisti, diede un apporto importante alla nascita di un movimento antimilitarista in qualche modo organizza13 Martellini, op. cit., p. 17. 38 non violenza e guerra fredda. gli equivoci di aldo capitini to, il cui obiettivo principale era portare la propaganda anche nelle caserme, per sollecitare i giovani soldati a ribellarsi e a disobbedire agli ordini di colonnelli e generali. Per i redattori era più che naturale valutare positivamente la condanna della guerra che Tolstoj aveva pronunciato in più occasioni, da ultimo contro la contesa imperialistica russogiapponese del 1904-1905. Un conflitto bellico che, precedendo e stimolando il primo tentativo rivoluzionario di abbattere l’autocrazia degli zar, è una riprova della dialettica tra guerra e rivoluzione cui faceva riferimento l’antimilitarismo più maturo dell’epoca. Ad ogni modo, ancorché interessato all’idea della disobbedienza collettiva nelle caserme e all’apporto che la non-violenza tolstojana poteva offrire per inceppare il dilagante militarismo, in nessun momento della sua poco più che decennale esistenza (la rivista fu costretta a sospendere definitivamente le pubblicazioni nel 1915) il collettivo antimilitarista genovese accettò il principio assoluto della non-violenza, ma non per compiacimento o celebrazione della violenza. Il rifiuto della non-violenza si basava piuttosto sul riconoscimento della radice economico-sociale della violenza e del carattere tragico e talora ineludibile che essa assume in alcuni momenti storici. Così si esprimeva Bartalini nel 1907: L’antimilitarismo ha per effetto di limitare la violenza, permettendo così che la trasformazione si compia senza brutalità, senza spargimento di sangue, come anche nel momento attuale tende a far acquistare al proletariato i mezzi che gli sono indispensabili per la propria emancipazione, senza troppi contrasti brutali, senza inutili eccidi14. Il ricorso ai mezzi violenti era perciò considerato giustificabile da necessità di natura difensiva (come per il pacifismo 14 In Giacomini R., Antimilitarismo e pacifismo nel primo novecento. Ezio Bartalini e “La Pace” 1903-1915, FrancoAngeli, Milano, 1990, p. 75.