SAN BARTOLOMEO IN GALDO
LE MAGNIFICHE SETTE CHIESE
di Paolo Angelo Furbesco
Da diversi anni, in occasione dell’estate sanbartolomeana, la locale Pro Loco
organizza tra le tante manifestazioni una gara podistica amatoriale denominata “Il
giro delle sette chiese”. Il percorso urbano, che si snoda lungo le strade del paese per
circa tre chilometri, interessa in ordine i seguenti luoghi sacri: 1) chiesa del Calvario;
2) chiesa di Santa Maria degli Angeli; 3) chiesa di Maria SS. del Carmine; 4) chiesa
di Sant’Antonio abate; 5) chiesa della SS. Annunziata: 6) chiesa di San Bartolomeo
apostolo; 7) chiesa Arciconfraternita della SS. Immacolata Concezione.
Ecco un breve sunto relativo a queste magnifiche sette chiese.
CHIESA DEL CALVARIO
Posta sia all’inizio che all’arrivo della gara, è la prima chiesa che troviamo lungo il
nostro percorso. Si erge lungo l’attuale via Pasquale Circelli (già via Belvedere) al
numero 29, preceduta da una suggestiva scalinata formata da 30 gradini che la collega
all’ex Istituto suore di carità, oggi “Ambulatorio Polispecialistico Leonardo Bianchi
Center S.r.l.”, sulla destra di chi guarda. Molto complicata e contorta è la storia di
questo ex Istituto voluto da mons. Giovanni Pepe (nato a San Bartolomeo in Galdo il
27 dicembre 1880 ed ivi morto il 30 agosto 1955), per cui mi limito solo alla chiesa.
Una leggenda narra che qualche secolo fa, su un piccolo poggio detto “Calvario”,
esistevano tre croci. Ben presto questa località divenne un luogo di ritrovo per i
devoti di Gesù Cristo. Uno di questi, un tal Michele Monaco (un contadino dalla fede
spiccata), ebbe l’idea di farvi sorgere una modesta cappella. Sull’architrave in pietra
calcarea del misero portale fece incidere: «A divozioni di Michelo (sic) Monico fu
Sebastiano 1894» (una scritta ancora visibile sull’ingresso di via Calvario n. 52).
Dopo quattro anni dalla sua costruzione, l’11 marzo 1898, con atto del notaio Angelo
Maria Ricci di San Marco dei Cavoti la piccola chiesetta fu donata al figlio
Sebastiano, con un’unica condizione: «Che essa in perpetuo fosse adibita al culto».
Successivamente, con l’ausilio del sac. don Michele Ziccardi, ma soprattutto con il
fervido concorso del popolo, la cappella fu ampliata e messa in uno stato più
decoroso, e il sacerdote poté officiare con fervore attirando la gente del vicinato. Con
il tempo, per le inevitabili difficoltà insorgenti contro ogni opera buona, il fervore del
sacerdote cominciò ad affievolirsi, venendo poi meno del tutto. La chiesetta venne
progressivamente abbandonata, trasformandosi in un rudere. Questo stato di cose fece
sorgere nell’animo del proprietario il segreto desiderio di disfarsene, vendendola (con
il piccolo spazio adiacente) come suolo edificatorio.
Nel frattempo il sacerdote Giovanni Pepe, alla continua ricerca di un’area da adibire
alla costruzione di un suo vecchio sogno (un ricovero per gli inabili al lavoro),
manifestò ai suoi diretti superiori l’idea di acquistare la chiesetta abbandonata,
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ricevendone pieno mandato. Il 29 febbraio 1922, con le somme residuali dei conti
della “chiesa ricettizia”, il sacerdote (con atto gratuito del notaio Antonio Colabelli)
ne divenne proprietario, consenzienti l’arciprete Ernesto Saccone, il clero locale e il
vescovo di Lucera mons. Giuseppe Di Girolamo. Con lo stesso atto, il sac. Michele
Ziccardi cedette all’acquirente i diritti da lui vantati tanto sulla chiesa (per
l’ampliamento e le elevazioni da lui fatte) che sull’adiacente suolo edificatorio da lui
ottenuto dal Comune nell’anno 1900, contribuendo altresì alle spese per il restauro
della tettoia. Successivamente, il Comune (nella persona del sindaco Pietro
Colatruglio) con atto del 23 aprile 1924 cede «gratuitamente a scopo esclusivo di
beneficenza metri quadrati centotrentatre di suolo comunale che circonda i due lati
della chiesetta, e metri quadrati millequattrocentotrentatre di terreno, propriamente la
superficie di suolo situata tra la strada pubblica denominata Calvario presso la
Chiesetta omonima e vicini fabbricati e la sottostante strada provinciale, da destinarsi
esclusivamente a giardino di piante ornamentali, affinché il Prof. Pepe possa
edificare, aggregandovi il fabbricato dell’attuale Chiesetta del Calvario, un vasto
edificio da adibirsi a Ricovero di mendicità ed Orfanotrofio».
Le cronache locali narrano poi che il menzionato sacerdote, nominato nel frattempo
monsignore, si rifugiò con la sorella Carmela nel minuscolo fabbricato annesso come
sacrestia della chiesetta (ampliata e adattata alla meglio a sue spese) e assistette alla
solenne cerimonia del 2 giugno 1929 per la posa della prima pietra. Con questo gesto
«volle diventare il volontario custode della fragile e quasi cadente chiesa del Calvario
per poter poi trasformare in tempo opportuno quel pio locale in un’aiuola di carità
rivolta al sollievo dei derelitti», rimanendoci fino al settembre 1929 quando venne
trasferito in quel di Fano come rettore del Pontificio seminario marchigiano Pio XI.
Due anni dopo lasciò il seminario per assumere un’alta carica nella Suprema
Congregazione del Sant’Ufficio (ora chiamata Congregazione per la Dottrina della
Fede, ndr): è il 1931, anno in cui la costruzione della “Casa di Riposo e di Cura”
venne ultimata. Ma, per la mancanza di attrezzature necessarie alla gestione di un
gerontocomio e degli strumenti tecnologici indispensabili a un ospedale, e soprattutto
per non lasciarla inutilizzata ed esposta alla degradazione, donò il nuovo manufatto
all’Istituto delle suore della carità sotto la protezione di Santa Giovanna Antida
Thouret, affinché le suore potessero servirsene per i loro scopi educativi, specie nel
settore della scuola materna, e per le loro attività di formazione domestica di fanciulle
e giovanette.
Tutto quanto riferito è stato da me tratto dai bollettini trimestrali All’ombra della
Croce, editi dal 1929 in poi dalla “Casa di riposo e di cura Gesù Redentore”, da
redigersi in San Bartolomeo in Galdo. E qui, come premesso, termina l’anteprima
della sua complicata storia.
Dopo la scomparsa (nel maggio 2008, all’età di 93 anni) del francescano Padre
Aniceto, al secolo Lorenzo D’Andrea, nostro compaesano, la chiesetta viene aperta al
culto soltanto un solo giorno al mese: ogni primo sabato vi viene officiata una messa.
Ai lati del particolare ingresso troviamo due dipinti raffiguranti Gesù Cristo:
un’immagine durante la Via Crucis, con la croce sulle spalle, ed un’altra all’interno
dell’orto dei Getsemani. Di modeste dimensioni (circa 15 metri di lunghezza con
larghezza di circa 6 metri), linda e graziosa, al centro dell’altare troviamo uno
splendido crocefisso in legno massiccio con statue lignee della Madonna e di Maria
Maddalena. Al centro della volta un dipinto con firma «Pasquale Mossuto 1940»
(valente pittore nostro compaesano) raffigurante “Gesù tra gli infelici”. Dello stesso
autore anche una tela raffigurante Santa Giovanna Antida Thouret.
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CHIESA SANTA MARIA DEGLI ANGELI
Lasciata la chiesetta del Calvario, dopo aver percorso un breve tratto di via Pasquale
Circelli in direzione della periferia, transitiamo lungo via IV Novembre al termine
della quale troviamo la piazza San Francesco d’Assisi con il convento dei frati
minori, fondato nei primi anni del secolo XVII (1609) «sopra un colle di prospetto
alla suddetta terra, verso mezzogiorno e ponente».
La costruzione procedette di pari passo con quella della chiesa di Santa Maria degli
“Angioli” completata nel 1630. Abate feudatario - abbas et baro - era il cardinale di
San Crisogono Scipione Caffarelli Borghese (nipote di papa Paolo V). «Sia la facciata
che l’interno della chiesa sono in stile barocco, apprezzabile per i colori tenui e la
leggerezza degli stucchi che arricchiscono gli altari e la volta con la maestosa figura
di San Michele Arcangelo. Ha una volta ad arco romanico ribassato poggianti su
pareti laterali e alternata sulle linee di base, da vele decorate con bassorilievi e
stucchi»: parole di Davide Fernando Panella da Il francescanesimo nel Fortore.
Bellissimo esempio di architettura barocca, presenta un portale, con «timpano
spezzato e fastigio ad urne» e reca lo stemma gentilizio della famiglia Borghese
(aquila e drago). Sull’architrave modanato l’iscrizione recita: «COENOBIVM ET
ECCLESIAM VNIVERSALIBVS IMPENSIS ABSOLVTA PORTAM SIC
ORNATAM SVO AERE AC PIO ANIMO SCIPIO S.R.C. CARD. BVRGHESIVS
ABBAS ET BARO STRVI MANDAVIT ANNO SALVTIS M DCXXX». («Il
convento e la chiesa sono stati costruiti a spese di tutti. Questo portale così adorno
con suo denaro e con pietà d’animo Scipione Borghese cardinale di Santa Romana
Chiesa abate e barone fece costruire nell’anno della salvezza 1630»).
Intitolato a Santa Maria degli Angeli, il sacro tempio fu solennemente consacrato dal
vescovo di Volturara, mons. Tommaso Carafa, il 6 febbraio 1630, come da scritta
presente sul lato sinistro dell’ingresso: «HANC VENERABILEM D. M.
ANGELORVM AEDEM IL. E.T. REVER THOMAS CARAFA VVLTURIAE
EPISCOPIS ET MONTIS CORBINI (sic) RITE SACRIVIT 6 (sic) OBRIS (sic) A.
D. M DCXXX CVIVS CONSECRATIONIS OFFICIVM POST. DIVINUM
FRANCISCI OCTAVAM EIVS FAVORE CELEBRARI INDVLSIT». («Questo
venerabile tempio di Santa Maria degli Angeli, l’illustrissimo E.T. Reverendo
Tommaso Carafa, vescovo di Volturara e di Monte Corvino, secondo il rito, consacrò
il 6 febbraio 1630, la cui funzione di consacrazione dopo l’ottava del divino
Francesco, col suo favore concesse di essere celebrata»).
Si presenta in una sola navata con sette altari: il maggiore, dedicato a Santa Maria
degli Angeli – con l’immagine su tela risalente al XVII sec. esposta nella parte alta
della parete centrale – fu costruito a spese del convento e di Orazia Colagrosso nel
1743, come da scritta «ex sumptibus Conventus et ex devotione Horatiae Colagrosso
constructum in mense Novembris A. D. MDCCXXXXIII». Gli altari laterali sono
rivestiti di finissimo marmo policromo e medaglioni centrali in marmo bianco con la
raffigurazione del titolare dell’altare; quelli di destra sono dedicati a san Pasquale
Baylon, san Diego D’Alcalà e sant’Antonio da Padova mentre quelli posti a sinistra –
a partire dall’altare maggiore – sono dedicati a san Francesco d’Assisi, al SS.
Crocifisso e a san Nicola di Bari, come da statue lignee del XVIII sec. tutte riposte
nelle loro rispettive nicchie. Altre statue lignee si trovano nella sacrestia e
rappresentano santa Chiara d’Assisi, la Vergine della Purificazione, san Pietro
d’Alcantara, san Matteo apostolo e l’Immacolata Concezione. Un particolare: il
crocefisso posto nella mano destra della statua lignea di san Diego D’Alcalà (patrono
dei religiosi fratelli francescani) porta incisa la data 1624. Infine, una curiosità: gli
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Angeli che ornano la chiesa sono 143 (96 scolpiti in gesso, 24 in marmo, 6 in legno e
17 dipinti su tela).
Nota saliente Per la morte del vescovo Sorrentino, risulta che il 30 giugno 1710 nella
menzionata chiesa vi aveva celebrato messa il cardinale fra’ Vincenzo Maria Orsini
(futuro papa Benedetto XIII), arcivescovo di Benevento e amministratore apostolico
della diocesi di Volturara: «Poi mi portai nella Chiesa di S. Maria degli Angioli de’
minori osservanti Riformati, ove celebrai la mia Messa piana». (Biblioteca Capitolare
di Benevento, Diari di Orsini, Tomo IV, ms. 567-1710/1716).
Grazie alla generosità del popolo, nel 1982 la chiesa ha usufruito di un ultimo
restauro terminato con la solenne benedizione impartita il 2 Agosto 1983 dal vescovo
di Lucera mons. Angelo Criscito e dal suo ausiliare mons. Appignanese (come da
scritta sotto il portale “Anno santo della Redenzione 1983”). Per l’occasione furono
fuse e benedette anche le campane. Attualmente la chiesa è l’unica parte ancora
utilizzata del complesso conventuale costruito come già detto all’inizio del sec. XVII.
Le trasformazioni apportate del 1959 hanno deturpato alquanto la sua linea
architettonica che, tuttavia, dopo il riuscito restauro si presenta nel suo insieme con
un volto artistico di gran rispetto. Nei locali adibiti per le confessioni una lapide
marmorea recita: «A S. Francesco d’Assisi Patrono d’Italia nel II centenario della
fondazione del sodalizio cittadino del terz’ordine Francescano che tante opere di
religione e di carità promosse nel popolo nostro i figli e la cittadinanza riconoscenti.
A. D. MCMXL».
La chiesa si arricchisce di un organo a canne costruito dalla rinomata fabbrica
Mascioni di Cluvio (provincia di Varese) inaugurato il 24 agosto 1985 con un grande
concerto dell’organista padre Egidio Circelli, nativo di San Bartolomeo in Galdo. In
merito, ecco le parole di Benito Pacifico tratte dal libro San Bartolomeo in Galdo
(ed., marzo 2006): «I fedeli ricordano con gratitudine il Rev. P. Egidio Circelli,
dell’O.F.M., nostro concittadino e organista di fama europea, primo a Norimberga
alla settimana internazionale d’organo suonando nella chiesa di S. Lorenzo un grande
organo di quindicimila canne e cinque tastiere. La sua iniziativa, il suo impegno e la
collaborazione di altri frati hanno lasciato alla chiesa del Convento un organo con 16
registri, 1126 canne, 2 tastiere e una pedaliera a ventaglio di 30 note».
Un desiderio che parte da lontano Nella riunione consiliare del 18 ottobre 1949 il
M.R.P. Commissario P. Benedetto M. d’Alessio riferisce che «nel Settecento
l’Università (ovvero tutti gli abitanti del feudo, ndr) di San Bartolomeo in Galdo
richiedeva al Vescovo del luogo la divisione dell’attuale unica Parrocchia e di
affidare una nuova da erigersi ai Padri Francescani». Riferisce ancora che «in un
colloquio con l’attuale Vescovo di Lucera mons. Domenico Vendola, questi si
esprimeva in senso favorevole, tanto più che i Padri già lavorano attivamente nella
cura delle anime. Il ven. Consiglio si manifesta entusiasta e che il MRP Commissario
caldeggi presso l’Ordinario di Lucera quanto è nei voti comuni» (ACBP, Atti della
Provincia 1911-1949, p. 815, nr. 4).
Dopo 37 anni, l’arcivescovo di Benevento mons. Carlo Minchiatti riconosceva che
«la presente situazione topografica e demografica, contenuta nel territorio del
Comune di San Bartolomeo in Galdo della nostra Archidiocesi, esigeva l’istituzione
di una nuova Parrocchia. A ciò provvedemmo con il nostro decreto del 2 settembre
1986, riconosciuto agli effetti civili del decreto del Ministero dell’Interno in data 6
dicembre 1986. Al n. 57 è detto: San Bartolomeo in Galdo – Parrocchia del Cuore
Immacolato di Maria. Detta neo-Parrocchia è stata affidata con regolare ed apposita
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Convenzione alla Provincia Sannito-Irpina dei Frati Minori Francescani, la cui sede
momentaneamente, in attesa della costruzione della Chiesa Parrocchiale, sarà la
Chiesa di Santa Maria degli Angeli annessa al Convento Francescano di San
Bartolomeo in Galdo».
Con decreto arcivescovile del 1 ottobre 1987 il metropolita beneventano delineava la
circoscrizione territoriale della nuova parrocchia sotto il titolo del Cuore Immacolato
di Maria.
CHIESA MARIA SS. DEL CARMINE
Dal convento, transitando dopo una lunga discesa per via San Francesco, via
Valfortore e via Orto della Terra, si giunge in piazza del Carmine dove al civico
numero 14 si erge la chiesa di Maria SS. del Carmine. Sulla sua facciata campeggia la
scritta: «CHIESA DEL CARMINE FONDATA DAI FRATELLI SACERDOTI D.
FRANCESCO E D. MATTEO CATALANO ADDI’ 1910».
La chiesa, che nel corso degli anni ha subito opere di ristrutturazione (l’ultima nel
1995, come ricorda una dicitura posta nell’alzata dello scalino sotto il portone
d’ingresso), si presenta a una sola navata con un altare centrale e due laterali.
Sull’altare centrale troneggia la stupenda statua lignea policroma del sec. XIX
raffigurante la B.V. Maria del Monte Carmelo (ovvero la Madonna del Carmine).
Nell’altare di sinistra («A Rosina Ciaburri ved. Geronimo 1911») troviamo statue
lignee di santa Lucia e del SS. Cuore di Gesù, mentre su quello di destra («Ad
Angiolina Colatruglio ved. Boragine in memoria del suo Eliseo 1911») troviamo
statue lignee di san Donato e san Giuseppe con Bambino. Il 16 luglio di ogni anno la
statua della Madonna viene portata “a spalla” in processione lungo le principali vie
del paese. Nel 2010, in occasione del primo centenario della costruzione della chiesa,
l’avvenimento è stato caratterizzato dal nuovissimo manto con cui è stata rivestita la
statua.
Nota specifica Sul lato sinistro, su una pala in legno, troviamo l’immagine di una
Madonna con Bambino con la seguente scritta: «ALTARE HOC DE IVRE
PATRONATVS FAMILIAE MARIELLA IN HONOREM DEI EIVSQVE SS.
GENITRICIS MARIÆ SVB TITVLO MONTIS CARMELI AC SANCTORVM
PHILIPPI ET IACOBI APOSTOLORVM SOLEMNI RITV DEDICANS DIE XXI
OCTOBRIS M ٠D ٠CC ٠XIV SACRAVIT FR. VINCENTIVS MARIA ORD.
PRÆD EPVS TVSCVLANVS S.R.E. CARD. VRSINVS ARCHIEPVS
METROPOLITA HAC SEDE VACANTE VISITATOR ET DELECATVS
APOSTOLICVS». («Questo altare con diritto di patronato della famiglia Mariella in
onore di Dio e della sua Santissima Madre Maria sotto il titolo di Monte Carmelo e
dei santi apostoli Filippo e Giacomo, dedicando con rito solenne il giorno 21 ottobre
1714 consacrò Fr. Vincenzo Maria dell’ Ordine dei Predicatori Episcopo Tuscolano
sua Rev. Eccellenza cardinale Orsini arcivescovo metropolitano, essendo vacante
questa sede episcopale visitatore e delegato apostolico»).
In origine questa pala si trovava tra i ruderi di una cappella dedicata ai santi apostoli
Filippo e Giacomo, sul cui terreno i fratelli sacerdoti Francesco e Matteo Catalano
(residenti in San Bartolomeo in Galdo) avevano fatto sorgere a proprie spese la
menzionata chiesa liquidando quasi tutto il loro patrimonio lasciato loro in eredità dal
defunto padre Costantino.
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«Rimasta chiusa per molti anni in seguito alla morte dei suddetti sacerdoti, il luogo
sacro è stato successivamente riaperto e affidato prima ai sacerdoti fratelli Ricci e poi
al sacerdote don Clemente Arricale. È merito di questi aver restituito alla chiesa la
dovuta importanza religiosa, anche attraverso lavori di restauro che l’hanno resa più
accogliente e rispondente alle esigenze delle forme attuali di culto, per l’esecuzione
dei quali hanno prevalentemente contribuito i fedeli emigrati». Sono parole di
Vincenzo Del Re tratte dal libro San Bartolomeo in Galdo, ed., Napoli, 1962.
In data 16 luglio 2010 (in occasione della ricorrenza del primo centenario della
chiesa, 1910-2010) è stato elaborato un opuscolo curato da Michelina Colella, con la
collaborazione della Prof.ssa Franco e per gentile concessione di don Clemente
Arricale. Ecco un estratto: «La Confraternita di Maria SS. del Monte Carmelo fu
costituita, nel 1898, dal M. Rev.do Provinciale dei Carmelitani Scalzi, P. Gennaro
Ciaramella, di San Giovanni a Teduccio che ha officiato nella Chiesa Parrocchiale
fino al 1910. Tra le varie iniziative ed i vari atti compiuti dalla Congregazione, è da
sottolineare la Delibera del 18 giugno 1909 circa la scelta del locale della costruzione
della Chiesa della Congrega: “Si è deliberato di costruire la Chiesa nell’antica Chiesa
di S. Giacomo, locale appartenente alla Congrega dietro donazione della vedova
Enrichetta De Geronimo, e compatroni della chiesetta diruta”. Detta delibera fu
approvata dal Consiglio Direttivo riunitosi in assemblea sotto la presidenza del Priore
Leonardo Mucciacito e composta dai presenti consiglieri: Giuseppe D’Aiuto,
Pasquale De Palma, Leonardo Del Re, Raffaele D’Onofrio, Giuseppe Giannetta,
Raffaele Lupo e Liberato Mazzilli. Il giorno 13 dicembre 1910 la Congregazione di
Maria SS. del Carmine fu trasferita nella propria Chiesa titolare CHIESA DEL
CARMINE, solennemente benedetta e aperta al culto dei fedeli da S. E. Mons.
Lorenzo Chieppa, Vescovo di Lucera. Detta Chiesa fu fabbricata a spese proprie dai
fratelli Sacerdoti Francesco e Matteo Catalano. Sulla facciata della Chiesa esiste in
ricordo una lapide di marmo. La Chiesa del Carmine, col nome primitivo di Maria
SS. del Monte Carmelo, nasceva sulle rovine dell’antica Cappella dei SS. Apostoli
Filippo e Giacomo, appartenente alla famiglia Mariella, e successivamente, con locali
e giardino annessi, per spontanea concessione dei fratelli Can.ci Francesco e Matteo
Catalano, fu ceduta al Parroco pro tempore con “istrumento der notar Antonio
Colabelli”, in data 22 agosto 1924. Dal 15 settembre 1962 cominciava le celebrazioni
in Chiesa del Carmine don Clemente Arricale che, infaticabile, continua tutt’oggi e
che, nel 1972, è stato nominato Vicario Cooperante della Parrocchia di S. Bartolomeo
in Galdo da Angelo Criscito Vescovo di Lucera».
CHIESETTA SANT’ANTONIO ABATE
Proseguendo lungo il percorso in direzione nord, al civico numero 105 di via
Leonardo Bianchi troviamo la chiesetta di Sant’Antonio abate, attualmente chiusa al
culto. Per volontà della famiglia Colatruglio fu costruita nel 1720 da Agostino Ugone,
come da scritta marmorea impressa sull’architrave dell’ingresso: «Chiesetta di S.
Antonio Abate - Famiglia Colatruglio».
Di piccole dimensioni (circa 10 metri di lunghezza, larghezza di circa 3 metri),
presenta un altare semplicissimo, di modeste pretese; sullo sfondo, una bellissima
statua lignea raffigurante il santo con il disegno di una croce rossa tracciata sul
mantello scuro, ai piedi la figura di un “porcellino nero”. Nella parete destra, una
targa marmorea bianca con la seguente epigrafe: «IN ONOREM DEI A.C.S.
ANTONUS (sic) PADUANI SOLEMNI RITU DEDICANS DIE XVII JULI A.D.
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CIƆIƆCCXX SACRAVIT ILL. MUS ET REMUS IMPERIALIS PEDICINUS
PATRICIUS (sic) BERNTANUS EPŨS VULTURARIEN». («In onore di Dio A.C.S.
Antonio da Padova, dedicando con rito solenne il 27 luglio 1722, consacrò
l’illustrissimo e reverendissimo Imperiale Pedicini, patrizio beneventano e vescovo di
Volturara»).
Originariamente dedicata a sant’Antonio da Padova, venne aperta al pubblico solo
durante il novenario in onore di sant’Antonio abate, il grande eremita vissuto
nell’Egitto e morto più che centenario verso il 356, divenuto con il tempo protettore
del bestiame. Ancora oggi, il 17 gennaio di ogni anno, vi si celebrano le funzioni
religiose con grande partecipazione di popolo; i contadini vi portano a benedire gli
animali da soma e la sera, nelle sue vicinanze, si accende un enorme falò.
Secondo tradizione, le reliquie del santo (ritrovate nel 561) sarebbero state portate nel
secolo XI in Francia, dove divampava un’epidemia pestilenziale di herpes zoster
(detto anche “fuoco sacro” per le dolorose infiammazioni). Molte persone, in quella
triste circostanza, sarebbero state guarite miracolosamente dalle reliquie o
dall’intervento del santo: da qui il nome di «fuoco di sant’Antonio» dato allora alla
malattia. Luciano Sterpellone, a pagina 240 della sua opera I santi e la medicina,
afferma che «il santo nella sua vita solitaria nel deserto egiziano avrebbe sofferto
dello stesso male». Alla cura dell’herpes zoster e di altre malattie endemiche si
dedicarono gli Antoniani (un ordine di monaci ospedalieri fondato da un gentiluomo
francese di nome Gastone e approvato da papa Urbano II nel 1095). Poiché questi
curavano i mali della pelle con grasso di maiale, vi era necessità di grandi
allevamenti: così i monaci ottennero – con privilegi ed editti – non solo di poter
allevare direttamente i porci a essi occorrenti, ma ottennero altresì che i loro maiali
potessero girare liberamente per le vie alla ricerca di cibo. E quindi, da quel momento
in poi, lu pórchë dë sant’Antónë (i porci di sant’Antonio) – contraddistinti da un
campanello al collo o dalle orecchie mozzate o ancora dalla croce di sant’Antonio
dipinta in rosso – presero a vagare per le vie cittadine alla ricerca di cibo che nessuno
negava loro per la devozione nutrita verso il santo. E questo fece sì che da allora la
leggenda e l’arte raffigurassero sempre il santo eremita con un porcellino accanto ai
piedi. Piero Bargellini nel suo Mille santi del giorno scrive: «Nelle campagne gli
venne affidata la protezione del bestiame, e fu allora che apparve ai suoi piedi il roseo
porcellino, come simbolo di salute e di floridità, e che la sua immagine si moltiplicò
in tutte le stalle in atto di benedire gli animali domestici».
Verso il 1853, parlando della festa di sant’Antonio abate, Nicola Falcone ricordava
nella sua Monografia su San Bartolomeo in Galdo una tradizione già a suo tempo
scomparsa: «Nella festa di Sant’Antonio Abbate (sic) era solito sospendersi nella
pubblica piazza un agnello, e diverse persone correndo a cavallo doveano colpirlo ed
ucciderlo a colpi di sciabola. Quindi si mangiava da tutti quei valorosi!...». Poi
aggiungeva: «Però quel giorno di Sant’Antonio Abbate (sic) vige ancora l’usanza di
passare cento volte nel corso della giornata dinanzi la chiesa del Santo correndo a
bisdosso (sul dorso senza sella, ndr) sui muli, cavalli e asini. Vi è pur l’usanza di una
danza che sa del grottesco eseguita sulle pubbliche piazze al suono di tamburi e altri
villici strumenti, da soli uomini». Quest’ultima citazione di Falcone è la conferma di
come a San Bartolomeo in Galdo il 17 gennaio si desse veramente inizio al
“carnevale”.
Nota particolare Il suddetto Imperiale (altri Imperiali) Pedicini, patrizio beneventano
(nato a Paduli nel 1675, vescovo di Volturara dal 1718, morto a Benevento nel
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maggio del 1724), la sesta domenica dopo la pentecoste del 1720 consacrò anche la
sotto menzionata chiesa dell’Annunziata.
CHIESA DELL’ANNUNZIATA
Sempre in via Leonardo Bianchi (già via Frentana), al numero 149 troviamo la chiesa
della Santissima Annunziata, attualmente non più adibita al culto religioso. Presenta
un portale in pietra serena «con timpano a ghimbèrga, lunetta a sesto acuto decorata
ad altorilievi, modanatura a corda tortile con capitelli corinzi e leoni stilofori
(portatori di colonne, ndr)». Sull’architrave si legge «AGP – 1498» che richiama
l’Annunciazione (Ave Gratia Plena). Questo portale, spiega Mario Rotili (L’arte del
Sannio, ed. Benevento, 1952), «coronato da una timida cuspide (punta a forma
triangolare, ndr) di manifattura tardo gotico, è ornato nella lunetta ogivale da
un’Annunciazione di intonazione paesana datata 1498 e le due colonne sono poggiate
su gattoni raffiguranti dei leoni».
Caratteristico il campanile, formato da un tamburo poligonale e coronato da una
calotta sferica sulla cui facciata è ancora visibile un antichissimo orologio a sole detto
alla “romana” con un’unica lancetta a numerazione a sei ore (risalente al XVII
secolo), mentre all’interno della calotta è sistemato un grande pendolo francese che
scandiva il tempo a ogni quarto d’ora.
L’interno, un tempo a tre navate e a croce greca, è oggi a una sola navata, con volta in
piano. Nel transetto destro una Madonna del Rosario del Celebrano (pittore di
“famiglia” del re Ferdinando IV di Borbone). Su tre dei quattro affreschi, a forma di
medaglioni, restaurati a suo tempo, compaiono i nomi dei santi Bonaventura,
Bernardus e Alphonsus. Sulla volta un bel dipinto con firma «Pierluigi Torelli 1940»
raffigurante la Madonna con san Giuseppe e il Cristo Gesù.
Entrando sulla sinistra troviamo questa incisione: «TEMPLUM HOC, ET ALTARE
IN HONOREM DEI VIRGINIS AB ARCHANGELO SALUTATÆ ERECTUM
IMPERIALIS PEDICINUS PATRICIUS BENTANUS, ET EPŨS VOLTURARIEN
DOMINICA VI POST. PENTECOST. A.D. CIƆIƆCCXX RITE SACRAVIT, AC
XL INDULGENTIÆ DIES FIDELIBUS IMPERTIVIT QUI VIRGINEM EIUS
FESTIVITATIBUS, VEL ANNIVERSARIO CONSECRATIONIS DIE HIC
ADORATUM ECCEDERENT REGINÆ CAELITUM, UT IPSIUS OPE CÆLESTI
BEATITATE FRUAMUR DEVOTE CULTUM EXHIBEAMUS». («Questo tempio
e l’altare eretto in onore di Dio e della Vergine, alla visitazione di Imperiale Pedicini,
patrizio beneventano e vescovo di Volturara, la sesta domenica dopo la Pentecoste
(Anno del Signore) A.D. 1720 secondo il rito consacrò, e 40 giorni di indulgenza
impartì ai fedeli, che venissero a pregare in questo luogo la Vergine nelle sue festività
o nell’anniversario della consacrazione alla Vergine affinché col soccorso della stessa
godiamo della celeste felicità, con devozione manteniamo il culto»).
CHIESA SAN BARTOLOMEO APOSTOLO
A pochi metri dalla menzionata chiesa dell’Annunziata, al civico numero 1 di corso
Roma, si erge maestosa con il suo campanile-torre (simbolo del paese) l’attuale
chiesa dedicata ai compatroni san Bartolomeo apostolo e beato Giovanni eremita da
Tufara, comunemente detta “chiesa madre” in quanto la più grande del paese.
Fungeva da cattedrale sin dal 1332, da quando i vescovi della diocesi di Volturara vi
trasferirono di fatto la loro sede, edificandovi successivamente anche il palazzo
vescovile tuttora esistente.
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A quei tempi, dunque, secondo la tradizione religiosa esistevano due chiese: quella
parrocchiale eretta nel 1330 dall’abate Nicola da Ferrazzano (sui resti di un’antica
cappella del 1277), restaurata dopo il terremoto del 1456 grazie all’abate
commendatario Domenico di Lagonissa arcivescovo di Rossano (altri Rossana), e
quella dell’Annunziata edificata nel 1498. Con il passare degli anni e con il continuo
incremento della popolazione urbana queste chiese si dimostrarono però troppe
piccole e inadeguate per i bisogni spirituali dei fedeli e le esigenze del culto; fu così
che si decise di ampliare di nuovo la vecchia chiesa parrocchiale. Abate
commendatario era il cardinale di San Clemente Tommaso Maria Ferrari.
Il giorno 8 luglio dell’anno 1703 l’eminentissimo cardinale fra’ Vincenzo Maria
Orsini, arcivescovo metropolita di Benevento (eletto poi papa il 29 maggio 1724 con
il nome di Benedetto XIII), consacrò la nuova chiesa voluta dal citato abate sotto il
titolo di san Bartolomeo apostolo. A ricordo, ecco l’iscrizione che si rileva dalla
lapide di marmo posta al suo interno, in prossimità dell’ingresso secondario, lato
campanile: «ECCLESIAM HANC, VETUSTATE DECIDUAM, CAPPELLARUM
MULTITUDINE ET SITUS IRREGULARITATE DEFORMEM FR.VINCENTIJ
MARIÆ ORD. PRŒD. CARD. URSINI ARCHIEPISCOPI BENEVENTANI ET
APOSTOLICI VISITATORIS DECRETO, PIJS VERO AC LARGISSIMI FR.
THOMÆ FERRARI PRÆLAUDATI ORD. PRÆD. CARDINALIS S. CLEMENTIS
NUNCUPATI, ABBATIS COMMENDATARIJ, ELEEMOSYNIS ET ECCLESIÆ
EIUSDEM, AC CONFRATERNITATUM SUMPTIBUS SYMMETRICE
INNOVATAM, PLASTICE EXCULTAM ET DECORI, VENUSTATI AC
SPLENDORI, UT DEI DOMUM DECET REDDITAM, IN HONOREM DEI, ET
SANCTI BARTHOLOMÆI APOSDTOLI, UNA CUM ARA MAXIMA SOLEMNI
RITU DEDICANS DIE VIII IULIJ M ٠D ٠CC ٠III SACRAVIT EDEM CARD.
URSINUS ARCHIEPISCOPI, QUI UNIVERSIS CHRISTI FIDELIBUS, IPSAM
VISITANTIBUS DIE XX OCTOBRIS, AD QUAM ANNIVERSARIAM
DEDICATIONIS HUIUSMONDI FESTIVITATEM TRANSTULIT, CENTUM
INDULGENTIÆ DIES PERPETUO CONCESSIT». («Questa chiesa, cadente per la
vetustà, deforme per la moltitudine delle cappelle e per l’irregolarità del sito, per
decreto di Fr. Vincenzo Maria cardinale Orsini dell’Ordine dei Predicatori
arcivescovo di Benevento e Visitatore apostolico e per verità con le pie e
generosissime elargizioni di Fr. Tommaso Ferrari del prelodato Ordine dei Predicatori
cardinale di san Clemente, abate commendatario, e a spese della stessa chiesa e delle
confraternite, rinnovata simmetricamente, plasticamente adornata e restituita al
decoro, alla bellezza e allo splendore, come si conviene alla Casa di Dio, dedicandola
in onore di Dio e di san Bartolomeo apostolo con solenne rito insieme con l’altare
maggiore consacrò il giorno 8 luglio 1703, lo stesso cardinale arcivescovo, il quale a
tutti i fedeli di Cristo che lo visitano il giorno 20 ottobre, al quale trasferì la festa
anniversaria di questa consacrazione, concesse in perpetuo cento giorni di
indulgenza»).
Al termine di questa prima fase dei lavori il nuovo tempio si presentava dunque a una
sola navata. Sull’altare maggiore di marmo policromo (sopraelevato da otto scalini,
avvolto da uno stupendo coro ligneo in stalli di noce) troneggiavano, esposte nelle
rispettive nicchie, i busti argentei reliquari dei compatroni rispettivamente
dell’apostolo san Bartolomeo e del beato Giovanni eremita da Tufara. Eccone una
breve descrizione.
1) Busto dell’apostolo san Bartolomeo Venne eseguito a Napoli nel 1767, quando
era console dell’Arte l’orefice Filippo Del Giudice (come da punzoni impressi
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“FD ٠GC”); del tutto sconosciuto, al contrario, è chi si cela dietro il punzone
dell’argentiere, contraddistinto dalle iniziali “ADF” a caratteri corsivi.
Su un basamento di bronzo e argento si erge la figura del santo patrono
(elegantemente ammantato in un abito a fiorami lavorato con estrema accuratezza)
che stringe nella mano destra un coltello (simbolo del suo martirio) e avvicina a sé il
libro del Vangelo. Con la mano sinistra, invece, indica la propria pelle scorticata, ma
nulla lascia trasparire la sua fisicità e la violenza a cui fu sottoposto. All’altezza del
petto è posta una piccola teca in bronzo dorato nella quale è custodita un piccolissimo
frammento osseo.
Il manufatto è una testimonianza importante della statuaria napoletana della seconda
metà del Settecento. Per la sua qualità artistica è stato attribuito dagli studiosi in via
ufficiosa alla scuola del maggiore scultore napoletano del XVIII secolo, Giuseppe
Sanmartino (morto nel 1793), esecutore di modelli e di disegni per argentieri.
2) Busto del beato Giovanni eremita da Tufara Venne realizzato nel 1658 – con
scritte in latino incise lateralmente – su ordinazione dell’allora vescovo di Volturara
mons. Marco Antonio Pisanelli (altri Pisaniello, altri ancora Pisanello, patrizio
napoletano, successivamente vescovo di Sora dal 1675 al 1680, anno del suo decesso)
per conservarvi le reliquie dell’eremita. Secondo gli esperti il citato manufatto,
solenne e austero nell’impostazione ed efficace per le notazioni naturalistiche, è opera
pregievole di un ignoto artigiano napoletano che appose le proprie iniziali
“F ٠A ٠R ٠” all’interno di una sagoma rettangolare. Le reliquie furono riposte in una
piccola teca ricavata nella parte inferiore e rese visibili da un vetro trasparente. Le
menzionate iscrizioni laterali si rivelano fondamentali per comprendere che l’opera
venne realizzata nel 1658 come ringraziamento per il patrocinio assicurato dal beato
Giovanni, imperversando la peste del 1656.
L’iscrizione di sinistra recita: «SIGNUM QUOD VIDES LECTOR ARGE(N)TO
FUSEM / EX P(I)YS LEGATORUM BONIS / QUAE FERVESCENTE UBIQUE
LUE BEATO IOANNI CONTINGERANTS (sic) / MARCUS ANT(ONI)US
PISANELLUS EP(ISCOP)US VULTURAR(IENSIUS) (sic) / AC PATRITIUS (sic)
NEAPOLITANUS / ERIGENDUM CURAVIT / ANNO A PARTU VIRGINIS M D
C L VIII». («La statua che tu vedi, lettore, fusa con argento dai devoti buoni dei
delegati, ardendo l’epidemia dappertutto, in onore del beato Giovanni, Marco
Antonio Pisanello, vescovo di Volturara e patrizio napoletano, fece erigere nell’anno
del parto della Vergine 1658»).
L’iscrizione di destra recita: «PROSPICE LECTOR ET SUSPICE / LIPSANA (sic)
QUE HIC COLLECTA COCIS (sic) B(EATI) IOANNIS / LUCEM PROPE
DIVINITUS ACCEPERUNT / MARCO ANTONIO PISANELLO PATRITIO (sic)
NEAP (OLITANO) EPISCOPO VULTURAR(IENSIS) (sic) XI IUN(I)Y ANNO AB
ORBE REDEMTO M DCLVI / QUO GRASSANTE UE IMMINENTI MORBO /
PRAESIDIUM OPPONERETUR»). («Guarda lettore, e contempla le ossa qui
raccolte del beato Giovanni, che ricevettero la luce quasi per volontà del cielo per
mezzo di Marco Antonio Pisanello, patrizio napoletano, vescovo di Volturara, l’11
giugno anno del mondo redento 1656, perché infierendo un’epidemia venisse opposta
una difesa al morbo che minacciava»).
Note particolari
a) In merito al menzionato altare, dono del vescovo di Volturara, nella parte interna
delle balaustre compare la scritta «JOAN COCCOLI ARPINAS EPYS VVLTVRIAE
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ET MONTIS CORVINI EX SVA DEVOTIONE FECIT A.D. M ٠DXXIX
PRAESVLATVS SVI A. XX». («Giovanni Coccoli di Arpino, vescovo di Volturara
e di Monte Corvino, per sua devozione fece nell’anno 1709, nel ventesimo del suo
episcopato»).
b) Sempre a nome del suddetto vescovo, sotto l’altare maggiore, lato sinistro
troviamo, a ricordo, una lapide posta in suo onore dai fedeli, con scritta in latino
datata 1770, parzialmente illeggibile: «D.O.M. Joannis Coccoli Vultvriae Episcopj et
Montis Corvini a perennitate hoc locvlo CIƆIƆCCLXX».
c) Sulla sinistra dell’altare centrale, nelle vicinanze del passaggio che porta nella
cappella del SS. Sacramento, trovasi una sorte di tabernacolo d’altare in pietra di
antica consuetudine, ove, a suo tempo, erano state riposte reliquie del beato Giovanni
eremita da Tufara, con la seguente epigrafe: «TIBERIVS HIC ARCHIPRESBYTER
TRANSTVLIT ALMVN CORPVS EREMITÆ VT ORET ANTE DEVM ٠1541 ٠».
(«L’arciprete Tiberio in questo luogo trasportò l’almo corpo dell’eremita per pregare
davanti a Dio ٠1541 ٠»). La data impressa su questo tabernacolo è di notevole
importanza: testimonia che la chiesa (come già riferito, parzialmente distrutta dal
terremoto del 1456), era tornata al suo splendore, grazie all’interessamento del citato
abate commendatario Domenico di Lagonissa, come risulta da un manoscritto che si
conserva presso la Biblioteca Apostolica Vaticano catalogato come Codice Vaticano
Latino 5949.
d) Sulla parete sinistra, lato ingresso secondario, troviamo una targa marmorea nella
quale si cita la seconda visita fatta il 24 luglio 1707 dal già citato fra’ Vincenzo Maria
cardinale Orsini arcivescovo di Benevento, in occasione della consacrazione degli
altari alla Beata Vergine Maria, con relativa indulgenza di 100 giorni a quelli che
visitano gli altari predetti nei singoli giorni festivi di ogni anno.
e) Sulla parete destra, lato ingresso principale, troviamo una targa marmorea con
questa dicitura: «D.O.M. PERENNITATI. MEMORIAE ERASMI. FORTVNATI.
SVBCENTVRIONIS. STRENVISSIMI QVI. RELIGIONI. REGI. PATRIAE.
AMICIS PIETATE. FIDE. AMORE. OFFICIIS CVMVLATE. SATISFECIT
BLASIVS. ZVRLO. DAVNIAE. PRAEFECTVS HVNC. LAPIDEM SVI.
AMORIS. ET. DESIDERII TESTEM. SEMPITERNVM P.C. AN. R. S.
CIƆIƆCCCXXIII». («A perennità del ricordo di Erasmo Fortunato sottocenturione
valorosissimo, il quale compì il proprio dovere pienamente verso la religione, il Re, la
Patria, gli amici, con devozione, fede, amore, Biagio Zurlo, con funzioni di Prefetto
della Daunia, a testimonianza del suo valore e rimpianto vi pose per sempre. Anno
1823»).
f) Sui pilastri che delimitano la navata centrale da quelle di sinistra e di destra, ad
altezza d’uomo, si trovano due rosoni di ottone del diametro di 20 centimetri con al
centro la sagoma di una croce con la scritta: «Jesvs Homo Cristvs Devs», circondata
a sua volta da un’altra scritta a semicerchio con le parole: «Vivit Regnat Imperat
MCMI». Esternamente poi un’altra scritta circolare: «Oscvlantibvs Crvcem Hanc In
Ecclesia Positam Et Recitantibvs "Pater" Indvlgentia 200 Diervm Semel In Die».
(«Gesù Uomo Cristo Dio Vive Regna Impera - 1901 - A quelli che baciano questa
croce posta in Chiesa e che recitano il "Pater" una indulgenza di 200 giorni, una sola
volta al giorno»).
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Dopo queste note particolari, torniamo alla nostra storia. Nel 1849, a circa un secolo e
mezzo dall’edificazione, con il contributo di 1200 ducati elargiti dal Re di Napoli
Federico II la nuova chiesa venne ampliata con una navata laterale sinistra mediante
la costruzione di una cappella per la custodia del Santissimo Sacramento (con statua
lignea del SS. Cuore di Gesù posta al centro dell’altare all’interno della propria
nicchia, ancor oggi presente: alla sua sinistra statue lignee di san Pietro e della
Madonna dell’Assunta e alla sua destra statue lignee di sant’Anna con Bambino e
sant’Antonio da Padova). In alto la figura di un uccello tra due Angeli con la scritta:
«PIE PELLICANE JESVS DOMINE». («O pio pellicano Signore Gesù»).
Con due sole navate, però, il sacro edificio non parve esteticamente perfetto. Così, a
distanza di soli due anni, nel 1851, venivano ripresi i lavori di ampliamento per la
costruzione di un’altra navata, questa volta di destra, con annessi i locali per la
sacrestia, lavori portati avanti grazie alle numerose offerte dei cittadini e alla
benevolenza del vescovo di Lucera mons. Giuseppe Iannuzzi che offrì trecento
ducati e cedette tre stanze dell’attiguo palazzo vescovile. La cappella fu dedicata alla
Madonna del SS. Rosario. Al centro è tuttora presente una statua lignea della
Madonna del Carmine (ovvero la Madonna dei Fiori) circondata da state lignee
raffiguranti san Giuseppe con Bambino, san Michele Arcangelo, san Donato e san
Domenico. Nella parte inferiore sinistra dell’altare troviamo la seguente incisione: «A
divozione (sic) di Luisa Braca A.D. 1857»; nella parte superiore destra: «A devozione
can.co. Luca Braga maggio 1918».
Il tempio risultò quindi alla fine a pianta di croce latina con tre ampie navate separate
da due file di colonne. A quella di destra fu unita l’attuale campanile. Si racconta che
anticamente al suo posto esisteva forse un rudere di un castello o – addirittura –
avanzi di un’antichissima torre sannitica. Di sicuro questa massiccia torre campanaria
di notevole altezza (circa 35 metri), riparata nel 1582 (come da sigla posta al suo
ingresso) dal vescovo di Volturara Giulio Gentile (riduceva il campanile a migliore
condizione), risultava preesistente alla costruzione della chiesa. Da qui la
“congiunzione” durante i lavori per la navata. La strana cupola moresca (tipo
saracena), ornata di maioliche gialle e verdi come i colori del paesaggio, con il
“guerriero” scolpito in alto tra le sue pietre, segna da lontano il culmine del centro
antico, con edifici in pietra disposti lungo una strada principale che è la spina dorsale
da cui si dipartono, numerosi, i nervi sottili dei vicoli stretti e sassosi (per usare le
immagini descritte in Vi presento il paese di Maria Grazia Matera).
Nella cripta troviamo diversi pezzi di argenteria sacra (calici, ostensori, pastorali,
reliquiari), documenti (pontificali, messali, volumi dell’archivio parrocchiale) e
numerose vesti liturgiche (pianete romane e gotiche, piviali, dalmatiche e mitrie)
appartenute ai vari vescovi che si sono avvicendati in questa sede tra il XVI e XVII
secolo. Tra queste testimonianze spiccano: 1) un “messale” donato dal papa Albani
(Clemente XI 1700-1721), con legatura romana in cuoio, caratterizzato per le sue
insegne impresse in oro; 2) un “pianeta” dell’episcopato Pedicini (1718-1724), di
manifattura napoletana, in taffetà rosso laminato e ricamato; 3) un “piviale” di mezzo
damasco di manifattura meridionale risalente al periodo 1720-1730; 4) una “mitria
preziosa” in oro e argento, con perle e gemme policrome del secolo XVII di
manifattura italiana (uno dei pezzi più rappresentativi).
Per quanto riguarda infine l’argenteria, un oggetto eccelso è senza dubbio l’ostensorio
in oro, smalti e pietre preziose del valore – a suo tempo – di seimila ducati e che le
cronache locali dicono essere stato donato dall’abate commendatario Antonio
Bernardo Gürtler (Falkenau 1726-Roma 1791), confessore di Maria Carolina
12
d’Austria, consorte di Ferdinando IV re di Napoli. Nella parte posteriore del globo è
infatti inciso uno stemma episcopale, evidentemente da riconoscere in quello del
menzionato abate, che a Napoli il 29 giugno 1773 sarà consacrato vescovo di Thiene.
Si dice inoltre che la cripta ospitasse anticamente spoglie di vescovi e arcivescovi
della nostra diocesi. Sono presenti numerosi stemmi episcopali dei presuli di
Volturara tra il XVI e XVII secolo la cui cronotassi araldica è a tutt’oggi assai
lacunosa. Le basse volte presentano ancora degli affreschi raffiguranti questi stessi
luoghi: il bosco vicino e la città in fiamme, contornati dagli stemmi delle nobile
famiglie cui appartenevano i prelati. Al centro del soffitto, l’Immacolata Concezione,
assieme a san Michele e altre figure di oranti, una nave in tempesta e un morente
disteso nel suo letto completano il decoro. Tutto questo senza date di riferimento.
Per quanto sopra, ecco il pensiero di Vincenzo Del Re espresso nel libro San
Bartolomeo in Galdo, nei suoi aspetti storici, geografici e folcloristici, edito dalla
tipografia Laurenziana (Napoli, 1962, p. 56): «L’interno della chiesa, restaurata nel
1941 ad opera dell’Arciprete don Giulio Scrocca, è a croce latina con le volte in
muratura poggianti su poderosi pilastri. Di scarso pregio artistico sono i quadri e le
decorazioni; importante, invece, gli affreschi settecenteschi, il coro in legno
intarsiato, gli altari e le balaustre. Tra le tele (di buona fattura sia dal punto di vista
del disegno e della decorazione che della composizione) sono da citare: la Sacra
Famiglia, l’Incoronata e l’Immacolata. L’altare maggiore, in marmo policromo, è del
primo settecento. Per tali lavori il Vescovo don Giovanni Coccoli contribuì con la
somma di 951 ducati. Prezioso e importante è il tesoro, ricco di due statue d’argento
che rappresentano i Santi Protettori (S. Bartolomeo e S. Giovanni Eremita) e di
svariati arredi vescovili e sacerdotali. Di sorprendente manifattura e d’inestimabile
pregio e valore è la sfera d’oro massiccio donata alla chiesa dalla regina Carolina
d’Austria per mezzo del suo confessore mons. Antonio Curtler (sic), Abate
Commendatario».
Il prospetto principale della chiesa, di grande interesse architettonico, presenta un
portale con arco ogivale e reca nella lunetta un bassorilievo raffigurante la Pietà. Più
in alto, una statua dell’apostolo san Bartolomeo; sopra la statua, spicca uno splendido
rosone in stile tardogotico con lo stemma dei Carafa, nobile ed antica famiglia,
feudataria per quasi un secolo nel Comune di San Bartolomeo in Galdo. Questo
portale, spiega Mario Rotili (L’arte del Sannio, Benevento 1952, p. 108), «è formato
in pietra serena, del tipo a cappuccio che rivela uno stile piuttosto rinascimentale, con
rosoncino di gusto catalano, mentre la statua del Santo, che sormonta la lunetta a
pieno centro del medesimo, ha un carattere arcaizzante».
In questo nuovo grande tempio le due colonne esterne che delimitano il portale (dai
capitelli decorati con elementi tratti dalla flora) sono poggiate su gattoni raffiguranti
dei leoni stilofori (portatori di colonne, ndr). Nella parte bassa degli sbalzi laterali è
impresso lo stemma dell’antico monastero di Santa Maria di Gualdo Mazzocca,
costituito dal monogramma ricavato da due lettere: una F sovrapposta nella parte
centrale da una M, significante Feudo Mazzocca (Feudum Mazzoccae) vale a dire
l’emblema dell’antico e insigne monastero, a dimostrazione del dominio degli abati
benedettini e la badiale condizione della chiesa, come “sigillo della badia”. Giova
precisare che secondo altre interpretazioni il monogramma significherebbe Fratres
Monasterii, perché i monaci usavano la sigla (FM) sui confini delle loro terre; per
altri ancora – e forse con un po’ di fantasia – la sigla indica le iniziali di Ferrucci
Mainardo, padre dell’eremita Giovanni da Tufara.
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In merito, dal libro San Bartolomeo in Galdo - Immunità, Franchigie, Libertà, Statuti
(ed., Napoli, 1994, p. 29), ecco il pensiero di Fiorangelo Morrone: «Secondo una
tradizione i portali delle due chiese verrebbero dal monastero di Mazzocca. A parere
mio, è poco probabile che il monastero avesse due portali con lo stemma. Ritengo che
essi sia stati scolpiti sul posto, allorché nel centro più importante del grande feudo di
Mazzocca – divenuto sede ordinaria del vescovo di Volturara, sede preferita
dell’abate commendatario, sede della giurisdizione criminale di tutte le terre del
monastero – furono costruite o rifatte sia la chiesa dell’Annunziata che la chiesa
madre». Questa tesi, per quanto riguarda gli stemmi, è anche avvalorata da fra’
Tommaso da Morcone (Giuseppe Plensio) che nel libro S. Marco la Catola (ed.,
1992) a pag. 80 afferma: «Tale stemma appare ancora oggi inciso sul portale della
chiesa rurale di S. Maria della Vittoria nell’agro di Gambatesa, già possesso del
monastero di Mazzocca; su una campana della stessa chiesa; su una pietra del
campanile di Gambatesa».
Anche chi scrive può suffragare questa tesi: ho potuto accertare che la menzionata
sigla (FM) è incisa anche sul fronte dell’arcata della Porta della Provenzana posta
all’inizio del supportino stesso, lato via Orto della Terra, mentre non appare sul
portale della chiesa dell’Annunziata.
Una precisazione La sigla è riportata anche sull’entrata secondaria della chiesa, sulla
destra – lato campanile – in prossimità del I° Supportico Chiesa. Questo ingresso
(risalente all’epoca della costruzione della navata di destra e cioè all’anno 1851) è
delimitato da resti di un portale molto antico impresso contro il muro, anch’esso in
pietra serena, privo dei famosi gattoni, ma con un particolare inedito: nella parte
superiore, all’interno di una sagoma a forma di scudo, si vede la figura di un cervo
con corna ramificate, delimitata nella parte superiore dei due lati dal menzionato
stemma dalle sigle (FM) e nella parte inferiore da due ornamenti floreali disposti in
modo da formare un ipotetico rettangolo, con cornice a corda tortile. Infine,
all’interno della lunetta arricchita con altorilievi, troviamo una Madonna con
Bambino, delimitata da due angeli, molto simile a quella impressa sopra l’ingresso
principale. A mio parere questi resti potrebbero risalire addirittura alla prima chiesa
costruita nel 1330 (parzialmente distrutta – come già riferito – dal menzionato
terremoto del 1456) e successivamente ricostruita. Ma è solo una supposizione.
Nel 2001, prima dell’inizio dei restauri della basilica di San Bartolomeo apostolo di
Benevento del 1729, l’arcivescovo Serafino Sprovieri ha indetto la terza ricognizione
canonica delle reliquie del santo lì depositate. Dall’ampolla vitrea n. 4 sono stati
prelevati alcuni frammenti ossei destinati alla chiesa cattedrale di Benevento, alla
cattedrale di Lipari e alle sei parrocchie dell’arcidiocesi di Benevento intitolate
all’apostolo: Apice, Montecalvo Irpino, Monte Rocchetta, Paduli, Petruro Irpino e
San Bartolomeo in Galdo. Il 24 agosto 2010, durante la SS. Processione in onore dei
patroni del paese, ho constatato sul busto di san Bartolomeo apostolo, all’altezza del
petto all’interno di una piccola teca di bronzo dorato, la presenza della menzionata
reliquia.
Nel febbraio 2009, con l’intervento di mons. Andrea Mugione, arcivescovo
metropolita di Benevento, è stata inaugurata con solenne benedizione una porta di
bronzo posta all’ingresso principale della chiesa, a devozione di Esterina Reino.
Incisa con la tecnica “cera persa” dalla Domus Dei Roma, su progetto dell’artista
Valeria Sicilia, è divisa in due ante con impresse 24 fornelle in bassorilievo di 45
14
centimetri per lato raffiguranti sull’anta sinistra (per chi guarda) 12 scene della vita di
san Bartolomeo apostolo e sull’anta destra 12 della vita del beato Giovanni eremita da
Tufara. Alla base della porta vi è questa incisione: «INTROITE PORTAS EIUS IN
CONFESSIONE ATRIA EIUS IN HYMNIS CONFITEMINI ILLI LAUDATE
NOMEN EIUS (sal. 99,4) AD MMIX».(«Varcate le sue porte con inni di grazie i suoi
atri con canti di lode lodatelo benedite il suo nome – salmo 99,4 – Anno 2009 »).
In merito alla succitata inaugurazione, dal social network Facebook riporto il pensiero
del gruppo Sagrestia 4 Ever fondato da Salvatore Pepe: «Cari amici, un tempo S.
Bartolomeo in Galdo è stata una grande e importante cittadina, ricca di storia, di
cultura, di attività, di vita. Oggi, purtroppo, di tanta grandezza rimangono solo
pregevoli resti e un malinconico ricordo: ne è segno evidente il fatto che tanti nostri
concittadini, pur amando il loro paese, per vivere dignitosamente, sono ancora
costretti a trasferirsi altrove. La storia ci dice che il paese è nato attorno alla chiesa di
S. Bartolomeo. La Chiesa Madre è il luogo della Memoria, è il “segno” più evidente
del grande passato: da lì può ripartire la rinascita! La Porta di Bronzo che
inauguriamo vuol essere solo un ulteriore “segno” della volontà di non rassegnazione
al degrado e alla mediocrità, è un monumento solenne, importante, bello, che non
solo arricchisce e nobilita la nostra chiesa (già Cattedrale!), ma dice pure che questo
popolo vuole reagire,vuole riportare il proprio paese ai vecchi splendori: un popolo
che ha saputo lavorare, lottare, costruire nei secoli, non può e non vuole “lasciarsi
cadere le braccia” vinto dalla rassegnazione. La Porta di Bronzo, realizzata grazie alla
generosità e alla sensibilità della nostra concittadina Sig.ra Reino Esterina, resterà nei
secoli come testimonianza e monito alle generazioni future che anche questa
generazione ha saputo e voluto realizzare cultura, progresso e bellezza! Ridare
solennità, dignità e grandezza alla Chiesa Madre sia da stimolo e da sprone a quanti
vogliono impegnarsi, con serietà e generosità, alla crescita materiale, morale e sociale
del nostro paese».
Ultima annotazione I lavori di restauro al campanile della chiesa sono stati ultimati
nell’agosto 2010. In tale occasione anche le statue della Madonna di Lourdes e della
pastorella Bernadette, poste – in occasione dell’anno Mariano 1954 – all’interno della
grotta ricavata nella base del campanile stesso, sono state restaurate dall’artista Anna
Maria Margiore, valente pittrice citata in svariati cataloghi d’arte per le sue numerose
opere esposte in varie circostanze.
CHIESA SS. IMMACOLATA CONCEZIONE
Sempre in direzione nord, proseguendo lungo corso Roma, al numero civico 96 si
erge la “chiesa nuova”, ove termina il nostro giro delle sette chiese. È comunemente
chiamata in tal modo, ma il suo vero nome è “Arciconfraternita della SS. Immacolata
Concezione”. Fu costruita nel 1739 per iniziativa e premura di Francesco Colatruglio,
come da stemma posto sulla parte esterna, con la seguente dicitura: «VIRGO MARIA
IMMACOLATA QVIA MATER NOSTRA 1739». Sull’ingresso interno, invece, su
una pietra calcarea troviamo questa incisione: «OPUS HOC LAPIDEUM EX VOTO
SOR. ANNE DE MANSIS».
La data di costruzione è molto importante perché testimonia il progressivo
ampliamento del paese verso la parte alta: sorse di fronte al palazzo Martini (o “di
Martino”, ndr), nelle adiacenze dell’attuale piazza Garibaldi, là dove terminava
l’abitato nei primi decenni del Settecento. Il campanile poligonale è di epoca
15
remotissima: lo si deduce dalla base in pietra di forma quadrata della stessa fattura di
quella della vicina “chiesa madre”, il che lascia supporre che all’epoca della sua
costruzione esistesse già. Durante i lavori di restauro sono stati ritrovati resti di
sepolture. A che epoca risalgono esattamente le ossa rinvenute è difficile dire. Esse
comunque testimoniano della continuità di una pratica che ha avuto origine
sicuramente nel Medioevo quando i defunti – che prima venivano portati fuori dai
centri abitati – cominciarono a essere inumati nelle cripte delle chiese o all’esterno, a
ridosso dei muri.
Si presenta a una sola navata con tre altari. Sull’altare maggiore, sopraelevato da sette
scalini, troviamo un coro ligneo e una statua di marmo raffigurante un Cristo morente
nelle braccia della Madonna circondato da cinque statue lignee riposte all’interno
delle loro nicchie raffiguranti la Madonna dell’Assunta, la Madonna dell’Addolorata,
la Madonna dell’Immacolata Concezione, san. Michele Arcangelo e l’Angelo
custode. Sull’altare di destra («A devozione di Filomena Meglio 1938»), all’interno
della sua nicchia, troviamo una statua lignea raffigurante il Sacro Cuore di Gesù,
mentre in quello di sinistra («A divozione (sic) di Vincenzo De Bellis e di Lucia
Filippone 1886») è esposto un quadro raffigurante la Madonna di Pompei.
All’interno, nella parte sinistra, vi è una lapide con le seguenti parole: «Il giorno 11
del mese di marzo dell’anno Duemila, alla presenza dell’Arcivescovo di Benevento
Mons. Serafino Sprovieri, questa Chiesa è stata riaperta al culto dopo i lavori di
restauro realizzati con i fondi del PP.OO.PP., del Comune di San Bartolomeo della
Comunità Montana del Fortore, della Credem e il concorso del popolo di San
Bartolomeo in Galdo. Il padre spirituale Don Clemente Arricale, il cassiere Salvatore
Buccione. Il Commissario Straordinario dell’Arciconfraternita Donato Agostinelli.
Anno Giubileo 2000».
Tutta la parte muraria è stata riattata dal «Decor. Michele Telegramma», come da
sigla impressa in prossimità dell’ingresso della sacrestia, datata 20/2/2000.
Note particolari Sulla base della statua della Madonna dell’Addolorata è posta la
scritta: «Anni Braga 1833»; in quella della Madonna Immacolata Concezione, una
targhetta riporta: «Restaurata da Gaetano Basilone Elena De Yulio Attilio Ricciardi
Agosto/Settembre 2003». Al centro della volta, ai lati di un affresco della Madonna
Immacolata Concezione, campeggiano due scritte: «ELECTA UT SOL» e «TOTA
PULCHRA ES MARIA». («ELETTA COME IL SOLE e TUTTA BELLA SEI
MARIA»).
Alla fine di questo magnifico giro religioso, concludiamo con i ringraziamenti di rito:
per la loro collaborazione, a Michele Ferrara, Giuseppe Circelli (per i paesani
“Pëppënéllë Caruso”), Donato Delle Donne e Pietro – Antonio Masella (ovvero
“Trufilli”, classe 1920). Un caro abbraccio di stima e di devozione al padre spirituale
don Clemente Arricale, per la sua grande pazienza e umiltà.
Paolo Angelo Furbesco,
aprile 2011
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SAN BARTOLOMEO IN GALDO