INTORNO ALL’ULTIMO REBORA
La percezione collettanea dell’ultimo Rebora fissa e significa l’aspetto
comune all’interno di uno sguardo plurimo sui Canti dell’ infermità, però
dicendo il senso di una prospettiva in cui si tiene conto, analizzando le liriche
religiose composte negli ultimi anni, di elementi che ovviamente concorrono
a creare un collante tra diversi approcci, prospettiva soprattutto capace
d’impostare una focalizzazione che pare voler tornare al presupposto
principale: “dai vertici esatti di luce”, per dirla con un verso di Paolo Volponi
(Il cuore dei due fiumi, ne Le Porte dell’Appennino), di una visione prospettica
rivolta alle cose, dal senso del viaggio che, nel suo isolamento, la lettura
reboriana
impone,
da
quella
necessaria
commistione
di
mobilità
nell’immobilità, di vibrazioni, di movimento continuo, perché bloccato nel
suo sviluppo da una strutturazione visiva dentro cui, immobili, cioè eterni, nel
movimento, si vedono gli alberi, le emergenze naturali, il saliscendi dei moti
percettivi.
Questo pare essere alla base di quanto si può cogliere per L’ultimo Rebora
1954-1957 (Venezia, Marsilio 2008), volume a più mani a cura di Giuseppe
Colangelo e Gualtiero De Santi. Un ultimo Rebora, quello dei Canti dell’
infermità appunto, che però s’imposta sul primo dei Frammenti lirici e richiama
in qualche modo l’analisi già attuata da Pier Vincenzo Mengaldo, per il quale
lo stile e il suo peculiare espressionismo, violentemente carico di quella forza
deformante con cui il linguaggio viene aggredito, tendono a sollecitare il
linguaggio stesso ad attivarsi. Dunque il verbo porta alla rappresentazione
dell’azione, invece che alla descrizione. Mengaldo aveva espressamente
parlato di “verbi intransitivi fatti transitivi e causativi” (Poeti italiani del
Novecento, Mondadori, 2009) e di un conseguente linguaggio sempre “come
sovradeterminato per inflazione”.
All’interno del suo saggio, L’itinerario mistico di Clemente Rebora, Gualtiero De
Santi intende lo spazio del divino laddove, in Rebora, il circostante della
naturalità e l’atto metafisico possano fondersi in una sorta d’intersecazione sia
esterna a noi, dunque forse collocata nella natura, ma anche insita al nostro
interno, nell’animo. E questo, ad esclusione di un luogo esclusivamente
metafisico, in uno spazio contemporaneamente dentro e fuori dell’uomo,
tanto da impostare una sorta di circuito: per cui nei Canti dell’ infermità è
fulminea la soluzione, dentro cioè quel circuito ciclico tra chiarezza interiore e
musicalità, soluzione che prevede lo scorciarsi dei finali e il loro sospendersi.
Laddove le immagini, benché smaglianti, erano ancora in corso di rifinitura e
conclusione, è nei Frammenti lirici che De Santi vede, con Rebora, nel pioppo
e nel salice, nello slancio figurale di questi due alberi, il senso, quel senso che
dà conclusione alle prime poesie di Rebora e valore religioso all’ultima
produzione.
La cima del frassino, il vibrìo delle foglie del pioppo, ogni momento del
semplice vegetale, si caricano di un valore universale, si assolutizzano di un
significato ben preciso, la conciliazione tra immanente e trascendente, e
divengono quindi depositari significanti di un significato comune, che è la
conciliazione degli opposti. La cima del frassino, che intende “la vicenda del
vento”, diviene la rappresentazione della parola che “afferma / il tendere
massimo al cielo: / richiama così la vetta dell’anima”. Capovolgendo l’ordine,
la parola, dicendo “cima del frassino”, si fa cima del frassino e allora può
comunicare (“e in fine sempre afferma”) la necessità di una tensione continua
verso il cielo richiamando, così, “le vette dell’anima”: quel picco verso cui
s’eleva il commovimento delle ragioni interne, quelle che rispondono al
sentimento, all’etica e alla morale. Non troppo dissimilmente il pioppo che,
severo, è attraversato dal vento, “Vibra nel vento con tutte le sue foglie”,
coinvolge l’anima e però allaccia quanto c’è di più vero, sepolto negli abissi
delle nostre fondamenta, “in rami per fronde”, a quant’altro esiste di più vero:
al cielo (“tutte al ciel tese con raccolte cime”) – l’altro che sta al lato opposto,
noi separati dalla paura terrestre dell’immanentissima vita di un tronco. Il
trasporto, ci dice il critico, è verso la leggerezza, detta dalla scrittura dove
giace l’imprendibile che diventa quindi “immanente alla scrittura”, rivelando
nel visibile alcunché d’invisibile… e questo ha valore fino a che “l’eterno
giunga a palesarsi”. In questa attesa avviene l’improvvisa “apertura di senso”:
se “la poesia è ascesi, possibilità di elevazione”, ch’essa celebri l’albero è
necessario: dal sottosuolo ai vertici ogni albero è dunque metafora di un
percorso mistico.
Nell’intendimento del significato di percorso si palesa il riaggancio con lo
sguardo di Maria Lenti: non già nello spazio aperto di Rebora, quanto in
quello chiuso. La poesia si rivela strumento di ricerca della verità, della
conquista di un senso del vivere e della vita in generale: “dall’abisso”, con “un
sentire” verso sé, nel senso di un ritorno verso l’inizio di un allontanamento
verso l’alto, la metaforica luce. Maria Lenti intende “viaggio nel viaggio”:
viaggio individuale verso la fine della vita terrena che include quello spirituale
verso l’inizio di un’eterna era: vincendo il “non essere”; un viaggio mondocielo che parte da un viaggio (dentro il mondo) – dal “rischio terribile del
perdersi, del non essere” - verso la luce di cui è accesa la stanza del poeta…
con e verso la poesia che “al ciel sia vita, mentre quaggiù è sol arte” – e a Dio.
Il tema d’indagine di De Santi è la metafora dell’albero; quello della Lenti è
il viaggio nel viaggio, mentre Donatella Marchi indica la non convenzionalità
della punteggiatura reboriana, dal duplice valore: interpunzione come
preghiera che non scandisce e non regola, bensì spalanca orizzonti
interpretativi e conferisce originalità alla versificazione del nostro. Ora, il
punto non divide: collega due versi, mentre la virgola non indica una breve
pausa: è posta prima della congiunzione “e” o a fine verso, oppure viene
omessa. Non c’è più l’uso ortodosso della punteggiatura, bensì essa è
funzionale a “impercettibili e sotterranei mutamenti del sentimento”. Allo
stesso modo, i due punti sollevano le barriere del sangue versato ne Il torchio
e sono funzionali a vedere la pagina /sindone.
Il libro, che si apre con l’ultimo intervento critico di Mario Luzi, si sviluppa
intessendosene, là dov’egli definisce la poesia di Rebora una preghiera
addolorata, una poesia religiosa che propone un senso della consolazione a
sua volta immerso, per usare le parole stesse di Luzi, in quello di Cristo.
Dunque, poesia sacra che punta alla conversione del sentimento del dolore e
in questo ammette l’incontro tra preghiera, supplica, implorazione e ricerca di
consolazione. Luzi indica l’assenza, nella lirica reboriana, di ogni trionfalismo
e sottolinea la coincidenza tra conversione del poeta e conseguente vocazione
sacerdotale.
A naturale seguito di questo, Franco Lanza, nel suo testo su Clemente Rebora
e la profezia, pare tenerne conto in primo grado, tanto che, parlando di un
percorso alla conversione del 1929, specifica come tale elevata esperienza
abbia coinvolto l’intera personalità del poeta. E s’intende ora il senso del
messaggio profetico cui fa riferimento Lanza, laddove esso annunci la
possibilità di una rigenerazione spirituale per via di un programma d’amore.
Se Luzi avvicina la poesia del nostro a cert’altra dei primi decenni del
Novecento, è vero che in quel periodo il problema centrale di tanta indagine,
soprattutto per via degli influssi metafisici europei, è stata la visione di un
mondo in attesa di un evento rigeneratore e Lanza ricorda, della buona
novella nuovo testamentaria, com’essa racconti dell’uomo a cui Dio ha
donato i mezzi per risorgere dallo sfacelo della propria caduta; però a sua
volta intersecandosi, non dimenticandone dunque la magistrale lezione
vichiana, con la ciclicità della visione storica di quest’ultimo: per il quale la
poesia è il “sentimento religioso che si attua negli istituti civili”.
L’immagine vichiana dei giganti osservanti il cielo, i suoi moti satellitari e il
volo degli uccelli richiama alla memoria diversi tratti della percezione
volponiana del rapporto tra mondo e volta celeste, dove il transitare di
meteori desta nell’uomo l’idea di un congegno meccanico alla base della
creazione del pianeta terra e della razza umana, delle cui ossature paiono
udirsi mille rumori improvvisi. La profezia cui si accennava chiama in causa la
crescita in verticale della partecipazione spirituale all’ indagine di una realtà
che resta, invece, nell’ orizzontalità della propria immanenza e in questo
itinerario ascendente prende corpo l’esperienza della conversione, a cui
seguono l’idea, appunto, di profezia di un mondo senza messaggio cristiano e
la possibilità di salvezza metaforica dal diluvio tramite la bontà del cuore.
Ancora ed infine ad incontrare, qui, la lettura di Attilio Bettinzoli di poesia
come riscatto dall’abisso per cui, mettendo a fuoco le due edizioni dei Canti
dell’infermità, quella in opuscolo nel 1956 e l’edizione ampliata del 1957,
emerge come, nella seconda edizione s’imponga un “nucleo tematico nuovo”,
con le immagini simboliche della condizione di infermo e l’idea di poesia che
riscatti il dramma della malattia equivalendo il suo patire con il tema di un’
Imitatio Christi. Aggiunge Giuseppe Colangelo che il patimento è dato dalla
consapevolezza che la poesia, contrariamente a quanto si sarebbe voluto, non
svolge alcuna azione morale sugli altri.
Giovanni Terzanelli
Pubblicato in “Effigies”, quaderno N.2 2011
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