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Metamorfosi delle rovine: memoria del passato
Un libro di Marcello Barbanera sulla nostra identità culturale e sui restauri dei ruderi antichi"
Maria Chiara Strappaveccia
Il libro di Marcello Barbanera Metamorfosi delle rovine, edito da Electa nella collana Pesci
rossi, riprende un suo saggio già uscito nel 2009 Relitti riletti. Metamorfosi delle rovine e
identità culturale in cui l’autore si occupava dei ruderi in ambiti culturali estesi dall’Oriente
alla contemporaneità.
Le rovine sono analizzate partendo dal concetto novecentista che esse facciano parte
della nostra memoria. A tal riguardo si fa ricorso alla letteratura, ossia dalla Recherche di
Marcel Proust in cui compare una riflessione sulle rovine quando lo scrittore vede il chiarore
della luce lunare che colpisce gli oggetti, come il vecchio ufficio postale di Combray che appare
spezzato, evocando quasi un paesaggio alla Hubert Robert.
Proust vorrebbe fermare il tempo, consapevole dell’oblio e della distruzione, tanto che alla fine
del romanzo degrado e distruzione sono visibili anche nei corpi, come epitome della rovina
umana in generale e della nuova borghesia: secondo l’autore stesso, essa inaugura una novità
letteraria nella presa di coscienza della propria vecchiaia attraverso lo spettacolo devastante dei
suoi contemporanei.
Il rudere è fonte di ispirazione, nata dalla urgente narrazione della storia come antidoto al fluire
del tempo, secondo una concezione diversa da quella del mondo antico o medievale. Riguardo
ad essa, l’autore si rifà allo scritto del 1911 La rovina del filosofo e sociologo Georg Simmel:
essa, in quanto parte di un’architettura dove la natura trionfa sull’opera umana, è
testimonianza di “un ritorno all’ordinamento autonomo delle proprie forze”. È dunque una
nuova identità che contiene spirito e natura, ma li supera in una nuova creazione: il suo fascino
deriva dal fatto che si presenta come opera umana in cui agisce la natura ed è utile per la
contemplazione. Per questo Simmel non amava il Foro romano, oggetto di scavo archeologico.
Egli si rifà ancora ad una concezione estetica settecentesca, senza arrivare alle conclusioni di
Proust, ma con una presa di coscienza sulla produzione di rovine, propria dell’uomo del
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Estratto ad uso rassegna stampa dalla pubblicazione online integrale e ufficiale reperibile al link http://www.lindro.it/cultura/2013-05-31/84596-metamorfosi-delle-rovine-memoria-del-passato
L'Indro è un quotidiano registrato al Tribunale di Torino, n° 11 del 02.03.2012, edito da L'Indro S.r.l.
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Novecento.
Si passa poi a descrivere la concezione del rudere per i Greci, citando la formazione dei culti
eroici presso le emergenze monumentali nell’età del Bronzo o ritenute nell’età omerica
appartenenti a un mondo mitico: ciò non porta però ad una visione estetica o a curiosità
archeologica al riguardo.
Per i Romani il rudere evoca la morte, forse perché cronologicamente non vi è ancora la
distanza storica sufficiente e l’unico elemento significativo è il valore che gli scrittori latini
davano alle rovine antiche o delle città nemiche precedentemente cadute: così Troia è
concepita come luogo d’origine della loro stirpe gloriosa, Cartagine o Corinto come spunto per
riflettere sulla condizione della propria sventura.
Il Medioevo eredita questo concetto legato alla fragilità umana e alla fine della civiltà e
del mito pagano. Nel poema del XII secolo Versus de Roma di Hildebert de Lavardin,
vescovo di Le Mans e arcivescovo di Tours, la città da lui visitata a più riprese è la nuova
Babilonia, luogo dell’idolatria e della superstizione, dove le rovine esistono perchè non si
perdano “la fede e il beneficio della croce”.
Tommaso d’Aquino le vede come negative, secondo le teorie estetiche del tempo che
consideravano l’incompiutezza, il frammentario come brutto e come qualcosa di meno
redimibile dell’incompiuto.
Petrarca sarà il primo a riconoscere la validità morale di questi ruderi a Roma, come
reliquie di un passato illustre che le deve riconciliare con la propria epoca, gettando le
premesse per la rinascenza dell’antico. Se ne denuncia anche il degrado e l’abbandono,
senza mai usare il termine di “rovina”, ma creando un’ambiguità sul riferimento alla Roma
pagana o a quella cristiana. Nella lettera al domenicano Giovanni Colonna, il poeta evocava
una passeggiata tra le vestigia romane in compagnia di Properzio e all’altro che lo esortò a
riscrivere tali riflessioni il poeta disse che non poteva, perché non aveva più davanti le rovine
che trasmettevano un sapere antico con la loro forza allusiva. Esse sono il desiderio di rinascita,
una presenza vitale che può vincere sul tempo, e che ci riportando alle nostre radici: la nostra
identità nasce dalla comprensione della cultura, dalla storia che emana dai ruderi si ricostruisce
una nuova Roma.
Giovanni Dondi con il suo Iter Romanum inaugura un nuovo genere, che punta a
individuare i singoli monumenti. Poggio Bracciolini col De varietate fortunae passa dalla
dimensione letteraria a quella archeologica: la sua passeggiata sul Campidoglio per
contemplare le rovine è come un inventario descrittivo di edifici, statue, busti e iscrizioni.
Il papa Pio II torna a parlare delle rovine con sensibilità poetica, indignandosi contro il
vandalismo dei moderni e contro i vari smantellamenti, donde la bolla del 28 aprile 1462.
Con la guida delle antichità romane di Flavio Biondo (Roma instaurata del 1446) si ha la
metamorfosi delle rovine antiche viste come strumento di studio, con una sorta di
erudizione per una loro possibile conservazione mediante restauri ed un atteggiamento
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lungimirante riguardo la loro trasmissione alle generazioni future. Lo stesso farà L. B. Alberti col
De re aedificatoria di taglio architettonico.
Passando all’ambito figurativo, sono esaminati vari dipinti con rovine antiche a partire dal
Trecento con Maso di Banco e Lorenzetti, fino all’età contemporanea con il fotogramma dal
film Germania anno zero di Roberto Rossellini del 1947.
Un largo capitolo riguarda l’età dei Lumi: Giambattista Piranesi rivitalizza il tema delle rovine
con paesaggi idilliaci, mentre H. Robert sembra conferire maggiore dignità storica agli edifici,
fino al concetto di “rovina anticipata” di Günter Metken che ispirò quello poi usato da Albert
Speer per coinvolgere Hitler nei faraonici progetti architettonici del Terzo Reich.
Le rovine suscitano poi una riflessione politica sul dispotismo con de Chasseboeuf,
conte di Volney, a proposito delle rovine di Palmyra note dall’archeologo inglese Robert Wood.
Abbiamo un’analisi storica dei regimi che governano i campi di rovine, la cui decadenza è resa
dalla non libertà e dalla mancanza di diritti dei popoli assoggettati, in una prefigurazione della
Francia di quel tempo.
Si analizza poi il giardino con la “rovina artificiale” che l’architetto, imitando la natura,
dispone lungo percorsi ad hoc per stimolare l’immaginazione degli aristocratici e degli amanti
del bello, come la celebre casa-colonna nel giardino dei Désert des Retz progettata da François
Racine de Monville.
Si arriva a veri e propri manuali sull’uso della “rovinomania”, come quello edito da Johann
Gottfried Grohmann, professore a Lipsia tra 1796 e 1805, fino a creazioni letterarie più tarde
come quella di Robert Musil, dove la frammentarietà artistica allude alla perdita di compiutezza.
Si accenna anche ad archeologi-architetti come Anne e Patrick Poirer, che realizzarono una
ricomposizione di Ostia antica su una superficie di circa 40 m2 ottenuta tramite calchi incollati
per dare l’impressione di una veduta area del sito archeologico. Analoga cosa è stata fatta per
la Domus Aurea.
Nel capitolo “Paesaggi e musei” si accenna ai monumenti restaurati con indebite interferenze
non in stile, o con errori, come l’Acropoli di Atene, il teatro romano di Sagunto in Spagna; e si
menziona la terribile situazione del Foro di Roma o di Pompei. Esempio massimo di
decontestualizzazione è il Pergamonmuseum di Berlino.
Nella sezione successiva “Ricupero e identità” si fa l’esempio del tempio di Bacco a
Baalbeck con l’inserimento di un antiestetico pilastro di mattoni per colmare una lacuna
provocata dallo stato di abbandono. Segue una dissertazione sul ruolo del restauro e i vari modi
di intenderlo dalla fine del Settecento fino a Cesare Brandi e alla Carta di Venezia, documento
che mira a salvaguardare le strutture storiche non meno che le opere. Si passa quindi al
discorso sull’integrità dei monumenti all’origine e si fanno i casi del Mausoleo di Augusto e del
Colosseo, al progetto per il parco archeologico di Instanbul e ai restauri dei monumenti romani
in Libia, oltre al riuscito progetto dell’architetto David Chipperfield per il Neues Museum di
Berlino.
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L’ultima sezione è quella delle metamorfosi delle rovine: ossia di quei siti che mutano forma
nel tempo ad opera del loro scopritore, come il caso del Palazzo di Cnosso, o perchè
conosciuti attraverso la memoria e ripresi tramite studi, come il Tempio di Gerusalemme o la
zona di Babilonia.
Il libro si chiude con le parole di Ranuccio Bianchi Bandinelli, tratte dall’introduzione
all’opuscolo che documenta i 50 monumenti danneggiati durante il conflitto, in cui l’Italia è
considerata come “un giardino del mondo” che va assolutamente tutelato.
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