Bando Cultura di Parità, finanziato con il contributo del
POR FSE 2007-2013 della Regione Piemonte
Promosso da
GenerAzione Intercultura
Percorso didattico
DIALOGO INTERRELIGIOSO
Per i molti cammini di Dio:
percorsi interreligiosi su diversi temi
LE RELIGIONI, IL CORPO, L’AMORE,
LA SESSUALITÀ
Contiene la scheda “Le religioni di fronte alla sessualità” di S. Bocchini
A cura del Prof. Marco Dal Corso
Contributi dalla Rivista “Confronti” n. 9/2013
GenerAzione Intercultura
Percorso didattico Dialogo interreligioso – IL CORPO , L’AMORE, LA SESSUALITÀ
Eros in Grecia e a Roma
dI Antonella Fucecchi
L’atteggiamento della cultura greca e di quella romana nei confronti dell’eros è profondamente diverso
perché corrisponde ad una visione del mondo e di costruzione di senso che differisce molto nelle due
realtà spesso superficialmente abbinate come fossero interscambiabili.
I Greci fanno di Eros un dio potente, oggetto di incessante riflessione filosofica e fonte di ispirazione
poetica; per i Romani il corrispondente Cupido non ha il medesimo rilievo nel pantheon e non alimenta
un immaginario mitologico così ricco come quello ellenico. A Roma la pulsione amorosa ed istintuale è
severamente controllata e sorvegliata da un sistema educativo rigido che, nella fase più arcaica, non
valorizza, né incoraggia elaborazioni dei sentimenti in chiave artistica o ludica (tali manifestazioni sono
considerate in netto contrasto con il pragmatismo e il senso della concretezza che prevale nel mondo
latino). Dall’analisi delle due realtà culturali emerge, pertanto, un quadro significativamente differente.
La centralità dell’esperienza erotica in tutte le sue accezioni creative ha alimentato opere letterarie
giunte fino a noi, alle quali fare riferimento per analizzare la posizione che Eros assume nella
Weltanschauung del mondo culturale ellenico. Limiteremo il nostro excursus a due autori: il filosofo
Platone, seguito poi dalla poetessa Saffo.
Grecia: il Simposio e la natura di Eros
Il famoso dialogo platonico ha come oggetto la natura dell’amore dibattuta in un banchetto da filosofi
ed artisti che prenderanno la parola mettendo in luce le varie sfaccettature di Eros. Fedro afferma che,
secondo Esiodo, Eros è il più antico di tutti gli dèi, e che la sua forza induce gli amanti a compiere
imprese eccezionali; e cita come esempio la devozione di Alcesti per il marito defunto Admeto, cui viene
offerta la possibilità di recuperare la vita se avesse trovato qualcuno disposto a morire al suo posto:
neppure i genitori accettano lo scambio, solo Alcesti ha tanto amore per lui da varcare la soglia
dell’Oltretomba. È un raro caso di esaltazione dell’amore coniugale che ha come protagonista la donna,
capace di una totale oblazione di sé. Pausania, invece, si sofferma sulla distinzione tra due tipi di
Afrodite e due tipi di eros: Afrodite Pandemia è la patrona dell’amore volgare che desidera soltanto il
corpo, mentre Afrodite Urania induce all’amore della bellezza e dell’anima ed aspira alla virtù. Prende
parte al dibattito anche il commediografo Aristofane, al quale dobbiamo una delle intuizioni più felici e
più seducenti sulla natura dell’amore. Parlando di Eros, Aristofane propone una singolare teoria della
creazione che ha come protagonisti uomini, donne e androgini aggregati in coppie gemellari, poi
separati per sempre. Un impulso incessante e perenne, appunto Eros, induce i mortali a conseguire il
ricongiungimento con l’altra metà dell’essere dal quale si è stati divisi ab origine a causa della superbia
per volere di Zeus. I mortali sono, pertanto, condannati alla ricerca della parte perduta, tenacemente
inseguita, nelle passioni d’amore, temporaneo e illusorio miraggio della ricomposizione. In questo
rimpianto e nella necessità di alleviarne il dolore consiste la potenza di Eros come anelito alla
ricostituzione di una unità della quale l’anima ha una inestinguibile nostalgia. Socrate, invece, considera
Eros un demone che ha in sé del bello e del brutto, dell’umano e del divino. Figlio di Poros (espediente)
e Penia (povertà), contiene lati opposti, come Socrate dichiara di aver appreso dalla sua maestra, la
sacerdotessa Diotima. Il filosofo ateniese pronuncia poi alcune affermazioni utili per comprendere il
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ruolo che l’omoerotismo assume nel mondo greco. Sembra, infatti, affermarsi una netta distinzione tra
l’amore coniugale finalizzato alla procreazione, che vede la componente femminile passiva e
sottomessa, e l’Eros inteso come ricerca di bellezza, di perfezione, di armonia nei rapporti
extraconiugali, raramente etero, più spesso omosessuali, connotati da una consistente differenza di età
tra l’eromenos (amato e passivo) adolescente e l’erastes (amante attivo) adulto, alle volte maestro,
guida educativa. Tali relazioni iniziate nel ginnasio o nella palestra sono regolate da un codice
abbastanza rigido che biasima la mera lussuria e l’intemperanza. Questa forma di omosessualità non è
permanente, ma transitoria e spesso, nell’adulto, affiancata ad una parallela e regolare vita coniugale.
Chi è fertile nel corpo, secondo Socrate, aspira all’unione eterosessuale e alla procreazione, chi, invece,
è fertile nello spirito anela ad una bellezza che unisce le anime e permette l’instaurazione di una intesa
perfetta che supera per intimità qualunque altro tipo di amore e di confidenza.
Eros nella poesia in Grecia
Per comprendere anche altri aspetti dell’eros ellenico occorre ascoltare la voce di una donna, Saffo, la
poetessa che incarna un erotismo sensuale, connesso con la paideia, l’educazione delle giovani affidate
alle sue cure, e connotato da una raffinata sensibilità. Nel tiaso nell’isola di Lesbo, le giovani trascorrono
un periodo di apprendistato artistico, secondo la volontà delle loro famiglie aristocratiche, prima di
essere avviate alla vita coniugale regolare. L’importanza centrale attribuita dal mondo greco
all’attrazione amorosa e alla sua fenomenologia è confermata da uno specifico spazio riservato nel
pantheon: Afrodite è la patrona degli amori, madre di Eros, colui che attivamente suscita attrazioni ed è
l’artefice degli innamoramenti, ma il corteggio di Afrodite comprende Potos, il desiderio, Peito, la
persuasione e la seduzione, Imeros, lo struggimento venato di nostalgia; perché la passione è
eccitazione, ma anche rimpianto, delusione, assenza, dubbio, delirio, aspirazione alla perfezione e
all’immortalità; Eros infatti, principio vitale di generazione e di fecondità, è indissolubilmente congiunto
al suo opposto, Thanatos, la morte. Saffo compone versi di ineguagliabile bellezza sulla veemenza del
pathos amoroso che coglie sempre indifeso l’essere toccato dal dio: chi sia l’oggetto di tale trasporto
passionale poco importa, infatti l’anatomia dell’amato non modifica e non influisce sull’attrazione che
accende l’animo ed inebria i sensi. Che sia Anattoria, giovane educanda, o il barcaiolo Faone, come
vuole una certa tradizione, il cuore di Saffo si strugge quando il dio selvaggio ed imprevedibile la
possiede trascinandola in un gorgo di sentimenti inesprimibili: «Sembra a me pari ad un dio chi ti siede
di fronte... ». È a Saffo che dobbiamo uno degli ossimori più celebri dell’intera letteratura erotica
mondiale. Eros è definito «dolce amaro», è colui che «scioglie le membra», arreca tormenti ed ebbrezze
ineffabili. Benedizione e perdizione, angoscia ed estasi, Eros è irresistibile. Soltanto l’invocazione ad
Afrodite attenua la morsa del desiderio di Saffo, che reclama di essere appagata nella cedevole
arrendevolezza dell’amata.
Eros e Cupido a Roma
Uno spazio totalmente differente assume Eros nel pantheon romano in linea con una visione della realtà
opposta rispetto a quella greca. Il mondo latino differisce soprattutto nell’alfabetizzazione emotiva,
relazionale, nella gestione della vita pubblica e privata, e nei rapporti tra generi. Nella sua matrice italica
fondata su solidi principi patriarcali, a Roma la pulsione amorosa viene incanalata nella costruzione della
familia, nucleo essenziale della res publica. L’eros non trova spazio come ricerca della virtù che può
essere ritrovata nel solco della tradizione e degli antenati (mos maiorum). Uomo e donna fin da fanciulli
sono educati a conformarsi ad un codice di comportamento fondato su diritti e doveri inflessibili. La
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virtù femminile per eccellenza è la pudicizia e la castità da praticare anche all’interno delle mura
domestiche. Procreare figli sani ed abili ad assicurare continuità alla stirpe è il principale imperativo al
quale uomini e donne sono sottomessi. Domi mansit et lanam fecit, cioè rimase a casa a far la lana è la
lapide preferita di ogni matrona, rigorosamente univira, legata cioè per sempre ad un solo uomo. Il mito
non riserva ad Eros/Cupido uno spazio particolare neanche quando avvengono concepimenti singolari
come nel caso di Servio Tullio, frutto dell’unione della bellissima serva Ocrisia e di un fallo
materializzatosi tra le fiamme del focolare sul quale «si siederà». Dunque l’atto unitivo che genererà uno
dei sette re è privo di passione e di eros: consiste nella pura azione meccanica. L’immaginario romano
rimuove con molta forza espressioni della sessualità divergenti: l’omosessualità non viene ufficialmente
riconosciuta, benché praticata, come nel mondo greco, anzi i graeculi sono guardati con sospetto per i
loro modi effeminati. Solo quando l’influenza culturale della Grecia indebolirà il mos maiorum, avverrà
la nascita di una autentica ispirazione poetica e la manifestazione dell’eros artistico. Emerge allora la
voce di Catullo che esprime con sintesi mirabile tutta l’ambivalenza della passione: Odi et amo, «ti odio
e ti amo, forse mi chiedi perché faccio così; non so perché ciò avvenga, ma accade e me ne tormento»
(excrucior). Con Catullo la poesia latina arricchisce il suo immaginario e raffina la propria espressività,
rinnovando linguaggio e figure: Da mi basia mille... «dammi mille baci e poi altri cento e poi ancora mille
perché nessuno, maligno, possa contare un così gran numero di baci». Altrove è la gelosia ad ispirare il
poeta: quando la donna amata con tenerezza lo tradisce, Catullo sente di desiderarla di più (uror: brucio,
ardo), ma di volerle bene di meno. L’amore permette di distogliere il pensiero dalla morte, e Catullo
invita a vivere con pienezza, nulla stimando il borbottio dei vecchi severi, la passione che è data prima
che la notte eterna della morte cada sugli amanti e sui loro tenaci amplessi. In questo carme la poesia
romana è ormai in grado di elaborare una riflessione sul sentimento e sul ruolo che ha nella vita: Eros
diviene così l’unica, illusoria vittoria su Thanatos.
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La sessualità nel cristianesimo antico
di Luciano Zappella
Nel suo studio intitolato Il corpo e l’estasi, Peter Brown mette in guardia dalla tendenza, a volte presente
anche nella comunità scientifica, a guardare «al passato cristiano con indignazione, arrivando a trattare i
Padri della Chiesa come se fossero i diretti responsabili dei mali della nostra epoca» (pag. XVIII). Come ci
ha insegnato l’antropologia culturale, tale fraintendimento dipende dal fatto che spesso utilizziamo
parole «nostre » per descrivere pratiche il cui universo semantico è inevitabilmente diverso dal «nostro»
(da qui la necessità di una risemantizzazione). Un altro pregiudizio, non meno fuorviante, spinge a
pensare che il primo cristianesimo (almeno fino al IV sec.) si presenti con tratti monocromatici, quando
invece il suo aspetto è più simile a un prisma da cui si riflette una policromia di posizioni dottrinali ed
etiche. Ciò vale anche per la rappresentazione del corpo e del sesso: non esiste un discorso, bensì una
pluralità di discorsi che non può essere ricondotta a un modello unitario. Non essendo possibile in
questa sede dare conto dell’ampio spettro di posizioni presenti nella riflessione del cristianesimo antico
e dei Padri della Chiesa, ci si limiterà a tracciare una mappa orientativa, che si può sintetizzare in due
opposte linee di tendenza, dai confini spesso sfumati: una sessualità del sospetto e una sessualità
creazionistica.
Sesso negato e sesso disordinato: encratismo e gnosticismo
I mille rivoli dello gnosticismo, in certo senso la madre di tutte le «eresie», derivano da una sorgente
fortemente dualista: mentre infatti per la tradizione biblica l’uomo è creato a immagine e somiglianza di
Dio e la creazione contiene l’impronta del Creatore, per lo gnosticismo sussiste una irriducibile
differenza fra Dio e la realtà materiale. Dal momento che quest’ultima è il risultato dell’azione di un
Demiurgo e dal momento che la natura e il mondo non corrispondono alla volontà dell’Essere Supremo,
il rapporto con la sfera materiale non è in grado di condurre l’essere umano all’elevazione spirituale. Da
qui un profondo pessimismo antropologico e una concezione negativa dell’esistenza terrena, che finisce
per condizionare anche i rapporti fra i sessi e, nello specifico, il rapporto sessuale, ridotto al rango di
inevitabile sciagura con cui il Demiurgo induce l’uomo a riprodursi. Ne conseguono due atteggiamenti
contraddittori solo in apparenza: l’astensione da ogni attività sessuale e la pratica di un eros sregolato e
svincolato dalla riproduzione. Il primo è tipico della linea encratita, il cui principale esponente è Taziano
(120-180 ca.). Mentre l’enkráteia («autocontrollo») è virtù tipica del saggio greco-romano e consiste
nella capacità di non farsi dominare dalla passione amorosa e dall’istinto sessuale, considerato il più
irresistibile degli impulsi, il quadro antropologico elaborato dall’encratismo ha una motivazione
protologica: dalla convinzione che il matrimonio e la procreazione non siano una condizione originaria,
ma la conseguenza della trasgressione adamitica, deriva l’idea che la differenziazione dei generi e la
pratica sessuale non appartengano al primordiale progetto divino sull’uomo, bensì a una realtà seconda.
Il biblico «crescete e moltiplicatevi » tramite l’atto sessuale viene rovesciato dagli encratiti in un
«astenetevi e allontanatevi» da una realtà contaminata in quanto conseguenza di una colpa. Più che un
istinto da dominare, la sessualità è il segno della schiavitù umana. Più che essere disciplinato, il sesso va
annullato. Se dunque la procreazione è da evitare, si spiega l’esercizio, tipico della seconda linea, di una
sessualità svincolata dalla procreazione, fatta di pratiche onanistiche il cui fine è disperdere il seme. «Tra
i simoniani e altri gnostici – nota C. Nardi – si distruggevano gli effetti dell’atto sessuale, anche mediante
un sollecito procurato aborto. Inoltre, in un’orgia indiscriminata da loro detta «eucaristia », si estraeva
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prontamente dalla vagina lo sperma mischiato a sangue mestruale per una raccapricciante ierogamia e
si offriva in libagione alla divinità. Nel manicheismo è poi attestato il ricorso ai periodi infecondi della
donna o a pratiche onanistiche allo scopo di impedire il succedersi delle generazioni» (pp. 35-36).
Sesso disciplinato: Clemente Alessandrino e Metodio d’Olimpio
Le schegge impazzite della svalutazione encratita e del libertinismo gnostico avrebbero potuto imporre
una visione cupa e disperata della sessualità. Ad avere la meglio è stata invece una concezione più
serena e moderata, di stampo creazionista, basata su una lettura che non collega la caduta di Adamo ed
Eva a un peccato di natura sessuale. Ne deriva la valutazione positiva del coito in quanto atto
procreativo, fermo restando che la sua pratica non può essere disgiunta dal matrimonio. È emblematico,
in tal senso, il Pedagogo di Clemente Alessandrino (150-217 ca.), una sorta di manuale di educazione
(anche sessuale) a uso dei cristiani del III secolo che, sull’esempio dei saggi stoici, devono fare un uso
disciplinato dei piaceri (anche sessuali). Basti citare un solo passo: «Se, come affermano gli stoici, la
ragione non consente al saggio di spostare anche solo un dito a caso e senza motivo, tanto più i cristiani,
che sono i veri saggi, dovrebbero sforzarsi di dominare (epikratêtéon) le parti del corpo che la natura ha
destinato alla generazione. Io penso che queste parti siano state chiamate pudenda (aidoîon) perché
bisogna servirsene con più rispetto (aidoûs) di ogni altra parte. La natura consente l’uso del matrimonio,
come pure degli alimenti, in quanto è utile, conveniente e necessario; essa consente di avere dei figli»
(Ped. II, 10, 90). Se non suonasse come un anacronismo, si potrebbe dire che Clemente è sostenitore di
una concezione «borghese» della sessualità, fatta di autodominio (l’enkráteia di stoica memoria), di
moderazione e di buone maniere. Caratterizzato da accenti antiencratiti è anche il Simposio di Metodio
d’Olimpio (250 ca.-311), un dialogo tra dieci vergini che mette in scena un’esaltazione della verginità
(parthenía) e della castità (hagnéia). Rileggendo in chiave cristiana il noto dialogo platonico, Metodio
intende mostrare come la pratica della castità sia l’espressione di un nuovo amore, l’agàpe, inteso come
superamento dell’eros. La scelta della castità non può derivare, come volevano gli encratiti, da una
negazione della sessualità, ma da un suo trascendimento: la pratica del sesso è infatti iscritta nell’ordine
della creazione e finalizzata alla pro-creazione. Ogni offesa alla sessualità è un’offesa al Creatore. Non è
quindi strano che, in un trattato di esaltazione della castità, si parli della sessualità in termini
sorprendentemente sereni e appassionati. Commentando Genesi 2,23 («Questa, finalmente, è ossa
delle mie ossa e carne della mia carne»), Teofila così si esprime: «Questo è ciò che simboleggiava tale
uscita da sé (ékstasis) che capitò al primo uomo nel suo sonno: essa prefigurava la gioia che l’uomo
prova nel fare l’amore (philothesía), quando il bisogno di darsi una discendenza lo coinvolge [...].
Quando l’equilibrio fisiologico (harmonía tôn sômàtôn) è sconvolto dalla febbre dell’accoppiamento,
tutta la linfa fecondante che si trova nel sangue, e che è un liquido di midollo osseo [si tratta ovviamente
dello sperma], si concentra in tutte le membra e schizza fuori, schiumoso e grumoso, attraverso gli
organi genitali, per gettare il seme in una vivente terra femminile» (Simp. II, 2). La concezione della
verginità espressa da Metodio non rientra in un orizzonte di disciplinamento o di moralistica parenesi,
ma va ricondotta al perseguimento di un ideale di perfezione cristiana, che però non considera la sfera
sessuale una realtà da demonizzare.
Per approfondire:
Carlo Nardi, L’eros nei Padri della Chiesa. Storia delle idee, rilievi antropologici, Aleph, Firenze 2000
Peter Brown, Il corpo e l’estasi. Uomini, donne e astinenza sessuale nel primo cristianesimo, Einaudi, Torino 2010
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«Chi mi ha toccato?» (Lc 8,45) Gesù, il corpo e la sessualità
di Gianpaolo Anderlini
“Laudate hominem
No, non devo pensarti figlio di Dio
ma figlio dell’uomo,
fratello anche mio.
Ma figlio dell’uomo,
fratello anche mio.
Laudate nomine” (Fabrizio De André, La buona novella)
Appartengo a una generazione fortunata che, uscita dalle nebbie di una religiosità beghina e
sessuofobica, ha avuto la possibilità di ritrovare la Parola di Dio grazie alla Dei Verbum e di riscoprire la
dirompente e incontenibile umanità di Gesù di Nazaret grazie ad alcuni film (Il Vangelo secondo Matteo
di Pier Paolo Pasolini e, soprattutto, Jesus Christ Superstar diretto da Norman Jewison) e ad un album
musicale: La buona novella di Fabrizio De André. È stato un immergersi, come nel lavacro di un
battesimo rigenerante, in una nuova dimensione umana e religiosa: Gesù (finalmente o di nuovo) aveva
un corpo non solo per soffrire, come aveva imposto la cosiddetta Teologia della Croce, ma per vivere
come ogni uomo ha vissuto e vive sulla terra. Un corpo che ha le sue esigenze (fisiologiche e non solo),
le sue pulsioni (anche sessuali) e le sue passioni, i suoi limiti non superabili. Se Gesù, quindi, è
veramente uomo (vere homo, come insegna il Simbolo niceno), lo deve essere come ogni altro uomo a
partire dal corpo. E del resto questa dimensione della carnalità (in-carnazione) è espressa in forma
chiara in tutto il Secondo Testamento e in particolare in un passo della lettera agli Ebrei: «Egli infatti non
si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura. Perciò doveva rendersi in tutto
simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano
Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo» (Eb 2,16-17). In un altro passo la somiglianza completa
che lega Gesù in-carnato agli uomini è ridefinita per esclusione: «Essendo stato lui stesso provato in
tutto (katà panta), secondo similitudine, eccetto il peccato» (Eb 4,15; si veda Paolo Garuti, «Due
cristologie nella Lettera agli Ebrei?», Liber Annuus, XLIX, 1999, pp. 251-252). E tutto ciò, assieme a una
lettura sessuofobica dei Vangeli, non è senza conseguenze, come afferma in modo perentorio Uta
Ranke-Heinemann: «L’immagine che di Gesù hanno avuto i teologi celibatari è stata sempre quella di un
redentore immune da ogni piacere sessuale e ad esso avverso» (Eunuchi per il regno dei cieli, Rizzoli,
Milano 1990, pag. 8). Non che con questo si voglia ammettere che la «somiglianza» parta dalla sfera
sessuale, ma si deve accettare che essa si esprime nell’umanità completa di Gesù a partire dal corpo e
dalla carne e nella individuale specificità. Egli, infatti, era quell’uomo (non l’uomo in generale) con un
viso, una voce, i capelli, le mani e, soprattutto, non con una dimensione asessuata, ma con la sua
differenza di genere: era un maschio, circonciso, come prevede la Torà, l’ottavo giorno, quindi col segno
del patto inciso nella carne. E questo non è un fatto secondario, perché non solo ne ha determinato
l’aspetto genetico e biologico, ma ne ha definito il ruolo sociale e culturale e, di conseguenza, anche la
forma del pensiero e del messaggio. Oggi, dunque, se volessimo intendere in forma piena il contenuto
dottrinale e teologico della formula del Simbolo niceno, dovremmo dire: vere Deus et vere homo, quia
vere vir. Da questo dato, così come dalla sua ebraicità nuovamente ritrovata, non si può prescindere, e,
lungo parte del sentiero tracciato da Hanna Wolff in un ormai datato ma sempre stimolante studio,
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siamo chiamati a riconoscere la sua «maschilità esemplare», in quanto «Gesù è il primo uomo che ha
distrutto l’androcentrismo del mondo antico. La preminenza dispotica dei valori solo maschili è tolta.
Gesù è il primo che ha fatto saltare la solidarietà tra i maschi... ed il loro animoso atteggiamento
antifemminile. In Gesù, sta davanti a noi il primo maschio in cui non si riscontra una simile animosità»
(Gesù, la maschilità esemplare, Queriniana, Brescia 1988, pag. 119). Oltre alle azioni e alle parole del
maestro che dimostrano questa sua non animosità, nel suo movimento si trova, fatto che sembra non
avere paralleli nell’ambiente giudaico, una forte presenza di donne tra i discepoli (Lc 8,2-3). Questo ci
porta a riconoscere che «Gesù vuole mostrare che nel nuovo ordinamento del Regno di Dio, che
diventerà realtà nel popolo di Dio alla fine dei tempi, non ci deve più essere l’emarginazione della
donna, così come non ci deve più essere l’emarginazione dei poveri, dei falliti e dei bambini» (Gerhard
Lohfink, Gesù come voleva la sua comunità?, Paoline, Cinisello Balsamo 1987, pag. 127). In una
prospettiva più ampia e non solo di genere, questo significa che il corpo (e quindi anche la sessualità)
non è più criterio di separazione, di discriminazione, di esclusione e di violenza. Gesù tocca gli altri e si
lascia toccare. Si circonda, nella sua predicazione itinerante, non solo di uomini, ma anche di numerose
donne, che «lo seguivano e lo servivano» (Mc 15,40; cfr Mt 27,55), passo in cui si ritrova «lo stesso
vocabolario usato nelle narrazioni di vocazione dei Dodici» (Pietro Lombardini, Le donne nel
cristianesimo delle origini, Sussidi biblici, 112, Edizioni San Lorenzo, Reggio Emilia 2011, pag. 125). Non
allontana i lebbrosi, inavvicinabili ed esclusi dal consesso sociale, e non esclude il cosiddetto ‘am haaretz (i poveri, i diseredati, gli umili), disprezzato ed evitato per l’assenza delle condizioni di purità
richieste dalla Torà, come interpretata – diremmo utilizzando un vocabolario desueto ma efficace – dalle
classi dominanti. Vive una vita itinerante in contesto di marginalità economica e sociale («Il Figlio
dell’uomo non ha dove posare il capo», Mt 8,20), che gli attira critiche feroci e pungenti: «È venuto il
figlio dell’uomo che mangia e beve e voi dite: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei
peccatori » (Lc 7,34; cfr Mt 11,19). Ma è soprattutto dal suo rapporto con le donne (adultere, prostitute
e non) che emerge non tanto il rifiuto dell’«animoso atteggiamento antifemminile» (Wolff) proprio del
suo tempo, quanto l’annuncio del Regno le cui porte sono aperte per gli ultimi e per i peccatori, come è
detto: «In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano davanti nel regno di Dio» (Mt 21,31). Il
corpo, portatore di trasgressione e di peccato, di impurità e di degrado, grazie a Gesù di Nazaret non è
più il diaframma che tiene la donna e l’uomo lontani dal Regno, è il luogo che mostra, soprattutto nelle
donne, la profondità interiore della adesione al messaggio e al progetto del Maestro, nonché la porta
che mostra l’amore (eros e agape insieme) e la fede. C’è, nel Vangelo di Luca (Lc 7,36-50), un episodio
destabilizzante così come è raccontato, tanto che Alberto Maggi lo ha definito, con buona ragione,
«Vangelo a luci rosse» (Alberto Maggi, Versetti pericolosi, Fazi, Roma 2011, cap. 11). La scena si svolge
nella casa di Simone il fariseo: «Uno dei farisei lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo
e si mise a tavola. Ed ecco una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del
fariseo, venne con un vasetto di olio profumato; e fermatasi dietro si rannicchiò piangendo ai piedi di lui
e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio
profumato» (Lc 7,36-38). La donna, «una peccatrice di quella città», è una prostituta che usa il
linguaggio del corpo per avvicinarsi a Gesù e per chiedere il perdono; e Gesù non la caccia, ma «la lascia
continuare, accetta il gesto della donna, che vuole esprimere la sua riconoscenza nell’unico modo che
conosce, usando l’armamentario di cui dispone: capelli, bocca, profumo e mani esperte nel
massaggiare» (Alberto Maggi, op. cit.). Il corpo, nel linguaggio della prossemica, crea separazione e
indifferenza oppure intimità e compartecipazione. Nell’episodio lucano, del tutto diverso dalla
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cosiddetta «unzione a Betania» (nell’episodio dell’unzione a Betania, inserito in Matteo, Marco e
Giovanni nel ciclo dei racconti della Passione, in qualche modo è prefigurata l’unzione del corpo del
Cristo morto) il corpo con il suo linguaggio è veicolo di un messaggio che non rinuncia, se è possibile
dirlo, all’erotismo come dimensione «teologica», non eliminabile dalla carne. L’ungere e il baciare i piedi
è l’annuncio che non c’è un’unica modalità, quella maschile, di andare a Gesù e, quindi, a Dio. C’è anche
una modalità femminile che non rinuncia a fare del corpo uno strumento d’incontro (anche il gesto delle
donne al sepolcro, le quali trattengono il Risorto per i piedi – in Mt 28,10 – è da leggere anche in questa
prospettiva femminile), di tenerezza e di amore, senza dissimulazione e falsità, perché il cuore, ovvero
l’interiorità, corrisponde finalmente ai gesti e alle parole e perché ora è possibile per tutti (anche per le
donne e anche per gli ultimi) amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze, senza
più limitazioni o esclusioni. E questo è valido allora come ora nel segno di eros e di agape, le due
dimensioni, necessarie e compresenti, della condizione umana (e grazie a Gesù, se è possibile dirlo,
anche divina); e questo è valido sia per la comunità dei discepoli di Gesù di Nazaret sia per ogni donna
ed ogni uomo. In ogni tempo e in ogni luogo.
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Sguardi del desiderio: Bibbia, arte, sessualità
di Roberto Alessandrini
Un uomo e una donna riccamente abbigliati. I loro occhi non si guardano e sono rivolti in basso. Lui
cinge la spalla di lei con il braccio sinistro e posa la destra sul suo seno. Lei tiene la mano sinistra sulla
mano destra dell’uomo, mentre con l’altra trattiene un drappeggio sul ventre. La sposa ebrea di
Rembrandt, un dipinto datato tra il 1662 e il 1666 e oggi conservato al Rijksmuseum di Amsterdam,
raffigura una misteriosa coppia amorosa. Secondo la lettura ufficiale dell’opera si tratta di Isacco e
Rebecca, progenitori del popolo eletto, padre e madre di Esaù e Giacobbe. Il loro matrimonio non è
frutto di accordi del sensale, ma «voluto dal cielo», cioè per desiderio reciproco e consenso di chi lo
contrae. E il dipinto risulta comprensibile se lo si interpreta associando il racconto della Genesi – «in cui
Dio progetta di costruire il suo popolo eletto mediante il matrimonio sacrosanto dei progenitori» – al
Cantico dei cantici, «espressione dell’amore divino per i patriarchi e i loro discendenti», spiegano Irving
Lavin e Marilyn Aronberg Lavin in Rembrandt: la sposa ebrea. Amori benedetti come quello raffigurato
dal pittore olandese, fascinazioni che reclamano tenacia, astuzie femminili, storie sentimentali che
richiedono interventi angelici, ma anche seduzioni, perfidie e incesti attraversano le pagine della Bibbia
e suscitano la fantasia dei pittori. La bellezza del corpo femminile e il desiderio di quello maschile si
offrono per raffigurazioni intense e dinamiche. «La sessualità non è solo parola, sentimento o
tentazione, frutto di unione mistica, ma anche immagine – e immagine religiosa – anche se in genere
per arte sacra s’intende arte asessuata. Non ci si è ancora resi conto della portata dei recenti restauri
della Sistina che hanno restituito le potenti figure nude dipinte da Michelangelo alla loro natura umana
completa di sessualità, dopo le “braghe” con le quali i censori le avevano rivestite a due riprese, nel XVI
e poi ancora nel XVIII secolo», affermano Margherita Pelaja e Lucetta Scaraffia nel volume Due in una
carne, dedicato al rapporto tra Chiesa e sessualità nella storia. È nel «commercio degli sguardi» che
prendono forma le amorose storie bibliche. Giacobbe, figlio di Isacco, incontra a Carran la cugina
Rachele e ne è subito conquistato, ma per averla in sposa deve lavorare quattordici anni per lo zio
Labano, padre della giovane, e sposare prima la sorella maggiore Lia. Solo allora potrà finalmente unirsi
a Rachele, concepire Giuseppe e mettersi in cammino per fare ritorno alla propria terra. I dipinti che
documentano l’ampia diffusione di questa immagine si concentrano sull’incontro tra Giacobbe e Rachele
al pozzo o, come in un settecentesco dipinto di Tiepolo, sulla raffigurazione della donna che siede sugli
idoli sottratti al padre, le statuine di divinità domestiche che assicurano la legittima eredità. La bellezza,
l’amore, la tenacia e il coraggio si intrecciano nella vicenda della «biblica Cenerentola» Rut, che diverrà
la sposa del facoltoso Booz, e in quella di Ester, ambientata ai tempi di Assuero, re di Persia. Il primo
ministro Aman sta per scatenare una dura persecuzione contro il popolo ebraico e un editto di sterminio
è già stato inviato ai satrapi, ai governatori e ai principi dell’impero, ma l’intervento di Ester, divenuta
regina, capovolge la situazione: l’editto viene revocato e sostituito con l’autorizzazione data agli ebrei di
difendersi con le armi da qualunque attacco. L’episodio dell’incoronazione di Ester e la scena della
regina che al cospetto del sovrano intercede per il proprio popolo hanno avuto ampia fortuna figurativa,
e nell’eroina biblica la Chiesa ha prefigurato il ruolo della Vergine nel Giudizio universale. La vicenda di
Tobia e Sara, molto raffigurata dagli artisti per il suo carattere edificante, sembra invece quella di un
amore impossibile. Inviato dal padre a recuperare il patrimonio depositato in una città lontana, il
giovane si mette in viaggio in compagnia di una guida che si rivelerà l’angelo Raffaele. Questi parla a Tobia di Sara in modo tale che il giovane si innamora di lei «per sentito dire». Sara si è già sposata sette
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volte e tutti i suoi uomini sono stati uccisi la prima notte di nozze prima di giacere con lei. Seguendo le
indicazioni dell’angelo, Tobia sconfiggerà il persecutore della donna, il demone Asmodeo, riuscirà a
sposarla e a vincere la timorosa e trepidante attesa di lei nella loro prima notte di nozze, sentimenti
mirabilmente raffigurati, anche in questo caso, in un dipinto di Rembrandt (Sara attende Tobia, 1649
circa). In alcune storie bibliche, gli slanci amorosi e le trame sentimentali lasciano il posto agli inganni
della seduzione. Un tema ampiamente diffuso sin dalle pitture catacombali narra di Susanna, bellissima
moglie del facoltoso ebreo Ioakìm, accusata di adulterio da due vecchi, eletti giudici dal popolo, che la
spiano nella sua nudità durante il bagno con l’intento di approfittarsi di lei. Portata davanti
all’Assemblea con la falsa accusa di essersi unita a un giovane, la donna rischia la condanna a morte, ma
Daniele – nel cui libro la storia viene narrata – smaschera i due vecchi interrogandoli separatamente e li
fa lapidare, trasformando Susanna in un simbolo dell’innocenza o della Chiesa minacciata dal
paganesimo. «Si tratta di una storia potente, raffinata e simmetrica: forte negli estremi delle passioni,
eros e timor di Dio; fine nel disegno dei particolari, giardino, preparazione al bagno, trappola
accusatoria, stupro visivo; geometrica nella trama e negli esiti: false e vere prove, giudizio umano e
divino, condanne a morte. È un primo esempio di giallo giudiziario a sfondo erotico in cui i colpevoli si
rivelano essere i giudici stessi», argomenta Piero Boitani in Ri-Scritture. Le parti si invertono
nell’episodio dell’astuta e seduttrice moglie di Putifarre, comandante delle guardie del faraone, che
reclama con insistenza i favori di Giuseppe, sovrintendente del palazzo e dei beni dell’alto ufficiale
egiziano. Dopo numerosi tentativi, la donna sorprende il giovane nella casa vuota, lo afferra per l’abito e
tenta di trascinarlo sul talamo (molti artisti hanno ambientato la storia proprio in una stanza da letto),
ma il giovane fugge lasciandole la veste tra le mani. Irritata e ferita, la moglie di Putifarre accusa
Giuseppe di averla sedotta e il marito di lei farà imprigionare il retto ebreo. È ancora una scena di bagno
femminile a svelare a re Davide la bellezza di Betsabea, moglie dell’ittita Uria, uno dei comandanti
dell’esercito ai tempi dell’assedio della città di Rabbà. Davide ama Betsabea, la donna rimane incinta, il
re manda Uria al fronte, dove viene ucciso, e prende la donna in sposa. «Questa è la più dura delle storie
da digerire e intendere. Qui c’è un adulterio e l’omicidio di un marito tradito e poi mandato a morte.
L’autore dei delitti è addirittura Davide, il più eroico sovrano d’Israele, uomo di molte guerre ma pure di
versi, canti e musiche nuove, registrate nel libro detto Salmi. [...] Davide è travolto da un impulso furioso
dei sensi, come non ha provato mai prima e mai più gli ricapiterà con simile potenza. Non è in grado di
resistere a quella attrazione e perde ogni prudenza», racconta Erri De Luca nel libro Le sante dello
scandalo. Guerre e assedi fanno da scenario ad altre vicende di seduzione. Giudice d’Israele, nazireo –
cioè al servizio di Dio – ed eroe che si scontra con i filistei, Sansone è una delle figure dell’Antico
Testamento di cui si narra nel libro dei Giudici e in leggendarie tradizioni orali. Viene raffigurato con una
mascella d’asino – l’arma con cui sconfigge i nemici – mentre squarta un leone a mani nude, con le porte
della città di Gaza divelte per fuggire o mentre distrugge la colonna del tempio che crollerà uccidendolo
assieme ai filistei. L’episodio più noto narra che Sansone, sedotto da Dalila, svela alla donna il segreto
della propria forza: i capelli, mai tagliati dalla nascita. Dalila – che Gustave Moreau ha raffigurato intorno
al 1890 con tratti di seducente, moderna bellezza – fa addormentare Sansone e lo priva della sua forza;
l’eroe sarà così catturato, accecato e imprigionato. L’assedio di Betulia da parte dell’esercito di Oloferne,
generale del re Nabucodonosor, offre il contesto a un’altra storia di seduzione che si rivelerà risolutiva
per le sorti della piccola, fittizia, città israelita. La bella e ricca vedova Giuditta, accompagnata da una
serva, raggiunge l’accampamento di Oloferne, finge di aiutarlo nella conquista di Betulia, seduce il
generale, lo addormenta, gli taglia la testa, la nasconde in un sacco e, rientrata in città tra la gioia
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degli abitanti, la espone in modo che gli assedianti possano vederla, inorridire e abbandonare la
posizione. Non meno cruento è il gesto che la nomade Giaele riserva al generale cananeo Sisara. La
donna lo accoglie nella sua tenda, lo disseta, lo fa riposare, lo rassicura, ma poi approfitta del suo sonno
e, con un martello, gli conficca un picchetto nella tempia. Un’altra testa – quella di Giovanni Battista –
cade nel Nuovo Testamento sempre a causa di una seduzione che prende la forma della danza eseguita
da Salomè, su indicazione della madre Erodiade, davanti al tetrarca Erode Antipa, che ha imprigionato il
Battista a causa della sua predicazione. La testa dell’ultimo profeta sarà collocata su un vassoio
d’argento e presentata come un trofeo. Associate dall’uccisione di un uomo per decapitazione e da
alcune prossimità iconografiche, Giuditta e Salomè conosceranno una perdurante fortuna figurativa. Il
libro della Genesi narra anche la storia dell’incesto tra Lot e le sue figlie. Il contesto è la fuga dalle città di
Sodoma e Gomorra, che Dio intende distruggere a causa dell’iniquità, della lussuria e della violenza.
Preoccupate di non poter avere discendenza e quindi sopravvivenza, le figlie di Lot ubriacano il padre,
nipote di Abramo – gli artisti solitamente rappresentano proprio la scena in cui le due giovani tendono il
tranello – e si congiungono a lui generando Moab, capostipite dei moabiti, e Ben-‘ammì, capostipite
degli ammoniti, due popoli rivali di Israele. Il Protovangelo di Giacomo, ripreso dalla Legenda Aurea,
narra invece la storia di due coniugi esemplari, Gioacchino e Anna, genitori di Maria, mirabilmente
raffigurati da Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova. Sono sposati da molto tempo, ma non
hanno figli e per questo l’offerta che Gioacchino porta al Tempio di Gerusalemme viene rifiutata. Egli si
ritira dunque nel deserto per quaranta giorni di digiuno e penitenza, quando un angelo gli annuncia che
la moglie avrà una figlia. Gioacchino e Anna si ricongiungeranno alla Porta Aurea di Gerusalemme,
proprio come l’angelo aveva indicato. E, dopo un dolcissimo bacio, Anna concepirà Maria.
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Nell’incontro di due alterità si manifesta il divino
di Lidia Maggi
La rivoluzione corporea
Il più grande mutamento epocale degli ultimi decenni è legato al corpo e alla sua percezione. Da
prigione dell’anima è divenuto l’assoluto protagonista della nostra cultura. Questo cambiamento ha
necessariamente modificato anche il nostro rapporto con la sessualità che, liberata dai tanti tabù, ha
reclamato il proprio spazio privato e pubblico fino all’esasperazione, alla sovraesposizione dei corpi. Una
rivoluzione culturale che passa necessariamente attraverso squilibri ed esagerazioni. Tuttavia, un punto
di non ritorno è stato acquisito: noi siamo corpo. È attraverso il nostro corpo, con i suoi confini, che
possiamo raggiungere l’altro e vivere la vita.
Lo scenario biblico
Per parlare della nostra sessualità andiamo prima di tutto alla Bibbia. Anche questa è un corpo con tante
membra: diverse parti e tutte necessarie per una lettura unitaria. Un corpo spesso dilaniato, diviso da
facili dualismi: Antico Testamento contro Nuovo, il Dio di Gesù contro quello di Mosè. Come le nostre
vite, anche la Scrittura è stata vittima di pesanti dicotomie che l’hanno ferita. La Bibbia ci racconta che
siamo stati creati da Dio come corpi. E questi non sono un peso, un carcere per l’anima. Essi sono
«molto buoni». Differenziati per genere, sono chiamati a vivere la relazione affettiva non come
conseguenza del peccato, piuttosto come immagine del divino. Nell’incontro di due alterità il divino si
manifesta. La relazione erotica diventa grammatica di questo mistero. Essa è luogo di stupore, ma anche
della fragilità, dell’odio e della distruzione. Contatto e distanza, alterità e vicinanza: la relazione è il
respiro del corpo. E la sessualità è quella ricerca dell’altro che ci apre al contatto, al piacere, al futuro. Le
grandi domande di senso della fede nascono proprio dall’osservare l’energia erotica della nostra vita:
che cosa ci libera dalla solitudine e ci spinge verso l’altro? Cosa ci fa sentire finalmente nella terra
promessa, luogo di delizie, giardino di Eden? Che cosa ci chiama alla felicità e ci strappa dalla monotonia
dei giorni, dalla vita subita senza fecondità, chiusa al domani? Cosa ci rammenta che siamo nati
dall’incontro tra terra e cielo?
Nel principio c’era il sesso...
È l’energia sessuale, l’attrazione erotica che dispiega il senso della nostra umanità. La sessualità, che
alcuni credenti pensano come frutto della caduta, abita, in realtà, nel giardino dell’Eden fin dai primordi.
Nasce da subito con la prima coppia. Senza la sessualità non c’è relazione, né reciprocità, né vita, ci dice
la Genesi. Nelle prime pagine del grande libro di Dio, c’è un racconto che vuole essere un memoriale, un
monito all’umanità tutta: è solo nell’incontro con un tu che ci è data la possibilità di comunicare. Prima,
nella solitudine, si è afoni. Il linguaggio è solo potenziale. La sessualità non è descritta come ginnastica
erotica; piuttosto come palestra relazionale, capace di sollevarci verso l’altro dandoci un linguaggio che
non solo «nomina il mondo», ma condivide sentimenti ed emozioni. L’amore è ricerca e richiede una
scelta. Un concetto che può sembrare moderno, occidentale e che tuttavia è presente fin dal primo
innamoramento. Dio stesso, dapprima, non riesce a trovare una creatura che corrisponda ad Adam. La
parata zoologica, che precede l’incontro tra l’uomo e la donna, vuole probabilmente conservare la
memoria della cautela necessaria per trovare il partner giusto. È solo dopo aver formato dal lato di
Adam la donna che l’uomo è in grado di riconoscerla, di sentirla vicina e di sceglierla come compagna
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per la vita. L’energia sessuale è selettiva: il desiderio si volge verso colui o colei che noi scegliamo, non è
interscambiabile. L’incontro con chi desideriamo ci apre allo stupore. Tuttavia, il luogo dello stupore
diventa anche quello dello scandalo: nella relazione erotica si sperimentano la crisi, la caduta, le parole
che feriscono e ingannano. La sessualità, sigillo divino per la coppia, degenera in linguaggio di
sopraffazione e morte. La nudità, simbolo della fiducia e della vulnerabilità accolta, diventa luogo di
vergogna.
Non disturbare
Nonostante la forza erotica che muove l’incontro tra la coppia primordiale, come primo dato
sorprendente, scopriamo che nella Scrittura il sesso non viene esplicitamente tematizzato. La sessualità,
pur risultando costitutiva della persona, non occupa un posto particolare nella Scrittura. Perché?
Influisce, forse, uno sguardo legato al contesto culturale in cui si muove la riflessione d’Israele? Nel
tentativo di differenziare la propria identità dai culti cananei, dove la divinità è fortemente sessuata e
l’incontro col divino si svolge nella sfera della sessualità, Israele acquisisce uno sguardo meno mitico sul
sesso. Esso non viene sacralizzato, né divinizzato. E neppure demonizzato o negato: è riconosciuto come
elemento creato da Dio. Cosa buona. È esperienza creaturale che rimanda al rapporto col divino, ma
solo come metafora poetica di quell’eterna ricerca che spinge Dio verso la creatura umana e, malgrado
gli abissi e i tradimenti, la creatura umana verso l’Altro. Esiste, tuttavia, un’altra ragione: la reticenza con
cui la Bibbia evita di tematizzare una riflessione dettagliata sulla sessualità intende tutelare degli spazi di
libertà, troppo spesso negati. Non si entra nella camera da letto degli sposi! Persino Dio si ritrae, dopo
aver creato la sessualità umana (Genesi 2,21-24). Per questo, quando l’uomo e la donna parlano la
lingua di Eros, Egli è silente. Rispetta la loro intimità. Il silenzio è uno dei luoghi di libertà da rivisitare in
una riflessione sulla sessualità. Sappiamo che è stato messo in discussione dalla modernità che lo ha
letto come repressione di un argomento tabù. Contro questa tesi basterebbe citare l’imponente
ricostruzione storica di Michel Foucault. Nella sua storia della sessualità, in particolare il primo volume
significativamente intitolato La volontà di sapere, Foucault denuncia la semplificazione della lettura
emancipazionista che vede nella repressione l’intervento del potere per controllare la libertà sessuale
degli individui: in realtà la strategia del potere è passata attraverso una vera e propria scientia sexualis.
Nelle chiese, nei confessionali come negli studi medici il controllo passava attraverso l’invito continuo a
parlarne. Oggi scopriamo che, attraverso l’esposizione mediatica dell’atto sessuale, siamo tutti a rischio
di fare l’amore omologandoci su quanto vediamo. La sovraesposizione dell’atto sessuale nella
pornografia, accessibile ovunque, rischia di inibire un immaginario, imprigionando la nostra creatività. La
mancata tematizzazione della sessualità all’interno del libro sacro sottrae la coppia al controllo e
all’omologazione, richiamando a quella singolarità che ogni esperienza amorosa dovrebbe sperimentare
anche nell’atto sessuale.
Un canto d’amore
La reticenza biblica sembra venir meno in uno dei libri più belli delle Scritture: il Cantico dei Cantici.
Neppure lì, tuttavia, il sesso viene tematizzato: non si riflette sull’eros nel Cantico, ma si dà voce alla
sessualità. Si ascolta la voce di giovani amanti che si cercano, si accarezzano, fanno l’amore. Non si parla
dell’amore; si lascia che sia l’esperienza amorosa a narrare se stessa evitando ogni possibile definizione.
Non perché il sesso sia argomento tabù; piuttosto perché necessita di un linguaggio poetico per essere
narrato. Il Cantico ci dona la lingua per parlare d’amore: non dice, non definisce, allude soltanto.
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Nessuno potrà dire cosa bisogna o non bisogna fare: è la forza e la debolezza della poesia che non dà
indicazioni d’uso, ma apre lo sguardo a vasti orizzonti. Incontriamo, dunque, nella Scrittura una
sessualità senza definizioni – rapporti non protetti! – una narrazione discreta dell’esperienza amorosa. Il
Cantico dei Cantici, poema erotico per eccellenza, ci mostra una sessualità riconciliata, dove il desiderio
che spinge la donna verso l’uomo non si trasforma in dominio e sopraffazione, dove la relazione è
vissuta nella piena reciprocità («il mio amico è mio ed io sono sua»). Il desiderio della donna si volge
verso l’uomo, ma lui non la domina come nel patriarcato, conseguenza della deformazione di sguardo
messa in atto dal serpente («il tuo desiderio si volge verso di lui ma lui ti domina»). Il Cantico riscrive la
prima pagina della Genesi, il mito primordiale, suggerendo un altro finale possibile.
L’amore tra stupore e crisi
La scena iniziale, con Adamo ed Eva, introduce lo stupore e la crisi, entrambi ingredienti fondamentali
della relazione di coppia. Le famiglie di cui si parla successivamente sono protagoniste di storie meno
mitiche e più quotidiane, nelle quali gli stessi ingredienti originari di stupore e crisi sono impastati in
contesti storici ed epoche particolari. E talvolta la cultura e l’ambiente segnano talmente in profondità
l’esperienza di coppia che il progetto delle origini sembra sfigurato. Pensiamo alle prime famiglie, le cui
vicende sono raccontate nelle saghe dei patriarchi e delle loro numerosissime famiglie. Qui la relazione
è tutt’altro che paritetica, come sembrava emergere nel progetto di creazione. In questo quadro il
linguaggio dell’intimità si mischia di continuo con quello del dominio, senza essere troppo
problematizzato. Le vicende dei patriarchi sembrano rientrare a pieno titolo nella cultura-ambiente
dell’Antico Vicino Oriente, dove la coppia risponde sostanzialmente a due esigenze: bisogno di
protezione e di procreazione. Da una parte queste prime famiglie ci appaiono patriarcali. Dall’altra
sembra infiltrarsi, nonostante tutto, quella passione che scardina i rapporti gerarchici e fa accelerare il
cuore anche dei granitici protagonisti della storia d’Israele. La narrazione intreccia fili di stupore e crisi.
Ma quando questi ultimi prevalgono sui primi e la trama del racconto assume tinte fosche, come
ristabilire il desiderio? La Bibbia non dà risposte. Né tace le difficoltà. Ci testimonia di una vocazione
all’amore e contemporaneamente ci mette in guardia, narrandoci vicende familiari dove l’affetto e il
potere si contaminano. Può sembrare poco, dal momento che non ci è dato di trarre da queste vicende
un manuale sulla sessualità. Tuttavia, è proprio attraverso la condivisione delle fatiche d’amore di quanti
prima di noi hanno amato che impariamo a riconoscere la forza e la fragilità dell’eros per abitarlo con
più attenzione e consapevolezza.
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La grande rimozione
di Giancarla Codrignani
Che Amina Tyler abbia esposto in Tunisia il seno nudo alle intimidazioni dei salafiti è un gesto che può
sconcertare le persone inconsapevoli dell’ipocrisia perbenista. Papa Francesco probabilmente non
sarebbe d’accordo su questa estensione delle sue parole, ma quando condanna la cultura ipocrita a cui
siamo stati abituati, la condanna va anche all’ipocrisia di considerare il corpo, strumentalizzato nella
pubblicità e nei media, venduto nella prostituzione e nell’asservimento, poi nascosto «per pudore»:
come abbiamo imparato a vergognarcene? Il corpo siamo noi. Lo diceva, non so entro quale orizzonte di
senso, il cardinal Caffarra per l’ultima «celebrazione» del Corpus Domini. È davvero così: nel corpo ci
sentiamo vivi, comunichiamo con il mondo, siamo noi stessi, individualmente diversi da chiunque altro e
insostituibili. È di per sé inoffensivo, pur essendo sede delle pulsioni. Amina ha percepito, in un paese
vissuto dal 1957 secondo costumi non molto diversi dalla vicina Sicilia, che nuclei di estremisti religiosi
possono intimidire il paese e imporre la morale sessista. Dovrebbe accettare che le donne non vadano
più a scuola, non lavorino, vivano in casa, a disposizione del marito? Lei, un’universitaria che si sa
intelligente, ha aspirazioni di carriera, fuma nei caffè dove va da sola? Forse potrebbe aiutare le lotte di
amici e colleghi, pur sapendo che non si impegneranno per lei. Ha invece scelto di opporre la sfida di
quel corpo vulnerabile che va coperto perché «offende», pur rappresentando, anche nell’immaginario
maschile, la sopravvivenza del neonato. Il messaggio della nudità femminile è, dunque, simbolo
dell’estremo della nonviolenza: significa che l’essere umano è costitutivamente debole e la violenza che
esige il dominio sugli altri è effetto di paure e reazioni ancestrali. Anche se non tutti sono salafiti o
talebani, le religioni sono tutte moraliste e sessiste: anche nell’Occidente cristiano i «precetti»
rispondono a tradizioni tuttora riproposte solo perché il clero teme la secolarizzazione, pur prodotta dal
proprio conservatorismo. Tuttavia non mi sentirei di imputare a colpa esclusiva delle Chiese l’invenzione
dei tabù sulla corporeità e sulla sessualità, formatisi in età evolutive certamente non connesse con lo
sviluppo di religioni organizzate. È, comunque, assai grave che si continui, in piena epoca postmoderna e
globalizzata, a non avvertire l’improponibilità di principi «non negoziabili», anche per le realtà mal
definite «naturali». Infatti siamo corporei e sessuati; ma corpo e genere sono cultura e non sono
separabili dall’anima, come invece pensava Platone, non certo Gesù. Il paradigma della riproduzione
resta fondamentale, ma non siamo riusciti a rendere «virtù» la gioia e il piacere, che non nascono da
seduzioni o soddisfacimenti solo biologici, ma dalla comprensione non egoista e profonda di sé e degli
altri. Chi si riduce allo sfogo degli istinti o chiama erotismo la pornografia non ha idea del significato con
cui poi parla di santità della vita come «dono». È così che diventiamo disturbati quando, pur sapendo di
avere introiettato tensioni e paure, continuiamo a rimuovere. Le religioni – che vivono in questo mondo
– hanno programmato la rimozione, inventandola come via di perfezione. Operazione grave; perché non
ne poteva derivare la maturazione delle coscienze, bensì l’adeguamento all’autorità-guida, il controllo
sociale, l’alleanza con i poteri a cui fa comodo che le persone siano timorate, che ritengano peccato
qualunque trasgressione, che magari trasgrediscano in privato senza dare scandalo pubblico e
convalidino la doppia morale: non cercheranno mai di cambiare le cose. Oggi la storia è a un tornante
trasformativo e tutte le religioni sono in crisi, anche perché rifiutano di rileggere il senso profondo e non
acritico di messaggi, che sono tutti – Abramo o Buddha o Maometto. O Gesù – «liberanti» e di aiuto al
bene. I cristiani credono all’incarnazione del divino. Significherà pu- re che non si può prescindere dalla
carne, dal corpo, dalla costituzione concreta dell’umano. Se Gesù ha insegnato che Dio è amore,
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bisognerà pure partire dal vivere quotidiano e dire che la guerra va contro quell’amore perché i corpi
massacrati di inutili stragi sono il peccato principale, e la morte prodotta dalla mano, nata per il lavoro, è
sempre irrisarcibile. Se in Jugoslavia sono stati possibili i campi di ingravidamento per generare figli della
propria etnia nel corpo della donna del vinto, significa che manca il rispetto della dignità dei corpi:
certamente quello della vittima, ma anche quello del soldato, che non può ridurre alla perversione il suo
corpo, presumibilmente destinato a un «fare l’amore» dotato di senso. D’altra parte, il debito coniugale
escludente il consenso è sicuramente egoismo sopraffattorio. Nella tradizione ebraico-cristiana la
violenza fisica è data per scontata, dovuta all’ideologia della guerra. Tuttavia impressiona l’indifferenza
per l’abuso delle donne, a partire dal buon padre Abramo, la cui venerabilità risulta alquanto appannata
dal singolare compromesso di presentare la moglie Sara come sorella e lasciarla tra le braccia del
faraone (Gen. 12,11), per finire alla donna concessa allo stupro collettivo, alla mutilazione e alla morte
dal marito Levita (Giud. 19). Gesù, in una lettura non bigotta, innova proprio perché «si sente»
incarnato: è percettivo, reagisce al tocco, scatta nei confronti dei mercanti, si spazientisce per la
lentezza dei suoi, si arrabbia, si commuove. Scandalizza perché non ha paura delle donne, anzi le
valorizza: davanti all’adultera giudica i padri e i fratelli, non ritiene impuro il sangue mestruale, non ha
visceralità e lascia a Maria un figlio adottivo. Alla bambina che ha compiuto dodici anni ed è matura per
il matrimonio, ma «non riesce più a vivere e giace come morta nella sua camera» – si direbbe anoressica
– Gesù dice «alzati», cioè «vai, decidi da te come vuoi vivere». D’altra parte ha lasciato in eredità proprio
il suo corpo insieme con lo spirito, consegnandolo alla continuità dell’amicizia, che è il vero sacramento
eucaristico. Di sesso non parla, e nemmeno di famiglia. Siamo noi a renderlo un’icona, come la Madonna
vergine e madre, un corpo femminile estraneo alla ragazza palestinese che liberamente consente a quel
Dio che gentilmente la interpella. È il «nuovo» catechismo che unifica (parr. 2351-2357) adulterio,
masturbazione, omosessualità, prostituzione e stupro, mostrando l’assoluta ignoranza di ciò di cui
intende fare dottrina. Il «celibato obbligatorio» potrà diventare fra qualche tempo un caso di violazione
dei diritti umani alla Corte dei Diritti dell’Onu. La Chiesa condanna l’«aborto in sé», ma non sostiene la
maternità libera e responsabile e non evangelizza la paternità dei maschi. Il culto dell’embrione
trasferisce nella modernità il valore aristotelico dello sperma, anche se molti concepiti si dissolvono
senza che neppure la donna se ne accorga. La fecondazione assistita è il contrario dell’aborto, ma viene
negata. Nel sacramento del matrimonio resta l’ombra inelegante del remedium concupiscentiae. La
pluralità delle differenze sessuali (Lgbt) non può più rimuovere l’evidenza della natura più inventiva
delle nostre regole, che solo la fissazione biologica procreativa può aver recepito: teologicamente
sembra più facile conciliare la creazione con l’evoluzionismo darwiniano che accettare un creatore
disattento o deliberatamente artefice di corpi incontrollabili. Peggio che giustificare la grazia dei
giansenisti. Ormai è prioritaria una svolta «purificatrice». Molti interpreti del Sextum si sentono
scandalizzati del rovesciamento dei termini; ma la «castità», per uomini e per donne, non è né la
sublimazione spiritualizzata né la severità di preti che danno penitenze più pesanti alle ragazze (ancora
l’imene a turbare?) che ai ragazzi. Bisogna evangelizzare «il corpo» dottrinale. E, laicamente, elevare il
«corpo sociale» e il «corpo delle leggi» che continuano a non rispettare «il corpo di Stefano Cucchi» e
degli altri, che possono anche essere tossici, ma restano umani quando sono nelle «mani» di qualche
«corpo dello Stato». Inutili le teorie dei diritti se non si «incarnano». Se l’omosessualità in alcune
legislazioni prevede il carcere, se la prostituta è discriminata al posto del cliente, se lo stupro è stato fino
al 1996 un reato contro la morale, la cultura comune è chiamata a smettere di rimuovere la realtà delle
proprie responsabilità. Davvero sono passi avanti costosi, ma urgenti, quelli che dobbiamo fare come
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cittadini e come donne e uomini di fede. Insomma, è necessario smascherare il retroterra dei pregiudizi
di cui siamo portatori insani, analizzando le rimozioni e leggendo i segni dei tempi senza pessimismo
poco cristiano e perfino poco laico. Almeno per risarcire con una comune e più serena mentalità
nonviolenta i danni della violenza nel mondo.
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Due corpi e un’anima. La sessualità nel Corano
di Sara Hejazi
Per quanto sia un aspetto generalmente poco noto e discusso, specie in Occidente, la sessualità
all’interno del Corano è probabilmente uno dei tratti più fervidi e salienti di tutto il testo sacro. Forse la
pratica di velarsi, vista – almeno da una prospettiva occidentale – come un limite alla libertà sessuale, o
l’abitudine tipica dei paesi a maggioranza musulmana di mantenere separati i due sessi, per esempio
durante la preghiera, nei momenti di socializzazione collettiva o persino negli ambienti delle case, ha
fatto sì che si desse per scontato che in materia sessuale l’islam non facesse altro che prescrivere rigidità
e tabù, per lo più a sfavore della componente femminile dei suoi fedeli. D’altronde si tramanda che il
Profeta disse che se due non-mahram (uomo e donna non sposati) si incontrano da soli, il terzo presente
è sicuramente Shaytan, cioè Satana. Eppure non soltanto la sessualità nel Corano non è
necessariamente vincolata alla procreazione, ma è esplicitamente volta a celebrare il piacere della
coppia eterosessuale, una volta stabiliti i confini, i limiti, entro cui questo piacere può avvenire: il
matrimonio. Nella sura Baqarah (capitolo II), il sesso matrimoniale è caldamente raccomandato dopo
che entrambi i coniugi abbiano praticato ciascuno le proprio abluzioni: il verso 2 spiega che il rapporto
sessuale deve avvenire perché questo fa piacere ad Allah. Dalla seconda sura, infatti, comincia a
delinearsi il carattere sacrale del sesso tra marito e moglie, un’azione voluta e ben vista da Dio stesso.
Dunque la visione di una sessualità matrimoniale che piace alla divinità, e che diventa sacra attraverso
una serie di pratiche purificatrici che precedono e seguono l’atto sessuale, permea buona parte del
Corano ed è supportata anche dal corpus di hadith tramandati dalle diverse tradizioni islamiche:
Wasaelush Shia (vol. 14, p. 25) cita il Profeta Mohammed mentre raccomanda a tutti i suoi giovani fedeli
di sposarsi affinché le necessità sessuali delle donne e degli uomini possano essere appagate all’interno
del legame matrimoniale. A questo proposito, la posizione del Corano sulla sessualità può essere
considerata rivoluzionaria nell’ambito dei monoteismi: per la prima volta, infatti, il piacere sessuale
svincolato dalle funzioni riproduttive è al centro della trattazione di questo tema, e, soprattutto, non
distingue tra piacere femminile e piacere maschile. Per questo motivo, anche se incoraggia ad avere
figli, l’islam vede di buon occhio i metodi contraccettivi, stando anche agli hadith in cui si tramanda che
Mohammed consigliasse l’utilizzo del coitus interruptus (‘azl) per evitare gravidanze indesiderate, ma
solo a condizione che la moglie ne fosse informata e consenziente; anche se poi – precisano gli hadith –
il destino del concepimento è nelle mani di Allah. Questo rende il Corano profondamente diverso da
tutti gli altri testi sacri: per esso, uomini e donne sono caratterizzati da un’identica natura sessualizzata
in quanto hanno entrambi un’unica origine: sono stati creati da una sola entità, il nafs. Così nella sura Le
Donne, versetto 1, si legge: «Egli da un’unica anima (nafs) vi ha creati, e da entrambi ha fatto proliferare
maschi e femmine in grande quantità». Una identica natura, dunque, per due sessi biologicamente
diversi. E, certamente, la differenza biologica è profondamente marcata nel Corano: le donne per
esempio possono sposare un solo uomo, quindi sono sostanzialmente monogame, mentre l’uomo può
sposare fino a quattro donne ed avere un numero quasi illimitato di concubine; eppure, nel rapporto
sessuale la rivelazione raccomanda che il marito faccia tutto il possibile per soddisfare la propria moglie,
tra cui indugiare nei preliminari, affinché ella sia contenta e viva gioiosamente la propria sessualità. Così,
uomo e donna nel Corano appaiono diversi certamente, ma complementari: l’uno senza l’altra sono
musulmani incompleti, mentre solo attraverso il matrimonio e, di conseguenza, il sesso, possono
intraprendere il cammino spirituale segnato dai cinque pilastri dell’islam. La natura umana femminile
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e maschile nel Corano è caratterizzata da desideri e dalla volontà di disciplinarli secondo ciò che vuole la
divinità; tra questi vi è senza dubbio per uomini e donne l’impulso sessuale, che è così potente da
divenire pericoloso, perché fuorviante e caotico. Potente generatore di caos, di fitna, l’atto sessuale va
quindi regolato in ogni minimo dettaglio. Per esempio nei tempi, divisi tra periodi della vita, dell’anno,
del giorno che sono haram, proibiti, e quelli che sono halal, leciti: durante i quaranta giorni del
puerperio i rapporti sessuali sono haram, così come lo sono durante il periodo mestruale. I rapporti
sessuali vanno regolati anche nei modi: i rapporti anali sono proibiti, così come ogni atto di violenza o di
coercizione sessuale contro le proprie mogli. Ma una volta ri-ordinata la caotica natura del sesso, esso
diventa una delle forme più intense di amore per il divino. Così si legge nella sura 2:187: «Leciti (halal)
sono i rapporti sessuali con le vostre donne la notte del digiuno. Esse sono come un vestito per voi, voi
siete come un vestito per loro». E così l’amore tra i coniugi va a sigillare, spezzando e al contempo
rinnovando, il tempo del Ramadan. Al marito si richiede di essere gentile, considerevole e di soddisfare i
bisogni della moglie. Dal canto suo, alla moglie si richiede di riservare se stessa solo per il marito, di
sforzarsi di essere attraente e di essere disponibile così come lui deve fare con lei. Qui si scorge un altro
tema caro al Corano, ma soprattutto agli hadith: quello della bellezza femminile e maschile, in relazione
alla sessualità. Si tramanda infatti che Mohammed avesse rimproverato un uomo trasandato e dai
capelli sporchi dicendogli che era un diritto della moglie che lui curasse il proprio aspetto fisico per lei,
così come avrebbe dovuto fare lei per lui. Ibn Abbas, studioso del primo secolo dell’islam, faceva notare
come l’uomo dovesse farsi bello per la moglie, così come la moglie per l’uomo, visto che il Corano è
chiaro in merito, sempre nella seconda sura 2:228: «Le donne hanno diritti in ugual misura in cui hanno
doveri». Si legge ancora nella sura 33 versetto 21: «Un altro dei suoi segni: per voi, da voi stessi, ha
creato le vostre donne perché presso di loro viviate in grata compagnia, ha collocato tra di voi desiderio
di attrazione e simpatia. Non sono forse segni eloquenti per la gente che ha intelletto?». Il Corano mette
infatti in luce un cammino della fede che è fondamentalmente inseparabile dalla sfera della fisicità;
percepiti come un tutt’uno, corpo e spirito, azioni quotidiane e preghiera, diventano imprescindibili
strumenti dell’umano per accedere alla fede, perché per il Corano non vi è fede senza pratica, così come
non vi è vera pratica senza fede. L’unità tra l’agire e il contemplare, disciplinando questi due diversi
aspetti che diventano un tutt’uno, è dunque il filo conduttore della rivelazione. Di esempi di disciplina,
così come di dissolutezza nella pratiche sessuali, ve ne sono numerosi nel testo coranico: si legge nella
sura Yusuf (12:23-24): «È cosa certa: lei lo desiderava ardentemente e anche lui non sarebbe stato
indifferente a lei, se non avesse scorto la manifestazione di Allah. Così abbiamo allontanato da lui
scelleratezza e turpitudine e in verità egli è rimasto nel numero dei nostri servi che non furono
contaminati». Ecco così rappresentata un’altra faccia del jihad, lo sforzo che il fedele deve fare per la
fede: esso è costituito anche dalla lotta contro l’eros caotico e illecito da una parte, e dall’anelito verso
una sessualità pura, amorevole nel segno divino, dall’altra. Una sessualità racchiusa in una cornice ben
delimitata e ristretta, ma all’interno della quale può avvenire – senza altre restrizioni – la celebrazione
dell’amore carnale e divino insieme.
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LE RELIGIONI NELLA STORIA DI FRONTE AL CORPO
Buddhismo, sessualità e tantrismo
di Marco Valli-Osel Dorje
Per chi si avvicina al buddhismo, provenendo dalle tradizioni monoteistiche dell’area mediterranea, può
risultare disorientante l’incontro con praticanti e maestri che tranquillamente esternano la propria
omosessualità, bisessualità e così via, senza alcun pudore moralistico. Il buddhismo recente, soprattutto
negli Stati Uniti, ha spesso scompaginato i preconcetti morali (di derivazione giudaico-cristiana) di molte
persone attraverso le esternazioni e i comportamenti di alcuni maestri eminenti, uno fra tutti Chogyam
Trungpa Rimpoche, che non facevano mistero di una sessualità particolare e anche dell’uso di alcool. Per
capire questi atteggiamenti dobbiamo andare all’origine degli insegnamenti del Buddha. Il Dharma
nasce dall’esperienza di Illuminazione che Gotama Siddharta (il Buddha, cioè il risvegliato) ha circa 2500
anni fa, esperienza che gli disvela l’unità e l’interdipendenza di tutto ciò che esiste nell’orizzonte della
vacuità; è un’esperienza non-duale in cui bene e male si dissolvono in un Assoluto che li supera. La
concezione dualistica di bene e male (Dio e Diavolo) è superata in un attimo, relegata nella realtà
relativa, mentre nell’Assoluto tutto ciò non esiste né può esistere. La visione non-dualistica aveva già
fatto la sua comparsa nell’hinduismo (anche se con formulazioni filosofiche differenti) sia nella
Baghavad Gita sia nel pensiero Advaita delle Upanishad; il buddhismo svilupperà un suo particolare
percorso al non-dualismo i cui punti principali sono il non-teismo e la vacuità. Va da sé che, se nella
dimensione ultima non vi è né bene né male, chi giunge a questa dimensione è libero da qualsivoglia
limitazione morale, in quanto la moralità è relegata al relativo. Nella tradizione buddhista tibetana vi
sono i racconti delle vite dei mahasiddha, o maestri della saggezza folle, narrazioni simboliche di vite
oltre ogni limitazione morale e sociale, incarnazione della totale libertà dell’illuminato che è giunto oltre
i limiti soffocanti del relativo, ma questo è un punto di arrivo... Per tutti coloro che si mettono sulla via
dell’Illuminazione seguendo le indicazioni del Buddha vige una pratica di moralità che viene esplicitata
nei Cinque precetti che ogni praticante laico deve applicare (coloro che scelgono la via monastica ne
hanno molti di più). I precetti sono: 1) astenersi dall’uccidere, dal far del male o molestare gli altri esseri
viventi (animali e insetti compresi), e dal danneggiare le altrui proprietà; 2) astenersi dal rubare e dal
prendere il non dato; i monaci vivono delle offerte dei laici e questi ultimi con il guadagno del lavoro
onesto mantengono se stessi, la famiglia e aiutano i bisognosi; 3) astenersi da una condotta sessuale
irresponsabile; 4) astenersi dal mentire, dall’offendere, dai pettegolezzi e dalle calunnie; evitare il più
possibile un giudizio superficiale sulle altre persone; 5) astenersi dall’uso di sostanze inebrianti come
l’alcool o droghe che causano danni a se stessi, possono causarne ad altri e che in generale conducono
ad un offuscamento mentale che impedirebbe la piena attenzione e consapevolezza dei propri pensieri
ed azioni. Come si può vedere, lo spirito dei precetti è quello di non fare danno a sé e agli altri e di
conservare le proprie energie per la ricerca dell’Illuminazione. I monaci, che fanno voto di castità, non
negano la propria sessualità per amore di Dio o altro, ma semplicemente non disperdono l’energia
sessuale trasformandola in energia spirituale. Il buddhismo ha un approccio pratico teso a uno scopo
preciso: la suprema Liberazione che è frutto dell’esperienza dell’Illuminazione e cerca di rimuovere tutto
ciò che può ostacolare la via verso di essa. Che significa astenersi da una condotta sessuale
irresponsabile? Fondamentalmente significa non provocare sofferenza o danno a sé o agli altri
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attraverso la pratica sessuale e non attaccarsi troppo ai piaceri sensuali (non solo sessuali) in modo da
non perdere mai di vista lo scopo finale (cioè l’illuminazione.) Non vi sono divieti specifici su alcune
pratiche sessuali (come nelle tre tradizioni monoteistiche) ma solo un richiamo al rispetto dell’altro e
alla sobrietà. Il tantrismo, che nato in ambito Shivaita scavalca l’Himalaya e viene inglobato dal
buddhismo tibetano, è un insegnamento elevato che si basa sull’idea della trasformazione; ogni cosa
che si manifesta è in ultima analisi pura energia, questa energia può essere trasformata e incanalata a
fini spirituali. Ogni emozione, anche la più distruttiva, non è che energia psichica e può essere
trasformata in energia di illuminazione. Il tantra buddhista utilizza spesso simboli Yab-Yum, cioè di
unione sessuale per simboleggiare l’unione del principio maschile e quello femminile (l’animus e l’anima
di Jung) cioè il superamento del dualismo e la nascita dell’Uomo Totale (l’ermafrodito) che incarna
totalmente tutte e due le polarità completamente integrate in una unità superiore. Generalmente nel
tantrismo buddhista non vi sono pratiche direttamente sessuali (come nel tantrismo shivaita) ma
pratiche meditative che prevedono visualizzazioni tese alla trasformazione delle energie sessuali. Tutte
le iniziazioni tantriche sono finalizzate a pratiche che hanno come scopo di far sviluppare certe qualità
illuminate o di trasformare certe energie distruttive in energie creative. La pratica tantrica di Cenresig
sviluppa la compassione, quella di Mahakala trasforma l’ira e così via. Nell’immaginario occidentale il
tantra è associato al Kamasutra o al sesso sfrenato, ma è una mistificazione che nasce dalla non
conoscenza. Il tantra viene infatti tranquillamente praticato sia dai monaci casti che dai laici non
vincolati alla castità. Il punto di arrivo del tantra è l’esperienza del maha-ati o mahamudra cioè della
totale libertà e spaziosità della mente risvegliata, che comporta il superamento di ogni dualismo e quindi
anche del bisogno di una pratica morale. Il Risvegliato sperimenta che tutto ha solo un gusto... il gusto
della libertà. Da questa suprema libertà può scegliere di utilizzare azioni «morali» o «immorali» per
aiutare gli altri esseri a risvegliarsi a loro volta. Nella tradizione tibetana vi sono tantissimi racconti di
maestri che utilizzano gesti assai forti e «immorali» per spingere gli allievi al risveglio (basta pensare a
Marpa con Milarepa e Tilopa con Naropa). Trungpa Rimpoche con la sua vita sessuale «scandalosa » e
col suo bere superalcolici voleva mostrarci il suo essere al di là del dualismo e indicarci una via verso una
libertà che non è libertinaggio (richiamava sempre all’importanza della disciplina, del lignaggio, della
gerarchia naturale). Spesso per gli occidentali, cresciuti nel moralismo giudeo-cristiano, non è facile
comprendere l’approccio del tantra e degli insegnamenti dello Dzogchen (grande perfezione); è facile
cadere in una interpretazione superficiale e libertina o in un rifiuto moralistico, senza riuscire a cogliere
la grande ricchezza spirituale che vi è contenuta. Accedere agli insegnamenti più elevati del buddhismo
richiede preparazione e guida, per questo è fondamentale essere supportati da un maestro esperto e
prepararsi attraverso lo studio e le pratiche preliminari. Deve essere chiaro che, anche in ambito
sessuale, solo chi ha avuto l’esperienza della Liberazione è oltre i precetti... gli altri sono tenuti
all’osservanza di tutti e cinque i precetti al fine di non nuocere a sé e agli altri e di mantenere la giusta
rotta verso la meta finale. Nella tradizione tibetana si dice che il Bodhisattva (l’illuminato che di dedica
con compassione al risveglio di tutti gli esseri senzienti) è come un uccello nel cielo: non lascia traccia di
dove è passato... il suo agire è libero e in totale armonia con l’Assoluto, ma solo il Bodhisattva ha questa
qualità: tutti gli altri si muovono nel mondo come un elefante in una cristalleria e i precetti ci aiutano a
fare il minor numero di danni possibile. Il buddhismo è una grande tradizione che ci aiuta a divenire
uomini completi, veri e maturi, a uscire dalla minorità spirituale (materialismo spirituale e spiritualità
infantile) per accedere ad una vera Maturità e Libertà... Mi auguro che sempre più questo grande
lignaggio possa ingravidare l’Occidente col suo seme di Saggezza.
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Quando l’amor profano diventa amor sacro
di Michael Ascoli
«Nessuno ha mai posto in dubbio la santità del Cantico dei Cantici... tutti gli scritti sono sacri ma il
Cantico dei Cantici è sancta sanctorum». Questo celebre insegnamento di rabbì ‘Aqiva, il più importante
Maestro della Mishnà, attribuisce santità al Cantico in virtù della sua interpretazione allegorica, che lo
vuole espressione poetica dell’amore fra D-o e il popolo di Israele. È ben ovvio tuttavia che non sarebbe
stato ritenuto consono se l’immagine stessa offerta nella parabola, così densa di fisicità, non fosse
idonea. O per dirlo ancora con le parole dei Maestri: «Un Testo [per quanto interpretato
allegoricamente] non può esser privato del suo significato piano». Moshe Idel (Cabala ed erotismo.
Metafore e pratiche sessuali nella cabala, Milano 1993, pag. 11) mostra come la qabbalà esasperi
questo punto: «Si tratta evidentemente di una parte del mito nazionale che trasfigura la nazione nella
sua interezza in un’entità che intrattiene una relazione sessuale con l’altra entità, la divinità». Una
dimensione percepita e vissuta in una prospettiva positiva, in un atteggiamento naturale che vede nella
dimensione sessuale uno degli aspetti della vita umana più adatti ad esprimere qualcosa della realtà
divina. Volendo tuttavia rivolgersi a una fonte più sobria, tradizionale e normativa, ebbene dobbiamo
leggere Maimonide, che quando parla dell’amore per D-o lo descrive paragonandolo a quello per una
donna a cui si pensa continuamente: «Come quei malati d’amore che non riescono a liberarsi la mente
dall’amore per la donna che ne assorbe completamente i pensieri» (Hilkhot Teshuvà 10:3). Sarà forse
solo intellettuale, contemplativo, questo amore consentito e al quale perfino si inneggia? Non si
direbbe, guardando alle numerose norme che sanciscono la liceità e perfino l’obbligo del rapporto
coniugale. Si obietterà probabilmente che vi è una questione di impurità collegata al rapporto sessuale:
a questo proposito occorre osservare come nell’ideologia rabbinica il contrarre qualsiasi forma di
impurità non ha nulla di etico, essendo connotato come un fatto ontologico incolpevole. Si obietterà
ancora che vi sono tantissime regole e regolette relative ai rapporti sessuali che limitano piuttosto che
facilitare. La misura nelle proprie azioni e la capacità di contenersi sono una colonna portante del
pensiero rabbinico e questo ambito non fa eccezione. Tuttavia, un’analisi più approfondita mostra
facilmente come tutte queste norme riconducano a dignità e rispetto. Rispetto per la persona e per il
Signore suo creatore: così è vietato avere rapporti quando si è in collera, contro la volontà della donna,
se questa dorme o è ubriaca, ecc. È invece permesso godere di ogni parte del corpo, ma il tutto deve
culminare nel rapporto sessuale proprio. Ma anche: vietato rimirare le parti intime, il rapporto deve
avvenire al buio, lo sperma non va sprecato (non intenzionalmente, almeno). Il legame con la fonte della
vita e la sua origine è sacro e non va dimenticato. Non vi è posto per edonismo o esibizionismo, solo per
passione autentica. E la passione autentica è sobria e non conosce dominio. Non solo il rapporto
sessuale è consentito unicamente fra moglie e marito, ma anche all’interno della coppia non si può fare
se si ha l’intenzione di divorziare. Il piacere in sé non è giustificato se non riflette una più generale
armonia e onestà di fondo. Il concetto di «donna (o uomo) oggetto» è vietato. Peggio: riconduce al
vitello d’oro. Insegna infatti il Talmud che «Il popolo di Israele ben sapeva che non esiste nessuna
divinità nel vitello, era solo una scusa per legittimare rapporti sessuali proibiti». Motivo ricorrente
invece nel pensiero dei Maestri è che la qedushà/santità consiste proprio nell’astenersi da rapporti
proibiti, in quanto motivo di abominio per il Signore e che possono portare la Terra a «vomitare» il
popolo. Nessuna copertura religiosa può essere offerta a rapporti sessuali illeciti. E questi sono
abominio per l’umanità intera (sono inclusi in quelli che soglion definirsi «precetti noachidi»). La Torà
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vieta il rapporto con una donna per una settimana dall’inizio del ciclo mestruale. Ed anche per chi,
completata questa settimana, non si sia immersa nel miqwè (bagno rituale). A questo i Maestri
aggiungono ulteriori giorni. Aggiunta motivata in diversi modi. Fra questi, il riaccendere mese dopo
mese la passione nella coppia: l’attrazione fisica non deve venire meno e, come il rapporto di coppia
tutto, va costantemente coltivato e preservato nel tempo. Con misura. E con soddisfazione. Con tutte le
norme che lo circondano, non solo amore sacro e amor profano vanno d’accordo, l’amore mondano,
quello vero, è anch’esso sacro!
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Il Concilio Vaticano II e la sessualità
di Luca Zottoli
E’difficile descrivere quanto è avvenuto nel Vaticano II. Nonostante un Concilio sia un dibattito pubblico
rispetto ad un Conclave, in quanto esistono degli «atti» che rimangono e sono consultabili, permane una
dimensione di «mistero» che solo all’interno di una lettura di fede diviene intellegibile. Il Vaticano II si
qualifica, come del resto altri eventi della storia della Chiesa cattolica, come un «segno dei tempi» che ci
ha consegnato non solo dei contenuti ma anche un metodo. Il Vaticano II infatti ha volutamente evitato
di proclamare dei dogmi perché non se ne avvertiva il bisogno e si è intenzionalmente preoccupato di
rivedere il rapporto e la presenza della Chiesa nella storia e nel mondo contemporaneo. Fu la
costituzione, detta appunto «pastorale», sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, che
espresse al meglio questa peculiare autocomprensione della comunità dei credenti nella storia. È
sorprendente il cambio di prospettiva che è avvenuto in aula per opera dei padri conciliari e che ha
portato alla completa e totale riscrittura del documento originario, segno dell’atteggiamento di ascolto
della «Parola di Dio» e della «parola dell’uomo» che i padri hanno dato prova di aver operato in
quell’esperienza, non certo unica ma certo pur sempre originale, della storia di una Chiesa che si lascia
guidare dallo Spirito. In specifico la riflessione conciliare ha toccato uno dei propri vertici proprio in
relazione alla dimensione della sessualità e della vita coniugale, a cui dedica alcuni numeri (47-52) ed in
particolare i numeri 48-50. È singolare quanto è avvenuto nella teologia e nella spiritualità della Chiesa
cattolica in relazione a questo aspetto: è come se il Vaticano II fosse tornato non tanto alle fonti ma alla
fonte, al disegno stesso di Dio creatore e redentore di ogni cosa, pertanto anche della dimensione della
sessualità. Il Primo Testamento si era aperto con una novità assoluta dal punto di vista culturale, con la
messa in atto di un «processo di secolarizzazione» della sessualità. In un mondo in cui le culture
circostanti erano portate a sacralizzare la sessualità, vista come elemento di contatto e di manipolazione
del sacro, il duplice racconto della creazione (Gen 1,26-28; Gen 2,18-24) porta già in sé, in nuce,
l’armonizzazione dell’aspetto procreativo e unitivo della sessualità. JHWH non è sessuato, non si
accoppia come un dio pagano e non ha una compagna, essendo l’unico Signore. La sessualità emerge
subito per la sua caratteristica umana e umanizzante che conferisce al dimorfismo dell’uomo e della
donna la dignità di una creatura che è immagine e somiglianza di Dio, in cui relazione e fecondità sono
grandezze coestensive. La considerazione della bontà di ogni realtà creata si cristallizza definitivamente
nel mistero dell’«incarnazione redentrice» grazie alla quale Dio, facendosi carne, ha conferito alla
dimensione della corporeità il valore incommensurabile di un «tempio» che non è destinato a perire
bensì a risorgere con Cristo, asceso in cielo e presente nell’Eucarestia con il suo «vero corpo» (Gv 2,1322). È difficile immaginare una teologia che valorizzi in modo così forte la dimensione della corporeità e
quindi tutto ciò che ad essa inerisce, come la dimensione della sessualità. Le conseguenze di questo
assunto di base non sono di poco conto, visto e considerato che la teologia cattolica attribuisce anche al
«semplice» matrimonio naturale una valenza in qualche modo «sacramentale». La dimensione della
sessualità, eloquente declinazione della dimensione della corporeità, giunge infatti a manifestarsi nel
suo vertice nell’unione tra l’uomo e la donna nel matrimonio che, non a caso, venne definito da
Giovanni Paolo II il «sacramento antico», la prima e più eloquente illustrazione del mistero di Dio. Viste
le premesse viene da chiedersi come mai la Chiesa cattolica abbia intrattenuto un rapporto in un certo
senso conflittuale con la dimensione della sessualità. La storia mostra infatti una Chiesa alle prese con il
«processo di risacralizzazione» della ses- sualità. Il Vaticano II ha avuto il pregio di rimettere al centro
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dell’attenzione il mistero dell’incarnazione del Verbo e pertanto è diventato come più naturale e più
immediato riscoprire la valenza salvifica ed umanizzante della sessualità. È necessario pertanto fare un
passo indietro per isolare quei cortocircuiti teologici che hanno condotto la vita spirituale ad entrare in
una sorta di competizione con la vita corporale, come se si trattasse di due contendenti impegnati in un
agone ad exlcudendum. In questi tempi non ricorre soltanto il 50° anniversario del Vaticano II ma anche
il 1700° anniversario dell’editto di tolleranza grazie al quale Costantino permise ad ogni cittadino
romano di celebrare il proprio culto. Dall’editto di Milano in poi il passo fu breve e il cristianesimo da
religione perseguitata divenne prima tollerata e poi consacrata a religione di Stato. Questo passaggio ha
comportato la fine del martirio come confessione della fede e ha favorito nella Chiesa la nascita di una
nuova forma di vita ascetica: la verginità intesa come martirio bianco. Non è da sottovalutare poi
l’influenza che la filosofia greca ha avuto nel formarsi della teologia. In particolare la dottrina
neoplatonica considerava con un certo sospetto ciò che era «inferiore» (il corpo inteso come carcere)
rispetto a ciò che era «superiore» (l’anima intesa come forza che doveva liberarsi dalle pulsioni della
carne). In questo contesto anche lo stoicismo ha giocato un ruolo decisivo, fornendo alla vita cristiana
quegli strumenti concettuali che permisero di vivere l’ascesi come una vera e propria lotta contro la
carne. In ultima istanza le tendenze encratiche hanno irrobustito la predisposizione gnostica a
considerare in modo dualistico il rapporto tra anima e corpo: una «filosofia di vita» tuttavia estranea alla
mentalità semitica, che era invece profondamente unitaria. Due «campioni» della teologia, Agostino e
Tommaso, hanno poi posto due «pietre angolari» che hanno condizionato profondamente lo sviluppo
successivo della riflessione credente, indirizzando la spiritualità cristiana verso una visione che il
Vaticano II ha ricomposto a partire dal disegno di Dio che trascende ogni cultura, più che dalla cultura
del momento. È ad Agostino che si deve la dottrina dei bona matrimonii: l’unione tra l’uomo e la donna
offre ai coniugi la possibilità di donarsi reciprocamente il bene della propria relazione, della fede e della
prole, ma fu il solo bonum prolis che si impose come argomento vincente e convincente nella tradizione
seguente. È a Tommaso che si deve la sistematizzazione della dottrina finalistica della sessualità come
realtà ordinata alla procreazione, è infatti a partire dalla ragionevolezza della finalità procreativa della
sessualità che la dimensione procreativa divenne monovalente all’interno della relazione di coppia fino
alla riscoperta della sua dimensione ludica nell’ambito, ora non più secolarizzato ma scristianizzato,
della rivoluzione sessuale. La teologia cattolica, in ambito sessuale, porta pertanto sulle spalle gli effetti
di un errore vero e difficilmente negabile, sebbene questo errore, che ha causato una ribellione senza
pari nel processo di deregolamentazione e di privatizzazione del post-moderno, non appartenga al
nucleo del deposito della fede, ma illustri piuttosto una risposta culturalmente collocata della Chiesa alle
sfide del tempo. Una visione storica dei fatti, si intuisce, è sempre una visione critica, una critica tuttavia
che non vuole essere distruttiva e che esprime un giudizio che nulla toglie alla buona fede di coloro che
sono «divenuti santi» con gli strumenti che avevano a disposizione. Chissà quale ardua sentenza i nostri
posteri daranno a certi aspetti culturali nei quali oggi siamo inconsapevolmente imbrigliati e che tra
qualche centinaio d’anni verranno integrati e risolti nella vita quotidiana della comunità credente. Il
Vaticano II si è mosso in questo solco e, in virtù del principio dell’incarnazione, ha portato alla sua logica
conseguenza l’intuizione che ciò che è «autenticamente umano» è «autenticamente cristiano» e
viceversa. Rispetto alla dimensione della sessualità il Concilio ha così utilizzato parole altamente e
solennemente decisive: «Questo amore è espresso e sviluppato in maniera tutta particolare
dall’esercizio degli atti che sono propri del matrimonio. Ne consegue che gli atti coi quali i coniugi si
uniscono in casta intimità sono onesti e degni; compiuti in modo veramente umano, favoriscono la
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mutua donazione che essi significano ed arricchiscono vicendevolmente nella gioia e nella gratitudine gli
sposi stessi» (GS 49). Ad un lettore attento queste espressioni suonano familiari perché il paragone
ardito che viene portato è niente di meno che con i sacramenti stessi che, nella Sacrosanctum concilium,
vengono definiti segni efficaci che conferiscono la grazia che significano (SC 59). La sessualità
presuppone l’amore come i sacramenti presuppongono la fede, è segno efficace che rafforza il legame
come i sacramenti sono segni che donano quanto significano, è – in altri termini – il «sacramento» del
«sacramento del matrimonio», che a sua volta è il «sacramento antico», la manifestazione più
eloquente del mistero stesso della Trinità: comunione di amore in cui colui che dona, colui che riceve e il
dono stesso sono uniti in una relazione intima e feconda, proprio come nella vita donata tra un uomo e
una donna.
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Le mistiche: da ieri a oggi
di Cristiana Dobner
Un interrogativo di partenza, quale incipit: come avere una qualsiasi esperienza senza il corpo? Senza
corpo vivo non si avrebbe solo un cadavere inerte e nessuna attività psichica, pneumatica, mentale?
Edith Stein fu chiarissima nel pensare la persona costituita da geistig-seelisch-leiblich («spirituale,
psichico e corporeo»; vedi C. Dobner, La fonte vivente e la fonte nascosta. Per una fenomenologia della
vita interiore in E. Stein e Dionigi l’Areopagita) e l’esperire mistico da Persona a persona, in se stessa, da
donna, e nella sua riflessione fenomenologica. Tuttavia, questo incontro si attualizza nella coscienza e
non viene identificato con l’anima, lo spirito e il corpo, assolutamente impossibile però senza il corpo
stesso. Come peraltro si era venuto pensando nella cerchia degli allievi di Edmund Husserl (G. Walter,
Phänomenologie der Mystik, Oltenund, Freiburg, i. Br. 1950). Ecco allora la mia proposta: uno squarcio
in cui tutti e ciascuno, omnes et singulatim, universalmente, possano ritrovarsi. Una mappa concettuale
però nella cornice più ampia dell’ermeneutica femminile, nella genealogia femminile riscoperta perché
ritrovata. In quella che venne definita, studiando le voci mistiche, «la pelle delle parole» (D. RegnierBohler, Voci letterarie, voci mistiche, in G. Duby-M. Pierrot, Storia delle donne. Il Medioevo, Laterza
1980, Bari, p. 465 ss). Procedere con il passo di una storiografia, oltre ad essere impossibile in termini di
spazio concesso, eluderebbe l’interrogativo presentando solo dei paradigmi, vissuti indubbiamente ma
resi immobili. Il contatto non vuole avvenire con modelli del passato ma con testimonianze archetipe
vive, perché vissute in prima persona. Crisi odierna della metafisica, della teologia, della filosofia
speculativa e del continente femminile? Tra le prime testimonianze di estasi mistica figurano i filosofi
greci (non donne!), tra cui Platone: l’antichità conobbe la sua fenomenologia dello spirito, dai Misteri
Eleusini, che sottolineavano la segretezza, alle estasi mistiche di Platone appunto, a Plutarco e a Plotino
nelle Enneadi. Quando il cristianesimo emerse nella storia, l’approccio mutò, afferma Gianfranco Ravasi:
«La tradizione ebraico-biblica prima, con la sua antropologia unitaria in cui anima e corpo sono
compatti, e il cristianesimo poi, con l’Incarnazione di Dio, hanno inaugurato una concezione ben diversa
da quella tendenzialmente dualistica del mondo greco» (G. Ravasi, in Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2010). Il
corpo era pensato ed inteso quale simbolo di irrazionalità, lussuria e debolezza, come modalità per
raggiungere il divino quindi veniva richiesta una rinuncia estrema, perché la dilatazione dei desideri
potesse espandersi e la confusione nel rientro potesse concretarsi. E sappiano le donne nell’esperienza
del mistero cristiano: «In questa luce si capisce perché Péguy arrivava al punto di parlare di “anima
carnale” e, se vogliamo giungere ai nostri anni, possiamo evocare i versi che Turoldo ci ha lasciati in O
sensi miei (un titolo già emblematico): Inquieta anima mia quasi / carne, in te rientra, / parla piano, taci
anzi, / se vuoi udirLo; Egli / non è lontano, / è nel tuo mare di sangue... (G. Ravasi, ibidem). Nietzsche,
che voleva scoprire la parola della donna, sostenne che non può non essere intessuta con il corpo. Tale
riconoscimento porta oggi Luce Irigaray a considerarla «una tappa necessaria per il divenire del divino di
donne e uomini», «andando e venendo tra passato e presente, chiarendo la tradizione a partire dalla
loro recente liberazione e ricevendone luce per la costruzione di una identità propria» (L. Irigaray,
Introduzione a Il respiro delle donne, Saggiatore, Milano 2000, pag. 13), che sia significativa per la nostra
attuale visione antropologica. Angela da Foligno caratterizzava quanto sperimentava come «urlo
dell’anima e urlo del corpo», e sosteneva di «contemplare il Crocifisso con gli occhi del corpo» (F. Brezzi,
La passione del pensare. Angela da Foligno, Maddalena de’ Pazzi, Jeanne Guyon, Carocci, Roma 1998). Si
può passare dal concettuale al verbale, al gestuale? Il predicato essenziale non si ritrova e si riconosce
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nel movimento verso un’alterità? Nell’incontro cioè con il Dio trascendente della filosofia e della
teologia e il Dio Amore che irrompe nella storia e nella storia di una persona, di una donna. Da un
passato al presente, perché la dimensione storica, parallela a quella di una concezione antropologica, è
sempre sottesa, anche se non sempre cosciente ed avvertita a livello razionale. E, se si parla di Volto di
Dio e di volto della persona umana, deve pur esserci un corpo. In una temperie di spostamento
epistemico nel considerare e nel vivere la realtà del pianeta donna e al di là di ogni sapiente (o presunta
tale) giustificazione o pregiudizio scientifico, il rimando all’Assoluto, al Trascendente, è verificabile. Si
tratta di cogliere e saper cogliere la traccia che innerva e diventa vissuto reale perché trapassa la
persona: l’irruzione di Dio scuote i sensi della persona, diventa comunicazione vitale che, tradotta in
linguaggio teologico o filosofico, delinea successivamente una branca specifica, la spiritualità. In
parallelo e in una certa dipendenza dalle antropologie filosofiche, espresse, consapevoli o inespresse e
inconsapevoli, allora ed oggi correnti, coeve. Non è questione di distillazione spirituale, frutto o esito di
una tecnica scaltrita ed affermata, ma di una forza dirompente, di un trascinamento, di una violenza
amorosa, non di un’entità metafisica, di un Motore Immobile, ma di una Persona. Nell’orizzonte della
cultura dominante l’amore deve essere ben qualificato per non entrare nel vortice della confusione
dell’usae- getta. Amore significa ben di più, considerare di non essere all’altezza, riconoscerlo ed
abitarlo: tutto questo significa amare, in piena libertà femminile, che è un problema non solo delle
donne ma di tutta l’umanità. Questo significa sottrarsi alla cultura dominante. L’esperienza mistica oggi
rema contro l’affannarsi del vortice quotidiano, dell’arrampicarsi sociale, della ricerca e del gusto del
potere. Non si colloca però fuori dalla storia ma dentro, proprio nel fondo della storia, nel suo nucleo
incandescente. Proprio perché è solitudine abitata e, se è sottrazione, nel contempo è costellazione. Si
deve scendere nel linguaggio come filtro, cioè come interpretazione e quindi come modellamento della
cultura. La mistica si rivolge non al di fuori, nel mondo, ma al di dentro, nella comunione con l’Altissimo:
passioni, emozioni, tutto viene purificato e convogliato in categorie sensibili che si rivelano nella
preghiera e nella contemplazione. Tutto l’aspetto psicologico non viene negato ma incanalato, letto con
linguaggio altro: gli stati di coscienza e di successiva consapevolezza, la percezione sensoriale si ritrova
magnetizzata e possono aversi visioni, locuzioni, estasi, presenze angeliche e dei trapassati. Ci si scontra
con stati alterati di coscienza e distorsioni percettive? Si è sempre compresa però la differenza fra stato
emotivo e stato mistico? Il filo si snoda raggiungendo l’incomunicabilità fino alla contemporaneità del
Non Essere, del Nulla, del Vuoto, che tenta di esprimersi in metafore, paradossi, immagini. Quando la
dedizione a Dio era pensata e considerata passando per la rinuncia della corporeità, quest’ultima
suscitava perplessità e dubbi. Ora sappiamo che esiste il linguaggio del corpo, l’immaginario del corpo e
le tracce del divino nella mistica, come vita nello Spirito, in piena libertà, perché dono del Vivente alla
vivente, diventano tangibili: oltre i sensi pur avendone fatto esperienza e dentro i sensi? Il delirio
mistico, la trasposizione in altro stato mentale, è un continuum che prelude, ma non può confondersi
con l’ibridazione, la mescidazione, perché si palesa come spazio interiore nella dimensione femminile.
Una sorta di sottotesto critico, inteso come trasalimento, entra in circolo con il presente, con la storia in
una lingua materna che esprime la relazione dell’Amato con l’amante e dell’amante con l’Amato. Quale
il filtro? La passione che cattura perché magnetizza, un’autentica energia di pensiero nello spazio
dell’incontro con il divino, nella mistica sponsale. Il subconscio collettivo, sempre di pari passo con il
substrato dell’animus dell’umanità coeva, è presente e stimolante; oggi ci si chiede: è itinerario psichico
o pneumatico? Fede o psicanalisi? Bagliori di assenze psichiche o universo interiore che diventa creatore
di un pensiero teologico e di una maternità spirituale? Si avverte però il respiro del corpo femminile e
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la preghiera in una mistica intesa come relazione con Dio che si rifrange sul mondo, le cose, le persone.
Nel rifiuto di una concezione della spiritualità che si ancori in un pensiero platonico e si contrapponga
alla corporeità. Il grande poeta Dante l’aveva colto: «Donne ch’avete intelletto d’amore» (Vita nuova
XIX).
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Monaci e asceti: la ricerca di una nuova innocenza
di Mariachiara Giorda
Chi sono gli asceti? E i monaci? Orientarsi lungo la folta tradizione di studi sul monachesimo è impresa
ardua e non può prescindere da una precisa contestualizzazione o collocazione del fenomeno monastico
in dimensioni spazio-temporali ben definite. Il termine «monachesimo» è infatti radicato storicamente
nella tradizione cristiana ed è spesso usato in modo generico per definire fenomeni anche molto
differenti nel tempo e nello spazio, con un approccio descrittivo. Il padre della sociologia Max Weber
propose di interpretare ascetismo e misticismo come «metodologie di santificazione», tentativi estremi
che il credente mette in atto per superare il gap fra una certa visione religiosa del mondo da una parte e
la brutalità del quotidiano, priva di senso, dall’altra. L’ascetismo, partendo da un forte disprezzo per il
mondo e dal rifiuto delle sue leggi, è una condizione di azione etica volta ad un intervento critico,
intervento che si realizza in un distacco comportamentale dagli interessi terreni (ascetismo extramondano) oppure in un impegno attivo nel mondo a scopo trasformativo, dove l’azione è orientata ai
valori etici. I monaci, asceti extra-mondani, si ritirano dal mondo, dai legami, dal possedimento, dagli
interessi normali degli esseri viventi: è l’ascetismo che rifiuta il mondo. Weber creò il modello ascetico e
la sua sottospecie che è il monachesimo; l’ascetismo è dunque un fenomeno universale, una rottura con
i modelli dominanti e una creazione di schemi di potere originali, una performance resistente a un
contesto esterno, sociale o religioso, capace di inaugurare una nuova e alternativa soggettività.
L’ascetismo è la resistenza dell’individuo alla cultura nella quale è immerso; esso dà corpo alle
contrapposizioni, alle tensioni, senza che il sistema culturale crolli; è il dissenso interno. Nel
monachesimo tutto ciò diventa prassi di vita di un gruppo di soggetti che si ritrovano a condividere
tempi e spazi e per i quali vi è un passaggio dalla fase utopica (l’utopia praticata che viene messa in atto
nella pratica con il fine di trasformare il sistema di riferimento) all’istituzionalizzazione. Il monachesimo
è radicamento, integrazione sociale e strutturazione grazie a un insieme di processi che legano differenti
attori religiosi, ma anche sociali, e che ne normano il comportamento. Alla base dell’esperienza
monastica vi è infatti, sempre, una regola, che può essere orale ma che, generalmente, viene messa per
iscritto, letta e condivisa. È la regola che inquadra la vita dei monaci e dei monasteri, che viene
tramandata e trasmessa, adattata ai contesti che via via si creano. Senza dubbio, nell’Occidente cristiano
è la Regola di Benedetto che assunse e continua ad assumere il ruolo privilegiato di punto di riferimento
teorico e pratico per migliaia di uomini e donne. Nel tentativo, piuttosto originale, di comparare i
monachesimi, il rischio è quello di assumere un’ottica descrittiva e non ermeneutica, attuando una
comparazione selvaggia per cui «tutto è monachesimo», attraverso una lente fenomenologica e
inclusiva. Possiamo citare, exempli gratia, l’approccio di Panikkar, la cui tesi è riassunta nello sforzo di
procedere nella semplicità e di ri- cercare quindi una «nuova innocenza » che fa vivere in pace e
crescere: il monaco ne è un archetipo universale e pertanto valido in Oriente e in Occidente, ieri, oggi e
sempre. Uscito nella traduzione italiana nel 1991 con il titolo La sfida di scoprirsi monaco (l’originale era
Blessed Simplicity. The Monk as Universal Archetype, del 1982) e ripubblicato con alcune modifiche nel
2007 con il titolo Beata semplicità. La sfida di scoprirsi monaco, il testo trae origine da un convegno che
ebbe luogo nel 1980 nel Massachusetts sul tema che appare nel titolo: «L’archetipo universale del
monaco ». Per Panikkar l’archetipo monastico rappresenta la polarità tra qualcosa di difficile e di strano
e la vocazione di ogni essere umano; la vocazione monastica è elaborata nei «Nove sutra sul Canone del
discepolo », che parte dal principio fondamentale della semplicità: aprirsi alla aspirazione primordiale;
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primato dell’essere sul fare e sull’avere; silenzio; madre terra; superamento dei parametri spaziotempo; coscienza transtorica; pienezza della persona; primato del sacro; memoria della realtà ultima.
Panikkar parte dalla sua esperienza personale di «monaco senza monastero» e senza abito, per giungere
al «monaco che c’è in ognuno», colui che aspira a realizzare il fine ultimo della vita con tutto il suo
essere. Questo di un approccio «all inclusive» è uno dei rischi più frequenti nella comparazione dei
monachesimi, che spesso si riduce a dei tentativi di individuare un «universale» monastico che sia valido
sempre nella storia e nella geografia. Occorre piuttosto rintracciare affinità e differenze distinguendo
contesti culturali, storici e naturalmente, religiosi. Senza dubbio la storia del monachesimo cristiano
modellato a partire dalla tradizione benedettina è stato al centro della costruzione di un sapere sul
monachesimo, modellandone anche la terminologia di riferimento (a partire dai termini monaco,
monastero), ma sia altre realtà cristiane (ordini mendicanti, come francescani e domenicani, e altri
ordini religiosi) sia varie realtà non-cristiane (islamici sufi, esseni, bhikkhu buddhisti e samnyasin
hinduisti) possono essere considerate pratiche monastiche: soltanto considerandoli uno per uno, con
uno studio dei diversi casi – a volte molto distanti nello spazio e nel tempo – si può pensare di descrivere
un’aria di famiglia fatta di alcuni tratti distintivi comuni che esprimono «l’ossatura monastica» di realtà
cristiane e non. Non si tratta di un elenco chiuso ed esaustivo, ma di alcuni aspetti che sono rintracciabili
nelle pratiche quotidiane monastiche e nelle regole monastiche, a sancire un legame profondo tra
prescritto e vissuto: il seguire un programma specifico o una specifica disciplina di vita; l’essere separato
da un’esistenza umana ordinaria nella ricerca di realizzare altro (separazione che può essere addirittura
la separazione materiale, fino alla clausura); la vita comune (presente/ assente, necessaria o meno,
continua/periodica), la povertà/ semplicità dello stile di vita; il celibato come rinuncia a formare una
famiglia e alle relazioni sessuali; un certo numero di pratiche ascetiche tra cui emerge, in tutti i
monachesimi, il problema del cibo e del sonno. Che cosa significa oggi, in Italia, tra forme vecchie e
nuove di monachesimo, la pratica di queste modalità esistenziali? La disciplina monastica propone
ricette per il benessere, cerca di rimediare alle malattie di chi ha compreso la vanità del mondo:
depressione, ansia, insonnia, ossessività, anoressia per citarne alcune; i monaci suggeriscono la fuga dal
mondo, l’ascesi, la sobrietà, l’impassibilità, la lettura, il canto, il silenzio, la perseveranza, il lavoro e la
preghiera, l’ascolto, la vigilanza, l’ospitalità come ricette per la vita di ogni uomo e ogni donna.
Esperienze al margine della società diventano il centro del mondo, come se, senza soluzione di
continuità e con una leggera immediatezza, tale modello fosse adattabile a ciascun individuo. L’idea di
base che struttura la vita monastica è quella di un quotidiano esercizio spirituale, che è, al contempo,
anche un esercizio fisico: il corpo non è maltrattato, dimenticato, tralasciato, ma è al centro di riflessioni
profonde e di una gestione disciplinare accurata; gli esiti sono differenti e, in qualche modo
imparagonabili: basta pensare al corpo di un monaco contemporaneo di un ordine cattolico, nutrito in
modo sobrio e allenato al digiuno, e a quello di un monaco del deserto egiziano del V secolo, o ancora a
quello di una monaca che seguì il Buddha, per immaginare le profonde e non riducibili differenze. Ciò
che è irrinunciabile è la cura, nel senso dell’attenzione per le esigenze del corpo, che non devono essere
mai assecondate senza un pensiero, sia per ciò che concerne il cibo, il sonno e – il tratto forse
maggiormente accomunante tra le varie esperienze monastiche – la sessualità. L’obiettivo di tale cura è
la ricerca dell’unità di vita, non della separatezza tra corpo e spirito; è d’altronde l’etimologia di monaco
che ci fornisce una suggestione interessante su tale ricerca: monaco, dal greco monos, tutto, unito, è
colui che cerca una vita all’insegna della unitarietà e dell’unione con il Dio, il divino, il trascendente, una
vita completa e finita.
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La sessualità nella società arabo-islamica
di Adel Jabbar
Il passato che non passa
Un opuscolo di cinquanta pagine del teologo e giurista musulmano Ibn Taymiyya (1263-1328) contiene
una serie d’indicazioni che rappresentano ancora oggi un punto di riferimento per numerosi movimenti
che si ispirano ad una concezione dell’islam salafita. Questo pensiero prevede, per quanto riguarda
l’abbigliamento della donna osservante, il velo integrale quando si trova fuori dallo spazio domestico,
ma anche quando si trova in presenza di uomini non appartenenti al gruppo stretto della famiglia. Ibn
Taymiyya (e non solo lui) percepisce la bellezza femminile come una fonte di turbamento che può
mettere a rischio l’ordine delle relazioni tra uomini e donne. In base al suo pensiero le forme del corpo
femminile rappresentano di per sé una nudità anche quando la donna è vestita facendo però
intravedere le forme del corpo e lasciando scoperte parti di esso come il volto, le mani, i capelli ecc.
Questa concezione dogmatica così rigida avviene in un periodo in cui il mondo arabo-islamico era
attraversato da una forte crisi in tutti gli ambiti. Le città ricche e plurali dell’epoca precedente alle
invasioni mongole e alle crociate, come Baghdad e Damasco, nel periodo di Ibn Taymiyya non sono altro
che un remoto ricordo. Dopo alcuni secoli nasce al centro della penisola arabica Muhammed Ibn Abd AlWahhab (1703-1792), il quale assunse il compito di ripristinare le concezioni di Ibn Taymiyya e definire
una nuova strategia per rendere praticabili le indicazioni contenute nella produzione del teologo del
tredicesimo secolo. Siamo di fronte a quella che oggi viene chiamata la corrente wahhabita, che si
prefigge l’obiettivo di una netta separazione tra uomini e donne in tutti gli ambiti della vita, sia privata
che pubblica. Negli ultimi tempi il tema del rapporto tra uomo e donna è tornato ad essere centrale in
un certo pensiero religioso islamico. Assistiamo attualmente ad un animato dibattito riguardo alla
definizione degli assetti costituzionali in paesi arabi dove, a seguito delle varie rivolte popolari, si sono
instaurate nuove compagini governative che vorrebbero realizzare una prassi che si ispiri al pensiero
religioso islamico e quindi si contrappongono diversi orientamenti, da quello riformista a quello
progressista, ma anche forti correnti conservative e reazionarie.
Il velo
La visione islamica rispetto alle relazioni uomo-donna si fonda su una concezione predefinita in cui si
presuppone un rapporto di cosiddetta complementarietà che a sua volta rappresenterebbe una
situazione di armonia. I vari teologi musulmani hanno cercato sin dall’inizio di regolamentare sia la
separazione dei sessi che la loro unione. A tal fine si sono interrogati su quali pratiche seguire per
realizzare una coesione all’interno della coppia. Dal loro punto di vista ogni elemento che produce
un’influenza negativa su tale coesione costituisce una minaccia per la vita della coppia. La funzione del
velo secondo questi teologi è quella di arginare il rischio di intaccare tale coesione. Il velo è divenuto
quindi in pratica un elemento di segregazione sessuale e quindi si può asserire che alcuni settori
dell’islam affermano la necessità di separazione tra uomini e donne.
Lo sguardo
Una buona musulmana dovrebbe saper esercitare «un uso corretto » del proprio sguardo e coprire il
proprio corpo al fine di non provocare desideri impuri. A tale proposito il Corano recita: «Di’ alle
credenti che abbassino gli occhi e custodiscano la loro castità, che non mostrino le loro bellezze
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eccetto quello che è visibile, che si coprano il petto con un velo e mostrino la loro bellezza solo ai mariti
o ai padri o ai suoceri o ai figli o ai figli dei mariti o ai fratelli o ai figli dei fratelli o ai figli delle sorelle o
alle loro donne o alle loro schiave o ai servi maschi impotenti o ai bambi- ni che non notano la nudità
delle donne. E di’ loro che non battano i piedi per mostrare le loro bellezze...» (Sura XXIV, 31) Secondo
queste regole comportamentali l’uomo a sua volta non dovrebbe guardare con brama una donna che
non sia sua moglie. Un detto del Profeta Muhammed riporta: «L’uomo che guarda con concupiscenza le
qualità fisiche di una donna che gli è estranea riceverà del piombo negli occhi nel giorno del giudizio
universale»; e ancora: «L’uomo che guarda le forme di una donna al di là dei suoi abiti, al punto da poter
distinguere le forme dall’ossatura, non potrà godere del profumo del paradiso», «All’uomo che tocca la
mano di una donna con cui non ha nulla a che vedere, saranno messe delle braci sulle palme delle mani
il giorno del giudizio universale». Nella realtà poi l’educazione che avviene nel seno della famiglia e più
in generale nella società provoca una serie di turbamenti, ambiguità e contraddizioni nei rapporti
interpersonali fra uomo e donna. Soprattutto in riferimento all’educazione dell’uomo, si può constatare
una certa ipocrisia. La nascita di un maschio è già di per sé un particolare motivo di festeggiamenti e di
vanto. Nel corso della crescita il maschio a differenza della femmina viene poi ripetutamente spinto a
esibirsi in svariati modi, al fine anche di attrarre l’ammirazione e – perché no? – il desiderio del gentil
sesso. Questo esempio comportamentale produsse fin dall’inizio dell’epoca islamica ambiguità e
ipocrisia all’interno della società musulmana: basti pensare all’uso e abuso che è stato fatto della figura
della concubina da parte di sultani, califfi e degli stessi uomini religiosi. Dal momento che gli uomini
sceglievano personalmente le loro concubine, ciò presupponeva il fatto che vedessero il loro corpo e
quindi la nudità. Qui sorge spontanea una domanda: Chi erano le concubine? Quali erano le donne
legittimate a mostrare il proprio corpo al fine di essere scelte dal «loro» uomo? Inoltre risulta che spesso
e volentieri le concubine erano più popolari tra gli uomini rispetto alle legittime mogli, oltre che per il
fatto che venivano scelte di persona forse anche perché il rapporto era meno sottoposto a gabbie
normative. Ai giorni nostri il tema del corpo e della sessualità viene discusso con una certa apertura e
problematicità anche da voci femminili, a differenza del passato in cui il pensiero era dettato da
considerazioni prettamente maschili. Attualmente troviamo molte donne che si esprimono e dibattono
questa tematica così delicata per la società in cui vivono e lo fanno attraverso i mezzi più vari, dalla
rivista Al-Jasad (il corpo), della libanese Jumana Haddad, alle produzioni letterarie, prime fra tutte la
scrittrice femminista egiziana Nawal Al-Sadawi, a quelle cinematografiche, con la regista Nadine Labaki
nel film Caramel. Ritengo necessaria più che mai una riflessione all’interno dell’ambito religioso islamico
che affronti il tema del corpo e della sessualità in modo maturo e consono alle necessità di una società
complessa e connessa ad un mondo globalizzato. Anche perché non credo che sia sufficiente riferirsi al
pensiero di Ibn Taymiyya, risalente a 700 anni fa.
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Sesso e protestantesimo. L’equivoco puritano
di Paolo Naso
Poche parole come «puritani» e «puritanesimo» hanno subito un destino così inclemente e incoerente
con la loro origine. Quando si vuole indicare una sessualità rigida, rigorosa e vissuta più per dovere
riproduttivo che per piacere fisico, ecco che la categoria del «puritano» torna buona come un
passpartout che contribuisce a consolidare l’idea che il protestantesimo abbia «un problema con il
sesso», vivendolo più come tentazione che come grazia, più come responsabilità che come gioia. In
realtà il puritanesimo sorto in Inghilterra alla fine del XVI secolo e giunto nel New England in quello
successivo, fu ben altro che una corrente di rigorismo sessuale o, peggio, sessuofobico: fu invece una
teologia che intendeva richiamare la Chiesa alla purezza e all’essenzialità evangelica, liberandosi da
quelle contaminazioni con il potere mondano della politica che ne soffocavano la libertà e la missione.
Che poi i puritani, animati da una fede rigorosa che impregnava ogni espressione della loro vita,
predicassero una condotta rigorosa anche nella sessualità e nella vita familiare, è un frutto che non può
essere confuso con la radice della loro vocazione e della loro pratica di fede. Certo, dietro l’etica
sessuale puritana si celavano pesanti e violente ipocrisie, come del resto ci testimoniano gli eredi stessi
di quella tradizione: La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne, pubblicato con successo in America nel
1850, scolpisce un epitaffio durissimo di quella falsa morale «puritana» per cui lo stesso pastore che
ogni domenica predicava fuoco e fiamme contro il disordine sessuale e i rapporti extraconiugali, era
stato l’amante segreto di una donna invece costretta a girare con la «A» di adultera ricamata sul vestito.
E alla povera Hester – questo il nome della sfortunata protagonista – era andata bene, perché solo fino a
qualche anno prima gli adulteri (in realtà più le donne che gli uomini, i quali riuscivano meglio a
dissimulare le loro responsabilità) finivano sul patibolo. Hawthorne era un liberale, ma figlio legittimo
del puritanesimo, a tal punto da vantare nel suo albero genealogico uno dei giudici che nel 1692
avevano mandato al rogo le cosiddette «streghe di Salem». E comunque, anche in quella drammatica
vicenda, alcuni autorevolissimi puritani stavano dalla parte delle vittime piuttosto che da quella dei
carnefici, a iniziare da Increase Mather, uno degli uomini forti più in vista e autorevoli della comunità
riformata del New England. Certo, quella puritana fu una sessualità rigorosa e persino rigida, ma per
ragioni strettamente connesse alla visione che i membri della comunità avevano della vocazione che il
Signore rivolgeva loro: nella loro visione riformata, la vita consacrata non era monopolio dei chierici ma
tutti i membri della comunità cristiana erano tenuti a vivere nella conformità della Paola di Dio e ad
essere esempio di virtù morali e spirituali; e va da sé che dai primi decenni della colonizzazione sino alla
Seconda guerra mondiale, tutto questo si esprimesse nel controllo delle pulsioni del corpo – a iniziare da
quelle adolescenziali – nella verginità al matrimonio, nella procreazione in abbondanza e nella fedeltà
alla promessa coniugale. È questo il paradigma dell’etica puritana convenzionale, quella consacrata nella
predicazione domenicale. Altra cosa erano, e già nell’Ottocento della guerra civile, le situazioni reali che,
come sempre accade, presentavano situazioni assai meno lineari e diamantine: figli «illegittimi»,
tradimenti, convivenze more uxorio erano ben presenti anche nell’America puritana celebrata in tanti
romanzi e in tanti film di Hollywood. Lo stesso Walt Disney, che pure fu un conservatore tutto d’un
pezzo, non consegnò al grande pubblico delle famiglie modello, ma piuttosto delle «famiglie complesse
o allargate» a iniziare da Paperino che fa da padre a tre marmocchi che in realtà sono suoi nipoti e ha
una relazione quotidiana con una compagna della quale non è marito. Così come non sono sposati
Minnie e Topoli- no né Orazio e Clarabella. Quelle di Topolinia o Paperopoli inclinano più verso le
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«famiglie di fatto» che verso quelle del più ortodosso American way of life. Per restare nella cultura
popolare del cartoon a stelle e strisce, come è stato rilevato anche da raffinate analisi filologiche e
comportamentali risulta più «puritana» e tradizionale la famiglia Simpson che si regge su complessi
equilibri tra abiezione e virtù, peccato e redenzione. Il fatto è che nel paradigma dell’etica puritana, al
netto delle espressioni più radicali e «fondamentaliste», il rigore si bilancia con la responsabilità: è
questa la chiave per capire come mai proprio le chiese americane più influenzate dalla tradizione
puritana siano quelle nelle quali è scoppiata da tempo una disputa teologica sull’etica sessuale ancora
oggi non conclusa. Guardando al variegato spetto del protestantesimo nordamericano, tra due poli
estremi molto coesi e radicalizzati esiste anche un ampio spettro di posizioni intermedie che dimostrano
come oggi il paradigma puritano sia tutt’altro che assoluto e univocamente interpretato. Si pensi ai
giorni del Clinton sexgate, quando l’America si divise tra innocentisti e colpevolisti. Vinsero i primi, ma
solo grazie alle variabili del paradigma puritano: la confessione della colpa e la grazia del perdono.
Ammettendo le sue colpe in pubblico e mostrandosi sinceramente pentito, il presidente riconquistò lo
standard etico che aveva perso, e lo fece ricorrendo a un «linguaggio » che l’America ben capisce e
interpreta perché è quello che ogni domenica viene utilizzato sui pulpiti. È il linguaggio – e la teologia –
di Amazing grace, l’inno americano forse più conosciuto al mondo nel quale uno spregevole mercante di
schiavi, fatta la sua confessione di peccato e incamminatosi in una nuova strada, scopre la meraviglia
della grazia di Dio. Fu la pubblica confessione di colpa, resa in diretta televisiva così che ogni americano
potesse farsi un’idea sulla sua veracità, a salvare il presidente dall’impeachment e da una condanna
morale che sembravano già scritte. Vogliamo insomma affermare che nella morale puritana non c’è solo
peccato ma anche redenzione, non solo perfezione cristiana ma anche peccato e ravvedimento. Ieri
come oggi, il problema è che un’etica così complessa si può facilmente piegare in direzioni diverse e
contrapposte tra loro. Da decenni, ad esempio, la «destra religiosa» interpreta la crisi degli Stati Uniti in
una chiave etica che, a ben guardare, si riduce a due grandi questioni comunque legate alla sfera
sessuale: l’aborto e l’omosessualità. È ancora disponibile su internet il siparietto televisivo tra due icone
della destra religiosa – Pat Robertson e Jerry Falwell – che a poche ore dalla tragedia dell’11 settembre
ne attribuivano la colpa alla decadenza morale degli americani, alla loro tolleranza nei confronti
dell’aborto e alla diffusa accondiscendenza nei confronti dell’omosessualità. Gli anni di George W. Bush
alla Casa Bianca segnarono il climax di queste tendenze neopuritane che animarono esperienze estreme
ed eccentriche come i «Promise keepers», un movimento di maschi «allenati» da un famoso coach
football del Colorado, Lynne McCartney, che negli stadi e di fronte a un pubblico plaudente
promettevano fedeltà alle proprie mogli. Il football è uno sport rude, e lo è anche la campagna che i
Promise keepers conducono in questi mesi intitolata «Awakening the Warrior» (svegliare il guerriero),
con tanto di corazza e spada nella rappresentazione grafica. Fedeli, possibilmente vergini ma pur sempre
molto, molto machi. Sul fronte opposto le chiese che, in genere dopo un lungo e a volte lacerante
confronto interno, hanno assunto posizioni liberal sulle questioni dell’etica sessuale, a iniziare dalle
unioni gay. La prima è stata la United Church of Christ (quella chiesa di tradizione calvinista alla quale si
è convertito Barack Obama), che benedisse coppie gay già nel 2005. A fare lo stesso passo fu nel 2009 la
Chiesa episcopale (comunione anglicana) che però già nel 2000, senza troppe sottilizzazioni, aveva
aperto al riconoscimento delle coppie «sia all’interno che all’esterno del matrimonio». Un anno dopo è
arrivata anche la Chiesa presbiteriana, calvinisti tutti d’un pezzo anche loro, ribaltando vari voti in senso
contrario. Il tema resta aperto in un’altra grande famiglia del protestantesimo americano, quella
metodista, dove ancora recentemente è prevalso un voto contrario alla consacrazione dei pastori
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omosessuali: sì però all’accoglienza di membri di chiesa dichiaratamente gay o lesbiche. E nessuno
chieda loro di cambiare orientamento sessuale. Diversamente, attraversato l’Atlantico, dal 2005 i
metodisti della vecchia Inghilterra – proprio dove John Wesley iniziò la sua predicazione – benedicono
coppie omosessuali. Nettamente contrari a ogni forma di riconoscimento dell’omosessualità, invece,
l’assoluta maggioranza dei battisti e la sostanziale totalità del variegato fronte «evangelical». Strano
paradosso tutto americano: i più calvinisti dei puritani sono anche quelli oggi più liberal sul piano
dell’etica sessuale.
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Le religioni di fronte alla sessualità - SCHEDA
di Sergio Bocchini
Ebraismo
Nella Bibbia è scritto che il Signore «creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e
femmina li creò», e che il Creatore vide «che era cosa molto buona» (Gen 2,31). Essendo stata voluta
direttamente dall’Eterno, la tradizione ebraica ha sempre considerato la sessualità come qualcosa di
buono, finalizzata all’unione della coppia e non solo legata alla funzione riproduttiva. Essendo un istinto
vitale, l’ebraismo sostiene che la sessualità deve essere controllata e soddisfatta in modo responsabile,
come tutti gli altri istinti (per esempio la fame, la sete ecc.), ma non è legata a qualcosa di vergognoso o
di peccaminoso. L’attività sessuale viene però lecitamente esercitata solo nel matrimonio; per questo la
castità prematrimoniale è raccomandata soprattutto alle donne, in quanto la mancanza di verginità di
una sposa può essere causa di divorzio. Nel caso di una coppia stabile, i rapporti prematrimoniali, pur
non essendo incoraggiati, sono comunque considerati parte di un processo che condurrà all’unione
matrimoniale.
Cristianesimo
Il cristianesimo viene spesso accusato di aver diffuso una visione della sessualità legata a sentimenti di
colpa e di impurità. Certamente nella storia del cristianesimo, che è multiforme e varia, con
caratteristiche diverse a seconda delle varie zone geografiche, si è persa talvolta quella visione positiva
dell’uomo e della donna uniti insieme dal loro Creatore, per insistere eccessivamente sulle conseguenze
del peccato originale, tra cui proprio la vergogna dei progenitori di essere nudi (Gen 3,10). È innegabile
che per lunghi secoli la visione teologica della sessualità sia stata confinata in un’immagine non positiva,
legandola a qualcosa di negativo e di sporco, che ha influito negativamente sulla crescita di generazioni
di persone. Ma certamente non era questa l’immagine della sessualità presente nella Bibbia, infatti è
Dio stesso che ha creato l’uomo e la donna diversi ma complementari; il rapporto tra Dio e il suo popolo
è descritto come l’amore di due sposi; non è un caso se il più antico canto d’amore dell’Occidente, il
Cantico dei Cantici, si trovi proprio nella Bibbia... e si potrebbe continuare a lungo! Nel cristianesimo,
come sostengono i testi ufficiali, «l’amore è la prima e fondamentale vocazione di ogni essere umano» e
la sessualità non è estranea all’amore; ne fa parte integrante perché l’amore deve essere vissuto nella
sua totalità: come corpo e spirito (Familiaris consortio, n. 11). Questo è in genere ciò che affermano
tutte le Chiese cristiane. Più specificamente, per la Chiesa ortodossa la sessualità è certamente un valore
importante ed è per questo che il rapporto sessuale deve essere espressione di un amore stabile,
santificato nel matrimonio. I rapporti prematrimoniali non vengono ammessi. Nel mondo protestante,
pur essendoci sull’argomento più apertura e tolleranza, molte Chiese sostengono la norma tradizionale
che il rapporto sessuale ha la sua piena legittimità solo se è espressione di un amore già fermamente
impegnato nel matrimonio. Quasi tutti i nuovi movimenti religiosi di matrice cristiana originati in
America, come per esempio la Chiesa cristiana avventista o i Testimoni di Geova, rifiutano la sessualità
vissuta al di fuori del vincolo matrimoniale. Per la Chiesa cattolica «la sessualità è una componente
fondamentale della personalità, un suo modo di essere, di manifestarsi, di comunicare e di vivere
l’amore umano. Perciò essa è parte integrante dello sviluppo della personalità e del suo processo
educativo [...] La sessualità caratterizza l’uomo e la donna non solo sul piano fisico, ma anche su quello
psicologico e spirituale, improntando ogni loro espressione. Tale diversità, connessa alla
complementarità dei due sessi, risponde compiutamente al disegno di Dio secondo la vocazione a cui
ciascuno è chiamato» («Sacra congregazione per l’amore umano», Orientamenti educativi sull’amore
umano, 1983). Per quanto riguarda poi l’atto sessuale all’interno del matrimonio, la Chiesa cattolica
dichiara espressamente che «la genitalità, orientata alla procreazione, è l’espressione massima, sul
piano fisico, della comunione d’amore dei coniugi. Avulsa da questo contesto di reciproco dono – realtà
che il cristiano vive sostenuto e arricchito in modo particolare dalla grazia di Dio – essa perde il suo
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significato, cede all’egoismo del singolo ed è un disordine morale» (ibidem). È chiaro che per la Chiesa
cattolica l’atto sessuale deve essere «orientato alla procreazione», ma la finalità dell’atto coniugale è
duplice: «unitiva (la mutua donazione dei coniugi) e procreativa (l’apertura alla trasmissione della vita)»
(Catechismo della Chiesa cattolica, nn. 2362-2367). Comunque la sessualità – che, ricordiamolo, è
qualcosa di più ampio della genitalità – è parte integrante della maturazione di una persona e quindi
non è corretto dire – come si sente spesso affermare – che il cattolicesimo ha il «tabù del sesso». La
visione cattolica della sessualità non è negativa, ma pone regole ben precise sull’esercizio della genitalità
che, essendo «l’espressione massima dell’amore sul piano fisico», viene considerata lecita solo
all’interno del matrimonio. Spiega ancora il Catechismo: «L’unione carnale è legittima solo quando tra
l’uomo e la donna si sia instaurata una comunità di vita definitiva. L’amore umano non ammette la
prova. Esige un dono totale e definitivo delle persone tra loro» (n. 2391).
Islam
L’islam considera positivamente la sessualità umana, che non vede finalizzata solamente alla
procreazione, ma anche al piacere e all’unione della coppia. Tutto però deve essere regolato sulla base
del Corano e della tradizione islamica, che prevede infatti che l’unione sessuale avvenga all’interno del
matrimonio (ammesso però anche in forma temporanea [ma non per l’islam ortodosso maggioritario,
ndr]). Questo perché l’islam sostiene che solo all’interno dell’istituzione matrimoniale la sessualità può
essere controllata e indirizzata all’unione tra i coniugi e alla nascita dei figli. Il Corano raccomanda la
castità durante il ciclo mestruale e nel periodo diurno del Ramadan. Anche i rapporti prematrimoniali
sono duramente condannati, così come prescrive il Corano: «E quelli che non trovano moglie si
mantengano casti finché Dio li arricchisca della sua grazia» (sura 24,33).
Hinduismo
Tra tutte le religioni, l’hinduismo è forse quella che valorizza di più la sessualità. Il sesso, sia sotto la
forma maschile (lingam o linga) che femminile (yoni), viene venerato in collegamento con le divinità
principali; varie correnti di pensiero teorizzano che l’attività sessuale contribuisce all’evoluzione
spirituale dell’individuo. Anche se l’hinduismo ha con la sessualità un legame particolarmente aperto e
libero (si pensi ai vari galatei d’amore, tra cui il famoso Kamasutra), tuttavia anche in India l’unione
sessuale può essere lecitamente esercitata solo nel matrimonio, che è considerato sacro e finalizzato
alla crescita spirituale degli sposi e alla procreazione. La castità prematrimoniale è fortemente
raccomandata e sono scoraggiati i rapporti prima del matrimonio. Infatti si sostiene che i matrimoni che
non hanno relazioni o convivenze precedenti siano più forti e raramente entrino in crisi.
Buddhismo
Il sesso non è considerato di per sé negativo, ma per il buddhismo tutti i desideri – e in particolare quello
sessuale che è legato alla procreazione – sono la causa del ciclo delle rinascite (samsara) e quindi
impediscono il raggiungimento del nirvana. Nello specifico, il terzo dei cinque precetti buddhisti chiede
ai fedeli di astenersi dai «comportamenti sessuali non appropriati», tra cui nel passato si intendevano lo
stupro, l’incesto e il bestialismo, ma oggi vi rientrano anche i rapporti sessuali al di fuori del matrimonio
e l’omosessualità.
Si consiglia la lettura di
Le religioni e la salvaguardia del creato (scheda p. 102 testo “Le religioni presentate ai miei alunni”
Bocchini Sergio)
Le religioni e la guerra-pace (scheda p. 125 vedi testo sopra)
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Le religioni il corpo, la sessualità e l`amore