UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MACERATA FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA Dipartimento di diritto privato e del lavoro italiano e comparato Corso di dottorato di ricerca in Diritto privato comparato e diritto privato dell’Unione Europea XXIV ciclo TESI DI DOTTORATO “LA GIURIDIFICAZIONE DELLA STORIA: LEGGI SULLA MEMORIA, NEGAZIONISMO, RESPONSABILITÀ” Coordinatore: Ch.mo Prof. Ermanno Calzolaio Tutor: Ch.mo Prof. Giorgio Resta Dottoranda: dott.ssa Marina Dimattia Anno 2012 0 Indice INTRODUZIONE ............................................................................................................ 4 Capitolo I ........................................................................................................................ 12 TRA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE E STIGMATIZZAZIONE PERNALE DEL NEGAZIONISMO .......................................................................................................... 12 1. La prima fase del percorso di giuridificazione della storia: il “diritto di Norimberga” come “spartiacque” ............................................................................ 12 2. L’arte di distorcere il passato: dalla rievoczione all’imposizione ..................... 16 3. Profili penalistici del reato di negazionismo ...................................................... 19 4. I limiti dellla libertà di espressione .................................................................... 22 5. La legittimità delle azioni di risarcimento danni a seguito di condotte negazioniste ................................................................................................................ 25 6. Il dibattito sulla sanzionabilità delle condotte negazioniste in Italia................ 27 7. La storia in giudizio: il caso del genocidio degli armeni di fronte al Tribunale di Torino ..................................................................................................................... 31 Capitolo II ....................................................................................................................... 35 IL CONTRASTO AL NEGAZIONISMO E LA GARANZIA DELLA LIBERTÀ D’ESPRESSIONE: LA PROSPETTIVA DELLA COMMISSIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO ................................................................................................. 35 1. Essere negazionisti in Europa e fuori: tra detenzione e libertà ........................ 35 2. Un panorama sulle leggi memoriali in Europa ................................................. 37 2.1 La negazione come unico oggetto di sanzione ........................................... 39 2.2 La proibizione del negazionismo oltre l’Olocausto .................................... 42 2.3 Tentativi infruttuosi di proibizione del negazionismo .............................. 45 2.4 La situazione olandese: un approccio «intermedio» .................................. 46 3. La protezione della libertà di espressione nella giurisprudenza della Commissione Europea e della Corte europea dei Diritti dell’Uomo………………..47 3.1 Restrizione della libertà di espressione a protezione della morale pubblica . ……………………………………………………………………………………..51 3.2 Restrizione della libertà di espressione a protezione dell’ ordine pubblico ... ……………………………………………………………………………………..52 3.3 Restrizione della libertà di espressione a favore della prevenzione del crimine e in virtù della notorietà dei fatti contestati ............................................. 53 3.4 Restrizione della libertà di espressione per i “precedenti vincolanti” in materia di negazione della Shoah .......................................................................... 54 1 3.5 Restrizione della libertà di espressione a protezione dei diritti altrui ....... 55 3.6 Restrizione della libertà di espressione a seguito dell’incitamento alla discriminazione razziale ......................................................................................... 57 3.7 Un caso isolato: la Commissione europea dei diritti dell’uomo si pronuncia a favore dei ricorrenti ........................................................................... 58 4. La decisione quadro del Consiglio d’Europa in materia di apologia, negazione o minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, crimini contro l' umanità e crimini di guerra......................................................................................................... 59 4.1 La trasposizione della decisione quadro ..................................................... 63 4.2 Riforme normative nazioniali a seguito della decisione quadro................ 63 4.3 Estensione della portata della decisione quadro ........................................ 64 4.4 Modelli formalmente “non interventisti” ................................................... 66 5. La negazione della Shoahe l’incitazione all’odio razziale: tendenze del diritto internazionale ............................................................................................................. 67 6. Cenni sull’esperienza nordamericana ............................................................... 71 Capitolo III ...................................................................................................................... 73 1. Le lois mémorielles: presupposti e caratteri ...................................................... 73 2. Le leggi memoriali successive alla legge Gayssot .............................................. 76 3. Prima della legislazione memoriale: il caso Henri Roques ............................ 83 4. La legge Gayssot di fronte alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo e al Comitato dei diritti umani Onu.................................................................................. 87 5. La voce degli storici francesi .............................................................................. 92 6. L’inidoneità’ della legge Gayssot: problemi “tecnici” e obiezioni alla legittimità costituzionale .......................................................................................... ..98 7. La repressione del negazionismo attraverso la responsabilità civile (art. 1382 code civil) .................................................................................................................. 103 Capitolo IV ................................................................................................................... 109 L’ESPERIENZA NORDAMERICANA ...................................................................... 109 1. Il risultato della libertà incondizionata degli Stati Uniti ................................. 109 2. Il regime del “discorso dell’odio”..................................................................... 112 3. Cosa si nasconde nel passato americano? ....................................................... 114 4. Il “judicial notice” emesso nelle Corti americane: il caso Mermelstein ........ 117 5. La corsa verso i campus universitari: il caso Smith ........................................ 118 2 6. L’esperienza canadese: un approccio intermedio ........................................... 120 7. La “trilogia” delle corti canadesi a confronto: il caso Keegstra ..................... 123 8. 7.1 Il caso Taylor ............................................................................................. 126 7.2 Il problema del negazionismo online ........................................................ 127 7.3 Il caso Zündel ............................................................................................ 129 Il fenomeno dell’ “adversarial legalism” e la “hearsay rule” ....................... 131 Capitolo V ..................................................................................................................... 134 “HOLOCAUST LITIGATION”: IL CONTENZIOSO CIVILE IN MATERIA DI OLOCAUSTO .............................................................................................................. 134 1. Dai “tribunali della storia” alla storia nei tribunali: la recente inversione di tendenza. Common law e civil law a confronto....................................................... 134 2. Si può riparare la storia? ................................................................................ 136 3. Le liquidazioni dei debiti della storia, tra riparazioni materiali e pentimento 143 4. Il problema dell’immunità degli Stati e la questione della responsabilità per il massacro di Civitella ................................................................................................ 147 5. Il limite della prescrizione nelle richieste di risarcimento per i danni da lavoro forzato: i casi Mantelli e De Guglielmi ................................................................... 154 CONCLUSIONI………………………………………………………………………160 BIBLIOGRAFIA……………………………………………………………………...165 3 INTRODUZIONE Il fatto che il governo turco continui a negare che un milione e mezzo di Armeni siano stati assassinati sotto il regime ottomano, riducendo numericamente la cifra delle vittime, e rifiutando di definire l’accaduto con il temine “genocidio”, sposando invece l’idea che la corretta dicitura sia rappresentata dal “più benevolo” termine “massacro”; se proliferano scritti e pensieri che vanificano quanto sia stato riportato sino ad oggi nei libri di storia circa l’esistenza delle camere a gas, minimizzando l’Olocausto, la metafora del ventesimo secolo; e se qualcuno comincia a non voler più tollerare opinioni minoritarie e parole inappropriate riferite ad un passato già di per sé inadeguato e offensivo, è evidente che qualcosa nell’approccio con il passato sta cambiando. Il passato non è più percepito come oggetto di conoscenza, senso di profondità senza il quale una comunità sarebbe persa, ma come fonte perpetua di risentimento. Sono questi, infatti, i marcatori di un ritorno in auge della storia, dei pericoli che essa corre, delle restrizioni che, con l’ostentato e ormai retorico fine di salvaguardare l’autenticità e l’ufficialità della storia stessa, la attanagliano. A partire dal processo di Norimberga, le corti sono state sempre più percepite come luoghi all’interno dei quali correggere gli errori del passato: i confini tra “legal and historical adjudication” sono, così, diventati sempre più labili lasciando intravedere una convergenza tra le due discipline1. Tre sono le fasi di questo percorso di “giuridificazione della storia”2, uno dei fenomeni più importanti del diritto contemporaneo, (che presta anche il titolo al lavoro di tesi); con l’espressione “giuridificazione della storia” si intende un ricorso crescente al diritto per riparare le conseguenze di eventi storici avversi, una tendenza ad una lettura giudiziaria della storia che crea l’illusione di poter rispondere efficacemente e concretamente nel presente, all’interrogativo sul “come” riparare i pregiudizi di un passato troppo spesso non ancora “superato”, di quel passato ingombrante che in alcuni casi si è solo forzatamente dimenticato. Il punto di partenza del cammino di “giuridificazione della storia”, si può far coincidere con la fine della seconda guerra mondiale: in questo periodo l’approccio alla storia e ai crimini del passato risulta sicuramente più “internazionalistico”; è in quell’occasione 1 G. Resta, V. Zeno-Zencovich, Personality rights and historical ‘truth’: the case of the Ardeatine Quarries massacre, in corso di pubblicazione negli atti del convegno di Bruxelles, Vérité en procès, a cura di O. Corten e J. Allard, Bruxelles, 2012, p.2. 2 Le fasi cui si fa riferimento non corrispondono, in verità, a tre differenti periodi della storia in cui il fenomeno si è manifestato, essendo le ultime due fasi pressoché cronologicamente coincidenti. 4 che sono stati deferiti, per la prima volta, dinanzi ad una corte internazionale, direttamente i responsabili dei più gravi crimini commessi ai danni della collettività, dal genocidio ai crimini di guerra, a quelli contro l'umanità. Un tentativo simile, ma non portato ad effettivo compimento, risale già ai Trattati di pace del 1919-1920 che posero fine alla prima guerra mondiale3, ed in particolare al Trattato di Versailles (Treaty of Peace between the Allied and Associated Powers and Germany) del 28 giugno 1919, il quale contemplava il diritto delle potenze vincitrici alleate a giudicare e punire i responsabili di gravi violazioni di legge (artt. 227, 228 e 229)4. Se queste norme non ebbero modo di essere applicate, la necessità di una giurisdizione internazionale fu riproposta dopo il secondo conflitto mondiale, quando presero così corpo le prime esperienze di tribunali penali internazionali, tra i quali ricordiamo i tribunali militari di Norimberga e di Tokio del 1945. Ed invero, la modalità con cui fu organizzato il Processo di Norimberga, il fatto che si trattasse di un tribunale voluto e costituito dalle Potenze vincitrici della II guerra mondiale5, in cui non trovarono posto giudici di paesi neutrali6, ebbe come conseguenza numerose accuse mosse a questo grave vizio del quale si caratterizzò il processo, fino a parlare di una "giustizia dei vincitori"7. Sono questi gli elementi esplicativi di quella corrente chiamata negazionismo che ben presto prenderà forma e consistenza. È in questa prima fase, infatti, precisamente nella seconda metà degli anni ’40 che le pubblicazioni di stampo negazionista cominceranno 3 L. Condorelli, La Cour Pénale Internationale: Un pas de géant (pourvu qu'il soit accompli ...), in Revue générale de droit international public, 1999, p. 15-16. Un primo tentativo di affidare la storia ad un Tribunale fa capo al Presidente del Comitato Internazionale per la Croce Rossa, lo svizzero Gustave Moynier il quale, nel 1872 propose di istituire una Corte internazionale per giudicare coloro che, durante tale conflitto, avevano violato gravemente la prima Convenzione di Ginevra sulla cura dei militari feriti nella battaglia del 22 agosto del 1864. 4 In particolare nell'art. 227 del Trattato si legge: “Le Potenze alleate e associate accusano pubblicamente Guglielmo II di Hohenzollern, già Imperatore di Germania, per crimine supremo contro la morale internazionale e la sacrosanta autorità dei trattati. 2. Sarà istituito un tribunale speciale per processare l'accusato, al quale saranno garantite le fondamentali garanzie del diritto di difesa. Il tribunale sarà formato da cinque giudici, ciascuno nominato da una delle seguenti potenze: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone”. 5 B. Conforti, Diritto internazionale, cit., p. 208. L’autore considera il Tribunale di Tokyo un Tribunale interno, in quanto è il risultato di una decisione della sola Potenza occupante, gli Stati Uniti. Ed inoltre viene qui precisato che i giudici del Tribunale di Norimberga vennero designati dalle quattro Potenze firmatarie dell'Accordo di Londra del '45 (art. 2), mentre i giudici del Tribunale di Tokyo, furono scelti dal Comandante in capo per le Potenze alleate da una lista di nomi sottoposti dai Paesi firmatari dell'atto di capitolazione, oltre che dall'India e dalle Filippine (art.2). 6 D. Zolo, La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad, Laterza, 2006. Sotto questo profilo Zolo ricorda argomenti più volte ribaditi da altri autori, relativi alla mancanza di autonomia e imparzialità durante il processo, violazione dei diritti soggettivi degli imputati, qualità delle pene inflitte, etc. 7 Così R. Socini, voce Crimini e criminali di guerra, in Noviss. Dig. it., V, Utet, 1964, p. 8. 5 a diffondersi8, finalizzate a contestare i crimini discussi proprio dinanzi alla Corte di Norimberga, a mettere in discussione la veridicità della portata dei fatti raccontati in quella sede, sebbene il negazionismo stricto sensu inaugurerà un vero e proprio “movimento”9, cominciando così ad imporsi nel panorama storico e giuridico mondiale, soltanto a partire dalla prima metà degli anni ’6010. È stata probabilmente la necessità di porre rimedio ai “mistificatori” della storia, ad inaugurare quello che possiamo definire un passaggio intermedio, la seconda fase del percorso di “giuridificazione” intrapreso in particolare dall’Europa a partire dagli anni ‘90 e finalizzato a stabilire veri e propri obblighi di memoria, installando, così, una barriera giuridica volta a dissuadere i dissidenti, e coloro che propendono per una visione contraria a quella ufficializzata dallo Stato; un modo come un altro per “fissare dei paletti”, per apportare segni indelebili a quella storia che di segni ne ha già lasciati tanti. Nonostante i limiti che la punibilità delle tesi negazioniste incontra a più livelli del diritto positivo (diritto costituzionale in primis, ma anche diritto penale e civile), la previsione di atti normativi restrittivi in ordine al discorso sul passato non ha avuto difficoltà ad affermarsi: un “trend” che ci si sarebbe aspettato piuttosto dai regimi totalitari, ha preso invece corpo in numerose democrazie europee. Gli Stati europei si sono attestati su posizioni non troppo diverse tra loro, approdando così ad un presente connotato da un obbligo di commemorare, di rispettare una ed una sola versione della storia; da qualche anno si assiste, infatti, ad una proliferazione di leggi che impongono come dovere istituzionale la commemorazione di fatti della storia nazionale cui lo Stato attribuisce riconoscimento giuridico di memoria ufficiale. L’Italia, per esempio, ha approvato la legge istitutiva del Giorno della Memoria11, la legge istitutiva del Giorno 8 Il testo a cui ci si riferisce e che origina questa corrente, è strato pubblicato in Francia da Maurice Bardèche e si intitola “Nuremberg ou la Terre promise”, Le Sept Couleurs, 1948, in cui si denuncia l’invenzione del genocidio da parte degli Alleati, per mascherare invece i bombardamenti di Hiroshima e Dresda; nel 1950 lo stesso Bardèche ha pubblicato un altro libro dal titolo “Nuremberg II ou les Fauxmonnayeurs”, Le Sept Couleurs, 1950, p. 279. 9 È il francese Paul Rassinier, autore de Le Drame des Juifs européens, Les Sept Couleurs, 1964, ad essere considerato il fondatore della corrente negazionista. 10 R. A. Kahn, Holocaust Denial and the Law A Comparative Study, Palgrave, 2004, p. 2 Fino alla metà degli anni 1970 i c.d. negazionisti non erano organicamente strutturati, e sino a quel momento avevano ricevuto poca attenzione da parte della stampa. Nel corso degli anni successivi cominciò un vero e proprio cambiamento: protagonista indiscusso del cambio di rotta fu R. Faurisson che nel 1978 inviò al giornale francese “Le monde” una lettera in cui negava l’Olocausto; nello stesso anno fu fondato l’Institute for Historical Review (IHR). 11 Il Giorno della Memoria è una ricorrenza istituita dal Parlamento con la legge n. 211 del 20 luglio 2000, in Gazzetta Ufficiale n. 177 del 31 luglio 2000. 6 del Ricordo12 e la legge per commemorare le vittime del terrorismo e delle stragi13. E se nessuno contesta, almeno apertamente, la scelta della Shoah come evento da commemorare il 27 gennaio, una volta intrapresa la strada finalizzata a stabilire per legge cosa sia opportuno ricordare14, sorgono delicati problemi quando si pretende, ad esempio, di “estendere l'invito” ad avvenimenti più controversi o legati a specifiche situazioni di storia nazionale15. Il confronto con il passato, in questa seconda fase, ha così privilegiato da una parte i momenti rievocativi con l’obiettivo di restituire, in maniera non poco eccepibile, dignità alle vittime, ovvero ripararle moralmente e pubblicamente dai torti subiti; dall’altra l'identità profonda di una comunità politica si è riproposta a diversi livelli, come dialettica tra "diritto e memoria”, nel difficile rapporto tra storia e ricordo, indipendentemente dall'angolo prospettico dal quale si osservano e si narrano le vicende del passato. Di qui, accanto all’istituzione di momenti commemorativi, l’Europa ha intrapreso un ulteriore cammino, un percorso le cui strade si affacciano piuttosto sull’”oceano” dei regimi totalitari: il percorso di “giurisdizionalizzazione” in cui è entrata l'Europa si è reso terreno favorevole per il voto di leggi qualificate poi come memoriali: non un “invito”, non un “suggerimento” ma vere imposizioni antinegazioniste volte a “gestire” l’Olocausto ed in generale i crimini contro l’umanità, in maniera più o meno dettagliata a seconda del Paese in cui il delitto viene commesso, 12 Il Giorno del Ricordo è stato istituito dal Parlamento con la legge n. 92 del 30 marzo 2004, in Gazzetta Ufficiale, n. 86 del 13 aprile 2004. 13 Giornata commemorativa istituita con la legge n. 56 del 4 maggio 2007, in Gazzetta Ufficiale, n. 103 del 5 maggio 2007: “Al fine di ricordare tutte le vittime del terrorismo, interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice”. 14 L. Fontana, Memoria, trasmissione e verità storica, in Rivista di Estetica, 45, 3/2010, p. 2. Accanto all’Italia non mancano esempi europei in tal senso: in Spagna, le associazioni dei familiari delle vittime del franchismo hanno chiesto di dichiarare il 2006 anno della “memoria repubblicana”, mentre l’Asociación por la Recuperación de la Memoria Histórica (ARMH) ha sollecitato una legge per istituire una “giornata della memoria” per la condanna del franchismo; il 2 ottobre 2006, il presidente ucraino Viktor Yuščenko ha fatto in modo che fosse approvata una legge volta a sanzionare severamente chi neghi la definizione di Olocausto riferita alla carestia del 1932-33, nota come Holodomor. 15 Pochi conoscono, per esempio, la proposta di legge relativa all’istituzione della "Giornata della memoria delle vittime del comunismo", che, se fosse approvata, ricorrerebbe il 9 novembre di ogni anno, anniversario della caduta del muro di Berlino, «evento simbolo per la liberazione dei Paesi oppressi e auspicio di democrazia per le popolazioni tuttora soggette al totalitarismo». Atto Camera 909. Proposta di legge presentata l'8 maggio 2008:, d’iniziativa dei deputati Marinello, Vincenzo Antonio Fontana, Misuraca, Pagano. Articolo 1: «A ricordo delle vittime del comunismo, e` istituita la "Giornata della memoria delle vittime del comunismo", che ricorre il 9 novembre di ogni anno, anniversario della caduta del muro di Berlino e data dichiarata «Giorno della libertà» ai sensi della legge 15 aprile 2005, n. 61. Articolo 2. In occasione della Giornata della memoria di cui al comma 1, le scuole di ogni ordine e grado e le assemblee elettive ricordano il sacrificio delle vittime innocenti che furono uccise in nome dell’odio di classe e della cosiddetta « dittatura del proletariato». Le pubbliche istituzioni promuovono od organizzano manifestazioni e cerimonie ufficiali per commemorare tutte le vittime dei crimini comunisti, favorendo, in particolare, la realizzazione di convegni, mostre, pubblicazioni e momenti di riflessione». 7 con l’obiettivo di proteggerne il ricordo e di diffonderne la conoscenza presso la generalità dei consociati, con buona pace di storici e ricercatori che, nonostante la propria peculiare attività professionale, sono tenuti a rispettare la versione “ufficiale” della storia. Dietro la “sedicente” preoccupazione di veder riproporre eventi del passato, i legislatori si sono mossi, anche in Paesi in cui prevalgono dottrine favorevoli alla massima valorizzazione e tutela dei diritti di libertà, verso formule che prevedono limiti alla libertà di manifestazione del pensiero, imponendo ai giudici di interpretare tali leggi coerentemente alle esigenze che ne hanno determinato l’adozione. Non è stato difficile mettere in discussione la validità e la legittimità delle c.d. leggi memoriali, essendo le stesse in stridente contrasto con le esigenze della professione dello storico: se la storia è in continuo aggiornamento, può essere negato allo storico il diritto di rivangare nel passato, di aggiungere al quadro della storia sviluppi, aggiornamenti e fatti che abbiano un certo rilievo, dopo aver preso cognizione dell’”archivio” di cui essi fanno parte? Fino a che punto possono legittimamente limitarsi, in un sistema costituzionale, la libertà di espressione e la libertà della ricerca storica? Accanto a questa fase intermedia, espressione tanto della commemorazione dei crimini perpetrati anni addietro, quanto della imposizione ex lege di modelli di confronto con il passato, divieti di negazionismo, obblighi di ricordo, si è riscontrata una terza fase, ugualmente di recente elaborazione almeno nella sua massima diffusione, caratterizzata dalla moltiplicazione dei meccanismi di regolamentazione giuridica della storia, sino al crescente ricorso al sistema della responsabilità civile. L'alternativa radicale all'esercizio della giurisdizione penale e internazionale si è concretizzata negli ultimi anni, in una progressiva “privatizzazione” delle controversie, e con il risultato di placare l’utilizzo dello strumento internazionalistico a favore della responsabilità civile, i tribunali hanno cominciato ad accordare risarcimenti in ordine agli illeciti di massa di rilevanza storica. Il punto di partenza di questo terzo aspetto della “giuridificazione” della storia, nonché di questa escalation di risarcimenti, è la sentenza della Corte di Cassazione italiana del 200816 secondo la quale la Germania dovrà risarcire nove familiari delle vittime della strage del 29 giugno 1944 a Civitella, uno dei peggiori eccidi della seconda guerra mondiale commesso da militari tedeschi: lo Stato è così responsabile dei fatti delittuosi, 16 Cass. pen. 21 ottobre 2008, n.1072, in Riv. dir. internaz. 2009, 2, 618. 8 e più in generale di qualsiasi condotta commessa dai propri organi. La Germania dovrà quindi risarcire «le rivendicazioni e domande relative al ristoro dei danni morali cagionati da crimini internazionali commessi attraverso la grave lesione di diritti inviolabili dell'uomo»17; rappresenta un grande riconoscimento morale quello che la Suprema Corte ha stabilito con la condanna della Germania, “premiando” così, e riparando economicamente la devastazione e le sofferenze subite dalle popolazioni di Civitella, Cornia e San Pancrazio18. Tale pronunzia, tuttavia, non costituisce un esempio isolato. L’idea della riparazione in sede civile dei danni della storia trae origine dal cuore di un evento, la Shoah, tragedia che non finisce di tormentare l’Occidente e dalla cultura liberale degli Stati Uniti: azioni risarcitorie sono, infatti, state proposte di fronte ai tribunali Statunitensi nei confronti di istituti bancari svizzeri accusati di illecita distrazione dei fondi depositati da parte di persone perite nell’Olocausto, e contro altre imprese, nonché Stati europei poi19. Il caso americano e quello italiano hanno in comune l’uso massivo dello strumento della responsabilità civile: nel secondo caso, però, si contesta l’elusione del diritto internazionale e, quindi, gli accordi passati stipulati tra Stati; nel primo, ad inasprire il destinatario della richiesta di risarcimento, la presa di coscienza di un fenomeno di “anacronismo storico” che spinge ad utilizzare strumenti contemporanei per situazioni passate, per capitoli “ormai” completi della storia dell’uomo, per diritti ormai prescritti. In questo modo, la regolazione del passato viene affidata ad un processo di privatizzazione crescente, ad un percorso volto a reintegrare le parti fin dove possibile, convertendo qualsiasi danno, di qualsiasi entità in una somma di denaro. Di non poco conto appare la novità di tale ondata: una “giurisdizionalizzazione” della storia ha preso corpo, e così, mettendo da parte il diritto penale, il diritto civile è stato investito di un ruolo rilevante anche in vicende, quali appunto i crimini della storia, fino a poco tempo fa estranei a tale branca. Shoah, colonizzazione, schiavitù: alla base delle 17 Ibidem, p.630. Questa decisione ha suscitato grande scalpore: con fermo dissenso, lo Stato tedesco ha rivendicato la propria immunità sulla base dei Trattati internazionali stipulati nel 1947 (Accordo di Pace) e nel 1961 (Trattato bilaterale tra Germania e Italia). 19 A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, shoah, Odile Jacob, 2008, p. 28 ss. A conclusione della seconda guerra mondiale gli Stati Uniti e le organizzazioni di ebrei americani chiesero che il denaro delle vittime dell’Olocausto, depositato presso conti correnti svizzeri fosse restituito agli aventi diritto. Nell’autunno del 1996 fu proposta una class action contro le banche svizzere e nel 1999, la Commissione Volcker stabilì che, su un totale di 6858 milioni di conti accesi tra il 1933 e il 1945 restava traccia solamente di 2.5 milioni, e in seguito ad intense negoziazioni si giunse all’accordo globale tra associazioni americane e banche svizzere per la cifra di 1,25 miliardi di dollari. Le organizzazioni ebree americane convennero, però, di versare più di un terzo di tale somma ai superstiti della persecuzione nazista, nonché alle vittime del lavoro forzato durante il Terzo Reich. 18 9 richieste economiche si intravede proprio la necessità di rispondere attraverso strumenti diversi da quelli del diritto penale, alle ferite lasciate dalla storia. Quando indietro non si può tornare, quando non è possibile punire personalmente i responsabili attraverso una specifica sanzione afflittiva, perché gli stessi sono da tempo deceduti, risarcire i discendenti delle vittime sembra essere l’unica possibile risposta volta a chiudere i conti con la storia e a riallacciare il legame con le generazioni precedenti nei cui confronti i “debiti” non sono stati ancora sanati. È con la formula Holocaust Litigation, ormai divenuta di uso corrente, che si designa il profluvio di azioni civili che fanno capo a vittime della Shoah; azioni che hanno avuto particolare enfasi verso la fine degli anni 90 e che si svolgono quasi sempre in torts, principalmente proposte attraverso class action, negli Stati Uniti e non solo, da parte di attori e convenuti di diversa nazionalità. E allora qual è il fondamento di tali riparazioni? “Il est nécessaire qu’elles soient renforcées dans les rapports interétatiques par l’éthique?”20. Non possono le erogazioni effettuate dagli Stati essere inquadrate alla luce di considerazioni di opportunismo politico o morale21, eludendo la volontà effettiva di riparare, (risarcire, emendare, chiedere perdono), denaturando, così, i regimi di riparazione? La ‘regolazione del passato’ tende a essere assoggettata al monopolio della politica, nonché ad essere sottoposta ad un processo di privatizzazione crescente in nome dell’indiscutibile diritto degli individui ad ottenere una riparazione per gli illeciti commessi dallo Stato, direttamente o quale garante indiretto della sicurezza dei cittadini. Il dubbio è se risarcimenti e class action possano fornire una risposta soddisfacente alle istanze di riconoscimento rivendicate dalle vittime dei "danni della storia". Quelle appena delineate rappresentano le tre fasi, logicamente distinte, ma strettamente correlate, di una “battaglia” contro i “fantasmi della storia”, che non potrà che spingersi ancora oltre con un dibattito per ora difficilmente placabile, in particolar modo, tra storici e giuristi. Se la storia compie un’operazione di investigazione del passato, da 20 R. Kolb, Réflexions de philosophie du droit international, Editions Bruylant, 2003, p. 99. La tragedia dell’Olocausto ebraico e le sue responsabilità morali in Storia e Idea, Annali Italiani online, a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale, disponibile al sito web http://www.identitanazionale.it/stco_5001.php. La tragedia dell’Olocausto viene spesso utilizzata in chiave politica per lo più come deterrente: così è stato per lo Stato d’Israele a partire dal processo contro il gerarca nazionalsocialista Karl Adolf Eichmann (1906-1962) nel 1961, per le sinistre che evocano l’Olocausto contro l’anti-comunismo e contro una politica di destra, e in alcuni ambienti ebraici in cui se ne fa uso nel contesto dei rapporti interreligiosi, soprattutto verso i cattolici. 21 10 qualche anno, l’obiezione principale mossa dagli storici è proprio la manipolazione della storia e della memoria da parte della politica e del legislatore, con una conseguente e inevitabile conclusione: ”l’histoire est saisie par le droit”22. 22 Dal titolo del libro di C. Vivant, L'historien saisi par le droit. Contribution à l'étude des droits de l'histoire, Dalloz, 2007. 11 Capitolo I TRA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE E STIGMATIZZAZIONE PENALE DEL NEGAZIONISMO 1. La prima fase del percorso di giuridificazione della storia: il “diritto di Norimberga” come “spartiacque” A soli due anni dal processo di Norimberga una pubblicazione dal titolo “Nuremberg ou la Terre Promise” cominciò a circolare prima in Francia poi in tutta Europa, con l’obiettivo da parte dell’autore di denunciare una falsificazione della storia ad opera dei vincitori della guerra23. È da questo momento che l’ufficializzazione di una visione della storia prenderà forma, una tendenza “sperimentale” ben presto si tradurrà in scritti e discorsi, una serie di prese di posizione volte a privare di una qualsiasi verità il genocidio degli ebrei tenteranno di scalfire la sacralità della storia. Il meccanismo che ha preso corpo a conclusione della seconda guerra mondiale ed in particolar modo dopo la celebrazione del processo di Norimberga non ha mancato di spingersi sino ai giorni nostri, inaugurando una incomprensibile e quanto mai fastidiosa “aspirazione” a negare la storia. Nonostante vi fosse unanimità nel propendere verso una punizione dei responsabili dei più efferati crimini contro l’umanità, nonostante l’esigenza della comunità internazionale si concretasse nella punizione dei capi nazisti accusati di cospirazione a commettere crimini contro la pace, crimini di guerra, crimini contro l’umanità, le polemiche sulla legittimità del processo internazionale militare per eccellenza non tardarono ad invadere l’opinione pubblica. Le undici condanne a morte inflitte dal Tribunale di Norimberga24 istituito nel 1945 con l’accordo di Londra25 concluso tra le potenze che occupavano la Germania debellata, non soddisfò chi dopo mesi e mesi di dibattito in relazione alle modalità con cui celebrare i processi, subì l’imposizione da parte di alcuni Stati (in primis gli Stati Uniti) 23 M. Bardeche, Nuremberg ou la Terre Promise, cit. Il testo completo della sentenza si trova in American Journal of International Law, Vol. 41, 1947, p. 172 ss., nonché in http://avalon.law.yale.edu/subject_menus/judcont.asp. 25 Il testo istitutivo del Tribunale Militare Internazionale è reperibile al sito web http://avalon.law.yale.edu/imt/imtconst.asp. 24 12 della costituzione di un tribunale internazionale ad hoc26. Ed invero, nella Dichiarazione di Mosca delle Potenze alleate del 1943, Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica stabilirono che i criminali di guerra tedeschi dovessero essere consegnati ai Paesi in cui le loro azioni fossero state commesse, in modo tale che potessero essere processati e puniti in conformità alle leggi dei rispettivi Paesi. Per la prima volta fu dichiarato e previsto all’interno dello Statuto di Norimberga che «il preparare, provocare e condurre una guerra di aggressione o cospirare con altri a tal fine è un delitto contro la società internazionale e che il perseguire, opprimere e fare violenza a individui o minoranze per motivi politici, razziali o religiosi connessi con tale guerra e sterminare, mettere in schiavitù e deportare le popolazioni civili sono veri e propri delitti internazionali e gli individui sono responsabili di tali delitti»27. Da un lato, quindi, si gettarono le basi per la costituzione del Tribunale militare di Norimberga, competente a giudicare i criminali di crimini che non avessero avuto una precisa localizzazione geografica, dall’altra si decise di accordare un trattamento diverso ai maggiori criminali, secondo la decisione congiunta che avrebbero preso i governi alleati. Quello di Norimberga fu sicuramente un diritto innovatore, si affermò per la prima volta la responsabilità penale individuale degli organi statali, coloro che erano stati “mezzo” per la realizzazione di superiori finalità dello Stato, ma nonostante tutto il diritto di Norimberga non fu esente da critiche28: la presenza dei soli giudici designati dalle quattro potenze vincitrici all’interno del collegio giudicante, mancando qualsiasi rappresentante tanto dei Paesi vinti quanto dei Paesi neutrali, hanno inevitabilmente accelerato quel processo di negazione della storia che pure ha origini più risalenti. Proprio al fine di contestare la legittimità del processo militare di Norimberga “l’impresa” negazionista si affermerà29: è in questa fase, infatti, precisamente nella seconda metà degli anni ’40 che le pubblicazioni di stampo negazionista cominceranno 26 S. Glueck, By what Tribunal shall war offenders be tried?, in Harvard Law Review, vol. 56, 19421943, p. 1059 ss. 27 F. Paolini, A dieci anni di processo di Norimberga: la sua giustificazione, Cappelli, 1956, p. 17. 28 H. D. De Vabres che fu giudice in rappresentanza della Francia, in Le procès de Nuremberg, in Revue de Science Criminelle et de Droit Pénal Comparé, n. 2, 1947, p. 171 ss. Cfr. Anche M., J. Cerezo, Curso de Derecho penal español, Tecnos, T. I., V ed. Madrid, 1996, p. 209-210. Emerge dagli autori la considerazione secondo la quale il Tribunale non era una vera e propria corte di giurisdizione internazionale, essendo stata costituita dalle forze di occupazione senza il coinvolgimento della Germania, e le sue decisioni non erano pertanto vincolanti nei confronti di questo Paese. 29 M.R. Saulle, I grandi processi post bellici dei criminali di guerra di fronte al diritto internazionale, in AA.VV., Verso un Tribunale permanente internazionale sui crimini contro l’umanitá. Precedenti storici e prospettive di istituzione, a cura di P. Ungari e M.P. Pietrostefani Malintoppi, p. 71. 13 a diffondersi30, con l’obiettivo di contestare i crimini discussi proprio dinanzi alla Corte di Norimberga, e di mettere in discussione la veridicità della portata dei fatti raccontati in quella sede. Di conseguenza possiamo affermare che il Tribunale di Norimberga è stato l’”antesignano” di una tendenza che più tardi si svilupperà in una forma più ampia e diversificata: poiché i crimini commessi sfuggivano a qualsiasi previsione di legge, fu in quell’occasione che i giudici provvidero a regolare la storia all’interno delle aule dei tribunali, creando addirittura le norme con cui poi sarebbero andati a giudicare31. La storia quindi fu scritta in termini di genocidio, crimini contro l’umanità attraverso delle decisioni che poi resteranno “intrappolate” nella rete dell’insindacabile, e richiamate dalle legislazioni nazionali “memoriali”. Dei tre reati oggetto dei capi d’accusa dei criminali, però, solo i crimini di guerra erano noti al diritto internazionale, le altre condotte “irruppero” nel principio del “nulla poena sine lege“; anche andando contro uno dei “brocardi” cardine del diritto, la presa di coscienza della presenza di beni giuridici propri della comunità internazionale, di interessi esorbitanti i confini di un singolo ordinamento statale, il riconoscimento dei diritti dell’uomo, portarono la comunità internazionale ad avvertire l'esigenza di punire i responsabili di gravi crimini commessi durante la guerra mondiale; e a nulla valse invocare che le condotte commesse dai capi nazisti non fossero identificate come crimini in nessun documento prima della loro commissione: per la prima volta si parlò concretamente di crimini internazionali e così la parola “genocidio” entrò tra i capi d’accusa32. 30 Il testo a cui ci si riferisce e che origina questa corrente, è strato pubblicato in Francia da Maurice Bardèche e si intitola “Nuremberg ou la Terre promise”, Le Sept Couleurs, 1948, in cui si denuncia l’invenzione del genocidio da parte degli Alleati, per mascherare invece i bombardamenti di Hiroshima e Dresda; nel 1950 lo stesso Bardèche ha pubblicato un altro libro dal titolo “Nuremberg II ou les Fauxmonnayeurs”, Le Sept Couleurs, 1950, p. 279. 31 S. Sgroi, Il principio di retroattività e il processo di Norimberga, in Dir. e quest. Pubbliche, 3, 2003, p. 318 ss. 32 A. Palma, Il diritto internazionale penale e la giurisdizione internazionale in Diritto&Diritti, luglio 2002; B. Conforti, Diritto internazionale, Editoriale Scientifica, 2002, p. 211. L’Accordo di Londra del 1945 istitutivo del Tribunale di Norimberga, identificava tre categorie di crimini: crimini contro la pace; crimini contro l’umanità (tra cui il genocidio); crimini di guerra. Un elenco dettagliato di tali crimini è oggi contenuto negli artt. 5-8 dello Statuto della Corte penale internazionale. I crimini di guerra consistono in quelle violazioni delle leggi e consuetudini di guerra, consistenti in gravi infrazioni delle Convenzioni di Ginevra e del Primo Protocollo addizionale del 1977, in un conflitto armato e “d’aggressione” di natura internazionale o interna. Nell’elenco dei crimini internazionali di guerra, è compreso anche il genocidio (che prima consisteva in una fattispecie non separata dalla categoria dei crimini contro l’umanità), crimine consistente nella distruzione totale o parziale di un gruppo etnico, razziale e/o religioso; Sono crimini contro l’umanità, secondo l’art. 7 dello Statuto: l’omicidio, la riduzione in schiavitù, la deportazione forzata della popolazione, la tortura, la violenza sessuale, le persecuzioni per motivi politici, etnici, religiosi, etc. Questi reati sono punibili in quanto non 14 Se per un’istanza di giustizia volta a criminalizzare le violazioni più gravi dei diritti umani, i principi della immunità degli Stati e il limite della prescrizione saranno elusi nelle aule dei tribunali ordinari (di cui si tratterà nel cap. V), anche il principio della irretroattività delle leggi è stato oggetto di “violazione” in quella occasione, sempre in nome di una eccezionalità che ha caratterizzato i crimini perpetrati dal regime nazista e che forse sarebbe stato “contra jus” non violare. Ma se la corrente negazionista ha cominciato a diffondersi proprio in questo periodo, quali sono i legami e le differenze con la storiografia revisionista che pure non ha risparmiato i più aberranti crimini della storia dell’uomo? Nel corso dei decenni il negazionismo della Shoah è riuscito ad assumere fondamentalmente due differenti sfaccettature, ma entrambe tendenti ad un obiettivo similare. La prima branca del negazionismo, se così si può definire, raggruppa coloro che si qualificano “revisionisti storici” 33 , coloro cioè che rimettono in discussione, completamente o in singoli aspetti, alcuni nodi cruciali della storia moderna e contemporanea, formulando una versione alternativa dei fatti attraverso il reperimento di nuove fonti, attraverso una interpretazione parziale del passato34. Proprio perché forse la storia è in continua “revisione”, ad essere stigmatizzata penalmente a partire dall’ultimo ventennio in numerosi Stati Europei, e di cui si tratterà nei prossimi capitoli, non è tanto la revisione del passato quanto la negazione dello stesso, il rifiuto ad ammettere quello che è stato definito nel processo di Norimberga. Senza eccedere in digressioni storiche, si tiene a precisare in questa sede che la prima fase di un processo di giuridificazione della storia che ben presto abbandonerà le aule dei tribunali internazionali, si svolse proprio in una “prassi” internazionale; se in quella circostanza e fino a quel momento la regolazione delle “colpe” o delle “ingiustizie” del passato si riteneva dovesse esser rimessa all’accordo politico o al “Tribunale della Storia”, dopo Norimberga è la storia ad esser sempre più frequentemente condotta “in Tribunale”, con la conseguenza che i discorsi sulla storia tenderanno ad essere regolamentati in via giudiziaria o legislativa, con l’aspettativa di conferire una eventuale atti sporadici, ma atti facenti parte di un disegno criminoso, di una prassi generalizzata avallata dal potere politico, purché perpetrati «come parte di un esteso e sistematico attacco contro una popolazione civile». Circa i crimini contro la pace lo Statuto rinuncia a darne una definizione. 33 L’enciclopedia Rizzoli Larousse dà la seguente definizione del termine Revisionismo: «comportamenti e dottrine che rimettono in causa un dogma o una teoria, notoriamente quella di un partito politico; rimessa in causa di una legge, di una costituzione ovvero di una sentenza; rimessa in discussione della storia della Seconda Guerra Mondiale, tendente a negare o minimizzare il genocidio degli Ebrei». 34 C. Bermani, S. Corvisieri, C. Del Bello, Guerra civile e Stato, Per una revisione da sinistra, Odradek, 1998, p. 57. 15 pronuncia di assoluzione o condanna da parte dei giudici direttamente alla correttezza o meno della versione della storia raccontata o scritta dall’”imputato”. 2. L’arte di distorcere il passato: dalla rievocazione all’imposizione L'oblio, la negazione, l'errore storico sono dei fattori alle volte determinanti per la creazione di una nazione; da sempre le comunità hanno cercato di «distorcere» il proprio passato, spesso attraverso la “dimenticanza” e la cancellazione, rovesciando apertamente i fatti, così come scritti e verificati. In tema di negazionismo e “amnesia”, è doveroso ricordare lo strumento utilizzato dal Senato romano contro la tirannide imperiale, la rimozione storica volta a far scomparire il nome del defunto imperatore dai documenti d'archivio e dalle iscrizioni dei monumenti35, la c.d. damnatio memoriae. Stessa tecnica, si potrebbe dire, allargando il punto prospettico, adottava la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo quando il 3 novembre 2009 stabiliva che la presenza dei crocifissi nelle aule scolastiche costituisce «una violazione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni» e una violazione della «libertà di religione degli alunni», imponendo la rimozione del crocifisso dalle aule pubbliche36. Una sentenza volta a rimuovere un 35 Cfr. le affermazioni di E. Renan ad una conferenza tenuta alla Sorbona l'11 marzo 1882, in Che cos'è una Nazione?, Donzelli ed., 2004, p. 7. 36 J.H.H Weiler, Il Crocefisso a Strasburgo: una decisione ««imbarazzante», in Quaderni costituzionali, 2010, 148; V. Fiorillo, Il Crocefisso a Strasburgo: l'Italia non è la Francia, ivi, 145. Prima di arrivare alla decisione europea è utile delineare l’iter giurisprudenziale precedente al ricorso alla CEDU: nel 2002 la signora Soile Tuulikki Lautsi, cittadina italiana di origini finlandesi, richiese al consiglio d'istituto della scuola media frequentata dai figli, di rimuovere il crocifisso dalle aule. La richiesta fu rifiutata e la signora si rivolse al TAR del Veneto. Questo nel 2004, notando come la questione "non appare manifestamente infondata e va sollevata questione di legittimità costituzionale", sospese il giudizio e interpellò la Corte costituzionale. La Corte Costituzionale, con un parere del 2004 si disse non idonea a discutere il caso, dichiarando la " manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale", dato che "l'impugnazione delle indicate disposizioni del testo unico si appalesa dunque il frutto di un improprio trasferimento su disposizioni di rango legislativo di una questione di legittimità concernente le norme regolamentari richiamate: norme prive di forza di legge, sulle quali non può essere invocato un sindacato di legittimità costituzionale, né, conseguentemente, un intervento interpretativo di questa Corte". Toccò quindi al TAR del Veneto pronunciarsi nel 2005 rigettando il ricorso della signora Lautsi, sostenendo tra l'altro che "nell'attuale realtà sociale, il crocifisso debba essere considerato non solo come simbolo di un'evoluzione storica e culturale, e quindi dell'identità del nostro popolo, ma quale simbolo altresì di un sistema di valori di libertà, eguaglianza, dignità umana e tolleranza religiosa e quindi anche della laicità dello Stato, principi questi che innervano la nostra Carta costituzionale". In seguito, il 13 aprile del 2006, anche il Consiglio di Stato risolse in favore dell'esposizione del crocifisso. La prima sentenza della CEDU, resa il 3novembre 2009 stabilì che l'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è "una violazione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni e del diritto degli alunni alla libertà di religione”. Tutto questo, proseguono i giudici, «potrebbe essere incoraggiante per gli studenti religiosi, ma fastidioso per i ragazzi che praticano altre religioni, in particolare se appartengono a minoranze religiose o sono atei». La sentenza definitiva 16 simbolo, all’interno del quale si condensa gran parte della storia italiana. Ricorrendo in giudizio contro il crocifisso non si fa che reiterare il rifiuto della giustizia del Regno, se non altro perchè “il crocifisso è elevato fondamento dei valori (tolleranza, rispetto, valorizzazione della persona, amore per il prossimo, etc.) civili che hanno un’origine religiosa, ma che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato”.37 Cosa erano le foibe fino a qualche anno fa? Solo a partire dal 2005, il 10 febbraio di ogni anno si celebra il “Giorno del Ricordo”, al fine di commemorare i martiri delle Foibe e “di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale…”, come si legge nel testo della legge che istituisce la ricorrenza38. Il nostro Paese pur evitando di ammettere apertamente le responsabilità in materia di Shoah, ha deciso di istituire anche la Giornata della Memoria: nel dibattito sull’ approvazione del “Giorno della Memoria”39, se è apparsa chiara l’intenzione della Camera dei Deputati di porre al centro della memoria della Shoah la correità italiana, il proposito non ha trovato conferma nel dettato normativo. Il titolo del provvedimento “Istituzione del Giorno della Memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”, lascia in secondo piano le responsabilità italiane nella realizzazione della politica razziale. Se il Giorno del Ricordo e della Memoria condensano in sé la volontà di educare al ricordo e al rispetto, evitando che il negazionismo trovi seguaci nelle scuole, nelle nuove generazioni, per mettere in atto una vera e propria battaglia culturale contro ogni del 18 marzo 2011 resa dalla Grande Chambre della Corte Europea dei diritti dell’uomo ha poi ribaltato la sentenza di primo grado. I giudici della Corte europea dei diritti dell'uomo hanno accettato la tesi in base alla quale non sussistono elementi che provino l'eventuale influenza sugli alunni dell'esposizione del crocifisso nella aule scolastiche. Nella sentenza della Corte di Strasburgo si legge tra l'altro: «se è vero che il crocifisso è prima di tutto un simbolo religioso, non sussistono tuttavia nella fattispecie elementi attestanti l’eventuale influenza che l’esposizione di un simbolo di questa natura sulle mura delle aule scolastiche potrebbe avere sugli alunni. Inoltre, pur essendo comprensibile che la ricorrente possa vedere nell’esposizione del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche frequentate dai suoi figli una mancanza di rispetto da parte dello Stato del suo diritto di garantire loro un’educazione e un insegnamento conformi alle sue convinzioni filosofiche, la sua percezione personale non è sufficiente a integrare una violazione dell’art. 2 del protocollo n.1». 37 Tar Veneto, 22 marzo 2005, n. 1110 in Corriere del merito 2005, 847. 38 Legge 30 marzo 2004, n. 92, in G.U. n. 86 del 13 aprile 2004, “Istituzione del «Giorno del ricordo» in memoria delle vittime delle foibe, dell'esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati”. 39 Legge 20 luglio 2000, n. 211, in G.U n. 177 del 31 luglio 2000, “Istituzione del «Giorno della memoria» in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”. 17 forma di razzismo e negazionismo, possono leggi volte sic et simpliciter a commemorare, avere una valenza in termini effettivi pur in assenza di ammissione di responsabilità? Così la rievocazione rappresenta il momento meno “rigido” di quel processo di giuridificazione della storia al quale numerosi Paesi europei stanno aderendo da circa un ventennio con la consapevolezza di “riconoscere” prima e di criminalizzare poi. Forse proprio perché ai momenti evocativi è mancato un fondamento di effettivo riconoscimento, forse perché immediate potrebbero essere le obiezioni contro quella che appare la tipica rievocazione all’italiana (e non solo) di un evento del passato, limitata ad una singola giornata, ad una celebrazione scolastica finalizzata a recital riposti, a distanza di poche ore, nel dimenticatoio di docenti e alunni; forse perché si è presi consapevolezza del fatto che la memorialistica di stampo celebrativo difficilmente avrebbe contribuito a quella elaborazione critica del fenomeno storico, fondamentale nel mondo attuale, l’Europa ha messo da parte gli strumenti commemorativi intraprendendo la strada delle leggi memoriali. Ed invero, piuttosto che consegnare determinati avvenimenti alla “memoria labile” o alla celebrazione strumentale e simbolica, l’Europa ha provveduto ad affiancare ai “meccanismi” evocativi strumenti impositivi che nulla, però, hanno aggiunto in termini di indagine storica finalizzata a comprendere il peso del passato e dei fattori psicologici alla base delle condotte dei carnefici. La sfiducia nei momenti rievocativi e l’inefficacia degli stessi nella elaborazione critica del passato hanno indotto l’Europa ad adottare le c.d. leggi memoriali “riponendo” su di un piano secondario le leggi meramente “decorative” e di riconoscimento. Sebbene l’Italia, diversamente da gran parte di altre democrazie liberali, non abbia ancora provveduto ad adottare disposizioni ad hoc volte a punire i negazionisti, quali sarebbero le ripercussioni in termini di diritto costituzionale, penale e civile laddove si punissero, limitandole, libere manifestazioni di pensiero? Prima di analizzare nello specifico le conclusioni non sempre omogenee raggiunte dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo e dai tribunali delle nazioni europee, coinvolti in una serie di verdetti che tenderanno a riconoscere i limiti connessi alla libertà di espressione, è bene, sulla base di quanto accennato, approfondire le implicazioni giuridiche del negazionismo, consapevoli che esso rilevi tanto sotto il profilo penale, quanto sotto quello costituzionale e civile. 18 3. Profili penalistici del reato di negazionismo Il “delitto di negazionismo”, fattispecie che si inquadra nei c.d. delitti d’opinione pone il preliminare problema del rispetto di alcuni dei principi del diritto penale, tra cui quello di offensività del reato e di proporzionalità della pena40. La caratteristica principale dei delitti d’opinione, tipicamente definiti quali forme di tutela anticipata per espungere i quali la Corte Costituzionale e il legislatore italiano hanno lavorato per decenni, consiste nella repressione di un comportamento di ribellione nei confronti dell’ordine costituito, che si concreta in un gesto di disobbedienza a prescindere dall’effettivo grado di pericolosità della condotta, attraverso una valutazione antecedente e astratta e semplicemente punendo il pensiero in quanto tale, perché intrinsecamente pericoloso41. E così oggi molti Stati ammettono la potenzialità e l’idoneità lesiva del pensiero, considerandolo di per sé una minaccia e ritenendo che, poiché determinate forme di manifestazione del pensiero rappresentino un pericolo in sé, vadano punite a prescindere da una eventuale estrinsecazione in termini di pericolo concreto, «puniti in quanto fatti rilevatori di tendenze comportamentali e ideologiche che dovrebbero più opportunamente essere soggette a misure di prevenzione o a sanzioni amministrative»42. Ma c’è una differenza: un conto è punire manifestazioni di pensiero nei casi in cui il grado di pericolosità che ad esse si attaglia sia concretamente apprezzabile attraverso una valutazione che sulla base di criteri sufficientemente determinati, tenga ben conto del contesto in cui la propalazione verbale o scritta è stata proferita. Così nel nostro codice penale vengono punite condotte come l’incitamento all’azione, l’apologia purchè idonea a determinare la commissione di delitti (414 c.p ult co), la propaganda dotata di particolare intensità (art. 507 c.p.), l’istigazione all’odio di classe se attuato in modo pericoloso per la pubblica incolumità, la diffusione di notizie false e tendenziose che minacciano seriamente l’ordine legale (art. 656 c.p.)43. Altra cosa è, invece, punire una manifestazione di pensiero perché ontologicamente e intrinsecamente pericolosa. In quest’ ultimo caso il legislatore ha optato per uno schema di tutela che consente protezione attraverso l’arretramento della normale soglia di punibilità: il modello prescelto è quello del pericolo astratto, che, come noto, si 40 E. Fronza, Profili penalistici del negazionismo in Rivista italiana di diritto e procedura penale 1999, 3, 1034. 41 A. Pace, M. Manetti, Art. 21, cit., p. 236 ss. 42 Ibidem, p. 277. 43 Ibidem, p. 254 ss. 19 distingue dal modello del pericolo concreto, in quanto nel primo caso il pericolo è implicito. In termini di pericolo astratto quindi, il giudice non dovrà accertare se qualcuno si sia effettivamente sentito leso dalle opinioni espresse in senso antinegazionista, (indi per cui anche laddove dovesse emergere che l’esposizione dei fatti non abbia offeso in concreto alcuno, sussisterà in ogni caso l'illecito), ma dovrà presumere, se è il caso e se sussistano leggi di esperienza in materia, la potenziale pericolosità di quei comportamenti in sé considerati44. Decisivo sarà il solo fatto dell’espressione di una opinione contraria alla “verità ufficiale” che il legislatore ha vietato perché prevedibilmente pericolosa. È d'altronde doveroso ricordare che nel nostro ordinamento ha preso corpo negli ultimi tempi, una vera e propria trasformazione almeno in via interpretativa, di taluni reati a pericolo astratto, in reati a pericolo concreto, onde evitare di punire sulla base della semplice potenzialità a cagionare una offesa, piuttosto che sul concreto verificarsi del pericolo scongiurato. Sintomatica l’evoluzione giurisprudenziale del delitto d’istigazione a delinquere (art.414 c.p.) che potrebbe apparire quanto mai simile, dal punto di vista della configurazione, al nostro reato di negazionismo: la giurisprudenza ha sostenuto che, ai fini della punibilità, non possa prescindersi dall’indagine in ordine al concreto pericolo per l’ordine pubblico derivante dalla condotta dell’istigatore45. 44 Vale qui le pena riportare per sommi capi le principali obiezioni mosse dalla dottrina al reato di negazionismo, attraverso uno schema riassuntivo elaborato da A. Di Giovine in Il passato che non passa: “Eichmann di carta” e repressione penale in Diritto pubblico comparato ed europeo, Giappichelli, 2006, fasc. 1, pp. 14-28: «a) le norme che incriminano il negazionismo si presentano dubbie sotto il profilo della materialità e si rivelano carenti sul piano dell’offensività, apparendo quindi incompatibili con il diritto di uno Stato democratico; b) la tutela penale è collocata in un momento talmente arretrato rispetto al pericolo che è difficile ipotizzare la realizzazione di un evento lesivo, ma posto che il diritto penale non può curarsi delle ideologie se esse non si traducono in un inizio di attività esecutiva del tentativo di una lesione dei beni, occorre che i delitti di negazionismo siano strutturati almeno in chiave di pericolo concreto; c) con l’individuare l’ordine pubblico o la pace pubblica come beni offesi non solo si surroga l’assenza di un immediato referente di lesività, ma si utilizzano concetti non neutri, prodotto di valori ideologici; d) è difficile distinguere tra fatto e opinione, accertare la verità oggettiva, storica rispetto a quella legale; e) la lesione dell’onore è difficile da determinare nei confronti di una collettività dai confini indeterminati; f)quella antinegazionista è una tipica legislazione simbolica, strutturata in chiace amico/nemico, che persegue le persone e non i fatti, così aprendosi a un diritto penale soggettivo privo dell’elemento dell’offesa e allontanandosi dai principi di obbiettivizzazione, sussidiarietà, offensività, tipicità e materialità; g) si tratta di puri reati di opinione, di reati di pura condotta senza pericolo di evento». 45 F. Caringella, F. Della Valle, M. De Palma, Manuale di diritto penale, parte generale, Dike Giuridica Editrice, 2009 p. 555 ss. In particolare si è rimarcato che la «potenzialità istigatoria del messaggio non può essere valutata senza tener conto del contesto in cui è stato pronunciato, poiché il delitto può ritenersi integrato solo accertando che la frase, per le modalità in cui è stata formulata, è idonea ad indurre a delinquere il soggetto che la percepisce.» Il Trib. Venezia, 24 ottobre 1996, ha escluso, per esempio, la sussistenza del reato di cui all’art. 414 c.p. nella condotta di un giornalista che, in un articolo dal tono ironico e paradossale, suggeriva al lettore alcuni comportamenti astrattamente costituenti reato, poiché la frase incriminata era inserita in un contesto idoneo ad innescare nel lettore l’impulso a realizzare concretamente la condotta indicata. 20 Considerazioni analoghe si potrebbero sviluppare in merito al “nostro” reato di negazionismo, onde superare, l’impasse del pericolo astratto. Se da un lato appare già di per sé troppo “poco garantista” per una qualsiasi democrazia, l’introduzione di un reato di “opinione negazionista”, ancor più deleteria sarebbe la concreta possibilità, (così come accade negli ordinamenti che considerano la condotta negazionista un reato), di sanzionare “a prescindere”, e anche laddove un’ opinione negazionista non abbia urtato concretamente contro la sfera di sensibilità di alcuno, perché per esempio, completamente avulsa da un contesto di pericolosità. Nel profluvio di leggi antinegazioniste già adottate in Europa, invece, la pericolosità che caratterizza le disposizioni normative è quanto mai astratta, la sanzione penale viene posta a carico di chi nega o minimizza grossolanamente uno dei genocidi a cui il rispettivo ordinamento fa riferimento, per il solo fatto di averne fatta menzione negazionista, sottovalutando la circostanza che, salvo la possibilità di influenzare un interlocutore particolarmente vulnerabile (studenti per esempio), la manifestazione di pensiero possa non cagionare alcuna offesa concreta alla dignità o all’onore di vittime, che seppur martiri di un “sistema”, non si esclude possano essere materialmente impossibilitate dall’avvertire quell’insulto. Un altro principio che verrebbe violato in sede d’incriminazione penale del reato di negazionismo, attraverso la privazione della libertà personale, sarebbe il principio di proporzionalità delle pene previsto dall’articolo 275 c.p.p.46; il nostro sistema penale esige che “le condizioni e i presupposti per l’applicazione di una misura cautelare restrittiva della libertà personale siano apprezzati e motivati dal giudice sulla base della situazione concreta alla stregua dei principi di adeguatezza, proporzionalità e minor sacrificio, così da realizzare una piana individualizzazione della coercizione cautelare”47. Gli stessi principi sono stati affermati dalla Corte di Cassazione con sentenza del 19 aprile 2001 n. 16041in tema di configurabilità del reato di istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti ex art. 82 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309. Gli autori inoltre evidenziano che la stessa trasformazione ermeneutica è avvenuta per i reati di incendio di cosa altrui di cui all’art. 423 co 1 cp. 46 Art. 275 c.p.p.: «Criteri di scelta delle misure. 1. Nel disporre le misure, il giudice tiene conto della specifica idoneità di ciascuna in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto. 1-bis. Contestualmente ad una sentenza di condanna, l'esame delle esigenze cautelari è condotto tenendo conto anche dell'esito del procedimento, delle modalità del fatto e degli elementi sopravvenuti, dai quali possa emergere che, a seguito della sentenza, risulta taluna delle esigenze indicate nell'articolo 274, comma 1, lettere b) e c). 2. Ogni misura deve essere proporzionata all'entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata […]». 47 Cass. pen., SSUU n. 16085 del 31 marzo2011, in Cass. pen. 2011, 11, 3713. «Il principio di proporzionalità, al pari di quello di adeguatezza, opera come parametro di commisurazione delle misure 21 Sarebbe insomma penalmente accettabile una restrizione della libertà personale pari ad un anno di custodia cautelare (l’esempio francese insegna), stessa pena prevista nel nostro ordinamento per i reati di ingiuria, diffamazione e calunnia, quando però ad essere offesi fossero beni giuridici “incerti”, riferiti ad una sorta di diffamazione collettiva di cui sarebbe vittima la comunità ebraica (per esempio nel caso di negazione della Shoah), una collettività dai confini indeterminati e portatrice di un senso dell’onore condiviso e offeso dal negazionismo, altrettanto ostico da determinare? È davvero indispensabile e necessario l’intervento del legislatore penale in questo campo, quando sarebbero sufficienti sanzioni amministrative?48 Ed invero, il principio di materialità impone che il fatto di reato si estrinsechi nel mondo materiale, nella realtà esterna. Quale sarebbe la condotta materialmente commessa dai negazionisti?49 Gi interrogativi non sono pochi, eppure in tanti Stati europei sembra che i dubbi e le implicazioni penalistiche non siano state oggetto di opportuno dibattito se non tardivamente e dopo l’approvazione delle leggi memoriali. 4. I limiti della libertà di espressione Dal punto di vista costituzionale si pone, invece, il problema di verificare se la repressione penale del negazionismo di cui gran parte dell’Europa è testimone e che ben presto potrebbe coinvolgere anche il nostro Paese, sia legittima, ovvero urti contro alcuni dei principi cardine che l’ordinamento riconosce a ciascun individuo, tra i quali regna sovrana la libertà di espressione. Di conseguenza sarà oggetto di riflessione la posizione all’interno della quale inquadrare chi nega pubblicamente fatti aberranti della storia, vale a dire quale soluzione debba prevalere tra la criminalizzazione dei negazionisti e il far rientrare le condotte degli stessi in pure e semplici manifestazioni della libertà di espressione. E allora quali sono i fondamenti della libertà di espressione, quali gli interessi che l’espressione delle opinioni può urtare e che meritano di essere preservati? cautelari alle specifiche esigenze ravvisabili nel caso concreto, tanto al momento della scelta e della adozione del provvedimento coercitivo, che per tutta la durata dello stesso, imponendo una costante verifica della perdurante idoneità della misura applicata a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o residuino, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale». 48 E. Fronza, Profili penalistici del negazionismo, cit. 49 A. Di Giovine, Il passato che non passa: «Eichmann di carta» e repressione penale, cit. 22 Orbene, il dubbio è se esistano ed eventualmente quali siano i valori sulla base dei quali giustificare le limitazioni alla libertà di opinione, considerando che non tutti gli Stati che si sono dotati di una legislazione memoriale sono stati intellegibili nell’accordare tutela all’interno delle rispettive legislazioni: c’è chi ha prediletto l’ordine pubblico piuttosto che la prevenzione dei reati alla libera manifestazione del pensiero, chi l’incolumità pubblica o la tutela delle minoranze, chi ha implicitamente fatto riferimento ad una serie di valori costituzionali senza specificarne il fondamento. Quando si parla di libertà d'espressione, il pensiero corre alle varie Costituzioni degli Stati e inevitabilmente ai documenti ufficiali. Ad esempio, se la Costituzione americana non prevede, almeno esplicitamente, alcun limite in tal senso, la Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, condiziona il riconoscimento della libertà di pensiero alla tutela dell’“ordine pubblico stabilito dalla legge”, disponendo all’art. 11 che “La libera comunicativa dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge”; e ancora l’ art. 4 della stessa Dichiarazione statuendo che “La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri”, garantisce che l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo abbia come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti. A prescindere dall’ordinamento democratico a cui si faccia riferimento, possiamo innanzitutto considerare un duplice fondamento che connota la libertà di espressione: da una parte esiste una libertà di espressione concepita come fine a sé stessa, dall’altra e convive con la prima, una libertà di espressione come meccanismo al servizio della verità50. È solo in questa seconda accezione che si giustifica l’importanza di una garanzia costituzionale fondamento di tutti gli Stati democratici. Per stabilire la verità occorre, infatti, che le idee circolino e solo in un’ottica d’“insieme” vengano comparate; così è necessario che ai fini della verità “transitino” tanto idee condivise, quanto idee disapprovate, i pensieri più o meno giusti che siano devono ugualmente circolare, poiché «ci sono più possibilità di pervenire alla verità se sono stati scambiati tutti gli argomenti e infinitamente meno se il potere politico ha intrapreso la costruzione di una verità ufficiale»51. È questo un corollario dell’uguaglianza degli individui: se le Costituzioni democratiche garantiscono l’uguaglianza di tutti gli uomini, essi hanno 50 51 M. Troper, La legge Gayssot e la Costituzione, cit., p.195. Ibidem, 195-196. 23 uguale diritto di proferire parola. E anche se l’interlocutore, come spesso accade, di fronte ad una miriade di possibilità non fosse in grado di scegliere, è più giusto che a scegliere sia lo Stato? Che cosa indica la libertà di espressione se non il diritto ad esternare liberamente le proprie opinioni e quindi a condividere all’esterno le proprie convinzioni revisioniste o negazioniste che siano? Possono quindi a livello costituzionale le propalazioni negazioniste sebbene provenienti da una minoranza (così come quindi la legislazione antinegazionista), ritenersi compatibili con l’ambiente liberaldemocratico nel quale sono inserite? Può il Parlamento stabilire una verità storica, e può il diritto alla libertà di espressione consentire la distorsione di quella verità? Ed invero, è pacifico rilevare all’interno di qualsivoglia ordinamento democratico da una parte una garanzia di libertà di pensiero, dall’altra una serie di limiti più o meno espliciti. Quali sono allora i limiti della manifestazione del pensiero previsti dalla Costituzione italiana, in presenza dei quali «possono ritenersi contenutisticamente non tutelate alcune forme di manifestazione di pensiero?»52 L’unico limite esplicito riconosciuto dalla nostra Costituzione e previsto dall’ultimo comma dell’art. 21 è il buon costume53. I limiti impliciti alla libertà d’espressione si desumono invece, dalla lettura dell’intero testo costituzionale in materia di libertà. Così rientrano nei limiti alla libertà di manifestazione del pensiero, il diritto all’identità personale54, all’onore e alla reputazione, assieme ad esigenze di giustizia, sicurezza dello Stato e ordine pubblico. In sostanza, si è inclini a riconoscere limiti alla libertà di pensiero solo in vista della tutela di altre libertà individuali e al fine di porre a freno il pericolo che corre la società. 52 A. Pace, M. Manetti, Art. 21, in Commentario della Costituzione, Zanichelli, il Foro italiano, 2006, p. 54. 53 Il concetto di buon costume che la giurisprudenza costituzionale e la dottrina hanno adottato è tratto dal codice penale: si intende per buon costume il comune senso del pudore e della pubblica decenza nella sfera sessuale. Nella sentenza n. 9 del 1965 la Corte costituzionale definisce il buon costume: «l’insieme di precetti che impongono un determinato comportamento nella vita sociale di relazione, la inosservanza dei quali comporta la violazione del pudore sessuale, della dignità personale (…) e del sentimento morale dei giovani». 54 Cass. civ., 22 giugno 1985, n. 3769 in Dir. famiglia 1985, 901. I Giudici hanno per la prima volta tracciato i contorni di una libertà consistente nella fedele rappresentazione da parti di terzi della propria personalità individuale «L'interesse della persona, fisica o giuridica, a preservare la propria identità personale, nel senso di immagine sociale, cioè di coacervo di valori (intellettuali, politici, religiosi, professionali ecc.) rilevanti nella rappresentazione che di essa viene data nella vita di relazione, nonché, correlativamente, ad insorgere contro comportamenti altrui che menomino tale immagine, pur senza offendere l'onore o la reputazione, ovvero ledere il nome o l'immagine fisica, deve ritenersi qualificabile come posizione di diritto soggettivo, alla stregua dei principi fissati dall'art. 2 cost. in tema di difesa della personalità nella complessità». 24 È pacifico sostenere, così come è stato riconosciuto tanto da dottrina quanto da giurisprudenza, che la libertà di pensiero copre le manifestazioni di pensiero senza preoccuparsi della chiarezza del contenuto o delle attese dell’interlocutore55. Equivale questo a dire che in linea di principio sono ammesse anche forme non veritiere di espressioni, forme tali da non soddisfare le aspettative di una maggioranza che ben considera “fatto notorio” e per questo innegabile la Shoah o il genocidio degli armeni? È lecito punire semplici manifestazioni di ignoranza quali ben possono essere considerate le espressioni di negazione dell’esistenza delle camere a gas? Sono da considerare inaccettabili istanze negazioniste a fronte di una libertà di espressione che non ha mai taciuto di avere limiti? Come si è già avuto modo di precisare nel paragrafo precedente, si possono distinguere all’interno della categoria delle manifestazioni di pensiero emesse in un contesto di circolazione di idee, vere e proprie opinioni e atti che invece esulano dalla categoria delle opinioni in senso stretto, perché dotati di un potenziale ben maggiore del semplice fine comunicativo: è in quest’ottica che una teoria o un’opinione lascia il posto all’apologia. È in quest’ultimo caso che la condotta dovrebbe perdere “lo scudo protettivo” della libertà di espressione poiché acquisisce carica lesiva capace di ferire l’interlocutore. Le Corti europee si stanno muovendo lungo una direzione univoca: limitare la libertà di espressione al cospetto di altri valori costituzionali ritenuti astrattamente e ontologicamente lesi, tante volte a prescindere dalla effettiva idoneità lesiva della condotta negazionista. Nel prossimo capitolo i valori costituzionali “privilegiati” dalle corti europee saranno oggetto di approfondimento all’interno della variegata casistica giurisprudenziale che ha coinvolto le aule dei tribunali non italiani. 5. La legittimità delle azioni di risarcimento danni a seguito di condotte negazioniste Da ultimo, le condotte negazioniste possono rilevare anche sotto il profilo del diritto civile attraverso la necessità di rilevare gli eventuali danni risarcibili in capo alle vittime. In che modo dovranno e potranno le vittime dei più efferati crimini della storia 55 A. Pace, M. Manetti, Art. 21, cit., p. 51. «Beninteso anche le informazioni non intellegibili sono costituzionalmente garantite, ancorché non siano in grado di soddisfare le attese del lettore o del telespettatore, i quali se insoddisfatti, potranno soltanto…cambiare quotidiano o programma». 25 dimostrare non solo l’ingiustizia del danno subito (di cui si tratterà nel capitolo V), quanto la lesione che la negazione dei fatti ha provato? Poiché le vittime dirette della storia stanno scomparendo, le aule dei tribunali, sempre più sovente, “ospitano” i discendenti delle stesse, alle prese con difficili dimostrazioni della lesione del proprio diritto di identità personale. È quest’ultima una figura di elaborazione giurisprudenziale che si caratterizza per «il diritto di ognuno a che la proiezione sociale della propria personalità non subisca travisamenti o distorsioni a causa dell’attribuzione di idee, opinioni o comportamenti differenti da quelli che l'individuo ha manifestato nella vita di relazione»56, il diritto, insomma, alla corretta percezione sociale dell’identità personale, la possibilità che una distorta rappresentazione dei fatti stravolga la personalità degli individui agli occhi del pubblico e consegni alla collettività una visione non veritiera di fatti e persone. In materia di negazionismo la situazione italiana risulta, come già anticipato, nettamente distinta dal resto d’Europa: la presenza delle leggi memoriali in molti Stati Europei ha “eluso” il ricorso alla responsabilità civile per i danni derivanti dal negazionismo, avvalendosi piuttosto delle disposizioni ad hoc idonee a punire la stessa condotta; in questo senso il caso italiano appare una eccezione, affiancata solo da pochi ricorsi ex art. 1382 code civil, in territorio francese, di cui si tratterà nel capitolo III. A causa proprio della diffusione delle legislazioni memoriali in Europa la responsabilità civile è stata sempre meno oggetto delle richieste di risarcimento da parte delle vittime di condotte negazioniste. Di conseguenza la questione italiana di cui si tratterà nel paragrafo VII, di ricorso alla responsabilità extracontrattuale risulta, così, emblematica di un ordinamento che cerca di muoversi lungo il solco del risarcimento ex art. 2043, sebbene senza alcun accoglimento, per il momento, da parte degli organi giudicanti. 56 G. Pino, Il diritto all'identità personale. Interpretazione costituzionale e creatività giurisprudenziale, Il Mulino, 2003, p.105.; Cass. civ. 22 giugno 1985, n. 3769, in Foro it. 1985, I, 2211: ogni soggetto ha «interesse a non vedersi all'esterno alterato, travisato, offuscato, contestato il proprio patrimonio intellettuale, politico, sociale, religioso, ideologico, professionale, ecc. quale si era estrinsecato od appariva, in base a circostanze concrete ed univoche, destinato ad estrinsecarsi nell'ambiente sociale». 26 6. Il dibattito sulla sanzionabilità delle condotte negazioniste in Italia Che ne sarebbe stato del vescovo lefebvriano Richard Williamson57, se anche l’Italia fosse dotata di una legislazione antinegazionista? Le tesi del prelato, sebbene abbiano scatenato passioni e polemiche nel nostro Paese, non hanno comportato alcuna sanzione a suo carico. Il diritto alla libera manifestazione del pensiero gode di un’ampia tutela in Italia, sebbene non paragonabile all’assolutezza americana; nonostante lo sdoganamento di una tendenza generale diversa nel resto dell’Europa, come si è già avuto modo di precisare, manca nel nostro Paese una disciplina che punisca specificamente la negazione di qualsivoglia genocidio. Tuttavia, nell'ordinamento giuridico italiano sono presenti varie fattispecie di reato d’istigazione e di apologia all'odio razziale, etnico o religioso, introdotte a partire dalla legge 20 giugno 1952, n. 645 (c.d. legge Scelba), legge adottata per dare attuazione alla XII disposizione finale della Costituzione, la quale vieta «la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista»58; l’Italia dispone inoltre di una fattispecie incriminatrice che, pur non del tutto assimilabile al modello tipico del reato di negazionismo, così come configurato in altri paesi europei, persegue finalità politicocriminali molto simili: si allude al delitto di apologia di genocidio, introdotto dall’art. 8, 2° comma, della l. 9 ottobre 1967 n. 96259, in attuazione della Convenzione internazionale per la prevenzione e repressione del delitto di genocidio approvata dall’Assemblea generale O.N.U il 9 dicembre 194860. Con la legge n° 654/1975, l'Italia ha ratificato la Convenzione internazionale per l'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, configurando così un 57 M. Introvigne, Le origini di sinistra del negazionismo dell’Olocausto: in margine a caso Williamson “la via del negazionismo? Prima a sinistra” in Il domenicale, anno 8, n. 18, 2 maggio del 2009, pp. 6-7. Richard Williamson è uno dei quattro vescovi ordinati da Marcel Lefebvre che, scomunicato nel ‘88 da Papa Paolo Giovanni II, nel 2009 ha ricevuto il “perdono” pontificio, il vescovo Williamson, è stato condannato oggi a pagare una multa di 10 mila euro, per le sue tesi ngazioniste, in particolare ci si riferisce all'intervista televisiva rilasciata alla televisione pubblica svedese nel gennaio del 2009, in cui Williamson aveva negato l'esistenza delle camere a gas nei campi di concentramento nazisti. “Credo che le prove storiche parlino fortemente contro al fatto che sei milioni di persone siano state intenzionalmente gasate come perfida strategia di Adolf Hitler. Non è possibile ci siano state camere a gas.” Questa una delle tante dichiarazioni negazioniste in un’intervista rilasciata da Williamson a Zaitzkofen, vicino Ratisbona: per queste ragioni il processo in questione a suo carico si sta tenendo a Ratisbona, ed è cominciato il 4 luglio 2011. Un’altra istanza, nell’aprile del 2010, condannò l’arcivescovo a una multa di 10.000 Euro per incitazione all’odio razziale. 58 A. Manna, voce fascismo (sanzioni contro il) in Dig. disc. pen. V, Utet, 1991, p. 137 ss. 59 Legge 9 ottobre 1967, n. 962, Prevenzione e repressione del delitto di genocidio. Art. 8, Pubblica istigazione e apologia: «Chiunque pubblicamente istiga a commettere alcuno dei delitti preveduti negli articoli da 1 a 5, e' punito, per il solo fatto della istigazione, con la reclusione da tre a dodici anni. La stessa pena si applica a chiunque pubblicamente fa l’apologia di uno dei delitti preveduti nel comma precedente». 60 C. Visconti, Aspetti penalistici del discorso pubblico, cit. 27 sistema di repressione penale più severo nei confronti dei fenomeni di intolleranza razziale. La legge punisce chiunque diffonda, in qualsiasi modo, “idee fondate sulla superiorità e sull'odio razziale o etnico ovvero inciti a commettere o commetta violenza o atti di provocazione alla violenza nei confronti di persone a causa della loro appartenenza ad un gruppo nazionale, etnico o razziale". In un’ottica più recente, è la "legge Mancino"61che, collocandosi all'interno di un quadro normativo non ancora ricco in materia, condanna in Italia gesti, azioni e slogan legati all'ideologia nazifascista, e aventi per scopo l'incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici religiosi o nazionali, consentendo al giudice di considerare un'aggravante la finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso. L'art. 1 ("Discriminazione, odio o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi") dispone infatti che: "Salvo che il fatto costituisca più grave reato, [...] è punito: a) con la reclusione fino a un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. È vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell'assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni"62. Si tratta di una legge che al momento non ha portato nel nostro Paese, alcuna 61 Legge 25 giugno 1993 n. 205. Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa, Pubblicata in Gazz. Uff. 27 aprile 1993, n. 97. 62 L' art. 2 ("Disposizioni di prevenzione") stabilisce che «chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi" come sopra definiti "è punito con la pena della reclusione fino a tre anni e con la multa da lire duecentomila a lire cinquecentomila." Inoltre lo stesso articolo vieta la propaganda fascista e razzista negli stadi, disponendo che "è vietato l'accesso ai luoghi dove si svolgono competizioni agonistiche alle persone che vi si recano con emblemi o simboli" di cui sopra. "Il contravventore è punito con l'arresto da tre mesi ad un anno." L'art. 4 punisce con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da lire 400.000 a lire 1.000.000 "chi pubblicamente esalta esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche. Se il fatto riguarda idee o metodi razzisti, la pena è della reclusione da uno a tre anni e della multa da uno a due milioni». 28 conseguenza in termini di negazionismo, escludendo ad oggi, l’assimilazione delle condotte elencate nell’art. 1 della Legge Mancino a condotte negazioniste, (diversamente da quanto per esempio è accaduto in Spagna). Orbene, il mondo politico italiano non si è sottratto dal prendere in considerazione la possibilità di introdurre anche in Italia un reato simile a quello identificato dalle c.d. lois mémorielles. In primis è indicativo ricordare che il dibattito sulla punibilità del negazionismo ha registrato nel nostro Paese un’improvvisa impennata a seguito dell’iniziativa assunta a gennaio 2007 dall’allora ministro della giustizia Mastella, che annunciò l’imminente presentazione di un disegno di legge diretto ad introdurre nel nostro ordinamento una fattispecie incriminatrice ad hoc63. La proposta che in una prima bozza configurava la negazione dell'Olocausto come una fattispecie propria di reato, sollevò non poche polemiche: in particolare, si distinse, un movimento di storici che diffuse un documento di bocciatura al disegno di legge a firma Mastella. In tale documento dal titolo «Manifesto di critica», netta appare la posizione dei firmatari contro una verità di Stato imposta «dall'alto»: «Come storici e come cittadini siamo sinceramente preoccupati che si cerchi di affrontare e risolvere un problema culturale e sociale certamente rilevante (il negazionismo e il suo possibile diffondersi soprattutto tra i giovani) attraverso la pratica giudiziaria e la minaccia di reclusione e condanna. [...] Sostituire a una necessaria battaglia culturale, a una pratica educativa, e alle tensioni morali necessarie per fare diventare coscienza comune e consapevolezza etica introiettata la verità storica della Shoah, una soluzione basata sulla minaccia della legge, ci sembra particolarmente pericoloso per diversi ordini di motivi: 1) si offre ai negazionisti [...] la possibilità di ergersi a difensori della libertà d'espressione, le cui posizioni ci si rifiuterebbe di contestare e smontare sanzionandole penalmente; 2) si stabilisce una verità di Stato in fatto di passato storico, che rischia di delegittimare quella stessa verità storica, invece di ottenere il risultato opposto sperato. Ogni verità imposta dall'autorità statale [...] non può che minare la fiducia nel libero confronto di posizioni e nella libera ricerca storiografica e intellettuale. [...] È la società civile, attraverso una costante battaglia culturale, etica e politica, che può creare gli unici 63 Il d.d.l. XV legislatura A.S. 1694 (c.d. Mastella, dal nome del ministro della giustizia proponente), nel testo approvato dal Consiglio dei ministri il 25 gennaio 2007, non faceva in realtà riferimento diretto al negazionismo della Shoah, come invece era stato ipotizzato in una prima stesura del testo, ma prevedeva pene più severe per chi diffonde idee fondate sulla superiorità razziale e commette o incita a commettere atti discriminatori. La mancanza nel testo definitivo - il quale è stato significativamente presentato dal Governo il 27 gennaio, ossia il Giorno della memoria - di ogni riferimento al negazionismo è stata influenzata proprio dal dissenso manifestato da alcuni esponenti dell'ambiente politico-istituzionale e da una parte dell'opinione pubblica. 29 anticorpi capaci di estirpare o almeno ridimensionare ed emarginare le posizioni negazioniste. Che lo Stato aiuti la società civile, senza sostituirsi ad essa con una legge che rischia di essere inutile o, peggio, controproducente»64. Dopo il disegno di legge approvato il 25 gennaio 2007 dal Consiglio dei Ministri, e mai discusso in Parlamento, alcuni episodi di esplicita o implicita negazione della Shoah, avvenuti anche in ambiente universitario65, hanno reso nuovamente attuale la proposta di introdurre una normativa penale, al fine di reprimere la negazione della storia; di talché nel 2010 l’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano ha “riaperto la ferita” annunciando la costituzione di un gruppo tecnico di lavoro per valutare la scrittura di una norma che preveda il reato di negazionismo. La proposta del Guardasigilli non è stata accolta con favore dall'Unione delle camere penali: «L'idea di arginare un'opinione, anche la più inaccettabile e infondata, con lo strumento del diritto penale, è in aperto contrasto con il chiaro dettato della Carta costituzionale, che all'articolo 21 non pone limiti di sorta alla libertà di manifestazione del pensiero. Quella disegnata dai Costituenti non è dunque, e per fortuna, una democrazia protetta, che possa legittimamente contrastare la mera circolazione delle idee»66. Il reato di negazionismo, urterebbe insomma contro il principio secondo cui il diritto penale può e deve sanzionare un fatto dell'uomo, quando esso sia lesivo e colpevole, quando vada a ledere un diritto giuridicamente tutelato. Numerose sono state le “obiezioni” anche in Italia alle leggi limitative di una serie di garanzie costituzionali: critiche del resto, che hanno costituito la trama della battaglia condotta dagli avversari delle leggi memoriali. L’assenza di una legislazione negazionista ad hoc non ha impedito ai giudici nazionali 64 Il documento, sottoscritto da 150 storici (primo firmatario M. Fleres) fu pubblicato in diversi quotidiani, in prima battuta sulle colonne de La stampa del 20 gennaio 2007; v. anche il commento di S. Rodotà, Negazionisti in libertà. La libertà della menzogna, in La Repubblica del 26 gennaio 2007; «L'Unità», 23 gennaio 2007; «La Stampa», 20 gennaio 2007; «Corriere della Sera», 26 gennaio 2007. Cfr. anche V. C Cuccia, Libertà di espressione e negazionismo, cit., 877 ss. 65 Il 25 settembre 2010, Moffa professore ordinario presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'università di Teramo, durante l'ultima lezione dell'edizione 2009/2010 del master "Enrico Mattei in vicino e Medio Oriente", di cui era coordinatore ha prospettato una serie di tesi revisioniste, mettendo in discussione l’Olocausto. La stampa nazionale non ha mancato di pubblicare parte del contenuto della lezione. 66 Penalisti, il reato di negazionismo è contro costituzione, in Ossevatorio sul pregiudizio antiebraico contemporaneo, consultabile al sito web http://www.osservatorioantisemitismo.it/Scheda_del_documento.asp?docid=4710&idmacro=1&n_macro =2&idtipo=229&idfiglio=302&situazione=si. Rilevano ancora i penalisti, «Il giudizio su un accadimento storico, per quanto contrastante con ogni generale e documentata evidenza, non può mai essere impedito e represso con la sanzione penale: spetterà alla comunità scientifica rintuzzarlo, ove sia il caso, e alla maturità dell'opinione pubblica democratica lasciarlo nell'isolamento di chi lo formula…» e anche un solo argine, benché eticamente condivisibile, all'esercizio delle libertà politiche e tale è, prima fra tutte, la libertà di espressione, introduce un vulnus al principio che l'elenco di esse debba restare assolutamente incomprimibile: quell'elenco, infatti, come diceva Calamandrei, 'non si può scorciare senza regredire verso la tirannide». 30 di pronunciarsi in materia di condotte “negazioniste”, anche se al momento emerge un unico contenzioso in materia, e precisamente in materia di lesione del diritto all'identità personale attraverso la manifestazione di tesi c.d. negazioniste. 7. La storia in giudizio: il caso del genocidio degli armeni di fronte al Tribunale di Torino La posizione italiana sul fenomeno negazionista emerge evidente nella decisione emessa dal Tribunale di Torino, in un contenzioso che ha ad oggetto l'omissione della menzione del genocidio armeno in un'opera storico-letteraria a carattere divulgativo, realizzata su iniziativa di un quotidiano nazionale67: per la lesione del diritto all’identità personale causata dalla omissione del genocidio nell’opera, gli attori si sono avvalsi dello strumento della responsabilità civile. È la prima volta che nel nostro Paese si chiede ad un tribunale di correggere un testo storico, nel quale è omesso ogni riferimento al genocidio del popolo armeno da parte dell'impero ottomano; è la prima volta che si chiede al Giudice nel merito di «Accertare che la ricostruzione della vicenda del popolo Armeno nel periodo 1915-1923, quale esposta nei brani inseriti nei Voll. XII e XIII de “La Storia”, è lesiva del diritto all’identità personale degli attori” con conseguente condanna al risarcimento dei danni. L'Unione degli Armeni in Italia, la Fondazione «Stefano Serapian» ed alcuni membri della comunità armena hanno lamentato, infatti, la lesione del proprio diritto di identità personale, sia perché nell'opera era stato del tutto omesso ogni riferimento al genocidio armeno, sia perché i fatti storici relativi alla c.d. questione armena erano stati ricostruiti con metodo non scientifico, con conseguente stravolgimento degli accadimenti, sostenendo che decine di migliaia di persone fossero morte di stenti durante la deportazione, vittime di circostanze tragiche e non di un disegno preciso. Partendo dal presupposto che secondo gli attori tale omissione appariva un'esplicita negazione del genocidio e «che la ricostruzione fornita era tale da non porre neppure l’ipotesi che tali massacri potessero essere ricondotti alla categoria del genocidio», tali omissioni costituivano «un vulnus al 67 Trib. Torino, 27/11/2008, sentenza n. 7881/2008, in Giur. cost. 2009, 5, 3959. L'opera intitolata La Storia era stata realizzata su iniziativa del quotidiano «La Repubblica» dalla Redazione Grandi Opere della casa Editrice UTET, quest'ultima convenuta in giudizio insieme al Gruppo Editoriale l'Espresso. Davanti ai magistrati comparvero in quell’occasione l'Unione armeni d'Italia, la fondazione «Serapian» e una rappresentanza degli 82 cittadini italiani di origine armena che chiedevano in sostanza una riparazione culturale, sostenendo che passare sotto silenzio il genocidio della loro gente sulla cui memoria si è costruita un’identità collettiva, equivale a negare l’esistenza della loro comunità. 31 patrimonio spirituale, culturale e politico dell'intera comunità», qualificabili come illecite per violazione dei principi di cui all'art. 2 Cost. e 2043 c.c. «Esse apparivano poi inconcepibili, sia tenuto conto che l’opera dedicava invece ampio spazio all’Olocausto ebraico, rispetto a cui il genocidio armeno costituiva una tragica anticipazione, sia perché l’olocausto armeno era non solo riconosciuto come tale, ma addirittura considerato il prototipo dei genocidi del XX secolo» 68. Così, nonostante gli attori entrassero nel merito dei tragici eventi che avevano segnato la storia del popolo armeno, nonostante lamentassero l’inosservanza del criterio della verità, evidenziando come l’opera fosse “diretta ad un vasto pubblico non sempre in possesso delle nozioni e competenze adeguate per seguire criticamente la ricostruzione storica offerta”69, senza uniformarsi al resto dell’Europa, i giudici italiani hanno escluso che l’omissione potesse essere ritenuta esplicita negazione, «a meno di non voler attribuire al silenzio un significato che non ha». Il Tribunale di Torino ha ritenuto, nel merito, l'azione risarcitoria destituita di ogni fondamento, negando la sussistenza di lesioni del diritto invocato in relazione ai contenuti dell'opera storica contestata70. Il Tribunale ha in più precisato che la fattispecie oggetto di causa non potesse essere ricondotta a tale ipotesi, poiché l'opera non conteneva alcuna negazione espressa circa l'effettivo accadimento dei tragici eventi del popolo armeno, ma soltanto un'omessa trattazione di tali fatti in termini di genocidio, così che la portata dei contenuti appariva ben lontana dall’essere ritenuta lesiva del patrimonio dell’identità del popolo armeno71. Nel processo italiano non sono mancati riferimenti da parte degli attori, alla giurisprudenza di altre Corti europee, sebbene non accolti dai giudici nazionali. Si è, per esempio, fatto riferimento all’affaire Faurisson e Lewis72; la risposta della Corte è stata però negativa: «gli argomenti e le tesi propugnate, per quanto suggestive e affascinanti 68 Ibidem, p.3960. Ibidem, p. 3960. 70 Ibidem, p. 3960: Innanzitutto il tribunale ha individuato il limite della tutela all'identità personale, di cui all'art. 2 Cost., nel diritto di libera manifestazione del pensiero e di critica, anch'esso previsto e garantito dall'art. 21 Cost. Si afferma, infatti, che appare «giuridicamente insostenibile», la pretesa dei ricorrenti e quindi l'obbligo per l'autore di «rappresentare una vicenda storica, di abbracciare le tesi e le convinzioni di coloro che ne furono parte [...] facendo proprio anche uno stile espositivo che sia pienamente rispondente a quei sentimenti e rigorosamente calibrato in modo da non urtare la suscettibilità dei protagonisti con ciò comprimendo [...] la libertà di ricerca, di critica e di pensiero, il diritto di elaborare l'opera secondo le proprie personali idee o anche secondo mere e più semplicistiche esigenze giornalistiche o editoriali, diritto che [...] ha pari dignità costituzionale rispetto all'identità personale». 71 F. Lisena, Spetta allo Stato accertare la «verità storica?, cit. Secondo l’autrice il compito della ricostruzione storica andrebbe affidato al popolo stesso evitando qualsiasi intromissione del potere giudiziario, in sintonia con la posizione assunta dal Tribunale di Torino. Il Tribunale di Torino ha rigettato la domanda nel merito ma avrebbe ben potuto, dichiararla inammissibile per difetto di giurisdizione, ritenendo che non è compito del processo accertare la storia. 72 La giurisprudenza dei casi Faurisson e Lewis sarà oggetto di approfondimento dei prossimi capitoli. 69 32 (del tutto diverse dalle quotidiane controversie), appaiono del tutto esorbitanti dai compiti assegnati dal legislatore al processo civile», al quale non è stato attribuito «il potere di accertare la storia e quindi le esatte ragioni politiche e sociali che muovono l'umanità e a cui conseguono eventi, mutamenti e purtroppo talvolta guerre e persecuzioni». Ciò che sicuramente non può trovare tutela nel nostro ordinamento è una concezione del diritto all’identità personale che imponga e pretenda una determinata rappresentazione o riconoscimento della persona; il limite quindi della tutela assicurata a tale posizione è costituito dal diritto alla libera manifestazione di pensiero e di critica. Diverso il caso in cui ad un soggetto vengano negate «qualità oggettive o se ne discosta la paternità di azioni, che costituiscono pacificamente patrimonio della persona stessa, come rappresentata e riconosciuta all’esterno[…]», casi questi in cui il compito dell’interprete appare più delicato e compromesso. Il caso italiano si discosta evidentemente dalle cause sottoposte all’attenzione di altri giudici di merito europei e della stessa Commissione e Corte Europea dei diritti dell’uomo, sebbene, attraverso l’analisi della giurisprudenza “europea” di cui si tratterà meglio nel prossimo capitolo, può essere quanto mai semplice prevedere un verdetto diverso rispetto a quello italiano, laddove il caso di specie fosse stato sottoposto ad altra corte. Se è vero che nei casi Faurisson e Lewis, ad essere stato contestato è stato esplicitamente e direttamente il genocidio, la sua effettiva verificazione, l’esistenza delle camere a gas, dubbi sembrano non sussistere circa il fatto che, anche una omissione nei Tribunali francesi (e non solo) sarebbe stata interpretata come implicita minimizzazione, di talché, la condotta sarebbe stata probabilmente considerata come negazionista e non avrebbe per questo trovato alcuna forma di legittimazione, in ragione di un abuso del diritto di espressione previsto dall’art. 10 secondo comma della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo. Ed invero, nel 1951 nel giudizio reso dalla Cour de cassation di Parigi nel caso Branly73, gli organi giudicanti avevano già precisato che lo storico incorreva in responsabilità civile anche nel caso di semplice reticenza, trasgredendo l’esigenza di una informazione oggettiva. La Cour de Cassation74, infatti, ha riconosciuto a carico dello storico la responsabilità da informazioni inesatte, affermando che l’informazione carente, anche se non determinata da malizia o intenzione di nuocere, comporta la responsabilità dello 73 74 Si tratta dell’ affaire Branly: Cour de cassation de Paris, 27 febbraio 1951, in R. Dalloz, 1986, n. 25. Cass. 27 febbraio 1951, cit. 33 scrittore cui si possa rimproverare di non essersi comportato come uno storico prudente e consapevole dei doveri che professionalmente gli incombevano75. In altri termini, attraverso l’analisi comparata della giurisprudenza italiana con quella francese, appare subito chiara la differente strategia intrapresa dai due paesi in materia di negazionismo. Sarebbe stato identico il risultato nel caso in cui avessimo raffrontato la giurisprudenza italiana con quella di una serie di altre realtà giuridiche europee che hanno adottato disposizioni memoriali, i cui orientamenti in materia di negazionismo emergeranno chiaramente alla luce di una disamina che sarà oggetto del prossimo capitolo. Ed invero, così come la Decisione Quadro Europea non ha definito il termine “minimizzazione”, provvedendo in ogni caso a sanzionarne la condotta, anche alcuni Stati Europei che pure hanno inserito la c.d. “minimizzazione grossolana” tra i crimini punibili, non si sono preoccupati di spiegarne il significato. Ed invero, ci si potrebbe domandare se la mancata menzione nell’opera scientifica Utet del genocidio degli armeni, accanto alla lunga e dettagliata trattazione dell’Olocausto degli ebrei, possa essere assimilata ad una condotta di minimizzazione del genocidio armeno. Una risposta affermativa spiegherebbe il differente “regime sanzionatorio” tra l’Italia e il resto dell’Europa, senza considerare poi il diritto di elaborare l’opera secondo le proprie personali idee o anche secondo le esigenze giornalistiche, diritto che, come ha ben chiarito il Tribunale di Torino, ha pari dignità costituzionale rispetto all’identità personale. Ed infine, un profilo soltanto sfiorato nella sentenza italiana, e che tocca in realtà lo stesso fondamento dei moderni ordinamenti democratici, induce a domandarsi se sia davvero compito dello Stato, del potere legislativo e giudiziario, plasmare una verità storica e predisporre limiti alle libertà fondamentali. 75 J. Françillon, Aspects juridiques des crimes contre l’humanité, in L’actualitè du genocide des arméniens (Actes du colloque tenu à la Sorbonne, les 16, 17 et 18 avril 1998), Edipol, Créteil, 1999, p. 403. L’autore scriveva: «chi opta per il silenzio, per le omissioni ha una ragione in più per essere considerato negazionista». 34 Capitolo II IL CONTRASTO AL NEGAZIONISMO E LA GARANZIA DELLA LIBERTÀ D’ESPRESSIONE: LA PROSPETTIVA DELLA COMMISSIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO 1. Essere negazionisti in Europa e fuori: tra detenzione e libertà La seconda fase del percorso di giuridificazione della storia coincide con l’imposizione ex lege di obblighi di memoria, una tendenza del potere legislativo volta a criminalizzare il passato - per altro di “tardiva” elaborazione – la quale connota ormai trasversalmente l’intero spazio europeo. Un trend che ci si sarebbe aspettato dai regimi totalitari sta prendendo, invece, corpo in numerose democrazie europee. Leggi antinegazioniste, lois mémorielles, decisioniquadro e direttive europee: l'Europa da circa un ventennio ha intrapreso un percorso di “giurisdizionalizzazione” del passato resosi terreno favorevole per il voto di leggi qualificate successivamente come memoriali, volte a “gestire” l’Olocausto ed in generale i crimini contro l’umanità. Le ragioni di quel che si presenta come un’autentica escalation sono piuttosto complesse; si tratta in ogni caso di una strategia volta ad “istituzionalizzare” – attraverso una damnatio memoriae a forme invertite – l’Olocausto e altri crimini ritenuti allo stesso tempo meritevoli di questo tipo di sanzioni. Un’analisi comparata mette in risalto l’esistenza di numerose legislazioni che propongono iure imperii una determinata lettura e rilettura di un evento del passato e ne impongono il rispetto anche contro alcune delle libertà fondamentali garantite dalle Costituzioni degli stessi Paesi. Ci si riferisce in particolare a disposizioni normative che si nascondono dietro una presunta ineluttabilità, leggi non ancora del tutto estese e molto recenti, sebbene in alcuni casi i tentativi di introduzione sono ben più risalenti. Su scala europea, dei quarantasette Paesi membri del Consiglio d’Europa, sette Stati hanno introdotto nelle rispettive legislazioni, tra il 1990 e il 1997, disposizioni volte a reprimere comportamenti negazionisti; una lista simbolica che vede protagonisti Francia, Austria, Belgio, Spagna, Lussemburgo, Svizzera e Germania; simbolica perché alcuni dei Paesi indicati sono, ed è una “verità ufficiale”, direttamente responsabili della Shoah (l’eccidio per eccellenza che sta particolarmente a cuore ai negazionisti), i 35 restanti invece potrebbero essere definiti come i testimoni, rimasti muti, del genocidio degli ebrei. La lista appena tratteggiata ha subito un ampliamento dopo il 2008, a seguito dell’emanazione della Decisione Quadro da parte del Consiglio d’Europa76, con l’obiettivo precipuo del ravvicinamento delle disposizioni legislative in materia di xenofobia, razzismo e negazionismo degli Stati membri. I sette Paesi pionieri, che hanno inaugurato le legislazioni anti-negazioniste in senso stretto, appartengono all’Europa Occidentale e sono tutti Paesi di “diritto scritto”; gli stati anglosassoni e scandinavi, pur essendo progrediti in materia di lotta al razzismo e antisemitismo, non hanno ancora introdotto nelle rispettive legislazioni interne disposizioni volte a reprimere comportamenti negazionisti; la probabile spiegazione risiede nella tradizione giuridica di tali Paesi, essendo gli stessi legati ad una concezione massimalista e intransigente della libertà d’espressione77. Quest’ultima è, del resto, una tendenza emblematicamente riscontrabile nel diritto statunitense, fortemente influenzato dal primo emendamento alla Costituzione del 179178. Accanto agli ordinamenti anglo-americani, anche quelli nord-europei esaltano la libertà di manifestazione del pensiero, diversamente dai sistemi continentali europei (soprattutto i Paesi che hanno avuto esperienza diretta della persecuzione antisemita), all’interno dei quali si evidenzia una ulteriore differenziazione, tra la normativa degli Stati dell’Europa occidentale, che prende in considerazione esclusivamente il fenomeno nazista - così che tra milioni di avvenimenti che hanno costituito la trama della storia dell’umanità, la negazione di uno solo, l’Olocausto degli ebrei nelle camere a gas tra il 1942 e il 1944, viene ritenuto punibile - e quella dell’Europa centro-orientale che amplia la questione, fino a coinvolgere anche il totalitarismo stalinista, con una equiparazione non esente da polemiche. Per un quadro più completo, va precisato che, fuori dal Consiglio d’Europa e ancora prima dell’avvio francese alla legislazione antinegazionista, in Israele, la Knesset aveva approvato nel 1986 la Denial of Holocaust (Prohibition) Law 5746-1986 che punisce la 76 Decisione Quadro 2008/913/GAI in GU L 328 del 6.12.2008. M. Valdès-Boulouque, Les législations en vigueur en Europe, pag. 71, Atti del Convegno La lutte contre le négationnisme, Bilan et perspectives de la loi du 13 juillet 1990 tendant à réprimer tout acte raciste, antisémite ou xénophobe. Vendredi 5 juillet 2002, Cour d'Appel de Paris, consultabile on line http://www.vho.org/aaargh/fran/livres5/trichetruche.pdf. 78 Primo emendamento della Costituzione americana: “Il Congresso non promulgherà leggi che favoriscano qualsiasi religione, o che ne proibiscano la libera professione, o che limitino la libertà di parola, o di stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea, e di fare petizioni al governo per riparazione di torti”. 77 36 negazione dello Holocaust nei seguenti termini: “ A person who, in writing or by word of mouth, publishes any statement denying or diminishing the proportions of acts committed in the period of the Nazi regime, which are crimes against the Jewish people or crimes against humanity, with intent to defend the perpetrators of those acts or to express sympathy or identification with them, shall be liable to imprisonment for a term of five years.” A questo reato si aggiunge un divieto di pubblicare manifestazioni di simpatia nei confronti dei crimini nazisti79. 2. Un panorama sulle leggi memoriali in Europa Al cospetto di democrazie che hanno adottato disposizioni normative più o meno dettagliate volte a sanzionare la negazione di un fatto storico, risulta quanto mai necessario, in un’ottica comparatistica, e senza la pretesa di essere esaustivi, illustrare le disposizioni normative negazioniste presenti ad oggi negli Stati europei. Ad una disamina iniziale, limitata solo ad alcuni Stati, si aggiungerà nel prossimo paragrafo, l’esame delle disposizioni normative afferenti ai paesi che si sono muniti “tardivamente” di legislazione antinegazionista, e precisamente solo a seguito della approvazione della Decisione Quadro del 200880. La legislazione anti-negazionista in tutta Europa risulta piuttosto omogenea (ci si riferisce tanto a quella dei sette paesi che inizialmente hanno provveduto a punire comportamenti negazionisti, quanto agli Stati che solo dopo la Decisione Quadro del 2008 hanno rivisitato le rispettive normative): si tratta di leggi simili fra loro, ma non identiche. Convivono nella mole di legislazioni memoriali, paesi che limitato l’incriminazione solo al caso di negazione dell’Olocausto: Germania81, il Belgio82, e 79 S. Roth, Making the Denial of the Holocaust a Crime in Law, Institute for Jewish Affairs, Research Reports, n° 1, mars 1982, 1-12. 80 Decisione quadro 2008/913/GAI cit. 81 J. Luther, L’antinegazionismo nell’esperienza giuridica tedesca e comparata, in Dir. pubbl. comp. ed eur. 2008, 1192 ss. L’autore enuncia le tappe del negazionismo nell’esperienza tedesca, in cui le condotte riconducibili al negazionismo sono varie e comprendono, in particolare, “l’apologia di reato (§ 140 StGB: Billigung von Straftaten), il vilipendio della memoria dei defunti (§ 189 StGB: Verunglimpfung des Andenkens Verstorbener), l’ingiuria e la diffamazione verso persone individuali, collettività organizzate o categorie di persone non organizzate (§ 185 StGB: Beleidigung, § 186 StGB Verleumdung) e, infine, il cd. “aizzamento del popolo” (§ 130: “Volksverhetzung”). Nel 1960, il Bundestag ha approvato all’unanimità il nuovo art. 130 del codice penale (StGB) sotto il nuovo titolo di “aizzamento del popolo” (Volksverhetzung): “Chiunque aggredisce, in forme idonee a turbare la pace pubblica, la dignità umana altrui 1) istigando all’odio contro parti della popolazione, 2) esortando a compiere atti di violenza o di arbitrio nei loro confronti, 3) insultando, denigrando con malizia o calunniando gli stessi, 37 l’Austria83, e Paesi che estendono il reato alla negazione di più genocidi (Francia, Spagna, Portogallo, Svizzera); leggi che puniscono la sola negazione, e disposizioni che incriminano anche la minimizzazione e la banalizzazione del crimine. Ed invero, nel quadro europeo si alternano leggi che richiedono per la punibilità, l’idoneità a turbare la pace pubblica (Germania) e altre che rinunciano a questa condizione (Francia e Belgio). Diversi poi sono gli agganci alla normativa internazionale al fine d’individuare l’area di punibilità: la legge francese, per esempio, fa riferimento all’art. 6 dello Statuto del Tribunale militare di Norimberga, mentre quella belga si rifà all’art. 2 della Convenzione del 1948 per la prevenzione e repressione del genocidio84. 4) viene punito con la reclusione per non meno di tre mesi. Inoltre può essere inflitta una pena pecuniaria”. 82 Belgium Negationism law (1995, emendamenti 1999), in Belgian Official Journal Marzo, 1995. 83 Verbotsgesetz 1947, StF: StGBI Nr 148/1992, legge costituzionale austriaca promulgata nel 1947 con emendamenti del 1992. Con l'approvazione della legge di proibizione sono stati ufficialmente vietati il partito nazista, le sue strutture armate e tutte le organizzazioni dipendenti. 84 A. Di Giovine, Il passato che non passa: “Eichmann di carta” e repressione penale, cit; A. Di Giovine (cur.), Democrazie protette e protezione della democrazia, Giappichelli, 2005; E. Fronza, Profili penalistici del negazionismo, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, 1034 ss. Ad essere richiamate la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo del 1950 (art. 10), la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 1965 (art. 4); il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 (art. 20), l’Azione comune del 15 luglio 1996 adottata dal Consiglio dell’UE, sulla base dell’art. 3 del Trattato sull’UE, concernente l’azione contro il razzismo e la xenofobia, nella quale gli Stati membri sono sollecitati a reprimere la negazione pubblica dei crimini definiti dall’art. 6 dello Statuto del Tribunale di Norimberga; la risoluzione del Parlamento Europeo del 30 gennaio 1997, che invita, in occasione dell’Anno europeo sul razzismo, gli Stati membri «a prendere, sulla base dell’art. 1, punto 7, del Trattato sull’UE, delle iniziative che permettano di lottare efficacemente contro il razzismo, la xenofobia e l’antisemitismo, e contro la diffusione di tesi negazioniste, prevedendo o rafforzandole sanzioni e migliorando le possibilità di azioni giudiziarie». 38 2.1 La negazione dell’Olocausto come unico oggetto di sanzione L’inaugurazione della legislazione memoriale in Europa coincide con la loi Gayssot85: la Francia, pioniera in materia, ha aperto un dibattito non ancora placatosi con l’introduzione della legge Gayssot del 13 luglio 1990. Si tratta di un atto normativo che ha sin da principio suscitato passioni e polemiche: è unicamente la negazione dell’Olocausto ad essere incriminata dal provvedimento in oggetto, con previsione di ammenda, restrizione della libertà personale e talvolta anche di interdizione professionale per il caso di violazione. Almeno inizialmente, e per lungo tempo, probabilmente per limitare i rischi di una eccessiva compressione della libertà di espressione, e per scongiurare il pericolo di affidare ai tribunali il compito di ricerca dell’intera verità storica, la Francia ha scelto di limitare l’oggetto della negazione al solo genocidio nazionalsocialista e ai crimini giudicati da un tribunale nazionale o internazionale, con il risultato che non risultava passibile di sanzione colui che, spigolando negli angoli più reconditi della storia, avesse contestato un genocidio diverso da quello perpetrato ai danni degli ebrei (questo quello che accadeva fino a poche settimane fa). La legge Gayssot stabilisce, infatti ,all’art. 24-bis86 specifiche pene per chiunque neghi "l’esistenza di uno o più delitti contro l’umanità, così come definiti 85 Legge n° 90-615 del 13 luglio 1990, in Bullettin Officiel du Ministre de la Justice, n° 39 del 30 settembre 1990, Circulaire Crim 90-09 F1 del 27 agosto 1990, Application de la Loi n 90-615 del 13 luglio 1990 tendant à réprimer tout acte raciste, antisémite ou xénofobe. Sulla legge Gayssot e per alcune note applicazioni giudiziarie di tale disciplina, in particolare sul caso Faurisson e sul caso Garaudy, cfr. M. Troper, La legge Gayssot e la Costituzione, in Ragion pratica 1997, pag. 189 ss., P. Wachsmann, Libertà di espressione e negazionismo, ivi, 1999, 57 ss.; M. Ripoli, Ancora sul negazionismo. Garaudy letto sul serio, ivi 1999, 71 ss.; A. Buratti, L'affaire Garaudy di fronte alla Corte di Strasburgo. Verità storica, principio di neutralità etica e protezione dei «miti fondatori» del regime democratico, in Giur. it. 2005, 12 ss. Nella stessa direzione di severità normativa e di ferma condanna verso ogni forma di negazionismo si colloca la proposta di legge che punisce specificamente la negazione del genocidio armeno, approvata in prima lettura il 12 ottobre 2006 e mai esaminata dal Senato per l’assenza della maggioranza tanto di destra quanto di sinistra. Probabilmente per evitare gli effetti nefasti nelle relazioni diplomatiche e commerciali tra la Francia e la Turchia, non avendo ancora i governi turchi ammesso le responsabilità della nazione in quell'ecatombe, in Senato non si è mai discussa la legge. In data 22 dicembre 2011 l’Assemblea Nazionale francese, nonostante da parte della Turchia non ci sia stato alcun riconoscimento in merito, ha approvato un testo che prevede un anno di carcere e 45.00 euro di ammenda per chi nega o minimizza grossolanamente il genocidio turco ai danni degli Armeni. 86 Article 24 bis, Legge Gayssot: «Seront punis des peines prévues par le sixième alinéa de l'article 24 ceux qui auront contesté, par un des moyens énoncés à l'article 23, l'existence d'un ou plusieurs crimes contre l'humanité tels qu'ils sont définis par l'article 6 du statut du tribunal militaire international annexé à l'accord de Londres du 8 août 1945 et qui ont été commis soit par les membres d'une organisation déclarée criminelle en application de l'article 9 dudit statut, soit par une personne reconnue coupable de tels crimes par une juridiction française ou internazionale». Le tribunal pourra en outre ordonner : 1° L'affichage de sa décision dans les conditions prévues par l'article 51 du code pénal ; 2° La publication de celle-ci ou l'insertion d'un communiqué dans les conditions prévues par l'article 511 du code pénal sans que le frais de publication ou d’insertion puissent excéder le maximum de l’amende encourue» 39 dall’art. 6 dello Statuto del tribunale militare internazionale annesso all’accordo di Londra dell’8 agosto 1945". Accanto ad una iniziale e limitata incriminazione da parte della Francia sulla base della loi Gayssot, si sono aggiunte altre disposizioni che estendono il raggio della punibilità ad altri genocidi commessi nella storia dell’umanità, oltre a disposizioni che al momento sono allo stadio di semplici proposte di legge. La questione francese sarà oggetto di approfondimento nel prossimo capitolo. Tra gli Stati che hanno limitato la portata della incriminazione al solo genocidio degli ebrei, ricordiamo, in ordine di tempo, l’Austria, la quale ha novellato la propria normativa in chiave antinegazionista, inserendo con legge del 26 febbraio 1992 nella “vecchia” legislazione sul divieto del partito nazionalsocialista87, due nuovi paragrafi, il primo contenente una fattispecie generale e sussidiaria che punisce con pena detentiva da uno fino a dieci anni, e in caso di particolare pericolosità del reo o dell’attività, fino a 20 anni” (§ 3g) “chiunque compie attività in senso nazionalsocialista (…); il secondo accoglie invece una disposizione specifica contro la negazione del genocidio nazionalsocialista (§ 3 h); in applicazione del § 3 g viene punito “chiunque con un’opera di stampa, in radiotelevisione o attraverso altro mezzo di comunicazione di massa (medium) o in altro modo pubblico accessibile a una moltitudine di persone, nega, banalizza grossolanamente, apprezza o cerca di giustificare il genocidio nazionalsocialista o altri reati contro l’umanità”. La legge austriaca, dotata delle sanzioni più rigorose in Europa, è stata peraltro applicata allo storico David Irving, condannato in data 20 febbraio 2006 a pena detentiva pari a tre anni88. In Germania la legge del 28 ottobre 1994 si è mossa in una direzione simile a quella austriaca e iniziale francese89, modificando l’art. 130 del codice penale, che ora punisce “chi pubblicamente o in una riunione, approva, nega o minimizza il genocidio nazista nei confronti degli ebrei, in maniera idonea a turbare la pace pubblica” 90. Tuttavia, è 87 In Austria, con una modifica del 26 febbraio 1992 alla legge costituzionale del 6 febbraio 1947 sull’interdizione del partito nazionalsocialista, si è introdotta la fattispecie della negazione o della grave minimizzazione dei genocidi nazisti e socialisti. 88 M. Malena, Il caso Irving: libertà di pensiero o mistificazione della realtà?, in Quad. cost., 2006, p. 116. 89 R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study, cit., p. 15. L’autore ricorda che per i cittadini della Repubblica federale il rifiuto andava oltre una semplice discussione storica sull'Olocausto; qualsiasi riferimento alla Shoah, anche durante una semplice conversazione veniva interpretato come un'affermazione simbolica di nazismo, non differente dal saluto di Hitler e dalla svastica. 90 F. Rotondi, Luna di Miele ad Auschwitz, Riflessioni sul negazionismo della Shoah, Edizioni Scientifiche Italiane, 2005, p. 22 ss. I gerarchi tedeschi si preoccuparono nel momento stesso dell’espletamento del genocidio di occultarne le prove, ricorrendo costantemente alla Sprachregelung 40 proprio nel paese a maggior rischio di interpretazioni minimizzatrici e orientate alla relativizzazione delle colpe del passato nazista, nel paese in cui la libertà di parola ha considerevole appoggio istituzionale e culturale anche perché protetta dall’art. 5 della Legge fondamentale (Grundgesetz)91, che il codice penale punisce la c.d. “menzogna di Auschwitz pura e semplice”92, qualora tale condotta sia idonea a turbare la quiete pubblica, senza che sia necessaria l’intenzione di ledere la dignità umana dei perseguitati o di sottolinearne l’inferiorità razziale93. Rientra pure nella “categoria” degli Stati europei che si sono limitati a punire il solo genocidio perpetrato ai danni degli ebrei, il Belgio, che nel 1995 ha visto l’adozione di una disposizione che punisce ogni atto che «nie, minimise grossièrement, cherche à justifier ou approuver le génocide commis par le régime nationalsocialiste allemand durant la seconde guerre mondiale»94: tale legge richiama al comma secondo la Convenzione internazionale del 1948 per la prevenzione e repressione del genocidio, sfruttando la definizione contenuta nella stessa del termine genocidio 95 . Contestata da più parti, la legge del 1995 è finita al vaglio della Cour d’arbitrage belga, chiamata a (linguaggio cifrato usato per nascondere la vera natura delle operazioni criminali), distruggendo documenti compromettenti, eliminando al termine del conflitto qualsiasi traccia di edifici adibiti a camere a gas, e delle vittime degli stessi massacri. Nella Sprachregelung lo sterminio era chiamato Endlösung (soluzione finale), gli architetti della Zentralbauleitung (Direzione centrale delle costruzioni) indicavano le camere a gas omicide sotterranee con il termine Sonderkeller (cantine per azioni speciali) e quelle in superficie Badeans für Sonderaktionen (bagni per azioni speciali)”. 91 Republic of Germany (Baden-Baden: Nomos, 1988), 91–106, 92, Articolo 5(1): “Everyone shall have the right freely to express and disseminate his opinion by speech, writing and pictures and freely to inform himself from generally accessible sources. Freedom of the press and freedom of reporting by means of broadcasts and film are guaranteed. There shall be no censorship.” Article 5(2): “These rights are limited by the provisions of the general laws, the provisions of law for the protection of youth, and by the right to inviolability of personal honor.” citato in R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study, cit., p. 148. 92 M.C. Vitucci, Olocausto, capacità di incorporazione del dissenso e tutela costituzionale dell’asserzione di un fatto in una recente sentenza della Corte costituzionale di Karlsruhe, in Giur. Cost., 1994, p. 3379 ss. La modifica dell’art. 130 in Germania è stata influenzata dalla sentenza del Bundesverfassungsgericht (Corte Costituzionale tedesca) Sent. 13-4-1994, in BVerfGE 90, 1994, 241 ss. relativa al caso Auschwitzlüge dalla quale emerge il punto di vista della giurisprudenza tedesca prima della penalizzazione della negazione dell’Olocausto: in tale decisione il Bundesverfassungsgericht affronta la questione del negazionismo sotto il profilo dell’offesa all’onore degli ebrei. È in questa occasione che il Bundesverfassungsgericht, distinguendo tra opinione e fatto, si pronuncia in questo modo: “La negazione dell’Olocausto può essere protetta solo nel caso in cui sia strumentale alla formazione di un’opinione, per la quale non è sufficiente la semplice convinzione soggettiva della verità di ciò che si esprime, ma è necessaria anche la verifica oggettiva di un fatto, che nel caso di specie è da escludere”. Negare l’Olocausto degli ebrei è stata considerata un’affermazione allo stesso tempo “evidentemente falsa e sufficientemente dannosa” da giustificare un immediato intervento dello Stato. 93 A. Pace- M. Manetti, Art. 21, in Commentario della Costituzione, cit., p. 282. 94 Legge del 23 marzo 1995, Loi tendant à réprimer la négation, la minimisation, la justification ou l'approbation du génocide commis par le régime national-socialiste allemand pendant la seconde guerre mondiale”, in Justice, 30-03-1995, n° 1995009273, p. 7996. 95 Comma 2, art. 1 legge 23 marzo 1995: «Pour l'application de l'alinéa précédent, le terme génocide s'entend au sens de l'article 2 de la Convention internationale du 9 décembre 1948 pour la prévention et la répression du crime de génocide». 41 pronunciarsi su due ricorsi individuali diretti contro la legge in questione: la Corte ha giudicato conforme alla Costituzione belga la legge del 1995 perché in linea con le garanzie dell’eguaglianza e non discriminazione (art. 10, 11), della libertà di opinione (art. 19) e del divieto di “ogni misura di limitazione preventiva” della libertà di insegnamento (art. 24 co. 1 cost.). La necessità di disposizioni del genere è giustificata, a dire della Cour d’arbitrage, dal fatto che “La liberté d’expression constitue l’un des fondements essentiels d’une société démocratique. Elle n’est toutefois pas absolue […] Il peut être admis que le législateur intervienne de manière répressive lorsqu’un droit fondamental est exercé de manière telle que les principes de base de la société démocratique s’en trouvent menacés et qu’il en résulte un dommage inacceptable pour autrui…”. Si motiva in questi termini l’intervento repressivo del legislatore belga anche nei confronti della manifestazione di opinioni che da un lato risultano infamanti e offensive per la memoria delle vittime, dei sopravvissuti e dello stesso popolo ebraico, dall’altro lato offrono terreno fertile per l’antisemitismo e il razzismo: per la Corte belga si rende opportuno intervenire ogni qualvolta un diritto fondamentale viene esercitato minacciando i principi di base della società democratica, determinando un danno inaccettabile per la collettività. 2.2 La proibizione del negazionismo oltre l’Olocausto Accanto alle legislazioni che si sono limitate a punire il solo genocidio degli ebrei considerandolo il genocidio per eccellenza, e lasciando impuniti altri “errori della storia”, si colloca la legge svizzera, che estende, invece, l’incriminazione ad ogni genocidio o crimine contro l’umanità, senza fare esclusivo riferimento all’Olocausto. In data 25 settembre 1994 è stata approvata la riforma svizzera deliberata nel 1993, la quale ha introdotto un nuovo reato di “discriminazione razziale” all’art. 261 bis nel codice penale: “Chiunque incita pubblicamente all’odio o alla discriminazione contro una persona o un gruppo di persone per la loro razza, etnia o religione; chiunque propaga pubblicamente un’ideologia intesa a discreditare o calunniare sistematicamente i membri di una razza, etnia o religione; chiunque, nel medesimo intento, organizza o incoraggia azioni di propaganda o vi partecipa; chiunque, pubblicamente, mediante parole, scritti, immagini, gesti, vie di fatto o in modo comunque lesivo della dignità umana, discredita o discrimina una persona o un gruppo di persone per la loro razza, etnia o religione o, per le medesime ragioni, disconosce, 42 minimizza grossolanamente o cerca di giustificare il genocidio o altri crimini contro l’umanità; chiunque rifiuta ad una persona o a un gruppo di persone, per la loro razza, etnia o religione, un servizio da lui offerto e destinato al pubblico, è punito con una pena detentiva sino a tre anni o con una pena pecuniari 96”. È stata proprio l’ampiezza dell’incriminazione contenuta nell’art. 261 bis a permettere al Tribunale federale svizzero la condanna di Doğu Perinçek, capo del Partito turco dei lavoratori per negazione del genocidio degli Armeni: un verdetto a favore degli Armeni che per la prima volta a livello mondiale è stato pronunciato da una Corte Suprema97. In un’analisi comparata si può notare che, se la disciplina svizzera appare più restrittiva rispetto quella tedesca e francese, in quanto esige l’intento di screditare e calunniare sistematicamente i membri di una razza, etnia o religione, sotto il profilo oggettivo, la giurisprudenza svizzera ha individuato il bene protetto nella pace pubblica e nella dignità umana, estendendo per altro le condotte incriminatrici a più eventi della storia passata. Dei Paesi iberici né il Portogallo, né la Spagna proibiscono espressamente la negazione dell’Olocausto: il Portogallo si è dotato di una legislazione che estende l’incriminazione penale alla negazione di una serie di crimini di guerra, contro la pace e l’umanità; con legge del 2 settembre 1998, n. 65, è stata introdotta nell’art. 240 del codice penale portoghese, una norma che punisce «chiunque … diffama o ingiuria una persona o un gruppo di persone a causa della loro razza, colore, origine etnica o nazionale ovvero della loro religione, in particolare mediante la negazione di crimini di guerra, contro la pace e l’umanità»98. Sebbene anche la Spagna disponga nel proprio codice penale di articolo volto a sanzionare le condotte di negazione o giustificazione di una serie di crimini che mirano a distruggere totalmente o parzialmente un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, senza fare menzione esplicita del genocidio ebreo, qualcosa è cambiato a partire dal 2007. 96 L’art. 261 bis è stato introdotto dall’art. 1 della LF del 18 giu. 1993, in vigore dal 1° gen. 1995 (RU 1994 2887 2889; FF 1992 III 217). 97 Doğu Perinçek è stato condannato dalla corte distrettuale di Losanna il 9 marzo 2007; la decisione è stata confermata il 19 giugno dalla Corte cantonale di Vaud e, definitivamente, il 12 dicembre 2007 dal Tribunale federale svizzero. Perinçek non negò l’esistenza dei massacri ma ne contestò la qualificazione in termini di genocidio, parlando di una «mensonge international». 98 Código Penal português (texto oficial), (in Portuguese). Diário da República. September 4, 2007. pp. 57–58, consultabile all’indirizzo internet http://www.dre.pt/pdf1sdip/2007/09/17000/0618106258.pdf. , Retrieved 2009-05-31. 43 In Spagna il codice penale post-riforma della Ley Orgánica n. 1099, puniva, fino alla pronuncia dei giudici del Tribunal Constitucional del 7 novembre del 2007 n. 235, ex ultimo comma dell’art. 607, «la difusión por cualquier medio de ideas o doctrinas que nieguen o justifiquen los delitos tipificados en el apartado anterior de este artículo, (che si riferisce al proposito di distruggere totalmente o parzialmente un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso), o pretendan la rehabilitación de regímenes o instituciones que amparen prácticas generadoras de los mismos»100. La decisione del Tribunale Costituzionale Spagnolo ha dichiarato, però, incostituzionale l’art. 607 comma secondo nella parte relativa all’espressione “nieguen o”, considerando tale sanzione restrittiva, in modo ingiustificato, della libertà di manifestazione del pensiero e di ricerca storica; la stessa Corte, però, non ha ritenuto incostituzionale sanzionare penalmente la giustificazione di idee negazioniste. Di conseguenza, al momento la negazione dell’Olocausto così come di altri crimini contro l’umanità risulta non punibile in Spagna, diversamente dalla semplice giustificazione degli stessi crimini. Il Principato del Liechtstein, in assenza di qualsiasi tipo di azione comunitaria, ha riformato nel 2000 l’art. 283 del codice penale che prevede ora, al punto 5 del comma primo, la punizione con pena detentiva fino a due anni delle condotte di negazione o minimizzazione grossolana del genocidio o di altri crimini contro l’umanità, attraverso scritti, immagini e strumenti elettronici. Il Lussemburgo, con una riforma del codice penale approvata in data 19 luglio 1997, ha inserito nel titolo dedicato ai “Crimini e delitti contro le persone, il capitolo VI (Du 99 I. Spigno Un dibattito ancora attuale: l’Olocausto e la sua negazione in Libertà e diritti civili, in Dir. pubbl. comp. Eur, n. 4/08, p. 1921 ss. La riforma della Ley Orgánica che ha dato attuazione agli impegni assunti dalla Spagna in ambito internazionale per prevenire e perseguire il genocidio, è stata influenzata dalla sentenza del Tribunal Constituciona dell’11 novembre 1991, n. 214, meglio conosciuta come sentenza “Friedman”. Il caso nacque in seguito alle dichiarazioni rese durante un’intevista contro gli ebrei da Leon Degrelle, ex combattente nazista durante la seconda guerra mondiale. A seguito delle parole di Degrelle la signora Friedman, sopravvissuta al campo di sterminio di Auschwitz, in cui erano stati uccisi tutti i suoi familiari, presentò ricorso davanti al Tribunal Constitucional. La Corte, diversamente da come probabilmente ci si sarebbe aspettato, non obiettò il fatto che tali dichiarazioni fossero state rese nei confronti dell’intero popolo ebraico e non specificatamente contro la signora Friedman, ma ampliò l’ambito di incidenza del diritto all’onore, così che anche i singoli membri di un determinato gruppo etnico o sociale avrebbero goduto del diritto ad ottenere il risarcimento in seguito alle offese rivolte all’intero gruppo. E in più, il Tribunale spagnolo, sulla considerazione che la libertà di espressione non garantisce il diritto a porre in essere manifestazioni anche solo verbali, di carattere razzista o xenofobo, dichiarò che le opinioni naziste nei confronti degli ebrei e dei campi di concentramento, rientravano nell’ambito di garanzia riconosciuto alla libertà di espressione, in relazione alla libertà di coscienza di cui all’art. 16 della costituzione spagnola. 100 Cfr C. Caruso, Tra il negare e l’istigare c’è di mezzo il giustificare: su una decisione del Tribunale Costituzionale spagnolo, in Quad. cost. 3/2008, p. 33; I. Spigno, Un dibattito ancora attuale: l’Olocausto e la sua negazione, cit., 1921 ss; E. Fronza-V. Manes Il reato di negazionismo nell’ordinamento spagnolo: la sentenza del Tribunal Costitucional n. 235 del 2007, in [email protected], n.2/2008, pag 489 ss. 44 racisme, du révisionnisme et d'autres discriminations), recependo varie figure di discriminazione ed istigazione all’odio e estendendo la tutela tanto ai crimini contro l’umanità, quanto ai crimini di guerra, e al genocidio, in un ordine di previsione che antepone alla negazione o minimizzazione del genocidio, condotte simili perpetrate nei confronti dei crimini contro l’umanità, e dei crimini di guerra101. L’art 457-3 statuisce, infatti, che: “Est puni d'un emprisonnement de huit jours à six mois et d'une amende de 251 euros à 25.000 euros ou de l'une de ces peines seulement celui qui, soit par des discours, cris ou menaces proférés dans des lieux ou réunions publics, soit par des écrits, imprimés, dessins, gravures, peintures, emblèmes, images ou tout autre support de l'écrit, de la parole ou de l'image vendus ou distribués, mis en vente ou exposés dans des lieux ou réunions publics, soit par des placards ou des affiches exposés au regard du public, soit par tout moyen de communication audiovisuelle, a contesté, minimisé, justifié ou nié l'existence d'un ou de plusieurs crimes contre l'humanité ou crimes de guerre tels qu'ils sont définis par l'article 6 du statut du tribunal militaire international annexé à l'accord de Londres du 8 août 1945 et qui ont été commis soit par les membres d'une organisation déclarée criminelle en application de l'article 9 dudit statut, soit par une personne reconnue coupable de tels crimes par une juridiction luxembourgeoise, étrangère ou internationale. Est puni des mêmes peines ou de l'une de ces peines seulement celui qui, par un des moyens énoncés au paragraphe précédent, a contesté, minimisé, justifié ou nié l'existence d'un ou de plusieurs génocides tels qu'ils sont définis par la loi du 8 août 1985 portant répression du genocide et reconnus par une juridiction ou autorité luxembourgeoise ou internationale»102. 2.3 Tentativi infruttuosi di proibizione del negazionismo Accanto alle leggi c.d memoriali introdotte in Europa, con previsioni che di fatto non si esimono dal minacciare la libertà di parola, ma che forse, è doveroso dirlo, nulla di più aggiungono all’orientamento già seguito, a partire dagli anni ottanta, dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, si individuano, in casi circoscritti, disposizioni simili che non hanno visto l’approvazione finale, ovvero hanno subito una inaspettata abrogazione. Nel 1997, anche nel Regno Unito è stata presentata una proposta di legge 101 J. Luther, L’antinegazionismo nell’esperienza giuridica tedesca e comparata, cit. , p. 16. Legge del 19.07.1997, Incrimination du racisme, révisionnisme et discrimination in Mémorial A n° 54 del 07.08.1997. 102 45 (“Holocaust Denial Bill”) volta ad equiparare la negazione all’esternazione di parole o scritti minacciosi, abusivi, ingiuriosi, che istigano all’odio razziale, ai sensi della Section 18 del Public Order Act del 1986: “any words, behaviour or material which purport to deny the existence of the policy of genocide against the Jewish people and other similar crimes against humanity committed by Nazi Germany (‘the Holocaust’) shall be deemed to be intended to stir up racial hatre…” La proposta non ha avuto buon esito nemmeno quando è stata rilanciata nel 2001; rientra nella stessa “categoria” anche il caso della Slovacchia che ha abrogato, nel 2005 l’art. 422 del codice penale, che criminalizzava la negazione dell’Olocausto. Smentire o negare le atrocità perpetrate dal comunismo e dal nazifascismo potrebbe, però, diventare nuovamente un reato in Slovacchia: è questa è la proposta di emendamento al Codice Penale presentata da quattro deputati del Partito Civico Conservatore OKS nei mesi scorsi. 2.4 La situazione olandese: un approccio «intermedio» La negazione dell’Olocausto non è, invece, esplicitamente vietata in Olanda. Benché manchi qualsiasi riferimento alla categoria del genocidio, le Corti puniscono con il carcere fino ad un anno o con una multa ex art. art. 137c del codice penale, (e solo laddove le offese vengano rivolte contro un gruppo particolare di persone), la sola diffamazione: è punito, infatti, chi intenzionalmente, sia oralmente che con scritti o con immagini, “makes a defamatory statement about a group of persons on the grounds of their race, religion or personal beliefs, or their hetero - or homosexual orientation”103; così come è punito anche chiunque “incites hatred of or discrimination against persons or violence against their person or property, on the grounds of their race, religion or personal beliefs, their sex or their hetero-or homosexual”104. 103 Art. 137 c del Dutch Penal Code, Wetboek van Strafrecht (Sr), consultabile al sito web www.wetboekonline.nl. http://wetboek-online.nl/wet/Sr/137c.html. 104 Art. 137 d del Dutch Penal Code, Wetboek van Strafrecht (Sr), consultabile al sito web www.wetboekonline.nl. http://wetboek-online.nl/wet/Sr/137d.html. 46 3. La protezione della libertà di espressione nella giurisprudenza della Commissione Europea e della Corte europea dei Diritti dell’Uomo La Commissione europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata in numerose decisioni in materia di negazionismo. La Corte europea dei diritti dell’uomo è stata, invece, adita piuttosto recentemente, poiché la Commissione ha fatto da filtro dichiarando nel corso degli anni irricevibili una serie di richieste presentate dai negazionisti per la violazione dei propri diritti alla libertà di espressione. Conformemente alla giurisprudenza della Commissione Europea dei Diritti dell'Uomo e della stessa Corte di Strasburgo, la libertà di espressione costituisce uno dei fondamenti essenziali di una società democratica, una delle condizioni precipue per il progresso di tale società e per il pieno sviluppo di ogni singola persona. A suggellare tale condizione, il primo comma dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ai sensi del quale “Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive”. La libertà di manifestazione del pensiero, garantita dall’articolo in esame, rappresenta una delle basi essenziali di una società che vuole essere democratica ed una delle condizioni primordiali per il suo progresso, nonché per lo sviluppo della persona. È ovvio che tale libertà “non riguarda solo le informazioni o le opinioni accolte con favore o considerate inoffensive o indifferenti, ma comprende anche le informazioni e le opinioni che urtano o inquietano; ciò è richiesto dal pluralismo, dalla tolleranza e dallo spirito di apertura senza i quali non si ha una società democratica”105 A seguito dell’ingresso delle leggi memoriali, (e accanto alle numerose iniziative comunitarie di cui tratteremo nel prossimo paragrafo), non vi erano dubbi sul fatto che anche la Corte Europea dei diritti dell’uomo avrebbe continuato ad uniformarsi all’ondata di restrizioni in campo negazionista: lo snodo centrale sottoposto sin dall’inizio agli organi della CEDU è stato quello di valutare se i limiti imposti dalle legislazioni interne alla libertà di esprimere posizioni negazioniste fossero conformi alle ipotesi previste proprio dal secondo paragrafo dell’art. 10 CEDU. Da una parte il primo comma dell’art. 10, che pure, attraverso una interpretazione 105 Corte europea dei diritti dell’uomo, 8 luglio 1986, Lingens c. Austria, Application n. 9815/82. 47 estensiva, tutela la libertà di parola del “contestatore” di turno, anche quando il contenuto di quell’espressione possa non essere condiviso dalla collettività, dall’altra, questa stessa libertà, lungi dall’essere incondizionata, si vede sottoposta alle limitazioni previste dall'art. 10 comma secondo della Convenzione106. Tale secondo comma è finalizzato a “disinnescare” l’offesa, stabilendo che il diritto alla libertà d'espressione impone doveri e responsabilità, segnatamente quello del rispetto dei diritti altrui. Nella seconda parte, infatti, l’art.10 non esclude la possibilità di sottoporre l’esercizio della libertà di espressione a restrizioni o sanzioni previste dalla legge, quali misure necessarie in una società democratica, a mantenere la sicurezza nazionale, l’integrità territoriale o la sicurezza pubblica, la prevenzione del crimine, la reputazione o i diritti altrui. L'aggettivo «necessario», contenuto nell'art. 10, comma 2, implica un'esigenza sociale imperativa e, se è vero che gli Stati contraenti godono di un certo potere discrezionale nel valutare il ricorrere di tale esigenza, è vero anche che i vincoli a cui deve sottostare la libertà di espressione, devono essere proporzionati allo scopo legittimo perseguito e che i motivi invocati dalle autorità nazionali per giustificarli devono essere pertinenti e sufficienti. Peraltro, perché una limitazione ad un diritto protetto dalla Convenzione sia ammissibile, la restrizione in questione deve essere necessariamente prevista dalla legge107, mirare ad un legittimo obiettivo e presentare il carattere della necessità; l’ingerenza deve dunque essere necessaria e proporzionale all’obiettivo ricercato108. Al fine di verificare quest’ultima condizione, la Corte e la Commissione hanno fatto riferimento in più occasioni al concetto di difesa dell’ordine pubblico e alla prevenzione dei crimini109, ma è soprattutto sotto lo scudo della protezione della reputazione o dei diritti altrui che la giurisprudenza degli organi di Strasburgo si è mossa relativamente 106 Art. 10 comma 2 CEDU: «L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condi-zioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società demo-cratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica si-curezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informa-zioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario». 107 F. Sudre, Droit International et européen des droits de l’Homme, 3° ed., Presses Universitaires de France, 1997, p. 139-141. L’autore fa un excursus della giurisprudenza della Corte europea su tale questione. La Corte ha una concezione estensiva della nozione di “legge” per soddisfare il criterio della previsione per legge. La legge è quindi secondo la Corte l’insieme del diritto in vigore, sia esso legislativo, regolamentare ovvero giurisprudenziale, evitando in questo modo una grande distinzione tra i paesi di common law e i paesi continentali. 108 Sentenza Handyside c. Royaume-Uni del 7 dicembre 1976, serie A n° 24, p. 48 e sentenza Lingens c. Austriche dell’ 8 luglio 1986, Serie A, n°103 p. 39. 109 Comm. Déc. del 14 luglio 1983, T. c. Belgique note 70, 164; H., W., P. e k. c. Austria, nota 67, 224; Comm. Dèc, del 6 settembre 1995, E.F.A. c. Germania, req. N° 25096/94, 82-B D.R.11. 48 alla questione oggetto di approfondimento. La protezione dei diritti altrui è un’eccezione vasta, spesso legata ad altre eccezioni110 e può riferirsi nel contesto degli argomenti razzisti, al diritto all’uguaglianza, alla dignità, alla protezione contro i trattamenti degradanti, o ancora al diritto all’informazione111. Le prime decisioni della Commissione europea per i Diritti dell’Uomo che hanno dichiarato improponibili (in quanto manifestamente infondati) ricorsi in materia, risalgono agli anni ottanta. Invocando la disposizione di cui all’art. 10 comma 2, accanto all’art. 17112 della stessa Convenzione, (che altrimenti detto mira ad impedire che gruppi totalitari sfruttino nel loro stesso interesse i principi enunciati dalla Convenzione), prima ancora dell’ingresso nell’ordinamento europeo delle leggi memoriali, i giudici hanno giustificato, in Germania, in Belgio, in Austria e in altri Paesi, in più di una occasione, le limitazioni alla libertà di espressione. È in quest’ ottica che la Commissione Europea dei diritti dell’Uomo ha assimilato i comportamenti negazionisti a condotte vessatorie dei diritti altrui, condannabili in quanto vietati dall’art 10 comma secondo e dall’art. 17 della Convezione. La Commissione si è dimostrata ferma nel rigettare le pretese dei negazionisti basate su una presunta violazione della libertà di espressione, manifestando in materia una severità che è cresciuta di pari passo con la diffusione a livello europeo delle tesi negazioniste e degli strumenti legislativi in loro risposta: negare o dubitare dell’esistenza dei crimini contro l’umanità è stato, inoltre, considerato una delle più gravi forme di diffamazione razziale e di incitamento all’odio contro gli ebrei, oltre che una vera e propria minaccia per l’ordine pubblico113. 110 S. Greer, Les exceptions aux artiche 8-11 de la Convention européenne des Droits de l’Homme, Dossier sur le droits de l’homme, n.15, Èditions du Conseil de l’Europe, 1997, p.37. 111 F. Massias, La liberté d’expression et le discours raciste ou révisionniste, (1993), 13 RTDH, 183, 191. Considerato l’affaire Lehideux (Comm. Rapport del 8 aprile 1997, Marie-François Lehideuxb et Jacques Isorni, req. 24662/94 rapport inédit, pag.50) in cui la Commissione aveva sottolineato « Le but ainsi visé correspond à la protection de la réputation et des droits d’autrui, en l’occurrence des membres des associations, comités et fédérations plaignantes, ainsi qu’à la défense de l’ordre et la prévention du crime», la Commissione ricorda che negli Stati membri del Consiglio d’Europa, dove la protezione dei diritti dell’individuo, garantita dalla Convenzione dipende dall’esistenza di un regime politico democratico, “protéger ce régime doit également être considéré comme équivalant à protéger les droits d’autrui” ; in altri termini, l’ingerenza in causa persegue obiettivi riconosciuti come legittimi dal paragrafo 2 dell’art. 10 della Convenzione. 112 Art. 17 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo: Divieto dell’abuso di diritto. «Nessuna disposizione della presente Convenzione può essere interpretata come implicante il diritto per uno Stato, gruppo o individuo di esercitare una attività o compiere un atto mirante alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione o porre a questi diritti e a queste libertà limitazioni maggiori di quelle previste in detta Convenzione». 113 In riferimento alla lesione dell’ordine pubblico attraverso espressioni e scritti frutto di quella più ampia libertà garantita da numerose Costituzioni, la Corte di Strasburgo pare condividere le motivazioni ampiamente delineate, in riferimento alle garanzie dell’ordinamento italiano. Cfr., M. Manetti, Libertà di 49 Non sempre la Commissione e la Corte hanno mostrato coerenza: se da un lato, chiamata a decidere su un ricorso promosso da un giornalista, condannato perché nel corso di un’intervista ad alcuni esponenti di un gruppo razzista egli aveva tollerato la pronuncia di affermazioni razziste senza criticarle apertamente, la Corte ha ritenuto che «punire un giornalista per aver favorito la diffusione di dichiarazioni di terzi nel corso di un programma, ostacolerebbe gravemente il contributo della stampa alla discussione di problemi di interesse generale e potrebbe ammettersi solo in presenza di motivi particolarmente seri»114, dall’altra, secondo giurisprudenza maggioritaria degli organi di Strasburgo oggetto della tutela offerta dall’art. 10 comma secondo, sono anche i discorsi o gli scritti capaci di provocare disturbo o fastidio. Sono numerose le decisioni emesse dalla Commissione e Corte Europea dei diritti dell’Uomo in riferimento alla restrizione della libertà di espressione e a garanzia di una serie di diritti che di volta in volta verranno specificatamente esaminati dai Giudici, attraverso motivazioni che ne giustificheranno la prevalenza di alcuni rispetto ad altri. I dubbi che l’adozione delle disposizioni memoriali ha suscitato nei singoli ordinamenti, non ha scalfito la valutazione positiva che tali leggi ricevono a livello internazionale, dalla Commissione e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Nei paragrafi che seguono le pronunce degli organi di Strasburgo sono state distinte proprio in riferimento al singolo diritto a garanzia del quale è stato ritenuto opportuno limitare la libertà di espressione; le decisioni risalgono al periodo precedente l’introduzione nelle legislazioni nazionali delle c.d. leggi memoriali, al fine proprio di evidenziare come il percorso seguito dai Paesi europei che spontaneamente hanno adottato leggi anti-negazioniste, sia in linea con la giurisprudenza emessa a Strasburgo. La necessità di proteggere la popolazione dagli effetti nocivi di argomentazioni negazioniste ha prevalso, nelle decisioni emesse a Strasburgo sulla garanzia della libertà di espressione, tanto da dichiarare responsabile di aver oltrepassato i limiti della libertà di espressione, chiunque abbia fatto riferimento alla Shoah come ad una infondata leggenda, ad una " grande impostura" del nostro secolo, ad un'invenzione della propaganda alleata, sostenuta dall'internazionale ebraica…chiunque insomma abbia negato l’esistenza stessa dell’Olocausto. pensiero e negazionismo, in M. Anis (a cura di), Informazione Potere Libertà, Giappichelli, 2005, pp.4151. 114 Jersild c. Danimarca, 24 settembre 1994, 23, è 35, serie A, n. 298. 50 3.1 Restrizione della libertà di espressione a protezione della morale pubblica Nella celebre sentenza Handyside c. Regno Unito115, nel luglio 1976 fu condannato il proprietario della casa editrice londinese “Stage 1”, per possesso a scopo di distribuzione per fini lucrativi, di pubblicazioni oscene con conseguente confisca. Lo stesso Handyside aveva acquisito i diritti di pubblicazione e diffusione nel Regno Unito di un libro di educazione sessuale, del quale, a seguito di numerosi ricorsi, furono sequestrate le copie stampate su disposizione del Director of Public Prosecutions e sulla base della legge inglese del 1959 e del 1964 sulle pubblicazioni oscene (Obscene publications act). Il ricorso nel 1976 alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nella speranza di sovvertire il giudizio emesso dal Magistrates' Court di Clerkenwell nel 1971, si rivelò inutile dal momento in cui per la Corte di Strasburgo la protezione della morale pubblica, motivazione alla base del sequestro dei libri, poteva costituire un motivo valido alla restrizione, statuendo che il sequestro e la confisca dei beni, in vista della loro distruzione, rispondono all’interesse generale di protezione della morale116 e, pertanto, sono da considerarsi legittimi. La decisione emessa dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo Handyside c. Regno Unito è stata richiamata dalla sentenza con cui il Tribunal Constitucional spagnolo117 ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 607 comma 2 ai sensi del quale la “diffusione con qualsiasi mezzo di idee o dottrine che neghino o giustifichino i delitti tipizzati nel comma precedente di questo articolo, o tentino la riabilitazione di regimi o istituzioni che proteggono pratiche generatrici di tali delitti, sarà punita con la pena della reclusione da uno a due anni”118. 115 Handyside c. Regno Unito del 7 dicembre 1976, série A, n° 24. M. Imbleau, La négation du génocide nazi, liberté d'expression ou crime raciste ? Le négationnisme de la Shoah en droit international et comparé, Editione L'Harmattan, 2003, p. 115. L’autore fa riferimento al ricorso n. 5493/72, sentenza del 7 dicembre 1976: nonostante una simile dichiarazione di principio, la Corte ha ritenuto che la libertà di espressione di Richard Handyside, editore londinese di un testo in materia di educazione sessuale che aveva suscitato scalpore nell’opinione pubblica britannica per i toni ritenuti troppo espliciti, potesse essere legittimamente sacrificata dinanzi alle esigenze di tutela della morale pubblica. 117 Tribunale Costituzionale spagnolo P. V. Geis, 7.11.2007 n. 235, cit. 118 C. Caruso, Tra il negare e l’istigare c’è di mezzo il giustificare: su una decisione del Tribunale Costituzionale spagnolo, cit. Nel caso di specie Varela Geis, titolare di una libreria, a partire dal giugno 1996 e quindi dopo l’entrata in vigore in Spagna della legislazione penale contro la discriminazione razziale, aveva diffuso e venduto materiali di vario tipo nei quali, si negavano la persecuzione e il genocidio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale e si incitava alla discriminazione e all’odio nei loro confronti. Il tribunale penale di Barcellona condannò nel 1998 Geis quale responsabile del delitto di negazionismo ai sensi dell’art. 607 c. 2 c.p., nonché ex art. 510 c. 1 c.p., per incitamento alla 116 51 3.2 Restrizione della libertà di espressione a protezione dell’ordine pubblico A fondamento delle restrizioni alla libertà di espressione, la Commissione europea dei diritti dell’uomo, durante l’esame “preliminare”, ha fornito nel caso T. c. Belgio119 una soluzione analoga, ma con argomentazioni differenti rispetto alle precedenti; in questo caso, infatti, è stata rigettata l’istanza della ricorrente contro il sequestro di un libro che giustificava i crimini nazisti. La Commissione Europea dei diritti dell’uomo ha fondato la limitazione della libertà di manifestazione del pensiero non solo, come le autorità di merito belghe, sulla tutela della morale e sul diritto delle famiglie dei sopravvissuti ad una garanzia del ricordo dei loro parenti, ma anche sulla difesa dell’ordine pubblico e dell’autorità del potere giudiziario: “… elle observe que des évènements actuels montrent que les idéologies anti-démocratiques voisines de celles qui ont inspiré ces atrocités n'ont pas disparu en Europe. ». La Commissione ha ritenuto, quindi, che in presenza di una pubblicazione particolarmente lesiva del passato di una parte importante della popolazione, le autorità nazionali possono considerare insufficiente la misura della interdizione, ma accompagnare la stessa alla confisca dello scritto: “en présence d’une publication qui par son contenu, particulièrement odieux, est de nature à choquer une partie importante de la population, les autorités nationales peuvent à bon droit tenir pour insuffisante une mesure d’interdiction même accompagnée de la confiscation des écrits [...] si des poursuites et une condamnation pénales ne viennent pas sanctionner les infractions à cette interdiction”. discriminazione, all’odio razziale e alla violenza contro gruppi o associazioni per motivi razzisti o antisemiti. Successivamente fu sollevata dinanzi al Tribunal Constitucional spagnolo questione di illegittimità costituzionale tra il secondo comma dell’art. 607 e l’art. 20 della Costituzione spagnola, posto a fondamento della libertà di pensiero. Il giudice delle leggi sostenne che la mera negazione della verificazione di determinati fatti storici non costituisce “hate speech”, bensì rientra nella libertà di pensiero garantita dalla Costituzione spagnola, a fronte anche della considerazione che l’“hate speech” si caratterizza per l’incitamento diretto alla violenza contro determinati soggetti. 119 Comm. Déc. del 14 luglio 1983, T. c Belgique, req° n. 9777/82, 34 D.R. p. 158. Ad essere rimessa in causa è la reale esistenza dell’Olocausto di Auschwitz; allo stesso modo vengono minimizzate le atrocità naziste. Il tribunale belga ha condannato la donna ad un anno di carcere e ad una ammenda per violazione dell’art. 123 sexies del Codice penale belga. La Corte d’Appello ha confermato la sentenza di primo grado. 52 3.3 Restrizione della libertà di espressione a favore della prevenzione del crimine e in virtù della notorietà dei fatti contestati Merita menzione anche la decisione Otto E.F.A. Remer c. Germania120 in cui si è ritenuto che gli scritti negazionisti del ricorrente «vont à l’encontre de l’une des valeurs fundamentales de la Convention, telle que l’exprime son Préambule, à savoir la justice et la paix, et qu’ils dénotent une discrimination raciale et religieuse». Un generale in pensione fu condannato ad un anno e 10 mesi di prigione per incitazione all’odio razziale ai sensi degli art. 130 e 131121del codice penale tedesco, in virtù dei quali è colpevole chiunque invoca il nazional socialismo ovvero incita all’odio contro una parte della popolazione, attraverso pubbliche allegazioni notoriamente false. Sia il tribunale di prima istanza che la Corte federale rigettarono il ricorso sulla base della motivazione secondo la quale l’esistenza delle camere a gas e dei campi di concentramento e la verificazione dello sterminio degli ebrei sono fatti storicamente provati e per questo notori, rifiutando le argomentazioni del ricorrente, secondo le quali gli scritti in questione costituirebbero un valido e necessario apporto alla ricerca storica. Risulta conforme a questa decisione anche il verdetto della Commissione europea dei diritti dell’uomo secondo il quale l’interesse generale alla base della prevenzione del crimine nella società tedesca contro l’incitazione all’odio, e la necessità di difendere la reputazione degli ebrei, prevale, in una società democratica, sulla libertà del ricorrente di diffondere pubblicazioni che neghino lo sterminio degli Ebrei. Ed invero la Corte ha utilizzato l’espressione «[…] indiscutable vérité historique sur l’extermination des juifs dans les chambres à gaz de camps de concentration tels qu’Auschwitz sous le régime nazi»122 al fine di giustificare in questa e in altre occasione la non irragionevolezza del 120 Comm. Déc. del 6 settembre 1995, E.F.A. c. Allemagne, req° n° 25096/94, 82-B D.R. 11. La sentenza è stata richiamata in M. Imbleau, La négation du génocide nazi, liberté d'expression ou crime raciste ? Le négationnisme de la Shoah en droit international et comparé op. cit., pag. 90. Il richiedente, un generale in pensione, era autore di una serie di articoli comparsi in una rivista diffusa in più di ottantamila copie, che lasciavano intendere che le camere a gas non erano esistite e che tale menzogna aveva quale obiettivo quello di estorcere denaro al governo tedesco. 121 L’articolo 130, comma 1, del Codice penale tedesco (Strafgesetzbuch - StGB) dispone che: “Chi, in maniera tale da disturbare la pace pubblica, incita all’odio o alla violenza contro elementi della popolazione o lede la dignità di altre persone attraverso insulti o offese è punito con una pena detentiva da tre mesi a cinque anni”. Il comma 2 dell’articolo 130 prevede una pena detentiva fino a tre anni o una pena pecuniaria per chi commette gli stessi illeciti attraverso la diffusione di opere scritte. Nella definizione data all’articolo 130 rientra anche la discriminazione effettuata in ragione dell’orientamento sessuale, sebbene la norma non faccia un esplicito riferimento al background omofobico di colui che perpetra il reato. 122 Comm. Déc. del 6 settembre 1995, E.F.A. c. Allemagne, cit. 53 giudice nel rifiutare di prendere visione delle prove dei fatti che i ricorrenti allegano a fondamento delle loro tesi. 3.4 Restrizione della libertà di espressione per i “precedenti vincolanti” in materia di negazione della Shoah La Commissione Europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata a difesa degli stessi valori, nel caso Gerd Honsik c. Autriche123, relativo ad uno storico, poeta e autore austriaco; le accuse contro di lui sono circa 130, raccolte in un dossier di 90 pagine e i crimini dei quali è stato accusato sono in sintesi razzismo, istigazione all’odio razziale e propaganda del nazionalsocialismo124. Prima di adire la Commissione europea, la Corte d’Assise austriaca ha rigettato il ricorso effettuato dal ricorrente in appello ponendo l’enfasi sulla propria giurisprudenza costante in materia. La stessa giurisprudenza costante è stata confermata dall’autorità austriaca aggiungendo il paragrafo 3h) alla legge austriaca relativa all’interdizione del partito nazionalsocialista125, che dispone che “E’ ugualmente passibile di pena prevista dall’art. 3g), chiunque rifiuta, minimizza, approva o tenta di giustificare il genocidio o gli altri crimini contro l’umanità commessi dal regime nazional-socialista in uno scritto, durante in una emittente radiofonica, attraverso altri media, ovvero attraverso altri mezzi che permettono l’accesso ad un largo pubblico”. L’inserimento di tale articolo nella legge austriaca, durante il processo contro il ricorrente, ha indotto quest’ultimo a denunciare davanti alla Commissione Europea la parzialità dei tribunali austriaci, influenzati da una disposizione di legge, intervenuta in luogo dei giudici. La Commissione, rigettando il ricorso, ha dichiarato, sulla base dell’art. 6 della CEDU126 che la nuova disposizione legislativa non ha 123 Comm. Déc., del 18 ottobre 1995, Gerd Honsik c. Austria, , req. n° 25062/94, 83-B D.R 77, 82, in .J. O. n° 148/192. 124 Riferimenti al caso Gerd Honsik, si trovano nel libro "Freispruch für Hitler" (Assoluzione per Hitler), Ediciones Libreria Europa, 1992: si tratta di un volume scritto con la testimonianza di 37 persone, tra studiosi, storici, militari, politici, psicologi, in cui si esamina com’è stato trattato il tema dell’Olocausto dopo la Seconda Guerra Mondiale dal cinema e dagli altri mezzi di comunicazione, e di come l’argomento sia stato affrontato dall’enorme macchina di propaganda che è il cinema hollywoodiano. 125 M. Imbleau, La négation du génocide nazi, liberté d'expression ou crime raciste ?: Le négationnisme de la Shoah en droit international et comparé, cit., p. 92. 126 Art. 6 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Diritto a un equo processo: «Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubbli-camente ed entro un termine ragionevo-le da un tribunale indipendente e impar-ziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controver-sie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. La sentenza deve essere resa pubblicamen-te, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esi-gono gli 54 limitato abusivamente il diritto di difesa del ricorrente. Nell’analisi del ricorso, la Commissione ha fondato sull’articolo 10 comma secondo della CEDU la decisione, ricordando la propria giurisprudenza costante sulla negazione della Shoah e sull’ assenza di valide motivazioni da parte del ricorrente, il quale erroneamente aveva invece giustificato il proprio ricorso sulla base dell’art. 27 CEDU127. Secondo la Commissione il poeta revisionista austriaco non aveva subito alcuna violazione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione Europea, considerando che la restrizione alla libertà di espressione ben è punibile proprio ai sensi dell’art. 10 secondo comma della CEDU, quale misura necessaria alla salvaguardia di una serie di garanzie poste a protezione degli individui nei numerosi precedenti giudiziali della Corte Europea di Strasburgo. Il 7 settembre 2011 è arrivata la scarcerazione del revisionista austriaco, dopo quattro anni di restrizione della libertà personale. 3.5 Restrizione della libertà di espressione a protezione dei diritti altrui Irricevibile è stato dichiarato anche il ricorso nel caso X c. Repubblica Federale Tedesca128: la Commissione, dopo aver rilevato che la società democratica poggia le sue fondamenta «sur les principes de tolérance et de largeur d’esprit», ha ritenuto che il interessi dei minori o la prote-zione della vita privata delle parti in cau-sa, o, nella misura giudicata strettamen-te necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia…». 127 Art. 27 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Competenza dei giudici unici: «1 Un giudice unico può dichiarare irricevibile o cancellare dal ruolo della Corte un ricorso individuale presentato ai sensi dell’articolo 34 quando tale decisione può essere adottata senza ulteriori ac-certamenti. L’art. 27 richiama l’art. 34 della stessa Convenzione che così dispone:«La Corte può essere investita di un ricor-so da parte di una persona fisica, un’organizzazione non governativa o un gruppo di privati che sostenga d’essere vittima di una violazione da parte di una delle Alte Parti contraenti dei diritti rico-nosciuti nella Convenzione o nei suoi protocolli. Le Alte Parti contraenti si im-pegnano a non ostacolare con alcuna misura l’esercizio effettivo di tale diritto». 128 L. Di Iorio, La nozione di “giurisdizione”in alcune pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, in In.Law| 5/2007, p. 295, ricorso n. 9235/81, decisione del 16 luglio 1982. Il ricorrente aveva affisso allo steccato del giardino un manifesto pubblicitario che qualificava la Shoah quale pura invenzione. Fu promossa una azione civile da parte del vicino del vicino di casa, ebreo e figlio di un uomo deportato e morto ad Auschwitz: il tribunale nazionale adito condannava il ricorrente sulla base del fatto che numerosi documenti incontestabili provavano la morte di milioni di ebrei a seguito delle violenze esercitate dalle autorità nazional –socialiste. La Corte d’Appello rigettava la decisione di primo grado in quanto i manifesti affissi non erano rivolti direttamente al vicino ebreo ma nello steso tempo concedeva la possibilità di ricorrere in appello dinanzi alla Corte Federale. Secondo la Corte federale chiunque nega lo sterminio degli ebrei sotto il Terzo Reich non può invocare la libertà di espressione garantita dal diritto nazionale, poiché tale libertà non include anche il diritto di formulare dichiarazioni erronee. In più secondo la Corte, la negazione stessa di un fatto disumano costituisce una mancanza di rispetto alle vittime. Interpellata la Corte Europea dei diritti dell’uomo relativamente alla violazione dell’art 10 CEDU, la stessa ritenne che le brochure in questione avevano dato un’immagine distorta della storia, per questo le restrizioni imposte al ricorrente rispondevano ad una esigenza di non negare fatti incontestabili in quanto frutto di prove schiaccianti. 55 divieto di diffondere una pubblicazione di stampo negazionista comportasse una misura necessaria in una società democratica per la tutela della reputazione e dei diritti altrui129. Stessa sorte ha subito un cittadino britannico residente all’estero, storico di professione e condannato dalle corti tedesche per aver attentato alla memoria dei defunti ai sensi degli articoli 185, 189 e 194 del Codice penale tedesco130. Il ricorrente, durante una conferenza pubblica tenuta nel 1990, aveva dichiarato pubblicamente che le camere a gas avessero fatto ingresso ad Auschwitz solo nei giorni successivi alla fine della guerra; lo stesso ricorreva poi alla Commissione europea dei Diritti dell’Uomo invocando la lesione degli articoli 6 e 10 della CEDU. In riferimento al primo articolo, il ricorrente denunciava l’assenza di un processo giusto ed equo, avendo il tribunale tedesco rifiutato di esaminare gli elementi di prova che egli aveva posto a fondamento della propria tesi su Auschwitz; tale motivo di ricorso veniva rigettato per l’assenza di alcuna circostanza eccezionale che giustificasse l’intervento della Commissione nell’apprezzamento delle prove eseguito dai tribunali nazionali. Quanto alla violazione della libertà di espressione lamentata dal ricorrente, la Commissione si esprimeva, ancora una volta mantenendo ferma la necessità di limitare la stessa libertà, nel caso di specie attraverso le disposizioni del Codice penale, in considerazione dell’art. 17 CEDU: la Commissione concludeva che “le parole pronunciate dal ricorrente andavano contro i principi cardine della Convenzione stessa, vale a dire la giustizia e la pace, con la conseguenza che il bisogno di proteggere la popolazione dagli effetti nocivi di argomentazioni negazioniste, prevale sulla libertà di espressione”. Ed invero, l’elenco non si esaurisce qui: nell’affaire Herwig Nachtmann c. Austria131, il ricorrente, editorialista e capo di una rivista austriaca, responsabile della pubblicazione di un articolo attinente la ”scandalosa esagerazione del numero dei deceduti nelle camere a gas” e sostenente l’impossibilità tecnica di tali meccanismi per uccidere persone, veniva condannato nell’agosto del 1995 dai tribunali austriaci per attività nazionalsocialiste, vietate dall’articolo 3h) della Legge austriaca che proibisce appunto il nazionalsocialismo, introdotto qualche anno prima, in occasione del già richiamato 129 S. Giordano, La repressione legale del negazionismo storico nella giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, cit. Con motivazioni analoghe è stato rigettato il ricorso di due organizzazioni austriache di estrema destra, l’Aktion Neue Rechte e le Nationalistischer Bund Nordland, le quali avevano fatto pubblicare e diffondere un fascicolo in cui negavano lo sterminio di 6.000.000 ebrei da parte del regime nazionalsocialista; la Commissione ha rilevato infatti che «le national-socialisme est une doctrine incompatibile avec la démocratie et les droits de l’homme et ses adhérents poursuivent des objectifs visant à la destruction des droits et libertés reconnus dans la Convention». 130 Comm. Déc. del 26 giugno 1996, D.I. contro Allemagne, req. n° 26551/95. 131 Comm. Déc., del 9 settembre 1998, Herwig Nachtmann c. Austria, req. n° 36773/97. 56 caso Honsik c. Autriche. Secondo la Commissione di Strasburgo, il giornalista aveva oltrepassato i limiti di cui all’art. 10 primo comma della Convenzione europea, violando inoltre anche l’art. 17. Lo stesso Nachtmann in un testo intitolato “Le leggi di natura valgono per nazisti e antifascisti”, aveva lodato una pubblicazione apparsa nel 1992 con il titolo “Olocausto, fede e fatti”, del negazionista Walter Lueftl, definendola una pietra miliare sulla via della verità. Altrettanto interessante è quindi il riferimento da parte della Commissione Europea al dettato normativo di cui art. 17 della Convenzione132; è anche in questa ottica che il tribunale europeo ha giudicato la maggior parte dei dossier studiati e implicanti la negazione della Shoah, assimilando i propositi negazionisti ad intenti volti a ledere i diritti altrui, fattispecie stigmatizzata proprio dall’art 17 CEDU133. 3.6 Restrizione della libertà di espressione a seguito dell’incitamento alla discriminazione razziale Nell’affaire Glimmerveen134, (si trattava di un membro di un partito politico di destra convinto che fosse interesse generale che tutte le popolazioni degli Stati fossero omogenee dal punto di vista dell’etnia), il ricorrente lamentava che la condanna inflittagli per aver distribuito volantini propagandistici incitanti la discriminazione razziale fosse lesiva del proprio diritto alla libertà di espressione previsto dall’art. 10 della CEDU. La Commissione, dopo aver fatto chiarezza sul fatto che l’art. 10 si applica anche alle “idee che urtano, scioccano o inquietano uno Stato ovvero una parte della popolazione”, ha ritenuto che il ricorrente, attraverso le sue rivelazioni incitasse i nonbianchi a lasciare il territorio olandese, esacerbando così un comportamento volto alla discriminazione razziale per altro condannato dall’art. 14135 della CEDU. Applicando 132 Nationaldemokratische Partei Deutschlands c. Allemagne, in Comm. Déc del 29 novembre 1995, req° n. 25992/94, 84-B D.R. 149. 133 Cfr. Decisione della Commissione Europea dei diritti dell’uomo del 12 maggio 1988, Kühnen c. République fédérale d’Allemagne, req. n° 12194/86 D.R. 205; Marais c. France, in Comm. Déc., 24 giugno 1996, req. n° 31159/96, 86-A D.R. 184. 134 M. Imbleau, La négation du génocide nazi, liberté d'expression ou crime raciste ?: Le négationnisme de la Shoah en droit international et comparé, cit., in cui l’autore richiama la decisione in questione pubblicata nel Comm. Dec. dell’ 11 ottobre 1979, J. Glimmerveen e J. Hagenbeek c. Paesi Bassi req. N° 8348/78 e 8406/78, 18 D.R. 187. 135 Art. 14 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Divieto di discriminazione: «Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato, senza distinzione di alcuna specie, come di sesso, di razza, di colore, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di appartenenza a una minoranza nazionale di ricchezza, di nascita o di altra condizione». 57 l’art. 17 CEDU, la Commissione ha concluso che il ricorrente non poteva avvalersi dello scudo dell’art. 10, utilizzando quella disposizione in maniera contraria alla Convenzione stessa, rigettando così il ricorso136. 3.7 Un caso isolato: la Commissione europea dei diritti dell’uomo si pronuncia a favore dei ricorrenti L’approccio è simile, ma la conclusione è differente nell’affaire Lehideux137: i due ricorrenti, presidenti rispettivamente dell’Associazione in difesa della memoria del Maresciallo Pétain e dell’Associazione nazionale Pétain-Verdun, le cui finalità erano la riabilitazione della memoria dello stesso Pétain, avevano fatto pubblicare in data 13 luglio 1984 sul quotidiano «Le Monde» un invito ai lettori a sostenere l’attività di tali associazioni; l’Associazione nazionale combattenti della Resistenza si costituì parte civile ai sensi della legge sulla libertà di stampa, sostenendo che il testo in oggetto, nel suo tentativo di giustificare le azioni del maresciallo Pétain, costituisse un’apologia del crimine di collaborazionismo con il nemico ai sensi dell’art. 24 comma 3 della legge sulla libertà di stampa del 29 luglio 1881. Ritenuti colpevoli dalle corti francesi per il contenuto apologetico di tale appello, soprattutto in considerazione del fatto che erano stati volutamente omessi fatti direttamente imputabili a Pétain durante il periodo dell’occupazione nazista, Lehideux e Isorni presentarono ricorso dinanzi alla Commissione europea in data 13 maggio 1994, lamentando una violazione del loro diritto di espressione138. Tale pronuncia, duramente criticata dalla dottrina139, presenta in realtà una soluzione che si distacca da quella relativa ai casi precedentemente 136 Comm. Déc. del 6 settembre 1995, E.F.A. c. Allemagne, cit. Secondo la Commissione «L’interesse generale che rappresentano la difesa dell’ordine e la prevenzione del crimine nella società tedesca, a fronte dell’incitazione all’odio contro gli Ebrei, e la necessità di proteggere la reputazione e i diritti di queste comunità, in una società democratica, prevalgono sulla libertà dei richiedenti di diffondere pubblicazioni che contestano lo sterminio degli ebrei nelle camere a gas sotto il regime nazista, e contengono delle accuse di estorsione». 137 Comm. Rapport dell’8 aprile 1997, Lehideux e Isorni c. Francia, req. N° 24662/94, p. 47. 138 S. Giordano, La repressione legale del negazionismo storico nella giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, cit. La Corte nella sua decisione del 24 giugno 1996 ritenne il ricorso ricevibile, valutando come il testo incriminato non contenesse di fatto affermazioni di stampo negazionista tali da giustificare, in base al secondo paragrafo dell’art. 10 CEDU, l’interferenza statale nell’esercizio della libertà di espressione dei signori Lehideux e Isorni. 139 G. Cohen-Jonathan, L’apologie di Pétain devant la Cour européenne des droits de l’homme, in revue trimestrielle des droits de l’homme, 38, 1999, pp. 351 ss. L’autore ritiene che la sentenza dimostri «la faiblesse du raisonnement et l’indulgence à l’égard de ceux qui avaient été justement sanctionnés par les juridictions françaises pour apologie du crime de collaboration avec l’ennemi » e considera la sentenza «profondément critiquable en soi, assez incohérente et, à la limite, très peu équitable» 58 esaminati, poiché i ricorrenti si erano limitati ad un’opera di “riabilitazione” del maresciallo Pétain, senza di fatto esprimere tesi realmente negazioniste. I giudici ritennero la condanna penale inflitta dalle corti di merito francesi sproporzionata, e ritennero addirittura che vi era stata una violazione dell’art. 10 CEDU da parte del Governo francese, anche in considerazione del carattere legale delle associazioni di cui i ricorrenti erano presidenti e della natura pubblicitaria dell’inserto in esame140. 4. La decisione quadro del Consiglio d’Europa in materia di apologia, negazione o minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, crimini contro l' umanità e crimini di guerra Poiché a livello sovranazionale esiste un apparato normativo molto elaborato contro i fenomeni razzisti, il Consiglio d’Europa ha cominciato a prendere provvedimenti in materia, attraverso una serie di iniziative comunitarie, che, in linea con la tendenza più generale, volta ad inaugurare un crescente fenomeno di controllo politico sulla ricerca storica, confermano la scelta di punire i fenomeni negazionisti, influenzando i diritti penali nazionali ancora “immuni” da legislazioni antinegazioniste. L’azione di contrasto al fenomeno razzista da sempre occupa uno spazio centrale nelle preoccupazioni delle istituzioni europee: nel 1997, proclamato «anno europeo contro il razzismo»141, svariate sono state le iniziative, tra le quali l’istituzione a Vienna dell’Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e xenofobia142; il Trattato di Amsterdam, poi, ha introdotto l’art. 13 TCE (al quale è succeduto l’art. 19 TFUE) che ha costituito la base giuridica per le azioni di contrasto alla discriminazione. Hanno chiesto un rafforzamento di tali politiche anche le conclusioni del Consiglio europeo di Tampere del 15-16 ottobre 1999143, nonché la risoluzione del Parlamento europeo del 21 settembre 2000144. Ed 140 Affaire Lehideux et Isorni c. France, cit. : “…la publication litigieuse porte atteinte à l’esprit même de la Convention et aux valeurs essentielles de la démocratie. En conséquence, la requête de MM. Lehideux et Isorni se heurterait à l’article 17, ainsi libellé… En effet, le texte en question présenterait de façon manifestement erronée certains événements historiques, tantôt en leur donnant une signification qu’ils n’ont pas, comme dans la présentation de la rencontre de Montoire, tantôt en faisant l’impasse sur des événements essentiels à la compréhension de cette partie de l’histoire, en l’occurrence la collaboration du régime de Vichy avec l’Allemagne nazie… » 141 Gazz. uff. Un. eur., C237 del 15 agosto 1996, p. 1. V. Si tratta di risoluzioni che già dal 1986 sono state adottate dal Parlamento europeo (ad es., quella del 25 giugno 1986 contro il razzismo e la xenofobia). 142 Regolamento del Consiglio, 2 giugno 1997, n. 1035/97. L’Osservatorio è stato poi assorbito dalla Fundamental Rights Agency creata con Regolamento del Consiglio 15 febbraio 2007, n. 168/2007. 143 Gli atti sono disponibili al sito web http://ue.eu.int/it/Info/eurocouncil/index.htm. 144 Gazz. uff. Un. eur., C146 del 17 maggio 2001, p. 110. 59 ancora, risulta in ogni caso pertinente richiamare, la Convenzione del Consiglio d’Europa per la prevenzione del terrorismo145, il cui art. 5 è dedicato alla Public provocation to commit a terrorist offence146. Per gli Stati parte sorge il vincolo di punire ogni diffusione al pubblico di un messaggio che provochi il pericolo di commissione di atti di terrorismo. Sebbene la condotta debba essere compiuta con l’intento di promuovere tali reati, l’integrazione della figura criminosa avviene a prescindere dal fatto che l’espressione inciti direttamente ad atti di terrorismo147. Gli organi dell’Unione Europea oltre a prendere provvedimenti in materia di discriminazione razziale, hanno cominciato negli ultimi tempi, anche a elaborare interventi contro coloro che negano l’Olocausto. Il 15 luglio 1996 il Consiglio Europeo ha adottato un’Azione Comune148, attraverso la quale l’Unione, considerando che negli ultimi anni i reati di stampo razzista e xenofobo sono in continuo aumento e soprattutto al fine di evitare che gli autori di tali reati “sfruttino le divergenze esistenti tra le legislazioni penali degli Stati e si spostino da un paese all'altro per eludere i procedimenti penali o l'esecuzione delle pene”, ha sollecitato gli Stati membri a reprimere “la negazione pubblica dei crimini definiti dall’art. 6 dello Statuto del Tribunale di Norimberga”, oltre a prevedere che siano passibili di sanzioni penali comportamenti quali l’istigazione pubblica alla discriminazione, alla violenza ed all'odio razziale… Sebbene l’azione comune fosse vincolante per gli Stati membri, i quali a meno di difficoltà rilevanti, sarebbero stati tenuti a raggiungere gli obiettivi fissati, tanti Stati non hanno ottemperato all’azione; così l’Unione ha promosso un nuovo tentativo di ‘armonizzazione’, per alcuni Stati ancora in corso di attuazione, sebbene siano già scaduti i termini: in data 19 aprile 2007, a pochi mesi dall’ulteriore allargamento dell’UE a Romania e Bulgaria, e dalla condanna delle Nazioni Unite del 145 Convention for the Prevention of Terrorism, Council of Europe, 16 maggio 2005, European Treaty Series, n. 196 146 Un’ulteriore esortazione agli Stati affinché proibiscano l’incitamento al terrorismo è venuta dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con la Risoluzione n. 1624, UN Doc. S/RES/1624, 14 settembre 2005. 147 P. Lobba, L’espansione del reato di negazionismo in Europa: dalla protezione dell’Olocausto a quella di tutti i crimini internazionali. Osservazioni sulla decisione quadro 2008/913/GAI, in corso di pubblicazione in [email protected], n. 3/2011. Anche il diritto penale internazionale, dopo la prima applicazione concreta del crimine di “incitamento pubblico e diretto al genocidio”, ha vissuto una fase di espansione repressiva. 148 L’Unione Europea era già intervenuta con un’ Azione Comune in cui si sollecitavano gli Stati membri a reprimere la negazione pubblica dei crimini definiti all’art. 6 dello Statuto del Tribunale di Norimberga nella misura in cui essa includa un comportamento di disprezzo o degradante verso un gruppo di persone definito in base al colore, alla razza, alla religione o all’origine nazionale o etnica. Cfr. Azione comune del 15 luglio 1996, adottata dal Consiglio sulla base dell’art. K3 del Trattato sull’Unione europea, concernente l’azione contro il razzismo e la xenofobia, in Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, 24 luglio 1996, volume L 185, p. 5. 60 27 gennaio 2007 di ogni forma di “Holocaust denial”, i ministri della giustizia dell’UE hanno trovato un accordo per una Decisione Quadro, la numero 913 del 2008 sulla lotta contro il razzismo e la xenofobia149. Da una parte emerge, nel panorama giuridico degli ultimi anni, una serie di tentativi europei legittimati dal secondo comma dell’ art. 10 e dall’art 17 della CEDU, dall’altra accanto a questi, la Decisione Quadro introdotta dall’Unione Europea che punisce una disposizione che non si preoccupa di definire le condotte punibili, due tipologie di reati: atti di razzismo e xenofobia (art. 1 § 1a e 1b) e "apologia, negazione o minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, crimini contro l' umanità e crimini di guerra [...], quando la condotta è esercitata in modo da istigare alla violenza o all'odio contro un gruppo di persone o un membro di tale gruppo "(art. 1. § 1 quater, 1 quinquies). In particolare così recita l' art.1 comma "c" : «Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché i seguenti comportamenti intenzionali siano resi punibili… c) l' apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei crimini contro l' umanità e dei crimini di guerra, quali definiti agli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale, dirette pubblicamente contro un gruppo di persone, o un membro di tale gruppo, definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all' ascendenza o all' origine nazionale o etnica, quando i comportamenti siano posti in essere in modo atto a istigare alla violenza o all' odio nei confronti di tale gruppo o di un suo membro». Se la definizione di “apologia” e di “negazione” è sufficientemente chiara, quella di “minimizzazione grossolana” è invece molto vaga. Così come era precedentemente accaduto per alcune leggi memoriali introdotte a livello nazionale prima della sollecitazione europea, (la Svizzera ne è un esempio), la Decisione Quadro del 2008 prevede, all’interno di una stessa disposizione di legge due incriminazioni non 149 Decisione quadro 2008/913/GAI, cit., che fa seguito all’azione comune del 15 luglio 1996 di cui alla nota precedente. Così negli Stati dell’UE dovrebbero essere punibili le seguente condotte: “- Publicly inciting to violence or hatred, even by dissemination or distribution of tracts, pictures or other material, directed against a group of persons or a member of such a group defined by reference to race, colour, religion, descent or national or ethnic origin; - publicly condoning, denying or grossly trivializing;crimes of genocide, crimes against humanity and war crimes as defined in the Statute of the International Criminal Court (Art. 6, 7 and 8) directed against a group of persons or a member of such a group defined by reference to race, colour, religion, descent or national or ethnic origin, and-crimes defined by the Tribunal of Nuremberg (Article 6 of the Charter of the International Military Tribunal, London Agreement of 1945) directed against a group of persons or a member of such a group defined by reference to race, colour, religion, descent or national or ethnic origin. Member States may choose to punish only conduct which is either carried out in a manner likely to disturb public order or which is threatening, abusive or insulting.” 61 necessariamente assimilabili: la negazione di un genocidio non ha nulla a che vedere con la discriminazione razziale; si può essere revisionisti senza essere razzisti e viceversa. Il legislatore europeo, (come del resto taluni legislatori nazionali), preoccupato dell’intervento limitativo dalla libertà di espressione, ha inserito quale elemento di bilanciamento, una clausola di pericolo all’interno della Decisione Quadro, di talché gli Stati membri possono decidere di rendere punibili soltanto i comportamenti “atti a turbare la quiete pubblica o che siano minacciosi, vessatori o insultanti”. Precisando che, in riferimento alle condotte negazioniste, si richiede che si tratti di crimini definiti dallo Statuto della Corte penale permanente o da quello del Tribunale militare internazionale di Norimberga, così che, se si è verificato un eccidio che non sia stato definito come tale giuridicamente, o che non sia stato oggetto di processo, e dunque non sia stato qualificato come crimine internazionale, non potrà essere frutto di un reato di negazionismo, la norma non è stata ancora completamente recepita in Europa, nonostante non emerga la portata innovativa della decisione quadro, muovendosi la stessa nel solco tracciato in Europa dalle leggi memoriali. L’annuncio di introduzione della Decisione quadro, ha sollevato subito numerose reazioni negative: per fare qualche esempio, il politologo inglese Timothy Garton Ash ha scritto sul quotidiano “The Guardian” che questa proposta, pur muovendo da buone intenzioni, rappresentava “un grave errore”, perché riproduceva “una ulteriore limitazione della libertà di espressione, oggi già minacciata da più parti”150. L’associazione Article 19, con sede a Londra e attiva nel settore dei diritti umani è autrice di una lettera aperta al commissario europeo Franco Frattini nella quale, pur riconoscendo l’importanza della lotta al razzismo, si afferma che l’iniziativa legislativa era potenzialmente lesiva della libertà di espressione, difesa da trattati e convenzioni internazionali151. Se però all'articolo 10 lo stesso provvedimento europeo prevede che gli Stati membri introducano nei rispettivi codici la nuova norma penale entro il 28 novembre 2010, qualche Paese non ha ancora ottemperato alla decisione quadro (Italia in primis). La Decisione Quadro rappresenta un significativo episodio di quel crescente fenomeno di controllo politico sulla ricerca e sulla verità storica, che di pari passo con le leggi 150 T. G. Ash, A blanket ban on Holocaust denial would be a serious mistake in The Guardian, 18 gennaio 2007. 151 La lettera è disponibile al sito web http://www.article19.org/pdfs/letters/german-holocaust-letter.pdf . 62 memoriali adottate da alcune legislazioni europee, prima dell’imposizione contenuta nella decisione stessa, caratterizza quella che è stata delineata come la seconda fase dell’ampio percorso di giuridificazione della storia, che tutt’ora risulta in via di evoluzione. Per l’analisi delle misure adottate dagli Stati Europei appare opportuno distinguere quattro categorie di provvedimenti: da una parte figurano i Paesi che si sono “letteralmente” uniformati al provvedimento europeo attraverso una fedele trasposizione della Decisione Quadro nella propria legislazione interna; dall’altra coloro che hanno modificato parzialmente o hanno avviato un iter di rivisitazione parzialmente delle disposizioni legislative in materia già introdotte prima dell’ entrata in vigore della Decisione Quadro. Rientrano all’interno di questa categoria anche Paesi che essendosi già dotati “autonomamente” di una normativa antinegazionista, non prevedono, per il momento, di apportare modifiche; alla terza categoria appartengono, invece, i Paesi che hanno esteso la portata e il campo di applicazione della Decisione Quadro; figurano, infine, i Paesi che non si sono uniformati alla stessa Decisione, tra i quali trovano spazio Stati in cui sembra non esserci al momento alcuna iniziativa in atto di uniformazione. 4.1 La trasposizione della decisione quadro L’unico Stato che appartiene al primo gruppo è Malta, che a partire dal 17 luglio 2009 ha inserito nel codice penale l’articolo 82-B, che punisce «quiconque justifie, nie ou banalise grossièrement en public génocide, crimes contre l’humanité et crimes de guerre visant un groupe de personnes ou un membre d’un tel groupe défini par référence à la race, la couleur, la religion, l’ascendance ou l’origine nationale ou ethnique lorsque le comportement est exercé d’une manière qui : a) risque d’inciter à la violence ou à la haine à l’égard d’un groupe de personnes ou d’un membre d’un tel groupe; b) risque de troubler l’ordre public ou qui soit menaçant, injurieux ou insultant»152. 4.2 Riforme normative nazioniali a seguito della decisione quadro Paesi come il Belgio, la Germania, la Francia, la Romania, la Spagna, il Portogallo, avendo già adottato prima dell’emanazione dell’atto giudiziario europeo, delle 152 I codici penali dei Paesi Europei sono consultabili nella lingua d’origine, oltre che in lingua inglese al sito web Legislationline, http://legislationline.org/documents/section/criminal-codes. 63 disposizioni in materia, si sono limitati a modificare parzialmente la portata delle stesse; in particolare la Germania ha apportato un minimo cambiamento nel proprio codice penale, prescrivendo che anche i singoli individui possano essere vittime di atti razzisti e xenofobi, diversamente dalla precedente versione dell’art. 130 c.p. che prendeva in considerazione la sola collettività153. La repubblica federale tedesca, rilevando la necessità che nell’applicazione della Decisione Quadro venga rispettata la singolarità e la specificità dei sistemi legislativi degli Stati membri, ha rifiutato l’estensione della disposizione penale di cui all’art. 130 anche agli altri crimini contro l’umanità, oltre a quelli giudicati dal Tribunale di Norimberga. Il 13 marzo del 2002, probabilmente per uniformarsi all’Azione Comune europea, la Romania ha approvato la Emergency Ordinance N. 31 che proibisce la negazione dell’Olocausto, al cui art. 6 dispone, infatti, che “Denial of the holocaust in public or to the effects thereof is punishable by inprisonment from 6 months to 5 years and the loss of certain rights”. Ed invero, a parere del ministero rumeno di giustizia, la decisione quadro è già integrata nella legislazione rumena, di talchè nessuna ulteriore azione risulta necessaria154. Anche la Repubblica Ceca nel 2005 ha riformato la Law against Support and Dissemination of Movements Oppresing Human Rights and Freedom (2001), disponendo all’art. 260, comma primo che “The person who publicly denies, puts in doubt, approves or tries to justify nazi or communist genocide or other crimes of nazis or communists will be punished by prison of 6 months to 3 years”; la repubblica ceca esclude al momento qualsiasi ulteriore intervento legiferativo. Non hanno ancora provveduto ad uniformarsi alla decisione quadro Belgio, Austria, Francia, Spagna e Portogallo che, già disponevano di leggi ad hoc, più o meno dettagliate, per punire implicitamente o esplicitamente comportamenti negazionisti. 153 J. Luther, L’antinegazionismo nell’esperienza giuridica tedesca e comparata, cit. In tale ottica, utili spunti possono trarsi da un caso spagnolo, che già in precedenza si è occupato di difendere le offese rivolte ai singoli: si tratta del già citato caso Friedman. 154 Rapporto di L. Cajani, Adoption de la décison-cadre européenne au 17 mai 2011, consultabile al sito web http://www.lph-asso.fr/index.php?option=com_content&view=article&id=162%3Aadoption-de-ladecison-cadre-europeenne-au-17-mai-2011&catid=53%3Aactualites&Itemid=170&lang=fr. 64 4.3 Estensione della portata della decisione quadro Tra gli Stati che hanno ampliato la portata della Decisione Quadro europea, rientra la Lituania: l'articolo 170-2 del codice penale promulgato nel Giugno 2010 prescrive una pena fino a due anni di reclusione e una multa, in caso di condotte che abbiano ad oggetto l’approvazione, la negazione o banalizzazione del genocidio, di crimini contro l'umanità o di guerra, definiti da un testo dell'Unione europea ovvero dal governo lituano, o ancora da una sentenza emessa da un tribunale internazionale o lituano, perché trattasi di misure necessarie a tutelate l’ordine publico155. La Lettonia, ha insistito per un’estensione della Decisione Quadro anche ai crimini commessi dai regimi comunisti, ponendoli quindi sullo stesso piano dei crimini nazisti e non facendo riferimento ad alcuna delle condotte esplicitamente previste dalla Decisione Quadro o dai Paesi europei che hanno provveduto in materia di negazionismo: non c’è nessun riferimento, infatti, nel codice penale lettone a condotte di negazione, banalizzazione o apologia, rimpiazzate “innovativamente” dal reato di “glorification”. La privazione della libertà personale per un periodo non inferiore a 5 anni viene inflitta a chiunque “commits public glorification of genocide, crime against humanity, crime against peace or war crime or public denial or acquittal ofimplemented genocide, crime against humanity, crime against peace or war crime”. La Polonia, estendendo la previsione normativa europea, ha aggiunto nella disposizione nazionale una nuova fattispecie di reato: la “distorsione grossolana” di un evento storico156. L’Ungheria, nel gennaio 2010, ha inserito l'articolo 269-C nel codice penale prevedendo una pena di tre anni di carcere in caso di negazione, dubbi o minimizzazione dell'Olocausto senza riferimento ad altri reati. Successivamente lo stato ungherese ha provveduto ad una rivisitazione dell’articolo: la menzione esplicita dell'Olocausto è stata sostituita da quella di "genocidio" in generale e "crimini contro 155 Il codice penale della Lituania è consultabile in lingua lituana sul sito web http://archive.equaljus.eu/801/. 156 L. Cajani, Presentazione della sessione Ethics, historical research and law, in International column of the October 2009, issue of Perspectives on History, (sessione speciale del convegno organizzato da L. Cajani, Pierre Nora, Paolo Pezzino, Jörn Rüsen and Antonis Liakos). Il convegno si è concentrato non solo sulle questioni etiche giuridiche ma anche del nuovo ruolo e delle responsabilità degli storici. Durante l’excursus delle innovazioni introdotte dalla Decisione Quadro del 2008, in riferimento alla Polonia è stato precisato che la diplomazia polacca è impegnata da anni nel denunciare l’uso dell’espressione “campi di concentramento polacchi”, espressione utilizzata per designare i campi di concentramento costruiti in Polonia dagli occupanti nazisti: “Un’espressione indubbiamente erronea e fuorviante, perché confonde la localizzazione geografica di questi campi con la nazionalità di chi li ha costruiti e gestiti”. 65 l'umanità, commessi dai nazisti ed estendendo la previsione normativa anche ai regimi comunisti: la legge punisce ora “who deny the genocides committed by national socialist or communist systems, or deny other facts of deeds against humanity". 4.4 Modelli formalmente “non interventisti” Il Regno Unito ha ritenuto che nulla vada aggiunto alla propria legislazione, che peraltro si limita a punire in generale il razzismo, senza entrare nel merito di alcun evento storico. Il riferimento è al Public Order Act del 1986 che punisce una serie di reati contro l’ordine pubblico, prevedendo nella parte III l’incriminazione di condotte che fomentino l’odio razziale. Nonostante l’assenza di una disposizione ad hoc in materia di negazionismo è in Inghilterra che si è celebrato il processo Irving v. Penguin Books157, un processo che sebbene non si sia occupato di negazionismo in senso stretto, ha però dimostrato chiaramente il pensiero della Corte inglese ben disposta a discorrere e a giudicare la storia all’interno delle aule dei tribunali. Deborah E. Lipstadt in un libro pubblicato nel 1994158 aveva definito lo storico inglese come uno dei più pericolosi negazionisti fino al punto da sovvertire l’evidenza storica attraverso la negazione dell’Olocausto. Così Irving presentava querela contro la Lipstadt in Inghilterra, sebbene il libro fosse stato pubblicato nella sua prima edizione negli Stati Uniti, e questo per evidenti ragioni “processuali”: secondo la legge inglese al querelante spetta esclusivamente il semplicistico onore della prova volta a dimostrare la pubblicazione delle affermazioni lesive diffamatorie e che come tali appartengano al querelato159. Diversamente al querelante sarebbe spettato dimostrare la verità dei fatti che nel caso di specie corrispondeva a provare l’esistenza delle camere a gas. Il processo Irving costituisce un esempio di processo alla storia e al ruolo dello storico in cui diversi storici furono chiamati a testimoniare come consulenti delle parti160. Furono gli 157 Irving v. Penguin Books Ltd., No. 1996 - I-1113, 2000 WL 362478 (Q.B. Apr. 11, 2000). Su tale famoso caso giudiziario si vedano le considerazioni di D. Mulvihill, Irving v. Penguin: Historians on Trial and Determination of Truth Under English Libel Law, in 11 Fordham Intell. Prop. Media & Ent. L.J. 217 (2000). 158 D. Lipstadt, Denying the Holocaust, Penguin Books, 1994. 159 S. Barbaro, Diffamazione, verità giudiziaria e verità storica in una recente sentenza della cassazione, in Riv. Inf. e informatica, 2010, 6, 880. 160 Furono difatti citati dalla difesa della Lipstadt come consulenti cinque storici: Richard Evans, Professore dei Storia moderna a Cambridge, Robert Jan van Pelt, Professore di Architettura all'Università di Waterloo, Cristhopher Browning, Professore di Storia alla Pacific Lutheran University; Peter Longerich, Lettore presso Il Dipartimento di tedesco dell'Università di Londra e Hajo Funke, Professore di Scienza Politica presso la Libera Università di Berlino. 66 eminenti storici interpellati dalla difesa della Lipstadt a dimostrare attraverso una accurata documentazione le deliberate reticenze contenute nella tesi di Irving, nonché l’assoluta arbitrarietà del suo metodo d’indagine storiografica, così da assolvere l’autrice delle affermazioni “lesive” della reputazione dello storico. Irving aveva, a dire della Corte, falsificato e distorto le prove in suo possesso. Il caso italiano è invece emblematico per l’assenza di qualsiasi disposizione in materia di negazionismo, come si è già avuto modo di precisare, né al momento pare siano previsti concreti interventi in tal senso. 5. La negazione della Shoah e l’incitazione all’odio razziale: tendenze del diritto internazionale “Esprimere un’opinione è una cosa, incitare alla discriminazione è altro (…) l’antisemitismo non rientra nella categoria protetta dalla libertà di opinione”161, citava J. P. Sartre. Purtroppo però il negazionismo, lungi dall’essere solo una forma di pensiero “al negativo”, rappresenta per molti tra gli Stati precedentemente considerati, un vettore dell’antisemitismo moderno, una forma di discriminazione che gli Stati puniscono, in ordine alla convinzione secondo la quale il negazionista è sic et simpliciter colui che incita al razzismo162: un antisemitismo che è sopravvissuto al tempo e allo spazio, e l’ammontare piuttosto recente del numero dei movimenti antisemiti, ne fa presagire il perdurare. Nei Paesi in cui il razzismo viene considerato a tutti gli effetti un crimine, il negazionismo viene studiato da una particolare angolatura, attraverso la quale la propaganda all’odio, l’incitazione al genocidio e la discriminazione razziale vengono intesi quali metodi diretti verso un unico obiettivo, mirare al crimine finale, di cui appunto il negazionismo è uno dei suoi veicoli163. Ed invero, l’Olocausto appare un momento critico, apoteosi delle conseguenze brutali del razzismo non represso. È in reazione agli orrori dell’Olocausto che le nazioni occidentali hanno intrapreso una 161 J. P. Sartre, Lutte contre le racisme et liberté d’expression, in E. Derieux, LP n°94 –II 81. G. Cohen-Jonathan, Négationnisme et droits de l’homme, 1997, 32 RTDH, 594; M. Bidault, Le Comité pour l’élimination de la discrimination raciale, Montchrestien, 1997, 143. 162 N. Lerner, Group Rights and Discrimination in International Law, Dordrecht Martinus Nijhoff Publishers, 1991, 24. 163 M. Imbleau, La négation du génocide nazi, liberté d'expression ou crime raciste ?: Le négationnisme de la Shoah en droit international et comparé, cit., p. 336 ; Doc. E/447, p. 32, in W. A. Schabas, Genocide in International Law, Cambridge University Press, 2000, pp. 479-480. 162 67 operazione capillare che prevede l’abolizione del razzismo: lo sterminio massivo degli ebrei ha giocato un ruolo decisivo nell’adozione dei numerosi documenti relativi ai diritti delle persone nella comunità internazionale, cominciando proprio dalla Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio164: la ragione secondo la quale il fenomeno dell’antisemitismo è ancora un tema caldo, risiede nella considerazione che la stragrande maggioranza dei testi internazionali relativi ai diritti delle persone all’antisemitismo, non fanno esplicitamente riferimento alla “giudeofobia” e nonostante tali fenomeni siano stati oggetto di verifica e accertamento prima dell’adozione dei documenti in questione. Malgrado l’assenza di riferimenti espressi, non vi è alcun dubbio circa la proibizione dell’antisemitismo, quale motivo di discriminazione. I due documenti centrali, dai quali si evince tale considerazione, sono la Convenzione Internazionale sulla Eliminazione di ogni Forma di Discriminazione Razziale (ICERD)165 e il Patto internazionale sui Diritti Civili e Politici166. Il preambolo della ICERD assieme all’art. 4 della stessa Convenzione167, possiede un carattere preventivo che obbliga gli Stati membri a prendere le misure prescritte; la Convenzione non si limita a legittimare le restrizioni alla libertà di espressione, ma indica quali sanzioni devono essere applicate. Il paragrafo della Convenzione a) va oltre quanto disposto dall’art. 20 del Patto Internazionale sui Diritti 164 La Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio è stata approvata dalla General Assemblycon resolution 260 A (III) del 9 dicembre 1948, è entrata in vigore il 12 gennaio 1951. “Le Alte Parti Contraenti, considerando che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nella Risoluzione 96 (1) dell’11 dicembre 1946 ha dichiarato che il genocidio è un crimine di diritto internazionale, contrario allo spirito e ai fini delle Nazioni Unite e condannato dal mondo civile; riconoscendo che il genocidio in tutte le epoche storiche ha inflitto gravi perdite all’umanità; convinte che la cooperazione internazionale è necessaria per liberare l’umanità da un flagello così odioso, convengono quanto segue: Articolo I Le Parti contraenti confermano che il genocidio, sia che venga commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra, è un crimine di diritto internazionale che esse si impegnano a prevenire ed a punire…” 165 Convenzione Internazionale sulla Eliminazione di ogni Forma di Discriminazione Razziale, adottata, aperta alle firme e ratificata dall'Assemblea Generale il 21 dicembre 1965. Il testo si basa sulle disposizioni previste tanto dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, tanto dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite sull'Eliminazione di ogni Forma di Discriminazione Razziale del 20 novembre 1963 (Risoluzione n. 1904 [XVIII] dell'Assemblea Generale). 166 Patto internazionale sui Diritti Civili e Politici adottato dall’Assemblea generale dell’ONU il 16 dicembre 1966, che riconosce già nel preambolo la sussistenza di una serie di doveri che ciascun individuo ha verso la collettività. 167 Art. 4 Convenzione internazionale sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale: «Gli Stati parte condannano ogni propaganda e organizzazione che siano fondate su idee o teorie di superiorità di una razza o gruppo di persone di un certo colore o di una certa origine etnica, o che tentino di giustificare o promuovere l’odio e la discriminazione razziale in qualsiasi forma, e si impegnano ad adottare immediatamente misure positive finalizzate ad eliminare ogni incitamento alla discriminazione o atto discriminatorio; a questo fine, nel dovuto rispetto dei principi incardinati nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, nonché dei diritti chiaramente enunciati all'art. 5 della presente Convenzione….». 68 Civili e Politici168, ai sensi del quale “Qualsiasi propaganda a favore della guerra deve essere vietata dalla legge. Qualsiasi appello all’odio nazionale, razziale o religioso che costituisca incitamento alla discriminazione, all’ostilità o alla violenza deve essere vietato dalla legge”. Sono stati adottati più recentemente, in occasione della Conferenza mondiale sui diritti dell’uomo tenutasi a Vienna dal 14 al 25 giugno 1993, la Dichiarazione e il Programma d'Azione di Vienna169 che dichiarano l’importanza della promozione e della protezione dei diritti delle persone che fanno parte di minoranze, e il contributo che questa promozione può dare alla stabilità politica e sociale degli Stati nei quali questi individui vivono. Nonostante l’esistenza nel corpo convenzionale europeo, di disposizioni che interdicono la discriminazione, un nuovo protocollo specifico che tratta pure della stessa questione è stato adottato durante la Conferenza ministeriale in occasione del 50esimo anniversario della Convenzione europea a Roma, nel novembre del 2000170. La Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza del Consiglio d’Europa in quell’occasione ha mostrato il proprio convincimento affinché la protezione contro la discriminazione fosse rafforzata attraverso strumenti volti a combattere le attitudini e gli atti discriminatori nel recente trend di espansione. La questione è dunque quella di “decidere” se le leggi memoriali sopra analizzate siano giustificate, in quanto compatibili anche con gli strumenti internazionali di protezione dei diritti della persona, e più precisamente, se tali leggi ad hoc rispondano agli obblighi di repressione a cui le Convenzioni fanno riferimento. Pare che abbia deciso in senso affermativo il Tribunale francese nell’affaire Faurisson171, in cui la Corte francese, oltre ad aver dichiarato che le attività dello storico contenevano manifestamente degli 168 Il paragrafo 5 dell’art. 13 della Convenzione americana dei diritti dell’uomo è molte simile: «Qualunque propaganda in favore della guerra e qualunque richiamo all’odio nazionale, razziale o religioso che costituisca incitamento alla violenza illegale o ad ogni altra azione simile contro qualunque persona o gruppo di persone per qualsiasi ragione, compresi motivi di razza, colore, religione, lingua o origine nazionale o sociale, deve essere considerato dalla legge come reato». 169 Dal 14 al 25 giugno 1993, si è tenuta a Vienna la Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite sui Diritti Umani alla cui conclusione i rappresentanti di 171 Stati, hanno approvato, con votazione unanime, una Dichiarazione e un Programma d'Azione per la promozione e la tutela dei diritti umani nel mondo, riaffermando e richiamando gli impegni contenuti nella Carta delle Nazioni Unite. 170 Il Protocollo n. 12 alla Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti umani e delle Libertà Fondamentali, aperto alla firma nel 2000 a Roma, definisce illegali tutte le forme di discriminazione perpetrate da enti pubblici, qualsiasi sia la motivazione. La discriminazione razziale è pertanto considerata una violazione dei diritti umani. 171 Ci si limita ad affermare che nel caso Faurisson, il Comitato, sulla base del fatto che l’interdizione della diffusione di idee fondate sulla superiorità o l’odio razziale è compatibile con la libertà di espressione ed opinione enunciata dal’art. 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, ha concluso che la restrizione imposta alla libertà di espressione risultava accordata sulla base del paragrafo 3 dell’art. 19 dello stesso Patto. Per approfondimenti sulll’affaire Faurisson si rimanda al capitolo III. 69 elementi di discriminazione razziale, invocando il paragrafo 2 dell’art. 20 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, ha precisato che, attraverso la legge Gayssot, la Francia non faceva altro che uniformarsi alle convenzioni internazionali considerando la contestazione dei crimini contro l’umanità un reato penalmente sanzionabile. È, per esempio, in questi termini che la Corte ha giustificato l’introduzione dell’art. 24 bis nell’ordinamento francese, una disposizione normativa che permette di punire penalmente una grave forma di espressione del razzismo, inteso come vero vettore dell’antisemitismo172: se la contestazione/negazione dell’Olocausto può costituire una forma di incitazione all’antisemitismo, le leggi antinegazioniste hanno un ruolo ben più garantista di quello puramente repressivo o storico, questo il responso della Corte. Nella Risoluzione sul Razzismo, Xenofobia e Antisemitismo, il Parlamento europeo ha incluso il negazionismo tra le forme di manifestazione del razzismo e dell’antisemitismo; quartantasei delegazioni provenienti da tutto il mondo hanno sottolineato durante il Forum internazionale di Stoccolma sull’Olocausto, tenutosi a gennaio del 2000, l’importanza del ricordo del massacro, proponendo una operazione di prevenzione dei genocidi. Le delegazioni hanno adottato all’unanimità una dichiarazione in cui riconoscono l’importanza di preservare la verità sulla Shoah contro coloro che tentano di negarla. Così la Dichiarazione e il Programma d’Azione della Conferenza mondiale di Durban contro il razzismo173, si aggiunge a questa visione internazionale e afferma l’importanza della lotta contro la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza, l’importanza della storia passata e della comprensione della stessa per evitare nuove tragedie, sulla convinzione secondo la quale la lesione alla dignità umana che rappresenta il razzismo non è solamente un fenomeno privato e intimo tra la vittima e il colpevole, bensì una rottura del tessuto sociale, un rimettere in causa la base stessa della società. 172 Il Comitato per i diritti dell’uomo ha chiaramente indicato, nel caso Taylor, che le opinioni che quest’ultimo cercava di diffondere costituiscono nettamente una incitazione all’odio razziale che il Canada è tenuto ad interdire in virtù del paragrafo 2 dell’art. 20 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici. 173 Cfr. Dipartimento federale dell’Interno, Servizio per la lotta al razzismo, Conferenza mondiale contro il razzismo 2001, Durban (Sudafrica), Dichiarazione e Piano d’azione con riassunto e indice (testi disponibili in tedesco e francese), 2002, disponibile consultabile al sito web http://www.unhchr.ch/pdf/Durban_fr.pdf. Dopo aver preso atto di diffuse pratiche discriminanti, xenofobe e razziste nei confronti di apolidi, specialmente migranti, rifugiati e richiedenti l’asilo, gli Stati partecipanti hanno approvato un cosiddetto Piano d’azione che invita i Governi degli Stati a elaborare, in collaborazione con la società civile, piani d’azione nazionali per implementare le raccomandazioni contenute nei documenti conclusivi. 70 6. Cenni sull’esperienza nordamericana A fronte di un quadro europeo caratterizzato da molteplici testi legislativi volti a perseguire il negazionismo (limitando così fortemente la libertà d’espressione), nettamente distinta risulta la posizione americana; l’assolutezza delle disposizioni in materia di libertà di espressione sono inevitabilmente riconducibili all’infausto trascorso americano. Il passato delle 13 colonie insorte poi in una guerra di secessione contro la madre-patria nel 1776 è frutto di anni di vessazioni, malversazioni da parte dei governi nonché pesanti limitazioni delle libertà; un turbinio di eventi che ben dà mostra di una netta diversificazione, e mancata volontà di uniformazione dell’America al resto dell’Europa e pure allo stesso Canada. Per queste motivazioni, i coloni americani hanno evitato un seppur minimale riproporsi del destino da loro subito sino a quel momento, così che, da Padri Fondatori, hanno redatto la Costituzione del 1787 con l’obiettivo di “garantire il sacrosanto diritto della libertà individuale e preservarlo per le generazioni a venire”174. Ad essere garantita negli Stati Uniti è una libertà di pensiero a tratti incondizionata, 175 simbolo di speranza, elemento fondante di una civiltà, grazie ai “costumi”, allo “stato morale e intellettuale del popolo”176, dove la prevalente dottrina e la giurisprudenza consolidata hanno sostenuto, soprattutto nella fase più recente, una linea intransigente, tendente ad escludere che la libertà di pensiero e di parola potesse incontrare veri e propri limiti, condizionando tra l’altro, le riserve espresse dal Governo americano in sede di ratifica dei trattati internazionali177. Libertà e free speech sono le parole che più 174 Nel “Bill of Rights” si legge che “il governo non potrà nè stabilire nè proibire religioni”, “non potrà revocare il diritto di parola del cittadino”, “non potrà impedire l’assembramento pacifico delle persone”, “non potrà negare il diritto di mantenere e portare armi”, “non potrà invadere la privacy dell’individuo senza giusta causa”, “non potrà processare due volte un individuo per lo stesso reato”, “non potrà deprivare il cittadino di proprietà personale senza giusto compenso”. 175 Le ragioni alla base di una così estesa tutela della libertà di parola e di manifestazione di pensiero hanno radici nella storia e nel pensiero politico Americano. I commentatori tendono a individuare tre fondamentali giustificazioni della tutela accordata negli USA al “free speech”. In primo luogo un ruolo fondamentale ha la volontà di creare un "marketplace of ideas", in cui le idee competono e interagiscono tra di loro finché la verità non emerga. Inoltre fondamentale è l'affermazione del principio di autonomia morale in base al quale i cittadini possono ritenersi liberi e in grado di esprimere pienamente se stessi qualora lo Stato garantisca ad ognuno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero e tale diritto sia tutelato anche qualora tale pensiero sia inpopolare o persino ritenuto offensivo dalla maggioranza. Sul punto si veda: G. Phillipson, Trial by media: the betrayal of the First Amendments's purpose, in (a cura di G. Resta), Il rapporto tra giustizia e mass media quali regole per quali soggetti, atti del convegno Bari 4 luglio, 2008, Editoriale Scientifica, p.94. 176 Per una disamina completa della situazione americana e degli sviluppi in termini di assolutismo e uguaglianza, cfr. A. Tocqueville La democrazia in America, UTET Libreria, 2007. 177 Sulla storia del problema fino agli anni ’60, cfr. Th.I.Emerson, Toward A General Theory of the First Amendment, New York, Vintage Books, 1967; più di recente, fra i molti, L.H.Tribe, Constitucional 71 connotano l’intera storia degli Stati Uniti d’America ed il suo popolo avido di libertà assoluta: una condizione tanto agognata, a cui difficilmente l’America sarà disposta a rinunciare. Ed invero, a fronte di quella pagina della Convenzione dei diritti dell’Uomo, che vede convivere una libertà di espressione garantita ad ogni cittadino, con il suo manifesto ed evidente “contrappeso”, costituito da una serie di restrizioni per motivi di “sicurezza nazionale, integrità territoriale o pubblica sicurezza, difesa dell’ordine e prevenzione dei reati, protezione della salute o della morale”, emerge una “noncuranza” americana, quella profonda adesione alla più totale libertà di parola che gli americani professano da sempre, ma che porta implicitamente in sé il forte timore di conseguenze talvolta negative178. L’esperienza statunitense, accanto a quella canadese, sarà oggetto di approfondimento del capitolo IV. Choices, Harvard Univ. Press, Cambridge Mass., 1985, 188 ss.; R.DWORKIN, Freedom’s Law, Harvard Univ. Press, Cambridge Mass., 1996, 163 ss. 178 Emblematiche sono le conclusioni raggiunte dalla Supreme Court nei casi Brandenburg v. Ohio e National Socialist Party of America v. Village of Skokie, (che saranno approfonditi nel capitolo IV) in cui la Corte ha ritenuto non punibile l’”hate speech”, rientrante nella protezione offerta dal I emendamento, in quanto trattasi solo di apologia e non di incitement to violence. 72 Capitolo III L’ESPERIENZA FRANCESE: UN PERCORSO MEMORIALE SENZA PRECEDENTI 1. Le “lois mémorielles”: presupposti e caratteri All’interno della seconda fase del percorso di “giuridificazione” della storia assumono un ruolo centrale le c.d. lois mémorielles, peculiari dell’esperienza giuridica francese. La Francia, infatti, si caratterizza tanto per l’aspetto “commemorativo” degli illeciti di massa di rilevanza storica, quanto per l’imposizione di obblighi di ricordo, attraverso l’approvazione di numerose leggi, ciascuna volta a prendere in considerazione, e solo alle volte a sanzionare, un differente “errore” della storia. Quello che sta accadendo in Francia dal 1990 non è riscontrabile in nessun altro Paese europeo; proliferano “periodicamente” proposte di legge tutte con un comune filo conduttore: la necessità di preservare - in maniera rigida e univoca – il ricordo di quel passato che, probabilmente, ciascun essere umano, in assenza di una tale imposizione, “interpreterebbe” a suo modo. E così, accanto ai testi di legge con i quali si impone “semplicemente” di riconoscere la sussistenza di alcuni crimini del passato, senza prevedere sanzioni in caso di mancato “riconoscimento”, trovano spazio vere e proprie leggi memoriali, le quali si presentano in numero superiore rispetto alle altre esperienze europee. È sempre nel Parlamento francese che sono state avanzate numerose altre proposte di legge, nel vano tentativo di regolare ex lege l’intera storia nazionale e non, per cercare di dare la stessa dignità al passato attraverso un percorso a ritroso che, così stando le cose, difficilmente troverà una conclusione. Durante gli anni 1980-1990, il percorso intrapreso per ottenere l’imputazione dei signori Barbie, Toubvier e Papon179, giudicati per aver commesso crimini contro l’umanità e il 179 M. Cointet, Dictionnaire historique de la France sous l'Occupation, a cura di M. e J. Cointet, Tallandier, 2000. Senza pretesa di esaustività si tracciano brevemente le vicende giudiziarie di Klaus Barbie, Paul Touvier e Maurice Papon. Barbie è stato un ufficiale e tedesco, comandante della Gestapo durante l'occupazione nazista della Francia. Inizialmente scampato al processo di Norimberga, dopo che un’ordinanza della Corte di Cassazione del 1985 stabiliva che i crimini commessi contro i resistenti costituivano crimini contro l’umanità e per questo imprescrivibili, Klaus Barbie veniva “convocato” dinanzi alla Corte di Assise del dipartimento del Rhône a Lione, e lì, in data l’11 maggio 1987 cominciava il processo a suo carico, per aver “condotto” la deportazione di circa seicentocinquanta persone. Il 4 luglio 1987 veniva riconosciuto colpevole. Paul Touvier è stato condannato per complicità in crimini contro l’umanità, a seguito della fucilazione perpetrata dallo stesso ai danni di sette ostaggi ebrei 73 processo, poi, contro il professor Faurisson, ha portato nelle aule dei tribunali francesi le prime controversie in materia di negazionismo; si è innescato così un processo di “giurisdizionalizzazione” del passato resosi terreno favorevole per il voto di leggi adottate dal Parlamento francese: a partire da questo momento lo Stato non si è accontentato più di onorare le vittime, ma ha cominciato ad imporre un dovere di rievocazione dettagliatamente disposto, pena sanzioni limitative della libertà personale. Le assemblee parlamentari hanno ora cominciato ad imporre e a dettare una “personale” visione della storia dell’umanità, attribuendo alla stessa una ufficialità non sempre condivisa e che ben difficilmente può essere pubblicamente confutata. Generalmente dotate di un’elevata valenza simbolica, le leggi memoriali hanno un carattere eccezionale, in quanto non mirano ad interdire la revisione storica nel suo complesso, ma si riferiscono a degli accadimenti ben precisi; si presentano inoltre eterogenee tra loro, ma il fondamento è comune: la scuola revisionista francese non può più aspirare all’impunità goduta in passato. Nell’ipotesi “meno contestata” dall’opinione pubblica e dagli ambienti storici, le leggi si limitano a promuovere il ricordo di un determinato evento, così che il loro grado di normatività è, in questi casi, minimo180; sempre più spesso, però, esse sono assistite da un apparato repressivo-sanzionatorio di non trascurabile rilevanza, il quale spazia dai rimedi civili alle sanzioni penali. È questo il caso dei testi di legge volti non soltanto a favorire la commemorazione o il ricordo, ma a perseguire la negazione, la minimizzazione o la giustificazione di determinati eventi storici, anche non necessariamente correlati all’esperienza nazionale. Il meccanismo sanzionatorio che ha preso corpo in Francia, volto a neutralizzare lo spirito critico dei cittadini, degli storici, degli insegnanti e di quanti ora lamentano una seria limitazione a quelle libertà imprescindibili da una democrazia liberale, ha portato il legislatore francese a concentrare la propria attività legislativa su alcuni avvenimenti della storia. Ricopre il primo posto, in una lista non sicuramente breve di leggi memoriali adottate, scelti in quanto tali per vendicare l’uccisione del ministro dell’informazione di Vichy ucciso dai partigiani. Funzionario del ministero dell'Interno del governo Petain e responsabile della deportazione nei campi di sterminio nazisti di 1.690 ebrei, tra cui 223 bambini, Maurice Papon è finito sotto processo. Il 2 aprile del 1998 il tribunale di Bordeaux ha condannato Papon per "complicità in crimini contro l'umanità. 180 B. Mathieu, Les «lois mémorielles» ou la violation de la Constitution par consensus, Dalloz. 2006, p. 3001. 74 la legge Gayssot181. Essa è stata approvata da alcuni in nome della salvaguardia della memoria e in virtù della necessità di una lotta antirazzista, criticata da altri in nome della libertà di espressione e della ricerca storica. Tale provvedimento normativo mira a reprimere tutti gli atti di razzismo, antisemitismo e xenofobia, creando così il delitto di negazionismo del genocidio degli Ebrei, modificando la legge sulla libertà di stampa del 29 luglio 1881 attraverso l’inserimento dell’art 24 bis. Il legislatore ha quindi voluto incriminare il negazionismo inserendo tale reato all’interno della legge sulla stampa, un testo giuridico per altro, che ha posto le basi in Francia della libertà di stampa e della libertà di espressione, e che si insinua perfettamente nello spirito dell’’art. 11 della Déclaration des droits de l’homme et du citoyen du 26 août1789182. In altri termini, proprio nella legge fondante la libertà di comunicazione, che allo stesso tempo limita e criminalizza alcuni comportamenti specifici attuati a mezzo stampa, è stata disciplinata la repressione del negazionismo del genocidio ebreo. L’art. 9 della legge Gayssot delinea la fattispecie di “contestation de crimes contre l’humanité”. La formula utilizzata all’interno dell’art 9 “qui ont été commis” impone al giudice di provare l’effettiva commissione di tali crimini: l’onere probatorio viene posto, insomma, a carico degli Organi giudicanti, i quali saranno così tenuti a sostituirsi agli storici. Attraverso l’articolo 9 della legge citata, è vietata ed eventualmente punita la contestazione delle decisioni del tribunale di Norimberga e delle decisioni ulteriori rese in Francia sullo stesso argomento183. È per questo che taluni l’hanno definita “loi antirévisionniste”: una legge che sotto la veste del contrasto al razzismo, punta a colpire i revisionisti. La legge Gayssot, attraverso un non semplice riferimento all'articolo 6 c) dello statuto del Tribunale Militare internazionale di Norimberga e alle decisioni 181 Legge n° 90-615 del 13 luglio 1990, legge Gayssot, cit. Sulla legge Gayssot e per alcune note applicazioni giudiziarie di tale disciplina - in particolare sul caso Faurisson e sul caso Garaudy - cfr. M. T roper , La legge Gayssot e la Costituzione,cit., P. Wachsmann, Libertà di espressione e negazionismo, ivi,cit..; M., Ripoli Ancora sul negazionismo. Garaudy letto sul serio, cit.; A. Buratti I, L'affaire Garaudy di fronte alla Corte di Strasburgo. Verità storica, principio di neutralità etica e protezione dei «miti fondatori» del regime democratico, cit. 182 Art. 11 della Déclaration des droits de l’homme et du citoyen: «La libre communication des pensées et des opinions est un des droits les plus précieux de l’homme ; tout citoyen peut donc parler, écrire, imprimer librement, sauf à répondre de l’abus de cette liberté dans les cas déterminés par la loi». 183 Art. 9 (Loi Gayssot) «Seront punis des peines prévues par le sixième alinéa de l'article 24 ceux qui auront contesté, par un des moyens énoncés à l'article 23, l'existence d'un ou plusieurs crimes contre l'humanité tels qu'ils sont définis par l'article 6 du statut du tribunal militaire international annexé à l'accord de Londres du 8 août 1945 et qui ont été commis soit par les membres d'une organisation déclarée criminelle en application de l'article 9 dudit statut, soit par une personne reconnue coupable de tels crimes par une juridiction française ou internationale. (…)». 75 giudiziali emesse proprio in quella sede, definisce crimini contro l'umanità «l'assassinio, lo sterminio, la riduzione in schiavitù, la deportazione, ed ogni altro atto inumano commesso contro tutte le popolazioni civili prima o durante la guerra, oppure le persecuzioni per dei motivi politici, razziali o religiosi quando simili atti o persecuzioni, che abbiano costituito o no una violazione del diritto interno del Paese in cui sono stati perpetrati, siano stati commessi a seguito di ogni crimine che rientri nella competenza del tribunale, o in connessione con tale crimine». La seconda parte dell'art. 24 bis si riferisce sia ai membri di una organizzazione dichiarata criminale in applicazione dell'art. 9 dello Statuto di Norimberga, sia ad una persona riconosciuta colpevole di tali crimini da una giurisdizione francese o internazionale senza che sia necessario che tale individuo abbia aderito ad una delle organizzazioni menzionate all'art. 9. Tra le peculiarità della legge Gayssot rientra sicuramente l’introduzione del “diritto di replica” ai sensi degli artt. 1 e 3 della stessa legge: quando, infatti, siano stati pubblicati articoli suscettibili di ledere l'onore o la reputazione di qualcuno, in ragione dell’origine, appartenenza o non appartenenza ad un'etnia, razza o religione, il giudice può ordinare, a spese del condannato la pubblicazione di tutta o parte della sua decisione nello stesso quotidiano oggetto di tesi negazioniste anche implicite, ovvero la pubblicazione del dispositivo della sentenza nella Gazzetta ufficiale della Repubblica francese o in uno o più giornali o periodici184. 2. Le leggi memoriali successive alla legge Gayssot Se la prima legge sull’Olocausto nasceva come strumento di difesa della memoria della Shoah e delle sue vittime, in un’epoca in cui i sopravvissuti ai campi di sterminio o anche coloro che vi avevano perduto i propri congiunti erano ancora molto numerosi, diverso appare il contesto degli altri testi legislativi rilevanti per la presente indagine. Accanto al reato di negazione della Shoah il 29 gennaio 2001 è stata adottata la seconda legge “historique-mémorielle”, grazie alla quale i cittadini di origine armena hanno 184 L’art. 3 della Legge n° 90-615, introduce una modifica al codice penale francese, disponendo l’inserimento dell’art. 51-1, dopo l’art. 51. L’art. 51-1 dispone che «Dans le cas prévus par la loi, le tribunal pourra ordonner, aux frais du condamné, soit la publication intégrale ou partielle de sa décision, soit l'insertion d'un communiqué informant le public des motifs et du dispositif de celle-ci dans le Journal officiel de la République française ou dans un ou plusieurs journaux ou écrits périodiques qu'il désignera. "Le tribunal déterminera, le cas échéant, les extraits de la décision qui devront être publiés; il fixera les terms du communiqué à insérer». 76 ottenuto una legislazione “reconnaissant le génocide arménien del 1915”185. La negazione del genocidio armeno costituisce senza dubbio il movimento “negazionista” più esteso accanto a quello della Shoah, anche se a differenza del genocidio ebreo, si caratterizza per essere oggetto di differente contestazione: nel caso del genocidio armeno ad essere confutata è piuttosto la “qualificazione genocidiaria” dell’eccidio e non la sua effettiva verificazione. E così la legge, non solo, richiama alla memoria un avvenimento tragico, ma ancora una volta prende ufficialmente posizione nel campo della storiografia; diversamente da quanto accade per la legge che riconosce le vittime della Shoah, la legge del 29 gennaio del 2001, però, non invoca esplicitamente la nozione di crimini contro l’umanità e non crea neppure il delitto di negazionismo, questo probabilmente perché, mentre nel caso dell’Olocausto sono frequenti le ipotesi di negazionisti e revisionisti impegnati a confutarne l’esistenza, nel caso degli Armeni la situazione è diversa. Da più parti, infatti, non si contesta che siano stati uccisi centinaia di migliaia di Armeni nel 1915 all’interno dell’Impero ottomano, “semplicemente” si è restii a considerare lo sterminio un genocidio in senso stretto, in senso giuridico, e secondo la definizione data dalla Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide adottata dall’ONU nel 1948. In altri termini, non si ritiene la sorte degli Armeni una conseguenza di un piano mirante allo sterminio di un gruppo etnico. Storici come Bernard Lewis e Guenter Lewy, per esempio, non hanno ravvisato l’esistenza di prove certe di una premeditazione e pianificazione governativa e si sono espressi in più occasioni piuttosto in termini di “massacro” della popolazione armena186. Occorre ribadire che il testo in questione ha una mera funzione dichiarativa, funzione tante volte definitiva “decorativa”, prevedendo in un unico articolo il riconoscimento da parte della Francia del genocidio degli Armeni del 1915, senza altre precisazioni. É evidente che la legge non pone alcuna obbligazione, né alcuna interdizione, ma concreta soltanto un impegno simbolico: riconoscere in maniera solenne un fatto preesistente, attestato dagli storici. A riprova di un approccio politico che ha sempre cercato di salvaguardare i rapporti diplomatici con l’estero ed in particolare con la Turchia, la legge del 2001 non ha impedito al Governo francese di pronunciarsi in maniera 185 Loi n. 2001-70 du 29 January 2001 relative à la reconnaissance du génocide arménien de1915, in J.O. n° 25, 30 January 200. Art.unico: “La France recconaît publiquement le génocide armonie de 1915”. 186 Cfr. G. Lewy, The Armenian Massacres in Ottoman Turkey: A Disputed Genocide, The University of Utah Press, 2005 (trad. it. Il massacro degli Armeni. Un genocidio controverso, Giulio Einaudi editore, 2006). 77 favorevole rispetto all’accesso della Turchia all’Unione Europea, quand’anche si stia parlando di uno Stato che continua a negare palesemente la realtà del suddetto genocidio. Nonostante il suo carattere meramente dichiarativo, la legittimità costituzionale della legge del 2001 è stata apertamente contestata. Se da un lato l’art. 34 della Costituzione francese nel fissare le regole e i principi fondamentali delle materie legislative invoca una concezione molto rigorosa della legge, richiedendo “normatività” e imperatività nelle disposizioni legislative187, dall’altra una elaborazione differente viene fornita dal Conseil Constitutionnel, in particolare nella decisione del 1982188: in questa sede non è stata, infatti, esclusa la possibilità per le leggi del Paese di contenere anche disposizioni senza alcun effetto giuridico, e che “en raison même de leur caractère inopérant, n’ont pas à faire l’objet d’une dèclaration de non conformité à la Constitution”. In altri termini, e riferendo la decisione del Consiglio Costituzionale alla legge sul genocidio perpetrato dai turchi, la questione si è risolta considerando che, poiché attraverso la disposizione del mero riconoscimento del genocidio armeno non è stata introdotta nell’ordinamento francese alcuna norma di legge in senso stretto, il controllo di legittimità costituzionale non può essere in questo caso effettuato. Questo non vuol dire che il Conseil Constitutionnel autorizzi o approvi una legge simile, è stato ancora precisato, ma solo che la stessa disposizione sfugge dal controllo costituzionale, poiché non costituisce una vera e propria disposizione normativa. Ad integrare il “semplice” riconoscimento garantito nel 2001 alla popolazione armena e a rafforzarne il contenuto, è stato, in un primo momento, un intervento legislativo datato 2006, quando l’Assemblea Nazionale francese ha adottato una proposition il cui primo firmatario è stato il senatore-sindaco di Marsiglia Jean-Claude Gaudin; si trattava di un progetto di legge che avrebbe esteso alla contestazione del genocidio degli Armeni le sanzioni penali previste dall’art. 9 della legge Gayssot: alla legge del 2001 è stata prevista l’integrazione di un secondo articolo189, istituendo ufficialmente un nuovo delitto di negazionismo. La disposizione del 2006 avrebbe aggiunto una più immediata dimensione precettiva, implicando così delle conseguenze giudiziarie alla dimensione 187 B. Baufume, La réhabilitation des résolutions: une nécessité constitutionnelle, in Revue de droit public, 1994, p. 1427-1428 : «la conception de la loi implicite dans la Constitution de 1958 est celle d’une norme impérative: la loi ne doit thèoriquement (…) contenir des dispositions dèpourvues d’effets juridiques (…)». 188 Décision n° 82-142 DC, 27 juillet 1982, in J.O. du 29 juillet 1982, p. 2424. 189 F. Lisena, Spetta allo Stato accertare la verità storica?,in Giur. Cost., 2009,5, 3959. L’autrice nell’affrontare un caso italiano di negazione del genocidio armeno (di cui si è trattato nel capitolo II) accenna alla legislazione francese in materia di genocidio armeno. 78 puramente dichiarativa della legge del 2001. La disposizione approvata in prima lettura il 12 ottobre 2006, dopo numerosi rinvii, è stata discussa e rigettata dal Senato in data 4 maggio 2011. Ed invero, l’attenzione verso il genocidio degli Armeni ha continuato ad interessare il mondo politico e in data 22 dicembre 2011, alla presenza della delegazione di Marsiglia francese di origine armena, l’Assemblea Nazionale francese su proposta di Valérie Boyer, deputato UMP des Bouches-du-Rhône ha approvato la“Proposition de loi visant à réprimer la contestation de l’existence des génocides reconnus par la loi”. Benché il deputato proponente ne abbia escluso la qualifica di legge memoriale, la proposta di legge prevede l’inserimento dell’art. 24 ter nella legge sulla libertà di stampa del 1881190, al fine di punire con un anno di carcere e 45.000 Euro di ammenda tutti coloro che negano, minimizzano i genocidi così come definiti dall’art. 211 del c.p.191 e riconosciuti come tali dalla legge francese. Il testo di legge approvato in data 22 dicembre 2011 consta di due articoli. Accanto al primo, appena delineato, il secondo dà diritto alle associazioni che difendono la morale e l'onore delle vittime del genocidio, (tra le quali figura per esempio il Consiglio di Coordinamento delle Organizzazioni armene di Francia), di intraprendere azioni legali per riconoscere i reati di cui all'articolo uno, vale a dire la contestazione o la minimizzazione dei crimini di genocidio. In altri termini, attraverso un’accezione più ampia, utilizzata “intenzionalmente” per evitare riferimenti diretti alla “questione turca”, la nuova proposta di legge permette di punire anche il genocidio degli armeni, proprio perché oggetto di riconoscimento ufficiale da parte della Francia con legge del 2001. La principale novità che caratterizza il testo è quella di penalizzare la negazione del genocidio quando la condotta è effettuata al fine di incitare alla violenza o all'odio contro un gruppo di persone; si tratta probabilmente di uno strumento necessario a 190 Legge del 29 luglio 1881, cit. Può essere utile riportare il tersto dell’art. 211 codice penale francese:« Constitue un génocide le fait, en exécution d'un plan concerté tendant à la destruction totale ou partielle d'un groupe national, ethnique, racial ou religieux, ou d'un groupe déterminé à partir de tout autre critère arbitraire, de commettre ou de faire commettre, à l'encontre de membres de ce groupe, l'un des actes suivants: atteinte volontaire à la vie; atteinte grave à l'intégrité physique ou psychique; soumission à des conditions d'existence de nature à entraîner la destruction totale ou partielle du groupe; mesures visant à entraver les naissances;transfert forcé d'enfants. Le génocide est puni de la réclusion criminelle à perpétuité. Les deux premiers alinéas de l'article 13223 relatif à la période de sûreté sont applicables au crime prévu par le présent article.» 191 79 garantire l’uniformazione della Francia alla Decisione Quadro 2008/913/GAI192 del Consiglio d’Europa. Manca per l’approvazione definitiva della proposta di legge il voto del Senato, anche se, dopo l’approvazione della legge Gayssot e il riconoscimento del genocidio armeno, l’adozione di un testo di legge volto a criminalizzare il genocidio armeno (sebbene evitando di menzionarlo esplicitamente nel testo) parrebbe la logica conseguenza della “strategia” adottata dal Parlamento francese. Nella lista delle “lois mémorielles” figura un altro testo di legge: nel maggio del 2001 il Parlamento francese ha approvato la legge Taubira193, disponendo così che la tratta negriera transatlantica e la tratta nell'Oceano Indiano da un lato, e la schiavitù dall'altro, «perpetrate a partire dal XV secolo, nelle Americhe e nei Caraibi, nell'Oceano Indiano e in Europa [...]» costituiscono un crimine contro l'umanità. Nel secondo comma si stabilisce che i programmi scolastici e i programmi di ricerca in storia e nelle scienze umane dedicheranno alla tratta negriera e alla schiavitù lo “spazio conseguente” che essi meritano. La legge Taubira, sebbene inauguri una frattura importante dal punto di vista della rappresentazione ufficiale della memoria della schiavitù riconoscendone le vittime, non implica alcun pentimento da parte dello Stato o della Nazione, ma solo un dovere di memoria per un crimine imprescrittibile, un “risarcimento culturale” come lo ha definito la stessa autrice della legge, Christiane Taubira. A fronte della previsione, in un primo momento, della creazione di un comitato composto da membri qualificati, con il compito di determinare la portata dei danni subiti e degli obblighi di riparazione dovuti in conseguenza di tale crimine, successivamente qualsiasi riferimento al Comitato è stato eliminato dal testo di legge, avendo il Parlamento deciso di escludere ogni ipotesi di risarcimento. Il 30 maggio del 2005, il Movimento internazionale della Riconciliazione e il Consiglio Mondiale della diaspora panafricana hanno citato in giudizio lo Stato francese reclamando la riparazione dei danni della schiavitù: secondo i 192 Decisione Quadro 2008/913/GAI, cit. Per maggiori informazioni circa il contenuto della Decisione Quadro, cfr. capitolo II. 193 Loi n° 2001-434 du 21 mai 2001, tendant à la reconnaissance de la traite et de l'esclavage en tant que crime contre l'humanité,in J.O. n° 119, du 23 mai 2001. Art.1: «La République française reconnaît que la traite négrière transatlantique ainsi que la traite dans l'océan Indien d'une part, et l'esclavage d'autre part, perpétrés à partir du XVe siècle, aux Amériques et aux Caraïbes, dans l'océan Indien et en Europe contre les populations africaines, amérindiennes, malgaches et indiennes constituent un crime contre l'humanité». Art. 2: «Les programmes scolaires et les programmes de recherche en histoire et en sciences humaines accorderont à la traite négrière et à l'esclavage la place conséquente qu'ils méritent. La coopération qui permettra de mettre en articulation les archives écrites disponibles en Europe avec les sources orales et les connaissances archéologiques accumulées en Afrique, dans les Amériques, aux Caraïbes et dans tous les autres territoires ayant connu l'esclavage sera encouragée et favorisée». 80 ricorrenti, la tratta degli schiavi avrebbe costituito una violazione grave e manifesta di un diritto fondamentale da parte dell’amministrazione francese194. Polemiche si sono scatenate perché, da una parte, la legge non considera altre tratte, dall’altra la dicitura del secondo comma appare incompleta e mal redatta, non lasciando del tutto comprendere in che modo debba intendersi l’espressione «la place conséquente», ovvero quali siano gli strumenti di cui dovrebbe disporre chi è tenuto a giudicare che gli stessi fenomeni storici abbiano o non abbiano ricevuto durante l'insegnamento lo «spazio conseguente» al quale hanno diritto. L’argomento principale di quanti hanno contestato la costituzionalità della disposizione, ha riguardato un’implicita violazione del principio di non retroattività delle leggi, di cui all'articolo 8 della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789, dal momento che i responsabili della tratta sono deceduti da tempo: ciò che è retroattivo, come accade del resto in tutte le leggi memoriali, è la definizione stessa del crimine. Questo è stato, infatti, definito con un concetto del tutto estraneo alla mentalità e alla società in cui esso ha avuto luogo, attraverso una palese forma di anacronismo storico195. A fronte del testo di legge Taubira ha rischiato di essere sottoposto a sanzione, il saggio “Les traites négrières. Essai d’histoire globale” di Olivier Pétré-Grenouilleau196, denunciato come revisionista. Parte del contenuto del libro è stato esposto durante un’intervista197, in cui l’autore non ha mancato di contestare pubblicamente il carattere di “genocidio” riferito alla tratta negriera perché carente dell’obiettivo di sterminare un popolo, e perciò di escluderne qualsiasi assimilazione con la Shoah. La preoccupazione degli ambienti storici non ha tardato ad “ufficializzarsi”198 anche a seguito dell’emanazione, il 23 febbraio 2005 della legge “Mekachera”199, che si è 194 E. Keslassy, A. Rosenbaum, Mémoires vives. Pourquoi les communautés instrumentalisent l’histoire, Bourin, 2007, p. 126. 195 A. Ollin, La loi Taubira: inconstitutionnelle, liberticide et négationniste,in Le webzine de l'histoire, 01.01.2010. L'anacronismo consiste nell'applicare un concetto elaborato nel 1945, il «crimine contro l'umanità»,ad una realtà risalente, nel caso di specie, alla tratta negriera atlantica: «A rigor di logica, bisognerebbe allora che i Greci condannino, per legge, i loro antenati dell'antichità per il “crimine contro l'umanità” che hanno praticato». 196 O. Pétré-Grenouilleau, Les traites négrières. Essai d’histoire globale, Gallimard, 2004, p.7-30. 197 Un prix paur «Les traites négrières», intervista a cura di Christian Sauvage, in Journal du dimanche, Parigi 12-6-2005. 198 Il 12 dicembre 2005 diciannove storici, fra cui Mare Ferro, Pierre Milza, Pierre Nora, Mona Ozouf, René Rémond e Pierre Vidal-Naquet, hanno pubblicato un appello, Liberté pour l ’histoire, sottoscritto poi da altri seicento studiosi, in cui si chiedeva l’abrogazione di tutte le leggi «della memoria» e di cui si dirà meglio nei prossimi paragrafi. 199 Loi n° 2005-158, du 23 février 2005, portant reconnaissance de la Nation et contribution nationale en faveur des Français rapatriés, inJ.O. n° 46 du 24/02/2005. «Article 1er. La Nation exprime sa reconnaissance aux femmes et aux hommes qui ont participé à l'œuvre accomplie par la France dans les anciens départements français d'Algérie, au Maroc, en Tunisie et en Indochine ainsi que dans les 81 pronunciata sul ruolo positivo della presenza francese oltremare e nello stesso tempo ha disposto l’obbligo per i docenti di storia e per i ricercatori di prendere in considerazione nei proprio lavori, la nuova realtà dei fatti. La legge, fortemente voluta dai cittadini “rimpatriati”, poiché mira a riconoscere il milione e mezzo di francesi che a partire dagli anni Cinquanta ha dovuto abbandonare l'Africa durante il processo di decolonizzazione, ha scatenato forti tensioni e polemiche in particolare da parte degli ambienti storici, poiché all'articolo 4 così dispone: «I programmi di ricerca universitaria accordano alla storia della presenza francese oltre mare, soprattutto nell'Africa del nord, il posto che merita. I programmi scolastici riconoscono in particolare il ruolo positivo della presenza francese oltre mare, soprattutto nell'Africa del Nord (..)». L’articolo in questione ha “innescato” un’accesa polemica sul “ruolo positivo” della colonizzazione, a tal punto che, dopo aver sottoposto l’articolo al vaglio del Consiglio Costituzionale, il Decreto n. 2006-160 del 15 febbraio 2006 ha abrogato il secondo comma dell’articolo 4 della Legge “Mekachera". Numerose altre proposte di legge sono state avanzate in Francia: testi volti a qualificare come crimini contro l’umanità o genocidi, fatti storici sia essi passati, sia essi recenti, francesi ovvero esteri. Bisogna aggiungere, inoltre, che sono state depositate in Parlamento cinque proposte di legge i cui testi prevedono l’estensione delle disposizioni repressive della legge Gayssot a tutto ciò che negli anni a venire sarà riconosciuto come crimine contro l’umanità. Proprio perchè soltanto alcune tra le disposizioni introdotte in Francia prevedono una sanzione penale, mentre le restanti leggi non stabiliscono alcun delitto, assimilare le leggi memoriali tra loro sarebbe un errore: è pacifico, infatti, ritenere che la legge del 29 gennaio 2001, riconoscendo il genocidio degli Armeni non ha altro che una funzione territoires placés antérieurement sous la souveraineté française. Elle reconnaît les souffrances éprouvées et les sacrifices endurés par les rapatriés, les anciens membres des formations supplétives et assimilés, les disparus et les victimes civiles et militaires des événements liés au processus d'indépendance de ces anciens départements et territoires et leur rend, ainsi qu'à leurs familles, solennellement hommage. « Article 4 legge ”Mekachera” : «Les programmes de recherche universitaire accordent à l'histoire de la présence française outre-mer, notamment en Afrique du Nord, la place qu'elle mérite. Les programmes scolaires reconnaissent en particulier le rôle positif de la présence française outre-mer, notamment en Afrique du Nord, et accordent à l'histoire et aux sacrifices des combattants de l'armée française issus de ces territoires la place éminente à laquelle ils ont droit. La coopération permettant la mise en relation des sources orales et écrites disponibles en France et à l'étranger est encouragée » (NB : le 2e alinéa a été abrogé par décret du 15 février 2006). « Article 5. – Sont interdites : - toute injure ou diffamation commise envers une personne ou un groupe de personnes en raison de leur qualité vraie ou supposée de harki, d'ancien membre des formations supplétives ou assimilés; - toute apologie des crimes commis contre les harkis et les membres des formations supplétives après les accords d'Evian.L'Etat assure le respect de ce principe dans le cadre des lois en vigueur». 82 dichiarativa, priva di qualsiasi effetto precettivo; la sua adozione non serve né ad indicare al governo francese un orientamento da seguire in materia, né ad “incitarlo” ad agire in un senso piuttosto che in un altro. Ed invero, relativamente alle leggi del 21 maggio 2001 e del 23 febbraio 2005, al di là dell’obbligazione relativa all’insegnamento (articolo 2 e 4), le regole di diritto che esse prevedono, impongono un determinato numero di precetti. La legge Taubira, per esempio, introduce una richiesta di riconoscimento della tratta dei negri come crimine contro l’umanità, richiesta che mira ugualmente alla scelta di un giorno comune sul piano internazionale per commemorare l’abolizione della tratta dei negri e della schiavitù; la legge precisa le regole per fissare una data di commemorazione annuale dell’abolizione della schiavitù in Francia, e permette soprattutto alle associazioni dedite alla difesa della memoria degli schiavi di costituirsi parte civile nei processi di incitamento alla discriminazione all’odio o alla violenza, nelle cause di diffamazione o ingiuria contro una persona o un gruppo di persone. 3. Prima della legislazione memoriale: il caso Henri Roques Se può stupire che una delle democrazie più longeve e stabili del mondo, con una solida tradizione di libertà di parola, abbia adottato leggi “antirevisioniste”, tra tutte la “loi Gayssot”, oltre ad una serie di altre disposizioni memoriali, è bene addirittura prendere le mosse da più lontano. Ed invero, la Francia dispone di una delle legislazioni antirazziali tra le più evolute: con il decreto Marchandeau del 1939 (abrogato l’anno successivo, e tornato in vigore nel 1944) si prevedeva che il pubblico ministero potesse perseguire d’ufficio l’ingiuria o diffamazione rivolta ad “un gruppo di persone che appartenessero per origine ad una determinata razza o religione“, se l''offesa avesse “per scopo di incitare l’odio tra i cittadini o abitanti”. Il legislatore francese ha tuttavia scelto di utilizzare l’onore dei gruppi come bene capace di sostenere e integrare la tradizionale tutela dell’ordine pubblico nei confronti della propaganda razzista200. Introducendo l’azione pubblica il legislatore eliminava questo ostacolo alla tutela dei gruppi. 200 M. Manetti, L’incitamento all’odio razziale tra realizzazione dell’eguaglianza e difesa dello Stato, in Raccolta di scritti in onore di Gianni Ferrara, 2005, pp. 1-34: «A quel tempo era già diffuso in Europa il tentativo di utilizzare il reato di diffamazione per contrastare la propaganda razzista, ma i tribunali respingevano regolarmente le querele presentate, ritenendo che in tali casi non fossero legittimati ad agire né i gruppi, in quanto privi di personalità, né i loro membri, in quanto non espressamente menzionati nei messaggi incriminati. Rare eccezioni venivano fatte per gruppi molti ristretti e per i tipi di offesa aventi riguardo a caratteristiche irrefutabilmente comuni a tutti i membri del gruppo. Di fondo rimaneva la 83 La legge n° 72-546, la c.d. legge Pleven201 con la quale la Francia ha ratificato la Convenzione di New York sull'eliminazione di ogni forma di razzismo (7/3/1966), costituisce il fondamento legislativo francese in materia di lotta al razzismo. Secondo questa legge che introduce il concetto di delitto di «istigazione alla discriminazione, alla violenza o all'odio contro un gruppo di persone in ragione della loro appartenenza, o non, ad una determinata nazione, razza, etnia o religione», un gruppo di persone caratterizzato dal fatto di appartenere a una nazione, razza, etnia o religione può dichiararsi diffamato, o vittima di un reato contro l'onore o la reputazione202. La legge francese pioniera tra le leggi memoriali (legge Gayssot) non dispone evidentemente in maniera così dissimile dal delitto di opinione previsto dalla “vecchia” legge Pleven, sebbene la prima preveda un inasprimento della pena. È a partire dal ’72, infatti, che in Francia è proibito non tanto rivolgere critiche a singoli individui, ma ad interi gruppi di persone, genericamente intesi: attaccare un gruppo di individui legati dall’appartenenza o non appartenenza ad una etnia, nazione, razza o religione determina ipso facto la consumazione del reato di diffamazione ovvero istigazione alla discriminazione, odio o violenza. A coloro infatti che si rendono colpevoli di diffamazione o incitazione alla discriminazione contro una persona o gruppo di persone, attraverso discorsi, urla o minacce pronunciate in luoghi pubblici o durante riunioni, ovvero inserite in scritti, disegni, dipinti, emblemi, immagini o qualsiasi altro mezzo di scrittura, la pena da comminarsi, ex legge Pleven va da un mese ad un anno di restrizione della libertà personale203. Se però successivamente al 1972, una sentenza definitiva aveva solo l’autorità assoluta della cosa giudicata, di talché non poteva più essere contestata in diritto, ma poteva sempre essere chiamata in causa da quanti avessero voluto farne oggetto di discussione, con la legge Gayssot per la prima volta, si “sacralizzano” le sentenze: attraverso convinzione che l’onore collettivo non potesse essere altro che la somma dei beni di natura individuale, e che la lesione di tali beni fosse troppo incerta e variabile in relazione al sentimento di appartenenza al gruppo, o per converso alla volontà di integrarsi, nutriti da ciascuno». 201 Legge 72-546 del 1 luglio 1972, in J.O. del 2 luglio 1972. 202 S. Lefart –P. de Salagnac, Le leggi repressive in Francia, in L’uomo libero n. 37, http://www.uomolibero.com. 203 Art. 1 Legge Pleven: « Ceux qui, soit par des discours, cris ou menaces proférés dans des lieux ou réunions publics soit par des écrits, imprimés, dessins, gravures, peintures, emblèmes, images ou tout autre support de l'écrit, de la parole ou de l'image vendus ou distribués, mis en vente ou exposés dans des lieux ou réunions publics, soit par des placards ou des affiches exposés au regard du public (...) auront provoqué à la discrimination, à la haine ou à la violence à l'égard d'une personne ou d'un groupe de personnes en raison de leur origine ou de leur appartenance ou de leur non-appartenance à une ethnie, une nation, une race ou une religion déterminée, seront punis d'un emprisonnement d'un mois à un an et d'une amende de 2.000 F à 300.000 F, ou de l'une de ces deux peines seulement». 84 l’introduzione di un delitto di contestation il quale può comportare la restrizione della libertà personale, è vietato anche qualsiasi dibattito pubblico contrario a quanto previsto esplicitamente dalla legge. La stessa legge Pleven aveva permesso la condanna da parte del Tribunal Correctionnel di Parigi nell’aprile del 1973, del direttore della pubblicazione intitolata “Bulletin URSS” che riprendeva parola per parola le allegazioni antisemite contenute nel “Protocol des sages de Sion”, per diffamazione razziale e provocazione alla discriminazione, all’odio e alla violenza razziale. Il prof. Faurisson è stato più volte convenuto in giudizio sulla base proprio della legge del 1972, ma la qualità del lavoro dello storico e la padronanza della sua eloquenza, hanno mostrato, probabilmente, i limiti della legge Pleven: la stessa era diventata incapace di far tacere i revisionisti. In particolare è stato lo stesso “Tribunal de Grande Instance” di Parigi a ricordare che i giudici non hanno né le qualità, né le competenze per giudicare la storia e che la legge non suggerisce come debba essere rappresentato un determinato episodio della storia nazionale o mondiale. Il giudice quindi è così giunto ad un compromesso, sancendo l’indipendenza del diritto e della storia, riprendendo la giurisprudenza del “Tribunal de Grande Instance de Paris” relativa al il 15 giugno 1970204. Questi sono stati i verdetti resi dai Tribunali francesi prima dell’adozione della legge Gayssot. Una tappa non indifferente, spesso sconosciuta a molti, vede in Francia anche l’adozione della legge del 30 giugno del 1983205, relativa alla commemorazione dell’abolizione della schiavitù, indirizzata principalmente agli abitanti dei territori d’oltremare. Ed invero, per combattere più efficacemente la negazione dell'Olocausto, la creazione di un delitto finalizzato a punire quanti negassero i crimini contro l'umanità, è considerata una ipotesi realistica già da parte del ministro degli Interni, Charles Pasqua, nel 1987. Inoltre, in un disegno di legge presentato il 2 aprile 1988, Georges Sarre, disponendo che "coloro che violano la memoria o l'onore delle vittime dell'Olocausto nazista, nel tentativo di negare o minimizzare l'ambito, sono punite… " inaugura una prima versione di quella che poi sarà l’attuale legge Gayssot. 204 205 Tribunal de Grande Instance de Paris, 15 giugno 1970, JCP 70, II. 16550, con nota di Lindon. Loi n°83-550 du 30 juin 1983, in Journal Officiel 1.07.1983, p.1995. 85 Sebbene “l'armamentario legislativo” precedente alla legge Gayssot fosse consistente, il caso Henri Roques206, appare emblematico di un “modus operandi” differente rispetto a all’attualità (a partire dall’introduzione della legge Gayssot rilevano differenze in termini di reazione dell’opinione pubblica, rispetto al passato). Inizialmente la tesi di dottorato di Henri Roques, discepolo di Rassinier e Faurisson, e intitolata Les “Confessions” de Kurt Gerstein: Étude comparative des diffèrentes versions, veniva discussa all’università di Nantes nel 1985, ottenendo un “ très bien” dalla commissione207. Nonostante all’interno del lavoro di tesi, Roques pretendesse di dimostrare che le camere a gas di Auschwitz o di Treblinka fossero state utilizzate soltanto per la disinfestazione, la tesi veniva ufficialmente approvata dalla commissione; l’anno successivo alla discussione, il 3 luglio del 1986 l'amministratore delegato dell’ Università P. Malvy decideva invece di annullare la tesi di Roques sulla laconica considerazione che il lavoro fosse stato “tainted by irregularity”208, sottacendo evidentemente una polemica antinegazionista che sarebbe diventata esplicita solo qualche anno dopo. Nessuno ha protestato nel nome della libertà di parola di Roques, nessuno ha condannato la condotta di Malvy, piuttosto ci si è limitati ad eccepire un problema procedurale: ad essere oggetto di contestazione non è stata l’argomentazione secondo la quale fosse lecito o meno che lo Stato francese avesse censurato la tesi, bensì se per annullare la tesi fosse stata seguita la procedura corretta, alla presenza dei membri necessari della commissione. La reazione dell’opinione pubblica successiva alla censura del lavoro di Roques lascia intravedere una inevitabile differenza rispetto a quelli che saranno i futuri “approcci” a casi simili: solo più tardi il “branco” dei liberali si mobiliterà contro le corrispondenti condanne che la legge Gayssot imporrà, in maniera tutt’altro che “originale”. 206 Il caso è richiamato in R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study, cit., p.144. H. Roques, Les "confessions" de Kurt Gerstein. Etude comparative des différentes versions. Edition critique. Doctorat d'Université. Rapporteur: Monsieur le Professeur Jean-Claude Rivière. Université de Nantes, 15 juin 1985. 208 Memorandum of P. Malvy del July 3, 1986, in André Chelain, Faut-Il Fusiller Henri Roques?, Ogimos, 1986, XVIII. 207 86 4. La legge Gayssot di fronte alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo e al Comitato dei diritti umani Onu Tra il 1991 e il 1996 i processi in Francia giudicati secondo la legge Gayssot ammontavano a più di dieci; il convenuto era essenzialmente accusato di essere l’autore di un articolo revisionista o negazionista, ovvero di aver distribuito un opuscolo dello stesso genere209. Come si concilia la legge Gayssot con i principi europei di cui la Corte di Strasburgo è garante? Questo ha rappresentato il quesito più volte sottoposto all’attenzione della Corte Europea dei diritti dell’uomo dai negazionisti soccombenti dinanzi ai giudici nazionali. Se i ricorrenti avessero, però, conosciuto i precedenti giurisprudenziali della Commissione Europea e della Corte Europea dei diritti dell’uomo in materia proprio di libertà di espressione e avessero avuto consapevolezza dei limiti che le due istituzioni hanno da sempre imposto alla stessa libertà (di cui si è trattato nel capitolo II), probabilmente avrebbero già potuto anticiparne i verdetti, senza sperare in un “ribaltamento” di consolidati orientamenti, in “materia” proprio di Legge Gayssot. Nessuno, però, aveva ancora adito il Comitato dei diritti umani dell’Onu, per verificare l’opportunità della violazione di una libertà prima, e la correttezza di una legge, poi. Più in generale, lungo il percorso compiuto dai tribunali francesi dopo il 1990, la prima applicazione della “loi Gayssot” risale al “caso Faurisson”; l’uomo che, membro negli anni settanta di un gruppo internazionale a base anglo-americana, ispirato all'opera di Rassinier210 (autore de Le Drame des Juifs européens), e considerato dai negazionisti il fondatore della corrente, ben presto diventerà il maggior portavoce del movimento negazionista211. Docente di letteratura all’Università di Lione, Faurisson passerà dall’analisi dei testi letterari a quella dei documenti storiografici fino a giungere alla negazione dello sterminio ebraico. Nel tentativo di confermare una visione “originale” dello sterminio degli ebrei, inaugurerà il filone del “negazionismo tecnico”, affidando il compito di dimostrare l’inesistenza delle camere a gas all’ingegner Leuchter: «dove esiste discordanza tra testimonianza e tecnica, è quest’ultima che deve prevalere», affermano gli appartenenti a questo filone, dilungandosi in dimostrazioni a loro dire 209 R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study cit., p. 111. Per una ricostruzione del percorso di Rassinier, ex deportato, cfr. F. Brayard, Comme l'idée vint à M. Rassinier. Naissance du révisionnisme, Fayard, 1996; N. Fresco, Fabrication d'un antisennite, Éditions du Seuil, 1999. Tra le teorie negazioniste di Rassinier, la circostanza secondo la quale appare non veritiero l’utilizzo dello ZyklonB come gas asfissiante e mortale, poiché lo stesso non sarebbe un gas velenoso, ma un semplice disinfettante. 211 V. Pisanty, L'irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo, Bompiani, 1998, p. 6-7. L’autrice propone una breve cronologia della prima fase del "caso Faurisson”. 210 87 scientifiche. Il “caso Faurisson” ha avuto origine in occasione di un’ intervista rilasciata al quotidiano Le Choc du Mois212, attraverso la quale il docente negazionista ha affermato di avere ottime ragioni per non credere alla politica di sterminio degli Ebrei, in particolare alle “magiche” camere a gas. A seguito della pubblicazione dell’intervista, undici associazioni di combattenti della resistenza francese e di sopravvissuti ai campi di sterminio tedeschi hanno denunciato Faurisson, nonché l’editore della rivista. Entrambi sono stati condannati per il reato di contestazione di crimini contro l’umanità in applicazione del non ancora “inaugurato” art. 24 bis della legge sulla stampa213. L’importanza dell’affaire Faurisson sta in primis nel fatto che il giudice di primo grado ha delineato una distinzione che difficilmente troverà posto nella successiva giurisprudenza: è stato, infatti, posto l’accento sulla differenza tra l’asserzione secondo cui «il processo di Norimberga è stata una ”buffonata” giudiziaria», critica considerata lecita, e l’affermazione secondo la quale «il Tribunale internazionale ha ammesso senza previa prova lo sterminio degli ebrei e l’esistenza delle camere a gas»: è solo quest’ultima fattispecie ad essere dichiarata punibile dalla legge Gayssot, ha precisato la Corte d’appello di Parigi. Si può dunque discutere sul numero delle vittime della Shoah, ma «diminuire in maniera oltraggiosa questa cifra» integra il delitto di contestazione dei crimini contro l’umanità214. La Corte di Cassazione con sentenza del 20 dicembre 1994, per la prima volta chiamata a pronunciarsi sulla legittimità nella legge Gayssot ha statuito che la legge “antinegazionista” fosse compatibile con le obbligazioni contratte dalla Francia in virtù della sottoscrizione di strumenti internazionali relativi ai diritti dell’uomo. È stato proprio il prof. Faurisson, giudicato con una legge che avrebbe di lì a poco caratterizzato un numero non esiguo di contenziosi, a rivolgersi al Comitato dei diritti dell’uomo dell’Onu215. Tale organo ha respinto, però, il ricorso promosso dal docente 212 Association des déportés c. Boizeau, Faurisson, S.A.R.L., Corte d’appello di Parigi, 9 dicembre 1992, LP n° 103-III 90, 90. Il percorso logico di Faurisson consiste nel tentare di dimostrare, con un’argomentazione di natura scientifica, che l’esistenza delle camere a gas e le relative testimonianze possono essere smentite dai numerosi documenti studiati in 14 anni di ricerca. 213 Trib. Gr. Inst. Paris, 22-10-1996, in Légipresse n. 139, 1997, 26. 214 Faurisson c. France, comunicazione del 2 gennaio 1993, n. 550, in Rev. Univ. Dr. De l’homme, 1997, 46. La sentenza confermata anche in appello fu impugnata dinanzi alla Cour de Cassation solo dal coimputato editore, in quanto Faurisson riteneva tale rimedio inutile. Il rigetto del ricorso dell’editore permise a Faurisson di adire il Comitato per i diritti dell’uomo, il quale affermò che «le sue dichiarazioni sono di natura tale da far nascere o accrescere sentimenti antisemiti e di conseguenza la restrizione del suo diritto alla libertà di espressione è legittima in quanto tendente a far rispettare il diritto della comunità ebraica a non temere di vivere in un clima di antisemitismo». 215 Cfr. X. Tracol, L’Affaire Faurisson devant le Comité des droits de l’Homme des Nations Unies, 1997, LP n° 141, II – 57, 59. 88 francese per violazione dei diritti fondamentali, osservando che oggetto di causa non fosse la libertà di “proferire parola”, piuttosto il fatto che Faurisson con le proprie affermazioni, idonee ad innescare sentimenti antisemiti, avesse leso la reputazione altrui, non rispettando così i diritti della comunità ebrea. I tribunali francesi hanno più volte considerato i lavori dei revisionisti e dei negazionisti non come opere scientifiche o accademiche, bensì come strumenti di polemica. Un esempio rilevante è rappresentato dal “caso Garaudy”: nel 1995 lo scrittore e attivista politico Roger Garaudy ha scritto e pubblicato un libro intitolato "The Founding Myths of Modern Israel"216, ripubblicato nel 1996 con il titolo "Samiszdat Roger Garaudy". Immediatamente le aspre polemiche hanno lasciato spazio ad una vera accusa a carico dell’autore, per aver contestato l’esistenza dei crimini nazisti contro l’umanità, dando luogo ad una campagna di diffamazione e di incitamento all’odio razziale217. Nel gennaio del 1996 il giornale satirico “Canard enchaîné” ha denunciato il libro di Garaudy, di talché l'autore è stato accusato di negazionismo (prima di essere condannato per le tesi revisioniste nel 1998, sotto il Gayssot Act del 1990)218. Ed invero, dopo la condanna dell’imputato complessivamente a 6 mesi di carcere e a numerose ammende da parte della Corte di Cassazione, Roger Garaudy ha fatto ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo219, lamentando la violazione dell’articolo 10 della Convenzione Europea. La Corte in quell’occasione non si è discostata dalle decisioni emesse in precedenza in casi simili e già precisate in precedenza (cfr. supra, Cap. II), e ha rimarcato così l’assenza, quando si parla di libertà di espressione, dei requisiti dell’ assolutezza e illimitatezza, (richiamando in proposito anche l’articolo 17 216 R. Garaudy, I miti fondatori della politica israeliana, Graphos, 1996. M. Ripoli, Ancora sul negazionismo. Garaudy letto sul serio, cit. Garaudy nel tema cardine del testo, quello cioè incentrato sull’Olocausto, eccepisce la veridicità, nonché l’”efficienza” del tribunale di Norimberga, essendo lo stesso composto da soli vincitori, l’assenza di prove dell’esistenza delle camere a gas, la qualificazione dello Zyklon B come antiparassitario e l’assenza di ordini scritti di eliminazione fisica degli internati. I cinque procedimenti penali, avviati sulla base della legge 29 luglio 1981 e sul nuovo art. 24 bis, si conclusero con sentenza del 16 dicembre 1998, con la condanna dell’imputato complessivamente a 6 mesi di carcere e a numerose ammende, avendo la Corte di Appello di Parigi ritenuto Roger Garaudy colpevole del reato di negazione dell’esistenza di crimini contro l’umanità, di diffamazione pubblica della comunità ebraica e di incitamento alla discriminazione e all’odio razziali. Le condanne della Corte d’Appello di Parigi vennero confermate dalla Cassazione il 12 settembre 2000. 218 R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study, cit., p. 38. Garaudy provocò l'indignazione dell'opinione pubblica quando annunciò di essere sostenuto dall'abbé Pierre, che in seguito a questa dichiarazione fu subito escluso dal comitato di onore della LICRA (International League against Racism and Anti-Semitism). Nel film documentario per la TV del 2005 diretto da Claude Pinoteau Un abbé nommé Pierre, une vie au service des autres, l'Abbé dichiara che il suo supporto era verso la persona di Roger Garaudy, e non a favore delle affermazioni che egli aveva fatto nel libro. A quest’ultima giustificazione si aggiunse la definizione che egli attribuì alla legge Gayssot, definendola a “manifest error”, che “has allowed men such as Mr. Gaurady to invoke liberty of expression in their favor.”. 219 Corte Europea dei diritti dell’uomo, 24/06/2003, Roger Garaudy c. Francia, in Giur. It., 2005, 2241. 217 89 della Convenzione, che esplicitamente vieta l’abuso del diritto). Secondo la Corte sarebbe irricevibile il ricorso di un cittadino che lamenta la lesione del proprio diritto di espressione a causa della condanna penale inflittagli dalle autorità nazionali per aver manifestato opinioni negazioniste dell’Olocausto. Tale condotta, integra un abuso del diritto di espressione previsto dall’art. 10 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, giacché, sostenendo la negazione o la revisione dei fatti storici definitivamente stabiliti, si rimettono in causa i valori che fondano la lotta contro il razzismo e l’antisemitismo, e ciò comporta inevitabilmente un serio pericolo per l’ordine pubblico. Conseguentemente, il suo perseguimento da parte della legislazione nazionale costituisce un’ingerenza legittima ed una misura necessaria in una società democratica”220. In più, secondo la Corte, il negazionismo riproduce nient’altro che una forma di “hate speech”, in quanto “sostenere che lo sterminio degli ebrei non sia mai avvenuto o sia avvenuto con dimensioni decisamente inferiori, implica un tentativo di diffamazione nei confronti del popolo ebraico”, di talché la stesse legge Gayssot è risultata, a dire della Corte conforme alle disposizioni in materia di libertà di parola e dei limiti che devono essere necessariamente garantiti. A dimostrazione della “fedeltà” della Commissione Europea e della stessa Corte europea dei diritti dell’uomo a questa visione della libertà, e alla considerazione della legittimità della legge Gayssot, si fa cenno alla decisione del 24 giugno 1996 sul ricorso Marais c. France221, in cui la Commissione europea ha giudicato conforme alla Convenzione la condanna del ricorrente in base alla nuova legge Gayssot. “Tale legge servirebbe a difendere l’ordine e a prevenire reati, tutelando i diritti altrui e la pace interna della popolazione francese, nel pieno rispetto anche dell’art. 17 CEDU”, secondo cui “nessun diritto fondamentale può essere invocato per compiere un atto mirante alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione”. Il negazionismo contraddirebbe insomma i valori fondamentali della Convenzione, quali la giustizia e la pace. Orbene, la Commissione dopo aver ribadito la conformità della legge Gayssot ai principi della Convenzione europei dei diritti dell’uomo, ha ritenuto che i giudici francesi avessero legittimamente respinto le offerte 220 P. Wachsmann, Libertà di espressione e negazionismo, in Rag. Prat., 1999, 57-69; M. Troper, La legge Gayssot e la Costituzione, in Rag. prat., 1997, 189, p.207. 221 Comm. Déc., del 24 giugno 1996, Marais c. France, req. N° 31159/96, 86-A D.R. 184. Nel numero del settembre 1992 della rivista francese “Révision, Pierre Marais, un chimico in pensione, aveva pubblicato uno studio scientifico dal titolo “La chambre à gaz de Struthof-Natzweiler, un cas particulier”. Tale studio minuzioso, unicamente di natura scientifica e chimica, concludeva per l'impossibilità tecnica delle esecuzioni di prigionieri mediante gassamento nel campo di concentramento tedesco di Struhof in Alsazia, attivo nel 1943. Il pubblico ministero invocò per la condanna la legge Gayssot. 90 di prova del ricorrente, essendo i fatti oggetto di causa «contrari ad una notoria verità storica, la cui affermazione è, in quanto tale, diffamatoria»222. Emblematica è anche la sentenza del Tribunal de Grande Instance di Lione, in cui George Theil è stato condannato a sei mesi di reclusione e ad una ammenda di 10.000 euro per contestation des crimes contre l’humanité (ai sensi dell’art. 24 bis), accusato di aver negato l’esistenza delle camere a gas durante un’intervista televisiva. La protezione di tale bene richiederebbe di lottare contro ogni offesa alla memoria delle vittime di crimini contro l’umanità, definiti dall’art. 6 lett. c) dello Statuto del Tribunale militare di Norimberga; l’art. 24 bis servirebbe pertanto a contrastare tutte le forme di negazione della memoria che mascherano l’antisemitismo. Per la soluzione del caso concreto i giudici hanno individuato una serie di criteri. Tra questi, il più importante, è stato l’uso del “metodo corretto” da parte dello storico. In linea con la giurisprudenza della Corte Europea, nella sentenza in questione è stata asserita l’importanza del metodo della ricerca; «A tale fine si dovrà verificare se lo storico ha seguito un procedimento in buona fede tenendo in considerazione le fonti utilizzate, il rispetto di una certa gerarchia tra di esse e l’uso di una documentazione sufficiente».223 Rientra tra i verdetti emessi a seguito dell’emanazione della legge Gayssot il decisum Licra et al. c. Marie-Luce Wacquez et Françoise Pichard 224 : all’interno del magazine Rivarol di cui Madame Waquez era editrice, Françoise Pichard ha scritto quanto segue: “Now, it is finally established there have never been homicidal gas chambers on the territory of the Third Reich”225. La difesa nell’ambito dei processi intentati contro Pichard, ha sostenuto che l'articolo non avesse violato legge Gayssot perché non aveva negato l'Olocausto, di talché l'asserzione di Pichard secondo la quale non c'erano camere a gas “all'interno del territorio del Terzo Reich” non era un rifiuto generale delle camere a gas, bensì una descrizione della loro posizione; ad essere negata era esclusivamente l’esistenza delle camere a gas omicide in Germania, non altrove. I giudici hanno rifiutato di interpretare le dimensioni territoriali della frase “del terzo Reich” a fronte dell’argomentazione secondo la quale una decisione del genere imporrebbe alla corte l'analisi della storia, un “impero” che esulerebbe dall’autorità dei giudici. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha invece esaminato la frase in 222 Comm. Déc., del 24 giugno 1996, Marais c. France, cit. E. Fronza, Brevi riflessioni sul reato di negazionismo. La storia che passa in giudicato?, in Storia e, 2009, p. 12-13. 224 Licra et al. c. Marie-Luce Wacquez et Françoise Pichard, Trib. Grand Ist. Paris, cit. 225 R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study, cit., p.111. 223 91 riferimento all’intero articolo, che nel suo complesso contesterebbe l'esistenza delle camere a gas nell'intero territorio dell'impero hitleriano, negazione stigmatizzata dalla legge Gayssot226. Se inizialmente, nonostante la vaghezza e l’imprecisione delle diciture negazioniste, la legge Gayssot è risultata funzionale alla punizione dei negazionisti, con il passare degli anni i difensori hanno cominciato ad uscire vittoriosi da quelle stesse aule dei tribunali, inaugurando una nuova “era”, quella del linguaggio cifrato ed “ermetico” 227, ricorrendo negli scritti e nelle pubblicazioni ad espressioni sempre più codificate. Gli “escamotages” degli storici e degli accademici non hanno condotto all'abrogazione della legge Gayssot, ma hanno esaltato i limiti della stessa, nonché l’inefficacia a concretizzare l’obiettivo della rimozione delle tendenze negazioniste dalla società francese: se le organizzazioni di deportati ben sono state in grado di perseguire i negazionisti, anche risultando vittoriose nei processi intentati, restano, ad oggi, nulli i tentativi di debellare il “fenomeno” della negazione dell'Olocausto. 5. La voce degli storici francesi La libertà di opinione sta particolarmente “a cuore” agli storici e al lavoro di ricerca; è attraverso la ricerca, lo studio e la confutazione di alcune tesi, che la storiografia trae linfa vitale per il proprio sviluppo. È solo il tempo che garantisce poi l’affiorare di una serie di documenti, frutto di ricerca perenne e quasi interminabile: costantemente frammenti di verità si aggiungono alle acquisizioni precedenti per completare il quadro di vicende storiche ancora oggetto di studio; si intraprendono quotidianamente una serie di studi di ricerca tutti finalizzati a completare il “puzzle” dell’evento storico di riferimento. L’interpretazione è per sua natura in movimento, così che la stessa disciplina storica non ha cessato e non cesserà mai di rinnovarsi tanto nei suoi modelli di investigazione, quanto nei suoi risultati. Ma se non è più tempo di studiare, di ricercare e di rendere edotto l’interlocutore, che ne è della storia e degli storici? Se sul fronte politico, il dovere del ricordo è un atto di coraggio dal momento che 226 Ibidem, p. 112. Poiché per i lettori meno informati il territorio contenuto insito nellì accezione “del terzo Reich” ben avrebbe potuto includere anche Auschwitz per esempio, piuttosto che una assoluzione la Corte di Parigi ha ritenuto opportuno condannare Wacquez e Pichard. 227 Ibidem, p. 114, così i revisionisti invece di dire “The Holocaust never happened” avrebbero potuto affermare, seguendo i consigli di Eric Delcroix (difensore di Faurisson e autore del libro e autore di un libro contro la legge Gayssot) “The revisionists contest that Germany had a policy of physical extermination”, restando così impuniti. 92 presuppone che una nazione guardi al suo passato con chiarezza, poiché nulla di buono può essere costruito su una menzogna o su una omissione, il dovere della memoria mantiene sempre un collegamento vitale con la storia, che non può prescindere dalla ricerca, dalla confutazione e della discussione. Il compito dello storico è, infatti, quello di sostenere le proprie tesi, non certo sulla base di criteri puramente soggettivi, ben dovendo, il metodo storico obbedire ad esigenze etiche e a questioni scientifiche. La semplice quanto criticata interazione tra diritto e storia ha permesso ben presto l’incontro tra i “pratici” della giustizia e i “pratici” della storia, al fine di giungere ad una risposta sulla verità del passato. Ed invero il rapporto tra storici e Parlamento, tra storici e politica ha cominciato ad incrinarsi proprio a seguito di quella violazione alla libertà di ricerca che l’adozione delle leggi memoriali ha “trascinato” dietro di sé, in particolare negli ambienti storici. Dal momento in cui il giudizio su un determinato evento storico è diventato legge dello Stato, non è più permesso avere dubbi, proporre interpretazioni differenti, invocare circostanze nuove: questa la principale insidia a quell’”itinerario intellettuale” che è rappresentato proprio dalla ricerca storica. Se da una parte le libertà di opinione e di espressione del cittadino francese non sono garantite in maniera assoluta, bensì sono delimitate da alcuni meccanismi legali sia di interesse pubblico che di interesse privato, ben potendo potenzialmente la responsabilità dello storico rientrare nella sfera di cui all’art. 1382 del code civil, che prevede una responsabilità civile a carico di chi «cause à altrui un dommage»; dall’altra, la libertà dello storico è limitata dalle disposizioni della legge sulla stampa che stabiliscono un regime speciale di responsabilità per le parole e gli scritti. Ed invero, la legge influenza profondamente il modo in cui la ricerca storica è di giorno in giorno posta in essere, fissando limiti non trascurabili alla libertà dello storico228. E allora, può un tribunale riesaminare i risultati di una ricerca storica, o allo storico è garantita una sorta di immunità, a condizione che abbia rispettato i canoni fondamentali di etica professionale? Il primo riferimento alla libertà degli storici risale ancora una volta al processo a carico di Robert Faurisson229, il quale ha fondato la sua difesa su due argomentazioni: da una parte la violazione della libertà di parola, dall’altra l’usurpazione del ruolo degli storici da parte dei giudici; il rischio, insomma, che la storia e il lavoro di storico appaiano 228 G. Resta, V. Zeno-Zencovich, Personality rights and historical ‘truth’: the case of the Ardeatine Quarries massacre, cit. p. 2. 229 Faurisson c. France, Corte di Appello di Parigi, 26 Aprile 1983, cit. 93 sminuiti da una invadenza del giudice di turno nello stabilire una verità storica tra i banchi del tribunale, non è lontano230. Proprio in riferimento a questa seconda argomentazione la Corte d’appello di Parigi ha precisato che è dovere del giudice svolgere un ruolo di mantenimento della separazione dei poteri, essenziale al funzionamento della democrazia, di talché è necessario che il giudice resti imprigionato nel suo “office of neutrality” anche perché il verdetto emesso dallo stesso non è storico, non rappresenta una verità storica valevole sempre, in ogni circostanza, ma è caratterizzato dalla sua buona dose di relatività e temporaneità, caratteristiche queste che impediscono ai tribunali qualsiasi giudizio della storia231: «The value of the conclusions defended by M. Faurisson remain, therefore, subject to the appreciation of the experts, historians and the public alone»232. Orbene, uno degli effetti perversi delle leggi memoriali consiste nel fatto che le stesse, incapaci di condannare i colpevoli principali, tendano a creare un reato connesso alla storia e agli storici: sono questi ultimi i nuovi obiettivi delle disposizioni delle leggi europee. Tra le critiche maggiormente mosse dalla storiografia francese alle “lois mémorielles”, ed in particolare alla legge “Gayssot”, il fatto che queste trasgrediscano in pieno il principio della separazione dei poteri: il Parlamento istituendo tale leggi avrebbe amputato l’autorità giudiziaria della sua sovranità, della sua prerogativa, del suo ruolo più pregnante, del suo ruolo ordinario, vale a dire dell’apprezzamento dei fatti in causa. Il Parlamento avrebbe, così, cominciato ad arrogarsi il compito di scrivere la storia e di fissare per legge le date fauste ed infauste del calendario nazionale e internazionale. Ed invero, le leggi memoriali rappresentano una regressione giuridica di molti secoli; attraverso la loro stessa esistenza si subordina la libertà di espressione e di pensiero alle 230 R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study, cit. p.. 33. Faurisson c. France, Corte di Appello di Parigi, 26 Aprile 1983, cit. La Corte d’appello di Parigi nel caso Faurisson, pur confermando la condanna a carico del saggista francese per «danni ad altri », ha negato la propria competenza a giudicare la storia: «…Bisogna constatare che le accuse contro di lui di leggerezza mancano di pertinenza e non sono sufficientemente fondate: che in effetti il percorso logico del signor Faurisson consiste nel tentare di dimostrare, con un’argomentazione [che egli ritiene]di natura scientifica, che l’esistenza delle camere a gas, come sono state descritte abitualmente dopo il 1945, si scontra con un’impossibilità assoluta,di per se’ sufficiente a invalidare tutte le testimonianze esistenti o quantomeno a renderle sospette; che se non spetta alla Corte di pronunciarsi su un tale metodo o sulla portata degli argomenti espressi dal signor Faurisson, non è più permesso affermare, riguardo alla natura degli studi ai quali si è dedicato, che egli abbia scartato le testimonianze per leggerezza o per negligenza, o che abbia scelto deliberatamente di ignorarle; che inoltre, nessuno può attualmente accusarlo di menzogna quando enumera i numerosi documenti che afferma di aver studiato e gli organismi presso i quali ha condotto le sue ricerche durante più di quattordici anni». 232 Ibidem, p. 9. È con queste parole che la Corte d’Appello ha attestato che il valore delle conclusioni difese dal Signor Faurisson sulle camere a gas appartiene alla sola valutazione degli esperti, degli storici e del pubblico. 231 94 istituzioni giuridiche che le applicano ed ai gruppi che ne esigono il rispetto. Una volta ammesso un tale principio, è grande il rischio di veder estendere l’applicazione delle leggi al di là del loro contenuto originario. Un ulteriore rischio denunciato dagli ambienti storici riguarderebbe la messa in discussione da parte delle leggi memoriali dei fondamenti stessi della storia: la “legislazione memoriale" distingue tra storia-memoria, rivolta a giudicare il passato, e storia-scienza, impegnata a comprendere e spiegare gli accadimenti del passato. Si vuole giudicare la storia a tutti i costi, specialmente quando si tratta di eventi lontani nel tempo, sacrificando così la storia come disciplina scientifica; questo accanimento, finalizzato a reinterpretare il passato e ad emettere verdetti, dietro l’ostentato e ormai retorico fine di salvaguardare l’autenticità e l’ufficialità della storia stessa, condurrebbe direttamente all’abolizione di tutte le forme «d’esprit et de raisonnement historiques»233. La verità delle informazioni fornite dalla storia, considerata come scienza, non può essere controllata dal giudice, i cui strumenti di analisi e i criteri metodologici di cui dispone differiscono da quelli dello storico, hanno sostenuto “in coro”, e attraverso numerose petizioni gi storici francesi. Nella petizione dal titolo “Vigilance sur les usages publics de l'histoire!”234, a proposito della strumentalizzazione del passato e della conoscenza scientifica che caratterizza la storia, si legge quanto segue: «La connaissance scientifique de l'histoire et l'évaluation politique du passé sont deux démarches nécessaires dans une société démocratique, mais qui ne peuvent être confondues. En revanche, si la représentation nationale est en droit de se prononcer pour éviter les dérives négationnistes ou rendre compte d'une prise de conscience, certes tardive, des méfaits de l'esclavage ou de la colonisation au nom de la Nation, de l'Empire ou d'une République exclusive, il ne lui appartient pas de se prononcer sur la recherche et l'enseignement de l'histoire». La proliferazione di leggi memoriali ha fatto sì che non poche fossero le Associazioni che si sono schierate in nome di una professione prima di tutto, e di una verità che la ricerca storiografica mira a raggiungere, poi. È stato l’insieme degli esperimenti legislativi “poco democratici” e senza precedenti in Europa (almeno nel primo periodo) a sollevare le forti proteste degli storici francesi, dando vita ad uno dei più accorati appelli al “buon senso” delle istituzioni: dal titolo “Liberté pour l’histoire”. La 233 Dal testo di Pierre Nora, Malaise dans l’identité historique, in Le Débat, n°141, septembre-octobre 2006. 234 Petizione firmata da giornalisti e storici, Vigilance sur les usages publics de l'histoire!, in l’Humanité, Tribune libre, 21 dicembre 2005, p.14. 95 petizione del 2005 è stata sottoscritta al fine chiedere la totale abrogazione delle disposizioni su menzionate, sulla base della considerazione che “in uno stato libero, né il Parlamento né l’autorità giudiziaria hanno il compito di definire una verità storica”235. Quello che i firmatari della petizione hanno rivendicato, ricordando la dimensione scientifica della storia, è il fatto che, essendo la storia un lungo susseguirsi di crimini contro l’umanità, e poiché gli autori degli stessi crimini sono ormai deceduti, restando così impuniti, le leggi memoriali non possono che vendicarsi contro gli storici, punendo ricercatori, docenti e tutti coloro che si occupano di storia, attraverso l’imposizione di una restrizione del campo di ricerca. Lontani dal negare l’atrocità dei crimini contro l’umanità, dal primo momento gli storici hanno avuto difficoltà a condividere l’«offensiva legislativa» sul passato, volta piuttosto a minare le garanzie alla libertà di ricerca e di insegnamento, interferendo notevolmente sul lavoro che gli storici compiono: «L’histoire n’est pas un objet juridique. Dans un État libre, il n’appartient ni au Parlement ni à l’autorité judiciaire de définir la vérité historique. La politique de l’État, même animée des meilleures intentions, n’est pas la politique de l’histoire». Gli storici firmatari della petizione di Liberté pour l'histoire hanno sottolineato in più occasioni che le leggi della memoria, seppur animate dai più nobili propositi e dalle migliori intenzioni, rischiano di stabilire la verità storica per volontà meramente politica; in altri termini se di verità si può parlare, così stando le cose, a questa non si perviene attraverso gli strumenti tradizionali della disciplina, della ricerca, e della comparazione delle fonti, ma attraverso la “forca” del potere legislativo. Lo stesso ambiente storico apparirà, però, ben presto diviso: a dimostrazione di tale scissione l’appello “Ne mélangeons pas”236, una “contro-petizione” non rivolta alla completa abrogazione di tutte le leggi memoriali, sulla considerazione che non vadano confuse leggi da abrogare e disposizioni che si limitano semplicemente a riconoscere il genocidio o i crimini contro l’umanità, «al fine di lottare contro il diniego e di preservare la dignità delle vittime offese da questo diniego»: «Quel historien a jamais été empêché par la loi Gayssot de travailler sur la Shoah et d’en parler ? Déclarative, la loi du 29 janvier 2001 ne dit pas l’histoire. Elle prend acte d’un fait établi par les 235 P. Nora et F. Chandernagor , Liberté pour l'histoire, CNRS Éditions, 2008, p. 13 ss. In particolare si legge che «Avec l’extension de la loi Gayssot et la géneralisation de la notion de crime contre l’humanité, on est dans une double dérive: la rétroactivité sans limites et la victimisation généralisée du passé» 236 “Ne mélangeons pas tout”, in “Libération”, 20 dicembre 2005. I primi firmatari sono stati Yves Chevalier, Didier Daeninckx, Frédéric Encel, Bernard Jouanneau, Serge Klarsfeld, Claude Lanzmann, Marc Levy e Odile Morisseau. 96 historiens – le génocide des Arméniens – et s’oppose publiquement à un négationnisme d’Etat puissant, pervers et sophistiqué. Quanto alla “loi Taubira”, «elle se borne simplement à reconnaître que l’esclavage et la traite négrière constituent des crimes contre l'humanité que les programmes scolaires et universitaires devront traiter en conséquence». Sulla medesima linea di pensiero si muove anche il comunicato del Comitato di vigilanza intitolato “Un appel pour une “vigilance sur les usages de l’histoire”, con il ruolo di « principal consiste à élaborer et à transmettre des connaissances rigoureuses sur le passé.». In riferimento proprio al caso già menzionato di Olivier Pétré-Grenouilleau gli storici francesi, con il sostegno di molti colleghi stranieri, sono scesi nuovamente in campo per difendere la libertà della ricerca storica, svincolata da questioni di ordine morale237. Ed invero, sempre in riferimento alla legge Taubira e alla indicazione in essa contenuta volta ad “indirizzare” l’insegnamento, gli storici si sono mobilitati il 25 marzo 2005 con una nuova petizione dal titolo «Colonisation: non à l’enseignement d’une histoire officielle»238, al fine di impedire allo Stato l’intromissione nella ricostruzione storica della memoria della nazione239, e chiedendo l’abrogazione dell’ art. 4 della legge del 23 febbraio del 2005, poichè causa della imposizione di una «histoire officielle, contraire à la neutralité scolaire et au respect de la liberté de pensée qui sont au cœur de la laïcité; parce que, en ne retenant que le « rôle positif » de la colonisation, elle impose un mensonge officiel sur des crimes, sur des massacres allant parfois jusqu’au génocide, sur l’esclavage, sur le racisme hérité de ce passé…». Probabilmente consapevoli di poter contare sul sostegno della storiografia europea, e sulla base del percorso similare intrapreso dal resto d’Europa in termini di leggi memoriali, gli storici francesi, attraverso l’ ”Appel de Blois” hanno chiesto la mobilitazione degli storici europei in nome del rischio di una «moralizzazione retrospettiva della storia»240. 237 Cfr., l’intervista di O.P. Grenouilleau in Journal du dimanche, del 12 juin 2005, in cui egli manifesta ingiustizia nella condanna mossagli ai sensi della legge Taubuira e a cui si fa riferimento nei paragrafi precedenti. Gli storici si sono mobilitati, questa volta, attorno alla questione della schiavitù attraverso la costituzione di un forum, presso l'Istituto di Scienze Politiche (3 dicembre 2005). 238 La petizione Colonisation: non à l’enseignement d’une histoire officielle, è stata lanciata il 25 marzo del 2005 nel giornale Le Monde. Cfr C.Liazu, «Une loi contre l’Histoire», Le Monde diplomatique, aprile 2005. 239 L. Cajani, L’Unione europea e la sua storia. Una decisione del Consiglio dell’Unione Europea: rischio di censura sulla storia, cit. 240 P. Nora, Président de Liberté pour l’histoire, Appel de Blois, ottobre 2008, adottato nel quadro dei «Rendez-vous de l’Histoire de Blois» e riportata all’interno del “rapport Accoyer”. 97 A conclusione di una disamina non certamente esaustiva circa la “rivolta” storiografica francese contro le leggi memoriali, appare in ogni caso logica la constatazione che muove dalla necessità di tenere distinte le nozioni di “verità” giudiziaria e “verità” storica, sebbene le istituzioni giuridiche stiano vivendo da un po’ di tempo un fenomeno di crescente ricorso alle competenze storiche per valutare i fatti o le opinioni, la cui comprensione va oltre le competenze del giudice; di talché lo storico è sempre più interpellato dai Giudici sia come “testimone”, che come consulente o perito, chiamato dal legislatore o dalle varie Commissioni d'inchiesta, prima di giungere all’approvazione definitiva di un testo legislativo che in qualche modo implica una “rievocazione” storica241. Le voci degli storici francesi, esplicitate all’interno dei numerosi appelli, appaiono variegate e discordanti, ma soprattutto lontane dal dichiararsi placate, almeno fino a quando i tribunali resteranno le sedi (definite dalla storiografia “meno appropriate”) per discutere di verità storica, senza lasciare spazio al dibattito accademico. 6. L’inidoneità’ della legge Gayssot: problemi “tecnici” e obiezioni alla legittimità costituzionale Al di là dei rischi sollevati dagli ambienti storici, non sono state poche le critiche sottoscritte dai giuristi e rivolte ad una legge che, al di là di qualsiasi tentativo di suggerimento o invito ad un riconoscimento della storia, impone un dovere di memoria, escludendo qualsiasi forma di rilettura della storia della Shoah e qualsivoglia esame critico dei documenti e delle testimonianze invocate in riferimento a tale crimine. Prima ancora di qualsiasi obiezione di costituzionalità sono state eccepite dall’”esercito” dei liberali valutazioni “tecniche” e di tipo “procedurale”. Ed invero, coloro che hanno immediatamente messo in dubbio la legittimità dell’art. 24 bis introdotto dalla legge Gayssot, hanno eccepito che lo stesso trasgredirebbe il principio della necessaria pubblicità della legge: le decisioni emesse dal Tribunale di Norimberga che definiscono i crimini contro l’umanità, di cui si fa menzione nell’art. 24 bis, non avrebbero mai formato oggetto di una pubblicazione ufficiale, all’interno del Journal Officiel de la République française. Questa mancata pubblicità dei processi impedirebbe 241 R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study, cit., p. 106. Due storici, Marc Olivier Baruch e Henry Rousso, sono stati, per esempio citati come testimoni nel processo Papon: il primo accettò di farlo, il secondo rifiutò. 98 alla collettività di conoscere in anticipo se determinate condotte cadano sotto l’incriminazione della legge ovvero non abbiano alcun valore nel diritto interno. In altri termini, al legislatore francese si contesta la necessità che una decisione, prima di diventare parte integrante di un testo di legge debba essere portata a conoscenza di ciascun individuo attraverso una via ufficiale, considerando che la pubblicità delle leggi è prevista da un decreto del “Gouvernement de Défense nationale” risalente al 5 novembre 1870242. La risposta alle argomentazioni contrarie alla legittimità della legge è giunta con la sentenza del 23 febbraio del 1993, dalla Chambre Criminelle, la quale ha innanzitutto messo in evidenza che l’art. 26 dello Statuto del Tribunale di Norimberga dispone che il verdetto del Tribunale relativo alla colpevolezza o alla innocenza di ciascun accusato «sarà definitivo e non suscettibile di revisione», evidenziando così l’impossibilità di contestare i termini della decisione. In un’ultima analisi, la Corte ha evidenziato come la legge francese non preveda la pubblicazione ufficiale delle sentenze, bensì esclusivamente dei testi legislativi, di talché l’autorità della cosa giudicata non si acquisisce attraverso la pubblicazione delle decisioni, bensì è insita nel carattere definitivo delle sentenze emesse dal Tribunale di Norimberga. In questo senso si è pronunciata anche la Corte di Cassazione nel caso Alain Guionnet243: “l’autorità della cosa giudicata di una decisione si forma indipendentemente da qualsiasi pubblicazione e il decreto su menzionato è inapplicabile alle decisioni di giustizia”244. La Corte di Cassazione ha ribadito, inoltre, che ciascuno è tenuto a conoscere i giudizi resi a Norimberga, considerando che, in ogni caso, i fascicoli sono depositati presso la Corte internazionale di Giustizia dell’Aia, di talché anche laddove le sentenze del tribunale di Norimberga non fossero state oggetto di pubblicazione nel Journal officiel, non sarebbe invocabile l’ignoranza dei “decisum”. Ed invero, le contestazioni hanno avuto un seguito e sono state, così, rivolte proprio al fatto che non poche sono le difficoltà che si 242 Art. 1 del Décret du Gouvernement de Défense nationale: «Dorénavant, la promulgation des lois et décrets résultera de leur insertion au Journal officiel de la République Française, lequel, à cet égard, remplacera le Bulletin des lois[…] Art. 2 : Les lois et décrets seront obligatoires, à Paris, un jour franc après la promulgation, et partout ailleurs, dans l’étendue de chaque arrondissement, un jour franc après que le Journal officiel qui les contient sera parvenu au cheflieu de cet arrondissemnet[…]». 243 A. Guionnet c. MRAP, LICRA et autres, Cour d’appel de Paris (11eme ch.. sect. A), 27 maggio 1992, LP n° 100-I, 41. 244 A fronte di questo responso della Corte di Cassazione, in Gazzette du Palais del 18 luglio 1993, non si è mancato di precisare che: «On peut regretter que la Cour de Cassation ait frileusement répondu par des arguments formels qui ne sont nullement convaincants. L’autorité entre les parties de la chose jugée ne saurait à l’évidence jamais équivalori à une publication tournée vers tous les justiciables». 99 incontrano laddove si tenta di reperire il materiale dalla Corte Internazionale dell’Aia245. Alla base quindi di una prima protesta di stampo antinegazionista, il fatto che i giudici condannino i revisionisti in nome di testi che non sono in grado di produrre e di rendere a tutti accessibili. Un invito istituzionale alla memoria non è esente da rischi: i rischi di manipolazione dall’alto della storia e di e svuotamento di significato della memoria non sono per nulla trascurabili, hanno scritto un gruppo di giuristi, firmatari dell’ “Appel de juristes contre les lois mémorielles”, in data 29 novembre del 2006246. Lo Stato non ha il compito di prescrivere ai cittadini quel che devono ricordare, e in che modo devono ricordarlo con l’effetto deterrente di una pena: è questa una delle obiezioni alla legittimità costituzionale della legge. Per altro, i giuristi hanno ricordato che l’esternazione sia essa in forma scritta che orale delle opinioni, è un diritto riconosciuto dalla Costituzione francese. La stessa Carta dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789, prevede all'articolo 10 che nessuno possa essere molestato per le sue opinioni, anche religiose, purché la loro manifestazione non turbi l'ordine pubblico stabilito dalla legge, e all'articolo 11 che la libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti “les plus précieux de l’homme”; ogni cittadino può parlare, scrivere e pubblicare liberamente, eccetto quando si abusi di questa libertà nei casi determinati dalla legge ": «La libre communication des pensées et des opinions est, selon la déclaration de 1789, l’un des droits les plus précieux de l’homme. Certes, ce droit n’est pas absolu et la protection de l’ordre public ou des droits d’autrui peuvent en justifier la limitation. En ce sens, des lois appropriées permettent de sanctionner les propos ou les comportements racistes causant, par nature, à celui qui en est victime un préjudice certain. L’existence de lois dites « mémorielles » répond à une toute autre logique […]»247. A sostegno delle denunce mosse dagli ambienti storici, anche nell’appello dei giuristi non mancano riferimenti al principio di uguaglianza: «Ce faisant elles violent également le principe d’égalité en opérant une démarche spécifique à certains génocides et en 245 Ibidem. Quello che emerge a fondamento della difficoltà di lettura delle decisioni del Tribunale di Norimberga è che dal testo unico di comunicazione della decisione, (diverso dal necessario testo dei dibattiti), la comprensione del processo emerge in maniera breve ed ellittica; altrettanto laconico è il contenuto del giudizio. Risulta chiara la necessità di andare a fondo ed effettuare ricerche per verificare in che modo, durante il dibattito, i giudici si siano determinati. Per questo il testo ufficiale dei dibattiti, è elemento essenziale per “illuminare” il testo della sentenza: nessuna giurisdizione al di fuori del Tribunale di Caen, ha provveduto a produrlo. 246 Appel de juristes contre les lois mémorielles, 29 novembre 2006, consultabile sul sito web http://www.communautarisme.net/Appel-de-juristes-contre-les-lois-memorielles_a854.html. 247 Appel de juristes contre les lois mémorielles, cit. 100 ignorant d’autres, tout aussi incontestables, comme, par exemple, celui perpétré au Cambodge». Oltre alla preoccupazione di proteggere la libertà di espressione e di uguaglianza, ad essere stata invocata dagli ambienti liberali è un’ ulteriore argomentazione: gli avversari della legge Gayssot appaiono quanto mai concordi nel ritenere che laddove la legge fosse stata sottoposta al giudizio del « Conseil constitutionnel » quest’ultimo ne avrebbe sicuramente dichiarato l’incostituzionalità248. Se però fino al 1 ° marzo 2010 la Costituzione francese del 1958 affidava al “Conseil constitutionnel” soltanto un controllo di costituzionalità preventivo, prima della promulgazione delle leggi, prima quindi che il procedimento di formazione fosse concluso, a partire da questa data è entrato in vigore in Francia il controllo successivo di costituzionalità delle leggi249, che sulla base del nuovo articolo 61-1 della Costituzione consente di sfruttare a posteriori l'incostituzionalità di una legge che colpisce le libertà e i diritti garantiti dalla Costituzione; la c.d. “questione prioritaria di costituzionalità” è stata così accolta in Francia. Ed invero, è ora possibile il controllo di costituzionalità delle leggi memoriali, dando così la possibilità ad un imputato di contestarne la costituzionalità in tribunale, in un momento successivo. La novità a livello costituzionale non sottrarrà probabilmente nei prossimi mesi, la legge Gayssot da quel giudizio di costituzionalità al cui vaglio non è stata a suo tempo sottoposta per evidenti ragioni politiche250. Di non poco conto sarebbe anche il rischio di minare la libertà di insegnamento: nella sua decisione del 20 gennaio 1984 il Conseil constitutionnel ha identificato il principio dell'indipendenza dei professori universitari, risultando la stesso, una condizione basilare riconosciuta dalle leggi della Repubblica251. Nella stessa decisione, il Conseil constitutionnel ha riferito della libera espressione e dell'indipendenza di docenti e 248 M. Troper, La legge Gayssot e la Costituzione, cit., p.191. La legge organica n. 2009-1523 (come trasfusa nell’art. 23-2 dell’ord. org. n. 58-1067 del 7 novembre 1958), in attuazione del nuovo articolo 61-1 della Costituzione francese disciplina la “Question Prioritarie de Constitutionnalité” (QPC) ha creato un nuovo mezzo di controllo di costituzionalità (conformità delle leggi con la Costituzione). Il sistema precedente, di cui all'articolo 61 della Costituzione, consentiva il controllo della legittimità costituzionale solo prima della pubblicazione delle leggi. L’art. 61-1 della Costituzione francese così dispone: «Lorsque, à l'occasion d'une instance en cours devant une juridiction, il est soutenu qu'une disposition législative porte atteinte aux droits et libertés que la Constitution garantit, le Conseil constitutionnel peut être saisi de cette question sur renvoi du Conseil d'État ou de la Cour de cassation qui se prononce dans un délai déterminé». 250 P. Wachsmann, Libertà di espressione e negazionismo, cit., p.58. Secondo l’autore, la legge del 1990 non è stata sottoposta ad alcun controllo di costituzionalità perché «in assenza di una rappresentanza parlamentare tale da permettere alla destra estremista di adire il Conseil contitutionnel, nessuna formazione politica poteva assumersi il rischio di apparire ostile allo spirito della legge». 251 Cfr. la sentenza n. 83-165 del 20 gennaio 1984 del Consiglio di Stato, richiamata nella decisione del Consiglio di Stato, Association amicale des professeurs titulaires du muséum national d’histoire naturelle, Lebon, , p. 216, consultabile sul sito web http://www.conseil-etat.fr/. 249 101 ricercatori come insite nella natura stessa dei rispettivi ruoli. Così, come docenti e ricercatori sono funzionari di un servizio pubblico e come tale soggetti a una legge, «per loro stessa natura le funzioni di insegnamento e di ricerca non solo permettono, ma richiedono, nell'interesse del servizio, che la libera espressione e l'indipendenza del personale siano garantite»252. È proprio in nome del progresso della scienza e della ricerca storica, che il Consiglio Costituzionale francese ha dichiarato il 20 maggio 2011253, non conforme a Costituzione, il comma terzo lettera b) dell’art. 35, della più volte citata legge del 29 luglio 1881, là dove lo stesso nega la possibilità di ricorrere all’exceptio veritatis, di dar prova quindi della verità dei fatti oggetto del reato di diffamazione, nei casi in cui occorrerebbe richiamare episodi risalenti ad un periodo di tempo superiore a 10 anni254. Lo stesso Conseil constitutionnel ha identificato la restrizione di cui all’art. 35 come una manifestazione del diritto all’oblio, contraria alla libertà di espressione e alla ricerca della verità, considerando che in una gran parte dei processi storici l’invocazione dei fatti del passato è al centro del contenzioso, e rappresenta un momento imprescindibile per giungere alla verità dei fatti in causa255. 252 J. Peyrot, Lettre de Guy Môquet: rappel de principes. Mémoire, Histoire, Liberté en pédagogie , in Historiens et Géographes, n°400, ottobre-novembre 2007, in cui si sostiene che la libertà di educazione non è un “corpo caduto dal cielo” , bensì 'il risultato di esperienze. Essa risulta una garanzia fondante la scuola pubblica, e «s’inscrit dans les limites du plus grand commun accord sur ce qu’ont établi les méthodes scientifiques de la recherche et sur les degrés de certitudes reconnues». 253 Cons. const., 20 mai 2011, n° 2011-131 QPC, Dalloz, 2011. 1420, obs. S. Lavric. 254 Art. 35 della legge del 29 luglio 1881: «La vérité du fait diffamatoire, mais seulement quand il est relatif auxf onctions, pourra être établie par les voies ordinaires, dans le cas d'imputations contre les corps constitués, les armées de terre, de mer ou de l'air, les administrations publiques et contre toutes les personnes énumérées dans l'article 31. La vérité des imputations diffamatoires et injurieuses pourra être également établie contre les directeurs ou administrateurs de toute entreprise industrielle, commerciale ou financière, don’t les titres financiers sont admis aux négociations sur un marché réglementé ou offerts au public sur un système multilatéral de négociation ou au crédit. La vérité des faits diffamatoires peut toujours être prouvée, sauf : a) Lorsque l'imputation concerne la vie privée de la personne ; b) Lorsque l'imputation se réfère à des faits qui remontent à plus de dix années ; c) Lorsque l'imputation se réfère à un fait constituant une infraction amnistiée ou prescrite, ou qui a donné lieu à une condamnation effacée par la réhabilitation ou la révision; Les deux alinéas a et b qui précèdent ne s'appliquent pas lorsque les faits sont prévus et réprimés par les articles 222-23 à 222-32 et 227-22 à 227-27 du code pénal et ont été commis contre un mineur. Dans les cas prévus aux deux paragraphes précédents, la preuve contraire est réservée. Si la preuve du fait diffamatoire est rapportée, le prévenu sera renvoyé des fins de la plainte. Dans toute autre circonstance et envers toute autre personne non qualifiée, lorsque le fait imputé est l'objet de poursuites commencées à la requête du ministère public, ou d'une plainte de la part du prévenu, il sera, durant l'instruction qui devra avoir lieu, sursis à la poursuite et au jugement du délit de diffamation […]». 255 Cons. const., 20 mai 2011, cit. : «Or, dans la plupart des grands procès historiques, la vérité sur les événements est au coeur des débats, d'où parfois une incompréhension, voire une frustration tant de la partie civile que des prévenus qui souhaitent voir le juge trancher pour ou contre tel ou tel aspect d'une vérité en cause. Cette disposition constitue un véritable handicap pour l'historien qui se trouve privé 102 Nel “rapport Accoyer”256 si è fatto inoltre riferimento ad un aspetto non così difforme dall’orgoglio nazionale: un ricordo così puntuale del passato della Francia, oltre a far emergere anche le responsabilità della nazione, oltre a mettere l’accento sugli aspetti negativi della storia, redigerebbe un quadro del passato non sempre "felice". Ciò potrebbe indebolire il senso di orgoglio nazionale, rivedendo in quelle disposizioni una forma di ravvedimento irritante257. Orbene, sarebbe impensabile condensare l’intera mole della storia nazionale della Francia all’interno di testi legislativi, anche perché le conseguenze della proliferazione di leggi storiche sarebbero devastanti. In altri termini, le conseguenze non si limiterebbero al piano nazionale, ma coinvolgerebbero quello internazionale, con il rischio di trasformarsi presto in una fonte di risentimento tra le diverse comunità, interpretando le imposizioni ex lege come un gesto ostile di uno Stato nei confronti di un “Paese partner”. E come reagirebbe la Francia se in un futuro prossimo ad essere messo alla gogna fosse proprio il passato francese?258. L’”ingorgo” provocato dalle leggi memoriali e dalle scelte dell’ Eliseo, ha sollecitato numerosi interventi contrari alla vigenza delle “lois mémorielles”. In nome di una serie di garanzie più volte invocate da storici e giuristi, nel “rapport Accoyer” i firmatari hanno fatto appello alla “saggezza politica” al fine di scongiurare il rischio di votare in futuro l’approvazione di leggi che disciplinano eventi storici, in particolare quando esse prevedano delle pene, invitando altresì il governo francese a limitare gli effetti della decisione quadro del 2007, anche perché, a ben vedere, si potrebbe “rivangare” all’infinito nella storia, riscoprendo episodi finora ignorati, ma che ben “indossano le vesti” di crimini contro l’umanità; così non appare lontano il rischio di spingersi fino ai giorni nostri in un continuo susseguirsi di disposizioni normative. d'évoquer les événements du passé pour rétablir la vérité dans le cadre des procès, fréquents, sur l'histoire, voire un quasi-déni de justice». 256 «Rapport d’information fait en application de l’article 145 du Règlement, au nom de la mission d’information sur les questions mémorielles», Président-Rapporteur M. B. Accoyer, consultabile sul sito web dell’Assemblea Nazionale francese. 257 Questa considerazione appartiene allo scrittore Denis Tillinac, sulla base della sua esperienza da Presidente di un comitato di riflessione sulla storia della tratta negriera a Bordeaux. In occasione di questo lavoro, egli ha potuto constatare a che punto le sensibilità si ravvivino quando si tratta di avvicinarsi alla memoria di un fatto storico tanto lontano nel tempo: «Légiférer sur les faits historiques peut en effet se révéler dangereux pour l’unité nationale, laquelle repose sur des consensus plus ou moins inconscients » 258 È utile in questo senso riportate le parole contenute nel rappor Accoyer: «Le Parlement français est-il prêt à assumer le risque de pousser notre politique étrangère à faire un tel saut dans l’inconnu ? Comme l’a souligné le ministre des affaires étrangères lors du débat sur la proposition de loi tendant à réprimer la négation du génocide arménien, « promouvoir les valeurs de la France, c’est aussi faire prévaloir l’esprit de responsabilità. Que dirions-nous en outre si, demain, des parlements étrangers prenaient l’initiative de se prononcer sur un aspect de notre passé ? Dans la pire des hypothèses, des représailles « mémorielles » pourraient intervenir par le truchement de lois, ce qui placerait, à terme, notre pays dans une position pour le moins inconfortable…» 103 L’approvazione ultima, da parte dell’Assemblea Nazionale della legge che punisce la negazione del genocidio armeno, ben lascia intravedere una chiara non “ottemperanza” agli auspici contenuti nel “rapport Accoyer” e agli appelli di tanti accademici e giuristi francesi firmatari per altro anche dello stesso “rapport”. 7. La repressione del negazionismo attraverso la responsabilità civile (art. 1382 code civil) Prima ancora che le leggi memoriali prendessero consistenza, e durante la loro stessa vigenza, si può osservare un tentativo di condanna delle “contestazioni della storia” sulla base della responsabilità civile, ex art. 1382 code civil: il riferimento in questo caso è in particolare al genocidio degli Armeni. Nel caso armeno, peraltro, si deve distinguere tra diverse categorie di "negazionismo": da una parte, la negazione pericolosa e ostinata dell'esistenza storica del genocidio, la cui versione più estrema consiste non solo nel negare l'esistenza del massacro, ma nell'affermare che furono gli Armeni ad assassinare i turchi; dall'altra parte, un negazionismo più sottile, rifiuta di applicare la nozione di genocidio al caso degli Armeni senza negare tuttavia l'esistenza della realtà storica dei massacri: questa storiografia riconduce gli avvenimenti del 1915 a "massacri" o "atrocità" di cui furono vittime gli armeni, senza mai far riferimento all’accezione “genocidio”, né ad uno stermino deliberatamente programmato259. Oggetto del contenzioso tra il “Forum des associations armeniennes de france" e Bernard Lewis260 è stata la richiesta di risarcimento danni ex art. 1382 code civil a seguito di «very serious injury inflicted on the memory and respect owed to the survivors and their families», minate da roboanti espressioni negazioniste. Quest’ultimo, un arabista di fama mondiale, britannico-americano ed ebreo261, è stato condannato al pagamento di un franco simbolico, ex art. 1382 cc, dal “Tribunal de Grande Instance” di Parigi nel giugno 1995, non per una forma di negazionismo che pure le sue tesi non nascondevano, ma per “colpa professionale”. In un'intervista a Le Monde, Bernard Lewis ha contestato che la strage degli Armeni potesse essere definita «genocidio», nel tentativo di dar atto solo parzialmente all’eccidio: egli ha riconosciuto sia in occasione dell’intervista sia nelle aule del 259 D. El Kenz, Il massacro nella storia. Dall'antichità a oggi, Utet Libreria, 2009, p.183. TGI Paris, 21 giugno 1995, consultabile sul sito web Voltairenet.org. 261 Ibidem. 260 104 Tribunal de Grande Instance de Paris, che “There is no doubt that the Armenians' suffering were a terrible human tragedy, which still haunts the memory of this people as the Holocaust lingers in the memory of the Jews ” e ha dichiarato che le stesse atrocità non furono realizzate “all on one side”262. A fronte del fatto che con tali affermazioni Bernard Lewis ha contestato l'esistenza del genocidio armeno o, per lo meno banalizzato le persecuzioni e le sofferenze inflitte sui deportati armeni, e che, così facendo, “he committed a tort for which compensation could be claimed”, il "Forum delle Associazioni armene in Francia”, ha citato in giudizio lo studioso per l'accertamento della responsabilità ai sensi dell'articolo 1382 del code civil, e per vedere condannare Lewis al pagamento di 10.000 franchi, ai sensi dell'articolo 700 del nuovo codice di procedura civile263. Con l’affaire Lewis per la prima volta al termine genocidio è stata opposta la nozione di massacro: secondo lo storico, in riferimento alle violenze perpetrate dai Giovani Turchi ai danni della minoranza armena, non era opportuno parlare di genocidio, prediligendo e pubblicizzando la tesi secondo la quale gli Armeni, durante la deportazione verso la Siria, fossero morti di stenti, senza che vi fosse una politica volta all’annientamento della nazione. Ed invero, il Tribunale di Grande Istanza di Parigi ha rifiutato di pronunciarsi sulla “qualifica genocidiaria” del fatto commesso nel 1915, adducendo l’argomentazione secondo la quale non spetti ai Tribunali la decisione su come debba essere presentato un determinato episodio della storia nazionale o mondiale. Pur di non lasciare impunito lo storico negazionista, i giudici hanno, però, condannato Lewis a causa del mancato rispetto delle prerogative del compito dello storico: oggettività e prudenza. Poiché Lewis non aveva fatto alcun cenno agli elementi contrari alla tesi sostenuta, venendo così meno dal suo compito di storico ed esprimendosi senza riserve in merito ad un argomento di tale portata, la Corte concluse statuendo che le argomentazioni sottaciute da Lewis, suscettibili di ravvivare ingiustamente il dolore della comunità armena, risultavano “fautifs”. Ribadendo che non spetta alla Corte valutare se i massacri del 1915-1917 rivestano o meno il crimine di genocidio, come attualmente definito dalla sezione 211-1 del nuovo codice penale, e sebbene in linea di principio la Corte abbia ritenuto lo storico libero di diffondere le proprie opinioni 262 Ibidem. Art. 700 c.p.c. francese: «Comme il est dit au I de l'article 75 de la loi n° 91-647 du 10 juillet 1991, dans toutes les instances, le juge condamne la partie tenue aux dépens ou, à défaut, la partie perdante, à payer à l'autre partie la somme qu'il détermine, au titre des frais exposés et non compris dans les dépens. Le juge tient compte de l'équité ou de la situation économique de la partie condamnée. Il peut, même d'office, pour des raisons tirées des mêmes considérations, dire qu’il n’ya pas lieu à cette condemnation». 263 105 personali, lo ha altresì ritenuto responsabile nei confronti delle persone coinvolte, per la distorsione o la falsificazione dei fatti, non avendo affiancato alle sue tesi argomentazioni contrarie. La giurisprudenza Lewis ha escluso quindi la possibilità per i giudici di dirimere le controversie storiche, ben potendo però essere oggetto dei tribunali il metodo di lavoro utilizzato dallo storico, al fine di determinare se lo stesso sia incorso o meno in colpa “professionale”. Tale modus procedendi non costituisce un elemento di novità per l’esperienza francese. Già nel diciannovesimo secolo, in un caso concernente Alexandre Dumas, la Corte d’Appello di Parigi ha affermato che “la scelta da parte dello storico di una tra le molteplici versioni della storia, deve avvenire con correttezza, buona fede ed imparzialità” 264. Le motivazioni addotte dal Tribunal de Grande Instance di Parigi a carico di Lewis appaiono anche in linea con una decisione del 27 febbraio 1951265, in cui la Corte Suprema ha precisato che la colpa professionale può consistere tanto nel commettere un atto positivo quanto nella astensione dal dire qualcosa266. Sarebbe lecito a questo riguardo domandarsi se la corte avrebbe in ogni caso condannato l’arabista per colpa professionale, anche laddove il caso avesse riguardato il genocidio degli ebrei. Certamente Lewis non poteva essere condannato sulla base della Legge Gayssot, in vigore al tempo in cui egli ha commesso il fatto, poiché, come più volte ribadito, il testo della legge del 1990 mira a reprimere i crimini contro l’umanità definiti tali dallo statuto del Tribunale di Norimberga e quindi il riferimento è al solo genocidio ebreo, di talché una interpretazione estensiva volta a far rientrare tutti i crimini contro l’umanità (tra i quali il genocidio degli Armeni), sarebbe in contrasto con i principi del diritto penale. Ed invero, poiché mancava qualsiasi specifica legislazione contro la negazione del 264 App. Paris, 26 aprile 1865, in Dalloz, 1865, 2, 289. Cass. civ. 27 febbraio 1951, in Dalloz, 1951. 329, nota di H. Desbois. 266 Ibidem: “Aussi bien dans son abstention que dans un acte positif ; que l’abstention, même non dictée par la malice et l’intention de nuire engage la responsabilité de son auteur lorsque le fait omis devait être accompli soit en vertu d’une obligation légale, réglementaire ou conventionnelle, soit aussi dans l’ordre professionnel, s’il s’agit notamment d’un historien, en vertu des exigences d’une information objective. In secondo luogo, come ogni cittadino, anche lo storico deve rispettare il diritto alla privacy ai sensi della section 9 del codice civile. La giurisprudenza riconosce che uno storico ben può guardare alla vita privata di un defunto, anche se può raggiungere quella della sua famiglia, dal momento che il suo approccio è giustificato dall’interesse attuale che lo stesso suscita; per cui lo storico gode di una sorta di “immunità” in questo senso. Cfr. C. Vivant, L’historien saisi par le droit, cit.. 266 Sulla base di queste disposizioni, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, nella sentenza del 23 Settembre 1998, riferendo sul caso Lehideux (cit.), ha istituito uno un «standard européen sur les limites au libre débat dans l’histoire». 265 106 genocidio degli Armeni, Lewis non veniva condannato per negazionismo, ma per non aver utilizzato la prudenza e la correttezza imprescindibili nell’attività di ricerca storica, sottacendo gli elementi e le fonti relative all’esistenza di un piano di sterminio: “C’est une faute d’abstention en ce qu’il avait occulté les èlèments contraires à sa thèse”267; diversamente, quasi certamente, la pena sarebbe stata molto più severa. Un altro caso rilevante in materia è “Consul de Turquie Wanadoo”: in questa ipotesi l’assenza di una specifica proibizione normativa ha fatto propendere i giudici per l’assoluzione della società Wanadoo; il caso finiva in tribunale a causa della presenza di numerosi siti internet in cui le autorità turche negavano l’esistenza di un “prétendu génocide des arméniens268”. Al fine di reagire alle numerose tesi negazioniste diffuse su internet dalla comunità turca, il Comitato per la difesa della causa armena (CDCA) ha deciso di convenire in giudizio il console turco a Parigi e la società Wanadoo nella sua qualità di hosting provider. Al Tribunale di Grande Istanza di Parigi è stato chiesto, sul fondamento dell’art. 1382 e ss. del cc. francese di condannare la controparte alla soppressione delle pagine contenenti elementi di negazione dell’esistenza del genocidio armeno. I giudici hanno dichiarato irricevibile la richiesta degli attori per l’esistenza di una immunità diplomatica a suo favore; il console non aveva fatto altro che diffondere su internet la posizione ufficiale dello Stato Turco sulla questione armena. Quanto alla società Wanadoo, accusata di non essere intervenuta a sopprimere «les informations litigieuses, que celles-ci présentent, en consequence, un caractère manifestement illicite», il giudice ha respinto la richiesta di condanna rilevando che, non potendosi applicare l’articolo 24 bis della legge del 1881, non residua alcuna legge penale che stabilisca il carattere illecito dei documenti pubblicati su internet: “aucune loi pénale n’établissait donc le caractère manifestement illicite des documents litigieux”. La discussione si è focalizzata così sulla legge del 29 gennaio del 2001 relativa al “semplice” riconoscimento del genocidio degli armeni del 1915. I giudici hanno dichiarato che tale legge «ne met…aucune obligation à la charge des particuliers et 267 La Corte ha rilevato che: «même s’il n’est nullement établi qu’il ait poursuivi un but étranger à sa mission d’historien, et s’il n’est pas contestable qu’il puisse soutenir sur cette question une opinion différente de celles des associations demanderesses, il demeure que c’est en occultant les éléments contraires à sa thèse, que le défendeur a pu affirmer qu’il n’y avait pas de "preuve sérieuse" du génocide arménien ; qu’il a ainsi manqué à ses devoirs d’objectivité et de prudence, en s’exprimant sans nuance, sur un sujet aussi sensible ; que ses propos, susceptibles de raviver injustement la douleur de la communauté arménienne, sont fautifs et justifient une indemnisation, dans les conditions énoncées au dispositif». 268 App. Paris, 8 novembre 2006, in Dalloz 2007, n°12, pp.851-855. La giurisprudenza ha riconosciuto la legge del 29 gennaio 2001 volta a riconoscere il genocidio degli armeni come esclusivamente simbolica. 107 constitue seulement une prise de position offici elle, particulièrment solennelle, puisque adoptée sous forme de loi, du pouvoir législatif sur cet événement historique». Di conseguenza, nessuna obbligazione esisteva a carico dell’”hosing provider”, di talché la società è risultata esente da colpa per non aver ritirato i documenti in causa ovvero per non aver negato l’accesso agli utenti. Contro qualsiasi forma di coerenza di cui un sistema giudiziario non dovrebbe difettare a causa del disuguale trattamento accordato ai crimini della storia, la Francia sembra ancora essere lontana da una soluzione in termini di organicità in ambito memoriale. A garantire “omogeneità” ai crimini della storia non è stata certo la proposta di legge del 22 dicembre 2011, in quanto, prima che la stessa legge garantisca uniformità ai genocidi, occorre che ciascuno di essi venga riconosciuto dalla legge francese; e al momento esclusivamente il genocidio armeno è stato oggetto di riconoscimento. È allora opportuno andare avanti con la serie indefinita delle imposizioni “ex lege” e dei “riconoscimenti”, o non converrebbe invece fare un passo indietro, emulando piuttosto l’esempio liberale nordamericano? 108 Capitolo IV L’ESPERIENZA NORDAMERICANA 1. Il risultato della libertà incondizionata degli Stati Uniti In un’analisi comparatistica relativa al difficile rapporto tra negazionismo e libertà di espressione, non può mancare una breve considerazione dell’esperienza statunitense. Essa si connota per un approccio di fondo che, come già accennato, risulta in gran parte diverso da quelli europei e dallo stesso sistema canadese, ma non per questo privo di influenze su di essi269. Negli Stati Uniti com’è noto, la libertà di espressione è un diritto individuale tendenzialmente illimitato ed assoluto, che, nel contrasto con altri diritti tende a prevalere quasi sempre e ogni tentativo anche giurisprudenziale, di arginare l’onnicomprensività del Primo Emendamento rimane di regola un caso isolato. Quando la libertà di espressione non è circoscritta all’interno delle rigide restrizioni europee, il risultato, in termini di diritti delle minoranze, appare duplice e forse ambivalente: da una parte, gli appartenenti alle minoranze sono “autorizzati” a far sentire la propria voce e a far conoscere il proprio passato, in considerazione anche della necessità di una tutela dell'onore dei gruppi, che trova espressione nella dottrina words that wound, vale a dire in quella corrente che dichiara di porsi dal punto di vista dei gruppi discriminati270; dall’altra parte, quel simbolo culturale americano caratterizzato da una “sfrenata” libertà di parola, può essere inteso a sfavore delle minoranze ogni qualvolta si lasci impunito chiunque intenzionalmente offenda quella minoranza, e tutte le volte in cui si accetti senza remore, condizionandone magari l’opinione pubblica, qualsiasi discorso che contribuisca a tracciare il solco di una situazione di netta diversità tra “popoli e popoli”. La dottrina americana ha creato l’immagine degli Stati Uniti come un “melting pot” o un ”marketplace of ideas”271: la libertà di espressione costituisce la prima libertà 269 R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study, cit., p. 6. Per la maggior parte della sua storia gli Stati Uniti non sono stati radicalmente diversi da Francia e Germania; durante il diciannovesimo secolo molti Stati del sud hanno approvato leggi che mettevano al bando la letteratura negazionista, e nella restante parte del secolo sono state adottate anche negli Stati Uniti leggi contro exconfederati, pornografici e anarchici. Il “periodo critico” ha preso il via negli anni ’50 quando la filosofia del “mercato delle idee” ha acquisito forma e consistenza nella vita pubblica americana. 270 R. Delgado, Words that Wound: a Tort Action for Racial Insults, Epithets and Name-I Calling, in Harvard Civil Rights-Civil Liberties Law Review ( 1982), pp. 133 e ss. 271 A. Stazi,“Marketplace of ideas” e “accesso pluralistico” tra petizioni di principio e ius positum, in Dir. inf., 4-4/2009, p.16 ss. L’espressione del” marketplace of ideas” secondo la quale la verità e la 109 americana sinonimo di una cultura legale altamente tollerante nei confronti di qualsiasi forma di discorso, garanzia di un diritto costituzionale alla libertà di parola idolatrato e da sempre condiviso dalla collettività, il modo più sicuro per giungere alla verità. Come mette in luce Rosenfeld «la preminenza culturale della libertà di espressione deriva dal modo di pensare profondamente radicato, secondo cui gli Stati Uniti sarebbero la terra delle opportunità per tutti coloro che sono stati perseguitati nel loro Paese di origine a causa delle proprie convinzioni e credenze, nonché dall'idealizzazione del cittadino americano come il risoluto individualista teso al superamento di ogni tipo di nuova frontiera»272. Se in gran parte dei paesi europei, all’uso di epiteti razziali o insegne naziste, alla pronuncia di espressioni negazioniste seguono, quasi automaticamente, azioni legali, negli Stati Uniti, “qualsiasi parola” gode pressoché di tutela costituzionale: la parola è vessillo di una cultura, simbolo di una identità273. È forse il caso di riprendere le parole del giudice Brandeis, secondo il quale il rimedio ad un messaggio sgradito costituisce sempre more speech274, aggiunge cioè sempre qualcosa in più rispetto al messaggio iniziale, salvo che la discussione poi venga interrotta per evidenti ragioni. La Corte Suprema americana – presso cui trova ampia accoglienza quell’”ottimismo liberale” estraneo al resto dell’Europa - condividendo il pensiero di Leo Bollinger secondo quale il discorso razzista non produce solo svantaggi, ma educa alla tolleranza275, ha finito sempre per far prevalere un’interpretazione estensiva del Primo Emendamento, al di là della valutazione caso per caso da parte dei giudici. Per questo oggi non stupiscono decisioni come quella relativa, per esempio, al caso politica migliore, nascono dal concorso e dalla circolazioni di variegate idee, informazioni e contenuti, ha radici nelle tesi di John Milton, il quale sostenne che l'individuo per poter far valere le proprie ragioni ed esercitare i diritti che gli spettano deve essere illimitatamente in grado di confrontarsi con i suoi simili, in un incontro-scontro di idee, che inevitabilmente porta all’affioramento dell’migliore. 272 M. Rosenfeld, La filosofia della liberta di espressione in America, in Ragion Pratica (1999), pp. 17 e ss. 273 F. Schauer, The Exceptional First Amendment, in M. Ignatieff, a cura di, American Exceptionalism and Human Rights, Princeton University Press 2005, 29, 51-2: «On this cluster of interrelated topics, there appears to be a strong international consensus that the principles of freedom of expression are either overridden or irrelevant when what is being expressed is racial, ethnic, or religious hatred. ... In contrast to this international consensus that various forms of hate speech need to be prohibited by law and that such prohibition creates no or few free speech issues, the United States remains steadfastly committed to the opposite view. ... In much of the developed world, one uses racial epithets at one's legal peril, one displays Nazi regalia and the other trappings of ethnic hatred at significant legal risk and one urges discrimination against religious minorities under threat of fine or imprisonment, but in the United States, all such speech remains constitutionally protected». 274 See Whitney v. California, 274 U.S. 357, 372–80 (1927) (Brandeis, J., concurring); Abrams v. United States, 250 U.S. 616, 624–31 (1919) (Holmes, J., dissenting). 275 L. Bollinger, La società tollerante, Giuffrè, 1992, p. 191 ss. 110 “Skokie”276, dal nome del sobborgo di Chicago popolato da numerosi ebrei, molti dei quali sopravvissuti ai campi di concentramento: nel 1977 la Corte Suprema dell’Illinois ha ritenuto attività verbale lecita, nonché forma simbolica di libertà di parola, il diritto rivendicato da un gruppo di rappresentanti del partito neonazista americano, di tenere in città una sfilata dimostrativa, utilizzando i simboli del regime, tra cui la svastica. Queste le parole utilizzate dalla Corte: «the use of the swastika is a symbolic form of free speech entitled to First Amendment protections and determined that the swastika itself did not constitute "fighting words”». La tolleranza che caratterizza i cittadini americani si manifesta anche in tutte le ipotesi di “passiva accettazione” di un qualsiasi gesto di assalto alla bandiera, a seguito di una pronuncia della Corte Suprema risalente al 1989277, in cui è stato dichiarato incostituzionale qualsiasi divieto del gesto di appiccare fuoco alla bandiera. Fumo e cenere che sgorgano dal simbolo americano rientrerebbero, dunque, nella libertà di pensiero garantita dallo scudo del Primo Emendamento della Costituzione; ed in particolare la condotta posta in essere nel 1989 conteneva, a dire dei giudici, «sufficienti elementi comunicativi tali da concretizzare un atto di espressione del pensiero, in quanto ricorrevano sia l’intento soggettivo di trasmettere un determinato messaggio, sia l’elevata probabilità che quel messaggio fosse recepito».278 276 Vill.of Skokie v. Nat'l Socialist Party of Am. 373 N.E. 2d. 21(Ill. 1978). Un gruppo di neonazisti intendeva marciare attraverso il sobborgo di Chicago Skokie, indossando divise delle SS e svastiche. Tale villaggio ospita una larghissima popolazione ebraica e diversi sopravvissuti dell'Olocausto. Le autorità municipali si opposero, a tale marcia che avrebbe chiaramente incitato all'odio e alla violenza contro i cittadini ebrei del villaggio. Il gruppo neonazista intentò un giudizio per violazione del "free speech right" in relazione al Primo Emendamento. La Corte di primo grado affermò la legittimità del divieto di tale manifestazione sulla base della testimonianza dei sopravvissuti all'Olocausto residenti nel villaggio di Skokie, perché essa avrebbe evidentemente costituito un incitamento alla violenza e all'odio. La decisione fu ribaltata dalla Corte Suprema, NationalSocialist Party of America v. Village of Skokie, 432 U.S. 43 (1977) sulla base della considerazione secondo la quale la marcia non avrebbe integrato il requisito dell'incitamento alla violenza e la tutela dei sentimenti dei sopravvissuti all'Olocausto non costituiva giustificazione sufficiente per una tale compressione della libertà di manifestazione di pensiero e di parola. 277 U.S. Supreme Court, Texas v. Johnson, 491 U.S. 397 (1989). La Corte ha ritenuto che «Under the circumstances, Johnson's burning of the flag constituted expressive conduct, permitting him to invoke the First Amendment... Occurring as it did at the end of a demonstration coinciding with the Republican National Convention, the expressive, overtly political nature of the conduct was both intentional and overwhelmingly apparent... whether particular conduct possesses sufficient communicative elements to bring the First Amendment into play, the court asked whether "an intent to convey a particularized message was present, and [whether] the likelihood was great that the message would be understood by those who viewed it», La Corte ha concluso statuendo che mentre «the government generally has a freer hand in restricting expressive conduct than it has in restricting the written or spoken word," it may not” proscribe particular conduct because it has expressive elements». 278 M. C. Vitucci, Olocausto, capacità di incorporazione del dissenso e tutela costituzionale dell'asserzione di un fatto in una recente sentenza della Corte costituzionale di Karlsruhe, in Giur. Cost. 1994, III, 3379 ss., 3390. 111 Quand’anche milioni e milioni di americani considerassero la bandiera nazionale una venerazione quasi mistica, la profanazione fisica del simbolo per eccellenza, il flag burning non comporta alcun rischio di incorrere in sanzioni penali; del resto, quando si chiese alla Corte Suprema di non ignorare le conseguenze deleterie e concrete del costume incriminato, tra cui la violazione della pace sociale, le minacce alla quiete pubblica, la risposta fu chiara: “la legge punisce solo discorsi che incitano imminenti condotte illegali”279. 2. Il regime del “discorso dell’odio” Se l’Europa prevalentemente parla di negazionismo, gli Stati Uniti d’America fanno riferimento all’espressione più ampia ”hate speech”, che ben può comprendere anche il negazionismo, e che tende ad identificarsi con quelle forme espressive dirette a minare la pace sociale attraverso espressioni odiose rivolte ad un soggetto ben identificato o ad un gruppo di individui280. Alla luce delle considerazioni appena delineate, è dunque l’”hate speech” sempre meritevole di tutela costituzionale? La risposta parrebbe essere affermativa, ma poiché evidentemente i rischi di una tolleranza senza limiti hanno finito ben presto per preoccupare anche i giuristi americani, occorre fare una distinzione. Più in generale, l’hate speech può assumere diverse forme: un primo livello di speech americano si connota per il carattere dangerous281. Nel corso del tempo i tribunali hanno sempre più limitato la facoltà da parte del Governo federale di punire le espressioni potenzialmente pericolose, se non nei casi in cui si ravvisi una imminent lawless action. Accanto al dangerous speech, una diversa forma di “hate speech” è rappresentata dall’”offensive speech:” il quid pluris necessario per convertire in sanzione l’espressione offensiva è rappresentato dal turbamento della pace sociale, considerato che the speech that does no more than offend sensibilities or cause hurt feelings, without threatening an immediate breach of peace, is protected under the First Amendment282.L’ultima tipologia di incitamento all’odio americana, sebbene presente 279 Texas v. Johnson, cit. J.T. Nockleby (2000), “Hate Speech,” in Encyclopedia of the American Constitution, ed. Leonard W. Levy and Kenneth L. Karst, vol. 3. (2nd ed.), Macmillan Reference USA, 2000, pp. 1277-1279. 281 C. M. Cascione, Negazionismo e libertà di espressione: rilievi comparatistici in Dir. Inf., 2011, p. 321 e ss. 282 P. R. Teachou, Making “holocaust denial” a crime: reflections on european anti-negationist laws from the perspective of u.s. constitutional experience, 30 Vt. L.-Rev. (2006), vol. 30, p. 676 ss. L’autore oltre a delineare una chiara tripartizione tra dangerous, offesive ed heretical speech, espone una serie di motivazioni in ordine alla contestazione dell’approccio europeo. Una di esse risiede nella “vaccination 280 112 con meno frequenza nel panorama giurisprudenziale, assume la forma del linguaggio heretical. In quest’ultimo caso la Suprema Corte ha chiarito che non c'è posto in una democrazia costituzionale per leggi che cercano di costringere i destinatari ad adottare un particolare modo di pensare sulle più svariate questioni, prescrivendo cioè un atteggiamento morale al fine di imporre la convinzione in qualcosa in cui non si crede realmente283. La soluzione proposta dalle Corti Americane all’”hate speech” si è mossa nella direzione di accordare tutela costituzionale a quella forma seppur “odiosa” di linguaggio che non sfoci nella istigazione alla violenza. Ed invero, non appare punibile un messaggio pubblico quando nulla implichi in termini di reazioni fisiche violente e la sua massima conseguenza (nei confronti della collettività) sia la sola apologia di idee e dottrine: in questo caso l’”hate speech” va tollerato alla luce proprio di quel “libero mercato di idee”; altra cosa è invece l’istigazione alla violenza, a commettere reati contro la persona. È solo in questo secondo caso che l’”hate speech” diventa sanzionabile284. Mentre negli Stati Uniti i testi legislativi che impongono delle restrizioni alla discriminazione sono ritenuti incompatibili con la libertà di espressione e per essere validi devono soddisfare criteri severi, che non prescindono dalla presenza di un pericolo evidente per la società, nel diritto europeo/internazionale dei diritti della persona, la libertà di espressione non tende a prevalere, dovendo essa cedere il passo a misure che interdicono forme di discriminazione. Non si intende ripercorrere in questa sede la vastissima dottrina relativa al tema della libertà di manifestazione del pensiero degli Stati Uniti d’America; per quanto concerne il tema della nostra ricerca è fin da ora importante sottolineare come, anche nei confronti dell’ hate speech la democrazia americana abbia inteso utilizzare, soprattutto negli ultimi tempi, la copertura costituzionale della libertà di espressione, in tutti i casi di assenza di danni effettivi. theory” del linguaggio: l'idea in sintesi è che per mobilitare gruppi che diversamente non interverrebbero è sufficiente lasciare ai negazionisti lo spazio per esprimere il proprio personale punto di vista; più o meno come una dose di vaccino contenente una piccolissima quantità di agenti infettivi inattivati serve ad attivare il sistema immunitario. 283 Cfr. le conclusioni raggiunte in West Virginia State Board of Education v. Barnette, 319 U.S. 624, 626-29 (1943). 284 M. Rosenfeld, La filosofia della liberta di espressione in America, cit., p.17 ss. 113 3. Cosa si nasconde nel passato americano? Contrariamente a quanto spesso si assume, va rilevato che negli Stati Uniti la situazione non è stata sempre così garantista per i “liberi ed incontrollati oratori”: in materia di libertà di parola la giurisprudenza della Corte Suprema ha subito una profonda evoluzione285. Essa ha avuto un atteggiamento dapprima moderatamente repressivo, poi con il passare del tempo sempre più liberale, sino a configurare, in linea con i tratti caratterizzanti oggigiorno la cultura degli Stati Uniti, la libertà di espressione come un diritto con pochi e deboli limiti. Se nella decisione Schenck v. United States286 la pubblicazione di volantini che incoraggiavano all’insubordinazione in tempo di guerra non può essere protetta dallo scudo del Primo Emendamento, poiché per ovvie motivazioni si è tenuti a molte più restrizioni espressive in tempo di guerra, rispetto a quelle imposte in tempo di pace; se nella sentenza Abrams v. United States287 la distribuzione di volantini che, pur non incitando alla resistenza immediata, avevano una carica lesiva tale da indurre i lavoratori nelle fabbriche di munizioni ad uno sciopero generale, (allo scopo di limitare la produzione di ordigni e munizioni necessarie al prosieguo della guerra), non ha configurato una delle garanzie della libertà di parola assicurate dal Primo Emendamento; se nella decisione Whitney v. California288 i giudici hanno deliberato che, laddove una parola ha tendenza" a causare sedizione o illegalità, può essere costituzionalmente vietata”; se, quindi, in una prima fase, la giurisprudenza della Corte Suprema ha considerato l’hate speech come una forma di diffamazione collettiva analoga a quella individuale, non rientrante nella tutela prevista dalla Costituzione, successivamente, a causa probabilmente delle numerose opinioni dissenzienti che facevano leva sul fatto che leggi del genere rappresentassero una «minaccia costante allo strapiombo della libertà di parola, stampa e religione»289, le 285 Cfr. in tema A. Pizzorusso, La disciplina costituzionale dell'istigazione all'odio, in Atti del XVI° Congresso dell’Accademia Internazionale di Diritto Comparato Brisbane, 14-20 Luglio 2002. 286 Schenck v. United States, 249 U.S. 47 (1919). 287 Abrams v. United States, 250 U.S. 616 (1919). 288 Whitney v. California, 274 U.S. 357 (1927). 289 Beauharnais c. Illinois, 343 U.S. 250 ( 1952): nella “dissenting” opinion si sottolinea che sia la diffamazione, che le c.d. “fighting words” considerate pacificamente come eccezioni alla libertà di espressione, che si concretizzano in dichiarazioni rivolte contro i singoli, difficilmente possono essere utili al pubblico dibattito e quindi vietate; nessuna legislatura insomma si disse, ha il compito, dovere, potere, di decidere su quali questioni pubbliche i cittadini possono discutere, dal momento in cui in un paese libero la scelta è individuale e non dello Stato”. Si legge nella stessa sentenza: «My own belief is that no legislature is charged with the duty or vested with the power to decide what public issues Americans can discuss. In a free country that is the individual's choice, not the state's… No rationalization on a purely legal level can conceal the fact that state laws like this one present a constant overhanging threat to freedom of speech, press and religion. Today Beauharnais is punished for publicly expressing strong views in favor of segregation. Ironically enough, Beauharnais, convicted of crime in Chicago, 114 decisioni della Corte hanno subito una evoluzione. Tra gli esempi di questo cambiamento rientra la decisione Brandenbourg c. Ohio290, in cui i Giudici hanno statuito la non punibilità da parte del Governo di “inflammatory speech unless it is directed to inciting and likely to incite imminent lawless action”, superando così altre decisioni precedentemente rese nell’ambito della stessa materia291. In questo caso il leader ed alcuni membri del gruppo Ku Klux Klan minacciavano di ricorrere all'uso della violenza se non fossero state adottate misure segregazioniste. In particolare Brandenburg in un'occasione pubblica, innalzando la croce fiammeggiante {crossburning), simbolo di superiorità della razza bianca, ha invocato il ritorno dei neri in Africa e degli ebrei in Israele. La Supreme Court in questa sentenza ha affermato che «l'istigazione ad azioni illegali o violente non è protetta dal Primo Emendamento solamente se emerge che è intenzionalmente diretta o idonea ad incitare o produrre un'imminente azione illegale»292. È dunque questa una libertà di espressione garantita sicuramente in maniera più ampia rispetto al passato, ma con un importante limite: le restrizioni alla libertà di espressione sono apparse subito inevitabili nella giurisprudenza americana quando si è toccato il delicato tema dell’istigazione alla violenza. Ne è prova il caso delle fighting words, dottrina espressa nella sentenza Chaplinsky v. New Hampshire293. È molto sottile il confine tra la diffusione di idee razziste ed antisemite prive di alcuna idoneità lesiva, e l’utilizzo di epiteti antisemiti potenzialmente idonei a provocare violenza. Solo alle prime però è stata accordata la protezione dal Primo Emendamento. Infatti, per poter limitare un diritto costituzionalmente garantito, come la libertà di espressione, occorre avere un interesse abbastanza importante da permettere una limitazione del diritto protetto. É necessario, cioè, che la restrizione sia narrowly tailored e che si utilizzi the would probably be given a hero's reception in many other localities, if not in some parts of Chicago itself. Moreover, the same kind of state law that makes Beauharnais a criminal for advocating segregation in Illinois can be utilized to send people to jail in other states for advocating equality and nonsegregation. What Beauharnais said in his leaflet is mild compared with usual arguments on both sides of racial controversies….». 290 Brandenbourg c. Ohio, 395 U.S. 444, 1969. 291 In particolare cfr. Schenck v. United States, 249 U.S. 47 (1919); Abrams v. United States, 250 U.S. 616 (1919); Whitney v. California, 274 U.S. 357 (1927); Dennis v. United States, 341U.S.494 (1951). 292 N. Courtney, "British and United States Hate Speech Legislation: a Comparison", in Brooklyn Journal of International Law (1993), pp. 748 e ss. 293 Chaplinsky v. State of New Hampshire, 315 U.S. 568 (1942): «There are certain well-defined and narrowly limited classes of speech, the prevention and punishment of which have never been thought to raise any constitutional problem. These include the lewd and obscene, the profane, the libelous, and the insulting or "fighting" words those which by their very utterance inflict injury or tend to incite an immediate breach of the peace. It has been well observed that such utterances are no essential part of any exposition of ideas, and are of such slight social value as a step to truth that any benefit that may be derived from them is clearly outweighed by the social interest in order and morality». 115 least restrictive means294. Nella dottrina delle fighting words è possibile distinguere due parti. La prima riguarda in modo specifico quelle parole che “arrecano pregiudizi” mentre la seconda comprende quelle che tend to incite an immediate breach of peace. II divieto di quest'ultima categoria si ritrova sempre nella pronuncia Brandenburg v. Ohio295: così le Corti statali e federali hanno annullato, in nome della libertà di espressione, il provvedimento delle autorità municipali che vietava lo svolgimento di una manifestazione neonazista. Sicuramente conforme all’evoluzione appena delineata, appare il comportamento del governo americano in relazione alla Convenzione internazionale sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, in particolare per la ferma ostilità in merito all'art. 4, che prevede di dichiarare reato punibile dalla legge “qualsiasi forma di diffusione di idee basate sulla superiorità della razza o su sentimenti di odio" e, pertanto, ritenuto dall'amministrazione americana incompatibile con il testo e lo spirito della Costituzione. Le restrizioni alla libertà di espressione previste dalla sopracitata Convenzione appaiono, dunque, rispondere alla logica più europea di apporre limiti stringenti a tale libertà rispetto alla protezione di cui la libertà gode negli Stati Uniti da parte della giurisprudenza della Supreme Court296; in America ,infatti, la parola non cessa di essere costituzionalmente protetta per la sola ragione che possa nuocere ad altre persone o che possa essere offensiva per la società. In questa logica, infatti, le espressioni che ledono l'onore delle identità non sono sanzionabili negli Stati Uniti297. Per tale ragione, in sede di sottoscrizione della Convenzione internazionale sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, nel 1966 è stata apposta una riserva da parte degli Stati Uniti in virtù della quale: «the Constitution of the United States contains previsions for the protection of individual rights, such as the right of free speech, and nothing in the convention shall be deemed to require or to authorize 294 M. J. Mannheimer. "The Fighting Words Doctrine", in Colorado Law Review (1993), vol.? pp. 1565 e ss.; L. A. Rabe, Sticks and Stones: The First Amendment and Campus Speech Codes, in The John Marshall Law Review (2003), pp. 205 e ss. 295 M. Ainis, Valore e disvalore della tolleranza, in Quad. cost. (1995), pp. 425 e ss; M. Rosenfeld, Hate Speech in Constitutional Jurisprudence: a Comparative Analysis, in Cardozo L. Rev. 2003, vol I, pp. 1537 ss. 296 S. Fish, Hate Speech in The Constitutional Law of The United States, in The Constitutional Treatment of Hate Speech, XVIth Congress of the International Academy of Comparative Law Brisbane, 14-20 luglio 2002, in <http://www.ddp.unipi.it>, pp. 2 ss. 297 V .Cuccia, Liberta di espressione e identità collettive, Giappichelli, 2007, p.183, ss. La concezione americana induce a tollerare frasi razziste, purché non si oltrepassi il limite che separa l’apologia della violenza dall’istigazione ad essa. 116 legislation or other action by the United States of America incompatible with the provisions of the Constitution of the United States of America»298. 4. Il “judicial notice” emesso nelle Corti americane: il caso Mermelstein All'inizio degli anni ottanta l'Institute for Historical Review aveva pubblicato un'offerta economica sulla propria rivista con la quale prometteva una somma di denaro a chiunque avesse fornito la prova irrefutabile dello sterminio degli ebrei nelle camere a gas di Auschwitz. La trovata era pubblicitaria, poiché sfruttava il fatto che le uniche testimonianze inconfutabili erano quelle oculari, gente che difficilmente era ancora viva per raccontare. Mermelstein299 superstite dell'Olocausto, che aveva assistito alla morte della propria famiglia nel campo di concentramento di Auschwitz, aveva risposto all'annuncio presentando un dettagliato resoconto della sua esperienza e indicando i nomi di altri testimoni oculari dello sterminio, tra cui una serie di eminenti storici. Di fronte al rifiuto dell’ IHR di pagare la somma pattuita, Mermelstein ha così intrapreso un giudizio per «breach of contract, intentional infliction of emotional distress» nei confronti dell'Istituto. La Superior Court of California ha accolto la domanda di Mermelstein e ha condannato l'IHR a pagare la somma pattuita e il risarcimento del danno morale subito per aver dovuto rievocare gli atroci eventi di Auschwitz, messi in dubbio dall’istituto, poiché rappresenta «judicial notice of the fact that Jews were gassed to death at the Auschwitz Concentration Camp in Poland during the summer of 1944. It is simply a fact»300. La sentenza costituisce un interessante precedente, in primo luogo perché attraverso un'azione su base contrattuale (breach of contract) ed extracontrattuale (tort cause of action) il plaintiff è riuscito ad evitare l'applicazione del Primo Emendamento301. In secondo luogo, nel provvedimento della Corte Californiana che ha definito la controversia, si chiarisce che l'Olocausto e l'utilizzo delle camere a 298 Convenzione internazionale sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (1965), il testo è disponibile al sito web http://www.ohchr.org. 299 La controversia è commentata da M. L. Picheny, A Fertile Ground: The Expansion of Holocaust Denial into the Arab World, in 23 B.C.Third World L. J. 333 (2003); G. J. Yonover, Anti-Semitism and Holocaust Denial in the Academy: A Tort Remedy, in 101 Dick. L. Rev.71 (1996), 84. 300 Superior Court of California, Mermelstein c. Institute for Historical Review, No. C 356 542 (July 22, 1985). 301 Questo precedente ha spinto alcuni studiosi americani a prospettare l'utilizzo nei confronti di chi nega l'Olocausto di azioni a titolo di risarcimento del danno morale (tort of infliction of emotional distress). In questo modo si potrebbe evitare l'applicazione del Primo Emendamento, tuttavia la legittimazione attività a tale azione spetterebbe chiaramente soltanto ai superstiti dell'Olocausto e dei campi di sterminio e ai loro eredi naturali e morali. Si veda: G. J. Yonover; Anti-Semitism and Holocaust Denial in the Academy: A Tort Remedy, cit., 85. 117 gas nei campi di concentramento di Auschwitz costituiscono fatti incontestabili e incontrovertibili e che come tali non richiedono di essere provati in giudizio. Di conseguenza gli errori “tecnici” pur evidenti, risultanti dalle testimonianze allegate da Mermelstein non hanno avuto alcun tipo di valenza. 5. La corsa verso i campus universitari: il caso Smith Nonostante la singolare protezione accordata alla libertà di espressione, la fase più recente del negazionismo ha trovato proprio negli Stati Uniti non pochi esponenti, mossi in particolar modo, dal tentativo di “insediarsi” nei campus universitari: il coordinatore di questo movimento Bradley Smith, ha cercato, infatti, di approfittare di giovani redattori alle prese con giornali universitari, i quali ancora più di qualunque altro cittadino americano non avrebbero potuto rifiutare la “circolazione di idee”, a prescindere dal loro contenuto offensivo, lasciando quindi spazio ad ogni opinione. Bradley Smith, esponente dell’Institute for Historical Review e fondatore del gruppo noto come CODOH (Committee for Open Debate on the Holocaust), autore nel 1999 della rivista: “A Journal of Independent Thought”, in cui dichiarava quelli che dovessero essere gli intenti rappresentati dai revisionisti dell'Olocausto, già a partire dai primi anni ’90 ha reso pubblica la sua “fede” negazionista, calamitando l’attenzione verso di sé “grazie” ad un’ originale proposta giornalistica. Durante l'inizio degli anni 90 il “nuovo prototipo di negazionista” Smith, ha “rincorso” i campus americani affinché fosse autorizzata la pubblicazione di un singolare annuncio sui giornali studenteschi. Il contenuto dell’annuncio metteva subito in evidenza un evidente scetticismo dell’autore sulle sorti delle vittime dell’Olocausto, e rivolgendosi all’opinione pubblica, egli chiedeva il nome e le prove di una sola persona che fosse stata vittima ad Auschwitz delle camere a gas, al fine di ottenere un dibattito pubblico sull'Olocausto302. Se alcuni campus universitari rifiutarono la pubblicazione 302 È questo il tipico annuncio di cui Smith chiedeva la pubblicazione, consultabile sul sito web http://www.codoh.com: «DWIGHT D. EISENHOWER published his Crusade in Europe in 1948. In 559 pages General Eisenhower does not mention the German gas chambers in which it was—and is--claimed that millions of Jews and others were “exterminated.” WHY NOT? Are you a student? Why do you think Dwight D. Eisenhower, the man who directed World War II against the Germans on the Western front, the celebrated General who would become President of the United States, would write a history of that war and not mention the greatest WMD (gas chambers) ever known to man? Do you think, maybe, it just slipped his mind? Are you a professor? At the close of WWII it was claimed that four million victims were exterminated at Auschwitz alone. Keeping in mind that General Eisenhower did not mention gas chambers in his Crusade in Europe, can you provide, with proof, the name of one person killed in a gas 118 dell’annuncio e tale rifiuto attirò, in ogni caso, l’attenzione dei media, altri accolsero la richiesta di Smith, ponendo a fondamento della propria decisione la c.d. libertà intellettuale. All’interno di questa seconda “categoria” rientra il giornale dell’Università del Michigan, che per primo “difese” la propria scelta in virtù della libertà di parola garantita dal primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti303: così come il primo Emendamento garantisce la libertà di perseguire la verità, esso assicura anche il diritto di negare quella stessa la verità304. La logica conseguenza che l’annuncio potesse contenere informazioni inesatte, ovvero imprecise e offensive, che avrebbero a loro volta portato alla mente di molti, ricordi e accadimenti terribili, nonché la possibilità di pubblicare annunci di una simile portata, riflette esattamente il pensiero dei padri fondatori del Primo Emendamento, sostenne l’Università del Michigan. Nel gennaio 1992, anche l’”Ohio State Lantern” pubblicò l'annuncio di Bradley Smith. Si trattò di un atto deliberato del comitato redazionale del giornale Lantern, che giustificò la pubblicazione con le seguenti parole: “It is repulsive to think that the quality, or total lack thereof, of any idea or opinion has any bearing on whether it should be heard.”305. Con la libertà di parola altro non si intende se non la necessità di trattare e disporre delle idee in maniera assolutamente indipendente dalla loro mancanza di qualità ovvero totale assenza di qualità, questa la giustificazione dell’ ”Ohio State Lantern”. Diversa è stata la posizione assunta dall’”Harvard Crimson” invece, in cui il rifiuto alla pubblicazione dell’annuncio è stato giustificato non da una scelta di censura, ma dal non aver ritenuto opportuno mettere a disposizione di un giornale, con un numero limitato di pagine e con un target determinato di lettori, un “semplice annuncio”, un testo più o meno lungo che avrebbe “tolto spazio” ad altri argomenti del giornale e che avrebbe avuto lo stesso rifiuto di pubblicazione anche laddove avesse trattato un argomento chamber at Auschwitz? Do you believe it wrong, immoral perhaps, to ask this question? Tell me why. I can be reached at [email protected]» 303 Michigan Daily, October 25, 1991: «…Nonetheless, as a newspaper committed to upholding the principles of the First Amendment and the unrestricted exchange of ideas, we cannot justifiably condone the censorship of unpopular ideas from our pages merely because they are offensive or because we disagree with them…The ad said some terrible things, and some ugly memories came to the minds of many, but what transpired on this campus for the last week is exactly what the founding fathers had in mind when they wrote the First Amendment», in R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study, cit., p. 133 ss. 304 W. F. Buckley Jr., “First Amendmentitis,” National Review, January 24,1994. 305 R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study, cit., p. 126. 119 differente306. Il discorso libero negli Stati Uniti non è solo una norma giuridica costituzionale, ma anche una potente norma culturale, soprattutto per gli studenti aspiranti giornalisti. L'influenza del First Amendment ha così permeato la cultura americana, influenzando il modo con cui gli americani intendono lo stesso Olocausto. Se in Germania e in Francia si presume di scongiurare il timore di una nuova serie di crimini aberranti attraverso l’imposizione ex lege di particolari obblighi “memoriali”; se nella maggior parte delle democrazie europee il dibattito è stato incentrato sul prosieguo e sulla accelerazione di meccanismi impositivi finalizzati a “marginalizzare i negazionisti”, al contrario, sembra che negli Sati Uniti la paura del nazismo sia la ragione posta a fondamento della politica della non censura307. 6. L’esperienza canadese: un approccio intermedio Problemi analoghi a quelli americani si sono posti nella società canadese, anche se i risultati a cui la giurisprudenza è pervenuta appaiono più prossimi alle soluzioni europee che non a quelle testé emerse trattando della situazione americana. È in Canada, che già alla fine del secondo conflitto mondiale, al fine di esprimere il proprio dissenso e condannare con forza le vicende legate alle persecuzioni razziali subite dagli ebrei, sono stati sottoscritti tre importanti documenti internazionali: la Convenzione per la prevenzione e la repressione del Genocidio, la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale e il Patto internazionale sui diritti civili e politici. Il dibattito canadese ha riguardato proprio la possibilità di assimilare o meno la “politica” liberale degli Stati Uniti al Canada, dove la libertà di espressione a livello federale è garantita dalla “section” 2 della “Charter of Rights and Freedoms” del 1982308, una Carta che ha introdotto dei principi sovraordinati all'ordinaria attività legislativa, rappresentando lo sforzo delle autorità governative di creare un diritto federale valido per l’intera nazione, in grado di mettere insieme le varie 306 R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study, cit., p. 129. Questa la motivazione dell’editore del giornale dell’Università di Harvard: «By choosing not to run an ad, or an editorial for that matter, we are not imposing censorship; we are simply refusing to offer our privately-owned assets— our printing press, our circulation network, our readership, our limited number of pages, and the name of The Harvard Crimson, for that matter». 307 R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study, cit., p. 133 ss. 308 Paragrafo 2 della Carta canadese:« Everyone has the following fundamental freedoms: (a) freedom of conscience and religion; (b) freedom of thought, belief, opinion and expression, including freedom of the press and other media of communication; (c) freedom of peaceful assembly; and (d) freedom of association». 120 componenti del pluralismo sociale e istituzionale che compongono la società canadese, come invocato dallo stesso documento. La vicinanza degli Stati Uniti e le inevitabili e note affinità tra i due sistemi giuridici, sotto alcuni aspetti, hanno favorito, secondo alcune scuole di pensiero diametralmente opposte all’interno della stessa Corte Suprema, l’utilizzo delle correnti giurisprudenziali americane nel diritto canadese. Da una parte (idealmente incentrata intorno alla figura del giudice McLachlin) infatti, si sono schierati coloro che considerano la visione canadese della libertà di espressione e i limiti a tale libertà più pertinenti all’esperienza americana che alla visione internazionale consacrata anche dalle numerose convenzioni in materia di libertà di espressione309. La Corte Suprema si è più volte pronunciata sulla portata di questa garanzia erigendola a libertà fondamentale e ponendola in cima agli altri diritti e libertà garantiti in una società democratica310. Così la Corte Suprema ha ritenuto per esempio che l’art. 2 b) dovesse essere interpretato nella maniera più libera ed estensiva possibile, in modo da assicurare a ciascun cittadino la possibilità di manifestare senza conseguenze le proprie opinioni, anche nel caso in cui le stesse appaiano impopolari e sgradevoli. Nella sentenza Edmonton Journal il giudice Cory ha ribadito l’importanza della libertà d’espressione nel diritto canadese, rilevando che in una società democratica sia difficile immaginare una libertà più importante della libertà di espressione, di talché l’art. 2b) è stato redatto in termini assoluti, salvo essere ristretto in casi rari311. Pur considerando che tanto il metodo americano, quanto quello “internazionale” riconoscano in maniera più o meno esplicita che la libertà di espressione può in alcune circostanze cedere il passo ad altri valori, il primo filone di pensiero, piuttosto che seguire il “metodo internazionale” volto alla soppressione dell’odio razziale, giustificando così una limitazione alla libertà di espressione, ha prediletto la tradizione americana, con l’effetto di verificare l’esistenza di un pericolo chiaro ed attuale, prima di condannare il soggetto per aver attentato alla libertà di espressione. La differenza tra 309 M. Imbleau, La négation du génocide nazi, liberté d'expression ou crime raciste? Le négationnisme de la Shoah en droit international et comparé, cit., p. 80. 310 La sentenza Irwin Toy Ltd. C. Québec viene richiamata in M.Imbleau, La négation du génocide nazi, liberté d'expression ou crime raciste ? Le négationnisme de la Shoah en droit international et comparé, cit. p.72. Nel decisum Irwin Toy la Corte ha cercato di formulare nella maniera più precisa alcuni postulati caratterizzanti la libertà di espressione, statuendo che la ricerca e la scoperta della verità sono delle attività positive in sé, che la partecipazione alle decisioni di carattere sociale e politico devono essere incoraggiate e che le variegate forme di arricchimento e impoverimento personale devono essere incoraggiate in una società tollerante tanto nei confronti di chi trasmetta un messaggio tanto nei confronti di chi è destinatario di quel messaggio. 311 Edmonton Journal c. Alberta (Procureur général), 1989 2 R.C.S. 1326. 121 le disposizioni americane e quelle internazionali sta, del resto, nel diverso periodo storico all’interno del quale le stesse sono state adottate: i testi internazionali sono stati redatti dopo la seconda guerra mondiale e dimostrano un certo equilibrio tra la volontà di proteggere i diritti individuali e i diritti collettivi; il diritto americano al contrario trova le sue origini nel diciottesimo secolo, nel periodo di lotta contro la corona britannica, momento storico in cui prevale la tutela dei diritti individuali312. Dall’altra parte, emerge una visione differente, che tiene distinto il metodo americano da quello canadese: la diversa importanza accordata alla nozione di multiculturalismo, l’impegno del Canada per l’eliminazione della propaganda razziale, farebbero propendere per una distinzione tra le due Carte nazionali, anche perché diversamente le restrizioni canadesi rispetto alle condotte razziali sarebbero incompatibili con la libertà di espressione313. La libertà di parola non è illimitata in Canada, piuttosto è, sottoposta ai limiti fissati dal codice penale e la legge comune314, come ha affermato il Giudice Cannon nel caso Press Alberta315. Ed invero, se la formulazione letterale del paragrafo 2 della “Charter of Rights and Freedoms” è molto simile a quella del primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, e descrive un diritto solo apparentemente assoluto, per quanto riguarda l’”hate speech” l’interpretazione della Suprema Corte canadese si allontana notevolmente da quella statunitense: i limiti alla libertà di espressione derivano dalla sezione 1 della “Charter of Rights and Freedoms” la quale, nell’introdurre una clausola limitativa dei diritti, esclude la tutela ex section 2 di tutte quelle forme di manifestazione del pensiero che esprimono valori incompatibili con i valori tutelati dalla stessa Carta. In Canada non esiste alcuna legislazione specifica che si occupa espressamente di negazionismo; è quest’assenza ad aver imposto il ricorso alle disposizioni del Code 312 W. A. Schabas e d. Turp, La Charte canadienne des droits et libertés et le droit International: les enseignements de la Cour supreme du Canada dans les affaires Keegstra, Andrews et Taylor, (1989-90) 6 R.Q.D.I. 12. 313 G. Rolla, La tutela costituzionale della persona come individuo e come parte di un gruppo: l’esperienza della Carta canadese dei diritti e delle libertà, in S. Gambino (a cura di), La protezione dei diritti fondamentali. Europa e Canada a confronto, Giuffré, 2004, 125. «Sin dall’inizio della sua formazione, si consolidò l’idea che il Canada nacque come patto tra “due popoli fondatori ” e ciò fece sì che il pluralismo essenzialmente riconosciuto e tutelato fosse di tipo duale: tra inglese e francese, sul piano linguistico, tra cattolici e protestanti, dal punto di vista religioso, tra civil law e common law, in materia di diritto». 314 Ibidem cit. 315 Alberta Press Case (1938) S.C.R. 10, quoted in D.A. Schmeiser, Civil Liberties in Canada (Oxford: Oxford University Press, 1964), 201. 122 criminel316 relative all’odio razziale, con un risultato mitigato. Fino agli anni settanta l’art. 181317 del codice in questione era l’unica disposizione che permetteva di agire per diffamazione, con l’obiettivo di sedare i conflitti razziali: è in questo periodo e precisamente nel 1966 che il Comitato speciale ha introdotto l’art. 319318, determinando così la politica criminale dell’ordinamento canadese, politica finalizzata a porre un freno alla libertà di espressione in relazione alle modalità con le quali essa si manifesta. 7. La “trilogia” delle corti canadesi a confronto: il caso Keegstra I casi Keegstra, Taylor e Zündel meritano particolare attenzione all’interno della giurisprudenza canadese, che in materia di negazionismo ha mostrato una sua specificità; più in generale, l’assenza di una legge ad hoc in Canada ha reso probabilmente più difficile la lotta al negazionismo. L’analisi giuridica relativa alle disposizioni negazioniste deve, perciò, prendere le mosse dagli articoli 181 e 319 del Codice penale canadese, di cui il primo proibisce la pubblicazione, in particolare, di dichiarazioni storiche che l’autore sa essere false, ed il secondo fa riferimento all’incitazione volontaria all’odio. 316 L.R.C. (1985), c. C-46, mod. par L.R.C. (1985), c 2 (1mo supp.). Art. 181 codice penale canadese: «Est coupable d’un acte criminel et passible d’un emprisonnement maximal de deux ans quiconque, volontairement, publie une déclaration, une histoire ou une nouvelle qu’il sait fausse et qui cause, ou est de nature à causer une atteinte ou du tort à quelque intérêt publique». 318 Art. 319 Codice penale canadese :« (1) Quiconque, par la communication de déclarations en un endroit public, incite à la haine contre un groupe identifiable, lorsqu’une telle incitation est susceptible d’entraîner une violation de la paix, est coupable: a) soit d’un acte criminel et passible d’un emprisonnement maximal de deux ans; b) soit d’une infraction punissable sur déclaration de culpabilité par procédure sommaire. (2) Quiconque, par la communication de déclarations autrement que dans une conversation privée, fomente volontairement la haine contre un groupe identifiable est coupable : a) soit d’un acte criminel et passible d’un emprisonnement maximal de deux ans; b) soit d’une infraction punissable sur déclaration de culpabilité par procédure sommaire. (3) Nul ne peut être déclaré coupable d’une infraction prévue au paragraphe (2) dans les cas suivants : a) il établit que les déclarations communiquées étaient vraies; b) il a, de bonne foi, exprimé une opinion sur un sujet religieux ou une opinion fondée sur un texte religieux auquel il croit, ou a tenté d’en établir le bien-fondé par argument; c) les déclarations se rapportaient à une question d’intérêt public dont l’examen était fait dans l’intérêt du public et, pour des motifs raisonnables, il les croyait vraies; d) de bonne foi, il voulait attirer l’attention, afin qu’il y soit remédié, sur des questions provoquant ou de nature à provoquer des sentiments de haine à l’égard d’un groupe identifiable au Canada. (4) Lorsqu’une personne est déclarée coupable d’une infraction prévue à l’article 318 ou aux paragraphes (1) ou (2) du présent article, le juge de la cour provinciale ou le juge qui préside peut ordonner que toutes choses au moyen desquelles ou en liaison avec lesquelles l’infraction a été commise soient, outre toute autre peine imposée, confisquées au profit de Sa Majesté du chef de la province où cette personne a été reconnue coupable, pour qu’il en soit disposé conformément aux instructions du procureur général…». 317 123 È nell’affaire Keegstra che la Corte Suprema si è pronunciata sulla delicata questione della propaganda all’odio e sulla validità di una disposizione del Code criminel che interdicendo tale genere di espressione, pareva, a dire della difesa, confliggere con il paragrafo 2b) della Charte canadienne319. Alla base dell’affaire Keegstra, infatti, risiede, la necessità di verificare la costituzionalità dell’art. 319 del Code criminel, sez. seconda, il quale proibisce l’istigazione volontaria dell’odio in conversazioni che non siano private e contro tutti coloro che risultino diversi per razza, religione, colore ovvero origine etnico. “La libertà di espressione vuol dire che non si può dire niente a nessuno? Se no, cosa si può dire e a chi?” James Keegstra avrebbe chiesto insistentemente alla Corte Suprema del Canada di rispondere a questi quesiti. Keegstra, insegnante di scuola superiore è stato, infatti, condannato sulla base del § 130 del Criminal Code per aver fatto propaganda antisemitista ai suoi studenti, descrivendo gli ebrei come “sovversivi”, “sadici”, “amanti del denaro”, appellandoli come inventori dell’Olocausto per «ottenere simpatia internazionale», e pretendendo che gli stessi allievi ripetessero le sue teorie, onde scongiurare il rischio di valutazioni negative in ambito scolastico. Orbene, quella stessa sentenza di condanna del 1985 per istigazione all'odio è stata annullata tre anni dopo, quando la Corte d'Appello di Alberta ha decretato l'incostituzionalità della legge che proibisce l'istigazione all'odio razziale. Il caso è stato poi riaperto dalla Corte Suprema canadese nel 1990, e nel 1992 Keegstra è stato condannato ad una multa di 2.640 dollari: accusato di aver violato il paragrafo 2 dell’art. 319, avrebbe sistematicamente denigrato gli ebrei durante le sue lezioni, imponendo appunto, tale visione ai suoi allievi, i quali avrebbero dovuto accettare la cosa, salvo dimostrare il contrario. Ma ben si può immaginare come uno studente difficilmente disponga di conoscenze tali da confutare tesi del genere, né sia intenzionato a farlo: sarà stata probabilmente questa anche la riflessione di coloro che hanno condannato, non solo sui banchi dei tribunali, l’insegnante canadese. Se le doglianze del docente si sono basate sulla palese contraddizione tra l’art. 319 sez.2 e il paragrafo 2b) della Carta canadese, la decisione della Corte è stata emessa nel tentativo di dimostrare che dichiarazioni tali da fomentare l’odio non sono contrarie a quanto statuito dal paragrafo 2b), bensì rientrano in quelle limitazioni “ragionevoli” che 319 M.Imbleau, La négation du génocide nazi, liberté d'expression ou crime raciste ? Le négationnisme de la Shoah en droit international et comparé, cit., p. 75 ss. 124 possono essere giustificate in una società libera e democratica, alla luce dell’art. 1 della Carta canadese320: la Corte, con riguardo alla fattispecie oggetto di causa ha statuito che, al pari della libertà di espressione, sono valori tutelati costituzionalmente la “multicultural diversity, human dignity and equality”; la propaganda “pericolosa” di Keegstra avrebbe minato il rispetto dei gruppi razziali etnici e religiosi più di quanto possa considerarsi espressione di freedom of speech, di talchè la punizione ex art. 319 (2) delle espressioni dell’insegnante avrebbe rappresentato una limitazione “raisonnable”. Ed invero, il riferimento all’art. 1 della Carta canadese ha inevitabilmente scatenato la difesa di Keegstra in argomentazioni in ogni caso rigettate dalla Corte: solo la prova concreta che le espressioni proferite dal docente avessero ingenerato odio contro un gruppo identificabile di persone, avrebbe giustificato la limitazione di cui all’art. 319 (2) ai sensi dell’art. 1 della Carta; in altri termini, secondo la difesa, sarebbe stato proprio il carattere volontario della fomentazione richiesto nell’319(2) a restringere la portata dell’articolo, esigendo la prova dell’intenzionalità dell’autore; la comunicazione avrebbe dovuto effettivamente e non solo potenzialmente, generare dell’odio verso il gruppo, di talché in assenza di una prova concreta sarebbe risultata priva di fondamento la limitazione di cui all’art. 319. A tali argomentazioni la Corte ha eccepito invece, che far riposare la restrizione della libertà di espressione sulla prova dell’esistenza di un “odio effettivo”, avrebbe significato non tener conto del grave trauma psicologico subito dai membri del gruppo lesi dalla propaganda d’odio. Orbene, la Corte è giunta alla conclusione che l’accertamento circa lo “scatenarsi” di un odio effettivo non risulta necessario, essendo il crimine di cui all’art. 319 (2) non solo finalizzato a punire l’incitamento all’odio, ma anche il tentativo di metterlo in atto. Tenuto quindi conto dell’importanza che il legislatore attribuisce alla prevenzione dell’odio, e tenuto conto della debolezza del legame tra tale espressione e i valori di cui al paragrafo 2b), la Corte Suprema ha concluso che l’articolo 319 (2) è giustificato e “costituzionalmente garantito” in virtù dell’art. 1 della Carta canadese321. 320 Art. 1: «La Charte canadienne des droits et libertés garantit les droits et libertés qui y sont noncés. Ils ne peuvent être restreints que par une règle de droit, dans des limites qui soient raisonnables et dont la justification puisse se démontrer dans le cadre d'une société libre et démocratique». 321 M.Imbleau, La négation du génocide nazi, liberté d'expression ou crime raciste ? Le négationnisme de la Shoah en droit international et comparé, cit., p. 134-141. 125 7.1 Il caso Taylor Nell’’affaire Taylor322 ad essere stata adita è stata la Canadian Human Rights Commission dopo lunghe e dibattute arringhe da parte dei ricorrenti nelle aule dei tribunali canadesi: John Ross Taylor, leader del Wesern Guard Party e il restante gruppo partitico, sono stati accusati di aver registrato ed invitato ad ascoltare un messaggio telefonico che, salvo risultare “innocuo” in una prima parte, riportava per il resto contenuti denigratori della razza e della religione ebraica. Nel 1979, le denunce contro gli ideatori, sono state presentate dinanzi alla Commissione canadese per i diritti umani che ha condannato gli ideatori del servizio dei messaggi a porre fine alla pratica, costituendo i messaggi una attività discriminatoria ex art. 13 (1)323 della Legge canadese sui diritti delle persone, articolo che inibisce proprio l’uso della conversazione telefonica per questioni suscettibili di esporre all’odio e al disprezzo gli appartenenti a un gruppo identificabile in base ai criteri di cui all’art. 3324. Nonostante la condanna, i ricorrenti hanno continuato nella pratica discriminatoria, così che la condanna si è inasprita, fino a 5.000 dollari di multa e ad un anno di reclusione per il leader del partito John Ross Taylor. La Corte, anche in questo caso, ha ritenuto che non vi fossero dubbi circa la compatibilità tra l’art. 13 paragrafo 1 della Legge Canadese sui diritti delle persone, e le libertà di pensiero, di espressione, di opinione, garantite dall’art. 2 b) e dall’art. 1 della Carta canadese. La Corte non ha escluso la portata denigratoria delle comunicazioni registrate, volte a diffondere attraverso il mezzo di comunicazione telefonica sentimenti di incitazione all’odio razziale o religioso; invitando il lettore a consultare l’analisi esaustiva elaborata nel caso Keegstra, la Corte ha precisato che la punizione di condotte lesive della libertà di espressione (tra cui quelle rientranti nel disposto normativo dell’art. 13) risultava evidentemente giustificata nel contesto di una 322 John Ross Taylor and the Western Guard Party c Canada, Comitato dei diritti dell’uomo, Sélection des decisions, vol. 2,25 (Doc. N.U. CCPR/C/OP/2), 1984-85. 323 Art. 13(1) della Legge canadese sui diritti delle persone : « Constitue un acte discriminatoire le fait, pour une personne ou un groupe de personnes agissant d’un commun accord, d’utiliser ou de faire utiliser un téléphone de façon répétée en recourant ou en faisant recourir aux services d’une entreprise de télécommunication relevant de la compétence du Parlement pour aborder ou faire aborder des questions susceptibles d’exposer à la haine ou au mépris des personnes appartenant à un groupe identifiable sur la base des critères énoncés à l’article 3» 324 Art. 3 (1) Pour l’application de la présente loi, les motifs de distinction illicite sont ceux qui sont fondés sur la race, l’origine nationale ou ethnique, la couleur, la religion, l’âge, le sexe, l’orientation sexuelle, l’état matrimonial, la situation de famille, l’état de personne graciée ou la déficience. (2) Une distinction fondée sur la grossesse ou l’accouchement est réputée être fondée sur le sexe. 3.1 Il est entendu que les actes discriminatoires comprennent les actes fondés sur un ou plusieurs motifs de distinction illicite ou l’effet combiné de plusieurs motifs. 126 società libera e democratica325: l’incitamento all’odio rappresenta una minaccia grave per la società e un messaggio telefonico di odio, capace di dare all’ascoltatore l’impressione di un contatto diretto, personale, quasi privato e non fornendo mezzi realistici per contestare l’informazione o le opinioni presentate, ben rappresenta una forma di incitamento all’odio. Occorre, secondo la Corte, che la libertà di pensiero sia bilanciata con altri valori e, per questo, in una società democratica, i limiti imposti dall’art. 13 risultano ragionevoli ai sensi dell’art. 1 della Carta. 7.2 Il problema del negazionismo online La Canadian Human Rights Commission è stata chiamata a decidere se la pubblicazione su un portale web di documenti negazionisti fosse suscettibile di essere considerata discriminatoria alla luce dell’art. 13 (1) della Legge canadese. Si è così riportata in auge la problematica relativa agli elementi necessari a violare l’art. 13 (1), l’assenza eventuale di una effettiva trasmissione di sentimenti di odio razziale, o la considerazione della sola probabilità che i destinatari dei documenti infamanti siano suscettibili di essere esposti a tale sentimento. Se i precedenti in materia avevano sempre accordato piena compatibilità tra i primi due articoli della Carta canadese e l’art. 13, nel 2009 l’orientamento maggioritario è stato sovvertito. Ad essere dichiarato incostituzionale dalla Commissione Canadese dei Diritti Umani è stato proprio il potere che la stessa si è avocato negli anni nel giudicare i reati d’opinione su Internet, assolvendo così un imputato dalle accuse di “istigazione all’odio”, come non aveva fatto mai prima di allora. In altri termini, offendere via web ha trovato per la prima volta tolleranza anche nelle aule giudiziarie canadesi, poiché è da ritenere incostituzionale una legge che regoli i reati d’opinione in quanto lesiva della Carta dei Diritti dei canadesi sulla libertà di espressione. Non sarebbe quindi compito dei tribunali essere coinvolti nella sorveglianza dei contenuti della rete, attraverso 325 Dall’altra parte i giudici dissenzienti furono dell’avviso che “La large portée de le paragraphe 13 (1) ne satisfait à aucun des trois critères de proportionnalité ènoncès dans l’arrêt Oakes. Bien qu’il ne fasse aucun doute que la prévention de la discrimination et le maintien de l’harmonie sociale et de la dignité individuelle revêtent une importance capitale, et même si les expresions menaçant ces valeurs peuvent, en certaines circonstances, être restreintes par le législateur, il n’en demeure pas moins pour ces juges que la restriction doit être imposée d’une manière qui est raisonnable, proportionnée au mal et qui tient compte du droit fondamental à la liberté d’expression”. 127 l’Articolo 13 della Legge Canadese sui Diritti Umani: «The guarantee to freedom of speech has been gravely damaged by the extension of s. 13 to the Internet»326. È nel giudizio contro Marc Lemire, webmaster di un sito estremista, che la Commissione ha, infatti, statuito chiaramente che l’Articolo 13 viola il diritto costituzionale alla libertà di espressione degli imputati, perché fornisce alla Commissione Canadese dei Diritti Umani l’autorità di imporre pene a coloro che essa ritenga colpevoli. Nel caso “de quo”, il 24 novembre del 2003 Richard Warman ha citato in giudizio Marc Lemire, sostenendo la violazione da parte di quest’ultimo della sezione 13 della Canadian Human Rights Act attraverso la pubblicazione di "messaggi di odio" sul suo sito; la difesa di Lemire ha d’altro canto chiesto alla Corte di verificare «the constitutionality of s. 13(1), that the provisions violated s. 2(b) of the Charter. In doing so, he asked the Tribunal to revisit the decision of the Supreme Court of Canada (“SCC”) in Canada (Human Rights Commission) v. Taylor, [1990] 3 S.C.R. 892 which held that s. 13(1), as it then was, was a violation of s. 2(b) of the Charter but nevertheless was constitutional as a reasonable limit within the meaning of s. 1». Il 2 settembre 2009, il Tribunale per i diritti umani ha assolto Marc Lemire, sulla base della incostituzionalità della Sezione 13 in riferimento al mezzo internet: dopo l’imputazione di Taylor, nessun individuo che avesse invocato l’incostituzionalità della sezione 13 era mai stato assolto. Alla base della motivazione di incostituzionalità dell’art. 13, la Corte avrebbe precisato che, diversamente dal sistema dei messaggi telefonici registrati, internet darebbe la concreta possibilità a chiunque sia stato vittima di offese di utilizzare lo stesso mezzo per confutare, fornirebbe insomma ogni strumento per contestare informazioni e per contro-argomentare le stesse. Ed invero, nel 1991 i Giudici Supremi sarebbero stati costretti a condannare Taylor327 a causa della mancanza, in riferimento al sistema dei messaggi registrati, di una “sede” appropriata in cui confutare il contenuto del messaggio; orbene, il Presidente del Tribunale ha precisato che i danni causati dall’ incitazione all’odio riconosciuti a carico di Taylor 326 Canadian Human Rights Tribunal, Marc Lemire c. Richard Warman, 2 settembre 2009, consultabile integralmente sul sito web http://www.chrt-tcdp.gc.ca/aspinc/search/vhtmleng.asp?doid=981&lg=_e&isruling=0. 327 Canadian Human Rights Tribunal, Marc Lemire c. Richard Warman, cit. «Canadians can put up websites, write comments on message boards or comment boxes, write essays which can be distributed on websites or sent out by email or text messaging. Message boards and blogs give visitors the immediate ability to respond to other messages with equal prominence as the original posting”. Kulaszka descrive quest’unica violazione – per aver pubblicato un articolo, chiamato AIDS Secrets, scritto da un neo-nazista statunitense e rivolto contro i neri e contro i gay – come “una discussione su questioni di pubblico interesse riguardanti l’AIDS che non avrebbe dovuto essere sottoposta a censure». 128 esistono ancora in un contesto di comunicazione differente328: «There is no doubt that the medium of the Internet is a democratizing medium which allows public discourse by people who previously had no means to participate meaningfully in public debates or issues. It provides every means of questioning information and of counter arguing, the two vital factors missing in the telephone message context as noted by the majority judgement in Taylor. Canadians can put up websites, write comments on message boards or comment boxes, write essays which can be distributed on websites or sent out by email or text messaging. Message boards and blogs give visitors the immediate ability to respond to other messages with equal prominence as the original posting»329. In altri termini, è stato rilevato in giudizio come sia potenzialmente inoffensivo un mezzo interattivo e partecipativo come internet; sarebbe stata proprio la differenza tra la comunicazione telefonica e quella su internet a rendere ormai superata la sentenza emessa nel caso Taylor e la non adattabilità della stessa al caso di specie. 7.3 Il caso Zündel Dopo aver pubblicato per più di vent'anni scritti dal carattere antisemita e filonazista, Zündel, nel 1985, è stato accusato di diffondere consapevolmente notizie false sullo sterminio degli ebrei e conseguentemente condannato a una pena detentiva di quindici mesi, sulla base del § 181 del “Criminal Code” canadese, che punisce la pubblicazione intenzionale di notizie false, nonché diffidato dal pubblicare materiale sull'argomento della Shoah per almeno tre anni. Nel gennaio 1987 la Corte d'Appello dell’Ontario ha annullato la sentenza sulla base di errori procedurali avvenuti durante il primo processo; nel giugno dello stesso anno è stato avviato un nuovo processo durante il quale, in difesa di Zündel, sono interventi testimoni del calibro di David Irving, Robert Faurisson, Bradley Smith ed in particolare Fred Leuchter. In questo secondo processo, avviato nel gennaio del 1988, in qualità di esperto di camere a gas ha deposto proprio Fred Leuchter; dopo aver esaminato e analizzato campioni tratti dalle strutture di 328 Ibidem, «Because of this radically changed communications context, the analysis in Taylor regarding the medium of the telephone is now utterly outdated in the determination under s. 1 of whether s. 13(1) is a reasonable limit on freedom of expression. The questions must be asked: how does s. 13(1) affect freedom of expression in a medium which is interactive and participatory and which contains the store of knowledge of humanity? Does the harm caused by hate propaganda recognized by Taylor still exist in such a communications context?». 329 Ibidem, cit. 129 Auschwitz l’esperto ha redatto un rapporto di 192 pagine330, che sarebbe divenuto una delle basi cartacee fondanti delle tesi negazioniste. Secondo Leuchter, i locali incriminati di aver ospitato e ucciso numerosi ebrei, non avrebbero potuto essere utilizzati come camere di sterminio, in quanto nei campioni sarebbero mancate tracce sufficienti dei residui di Zyklon B (acido cianidrico, utilizzato per le esecuzioni). A causa dell'inaffidabilità del testimone, il c.d. rapporto Leuchter non è stato accettato dalla Corte, così Zündel è stato nuovamente dichiarato colpevole e condannato dalla Corte d'appello nel maggio del 1988, questa volta a nove mesi di carcere. A seguito della condanna in primo grado del noto editore è stata adita la Corte Suprema (1992) affinché giudicasse sulla legittimità della norma del “Criminal Code”, volta a violare, secondo l’accusa, la “freedom of expression”, senza rientrare in uno dei “reasonable limits” previsti dall’art. 1 della Carta canadese. È accaduto proprio in questa circostanza che la Corte ha dichiarato incostituzionale la legge che proibisce la diffusione di notizie false, prosciogliendo definitivamente Ernst Zündel sulla base di una incompatibilità tra l’art.181 e la sezione 2b) della Canadian Charter of Rights and Freedoms. La Corte infatti nel caso R. c. Zundel ha stabilito che la section 2 della “Charter” canadese, proteggendo tutte le manifestazioni di pensiero non violente e considerando irrilevante il loro contenuto, avrebbe inevitabilmente finito per includere anche le opinioni minoritarie o asseritamente false; e in più la repressione di quelle espressioni che causano un danno ovvero un’offesa ad un interesse pubblico, non sarebbe stata giustificata nemmeno dalla “section” 1 della Carta dei diritti e delle libertà. L’argomentazione principale volta a dichiarare incostituzionale l’art. 181 del codice penale canadese ha preso le mosse dalla netta distinzione tra il contenuto di un semplice messaggio o di un’ opinione anche a sfondo propagandista, e un atto di violenza. Solo in questo secondo caso interverrebbero i limiti “ragionevoli” di cui all’art. 1 della carta canadese; diversamente la Corte ha ritenuto, in presenza di semplici opinioni “dissenzienti” la non compatibilità dell’art. 181 con l’art. 1 della Carta. La sentenza in esame, lungi dal costituire un passo indietro nella repressione del negazionismo, è emblematica del modus procedendi della Corte Suprema canadese, la quale ha dimostrato la capacità di valutare la reale portata dei limiti applicabili alla libertà di manifestazione del pensiero attraverso quel bilanciamento tra interessi 330 Il rapporto venne pubblicato con una prefazione di Robert Faurisson: The Leuchter Report: An Engineering Report on the Alleged Execution Chambers at Auschwitz, Birkenau, and Majdanek Poland. Samisdat Publishers Ltd. 1988. 130 contrapposti tanto dibattuto: il fatto che la portata di un messaggio possa incitare all’intolleranza non rappresenta una ragione sufficiente per giustificare il venir meno della garanzia della libertà di espressione. L’indirizzo favorevole alla libertà di manifestazione del pensiero che caratterizza la sentenza canadese appena citata appare invero isolato nell’ambito della giurisprudenza nazionale e sovranazionale che si è occupata di negazionismo, in essa prevalendo una spiccata adesione alle ragioni della repressione e al sotteso intento di difendere valori ritenuti irrinunciabili e fondanti. 8. Il fenomeno dell’ “adversarial legalism” e la “hearsay rule” Gli “orrori” dell’Olocausto e i numerosi episodi di “pulizia etnica” verificatisi durante la seconda guerra mondiale hanno costretto nell’ultimo ventennio i giudici ad essere sempre più spesso interpellati tanto nelle ipotesi in cui ad essere sottoposta alla gogna è stata una verità storica “beffeggiata” da espressioni o scritti negazionisti, quanto nel caso in cui i discendenti delle vittime di un crimine aberrante del passato hanno deciso di rivendicare i propri cari, chiedendo ai giudici ingenti ricompense economiche, di cui si dirà meglio nel prossimo capitolo. Tanto nella prima ipotesi, quanto nella seconda, i tribunali di “common law” si sono nettamente distinti nella risoluzione delle controversie; e non è un caso che gli stessi ricorrenti abbiano e continuino a prediligere in particolare le aule giudiziarie americane, per una serie di caratteristiche “allettanti” e favorevoli alle vittime della storia, o ai discendenti delle stesse, e riconducibili al sistema dell’adversarial legalism che tratteggia la cultura americana. L’unicità del sistema nordamericano è messa in risalto dalla presenza di leggi cogenti e forse più dettagliate rispetto ad altri ordinamenti, nonché dalla esistenza di un modello processuale caratterizzato dal fenomeno dell’adversarial legalism, un modo di essere dell’”american exceptionalism”331; un fenomeno per altro che agli occhi di molti europei potrebbe sembrare talvolta una degenerazione del contraddittorio, talvolta un modello da seguire in molti campi, dal processo civile a quello penale. Per adversarial legalism si intende la definizione dell’indirizzo e delle scelte politiche, la risoluzione delle controversie per mezzo di un processo dominato dagli avvocati, un sistema giudiziario, insomma, in cui l’apporto delle parti al processo è dominante, sia nella fase 331 In questo modo definisce l’adversarial legalism, R. Kagan, Adversarial Legalism. The American Way of Law ,Cambridge (Mass.) 2001, pp. 61 ss. , 99 ss. 131 di impulso, sia in quella di costruzione e argomentazione delle prove. In linea di principio, il fulcro del sistema processuale nordamericano risiede nella fase dibattimentale, dominata dall'iniziativa probatoria delle parti (adversary system) e concentrato in un'unica udienza davanti ad un giudice che ha la sola funzione di garantire la correttezza del contraddittorio e il rispetto delle norme di procedura, ma privo di poteri istruttori, il cui ruolo è principalmente quello di garantire che le parti rispettino le norme332. Da un punto di vista prettamente pratico, tuttavia, solo una minima parte delle cause portate davanti ad un tribunale si protrae sino al dibattimento: la maggior parte viene risolta nella fase predibattimentale, in via transattiva. È proprio in questa fase che gli avvocati si preparano e preparano i testimoni al dibattimento, entrando in possesso, attraverso una serie di attività istruttorie, delle informazioni e dei documenti probatori intorno ai quali si svolgerà il trial. Aspetto decisamente interessante di questa fase del processo è la possibilità per gli avvocati di intrattenere intensi rapporti con i testimoni in assenza del giudice333. Il caso R. v. Zündel riflette proprio l’impianto processuale accusatorio canadese, (sebbene il Canada pur adottando un modello processuale adversarial, non sia un paese connotato dall’adversarial legalism): uno degli elementi che contraddistingue il trial dei sistemi di common law, caratteristica per altro giustificata proprio dalla presenza della giuria, è quello di escludere l’ammissibilità delle prove scaturite dal “sentito dire”, rendendo così indispensabile, salvo alcune eccezioni, che il testimone dia prova sufficiente a far concludere che egli abbia personale conoscenza dei fatti, vietando invece di deporre sulla c.d. “hearsay rule”, è questa una delle norme di correttezza legale del sistema, ai sensi della quale non è ammessa in giudizio la prova di fatti di cui il testimone non abbia conoscenza diretta. Ed invero, la prova documentale, nei sistemi di common law non ha la forza riconosciuta negli ordinamenti europei, così che, per la predilezione all’oralità del processo, per la presenza “incombente” della hearsay rule, e per evitare che la giuria incorra in una serie di errori tecnici di valutazione, il giudice può anche non ammettere la prova documentale. Proprio nell’affaire Zündel si è fatto “ricorso” all’ hearsay rule: così sei sopravvissuti all'Olocausto hanno testimoniato al primo processo Zundel. Tali testimoni erano stati 332 L. Moccia, Comparazione giuridica e diritto europeo, cit. p. 537 e ss.; V. Varano – V. Barsotti, La tradizione giuridica occidentale, vol. I, Giappichelli 2006, p. 320 ss. 333 R. A. Kahn, Holocaust denial and the law. A comparative Study,cit., 23 ss. 132 scelti con cura, al fine di dimostrare di aver visto, con i propri occhi, preparativi e procedure di gassazioni omicide. Orbene, per la prima volta, a Toronto, nel 1985 l’avvocato Douglas Christie, ha controinterrogato i sopravvissuti chiedendo loro spiegazioni dettagliate, munendosi di carte topografiche e mappe degli edifici. Durante l’interrogatorio l’avvocato ha sollevato ripetutamente “hearsay objections”334: nessuno di questi testimoni ha resistito alla prova, e qualcuno di loro ha addirittura ammesso che per quel che riguardava le gassazioni si era attenuto solo a dei "si dice", voci che insomma gli internati, testimoni oculari nel processo contro Zündel avevano ascoltato, ma non avevano verificato direttamente di persona. I presunti testimoni oculari dei campi di sterminio sono stati costretti a correggere le loro testimonianze, poiché contraddittorie o palesemente false nel processo del 1985 e addirittura a non ripresentarsi nel nuovo processo del 1988. Sono state le caratteristiche del modello processuale adversarial in particolare americano, ad aver facilitato l’”ingresso” delle vittime della storia nelle aule dei tribunali, questa volta con la pretesa di riavere indietro quanto, in termini di denaro, forza lavoro e vessazioni ha costituito in passato un “ingiustificato arricchimento” a favore di terzi. 334 R. A. Kahn, Holocaust denial and the law. A comparative Study,cit. p.. 47 e 48 si fa riferimento ad una eccezione che l’avvocato Christie oppose al giudice durante l’interrogatorio ad uno dei sopravvissuti: «Q: Did the status of the Jewish families in that village change at some time in 1944? A: Yes. Around Jewish Passover there was information given to us by the police… MR. CHRISTIE: Your Honour, this obviously, I believe, is trying to inquire into the truth, and if we get into the realm of information given by the police or given by somebody else, we end up in the position of having to face hearsay, which we can’t test the validity of». 133 Capitolo V “HOLOCAUST LITIGATION”: IL CONTENZIOSO CIVILE IN MATERIA DI OLOCAUSTO 1. Dai “tribunali della storia” alla storia nei tribunali: la recente inversione di tendenza. Common law e civil law a confronto. Nel crescente percorso di “giuridificazione” della storia di cui ci stiamo occupando, l’ultimo stadio, ad oggi, è rappresentato da quella che si può considerare un’ inversione di tendenza rispetto al passato, rispetto alla stessa prima fase, un cambio di rotta di un cammino comune verso la rilettura della storia in termini di “diritto della storia”. Se nella prima fase della “giuridificazione” della storia era “prassi” provvedere alla “regolamentazione dei conti” dinanzi ai c.d “Tribunali della Storia”, tra tutti il Tribunale internazionale militare di Norimberga, la situazione oggigiorno si è evidentemente capovolta: la storia ha abbandonato le aule dei tribunali internazionali/penali a favore del ricorso al diritto civile, con la pretesa che i giudici contribuiscano ad una riscrittura del passato, dopo aver sottoposto la storia stessa ad accertamento giudiziale. Nel presente capitolo si illustrerà una tendenza, che va ormai affermandosi nel panorama giurisprudenziale internazionale, relativa all’uso della responsabilità civile per la riparazione di illeciti di massa di rilevanza storica. Sono stati proprio gli effetti positivi del legal system americano descritto nel precedente capitolo, effetti per altro favorevoli ai ricorrenti dei processi che “mettono alla gogna” gli errori della storia, ad aver creato un ricorso forse eccessivo alle aule dei tribunali americani. I danni derivanti dalla storia, la lesione alla dignità e all’identità personale degli individui non sono la conseguenza del solo sentimento negazionista evocato da più parti; ad essere resa giustiziabile “monetariamente” negli ultimi tempi è la storia in sé, le ferite dello spirito, la sofferenza derivante dalla tragicità del passato, dalle atrocità della storia umana, il sistematico annientamento di interi gruppi umani, di classi sociali, di popoli; tali rivendicazioni fino a qualche tempo fa non erano certo presenti nello scenario giuridico civilistico, perché ritenute “insanabili” e irreparabili dal punto di vista monetario. La tendenza che ha preso corpo, volta a ricorrere a riparazioni economiche un tempo impensabili è in larga parte riconducibile alle peculiarità del sistema processuale 134 americano. Numerosi sono, infatti, gli elementi di cui il resto dell’occidente non dispone: dall’esistenza in America delle class action, garanzia di uniformità di risultato per vittime e imputatati, (azioni queste che trovano solo modelli nettamente differenti in altri Stati, tra cui quello italiano), all’esistenza dei punitive damages335, dal ruolo riconosciuto alle giurie di assegnare con ampia discrezionalità vaste somme di denaro a titolo di risarcimento336, alla rapidità del processo e alla discovery337 sconosciuta in Europa, che ben può essere esperita anche in fase predibattimentale al fine di soddisfare il diritto di ogni parte ad ottenere che l'altra presenti in giudizio tutti i documenti afferenti al rapporto litigioso; dal ruolo svolto dalla diplomazia e dalla politica americana che ha esercitato forti pressioni al fine di decidere o in un senso o nell’altro, quindi non sempre a favore dei “più forti”, ma anche a favore delle vittime, alla volontà non sempre presente negli Stati europei di fare i conti con questioni verificatesi anni addietro, e ai maggiori rischi che tendenzialmente gli avvocati americani assumono, coperti dallo scudo della “contingency fee” , in virtù della quale in caso di insuccesso il cliente non è tenuto a versare nulla al legale. E se il giudice americano è diventato il giudice per eccellenza degli avvenimenti del passato, se le Corti Americane hanno ampliato i confini morali della responsabilità e se alcuni clienti derubati nei parcheggi dei centri commerciali talvolta hanno ottenuto un indennizzo sostenendo che l’amministrazione avrebbe dovuto farvi stazionare agenti privati di sicurezza338, non può stupire che anche la storia abbia “prediletto” le Corti americane. E tutto questo 335 G. Ponzarelli, I punitive damages nell’esperienza nordamericana, in Rivista di diritto civile, 1983, I, pp. 435 – 487; I punitive damages nell’ordinamento italiano, in Seminari di diritto privato comparato, a cura di P. Pardolesi, Bari, 2011, 59; A. Grassi, Danni punitivi, in Il foro Riminese, n. 4/99, pp. 15 – 16. Tutti gli autori sono concordi nel ritenere che la condanna ad una ingente somma di denaro rappresenti un deterrente da utilizzare non solo nei confronti del condannato, ma anche nei confronti dell‘intera comunità, al fine di inibire la comunità dal commettere comportamenti simili. 336 Per una approfondita disamina della nascita della giuria in Inghilterra e della diffusione della “pratica” dalla madrepatria agli Stati Uniti d’America, cfr. L. Moccia, Comparzione giuridica e diritto europeo, Giuffrè 2005, p. 269-282. Nel testo si fa riferimeno, inoltre, alle critiche mosse al trial by jury inglese, tra le quali rientra proprio il carattere immotivato dei verdetti. Si tratta di obiezioni che ben possono estendersi agli Stati Uniti d’America, e dalle quali oggigiorno l’Inghilterra si sottrae per il marginale intervento della giuria nel processo inglese. 337 J. Hazard-Leubsdorf, Civil procedure, V ed., New York, 2001, 290 ss. Questi gli strumenti della discovery.: -«le depositions, con le quali si ha la raccolta, in genere orale, delle dichiarazioni rese dalla controparte e dal terzo; -gli interrogatories attraverso i quali si pongono domande scritte alla controparte; -le richieste di produzione di documenti e di accesso a luoghi di proprietà della controparte al fine di svolgere ispezioni, fare copie di documenti o fotografie o compiere esperimenti; -l’ispezione fisica o mentale della controparte e di terzi; -la richiesta di ammissioni, con la quale si chiede alla controparte di ammettere la verità di determinati fatti». 338 R. A. Kagan, La giustizia americana. Come il contraddittorio fa il diritto, Il Mulino 2009, p. 242. 135 sempre attraverso un uso massivo della responsabilità civile al fine di “chiudere i conti con la storia”339. In maniera forse inaspettata, anche l’Italia sta facendo i conti con la sua storia e con le ferite riportate, e anche con esiti altrettanto inattesi, soprattutto a tratti originali: la Corte di cassazione italiana ha infatti statuito la necessità di sottoporre alla giurisdizione dello Stato, i Paesi stranieri autori di crimini internazionali. Due sono le problematiche che verranno affrontate nel corso del capitolo in tema di risarcimenti a carico in particolare, della Repubblica federale tedesca: in primis, alla elusione sic et simpliciter dell’ostacolo della immunità sarà eccepito dagli Stati il contenuto dell’art. 77 comma 4° del Trattato di pace del 10 febbraio 1947 in cui l’Italia ha rinunciato, a nome proprio e dei suoi cittadini, a qualsiasi domanda di risarcimento per fatti accaduti in tempo di guerra: “Senza pregiudizio di tali disposizioni e di quelle altre disposizioni che fossero adottate in favore dell'Italia e dei cittadini italiani dalle Potenze che occupano la Germania, l'Italia rinuncia, a suo nome e a nome dei cittadini italiani, a qualsiasi domanda contro la Germania e i cittadini germanici pendente alla data dell'8 maggio 1945, salvo quelle risultanti da contratti o da altre obbligazioni che fossero in forza, ed ai diritti che fossero stati acquisiti, prima del 1º settembre 1939. Questa rinuncia sarà considerata applicarsi ai debiti, a tutte le ragioni di carattere interstatale relative ad accordi conclusi nel corso della guerra e a tutte le domande di risarcimento di perdite o di danni occorsi durante la guerra.”. Nonostante gli accordi pregressi, le Corti non rinunceranno ad accordare risarcimenti alle vittime delle stragi del passato, con motivazioni alle volte eccepibili. Dall’altro lato, nei tribunali, tanto italiani quanto stranieri, si “discorrerà” anche di prescrizione, altro ostacolo ai risarcimenti per le ferite della storia, che gli Organi giudicanti tratteranno in maniera differente. 2. Si può riparare la storia? L’idea che i pregiudizi derivanti da eventi storici possano trovare riparazione in sede civile è una concezione affermatasi in occasione di una controversia relativa alle class action promosse negli anni 90 negli Stati Uniti, da associazioni di ebrei americani contro banche svizzere prima, altre imprese, o Stati europei poi. Una sorte simile è 339 Dal titolo della versione italiana del libro di A. Garapon, Chiudere i conti con la storia, Colonizzazione, schiavitù e Shoah, Raffaello Cortina Editore, 2009. 136 quella che ha visto protagoniste le banche israeliane, alcune delle quali, anziché impegnarsi nella restituzione dei fondi ai legittimi titolari, hanno continuato a conservare in deposito le giacenze di oltre 3.500 ebrei d'origine europea, vittime dell'Olocausto. Come rileva Garapon340, una volta consolidatasi l’idea di utilizzare ogni risorsa del diritto civile al fine di ottenere riparazioni per i c.d. pregiudizi della storia, ancora più immediato sarebbe il ricorso in sede civile per i danni morali conseguenti ad una offesa all’onore e al decoro di una vittima dell’Olocausto, ovvero di un discendente della stessa. Di non poco conto è la novità di tale ondata: una “giurisdizionalizzazione” della storia ha preso corpo, e così, mettendo da parte il diritto internazionale penale, il diritto civile è stato investito di un ruolo rilevante anche in vicende, quali appunto i crimini della storia, fino a poco tempo fa estranei a tale branca. Generalmente meno esposti all'attenzione dei media, più tecnici e meno spettacolari del processo penale, i procedimenti civili hanno cominciato a svolgere un ruolo importante nella giustizia mondiale, riflettendo la tendenza generale di espansione del diritto civile a fattispecie che in passato risultavano ad esclusivo “monopolio” del diritto penale. Quando indietro non si può tornare, quando non è possibile punire personalmente i responsabili attraverso una specifica sanzione afflittiva perché gli stessi sono da tempo deceduti, risarcire i discendenti delle vittime sembra essere l’unica possibile risposta volta a chiudere i conti con la storia e a riallacciare il legame con le generazioni precedenti nei cui confronti i “debiti” non sono stati ancora sanati. Il ricorso alle aule giudiziarie, se garantisce alle vittime la proclamazione sociale delle loro sofferenze, il riconoscimento del dolore subito, il conferimento di uno “status sociale”, incorre nel rischio evidente di una banalizzazione del male di cui sono state vittime. In tempi recenti quindi, una giustizia penale internazionale è stata sostituita, o meglio affiancata, (non potendo tante volte privare della libertà fisica il responsabile), dall‘impiego del diritto privato nelle richieste di Réparation341 dei danni prodotti dalla storia. É questa 340 A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, shoah, Odile Jacob, 2008, p.27. A conclusione della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti e le organizzazioni di ebrei americani chiesero che il denaro delle vittime dell’Olocausto, depositato presso conti correnti svizzeri fosse restituito agli aventi diritto. Nell’autunno del 1996 fu proposta una class action contro le banche svizzere e nel 1999, la Commissione Volcker stabilì che, su un totale di 6858 milioni di conti accesi tra il 1933 e il 1945 restava traccia di 2.5 milioni soltanto, e in seguito ad intense negoziazioni si giunse all’accordo globale tra associazioni americane e banche svizzere per la cifra di 1,25 miliardi di dollari. Ottenuto il responso, le organizzazioni ebree americane convennero di versare più di un terzo di tale somma ai superstiti dela persecuzione nazista, o ai loro eredi, respinti a quel tempo verso la frontiera svizzera, nonché alle vittime del lavoro forzato durante il Terzo Reich. 341 Ibidem, p.76. Un’attenta analisi dell’autore Garapon mostra come il termine francese réparer, verbo caratterizzante il titolo dell’opera e presente in maniera ricorrente nel testo, venga utilizzato in un’ottica 137 un’epoca che riserva al diritto penale un ruolo secondario, nonostante allo stesso sia da sempre attribuito un maggiore “peso specifico” rispetto al diritto civile, per via della sua attinenza all’ordine pubblico, ovvero per la sua incidenza sulla libertà delle persone e sui valori morali. La novità dei recenti tentativi di “riparare la storia” s’incentra, quindi e, stranamente, potemmo dire, sul diritto civile, una branca giuridica che presta attenzione all’atto, ai beni, al denaro senza guardare troppo spesso all’autore e alla sua intenzione, che non incorre nel rischio di una dispersione di prove, essendo sufficiente nel processo civile l’aver subito un danno; così nessuna complicazione affiora se la distanza tra gli accadimenti storici e la richiesta delle pretese è notevole. E se la giustizia penale si scontra con la difficoltà di trovare pene proporzionate alla gravità dei crimini commessi, la giustizia civile si serve del denaro come di un equivalente universale, suscettibile di rendere fungibili i beni più eterogenei. Si guarda al processo civile come allo strumento più utile a tal fine e, nonostante la consapevolezza che buona parte delle azioni potrebbe fallire per l’impossibilità di calcolare l’ammontare dell’indennizzo, lo strumento della responsabilità civile continua ad essere invocato al fine di reintegrare le parti fin dove possibile, convertendo il danno in una somma di denaro. Il ricorso alla responsabilità civile in più, presuppone il riconoscimento in capo agli individui della qualità di soggetti di diritto, prerogativa che permette agli stessi di essere titolari di un patrimonio, parte di rapporti giuridici e destinatari delle norme dell’ordinamento a cui gli individui appartengono: le vittime vengono in questo modo considerate esseri umani; le violenze, le spoliazioni invece, sono state condotte nei confronti di individui ritenuti oggetto, ecco perché i beni di loro proprietà sono stati facilmente suscettibili di alienazione. Nel suo scritto "Dei delitti e delle pene", Cesare Beccaria affermava che "non vi è libertà ogni qualvolta le leggi permettono che in alcuni eventi l'uomo cessi di essere persona e diventi cosa"342. È l’espressione “Holocaust Litigation” ad aver prestato il nome al profluvio di azioni civili che fanno capo a vittime della Shoah; azioni che hanno avuto particolare enfasi verso la fine degli anni 90 principalmente proposte attraverso class action, negli Stati Uniti e non solo, da parte di attori di diversa nazionalità, contro convenuti anch’essi di di comparazione con il più circoscritto restituer, il primo dal significato ben più ampio, in quanto oggetto della stessa riparazione è un bene immateriale al quale porre rimedio, valutando i danni causati in termini economici di un passato sofferto a causa della vera e propria distruzione di una cultura. Riparare è inteso nel senso di indennizzare non le conseguenze di un evento concluso, ma l’attualità della sofferenza. 342 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Einaudi, 2003, cap.X. 138 diversa nazionalità343. Il fondamento comune delle class action risiede nella contestazione di un illecito commesso ai danni di persone vittime dell’Olocausto, azioni che nel contempo implicano violazioni di diritti umani. Variegate sono le forme assunte dagli illeciti, nonché eterogenea è la casistica: alle ipotesi di responsabilità extracontrattuale si affiancano casi di ripetizione d’indebito, invocazione del diritto dei consumatori344 e perdita di chance. In quest’ultimo caso bisognerebbe immaginare come si sarebbero comportate le vittime in un futuro prossimo e che tipo di esistenza avrebbero condotto. Figurano inoltre ipotesi di arricchimento senza causa: è il caso degli istituti bancari svizzeri accusati di illecita distrazione dei fondi depositati da parte di persone perite nell’Olocausto, per aver collaborato e aiutato il regime nazista a sostegno e occultamento dei beni delle vittime dell’Olocausto, e per essersi impadroniti dei profitti del lavoro forzato. Se l’espressione “Holocaust Litigation”fa riferimento ai soli contenziosi in materia di Shoah, le iniziative giudiziarie basate su un’ istanza di riconoscimento non sono state poche: sulla scia delle vittime dell’Olocausto hanno intrapreso la via civile anche le vittime della schiavitù, gli Aborigeni d’Australia vittime dell’occupazione delle terre, le donne coreane vittime di prostituzione, i giovani autoctoni di origine indiana in Canada vittime di rieducazione forzata, etc. Il ricorso ai tribunali civili non ha “risparmiato” neppure gli eredi del genocidio turco, gli schiavi americani, i prigionieri di guerra (contro società multinazionali in particolare compagnie petrolifere accusate a vario titolo di aver collaborato o di complicità con regimi militari in Nigeria, Indonesia durante il regime coloniale), i lavoratori Messicani i quali, impiegati durante la seconda guerra mondiale non hanno mai ricevuto un pagamento completo, le “comfort women” giapponesi durante la seconda Guerra Mondiale, gli schiavi utilizzati dai giapponesi in tutta l’Asia, le vittime dell’Apartheid africana, i discendenti degli schiavi americani: in tutti questi casi le pretese dei “ricorrenti” hanno seguito il modello della Holocaust Litigation, il nucleo delle atrocità del passato, chiedendo una conciliazione laddove 343 H. Muir Watt, Privatisation du contentieux des droits de l’homme et vocation universelle du juge américain: réflexions à partir des actions en justice des victims de l’Holocauste devant les tribunaux des États-Unis, in Revue internationale de droit comparé, 4, 2003, p. 885. 344 A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, shoah, cit. p. 110-112. Si tratta del caso Nike, una class action intentata negli Stati Uniti per la riparazione dei danni da schiavitù. Il processo accusò la Nike di violare il codice della California sulla concorrenza sleale. Le accuse rivolte contro la Nike riguardavano il fatto che il pubblico dei consumatori fosse stato fuorviato riguardo alle condizioni dei lavoratori, il danno sarebbe così derivato da «l’achat de quelque chose qu’ils n’auraient pas acheté s’ils avaient su la vérité à propos du produit». 139 possibile345. La riconsiderazione nell’attualità di questi avvenimenti, già memorabili di per sé, ci induce a riflettere tanto sul cambiamento del sistema giudiziario, quanto sulla “politicizzazione” delle reintegrazioni monetarie. E se negli anni 90 “qualcuno” ha cambiato la storia delle riparazioni post-belliche, cominciando così ad intentare decine di cause civili a favore delle vittime del nazismo, il risultato, oltre all’esborso complessivo da parte di Paesi come Austria, Germania, Francia, Belgio di circa 8 bilioni alle vittime in questione e ai rispettivi eredi346, è stato rappresentato dalla speranza di far sì che anche le vittime di altre atroci persecuzioni, potessero cominciare a riporre le proprie speranze in un sistema giudiziario privato. I giudici di diritto privato sono stati così chiamati a “s’impliquer dans l’histoire”347. Solo brama di denaro? E anche se così fosse, fino a che punto sarebbe lecito “scandalizzarsi”? Se le vittime di comportamenti dolosi o gravemente colposi dispongono di azioni civili per porre rimedio ad un danno patrimoniale e non patrimoniale scaturente da fatto illecito, perché i sopravvissuti alla storia o i discendenti degli orrori del passato non dovrebbero far ricorso alle stesse azioni invocate dalle vittime di altre catastrofi? La base comune dei giudizi, per altro intentati sotto forma di class action, risiede nel fatto che in tanti casi la risoluzione degli stessi è avvenuta attraverso una transazione, per il tramite, cioè, di provvedimenti di natura legislativa adottati in chiave politica e diplomatica, molto spesso accompagnati o preceduti dall’istituzione di una fondazione da parte degli Stati chiamati in causa e/o dalle industrie coinvolte per la ripartizione dei fondi a titolo di risarcimento monetario, (da pagare al termine del contenzioso): si sta parlando tanto di organizzazioni caritatevoli, quanto di euro simbolici e di strumenti volti a dissociare il denaro dal suo proprietario. Sono state così raggiunte, nella maggior parte delle ipotesi, accordi tali da eludere la fase dibattimentale del processo intentato, probabilmente perché, diversamente sarebbe stato sollevato il non trascurabile problema relativo all’assenza, nel tempo in cui la condotta veniva portata a compimento, di un 345 A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, shoah, cit., p. 25 ss. I casi recenti di “Holocaust-Era” sono stati trattati da Michael J. Bayzler, in The Holocaust Restitution Movement in Comparative Perspective, (Paper presented at the Association of Genocide Scholars Fourth Biennial Conference – June, 2001 Minneapolis ) disponibile al sito web http://www.global-alliance.net. 347 H. Muir Watt, Privatisation du contentieux des droits de l’homme et vocation universelle du juge américain, cit., p. 883. 346 140 divieto esplicito a commettere il reato, ovvero di norme incriminatrici in tal senso348. Non sono mancati nella risoluzione dell’innovativa ondata di controversie “storiche”, problemi processuali relativi ad accordi sulle riparazioni “contenutisticamente distanti” dalla legittimazione a chiedere risarcimenti economici; problematiche altrettanto discusse hanno riguardato l’originalità del ricorso al circuito giudiziario in questo tipo di controversie, a seguito dei numerosi trattati siglati, a norma dei quali la maggior parte degli Stati si impegnava a non reclamare danni e interessi relativi in particolare alle due guerre mondiali. Se i fatti oggetto di litigation riguardano eventi collocati temporalmente ad una certa distanza dai giorni nostri, è assai difficile individuare un legame tra i responsabili di tali pratiche e le vittime, tanto che la principale obiezione in giudizi simili è consistita proprio nella dichiarazione di estraneità di coloro che sono convenuti in giudizio per fatti essenzialmente “vecchi”. Trattandosi poi di azioni che trovano tante volte, come già anticipato, il loro fondamento nella responsabilità extracontrattuale ovvero di inadempimento contrattuale, il problema della prescrizione non risulta affatto trascurabile. È nel caso delle banche svizzere349 che sono stati tratteggiati gli elementi che saranno poi richiamati nelle cause successive, giudizi che coinvolgeranno per esempio banche tedesche, austriache e francesi, e in “litigation” susseguenti, in cui verranno rivendicate diverse violazioni perpetrate sempre in epoca di Olocausto: dal lavoro forzato ad episodi di complicità con il regime. Non pochi problemi emergono però quando si chiede al Tribunale di valutare i danni concernenti un bene immateriale, le sofferenze patite, l’inestimabile prezzo della vita. Fino a quando ci si rivolge alle banche svizzere per la restituzione del denaro ingiustificatamente detenuto, o si riconosce agli aborigeni australiani il diritto di proprietà sulle terre, o ancora si identifica come ingiusta l’espropriazione ai danni dei 348 A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, shoah, cit. p. 185. L’espressione “femmes de réconfort”, indica giovani donne provenienti da Filippine, Thailandia, Vietnam, Corea del Nord e altri paesi sottoposti all’occupazione giapponese, ridotte in schiavitù sessuale dai soldati giapponesi durante e dopo la II guerra mondiale. Gli abusi avevano luogo nelle c.d. “stazioni di conforto” istituite dalle autorità giapponesi nei territori di volta in volta occupati. La maggior parte delle sopravvissute è rimasta in silenzio fin quando un piccolo gruppo di vittime coreane non ha parlato apertamente, all’inizio degli anni ‘90. Le scuse offerte dal Giappone sono apparse inadeguate, vaghe e inaccettabili e il Fondo istituito per le donne asiatiche non soddisfa i criteri internazionali sul risarcimento, così che e' stato percepito dalle sopravvissute come un modo per “comprare il loro silenzio”. 349 Ibidem, p. 26 ss.A conclusion della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti e le organizzazioni di ebrei americani chiesero che il denaro delle vittime dell’Olocausto depositato presso conti correnti svizzeri fosse restituito alle famiglie delle vittime 141 Sioux per costringerli a vendere le terre contenenti giacimenti d’oro prima delimitate a loro favore, la monetarizzazione sebbene sindacabile appare più semplice da quantificare. Ma quale ammontare dovrebbe corrispondere ad una vita stroncata, come nel caso degli ebrei deportati nei campi di concentramento ovvero della strage di Civitella? Così come non esistono neppure somme congrue che possano restituire alle Stolen Generations350, l’infanzia perduta. Ed invero, alla base di questo flusso di richieste economiche, c’è sempre dell’altro, diversamente non si spiegherebbe come mai, in alcuni casi giudiziari relativi proprio al risarcimento dei danni della storia, a riconoscimento ottenuto, il denaro non sia stato accettato ovvero sia stato donato. Alla base quindi, non una frenesia di riparare i danni subiti attraverso una monetizzazione tendenzialmente inutile a riportare le vittime nel loro rispettivo status quo ante, ma il desiderio di vedere riconosciute le proprie ragioni, il proprio statuto di vittima, un riconoscimento sicuramente simbolico e politico, oltre che materiale. In questo senso, appare indiscutibile la necessità che la valutazione e la corresponsione di una somma di denaro sia accompagnata da un discorso politico che attribuisca il senso giusto all’elargizione: un indennizzo senza scuse, senza chiarire il contesto politico in cui quelle ingiustizie sono avvenute non determina una giusta riparazione. Se, infatti, il versamento di denaro fosse decontestualizzato rispetto ad una “narrazione di giustizia”, quest’ultima diverrebbe suscettibile di interpretazioni assai diverse tra loro, non lontane da ingenerare risentimento. Quella appena prospettata ben potrebbe apparire a molti una “visione poetica” della riparazione dei crimini del passato, visione in cui per altro non rientrano gli ultimi casi italiani, di cui si tratterà nei prossimi paragrafi: pare infatti che l’Italia abbia accettato un risarcimento economico accordato dai Supremi Giudici in assenza di qualsivoglia ammissione di responsabilità da parte 350 A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, shoah, cit. p. 121-124. Con la dicitura stolen generations i canadesi definiscono i bambini sottratti con la forza alle famiglie indiane d’origine per essere allontanati dalla loro cultura tradizionale e formati secondo altri costumi. La disciplina impartita era molto dura, non priva di punizioni corporali. Il 10 maggio del 2006, il governo federale ha riconosciuto in capo alle vittime autoctone 1,9 miliardi di dollari, vale a dire 24.000 dollari per ogni studente, somma aumentata in caso di abusi sessuali e sevizie gravi. In realtà la disciplina impartita negli istituti di accoglienza, per lo più gestiti dalle Chiese cristiane, era molto dura e frequenti erano le punizioni corporali. Nel gennaio del 1998, il governo canadese ha espresso a tutti i popoli autoctoni del Canada rammarico per gli effetti devastanti di quelle “pratiche”. A seguito di tale dichiarazione solenne, il governo ha altresì istituito la Fondation pour la guérison des autochtones destinandole una somma ingente di denaro per finanziare progetti di riabilitazione e ancora nel 2006 ha riconosciuto in capo alle vittime 1,9 miliardi di dollari da ripartire tra i vari studenti coinvolti. 142 dello Stato tedesco351. La Germania non si ritiene responsabile delle violazioni dei diritti umani compiute dal Terzo Reich durante la Seconda guerra mondiale e considera le richieste di pagamento di danni avanzate dagli italiani, una violazione della sovranità nazionale. Ed invero, si tratta nel complesso di una serie di somme versate per riparare le ferite della storia, dal non univoco fondamento352: scuse pubbliche o imposizione, dono o atto dovuto, queste ed altre le ragioni ambigue alla base delle elargizioni. Alle differenti motivazioni è corrisposto, però, un avvio spedito di ricorso alla giurisdizione civile, che difficilmente tenderà ad arrestarsi: il contenzioso puramente privatistico si presenta come una via alternativa alla soluzione diplomatica ed internazionale. 3. Le liquidazioni dei debiti della storia, tra riparazioni materiali e pentimento Se l’azione intentata negli Stati Uniti da parte di associazioni di ebrei americani contro alcune banche svizzere si pone come inaugurale di un’ondata di risarcimenti della storia, numerose altre reazioni si sono innescate a catena fino ad accordare transazioni finanziarie alle vittime del lavoro forzato in Austria, Germania, Francia, Polonia, Svizzera: sono questi i casi di ingiustificato arricchimento da parte degli Stati e delle industrie ai danni della manodopera impiegata coattivamente. Se sono essenzialmente tre le forme assunte dalla riparazione, vale a dire simbolica, politica e morale, il risarcimento materiale per l'Olocausto è la più importante prova morale a cui l’Europa abbia preso parte. Non sempre, infatti, ad un riconoscimento economico è seguita una ammissione di responsabilità da parte dello Stato. Nel 1944 la Germania ha sfruttato il lavoro di 10 milioni di operai e prigionieri di guerra per impiegarli nei settori industriali ed agricoli. 351 Il riferimento è al caso Milde, Cass. pen., 13 gennaio 2009, n. 1072, in Riv. dir. internaz. 2009, 02, p. 363, commento di C. Focarelli, Diniego dell'immunità alla Germania per crimini internazionali: la Suprema Corte si fonda su valutazioni "qualitative". 352 In Francia, sono stati adottati tre schemi di compensazione per le vittime (o i loro successori) della persecuzione antisemita e atti di barbarie durante la seconda guerra mondiale: – Le décret n° 99-778 du 10 septembre 1999 institue une commission pour l’indemnisation des victimes de spoliations (CIVS) intervenues du fait des législations antisémites en vigueur durant l’occupation, qui propose au Premier ministre des mesures de réparation, de restitution ou d’indemnisation. – Le décret n° 2000-657 du 13 juillet 2000 institue une mesure de réparation pour les orphelins dont les parents ont été victimes de persécutions antisémites. – Le décret n° 2004-751 du 27 juillet 2004 prévoit une aide financière en reconnaissance des souffrances endurées par les orphelins dont les parents ont été victimes d’actes de barbarie durant la seconde guerre mondiale. 143 Il governo tedesco, ha addirittura, cercato di risarcire gli ebrei attraverso tre diversi accordi risalenti già al 1952: fu il Bundesentschädigungsgesetz, la legge d'indennizzo federale ad accordare i primi risarcimenti353. Il 13 settembre 1999, nonostante i ricorrenti abbiano accusato il colpo di una sconfitta in tribunale, poiché due giudici federali del New Jersey hanno respinto la causa contro Ford Motor Company e la sua filiale tedesca Ford Werke presentata da una cittadino belga, la Germania ha cominciato a sanare i suoi debiti354. Dal 1999 in ogni caso, diverse class action sono state depositate negli Stati Uniti nei confronti delle imprese tedesche a seguito dell’uso improprio di una grande quantità di manodopera e del lavoro forzato durante la seconda guerra mondiale, e la conseguente “arianizzazione” della proprietà. All’interno della casistica degli indennizzi elargiti a causa degli errori del passato, infatti, non sono mancate ipotesi in cui, prima di arrivare alla conciliazione, i giudici di primo grado hanno sospeso le pretese degli attori accogliendo le eccezioni di non giustiziabilità e di prescrizione. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) è ora incaricata di gestire le richieste di indennizzo ed i pagamenti in favore di persone sottoposte a lavori forzati o deportate dal loro Paese di origine durante il regime nazista. Entrata in vigore il 12 agosto 2000, la legge che crea la Fondazione, ha istituito un Fondo federale di 10 miliardi di marchi per l’indennizzo di vittime di lavori forzati o ridotte in condizioni di schiavitù durante il regime nazista al quale l’industria ed il Governo tedesco contribuiranno con 5 miliardi di marchi ciascuno. L’istituzione di una serie di fondi finalizzati a riparare l’aspetto economico del passato sebbene si distingua dalle vere e proprie Holocaust Litigation, si può ugualmente far rientrare nell’ ondata di elargizioni relative all’immediato dopo guerra; in particolare, durante gli accordi del 27 settembre 1951, così si espresse l’allora Cancellire Adenauer355 ricordando le questioni morali all’origine della volontà della Germania di accordare del denaro alle vittime: “unspeakable crimes were perpetrated in the name of 353 N. G. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degi ebrei, Rizzoli, 2002, p. 56. 354 Iwanowa v. Ford Motor Co., 67 F. Supp.2d 424, D.N.J. 1999. Elsa Iwanowa citò la Ford in tribunale, perché all'età di 16 anni fu rapita da soldati tedeschi e costretta assieme a centinaia di altre ragazze a lavorare per la fabbrica Ford a Colonia. Con il trattato di Londra nel 1953 sui debiti pregressi della Germania, la Repubblica federale tedesca infatti prometteva, dopo la riunificazione, di regolare i danni per i crimini commessi dal Reich nei paesi occupati durante la guerra. 355 Konrad Adenauer, Erinnerungen, 1953-1955, DVA, 1966, pp.132-159. Il cancelliere aveva anche stabilito ottimi rapporti con Israele firmando, il 10 settembre 1952, un accordo di risarcimento per le vittime dello sterminio nazista degli ebrei, con cui accettava di pagare un miliardo e mezzo di dollari, pari ad oltre la metà degli aiuti ricevuti dal piano Marshall. 144 the German people, which impose upon them the obligation to make moral and material amends”.356 Una responsabilità quella della Germania che appare assolutamente sfuocata dietro la frase “in nome del popolo tedesco”357, una chiara assenza di volontà a riparare i danni delle vittime ebree, piuttosto l’impegno a “pagare” un’ammenda, a versare una somma neppure simbolica volta a risarcire la “parte economica” del crimine perpetrato358. Lo stesso Fondo monetario istituito attraverso il protocollo II di Lussemburgo, mirava a soccorrere e reinserire le vittime ebree e non già a “Réparer”, nell’accezione delineata poi da Garapon. Al fine di meglio definire la separazione tra la volontà di soccorrere, alleviare i dolori delle vittime e il riconoscimento di un eventuale diritto alla riparazione, la Germania si guardò bene dal sovvenzionare direttamente questo Fondo, versando invece 45 milioni di marchi tedeschi a Israele, il quale si impegnava a sua volta a trasferire tale somma direttamente nel fondo. La stessa mancanza di ammissione di colpe ha caratterizzato la creazione di un fondo austriaco per le vittime del nazionalsocialismo, in cui da nessuna parte viene menzionata una seppur minima responsabilità a carico dell’Austria359: qui la nozione di colpa non è né assente, né riconosciuta, ma semplicemente non menzionata. È mancata qualsiasi ammissione di responsabilità nel 1997 da parte della Svizzera, in occasione dell’istituzione di un Fondo speciale per le vittime dell'Olocausto bisognose d'aiuto: “Si istituisce in tal modo un fondo speciale, basato sull'articolo 12 della legge sulle finanze della Confederazione, il quale fungerà da vaso collettore provvisorio per un fondo umanitario, visto che le grandi banche hanno già messo a disposizione 100 milioni di franchi e altri contributi sono già stati preannunciati da altre cerchie economiche. Il Fondo speciale deve garantire che già nei prossimi mesi si possano prendere misure urgenti di aiuto. In tal modo, il Consiglio federale assicura il suo ruolo direttivo nell'istituzione di una struttura definitiva per il fondo medesimo. Scopo del Fondo è di soccorrere le persone bisognose che, per motivi di razza, di religione o di 356 Traduzione di Grossmann Kurt, Germany’s Moral Debt: The german-Israel Agreement, WashingtonPublic Affairs Press, 1954, pp. 59-60. 357 E. Barkan, The Guilt of Nations – restitutition and Negotiating Historical Injustices, WW Norton & Company, New York, 2000, pp. 10-14. 358 N. G. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degi ebrei, cit., p. 60. Neppure la Polonia si è sottratta dal ricevere richieste di risarcimento: sono state, infatti, intentate diverse class action presso la corte del giudice Korman per risarcire i «sopravvissuti all'Olocausto che stanno invecchiando e morendo». 359 Il Fondo nazionale per le vittime del nazionalsocialismo della repubblica austriaca è stato istituito nel 1995 con la Legge Federale BGBl (“Gazzetta delle leggi federali”) n. 432/1995. 432/1995 in 1995. Il suo compito era di effettuare i pagamenti nella maniera più rapida e non burocratica possibile alle persone che erano state vittime del nazionalsocialismo in Austria tra il 1938 e il 1945. 145 opinioni politiche o per altri ragioni, sono state perseguitate o vittime dell'Olocausto/Shoa, nonché di soccorrere i loro discendenti bisognosi…”360 Sebbene le aule dei tribunali americani vengano predilette dalle vittime dell’Olocausto, il comportamento americano non ha lasciato spazio alle scuse da parte delle autorità: corrispondeva a sei milioni di dollari il valore dei conti inattivi all’epoca dell’Olocausto. La stima iniziale venne poi rifiutata a favore di 3 milioni di dollari, ma neppure questa nuova cifra fu riconosciuta dalle autorità americane, le quali adottarono provvedimenti solo per cinquecentomila dollari, limitando per altro le azioni volte alla identificazione dei parenti delle vittime dell’Olocausto361. Ed invero, accanto alle azioni contro gli istituti bancari, numerose azioni sono state poi intentate contro le compagnie assicurative, per non aver pagato le polizze spettanti proprio alle vittime dell’Olocausto: su proposta della commissione Matteoli, istituita il 25 marzo 1997, la federazione francese delle assicurazioni nel 1998 ha dato vita ad un Comitato con il compito di esaminare i rapporti tra le diverse compagnie assicurative del 1945 e le società poi ad esse succedute362. Sull’esempio delle concessioni da Olocausto, la restituzione dei premi di assicurazione sulla vita agli eredi, ha riguardato anche le vittime del genocidio armeno, le quali hanno promosso una class action per ottenere il premio di assicurazione dal New York Life Insurance Company363. Sulla base dell’accordo che è stato raggiunto nel 2004, la compagnia assicurativa si è impegnata a versare la somma di 20 milioni di dollari, anche se questo non implicava alcuna ammissione di responsabilità, ha tenuto a precisare la stessa compagnia assicurativa364. Dinanzi alla stessa Corte è stata intentata un’ulteriore class action contro l’Axa, compagnia di assicurazione subentrata ad una società francese: l’Axa si è opposta alle richieste, opponendo il ritardo con cui le istanze erano state presentate rispetto alla cadenza trentennale. Al termine di una transazione 360 Questo quanto si legge nel comunicato a firma del Dipartimento Federale degli Affari Esteri, consultabile al sito web http://www.admin.ch/cp/i/[email protected]. 361 Seymour J. Rubin e Abba P Schwartz, Refugees and Reparations, in Law and Contemporary Problems, 1951, 286-289. 362 A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, shoah, cit., p.36. 363 M. J. Bazyler , The holocaust restitution movement in comparative perspective, cit. «The insurance company did not dispute that it sold such policies to the Armenian population in Ottoman Trukey. In fact, it combed its archives and located records, including aged insurance cards, for 2,300 Armenian policy holders from that time period. It argued, however, that the suit should be dismissed because all of the policies contained forum selection clauses mandating that if a dispute ever arose about the policies, they would be resloved either before French or English courts». 364 G. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, shoah, cit., p. 37 e ss. In merito al caso della Fondazione per la memoria della Shoah, Gilles Wolkowitsch osserva che la soluzione sarebbe stata probabilmente diversa se la via intrapresa fosse stata quella giurisdizionale. Gli indennizzi ottenuti sono stati liquidati. 146 conclusasi nel 2005, l’Axa si è impegnata a pagare 11 milioni ad un fondo di indennizzo e 3 milioni organizzazioni caritatevoli365. Ma se quella del debito è solo una metafora, come si può parlare di Reconstructive Justice quando non viene colmato quel vuoto politico di cui le vittime sono pure in credito? Forse ben più rare delle riparazioni materiali sono le riparazioni simboliche, gesti che esprimono pentimento, ammissione di responsabilità. E’ compito degli atti di riconoscenza pareggiare ciò che le offese e le sofferenze hanno sacrificato. Non è certo per i soldi che tante volte si è intentata la causa, ma per una questione di “principio”, per avere finalmente dalla giustizia una identificazione, anche solo di valore morale per le immani sofferenze patite. Per questo difficilmente si potrebbe parlare di riparazione nei casi in cui ad una condanna monetaria non sia seguita una dichiarazione ufficiale di scuse, un riconoscimento politico insomma; se di riconoscimento si deve parlare, non si deve trascurare che esso attiene per sua natura, alla sfera politica, pertanto non può essere affidato tout court alla giustizia. È pur vero che è necessario un bilanciamento tra i vari interessi contrapposti: la politica, infatti, non può interamente farsi carico delle esigenze di riconoscimento in capo alle vittime, pena il rischio della strumentalizzazione dell’istanza di riconoscimento, come nel caso delle c.d. lois mémorielles a cui si è fatto riferimento nei precedenti capitoli. 4. Il problema dell’immunità degli stati e la questione della responsabilità per il massacro di Civitella Può uno Stato straniero essere convenuto in giudizio dinanzi ai Giudici di un altro Stato? Non è questo motivo di violazione della soggettività internazionale di cui godono gli Stati? Per gli Stati che hanno accolto la teoria dell’immunità giurisdizionale ristretta, l’immunità di uno Stato non è assoluta, ma può essere negata quando lo Stato agisca come “privato”, di talché sottoporre alla giurisdizione lo Stato estero quando abbia operato come privato e non quando abbia agito come soggetto di diritto internazionale, lascia venir meno la ragione che giustifica l’immunità. Così stando le cose, l’unico limite alla “elusione” dell’ immunità parrebbe essere la natura commerciale degli atti esercitati dallo Stato, di talché la commissione di crimini internazionali, nonché la 365 J. B. Racine, Le génocide des Arméniens. Origine et permanence du crime contre l’humanité, Dalloz, 2006, pp. 151 ss. 147 violazione di diritti umani risulterebbe assolutamente incompatibile con tale limite366. Se l’impossibilità di qualificare come atti privatistici le violazioni dei diritti umani commessi dagli stati nell’esercizio di poteri sovrani avrebbe “dovuto” portare le corti nazionali ad accordare sistematicamente l’immunità agli stati autori, la recente tendenza giurisprudenziale non si è mossa in questo senso. Diverse sono state le soluzioni suggerite per “mettere a tacere” la prevaricazione dei diritti degli individui sugli Stati e sul rispettivo potere sovrano: tra le ricostruzioni proposte, l’Italia ha accolto la Normative Hierarchy Theory367, che fa riferimento al fatto che diverse norme poste a tutela dei diritti umani, abbiano ormai acquisito il rango di norme di ius cogens, norme, cioè assolutamente inderogabili in ragione dell’importanza dei valori che esprimono368. Così, queste norme dovrebbero prevalere su ogni altra regola di diritto internazionale, compresa quella che prescrive la concessione dell’immunità369. Ad accogliere per prima tale teoria è stata la Corte di Cassazione italiana nel decisum Ferrini370 che rappresenta il primo esempio di risarcimento civile per i danni subiti dalla storia, ma anche il primo caso in cui la giurisprudenza italiana si sia pronunciata sulla dibattuta quaestio del conflitto fra la norma internazionale sull'immunità degli Stati dalla giurisdizione civile, e le norme internazionali poste a tutela di diritti fondamentali 366 A. Bianchi, L’immunité des États et les violations graves des droits de l’homme: la fonction de l’interprète dans la détermination du droit international, in Revue Générale de Droit International Public, 2004, pp. 72-73: «la distinction traditionnelle entre actes jure imperii et actes jure gestionis est désormais inapte à couvrir des actes – en particulier les violations graves des droits de l’homme – qui, par définition, ne peuvent être classés dans aucune de ces deux catégories». 367 A. Orakhelashvili, State Immunity and Hierarchy of Norms: Why the House of Lords Got It Wrong, in The European Journal of International Law, 2008, p. 964. L’autore afferma: «it is no longer possible, if it ever was, to consider that the view of primacy of jus cogens is an isolated trend of the small minority, while the majority of scholars support the “traditional” or “orthodox” understanding of State immunity» Essa è stata anche sottoposta a critiche a fronte del fatto che l’immunità dello stato «is a procedural rule [...]. It does not go to substantive law; it does not contradict a prohibition contained in a ius cogens norm but merely diverts any breach of it to a different method of settlement. [...] There is no substantive content in the proce-dural plea of State immunity upon which jus cogens mandate can bite». 368 P. Actis Perinetto e L. Pasquet, Immunità e prescrizione come estreme difese degli stati autori di gravi crimini internazionali: il caso dei deportati italiani. in ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale) n. 2/2010, consultabile al sito web http://www.ispionline.it/it/documents/Analysis_2_2010.pdf. 369 A. Cassese, Diritto internazionale, Il Mulino, 2006, p. 111, in cui si precisa che le norme di jus cogens, che proteggono valori fondamentali devono ritenersi prevalenti rispetto a norme poste a garanzia degli interessi tradizionali degli Stati, tra queste ultime rientrano proprio le norme in materia di immunità dalla giurisdizione. 370 Cass. civ, SSUU, 11 marzo 2004, n. 5044, in Giust. Civ. 2004, pp. 1191-1200. Il ricorrente in causa, il sig. Ferrini, venne deportato nel lager tedesco di Kahla di cui fu uno dei pochi sopravvissuti. Sia il Tribunale di Arezzo che la Corte d'Appello di Firenze dichiaravano il difetto di giurisdizione del giudice italiano. Fu la Cassazione nel 2004, negò il diritto della Bundesrepublik a valersi dell’immunità statale. Alla base della motivazione della Corte, la necessità di non lasciare impunita sul piano del diritto internazionale la tutela delle gravi violazioni dei diritti umani. 148 della persona. Al fine di ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti per essere stato sottoposto a torture e maltrattamenti e per essere stato costretto al lavoro forzato durante la deportazione nel lager tedesco di Kahla, il Ferrini, nel settembre 1998, conveniva in giudizio di fronte al Tribunale di Arezzo la Repubblica Federale di Germania. La Repubblica Federale di Germania aveva eccepito il difetto di giurisdizione dell'autorità giudiziaria italiana in base al principio di diritto internazionale consuetudinario dell'immunità degli Stati. Sebbene la sentenza della Suprema Corte S.U. 285/1953 afferma che, in virtù dell’art. 77 del Trattato371, sussista una “improcedibilità dell’azione che si concreta in un vero e proprio difetto di giurisdizione” rispetto a tutte le domande di risarcimento di perdite o di danni occorsi durante la guerra, indipendentemente dal fatto che la rinuncia sia già stata avanzata in giudizio o meno; sebbene esista la sottoscrizione a Bonn nel 2 giugno 1961 della Convenzione fra l’Italia e la Repubblica Federale Tedesca denominata “Accordo per il regolamento di alcune questioni di carattere patrimoniale economico e finanziario” (resa esecutiva in Italia con d.p.r. 1263/1962), con la quale la previsione dell’art. 77 del Trattato di pace del 1947 (al quale la Germania era rimasta estranea) veniva espressamente codificata in una convenzione cui partecipava anche la Repubblica Tedesca, le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione nel 2004372, hanno affermato il principio secondo cui l'applicazione della norma consuetudinaria di diritto internazionale che sancisce l'immunità dalla giurisdizione civile dello Stato straniero, trova un limite in presenza di comportamenti dello Stato di una tale gravità da configurare un crimine internazionale lesivo di diritti fondamentali ed inviolabili della persona umana. Le norme consuetudinarie di diritto internazionale che definiscono tali crimini, trascendendo gli interessi delle singole comunità statali, devono, infatti, a parere della Corte, considerarsi inderogabili (ed i relativi reati imprescrittibili). La Suprema Corte, si è preoccupata di rilevare che i “crimini” commessi della Germania si erano concretati «nella violazione, particolarmente grave per intensità o sistematicità […] dei diritti fondamentali della persona umana, la cui tutela è affidata a norme inderogabili che si collocano al vertice dell’ordinamento internazionale, prevalendo su ogni altra norma, sia di carattere convenzionale che consuetudinario […] e quindi anche 371 La sentenza del 1953 viene invocata dalla repubblica federale tedesca nella sentenza Ferrini e anche nel caso De Guglielmi (di cui si tratterà nei paragrafi successivi). 372 Cass., SSUU, 5044/2004, cit. 149 su quelle in tema di immunità. In tale occasione, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che crimini internazionali come quelli commessi dalla Germania e consistenti «nella violazione, particolarmente grave per intensità o sistematicità, dei diritti fondamentali della persona umana, la cui tutela è affidata a norme inderogabili che si collocano al vertice dell’ordinamento internazionale, minacciano l’umanità intera e minano le fondamenta stesse della coesistenza internazionale», di talché in ipotesi siffatte, è escluso che lo Stato possa giovarsi dell’immunità dalla giurisdizione straniera. È in questa circostanza che la giurisprudenza ha riconosciuto un limite: l’immunità dalla giurisdizione civile dello Stato territoriale non può, infatti, essere invocata in presenza di comportamenti dello Stato straniero talmente gravi da configurare, in forza di norme consuetudinarie di diritto internazionale, crimini internazionali lesivi di quei valori universali di rispetto della dignità umana che eccedono gli interessi delle singole comunità statali. Occorre in questa sede pure fare riferimento all’antecedente caso Lozano373: la stessa sez. I pen. di quello che poi definiremo l’”affaire” Milde, soltanto pochi mesi prima, nella sentenza Lozano, condividendo le argomentazioni del verdetto Ferrini ha ribadito che l'orientamento a favore del diniego dell'immunità sia oggetto di una «tendenza evolutiva, sia nella dottrina internazionalistica che in una parte ancora minoritaria della giurisprudenza interna». Nel caso di specie, oltre alla morte di Nicola Calipari dirigente 373 Cass. Pen., sez. I, 24 luglio 2008, n. 31171, in Riv. dir. internaz. 2008, 4, 1223: «Ritiene, questa Corte che il fondamento del primato esclusivo della giurisdizione “attiva” degli USA debba rinvenirsi nel principio consuetudinario di diritto internazionale che sancisce la “immunità funzionale” (ratione materiae), dalla giurisdizione interna dello Stato straniero, nella specie quello italiano, dell’individuoorgano il quale, come l’imputato Lozano, soldato del contingente militare statunitense facente parte della MNF, operante in Iraq sotto l’egida del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ma sotto il “controllo effettivo” della struttura di comando dello Stato d’invio (v., in proposito, Corte eur. d. uomo, 31/5/2007, nei casi Behrami e Saramati c. Francia), abbia agito iure imperii nell’esercizio delle funzioni di guardia e di controllo a un posto di blocco…È peraltro ricostruibile una più recente tendenza evolutiva, sia nella dottrina internazionalistica che in una parte ancora minoritaria della giurisprudenza interna, diretta a contrastare la più ampia applicazione della regola consuetudinaria sull’immunità dello Stato estero, relativamente alla responsabilità civile derivante dall’attività illecita compiuta iure imperii da un suo organo, oltre che sull’immunità dalla giurisdizione penale dell’individuo-organo autore del medesimo illecito, prospettandosene la “cedevolezza” laddove gli atti siano stati eseguiti in violazione di norme di diritto internazionale cogente, come in tema di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, per essersi l’individuo-organo reso colpevole di “crimini internazionali”, a garanzia di valori fondanti la comunità internazionale nel suo insieme. Può pertanto ritenersi (condividendosi, sul punto, le lucide argomentazioni dei più recenti arresti delle Sezioni Unite civili: n. 5044 del 2004, nn. 14199 e 14201 del 2008, citt.) che sia “in via di formazione” una consuetudine internazionale la quale, in considerazione del carattere cogente e imperativo delle norme di diritto internazionale umanitario (“peremptory norms of general international law”, nella dizione dell’art. 53 della Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 sul diritto dei trattati), che impongono il rispetto dei diritti umani fondamentali, e della concreta lesività di “valori universali che trascendono gli interessi delle singole comunità statali”, è diretta a limitare l’immunità dalla responsabilità civile dello Stato estero, il cui organo, pur nell’esercizio di un’attività iure imperii, come in situazioni belliche, si sia tuttavia reso autore di atti di gravità tale da “minare le fondamenta stesse della coesistenza tra popoli». 150 del Sismi, ucciso a Bagdad dal fuoco di una pattuglia statunitense, veniva ferito un altro funzionario del SISMI e la giornalista Sgrena che Callipari cercava di condurre in aeroporto. Inizialmente la mancanza di giurisdizione del giudice italiano sul caso era stata motivata dalla Corte di Assise sulla base di una consuetudine internazionale che in via generale disporrebbe la giurisdizione esclusiva dello Stato bandiera per i corpi di spedizione stazionanti in territorio straniero nel corso di una occupazione militare. I giudici avevano rilevato l’assenza di giurisdizione facendo leva su un’ulteriore consuetudine che sancisce l’immunità funzionale della giurisdizione interna dello Stato straniero dell’individuo organo, che abbia agito iure imperii. Al momento dell’uccisione di Calipari, Lozano era un soldato, cioè un organo, degli Stati Uniti, di cui eseguiva gli ordini. Un giudizio semmai sarebbe stato ammissibile solo se si fosse trattato di un crimine internazionale, il che è palesemente da escludere; il danno è, infatti, derivato da un’attività sovrana quale quella relativa alle attività militari; la Cassazione, confermando l’improcedibilità nei confronti del militare USA per l’omicidio ed il tentato omicidio di Nicola Calipari e Andrea Carpani in territorio iracheno, ha precisato che l’immunità è funzionale e può essere superata solo dimostrando gravi violazioni del diritto internazionale umanitario. Non va infine trascurato che la sentenza Lozano si è pronunciata in materia di riconoscimento dell’immunità funzionale nel giudizio penale, ambito in cui la prassi rilevante è molto più abbondante374. Il principio delineato dal caso Ferrini e Lozano è stato accolto nella sentenza del 13 gennaio 2009 n. 1072, il c.d. caso Milde: la Suprema Corte, decidendo in merito ad un ricorso promosso dalla Repubblica Federale di Germania (in qualità di responsabile civile), ha riconosciuto nei crimini internazionali un limite all'immunità giurisdizionale degli Stati375. Se l’ex sergente Milde è stato condannato all’ergastolo nel dicembre 2007 per la strage dei comuni di Civitella, Cornia e San Pancrazio, lo stesso è stato anche condannato in solido con lo Stato tedesco al risarcimento dei danni delle parti civili; si tratta dei danni patrimoniali e morali a favore dei discendenti di alcune delle vittime della strage nazista di Civitella. Questa decisione ha suscitato grande scalpore: lo Stato 374 P. De Sena, Immunità di organi costituzionali e crimini internazionali individuali in diritto internazionale, in Comunicazioni e Studi, vol. XXIII, 2007, pp. 267-300, p. 289 ss. 375 Cass. pen., 13 gennaio 2009, n. 1072, cit. Il 18 giugno del 1944 quattro giovani soldati tedeschi entrarono nel circolo ricreativo di Civitella; all’interno vi erano alcuni partigiani che, notati i tedeschi, spararono contro di essi: tre soldati morirono. 11 giorni dopo, in occasione della festa dei SS Pietro e Paolo, i tedeschi irruppero nelle case, aprendo il fuoco sugli abitanti. I tedeschi incendiarono le case di Civitella, e solo pochi abitanti riuscirono a salvarsi dal massacro. Alla fine si contarono 244 morti (115 a Civitella, 58 a Cornia e 71 a San Pancrazio). 151 tedesco ha rivendicato la propria immunità sulla base dei Trattati internazionali stipulati nel 1947 (Accordo di Pace) e nel 1961 (Trattato bilaterale tra Germania e Italia). La decisione della Corte di Cassazione appare particolarmente coraggiosa, perché, in nome della garanzia effettiva dei diritti fondamentali dei cittadini e del principio della riparazione integrale dei danni, essa intacca profondamente la regola dell’immunità degli Stati di fronte a tribunali esteri. Sono queste le sentenze inaugurali di quello che potrebbe diventare presto un “trend”: ed invero, per la prima volta la Cassazione sancisce il diritto ad essere risarcite, nell’ambito di un procedimento penale, delle vittime delle stragi naziste. Nessun altro Paese al mondo, ha rilevato l’avvocato della Germania, Augusto Dossena, ha mai intentato cause di risarcimento nei confronti della Germania, proprio a causa della presenza della clausola dell’immunità, della cui applicazione insuperabile il legale si è fatto portavoce anche in questo caso. Un verdetto quello italiano che si attende di verificare se verrà confermato dalla Corte internazionale di Giustizia, investita della questione dalla Repubblica Federale tedesca. Ora, infatti, sui banchi opposti della corte internazionale dell’Aja sono finite Germania e Italia, alle prese con il diritto al risarcimento delle vittime ed i sempre più delicati equilibri europei. Dinanzi alla Corte dell’Aja, la richiesta tedesca è decisa: annullare le sentenze dei tribunali civili italiani sugli indennizzi alle vittime di crimini nazisti. Si parla di cifre ingenti: per i tre procedimenti attualmente passati in giudicato, l’ammontare complessivo è di 51 milioni di euro, secondo un’interrogazione rivolta al governo federale dal partito di sinistra Die Linke, e non è improbabile che la somma finale da corrispondere alle vittime e ai loro familiari si aggiri intorno ai 150 milioni di euro. Oltre all'Italia, al procedimento in questione partecipa anche la Grecia: il problema relativo alla Grecia riguarda, dunque, la possibilità per uno Stato straniero in virtù della soggettività internazionale di cui gode, di essere sottoposto dagli organi di un altro Stato ad esecuzione forzata rispetto ai suoi beni. Nel 2000 il Supremo Tribunale civile greco si occupò, infatti, delle richieste dei sopravvissuti e dei familiari delle vittime della strage di Distomo, un villaggio, dove nel giugno 1944 le SS uccisero 218 persone. Quel tribunale però, respinse le obiezioni di immunità della Repubblica Federale Tedesca, sostenendo che lo Stato straniero, violando gravemente i diritti umani, avrebbe tacitamente rinunciato ai propri diritti di immunità sul piano del diritto internazionale, e dispose un risarcimento di circa 28 milioni di euro. La Germania rifiutò di pagare, così 152 si provvide al sequestro di immobili tedeschi, tra cui il Goethe-Institut di Atene. Tuttavia la sentenza non poté essere eseguita in Grecia, e così, le vittime investirono la giustizia italiana della vicenda, grazie ad una sentenza del 1992 in cui la Corte Costituzionale stabiliva che uno Stato responsabile di crimini di guerra, pure se commessi in altri paesi, Può essere sottoposto a rispondere in Italia, con i beni di cui lo Stato responsabile sia ivi proprietario376. Da questa sentenza che dichiarava esigibili in Italia le richieste di risarcimento avanzate nei confronti della Germania dalle vittime del massacro effettuato nel villaggio greco, si seguì la strada del sequestro del centro studi italo-tedesco Villa Vigoni, a Menaggio sul lago di Como, e il pignoramento dei crediti delle ferrovie tedesche presso Trenitalia, crediti connessi alla vendita i biglietti su tratte internazionali. Presso la Corte internazionale di giustizia dell’Aia il dibattimento inerente il ricorso presentato dalla Germania contro l’Italia ha ora ad oggetto tre questioni, di cui si attende a breve il responso: - sfruttamento del lavoro coatto di oltre settecentomila civili italiani deportati dopo l’8 settembre 1943; - eccidi compiuti dall’esercito tedesco contro i civili nel corso della seconda guerra mondiale; - esecutività in Italia delle sentenze dei tribunali greci relative alla strage di Distomo. 376 Corte Cost., 15 luglio 1992, n. 329, in Riv. dir. internaz., 1992, 395. La questione di legittimità costituzionale di cui è stata investita la Corte nel 1992 riguardava l’art. unico del r.d.l. 30 agosto 1925, n. 1621, convertito nella legge 15 luglio 1926, n. 1263, secondo cui «non si può procedere ad atti conservativi o esecutivi su beni appartenenti a uno Stato estero senza l'autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia, sempre che si tratti di uno Stato che ammette la reciprocità». La Corte ha però chiarito intanto che «perché vi sia immunità dalla giurisdizione esecutiva dei beni di uno Stato estero in base al diritto internazionale generale, occorre che i beni siano destinati all'adempimento di funzioni pubbliche di detto Stato, senza che rilevi l'esistenza della reciprocità», così che «La norma che subordina all'autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia il compimento di atti conservativi o esecutivi sui beni di uno Stato estero non destinati a funzioni pubbliche è incompatibile con il diritto del creditore alla tutela giurisdizionale nonché con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza, sia in quanto investe il Ministro del potere-dovere di accertare l'esistenza di una condizione (destinazione dei beni ad atti "iure gestionis") da cui dipende la giurisdizione del giudice naturale; sia in quanto impone alla tutela giurisdizionale un limite che non è giustificabile nell'attuale contesto di diritto internazionale, nel quale si è largamente affermato il principio dell'immunità ristretta degli Stati esteri in executivis ed è conseguentemente scemata la probabilità di reazioni all'applicazione di esso; sia in quanto la prassi applicativa della norma censurata dimostra che essa ha finito col ripristinare virtualmente l'immunità assoluta». La Corte ha statuito, quindi che l’autorizzazione ministeriale non va richiesta per i beni detenuti a titolo privato, poiché tali beni possono essere assoggettati ad esecuzione forzata sulla base del diritto internazionale consuetudinario. Il “responso” della Corte Costituzionale è stato utilizzato dal vicepremier greco, Theodoros Pangalos, in riferimento ai risarcimenti di guerra tedeschi al suo paese, risalenti alla Seconda guerra mondiale. 153 5. Il limite della prescrizione nelle richieste di risarcimento per i danni da lavoro forzato: i casi Mantelli e De Guglielmi Oltre a considerare la barriera dell’immunità, superata dalla giurisprudenza italiana, deve necessariamente farsi cenno ad un altro ostacolo che si frappone all’accoglimento delle azioni su menzionate: la prescrizione. Così come il legislatore italiano ha sancito all’art. 157 del c.p. la non estinzione per prescrizione dei reati per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo, con l’obiettivo di evitare di lasciare imputi i colpevoli e così di estinguere per prescrizione i reati più gravi, esistono limiti alla prescrizione nel trattamento risarcitorio dei più efferati crimini della storia? Quello della prescrizione è stato un problema che si era posto in realtà già ai tempi del processo di Norimberga: in quella sede, però, la prescrizione assunse un ruolo marginale, dal momento in cui solo alcune limitate ipotesi di crimini internazionali trattate a Norimberga sarebbero risultate prescritte, considerato che il processo venne celebrato subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale, e che i crimini risalivano solo a qualche anno prima. In ogni caso si provvide a regolare la prescrizione stabilendo che in ogni processo gli imputati non avrebbero avuto diritto al beneficio della prescrizione per i reati commessi dal 30 gennaio 1933 al 1 ° luglio 1945, né alcuna immunità, grazia o amnistia. Dunque, a fronte di questa soluzione parziale, l’esigenza di punire i crimini contro l’umanità perpetrati durante la seconda guerra, e l’esigenza di assicurarne la punizione senza limiti di tempo, sono state fortemente avvertite dalla comunità internazionale e manifestate attraverso numerose leggi che, derogando alla disciplina interna, hanno tante volte sottratto tali crimini dal decorso dei termini di prescrizione. La questione della imprescrittibilità dei crimini internazionali è stata, infatti, sollevata negli anni 60 quando stavano per scadere i termini della prescrizione dei crimini commessi durante la seconda guerra mondiale e le ferite della storia, il turbamento sociale erano tutt’altro che placati. L’inadeguatezza di lasciare che ogni singolo Stato si autodeterminasse in ambito di prescrizione, ha portato all’entrata in vigore, l’11 novembre 1970 della Convenzione sull’imprescrittibilità dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità; la Convenzione non fu accolta con favore dagli Stati del Consiglio d’Europa vista la retroattività della stessa: la Convenzione avrebbe obbligato, infatti, gli Stati a sancire l’imprescrittibilità anche per i reati commessi prima dell’entrata in vigore della Convenzione, anche se i termini prescrizionali fossero già decorsi. I limiti eccepiti alla “prima” Convenzione, la quale, per giunta aggiunse ai 154 crimini internazionali nuove categorie di condotte, come ad esempio l’apartheid, indusse gli Stati membri del Consiglio d’Europa a redigere una ulteriore Convenzione nel 1974, la “Convenzione europea sull’ imprescrittibilità dei crimini di guerra e contro l’ umanità”, la quale non era retroattiva e prendeva in considerazione, attraverso una accezione di estrema vaghezza la gravità del crimine al fine di accordarne o meno lo “status” di imprescrittibile, per altro rinviando ad altre Convenzioni. L’art. 2 della Convenzione prevede però una “deroga” all’imprescrittibilità imponendo agli Stati di sancire l’imprescrittibilità dei crimini commessi dopo l’entrata in vigore della Convenzione, qualora però a tale data la prescrizione del reato o della pena sia ancora in corso. L’Italia però probabilmente per i problemi di incostituzionalità tra la Convenzione ed il divieto di retroattività di cui all’art. 25 della Costituzione, non ha ancora ratificato la Convenzione. La “longevità di azione” che si attaglia al diritto civile risulta nettamente distinta da quella penale internazionale, dove il reato è assoggettato all’essere in vita dell’accusato, di talché morto quest’ultimo l’azione penale perde il suo oggetto. Tanto ciò premesso, è lecito chiedersi, sulla base delle regole della prescrizione, se possa una vittima della Shoah chiedere una riparazione in termini economici, dopo che sia decorso così tanto tempo dal momento esatto in cui l’eccidio che l’ha coinvolta si sia verificato. Il problema della prescrizione si è posto innanzitutto nei processi intentati negli Stati Uniti negli anni ‘90 contro le banche svizzere, francesi e tedesche; in questo caso le argomentazioni delle vittime delle spoliazioni bancarie o dei loro eredi, volte a chiedere un rinvio nella decorrenza dei termini di prescrizione, hanno preso le mosse dai numerosi rifiuti opposti dalle banche, le quali avevano impedito loro di ottenere l’accesso ai conti ovvero alle informazioni relative, accelerando così il decorrere della prescrizione legale377. È accaduto però anche che, nei casi delle vittime dell’Olocausto, 377 A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, shoah, cit. p. 32. Nei processi intentati davanti ai tribunali tedeschi per la riparazione dei danni derivanti dal lavoro forzato durante il regime nazionalsocialista, le Corti tedesche, per esempio, hanno applicato ai richiedenti le regole tradizionali della prescrizione, rigettando tutte le argomentazioni basate sulla “particolarità” dei pregiudizi sofferti dalle vittime dell’Olocausto. La Corte suprema tedesca, la Corte per eccellenza più coinvolta, si è pronunciata nel 1963 (Decisione della Corte suprema Bundesgerichtshof nel caso Staucher v. I.G. Farben, 23 febbraio 1963, n° VI ZR 94/61) in una causa concernente la domanda di risarcimento/riparazione intentata da un cittadino polacco contro un’azienda tedesca. La Corte ha introdotto il principio secondo il quale le domande di risarcimento contro le aziende per il lavoro forzato durante la seconda guerra mondiale, devono essere trattate nell’ambito del quadro delle relazioni interstatali di riparazione delle guerre. La Corte ha precisato, infatti, rinviando all’accordo di Londra, che le querelle relative alle riparazioni di guerra meritavano di essere rinviate alla data della conclusione di un accordo finale di pace con la Germani riunificata. Tale decisione ha assunto a suo tempo il ruolo di precedente per respingere le richieste di risarcimento intentate per esempio, da un cittadino turco 155 un certo numero di sospensioni della prescrizione sia stato giustificato dalla difficoltà di ottenere la documentazione necessaria all’istruzione del processo, ed in gran parte distrutta dai nazisti, ovvero per la difficoltà di intentare un’azione per ragioni politiche nei vari Paesi avversari, o per la situazione personale delle vittime, in caso di persone decedute378. In un quadro generale, bisogna ora considerare come la prescrizione sia diventata, attualmente, l’ultimo ostacolo in Italia alla risarcibilità di danni subiti da persone deportate e obbligate a svolgere lavoro coatto per conto del regime nazista. Un caso italiano da prendere in considerazione è l’affaire Mantelli, del Tribunale di Torino379, il cui primo grado risale al 2009, (prima della sentenza di appello del caso De Guglielmi di cui si tratterà nel prosieguo del paragrafo). Oggetto della causa Mantelli era un’ azione di risarcimento del danno proposta da ex-deportati costretti al lavoro forzato in Germania durante il periodo del secondo conflitto mondiale. Il giudice torinese si è posto radicalmente in contrasto con l’orientamento della Cassazione “Ferrini”, accogliendo invece la giurisprudenza di primo grado del caso “De Guglielmi”, respingendo le richieste attoree, questa volta sulla base della intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento: «si deve concludere che la prescrizione del diritto si era compiuta da oltre quarant’anni al momento della notifica dell’atto di citazione contenente la richiesta risarcitoria». Poiché le pretese erano fondate sui reati di deportazione e assoggettamento al lavoro forzato, condotte non esplicitamente riconosciute dal codice penale, ma rientranti nella disposizione di cui all’art. 600 cp., la prescrizione dei reati, che si estende anche agli illeciti civili, è di anni 20, e tale termine risulta ampiamente decorso alla data di proposizione della domanda380. (Bundesgerichtshof, 19 giugno 1973, causa n° VI ZR 74/70 (KG). e da uno americano (Bundesgerichtshof, 17 marzo 1964, causa n° VI ZR 186771 (Berlin). In una decisione del 22 giugno del 1967, la Corte Suprema ha rigettato l’argomentazione della Corte d’appello di Stuttgart, secondo la quale il lavoro nei campi di concentramento costituiva una deroga alle regole del diritto civile ordinario (OLG Stuttgart, 19 maggio 1965, 10 U-8/1965, 12 S 334/59). 378 Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, shoah, cit., p. 35. L’autore fa riferimento alla richiesta di Estelle Sapir, figlia di una vittima dell’Olocausto e vittima anche di una “irragionevole” richiesta da parte delle banche svizzere: la donna infatti, si rivolse agli istituti bancari in cui il padre aveva depositato e lasciato il denaro. Alla richiesta di restituzione del denaro la banca eccepì la necessità di un atto di decesso. 379 Trib. di Torino, sez. I civile, Mantelli Giovanni e altri contro Repubblica Federale di Germania e altri, n. 7137, depositata il 20 ottobre 2009, richiamata da P. Actis Perinetto e L. Pasquet, Immunità e prescrizione come estreme difese degli stati autori di gravi crimini internazionali: il caso dei deportati italiani. In ragione di questo successo, cit. 380 Art. 600 c.p: «Riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù. 156 L’inevitabile riferimento è stato all’art. 2947 terzo comma c.c., («In ogni caso, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile […]»); dunque la prescrizione di riferimento è quella del reato penale e non perciò quella dell’azione ordinaria di risarcimento del danno di cinque anni dal giorno di realizzazione del fatto illecito (ai sensi dell’art. 2947 c.c., comma 1). La durata del termine prescrizionale è così legata alla gravità dell’illecito, all’allarme sociale che questo ha generato, consentendo al danneggiato di far valere il proprio diritto con tempi più lunghi di quelli che sarebbero diversamente consentiti. Pertanto, qualora il reato fosse imprescrittibile, lo sarebbe di conseguenza anche l’azione risarcitoria relativa al reato stesso. Se quindi il fatto illecito per il quale si aziona il diritto al risarcimento del danno è considerato dalla legge come reato e per questo la legge stabilisce una prescrizione superiore a cinque anni, lo stesso termine prescrizionale si applica all’azione civile, indipendentemente dalla promozione o meno dell’azione penale: ci si riferisce a tutti i fatti illeciti penalmente qualificati, ciascuno dei quali costituisce il fondamento di azione di risarcimento contro lo stesso, giacché nella struttura del fatto doloso o colposo considerato dall’art. 2043 come generatore dell’obbligazione è da intendersi contemplata non già la sola azione od omissione del responsabile, ma anche l’evento lesivo»381. Il giudice di Torino ha, infatti, ritenuto i diritti prescritti, senza fare alcun riferimento al principio di diritto internazionale dell’imprescrittibilità dei crimini internazionali382, ritenendo che la regola della imprescrittibilità, essendo intervenuta negli anni 60 non avrebbe potuto essere applicata ad un reato già estinto al momento della sua “entrata in Chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all'accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento, è punito con la reclusione da otto a venti anni. La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona. La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti di cui al primo comma sono commessi in danno di minore degli anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi». 381 Cass. civ., 11 ottobre 2002, n. 14528, in Dir. e giust., 2002, 40, 78. 382 L’esistenza di una norma consuetudinaria internazionale che dispone l’imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità viene espressamente affermata in alcune sentenze rese dalla Suprema Corte e da Corti penali militari italiane. Nella sentenza S.U. 11.3.2004 n. 5044 la imprescrittibilità viene legata sia alla particolare natura di questi illeciti, che minano alla base le fondamenta della coesistenza internazionale; sia all’esistenza di una consuetudine internazionale di cui sarebbero espressione proprio la Convenzione ONU del 1968 e la Convenzione d’Europa del 1974. 157 vigore”; per il giudice insomma, il crimine di deportazione non può essere considerato imprescrittibile poiché quando nel 1945 il reato fu commesso, non esistevano norme internazionali che obbligassero gli Stati a perseguire le violazioni dei diritti umani, e meno ancora norme che sancissero la imprescrittibilità di tali crimini, e l’introduzione nell’ordinamento italiano di una regola consuetudinaria posteriore e “in malam partem” contrasterebbe con il divieto espresso dal comma secondo dell’art. 25 della Costituzione383. Altro caso italiano di riferimento è il decisum De Guglielmi: se il 13 marzo 2007, il Tribunale di primo grado di Arezzo ha rigettato le richieste del De Guglielmi affermando che il diritto vantato dall’attore dovesse ritenersi prescritto, con sentenza del 19.5.2010, il Tribunale di Torino ha condannato la Repubblica Federale di Germania al pagamento in favore di De Guglielmi Roberto (quale erede di De Guglielmi Vincenzo) di € 28.000, ribaltando radicalmente l’opposta soluzione accolta dalla sentenza 20.10.2009 Tribunale di Torino384. A fronte della richiesta di un sopravvissuto ai lager, di condanna della Repubblica federale di Germania al risarcimento dei danni patrimoniali (consistenti nel mancato guadagno del De Guglielmi per i lavori cui venne adibito nel periodo di prigionia) e non patrimoniali (rapportati alle sofferenze fisiche e psichiche per l’ingiusta privazione della libertà e l’assoggettamento a condizioni servili), il Tribunale di Torino ha così statuito: «Si ritiene dunque esistente una norma di diritto internazionale consuetudinario, formatasi all’inizio degli anni 60, e che sancisce la imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità, con particolare e specifico riferimento ai crimini commessi dalle forze di occupazione naziste nel corso della seconda guerra mondiale. Questa norma, che per sua genesi e natura si applica a fatti commessi prima della sua entrata in vigore, ha natura retroattiva, in conformità di quanto previsto dall’art. 7 2° comma della CEDU […] Nel caso concreto la conformazione opera nel senso di ritenere che, se il fatto illecito civile consiste in un crimine contro l’umanità, esso deve considerarsi 383 P. Actis Perinetto e L. Pasquet, Immunità e prescrizione come estreme difese degli stati autori di gravi crimini internazionali: il caso dei deportati italiani, cit. 384 Trib. di Torino, sez. quarta, 19 maggio 2010, n. 28889, disponibile online, in cui si legge la ricostruzione delle motivazioni poste a fondamento della richiesta di risarcimento dell’attore: il 9 settembre 1943 De Guglielmi Vincenzo, all’epoca militare di leva dell’Esercito italiano, venne catturato a Chiusa d’Isarco (BZ) dalle forze militari tedesche e deportato in Germania per essere avviato ai lavori forzati. Fino al settembre 1945, epoca in cui il De Guglielmi riuscì a far ritorno in Italia, venne mantenuto in condizioni di sostanziale schiavitù: privo dello status di prigioniero di guerra (e delle relative garanzie assicurate dalla Convenzione di Ginevra), costretto a usuranti lavori non retribuiti, denutrito e in condizioni igieniche inaccettabili. 158 imprescrittibile…»385. Il Tribunale di Torino ha così ritenuto di doversi discostare dai precedenti sopra richiamati e di disattendere l’eccezione di prescrizione ex art. 2947, terzo comma cc. Se fino a qualche anno fa gli ostacoli procedurali per eccellenza, contrastanti con l’obbligo giuridico di offrire un rimedio alle vittime di gravi violazioni dei diritti umani (immunità e prescrizione), risultavano insuperabili, la giurisprudenza recente, probabilmente con particolari “occhi di riguardo” nei confronti dell’importanza acquisita dai diritti umani, ha optato per la prevalenza di norme sorte a tutela della libertà e della dignità umana su singole norme procedurali di diritto interno. 385 Ibidem, p. 17. 159 CONCLUSIONI La questione che viene ancora una volta affrontata in sede di conclusioni non può che essere quella relativa ai limiti della istituzionalizzazione della memoria e ai pericoli che da essa ne derivano, considerando che il “dovere di memoria” ha ormai invaso il discorso politico e lo spazio dei mass media: da una parte assistiamo al riconoscimento della libertà di pensiero e di parola come situazioni soggettive che l’ordinamento si impegna a garantire, dall’altra siamo testimoni di una tendenza volta a caratterizzarsi per comportamenti restrittivi e punitivi che sviluppano il timore di subire discriminazioni o restrizioni della libertà personale a causa delle opinioni manifestate pubblicamente. Non resta che chiedersi in quale misura sia legittimo vietare l’espressione di determinate idee in una società in cui la ricerca della verità trae linfa vitale dal libero confronto delle opinioni, sebbene scomode e fastidiose, dal dibattito pubblico e dal dialogo politico, consapevoli che rigorosi limiti alla libera circolazione di idee lasciano venir meno il fondamento di qualsivoglia democrazia. Non necessariamente la scelta deve avvenire tra una concezione assolutista della libertà di espressione ed una completamente opposta volta a punire qualsivoglia discorso pubblico anche se privo di “potenzialità lesive”. Non è questa la sede per giudicare se la concezione assolutista della libertà di espressione sia sostenibile, sebbene si possa ipotizzare una risposta negativa dal momento in cui persino negli Stati Uniti sono state ammesse limitazioni alla libertà di espressione; non è questa la sede per accusare alcuni ordinamenti europei di disinteressarsi dei diritti di coloro che potrebbero sentirsi lesi da manifestazioni di pensiero di stampo negazionista, né di riservare il “plauso” agli ordinamenti che hanno previsto legislazioni memoriali. In altri termini, la libertà è fattispecie ambigua e indeterminata, né la sua aprioristica difesa sarebbe la regola, né la sua automatica incriminazione. Difficile non essere retorici nel momento in cui ci si interroga sulla vis actractiva del fenomeno che ha preso corpo, sulla concreta possibilità di scontentare “qualcuno” attraverso una determinata visione della storia piuttosto che un'altra, nel facile scadimento nella irruzione ed interruzione della quiete pubblica; inevitabile è anche far riferimento al fatto che non è lontano il pensiero che leggi che tendano a punire il negazionismo rischino di essere controproducenti: leggi che difettano della presenza di un pubblico confronto e di uno spazio pubblico democratico aperto ben possono 160 risultare ambigue. Si dovrebbe piuttosto legiferare nel senso di correggere eventuali errori commessi nella narrazione della storia, grazie alla documentazione nuova e sopraggiunta di cui si viene ad avere disponibilità, dal momento in cui diffondere una verità parziale o reticente rischia di rendere meno credibile l'intero messaggio. Il fatto che nell’attualità abbia preso corpo una pratica infima, secondo i più, fino ad imporre che nelle aule dei tribunali e dei Parlamenti si discorra, in maniera probabilmente incompetente e incompleta, tanto di verità storica, quanto di anacronistico ritorno al passato attraverso mezzi recenti, non può che condizionare il futuro dei procedimenti giudiziari. Può allora la semplice negazione della Shoah essere considerata in sé pericolosa e sempre criminalizzata o dovrebbe essere punita solo a cagione di un pericolo che scaturisca in concreto, anche sulla base del contesto in cui l’espressione è stata manifestata? Può la libertà di espressione cessare di godere della garanzia costituzionale per la sola ragione che la società possa ritenerla offensiva? Alcune forme di discorso razzista provocano effettivamente danni tangibili: si tratta di quelle forme di discorso che sono in grado di determinare in via diretta atti di violenza. È evidente che il diritto in questi casi sia legittimato ad intervenire. In tali circostanze, infatti, il discorso diventa sinonimo di un danno in senso tecnico e nessuna delle giustificazioni della libertà di espressione meriterebbe di intervenire a “tutela”. Vi è però una differenza sostanziale tra i discorsi la cui idoneità lesiva è ben riscontrabile fino addirittura a prestarsi ad un semplicistico paragone con delle vere e proprie azioni, e forme di manifestazione del pensiero che producono conseguenze non immediatamente percepibili, incerte e alle volte solo astrattamente concretizzabili. Ed invero, manca in tante legislazioni europee una “puntualizzazione” imprescindibile dall’esercizio della libera manifestazione del pensiero: il legislatore in numerose disposizioni normative ha mancato colpevolmente di precisare che la punizione della negazione o della minimizzazione grossolana deve riguardare esclusivamente i casi in cui “i comportamenti siano posti in essere in modo tale da istigare alla violenza o all' odio nei confronti di tale gruppo o di un suo membro”386. Tale precisazione sarebbe completamente assente in alcune leggi memoriali adottate prima della richiesta di uniformazione pervenuta dal Consiglio d’Europa, di talché la potenzialità lesiva delle condotte negazioniste sarebbe completamente posta su di un piano trascurabile e 386 Così dispone invece la Decisione Quadro 2008/913/GAI, cit. 161 secondario, onde punire senza preoccupazione alcuna, sic et simpliciter causa della sola manifestazione esternata di un pensiero negazionista. È ineluttabile, inoltre, riflettere sul fatto che le disposizioni in questione abbiano l’effetto di conferire una grande visibilità al negazionismo, e al negazionista di turno, il quale inevitabilmente non farebbe fatica a diffondere, anche più efficacemente i propri precetti, guadagnando copertura mediatica per la sua causa e dichiarandosi “martire” della libertà387. Le leggi contro la negazione dell’Olocausto hanno avuto, per esempio, un effetto esattamente contrario a quello desiderato: hanno sollevato dubbi sulla Shoah, hanno portato la più parte degli Stati ad emularsi vicendevolmente nello “svecchiamento” dei rispettivi codici, le leggi sono diventate oggetto mediatico, di talché la spettacolarizzazione del passato ha finito per fare pubblicità e per concedere quella visibilità ai negazionisti, che con i soli propri mezzi nessuno di loro sarebbe riuscito ad ottenere. Prendiamo il caso di un qualsiasi negazionista condannato in Europa sulla base delle leggi memoriali, e gli esempi non mancano: grazie alla quantità di articoli scritti sulla propria condizione, grazie all’attenzione che la stampa ha dedicato alla novità del fenomeno, quel negazionista ha acquisito una fama ben superiore a quella di altri storici che si sono occupati di temi simili, ovvero di argomenti diversi, ma dal probabile “peso specifico” e impatto sociale anche più elevato. Un percorso simile caratterizza probabilmente la cronaca quotidiana: è come dire che esistono due diverse forme di omicidio. Del “primo” se ne parla limitatamente perché il colpevole ha confessato e non figurano nel caso concreto fattori interagenti in via alternativa ad invalidare o sospendere il nesso di causalità; del “secondo”, si fa quotidiana e alle volte fantasiosa “discettazione”, perché la verità stenta ad emergere, si alternano illazioni, confessioni e ritrattazioni e le prove non sono schiaccianti. E allora sarà il secondo delitto a “fare audience”, ad indurre la collettività a schierarsi, a prendere posizione a dare notorietà al caso e all’imputato, riponendo su un piano dislocato le vere vittime. E’ quest’ultimo un rischio che non stenta a prendere forma anche nei processi alla storia e sulla storia. Ed invero, se esiste una ragione per limitare la libertà di espressione esiste, questa trova certamente il suo fondamento nella necessità di salvaguardare concretamente la sicurezza nazionale, l’integrità territoriale, la sicurezza pubblica, la prevenzione del crimine, la reputazione o i diritti altrui…etc, combinando la più grande libertà di 387 R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study cit,. p.. 6. 162 opinione necessaria allo sviluppo e al funzionamento della democrazia, con la sua legittima protezione, distinguendo però tra opinioni tout court e opinioni lesive: solo in presenza di un pericolo concreto a creare un danno grave e attuale, che vada ben al di là del fatto di disturbare e infastidire il destinatario, ma che si funga da “collante” per ripetere la tragicità del passato o per scatenare reazioni pericolose, le restrizioni adottate dal legislatore sarebbero legittime; solo in un contesto del genere il pericolo diventa evidente, ed evidente è anche la necessità di intervenire, ”censurando” eventualmente manifestazioni della libertà di espressione e punendo il colpevole. Se un avvenimento non incombe al punto da rendere impossibile un’esauriente discussione, il rimedio da applicare è la libertà di espressione, non invece silenzio imposto dall’alto. Si può proibire un dibattito quando esistono rischi incombenti ovvero imminenti, diversamente non avrebbe senso farne un “tabù”. Ed è invece proprio verso questo tabù che l’Europa intera si sta dirigendo. Se si è concordi sul fatto che la pratica della negazione di ogni evidenza storica sia un fenomeno in crescita, se si è concordi sul fatto che gli errori della storia non vadano dimenticati, è vero anche che i meccanismi ad oggi adottati non sembrano tante volte idonei a debellare un fenomeno, ma piuttosto mirano a punire incondizionatamente. Orbene, la neutralizzazione del negazionismo non può rientrare tra i compiti del diritto penale, se non attraverso rigorose distinzioni: si dovrebbe imporre una “clausola di precisazione” nelle leggi memoriali, che al pari di quanto previsto anche dalla Decisione Quadro Europea, dovrebbe infliggere pene solo in presenza di una conseguenza concreta ed in termini di violenza fisica del discorso negazionista, favorendo così una maggiore e più obiettiva valutazione del caso di specie onde rilevarne la portata lesiva della manifestazione negazionista, così da non sottrarre le condotte dal vaglio della pericolosità; in assenza di una qualsiasi conseguenza di tal specie il ricorso al diritto penale diventa un rimedio inidoneo ed eccessivo. In altri termini, certamente non possono ambire al beneficio della libertà di espressione coloro che ne fanno un “cattivo uso”, non fosse altro perché obiettivo della “libertà di circolazione delle idee” è proprio l’opposto di quello che è invece risulta violento e non pacifico. Per quanto riguarda, invece, il ricorso massivo alla responsabilità civile per la riparazione delle ferite della storia, se in alcuni casi lo stesso è apparso puramente simbolico, avendo per esempio i “vincitori” provveduto a cedere la “ricompensa” economica ad essi spettante, accettando euro simbolici purché accompagnati da scuse pubbliche, in una visione materialistica e negativa del futuro prossimo, la 163 “giurisdizionalizzazione” del passato probabilmente tenderà ad assumere sfaccettature differenti; così nei processi di riparazione, probabilmente la componente del ristoro economico prenderà sempre più il sopravvento, e allora il “guadagno facile”, anche sfruttando la storia non potrà che insediarsi nei contenziosi in materia di storia. Ed invero, l’”addio” alla comprensione del passato e al rispetto delle vittime, nella sempre pessimistica visione tracciata, non potrà, in questo modo, che allontanarsi ulteriormente e forse definitivamente. E non solo, il giudice così facendo, assumerà sempre più le sembianze di un giudice-storico, fino a sostituirsi completamente alla figura dello storico stesso e, seppur per pervenire a conclusioni condivisibili nella sostanza, il nuovo “ruolo” non appartenendo al magistrato in senso stretto, non rimarrà esente da ostacoli e rischi concreti. 164 BIBLIOGRAFIA DOTTRINA ACTIS PERINETTO P. E PASQUET L. Immunità e prescrizione come estreme difese degli stati autori di gravi crimini internazionali: il caso dei deportati italiani. in ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale) n. 2/2010, consultabile al sito web http://www.ispionline.it/it/documents/Analysis_2_2010.pdf. AINIS M. Valore e disvalore della tolleranza, in Quad. cost. (1995), pp. 425. ASH T. G. A blanket ban on Holocaust denial would be a serious mistake in The Guardian, 18 gennaio 2007. BARBARO S. Diffamazione, verità giudiziaria e verità storica in una recente sentenza della cassazione, in Dir. Inf., 2010, 6, 880. 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