Nota dellÊAutore Questo romanzo, largamente autobiografico, non è un racconto di avventure o di viaggi, non è una storia dÊamore o di guerra, non è un libro di architettura o di archeologia e non è un trattato filosofico - religioso, ma è semplicemente la storia di un uomo comune che, per un susseguirsi di circostanze, si è trovato ad affrontare situazioni strane, imprevedibili, liete e tristi, spesso pericolose. Quello che è successo al protagonista poteva succedere a chiunque, nato nella prima metà del secolo scorso, abbia affrontato le vicissitudini di un dopoguerra che non vi è mai stato: guerra fredda, Vietnam, Corea, terrorismo, rivoluzioni, trattati non rispettati, Medio Oriente, Somalia, Kosovo ⁄ La lista è lunga e continua ad allungarsi, forse non si chiuderà mai. Il protagonista vive questi avvenimenti che si intrecciano, e spesso interferiscono, nella sua vita privata, sorretto da una Fede profonda, non incrinata dai fatti tragici, sanguinosi, drammatici, spesso orripilanti nei quali, suo malgrado, è coinvolto. Al suo fianco vi è una donna coraggiosa, saggia, cattolica convinta, che gli è sempre accanto, nei momenti della gioia ed in quelli del dolore, nello sconforto e nellÊesaltazione, sempre pronta a sacrificarsi per lÊuomo che ama. Nel romanzo molti nomi sono stati cambiati, molti fatti sono stati „romanzati‰, alcuni addirittura inventati ed il lettore potrà facilmente intuirne i motivi. Nonostante ciò il racconto è vero, perché ciò che vi è narrato avviene tutti i giorni, anche se noi non lo sappiamo o fingiamo di non saperlo. ˚ la storia vera di uomini comuni, uguali a tanti altri, che hanno scelto di servire la Patria ed i loro concittadini in silenzio, rinunciando a se stessi per il bene di tutti, al servizio della Giustizia , della Libertà e della Pace. Per loro, per i nostri militari, per tutti quelli che, in pace ed in guerra, in Italia o allÊestero, dal 1901 in Cina, prima missione allÊestero delle Forze Armate dopo lÊUnità dÊItalia, ad oggi, si sono sacrificati e sono morti in nome degli ideali di Pace, Giustizia, Libertà, Uguaglianza per il progresso ed il bene di tutti, ho scritto queste povere righe. Mi auguro che il loro esempio sia una guida sicura per le nuove generazioni, affinchè il nome dellÊItalia sia sempre amato, stimato e rispettato da tutti i popoli. LÊAutore Per Aspera ad Astra IX tutti i gusti ma, se devo essere sincero, preferisco del riso lessato ad un’improbabile bistecca della mandrie texane! Restai alcuni giorni a Flagstaff, indeciso se entrare nella Contea di Navajo da Kayenta e Page o da Holbrook e Winslow, in pratica se visitare prima il Gran Canyon e poi il Canyon de Kelly o viceversa; consultai mappe, percorsi, orari, strade, luoghi di sosta, ecc. Al Days Inn, l’albergo che avevo scelto perché si trovava sulla storica route 66, i pareri del personale erano discordi, a seconda che si trattasse di “visi pallidi” o di Navajos: alla fine decisi di testa mia, avrei noleggiato una macchina e mi sarei recato ad Holbrook, fermandomi lungo il percorso per visitare, cosa fattibile in una giornata, il Meteor Crater, il Wupatki National Monument Indian Ruins, e la Pietrified Forest and Painted Desert (in spagnolo: Deserto Pintado) National Park. Per quanto riguardava il ristoro durante il tragitto la cosa non mi preoccupava, la route 66, strada che avrei seguito per arrivare ad Holbrook, è prodiga di stazioni di servizio con relativi motel, puebliti semideserti ma forniti di General Store dove puoi acquistare di tutto, ampie piazzole di sosta dove puoi fermarti per “pranzare al sacco”. Su questa strada non c’è rischio di perdersi: ogni tabella segnamiglia, ogni indicazione, ogni (per fortuna pochissimi) cartellone pubblicitario porta scritta, a caratteri cubitali, la fatidica dicitura “HISTORIC U.S. 66”! Parto di buon mattino e dopo poche miglia trovo la prima indicazione: Wupatki NM (National Monument); qualche miglio fuori dalla 66 ed ecco le rovine di un antico pueblo costruito intorno al 1100 dagli indiani Hopi, provo una strana sensazione: come sentissi delle voci lontane, impercettibili, che quasi parlano all’anima: è certamente una suggestione dovuta nel guardare queste antiche e dirute costruzioni di arenaria, ma ora capisco perché gli Hopi reputino questo luogo “sacro” e CAPITOLO XVIII Phoenix, dove mi fermai… Phoenix, dove mi fermai quarantotto ore, il tempo strettamente necessario per riposarmi dopo il lungo viaggio aereo, stabilire quale mezzo mi convenisse prendere per recarmi a Flagstaff e, una volta sceltolo, saltare sul primo treno in partenza, è una città praticamente invivibile, nel 1900 contava 500 abitanti, dato che il clima non si può neanche definire desertico, in quanto le precipitazioni atmosferiche non superano annualmente i 90-100 mm. di pioggia (la soglia per indicare una zona desertica è 250 mm. annui); nel 1911 una diga sul Salt River rese coltivabile una piccola parte del territorio, nel 1926 arrivò la ferrovia, solo a metà degli anni ‘50 il Central Arizona Project risolse il problema idrico, insomma una città che vive solo grazie all’aria condizionata. Dai comodi vagoni della Atlantic and Pacific Railroad, veri salotti su ruote, si scorgeva un paesaggio arido e stepposo (secondo una delle fonti etimologiche il nome Arizona deriverebbe dallo spagnolo àrida zóna) solo a tratti intervallato da distese di cactús o di pinastri contorti dalle intemperie. Mano mano che si sale (arriveremo a quota 2.200) il paesaggio cambia radicalmente: Flagstaff è al centro di una stupenda foresta di conifere che rendono il clima simile a quello delle nostre valli alpine (o almeno mi è sembrato tale; è vero che venendo da Phoenix avrei trovato gradevole anche il clima dell’equatore!) e, a differenza di molte altre cittadine dell’Arizona, è ben tenuta e, grazie all’università, ha una movida che non è quella stereotipa e prevedibile data dal turismo. Localini frequentati da giovani, orchestrine che suonano ottima musica, e non solo country, permettono di passare serate piacevolissime. Se poi si ha voglia di rivivere un po’ di “Old West” basta allontanarsi di poco da Flagstaff e si trovano Saloon per - 33 - quella luce, sembrano colonnine di fuoco; ad uno dei vista point mi avventuro in mezzo alle dune, ma ben presto devo desistere: nonostante l’ora serale ed il vento il calore è soffocante, devo risalire sulla jeep climatizzata per riprendere fiato. Riprendo il cammino, incontro due stop point in corrispondenza di rovine di pueblos databili intorno al 1200 ÷ 1300 circa, proseguo ed eccomi nella Foresta Pietrificata: un susseguirsi di resti pietrificati di una foresta fossile, i ranger del parco esercitano una stretta sorveglianza, dato che i visitatori provano spesso a portar via pezzi d legno pietrificato come souvenir, anche qui tutto il mondo è paese! Mi godo il tramonto dalle Blue Mesa, colline simili alle dune del painted desert, ma qui i colori dominanti sono il blu, il grigio ed il marrone che al tramonto si mescolano creando un colore sconosciuto e stupendo, rimango immobile, dimentico perfino di scattare foto, ma il sogno si interrompe: i ranger ci avvertono che dobbiamo uscire! Di nuovo sulla 66, 40 minuti d’auto ed eccomi ad Holbrook, Al Best Western Adobe Inn; mi addormento con gli occhi ancora pieni di quel tramonto incantevole. vi tornino periodicamente, come in pellegrinaggio. La visita è breve, circa quarantacinque minuti: qualche foto, acquisto di cartoline e di un opuscolo illustrativo e poi di nuovo in macchina, ancora qualche miglio ed altra deviazione, questa volta è il Meteor Crater, un enorme cratere dovuto certamente all’impatto, avvenuto migliaia di anni fa, di un meteorite con la terra; inutile scattare foto, neanche il più potente teleobiettivo con grandangolo riuscirebbe a catturare, sia pure parzialmente, l’immagine del cratere; meglio comprare una pubblicazione esplicativa che, prima di tutto, ci comunica che nel Meteor Crater la NASA ha addestrato i primi astronauti destinati all’esplorazione della Luna. Lascio il cratere e mi immetto sulla Interstate 40, la superstrada che ha soppiantato la 66, per recarmi all’appuntamento clou della giornata: Deserto Dipinto e Foresta Pietrificata. Prima di arrivarvi mi fermo ad una steak house per mandare giù un boccone, arriverò tardi ad Holbrook, perché intendo fermarmi fino a sera nel Parco, per godere il tramonto. Arrivo al Visitor Center del Deserto Pintado (siamo ai confini col New Mexico, Gallup è a due passi, ma tutti mi hanno sconsigliato di andarci, è solo un chilometro di negozi di souvenir, bar ed autorimesse, una vera delusione per chi, come me, pensa di trovare un città dell’Old West, e lo spagnolo è più usato dell’inglese) intorno alle 15 per scoprire che per la visita del Parco ho solo tre ore, la chiusura è infatti alle 18, pago l’ingresso e chiedo una mappa dei vista point, mi faccio indicare i più interessanti, non avrei il tempo di visitarli tutti, e parto a razzo: lo spettacolo è indescrivibile, affascinante, meraviglioso, emozionante, non esistono termini per descriverlo. Il sole, quasi al tramonto, illumina trasversalmente le morbide dune giallastre, puntecchiate di un timido verde, colorandole di un rosso tenue, sottile; il vento crea dei piccoli vortici che, sotto ♦ - 34 - di Navajo rappresenta la Nazione!), quando gli dissi che volevo cercare di conoscere il più possibile il diné navaho (il popolo navajo) andò in visibilio: conoscevo la loro lingua!; dovetti disilluderlo, quelle erano le uniche parole che sapevo, e le sapevo perché un compagno di viaggio, un professore navajo che tornava a casa, visto il mio interesse, mi aveva accennato qualcosa sulla storia navajo, sui loro usi e costumi e sul forte senso identitario che li distingueva. Ci congedammo con l’impegno da parte sua di prepararmi un itinerario personalizzato (si informò per sapere se avessi avuto difficoltà a passare eventualmente qualche notte in tenda, quando gli dissi da dove venivo e cosa avevo fatto fece un largo sorriso e si stropiccio le mani, per farmi conoscere al meglio la Nazione Navaho, luoghi che io conoscevo solamente per le avventure, fantastiche e fantasiose, del mensile Tex. In attesa che il mio itinerario fosse completato, che si trovasse una guida capace e disponibile e che fossero fatte tutte le prenotazioni negli alberghi dove sarei sceso durante il mio tour, mi recai nei musei della città: una miniera di informazioni sulla storia dei navajo; scoprii che appartengono alla nazione Apache e che arrivarono intorno al millecinquecento d.c. nella zona del fiume San Juan, affluente del Colorado, provenienti dal nord (i Navajo, come tutte le tribù Apache, sono un ramo dell’etnia Athabaska, originaria dell’Alaska e del nord-Canada). Sconfitti (e depredati) i popoli Pueblo che vivevano in quei territori i Navajos, da popolazione seminomade di cacciatori si trasformarono in un popolo di allevatori, specialmente di cavalli, pastori ed agricoltori, diversificandosi dal resto delle altre tribù Apache, rimaste prevalentemente cacciatrici, al punto che gli stessi spagnoli, per loro natura ottimi agricoltori, li consideravano alla loro stregua, se non, in alcuni casi, addirittura superiori. CAPITOLO XIX Holbrook Holbrook (T’iisyaakyn in lingua navajo), capoluogo della Contea di Navajo, fu una piacevole sorpresa: la relativa vicinanza al Canyon de Chelly e la zona montuosa (dai 1.000 ai 3850 metri slm del San Francisco Peak, la vetta più alta dell’Arizona), rendevano la temperatura abbastanza gradevole, decisamente un sogno rispetto a Phoenix, Yuma o Tucson. La mattina successiva mi recai all’Ufficio Turistico Centrale della Contea di Navajo dove una cortesissima impiegata si mise a mia completa disposizione; quando poi seppe che mi sarei trattenuto nella Contea per circa un mese poco mancò che mi abbracciasse: di solito i turisti si fermano al massimo una settimana (Phoenix, Flagstaff souvenir Deserto Dipinto e Foresta Pietrificata, Page - souvenir e foto Grand Canyon, Monument Valley, Wuptaki National Monument Indian Ruins e, mi raccomando, non bisogna assolutamente tralasciare il Meteor Crater, è li che gli astronauti si sono allenati prima di sbarcare sulla luna, è certo la cosa più interessante da vedere in tutto il viaggio!, Kayenta - souvenir Navajo, Chinle - souvenir e foto Canyon de Chelly, Winslow, Holbrook riposo e souvenir vari, Phoenix - arrivederci e grazie!) e si affrettò a presentarmi al direttore come una rara avis. Il direttore mi invitò nel suo ufficio, si informò sulla mia provenienza, lui aveva visitato l’Italia ed aveva ammirato particolarmente Pompei, Agrigento, Roma e, ovviamente, Venezia; mi offri del tiswin, una bevanda tipicamente indiana, simile alla nostra birra, e mi chiese, se non era indiscreto, il motivo di una così lunga ed inusuale permanenza nella “Nazione Navaho” ( i Navajo, anche se perfettamente integrati nel tessuto sociale americano, hanno conservato un forte senso della loro identità etnica, culturale, linguistica e delle tradizioni, e per loro la Contea - 35 - vantarsi, quindi, giustamente ed a ragione, nel dire che gli Stati Uniti hanno vinto la Battaglia del Pacifico anche, e soprattutto, grazie a loro! Dopo quattro giorni, durante i quali non mi ero certo annoiato, trovai alla reception dell’albergo un cortese invito del direttore dell’Ufficio Turistico che mi pregava di passare da lui: il mio itinerario e la mia guida erano pronti! L’itinerario predisposto, pur seguendo il tradi zi ona le gi ro tu ri s ti co/ semiculturale mi lasciava ampio margine per soste e digressioni non programmate ed il direttore, pur sapendo che una notte in tenda non mi avrebbe creato problemi, per evitare che diventassi un “on the road men” ossia l’inguaribile ottimista che non prenota l’albergo “tanto un buco per dormire lo trovo!” e finisce col pernottare in macchina, cosa non insolita a Kayenta, Page ed anche ad Holbrook, aveva effettuato una serie di prenotazioni molto elastiche nella catena alberghiera dei Best Western Inn (tutto il mondo è paese, se conosci qualcuno trovi sempre tutto!). La guida fu una vera sorpresa: mi ero aspettato, dato il programma ed il tipo di tour, una guida navajo sul tipo di Tiger Jack (non c’è nulla da fare, in Arizona Tex Willer è sempre presente!), invece mi fu presentata un giovane donna dal nome praticamente impronunciabile per lunghezza e dovizia di consonanti, che mi disse di chiamarla pure Maria; risultò essere laureata in letteratura latina (!), parlava il francese, lo spagnolo ed, incredibile ma vero, l’italiano, quando le chiesi se potevo chiamarla Lilith sorrise, disse che non aveva nulla in contrario, ma precisò di non essere la moglie di Aquila della Notte! Sorpresa! Non solo conosceva Tex, ma lo leggeva in italiano per mantenersi in esercizio nella lingua. Stabilimmo di partire il giorno seguente per Chinle. Scoprii anche che i miei amati film western (i miei idoli erano John Wayne e Gregory Peck) raccontavano una storia del west riveduta e (s)corretta, in una parola una montagna di frottole: i Navajos non erano i crudeli e sanguinari guerrieri con il culto della guerra, la realtà era che, dato il loro tipo di società, il valore e la capacità individuale era dato dai beni posseduti, di qui le razzie ai danni dei coloni bianchi, per rubare bestiame e cavalli, dall’altra parte molti coloni bianchi vedevano gli indiani, abituati ad avere ampi territori a disposizione per i loro allevamenti, come vicini scomodi ed invadenti; oltre ai coloni vi erano poi trafficanti senza scrupoli, che li consideravano alla stregue di pecore da tosare (ed imbrogliare). Questa serie di incomprensioni (!?!) portò alla pagina più nera della storia navajo: dopo un anno di guerra in cui i morti superarono il migliaio, nel 1864 il Governo USA decise il confinamento dei Navajos in una riserva a circa 300 miglia più a sud del loro habitat: Bosque Redondo, un territorio malsano, arido, inadatto all’agricoltura, in più, con la lungimiranza che ha sempre contraddistinto i governanti USA, erano stati confinati insieme ai Mescaleros, loro nemici atavici! Questo esilio durò 5 anni, nel 1868 un trattato tra il governo degli Stati Uniti ed i Navajos riportò la situazione alla status quo ante, una nuova riserva, situata tra Utah, Nuovo Messico ed Arizona costituì il fulcro dell’odierna Navajo Nation. Oggi la popolazione Navajo è attestata sulle 250.000 anime ed è di gran lunga il gruppo etnico più numeroso tra i nativi americani. Un motivo di orgoglio per i Navajos è che la loro lingua, praticamente conosciuta e parlata solo da loro, agli inizi della seconda guerra mondiale fu usata come cifrario dai militari che operavano nel Pacifico e che quel cifrario non fu mai decodificato dai servizi di intelligence giapponesi: possono ben ♣ - 36 - il nome altisonante, non è altro che un modesto motel. Dalla finestra della mia camera guardo il paese: un modesto agglomerato di case più o meno ben tenute, un unico General Store che si affaccia sulla Main Street, in lontananza altre due costruzioni moderne, gli “Hotel” Thunderbird Lodge e Holiday Inn; il mio ha almeno il vantaggio di essere a due passi da un simpatico ristorantino dove si possono gustare piatti tipici locali. Dopo cena non c’è molto da fare: due chiacchiere al bar dell’albergo sorseggiando un bourbon, bisogna pur digerire il cosciotto di big horn (grandi corna), nome altisonante per indicare una coriacea capra di montagna servita con una salsa speziata che mi ha fatto bere almeno quattro pinte di tiswin, e poi a nanna, ovviamente in camere separate, non è molto igienico fare avancés ad una donna navajo: i clan familiari sono basati su linea matrilineare ed è lo sposo che va a vivere con la famiglia della sposa, ed io, dopo l’esperienza fatta, soffro di una profonda allergia al matrimonio! La mattina seguente, dopo una lauta colazione ( ho scordato l’italianissimo caffè e cornetto e mi sono convertito al breakfast americano!), insieme a Lilyth tracciamo il piano della giornata: nella mattinata lei si recherà al visitor center per presentare le sue credenziali, pagare l’ingresso e dato che, anche se con guida, il mio è un “tour fai da te”, un piano di massima del percorso che seguiremo e, dulcis in fundo, l’autorizzazione a pernottare nel Canyon anche in tenda, autorizzazione che viene concessa solo in specialissimi casi, e praticamente mai ai turisti! Dopo il lunch partenza: prima tappa il ramo nord, il canyon do muerto. CAPITOLO XX Da Holbrook a Chinle… Da Holbrook a Chinle, percorrendo la famosa route 66 su una Jeep Land Rover ultimo modello, approfondii la conoscenza con la mia guida: la giovane navajo era nativa di Chinle, la cittadina dove avremmo fatto base per la visita al Canyon de Chelly, era docente presso l’università di Flagstaff, la celebre N.A.U., dove aveva un nutrito gruppo di allievi (scoprii con piacere che molti nativi erano interessati alle civiltà europee, ed a quella italiana in particolare), era stata più volte in Italia, sia per studio che per diporto, non faceva la guida di professione ma, durante il periodo estivo, su segnalazione del direttore del Visitor Center, guidava preferibilmente gruppi in visita alla Nazione Navajo ed aveva accettato di farmi da guida incuriosita da come gli ero stato presentato: “un visitatore interessato non solo alle bellezze del territorio ma anche al Diné Navaho, ai suoi usi, ai suoi costumi ed alla sua lingua”. Ero molto curioso di sapere come mai conoscesse così bene Tex: lo aveva scoperto per caso in Italia, aveva trovato il fumetto sul treno, evidentemente lasciato o dimenticato da un passeggero, lo aveva sfogliato per curiosità: era la saga di “Sangue Navajo”, aveva cominciato a leggerlo, si era appassionate all’intreccio e, giunta a destinazione, aveva cercato il numero successivo e poi… non aveva più smesso; un’amica, dall’Italia, gli spediva periodicamente il fumetto. Una breve sosta in una stazione di servizio, dove enormi cartelli ci rammentano, qualora ce ne fossimo dimenticati, che stiamo percorrendo la Historic U.S. Route 66 e ci troviamo nella Navaho Nation (questi cartelli li troveremo ovunque, eccetto che nei parchi e nei monumenti nazionali), per un rapido lunch e via, verso Chinle. A Chinle scendiamo al “Best Western Canyon de Chelly Inn”, che, nonostante ♠ - 37 - latitudini, mostrano precocemente i segni della vecchiaia; sorridono quando la figlia gli spiega perché io la chiamo Lilyth e cercano di insegnarmi a pronunciare il vero nome della ragazza, fatica sprecata, i suoni che escono dalla mia bocca a tutto somigliano fuorchè a qualcosa che possa essere un nome attribuibile ad un essere umano: il tutto finisce in una risata corale ed in un inaspettato invito a cenare e pernottare nel ranch. Rimango interdetto: non so cosa dire o come comportarmi; la mia guida mi toglie dall’imbarazzo assicurandomi che non avrei arrecato alcun disturbo e che, dopo un comodo riposo, il giorno dopo avrei goduto meglio le bellezze naturali ed avrei assorbito meglio la storia del canyon, aggiunse anche, con un sorriso tra l’impertinente ed il malizioso, che non avrei dovuto trascorrere la notte nel fienile o nella stalla: il ranch era dotato di una comodissima stanza per gli ospiti! La serata trascorse piacevolmente, tutti parlavano correntemente l’inglese ed una delle giovani accennò timidamente qualche parola d’italiano, Lilyth mi disse che era una nipote che desiderava seguire le sue orme; quando dissi che abitavo in campagna tutti divennero attentissimi e mi sottoposero ad un fuoco di fila di domande: cosa coltivavo, che animali avevo, oltre a me chi si occupava del possedimento, ecc.; dovetti confessare che avevo meno di tre acri di terra, rimasero sorpresi scoprendo che non me ne occupavo perché il mio lavoro di giornalista mi teneva lontano da casa per la maggior parte del tempo, ma quando dissi che il terreno non apparteneva a me, ma era proprietà della mia famiglia rimasero sconcertati: secondo la loro mentalità ed il loro costume quello che era della famiglia era di tutti ed io avevo l’obbligo morale di occuparmene! La figlia cercò di spiegare le usanze e le leggi che regolano il concetto di proprietà in Europa, ma, almeno così mi sembrò, con scarso successo. CAPITOLO XXI Il Canyon do Muerto… Il Canyon do Muerto è la diramazione nord del canyon de Chelly ed, a rigore, più che un canyon vero e proprio è una stretta vallata ancora abitata: piccole fattorie con campi ben tenuti ed i giovani navajo, che nel periodo scolastico frequentano gli istituti di Tuba City, Kayenta o Window Rock, durante le vacanze tornano ad aiutare i familiari nei lavori agricoli e nell’allevamento dei superbi cavalli che, mentre ci inoltriamo nella vallata, ci guardano incuriositi e poi galoppano via, simili a folate di vento. Lilyth ferma la macchina vicino ad una graziosa fattoria: una nidiata di bambini, seguita da un gruppo di contegnosi indiani, ci viene incontro, sono, mi dice Lilyth, i suoi familiari, e spera che non mi dispiaccia se fa una breve sosta, non è professionale, ma è parecchio che non li vede… La rassicuro e le rammento che il mio tour non è fatto solo per ammirare le bellezze naturali ma anche per conoscere e possibilmente capire la cultura di una popolazione di cui, fino ad allora, avevo qualche vaga idea solo attraverso film, romanzi di avventure (Salgari, London e l’impareggiabile Zane Grey, di cui i miei avevano la collezione completa con la mitica copertina rossa della Sonzogno) e fumetti (le “nuvole parlanti”, simili e diversissime dai segnali di fumo degli indiani!), mi ringrazia con un sorriso: evidentemente sono uno strano turista! Due indiani di età indefinibile, un uomo ed una donna, ancora vigorosi anche se il loro volto e segnato da una fitta ragnatela di rughe, ci si avvicinano, Lilyth me li presenta, sono i suoi genitori; mi invitano a seguirli in casa, Lilyth intanto spiega alla parentela chi sono e perché giro da solo e non imbrancato nel solito gruppo di turisti. I genitori di Lilyth hanno una decina di anni più di me, mi ero dimenticato che gli indiani, specialmente a quelle - 38 - io sentivo la presenza di questi guerrieri, li vedevo mentre combattevano, archi, frecce, lance e vecchi fucili avancarica, contro le, per quell’epoca modernissime, armi dei “visi pallidi”: provavo la stessa sensazione che avevo provato sul Carso, nel Sacrario di Redipuglia, ad El Alamein o a Giarabub! Quando dissi a Lilyth l’impressione che avevo provato lei mi guardò fisso negli occhi e mi disse “Lei ha capito l’anima e lo spirito del Diné Navaho, sono (usò una parola navajo che non volle tradurre) di essere la sua guida!”. Lasciammo quel luogo pieno di ricordi e, percorrendo a ritroso il cammino già fatto, ci inoltrammo nel lato sud del canyon con due mete ben precise, le White House Ruin e Spider Rock: la prima sono le rovine, piuttosto ben conservate, di antiche abitazioni abbarbicate su una parete di roccia talmente alta che riesco a scorgerne la fine solo con il teleobiettivo, la seconda sono due immensi torrioni naturali di roccia che svettano verso il cielo, sentinelle poste a guardia del lato est del National Monument; la mia immaginazione corre al Natale quando, sotto la neve che a queste altitudini scende copiosa, vorrei costruire un Presepe che, con questa scenografia, sarebbe sicuramente unico al mondo! Il rientro a Chinle è stranamente silenzioso: non so a cosa stia pensando Lilyth, dal canto mio devo cercare di assorbire tutte le sensazioni, visive e non, che ho provato durante questo magnifico tour: i panorami inimmaginabili, l’ospitalità navajo, la Navajo Fortress, i pueblo abbandonati, gli Anasazi e, via via, tutto il sense of wonder che permea questi luoghi stupendi! La mattina successiva ci salutammo cordialmente e noi proseguimmo nella visita del Canyon. A parte le lunghe soste per ammirare panorami sempre diversi e scattare centinaia di foto con la mia Panasonic (teleobiettivo, grandangolo, filtri, telemetro ed ammenicoli vari: peso complessivo circa 10 chili!), ascolto con il massimo interesse ciò che Lilyth mi narra sulla storia del canyon: agli albori del 1800 alcuni pastori navajos, inoltratisi nella vallata in cerca di nuovi pascoli, scoprirono piccoli agglomerati abitativi, molti dei quali erano per tre lati scavati nella roccia, completamente abbandonati ma con evidenti tracce di essere stati abitati (graffiti, affreschi sulle rocce e sulle pareti delle abitazioni, resti umani fossilizati, ecc.) da una popolazione che non era quella dei Pueblo, ne tanto meno navajos, e che essi battezzarono Anasazi, che in lingua navajo significa “antichi” (un’errata traduzione del termine, che fu interpretato come “nemico” attribuiva ai navajos la causa della loro scomparsa): di questa antica popolazione ancora oggi si sa poco o nulla; alcuni fanno risalire le loro origini a circa 6.000 anni, altri a 2.000 anni fa, si sa che quasi certamente vissero in queste zone fra il VII ed il XIV secolo e che scomparvero misteriosamente in una sola notte; i motivi di questa repentina scomparsa, o migrazione, sono tuttora ignote, alcune teorie parlano di caldo eccessivo, altre di siccità, altre di eventi naturali traumatici quali terremoti od alluvioni; di certo vi è una sola cosa, sono venuti e sono scomparsi da e nel nulla! Visitammo due dei loro siti, Ledge Ruin e Antelope House, poi ci recammo a quello che può essere a buon diritto considerato il Sacrario storico dei navajos: la Navajo Fortress, una piccola mesa a picco sul canyon dove, nel 1864, si svolse l’ultima battaglia fra i guerrieri navajos e le “Giacche Azzurre” prima che fossero esiliati per cinque anni a Bosque Redondo. Lilyth taceva, quasi in raccoglimento, ♦ - 39 - bisogno di un mutuo! Compro una spilla in filigrana per mia madre, il “ministro delle finanze”, ossia la mia lettera di credito, non mi consente altro. La mattina successiva ci rechiamo alla Monument Valley, il Navajo Tribal Park “Tse’bii’Ndzisgaii” (provate voi a pronunciarlo correttamente, io ci ho provato, con l’unico risultato di avere un forte mal di gola e di far ridere tutti quelli che erano nel raggio di cento metri da me!). Non è possibile descrivere il Park, in fondo si tratta di una distesa di sabbia rossa da dove spuntano pinnacoli rocciosi che il vento ha eroso dandogli le forme più strane, ma il suo fascino non è questo, è la sensazione di mistero e di forza, di pace e di inquietudine che non può essere raccontata nè con parole nè con immagini: ho scattato alcune foto alle Three Sisters ed al Totem Pole, mi accorgo, riguardandole oggi, che fuori da quel contesto sono solo dei pezzi di roccia brulla! Rientro in albergo, lunch, pomeriggio di riposo, comincio ad avvertire un po’ di stanchezza e ci sono ancora molte tappe e molte cose da vedere, meglio affrontarle riposati. Domani e nei giorni seguenti, a Page ed al Grand Canyon, avremo mille cose da vedere e poco tempo per riposare. CAPOTOLO XXII Per giungere a Kayenta… Per giungere a Kayenta (il Trading Post della riserva navajo dove Tex riceveva la posta e da dove, molto spesso, era costretto a cacciare via, con metodi altamente persuasivi, loschi trafficanti di armi e di whisky) da Chinle si traversa praticamente tutto il territorio navajo in un paesaggio che ha del fiabesco: un altopiano ricoperto di un tappeto verde che sembra velluto, qualche rara fattoria, un traffico inesistente, sembra di essere nell’old west dei pionieri; in lontananza spicca il promontorio roccioso dell’Agatlha Peak, maestoso ed inquietante, ci fermiamo per le foto di rito, grandangolo e teleobiettivo cercano invano di catturare tutto lo scenario, consumo rollini su rollini, eppure non riesco a cogliere tutto ciò che vorrei, riprendiamo il cammino e poco dopo ci fermiamo a Church Rock, un cerchio di rocce che nulla ha a che vedere con un edificio religioso, ma che probabilmente, data la sua forma, poteva servire agli Anasazi per sacrifici rituali dato che, a quanto sembra, essi praticavano il cannibalismo sacro. A Kayenta scendiamo all’Hampton Inn, un comodissimo albergo arredato in stile indiano con camere spaziose, un grandioso bar/ristorante con al centro un enorme camino (qui in inverno fa veramente freddo) ed un’ottima cucina che spazia dalle specialità locali a quella cosiddetta internazionale (che sconsiglio sentitamente in ogni parte del mondo civile); dopo il lunch “pomeriggio a disposizione”, come si dice nei viaggi organizzati, ne approfitto per fare due passi per le strade affollatissime di turisti, i negozi di souvenir non vendono la solita paccottiglia made in Korea, ma solo prodotti artigianali: coperte variopinte tessute a mano, collane e braccialetti in pietre dure od in filigrana d’argento, alcuni, ma pochi, oggetti in oro: se dovessi portare un “ricordino” a parenti ed amici avrei ♣ - 40 - Il Best Western di Page è certamente superiore a quello di Chinle, ma non è certo l’Hampton Inn di Kayenta! E’ incredibile come una grande catena alberghiera come la Best Western, che copre praticamente tutto il south west, riesca a trasformare i suoi alberghi, spesso ubicati in località splendide (questo è situato sulle rive del Lago Powell e ne porta il nome), in squallidi motel di seconda categoria, i cui odori predominanti sono quelli di disinfettante (siamo in America, l’igiene innanzi tutto!) e di cipolla fritta! Sia come sia il letto è comodo ed i servizi sono pulitissimi: doccia, cambio completo (la polvere che ho accumulato in questo viaggio fa impallidire il ricordo della sabbia, ed era tanta, accumulata nel mio giro del Sahara spagnolo in Marocco) e poi al bar per lubrificare, come direbbe Kit Carson, la gola; non vedo Lilyth, probabilmente anche lei si starà rinfrescando dopo la sfacchinata mattutina, quando scende non la riconosco subito, abituato come sono a vederla in jeans e camiciotto stile militare: indossa un magnifico costuma navajo, tutto frange e pizzi, mi sorride e dice di averlo indossato per farmi vedere almeno una volta un vero costume navajo e questa era l’unica occasione per farlo, da domani, infatti, il nostro programma prevede tanti e tali giri che jeans e camiciotto ce li potremo levare si e no per andare a letto! Il costume e chi lo indossa sono stupendi, mi sembra di rivedere, mutatis mutandis, un’altra stupenda immagine: Grazia in kymono nel bagno comune di Tokyo. La stessa grazia, la stessa prorompente giovinezza, la stessa nonchalance di chi è consapevole di poter indossare un’abito così impegnativo! Le faccio i miei complimenti, lei si schernisce, dice che tutte le donne navajo sono così, io esprimo i miei dubbi in proposito e lei scoppia a ridere, una risata fresca e cristallina che la fa vedere quale veramente è: una giovane donna non ancora trentenne piena di CAPITOLO XXIII A poche miglia da Page… A poche miglia da Page Lilyth mi propone una breve deviazione per visitare la Upper section dell’Antelope Canyon, è quasi mezzogiorno e questa è l’ora migliore per visitarla; usciamo dalla US 89, percorriamo una stradina sterrata (nei Parchi e Monumenti Nazionali, almeno nella Nazione Navajo, l’asfalto è bandito) che, tra buche e dossi mi fa pensare di essere tornato a casa, in Italia, dato che sembra la sorella gemella di quella che conduce alla casa dei miei, il tragitto, fortunatamente, dura non più di dieci minuti, scendiamo ed entriamo nel canyon: la prima impressione è quella di essere entrati in una grotta, poi il sole a perpendicolo ci mostra una fessura, in alcuni punti non più larga di dieci centimetri, che ci fa intravedere il cielo; i colori sono unici e variano ad ogni passo dal giallo al rosso, passando per tutte le loro sfumature, la luce solare, ora più forte, ora più tenue, aggiunge colore a colore; credevo di aver visto i più bei colori nel tramonto del Deserto Pintado: al confronto di questi che sto ammirando, quelle erano solo “varie tonalità di grigio” per usare un gergo fotografico, ora capisco perché, quando al comando dei ranger canadesi manifestai la mia intenzione di recarmi in Arizona, mi dissero che, anche se mi fossi fermato per pochissimo tempo, avrei dovuto assolutamente visitare l’Antelope Canyon, ed in particolare la Upper Section! Riprendiamo la via per Page, alla mia domanda del perché non visitiamo anche l’altra parte dell’Antelope Canyon, la Lower, Lilith mi risponde che è meglio visitarla in mattinata e poi… al Best Western Lake Powell, dove è fissato il nostro alloggio, ormai non troveremo più il lunch, ma sicuramente troveremo ancora qualche piatto freddo, arrivando più tardi dovremmo aspettare fino al dinner, cosa certamente non auspicabile, dato che il breakfast lo abbiamo consumato in ora antelucana! - 41 - voglia di vivere, colta e seria; mi scuso per il mio abbigliamento, ma nel bagaglio non ho certo messo il dinner jack o la divisa da ex allievo e, anche pensando di trovarmi in una situazione simile, non avrei certo potuto portarmeli dietro dall’Italia; rimpiango però di non aver indossato l’unico tout de même che ho portato con me, ma ormai sarebbe ridicolo tornare in camera per cambiarmi. A tavola gli occhi di tutti i commensali, per la maggior parte turisti italiani, sono fissi sul nostro tavolo: non è da tutti i giorni vedere una giovane indiana in costume tradizionale seduta a tavola con cavaliere vestito che più casual non si può. La cena è la solita: o roast-beef, o steak o piatti di cucina internazionale! Opto per la bistecca, ovviamente “sepolta sotto una montagna di patatine fritte, cotte al punto giusto”, cosa penso della cucina internazionale l’ho già detto e la carne semicruda la considero alla stessa stregua. Per digerire il quarto di bue che mi hanno servito ingurgito litri di birra (Lilyth mi ha detto che qui il tiswin non è molto buono); dopo cena sosta al bar per un whisky, poi sul patio ad ammirare le luci del lungolago e fumare una sigaretta, in lontananza si sentono suoni e canti: Page è una città turistica, pensate che i ristoranti accettano avventori fino alle 9 p.m., cosa rarissima negli U.S.A.! Altro whisky e poi a nanna, domani ci aspetta una giornata intensa. Il Best Western offre ai clienti la possibilità di fare il breakfast secondo il proprio gusto, il grande salone del bar ha un buffet ricco e vario, ci sono perfino caffelatte e cornetti, come se fossimo in un qualunque bar italiano (grazie, ma cornetto e caffè li prendo al Caffè Greco a Roma od al Gambrinus di Napoli, sono certamente migliori!); io perciò opto per una ricca colazione americana, infatti il programma di oggi prevede una visita al Lower Antelope canyon (circa un’ora di cammino a pie- di su un percorso che prevede dei passaggi adatti ad un contorsionista) e poi l’Horseshoe Bend, un frugale lunch lungo la strada e, dulcis in fundo, il panorama al tramonto sul Lake Powell dalla Romana Mesa. Cinque minuti di macchina e siamo davanti alla centrale elettrica che è alimentata dal lago Powell (scopro solo ora che il Powell è un lago artificiale, Lilyth non me lo aveva detto, forse se ne vergognava, e non a torto: quella centrale elettrica in mezzo a tante bellezze naturali è come un distributore di benzina sotto l’Arco di Tito!); pagamento parcheggio, ticket d’ingresso e via alla visita, non della centrale ma del Lower Antelope Canyon; i colori del Lower non sono quelli dell’Upper ma sono ugualmente affascinanti, i passaggi sono molto più stretti ma le “pieghe”, non so trovare altro termine, delle rocce sono piu dolci, bulinate piuttosto che tagliate con lo sgorbio, in certi punti gli slot sono talmente stretti che sembra di essere in una grotta. Dopo circa un’ora torniamo all’aperto e via, subito in macchina, verso Horseshoe Bend per fare il primo approccio con il Colorado. Un breve tragitto sulla US 89 ed ecco uno slargo pieno di macchine parcheggiate; parcheggiamo anche noi ed una breve pista sterrata (nel mio dialetto verrebbe chiamata “rasaletto”) ci porta ad un largo belvedere: lo spettacolo è unico, il Colorado crea una cascata alta varie centinaia di metri con una serie di curve che somigliano tanto a ferri di cavallo quanto ad un collo di oca, uno spettacolo a mio avviso molto superiore alle decantate Cascate del Niagara; passerei la giornata a scattare foto: teleobiettivo, grandangolo, filtri: per fotografare degnamente lo spettacolo servono tutti gli accessori della mia Panasonic e forse non bastano! resterei tutta la giornata se Lilith non mi richiamasse all’ordine, Romana Mesa non è precisamente dal lato opposto della strada e, tra una cosa e l’altra, bisogna pur mangiare; lascio Horse- - 42 - shoe Bend con rammarico, ma il tempo è tiranno ed ho ancora tante cose da vedere! Romana Mesa non è eccessivamente distante ma, dopo un breve tratto sulla onnipresente US 89, ci attende un tragitto su strada sterrata che non ci consente, nonostante l’ottimo fuoristrada, alte velocità: all’imbocco della strada infatti un cartello ci consiglia una velocità di 30 miglia (40 Km/h) ma il fondo stradale è tale che nei tratti migliori la prudenza non ci fa superare le 10/15 miglia orarie. A complicare le cose un forte temporale ci fa dubitare di poter arrivare a destinazione; fortunatamente il tempo migliora e proseguiamo tra schizzi di fango e folate tumultuose di vento; arriviamo sul pianoro ed a me sembra di rivivere il “selvaggio west” così come lo descrive Zane Grey nei tanti romanzi che ho divorato da giovane: Il Cavallo Selvaggio, il Fiume Abbandonato, Nevada, e via via tanti altri di cui ho dimenticato i titoli ma di cui saprei ancora oggi recitarne paragrafi interi, tante sono le volte che li ho letti e riletti! Lo spettacolo del lago è incantevole, piazzo il cavalletto e mi accingo a scattare alcune inquadrature, in attesa del tramonto. Manca circa un’ora al momento tanto atteso quando il ranger di servizio si avvicina e mi invita a smontare l’apparecchiatura: alle 18 il belvedere chiude! Rimango di stucco: che cavolo di tramonto, foto o non foto, posso ammirare se il sole è ancora alto in cielo? fortunatamente c’e Lilith che si avvicina al ranger, parla con lui, mostra non so che tessera, il ranger annuisce e si allontana sorridendo con rassegnazione; ogni giorno che passa debbo essere sempre più grato alla mia guida, ed ancora non so quale miracolo è riuscita a compiere per consentirmi di effettuare l’escursione in programma per domani! intanto mi godo il superbo tramonto sul lago, impreziosito da uno scintillante arcobaleno che segna la fine del temporale pomeridiano. Si torna a Page per il dinner; dopo cena, sul patio, siamo circondati da un folto gruppo di turisti italiani, si sa, in vacanza si fa presto conoscenza, molte convenzioni vengono tralasciate, e poi sono l’unico turista che ha per guida un’avvenente giovane indiana! Quando dissi che il giorno successivo avevo in programma la visita alle “Vermillion Cliffs - Paria Canyon” e più precisamente al “Coyote Buttes the Wave” mi guardarono come fossi un extraterrestre e cominciarono a tempestarmi di domande: da quanti mesi avevo presentato la richiesta? a quale ufficio del BLM (Bureau of Land Management) mi ero rivolto? e così via; risposi che al Visitor Center di Holbrook avevo chiesto di visitare la Navaho Nation nel suo complesso, in particolare i luoghi più significativi, e che mi preparassero un tour adeguato; avevo pagato per diritti, ingressi ai vari siti e per una guida, avevo richiesto che in base alle tappe mi prenotassero gli alberghi e quant’altro ritenessero opportuno, in pratica viaggiavo come in una gita organizzata con un solo partecipante. Non mi volevano credere, anche se per il resto poteva essere vero, per i Vermillion Cliffs ciò non era possibile: anche se tecnicamente essi ricadevano parzialmente nella giurisdizione della Contea di Navajo (una parte di essi si trova in Utah), il BLM tutela the Wave, una piccola conca dal fragilissimo ecosistema, e non ammette che 10 (dieci!) visitatori al giorno; per la visita bisogna prenotarsi almeno quattro mesi prima ed esclusivamente tramite il sullodato BLM, era quindi impossibile che io, in pochi giorni, avessi potuto ottenere il ticket per la visita; intervenne Lilyth che spiegò che ogni giorno vi sono due o tre “passi” extra, riservati per casi eccezionali, e che io ero uno di quei casi (benedetto l’incontro con quel professore che, in treno, mi aveva insegnato l’apriti sesamo: “Diné Navaho”!). Tra gli sguardi invidiosi dei meno fortunati, ci ritirammo nelle nostre stan- - 43 - ze: ci attendeva una giornata campale! Wave: è impossibile descriverla, in pochi metri di diametro vedo piccole pareti di roccia che sembrano ripiegarsi su se stesse, sabbia finissima increspata dal vento forma onde che vanno dal rosso acceso al giallo passando per tutte le tonalità intermedie; le nervature delle rocce sembrano raffigurare il sistema circolatorio e quello nervoso di un uomo; afferro la macchina fotografica e uso non so quanti rollini senza riuscire a fermare l’immagine: ad ogni folata di vento lo scenario cambia! Lilyth mi invita a seguirlo, poche centinaia di passi ed ecco la zona chiamata anche “second Wave”, numerosi, piccoli avvallamenti meno variopinti della sorella maggiore, ma anche questi bellissimi. Salta l’idea di pranzare in loco, nubi minacciose, ma fortunatamente ancora lontane, annunciano l’arrivo del temuto, e previsto, acquazzone: l’idea, con quel caldo torrido, di dover indossare giacca a vento e stivaloni di gomma non ci sorride, oltretutto non potremmo utilizzare i greti dei torrenti per il pericolo di una piena improvvisa (molti incauti turisti, incuranti dei consigli degli esperti, si sono salvati miracolosamente o sono morti a causa di un flash flood) e quindi ci affrettiamo a prendere, anche se a malincuore, la via del ritorno, vorrà dire che pranzeremo in macchina. Arriviamo alla jeep appena in tempo, il cielo apre le sue cateratte: si intravede a malapena il muso della vettura; durante il diluvio (che fortunatamente dura poco più di mezz’ora) mandiamo giù un boccone poi, anche se le nubi incombono sempre minacciose, smette di piovere e ci incamminiamo verso Page. Arrivo in albergo e volo in camera: urge una doccia ed un totale cambio degli indumenti! Cena, chiacchierata, saluto e brindisi di addio con gli altri turisti, domani si parte per il north rim del Grand Canyon, ci attendono 200 chilometri di macchina ed, all’arrivo, una baita in ***** La visita a The Wave inizia con un’alzataccia, infatti manca ancora un’ora all’alba, d’altronde bisogna essere sul posto molto presto, un po’ per evitare il caldo ma, soprattutto per evitare il probabile acquazzone che, puntuale come un cronometro svizzero, arriva a mezzogiorno! Un rapido breakfast servito da un insonnolito cameriere e via in macchina, circa settanta chilometri ci attendono; imbocchiamo la US 89 in direzione Kanab (Utah), mentre Lilyth guida io mi godo l’alba e poi, dopo alcuni chilometri, il sorgere del sole che illumina sullo sfondo i Vermillion Cliffs: la meta si avvicina. Lilyth rallenta e si ferma ad una specie di garitta da dove esce un ranger con aria sospettosa, controlla che il nostro equipaggiamento sia a norma, poi vede il tesserino della mia guida, sorride a ci augura buona escursione; ripartiamo, dopo alcuni chilometri troviamo il cartello Coyote Buttes - Navaho Nation (tutti i cartelli ricordano al viandante che siamo nella “Nazione Navajo!), inizia la solita strada in terra battuta, mezz’ora d’inferno ed arriviamo in una piazzola di sosta che si identifica solo perché è un poco più larga della strada e da un cartello che dice in non so quante lingue che li bisogna lasciare la macchina e proseguire a piedi. Il tragitto non è eccessivamente lungo ma, tra dune, letti pietrosi di torrentelli in secca ed il pericolo sempre presente di incontrare qualche rattlesnake, ci vorranno circa due ore per farlo. Ci incamminiamo di buon passo e, mentre osservo il paesaggio brullo mi torna in mente un romanzo di Isaac Asimov “Luky Star e le sabbie di Marte”: probabilmente l’autore si è ispirato ai Coyote Buttes mentre scriveva le peregrinazioni del suo eroe negli sterminati deserti del “Pianeta Rosso”. All’improvviso, come per magia, nascosta dietro una roccia, appare the - 44 - un complesso attrezzato; Page addio, anche se in cuor mio spero che sia un arrivederci: ci sono ancora tante cose da vedere e godere! ♠ - 45 - so inaccessibili, partì dal Messico per trovarlo e vederlo. La prima spedizione che può considerarsi scientifica fu effettuata più di due secoli dopo (1869 - 1870) dal maggiore John Wesley Powell, eroe della guerra di secessione nella quale aveva perso un braccio. Nonostante la grave menomazione il maggiore partì con quattro imbarcazioni appositamente predisposte, molto simili alle canoe usate dai nativi, dai pressi del Green River, il principale affluente del Colorado (fino al 1921 Grand River), superò, aggirandola, l’Horseshoe Bend ed arrivò sino alla “Grande Conca” (oggi lago Mead, grazie ad una diga costruita nel periodo della grande depressione, 1926 - 1930, e che oggi, oltre a rifornire di acqua la città di Las Vegas, è uno dei centri balneari più in del South West). Il maggiore descrisse le varie sedimentazioni rocciose che si susseguono per centinaia di metri in altezza (il Colorado scorre al fondo di una “spaccatura” la cui profondità varia da 1.200 a 1.800 metri ed è in questo tratto, lungo circa 450 chilometri e largo da 6 a 30, che raggiunge la profondità massima di tutto il suo percorso: circa 40 metri), intervallate da angusti pianori dove i nativi, con tutta probabilità gli Anasazi, avevano edificato piccoli insediamenti abitativi. La spedizione dimostrò anche che, nonostante le molteplici rapide che gli avevano valso, da parte degli indiani, il nome di “Fiume Tuonante”, il Colorado, pur con le adeguate precauzioni, è navigabile. Il lago di Page, anche lui artificiale, porta il nome dell’esploratore ed indica, con buona approssimazione, il luogo di partenza della spedizione. All’altezza dello Jacob Lake abbiamo lasciato la US89 e imboccato la AZ67, che non è un volo Alitalia ma una strada di competenza dello Stato dell’Arizona: iniziano i tornanti che ci porteranno oltre i 2.500 metri s.l.m. ed inizia anche la Kaibab National Forest; che, ricca di conifere, si estende, salvo brevi CAPITOLO XXIV Dopo colazione, fatto il pieno… Dopo colazione, fatto il pieno e caricati i bagagli, partenza per il North rim (in inglese dà l’impressione che indichi chissà che località, in italiano significa solo orlo o bordo nord, del Grand Canyon, una “passeggiata” di circa 200 chilometri su percorsi di montagna, dato che dobbiamo arrivare, e superare, quota 2.500 s.l.m.; questo è il motivo per cui il north rim è aperto al turismo solo tre mesi e mezzo all’anno, da giugno a metà settembre, nel restante periodo nevicate, freddo intenso ed in genere condizioni metereologiche proibitive ne impediscono di fatto la fruibilità. Percorriamo la US89 in direzione della cittadina di Bitter Springs (sorgenti amare) dove la strada si biforca, da una parte Flagstaff, dall’altra, in direzione nord, verso le Vermillion Cliffs, che ci accompagneranno, anche se a distanza, per un bel tratto di strada, la Kaibab National Forest, che attraverseremo, ed infine al sospirato lodge del North Rim (sono curioso di vedere il lodge, i termini inglesi hanno parecchi significati e, spulciando il vocabolario, ho scoperto che la parola indica: padiglione di caccia, tenda indiana, residenza del rettore, ecc., ma niente che somigli alla parola residence.). Sosta a Marble Canyon; la strada lo attraversa su un ponte che congiunge i due orli del canyon, parcheggiamo e ci affacciamo dal ponte per vedere il fiume ma è praticamente impossibile: lo strapiombo è tale che si intravede, lontana anni luce, una strisciolina luccicante: da brivido! Proseguendo lungo l’ultimo, chilometrico rettifilo, Lilyth mi illustra la storia del Grand Canyon: il primo viso pallido che vide il canyon fu, intorno al 1500 uno spagnolo, certo García López de Cárdenas che, incuriosito dai racconti dei pastori Hopi su un misterioso fiume dalle “acque tonanti” che scorreva tra pareti di roccia altissime e spes- - 46 - intervalli rocciosi, praticamente dal North al South rim, per una profondità di oltre 500 chilometri. Passando in mezzo a queste maestose conifere quasi non si crede che a pochi chilometri alla nostra sinistra c’è il Deserto Pintado! La bellezza e, perché no, la stranezza dell’Arizona sta proprio in questo: in relativamente poche miglia si passa da un deserto ad una foresta lussureggiante, da distese pietrose a fiumi tumultuanti, da wave di sabbia a laghi ondulati dalla brezza e luogo di ritrovo e villeggiatura! Ci fermiamo in una radura per un po’ di ristoro, dobbiamo percorrere ancora 60 miglia, guardo il cielo, di un azzurro abbacinante, e vedo volare dei condor, questi meravigliosi rapaci sacri agli Incas e tanto perseguitati dai coloni bianchi, al punto che oggi rischiano l’estinzione! Lilyth mi dice che, oltre che nella Cordigliera Andina, anche nella Nazione Navaho i condor sono una specie protetta e che, proprio nel North Rim del Grand Canyon, vi è un centro per il recupero e la protezione del volatile; respiro di sollievo, il genere di vita che conduco non mi ha distolto dall’amare e rispettare la natura in tutte le sue accezioni, anzi, mi stimola ad amarla sempre di più. Un filosofo greco diceva: “più conosco gli uomini, più amo gli animali”, non sono arrivato a tal punto di cinismo, ma certe volte… All’ingresso del Grand Canyon North Rim National Park troviamo il gabbiotto del ranger, ne esce un arzillo vecchietto (mi auguro di essere come lui, quando avrò la sua età) che ci dà il benvenuto e guarda con aria interrogativa Lilyth, non è la prima volta che succede e finalmente, sono decisamente lento di comprendonio, ne capisco il motivo: Lilyth mi ha detto più volte che lei accompagna comitive, è quindi logico che chi la conosce resti meravigliato di vederla fare da guida ad una sola persona, per giunta uomo ed in fondo non molto più grande di lei! Lilyth sorride e spiega al ranger, che evidentemente conosce bene, che date le mie esigenze che non sono meramente turistiche ma essenzialmente culturali, al Visitor Center di Holbrook avevano ritenuto che lei fosse la guida più adatta; lei aveva accettato e non se ne era dovuta pentire. Salutiamo e dopo mezz’ora arriviamo al Lodge, che, di primo acchito mi fa pensare, con un brivido, al Centro di Addestramento di Santa Monica: costruzione centrale e tanti piccoli cottages sparsi intorno, “come purcini attorno ad una biocca” avrebbe detto il Belli. Faccio mente locale: sono in Arizona e non in California, il mare è a svariate centinaia di miglia, non ci sono né MP simili ad armadi né Wac più o meno carine, sono veramente in vacanza e posso veramente distendere i nervi! Andiamo nei rispettivi cottages, un rapido cambio d’abito e primo giro d’orientamento sul rim, impressionante: lo strapiombo, o meglio gli strapiombi, sono ripide scarpate ciascuna di 300 400 metri che scendono, intervallate da brevi tratti più o meno pianeggianti, fino a 1.800 metri più in basso, là dove, mi dice Lilyth, scorre il Colorado, ci credo per fede, dato che non riesco a vedere nulla, neanche quell’argentea strisciolina che avevo visto al Marble Canyon. Cena nel grande salone stile “vecchia America”, dopo un violento acquazzone il sole del tramonto è tornato a brillare ed illumina in modo fiabesco, attraverso le enormi vetrate, il salone in cui ci troviamo; dopo cena, drink e sigaretta sul grande patio del lodge, ci allontaniamo dalle luci per ammirare il firmamento: spettacolo indescrivibile, le stelle sono “a portata di mano”, hai l’impressione che, allungandoti un po’, le possa toccare, alcune sembrano addirittura che siano sotto di noi, la loro brillantezza è unica, non le ho mai viste così! Prima di andare a dormire dico a Lilyth che domani voglio vedere tutto, lei sorride e mi chiede scherzosamente se ho intenzione di trasferirmi in Arizona, con domicilio fisso nel Grand - 47 - Canyon Village, forse così, dopo una decina d’anni, protrei dire di aver visto “quasi tutto” il Grand Canyon! Buonanotte! La giornata successiva è dedicata al Walhalla Plateau, dove troverò località dedicate non solo agli dei nordici, come indicherebbe il nome dell’altopiano, ma anche a quelli indù, romani, a re ebrei, a divinità egizie e, per finire in bellezza, con l’Holy Grail Temple, “il Tempio del Santo Graal”! Sarà un’escursione di circa 160 chilometri, su trail in terra battuta ed in zona di montagna: se il tempo ce lo permetterà, ovvero se non vi saranno showers, flash flood, snow-storm o quanto altro il sommo Giove possa inventarsi, pranzeremo “al sacco” a Cape Royal, dove, come è chiaramente indicato sulla mappa fornitaci al lodge, vi sono anche le toilettes! Partiamo come al solito relativamente presto, un po’ per evitare il caldo, ma essenzialmente per trovarci al riparo al momento del rituale acquazzone del mezzogiorno: a quanto pare anche nell’Olimpo un po’ raffazzonato degli dei nordici (e non) piove a mezzogiorno! Il Ken Patrick trail è il solito tratturo allargato (esclusa l’altitudine ed il panorama, mi sembra di stare girando per le campagne del mio paese) con l’aggravante dei tornanti, dato che abbiamo da superare un dislivello di circa 200 metri; quando arriviamo a Point Imperial mi scordo di tutto: il panorama, anzi i panorami, sono mozzafiato, da un lato si stende, a perdita d’occhio, la Kaibab Forest, da un altro si vede in lontananza, ma molto chiaramente, il Nankoweap creek, che dopo poche miglia si getta nel Colorado, sotto di noi il Walhalla Plateau si offre in una panoramica che ha dell’incredibile, aguzzando la vista si intravedono le propaggini del South rim. Vista Encantada ad il Roosvelt Point (sarà poi vero che il PresidenteTheodore, guardando da questo luogo, si innamorò del Grand Canyon?) offrono un bellissimo panorama del tavoliere, ma, a causa della relativa minor altezza, non spaziano come da Point Imperial. Si prosegue e, dopo alcuni chilometri, una piazzola indica l’inizio del sentiero che ci porterà, pedibus calcantibus, ad Atoko Point, per ammirare ancora l’altopiano e vedere un altro affluente del Colorado, il Kwagunt creek ed il suo omonimo canyon. Proseguiamo per Cape Royal, un’area attrezzata per pic-nic e con adeguati ripari in caso di pioggia. Pranzo “al sacco”, ed una volta di più vedo in Lilyth non la mia guida ma la mia “fata benefica”: come farà a farmi avere dei panini che non contengono i soliti intrugli tanto cari agli americani (Mac Donald docet), ma appetitose “pagnottelle” semplici e gustose? Stranamente non piove e Lilyth sembra delusa; le chiedo perché, io ringrazio il cielo della bella giornata, lei mi spiega che all’andata ha volutamente saltato il Walhalla Overlook ed il Greenland Lake per farmi ammirare l’altopiano dopo la pioggia ed il tramonto sul lago con l’arcobaleno: “Pazienza” le dico “sarà per la prossima volta!”, lei sorride e sono certo che sta pensando quello che penso io: “quando, e se, tornerò in Arizona?” Ci incamminiamo verso l’Overlook, qui, anche se da molto più in basso, si vede l’altopiano fino a Point Imperial ed anche oltre. Continuo a scattare foto, penso di aver diritto ad una fornitura di rullini omaggio da parte della Kodak: sono quasi certo che questo è il trecentesimo rullino che utilizzo dall’inizio del tour! Due ore di viaggio ed eccoci al Lago della terra verde, un piccolo specchio d’acqua di un verde abbacinante, certo, vederlo con l’arcobaleno sarebbe stata tutta un’altra cosa. Lungo la via del ritorno, ormai a pochi chilometri dal lodge, facciamo una piccola deviazione, a piedi, l’Uncle Jim trail ci porta all’Uncle Jim Point, da cui possiamo ammirare, alla vivida luce del tramonto in montagna, siamo a 2.541 slm, il Bright Angel Creek; quan- - 48 - do ci trasferiremo nel South rim lo costeggeremo per un lungo tratto, ma lo potremo vedere da altezze molto inferiori. Dopo il dinner, drink, sigaretta e letto: domani ci attende Point Sublime, da cui potremo ammirare il Grand Canyon nel tratto chiamato Granite Gorge (Forra di granito), uno dei tratti più stretti del Colorado River. La distanza non è eccessiva, circa 40 chilometri, ma la strada, ovviamente unpaved, in caso di pioggia diventa intransitabile, c’è quindi il rischio di rimanere bloccati, perciò tenda, razioni d’emergenza, ecc.: sto per tornare sulle Montagne Rocciose Canadesi. L’alba si presenta bellissima, in alto brilla ancora la luna, mi tornano in mente i Promessi Sposi, Renzo fuggiasco che attraversa l’Adda… decisamente manco dall’Italia e da casa da troppo tempo! Siamo a Point Sublime in poco più di un’ora, il panorama è unico (sarò ripetitivo, ma la realtà è questa: in Arizona TUTTI i panorami sono unici!), vedo le pareti rocciose del Grand Canyon ed, in lontananza, il Tempio di Shiva, una puntatina in India non guasta! Pomeriggio di riposo al lodge, domani ci aspetta una “passeggiatina zaino in spalla” di oltre 50 chilometri, infatti non vi è strada carrabile diretta tra il North ed il South rim, l’unico mezzo è il “cavallo di San Francesco”. I bagagli e la macchina ci verranno spediti e li troveremo al nostro arrivo al Grand Canyon Village. Girellando per il salone del lodge trovo l’elenco di tutti i “luoghi sacri” del Walhalla. Mentre, sul patio, ammiriamo l’ultimo tramonto sul North rim, con l’immancabile sigaretta tra le labbra e l’ancor più immancabile bourbon tra le mani, Lilyth mi comunica allegramente che, per traversare il Colorado, dovremo passare sul Navajo Bridge. “Sai” mi dice in tono discorsivo (siamo passati al “tu” dopo l’episodio della Navaho Fortress), “uno di quei ponti sospesi che piacciono tanto a Kit Carson”. Mi auguro che scherzi perché, anche se nel corso dei miei viaggi e specialmente durante l’addestramento militare, di quel tipo di ponti ne ho attraversati tanti, la mia simpatia per loro è pari, se non superiore, a quella che ne nutre Kit Carson! ♥ - 49 - sperone di roccia a quota 1.500 vediamo, poco sotto di noi, zampillare acqua di una limpidezza unica che si getta, scrosciando, nella voragine sottostante, e che improvvisamente si biforca, come indecisa sulla direzione da prendere, infatti sul fondo, quasi invisibili nella bruma mattutina, vi sono due canyon, il Roaring e il Bright, lo scrosciante ed il brillante, la decisione è certamente ardua; con il flash riesco carpire qualche scorcio, ma già so che neanche con una cinepresa riuscirei a fissare un’immagine così dinamica e suggestiva; mezz’ora di riposo e si riparte, prossima tappa Cottonwood, area di campeggio attrezzata ed ultimo posto dove potremo rinfrescarci, infatti dopo di lì non troveremo altri posti attrezzati fino al Ranch del fantasma. Come era prevedibile gli 8 chilometri del tragitto li percorriamo in quasi due ore, e sono circa le 8,25 quando arriviamo all’area attrezzata e vi troviamo una sorpresa; oltre ai prevedibili campeggiatori, non molti per la verità, c’è un vecchio nativo che, oltre a vendere bibite fresche e souvenir fa anche profezie: come ci vede arrivare pronostica per noi due (non spiega se insieme o no) una vita felice e tanti bei papoose (bambini), confesso che rimango sconcertato, Lilyth scoppia ridere e mi spiega che il vecchio, tutte le mattine, a cavallo di un ronzino spelacchiato, viene qui dalle vicinanze del Phantom Ranch, dove ha una sua capanna, per vendere la sua mercanzia e per fare le sue profezie, che si riducono a due, se è un o una single felicità futura, matrimonio e figli; se è una coppia felicità subito, matrimonio e figli! Scoppio a ridere anche io e compro da lui un bellissimo condor scalpellato in un sasso, poi mi viene il dubbio di trovare, sotto la base del condor , l’onnipresente marchio: “Made in China”. Non è così e Lilyth mi dice che quegli oggetti li fabbrica lui stesso, rassicurato, torno da lui ed acquisto alcune collanine (o sono braccialetti?) in pietra dura e che a me sembrano molto gra- CAPITOLO XXV Alle 5 antimeridiane… Alle 5 antimeridiane siamo già all’imbocco del North Kaibab trail, ci aspettano circa 25 chilometri per arrivare sull’orlo del Grand Canyon, fare un dislivello da quota 1.220 a quota 730 in soli 7 chilometri, mangiare qualcosa al Phantom Ranch, traversare il Colorado sul famoso (o famigerato?) Navajo Bridge, risalire per 8 chilometri ed imboccare gli ultimi 11 chilometri del South Kaibab trail. Mi segno, come è mia abitudine fare quando devo affrontare difficoltà sia fisiche che intellettive, ed invoco l’aiuto di San Maurizio, mio Santo protettore (per dire tutta la verità ringrazio anche s. Guido .*, che mi ha fatto fare quel mese di addestramento). Si parte, passo uguale, nessuna fretta, decisamente mi hanno addestrato bene, e poi lo zaino che porto peserà si e no 20 chili, contro i 40/50 delle esercitazioni! Anche Lilyth dimostra di essere allenata ed, al termine del percorso, risulterà dei due la meno stanca. Sulla nostra sinistra costeggiamo, dal rim, il Roaring Spring Canyon (il Canyon delle sorgenti scroscianti), Canyon che abbiamo già visto, dal lato opposto, dall’Uncle Jim Point; faremo la prima sosta alle Sorgenti scroscianti, proprio nel punto in cui questo Canyon si interseca con il Bright Angel Canyon e l’omonimo Creek. Arriviamo alle sorgenti alle 06.15, 8 chilometri in poco più di un’ora, un’ottima media, se potessimo mantenerla, cosa statisticamente improbabile, alle 11.00 saremmo al Phantom Ranch!, soste comprese. Speriamo di arrivarci poco dopo le dodici, potremmo così riposarci prima di affrontare la risalita ed i circa 30 chilometri che ci separano dall’Hotel El Tovar, nostro alloggio al Grand Canyon Village. Lo spettacolo che si presenta ai nostri occhi ha qualcosa di irreale: da uno - 50 - aver fatto a ruzzoloni l’ultimo chilometro e, da come mi sento, potrei averlo fatto davvero. “Una bistecca alta tre dita, tenera come il burro e sepolta sotto una montagna di patatine fritte” dopo, mi riaffaccio alla vita; sono le 14, secondo i calcoli possiamo riposare fino alle 15.00. Comodamente sdraiato su un lettino nel vasto patio del ranch, con a fianco una corroborante bibita dei cui ingredienti distinguo solo l’alcool (sugli altri forse è meglio stendere un velo pietoso!), ascolto Lilyth che mi racconta la storia (leggenda?) del Phantom Ranch. Vi sono ben tre leggende legate al nome, non certo augurale, del Ranch: la prima, la più accreditata tra i nativi, non solo Navajo, è che quel luogo, nonostante l’assoluta mancanza di tracce di pueblos, fosse la sede primaria dei primitivi abitanti, scomparsi molto prima che le tribù provenienti dal “Paese dei laghi e dei grandi alberi” giungessero in quei luoghi, e che gli spiriti di essi vi aleggino ancora; la seconda parla di combattimenti, tutti da dimostrare ed anche questi senza alcun riscontro, tra le tribù indiane e gli “uomini di ferro” (gli Spagnoli), che volevano impossessarsi dell’oro e degli altri metalli, più o meno preziosi, che a quel tempo si supponeva abbondassero in quei siti, anche in questo caso gli spiriti dei caduti vi si sarebbero domiciliati e continuerebbero le loro interminabili battaglie; la terza, anche questa senza “pezze d’appoggio”, ma certamente la più verosimile, è che fra quelle gole inaccessibili vi fosse un covo di banditi, una specie di “last heaven” (ultimo paradiso), per ladri, assassini, trafficanti di armi e di wisky e via elencando. Questo “paradiso” fu scoperto, e distrutto insieme a tutti i suoi abitanti, da un reparto di cavalleria (e non da Tex e dai suoi pard) che pattugliava, insieme ad altri reparti dell’esercito, quelle zone impervie alla ricerca di questi banditi, anche in questo caso ecco spuntare i fantasmi delle “anime dannate”, condannate a vagare senza ziosi. Ci fermiamo a Cottonwood per circa un’ora, abbiamo bisogno di rinfrancarci per il tratto più duro della prima parte del tragitto: ancora 15 chilometri circa, di cui gli ultimi 6 da percorrere su un dislivello di circa 500 metri. Alle 10.00 in punto si riparte, abbastanza rinfrancati, infatti riusciamo a percorre i 9 chilometri restanti del rim in poco più di un’ora e mezza, un record, se si pensa che il sole è talmente forte che io viaggio in pantaloncini ed a torso nudo, e Lilyth, per ovvi motivi, con qualcosa di molto leggero sopra gli shorts. Da Roaring Springs il trail costeggia il bordo del Bright Angel Canyon, in un succedersi di panorami uno diverso dall’altro: qui nude rocce a strapiombo, poco più avanti un boschetto, una radura con fiori che non avevo mai visto prima, piccole polle d’acqua che appaiono e scompaiono come in un miraggio; ogni passo porta ad una nuova scoperta, ad un nuovo, insospettato aspetto della natura! Sul bordo del Grand Canyon sostiamo qualche minuto e poi giù, per un sentiero scosceso che sembra voglia trascinarci nel Colorado, che ancora non vedo, ma che sento ruggire tra le pareti di granito, un granito che cambia colore ad ogni passo, ad ogni tornante, ad ogni avvallamento del trail !; mi fermerei tutti i momenti per flashare (bruttissimo termine, ma è l’unico che descrive l’azione da compiere, lampeggiare dà l’idea di Zeus sulla sommità dell’Olimpo che, tanto per distrarsi, lancia fulmini e saette verso i miseri mortali!) questo caleidoscopio di colori, ma il tempo è tiranno e dobbiamo arrivare al Ranch entro le 13.30, altrimenti non arriveremmo più al Village per questa sera e non siamo attrezzati per dormire fuori (pensare di dormire al Phantom Ranch è impensabile, in questo periodo non ci sono libere neanche le vasche da bagno!). Con la lingua di fuori riusciamo ad arrivare al Ranch per le 13.15, penso di - 51 - aver fatto a ruzzoloni l’ultimo chilometro e, da come mi sento, potrei averlo fatto davvero. “Una bistecca alta tre dita, tenera come il burro e sepolta sotto una montagna di patatine fritte” dopo, mi riaffaccio alla vita; sono le 14, secondo i calcoli possiamo riposare fino alle 15.00. Comodamente sdraiato su un lettino nel vasto patio del ranch, con a fianco una corroborante bibita dei cui ingredienti distinguo solo l’alcool (sugli altri forse è meglio stendere un velo pietoso!), ascolto Lilyth che mi racconta la storia (leggenda?) del Phantom Ranch. Vi sono ben tre leggende legate al nome, non certo augurale, del Ranch: la prima, la più accreditata tra i nativi, non solo Navajo, è che quel luogo, nonostante l’assoluta mancanza di tracce di pueblos, fosse la sede primaria dei primitivi abitanti, scomparsi molto prima che le tribù provenienti dal “Paese dei laghi e dei grandi alberi” giungessero in quei luoghi, e che gli spiriti di essi vi aleggino ancora; la seconda parla di combattimenti, tutti da dimostrare ed anche questi senza alcun riscontro, tra le tribù indiane e gli “uomini di ferro” (gli Spagnoli), che volevano impossessarsi dell’oro e degli altri metalli, più o meno preziosi, che a quel tempo si supponeva abbondassero in quei siti, anche in questo caso gli spiriti dei caduti vi si sarebbero domiciliati e continuerebbero le loro interminabili battaglie; la terza, anche questa senza “pezze d’appoggio”, ma certamente la più verosimile, è che fra quelle gole inaccessibili vi fosse un covo di banditi, una specie di “last heaven” (ultimo paradiso), per ladri, assassini, trafficanti di armi e di wisky e via elencando. Questo “paradiso” fu scoperto, e distrutto insieme a tutti i suoi abitanti, da un reparto di cavalleria (e non da Tex e dai suoi pard) che pattugliava, insieme ad altri reparti dell’esercito, quelle zone impervie alla ricerca di questi banditi, anche in questo caso ecco spuntare i fantasmi delle “anime dannate”, condannate a vagare senza ziosi. Ci fermiamo a Cottonwood per circa un’ora, abbiamo bisogno di rinfrancarci per il tratto più duro della prima parte del tragitto: ancora 15 chilometri circa, di cui gli ultimi 6 da percorrere su un dislivello di circa 500 metri. Alle 10.00 in punto si riparte, abbastanza rinfrancati, infatti riusciamo a percorre i 9 chilometri restanti del rim in poco più di un’ora e mezza, un record, se si pensa che il sole è talmente forte che io viaggio in pantaloncini ed a torso nudo, e Lilyth, per ovvi motivi, con qualcosa di molto leggero sopra gli shorts. Da Roaring Springs il trail costeggia il bordo del Bright Angel Canyon, in un succedersi di panorami uno diverso dall’altro: qui nude rocce a strapiombo, poco più avanti un boschetto, una radura con fiori che non avevo mai visto prima, piccole polle d’acqua che appaiono e scompaiono come in un miraggio; ogni passo porta ad una nuova scoperta, ad un nuovo, insospettato aspetto della natura! Sul bordo del Grand Canyon sostiamo qualche minuto e poi giù, per un sentiero scosceso che sembra voglia trascinarci nel Colorado, che ancora non vedo, ma che sento ruggire tra le pareti di granito, un granito che cambia colore ad ogni passo, ad ogni tornante, ad ogni avvallamento del trail !; mi fermerei tutti i momenti per flashare (bruttissimo termine, ma è l’unico che descrive l’azione da compiere, lampeggiare dà l’idea di Zeus sulla sommità dell’Olimpo che, tanto per distrarsi, lancia fulmini e saette verso i miseri mortali!) questo caleidoscopio di colori, ma il tempo è tiranno e dobbiamo arrivare al Ranch entro le 13.30, altrimenti non arriveremmo più al Village per questa sera e non siamo attrezzati per dormire fuori (pensare di dormire al Phantom Ranch è impensabile, in questo periodo non ci sono libere neanche le vasche da bagno!). Con la lingua di fuori riusciamo ad arrivare al Ranch per le 13.15, penso di - 51 - ticato sport, ho scalato montagne come il Cervino ed il Dente del Gigante nel Massiccio del Monte Bianco, ho traversato le Montagne Rocciose, sono stato sul Grande Atlante, in Marocco, e poi…poi sono un uomo, perbacco! Ed eccola li, con il respiro regolare, sorridente, impeccabile, mentre io ho paura di accendermi una sigaretta per paura che il fumo mi vada di traverso! Ci sono rimasti da percorrere ancora 10 -11 chilometri di trail, poi, dallo Yaki point al nostro albergo, altri 10 su strada asfaltata; facciamo due conti e ci rendiamo conto che, con la fatica accumulata fino ad ora, arriveremmo alla fine della pista a notte inoltrata, a questo punto 28 chilometri sono tanti; Lilyth prende il suo walkie-talkie e chiama una guida sua amica pregandola di attenderci con un mezzo allo Yaki point verso le 20.00, in modo da percorrere il tratto asfaltato in macchina. Risolto così il problema, l’ultimo tratto del sentiero mi sembra più breve ed, arrivati al luogo dell’appuntamento con un certo anticipo, mi posso voltare indietro ed ammirare lo splendido tramonto sul Grand Canyon. L’amico, per nostra fortuna, arriva puntuale perché, appena saliti in macchina, un temporale improvviso viene a guastare la stupenda giornata che Giove pluvio ci aveva regalato! In albergo abbiamo appena il tempo di lavarci le mani, dobbiamo cenare subito, alle 21.00 il ristorante chiude; sono più di due mesi che sono in America ed ancora non riesco ad abituarmi ad orari così insoliti, e così drastici, per noi europei: in Italia alle 21.00 si comincia a pensare se cenare in casa od ad andare al ristorante o in pizzeria! Paese che vai, usanze che trovi; dopo cena fumo la prima sigaretta della giornata e poi a letto, ne sento la necessità. La mattina successiva prendiamo una delle navette che percorrono il South rim (la maggior parte dei punti di interesse turistico non si può raggiungere con mezzi privati, almeno di avere uno senza riposo! “Come in tutte le leggende” conclude Lilyth da buona studiosa di Letteratura antica “un fondo di verità da qualche parte deve esseci, ma dove?”. Per me, in questo caso, la verità può aspettare, sinceramente preferisco pensare al resto del cammino che ci attende nel pomeriggio. Alle 15.00 in punto, abbastanza rinfrancati, ripartiamo alla volta del Navajo Bridge, che troviamo poche centinaia di passi dal Ranch: non è certo il ponte descrittomi maliziosamente il giorno prima da Lilyth, è si un ponte sospeso, ma lungo si e no 150 metri (in quel punto il letto del Colorado non è più largo di 50/60 metri), le corde sono in acciaio e il tavolato, anche se sembra fatto di tavole di legno, in realtà è dello stesso materiale usato per gli scafandri spaziali, inoltre un sistema di pesi e contrappesi garantisce che l’oscillazione sia praticamente impercettibile, insomma è un ponte sul quale perfino Kit Carson salirebbe fischiettando! Mi fermo qualche minuto sul ponte, guardo le acque limpide e tumultuose che scorrono un centinaio di metri sotto di me e scatto qualche foto, impossibile non farlo! Dobbiamo ora affrontare una differenza di quote di circa 600 metri, dai 500 metri del ponte ai 1.100 del rim, con un percorso lineare di non più di 7 chilometri: più che una salita è una scalata! Solo la lunga sosta ci consente di effettuare il percorso in sole due ore e un quarto, alle 17.15 siamo sul rim, possiamo ritenerci soddisfatti; un quarto d’ora di break e si riparte, guardo sottecchi Lilyth e provo un moto d’invidia: sembra che sia appena tornata da un giro di shopping, un po’ faticoso forse, ma nulla di più; va bene che ha 13 anni meno di me (ho scoperto che ha 28 anni, beata lei), va bene che è allenata, va bene che , come nativa e come guida conosce i luoghi meglio di me e quindi può dosare meglio le sue energie, ma. vivaddio, io ho dietro le spalle un allenamento quasi da Seal, ho sempre pra- - 52 - N maiuscola! Lilyth mi dice che relativamente vicino, circa 6 chilometri tra andata e ritorno, vi sono le Dripping Springs, le “Sorgenti Gocciolanti”, un sito che merita di essere visitato ed ammirato e mi propone, sempre che me la senta, di andarle a vedere; accetto con entusiasmo, in fondo, rispetto a ieri, si tratta solo di “sgranchirsi” le gambe! La passeggiata è piacevole, il sentiero appena abbozzato che ci porta alla meta è quasi pianeggiante ed è ricoperto di un tappeto di erba verdissima, sembra quasi di camminare su un tappeto di velluto. All’improvviso mi si apre davanti uno scenario fiabesco: in mezzo ad un folto “wood evergreen” una composizione di rocce multicolori sembrano piangere e le loro lacrime si raccolgono in una conca di finissimo cristallo sfaccettato e translucido, anch’esso di mille colori e sfumature diverse, ci si aspetta che dagli alberi e dalle rocce ninfe, elfi, driadi, nani e satiri escano inghirlandati per intrecciare danze: “questi allegri satiretti delle ninfe innamorati per i boschi ed i laghetti…”, Lorenzo il Magnifico è stato sicuramente qui in spirito prima di comporre quell’inno alla vita che è il “Bacco in Toscana”, lo dico a Lilyth che annuisce, con le labbra atteggiate ad un sorriso meraviglioso, vecchio di secoli: forse è stata lei la musa ispiratrice di Lorenzo! Scatto delle foto pur sapendo che esse, per quanto bene mi possano riuscire, non saranno che una parvenza di quello, reale ed irreale, che vedo e sento in questo momento; lascio le Dripping Springs, se lo avessero chiesto a me le avrei battezzate “Le lacrime delle rocce” (il termine “sorgenti” è troppo riduttivo!), ed a malincuore ritorno al Ristoro dell’Eremita. Navetta, El Tovar, alle 16.30 siamo di ritorno in albergo, noia; Lilyth mi chiede se sono stanco, rispondo che no, non sono stanco, sono annoiato, mi prende per mano, quasi mi trascina verso una navetta in partenza con l’in- specialissimo permesso, che neanche la mia fata turchina è riuscita ad ottenere in così breve tempo), d’altronde la navetta è gratuita, nel senso che il suo utilizzo è compreso nel prezzo (piuttosto salato) dell’albergo. Lilyth ha organizzato la giornata in maniera che non risulti troppo stressante, solo quattro soste relativamente vicine tra loro; all’ultima tappa, l’Hermits Rest, cioè il Ristoro dell’Eremita, mangeremo un panino per fermarci lo stomaco, dato che non è un’area in cui è consentito fare il pick-nick, a me la cosa interessa poco, il nome per me è tutto un programma: se ci si ristora un eremita, figurarsi come mi ci ristorerò io, che certo eremita non sono! La navetta ci porta allo Yavapai point e sosta per circa 15 minuti, secondo me sono anche troppi, in effetti siamo alla periferia del Village, ed oltre a ciò lo scorcio più interessante è quello che mostra il trail che abbiamo percorso ieri e che oltre a me, anche i miei piedi e le mie gambe conoscono benissimo!; proseguiamo per l’Hopi point, e qui il discorso cambia: si vede bene la scoscesa parete nord del Grand Canyon ed, in lontananza, ma raggiungibili con il teleobiettivo, i tre pinnacoli dei Temples di Shiva, Osiris e Isis, forse visibili meglio da qui che dal Point Sublime del North rim. Ancora avanti ed ecco il Pima Point, sosta per ammirare, sempre ad una certa distanza, il punto di immissione del Crystal Creek nel Colorado river. La navetta ci lascia all’Hermits Rest, ripartirà dopo l’ormai consueta sosta di 15 minuti; noi preferiamo attenderne una delle prossime (ne passa una ogni ora) e fermarci qualche tempo in questa piccola oasi di pace, circondati solo dalla bellezza e dal silenzio che la natura ha profuso in questo luogo di sogno: merita certamente il nome che gli è stato dato. Comincio a scattare foto, cerco di far risaltare, nella staticità dello scatto, l’immensità della Natura, che qui davvero merita di essere citata con la - 53 - dicazione “GOING TO GRANDWIEW POINT”, confesso che rimango un po’ sconcertato, non si era mai comportata in modo così cameratesco, ma lei è la “fata turchina” ed agisce sempre per farmi cosa gradita! Dopo un quarto d’ora o poco più di viaggio scendiamo al Grandwiew Point, rimango per un attimo sconcertato: è, si, un bel panorama, ma non tale da giustificare la corsa ed il modo di fare della mia correttissima guida; poi il sole comincia la sua lenta discesa dietro una mesa e capisco il perché: nessuno dovrebbe perdere un tramonto come quello che ammiro in questo momento: la Horseshoe mesa si ammanta di mille colori, un canyon prima invisibile ora brilla per il sole che tramonta! Mi sembra di vedere uno spettacolo già visto, già vissuto, forse per interposta persona, sprazzi di ricordi si affacciano alla mia mente: non è l’Horseshoe mesa che vedo, ma è la “Mesa del Cavallo Selvaggio”, i miei occhi vedono Paquitich, l’inafferrabile mustang vividamente descritto da Zane Grey, svettare orgoglioso e superbo sulla vetta della mesa inaccessibile, Lilyth è senza ombra di dubbio la decisa, impulsiva e dolcissima Sue Melberne… unico neo, io non sono Chane e confesso che la cosa mi dispiace molto! Torniamo in albergo ed io mi domando come un uomo come me, eminentemente pratico, con un lavoro che certo non può lasciare campo alla fantasia pena le più catastrofiche conseguenze, possa confondere realtà di oggi, anche se stupende, e fantasie di ieri, quando, giovane e spensierato, spesso mi immedesimavo negli eroi, fortunatamente positivi, delle mie letture favorite: fascino dei luoghi e delle atmosfere che vivo e respiro?; la magia impalpabile che avvolge Lilyth?; forse solo il desiderio di evadere dalle realtà sempre spiacevoli, spesso sgradevoli, a volte orrende (vedi Sabra e Shatila), e che il lavoro che ho accettato di svolgere al servizio della mia Patria mi propone diuturnamente?; sono domande a cui non so o forse non voglio rispondere ..., tiremm innanz, domani è un altro giorno. Secondo e, purtroppo, ultimo giorno nel South Rim, che cosa ci propone oggi il menu?; ormai ho imparato a seguire pedissequamente l’itinerario preparato dalla mia perfettissima guida, solo un folle potrebbe voler sostituire le pietanze del menù che Lilyth ha deciso di ammannire ai suoi invitati! Ci aspetta un tragitto di circa 40 chilometri, da percorrere con la solita navetta, per arrivare alla prima tappa, le Tusayan Ruin, un pueblo molto ben conservato che ha l’inestimabile pregio di avere un piccolo ma completissimo Museo che ci racconta la vita, gli usi ed i costumi degli antichi abitanti del Grand Canyon; è una vera miniera per chi, come me, non si accontenta solo di panorami e scenografie, per quanto possano essere stupende, ma vuole capire l’animo di quei popoli che qui hanno vissuto e che, in larga parte, ci vivono ancora. Lilyth ha organizzato tutto per il meglio, ho tutta la mattina per visitare il Museo, mi “perdo” nelle piccole sale museali, ognuna delle quali è dedicata ad una diversa epoca della vita nel Canyon e nelle sue immediate adiacenze; provo, in questo minuscolo Museo, ignorato, o quasi, dalla marea turistica che quotidianamente invade il South rim, le stesse sensazioni, forse anche più intense, che ho provato al British, al Louvre, all’Egizio di Torino ed all’Etrusco di Roma: mi immedesimo al punto da vivere tra e insieme agli uomini che hanno usato quegli oggetti che oggi vengono sbrigativamente etichettati come “reperti archeologici”; davanti ad un piatto sbreccato, davanti ad una pentola di coccio incrinata, davanti ad un mestolo spezzato mi viene spontaneo chiedermi: “come avrà reagito la massaia davanti al “guaio” domestico?, certo non si è potuta recare all’ipermercato più vicino per acquistare l’utensile danneggiato!, quanto tempo e quanta pazienza avrà dovuto usare per riparare, se possibile, rico- - 54 - struire o sostituire l’oggetto danneggiato?”. Sono solo “i pensieri oziosi di un ozioso”, per dirla con J.K. Jerome, sono elucubrazioni mentali fine a se stesse o sono un profondo, e forse inconfessato, desiderio di conoscere e capire i nostri antenati? Non lo so e non voglio saperlo! Lascio il Museo con rammarico, devo chiedere a Lilyth di condurmi, appena rientrati al Village, in un Bookstore ben fornito: non è mia abitudine comprare libri più o meno divulgativi sulle località che visito, ma per il Tusayan Museum l’eccezione è d’obbligo! Pranzo al Desert Wiew, cento metri sotto di noi , a circa 5 chilometri, il South Rim del Colorado River e, a seguire, il Walhalla Plateau, con l’aiuto di un canocchiale, e ve ne sono tanti nel piazzale antistante il ristorante, si vede la Kaibab Forest: per me è l’ultima occasione per ammirare la parte più bella ed interessante del North rim. Sulla via del ritorno la navetta si ferma in due Point, il Lipan ed il Moran, scatto qualche foto, quasi controvoglia: domattina a buonora si parte, si torna alla “civiltà”!; domani ripercorreremo questa stessa strada, ma io la percorrerò ad occhi chiusi, voglio ricordare il Grand Canyon così come è stasera, bellissimo e malinconico, ricordarlo in altro modo mi sembrerebbe un sacrilegio. Addio, Grand Canyon! ♦ - 55 - l’angoscia lancinante che ti attanaglia quando, partendo per una missione, devi dire ai tuoi cari: “Vado a fare un servizio sulle condizioni di vita dei nostri militari in Kosovo”, e poi, nottetempo, ti imbarchi su un aereo senza contrassegni che ti lascerà, o paracaduterà, se tutto va bene, a qualche decina di chilometri dal luogo del rendez-vous e poi… sia fatta la volontà di Dio! Le rare volte che mi sono trovato al Ministero mi è capitato di vedere fascicoli con su stampigliato “Top Secret XXX - Dead in Action” o, peggio ancora, incontrare padri, madri, mogli in lacrime, increduli: “Mio figlio? Impossibile, lui era un giornalista, un commerciante, un segretario d’Ambasciata… è certamente un equivoco!”. E spesso si scompare senza lasciare traccia, allora una mano impietosa scriverà sul fascicolo riservato “MISSING IN ACTION” e la vita continua. 007, OSS117, Nick Carter e via discorrendo, eroi di carta, mutuati da racconti fantasiosi, buoni per chi non sa, o non vuole sapere, la realtà delle cose; armi sofisticate, mezzi ipertecnologici: è grasso che cola se nel momento del bisogno ti trovi tra le mani una vecchia pistola od un coltello arrugginito! CAPITOLO XXVI Partendo, la mattina successiva… Partendo, la mattina successiva, mi riprometto di tornare ancora, voglio percorrere il Colorado come fece Powell nel 1870, dalla Horseshoe Bend al Grand Wash, provare l’emozione di superarne le rapide e goderne i tratti riposanti tra una rapida e l’altra, rivedere i maestosi picchi dei Temple, visitare ad uno ad uno i canyon inaccessibili che si susseguono innumerevoli nella Hualpai Indian Reservation, bagnarmi nelle placide acque del Lake Mead. Confido questi miei desideri a Lilyth, che mi rivolge un enigmatico sorriso. Il viaggio prosegue tranquillo ma io non ho molta voglia di parlare; ancora pochi giorni e poi tutto tornerà alla “normalità”, se così può essere definita la mia vita, a New York saprò qual’è il mio prossimo incarico: tra le rocce dell’Anatolia o tra le sabbie del Sahara, in un covo di intrighi come Beirut o su un fronte di guerra (di quelli ce ne sono tanti, non c’è che l’imbarazzo della scelta!), in prima linea o nelle retrovie, dove i rischi sono gli stessi, ma coperti dal fair-play; inutile fasciarsi la testa prima di essersela rotta, dovunque andrò farò il mio dovere, pregando il Signore di non farmi più trovare in mezzo a centinaia di cadaveri di civili innocenti: sono un soldato, sono stato addestrato anche ad uccidere ed a prepararmi ad essere ucciso, ma ad armi pari, combattendo contro altri soldati; non mi hanno addestrato (ed io avrei rifiutato) per sparare su una folla di civili inermi! Lilyth nota il mio turbamento e mi chiede cosa ho: non posso risponderle, l’angoscioso e terribile scotto che si paga nel mio lavoro è quello che ti impone di mentire a tutti, ai parenti, agli amici, alle persone che stimi e che ami! Sapevo, quando ho liberamente accettato questo incarico, che avrei dovuto condurre una doppia vita fatta di inganni e menzogne, ma non conoscevo * * * * * Riemergo da questi momenti di riflessione e sorrido a Lilyth, scusandomi di non essere un buon interlocutore e dando la colpa del mio mutismo al fatto che questo tour meraviglioso sta per finire. Finge di credermi, è troppo intelligente ed intuitiva per prendere per buona una scusa così debole, anche se parzialmente vera. Stiamo percorrendo la AZ64 nella Con tea di Coconino che seguiremo fino a Cameron, di li proseguiremo per Winslow che, con i suoi circa 7.000 abitanti, è la prima città della Nazione Navaho. Siamo ancora sul Plateau del Grand Canyon, che non lasceremo fin dopo Winsolw; il paesaggio scorre veloce, - 56 - inizialmente ancora tra piante e rocce; comunque è sempre il verde che domina, viaggiamo ad una quota che varia da 2.000 a 1.500 metri slm. Guardo e non guardo il panorama, ancora assorto nei miei pensieri: tra qualche giorno questa bella avventura sarà finita. A Winslow ci fermiamo per il pranzo ed anche se “la bistecca è alta tre dita e tenera come il burro e le patatine sono rosolate e croccanti, cotte al punto giusto” mangio controvoglia, senza assaporare, in testa mi ronzano sempre le stesse due parole “è finita”! Si riparte per Holbrook, a mano a mano mi torna il buonumore, Lilyth, sempre attenta, riprende a parlare, mi racconta aneddoti e vecchie leggende dei Navajos, cerca in tutti i modi di distrarmi, mi chiede se intendo fermarmi ancora qualche giorno ad Holbrook o ripartire subito per Flagstaff e Phoenix; le dico che non ho ancora deciso e lei, con nonchalance, mi dice che di li a tre giorni tornerà a Flagstaff per riprendere le sue lezioni alla N.A.U. Decido di rimanere ad Holbrook e tornare a Flagstaff insieme a lei: mi sembrerà così di essere ancora in vacanza e non sulla via del ritorno! Arriviamo ad Holbrook verso le 16.00, Lilyth mi lascia in albergo e mi da appuntamento di li a tre giorni, ora farà una “scappata” dai suoi nella fattoria del Canyon de Chelly. Appena rinfrescato telefono al Visitor Center e chiedo del Direttore, voglio ringraziarlo per come ha organizzato il mio tour e soprattutto per la preziosa guida che mi ha dato: non mi fa parlare ma mi chiede, se non mi reca troppo disturbo, di recarmi nel suo ufficio; non me lo faccio ripetere due volte, sono ben felice di incontrarlo di persona! Dieci minuti dopo sono da lui, quasi lo abbraccio tanto è il piacere di rivederlo!, trovo ancora Lilyth, che prima di partire, sta facendo il suo bravo rapporto, ci ri-salutiamo e lei scappa via come una folata di vento primaverile. Ci mettiamo a parlare, o meglio parlo solo io: ho tante cose da dire, tanti ringraziamenti da fare, lui si schermisce: ha fatto solo il suo lavoro. Sento la necessità di sdebitarmi per come sono stato accolto e seguito in questa mia vacanza ed invito lui ed il suo staff a cena per la sera successiva, dopo un po’ di convenevoli accetta ed io ritorno in albergo: ho bisogno di tirare i remi in barca e di stare un po’ solo. Passai quei tre giorni ad Holbrook andando da un Museo ad una Biblioteca ad un altro Museo; per essere una cittadina di non più di 4.000 abitanti Holbrook è ricca di centri di cultura, per la maggior parte dedicati allo studio ed alla conservazione della memoria storica del popolo Navajo. Era la seconda volta che visitavo queste istituzioni culturali ma, a differenza della prima, mi avvicinavo ad esse con un approccio diverso: se la prima volta era stata la curiosità e la voglia di sapere che mi aveva spinto, ora le visitavo con occhio e spirito diversi, volente o nolente avevo assorbito, anche se in minima parte, l’animo e lo spirito di questo popolo, di questo Diné, perfettamente cosciente dei valori fondamentali della loro tradizione, fiero di quello che erano stati e che sono tutt’oggi, in una parola orgogliosi di essere Navaho, o meglio ancora Navahuu, un termine poetico che tradotto suona più o meno così “Campo coltivato in un piccolo corso d’acqua”; io, dopo aver vissuto pochi giorni, se non addirittura poche ore, con loro ed in mezzo a loro, direi che quella definizione, per quanto poetica, è restrittiva, sarebbe certamente piuttosto più giusto dire “Grande cuore sul Grand River”! Approfittai largamente del fatto che, essendo in buoni rapporti con il personale del Visitor Center, la popolazione fosse di una disponibiltà incredibile: passavo quindi dal Museo ad uno store, parlando con tutti, cercando di approfondire la conoscenza di una popolazione meravigliosa; a distanza di più di trent’anni conservo ancora vivo il ri- - 57 - cordo di queste chiacchierate amichevoli e, mentre per ricordare i particolari del tour devo guardare le vecchie e sbiadite fotografie scattate in quei luoghi, i volti e l’animus di quel popolo non hanno bisogno di stimoli, ricordo perfino gli impronunciabili nomi con cui si presentavano, salvo poi darmene una, certamente sbiadita, traduzione inglese. I tre giorni passarono in un lampo, tutte le sere cenavo insieme allo staff del Visitor Center e l’ultima sera, quando ci salutammo, mi sembrò di lasciare amici che conoscevo da sempre. ♣ - 58 - mossa anche lei! Prima di lasciarci ci scambiamo gli indirizzi, ripromettendoci di scriverci. Sulla porta dell’albergo sento la voglia di abbracciarla ma mi trattengo, non voglio rovinare tutto, non voglio perdere un’amicizia che mi è cara. La mattina successiva, alla stazione ferroviaria, ho una sorpresa meravigliosa, Lilyth è li che mi aspetta, commossa e sorridente, mi porge un pacchettino: “in ricordo del popolo navajo” mi dice, lo apro con impazienza: è una bambolina intagliata nel legno; Lilyth mi spiega che è una Kacinah, un oggetto che rappresenta uno spirito, nella fattispecie lo spirito del ricordo, la apre ed all’altezza del cuore vedo una minuscola pietra: “è una pietra che ho preso sulla Navaho Fortress, il giorno che tu hai mostrato di capire a pieno l’anima del popolo navajo!”, non posso resistere, l’abbraccio, lei si irrigidisce, poi capisce il significato del gesto e mi stringe anche lei, ci salutiamo definitivamente con le lacrime agli occhi. Sono tre ore che viaggio ed ancora sono tra le nuvole: la delicatezza del gesto ed il suo significato mi commuovono: sono diventato anche io una parte di questo grande, meraviglioso popolo! Arrivo a Phoenix in perfetto orario, rapida corsa all’aeroporto, chek-in, imbarco, decollo: New York, arrivo! CAPITOLO XXVII Alle 09.00 in punto… Alle 09.00 in punto del mattino successivo Lilyth mi attendeva nella hall dell’albergo; caricati i miei bagagli in macchina diedi l’ultimo addio ad Holbrook e partimmo alla volta di Flagstaff, un rapido lunch lungo la strada e, nel tardo pomeriggio, arriviamo a destinazione; Lilyth mi lascia in albergo e ci diamo appuntamento per il pranzo del giorno successivo. Con domani si chiuderà una parentesi unica della mia vita, tra 48 ore sarò in viaggio per New York. Passo la mattinata passeggiando per le strade della città, aspettando l’ora di pranzo; rientro in albergo e mi vesto, come direbbe mia madre, in “modo civile”: tout de même, cravatta, camicia ben stirata, scarpe in tinta. Arriva Lilyth: gonna, camicetta, scarpe con tacco, borsetta, niente trucco: più che una professoressa sembra una liceale al primo appuntamento. Mi saluta sorridendo e, mentre saliamo in macchina, mi dice che è riuscita a liberarsi dagli impegni e che ha tutto il pomeriggio libero, se sono d’accordo potremo passarlo insieme; figurarsi!, io pensavo di passare un noiosissimo pomeriggio, con la vaga speranza che potesse essere libera per la cena; dopo pranzo mi porta a visitare alcuni angoli caratteristici della città e, per cena, andiamo in un locale appena fuori della città, dove suonano musica navajo; Lilyth parlotta con il capo del complessino ed ecco una lenta melopea si sprigiona dagli strumenti dell’orchestra: è un canto navajo che invoca gli spiriti perché proteggano la famiglia e la casa; ricordo ancora gli ultimi versi: “Spiriti di tutte le cose sotto i cieli, Benedite la mia casa fatta di fango, resina, pino. Benedite la mia famiglia fatta di sangue, midollo, osso.” Mi viene un nodo alla gola, mentre Lilyth mi traduce la parole... è com- ♠ - 59 - intorno, mi chiedono se mi sento male, chiamano Gianni, che accorre, legge la notizia ed impallidisce: lui sa i rapporti che mi legano al pilota! Squilla il telefono: è Guido, un aereo dell’Aeronautica Militare è pronto al decollo all’aeroporto di Pratica di Mare, attende solo me per partire; Gianni non vuole che parta solo, mi affianca un giovane e bravo collega, io lo prego di correre a Velletri per avvertire i miei, in particolare mia nonna, sofferente di cuore, non voglio che siano i Carabinieri a portarle la notizia. Alla porta troviamo due volanti della Stradale, una mi porterà a Pratica di Mare, l’altra porterà Gianni a Velletri; penso confusamente che dovrò ringraziare Guido per le sue premure, a cosa si pensa in questi momenti, forse è un modo per restare attaccati alla realtà di tutti i giorni! A Caselle torinese trovo una folla ad attendermi: personale dell’aeroporto, dirigenti della FIAT AVIO, giornalisti, fotografi e semplici curiosi; quattro Carabinieri mi fanno strada verso una gazzella, che, a sirene spiegate, mi porta al CTO, questo lo debbo a Raffaele .*, il Segretario Nazionale dell’Associazione ex Allievi, attivatosi immediatamente, appena saputa la notizia; è commovente vedere quanti amici mi sono vicini in questo momento di dolore! Al CTO non mi fu possibile vedere mio zio: era in rianimazione, sotto tenda a ossigeno ed in stato di incoscienza; parlo con i medici, non mi lasciano molte speranze, in base ai risultati della TAC se sopravviverà, un se grande come una casa, resterà paralizzato; mi rivedo davanti mio zio, pieno di vita, sempre sorridente e lo vedo paralizzato, in fondo ad un letto o, nella migliore delle ipotesi, su una sedia a rotelle!, meglio la morte!; ma che dico, che penso, la morte non è mai la soluzione migliore! Non resta che pregare, mi reco a Superga, teatro anche li di una sciagura aerea, rimango per non so quanto tem- CAPITOLO XXIX Tornato in Italia… Tornato in Italia ripresi il mio lavoro al giornale, ero oramai un “vecchio” della carta stampata, avevo al mio attivo una serie di “servizi” che, data la mia possibilità di accedere a “notizie riservate”, ovviamente non pubblicabili ma rielaborabili in maniera tale da permetterne la divulgazione, mi ponevano in quella ristretta cerchia dei “corrispondenti di guerra” più quotati ed informati: ricevevo offerte da prestigiose testate, periodici ed ebdomadari specializzati mi chiedevano articoli ad hoc, perfino alcune testate straniere avrebbero gradito articoli con la mia firma; dopo essermi consultato con Gianni e Guido, accettai di collaborare in maniera continuativa con alcune riviste specializzate, mentre gli altri richiedenti si dovettero accontentare di qualche articolo “d’opinione” che scrivevo con notevole parsimonia. Per giustificare il mio rifiuto a migliorare di molto la mia situazione economica, Gianni, in accordo con Guido, l’Editore ed in parte con il Ministero delle Finanze, che però non ne seppe mai il motivo, mi aumentò notevolmente, ma solo sulla carta, lo stipendio; secondo il metro delle retribuzioni dei giornalisti professionisti, dato il tipo di testata, ero strapagato. Devo dire, a loro onore, che i colleghi non brontolarono per i miei emolumenti, alcuni addirittura ritenevano che fossi sottopagato! Passarono circa due anni quando, il primo giugno del 1984 giunge in redazione una notizia terribile per tutti, ma per me particolarmente atroce: il prototipo sperimentale del caccia di appoggio tattico AMX è precipitato nei pressi dell’aeroporto di Caselle Torinese, ai comandi il pilota veliterno, capo collaudatore della FIAT AVIO, Manlio Quarantelli, mio zio! Devo rileggere più volte il breve flash dell’ANSA, stento a crederlo!, i colleghi, vedendomi impietrito, mi si fanno - 62 - po davanti al Santissimo, muto, incapace perfino di pregare, riesco a malapena a ripetere, meccanicamente, “Signore, pietà!”. Di quei giorni ricordo solo le ore passate al CTO prima, alle Molinette poi, in un’alternarsi di speranze e disillusioni, le lunghe telefonate con mia nonna e mia madre; sarebbero volute venire, ma riuscii a dissuaderle: a che cosa sarebbe servita la loro presenza se non ad aumentare la loro angoscia? Tornai a Roma anche io, le condizioni di zio erano gravi ma stazionarie, la mia presenza era inutile, Camillo .*, Segretario della sezione Piemonte dell’Associazione ed un giovane Ufficiale dei Carabinieri, anche lui ex-Allievo, mi avrebbero tenuto al corrente del decorso clinico, telefonandomi più volte al giorno. Mi trasferii a casa dei miei, Gianni e Guido mi chiamavano giornalmente, i miei amici più cari cercavano notizie, Peppe .* si recò a Torino per avere notizie “sicure” dai colleghi delle Molinette, Corrado .* da Washington e Dino .* da Ankara mi telefonarono più volte, Raffaele .* venne a trovarmi, ero circondato da testimonianze di affetto che non avrei creduto possibili. Il 7 luglio una telefonata mi fece ripiombare nella disperazione: nella nottata, a causa di un improvviso aggravamento, zio era stato trasportato al CTO di Milano, più attrezzato, per essere nuovamente operato, un ultimo, estremo tentativo di strapparlo alla morte! Di nuovo corsa forsennata all’aeroporto, Fiumicino, Malpensa, CTO, lunghe attese, incontri con gli specialisti, il decorso post operatorio che lascia qualche tenue speranza, la degenza tra miglioramenti effimeri e ricadute allarmanti, poi, il 19 agosto, la fine! Il giorno del suo 58° compleanno zio Manlio entrava nella Gloria del Signore e nella storia degli uomini: per il suo gesto eroico l’Aeronautica Militare gli concedeva la Medaglia d’Oro al Valore Aeronautico, lo Stato, su proposta del- la Giunta municipale e dei cittadini di Caselle, miracolosamente scampati alla strage, gli concedeva la Medaglia d’Argento al Valor Civile, il Brasile, coproduttore dell’AMX, una decorazione per “L’alta professionalità ed il valore che lo hanno portato al sacrificio supremo”; diverse città italiane, con in testa ovviamente la Sua Velletri, gli hanno intitolato una via od una piazza. Lui non c’è più, ma il suo ricordo è impresso per sempre nel mio cuore, ancora oggi, a distanza di tanti anni, mentre scrivo queste righe mi si inumidiscono gli occhi. Arrivederci, zio! ♦ - 63 - Mi giunse un invito dall’Ambasciata Israeliana, lo avrei declinato volentieri, ma esigenze diplomatiche non me lo consentirono e fu una fortuna… Mentre vagavo nei saloni dell’Ambasciata, rispondendo meccanicamente ai saluti ed alle domande degli invitati, mi sembrò di scorgere una figura conosciuta, mi avvicinai e si, era proprio lei, la mia hostess, Grazia!; un po’ invecchiata, ma sempre lei, e poi io la vedevo con gli occhi di allora, a Kyoto, allegra e sorridente, nel bagno comune di Tokyo, sorridente e maliziosa, la mattina in albergo, preoccupata perché non sapeva dove fossi andato. Era stata per me una ventata di freschezza, un punto di forza in un momento in cui ancora non sapevo quale via avrebbe preso la mia vita! Solo adesso mi accorgevo di quanto avesse contato per me e di quanto, seppure inconsciamente, lei fosse stata sempre presente in ogni momento della mia vita! Cominciai a parlarle tumultuosamente, senza riprendere fiato: volevo sapere tutto di lei, cosa faceva, come viveva, se era sposata, con chi, perché… lei mi guardava sorridendo, con lo stesso sorriso che aveva sull’aereo dove l’avevo vista per la prima volta, con la stessa grazia che aveva in Giappone, dolce e deliziosa come allora… Quando riuscii ad arginare il torrente di frasi, per lo più confuse ed incoerenti, che quasi l’avevano travolta, lei cominciò a raccontarmi la sua vita: morto il padre, sua madre si era ammalata gravemente e lei aveva lasciato l’Alitalia per starle vicino; grazie alla sua conoscenza delle lingue ed a suo cugino Giancarlo, che si era reso garante per lei, aveva ottenuto un posto di traduttrice al Ministero degli Affari Esteri, la sua intelligenza ed il suo savoir faire avevano fatto il resto ed ora era una dirigente del Dipartimento Relazioni Diplomatiche. Anche lei non mi aveva dimenticato ed aveva più volte chiesto al cugino notizie sul mio conto. CAPOTOLO XXXIV La mattina del 2 agosto 1990… La mattina del 2 agosto 1990 tutto il mondo seppe che le truppe irachene avevano passato la frontiera del Kuwait ed invaso il piccolo Stato; quello che non poteva sapere erano i convulsi contatti intercorsi tra le grandi potenze, allertate dai rispettivi Servizi, per scongiurare l’invasione; i Paesi tradizionalmente vicini all’Iraq, come la Russia e la Cina, oltre ad alcuni Stati arabi, avevano invano esercitato la loro influenza su Saddam: il dittatore, per tacitare i forti dissidi interni, non aveva altro mezzo che fare leva sullo spirito nazionalistico della popolazione e quindi, dal suo punto di vista, l’unica soluzione logica era la guerra di riconquista della diciannovesima provincia! I Servizi erano al massimo dei giri, al King David, l’albergo di Gerusalemme dove si erano installati tutti i corrispondenti (e tutti gli spioni!) della stampa internazionale, trovare un angolo libero era praticamente impossibile: per avere una consumazione al bar c’era da attendere un’ora, al ristorante si pranzava e si cenava a turno ed i telefoni erano perennemente occupati! Io vivevo praticamente tra la nostra Ambasciata e la sede del mio team, attualmente composto da Žjiva e Caleb del Mossad, Elia e Sara della Shin Beth e due giornalisti, uno americano ed uno inglese, dei quali non sapevo neanche il nome. A tutto questo bisognava aggiungere i servizi giornalistici che dovevo inviare al mio quotidiano, perchè per tutti io ero un inviato speciale, un po’ più informato degli altri (avevo le mie fonti), e per questo i colleghi mi stavano sempre intorno, sperando che mi scappasse qualche indiscrezione; come se non bastasse un canale televisivo italiano mi cercava in ogni momento per avere notizie fresche! Riuscii a trovare qualche giorno per fare una scappata in Italia; anche qui non trovai pace tra il giornale, il Servizio, mia madre e via discorrendo... - 73 - Giancarlo aveva potuto ovviamente dirle ben poco: lavoravo presso una testata giornalistica della Capitale, ma difficilmente mi si poteva trovare in sede, in quanto la direzione mi mandava frequentemente all’estero come inviato speciale. Ricordando Hong Kong e Tokyo lei aveva intuito quale fosse il mio vero lavoro, ma saggiamente si era astenuta dal porre ulteriori domande. Come se fossimo tornati indietro di vent’anni le chiesi se era libera per pranzare con me il giorno dopo e, come vent’anni prima, lei mi rispose che le era impossibile, ma che avrebbe cercato di liberarsi per la cena, Come allora andai trepidante all’appuntamento serotino, ma, a differenza di allora, lei venne sola. Parlammo di noi, della nostra vita e, piano piano, arrivammo a confidarci tutto: le dissi della mia fallimentare esperienza matrimoniale, della mia solitudine, di come, nonostante tutto, mi sentissi quasi un fallito; mi rincuorò perché, a suo avviso, dal poco che le avevo potuto raccontare e dal tanto che lei aveva indovinato, avevo avuto una vita piena, anche se qualcosa non era andata per il verso giusto; al confronto la sua vita era stata piatta e monotona: fare l’hostess non è una vita di divertimenti folli, ma di sacrifici e rinunce, il lavoro al Ministero era soddisfacente, ma di routine, il dolore per la morte del padre, la diuturna assistenza alla madre, ormai allettata da più di un anno… No, non si era sposata: aveva avuto delle richieste in tal senso, ma non si era mai decisa, aspettava l’uomo giusto, mi confessò arrossendo… ci lasciammo, come allora, con un timido bacetto sulle guance. Ero sul piede di partenza quando ricevetti una telefonata da Giancarlo: la madre di Grazia si era aggravata, doveva essere ricoverata d’urgenza e, in tutta Roma, non si riusciva a trovare un letto libero in una struttura che desse garanzie di un’assistenza adeguata; si era ricordato che un mio amico era Presidente di una clinica nei Castelli Romani e mi chiedeva di intervenire per procurarle il ricovero presso quella struttura. Nel giro di un’ora potei confermargli che il posto c’era e che Grazia poteva portarci la mamma anche subito. Mandando all’inferno tutti gli impegni mi recai in clinica ad attendere l’arrivo dell’ambulanza, nel frattempo avevo allertato mia madre: Grazia, sola con un’ammalata, in un posto che non conosceva, avrebbe avuto senz’altro bisogno di una presenza femminile. Dopo il ricovero andai a parlare con i medici, li conoscevo tutti ed alcuni erano stati miei colleghi all’università, mi dissero che, purtroppo, solo un miracolo avrebbe potuto salvare la signora: la malattia aveva raggiunto un tale stadio che loro erano impotenti, potevano solo alleviare le sue sofferenze. Provai una stretta al cuore pensando a Grazia che, tra poco, si sarebbe trovata completamente sola: non era giusto! Ne parlai con mia madre per cercare un modo di starle vicino e credemmo di aver trovato una soluzione, sempre che Grazia la accettasse: io vivevo per mio conto, ai tempi del mio matrimonio avevo acquistato un piccolo appartamento vicino alla casa dei miei pensando che, una volta lasciata Bari, avrei potuto abitarlo con mia moglie, mentre mia madre viveva insieme a nonna nella villetta di campagna, pensava quindi di offrire a Grazia di andare ad abitare con loro, almeno per un breve periodo. Dopo dieci giorni di agonia la mamma morì e Grazia accettò di buon grado, “purchè non recasse disturbo”, di trasferisi presso i miei, non se la sentiva di tornare nell’appartamento di Roma, completamente vuoto ed oltretutto non di proprietà, ma in affitto. Avrebbe fatto l’abbonamento al treno e si sarebbe recata al lavoro con quel mezzo. Sistemate così le cose ripartii per Gerusalemme, dove trovai notizie sconfortanti: Saddam aveva cominciato a - 74 - deportare gli abitanti del Kuwait ed ad inviare, nei loro territori, gli iracheni che appartenevano al suo fedelissimo clan. Tutto ciò avveniva mentre i Grandi della terra si accapigliavano all’ONU ed il Consiglio di Sicurezza non sapeva che pesci pigliare. Tornai un’altra volta in Italia, volevo rivedere Grazia e partecipare ad un evento eccezionale: il 18 novembre, giorno della fondazione della Scuola Militare e del Giuramento di Fedeltà alla Patria dei nuovi allievi, coincideva con il quarantesimo anniversario della nascita dell’Associazione ex Allievi, era qualcosa di rilevante, e tutti gli ex allievi che avessero potuto liberarsi non sarebbero certo mancati all’evento! Pensai quindi di invitare Grazia a partecipare anche lei come mia accompagnatrice, così come era successo a Kyoto, e ben deciso a comportarmi nella stessa maniera. Grazia accettò ed io, a scanso di equivoci, mi premurai di prenotare due stanze all’hotel Terminus, dove ero solito scendere quando mi recavo a Napoli. Proprio al Teminus, appena arrivati, accadde un episodio imbarazzante, che non so quante donne avrebbero superato con un’allegra risata, come fece Grazia: alla concierge vi era un addetto che io conoscevo da tempo, eravamo diventati amici, e che, come mi vide in compagnia di una donna, conoscendomi come mi conosceva, non guardò neanche il registro delle prenotazioni ma si rivolse ad un collega dicendo: “presto, la solita matrimoniale per il signor Maurizio!”. Guardai con apprensione Grazia, mentre comunicavo allo sbalordito impiegato che avevo prenotato due camere singole. Non so dei due chi fosse più stupito, se l’impiegato o Grazia, di certo io mi sentivo molto più imbarazzato di quando a Tokyo, nel bagno comune, era apparsa Grazia! Chiarito definitivamente l’equivoco, sotto lo sguardo un po’ imbarazzato ed un po’ ironico dell’impiegato, ci registrammo e, prese le chiavi, ci recammo nelle nostre rispettiva camere. Grazia non conosceva Napoli ed espresse il desiderio di fare due passi prima di cena, accondiscesi volentieri, ansioso come ero di far dimenticare lo spiacevole ed imbarazzante episodio di poco prima. Lei guardava con curiosità i bei negozi del rettifilo, scherzando su quanto era accaduto: “devi essere ben conosciuto in quell’albergo” mi disse facendo una bella risata; risi anch’io, però a mezza bocca: non volevo che Grazia pensasse che io fossi un donnaiolo impenitente! Dopo la cena, che consumammo in un localino a conduzione familiare e che io prediligevo per il cibo e per il posteggiatore che, accompagnandosi con la chitarra, cantava le più belle melodie napoletane; andammo in centro: via Toledo, i Quartieri Spagnoli, via Chiaia, Piazza Martiri, Piazza del Plebiscito, tutto era nuovo per lei, ma lo era stranamente anche per me, era la prima volta che visitavo quei luoghi tanto familiari in compagnia di una donna colta ed intelligente e non con una bambola vana, buona al più ad essere la compagna di una notte! Terminammo la serata al Gambrinus, il locale famoso per essere stato il ritrovo preferito di poeti, scrittori e musicisti, da Bovio a Bongiovanni, da Scarpetta a D’Annunzio, da Di Giacomo al principe de Curtis, meglio conosciuto con il nome d’arte di Totò. Un babà, un brandy e poi via in albergo a dormire, la mattina seguente ci saremmo dovuti alzare presto. Ci augurammo la buona notte sulla soglia della sua camera scambiandoci, come ormai era diventata una (per me piacevolissima) consuetudine, un rapido bacio sulle guance. ♣ - 75 - Pranzai con Grazia nel solito ristorantino, con l’accompagnamento musicale del posteggiatore che, avendoci sicuramente scambiati per una coppia di innamorati, non si allontanò mai dal nostro tavolo, suonando le arie più romantiche del suo repertorio! Quel pomeriggio, lasciata Grazia in albergo, feci una bellissima rimpatriata: Lino, ora Generale comandate della Scuola ABC della Cecchignola, Corrado, Addetto Militare a Washington DC, Luciano .*, Direttore del Servizio Approvvigionamenti Esercito presso il Ministero, Piero .*, Maurizio .*, Generale degli Alpini, con incarichi particolari presso la NATO, il mio fraterno amico Giuseppe .* (detto Pepè), celebre chirurgo plastico ricostruttivo che, oltre ad esercitare come libero professionista presso una grande clinica, prestava la sua opera, praticamente gratis, al Regina Elena, l’ospedale oncologico della Capitale, in team con Francesco (Checco) .*, nostro “cappellone”, (ossia che era entrato alla Scuola due anni dopo di noi), ed ora primario chirurgo del reparto maxillo-facciale di quel centro. Il pomeriggio passò in un attimo, tra carrellate di ricordi e bonari sfottò (… ti ricordi quando ti davi malato per evitare l’interrogazione di latino…, tu che servivi Messa non per fede ma per squagliare la rivista…, tu che facevi il piantone alle camerate perché dicevi che la ginnastica pomeridiana faceva male alla digestione…, e tu che…). Parlammo anche di cose serie, della professione, della famiglia, ma soprattutto parlammo degli assenti, non per loro volontà, ma perché cause di servizio e malattie ce li avevano tolti per sempre. Di loro, e di quelli degli altri corsi, ce ne saremmo ricordati, con commozione e rispetto, la domenica successiva, durante la Santa Messa. Tornai in albergo per prendere Grazia pensando ancora al pomeriggio appena trascorso, ai miei colleghi, alle loro vite ed alle loro carriere, delle quali potevano parlare, mentre io… CAPITOLO XXXV Mentre, il giorno dopo… Mentre, il giorno dopo salivo, insieme a Grazia, verso Pizzofalcone, sul monte Echia, sede della Scuola Militare, un’ondata di ricordi mi assalì: mi rivedevo, poco più che quattordicenne, salire per quelle stesse vie con una valigetta, tante speranze e tanta nostalgia di casa; rivedevo il maestoso portale d’ingresso della Scuola, gli ufficiali che ricevevano me ed i miei colleghi, i furieri che ci consegnavano gli effetti personali e la divisa, sentivo di nuovo le note del silenzio che, ascoltato per la prima volta, causava nell’animo un sentimento misto di nostalgia e di speranza... Passai con riverenza, proprio come allora, la porta carraia ed entrai nel “cortile grande”, affollato di ex allievi (eravamo accorsi in duemila al richiamo dell’Alma Mater!), fui indirizzato alla Sala di Scherma per la registrazione: diedi il mio nome e l’anno di corso e presentai Grazia come mia ospite, ci dettero un foglio con il programma di tutte le manifestazioni previste ed una cartellina contenente la documentazione necessaria per parteciparvi, alcuni volumi sulla storia della Scuola e dell’Associazione ed un libretto con i nomi e gli indirizzi di tutti gli ex allievi, divisi per corso, attività professionale e luogo di residenza. Con dei pullman ci recammo al Campo Sportivo Militare dell’Arenaccia, per assistere al giuramento dei nuovi Allievi e poi, davanti alle Autorità ed agli invitati, sfilare come allora divisi in Compagnie di formazione. Ancora ricordi e, perché no, qualche sospirone per nascondere gli occhi, stranamente lucidi! Per il pranzo non erano previsti incontri, mentre nel pomeriggio, nei locali della Scuola, ci sarebbero state riunioni separate per ogni corso; ci saremmo ritrovati tutti insieme la sera, al molo Beverello, per imbarcarci sull’Angelina Lauro, dove avremmo cenato mentre solcavamo il golfo. - 76 - Nel complesso un pomeriggio dolceamaro, pieno di gioia e, nello stesso tempo, di malinconia In albergo mi cambiai in fretta, la sera dovevamo indossare la divisa da ex allievi: pantaloni grigi, giacca a doppio petto in castorino blu notte, camicia azzurra con cravatta regimental ed ovviamente il due pizzi, il berretto della divisa da fatica che indossavamo all’interno della Scuola; Grazia, con un abito da mezza sera, elegantissima, era, se possibile, più bella del solito. Saliti a bordo dell’Angelina Lauro la prima persona che vedemmo fu Giancarlo che, passata la sorpresa nel vedere la cugina insieme a me, ci salutò calorosamente ma che, per tutta la serata, continuò a guardarmi con aria sospettosa! Dopo cena salii con Grazia sul ponte superiore della nave per farle ammirare il golfo sotto la luna: Capo Posillipo, Nisida, Ischia, Procida, il Vesuvio, Napoli di notte e, in lontananza, Sorrento e Capri; mi resi conto in quel momento che Grazia non era solo una carissima amica, ma che la desideravo al punto da farmi dimenticare il proposito di non sposarmi mai più, e che volevo che diventasse mia moglie! Non dissi nulla, non volevo pensasse che, approfittando di quel momento magico, volessi far cadere le mura di Gerico, come nel famoso film di Frank Capra! Tornammo nel salone, Giancarlo aveva notata la nostra prolungata assenza e sulla sua fronte si leggevano i più atroci sospetti! Non feci nulla per rassicurarlo: avevo preso la mia decisione e di quello che pensavano gli altri non me ne fregava niente! Tornati in albergo ci augurammo la solita buona notte (stretta di mano e casto bacetto). Degli altri due giorni ho un solo ricordo ben preciso: ero diviso in due; se da un lato desideravo stare con gli amici per continuare a parlare di noi, dall’altro temevo di trascurare Grazia, riuscendo perfettamente a trascurare Grazia e a non stare con gli amici! Prima del rompete le righe ci eravamo scambiati, con i colleghi che risiedevano a Roma, i numeri telefonici per tenerci in contatto in modo più continuativo; li invitai a venirmi a trovare, quando il tempo fosse stato più clemente, nella casa dei miei, in campagna; a loro volta mi dissero che avevano preso l’abitudine di ritrovarsi periodicamente a casa dell’uno o dell’altro, qualche volta al Circolo Ufficiali, altre volte in un ristorante. Mi invitarono ad unirmi a loro ed estesero l’invito anche a Grazia (“ormai è un ex allievo onorario” disse Pepè, guardandomi con un’aria…) Tornammo a Roma per riprendere la vita di sempre; Grazia mi sembrò più distesa, sembrava felice delle nuove conoscenze fatte. ♠ - 77 - completa disposizione e, dato che non vi erano molti passeggeri, per farci stare più comodi aprì la porta di comunicazione con lo scompartimento adiacente in modo che non avessimo il fastidio di dormire sulla cuccetta superiore! La mattina successiva lo ringraziammo della gentilezza usataci ed io mi feci dare il nome del fratello per segnalarlo al suo comandante, qualora fosse stato, cosa molto probabile, un mio collega. Arrivati in albergo lasciai Grazia, che, nonostante il comodo viaggio, si sentiva stanca, a riposarsi e mi recai alla “Teuliè” per avere il programma dettagliato per la cerimonia che si sarebbe tenuta il giorno seguente, incontrai alcuni ex-allievi che erano stati compagni di corso di povero zio, ed il vicecomandante (la Scuola per il momento era un distaccamento della Nunziatella) si dichiarò felice che un rappresentante della famiglia dell’Eroe presenziasse al Giuramento; mi offrì un posto in tribuna ed io dovetti fargli presente che, come giornalista, avrei avuto necessità di muovermi con una certa libertà, ma che, se era possibile, avrei lasciato il mio posto a mia moglie, inutile dire che la mia richiesta fu accolta immediatamente. Tornai in albergo e trovai Grazia che si era rimessa, ma io ero preoccupato, era la prima volta che notavo questi sintomi di stanchezza in mia moglie; oltretutto l’albergo non aveva il ristorante, e quindi saremmo dovuti uscire per il pranzo. Grazia mi assicurò che si sentiva benissimo e che sarebbe uscita con piacere, anche perché voleva rivisitare Milano, dato che l’aveva già visitata, ma molto tempo prima, con i suoi genitori. Dopo il pranzo ci recammo in centro, il Duomo, il Castello Sforzesco, via Montenapoleone; in corso Buenos Aires le comprai un borsetta che le era particolarmente piaciuta, prendemmo un aperitivo ed in serata scovammo una trattoria a conduzione familiare dove il pizzaiolo, napoletano, ci fece mangiare CAPITOLO LIII Il 1996 si annunciava… Il 1996 si annunciava come portatore di due avvenimenti per me molto importanti: a marzo avrebbero giurato gli Allievi del I° Corso della riaperta Scuola Militare di Milano, la “Teuliè”, la Scuola frequentata da zio Manlio fino alla sua forzata chiusura nel 1943. Sentivo il dovere morale di assistere a quel giuramento: zio Manlio ci sarebbe andato, io dovevo rappresentarLo! A giugno poi il mio Corso (1956-1960) avrebbe festeggiato il 40° anniversario del nostro ingresso alla Scuola, un evento che due miei compagni di corso, Maurizio .* e Giuseppe .*, stavano organizzando da oltre un anno ed al quale nessuno di noi sarebbe mancato. Due appuntamenti che non si potevano ignorare e sia Grazia che io ci demmo da fare per pianificare i nostri periodi di ferie per farli coincidere con i mesi e le date previste. Il 14 marzo in serata partimmo per Milano; avevo prenotato uno scompartimento in vagone-letto per viaggiare comodamente ed arrivare riposati a destinazione. Io indossavo già la divisa da ex-allievo, dato che avevo timore, mettendola in valigia, che arrivasse stazzonata; quando, a Roma Termini, salimmo sul vagone, l’inserviente di servizio rimase meravigliato e mi chiese cosa fosse lo strano berretto che portavo, gli dissi che era il “due pizzi”, il berretto d’ordinanza della Scuola Militare di Napoli; a questo punto cominciò un fuoco di fila di domande: voleva sapere se ero un ufficiale, dove era il mio reparto, perché andassi a Milano, lui aveva un fratello sottufficiale, voleva sapere se lo conoscevo, ecc.; gli spiegai brevemente che ero un civile e che mi recavo a Milano per il Giuramento Allievi presso la Scuola Militare che, dopo più di 50 anni di chiusura, riapriva i battenti per “preparare i giovani alla vita ed alle armi”. Quasi si commosse, si mise a nostra - 129 - un’ottima pizza “margherita”. Rientrammo in albergo soddisfatti del pomeriggio trascorso, io mi sentivo più tranquillo: Grazia aveva ripreso il suo colorito e non accusava più la stanchezza, nonostante la lunga passeggiata pomeridiana. La mattina successiva ci recammo alla Scuola, presentai Grazia ai colleghi ed al Comandante e l’accompagnai al suo posto in tribuna, mentre io, munito di macchina fotografica e di mini registratore, mi accingevo a fare il mio lavoro di cronista. Dopo la cerimonia del Giuramento, cerimonia che mi faceva tornare in mente il mio giuramento, fatto tanti anni prima, e che mi commuoveva sempre, fummo invitati al Circolo Ufficiali per il vin d’honneur, insieme alle personalità che avevano assistito alla cerimonia: il fatto che fossi il nipote del Comandante Quarantelli ci pose al centro dell’attenzione, creandomi un certo imbarazzo, non ero io l’Eroe, ero solo un parente che era venuto li per onorarne la memoria! Pranzammo ospiti dei colleghi di corso di zio, ci scambiammo gli indirizzi, ripromettendoci di tenerci in contatto, e ci salutammo all’insegna del più sincero cameratismo. Nel pomeriggio inviai “via mail” al giornale il “pezzo” e le foto del Giuramento con il valido contributo di mia moglie, io ed il computer non eravamo molto compatibili, mentre Grazia ci colloquiava bene! Il giorno successivo, in serata, ripartimmo per la capitale. Riprendemmo la solita vita e, dei due, Grazia era la più impegnata, io, dopo aver scritto il mio pezzo ed aver sentito, per telefono o di persona, alcuni amici e conoscenti per avere sempre chiaro il quadro della politica internazionale, non avevo praticamente nulla da fare, ricevevo si inviti a manifestazioni o ricevimenti ma, a meno che non fosse indispensabile per il mio lavoro, li declinavo: senza Grazia non mi andava di parteciparvi. Ripresi quindi a frequentare i pochi amici che avevo a Velletri, ma la maggior parte del tempo la passavo al bar di Balilla, chiacchierando del più e del meno con i frequentatori abituali e, purtroppo, bevendo. Arrivammo così a Giugno ed alla fatidica data del Raduno del mio Corso: Maurizio e Pepè avevano organizzato tutto alla perfezione; all’arrivo alla Scuola, all’atto della registrazione, ci fu consegnata una borsa che, oltre al programma delle riunioni, conteneva alcuni libri sulla storia della Nunziatella, per la maggior parte raccolti od addirittura scritti da Peppino .*, un ex che era stato mio “anziano”, alto dirigente della Regione Campania ed appassionato di storia in generale e di quella della Nunziatella in particolare, inoltre vi era un cartellino di riconoscimento che riportava il nome e la foto che ci era stata fatta, quarant’anni prima, per essere applicata sul nostro documento di riconoscimento: soluzione azzeccata, infatti a tanti anni di distanza le nostre fisionomie erano decisamente cambiate e quelle foto, anche se mostravano impietosamente gli anni trascorsi, ci permettevano di riconoscerci meglio. Anche le nostre accompagnatrici ebbero una borsa simile, ovviamente sul loro cartellino non vi era la loro fotografia ma la nostra, per indicare il rapporto di “appartenenza”! Tre giorni a Napoli, tra visite nei luoghi più interessanti della città, a beneficio delle nostre gentili compagne, cene conviviali ed una cena presso il refettorio della Scuola, con un menù identico a quello di “allora”: minestra, mozzarella fritta con patate, frutta e, cosa che allora non era prevista, vino e dolce offerti dal Colonnello Comandante, un tuffo nel passato che a molti di noi fece inumidire gli occhi. Con questa cena si concludeva la parte “ufficiale” del raduno ma, per quelli di noi che si potevano permettere di assentarsi più a lungo dai loro impegni, era previsto una piacevole aggiunta. - 130 - Capri, the island in the sun, la perla del Golfo, l’isola degli innamorati, delle celebrità e... dei ricconi, era stata scelta dagli organizzatori come piacevolissimo prolungamento del nostro raduno. Partimmo nella mattinata del quarto giorno su un aliscafo appositamente noleggiato ed eravamo praticamente tutti, ad eccezione di pochissimi, pressati da improcrastinabili impegni, nessuno se la sentiva di privarsi del piacere di rimanere ancora un poco insieme e a portare un saluto, sia pur fuggevole, all’isola incantata. Molti sarebbero ripartiti nella stessa giornata e, a conti fatti, saremmo rimasti si e no una trentina per i tre giorni previsti prima del definitivo “rompete le righe”! Pranzammo in un locale che si affacciava sui faraglioni; il pranzo era stato organizzato sulla terrazza del ristorante ma un imprevisto rovescio di pioggia ci costrinse al coperto: mentre le signore portavano all’asciutto le stoviglie noi, rudi uomini, ci “incollavamo” i tavoli e le sedie; mangiammo tra risa e maledizioni, risa per l’imprevista variazione del programma, maledizioni all’indirizzo di Giove pluvio. Accompagnammo al porto gli amici che ci lasciavano e ci acquartierammo in uno degli alberghi più belli di Capri: il Tre Palme, a due passi dalla celebre piazzetta. La sera cenammo ad Anacapri e potemmo ammirare il golfo sotto la luna, solcato dalle scie luminose delle navi che salpavano ed attraccavano dal porto di Napoli, in lontananza la Penisola sorrentina era uno sfavillare di luci multicolori e, proprio sotto di noi, la piazzetta sfavillava come il sole a mezzogiorno; Grazia, che non conosceva l’isola, era estasiata, sembrava una bambina a cui avessero regalato il balocco tanto desiderato! Il giorno successivo visitammo la Grotta Azzurra e, nel pomeriggio, mentre gli altri si recavano a vedere i ruderi della Villa di Tiberio, noi restammo in albergo, poiché Grazia aveva accusato un po’ di stanchezza, al loro ritorno gli amici ci trovarono seduti sul terrazzo del bar dell’albergo e Pepè si fermò al nostro tavolo; si informò subito di come si sentisse Grazia poi, notando un lieve tremito alle sue mani mentre sorseggiava un drink, gli chiese se lo avesse spesso e, se si, da quanto tempo: disse che non gli piaceva quel tremito e le consigliò di fare un chek-up completo il prima possibile. Il giorno successivo rientrammo a Napoli e, mentre ci scambiavamo gli ultimi saluti sul Molo Beverello, Pepè mi prese da parte e mi raccomandò di far visitare subito mia moglie: “probabilmente è una fesseria, ma con certi sintomi è meglio essere prudenti”. Rientrati a casa insistetti perché si facesse visitare e così ci ricoverammo in clinica per un chek-up , in fondo anche per me, a 55 anni, un controllo completo non era superfluo. Le analisi purtroppo confermarono quello che Pepè aveva intuito: Grazia soffriva di una disfunzione alla tiroide: “nulla di grave, un’energica cura e tutto tornerà nei limiti”, fu il verdetto dei sanitari. Cominciò così il calvario di Grazia, un calvario che ancora oggi l’affligge e che avrebbe portato con il tempo ad un radicale cambiamento della nostra vita. Aiutata dalle medicine, dal suo spirito indomito e confortata da un notevole miglioramento, riprese la sua vita normale ed io, anche se preoccupato, continuai con il mio lavoro. ♦ - 131 - Nel 2008 ricorreva il 150° anniversario delle Apparizioni della Vergine alla Grotta di Massabielle e noi decidemmo, nonostante le difficoltà, di tornare ancora una volta a Lourdes Ci rivolgemmo quindi all’UNITALSI, l’organizzazione di volontari cattolici che si occupa di assistere i malati che vogliono recarsi nei Santuari di tutto il mondo. Facemmo così il nostro primo pellegrinaggio da malati. Recarsi a Lourdes da malati è un’esperienza unica, diversa, inimmaginabile: il Santuario è diverso da come lo si è visto da sani, lo spirito si innalza al cielo non per chiedere la propria guarigione, ma la guarigione di tutta l’umanità, la guarigione da tutti i mali che l’affliggono, dalle guerre, dall’odio, dalle sciagure e dalle malattie di ogni genere. Mentre scrivo queste righe ho davanti agli occhi i volontari dell’UNITALSI, il loro infinito amore, la loro eroica pazienza verso i loro fratelli più bisognosi: un esempio di dedizione che solo l’amore divino può dare: “quello che farete al più umile dei vostri fratelli lo avrete fatto a me!” CAPITOLO LXXIII L’anno terminò … L’anno terminò con un grande dolore: a dicembre morì mia madre, oramai gravemente malata da lungo tempo, al punto che, con nostro grande dispiacere, eravamo stati costretti a farla ricoverare in una Casa di Riposo, dove poteva essere seguita con quella cura che noi, in famiglia, non potevamo assicurarle. Ci crollò il cielo sul capo: io adoravo mia madre e Grazia aveva trovato in lei una seconda madre, la loro intesa era così intensa al punto che chi non ci conosceva pensava che lei fosse la figlia ed io il genero. Le condizioni di salute di mia moglie peggioravano ed io, purtroppo, cercai il conforto nell’alcool, arrivando al punto di intossicarmi: ebbi un collasso e rischiai la vita. Con l’aiuto di Dio e con l’abnegazione di mia moglie riuscii a “sfangarla”, altri amici mi furono vicini e così riuscii ad uscire da un tunnel perverso che mi stava rubando gli affetti più cari. Nel 2007 cessai ogni attività lavorativa e contemporaneamente, purtroppo, Grazia si aggravò al punto che dovette chiedere di essere messa a riposo. Ci stabilimmo definitivamente in campagna, in quel “pezzo di terra” che mi aveva visto nascere, in quell’uliveto che tanto ci piaceva. Grazia cominciò a scrivere: racconti e romanzi ispirati alla vita ed alla Fede che ci aveva sempre sostenuti nel nostro cammino; partecipò anche ad alcuni concorsi letterari e due sue novelle furono pubblicate poi, nel 2010, un suo romanzo, in parte autobiografico, in parte dedicato alla vita dello zio missionario, fu ritenuto meritevole di pubblicazione. Una grande soddisfazione per lei che, da una vita attiva era passata ad un vivere sedentario, costretta come era a muoversi a fatica, con l’ausilio del “canadese” e perfino, per gli spostamenti più lunghi, della sedia a rotelle. ♣ - 204 - EPILOGO Con il Pellegrinaggio a Lourdes, il mio ventesimo, il quinto con la mia adorata Grazia, termina questo lungo racconto di una vita che spero di aver vissuto, nel bene e nel male, così come il Signore avrebbe voluto che fosse. Guardandomi indietro mi rendo conto che forse avrei potuto fare di più, che in determinate circostanze avrei potuto agire diversamente. Ho conosciuto tante persone, amiche e nemiche, buone e cattive, interessate e disinteressate; con tutte ho cercato di comportarmi per il meglio: sono stato fedele agli amici e corretto, per quanto me lo permettevano le circostanze, con i nemici. Ho cercato di servire la mia Patria e il mio prossimo così come la mia famiglia prima, i miei docenti poi, mi avevano insegnato. Quando verrà il momento mi presenterò al Giudice Supremo con lÊanimo tranquillo, perché, come il salmista, sono certo che: „Da tutta lÊeternità e per tutta lÊeternità, o Dio, Tu sei. Perché mille anni, dinanzi ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è trapassato. Come una vigilia della notte⁄‰ Alta Petunt Stesura terminata il 17 Marzo 2011 150°À° Anniversario dellÊUnità dÊItalia - 205 - LÊautore Nasce a Velletri, nei Castelli romani, nella prima metà del XX secolo. Rimasto orfano in tenerissima età (il padre, ufficiale di artiglieria, decorato al V.M.., muore durante i bombardamenti degli alleati nel giugno 1944, durante lo sbarco di Anzio), cresce circondato dallÊaffetto della madre, della nonna e degli zii. La madre, professoressa di pianoforte, rimasta vedova, deve dedicarsi allÊinsegnamento nelle scuole elementari per mantenere lei ed il figlio. Terminati gli studi inferiori, frequenta il Liceo scientifico presso la Scuola Militare „Nunziatella‰ di Napoli. Frequenta, con alterne fortune, lÊUniversità degli Studi „La Sapienza‰ di Roma, dove si diploma in Scienze Statistiche. Entrato in Banca, si sposa. Il matrimonio è un fallimento sotto tutti i punti di vista e, dopo tre anni, divorzia. Lascia la Banca, prende il Diploma di Consulente per lÊOrganizzazione (Tempi e Metodi) del Lavoro dÊUfficio. Come Libero Professionista insegna e coordina i Corsi Professionali promossi dallÊUnione Europea. Contemporaneamente collabora con varie testate giornalistiche locali e nazionali. Cattolico, di idee moderate e conservatrici, collabora nella segreteria di un deputato DC che conosce tramite la Gioventù Cattolica, della quale è stato Presidente Diocesano e Dirigente regionale. AllÊepoca del „Compromesso storico‰ si iscrive al MSI - DN (poi Alleanza Nazionale), di cui diventa dirigente a livello locale. Nel 1990 rincontra la donna di vasta cultura e intelligenza che aveva conosciuto qualche anno prima e che non aveva mai dimenticata, con la quale ha molti punti di contatto, sia intellettuali che spirituali, e lÊanno successivo la sposa. Il matrimonio riesce benissimo e diventa un punto fermo nella vita errabonda che ha sempre condotto. Attualmente, abbandonate tutte le attività, vive con la moglie nel Paese natale dove si occupa del terreno che ha avuto in eredità da uno zio, circondato dai suo adorati animali, cani e gatti abbandonati che ha raccolto dalla strada. Bricolage ed allestimenti di Presepi sono i suoi hobby preferiti. Questo è il primo romanzo che scrive e che narra, sia pure in maniera „fantasiosa‰, la sua vita, errabonda ed avventurosa si, ma piena di soddisfazioni, di gioie e di dolori. XIX