Ottobre-Dicembre 2009 • Vol. 39 • N. 156 • Pp. 193-245 Audiologia (a cura di E. Marciano) Lo screening neonatale dei disturbi permanenti dell’udito L’impianto cocleare nel bambino Forme ereditarie di ipoacusie neurosensoriali isolate e sindromiche nel bambino Volume 39 156 Ottobre-Dicembre 2009 Neurologia (a cura di E. Mercuri) Consenso sugli “Standard di cura”: un grosso passo avanti nel campo delle malattie neuromuscolari Nuovi standard di cura per le complicanze respiratorie e cardiologiche nel bambino con distrofia muscolare di Duchenne Nuovi standard di cura per la presa in carico del bambino con atrofia muscolare spinale Frontiere (a cura di A. Cao, L.D. Notarangelo, A. Iolascon) Le basi genetiche delle SCID FOCUS SU: (a cura di G. Bona) Obesità e sindrome metabolica in età pediatrica Pacini Editore Medicina Periodico trimestrale POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 conv.in L.27/02/2004 n°46 art.1, comma 1, DCB PISA Aut. 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Pacini Editore Medicina INDICE numero 156 Ottobre-Dicembre 2009 Audiologia (a cura di Elio Marciano) Lo screening neonatale dei disturbi permanenti dell’udito Alfredo Pisacane, Edoardo Arslan, Gennaro Auletta, Françoise Barrier, Luigi Barruffo, Grazia Isabella Continisio, Paola Continisio, Monica Errichiello, Rita Malesci, Pasquale Riccardi, Fabiana Toscano, Elio Marciano...............................................................................193 L’impianto cocleare nel bambino Gennaro Auletta, Ettore Cassandro, Elisabetta Genovese, Maria Consolazione Guarnaccia, Pasquale Iadicicco, Carla Laria, Emma Landolfi, Giorgio Lilli, Pasquale Riccardi, Elio Marciano .................................................................................................................200 Forme ereditarie di ipoacusie neurosensoriali isolate e sindromiche nel bambino Annamaria Franzè, Viviana Chinetti, Paolo Gasparini, Pasquale Giannini, Sandra Iossa, Carla Laria, Giorgio Lilli, Rita Malesci, Alessandro Martini, Elio Marciano..............................................................................................................................................................205 Neurologia (a cura di Eugenio Mercuri) Consenso sugli “Standard di cura”: un grosso passo avanti nel campo delle malattie neuromuscolari Eugenio Mercuri, Flaviana Bianco, Gessica Vasco . ...................................................................................................................................210 Nuovi standard di cura per le complicanze respiratorie e cardiologiche nel bambino con distrofia muscolare di Duchenne Angela Berardinelli, Marika Pane, Eugenio Mercuri....................................................................................................................................214 Nuovi standard di cura per la presa in carico del bambino con atrofia muscolare spinale Adele D’Amico, Enrico Bertini ....................................................................................................................................................................219 Frontiere (a cura di Antonio Cao, Luigi D. Notarangelo, Achille Iolascon) Le basi genetiche delle SCID Fausto Cossu............................................................................................................................................................................................. 228 FOCUS SU: (a cura di Gianni Bona) Obesità e sindrome metabolica in età pediatrica Gianni Bona, Arianna Busti, Flavia Prodam, Simonetta Bellone.................................................................................................................. 239 Ottobre-Dicembre 2009 • Vol. 39 • N. 156 • Pp. 193-199 Audiologia Lo screening neonatale dei disturbi permanenti dell’udito Alfredo Pisacane, Edoardo Arslan*, Gennaro Auletta**, Françoise Barrier**, Luigi Barruffo***, Grazia Isabella Continisio, Paola Continisio, Monica Errichiello**, Rita Malesci**, Pasquale Riccardi**, Fabiana Toscano**, Elio Marciano** Dipartimento di Pediatria, Università di Napoli Federico II, * Università di Padova; ** Unità di Audiologia, Dipartimento di Neuroscienze, Università di Napoli Federico II; *** ASL Napoli 1 Centro Riassunto I disturbi permanenti bilaterali dell’udito in età pediatrica, definiti da una perdita uditiva ≥ 40 dB di soglia (HTL), sono relativamente frequenti e riguardano circa 1,2 bambini ogni 1000 nati nei paesi industrializzati. Dato che essi possono avere effetti devastanti sulle competenze di comunicazione e sulla vita scolastica e sociale, una diagnosi ed un intervento riabilitativo precoce, principalmente se entro il sesto mese di vita, sono misure rilevanti di salute pubblica, in quanto permettono competenze linguistiche e cognitive notevolmente migliori, in confronto a quelle ottenute da bambini nei quali la diagnosi è stata fatta tardivamente. Per questo motivo i sistemi sanitari di molti paesi hanno avviato programmi di screening universale di tali disturbi. Summary Permanent childhood hearing impairment (PCHI) of ≥ 40 decibels relative to hearing threshold level (dB HTL) is relatively common, affecting 1.2 infants per 1000 live births in industrialised countries and can have a devastating impact on communication skills, education attainment, and quality of life. As early identification and management of hearing impaired infants can improve language outcomes and no relevant harms are associated with programmes of universal newborn hearing screening (UNHS), such programmes have been introduced in many countries. Introduzione I disturbi permanenti dell’udito rappresentano una delle più frequenti disabilità in età evolutiva: la loro incidenza è infatti di circa 1,2-1,5 per mille nati in epoca neonatale, per diventare poi di circa il 2 per mille in età scolare, in quanto una quota di ipoacusie si manifestano tardivamente o si acquisiscono nei primi 5 anni di vita (1, 2, 3). Tra popolazioni maggiormente a rischio, come ad esempio i bambini ricoverati nelle terapie intensive neonatali (TIN) o quelli con una familiarità positiva per ipoacusie infantili, la prevalenza di ipoacusia può essere anche di 10 volte superiore. Tenuto conto del numero di bambini che ogni anno nascono in Italia (poco più di 500.000), il numero di soggetti tra 0 e 14 anni, affetti da un’ipoacusia bilaterale clinicamente rilevante, dovrebbe aggirarsi tra 10.000 e 15.000. Fare in modo che la loro disabilità non si trasformi in handicap è uno degli obiettivi delle iniziative di screening neonatale che, in anni recenti, sono divenute sempre più frequenti in tutti i paesi industrializzati. Eziologia delle ipoacusie Le ipoacusie possono essere classificate, in base alla sede della lesione uditiva, in 3 tipi: ipoacusia trasmissiva, neurosensoriale, mista. Accanto a queste vi sono anche cause eziologiche che possono provocare una lesione del sistema nervoso centrale, che può associarsi o meno ad una perdita uditiva periferica (Tab. I). Le ipoacusie trasmissive sono determinate da un problema dell’orecchio esterno o medio, mentre la perdita uditiva neurosensoriale è causata da patologie dell’orecchio interno o dell’ottavo nervo cranico. Le ipoacusie centrali sono rare e spesso causate da problemi lungo la via uditiva centrale. Le ipoacusie possono essere ereditarie o possono essere acquisite in epoca prenatale, perinatale e dopo la nascita. Le lesioni specifiche delle vie uditive centrali sono rare e di norma non si manifestano con una perdita uditiva, ma come un disturbo di processing uditivo che si evidenzia non prima dei 2-3 anni di vita. Le ipoacusie ereditarie rappresentano circa il 60% del totale nei paesi sviluppati. In circa 1/3 dei casi, si tratta di condizioni sindromiche (es. sindrome di Alport, di Usher, di Stickler ecc.), mentre gli altri 2/3 sono rappresentati da forme non sindromiche, più frequentemente recessive, ma in alcuni casi, dominanti, X-linked o mitocondriali. Tra le altre sordità, quelle associate al complesso TORCH (in particolare al CMV) sono le più frequenti; sono presenti in epoca neonatale e in alcuni casi manifestano un andamento evolutivo, con ipoacusia, mono o bilaterale, fluttuante e di gravità variabile, fatto questo che consiglia un follow-up audiologico fino all’inizio dell’età scolare nei pazienti dove è stata documentata l’infezione (Grosse et al., 2008). Negli ultimi 20 anni è andato sempre più aumentando il numero dei bambini che sopravvivono, anche se gravemente prematuri o con stati di sofferenza neonatale grave, grazie al sempre più efficace trattamento al quale vengono sottoposti nelle Terapia Neonatali Intensive (TIN). Le sofferenze neonatali hanno perciò acquisito un peso relativo sempre maggiore è sono oggi stimate attorno al 10% di tutte le ipoacusie infantili. (Nafstad et al., 2002). Infine tra le cause post-natali di sordità, la causa più frequente è rappresentata dalla meningoencefalite. Le ipoacusie ad insorgenza progressiva e tardiva Le ipoacusie a sviluppo tardivo o con decorso progressivo possono essere classificate in tre principali categorie: • Acquisite: CMV sintomatico o non, sepsi neonatale, meningiti batteriche o virali, agenti chemioterapici, trauma cranico. 193 A. Pisacane et al. Tabella I. Cause di ipoacusia congenita. Ipoacusia trasmissiva Ipoacusia neurosensoriale Lesione del SNC Malformazioni del condotto uditivo esterno, della membrana timpanica, della catena ossiculare, colesteatoma congenito Genetiche, sindromi (es. di Waardensburg, di Usher, di Alport, di Turner), infezioni prenatali TORCH (CMV, Sifilide, Herpes virus, rosolia, toxoplasmosi, sepsi streptococcica) Iperbilirubinemia, ipossia, emorragia intraventricolare • Strutturali: deformità strutturali della coclea congenite, ma non inquadrate in una specifica sindrome; LVA (large vestibular aqueduct), malformazione di Mondini. • Genetiche: possono suddividersi in sindromiche e non sindromiche. Le forme sindromiche comprendono la sindromi di Pendred, la brachio-oto-renale (BOR), la Alport, la Stickler, la Usher, la neurofibromatosi di tipo II, la Refsum. Le forme non sindromiche comprendono, invece, le ipoacusie a carattere autosomico dominante a decorso progressivo ed alcune forme autosomiche recessive da connessina 26 a decorso progressivo. I seguenti fattori sono oggi considerati come possibili indicatori di ipoacusie ad insorgenza tardiva: anamnesi di storia familiare di ipoacusia infantile; ricovero in TIN per più di 5 giorni, infezioni uterine accertate, malformazioni cranio-facciali, malattie neurodegenerative, traumi cranici, peso alla nascita inferiore a 1500 g, con Apgar minore di 3. Il perché di uno screening neonatale universale Scopo dello screening neonatale è l’identificazione precoce di una patologia che nel neonato non dà segni o sintomi clinicamente rilevabili, dove per patologia si intende una perdita uditiva bilaterale, presente alla nascita, con una soglia uditiva ≥ 40 dB HTL tra 0,5 e 4 kHz. I motivi che consigliano di eseguire un test di screening a tutti i neonati, piuttosto che solo a quelli che hanno fattori di rischio per ipoacusia, sono rappresentati dal fatto che solo la metà dei disturbi permanenti dell’udito si verifica in bambini con fattori di rischio, mentre l’altra metà interessa bambini senza tali fattori. Fino al momento in cui il test di screening neonatale si è diffuso ed è stato adottato in praticamente tutti i paesi industrializzati, una prima valutazione dell’udito veniva eseguita intorno agli 8 mesi con vari test di distrazione (ad esempio il Boel test). Il Boel test è però poco sensibile e poco specifico ed identifica solo poco più della metà dei bambini con sordità. Questo spiega perché, fino a pochi anni fa, l’età media alla quale un’ipoacusia neurosensoriale veniva diagnosticata era intorno ai 2 anni (Kennedy, 2005). Tale ritardo nella diagnosi si associava spesso con una scarsa efficacia della terapia riabilitativa. I dati della letteratura mostrano che lo screening universale si mostra capace di abbassare significativamente l’epoca della diagnosi e quindi l’inizio dell’intervento riabilitativo. L’età media della diagnosi, nei contesti in cui viene eseguito lo screening neonatale, è di circa 6 mesi, mentre, laddove lo screening è condotto esclusivamente tra i bambini a rischio, la diagnosi, tra i bambini senza fattori di rischio, viene fatta tra i 15 ed i 25 mesi di età (Nelson, 2008). I vantaggi di una diagnosi e di un intervento precoce Anche se non sono disponibili al momento evidenze definitive e supportate da studi di grandi dimensioni sui vantaggi di un intervento precoce, pur tuttavia esistono buoni dati, principalmente dagli Stati Uniti e dal Regno Unito, che mostrano che benefici rilevanti sulle 194 performance comunicative, linguistiche, relazionali e cognitive derivano da una stimolazione acustica e da un intervento riabilitativo instaurati entro il sesto mese di vita. Ciò è principalmente valido per bambini ipoacusici senza altre patologie associate (Downs, 1999; Moeller, 2000; Kennedy, 2006). Sicurezza, fattibilità e rapporto benefici/costi dello screening I test attualmente impiegati nello screening uditivo neonatale sono privi di qualsiasi rischio, rapidi, di facile esecuzione e molto sensibili e specifici. Con un opportuno addestramento degli operatori dei punti nascita, sensibilità e specificità di un test di screening a 2 tappe (vedi i paragrafi seguenti) raggiunge il 98%. Ciò significa che, su 100 bambini sani sottoposti al test di screening, ve ne saranno circa 2 per i quali il test dà una risposta non esatta (falsi-positivi); i falsi-negativi, nelle statistiche internazionali più accurate, sono invece circa 1 su 10.000 (Kennedy, 2004). Data la bassa incidenza della malattia, è naturale attendersi che il valore predittivo del test positivo sia basso (circa 5%); ciò significa che, tra i neonati che non superano il test di screening e che vanno quindi sottoposti ad un test di conferma della diagnosi, circa 1 su 20 sarà ipoacusico. Da un punto di vista di efficienza, questo risultato è rilevante; passiamo infatti da una probabilità pre-test di malattia di 1,2-1,5 per 1000 ad una probabilità post-test del 5%, quindi circa 50 volte superiore. Tenuto conto che i costi economici dello screening, peraltro non facilmente valutabili (Schroeder, 2006), sono comunque relativamente limitati ed in ogni caso inferiori a quelli per le cure di individui con grave disabilità uditiva e che non vi sono effetti negativi associati al numero di falsi positivi, la conclusione della maggioranza degli esperti è che i vantaggi di un test di screening universale siano rilevanti (Nelson, 2001). Il punto critico invece è piuttosto l’organizzazione dello screening ed esso verrà discusso nella sezione finale di questo articolo. I pochi studi disponibili mostrano che gli effetti negativi sono nettamente inferiori in confronto ai potenziali vantaggi. Uno dei problemi maggiori è lo stato di ansia dei genitori, in particolare nei casi falsi positivi, dovuto alla incertezza e al timore, fino a quando la diagnosi non viene confermata o esclusa (cosa che avviene tra il secondo ed il terzo mese di vita). La situazione può essere contenuta da azioni di counselling, da una comunicazione adeguata e da una presa in carico empatica fino al momento della diagnosi e nelle fasi successive, nel caso il bambino risultasse realmente ipoacusico (Nelson, 2008). ll problema delle forme ad insorgenza tardiva o progressiva Uno dei problemi più seri dello screening uditivo neonatale è costituito dai bambini che sviluppano forme di ipoacusia progressiva e/o ad insorgenza tardiva. Non sono disponibili dati Italiani sull’incidenza di queste forme di ipoacusia, ma stime eseguite in altri paesi suggeriscono che la percentuale di ipoacusie che si sviluppano dopo Lo screening neonatale dei disturbi permanenti dell’udito il periodo neonatale, e che non possono pertanto essere identificate con il test di screening, possa rappresentare fino al 25% del totale (Weichbold, 2006; Hutt, 2008). È quindi di fondamentale importanza il monitoraggio della funzione uditiva, per lo meno fino all’inizio dell’età scolare e principalmente tra quei soggetti a rischio per l’insorgenza di forme tardive o progressive (familiarità per ipoacusia, prematurità e ricovero in TIN, meningoencefaliti nei primi anni di vita, ecc). In quest’ottica, i pediatri di famiglia costituiscono un anello fondamentale di tale monitoraggio. Test audiologici utilizzati per lo screening Le procedure di screening sono rappresentate dalle emissioni otoacustiche (TEOAE e DPOAE) e dai potenziali evocati uditivi del tronco (ABR), che vengono oggi effettuati con l’impiego di apparecchiature completamente automatiche utilizzabili da personale non specializzato. Le otoemissioni si basano su un fenomeno fisiologico scoperto da Kemp negli anni ’80. In un orecchio normale si verifica una eccitazione delle cellule neurosensoriali dell’organo del Corti: le cellule ciliate esterne (OHC) e le cellule ciliate interne (IHC). Le OHC hanno un ruolo di amplificatore meccanico, come dei piccoli muscoli che si contraggono ed emettono un suono molto debole di ritorno che può essere registrato con un microfono nel condotto uditivo esterno. Su tale base è stato elaborato l’impiego clinico delle OAE negli screening uditivi. Nel condotto uditivo esterno si inserisce una sonda attraverso la quale si invia un suono che giunge alla coclea; la stessa sonda è in grado di registrare il segnale di ritorno emesso dalla contrazione delle cellule ciliate esterne cocleari. La mancanza di tale segnale implica un’anomalia della funzione dell’organo del Corti e quindi la possibile presenza di una ipoacusia neurosensoriale. La presenza invece delle OAE dimostra una coclea funzionante e quindi una normale capacità uditiva. La rapidità di esecuzione, l’assenza di fastidio e l’affidabilità rendono questo test uno strumento valido per lo screening delle ipoacusie in età neonatale. Nel caso in cui le emissioni otoacustiche siano presenti è possibile affermare che la coclea funziona correttamente e, in genere, non è necessario eseguire altri esami, (escluse alcune situazioni particolari, ad es. la neuropatia uditiva) o disfunzioni delle vie uditive dal tronco. Viceversa se le OAE risultassero assenti (non dimenticando però che vi è una significativa percentuale di neonati normali con OAE assenti, i casi “falsi positivi” dovuti a difficoltà di registrazione, a caratteristiche anatomiche particolari del condotto uditivo esterno del neonato, a presenza di meconio ecc.), si può ipotizzare una ipoacusia neurosensoriale e il neonato va avviato alla conferma della diagnosi, che si esegue mediante la registrazione dei potenziali uditivi del tronco. L’esecuzione delle TEAOE richiede pochi minuti e si esegue preferibilmente durante il sonno del neonato. L’ addestramento del personale medico o infermieristico che eseguirà il test non è particolarmente complesso. È da tener comunque presente che, anche se con frequenza molto limitata, esistono anche casi “falsi negativi”, in cui le otoemissioni sono presenti, ma è presente una ipoacusia neurosensoriale; in questo caso ci troviamo quasi sempre di fronte ad una neuropatia uditiva. Gli ABR automatici (AABR) sono invece una indagine diagnostica di recente introdotta nei programmi di screening audiologico neonatale. Si tratta della registrazione della risposta del tronco ad uno stimolo uditivo con una apparecchiatura automatica che valuta la presenza/assenza della V onda ABR per stimoli pari a 35-45 dB nHL. L’identificazione dell’ onda V viene effettuata tramite una serie di procedure statistiche e l’esito dell’ esame, così come per le otoemissioni, è di tipo pass/fail (cioè ha superato/fallito il test). L’introduzione degli AABR, come test aggiuntivo alle OAE; ha permesso di ridurre il numero dei falsi positivi che dovranno esser sottoposti alle indagini audiologiche di approfondimento e soprattutto di individuare parte dei rari casi di falsi negativi da neuropatia uditiva. (www.audiologia.unina.it/screening). Lo status quo dei progetti di screening nei paesi industrializzati La storia dello screening neonatale delle ipoacusie è relativamente giovane; partito come progetto-pilota nel Regno Unito alla fine degli anni ’90, in meno di 10 anni lo screening si è esteso praticamente a tutti i paesi industrializzati, con esperienze di grande interesse condotte, oltre che nel Regno Unito, negli USA, in Australia e in Europa, inclusi alcuni paesi dell’Est Europeo (Kennedy, 2004; Grandori, 1999)). In Italia vi sono alcune Regioni, quali la Liguria (Calevo, 2007), la Campania (www.audiologia.unina.it), il Veneto (Suppiej, 2007) e l’Umbria, nelle quali lo screening è oramai una routine in tutti i punti-nascita; in altre regioni è in corso di adozione, anche perché è stato recentemente inserito tra le pratiche previste nei Livelli Essenziali di Assistenza. Le criticità del processo dello screening Teoricamente, lo screening delle ipoacusie ha un elevato rapporto beneficio/rischi e costi/benefici. In realtà, le cose sono molto più complesse ed il processo dello screening richiede un investimento che non è solo economico, ma è di formazione interdisciplinare e di cooperazione multisettoriale (McCracken, 2005). Organizzazione e logistica complesse Il modello organizzativo dello screening può prevedere una strutturazione in 3 livelli. Il primo livello è rappresentato dai punti nascita e dai reparti di terapia intensiva neonatale; il secondo livello è costituito da strutture aziendali deputate alla conferma della diagnosi (reparti di Audiologia e Foniatria, Otorinolaringoiatria), il terzo livello è rappresentato dal Centro di Riferimento Regionale con compiti di approfondimento ed indirizzo terapeutico-riabilitativo. L’organizzazione dello screening è di una complessità notevole. La nostra personale esperienza in Regione Campania è forse particolarmente complessa, per la esistenza di 78 punti nascita (di cui la metà privati) nei quali si verificano circa 60.000 nascite ogni anno, 16 reparti di TIN ed una decina di unità operative audiologiche, dislocate a livello provinciale e deputate ad una prima conferma della diagnosi. Ma anche Regioni con un minor numero di nati e di strutture sanitarie possono incontrare difficoltà. Ne esaminiamo alcune. Anche se di esecuzione rapida (2 o 3 minuti in un neonato che dorme o che succhia al seno), il test con le otoemissioni rappresenta comunque un carico di lavoro ulteriore per il personale infermieristico. Per i bambini che non passano il test prima della dimissione dal nido (che sono circa il 5% dei nati), va ripetuto un secondo test al nido entro la terza settimana di vita, che rappresenta un ulteriore carico di lavoro, ma che porta ad una riduzione della percentuale di neonati che non passano il test da 5% a circa 2% (Kennedy, 2000). I neonati che non passano il test vengono inviati presso una struttura audiologica di conferma della diagnosi con una prenotazione telefonica immediata. Spiegare ai genitori il significato corretto del risultato “fail” al test va fatto con calma ed in modo appropriato: va fatta capire la necessità di eseguire il test di conferma, ma al tempo 195 A. Pisacane et al. stesso va spiegato che solo 1 bambino su 20, tra quelli che non passano il test, risulterà ipoacusico. Questo comporta una formazione ed una motivazione dei professionisti che lavorano nei puntinascita. La situazione nei reparti di TIN è più complessa, in quanto il test con le otoemissioni non è sufficiente ed andrebbe integrato con un test di ABR da screening (A-ABR). Poche TIN dispongono di tale apparecchiatura al momento attuale: è quindi pratica comune eseguire le sole otoemissioni ed inviare comunque ad un secondo livello diagnostico non solo i neonati che non passano il test con le otoemissioni, ma anche quelli che hanno i fattori di rischio associati con un ricovero in TIN (peso molto basso, ipossia, ventilazione meccanica, sepsi, uso di farmaci ototossici, emorragie cerebrali, iperbilirubinemia significativa, ecc). Un ulteriore punto di complessità gestionale è la manutenzione delle apparecchiature e dei ricambi e l’invio periodico dei risultati dei test effettuati presso un Centro di Riferimento regionale o provinciale. Le strutture aziendali di conferma della diagnosi, dislocate a livello provinciale, si sono trovate, in un arco di tempo relativamente breve, ad eseguire il test ABR ad un considerevole numero di bambini piccoli. Ciò ha comportato (e comporterà, via via che lo screening si diffonderà sul territorio nazionale) un riassetto organizzativo, la necessità di addestramento del personale, un carico di lavoro per recuperare le famiglie che non si presentano all’appuntamento fissato dai punti-nascita, uno scambio continuo di informazioni con il Centro di Riferimento regionale o provinciale (Chia-ling, 2008). Senza una committenza politica chiara e risorse dedicate, questo processo potrebbe venire a cadere all’improvviso (dove esiste) o non decollare mai (dove non esiste ancora). Circa il 50% dei bambini ipoacusici sono bambini che, per le loro caratteristiche (prematurità, al ricovero in TIN, presenza di sindromi complesse), richiedono approfondimenti diagnostici o interventi terapeutici rappresentano una sfida organizzativa anche per i centri più avanzati (per citare i più critici: strutture e personale per l’elettrococleografia, una batteria di test per valutare la funzionalità delle protesi fino ai 18 mesi di vita, personale con competenze per il follow-up degli impianti cocleari). Un sistema informativo da mettere a regime Appare chiaro come una complessità di questo genere richieda un sistema informativo dedicato, capace di archiviare i dati, di renderli disponibili in rete alle varie strutture sanitarie coinvolte in modo da far interagire tutte le persone coinvolte nello screening sia nelle attività più semplici, quali quelle di trasmissione delle informazioni e di prenotazioni, quanto in quelle più complesse, quali quelle delle discussione a distanza di indagini diagnostiche, di consulenze, ecc. Anche per questo sono necessarie idee chiare, motivazione e risorse finanziarie (Hinman, 2005). gratuita solo le protesi analogiche e non quelle digitali, che sono invece indispensabili per bambini piccoli, gli audioprotesisti non appartengono al Servizio Sanitario Nazionale, ma sono dipendenti di aziende private, i centri di riabilitazione deputati alle attività logopediche (in oltre la metà del nostro Paese) sono strutture private accreditate, non esistono criteri nazionali per l’accreditamento delle strutture deputate agli impianti cocleari, l’inserimento scolastico dei bambini ipoacusici è spesso un problema, con notevole variabilità nella reale presenza e soprattutto competenza degli insegnanti di sostegno). Una famiglia, specialmente se il problema della sordità non rappresenta l’unica patologia del bambino (Edwards, 2007), può sperimentare notevoli difficoltà, se non esiste una centrale unica di coordinamento delle attività. Gli inglesi definiscono questa rete dei servizi a sostegno dei bambini ipoacusici friendly hearing services, ma in Italia, purtroppo, non se ne parla ancora e ciascuno tenta di creare percorsi adeguati alle realtà locali o alle singole famiglie. Se lo screening, come si auspica, diventerà presto una delle prestazioni prevista nei LEA, il Ministero della Salute e le Regioni dovranno affrontare rapidamente questo problema. Il monitoraggio e la valutazione La valutazione dell’efficacia dello screening va effettuata costantemente con un sistema informativo che permetta di ottenere indicatori specifici. Da quelli semplici (percentuali di copertura del test con OAE, di refer, di neonati persi al follow-up, di bambini veri positivi, età di prescrizione di protesi, ecc), a quelli più complessi, capaci di fornire informazioni relative alle tipologie di approccio riabilitativo, all’acquisizione delle competenze di linguaggio e di comunicazione, all’inserimento scolastico, alla partecipazione alla vita sociale (Davis, 2001). Alleati importanti in questo percorso devono essere i pediatri di famiglia, che vanno coinvolti fin dal momento del sospetto diagnostico, per partecipare al momento della conferma della diagnosi e delle decisioni relative all’iter riabilitativo. Anche qui la situazione è più complessa di quanto si possa trattare in un articolo sintetico. In grande sintesi, va valorizzato il ruolo dei pediatri di famiglia nel monitoraggio dei bambini con fattori di rischio di ipoacusia progressiva o tardiva, anche rivedendo l’utilizzazione di procedure attualmente utilizzate (ad esempio il Boel test non è sufficientemente valido per ottenere informazioni oggettive su una possibile perdita uditiva nel bambino nel secondo semestre di vita). I pediatri di famiglia rappresentano inoltre una componente essenziali della futura rete dei friendly hearing services e possono giocare un ruolo fondamentale nel consigliare le famiglie verso i percorsi diagnostici, protesici e riabilitativi più adeguati per il singolo bambino. L’intervento precoce ed il percorso riabilitativo Lo screening uditivo neonatale, secondo le procedure e i protocolli La necessità dell’integrazione dei servizi sanitari, descritti precedentemente, costituisce il primo passo del processo sociali e scolastici: quale possibilità in Italia di che deve portare alla diagnosi e alla successiva correzione protesica del bambino, interventi che devono essere svolti in un arco di tempo friendly hearing services? L’esperienza del Regno Unito ha mostrato chiaramente che lo screening non ha funzionato bene fino a quando i servizi sociali, sanitari e scolastici non hanno realizzato la necessità di una forte integrazione nella presa in carico dei bambini ipoacusici e delle loro famiglie (Kennedy, 2004; McCracken, 2005). Il percorso riabilitativo è lungo e spesso complesso ed i costi per le famiglie possono essere notevoli (in Italia l’attuale Nomenclatore Tariffario concede in via totalmente 196 sufficientemente breve per garantire che il bambino sia in grado di sviluppare in modo fisiologico la percezione uditiva (Holt, 2008). Il sistema uditivo centrale ha un periodo limitato di plasticità, quindi la potenzialità e l’efficienza nella organizzazione delle reti neurali, che stanno alla base dei processi di percezione del linguaggio, vengono attivate e catalizzate dall’esperienza uditiva del bambino nei primi anni di vita. È ormai opinione comune che le vie uditive siano geneticamente Lo screening neonatale dei disturbi permanenti dell’udito predeterminate ed organizzate fin dalla nascita (Fallon et al., 2007), almeno nel loro caratteristica principale e cioè nella identificazione di popolazioni neurali univoche che collegano le diverse zone della coclea fino alla corteccia uditiva (tonotopicità). La capacità invece di creare i circuiti neurali dedicati alla identificazione dei tratti acustici del linguaggio e successivamente alla percezione semantica della lingua nativa si localizza nei primi due anni di vita nel periodo di massima plasticità del sistema uditivo centrale e dipende criticamente da: • da un normale funzionamento del recettore uditivo; • da un ingresso acustico linguisticamente ricco che avvenga in modo continuativo ed efficiente nel periodo da circa 4 mesi fino a 3-5 anni. Negli ultimi anni i meccanismi neurali alla base della plasticità uditiva sono stati oggetto di numerose ricerche, soprattutto dopo l’introduzione nella clinica degli impianti cocleari e la necessità di definire procedure cliniche condivise nella loro applicazione ai bambini con ipoacusie pre-verbali Per un approfondimento si rimanda a: Kral A and Eggermont JJ, What’s to lose and what’s to learn: Development under auditory deprivation, cochlear implants and limits of cortical plasticity. Brain Research Reviews 2007; 56: 259-269 (28), eccellente review dove emerge il ruolo determinate che viene assunto dalle cortecce associative e dalle connessioni top-down di controllo sulla corteccia uditiva primaria. Una condizione continuativa di assenza dell’ingresso uditivo in un neonato per una lesione dell’orecchio interno provoca modifiche in gran parte irreversibili nella struttura del sistema uditivo centrale e di conseguenza nello sviluppo delle abilità linguistiche sia nella percezione che nella produzione del linguaggio, che prende il nome di deprivazione uditiva. Si tratta di quella gravissima situazione di disabilità uditiva irreversibile e permanente che corrisponde alla si- tuazione che una volta veniva chiamata “sordomutismo”, e che oggi non ha più ragione di esistere data la disponibilità oggi di poter di ripristinare la soglia uditiva in tutti i tipi e gradi di ipoacusie nei bambini. Dopo l’individuazione attraverso lo screening, l’età ottimale per l’inizio dell’intervento protesico è attorno ai 3-4 mesi e, comunque, non oltre i 10 mesi di vita, quando nel bambino il canale uditivo diventa predominante nello sviluppo della percezione uditiva e deve concludersi con il ripristino della soglia uditiva attraverso l’utilizzo di protesi acustiche o con l’impiego di un impianto cocleare. In termini schematici nella Figura 1 è riportato la sequenza temporale in funzione dell’età del bambino delle singole tappe diagnostiche e terapeutiche per arrivare al ripristino della soglia uditiva nei bambini con ipoacusia identificati dallo screening. È fondamentale sapere che oggi ai fini dello sviluppo del linguaggio e per impedire l’instaurarsi di una condizione irreversibile di deprivazione centrale è possibile ripristinare una soglia uditiva normale, con l’utilizzo di protesi acustiche o di impianti cocleari, in pressoché in tutti i tipi e gradi di ipoacusie. Il rispetto quindi delle tappe di acquisizione fisiologica delle competenze uditive di un bambino è il punto cruciale sul quale si articola tutto il processo diagnosticoterapeutico che deve rispettare due esigenze che sono apparentemente in contrasto l’una con l’altra: • la necessità di avere un tempo sufficiente lungo nel bambino per ottenere misure cliniche affidabili sullo sviluppo della percezione uditiva con l’utilizzo delle protesi acustiche, prima di sottoporre il bambino ad un impianto cocleare (che è un intervento chirurgico irreversibile); • la necessità di non attendere troppo per non provocare nel bambino uno stato di deprivazione uditiva e quindi una condizione di clinica nella quale l’utilizzo dell’impianto cocleare avrebbe minore efficienza. Figura 1. Percorso temporale delle procedure diagnostiche e terapeutiche nella sordità infantile. 197 A. Pisacane et al. Come riportato nello schema le linee interrotte indicano due momenti significativi lungo l’asse dell’età del bambino, che ovviamente non sono assoluti ma vanno interpretati all’interno della variabilità che esiste nello sviluppo di un bambino soprattutto se ha avuto una storia di sofferenza neonatale o altre comorbilità che ne hanno ritardato lo sviluppo. Entro 6 mesi di vita il bambino con una perdita uditiva deve iniziare a portare continuativamente protesi acustiche e quindi deve aver completato l’iter di diagnosi audiologica. Entro 12-18 mesi deve essere completato l’adattamento ottimale delle protesi e si devono ottenere le misure audiologiche sulla percezione uditiva del bambino con le protesi sulle quali poter basare l’indicazione ad un impianto cocleare. Nei casi in cui la perdita uditiva del bambino è così grave da non consentire, nemmeno con le protesi acustiche più potenti e regolate in modo ottimale, un ingresso uditivo sufficiente a sviluppare il linguaggio, il piccolo viene avviato ad un impianto cocleare. La procedura prevede una valutazione neuroradiologica delle strutture dell’orecchio interno e delle vie uditive e se non vi sono controindicazioni anatomiche, l’inserimento chirurgico nella coclea di elettrodi che stimolando direttamente le fibre del nervo VIII sono in grado di ripristinare la percezione uditiva. Il problema della decisione se avviare un bambino ad un impianto è il contenuto deontologico ed etico della decisione stessa, in quanto l’intervento ha una elevata probabilità di ledere le strutture neurosensoriali della coclea. Occorre quindi essere certi che la coclea non funzioni, anche con la migliore correzione protesica disponibile, arrivando ad ottenere nel bambino una affidabile descrizione e valutazione del suo audiogramma con le protesi e delle sue prestazioni nella percezione di stimoli linguistici. Tutte le procedure diagnostiche riportate nel grafico successive alla fase di screening, che comprende sia i test neonatali sia il II livello nei casi fail entro i primi 2 mesi di vita; sono identificabili come procedure di III livello e necessitano di strutture specialistiche con competenze audiologiche pediatriche specifiche e con disponibilità di diverse professionalità sia mediche che tecniche. La diagnosi in bambini così piccoli non si basa solo sull’esito di un unico test audiologico strumentale, ma sulla concordanza di diversi esami e sul convincimento clinico che deriva dall’esperienza e dal contributo che diverse professionalità possono portare alla diagnosi. Medici specialisti in audiologia e foniatria, audioprotesisti, audiometristi e logopedisti sono le figure professionali che ruotano attorno al processo diagnostico e di abilitazione uditiva del bambino, ciascuna con il suo specifico contributo. Gli audio protesisti sono responsabili della corretta applicazione e funzionamento delle protesi uditive, i logopedisti sono responsabili delle procedure di abilitazione alla percezione uditiva e allo sviluppo del linguaggio nel bambino. Il medico audiologo e foniatra è la figura di riferimento di tutto il processo protesico e riabilitativo e si avvale nell’ambito ospedaliero della attività degli audiometristi che sono responsabili delle misure audiometriche nel bambino. Il lavoro si svolge attraverso tutta la serie di controlli periodici, che nei bambini al di sotto dell’anno di età sono programmati almeno ogni 2 mesi, dove vengono valutate le competenze comunicative, la percezione uditiva e lo sviluppo linguistico del bambino. Il nucleo familiare è coinvolto in modo attivo nel percorso riabilitativo, riceve informazioni su come stimolare il bambino per attivare, allenare e/o potenziare le sue competenze, in armonia con le tappe fisiologiche dello sviluppo psico-motorio. Sono oggi disponibili anche per la lingua italiana diversi test standardizzati in funzione dell’età del bambino, per la misura della percezione uditiva e fonetica, della percezione del linguaggio e per la misura delle abilità del bambino sia nella percezione che nella produzione del linguaggio. Conclusioni Il percorso dallo screening alla terapia è complesso. Se eseguire il test con le otoemissioni è semplice, ben più difficile è il coordinamento delle attività diagnostiche e riabilitative a livello regionale. Riteniamo però che sia una sfida da accettare e da vincere, in quanto un intervento precoce può evitare che una disabilità, spesso non ancora prevenibile, possa trasformarsi in un handicap severo. Box di orientamento Quali sono le informazioni/novità che emergono da questo articolo: • Lo screening universale dei disturbi permanenti dell’udito è un intervento che ha un rapporto favorevole costi/ benefici e benefici/rischi. • Esistono buone evidenze scientifiche che un intervento precoce influenzi favorevolmente il linguaggio e le competenze cognitive, specialmente tra i bambini ipoacusici senza altre patologie associate. • La complessità del processo dello screening è notevole; è richiesta una notevole cooperazione tra varie figure professionali e la disponibilità di un valido sistema informativo. • Per la presa in carico delle famiglie è richiesta una stretta collaborazione tra servizi sociali, educativi e sanitari. Bibliografia American Academy of Pediatrics, Joint Committee on Infant Hearing. Year 2007 Position Statement: principles and guidelines for early hearing detection and intervention programs. Pediatrics 2007;120:898-921. ** Una sintesi completa dello stato dell’arte. 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E-mail: [email protected]. 199 Ottobre-Dicembre 2009 • Vol. 39 • N. 156 • Pp. 200-204 audiologia L’impianto cocleare nel bambino Gennaro Auletta, Ettore Cassandro*, Elisabetta Genovese**, Maria Consolazione Guarnaccia**, Pasquale Iadicicco, Carla Laria, Emma Landolfi, Giorgio Lilli, Pasquale Riccardi, Elio Marciano Università di Napoli “Federico II”; * Università di Catanzaro; ** Università di Modena Riassunto Questo lavoro fornisce le linee generali sulle problematiche degli impianti cocleari nei bambini ipoacusici. Dagli anni ’90, si è avuta l’introduzione su larga scala degli impianti cocleari che sono stati utilizzati nei soggetti ipoacusici che non ricevevano un adeguato beneficio dall’uso delle protesi acustiche convenzionali. Si riportano le informazioni sugli aspetti clinici e chirurgici degli impianti cocleari. Si affrontano, inoltre, le tematiche inerenti la selezione e la riabilitazione dei soggetti impiantati. Si riporta, infine, un’ampia bibliografia ottenuta da letteratura internazionale inerente agli argomenti trattati. Summary This work aims to provide a general overview on the issue of the cochlear implantation in infancy. All the professionals involved in the health care of children with permanent hearing disorders might hopefully find here useful and clear information about the general technical features of this devices and the clinical significances it may concern. A general description of the clinical-surgical concerns about cochlear implantation as well as a the tracking period will be issued as well. The paper is, moreover, provided of a wide tender from the most important literary production in the scientific field of the cochlear implant so that one may study in deep any specific topic mentioned in the piece. Obiettivo Aspetti generali Lo scopo di questa review è quello di fornire una panoramica dettagliata sulle attuali conoscenze sulle tematiche inerenti gli impianti cocleari (IC) a tutti i professionisti socio-sanitari, soprattutto Pediatri, coinvolti nell’assistenza del paziente e della sua famiglia. La recente bibliografia fornisce un’evidente conferma della plasticità del sistema uditivo, in quanto è in grado di riorganizzare la propria struttura e le proprie funzioni. La deprivazione acustica (ipoacusia) determina una mancata maturazione delle vie uditive ed una alterazione della organizzazione tonotopica dei nuclei tronco encefalici, delle stazioni intermedie (collicolo inferiore, corpo genicolato mediale) e della corteccia uditiva primaria e secondaria. (Eggermont et al., 2001; 2008). I cambiamenti strutturali nelle varie parti del sistema uditivo sono in relazione al periodo di insorgenza della ipoacusia. (Sika et al., 2002; Kral et al., 2000; Leake et al. 1988; 2001). L’esperienza uditiva gioca un ruolo fondamentale nello stabilire la fine organizzazione del sistema uditivo. L’assenza di una adeguata stimolazione sonora, in età preverbale, determina, infatti, una incompleta maturazione delle vie uditive che risulta, in ogni modo, sufficiente per l’applicazione di impianto cocleare (Kral et al., 2009). Particolarmente importanti sono le connessioni della corteccia uditiva con le aree corticali frontale e prefrontale che hanno la funzione di stabilire un alto livello attentivo e cognitivo legato a processi uditivi (Houston, 2003). Numerose ricerche hanno evidenziato che, nel bambino, il maggiore guadagno nelle performance percettivo-verbali si ottiene nei primi 9-12 mesi di utilizzo di protesi acustica (Sharma et al., 2009, Arslan et al., 2003). Per quanto concerne l’attivazione cerebrale dopo impianto cocleare molti studi attualmente si avvalgono di metodiche obiettive (PET) che hanno evidenziato una ricomparsa dell’attività metabolica dell’encefalo nell’area della corteccia uditiva nei soggetti con IC (Fujiwara et al., 2008; Naito et al., 1995; Wong et al., 1999; Nayto et al., 2000; Nishimura et al., 2000). Introduzione Negli anni ’70, grazie all’avvento della tecnologia digitale ed all’ampliamento delle conoscenze sulla fisiopatologia del sistema uditivo, sono stati messi a punto dei dispositivi elettronici che, in diretto contatto con le strutture cocleari, sono in grado di evocare sensazioni uditive valide in pazienti con gravi deficit uditivi neurosensoriali. La sola stimolazione acustica fornita dagli apparecchi convenzionali, infatti, non arriva generalmente a sopperire ad una grave disfunzione delle cellule ciliate, responsabili del fisiologico fenomeno di trasduzione del segnale acustico a livello dall’orecchio interno. È in questi casi che trova indicazione l’impianto cocleare (IC), strumento in grado di trasdurre i suoni in segnali elettrici che, opportunamente codificati, possono stimolare le terminazioni del nervo acustico prossimali alla coclea e dar via alla conduzione dello stimolo sonoro attraverso le vie neurali afferenti al sistema nervoso centrale. Dagli anni ’90, si è avuta l’introduzione su larga scala degli impianti cocleari che sono stati utilizzati nei soggetti ipoacusici che non ricevevano un adeguato beneficio dall’uso delle protesi acustiche convenzionali. Metodologia della ricerca bibliografica La bibliografia (review e articoli) riportata in questo articolo è stata reperita dalla banca bibliografica “Medline” mediante l’uso del motore di ricerca “PubMed”, utilizzando parole chiavi quali: hearing impairment and cochlear implant. Sono stati selezionati gli articoli più rilevanti sugli impanti cocleari e le review in cui erano riportate considerazioni significative sull’argomento. 200 Come è costituito un impianto cocleare In generale l’impianto cocleare è costituito da (Fig. 1): Parte esterna (processore esterno) • microfono: raccoglie il segnale acustico e lo converte in segnale elettrico; L’impianto cocleare nel bambino • processore del linguaggio: elabora il segnale acustico; • antenna/magnete in collegamento con bobina trasmittente. Parte interna (trasduttore) • bobina ricevente: permette la comunicazione con il processore esterno. Viene inserita chirurgicamente al di sotto della cute e riceve l’informazione dal trasmettitore attraverso induzioni magnetiche (campi elettromagnetici); • elettrodo/i intracocleare: produce stimolazione elettrica in prossimità delle vie periferiche del nervo acustico al fine di inviare informazione ai centri nervosi. Nella Figura 2 viene presentata la parte esterna dell’IC. Nella Figura 3 si riporta lo schema completo della collocazione delle diverse componenti (interne ed esterne) dell’IC. I moderni IC sono costituiti da più elettrodi (array di elettrodi); gli elettrodi sono posizionati all’interno della coclea e la loro attivazione dipende dalla frequenza del segnale d’ingresso. Un elettrodo posizionato nelle aree apicali genera una sensazione sonora di tonalità grave; viceversa avviene per gli elettrodi posizionati nelle aree basali, responsabili della trasmissione dei segnali sonori in alta frequenza (Clark, 2003). Da quanto detto si desume che il livello quantitativo di sensazione uditiva descritto dal soggetto impiantato è determinato dalle caratteristiche della stimolazione elettrica, quali intensità e durata dell’impulso elettrico, nonché, dalla frequenza di stimolazione. Generalmente gli impianti cocleari si differenziano: • per la diversa strategia adottata nella trasduzione del segnale sonoro; • per tipologia di stimolazione. Si utilizzano elettrodi di platino che evitano il rilascio di metalli o materiali tossici per i tessuti neurali (Clark, 2003). Il numero di elettrodi e la loro distanza incidono sulla risoluzione della codifica tonotopica che dipende da due fattori fondamentali: • dal numero di terminazioni nervose che possono essere stimolati in una particolare area della coclea; • dall’area eccitata dalla stimolazione elettrica. Nel caso in cui il numero di terminazioni nervose funzionanti è elevato, un aumento degli elettrodi attivi comporta un miglioramento della codifica tonotopica; viceversa, se il numero è esiguo, ad un aumento del numero di elettrodi potrebbe non corrispondere un miglioramento della percezione acustica (Saunders et al., 2002). La comunicazione tra l’impianto ed il processore è per via transcutanea; in questo caso la connessione tra l’elemento esterno e quello interno avviene utilizzando una bobina trasmittente esterna al cranio, saldamente ancorata alla parete cranica grazie ad un magnete inserito sottocute. La bobina ricevente interna è posta in un alloggiamento ricavato chirurgicamente nell’osso temporale. Per fare in modo che le due bobine si trovino sullo stesso asse, in modo da ottenere la migliore trasmissione dei dati, si posiziona il magnete di sostegno della bobina esterna in modo tale che le due bobine siano coassiali. Successivamente, la bobina ricevente invia (via cavo) il segnale elettrico agli elettrodi. Due sono le variabili grazie alle quali la stimolazione prodotta dallo speech processor viene adattata alle necessità funzionali del nervo acustico del singolo paziente: la strategia di codificazione e i livelli elettrici che generano la sensazione sonora. Aspetti chirurgici dell’impianto cocleare L’intervento chirurgico di applicazione di impianto cocleare avviene secondo le moderne procedure intraoperatorie, ossia attraverso Figura 1. Elementi fondamentali dell’impianto cocleare. Figura 2. Elemento esterno (processore e bobina trasmittente). Figura 3. Collocazione dell’array di elettrodi all’interno della coclea. un’anestesia generale, una durata di circa due ore ed un normale periodo di ospedalizzazione. L’accesso chirurgico avviene, generalmente, attraverso una incisione retroauricolare. Le modalità sono quelle di una timpanotomia posteriore, procedura di largo uso in campo otochirurgico, che viene effettuata dopo aver creato un letto osseo nella mastoide su cui appoggiare il processore interno. Attraverso la timpanotomia posteriore è possibili e identificare il promontorio, punto di repere essenziale per l’esecuzione della cocleostomia, necessaria per l’inserimento dell’array degli elettrodi all’interno della scala timpanica cocleare. Al fine di garantire sia una corretta cicatrizzazione sia un buon fissaggio delle componenti interne ai tessuti (bobina trasmittente e array di elettrodi), il collegamento tra processore del linguaggio (esterno) ed 201 G. Auletta et al. antenna ricevente (interna) viene effettuato dopo circa trenta giorni. Infine, nei pazienti portatori di IC, è necessario in caso di studio neuroradiologico con risonanza magnetica, praticare particolari avvertenze (ad esempio applicazione di bendaggio esterno all’area di impianto) in modo da prevenire una eventuale dislocazione della porzione interna del dispositivo (Clark, 2003). Analisi costo-beneficio dell’utilizzo di un impianto cocleare I benefici sociali indotti dall’impianto cocleare nel bambino sono una maggiore integrazione nel sistema educativo e una successiva maggiore partecipazione al contesto sociale e professionale. Tali risultati hanno indotto la Food and Drugs Administration (FDA) ad estendere le indicazioni all’impianto cocleare dai quei pazienti che non avevano alcun beneficio dalla terapia protesica tradizionale a quelli che avevano un beneficio insufficiente. Negli ultimi anni, i principali centri europei ed internazionali hanno iniziato ad applicare l’impianto bilateralmente. In particolare, per i pazienti più piccoli (in età prelinguale) tale applicazione viene effettuata simultaneamente, ossia in un unico intervento chirurgico, mentre per quelli più grandi la strategia applicativa degli impianti bilaterali è più frequentemente di tipo sequenziale, due tempi chirurgici. Il passaggio da IC monolaterale a bilaterale è conseguente a studi recenti dai quali emerge che l’udito binaurale può (in molti casi) incrementare la capacità di comprensione verbale in ambiente rumoroso nonché permettere la localizzazione della sorgente sonora (van Hoese et al., 2002; 2003; Ching et al.; 2004, 2006; Valencia et al., 2008; Offeciers et al., 2009; Beijen et al., 2007; Papsin et al., 2008; Ching et al., 2006; Johnston et al., 2009). La realizzazione di programmi screening uditivo universale neonatale e di programmi di screening per i neonati a rischio ha facilitato la diagnosi e l’intervento precoce per i bambini ipoacusici (JAMA, 2001; Pediatrics, 2002; Yoshinaga-Itano et al., 2001). Ciò ha determinato il recente cambiamento nei criteri di selezione per l’impianto cocleare da parte della FDA che ha incluso i bambini al di sotto dei 12 mesi, intervento da praticare in alcuni centri audiologici autorizzati. Prima di tale età l’IC potrà essere eseguito in quei casi dove siano soddisfatti i criteri di certezza diagnostica (definizione della soglia, della sede di lesione, dell’eziologia dell’ipoacusia) e in casi particolari dove esiste il rischio di fibrosi/ossificazione precoce della coclea, come ad esempio in caso di meningite batterica. I piccoli pazienti con sordità neurosensoriale profonde (soglia uditiva ≥ 90 dB HL come media per le frequenze 500, 1000, 2000 Hz) rientrano generalmente nel gruppo di candidati all’intervento chirurgico. Va valutato, in ogni modo, prima dell’indicazione all’IC, il beneficio ottenuto dall’uso di protesi acustiche. Non è raro, infatti, che gruppi di pazienti con analogo grado ipoacusia possano presentare evidenti differenze nelle performance acustico-percettive. Rimane, inoltre, da valutare, caso per caso, l’eventuale presenza di patologie associate: un attento esame clinico unito ad uno studio neuro-radiologico dedicato risultano importanti per valutare la presenza di eventuali malformazioni (cocleari o del nel nervo acustico) che possano risultare come controindicazioni. È da sottolineare, inoltre, che l’associazione con altre disabilità (ipovisione, patologie della sfera neuro psicomotoria) non risultano essere motivo di esclusione dell’applicazione di IC in quanto il dispositivo fornirebbe possibilità concrete di ulteriore stimolazione neurosensoriale (Waltzman et al., 2000). Iter riabilitativo del bambino con impianto cocleare La selezione del bambino ipoacusico da sottoporre Il successo terapeutico del paziente con IC non può prescindere da un adeguato programma riabilitativo ed ad una periodica verifica clinica ad impianto cocleare La precocità e la qualità di intervento in caso di ipoacusia grave o profonda congenita giocano un ruolo importantissimo nell’abilitazione uditiva del bambino (Svirsky et al., 2004, Holt et al., 2008; Tyler et al., 1997) Una corretta protesizzazione acustica associata ad un corretto iter riabilitativo avviati entro i primi sei mesi di vita consentono un utilizzo massimale della plasticità delle vie uditive centrali ed offrono un duplice vantaggio: il pieno utilizzo delle potenzialità percettivo-linguistiche del piccolo paziente e la garanzia di un intervento realmente precoce in caso di selezione ad impianto cocleare (Yoshinaga-Itano et al., 2001; 2003; Sharma et al., 2009; Nicholas et al., 2007). L’età per la indicazione all’impianto cocleare varia a seconda dei vari centri nazionali e internazionali, collocandosi mediamente intorno ai 12 mesi di vita. Ovviamente sono necessari tempi congrui di terapia protesica (non meno di 6 mesi) e protocolli rigidi di valutazione del beneficio protesico che comprendano sia la valutazione della percezione uditiva sia dello sviluppo linguistico-cognitivo. delle abilità progressivamente conseguite. La presenza di centri clinici di riferimento territoriale è essenziale al fine di garantire al paziente un supporto specialistico multidisciplinare. La verifica dell’andamento delle performance comunicativo-linguistiche di un bambino con impianto cocleare, difatti, dovranno essere valutate da un equipe clinico-riabilitativa con diverse competenze (ad es. audiologo-foniatra, specialista ORL, tecnico audiometrista, logopedista, psicologo, neuropsichiatra infantile, pediatra, neuroradiologo, etc.) per elaborare comuni strategie riabilitative. Particolare attenzione va, inoltre, posta al periodo immediatamente successivo all’intervento chirurgico. È necessario, infatti, garantire una periodica programmazione personalizzata (mappaggio) del dispositivo al fine di effettuare un corretto adattamento alle nuove informazioni sonore percepite. I controlli clinici nel periodo post-operatorio dovranno, pertanto, essere a cadenza settimanale per i primi 30-40 giorni; diverranno, successivamente, a cadenza mensile fino a quando, a circa 12-18 mesi dall’attivazione, si effettueranno 3/4 valutazioni in un anno. Box di orientamento • Una corretta protesizzazione acustica associata ad un idoneo iter riabilitativo avviati entro i primi sei mesi di vita consentono un utilizzo massimale della plasticità delle vie uditive centrali e offrono un duplice vantaggio: sfruttano appieno le potenzialità uditive e linguistiche di un bambino e garantiscono nel contempo una possibilità di intervento realmente precoce in caso di successiva scelta di impianto cocleare. • Si ricorre all’impianto cocleare quando le protesi acustiche tradizionali non sono sufficienti al recupero dell’ipoacusia. Necessario, in ogni caso, prima di passare all’impianto cocleare un trattamento con protesi di almeno 6 mesi. • L’età per l’indicazione all’impianto cocleare varia, a seconda delle scelte dei vari centri nazionali ed internazionali, collocandosi mediamente intorno ai 12 mesi di vita. 202 L’impianto cocleare nel bambino Bibliografia Arslan E, Genovese E, Santarelli R. Prevenzione e diagnosi precoce delle ipoacusie infantili preverbale. Giornale di Neuropsichiatria dell’età evolutiva 2002;22:1-34. Beijen JW, Snik AF, Mylanus EA. Sound localization ability of young children with bilateral cochlear implants. Otol Neurotol 2007;28:479-85. Papsin BC, Gordon KA. Bilateral cochlear implants should be the standard for children with bilateral sensorineural deafness. Curr Opin Otolaryngol Head Neck Surg 2008;16:69-74. * L’applicazione di impianto bilaterale appare garantire migliori performance comunicativo-linguistiche in quei pazienti impiantati precocemente, e simultaneamente, con dispositivo binaurale. Fryauf-Bertschy H, Tyler RS, Kelsay DM, et al. Cochlear implant use by prelingually deafened children: the influences of age at implant and length of device use. J Speech Lang Hear Res 1997;40:183-99. Gantz BJ, Tyler RS, Woodworth GG, et al. Results of multichannel cochlear implants in congenital and acquired prelingual deafness in children: Five year follow up. Am J Otol 1994;15(Suppl. 2):1-7. Ching TYC, van Wanrooy E, Hill M, et al. Performance in children with hearing aids or cochlear implants: Bilateral stimulation and binaural hearing. Int J Audiol 2006;45(Suppl. 1):S4-15. * La possibilità di essere forniti di udito binaurale permette ai pazienti con ipoacusia bilaterale profonda di sostenere in modo migliore richieste uditive in ambiente rumoroso od in condizioni ambientali difficoltose rispetto a quei pazienti a parità di ipoacusia ma forniti di supporto protesico monoaurale. Clark GM, Cochlear implants: fundamental & application. New York: AIP Press, 2003. * Testo di fondamentale importanza per essere introdotti od approfondire, in pratica, tutte le tematiche riguardanti l’impianto cocleare. Eggermont JJ, Ponton CW, Don M, et al. Maturational delays in cortical evoked potentials in cochlear implant users. Acta Otolaryngol 1997;117:161-3. * Risposta dei potenziali evocati corticali in funzione del tempo di attivazione di una stimolazione Sonora adeguata ed importanza sulla verifica degli outcome percettivi del paziente con impianto cocleare. Eggermont JJ. The role of soud in adult and developmental auditory cortical plasticity. Ear Hear 2008;29:819-29. Fryauf-Bertschy H, Tyler RS, Kelsay DMR, et al. Cochlear implant use by prelingually deafened children: the influence of age at implant and length of device use. J Speech Language Hear Res 1997;40:183-99. Fujiwara K, Naito Y, Senda M, et al. Brain. Children with profound deafness: a visual language activation study by 18F-fluorodeoxyglucose positron emission tomography. Acta Otolaryngol 2008;128:393-7. Holt RF, Svirsky MA. An exploratory look at pediatric cochlear implantation: is earliest always best? Ear Hear 2008;29:492-511. Houston DM, Pisoni DB, Kirk KL, Ying EA, et al. Speech perception skills of deaf infants following cochlear implantations: a first report. Intern Jour Ped Otorhinol 2003;67:479-95. Kral A, Hartmann R, Tillein J, et al. Congenital auditory deprivation rediuces synaptyc activity within the auditory cortex in a layer-specific manner. Cereb Cortex 2000;10:714-26. * Le proiezioni intercorticali appaiono danneggiate dalla deprivazione uditiva: nella registrazione delle risposte da diversi strati della corteccia uditiva di gatti ipoacusici hanno evidenziato una riduzione delle sinapsi dello strato infragranulare che invia impulsi in altre regioni corticali. Kral A. Early hearing experience and sensitive developmental periods. HNO 2009;57:9-16. Leake PA, Hradek GT. Cochlear pathology of long term neomycin induced deafness in cats. Hear Res 1988;33:31-4. * A livello del sistema uditivo centrale, l’ipoacusia bilaterale determina una riduzione delle sinapsi nel collicolo inferiore con conseguente compromissione della selettività spaziale in funzione della durata della deprivazione sensoriale. Si è dimostrato, in gatti sordi da diversi periodi di tempo e successivamente impiantati, che la selettività spaziale degli impulsi elettrici a livello del collicolo inferiore era danneggiata dal tempo di deprivazione e dal grado di degenerazione del ganglio spirale. Leclerc C, Saint-Amour D, Lavoie ME, et al. Brain functional reorganization in early blynd humans revealed by auditory event-related potentials. Neuroreport 2000;11: 545-50. * I risultati delle registrazioni dei potenziali evocati uditivi rilevati nei soggetti ciechi presentano delle onde N1 e P3 ben rappresentate di derivazione dalla regione della corteccia occipitale. Loizou P. Introduction to cochlear implants. IEEE Signal Processing Magazine 1998;101-30. *Analisi e descrizione della componentistica alla base del funzionamento elettroacustico dell’impianto cocleare. Nayto Y, Okazawa H, Honjo I, et al. Cortical activation with sound stimulation in cochlear implant users demonstrated by positron emission tomography. Cogn Brain Res 1995;2:207-14. Nayto Y, Tateya I, Fujiki N, et al. Increased cortical activation during hearing of speech in cochlear implant users. Hear Res 2000;143:139-46. * L’attivazione cerebrale alla PET con rumore non mostra significative differenze tra soggetti impiantati e normoudenti; mentre con stimoli verbali (parole) si rileva una attivazione nei soggetti impiantati non solo nella corteccia temporale, ma anche nell’area di Broca e nell’area omologa dell’emisfero destro, nell’area motoria supplementare e nel giro cingolato anteriore. Quindi nei soggetti sordi postlinguali l’ascolto di parole codificate dall’impianto può essere accompagnato da una attivazione di entrambe le cortecce temporale e frontale. Nicholas JG, Geers AE. Will they catch up? The role of age at cochlear implantation in the spoken language development of children with severe to profound hearing loss. J Speech Lang Hear Res 2007;50:1048-62. * Sia le abilità percettive che quelle in output linguistico traggono giovamento da una stimolazione precoce in tutte le aree del linguaggio espressivo. Nishimura H, Doi K, Iwaki T, et al. Neural plasticity detected in short- and longterm cochlear implant users using PET. Neuroreport 2000;11:811-5. * È stata studiata, utilizzando la PET, l’attivazione della corteccia uditiva con una simultanea presentazione di segnali uditivi e visivi in due gruppi di soggetti: un primo gruppo impiantato di recente e l’altro che utilizzava l’impianto già da tempo. È stato riscontrato che la corteccia uditiva rimaneva inattiva dopo la simultanea presentazione di stimoli uditivi e visivi nei soggetti da poco impiantati, mentre si attivava nel gruppo che utilizzava l’impianto da più tempo. Il dato rilevato suggerisce la possibilità che l’interferenza di modalità diverse, quali quella visiva ed uditiva, si possa ridurre nel tempo ed il ritardo nell’attivazione della corteccia uditiva conferma la presenza di una certa plasticità neurale nella corteccia uditiva dell’uomo adulto. Papsin BC, Gordon KA. Bilateral cochlear implants should be the standard for children with bilateral sensorineural deafness. Curr Opin Otolaryngol Head Neck Surg 2008;16:69-74. * L’applicazione di impianto bilaterale nel piccolo ipoacusico ha dimostrato quanto le performance linguistico-comunicative così come quelle attentivo-percettive migliorino in caso di supporto elettroacustico binaurale. Ponton CW, Eggermont JJ. Altered cortical maturation following profound deafness and cochlear implante use. Audiol Neurootol 2001;6:363-80. * La differenzazione del tessuto corticale è marcatamente influenzata da un punto di vista morfofunzionale dall’entità e dalla durata della deprivazione uditiva. Ponton CW, Don M, Eggermont JJ, et al. Auditory system plasticity in children after long periods of complete deafness. Neuroreport 1996;8:61-5. Ponton CW, Don M, Eggermont JJ, et al. Maturation of human cortical auditory function: difference between normal hearing children and children with cochlear implants. Ear Hear 1996;17:430-7. Saunders E, Cohen L, Aschendorff A, et al. Threshold, comfortable level and impedance changes as a function of electrode-modiolar distance. Ear Hear 2002;23(Suppl. 1):28S-40S. * Una corretta applicazione intracocleare degli elettrodi garantisce migliori performance psicoacustiche ed un adeguata strategie di stimolazione elettroacustica. Sharma A, Nash AA, Dorman M. Cortical development, plasticity and reorganization in children with cochlear implants. Jour Commun Disorders 2009;42:272-9. * Una riorganizzazione di alcune aree corticali viene mantenuta se viene fornita una adeguata stimolazione uditiva. esistono periodi-finestra entro i quali deve essere garantita una utile stimolazione al fine di garantire delle sufficienti performance linguistiche al bambino con ipoacusia congenita. Sika J. Plastic changes in the central auditory system after hearing loss, restoration of function and during learning. Physil Rew 2002;82:601-36. * Negli animali in fase di sviluppo si determina, infatti, una riduzione del numero di neuroni nei nuclei lungo le vie uditive e la formazione di nuove connessioni, mentre negli animali adulti la perdita uditiva si accompagna a una riduzione sia dell’attività dei circuiti inibitori corticali, e sia della attivazione della sintesi di proteine normalmente presenti nel sistema uditivo durante lo sviluppo. Svirsky MA, Teoh SW, Neuburger H. Development of language and speech perception in congenitally, profoundly deaf children as a function of age at cochlear implantation. Audiol Neurootol 2004;9:224-33. 203 G. Auletta et al. * Le competenze percettivo-linguistiche risultano evidentemente migliori in quei pazienti con ipoacusia profonda congenita impiantati in età perlinguale. Tyler RS, Fryauf-Bertschy H, Gantz BJ, et al. Speech perception in prelingually implanted children after four years. In: Honjo I, Takahashi H (eds.). Cochlear Implant and related update: advanced in otorynolaringology. Basel: Karger 1997; pp. 187-192. * Viene dimostrato quanto le abilità linguistico-comunicative si rivelino vicine al bambino normoudente per quei pazienti con sordità profonda a cui è stato applicato precocemente l’impianto cocleare. Waltzman SB, Scalchunes V, Cohen NL. Performance of multiply handicapped children using cochlear implants. Am J Otol 2000;21:329-35. Wong D, Miyamoto RT, Pisoni DB, et al. PET imaging of cochlear implant and normal hearing subjects listening to speech and nonspeech. Hear Res 1999;132:34-42. * È stata confrontata l’attivazione cerebrale in soggetti normoudenti e sordi post- verbali sottoposti ad IC, con stimoli verbali e non, evidenziando, in seguito a stimolazione con frasi, più foci nella regione temporale destra, area in cui si determinano i processi prosodici, nei soggetti impiantati rispetto ai normoudenti. Questi, invece, mostravano un focus nel giro frontale inferiore, area coinvolta nei processi semantici. Le medesime differenze nei due gruppi sono state riscontrate con la stimolazione tipo “cocktail party”. Yoshinaga-Itano C, Coulter D, Thomson V. Developmental outcomes of childrenwith hearing loss born in Colorado hospitals with and without universal newborn hearing screening programs. Semin Neonatol 2001;6:521-9. * L’avvento degli screening uditivi universali ha apportato un evidente benificio alla comunità attraverso una sempre più precoce diagnosi delle sordità congenite e quindi un intervento terapeutico efficace. Yoshinaga-Itano C. From screening to early identification and intervention: discovering predictors to successful outcomes for children with significant hearing loss. J Deaf Stud Deaf Educ 2003;8:11-30. Corrispondenza prof. Elio Marciano, Unità di Audiologia, Università di Napoli “Federico II”, via Pansini 5, 80131 Napoli. E-mail: [email protected] 204 Ottobre-Dicembre 2009 • Vol. 39 • N. 156 • Pp. 205-209 Audiologia Forme ereditarie di ipoacusie neurosensoriali isolate e sindromiche nel bambino Annamaria Franzè 1 2, Viviana Chinetti 1 3, Paolo Gasparini 4, Pasquale Giannini 3, Sandra Iossa 1 3, Carla Laria 3, Giorgio Lilli 3, Rita Malesci 3, Alessandro Martini 5, Elio Marciano 3 CEINGE-Biotecnologie Avanzate, Napoli; 2 Istituto di Genetica e Biofisica “A. Buzzati Traverso”, C.N.R., Napoli; 3 Unità di Audiologia, Dipartimento di Neuroscienze, Università di Napoli “Federico II”; 4 Genetica Medica, Università di Trieste; 5 Dipartimento di Audiologia, Università di Ferrara 1 Riassunto L’ipoacusia è una delle patologie più diffuse. Si stima infatti che circa 1 su 1000 nati presenta ipoacusia neurosensoriale congenita e che circa il 60% delle ipoacusie neurosensoriali possono attualmente essere attribuite a cause genetiche. Esse sono distinte in forme sindromiche e forme isolate. La conoscenza della genetica della sordità è aumentata notevolmente negli ultimi anni. Sono stati, infatti, già identificati numerosi loci e geni responsabili per sordità. A dispetto di tale variabilità fenotipica si è però osservato che il gene GJB2, da solo o in associazione con il gene GJB6, è responsabile di un elevato numero di casi, rendendo quindi lo screening molecolare per questi due geni uno strumento efficace per l’identificazione dell’etiologia in numerosi casi. Applicazioni di screening audiometrici precoci, in combinazione con test genetici possono così facilitare una diagnosi della sordità e migliorare la riabilitazione audiologica. Summary Hearing impairment is the most prevalent sensory handicap (1/1000 newborns) and the genetic factors are of major importance in more than 60% of all hearing loss. An important distinction is made between syndromic deafness and isolated deafness depending on the presence or not of associated manifestations from other organs. The knowledge about genetic deafness has increased dramatically in the last few years. In fact, several loci and genes for deafness of different types of monogenic inheritance have been identified. Because the GJB2 gene alone or together with the GJB6 gene is causative for many cases, the molecular screening for these two genes is very efficient in determining etiology in several hearing loss cases. Application of early screening tests in combination with genetic tests will facilitate early and specific diagnosis of hearing impairment and thereby improve audiological rehabilitation. Obiettivo Lo scopo di questa review è quello di fornire una panoramica dettagliata sulle attuali conoscenze delle forme ereditarie di ipoacusia neurosensoriale a tutti i professionisti socio-sanitari, soprattutto Pediatri, coinvolti nell’assistenza del paziente e della sua famiglia. Introduzione L’ipoacusia è una delle patologie più diffuse. Si stima infatti che circa 1 su 1000 nati presenta ipoacusia neurosensoriale congenita (Morton, 1991); all’ipoacusia possono essere correlate molte complicazioni ed implicazioni cliniche e sociali con un forte impatto sulla qualità di vita del paziente (Yoshinaga-Itano, 1999). Nei bambini la determinazione del tipo di ipoacusia e la valutazione etiologica sono quindi molto importanti. La valutazione etiologica è importante non solo per determinare il rischio di sordità all’interno di una famiglia, ma può permettere l’anticipazione di potenziali problemi di salute e offrire riferimenti per opzioni terapeutiche. Una forma di ipoacusia grave, se non corretta, ha pesanti conseguenze sullo sviluppo del linguaggio e può avere effetti negativi anche sullo sviluppo cognitivo (Kochhar et al., 2007). Negli ultimi anni, mediante lo screening neonatale, sono stati rea- lizzati interventi precoci di riabilitazione (protesi acustiche ed impianti cocleari) che si sono dimostrati molto efficaci ed importanti per assicurare uno sviluppo di linguaggio e cognitivo ottimale. In assenza di screening neonatali, l’ipoacusia può infatti essere notata dai genitori, insegnanti e pediatri solo quando il bambino comincia ad avere problemi di linguaggio o di apprendimento, spesso intorno ai 2-3 anni. Negli ultimi tempi, grazie ai grandi progressi ottenuti nella biologia molecolare, è risultato sempre più chiaro il contributo dei fattori genetici nelle ipoacusie. Attualmente si stima infatti che circa il 60% delle ipoacusie neurosensoriali possono attualmente essere attribuite a cause genetiche (Rehm 2003); la rimanente parte è dovuta a cause di natura ambientale. È importante però notare che non sempre è facile escludere le cause genetiche, poichè esistono molti casi di forme recessive sporadiche in cui non è presente una forma familiare di ipoacusia e può quindi risultare difficile inquadrare queste forme di ipoacusia dal punto di vista eziopatogenetico. Inoltre esistono casi in cui l’ipoacusia potrebbe essere attribuita a cause ambientali (es. infezione da Citomegalovirus – CMV) ed invece è presente una causa genetica (Ross et al., 2007). Le ipoacusie di tipo genetico possono essere congenite, ma svilupparsi a qualsiasi età, così come è possibile un aggravamento di un deficit uditivo preesistente. 205 A. Franzè et al. Attualmente si stima che il 70% delle forme genetiche di ipoacusia neurosensoriale è non sindromico mentre il rimanente 30% ha una delle circa 400 forme sindromiche finora identificate. La conoscenza della genetica della sordità è aumentata notevolmente negli ultimi anni, ma, molto resta ancora da fare sia per quanto riguarda l’identificazione dei geni responsabili di patologie quali le ipoacusie neurosensoriali, sia per quanto riguarda i meccanismi molecolari alla base di queste patologie. I processi coinvolti nel meccanismo della funzione uditiva sono controllati da centinaia di geni e l’ipoacusia su base genetica può essere causata da una grande varietà di mutazioni in differenti geni. Le sordità non sindromiche sono caratterizzate da un’elevata eterogeneità genetica, cioè dalla presenza di geni diversi in grado, una volta mutati di dare origine a quadri clinici del tutto sovrapponibili. Altra caratteristica comune ai geni della sordità è la presenza di mutazioni in uno stesso gene in grado di dare origine sia a forme trasmesse come carattere autosomico dominante sia a forme trasmesse come carattere autosomico recessivo (Rehm, 2003). Inoltre, in alcuni casi mutazioni di uno stesso gene sono in grado di dare origine a forme di sordità sindromica e non sindromica, come per esempio nel caso della connessina 26 o della miosina VIIA responsabili sia di forme di ipoacusia neurosensoriale non sindromiche recessive, sia dominanti ed anche di forme sindromiche (Di Leva et al., 2006; Kelsell et al., 1997; Liu et al., 1997; Richard et al., 2002; Weil et al., 1997). Metodologia della ricerca bibliografica La bibliografia (review e articoli) riportata in questo articolo è stata reperita dalla banca bibliografica “Medline” mediante l’uso del motore di ricerca “PubMed”, utilizzando parole chiavi quali: hearing impairment and gene, hearing impairment and GJB2, connexin 26, connexin 30, syndromic hearing impairment, connexin 26 and 35delG; skin disease and connexin. Sono stati selezionati gli articoli più rilevanti come quelli che citavano l’identificazione di nuovi geni o nuove mutazioni implicate nell’ipoacusia e le review in cui erano riportate considerazioni significative sull’argomento. Inoltre sono stati selezionati gli articoli in cui venivano dimostrate nuove correlazioni tra mutazioni già note e nuovi fenotipi. Ipoacusie neurosensoriali non sindromiche Attualmente sono stati identificati un centinaio di loci, ma solo una cinquantina dei corrispondenti geni malattia sono stati identificati. Dati aggiornati in tempo reale sui loci e sui geni identificati finora sono disponibili presso la “Hereditary Hearing loss Homepage” al sito web http://webhost.ua.ac.be/hhh/. L’evoluzione del deficit uditivo nelle ipoacusie genetiche isolate è molto variabile sia per quanto riguarda l’entità del deficit che per quanto riguarda la modalità di progressione, potendo anche riscontrarsi differenze importanti non solo tra famiglia e famiglia, ma anche tra individuo ed individuo con la stessa mutazione genetica (Martini et al., 1997). Le forme di ipoacusia neurosensoriali non sindromiche vengono classificate in base al tipo di trasmissione: • autosomiche recessive (80% dei casi): sono in genere caratterizzate da una sordità neurosensoriale bilaterale profonda o totale già presente alla nascita o comunque ad insorgenza precoce nel corso della prima infanzia. Per esse in genere non si verifica un andamento progressivo; • autosomiche dominanti (10-20% dei casi): sono generalmente caratterizzate da un’ipoacusia neurosensoriale bilaterale mediograve che frequentemente si sviluppa nella prima adolescenza 206 o nell’età adulta. Sono caratterizzate da una estrema variabilità di espressione clinica anche intrafamiliare con differenza di funzionalità anche tra un orecchio e l’altro. Hanno generalmente un andamento progressivo; • alterazioni del DNA mitocondriale (1-2% dei casi): l’ipoacusia in questi casi è generalmente neurosensoriale, bilaterale e progressiva con insorgenza nella prima adolescenza; • forme associate al cromosoma X (1-2% dei casi): l’ipoacusia in questi casi è generalmente neurosensoriale o di tipo misto con insorgenza e progressione variabile. Recentemente è stata anche identificata una famiglia con trasmissione associata al cromosoma Y. Mutazioni nel gene GJB2 (gap junction beta 2) sono responsabili di circa il 50% delle sordità neurosensoriali recessive (Zelante et al., 1997). Il gene GJB2 codifica per la connessina 26 (Cx26), che forma canali nella membrana plasmatica tra le cellule cocleari (gap junctions). Nella popolazione Caucasica una singola mutazione, 35delG, è responsabile per la maggior parte dei casi di sordità recessive (Gasparini et al., 2000). Questa mutazione è quella prevalente negli individui dell’Europa Mediterranea, con la frequenza dei portatori stimata intorno a 1/30. È stato osservato che anche i soggetti portatori di tale mutazione possono rappresentare un gruppo a rischio, in cui la soglia uditiva può degenerare più rapidamente che nei soggetti non-portatori. Studi effettuati hanno mostrato infatti differenze significative nelle emissioni oto-acustiche dei soggetti portatori e in alcune frequenze dell’audiogramma (Engel et al., 2002; Franzè et al., 2005). Sono state inoltre identificate delezioni e mutazioni nel gene GJB6 (gap junction beta 6) nello stesso locus di Cx26 che codifica per la connessina 30 (Cx30), espressa insieme alla connessina 26 nell’orecchio interno (Del Castillo et al., 2005). Quindi mutazioni nel locus complesso DFNB1, che contiene due geni importanti per l’udito (GJB2 e GJB6), possono determinare un pattern di trasmissione monogenico o digenico. In quest’ultimo caso a mutazioni nel gene GJB2 identificate in eterozigosi sono state trovate associate sull’altro allele mutazioni nel gene GJB6. Certe altre volte mutazioni del gene GJB2 possono costituire dei fattori aggravanti in portatori della mutazione mitocondriale A1555G nel gene MTRNR1 codificante per 12s rRNA (Abe et al., 2001). La correlazione genotipo-fenotipo non è semplice, in quanto, la perdita uditiva dovuta a mutazioni nel gene GJB2 varia molto. Il primo report descriveva pazienti con una perdita bilaterale profonda e simmetrica (Kelsell et al., 1997; Zelante et al., 1997). In seguito in molti pazienti è stata descritta una grande variabilità fenotipica inclusa l’asimmetria, variabilità di grado e configurazione anche tra parenti portatori della stessa mutazione. Si sono riscontrate forme progressive anche nel caso della mutazione 35delG riportata come causativa di forme stabili (Gopalarao et al., 2008; Snoeckx et al., 2005). In diversi studi si riporta comunque che generalmente persone omozigoti per la 35delG hanno perdite uditive maggiori degli eterozigoti composti 35delG/non-35delG, in cui ad una mutazione 35delG su un allele è associata sull’altro allele una mutazione diversa dalla 35delG e persone con due mutazioni diverse dalla 35delG hanno perdite uditive ancora meno gravi (Cryns et al., 2004). La grande variabilità fenotipica associata a mutazioni identiche potrebbe essere spiegata con l’intervento di geni modificatori ma, un lavoro recente sembra smentire questa ipotesi almeno per quanto riguarda la 35delG (Hilgert et al., 2009) Inoltre, mutazioni nella connessina 26 sono state recentemente riscontrate anche come responsabili di forme di neuropatie uditive, che sono caratterizzate da un normale funzionamento delle cellu- Forme ereditarie di ipoacusie neurosensoriali isolate e sindromiche nel bambino le ciliate estene come evidenziato dalla presenza delle emissioni otoacustiche evocate (EOAE) e/o da microfonico coleare (CM) e da potenziali evocati uditivi assenti o alterati (Santarelli et al., 2008). Ipoacusie sindromiche La maggior parte delle forme sindromiche, sono dovute a mutazioni mendeliane, altre sono associate a sbilanciamenti cromosomici oppure a mutazione del genoma mitocondriale; non sempre comunque la causa è necessariamente genetica, è possibile distinguere anche eziopatogenesi ambientali (sindrome rubeolica); altre volte ancora l’eziologia risulta sconosciuta. In base a ciò è possibile distinguere le sindromi in due grandi gruppi: quelle a causa nota e quelle a genesi sconosciuta. Nelle ipoacusie sindromiche rientrano numerosi quadri clinici in cui Tabella I. Forme sindromiche causate da mutazioni nel gene GJB2. Sindrome Cheratite-ittiosi sordità (KID) Mutazione G12R Codice OMIM 148210 Ipercheratosi palmoplantare sordità Vohwinkel G59A 148350 D66H G130V R75Q 124500 Cheratoderma palmoplantare sordità (PPK) 121011 l’ipoacusia è associata ai più svariati tipi di disordini. Studi statistici hanno dimostrato che il 10% circa dei geni associati a malattie umane, attualmente conosciute, quando mutati, provocano qualche tipo di alterazione della funzionalità uditiva. Gorlin et al. (2004) hanno passato in rassegna 402 condizioni sindromiche, suddividendole sulla base degli organi coinvolti. In questo articolo si riportano le sindromi più diffuse suddividendole in due gruppi , quelle imputabili a mutazioni nel gene GJB2 e quelle non imputabili a mutazioni in tale gene. A. Forme sindromiche imputabili a mutazioni nella connessina 26 Mutazioni nel gene GJB2 sono state identificate anche a carico di forme sindromiche. Diverse mutazioni coinvolte nella perdita di udito e problemi dermatologici sono stati infatti identificati nel gene GJB2 (Cx26). Queste forme sindromiche generalmente hanno un modello di ereditarietà dominante e clinicamente accompagnato a manifestazioni ampiamente varianti (Kelsell et al., 2001; Iossa et al., 2009; Richard, 2002; Heathcote et al., 2000; Maestrini et al., 1999; Uyguner et al., 2002). Nella Tabella I sono riportate le forme principali: Recentemente è stato inoltre osservato che portatori obbligati (eterozigoti) per mutazioni recessive nel gene GJB2 presentano un ispessimento della cute (D’Adamo et al., 2009). Inoltre, anche mutazioni a carico di altre connessine sono state identificate come responsabili di forme sindromiche con ipoacusia e problemi dermatologici (Remoto-Hasebe, 2009). Tabella II. Forme sindromiche causate da geni diversi da GJB2. Sindrome Crouzon Codice OMIM 123500 Gene Principali caratteristiche audiologiche FGFR2 Ipoacusia trasmissiva in più del 50% dei casi per atresia del condotto uditivo esterno o malformazione della catena ossiculare Apert 101200 FGFR2 Ipoacusia trasmissiva spesso da otite media nel 50% dei casi Pfeiffer 101600 FGFR1 Ipoacusia trasmissiva o mista in più del 50% dei casi per stenosi/atresia del condotto uditivo esterno o malformazione della catena ossiculare Saethtre-Chotzen 101400 TWIST 1 Ipoacusia trasmissiva o mista, da anchilosi stapediale e catena fissa, ma anche neurosensoriale profonda Treacher Collins (TCS) 154500 TCOF1 Ipoacusia di tipo trasmissivo o misto, raramente di tipo neurosensoriale, bilaterale nel 55% dei casi. Frequente compromissione dell’apparato vestibolare Nager 154400 Delezione1q12q21.3; traslocazione Malformazioni minori del padiglione e appendici preauricolari; crom. (X;9) (p22.1;q32) ipoacusia trasmissiva solitamente modesta Stickler 108300;604841 COL2A1;COL11A2; COL11A1 Ipoacusia di tipo misto o neurosensoriale Branchio-oto-renale (BOR) 113650;602588 EYA1; SIX1; SIX5 Deformità del padiglione auricolare ed alterazioni dell’orecchio mee branchio-otica (BO) dio: Ipoacusia nel 75% dei casi, prevalentemente di tipo misto Townes-Brocks 107480 SALL1 Ipoacusia neurosensoriale monolaterale o bilaterale di grado variabile CHARGE 214800 Trisomia 22, delezione braccio lungo del Anomalie dell’orecchio esterno associate ad un’ipoacusia neurocrom. 9, 11 e 13, duplicazione parziale sensoriale monolaterale o bilaterale di grado variabile del crom. 4 e 14; in molti casi è dimostrabile una aploinsufficienza del gene CHD7 Waarderburg 148820 PAX3; MITF; SLUG; EDNRB; EDN3; Ipoacusia neurosensoriale SOX10 Usher 276900 MYO7A; USH1C; CDH23; PCDH15; Ipoacusia neurosensoriale in alcune forme associata a problemi SANS;USH2A;VLGR1; WHRN; WHRN vestibolari. Pendred 274600 SLC26A4; FOXI1 Ipoacusia neurosensoriale 207 A. Franzè et al. B. Forme sindromiche non imputabili a mutazioni sorgenza dell’ipoacusia a cause ambientali, che invece possono non essere la causa primaria e portare quindi ad una erronea stima del nella connessina 26 In letteratura vengono descritte circa 30 differenti sindromi ereditarie. Molte sono sindromi caratterizzate da anomalie dell’orecchio esterno (Gorlin et al., 2004) altre invece riguardano disfunzioni dell’orecchio interno. Le anomalie dell’orecchio esterno variano dall’anotia al semplice orecchio ad ansa e spesso fanno parte di più complessi quadri di malformazione cranio-facciale che possono essere distinte in craniosinostosi, disostosi mandibolari, condrodisplasie. Nella maggioranza dei casi l’ipoacusia in queste forme sindromiche è di tipo trasmissivo. Nella Tabella II sono riportate alcune delle sindromi più comuni. Conclusioni e prospettive per il futuro La valutazione dell’etiologia dell’ipoacusia fornisce possibilità per la scoperta della causa e la valutazione del rischio di ricorrenza nella famiglia e dà anche un preavviso su potenziali problemi aggiuntivi di salute. A dispetto della grande variabilità fenotipica e dei molti geni coinvolti nelle forme di ipoacusia sia sindromiche che isolate, la frequenza delle mutazioni nel gene GJB2 è sufficientemente alta in diverse popolazioni, tra cui quella mediterranea, da rendere l’analisi mutazionale in questo gene e nel gene GJB6 (Cx30), associata ad una consulenza genetica appropriata, un test veramente molto utile. Il test è molto utile anche per evitare di attribuire erroneamente l’in- rischio di ricorrenza della malattia in altri figli. Dato comunque l’alto numero di geni coinvolti nelle diverse forme di ipoacusia, è da tenere presente che un risultato negativo per i test molecolari nei geni GJB2/GJB6 non indica necessariamente che la perdita uditiva non sia di origine genetica. È importante perciò cercare di sviluppare ed utilizzare metodiche sempre più avanzate, quali i “microarray” che possono analizzare quanti più geni e più mutazioni possibili. Inoltre è da tenere presente che poiché vi sono più di 400 sindromi associate a perdite uditive è molto importante un approccio multidisciplinare per una valutazione complessiva del bambino. Un aumento delle informazioni sulla correlazione genotipo-fenotipo potrà inoltre essere di grande aiuto ai clinici per la valutazione del migliore approccio riabilitativo. Dati salienti emersi dagli studi considerati Dagli studi riportati in questo articolo si evidenziano diversi punti: 1. L’importanza del test genetico in diverse forme di ipoacusia comprese quelle che sembrano imputabili a fattori ambientali (es. infezione da CMV) 2. Il fenotipo è altamente variabile. Le forme di ipoacusia associate alla mutazione 35delG in omozigosi non sono sempre stabili come si pensava in precedenza. 3. Mutazioni nel gene GJB2 (Cx26) sono associabili anche a neuropatie ed a forme sindromiche con fenotipo anch’esso molto variabile. Box di orientamento Novità principali riportate in questo articolo: • Informazioni aggiornate sulle attuali conoscenze delle forme di ipoacusia neurosensoriali sia isolate che sindromiche. • Informazioni aggiornate sulla correlazione genotipo-fenotipo sia in soggetti portatori sani che in soggetti affetti. • Indicazione delle principali indagini molecolari utili per una diagnosi etiologica corretta. Bibliografia Abe S, Kelley PM, Kimberling WJ, et al. Connexin 26 gene (GJB2) mutation modulates the severity of hearing loss associated with the 1555A-->G mitochondrial mutation. Am J Med Genet 2001;103:334-8. Cryns K, Orzan E, Murgia A, et al. A genotype-phenotype correlation for GJB2 (connexin 26) deafness. J Med Genet 2004;41:147-54. del Castillo FJ, Rodriguez-Ballest eros M, Alvarez A, et al. A novel deletion involving the connexin-30 gene, del(GJB6-d13s1854), found in trans with mutations in the GJB2 gene (connexin-26) in subjects with DFNB1 non-syndromic hearing impairment. J Med Genet 2005;42:588-94. D’Adamo P, Guerci VI, Fabretto A, et al. Does epidermal thickening explain GJB2 high carrier frequency and heterozygote advantage? Eur J Hum Genet 2009;17:284-6. Di Leva F, D’Adamo P, Cubellis MV, et al. Identification of a novel mutation in the myosin VIIA motor domain in a family with autosomal dominant hearing loss (DFNA11). Audiol Neurootol 2006;11:157-64. Engel-Yeger B, Zaaroura S, Zlotogora J, et al. The effects of a connexin 26 mutation 35delG on oto-acoustic emissions and brainstem evoked potentials: homozygotes and carriers. Hear Res 2002;163:93-100. Franzè A, Caravelli A, Di Leva F, et al. Audiometric evaluation of carriers of the connexin 26 mutation 35delG. Eur Arch Otorhinolaryngol 2005;262:921-4. Gasparini P, Rabionet R, Barbujani G, et al. High carrier frequency of the 35delG deafness mutation in European population. Genetic Analysis Consortium of GJB2 35delG. Eur J Hum Genet 2000;8:19-23. 208 * Questo articolo fornisce utili informazioni riguardo alla percentuele di portatori della mutazione 35delG nella popolazione Europea. Gopalarao D, Kimberling WJ, Jesteadt W, et al. Is hearing loss due to mutations in the Connexin 26 gene progressive? Int J Audiol 2008;47:11-20. ** Questo articolo può essere utile per approfondimenti su previsioni per la gravità e la progressione dell’ipoacusia associata ad alcune mutazioni. Heathcote K, Syrris P, Carter ND, Patton MA. A connexin 26 mutation causes a syndrome of sensorineural hearing loss and palmoplantar hyperkeratosis. J Med Genet 2000;37:50-1. Hilgert N, Huentelman MJ, Thorburn AQ, et al. Phenotypic variability of patients homozygous for the GJB2 mutation 35delG cannot be explained by the influence of one major modifier gene. Eur J Hum Genet 2009;17:517-24. Iossa S, Chinetti V, Auletta G, et al. New evidence for the correlation of the p.G130V mutation in the GJB2 gene and syndromic hearing loss with palmoplantar keratoderma. Am J Med Genet A 2009;149:685-8. * Questo articolo mette in risalto l’alta variabilità fenotipica associata alle mutazioni nel gene GJB2 anche in caso di forme sindromiche. Kelsell DP, Dunlop J, Stevens HP, et al. Connexin 26 mutations in hereditary nonsyndromic sensorineural deafness. Nature 1997;387:80-3. Kelsell DP, Di WL, Houseman MJ. Connexin mutations in skin disease and hearing loss. Am J Hum Genet 2001;68:559-68. Review. * Questa review fornisce indicazioni sulle forme sindromiche associate alla connessina 26. Forme ereditarie di ipoacusie neurosensoriali isolate e sindromiche nel bambino Kochhar A, Hildebrand MS, Smith RJ. Clinical aspects of hereditary hearing loss. Genet Med 2007;9:393-408. Liu XZ, Walsh J, Tamagawa Y, et al. Autosomal dominant non-syndromic deafness caused by a mutation in the myosin VIIA gene. Nat Genet 1997;17:268-9. Maestrini E, Korge BP, Ocaña-Sierra J, et al. A missense mutation in connexin26, D66H, causes mutilating keratoderma with sensorineural deafness (Vohwinkel’s syndrome) in three unrelated families. Hum Mol Genet 1999;8:1237-43. Martini A, Milani M, Rosignoli M, et al. Audiometric patterns of genetic non-syndromal sensorineural hearing loss. Audiology 1997;36:228-36. Morton NE. Genetic epidemiology of hearing impairment. Ann N Y Acad Sci 1991;630:16-31. Nemoto-Hasebe I, Akiyama M, Kudo S, et al. Novel mutation p.Gly59Arg in GJB6 encoding connexin 30 underlies palmoplantar keratoderma with pseudoainhum, knuckle pads and hearing loss. Br J Dermatol 2009;161:452-5. Rehm HL. Genetics and the Genome Project. Ear & Hearing 2003;24:270-274. Richard G. Human connexin disorders of the skin. Cell Commun Adhes 2001;8:401-7. Richard G, Rouan F, Willoughby CE, et al. Missense mutations in GJB2 encoding connexin-26 cause the ectodermal dysplasia keratitis-ichthyosis-deafness syndrome. Am J Hum Genet 2002;70:1341-8. Ross SA, Novak Z, Kumbla RA, et al. GJB2 and GJB6 mutations in children with congenital cytomegalovirus infection. Pediatr Res 2007;61:687-91. * Questo articolo mette in risalto l’utilità di effettuare il test genetico anche a forme di ipoacusia apparentemente imputabili a fattori ambientali. Santarelli R, Cama E, Scimemi P, et al. Audiological and electrocochleography findings in hearing-impaired children with connexin 26 mutations and otoacoustic emissions. Eur Arch Otorhinolaryngol 2008;265:43-51. * Questo articolo mette in risalto l’utilità di effettuare il test genetico per il gene GJB2 anche in caso di neuropatia. Snoeckx RL, Huygen PL, Feldmann D, et al. GJB2 mutations and degree of hearing loss: a multicenter study. Am J Hum Genet 2005;77:945-57. Uyguner O, Tukel T, Baykal C, et al. The novel R75Q mutation in the GJB2 gene causes autosomal dominant hearing loss and palmoplantar keratoderma in a Turkish family. Clin Genet 2002;62:306-9. Weil D, Küssel P, Blanchard S, et al. The autosomal recessive isolated deafness, DFNB2 and the Usher 1B syndrome are allelic defects of the myosin-VIIA gene. Nature Genet 1997;16:191-3. Yoshinaga-Itano C. Benefits of early intervention for children with hearing loss. Otolaryngol Clin North Am 1999;32:1089-102. Zelante L, Gasparini P, Estivill X, et al. Connexin26 mutations associated with the most common form of non-syndromic neurosensory autosomal recessive deafness (DFNB1) in Mediterraneans. Hum Mol Genet 1997;6:1605-9. Corrispondenza prof. Elio Marciano, Unità di Audiologia, Università di Napoli “Federico II”, via Pansini 5, 80131 Napoli. E-mail: [email protected] 209 Ottobre-Dicembre 2009 • Vol. 39 • N. 156 • Pp. 210-213 neurologia Consenso sugli “Standard di cura”: un grosso passo avanti nel campo delle malattie neuromuscolari Eugenio Mercuri, Flaviana Bianco, Gessica Vasco Servizio di Neuropsichiatria Infantile, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma Riassunto I notevoli progressi in campo genetico hanno migliorato notevolmente la conoscenza delle singole malattie neuromuscolari e delle complicanze a loro legate. Nell’ultimo decennio numerosi studi hanno dimostrato una modifica sostanziale della storia naturale di queste malattie con un notevole aumento della sopravvivenza ed una riduzione delle complicanze. Sebbene in questo campo gli studi basati sulla evidence based medicine siano, per vari motivi, scarsamente rappresentati, sono state fornite delle Linee Guida basate sul consenso di esperti nei diversi aspetti di cura legati alle varie complicanze. La traduzione e diffusione di queste Linee Guida, sollecitate e promosse dalle associazioni di famiglie, hanno permesso un costante miglioramento della presa in carico di questi bambini anche al di fuori dei centri altamente specializzati. Un altro elemento importante proveniente dalle Linee Guida basate sul consenso è che, alla luce delle interessanti prospettive terapeutiche in questo campo, l’uniformazione degli standard di cura è fondamentale per disegnare ed attuare trial clinici multicentrici. Summary The dramatic advances in the understanding of the genetic background of neuromuscular disorders have greatly improved our knowledge about the individual diseases and their sequelae. In the last decade many studies have shown a dramatic change of the natural history of these disorders with a substantial increase of survival rate and a reduction of sequelae. Although there are only few studies based on evidence based medicine in this disease group, guidelines, based on a consensus reached among the leading experts in specific fields, have become. The translation and dissemination of these guidelines, promoted by parent groups, has brought a considerable improvement in the follow up of these patients that has spread outside tertiary care centres. Another important goal is that, in view of the forthcoming exciting new therapeutical prospective, an agreement on standards of care is essential when planning and performing multicentric clinical trials. Introduzione Nuovi profili di storia naturale in distrofia muscolare I notevoli progressi ottenuti nel campo della genetica delle malattie di Duchenne e atrofia muscolare spinale neuromuscolari pediatriche hanno portato ad un miglioramento della loro classificazione e della conoscenza delle complicanze legate alle singole forme, consentendo quindi anche una migliore pianificazione degli approcci di trattamento e di prevenzione. Un chiaro esempio di questo processo viene dai pazienti affetti dalle forme di distrofie muscolari congenite legate a mutazioni nel gene SEPN1 (Ferreiro et al., 2002; Allamand et al., 2006) o ai geni del collagene VI (Lampe, 2005). La possibilità di definire il gruppo di pazienti sulla base delle mutazioni in questi gruppi ha permesso di riconoscere l’alto rischio di sviluppare ipossie e ipercapnie notturne già alla fine della prima decade. Il migliore monitoraggio delle attività respiratorie diurne e notturne in questi pazienti ha prodotto una drastica riduzione della loro mortalità in età pediatrica. Allo stesso modo, il riconoscimento di mutazioni nel gene della lamina AC (LMNA) nelle forme di distrofia muscolare Emery Dreifuss a trasmissione dominante ha consentito di identificare l’alto rischio di aritmie e blocchi sopraventricolari in cui, a differenza di altri casi con patologie neuromuscolari simili ma legate ad altri geni, l’inserimento di un semplice pacemaker non è sufficiente e si richiede un defibrillatore per evitare morti improvvise (Bonne et al., 2000). 210 La possibilità di effettuare diagnosi genetiche precoci e la migliore conoscenza dell’evoluzione delle complicanze legate alle singole forme, ha portato notevoli modifiche nel mangement delle forme di malattie neuromuscolari più conosciute e più comuni in epoca pediatrica, ovvero la distrofia muscolare di Duchenne (DMD) e l’atrofia muscolare spinale (SMA). Gli studi retrospettivi e le raccolte prospettiche di dati longitudinali hanno chiaramente dimostrato come nell’ultimo decennio ci sia stata una modifica della storia naturale di queste malattie con un notevole aumento della sopravvivenza ed una riduzione e minore progressione delle complicanze. Una analisi retrospettiva della sopravvivenza dei pazienti affetti da DMD nelle ultime decadi ha dimostrato chiaramente come vi sia stato un graduale e costante aumento dell’età di sopravvivenza. Mentre negli anni ’60 la percentuale dei ragazzi affetti da DMD che arrivava all’età di 25 anni era pari a poco più dello 0%, ai nostri giorni oltre il 53% di questi ragazzi supera i 30 anni con alcuni casi che arrivano oltre i 40. L’aumento di sopravvivenza è stato parallelo all’introduzione ed alla diffusione di metodiche di ventilazione non invasiva (Eagle et al., 2002 e 2007). Negli ultimissimi anni si sono verificati anche notevoli miglioramenti, Consenso sugli ‘Standard di cura’: un grosso passo avanti nel campo delle malattie neuromuscolari sia nell’aspettativa di vita che nella gestione dei pazienti, anche per la forma più grave di SMA, classificata come tipo I o malattia di Werdnig Hoffmann. Fino a pochissimi anni fa una famiglia al momento della diagnosi si trovava di fronte alla scelta di intervenire con modalità invasive, quali tracheotomia e ventilazione meccanica, o aspettare che la malattia facesse il suo corso senza ricorrere a metodiche invasive, con una sopravvivenza media di 8 mesi (Oskoui et al., 2007) e che tranne rare eccezioni, non superava i due anni di vita. La graduale introduzione, in alcuni centri, di metodiche di ventilazione non invasiva e di un atteggiamento più attento nei confronti dei problemi della deglutizione (con inserimento precoce di gastrostomie) ha fatto sì non solo che la maggior parte dei bambini trattati con queste metodiche superi i due anni di vita, ma ha anche migliorato notevolmente la qualità di vita dei bambini e delle loro famiglie (Oskoui et al., 2007). L’introduzione di queste metodiche, hanno avuto il vantaggio di aumentare il numero delle famiglie che sceglie un intervento attivo, perché recepito come meno invasivo, più maneggevole nella routine e meno traumatico rispetto alla tracheotomia. Simili risultati si sono ottenuti anche nell’ambito delle forme intermedie di atrofia muscolare SMA, detta anche di tipo II, in cui il decorso della malattia, ritenuto chiaramente progressivo fino a pochi anni fa, segue adesso un corso molto più lento con una riduzione drastica dei decessi per malattie respiratorie e delle infezioni gravi. La migliore gestione delle complicanze respiratorie, con l’inserimento di tecniche quali l’insufflator/exufflator (Bach, 1993) e di tecniche di riabilitazione respiratoria, in associazione a tentativi terapeutici quali quello con il Salbutamolo (Pane et al., 2008), hanno notevolmente diminuito la frequenza e la gravità delle complicanze respiratorie acute (Wang et al., 2007). Nuovi standard di cura ed evidence based medicine Se da un lato il miglioramento della sopravvivenza e della progressione della malattia appaiono indubbie, dall’altra appare difficile stabilire in che misura le modifiche del management e della presa in carico siano individualmente responsabili delle migliori condizioni di questi pazienti. A differenza di tante altre patologie, in cui sono presenti numerosi studi basati sulla evidence based medicine, nel campo delle malattie neuromuscolari tali studi sono scarsamente rappresentati. A parte alcuni lavori su aspetti individuali di cura quali il trattamento profilattico con ACE inibitori sul cuore in giovani pazienti affetti da DMD (Duboc et al., 2007, Mercuri et al., 2008) o alcuni studi su interventi ortopedici (Manzur et al., 1992), o sull’efficacia di alcune metodiche ventilatorie ottenuti in piccole serie comprendenti pazienti affetti da patologie neuromuscolari diverse (Simonds, 2007), non esistono grossi studi sistematici randomizzati sui diversi aspetti di cura. I motivi per tale differenza sono molteplici: • queste malattie sono malattie rare in cui è difficile ottenere dei numeri sufficientemente grandi per poter effettuare degli studi randomizzati in doppio cieco in un unico centro o in un consorzio di pochi centri. Per questo i pochi trial clinici, in atto o in programmazione, sono tutti studi multicentrici internazionali che coinvolgono un alto numero di centri. • In assenza di un accordo tra i vari centri sugli standard di cura, appare difficile effettuare uno studio multicentrico per valutare l’effetto di un intervento su uno degli aspetti cruciali della malattia in quanto entrano in gioco troppe variabili che rendono difficile, se non impossibile, interpretare i risultati e stabilire con esattezza se le eventuali modifiche dell’outcome siano da attribuirsi al fattore studiato piuttosto che ad altri fattori confondenti quali diversi metodi di fisioterapia o di profilassi ecc. • Un ulteriore problema è rappresentato dal fatto che alcune di queste metodiche sono entrate nella pratica comune di alcuni centri anche se non precedute da studi di evidence based medicine. Molti centri infatti avendo un’esperienza diretta di quanto queste metodiche abbiano modificato lo stato di salute e di qualità di vita, non trovano etico dover procedere a studi randomizzati in cui è necessario sottoporre a placebo una parte della popolazione studiata. Nonostante queste limitazioni negli ultimi anni si è comunque avvertita l’esigenza di formalizzare queste esperienze acquisite sul campo dai pochi esperti che avevano avuto l’ occasione di lavorare in grossi centri di riferimento e di cercare un consenso, in modo da fornire delle raccomandazioni sulle metodiche da usare e favorirne la diffusione anche in centri minori in cui il numero di pazienti seguiti non era sufficientemente alto da poter acquisire lo stesso livello di esperienza. Questo lavoro è stato condotto in Europa prima dall’ENMC (European Neuro Muscular Consortium) e negli ultimi due anni da TREAT NMD (Translational Research in Europe for the Assessment and Treatment of Neuromuscular Disease) due grosse istituzioni internazionali che hanno promosso una serie di workshops coinvolgendo tutti i maggiori esperti in aspetti specifici delle malattie, producendo alla fine di ogni workshop, delle raccomnadazioni, pubblicate su riviste inetrnazionali. Questo sforzo europeo, è stato negli ultimissimi anni associato a quello di altre istituzioni inetrnazionali, quali l’ICC (International Coordinating Committee) o il Muscular Distrophy group che hanno consentito di aumentare la partecipazione dei colleghi statunitensi e di cercare un consenso ancora più largo. Seppure le modalità di compilazione di queste raccomandazioni non seguano rigorosamente i principi dell’evidence based medicine o i criteri necessari per il riconoscimento dell’efficacia di studi clinici dettati dalle review Cochrane, queste raccomandazioni rappresentano comunque il risultato di un consenso da parte degli esperti mondiali e la loro diffusione sta portando a due risultati, ugualmente importanti per il futuro di questi bambini. Il primo è che la traduzione e diffusione di queste raccomandazioni, fortemente sollecitate e promosse dalle associazioni di famiglie, stanno portando ad un lento ma costante miglioramento della presa in carico di questi bambini anche al di fuori dei centri altamente specialistici con conseguente riduzione delle complicanze e della mortalità legate ad una scarsa conoscenza delle complicanze di queste malattie. In molti centri vengono ormai forniti degli opuscoli con la traduzione del consenso degli standard di cura o anche dei link sui siti delle associazioni delle famiglie a cui le famiglie o medici con poca esperienza su queste patologie, possano facilmente accedere. L’introduzione di tecniche di fisioterapia respiratoria, l’uso ormai routinario di apparecchi in grado di ridurre il ristagno di secrezioni quali l’insufflator-exufflator, o il trattamento precoce con antibiotici, assieme ad un più attento monitoraggio di spirometria e dell’ossimetria notturna ha provocato una drastica riduzione della mortalità in epoca pediatrica e del numero di ricoveri per infezioni respiratorie gravi, non solo nelle atrofie muscolari spinali e nei ragazzi con DMD ma anche nelle distrofie muscolari congenite e nelle miopatie congenite. In parte questo miglioramento è probabilmente anche dovuto ad un più attento monitoraggio di altri fattori, quali deglutizione, alimentazione o possibili complicanze cardiache, che hanno comunque contribuito al miglioramento dello stato di salute generale. Seppure 211 E. Mercuri et al. sia difficile stabilire con esattezza quale sia il contributo di ciascun elemento, appare indubbio che la combinazione di questi fattori e un approccio multidisciplinare che coinvolge più specialisti hanno portato ad un miglioramento globale di questi bambini. L’altro elemento, ugualmente importante, è che il miglioramento dello stato di salute e l’uniformazione degli standard di cura è un passo fondamentale nel quadro più generale degli studi clinici terapeutici. Nonostante non vi sia ancora una cura per nessuna malattia neuromuscolare su base ereditaria, negli ultimi anni vi sono stati numerosi trial clinici, molti dei quali ancora in corso, e vi sono numerose prospettive terapeutiche che, per la prima volta, fanno intravedere la possibilità di curare alcune di queste malattie. I progressi più grossi si sono avuti nel campo della DMD dove, dopo anni di lavoro in laboratorio per stabilire efficacia e safety nei modelli animali, si stanno finalmente effettuando i primi studi clinici fase 2/3 utilizzando diverse metodiche, per valutare l’efficacia e la safety di queste metodiche su bambini e ragazzi. Oltre al lavoro sulle cellule staminali, che ha prodotto risultati sorprendenti nel cane distrofico (Tonlorenzi et al., 2007) che è in fase di preparazione nell’uomo, vi sono studi avviati in cui l’impiego di nuove tecniche, come l’exon skipping, è stato recentemente usato in bambini DMD in due studi parallei in Olanda e nel Regno Unito. Entrambi gli studi, effettuati adoperando lo steso principio ma molecole diverse, hanno chiaramente dimostrato come iniezioni locali di oligonuceleotidi antisenso possano provocare una ricomparsa della distrofina in pazienti distrofici che, a causa della malattia hanno un assenza totale della proteina (Aartsma-Rus et al., 2007 e 2009; Kinali et al., 2009). In seguito a questa fase iniziale che ha dimostrato sia l efficacia locale che la mancanza di reazioni di rigetto di entrambe le molecole, sono in corso degli studi pilota per valutare la safety di entrambe le molecole per uso sistemico (sottocute o i.v.) e, nei prossimi mesi, verranno lanciati due grossi studi multicentrici ed internazionali, randomizzati e a doppio cieco per valutare l’efficacia delle molecole. Sono in corso altri approcci che sfruttano meccansimi simili, ma specializzati per alcuni tipi specifici di mutazioni come le mutazioni nonsense. La PTC Therapeutics sta portando avanti uno studio clinico di fase 2/3 dove si cerca di confermare l’efficacia del nuovo composto di origine post-trascrizionale, progettato per ignorare il segnale che genera l’interruzione prematura dei meccanismi di lettura del DNA creando in questo modo un percorso alternativo che conduce ad una nuova produzione di distrofina e, quindi, ad un probabile beneficio terapeutico (Wilton, 2007). Alla luce della velocità con cui queste proposte terapeutiche stanno diventando disponibili, e in previsione di studi in fase 3 su base multicentrica, appare quindi ancora più importante eliminare tutti i fattori confondenti, che potrebbero derivare da diversi standard di cura utilizzati nei diversi centri. Nello stesso tempo, proprio in previsione di terapie che potrebbero diventare disponibili nei prossimi anni, le famiglie diventano ancora più esigenti e attente ai livelli di cura quotidiana in modo da contrastare quanto possibile l’evoluzione della malattia ed essere nelle condizioni migliori al momento di una possibile cura. In Appendice viene riportata una lista di link e voci bibliografiche utili per accedere ai siti di queste organizzazioni ed alle Linee Guida disponibili. Box di orientamento • Nell’ultimo decennio numerosi studi hanno dimostrato una modifica sostanziale della storia naturale delle malattie neuromuscolari pediatriche con un notevole aumento della sopravvivenza ed una riduzione delle complicanze. • Sebbene gli studi basati sulla evidence based medicine siano scarsamente rappresentati, sono state fornite delle Linee Guida basate sul consenso di esperti nei diversi aspetti di cura legati alle varie complicanze. • La traduzione e diffusione di queste Linee Guida appare essenziale per promuovere una migliore presa in carico di questi bambini anche al di fuori dei centri altamente specializzati. • Alla luce delle interessanti prospettive terapeutiche in questo campo, l’uniformazione degli standard di cura appare ancora più importante per disegnare ed attuare trial clinici multicentrici. Bibliografia Aartsma-Rus A, Janson AA, van Ommen GJ, et al. Antisense-induced exon skipping for duplications in Duchenne muscular dystrophy. BMC Med Genet 2007;8:43. Aartsma-Rus A, van Ommen GJ. Less is more: therapeutic exon skipping for Duchenne muscular dystrophy. Lancet Neurol 2009;8:873-5. * Gruppo olandese che illustra i dati dello studio sperimentale in corso. Allamand V, Richard P, Lescure A, et al. A single homozygous point mutation in a 3’untranslated region motif of selenoprotein N mRNA causes SEPN1-related myopathy. EMBO Rep 2006;7:450-4. Bach JR. Mechanical insufflation-exsufflation: comparison of peak expiratory flows with manually assisted and unassisted coughing techniques. Chest 1993;104:1553-62. * Questo è il primo autore/articolo che ha sperimentato l’effetto benefico della ventilazione non invasiva in queste patologie. Bonne G, Mercuri E, Muchir A, et al. Clinical and molecular genetic spectrum of autosomal dominant Emery-Dreifuss muscular dystrophy due to mutations of the lamin A/C gene. Ann Neurol 2000;48:170-80. 212 Duboc D, Meune C, Pierre B, et al. Perindopril preventive treatment on mortality in Duchenne muscular dystrophy: 10 years’ follow-up. Am Heart J 2007;154:596-602. * Follow-up a 10 anni sull’uso dell’ace-inibitore come prevenzione cardiologica. Eagle M, Bourke J, Bullock R, et al. Managing Duchenne muscular dystrophy-the additive effect of spinal surgery and home nocturnal ventilation in improving survival. Neuromuscul Disord 2007;17:470-5. Eagle M, Baudouin SV, Chandler C, et al. Survival in Duchenne muscular dystrophy: improvements in life expectancy since 1967 and the impact of home nocturnal ventilation. Neuromuscul Disord 2002;12:926-9. Ferreiro A, Quijano-Roy S, Pichereau C, et al. Mutations of the selenoprotein N gene, which is implicated in rigid spine muscular dystrophy, cause the classical phenotype of multiminicore disease: reassessing the nosology of early-onset myopathies. Am J Hum Genet 2002;71:739-49. Kinali M, Arechavala-Gomeza V, Feng L, et al. Local restoration of dystrophin expression with the morpholino oligomer AVI-4658 in Duchenne muscular dystrophy: a single-blind, placebo-controlled, dose-escalation, proof-of-concept study. Lancet Neurol 2009;8:918-28. * Studio che ha valutato la sicurezza e la tollerabilità dell’iniezione intramuscolo di AVI-4658. Consenso sugli ‘Standard di cura’: un grosso passo avanti nel campo delle malattie neuromuscolari Lampe AK, Bushby KM. Collagen VI related muscle disorders. J Med Genet 2005;42:673-85. Manzur AY, Hyde SA, Rodillo E, et al. A randomized controlled trial of early surgery in Duchenne muscular dystrophy. Neuromuscul Disord 1992;2:379-87. Mercuri E, Mayhew A, Muntoni F, et al. 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E-mail: [email protected] 213 Ottobre-Dicembre 2009 • Vol. 39 • N. 156 • Pp. 214-218 neurologia Nuovi standard di cura per le complicanze respiratorie e cardiologiche nel bambino con distrofia muscolare di Duchenne Angela Berardinelli*, Marika Pane**, Eugenio Mercuri** Dipartimento di Clinica Neurologica e Psichiatria dell’età evolutiva, Fondazione “C. Mondino” I.R.C.C.S., Pavia; Servizio di Neuropsichiatria Infantile Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma * ** Riassunto La distrofia muscolare tipo Duchenne con una incidenza di circa 1: 3500 maschi nati vivi è la più comune malattia neuromuscolare infantile. È dovuta all’assenza completa della proteina distrofina. L’evoluzione clinica della malattia prevede il progressivo aggravarsi del deficit di forza muscolare, con crescenti difficoltà nella deambulazione, nei passaggi posturali, fino alla perdita della deambulazione autonoma in genere prima dei 13 anni seguito dallo sviluppo della scoliosi. Il coinvolgimento della muscolatura respiratoria e cardiaca determina l’insorgenza del deficit respiratorio e il coinvolgimento cardiaco. Nonostante non esista ancora una terapia risolutiva per la distrofia muscolare di Duchenne, si può comunque affermare che negli ultimi 20 anni le condizioni cliniche, la sopravvivenza e la qualità della vita dei ragazzi affetti da distrofia muscolare di Duchenne sono notevolmente cambiate, soprattutto in relazione al miglioramento della gestione delle complicanze cardiorespiratorie ed ortopediche. In questo articolo riportiamo alcune linee guida sugli aspetti respiratori e cardiologici di questi pazienti. Summary Duchenne muscular dystrophy has an incidence of 1 in 3500 male live births and is the most common childhood muscular dystrophy. The course of Duchenne muscular dystrophy is characterized by the progression of muscle weakness and contractures leading to loss of ambulation before 13 years, generally followed by onset of progressive scoliosis. The involvement of heart and respiratory muscles are responsible for progressive cardiac and respiratory impairment. Although there is no effective cure for patients with Duchenne muscular dystrophy, there has been a progressive increase in survival over the last few decades that has been correlated to a better management of cardiac and respiratory complications. In this article we report respiratory and cardiologic guidelines on some aspects of the management of these patients Definizione, epidemiologia e inquadramento diagnostico Gestione clinica del paziente in cui è stata posta La distrofia muscolare tipo Duchenne (DMD) è una malattia X-linked, diagnosi di distrofia muscolare di Duchenne con una incidenza di circa 1:3500 maschi nati vivi. È dovuta all’assenza completa della proteina Distrofina, una proteina che stabilizza la membrana sarcolemmatica. Il motivo che più frequentemente conduce alla consultazione del neuropsichiatra infantile o del pediatra è il riscontro da parte dei genitori di difficoltà motorie nel piccolo riconducibili ad un deficit di forza prevalente a carico della muscolatura del cingolo pelvico: andatura “anserina”, evidente soprattutto quando il bambino tenta di correre, difficoltà nel rialzarsi da terra, il piccolo, da supino, passa prono, poi gattoni, poi solleva il bacino e poi si spinge con una mano sul ginocchio (manovra di arrampicamento o Gowers) a quell’età ancora incompleta, difficoltà nel salire le scale, impossibilità a saltare. Una parte delle consultazioni viene richiesta a causa del riscontro occasionale di marcata iperckemia. La diagnosi si basa essenzialmente sulla biopsia muscolare, che mostra un quadro istopatologico di tipo distrofico e, alla determinazione immunoistochimica che mostra l’assenza completa della proteina distrofina. L’iter diagnostico verrà competato dall’analisi molecolare del gene. L’evoluzione clinica della malattia prevede l’aggravarsi continuo del deficit di forza muscolare, fino alla perdita dell’autonomia nel cammino, prima dei 13 anni e un progressivo coinvolgimento della muscolatura respiratoria e del miocardio. 214 Al momento, nonostante gli straordinari progressi nella conoscenza della malattia e i molteplici tentativi sperimentali non esiste una terapia risolutiva per la DMD. L’introduzione della terapia steroidea (unico presidio che abbia dimostrato fino ad ora una certa efficacia) ha prolungato in media la durata della deambulazione di circa 1 anno se somministrata con regimi non continui (giorni alternati, 10 giorni sì/10 no) o anche di diversi anni se somministrata, laddove non insorgano effetti collaterali importanti, quotidianamente. Si può comunque affermare che negli ultimi 20 anni le condizioni cliniche, la sopravvivenza e la qualità della vita dei ragazzi affetti da DMD si sono notevolmente modificati, soprattutto in relazione al miglioramento della gestione delle complicanze cardiorespiratorie. L’aspettativa di vita è, attualmente, in media superiore ai 30 anni (Eagle et al., 2006). Come nel caso delle SMA (atrofia muscolare spinale) è sempre necessario prospettare ai genitori l’importanza di un approccio multidisciplinare inetgrato e fornire le seguenti informazioni: le problematiche ortopediche e riabilitative sono abbastanza simili a quelle discusse nell’articolo precedente sulle atrofie muscolari spinali, seppure la storia naturale della malattia sia chiaramente diversa per la natura più progressiva della malattia di Duchenne. Maggiore importanza rivestono invece le complicanze cardiorespiratorie che meritano un approfondimento specifico. Nuovi standard di cura per le complicanze respiratorie e cardiologiche nel bambino con distrofia muscolare di Duchenne Follow-up e trattamento delle complicanze cardiologiche e polmonari Complicanze cardiache I primi segni di coinvolgimento cardiaco nella DMD sono generalmente costituiti dall’insorgenza di una cardiomiopatia dilatativa. In uno studio condotto su 328 pazienti affetti da DMD il coinvolgimento cardiaco è divenuto sintomatico mediamente intorno o dopo i 10 anni di età, mentre in precedenza sia i rilievi ecocardiografici sia la clinica erano pressoché normali (Nigro et al., 1990). I primi segni di interessamento miocardico sono rappresentati da anomalie elettrocardiografiche minori che possono essere individuate all’esordio del quadro clinico, ma restano asintomatiche fino ai 10 anni di età; la più frequente è la tachicardia sinusale (Bhattacharyya et al., 1997). Altre anomalie elettrocardiografiche riscontrate sono battiti atriali premature, che diventano più frequenti con l’età, oltre a tachicardia atriale ectopica e fibrillazione/flutter atriale. Nel 40% dei soggetti vi è inoltre un intervallo PQ più corto della norma (Nigro et al., 1995), onda P allungata e PQ aumentato. Le aritmie ventricolari sono infrequenti negli stadi precoci ma la loro incidenza aumenta con la progressione della malattia (Chenard et al., 1993). L’evoluzione è verso una cardiomiopatia con dilatazione delle camere cardiache e depressione della frazione di eiezione del ventricolo sinistro dovuta ad una diffusa fibrosi tissutale che interessa anche il tessuto di conduzione cardiaco (Duboc et al., 2007). Dal punto di vista ecocardiografico, ispessimenti parietali sono presenti in un terzo dei pazienti entro i 14 anni, nella metà entro i 18 anni e sono costantemente presenti dopo i 18 anni (Manzur et al., 2008). La cardiopatia dilatativa coinvolge primitivamente il ventricolo sinistro. Il ventricolo destro può essere coinvolto secondariamente ai problemi respiratori e alla conseguente ipertensione polmonare. Una situazione di scompenso cardiaco è presente in circa il 35% dei pazienti DMD in fase terminale (Corrado et al., 2002). Monitoraggio clinico-strumentale La scarsa o nulla sintomatologia clinica riferibile alle problematiche cardiache da un lato e la rilevanza di queste dall’altro impongono che i soggetti affetti da DMD siano sottoposti a sorveglianza clinicostrumentale costante. La letteratura scientifica (Bushby et al., 2003) suggerisce di effettuare una valutazione completa alla diagnosi e poi una ogni due anni fino ai 10 anni e poi una all’anno o più spesso se sono state individuate anomalie. I pazienti vanno inoltre valutati in modo completo prima di qualsiasi anestesia generale, a qualsiasi età. Gli strumenti abituali del monitoraggio cardiaco comprendono, oltre naturalmente all’esame obiettivo, l’elettrocardiogramma (ECG), l’ECG Holter e l’ecocardiogramma. Nei pazienti in fase più avanzata o comunque con gravi malformazioni della gabbia toracica l’esecuzione dell’ecocardio può risultare particolarmente difficile. Recentemente sono state proposte altre metodiche di valutazione, quali studi elettrofisiologici endocavitari (invasivi) per evidenziare più precocemente il rischio di disturbi del ritmo e l’ecocardiografia Doppler tissutale (non invasiva) ma si tratta di metodiche attualmente ancora solo usate a scopo di ricerca. La valutazione cardiologia deve sempre associarsi a quella respiratoria per le possibili reciproche influenze. Le anomalie del ritmo cardiaco dovrebbero essere ricercate e trattate rapidamente. Un periodico monitoraggio con ECG Holter va inserito nel follow-up dei pazienti con disfunzione cardiaca. Negli ultimi anni sta acquisendo rilievo l’utilizzo della risonanza magnetica cardiaca, che sembrerebbe più efficace nell’individuare eventuali anomalie e che è in ogni caso indicata nei soggetti con cattiva finestra ecocardiografica. Terapia Seppure non vi sia univocità sulle modalità di trattamento farmacologico della cardiomiopatia dilatativa nella DMD, né su quando sia opportuno iniziarlo, negli ultimi anni alcuni studi hanno fortemente suggerito l’importanza di un trattamento precoce. Gia da diversi anni, le conclusioni di alcuni workshop di esperti nel campo suggerivano, sulla base della loro esperienza personale l’impiego di ACE inibitori e beta-bloccanti, associate a diuretici all’esordio dello scompenso cardiaco (Bushby et al., 2003). Queste indicazioni sono state fortemente rafforzate da studi più recenti che indicano chiaramente come un precoce trattamento con l’ACE inibitore Perindopril avrebbe una influenza positiva rallentando l’insorgenza della cardiomiopatia dilatativa e aumentando la durata della vita. Secondo Duboc, l’autore del lavoro, per ottenere questi risultati è tuttavia fondamentale che il Perindopril sia introdotto tra i 9,5 e i 13 ani di età, con una frazione di eiezione superiore al 45%. Dopo il primo lavoro con un follow up relativamente breve, pubblicato nel 2005 (Duboc, 2005) l’autore ha recentemente pubblicato la prosecuzione del follow-up a 10 anni, confermando i primi risultati (Duboc, 2007) in cui il 92,9% dei pazienti trattati fin dall’inizio con Perindopril erano ancora vivi dopo 10 anni di trattamento, rispetto al 65,5% del gruppo di soggetti inzialmente trattati con placebo. Sulla base di questi risultati, replicati anche in altri centri, è quindi ormai accettato che, in assenza di una terapia risolutiva, sembra opportuno intervenire con il Perindopril, che peraltro ha scarsi effetti collaterali, prima che il danno miocardico diventi importante. Se dai monitoraggi con ECG Holter emergono aritmie ventricolari maggiori, andrebbe introdotto un trattamento antiaritmico, considerando tuttavia il possibile effetto inotropo negativo del farmaco scelto. Follow-up e trattamento delle complicanze polmonari Le problematiche respiratorie fondamentali nella DMD sono rappresentate dall’insorgenza di una progressiva sindrome disventilatoria restrittiva, frutto dell’ingravescente perdita di forza delle muscolatura respiratoria, associato alle deformità toraciche che insorgono per il deficit di forza muscolare generalizzato e dell’immobilità I segni più importanti correlati a questo difetto di forza ingravescente sono rappresentati dalla progressiva comparsa di disturbi respiratori sonno-relati con ritenzione di CO2, atelettasie e la difficoltà ad espettorare. Da uno studio condotto recentemente su 58 pazienti affetti da DMD (Phillips et al., 2001) è emerso che anomali risultati alle prove di funzionalità respiratoria nei bambini affetti da DMD sono individuabili a partire dagli 8 anni di età, ma la perdita dei volume respiratori è particolarmente evidente solo dal momento in cui i bambini perdono la deambulazione autonoma (Gozal, 2006); successivamente, in adolescenza, si osserva l’insorgenza di episodi di ipossiemia durante il sonno (Khan et al., 1994) l’insufficienza respiratoria diviene conclamata entro i 18-20 anni di età. I primi segni di disturbi respiratori sonno-relati sono l’ipopnea e le desaturazioni in sonno REM, che nelle successive fasi di evoluzione sono presenti anche in sonno non REM. La capacità vitale (CV) e la forza della muscolatura respiratoria declinano nei soggetti affetti da DMD in modo prevedibile e abbastanza omogeneo, tuttavia l’età alla quale i singoli pazienti raggiungono 215 A. Berardinelli et al. una certa CV, per es. < 1 L ( valore considerato critico) può essere diversa da soggetto a soggetto (Hukins et al., 2000). Eventi acuti quali infezioni respiratorie anche banali possono diventare particolarmente problematiche, soprattutto per la difficoltà ad espettorare (Manzur et al., 2002). Sintomi e monitoraggio dei pazienti La maggior parte dei pazienti e dei loro familiari non sono consapevoli della loro ridotta funzionalità respiratoria e non segnalano spontaneamente sintomi suggestivi di tale problema fino a quando una banale infezione respiratoria delle vie aeree non determina una evidente difficoltà nella espettorazione, con conseguente evoluzione in un focolaio polmonare di lunga e difficile risoluzione. In merito alla frequenza delle valutazioni nelle varie fasi della malattia, le Linee Guida dell’American Thoracic Society pubblicate nel 2004 raccomandano: almeno una visita/anno dallo pneumologo pediatra nelle prime fasi della malattia, in bambini tra i 4 e i 6 anni e prima della perdita della deambulazione autonoma, al fine di ottenere una valutazione-base della funzionalità polmonare per meglio indirizzare il successivo management del paziente. Dopo la perdita della deambulazione, di fronte al rilevamento di una CV inferiore all’80% del predetto e/o al raggiungimento dei 12 ani di età i pazienti dovrebbero essere sottoposti ad almeno due valutazioni specialistiche pneumologiche/anno. Ogni valutazione dovrebbe comprendere: esame obiettivo, determinazione dalla saturazione ossiemoglobinica con elettrodo a dito, esame della funzionalità respiratoria con metodo spirometrico, (Phillips et al., 2001) e, quando possibile, la determinazione del picco di tosse (Bach et al., 1997). Ad ogni visita è importante associare una attenta valutazione anamnestica dei disturbi respiratori sonno-relati (Finder et al., 2004). È fondamentale, ad ogni incontro con i pazienti, ricercare una storia di infezioni respiratorie frequenti, inappetenza, sonno interrotto da risvegli frequenti, incubi, difficoltà al risveglio mattutino, cefalea, inappetenza e nausea mattutine. Anche in presenza di valori FVC (capacità vitale forzata accettabili, la presenza di uno o più di questi segni rappresenta una indicazione all esecuzione di una ossimetria notturna. trattenendo il fiato (Kang et al., 2000), o l’applicazione di pressione positiva con un Ambu e maschera a pressione positiva intermittente o un ventilatore meccanico. Le tecniche meccaniche di tosse assistita: l’apparecchio in ed exsufflator (Fig. 1) simula un colpo di tosse attraverso un respiro con pressione positiva seguito da una pressione negativa (Segal et al., 1994). Questa tecnica ha dimostrato di generare un flusso espiratorio del picco di tosse più elevato sia di quello prodotto dalle tecniche manuali sia con le ispirazioni forzate (Bach, 1993). L’in ed exsufflator è risultato particolarmente importante nel prevenire le ospedalizzazioni o la necessità di tracheostomia nei soggetti DMD con picco di flusso espiratorio della tosse intorno a 160 l/min, specialmente quando la gravità della curvatura scoliotica rende difficile e non ottimale l’uso delle tecniche manuali (Bach et al., 1997). Nei pazienti tracheostomizzati l’in ed exsufflator offre diversi vantaggi rispetto alla aspirazione tradizionale, inclusa la clearance delle secrezioni dalle vie aeree periferiche, evitando così il trauma della suzione diretta alla mucosa tracheale ed è meglio tollerato dal paziente (Garstang et al., 2000). Strumenti per la mobilizzazione del muco: la ventilazione percussiva intrapolmonare dà scariche di oscillazioni di alta frequenza, bassa ampiezza che si sovrappongono ad una continuo flusso di pressione positiva nelle vie aeree. Un recente lavoro condotto su un gruppo di pazienti, uno solo dei quali affetto da DMD ha riportato l’efficacia di questa tecnica nella risoluzione di persistenti secrezioni resistenti alle tecniche convenzionali (Birnkrant et al., 1996). L’uso degli steroidi ormai comune nella DMD, oltre ai risultati positivi sulla funzionalità motoria, sembra determinare anche una miglioramento della FVC e della capacità di tossire misurata mediante il PCF stando ai risultati di uno studio condotto su 35 pazienti, 10 dei quali in steroide e 25 non trattati di età compresa tra i 7 e i 21 anni (Daftary et al., 2007) ed a un altro studio condotto su 79 pazienti di età compresa tra i 10 e i 18 anni di età, 40 dei quali trattati 34 no (Biggar et al., 2006). Terapie Il trattamento delle problematiche respiratorie nei DMD prevede la prevenzione degli episodi acuti, l’addestramento del paziente e della famiglia a riconoscere i primi segni di difficoltà respiratoria, e – nella fasi più avanzate della malattia – il supporto ventilatorio meccanico, dapprima notturno e poi diurno. Alcune semplici accortezze possono aiutare a diminuire i rischio di episodi acuti: • per prevenire le complicanze legate ai possibili episodi infettivi a carico delle vie aeree tutti i soggetti affetti da DMD dovrebbero essere sottoposti annualmente a vaccino antiinfluenzale e antipneumococcico ( Finder et al., 2004); • pur non essendoci dati certi relativi sulla possibile efficacia della fisioterapia e del training respiratorio nella DMD nella prognosi a lungo termine, queste metodiche aiutano nella vita quotidiana i pazienti a liberarsi delle secrezioni ed a diminuire il rischio di infezioni legate al loro ristagno (Eagle et al., 2006). Le tecniche manuali di tosse assistita comprendono le inspirazioni assistite seguite dall’incremento della espirazione forzata. Un aumento della capacità inspiratoria può essere ottenuto attraverso l’uso del respiro glossofaringeo (forzare l’aria nei polmoni usando la bocca), o facendo una serie di respiri quanto più profondi possibile 216 Figura 1. Macchina della tosse. Nuovi standard di cura per le complicanze respiratorie e cardiologiche nel bambino con distrofia muscolare di Duchenne Insufficienza respiratoria clinica e ventilazione Nei soggetti affetti da DMD l’insufficienza respiratoria cronica (IRC) evolve attraverso 4 fasi: stadio 1, caratterizzato da disturbi respiratori sonno-relati senza ipercapnia; stadio 2, caratterizzato da disturbi respiratori sonno-relati durante le fasi di sonno REM; stadio 3: disturbi respiratori sonno-relati con ipercapnia durante il sonno REM e non-REM; stadio 4: ipercapnia diurna (Ragette et al., 2002). Negli stadi 2 e 3 la ventilazione meccanica corregge l’ipercapnia, migliora la sopravvivenza e la qualità della vita (Toussaint et al., 2007). Quando si parla di ventilazione si intende ventilazione non invasiva a pressione positiva (NIPPV), erogata per lo più attraverso apparecchi a pressione positiva, con maschera nasale. Complessivamente, è stato dimostrato che, nei pazienti DMD, l’uso della ventilazione meccanica allunga l’aspettativa di vita di almeno 5-10 anni (Simonds et al., 1998). Introdotta negli anni ’80 da Rideau et al. la maschera nasale resta tuttora la prima scelta come interfaccia per la ventilazione notturna (Ward et al., 2005). Sebbene negli anni recenti stia diventando via via meno utilizzata, per i pazienti che richiedano la ventilazione 24 ore/die, la Tracheostomia rappresenta un mezzo più efficace e più sicuro della NIPPV (Baydur et al., 2000). Problematiche anestesiologiche nella distrofia muscolare di Duchenne L’aumentata durata della vita dei pazienti DMD fa sì che sia più probabile che necessitino di interventi chirurgici, sia per la correzione della curvature scoliotica, sia per altre possibili cause. L’insieme del deficit respiratorio connesso all’evoluzione della malattia, della suscettibilità a reazioni avverse ai farmaci anestetici (che possono ricordare l’ipertermia maligna, pur costituendo due condizioni differenti), delle problematiche di dismotilità gastro-intestinale conseguenti alla malattia di base, della macroglossia, del possibile blocco dell’articolazione temporo-mandibolare che spesso si instaura nelle fasi più avanzate della malattia, delle problematiche cardiache, fanno sì che questi ragazzi presentino un rischio connesso alle procedure chirurgiche e anestesiologiche superiore alla media. Per questa ragione recentemente l’ACCP (American College of Chest Physicians) ha prodotto un documento di Consensus sulle procedure anestesiologiche e chirurgiche al quale si rimanda per i dettagli (Birnkrant et al., 2007). Problemi psico-sociali Un altro aspetto importante legato all’assistenza ma più generalmente a vissuto di malattia è rappresentato dall’impatto che la malattia, l’assistenza e le varie terapie ha sulla integrazione psicosociale di questi ragazzi. I ragazzi affetti da DMD spesso hanno difficoltà nell’elaborazione della loro immagine, momenti di ansia, di fragilità emotiva nell’accentuarsi delle loro difficoltà e di angoscia e difficoltà ad accettare nuove modalità terapeutiche e ad utilizzare nuovi ausili per la loro autonomia. Il malato neuromuscolare potrà avere bisogno di un aiuto nell’elaborazione del lutto per un corpo che non corrisponde a quanto immaginato e la cui funzionalità viene continuamente messa in discussione. Una presa in carico globale e multidisciplinare dal punto di vista psichico non può non riferirsi e prestare adeguata attenzione anche ai familiari o alle persone coinvolte sia da dinamiche affettive che sociali al malato neuromuscolare. Una più ampia revisione può essere trovata in una recente pubblicazione basata su un consenso internazionale che tratta in maniera dettagliata molti aspetti di standard di cura nei pazienti affetti da DMD. Box di orientamento • Nell’ultimo decennio numerosi studi hanno dimostrato una modifica nella storia naturale delle malattie neuromuscolari pediatriche con un notevole aumento della sopravvivenza e della qualità della vita dei ragazzi affetti da DMD, soprattutto in relazione al miglioramento della gestione delle complicanze cardiorespiratorie ed ortopediche. • La rilevanza delle problematiche cardiache impone che i soggetti affetti da DMD siano sottoposti a sorveglianza clinico-strumentale costante con possibilità di intervento precoce prima della comparsa di una sintomatologia grave. • Il trattamento delle problematiche respiratorie nei DMD prevede la prevenzione degli episodi acuti, l’addestramento del paziente e della famiglia a riconoscere i primi segni di difficoltà respiratoria, e – nella fasi più avanzate della malattia – il supporto ventilatorio meccanico, dapprima notturno e poi diurno. Bibliografia Bach JR, O’Brien J, Krotenberg R, et al. 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Link Sito Parent Project: http://www.parentproject.org/italia/index.php Sito American Thoracic Society http://www.thoracic.org/ Corrispondenza prof. Eugenio Mercuri, Neuropsichiatria Infantile, Policlinico Gemelli, largo A. Gemelli 8, 00168 Roma. E-mail: [email protected] 218 Ottobre-Dicembre 2009 • Vol. 39 • N. 156 • Pp. 219-227 neurologia Nuovi standard di cura per la presa in carico del bambino con atrofia muscolare spinale Adele D’Amico, Enrico Bertini Unità di Medicina Molecolare per Malattie Neuromuscolari e Neurodegenerative, Ospedale Bambino Gesù, Roma Riassunto L’atrofia muscolare spinale è una malattia neurodegenerativa geneticamente determinata che necessita di un approccio multidisciplinare per la molteplicità dei problemi medici che si devono affrontare. Con la necessità di iniziare i trial clinici è sorta l’esigenza di generare linee standardizzate di presa in carico dei pazienti affetti da atrofia muscolare spinale non solo per curarli nel modo migliore, ma anche per ridurre i fattori di variabilità confondenti che interferiscono con la valutazione dei trial clinici. In questa revisione andremo a descrivere le aree di presa in carico dei pazienti affetti da atrofia muscolare spinale che hanno riscosso il massimo consenso tra gli esperti internazionali coinvolti in una Consensus Conference pubblicata nel 2007: l’iter diagnostico, la gestione delle complicanze acute e croniche della insufficienza respiratoria e le problematiche nutrizionali. Riassumeremo anche le aree di minor consenso riguardanti l’intervento riabilitativo ed ortopedico. Summary Spinal muscular atrophy is a neurodegenerative and genetic determined disease that requires multidisciplinary medical care. Efforts for building up clinical trials in spinal muscular atrophy are recent, however standardization of care for patients is a preliminary important issue not only to deliver the best practice for patients but also to reduce confounding factors when conducting clinical trials. A first consensus guideline for the care of patients with spinal muscular atrophy has been generated with international effort in 2007. In this review we will cover the topics that received the best consensus for standard of care in patients with spinal muscular atrophy among the participating international experts to a Consensus conference published in 2007: the diagnosis, the respiratory and nutritional management and we will also summarize the issues that received a lesser amount of agreement between experts, rehabilitation and bone surgery. Introduzione L’atrofia muscolare spinale (SMA) è una malattia neurodegenerativa geneticamente determinata che necessita di un approccio multidisciplinare per la molteplicità dei problemi medici che si devono affrontare. Con la necessità di iniziare i trials clinici è stata consequenziale l’idea di condividere linee standardizzate di presa in carico dei pazienti affetti da SMA non solo per seguire i pazienti nel modo migliore ma anche per ridurre i fattori confondenti di variabilità che si devono considerare nei trials clinici (Crawford, 2004; Hirtz et al., 2005; Bertini et al., 2005). Un primo documento è stato generato nel 2007 frutto di un impegno internazionale di esperti clinici (Wang et al., 2007). Questo studio preliminare ha permesso di evidenziare le aree di scarso consenso come quella della gestione ortopedico chirurgica e fisiatrica della SMA fornendo indicazioni per ricerche future. In questa revisione andremo a riassumere le indicazioni emerse dalla Consensus Conference publicate nel 2007 (Wang et al., 2007) e descriveremo con maggiore dettaglio le aree di presa in carico che hanno riscosso il massimo consenso tra gli esperti internazionali interpellati: l’iter diagnostico, la gestione delle complicanze acute e croniche della insufficienza respiratoria e le problematiche nutrizionali dei pazienti SMA. Si rimanda al testo originario della Consensus Conference per maggiori dettagli (Wang et al., 2007). La diagnosi Quando un pediatra si confronta con un bambino che presenta una ipotonia o debolezza muscolare dovrebbe sempre sospettare una SMA, una delle malattie genetiche autosomico recessive più frequenti con una prevalenza stimata intorno a 1 su 10.000 nati vivi ed una frequenza dei portatori di 1/40-1/60 (Prior, 2008). Alcune caratteristiche cliniche posso aiutare nella formulazione della diagnosi. La debolezza muscolare è solitamente simmetrica e coinvolge prevalentemente i distretti prossimali piuttosto che la muscolatura distale. Gli arti inferiori sono in genere maggiormente interessati rispetto agli arti superiori. I riflessi osteotendinei (ROT) sono assenti o diffusamente deboli e le sensibilità sono conservate. La partecipazione ambientale è sempre buona e lo sguardo di questi bambini è sempre vigile e attento. L’entità e la gravità della debolezza muscolare in genere correlano con l’età di esordio. La Tabella I mostra la classificazione delle diverse forme di SMA e le loro principali caratteristiche cliniche come concordata dalla Consensus Statement for Standard of Care in Spinal Muscular Atrophy pubblicata nel 2007 (Wang et al., 2007) che in gran parte è ripresa da precedenti classificazioni (Munsat et al., 1992; Dubowitz et al., 1999). Alcuni lavori riportano anche una forma di SMA tipo IV, che si distingue per un esordio in età adulta, dopo i 18 anni di età, e per un’evoluzione più lieve. Tale classificazione, tuttavia, è solo indicativa e nella pratica clinica alcuni pazienti possono nel corso della evoluzione presentare livelli di severità funzionale crescente, arrivando a perdere abilità funzionali precedentemente acquisite (la posizione seduta o la capacità di camminare). Il trattamento ed il follow-up dei pazienti affetti da SMA dovrebbe essere pianificato tenendo conto dello stato funzionale dei pazienti al momento della visita, piuttosto che sulla base della severità clinica all’esordio. 219 A. D’Amico, E. Bertini Tabella I. Classificazione clinica delle atrofie muscolari spinali. Tipo di SMA Età di esordio Miglior prestazione motoria acquisibile Non raggiunge la posizione seduta autonoma Età media al decesso < 2 anni Tipo I (severo) sindrome di Werdnig-Hoffman 0-6 mesi Tipo II (intermedio) 7-18 mesi Non raggiunge la posizione eretta e la deambulazione autonoma > 2 anni Tipo III (lieve) Malattia di Kugelberg-Welander > 18 mesi Acquisisce la deambulazione autonoma Età adulta Iter diagnostico La Figura 1 mostra l’algoritmo diagnostico in caso di sospetta SMA. Il primo test diagnostico che dovrebbe essere eseguito è l’analisi genetica per la ricerca di delezioni nel gene SMN. L’identificazione di una delezione in omozigosi nell’esone 7 del gene SMN1 (associato a meno delezioni nell’esone 8) conferma la diagnosi di SMA (SMA associata a SMN, 5q-SMA) (Zerres et al., 1997). Gli altri test diagnostici mostrati nella Figura 1 dovrebbero essere eseguiti solo nei pazienti in cui la ricerca di delezioni nel gene SMN 1 sia risultata negativa. SMA con quadro clinico tipico Non delezione omozigote SMN 1 - Neuropatia demielinizzante o assonale - Sindrome miastenica - Miopatia - Distrofia muscolare Test genetico SMN 1 Marcata ipostenia e ipotonia muscolare; incompleto controllo del capo; pianto e colpo di tosse deboli; difficoltà alla suzione e deglutizione; morbidità precoce a causa di infezioni respiratorie ricorrenti, polmoniti ab ingestis e insufficienza respiratoria Ritardo nell’acquisizione delle tappe motorie; scarsa crescita ponderale; colpo di tosse debole; fine tremore distale agli arti superiori; sviluppo di retrazioni tendinee e scoliosi Ipostenia muscolare di grado variabile; crampi muscolari; perdita della deambulazione autonoma in età adulta Gestione clinica generale del paziente in cui è stata posta diagnosi di atrofia muscolare spinale Data la complessità delle problematiche mediche associate alla SMA la presa in carico di un paziente deve essere ad opera di un medico, pediatra o neurologo esperto in problemi neuromuscolari in grado di affrontare con il paziente e i familiari le diverse implicazioni conseguenti alla diagnosi. Durante il primo incontro è importante offrire ai familiari informazioni su: Delezione omozigote SMN 1 Conferma diagnosi SMA 5q 95% sensibilità 100% specificità Debolezza prossimale > distale, CK normale, EMG neurogeno Ripetere esame clinico, EMG, VCN, CK Segni inusuali di SMA con EMG neurogena, normale CK Debolezza diffusa, normale EMG eVCN, CK, RMN midollo ed enceali Altre malattie del motoneurone: SMARD, X-SMA, ALS giovanile Biopsia muscolare o nervo, test specifici per miopatie o distrofie o neuropatie ereditarie Figura 1. Iter diagnostico per le atrofie muscolari spinali. 220 Caratteristiche cliniche Caratterizzare copie di SMN 1 2 copie di SMN1 1 copia di SMN1 Sequenziare SMN 1 per mutazioni puntiformi Non mutazione SMN 1 Diagnosi di SMA con difetto SMN 1 non confermato Mutazione identificata Diagnosi di SMA 5q confermata Nuovi standard di cura per la presa in carico del bambino con atrofia muscolare spinale • aspetti generali della malattia e del suo decorso (classificazione clinica e prognosi delle diverse forme di SMA); • possibili approcci terapeutici (Informazioni riguardo trial clinici in corso o in programmazione); • contatti con le associazioni delle famiglie e dei pazienti affetti da SMA (siti internet e/o recapiti telefonici per poter trovare informazioni relative alla malattia). Il medico curante dovrebbe inoltre pianificare, insieme ai familiari, un follow-up multidisciplinare che coinvolga i seguenti specialisti: • Neurologo; • Pneumologo; • Gastroenterologo e Nutrizionista; • Ortopedico e Fisiatra; • Genetista. Il ruolo del genetista medico è importante per garantire ai familiari una corretta informazione sulle basi genetiche della malattia. In particolare i familiari dovrebbero ricevere le seguenti informazioni: • tipo di ereditarietà (autosomico recessiva) e rischio di ricorrenza nella famiglia; • alcune nozioni sulla struttura del gene SMN, differenza tra SMN1 e SMN2 e significato del numero di copie SMN2; • limiti del valore prognostico del numero di copie del gene SMN2: sebbene un elevato numero di copie del gene SMN2 correlari con un fenotipo clinico più lieve c’è comunque un’ampia variabilità clinica e non è raccomandato utilizzare tale dato come indice prognostico; • importanza e limiti del test per lo stato di portatore sano; • informazioni riguardo alla diagnosi prenatale e alla pianificazione di future gravidanze (diagnosi prenatale e pre-impianto). Follow-up e trattamento delle complicanze polmonari Complicanze respiratorie nei pazienti affetti da SMA Le complicanze respiratorie sono la principale causa di morbilità e mortalità nelle SMA di tipo I e II, e possono presentarsi in una minoranza dei casi di SMA III. I principali problemi respiratori nei pazienti affetti da SMA si possono così riassumere: 1. colpo di tosse debole con conseguente difficoltà alla espettorazione ed eliminazione delle secrezioni delle basse vie respiratorie; 2. immaturità polmonare; 3. ipoventilazione notturna; 4. infezioni ricorrenti. Una disfunzione dell’apparato orofaringeo, con perdita del riflesso orofaringeo e conseguente difficoltà di deglutizione, gioca un ruolo importante nella determinazione delle complicanze respiratorie. Un supporto per la tosse dovrebbe essere fornito se il colpo di tosse risulta ipovalido ed insufficiente nell’eliminazione delle secrezioni. L’interessamento respiratorio ed i sintomi ad esso correlati tendono a progredire nel tempo. Inizialmente si possono manifestare infezioni ricorrenti ed episodi di desaturazione notturna, fino a determinare un quadro di persistente ipoventilazione notturna con ipercapnia diurna. Quando compaiono i primi disturbi di ipoventilazione durante il sonno dovrebbe essere garantito un supporto ventilatorio notturno. La pervietà delle vie aeree è fondamentale nella gestione della insufficienza respiratoria acuta e cronica nei pazienti affetti da SMA. Monitoraggio e follow-up della funzione respiratoria I pazienti affetti da SMA dovrebbero effettuare una valutazione clinica ogni 3-6 mesi, a discrezione del medico referente sulla base della severità clinica delle problematiche da affrontare. A. Pazienti che non sono in grado di mantenere la posizione seduta autonoma (SMA I) • Raccolta anamnestica riguardo la frequenza di infezioni polmonari e delle vie respiratorie e i trattamenti antibiotici ricevuti nei 6 mesi precedenti. • Esame clinico per valutare il colore della cute, possibili deformazioni/malformazioni della gabbia toracica, l’efficacia del colpo di tosse e le caratteristiche del respiro, (frequenza respiratoria presenza o meno di respiro paradosso). • Saturimetria notturna per monitorare il livello di saturazione di ossigeno nel sangue mediante sensore transcutaneo. • Polisonnografia con misura della CO2 al fine di identificare segni di ipoventilazione durante il sonno. • Rx torace di base e durante gli episodi di insufficienza respiratoria acuta. • Studio della deglutizione: nei casi di deterioramento acuto della funzione respiratoria senza causa apparente, o in caso di infezioni polmonari ricorrenti. B. Pazienti che sono in grado di mantenere la posizione seduta in autonomia, ma non hanno acquisito la stazione eretta e la deambulazione autonoma (SMA II) • Valutazione clinica e strumentale come riportato sopra per i pazienti affetti da SMA tipo I. • Valutazione clinica e radiologica delle deformità della colonna vertebrale per monitorare un’eventuale comparsa di scoliosi. C. Pazienti deambulanti (SMA III): Generalmente questi pazienti sviluppano problemi respiratori solo nelle fasi più avanzate della malattia per cui i controlli clinici e strumentali raccomandati sopra per le forme di SMA più severe potranno essere effettuati con una frequenza annuale. In questi pazienti inoltre è possibile eseguire anche prove di funzionalità respiratoria per la valutazione dei volumi polmonari e la forza dei muscoli respiratori. Prevenzione delle complicanze respiratorie Per una corretta gestione delle problematiche respiratorie nei pazienti affetti da SMA è fondamentale istruire le famiglie sulla gestione delle complicanze respiratorie acute e croniche. I familiari dovrebbero avere tutte le informazioni necessarie riguardanti le diverse possibilità di trattamento a lungo termine (ventilazione non invasiva, macchina per l’assistenza della tosse e delle secrezioni) oltre che conoscere le complicanze associate ad eventuali interventi chirurgici. Per i bambini affetti da SMA tipo I, considerata la rapida progressione della malattia, è importante affrontare precocemente con i familiari le possibilità di intervento, in particolare la possibilità di iniziare una ventilazione non invasiva e l’assistenza per la gestione delle secrezioni. È opportuno discutere con i familiari le loro aspettative. La gestione del paziente dovrebbe infatti consistere in un compromesso tra le aspettative della famiglia e gli obiettivi raggiungibili. Gestione delle problematiche quotidiane dei pazienti affetti da SMA tipo I La gestione quotidiana dei pazienti affetti da SMA I dovrebbe prevedere: • una particolare attenzione ad ogni cambiamento clinico del bambino rispetto alla sua condizione di partenza; • la conoscenza dei sintomi o segni che possano suggerire uno stato di ipoventilazione, al fine di permetterne il precoce riconoscimento; • la gestione delle complicanze acute con particolare attenzione alla possibilità di avere un rapido accesso a strutture mediche specializzate; 221 A. D’Amico, E. Bertini • la conoscenza delle tecniche per la gestione delle secrezioni e il mantenimento della pervietà delle vie aeree; • il supporto respiratorio (compresa la ventilazione non-invasiva). • un’adeguata nutrizione e idratazione; • un precoce trattamento antibiotico in caso di infezione delle vie aeree; • le vaccinazioni correntemente in uso, inclusi i vaccini per l’influenza stagionale e lo pneumococco ed un trattamento immunostimolante come profilassi (palivizumab). Gestione a lungo termine dei problemi respiratori È fondamentale discutere con i familiari quali sono i loro obiettivi principali e valutarli di volta in volta in relazione alle condizioni del bambino e al progredire della malattia. Gli obiettivi a lungo termine sono: garantire una buona ossigenazione e normalizzare gli scambi gassosi, migliorare la qualità del sonno, agevolare la gestione domiciliare del paziente, ridurre gli accessi alle unità di terapia intensiva e le ospedalizzazioni e limitare il più possibile l’impatto della malattia sulla vita quotidiana. Interventi precoci possono prolungare l’aspettativa di vita senza compromettere la qualità della vita stessa. Vie aeree • L’assistenza alla tosse, manuale o utilizzando una macchina tipo in-exsufflator, è raccomandata quotidianamente nella maggior parte dei pazienti che presentano un quadro clinico severo. I familiari e coloro che si prendono cura del paziente dovrebbero essere istruiti su come eseguire tali tecniche. • La fisioterapia respiratoria e il drenaggio posturale per favorire l’espettorazione e l’eliminazione delle secrezioni. • L’aspirazione delle secrezioni nelle alte vie respiratorie. • La saturimetria notturna per monitorare la ventilazione diurna e notturna. Supporto ventilatorio • Un supporto ventilatorio è indicato in tutti i casi in cui viene evidenziata una ipercapnia. La ventilazione notturna non invasiva riduce i sintomi da ipoventilazione, garantisce un buon riposo notturno e migliora la qualità della vita. • L’utilizzo di un ventilatore a due livelli a pressione positiva (BiPAP), rappresenta il miglior supporto ventilatorio non invasivo per questi bambini e il suo utilizzo, anche per brevi periodi durante la giornata, può stimolare lo sviluppo polmonare e ridurre le deformità sternali e della gabbia toracica. • La ventilazione meccanica a pressione positiva continua (CPAP) può essere utilizzata in una fase precoce e di transizione, ma l’obiettivo deve essere la sua sostituzione con un ventilatore tipo BiPAP. • Tracheostomia: nei pazienti che non acquisiscono la posizione seduta in autonomia, l’esecuzione della tracheostomia è un argomento tutt’ora controverso oltre che un dilemma etico. In questi bambini, che presentano una rapida evoluzione della malattia, bisogna considerare la possibilità di attuare diversi livelli di assistenza che vanno dalle cure palliative senza un supporto ventilatorio fino alla tracheotomia, con respirazione meccanica assistita. La ventilazione non invasiva può essere considerata come intervento terapeutico o come cura palliativa. Se la famiglia decide per un supporto ventilatorio questo tipo di assistenza può rappresentare un compromesso ottimale avendo l’obiettivo principale di limitare la permanenza nelle unità di terapia intensiva pediatrica ed evitare la tracheotomia, ove possibile. 222 Problematiche da considerare in caso di interventi chirurgici Gli interventi chirurgici sui pazienti affetti da SMA presentano un alto rischio di complicazioni postoperatorie e post-anestesia generale, quali infezioni nosocomiali, intubazione prolungata, necessità di tracheotomia e decesso. Prima di ogni intervento chirurgico è quindi fondamentale ottimizzare e stabilizzare le funzioni respiratorie. Un’accurata valutazione pre-operatoria deve quindi prevedere: • esame clinico generale; • misurazioni ripetute della funzione respiratoria e valutazione dell’efficacia del colpo di tosse; • radiografia del torace; • valutazione dell’eventuale presenza di disturbi ventilatori durante il sonno; • considerare la presenza di altri fattori di rischio quali anchilosi mandibolare, disfunzione orofaringea, reflusso gastro-esofageo, stato nutrizionale inadeguato, asma, ecc. Se le prove di funzionalità respiratoria e/o lo studio del sonno risultano alterati, è importante valutare la necessità di iniziare una ventilazione non invasiva notturna e tecniche di assistenza della tosse prima di procedere ad un intervento chirurgico programmato. Il paziente dovrebbe essere istruito su tali tecniche e l’intervento dovrebbe essere eseguito solo dopo che il paziente abbia preso confidenza e si sia adattato alle nuove procedure. Se il paziente presenta anchilosi mandibolare, l’intubazione dovrebbe essere eseguita mediante broncoscopia a fibre ottiche. Gestione post-operatoria • Se la funzione respiratoria e l’efficacia del colpo di tosse sono nei limiti di norma e le funzioni muscolari sono relativamente conservate non vi sono significativi rischi di complicanze postoperatorie. • Se la funzione respiratoria è compromessa alla valutazione preoperatoria, è necessario effettuare uno stretto monitoraggio del paziente durante il post-operatorio e considerare l’eventuale necessità di misure più invasive atte a garantire la ventilazione. • Se il paziente è in supporto ventilatorio durante il sonno prima dell’intervento, il medesimo supporto deve essere garantito anche nell’immediato post-operatorio. • L’estubazione deve essere attentamente pianificata e la ventilazione non invasiva può essere considerata come passaggio intermedio nello svezzamento del paziente, con lo scopo di ristabilire la condizione respiratoria pre-esistente. Se il paziente richiede un supporto ventilatorio continuo prima dell’intervento o se durante l’intervento sono stati utilizzati agenti paralizzanti, il paziente dovrebbe essere trasferito direttamente in una Unità di terapia intensiva. • Consigliare ai pazienti di portare con sé i propri apparecchi (ventilatore non invasivo e in-exsufflator) da utilizzare nel post operatorio, in considerazione della limitata disponibilità di tali dispositivi nelle strutture ospedaliere. • Il monitoraggio della CO2 e l’emogas analisi possono aiutare a garantire un uso appropriato dell’ossigeno. L’ossigeno deve essere somministrato con precauzione nei pazienti affetti da SMA poiché una ipossiemia secondaria a ipoventilazione può essere erroneamente valutata come ipossiemia dovuta ad altre cause quali secrezioni mucose o ateletassia. • Attuare una terapia del dolore per prevenire l’ipoventilazione secondaria ad una scarsa escursione toracica, causata dalla sintomatologia dolorosa. In alcuni casi può rendersi utile un transito- Nuovi standard di cura per la presa in carico del bambino con atrofia muscolare spinale rio incremento dell’assistenza ventilatoria meglio per controllare il dolore nel post-operatorio. Gestione dei problemi acuti Nella gestione delle complicanze acute nei pazienti affetti da SMA deve essere garantita una buona funzionalità respiratoria, prevenendo la formazione di ateletassie ed incrementando gli scambi gassosi, ove possibile senza supporto ventilatorio non invasivo. Favorire la pervietà delle vie aeree • Tecniche di assistenza della tosse, manuali o meccaniche (tramite apparecchio tipo in-exsufflator); aspirazione delle secrezioni nelle prime vie respiratorie e bronco aspirazione. Le tecniche volte a favorire l’espettorazione e il colpo di tosse attraverso la fisioterapia respiratoria e il drenoaggio posturale sono preferibili all’aspirazione profonda e alla broncoscopia in quanto meglio tollerate dal paziente. • Monitoraggio degli scambi gassosi e del livello di ossigenazione mediante saturimetria e eroga analisi. Supporto respiratorio (i) Per i pazienti non deambulanti: L’uso della ventilazione non invasiva in acuto è sconsigliato in quanto può portare a scompenso respiratorio dovuto all’instaurarsi di un circolo vizioso tra sovraccarico ventilatorio, indebolimento della muscolatura respiratoria e inefficace espettorazione delle secrezioni. Tuttavia se il paziente è già in ventilazione assistita notturna, può essere utile utilizzare la ventilazione non invasiva anche durante le ore diurne sempre associata a tecniche volte a favorire l’espettorazione. • La somministrazione di ossigeno attraverso il circuito della ventilazione non invasiva dovrebbe essere iniziata al fine di correggere gli episodi di desaturazione, solo dopo aver opportunamente regolato l’apparecchio a pressione positiva inspiratoria ed espiratoria e in associazione con le tecniche atte a garantire la pervietà delle vie respiratorie. • Se l’approccio non invasivo risulta insufficiente, è necessario procedere con intubazione e ventilazione meccanica. Tuttavia, l’intubazione rappresenta una parte importante della gestione del paziente affetto da SMA e tale decisione dovrebbe sempre discussa con i familiari e dove possibile dovrebbe essere presa preventivamente. • Dopo la completa risoluzione della complicanza acuta e il paziente può essere estubato e riadattato alla ventilazione non invasiva. • Se la ventilazione non invasiva risultasse insufficiente si dovrà procedere ad una tracheotomia. (ii) Per i pazienti deambulanti • L’ossigenoterapia. l’assistenza ventilatoria non invasiva e l’intubazione, anche se per un breve periodo di tempo, dovrebbero essere eseguite con le stesse precauzioni e raccomandazioni descritte per i pazienti non deambulanti. • La possibilità di avere a domicilio un apparecchio per la ventilazione non invasiva dovrebbe essere presa in considerazione in quei pazienti che hanno avuto bisogno di un supporto ventilatorio durante un episodio acuto. Ulteriori interventi consigliati In corso di malattie acute, in tutti i pazienti affetti da SMA, indipendentemente dal loro stato funzionale, è raccomandato impostare un’adeguata terapia antibiotica, fornire un adeguato supporto nu- trizionale, garantire una buona idratazione, valutare e trattare un eventuale reflusso gastroesofageo. Problemi nutrizionali e dell’apparato gastrointestinale Le principali complicanze nutrizionali e gastrointestinali nei pazienti affetti da SMA comprendono: 1. difficoltà di nutrizione e di deglutizione. La disfunzione bulbare e dell’apparato orofaringeo è comune nei pazienti affetti da SMA. Tale disfunzione può causare polmoniti ab ingestis, che rappresentano la principale causa di morte in questi pazienti. 2. Disfunzione dell’apparato gatrointestinale. I pazienti affetti da SMA spesso presentano un’alterata motilità gastro-intestinale, che può causare costipazione, stitichezza, ritardo nello svuotamento gastrico e reflusso gastroesofageo. 3. Crescita e problemi nutrizionali. In assenza di opportune misure di supporto, i pazienti affetti da SMA di tipo I presentano un ritardo di crescita con scarso incremento ponderale conseguente a iponutrizione. Viceversa i pazienti affetti dalle forme più lievi tendono a sviluppare sovrappeso o obesità come conseguenza della scarsa mobilità. 4. Problemi respiratori. Lo sviluppo di complicanze respiratorie (colpo di tosse ipovalido, dispnea, infezioni polmonari, cianosi o episodi di desaturazione durante i pasti) possono favorire o incrementare i problemi di alimentazione ed aumentare il rischio di polmoniti ab ingestis, mettendo potenzialmente a rischio la vita del paziente. Le difficoltà respiratorie inoltre, richiedendo un maggiore sforzo alla muscolatura toracica, aumentano il dispendio energetico e il fabbisogno calorico. Problemi nutrizionali e di deglutizione Le problematiche nutrizionali di questi pazienti sono differenti in base alla severità della malattia. Nei bambini che non arrivano a mantenere la posizione seduta autonoma è costante la comparsa di un disturbo della deglutizione che peggiora nel tempo e determina un rallentamento della crescita, episodi di polmonite ab ingestis e come vedremo in seguito pone quasi sempre l’indicazione ad una gastrostomia percutanea. Problemi di alimentazione e nutrizione sono tuttavia molto comuni anche in pazienti affetti da SMA tipo II. Un recente lavoro di Messina et al. (2008) condotto su una popolazione di circa 120 pazienti affetti da SMA tipo II di età compresa tra 1 e 47 anni dimostra infatti come circa il 30% di questi pazienti presenti una difficoltà di alimentazione conseguente ad una limitata apertura della mandibola e a una difficoltà e affaticamento nella masticazione. In circa il 25 % di questa popolazione viene inoltre rilevato un disturbo della deglutizione tale da determinare nel tempo una modifica della dieta verso la scelta di cibi semisolidi. Più rari sono invece in questa popolazione episodi di polmonite ab ingestis. Nella maggior parte di questi pazienti si osserva inoltre una tendenza al basso peso. Le problematiche nutrizionali dei pazienti affetti da SMA tipo III sono al contrario più spesso quelli di sovrappeso o obesità come conseguenza della ridotta attività fisica e conseguente ridotta domanda metabolica (Sproule et al., 2009). 1. Sintomi associati alle problematiche nutrizionali e alle difficoltà di deglutizione • Necessità di tempi prolungati per terminare il pasto. • Affaticamento durante l’alimentazione. • Episodi acuti di soffocamento o colpi di tosse durante o immediatamente dopo la deglutizione. • Infezioni respiratorie (polmoniti) ricorrenti rappresentano un 223 A. D’Amico, E. Bertini campanello d’allarme per possibili episodi di ab ingestis, che possono essere altrimenti silenti e verificarsi in assenza di sintomi più tipici quali tosse o sensazione di soffocamento. • Paralisi delle corde vocali: può essere un segno diagnostico di aspirazione laringea. 2. Principali cause delle problematiche nutrizionali Fase pre-orale • Limitata apertura mandibolare dovuta a ridotta motilità dell’articolazione mandibolo-mascellare. • Difficoltà nel portare il cibo alla bocca conseguente all’ipostenia muscolare degli arti. Fase orale • Morso debole. • Facile affaticabilità della muscolatura masticatoria. Fase di deglutizione • Scarso controllo del capo. • Disfunzione della muscolatura orofaringea con insufficiente motilità faringea durante ladeglutizione. • Scarsa coordinazione tra deglutizione e respirazione. 3. Valutazione dello stato nutritivo e delle difficoltà di deglutizione • Valutazione dello stato nutritivo da parte di uno specialista nutrizionista/dietologo. • Osservazione del paziente durante il pasto (valutazione del controllo e della posizione del capo durante l’alimentazione in relazione al loro effetto sull’efficienza dell’alimentazione e della deglutizione). • Esame clinico dell’apparato masticatorio e buccale. • Lo studio video-fluorangiografico dell’apparato oro-faringeo è indicato nei casi in cui si sospettino difficoltà di deglutizione (disfagia) al fine di identificare appropriate strategie di trattamento. 4. Gestione delle difficoltà di alimentazione e deglutizione Trattamenti specifici dovrebbero essere finalizzati a ridurre il rischio di ab ingestis, ad ottimizzare l’efficienza della nutrizione e a rendere più piacevole il momento del pasto. Tali interventi terapeutici dovrebbero essere valutati obiettivamente tramite esame video-fluorangiografico. • Modificare la consistenza del cibo. Una dieta semi-solida può compensare le difficoltà di masticazione e ridurre il tempo necessario per terminare il pasto. L’utilizzo di addensanti per i liquidi può ridurre gli episodi di ab ingestis. • Correggere la postura in posizione seduta e utilizzare se necessari appropriati ausili, (e.g. Neater Eater®, supporti per gli arti superiori, cannucce valvolate) al fine di facilitare l’alimentazione in autonomia e aumentare l’efficienza della deglutizione e dell’alimentazione. In alcuni casi una valutazione o un trattamento da parte di un terapista occupazionale o un fisioterapista possono essere utili al fine di identificare l’intervento più adatto alle specifiche esigenze del paziente. • Associare integratori alimentari e valutare la necessità di tecniche alternative per l’alimentazione appena si riconoscono segni di insufficiente apporto per via orale. La decisione se posizionare una sondino gastrico in un bambino affetto da SMA deve essere presa sulla base di un accordo tra coloro, medici e familiari, che si prendono cura del bambino. La nutrizione mediante sondino naso-gastrico o naso-digiunale dovrebbe essere considerata in attesa della gastrostomia. Il sondino naso-digiunale è preferibile nei casi in cui si sospetti o sia stato accertato un reflusso gastro-esofageo con ab in- 224 gestis, specialmente se il paziente è in ventilazione assistita. Tuttavia le difficoltà tecniche legate al suo posizionamento posso limitarne l’applicazione. • La gastrostomia è la soluzione ottimale nei casi in cui non sia possibile garantire un’adeguata alimentazione per via orale o quando sia elevato il rischio di ab ingestis. Essa riduce la morbilità e le difficoltà di utilizzo della ventilazione non invasiva assistita associate all’utilizzo del sondino naso-gastrico o naso-digiunale (per scarsa aderenza della maschera). Le tecniche di chirurgia laparoscopica per il posizionamento del tipo gastrostomico rappresentano la migliore soluzione per l’estubazione immediata o precoce nel post-operatorio. Devono tuttavia essere prese cautele al fine di ridurre al minimo il tempo di digiuno pre-operatorio e impostare un’adeguata alimentazione il più precocemente possibile dopo l’intervento. Disfunzione gastro-intestinale I problemi gastro-intestinali più frequenti nei pazienti affetti da SMA sono: reflusso gastro-esofageo, costipazione, gonfiore e distensione addominali. Il reflusso gastro-esofageo gioca un ruolo importante nel determinare la morbilità e la mortalità nei pazienti con SMA. Cibi ricchi di grassi dovrebbe essere evitati in quanto ritardano lo svuotamento gastrico e aumentano il rischio di reflusso gastro-esofageo. 1. Principali sintomi di reflusso gastro-esofageo: • emesi; • dolore, senso di pesantezza o di bruciore toracici o addominali; • alitosi; • frequenti episodi di rigurgito o vomito post-prandiali; • rifiuto del cibo dovuto a sensazione di fastidio o dolore durante la deglutizione. 2. Valutazione dei problemi gastro-intestinali: • ricerca dei segni precoci di reflusso gastro-esofageo; • uno studio radiografico funzionale, al fine di identificare anomalie anatomiche e documentare la presenza di reflusso gastro-esofageo; • studio della motilità gastrointestinale mediante scintigrafia al fine di documentare un ritardo nello svuotamento gastrico che può contribuire al precoce senso di sazietà e allo sviluppo di reflusso gastro-esofageo. 3. Gestione del reflusso gastro-esofageo: • uso di neutralizzanti dell’acidità (es. magnesio o calcio carbonato) e/o di inibitori delle secrezioni acide (es. bloccanti istaminici e inibitori della pompa protonica quali famotidina, ranitidina, omeoprazolo) come sintomatici. Tali farmaci dovrebbero essere somministrati solo per brevi periodi di tempo in quanto il loro uso prolungato può incrementare il rischio di gastroenteriti e polmoniti; • se il paziente presenta un ritardo dello svuotamento gastrico o una riduzione della motilità gastroesofagea, può essere indicato l’uso di agenti procinetici (es. metoclopramide, eritromicina); • l’uso di probiotici quali acidophilus o lactobacillus al fine di mantenere una buona flora intestinale, in particolare durante e dopo trattamenti antibiotici o in associazione a trattamento prolungato con anti-acidi, è tutt’ora oggetto di studio; • l’intervento di funduplicatio secondo Nissen per reflusso gastro-esofageo per via laparoscopica durante il posizionamento del tubo per la gastrostomia può rappresentare una valida alternativa nei pazienti che presentano reflusso ga- Nuovi standard di cura per la presa in carico del bambino con atrofia muscolare spinale stro-esofageo refrattario alle terapie mediche o per i quali si ritenga che il beneficio derivante da tale procedura sia maggiore rispetto ai rischi chirurgici e anestesiologici. Gestione dei problemi di crescita e di sotto-/sovra-peso • L’obiettivo deve essere quello di mantenere il bambino nella sua normale curva di crescita. • Monitorare le curve di velocità di crescita nel tempo (peso, altezza, peso/altezza). • Ad ogni visita è raccomandata la valutazione dello stato nutrizionale da parte di un dietologo/dietista o di uno specialista dell’alimentazione. Un diario alimentare dei 3 giorni precedenti alla visita è un metodo semplice ed accurato per valutare il tipo di alimentazione e valutare la necessità di integrazioni alimentari. • I pazienti a rischio di obesità dovrebbero mantenere i parametri di crescita di peso, altezza e BMI (body mass index) ai percentili inferiori per sesso ed età. • È importante assicurare un adeguato apporto di calcio e vitamina D. • Il dosaggio dei livelli sierici di pre-albumina può essere utile per valutare l’adeguatezza dell’apporto proteico. Gestione della nutrizione in corso di patologie acute nei pazienti affetti da SMA • I pazienti affetti da SMA, in particolare i pazienti non deambulanti, sono particolarmente suscettibili a condizioni di digiuno e tendono a sviluppare più frequentemente uno stato di ipoglicemia in seguito a scarso apporto alimentare. In questi pazienti, è quindi importante evitare periodi prolungati di digiuno, specialmente in corso di malattie acute. • In caso di ospedalizzazione l’intero apporto calorico dovrebbe essere somministrato nelle prime ore successive al ricovero, per via enterale e/o parenterale, ove necessario, al fine di ripristinare un apporto alimentare adeguato alle richieste. • In caso di interventi chirurgici, è raccomandato un precoce supplemento calorico nel postoperatorio al fine di evitare il catabolismo muscolare, soprattutto nei bambini con scarsa riserva di grassi. Interventi ortopedici e trattamenti riabilitativi Interventi ortopedici e trattamenti riabilitativi nei pazienti affetti da SMA: A. Problemi principali: l’ipostenia muscolare può portare allo sviluppo di retrazioni tendinee e deformità della colonna vertebrale, che aumentano il rischio di sintomatologia dolorosa, articolare e muscolare, osteopenia e fratture. B. Principali procedure valutative: • range di movimento (ROM); • misurazione della forza; • test per valutare la postura e le abilità funzionali; • valutazione di eventuali ortesi; • esame radiografico della colonna vertebrale o delle articolazioni; • DEXA scan; • interventi ortopedici chirurgici. Valutazione attraverso livelli funzionali e trattamento A. Pazienti che non mantengono la posizione seduta autonoma: Valutazione: • valutazione funzionale attraverso terapia fisica e occupazionale; • valutazione logopedica se l’apparato deglutitorio, il linguaggio o il tono della voce sono compromessi a causa di retrazioni o malposizionamento mandibolari. Principali interventi: • supporto e correzione della postura: la postura del paziente dovrebbe essere supportata e corretta al fine di migliorare lo stato funzionale del paziente; • gestione delle contratture muscolari e delle retrazioni tendinee: l’utilizzo di tutori o doccette può essere indicato al fine di mantenere una buona mobilità articolare e prevenire la sintomatologia dolorosa; • gestione del dolore; • strumenti adattati alle necessità del paziente: adeguati supporti per il gioco e le attività occupazionali dovrebbero includere giochi leggeri per peso, sistemi di attivazione e tecnologie di assistenza a controllo variabile; • carrozzina: deve garantire una corretta postura e una maggior indipendenza del paziente; • ortesi: adeguate ortesi per gli arti superiori, quali supporti mobili o bende elastiche, possono agevolare il paziente nelle attività quotidiane, aumentando il range dei movimenti ed incrementando la funzionalità degli arti superiori; • modificazioni adattative del domicilio al fine di garantirne una sicura accessibilità e aumentare l’indipendenza del paziente. B. Pazienti che mantengono la posizione seduta autonoma: Valutazione: • valutazione funzionale (Hammersmith Functional Motor Scale for SMA, Modified-Hammersmith functional motor scale for SMA, Gross Motor Function Measure (GMFM) e Motor Function Measure (MFM); • misura quantitativa delle retrazioni tendinee con goniometro; • misura della forza muscolare mediante valutazione manuale (scala MRC) o miometro; • studio radiologico (Rx) della colonna vertebrale e delle anche; • valutazione della postura, della mobilità e dell’autonomia. Appropriati sistemi per la postura e la mobilità, manuali od elettrici, dovrebbe essere considerati per i bambini di età superiore ai 18-24 mesi. Principali interventi (fisioterapia, terapia occupazionale e interventi ortopedici): • carrozzina. Deve garantire una corretta postura e una maggior indipendenza del paziente; • modificazioni adattative del domicilio al fine di garantirne una sicura accessibilità e aumentare l’indipendenza del paziente; • gestione delle retrazioni tendinee. La prevenzione e la gestione delle retrazioni tendinee costituiscono il principale obiettivo del trattamento riabilitativo e devono includere esercizi di stretching e programmi di supporto al fine di preservare una buona mobilità articolare. Un adeguato trattamento delle retrazioni tendinee può migliorare la tollerabilità delle ortesi e permettere l’utilizzo di supporti (standing) per mantenere la stazione eretta. Tutori tipo AFO possono ritardare lo sviluppo di retrazioni a livello dell’articolazione tibio-tarsica. Ortesi per gli arti superiori con supporti mobili o bende elastiche aumentano il range dei movimenti e le abilità funzionali; • una regolare attività motoria, quale il nuoto o attività sportive adattate alle esigenze del paziente, dovrebbe essere incoraggiata al fine di mantenere una buona mobilità e un certo grado di resistenza nelle prestazioni motorie; • il mantenimento della posizione eretta deve essere incoraggiato. Tutori lunghi leggeri per gli arti inferiori (KAFOs) o ortesi di supporto per il mantenimento della posizione eretta o la deam- 225 A. D’Amico, E. Bertini bulazione assistita dovrebbero essere forniti ai pazienti con adeguata forza muscolare. Ove questo non fosse possibile a causa della severa ipostenia, dovrebbe essere considerato l’utilizzo di ausili per mantenere la posizione eretta (standing frame); • ortesi per la colonna vertebrale; • chirurgia vertebrale (vedi paragrafo successivo). C. Pazienti deambulanti: Valutazione: • esame della deambulazione e dell’equilibrio per valutare la presenza di atteggiamenti compensatori e la necessità di dispositivi adattativi; • valutazione della mobilità articolare e dell’allineamento della colonna vertebrale; • valutazione da parte di un fisioterapista e di un terapista occupazionale al fine di individuare la necessità di opportuni supporti, che facilitino la mobilità e la funzionalità, e di adattamenti nell’ambiente domiciliare, lavorativo o di studio, che ne garantiscano l’accessibilità; • valutazione degli ausili necessari per lo svolgimento delle attività quotidiane; • Rx di specifici distretti e DEXA scan possono essere considerati in caso di eventi traumatici acuti a carico dell’apparato muscolo scheletrico, conseguenti a cadute, incidenti o sovra-uso. Principali interventi: • carrozzina per lunghi i spostamenti al fine di garantire al paziente una maggior indipendenza; • gestione delle retrazioni tendinee ed educazione alla loro prevenzione e al mantenimento di una buona mobilità articolare; • fisioterapia e terapia occupazionale per garantire la sicurezza e l’indipendenza del paziente o per prolungare la deambulazione autonoma; • la deambulazione dovrebbe essere incoraggiata, fornendo l’assistenza necessaria o specifiche ortesi ove richiesto; • un’attività motoria regolare deve essere incoraggiata al fine di mantenere le performance motorie, la resistenza e la forza muscolare. Questa può includere il nuoto, l’idroterapia, l’ippoterapia o sport adattati alle necessità e alle possibilità del paziente; • educazione alla guida di un’autovettura al fine di aumentare l’indipendenza del paziente. Controlli e adattamenti personalizzati possono essere considerati in relazione alle capacità motorie del paziente; • modificazioni adattative del domicilio al fine di garantirne una sicura accessibilità e aumentare l’indipendenza del paziente; • ortesi e ausili per la colonna vertebrale e gli arti se il paziente sviluppa scoliosi e retrazioni tendinee; • chirurgia vertebrale (vedi paragrafo successivo). Ortesi • È importante che il tecnico ortopedico, il fisioterapista e i familiari collaborino nell’identificare l’ausilio più idoneo per raggiungere l’obiettivo funzionale desiderato e garantire la comodità al paziente. • Il tecnico ortopedico dovrebbe avere una buona conoscenza ed esperienza al fine di poter consapevolmente scegliere i materiali più adatti e di poter adattare l’ausilio alle specifiche esigenze del paziente. • Supporti per la colonna vertebrale possono essere utilizzati per sostenere la postura ma sembrano essere inefficaci nel prevenire o nel ritardare la progressione delle deformità della colonna verte- 226 brale. Quando utilizzati, dovrebbero essere realizzati con un taglio addominale al fine di non ostacolare l’escursione diaframmatica e garantire l’accesso al tubo della gastrostomia se presente. Interventi chirurgici ortopedici 1. Sublussazione dell’anca e retrazioni tendinee: • La sublussazione dell’anca è raramente dolorosa nei pazienti affetti da SMA. La riduzione chirurgica e l’osteotomia sono frequentemente seguite da una ri-dislocazione. Nella maggior parte dei casi, quindi, tale intervento non è indicato. • Deformità del piede e della caviglia, conseguenti a severe retrazioni tendinee, possono rendere difficoltoso l’utilizzo di normali scarpe e possono rappresentare un’indicazione all’intervento di allungamento tendineo. Nei pazienti deambulanti, un precoce ed intenso trattamento fisioterapico iniziato subito dopo l’intervento di allungamento tendineo ne garantisce un miglior risultato. 2. Intervento correttivo per la scoliosi: • L’intervento chirurgico correttivo della scoliosi ha benefici sulla postura e sull’equilibrio in posizione seduta, sulle performance motorie oltre che dal punto di vista estetico. Migliori risultati sembrano ottenersi quando l’intervento viene eseguito precocemente. • L’intervento correttivo della scoliosi (atrodesi vertebrale) sembra avere effetti positivi nei pazienti che sopravvivono oltre i 2 anni di età e presentano una scoliosi severa e progressiva. Deve essere eseguito quando la funzionalità respiratoria è adeguata a sopportare l’intervento e l’anestesia. • Argomento controverso è l’effetto dell’intervento correttivo della scoliosi sulla funzionalità respiratoria. La rapida progressione del deterioramento della funzionalità respiratoria, tuttavia, sembrerebbe essere rallentata in seguito a correzione chirurgiche delle deformità vertebrali. • Durante la procedura chirurgica possono verificarsi complicanze conseguenti ad un’ eccessiva perdita di sangue. Le più frequenti complicanze post-operatarie includono il fallimento della correzione della curva scoliotica, pseudo-artrosi, necessità di supporto ventilatorio prolungato o a lungo termine, infezioni respiratorie e delle ferite chirurgiche. • Particolare attenzione deve essere posta nei pazienti deambulanti, in quanto l’alterazione delle abilità funzionali e dell’equilibrio o un deterioramento della funzionalità respiratoria conseguenti all’intervento, potrebbero portare alla perdita della deambulazione autonoma. Gestione del paziente affetto da SMA nel pre-operatorio. 1. Gestione del paziente nel pre-operatorio: • valutare le modificazioni delle ortesi che saranno necessarie dopo l’intervento e pianificare i tempi per la loro realizzazione. Una nuova carrozzina o modifiche alla carrozzina in uso (seduta, schienale, sostegni per la testa e gli arti inferiori) saranno probabilmente necessarie dopo l’intervento; • dare istruzioni per gli spostamenti e i trasferimenti del paziente nel post-operatorio, provvedendo alla disponibilità di un sollevatore meccanico, qualora dovesse essere necessario. 2. Gestione del paziente nel post-operatorio: • assicurare adeguate e tempestive modifiche delle ortesi in uso e gli adattamenti necessari, eseguire trattamenti di fisioterapia al fine di mantenere una buona mobilità articolare; • garantire un appropriato supporto ventilatorio (ventilazione non invasiva); Nuovi standard di cura per la presa in carico del bambino con atrofia muscolare spinale • istruire il personale infermieristico ed i familiari in merito alle modalità di mobilizzazione, trasferimento, vestizione, pulizia e uso della toilette del paziente; • mobilizzare il paziente il più precocemente possibile in rispetto dell’intervento subito e delle indicazioni date dal chirurgo. Cure palliative • L’assistenza clinica dei pazienti affetti da SMA dovrebbe sempre prendere in considerazione il potenziale conflitto degli obiettivi terapeutici. Questo conflitto è reso più difficile dal naturale coinvolgimento di più persone (genitori, fratelli, altri familiari, tutori, datore di lavoro e la società in genere) nelle scelte che condizionano la vita di un bambino. • Vi è una profonda responsabilità da parte del medico curante nel presentare in modo corretto, obiettivo ed equilibrato le diverse opzioni di trattamento/intervento, al fine di poterli iniziare il più precocemente possibile dopo la diagnosi. • La scelta a favore o a sfavore di un determinato intervento non è una scelta a binario unico, nè deve essere definitiva e irrevocabile. Concedere tempo per pensare, parlare onestamente delle diverse opzioni di trattamento e dei loro effetti, riconoscere la possibilità di rivedere le scelte fatte ed avere un rapporto umano e personale con il paziente ed i familiari sono aspetti fondamentali nella presa in carico di un paziente affetto da SMA. • La gastrostomia dovrebbe essere eseguita precocemente, quando i • • • • rischi chirurgici e anestesiologici associati sono ancora bassi al fine di garantire un adeguato e stabile stato nutrizionale per il momento in cui il bambino presenterà maggiori difficoltà di alimentazione. La scelta riguardo gli interventi da eseguire in caso di insufficienza respiratoria acuta,come la rianimazione in condizioni di emergenza e l’intubazione endotracheale, andrebbe discussa e presa in anticipo. La decisione su tempi e modalità di interruzione delle cure deve essere discussa e definita insieme al paziente e ai familiari, in accordo con le normative/leggi vigenti in materia. I genitori o parenti devono essere consapevoli, preparati ed informati in merito a queste possibilità al fine di non ritardare la scelta ed evitare di imporla aggressivamente e inaspettatamente in un momento particolarmente difficile e traumatico, quale può essere l’emergenza acuta. La presa in carico di un paziente affetto da SMA dovrebbe avvenire da parte di un team multi specialistico che prenda in considerazione gli aspetti medici, sociali e psicologici a seconda delle specifiche necessità. Strutture per la cura a lungo termine o altre soluzioni per la gestione del paziente nelle fasi terminali, un supporto psicologico per i familiari sono aspetti che svolgono un ruolo importante. Nella situazione in cui si decida di non intervenire con supporto ventilatorio meccanico, un’adeguata preparazione alla gestione della dispnea nella fase terminale può essere di conforto per il paziente e i familiari. L’uso di narcotici può ridurre la sofferenza del paziente, evitando che un sovradosaggio del farmaco possa contribuire a determinarne la morte. Box di orientamento • L’atrofia muscolare spinale (SMA) è una malattia neurodegenerativa che necessita di un approccio multidisciplinare per la presa in carico dei pazienti. • Con la necessità di iniziare i trials clinici è sorta l’esigenza di generare linee standardizzate di presa in carico dei pazienti SMA non solo per curarli nel modo migliore, ma anche per ridurre i fattori di variabilità confondenti che interferiscono con la valutazione dei trials clinici. • Le aree di presa in carico dei pazienti SMA che hanno riscosso il massimo consenso tra gli esperti internazionali coinvolti in una Consensus conference pubblicata nel 2007 sono l’iter diagnostico, la gestione delle complicanze acute e croniche della insufficienza respiratoria e le problematiche nutrizionali. • Le aree di presa in carico dei pazienti SMA che hanno riscosso il minor consenso sono quelle riguardanti l’intervento riabilitativo ed ortopedico e per queste si apre uno spazio per ricerche future. Bibliografia Bertini E, Burghes A, Bushby K, et al. 134th ENMC International Workshop: Outcome Measures and Treatment of Spinal Muscular Atrophy, 11-13 February 2005, Naarden, the Netherlands. Neuromuscul Disord. 2005;15:802-16. * Conclusioni del primo workshop internazionale dedicato alla pianificazione dei trials clinici sulla SMA. Crawford TO. Concerns about the design of clinical trials for spinal muscular atrophy. Neuromuscul Disord 2004;14:456-60. * Prima review sulle problematiche legate ai trials clinici sulla SMA. Dubowitz V. Very severe spinal muscular atrophy (SMA type 0): an expanding clinical phenotype. Eur J Paediatr Neurol 1999;3:49-51. Hirtz D, Iannaccone S, Heemskerk J, et al. Challenges and opportunities in clinical trials for spinal muscular atrophy. Neurology 2005;65:1352-7. Messina S, Pane M, De Rose P, Vasta, et al. Feeding problems and malnutrition in spinal muscular atrophy type II. Neuromuscul Disord 2008;18:389-93. * Interessante studio sui problemi nutrizionali dei pazienti con SMA II. Munsat TL, Davies KE. International SMA consortium meeting (26-28 June 1992, Bonn, Germany). Neuromuscul Disord 1992;2:423-8. * Prima proposta concordata sulla classificazione di severità funzionale della SMA. Prior TW; Professional Practice and Guidelines Committee. Carrier screening for spinal muscular atrophy. Genet Med 2008;10:840-2. Sproule DM, Montes J, Montgomery M, et al. Increased fat mass and high incidence of overweight despite low body mass index in patients with spinal muscular atrophy. Neuromuscul Disord 2009;19:391-6. Wang CH, Finkel RS, Bertini E, et al. Participants of the International Conference on SMA Standard of Care Consensus statement for standard of care in spinal muscular atrophy. J Child Neurol 2007;22:1027-49. * Documento di riferimento che risssume le conclusioni del Consensus statement interanazionale sullo Standard of Care nella SMA. Zerres K, Wirth B, Rudnik-Schoneborn S. Spinal muscular atrophy - clinical and genetic correlations. Neuromuscul Disord 1997;7:202-7. Corrispondenza dott. Enrico Bertini, Unità di Medicina Molecolare per Malattie Neuromuscolari e Neurodegenerative, Ospedale Bambino Gesù, p.zza S. Onofrio 4, 00165 Roma. E-mail: [email protected] 227 Ottobre-Dicembre 2009 • Vol. 39 • N. 156 • Pp. 228-238 frontiere Le basi genetiche delle SCID Fausto Cossu Centro Trapianti Midollo Osseo, II Clinica Pediatrica dell’Università, Ospedale Microcitemico, Cagliari Riassunto Le SCID (malattie con immunodeficienza combinata severa) sono primariamente malattie prenatali della differenziazione dei linfociti T, che richiede nei suoi vari stadi l’espressione di numerosi geni. Negli ultimi anni si sono identificati nuovi geni-malattia causa di SCID e si sono definiti meglio i meccanismi molecolari e le corrispondenti caratteristiche immunologiche delle varie forme. Attualmente si classificano le SCID in 6 grandi gruppi in base ai meccanismi patogenetici prevalenti: aumentata apoptosi linfocitaria; difetti di segnali mediati da citochine; difetti del pre-T cell receptor; difetti dei canali del calcio; difetti di embriogenesi del timo; altri meccanismi. Le SCID presentano sia aspetti generali comuni che aspetti peculiari delle diverse forme (es. presenza o meno di manifestazioni extra-immunologiche), e le nuove conoscenze sulle basi genetiche consentono una migliore comprensione anche riguardo a diagnosi (es. fenotipo linfocitario) e terapia (es. utilizzo e tipo di condizionamento pre-trapianto di cellule staminali ematopoietiche). Summary Severe combined immunodeficiency diseases are primarily prenatal illnesses of the development of T lymphocytes, that requires the expression of numerous genes. In the last years novel genetic defects causing severe combined immunodeficiency diseases have been discovered, and the molecular mechanisms and immunological characteristics of the various forms of severe combined immunodeficiency diseases have been defined better. Currently severe combined immunodeficiency diseases are classified into six groups with different prevalent pathogenic mechanisms: increased lymphocyte apoptosis; impaired cytokine-mediated signaling; impaired signaling through the pre-T cell receptor; impaired calcium flux; defects of thymus embryogenesis; other mechanisms. The various forms of severe combined immunodeficiency diseases show both common general and peculiar characters (e.g., absence or presence of extra-immunological manifestations). New knowledge of the genetic bases allow a best understanding also respect to diagnosis (e.g., lymphocyte phenotype) and therapy (e.g., use and type of pre-hematopoietic stem cell transplant conditioning). Introduzione Le SCID (severe combined immunodeficiency diseases – malattie con immunodeficienza combinata severa; gruppo eterogeneo con incidenza di circa 1:50.000 neonati) sono la forma più grave di immunodeficienza primitiva, presente già alla nascita anche se le prime manifestazioni cliniche si osservano più spesso nel piccolo lattante (Ochs et al., 2007; Rezaei et al., 2008). Argomento di questo articolo, basato sulla revisione della letteratura più recente ed esperienza personale dell’Autore, sono i principali aggiornamenti riguardo a: scoperta di nuovi geni-malattia la cui mutazione è causa di SCID, meccanismi molecolari ed immunologici delle forme già note, classificazione dei genotipi associati a SCID, correlazioni tra basi genetiche ed aspetti clinici. Aspetti generali (aggiornati) delle SCID Per la prima volta al mondo, dal Gennaio 2008 nello stato del Wisconsin (USA) si esegue lo screening del neonato per le SCID (su Guthrie card, dosaggio dei T Cell Receptor Excision Circles – TRECs, Fig. 1) (Baker et al., 2009); il poster dello screening (Fig. 2) descrive gli aspetti fondamentali delle SCID: i bambini non producono linfociti T (o, comunque, T funzionali) e acquisiscono infezioni multiple batteriche, virali e fungine (anche da eventuali vaccini con microrganismi attenuati, es. bacillus Calmette-Guerin – BCG); le SCID sono un’emergenza pediatrica: con diagnosi e HSCT (hematopoietic stem cell transplantation, trapianto di cellule staminali ematopoietiche; 228 Box 1) o terapia genica (Box 2) tempestivi questi bambini possono guarire, altrimenti il decorso è rapidamente fatale. È utile ricordare altri aspetti generali delle SCID (per i riferimenti alle singole forme di SCID, si veda oltre): • Alla nascita il neonato affetto da SCID appare normale nella maggioranza dei casi; talvolta ci sono segni cutanei, ancora lievi, simil-GvHD (Graft versus Host Disease) da engraftment di linfociti T materni; invece, basso peso e lunghezza ridotta per l’età gestazionale, microcefalia, facies dismorfica, condrodisplasia metafisaria, ecc. sono manifestazioni extra-immunologiche delle forme in cui l’alterazione genetica colpisce oltre ai linfociti anche altri tipi cellulari ed apparati (Tab. I). • Ogni SCID è comunque una malattia prenatale dello sviluppo timico dei linfociti T, già presente alla nascita anche se asintomatica (lo screening TRECs non dosa un enzima né cerca mutazioni, ma conta i linfociti T naive normali, già assenti o assai ridotti). Da notare che, a differenza del topo, nell’uomo in assenza di SCID lo sviluppo del sistema immunitario è precoce già dall’embrione: intensa “T lymphopoiesis” prenatale del timo; l’esposizione in utero ad antigeni estranei genera risposta immunologica e non tolleranza, a parte quella verso gli alloantigeni materni non condivisi dal feto (tolleranza mediata da linfociti T regolatori CD4+CD25highFoxP3+TReg specifici: 15-20% dei linfociti T CD4+ negli organi linfoidi periferici del feto umano; Mold et al., 2008). E infatti, con l’HSCT in utero: successo (parziale, in genere ricostituzione limitata alla linea T) nei feti affetti da SCID, ma risultato del tutto negativo – 0% di successo (!), con oltretutto il 24% di procedure-related death – in 17/17 feti Le basi genetiche delle SCID Figura 1. T-cell Receptor Excision Circles (TRECs) prodotti nei timociti (linfociti T in differenziazione nel timo) dai riarrangiamenti nel locus TCRδ/α, posto in 14q11 (da Spits, 2002, mod.). I TRECs sono circoli di DNA episomico (non integrati nel genoma), stabili ma non duplicati dalla mitosi e quindi diluiti ad ogni divisione cellulare; la PCR (Polymerase Chain Reaction) quantitativa del TREC δRec-ψJα misura nel sangue periferico i linfociti T naive αβ recentemente dismessi dal timo: nel neonato un valore < 25 TRECs/mL indica SCID. Figura 2. Il poster del Wisconsin State Laboratory of Hygiene che illustra lo screening neonatale per SCID (http://www.slh.wisc.edu/posters/080918_Updated_Scid_Poster.pdf). Il bambino della fotografia è David Phillip Vetter (21 Settembre 1971 – 22 Febbraio 1984), il “bubble boy”. 229 F. Cossu Tabella I. Classificazione delle SCID. T / B / NK Gene Locus Trasmissione Proteina** Manifestazioni extraimmunologiche Aumentata apoptosi linfocitaria Disgenesia reticolare T-B-NK(“aleukocytosis”) ADA SCID T-B-NK- AK2 1p34 AR Adenilato kinasi 2 Sordità neurosensoriale ADA 20q13.11 AR Adenosina deaminasi PNP SCID PNP 14q13.1 AR Purina nucleoside fosforilasi Anomalie condrocostali, displasie scheletro, epatite neonatale, sordità neurosensoriale, disturbi neurologici Disturbi neurologici IL2RG JAK3 IL7RA Xq13.1 19p13.1 5p13 XL AR AR Catena γ common Janus chinasi 3 Catena α del recettore dell’IL-7 11p13 11p13 10p13 8q11.21 13q33.3 AR AR AR AR AR RAG1 RAG2 Artemis DNA-PKcs DNA ligasi IV T-B-NK- Difetti di segnali mediati da citochine Difetto di catena γc T-B+NKDifetto di JAK3 T-B+NKDifetto di IL-7Rα T-B+NK+ Difetti del pre-T cell receptor (pre-TCR) Difetti di ricombinazione V(D)J Difetto di RAG1 T-B-NK+ RAG-1 Difetto di RAG2 T-B-NK+ RAG-2 Difetto di Artemis T-B-NK+ DCLRE1C Difetto di DNA-PKcs T-B-NK+ PRKD Difetto di DNA ligasi IV T-B-NK+ LIG4 Difetto di Cernunnos/XLF Difetti di trasmissione del segnale del pre-TCR Difetto completo di CD3δ Difetto completo di CD3ε Difetto completo di CD3ζ Difetto completo di CD3γ Difetto di CD45 Difetto di ZAP-70 T-B-NK+ NHEJ1 2q35 AR Cernunnos/XLF T-B+NK+ T-B+NK+ T-B+NK+ T-B+NK+ T-B+NK+/T+B+NK+ CD4+CD8T-B+NK+ CD3D CD3E CD3Z CD3G PTPRC 11q23 11q23 1q24.2 11q23 1q31.3 AR AR AR AR AR CD3δ CD3ε CD3ζ CD3γ CD45 (LCA) ZAP70 LCK 2q11.2 1p35.1 AR AR ZAP-70 p56LCK ORAI1 STIM1 12q24 11p15.5 AR AR ORAI1 STIM1 Miopatia, note di displasia ectodermica Miopatia, note di displasia ectodermica WHN 17q11.2 AR FOXN1 Alopecia > 35 geni 22q11.2 AD TBX1, e altre Dismorfie facciali, malformazioni cardiache, malformazioni di altri orga ni, assenza paratiroidi con ipocalcemia neonatale AD CHD-7 Associazione CHARGE Difetto di p56LCK Difetti dei canali del calcio Difetto di ORAI1 T+B+NK+ Difetto di STIM1 T+B+NK+ Difetti di embriogenesi del timo Sindrome Nude/SCID T-B+NK+ Anomalia di DiGeorge T-B+NK+ completa: del22q11.2 CHARGE Embriopatia da madre diabetica Radiosensibilità Radiosensibilità Radiosensibilità, facies dismorfica, microcefalia, ritardo di accrescimento e psicomotorio Radiosensibilità, facies dismorfica, microcefalia, ritardo di accrescimento e psicomotorio CHD7 Malformazioni cardiache, renali, intestinali; difetti del tubo neurale, agenesia lombosacrale, oloprosencefalia; ipoglicemia neonatale segue Tabella I. 230 Le basi genetiche delle SCID continua Tabella I. T / B / NK Altri meccanismi Difetto di coronina 1A T-B+NK+ Difetto delle molecole MHC T+B+NK+ di classe II CD4-CD8+ Sindrome CHH (cartilage hair hypoplasia) Sindrome di Hoyeraal-Hreidarsson (HHS) HFM (hereditary folate malabsorption) T-B+NK+ T+B-NKT+B+NK+ Gene Locus Trasmissione Proteina** CORO1A CIITA RFXANK RFX5 RFXAP RMRP 16p11.2 16p13.13 19p13.11 1q21.2 13q13.3 9p13.3 AR AR AR AR AR AR DKC1 ? SLC46A1 Xq28 ? 17q11.2 XL AR AR Coronina 1A CIITA RFXANK RFX5 RFXAP **RNA dell’RNase MRP complex Discherina ? PCFT affetti da emoglobinopatie (talassemia, drepanocitosi) e quindi con sistema immunitario normale (Muench, 2005). • Per definizione, in tutte le SCID sono compromessi sviluppo e funzioni dei linfociti T (congenital severe T cell immunodeficiencies). Però, linfociti T, linfociti B e linfociti NK (a differenza di T e B, i NK non riarrangiano il loro DNA “germline” per creare i geni di recettori antigene-specifici) hanno in comune linee cellulari, segnali di sviluppo e di funzione, vie metaboliche, ecc. Perciò sono spesso compromessi di per sé anche linfociti B e/o linfociti NK, e si distinguono le SCID in base alle diverse “combinazioni” delle conte T/B/NK (– indica assenza o conte assai ridotte): T-BNK-, T-B+NK+, T-B+NK-, T-B-NK+. Senza le varie sottopopolazioni di linfociti T CD4+ helper (TH1, TH2, TReg, TFH, TH17 e, di recente identificazione, TH22 e TH9) non possono comunque funzionare, anche se presenti e “normali”: linfociti B (nelle SCID di regola: agammaglobulinemia), macrofagi, ed anche eventuali linfociti T “residui”. • L’assenza dei linfociti T nelle SCID causa linfopenia (da ricordare sempre che nell’adulto linfopenia = linfociti totali <1000/µL; invece, nel primo anno di vita il limite inferiore normale è 2000/µL nel neonato e 4000/µL dai 6 ai 9 mesi). • Esistono però molti casi di SCID con conte linfocitarie T presenti (ridotte – normali – alte): es., SCID T+B+NK+ “funzionale” nei difetti dei canali del calcio (Feske, 2009); SCID T+(CD4+ CD8-) B+NK+ nel deficit di ZAP70 (Turul et al., 2009); SCID T+B-NK- nella Sindrome di Hoyeraal-Hreidarsson (Cossu et al., 2002), ecc. Le SCID T+ o T++ però si hanno soprattutto per linfociti T anomali ed oligoclonali che modificano le conte da T-B-NK- a T+B-NK-, da T-B+NK- a T+B+NK-, da T-B+NK+ a T+B+NK+, o da T-B-NK+ a T+B-NK+. Tali linfociti anomali (Vβ families oligoclonali; linfociti T memory CD4+CD45RO+ e linfociti T attivati CD3DR+ alti; linfociti T naive CD4+CD45RA+, proliferazione linfocitaria in vitro e TRECs molto bassi – importante per lo screening neonatale) sono presenti in due situazioni fondamentali: 1. SCID con “engraftment” massivo di linfociti T materni: utili per la diagnosi di SCID (HLA, DNA e/o cromosomi materni nel sangue del neonato affetto), i T materni possono causare ad es.: GvHD cutanea ed epatica; piastrinopenia o pancitopenia autoimmuni (pre- o post- trapianto); rigetto dell’HSCT dal padre o altro donatore diverso dalla madre (Palmer et al., 2007); gammopatia monoclonale da espansione clonale di linfociti B (del bambino o anch’essi di origine materna) in assenza di TReg (Kobrynski et al,, 2006); quadro clinico attenuato in caso di compatibilità HLA tra feto e madre (Tezcan et al., 2005). Manifestazioni extraimmunologiche Nanismo con arti corti, ipotricosi Ipoplasia cervelletto, microcefalia, ritardo accrescimento Anemia megaloblastica, convulsioni, rischio di danni neurologici 2. Sindrome di Omenn: causata da mutazioni ipomorfiche (“leaky SCID”) non solo di RAG1-RAG2 (recombination activating genes) ma anche di numerosi altri geni le cui mutazioni null causano invece SCID tipica (Villa et al., 2008) (Fig. 3). La Omenn è una SCID T+ o T++ estremamente grave, con linfociti CD4+TH2 oligoclonali del bambino (non materni) iper- auto- reattivi, prodotti grazie a carattere “leaky” della mutazione e carenza di tolleranza immunologica centrale (timo: difetto di cellule epiteliali e dendritiche e di espressione di AIRE – Autoimmune Regulator Element) e periferica (difetto di TReg) (Cavadini et al., 2005; Liston et al., 2008). Oltre alle infezioni tipiche delle SCID si hanno infiammazione aggressiva, IgE elevate, eosinofilia, “dermatite” (d.d. con “eczema atopico”!) ed eritrodermia severa, alopecia, perdita di proteine da cute e intestino, diarrea intrattabile, edema, disturbi metabolici, linfoadenomegalia ed epatosplenomegalia (segni e sintomi spesso evolvono nel tempo e non compaiono simultaneamente). • Dunque, per mutazioni di uno stesso gene sono possibili sia SCID “tipica” che sindrome di Omenn, ma anche altri quadri atipici e, all’estremo, difetti immunologici modesti con manifestazioni più tardive. La variabilità dei fenotipi clinici è un aspetto comune (interferenza di altri fattori genetici, fattori ambientali, ecc.), talvolta osservato anche in fratelli con stessa mutazione. In certi casi il fenotipo variante è attenuato per un mosaicismo da reversione genetica spontanea (correzione della mutazione) in una linea cellulare somatica che poi si espande (Wada et al., 2008). Genotipi associati a SCID e aspetti clinici A parte il caso della anomalia di DiGeorge completa, le SCID sono disordini monogenici a trasmissione autosomica recessiva (AR-SCID) o X-linked recessiva (XL-SCID). Una classificazione aggiornata si basa sulla genetica e sui derivanti meccanismi patogenetici prevalenti (Tab. I). SCID da aumentata apoptosi linfocitaria La Disgenesia reticolare associa una SCID T-B-NK- ad una neutropenia severa congenita (blocco allo stadio promielocitico): leucociti totali < 400/µL (“aleukocytosis”), sepsi fatali già nei primi giorni di vita, assente risposta al G-CSF, sordità neurosensoriale nei lattanti che sopravvivono grazie all’HSCT. Due gruppi (Lagresle-Peyrou et al., 2009; Pannicke et al., 2009) ne hanno di recente identificato la causa: mutazioni (missense; delezioni) del gene AK2 codificante la adenilato kinasi 2 (AK2) mitocondriale. Le adenilato kinasi catalizza- 231 F. Cossu Figura 3. Sindrome di Omenn (iniziale misdiagnosis di “eczema atopico”; paziente negativa per mutazioni di RAG1-RAG2). La SCID Omenn è stata osservata in associazione con mutazioni ipomorfiche (“leaky SCID”) di numerosi geni: RAG1-RAG2, DCLRE1C-Artemis, ADA, LIG4-DNA Ligasi IV, RMRP-CHH, IL2RG, IL7RA, anomalia di DiGeorge, WHN-FOXN1, ZAP-70. Si noti l’assenza nella lista, per il momento, di JAK3. In circa il 50% dei pazienti Omenn la mutazione resta sconosciuta, probabilmente anche per il gran numero di geni da considerare e per il ruolo di geni ancora non identificati. no la trasformazione reversibile 2 ADP D ATP + AMP (già dai batteri, una cellula sopravvive solo se concentrazioni di ATP/ADP/AMP entro range strettamente controllati). Esistono nelle cellule umane 7 diversi isozimi di adenilato kinasi, con diverse localizzazioni tessutali; le principali sono AK1 (cytosol) e AK2 – AK3 – AK4 (mitocondriali), espresse in tutte le cellule nucleate a parte le linee mieloidi e linfocitarie e le cellule della stria vascolare dell’orecchio interno, che invece esprimono soltanto la AK2. La AK2 è localizzata nello spazio intermembranoso mitocondriale, come la HAX1 (HCLS1 associated protein X) il cui difetto causa la neutropenia severa congenita delle famiglie descritte in origine da Kostmann. ADA-SCID (Deficit di Adenosina deaminasi): la adenosina deaminasi (ADA) trasforma adenosina (Ado) in inosina e deossiadenosina (dAdo) in deossinosina, e il suo deficit causa intossicazione metabolica da accumulo di Ado, dAdo e dATP (deossiadenosina trifosfato). Oltre ai noti effetti intracellulari di dAdo e dATP (apoptosi linfocitaria generalizzata "SCID T-B-NK-), l’Ado extracellulare in eccesso (normalmente è prodotta dai linfociti CD4+TReg) agisce su recettori specifici con ulteriore inibizione linfocitaria (Cassani et al., 2008) e probabile ruolo nelle manifestazioni autoimmunitarie (anemia emolitica, piastrinopenia, diabete, ipotiroidismo, ecc.) frequenti nella ADA-SCID anche dopo trattamento (Sauer et al., 2009). La ADA ha espressione massima nel timo ma comunque ubiquitaria e nella ADA-SCID sono frequenti importanti manifestazioni extra-immunologiche: anomalie delle giunzioni costocondrali, displasie scheletriche (vertebre, ossa iliache, ossa lunghe; specifico difetto di rimodellamento osseo, Sauer et al., 2009); epatite neonatale; sordità neurosensoriale; anomalie neurologiche (deficit motorio, cognitivo e del comportamento) con prognosi poco buona anche dopo la correzione del difetto immunitario (Honig et al., 2007) (QI < 2 SDs correlato ai livelli di dATP alla diagnosi; tra l’altro il deficit isolato di S-adenosil-omocisteina idrolasi, inibita dalla dAdo, causa di per sé grave ritardo psicomotorio). 232 Per la ADA-SCID esistono realmente diverse opzioni terapeutiche (Gaspar et al., 2009; Fig. 4): • l’HSCT senza condizionamento da donatore familiare HLAmatched resta il trattamento di scelta, con successo > 90%; invece, l’HSCT (con condizionamento mieloablativo o a ridotta intensità) da donatore HLA-mismatched, specie genitore aploidentico, ha successo solo nel circa 40% e dovrebbe essere evitato; • terapia sostitutiva enzimatica: iniezione i.m. 1-2 volte/settimana di PEG-ADA (polyethylene-glycol-modified calf intestinal ADA; ADAGEN®), protegge dall’intossicazione metabolica sia i linfociti immaturi (buona ricostituzione immunologica entro 24 mesi) che gli altri tessuti ed è spesso terapia salva-vita alla diagnosi. Se prolungata > 6 mesi, dà sopravvivenza a 20 anni di circa 80%; nel 20% restante: mortalità precoce per condizioni già gravi alla diagnosi, tardiva specie per anemia emolitica refrattaria (1-3 anni), e insufficienza respiratoria cronica, malattie linfoproliferative, tumori epatici (5-15 anni). A lungo termine (810 anni) si è inoltre osservato un graduale declino di conte e funzioni linfocitarie. • terapia genica: come descritto di recente (Aiuti et al., 2009) ha raggiunto per la ADA-SCID i risultati più promettenti (Box 2). Deficit di PNP (Purina nucleoside fosforilasi): anche il difetto dell’enzima successivo all’ADA nella “purine salvage pathway” può presentarsi con un quadro di SCID (la dGTP, deossiguanosina trifosfato, accumulata causa apoptosi dei linfociti, specie T). Da ricordare che le cellule non producono acido urico: uricemia tipicamente < 2 mg/dL. È una forma con prognosi grave (Aytekin et al., 2009): la PEG-PNP non è commercializzata, la terapia genica è ancora in fase di ricerca; l’unica possibilità terapeutica è l’HSCT, che peraltro non corregge i gravi disturbi neurologici in genere presenti (iper- o ipotonia, atassia, ritardo psicomotorio); frequenti anche le manifestazioni autoimmuni Le basi genetiche delle SCID Figura 4. Flow chart per il trattamento della ADA-SCID (PEG-ADA – polyethylene-glycol-modified calf intestinal ADA; HSCT – hematopoietic stem cell transplantation; da Gaspar et al., 2009, mod.). (anemia emolitica, piastrinopenia, neutropenia, artriti, ecc.) ed inoltre neoplasie. STAT5; la maggior parte dei pazienti sono composti eterozigoti di due mutazioni diverse (Pesu et al., 2005). SCID da difetti di segnali mediati da citochine La SCID da difetto di catena gamma common (γc) colpisce solo i maschi in quanto XL-SCID T-B+NK- da mutazioni del gene IL2RG posto in Xq13.1 e codificante la catena γ del recettore per l’IL-2. David Phillip Vetter (Fig. 2) era affetto da questa forma (con mutazione IL2RG nonsense exon 7 C937A S308X -62 aa. of 369 aa.); il cosiddetto “bubble boy paradox” (ad es., sia il topo knockout per IL-2 che i rari pazienti con difetto di IL-2 non presentano SCID ma invece grave difetto dei linfociti TReg con autoimmunità severa, ecc.) si è risolto con la scoperta che la catena γ è condivisa (γ common chain – γc) anche dai recettori di IL-4, IL-7, IL-9, IL-15, e IL-21; IL-7 e IL-15 sono essenziali per lo sviluppo, rispettivamente, di linfociti T e NK (Berg, 2008; Rochman et al., 2009). La XL-SCID è la SCID più frequente (almeno negli USA) ed è una forma esclusivamente immunologica. Anche i cheratinociti cutanei però esprimono i recettori citochinici con γc (e JAK3), importanti per l’immunità innata locale: a distanza di molti anni dall’HSCT (e anche dopo terapia genica) è frequente una papillomatosi cutanea severa da infezione cronica da HPV dei cheratinociti nei pazienti con XLSCID o AR-SCID da difetto di JAK3. L’HSCT senza condizionamento da donatore familiare HLA-matched ha nella XL-SCID successo > 95%, però con frequente mancata ricostituzione immunologica della linea B (Box 1). La storia della terapia genica per la XL-SCID è invece controversa (Box 2). Invece, la SCID da Difetto di IL-7Rα (catena α del recettore dell’IL-7) è una SCID T-B+NK+ in quanto la funzione dell’IL-15 ("NK) è normale ed è compromessa solo la funzione dell’ IL-7 e della TSLP (thymic stromal lymphopoietin) che condivide la stessa catena α nel suo recettore (Giliani et al., 2005; Rochman et al., 2009). Nell’uomo l’IL-7, prodotta dalle cellule stromali dei tessuti linfoidi e dagli epatociti, appare essere il vero “T cell growth development factor”, e infatti il suo dosaggio nell’eluato da Guthrie card è un metodo alternativo o complementare ai TRECs per lo screening di SCID (aumenta per “feedback” in caso di assente risposta dei linfociti T; IL-7 > 15 pg/mL indica SCID). La SCID da difetto di JAK3 è l’equivalente AR del Difetto di γc, dato che la tirosin-chinasi JAK3 (Janus chinasi 3) si associa appunto alla catena γc nella “signaling pathway” IL-2, 4, 7, 9, 15, 21 - JAK3 - SCID da difetti del pre-T cell receptor (pre-TCR) Durante la “T lymphopoiesis” nel microambiente del timo (stadio di “large pre-T cell”) ha un ruolo essenziale il pre-TCR (Nemazee, 2006), formato da una catena TCRβ (gene TCRβ riarrangiato) e dalla catena invariante pTα (pre-TCR α chain) codificata dal gene PTCRA posto in 6p21.2 (quest’ultimo davvero un molto sospetto “gene candidato” per SCID). Il pre-TCR trasmette il suo segnale mediante numerose altre molecole comuni anche al TCR (T cell receptor dei linfociti T maturi): molecole del complesso recettoriale (CD3γ, CD3δ, CD3ε, CD3ζ), protein-tirosina chinasi (Fyn, Lck, ZAP-70), proteinfosfotirosina fosfatasi (CD45). C’è evidente analogia con il pre-B cell receptor (pre-BCR) della “B lymphopoiesis”: i difetti del pre-BCR (Igµ, λ5, VpreB, CD19, BTK) bloccano lo sviluppo dei linfociti B e causano agammaglobulinemia; quelli del pre-TCR, distinti in difetti di ricombinazione V(D)J e difetti di trasmissione del segnale del pre-TCR, bloccano lo sviluppo dei linfociti T e causano perciò SCID (Fig. 5). 233 F. Cossu Difetti di ricombinazione V(D)J La parte variabile, antigene-specifica, della catena TCRβ del preTCR, catena Igµ del pre-BCR e poi catene di TCR, BCR e immunoglobuline è codificata dai relativi segmenti genici riarrangiati mediante la ricombinazione V(D)J del DNA. Questa avviene in due fasi: una specifica dei linfociti T e B (“trasposasi” RAG1 e RAG2, codificate dai RAG-1 e RAG-2); una successiva svolta dalle proteine del Non Homologous End-Joining (NHEJ: Ku70/80, DNA-PKcs, Artemis, Cernunnos/XLF, DNA ligase IV, XRCC4), complesso che ripara in tutte le cellule le “double-strand breaks” del DNA (Xu, 2006). Dal difetto di queste molecole derivano SCID T-B-NK+, con nel primo caso (RAG1, RAG2) patologia limitata ai linfociti T e B e nel secondo interessante invece tutte le cellule con problemi simili ad altre sindromi con difetto di riparazione del DNA: radiosensibilità, particolare suscettibilità ai chemioterapici (agenti alchilanti) anche dei condizionamenti pre-HSCT, predisposizione a neoplasie, e (ma solo in alcune forme: difetto di DNA ligase IV, difetto di Cernunnos/XLF) facies dismorfica, microcefalia, malformazioni dell’encefalo, ritardo psicomotorio. Il difetto di RAG1 o RAG2 causa SCID tipica, Sindrome di Omenn, ed inoltre rare forme peculiari es. con infezione precoce e generalizzata da CMV, citopenia autoimmune ed espansione di linfociti T γ/δ, o con granulomi di cute, mucose, organi interni ed EBV-linfoma (Sobacchi et al., 2006; Schuetz et al., 2008). Sono finora noti nell’uomo i difetti di quattro molecole del NHEJ. La SCID da difetto di Artemis, in cui è mutato il gene DCLRE1C (DNA cross-link repair protein 1C), è presente con varie mutazioni in tutte le popolazioni; un tempo era però conosciuta come “SCIDA” cioè SCID delle popolazioni di lingua Athabaskan (Apache, Nazione Navajo) nelle quali è assai frequente (1/2000 nati) per l’esistenza di un effetto fondatore (eterozigote per la particolare mutazione exon 8 C576A - Artemis Y192X ben 1 persona ogni 10) (Li et al., 2002). Il difetto di DNA ligasi IV causa la “Ligase IV syndrome” (simile alla Nijmegen breakage syndrome, NBS) con, oltre a possibile SCID tipica o Omenn, facies dismorfica, microcefalia, ritardo di accrescimento e psicomotorio, anomalie della cute, pancitopenia, predisposizione (anche negli eterozigoti) a leucemie e altre neoplasie (Chistiakov et al., 2009). Il difetto di Cernunnos/XLF causa immunodeficienza combinata con compromissione immunologica di solito più tardiva rispetto ad una SCID tipica, ed inoltre dismorfie, microcefalia, ritardo psico-motorio, insufficienza midollare e mielodisplasia (Buck et al., 2006). Recentemente in una bambina di origine turca, di genitori consanguinei, con diagnosi di SCID T-B-NK+ all’età di 5 mesi, è stato poi identificato il primo caso di difetto di DNA-PKcs per mutazione (missense ipomorfica T9185C L3062R) del gene PRKDC codificante la DNA-dependent protein kinase catalitic subunit (DNA-PKcs). La mutazione di tale gene è la nota causa della SCID “naturale” del topo oltre che di altri animali (cavalli arabi, cani Jack Russell terriers) ed era perciò stata ricercata a lungo nell’uomo, con notevoli difficoltà dato che gene e proteina sono davvero grandissimi (86 esoni; 4096 aminoacidi) ed inoltre ad es. l’espressione della proteina può essere normale con soltanto difetto di funzione (van der Burg et al., 2009). Tutte le SCID da difetto di ricombinazione V(D)J hanno particolari problemi con il HSCT (Box 1). Figura 5. Rappresentazione schematica del pre-T cell receptor (pre-TCR; timo: large pre-T cell, con gene TCRβ riarrangiato) e del pre-B cell receptor (pre-BCR; midollo osseo: large pre-B cell, con gene IgHμ riarrangiato). I difetti del pre-TCR, distinti in difetti di ricombinazione V(D)J e difetti di trasmissione del segnale del pre-TCR, bloccano lo sviluppo dei linfociti T e causano perciò SCID; i difetti del pre-BCR bloccano lo sviluppo dei linfociti B e causano agammaglobulinemia. Fyn, Lck, Blk, Lyn, Syk, e Btk (Bruton tyrosine kinase): protein-tirosina chinasi; CD45: protein-fosfotirosina fosfatasi (da Nemazee, 2006, mod.). 234 Difetti di trasmissione del segnale del pre-TCR AR- SCID T-B+NK+ può aversi per un difetto completo di CD3δ, CD3ε, CD3ζ o CD3γ (circa 1% di tutte le SCID). Le diverse subunità CD3, in forma di dimeri γε, δε, e ζζ , si associano al pre-TCR e poi al TCR e sono indispensabili per assemblaggio nella membrana cellulare, trasmissione del segnale, e quindi T lymphopoiesis e attivazione dei linfociti T maturi; sono possibili, per vari meccanismi, fenotipi di gravità assai diversa (Recio et al., 2007; Rieux-Laucat et al., 2006). Assai rara è anche la AR-SCID T-B+NK+ da difetto di CD45 (Tchilian et al., 2001). CD45 (LCA –Leucocyte Common Antigen) è una proteintirosina fosfatasi essenziale per la trasmissione del segnale di preTCR e TCR (e anche BCR), costituisce circa il 10% delle proteine di membrana dei linfociti T e B, ed esiste in multiple isoforme prodotte da complessi splicing alternativi degli esoni codificanti la parte extracellulare. L’espressione delle diverse isoforme dipende dal tipo di cellula ed inoltre dallo stato di differenziazione e attivazione cellulare (es., come noto, linfociti CD4 naive o memory); CD45 è una molecola di straordinario interesse anche per l’associazione tra polimorfismi e suscettibilita o resistenza ad es. verso malattie autoimmuni (Tchilian et al., 2006). Il difetto di ZAP-70 causa un caratteristico deficit di linfociti CD8+ e può manifestarsi con una AR-SCID T+(CD4+ CD8-)B+NK+ o invece quadri più attenuati (Turul et al., 2009). È stato finora descritto un singolo caso di AR SCID T-B+NK+ da difetto di p56LCK (non identificate mutazioni del gene, ma splicing aberrante con assenza nell’RNA trascritto dell’esone 7 ed espressione della Le basi genetiche delle SCID proteina molto ridotta); il difetto di p56LCK si associa anche a CD4 linfopenia idiopatica. SCID da difetti dei canali del calcio Le variazioni dei livelli di Ca2+ intracellulare sono un meccanismo fondamentale per la trasduzione del segnale in tutte le cellule (Feske, 2007). Nei linfociti T l’attivazione del complesso TCR/CD3 causa un rilascio di Ca2+ dalle scorte del reticolo endoplasmatico (ER-stores), cui segue una store-operated Ca2+ entry (SOCE) cioè un cospicuo ingresso nella cellula dallo spazio extracellulare di altri ioni Ca2+ per l’apertura di canali della membrana plasmatica (CRAC: Ca2+ release-activated calcium channels); tra i principali effetti finali dell’aumento del Ca2+ intracellulare è la traslocazione del NFAT (nuclear factor of activated T cells) nel nucleo, con attivazione di uno specifico gruppo di geni . In rari pazienti con AR-SCID si è individuato un difetto di SOCE-CRAC causato da mutazioni dei geni codificanti due proteine altamente conservate: ORAI1 (nome ORAI: Ore – Stagioni della mitologia; è la subunità formante i pori dei CRAC) e STIM1 (stromal interaction molecule-1; è il sensore della concentrazione di Ca2+ nell’ER ed attiva ORAI1-CRAC). I fenotipi clinici del difetto di ORAI1 e del difetto di STIM1 sono simili (Feske, 2009): SCID severa, però T+B+NK+ (differenziazione e numero normale dei linfociti T, B e NK) con nei linfociti T grave difetto di influsso di Ca2+ e di proliferazione dopo stimolazione con mitogeni; ipergammaglobulinemia, ma con deficit di produzione anticorpale specifica; miopatia congenita non progressiva (lattante ipotonico); aspetti di displasia ectodermica (anidrosi, difetto dello smalto). Nel difetto di STIM1 si hanno inoltre deficit di linfociti CD4+TReg e gravi manifestazioni autoimmuni (epatosplenomegalia, linfoadenomegalia, anemia emolitica autoimmune, piastrinopenia) (Picard et al., 2009). SCID da difetti di embriogenesi del timo Le interazioni tra le cellule timiche (cellule stromali; cellule epiteliali – TECs; cellule dendritiche midollari) ed i timociti appaiono sempre più importanti nella patogenesi delle SCID (Poliani et al., 2009; Rodewald, 2008). Due forme di SCID riconoscono un primitivo difetto embriologico del timo: Sindrome Nude/SCID Il gene WHN (wingled-helix-nude) codifica il fattore di trascrizione FOXN1 (forkhead box N 1) espresso selettivamente nell’epitelio di cute e timo, e le sue mutazioni causano il noto fenotipo “Nude/SCID” del topo e anche l’equivalente umano (alopecia totale congenita; distrofia ungueale; assenza del timo, con tipica SCID TB+NK+ - Frank et al., 1999). La forma umana è stata identificata in due sorelle di un piccolo paese della Campania (Acerno), dove per un effetto fondatore il 6.52% della popolazione è portatrice della mutazione C792T R255X; FOXN1 appare essenziale anche per lo sviluppo embrionale del tubo neurale (anencefalia e spina bifida in un feto affetto; elevata incidenza di aborti precoci nelle coppi di eterozigoti) (Amorosi et al., 2008). Anomalia di DiGeorge La anomalia di DiGeorge completa (circa 1% di tutti i casi di DiGeorge), caratterizzata dalla assenza del timo con conseguente SCID TB+NK+, ed inoltre dismorfie facciali, malformazioni cardiache, assenza delle paratiroidi con tetania ipocalcemica neonatale, ha diverse eziologie (Markert et al., 2009): circa 50%, “classica” del 22q11.2 di circa 3 Mb interessante > 35 geni, tra cui TBX-1 coinvolto nello sviluppo di cuore, timo, paratiroidi, palato, viso; circa 25%, asso- ciazione CHARGE (coloboma, heart defects, atresia choanae, retardated growth and development, genital hypolasia, ear anomalies/ deafness; nella maggioranza dei pazienti mutazione del gene CHD7, codificante la chromodomain helicase DNA-binding protein-7); circa 15%, embriopatia da madre diabetica. Del 22q11.2 e CHD7 hanno trasmissione autosomica dominante (mutazione de novo in > 80%); in circa 1/3 dei casi si ha un quadro tipo Omenn. La assai particolare terapia per correggere il difetto immunologico determinato dalla atimia è il trapianto di timo (timo neonatale prelevato durante interventi di cardiochirurgia e posto in coltura; poi inserimento di “slide” multiple di tessuto in incisioni profonde nei muscoli quadricipiti del bambino). SCID da altri meccanismi Difetto di Coronina 1A: i topi con mutazione del gene CORO1A presentano un severo deficit di linfociti T periferici; questo ha suggerito la recente scoperta di un difetto di Coronina 1A in una paziente di 13 mesi con quadro di AR-SCID T-B+NK+ e con in un gene CORO1A una delezione di 2 bp, l’altro gene interamente assente per una delezione di 600 kb in 16p11.2 (Shiow et al., 2009). Le Coronine (1A, 1B, 1C, 2A, 2B, 7) sono una famiglia di proteine altamente conservate e antagonizzano (all’opposto della WASP – Wiskott-Aldrich Syndrome Protein) la polimerizzazione dell’actina, partecipando alla regolazione delle complesse variazioni dinamiche del citoscheletro. La Coronina 1A è soprattutto espressa nella linea linfocitaria T: il suo difetto causa in particolare un eccesso di F-actina nei timociti con drastica riduzione della motilità cellulare, blocco della dismissione dal timo e ritenzione intratimica dei linfociti T maturi “single positive” CD4+CD8− o CD4−CD8+ (Burkhardt et al., 2008). Mutazioni dei geni (CIITA, RFXANK, RFX5, RFXAP) codificanti quattro fattori che regolano promoter e trascrizione del cluster HLA DR, DP, DQ (posto in 6p21.3) causano il difetto delle molecole MHC di Classe II, normalmente espresse da cellule epiteliali timiche, linfociti T attivati e cellule (linfociti B, cellule dendritiche, monociti/macrofagi) che presentano l’antigene ai linfociti T CD4+. Ne deriva un grave deficit immunitario con, a parte una minoranza di casi “attenuati”, quadro di SCID T+(CD4- CD8+)B+NK+ a prognosi particolarmente severa: nei pazienti finora descritti, successo <50% con l’HSCT (anche da donatore HLA-matched) (Renella et al., 2006). Mutazioni del gene RMRP (ribonuclease mitochondrial RNA processing), altamente polimorfico, codificante non una proteina ma l’RNA dell’ “RNase MRP ribonucleoprotein complex” (composto inoltre da almeno 10 diverse proteine) causano difetto del processing dei ribosomi e di replicazione mitocondriale e cellulare ed un ampio spettro fenotipico (Notarangelo et al., 2008): la sindrome CHH (Cartilage hair hypoplasia), AR, frequente negli Amish e nei Finlandesi (rispettivamente 1:19 e 1:76 individui portatori della mutazione 70 A>G da effetto fondatore) è una condrodisplasia metafisaria con nanismo, capelli chiari ipotrofici, e immunodeficienza variante da SCID T-B+NK+ (anche Omenn) a deficit selettivo di linfociti T CD8+, immunodeficienza combinata senza alterazioni scheletriche, e all’altro estremo deficit immunitario non significativo. Oltre a CHH, mutazioni di RMRP (in genere in altri punti della molecola di RNA, lunga 267 nt) causano altre tre displasie ossee: displasia metafisaria senza ipotricosi (MDWH), displasia cifomelica, e displasia anauxetica. Nella sindrome di Hoyeraal-Hreidarsson (HHS) è patognomonica l’associazione tra immunodeficienza (SCID T+B-NK-) e ipoplasia del cervel- 235 F. Cossu letto; la forma XL, da mutazione del gene DKC1 codificante la discherina (componente della telomerasi) è la variante severa infantile della discheratosi congenita (Cossu et al., 2002); sono stati descritti anche casi di HHS, ancora più rari, a trasmissione autosomica recessiva. Infine, si è di recente definito che il difetto di PCFT (proton-coupled folate transporter) con malassorbimento intestinale dei folati (HFM – hereditary folate malabsorption) può presentarsi con un fenotipo SCID T+B+NK+ ai 3-4 mesi di età (deplezione delle riserve acquisite per via transplacentare; sono particolarmente sensibili i linfociti ed il sistema nervoso in formazione). Si hanno arresto dell’accrescimento, diarrea, gravi infezioni, agammaglobulinemia, assente proliferazione linfocitaria ed inoltre anemia (megaloblastica; però mascherata a normocitica se concorrente carenza di ferro), convulsioni, gravi rischi per il sistema nervoso. L’acido folico plasmatico è indosabile. È una SCID speciale, “reversibile”: la terapia con acido folinico per via parenterale consente una drammatica correzione del difetto immunologico ed impedisce, se tempestiva, l’instaurarsi di danni neurologici irreversibili (Borzutzky et al., 2009). Box 1 di orientamento Trapianto di cellule staminali ematopoietiche (hematopoietic stem cell transplantation – HSCT) È l’unica possibilità di cura per la quasi totalità dei bambini affetti da SCID; recenti lavori (Mazzolari et al., 2009; Railey et al., 2009; Neven et al., 2009) ne descrivono i risultati a lungo termine in oltre 300 pazienti. Le percentuali di successo, assai migliorate negli ultimi decenni, sono del 70-95%, con però variabile incidenza anche di importanti complicanze. Diversi principali fattori influiscono sul risultato del trapianto: • Condizioni cliniche al momento della diagnosi: si conferma sempre più l’esito migliore in caso di diagnosi e HSCT entro i primi 3-4 mesi di vita, con quindi bambino in condizioni migliori, assenza di infezioni virali, ecc.; è evidente a questo riguardo l’importanza dello screening neonatale. • Tipo di donatore: un familiare HLA-matched è ovviamente il donatore ideale, però disponibile solo in una minoranza di casi; l’alternativa è un donatore HLA-matched non familiare o, se anche questo non disponibile in tempi brevi, un genitore HLA-aploidentico (con midollo rigorosamente depleto di linfociti T). • Non condizionamento versus condizionamento e genotipo/fenotipo della SCID: l’attecchimento senza condizionamento è in teoria possibile nella maggioranza dei pazienti, in particolare se SCID NK- quali difetto di γc e di JAK3, con però alta incidenza di mancata ricostituzione funzionale della linea B e quindi necessità di trattamento con Ig a tempo indefinito. Gli attuali protocolli di condizionamento non mieloablativi (es., con fludarabina) comportano anche in questi bambini di pochi mesi di età una minore tossicità, e presumibilmente meno effetti a lungo termine es. sull’accrescimento e sulle ghiandole endocrine. D’altra parte, nelle SCID con difetto di ricombinazione V(D)J (soprattutto forme da difetto di NHEJ) il difetto molecolare causa problemi di riparazione del DNA e quindi una particolare sensibilità al condizionamento (soprattutto agenti alchilanti). Non solo per la diversa sensibilità al condizionamento, il genotipo/fenotipo delle SCID influenza il risultato dell’HSCT: ad es., risultati migliori nelle SCID da difetto di γc e JAK3 (a parte frequente papillomatosi da HPV) e IL-7Rα, peggiori nei difetti di ricombinazione V(D)J (elevato rischio di tossicità acuta da condizionamento; e, pur in presenza di ricostituzione immunitaria soddisfacente, frequenti manifestazioni croniche autoimmuni, problemi intestinali, ecc.) e nella ADA-SCID (frequenti complicanze neurologiche permanenti: ritardo mentale, disfunzioni motorie, iperattività, sordità). Box 2 di orientamento Terapia genica (TG). L’inserzione mediante un vettore virale (al momento, Moloney murine leukemia virus – MLV –, defettivi) del gene normale nel DNA delle cellule staminali ematopoietiche CD34+ (midollo autologo) da cui poi si differenziano anche i linfociti, ha dato risultati differenti nelle due forme di SCID in cui ha avuto finora applicazione pratica (Quasim et al., 2009): • XL-SCID da difetto di γc: a partire dal 1999, due gruppi europei (Parigi; Londra) hanno eseguito TG su rispettivamente 11 e 10 pazienti (di età da 1 mese a 33 mesi); si è ottenuta ricostituzione immunologica in 17/21 pazienti, con indipendenza dalle Ig in 12/21 pazienti; però, 5/21 pazienti (4 nello studio francese, 1 in quello inglese), hanno presentato a distanza di 24 - 68 mesi dal trattamento una leucemia acuta linfoblastica T (T-ALL) per principalmente inserzione (mutagenesi inserzionale) di una singola copia intatta del retrovirus defettivo contenente il gene IL2RG ma anche il proprio enhancer in prossimità del promoter del LMO2 (noto oncogene dei linfociti T) con sua aberrante trascrizione ed espressione. Un paziente è deceduto per la leucemia, mentre gli altri sono stati curati con chemioterapia; l’occorrenza di questa grave complicanza ha portato alla sospensione della TG per XL-SCID in Europa (Howe et al., 2008). Negli USA è attualmente in corso un trial di TG (al momento chiuso; NCT00028236) che ha reclutato 8 pazienti già sottoposti senza successo a trapianto allogenico di cellule staminali: nei primi tre pazienti, di età 10-14 anni, la ricostituzione immunologica è stata scarsa, probabilmente in rapporto con l’età più avanzata ed involuzione timica, infezioni croniche virali, ecc. • Nella ADA-SCID la TG ha invece dato risultati molto promettenti ed è realmente indicata nei pazienti privi di donatore HLA-matched, come mostrato in particolare dalla casistica del gruppo di Alessandro Aiuti (Gaspar et al., 2009): TG con un migliorato protocollo di transduzione delle cellule CD34+ da parte di un vettore MLV defettivo, un condizionamento non-mieloalblativo (busulfano 2 mg/kg ev a -3 e -2) per “fare spazio nel midollo”, e la sospensione della PEG-ADA per dare un vantaggio selettivo ai linfociti con il gene corretto, in 15 pazienti di età da 6 mesi a 5.6 anni. Tutti i 15 pazienti sono vivi, con nei primi 10 (Aiuti et al., 2009): in 9/10 buona ricostituzione T, in 8/10 espressione di ADA persistente con “detossificazione sistemica” senza più necessità di PEG-ADA fino a 8 anni dopo la TG, in 5/10 non più necessità di trattamento con Ig. Risultati simili si sono osservati nei pazienti di altri gruppi; in particolare, in nessun paziente con ADA-SCID trattato con TG si è finora osservata la complicanza della proliferazione clonale leucemica da mutagenesi inserzionale, e questo nonostante il vettore si integri comunque “pericolosamente” in prossimità di LMO2 o altri noti oncogeni (Sauer et al., 2009). Attualmente c’è un’intensa ricerca per altri vettori virali che non presentino problemi di mutagenesi inserzionale: i SIN (self-inactivating) Lentivirus si integrano anche nelle cellule non in mitosi e (al contrario dei gammaretrovirus quali il MLV) non hanno come target preferenziale di inserzione le regioni promoter dei geni attivi. Una recente osservazione (espansione clonale da integrazione del vettore Lentivirus nel gene della proteina DNA-binding HMGA2 in un paziente del trial di TG per talassemia in corso in Francia; Williams, 2009) impone però ulteriore cautela. 236 Le basi genetiche delle SCID Bibliografia Aiuti A, Cattaneo F, Galimberti S, et al. Gene therapy for immunodeficiency due to adenosine deaminase deficiency. N Engl J Med 2009;360:447-58. ** Descrive i risultati assai promettenti della terapia genica dell’ADA-SCID. Amorosi S, D’Armiento M, Calcagno G, et al. FOXN1 homozygous mutation associated with anencephaly and severe neural tube defect in human athymic Nude/SCID fetus. Clin Genet 2008;73:380-4. Aytekin C, Dogu F, Tanir G, et al. Purine nucleoside phosphorylase deficiency with fatal course in two sisters. Eur J Pediatr 2010;169:311-4. Baker MW, Grossman WJ, Laessig RH, et al. Development of a routine newborn screening protocol for severe combined immunodeficiency. 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Fausto Cossu, Centro Trapianti Midollo Osseo, Clinica Pediatrica II, Ospedale Microcitemico, via Jenner, 09121 Cagliari. E-mail: [email protected] 238 Ottobre-Dicembre 2009 • Vol. 39 • N. 156 • Pp. 239-245 FOCUS SU: Obesità e sindrome metabolica in età pediatrica Gianni Bona, Arianna Busti, Flavia Prodam, Simonetta Bellone Clinica Pediatrica, Dipartimento di Scienze Mediche, Università del Piemonte Orientale Novara Riassunto In Italia la prevalenza del sovrappeso e dell’obesità sono tra le maggiori in Europa, con un tasso di crescita annuo pari agli Stati Uniti. L’interessamento precoce dell’infanzia ha reso necessario parlare di Sindrome Metabolica anche in età pediatrica, presente nel 30% dei bambini obesi. Alla base di tale patologia, meccanismi ambientali, metabolici, ormonali e, di recente scoperta, genetici sono responsabili di un circolo vizioso che porta alla comparsa di pubertà precoce, insulinoresistenza e patologie cardiovascolari precoci. Per far fronte a tale problema sono necessari strumenti diagnostici e terapeutici precisi e validati, che possano essere monitorati nel tempo. In campo terapeutico il ruolo fondamentale è svolto dalla dietoterapia e dall’attività fisica, ma la definizione di obesità come malattia multifattoriale, sta aprendo il campo a nuovi farmaci, tra cui la metformina, già approvata per diabete mellito 2. La terapia dell’obesità e complicanze implica una diagnosi ed una definizione precisa di obesità e Sindrome Metabolica, spesso difficile in età pediatrica in cui permangono difficoltà legate alle modificazioni somatiche e metaboliche durante l’accrescimento. Negli anni le società scientifiche hanno sviluppato classificazioni e parametri metabolici e fisici che si adattassero a tali esigenze, spesso modificando classificazioni redatte per l’età adulta. In particolare, la scoperta del ruolo chiave dell’obesità centrale e delle modificazioni epatiche nell’insulinoresistenza, ha ridotto l’importanza di parametri quali il body mass index a favore della circonferenza vita e del nuovo rapporto vita/altezza e dello studio ecografico del fegato. Molto resta ancora da fare, soprattutto per la definizione di sindrome metabolica. Summary In Italy the prevalence of overweight and obesity are among the largest in Europe, with an annual growth rate equal to the United States. Involvement early childhood has made it necessary to speak of metabolic syndrome in childhood also, present in 30% of obese children. Environmental factors, metabolic mechanisms, hormonal, and newly discovered, genetic mechanisms, are responsible for a cycle that leads to the onset of early puberty, insulin resistance and cardiovascular disease. To resolve this problem are necessary accurate and validated diagnostic tools and appropriate therapies, which can be monitored over time. The key role is played by diet therapy and physical activity, but the definition of obesity as a multifactorial disease, is opening the field to new drugs, including metformin, which is already approved for diabetes mellitus 2. Treatment and complications of obesity involves a diagnosis and a precise definition of obesity and metabolic syndrome, often difficult in children, where there are still problems associated with somatic and metabolic changes during growth. Over the years, scientific societies have developed new classifications and metabolic and physical parameters, often by changing classifications prepared for adulthood. In particular, the discovery of the role of central obesity for the insulin insensitivity and liver changes, reduced the importance of parameters such as body mass index and give much importance to waist circumference, to the new waist/height ratio and to ultrasound for the study of liver. Much remains to be done, especially for the definition of metabolic syndrome in childhood. Introduzione Modalità di ricerca bibliografica L’obesità venne inserita per la prima volta nella Classificazione Internazionale delle Malattie, a partire dal 1948. Spesso risulta ancora attuale la convinzione che il grasso corporeo sia solo un deposito di energia, senza funzioni ormonali e metaboliche, e che il suo aumento possa costituire solo un problema estetico o al più un impaccio per le prestazioni motorie, piuttosto che una malattia con ripercussioni sulla salute. La maggior parte dei genitori non conosce le conseguenze metaboliche dell’obesità ed è convinta che una buona dieta possa risolvere da sola il problema. I dati epidemiologici citati evidenziano il carattere epidemico dell’obesità in età pediatrica e come la sua insorgenza nei primi anni dell’infanzia, abbia reso necessario considerare anche l’età pediatrica a rischio di sviluppare la sindrome metabolica (SM). Scopo di tale revisione, è stimare le reali dimensioni del problema “obesità/SM” in età pediatrica e fare chiarezza sui criteri diagnostici a disposizione del medico per una corretta diagnosi ed intervento. Altro scopo è presentare i numerosi progressi della conoscenza in campo metabolico, guardando al bambino obeso non solo come un soggetto “inattivo e mangione”, ma come un soggetto in cui sia fattori genetici/ambientali, sia modificazioni metaboliche, possano determinare l’insorgenza di un circolo vizioso che porterà allo sviluppo di SM e patologie cardiovascolari. La ricerca degli articoli rilevanti su “Obesità e Sindrome Metabolica” è stata effettuata sulla banca bibliografica Medline utilizzando come motore di ricerca PubMed e la funzione MeSH database. Come parole chiave: Metabolic Syndrome, Body Mass Index, Classification, NCEP, school program, Oveweight, Obesity, Polycystic Ovary Syndrome, Insuline Resistence. Sono stati utilizzati i seguenti filtri: bambini da 0-18 anni. Obesità in età pediatrica Le dimensioni del problema L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) afferma che circa un miliardo di persone nel modo è in sovrappeso e 300 milioni sono invece obesi. L’epidemiologia dell’obesità infantile, pur presentando aspetti di difficile interpretazione, mancando sicuri standard di riferimento, sottolinea il trend in crescita negli ultimi 20 anni, raggiungendo i caratteri di un’epidemia nei Paesi industrializzati (Stati Uniti, Europa), ma coinvolgendo progressivamente anche Paesi in via di sviluppo (Asia, India, Sud America). In Europa la prevalenza del sovrappeso in età pediatrica è del 15-17% e del 3% per l’obesità. Negli Stati Uniti, la prevalenza dell’obesità in età pediatrica (18%) è in rapido incremento, ipotizzando che nel 2050, i soggetti obesi di 239 G. Bona et al. età inferiore ai 20 anni saranno circa il 25% (Kipping et al., 2008; Termizy et al., 2009). In Italia il quadro epidemiologico è in parte sovrapponibile agli altri Paesi industrializzati, ma negli ultimi anni il problema sta assumendo dimensioni sempre maggiori, tra le più preoccupanti in Europa. Gli ultimi dati a disposizione (1999-2002) mostrano come la prevalenza del sovrappeso sia del 20%, mentre la quota degli obesi sia pari al 4%. Il problema interessa soprattutto gli adolescenti di sesso maschile, età in cui si raggiunge un picco per il sovrappeso (36,8%), ed il Sud Italia (17% al Nord, 21% al Centro e 25% al Sud, composta per il 66% da maschi) (fonte ISTAT 2006). In Italia la prevalenza di sovrappeso in età pediatrica è superiore di circa 3 punti percentuali rispetto alla media Europea, con un tasso di crescita/annua di circa 0,5-1%/anno, raggiungendo un incremento annuo pari a quello degli Stati Uniti. Anche in età pediatrica le complicanze ad essa correlate (diabete mellito tipo 2 – DM2 –, ipertensione arteriosa) sono in netto aumento, presentandosi più precocemente ed aggravando lo stato di salute della popolazione. Si stima infatti che il 2-8% dei costi globali per la Sanità sia legato proprio all’obesità. Definizione e diagnosi L’obesità è definita come un eccessivo accumulo di grasso corporeo. Tale definizione presuppone un’accurata misurazione della massa adiposa e valori di riferimento validati nei due sessi e nelle varie età, per poter definire una condizione di normalità o di patologia. Entrambe questi presupposti non sono disponibili per la comune pratica clinica. Infatti la misurazione del grasso corporeo è complessa e le metodiche più accurate (densitometria DEXA) non sono adatte ad un uso routinario. Alternative sono la bioimpedenziometria e la misurazione delle pliche di grasso sottocutaneo, entrambe limitate dall’assenza di cut off di riferimento per età e sesso. Durante l’adolescenza lo spessore delle pliche sottocutanee è il miglior predittore del grasso corporeo in età adulta, ma è spesso impreciso per la variabilità intraoperatore. A sua volta l’accuratezza e riproducibilità dell’impedenziometria è limitata dalle variazioni dello stato di idratazione del soggetto (assunzione di cibo, età, stadio dello sviluppo). Nella pratica clinica quotidiana si preferisce utilizzare degli indici surrogati ed indiretti di stima del tessuto adiposo, tra cui il body mass index (BMI), la circonferenza vita (CV), il rapporto vita/fianchi ed il più recente rapporto vita/altezza. In età pediatrica non esistono cutoff validati per tali indici, in quanto non terrebbero conto dei cambiamenti durante lo sviluppo e la crescita. Il valore calcolato viene confrontato così con curve di riferimento. Il più utilizzato è il BMI (peso in kg/quadrato altezza in metri) che, rispetto al solo peso, meglio descrive la distribuzione della massa corporea. Le curve Italiane per i soggetti dai 2 ai 20 anni sono state recentemente pubblicate nel 2006 (Cacciari et al., 2006) e definiscono sovrappeso un BMI superiore al 75° centile ed obeso un soggetto con BMI > 95°. Non tutte le società scientifiche concordano sui centili di riferimento: per esempio, l’American Academy of Pediatrics e l’Endocrine Society (Kavey et al., 2006) definiscono un soggetto sovrappeso se > 84° centile ed obeso se > 94°. Inoltre, tutte le curve di BMI sono basate sull’età e sesso ma non sugli stadi di Tanner e possono sovrastimare, o sottostimare il sovrappeso in soggetti con pubertà anticipata, o ritardata. Considerate tali limitazioni, alcuni autori hanno proposto l’utilizzo di un indice standardizzato, il BMI z score. Questo rappresenta il numero di deviazioni standard sopra o sotto la media del BMI calcolata per età e sesso. Le difficoltà all’uso del BMI z score dipendono dallo scarso utilizzo nella pratica clinica e dalla non immediata comprensione da parte dei genitori, rendendolo meno utile nell’educazione del nucleo famigliare (Daniels et al., 2009). 240 La misurazione della CV nella pratica clinica è andata aumentando negli ultimi anni (misura della circonferenza orizzontale passante per le creste iliache con un metro flessibile, nel soggetto in posizione eretta a piedi uniti). In Italia vengono utilizzate le curve redatte nel 1996, precedenti però alla pubblicazione delle nuove carte di crescita italiane, non rispecchiando la reale distribuzione della popolazione pediatrica e denunciando la necessità di costruirne delle nuove. Numerosi studi hanno invece utilizzato le più recenti curve europee (Zanolli et al., 1996, Savva et al., 2000, Fernández et al., 2004) (Tab. I). La CV si è dimostrata utile nel predire le complicanze dell’obesità, fornendo indicazioni sufficienti, seppur surrogate, sul tessuto adiposo viscerale, maggiormente correlato al rischio cardiovascolare. Studi su adulti hanno dimostrato infatti che una CV > 95° centile correla meglio con alterazioni (99%) della risposta insulinica e del quadro lipidico rispetto al gruppo con CV nei limiti (34%) (Savva et al., 2000). Per meglio correlare la CV con la distribuzione della massa grassa, questo parametro viene spesso rapportato ad altre misure antropometriche (fianchi, altezza). Il rapporto vita/fianchi identifica una distribuzione androide o ginoide della massa grassa, ma è fortemente influenzato dalla struttura ossea, dalla costituzione corporea e dalla postura, non utile nel predire il rischio cardiovascolare. Attualmente si sta affermando l’utilizzo del rapporto vita/altezza (vita in cm/altezza in cm). I valori ottenuti vengono confrontati con curve e considerati a rischio quando superiori al 75° centile (rapporto pari a 0,5). Il rapporto vita/altezza correla meglio del BMI e della sola CV con le alterazioni del quadro lipidico, in particolare con la riduzione del colesterolo HDL (high density lipoprotein) ed il livello di aterosclerosi, oltre che con il grado di resistenza insulinica sia in età adulta sia pediatrica (Savva et al., 2000; Maffeis et al., 2009). Nessuno di questi parametri da solo sembrerebbe essere migliore degli altri nella definizione di obesità, ma l’utilizzo in associazione è fortemente raccomandato per poter identificare soggetti con grasso Tabella I. Centili della circonferenza vita per sesso ed età europei (misure in cm) (da Fernandez et al., 2004, mod.). Percentile maschi Percentile femmine Età 75° 90° 75° 90° 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 48,6 51,2 53,8 56,5 59,1 61,7 64,3 67,0 69,6 72,2 74,9 77,5 80,1 82,8 85,4 88,0 90,6 50,6 54,0 57,4 60,8 64,2 67,6 71,0 74,3 77,7 81,1 84,5 87,9 91,3 94,7 98,1 101,5 104,9 49,6 51,9 54,2 56,5 58,8 61,1 63,4 65,7 68,0 70,3 72,6 74,9 77,2 79,5 81,8 84,1 86,4 52,5 55,4 58,2 61,1 64,0 66,8 69,7 72,6 75,5 78,3 81,2 84,1 86,9 89,8 92,7 95,5 98,4 Obesità e sindrome metabolica in età pediatrica prevalentemente viscerale ed indirizzare ad ulteriori esami di approfondimento (glicemia a digiuno, quadro lipidico, carico orale di glucosio) i pazienti che risultassero predisposti ad un maggiore rischio cardiovascolare, nell’ottica di ridurre la medicalizzazione ed avere a disposizione parametri facilmente monitorabili nel tempo. Tali indicazioni sono valide, seppur discusse, sia in età adulta sia pediatrica (de Kroon et al., 2008). La sindrome metabolica in età pediatrica Definizione ed epidemiologia La SM è stata per la prima volta definita nel 1988 da Reaven et al., come un’insieme di alterazioni metaboliche o un insieme di fattori di rischio cardiovascolare (resistenza insulinica, ipertensione arteriosa, alterazioni del quadro lipidico ed incremento ponderale a distribuzione centrale), in grado di determinare una patologia conclamata come il DM2 o patologie cardiovascolari. Studi osservazionali retrospettivi Europei in età pediatrica (19982004) hanno dimostrato che la prevalenza della SM in età pediatrica cresce parallelamente all’aumentare del grado di obesità, risultando circa del 4-6% nei soggetti sovrappeso e del 28,7-30% nei soggetti obesi. Il sesso femminile è maggiormente colpito, soprattutto durante la pubertà. Tali dati sono però imprecisi, non considerando l’incrementata prevalenza dell’obesità infantile negli ultimi 5-10 anni e basandosi su criteri non univoci, differenti nei diversi gruppi di studio, non sempre validati per l’età pediatrica (de Kroon et al., 2008; Cook et al., 2003). Classificazione e diagnosi La diagnosi di SM viene posta sulla base della combinazione di dati clinici, fisici (BMI, pressione arteriosa, CV) ed esami laboratoristici (colesterolo totale, colesterolo low density lipoprotein (LDL) e HDL, trigliceridi, glicemia, carico orale di glucosio). L’assenza di criteri e parametri validati in età pediatrica è un problema attuale, che rende spesso difficile classificare il “quadro meta- bolico” di un paziente in una categoria ad alto, medio o basso rischio cardiovascolare futuro. A tale problema differenti gruppi di studio e società scientifiche hanno cercato di dare una risposta, creando classificazioni, la maggior parte redatte per l’età adulta (OMS, 1992; European group for the study of insuline resistence, 2005). Tali criteri non possono essere utilizzati in età pediatrica senza le opportune modifiche, in quanto non tengono conto del processo di accrescimento e delle relative modificazioni somatiche e metaboliche, in particolare nel periodo dell’adolescenza, durante il quale si presenta fisiologicamente un’aumentata resistenza insulinica senza necessariamente sviluppare SM (Cook et al., 2003; Alberti et al.; 2005). La prima classificazione pediatrica risale al 1992, a cura del National Cholesterol Education Program (NCEP), modificando i cut-off di riferimento per il colesterolo e per i trigliceridi dell’adulto dell’ATPIII (Adult Tratment Panel III) (Tab. II), senza suddivisione per età e sesso. Nel 2007 la International Diabetes Federation (IDF) ha pubblicato criteri pediatrici (Tab. III) (Zimmet et al., 2007), ispirandosi in parte ai criteri IDF per l’adulto e ponendo come elemento centrale la circonferenza vita (CV), condizione senza la quale non può essere formulata la diagnosi di SM. I differenti criteri sono poi stati suddivisi in base al sesso ed all’età, considerando adulti soggetti con età maggiore di 16 anni. Tali classificazioni sono attualmente quelle più utilizzate, ma differenti studi, tra cui il National Health and Nutrition Examination Study – NHANES 1999-2000 (Duncan et al., 2004), non le hanno mai completamente validate per l’età pediatrica, mancando dati a lungo termine e confronti tra le differenti etnie. Gli studiosi denunciano il rischio di sovrastimare la SM con entrambe le classificazioni, ponendo l’una l’attenzione soprattutto sulla famigliarità (NCEP) e l’altra sulla CV (IDF), entrambe non in grado di giustificare da sole la SM. L’IDF inoltre, considerando la CV un dato sufficiente per la diagnosi, definisce affetti da SM un maggior numero di soggetti rispetto alla classificazione NCEP (differenza 5-7%) includendo quasi tutti i sovrappeso ed obesi, avendo quest’ultimi una CV > 95° centile. Tale presupposto rischia di sovrastimare l’effettiva prevalenza di SM nei soggetti con obesità centrale, ma contemporaneamente rischia di Tabella II. Criteri NCEP ATPIII modificati per l’età pediatrica. Definizione di sindrome metabolica quando presenti almeno tre criteri (NCEP, 1992-2005). Criteri National Colesterol Educational Pannel ≥ 95° centile per età e sesso (curve Cacciari 2006) BMI Pressione arteriosa Pressione sistolica o diastolica ≥ 90° centile per età e sesso (Fernandez et al., 2004) Trigliceridi ≥ 90° centile per età e sesso Colesterolo HDL ≤ 10° centile per età e sesso Alterata glicemia a digiuno (IFG) o dopo due ore dal carico di glucosio (IGT) IFG glicemia a digiuno ≥ 100 mg/dL IGT glicemia dopo due ore dal carico orale di glucosio ≥ 140 e < 200 mg/dl Tabella III. Criteri IDF 2007 per la diagnosi di sindrome metabolica in età pediatrica. La definizione di Sindrome Metabolica viene formulata sulla presenza di circonferenza vita > 90° centile, più almeno due degli altri criteri (Zimmet et al., 2007). Anni Circonferenza vita Trigliceridi Colesterolo HDL 6-9 ≥ 90° centile 10-15 ≥ 90° centile ≥ 150 mg/dL < 40 mg/dL ≥ 16 Maschi ≥ 94 cm, femmine ≥ 80 cm ≥ 150 mg/dL o un trattamento specifico Maschi < 40 mg/dL, femmine < 50 mg/dL o un trattamento specifico Pressione arteriosa Glucosio Sistolica ≥ 130 o diastolica ≥ 85 mmHg Sistolica ≥ 130 o diastolica ≥ 85 mmHg o in trattamento specifico Glicemia a digiuno ≥ 100 mg/dL o DMT2 Glicemia a digiuno ≥ 100 mg/dL o DMT2 241 G. Bona et al. sottostimare notevolmente il rischio di SM in soggetti ipertesi ed ipercolesterolemici, ma con CV nella norma. Pur presentando numerosi limiti, queste classificazioni devono essere introdotte nella pratica clinica, rappresentando un guida valida per identificare soggetti con elevato rischio cardiovascolare e quindi indirizzarli ad ulteriori esami o terapie più aggressive. Non solo, ma scorporando tali classificazioni, possiamo ottenere importati strumenti per la pratica clinica, tra cui i valori di riferimento sesso ed età dipendenti per il colesterolo ed i trigliceridi, in parte basati sui criteri NCEP modificati per l’età pediatrica e pubblicati recentemente sia dall’American Academy of Pediatrics, sia dall’American Heart Association (Nader et al., 2006) ed i centili per la pressione arteriosa determinati dalla seconda Task Force del National Heart, Lung and Blood Institute (NHLBI) di Bethesda (MD, USA), sesso, età ed altezza dipendenti (Task Force Report, 1996). Conseguenze non endocrine dell’obesità e della sindrome metabolica Particolare attenzione deve essere posta alle conseguenze durante l’accrescimento dovute al peso ed alla SM (Tab. IV). Numerosi studi hanno recentemente puntato l’attenzione sulle complicanze epatiche; il 40% dei bambini obesi presenta alterazioni ecografiche ed elevazione degli enzimi di necrosi e di stasi epatica. Tali condizioni sono descritte come “steatopatie non alcoliche (non-alcoholic fatty liver disease – NAFLD” secondarie ad un eccessivo rilascio di acidi grassi non esterificati in circolo ed iperafflusso di substrati lipidici al fegato. Le NAFLD sono associate soprattutto a SM ed insulinoresistenza piuttosto che al solo sovrappeso, ma non è ancora chiaro se siano una causa od un effetto della SM, e si ipotizza un loro futuro utilizzo come ulteriore criterio diagnostico per la SM sia in età pediatrica sia adulta. In età pediatrica, in particolare, la NAFLD sembra possedere caratteristiche istologiche differenti con più precoce fibrosi e più veloce esaurimento funzionale epatico (Freemark et al., 2007). L’insulino resistenza Definizione L’obesità è frequentemente caratterizzata da una condizione di insulino resistenza (IR), ovvero da una riduzione della risposta dei tessuti bersaglio all’azione dell’insulina, con conseguenze metaboliche sull’intero organismo essendo un ormone ad azione pleiotropica. Insulinoresistenza ed obesità La relazione causale tra obesità ed IR è ormai dimostrata. Entrambe i fattori danno origine ad un ciclo che si auto-mantiene. L’IR dipende infatti in gran parte dall’azione del grasso viscerale, che presenta una maggiore sensibilità agli stimoli lipolitici, soprattutto indotti dalle catecolamine, con aumentata dismissione in circolo di acidi grassi liberi (FFA) e conseguente aumento dell’ossidazione lipidica nell’organismo. L’aumento degli FFA circolanti e lo stress ossidativo da essi indotto determina nel tessuto adiposo un aumento della secrezione di resistina (aumento resistenza insulinica) e riduzione dell’adiponectina (ormone insulino-sensibilizzante). Aumenta, inoltre, la secrezione di citochine infiammatorie (TNF-α, IL-6, PCR), inducendo uno stato infiammatorio cronico responsabile esso stesso di IR (Weiss et al., 2004). A livello muscolare si riduce l’espressione in membrana dei trasportatori per il glucosio (GLUT4) e compaiono alterazioni del segnale intracellulare del recettore per l’insulina. Il fegato, in risposta allo stress ossidativo ed alla cronica iperinsulinemia, riduce l’espressione e la funzionalità dei recettori dell’insulina, non produce glicogeno e favorisce l’incremento dei livelli FFA per mancato utilizzo degli stessi. Per ottenere gli stessi effetti biologici è necessario mantenere un compenso metabolico, inducendo un’incremento dell’insulinemia, configurando così un quadro di iperinsulinismo associato a normoglicemia. L’iniziale compenso instaurato dalle β-cellule pancreatiche nel tempo tende ad esaurirsi, con comparsa, dapprima di alterata glicemia postprandiale, e successivamente iperglicemia a digiuno, instaurandosi precocemente un quadro di diabete mellito di tipo 2. L’IR stessa contribuisce ad un danno diretto delle β-cellule attraverso meccanismi di glucotossicità e lipotossicità con conseguenze anche per il metabolismo lipidico e proteico. Conseguenze dell’IR sono infatti anche le dislipidemie (ipetrigliceridemia, aumento del colesterolo LDL, riduzione del colesterolo HDL), l’infiammazione sistemica con danno endoteliale precoce e l’aterosclerosi (Vigneri et al., 2007; Maffei et al., 2009). Insulinoresistenza ed apparato endocrino L’IR è in grado di spiegare anche alcune alterazione endocrine che caratterizzano i soggetti sovrappeso ed obesi. In particolare, le bambine e le adolescenti obese, sono predisposte ad anticipo della pubertà, manifestando telarca e/o pubarca precoce e/o menarca anticipato, in parte spiegabile per effetto dell’iperinsulinismo sulla leptina. La leptina, ormone prodotto dagli adipociti, informa l’ipotalamo sullo stato energetico, impedendo l’incremento ponderale, riducendo l’appetito e promuovendo il dispendio energetico. Svolge inoltre un ruolo chiave nell’inizio della pubertà e nella regolazione del ciclo mestruale, promuovendo la pulsatilità del GnRH. L’iperinsulinismo riduce l’effetto della leptina sull’ipotalamo, facilitando un ulteriore incremento ponderale ed innescando un’aumentata secrezione di leptina a scopo compensatorio. I conseguenti elevati livelli di leptina favoriscono quindi l’inizio della pulsatilità del GnRH, l’aumento degli ormoni sessuali e l’inizio della pubertà. Gli estrogeni e gli androgeni circolanti promuo- Tabella IV. Principali conseguenze non endocrine dell’obesità. Disturbi dell’accrescimento Disturbi respiratori Problemi psicologici Disturbi cardiovascolari Ghiandole non endocrine 242 Difetti dello scheletro, scoliosi, piede piatto, coxa vara, ginocchia in atteggiamento di valgismo, malattia di Osgood-Shlatter, artrosi precoce Deposizione di grasso sottodiaframmatico ed addominale, infiltrazione grassa della muscolatura del torace, ipoventilazione con riduzione volume di riserva espiratoria, sindrome delle apnee ostruttive notturne Ridotta autostima e socializzazione Ipertensione, inspessimento intima arterie, dislipidemie, cardiopatia ischemica in giovane età, scarsa tolleranza agli sforzi fisici Steatopatia non alcolica, fibrosi epatica, caclolosi biliare Obesità e sindrome metabolica in età pediatrica vono così la secrezione e l’azione dell’ormone della crescita (GH) e del suo effettore IGF-I (insulin-like growth factor I). L’azione sinergica di questi tre ormoni è alla base della fisiologica resistenza insulinica durante la pubertà, che nel soggetto obeso va ad aggravare l’IR già presente. Nei maschi sovrappeso il quadro non è del tutto sovrapponibile: l’anticipazione della pubertà non è così marcata, anche se presentano spesso saldatura precoce delle cartilagini di accrescimento, con riduzione della statura definitiva (Agirbasli et al., 2009). Obesità ad insorgenza precoce, alterazioni endocrine e scarsa risposta alla terapia dietetica o farmacologica, devono però farci sospettare anche forme di obesità secondaria a patologie endocrine (sindrome di Cusching), a mutazioni genetiche (Tab. V). Recentemente sono stati infatti scoperte mutazioni in alcuni loci genetici in grado di determinare IR ed obesità, di cui le principali sono mutazioni del gene codificante per: leptina, recettore della leptina, proopiomelanocortina e recettore delle melanocortine. Diagnosi Alla luce di quanto detto, l’obesità non può però essere banalizzata al semplice controllo del peso, ma fondamentale è il controllo dell’IR e quindi in generale del metabolismo, in particolare durante l’adolescenza, in quanto più facilmente si possono instaurare le basi fisiopatologiche di malattie come il DM2, la sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) e patologie cardiovascolari precoci. Il gold standard per la misurazione della IR è il clamp euglicemico, metodica costosa, indaginosa ed invasiva. Dagli studi di clamp si sono ottenuti degli indici surrogati di IR, facilmente calcolabili, che si ottengono da formule sui livelli di glicemia ed insulina a digiuno (indici HOMA – Homeostasis Model Assessment – e QUICKI) o durante carico orale di glucosio (indice ISI) (Tab. VI). Non vi sono ancora dati chiari in termini di prognostici in età pediatrica nell’uso di tali indici (Maffeis et al., 2009). L’attenzione, anche se con alcune delusioni, si sta spostando verso gli indici e le citochine infiammatorie, elevate nell’IR. Un esempio è il dosaggio della PCR, spesso elevata in soggetti obesi. Recenti studi ne hanno però messo in dubbio l’utilità nella diagnosi di IR, limitandone l’uso a predittore di rischio cardiovascolare globale. Terapia dell’obesità e della sindrome metabolica Essendo l’obesità una patologia multifattoriale le scelte terapeutiche sono diverse e si basano su differenti combinazioni di dieta, attività fisica, terapia comportamentale, terapia farmacologica e chirurgica. Terapia dietetica ed attività fisica Non esistono studi sistematici che quantifichino la riduzione del peso ottenuta con la sola dieta. È invece dimostrata l’efficacia sul lungo termine di diete impostate rispetto ai soli consigli alimentari. In età pediatrica devono essere somministrate diete normocaloriche per l’età, basandosi sulla correzione delle errate abitudini alimentari senza eliminare nessun elemento nutritivo, che rallenterebbe la crescita e ridurrebbe la massa magra. Importante, per la buona riuscita della dieta è il follow-up del paziente, ottenendo migliori risultati con un programma strutturato di visite ad intervalli di 2 settimane-2 mesi. A tale scopo il ruolo del pediatra di famiglia è fondamentale nel monitorare e modificare la dietoterapia a seconda delle esigenze. L’incremento dell’attività fisica è però indispensabile per indurre un permanente cambiamento nel metabolismo del soggetto, infatti non solo facilita il calo ponderale, ma promuove l’insulinosensibilità e migliora il fitness cardio-respiratorio. Per ottenere tali effetti l’attività fisica deve essere quotidiana, e mantenuta per almeno 40 minuti consecutivi (Brufani et al., 2008). In età pediatrica, per indurre miglioramenti significativi di complicanze come l’ipertensione e le dislipidemie, è sufficiente una riduzione del 10% del peso corporeo, spesso ottenibile mantenendo stabile il peso e sfruttando la crescita in statura, migliorando quindi il rapporto peso/altezza. La riduzione del peso corporeo svolge di per sé un’azione diretta sulle complicanze dell’obesità, evitando l’assunzione di farmaci specifici per le singole complicanze. Il rischio di sviluppare SM e NALFD decresce in modo significativo quanto più precocemente venga instaurata una terapia per il sovrappeso e l’obesità (August et al., 2008; Love-Osborne et al., 2008). Terapia farmacologica La terapia farmacologica rappresenta il passo successivo, quando dieta ed attività fisica non siano sufficienti. Sconsigliate durante l’infanzia, tali terapie sono concesse in casi eccezionali durante l’adolescenza, quali obesità complicate su base genetica o in soggetti con un’obesità Tabella V. Caratteristiche cliniche dei pazienti affetti da obesità monogenica. Gene mutato LEP (leptina) Meccanismo di trasmissione ereditaria Recessivo Epoca di comparsa dell’obesità Primo anno di vita Recessivo Primo anno di vita Ridotta Recessivo/dominante Dominante Infanzia Infanzia/età adulta Normale/aumentata Aumentata LEPR (recettore della leptina) POMC MC4R Velocità di crescita Normale Endocrinopatie associate Ipogonadismoipogonadotropo, Ipotiroidismo Ipogonadismoipogonadotropo, Ipotiroidismo Deficit di ACTH Nessuno Tabella VI. Calcolo degli indici di insulina resistenza. Indice HOMA QUIKI ISI Glicemia digiuno (mg/dL) x Insulinemia digiuno (mcU/mL)/22,5 1/Log (insulinemia digiuno) + Log (glicemia digiuno) 10000/ RadQ (glicemia digiuno x insulinemia digiuno) x (media glicemie x media insulinemie durante curva da carico) 243 G. Bona et al. grave ed importanti complicanze ad essa associate. La terapia farmacologica deve essere sempre preceduta da un attenta valutazione del rapporto rischio/beneficio ed attento follow-up del paziente, visti gli effetti collaterali e la possibile interferenza con la crescita. I farmaci autorizzati sono attualmente: orlistat e metformina nel diabete mellito tipo 2. Non esistono studi di posologia ed efficacia di tali farmaci in età pediatrica, gli unici studi confermano l’utilità della metformina nel diabete mellito di tipo 2, nella clinica e nella IR della PCOS (off-label). Oltre ad un miglioramento del peso e del quadro metabolico, la metformina riduce la steatosi epatica e migliora la funzionalità epatica stessa (Freemark et al., 2007). L’orlistat impedisce l’assorbimento del 30% dei grassi assunti con la dieta, inibendo l’azione della lipasi pancreatica. In commercio dal 1999, è da pochi anni approvato in età pediatrica Il periodo di trattamento non deve superare i 6 mesi e la terapia deve essere interrotta in assenza di calo ponderale nei primi 3 mesi. L’EMEA (European Medicines Agency) e la FDA (Food and drug administration) nel 2008 ne sconsigliano l’utilizzo in casi di obesità complicata da epatopatia, visto il rischio di pancreatite ed epatite. L’utilizzo a lungo termine può determinare alterazioni gastro-intestinali e ridotto assorbimento delle vitamine liposolubili. Terapia chirurgica Terapia di terzo livello, alcuni autori concordano nel riservarla a casi gravi di obesità complicata (ipoventilazione, BMI > 40, grave ipertensione arteriosa con danno cardiaco). Nonostante ciò il numero annuale di interventi di chirurgia bariatrica in adolescenti è incrementato di circa 5 volte negli Stati Uniti ed in Australia dal 1997 al 2003. Studi prospettici e caso-controllo condotti su adolescenti e giovani adulti hanno dimo- strato come la chirurgia permetta di ottenere una maggiore riduzione del BMI e, rispetto ai soggetti non operati, un maggiore e più rapido miglioramento di marker metabolici. Le procedure utilizzate sono il Bypass gastrico (Stati Uniti) ed il bendaggio gastrico per via laparoscopica (Australia ed Europa). La procedura chirurgica è comunque da evitare prima del completo sviluppo, viste le conseguenze sull’assorbimento di nutrienti e sullo sviluppo e stabilizzazione delle funzioni metaboliche/endocrine dell’apparato digerente durante la crescita. Conclusioni La prevalenza dell’obesità nei bambini e negli adolescenti continua a crescere. Gli epidemiologi hanno allertato sulla possibilità che i nati in questo secolo possano avere una durata di vita inferiore a quella dei genitori proprio a causa dell’obesità e delle patologie cardiovascolari conseguenti (in media 10 anni nei prossimi 50 anni) (Jasik et al., 2008). L’obesità infantile quindi non può essere considerata un problema del singolo individuo, ma più in generale una sfida per la Sanità mondiale. Le strategie sinora messe in atto non sono risultate efficaci. Tra le principali motivazioni vi è un’importante sottostima da parte dei genitori del sovrappeso, del danno fisico (spesso silente nelle prime fasi) e la sottostima di fattori obesogeni (pubblicità, sedentarietà) a cui tutti siamo sottoposti. Per poter affrontare questo problema è importante considerare l’obesità come un profondo cambiamento metabolico, che necessita di disporre di punti di riferimento chiari e condivisi (classificazioni, nuovi indici metabolici e terapie, ecc.). Mentre questi sono già presenti in età adula, nonostante gli ultimi progressi, molto resta ancora da fare in età pediatrica prima di raggiungere un approccio sistematico e validato, unico in grado di ottenere risultati nella pratica clinica. A tale scopo è fondamentale coinvolgere la società, i genitori e stimolare gli specialisti che si occupano di tale complicata patologia a formulare delle linee di azione clinica comuni e condivise. Box di orientamento Obesità • In Italia la prevalenza di sovrappeso in età pediatrica è superiore di circa 3 punti percentuali rispetto alla media Europea, con un tasso di crescita/annua pari a quello degli Stati Uniti. • Il problema interessa soprattutto il Sud Italia e gli adolescenti di sesso maschile. • Circonferenza vita e rapporto vita/altezza correlano con il rischio cardiovascolare. • L’uso combinato di BMI, circonferenza vita, rapporto vita/altezza, BMI z score sono fortemente raccomandati, rispetto al monitoraggio di un solo parametro. Sindrome • Il 30% dei bambini obesi è affetto da sindrome metabolica, soprattutto femmine. metabolica • Non esistono criteri diagnostici validati per l’età pediatrica, le due classificazioni disponibili sono: Adult Tratment Panel III (1992) e la IDF (2007), opportunamente modificate per l’età pediatrica. • Il loro utilizzo è raccomandato per identificare soggetti con elevato rischio cardio-vascolare ed avere un approccio sistematico a tale patologia. • Alterazioni ecografiche ed enzimatiche della funzionalità epatica sono frequenti in caso di sindrome metabolica e vanno indagate. Insulino resistenza • L’insulino-resistenza, soprattutto durante l’adolescenza, deve essere valutata mediante l’uso degli indici HOMA, QUIKI ed ISI, anche in soggetti in leggero sovrappeso. • La IR è alla base di pubertà precoce e riduzione della statura definitiva. • Endocrinopatie, obesità insorta durante l’infanzia e resistenza alla terapia dietetica e/o farmacologica devono far pensare ad obesità su base genetica. Terapia • La terapia per l’obesità e la sindrome metabolica coincidono. • I maggiori benefici si ottengono con diete strutturate, normocaloriche, incentrate sulla correzione delle abitudini alimentari, seguite da follow-up ogni 2 settimane - 2 mesi e quando servisse, esami ematochimici semestrali/annuali. • L’attività fisica è indispensabile, deve essere quotidiana, per almeno 40 minuti. • I farmaci approvati sono metformina e orlistat. Non sono ancora disponibili dati sugli effetti a lungo termine nel bambino, ma possono essere utilizzati in caso di obesità grave, complicata nell’adolescente. L’epatotossicità ne limita l’utilizzo in pazienti affetti da steatopatia. • La chirurgia è riservata a casi gravi di obesità complicata (ipoventilazione, BMI > 40, grave ipertensione arteriosa con danno cardiaco). Attualmente non è raccomandato il suo utilizzo prima del completamento dello sviluppo. 244 Obesità e sindrome metabolica in età pediatrica Bibliografia Agirbasli M, Agaoglu NB, Orak N, et al. Sex hormones and metabolic syndrome in children and adolesents. Metabolism 2009;58:1256-62. * Lavoro approfondito sulla fisiopatologia della correlazione tra pubertà anticipate ed isulino-resistenza. Alberti KG, Zimmet P, Shaw J. De metabolic syndrome – A new worldwide definition. Lancet 2005;366:1059-62. August GP, Caprio S, Fennoy I, et al. 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Numerosi paragrafi dedicati alla fisiologia lo rendono utile non solo come testo di consultazione, ma come vero libro di testo. Nader PR, O’Brien M, Houts R, et al. Identifying risk for obesity in early childhood. Pediatrics 2006;118:e594-e601. National cholesterol education program: report of the Expert Panel on population strategies for blood cholesterol reduction: executive summary. Arch Intern Med 1991;151:1071-84. Savva SC, Tornaritis M, Savva ME, et al. Waist circumference and waist-to-height ratio are better predictors of cardiovascular disease risk factors in children than body mass index. Int J Obes 2000;24:1453-58. Termizy HM, Mafauzy M. Metabolic syndrome and its characteristics among obese patients attending an obesity clinic. Singapore Med J 2009;50:390-4. Task Force Report on High Blood Pressure in Children and Adolescents, Update: a working group report from the National High Blood Pressure Education Program. 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