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L'espansione commerciale suburbana: una breve storia
Un progettista di centri commerciali racconta l'affermazione, e l'attuale crisi, del modello di sviluppo suburbano,
autostradale, e del suo centro di gravitazione simbolica. Il testo, dell'8 febbraio 2004, è stato ripreso dal sito
user.gru.net/domz dell’urbanista Dom Nozzi (titolo originale: A Short History of Suburban Retail, traduzione e
presentazione di Fabrizio Bottini)
Il testo che segue, nonostante il titolo e gli argomenti con cui esordisce, è lontanissimo da un approccio teoricoaccademico, o anche semplicemente giornalistico-descrittivo. L’autore è infatti direttamente interessato al problema, in
quanto architetto progettista di strutture commerciali, della cui genesi e problemi attuali restituisce quindi un quadro per
niente esaustivo, ma che ha la rara qualità di essere allo stesso tempo ampio e “sporcarsi le mani” con temi molto
pratici ed operativi. Ne emerge un quadro comunque sconcertante, e rafforzata - proprio dall’angolazione del
progettista, per quanto intelligente e critico – l’impressione di un ciclo di sviluppo comunque in declino. La “dismissione
commerciale” che interessa l’ambiente suburbano/autostradale non sembra, come la sua più nota cugina industriale,
avere motivazioni concrete, almeno diverse da quelle di un inseguimento di tendenze di mercato e concorrenza
transeunti, che riproducono in eterno lo stesso schema: crescita, spostamento, dismissione, nuova crescita e via dicendo.
Il problema è che questo processo si lascia alle spalle un territorio desertificato, contenitori vuoti e inutili, infrastrutture
non o sotto utilizzate, traiettorie sociali (fisiche e non) continuamente cangianti. Alcune delle soluzioni indicate
dall’autore nell’ultima parte sono di interpretazione piuttosto difficile per il lettore non addentro al dibattito
specializzato, ma resta comunque una impressione di “crisi” non passeggera, a cui appare ormai ridicolo rispondere con
provvedimenti di facciata, quali secondo l’autore stesso si nascondono anche dietro l’accattivante sigla del New
Urbanism .
E forse non è un caso se, in questo contesto culturale che sembra coinvolgere la quasi totalità degli operatori e dei
progettisti, si manifestano tendenze sempre più forti a riprodurre all’estero il modello, in ambienti ancora poco
consapevoli dei costi di lungo termine, e dei paralleli anticorpi, normativi, professionali, sociali.
Premesse
A partire dalla metà degli anni Cinquanta del Novecento, lo schema tradizionale di sviluppo regionale, con le città ad
accrescersi per aggiunte successive, secondo una forma urbana riconoscibile, lascia il posto ad una modalità più diffusa,
dove piccole porzioni di territorio sono edificate in modo a sé stante, non connesso, che più tardi sarà denominato sprawl.
Inizialmente questo modello si basa in modo quasi esclusivo sulla rete stradale esistente delle vie e strade di campagna,
per servire gli spostamenti fra casa e lavoro, e per accedere a beni e servizi. Se è accessibile in auto, una località può
essere edificata, e rapidamente di sviluppa un mercato per insediamenti residenziali suburbani.
Crescendo rapidamente in popolarità, con l’aiuto della disponibilità a basso prezzo di
terreni e carburante per le automobili, lo sprawl scavalca in fretta i confini municipali, e la
pianificazione regionale sembra assumere un atteggiamento quasi di laissez faire, con
un’urbanistica tradizionale per le città che non appare più necessaria o applicabile, e la
convinzione che si possano facilmente moltiplicare le infrastrutture stradali, ove necessario,
per affrontare questa domanda man mano si presenta.
Per la prima volta nella storia della civiltà, un gran numero di persone viveva in un luogo e
lavorava in un altro, con la necessità di spostamenti quotidiani su notevoli distanze, che si
allungavano sempre più, e un numero sempre maggiore di queste persone potevano contare
solo sulla rete esistente delle strade ex rurali per muoversi. Nonostante queste vie fossero
rapidamente migliorate in qualità e nella sicurezza, con aggiunta di corsie per aumentarne
la capacità, non si fece molto per anticipare i bisogni futuri e, molto spesso, prima che si
pensasse ai potenziali vantaggi dell’istituzione di fasce di rispetto, gli stessi schemi di
sviluppo dell’edificato le resero impossibili o proibitivamente costose.
Il risultato di tutto ciò, fu che un numero senza precedenti di persone ora si spostava
regolarmente e quotidianamente su distanze ancora più lunghe, su un numero sempre
minore di strade sempre più larghe.
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Gli effetti sul commercio
Lo scambio di beni e servizi è vecchio come la civiltà stessa, e comprende virtualmente, in un modo o nell’altro, chiunque
sul pianeta. Il modo tradizionale di facilitare l’accesso a beni e servizi era storicamente quello di localizzare le strutture
commerciali in zone urbanizzate, come le città o i villaggi, che rappresentavano la più alta concentrazione di potenziali
clienti. In questo modo, ai potenziali consumatori si assicurava un buon accesso per i bisogni quotidiano, e ai
commercianti una quantità costante di clienti entro un mercato localmente disponibile.
In un modo o nell’altro il suburbio, col suo schema organizzativo diffuso e
frammentato a bassa densità, rese quasi impossibile per i commercianti
raggiungere un livello tradizionale di prossimità ad una base di clientela
sufficientemente estesa per sostenere un ragionevole bacino commerciale, e
rapidamente si rese chiaro come fosse necessario un diverso modello di
commercio per rispondere a questa nuova domanda, nel nuovo ambiente.
Ironicamente, lo schema stradale ramificato che era contemporaneamente
simbolo delle origini del suburbio, e simbolo dei suoi futuri problemi, fornì una
soluzione immediata, a portata di mano per il problema, e creò nello stesso tempo
nuovi problemi.
Se i commercianti erano sinora andati là dove stavano i clienti – nel cuore delle
città e cittadine – ora per la prima volta potevano posizionarsi strategicamente nel
panorama suburbano e, quasi letteralmente, solo aspettare che i consumatori
guidassero fin lì. E visto che un numero crescente di residenti suburbani faceva
proprio questo, su strade sempre più rade ma sempre più larghe, crebbero insieme
proporzionatamente le fortune e le dimensioni dei punti vendita suburbani.
Suburbio e automobile creavano, in effetti, una nazione di consumatori liberi di andare dove volessero, come il mondo
non aveva mai visto prima.
La Legge di Reilly
Nei primi giorni della suburbanizzazione, l’ancora implume industria dei centri commerciali si sforzava di definire i
potenziali “bacini commerciali” rappresentati dai nuovi modi di organizzazione e uso del territorio. Il risultato, fu la
Legge di Reilly sulla Gravitazione Commerciale, enunciata per la prima volta alla fine degli anni Trenta da William J.
Reilly dell’Università del Texas di Austin, e spiegata così nel Manuale per la Progettazione dei Centri Commerciali dello
Urban Land Institute: “Quando due città competono per il bacino commerciale dell’immediata zona rurale (suburbana),
il punto di discontinuità nell’attrazione commerciale è più o meno direttamente proporzionale alla popolazione delle due
città, e inversamente proporzionale al quadrato della distanza dell’area urbana di ciascun centro”.
Pur formulata nei primissimi tempi della suburbanizzazione (centrata sul trasporto
ferroviario e in autobus, ma con crescente ruolo dell’automobile) e con
riferimento al modello prevalente urbanocentrico del commercio regionale, si
tratta di un’affermazione sorprendentemente valida a tutt’oggi, se adattata
all’ambiente suburbano e alle dinamiche di mercato. Essenzialmente, questa
“legge” afferma che, in un teorico e generico contesto di mercato (quello rurale in
origine, quello suburbano oggi), e con tutte le altre variabili costanti, la maggiore
concentrazione di offerta commerciale, sia totale che per categoria merceologica,
tenderà sempre a spingere o trascinare fuori mercato una concentrazione simile,
ma più piccola, inversamente proporzionale al quadrato della distanza.
È un fatto sorprendente, e spesso sottovalutato. Il manuale dell’ULI lo riassume
così: “a ben vedere, quello che afferma questa legge è che le persone si spostano
verso la concentrazione più grande e più facile da raggiungere”, e nel suburbio,
almeno in teoria, tutte le località sono facili da raggiungere (specialmente se, tanto
per cominciare, siete già in macchina e vi spostate su lunghe distanze).
Se siete un commerciante, la conclusione è ovvia e immediata: costruite la scatola più grossa possibile che possa
mantenersi, e “vincerete” sempre in qualunque contesto di concorrenza. Questa singola intuizione è la forza propulsiva
che sta alle spalle dell’apparentemente infinita escalation nelle dimensioni commerciali degli ultimi trent’anni, ed è stata
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indirettamente aiutata e coltivata dai sistemi stradali regionali, e dalla crescente dipendenza da una rete rigida di strade
sempre più capaci ma rade.
Per la prima volta nella storia commerciale di questo paese – o di qualunque altro – la dimensione del contenitore non era
dettata dalla densità o dal tipo dell’insediamento circostante, ma quasi esclusivamente dalla dimensione della strada che
consentiva l’accesso.
Perché le dimensioni contano
Ci si potrebbe fare una domanda: “Bene, e allora? Perché contano, le dimensioni?” Beh, ci sono parecchie ragioni molto
importanti, perché la dimensione conta, e le due principali si legano direttamente alla Legge di Reilly: l’effetto del
commercio sovradimensionato su quello pre-suburbano o (nuovo) urbano, e la continuamente crescente dimensione dei
bacini commerciali suburbani.
Con l’aumentare dell’importanza delle dimensioni stradali e del volume di
traffico, nel determinare la scala del contenitore commerciale, altri formati e
categorie merceologiche che prima avevano una dimensione calibrata sul
quartiere, crescono a proporzioni regionali, e centri e contenitori regionali che
prima si vedevano solo nei centri urbani improvvisamente spuntano negli ex
incroci di vie rurali, diventati ora nodi di primaria importanza, ma popolati in
gran parte con densità residenziali che solo poco tempo fa avrebbero fatto
pensare a zone di campagna (Dadeland Mall a Miami, Florida, e Tyson’s
Corner Mall a Tyson Corner, Virginia, entrambi centri commerciali di
successo enormi e conosciuti a livello nazionale, hanno cominciato così, e
vanno ancora benissimo).
Dato che questi nuovi formati commerciali hanno la dimensione come principale strumento di primato competitivo, si
localizzano dove possono trarre il massimo vantaggio anche dai sobborghi più esterni, ovvero il più lontano possibile
lungo la ramificata corrente stradale, a catturare la maggior quantità di traffico prodotto dall’insediamento, e anche
“prendere a prestito” notevoli quote di mercato dai più piccoli esercizi di generazione precedente, collocati verso l’interno
dell’agglomerato, senza per questo essere esposti a future minacce di concorrenza “a monte” dei flussi di traffico.
Ma sfortunatamente “grosso” è un concetto relativo, qualunque dimensione non è “grossa abbastanza” per mettere al
sicuro da minacce del genere. Gli insediamenti residenziali suburbani continuavano a crescere in dimensione e a diventare
sempre più “introversi” e chiusi, e il sistema di connessione e permeabilità regionale era costantemente messo in crisi, con
la necessità di arterie di capacità e dimensione senza precedenti, rafforzando e consolidando le dinamiche di mercato che
avevano contribuito in prima istanza all’aumento di dimensioni dei contenitori commerciali.
Come risultato, scatole che sembravano enormi solo qualche anno prima ora
subivano gravi svantaggi competitivi al crescere delle strade che avevano di
fronte: e i commercianti e le loro scatole si affannavano a tenere il passo
prima che nuovi concorrenti riuscissero a dare una risposta alla illimitata
domanda di spesa rappresentata dal crescente flusso di traffico. Divenne
presto usuale vedere generazioni successive dello stesso tipo di negozio,
abbandonate in stretta successione in una corsa senza fine, come un cane che
si morde la coda, per mantenere una supremazia di mercato, senza che si
scorgesse un limite concepibile.
Questo era già abbastanza traumatico dal solo punto di vista fisico, ed
economico (dopo tutto, che ve ne fate di un guscio vuoto che il precedente
inquilino ha già provveduto a rendere obsoleto per sempre?), ma quello che è
più preoccupante è l’impatto di questi contenitori sempre più grossi a scala
regionale. Memori della Legge di Reilly, del diminuire dell’effetto attrattivo
della dimensione commerciale in modo inversamente proporzionale al
quadrato della distanza, e consapevoli delle ridottissime densità residenziali
dei sobborghi più esterni, i commercianti di queste aree sono diventati ora per necessità negozi “ destination”, e la
dimensione un fattore “nuota o annega”, dove o si domina la vasta zona suburbana, oppure si cessa di esistere.
Il risultato finale? Un facile e gradevole spostamento in auto di due minuti sulle strade locali per mezzo litro di latte in un
insediamento di quartiere tradizionale, è diventato ora un’ardua faccenda di una ventina di minuti almeno su un’affollata
superstrada multicorsie (insieme a tutti gli altri pigiati nella stessa barca) per la maggior parte dei residenti suburbani. Per
ridurre al minimo la frequenza di questo trauma, i commercianti dei big-box hanno forzatamente aggiunto molte alte
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categorie commerciali alla loro già ampia offerta, per assicurarti che, anche se il tuo viaggio settimanale sembra ora una
impegnativa spedizione, almeno potrai comprarti, contemporaneamente, anche cose di cui non avresti mai sognato di aver
bisogno.
E certo, naturalmente, come risultato anche i contenitori diventano più grossi.
Nella lotta infinita per proteggere il loro territorio, il già enorme grande
magazzino a basso prezzo aggiunge un negozio di alimentari e una stazione di
servizio, il già enorme negozio “locale” aggiunge una farmacia, una sezione
di prodotti vari, un reparto video, la filiale di una banca, il chiosco di frittelle
e il lavasecco, la farmacia “locale” aggiunge prodotti freschi, ricambi per
automobili e ferramenta, prodotti in scatola ed elettronica di consumo. Fatevi
un’idea.
Quadro regionale
Anche se è giusto pensare che esperienza sgradevole sia diventata la spesa, è
più importante pensare cosa significa in una prospettiva regionale. Sempre più
automobili si muovono verso destinazioni sempre più lontane, lungo sempre meno strade, solo per soddisfare banali
bisogni quotidiani. I chilometri che percorriamo in automobile sono saliti alle stelle. Quello che un tempo era uno
spostamento di un chilometro su strade locali, per fare la spesa della settimana, ora è di dieci o venti o più chilometri, a
seconda della personale resistenza al dolore e a quanto si spera di “risparmiare” con una spedizione del genere.
E visto che tutti stanno facendo essenzialmente lo stesso viaggio sulle stesse strade, i nostri bisogni infrastrutturali sono
cresciuti incommensurabilmente. Ora usiamo più carburante, produciamo più gas serra, asfaltiamo molta più terra
agricola e spazi naturali, per soddisfare gli stessi bisogni elementari che soddisfacevamo un tempo con una frazione delle
stesse risorse e fatica, in un contesto urbano.
Un fatto piuttosto curioso, è che non solo le grosse strade attirano e mantengono le grosse
scatole commerciali, ma il traffico che queste generano spesso induce “miglioramenti e
aumenti” nella capacità stradale, che spesso attirano scatole ancora più grandi (o
incoraggia quelle che già ci sono ad aumentare di dimensione ovunque sia possibile).
Questo circolo di auto-alimentazione tende a concentrare l’attività commerciale nelle
localizzazioni suburbane attuali al punto che qualunque tentativo di attenuare i problemi di
traffico o aggiungere usi diversi dello spazio, o aumentare la densità residenziale, o d’altra
parte ridurre le dimensioni del bacino commerciale e le distanze di viaggio, diventa quasi
inutile, e ogni introduzione di modelli comunitari più equilibrati e tradizionali (urbani)
quasi impossibile da realizzare.
Come affermato nel Manuale dei Centri Commerciali dello Urban Land Institute: “Un
centro commerciale non può generare un nuovo volume d’affari o creare nuovo potere
d’acquisto ... invece essi attraggono clienti da distretti (commerciali) esistenti o catturano
porzioni di nuovo potere d’acquisto da un’area in crescita. ... Possono causare una
redistribuzione dei punti vendita e delle abitudini dei consumatori, ma non possono creare
nuovi consumatori”. In altre parole, e nonostante la diffusa convinzione del contrario,
nessun contenitore commerciale, indipendentemente dalla sua dimensione, è in gradi di creare concretamente un
potenziale di spesa, semplicemente in virtù della sua grandezza. Ad ogni modo, essi sono certamente in grado di
influenzare e redistribuire gli schemi di spesa del potere d’acquisto che già esiste all’interno di una determinata comunità,
e con questi molto grandi contenitori questa influenza è sempre più avvertita a scala regionale.
Mentre le dimensioni delle scatole commerciali e i loro corrispondenti bacini (entro mercati di simile densità e reddito
familiare, la dimensione del contenitore generalmente detta a grandi linee anche la dimensione del bacino) diventano
sempre più grandi, i mercati di consumo che essi attirano trascendono i limiti municipali e di contea, e i loro
corrispondenti ambiti fiscali. Qualunque contenitore o concentrazione commerciale che sia sovradimensionato rispetto
alla capacità di spesa del proprio contesto immediato, dovrà necessariamente drenare da un mercato regionale più ampio,
per mantenersi.
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Il vasto e crescente sistema della rete stradale su cui è costruito lo sviluppo a
sprawl aiuta e facilita questa concentrazione del commercio, così come
descritta sopra, spesso di molto superiore alle capacità locali di sostenerla, e
questa situazione può creare molte e pericolose dinamiche a scala regionale.
Non è raro al giorno d’oggi trovare piccole cittadine o distretti rurali con
superfici commerciali di molto superiori a quelle necessarie alle necessità dei
propri cittadini, di solito sotto forma di contenitori delle maggiori catene
distributive nazionali, con il resto della clientela risucchiato dalle comunità
vicine, a spese dei rispettivi distretti commerciali.
Questo produce la “guerra commerciale” attualmente in corso, con
schermaglie di confine dove ciascuna comunità lotta per acquisire le scatole
più grosse, in una battaglia mortale dove “chi vince piglia tutto”, con la
differenza che poi nessuno vince davvero, eccetto naturalmente le big-box corporations e i loro azionisti; i quali
normalmente vivono a migliaia di chilometri dalle linee del fronte. Anche quartieri e città che farebbero anche a meno
degli scatoloni, si sentono obbligate a cercarseli, se non altro per motivi di autodifesa.
Conclusioni
L’urbanizzazione tradizionale, in virtù della sua forma compatta, dell’uso misto dello spazio, della gerarchia di strade e
densità residenziali, tende ad autoregolarsi in termini di formati e tipologie commerciali. I servizi di vicinato che si
rivolgono a bisogni quotidiani stanno tradizionalmente a breve distanza dal quartiere e per altre spese, più rare e
impegnative, che si fanno meno di frequente e richiedono una base di consumatori più vasta per mantenersi, ci si rivolge
al centro città, dove risiede la più alta concentrazione di clienti, e dove è anche disponibile il servizio del trasporto
pubblico. In questo contesto, il commercio per grandi contenitori sarebbe appropriato e benvenuto, e utilizzerebbe al
massimo gli investimenti in infrastrutture della città.
In un contesto suburbano, dove la dimensione delle strutture commerciali non è determinata dalle densità e dalle
caratteristiche del circondario immediato, ma in misura maggiore dal volume del traffico di passaggio, questa
correlazione è stata del tutto eliminata. Il commercio place-based è stato sostituito (e nei casi migliori) da una attività
place-making, dove sostanzialmente i centri commerciali suburbani sono concepiti per sembrare di essere ciò che non
sono. Dunque diventa sempre più importante ricordare: in una prospettiva regionale, è la prima parte del viaggio
commesso alla spesa, che conta di più, non gli ultimi venti metri, non importa quanto essi possano essere gradevoli.
Se il novantacinque per cento dei clienti ha guidato per 10 o 20 chilometri su larghe strade a
molte corsie, attraverso quartieri monofunzionali a bassa densità, per farci la spesa, non importa
gran che quale aspetto abbia, quando ci arrivi, è un centro commerciale suburbano!
Questo non significa che non si debbano disporre gli edifici secondo l’allineamento, o tentare di
costruire un ambiente pedonale, che non si debba badare al tipo di edificio, alla dimensione, ai
modi d’uso: solo, da molti punti di vista, si tratta di questioni marginali rispetto alle dinamiche
più vaste che stanno alla base dell’insediamento suburbano odierno.
È anche molto difficile resistere alla tentazione di partecipare alla rissa, e arbitrariamente
“ribaltare” i formati commerciali sia nei quartieri urbani, sia all’interno di altre “nuove”
comunità urbane, interne ad un contesto altrimenti suburbano, anche solo come reazione
difensiva ad una percepita sfida competitiva: una specie di “se non puoi batterli, unisciti a loro”.
Ma sarebbe uno sbaglio. Non c’è attività commerciale in un vuoto di concorrenza, e ad un certo
punto il contesto di mercato in cui sta il contenitore avvertirà l’onda di effetto di questa azione,
e si sarà creata una dinamica suburbana con cui dovrà confrontarsi qualcun altro, in qualche
posto più in giù lungo la strada (senza scherzi).
Un approccio più appropriato sarebbe quello di adottare un modello regionale di insediamento
che comprenda un sistema integrato di trasporti, e un uso del suolo focalizzato su una crescita per quartieri strutturata sul
lungo termine. Questo approccio aumenterebbe l’accesso locale, contro il bisogno di lunghi spostamenti, attraverso alcune
tipologia stradali, i trasporti pubblici, e una struttura urbana che incoraggi formati commerciali di dimensione appropriata,
collocati idealmente e compatibilmente rispetto al bacino di consumo.
Adeguare l’ambiente suburbano esistente è una sfida molto più impegnativa, e rappresenta una tentazione anche più forte
di arrendersi allo status quo, sovradimensionando le capacità commerciali in previsione delle sfide competitive implicite
in quel contesto (la mancanza di consapevolezza rispetto a questi problemi ha contribuito al fallimento di molti
insediamenti commerciali New Urban Greenfield, producendo l’attuale frustrazione). Comunque, ancora, agire così, se
può apparire un ragionevole e comprensibile espediente di breve termine, semplicemente allontana il giorno in cui si
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dovrà affrontare il problema in modo integrale, e soprattutto fa sembrare i New Urbanists degli ipocriti.
In realtà, la stessa natura generica dell’ambiente commerciale stradale suburbano, che ha reso possibile la rapida
estensione nazionale dell’impresa di questo tipo, può rivelarsi causa del suo disfacimento, visto che qualunque
commerciante là fuori vale solo quanto il suo ultimo “affare”. Quello che oggi è “evidenza di sviluppo economico” è
spesso lo highway slum di domani, e questa tendenza è un cruccio sia per l’industria commerciale nazionale nel suo
insieme che per le comunità i cui centri urbani sono stati desertificati da questi scatoloni, ora obsoleti. Questa
comprensione, è quanto sta certamente dietro molta parte degli sforzi odierni per realizzare nuove zone commerciali con
“base comunitaria”, ma questa strategia fornisce poca sicurezza sul lungo termine, se non si traduce in fatti, oltre che in
parole. Ad ogni modo, un sovradimensionamento nei nuovi insediamenti commerciali urbani può essere appropriato,
almeno nel breve termine, se è fatto nel contesto di una strategia più ampia per consolidare e razionalizzare lo sviluppo
commerciale secondo efficaci schemi urbani e regionali. Un esempio di tentativo per iniziare un processo di questo tipo è
lo SmartCode, ma si tratta solo di uno dei molti potenziali strumenti in grado di fornire un sostegno a questo sforzo.
Comunque, è qualcosa che esiste, oggi. In ogni caso la prima cosa di cui preoccuparsi è di “non fare danni”. E questo
significa: non creiamo altri problemi per risolvere quelli che abbiamo già.
Da zone grigie a miniere d’oro
Sottotitolo: " Trasformare centri commerciali decadenti in ottimi quartieri". Un opuscolo del CNU in collaborazione con
PriceWaterhouseCoopers, del febbraio 2001, dimostra se non altro molta buona volontà. Anche se non è certo con
quella, che si "lotta contro lo sprawl" (fb)
La “morte” dei centri commerciali, come abbiamo già visto in parecchi dei contributi presentati, è ormai vista come fatto
fisiologico, comunemente accettato, con cui le comunità devono in qualche modo imparare a convivere. Resta
naturalmente aperto il problema ambientale e sociale di questi vuoti, che nello stesso modo di quelli militari, ferroviari,
industriali, rappresentano una vera piaga, che trascina nel proprio declino la comunità e il territorio nel suo insieme. Il
testo che segue si limita (a mio parere) a sfiorare il problema, anche se non ne disconosce esplicitamente la complessità.
Non a caso, si deve alla corrente culturale cosiddetta New Urbanism, che come il concetto parallelo di smart growth
spesso nasconde approcci ideologici, o di comodo, o un marchio come un altro per riverniciare di nuovo pratiche
professionali per nulla innovative. Resta naturalmente l’interesse che suscita (oltre l’incomprensibile, o forse
comprensibilissimo, fatalismo di fondo) il fatto di affrontare la questione a scala nazionale, identificando piaccia o meno
un problema che va oltre qualunque logica di “progetto”, richiamando ad altre, più mature riflessioni di carattere sia
disciplinare che sociale. Questioni naturalmente colte quando ad affrontarle c’è in un ruolo centrale la pubblica
amministrazione: non certo progettisti che, per quanto bene intenzionati, sono pur sempre “operatori commerciali” tanto
quanto i negozi in crisi che vogliono rivitalizzare.
I centri commerciali in crisi: un problema nazionale
I centri commerciali obsolescenti punteggiano il panorama urbano d’America. Per trovarli non ci vuole un’abilità
particolare. Un parcheggio recintato ne tradisce la presenza. Le vendite di auto usate nel fine settimana sono un forte
indizio. Le vetrine dei negozi trasformate in centri di attivismo politico comunitario e ambulatori, sono chiari segnali.
Proprietari immobiliari, affittuari e investitori sono consapevoli del proprio declino. I vicini, ex commercianti, ex
dipendenti, lo sanno. Chi governa la città, i rappresentanti dei cittadini, lo sanno. Ma non è che, semplicemente
conoscendo il problema, conoscano anche la soluzione. Il Congress for the New Urbanism (CNU) vede molti di questi
centri commerciali come luoghi ideali per insediamenti a usi misti, orientati ad una mobilità servita dal trasporto pubblico.
Alcuni di essi non sono più adatti alla distribuzione commerciale a scala regionale. Ma molti sono ben dotati delle
caratteristiche di un sito a insediamento new urbanist, che comprenda abitazioni, commercio, uffici, servizi, spazi
pubblici.
Will Fleissig, un costruttore della Continuum Partners di Denver, di recente ha riconvgertitio la “zona grigia” del centro
commerciale Villa Italia di Lakewood, Colorado. Fleissig afferma: “Sentiamo tanto parlare di edificazione nelle zone già
urbanizzate ( infill n.d.t.), di smart growth, sobborghi di prima fascia, insediamenti orientati a trasporto pubblico, e di
sprawl. Se guardate ad un quadro più ampio, si tratta della principale questione d’America, oggi. Abbiamo bisogno di
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costruire quartieri migliori dentro le città, vicino ai mezzi di trasporto pubblici. Queste “zone grigie” sono la prima ondata
di una grande quantità di terreni disponibili nelle comunità esistenti, vicino ai trasporti, dotati di servizi, con un potenziale
per maggior densità”.
In questa relazione si usa il termine “zone grigie” ( greyfields n.d.t.) per descrivere aree commerciali che necessitano di
un significativo intervento pubblico e privato per arrestare il declino. Più noti sono i brownfields (siti urbani contaminati)
e i greenfields (aree rurali inedificate). Al contrario, le zone grigie sono aree edificate, fisicamente ed economicamente
mature per importanti ristrutturazioni.
In mancanza di positivi interventi di rivitalizzazione, il valore dei centri commerciali “zona grigia” si riduce a quello del
suolo, meno quello di demolizione degli edifici. Ci sono siti che hanno già raggiunto questo stadio, con gravi
ripercussioni sull’economia e sulla comunità, in tutto il paese. Per una comunità locale, una zona grigia è più di
un’immagine di degrado. Significa una perdita di base fiscale, perdita di opportunità di lavoro, aree di valore inutilizzate.
La serietà dei danni di questo degrado è stata messa in luce quando il Daily Camera di Boulder, Colorado, ha votato la
propria “storia dell’anno” per il 2000: il declino del Crossroads Mall. Gli sforzi in sede locale per rivitalizzare zone
commerciali deboli o in decadenza sono piuttosto frequenti. Alcuni hanno avuto successo, altri no. Il CNU sta
conducendo un’analisi a livello nazionale su come rivitalizzare queste aree, così che possano fornire risorse a comunità e
proprietari. L’obiettivo, detto in poche parole, è quello di trasformare le zone grigie in miniere d’oro ( greyfields into
goldfields n.d.t.).
Il New Urbanism e i centri commerciali
Il Congress for New Urbanism ha da molto tempo un interesse particolare per i centri commerciali “zone grigie”.
Dal 1989 al 1996, i new urbanists hanno contribuito a fare del centro Minzer Park di Boca Raton, Florida, da lungo tempo
in decadenza, un insediamento a usi misti finanziariamente riuscito. A metà anni Novanta, un altro gruppo new urbanist
ha redatto un piano per lo Eastgate Mall di Chattanooga, Tennessee. Ora è in corso di realizzazione, ed è diventato una
delle cose di cui gli abitanti di Chattanooga sono più orgogliosi.
Lo scorso anno, altri centri commerciali regionali in tutto il paese hanno visto operare il new urbanism: Cinderella City a
Englewood, Colorado; Plaza Pasadena a Pasadena, California; Town & Country a San Jose, California. Altri casi in cui si
sono considerate le suggestioni new urbanism sono il Parole Plaza nei pressi di Annapolis, Maryland; Bannister Mall a
Kansas City, Missouri; South Square Mall a Durham, North Carolina.
Altri attendono. La PricewaterhouseCoopers (PWC) stima per difetto che ci siano almeno 140 centri commerciali di scala
regionale negli Stati Uniti, che sono già “zone grigie”, e altri 200-250 che si stanno avvicinando a questa condizione. Nel
complesso, queste due categorie rappresentano il 18% di tutti i centri commerciali regionali a scala nazionale.
Lo Studio
Il CNU ha cominciato il suo studio dei centri commerciali “zone grigie” all’inizio del 2000. L’indagine contava su vari
contributi:
•
•
•
La Graduate School of Design della Harvard University ha sostenuto uno studio, condotto da Will Fleissig del
CNU e dal professor Richard Peiser. Questo studio in primo luogo ha progettato riconversioni di centri “zona
grigia”, e poi condotto analisi di fattibilità per determinare se il new urbanism “usciva dal seminato”.
La PWC ha collaborato col CNU fornendo un esame del quadro generale commerciale. I risultati dello studio
PWC sono contenuti nel rapporto Greyfield Regional Mall Study, disponibile al CNU.
Lo International Council for Shopping Centers ha criticato il lavoro di PWC, portando a miglioramenti nella
metodologia di analisi.
Lo studio PWC si concentra sui centri commerciali regionali, e non prende in considerazione i molti altri tipi di proprietà
commerciali che pongono problemi simili di ristrutturazione. La CNU si focalizza sulla scala regionale perché questi siti
– con almeno 35.000 metri quadrati di spazio commerciale affittabile e un minimo di 35 negozi – hanno effetti
particolarmente gravi quando entrano in declino, offrendo contemporaneamente una particolarissima opportunità per il
riuso.
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Caratteristiche delle “zone grigie”
Le caratteristiche dei centri commerciali in crisi citati qui si basano sui dati delle analisi PWC. La PWC ha calcolato che
le zone grigie hanno una dimensione media di poco più di 20 ettari. In particolare, questi siti sono sia più piccoli che
meno collegati ai sistemi di trasporto regionali, di quelli che ospitano i centri commerciali di maggior successo della
nazione, che hanno dimensione media di oltre 35 ettari, visibilità dall’autostrada e accesso diretto dalla rampa d’uscita.
Molte zone grigie sono localizzate entro quartieri e zone commerciali consolidate. Will Fleissig, un costruttore che
recentemente ha riconvertito un greyfield in Colorado a centro città a usi misti, afferma: “Questi centri commerciali
tendono a stare su arterie suburbane con servizio di autobus. Molti sono già stazioni di interscambio di autobus”.
La PWC ha rilevato che l’obsolescenza dei centri commerciali è connessa al formidabile livello di concorrenza. In media,
i centri in crisi hanno 230.000 metri quadrati di spazio commerciale in competizione in 22 altri centri (compresi quelli di
quartiere e urbani, oltre ad altri malls regionali) nel raggio di otto chilometri. Molti stanno dentro bacini commerciali
dominati da formati più recenti e operatori di maggiori dimensioni. Sono spesso più vecchi e piccoli di quelli di maggior
successo nella regione.
Mark Eppli, un ricercatore in campo commerciale alla George Washington University di Washington, D.C., afferma che
le forme di rinnovamento convenzionali non sono sufficienti a dare una boccata di nuova vita per molti insediamenti:
“Una plastica facciale non aiuta gran che. Anche un nuovo negozio anchor, a seconda della posizione di mercato del
centro, può non servire”.
C’è bisogno di nuovi modelli di riuso: modelli che vadano oltre la plastica facciale e il tradizionale commercio regionale.
Modelli di riuso
Se i classici centri commerciali “zona grigia” sono ormai inadeguati agli standards attuali, essi generalmente offrono la
superficie necessaria per creare progetti insediativi integrati, utilizzando i principi del new urbanism. In quanto
localizzazioni commerciali, questi siti possono soffrire l’eccessiva distanza dalle autostrade. Ma una posizione del genere
può essere vantaggiosa in un riuso new urbanism. Offre la possibilità di integrare le varie attività entro un contesto di
quartiere.
Victor Dover, un architetto che ha lavorato in parecchie rivitalizzazioni new urbanism di centri commerciali, dice che
questo approccio spesso è la soluzione migliore. “Qualche volta il centro commerciale va in crisi perché ha perso la
propria ragion d’essere economica. Ma quasi ogni comunità ha dei bisogni. Smettiamo di pensare a questi siti come a
zone commerciali fallite, e iniziamo a considerarli aree a potenziali usi misti”.
Le comunità lungimiranti, in presenza di zone grigie, stanno costruendo e sperimentando nuovi modelli di riuso. Modelli
di cui ci sarà necessità urgente, visto che la dismissione dei centri commerciali è una tendenza in crescita: PWC identifica
oltre 200 malls possibili candidati “zona grigia”. Se molti altri centri commerciali ben gestiti prosperano, altri non
sfuggiranno all’obsolescenza. Le zone grigie saranno un problema costante, strettamente legato alla pratica
contemporanea dell’insediamento commerciale per malls. Con l’emergere di nuove tendenze, e lo spostamento “verso
l’alto” dei nuovi insediamenti, i siti più vulnerabili sono spinti al declino. Il rinnovamento riuscito di un centro
commerciale può causare la crisi di molti altri, più vecchi, entro il bacino di utenza.
I proprietari di malls hanno tentato molte tecniche di rivitalizzazione della vivacità economica dei loro immobili. La
maggior parte dei centri, semplicemente, si espande, si ridecora, attira un nuovo negozio anchor. Alcuni centri
commerciali si sono convertiti a uffici secondari, o centri di elaborazione dati. In questi casi, la comunità ospite ha perso
la funzione civica precedentemente offerta dal mall. Più importante, né l’ampliamento né la conversione in uffici sfociano
nel fornire l’area di una combinazione di residenza, commercio, terziario, e spazi pubblici che i cittadini e i loro
rappresentanti desiderano.
I principi per creare ambienti new urbanism comprendono:
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Ri-orientare le varie attività del sito ad un affaccio sulla strada.
Ristrutturare il sistema stradale di connessione con il quartiere circostante.
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Utilizzare la progettazione urbanistica ed elementi architettonici per rendere il mall ristrutturato parte integrante
della comunità.
Enfatizzare il ruolo di uso comune dello spazio pubblico.
Fornire una ampia scelta di tipi residenziali, offrendo case per abitanti di tutte le età e livelli di reddito.
Ulteriori approfondimenti
Il CNU sta continuando i propri studi e ricerche sulle “zone grigie”. Continueremo a sollecitare la partecipazione sia di
esperti che di operatori del settore, a migliorare la qualità e importanza del nostro lavoro. La CNU è l’unica
organizzazione finalizzata al miglioramento dei centri commerciali decaduti, sia dal punto di vista finanziario, sia per la
loro capacità di perseguire più ampi fini sociali.
La prossima pubblicazione del CNU sul tema sarà un catalogo di esperimenti riusciti di rivitalizzazione new urbanist.
Continueremo anche i nostri sforzi per analizzare le cause del declino dei malls, e dei catalizzatori di rivitalizzazione.
Il New Urbanism per le zone grigie: i siti dei centri commerciali abbandonati aiutano a invertire la tendenza allo
sprawl urbano
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I centri commerciali riassumono un panorama dominato dall’automobile. Negozi circondati da parcheggi, anziché
da quartieri, erano inconcepibili prima che l’uso dell’automobile diventasse diffuso ovunque. Ora, queste strutture
che hanno aiutato la diffusione della cultura automobilistica stanno raggiungendo la fine di un ciclo, e offrono
un’opportunità unica per invertire la tendenza allo sprawl urbano, creando veri quartieri fra sobborghi sparpagliati
e città sdentate.
Le zone grigie sono fra le migliori opportunità d’America per realizzare insediamenti in area urbanizzata (infill
n.d.t.) orientati al trasporto pubblico. Al contrario del classico insediamento suburbano, i quartieri new urbanism
sono abbastanza flessibili per rispondere a numerosi bisogni della comunità. Possono contenere abitazioni per
residenti a redditi differenziati, posti di lavoro, commercio, spazi pubblici, e altre attività essenziali per un’alta
qualità di vita.
Si tratta di aree di dimensione sufficiente. La maggior parte dei terreni edificabili disponibili nelle città e piccoli
centri sono troppo piccoli per giustificare l’aumentato rischio e costo della urbanizzazione infill. Sono anche
troppo piccoli per contenere progetti insediativi di scala sufficiente ad offrire reali benefici per la comunità. Spazi
più grandi, come le zone grigie dei centri commerciali spalmano il costo di urbanizzazione e consentono progetti
che comprendono tutti gli aspetti dei principi new urbanism.
Accessibilità via mezzi pubblici. Amministratori pubblici e abitanti, sono interessati alla realizzazione di nuovi
insediamenti orientati al trasporto collettivo che includano abitazioni, negozi, posti di lavoro, scuole. Molte zone
grigie sono lungo linee di trasporto pubblico, a molte hanno addirittura stazioni di interscambio al proprio interno.
Ancora più fondamentale, la realizzazione di nuovi centri di attività sui siti di shopping malls decaduti, concentra
in sé sufficienti origini e destinazioni di traffico da sostenere il servizio di trasporto pubblico.
Abitazioni per redditi misti. L’accesso all’abitazione è un problema grave in molte aree metropolitane. Ma la
realizzazione di residenze per redditi misti ad alta densità nel quartieri esistenti è spesso difficile, perché gli
abitanti si oppongono ai progetti e gli spazi sono di solito troppo piccoli per realizzazioni di qualche significato.
Le zone grigie sono ampie a sufficienza per contenere un quartiere interamente nuovo, fornendo una opportunità
di realizzare abitazioni per redditi misti di alta qualità, che beneficiano dell’ambiente circostante.
Spazio civico. Spazi pubblici attrattivi e ampi, sono tristemente scarsi in molti sobborghi. Gli insediamenti new
urbanism forniscono spazi pubblici per quei momenti importanti, quando non si è al lavoro né a casa. Spazi che
hanno dato al new urbanism la sua reputazione di “architettura della comunità”.
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Centri commerciali Apocalittici, Centri commerciali Integrati
Questa tappa del viaggio di Fabrizio Bottini tra i luoghi del consumo territoriale nasce da un dibattito radiofonico nella
rubrica di Oliviero Beha, “Radio a colori”, al quale ho partecipato (potete sentire la trasmissione cliccando qui e poi
cercando nell’archivio). Le fotografie e i sottotitoli sono dell’autore.
Preludio pedemontano
La storia commercial-territoriale che andiamo qui a raccontare, comincia nella periferia industriale bresciana. O, meglio,
nel vicino Portogallo. Portogallo che – abbastanza ovviamente se ci si pensa un secondo – non è abitato solo da seriose
donne contadine vagamente baffute, o ridenti pescatori con berretto da tonno nostromo, ma anche da modernissimi
managers rampanti, tali e quali a quelli che da noi, in tutta Europa e Stati Uniti, svolazzano da un moquettato ufficio
all’altro, decidendo in anglofono specialistico iniziatico gergo i destini dello sviluppo, globale o locale fa lo stesso.
Managers come quelli della Sonae.
Come possiamo leggere sul sito http://www.sonae.pt/, Sonae nasce nel 1959 a
Maia, in Portogallo, come impresa specializzata nelle lamine di legno
ornamentali, sviluppandosi poi per circa vent’anni sempre nel campo dei
prodotti derivati dal legno. Con gli anni Ottanta e l’entrata del Portogallo
nella Comunità economica europea, le attività di impresa cominciano a
diversificarsi, con l’acquisizione di una catena di supermercati, il lancio del
primo ipermercato portoghese, e la creazione del ramo specializzato
immobiliare finalizzato alla realizzazione di Shopping Centers.
Contemporaneamente, l’impresa entra anche nei campi della comunicazione,
delle tecnologie dell’informazione, delle attività per il tempo libero e turismo.
Da successive espansioni internazionali e riorganizzazioni, nasce la holding
Sonae Investimentos, interamente dedicata al moderno commercio, e separata dalle altre attività industriali. Gli shopping
centres interessano Portogallo, Brasile, Spagna, Grecia, Germania, Italia, Austria.
L’immagine dell’impresa, in generale e in particolare nel campo dei “centri commerciali integrati” (che offrono una
gamma di servizi più ampia del solo commercio) punta molto sull’idea di sviluppo ambientale sostenibile, che
informerebbe di sé le politiche industriali e di mercato. Leggiamo a questo proposito: “il management ambientale è una
delle priorità di impresa, e un fattore chiave”. Nel 2001 il gruppo ha pubblicato un pamphlet che delinea la sua “politica
ambientale”, distribuisce ai propri dipendenti il periodico Eco-Noticias, e edita periodicamente un Environmental Report.
La seconda edizione del Rapporto, quella attuale, sottolinea come sia ora che
in misura
maggiore per il futuro “non intendiamo focalizzarci solo sui risultati della
Sonae in campo economico e ambientale, ma anche sui progressi in campo
sociale, dimostrando il nostro impegno per un progresso continuo verso la
Sostenibilità Ambientale”. In effetti, scorrendo affermazioni e cifre, emerge
interesse e impegno in ambiti come le emissioni, il trattamento dei rifiuti, la
qualità dei prodotti e processi, l’impatto sul paesaggio, e molti altri temi di
interesse per l’ambiente alle varie scale. Se si considerano tutte le azioni
complesse che comporta la individuazione, progettazione, realizzazione,
gestione e sviluppo di un grande centro commerciale integrato, non si può
negare che nel Rapporto, anche solo considerando la parte della Sonae
Immobiliare (altri spunti interessanti emergono dal resto delle attività), c’è
ampio spazio per i temi ambientali in senso lato.
Rassicurante, per esempio, nel caso di un sito in un’area dismessa delle nostre città o cinture metropolitane. Ferme
restando, naturalmente, le ovvie attenzioni all’ambiente inteso come sistema locale, fatto anche da cose come la
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infrastrutturazione, i flussi, insomma tutto quanto non si può ridurre e ricondurre ai compiti specifici dell’impresa, ma che
con la sua logica si incrocia eccome.
E nel primo scorcio del terzo millennio, i destini della Sonae nel suo girovagare tra Europa e Sud America, incrociano
quelli della nostra Brescia: un tempo industriale, ancora in gran parte tale, ma alle prese con una complessa e strategica
trasformazione urbana e metropolitana, verso un uso del territorio tra l’altro più attento, proprio, alla questione del
recupero ambientale. L’occasione è un’area dismessa abbastanza tipica per le nostre città italiane: a ridosso del centro
storico, degradata, ma squisito bocconcino per chi volesse e potesse investirci in operazioni di redevelopment nel segno
del commercio, terziario, e vari altri usi più lucrosi delle obsolete e fuligginose ciminiere. Siamo nel “comparto Milano”
della città, noto alle cronache per i veleni che la vicina Caffaro ha sparso in tutta la provincia per generazioni, e l’area è
quella già occupata dagli impianti Atb, definita dal crocicchio fra le vie Italia (una parallela ai viali di circonvallazione del
centro storico) e Cassala (una radiale che dalla stessa cerchia taglia le linee ferroviarie e immette nel sistema di
circonvallazione e tangenziale sud), pochi minuti a piedi a ovest della stazione. Si tratta quindi di una operazione di
recupero piuttosto delicata, per la città come per gli investitori, ma ghiotta: 44 milioni di Euro investiti solo per l’acquisto
dell’area, per un totale di 52 mila metri quadrati destinato a contenere commercio, uffici, intrattenimento, servizi per la
città come la sede del Museo dell’Industria, per un totale di 100 milioni di Euro fra area e rinnovo. Il Giornale di Brescia
ci informa tra l’altro che “la più contenta sembra la Signora Maria ... di vedere come un pezzo di città che se ne va via,
giorno dopo giorno” portandosi appresso fumi, o angoli magari pericolosi e bui (Gianni Bonfadini, Bisider-Atb, le
macerie e il futuro, 7.8.2002). Mai contenta, la probabilmente inventata signora Maria, quanto gli ambientalisti-capitalisti
della multinazionale portoghese e della sua consociata italiana. Fermi restando i soliti dubbi dei soliti scettici, sul fatto che
insieme ai fumi se ne vadano via per esempio anche cose come i contratti collettivi, pare che il passo a cui partecipa la
Sonae sia decisamente in avanti. Si recupera alla città un’area strategica sinora buco nero, a ridosso della ferrovia e a
snodo fra la città intermedia e la prima fascia periferica, e la si può destinare ad attività “centrali” in senso lato, ovvero
non generico terziario da palazzoni per uffici in affitto, ma usi più complessi ed articolati. Resta da vedere il risultato
concreto, ovviamente, ma ci sono ottime premesse di riuscita, e le garanzie offerte dall’operatore, di un approccio
ambientalmente / socialmente sostenibile, sembrano rispettate (grazie, presumibilmente, all’elevata capacità di interazione
tecnica e politica dell’ente locale interessato).
Sviluppi di pianura
Come si diceva all’inizio, Brescia pedemontana è
solo la tappa introduttiva della storia iniziata in
Portogallo e ramificata qui. Il mondo è piccolo,
figuriamoci la Lombardia vista da uno staff
manageriale multinazionale. Per capirlo anche in
mancanza di elicottero, basta imboccare una delle
due vie che tagliano l’area industriale dismessa:
viale Cassala. La strada, con l’andamento a grande
curva regolare tipico delle zone industriali
disegnate su tracciati e scambi ferroviari, scorre fra
i muraglioni delle zone ex siderurgiche e le
“sironiane” torri degli acquedotti. Poi attraversa un
passaggio a livello infilandosi nel sistema di uscita
meridionale da Brescia, che nel giro di qualche
centinaio di metri prende il nome di via Orzinuovi,
e oltre i confini comunali di provinciale 235.
Raggiunta Orzinuovi dopo qualche decina di chilometri fra paesi, semafori fra il bar e il sagrato, e case sempre più rade,
si incrocia un’altra 235, la Statale che lungo un grande arco percorre tutta la media pianura lombarda: dall’asse della
Brescia-Goito-Mantova a Montichiari, attraverso i raccordi tangenziali di Crema e Lodi, a Pavia. Sembra un giro piuttosto
lungo, ma basta provarci per scoprire che non è affatto così, e la “distanza”, come quella dell’ex zona industriale dal
centro di Brescia, è soprattutto mentale: una bazzecola, per chi opera a tutto campo.
Bruce Springsteen liquiderebbe il tutto con un: the highway is alive tonight, where it’s headed, everybody knows. In
effetti, anche contando semafori, traffico di piccolo cabotaggio, cantieri vari, a velocità media ci vuole circa un’ora e
mezza per andare dall’ombra delle torri d’acquedotto dismesse bresciane, attraverso la pianura irrigua, fino all’incrocio
per la Becca nella periferia orientale pavese, dove la 235 finisce nell’anello della tangenziale Est. Logica vorrebbe che il
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grande semianello, dopo aver attraversato la media pianura lombarda, girasse tutto
intorno a Pavia per risalire poi, Parco Ticino permettendo, verso l’asse della Padana
Superiore, ma al momento la tangenziale pavese si interrompe davanti a un grande
spazio verde. Certo, il piano regolatore prevede da tempo la chiusura dell’anello
attorno al capoluogo, e a ben guardare i cantieri sono già aperti e segnano una larga
striscia di terra smossa che prosegue tra i campi: ma a sinistra e a destra c’è sempre
e solo verde, campagna, spazio aperto. Qui dove ci siamo idealmente fermati, in
territorio di Pavia e lungo la statale Vigentina per Milano, questa bella campagna si
chiama parco della Vernavola, dal nome del torrente che lo attraversa. Più a nord il
cuneo verde si allarga e si articola, e si chiama Parco Visconteo. E proprio al centro
di questo
parco, nei terreni quasi affacciati sul nuovo tracciato della tangenziale di Pavia, c’è
l’altra faccia della medaglia dell’iniziativa multinazionale e multiprovinciale
Sonae, che ci eravamo lasciati alle spalle cento chilometri fa con il fiore
all’occhiello del redevelopment bresciano a fianco della ferrovia: il progetto di un
altro, e ben altro, Centro Commerciale Integrato.
Borgo Borgarello
Il celeberrimo complesso monumentale della Certosa di Pavia, famoso anche per aver dato il nome ai formaggi freschi
prodotti negli stabilimenti lì vicino, ha la particolarità di non stare a Pavia, come farebbe pensare il nome. Si trova infatti
nel territorio comunale omonimo, di Certosa, ed è l’estremità settentrionale di un insieme naturalistico e insediativo
complesso, voluto e realizzato nei secoli dalla famiglia Visconti e per un lungo periodo anche recintato con una muraglia
di 22 chilometri, dotata di porte come una vera e propria città fortificata. Solo, all’interno non c’erano palazzi e popolo,
ma una grande riserva di caccia, con annessi alcuni stabili “di servizio”. Ora, il cosiddetto Parco Visconteo è uno dei punti
più qualificati, se non il più suggestivo e prezioso, di una grande fascia verde più o meno continua che dai margini
meridionali dell’area metropolitana milanese scende sino a lambire i margini del centro storico di Pavia, e quindi il parco
del Ticino.
A differenza del parco urbano pavese della Vernavola, per esempio, il parco Visconteo “non esiste” se non nelle
intenzioni di alcuni entusiasti, o nei progetti di riqualificazione annunciati dall’amministrazione provinciale, come quello
di un Piano Paesistico, attuativo delle linee generali stabilite dal Piano Territoriale di Coordinamento. Il piano, si legge
nel sito Metropolisinfo.it, “sarà pronto entro l’anno ... e serve ad evitare che possano sorgere strutture in contrasto con
l’importanza storica del territorio”. Un territorio che comprende, ricapitolando, i comuni di Pavia a sud, Certosa
all’angolo settentrionale ovest, San Genesio a quello est, e proprio al centro, fra il Naviglio e il tracciato della ferrovia,
Borgarello. Proprio qui, a partire dal 2000 si sono sviluppati rapporti fra l’amministrazione comunale e la Gestione
Sviluppo Commerciale di Bergamo, rappresentante italiana della portoghese Sonae, per un centro integrato che, su una
superficie di 200.000 (duecentomila) metri quadri, offra un insieme di servizi commerciali, terziari, di intrattenimento,
culturali. Il che, da un certo punto di vista non fa una piega, perché se ci guardiamo intorno, anche qui nelle brume tra
fantasmi viscontei, cosa vuole la società? La risposta mi pare innegabile: accesso ai servizi, anche di tipo commerciale.
Naturalmente qualcuno pensa che non si possa risolvere tutto con cattedrali più o meno moderniste, sparpagliate a
casaccio, che crollano sulla testa della storia insediativa locale. A volte è la soluzione più semplice, e molti la accettano o
la subiscono (come si vede dalle folle che si accodano ogni week-end). Ce ne sono altre? Certamente si, ma forse non si
trovano nell’atteggiamento che Peter Hall chiama BANANA ( Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anything), o
nella proposta localistica magari in buona fede, della conservazione tout court di un sistema commerciale e servizi
pensato molti anni fa per un contesto completamente diverso di bisogni, mobilità, opportunità di scelta. Quindi, occorre se
non altro descrivere il campo di gioco, in cui si muovono gli attori di questa partita.
La scacchiera e le pedine
Borgarello è, praticamente e come già capivano i Visconti con la loro riserva di caccia, Pavia. Non solo, ma se lo si
inserisce in un quadro più ampio si tratta anche dell’ultimo tratto della discontinua greenbelt agricolo/paesistica che dalle
ultime sfrangiature dell’insediamento compatto di Milano qui arriva alle porte di Pavia, sempre più schiacciata nella
convergenza (ovvia, su un capoluogo) delle grandi linee di comunicazione territoriale, ma mantenuta non solo
visivamente in esistenza dai cunei verdi che arrivano fino alla prima cerchia di circonvallazione urbana. E non si tratta di
modellistica astratta, ma del ragionamento primordiale di qualunque pianificazione urbanistica, o meglio di buon senso
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residuo, che dal Frederick Law Olmsted del Central Park di New York o della Emerald Necklace di Boston, attraverso la
cultura del landscape planning anglosassone, abbiamo come al solito re-importato sotto mentite spoglie.
Uno dei cunei verdi, in questo caso specifico, è quello che contiene il piccolo insediamento di Borgarello. Il paese sta ora
separato e risparmiato dai grandi flussi regionali di attraversamento, chiuso com’è a ovest dal corso d’acqua del Naviglio
che costeggia la Statale 35 dei Giovi, con un unico accesso da un ponte che immette quasi direttamente sia in centro
storico che nelle (proporzionalmente vistosissime) aree orientali di nuova espansione residenziale a villette, su uno
schema a scacchiera monotono e artificioso (che anticipa le bellezze di una certa “modernizzazione”). A est, il territorio
comunale è ulteriormente delimitato dalla linea ferroviaria Milano-Pavia, superabile con cavalcavia in corrispondenza del
confine comunale a nord con Certosa (proprio di fianco alla recinzione del complesso monumentale), o con passaggio a
livello nei pressi del cimitero, qualche centinaio di metri a est del centro storico.
Come già detto, il problema di qualunque sviluppo edilizio, qui, è quello da un lato di interrompere la continuità della rete
di spazi aperti, e in più nel caso specifico di un “centro integrato” di scala regionale, quello di inserire un enorme
attrattore di flussi che creerebbero la base alla domanda di ulteriori stravolgimenti nel sistema di accessi: quindi una
reazione a catena tale da rendere quasi automatica l’abolizione - salvo residui visuali di testimonianza - dell’ambiente
attuale e del sistema insediativo campi/irrigazione/viabilità secondaria. A ben vedere, un articolo dell’urbanista Giuseppe
Boatti sulla Provincia Pavese del 4 ottobre scorso (“Quel che resta della Certosa”), non suona neppure troppo polemico
quando osserva che il Sindaco di Borgarello vede: “La città futura fatta ... da mattoni, cemento, asfalto e metri cubi e
quadri. E l’interesse comunitario finisce dove terminano i confini del proprio comune. Oltre? Ognuno per sé e Dio ce la
mandi buona”. Perché la questione, qui, non sembra quella del “fare” o “non fare”, come posta nella solita prospettiva dei
modernizzatori a senso unico, ma del “dove fare cosa, e per chi”. E forse vale davvero la pena di concentrarsi su quel
“chi”, pensando a quanti giovani, casalinghe, pensionati, legittimamente auspicano una maggiore offerta di spazi per i
servizi, il commercio, la cultura, l’intrattenimento. Basta vederli, in un giorno qualunque per non parlare del fine
settimana, mentre si affollano accodati sulle strade grandi e piccole che qui percorrono il territorio su e giù. Ma, secondo i
Comitati che si oppongono al Centro di Borgarello, hanno già un sacco di posti dove andare, in un raggio piccolo e
medio. Sarà vero? L’unico modo per scoprirlo, come al solito, è quello di seguirli.
Un tranquillo week-end fra centri commerciali e tracce di campagna
Quello che chiunque, nella trasferta da Brescia attraverso l’arco della Statale 235, può vedere, è che con l’eccezione di
qualche angolo sull’Oglio o casuale scorcio, qui la campagna è soprattutto un ricordo: al massimo si vede “il cuore verde
della Megalopoli”, come l’ha definito
Eugenio Turri. E puntualmente, a tutti gli incroci, nodi, tangenzialine, dove il
grande arco incrocia le direttrici verso la linea del Po, spuntano lontano o
vicino le guglie e pinnacoli plastificati dei centri più o meno complessi che
offrono benzina, tonno, pannolini, cinema, danze e soprattutto grandi
parcheggi. Ce n’è uno, piuttosto vistoso e ingombrante, proprio fra le
tangenziali di Lodi e Pavia, in corrispondenza del casello autostradale
dell’A1, di cui è naturalmente “parassita”, e che provoca ingorghi a non
finire. Ma anche più vicino a Borgarello non scarseggia certamente, questo
tipo di merce.
Per capirlo meglio, l’ambiente in cui si posano queste astronavi della grande
distribuzione, niente meglio di un percorso abbastanza lineare di pochi
chilometri, a partire dalla linea della “strada Cerca” (nome tradizionale ancora
usato in alcuni tratti), che col nome ufficiale di Provinciale 40 Melegnano-Binasco taglia la fascia del Parco Sud quasi
esattamente lungo la discriminante fra zone urbanizzate con qualche “vuoto”, e zone agricole con qualche (a volte
parecchi) “pieno”. Il punto di partenza ideale è all’altezza di Lacchiarella, dove il centro Il Girasole, con blasone
Fininvest e aggiunta di un padiglione esterno della Fiera di Milano e di altro, marca piuttosto significativamente i limiti
della conurbazione compatta milanese. Proprio qui, si era vagheggiato anche di mettere la Fiera “esterna” vera e propria,
ovvero quella che con i suoi cantieri aperti ora giganteggia nell’ex raffineria di Pero, un pezzo di statale 35 e mezza
Tangenziale più su. A pensarci, all’immagine di quell’enormità piazzata qui in mezzo al Parco Sud, c’è davvero da tirare
un sospiro di sollievo.
A sud, abbandonando le provinciali, si entra nel centro di Lacchiarella. Un paese con la via principale che scorre fra case,
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negozi, piazze, incroci, con il tracciato abbastanza integro nell’irregolarità dell’ex strada di campagna lungo la quale nel
tempo sono cresciuti gli edifici. Alla fine del tratto urbano, quando i due tracciati centrale e di circonvallazione si
ricongiungono, comincia davvero l’ambiente che, più o meno, proseguirà identico per chilometri fino al territorio
comunale di Pavia.
Sono strade tortuose, asfaltate ma piuttosto strette. Citando Alabama di Neil Young, si può dire che qui le macchine
viaggiano with a wheel in the ditch, and a wheel on the track. Nonostante tutto, e soprattutto nei fine settimana, il logorio
della vita moderna si fa sentire anche qui, eccome: c’è parecchio traffico, direi quasi tutto locale vista l’abilità con cui i
vari “piloti” si barcamenano tra le buche, i fossi a tre dita dalla ruota, e le curve tra gli angoli ciechi di vecchie cascine.
Siamo comunque in un altro mondo rispetto al percorso parallelo della Statale 35, qualche centinaio di metri a ovest: case
isolate, campi, macchie d’alberi, qualche insediamento un po’ più consistente, come Giussago, fino a Certosa e al
monumento che spicca alla fine del rettifilo proveniente proprio da uno dei pochi ponti sul Naviglio in questa direzione.
Qui è possibile proseguire lungo un percorso secondario lungo l’enorme recinzione del complesso monumentale, fino
all’angolo posto sulla strada che, scavalcando la ferrovia, raccorda la SS 35 con un’altra direttrice principale da Milano
per Pavia: la Vigentina. Proprio sull’angolo opposto della recinzione della Certosa si trova l’incrocio verso Borgarello, il
cui territorio comunale inizia da queste parti.
La strada comunale scorre tra il tracciato della ferrovia a est, e quello del Naviglio e della Strada dei Giovi a ovest. Dopo
il piccolo cimitero, ancora in piena campagna, e un nuovo bivio, la via si restringe per entrare nel piccolissimo centro
storico, dietro cui si nota piuttosto vistosa tutta la zona di nuova e nuovissima espansione, più o meno a sud-est. È
presumibilmente oltre queste aree, che dovrebbe sorgere il progettato Centro Commerciale (o Centro Chissàcosa), nella
zona che anche visivamente ha un aspetto strutturato secondo un aspetto tradizionale, nonostante, appunto, la piccola ma
decisa villettopoli che appare in vigorosa crescita. Anche sull’altro margine, lungo la strada alzaia che scorre sul lato
opposto del Naviglio rispetto alla Statale 35, Borgarello si fa notare per la quantità di edificato (la “città fatta di metri cubi
e quadri” stigmatizzata da Boatti), con case di due o tre piani allineate su una o anche due file, che solo dopo il confine
col territorio di Pavia lasciano il posto agli spazi aperti. A collegare la strada alzaia al tracciato della Statale dei Giovi,
nell’ultimo lungo rettifilo prima del bivio della Tangenziale Ovest di Pavia, un ponte “normale”, e più a sud un altro
stretto passaggio selciato, in corrispondenza di una chiusa. Questo è l’ambiente generale dove il sindaco di una
popolazione di un migliaio di abitanti ritiene che un centro commerciale di 200.000 metri quadrati possa chissà come
atterrare a “impatto zero”.
Imboccato l’ultimo tratto della strada dei Giovi lungo il Naviglio, quasi subito
si salgono le rampe della tangenziale, e si intravedono per un po’ i quartieri
della città compatta, tra cui spicca la grande area ospedaliera. Il percorso
taglia poi in sopraelevata attraverso le aree molto meno urbanizzate a ridosso
del Ticino, e dopo il ponte sul fiume e un altro tratto la tangenziale si
ricongiunge alla direttrice urbana proveniente dall’altro ponte (quello duetrecento
metri
a
monte
del
famoso
Ponte
Coperto).
Siamo in territorio comunale di San Martino Siccomario, ovvero nell’area
geografica che dovrebbe concludere i 90 chilometri della lunga striscia verde
del Parco Ticino, da qui alla punta della Becca, alla confluenza col Po. Ma la
continuità del parco, o delle aree libere, o di qualunque cosa, se ne è andata
chissà dove chissà quando nel passato. Ora la Statale, dal confine comunale di Pavia fino a qui, e oltre a sud fino al
territorio di Cava Manara, è una striscia continua di quello che gli inglesi chiamavano ribbon development, e gli
americani più onestamente road slum, salvo poi abituarsi e non farci più caso, come la tosse per i fumatori. La traduzione
letterale italiana in uso, di “sviluppo a nastro”, mischiata ai colori vari delle insegne luminose e delle bandiere e striscioni
promozionali, forse aiuta a migliorare l’impressione, ma non certo la qualità dell’aria, o del bordo stradale, o degli accessi
ai piazzali ghiaiosi che in maggioranza costituiscono da queste parti i “parcheggi attrezzati”. In questo ambiente, il centro
commerciale San Martino alla confluenza fra la Tangenziale, la Statale dei Giovi e le direttrici per la Lomellina, spicca
come relativa isola di ordine ed efficienza, a modo suo. E se non altro contribuisce a schermare il vecchio tracciato, che
attraversa il paese e immette nell’ultima punta rurale fra Ticino e Po, dal traffico che qui imperversa a tutte le ore del
giorno, più o meno incolonnato. Il centro commerciale è uno spazio senza storia: supermercato, fast-food, qualche
gregario collocato ai margini del parcheggio principale, che circonda tutto quanto e fa bello spettacolo di sé (opinione
personale) soprattutto nelle mattine festive e nebbiose, visto dall’ultimo tratto sopraelevato della tangenziale.
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Proseguendo verso sud il traffico si dirada man mano si aprono spazi a destra e a sinistra. Contemporaneamente e
ovviamente, si attenua anche il curioso effetto rue-corridor che riesce a dare questo tipo di insediamento, anche sparso.
La fila delle luci di coda si dirada fino a sgranarsi nella normalità di una grande arteria interregionale al ponte sul Po, e
poi al territorio di Bressana Bottarone, dove il percorso verso il tracciato della Padana Inferiore si sdoppia: a sinistra
prosegue la Statale dei Giovi verso Casteggio, a destra ma solo lievemente divergente la provinciale per Voghera, che
sbuca comunque sulla stessa linea pedecollinare della Padana, in territorio di Montebello della Battaglia. Qui si ripete,
stavolta in forma moderna e a modo suo pianificata, l’esperienza del road slum o ribbon development che dir si voglia,
già descritta. Siamo a un tiro di sasso dall’imbocco della tangenzialina di Voghera (efficientissima, a modo suo), ma
l’astronave di precompresso e asfalto che ha deciso di atterrare da queste parti, ha deciso pure che può farne a meno, di
quella tangenzialina, e che si costruirà un ambiente viabilistico tagliato a pennello, di cui per ora si intravedono solo
sovrappassi imbandierati, pezzi di cantiere, e qualche tracciato interrotto dalle barriere conosciute come new jersey. A
quell’incrocio tutti, ma proprio tutti, i flussi obbligati del percorso pedecollinare Piacenza-Alessandria (qui nei tratti
urbani si usa ancora il nome “giusto” e appropriato: Via Emilia Pavese), trovano un bel semaforo, a tutto e completo
servizio dell’ingresso al parcheggio, o poco più. Ovvero, come abbiamo già visto e stravisto in altri casi, si obbligano
tutti, che magari con la multisala, il fast-food, l’ipermercato ecc. non hanno niente a che fare, a una coda probabilmente
piuttosto pittoresca da vedere, di notte, dall’alto. Meno pittoresca da farsi, imprecando con quello che sta al telefonino e ti
fa perdere il semaforo atteso da cinque turni, o spendendo tutta la moneta possibile coi due o tre schieramenti fisiologici
di questuanti con o senza cartello. E sul limitare delle colline dell’Oltrepo, il percorso tra l’offerta commerciale della zona
si può anche interrompere.
Conclusioni?
Tornando all’oggetto principale di questa passeggiata, si ripete: perché mai il sindaco di Borgarello ritiene che 200 metri
quadrati/abitante di centro commerciale (o centro integrato che sia) possano collocarsi “senza impatto” in quel cuneo
verde storico che scende dai margini del Parco Sud metropolitano milanese, e si conclude integrato con altre strisce
gemelle (come quella della Vernavola) sotto le mura di Pavia? E perché mai proprio lì, con tutta l’offerta di crocicchi,
spianate, triangoli, appezzamenti, cavalcavia, di cui il territorio anche prossimo sembra pullulare? La risposta potrebbe
essere: perché si è convinto della bontà dell’iniziativa, e soprattutto della serietà dei proponenti, una multinazionale
portoghese che nei comunicati ufficiali sembra mettere l’ambiente quasi alla pari dei bilanci.
Una risposta convincente, a modo suo, e che in teoria dovrebbe spazzare come fuscelli le solite opposizioni passatiste dei
nimbies: quelli che non vogliono nulla a sporcare il proprio cortile, e poi “perdono il treno dello sviluppo”. Ma, e qui la
domanda si pone ai lettori e alla fine di questi vaghi appunti in diretta dal territorio: voi (potenziali frequentatori di
passerelle, scansie, mostre di pittura ecc.) siete convinti?
Un architetto progettista come Sir Richard Rogers, autore fra l’altro del grande Designer Factory Outlet a bacino di utenza
“europeo”, allo sbocco britannico del Chunnel, in una recente intervista al Sole 24 Ore osservava desolato come ormai si
possa andare da Torino a Venezia senza trovare significative interruzioni nella trama continua dell’edificato, delle
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infrastrutture doppie, triple, di un coperchio di cemento e asfalto che rischia di soffocare con la sua inefficienza sia
l’ambiente che la sua ragion d’essere storica, ovvero quello che lo mantiene vivo e vitale.
Facciamo due conti, e supponiamo: se ciascun sindaco decide di adottare un “piano dei servizi” delegato a una
multinazionale “ambientalista”, con uno standard di 200 metri quadri/abitante di Centro Integrato, cose ne esce? E
vogliamo negare l’ingresso nel mercato, multinazionale e locale, di altri soggetti magari ancora più dinamici e
“ambientalisti”?
Come si dice: ai posteri l’ardua sentenza. Ma per averne, di posteri, forse è meglio anticipare qualche risposta qui e ora.
Espansione del big-box: come controllarla?
Una specie di "manuale anti-sprawl" interamente dedicato al problema dei grandi scatoloni commerciali a prezzi
stracciati, che flagellano l'America e degradano lo spazio. Dal Municipal Lawyer marzo-aprile 2002
Per chi segue le vicende della conflittualità diffusa fra popolazioni locali, più o meno organizzate, e grandi operatori
commerciali, il testo che segue riveste certo un notevole interesse, configurandosi come una specie di “manuale”, che
nella breve rassegna di casi proposti percorre un ampio spettro di temi e situazioni. L’altro elemento di interesse è la
focalizzazione su un solo tipo di insediamento, quello big-box, ben distinto dalla tipologia del centro commerciale, di cui
rappresenta addirittura una involuzione e spesso un temibile concorrente. In definitiva un testo utile soprattutto per
l’incrocio fra le ragioni e gli strumenti della società civile, quelle dell’amministrazione ai vari livelli, e non ultima quella
degli operatori, almeno quando si comportano secondo le regole. Peccato che questo accada molto di rado.
Constance E. Beaumont, Leslie Tucker, “L’espansione dei big-box: come controllarla”, Municipal Lawyer, marzoaprile 2002 (traduzione di Fabrizio Bottini)
”La gente adora quello che c’è dentro ai superstores. Ma odia quello che ci sta fuori”. Con queste parole Edward T.
McMahon, esperto nazionale di smart growth, riassume il rapporto di amore-odio degli americani per i big-box.
È impossibile negare la popolarità di Wal-Mart, Target, Home Depot, Lowe’s o dei loro molti imitatori. Come sottolinea
la stessa Wal-Mart “Tutti i consumatori apprezzano un buon servizio, prezzi bassi, e una vasta scelta”. I 200 miliardi di
dollari di vendite nel 2001, e il ruolo di Wal-Mart di leader mondiale nel settore, parlano da soli. La cosa si conferma con
la rapida crescita di imprese come Home Depot, Target e Lowe’s, le cui vendite hanno raggiunto rispettivamente i 45, 29
e 18 miliardi di dollari nel 2000. Ma nonostante questo, centinaia di organizzazioni di base in tutto il paese stanno
lottando con le unghie e coi denti per tenere questi mastodonti commerciali fuori dalle loro comunità. “È proprio il peggio
del suburbio, il meglio che possiamo aspettarci?” si chiede un volantino distribuito dai cittadini di New Orleans, che
contestano un proposto punto vendita Wal-Mart di ventimila metri quadri nel distretto storico di Lower Garden. “Non
stiamo guadagnando un negozio, ma perdendo una comunità”, si lamenta un gruppo di Decorah, Iowa, in un annuncio a
pagamento su USA Today. Gli oppositori a un progettato Home Depot di Mountain Valley, California, hanno aperto un
proprio ufficio, stipato di cartelli, letteratura specializzata, e petizioni, per combattere il negozio gigante. “Non compro da
Sprawl-Mart” recita un adesivo a Greenfield, Massachusetts. Un gruppo che si chiama Main Street Defense Fund ha
citato in giudizio la municipalità di Northfield, Minnesota, per aver approvato un punto vendita Target all’esterno del
centro abitato.
Cosa c’è, dietro a queste battaglie? Secondo molti, i negozi big-box implicano costi indiretti, che non compaiono nei
cartellini dei prezzi dei prodotti in vendita: traffico congestionato; scomparsa di alberi, spazi aperti, terreni agricoli;
fallimento di piccole imprese commerciali; sostituzione di posti di lavoro in grado di mantenere una famiglia, con altri a
stipendi ridotti, che non lo consentono; inquinamento dell’acqua e dell’aria; centri città in decadenza con edifici vuoti;
centri commerciali tradizionali pure abbandonati; un senso comunitario ridimensionato; e sprawl. La lista dei problemi
legati ai big-box è lunga. Che uno li ami o no, questi big-box, è indiscutibile che i loro effetti siano significativi, e di
lungo periodo. Gli amministratori locali devono ai loro elettori almeno la valutazione di questi effetti, e l’acquisizione
degli strumenti disponibili per attenuarli, prima di approvare l’insediamento di un punto vendita big-box. Tali strumenti
comprendono le valutazioni di impatto, standard di progetto, moratoria urbanistica, limiti alla dimensione dei negozi,
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accordi
interamministrativi,
e
l’abolizione
dei
sussidi
per
chi
favorisce
lo
sprawl
commerciale.
Valutazioni di Impatto
L’idea che sta dietro al concetto di “valutazione di impatto” è semplice: le comunità devono poter capire quali saranno gli
effetti dei grandi progetti commerciali sulle loro città, ed attenuare quando possibile i potenziali danni. Se da un lato le
valutazioni di impatto ambientale sono ormai uno standard per i grandi progetti, sono meno comuni gli studi sull’impatto
economico, nonostante i grossi insediamenti commerciali possano devastare la vitalità economica di un centro città o di
una arteria commerciale. Arthur Frommer, noto per aver lanciato la diffusa collana di guide turistiche, ha osservato a
questo proposito:
”La distruzione delle zone centrali delle città americane è avvenuta in tutto il paese, come risultato diretto della
realizzazione di mastodontici negozi del tipo Wal-Mart. Oltre a degradare le zone esterne, essi hanno spinto al fallimento
tutte le principali categorie di commercio tradizionale”.
Per comprendere come una valutazione di impatto economico può aiutare a proteggere il carattere di una comunità,
vediamo l’esperienza di Lake Placid, New York. Quando Wal-Mart propose di costruire un negozio di 8.000 metri quadri,
circondato da quattro ettari di asfalto in una zona di tutela paesistica, sui margini di questa cittadina turistica, i residenti
reagirono. Tra le altre cose, temevano che l’espansione dell’insediamento big-box tipicamente innescata da Wal-Mart
potesse rendere Lake Placid meno attraente per il turismo, elemento portante dell’economia locale. “La gente viene in
questa valle per rigenerarsi, per allontanarsi dalle pressioni della vita urbana”, spiega un residente. “Con quelle
architetture da commercio autostradale, i semafori, le migliaia di alberi strappati per un parcheggio più grande da solo di
tutti quelli del centro messi insieme, Wal-Mart sfregia il panorama della Whiteface Mountain. Il volume d’affari
necessario a sostenere un negozio di questa mole minaccia tutta Lake Placid, e i villaggi vicini”.
I progetti di trasformazione urbanistica di Lake Placid sono di competenza dell’amministrazione municipale di North
Elba, il cui regolamento di zoning recita: “deve essere evitato qualunque impatto indebito sulle risorse naturali, fisiche,
sociali ed economiche del Villaggio o Cittadina”. In questo caso, l’ufficio urbanistica respinge il progetto di superstore
perché il suo impatto economico negativo minacciava di danneggiare i caratteri comunitari di Lake Placid. Lo studio di
impatto economico condotto sul progetto di Wal-Mart raccontava che ci sarebbero voluti fino a quattordici anni per
sostituire le attività e riempire gli spazi lasciati cronicamente vuoti a causa della realizzazione del superstore: “questi
vuoti cronici ... si tradurrebbero quasi inevitabilmente in meno turisti a visitare la zona, il che a sua volta provocherebbe
una diminuzione generale delle vendite, che avrebbe come risultato una spirale discendente riguardo alle caratteristiche e
condizioni psicologiche, visive, economiche del centro città ... Questi potenziali impatti avrebbero significativi e non
attenuabili effetti negativi sulle caratteristiche e la cultura della comunità, con numerosi vuoti commerciali sul fronte
strada, e una perdita di “massa critica” dell’area centrale”.
Wal-Mart citò in giudizio l’ufficio urbanistica per aver negato l’autorizzazione a costruire, ma nel febbraio 1998 il
tribunale confermò la validità della delibera. Altre amministrazioni hanno respinto negozi big-box, o posto condizioni per
approvarli a seguito dei risultati dello studio di impatto. In Vermont, per esempio, l’ufficio ambiente statale ha negato a
un costruttore il permesso per un superstore fuori St.Albans, dopo che uno studio di impatto aveva valutato come i 10.000
metri quadrati di negozio sarebbero costati al contribuente locale 3 dollari per ogni dollaro di beneficio pubblico. La
catena commerciale fece appello alla Corte Suprema di stato del Vermont, ma nel 1996 la Corte confermò la decisione
dell’ufficio ambiente. Nella sentenza si osservava: “La capacità di un’amministrazione locale di sostenere i servizi
pubblici dipende dalla sua base fiscale, ovvero l’accertato valore delle proprietà sottoposte alle tasse. Considerato che
l’impatto di un nuovo insediamento sulle attività commerciali esistenti influenza in modo negativo i valori delle proprietà,
tale impatto danneggia la pubblica salute, sicurezza e benessere”.
A Bozeman, Montana, ora viene richiesto uno studio di impatto economico, di traffico, e ambientale, per ogni nuovo
punto vendita con superficie superiore ai 5.000 metri quadrati. Quando un operatore di big-box richiese di ampliare il
negozio esistente, da 12.000 a 20.000 metri quadri, la municipalità commissionò un’analisi di impatto economico. Lo
studio raccomandò di chiedere al commerciante il sostegno economico a un servizio di trasporto pubblico navetta dal
superstore al centro città, e di contribuire a una campagna promozionale che interessasse sia il superstore che gli altri
negozi.
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Standard di progetto
Un’altro motivo dell’opposizione dei cittadini ai negozi big-box è il loro aspetto: indescrivibili, enormi, cacciati chissà
dove al centro di un mare di asfalto, senza finestre, senza la forma di un tetto, senza nessun tentativo di rispettare le
caratteristiche architettoniche di un luogo. Migliaia di amministrazioni hanno approvato standards progettuali per
migliorare l’aspetto degli insediamenti commerciali. Cathedral City, California; Evanston, Wyoming; Cape Cod,
Massachusetts, sono solo alcune delle molte città che hanno usato questi regolamenti per migliorare le caratteristiche dei
big-box.
Gli standards di progetto, a Evanston nascono da una serie di udienze pubbliche condotte durante una moratoria
temporanea sui negozi big-box, dopo che un operatore aveva annunciato il progetto di lasciare un edificio esistente, e
realizzarne un altro più grande. La città respinse la richiesta del commerciante in base ad una articolo di ordinanza che
limitava la dimensione dei negozi a 3.000 metri quadrati, e successivamente adottò rigidi standards di progetto per
garantire che il nuovo negozio, e con lui tutti i futuri big-boxes, fosse compatibile con le caratteristiche dell’architettura
tradizionale della città. Queste regole chiedono che tutti i punti vendita con superficie superiore ai 2.500 metri quadrati
utilizzino “mattoni rossi, o mattoni finti, arenaria grigia, pietra locale, pietra lavorata o legno almeno sul 30 per cento
della facciata principale (il calcestruzzo è vietato sulle facciate); si utilizzino per le facciate toni naturali anziché colori
sgargianti; si interrompano le facciate monotone degli edifici con marcapiano e dettagli architettonici”.
A Cape Cod, i negozi con una superficie coperta di oltre 5.000 metri quadri devono essere progettati con, o comunque
schermati da vegetazione, per evitare un impatto negativo sull’ambiente circostante; la costruzione lungo il filo stradale è
vietata, i parcheggi devono quando possibile essere collocati di fianco o sul retro degli edifici. Gli “insediamenti di
impatto regionale” – progetti che superano i 10.000 metri quadri sono soggetti ad una attenzione particolare e devono
dimostrare alla Cape Cod Commission che i benefici sono superiori ai danni. Secondo nuove regole in corso di
approvazione a breve termine, la dimensione dei negozi sarà limitata ad un massimo di 1.500 metri quadri, a meno che
siano collocati in “zone a crescita incentivata”, o siano totalmente schermati.
Degrado da big-box, Saturazione commerciale, Limiti alla dimensione dei negozi
Molte comunità condividono l’opinione di Cape Cod, secondo cui lo sprawl commerciale è “inefficiente e insostenibile”.
Come spiega il piano regionale dell’area di Cape Cod, “L’eccesso di esercizi commerciali sia a livello locale che
nazionale indica che un generale sovradimensionamento non si aggiunge all’insieme dell’economia della regione. Finisce
per danneggiare le attività più piccole, di proprietà locale, generando degrado quando gli edifici commerciali esistenti
vengono lasciati vuoti per cessazione dell’attività”. Negli Stati Uniti al 1980 c’erano 0,5 metri quadrati di spazio
commerciale pro capite; oggi la cifra è salita a 2 metri quadrati.
Costruttori e catene di distribuzione hanno saturato oltre il limite i suburbi, generando disservizio nelle città”, afferma
Burt Flickinger III, direttore generale della Reach Marketing di Westport, Connecticut. Nonostante Wal-Mart abbia
lasciato vuoti 426 dei propri negozi, la compagnia prevede di realizzare 4,6 milioni di nuovi metri quadrati commerciali
entro l’anno.
I commercianti chiudono i negozi più vecchi e piccoli, e ne aprono di nuovi sempre più grandi, sempre più lontano nella
campagna. Così nascono termini come “tombe del commercio” o “zone grigie”, per descrivere il crescente problema dei
superstores abbandonati. Gli amministratori locali sono preoccupati che questi spazi possano fare da culla a criminalità e
vandalismo, deprimere il valore delle proprietà confinanti, e caricare le municipalità di costi finanziari e legali. Snellville,
Georgia, ha tre negozi big-box che se ne stanno lì vuoti. A Bardstown, Kentucky, un vecchio Wal-Mart costruito proprio
sull’altro lato della strada di fronte al My Old Kentucky Home, un parco statale e un’importante attrazione turistica, è
rimasto vuoto per quasi dieci anni. A Hagerstown, Maryland, un big-box di prodotti per l’edilizia si è trasferito in una
nuova struttura, ma ha lasciato vuota la vecchia dall’altra parte della strada negli ultimi cinque anni. Con un’azione
preventiva contro il potenziale degrado da big-box, la Buckingham Township, Pennsylvania, ha approvato un’ordinanza
che richiede ai costruttori di depositare determinate somme in un conto cauzionale, a coprire i costi di demolizione nel
caso in cui i superstores edificati possano un giorno rimanere vuoti. A Peachtree City, Georgia, si richiede che i contratti
fra proprietari degli immobili e gestori dell’impresa commerciale specifichino che quest’ultimo non può lasciare libero
l’edificio, e che il proprietario non può affittare a un altro inquilino. Secondo un accordo siglato a Evanston, Wyoming,
nel 2001, un operatore big-box deve aiutare l’amministrazione a reperire un altro occupante per l’edificio che dovesse
abbandonare, per evitare che esso resti semplicemente inutilizzato.
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Le limitazioni alla grandezza dei negozi offrono un metodo sempre più diffuso per prevenire un eccesso di costruzioni,
che spesso sommerge le comunità di spazi commerciali molto più ampi di quanto possano effettivamente assorbire. Da
Walpole, New Hampshire, dove i negozi devono stare sotto la soglia dei 5.000 metri quadri, a Coconino County, Arizona,
dove sono limitati a 7.000 metri quadri, città in tutto il paese hanno adottato limiti alla dimensione dei big-box. Un altro
approccio promettente è quello di limitare la superficie coperta dei nuovi negozi. Gaithersburg, Maryland, con una sua
ordinanza consente negozi più grandi, ma limita la superficie coperta a 8.000 metri quadrati. Questa politica ha prodotto
parecchi edifici big-box su due piani. Egualmente, si possono trovare strutture commerciali big-box multipiano a New
York City, Chicago, Seattle, Pasadena e altre città.
Accordi interamministrativi
Una delle sfide principali per le comunità, si profila quando gli operatori big-box mettono le amministrazioni locali l’una
contro l’altra. Molte città temono che imponendo qualunque condizione all’insediamento di superstores, i negozi
semplicemente si sposteranno nella circoscrizione confinante, dove non ce ne sono. Il vicino si prende tutti i benefici
fiscali del commercio e delle tasse sugli immobili, e loro si prendono il traffico. La legge statale può aiutare le città ad
evitare di essere pedine in una guerra interamministrativa di offerte.
Applicando la politica statale dell’Oregon, Hood River (una piccola città del Columbia River Gorge in Oregon) ha
sottoscritto un Urban Management Agreement con la Contea di Hood River, che richiede alla contea di adottare
regolamenti simili a quelli della città. L’ordinanza cittadina sui big-box comprende piantumazioni di alberi per
interrompere l’aspetto da “mare di asfalto” dei parcheggi, e un divieto per negozi con una superficie coperta di oltre 5.000
metri quadrati. Come avviene anche altrove in Oregon, la città proibisce ampliamenti delle reti fognarie al di fuori dei
limiti definiti di crescita urbana, tranne nei casi in cui esiste un pericolo di ordine sanitario. Ad evitare uno sviluppo leapfrog (a salto di rana, ovvero casuale e su aree inedificate), Hood River intende consentire l’urbanizzazione solo in terreni
contigui alla città.
Moratoria urbanistica
Un certo numero di municipalità hanno messo in pratica una moratoria temporanea sulle costruzioni, per dare agli uffici
locali il tempo di sviluppare nuove regole di progettazione, localizzazione, dimensione per i negozi big-box. Un esempio
è Fort Collins, Colorado, che nel 1994 ha adottato una moratoria di sei mesi su tutti i negozi superiori a 8.000 metri
quadrati. Preoccupati che questa pratica potesse avere “irreversibili impatti negativi” sulla città, gli amministratori di Fort
Collins, hanno attivato una speciale task-force composta di costruttori, cittadini, urbanisti e altri, con lo scopo di studiare
linee guida di progetto per i superstores. Le linee che alla fine sono state effettivamente adottate:
•
•
•
proibiscono lunghe pareti cieche che scoraggiano l’uso pedonale;
raccomandano di evidenziare finestre, tende e altre caratteristiche che aggiungano interesse visuale ai negozi;
richiedono percorsi pedonali a connettere i negozi alle fermate del trasporto pubblico, agli attraversamenti
stradali, alle entrate degli edifici.
Abolizione dei sussidi per chi favorisce lo sprawl dei negozi big-box
Kenneth Stone, economista alla Iowa State University, che ha studiato per anni il fenomeno dei superstores, è esterrefatto
dal numero di amministrazioni locali che ha materialmente sostenuto operazioni di questo tipo. In uno studio del 2001 si
chiede: “È giusto dare denaro dei contribuenti a grandi corporations, che lo useranno per mettere fuori gioco i piccoli
operatori esistenti?”, riferendosi al “gioco a somma zero” praticato da amministrazioni cittadine che distribuiscono
incentivi finanziari ai negozi big-box. “È un vicolo cieco per i commercianti locali, nessuno parla a loro favore”.
Nell’ambito della sua politica di smart growth, il Maryland ha deciso che non ha più senso obbligare i contribuenti a
sovvenzionare un’edificazione dispendiosa e inefficiente, e dunque lo Stato non sosterrà più la realizzazione di nuove
strade o reti idriche o fognarie sparpagliate nello sprawl, “in mezzo al nulla”; invece i finanziamenti statali verranno
diretti verso “Priority Funding Areas”, ovvero insediamenti esistenti e zone in cui la nuova crescita è pianificata dall’ente
locale.
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Una questione di “classe”
Ci si lamenta spesso di come gli operatori dei big-box tentino di mettere una classe sociale contro l’altra, nei loro sforzi
per far approvare i progetti più discussi e discutibili, e con argomenti che suonano più o meno così: è “elitario” opporsi ai
negozi big-box, che sono di grande beneficio per le fasce a basso reddito, a cui vengono offerti beni di alta qualità ad un
prezzo minimo. Questo argomento suonerebbe meno vuoto se questi commercianti non avessero, di fatto, tagliato
completamente fuori i centri tradizionali, dove vivono moltissimi cittadini a basso reddito. L’argomento sarebbe forse più
credibile se i negozi big-box fossero più propensi a localizzarsi in posti accessibili dai mezzi di trasporto che si possono
permettere i ceti a basso reddito. Al momento, la maggior parte dei superstores sono lontani dalle città, completamente
inaccessibili a chiunque sia troppo povero, troppo giovane, o troppo vecchio per guidare un’auto.
Ad ogni modo, non sempre si verifica questa situazione. Bisogna fare credito alla volontà di Target di riusare un grande
magazzino vuoto disponibile, nella zona centrale di Pasadena, California. Ciò dimostra che gli operatori di questo tipo di
negozi possono fare profitti anche collocandosi in siti accessibili per clienti a piedi, in autobus o in automobile. E a
Rutland, in Vermont, Wal-Mart ha suscitato le lodi dei conservazionisti decidendo di riciclare un negozio più piccolo del
normale (un ex magazzino Kmart di 7.500 metri quadri in centro) invece di asfaltare una fattoria e metterci sopra un
negozio extraurbano che avrebbe danneggiato l’economia del centro città.
Scelte che salvano le città
Possiamo avere negozi a prezzi bassi e con un aspetto community-friendly? Naturalmente si può. Le comunità hanno i
mezzi per farlo. Possono seguire politiche che aumentino la loro capacità negoziale per il tipo di sviluppo che desiderano,
oppure adottare un atteggiamento “mi va bene qualunque cosa”, ed essere alla mercé di chiunque arrivi. Anche le catene
di distribuzione hanno diverse possibilità di scelta. Possono insistere con il loro big-box sprawl sempre uguale a sé stesso
ovunque si costruisca, o possono rispettare i desideri specifici delle comunità, di conservare le vedute panoramiche, i
luoghi storici, e i centri città che la gente ama.
Outlet Serravalle: studi di impatto e sensazioni di impatto
Il Factory Outlet Center di Serravalle e il primo studio di impatto: nota introduttiva di Fabrizio Bottini
La Regione Piemonte, Osservatorio del Commercio, aveva promosso (circa
tre anni fa) una ricerca sugli impatti locali e intercomunali dell’Outlet
Serravalle, condotta da Grazia Brunetta e Carlo Salone del Dipartimento
Interateneo Territorio del Politecnico di Torino, pubblicata poi col
beneaugurante titolo: Commercio e territorio, un’alleanza possibile? Sono
trascorsi, appunto, alcuni anni, ma credo che la serietà dell’approccio
scientifico non possa produrre, per sua stessa natura, giudizi usa-e-getta. Vale
quindi certamente la pena di consigliarne ancora la lettura a chi sulle pagine
di Eddyburg ha trovato di qualche interesse i testi semiseri sul mondo dei
Factory Outlet più o meno padani. È passato però anche un anno da quando
questi articoli hanno cominciato ad apparire. Introducevo allora lo Studio
d’impatto coi brani che seguono:
“Rinviando ovviamente alla lettura diretta dello studio il giudizio di ciascuno, vale la pena rilevare qui come,
apparentemente, oltre alla forma organizzativa “interna” dell’intervento, pare si siano importate dal contesto
nordamericano – come implicitamente rivelano ampi passaggi dello studio – anche alcune valenze “esterne”, prima fra
tutte la preponderante centralità del grande operatore commerciale nel determinare forme e contenuti della trasformazione
ambiental-territoriale e socioeconomica, con un ruolo sostanzialmente di seconda battuta della società e delle sue forme
istituzionali. Credo di poter osservare come si tratti, sostanzialmente, di quanto esposto – seppur in forma ottimistica e
aperta – da Richard Longstreth nel suo City Center to Regional Mall (MIT, 1997), storia del passaggio, nel corso del
Novecento, dal modello semplificato downtown/suburbia a quello più complesso della città diffusa (o technoburbia, nella
definizione usata da Robert Fishman in Bourgeois Utopias), che sul versante commerciale corrisponde a una progressiva
“introversione” della struttura di grande distribuzione, che solo per fare un esempio emargina via via tutti i progettisti che
cercano un contatto diretto fra il nuovo insediamento e la tradizione qualsivoglia del centro civico o comunitario.
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E in questo senso non è forse un caso se, parallelamente ad una serie di
rilevazioni positive sugli impatti dell’Outlet Serravalle, Brunetta e Salone
osservano fra l’altro l’irrilevanza “dimostrata dalla cosiddetta pianificazione
di area vasta nel condizionare le logiche localizzative delle attività
commerciali”. Confermando, se necessario, la disparità fra il punto di vista
strategico degli operatori e le effettive capacità di misurarsi fattivamente con
esse, da parte della società e delle istituzioni che ai vari livelli la
rappresentano”.
Così scrivevo, appunto, circa un anno fa. Ieri sono tornato (non per la prima
volta, a dire il vero) a Serravalle, e ho sperimentato di nuovo l’effetto “introversione”, stavolta non sulle pagine di un
libro americano molto ben scritto, ma nella calca nazionalpopolare di un sabato pomeriggio. Introversione perché, non
essendo San Pietro o la Piazza Rossa, questo posto non è evidentemente fatto per essere valorizzato dalla presenza di
masse popolari più o meno entusiaste, e probabilmente per “godere” l’effetto bisogna stare dentro, e non fuori. Un fuori
che, a ben vedere, è proprio il territorio della “alleanza possibile” con questo baraccone, sommerso dalla calca che,
insieme allo spuntare di nuove, meno eleganti e più ingombranti strutture, si è mangiata anche quel poco di fascino
perverso che quegli spazi artefatti potevano avere. La Statale 35bis è letteralmente ingoiata da un turbinare di accessi,
rotatorie, sottopassi, parcheggi, corsie che immettono ed emettono. Con terminologia scientifica lo chiamerò “casino
pazzesco”, dove auto con targhe da Milano a Genova e rotti si aggirano in preda al tipico straniamento da week-end, che
di solito fa la gioia dei carrozzieri (i messaggi pubblicitari non seguono il codice della strada, vecchio o nuovo).
La cura di materiali, citazioni locali, ecc. ecc. con cui lo studio Spadolini ci
aveva presentato a suo tempo il progetto, è completamente annegata in una
logica da centro commerciale qualunque, o peggio che qualunque, e forse
degna ormai di qualche citazione cinematografica, magari all’alba quando del
villaggio si scorge qualcosa che vada oltre il parcheggio o il tetto delle torri di
guardia.
Concludendo con un giudizio certamente non scientifico: una alleanza
certamente “possibile”, e che probabilmente (devo fidarmi della serietà dei
giudizi) ha avuto impatti positivi. Di certo questi impatti positivi non si
vedono a occhio nudo, ingabbiati tra le lamiere, a guardare annoiati l’insegna
rossastra del supermarket di là dalla strada, dove una volta c’era un pezzo di
collina.
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L`espansione commerciale suburbana: una breve storia