quindicinale di attualità e documenti 2014 14 Attualità 441 Renzi: il tempo e il merito 445 Islam a Mosul e altrove 460 Chiesa e teologia della creazione Riletture e interpretazioni 486 Veladiano: Il maestro di Vigevano 509 Stefani: la cifra umana del cuore 511 Accattoli: quelli che contestano il papa 499 Studio del Mese La forza del Vangelo in Corea Alla vigilia del viaggio pastorale di papa Francesco Anno LIX - N. 1171 - 15 luglio 2014 - IL REGNO - Via Scipione Dal Ferro 4 - 40138 Bologna - Tel. 051/3941511 - ISSN 0034-3498 - Il mittente chiede la restituzione e s’impegna a pagare la tassa dovuta - Tariffa ROC: “Poste Italiane spa - Sped. in A.P. - DL 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bologna” quindicinale di attualità e documenti A ttualità 15.7.2014 - n. 14 (1171) Caro lettore, 441 (G. Brunelli) dopo lo «sdoppiamento» del n. 13 de Il Regno - Documenti (nel numero ordinario i nuovi Orientamenti CEI per la catechesi introdotti da mons. Marcello Semeraro e nel supplemento l’Instrumentum laboris del Sinodo straordinario sulla famiglia presentato da mons. Bruno Forte), anche questo numero 14 le arriva «doppio»: oltre al fascicolo ordinario che sta sfogliando, c’è un nuovo supplemento speciale intitolato «Lo stile cristiano oggi». Contiene le relazioni pronunciate da suor Chiara Curzel, da mons. Piero Coda, dal prof. Angelo Tantazzi e dal nostro direttore Gianfranco Brunelli e gli interventi di mons. Giuseppe Merisi e di don Francesco Soddu al seminario di studio organizzato congiuntamente dalla Caritas italiana e dalla nostra rivista lo scorso 5 giugno, a Firenze, in vista del V Convegno ecclesiale nazionale che si svolgerà proprio a Firenze nell’autunno 2015. È il modo, ci auguriamo gradito, che abbiamo scelto quest’anno per congedarci prima della pausa estiva. Buona lettura e buone vacanze. R Italia – Politica: il tempo e il merito { Sfide, limiti e necessità del governo Renzi } 443 (G. Bernardelli) Medio Oriente – Gaza: una crisi inedita { Chi può ancora mediare? } Israeliani e palestinesi: la preghiera non esaudita (P. Stefani) 445 (G. Bernardelli) Medio Oriente – Jihad sunnita: califfato, illusione tragica { Lo stato islamico dell’Iraq e del Levante } Iraq – Chiesa caldea: nella tempesta (L.R. Sako) 447 (D. Maggiore) Africa – Estremismi: violenza da Est a Ovest { La crisi in Kenya, Centrafrica e Nigeria: tratti comuni e specificità locali} 449 (G. Patriarca) Islam in Europa – Diritto: giurisdizione multiculturale { Il contesto e le sfide del caso britannico } 451 (N. Fiorita) Libertà religiosa – Sport Un incrocio a tutto campo 452 (M. Neri) Stati Uniti – Diritto: preghiera e cittadinanza { La Corte suprema in controtendenza in tema di religione e spazio pubblico } 454 (M. Castagnaro) America Latina – Pentecostali: il modello cileno { Intervista a Juan Sepúlveda González } 457 (R.J. Russell) Dialoghi – Teologia e scienza: un pensiero-ponte { In memoria di Ian G. Barbour } 460 (S. Morandini) Teologia – Creazione: plasmata perché fosse abitata { La Chiesa e l’attenzione per il creato } 466 (D. M.) Sudafrica – Miniere Sciopero del platino Libri del mese 467 (M. Rossi) Dio, il mistero dell’unico { Libri discussi: il modello relazionale di Angelo Bertuletti } Segnalazioni 483 (D. Segna) G. Tourn, I protestanti. 3. Una cultura 484 (T. Valentini) L. Messinese, Né laico, né cattolico 484 (M.T. Fattori) J.W. O’Malley, Trento. Il racconto del Concilio 486 (M. Veladiano) Riletture Pagine di catrame 487 (M. Aliotta) Santa Sede – Sinodo sulla famiglia: la mediazione pastorale { Una lettura dell’Instrumentum laboris } 489 (M.E. Gandolfi) Francesco – Violenze sui minori Responsabilità da condividere 490 (P. Cattani) Francesco – Spiritualità: la misericordia di Dio { Al centro l’annuncio fondamentale del cristianesimo } 492 (G. Brunelli) Francesco – Chiesa e mafia: la scomunica { «Coloro che seguono questa strada di male non sono in comunione con Dio» } La denuncia del papa: un segno nelle coscienze (L. Lorenzetti) 495 (A. Torresin) Dibattito – Ministero presbiterale: la formazione permanente { Tesi per la prossima Assemblea CEI } 497 (D. Sala) Diario ecumenico 498 (L. Accattoli) Agenda vaticana Studio del mese { Asia – La pastorale delle piccole comunità cristiane } 499 (B. Joo-hyun Ro) La forza del Vangelo in Corea 509 (P. Stefani) Parole delle religioni Con tutto il cuore. L’irrisolta ambiguità della condizione umana 511 (L. Accattoli) Io non mi vergogno del Vangelo «Questo papa non è una cima». Fenomenologia degli oppositori 472 Schede (a cura di M.E. Gandolfi) Colophon a p. 510 I ta l i a i A lla fine è intervenuto il presidente Napolitano a cercare di rafforzare un Governo in difficoltà sulle riforme costituzionali, a cominciare da quella sul Senato. «Le riforme non sono frutto di improvvisazione e improvvida frettolosità. Non si agitino spettri di insidie e macchinazioni autoritarie». Il 22 luglio, ricevendo i giornalisti per la tradizionale cerimonia del Ventaglio, Napolitano ha deciso di prendere direttamente la parola a difesa del governo Renzi. Una difesa che si presenta come un tentativo di mediazione politica quando dice al Governo che l’altro punto della riforma, quella elettorale, «andrà ridiscusso con attenzione», e alle opposizioni che «non deve Politica l tempo e il merito S f i d e, l i m i t i e n e c e s s i t à d e l g ove r n o Re n z i prevalere la pregiudiziale di diffidenza e contestazione». Renzi in fondo, pur estraneo per modi istituzionali e linguaggio culturale, rappresenta per Napolitano la continuazione della linea da lui stesso inaugurata con il governo Monti e proseguita, dopo lo stallo delle elezioni e la non vittoria di Bersani, con il governo Letta. Tutti e tre questi governi nascono dallo stato di eccezione nel quale il paese si è trovato dopo il crollo nazionale e internazionale dell’ultimo governo Berlusconi nel 2011; di fatto l’ultimo Governo scelto dai cittadini. Come Letta e come Monti, anche Renzi è un presidente del Consiglio da «guidare» nel caos Italia verso una maggiore stabilità del sistema politico. La stessa accettazione della riconferma al Quirinale era stata legata da Napolitano alla realizzazione delle riforme istituzionali. Come a dire: se le Camere non sanno produrre le riforme, quelle Camere si possono sciogliere. In questo la sponda del Quirinale alla minaccia elettorale di Renzi (o le riforme o le elezioni) è una sponda solida. Uno schema ancora emergenziale Quell’intervento sancisce anche l’appoggio al cosiddetto «patto del Nazareno», cioè all’asse politico Renzi- Berlusconi, l’unico possibile fin dall’inizio della legislatura, visti i numeri in Parlamento e l’opposizione disfunzionale del Movimento 5 stelle – solo di recente apertosi al confronto politico. Infine, non è casuale quell’espressione circa la necessità di concentrarsi «sul semestre europeo a guida italiana». Non semplice cortesia istituzionale, atto dovuto, ma la consapevolezza che anche su quel versante, e forse soprattutto su quel versante, decisivo per le sorti della nostra politica economica, Renzi è debole. I primi passi (dal caso Mogherini, irrisolto e rinviato a settembre, al discorso al nuovo Parlamento di Strasburgo) lo hanno mostrato come sempre caparbio, determinato, antropologicamente nuovo rispetto alla «grisaglia» di Bruxelles, ma poco autorevole. Certo, su un piano politico Renzi è più forte e più autonomo dei suoi due immediati predecessori. Quello di Monti fu letteralmente un «governo del presidente», voluto e posto sotto controllo diretto del Quirinale. Letta cercò un profilo «tecnico», immaginando di poter durare tenendo il Governo al riparo dalle scosse della politica nazionale: la rottura del Popolo della libertà dopo la condanna di Berlusconi; la rinascita di Forza Italia e l’avvento del nuovo partito di Alfano nel centro-destra, modificarono politicamente la sua maggioranza parlamentare. Mentre nel centro-sinistra si consumava la conquista del Partito democratico (PD) da parte di Renzi, la rottamazione di una parte dei vecchi leader ex comunisti ed ex popolari, la scomposizione dei gruppi precedenti e il saldarsi attorno all’astro vincente di una maggioranza opportunistica del 70% del partito. Letta finì dapprima isolato nel partito di cui era vicesegretario, e poi sfiduciato a capo del Governo. Renzi è una figura totalmente politica. Le primarie che lo hanno portato alla guida del partito e l’indubbia vittoria alle elezioni europee gli hanno conferito (le prime di diritto, la seconda di fatto) legittimazione. Ma le condizioni politico-parlamentari sono le stesse del suo predecessore. Analogamente, le difficoltà economico-finanziarie. Pesantissime sul sistema industriale e sociale. Il contesto internazionale si è aggravato: frenata dell’economia tedesca; riaccensione della crisi mediorientale; 442 Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 conflitto latente tra Stati Uniti, Europa e Russia sul caso ucraino. Tutti fattori che hanno una forte incidenza negativa sulla nostra economia e sulla ripresa di un ruolo internazionale credibile del nostro paese. Per non dire delle gravi crisi umanitarie che si consumano alle porte di casa nostra, determinate dai conflitti nordafricani e mediorientali in atto: Libia, Sud Sudan, Gaza, Siria, Iraq. Questi sono gli scogli principali sui quali il Governo e il suo giovane presidente dovranno non solo dire, ma decidere cosa fare. La politica economica è ancora una nebulosa. Quella internazionale un’incognita. Il tutto nel semestre di presidenza italiana. La difesa del Quirinale, nella continuità con le scelte compiute negli ultimi tre anni, mostra la consapevolezza di queste insufficienze. Il rischio della solitudine Se Renzi è politicamente forte, al punto da essere in questa fase l’unico leader politico possibile, dentro e fuori il PD, non lo è altrettanto il suo Governo e la sua condizione di governo. E la sua solitudine – condizione che egli stesso ha alimentato fin dentro la compagine governativa, salvo pochissime eccezioni – non lo mette in condizione di rispettare né la tempistica che ha annunciato all’inizio del suo mandato, né spesso la qualità dei provvedimenti. Il presidente del Consiglio ha fatto della tempistica, ma potremmo dire del tempo, una categoria dell’agire politico. Idea che soprattutto all’inizio ha funzionato sul piano comunicativo e sulla quale ha costruito l’immagine della sua abilità. La velocità come sinonimo del fare. L’annuncio come possibilità. Il virtuale come reale. Si tratta di una modifica profonda del linguaggio e della percezione della realtà. Senonché questa concezione e il suo linguaggio, agevolati dai nuovi strumenti di comunicazione, spostano la struttura del dibattito e dell’azione politica in termini di singole situazioni perdendo il disegno complessivo. Nel disegno complessivo sta l’ermeneutica del merito. L’accordo politico come valore in sé prima e al posto del suo contenuto. Renzi fa bene a correre, perché di tempo prezioso ne è stato perso troppo, ma tra un po’ anche il tempo si allungherà (dai cento giorni annunciati all’inizio per diverse riforme siamo passati ai mille). E il tempo va coniugato al merito. Se si smonta il bicameralismo paritario (ed è necessario farlo perché il paese ha un problema di governabilità) occorre bilanciare tutti gli aspetti costituzionali e istituzionali. Il costituzionalista Ainis ha efficacemente illustrato i rischi (e anche i possibili rimedi contenuti negli emendamenti in corso di discussione) connessi a un Senato di 100 componenti secondo il disegno Renzi: con 730 parlamentari il partito che incassa il premio di maggioranza determina il presidente della Repubblica e la Consulta (cf. «Il labirinto delle garanzie», in Corriere della sera 23.7.2014). Ma c’è dell’altro. A fronte della volontà di togliere di mezzo l’istituto referendario, l’unico vero strumento di democrazia diretta, andrebbe aggiunta l’obbligatorietà del referendum confermativo per ogni riforma costituzionale. Si può benissimo riformare la funzione del Senato (meglio sarebbe abrogarlo), ma se accanto alla non eleggibilità dei senatori si aggiunge la non eleggibilità dei deputati allora i cittadini da arbitri diventano spettatori. Si può anche scegliere la strada della seconda elezione per il Senato, ma allora la riforma elettorale va ripensata. Il disegno chiamato «Italicum» presentava già da solo diversi inconvenienti, che potevano essere accettati a fronte di collegi piccolissimi e dell’introduzione di fatto, meglio se formalizzate per tutti, delle elezioni primarie. Ora Renzi, che solo grazie alle primarie ha vinto la sua partita politica, sta tornando alla vecchia abitudine del PD di celebrare primarie finte. A che servono le primarie se c’è già l’accordo del partito su un candidato? Così si ragiona. Il PD, anche in epoca renziana, rimane un partito dell’unanimismo conflittuale, non un partito della contrapposizione democratica. Difficile credere a una tendenza cesarista di Renzi, ma una questione democratica si può aprire anche ignorando il merito. A quel punto non avremmo solo perso altro tempo. Gianfranco Brunelli Gaza Medio Oriente u na crisi inedita Chi può ancora mediare? R ieccoci con la guerra a Gaza, come sempre. Con i razzi palestinesi sulle città israeliane, i bombardamenti che fanno molti morti tra i civili, le incursioni dei carri armati, i proclami della «resistenza» palestinese, i dibattiti sulla «proporzionalità» delle risposte militari israeliane. Mentre chiudiamo questo numero della rivista, da Gaza – nonostante si combatta ormai da quasi due settimane – arrivano notizie sempre più drammatiche e bilanci delle vittime che rischiano di far impallidire i computi delle crisi analoghe, già viste purtroppo in anni recenti. Resta la speranza che, quando questo articolo sarà nelle mani di chi legge, un «cessate il fuoco» sia riuscito – come tutte le altre volte, più per sfinimento che per un accordo di pace vero – a fermare il fragore delle armi. Ma se anche le cose fossero andate davvero così, ci sono alcuni fatti nuovi che rendono inedita questa crisi. E sui quali varrà la pena anche «il giorno dopo» fermarsi a riflettere. La guerra dell’estate 2014 a Gaza dice, infatti, una serie di cose importanti. Intanto segna la fine dell’illusione che – mentre tutto intorno il vento delle «primavere arabe» cambiava faccia al Medio Oriente – le regole del gioco nello scontro tra israeliani e palestinesi potessero continuare a rimanere uguali. Né Hamas né Israele all’inizio di questa crisi desideravano uno scontro a tutto campo come quello che si è andato profilando. La crisi è iniziata da un fatto isolato – il rapimento e l’uccisione di Eyal, Naftali e Gilad, tre studenti di una scuola rabbinica in una colonia dei Territori – messo in opera da un clan locale di Hebron riconducibile ad Hamas. Niente fa pensare a un’azione studiata a tavolino dalla leadership politica del movimento islamista, profondamente divisa e isolata dopo il terremoto siriano e la liquidazione dei Fratelli musulmani al Cairo. Ma Netanyahu ha deciso di cogliere comunque l’occasione per assestare un duro colpo ad Hamas, rientrato nei giochi della politica palestinese con l’accordo sul Governo di unità nazionale con Abu Mazen. Così ha riarrestato tutti i quadri del movimento islamista in Cisgiordania. E si è innescato il circolo vizioso dei razzi palestinesi sulle città israeliane e dei raid aerei israeliani su Gaza. Ma è a quel punto che è scoppiato il vero problema: nel nuovo Medio Oriente, chi è più in grado di mediare, fermando questa sorta di corpo morto che prende da solo velocità man mano che scivola lungo un piano inclinato? Né l’Egitto né gli USA Tutti hanno pensato all’Egitto, che dai tempi di Mubarak toglie sempre le castagne dal fuoco a Gaza. Del resto non è successo anche nel 2012, quando la mediazione riuscì al presidente Mohammed Mursi, espressione dei Fratelli musulmani (cf. Regnoatt. 22,2012,723ss)? Il problema è che nel frattempo al Cairo è cambiato tutto: proprio quel bonus guada- gnato fermando la guerra a Gaza, per l’Egitto è stato l’inizio della fine. Perché sentendosi ormai forte di fronte alla comunità internazionale, Mursi ha pigiato sull’acceleratore del suo programma di islamizzazione del paese. Innescando la crisi che ha poi portato ai fatti dell’estate 2013, con l’intervento del generale al-Sisi per togliere i Fratelli musulmani dalla stanza dei bottoni e la dura repressione che ne è seguita (cf. Regno-att. 22,2013,683ss; 6,2013,145ss). Repressione che ha contemplato anche la stretta sul valico di Rafah e la chiusura dei tunnel sotterranei a Gaza. È immaginabile che con queste credenziali la mediazione proposta da al-Sisi potesse aver successo con Hamas, che lo vede come un proprio nemico? Non a caso, a incoraggiare la mediazione egiziana sono stati soprattutto gli israeliani. Ed è poi toccato al presidente palestinese Abu Mazen fare la spola, oltre che con il Cairo, con il Qatar e la Turchia, cioè con i due paesi che non si sono allineati al nuovo corso dell’Egitto ma sono rimasti alleati dei Fratelli musulmani (non a caso, proprio Doha ospita Khaled Meshal, il leader storico di Hamas, dopo che questi ha dovuto abbandonare Damasco, dove ormai si ritrovava «dalla parte sbagliata» nei giochi delle alleanze nel nuovo Medio Oriente). La spola di Abu Mazen è servita a certificare una cosa molto semplice: dopo quanto successo nell’estate 2013, il Qatar non è disposto a fare sconti all’Egitto di al-Sisi. E dunque ha spinto Hamas ad al- Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 443 Israeliani e palestinesi La preghiera non esaudita L a preghiera non esaudita è da sempre un inquietante tema proprio dell’esperienza spirituale. La questione così sollevata si apre su due fronti: quello dell’apologetica e quello dell’abbandono. Il primo a sua volta di sdoppia: dal lato dell’orante si afferma che egli prega male o chiede quanto è conveniente domandare, mentre dalla parte di Dio ci si appella a misteriosi disegni che, per quanto non compresi dalle creature umane, sono orientati infallibilmente al bene. L’altra possibilità, dal canto suo, si confronta in modo diretto con il silenzio di Dio e vive intensamente, senza saperla spiegare, la mancata risposta: è l’esperienza della «notte oscura». Invero vi è anche un’ulteriore alternativa, in base alla quale la delusione porta alla radicale conclusione che Dio semplicemente non c’è. La preghiera di richiesta diviene allora una proiezione di bisogni di tipo psicologico o sociale. In questo caso il problema non è risolto, è soltanto dissolto. Un fronte su cui la preghiera collettiva si è spesso scontrata con il proprio fallimento è quello della pace. Un secolo fa, nei mesi che segnarono il passaggio dal pontificato di Pio X a quello di Benedetto XV, si levarono preghiere perché cessasse la guerra appena deflagrata (ma ce ne furono anche altre che domandavano a Dio di far vincere la propria parte). Il conflitto durò però oltre quattro anni e assunse la dimensione di una tragedia senza precedenti. In dimensioni più contenute, il discorso può essere ricondotto anche all’attualità. La sera del giorno di Pentecoste, l’8 giugno scorso, papa Francesco ha presieduto in Vaticano a un incontro di preghiera per la pace tra israeliani e palestinesi (cf. Regno-doc. zare il prezzo della mediazione su Gaza. Così si spiegano le giornate con gli annunci di un possibile «cessato il fuoco» evaporato nel giro di poche ore. Mentre il corpo morto di Gaza continuava a prendere velocità, portando la crisi ad assumere proporzioni drammatiche. E con gli stessi israeliani intrappolati in una guerra scandita da obiettivi «politici» molto più che militari. Quindi difficilissima da fermare. L’altro aspetto del tutto inedito di questa crisi dell’estate 2014 a Gaza è il basso profilo tenuto dall’amministrazione americana in questa vicenda. Un fatto che si spiega solo a partire da una domanda: quando è iniziata davvero questa crisi? La verità, probabilmente, è che il rapimento dei tre ragazzi è stato solo la scintilla che ha dato fuoco a ben altre polveri: quelle sparse dall’ennesimo fallimento del round negoziale messo in campo dal segretario di stato John Kerry, naufragato alla fine di aprile sui nodi di sempre, la questione degli insediamenti e quella dei prigionieri palesti- 444 Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 11,2014,333ss; Regno-att. 12,2014,374ss). L’aspetto assolutamente inedito dell’iniziativa è che a essa hanno partecipato di persona il presidente israeliano e quello dell’Autorità nazionale palestinese. Nell’estate del 1914 era del tutto inimmaginabile che un papa chiamasse attorno a sé a pregare per la pace sovrani e capi di stato schierati su fronti contrapposti ma pur sempre leader di nazioni cristiane. Un mese fa nei Giardini vaticani vi erano invece cattolici, ortodossi, ebrei e musulmani. A quanto ci è dato di vedere, l’esito della preghiera è però lo stesso: siamo di fronte a un suo fallimento. Nelle ultime settimane la situazione nell’area israelo-palestinese non ha fatto che peggiorare. Da una situazione di pace latente si è passati a quella di uno scontro cruento che minaccia di trasformarsi in guerra aperta. Nessuno, ora come allora, pensa alla situazione come innesco di un conflitto di enormi proporzioni. In effetti non paiono esserci gli estremi per avanzare previsioni di tal fatta. Tuttavia anche lo scopo della preghiera dei Giardini vaticani era mirato e rispetto a quella dimensione circoscritta il saldo è, almeno a breve, negativo. Un mese fa c’è stata una, sia pure contenuta, retorica incentrata sulla preghiera per la pace; oggi chiediamo solo che la riflessione sulla debolezza della preghiera non sia passata del tutto sotto silenzio. Lo facciamo proprio per salvaguardare il senso alto del pregare che, quando è tale, non può ignorare l’esperienza spirituale del mancato esaudimento. In caso contrario, si rischia di consegnare la preghiera per la pace solo a una, sia pure inedita, forma di religione civile. Piero Stefani nesi. Incapace di forzare la mano del governo Netanyahu, Washington si è ritirata in buon ordine, illudendosi di poter rinviare a tempi migliori la questione israelo-palestinese. Ma è stato un grave errore di valutazione: l’amministrazione Obama non ha capito che si stava ripetendo lo stesso schema del fallimento di Camp David nel 2000. Perché fu dalla disillusione generata da un negoziato ambiguo e incapace di fare i conti con le questioni spinose che nacquero i quattro anni durissimi della seconda intifada. E adesso come allora Washington si trova a dover rincorrere. Piccolo corollario: anche nel 2000 – subito prima dell’esplosione della violenza – ci fu uno storico viaggio di un papa a Gerusalemme, con gesti molto significativi (cf. Regno-att. 8,2000,217ss; Regno-doc. 7,2000,201ss). Che non risparmiarono, però, alla Terra santa le sofferenze successive. C’è infine un ultimo dato che vale la pena di segnalare: sperando di non essere smentiti dai fatti, le prime due settimane di scontri sembrerebbero comunque dire che c’è anche chi sta scegliendo di restare fuori da questo conflitto. Ad esempio per Israele è stato abbastanza insignificante il temuto fronte Nord, con appena qualche razzo «simbolico» sparato dal Libano di Hezbollah. E soprattutto non si sono mossi i miliziani del Sinai, che pure vantano alleanze con l’ISIS, il nuovo brand dell’universo jihadista (cf. in questo numero a p. 445s). È un fatto che dice come oggi sia molto più complesso di quanto sembri lo scenario del Medio Oriente, con alleanze inedite (e magari anche inconfessabili) nel nome di un comune nemico. E quanto forse quello israelo-palestinese sia ancora uno dei fili della matassa che in teoria sarebbe meno difficile da riavvolgere. A condizione di ricominciare domani – una volta chiusa questa nuova drammatica crisi – a metterlo sul serio in evidenza sull’agenda della politica internazionale. Giorgio Bernardelli (20 luglio 2014) Jihad sunnita Medio Oriente c aliffato: illusione tragica Lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante L a N sui muri per identificare le loro case; N come «Nazareni», nel senso di «cristiani». Case (per la maggior parte ormai vuote) prese di mira dopo che per i pochissimi rimasti era già arrivata l’espulsione dagli impieghi pubblici, l’esclusione nella distribuzione dei beni razionati, l’ingiunzione al pagamento della jiziya, la tassa per la «protezione» dei non musulmani. Va avanti attraverso queste pressioni psicologiche la pulizia etnica dei cristiani e delle altre minoranze a Mosul, la seconda città dell’Iraq, dal 10 giugno caduta nelle mani dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), la nuova sigla dell’universo jihadista sunnita che sta letteralmente cambiando volto a un Medio Oriente sfiancato dai tre lunghissimi anni della guerra in Siria. In Italia cominciammo a sentir parlare di questa sigla un anno fa (cf. Regnoatt. 16,2013,490), quando proprio all’ISIS – alla fine del luglio 2013 – era stato attribuito il rapimento di p. Paolo Dall’Oglio, il gesuita romano oppositore di Assad, sparito mentre si trovava nelle zone controllate dai ribelli e di cui tuttora non si hanno notizie. A dire la verità in pochi – però – questo gruppo l’avevano preso sul serio, derubricandolo in fretta a una sorta di franchising locale di al Qaida, l’organizzazione «vera», quella gestita da qualche angolo dell’Afghanistan da Ayman al Zawahiri, il «successore» di Bin Laden. Un gruppo di guerriglieri ceceni, con un comandante – Abu Bakr al Baghdadi – reduce delle azioni contro gli americani in Iraq e, si era detto, semplicemente bravi nel far tesoro del fiume di armi arrivato nelle mani della «resistenza» siriana grazie alle generose «donazioni» dell’Arabia Saudita e dei paesi del Golfo (oltre che alla superficialità di tante industrie belliche occidentali). Invece quel nome che programmaticamente metteva già insieme l’Iraq e il Levante – facendo saltare il più simbolico dei confini tracciati a tavolino nel 1916 dai ministri degli Esteri della Gran Bretagna e della Francia, Mark Sykes e Francois Picot – qualcosa in più forse avrebbe dovuto suggerirlo. Come pure le notizie precise che arrivavano da Raqqa, il capoluogo nordorientale della Siria dove p. Dall’Oglio è stato rapito e dove l’ISIS non solo ha messo radici ma ha anche avviato il suo modello di governo islamico di stampo salafita. E poi c’era proprio l’Iraq precipitato di nuovo nella carneficina delle stragi contro gli sciiti, a cui il governo di Nuri al Maliki rispondeva con la ricetta di sempre: un ulteriore passo in avanti nella gestione settaria del potere a Baghdad, a scapito dei sunniti. Alimentando così quel risentimento che – come in un circolo vizioso – è diventato il migliore alleato dei jihadisti salafiti. È in questo clima che il 30 aprile l’Iraq è andato al voto; quando l’ISIS dilagava ormai nella provincia sunnita dell’Anbar, quella a Ovest di Baghdad, con le città di Ramadi e Falluja, diventate già dieci anni fa un incubo per gli stessi americani. E se le urne hanno comunque consegnato la maggioranza dei voti ad al Maliki, la sua si è rivelata molto presto una vittoria di Pirro. Il 10 giugno, infatti, la resa dell’esercito iracheno da- vanti all’avanzata indisturbata dell’ISIS anche a Mosul ha mostrato impietosamente la bancarotta in cui si trova il paese. Da questo scenario al Baghdadi è emerso come un leader scaltro, capace di capitalizzare alleanze importanti tessute in questi mesi con le tribù sunnite irachene, in nome dell’opposizione ad al Maliki. Un capo jihadista capace di sfruttare la situazione per far compiere al suo movimento un salto di qualità preparato con cura. Perché prendere il controllo di Mosul per lui ha significato impadronirsi di risorse importanti: in primis le tante armi che gli americani avevano lasciato in dote all’«opportunamente addestrato» esercito iracheno; e insieme anche ingenti risorse finanziarie. Del resto Mosul è una città carica di storia, alla sua periferia – sull’altra sponda dell’Eufrate – vi sono i resti dell’antica Ninive; il luogo ideale – dunque – per un emergente che aspira ad accreditarsi nell’islam globale, sulla base dei successi conseguiti sui campi di battaglia che il tormentato Medio Oriente delle «primavere arabe» gli ha spalancato. E per una forza jihadista di nuova generazione, che ha capito anche quanto – più dell’effettiva potenza militare – conti oggi saper usare i social network per accreditare la propria immagine. Al Baghdadi il nuovo leader È mettendo insieme tutti questi pezzi del puzzle che si capisce l’annuncio della ricostituzione del Califfato, dato nel primo giorno del mese sacro di Ramadan. E sancito da un’apparizione pubblica – nella principale moschea di Mosul – di Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 445 Iraq – Chiesa caldea È Nella tempesta con profondo dolore che vi presento la situazione dell’Iraq, con l’obiettivo di sensibilizzare e far crescere una solidarietà consapevole. Non è più un mistero il fatto che la situazione sia molto precaria e che nessuno goda più di alcuna protezione. Di fatto, le truppe dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS) al momento occupano ancora Mosul e la sua regione; i curdi controllano Kirkuk, il governo di Baghdad non controlla più le principali città sunnite; e il governo centrale, a tutt’oggi, non è ancora stato formato! Non c’è alcun segnale di una soluzione politica in vista per il ristabilimento della sicurezza. Rischia di saltare tutto e nessuno è in grado di fare previsioni. Le truppe dell’ISIS regnano incontrastate a Mosul e in quasi tutto l’Iraq occidentale; i tamburi di guerra risuonano impetuosamente. L’altro ieri due suore caldee con due giovani ragazze orfane e un ragazzo di dodici anni sono state rapite in pieno giorno a Mosul (i cinque sono poi stati rilasciati il 15 luglio; ndt). I rifugiati si contano a milioni. Stiamo andando verso una guerra civile? Dio non voglia, ma tutto sembra muoversi in quella direzione. E potrà durare un anno, due anni o più; tutto purtroppo sembra suggerire che l’unica soluzione rischia di essere la suddivisione del paese in cantoni su basi etniche e settarie, a partire da confessioni religiose radicalizzate. Ma mi domando, se il piano è la divisione, perché portarlo avanti attraverso le guerre e non tramite il dialogo e l’accordo? al Baghdadi stesso, autonominatosi califfo Ibrahim, e sollecito nel chiedere a tutti i musulmani la sottomissione al nuovo (e nella sua impostazione unico) stato islamico. È chiaro che in uno schema del genere al Zawahiri è ormai destinato a soccombere nell’immaginario del jihadista. Anche perché al Baghdadi ha il vantaggio di essersi guadagnato la sua autorevolezza sul campo di battaglia vero di oggi, che per il musulmano fondamentalista sunnita di ogni latitudine non è più l’Afghanistan ma la Siria. Ciò che colpisce maggiormente è la solidità che il progetto dell’ISIS sta dimostrando. Il movimento jihadista non si è buttato a capofitto nella battaglia di Baghdad, come qualcuno si aspettava, essendo i suoi confini in realtà a poche decine di chilometri dalla capitale irachena. Ma il punto è che ormai l’obiettivo non è più l’Iraq in sé, ma il consolidamento del nucleo centrale del Califfato, nel territorio che sostanzialmente va da Mosul fino ad Aleppo. Al Baghdadi pensa in grande e non si lancia in avventure rischiose; ad esempio – nonostante l’alleanza conclamata con Ansar Bayt al Maqdis, il movimento jihadista di stanza nel deserto del Sinai – si è tenuto alla larga dal conflitto di Gaza (cf. in questo numero a p. 443), giudicato 446 Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 Noi cristiani, che leggiamo la storia ispirandoci agli eventi del Vangelo, mi sembra che oggi stiamo vivendo il mistero del sonno di Cristo sulla barca (cf. Mc 4,35-41), che ha anche il volto di un’indifferenza allarmante e di un abbandono triste da parte della comunità internazionale. Le onde si alzano e si fanno minacciose! Tuttavia, non disperiamo. Sulla nostra barca siamo invitati e stimolati a svegliare il Cristo, per per far crescere la nostra fede e continuare il nostro viaggio su un mare più calmo. Purtroppo, non vedo quanto possiamo ancora contare sui politici! La maggioranza di loro, sembrano molto chiaramente preoccupati solo dei propri interessi, e in particolare del petrolio! Accogliamo con favore il ritorno delle famiglie alle loro case; hanno dovuto vivere il dramma di un nuovo esodo, sono dovuti fuggire per qualche giorno anche dalla grande città cristiana di Qaraqosh. Osiamo sperare che questo non accada di nuovo. In questa occasione vogliamo ribadire il nostro grazie a tutte le persone di buona volontà che si adoperano in nostro favore, e a tutti i fedeli che pregano per noi e ci sono vicini in questi tempi particolarmente difficili. Baghdad, 2 luglio 2014. Louis Raphaël Sako, patriarca di Babilonia dei caldei troppo rischioso e lontano dagli obiettivi alla portata. Non a caso tra i più preoccupati dall’aspirante califfo oggi c’è la monarchia giordana, che già deve fare i conti con gli equilibri da decenni delicatissimi ad Amman, aggravati ora anche dalla presenza di centinaia di migliaia di profughi siriani. E – insieme a loro – i sauditi, che hanno probabilmente capito di essersi coltivati un concorrente pericoloso e sono corsi ai ripari ammassando le proprie truppe al confine con il nuovo stato islamico. In tutto questo che fine fa l’Iraq? Il paese è ormai diviso chiaramente in tre, con i curdi che sono stati gli unici a opporsi militarmente all’ISIS (e a difendere i cristiani nella piana di Ninive), ma hanno anche colto l’occasione per mettere le mani sui pozzi petroliferi di Kirkuk. Gli sciiti sostanzialmente sono arretrati al Sud, nelle zone dove sono maggioranza, con gli iraniani arrivati a dar man forte nell’organizzazione delle linee di difesa di Baghdad e Kerbala, la città simbolicamente più importante, perché sede della storica battaglia che nel 680 segnò il primo scontro militare tra le fazioni che sarebbero poi diventate i sunniti e gli sciiti. Dentro a questa situazione la Chiesa caldea vive una nuova pagina del suo lungo calvario. Come emerge chiaramente dal comunicato diffuso a inizio luglio dal patriarca Raphael Sako – che pubblichiamo qui a fianco – i cristiani iracheni avevano sperato fortemente che le elezioni del 30 aprile segnassero un’assunzione di responsabilità da parte delle forze politiche irachene, con la nascita di un governo di unità nazionale in grado di affrontare l’emergenza. Il vento della divisione settaria – invece – soffia molto più forte e lo stesso patriarca appare ormai rassegnato a questo epilogo; si augura semplicemente che vi si arrivi senza ulteriori bagni di sangue. Dopo averla sempre osteggiata oggi i cristiani si sono trovati giocoforza a dover accettare l’idea dell’enclave cristiana nella Piana di Ninive: è a Qaraqosh, infatti, che i cristiani fuggiti da Mosul si sono riversati. Ed è sempre a Qaraqosh e ad Ankawa – il sobborgo a prevalenza caldea alla periferia di Erbil – che le Chiese irachene oggi sono in prima linea nell’assistenza umanitaria. Provano a resistere anche in mezzo a questa nuova tempesta. Aspettando, come scrive Sako, che il Maestro – e un mondo che non capisce più la posta in gioco in Medio Oriente – si destino dal loro sonno. Giorgio Bernardelli Estremismi A f r ic a v iolenza da Est a Ovest T re crisi, tre paesi diversi, dall’Est all’Ovest dell’Africa, e una paura comune: quella di non sapere da dove arriverà il prossimo attacco, non avendo, in qualche caso, neanche un’idea precisa di chi potrebbe esserne il responsabile. Kenya, Repubblica Centrafricana e Nigeria, ognuna in modi diversi, vivono questa insicurezza; gli ultimi episodi di cronaca hanno riportato al centro dell’attenzione, in particolare, la situazione dei cristiani e il timore di azioni di gruppi dell’estremismo islamico, radicati sul territorio o sospettati di potervisi infiltrare facilmente. Ma la tentazione di una lettura unitaria di quel che accade – lungo gli oltre 5.000 chilometri che separano Abuja da Mombasa passando per Bangui rischia di nascondere le molte questioni locali su cui si fondano queste crisi e su cui spesso le stesse sigle estremiste basano la loro capacità di attrazione. Kenya: tra al-Shabaab e rivendicazioni storiche «Quello che sta succedendo non è per nulla chiaro», testimonia ad esempio dalla costa kenyana p. Albert Buijs, vicario generale dell’arcidiocesi di Malindi, parlando degli attacchi che tra giugno e luglio hanno provocato circa 100 morti nelle località di Mpeketoni, Hindi e Gamba: tutte non lontane da Lamu, il sito scelto per la costruzione di un terminal petrolifero che servirà parte dell’Africa orientale. Gli integralisti islamici somali di al-Shabaab, già protagonisti di attacchi nel paese, tra cui L e c r i s i i n Ke nya , C e n t r a f r i c a e N i g e r i a : tratti comuni e specificità locali quello dello scorso anno al centro commerciale Westgate di Nairobi (cf. Regno-att. 18,2013,604) hanno rivendicato le azioni, e il fatto che dei cristiani siano stati deliberatamente scelti come bersagli sembra una conferma di questo coinvolgimento. Ma il governo, nota p. Buijs, sostiene «che sono implicate personalità politiche della costa», nell’ambito di uno scontro tra gruppi rivali, e in effetti «ci sono indizi secondo cui persone del posto vengono utilizzate per provocare disordini». Nell’area sono molti i fattori capaci di creare tensione: prima tra tutte la marginalizzazione economica denunciata dagli abitanti della zona, che ha portato anche alla nascita, nel 1999, di un movimento secessionista, il Mombasa Republican Council (MRC), accusato dalle autorità kenyane di legami proprio con al-Shabaab. Di sicuro, sostiene il vicario di Malindi, secessionisti e integralisti «mirano allo stesso scopo», per cui c’è in un certo senso «uno sforzo comune» contro il Governo e non può essere escluso che anche uomini del MRC siano coinvolti nelle azioni dei miliziani somali. Sul fatto che le infiltrazioni da oltre confine – distante qualche centinaio di chilometri – spaventino ci sono pochi dubbi e il sospetto pesa soprattutto sulle comunità somale presenti in Kenya: già in varie occasioni il trattamento loro riservato ha attirato a Nairobi le critiche delle organizzazioni per i diritti umani e la polizia della costa non ha fatto in questo senso eccezione, finendo nel mirino di alcune associazioni locali. Le accuse di sparizioni forzate e persino di omicidi sono state respinte, ma sono emblematiche della difficoltà nei rapporti tra le autorità e parte dei musulmani che vivono nell’area. Anche altre rivalità locali hanno il loro peso e risalgono addirittura a metà degli anni Settanta, quando il primo presidente kenyano, Jomo Kenyatta, mandò gruppi di coloni appartenenti a diverse etnie a stabilirsi nelle aree costiere: già allora gli abitanti del luogo protestarono, cercando di far sì che le terre non fossero assegnate ai nuovi arrivati, ma anche grazie all’aiuto della GTZ, l’organizzazione tedesca per la cooperazione tecnica, i coloni si stanziarono nella zona. «Ottennero circa dieci acri di terra ciascuno – spiega il vicario di Malindi – e da allora hanno avuto figli, che a loro volta hanno ricevuto terreni; questo ha suscitato invidie e adesso gli shabaab sono visti da alcuni come un’opportunità di liberarsi di queste persone». Il gruppo armato somalo, del resto, nel rivendicare l’azione contro Mpeketoni, oltre a citare l’intervento delle truppe kenyane contro i suoi combattenti, iniziato nel 2011, ha sostenuto che la cittadina attaccata dai mujaheddin fosse «originariamente musulmana, prima di essere invasa e occupata da coloni cristiani». I fondamentalisti – capaci di reclutare adepti tra la popolazione anche per le poche opportunità educative e lavorative offerte a molti musulmani – sono dunque solo uno degli anelli di quella catena di rancori che ha portato, negli anni, a episodi, più o meno gravi, di violenza in tutta l’area: quelli di Mpeketoni, Hindi e Gamba Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 447 sono solo gli ultimi e il risultato, spiega p. Buijs, è che «si vive nella paura, perché non si sa dove avverrà il prossimo attacco». Nigeria: crisi senza fine Di una popolazione terrorizzata e di una situazione preoccupante anche solo rispetto a pochi mesi fa parla anche, dalla Nigeria, un altro religioso, p. Patrick Tor Alumuku, responsabile delle comunicazioni dell’arcidiocesi di Abuja: «Si può solo sperare che finisca presto», dice, riferendosi all’ultima ondata di violenze attribuite agli estremisti islamici di Boko Haram, che sono proseguite dopo il rapimento di centinaia di studentesse nella località di Chibok (cf. Regno-att. 10,2014,315). Un altro sequestro di massa (una settantina le donne coinvolte) è avvenuto nella località di Damboa, nello stato nordorientale di Borno, a giugno: molte delle rapite sono però riuscite a sfuggire dalle mani degli estremisti a luglio, e a fare ritorno alle loro case. Continuano anche le stragi: il 26 giugno è stata nuovamente colpita la capitale Abuja, dove l’esplosione avvenuta in un centro commerciale ha ucciso 21 persone, mentre altre 56 sono morte nell’attentato compiuto contro un mercato a Maiduguri, nel Nordest. «Ormai si uccide senza ragione – è il commento di p. Alumuku agli ultimi sviluppi –, non si colpiscono neanche più determinate persone perché sono nemici, ma si prende di mira un mercato e si uccidono decine di uomini e donne». La violenza, prosegue, è ormai «qualcosa di continuo e non si sa dove colpirà domani». Preoccupate dalla situazione anche le Nazioni Unite: alle parole del segretario generale Ban Ki-moon, che a giugno era intervenuto due volte sulla questione, parlando di «attacchi orrendi», hanno fatto eco quelle del suo rappresentante speciale per l’Africa occidentale, Said Djinnit. «La crisi provocata da Boko Haram – ha sostenuto il funzionario – ormai influisce sulla sicurezza in tutta la regione» e la Nigeria «è a un bivio», in un momento in cui «l’insicurezza nell’Est si aggiunge alle divisioni e alle tensioni politiche alla vigilia delle elezioni del 2015». Il fattore interno non va sottovalutato nell’affrontare il problema dell’in- 448 Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 tegralismo in Nigeria, nonostante, come ricorda p. Alumuku, siano «ormai emerse le tracce di un finanziamento e di un legame tra gruppi sauditi e Boko Haram». Risalgono infatti ancora più indietro nel tempo le analisi che associano il gruppo ad alcuni esponenti politici del Nord nigeriano, appartenenti alla maggioranza musulmana. «Un’ipotesi è che si creino problemi per dimostrare che, se non saranno chiamati loro al governo, la prossima volta il caos sarà totale» e per mettere in difficoltà il presidente in carica Goodluck Jonathan nell’imminenza del voto, chiarisce il religioso. Una situazione complessa, dunque, su cui non è chiaro quale potrebbe essere l’impatto di un’amnistia come quella nuovamente ipotizzata dal capo dello stato per chi rinuncerà alla violenza. All’ipotesi ha comunque aderito il cardinale arcivescovo di Abuja, John Onaiyekan: «Se si vogliono fermare le sparatorie e le bombe – ha sostenuto – si deve trovare un modo di dialogare e di negoziare», affrontando anche la questione dei risarcimenti alle famiglie delle vittime. Centrafrica: paura di infiltrazioni Boko Haram spaventa anche al di là dei confini nigeriani: «È una delle nostre paure», ammette da Bouzoum, nell’Ovest della Repubblica Centrafricana, padre Aurelio Gazzera, missionario carmelitano, «per via della vicinanza con il Camerun», dove il gruppo fondamentalista ha già mostrato di essere attivo. Quello delle infiltrazioni dall’estero non è un timore nuovo nel paese che vive una situazione di conflitto ormai da dicembre 2012 (cf. Regno-att. 6,2014,165). I primi combattenti stranieri sono arrivati al seguito della coalizione Seleka, protagonista di un colpo di stato a marzo 2013: erano ciadiani e sudanesi. «Le bande di Seleka erano composte quasi completamente da musulmani e avanzando hanno favorito la popolazione islamica, che in parte si è anche appoggiata a loro», ricorda p. Gazzera: questo elemento è diventato occasione di scontri quando la situazione è cambiata e alla fragile coalizione si sono contrapposte le cosiddette milizie di autodifesa anti-balaka. Le violenze, spesso descritte come interreligiose, hanno fatto decine di vittime: le ultime, almeno 27, sono quelle dell’attacco – definito «brutale» dalle Nazioni Unite – alla cattedrale di Bambari, nel Centro-sud del paese: qui il 7 luglio è stata saccheggiata anche la sede della diocesi. Lo stesso giorno, a Paoua, nell’Ovest, a essere presa di mira è stata una moschea, in cui è stata lanciata una granata durante la preghiera: 34 i feriti. «L’elemento religioso non è così evidentemente importante», mette però in guardia il sacerdote carmelitano, notando che «alla base di questi episodi ci sono sempre dei fatti molto concreti», come l’uccisione di alcuni giovani proprio a Bambari alla vigilia dell’attacco, o la circostanza – «forse un pretesto», ipotizza il missionario – denunciata da Seleka, per cui nella cattedrale della città si sarebbero rifugiati anche dei miliziani anti-balaka. Il quadro tracciato dallo stesso personale dell’ONU nell’area di Bambari è quello di un aumento «allarmante» delle violenze, che si traduce soprattutto in attacchi contro la popolazione civile in genere. «Tutto questo – riflette ancora p. Gazzera – crea comunque una fragilità dove movimenti più estremisti si possono facilmente inserire giocando sul sentimento di vendetta che c’è nel cuore di tanta gente». Né si può escludere che questi elementi arrivino dall’estero, considerando che «da più parti sono stati segnalati movimenti di persone provenienti da altri paesi, ed è anche probabile che questo succeda, vista la porosità delle frontiere». Alla base della crisi, dunque, restano prima di tutto fattori politici: è il caso dell’impossibilità per le fazioni di siglare un accordo di pace che non sia limitato a situazioni circoscritte, come dimostra il rinvio della firma di una dichiarazione comune tra Seleka e anti-balaka, prevista per l’inizio di luglio. Sulla situazione incide anche la debolezza del governo transitorio di Bangui, che di fatto lascia mano libera alle fazioni contrapposte sul territorio, dove, chiude p. Gazzera, «si va verso una contrapposizione di comunità locali più che di religioni». Davide Maggiore Islam in E u ro pa g Diritto iurisdizione multiculturale Il contesto e le sfide del caso britannico U n po’ di anni fa una pubblicazione di John A. Makdisi sull’origine islamica del diritto comune1 ha alzato non poca polvere in un mondo accademico che, sovente, si diletta nella ricerca di possibili paternità, vere o presunte. Non si può negare, per umana natura, che l’incontro delle civiltà generi nuove forme di pensiero nonché una mutua influenza con tutta una serie di criticità e aspetti interessanti. In uno studio, precedente e oramai classico, Patricia Crone aveva messo in evidenza, non a caso, l’eredità del diritto romano e delle province imperiali nella formazione del diritto islamico.2 Questi studi offrono, senza dubbio, alcuni stimoli positivi evidenziando – su base prettamente comparatistica – i processi evolutivi del diritto e dell’ermeneutica giuridica che, in contesti culturalmente lontani e partendo da postulati diversi, giungono a conclusioni simili e conciliabili.3 Lasciando agli esperti questo delicato compito, è un dato di fatto che i due sistemi si trovano attualmente in stretto contatto a causa di epocali migrazioni avvenute, in un primo momento, nel periodo della decolonizzazione e, successivamente, nell’alveo della globalizzazione. La demografia, inoltre, con tassi di natalità ampiamente favorevoli alle minoranze musulmane, presenta ulteriori spunti di riflessione nel quadro europeo e, nella fattispecie, britannico. Una certa vulgata, ricca di letteratura sociologica e di dati statistici, vede negli ordinamenti giuri- dici delle minoranze una sorta di sistema legale parallelo4 e lo dipinge come una minaccia interna alla tradizione democratica liberale; da un altro punto di vista, la consolidata flessibilità dei sistemi di common law offre una certa apertura che, con tutti i suoi rischi di polarizzazione e di sottili incomprensioni, apre le porte della giurisprudenza alle richieste dei gruppi religiosi facendo breccia nel «modello assolutistico secolare» di matrice positivista.5 Il potere delle Corti islamiche Gli occhi sono puntati, in primo luogo, sul celeberrimo Arbitration Act del 1996 che, partendo dall’ammirevole presupposto di snellire ulteriormente la mole dei contenziosi, si appella a una metodologia alternativa per la risoluzione delle controversie dando – in un modo che, secondo alcuni analisti, è fin troppo indefinito –, un potere eccessivo in mano a individui e autorità intermedie come, in questo caso, alle Corti islamiche con una giustificazione ope legis della sharia6 sia per quanto concerne il diritto di famiglia sia, in una prospettiva futura, per la gestione delle fondazioni caritatevoli (waqf),7 con la loro crescente importanza nel campo economico e finanziario.8 Nelle maglie del diritto comune entra, quindi, prepotentemente il parere decisivo del fiqh (giurisprudenza islamica) secondo la sua sistematica differenziazione delle azioni in obbligatorie (w jib), vietate (har m), raccomandate (mand b), disapprovate (makr h) o indifferenti (m bah).9 La valutazione del giudice religioso (q di) – con il suo retroterra nelle differenti scuole giuridiche10 – s’innalza, pertanto non solo simbolicamente, quasi a precedente giuridico.11 Come alcuni casi dimostrano, il confronto, a volte, non è facilmente digeribile nei termini e modi della tra- Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 449 Lo stato a un bivio Laddove, infatti, i diritti acquisiti delle donne venissero messi in dubbio,17 si creerebbe un ulteriore sotto- gruppo minoritario a cui andrebbero sommate, in un contesto di frammentazione sociale e fluidità culturale, tante altre minoranze nell’ampia cornice dell’evoluzione dei diritti civili. Ci si riferisce, tra l’altro, alla possibilità di apostasia senza alcuna pena aggiuntiva18 e alla libertà di espressione anche su temi di natura strettamente teologica senza essere intrappolati nei lacci tentacolari della blasfemia.19 Questi aspetti sono alla base stessa della giurisprudenza anglosassone e appare di fondamentale importanza una maggiore diffusione dei diritti fondamentali, con un’incessante opera educativa e informativa, che raggiunga tutti i soggetti, anche quelli che per difficoltà linguistiche o per altri motivi di carattere socio-culturale non hanno accesso a tale conoscenza. Lo stato si trova di fronte a un bivio. Tra la proibizione tout court e la noninterferenza negli affari delle minoranze si presenta una gamma di alternative che hanno il sapore necessario del compromesso ma che, ad ogni modo, si giocano alla luce delle garanzie costitu- zionali e in difesa delle libertà individuali.20 Sebbene alle minoranze non sembri opportuno né tantomeno ragionevole doversi piegare alle norme altrui con il rischio di perdere la propria identità,21 si richiede un processo di avvicinamento che nell’ottica della «transformative accomodation»22 sappia accordare i diritti ai membri delle diverse comunità con una clausola di salvaguardia a favore dei soggetti più vulnerabili o, come brevemente accennato, delle «minoranze nelle minoranze». Tale cammino di integrazione non è affatto semplice e la buona volontà si scontra con la diffidenza23 e, a volte, con la pretesa di una superiorità morale in netto contrasto con il lassismo di certi costumi e la complessiva decadenza dell’Occidente.24 Frutto di questo processo è la formazione di una «identità duale» tra cittadino e credente,25 foriera di non poche frustrazioni e, molto spesso, causa di personale umiliazione in un contesto di pluralismo etico.26 Giovanni Patriarca 1 Cf. J.A. Makdisi, «The Islamic Origins of the Common Law», in North Caroline Law Review, 77(1999) 5, 1635-1739. 2 Cf. P. Crone, Roman, Provincial and Islamic Law. The Origins of Islamic Patronate, Cambridge University Press, Cambridge 1987. 3 Cf. P. Cruz, Comparative Law in a Changing World, Cavedash Publishing, London 1995. 4 Cf. J. Ames, F. Gibbs, «Sharia Wills: Do They Create A Parallel System of Legal Rights?», in The Times 27.3.2014, consultabile anche sul sito web www.thetimes.co.uk . 5 «Se una morale “laica” non può essere equa, ci troviamo a quanto pare in una trappola, costretti a scegliere tra due imperialismi parimenti inaccettabili. Da un lato, abbiamo un “laicismo unico e dominante” (Rotschild), un laicismo vero e proprio (fondamentalista), che, per come si è manifestato sul finire del XX secolo, è ostile a qualunque religione (Rossen-Owen). Dall’altro lato, abbiamo il “pericoloso trionfalismo (…) di quanti ritengono che la religione detenga il monopolio sulle questioni morali” (Phillips)». Così V. Bader, Secularism or Democracy. Associational Governance of Religious Diversity, Amsterdam University Press, Amsterdam 2007, 105 (nostra traduzione). 6 L’epocale cambiamento prospettico è testimoniato dalla pubblicazione di un libello sulle metodologie giuridiche islamiche da parte della potentissima associazione di categoria degli avvocati inglesi: Sharia Succession Law, The Law Society, London 14.3.2014. 7 È interessante citare, a tale proposito, un articolo sulla presunta influenza delle fondazioni islamiche nello sviluppo dei trusts nella storia giuridica inglese: M.M. Gaudiosi, «The Influence of the Islamic Waqf on the Development of the Trust in England: The Case of the Merton College», in University of Pennsylvania Law Review, 136(1988), 1231-1261. 8 Cf. M. Fahim Khan, M. Porzio (a cura), Islamic Banking and Finance in the European Union: A Challenge, Elgar Publishing, Cheltenham 2010. 9 Cf. R. Levy, The Social Structure of Islam, Cambridge University Press, Cambridge 1969, 150. 10 Cf. L. Rosen, The Justice of Islam. Comparative Perspective on Islamic Law and Society, Oxford University Press, Oxford 2002. 11 Cf. F. Fregosi, «Usages sociaux de la référence à la charia chez les musulmans d’Europe», in B. Dupret (a cura), La Charia aujourd’hui : usages de la référence au droit islamique, La Découverte, Paris 2012, 65-78. 12 Cf. L. Lakhdar, Les femmes au miroir de l’orthodoxie islamique, Edition de l’Aube, La Tour d’Aigues 2007. 13 Cf. A. El-Yafi, La condition privée de la femme dans le droit musulman, Geuthner, Paris 2013. 14 Cf. J.L. Cohen, «The Politics and Risks of the New Legal Pluralism in the Domain of Intimacy», in International Journal of Constitutional Law, 10(2012) 2, 380-397. 15 Cf. A. Schachar, Multicultural Jurisdictions: Cultural Differences and Women’s Right, University of Cambridge, Cambridge 2001. 16 Cf. A. Schachar, «Group Identity and Women’s Rights in Family Law: The Perils of Multicultural Accomodation», in The Journal of Political Philosophy, 6(1998) 3, 285-305. 17 Cf. L. Babes, T. Oubrou, Loi d’Allah, Loi des hommes. Liberté, égalité et femmes en Islam. Albin Michel, Paris 2002, 315. 18 Cf. S. Khalil Samir, 111 Questions on Islam. A Series of Interviews Conducted by G. Paolucci and C. Eid. Edited by W. Nasry, Ignatius Press, San Francisco 2008, 128. 19 Cf. P. Marshall, N. Shea, Silenced. How Apostasy and Blasphemy Codes Choking Freedom Worldwide, Oxford University Press, Oxford 2011. Si consiglia in particolare la lettura della parte III, dal titolo significativo: «Globalization of Blasphemy»(pp. 173ss). 20 Cf. M. Malik, Minority Legal Orders in the UK. Minorities, Pluralism and the Law. Executive Summary, The British Academy, London 2012, 3ss. 21 Cf. Ivi. 22 B. Jackson, «Transformative Accomodation and Religious Law», in Ecclesiastical Law Journal, 11(2009) 2, 131-153. 23 Cf. R. Bettini, Religione e Politica. L’ibridazione islamica, Armando Editore, Roma 2013. 24 «Dobbiamo guardare con prudenza alla vita in Occidente. Nel momento in cui cerchiamo di acquisire le loro conoscenze, le loro industrie, le loro tecniche e, in parte, le loro norme sociali, dovremo evitare l’imitazione di quei costumi, usi e norme che hanno portato agli occidentali tante disgrazie. Dovremo evitare ad esempio ad esempio di apportare modifiche al nostro Codice civile e ai nostri rapporti sociali per adeguarli alle leggi europee». Così M. Motahari, Les droits de la femme en Islam, Les Editions Al-Buraq, Beirut 2000, 22 (nostra traduzione). 25 Cf. J. Raz, The Authority of Law, Oxford University Press, Oxford 2009. Ci si riferisce, in modo particolare, al capitolo intitolato: «Moral Attitudes to the Law» (pp. 233-276). 26 Cf. T. Ramadan, Western Muslims and the Future of Islam, Oxford University Press, Oxford 2004. dizione giuridica inglese. I nodi al pettine sono particolarmente evidenti in special modo per quanto riguarda il peso e il valore nelle testimonianze e nella successione ereditaria a netto discapito della controparte femminile.12 Un simile trattamento discriminatorio vale, in linea di massima, per le cause e le procedure di divorzio e per l’assegnazione dei figli.13 In un articolo denso di suggestioni e richiami, Jean L. Cohen teme la proliferazione di un «legal group-ism» tanto indipendente quanto slegato dalle basilari norme insite nel diritto delle nazioni occidentali.14 La necessità improcrastinabile di dialogare con altre forme di esegesi e procedura pone la «giurisdizione multiculturale»15 di fronte a sfide che non hanno a che fare solamente con l’assetto legale ma si segnalano per un carattere profondamente antropologico.16 450 Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 L ibertà religiosa - Sport U n incrocio a tutto campo A llo spettatore appassionato delle partite della Coppa del mondo di calcio appena conclusasi in Brasile sarebbe potuto capitare di assistere ad un evento davvero straordinario: non tanto un gol in rovesciata di Neymar o una serpentina di Messi, ma piuttosto l’ingresso in campo di un calciatore con il turbante. Molto più difficilmente gli sarà occorso, invece, di imbattersi in qualche goleador che abbia approfittato dell’esultanza che segue una marcatura per sollevare la maglietta e mostrare al mondo un qualche messaggio di contenuto religioso. Difatti, la Fédération internationale de football association (FIFA), all’inizio del marzo del 2014, ha autorizzato l’uso del turbante per i giocatori sikh ma ha vietato le maglie contenenti scritte personali, politiche e religiose. La storia degli incroci tra eventi sportivi e manifestazioni della libertà religiosa da parte degli atleti è tanto lunga quanto ricca di casi eclatanti e di polemiche. Inevitabilmente, però, l’ampliamento della partecipazione, il carattere universale delle grandi competizioni, il ritorno di Dio e delle religioni su ogni tipo di scena pubblica e l’aumento delle rivendicazioni a contenuto identitario hanno moltiplicato a dismisura la produzione di conflitti religiosi in questo ambito. Per molto tempo, il mondo dello sport si è pensato come un luogo neutrale – potremmo dire: improntato a un’accezione rigorosa del principio di laicità – che perseguiva i valori di lealtà, correttezza, fair play, fraternità attraverso la neutralizzazione di ogni credo religioso. Al più, la religione veniva presa in considerazione da qualche federazione e in qualche singolo paese, per introdurre delle disposizioni volte ad assicurarne la protezione da offese di vario genere. Emblematica, in questo senso, la decisione della Federazione italiana gioco calcio (FIGC) di equiparare esplicitamente la punizione della bestemmia a quella prevista per le offese gravi, facendo ricorso per l’accertamento della fattispecie anche ai mezzi di prova televisivi. Negli ultimi anni, l’intensificarsi di richieste, provenienti da atleti di tutto il mondo, di poter seguire le proprie regole religiose senza dover contravvenire a quelle sportive o senza dover rinunciare a partecipare alle competizioni, ha spinto gli organi di governo internazionali delle singole federazioni a rivedere almeno in parte i propri orientamenti, e a ricercare in più occasioni una sorta di «accodamento ragionevole». Si gioca col velo Il settore più esposto e più recettivo si è rivelato quello relativo all’uso di simboli religiosi. Il 5 luglio del 2012, anticipando la decisione di contenuto più generale che abbiamo già richiamato, la FIFA ha riconosciuto il diritto delle atlete di indossare il velo durante lo svolgimento delle partite di calcio, rivedendo il proprio orientamento precedente che imponeva un abbigliamento neutro, uguale per tutti e privo di caratterizzazioni religiose. Già prima, nel 2008, la Federazione mondiale di Taekwondo, aveva autorizzato le atlete musulmane a indossare il velo, ribaltando la decisione assunta nel caso Hamide Tosun. Infine, l’Associazione italiana arbitri (AIA), nella primavera di quest’anno, ha autorizzato la quindicenne Chahida Sekkafi, afferente alla sezione di Cremona, a indossare il velo durante la direzione della gara, ritenendo prevalente il diritto a seguire il proprio credo su ogni altro interesse in gioco. Il progressivo riconoscimento del diritto di libertà religiosa individuale all’interno delle manifestazioni sportive e durante lo svolgimento delle grandi competizioni (in questo senso va, ad esempio, l’attivazione di un Comitato interfedi avente lo scopo di agevolare l’assistenza spirituale degli atleti durante le Olimpiadi di Torino), non sempre sfocia nell’accoglimento delle richieste provenienti dai partecipanti alle gare o dai comitati nazionali. Così, ad esempio, il Comitato olimpico internazionale (CIO) ha ritenuto di non modificare il calendario delle Olimpiadi di Londra 2012, nonostante le richieste avanzate da alcuni comitati di paesi islamici che rilevavano come la coincidenza del programma olimpico con il Ramadan avrebbe pregiudicato la partecipazione degli atleti musulmani. In realtà, a risolvere il dilemma che andava proponendosi a questi atleti è venuta l’interpretazione delle principali autorità religiose islamiche che, equiparando gli sportivi presenti a Londra a dei viaggiatori, hanno consentito agli atleti musulmani di non osservare la regola coranica che impone il digiuno. Tutti flessibili Tale orientamento è indice di una maggiore disponibilità delle confessioni verso lo sport, percepito sempre più spesso come un veicolo per promuovere il messaggio religioso, per rafforzare l’appartenenza dei fedeli tiepidi, per consolidare la rilevanza pubblica della propria presenza. La straordinaria rilevanza mediatica delle principali competizioni sembra spingere, insomma, tanto le autorità sportive quanto le rappresentanze religiose a un atteggiamento flessibile e alla ricerca del compromesso, di volta in volta, possibile. Allo stesso modo, tale rilevanza trasforma lo sport in un veicolo privilegiato per la realizzazione di politiche finalizzate alla lotta a ogni forma di discriminazione e alla promozione dell’integrazione e del dialogo tra diversi. Tra i tanti provvedimenti che si pongono in questa ottica, si ricordi a titolo di esempio – e per restare in ambito calcistico – l’art. 3, comma 3, del Codice di condotta della FIFA, con cui si vieta ogni forma di discriminazione fondata su numerosi fattori tra cui la religione. Un ultimo ambito di interesse, per il giurista esperto di cose sacre, potrebbe rivelarsi quello relativo all’autonomia contrattuale delle parti. In un suo articolo sul n. 1/2014 di Diritto e religioni, dal titolo «Il simbolismo religioso nello sport: il caso Chahida», Caterina Gagliardi richiama il caso Revivo, un giocatore ebreo tesserato per una società calcistica spagnola che aveva inserito, nel contratto stipulato con il club, una clausola che gli consentiva di non scendere in campo in occasione di alcune festività religiose. La massiccia presenza di giocatori-fedeli, a volte addirittura organizzati in associazioni religiose tematiche, e il progressivo rafforzamento del potere contrattuale dei calciatori rispetto ai club, potrebbero portare a una proliferazione di clausole di questo genere o a situazioni di atleti che – come Cissè, l’attaccante musulmano del Newcastle che si rifiutò di scendere in campo quando la squadra concluse un accordo di sponsorizzazione con una società di prestiti – scelgano la propria destinazione anche in base all’eticità della società o alla sua compatibilità con i propri precetti religiosi. Nicola Fiorita* * Nicola Fiorita è professore associato di Diritto canonico e Diritto ecclesiastico all’Università della Calabria. Questo articolo è ripreso, con minimi adattamenti redazionali, dalla Newsletter n. 6/2014 dell’OLIR – Osservatorio delle libertà e istituzioni religiose (consultabile anche dal sito web www.olir.it), dove è corredato da una piccola ma preziosa bibliografia. Ringraziamo l’autore e l’OLIR per la disponibilità. Il Regno - attualità 14/2014 451 Diritto S tat i U n i t i p reghiera e cittadinanza La Corte suprema in controtendenza in tema di religione e spazio pubblico N el maggio scorso la Corte suprema degli Stati Uniti ha deliberato in merito alla questione della legittimità, rispetto al Primo Emendamento della Costituzione, di un momento di preghiera con il quale l’amministrazione cittadina di Greece (situata nella regione Nord dello Stato di New York) iniziava le sue assemblee mensili. La causa era giunta presso la Corte nel novembre 2013, dopo i due consueti gradi a livello territoriale. Prima di scendere nel merito della sentenza è utile cercare di illustrare brevemente il contesto rispetto al quale è sorta la questione. In ogni piccola cittadina americana, le assemblee mensili si occupano prevalentemente di questioni amministrative che riguardano la vita della comunità, e tutti i cittadini che ne fanno parte hanno diritto di partecipazione e di parola. Di consuetudine questi incontri si dividono in due momenti: una prima parte di carattere formale e informativo; una seconda parte di profilo decisionale. Il momento di preghiera, introdotto e guidato da un rappresentante delle comunità religiose registrate sul territorio della cittadina (in seguito allargato a ogni persona disponibile ad assumersi questo incarico), si svolge all’inizio dell’assemblea. La causa contro l’amministrazione della città di Greece è stata mossa non tanto per la presenza di un atto religioso all’interno di un momento pubblico ufficiale, quanto piuttosto a motivo del suo carattere specifico (cri- 452 Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 stiano, in questo caso) e, quindi, del sostegno pubblico che in tal modo una determinata confessione religiosa otterrebbe da parte dell’amministrazione cittadina. Secondo i sostenitori della causa si tratterebbe di una procedura che porta degli amministratori pubblici a definire il profilo religioso di una città (establishment), lesiva dei diritti personali di cittadini che non si identificano con quel tipo di confessione religiosa. Il nodo del contendere sembrerebbe essere quindi legato alla procedura scelta dalla segreteria dell’amministrazione comunale che, inizialmente, si era limitata a cercare rappresentanti di comunità religiose disponibili a guidare la preghiera iniziale dell’assemblea esclusivamente tra quelle registrate e presenti sul territorio della città stessa. Come detto, in seguito il criterio è stato allargato in una doppia forma: rivolgendosi anche a comunità religiose registrate nella contea e permettendo a ogni cittadino (quindi oltre il criterio di una registrazione pubblica), senza esclusione alcuna, di guidare il momento di preghiera. Nonostante questa attenzione, non è stato possibile dirimere la questione in sede extra-giudiziale. In particolare, i promotori dell’iniziativa contro l’amministrazione cittadina di Greece invocavano la necessità che le affermazioni religiose contenute nelle parole della preghiera introduttiva avessero carattere generico e non settario. L’oggetto della causa che la Corte suprema si è trovata a dover dirimere, ha dunque due aspetti centrali: il ca- rattere discriminativo di un atto di preghiera legato a un passaggio pubblico della vita di una comunità locale; la necessità di un profilo non confessionale della cosiddetta «preghiera legislativa». La decisione finale della Corte ha respinto la pertinenza di entrambe le affermazioni, «concludendo che la pratica di preghiera della città non viola l’Establishment Clause» del Primo Emendamento; e che la pratica di aprire un’assemblea cittadina di carattere deliberativo con una preghiera religiosa confessionalmente connotata non «impone un inammissibile sostegno della religione». La tradizione conta Al di là del caso specifico in esame, con tutta la contingenza legata a esso, nelle argomentazioni della sentenza, offerte dalla Corte suprema, si possono trovare alcuni elementi di interesse più generale, sui quali vale la pena di soffermare brevemente l’attenzione. Una prima linea di pensiero riguarda il riferimento alla tradizione pratica che, nella storia degli Stati Uniti, lega il momento religioso della preghiera e quello politico della deliberazione parlamentare: «Come praticata dal Congresso, fin dai tempi della stesura della Costituzione, la preghiera legislativa conferisce solennità e serietà agli affari pubblici; ricorda ai parlamentari, nella loro funzione legislativa, di trascendere futili differenze per la ricerca di un obiettivo più alto; ed esprime l’aspirazione comune verso una società giusta e pacifica». Nello svolgimento di questa funzione pub- blica, la preghiera legislativa risulta essere coerente al quadro costituzionale anche per ciò che riguarda i suoi passaggi confessionali, ossia inerenti a una specifica religione con le sue pratiche e il suo vocabolario (a conferma di questo, viene richiamata l’usanza ininterrotta di nominare cappellani presso entrambe le Camere del Congresso, posti a loro carico). È interessante notare il ruolo giuridico assunto dalla figura della tradizione ininterrotta, che diventa così una chiave di volta per la costruzione del giudizio della Corte in riferimento a casi concreti del rapporto fra stato e religione che vengono a essa sottoposti. Se con la sentenza del 1971, sulla non ammissibilità di due programmi di finanziamento pubblico a scuole private nel Rohde Island e in Pennsylvania, si era arrivati a definire il cosiddetto Lemon test per ciò che concerne l’Establishment Clause (la legge che delibera un supporto pubblico deve avere motivazioni ed effetti laici e non immediatamente religiosi, da un lato, e non deve contribuire a una giunzione troppo forte fra sfera pubblica e sfera religiosa, dall’altro), la sentenza del 2014 ricalibra la portata di questo criterio valutativo (oggetto di lungo dibattito e controversia) per la decisione giuridica: «Non è necessario definire il confine preciso dell’Establishment Clause laddove la storia mostra che la pratica specifica è permessa (…), che era accettata dai costituenti e che ha resistito allo scrutinio critico del tempo e dei cambiamenti politici». Insomma, la tradizione ininterrotta non è una figura astratta della vita pubblica statunitense, ma rappresenta un passaggio attraverso la prova dei tempi e dei cambiamenti – ed è esattamente in questa capacità di mantenersi che risiede il suo valore criteriologico, rispetto al quale deve essere pensata la configurazione di ogni eventuale test ulteriore (e non viceversa): «Se vi è una qualsiasi inconsistenza fra ognuno di questi test e la pratica storica della preghiera legislativa, allora l’inconsistenza mette in discussione la validità del test e non la pratica storica». A questo aspetto si deve collegare il ruolo normativo che viene ricono- sciuto alla pratiche e decisioni del primo Congresso degli Stati Uniti, in particolare per ciò che concerne il delicato rapporto stato-Chiesa: «Questa Corte ha notato spesso che le azioni intraprese dal primo Congresso sono presumibilmente coerenti con il Bill of Rights (…) e che questo principio ha forza speciale quando si tratta di un’interpretazione dell’Establishment Clause». A chi legge non sarà sfuggita una certa contaminazione di questa argomentazione giuridica con figure che richiamano, in maniera abbastanza evidente e immediata, il vocabolario teologico stesso. Nelle mani dei cittadini Il punto meriterebbe di essere approfondito oltre lo spazio di un semplice articolo informativo, perché, a mio avviso, permetterebbe un affondo non banale rispetto al tema non tanto della religione civile, ma della funzione civile della pratica religiosa effettiva (che sono due cose ben diverse tra loro). Ricondurre l’Establishment Clause all’intenzione fondativa della nazione statunitense appare essere una delle preoccupazioni portanti della sentenza stessa; che, ben lungi da essere un endorsement della religione rispetto alla separazione tra stato e Chiesa, sembra farsi portatrice di una sensibilità giuridica orientata a considerare con serietà la religione e le sue pratiche nello spazio della vita pubblica e a ristabilire un dovuto equilibrio fra le opposte tendenze di una maldestra evacuazione del religioso dalla socialità condivisa e di un’indebita ricerca di legittimazione politica della religione, a prescindere dalla sua capacità di provarsi sulla scena del dibattito pubblico e del vissuto effettivo della città umana. Un ulteriore aspetto degno di nota riguarda la questione della liceità costituzionale di una preghiera religiosa solo nella misura in cui essa non sia settaria, ossia non abbia i tratti di una confessione religiosa effettivamente praticata – così che tale preghiera non sia, alla fin fine, «identificabile con nessuna religione». La decisione della Corte mette in risalto la paradossale inconsistenza costituzionale di quello che potremmo chiamare il sogno illuminista. In primo luogo, facendo rife- rimento ad altri casi, si fa notare come il «contenuto della preghiera non riguarda i giudici» – una volta che sia assodato che essa non sia intesa né a fare proseliti né ad avvantaggiare una fede o credenza a scapito di altre. Data questa condizione, una società adulta deve essere in grado di ospitare e ascoltare (ma anche sopportare) posizioni che non coincidono con la propria visione delle cose; e non può pretendere che in essa circolino solo parole neutre o conformi all’opinione della maggioranza. In merito, la Corte suprema ricorda in più passaggi che l’Establishment Clause non rappresenta una questione di maggioranza nella vita della nazione, ma un criterio regolativo di carattere qualitativo. Ma il problema è più sottile, ed è stato lucidamente illustrato dalla sentenza: «Ritenere che le invocazioni debbano essere non settarie, vorrebbe dire forzare gli organi legislativi che patrocinano le preghiere, e le corti che sono chiamate a decidere su questi casi, ad agire come istanze di supervisione e censura del discorso religioso. Ruolo, questo, che implicherebbe il governo in questioni religiose a un livello ben più ampio di quello (…) di non rivedere o correggere le preghiere a monte, e di non criticarle a valle». In quest’ottica, la Corte suprema statunitense sembra essere consapevole dell’ambiguità inscritta nella tendenza attuale a spostare la questione della religione e delle sue pratiche dagli spazi dei vissuti effettivi, del dibattito pubblico e del confronto politico, al potere dell’istanza preposta alla custodia del dettato costituzionale – spostamento che viene visto indebito non solo sul piano culturale, ma anche su quello giuridico. L’intenzione sottostante alla sentenza è quella di rimettere la religione, e la serietà civile del suo esercizio, nelle mani dei cittadini – ritenuti responsabili e maturi per poter gestire la questione, senza dover ricorrere continuamente alla tutela e legittimazione del potere giuridico. Un piccolo segno in controtendenza, che rimette in gioco il ruolo pubblico della responsabilità morale della coscienza della persona e delle sue libertà. Marcello Neri Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 453 A m e r ic a L a t i n a i I n America Latina, come risulta già da tempo nelle rilevazioni statistiche e nelle analisi sociologiche, nel corso degli ultimi decenni il pentecostalismo ha posto fine alla posizione dominante della Chiesa cattolica (cf. Regno-att.10,2013,322), e di riflesso ne ha ormai modificato la conformazione profonda e lo stile religioso. Comprendere l’uno significa oggi comprendere l’altra, e ne è apparsa consapevole anche la V Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano, tenutasi ad Aparecida in Brasile nel 2007 (cf. Regnoatt. 12,2007,364.366.371; 16,2007,558; Regno-doc. 15,2007,5050; 17,2007, 540; 19,2007,623; 17,2008,557), che ha posto le basi per una conversione pastorale e per un rinnovamento missionario delle comunità cattoliche. Con accenti e sottolineature che ricorrono frequentemente anche nel linguaggio e nei gesti del papa argentino. Tra gli osservatori invitati alla Conferenza di Aparecida c’era anche il cileno Juan Sepúlveda González, pastore della Missione Chiesa pentecostale (aderente al Consiglio ecumenico delle Chiese - CEC) e direttore del Servizio evangelico per lo sviluppo di Santiago. Si tratta di uno dei principali teologi pentecostali latinoamericani. Laureato in Teologia all’Istituto superiore evangelico di studi teologici di Buenos Aires, ha ottenuto il dottorato in Teologia all’Università di Birmingham, insegnando Storia delle Chiese in Cile nella Comunità teologica evangelica del Cile. Nel 1986-87 ha presieduto la Confraternita cristiana di Chiese. 454 Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 Pentecostali l modello cileno I n t e r v i s t a a l t e o l o g o Ju a n S e p ú l v e d a G o n z á l e z – Quali caratteristiche ha il pentecostalismo in Cile? «Il pentecostalismo cileno ha origine nel movimento di “risveglio” manifestatosi nel 1909 nella Chiesa metodista episcopale di Valparaiso e nasce istituzionalmente l’anno dopo con la costituzione della Chiesa metodista pentecostale. Quindi si è sviluppato prima che in altri paesi latinoamericani, dove è stato il risultato dell’opera missionaria di Chiese statunitensi, ed è un fenomeno locale, non diretta emanazione del revival di Los Angeles del 1906, solitamente indicato come “atto di nascita” del movimento pentecostale sulla base della dottrina secondo cui la “evidenza biblica” del battesimo dello Spirito Santo è il dono di parlare in lingue. Con quello nordamericano il pentecostalismo cileno ha in comune l’enfasi sull’esperienza carismatica, una sorta di possessione della persona da parte dello Spirito Santo, che si manifesta in espressioni corporali (risa, pianti, cadute al suolo, ecc.), tra cui la glossolalia, la quale però non è fatto di massa né l’elemento che definisce l’identità pentecostale. Si sottolinea invece che questa presenza potente di Dio, attraverso lo Spirito Santo, provoca un cambiamento nella vita della persona. Sentirsi amato e salvato da Dio ha un effetto ordinatore sull’esistenza individuale, per cui i racconti sulla nascita del movimento pentecostale parlano di chi era un ubriacone, rubava, picchiava la moglie, ecc. e ora è una nuova persona. La comunità pentecostale cilena riconosce l’autenticità dell’esperienza carismatica dalla testimonianza di vita. In secondo luogo la Chiesa metodista episcopale era di origine missionaria, ma il suo fondatore in Cile, William Taylor, diffidava della dipendenza dalle risorse e dal personale stranieri, puntando a fondare comunità destinate a diventare rapidamente autosufficienti in termini di mezzi e ad autogovernarsi. Il sogno di Taylor si è realizzato più nel pentecostalismo cileno che nel metodismo: la Chiesa metodista pentecostale, infatti, è la prima Chiesa veramente “nazionale” in Cile (salvo il suo fondatore, il pastore Willis Hoover, che era statunitense e conservava legami anche economici con la madre patria), la quale si sosterrà attraverso la decima dei suoi membri». Una mappa interna – Oggi quale percentuale della popolazione aderisce alle Chiese pentecostali e come esse si differenziano? «Fino agli anni Trenta il pentecostalismo cileno restò unito attorno alla Chiesa metodista pentecostale, ma nel 1934 il conflitto attorno alla leadership – molti volevano passasse completamente in mani cilene, mentre Hoover non aveva fiducia nei dirigenti locali – portò alla divisione tra la Chiesa metodista pentecostale del Cile (IMPCH) e la Chiesa evangelica pentecostale del Cile (IEPCH). Esse definiranno due forme teologicamente diverse di essere pentecostali in Cile: la IMPCH, che rappresentava il settore più nazionalista, sarà più aperta alla “‘indigenizzazione” nella cultura locale, introducendo, per esempio, strumenti popolari nella musica, mentre l’IEPCH si attri- buirà la missione di conservare la forma originaria del pentecostalismo cileno e l’insegnamento di Hoover. L’IMPCH, avendo una leadership cilena, anche se autoritaria, creerà relazioni più aperte con le altre Chiese, l’IEPCH assumerà un atteggiamento, tuttora presente, di maggior separazione e chiusura. Col tempo si sono verificate nuove scissioni e sono comparsi nuovi gruppi dell’uno o dell’altro orientamento, e nell’ultimo decennio la IMPCH si è spezzata in tre o quattro fazioni, per cui oggi la denominazione più grande è l’IEPCH. Attualmente in Cile i protestanti sono il 20% della popolazione e l’80% di loro sono pentecostali. È una percentuale stabilizzata, perché il pentecostalismo si è molto diffuso qui nella prima metà del XX secolo e ha conosciuto un nuovo momento di espansione durante la dittatura, ma negli ultimi decenni la sua crescita è stata in linea con quella della popolazione». – In Cile sono presenti Chiese pentecostali di matrice statunitense e Chiese neopentecostali? «Le Chiese pentecostali nordamericane presenti in Cile non sono considerate né si ritengono parte del movimento pentecostale. Qui le Assemblee di Dio, la Chiesa di Dio, la Chiesa del Vangelo quadrangolare si presentano come evangeliche. Alcune si considerano addirittura parte delle Chiese protestanti storiche, perché si sono inserite anch’esse nei ceti medi, mentre il pentecostalismo autoctono si era insediato nelle classi popolari, nei settori rurali impoveriti e nelle emergenti periferie urbane. Le Chiese neopentecostali, come la Chiesa universale del regno di Dio, sono piccole perché, essendoci una popolazione evangelica di varie generazioni, c’è una certa resistenza a qualcosa che appare estraneo alla propria tradizione». La società e la politica – Che rapporti ha il pentecostalismo cileno con la società? «Il fatto che il pentecostalismo in Cile sia sorto precocemente e si sia sviluppato in misura significativa prima dell’arrivo dei missionari statunitensi ha fatto sì che la sua relazione con la società fosse maggiormente determinata da fattori locali e più aperta all’in- fluenza di modelli di altre Chiese evangeliche. Nel 1949 l’IMPCH partecipò alla Conferenza evangelica latinoamericana (Cela I) di Buenos Aires e nel 1958 aderì all’Aiuto cristiano evangelico, un organismo di servizio diaconale sorto con l’appoggio del nascente Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec). Perciò il rapporto del pentecostalismo cileno con la società non è stato molto influenzato dal fondamentalismo, ma dalle Chiese storiche, e il grado di autonomia che le Chiese avevano fece sì che la cultura politica pentecostale non si differenziasse in misura significativa da quella della società nel suo complesso. Quando Christian Lalive D’Epinay, autore nel 1968 de El refugio de las masas, interpretava il pentecostalismo come rifiuto radicale del mondo e “sciopero sociale” non considerava che in quel momento i settori popolari in cui esso era cresciuto non avevano conosciuto processi d’inclusione politica; quando, invece, con la “rivoluzione nella libertà” del presidente Eduardo Frei Montalva (1964-1970) e l’Unità popolare di Salvador Allende (1970-1973) nacquero forme di organizzazione popolare nelle campagne, il mondo pentecostale non poté restare estraneo. Tuttavia negli anni Sessanta, nel contesto della Guerra fredda, le tendenze internazionali più fondamentaliste cominciano a farsi sentire in Cile, che si trasforma in un laboratorio politico di progetti come la “rivoluzione nella libertà”, la “via cilena al socialismo”, la “sicurezza nazionale” e il neoliberismo, e il movimento pentecostale perde autonomia, col prodursi di scissioni, in gran misura importate». – Durante la dittatura alcuni settori pentecostali appoggiarono il regime, venendone ricambiati. «Durante la dittatura il mondo evangelico si aggrega attorno a due poli: il Consiglio dei pastori, in cui dal 1975 si identifica la maggioranza dei firmatari della Dichiarazione della Chiesa evangelica cilena, che alla fine del 1974 definisce il golpe del gen. Augusto Pinochet “la risposta di Dio alla preghiera di tutti i credenti che vedono nel marxismo la massima espressione della forza satanica delle tenebre”; e la Confraternita cristiana di Chiese, che nel 1984 critica la crisi sociale provocata dalla dittatura e de- nuncia l’assenza di canali democratici di espressione politica e la repressione generalizzata. Fondamentale per intendere la relazione tra pentecostali e dittatura è il fatto che gli evangelici siano cresciuti in un paese culturalmente e politicamente cattolico, sebbene nel 1925 fosse avvenuta la separazione tra Chiesa e Stato, e si siano sempre sentiti una minoranza discriminata, aspirando quindi al riconoscimento da parte dello Stato. Il regime militare sfruttò questo sentimento, promettendo che la nuova Costituzione, varata nel 1980, avrebbe garantito l’uguaglianza religiosa, anche perché voleva castigare simbolicamente la Chiesa cattolica che denunciava le violazioni dei diritti umani. Però non mantenne la parola, per cui l’appoggio del Consiglio dei pastori divenne più tiepido e le denunce della Confraternita cristiana delle Chiese più esplicite». Con le altre Chiese – E col ritorno alla democrazia? «I primi governi democratici hanno adempiuto la promessa lasciata senza seguito dalla dittatura, varando nel 1999 la Legge sulla costituzione giuridica delle Chiese e organizzazioni religiose, la quale riconosce alle Chiese che vogliano aderirvi (non è obbligatorio) lo stesso statuto giuridico delle Chiese cattolica e ortodossa. Ciò ha fatto sì che il mondo evangelico assumesse un atteggiamento positivo nei confronti della Concertazione dei partiti per la democrazia. Durante i governi di Patricio Aylwin (1990-1994) ed Eduardo Frei Ruiz-Tagle (1994-2000) il dibattito su questa nuova legge suscitò grande convergenza nel mondo evangelico, che era molto diviso tra fondamentalisti ed ecumenici, conservatori e liberali, tanto che in quel periodo fu creato un ampio Comitato di organizzazioni evangeliche. Ma la frammentazione e la scarsa tradizione di una riflessione teologico-politica ha reso le Chiese evangeliche vulnerabili al clientelismo politico. Ciò ha provocato l’instabilità di questi tentativi di coordinamento, molto soggetti alla cooptazione da parte dei partiti e alle lotte interne per la leadership nel mondo evangelico, soprattutto pentecostale. Oggi è quasi senso comune l’idea Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 455 che si debba influire nella società, anche attraverso l’elezione di parlamentari, ma il mondo evangelico è pluralista e nessun tentativo di creare partiti evangelici ha ottenuto il benché minimo appoggio. Ha inoltre sempre sottolineato la separazione tra Chiesa e stato, per cui s’identificava maggiormente coi posizioni laiciste e massoni, col Partito radicale, ma da quando la società ha cominciato a discutere temi riguardanti le minoranze sessuali è emersa una nuova generazione di leader quasi integralisti, che in qualche caso, per protestare contro la Legge contro la discriminazione, varata nel 2012, ha fatto scendere in piazza insieme settori cattolici ed evangelici, un fatto inedito nella società cilena». – Come sono le relazioni con la Chiesa cattolica e con le altre Chiese? «La Chiesa cattolica cilena fa parte della Fraternità ecumenica del Cile, nata nel 1972, cui aderisce anche un settore molto minoritario del mondo evangelico e pentecostale, celebra la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, mi ha invitato come osservatore, insieme ad altri evangelici, alla II Assemblea ecclesiale nazionale, svoltasi nel 2013. Però la controparte evangelica è fragile, perché ci sono molte Chiese e solo alcune hanno un’interesse ecumenico, a volte limitato ad alcuni leader che non le rappresentano pienamente. Nel 1999, in vista del Giubileo, alcune Chiese pentecostali hanno firmato, con altre Chiese protestanti, ortodosse e con quella cattolica l’Accordo sul reciproco riconoscimento del battesimo, un fatto che in altri paesi sarebbe assai difficile. È stato un passo significativo e ha avuto effetti pratici importanti, per esempio facendo sì che i collegi cattolici accettino ora un certificato di battesimo di una Chiesa evangelica affinché un bambino possa iscriversi, ma non è stato il segno di nuove relazioni ecumeniche. Quindi da tempo c’è rispetto, che crea le condizioni per l’emergere di una cultura di convivenza ed ecumenismo pratico, evidente in situazioni quotidiane come veglie di defunti, visita di malati, accompagnamento in momenti di crisi, ecc.». Storicamente il pentecostalismo cileno è stato pioniere nella relazione con le altre Chiese. In Cile se si parla di “evangelici” tutti intendono penteco- 456 Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 stali e Chiese storiche, mentre in Brasile i pentecostali sono un mondo a parte. E attraverso la partecipazione delle Chiese pentecostali cilene al Consiglio latinoamericano delle Chiese e, in minor numero, al CEC, ciò ha un impatto che supera le frontiere del nostro paese. Il contributo del pentecostalismo cileno al movimento pentecostale latinoamericano consiste, quindi, nel far sì che poco a poco si consolidi le percezione che i pentecostali sono parte del mondo evangelico e protestante, non una specie di setta o una confessione a parte; perciò siamo in comunione con le Chiese nate dalla Riforma e nella misura in cui queste dialogano con la Chiesa cattolica lo facciamo un po’ anche noi. E così è stato coi dialoghi col Consiglio episcopale latinoamericano, in cui i cileni sono sempre stati presenti». Identità e teologia – Oltre a questo, quale altro specifico contributo teologico cileno vede per il pentecostalismo latinoamericano? E pensa si possa parlare di una «teologia della liberazione» pentecostale? «Un altro contributo potrebbe essere l’invito a riconsiderare la definizione originaria, ma un po’ ristretta, per cui l’essere pentecostale significa aver avuto l’esperienza della glossolalia. Secondo me il punto di fondo è l’enfasi sulla libertà dello Spirito Santo, che è più legato alla cultura, al modo di essere e a quanto produce senso. Il cristianesimo si è diffuso nell’area mediterranea mettendo l’accento su un approccio filosofico e su affermazioni dottrinali, ma non tutto il mondo ha questa cultura, perché per molti a dare senso non è l’affermazione di Dio uno e trino, ma qualcosa che coinvolge la totalità dell’essere umano, compresa la sua corporeità; ma il parlare in lingue non ne è l’unica espressione. Se poi diciamo dal punto di vista teologico che il battesimo nello Spirito Santo non è un’esperienza salvifica, perché è la grazia che ci salva e ci dà il potere di trasformare il mondo, sono salvo anche se non parlo in lingue. Quanto alla teologia della liberazione, nel XX secolo il movimento pentecostale è stato un protagonista delle strategie dei settori popolari più esclusi per costruire dal basso appoggi che rendessero possibile una vita digni- tosa, nonostante le ingiustizie sociali. Mentre l’esodo dalle campagne gonfiava le città, e in particolare le periferie prive dei servizi più elementari, nascevano comunità pentecostali in cui persone e famiglie erano immediatamente accolte fraternamente, trovando un sostegno spirituale per una vita ordinata e sostenibile in mezzo al caos e all’incertezza dell’emarginazione sociale. Dal punto di vista di una teologia progressista, il pentecostalismo, nella misura in cui fa appello al corpo e non solo alla ragione, quindi alla totalità della persona, con i suoi dolori, le sue angosce, le sue paure, la sua povertà, può richiamare il fatto che i problemi dell’essere umano non si riducono all’economia, alla lotta di classe, ma all’avere un centro che permette un progetto di vita. È impressionante come il pentecostalismo in Cile e in altri contesti, per esempio tra i neri degli Stati Uniti, emancipi la persona, generando autostima, superamento di relazioni violente coi figli, impegno nel quartiere, lotta contro la discriminazione e la droga, ecc. Ed è interessante, per esempio, che nelle Chiese pentecostali non ci sia un classico discorso femminista, ma le donne si emancipano, prendendo pubblicamente parola o assumendo ruoli di rilievo. Credo che un incontro tra pentecostalismo e teologia di genere sarebbe fruttuoso, come dimostrano le esperienze di dialogo tra donne pentecostali e non». – Come vede il futuro del pentecostalismo latinoamericano? «Penso che non ci sia spazio per il trionfalismo. Prima di tutto le cifre proposte da alcuni autori hanno basi molto deboli, per cui ci sono certamente casi concreti di forte crescita numerica, ma non ritengo che il futuro sia la pentecostalizzazione dell’America Latina, semmai la sua pluralizzazione. Inoltre sono convinto che il futuro del movimento pentecostale dipenda dalla sua capacità non di espandersi, ma di imparare a considerarsi un contributo, quindi non credersi la Chiesa vera, ma accettare l’idea che l’America Latina sarà ecclesialmente plurale e in questa pluralità esso ha un posto e un apporto da dare in vista della valorizzazione della diversità». a cura di Mauro Castagnaro Dialoghi u C on la morte di Ian Barbour il mondo ha perso il pioniere che negli anni Sessanta ha dato avvio, praticamente da solo, al dialogo contemporaneo fra le scienze e la teologia. Negli ultimi cinquant’anni, Barbour è stato uno dei ricercatori e dei portavoce più importanti nell’ambito degli studi tecnicamente qualificati come «Religion and Science» e sulle questioni relative ai rapporti tra tecnologia, ambiente ed etica. Tutti coloro che si occupano oggi di questi temi sono profondamente debitori al suo lavoro. Ian Graeme Barbour1 nacque a Pechino il 5 ottobre 1923. La madre, un’americana, e il padre, uno scozzese, tenevano corsi rispettivamente di Educazione religiosa e di Geologia all’Università Yenching. Il padre era amico intimo e collega del paleontologo gesuita Teilhard de Chardin. Entrambi facevano parte dell’équipe scientifica che scoprì il teschio ominide del Sinanthropus, o «uomo di Pechino». Nel 1931, la famiglia Barbour lasciò la Cina a causa dei problemi di salute di Hugh, il fratello maggiore di Ian. Dopo qualche tempo in Inghilterra, i Barbour si stabilirono negli Stati Uniti, dove il padre di Ian occupò varie posizioni accademiche, fino alla nomina a decano all’Università di Cincinnati. Il giovane Ian cominciò a studiare Fisica al Swathmore College nel 1943; conseguì un master alla Duke University nel 1946; infine si laureò all’Università di Chicago, nel 1949, con una ricerca sull’utilizzo di emulsioni fotografiche per lo studio delle emissioni di raggi cosmici nell’alta atmosfera. Te o l o g i a e s c i e n z a n pensiero-ponte I n m e m o r i a d i I a n G. B a r b o u r ( 1 9 2 3 - 2 0 1 3 ) Nel periodo trascorso a Chicago fu assistente di Enrico Fermi. L’ironia della sorte volle che, mentre Fermi era in quel tempo coinvolto nella realizzazione della prima reazione atomica a catena, Ian fosse un convinto obiettore di coscienza, che aveva prestato servizio nella lotta contro gli incendi delle foreste in Oregon e come assistente in un centro psichiatrico in Nord Carolina durante la Seconda guerra mondiale. Fu qui che incontrò Deane Kern, studentessa alla Duke University (Washington DC), che divenne sua sposa. La loro profonda unione sarà interrotta solo dalla morte di Deane, nel 2011. Barbour ottenne il suo primo incarico come docente di Fisica nel 1949, al Kalamazoo College, nel Michigan. Già a quel tempo avvertiva una particolare fascinazione per le implicazioni teologiche ed etiche della scienza. Nel 1953, una borsa di studio postuniversitaria della Ford Foundation gli permise di studiare Teologia, Etica e Filosofia alla Yale Divinity School, dove insegnavano tra l’altro Richard Niebuhr e Roland Bainton. Nel 1955 entrò a far parte del corpo docente del Carleton College, il campus dove rimase per il resto della sua lunga carriera. Inizialmente insegnò Fisica e Scienze delle religioni, a tempo parziale, nel Dipartimento di Filosofia. Nel 1960, fu invitato a proporre un corso di specializzazione in Scienze delle religioni. Fu qui che Barbour iniziò a focalizzare maggiormente la sua attenzione sulle domande che la scienza e la tecnologia ponevano alla teologia e all’etica. Ben presto ricevette l’invito a far parte di un gruppo di studiosi, diretto da Harold Schilling, impegnato a fare ricerca in «Religion and Science». Ne facevano parte Frederick Ferré, William Pollard, Roger Shinn, Huston Smith e Dan Williams, l’uomo che introdusse Barbour al pensiero «processuale». «Ciò che era cominciato come un tentativo di unire le due metà della mia vita si era trasformato in una ricerca intellettuale più ampia, alla quale, come potei costatare, molte altre persone erano interessate».2 Il «realismo critico» Barbour iniziò a lavorare ai suoi studi in «Religion and Science» nel terreno arido degli anni Sessanta, quando il dominio di posizioni riduzioniste e materialiste costringeva le discipline al conflitto militante o a un isolamento sterile. La sua risposta attinse alla Filosofia della scienza, allora in espansione, e alla Filosofia della religione. Riuscì a sostenere, con argomenti convincenti e durevoli, che le scienze e la teologia sono in realtà più simili e analoghe che dissimili e conflittuali. Contro le tre filosofie della scienza allora dominanti – positivismo, strumentalismo e idealismo – Barbour elaborò e propose una posizione filosofica alternativa denominata «realismo critico». In questa prospettiva, la scienza lavora con dati «carichi di teoria» e con teorie rivedibili e composte di metafore e modelli, che si riferiscono alla realtà soltanto in modo parziale. Dati e teorie, a loro volta, sono intrinsecamente legati a elementi metafisici ed estetici che giocano come criteri nella «scelta» della teoria. Compiendo un passo coraggioso, Barbour affermò che anche Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 457 le «teorie» teologiche (ad esempio, le diverse «dottrine») si comprendono meglio se spiegate in termini di «realismo critico». In questo modo egli creò un «ponte» epistemologico e metodologico fra i mondi della scienza e della teologia, che consentiva un genuino scambio di idee e di scoperte. La sua ricerca sul «realismo critico» prese forma, anzitutto, nel suo testo fondamentale, Issues in Science and Religion (Prentice Hall, Englewood Cliffs [New Jersey] 1966), scritto negli anni della docenza a Carleton. Il testo inizia con un capitolo panoramico sulle questioni emerse nel rapporto tra la religione e la scienza, dal XVII fino al XX secolo. L’originale analisi di Barbour circa le somiglianze e le differenze nei metodi e nei linguaggi della teologia e della scienza viene esposta in dettaglio nella seconda parte («Religion and the Methods of Science»). Nella terza parte («Religion and the Theories of Science»), Barbour argomenta invece la possibilità di una relazione costruttiva tra scienza e teologia su alcune questioni contemporanee, analizzate in dettaglio nelle loro «implicazioni teologiche»: l’«indeterminazione quantistica» in fisica; l’«emergenza» (contro il riduzionismo) e la «teleologia» (contro il meccanismo) in biologia; la «complessità» della mente alla luce dei computer e dell’intelligenza artificiale. In conclusione, Barbour dedica ampio spazio a una discussione sulla relazione fra Dio e natura, nella quale le istanze classiche del teismo («sovranità e monarchia» di Dio, «causalità prima e seconda») sono poste a confronto con alcune posizioni teologiche più recenti, tra le quali quelle a cui lui personalmente aderiva: l’idea di Dio come «creative persuasion» (A.N. Whitehead; il divino come dimensione che insieme esemplifica il «processo» creativo e ne è partecipe in qualità di «stimolo», di «eterno impulso di desiderio»; ndr), e come «sympathetic participant» (C. Hartshorne; il divino come colui che «soffre insieme» alla creazione, ed esercita la sua continua azione creativa e redentiva nella vulnerabilità; ndr), posizioni tipiche della «teologia del processo». Modelli e paradigmi L’elemento centrale che ha consentito a Issues in Science and Religion di creare uno spazio di dialogo tra scienza 458 Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 e teologia, e di proporsi come guida per l’esercizio dello stesso, risiede in un’originale fusione di due approcci accademici normalmente piuttosto distanti. Da un lato, un approccio alla religione nella prospettiva delle Scienze delle religioni, caratterizzato dall’onestà e dalla finezza di Barbour, inclusivo di tutte le questioni importanti ed esposto con uno stile didattico preciso. Tutti aspetti che riflettono il contesto di un’istituzione di prim’ordine nel campo degli studi umanistici come Carleton, dove il libro è nato. Dall’altro lato, un approccio coraggioso e costruttivo in ambito teologico, dove Barbour s’impegna in un’impresa filosoficamente strutturata e posta a sostegno di una tradizione teologica confessionale particolare: la «teologia del processo», che ha radici nel pensiero di Alfred North Whitehead e Charles Hartshorne. Entrambi gli approcci sono stati combinati evitando la loro semplice giustapposizione, attraverso un esercizio di dialogo duraturo, rispettoso e ininterrotto che ha toccato un ampio ventaglio di questioni storiche e contemporanee sollevate dalle scienze naturali. Non meraviglia che D.M. Mackay definisca Issues un libro «straordinariamente ben fondato» e un «capolavoro di chiarezza»; e che E.L. Mascall – lodando il carattere «genuinamente sintetico» dell’opera – evidenzi la «cura scrupolosa» di Barbour nel «presentare chiaramente e con correttezza non solo le sue opinioni, ma quelle di tutti i ricercatori competenti nel campo».3 Grazie al sostegno delle associazioni universitarie Guggenheim e Fulbright, Barbour e sua moglie trascorsero diversi anni a Cambridge (UK); furono anni di lavoro che sfociarono in un volume denso e avvincente, Myths, Models and Paradigms (HarperCollins, New York 1974), dove il tema – già presente in Issues – del ruolo dei «modelli» e dei «paradigmi» nella scienza e nella teologia viene ulteriormente sviluppato. Su entrambi i versanti, teologia e scienza, i «modelli» sono «analoghi come origine, estendibili a situazioni diverse e comprensibili come unità». Non sono né rappresentazioni esaustive della realtà né mere finzioni; essi sono «modi parziali e inadeguati di immaginare ciò che non è osservabile». Sono «rappresentazioni simboliche» di aspetti del reale. In ambito teologico, essi sono a servizio di «funzioni non cognitive», assenti nei modelli scientifici, e «provocano un coinvolgimento personale più complessivo».4 Indagando il ruolo dei «paradigmi», Barbour colloca invece le discipline in uno spettro compreso tra soggettività e oggettività. Così facendo può affermare che esse sono simili (perché entrambe hanno elementi soggettivi e oggettivi), eppure diverse (il peso e la presenza di queste dimensioni è diverso nei due casi). In particolare, tre caratteristiche «soggettive» trovano ampio spazio nella teologia, e tuttavia non sono assenti nella scienza: «Il peso dell’interpretazione sui dati dell’esperienza; la resistenza delle teorie (dottrine) alla falsificazione; l’assenza di regole per la scelta fra paradigmi». Allo stesso modo, tre caratteristiche «oggettive» hanno un ruolo importante nella scienza, e tuttavia non sono assenti nella teologia: «La presenza di dati comuni sui quali eventuali disputanti possono concordare; l’effetto cumulativo delle prove pro o contra una teoria; l’esistenza di criteri non dipendenti dai paradigmi».5 È proprio su questi parallelismi di metodo tra scienze e teologia che Barbour offre il suo contributo più originale, delineando quel «ponte» in grado di connettere le discipline nel rispetto delle loro differenze. Etica, ambiente e tecnologia Negli anni Settanta, Barbour torna alla sua preoccupazione per le questioni etiche sollevate dalla tecnologia. Grazie alla National Science Foundation e al National Endowment for the Humanities, propone un corso complementare in «Science, Technology and Public Policy» per gli studenti di Carleton, ora denominato «Environment and Technology Studies». Nel 1980, la sua ampia ricerca su questi temi viene pubblicata in Technology, Environment and Human Values (Greenwood, Westport [Connecticut] 1980), un testo che prende in esame i possibili atteggiamenti verso la natura e verso la tecnologia, proponendo una classificazione che diverrà classica: dominio sulla natura e tecnologia come liberatrice; unità con la natura e tecnologia come minaccia; gestione della natu- ra e tecnologia come strumento eticamente neutro. Trattando delle politiche ambientali, Barbour evidenzia qui i suoi interessi per i processi politici a livello federale; per l’inquinamento e lo sfruttamento del suolo; per l’analisi costi-benefici e rischibenefici; per i metodi di valutazione dell’impatto ambientale e per il ruolo dei valori in questi metodi. Il testo non dimentica la sfida legata alla scarsità di risorse quali l’energia; affronta il problema del rapporto tra alimentazione e popolazione e il dibattito sulla crescita mondiale. Nella conclusione, si volge lo sguardo alla definizione di tecnologie adeguate e di stili di vita appropriati, secondo la visione del Consiglio ecumenico delle Chiese nel documento su «Giustizia, partecipazione e sostenibilità». Nelle sue Gifford Lectures (prestigioso ciclo di conferenze, che dal 1888 si tiene presso l’Università di Aberdeen, Scozia; ndr), tenute negli anni Novanta, Barbour offrì quelli che restano probabilmente i suoi contributi più importanti alle questioni tra etica, ambiente e tecnologia, sviluppando ulteriormente la sua proposta legata alla «teologia del processo». Le sue Gifford Lectures sono state raccolte in due volumi: Religion in an Age of Science (HarperCollins, New York 1990) e Technology in an Age of Ethics (HarperCollins, New York 1992). In questa occasione il pensiero di Barbour varcò i confini del mondo accademico per arrivare alle comunità ecclesiali e all’opinione pubblica in generale; fu anche grazie al testo When Science Meets Religion (HarperCollins, New York 2000), nel quale è esposta la sua quadruplice classificazione dei rapporti tra religione e scienza (conflitto, indipendenza, dialogo, integrazione) e sono presentate, in forma sintetica, diverse questioni già trattate nelle Gifford Lectures. Nel corso degli anni, la posizione di Barbour negli studi in «Religion and Science» è venuta ad assumere una forma sempre più originale e convincente. Benevolo e rispettoso verso visioni teologiche diverse dalla sua, egli è divenuto un sostenitore convinto della «teologia del processo».6 Come riconoscimento per la sua enorme influenza nella ricerca in «Religion and Science», Barbour ha ricevuto nel 1999 il prestigioso e ambito premio Templeton (assegnato annualmente dalla Fondazione John Temple- ton a persone che offrono un decisivo contributo all’affermazione della dimensione spirituale della vita; ndr). Nasce il CTNS Da studente all’Università di Stanford, a metà degli anni Sessanta, incontrai Issues in Science and Religion in un periodo difficile, nel mezzo di un combattimento interiore sui rapporti tra la fisica e la fede cristiana. Il libro di Barbour fu una liberazione e mi offrì una possibilità nuova: quella di vivere e di pensare allo stesso tempo come cristiano e come scienziato. La rinnovata speranza inaugurò un percorso che dura ormai da 50 anni. Nel 1968, entrato alla Graduate Theological Union (GTU), a Berkeley, per un master in «Religion and Science», scelsi un corso del gesuita Andy Dufner, fisico e teologo, che utilizzava come testo proprio Issues. Nel 1976, io feci lo stesso in qualità di docente di «Religion and Science» a Santa Cruz, nel tempo in cui conseguivo anche un dottorato in Fisica. Nel 1978, come docente di Fisica a Carleton, incontrai per la prima volta Ian e sua moglie Deane. Parlammo spesso di come poter aiutare le future generazioni di scienziati e leader religiosi a fare esperienza di un percorso possibile di dialogo e interazione creativa tra teologia e scienza. Il risultato fu la creazione, nel 1981, del Center for Theology and the Natural Sciences (CTNS). Grazie al suo impegno ecumenico e interreligioso, e alla più ampia cultura pluralistica e tecnologica della Baia di San Francisco, la GTU è risultata un terreno ideale per la nascita e lo sviluppo del Centro. La missione del CTNS è la promozione di un «dialogo creativo» e lo sviluppo di una «mutua interazione» fra teologia e scienza. Barbour è stato membro fondatore del Consiglio di amministrazione del CTNS, e ha contribuito a dare forma alla sua missione e ai suoi programmi fin dall’inizio. Ha svolto un ruolo fondamentale nella prima conferenza internazionale ed ecumenica sul rapporto tra teologia e scienza, organizzata dall’Osservatorio astronomico vaticano e dal Centro; il volume che ne seguì, Physics, Philosophy and Theology: Towards a Common Understanding, contiene per la prima volta la sua «quadruplice tipologia» di relazioni fra i due ambiti, divenuta famosa. Barbour ha in seguito preso parte a numerose conferen- ze del progetto denominato: «Prospettive scientifiche sull’azione divina», altra collaborazione dell’Osservatorio astronomico vaticano e del CTNS. Gli scritti di Barbour continuano ancora oggi a offrire agli studenti della GTU le basi essenziali per gli studi in «Religion and Science». Per custodire e trasmettere la sua eredità, il Centro ha creato, quale elemento qualificante della sua missione, la cattedra «Ian G. Barbour of Theology and Science», istituita nel 2006 grazie alla generosa donazione dello stesso Barbour, che al progetto ha devoluto l’ammontare del suo premio Templeton. Ho il privilegio di essere il primo incaricato della Cattedra Barbour e l’onore di poter chiamare Ian amato mentore e caro amico, collega ispiratore e prezioso compagno di viaggio. Il suo tratto umile resta impresso in un’annotazione che concludeva la valutazione delle comprensioni del rapporto tra Dio e natura, compresa la sua: «L’esperienza e la storia (…) ci ricordano l’inadeguatezza di tutti i nostri modelli (di Dio)».7 Robert John Russell* * Titolare della cattedra «Ian G. Barbour of Theology and Science» presso la Graduate Theological Union di Berkeley, California. Fondatore e direttore del Center for Theology and the Natural Sciences (CTNS) di Berkeley, California, un centro di ricerca e formazione – in prospettiva ecumenica e interreligiosa – sul rapporto tra le scienze e la teologia. Il testo qui pubblicato, per gentile concessione dell’autore, riprende in larga parte (in una nostra traduzione dall’inglese) quello apparso sulla rivista Theology and Science, 12(2014) 2, 123-128. 1 La maggior parte di questo materiale biografico si può trovare nell’autobiografia di Ian Barbour, «A Personal Odyssey», in R.J. Russell (a cura di), Fifty Years in Science and Religion: Ian G. Barbour and his Legacy, Ashgate, Aldershot (UK) – Burlington (USA) 2004, 17-28. 2 Ivi, 15. 3 Citazioni sulla quarta di copertina di Issues in Science and Religion. 4 Cf. I.G. Barbour, Myths, Models and Paradigms. Comparative study of science and religion, HarperCollins, New York 1974, 69. 5 Ivi, 144-145. 6 Le mie concezioni teologiche sono piuttosto distanti dalla «teologia del processo». Sono molto influenzato dalle opere di Karl Barth, Karl Rahner, Paul Tillich, nonché da studiosi della Bibbia come N.T. Wright e Gerald O’Collins, per citarne solo alcuni. Tuttavia apprezzo profondamente la ragioni addotte da Barbour per motivare la sua fedeltà a Whitehead e Hartshorne e spero di poter mostrare più ampiamente in futuro ciò che ci accomuna e ciò che ci distingue. 7 I.G. Barbour, Issues in Science and Religion, Prentice Hall, Englewood Cliffs (New Jersey) 1966, 463. Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 459 Creazione Teologia p lasmata perché fosse abitata La Chiesa e l’attenzione rinnovata per il creato P adova, 13 maggio 2014, Facoltà teologica del Triveneto, Convegno su «Evoluzione e creazione: ritrovare una relazione». Di fronte a un’Aula magna stracolma Alessandro Minelli, Jacques Arnould e Paolo Costa dialogano sui rapporti tra scienza, teologia e filosofia dopo Darwin. Oggi, 15 giugno, festa della Trinità, mentre avvio la stesura di questo testo, viene reso pubblico il Messaggio della Conferenza episcopale italiana per la Giornata del creato 2014, fortemente ispirato dall’attenzione di papa Francesco per la pratica del custodire – la terra, la vita, le relazioni…1 Due eventi diversi, ma convergenti nell’attestare un’attenzione rinnovata per la riflessione sulla creazione, a superare quella marginalità cui spesso l’aveva ridotta il Novecento teologico. Non è un dato che susciti stupore; la confessione del Dio creatore è tra le prime affermazioni del Simbolo e ben fragile sarebbe una teologia che trascurasse di pensarla a fondo. Altrettanto curioso sarebbe, d’altra parte, che tale considerazione restasse limitata all’attenzione ai temi ambientali e al confronto con la scienza – due aree rilevanti, ma pur sempre settoriali. La lode al Creatore è armonica fondamentale per quell’esperienza orante che sta al cuore di Beato Angelico, Noli me tangere, Firenze, Convento di San Marco (part.). 460 Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 ogni dire teologico; a quest’ultimo compete quindi di portarla a parola in tutta la sua ricchezza di senso. Certo, essa ha avuto le prime formulazioni in quadri culturali ben distanti da noi, ma il dono che essi ci consegnano è prezioso: parlare del mondo come creazione significa articolare una vera e propria grammatica per abitarlo anche oggi come spazio vitale, come casa accogliente.2 È un’istanza particolarmente cruciale per questo tempo, che il progressivo smarrimento di una percezione del mondo come spazio aperto, poroso, permeabile all’agire divino costringe ormai a definire «era secolare».3 Determinante, quindi, il lavoro di ripresa interpretante della teologia: proprio l’accoglienza fedele del dono ricevuto dalla Tradizione esige la ricerca delle forme più adeguate perché sempre e di nuovo esso possa risuonare nella concretezza del tempo, al di là delle difficoltà di formulazioni spesso bisognose di chiarificazione.4 Senza pretesa di esaustività, presenteremo alcune direzioni lungo le quali gli ultimi decenni hanno visto realizzarsi tale meditazione, in un percorso a molte voci, legate alle diverse espressioni dell’ecumene cristiana.5 Rileggere la Scrittura Una prima fondamentale area interessa la rilettura del ricco materiale biblico relativo alla creazione, dai racconti genesiaci ai Salmi e al libro di Giobbe, senza dimenticare tanti altri testi sapienziali e profetici, così come la testimonianza neotestamentaria. La ri- flessione contemporanea più avvertita rifugge approcci fondamentalistici: nella Scrittura non si cerca la descrizione di una sequenza di eventi posti «in principio», in qualche modo comparabile – in forme concordistiche o, più spesso, nel segno della contrapposizione – al portato del discorso scientifico. Non è così che s’interagisce costruttivamente con esso: un dialogo autentico si dà solo a partire dalla chiara coscienza del diverso livello interpretativo che caratterizza la narrazione biblica, così come la sua ripresa teologica.6 Si tratterà invece di esplorare quella figura di senso che emerge dalla stessa Scrittura, quando si attraversano le diverse narrazioni, le dossologie, le meditazioni sapienziali che essa dedica al Creatore e alla sua opera. La considerazione della varietà dei generi letterari e dei testi orienta a cogliere la ricca pluralità di traiettorie lungo le quali l’immaginario biblico dispiega la relazione di Dio alla sua creazione.7 Si pensi al fitto intreccio di riferimenti che caratterizza la seconda parte del libro di Isaia: il rimando alla creazione in principio fonda e sostiene la speranza nell’azione redentrice di Dio; quest’ultima, d’altra parte, viene annunciata come rinnovamento della creazione, come rinnovata abitabilità della terra (Is 41,18-20). Il richiamo alla salvezza sperimentata nella storia e quello all’opera del Creatore nel cosmo convergono, cioè, nel fondare la speranza nel Dio che viene nel tempo, a rinnovare la vita del popolo e della terra. Appare allora insostenibile quell’approccio che considerava il riferimento alla creazione come marginale rispetto a una fede biblica tutta centrata sulla storia; quella prospettiva che vi vedeva una realtà problematica, quasi eterogenea rispetto al nucleo fondante delle Scritture ebraico-cristiane. È questa una posizione che nel Novecento ha avuto in Gerhard Von Rad un interprete prestigioso, capace di influenzare ampiamente la teologia;8 oggi però essa appare superata, anche grazie a una lettura più attenta dei testi sapienziali e a una miglior comprensione della loro valenza canonica. L’agire salvifico di Dio, quale ce lo presenta la Scrittura, è irriducibile all’asse storico della redenzione: C. Westermann ha evidenziato tutta la rilevanza del linguaggio complementa- re della benedizione, quale espressione di un operare nascosto, che interessa le dinamiche quotidiane del mondo e della vita.9 È lo stesso tessuto del mondo, insomma, a essere attraversato dall’agire del Dio che chiama all’essere tutte le cose: il discorso sulla creazione è anch’esso componente essenziale della prospettiva biblica, che ne qualifica l’architettura. Abitare un testo, abitare un mondo Abitare la Scrittura nella sua complessa articolazione significa anche scoprirvi una prospettiva per guardare oggi al mondo, nella varietà delle sue dimensioni, per viverlo come casa accogliente.10 Non una prospettiva meramente intellettuale, dunque, ma un’esperienza articolata, che domanda di essere pensata a fondo per apprendere sempre e di nuovo come abitare questa terra benedetta, come camminare su di essa. Consistenza. Il primo elemento che balza agli occhi è la consistenza del mondo, che impedisce di ridurlo ad apparenza: non mera costruzione del soggetto, né velo illusorio, che celerebbe un reale autentico o la nudità del vuoto; è invece una realtà significativa, che ci precede, in cui ci troviamo radicati, in cui ne va delle nostre vite. La Scrittura ne conosce bene lo spessore, di spazio vitale in cui nascono e vivono gli umani: nel secondo racconto genesiaco Adam è tratto dalla terra e posto su di essa per lavorarla e custodirla (cf. Gen 2,15). L’uomo non è realtà fondamentalmente spirituale, gettata in un cosmo la cui materialità le sarebbe aliena; allo sguardo biblico, decisamente olistico, egli si presenta in forme unitarie.11 È una convinzione che la grande Chiesa ha ricevuto dalle Scritture ebraiche, per custodirla contro la tentazione gnostica che accentuava la distanza dell’umano autentico dal mondo: nell’opposizione di Ireneo di Lione al dualismo di Marcione si intrecciavano la confessione della creazione a opera del Padre di Gesù Cristo e la lotta per l’unità di Primo e Nuovo Testamento.12 La meditazione dell’incarnazione del Figlio rafforzerà tale prospettiva, a disegnare un’inaudita prossimità del Creatore rispetto alla sua creazione. Caro cardo salutis dirà Tertulliano; la confessione cristologica è carica di implicazioni anche per la percezione del mondo come creazione: è nella carne – nei corpi, nella vita sulla terra, nelle relazioni che la costituiscono – che ne va dell’essere degli uomini e delle donne. È nel corpo che si dà la realtà della persona; in esso le è dato di gioire o di vivere il dolore; in esso possiamo incontrare la presenza di un Dio che si fa infinitamente prossimo (cf. Mt 25,3146). La stessa salvezza non sarà fuga dalla materialità del mondo, ma piuttosto esperienza che in esso prende corpo, per attendere il compimento di una bontà promessa. L’avevano colto autori come J.B. Metz13 o come D. Bonhoeffer, che in una delle lettere dal carcere sottolineava come «solo quando si ama a tal punto la vita e la terra, che sembra che con esse tutto sia perduto e finito, si può credere alla risurrezione dei morti e a un mondo nuovo».14 Bontà. La mondanità dunque si declina come bontà di un creato che è spazio di una benedizione originaria, matrice dinamica del suo svilupparsi.15 Il libro della Sapienza esprime bene il convincimento credente che Dio «ha creato tutte le cose perché esistano», che «le creature del mondo sono portatrici di salvezza » (Sap 1,14), frutti dell’opera del «Signore amante della vita» (Sap 11,26). E nel linguaggio simbolico del secondo racconto genesiaco Adam è posto in un giardino – non landa brulla e desolata, ma spazio ricco di acqua vivificante (cf. Gen 2,10-14); in un mondo che «non è luogo selvaggio, pericolo e minaccia, ma patria, che ripara, nutre e sostiene».16 Ancor più esplicito il testo di Gen 1, con l’insistita ripetizione del «Dio vide che era cosa buona» (Gen 1,4.10.12.18.21.25.35): dicendo bene della sua opera, affermandone la positività fondamentale, Dio la bene-dice. La ripetizione poi struttura un testo che accompagna il lettore in una sorta di scansione del mondo creato, ponendogli dinanzi – certo in una cosmologia distante da quella odierna – la pluralità delle creature. Tale pluralità è elemento qualificante per la bontà del creato: Gen 1 descrive il Creatore che opera tramite una sequenza di operazioni di separazione/divisione (cielo/terra, acqua/ Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 461 asciutto…), a porre ordine in un caos privo di differenze. E il libro di Giobbe, nei capitoli 38-42 offre una testimonianza letterariamente alta di uno sguardo sulla diversità traboccante della vita, che sa apprezzarne anche le espressioni meno legate all’esistenza umana. La varietà delle forme non è lo stigma di una realtà degradata, rispetto a un essere che nella sua forma fondamentale sarebbe invece unità, ma l’espressione di un agire creatore che ama appassionatamente la varietà e gioisce nel sostenerla, in un mondo che è un primo grande sacramento di vita.17 Una misericordia fondante. Egli, infatti, «ha plasmato e fatto la terra e l’ha resa stabile, non l’ha creata vuota, ma l’ha plasmata perché fosse abitata» (Is 45,18): un mondo voluto come casa ospitale, in cui sia possibile vivere in libertà e nella fiducia, ambito raccolto in cui dimorare come ospiti bene accolti – e non come stranieri, indifesi in un luogo minaccioso. Un mondo che costantemente riposa nelle mani salde dell’Onnipotente – il Pantokrator per usare la terminologia greca del Simbolo, colui che tutto mantiene in essere con la sua potenza vivificante. Come nota M. Kehl, colui che dall’eternità decide liberamente di creare «resta anche fedele a se stesso nell’eternità», come «fondamento permanente che sostiene il mondo e tutto ciò che in esso accade e si sviluppa».18 Abitare il mondo come creazione è anche sperimentare la pacificante fiducia di chi sa di stare in una realtà affidabilmente fondata, di chi può dire che, anche se tutto venisse meno, «Dio è roccia del mio cuore» (Sal 72,26). La cura di Dio per le sue creature costituisce, del resto, uno dei motivi di lode che attraversano i Salmi: «Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?» (Sal 8,4-5). Né l’amore di Dio si indirizza solo agli esseri umani: «Egli dà il cibo a ogni vivente, perché il suo amore è per sempre» (Sal 136,25). Lo stesso Gesù potrà rimandare all’esperienza condivisa della cura divina per i gigli del campo e gli uccelli del cielo, per invitare i suoi discepoli a una fiducia che libera energie per la costruzio- 462 Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 ne del Regno (cf. Lc 12,22-31). Certo, tali affermazioni non vanno comprese come se ogni singolo evento che avviene nel cosmo andasse immediatamente ricondotto alla sua intenzionalità: il «non cade foglia che Dio non voglia» della sapienza popolare rischia di misconoscere l’autonomia delle dinamiche creaturali. Ciò che si intende è piuttosto che il mondo ha il suo fondamento ultimo solo nella potente creatività di Dio, nel suo amore per le creature, quale giunge a dispiegarsi attraverso tali complesse dinamiche. Tale orizzonte si troverà rafforzato e rielaborato nella rilettura operatane dagli autori del Nuovo Testamento alla luce della risurrezione del Cristo. L’esistenza di servizio alla vita condotta da Gesù di Nazareth verrà allora confessata come vittoria sulle potenze caotiche che minacciano la creazione;19 la sua stessa persona apparirà come l’espressione storica concretissima di quel Verbo che era fin dal principio e per mezzo del quale tutte le cose sono state create (cf. Gv 1,4). La Lettera ai Colossesi lo dirà «primogenito di tutta la creazione» (Col 1,15), scoprendo in lui l’espressione piena, l’immagine più nitida dell’amore creativo di Dio. A lui e alla sua storia, dunque, guardano i cristiani per cogliere il significato di un mondo che altrimenti resterebbe nella sua ambivalenza: è «l’Amen, il Testimone degno di fede e veritiero, il Principio della creazione di Dio» (Ap 3,14), che rivela il mondo nella sua bontà, pur con gli elementi oscuri della nostra esperienza. Un libero dono, un volto. Lo sguardo abitato dalla fede nel Creatore giunge dunque a sperimentare il mondo come dono – realtà carica di significato, orientata alla vita e alla relazionalità. Un dono, dunque, proveniente da una libertà ricca di amore, che si dispiega al di là delle componenti di necessità che certo caratterizzano le dinamiche mondane: c’è un’intenzionalità amante all’origine dell’esserci del mondo e delle nostre stesse vite. Non a caso il primo racconto genesiaco descrive la creazione come opera di una parola liberamente pronunciata: una parola potente ed efficace, che dà inizio al nuovo («Egli parlò e tutto fu creato», Sal 33,9), aprendo spazi di dialogo per la risposta delle creature. Nell’esperienza credente, dunque, lo spirito che «riempie la terra» (Sap 1,7), non è anonimo, ma realtà personale:20 all’origine del reale sono una parola e un volto, cui è possibile rivolgersi come a un «tu». Certo, un volto profondamente «diverso dal mondo e dall’uomo», ma anche «infinitamente interessato all’uomo, al suo mondo, alla creazione».21 Scopriamo una libertà amante, profondamente coinvolta nella relazione al creato, persino quando esso non vi corrisponde. La confessione di Dio come Creatore ne riconosce l’alterità rispetto alle creature, ma soprattutto l’amore appassionato, gratuito e fedele, che tutte le sostiene e le chiama a vivere in sintonia con esso. Chi legge la natura come creazione, insomma, interpreta ciò che può talvolta apparire come destino, magari cieco e talvolta drammatico, in termini di «vocazione e designazione personale».22 Attraverso quegli eventi della storia e del mondo che una lettura scientifica descrive tramite leggi (deterministiche e non), il credente vede dispiegarsi un’interpellazione rivolta a ogni creatura (in forme proporzionate alle sue capacità di rispondervi). Non siamo soltanto particelle in un cosmo a noi indifferente: il credente confessa di essere stato intessuto fin dal suo concepimento (cf. Sal 139,13-16), di essere personalmente conosciuto e amato, di essere chiamato da una premurosa libertà creatrice. Il cuore di una teologia della creazione è, insomma, quella stessa esperienza fatta da Israele, in cui Dio è «il fondamento, l’interlocutore e il compagno di viaggio»;23 qui però essa è declinata sulla scala del cosmo tutto, ma anche, inscindibilmente, della storia di ognuno e ognuna. Anche per questo la pratica del discernimento è così centrale per un’etica e una spiritualità credente (cf. Rm 12,1-2). Il reale va interpretato con attenzione, per comprendere il cammino cui il Signore chiama ognuno di noi e la famiglia umana tutta e per ricercare come corrispondere a tale vocazione. I padri conciliari nella Gaudium et spes richiamavano a un «dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo» (n. 4; EV 1/1324): davvero in un mondo sperimentato come creazione, gli eventi sono anche segni, da leggere – alla luce della Parola – per comprendere la via su cui il Signore conduce il suo popolo. Non che ogni evento che capita sia immediata espressione del volere di Dio, quasi esso si manifestasse direttamente nella positività (talvolta brutale) degli accadimenti; il suo agire si realizza sempre in modo discreto, entro e attraverso le dinamiche creaturali, e per questo è necessaria l’interpretazione: per cogliere nella complessa pluralità di accadimenti, ciò che davvero indica il passare di Dio. Nodi e interrogativi Dono, libertà, vocazione disegnano, insomma, un gioco di interpellazione e di risposta – di responsabilità – che nell’esperienza credente costituisce la trama dell’intera realtà del creato. Non è però un tessuto che si dispieghi in un regime di evidenza solare: il dono non impone il donatore in forme cogenti, che vincolerebbero a un debito impossibile da colmare. Esso si esprime piuttosto come comunicazione segreta di vita, che suggerisce la gratitudine e la lode, secondo quella prospettiva di cui il Cantico delle creature di Francesco d’Assisi è forse la testimonianza più alta. Al Dio che benedice gratuitamente la vita, nella varietà delle sue dimensioni, risponde la parola della creatura che lo benedice e che si lascia condurre a vivere un’esistenza consonante con la gratuità della benedizione stessa. È un dato che la liturgia esprime nell’eucaristia, intrecciando il rendimento di grazie per le grandi opere divine nella storia della salvezza con quello per i beni della terra. È un contesto fondamentale per la confessione del Creatore, della quale la riflessione teologica deve, però, rendere ragione anche di fronte ad alcune interrogazioni che caratterizzano questa nostra era secolare; ne daremo brevemente cenno, rimandando ai testi citati in nota per un’esplorazione più ampia. Nello spazio della scienza e della tecnica. Notiamo in primo luogo che la confessione del Creatore non va contrapposta all’indagine del cosmo condotta dalla scienza – dalla cosmologia alla biologia evoluzionista. Ricondurre a un agire creatore la ricca complessità che esse scoprono non significa depotenziarne lo sforzo di lettura anali- tica, ma invita invece a un’inesausta ricerca in tal senso. I cristiani non invocano un «Dio delle lacune» che risponda alle questioni non (ancora) risolte dalla spiegazione scientifica del mondo; piuttosto confessano colui che ne illumina il significato e invita a esplorarlo sempre meglio. La stessa Scrittura orienta in tale direzione: i libri sapienziali rivelano uno sguardo sul mondo curioso e attento, fiducioso che l’indagine della realtà offrirà continui motivi di lode a colui che ne è l’origine. Tale sguardo positivo sul mondo è profondamente consonante con quella fiducia nella sua leggibilità tramite l’umana razionalità che caratterizza la scienza moderna. Diversi autori hanno sottolineato, anzi, come il suo stesso sorgere ha tra le sue premesse culturali il dispiegamento medievale della fede in un Dio che crea nel Logos:24 proprio in quanto creata da Dio la complessità del mondo ha potuto esser colta come disponibile all’indagine razionale delle creature che di esso partecipano. Non è casuale, dunque, che anche oggi molti scienziati credenti vivano la pratica della ricerca come risposta a una vocazione a esplorare la ricchezza del creato, come scoperta della tracce di una razionalità impressavi dal Creatore.25 La progressiva estensione della conoscenza scientifica non è dunque sfida per la fede cristiana nel Creatore; anzi, proprio il dispiegarsi di tanta intellegibilità – nelle complesse armonie del cosmo o nella storia della vita – apparirà come un’espressione della divina sapienza. Tale sguardo positivo andrà pure esteso anche all’applicazione tecnica della scienza: la vocazione a coltivare il mondo di Gen 2,15 si esprime anche nell’umana capacità di trasformarlo, per far emergere in modo più nitido quella benedizione di cui esso è portatore. Non è casuale l’attenzione per la prassi della tradizione biblica, ben lontana da quella prospettiva classica, che solo nell’otium della contemplazione del vero vedeva la piena realizzazione dell’umano. Anzi, nella logica della narrazione del diluvio di Gen 6-9, l’opera di carpentiere del giusto Noè è essenziale per quella salvazione della vita e della biodiversità realizzata da Dio tramite l’arca. Del resto, dire il mondo creazione di Dio significa anche che esso non è Dio: non cioè realtà sacra e immodificabile, ma spazio inscritto in una storia, cui contribuisce anche il dinamismo creativo degli umani, esseri culturali. Anche Gaudium et spes sottolineava che «l’attività umana individuale e collettiva, ovvero quell’ingente sforzo col quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita, corrisponde al disegno di Dio» (n. 34; EV 1/1425), tanto che col loro lavoro gli uomini e donne «prolungano l’opera del Creatore» (ivi). Certo, la tecnica ha pure un volto oscuro – particolarmente evidente in questo tempo di crisi ecologica – e non a caso la Scrittura ne associa l’origine alla discendenza di Caino (Gen 4, 22). Occorrerà un discernimento etico puntuale per le concrete specifiche applicazioni, ma esso non dovrà intaccare la fondamentale positività della tecnica. Il grido. L’esperienza del mondo come realtà creata buona – come casa accogliente – non è dato scontato e autoevidente, direttamente ricavabile dal nostro vissuto o distillabile dalla sola analisi razionale della natura. Di fronte a essa sta l’esperienza della negatività, così presente anche nella Scrittura: quasi sempre la fiducia si dà nel segno del «nonostante», come esito di una lotta, come grido, interrogazione o talvolta persino imprecazione (si pensi ad alcuni Salmi o al libro di Giobbe). Proprio la confidenza riposta nel Creatore rende più acuto lo smarrimento di fronte al dolore sperimentato: conduce ad avvertirlo come delusione rispetto a una vita cui è promessa benedizione. La stessa domanda «perché?», spesso pronunciata in tali contesti, sottende la percezione di uno scarto, di una delusione rispetto a ciò che ci sentiamo legittimati ad attenderci dalla vita. L’affermazione della bontà del mondo può in effetti dispiegarsi quando tale contraddittorietà del reale – talvolta lacerante – viene sperimentata in uno spazio qualificato dalla fede. Non che il reale stesso sia di per sé caratterizzato nel segno della negatività, quanto piuttosto dell’ambivalenza: la gioia per la bellezza incontrata, lo stupore per l’ordine che lo caratterizza e la gratitudine per la vita che esso rende Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 463 possibile si intrecciano inestricabilmente con il gemito di una creazione sofferente. È un’interrogazione, aperta a interpretazioni diverse e tra di esse si colloca anche quella che lo qualifica come creazione del Dio amante della vita a riaffermarne la vivibilità, nonostante gli elementi di negatività che lo segnano. Certo, essa deve confrontarsi con una domanda radicale per ogni teologia della creazione: come può essa reggere anche quando il male appare sovrastante, quando il dolore che colpisce i viventi appare troppo grande per essere espressione di una bontà creatrice? La malattia, le catastrofi naturali, la morte sono solo alcuni dei volti con cui tale esperienza ci tocca – nelle vite a noi prossime o nella nostra. Non basta, allora, il richiamo alla prassi, a quell’azione di contrasto al male che è certo assolutamente doverosa per il credente che ha appreso a considerare la Regola d’oro come compendio della Legge (cf. Mt 7,12). Non basta la cura per i fratelli e le sorelle ferite o l’attenzione per le altre creature e per il tessuto di una creazione lacerata – che pure sono dimensioni imprescindibili della sintonia col Dio provvidente cui è chiamato il credente («Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso», Lc 6,36). Al di là della dimensione etica, c’è un mistero del male, che neppure la fede cristiana pretende di illuminare senza riserve: è una sfida radicale, un acido che corrode la fiducia nella sensatezza del reale, che estenua quel coraggio di esistere che sostiene l’umano agire. Non è tanto, allora, l’interrogativo sulla sua origine a balzare in primo piano, quanto la concretezza della sua forza dirompente, che sgretola i progetti di vita e i corpi stessi, rendendo difficile – talvolta drammaticamente difficile – continuare a sperimentare il mondo come creazione buona…26 In Cristo, nostro Signore. Due parole pronuncia la fede cristiana nella sua opera di resistenza al male, fragili ma potenti, a evidenziare lo stretto legame tra le diverse dimensioni del suo dire. La prima è la confessione che tale resistenza, che impegna le vite di tante donne e uomini, ha coinvolto lo stesso Gesù di Nazareth – colui che 464 Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 confessiamo incarnazione del Verbo di Dio – in un’esistenza tutta orientata al risanamento di corpi e di relazioni ferite. Un orientamento mantenuto anche quando il prezzo da pagare è stato l’esposizione senza riserve al male stesso – «fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,8): un Dio che accompagna le sue creature anche nel dolore, restando accanto a loro fino in fondo. Nell’umanità di Gesù, nelle lacrime versate sul dolore e la morte (cf. Gv 11,35; Lc 19,41) ci viene incontro un Signore solidale con un’umanità dolente e che, anzi, nello Spirito si fa «compagno di ogni creatura sofferente».27 Per molti è proprio la contemplazione del Crocifisso a sostenere la fiducia nella bontà della creazione, nella sua abitabilità «nonostante», nella possibilità di reggere una negatività che sembra soverchiante. Gesù, che affida la propria esistenza al Padre nell’oscurità della croce (cf. Lc 23,46), testimonia di una fede che tiene anche là dove parrebbe impossibile. Tale prima parola trova poi sostegno in quella che del Crocifisso confessa la risurrezione, come sorgente di speranza per la creazione e per ogni creatura. Alla solidarietà col sofferente di Gesù, risponde l’agire potente del Padre Creatore che dona futuro a tutte quelle potenzialità vivificanti che sulla croce potevano sembrare sconfitte, che conduce la fragilità delle creature oltre se stessa. La risurrezione non è solo ritorno alla vita di un singolo essere umano, ma anche (per usare una bella espressione del teologo evangelico J. Moltmann) «primavera di una nuova creazione»,28 che vede finalmente a dispiegarsi la bontà promessa. La luce che ne promana illumina anche l’esperienza del dolore, collocandola in un contesto di speranza che rende sostenibile la fede nel Creatore. Alla comunità cristiana il compito di custodire tale esperienza di affidabilità del creato, per comunicarla in parole e gesti – quelli dello spazio celebrativo, come quelli delle esistenze che se ne lasciano informare. Così essa testimonia di un senso del mondo che si protende oltre l’ambivalenza della nostra esperienza presente, per coltivare uno sguardo pacificato tenacemente rivolto al Creatore; così in Cristo, nostro Signore, anche il grido la- cerante può trasformarsi in un: «Vieni» (Ap 22,17), che sa di non restare inascoltato. Il Dio Trino, speranza del creato. La Pasqua manifesta infatti una potenza di rinnovamento che nel segreto trasforma il cosmo tutto, orientandolo a un compimento in cui si dispiegheranno tutte le virtualità della vita promessa. Non a caso la teologia ortodossa parla di una divinizzazione, cui lo Spirito conduce il creato. Moltmann, d’altra parte, ha sottolineato con forza la dimensione di speranza di una fede cristiana che guarda con fiducia anche al futuro del cosmo, pur senza saper disegnare le tappe tramite le quali Dio può condurlo a salvezza. Attendiamo un tempo che vedrà il compimento e il superamento assieme di questa realtà; un tempo che i profeti disegnano come pienezza di vita dispiegata nell’esistenza e nella storia umana, così come nel mondo naturale tutto: un’utopia che va anche inscindibilmente compresa come «ecotopia».29 Non solo i credenti, dunque, vivono come pellegrini, in statu viatoris, in attesa del futuro promesso: anche il creato è attraversato da un’attesa che intreccia le armoniche del gemito e della speranza (cf. Rm 8,19ss). Il Padre onnipotente, Creatore di tutte le cose, è anche colui che muove segretamente il cosmo tutto, operando a partire dalla Pasqua del Figlio, in vista del suo compimento, quando sarà «tutto in tutti» (1Cor 15,28). E lo stesso Spirito, che è vicinanza di Dio alla creatura sofferente, è pure «levatrice di nuova creazione» a illuminare la contraddittorietà del presente facendone lo spazio di un’attesa ricca di speranza.30 Scopriamo così un operare divino nel creato che è unitario e differenziato assieme e che la fede cristiana associa al Padre, fonte dell’essere, al Verbo, mediatore di creazione e operatore di redenzione, allo Spirito che vivifica il creato tutto. Questo è, del resto un discorso teo-logico: è nella fede pasquale che il discorso sulla creazione prende corpo e senso; è l’amore del Dio Trino la sorgente da cui proviene il mondo che sperimentiamo, così come la Parola che ne promette il compimento – Parola senza pentimento, anche quando chiede tempo per realizzarsi. L’umano creato, l’umano nel creato Intenzionalmente abbiamo lasciato alla fine una considerazione esplicita degli esseri umani entro il creato; non certo per mettere tra parentesi il loro ruolo di immagine di Dio, destinatari della Parola dell’alleanza e capaci di rispondervi in modo adeguato. A partire dall’umano si sviluppa ogni considerazione sul senso del mondo; a partire da là possiamo formulare quella parola di fede che giunge a parlare di creazione. In esso la Parola creatrice trova l’espressione più nitida, con esso la continuità delle dinamiche dell’evoluzione realizza una transizione qualitativa, là si realizza lo spazio dell’incarnazione del Verbo. Proprio l’acuta percezione della centralità dell’umano espone, però, anche la teologia al rischio di esaurire in esso il proprio discorso sulla creazione, quasi riducendolo a capitolo del ma- nuale di antropologia teologica. In realtà, se è vero che nulla possiamo dire di Dio e del mondo se non in termini antropologici – lo abbiamo fatto anche in questo testo – è altrettanto vero che mai Dio viene a noi se non entro il mondo e nella mediazione delle creature: la teologia deve tematizzare esplicitamente tale realtà. Deve, d’altra parte, essere parte dell’etica cristiana un’attenzione forte per la custodia del creato, quale componente qualificante della forma di umanità cui siamo chiamati (e alla quale la Chiesa italiana dedicherà il Convegno ecclesiale di Firenze 2015). La singolarità umana va cioè declinata in forme relazionali, nel segno di una fraternità creaturale responsabile per la sostenibilità.31 È questo un tema su cui molto sta riflettendo la teologia delle diverse Chiese e al quale pure sarà dedicato l’evento nazionale promosso dalla CEI a Torino nel settembre 2014, in collaborazione con le * Docente di Teologia della creazione presso la Facoltà teologica del Triveneto (sede di Padova) e presso l’Istituto di studi ecumenici «S. Bernardino» in Venezia; coordinatore del progetto «Etica, filosofia e teologia» presso la Fondazione Lanza; membro del Gruppo «Custodia del creato» istituito presso l’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della CEI. 1 I relativi materiali sono disponibili rispettivamente sui siti web www. fttr.it e www.chiesacattolica.it/lavoro. 2 Le prospettive presentate in questa sede provengono soprattutto dal mio Come casa accogliente. Vivere il mondo come creazione, EMP, Padova 2013, ma anche da Teologia ed ecologia, Morcelliana, Brescia 2007 e dal recente Custodire futuro. Un’etica nel cambiamento, Albeggi, Roma 2014. 3 Cf. C. Taylor, L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009. 4 Preferisco quest’approccio di tipo ermeneutico – attento alla distinzione tra il «deposito della fede» e il «modo di esporre la dottrina» del n. 6 di Unitatis redintegratio – alla radicale volontà di ricostruzione, venata di razionalismo, che attraversa V. Mancuso, Il principio passione, Garzanti, Milano 2013; Id., L’anima e il suo destino, Raffaello Cortina, Milano 2007; Id., Io e Dio, Garzanti, Milano 2011. 5 Sarebbe impensabile passare in rassegna in questa sede la vasta letteratura teologica prodotta in questi ultimi decenni sulla teologia della creazione. Per una mappa delle principali pubblicazioni in lingua italiana rinvio a S. Morandini, «Leggere del Creatore: note bibliografiche italiane», in Studi ecumenici 30(2012), 277-302. 6 Ho esaminato le principali traiettorie di dialogo in tale ambito in «Il dialogo tra scienza e teologia: modelli e metodo», in G. Filoramo (a cura), Le religioni e il mondo moderno. Vol. IV. Nuove tematiche e prospettive, Einaudi, Torino 2009, 535-561. 7 Particolarmente efficaci K. Löning, E. Zenger, In principio Dio creò. Teologie bibliche della creazione, Queriniana, Brescia 2006; R. Bauckhman, La Bibbia e l’ecologia. Riscoprire la comunità della creazione, Borla, Roma 2011. 8 Cf. G. Von Rad, «Il problema teologico della fede veterotestamentaria nella creazione» (1938), in Id., Scritti sul Vecchio Testamento, Jaca Book, Milano 1984, 9-26 e più in generale Id., Teologia dell’Antico Testamento. I. Teologia delle tradizioni storiche di Israele, Paideia, Brescia 1972. 9 Cf. C. Westermann, La benedizione nella Bibbia e nell’azione della Chiesa, Queriniana, Brescia 1997 (ed. orig. 1968). 10 In tale direzione, ad esempio, M. Kehl, «E Dio vide che era cosa buona». Una teologia della creazione, Queriniana, Brescia 2009 e soprattutto Id., Creazione. Uno sguardo sul mondo, Queriniana, Brescia 2012. 11 Cf. J.L. Ruiz De La Peña, Immagine di Dio. Antropologia teologica fondamentale, Borla, Roma 22012. 12 Cf. Ireneo di Lione, «Contro le eresie», in Id., Contro le eresie e gli altri scritti, Jaca Book, Milano 1997, 44-485. associazioni teologiche,32 e che vedrà la presenza dello stesso Moltmann. Certo, sappiamo anche che molte sono le questioni che restano aperte, e non solo per la brevità di un saggio che non può esaurire un campo così complesso. La nostra condizione di viventi è di strutturale incompletezza: il nostro essere è nascosto in Dio e ciò che saremo non è ancora rivelato, così come velata è la bontà della creazione di cui attendiamo il compimento. Questo è il tempo dell’interpretazione di un reale dalle forme contraddittorie alla luce della fede pasquale; il tempo dell’attesa e dell’invocazione; il tempo della cura – del creato, dell’umano, delle relazioni. Questo è anche, d’altra parte, il tempo nel quale la teologia è chiamata a testimoniare della fede del Creatore, con parole efficaci per testimoniare l’esperienza fondante che la muove. Simone Morandini* 13 Si veda, in particolare, J.B. Metz, Sulla teologia del mondo, Queriniana, Brescia 1969. 14 D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Paoline, Cinisello Balsamo 1988, 225. 15 Sul rapporto tra creazione e benedizione: C. Westermann, Creazione, Queriniana, Brescia 31991; Id., La benedizione nella Bibbia e nell’azione della Chiesa, Queriniana, Brescia 1997. 16 Così J. Ratzinger-Benedetto XVI, Progetto di Dio. La creazione, Marcianum Press, Venezia 2012, 106. 17 Ho esplorato più ampiamente tale prospettiva in S. Morandini, «Un approccio sacramentale per la teologia della creazione? Un dibattito ecumenico», in Studia patavina 47(2000) 3, 707-744. 18 Kehl, Creazione, 38. 19 In tal senso la convincente lettura di Mc 1,1-13 operata in Löning, Zenger, In principio Dio creò, 73-83. 20 La nota della personalità non dice di un’arbitrarietà che sfiorerebbe l’ingiustizia – secondo l’inadeguata comprensione offertane in V. Mancuso, Io e Dio – ma piuttosto della libertà di un Creatore che si presenta come un «tu». 21 J. Werbick, «Prolegomeni», in T. Schneider (a cura), Nuovo corso di dogmatica. Vol. I, Queriniana, Brescia 1995, 6-61, qui 15. 22 A. Houtepen, Dio, una domanda aperta, Queriniana, Brescia 2001, 230. 23 Ivi. 24 Così W. Pannenberg, Teologia sistematica, 3 voll., Queriniana, Brescia 1990-1994-1996, ma anche il mio Teologia e fisica, Morcelliana, Brescia 2007. 25 In tal senso J. Polkinghorne, Credere in Dio nell’età della scienza, Raffaello Cortina, Milano 1999; F.S. Collins, Il linguaggio di Dio. Alla ricerca dell’armonia tra scienza e fede, Sperling & Kupfer, Milano 2007. 26 Un’attenta discussione in H. Häring, Il male nel mondo. Potenza o impotenza di Dio?, Queriniana, Brescia 2001. 27 Così D. Edwards, L’ecologia al centro della fede. Il cambiamento del cuore che conduce a un nuovo modo di vivere sulla terra, EMP, Padova 2008; cf. anche J. Moltmann, Lo Spirito della vita. Per una pneumatologia integrale, Queriniana, Brescia 1994; Id., La fonte della vita. Lo Spirito Santo e la teologia della vita, Queriniana, Brescia 1998. 28 Così J. Moltmann, La via di Gesù Cristo. Cristologia in dimensioni messianiche, Queriniana, Brescia 1991. 29 Così Bauckhman, La Bibbia e l’ecologia. 30 Edwards, L’ecologia al centro della fede. 31 S. Morandini, Abitare la terra custodirne i beni, Proget, Padova 2012; Id., «Custodire futuro»; in Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro, Servizio nazionale per il Progetto culturale (a cura), Custodire il creato. Teologia, etica e pastorale, EDB, Bologna 2013. 32 Associazione teologica italiana (ATI) e Associazione teologica italiana per lo studio della morale (ATISM). Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 465 Sudafrica Miniere L Sciopero del platino a «cintura del platino» sudafricana torna a vivere dopo mesi di paralisi. «Se si va in città, si vede che la gente sta spendendo i propri soldi, che gli affari sono tornati alla normalità: i negozi sono affollati, non come prima, quando erano vuoti e si vedevano una o al massimo due persone», racconta da Rustenburg, nel cuore della zona estrattiva, un minatore della Anglo Platinum. Questa – insieme alla Lonmin e alla Impala – è una delle tre grandi compagnie che tra il 23 gennaio e il 23 giugno hanno dovuto sospendere ogni attività, per lo sciopero proclamato dall’Association of mineworkers and construction union (AMCU), sindacato radicale con 70.000 iscritti. È questo il «prima» a cui fa riferimento l’uomo: cinque mesi in cui ai lavoratori e alle loro famiglie è mancato spesso anche il necessario, come «cibo, soldi per i trasporti, per mantenere i figli», elenca l’interlocutore del Regno. A spingere molti a sopportare i sacrifici, la volontà di ottenere un sostanzioso aumento di paga: la richiesta di AMCU era un salario minimo di 12.500 rand mensili, 850 euro. Un miraggio per chi, a volte, non arrivava nemmeno alla metà. Dopo settimane di trattative – e perdite di fatturato stimate dalle compagnie in circa 1,6 miliardi di dollari – l’accordo si è trovato circa a metà strada: i minatori avranno aumenti di 1.000 rand l’anno nei prossimi 36 mesi e nessuno ne guadagnerà meno di 8.000. «Alcuni – prosegue il dipendente della Anglo – non sono rimasti soddisfatti, perché hanno lottato per cinque mesi, ma sono casi isolati». La maggioranza, spiega, «è contenta di poter tornare al lavoro: anche per loro cinque mesi sono stati lunghi!». Con la firma dell’intesa, poi, sono arrivate parte delle paghe arretrate, che stanno dando respiro, in questi giorni, a famiglie e commercianti della zona. 466 Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 Anche le aggressioni, spesso mortali, che avevano colpito alcuni iscritti al National union of mineworkers (NUM), il sindacato filogovernativo, e altri lavoratori contrari allo sciopero a oltranza sembrano finite: «Ora tutto è normale – racconta il minatore contattato dal Regno – e non sono state segnalate violenze», una circostanza confermata anche da altri testimoni. Che l’incertezza non sia del tutto alle spalle, però, lo dimostra la richiesta della nostra fonte di rimanere anonima. A preoccupare è la prospettiva che le imprese rispondano all’aumento dei costi ridimensionando l’attività e licenziando lavoratori: meglio, quindi, mantenere un basso profilo. «Ci sono indizi secondo cui le compagnie del platino potrebbero prendere in considerazione la meccanizzazione, e dunque la prospettiva di una forza lavoro più specializzata» ma meno numerosa, conferma anche mons. Kevin Dowling, vescovo di Rustenburg, secondo il quale «circolano anche ipotesi secondo cui alcune miniere verranno vendute o chiuse». A questo proposito, c’è chi arriva persino a ipotizzare una data: «Fra tre o quattro mesi». Danni di lungo periodo Fare previsioni, però, è avventato anche quando si tratta della semplice capacità della società locale di riprendersi: «In tutta l’area di Rustenburg, oltre 150 attività hanno chiuso come conseguenza dello sciopero – continua mons. Dowling –, ed è estremamente incerto se molte torneranno mai a funzionare: questo significa ancora meno posti di lavoro». Secondo il vescovo non sono solo i minatori e le loro famiglie ad aver sofferto, ma «tutta la comunità, soprattutto negli insediamenti informali», le baraccopoli dove vivono anche molti dei lavoratori prove- nienti da altre parti del Sudafrica o dall’estero: evitano così di spendere la living out allowance, il supplemento di paga che le compagnie minerarie riconoscono a chi deve cercare un’abitazione, e hanno più soldi da mandare alle famiglie rimaste a casa. «Questa gente – racconta mons. Dowling – ha sofferto terribilmente: nelle cliniche della diocesi abbiamo visto casi di persone ridotte alla fame, che non avevano niente a che fare con lo sciopero, ma dipendevano ugualmente dal funzionamento delle miniere». In generale, per il presule «anche se l’AMCU è riuscita a forzare questo accordo, se si guarda ai danni subiti dai minatori c’è da temere che non se ne riprenderanno mai, perché molti hanno chiesto prestiti» e in diverse occasioni non hanno perso solo i salari dei mesi di sciopero, ma anche auto e case, che sono state pignorate. «Bisogna vedere quale ulteriore ruolo potrà avere la Chiesa, che in questi mesi ha per quanto possibile assistito chi era rimasto senza lavoro, accanto alle compagnie minerarie e al Governo nell’occuparsi delle questioni sociali di queste aree», conclude mons. Dowling. E riconosce che l’esecutivo, dopo aver mediato per la conclusione dello sciopero, sta facendo «degli sforzi, ma ci vorrà del tempo prima che gli effetti negativi dell’agitazione siano superati». Il compito delle autorità non si annuncia infatti facile, perché le conseguenze di cinque mesi di blocco delle attività – con un impatto sul 40% della produzione mondiale di platino – e i possibili nuovi licenziamenti non sono le uniche questioni aperte. Non ha infatti ancora concluso i suoi lavori la Commissione d’inchiesta sui fatti di Marikana, la località a pochi chilometri da Rustenburg in cui, ad agosto 2012, 44 persone morirono durante un altro sciopero selvaggio: 34 di queste rimasero uccise quando la polizia aprì il fuoco sui manifestanti. Non è solo per il comportamento delle forze dell’ordine che l’indagine potrebbe arrivare a conclusioni imbarazzanti per il governo: negli anni, infatti, molti ex esponenti della NUM hanno occupato posti di rilievo, di volta in volta, nelle compagnie minerarie e nelle istituzioni. È il caso di Cyril Ramaphosa, oggi vicepresidente del Sudafrica, che al tempo della strage faceva parte del Consiglio di amministrazione della compagnia Lonmin e che la stampa ha indicato come uno dei fautori della «linea dura». D. M. L L ibri del mese Dio, il mistero dell’unico Libri discussi: il modello relazionale di Angelo Bertuletti L a letteratura teologica italiana si è arricchita di un lavoro importante, risultato della ricerca e dell’insegnamento di un’intera vita. Si tratta, va detto subito, di una ricerca alta che si condensa in un libro impegnativo di 600 pagine dal titolo Dio, il mistero dell’unico, edito da pochi mesi dall’editrice bresciana Queri- CXXI Francisco de Zurbarán, Cristo crocefisso, 1627; Chicago, Art Institute. niana e ospitato nella collana «Biblioteca di teologia contemporanea». Il libro, opera di mons. Angelo Bertuletti, permette di apprezzare un itinerario di studio che ha fatto del rigore scientifico della proposta il suo stile inconfondibile unitamente al centro propulsore di tutta l’indagine dentro il proprio della teologia, «il mistero della grazia di Dio nel cuore della libertà» (5). Viene così portato a maturazione un percorso lungo mezzo secolo, costellato da un’importante serie di articoli e di contributi che spaziano dalla filosofia alla teologia fondamentale e sistematica, sempre però attorno al centro unificatore di un’interrogazione specificamente teologica. Un’indagine erudita mossa dal confronto con le istanze del pensiero contemporaneo, in particolare con la fenomenologia, ritenuta da Bertuletti l’interlocutrice privilegiata in quanto, nonostante alcuni sviluppi successivi si muovano in altre direzioni, l’idea contenuta nel suo principio ha una valenza teologica. Nella potenza dell’analisi e della decostruzione, e nella genialità della proposta, risiede il tratto caratteristico dello sforzo di Bertuletti, i cui risultati sono ora resi disponibili al dibattito della comunità teologica ma anche di quella filosofica, da tempo piuttosto rinunciataria rispetto ai suoi argomenti specifici, con inevitabile ricaduta su entrambi gli ambiti, filosofico e teologico. Un lavoro pregevole che potrebbe fecondare uno scambio a tutto campo dal momento che la de-regionalizzazione del sapere teologico qui non è soltanto auspicata ma è anche eseguita. La svolta tra Tommaso e Scoto Il titolo lascia intuire che il tema centrale ruota attorno al mistero trinitario. Siamo di fronte, però, non già a un manuale classico di teologia trinitaria, quanto piuttosto a un impianto di lavoro che, risalendo a ciò che l’autore chiama «la svolta del XIII secolo», quella delle due ontologie (Tommaso d’Aquino e Giovanni Duns Scoto), passa in rassegna il rap- Il Regno - attualità 14/2014 467 L ibri del mese porto tra la teologia e la metafisica e, precisamente, il rapporto tra il paradigma biblico e il paradigma metafisico, rapporto generativo del pensiero occidentale attraverso una molteplicità di figure tra loro diverse. L’apprezzamento critico di questa ricchissima e assai lunga storia poteva rendersi possibile soltanto, come già suggeriva Paul Ricœur, in un tempo caratterizzato dall’uscita dalla concettualità metafisica. Nell’opera di Bertuletti si coglie l’ambizione del progetto e, allo stesso tempo, il coraggio d’avventurarsi nelle forme del sapere medievali (nella loro dipendenza e autonomia dalla cultura classica), moderne e infine postmoderne, rivisitando i passaggi fondamentali della cultura occidentale a partire da un’interrogazione che nella postmodernità risulta alquanto problematica: come affrontare la questione della verità in un tempo che sembra aver smarrito gli strumenti concettuali per elaborarne un approccio che sia allo stesso tempo adeguato alle importanti poste in gioco eppure in un certo senso anche discreto, cioè pregevole al punto da poter essere realmente apprezzato dalle diverse comunità del sapere? E ancora, per la teologia, come rendere ragione del carattere intrinsecamente universale della fede cristiana? La questione implicita è quella dello statuto della teologia, che Bertuletti elabora raccogliendo la provocazione heideggeriana della problematicità della storia della metafisica in ordine al sapere della verità. Ora, mentre il filosofo tedesco sottace lo specifico del paradigma biblico, e quindi della fede cristiana, nel suo tentativo in fin dei conti piuttosto astratto propiziato da un accesso al mito al di qua del lógos, Bertuletti adotta il punto di vista dell’interrogazione teologica per apprezzare gli sviluppi generati della continua interazione dei due paradigmi. La via lunga di Bertuletti si regge sulla convinzione che, in un senso ben preciso, la questione della storia della metafisica coinvolge anche il pensiero postmoderno. L’indagine coinvolge le tre svolte che caratterizzano, rispettivamente, il periodo medievale, moderno e postmoderno: la svolta ontologica, la svolta trascendentale e la svolta fenomenologica, sull’idea di fondo che è rinvenibile una linea di lettura che permette di rendere ragione delle trasformazioni dei vari modelli teo- 468 Il Regno - attualità 14/2014 rici e ancor più di recuperare le istanze radicali che hanno governato gli sviluppi del pensiero e ne hanno deciso gli esiti. Una rilettura critica d’ampio raggio che si avvale del lavoro degli storici e dei filosofi e sulla quale l’interrogazione propriamente teologica di Bertuletti non richiede nessuna giustificazione data l’indiscutibile centralità della problematica teologica per il Medioevo. Se la questione di Dio è il motore dell’interrogazione di Bertuletti, l’ipotesi di una ripresa della storia della metafisica, legittimata proprio dal postmoderno inteso come tempo della sua fine, non poteva trovare che nel XIII secolo il suo aggancio più attinente. A questo esame critico viene destinato il primo capitolo di 300 pagine («L’idea di Dio e la questione della sua verità. Figure epocali della concettualità teologica», 33337), aperto dal confronto tra il pensiero di Tommaso e quello di Scoto, ossia tra una metafisica come teo-ontologia e una metafisica come onto-teologia. Questo affondo è condotto con un puntiglio il cui rigore è pari alla portata dell’ipotesi che lo sorregge, e cioè che lo statuto di quanto lì accade è quello di un vero e proprio inizio: «La grande mutazione della metafisica della fine del XIII secolo riveste un significato decisivo per il destino futuro della filosofia e della teologia» (111). Metafisica senza libertà Con Tommaso e Scoto sono due linee di pensiero che si confrontano. «I progetti di Tommaso e di Scoto sono diversamente radicali: se Scoto elabora una nuova figura di metafisica, l’idea direttrice di Tommaso non si afferma se non attraverso lo scarto dal dispositivo concettuale nel quale la iscrive. L’opposizione dei due progetti riveste un significato che va al di là di un interesse puramente storiografico e coinvolge la questione stessa» (101). Da questo confronto sarà la linea di Scoto che verrà ripresa dalla critica kantiana, la quale segna il compimento e la fine della tradizione medievale (cf. 113). Quanto la metafisica medievale non era riuscita a compiere, data la «sua incapacità di porsi sul terreno della conoscenza umana in quanto conoscenza finita», verrà ripreso e compiutamente elaborato da Kant in un programma filosofico centrato sulla categoria di soggetto. Muovendosi da teologo Bertuletti passa in rassegna i vari modelli di pensiero con la costante d’individuarne la rispettiva pretesa veritativa, che si gioca, ultimamente, nell’articolazione tra il momento ontologico e quello antropologico. Da questo punto di vista, per Bertuletti, sia gli sforzi del Medioevo sia quelli della modernità costituiscono, per ragioni diverse, delle approssimazioni significative e tuttavia insufficienti. Alla metafisica sfugge il luogo proprio dell’effettività della libertà; per il pensiero trascendentale quest’ultima rimane confinata dentro uno schema che non oltrepassa il livello formale (la cosa in sé d’Immanuel Kant). Lo scavo di Bertuletti giunge fino ai nostri giorni, passando attraverso una rilettura della critica kantiana (Heidegger) e della fenomenologia di Edmund Husserl, per poi di nuovo riprendere Martin Heidegger e la sua trasformazione ontologica della fenomenologia, accostandosi infine a Emmaunel Lévinas, Jean-Luc Marion e Ricœur. L’ultima parte del primo capitolo è dedicata al dibattito teologico contemporaneo tra teologia e filosofia sulla questione di Dio. La densità di queste pagine costringe a porsi l’interrogativo circa la reale posta in gioco, quella che ultimamente decide del rapporto tra filosofia e teologia. L’evento cristologico, data la sua unicità incomparabile, è ciò che legittima la teologia in quanto tale, perché la verità di quell’evento non è raggiungile se non in quanto è l’evento stesso a fornirne i criteri di accesso. La storia di Gesù è il luogo proprio della sua verità. Dato che la questione della verità appartiene da sempre all’interrogazione filosofica, questo le conferisce una reale dimensione teologica. «Più la teologia si avvicina al suo centro (…) più essa libera il pensiero filosofico alla sua autonomia» (5). Per Bertuletti, in linea con la concezione di Karl Rahner, l’autonomia della filosofia è un’esigenza interna della teologia. Impressiona la mole di questo capitolo. Perché dedicare la metà di un libro di teologia alla ripresa di ciò che parrebbe specifico della filosofica? Perché la rilettura della storia della metafisica, guidata dal criterio dell’intersezione dei due paradigmi, è orientata a mostrare le ragioni per le quali la fenomenologia oggi contiene una lezione decisiva: l’accesso alla verità, so- CXXII stiene convintamente Bertuletti, non è possibile se non per via fenomenologica, e questo impone di mostrare il ruolo decisivo del soggetto in ordine alla determinazione stessa della verità. Nella critica kantiana è presente una componente fenomenologica, ma centrata, però, unilateralmente sul soggetto. Rimane così aperta la questione dell’essere, la dimensione propriamente ontologicoveritativa, che esige il pensiero del Novecento, e cioè il confronto da una parte con Heidegger, il cui merito qui è quello di porre adeguatamente la questione, e dall’altra con Husserl, per l’elaborazione del metodo fenomenologico. Quindi, in estrema sintesi, è sulla spinta del problema della pensabilità della rivelazione che il Medioevo elabora le due ontologie e ciò impone una riformulazione della metafisica. Quanto alla svolta trascendentale di Kant, in essa verrà portata a compimento la linea concettualista di Scoto, il cui fuoco non è l’essere ma è il soggetto. Con Kant viene raggiunto un vertice insuperabile e, tuttavia, il modello è parziale. La via del paradigma biblico Il nodo fondamentale del pensiero di Bertuletti consiste nell’elaborazione di un modello alternativo a quello trascendentale, che però possa funzionare come superamento di un’ontologia concettualista (il secondo Heidegger e Marion) grazie all’inclusione dell’istanza del soggetto. Solo a queste condizioni è legittimo parlare di fenomenologia, pur ammettendo che lo stesso metodo fenomenologico non è esente, al suo interno, da tensioni irrisolte. La lunga ricostruzione del dibattito è perciò finalizzata alla giustificazione delle opzioni che, dal grande laboratorio della fenomenologia, vengono adottate dal nostro autore. Per Bertuletti le opzioni teoriche di fondo sono già tutte presenti nella svolta del XIII secolo, compresa una dimensione fenomenologica implicita in Tommaso, che Franz Brentano avrà il merito d’individuare nel concetto d’intenzionalità dell’Aquinate. Sarà necessario tuttavia il metodo husserliano, centrato sulla correlazione intenzionale, per poterne apprezzare gli sviluppi. All’ermeneutica biblica del secondo capitolo (338-452) è assegnata una funzione specifica: «La lettura teologica della CXXIII Scrittura suppone la messa in opera di una teoria ermeneutica che giustifica la funzione insostituibile del testo biblico per l’accesso all’intelligenza della fede» (338). La rivelazione è attestata, cioè consegnata definitivamente nella forma del testo e affidata alla Chiesa affinché sia resa disponibile a chiunque in un atto di lettura i cui criteri ermeneutici sono forniti dal testo stesso. L’approccio che Bertuletti sviluppa si avvale della teoria del testo elaborata da Ricœur e da una sua applicazione all’interno della prospettiva specificamente cristologica della fede come ha mostrato Paul Beauchamp, basata sull’idea di fondo di una rilettura dell’Antico Testamento come passaggio indispensabile per dire l’identità di Gesù Cristo. «Non si può confessare che Gesù è il figlio di Dio senza situarlo in rapporto alla totalità della storia. Questa totalità è configurata nel racconto biblico, che Beauchamp chiama il “racconto totale”: totale, non perché dice il tutto, ma perché mantiene il voto, iscritto in ogni atto del raccontare, di esibire la realtà di ciò che decide della verità di ogni racconto» (340). È questo il crocevia necessario per un’articolazione tra l’evento cristologico (singolare) e l’esperienza umana (universale). Dato che il metodo per il riconoscimento della verità di Gesù Cristo è interno al testo e il testo ne costituisce la mediazione necessaria, la teologia biblica non funge da premessa alla teologia sistematica, ma è la condizione stessa di possibilità della teologia. Con la formula di paradigma biblico s’intende dire allora che la Scrittura non è soltanto un testo narrativo e legislativo, ma che nella struttura interna del testo è operante una concezione della verità che riguarda il tutto. Una verità con statuto proprio, cioè non dipendente nel suo riconoscimento dalla logica metafisica. È il testo stesso, nell’articolazione (già rabbinica) delle sue tre classi di scritti – Legge, Profeti, Sapienza – che ne mostra l’evidenza. Bertuletti stesso fornisce la sintesi migliore di quanto non può non essere raggiunto dall’ermeneutica biblica: «Nel dispositivo biblico il concetto di creazione è centrale, poiché è in esso che si produce l’articolazione della teologia e dell’antropologia. Esso, distinguendo l’inizio dall’origine, non solo separa l’inizio dalla fine ma pone il processo come rilevante. La verità dell’origine, la sua assoluta prece- denza, non diviene effettiva se non tramite un’interruzione del tempo che la significa, poiché anticipa nel processo l’avvento dell’origine, il quale avrà la stessa universalità e unicità dell’atto creatore. Esso sarà il compimento in senso assoluto, compimento dei compimenti. Perciò il concetto biblico di Dio è sempre un concetto cristologico: ed esso lo è precisamente perché, in ogni sua parte, è inseparabile dall’antropologia» (6-7). Il testo biblico è portatore dell’istanza antropologica. Ecco dunque in quale maniera il paradigma biblico obbliga la metafisica a continue riformulazioni. La Bibbia, potremmo dire, ha bisogno di aprirsi con un’interruzione dell’origine, con la creazione che è il cantus firmus dell’intero libro, proprio per porre come assolutamente rilevante il processo del tempo, ossia la storia degli uomini e il loro rapporto, fin dall’origine, con Dio stesso: «La creazione non è solo un’azione di Dio, ma il suo attributo» (369). Quale idea di Trinità? Questo fonda ciò che per Bertuletti è criterio ultimo di verifica di ogni teologia cristiana: la relazione Dio, Cristo e noi, non è da pensare in termini gerarchici, bensì in quelli di un rapporto di co-originarietà. Ciò che un modello di teologia trinitaria deve evitare è proprio una designazione oggettiva della Trinità, seguita poi dalla cristologia e infine dall’antropologia, perché non verrebbe riconosciuto lo specifico di questa originaria triangolazione. L’uomo non è il destinatario esterno della grazia di Dio, in quanto il rapporto dell’uomo con Dio ha il carattere di un evento che si compie sempre nell’atto in cui il soggetto decide di sé. Il maestro qui è Rahner, il quale parlando della libertà, sottolinea che la caratteristica della libertà umana (il piano «categoriale» dice Rahner) è quella di determinare la sua stessa condizione trascendentale (la «libertà trascendentale») e perciò ultimamente il fondamento. La libertà non è mai solo un fenomeno categoriale, ma essa determina la sua stessa struttura. L’«idea Christi» rahneriana, idea nell’accezione hegeliana del termine, ha una valenza trascendentale, che equivale a dire che essa è una struttura universale dell’umano. Ciò che aveva provocato la reazione di von Balthasar è invece pertinente agli occhi di Bertuletti, in quanto Il Regno - attualità 14/2014 469 L ibri del mese essa fonda l’insuperabilità dell’approccio antropologico. La critica di Hans Urs von Balthasar non riconosce la necessità dell’anticipazione, di ciò che Christoph Theobald chiama la mediazione creaturale della cristologia, che ultimamente è la creazione. Il guadagno operato da Rahner su questo punto è di assoluto valore per la teologia. La nostra eredità, a motivo del prevalere del paradigma metafisico come canone della verità, ha condizionato una comprensione della Scrittura riducendola a puro testo salvifico. La dicotomia da correggere è quella che da un lato considera la Bibbia come narrazione dal contenuto salvifico, e dal lato della metafisica la proposta di una concezione del mondo, dell’uomo e di Dio. L’antropologia in senso proprio, invece, non sorge se non nel conflitto di questi due paradigmi: è precisamente il paradigma biblico che impone alla metafisica l’elaborazione di un’antropologia. I biblisti sono concordi nel riconoscere all’esperienza salvifica dell’Esodo la struttura da cui dipende la narrazione biblica. Tuttavia il libro non si apre se non con la creazione. Questo significa che il concetto di creazione è già cristologico, perché implica un’antropologia costitutiva della relazione teologale. Poi la storia può svolgersi e dare corpo così al racconto biblico. Queste acquisizioni di fondo non possono non guidare anche l’interpretazione storica della teologia trinitaria (453-535). «Poiché la teologia non si costituisce come teoria pura, ma come istanza critica della tradizione della fede, l’elaborazione del momento sistematico non può non prodursi se non come ripresa dei modelli nei quali la comprensione storica della fede si è configurata nello sviluppo della sua tradizione» (453). Il terzo capitolo è dedicato alla ricostruzione della formazione del dogma e del concetto trinitario di Dio, al passaggio dall’economia alla teologia e ai suoi sviluppi nelle tre grandi fasi della patristica, della scolastica e della teologia trinitaria contemporanea. L’interesse per la teologia patristica non è solo storiografico «perché in essa si produce l’incontro del kerigma cristiano con la concettualità greca, che è all’origine della forma teologica del sapere della fede» (453). Dalla teologia prenicena si passa alla svolta nicena del IV secolo, poi ai padri 470 Il Regno - attualità 14/2014 cappadoci e infine alla teologia trinitaria di Agostino. Per la scolastica i nomi sono quelli di Anselmo d’Aosta, Bonaventura da Bagnoregio, Tommaso, Enrico di Gand e Scoto. È in questo periodo che alcune opzioni teoriche di fondo elaborate dai grandi pensatori medievali, saranno rinvenibili negli sviluppi delle figure della teologia trinitaria dell’età contemporanea. Di quest’ultimo periodo sono presi in esame i lavori dei teologi che hanno segnato il secolo scorso: Karl Barth, Karl Rahner, Hans Urs von Balthasar, Piet Schoonenberg e Joseph Moingt. Sono pagine molto utili sia per la ricostruzione di figure teologiche dalle quali noi stessi in qualche maniera ancora dipendiamo, sia perché la critica di Bertuletti esercita tutta la sua qualità speculativa, forte di quel criterio fondamentale che, in ultima analisi, decide la qualità di un pensiero teologicamente cristiano, e cioè, come già detto sopra, la capacità di mostrare il legame assolutamente originario di teologia, cristologia e antropologia. L’elaborazione di uno schema sistematico di teologia trinitaria (536-590) deve essere in grado di far valere che «la verità trinitaria di Dio è l’espressione del carattere assoluto dell’evento cristologico, della sua identità con Dio stesso che vi si rivela. L’evento cristologico è identico con Dio, poiché la Trinità non è solo la sua origine, ma la verità immanente della sua effettività» (536). Il postmoderno come chance Ritroviamo in questa parte finale del libro quegli strumenti concettuali che Bertuletti ha affinato lungo tutto il percorso e che ora danno forma alla proposta. Di quest’ultima anticipiamo soltanto il quadro concettuale di riferimento: «Solo lo schema teorico che restituisce la circolarità di economia e teologia fornisce lo strumento concettuale che permette di pensare la verità trinitaria di Dio, in un approccio che è trinitario non in base al principio formale dell’identità in Dio delle differenze ipostatiche e dell’unità dell’essenza, ma perché le ipostasi divine non hanno altro fondamento della loro evidenza se non l’evento cristologico» (538). Vale la pena, ci sembra, rimarcare alcune istanze di fondo sulle quali si regge l’approccio alla questione di Dio in Bertuletti. Il pensiero postmoderno costituisce una chance epocale, in quanto elabora dei processi della verità che sono molto più affini al paradigma biblico rispetto a quelli della storia della metafisica. Qui la lettura di Bertuletti ritorna su un tema che attraversa da cima a fondo il libro: è grazie a un approccio fenomenologico, che non confonde la verità e i suoi criteri, che diventa possibile tematizzare sia la questione dell’unicità (Theobald), sia l’intrinseca necessità della fede – antropologicamente intesa – e della rivelazione cristiana. Un’idea forte di soggetto, cioè effettiva e non formale, permette di restituire al polo della fede una consistenza non assorbibile sul piano della rivelazione e perciò consente alla fede di mostrare la sua evidenza. E, allo stesso tempo, offre la possibilità di elaborare una figura di teologia della rivelazione atta a mostrare come costitutivo il contributo del destinatario, cioè l’uomo. Bertuletti riconosce in Theobald una notevole affinità: «La proposta di Theobald costituisce la migliore approssimazione allo statuto del discorso teologico nel quadro della razionalità contemporanea. Essa sottolinea con forza la necessità di una fondazione antropologica della fede teologale» (291). Ma dalla critica al gesuita francese si evince l’insistenza di Bertuletti sulla necessità di elaborare una teoria adeguata rispetto alla centralità della questione dell’accesso alla verità, che non sia riducibile a una criteriologia (Jürgen Habermas), e sulla quale Bertuletti conduce il confronto a suo avviso dirimente: «(Theobald) non precisa tuttavia la sua qualità epistemica, poiché non tematizza il ruolo determinante dell’atto in ordine alla giustificazione del suo realismo teologale» (291). Altro punto qualificante è la designazione del mistero di Dio nei termini di unicità: l’autorivelazione di Dio non ha altro accesso possibile se non quello dell’effettività di Gesù, il verbo di Dio. Questo significa che non si dà teologia se non come cristologia e che l’effettività di Gesù è il punto più originario dell’accesso al mistero di Dio. «L’unicità di Gesù costituisce il criterio ultimo delle categorie che si propongono come cifra sintetica della sua esistenza» (558). Ma significa anche che la manifestazione di Dio implica la consistenza del destinatario, condizione senza la quale Dio non può rivelarsi. L’idea di unicità, nell’elaborazione offerta da Bertuletti, specifica l’intero della proposta. Un crite- CXXIV rio di unicità che ha una accezione teologica, in quanto l’unicità di Dio è, nella prospettiva cristiana, la Trinità, ma ha anche una accezione cristologica, in quanto Cristo è, come mostrato da von Balthasar, l’unicità, significata da Bertuletti con la formula inedita dell’unicamente Unico (553). Infine un’accezione antropologica, che dice l’accesso alla singolarità, della fede intesa come accesso alla propria singolare unicità (Theobald). Queste tre accezioni sono inseparabili, pur mantenendo ciascuna la propria specificità: per la teologia è la precedenza assoluta di Dio contro ogni subordinazione; per la cristologia è l’istanza secondo la quale l’unico criterio della teologia della fede cristiana è la storia di Gesù, il verbo di Dio (von Balthasar); ma la specificità della cristologia non si dà senza l’antropologia. Cristo è impensabile senza l’umanità e l’uomo non è derivabile da Cristo. Ecco di nuovo il carattere fondamentale della creazione (la prima), non rimandabile all’opera dello Spirito Santo, come lascerebbe intendere Barth. Su questo punto Theobald è molto esplicito quando individua nell’unicità l’aspetto propriamente teologale. La concettualità fenomenologica, rispetto al discorso epistemologico, consente a Bertuletti il superamento di un difetto già presente in Scoto, quello cioè di ridurre l’aspetto veritativo dell’uomo alla sua alterità da Dio. Da questo punto di vista, la critica di Bertuletti a una fenomenologia diretta (Marion, soprattutto, e anche Lévinas, per il quale tuttavia è difficile parlare ancora di fenomenologia), che istituisce fortemente l’alterità di Dio, coglie nel segno. La libertà non s’aggiunge alla verità Il ricorso alla fenomenologia permette a Bertuletti di superare quanto ad altri modelli teologici rischia di rimanere giustapposto: e cioè il criterio della normatività (la dimensione morale) e dell’espressività (la dimensione dell’io). Bertuletti propone una teoria dell’atto, perché è nell’atto della fede che si mostra la rilevanza teologale dell’antropologia: questo sfuggiva all’interrogazione metafisica. «La libertà non si aggiunge alla verità né semplicemente deriva dalla verità ma è interna alla sua essenza, poiché l’uomo non è capa- CXXV ce della verità se non nell’atto – insieme assolutamente necessario e irriducibilmente singolare – che riconosce nell’istanza trascendente che lo rivendica l’origine della propria insostituibile unicità. Questo atto è ciò che la tradizione biblica chiama “fede”. La verità di Dio non è accessibile che nella fede, poiché essa è la verità che include l’effettività del sé nella sua fenomenalità. La verità teologica è la verità assoluta, poiché è la verità che conferisce all’atto del suo riconoscimento la sua stessa assolutezza: quella di consentire a Dio di manifestarsi, di rendere effettiva l’intenzione che è all’origine della sua destinazione all’uomo» (6, corsivo mio). Nella felice formula «consentire a Dio di manifestarsi» rinveniamo l’asse teologico di Bertuletti centrato sulla categoria di relazione. Bertuletti qui prende le distanze da buona parte della letteratura teologica contemporanea del pathos di Dio, in quanto modelli non preoccupati di rendere ragione del carattere originario di teologia e antropologia privilegiando di conseguenza o l’uno o l’altro polo. La relazione non può non essere pensata, anche sul versante di Dio, come necessità, in quanto la relazione che Dio istituisce con noi rende noi capaci di determinare lui. In questo senso la relazione si riflette su Dio, benché si debba dire che lo schema è quello di una radicale asimmetria. Tale radicale asimmetria si riflette anche sulla relazione con altri, in quanto la tematica dell’intersoggettività – come condizione di accesso all’ipseità – non può non riconoscere nell’altro un’effettiva e irriducibile alterità. L’altro è veramente altro. Ma se Dio, come dice Bertuletti, è l’origine dell’alterità perché la genera, allora si può correttamente dedurre che la particolarità teologale è già interna alla stessa intersoggettività. Da qui un’altra ragione che mostra la pertinenza dell’assunzione della concettualità fenomenologica nel suo specifico husserliano della correlazione intenzionale. Questa costitutività dell’antropologico è ciò su cui si fonda il modello relazionale di Bertuletti. Il libro nasce sostanzialmente al crocevia di due domande: quella sul problema della verità, che pertiene alla filosofia, e quella relativa alle questioni più tipiche del discorso teologico. Tra le diverse opzioni possibili offerte dalla teologia, quella del mistero trinitario permette a Bertuletti di rendere ragione di come sia possibile l’affermazione di Dio in una prospettiva universale. La risposta, l’unica per Bertuletti, è, sulla scia del discorso rahneriano dell’autocomunicazione di Dio, di riconoscere all’antropologia il carattere costitutivo proprio della stessa res teologica. Solo a questa condizione la teologia può affermare la propria verità. Bertuletti sostiene, di conseguenza, un’idea forte di soggetto, piuttosto rara in postmodernità. Un’idea forte di soggetto, quindi, non già nell’accezione moderna che lo presupponeva (e quindi rimaneva in fin dei conti formale) ma un soggetto, una libertà, capace di con-determinare il rapporto alla verità. Bertuletti utilizza la parola senso per designare la mediazione antropologica. L’approccio al problema consiste dunque nella tematizzazione della dimensione co-originaria del senso. Dire senso, in questo discorso, è l’equivalente di dire soggetto, di dire libertà. Certamente anche alla metafisica non era estraneo il primato della verità, che essa ha sempre professato, ma questo avveniva a scapito della dimensione antropologica. Questo tratto che caratterizza il pensiero di Bertuletti ha una ricaduta fondamentale sulla concettualità teologica. La teologia può dire, certo, che l’umano condetermina la verità di Dio: l’acquisizione che ancora mancava, e che Bertuletti compie, era quella di mostrarne la pertinenza sul piano di una compiuta elaborazione teorica (e quindi giustificativa) che fosse capace di rendere ragione al contempo sia del realismo del soggetto sia della storicità della verità. Un duplice guadagno di non poco conto. Non è stato un compito agevole offrire questa presentazione del libro di Bertuletti. Chi ha scritto queste pagine, oltre a sollecitare la comprensione del lettore, chiede venia all’autore se alcuni passaggi centrali non sono stati sottolineati e ripresi così come meritavano. Lo scopo di questo lavoro, tuttavia, non era quello di offrirne una lettura compiuta, in quanto ciò non può che essere il risultato di un dibattito a più voci. La complessità dell’impianto di fondo del libro e le sue rigorosissime formulazioni concettuali non danno scampo: la fatica di Bertuletti non deve restare opera silenziosa per la teologia italiana. Maurizio Rossi Il Regno - attualità 14/2014 471 L L ibri del mese / schede I Libri del mese si possono acquistare: per telefono, chiamando lo 051 3941522 per fax, inviando un ordine allo 0513941577 per e-mail, scrivendo a [email protected] online, acquistandoli presso www.libreriacattolica.it/ per posta, scrivendo a Centro editoriale dehoniano, Via Scipione Dal Ferro, 4 - 40138 Bologna Per la redazione delle Schede di questo numero hanno collaborato: Giancarlo Azzano, Marco Bernardoni, Caterina Bombarda, Ilaria Chia, Eleonora Corti, Alfio Filippi, Andrea Franzoni, Maria Elisabetta Gandolfi, Marco Giardini, Giuliano Martino, Valeria Roncarati, Daniela Sala, Domenico Segna. Sacra Scrittura, Teologia 1-2 Tessalonicesi. Nuova versione, introduzione e commento di R. Fabris, Paoline, Milano 2014, pp. 341, € 38,00. 9788831544573 V engono presentate in uno stesso volume la 1Ts, prima lettera di Paolo in ordine cronologico, e la 2Ts, oggi comunemente ritenuta deuteropaolina (e Fabris nel commento accetta questa posizione). Nella «Sezione introduttiva» si delinea il profilo letterario dei due scritti, l’ambiente e le circostanze della loro origine. L’origine della 2Ts è collocata nel quadro della «crisi apocalittica». Segue la traduzione e il commento integrale ai testi, indi il «messaggio teologico», individuato in 6 temi per la 1Ts e 4 per la 2Ts. Segue un utile «lessico biblico-teologico» dei due scritti. Chialà S., La perla dai molti riflessi. La lettura della Scrittura nei padri siriaci, Qiqajon, Magnano (BI) 2014, pp. 269, € 25,00. 978882274207 C ome esprime chiaramente il sottotitolo, due poli importanti costituiscono la sostanza del vol.: la rilevanza che la Scrittura ha assunto in una tradizione ecclesiale specifica, quella siriaca; e il panorama di autori e opere attraverso cui questa tradizione è ancora oggi ricostruibile. Dunque un vol. sulla Scrittura e sul patrimonio spirituale-teologico della Chiesa siriaca. L’Introduzione indica le coordinate della Chiesa in esame e i riferimenti letterari attraverso cui essa interpreta la Scrittura. Il corpo del vol. è articolato in tre parti. La I presenta «I Padri dell’epoca indivisa»: vengono presi in considerazione tre teologi, due opere rilevanti e un genere liturgico proprio della Chiesa siriaca. La II è dedicata a «I Padri siro-orientali»: presenta il profilo di 8 teologi e la scheda di un’opera anonima. La III è dedicata a «I Padri siro-occidentali» ed è costituita da 8 profili. Il vol. si legge con l’interesse di chi scopre man mano un paesaggio poco noto e ricco di sorprese; costituisce un forte invito a prendere sul serio il fatto che il cristianesimo è pluriforme, con tutte le conseguenze che ne derivano; la ricchezza spirituale e teologica accennata e intuita lascia l’esigenza di ulteriore approfondimento dei temi per necessità solo suggeriti. E per un libro non è poco. García Granados J., Teologia del tempo. Saggio sulla memoria, la promessa e la fecondità, EDB, Bologna 2014, pp. 347, € 33,00. 9788810408414 L a prima decade del 21o secolo ha portato con sé la distruzione generale della fiducia. Gli attacchi terroristici alle Torri gemelle di New York hanno spazzato via l’illusione di un mondo che, dopo aver superato la guerra fredda, avrebbe raggiunto la pace perpetua, garantita dall’egemonia di un sistema democratico stabile. La crisi dei mercati finanziari ha portato il sistema capitalistico a toccare con mano la fragilità delle proprie fondamenta. Su questi aspetti la teologia può conferire ritmo e cadenza al ritmo sconnesso dell’uomo, aiutandolo a ricomporre i frammenti della sua biografia e a restituire unità alle sue traversie. La I parte del vol. getta le fondamenta dell’intera riflessione inquadrandola nell’orizzonte dell’esistenza corporea dell’uomo e della sua vocazione all’amore; la II affronta le diverse dimensioni del tempo e della storia – la memoria e la ricerca delle sue radici; la promessa che mantiene uniti i fili della vita; la fecondità e il suo nuovo, straripante inizio – mentre l’ultima offre una visione di sintesi per descrivere la visione cristiana. 472 Il Regno - attualità 14/2014 Servizio a cura di Maria Elisabetta Gandolfi Giordano M.L., Valerio A. (a cura di), Donne e Bibbia nella crisi dell’Europa cattolica (Secoli XVI-XVII), Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2014, pp. 383, € 32,00. 9788861245105 D iverse aa. contribuiscono a questo vol., che nel quadro dei «gender studies» si fonda sulla tesi che la Bibbia e la sua autorità costituiscano il nodo problematico sul quale si costruisce l’età moderna. Esso esamina due secoli cruciali per la storia del gender: proprio in essi infatti si pongono gli elementi basilari della costruzione identitaria dei due sessi, che nella Bibbia e nella sua interpretazione hanno trovato una fondamentale fonte d’ispirazione. Il vol. si colloca nella collana «La Bibbia e le donne», che nasce da un progetto internazionale, interconfessionale e multidisciplinare che studia la Bibbia e la sua recezione per evidenziarne l’influenza nella storia culturale, sociale e politica dell’Occidente. Lombardini P., L’eredità di Gerusalemme. Monoteismo e profezia di pace, EDB, Bologna 2014, pp. 39, € 5,50. 9788810558164 G erusalemme può affascinare o respingere nella sua diversità già nella percezione che il turista-pellegrino visualizza nell’istante stesso in cui percorre le sue strade. Ma in che cosa consiste questa diversità? È una sola, ma decisiva, risponde l’a.: l’emergere, a Gerusalemme, più o meno all’epoca in cui ad Atene nasce la polis democratica, dell’idea monoteista comunicata per rivelazione a Mosè sul monte Sinai. Luz U., Vangelo di Matteo. Vol 4. Commento ai cc. 26-28. Edizione italiana a cura di C. Gianotto, Paideia, Brescia 2014, pp. 548, € 56,00. 9788839408648 L’ a. stesso avverte il lettore che «sono passati 15 anni da quando il primo volume ha visto la luce» e nella Premessa dà conto di come il lavoro gli sia cresciuto in mano. «L’esperienza fondamentale che ho fatto lavorando sulla storia dell’interpretazione e degli effetti dei testi della passione è stata che qui si possono recuperare tesori di esperienze con i testi biblici che potrebbero tornare a essere importanti per noi». Difatti la parte dedicata alla «storia degli effetti» costituisce un volume nel volume (31-69), ed è un pregio, perché costituisce la dilatazione del commento vero e proprio. Il commento, come indicato nel sottotitolo, è dedicato agli ultimi tre cc. di Mt, che si riferiscono alla passione e alla risurrezione di Gesù. Due gli excursus, su «Il processo di Gesù davanti al sinedrio» (226-240) e su «Giuda» (286-305). Un commento, quello di Luz, di assoluto rilievo; non a caso egli constata: «Il commento è diventato metà di una vita di lavoro». Theobald C., La lezione di teologia. Sfide dell’insegnamento nella postmodernità, EDB, Bologna 2014, pp. 48, € 5,50. 9788810555323 L’ estrema complessità della teologia come «scienza» rischia d’essere un ostacolo insormontabile per gli studenti. E l’oggetto proprio della teologia stessa, la fede in Dio, rischia di allontanarsi mano a mano che si penetra nel groviglio dei testi, delle correnti interpretative e delle teorie. Oltre a far comprendere l’unità interna di questa disciplina, è necessario – sostiene l’a. – attivare i legami con l’esperienza spirituale ed evidenziare la necessità di un approccio critico che si manifesta nella capacità di argomentare, oggi spesso soppiantata da un eccesso di narrazione e di volontà testimoniale. Al di là dell’oscillazione fra l’assenza di tradizione e la sua espressione folkloristica, che va di pari passo con una ripetizione sterile e una difesa integralista, la sfida dell’insegnamento è quella di illustrare la creatività culturale che il cristianesimo ha dimostrato volendo mantenere la sua unica e doppia fedeltà al ministero di Cristo e alle condizioni storiche dei destinatari del suo Vangelo. Valerio A., Le ribelli di Dio. Donne e Bibbia tra mito e storia, Feltrinelli, Milano 2014, pp. 165, € 19,00. 9788807105050 Q uesto bel libro aiuta il lettore a rileggere l’Antico e il Nuovo Testamento con gli occhi delle donne che compaiono nei racconti biblici. Un approccio che intende essere una ribellione a secoli di interpretazioni maschiliste delle sacre Scritture. Così le figure di Eva, Rut, Ester, segnando delle svolte decisive nelle narrazioni bibliche, divengono fattori rilevanti per la comprensione della parola di Dio. Questo vale anche per le donne del Nuovo Testamento: Maria madre di Gesù, Maria Maddalena, Marta sono personaggi che contribuiscono in modo fondamentale alla composizione del messaggio cristiano. Secoli di cultura patriarcale hanno distorto la complessità CXXVI KATIA RONCALLI del senso dei testi sacri emarginando le donne a ruoli secondari sia nei testi sia nella vita delle Chiese. Si deve quindi essere grati all’a. che, come altre teologhe, negli ultimi decenni ha scavato nella Bibbia per portare alla luce questa prospettiva che regala una testimonianza di fede rinnovata. Young F.M., Esegesi biblica e cultura cristiana, Paideia, Brescia 2014, pp. 305, € 33,00. 9788839408617 I l vol. si riferisce ai primi secoli del cristianesimo e affronta il tema vastissimo di come l’interpretazione della Bibbia (primo elemento del titolo: esegesi biblica) sia stata veicolata dai pensatori cristiani che usavano una strumentazione culturale desunta dalla cultura coeva, ma che esprimeva il nuovo e lo specifico dell’annuncio cristiano (cultura cristiana, intesa come ri-espressione nella comunità del kerigma neotestamentario). Il vol. esamina, da un lato, i modi e i luoghi letterari in cui l’epoca patristica ha dovuto comunicare la nuova fede, cioè gli aspetti più contingenti legati alla cultura letteraria coeva, dall’altro l’emergere di temi teologici e forme espressive proprie al cristianesimo e allo strutturarsi della nuova fede in riti, forme di culto e organizzazione religiosa. Il vol. si oppone alle facili semplificazioni e mostra la complessità di una transizione in cui il sapere letterario greco-romano viene usato come lo strumento unico possibile nel trasmettere il sapere ebraico-cristiano ancora in divenire. Un vol. crocevia perché chiama in causa allo stesso modo studi biblici e studi patristici. Ravasi G., Galati e Filippesi. Cinque conferenze tenute al Centro culturale S. Fedele di Milano, EDB, Bologna 2014, CD/MP3, € 18,30. 8033576840468 Parola e sandali Un alfabeto per camminare V entuno riflessioni – una per ogni lettera dell’alfabeto – intrecciano vita vissuta e richiamo alla Parola di Dio, offrendo spunti originali per un viaggio alla ricerca delle cose importanti oltre le apparenze. L’autrice, suora francescana alcantarina, vanta una lunga esperienza nella pastorale giovanile e nell’accompagnamento vocazionale e formativo. «SENTIERI» pp. 88 - € 9,00 NELLA STESSA COLLANA JOSÉ MARÍA RECONDO LA SPERANZA È UN CAMMINO pp. 152 - € 13,00 Ravasi G., I libri dei re. Cinque conferenze tenute al Centro culturale S. Via Scipione Dal Ferro, 4 - 40138 Bologna 10.13 Pagina 1 Fedele di Milano, EDB, Bologna 2014, CD/MP3, € 18,30. 8033576840499 R1f_Gianotti:Layout 1 19/06/14 Edizioni Dehoniane Bologna Ravasi G., I libri di Samuele. Cinque conferenze tenute al Centro culturale S. Fedele di Milano, EDB, Bologna 2014, CD/MP3, € 18,30. 8033576840482 Ravasi G., Il mistero di Dio. Quattro conferenze tenute al Centro culturale S. Fedele di Milano, EDB, Bologna 2014, CD/MP3, € 18,30. 8033576840475 Quando dico Credo Aa. Vv., La parrocchia ai tempi di papa Francesco, EDB, Bologna 2014, pp. 64, € 5,00. 9788810512241 Q Caritas italiana, Famiglie sospese. Quaderno di riflessione teologico-pastorale sulla famiglia in difficoltà nell’Italia delle false partenze, EDB, Bologna 2014, pp. 123, € 8,00. 9788810741207 L a famiglia è pesantemente coinvolta dal disagio sociale e dai contraccolpi della recente crisi economica. Come uscirne? La Chiesa svolge nel merito un ruolo prezioso e insostituibile, anche se la responsabilità ultima di intervento va sicuramente affidata alle istituzioni pubbliche. Il testo è un contributo che valorizza la famiglia, le sue peculiarità, modello alto e irrinunciabile per la società. Ciò comporta cogliere l’importanza dell’alleanza tra politiche sociali e politiche familiari, riorganizzando le attuali misure che non si dimostrano sempre all’altezza della nuova situazione di emergenza e, nel contempo, educare la famiglia alla partecipazione allo sviluppo sociale e alla testimonianza della carità. Centro pastorale adolescenti e giovani Verona, Meet me. Questione di fede. Percorso adolescenti, EDB, Bologna 2014, pp. 101, € 9,50. 9788810613757 D estinato a ragazzi dai 14 ai 16 anni che condividono in vari modi un cammino di fede, il sussidio, organizzato a schede, si colloca all’inter- CXXVII Il Regno - attualità 14/2014 473 www.dehoniane.it DANIELE GIANOTTI Pastorale, Catechesi, Liturgia uale parrocchia ha in mente papa Francesco e come desidera che si ristrutturi? Un’autentica «conversione pastorale» richiede di uscire dalla ripetizione meccanica, di superare improvvisazione e routine, di rinunciare alle risposte stereotipate per permettere alla Chiesa di manifestarsi come una casa accogliente e un luogo permanente di comunione missionaria. Tel. 051 3941511 - Fax 051 3941299 Piccola guida al Simbolo degli apostoli I l libretto spiega in modo semplice, efficace e preciso il significato del Credo e dei suoi singoli articoli. Compendio o «simbolo» della fede, il Credo indica prima di ogni altra cosa la risposta mutabile (ne esistono dozzine di formule) a una Parola immutabile che ci precede e ci interpella. Una Parola che si condensa in Gesù Cristo e si riflette nella Scrittura. GIUSEPPE FLORIO La domenica Perché andiamo a celebrare? Edizioni Dehoniane Bologna «PEDAGOGIA DELLA FEDE» pp. 40 - € 3,50 DELLA STESSA SERIE pp. 32 - € 2,80 L ibri del mese / schede no di un percorso triennale sulle virtù teologali e prevede tre testi: MeetMe sulla fede, iHope sulla speranza e Love(H)and sulla carità. Dopo le schede introduttive per l’approfondimento del tema da parte degli animatori, le successive sono composte da tre parti: sezione animatori, pensata per la formazione degli animatori e per aiutarli a verificare il percorso con i ragazzi; sezione adolescenti, rivolta direttamente ai ragazzi, con materiale utile all’incontro e utilizzabile tra un incontro e l’altro; gli allegati, che raccolgono materiali necessari al completamento della scheda stessa. Citterio E., Omelie sulle parabole. Quattordici riflessioni sui racconti di Gesù, EDB, Bologna 2014, pp. 80, € 6,80. 9788810512210 I l libro suggerisce un itinerario di comprensione delle parabole evangeliche che si lascia condurre, nello scandaglio del testo, dalla liturgia della Chiesa. Secondo la Tradizione, l’intelligenza spirituale si accresce nella convergenza tra l’esperienza della fede e la domanda più personale dei cuori, in un continuo rinvio tra ecclesialità e interiorità. Fontana A., Dio dà un banchetto per te. Vivere nell’abbraccio del Padre misericordioso, Effatà, Cantalupa (TO) 2013, pp. 203, € 13,00. 9788874028757 L a parabola cosiddetta «del padre misericordioso», narrata da Luca, è una delle più note e delle più sorprendenti, in quanto ci racconta di un padre talmente guidato dall’amore per il figlio ribelle da parere quasi ingiusto. Il libro ripercorre interamente la parabola inserendola nel contesto delle parabole precedenti e successive e facendo immedesimare il lettore nel figlio minore, che rinnega il padre ma ritorna a lui dopo averne sperimentato le amare conseguenze, e nel figlio maggiore, apparentemente fedele ma in realtà lontano da una vera relazione d’amore col padre. Un modo per rivedere la propria fede e lo stile delle nostre comunità. Hesemann M., Maria di Nazaret. I luoghi, i tempi, le persone della sua vita, Paoline, Milano 2014, pp. 382, € 34,00. 9788831542548 I l testo si presenta come «biografia storica» su Maria di Nazaret. Le sue fonti sono i testi canonici (Vangeli e Atti) e apocrifi (soprattutto il Protovangelo di Giacomo), dai quali si ritiene attingibile «un nucleo di verità storica» nonostante la natura largamente leggendaria. «Unendo i loro dati con quelli dei Vangeli e della ricerca archeologica, si ottiene un quadro coerente, che corrisponde (...) all’ambiente di Maria». Il tutto senza necessità di ridurre «lo straordinario» narrato nelle fonti. La voluta (e legittima) presa di distanza dal procedere storico-critico nell’utilizzo delle fonti lascia però al lettore l’impressione di un racconto più devoto che storico. Ispettorato cappellani delle carceri, Settanta volte sette. Giustizia e perdono, EDB, Bologna 2014, pp. 129, € 8,00. 9788810741214 È certamente necessario arginare e disarmare i colpevoli, è necessaria la detenzione per impedire che i delitti vengano reiterati, ma nello stesso tempo è fondamentale pensare alla rieducazione dei detenuti e a percorsi di reinserimento nella società. Un biblista, un pedagogista e tre cappellani nelle carceri riflettono su come il perdono e la giustizia possano ricucire i rapporti, promuovere il consenso ai valori della convivenza civile e orientare alla scelta del bene interpretando la libertà in modo responsabile. Lambiasi F., Vorrei leggere la Bibbia. Mi aiutate?, EDB, Bologna 2014, pp. 71, € 5,00. 9788810808849 I l libretto è dedicato a quanti, soprattutto giovani, almeno qualche volta hanno sperimentato il desiderio di leggere la Bibbia, e forse hanno anche provato a sorseggiarne qualche pagina, ma poi si sono arresi, perché l’hanno trovata oscura, arida lontana: un aiuto per «non avere paura di esplorare la “santa montagna” della sacra Scrittura. È vero: si richiede fatica e coraggio, ma l’impresa non si presenta affatto impossibile» (dall’Introduzione). Martinelli P., Schmucki A. (a cura di), Fedeltà e perseveranza vocazionale in una cultura del provvisorio. Modelli di lettura e proposte formative, EDB, Bologna 2014, pp. 202, € 18,00. 9788810541524 I l card. J. Braz de Aviz, prefetto della Congregazione per la vita consacrata e le società di vita apostolica, e l’arcivescovo J. Rodriguez Carballo, segretario dello stesso dicastero, interpretano l’attuale situazione della vita religio- 474 Il Regno - attualità 14/2014 sa con realismo e speranza, indicando il compito delle istituzioni nel promuovere l’ideale di una vita dedicata alla sequela di Cristo. Lo psicologo A. Cencini mostra la crisi come opportunità di crescita e propone un modello di formazione integrale capace di andare oltre un approccio moralistico e formale. Gli interventi di formatori, rappresentanti delle grandi aree geografiche in cui opera il carisma francescano, rilevano le sfide e le opportunità che le diverse culture costituiscono per la fedeltà vocazionale. Il sociologo G. Dal Piaz, infine, rilegge la situazione attuale indicando i segni di una perseveranza che passa attraverso la strettoia di mutamenti sociali inediti. Rugolotto C., Vivere da fratelli. Itinerario di catechesi per genitori e figli. Quaderno per ragazzi. V anno, EDB, Bologna 2014, pp. 64, € 5,80. 9788810613696 Rugolotto C., Vivere da fratelli. Itinerario di catechesi per genitori e figli. Testo per genitori e catechisti. V anno, EDB, Bologna 2014, pp. 200, € 19,00. 9788810613689 I voll. concludono l’itinerario di catechesi per bambini e famiglie in 5 anni. Esso si rivolge principalmente ai genitori che, in quanto adulti (da soli o in coppia), sono invitati ad assimilare i contenuti biblici e/o catechistici tramite incontri in parrocchia ed elaborarli tramite la lettura a casa. Saranno poi gli adulti a trasmetterli ai propri figli, con appositi incontri e attività da svolgere in famiglia. A partire dal secondo anno, per i bambini sono previsti anche incontri in parrocchia, con i loro catechisti. Il percorso può essere alternativo o complementare ai tradizionali cammini di catechesi in parrocchia. Tratti peculiari del progetto sono, da un lato, la semplicità dei testi e delle attività proposte, adatti a essere utilizzati anche da parte di genitori poco «introdotti» nella vita cristiana e nella catechesi; dall’altro, l’attenzione alla maturazione cristiana dei genitori; infine, la scelta di fornire in ogni tappa esempi e utili spunti per la vita quotidiana, per la catechesi occasionale in famiglia e per la preghiera quotidiana. Santopietro G., Che cosa cercate? Il discepolato con Cristo come proposta di senso, EDB, Bologna 2014, pp. 168, € 16,00. 9788810203729 «C he cosa cercate?» sono le prime parole di Gesù all’inizio del suo ministero dopo l’esperienza del battesimo nel Giordano e del deserto. Sono rivolte a Giovanni e Andrea. I due giovani chiedono a Gesù: «Maestro, dove dimori?». Ed egli si limita a rispondere: «Venite e vedrete». Allora essi «andarono e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio». Il Vangelo di Giovanni è stato redatto molti anni dopo e ricordare a distanza di tanto tempo l’ora esatta indica che quell’incontro fu un’esperienza che illuminò di senso la loro vita. Andrea «condurrà» il fratello Simone a conoscere Gesù, poi sarà la volta di Filippo, che ne parlerà con Natanaele: inizia così il percorso di un discepolato che suscita la felicità di vivere il senso della vita nella comunione. Sartor P., Ciucci A., Buona notizia. Today 1. Il tesoro. Primo annuncio. Sussidio + Guida al sussidio, EDB, Bologna 2014, pp. 64 + 143, € 16,40. 9788810613702 + 9788810613719 Sartor P., Ciucci A., Buona notizia. Today 2 e 3. 2. La via. Verso la comunione 3. La tavola. Vivere la comunione. Sussidio 2 + Sussidio 3 + Guida ai sussidi 2 e 3, EDB, Bologna 2014, pp. 64 + 64 +163, € 22,80. 9788810613726 + 9788810613733 + 97888106137740 D all’enorme successo del progetto Buona notizia e per andare incontro alle parrocchie che, pur non sacrificando l’impostazione mistagogica, seguono un cammino tradizionale di preparazione ai sacramenti nasce questo vol. Il percorso prevede complessivamente 5 sussidi: dal primo annuncio alla cresima (questi ultimi disponibili il prossimo anno). I sussidi sono affiancati da tre guide che tracciano il lavoro dei catechisti. Proseguendo l’attenzione del progetto nei confronti delle «diversità» di ogni genere, il testo è redatto utilizzando caratteri ben leggibili dai bambini dislessici. Prevede inoltre i concetti chiave espressi anche in lingua inglese e spagnola, al fine di favorire l’integrazione dei bambini stranieri. Scanziani F., La porta della fede. Lectio bibliche per coppie e gruppi di spiritualità familiare. Vangelo di Giovanni, EDB, Bologna 2014, pp. 107, € 9,50. 9788810511428 C ontinua la proposta di una «lectio coniugale» in schede: nel IV sussidio viene messo in evidenza come approfondire il cammino di fede non sia CXXVIII R2f_Borghi:Layout 1 03/07/14 09.38 Pagina 1 GILBERTO BORGHI altro che un crescere nell’amore. Dopo le uscite sul Vangelo di Matteo (anno A), sul Vangelo di Marco (anno B) e sul Vangelo di Luca (anno C), il progetto prosegue con un itinerario incentrato sul quarto Vangelo. L’evangelista Giovanni conduce non a una conoscenza teorica di Dio, ma all’incontro personale con Gesù: attraverso gli incontri che lui stesso ha compiuto, egli rivela progressivamente chi è Dio e come si sia chiamati ad affidarsi a lui. Scaturito dall’esperienza di un gruppo di famiglie della diocesi di Milano, l’itinerario non si configura come un commento esegetico completo, ma piuttosto esprime spunti e interrogativi che interpellano le coppie di oggi. Ufficio catechistico nazionale, Incontriamo Gesù. Annuncio e catechesi in Italia alla luce degli Orientamenti pastorali, EDB, Bologna 2014, pp. 264, € 20,00. 9788810121122 C on precisione teorica e chiarezza espositiva, il vol. offre approfondimenti agli Orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia, il testo fondamentale per l’evangelizzazione e per la catechesi che accompagnerà il cammino di tutti gli operatori pastorali nei prossimi anni. Gli approfondimenti sono a cura dei membri della Commissione episcopale e di alcuni esperti che collaborano a vario titolo con l’Ufficio catechistico nazionale. Credere con il corpo I giovani e la fede nell’epoca della realtà virtuale PREFAZIONE DI GIUSEPPE SAVAGNONE Ufficio catechistico nazionale - Settore catecumenato, Verso la vita cristiana. Guida per l’itinerario catecumenale degli adulti, EDB, Bologna 2014, pp. 160, € 12,50. 9788810121115 I l vol. nasce allo scopo di sostenere le Chiese che hanno già istituito un catecumenato diocesano e quelle che stanno avvertendo l’esigenza di avviare in maniera organica un’attenzione a quanti chiedono il battesimo da adulti. Il testo unisce chiarezza a livello teorico e attenzione alle buone pratiche. Spiritualità Amato A., I santi profeti di speranza, LEV – Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2014, pp. 492, € 34,00. 9788820992965 G ià ordinario di teologia sistematica presso la Pontificia università salesiana, l’attuale prefetto della Congregazione per le cause dei santi fa confluire nel vol. diversi materiali nati dal suo lavoro sul campo. Nella I parte del vol. (7-60) delinea alcuni tratti della santità che caratterizza concretamente i santi proclamati tali dalla Chiesa cattolica; nella II ( 63-488) presenta, sotto forma di medaglioni spirituali, 38 profili di santi o beati, la maggior parte riconosciuti tali recentemente dalla Chiesa. Il lettore troverà particolarmente utile lo spazio dato dall’a. alla «canonizzazione equipollente», prassi ricorrente nella storia del magistero papale e recentemente ripresa da Benedetto XVI e da papa Francesco. Un vol. concreto e utile tra spiritualità e informazione. Bertoglio C., Logos e musica. Ascoltare Cristo nel bello dei suoni, Effatà, Cantalupa (TO) 22014, pp. 172, € 12,00. 9788874029372 «“P asseggiate” musicali e spirituali», «sentieri» e «pellegrinaggio» definisce l’a. i cc. di questo volumetto, che è una guida alla lettura di 5 capolavori musicali molto diversi tra loro: il Magnificat di Bach BWV 243, il Messia di Haendel, Le Ultime sette parole del nostro Redentore in croce di Haydn, il Cristo sul Monte degli Ulivi di Beethoven e i Quadri da un’esposizione di Mussorgskij. Le opere vengono presentate dapprima in modo generale e poi brano per brano, con rimando diretto al testo e all’interpretazione che di esso fa l’elaborazione musicale. La spiegazione è di ordine musicale, estetico e spirituale. La fusione dei tre aspetti è ciò che più interessa all’a. I rimandi diretti allo spartito musicale non devono spaventare chi non legge la musica, perché l’a. resta fedele al suo intento di fornire una spiegazione che va oltre la lettura del rigo e delle note. Bertoglio C., Per sorella musica. San Francesco, il Cantico delle creature e la musica del Novecento, Effatà, Cantalupa (TO) 22014, pp. 204, € 13,00. 9788874029389 I l racconto live di tre anni di «ora di religione» nella scuola superiore trasmette il grido dei giovani – sotterraneo, duro e angosciato – rivolto agli insegnanti, agli educatori e alla Chiesa: ritrovare il valore del corpo per la fede, questione decisiva del cristianesimo nell’epoca della realtà virtuale. L’autore, insegnante di religione cattolica e pedagogista clinico, pubblica settimanalmente un post a tema sul blog collettivo www.vinonuovo.it, dove cura la rubrica «Secondo banco». pp. 168 € 13,00 D ELLO Un Dio inutile. I giovani e la fede nei post di un blog collettivo STESSO AUTORE pp. 192 - € 14,00 I l libro è un approfondimento del Cantico delle creature, presentato dapprima nelle sue proprie caratteristiche, poi nella rielaborazione che di esso hanno fatto tre musicisti del Novecento: Olivier Messiaen, Alfred G. Schinttke, Sofia A. Gubaidulina. Gli accostamenti tra questi aa. e il Cantico vengono CXXIX Il Regno - attualità 14/2014 475 www.dehoniane.it L ibri del mese / schede approfonditi considerando i testi da essi utilizzati assieme all’opera musicale che li riveste. Conclude il vol. un commento a più mani, perché ogni versetto di esso è affidato a un a. diverso. Un vol. fatto di allusioni e di richiami tematici, come spinta all’approfondimento soggettivo del testo di Francesco. Caffulli G., I santi di papa Francesco. Mistici e ribelli che hanno cambiato la Chiesa, Edizioni Terra Santa, Milano 2014, pp. 95, € 8,90. 9788862402187 «V edo con chiarezza che la Chiesa oggi ha bisogno di vicinanza e di prossimità». Le parole di papa Francesco sono il punto di partenza del vol. che indaga le personalità di «mistici e ribelli» che hanno ispirato Bergoglio nella sua formazione spirituale. Da san Francesco e madre Teresa ad altri meno conosciuti appartenenti alla Chiesa sudamericana. Il più importante è Pietro Favre, primo sacerdote gesuita. Quest’ultimo, particolarmente caro a papa Francesco per la semplicità di vita e la dedizione ai più deboli, è stato proclamato santo il 17.12.2013. Vol. utile per conoscere le fonti spirituali del pontificato di Bergoglio. Canobbio G., Bettenzani B., Il dubbio e la fede. Carteggio, Morcelliana, Brescia 2014, pp. 176, € 16,00. 9788837227951 D ialogo epistolare tra un sacerdote e un laico sui temi del dubbio e della fede. Il carteggio affronta temi di amplissimo spessore (morte, vita, verità, fede, ragione…) su sollecitazione delle domande dubbiose, alla ricerca del senso della vita, poste dall’interlocutore laico, alle quali il sacerdote controbatte sovente attraverso la formulazione di nuove domande – a mostrare un percorso non lineare di continua ricerca della verità – nelle quali sono tuttavia riconoscibili i tratti caratteristici della «proposta cristiana». Al lettore il giudizio finale su una corrispondenza epistolare suscettibile di impressioni molto contrastanti. Dossetti G., Barsotti D., La necessità urgente di parlare. Carteggio 1953-1995. A cura di F. Mandreoli ed E. Dondi, Il Mulino, Bologna 2014, pp. 225, € 20,00. 9788815252012 I l vol. raccoglie il carteggio tra due delle più importanti e originali figure della vita politica e religiosa del Novecento italiano. Da queste lettere emerge in particolare una domanda ancora oggi attuale: in quali modi è possibile essere cristiani e nello stesso tempo essere fedeli al tempo e alla storia? Una nota particolare va inoltre al lavoro redazionale svolto dai curatori del vol., E. Dondi e F. Mandreoli; di quest’ultimo, in particolare, va segnalato il prezioso ed esaustivo saggio introduttivo. Frère John di Taizé, La fede in ricerca. Sei riflessioni sull’essere e l’agire cristiano, EDB, Bologna 2014, pp. 122, € 9,50. 9788810512227 L a comunità monastica di Taizé, che riunisce in Francia un centinaio di «fratelli» di diverse confessioni cristiane provenienti da oltre 25 paesi, pubblica da alcuni anni brevi raccolte di testi sui temi fondamentali della fede. L’idea è stata suggerita dall’esperienza degli incontri di giovani che anno dopo anno avvengono presso la Comunità e che prendono in considerazione domande oggi vitali per i cristiani. Il vol. raccoglie 6 brevi testi firmati dal biblista americano frère John; le riflessioni, presentate in prospettiva ecumenica, riguardano la fede, la Chiesa, i punti centrali del cristianesimo, la Croce, il libro dell’Apocalisse e l’eucaristia. Garrone G., Dal buio la luce. Etty Hillesum – Madeleine Delbrêl – Roger Schutz – Olivier Clément, Paoline, Milano 2014, pp. 133, € 14,00. 9788831544443 È difficile condensare le esistenze di quattro personalità tanto notevoli; Garrone, riesce nel compito, con un vol. davvero interessante. Un profondo attaccamento alla vita e la costante ricerca di Dio traspaiono dalla storia di Hillesum, «l’ebrea che aveva imparato a pregare». Figlia di un ateo marxista, Delbrêl vive tra rifiuto e ricerca di Dio. Fede e riconciliazione sono i capisaldi di Schutz, fondatore della comunità di Taizè. Infine Clément, dall’Europa all’India alla ricerca della presenza divina. Halík T., La notte del confessore. La fede cristiana in un tempo di incertezza, Paoline, Milano 2013, pp. 275, € 19,90. 9788831543613 «I n questo libro, vorrei far vedere come la crisi del mondo che ci circonda, e anche le crisi della religione (…), siano enormi finestre di oppor- 476 Il Regno - attualità 14/2014 tunità che Dio apre per noi. Sono situazioni che ci sfidano a prendere il largo». Così l’a., sacerdote ceco e intellettuale cattolico molto noto in patria, descrive ciò che lo ha spinto a scrivere questo libro, nel quale approfondisce quello che lui definisce il «paradosso della fede». Paradosso che non deve essere solo argomento di discussione teologica ma anche «la chiave per comprendere la situazione spirituale e le sfide dei nostri tempi». Misteri della fede analizzati attraverso due affermazioni paradossali del Nuovo Testamento: «Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile» e «(…) infatti quando sono debole, è allora che sono forte». Un’analisi soprattutto spirituale, compiuta con gli occhi del confessore, colui dal quale il fedele s’aspetta «parole il cui significato e potere terapeutico emanano da quelle profondità che noi chiamiamo sacramento: Mysterion il mistero sacrale». Leandro (s.), Fruttuoso (s.), Isidoro (s.), Regole monastiche della Spagna visigota. Introduzione e note di J.C. Ruiz, Abbazia di Praglia, Bresseo di Teolo (PD) 2014, pp. 216, € 22,00. 9788885931756 È sempre una piacevole scoperta leggere testimonianze di una spiritualità di un’epoca a noi lontana eppure così affascinante da sentirla, e a tratti da viverla, come se fosse a noi contemporanea. Il monachesimo, il suo straordinario respiro che apre all’Assoluto senza alcun clamore, ci viene incontro da queste pagine in cui vengono raccolte le Regole di tre santi che diedero il loro fondamentale contributo a una Spagna visigota del VII sec. da poco convertitasi al cristianesimo. Nell’Introduzione si possono leggere queste parole: «Dio faccia che queste regole, messe, alla portata degli spiriti coltivati, lascino cadere semi di ascesi e di amor di Dio nell’animo dei lettori di buona volontà». Il miglior viatico per delle regole che ancora oggi risuonano di una miracolosa semplicità. Maggi L., Reginato A., Liberté, égalité, fraternité. Il lettore, la storia e la Bibbia, Claudiana, Torino 2014, pp. 146, € 11,50. 9788870169843 «S i rischia il cortocircuito, lasciando al buio non solo la storia che si vorrebbe comprendere meglio, ma anche quel Dio che è tale solo a patto di salvaguardarne l’infinita differenza qualitativa», con queste parole gli aa. si sono cimentati in una difficile quanto, forse, inevitabile impresa: leggere la storia con la Bibbia e la Bibbia con la storia. Come giustamente evidenzia nell’Introduzione P. Ricca, bisogna chiedersi perché le parole liberté, égalité, fraternité siano state pronunciate dalla Francia rivoluzionaria del 1789 che seppe leggere, nonostante le sanguinarie derive, il «segno dei tempi» e non dalla maggior parte dei cristiani dell’epoca, i quali non seppero o non vollero decifrarlo. Seguendo la traiettoria tracciata da Karl Barth, per il quale capire i propri tempi significa «nel timore di Dio assumere su di sé l’intera situazione e nel timore di Dio entrare nel movimento del tempo» i due pastori battisti tentano l’impresa che costituisce il cuore pulsante della vocazione cristiana. Mello A., Il Dio di Abramo. Riflessioni sulla Genesi, Edizioni Terra Santa, Milano 2014, pp. 206, € 16,90. 9788862402132 I l termine «riflessioni» del sottotitolo dice bene il taglio della trattazione: l’a. ripercorre il filo narrativo di Genesi con brevi note di contrappunto a sottolineare un passaggio, un gesto, un luogo, un sentimento... così che il racconto si animi nella percezione dell’interlocutore. Dopo una breve Introduzione su «Le storie dei Padri», l’a. suddivide la materia «attorno ai tre»: «Abramo: l’operosità della fede» (21-91); «Isacco: la tenacia della speranza» (93-138); «Giacobbe: la fatica dell’amore» (139-198). Stile calmo e discreto, così da aiutare il lettore ad assimilare nella pace. Pratesi M., I quattro alberi. In cammino verso la semplicità del cuore, EDB, Bologna 2014, pp. 174, € 13,50. 9788810571156 A ttorno ai quattro simbolici alberi della vita, della conoscenza, del giudizio e della sapienza il libro articola un itinerario ispirato alla tradizione cristiana, soprattutto patristica, e all’esperienza dell’accompagnamento spirituale. Nella forma di un esteso commento al Salmo 119 e alle beatitudini evangeliche, il testo risponde alla domanda d’integrità che emerge con forza nella coscienza contemporanea e nella Chiesa. In particolare, chi assume con serietà il rischio dell’avventura cristiana deve avere la più lucida cognizione dell’impegno da sostenere per portare a termine la «costruzione della torre», per non cominciare un’opera senza completarla. CXXX Salvarani B. (a cura di), Francesco d’Assisi. Guardate l’umiltà di Dio. Tutti gli scritti di Francesco d’Assisi, Garzanti, Milano 2014, pp. 309, € 14,00. 9788811651024 U n’edizione complessiva, dalle regole dell’ordine al suo testamento, degli scritti del santo di Assisi, il «santo per eccellenza, oggetto di una sterminata devozione», riproposto all’attenzione mondiale dall’elezione e dal nome di papa Bergoglio. L’Introduzione di B. Salvarani offre al lettore note di contesto e preziose chiavi di lettura. Trentuno testi raccolti sotto le voci «Laudi e preghiere», «Lettere»; «Regole ed esortazioni» e qui sistemati in ordine cronologico (per quanto consentito dalla datazione). La sezione conclusiva, «I mille Francesco», è un’antologia che esprime la «storia degli effetti» prodotta nei secoli da questa straordinaria figura. Serres M., Dagens C., La ricerca delle parole. Corpo, scrittura e messaggio evangelico, EDB, Bologna 2014, pp. 55, € 6,50. 9788810555286 I l vol. raccoglie gli interventi di due personalità eminenti in tema di cattolicesimo e concilio Vaticano II: un filosofo e un vescovo, entrambi membri dell’Académie française. I Vangeli – osserva Serres – non escono dalla mano di accreditati sapienti e si rivolgono ai poveri riportando ingenue parabole, ma in modo così semplice, limpido e autentico che oggi sembra quasi impossibile scrivere nello stesso modo. Eppure, l’afflato universale delle pagine evangeliche indica la matrice di un linguaggio che può liberare l’autenticità della Scrittura sottraendola alle «formattazioni» tecniche e specialistiche del lessico accademico e di quello dei media. La stessa eredità del concilio Vaticano II (1962-1965), cioè lo sforzo di far dialogare la grande tradizione cristiana con il mondo contemporaneo, richiede di interrogarsi sul significato del «parlare di Dio» e «parlare a Dio» in un tempo di incertezza, di disincanto e di inquietudine, osserva Dagens. Sovernigo G., Verso una pienezza donata. Mezzo secolo nella vita di un prete, EDB, Bologna 2014, pp. 266, € 20,00. 9788810513446 N el 50° anniversario di sacerdozio, l’a. ripercorre mezzo secolo della sua vita di prete, educatore, psicoterapeuta e docente, attraversata da un impegno costante nell’attività formativa. Il libro rivolge un’attenzione prevalente non tanto alle verità da credere e da vivere, ma soprattutto ai processi della crescita, ai passaggi da compiere affinché i valori divengano autentiche motivazioni e vita vissuta. «L’esperienza di una formazione umana, spirituale e ministeriale mi ha portato ripetutamente e in tanti modi ad assaggiare e gustare la pienezza di vita ricercata nei vari tempi e luoghi di servizio», scrive l’a. «Questa pienezza di vita me la ero sentita proporre da dentro e da fuori come una promessa affidabile nelle varie fasi della chiamata vocazionale». Storia della Chiesa Belayche N., L’altare bilingue. Immigrati orientali e religioni nella Roma imperiale, EDB, Bologna 2014, pp. 51, € 6,50. 9788810558188 T ra il II secolo a. C. e l’inizio dell’impero la popolazione emigrata a Roma proveniva, per lo più, dalla parte orientale del Mediterraneo, conquistata dalle legioni romane, e anche le divinità straniere avevano la medesima origine. La natura aperta e politeistica del sistema religioso consentiva nuovi culti, che venivano «naturalizzati» in modo completo quando lo stato decideva d’aggiungerli al calendario pubblico, eventualmente conservando il rituale originario. Anche se la società romana dell’impero classico era aperta e inclusiva, una xenofobia latente colpiva, in particolare, gli orientali per il loro presunto esotismo variopinto ed eccessivo; la tradizione letteraria latina, non senza forzature, si compiaceva di descrivere le loro cerimonie esotiche, caratterizzate dall’uso di lingue barbare e di musiche stordenti, celebrate da sacerdoti abbigliati con vesti eccentriche e dai costumi depravati. Menozzi D., «Giudaica perfidia». Uno stereotipo antisemita fra liturgia e storia, Il Mulino, Bologna 2014, pp. 247, € 22,00. 9788815251695 U na preghiera nella liturgia del Venerdì santo stabilita dal concilio di Trento (e fissata nel Missale romanum) offre «ospitalità», in contesto CXXXI «sacrale», a uno stereotipo sulla «perfidia» degli ebrei che avrà una forte diffusione popolare. Solo con lo sviluppo dell’indagine storico-critica sui testi della liturgia, si poté via via scoprire che l’uso della parola «perfidia» nelle versioni in volgare dei libri liturgici «ne stravolgeva il significato originario». Ne seguirà una critica alla concezione «sacrale» della liturgia, come «luogo dove si vuole iscritta, al di fuori e al di sopra del tempo, un’immutabile lex credendi». Il vol., affinato nel corso di un lavoro seminariale, ricostruisce in modo efficace il lungo dibattito che ha accompagnato la riconsiderazione dell’antigiudaismo fissato dalla liturgia latina dopo il Tridentino. O’Malley J.W., Gesuiti. Una storia da Ignazio a Bergoglio, Vita e pensiero, Milano 2014, pp. 145, € 13,00. 9788834326862 I l testo, apparso in lingua francese lo scorso anno per l’editore belga Lessius (Une histoire des jésuites. D’Ignace de Loyola a nos jours), racconta nei suoi passaggi fondamentali la storia della Compagnia di Gesù, dalla fondazione a opera di Ignazio e dei suoi primi compagni (nel 1540), al presente. L’a., affermato storico e gesuita americano, docente alla Georgetown University, offre una sintesi che si fa apprezzare per chiarezza ed efficacia, senza mai dare l’impressione di cedere – neppure nel racconto dei risvolti storici più critici e sofferti per la Compagnia – a una facile tentazione apologetica. Lettura interessante e consigliabile. Attualità ecclesiale Allegri R., La storia di papa Giovanni. Raccontata da chi gli è stato vicino, Àncora, Milano 2014, pp. 355, € 19,00. 9788851413194 I l 27.4.2014 sono stati beatificati due dei pontefici più amati di sempre: Giovanni Paolo II e Giovanni XXIII. E proprio al «papa buono» è dedicato il vol. del giornalista Renzo Allegri. Con uno stile fresco e vivace ma mai eccessivo, l’a. tratteggia un’immagine a tutto tondo di Giovanni XXIII. Da quando era l’Angelino di Sotto il monte, agli anni del seminario, da Venezia a Roma fino alla morte nel 1963. Il racconto si unisce alle testimonianze di famigliari, amici e assistenti che raccontano episodi inediti o il dietro le quinte di momenti particolarmente intensi del pontificato. Anfossi F., Valli A.M., Il Vangelo secondo gli italiani 2. I cattolici di Grillo, la fede di Renzi, la vera storia dello IOR… e molto altro ancora, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2014, pp. 162, € 14,00. 9788821592195 N el 1o vol. hanno messo a nudo le contraddizioni dei cattolici italiani «guelfi per nascita, ma ghibellini per vocazione». Ma non avevano ancora fatto i conti con la «rivoluzione copernicana», che stava per scuotere la Chiesa: l’elezione di papa Francesco. E così gli aa. hanno pensato di scrivere anche il seguito per raccontare, con rigore giornalistico e spregiudicatezza, l’Italia cattolica che cambia. Sulla scena politica si sono affermati nuovi attori, da Renzi a Grillo, e in Vaticano c’è un papa «venuto dalla fine del mondo», che vuole riformare lo IOR e prega con i migranti a Lampedusa. Se i cattolici non sempre credono a quello che dicono di credere, c’è da aspettarsi che il vento porti nuove sorprese, perché «la riforma di Francesco non è stata solo annunciata, ma è già pienamente in atto». Campanini G., Bene comune. Declino e riscoperta di un concetto, EDB, Bologna 2014, pp. 102, € 10,00. 9788810565049 I l concetto di bene comune, categoria-chiave del pensiero politico e dell’insegnamento sociale della Chiesa, stenta oggi a essere assunto come punto di riferimento nelle società occidentali. Dopo la grande stagione solidaristica del secondo dopoguerra, l’accentuato individualismo che caratterizza la postmodernità tende a enfatizzare le rivendicazioni autoreferenziali e a ridimensionare l’intervento pubblico, interpretato come ostacolo nei riguardi del libero agire dei singoli. Anche l’emergere delle problematiche ambientali, che non possono essere affrontate a livello locale ma esigono una visione globale, richiede un ripensamento del concetto in una prospettiva universalistica, capace di ricollocare l’uomo al centro. Rivisitata in una nuova prospettiva, l’antica categoria di bene comune si presenta, in questo modo, come un fondamentale banco di prova per i diritti umani. Il Regno - attualità 14/2014 477 L ibri del mese / schede Cantalamessa R., Valli A.M., Il bambino che portava acqua. Una vita a servizio della Parola, Àncora, Milano 2014, pp. 155, € 20,00. 9788851413033 V alli, vaticanista del TG1, intervista padre Cantalamessa, attraverso una serie di colloqui dai quali ha origine il libro. Le origini e gli anni dell’infanzia, la vocazione, gli studi e gli anni da insegnante, l’incontro con il Rinnovamento nello Spirito e col concilio Vaticano II sono alcuni dei temi che hanno dato corpo all’intervista, il tutto con un tono diretto e colloquiale, tipico di questo frate cappuccino che ha fatto della parola di Dio il centro della sua missionarietà e della sua predicazione. Una Parola predicata con dedizione e fortezza, tanto da diventare «predicatore della casa pontificia» nel 1980, incarico ricoperto sotto i pontificati di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco: e del papa argentino C., noto al pubblico televisivo come conduttore della trasmissione A sua immagine, apprezza la capacità comunicativa incentrata sulla semplicità e su Gesù. Cozza R., La custodia dell’umano. Nuovi orizzonti per la vita religiosa, EDB, Bologna 2014, pp. 127, € 10,00. 9788810507391 L a vita religiosa sta con fatica cercando nuove strade per reinventarsi, nel desiderio di non lasciarsi imprigionare dal passato, anche se glorioso, e nello sforzo d’immaginare un futuro ancora tutto da inventare. Papa Francesco, con il suo parlare semplice e diretto, evangelico e profondamente umano, invita a uscire dal tempo delle diagnosi per entrare nel tempo della profezia. Ma come? La vita religiosa è ancora capace di cogliere il soffio dello Spirito per fare strada con l’uomo d’oggi, guardandolo con simpatia e cordiale amicizia, offrendo un’esperienza di fraternità che non esclude nessuno, ma che coinvolge tutti perché ricca di umanità? Proprio «la custodia dell’umano», argomenta l’a., invita a «essere fedeli al tempo che ci rende fedeli all’eterno», fedeli alle persone che cambiano le relazioni e le istituzioni. Dobner C., L’eccesso. Carlo Maria Martini e l’amore per Gerusalemme, EDB, Bologna 2014, pp. 108, € 10,00. 9788810104972 P er il card. Martini, Israele non è stato «un tema fra gli altri» e lo sguardo su Gerusalemme non si è collocato sul piano della ricerca astratta o della curiosità intellettuale, ma si è nutrito di una certezza: la priorità del popolo ebraico nel disegno di Dio. L’intento del libro – vincitore del Premio internazionale Carlo Maria Martini 2013 – è di cogliere nella riflessione del cardinale, anche attraverso una selezione di testi poco noti, il luogo teologico e teologale – Gerusalemme, eccesso – da cui è scaturito il suo impegno per il dialogo ebraico-cristiano, ma anche il suo ruolo, come biblista e come arcivescovo di Milano, nelle concrete relazioni tra cristiani ed ebrei. «Un ritardo che ci deve pesare molto – sosteneva Martini – è il non aver considerato vitale la nostra relazione con il popolo ebraico. La Chiesa, ciascuno di noi, le nostre comunità, non possono capirsi e definirsi se non in relazione alle radici sante della nostra fede, e quindi al significato del popolo ebraico nella storia, alla sua missione e alla sua chiamata permanente». Malmesi M., Il diavolo oggi. Rilevanza culturale e interpretazione, Pazzini Stampatore Editore, Verucchio (RN) 2014, pp. 75, € 9,00. 9788862571852 I l vol. è un’indagine fenomenologica sulla realtà del male e sul suo rapporto con il processo di secolarizzazione, che coniuga filosofia e sociologia nel tentativo di comprendere «ciò che significa dire diavolo e demoniaco oggi». Divisa in due parti, la riflessione indaga in primo luogo la rilevanza cultuale del demoniaco, mettendo in luce la mentalità di sette e movimenti pseudo religiosi e gli «universi della mente» che richiamano il demoniaco; e in secondo luogo individua ciò che credenti e non credenti possono utilizzare per contrastare le forze del negativo, privilegiando in modo particolare gli strumenti della laicità e l’incontro dei diversi saperi. Müller G., Povera per i poveri. La missione della Chiesa. A cura di P. Azzaro, con scritti di G. Gutiérrez e J. Sayer, LEV – Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2014, pp. 310, € 20,00. 9788820992767 I ntrodotta da una Prefazione dello stesso papa Francesco, la riflessione dell’a. – prefetto della Congregazione per la dottrina della fede – indaga la rilevanza «kairologica» che «l’opzione preferenziale per i poveri» riveste: per la vita e il futuro della Chiesa universale e per la sua missione evangelizzatrice. Il vol. è inoltre arricchito da scritti di Gustavo Gutiérrez e Josef Sa- 478 Il Regno - attualità 14/2014 yer. Come commentava G. Vecchi sul Corriere del19.2.2014, si tratta di «una riflessione sulla povertà di là dalle forzature ideologiche (Müller spiega che “l’autentica Teologia della liberazione” è “opposta” al “marxismo” come all’”odierno liberismo”), alla luce essenziale del Vangelo e di quella «conversione» della vita che fa riconoscere gli altri come fratelli». Ramirez S., La tenda e il grembiule. La Chiesa nell’insegnamento di don Tonino Bello. Presentazione di mons. M. Semeraro, Edizioni Vivere in, Roma – Monopoli (BA) 2013, pp. 211, € 15,00. 9788872634554 L a collana «Testimoni» presenta mistici e religiosi che, con la loro vita, hanno testimoniato la fede in Dio e i valori cristiani. L’a., presbitero di Conversano-Monopoli, firma questo ritratto del vescovo don Tonino Bello. Il vol. ne ripercorre la vita di un sacerdote e vescovo attivo in prima persona nelle battaglie contro la tossicodipendenza e l’emarginazione e in favore della pace. Rossi G., Leonardi S. (a cura di), Mario Cortellese: un laico cristiano al servizio del bene comune, Studium, Roma 2014, pp. 352, € 25,00. 9788838242564 I n un contesto di grave crisi del paese, in cui si auspicherebbe l’impegno di cattolici laici maturi, «la testimonianza di un intellettuale cristiano come Mario Cortellese (1913-2010), che ha speso la sua vita al servizio della Chiesa e della società, può aiutare a ritrovare le ragioni profonde di un rinnovato impegno nella storia». Con questo intento la diocesi di Acireale ha dedicato nell’ottobre 2012 un convegno a questa figura. Il vol. raccoglie le relazioni, approfondendo l’itinerario di C. e il suo impegno ecclesiale e professionale e inquadrandolo nel suo contesto storico; nel seguito si presenta una breve antologia di suoi scritti. Sansonetti V., Tradigo A., Nel nome di Giovanni. Due papi santi e due epoche a confronto, Mimep-Docete, Roma 2014, pp. 171, € 20,00. 9788884242716 A ngelo Roncalli e Karol Wojtyla: due storie, due papi, due santi. Questo è il contenuto del libro. Due santi che hanno in comune il radicamento nella tradizione della Chiesa cattolica ma con storie personali molto differenti. Vivono momenti storici diversi ed esigenze della Chiesa molto diverse così com’è diversa anche la loro immagine pubblica: Giovanni XXIII campione della semplicità, Giovanni Paolo II genio della comunicazione con le folle. I due papi così diversi sono stati tuttavia canonizzati lo stesso giorno, a testimonianza della possibile coesistenza di due volti e di due anime all’interno della stessa Chiesa. Tagliaferri M. (a cura di), Mons. Francesco Lanzoni. Cultura e fedeltà alla Chiesa, EDB, Bologna 2014, pp. 192, € 18,00. 9788810408407 A tti del XXXII convegno di «Ravennatensia» dedicato a mons. Francesco Lanzoni in occasione dei 150 anni dalla nascita. Figura poliedrica e di rilievo nel contesto della cultura cattolica di fine Ottocento e inizio Novecento, il sacerdote faentino è noto per le sue pionieristiche ricerche nel campo dell’agiografia e della storia ecclesiastica antica. Ha contribuito a gettare le basi per una evoluzione del metodo storico-critico in Italia, nel solco della migliore tradizione della storiografia erudita europea. Vanier J., La nostra vita insieme. Una biografia sotto forma di corrispondenza, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2014, pp. 292, € 20,00. 9788821591860 V anier, fondatore delle comunità dell’Arca e Fede e luce, presenta al pubblico italiano una selezione di lettere o loro brani per dare ragione, in un’ottica personale, della strada che lo ha portato a mettere in pratica, nella vita comunitaria, il messaggio del Vangelo. Il c. introduttivo spiega la scelta dei testi e l’orientamento di fondo dell’opera. Successivamente, il vol. si articola in 5 parti, ciascuna corrispondente ad alcuni anni specifici e, contemporaneamente, alle aree geografiche visitate nel corso della sua attività. La parte conclusiva riprende il filo rosso dell’Introduzione per sottolineare come il testo non sia soltanto una sorta di autobiografia epistolare, ma si rivolga al futuro, riflettendo sul modo in cui l’esperienza di vita comunitaria potrà trovare nuove progettualità. CXXXII R1f_JamesKallaiNagy:Layout 1 17/06/14 01.12 Pagina 1 BETHAN JAMES - KRISZTINA KÁLLAI NAGY In sella a un asinello Zappa C., Mosaico Turchia. Viaggio in un paese che cambia, Edizioni Terra Santa, Milano 2014, pp. 156, € 14,90. 9788862402156 L’ a., che da anni si occupa di Medio Oriente, descrive la Turchia come un vero e proprio mosaico fatto di culture e religioni diverse, nel quale convivono molteplici etnie, purtroppo non sempre in armonia fra loro. Il libro descrive l’evoluzione di un paese storicamente al centro del rapporto fra Occidente e Oriente, soprattutto per quanto riguarda il dialogo interreligioso, tanto da essere definito metaforicamente come un ponte, culturale oltre che geografico. Non meno importante è la dimensione politica, soprattutto date le recenti vicende che hanno interessato la popolazione turca, come le proteste di Istanbul e i negoziati di adesione all’Unione Europea. Un mosaico fatto di diversi tasselli, tenuti insieme dal multiculturalismo, dalla globalizzazione e dal processo di modernizzazione che sta interessando il paese, divenuto espressione di mille voci e mille volti, i quali hanno bisogno, sempre più, di dialogo e reciproca conoscenza e comprensione. Filosofia Biscuso M., La tradizione come problema. Questioni di teoria e storia della storiografia filosofica, Morcelliana, Brescia 2013, pp. 172, € 20,00. 9788837227647 R P er introdurre i piccoli all’evento della Pasqua, il racconto narra l’ultima parte della vita di Gesù, dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Pentecoste. I disegni coloratissimi e il linguaggio semplice, le pagine cartonate con bordi arrotondati rendono il volume adatto a bambini in età prescolare. «PICCOLI IN ASCOLTO» pp. 28 - € 6,90 NELLA Jan Godfrey – Gail Yerrill GLI ANIMALI NELLA BIBBIA STESSA COLL ANA pp. 32 - € 8,00 accolta di saggi nei quali l’a., appoggiandosi al pensiero di filosofi molto eterogenei come Platone, Aristotele, Hegel e Luigi Scaravelli, sviluppa un discorso ad ampio respiro sulla funzione e il significato della storiografia filosofica e sull’impatto più o meno esteso che il pensiero passato, R1f_Palagi:Layout 1 17/06/14 01.06 Via Scipione Ferro, 4 - 40138 Bologna PaginaDal 1Via Nosadella 6 - 40123 Bologna Edizioni Edizioni inteso come «patrimonio di razionalità autocosciente», è capace di esercitaTel. 051 3941511 - Fax 051 3941299 Tel. 051 4290011 Fax 051 4290099 Dehoniane Dehoniane re sulla riflessione dei singoli filosofi. Emergono così due orientamenti www.dehoniane.it ( junior) www.dehoniane.it Bologna Bologna principali attraverso i quali cogliere la «tradizione» così concepita: quello del suo peso condizionante, o quello «della possibilità di un uso originale del patrimonio tràdito». EDB Ceronetti G., Quinzio S., Un tentativo di colmare l’abisso. Lettere 1968-1996. A cura di G. Marinangeli, Adelphi, Milano 2014, pp. 444, € 34,00. 9788845928758 T ra «passioni contrapposte ci si intende come si può». Il vol. testimonia l’amicizia epistolare tra «due adelphiani della prima ora»: Ceronetti, filologo e letterato non credente («eretico che non abiura»), e Quinzio, teologo dalla fede esigente, divorato dalla passione per il testo biblico. «La teologia della risurrezione dei morti mi faceva ritrarre come da un patibolo. È possibile che in queste lettere Sergio ne abbia seminato tracce: per lui era un dogma assoluto». Una sorta di «duello», senza risparmio di colpi, nel quale nessuno dei due cerca di convincere l’altro. «Colmare l’abisso» che separa le loro posizioni ideologiche non è possibile e i due amici lo sanno. Ma affermando e ribadendo a ogni passo la loro «diversità», essi sembrano ritrovarsi vicini nell’attenzione all’umano e nella compassione per la sua fragilità. Engelhardt Tristram H. jr, Dopo Dio. Morale e bioetica in un mondo laico. A cura di L. Savarino. Traduzione di R. Rini, Claudiana, Torino 2014, pp. 314, € 23,50. 9788870169782 T esto del filosofo e teologo statunitense di origini tedesche passato dalla confessione cattolica a quella ortodossa così come ha voluto chiarire in una sua opera precedente, quel Manuale di bioetica che lo ha posto al centro del dibattito attuale sulle problematiche a essa collegate. In questa nuova opera l’a. torna con una prospettiva notevolmente provocatoria e destinata a suscitare ulteriori dibattiti: ripensare il destino dell’etica in questa fase storica caratterizzata dalla modernità secolare e postilluministica, o forse sarebbe più esatto dire dalla de-secolarizzazione della secolarizzazione. Il vol. è arricchito dalla lucida e rigorosa Introduzione di Luca Savarino. Gilbert P., La semplicità del principio. Introduzione alla metafisica, EDB, Bologna 2014, pp. 280, € 31,50. 9788810430194 L a ricerca del principio ultimo della conoscenza ha inseguito, sin dalle origini, ciò che limita e convalida la ragione nelle sue diverse attività. E se il pensiero antico ha misurato la potenza del discorso e legittimato i suoi CXXXIII Il Regno - attualità 14/2014 479 EMANUELE PALAGI I segnali del disagio Guida per adulti ai problemi dei ragazzi U no strumento semplice e chiaro per capire come leggere e interpretare alcune manifestazioni del comportamento adolescenziale e preadolescenziale. Al contempo, è l’occasione per indagare i problemi più comuni e le strategie di prevenzione. L’obiettivo è imparare a osservare i segnali del disagio, comprenderne la natura e favorirne il superamento. RAFFAELLO ROSSI L’ascolto costruttivo NUOVA EDIZIONE Edizioni Dehoniane Bologna «PERSONA E PSICHE» pp. 168 - € 15,00 NELLA STESSA COLLANA pp. 272 - € 23,00 L ibri del mese / schede principi logici mediante ciò che li trascende, la riflessione contemporanea ha insistito sul ruolo dei valori e dell’affettività nel determinare i campi delle investigazioni scientifiche. La ragione non è solo un’attività neutra di conoscenza poiché si radica, in ultima analisi, nell’aspirazione d’incontrare l’altro, di rispettarlo nella sua irriducibilità. L’introduzione alla metafisica proposta dall’a. è attenta alla svolta trascendentale della modernità e integra molti aspetti di un’antropologia delle facoltà umane, soprattutto dei gradi di conoscenza (sensibilità, ragione, intelletto) interpretati nella direzione di un’etica intersoggettiva. La categoria chiave è «atto d’essere», inteso senza assoggettamento alle pretese razionaliste delle scienze contemporanee, né alle nozioni formali dei manuali della scolastica. La riflessione procede prendendo in esame le questioni della metafisica contemporanea e delle sue categorie essenziali, per esempio la «differenza» o la «persona», e altri temi della fenomenologia contemporanea nei suoi aspetti metafisici o fondamentali. Grondin J., Leggere Paul Ricoeur, Queriniana, Brescia 2014, pp. 154, € 14,50. 9788839908704 I ntroduzione generale e divulgativa alla filosofia di R. L’a., nella ricostruzione del pensiero del filosofo francese, privilegia la questione dell’ermeneutica, da intendersi come «il nome di un ascolto ragionato e riflessivo dei racconti e dei metodi che riconoscono un significato e una direzione allo sforzo umano di esistere». Da questo approccio deriva una generale apertura nei confronti dei più disparati ambiti disciplinari delle scienze umane, tutti capaci di dire qualcosa sul carattere fondamentalmente drammatico dell’esistenza umana, contrassegnata da una «finitezza insormontabile». Storia, Saggistica Buzzi F., Tolleranza e libertà religiosa in età moderna, Centro ambrosiano, Milano 2013, pp. 169, € 12,90. 9788880259893 A l termine dell’agile e acuta analisi condotta dall’a., noto e affermato studioso cattolico del mondo protestante, sul binomio tolleranza e libertà religiosa si può ammirare uno splendido disegno di Albrecht Dürer rappresentante l’Allegoria. Gli studiosi del grande pittore tedesco vi hanno creduto di scorgere tutto ciò che c’è di più vitale ed essenziale per l’umanità come, ad esempio, la libertà religiosa, sempre esposta a essere colpita e repressa. Il vol. sotto questa prospettiva ripercorre i nodi salienti di quel binomio nel corso del XVI e XVII sec., periodo che è una vera e propria fucina per raggiungere quella Weltanschauung, visione del mondo, vero e proprio lascito del nostro passato storico da proteggere e da «esportare» con le sole armi della pace e della cultura. Colombo V., Galantini L., Diritti umani e identità religiosa. Islam e cristianesimo in Medio Oriente: un profilo storico-giuridico, Vita e pensiero, Milano 2013, pp. 157, € 16,00. 9788834326381 I l fattore identitario religioso, lungi dall’essere venuto meno nei processi di formazione degli ordinamenti politici e giuridici, nel mondo arabo islamico post-primavera araba si è riconfermato come fondamento etico, giuridico e normativo nelle libertà fondamentali della persona, con molti casi di conflitto con la concezione universalista dei diritti umani. Dopo un’analisi comparativa della recezione dei diritti umani in Occidente e negli ordinamenti islamici (L. Galantini) e un profilo storico-religioso della presenza dei cristiani in Medio Oriente (V. Colombo), gli aa. argomentano a favore: 1) di una «blindatura a difesa» del dissenso politico, culturale e religioso nei paesi islamici similmente alla Dichiarazione di Helsinki, e 2) del riconoscimento dello status di rifugiato politico ai cristiani che subiscono persecuzioni nei paesi d’origine per motivi di ordine religioso e politico. Eusebi L., La Chiesa e il problema della pena. Sulla risposta al negativo come sfida giuridica e teologica, La Scuola, Brescia 2014, pp. 188, € 14,50. 9788835035626 P uò la comminazione della pena prescindere da una domanda su «quale» idea di giustizia essa si fondi? Evidentemente no, anche se, a conti fatti, i sistemi penali contemporanei sono espressione di un’idea punitiva 480 Il Regno - attualità 14/2014 tra le molte possibili di cui a ogni piè sospinto se ne rimarcano i limiti. Il vol. riflette a cavallo tra teologia e filosofia del diritto e s’interroga se la concezione di giustizia «salvifica» di cui il cristianesimo è portatore non possa e con frutto trovare applicazione nei sistemi giuridici contemporanei, anche in quello della… Città del Vaticano. Ginsborg P., Famiglia Novecento. Vita familiare, rivoluzione e dittature 1900-1950, Einaudi, Torino 2013, pp. XXVIII + 678, € 35,00. 9788806203948 L’ ampio affresco dello storico inglese oggi docente a Firenze ritrae 5 casi europei – Unione Sovietica, Turchia, Italia, Spagna e Germania – tra il 1900 e il 1950 attraverso la lente della famiglia, prima e durante i diversi regimi «totalitari» che li hanno portati alla rivoluzione o alla dittatura. L’innovativa idea che lo guida è tanto semplice quanto sinora inesplorata: «Non sono solo gli intenti dei regimi a contare, ma gli intenti della famiglie», dice l’a., «grandi escluse dalla storia». Non si possano infatti ignorare – come fece per esempio H. Arendt ne Le origini del totalitarismo – «le lealtà e le realtà familiari», e l’idea che la famiglia «è soggetto oltre che oggetto» delle vicende storiche. Così, studiando le misure pronataliste che accomunano i 5 casi, la concezione della famiglia all’interno del loro progetto egemonico, i ruoli dell’uomo e della donna anche attraverso le espressioni di artisti vicini ai regimi, i tentativi di riforma dei codici civili, emerge una sostanziale inefficacia – messa in evidenza anche nella sezione «Statistiche demografiche ed economiche» curata assieme a G. Salinari – di queste misure. Anche perché in realtà i regimi nel tentativo maldestro di togliere la famiglia dall’ambito del privato hanno finito col distruggerla tramite sia l’esito bellico delle loro politiche estere sia le forme violente di controllo interno. La tendenza da parte delle famiglie a resistere e a diffidare dei regimi non è stata sufficiente a costituire una società civile – e l’a. individua anche una responsabilità della Chiesa cattolica in questo – che potesse resistere ed evitare il peggio di fronte a potenti apparati repressivi. Da leggere in parallelo col vol. di Tonelli su Gli irregolari. Jori G. (a cura di), Ponzio Pilato. Storia di un mito, Leo S. Olschki, Firenze 2013, pp. XIV + 246, € 25,00. 9788822262493 I diversi contributi che compongono il vol. sono dedicati alle riscritture «di quel mito di Ponzio Pilato che, dalle origini del cristianesimo al nostro tempo, attraversa i secoli e la geografia dell’Europa cristiana (…)». Accompagnati da un interessante apparato iconografico, gli studi presentati intendono arricchire la riflessione sul rapporto fecondo tra Bibbia e letteratura. Montanari D., I poveri della città. Carità e assistenza nella Brescia moderna, Morcelliana, Brescia 2014, pp. 152, € 18,00. 9788837227210 U na ricerca, condotta su fonti archivistiche finora poco utilizzate, ricostruisce il sistema dell’assistenza bresciana in età moderna. Ospedali, Monti di pietà e Confraternite costituiscono la «tripolarità caritativo-assistenziale» che permette al ceto dirigente di affrontare le urgenze della fame garantendo la tenuta sociale. Rifacendosi al metodo storiografico di Jean Pierre Gutton per la città di Lione, l’a. suddivide i bisognosi in fasce: poveri strutturali, congiunturali e non indigenti. La pesante carestia, che investe la città nel 1527 e si protrae nell’anno successivo, diventa lo stimolo per trovare nuove soluzioni più al passo coi tempi. È il caso della fondazione dei Monti di pietà, sorti per colmare la lacuna di un tessuto sociale poco dotato di liquidità, offrendo insieme un’opportunità di reinserimento sociale ai «poveri della crisi». Nove A., Tutta la luce del mondo. Il romanzo di san Francesco, Bompiani, Milano 2014, pp. 294, € 18,00. 9788845275517 «N el Medioevo tutto era stupendo. Nel senso che era pieno di stupore»: questo l’incipit dell’ultimo romanzo di Aldo dice 26 x 1, lo pseudonimo che l’a. –Antoino Centanin – si è scelto in omaggio al telegramma del CLNAI che diffuse l’avviso in codice sul giorno e sull’ora in cui sarebbe dovuta scattare nell’aprile del 1945 l’insurrezione partigiana a Torino contro l’occupazione tedesca. Aldo è il nome, Nove la somma di 2+6+1. Il Medioevo, dunque. Un’età di mezzo rivisitata avendo in mente gli amori, i monaci, gli orchi, i santi, i mostri, ma, soprattutto, i miracoli. Di miracoli, infatti, è colma quell’epoca che guardava la realtà innanzitutto CXXXIV con gli occhi della fede: i miracoli erano un fatto quotidiano proprio come ora è Google. Un ragazzino, Piccardo, nipote di Giovanni di Bernardone, conosciuto ai più con il semplice nome di Francesco, sa di questo suo strano zio: lo inquieta, lo cattura, ne ha timore. Insieme ad altri personaggi segue le tracce che il poverello di Assisi lascia durante il suo passaggio terrestre. Lo incontrerà e a bruciapelo gli chiederà «Zio, tu sei santo?». Ma perché raccontare un libro che narra con sincero stupore la storia di un santo quando è così bello leggerlo? Subrahmanyam S., Mondi connessi. La storia oltre l’eurocentrismo (secoli XVI-XVIII), Carocci, Roma 2014, pp. 275, € 19,00. 9788843062539 V engono presentati ai lettori italiani alcuni saggi particolarmente rappresentativi del pensiero di Sanjay Subrahmanyam, storico indiano fondatore della «connected history», che rilegge la storia dell’Asia meridionale nell’ambito dei movimenti congiunturali di un più largo spazio eurasiatico. Nelle tre parti del vol. innanzitutto viene presentato il modello delle storie connesse, quindi si affronta criticamente la storiografia indiana debitrice dei «subaltern studies», infine si esplorano le possibilità offerte dalla biografia per ricostruire la dimensione concreta delle interazioni globali, con un’impressionante dimostrazione dell’abilità dell’a. di tenere insieme e far interagire i piani della microstoria e della macrostoria. Tonelli A., Gli irregolari. Amori comunisti al tempo della Guerra fredda, Laterza, Roma – Bari 2014, pp. 192 – e-book, € 18,00 – 10,99. 9788858111789 - 9788858113905 L a «compresenza dentro l’universo comunista di “tante morali” (…) trova nella storia degli “irregolari” nuovi spunti per inserire e interpretare il ruolo del PCI nel rapporto con la società. (…) il PCI rimane radicato a un’idea di moralità astratta e funzionale, quasi sempre incapace di veicolare la gamma di passioni e sentimenti all’interno di una vera sociabilità politica. Per questo “gli’irregolari dell’amore” comunisti rappresentano i migliori attori di una storia del PCI che, attraverso l’esperienza sentimentale, supera un’impostazione di tipo ideologico, seguendo quel filone di storia culturale che riflette sull’uso politico dei sentimenti e delle emozioni (…). Un tassello ulteriore da aggiungere al sempre più consolidato campo di riflessione sulla famiglia come “lente privilegiata attraverso cui raccontare la storia del Novecento”». Cf. il vol. di P. Ginsborg, Famiglia Novecento. Politica, Economia, Società Bauman Z., La scienza della libertà. A cosa serve la sociologia? Conversazioni con M.H. Jacobsen e K. Tester. Traduzione di R. Mazzeo, Erickson, Trento 2014, pp. 154, € 15,00. 9788859005582 L’ editore trentino traduce prontamente e presenta al lettore italiano una recente intervista (What use is Sociology?) nella quale l’a., uno tra i più noti e prolifici sociologi viventi, si dedica a un’appassionata difesa della sociologia, disciplina che attraversa oggi una crisi difficilmente negabile. «Che cos’è»; «perché» farla; «come» farla e «che cosa realizza», sono i titoli di altrettanti cc. di un testo nel quale la causa della sociologia viene perorata in nome di una concezione «relazionale» dell’essere umano, che permette all’a. di definire la sociologia, seguendo la lezione di G. Simmel, la «scienza della libertà». «Leggendo il testo è molto chiara la volontà di Bauman di consegnare qui la sua eredità» (dalla Prefazione di M. Magatti). Biggeri U., Il valore dei soldi. Banche, finanza ed etica oltre il mito della crescita, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2014, pp. 169, € 12,00. 9788821592188 V ol. dedicato alla finanza, intenzionalmente redatto con un linguaggio semplice e non specialistico dall’attuale presidente di Banca Etica. Senza indulgere in demonizzazioni del denaro, delle banche o del mercato, l’a. passa in rassegna gli aspetti teorici e pratici essenziali di questo settore fondamentale dell’economia, cercando altresì d’illustrare l’impatto profondo da essa esercitata nella vita concreta dei singoli, nonché le principali CXXXV cause della crisi finanziaria che alligna in questi anni, colte nella separazione fra economia reale ed economia virtuale, ovvero, da un altro punto di vista, fra società e mercato. Bobbio N., La strage di Piazza della Loggia, Morcelliana, Brescia 2014, pp. 65, € 8,00. 9788837228163 A quarant’anni dalla strage di Piazza della Loggia e a dieci dalla scomparsa di Norberto Bobbio, le riflessioni del filosofo torinese sono state raccolte in un agile vol. Una lettera, un articolo, una conferenza e un’appendice con una relazione ricostruiscono il pensiero dell’ a. su un’azione talmente malvagia da avvicinarla al «male radicale». Pagine che costituiscono una penetrante riflessione sui limiti della democrazia, sui rischi involutivi del potere, quando si sottrae al controllo pubblico. Nell’assenza di una verità giuridica, non ancora acquisita, un richiamo a far rivivere «dentro di noi quei morti e trattenendoli ancora non lasciarli sparire nel nulla». D’Amico M., Progettare in Europa. Tecniche e strumenti per l’accesso e la gestione dei finanziamenti dell’Unione Europea. Aggiornato alla programmazione 2014-2020, Erickson, Trento 2014, pp. 244, € 23,00. 9788859004899 A ll’inizio della «nuova programmazione finanziaria 2014-2020 dell’Unione Europea, il vol. intende offrire un aggiornato supporto teorico e pratico per orientarsi tra le diverse opportunità di finanziamento per la realizzazione di interventi co-finanziati dall’Unione Europea», fornendo «gli elementi base e gli strumenti necessari per rispondere ai bandi europei e gestire con successo i progetti finanziati». Dossetti G., «Non abbiate paura dello stato!». Funzioni e ordinamento dello stato moderno. La relazione del 1951: testo e contesto. A cura di E. Balboni, Vita e pensiero, Milano 2014, pp. XI + 316, € 22,00. 9788834326299 I l presente vol. non è un ulteriore libro su G. Dossetti, ma presenta la versione riveduta e corretta, oltre che arricchita da numerose note che chiariscono il contesto del testo, della relazione generale tenuta dal politico e sacerdote bolognese a Roma il 12.11.1951, al III Convegno nazionale di studio dell’Unione giuristi cattolici italiani. La II parte del vol., invece, si compone delle sintesi e dei commenti delle relazioni particolari – affidate tra gli altri ad Aldo Moro, Mario Romani, Giorgio La Pira – nonché di spunti e approfondimenti sviluppati a partire dal saggio dossettiano. Galeotti G., Diritti, democrazia e benessere. Studio economico degli istituti giuridici, G. Giappichelli Editore, Torino 2013, pp. XII + 268, € 12,00. 9788834827147 O ccuparsi di istituzioni democratiche significa percorrere un labirinto di tante tematiche fra loro connesse: storia, diritto, filosofia, politica ecc. L’a. è stato capace di mettere in campo queste diverse conoscenze necessarie per comprendere gli snodi che caratterizzano questo campo di studio. La lettura non è facile e chiede al lettore un grande impegno ma questo sforzo è ripagato da una maggior consapevolezza dell’intreccio delle questioni che caratterizzano la vita di uno stato democratico. Il testo, che vuol essere una sintesi critica di questa materia, non pretende di risolvere i problemi aperti, perché le risposte possono scaturire solo dal complesso degli interessi individuali e di gruppo di una società. È significativo che più volte nel testo incontriamo il nome di Popper, filosofo che, più di altri, ha evidenziato i rischi, per uno stato democratico, di trasformarsi in uno stato totalitario. Gesualdi F., Le catene del debito. E come possiamo spezzarle, Feltrinelli, Milano 2013, pp. 190 – e-book, € 14,00 – 9,99. 9788807172687 – 9788858814376 I l debito pubblico che sta strozzando il nostro paese non è un problema solo italiano ma da noi assume una particolare acutezza per una cattiva distribuzione della ricchezza, per un sistema fiscale che protegge soprattutto i grandi patrimoni e per un’evasione fiscale estesa. L’a., oltre a considerare questa situazione, mette in evidenza nel quadro del neoliberismo imperante che le grandi banche lucrano sul debito pubblico contando sulla fragilità del paese costringendo poi lo stato a intervenire a sostegno della propria economia a spese del contribuente. In questo gioco al massacro i cittadini Il Regno - attualità 14/2014 481 L ibri del mese / schede sembrano burattini che non riescono a condizionare queste scelte neppure attraverso la classe politica che dovrebbe essere l’espressione della loro volontà. Il libro ci porta a riflettere su questa realtà politica e finanziaria e indica come percorso possibile per uscirne quello di un’economia solidale secondo i principi della decrescita che tuttavia appare ancora un progetto nebuloso. Nussbaum M.C., Persona oggetto. Traduzione e cura di R. Mazzeo, Erickson, Trento 2014, pp. 118, € 9,00. 9788859005551 I n questo breve ma denso saggio, l’a. – docente di Diritto ed etica presso l’Università di Chicago – indaga le differenti declinazioni in cui l’«oggettualizzazione» del corpo dell’altro (in questo caso della donna) si manifesta nella società attuale, descrivendone le caratteristiche e le implicazioni, per individuare i limiti morali, fisici e psicologici che portano a considerare il corpo come una proprietà. Viafora C., Marin F., Morire altrove. La buona morte in un contesto interculturale, Franco Angeli, Milano 2014, pp. 219, € 28,00. 9788891707352 V a premesso che il «morire» indicato dal titolo si riferisce a tutte le problematiche attinenti le ultime fasi della vita, e che per «buona morte» nel sottotitolo non s’intende l’eutanasia ma un degno e umano trapasso. L’emergente questione dell’accompagnamento alla morte di persone appartenenti a culture diverse da tempo ormai sollecita una riflessione bioetica adeguata, perché le problematiche che le istituzioni sanitarie devono affrontare sono molteplici. Come accompagnare adeguatamente chi si trova a terminare i suoi giorni lontano dal suo paese, e come venire incontro alla sua immagine di buona morte? La I parte analizza le prospettive sulla buona morte nella tradizione occidentale (sociologiche, psicologiche, filosofiche e teologiche); la II dà conto del confronto interculturale (nel quale è ricompreso l’orizzonte religioso). Con una finalità «pubblica»: la ricerca di un’appropriazione umana del morire che va in direzione opposta alla strategia tuttora dominante della negazione della morte. Zamagni S., Mercato, Rosenberg & Sellier, Torino 2014, pp. 141, € 9,50. 9788878852518 «D i tutto il lessico economico – e oggi anche politico – la parola mercato è senza dubbio alcuno la parola più frequentemente utilizzata nel discorso pubblico, oltre che nella conversazione privata». Per questa ragione essa è spesso al centro di fraintendimenti e distorsioni, talvolta gravidi di pericolose conseguenze. Il vol. ha un duplice intento: da una parte quello di contrastare quelle formulazioni superficiali e imprecise della parola in oggetto che portano a un disagio diffuso nei confronti del sapere economico; dall’altro, sfatare il mito secondo cui questo sapere sia di esclusiva pertinenza degli addetti ai lavori, mostrando come esso sia invece un dovere di tutti i cittadini. Zani R., Società della mobilità, Cantagalli, Siena 2014, pp. 278, € 15,00. 9788868790189 E stremamente interessante e ben costruito il vol. del politologo Roberto Zani racconta il percorso evolutivo dell’homo mobilis, l’uomo moderno, cittadino della società globalizzata e iperconnessa. Dalla nascita del telegrafo all’aereo, passando attraverso lo sviluppo delle moderne strategie economiche e politiche globali, l’a. costruisce un percorso ricco di spunti sullo sviluppo della società e sulle tecnologie che lo hanno condizionato e permesso. L’a. in conclusione propone un’avvincente riflessione sul superamento della crisi economica attuale e sulla nascita di uno stato-nazione globale. Pedagogia, Psicologia Bonomi L., Noi come Caino. Custodi maldestri dei nostri fratelli, EDB, Bologna 2014, pp. 198, € 15,00. 9788810513422 I cattivi sono sempre gli altri. Almeno così ci sembra. E Caino, a guardarlo bene, buono non è. Eppure, visto da vicino, ci assomiglia in modo impressionante in molte azioni quotidiane, in «omicidi» più o meno simbolici 482 Il Regno - attualità 14/2014 perpetrati nei confronti di chi ci sta intorno e offusca la nostra immagine. Caino è geloso, teme di perdere la predilezione di Dio, ha bisogno di sopprimere il fratello Abele, i cui doni sono più graditi, e di superare ogni competizione. Dopo il delitto scoprirà che ha versato sangue invano e che i suoi guai non sono affatto finiti. Sembra una favola per bambini, per insegnar loro ad andare d’accordo, per spaventarli del castigo se litigheranno ancora per un gioco, per un gelato o per un futile motivo. Invece è la nostra storia di adulti incapaci di superare le nostre emozioni più tristi, di noi saggi, educati ai valori civili e morali, di noi buoni e aperti all’amore del prossimo. Almeno così crediamo. Finché un conflitto preciso, profondo e indiscusso, ci mette a confronto con gli altri e ripropone l’interrogativo: «Chi è meglio tra due?». Busato Barbaglio C., Rinaldi L. (a cura di), Corpo, cibo, affetti. Una concezione integrata del crescere, Borla, Roma 2013, pp. 278, € 29,00. 9788826318912 N el «nostro lavoro in ospedale [il Policlinico Gemelli di Roma] ci siamo interrogati più volte su quanto i cambiamenti della società attuale – e in particolar modo della famiglia in questa nostra società – possano sostenere la scelta dell’affidare al “proprio corpo” il destino della ricerca difficile dell’identità in adolescenza» (177): questo è il punto interessante del vol., scritto a più mani da un gruppo di operatori che seguono i casi di anoressia. Si tratta di comprendere un disturbo, oggi molto frequente, all’interno di una lettura sociale. Per questo è estremamente interessate leggere il dialogo-prefazione che la curatrice ha intessuto con il noto sociologo F. Ferrarotti, da cui emergono alcune possibile piste d’approfondimento sul rapporto uomo/donna e su quella sorta d’ideologia del benessere oggi imperante di cui il corpo affamato è al contempo vittima e denuncia. D’Alonzo L., Disabilità, obiettivo libertà, La Scuola, Brescia 2014, pp. 189, € 13,00. 9788835036043 I l vol., è una rielaborazione ragionata del precedente Handicap, obiettivo libertà, edito nel 1984 .«Abbiamo rivisto i contenuti per renderli più aderenti a una realtà sociale in continua evoluzione». Autonomia, libertà, lavoro, i diritti (e doveri) di cittadinanza sono i quattro argomenti su cui si sofferma il vol. In ogni sezione vengono trattati diversi aspetti della vita quotidiana di persone affette da disabilità psico-fisiche. Il vol. è rivolto a disabili e non per «una mutua e proficua collaborazione finalizzata alla conquista dell’autonomia da parte delle persone affette da handicap». Gray C., Conversazioni a fumetti. Comprendere le situazioni sociali illustrando in vignette pensieri, emozioni e intenzioni. A cura di D. Vagni, Armando, Roma 2014, pp. 46, € 7,00. 9788866774112 A cura di D. Vagni e dell’associazione Spazio Asperger, che cerca di diffondere una cultura d’integrazione della neurodiversità e di valorizzazione delle persone nello spettro autistico, viene proposto il metodo di conversazione messo a punto da Carol Gray. Semplice e immediato, serve ad aiutare chi ha i disturbi dello spettro autistico a comprendere e comunicare emozioni e pensieri. E serve anche a genitori ed educatori per migliorare la capacità di interagire con i ragazzi, come raccomandato dalle apposite linee guida. Mariotti R., Pettenò L., Genitori in pratica. Manuale di primo soccorso psicologico per aiutare i propri figli nei problemi quotidiani, Erickson, Trento 2014, pp. 132, € 15,00. 9788859004776 E ssere genitori non è mai semplice. Ingenuità e paura di sbagliare mettono a dura prova madri e padri alle prese con bambini e adolescenti irrequieti. Le aa., psicologhe e psicoterapeute, affrontano il problema servendosi di esempi raccolti nel loro lavoro. Nei vari cc. una trattazione puntuale delle principali sfide educative delle famiglie di oggi alle prese con separazioni e problemi legati alla scuola e alla socializzazione. «Risolvere i problemi di infanzia e adolescenza è compito dei genitori, coadiuvati da famigliari ed educatori. Un’infanzia serena è la base di una vita sana». CXXXVI L L ibri del mese / segnalazioni G. Tourn, I protestanti 3. Una cultura. Da Locke a Mandela, Claudiana, Torino, 2013, pp. 505, € 29,50. 9788870169508 I l gesto fu come un nuovo inizio: il 31 ottobre 1517 a Wittemberg, come vuole la tradizione, un monaco agostiniano affisse sul portone della cattedrale un foglio in latino riportante 95 tesi con le quali si scagliava contro gli effetti devastanti che provocavano le indulgenze nell’animo dei credenti. Qualcuno lesse il foglio e reputò che fosse opportuno tradurlo in tedesco affinché si diffondesse: le parole affisse da quell’anonimo monaco agostiniano il cui nome, Martin Lutero, era destinato nei secoli successivi a incarnare l’immagine dell’eretico per antonomasia, furono la scintilla di un’autentica rivoluzione che non solo riconfigurò i campi del sapere teologico, ma i cui effetti ricaddero sull’etica, sulla filosofia, sulla concezione dello stato: una scomposizione e una ricomposizione a opera di un diverso modo di essere cristiani. I protestanti, dunque, chi sono? Effettivamente li conosciamo? Che cosa vuol dire per Locke, Kant, Martin Luther King, Nelson Mandela essere stati protestanti; che cosa vuol dire esserlo oggi in questo inizio millennio? Giorgio Tourn, storico, pastore valdese, allievo a Basilea di Karl Barth e di Oscar Cullmann, per anni presidente della Società di studi valdesi e del Centro culturale valdese di Torre Pellice (TO), un uomo «nascosto» ma senza la cui opera questo paese sarebbe ancor più provinciale, ha portato a termine un lavoro iniziato nel 1993 quando Claudiana diede alle stampe il suo primo volume dedicato ai cristiani che pro-testano, vale a dire che rendono testimonianza della fede evangelica in famiglia, sul lavoro, nelle istituzioni con una sensibilità spirituale e con un’antropologia che a volte disorienta, destabilizza, in ogni caso interroga. Nel 1993 Tourn partiva da una considerazione: in Italia la Riforma protestante è stata per secoli un argomento da sussurrare sottovoce, un tabù che comportava come sua ricaduta pratica un conformismo, un formalismo bigotto, un’autocensura indotta, tra l’altro, anche dalla storica presenza della santa Inquisizione. In quel suo primo volume, intitolato I Protestanti. Una rivoluzione. Dalle origini a Calvino (1517-1564), si manifestava la voglia, innanzitutto spirituale prima ancora che storica, di narrare il cammino delle Chiese nate dalla Riforma. Tourn con questo suo primo tassello non solo ci narrava dei grandi riformatori come Martin Lutero, Giovanni Calvino, Huldrich Zwingli, Martin Butzer (quest’ultimi due, invero, CXXXVII ancora piuttosto ignoti), ma presentava una folla di uomini e di donne che ebbero il coraggio di testimoniare la loro fede in Cristo tra mille traversie anche a costo della loro stessa vita. Quegli anonimi protagonisti del Cinquecento erano semplici latori della «scoperta» di un Evangelo declinato assieme all’aggettivo «solus»: sola gratia, sola fide, sola Scriptura, solus Christus. I quattro pilastri attorno ai quali la galassia protestante non cessa mai di ruotare. Fu un letterato, Fulvio Tomizza, con il suo Il male viene dal Nord (1984), a narrare la storia di uno di quei messaggeri: il nunzio Pier Paolo Vergerio che aderì alla Riforma trovando rifugio prima in Val Bregaglia nei Grigioni, svolgendo in modo esemplare il ministero pastorale e poi, nel 1553, come consigliere presso il duca Cristoforo del Wüttemberg chiamato da quest’ultimo per la vasta cultura religiosa e diplomatica che possedeva. Tourn osservava come una bizzarria il fatto che in Italia fosse stato uno scrittore profugo istriano a scrivere di Vergerio mentre gli storici, anche quelli più raffinati come Carlo Ginzburg, si erano fermati al «mugnaio benandante»: come se il protestantesimo fosse un tabù. Anche se lo stesso Ginzburg, in un memorabile libro del 1970, mai più ripubblicato, indagò il fenomeno del nicodemismo, ovvero la simulazione e la dissimulazione religiosa nell’Europa del XVI secolo contro cui non a caso Giovanni Calvino si scagliò con violenti opuscoli polemici (Il nicodemismo, Einaudi, Torino, 1970). Ma quella folla di evangelici, per un certo pubblico quasi del tutto sconosciuta, aveva invece costruito una società. Così nel 2007 Tourn aggiungeva un secondo tassello con I protestanti. Una società. Da Coligny a Guglielmo d’Orange (1565-1690) – dedicato allo storico valdese Mario Miegge scomparso da pochi mesi – nel quale si proponeva d’illustrare al grande pubblico italiano come i protestanti fossero non un concetto astratto ma carne, sangue, passione, errori, lungimiranza, sconfitte e vittorie di esseri umani, desiderosi di realizzare il progetto di una nuova cristianità. Se per il fondatore dell’ordine dei gesuiti, sant’Ignazio di Loyola, preso da Tourn più che altro come simbolo, significò riconfigurare il progetto cristiano alla luce dell’antico, per Calvino e i calvinisti – anch’essi presi come simbolo – usciti dalla cinta muraria di Ginevra tale progetto assunse un significato ben diverso: per costoro la nuova cristianità ebbe come significato la sfida di reinventarne una assolutamente inedita basandosi sui fondamenti istituzionali della Scrittura e dell’età apostolica. Ecco allora la descrizione dei puritani di Cromwell della Rivoluzione inglese del Seicento; ecco i dissidenti dei Paesi Bassi, i calvinisti riuniti tra il 1618 e il 1619 a Dordrecht; o i sociniani polacchi; o ancora gli immigrati del Massachusetts: tutti rappresentati da Tourn in modo da percepire vividamente la loro incredibile energia e creatività. Certamente furono sconfitti – come gli stessi gesuiti dal loro canto – perché la cristianità volgeva ormai al termine. Restava, però, la cultura. Il terzo e ultimo volume edito nel 2013 proprio di questa tratta. Bayle, Spener, l’autore dei Pia desideria che darà luogo al fenomeno storico del pietismo, il filosofo inglese campione della tolleranza John Locke, lo scienziato Isaac Newton sono – come scrive nell’Introduzione Tourn – «espressione di quel movimento culturale e teologico che troverà piena espressione nel secolo successivo»: la narrazione, dunque, che segue ci introduce negli snodi fondamentali non solo della storia del protestantesimo ma di tutta la cultura occidentale che va oltre i confini europei giungendo sino in Africa. È una storia di protestanti che determinano i grandi filoni del pensiero politico dell’Ottocento, il liberalismo e il socialismo innanzitutto alle prese con la nascita e lo sviluppo del capitalismo, di intelligenze che portano avanti con volontà di ferro l’ecumenismo, di sensibilità che pongono il problema della condizione femminile e della lotta al razzismo. Da Lutero a Mandela: protestanti da conoscere, da studiare a partire da questi tre volumi scritti da un pastore valdese «nascosto» che ha saputo «svelare» un segreto posto sotto gli occhi di tutti. Domenico Segna Il Regno - attualità 14/2014 483 L ibri del mese / segnalazioni L. Messinese, Né laico, né cattolico Severino, la Chiesa, la filosofia, Dedalo, Bari 2013, pp. 160, € 16,00. 9788822053893 Q uesto agile libro di Leonardo Messinese ha il pregio della chiarezza: introduce il lettore «non filosofo» nel pensiero di Emanuele Severino (Brescia 1929), una delle figure più significative e controverse che hanno animato il dibattito italiano degli ultimi anni. Severino è un filosofo complesso, ha proposto tesi discusse e discutibili. Né laico illuminista, né oramai cattolico aderente all’ortodossia: di lui Messinese mette bene in evidenza l’inquieto rapporto con la Chiesa cattolica e con il cristianesimo tout court. Severino non è di certo «indifferente a Dio» e al problema essenziale della «verità» della religione; anzi, «è la stessa concreta struttura del pensiero severiniano a costituirsi come una continua “interlocuzione” con il Dio della metafisica e il Dio della fede cristiana» (119). L’itinerario intellettuale di Severino viene sapientemente delineato in due fasi. Si tratta di una «continuità nella differenza». Nei primi capitoli viene analizzata la formazione del filosofo e viene messa in rilievo la sua particolare adesione alla metafisica classica; tale impostazione è già presente nella sua prima grande opera di carattere teoretico, La struttura originaria, edita nel 1958. In questo testo si delinea la struttura originaria della verità dell’essere, la «via del giorno» indicata da Parmenide, per la quale «l’essere è e non può non essere». La verità dell’essere, nella sua espansione massima, include l’affermazione dell’«Essere assolutamente immutabile del quale, proprio perché tale, veniva mostrata la trascendenza rispetto alla totalità degli enti divenienti (ed era equivalente a ciò che, nel linguaggio delle religioni, è chiamato Dio)» (78). Dunque, ne La struttura originaria l’Essere assoluto è ancora il Dio trascendente della metafisica cristiana. Messinese descrive con particolare attenzione anche le vicende biografiche e teoretiche che hanno segnato l’itinerario di Severino dopo il 1964. In quell’anno il filosofo pubblicò un saggio (il celebre Ritornare a Parmenide) nel quale rigorizzava alcune implicazioni del «principio di non contraddizione», ponendolo a fondamento di una «ontologia dell’eterno»: tutti gli enti, in quanto «sono», sono eterni. Il divenire, inteso come l’incominciare a essere e il cessare d’essere degli enti è solamente apparenza, una «falsa fede» abbracciata dall’Occidente. Secondo Severino, che non nega la varia- 484 Il Regno - attualità 14/2014 zione dello spettacolo dell’apparire, la convinzione che l’ente sia nel tempo, che nasca e muoia, cha nasca dal nulla e scompaia nuovamente nel nulla, è contraddittoria in quanto implica che l’ente, cioè qualcosa che è, sia identificato al suo non essere. A parere di Severino, tutta la cultura occidentale, inaugurata dalla filosofia di Platone (compreso il cristianesimo), ha pensato e agito «come se» l’ente scaturisse dal nulla e ritornasse nel nulla, dunque «come se» ens e nihil fossero la medesima cosa. Nel volume Essenza del nichilismo (1972) le tesi del «ritorno a Parmenide» vengono riprese e ampliate, compiendo un bilancio critico dell’intera filosofia occidentale: la storia dell’Occidente implicherebbe un nichilismo di fondo che Severino intende analizzare e denunciare. A suo giudizio, tutto il pensiero post-parmenideo, il cristianesimo, il marxismo e la stessa tecnica che caratterizza il mondo contemporaneo avrebbero un’intima essenza nichilistica. In particolare, la tecnica pretende – in maniera sempre maggiore – di dominare l’ente, producendolo e distruggendolo a suo piacimento; in questo senso, essa ha preso il posto che spettava un tempo al Dio biblico pantokrátor, creatore del mondo ex nihilo. Severino esorta ad abbandonare questa «via della notte» (il nichilismo) per intraprendere quella «del giorno», ovvero l’ente pensato come Immutabile, concepito un po’ come il sole che continua a esistere anche dopo il tramonto. Sulla base di questa sua «ontologia dell’eterno» Severino perviene a una caratterizzazione non nichilistica della morte. Nel volume La gloria (2001) viene affermato che l’atteggiamento etico di tale negazione della «mortalità del mortale» è quello della «gioia», una visione laica dell’aeterna beatitudo, per molti aspetti simile allo spinoziano amor Dei intellectualis. A suo parere «l’uomo (…) è destinato alla “vita beata”, la quale è ciò che segue alla morte, cioè al compimento della “vita” – quest’ultima essendo l’io empirico della terra isolata. Avvicinandosi alla morte, l’uomo si avvicina alla Gioia. È questa, per Severino, la verità di ciò che il mortale chiama la propria morte. È una verità che si differenzia dalla dottrina greca dell’immortalità dell’anima, ma anche da quella della resurrezione cristiana – la quale, in tale ottica, sarebbe un’impossibile risurrezione di quella “volontà” isolante che ha il suo compimento nella morte» (108). Partendo anche da queste ultime affermazioni, si comprende il complesso rapporto di Severino con la dogmatica cattolica, soprattutto per ciò che concerne l’idea biblica di creazione «dal nulla», la trascendenza divina e la risurrezione del corpo. Messinese analizza con cura anche le fasi del «processo» al quale fu sottoposto Severino dalle autorità ecclesiastiche, le quali nel 1970 dichiararono la sostanziale incompatibilità del pensiero severiniano con l’ortodossia cattolica. In seguito a tale processo canonico, al quale presero parte come periti Cornelio Fabro, Johannes Baptist Lotz ed Enrico Nicoletti, il filosofo lasciò l’insegnamento presso l’Università cattolica di Milano per andare all’Università di Venezia, dove tenne la cattedra di Filosofia teoretica fino al 2001. Ci pare che Messinese insista soprattutto su due elementi: la posizione di Severino nei confronti del cattolicesimo, alla quale abbiamo già accennato, e le fondamentali differenze speculative tra Severino ed Heidegger, spesso frettolosamente accomunati. Messinese in questo e in altri volumi ha sottolineato, riguardo al pensiero di Severino, che non si tratta di «una delle varie forme di nichilismo che caratterizzano la filosofia e la cultura del nostro tempo» (152). In Severino egli scorge una notevole profondità speculativa, spesso fraintesa anche a causa della difficoltà di seguire con pazienza lo sviluppo delle argomentazioni del filosofo. Il pensiero severiniano, presenta nodi irrisolti riguardo ad alcune questioni cruciali, ma è al tempo stesso come una «scossa maieutica» che spinge a prendere seriamente in considerazione il problema metafisico: «Accostandoci a Severino si è condotti, ultimamente, a respirare l’aria che avvolge le cime più alte del pensiero filosofico, ad avvicinare le incontaminate e inaccessibili montagne alle quali Heidegger paragonava le “grandi metafisiche”, e a saper stare nella cerchia di questo “sovrastare”» (153). Tommaso Valentini J.W. O’Malley, Trento Il racconto del Concilio, Vita e Pensiero, Milano 2013, pp. 276, € 20,00. 9788834323410 È un gioiello il volume che il gesuita John O’Malley dedica al concilio di Trento, l’evento che ha cambiato il volto della Chiesa cattolica nel XVI secolo. La traduzione italiana di questo vol. pensato per un pubblico di specialisti di lingua inglese, pur non priva di qualche svista, offre uno strumento aggiornato e chiaro per cogliere cosa è stato il Concilio; da quali fattori esterni è stato condizionato; quali sono state le sue dinamiche interne; infine, cosa ha favorito e condizionato la ricezione delle decisioni finali nel postconcilio. Pur riconoscendo il debito contratto con la Storia del concilio di Trento di Hubert Jedin (uscito in tedesco tra il 1951 e il 1975 e in italiano tra il 1973 e il 1981), O’Malley ricorda che un let- CXXXVIII CARMELO RIGOBELLO FRANCESCO STRAZZARI tore anglosassone non ha potuto avere una traduzione completa dei quattro preziosi volumi di Jedin fino ai nostri giorni. La Storia di Jedin costituisce una base di partenza imprescindibile per chi voglia conoscere scientificamente il concilio tridentino ma, oggi, essa va integrata con le fondamentali e numerose ricerche che sono state pubblicate successivamente da studiosi europei divenuti protagonisti di cantieri di ricerca che hanno messo a disposizione nuove letture dell’evento nel contesto europeo o mondiale. Infine, la possibilità di accedere all’insieme delle fonti conciliari è stata pienamente realizzata dalle edizioni curate dalla Görres-Gesellschaft dal 1901 fino al 2001. John O’Malley, che aveva dedicato un agile e acuto volumetto all’interpretazione storiografica di Trento e alle trasformazioni che coinvolgono il cattolicesimo prima e dopo la rottura confessionale (Trent and all that, Harvard University Press, Cambridge 2000), non è guidato solo dall’esigenza di mettere ordine nelle conoscenze cresciute in lingue diverse e frutto di tendenze storiografiche differenti. Infatti, la sua lettura dell’evento conciliare ha ben presente la questione interpretativa dell’ultimo decennio, che ha voluto imbrigliare nella cosiddetta tradizione tridentina il magistero del concilio Vaticano II. Il «dramma» del Concilio, indetto da Paolo III il 13 dicembre 1545 e concluso il 4 dicembre 1563 sotto Pio IV, è raccontato nel suo svolgimento concreto e frastagliato, per le difficoltà di convocazione che si presentarono prima e durante i tre periodi conciliari, per le difficoltà di funzionamento e per le soluzioni che favorirono la formazione del consenso mai scontato o facilmente raggiungibile. Dopo un’Introduzione storiografica, la parte centrale dell’opera è strutturata in sei capitoli. Il primo racconta i precedenti più remoti. Da un lato vi è l’esperienza di riforma attuata dai concili del XV secolo (Basilea, Costanza e i concili di Ferrara-Firenze-Pavia) e il timore per la tradizione «conciliarista» nutrita dal papato romano; dall’altro O’Malley descrive lo stato di corruzione e gli abusi che attanagliarono e le correnti di rinnovamento che attraversarono la Chiesa del XVI secolo. Il secondo capitolo affronta il contesto immediato del Concilio, la lotta per la convocazione (cinque volte convocato, quattro volte rinviato) e presenta le esigenze, gli ideali e i timori dei protagonisti della vicenda: Martin Lutero, l’imperatore Carlo V, Enrico VIII d’Inghilterra e Francesco I di Francia, oltre che papa Clemente VII. Durante il primo periodo (154547), il Concilio passò dalla discussione sull’agenda a questioni legate alle modalità di voto e di funzionamento dell’assemblea e dei suoi organi. In questa fase fu affrontata la questione cruciale, messa a fuoco dalla Riforma, del rapporto tra Scrittura e Tradizione, come anche il tema della giustificazione per fede o tramite le opere. CXXXIX Il quarto capitolo affronta il trasferimento a Bologna (1547-49), la lunga intersessione e il secondo periodo (1551-52) di nuovo a Trento. O’Malley evidenzia l’influenza esercitata dal contesto europeo e romano sulle decisioni e indecisioni conciliari, capaci di condizionare la libertà dei padri conciliari. Il terzo e finale periodo (1562-63) fu caratterizzato dal ruolo dei vescovi francesi e dalla diversa sensibilità dei padri conciliari, rispetto alla composizione dei periodi precedenti: i padri dell’ultimo periodo decisero che la liturgia sarebbe stata in latino, senza negare la possibilità di usare il volgare e, invece, furono molto divisi circa l’opportunità di concedere il calice ai laici. L’ultimo capitolo racconta la conclusione del Concilio, tra marzo e dicembre 1563, guidato dalla capacità diplomatica del cardinale Giovanni Morone e dalle ultime importanti decisioni legate alla riforma, alla residenza dei vescovi e al matrimonio. Il volume si conclude con due Appendici: una sintesi delle 25 sessioni conciliari e la traduzione della professione di fede cosiddetta tridentina, il giuramento pronunciato da ogni chierico all’atto di ricevere un ufficio, un beneficio o la titolarità di un’istituzione (vescovado, parrocchie, incarichi d’insegnamento). Nell’epilogo finale, O’Malley ricorda che l’evento fu il frutto della mediazione tra il papato, gli episcopati nazionali e i sovrani delle potenze cattoliche europee e che le decisioni presentano limiti culturali, come la debolezza di analisi testuale o l’insufficiente sensibilità storica. Il racconto del Concilio pone in termini chiari ed equilibrati la «cruciale distanza tra “Trento” e l’evento del concilio di Trento», senza sottovalutare tutti gli elementi che sono stati attribuiti al Concilio ma che non stanno né nella lettera delle decisioni, né in quello che veniva definito lo «spirito». Alla fin fine, Trento, pur riuscendo a condizionare tutti gli ambiti della vita ecclesiastica e del clima morale in Europa, non può essere totalmente identificato con l’intero cattolicesimo, che proprio in quel secolo diveniva la prima religione mondiale. Infatti, la realtà delle missioni è completamente ignorata dal Concilio, polarizzato intorno alla questione confessionale e alla necessità della riforma. Il mito di Trento ha aperto la via, nella successiva fase di attuazione, alla piena identificazione tra quel concilio e gli strumenti di controllo e censura la cui nascita precedette e seguì l’evento o la piena consequenzialità tra la teologia del concilio e la successiva teologia controversista di stampo bellarminiano. I divieti di traduzione biblica o liturgica nelle lingue vernacole oppure la centralità del tribunale dell’Inquisizione, cardine della controriforma cattolica, non trovano nell’evento o nelle decisioni né origine né conferma. Maria Teresa Fattori Il Regno - attualità 14/2014 485 La testa fra le nuvole Riflessioni per famiglie che amano la montagna A mare la montagna significa entrare in una dimensione che la montagna stessa suggerisce. Il sussidio, pensato per gruppi e famiglie ma molto piacevole per tutti gli amanti della montagna, aiuta a incontrare la natura e a farsi interpellare da essa. «CAMPI SCUOLA» pp. 112 - € 10,00 T3_Pappalardo:Layout 1 16-06-2014 10:21 www.dehoniane.it A CURA DI MARIANO PAPPALARDO Celebriamo il Battesimo I l volumetto offre una guida al rito del battesimo facilmente consultabile da chiunque necessiti di essere accompagnato nella comprensione della liturgia. Contiene il rito e le relative spiegazioni, alcuni piccoli adattamenti, didascalie utili per seguire la liturgia, letture bibliche e preghiere dei fedeli. I caratteri grandi favoriscono la leggibilità. «SACRAMENTI» pp. 148 - € 3,00 www.dehoniane.it Pag L iletture Mariapia Veladiano ibri del mese Pagine di catrame Ne Il maestro di Vigevano, di Lucio Mastronardi, c’è questo paese in cui tutti sono cattivi. Talmente cattivi che sul principio vien la tentazione di pensare a un trucco. Tipo una favola nera: c’era una volta un paese in cui una stregoneria, o un oppressore, costringeva tutti a essere cattivi ma poi un piccolo eroe di nome Davide o Atreyu arditamente libera il mondo dal pericolo del grande Nulla, terribile Golia che gela la vita buona, e tutti vissero un poco più contenti. Invece no. In questo paese tutti stazionano ottimamente sul fondo e son cattivi davvero e vacuamente impegnatissimi a vivere male. Son contraffatti, tronfi, bugiardi, spettegoloni. C’è una gerarchia scolpita nella chiacchiera che chiude a ogni solidarietà. In cima stanno i ricchi, proprietari di fabbriche e fabbrichette, ostentano macchine e mogli. Poi ci sono gli impiegati piccolo borghesi che disprezzano i ricchi proprietari di fabbriche perché non possono sognare di diventare come loro, e più giù ci sono gli operai. Punto. Provare a salire la scalettina si può, se però il rischio è cadere «dal piccolo benessere raggiunto», meglio la morte. Il lavoro non deve portare dignità ma soldi. Sicurezza infelice snaturata dalla paura di perderla. La voce narrante è il maestro Antonio Mombelli, certo è una persona colta, ma non c’è distanza nel suo raccontare, il catrame, come lui lo chiama, gli incolla il pensiero e l’anima, come agli altri. Catrame è geniale. Perché è nero, colloso, si attacca agli altri e gli altri ce lo attaccano, non ci si libera più. Dovrebbe essere quanto di più visibile e invece diventa del tutto invisibile. Così capita se è dappertutto. Catrame sono i pensieri banali, normali solo perché sono di tutti. I sentimenti comandati. I giorni perduti. Giornate inutili «che a sommarle insieme forse supererebbero i dieci anni di tempo». Perduti innanzi tutto a giudicare. Al bar, in piazza, nel chiuso delle case. Senza riposo. Poi a calcolare. Quanto manca allo scatto di carriera, alla pensione. Poi ancora a calcolare. Quanto si guadagna con la fabbrica di scarpe, messa in piedi con la liquidazione della scuola, costretto a questo dalla moglie orribile, che lo tradisce con un fornitore, e anche lui poi la tradisce in altro modo, bullandosi in giro della loro ricchezza nuova e fraudolenta, la consegna nelle mani della Tributaria, e così perdono tutto o quasi. In scolastichese si direbbe che manchi il protagonista. Son tutti antagonisti, gli uni contro gli altri. Di sicuro manca un buono. Uno o una 486 Il Regno - attualità 14/2014 abbastanza buono o buona. Persona che si possa dire un poco più felice? Meno deforme? Non orrenda insomma. Neanche i bambini. Il maestro Antonio ha un figlio, ma la gioia che Rino potrebbe dare è avvelenata dal sospetto. Per cui appena dopo che ci siamo convinti che il secondo figlio, morto, era frutto di un tradimento, la moglie del maestro Antonio, in punto di morte ci (e gli) consegna una verità rovesciata, ovvero che era quello il figlio suo, mentre il primo, vivo e bravo, è figlio di un tradimento antico. Ma forse non è vero, forse è solo l’ultima malvagità, perché Mastronardi racconta che si può vivere male e morire peggio, lasciando in eredità una vendetta irrimediabile. Ciascuno viaggia coltivando il suo prevalente. Anche la scuola è brulicare cieco di ambizioni e soprusi. Il forse meno orrendo dei maestri muore suicida. Nemmeno la cultura salva. Ed è così ovviamente. La cultura da sola non salva, serve l’umanità, una qualche forma di umana simpatia. Nella storia del maestro di Vigevano non esiste speranza. Nemmeno i bambini. Del figlio il maestro Antonio sogna di farne un «impiegato di gruppo A». Nelle aule gli scolari sono sciocchi ripetitori del verbo scolastico, addestrati a compiacere gli adulti, anche nella farsa della lezione interattiva che è l’ossessione pedagogica del direttore. Tutto appare avvelenato per sempre. Tristissimo mondo nero nerissimo in cui il male si nasconde perfettamente nell’esibirsi. Si può ancora chiamare per nome il male che rimane un’eccezione, che trasgredisce una legge stampata. Uccidere il vicino di casa lo riconosciamo come male. Ma il male del giudizio, che diventa pregiudizio, sopraffazione, inganno, convenienza, il male del pensiero volgare, del desiderio sciatto, se son di tutti come lo riconosciamo? Il male di una vita passata a scansare la vita, il suo movimento, confuso gagliardo lottare e sostare e ripartire. Immersi nel catrame dell’infelicità e della paura. Alla luce del sole, dei riflettori, del palcoscenico, della piazza, fra chiacchiera, politica, calcio e scandali. Come ci si salva? La salvezza qui è in questo narrare tremendo e perfetto di Mastronardi, narrare senza edificazione e senza compiacimento. Purissimo mostrare l’orrore di un mondo così. Fatto di soldi, bugie, apparire e tasse da evadere. Questo è il potere buono della letteratura. CXL S a n ta S e d e l L o strumento di lavoro elaborato in vista del Sinodo straordinario che il prossimo ottobre esaminerà «Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione» non chiude «gli occhi di fronte ad alcun problema» – ha detto mons. B. Forte alla presentazione del 26 giugno (cf. Regnodoc. 13,2014,441.444). Il testo tiene conto infatti delle numerosissime considerazioni giunte da ogni parte del mondo (cf. Regno-att. 2,2014,5; 4,2014,77; 6,2014,148; Regno-doc. 5,2014,162. 173; 7,2014,241.246; 9,2014,290. 295.298; 11,2014,369), in risposta al questionario inviato alle conferenze episcopali con il Documento preparatorio lo scorso novembre (cf. Regno-doc. 21,2013,698 e Regno-att. 20,2013, 627). Quattro le questioni cruciali. La legge naturale (n. 30): occorre «migliorare il linguaggio e il quadro concettuale di riferimento» nonché «dare un’enfasi decisamente maggiore al ruolo della parola di Dio». Le unioni omosessuali: al n. 113 si costata che né l’«intransigenza» né l’«accondiscendenza» nei confronti di queste unioni hanno «facilitato lo sviluppo di una pastorale efficace». Il sacramento del matrimonio e dell’eucaristia (nn. 93ss) in contesti secolarizzati o nella fragilità delle relazioni. La «difficile ricezione del magistero» sull’apertura alla vita (nn. 121ss). Abbiamo chiesto al vicario generale della diocesi di Siracusa Maurizio Aliotta, teologo (insegna Teologia dogmatica allo Studio San Paolo di Catania) esperto di pastorale matrimoniale e familiare, uno sguardo d’insieme. Sinodo sulla famiglia a mediazione pastorale Una lettura dell’Instrumentum laboris L’ampia partecipazione alla consultazione voluta da papa Francesco per preparare l’Istrumentum laboris della III Assemblea generale straordinaria del Sinodo dei vescovi ha reso indubbiamente difficile la sintesi dei risultati emersi. Il documento presentato giovedì 26 giugno non poteva ovviamente riproporre tutta la ricchezza dei contributi pervenuti sia da parte delle conferenze episcopali sia da istituzioni, gruppi e singoli fedeli. Nonostante ciò esso può rappresentare un buon inizio. Suddiviso in tre parti, segue l’indice del Documento preparatorio che è servito come base per i contributi inviati alla Segreteria del Sinodo. Diamo per noti i contenuti di tale Documento e ci soffermiamo su alcuni aspetti utili per un orientamento che prevedibilmente potrà assumere il lavoro sinodale. Generale e particolare Innanzitutto la sintesi risente della vastità e complessità della materia trattata: il matrimonio e la famiglia. Non potrebbe essere diversamente se consideriamo la pluralità di situazioni storiche e socio-culturali da cui provengono i contributi che gli estensori materiali dell’Instrumentum hanno dovuto esaminare. A proposito di tale pluralità di situazioni si possono fare subito due osservazioni. Si deve subito notare una certa genericità delle questioni esposte, d’altra parte non poteva essere diversamente dato il riferimento ai fondamenti stessi della teologia del matrimonio che avrebbero richiesto una trattazione ampia e approfondita, ma ciò esula dalle finalità di un documento come l’Instrumentum laboris. A fronte di ciò si trovano, però, riferimenti a questioni veramente particolari, che nel contesto globale del documento possono sembrare riduttivi. L’alternativa sarebbe stata di omettere la parte generale e dare più spazio alle urgenze pastorali. Da questa apparente contraddizione – genericità e particolarità – ne può nascere però uno stimolo fecondo per il lavoro dei padri sinodali. Si tratta infatti di individuare gli elementi essenziali della Tradizione perché da una buona teologia nasca una buona pastorale. Oltre l’eurocentrismo Nonostante il documento faccia costante riferimento alle differenti posizioni e alle differenti sfumature che anche i problemi comuni presentano, espressi dai documenti delle conferenze episcopali dei cinque continenti, si ha la percezione di un persistente eurocentrismo. L’ottica prevalente sembra essere infatti quella della cultura occidentale. Occorrerà dunque saper coniugare la «specificità cristiana» con la pluralità di condizioni storico sociali che presentano modelli di matrimonio e famiglia molto diversi tra di loro. Non si auspica la prevalenza di un modello sull’altro, ma un discernimento comune, sotto la guida dello Spirito, che sappia illuminare criticamente tutte le situazioni, tutti i modelli, perché tutti possano essere «trasfigurati» dalla luce evangelica. In questo modo non vincerà una teoria delle «culture egemoni», né si perderà l’originalità delle diverse identità culturali. Lo stesso Instrumentum sottolinea la centralità del- Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 487 la persona, come d’altronde hanno fatto molti recenti interventi del magistero. Ponendo la persona al centro, cioè considerandola destinataria dell’annuncio evangelico così come è – con Paolo si potrebbe dire che ognuno è chiamato nella condizione in cui si trova – si conseguono due importanti risultati: si mantiene l’identità culturale e si supera un oggettivismo asfissiante. Non una condizione «irregolare», ma la persona che vive in quella condizione è destinataria della cura pastorale. Pastorale dell’accoglienza Ciò esige anche una considerazione su cosa si intenda per «pastorale»: l’azione della Chiesa rivolta a stabilire se stessa nella storia (la implantatio Ecclesiae) o l’azione della Chiesa volta a rendere attuale l’azione redentrice di Gesù Cristo nella storia? Le due cose potrebbero non essere in contraddizione, a patto che l’implantatio Ecclesiae avvenga al modo del «sacramento» (così come suggerisce la Lumen gentium quando parla della Chiesa sacramento), una presenza cioè che ha motivo di essere perché rinvia ad altro: al Figlio Gesù Cristo che a sua volta rinvia al Padre. In questa logica del «rinviare a…», o della «trasparenza di…», lo scopo primario della pastorale della famiglia è innestare l’amore coniugale, con ciò che ne segue, nell’amore trinitario mediante la partecipazione alla vita della Chiesa. Ne consegue una pastorale dell’accoglienza preoccupata innanzitutto di mostrare il volto del Padre, che si rivela nel Figlio che ci fa partecipi del loro reciproco amore mediante il dono dello Spirito riversato nei nostri cuori; solo in seguito emergono le istanze etiche. Il rapporto tra antropologia ed etica fa costantemente capolino e sarebbe opportuno metterlo pienamente in luce, così da evidenziare il primato dell’ascolto della Parola da cui una visione dell’uomo e del mondo deriva e i processi di inculturazione che necessariamente bisogna percorrere affinché questo ascolto si incarni nella storia. Questo sembra un punto cruciale perché nonostante la globalizzazione abbia indubbiamente uniformato molti modi di pensare, tuttavia non si possono negare le peculiarità delle culture. A questo proposito lo stesso documento 488 Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 distingue più volte il punto di vista dei paesi occidentali e di quelli dell’Africa e dell’Asia. Il metodo: prima la sequela La stessa storia delle Chiese cristiane ci insegna che le diverse sensibilità culturali hanno determinato un diverso modo di concepire la mediazione pastorale della dottrina. Ora proprio in rifermento alle questioni inerenti il matrimonio e la famiglia la mediazione pastorale diventa un punto sensibilissimo di verifica dei processi di inculturazione, da una parte, e di fedeltà alla Parola, dall’altra. Prima e più che intervenire, con questo breve contributo, nel merito dei specifici problemi posti è necessaria una breve riflessione sul metodo. Lo facciamo riprendendo quanto con forza ha più volte ricordato Benedetto XVI: il cristianesimo non è un compendio di dottrine ma un incontro personale con Gesù Cristo. Se ciò è vero, come è vero, cosa significa per l’impostazione di una pastorale della famiglia, come della pastorale tout court della Chiesa? Si decidono le scelte concrete da compiere in questa o quest’altra situazione per attuare programmaticamente la «dottrina» o si deve innanzi tutto mettere in pratica il comando del Risorto di «andare e fare discepoli presso tutte le genti»? Dal discepolato e dalla sequela discendono naturalmente impegni concreti, ma la prima azione da compiere è, appunto, mettersi dietro Gesù e seguirlo. Per esemplificare: bisogna richiamare per prima cosa il «dovere» degli sposi di essere aperti alla vita, cioè generare figli senza ricorrere a metodiche di regolazione delle nascite che non siano riconosciute coerenti con l’impianto della dottrina morale «ufficiale» per essere veri cristiani, oppure bisogna annunciare la buona notizia di Gesù, mostrare il suo volto compassionevole e far fare l’esperienza del suo abbraccio amorevole da cui nasce l’impegno degli sposi ad accogliere responsabilmente la vita? Questioni polarizzanti La consapevolezza della complessità delle questioni in campo messa in luce nella II parte dell’Instrumentum suggerirebbe di affidare alle conferenze episcopali il compito di elaborare la mediazione pastorale a partire dalla riflessione dottrinale che il Sinodo straordinario susciterà. Le attese presso il popolo di Dio sono tante e soprattutto concrete. Ci si attende una parola chiara innanzitutto su due questioni che negli ultimi decenni hanno polarizzato l’attenzione: le nozze dei divorziati e la regolazione delle nascite. Ultimamente poi con prepotenza sono entrate nell’agenda del dibattito teologico altre realtà, come per esempio l’unione di persone omosessuali. Il rischio di utilizzare ancora una volta un’ottica eurocentrica è reale. Se fino ad ora le soluzioni adottate per risolvere dubbi e domande che tali problematiche sollevano sono state affidate alla discrezione dei singoli pastori – come lo stesso documento evidenzia – o a gruppi di essi, il tempo attuale non lo consente più. La percezione dei fedeli è che in fondo la pluralità delle soluzioni avanzate denota semplicemente l’assenza di una verità condivisa e quindi un relativismo etico, almeno a livello pratico se non teorico. La confusione non aiuta! Paradossalmente, la preoccupazione di salvare l’oggettività della dottrina ha prodotto un relativismo etico, legato alla percezione individuale di ciò che è lecito e ciò che non lo è. Il Sinodo dovrà assolvere a un compito non facile, ma necessario: la traduzione nelle «lingue» e culture odierne di ogni porzione del popolo di Dio in fedeltà alla Parola di Dio che ci è consegnata. Quale salvezza? In definitiva si tratta di comprendere cosa significhi oggi per noi matrimonio, famiglia, «indissolubilità», «contratto», «procreazione», «educazione». Per far ciò però è necessario andare alla radice e vedere dunque la realtà umana alla luce della Rivelazione, riportare la riflessione nell’orizzonte credente e cogliere il posto che la fede occupa nella comprensione e nel vissuto di quella relazione peculiare che è il rapporto tra donna e uomo. Da ciò si può ripartire, all’interno delle culture, delle storie e delle aspirazioni delle singole comunità cristiane, per tentare di dare risposta alla domanda fondamentale: «Quale salvezza?» alla luce della «buona notizia» di Gesù. Maurizio Aliotta F rancesco O - Violenze sui minori R esponsabilità da condividere ggi «il cuore della Chiesa guarda gli occhi di Gesù in questi bambini e bambine e vuole piangere. Chiede la grazia di piangere di fronte a questi atti esecrabili di abuso perpetrati contro i minori. Atti che hanno lasciato cicatrici per tutta la vita. (…) Chiediamo questa grazia insieme a quella della riparazione»: è questo il centro dell’omelia che papa Francesco ha pronunciato in spagnolo e con voce sommessa durante la messa mattutina alla Casa Santa Marta di lunedì 7 luglio, alla quale erano state invitate sei persone provenienti da Germania, Gran Bretagna e Irlanda, vittime durante la giovinezza di violenze sessuali da parte di chierici. L’incontro, preannunciato durante il volo di ritorno dal viaggio in Terra santa, si è allargato fino a diventare un tempo di quasi due giornate a stretto contatto tra le vittime, ospitate a Santa Marta dalla sera precedente, e il papa, che dopo la messa ha dedicato al colloquio privato con loro tre ore. Uno scenario che fa venire in mente il passo dell’Evangelii gaudium (n. 222) dove Francesco scrive che «il tempo [in specifico dedicato all’ascolto] è superiore allo spazio [il numero esiguo di persone]». A sottolineare che l’ascolto diretto e personale non può essere né superficiale né demandato ad altri: lo ha sottolineato lo stesso giorno ai microfoni di Radio vaticana anche Marie Collins, la donna irlandese che dopo la sua pubblica testimonianza – in quanto vittima – al convegno internazionale del 2012 tenuto alla Gregoriana («Verso la guarigione e il rinnovamento»; Regno-att. 4,2012,75) è stata chiamata a far parte della Pontificia commissione per la tutela dei minori istituita da papa Francesco il 22 marzo scorso. Le vittime, quindi, sono al centro e a esse è riconosciuto «il coraggio (…) dimostrato facendo emergere la verità» quale vero e proprio «servizio d’amore per aver fatto luce su una terribile oscurità nella vita della Chiesa». C’è poi la richiesta di perdono: parola scritta già da Benedetto XVI nella Lettera ai cattolici d’Irlanda e poi divenuta vera e propria impetrazione, formulata nella celebrazione liturgica a chiusura dell’Anno sacerdotale (2010), essa è stata completata da papa Francesco, quando ha detto: «Chiedo perdono anche per i peccati d’omissione da parte dei capi della Chiesa che non hanno risposto in maniera adeguata alle denunce di abuso presentate da familiari e da coloro che sono stati vittime di abuso (…). Tutti i vescovi devono esercitare il loro servizio di pastori con somma cura per salvaguardare la protezione dei minori e renderanno conto di questa responsabilità». La gravità dell’omissione è ulteriormente sottolineata nella frase successiva, dove il papa cita il passo di Mt 18,6, relativo alla macina al collo per coloro che danno scandalo ai «piccoli»: non solo per chi ha usato violenza ma anche per chi non ha esercitato correttamente la responsabilità del proprio ufficio. Perché «ha recato una sofferenza ulteriore a quanti erano stati abusati e ha messo in pericolo altri minori». Franchezza per franchezza, una delle vittime ha riferito a un giornalista d’aver chiesto, a questo proposito, al papa le dimissioni dell’irlandese card. Seán Brady. La responsabilità dei vescovi come garanti ultimi dell’applicazione delle procedure per affrontare i casi di pedofilia è in effetti da sempre uno dei punti più controversi. Dopo la (necessaria) fase che ha accentrato maggiormente nella Congregazione per la dottrina della fede la gestione delle denunce, così come previsto dalle Normae de gravioribus delictis del 2001 (emendate nel 2010), le Linee guida del 2011 hanno nuovamente richiamato i vescovi ad eser- citarla; ma oggi deve fare i conti da un lato con i diversi contesti legislativi, che differiscono sul punto dell’obbligatorietà o meno della denuncia alle autorità civili da parte del vescovo; dall’altro con le resistenze a riconoscere il fenomeno della pedofilia come una questione non solo delicata, ma complessa, a cui non è lecito sottrarsi a motivo della scabrosità del tema o per non subire il carico di rabbia e di dolore di cui le vittime e le loro famiglie sono portatrici. In linea teorica nessuno dubita sul fatto che la mancata vigilanza dei vescovi sia «un crimine» o che le «procedure per perseguire i vescovi che non vigilano» esistano, come ha dichiarato a fine maggio il promotore generale di giustizia della Congregazione per la dottrina della fede, mons. Robert Oliver (Irish Catholic, 22.5.2014). Ciò che è ancora insufficiente – diceva il promotore, proveniente dalla diocesi del card. S. O’Malley, Boston – è la concreta messa in opera delle norme. Il laboratorio degli anglofoni Ma per fare questo occorre un livello di consapevolezza diffusa nell’intera comunità ecclesiale che vada oltre la momentanea e comprensibile indignazione. Per questo va segnalato il ruolo di un soggetto, poco conosciuto ai più, che si è riunito proprio nei giorni dell’incontro del papa e della riunione della Pontificia commissione: l’Anglophone conference, un gruppo informale di vescovi (e in generale di esperti sul tema) di lingua inglese che sin dal 1996 ha colto la necessità di ritrovarsi per «condividere le proprie esperienze su come affrontare il problema delle violenze sessuali sui bambini da parte di sacerdoti e religiosi» (cf. Regno-att. 12,2011,365), e al quale si sono via via affiancate altre persone e organismi interessati a uno scambio, come, ad esempio, i vescovi coordinatori del Consiglio nazionale cileno che si occupa delle denunce e della prevenzione. Aprendo i lavori dell’Anglophone conference, mons. D. Martin, arcivescovo di Dublino, ha così sintetizzato l’esperienza quasi ventennale del gruppo: la volontà di «esaminare in modo più coerente questo fenomeno che, trattandosi di una parte indicibilmente buia della vita della Chiesa, suscitava per forza la tentazione di tenerlo lontano dalla luce dei riflettori». In questo gruppo «i vescovi si sono riuniti per iniziare a tracciare un cammino diverso», costruendo «un autentico laboratorio dove le conferenze episcopali hanno potuto riunirsi per sondare le vie migliori per sviluppare norme solide di pratica pastorale che potessero essere affrontate in situazioni culturali e giuridiche differenti». Tuttavia, «il cammino che tutti noi dobbiamo ancora percorrere è lungo. Il danno più grande che possiamo arrecare ai progressi fatti in tutta la Chiesa è di ricadere nella falsa convinzione che la crisi sia ormai cosa del passato». Per questo anche papa Francesco ha chiuso l’omelia citando una serie di soggetti e ambiti d’azione che devono cooperare in parallelo: la Pontificia commissione – riunita nella settimana iniziata con l’incontro delle vittime col papa –, i formatori per la «preparazione sacerdotale» e «tutti i membri della famiglia di Dio» perché «possiamo disporre delle migliori politiche e dei migliori procedimenti nella Chiesa universale per la protezione dei minori e per la formazione di personale della Chiesa nel portarle avanti. Dobbiamo fare il possibile per assicurare che tali peccati non si ripetano più nella Chiesa». Maria Elisabetta Gandolfi Il Regno - attualità 14/2014 489 Francesco l I l magistero di papa Francesco sarà sicuramente ricordato per il tema della misericordia. Non passa settimana che il pontefice non ritorni sugli stessi concetti: Dio perdona chiunque si rivolga a lui con sincerità di cuore, l’amore di Dio è più grande di qualsiasi peccato. Francesco parla di tenerezza, accoglienza, appunto misericordia. Per lui il cuore della fede consiste nella misericordia. Il cristianesimo sta o cade nella comprensione di questo punto. Suscita troppo scandalo l’idea di un Dio che invece di fare giustizia al modo degli uomini (in pratica attribuendo a ciascuno ciò che gli spetta) riesce a rendere giusti coloro che sbagliano, cadono, sembrano irrimediabilmente lontani dalla religione. Si ha paura che questa azione divina scardini la morale. In effetti tutte le divinità sono garanti del codice etico, dell’ordine e sovente del potere costituito. Non è un caso che i Spiritualità a misericordia di Dio Al centro del magistero del papa l’annuncio fondamentale del cristianesimo primi tribunali sorgessero accanto ai templi. Gli dei tutelavano i giuramenti e tutte le leggi morali che sostenevano la società. Senza giustizia la civiltà dell’uomo s’imbarbarisce e finisce per disgregarsi. La religione biblica è attentissima a questo, Dio è invocato per ristabilire la giustizia. Subito però cogliamo uno scarto, perché se Dio fosse completamente e solamente giusto allora più volte avrebbe dovuto distruggere l’uomo o far perire il popolo di Israele: e invece, da Noè a Mosè, ecco emergere la misericordia. Un tema accentuato dal profetismo. Va anche notato che il concetto stesso di giustizia è diverso nella mentalità biblica rispetto a quello del diritto romano a cui siamo abituati: nel portare la giustizia Dio crea, inventa il diritto dove non c’è. La giustizia è una sintesi superiore, qualcosa di mai visto che non è asetticamente equo, ma sta dalla parte delle vittime. Papa Francesco, Giovedì santo 2013. Sottolinea Walter Kasper: «Dio perdona il popolo di Israele anche se non si è comportato da sposa ma da prostituta. “Perché sono Dio e non un uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira” (Os 11,9). Questa è un’affermazione sorprendente. Con essa viene detto: la santità di Dio, il suo essere totalmente diverso rispetto a tutto l’umano, non si manifesta nella sua giusta ira, neppure nella sua trascendenza inaccessibile e insondabile per l’uomo; l’essere Dio di Dio si manifesta nella sua misericordia» (Misericordia. Concetto fondamentale del Vangelo, Queriniana, Brescia 2013, 82). La tensione tra giustizia e misericordia (simboleggiata nella cultura ebraica dai due troni in cui Dio alternativamente si siede) non viene meno, ma con il cristianesimo soprattutto paolino subisce la torsione che abbiamo cercato di descrivere. L’essenza di Dio è amore e libertà. La sua forza travolge il peccato, Cristo vince la morte ma non con un tremendo e risolutivo atto di giustizia, bensì assumendo su di sé il male, apparentemente senza giudicarlo. Paolo è netto: Gesù stesso è diventato ingiusto, si è fatto peccato per entrare in esso e sconfiggerlo. Tutto però non è ancora compiuto. La meta escatologica non è raggiunta. Altrimenti si cadrebbe in una sorta di razionalismo teologico, in un sistema che spiega tutto e in cui paradossalmente non ci sarebbe posto proprio per la misericordia, ossia per la novità che Dio può sempre realizzare. La continua presenza del male del mondo richiede sempre misericordia, l’uomo necessita quoti- dianamente di essere liberato dal peccato. La libertà del cristiano Di quale libertà stiamo parlando? È la libertà intesa come autonomia, come autodeterminazione, come capacità di realizzare almeno in parte il proprio progetto di vita? «La mia libertà finisce dove incomincia la tua», questo lo slogan un po’ abusato dell’individualismo imperante. Una visione abbastanza lontana da quella cristiana tradizionale. La libertà «illuminista» (utilizzo questo termine in maniera generica) non è la possibilità di fare il bene ma consiste nell’essere scevro di condizionamenti e vincoli, nel poter esprimere il proprio volere, a prescindere da un orizzonte morale. Questo tipo di libertà astratta non prevede nozioni quali il peccato o la colpa, che vengono per così dire secolarizzate e tradotte in concetti più concreti, come per esempio il limite dovuto alle circostanze economiche o a sistemi politici che impedirebbero l’espletamento dei cosiddetti diritti civili. Ma se svaniscono il peccato e la colpa, anche la misericordia perde di senso. Non significa nulla se non una filantropia per niente originale. Possiede certamente più dignità la lotta per la giustizia che parte da una compassione di fondo per l’irreparabilità della condizione umana, prospettiva tipica di un Leopardi o di un Camus, per arrivare alla odierna battaglia per i diritti umani. Non ci vuole misericordia, bensì giustizia. I due termini dunque ritornano ma sono declinati in maniera sostanzialmente diversa da quella nata in una prospettiva religiosa. Il concetto di misericordia rischia di venire abbandonato o frainteso. Oggi molti applaudono papa Francesco proprio per la sua insistenza sul perdono e sulla tenerezza di Dio, dimenticandosi i risvolti di questo pensiero, il quale prevede una certa consapevolezza del peccato. È svilente ridurre la misericordia a un via libera di Dio a ogni atteggiamento e azione umani. Nel giro di un secolo o anche meno l’immagine di Dio si è come ribaltata: da giudice inflessibile e terribile è diventato un nonno rimbambito che permette tutto con un sorriso bonario. Sicuramente buona parte di questa torsione è stata generata pro- prio dalla reazione all’insistenza della Chiesa sui temi morali, sugli elenchi dei peccati, sulla necessità di un sacro timore per una divinità che non si capisce. Arriviamo così al tempo presente, caratterizzato da mille parole e da molta confusione tra appelli devoti o incendiari che vengono anche dai pulpiti per riscoprire la misericordia, il peccato e il perdono, e tra uno stile di vita diffuso che trova belle queste suggestioni, salvo poi non capirle e metterle nel cassetto. Anche la teologia fatica ad affrontare la situazione. Le linee guida sono state, peraltro, indicate da alcune parole pronunciate da papa Francesco nell’ esortazione apostolica Evangelii gaudium: «La centralità del kerygma richiede alcune caratteristiche dell’annuncio che oggi sono necessarie in ogni luogo: che esprima l’amore salvifico di Dio previo (corsivo nostro) all’obbligazione morale e religiosa, che non imponga la verità e che faccia appello alla libertà, che possieda qualche nota di gioia, stimolo, vitalità e un’armoniosa completezza che non riduca la predicazione a poche dottrine a volte più filosofiche che evangeliche« (n. 165; Regno-doc. 21,2013,673). Dostoevskij: colpevolezza, perdono, armonia Restano comunque i grandi maestri della spiritualità cristiana, noti e meno noti. Credo che Dostoevskij possa aiutarci proprio per affrontare questi temi, in quanto la prospettiva ortodossa sembra essere più attrezzata rispetto a quella cattolica. Sappiamo che l’apice del pensiero «teologico» dostoevskiano è rappresentato dalla figura dello starec Zosima ne I fratelli Karamazov. Nel racconto della vicenda biografica di Zosima e in particolare del fratello convertitosi in punto di morte troviamo la famosa espressione «tutti sono colpevoli». Non si tratta di una versione letteraria del «peccato originale» (peraltro assente dalla tradizione orientale) bensì dell’idea di una colpevolezza universale percepita come consapevolezza di una disarmonia cosmica. L’uomo è una causa determinante, anche se forse non l’unica, di questa rottura esistenziale con il Tutto. Il piano di Dio era armonia, bellezza, pienezza. Nella natura si possono riscoprire queste realtà. Siamo oltre la sfera della morale. Siamo tutti colpevoli non tanto perché siamo tutti cattivi, ma perché compartecipiamo tutti alla disarmonia, cioè al male. Questa è la via verso l’autodistruzione. La via della salvezza è invece la scoperta del perdono e della misericordia di Dio intesi come possibilità di riscoprire e di ricostruire l’armonia perduta tra gli uomini e la creazione. Tale scoperta cambia completamente la percezione del mondo. È un cammino di liberazione interiore capace di far capire almeno un poco l’essenza di Dio. In questa prospettiva tutto diventa bello, si può gioire di ogni cosa, piante e animali acquistano un nuovo valore e addirittura Zosima può parlare di una relazione con altri mondi. Attraverso questa compartecipazione che definiremmo olistica ma non panteista si raggiunge un nuovo rapporto con la natura. Così lo starec può affermare: «Ama gli animali e le piante e in quest’amore ti sarà rivelato l’amore di Dio». Dostoevskij è però un uomo impastato di terra, i suoi personaggi non sono angeli e pure i demoni conservano fino all’ultimo uno spiraglio di luce. Sono «grandi peccatori» ma che hanno «un grande incarico da compiere nel mondo» come è per Aleksej Karamazov. In questo senso il rapporto tra bene e male, tra colpa e perdono, tra distruzione e armonia supera ogni dimensione morale, per collocarsi su un piano metafisico, teologico. Si tratta di alternative che riguardano l’essenza e il destino dell’uomo, non le sue buone azioni o la sua adesione a un particolare sistema di valori. Il santo, il salvato, il giustificato è colui che riesce a percepire l’armonia. La consapevolezza della misericordia di Dio genera l’armonia tra sé stessi e il mondo. Diventa contemplazione mistica dell’universo. Scrive il teologo ortodosso Pavel Evdokimov in un saggio sullo scrittore: «Il paradiso si rinviene nella ricerca della propria vocazione, lì dove l’uomo si sente figlio di Dio, fratello colpevole di tutti e parte integrante di un tutto vivente, immerso nel mistero divino dell’amore e dell’unità» (in Dostoevskij e il problema del male, Città nuova, Roma 1995, 73-74). Piergiorgio Cattani Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 491 Francesco l L a parola è detta. Pronunciata senza margini d’incertezza, d’ambiguità, d’interpretazione. Espressa, non sottintesa: «I mafiosi sono scomunicati». Il 21 giugno, nella piana di Sibari, in Calabria, di fronte a 250.000 persone, durante l’omelia, papa Francesco ha pronunciato il discorso più esplicito contro le mafie che un vescovo abbia mai pronunciato. Il suo linguaggio è semplice, diretto, echeggia i salmi. Il nostro Dio non è un Dio del male. È un Dio di giustizia. Suo ospite non è il malvagio. Sanguinari e ingannatori li detesta. Dice Francesco: «Noi siamo un popolo che adora Dio. Noi adoriamo Dio che è amore, che in Gesù Cristo ha dato se stesso per noi, si è offerto sulla croce per espiare i nostri peccati e per la potenza di questo amore è risorto dalla morte e vive nella sua Chiesa. Noi non abbiamo altro Dio all’infuori di questo! Quando all’adorazione del Signore si sostituisce l’adorazione del denaro, si apre la strada al peccato, all’interesse personale e alla sopraffazione; quando non si adora Dio, il Signore, si diventa adoratori del male, come lo sono coloro i quali vivono di malaffare e di violenza. La vostra terra, tanto bella, conosce i segni e le conseguenze di questo peccato. La ’ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune. Questo male va combattuto, va allontanato! Bisogna dirgli di no! La Chiesa che so tanto impegnata nell’educare le coscienze, deve sempre di più spendersi perché il bene possa prevalere. Ce lo chiedono i nostri ragazzi, ce lo doman- 492 Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 Chiesa e mafia a scomunica «Coloro che seguono questa strada di male non sono in comunione con Dio» dano i nostri giovani bisognosi di speranza. Per poter rispondere a queste esigenze, la fede ci può aiutare. Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!».1 Tre mesi prima, il 21 marzo, pregando con i familiari delle vittime della mafia in san Gregorio VII, a Roma, aveva chiesto, anzi invocato, con voce sommessa la conversione dei mafiosi, il loro pentimento.2 Ora grida: basta! A questo male bisogna dire no. Questo male va combattuto. La fede ci può aiutare. È un programma culturale, sociale, pastorale. Condannare la ’ndrangheta, oggi forse l’organizzazione mafiosa più potente, nei luoghi dove pochi giorni prima è stato ucciso e bruciato un bambino di tre anni, significa dire a tutti, Chiesa compresa, che non ci sono più alibi. Di lì a qualche settimana due episodi tra loro distinti, ma comunicati assieme dai media, subito dopo la visita del papa a Campobasso e Isernia (il 5 luglio), hanno rilanciato la questione del rapporto tra Chiesa e mafia. Il primo è accaduto il 2 luglio, a Oppido Mamertina, piccolo paese in provincia di Reggio Calabria, sede di una sanguinosa faida tra mafiosi: la statua della Madonna delle Grazie è stata fatta sostare per trenta secondi di fronte all’abitazione del boss Giuseppe Mazzagatti. Il secondo, dai contorni non ancora chiariti, è accaduto nel carcere di Larino, dove il 6 luglio duecento detenuti avrebbero saltato la messa per protesta, dopo la scomunica ai mafiosi pronunciata dal papa. La parola del papa è un gesto di non ritorno nella storia antica del rapporto tra Chiesa, mafia e religiosità. Quella storia ha attraversato, modificandosi, gli equilibri di potere delle diverse società, delle diverse economie, delle diverse forme statuali e delle diverse fasi della storia ecclesiale, nonché della storia religiosa delle comunità locali. Nel secondo Ottocento ci sono stati preti contro e preti a favore. Preti imparentati con le famiglie dei mafiosi, loro espressione locale, e preti ammazzati. Preti che l’hanno usata contro i vescovi, e vescovi che l’hanno combattuta, ponendo alla Santa Sede la questione della collusione del clero. Chi si è opposto allo strapotere dei baroni e al latifondo, la mafia se l’è trovata contro. Una variabile nelle strutture di potere locale, compreso il potere religioso. Una variabile progressivamente indipendente. Un percorso carsico Oggi gli archivi storici ci restituiscono alcune di quelle sanguinose vicende. Molto prima di don Puglisi e don Diana, nel clima di rinnovamento suscitato dal popolarismo sturziano, si ribellarono alle logiche mafiose e furono ammazzati preti come don Costantino Stella in provincia di Caltanissetta nel 1919; don Gaetano Millunzi a Monreale nel 1920; sempre nel 1920, don Stefano Caronia in provincia di Trapani. Nel combatterla si è cercato volta a volta di agire sul piano dello sviluppo economico e sociale, sul piano culturale, accanto a quello repressivo. Molto meno su quello ecclesiale e religioso. Ne hanno avuto consapevolezza il movi- La d e n u n ci a d e l p a p a P Un segno nelle coscienze apa Francesco, nella visita pastorale a Cassano all’Jonio (21 giugno), ha riproposto alla Chiesa e alla società la persistente presenza delle organizzazioni criminali (mafia, ’ndrangheta, camorra) che, da tempo, sono riuscite a imporsi, soprattutto in alcuni territori del Sud Italia, come uno stato dentro lo stato. Il papa sa immergersi nella situazione nella quale viene a trovarsi: parla alle persone che ha di fronte, a loro annuncia con semplicità e profondità un messaggio che apre orizzonti di speranza. Fin dall’inizio del suo ministero pontificio, ha promesso, in nome del Vangelo e della missione evangelizzatrice della Chiesa, di stare dalla parte dei poveri, della loro dignità, dei loro diritti, e di fare con loro un cammino di liberazione. Per questo si sente in dovere di denunciare (non tacere) l’ingiustizia che assume un volto maligno, diabolico, in particolare quando è organizzata e programmata. In riferimento a quanti sostengono la mafia, ha ricordato che è impossibile avere un rapporto giusto con Dio se si coltiva un rapporto ingiusto, addirittura omicida, con il prossimo. Ancora più, è blasfemo servirsi della religione per dominare, piegare, asservire gli altri con la forza e la violenza. «I mafiosi non sono in comunione con Dio, sono scomunicati», ha dichiarato nell’omelia della santa messa nella Piana di Sibari. I diretti destinatari del discorso sono le organizzazioni criminali (i clan, le cosche): i capi, gli affiliati per scelta personale, libera e consapevole; e, più in generale, i collaboratori e i sostenitori. Nel linguaggio religioso (cattolico), il termine «scomunica» qualifica i peccati particolarmente gravi. Il peccato di mafia supera la sfera meramente privata, entra direttamente nella sfera pubblica. Nelle parole e nell’intenzione del papa non c’è bisogno di aggiornare il Codice di diritto canonico, in vigore nella Chiesa cattolica dal 1983, e introdurre il peccato di mafia come peccato che incorre automaticamente nella scomunica; non c’è bisogno nemmeno di aggiornare la lista della figura del «peccatore pubblico» esplicitamente prevista dal diritto. La dichiarazione del papa non cambia il Codice, va oltre e afferma che quanti sostengono le associazioni criminali si pongono per sé stessi fuori dalla comunione con Dio («scomunicati»); conseguentemente sono esclusi dai sacramenti, che sono i segni visibili della comunione con Dio e con la comunità cristiana. La scomunica, che qualifica il peccato di mafia, è un messaggio pubblico rivolto alla Chiesa in tutte le sue componenti, pastori e fedeli laici: è obbligatorio rompere qualsiasi contiguità e connivenza tra mafia e Chiesa. La condanna forte e chiara della mafia, tuttavia, non è fine a sé stessa. L’obiettivo è la conversione. La condanna della mafia, e la scomunica che la qualifica in termini di particolare gravità, è un forte appello al ravvedimento. La denuncia del male non ha nulla di cristiano se non è accompagnata dall’annuncio del ritorno a Dio e alla via del bene, della giustizia e della legalità. La misericordia e il perdono sono per tutti, anche per il più degradato delinquente. Dio, in Gesù Cristo, propone ma non impone la sua misericordia e il suo perdono: rispetta la libera mento cattolico e don Sturzo, e dopo il Vaticano II, progressivamente, le chiese locali e quella nazionale. Una consapevolezza carsica. Spesso, anche in anni recenti, la mafia è tornata a essere un male minore, di fronte alle questioni ideologiche e agli volontà della persona. Quando e se il mafioso decide di lasciare la via del male, troverà le porte aperte. È questo il messaggio che il papa ha lasciato alle comunità cristiane e alla società civile: risvegliare le coscienze. In questa prospettiva sono da interpretare i due eventi che si sono succeduti a breve scadenza dalla visita del papa: il rifiuto di partecipare alla santa messa da parte dei detenuti, per reati di mafia, del carcere di Larino (Campobasso); la processione della Madonna delle Grazie di Oppido Mamertina (Reggio Calabria), fatta inchinare davanti alla casa del boss condannato all’ergastolo per omicidio e ai domiciliari per ragioni umanitarie. La Chiesa testimone I due eventi dimostrano che il messaggio del papa ha lasciato un segno nelle coscienze. I detenuti del carcere di Larino, con l’aiuto del cappellano del carcere, si sono interrogati sul significato della scomunica; a loro è stato fatto pervenire il discorso papale. La loro richiesta di un incontro con il papa – che avvenga in una forma o nell’altra – apre a un ripensamento personale e di gruppo. Uguale, in positivo, è l’esito della processione della Madonna delle Grazie di Oppido Mamertina. Alla processione c’erano tutte le rappresentanze, ecclesiali e civili. «Si è sempre fatto così da trent’anni», ha tentato di spiegare il sindaco. Questa volta – ed è la novità – si è compreso che «così non si deve fare». In questa direzione, un’immediata iniziativa è venuta dal comandante della stazione dei carabinieri della città. Una chiara presa di posizione – e non soltanto per la processione – è stata manifestata dai pastori responsabili della comunità cristiana: il presidente della Conferenza episcopale calabrese, mons. Nunnari; singoli vescovi: mons. Milito e mons. Bregantini; e il segretario generale della Conferenza episcopale italiana, mons. Galantino. I due eventi riconducono alla visita di papa Francesco e al messaggio che ha lasciato alle comunità cristiane perché, unitamente agli uomini e donne di buona volontà, riprendano con nuove motivazioni l’impegno per la giustizia, la legalità e la solidarietà. Sono da incoraggiare le iniziative ecclesiali e civili, già in atto, per un compito formativo che coinvolga le persone, singole e associate, a cominciare dalla famiglia e dalla scuola. La missione e la grazia della Chiesa sta nel mostrare, con la testimonianza soprattutto, che l’annuncio del Vangelo è destinato a umanizzare la persona e la società. Le comunità cristiane di quei territori hanno straordinari modelli ai quali riferirsi: uomini, donne e sacerdoti-martiri che hanno speso la vita per gli altri. «La Chiesa – ha detto il papa dopo aver chiesto di combattere la ’ndrangheta – che so tanto impegnata nell’educare le coscienze, deve sempre di più spendersi perché il bene possa prevalere. Ce lo chiedono i nostri ragazzi, ce lo domandano i nostri giovani bisognosi di speranza». Una Chiesa che, in base al Vangelo dell’amore e della giustizia, è vicina alla gente, è una Chiesa che ha futuro e sa aprire al futuro orizzonti di speranza alle persone, alle famiglie e alla società. Luigi Lorenzetti equilibri politici locali e nazionali. La priorità è stata data volta a volta alla lotta al liberalismo, al comunismo e al mantenimento delle strutture di potere. Ma non si è trattato di una comprensione a parte, particolare, separata dalla generale consapevolezza analiti- ca nazionale. Il dato della riforma sociale è presente in tutti i pronunciamenti illuminati degli episcopati. E fino ai primi anni Sessanta, anche la Democrazia cristiana, in alcune sue importanti componenti locali e nazionali, rappresentò, in un Mezzogiorno in cui Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 493 la destra cattolica e neofascista erano largamente presenti, un’istanza di rinnovamento democratico, di giustizia e di ascesa sociale, che ebbe anche sostegno dall’associazionismo cattolico e riflessi sul mondo ecclesiale. Una linea che va da Moro a Mattarella. L’espressione più significativa delle istanze di giustizia sociale è, il 25 gennaio 1948, la Lettera collettiva dell’episcopato meridionale sui problemi del Mezzogiorno, scritta dal vescovo di Reggio Calabria mons. Lanza (ma non firmata dai vescovi siciliani: segno di tensioni politiche oltre che ecclesiali nello stesso episcopato). Nessun cenno a scomuniche, ma oltre alla questione sociale la lettera mette in discussione il dato di appartenenza religiosa o sacrale. Le indicazioni sono per una «religio munda et immaculata», alimentata da una fede cosciente e non intristita da forme parassitarie.3 Nel primo Concilio plenario siculo del 1920 si erano condannati i colpevoli dei delitti di omicidio e di rapina. Nella lettera collettiva dell’episcopato siciliano del 1944 «sono colpiti di scomunica tutti coloro che si fanno rei di rapine o di omicidio ingiusto e volontario». Non c’è scritto mafiosi, ma anche allora, implicitamente, si intese così. Nel 1952, la stessa pena viene confermata dal secondo Concilio plenario siculo. Questa volta vengono compresi «mandatari, esecutori e cooperatori». Manca ancora il nome mafia. Nell’agosto del 1963 è la Santa Sede, attraverso il sostituto mons. Dell’Acqua, a chiedere all’arcivescovo di Palermo, dopo la strage di Ciaculli e il manifesto di denuncia del pastore valdese Panascia, «un’azione positiva e sistematica, con i mezzi che le sono propri – d’istruzione, di persuasione, di deplorazione, di riforma morale – per dissociare la mentalità della cosiddetta “mafia” da quella religiosa». Vinse lo schema sicilianista del complotto diffamatorio e il card. Ruffini, nonostante la sua sensibilità sociale, negò la realtà mafiosa e non fece nulla.4 Tocca ancora alle Chiese locali La parola mafia associata a una decisa condanna arriva nella Chiesa calabrese nel 1975 (L’episcopato calabro contro la mafia, disonorante piaga della società) e in quella siciliana, dalla voce del 494 Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 card. Pappalardo, dal 1979, in un crescendo che ha come interlocutore l’intera società siciliana, e oramai quella italiana, col crescere della «mattanza» di mafia tra il 1979 e il 1982. L’omelia alla messa per la festa di Cristo Re del 1981e la cosiddetta omelia su Sagunto (pronunciata durante i funerali del generale Dalla Chiesa) sono i punti apicali. Fa seguito un documento della Conferenza episcopale siciliana nel quale la scomunica è riferita esplicitamente alla mafia e non più genericamente alla criminalità.5 Il testo prevedeva la scomunica non dopo un regolare processo canonico, ma latae sententiae, per quanti si fossero macchiati di quegli efferati i delitti. Quel testo non ha avuto molto seguito. Non solo sul versante della scomunica, ma più in generale della stessa condanna.6 Bisognerà attendere il grido di Giovanni Paolo II dalla Valle dei templi di Agrigento7 per una ripresa significativa, in molte delle Chiese locali del Mezzogiorno, delle analisi dei fenomeni mafiosi e delle relative condanne. Ma pur evocando il giudizio di Dio, neppure Giovanni Paolo II pronuncia la parola scomunica. Ed ecco che la Chiesa siciliana, incoraggiata dalle parole del papa e in vista del III Convegno ecclesiale nazionale, che si terrà a Palermo nel 1995, pubblica nel 1994 la nota Nuova evangelizzazione e pastorale. Al paragrafo 12 vi si afferma: «La mafia appartiene, senza possibilità di eccezioni, al regno del peccato e fa dei suoi operatori altrettanti operai del maligno. Per questa ragione, tutti coloro che in qualsiasi modo deliberatamente fanno parte della mafia e a essa aderiscono, o pongono atti di connivenza con essa, debbono sapere di essere e di vivere in insanabile opposizione al Vangelo di Gesù Cristo e, per conseguenza, di essere fuori dalla comunione della sua Chiesa». Escono nel frattempo altri testi importanti e molto duri nello stigmatizzare il fenomeno e le sue cause, aggiornate alla crisi profonda del paese. Vedono protagonisti, tra gli altri, vescovi come mons. Riboldi (Acerra) e mons. Agostino (Crotone). Va ricordato poi il documento dei vescovi calabresi Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo, del 2007,8 e quello della CEI Per un paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, del 2010.9 Oggi, papa Francesco allarga ulteriormente quel testo alla stessa apparte- nenza alla mafia. Toccherà alle Chiese locali intervenire. I vescovi calabresi, riuniti il 17 luglio scorso, hanno annunciato per settembre un nuovo documento. Dovranno riprendere le parole del papa, se, come affermano nel comunicato, «la ‘ndrangheta è negazione del Vangelo». Ma dovranno intervenire anche sul rapporto sacro e santo; religiosità popolare autentica e religiosità distorta; uso dei sacramenti come luogo di legittimazione sociale della mafia nei singoli paesi. Temi sui quali molti vescovi, da mons. Morosini a mons. Galantino e ad altri, hanno preso in questi giorni la parola. Anche i vescovi siciliani e quelli campani sono chiamati a rispondere. Ma il punto che Francesco solleva è quello radicale della fedeltà al Vangelo. O si ammette che la fedeltà al Vangelo non è possibile oppure si dovrà immaginare una linea pastorale che non esiti a essere e a dirsi contro la mafia. Non per scelte straordinarie, non per derive di tipo politico-ideologico e neppure per riconquistare un perduto e compromesso ruolo sociale o di potere alla Chiesa, ma per fedeltà ordinaria al Vangelo. La questione è direttamente teologica ed ecclesiologica. Di fronte al male è in gioco tutto. E come Chiesa siamo in gioco tutti. Anche un modello di Chiesa che evidentemente è disfunzionale alla sua missione. Gianfranco Brunelli Il testo integrale sul prossimo Regno-doc. Cf. Regno-att. 8,2014,231. F. De Giorgi, «La questione del “Mezzogiorno”: società e potere», in Cristiani d’Italia. Chiese, società, stato, 1861-2011, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 2011, vol. I, 551ss. 4 A. Cavadi (a cura), Il Vangelo e la lupara. Materiali su Chiesa e mafia, voll. I e II, EDB, Bologna 1994. 5 Conferenza episcopale siciliana, dichiarazione Riconfermata la scomunica, ottobre 1982, in Regno-doc. 21,1982,673. 6 Anche il documento dei Vescovi italiani, Chiesa italiana e Mezzogiorno, 18.10.1989, redatto a quarant’anni dalla sopracitata Lettera collettiva dell’episcopato meridionale, conteneva parole di condanna della criminalità organizzata (cf. in particolare il n. 14; ECEI 4/1939). 7 Giovanni Paolo II, Omelia durante la messa e parole «a braccio» al termine della stessa, Agrigento (Valle dei templi), 9.5.1993, in Regno-doc. 11,1993,332; cf. Regno-att. 12,1993,336. 8 Conferenza episcopale calabra, nota Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo, 17.10.2007, in Regno-doc. 3,2008,113. 9 Episcopato italiano, Per un paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, 21.2.2010, n. 9; ECEI 8/3312ss. 1 2 3 D i b at t i to l L a prossima Assemblea della CEI, in sessione straordinaria ad Assisi dal 10 al 13 novembre, sarà dedicata al tema della formazione e della vita dei presbiteri, con una speciale concentrazione sulla formazione permanente. Tra i punti in rilievo, «l’esercizio del ministero quale fattore decisivo per la formazione; la responsabilità del ministro nel rapporto con l’unico Pastore; il presbiterio diocesano come ambito proprio della formazione permanente» (Comunicato finale della LXVI Assemblea generale, n. 6; Regno-doc. 11,2014,357). Questo contributo intende porsi in sintonia con il cammino di preparazione a tale Assemblea, alla quale è orientato. 1. La formazione è nel ministero Formalmente appare una consapevolezza acquisita.1 I documenti più recenti la esprimono esplicitamente: è nell’esercizio del ministero che un prete si forma (o si deforma). Un progetto di formazione permanente deve partire dalla vita, dalle azioni che la plasmano, dai sentimenti che animano, dalla cura della fede e dalla carità pastorale che ne sono il cuore. In realtà fino ad ora questa intuizione sembra più in grado di dire ciò che non è sufficiente per una formazione più che le sue forme reali. Ovvero: la formazione non può ridursi ad alcuni incontri di aggiornamento (in particolare nella forma di conferenze anche se ben pensate) né a dei ritiri spirituali. Di fatto, per ora, nella maggior Ministero presbiterale a formazione permanente Sette tesi in vista della prossima Assemblea CEI parte delle diocesi le proposte di formazione si limitano esattamente a questo, a delle conferenze e dei ritiri. Segno che l’idea che la formazione sia nel ministero è ancora del tutto formale. 2. Il prete soggetto attivo della sua formazione Il superamento di una formazione intesa come «aggiornamento» chiede che il prete diventi soggetto attivo della sua formazione. È anche una questione di metodo. Incontri frontali, momenti dove i preti si limitano ad ascoltare, un’impostazione fondamentalmente scolastica, lasciano il prete soggetto passivo. Occorre invece che il prete nell’atto di formarsi trovi l’occasione di elaborare la propria esperienza, comunicare il proprio vissuto, condividere le proprie scelte di vita. Alcune esperienze nelle diocesi italiane hanno cercato forme nuove: lo stile narrativo delle settimane sinodali (Chiesa di Padova); forme di laboratori; la creazione di una «carta di comunione» (Chiesa di Milano) da parte dei presbiteri; workshop (Chiese di Puglia). Ma sono delle eccezioni e non sempre hanno una continuità. Ancora a livello di metodo occorre pensare il soggetto che promuove la formazione. Le esperienze più avanzate sono quelle che hanno dato vita a una qualche figura istituzionale, una équipe che si dedica alla cura dei preti (vedi Istituto San Luca per Padova, ISMI per Milano, ma anche Bergamo e Brescia…). La collocazione di questa istituzione (rapporto con il seminario, con il consiglio presbiterale, con le facoltà teologiche, con il vescovo stesso) è tutta da definire. Se il soggetto istituzionale della formazione è bene non sia il seminario (per esprimere un salto di qualità che l’ordinazione imprime nella vita del prete), ciò non significa che non esista un legame stretto tra la formazione precedente e quella successiva nel ministero. Possiamo anzi dire che l’esistenza di una vera formazione nel ministero è condizione per un ripensamento della forma precedente, quella del seminario.2 3. Il presbiterio Punto strategico di una formazione è il consolidarsi di un «senso del presbiterio», dove l’esercizio del ministero superi la sua declinazione sostanzialmente individualistica che oggi sembra essere quella prevalente. Ma come prende forma un presbiterio? Quali sono i luoghi e gli strumenti che permettono a un presbiterio di essere un soggetto attivo della Chiesa locale? Possiamo indicare almeno tre livelli che la «questione presbiterio» mette in gioco. Il primo è quello dei vicariati: una formazione trova qui il suo terreno ordinario. Pensare insieme, compiere insieme un discernimento pastorale, lavorare in équipe, condividere la fede e trovare spazi di condivisione di vita: come aiutare un presbiterio a lavorare insieme e a condividere la fede e la vita? Un secondo livello è quello diocesano; il luogo istituzionale privilegiato è il Consiglio presbiterale diocesano, ma più in genere si tratta di favorire il sorgere di un’opinione pubblica dei preti, la pra- Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 495 tica di condividere e costruire insieme le linee di fondo di una Chiesa locale, l’individuazione di modi di consultazione del clero non sporadici. I segnali di una certa crisi degli strumenti di sinodalità diocesana rendono più debole ogni proposta di formazione. Da ultimo il rapporto tra il vescovo e il suo presbiterio. Una formazione dipende dalla qualità di questo rapporto, dalla crescita di un comune sentire, da una relazione non solo dall’alto al basso ma anche dal presbiterio al suo vescovo (non è bene che il vescovo sia solo!). 4. I passaggi della vita Prendersi cura di una forma buona della vita del prete chiede un’attenzione particolare ad alcune stagioni che spesso segnano in modo decisivo la biografia di un presbitero. Ne segnaliamo tre: i primi anni, l’ultima stagione, i passaggi. I primi anni di ministero sono quelli che di recente hanno visto nascere diverse esperienze di accompagnamento, anche perché si presentano immediatamente come delicati e strategici. In questi anni la formazione non può essere la semplice continuazione di quella del seminario, e deve già avere lo stile di una formazione tra e di adulti, anche se ai primi passi nell’esercizio del ministero. Altrettanto delicata è l’ultima stagione, che non dovrebbe essere pensata fuori dal ministero (si lascia un ruolo, una funzione attiva, ma non ci si dimette dall’essere prete): occorre anzi pensare anche all’ultima come a una vera e propria «destinazione». In mezzo ci sono i passaggi che spesso sono momenti delicati nella vita del prete: come pensare un discernimento tra obbedienza e comunione, come accompagnare (conoscere e promuovere) il maturare di carismi, d’intuizioni spirituali e pastorali e il servizio e le necessità della Chiesa locale? 5. Discernimento pastorale e annuncio del Vangelo Promuovere una formazione che ha come punto di vista formale la vita e il ministero del prete alla fine significa accompagnare un discernimento che sappia leggere la vita, le condizioni sociali ed ecclesiali alla luce del Vangelo. In questo momento di Chiesa significa 496 Il Regno - at t ua l i t à 14/2014 accompagnare il passaggio da una pastorale conservativa a una pastorale che rimette l’annuncio del Vangelo al centro. Perché l’anelito all’evangelizzazione non sia retorico occorre un’intelligenza e una lettura del tempo che viviamo (dimensione antropologica e sociale) e della forma di Chiesa che vogliamo edificare (dimensione ecclesiologica). Una formazione permanente dovrebbe avere come obbiettivo quello di un discernimento condiviso proprio su questi aspetti nodali del ministero. La necessità di una lettura sapienziale del proprio tempo in ordine all’annuncio del Vangelo mette in questione il rapporto tra la prassi della vita ecclesiale e la teologia. È chiaro che una formazione che si pensa nel ministero chiede anche una teologia che abbia una relazione viva con il vissuto ecclesiale. Anche il profilo ecclesiale (la forma della Chiesa adeguata alla priorità dell’annuncio del Vangelo) chiede che il ministero sia pensato in modo adeguato; in particolare nel suo riferimento e radicamento dentro il popolo di Dio e in relazione con le diverse figure vocazionali che lo compongono (in particolare l’identità del prete si profila in relazione con altre figure come i diaconi, i religiosi e laici). 6. Per una riforma della vita del prete Le condizioni di vita del ministero oggi determinano fortemente la possibilità o meno di aderire e vivere con convinzione un cammino di formazione permanente. Là dove le condizioni di vita fossero in contrasto e in controtendenza con le intuizioni e le proposte che un progetto di formazione mette in circolo, l’effetto non potrà essere che di disaffezione. Per questo la cura della formazione non può non prendere in esame il capitolo che potremmo chiamare «una riforma della vita del prete». Di essa possiamo accennare a quattro aspetti che oggi sembrano ineludibili, e che riguardano l’isolamento in cui il prete vive, la «burocratizzazione» del ministero, l’uso dei beni e la vita affettiva. Si tratta di favorire una vita più condivisa che rompa sacche pericolose d’isolamento, incoraggi il lavorare insieme e forme effettive di comunione. Sembra poi urgente semplifica- re l’azione pastorale perché la cura del Vangelo, della fede, e delle relazioni possano essere al centro della vita del prete e il cuore delle sue attenzioni. I capitoli dell’uso dei beni (povertà) e della sessualità (celibato) sono quelli che hanno determinato i casi più clamorosi di crisi e scandali da parte dei ministri ordinati. Non è un caso: i soldi e il sesso sono anche nella vita sociale punti critici e problematici per gli uomini oggi. Per questo è urgente che, proprio in ordine a tali aspetti, la vita del clero ritrovi una sua testimonianza cristallina, pena una forte perdita di credibilità della sua testimonianza. 7. La vita spirituale come elemento sintetico Se un progetto di formazione permanente chiede di abilitare a un discernimento comune dei preti sulla loro vita e sul loro ministero, la domanda fondamentale che la orienta è di natura spirituale: cosa chiede oggi lo Spirito a un prete e a un presbiterio? Quale unità di vita e quale spiritualità sostengono il cammino di un prete? Per questo la meta di un cammino di formazione è la conversione del cuore: che – cioè – fare il prete sia l’opportunità per diventare sempre più discepoli del Vangelo fino al dono crocifisso della propria vita, in povertà e obbedienza, in libertà di spirito e in comunione di vita. Antonio Torresin 1 Mi permetto di rinviare a uno «studio del mese» scritto per questa rivista dal titolo «La formazione del giovane prete. Entrare nel ministero», in Regno-att. 10,1996,306, a opera di F. Brovelli e A.Torresin, dove la tesi che «la formazione è nel ministero» è l’intuizione di fondo dell’accompagnamento del ministero in ogni fase del suo esercizio. Per la riflessione più recente e la recezione anche ufficiale del tema basti rimandare al testo delle Commissioni episcopali per il clero e per la vita consacrata, Fare i preti. Esperienze e prospettive per la formazione permanente, a cura di mons. Francesco Lambiasi, EDB, Bologna 2014, redatto in vista della prossima Assemblea della CEI (cf. qui sopra). 2 La tentazione è spesso di attribuire al seminario le cause di una certa crisi nel ministero, e di contro di allungare in modo infinito i tempi di formazione per prevenire momenti di crisi. Sono due reazioni istintive che non colgono il centro della questione. Non basta (e a volte è addirittura pericoloso) allungare i tempi, forse occorre ripensare le forme della preparazione al ministero. E questo è tanto più possibile nella misura in cui il ministero poi prevede forme di accompagnamento reali. diario ecumenico Giugno KEK – Prima guerra mondiale. L’anniversario dell’inizio della prima guerra mondiale è commemorato dalla Conferenza delle Chiese europee (KEK), attraverso il suo Comitato direttivo, con una dichiarazione pubblicata al termine dell’incontro del 2-5 giugno (testo in inglese in www.ceceurope.org). Nella lettera che il presidente della KEK Christopher Hill invia alle Chiese europee insieme alla dichiarazione, si propongono alcune indicazioni per la commemorazione di questo «spartiacque della storia d’Europa e del mondo intero (…), il più tragico esempio di discrepanza tra gli obbiettivi e il prezzo pagato per raggiungerli»: organizzare per il 28 luglio delle veglie di preghiera ecumeniche per la pace per riaffermare l’impegno delle Chiese a essere agenti di e riconciliazione nell’Europa di oggi; una conferenza internazionale organizzata dalla KEK nel 2016; una conferenza internazionale preparata insieme al Consiglio ecumenico delle Chiese nel 2015 sul genocidio degli armeni. Le iniziative di alcune Chiese europee nel centenario dell’inizio del conflitto sono reperibili sul sito della KEK. Cf. anche Regno-doc. 11,2014,373. Minsk – Forum europeo cattolico-ortodosso. Nel corso del IV Forum europeo cattolico-ortodosso, che si svolge a Minsk in Bielorussia dal 4 al 6 giugno e vede riuniti rappresentanti delle Chiese ortodosse nel continente e del Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa (CCEE; cf. Regno-doc. 11,2014,330), il metropolita Hilarion di Volokolamsk del Patriarcato di Mosca afferma che le dichiarazioni e la posizione estremamente politicizzata assunta dalla Chiesa greco-cattolica di Ucraina «hanno portato alla polarizzazione della società e a un peggioramento del conflitto che ha già provocato numerose vittime». Tali azioni «hanno causato gravi danni non solo all’Ucraina e ai suoi cittadini, ma anche al dialogo cattolico-ortodosso». Terra santa – Preghiera interreligiosa nei Giardini vaticani. L’8 giugno nei Giardini vaticani papa Francesco, il presidente israeliano Shimon Peres e quello palestinese Mahmoud Abbas elevano insieme una «Invocazione per la pace». Cf. Regno-doc. 11,2014,333ss e in questo numero a p. 443s. Corea – Dialogo ecumenico e riconciliazione. Nel 2014 ricorrono i 30 anni della Consultazione di Tozanso, che il CEC organizzò in Giappone nel 1984 ponendo per la prima volta cristiani di diverse confessioni di fronte al tema della riconciliazione e della riunificazione delle due Coree. Nella ricorrenza, dal 17 al 19 giugno il CEC stesso organizza a Bossey una Consultazione internazionale su giustizia, pace e riconciliazione nella penisola coreana, che al termine dei lavori comunica l’avvio di nuove iniziative a favore della pace e della riconciliazione tra i due paesi. Una consultazione ancora più ampia sul tema è annunciata per il 2015, 70° anniversario della divisione tra Corea del Nord e Corea del Sud. USA – Presbiteriani e matrimonio gay. Il 19 giugno l’Assemblea generale presbiteriana, il principale organismo legislativo della confessione, vota ad ampia maggioranza a favore del riconoscimento del matrimonio omosessuale come cristiano nell’ordinamento della Chiesa. L’emendamento dovrà ora essere approvato dalla maggioranza dei 172 presbiterii regionali, ma è già legalmente possibile per i ministri celebrare matrimoni gay negli stati dove essi sono riconosciuti (19 stati più il Distretto di Columbia). Tra le denominazioni protestanti storiche negli Stati Uniti solo la Chiesa unita di Cristo supporta i matrimoni gay, mentre la Chiesa episcopaliana ha per ora approvato una liturgia di benedizione e quella luterana ha eliminato le limitazioni per il clero omosessuale e per il resto lascia libertà di scelta alle Chiese locali. La Chiesa metodista, la maggiore con circa 7,8 milioni di fedeli, vieta la celebrazione. Attualmente la materia è di fatto uno dei principali ostacoli al dialogo ecumenico con le Chiese cattolica e ortodossa, oltre che il maggior elemento di discordia intra-confessionale. Francia – Nuovo rabbino capo. Il 22 giugno l’Assemblea generale del Concistoro centrale elegge come gran rabbino di Francia il lionese sefardita Haïm Korsia, 51 anni, dopo che il suo predecessore Gilles Bernheim si era clamorosamente dimesso nell’aprile 2013 in seguito alle accuse di plagio nei suoi libri. Noto intellettuale e personalità di dialogo, esponente dell’ala ortodossa ma considerato moderato, nei prossimi sette anni dovrà unire il più possibile le varie correnti della comunità ebraica francese, che con circa 500.000 membri è la più grande d’Europa, e ridare credibilità al ruolo del rabbino capo. «Il futuro dell’ebraismo in Francia – ha dichiarato dopo la nomina – passa attraverso l’apertura e la coniugazione di tutte le tendenze, di tutte le energie. L’apertura è la base stessa della vita di una sinagoga. Non si possono chiudere le porte, bisogna aprirle», sottolineando l’importanza di «ripristinare la fiducia» reciproca fra ebrei e società. Il 2 luglio tuttavia, in una lunga inchiesta, Mediapart, giornale on-line, riporta che anche il nuovo rabbino capo in due libri avrebbe riportato interi passi di altri senza citarli. Siria – Incontro dei patriarchi di Antiochia. Dal 25 al 27 giugno per la prima volta i sei patriarchi cristiani di Antiochia, su invito del patriarca greco-ortodosso Youhanna X, si riuniscono a Balamand in Libano per riflettere e pregare insieme e dare un segnale di unità nel pieno della guerra civile in Siria: sono il card. Bechara Rai, maronita, Ignazio II Ephrem, siro-ortodosso, Gregorio III Laham, melkita, Ignazio Younan, siro-cattolico, Nersès Bedros, cattolico armeno. Il tema è «Nel tempo della prova i cristiani vivano l’unità». Insieme lanciano un forte appello al Libano perché superi la sua lunga crisi istituzionale, rivolgono un preoccupato pensiero ai cristiani del Nord dell’Iraq (cf. in questo numero a p. 445s), oltre che ai siriani provati da oltre tre anni di guerra, e invocano nuovamente la liberazione dei rapiti, primi fra tutti i due vescovi di Aleppo – il greco-ortodosso Boulos Yazigi e il siro-ortodosso Youhanna Ibrahim –, prigionieri ormai da 14 mesi. Germania – Muore il pastore Führer. Il 30 giugno si spegne a Lipsia Christian Führer, pastore evangelico della Nikolaikirche dal 1980 al 2008. È stato tra i protagonisti del movimento pacifista che portò alla caduta del muro di Berlino il 9 novembre 1989. Fin dal 1982 aveva avviato le «preghiere per la pace» del lunedì sera, cui partecipavano battezzati di diverse confessioni e non battezzati. Dalla Nikolaikirche nell’autunno del 1989 cominciarono gli affollati cortei lungo il Ring, che assieme ad altre manifestazioni analoghe nella Repubblica democratica tedesca portarono in modo non violento alla caduta del Muro. Daniela Sala Il Regno - attualità 14/2014 497 a agenda vaticana giugno Al Rinnovamento nello Spirito. «Nei primi anni del Rinnovamento carismatico a Buenos Aires, io non amavo molto questi carismatici. E io dicevo di loro: “Sembrano una scuola di samba!”. (…) Dopo, ho incominciato a conoscerli e alla fine ho capito il bene che il Rinnovamento carismatico fa alla Chiesa. E (…) pochi mesi prima di partecipare al Conclave, sono stato nominato dalla Conferenza episcopale assistente spirituale del Rinnovamento carismatico in Argentina. Il Rinnovamento carismatico è una grande forza al servizio dell’annuncio del Vangelo, nella gioia dello Spirito Santo»: così il papa il 1° giugno allo stadio Olimpico ai partecipanti alla XXXVII Convocazione nazionale del Rinnovamento. No al disprezzo per gli zingari. «Spesso gli zingari si trovano ai margini della società, e a volte sono visti con ostilità e sospetto – io ricordo tante volte, qui a Roma, quando salivano sul bus alcuni zingari, l’autista diceva: “Attenti ai portafogli!”. Questo è disprezzo. Forse sarà vero, ma è disprezzo –; sono scarsamente coinvolti nelle dinamiche politiche, economiche e sociali del territorio. Sappiamo che è una realtà complessa, ma certo anche il popolo zingaro è chiamato a contribuire al bene comune, e questo è possibile con adeguati itinerari di corresponsabilità, nell’osservanza dei doveri e nella promozione dei diritti di ciascuno»: così Francesco il 5 giugno all’incontro «La Chiesa e gli zingari: annunciare il Vangelo nelle periferie», promosso dal Pontificio consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti. «Invocazione per la pace». Domenica 8 giugno si tiene nei Giardini vaticani una «Invocazione per la pace» con la partecipazione del presidente di Israele Shimon Peres e del presidente della Palestina Mahmoud Abbas, «per invocare da Dio il dono della pace nella Terra santa, in Medio Oriente e nel mondo intero» (così Francesco al Regina coeli). All’«Invocazione» partecipano tre delegazioni, ebraica, cristiana e musulmana, per un totale di una sessantina di persone. Dopo che ognuna ha svolto la propria «invocazione», il papa, Peres e Abbas svolgono un proprio intervento. Un abbraccio di pace e la messa a dimora di una pianta d’ulivo concludono il rito. Cf. Regnodoc. 11,2014,333ss; Regno-att. 12,2014,374ss e in questo numero alle pp. 443ss. I poveri come pietra d’angolo. «Gesù dice di sé stesso: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo” (Mt 21,42). Anche i poveri sono in qualche modo “pietra d’angolo” per la costruzione della società. Oggi purtroppo un’economia speculativa li rende sempre più poveri (...). È inaccettabile! Chi vive la solidarietà non lo accetta e agisce. E questa parola “solidarietà” tanti vogliono toglierla dal dizionario, perché a una certa cultura sembra una parolaccia. No! È una parola cristiana, la solidarietà!»: così il papa, il 15 giugno, in visita alla Comunità di Sant’Egidio. Chiesa un po’ invecchiata. «Se noi come Chiesa non sappiamo generare figli, qualcosa non funziona! (…) La fecondità è la grazia che noi oggi dobbiamo chiedere allo Spirito Santo, perché possiamo andare avanti nella nostra conversione pastorale e missionaria. (…) È un po’ invecchiata la nostra madre Chiesa (…) Dobbiamo ringiovanirla! (...) La Chiesa diventa più giovane quando è capace di generare più figli; diventa più giovane quanto più diventa madre»: parole di Francesco il 16 giugno ad apertura del convegno annuale della diocesi di Roma. Cassano all’Jonio: mafiosi scomunicati. Parole del papa nell’omelia della messa celebrata il 21 giugno nella Piana di Sibari 498 Il Regno - attualità 14/2014 come ultimo atto della visita a Cassano all’Jonio, la diocesi del vescovo Nunzio Galantino, segretario della CEI: «Quando non si adora Dio, il Signore, si diventa adoratori del male, come lo sono coloro i quali vivono di malaffare e di violenza. La vostra terra, tanto bella, conosce i segni e le conseguenze di questo peccato. La ’ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune. Questo male va combattuto, va allontanato! Bisogna dirgli di no! La Chiesa che so tanto impegnata nell’educare le coscienze, deve sempre di più spendersi perché il bene possa prevalere. Ce lo chiedono i nostri ragazzi, ce lo domandano i nostri giovani bisognosi di speranza. (…) Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!». Cf. in questo numero a p. 492. Francescani dell’Immacolata e Legionari. Il 25 giugno p. Lombardi informa che tutti i seminaristi dei Francescani dell’Immacolata, accompagnati dal commissario, p. Fidenzio Volpi, sono stati ricevuti dal papa il 10 giugno, presso la Casa Santa Marta: «Un gesto che dimostra l’interesse con il quale papa Francesco segue la situazione dei Francescani dell’Immacolata e la sua vicinanza al lavoro che il commissario sta svolgendo (…). Il santo padre viene informato puntualmente di tutti i passi che si compiono. In questo momento si cerca una casa a Roma, dove possano abitare i frati studenti di detto istituto che frequenteranno un’università pontificia di Roma per proseguire i loro studi» (per la questione dei Francescani dell’Immacolata, cf. Regno-doc. 7,2014,204ss; Regno-doc. 19,2013,606). Lo stesso giorno, p. Lombardi informa anche che «come era previsto, con la celebrazione del Capitolo generale detto istituto (l’Istituto dei Legionari; nda) è ritornato alla competenza della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica. Con questo passaggio è terminato il lavoro del delegato apostolico». «Come gesto di vicinanza fraterna – continua Lombardi – il prefetto e il segretario del Dicastero il giorno 3 luglio si recheranno alla sede centrale dei Legionari per commentare personalmente alcune correzioni che dovranno essere apportate al testo delle Costituzioni presentato al Dicastero e per comunicare il nome dell’assistente pontificio» (per la questione dei Legionari, cf. Regno-att. 14,2013,425). Instrumentum per il Sinodo. Il 26 giugno viene pubblicato l’Instrumentum laboris per il Sinodo straordinario di ottobre sulla famiglia. In esso prendono corpo due delle possibili innovazioni in materia di irregolarità matrimoniali e di divorziati risposati affiorate nel dibattito degli ultimi mesi: al n. 93 si accenna alla «tendenza» – che è detta prevalente «in Europa (ma anche in qualche paese di America Latina e Asia)» – a «risolvere la questione attraverso qualche sacerdote che accondiscenda alla richiesta di accesso ai sacramenti» (e qui l’innovazione potrebbe consistere in una direttiva ai confessori che non lasci all’arbitrio dei singoli la valutazione di percorsi penitenziali che possono riportare ai sacramenti); al n. 101 «ci si chiede se sia possibile far fronte» al problema pastorale dei fallimenti matrimoniali «soltanto per via processuale giudiziale» e «si avanza la proposta di intraprendere una via amministrativa». Cf. Supplemento a Regno-doc. 13,2014,444ss e in questo numero a p. 487. Ex nunzio Wesołowski. Comunicato del 27 giugno: «Il primo grado di giudizio del processo canonico a carico dell’ex nunzio apostolico nella Repubblica Dominicana, Józef Wesołowski, si è concluso in questi giorni presso la Congregazione per la dottrina della fede con una sentenza di condanna alla dimissione dallo stato clericale». Luigi Accattoli S studio del mese Asia La pastorale delle piccole comunità cristiane La forza del Vangelo in Corea Statua bronzea del fondatore della Chiesa coreana Seung Hoon Lee; Seoul, Jeoldusan Martyrs’ Shrine & Museum. Dal 14 al 18 agosto papa Francesco visiterà la Corea del Sud. Per capire com’è la Chiesa cattolica sudcoreana, la sua realtà in forte espansione, bisogna analizzare da vicino il fenomeno delle piccole comunità cristiane. Si tratta di piccoli gruppi di fedeli appartenenti a una stessa parrocchia, che si riuniscono nelle case a turno, leggono insieme la Scrittura, vivono l’amicizia e la solidarietà reciproca, pregano insieme in comunione con la Chiesa universale. Su questo modello di Chiesa, che si fonda sull’ecclesiologia di comunione del concilio Vaticano II, già dal 1990, nella V Assemblea generale a Bandung, la Federazione delle conferenze episcopali dell’Asia ha deciso di impostare il rinnovamento delle proprie Chiese locali per un «nuovo modo di essere Chiesa» e per rispondere alle sfide dell’evoluzione delle società asiatiche e alla priorità data all’evangelizzazione. E le diocesi coreane vi hanno impostato una profonda modifica strutturale della pastorale, che comporta una valorizzazione del ruolo laicale e femminile e presenta significative concordanze con le indicazioni dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium di papa Francesco. Il Regno - attualità 14/2014 499 tudio del mese S C on la sua testimonianza autentica della «gioia del Vangelo», papa Francesco ha toccato profondamente non solo i cattolici, ma anche molte persone di altre religioni o lontane dalla fede. Una testimonianza che passa anche attraverso la sua vita: «Il mondo di oggi ha tanto bisogno di testimoni. Non tanto di maestri, ma di testimoni. Non parlare tanto, ma parlare con tutta la vita».1 La sua voce ispirata e profetica è echeggiata profondamente nei nostri cuori. La visita di papa Francesco in Corea del Sud, principalmente per partecipare alla VI Giornata della gioventù asiatica, dal 14 al 18 agosto prossimi, sarà un avvenimento veramente storico per gli asiatici. Il tema dell’evento è «Giovani dell’Asia! Svegliatevi! La gloria dei martiri risplende su di voi: “Se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui” (Rm 6,8)». Il suo viaggio per partecipare alla Giornata della gioventù asiatica dimostra la sua apertura, passione, amore e vicinanza ai giovani e all’Asia. Questa visita speciale sarà una buona occasione per conoscere la Chiesa cattolica in Corea, che ospita l’evento, e per ascoltare le sue esperienze in materia di rinnovamento della Chiesa e promozione di una nuova evangelizzazione attraverso le piccole comunità cristiane, o comunità ecclesiali di base, fin dal 1992. Riguardo all’evangelizzazione, le piccole comunità cristiane (comunità ecclesiali di base) sono state considerate «vere espressioni di comunione ecclesiale e centri di evangelizzazione»2 e «una genuina forza per l’evangelizzazione».3 Inoltre, poiché papa Francesco ha posto l’accento sulla centralità del ruolo e della missione del «popolo di Dio» per la nuova evangelizzazione del mondo,4 per rispondere al suo appello a favore di una nuova evangelizzazione è molto importante per noi approfondire la comprensione delle piccole comunità cristiane. Perciò questo saggio intende esaminare come e perché sono state promosse le piccole comunità cristiane, e quali aspetti di esse dovrebbero essere maggiormente considerati e definiti per svilupparle in modo più autentico all’interno della Chiesa cattolica coreana nella visione prospettica del concilio Vaticano II. Sarà una lettura di riflessione esperienziale piuttosto che teoretica e teologica. Dopo una breve introduzione sulla storia della Chiesa cattolica in Corea si descriveranno il processo, l’obiettivo e il contesto della promozione delle piccole comunità ecclesiali, esplorandone i quattro elementi essenziali insieme al rinnovamento della struttura pastorale parrocchiale a partire dalla visione di una Chiesa partecipativa. Con una riflessione sui benefici e le sfide delle piccole comunità di base e alcuni suggerimenti. Questo studio si concentra sul processo, la visione e i risultati delle comunità delle arcidiocesi di Seoul e Jeju, tra le 16 diocesi coreane, con qualche accenno ai risultati di indagini anche in altre diocesi, in quanto l’esempio offerto da due diocesi può mostrare gli aspetti generali delle piccole comunità ecclesiali in Corea. L’obiettivo è anche di capire come esse possano rispondere agli impulsi dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium di papa Francesco. Alle origini della Chiesa cattolica in Corea Nel XVII secolo, il cattolicesimo venne presentato agli intellettuali della dinastia Choson da pubblicazioni cattoliche 500 Il Regno - attualità 14/2014 tradotte in cinese come una delle nuove idee e conoscenze pratiche. Essi studiarono quelle pubblicazioni sul cattolicesimo e cercarono di praticarne gli insegnamenti a livello personale. Nel 1784, uno di loro, Seung Hoon Lee (1756-1801), ricevette il battesimo in Cina, a Pechino, ritornò in Corea e cominciò a battezzare altri coreani.5 Fu così che venne fondata la Chiesa cattolica in Corea. Quei credenti cominciarono a tenere riunioni Myongryebang (명례방) come una comunità di fede cristiana. In Corea dunque abbiamo la situazione unica di una fede cattolica volontariamente accolta e diffusa dai laici e dalle loro comunità di fede senza l’intervento di missionari e sacerdoti provenienti dall’estero fino al 1795. Gli uffici governativi conservatori, imbevuti di confucianesimo, considerarono il cattolicesimo sovversivo e pieno di idee pericolose e di minacce a causa dei valori che propugnava: dignità, diritti e uguaglianza degli esseri umani indipendentemente da classe, genere e razza. Nel contesto del confucianesimo, questi valori del cattolicesimo erano considerati «una credenza pericolosa che viola il sistema sociale gerarchico».6 In particolare, la proibizione da parte della Chiesa cattolica dei riti ancestrali tradizionali, che derivavano dal confucianesimo e permeavano tutto il popolo coreano, provocò conflitti culturali e persecuzioni. Di conseguenza la grave persecuzione e soppressione dei cattolici durò quasi un secolo, dal 1791 al 1886, e circa 10.000 fedeli, fra cui 10 sacerdoti, morirono martiri.7 Fra questi martiri, 103 sono stati canonizzati nel 1984: 11 chierici e 92 laici, di cui 47 donne e 45 uomini.8 Finalmente nel 1886 la Chiesa cattolica in Corea ottenne la libertà di religione, ma attraversò un periodo oscuro durante l’occupazione giapponese e la guerra di Corea. Dopo questi sconvolgimenti politici, sociali e culturali, la Chiesa cattolica in Corea è cresciuta rapidamente. Dagli anni Sessanta agli anni Novanta il numero dei cattolici in Corea è notevolmente aumentato. Le attività e gli impegni della Chiesa cattolica nel campo della giustizia sociale, della pace e del bene comune durante il processo del movimento democratico contro la dittatura militare ne hanno assicurato la crescita. In base alle statistiche del 2013, essa conta 16 diocesi e 1.668 parrocchie. I cattolici sono 5.442.996, pari al 10,4% della popolazione totale, con 4.865 sacerdoti.9 Durante tutta la sua storia, la partecipazione attiva dei laici alla sua missione e la loro spiritualità del martirio e della testimonianza sono diventate la pietra angolare della Chiesa cattolica in Corea. Questi esempi sono tuttora luminosi e significativi per i cattolici coreani. E sono anche la fonte cui attingono le piccole comunità cristiane che sono alla base della parrocchia. La promozione delle piccole comunità cristiane La maggior parte delle diocesi della Chiesa cattolica coreana ha promosso ufficialmente le piccole comunità cristiane da quando l’arcidiocesi di Seoul le introdusse nel 1992 come priorità pastorale a lungo termine per la «nuova evangelizzazione», direttamente in risposta a un appello lanciato dalla V Assemblea plenaria della Federazione delle conferenze episcopali dell’Asia (FABC) a favore di «un nuovo modo di essere Chiesa: una Chiesa partecipativa». Era un impegno al rinnovamento, che originava dal concilio Vaticano II e dalla sua ecclesiologia di comunione. L’arcidiocesi di Seoul ha progressivamente elaborato modelli, metodi, corsi di formazione, programmi e materiali per realizzare le piccole comunità cristiane, e molte altre diocesi ne hanno adottato l’approccio. Piuttosto in ritardo anche la diocesi di Jeju ha introdotto le piccole comunità cristiane a livello diocesano, quando nel 2002 vi è stato nominato vescovo Peter Kang Uil, che le aveva introdotte nell’arcidiocesi di Seoul. Egli le ha subito promosse con grande impegno come priorità pastorale e fonte essenziale del rinnovamento della Chiesa. Concretamente, l’Ufficio per l’evangelizzazione della diocesi di Jeju ha deciso di ripartire il processo di attuazione delle piccole comunità cristiane in tre fasi progressive su un periodo di otto anni.10 La caratteristica veramente unica della promozione delle piccole comunità cristiane in Corea rispetto alle piccole comunità cristiane di altri paesi è lo sforzo coreano di trasformare le preesistenti riunioni ban (반, 班: sezione divisa a livello geografico) e guyeok (구역, 區域: distretto formato da vari ban) in piccole comunità cristiane. Le riunioni ban esistevano in molte parrocchie in Corea fin dagli anni Settanta. Erano le unità basilari della parrocchia, che era uniformemente divisa sulla base di un’area residenziale. Rispecchiavano la concezione della struttura governativa di controllo del popolo. Erano organizzate principalmente come strutture amministrative per coadiuvare i sacerdoti nella gestione della parrocchia. Perciò normalmente i partecipanti alle riunioni ban si limitavano ad ascoltare, a eseguire gli ordini e ad aiutare i pastori. Tuttavia inizialmente le piccole comunità cristiane in Corea si basarono sulle riunioni ban preesistenti, per cui, quando si chiese di trasformare le riunioni ban in vere piccole comunità cristiane, molti laici e sacerdoti non riconobbero le differenze fra le riunioni ban e quelle delle piccole comunità cristiane. Questa tendenza esiste ancora in Corea. La Chiesa cattolica in Corea ha riflettuto sulla necessità del rinnovamento della Chiesa e ha cercato una strada verso una comunione di comunità, comunità di servizio e comunità di testimonianza al Vangelo nella prospettiva del concilio Vaticano II. La voce profetica del Concilio è risuonata e ha ispirato il popolo di Dio nella Chiesa in Corea. La promozione delle piccole comunità cristiane è stata certamente associata con questa riflessione e visione della Chiesa. In particolare, prima di essere introdotte nella Chiesa cattolica in Corea dalla Chiesa istituzionale a livello diocesano nel 1992, già nel 1984, quando si celebrò il 200° anniversario della Chiesa cattolica in Corea, nel Governo della Chiesa dell’Assemblea pastorale nazionale si presentava la comunità ecclesiale di base come un metodo pastorale per il rinnovamento delle parrocchie, basato sull’ecclesiologia di comunione del concilio Vaticano II.11 Questa assemblea spiegava che l’ideale sarebbe stato quello di sviluppare le riunioni ban come comunità ecclesiali di base.12 Rinnovamento e partecipazione Nel 1992 il card. Stephen Kim Sou-hwan annunciò il lancio dell’evangelizzazione attraverso le piccole comunità cristiane. Parlò della necessità di formare piccole comunità cristiane collegate al rinnovamento della Chiesa. Le riteneva un modello auspicabile di un nuovo modo di essere Chiesa, in grado di risolvere le sue difficoltà e rispondere alle sfide che aveva di fronte: il fedele ha perso il senso dell’appartenenza e della solidarietà come una comunità di koinonia; la crescita dell’estensione della Chiesa e del numero dei fedeli ha determinato un ampliamento delle parrocchie; in questa situazione, i fedeli non sono più in grado di sperimentare il senso dell’appartenenza, della solidarietà, della comunità e della koinonia; i pastori fanno molta fatica a intrattenere relazioni personali con i parrocchiani.13 Il vescovo Peter Kang illustrò le ragioni concrete per la formazione delle piccole comunità cristiane riflettendo sull’attuale realtà delle parrocchie in Corea. Attirò l’attenzione sul numero crescente di non praticanti per mostrare che la Chiesa battezza le persone, ma non sembra in grado di evangelizzarle e di accompagnarle nel loro cammino di fede. Perciò si dovevano formare piccole comunità cristiane per affrontare e vincere queste sfide: «La parrocchia è stata l’unità basilare più piccola della Chiesa nel corso della sua lunga storia. Ma oggi le nostre parrocchie sono troppo grandi per potersi conoscere e riunire. Per rivitalizzare la parrocchia si dovrebbero formare piccole comunità cristiane, che permettono la relazione interpersonale e la condivisione del senso di appartenenza fra i parrocchiani».14 Le piccole comunità cristiane sono considerate anche il nucleo ecclesiale, che potrebbe attuare il rinnovamento della Chiesa attraverso la comunione di comunità. Come elemento chiave per vitalizzare le piccole comunità cristiane e il loro scopo ultimo si è posto l’accento sulla profonda partecipazione e koinonia di tutti i fedeli: «Per incarnare in noi la comunità ecclesiale delle origini dobbiamo essere pazienti e affrontare uno sforzo di lungo periodo. La promozione di una comunità autentica richiede inevitabilmente il rispetto reciproco, la collaborazione e la dedizione di tutto il popolo di Dio. Dobbiamo comprendere profondamente che cos’è la Chiesa per diventare una Chiesa autentica. Anzitutto dobbiamo imparare a riconoscere la concezione della Chiesa basata sulla Lumen gentium del concilio Vaticano II. Dobbiamo partire dalla comprensione dell’identità e del ruolo delle piccole comunità cristiane in questa Chiesa. Per comprendere questo piano ecclesiale dello Spirito Santo, dobbiamo cercare di imparare in che cosa consiste la vocazione e il ruolo di ciascuno di noi».15 Qui si sottolinea che prima di tutto e sopra tutto, i fedeli – clero, religiosi e laici – debbono essere consapevoli e imparare a riconoscere la loro identità e missione ecclesiale come popolo di Dio e il significato delle piccole comunità cristiane nella Chiesa. E si sottolinea che tutti i fedeli debbono partecipare attivamente nei vari ministeri, scoprendo i loro carismi personali. Il card. Stephen Kim ha affermato che la Chiesa deve portare la buona novella alla società coreana malata di materialismo, individualismo e secolarismo.16 Anche la diocesi di Jeju mostra chiaramente che la promozione delle piccole comunità cristiane è strettamente legata sia al ruolo della Chiesa nel mondo sia al rinnovamento della Chiesa: «Lo scopo della promozione delle piccole comunità cristiane è quello di rinnovare la Chiesa per trasformarla in un’autentica comunità in comunione, amicizia, unità e condivisione. È un totale cambiamento di paradigma da parte della Chiesa, che mira a trasformare il mondo. Questo scopo può essere raggiunto solo dalla comunità di tutti i fedeli in collaborazione e solidarietà, non da individui».17 Il Regno - attualità 14/2014 501 tudio del mese S 502 Le piccole comunità cristiane vengono descritte come comunità che testimoniano la parola di Dio, la sola in grado di produrre un cambiamento di paradigma nella Chiesa, partecipano alla promozione della giustizia sociale e della pace, ripristinano la dignità e i diritti degli esseri umani nel mondo. Le piccole comunità cristiane sono concepite come entità nelle quali si rende presente il regno di Dio. Esse cercano consapevolmente di vivere nel loro ambiente i valori che caratterizzano il regno di Dio: uguaglianza, partecipazione, amicizia, comunione. I quattro elementi essenziali Le caratteristiche delle piccole comunità cristiane, nei termini dei quattro elementi descritti dal settore «Strategia pastorale integrale asiatica» dell’Ufficio per il laicato e la famiglia della FABC18 e dall’Istituto pastorale di Lumko in Sudafrica, sono stati ulteriormente sviluppati dalla Chiesa cattolica in Corea. Sono molto simili alla descrizione del settore «Strategia pastorale integrale asiatica» e dell’Istituto di Lumko, ma sono state approfondite attraverso lo studio delle quattro principali costituzioni del concilio Vaticano II e del Nuovo Testamento, incentrando l’attenzione su At 2,42-47 e Mc 6,34-44.19 Innanzitutto i fedeli si riuniscono in piccoli gruppi per sperimentare la vita comunitaria. Un gruppo di fede cerca di riunire tutti i membri della famiglia e si incontra regolarmente nelle case a turno. In questa riunione i fedeli possono sperimentare nuovamente i legami fraterni, vivere l’amicizia, l’attenzione e la cura reciproca, uno stretto contatto e un senso di solidarietà basato sulla fede comune. In breve, la riunione mira alla costruzione della «vita comunitaria» a partire dalla fede. La Chiesa deve testimoniare e vivere la comunione (koinonia) della comunità salvata (cf. Lumen gentium nn. 1, 9, 23; At 2,42.44; Mc 6,39).20 I fedeli, in secondo luogo, si riuniscono nella forza della parola di Dio. Nelle piccole comunità cristiane i membri sono orientati verso l’ascolto e la condivisione della parola di Dio per dimorare in Cristo, che è la parola di Dio incarnata nel mondo. Essa nutre spiritualmente i fedeli e li fa crescere nella prospettiva evangelica per vedere, discernere e trasformare la realtà del mondo (cf. Dei Verbum, nn. 10, 21, 22, 2425; At 2,42.46; Mc 6,37.41-42).21 Come terzo aspetto, i fedeli tendono a mettere in pratica la parola di Dio nella vita quotidiana concreta nel loro ambiente. Nelle piccole comunità cristiane, i membri cercano di rispondere alle loro reciproche necessità e a quelle del loro prossimo. È un modo di vivere e praticare la loro attività evangelizzatrice per la trasformazione del mondo nel regno di Dio in un determinato luogo e tempo come discepoli di Gesù (cf. Gaudium et spes, nn. 47-52; At 2,44-45.47; Mc 6,38.43). In questo elemento si sottolineano il ruolo e il dovere profetico e l’impegno missionario concertato dei fedeli come comunità e non come individui.22 Infine, i fedeli pregano insieme in comunione con la Chiesa universale. Nelle piccole comunità cristiane i membri si sostengono a crescere insieme nella loro vita spirituale attraverso riunioni regolari basate sulla preghiera comune, sulla condivisione del Vangelo e su altri riti e celebrazioni liturgiche. Le piccole comunità cristiane creano l’ambiente della spiritualità comunitaria (cf. Sacrosanctum Concilium, Il Regno - attualità 14/2014 nn. 7, 24, 51; At 2,42.46-47; Mc 6,41).23 L’unità fra le piccole comunità cristiane e la Chiesa universale appare più profonda ed evidente come crescita spirituale olistica dei fedeli in collegamento con la comunione spirituale della Chiesa universale piuttosto che unicamente attraverso il loro collegamento con i pastori della parrocchia. Bisogna incrementare nei fedeli la consapevolezza dell’importanza della spiritualità e l’impegno a viverla più intensamente attraverso la partecipazione alle piccole comunità cristiane per vitalizzarle e sostenerle come base vivente della Chiesa.24 Questi quattro elementi essenziali delle piccole comunità cristiane sono importanti anche per la missione fondamentale della Chiesa: koinonia (comunione/comunità), kerygma (parola di Dio), martyria (testimonianza), diakonia (servizio), liturgia (culto). Questa prospettiva approfondisce e sostiene l’entità e la realtà delle piccole comunità cristiane scaturite dalla tradizione della Chiesa, ma anche da una risposta pastorale ai bisogni e agli attuali segni dei tempi. Trasformazione strutturale della pastorale parrocchiale Una struttura della Chiesa che persegue la visione del concilio Vaticano II – comunità di comunione, Chiesa partecipativa – dovrebbe corrispondere a questa visione. «Né si versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si spaccano gli otri e il vino si spande e gli otri vanno perduti. Ma si versa vino nuovo in otri nuovi e così l’uno e gli altri si conservano» (Mt 9,17). Le diocesi impegnate nella promozione della piccole comunità cristiane in Corea sono consapevoli della necessità di riorganizzare la struttura del consiglio pastorale parrocchiale per permettere ai loro responsabili di partecipare al processo decisionale e occupare posizioni direttive. In base ai rapporti e ai documenti sulle piccole comunità cristiane nella Chiesa cattolica in Corea, il rinnovamento della struttura del consiglio pastorale parrocchiale è indispensabile. In altri termini, le piccole comunità cristiane devono costituire la base del consiglio pastorale parrocchiale. Concretamente varie diocesi – Seoul, Jeju, Suwon, Daegu, Incheon – hanno proceduto a livello istituzionale alla trasformazione della struttura del consiglio pastorale parrocchiale esistente, costituito da comitati specifici e orientato verso l’attività funzionale, la gestione efficiente e un sistema centralizzato. Un nuovo modello di consiglio pastorale parrocchiale prevede una nuova forma di struttura parrocchiale, basata sulle piccole comunità cristiane, nella quale i loro rappresentanti costituiscono la base del processo di programmazione e decisione, partecipandovi attivamente. Questa nuova struttura permette ai fedeli, nelle piccole comunità cristiane, di esercitare in modo continuo e consistente la responsabilità e l’autorità in materia di apostolato parrocchiale, indipendentemente dall’interesse e dalla preferenza pastorale del singolo sacerdote. Concretamente, in seguito al Sinodo dell’arcidiocesi di Daegu,25 il sistema del consiglio pastorale parrocchiale è stato riorganizzato per permettere la partecipazione attiva dei fedeli, specialmente dei membri delle piccole comunità cristiane.26 In particolare, l’Ufficio per l’evangelizzazione della diocesi di Jeju ha elaborato due tipi di «nuovo modello di struttura pastorale parrocchiale»: uno per le 12 parrocchie cittadine e l’altro per le 13 parrocchie dei sobborghi e delle aree rurali, e ha chiesto a tutte le 25 parrocchie di applicarlo.27 Da questo punto di vista si sono riorganizzati anche la struttura pastorale diocesana e i dipartimenti per recepire il sistema partecipativo e la modalità operativa.28 In Corea il rinnovamento della struttura pastorale parrocchiale esistente mira a permettere ai responsabili delle piccole comunità cristiane, molti dei quali sono donne, di partecipare al ministero in posizione direttiva – programmazione e decisione – come rappresentanti dei membri delle loro piccole comunità cristiane. Attraverso una leadership partecipativa condivisa i responsabili delle piccole comunità cristiane possono far giungere la voce del popolo di Dio che sta alla base a tutta la Chiesa.29 Nel luglio 2011, in occasione della loro periodica riunione, i direttori del Dipartimento pastorale diocesano della Chiesa cattolica in Corea hanno chiesto alla Conferenza dei vescovi cattolici di Corea di studiare questo tema in modo approfondito. In relazione alle piccole comunità cristiane, il consiglio pastorale parrocchiale in Corea è stato gradualmente e sempre più ampiamente sollecitato a rinnovarsi per favorire la partecipazione e la corresponsabilità dei laici e adottare un nuovo stile di leadership, una leadership partecipata e condivisa in base alle direttive del concilio Vaticano II. Il Vangelo condiviso Si è riconosciuta come attività cruciale per le piccole comunità cristiane la regolare condivisione del Vangelo (per lo più nella riunione settimanale). Essa esercita il maggior impatto sui loro membri. Attraverso la condivisione del Vangelo, la parola di Dio, il Cristo risorto diventa l’essenza e la fonte della fede e della comunità.30 Essa aiuta i membri delle piccole comunità cristiane a integrare fede e vita e a rafforzare la vita di fede basata sulla Parola. Le riunioni frequenti delle piccole comunità cristiane ispirano i loro membri a riflettere più spesso sulla loro vita alla luce della Parola attraverso la condivisione del Vangelo. La Parola e la preghiera diventano fonte di consolazione, guarigione, incoraggiamento e speranza per la loro nuova vita. Un sondaggio sull’aiuto offerto dalle piccole comunità cristiane per la crescita spirituale individuale ha evidenziato un collegamento diretto con la condivisione del Vangelo. Grazie a essa, i membri delle piccole comunità cristiane riuscivano a vivere maggiormente in accordo con la Parola (Tab. 1).31 La regolare condivisione del Vangelo nella riunione della piccola comunità cristiana, che riflette sull’esperienza di vita alla luce della parola di Dio, le permette di identificarsi con i complessi problemi, errori e insuccessi dei membri. Infatti la condivisione del Vangelo porta i membri delle piccole comunità cristiane ad aprire il loro cuore e a condividere la realtà della loro vita con fiducia e sincerità. Li spinge ad accogliere la debolezza, la fragilità e la vulnerabilità degli altri, nonché la loro bontà. Il card. Stephen Kim notava: «La condivisione del Vangelo nelle piccole comunità è il modo più efficace per far risuonare la parola di Dio nella parte più profonda del nostro essere».32 La promozione delle piccole comunità cristiane ha permesso di ottenere buoni risultati in materia di partecipazione dei laici e risveglio dei ministeri laicali: una maggiore consapevolezza e partecipazione da parte dei laici alla visione e missione della Chiesa come comunione di comunità e una Chiesa partecipativa impegnata nell’evangelizzazione. Sono emersi molti nuovi responsabili laici. Nell’arcidiocesi di Seoul vi sono circa 20.000 responsabili di piccole comunità cristiane. Nelle loro parrocchie, i responsabili laici si sono attivati non a servizio esclusivo del clero, ma del popolo di Dio e delle piccole comunità cristiane quando hanno compreso l’essenza dell’ecclesiologia di comunione e del ministero laicale. Hanno cominciato a svolgere con impegno e responsabilità il ministero a servizio della missione della Chiesa quando sono state offerte loro opportunità concrete di condividere e assolvere i compiti della Chiesa attraverso le piccole comunità cristiane. Con i loro ruoli e la loro partecipazione i laici promuovono la Chiesa e la sua missione nel mondo. Tutto il popolo di Dio, laici e pastori insieme, svolgono la stessa attività. Essa richiede una profonda coscienza e consapevolezza dell’incorporazione del fedele cristiano in Cristo mediante il battesimo. Il popolo di Dio partecipa all’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, alla triplice missione ricevuta nel battesimo. Questo richiede la corresponsabilità dei laici nell’esercizio dei ministeri, insieme con i religiosi e con il clero. Tutti i fedeli sono inseriti nella comunione e inviati al tempo stesso in missione. Il significato delle riunioni delle piccole comunità cristiane a turno nelle case dei loro membri è stato espresso in questi termini: a) incoraggiare tutti i membri della famiglia – figli, genitori e anziani – a partecipare insieme alla riunione della piccola comunità cristiana, che diventa così la base della formazione alla fede per tutti, specialmente dell’educazione alla fede dei bambini; b) permettere a coloro che non appartengono ad alcuna associazione apostolica o gruppo parrocchiale, specialmente alle persone isolate anziane o disabili, di parteciparvi più comodamente e facilmente; c) condividere le proprie esperienze di vita e accrescere e approfondire la conoscenza e la comprensione della vita degli altri membri; d) permettere di vedere da vicino la vita quotidiana e le necessità degli uni e degli altri e di comprendersi più in profondità. Queste esperienze portano i membri delle piccole comunità cristiane a vedere in modi diversi le loro prove e sofferenze. Essi affermano infatti che la vita di ciascuno di loro potrebbe essere paragonata allo specchio della nostra vita, che TAB. 1 - Fattori per la crescita spirituale (individuale) Seoul (2005) Jeju (2008) Daegu (2007) (valutazione del clero) Accordo fra vita e Parola Preghiera frequente Lettura della Bibbia e contemplazione 47,90% 31,3% 17,40% 14,6% 14,70% 12,7% 34,6% 1,8% 26,5% Messa Fede quotidiana profonda frequente Adorazione eucaristica frequente 13,20% Ecc. Non ha risposto 3,1% 0,3% 2,7% 6,8% 4,0% 31,3% 5,9% 0,7% 14,7% 15,8% Il Regno - attualità 14/2014 503 tudio del mese S mostra le sfaccettature nascoste e ci induce a riflettere sul suo significato più profondo. Le sfide e gli ostacoli Alcuni, specialmente sacerdoti della Chiesa cattolica in Corea, hanno ancora dei dubbi riguardo alla possibilità o all’opportunità di introdurre oggi le piccole comunità cristiane in Corea. Affermano che la vita incentrata sulla comunità non si armonizza con lo stile di vita, la mentalità e i valori delle persone nella società moderna, caratterizzata da secolarismo, materialismo, individualismo, consumismo, globalizzazione e stile di vita nomade. Tuttavia un sondaggio sui temi relativi alle piccole comunità cristiane, effettuato durante il Sinodo dell’arcidiocesi di Seoul nel 2002, mostrava che la maggioranza dei sacerdoti (77,9%) era favorevole all’attuale processo pastorale delle piccole comunità cristiane.33 Riguardo alla prospettiva delle piccole comunità cristiane, il 43,7% di coloro che hanno risposto ha spuntato la casella «riusciranno, con difficoltà» e il 22,1% la casella «falliranno».34 Inoltre da quattro sondaggi diocesani sulle prospettive delle piccole comunità cristiane (cf. sotto) risulta che rispettivamente il 64%, 33%, 58% e 40% ha spuntato le caselle «devono esistere», «devono essere sviluppate». In media, la metà delle risposte è decisamente favorevole alle piccole comunità cristiane. Ma al secondo posto si collocano coloro che hanno spuntato la casella «la promozione delle piccole comunità cristiane non dovrebbe essere imposta», con rispettivamente il 22%, il 23%, il 37% delle risposte.35 Questa risposta sembra rispecchiare una posizione neutra. Non significa né approvazione né disapprovazione delle piccole comunità cristiane da parte di coloro che hanno risposto. Essa dipende dal fatto che in Corea le piccole comunità cristiane sono state promosse come politica diocesana o priorità pastorale dall’alto in basso. In base ad altre risposte dei sondaggi, le piccole comunità cristiane sono assolutamente necessarie per il rinnovamento della Chiesa, benché incontrino anche sfide, ostacoli e difficoltà (Tab. 2). Alcuni sacerdoti sono indifferenti o riluttanti o esitanti riguardo alla promozione delle piccole comunità cristiane, questo per varie ragioni: mancanza di comprensione; necessità e sforzi impegnativi per cambiare il paradigma del modello di Chiesa e lo stile di governo della parrocchia; esistenza ancora troppo breve delle piccole comunità cristiane nelle parrocchie per poter trarre delle conclusioni affidabili. Può darsi che alcuni sacerdoti si aspettassero risultati immediati e altamente positivi dall’esistenza di piccole comunità cristiane nella loro parrocchia. Riguardo a quest’aspetto, si è sottolineato come principale difficoltà il fatto che un numero notevole di sacerdoti non ha compreso pienamente che cosa sono le piccole comunità cristiane. Può averle considerate semplicemente un movimento o un metodo per risolvere i problemi e le difficoltà o una sorta di servizio parrocchiale ausiliario invece di vedere in esse la Chiesa stessa che rinnova la parrocchia orientandola verso la comunione di comunità. Una concezione condivisa delle piccole comunità cristiane e una corretta comprensione della visione e della partecipazione dei laici sono condizioni cruciali per vitalizzare le piccole comunità cristiane. Poiché il ruolo e la disponibilità dei parroci sono essenziali, bisogna perseguire continuamente la ricerca e la realizzazione di un terreno comune fra i sacerdoti riguardo alla concezione delle piccole comunità cristiane. Un nuovo stile di leadership e un maggiore coinvolgimento sociale Alcuni probabilmente considerano le piccole comunità cristiane una sorta di politica o decisione dall’alto, per cui ne hanno osteggiato il processo accelerato e forzato di promozione. Criticano il fatto che quanti hanno inizialmente spinto per la loro creazione nella Chiesa cattolica coreana rimangono fondamentalmente all’interno di una concezione di Chiesa incentrata sul clero, di un sistema fortemente gerarchico e di uno stile di leadership autoritario. Sottolineano che questo processo e stile di leadership non coincidono con la visione del concilio Vaticano II. L’atteggiamento della decisione unilaterale, del governo autoritario e del clericalismo nella Chiesa cattolica in Corea è influenzato dal confucianesimo, dal patriarcato e dalla burocrazia gerarchica della società coreana. L’autentica forza di alimentazione e sostegno delle piccole comunità cristiane risiede organicamente nella dinamica e integrazione dialettica della visione, della missione e dello spirito di una Chiesa partecipativa radicata nel «mistero della comunione trinitaria in tensione missionaria».36 In materia di leadership, i responsabili e i promotori delle piccole comunità cristiane devono prestare una maggiore attenzione alla comprensione e allo sviluppo di un nuovo stile di conduzione per formarle nella prospettiva di una Chiesa partecipativa, basata sull’ecclesiologia di comunione, sulla comunione trinitaria e sullo stile di vita e ministero di Gesù. In realtà, i promotori delle piccole comunità cristiane in Corea e altrove in altre Chiese locali asiatiche hanno posto l’accento sul fatto che l’autentica incarnazione di uno «stile di TAB. 2 - Percezione dell’importanza delle piccole comunità cristiane Seoul (2005) Molto necessarie (occorre svilupparle maggiormente) Sono assolutamente necessarie per il recupero dell’identità della Chiesa Non dovrebbero essere imposte Continuare a riflettere sulle associazioni È una questione che riguarda i responsabili della Chiesa Sono già abbastanza Occorre avere un’alternativa Non ci ho mai pensato Le piccole comunità cristiane non sono una vera immagine della Chiesa Non saprei Altre Nessuna risposta 504 Il Regno - attualità 14/2014 Jeju (2008) 64,40 33,2 21,60 23,1 7,50 2,00 1,60 5,9 3,4 4,2 2,80 30,1 Gwangju (2007) Daegu (2007) 57,61 20,29 10,14 1,45 10,51 40,2 36,8 4,3 4,6 11,1 3,0 TAB. 3 - Grado di soddisfazione dell’attività delle piccole comunità cristiane Percentuale (%) Molto alto Alto Medio Basso Molto basso Non risposto 2,8 9,9 29,3 17,5 9,3 31,3 100.0 TAB. 4 - Interesse rispetto a diverse tipologie di piccole comunità cristiane Piccole comunità cristiane in base allo stesso interesse Piccole comunità cristiane con membri della famiglia, compresi i bambini Piccole comunità cristiane con le coppie governo non autoritario e responsabilizzante è cruciale per la costruzione delle piccole comunità cristiane».37 Gli interessi e le attività delle piccole comunità cristiane si limitano alle attività parrocchiali o anche semplicemente alle loro stesse riunioni. Concretamente il loro punto più debole è quello di non impegnarsi a rispondere alle necessità del loro prossimo. La maggior parte delle piccole comunità cristiane di base non si sono ancora coinvolte attivamente nelle tematiche e problematiche sociali. Finora per molte diocesi il punto focale riguardo alle piccole comunità cristiane è stato prevalentemente interno alla Chiesa. Da un sondaggio sul grado di soddisfazione dell’attività delle piccole comunità cristiane, effettuato dalla diocesi di Jeju nel 2008, è risultato che i membri non erano molto soddisfatti delle attività della loro piccola comunità cristiana (Tab. 3).38 Le piccole comunità cristiane dovrebbero interrogarsi su come potersi coinvolgere maggiormente e profeticamente nei problemi sociali e locali e contribuire alla loro soluzione. Dovrebbero sforzarsi di uscire e andare incontro al mondo che si trova al di fuori della Chiesa. La partecipazione delle piccole comunità cristiane alla vita della società locale non è né opzionale né secondaria: è la vocazione e la responsabilità essenziale dei loro membri, dei laici che vivono nel mondo. Riguardo alla traduzione in pratica della testimonianza di fede nell’attività delle piccole comunità cristiane si dovrebbero prendere in considerazione più programmi di azione pratica e pastorale: a) offrire corsi di formazione e di tirocinio sulla dottrina sociale della Chiesa, specialmente sulla Gaudium et spes, per i membri; b) incoraggiare e sostenere le piccole comunità cristiane e le famiglie a coinvolgersi nei bisogni e nei problemi dei loro vicini e della società locale; c) promuovere la partecipazione delle piccole comunità cristiane alla protezione dell’ambiente naturale, secondo le indicazioni di papa Benedetto;39 d) facilitare la collaborazione fra le piccole comunità cristiane e le altre associazioni della parrocchia e di altre religioni e organizzazioni senza scopo di lucro, in dialogo e solidarietà sui temi della giustizia sociale e della pace. La testimonianza di fede in azione nel mondo è la via per realizzare l’identità e il ruolo delle piccole comunità cristiane come centri, strumenti e agenti di evangelizzazione, inculturazione e trasformazione della società. Le tipologie e le definizioni Il tipo di riunione di gran lunga prevalente delle piccole comunità cristiane in Corea è la riunione di donne. In genere le donne e gli uomini si riuniscono separatamente nelle pic- Entusiasta Positivo Non interessato Contrario 28,4 27,7 25,9 48,2 44,5 43,8 20,9 24,4 26,3 2,5 3,5 0,9 100,0 100,0 100,0 cole comunità cristiane, una tendenza dovuta al calendario delle riunioni e all’influenza del confucianesimo. Normalmente le donne si riuniscono durante il giorno e gli uomini, per motivi di lavoro, alla sera. Il tipo di riunione mista, a volte con i figli, sembra non sia stato attivato. Inoltre le piccole comunità cristiane e le ban della parrocchia sono state organizzate e divise per aree residenziali. In Corea questo tipo di piccola comunità cristiana è prevalente. A livello parrocchiale esso permette a tutti i fedeli di appartenere a una determinata piccola comunità cristiana, indipendentemente da livello economico o educativo, condizione sociale, capacità e personalità. La ragione principale per la scelta di un stesso tipo di piccole comunità cristiane nella Chiesa cattolica in Corea è il fatto di essere basate interamente sulla parrocchia. Ciò significa che queste comunità sono state promosse sistematicamente dalla Chiesa istituzionale nel quadro della pianificazione e politica pastorale. Di conseguenza si sono costituite piccole comunità cristiane «territoriali». Non si sono praticamente creati altri tipi di piccole comunità cristiane, come le cosiddette piccole comunità cristiane «volontarie» che sorgono spontaneamente dalla base. Secondo alcuni si dovrebbero sviluppare maggiormente vari tipi di piccole comunità cristiane al di là dell’area residenziale della parrocchia, per garantirne la vitalità per il futuro. Da un sondaggio sull’«intenzione di partecipare a un nuovo tipo di piccole comunità cristiane», realizzato dalla diocesi di Cheongju nel 2006, risultano le varie opinioni dei parrocchiani in merito alla loro organizzazione (Tab. 4).40 In conclusione, la Chiesa cattolica in Corea deve fare progressivamente altri passi e creare alcune condizioni che facilitino la nascita di varie forme di piccole comunità cristiane «volontarie», in grado di convivere armoniosamente con le piccole comunità cristiane «territoriali». Al riguardo, la Chiesa ha chiesto di ascoltare i bisogni e i desideri dei fedeli e prendere in considerazione ad experimentum la designazione di una parrocchia nella quale piccole comunità cristiane «volontarie» possano esistere in relazione di interdipendenza con piccole comunità cristiane «territoriali». In base ai documenti della Consultazione internazionale sulle piccole comunità cristiane, tenuta all’Università di Notre Dame nel 1991, dal 1976 al 1991 i nomi, i termini, i titoli e le espressioni per indicare le piccole comunità cristiane esistenti nel mondo erano molto numerosi e variegati: circa 3.000 denominazioni diverse.41 Inoltre, una ricerca della Il Regno - attualità 14/2014 505 tudio del mese S 506 Chiesa delle Filippine sulle piccole comunità cristiane, effettuata nel 1995, dimostrava l’esistenza di 93 denominazioni diverse delle piccole comunità cristiane nella varie diocesi del paese.42 Nella Chiesa cattolica in Corea invece quasi tutte le comunità della parrocchia sono state indicate con espressioni molto simili: o «piccole comunità cristiane» o «piccole comunità cristiane ban (반, 班)», con il nome di una riunione preesistente – o ancora esistente – di fedeli prima dell’introduzione delle piccole comunità cristiane. Ci si è spesso chiesti quale denominazione potrebbe essere la più appropriata. Nella sua uniformità la denominazione coreana è indice di un analogo processo di formazione e di un analogo modello di caratterizzazione e di promozione. L’uso dell’espressione «piccole comunità cristiane» è dipeso dall’influenza esercitata dai risultati della ricerca dell’Istituto Lumko in Sudafrica, infatti negli anni Ottanta in Corea si usava un’altra espressione, «comunità (ecclesiale) di base».43 Ma la Chiesa cattolica in Corea ha elaborato ampie interpretazioni del significato di piccole comunità cristiane. Potrebbe valere la pena riflettere più profondamente sul significato di questa espressione e ripensare a livello locale quale potrebbe essere il modo migliore di chiamare le piccole comunità cristiane nel contesto della Corea. Infatti le varie terminologie hanno una diversa implicazione teologica, ecclesiologica e pastorale e una diversa sottolineatura e risposta alle preoccupazioni e necessità locali in un contesto particolare. La partecipazione delle donne alla leadership Le donne responsabili delle piccole comunità cristiane, come quelle impegnate negli altri vari ministeri, sono ancora considerate aiutanti passive o factotum dei sacerdoti, da usare con responsabilità limitata o senza responsabilità e autorità condivisa, pur essendo chiamate responsabili. Le donne responsabili delle piccole comunità cristiane non sono pienamente consapevoli della loro identità e del loro ruolo come autentiche responsabili della comunità e della Chiesa. Inoltre il loro inserimento in posizioni direttive nella struttura della parrocchia è ancora insufficiente e inappropriato. Occorrerebbe ampliarlo. Nonostante il loro maggiore impegno rispetto agli uomini nelle attività della parrocchia, le donne sono lontane da ruoli direttivi nel processo di programmazione e decisione della parrocchia. Benché i responsabili delle piccole comunità cristiane siano per lo più donne, paradossalmente il numero degli uomini, dei capi di guyeok che coordinano alcune piccole comunità cristiane a livello di distretto, è superiore a quello delle donne. Si dovrebbe attribuire maggiore potere e rispetto alle donne responsabili di piccole comunità cristiane per raggiungere la piena uguaglianza e partecipazione nella Chiesa. Al riguardo varie diocesi hanno perseguito costantemente la trasformazione del sistema esistente del consiglio pastorale parrocchiale in un nuovo paradigma, nel quale i responsabili delle piccole comunità cristiane, che costituiscono la base della parrocchia, possano realmente occupare posizioni direttive nella parrocchia. Tuttavia il modello del ministero delle donne in posizioni direttive non è stato promosso in sintonia con la visione di una Chiesa partecipativa, specialmente di una direzione partecipata e condivisa in correspon- Il Regno - attualità 14/2014 sabilità. Occorre promuovere in un modo più adeguato il rinnovamento della struttura della parrocchia, tenendo presente la condizione delle piccole comunità cristiane e delle donne responsabili delle stesse nel contesto della Corea. Il cambiamento di paradigma della struttura pastorale della parrocchia e il rinnovamento della Chiesa richiedono una maggiore consapevolezza da parte dei fedeli in materia di dignità, diritti e responsabilità delle donne. Occorre anche sviluppare e offrire programmi di conoscenza e formazione su identità e ruolo delle donne, specialmente del loro ministero in posizioni direttive. Attualmente per la maggior parte dei responsabili delle piccole comunità cristiane il maggior peso è quello di un cumulo di responsabilità e doveri in parte sovrapposti a causa della loro appartenenza non solo alla piccola comunità cristiana, ma anche ad altre associazioni apostoliche e diaconali della parrocchia. Non pochi responsabili di piccole comunità cristiane affermano di essere costretti a detenere contemporaneamente tre o quattro posizioni di responsabilità a causa della mancanza di partecipanti attivi. A volte questo cumulo di doveri e incontri causa dei problemi nella vita familiare. È importante incoraggiare i membri delle piccole comunità cristiane a sviluppare i loro doni e carismi e metterli in grado di partecipare a vari ministeri con una responsabilità e autorità condivisa attraverso le piccole comunità cristiane. Più sono i membri che partecipano insieme alle attività delle piccole comunità cristiane, più riescono a scoprire i loro talenti, i loro doni e la loro capacità di contribuire alla vita della comunità. La crescita e la rotazione dei leader e il lavoro di squadra nelle piccole comunità cristiane e nelle altre strutture della Chiesa produrrà una crescita qualitativa.44 Il nodo dell’inculturazione Nel 2005, le percentuali per età delle donne responsabili delle piccole comunità cristiane nell’arcidiocesi di Seoul erano le seguenti: 5,1% (30-39 anni); 36,2% (40-49 anni); 43,1% (50-59 anni); 15,4% (60-69 anni). Le donne fra i 40 e i 60 anni responsabili di piccole comunità cristiane sono il 79,3%.45 Le persone relativamente giovani non sono interessate a entrarvi. In alcuni casi, il fatto stesso di tenere le riunioni durante il giorno esclude le persone che lavorano. A volte alle riunioni partecipano solo due o tre persone, normalmente donne anziane, nonostante i grandi sforzi dei responsabili per incoraggiare una maggiore partecipazione. Queste situazioni sono segnali di allarme per le piccole comunità cristiane, che dovrebbero prestare maggiore attenzione alle necessità dei giovani e riflettere maggiormente sull’attuale stile di vita delle persone per trovare il modo di assicurare la loro presenza alle riunioni. È necessario e urgente riflettere in modo creativo su come le piccole comunità cristiane potrebbero preparare e realizzare le circostanze in grado di rispondere alle necessità della generazione più giovane e al rapido cambiamento in atto nel mondo, per il presente e per il futuro della Chiesa e della società. La promozione delle piccole comunità cristiane è un continuo processo di rinnovamento della Chiesa in un determinato luogo e tempo. Come afferma Paolo VI, le piccole comunità cristiane sono «una speranza per la Chiesa universale» (Evangelii nuntiandi, n. 58; EV 5/1666). Molti responsabili di piccole comunità cristiane afferma- no che una delle difficoltà che incontrano è l’organizzazione della riunione a turno nelle case dei membri. Secondo loro le cause principali sono: a) la disponibilità della propria abitazione per una riunione della piccola comunità cristiana costringe la famiglia ospitante a preparare il cibo; b) alcuni membri non amano mostrare la situazione della loro vita ad altri; c) altri non sono in grado di organizzare una riunione a domicilio, perché la loro casa è troppo piccola o troppo povera. A volte tutto questo li induce a non partecipare alle riunioni della piccola comunità cristiana. Al tempo stesso, molti responsabili di piccole comunità cristiane sono favorevoli alle riunioni nelle abitazioni dei membri, nonostante le succitate difficoltà. Alcuni affermano che la scelta di tenere riunioni settimanali semplifica la preparazione del cibo. Essi hanno proposto linee guida al riguardo per ridurre le difficoltà che questo comporta. Ma molti rispondono che la condivisione del cibo o dei pasti, in forma appropriata, nelle abitazioni dei membri, dopo una riunione della piccola comunità cristiana, approfondisce il legame fraterno e l’intimità fra i membri. Una delle ragioni più importanti per tenere le riunioni delle piccole comunità cristiane a turno in casa dei membri è l’incarnazione e la presenza della Parola e della Chiesa nel luogo stesso in cui vivono le persone. Questo significa che le piccole comunità cristiane devono essere inculturate nel loro luogo, tempo e popolo. In altri termini, solo se diventano veramente inculturate le piccole comunità cristiane possono essere una genuina forza per l’evangelizzazione. Solo così esse scoprono ciò che il Vangelo e la tradizione cristiana dicono nella loro situazione particolare e lo mettono in pratica mediante l’integrazione di fede e vita. «La vocazione delle piccole comunità cristiane è quella di custodire la coscienza della Chiesa per l’inculturazione. Perciò la conquista o la perdita del futuro dipende da esse».46 Le piccole comunità cristiane vengono presentate come «le custodi della coscienza della Chiesa per l’inculturazione»,47 nonché come un centro e una forza genuina per l’evangelizzazione (cf. Christifideles laici, n. 61; Ecclesia in Asia, n. 25). Inoltre si dovrebbe considerare l’importanza dell’inculturazione per la partecipazione dei laici alla missione della Chiesa. C’è una relazione inseparabile fra le piccole comunità cristiane, che spingono verso una Chiesa partecipativa, e l’inculturazione, che deve essere sempre perseguita. I vescovi dell’Asia sottolineano la necessità della partecipazione di tutto il popolo di Dio, e specialmente dei laici, all’inculturazione: «Una più ampia inculturazione del Vangelo a ogni livello della società in Asia dipenderà considerevolmente dalla formazione appropriata che le Chiese locali sapranno dare al laicato».48 Nella Chiesa cattolica in Corea, l’inculturazione delle piccole comunità cristiane richiede un dialogo reciproco con gli aspetti sociali, ambientali e culturali specifici della religiosità popolare. L’inculturazione è il processo e il risultato della scoperta dell’identità e dei ruoli della Chiesa locale. Perciò non è solo necessario ma anche urgente riflettere sul modo in 1 Francesco, Discorso in Piazza San Pietro, 18.5.2013; Regno-doc. 11,2013,323. 2 Cf. Paolo VI, esort. apost. Evangelii nuntiandi, 8.12.1975, n. 58; EV 5/1662ss; Giovanni Paolo II, esort. apost. postsinodale Christifideles laici, 30.12.1988, n. 26; EV 11/1711. 3 Giovanni Paolo II, esort. apost. postsinodale Ecclesia in Asia, 6.11.1999, n. 25; EV 18/1866. 4 Francesco, esort. apost. Evangelii gaudium sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, 24.11.2013, nn. 110-134; Regno-doc. 21,2013,662667; A. Spadaro, «Intervista a papa Francesco», in La Civiltà cattolica 164 (2013) 3918, 19.9.2013, 449-477. 5 Seok Woo Choi, «한국천주교회의 기원 [L’origine della Chiesa cattolica in Corea]», 사목 [Ministry] (1984) 91, 5-7; «The History of the Catholic Church in Corea», in english.cbck.or.kr/history (visitato il 27.11.2009). 6 DaiWi Chung, «Christianity and the religious world of East Asians: the principle of three religions as one», in Asian Contextual Theology for the Third Millennium: A Theology of Minjung in Fourth-Eye Formation, a cura di P.S. Chung, V.-M. Karkkainen, K.J. Kim, Pickwick, Allison Park 2007, 270. 7 Seok Woo Choi, «초기 한국교회의 사회적 정치적 상황과 선교 [La situazione e missione sociale e politica del primo periodo della Chiesa cattolica in Corea]», in 사목 [Ministry] (1992) 157, 6. 8 Chang Seok Kim, Seok Woo Choi (a cura di), Lives of 103 Martyr Saints of Korea, Committee for Bicentennial Commemorative Projects of the Catholic Church in Korea, Seoul 1984, 162. 9 CBCK, 한국 천주교회 통계 [Le statistiche 2013 della Chiesa cattolica in Corea], 31.12.2013. 10 Diocesi di Jeju, 천주교 제주교구 소공동체 활성화를 위한 모 범안[Un piano per rivitalizzare le piccole comunità cristiane della diocesi cattolica di Jeju], Diocesi cattolica, Jeju 2008. 8-9. 11 Comitato per l’Assemblea pastorale nazionale, The Management of Church [교회운영], Arcidiocesi di Seoul, Seoul 1984, c. 21, nn. 67-72. 12 Comitato dell’Assemblea pastorale nazionale, The Agenda of Regional Ministry [지역사목의안], Arcidiocesi di Seoul, Seoul 1984, sez. 53. 13 Arcidiocesi di Seoul, 1992 사목교서 [Lettera pastorale 1992], Seoul 1992; 1993 사목교서 [Lettera pastorale 1993], Seoul 1993. 14 Diocesi di Jeju, 2003 사목지침서 [Orientamenti pastorali 2003], Jeju 2003, 6. 15 Ivi, 7. 16 Arcidiocesi di Seoul, 1992 사목교서 [Lettera pastorale 1992], 2. 17 Diocesi di Jeju, 2004 사목지침서 [Orientamenti pastorali 2004], Jeju 2004, 4. 18 Questi elementi sono: 1) i membri delle piccole comunità cristiane si riuniscono nel quartiere; 2) l’elemento comune è la condivisione del Vangelo; 3) i membri agiscono a partire dalla fede e servono gli altri; 4) le piccole comunità cristiane sono collegate con la Chiesa universale. 19 Woo Il Kang, The Fundamental Paradigm of the Church, Diocesi di Jeju, Jeju 2009, 2-9. 20 Ivi, 7-9. 21 Ivi, 3-4, 7, 9. 22 Ivi, 5, 8-9. 23 Ivi, 3, 5, 9; F.F. Claver, The Making of a Local Church, Orbis Book, New York 2008, 137s. 24 Joo Hyun Ro, «SCCs and the Jeju diocese. Intervista al vescovo Woo Il Kang», Jeju 31.10.2009. 25 Il primo sinodo dell’arcidiocesi di Daegu è iniziato nel novembre 1997 e terminato nell’ottobre 1999. 26 Ufficio del ministero pastorale di Daegu e Centro di ricerca pastorale integrale, The Status Quo and the Prospect of Daegu Archdiocese, 11. 27 Diocesi di Jeju, 시외본당 사목조직 개편안 [Proposta di riforma della struttura pastorale parrocchiale nelle aree rurali], Jeju 2009; Id., 천주 교 제주교구 소공동체 활성화를 위한 모범안 [Un piano per rivitalizzare le piccole comunità cristiane della diocesi cattolica di Jeju], 20-25; Chiesa di Nohyeong, 노형본당 소공동체 백서 [Un rapporto sulle piccole comunità cristiane della parrocchia di Nohyeong], Jeju 2008, 46. 28 Diocesi di Jeju, 제주교구 사목조직 개편안 [Proposta di riforma della struttura pastorale della diocesi di Jeju], 2-14. 29 Questo aspetto è stato sottolineato, in relazione alle piccole comunità cristiane, anche dal Colloquio asiatico sui ministeri svoltosi nel 1977: «Noi crediamo che si possa promuovere la leadership partecipativa condivisa come stile per le nostre comunità cristiane di base, nelle quali c’è consultazione, dialogo e condivisione. In questo modo le persone si sentiranno responsabili e partecipanti al processo decisionale su questioni che toccano tutta la comunità» (FABC, The Asian Colloquium on ministries in the Church. Conclusions, n. 46). 30 E.S. de Guzman, «AsIPA Research Project Report: the Diocese of Jeju, Corea», in F. Macalinao sj (a cura di), AsIPA Research Project. East Asia Pastoral Review 48(2011) 1-2, 55-57. Il Regno - attualità 14/2014 507 tudio del mese S 508 cui le piccole comunità cristiane in Corea si sono inculturate e su ciò che ancora resta da fare per la loro inculturazione. Rinascere come Chiesa povera per i poveri La Chiesa cattolica in Corea ha cercato con grande impegno di incamminare le parrocchie verso una comunità di comunità (piccole comunità cristiane), per realizzare la visione e gli insegnamenti del concilio Vaticano II. Questo corrisponde anche al messaggio di papa Francesco e alla sua esortazione apostolica Evangelii gaudium. Recentemente la Commissione per le piccole comunità cristiane della CBCK ha tenuto la sua XIII Assemblea nazionale, dal 23 al 25 giugno, al Centro Aron a Suwon. Lo scopo principale era quello di riflettere sull’identità e sulla missione delle piccole comunità cristiane alla luce della Evangelii gaudium. Durante l’Assemblea nazionale delle piccole comunità cristiane, circa 236 partecipanti provenienti da 13 delle 16 diocesi della Corea hanno condiviso le loro esperienze di vita nelle piccole comunità cristiane. Nel loro documento finale49 i partecipanti hanno affermato: «La promozione delle piccole comunità cristiane per condividere e proclamare la gioia del Vangelo e la trasformazione della parrocchia attualmente esistente “in comunità di comunità… centro di costante invio missionario”»50 costituiscono «un rinnovamento essenziale che non può essere rinviato».51 I partecipanti hanno riconosciuto e confermato che le piccole comunità cristiane possono diventare segni di speranza, incarnando «una comunità di discepoli missionari», «in uscita».52 Hanno dichiarato che i membri delle piccole comunità cristiane continueranno a sforzarsi di abbracciare le tristezze e le angosce, nonché le gioie e le speranze delle persone nella loro vita quotidiana. Si è riscoperta la piccola co- munità cristiana radicata nella Parola e ubicata nel quartiere fra la gente come «un ospedale da campo dopo la battaglia» per gli emarginati, gli oppressi e i poveri nel nostro contesto.53 In realtà le piccole comunità cristiane, non solo nella Chiesa cattolica in Corea ma anche in molte Chiese asiatiche, hanno dimostrato di poter essere una base e una pietra d’angolo per sostenere e alimentare «tutti i membri del popolo di Dio» e trasformarli in «discepoli-missionari» e «soggetti attivi di evangelizzazione».54 Noi speriamo che le voci vibranti delle piccole comunità cristiane nella Chiesa in Asia, ricolme della gioia del Vangelo sotto la guida dello Spirito Santo, risuonino profondamente come un canto di pace, giustizia, vita, speranza e amore nel mondo al di là della Chiesa in Asia. Oggi, la formazione di piccole comunità cristiane nella Chiesa cattolica è un fenomeno mondiale. La loro promozione ha permesso la crescita e la partecipazione più attiva dei laici alla missione della Chiesa. È la forza dello Spirito Santo nel nostro tempo e nei nostri luoghi a guidare la Chiesa a rispondere ai segni dei tempi e a rinnovarsi. Le piccole comunità cristiane non sono solo uno dei tanti movimenti esistenti nella Chiesa, ma sono la Chiesa in cammino verso la sua rinascita come «una Chiesa povera per i poveri».55 Noi speriamo di tutto cuore che la visita di papa Francesco in Corea del Sud e la Giornata della gioventù asiatica nella sua testimonianza di seguire Gesù ispiri, incoraggi, sfidi e guidi noi, e specialmente tutti i giovani dell’Asia, a uscire verso «tutte le “periferie” che hanno bisogno della luce del Vangelo».56 Papa Francesco ci sussurra: «Non abbiate paura! Siamo fragili, e lo sappiamo. Ma lui è più forte!».57 Bibiana Joo-hyun Ro* 31 Il prospetto analitico dei risultati del sondaggio qui ripreso è tratto da J. Yong Kim, 한국 천주교회 소공동체 사목의 현실과 전망 [Realtà e prospettive pastorali delle piccole comunità cristiane nella Chiesa cattolica in Corea] (VII Assemblea nazionale delle piccole comunità cristiane in Corea, 2008); The Research Center for Integral Pastoral Approach in Archdiocese of Seoul, 소공동체 현황과 과제 [I compiti e la situazione attuale delle piccole comunità cristiane], Seoul 2005, 242-248; Diocesi di Jeju, 제주교구 소공동체 현황과 과제-서귀포 본당 신앙실태조사 연구보 고서 [I compiti e la situazione attuale delle piccole comunità cristiane nella diocesi di Jeju. Rapporto sull’indagine sulla vita di fede nella parrocchia di Seogwipo], Jeju 2008, 117-118; Arcidiocesi di Daegu, 대구대교구 현황과 과제 [La situazione attuale e le prospettive dell’arcidiocesi DaeGu], DaeGu 2007, 193. 32 Settore «Strategia pastorale integrale asiatica», ASIPA General assembly III, 34. 33 Ufficio del Sinodo, The survey of public opinion of clergy in Synod of Archdiocese of Seoul, Seoul 2002, 8. 34 Ivi. 35 The Research Center for Integral Pastoral Approach in Archdiocese of Seoul, I compiti e la situazione attuale delle piccole comunità cristiane, 242-248; Diocesi di Jeju, I compiti e la situazione attuale delle piccole comunità cristiane nella diocesi di Jeju, 117-118; Arcidiocesi di Gwangju, 교구설정 70주년 기념 평신도 설문조사 결과 보고서 [Rapporto sul sondaggio sul laicato per la celebrazione del 70° anniversario di fondazione della diocesi], Gwangju 26; Arcidiocesi di Daegu, La situazione attuale e le prospettive dell’arcidiocesi DaeGu,193. 36 Giovanni Paolo II, esort. apost. postsinodale Pastores dabo vobis sulla formazione dei sacerdoti, 25.3.1992, n. 12; EV 13/1215. 37 Settore «Strategia pastorale integrale asiatica», Documento finale della IV Assemblea generale, 183, n. 5.3. 38 Diocesi di Jeju, I compiti e la situazione attuale delle piccole comunità cristiane nella diocesi di Jeju, 110-111. 39 Benedetto XVI, Messaggio per la giornata mondiale della pace 2010; Regno-doc. 1,2010,1ss. 40 Ufficio del Sinodo della diocesi di Cheongju, 좋은 본당 일 구기-신자 설문 분석 결과 [Fare la buona parrocchia – Rapporto del sondaggio sui fedeli], Cheonju 2006, 60. 41 J.P. Vandenakker, Small Christian Communities and the Parish, Sheed&Ward, Kansas City 1994, 97-99. 42 Claver, The making of a local Church, 94. 43 Comitato per il Consiglio pastorale della Chiesa cattolica in Corea, 교회운영 [L’agenda della gestione ecclesiologica], The Catholic Publisher, Seoul 1984, nn. 67-69. 44 Settore «Strategia pastorale integrale asiatica», Documento finale della IV Assemblea generale, n. 6. 45 Won Jun, The Small Christian Communities in the Corean Catholic Church, Diocesi di Jeju, Jeju 2009, 16-17. 46 A. Shorter, Toward a Theology of Inculturation, Geoffrey Chapman, London 1988, 270. 47 Ivi. 48 Giovanni Paolo II, Ecclesia in Asia, n. 22; EV 18/1854. 49 XIII Assemblea nazionale delle piccole comunità cristiane di Corea, Documento finale, 23-25.6.2014, Suwon, n.2.3. 50 Francesco, Evangelii gaudium, n. 28; Regno-doc. 21,2013,646. 51 XIII Assemblea nazionale delle piccole comunità cristiane di Corea, Documento finale, nn. 27-33. 52 Ivi; Francesco, Evangelii gaudium, n. 24; Regno-doc. 21,2013,645. 53 XIII Assemblea nazionale delle piccole comunità cristiane di Corea, Documento finale, nn. 3.3; 4.3. 54 Francesco, Evangelii gaudium, n. 120; Regno-doc. 21,2013,664. 55 Francesco, Evangelii gaudium, n. 198; Regno-doc. 21,2013,679. 56 Ivi, n. 20; Regno-doc. 21,2013,645. 57 Francesco, Discorso ai movimenti nella Veglia di Pentecoste, 18.5.2013; Regno-doc. 11,2013,322. * Segretaria esecutiva per il settore «Strategia pastorale integrale asiatica» dell’Ufficio per il laicato e la famiglia della Federazione delle Conferenze dei vescovi dell’Asia (FABC), e segretaria esecutiva del Comitato per le piccole comunità cristiane della Conferenza dei vescovi cattolici di Corea (CBCK); ricercatrice dell’Istituto pastorale cattolico di Corea della CBCK. Il Regno - attualità 14/2014 p p arole delle religioni Piero Stefani Con tutto il cuore L’ i r r i s o l t a a m b i g u i t à della condizione umana «C uore» è una parola molto diffusa nella Bibbia. Ciò vale sia per l’Antico sia per il Nuovo Testamento. All’ampiezza delle ricorrenze corrisponde quella dei significati metaforici. Per rendersene conto basta riferirsi alla traduzione greca dei Settanta la quale ha avuto, per così dire, «problemi di cuore». Infatti i due sinonimi ebraici lev e levav sono stati tradotti con una vasta area di termini spesso legati alla sfera della conoscenza (psyché, nous, phronesis, dianoia ecc.), ma anche con la parola kardia. Si deve dunque a questa traduzione, che tanto ha inciso sul Nuovo Testamento, l’aver introdotto in greco la metafora legata al cuore, termine che nella lingua classica dell’Ellade era quasi sempre impiegato in un senso anatomico e fisiologico privo di particolari significati simbolici. L’uso biblico del termine differisce radicalmente da quello occidentale, di ascendenza soprattutto romantica, che assegna al cuore la dimensione sentimentale contrapponendolo così alla mente e alla volontà razionale («al cuor non si comanda»). Nella Bibbia abbiamo una vasta area di significati, tuttavia l’asse di riferimento principale è riconducibile a quella che può definirsi una sfera intellettivo-volitiva collegata anche alla coscienza. Per comprendere tutto ciò conviene tener conto che l’antropologia biblica è «senza cervello», vale a dire che essa ignora completamente l’organo che per noi costituisce la base organica del pensiero. Tuttavia, per quanto possa suonare paradossale, la diversità non annulla il fatto che l’uso traslato della parola «cuore» rappresenti un’eredità biblica e non greca. Siamo differenti ma nasciamo da lì. Per noi si è però ormai attenuata la centralità riassuntiva e l’ambivalenza antropologica collegata a questa parola. Il cuore: me stesso «Ti amo con tutto il cuore» è espressione corrente. Forse si può dire che equivalga a «con tutto me stesso», o in maniera più tenue a «senza riserve». Anche la Bibbia conosce l’espressione «con tutto il cuore». Il passo più decisivo in tal senso lo si trova all’inizio dello Shema‘ Israel: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,4-5). È dato dunque amare Dio che non si vede e non si tocca (due dimensioni in pratica imprescindibili nell’amore interumano)? Come si può amare colui che è infinitamente al di là di tutte le esperienze che abbiamo nella vita? A lui ci rivolgiamo, ma egli si rapporta con noi in modo del tutto diverso da come noi ci volgiamo a lui. Nessun altro amore vive una bilateralità così scompensata. Ci può essere un amore umano che si scontra con l’indifferenza e persino con l’odio, ma non ve ne è uno che si misuri con un altro amore del tutto difforme. La centralità assunta nella fede cristiana dall’incarnazione è dovuta anche al fatto che, attraverso la visibilità e la tattilità incarnata dal Figlio di Dio, il divino e l’umano possano amarsi reciprocamente in modo paragonabile. Proprio in ciò si trova il fondamento primo in base al quale l’amore del prossimo è collegato a quello di Dio: «Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20). Lo Shema‘ ebraico non conosce l’incarnazione. Amare con tutto il cuore, lì, significa prima di tutto ascoltare, vale a dire obbedire ai precetti (mizwot). Nella sua veste liturgica lo Shema‘ è costituito da tre pericopi bibliche (Dt 6,4-9; 11,13-21; Nm 15,37-41) precedute e seguite da benedizioni, e sono proprio quest’ultime a renderlo una preghiera vera e propria (qualifica più consona della consueta, ma imprecisa, «professione di fede ebraica»). L’inizio del secondo brano, tradotto alla lettera, suona così: «Se ascoltando ascolterete» (cf. Dt 11,13). Che l’espressione conduca in un’area apparentata all’ubbidire appare ovvio. Del resto, anche l’etimo della parola italiana dipende da «audire». La proclamazione dell’unità del Signore (YHWH) in Israele è affidata perciò non a dogmatiche professioni di fede, bensì alla concreta fedeltà alla Parola che da lui proviene e che viene trasmessa di generazione in generazione. L’affermazione trova il suo riscontro più preciso proprio nello Shema‘. La preghiera si risolve tutta in un invito ad ascoltare la Parola per comunicarla e metterla in pratica. Un maestro del II secolo d.C., Yehoshua ben Qarcha, s’interrogò sul senso della successione tra la prima sezione dello Shema‘ («Ascolta, Israele...», Dt 6,4-9) e la seconda («Se ascoltando ascolterete...», cf. Dt 11,13-21). La sua conclusione è la seguen- Il Regno - attualità 14/2014 509 Parole delle religioni te: prima occorre prendere su di sé «il giogo del regno dei cieli» (primo brano) e solo in seguito prendere su di sé «il giogo delle mizwot (precetti)» (Mishnah Berakhot, 2,2). In altre parole, l’osservanza dei comandamenti consegue all’accoglimento della signoria di YHWH. Una successiva amplificazione narrativa propone al riguardo il paragone con un re che dapprima liberò un popolo da un giogo straniero e poi gli chiese se lo voleva come sovrano; avendo avuto una risposta positiva, aggiunse che, poiché il popolo aveva accolto su di sé la sua signoria, ora doveva comportarsi allo stesso modo anche riguardo alle sue leggi (cf. Midrash, Mekhiltà de Rabbi Ishma‘el a Es 20,2). Amare il Signore significa dunque eseguire la sua volontà. Ma cosa significa allora metterla in pratica con «tutto il tuo cuore»? Le due inclinazioni Una risposta rabbinica a questa domanda ci fa entrare appieno nell’ambivalenza della condizione umana. «Con tutto il tuo cuore» significa «con tutte e due le inclinazioni, con l’inclinazione buona e con quella cattiva» (Sifrè Devarim, 32). «Inclinazione» (o «indole») in ebraico si dice yezer, termine derivato dal verbo yazar, «plasmare». Direttore responsabile Gianfranco Brunelli Caporedattore per Attualità Guido Mocellin Caporedattore per Documenti p. Marco Bernardoni Segretaria di redazione Valeria Roncarati Redazione p. Marco Bernardoni / Gianfranco Brunelli / Alessandra Deoriti / p. Alfio Filippi / Maria Elisabetta Gandolfi / p. Marcello Matté / Guido Mocellin / Marcello Neri / p. 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Rifacendosi alla storia delle origini, la tradizionale ermeneutica ebraica fa notare un’anomalia nel modo in cui è scritto wayiyzar, «plasmò», riferito all’atto compiuto dal Signore Dio quando impastò la polvere del suolo per fare l’uomo (cf. Gen 2,7). Che senso hanno quelle due yod visto che, secondo le regole grammaticali, ne bastava una sola? Nella Scrittura nulla è a caso. Esse stanno proprio a simboleggiare le due inclinazioni presenti nell’uomo. L’ambiguità antropologica è propria della condizione umana; l’ottimismo della visione rabbinica sta nel fatto che questa duplicità non comporti né insanabili lacerazioni né la resa a una concezione in base alla quale le azioni da me compiute sono, in definitiva, ascrivibili al peccato che abita in me (cf. Rm 7,17). L’«inclinazione buona» è la disposizione d’animo volta a obbedire ai comandamenti di Dio. Essa è quindi orientata a fare ciò che è giusto agli occhi del Signore. Dal canto suo l’«inclinazione cattiva» non è la malvagità, non è la volontà distorta indirizzata alla trasgressione, non è la forza del peccato, è semplicemente l’istinto vitale che vuole affermare se stesso a prescindere dalle regole; si tratta cioè di quella base vitalistica che ci è indispensabile per sopravvivere. Nel libro di Geremia vi è una lettera inviata dal profeta celibe alla parte della popolazione già deportata in Babilonia. Egli era consapevole che il ritorno in patria non sarebbe stato prossimo. Scrive perciò agli esiliati. Non lo fa per raccomandare loro di osservare la legge del Signore anche in terra straniera. Il suo linguaggio richiama invece da vicino le caratteristiche che i successivi rabbi avrebbero assegnato all’«inclinazione cattiva»: «Costruite case e abitatele, piantate orti e mangiatene i frutti; prendete moglie e mettete al mondo figli e figlie, scegliete mogli per i figli e maritate le figlie, e costoro abbiano figli e figlie. Lì moltiplicatevi e non diminuite» (Ger 29,5-6). Nel versetto successivo Geremia evoca, in effetti, la dimensione della preghiera, ma lo fa in relazione soprattutto allo shalom degli altri: «Cercate il benessere [lo shalom] del paese in cui vi ho fatto deportare, e pregate per esso il Signore, perché dal benessere [shalom] suo dipende il vostro» (Ger 29,7). I rabbi affermavano che se non ci fosse l’inclinazione cattiva nessuno genererebbe, nessuno costruirebbe case, nessuno commercerebbe e così via. Se le cose stanno così, amare Dio con tutto il cuore significa amarlo nella vita e con la vita, essendo nel contempo consapevoli delle irrisolte ambiguità inscritte nella condizione umana. La metafora di un esilio in cui non ci si arrende alla fatalità, né si cede alla disperazione, non vale solo per chi si trova lontano dalla propria terra; essa diviene un simbolo di tutta la condizione umana. Bisogna cioè testimoniare che questa vita viene dal Dio che ci ha plasmati lasciando in noi una traccia indelebile della polvere del suolo con cui ci ha fatti. «Questo papa non è una cima» Fenomenologia degli oppositori di Francesco “ io non mi vergogno del vangelo “ Luigi Accattoli I ndago sui delusi da papa Francesco che sono tentati di farsi suoi oppositori: li studio uno per uno, mettendo sotto la lente le parole con cui si esprimono nel mio blog. Ho già tracciato il profilo di un deluso di nome Fabrizio (vedi la rubrica di Regnoatt. 10,2014,367) che deluso resta nei mesi e ora ne tratteggio un altro – di un visitatore che si denomina Ubi humilitas (è una citazione di Proverbi 11,2: dov’è l’umiltà lì c’è la sapienza) – che invece passa rapidamente, in sei mesi, da entusiasta a deluso, a oppositore. Ubi humilitas commenta il papa sul mio blog dal 13 marzo al 13 ottobre 2013, quando cessa di intervenire a seguito di una diatriba con altri visitatori sul funerale di Priebke. Ha un suo blog (http://vivificat.wordpress.com/) dal quale non veniamo a sapere chi egli sia. «Chi sono ha scarsa importanza», è detto nel saluto ai visitatori. Mentre scrivo questo profilo, l’ultima uscita su Francesco è del 16 aprile 2014: «Un papa che tacesse (Dio non voglia!) sarebbe ricordato come colui che fece il gran silenzio». Parole nelle quali si avverte una dolorosa lontananza, che nel mio blog aveva maturato prima ed espresso poi in toni più aggressivi: nella Rete chi commenta con nome coperto è più aggressivo quando interviene in casa d’altri. Si parte dal rimpianto per papa Benedetto Sempre nel suo blog, al 26 novembre 2013 Ubi aveva citato da Evangelii gaudium le parole «è una presunta sicurezza dottrinale o disciplinare che dà luogo a un elitarismo narcisista e autoritario» (n. 94; Regno-doc. 21,2013,659) e le aveva interpretate come un attacco personale: «Ne sono fiero, non vedo di cosa dovrei vergognarmi». Nel mio pianerottolo Ubi era partito entusiasta dopo la fumata bianca ed essendo napoletano era ricorso alla lingua materna e al tutto maiuscolo per dire la sua gioia: «PAPA FRANCESCO / È TROPP BELL!», aveva commentato alle 20.18 del 13 marzo. Il blog di Ubi è pieno di motti francescani e il suo entusiasmo è innanzitutto per il nome scelto dal cardinale Bergoglio: «Un papa che si impone il nome Francesco. Pensavo, accarezzavo l’idea, ma non ci avrei mai creduto senza vederlo» (13 marzo, ore 22.12). Legge i mugugni d’altri commentatori e se ne meraviglia: «Comunque papa Francesco dai primi gesti promette bene» (15 marzo). Inquadra con scioltezza le novità esteriori: «Sinceramente sul colore delle scarpe, sulla ferula e sulla mozzetta, sono contento che sfoltisca» (21 marzo). L’entusiasmo sale con la lavanda dei piedi nel carcere minorile (cf. Regno-att. 6,2013,121ss): «Il gesto è davvero lodevole e straordinario. Mi meraviglio che ci sia chi possa criticare» (26 marzo). Ubi dunque non è un tradizionalista, ama la tradizione ma loda le novità di segno evangelico e arriva a sognare a occhi aperti: «Con papa Francesco forse c’è grossa possibilità che offici una messa EF (cioè nella forma straordinaria del Rito romano; ndr) o che vi assista, e probabilmente entro l’anno» (30 marzo). Un visitatore lamenta «l’ostentata forzatura di papa Francesco nel volersi presentare come vescovo di Roma» e il nostro taglia corto: «Si presenta benissimo: il vescovo di Roma è papa» (30 marzo). Il primo disappunto lo manifesta rimpiangendo Ratzinger in reazione a chi loda il calore del papa argentino: «A me manca Benedetto XVI, la sua persona le sue omelie i suoi discorsi, quel piglio e puntiglio tutto tedesco, che fa tanto papa» (9 aprile 2013). «Tra un anno avremo capito che il Signore è misericordioso» L’entusiasmo senza incrinature è durato un mese. Segue una tribolata terra di mezzo che si estende per cinque mesi, nella quale lode e biasimo si spintonano confusamente. Il 16 aprile 2013 al Santa Marta Francesco chiama «testardi» quelli che vogliono «tornare indietro» rispetto al Vaticano II e Ubi va in tilt: «Il papa dovrebbe sapere (lo sa di certo!) che nella Chiesa esistono varie fazioni l’una contro l’altra armate» e dunque «farebbe meglio a essere più preciso quando fa certi discorsi». Del 26 aprile 2013 è questo lamento più ampio, pur accompagnato da una professione di stima: «Per ora sui temi antropologici nulla, eppure l’occasione per parlarne c’era; sui temi teologici, penso che tra un annetto avremo capito tutti che il Signore è misericordioso (…). A me sembra che si stenti a prendere il volo. Detto con il massimo rispetto per il sommo pontefice, a cui va tutta la mia stima, affetto e devota sudditanza». Ubi cerca in ogni modo di farsi piacere Francesco. Trova «straordinaria» l’omelia del 5 giugno 2013 («Pregate con la carne»; cf. Regno-att. 12,2013,337ss) e il 14 giugno abbozza questo bilancio: «È Il Regno - attualità 14/2014 511 Manca la volontà della crociata Ma a settembre l’esultanza è dimenticata e regna lo smarrimento: «Manca la volontà della crociata» e «si sta rinunciando anche a combattere le cause, relativismo, scristianizzazione, diseducazione: c’è distrazione, ora siamo concentrati sulla Renault 4». Decide di «far sapere al papa che c’è un fedele con l’anima in tormento che vede una Chiesa che cambia in peggio, che è fifona e paurosa e non ha più il coraggio e l’ardire dei martiri» (18 settembre 2013). L’opposizione aperta arriva con l’intervista di Francesco alle riviste dei gesuiti, il 19 settembre 2013. Metto di seguito i commenti di quel giorno che esprimono una netta contrarietà: «Non mi si predica più lo stesso Vangelo». «Tutta la feccia eretica gioisce. Grandi brindisi stasera, il papa dichiara resa e presenta l’arrendevole programma di governo». «Hanno vinto i lupi, povero Benedetto XVI. Un papa non si sveglia una mattina e si dimette. La storia forse ci dirà». «A me (questa intervista) suona come: “Noi taceremo”. E quando la Chiesa tace, nelle conventicole si brinda. Nessuno sveglia le coscienze». «Dissento fortemente da quanto afferma il papa. Posso farlo poiché non è magistero ma una semplice intervista. Io dissento». 512 Il Regno - attualità 14/2014 «Qualcuno dica a papa Francesco che l’hanno eletto papa, non parroco di Santa Marta». Le omelie feriali e il rebus del magistero ordinario Dieci giorni più tardi argomenta il suo diritto a dissentire: «Io non tacerò. Quando c’è limpidezza di fede e di dottrina, non ve ne è motivo. Posso permettermi certo il lusso di parlare, e con cognizione di causa». Troppa è la delusione per un papa che non solo «non è una cima» ma non è all’altezza: «Un normale curato di campagna si esprime meglio e magari è più prudente nel parlare» (28 settembre 2013). Anche nell’opposizione conclamata, Ubi mantiene un’attenzione affettuosa al papa argentino che lo commuove con i richiami alla sequela di Cristo: «È un sant’uomo. A volte talmente semplice da passare per astuto, a volte talmente astuto da passare per semplice» (2 ottobre 2013). Abbiamo a che fare con un cattolico di forte convincimento, forse in posizione solitaria nella comunità, conservatore e populista ma non collocabile politicamente. Papa Bergoglio gli piace per il nome, la pietà, le denunce sociali e lo difende su questi spalti, ma getta la spugna quando vede che le parole di Francesco vengono «strumentalizzate» e il papa «non fa nulla» per chiarire. L’idea che il nostro si è fatto dell’uomo Bergoglio e della sua inadeguatezza ci segnala che per lui il papa dev’essere innanzitutto un custode delle formulazioni dottrinali ricevute dalla tradizione e non invece – e innanzitutto – un apostolo inviato a “ io non mi vergogno del vangelo “ un volenteroso instancabile papa Francesco, ci mette una passione che è tutto. Esce dallo schema del gesuita intellettuale/oide. Non è una cima, ma ha una volontà che vale molto più di una affettata capacità». È felice che in un chirografo (quello del 26 giugno 2013 che istituisce la Commissione referente sull’IOR; cf. Regno-doc. 13,2013,408s) Francesco usi il «noi» maiestatico: «E vor dì er sor papa». Il giorno dopo osserva che «quanto a devozioni Francesco è davvero molto tradizionale». È «contentissimo» del viaggio a Lampedusa (2 luglio; cf. Regno-doc. 13,2013,385ss). Esulta vedendo che «confessa» a Rio de Janeiro (27 luglio; cf. Regno-att. 14,2013,409ss). predicare il Vangelo nella lingua dell’epoca e magari con parole nuove in nuove culture. Sulla levatura del personaggio Bergoglio – che gli appare modesta – egli sarebbe disposto a sorvolare in grazia della «volontà» che gli riconosce grande, ma ciò che non può accettare è che la parola del papa possa essere «equivocata»: e questo è un punto da approfondire. Ci vedo due significati: il primo è che costui – come tanti altri oppositori del papa argentino – presta prioritaria attenzione a ciò che del papa dicono i media e i «nemici della Chiesa». Fosse per lui si adatterebbe, ma non può tollerare che si faccia strada l’equivoco. L’altro significato è più sottile e attiene al convincimento che sia da ritenere infallibile e obbligante anche il magistero ordinario del papa. Un’idea irreale alla luce della storia, ma tenacemente insegnata dalla «scuola romana» fino al concilio Vaticano II. Se il papa è normativo anche nelle omelie del mattino, allora non è libero di parlare a braccio, deve scrivere e tutto dev’essere pubblicato. Francesco esce dal linguaggio codificato per farsi appostolo, Ubi lo vuole fermo a difesa della dottrina. «Ogni parola del papa dev’essere inequivocabile» Questo convincimento sull’estrema importanza di ogni parola papale è ben evidente in un commento del 25 settembre: «Sinceramente sono stufo di questo massmediaticismo dedicato alle omelie al Santa Marta. O riportano le omelie per intero o niente. O parla all’orbe cattolico in modo intelligibile, o nulla: con questi stralci chi capisce A chi B e chi niente. Ogni pensiero e parola del papa deve poter essere inequivocabile». Ubi ci insegna che possono maturare opposizioni radicali a papa Francesco anche in persone inizialmente simpatizzanti per i suoi segni di novità e che il discrimine è dato dal rispetto geloso delle formulazioni dottrinali e dalla «volontà di crociata». Non è poco quello che il buon Ubi ci squaderna con il favore dell’anonimato. www.luigiaccattoli.it Per la catechesi dei ragazzi CLAUDIO RUGOLOTTO Vivere da fratelli Itinerario di catechesi per genitori e figli V anno > Attenzione alla crescita umana anche dei genitori > Schede per la preparazione alla cresima > Riferimenti al catechismo CEI Sarete miei testimoni Testo per genitori e catechisti: pp. 200 - € 19,00 Quaderno per ragazzi: pp. 64 - € 5,80 ALESSANDRO BONETTI Facciamoci le storie Cammino di evangelizzazione per adolescenti. 2 Segue la maturazione umana e cristiana dei ragazzi < Accosta alcune parabole evangeliche < Presenta schede autonome per un percorso flessibile < pp. 136 - € 11,50 CENTRO PASTORALE ADOLESCENTI E GIOVANI VERONA MeetMe Questione di fede PERCORSO PER ADOLESCENTI > Itinerario in 3 anni, basato sulle virtù teologali > Schede per gli animatori > Materiali per i ragazzi pp. 104 - € 9,50 www.dehoniane.it EDB Via Scipione Dal Ferro, 4 - 40138 Bologna Tel. 051 3941511 - Fax 051 3941299 i classici N U O VA C O L L A N A TERTULLIANO L’eleganza delle donne A cura di Sandra Isetta pp. 64 - € 7,00 GEROLAMO Gli uomini illustri A cura di Aldo Ceresa-Gastaldo Premessa di Umberto Rapallo pp. 128 - € 11,50 GREGORIO DI NISSA Contro il fato A cura di Michele Bandini pp. 64 - € 7,00 AGOSTINO Catechesi per principianti A cura di Giorgio Sgargi pp. 152 - € 12,50 www.dehoniane.it EDB Via Scipione Dal Ferro, 4 - 40138 Bologna Tel. 051 3941511 - Fax 051 3941299