PROVINCIA DI FIRENZE Pubblicazione Presidenza del Consiglio PRESIDENZA CONSIGLIO PROVINCIALE DI FIRENZE IMMAGINE PER LA FESTA DELLA TOSCANA Festa della Toscana 2001 Federalismo e libertà in Carlo Cattaneo Seduta straordinaria del Consiglio Provinciale 30 novembre 2001 Sala Luca Giordano Palazzo Medici Riccardi - Firenze Consiglio straordinario del 30 novembre 2001 – Festa della Toscana Introduzione del Presidente Eugenio Scalise La Festa della Toscana cade quest’anno in un momento particolarmente difficile: per ciò che è accaduto negli Stati Uniti d’America l’11 settembre; per il clima di preoccupazione che pervade tutti noi dopo quei tragici avvenimenti; per il conflitto ancora in atto in Afghanistan che se pure riconosciuto necessario dalla grande maggioranza dei paesi per debellare il terrorismo scuote comunque le coscienze e apre scenari di cui nessuno sa oggi quali potranno essere gli approdi; per la questione israelo-palestinese che nei mesi scorsi si è drammaticamente acutizzata e che si spera possa essere avviata a soluzione anche se i fatti recenti, anche quelli delle ultime ore, non ci inducono all’ottimismo; per la concreta preoccupazione che le gravi tensioni internazionali possano bloccare o rallentare i programmi di aiuto ai paesi in via di sviluppo per combattere la fame e le malattie provocando così ulteriori divaricazioni fra Nord e Sud del mondo e più forti tensioni fra i popoli. I mesi scorsi sono stati caratterizzati, inoltre, dal nuovo rilevante fenomeno del movimento antiglobalizzazione che ha avuto il suo apice a Genova nella manifestazione che ha visto la tragica morte di un giovane. Un fenomeno del tutto nuovo rispetto al passato che vede impegnati tanti giovani, ma non solo giovani, contro i modelli attuali dell’economia mondiale ed il governo dei grandi della Terra. Un movimento che si è sviluppato in tutti i paesi occidentali, in grado di mobilitare centinaia di migliaia di persone in occasione di eventi significativi, che si è organizzato autonomamente fuori dagli schemi tradizionali, cogliendo di sorpresa le forze politiche e istituzionali che hanno ora la necessità di capire il fenomeno e di attivare canali di comunicazione e di dialogo per poterne interpretare le esigenze. Si tratta di un fatto politico di grande rilievo che ha colpito l’opinione pubblica ed entrato con forza nel dibattito delle forze politiche. Questi fatti fanno apparire la Festa di oggi molto più distante nel tempo e molto diversa nel clima rispetto a quella dello scorso anno. In questa cornice così mutata si inserisce un altro fatto di grande importanza per le autonomie locali, l’entrata in vigore, l’otto novembre, della riforma costituzionale sul federalismo, legge approvata in marzo dal parlamento e confermata dal referendum del 7 ottobre. La riforma sancisce definitivamente la pari rilevanza costituzionale delle varie articolazioni della Repubblica: Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato; modifica radicalmente le funzioni delle regioni assegnando ad esse più ampi poteri legislativi; attribuisce agli enti locali in modo certo le competenze amministrative, secondo il principio di sussidiarietà ora sancito in modo forte perché previsto espressamente dalla costituzione. Una riforma che se anche non può considerarsi del tutto compiuta, segna comunque passi decisivi in direzione dell’organizzazione federale della Repubblica, rompendo il centralismo statale che ha caratterizzato la storia d’Italia dall’Unità ad oggi. Un centralismo che oggi non sarebbe più sopportabile dalle dinamiche economiche e sociali presenti nella società italiana, che frenerebbe lo sviluppo delle realtà regionali e locali. Il federalismo sancito dalla riforma costituzionale dà più autonomia e poteri alle regioni e agli enti locali, salvaguardando nel contempo i valori dell’Unità nazionale e la funzione insopprimibile della Repubblica. Quando si parla di federalismo in Italia non si può non pensare a colui che per primo parlò di un modello federale per il nostro Paese, a colui che penso si possa definire il padre dell’idea di federalismo in Italia, Carlo Cattaneo. Egli già prima dell’Unità, è fermamente convinto che il modello migliore per l’Italia, date le sue condizioni storico-geografiche sia una federazione di Stati, costituiti in repubbliche. Quest’anno ricorre il bicentenario della sua nascita, avvenuta il 15 giugno 1801 a Milano. Il Consiglio Regionale della Toscana ha voluto dedicare quest’anno la Festa al tema della “Libertà delle idee”, dopo che lo scorso anno fu dedicata ai diritti civili, alla lotta contro la pena di morte e contro la tortura, in ricordo dell’abolizione della pena capitale voluta dal Granduca di Toscana Pietro Leopoldo con l’editto del 30 novembre 1786. Il tema della libertà delle idee, la riforma federale dello Stato, il bicentenario di Carlo Cattaneo, hanno suggerito, direi quasi naturalmente, di dedicare la seduta di questo nostro Consiglio provinciale, convocato in forma straordinaria per la Festa della Toscana, al tema “Federalismo e libertà in Cattaneo”. Fra i molti volumi usciti su Cattaneo in occasione del bicentenario ce n’è uno particolarmente importante, è il libro di Alessandro Levi “Il positivismo politico di Carlo Cattaneo” pubblicato nel 1929 ed ora ristampato, dal Centro Editoriale Toscano di Firenze a cura del Prof. Salvo Mastellone. Non ci siamo fatti scappare l’ottima occasione di chiedere allo studioso, il Prof. Mastellone, di tenere al nostro Consiglio una relazione su questo importante ed attualissimo tema. L’Ufficio di Presidenza del Consiglio ha voluto far dono ai Consiglieri e alla Giunta di questo bel libro per darci l’opportunità di approfondire la conoscenza di Cattaneo attraverso il pensiero di un autore importante, che ha vissuto ed insegnato a Firenze, che si è molto battuto nella sua vita per la difesa della libertà, anche e soprattutto quando la libertà in Italia non c’era. Alessandro Levi, che dovette lasciare precipitosamente Firenze nel 1943 per non cadere nelle mani della Gestapo, sulla libertà scrive in questo libro (ricordo che siamo nel 1929, in periodo fascista!): “L’autorità imposta dall’alto, la coatta unità politica e religiosa, mortificano l’intelligenza che, per svilupparsi, ha bisogno della libertà, come le piante della luce”. In questo libro Levi valorizza molto l’idea di libertà in Cattaneo: mi è particolarmente piaciuta la frase di Cattaneo opportunamente sottolineata da Levi: “La libertà vuole l’uguaglianza nei diritti e nei doveri, chi non ha diritti è un oppresso; chi non ha doveri è un oppressore”. E’ veramente molto interessante vedere come in Cattaneo il concetto di libertà venga sviluppato ed applicato alle varie manifestazioni della vita sociale, economica, politica, religiosa e come ritenga la libertà fondamentale per lo sviluppo pacifico della vita dei popoli. L’idea di libertà in Cattaneo è strettamente legata al federalismo. Scrive Levi: “… il federalismo per Carlo Cattaneo, era tale principio, che gli pareva scolpito nella formazione, naturale e civile, d’Italia, cioè un monito, che derivava dalla stessa storia e si conformava a quel dettame razionale, nel quale non soltanto ci trovava l’appagamento del suo spirito ma, altresì, la conclusione di tutto il suo pensiero politico nutrito di fatti interpretati al lume della ragione: il principio di libertà”. Ed ancora scrive Levi: “Egli auspicava il federalismo non come uno sminuzzamento della penisola in staterelli indipendenti l’uno dall’altro, l’uno dall’altro rivale e nemico, non come un perpetuarsi delle divisioni fratricide, ma il patto federale gli pareva “la sola possibile forma d’unità, tra popoli liberi”. Mi pare che si parli con molta lucidità del federalismo solidale di cui parliamo noi oggi. Il pensiero di Cattaneo non ha avuto molto successo in Italia, se ha prevalso per quasi un secolo la monarchia invece della repubblica e se lo Stato è andato avanti per quasi un secolo e mezzo con un modello fortemente centralistico. Oggi che l’organizzazione federale della Repubblica prende avvio concreto il pensiero di Cattaneo appare in tutta la sua grandezza. E’ vero che con i se e i ma non si fa la storia, ma io credo che tutti noi chissà cosa con daremmo per sapere quale Italia e quale Europa avremmo oggi se l’Italia e l’Europa nella seconda metà dell’800 si fossero costituite, come Cattaneo fortemente voleva, in Repubblica federale d’Italia e Stati Uniti d’Europa. Chissà come sarebbe cambiata la storia del Novecento, chissà se le immani tragedie che hanno percorso l’Europa si sarebbero evitate. La Festa della Toscana, così come si è caratterizzata, ci dà l’occasione di riflettere su temi che vanno oltre la stretta sfera politica di amministratori, lo abbiamo fatto l’anno scorso sui diritti civili, lo facciamo quest’anno sulla libertà e il federalismo, lo faremo nei prossimi anni. Il 30 novembre è la giornata che dedichiamo alla riflessione, all’approfondimento di alcuni grandi temi, all’impegno civile e democratico. L’occasione di oggi è particolarmente significativa sia per il tema che per l’importanza del relatore, al quale rivolgo a nome di tutto il Consiglio un sentito ringraziamento. Grazie. Libertà e federalismo nel pensiero di Carlo Cattaneo In occasione del secondo centenario della nascita di Carlo Cattaneo, ho ripubblicato con Arturo Colombo il volume di Alessandro Levi, Il positivismo politico di Carlo Cattaneo, edito nell’agosto 1928 dalla Casa editrice Laterza di Bari, nella collana Biblioteca di Cultura Moderna, diretta da Benedetto Croce. Perché ripubblicare questo saggio? La risposta si trova sulla copertina della ristampa fiorentina fatta dal Centro Editoriale Toscano: «Con questo saggio Alessandro Levi rivisita, con rigore di studioso e grande passione civile, la figura e l’opera di Carlo Cattaneo, spiegando con straordinaria chiarezza come nel progetto di federalismo del grande pensatore e politico lombardo, si coniugano quei princìpi di libertà, di democrazia e di giustizia che il regime dell’Italia di allora disprezzava e rinnegava. Il saggio di Levi aiuta a capire perché - a duecento anni dalla nascita - Cattaneo non è solo un classico, ma per la vitalità dei temi, che ha saputo affrontare con lucida intelligenza, merita di essere considerato un nostro contemporaneo» (Alessandro Levi, Il positivismo politico di Carlo Cattaneo. Premessa di Salvo Mastellone. Nota di Arturo Colombo, Centro Editoriale Toscano, Firenze, 2000). Resta un altro interrogativo: «Perché Levi, docente di filosofia del diritto, prima a Ferrara e poi a Firenze, scrisse questo saggio?» Questo saggio, a mio avviso, è la risposta dottrinale al partito dominante fascista divenuto «partito unico», e allo «Stato-partito» teorizzato dal governo fascista. Il problema del partito dominante, che diventa partito unico nell'Europa del XX secolo, è un argomento non molto studiato in Italia. Negli Stati Uniti è uscito un mio libro sul pensiero politico europeo (European Political Thought), pubblicato da Harper Collins, tre anni or sono, e nella prefazione sostengo questa tesi: «La storia europea tra il 1918 e il 1989 è stata condizionata in Russia, Italia e Germania dalla formazione del «dominant party», trasformatosi «into a single party», nel partito unico. Il partito unico ha dato luogo in Europa a una nuova forma di governo ed a una nuova letteratura giuridico-politica. Ho parlato di partito dominante, e bisogna precisare il significato di questa realtà politica. Mussolini, con voto largamente favorevole della Camera (novembre 1922), e con l’entrata in massa nel partito fascista delle organizzazioni nazionaliste, ritenne essere ormai capo del «partito dominante». Renzo De Felice nel volume primo di Mussolini il fascista ha ricordato, a proposito delle «prime esperienze di governo», che Mussolini il 13 giugno 1923 inviò ai prefetti una circolare, nella quale affermava che il fascismo era ormai «partito dominante», perché rappresentava la totalità di massima del paese con la maggioranza sicura della Camera. Mussolini aveva ben chiaro il senso politico della formula «partito dominante», vale a dire dominante nel parlamento e nel paese, e, come capo del «partito dominante», egli era ben deciso ad opporsi ad una alternativa governativa per il formarsi di una occasionale coalizione di gruppi parlamentari. L'espressione «partito dominante» non risaliva alla tradizione parlamentare inglese, ma era stata teorizzata dal partito socialdemocratico tedesco alla fine dell'Ottocento. Kautsky nel noto commento al programma di Erfurt (1891) aveva preconizzato al partito socialdemocratico tedesco di diventare partito dominante: «Il partito deve porsi come scopo il predominio politico (die politische herrshaft); deve tendere ad assoggettare a sé il potere statale, deve tendere a diventare il partito dominante nello Stato (die herrschende Partei im Staat)». Kautsky ribadì la finalità del partito socialista di diventare partito dominante (herrschende Partei) e nella seconda edizione (Stuttgart, 1911) dello scritto Der Parlamentarismus. L’espressione «partito dominante» si ritrova nelle traduzioni italiane degli scritti di Kautsky, dalla risposta a Bernstein, pubblicata a Roma nel 1899 con il titolo Per la democrazia socialista, al programma di Erfurt, pubblicato a Milano nel 1914 con il titolo Il programma socialista. Il concetto di partito dominante, proprio perché connesso con la concezione politica della socialdemocrazia tedesca, prevedeva, non solo un comitato centrale capace di imporre una autoritaria disciplina di partito, ma una direzione oligarchica. Come mai si realizzò l’ipotesi politica del «partito dominante»? Si continua a presentare la prima guerra mondiale soltanto come un fatto bellico, in realtà bisognerebbe vederla anche sotto un altro profilo. Con la prima guerra mondiale per la prima volta nella storia abbiamo una guerra totale. Che significa una guerra totale? Che c’è l’esercito, ma dietro c’è non solo la retrovia, c’è tutta l’attività produttiva del paese, c’è tutto il paese che lavora per questa guerra, c’è l’impegno di tutte le forze politiche. Per la prima volta abbiamo la partecipazione femminile, che sostituisce l’elemento maschile che sta al fronte. Abbiamo in quegli anni per la prima volta la formulazione di una economia di guerra. L'espressione «kriegswirtschaft» fu coniata da un moderato, Walter Rathenau. L’economia di guerra non fu adottata soltanto in Germania, essa venne adottata, in Francia, non da un conservatore, ma da Albert Thomas, che era un socialista; fu adottata in Inghilterra da Loyd George, un liberale. La guerra dai tempi lunghi determinò la necessità di una economia di guerra, e con essa la pianificazione della attività, il controllo dei consumi. La partecipazione del paese alla guerra portò come conseguenza anche la necessità di una amministrazione centrale capace di tutto organizzare. Con la prima guerra mondiale si ebbe una trasformazione di mentalità. L’esperienza della guerra, inoltre, insegnò che la vittoria militare era condizionata dalle decisioni di un comandante. Di un capo deciso aveva bisogno anche un partito, se voleva divenire partito «dominante». In una situazione ideologicamente confusa, un capo «carismatico» avrebbe potuto «rimettere le cose a posto». Alla proposta di un partito «dominante» venne connessa l’idea di un capo «carismatico». Retto da un energico «leader», il «partito dominante» sarebbe rimasto alla guida del paese, nonostante la presenza di altri partiti. In un sistema a «partito dominante» il capo carismatico sarebbe stato appoggiato nella sua azione da un concorde comitato centrale, che avrebbe fornito le direttive ai «delegati» presenti in parlamento e ai «ministri» chiamati al governo. In Italia i socialisti credevano che essi avrebbero potuto conquistare il potere con l’appoggio delle masse lavoratrici, ed imporre al paese il partito dominante socialista. I nazionalisti, d’altra parte, puntavano sull’appoggio dei «reduci» e sul consenso dell’esercito per affermarsi come partito dominante. Socialisti e nazionalisti dopo il 1918 negavano fiducia alla democrazia parlamentare, additata quale regime borghese, egoista ed inefficiente. La critica al parlamentarismo e al sistema dei partiti divenne, dopo la guerra, un luogo comune nei settori politici di sinistra e negli ambienti intellettuali di destra: la formazione di un «partito dominante», si dissse, avrebbe permesso una migliore gestione del potere. Il dibattito sul partito politico fu condizionato dal 1918 al 1925 dall’opera di Roberto Michels La sociologia del partito politico, uscita in Germania, a Leipzig, nel 1911, e in Italia, a Torino, nel 1912, ma che circolò molto dopo la fine della guerra nell’edizione francese. È da notare che il paragrafo sesto della seconda parte s’intitolava Bureaucratisme. Tendances centralistes, e da questo titolo derivò la formula «centralismo burocratico», utilizzata anche da Gramsci. Il partito studiato da Michels era il partito socialdemocratico tedesco, che era stato il modello del partito socialista italiano, dal quale proveniva Mussolini. Si leggeva a proposito del partito militante nell’opera di Michels: «Il partito moderno è, nel senso politico della parola, una organizzazione di lotta. Già lo aveva riconosciuto Ferdinando Lassalle, il grande fondatore di un partito operaio, quando asserì che i gregari devono seguire obbedientemente il loro capo e tutta l’associazione deve dipendere dal capo [...] Un partito militante [se vuole diventare dominante] ha bisogno di una struttura rigidamente gerarchica [...] Questo parallelismo tra il partito militante democratico e l'organizzazione militare è chiaro nella terminologia socialdemocratica che, specie in Germania, è in gran parte tributaria del linguaggio proprio alla scienza militare». Nella prefazione alla nuova edizione della Sociologia del partito politico del 1924 (Torino, UTET), Michels riconosceva che il modello tedesco di partito militante e dominante era stato accolto dai «due grandi movimenti di partito alla ribalta: il bolscevismo e il fascismo; entrambi i movimenti hanno totalmente in mano il potere dello Stato, e quindi sono partiti diventati Stato». E aggiungeva: «Il bolscevismo mette in rilievo, le necessità della più incondizionata e severa unità di volere, la subordinazione di migliaia a uno solo. Il fascismo, da parte sua, anche da un punto teorico, è spiccatamente antidemocratico e pervaso di un profondo disprezzo per il sistema parlamentare. Il suo leader, Benito Mussolini, è molto lontano dallo smentire il suo ruolo di duce, alla guida di un partito dominante costituito da milioni di persone». Il partito fascista nel 1923, pur autoconsiderandosi «partito dominante», non aveva la maggioranza assoluta nella camera dei deputati; pertanto Mussolini fece varare una nuova legge elettorale che assegnava i 2/3 dei seggi elettorali alla lista che avrebbe riportato la maggioranza relativa. Cone le elezioni dell'aprile 1924 il partito fascista divenne proporzionalmente «dominante» con una maggioranza assoluta. L’atteggiamento assunto da Mussolini di duce del «partito dominante» sollevò nell’opposizione non poche critiche. Nella polemica politica di quegli anni si utilizzò spesso la formula «partito dominante» con specifico riferimento al partito fascista. Enrico Presutti, studioso di diritto costituzionale, rimproverò al «partito dominante fascista di violare il tradizionale principio di separazione tra sfera esecutiva e sfera burocratica» e di non rispettare il «funzionamento delle istituzioni parlamentari». Giacomo Lumbroso criticò i moderati di entrare «nel partito dominante fascista per garantirsi la sicurezza personale del quieto vivere». Giovanni Amendola nel volume Democrazia accusò il partito dominante fascista di volersi identificare con la nazione e di asservire la sovranità parlamentare alla pratica dello «Stato-partito». Nel 1924 Guglielmo Ferrero, scrivendo un saggio su La democrazia in Italia, pubblicato a Milano l'anno seguente, lanciò un duro attacco contro «il partito dominante», che poneva «la sua speranza nei brogli e nella violenza»; il fascismo aveva «l'intento di poter essere l'unica guida come partito dominante». Non contento di essere divenuto «partito dominante» nel parlamento e nel paese, il partito fascista nel biennio 1924-26 si avviò a diventare «partito unico». La stampa fascista appoggiò la transizione del fascismo da «partito dominante» a «partito unico». La rivista Critica fascista sostenne apertamente che Mussolini, «dittatore del partito», doveva liquidare le opposizioni politiche, in modo che il partito fascista divenisse «partito unico» della nazione e dello Stato italiano. Tra la fine del 1925 e il novembre del 1926, il regime fascista si impose al paese come «partito unico», senza trasformare l'assetto monarchico nazionale. Vennero infatti dichiarati decaduti i deputati dell'opposizione (aventiniani e comunisti), e vennero sciolte le associazioni, gli organismi democratici e tutti i partiti. Il partito fascista non era il primo esempio di «partito dominante» divenuto «partito unico» in Europa. Nel triennio 1918-1921 in Russia il partito bolscevico, ottenuta la maggioranza assoluta, aveva dichiarato la propria «egemonia», ossia la sua posizione «dominante», e aveva eliminato i partiti democratici di opposizione in modo da divenire «partito unico». Alla fine del 1922, Lenin aveva messo fuori legge ogni forma di pluralismo, e aveva definito il partito comunista «l'unico partito» in Unione Sovietica. Il passaggio istituzionale dal «partito dominante» al «partito unico» è un fatto molto importante nella storia d'Europa del Novevento. Dopo l'esempio bolscevico e fascista, un fenomeno politico simile si avrà in Germania. Il partito nazionalsocialista con le elezioni del giugno 1932 divenne il «partito dominante». L'anno dopo, Hitler, nominato cancelliere del Reich, fece statuire con legge, il 14 luglio 1933, che in Germania esisteva «un unico partito politico», il partito nazionalsocialista. Quale fu l’atteggiamento di Alessandro Levi, con l’avvento al potere del partito dominante fascista e con l’affermarsi dello Stato-Partito? Levi aveva pubblicato nel 1922, in polemica con Giovanni Gentile, un volume su La filosofia politica di Mazzini, e aveva dato una interpretazione democratica, e non nazionalistica, del pensiero politico dell’Esule genovese. Levi aveva aderito nell’ottobre 1922 al Partito Socialista Unitario Italiano, e seguiva gli avvenimenti italiani da una prospettiva politica antifascista. Su «Critica sociale» del 15 aprile 1923 Levi si chiese polemicamente se, dopo l’avvento al potere di Mussolini, esistesse ancora in Italia uno Stato di diritto. Per Levi fondamentale restava «la libertà del cittadino»: «Lo Stato di diritto poggia su la presunzione della libertà individuale, sulla presunzione cioè, che, la libertà del cittadino è sacra, per tutti, ed in prima linea per gli organi del potere, ai quali spetta, per loro specifico officio, la tutela dell’ordinamento giuridico». Avverso alla violenta «discrezionalità del potere», Levi inviò una lettera a «Rivoluzione liberale» di Gobetti, pubblicata nel numero del 5 giugno 1923, dal titolo Liberalismo come stato d’animo, nella quale assegnava alla libertà il valore di un modo etico di pensare e di comportarsi: «la libertà non è solo un bene dello spirito, è anzi, come diceva Mazzini, mezzo per fare il bene. Io credo che il più alto ideale della libertà sia la giustizia, e perciò sono socialista». Levi nel 1925 prese posizione contro il partito fascista dominante in un opuscolo dal titolo Tre pregiudizi pubblicati nella «Piccola Biblioteca di Studi Politici», fondata dall’Associazione per il controllo democratico (A. Levi, Scritti minori storici e politici, pp. 552-582), opponendo alla forza e alla violenza lo Stato di diritto: «Il fascismo, il quale avrebbe potuto appagare le speranze dei molti che avevano salutato simpaticamente il suo avvento al potere, ha connesso l’imperdonabile errore di accamparsi al Governo nello Stato come una persistente fazione armata». Levi invocava, perciò, il rispetto delle garanzie democratiche. Dell’uso della forza, cara al partito dominante fascista, Levi ne ebbe personalmente la prova. Nel giugno 1925, come si legge nei suoi Ricordi, si recò con Gaetano Pierazzini ed altri amici a deporre dei fiori ai piedi del monumento a Giuseppe Garibaldi sul Lungarno «Come omaggio al soldato della libertà», ma vennero tutti arrestati dai militi di guardia, e mandati per qualche giorno alle Murate. Nel luglio 1925 assistette alla prima udienza del processo a Salvemini per il periodo clandestino. «Non Mollare»; ne seguì uno scontro con i fascisti fiorentini, in cui rimase ferito. Alessandro Levi sentiva una profonda affinità con Carlo Cattaneo, in quanto «amico della libertà sopra ogni cosa», e anche perché in tutta la sua operosissima vita, Cattaneo al lavoro «ispirò in gran parte le sue idee sociali e politiche, non rivoluzionarie, ma improntate a coraggioso amore per il progresso». Levi cominciò a studiare Cattaneo subito dopo aver compiuto il lavoro intorno alla filosofia politica di Mazzini, essendo «ben fermo nel suo proposito di continuare una indagine sintetica sulla filosofia politica nel Risorgimento italiano». Egli voleva anche rispondere a Giovanni Gentile, il quale a proposito della «filosofia in Italia dopo il 1850», analizzando le origini del positivismo, aveva dedicato nella «Critica» un capitolo a Carlo Cattaneo (pp. 105-124), molto critico, perché Cattaneo «non aveva inteso il concetto della socialità dello spirito». Con la trasformazione nel novembre 1926 del partito dominante fascista in partito unico, e con l’affermarsi dello Stato-Partito, Levi si decise a scrivere il saggio sul pensiero politico del grande Lombardo. Per Levi l’ideologia morale di Mazzini e la riflessione positiva di Cattaneo costituivano le due linee dottrinali del Risorgimento italiano, alle quali occorreva richiamarsi in un momento drammatico per il paese dopo la fine della guerra; ispirarsi in quegli anni difficili ai due grandi repubblicani, significava risalire ai problemi dell’Italia con animo generoso ed onesto, per cercare di risolverli attenendosi a premesse morali. La vedova di Alessandro Levi mi confidò che suo marito, nel pubblicare il volume su Il positivismo politico di Carlo Cattaneo, aveva pensato al giovane parente Carlo Rosselli, confinato a Lipari. D’altro canto Rosselli, se durante la tristezza del confino immaginava un mazziniano «partito d’azione», nutriva anche un vivo interesse per Cattaneo. Nel novembre 1928 Carlo scriveva da Lipari al fratello che egli si proponeva di rimettersi al lavoro, ed affrontare il grosso problema delle autonomie: «Ecco perché Cattaneo mi interessa [...] A proposito del Cattaneo, delle opere complete che possiedo, vorrei farmi arrivare i volumi in cui si trovano gli scritti autonomistici».. Probabilmente arrivarono i volumi richiesti delle opere complete di Cattaneo (edizione Le Monnier, Firenze, 1881-1892, in 7 volumi), ma quasi contemporaneamente dovette giungere il libro dello «zio Sandro» su Il positivismo di Carlo Cattaneo, pubblicato alla fine di agosto 1928. Norberto Bobbio ha scritto che quest’opera del socialista e positivista Alessandro Levi, arricchito in appendice da un saggio di bibliografia cattaneana «criticamente fondato sul suo pensiero politico, eccelle ancora oggi». Questo volume, uscito nella seconda metà del 1928, è soprattutto uno scritto politico, che avrebbe dovuto avere come titolo Libertà e federalismo nel pensiero di Carlo Cattaneo. Alessandro Levi si presenta sotto le vesti del modesto ed accurato studioso di Cattaneo, con un Saggio di bibliografia cattaneana di oltre cinquanta pagine, da pagina 141 a pagina 186 per gli «scritti di Carlo Cattaneo», e da pagina 187 a 196 per «gli scritti su Carlo Cattaneo». Alle prime centoquaranta pagine del suo volume Levi premette una prefazione nella quale connette «questo studio sul Cattaneo» al suo «lavoro intorno alla filosofia politica del Mazzini» (p. V). Fin dal capitolo primo, Levi ricupera accanto a Cattaneo la personalità morale di Mazzini, sostenendo che, «nonostante la diversità delle nature, degli intelletti, dei sistemi di idee, tra Mazzini e Cattaneo ci fu «somiglianza etica». Il Ligure fu il fautore dell’unità d’Italia, il Milanese il sostenitore del federalismo, ma l’idealista Mazzini e il positivista Cattaneo si sollevarono «all’auspicio degli Stati Uniti d’Europa», e furono somiglianti per la coerenz etica, per la fedeltà alla propria causa; e questi due repubblicani «dopo che si furono conosciuti, professarono l’uno per l’altro una stima morale» (p. 10). Come studioso di Mazzini (S. Mastellone, La democrazia etica di Mazzini, Roma, Risorgimento, Izzi, 2000) posso aggiungere che Mazzini stimava Cattaneo prima di conoscerlo personalmente. Mazzini a Londra pubblicò nel maggio 1845 un volumetto in inglese dal titolo Italy, Austria ant the Pope, e citava Cattaneo insieme con Gioja e Romagnosi (XXXI, p. 261); ed a mio avviso alcune notizie, sul «despotism» in «the Lombard-Venetian Provinces», sono tratte da scritti di Cattaneo pervenuti a Mazzini, tramite il libraio Piero Rolandi, a Londra, prim del 1848. La conferma di trova nel volume Lettere dei corrispondenti di Cattaneo (Firenze, Le Monnier, 2001, p. 450). Mazzini, non lo dimentichiamo, si dichiarava contro «the centralization», contro «the central despotism», e favorevole al «local government» dei comuni. Nelle prime pagine del primo capitolo Levi dichiara che Cattaneo ebbe due significative vocazioni: «l’amore della scienza [vale a dire delle verità] e la passione per la libertà» (p. 1); queste due vocazioni erano sorrette dalla «vastità della sua cultura», dalla «sua eccellenza come storico», dalle «doti del suo stile e del suo ingegno». La finalità politica di questo studio su Cattaneo emerge chiaramente negli ultimi due capitoli V e VI. Nel quinto capitolo Levi tratta con «ampiezza» il problema della libertà nel pensiero cattaneano, ossia «in quella che può dirsi la critica politica»; ma vedere «risplendere in Cattaneo la passione della libertà» ed elogiare il principio dell’umanità significava fare in piena dittatura fascista, una dichiarazione di fede politica. Levi dà una definizione del principio di libertà che non risale a Benedetto Croce, ma a John Stuart Mill: «La libertà è un portato di ragione, col quale la ragione, affermando la sua signoria, vuole conformarsi all’ordine della natura, perché è il fondamento di individuazione della creatura ragionevole,la garanzia del suo sviluppo individuale, e, con ciò, anche il mezzo più certo perché si attui nella sostanziale concordia dei pur discordi sviluppi e interessi, quell’unità nell’ordine civile, che la ragione addita, non come punto di partenza, ma come fine ideale, cui esso tende per intonarsi alla multiforme armonia della natura». Concezione questa positiva di Levi sul principio di libertà, che non scivola nel liberismo, anzi si erge a difesa dell’individualismo, non di individualismo «fretto, geloso, egoistico», piuttosto come affermazione di ogni essere singolo o collettivo «che ammaestra la sua volontà a rispettare quel fondamento d’individuazione come principio universale, dal quale viene inibita ogni prepotenza ed è assicurato e composto lo svolgimento di tutte le energie individuali in una mutua ed armonica cooperazione». Se «libertà, dunque, a mente del Cattaneo, è garanzia di vario sviluppo, progressiva conquista della illuminata ragione», non può immaginare, come Rousseau, «un mitico stato di natura», ossia «un vagheggiato modello di deontologia civile»; libertà è «l’esercizio della ragione» (Ivi, p. 85). Sempre a pagina 85 si legge che Cattaneo si ispirò «in politica come in ogni altro campo del pensiero e dell’azione» al principio di libertà; egli fu «per inclinazione spirituale prima ancora che per meditata dottrina, un credente nella ragione, nella libertà nel progresso»; tale fede nella libertà gli derivava «dall’orientazione tutt’altro che scettica, anzi caldamente ottimista: ogni liberale compiuto, del resto, non può non essere, in fondo, un ottimista»: «Cattaneo non concepì giammai la libertà quale dono di natura». Furono recepite queste affermazioni? Ho notato che Carlo Rosselli nel capitolo sesto di Socialismo liberale utilizza le stesse parole di Levi, ripetendo che il liberalismo «reputa che questa libertà non possa essere elargita od imposta, ma debba essere conquistata con lo sforzo di ciascuno e di tutti. Esso concepisce la libertà non come un dato di natura, ma come divenire, sviluppo»; la fede nella libertà è al tempo stesso una dichiarazione di fede nell’uomo, «quindi il liberale veramente tale è tutt’altro che uno scettico. È un credente, anche se combatte ogni dogma e ogni verità assoluta», Rosselli si richiama a Levi in tutta la seconda parte del sesto capitolo, centrato sul metodo liberale: «Per il liberalismo è fondamentale la osservanza del metodo liberale di lotta politica di quel metodo che per la sua intima essenza è tutto penetrato dal principio di libertà»; e chiude il capitolo sesto, indicando «sommariamente gli estremi dello stato d’animo [titolo dell’articolo di Levi] del socialismo liberale» (S. Mastellone, Carlo Rosselli e «La rivoluzione liberale del Socialismo, Firenze, Olschki, 1999, pp. 115-116). C’è un secondo concetto che Levi prende in considerazione nel capitolo quinto del suo Cattaneo: è il binomio libertà e verità, in base al quale «la libertà del pensiero» parve al Milanese «la più feconda di tutte le libertà», «la prima condizione della libertà civile». E, certamente, pensando alla situazione della «libertà civile», soppressa dallo «stato di polizia» imposto dal governo fascista, esclama: «L’autorità imposta dall’alto, la coatta unità, politica e religiosa, mortificano l’intelligenza che, per svilupparsi, ha bisogno della libertà, come le piante della luce» (Levi, p. 89). Levi crede profondamente in anni di autoritarismo, che il trionfo della causa della libertà «dipende in ogni campo – come in quelli del pensiero scientifico o della coscienza religiosa e della pubblica economia, così in quello delle civili istituzioni – dagli sforzi che gli uomini fanno per esercitare la loro ragione»; in altre parole, «le libertà civili» non si acquistano senza lotta, non si conservano senza lotta, e una volta strappate [come era avvenuto – sembra dire – nel 1926] «non si riconquistano senza sacrificio» . E a questo punto Levi cita una lettera di Cattaneo a Lodovico Frappolli: «La libertà non deve piovere dai santi del cielo, ma scaturisce dalle viscere dei popoli» (ivi, p. 97). Dal principio di libertà, Cattaneo «derivava conseguenze palesemente democratiche in ogni ordine della vita civile: la libertà – Cattaneo scriveva – vuole l’eguaglianza nei diritti e nei doveri; chi non ha diritti è un oppresso; chi non ha doveri è un oppressore»; in questo modo Cattaneo segnava incisivamente «i genuini caratteri della democrazia» (ivi, p. 99). Queste considerazioni «il positivista Cattaneo» le estendeva alla vita internazionale, «non per l’attuazione di un predeterminato ordine provvidenziale», ma per il «progressivo estendersi del sentimento di socialità fra gli uomini», che produce come conseguenza «il diffondersi della tutela giuridica» (ivi, p. 102). Nell’ultimo capitolo, il sesto, è affrontato il problema del rapporto fra repubblica e federalismo in Carlo Cattaneo, il quale così sintetizzava il proprio pensiero politico: «libertà è repubblica; e repubblica è pluralità, ossia federazione»; vale a dire, chiarisce Levi, «dove l’autorità è accentrata, repubblica vera non vi è, appunto perché manca la prima condizione, o meglio, la più squisita essenza della repubblica, l’autonomia cittadina» (ivi, p. 109) Levi precisa che Cattaneo era divenuto repubblicano in quanto «cittadino geloso di libertà», ed aveva tenuto fede all’idea repubblicana perché per lui essa «s’identificava con l’idea federale»; intesa come autonomia cittadina; Cattaneo, anche dopo il 1860, difese il federalismo, del quale se altri sono stati difensori, «nessuno, però, così schietto ed incrollabile come Carlo Cattaneo». Il positivista lombardo insegnava che l’Italia era fisicamente e istoricamente federale: «L’Italia si era sviluppata nell’età moderna, non già per il moto impresso da una sola città o da un solo potere sovrano, anzi per l’autonomo svolgimento di molti centri locali, di molte città»; «il positivista Cattaneo considerava, dunque, il federalismo repubblicano come un principio, che gli pareva inviscerato nella storia d’Italia» (ivi, p. 120). Levi sottolinea che per Cattaneo il federalismo era «scolpito nella formazione naturale e civile d’Italia», ma vuole far risultare chiaro che la conclusione di tutto il pensiero politico di Cattaneo, nutrito di fatti interpretati al lume della ragione, era il principio di libertà: «il federalismo è la teorica della libertà, l’unica possibile teorica della libertà» (ivi, p. 124). Ed aggiunge: «Ma sarebbe un errore storico il giudicare la concezione federalistica cattaneana, nel suo complesso svolgimento, come un perpetuarsi od un rifiorire di quel gretto municipalismo, che tutti gli unitari, a qualunque scuola politica appartenessero, dovettero logicamente combattere» (ivi, p. 125). Cattaneo voleva rispettato il diritto dei popoli, i quali incominciano ad acquistare coscienza di sé appunto nel Comune, che è «un fatto spontaneo di natura come la famiglia»; i Comuni sono ben essi la nazione: «sono la nazione nel più intimo asilo della sua libertà». Cattaneo scriveva ad Agostino Bertani nel maggio 1862 che «la federazione è la sola unità possibile in Italia; la federazione è la pluralità dei centri viventi, stretti insieme dall’interesse comune, dalla fede data, dalla coscienza nazionale». La prima federazione di Comuni è la Provincia: su questo punto era d'accordo anche Mazzini. Levi conferma la propria adesione al federalismo perché vede nel federalismo l’espressione piena e compiuta dei diritti, cioè della libertà dell’uomo, ma capisce che in Cattaneo c’è una visione novatoria rispetto alla prospettiva francese; un federalismo non fondato sul concetto di eguaglianza sociale, ma di eguaglianza individuale. Nella dottrina cattaneana l’uomo, mano mano che l’orizzonte dei suoi interessi e dei suoi pensieri si allarga, di contro alla schiacciante superiorità dello Stato, «via via si educa a promuovere nel comune, nella provincia, nella regione, nella nazione, nella più vasta umanità, una serie indefinita di interessi ascendenti e di progressive libertà. Tale è il federalismo cattaneano» (ivi, p. 128). Questa profonda pagina, pubblicata nell’agosto 1928, fu letta a mio avviso dai confinati a Lipari e a Ustica, ma anche a Ventotene. Contro lo Stato fascista, che s’imponeva sul paese come il Partito-Stato, il partito unico, Levi scrive: «La federazione, consenso perpetuo di liberi, come è l’antitesi, cioè il superamento del gretto municipalismo, è, ed a maggior ragione, l’antitesi dell’impero, dominazione assoluta. La federazione nasce repubblicana: tende, a traverso spontanee se pur lente adesioni, e non per imposizione di egemonie, a sempre più larghe unità»; la repubblica è autonomia, ma «non può essere libero chi non abbia imparato a reggersi da sé medesimo; la libertà ha, dunque, per condizione l’autonomia», ben diversa dalla «uniformità imposta, autoritariamente, dall’alto» (ivi, pp. 129-130). Levi ribadisce: «L’Italia federale doveva essere, a mente del Cattaneo, preparazione ed auspicio di altra, ben più comprensiva, federazione; grande come il continente europeo, tale da emulare, su questo vecchio suolo, l’ancor più vasta federazione americana». Cattaneo fu il primo ad usare la formula Stati Uniti d’Europa, e tale priorità gli fu riconosciuta anche da Giuseppe Mazzini. Cattaneo osò «avventurare il presagio augurale di una solidarietà europea, che si sarebbe dovuta fondare su la coscienza di un’indiscutibile comunità di interessi». In altre parole «la concezione federalistica voleva essere dottrina di libertà e di pace; di una pace, evidentemente non imposta ai popoli forzatamente acquiescenti da un potere egemonico, ma voluta, come libertà dal consenso dei popoli, ognuno padrone in casa propria». Sfortunatamente «l’Italia aveva disimparato, sotto la dominazione straniera o la compressione autoritaria, gli antichi esempi di civiche libertà» (ivi, pp. 134-135). Quale è «l’auspicio» politico che il positivista Levi, uomo di «larga dottrina umanistica» ed attento alla «lezione dei fatti illuminati dalla ragione», in nome di Cattaneo invia ai giovani pensosi dell’avvenire, come Ernesto Rossi e Altiero Spinelli? «Il federalismo poté parere teoria prematura perché il popolo era ancora immaturo», ma «il federalismo è la più coerente ed austera dottrina della libertà» (ivi, p. 134). Ricordiamo tale affermazione in questo giorno di festa della Toscana per la libertà delle idee. Salvo Ma stellone Intervento del Presidente della Provincia di Firenze Michele Gesualdi nella Seduta del Consiglio provinciale in occasione della Festa della Toscana Sala Luca Giordano, 30 novembre 2001 Signor Presidente del Consiglio, colleghe e colleghi consiglieri e della Giunta, il Consiglio provinciale si svolge oggi in seduta straordinaria perché intendiamo partecipare in modo solenne alla Festa della Toscana: per questo si tiene nel salone Luca Giordano, così prestigioso, denso di eventi storici e di cultura e sarà chiuso con una relazione del Prof. Mastellone sul federalismo secondo il pensiero di Cattaneo. Quella di oggi è una ricorrenza voluta dal Consiglio Regionale dallo scorso anno ma già si configura come celebrazione non vaga dei diritti umani, a partire proprio dalla promozione di una campagna culturale seria contro la pena di morte; campagna che purtroppo quest'anno è tragicamente mitigata dal conflitto in Afghanistan e dalla entrata in guerra dell'Italia. Mentre noi festeggiamo l'abolizione della pena di morte in questa terra, purtroppo in molti Paesi del mondo essa è ancora diffusa e praticata. Solo nel mese di novembre, infatti, si sono verificate nel mondo almeno 28 esecuzioni. E siccome la Festa della Toscana è anche un appuntamento con la memoria voglio essere preciso su questi dati, adottando il principio della sequenza cronologica in modo che la nostra voce si unisca alle tante altre voci della denuncia e della protesta. 28 esecuzioni nel solo mese di novembre sono state eseguite in vari stati del mondo senza che si sollevasse il giusto clamore per l'orrore. 1 novembre, in Cina, due esecuzioni per cinque condannati a morte; 5 novembre, in Pakistan, Ali Sher, 21 anni, è stato messo a morte tramite impiccagione; 6 novembre, ancora in Cina, diciotto esecuzioni in un giorno; 7 novembre, Georgia, negli Usa, Jose Martinez High, 43 anni è stato messo a morte; 7 novembre, New Mexico, prima esecuzione dopo 40 anni: messo a morte Terry Clark; 11 novembre, Iran, Hossein Talkhabi, 26 anni, e Abolfazl Dehgan, 19, vengono impiccati in piazza; 14 novembre, Texas, esecuzione di un uomo, Jeffrey Tucker, che ricevette la sospensione della pena l'11 Settembre; 15 novembre, viene messo a morte in Georgia (Stati Uniti) Fred Gilreath, 63 anni; 22 novembre, Kenya, un uomo viene eseguito per avere rubato una bicicletta del valore di centomila lire. Sono dati che rattristano e che è doveroso ricordare, insieme a quelli però che indicano cambiamenti sostanziali e ammissioni di verità. Mentre, purtroppo, apprendiamo che in Thailandia le esecuzioni dei trafficanti di droga potranno essere trasmesse in diretta dalla televisione con i particolari della sofferenza e della morte, il nuovo Governatore del New Mexico ha ammesso che diversi innocenti sono stati messi a morte in passato. Negli Stati Uniti – di fronte a forti resistenze ci sono segnali di un profondo ripensamento, indotto dalle pressioni e, soprattutto, dal dialogo instaurato su questi temi tra Europa, associazioni impegnate sul fronte dei diritti umani e Stati Uniti. Nella nuova Jugoslavia, nel frattempo, il Parlamento ha abolito la pena di morte. Secondo alcune fonti anche il Governo cubano starebbe valutando l’ipotesi di abolirla. L’adozione di prigionieri da parte delle associazioni umanitarie, inoltre, fa sì che in Africa, ad esempio, molti processi siano rivisti e, in larga parte dei casi, si concludano con l’annullamento della sentenza capitale. Anche noi, attraverso progetti di sensibilizzazione, abbiamo dato e diamo un contributo a questa campagna che è decisiva per il futuro del mondo. Ricordo che dal 26 novembre, tutte le sere dopo il tramonto, proiettiamo immagini sulla facciata di Palazzo Medici Riccardi contro la pena di morte. Stiamo anche organizzando un sito in internet che trasmetterà immagini, suoni, testi contro la pena capitale e con la possibilità di registrare contributi da parte di ogni cittadino. Siamo poi intervenuti su Stati che praticano la pena di morte (come, ad esempio, la pressione che abbiamo esercitato su Nablus, in Palestina, città con noi gemellata), perché trasformassero la pena capitale in carcere a vita. In questa stagione della nostra storia è tornato di particolare attualità il dibattito sullo scontro tra civiltà. La pena di morte rappresenta uno degli assi portanti di questo scontro che si rivela però interno a ogni civiltà; è una tensione che percorre le nostre società e il rischio, anche oggi, specialmente con la guerra, è quello di definire la nostra identità contro qualcuno. Sono fermamente convinto che uno degli impegni degli Enti di rappresentanza politica, dal più grande al più piccolo, sia quello di scongiurare lo “scontro di civiltà”. E' un meccanismo da evitare se non altro perché su questo terreno non c'è niente di più incerto della certezza. Di fronte a tante certezze, soprattutto a quelle del tipo “arrivano i nostri”, – ve lo dico apertamente – sono fra quelli che mostrano timori soprattutto ragionando in prospettiva. Un grande giornalista polacco, Kapuscinski, ha osservato che "l’Occidente, vale a dire il centro decisionale dell’umanità – si interessa a una data zona del mondo, a un dato continente solo finché teme che da quella parte possa sopraggiungere una minaccia o un pericolo nei suoi confronti. Così è stato nella seconda metà degli anni quaranta per l’Asia (rivoluzione in Cina, indipendenza dell’India e del Pakistan, inizio della guerra in Indocina), così per l’Africa degli anni sessanta (guerra d’Algeria, rivolta nello Zaire, inizio della lotta armata in Angola) e per l’America latina dello stesso periodo, quando vi agivano i gruppi guerriglieri". Così, aggiungo io, potrà essere per il terrorismo internazionale, contro il quale si è giustamente unito il mondo. Appena però la questione si rivela inoffensiva e la paura sparisce, “il continente che suscitava tante apprensioni – scrive ancora Kapuscinski - perde ogni interesse e sprofonda nell’oblio”. Noi non vogliamo questo ma vogliamo esattamente il contrario ed è per questo che abbiamo deciso, come Giunta, di contribuire all'affermazione di una cultura diversa portando avanti tre iniziative. La prima è quella di offrire la nostra disponibilità al Ministero degli Esteri per attivare un gruppo di contatto per proporre di ospitare, presso il Parco Mediceo di Pratolino, almeno una tornata dei Colloqui di Pace tra israeliani e palestinesi, convinti come siamo che la pace, quella vera e duratura, nasca dal trionfo della giustizia e dell'affermazione dei diritti di ogni popolo. La seconda: pensiamo di proporre la convocazione di un confronto franco e sereno con i Consoli degli Stati Uniti, della Cina e di altri consolati presenti a Firenze che hanno ancora nel loro paese la pena di morte. La terza iniziativa tende ad investire sul mondo senza frontiere perché nessuno abbracci tentazioni fondamentaliste. L’enorme ondata di emigrazione presente nel mondo, mossa dalla ricerca di giustizia e di diritti negati, deve aprirci ad un rapporto nuovo col mondo degli immigrati con rapporti non solo basati su interessi e convenienza o su un altro versante di ordine pubblico, ma di condivisione dei drammi che spingono masse così imponenti a vagare per i paesi ricchi. Le tre iniziative saranno approfondite nella VI Commissione. In questo contesto il confronto sul federalismo che investe l'Italia è importante che si rivolga a tutti e non a una parte. Il federalismo degli egoismi non porta lontano. Se riposizioniamo oggi i concetti che furono alla base della Rivoluzione francese e sui quali si reggono gli Stati moderni, di libertà, eguaglianza e fraternità, ci rendiamo conto che sui valori di libertà e eguaglianza molto si è camminato, anche se resta ancora da camminare, mentre il concetto di fraternità resta in larga misura un valore ancora da praticare se non addirittura da esplorare fra le componenti sociali ed economiche all'interno dei singoli Stati, ma soprattutto dentro una visione più ampia che abbracci le esigenze dei popoli del mondo intero. Pensiamo allora ad un federalismo certo inteso come avvicinamento del cittadino alle scelte della Cosa pubblica mantenendo il valore irrinunciabile della unità nazionale, ma anche ad un investimento sul futuro. Si apre una frontiera importante per gli Enti locali: quella di un federalismo solidale che guarda lontano e che rilancia la cooperazione tra il Nord e Sud dell'Italia e il Nord e Sud del mondo. La lezione di Cattaneo, certamente uomo del suo tempo, ma che aveva intuito un federalismo che mirava all'unità d'Italia e quindi a partire dal proprio particolare per costruire l'universale, forse ci può essere da stimolo nell'attuale scenario.