SEMI DI CONTEMPLAZIONE
Mensile di vita spirituale
Raccolta
Numeri
0 - 110
Direttore Responsabile: †Mons. Antonino Raspanti
Aut. Trib. di Trapani n. 313 del 15/10/07
www.verginemontecarmelo.org
Indice numeri 0 - 167
N. 0 - Dic.1999 - L'orazione, venuta di Cristo nell'anima, GIOVANNI TAULERO
Anno 2000
N. 1 - Gen.- Lo Spirito Santo, luce e calore dell'anima, UGO DI S.VITTORE
N. 2 - Febbr.- La trasformaziodell’anima in Dio, S.GIOVANNI DELLA CROCE
N. 3 - Mar.- Che cos'è la contemplazione?, FRANÇOIS MALAVAL
N. 4 - Apr. - È faticoso essere perfetti? , S.FRANCESCO DI SALES
N. 5 - Mag.- Amare l'amore, S. BERNARDO
N. 6 - Giu. - Quando soffrire non è più soffrire, B. ENRICO SUSO
N. 7 - Lug./Ag. - Quando Dio s'impone in una vita, LUCIE CHRISTINE
N. 8 - Sett. - Amare Dio così come è, S.CATERINA DA GENOVA
N. 9 - Ott. - L'autenticità della contemplazione, JEAN RIGOLEOUC
N. 10 - Nov. Quando il fervore sembra raffreddarsi..., J-P. DE CAUSSADE
N. 11 - Dic. - Quando il fervore sembra raffreddarsi, S. TERESA D'AVILA
Anno 2001
N. 12 - Genn. - Alcune trappole del demonio, LOUIS LALLEMANT
N. 13 - Febbr. - Orazione in vacanza, FRANCOIS LIBERMAN
N. 14 - Mar. - La sovrana libertà di Dio, JEAN-JOSEPH SURIN
N. 15 - Apr. - Le audacie dell'amore, FR. LORENZO DELLA RESURREZIONE
N. 16 - Mag.- La preghiera, pasqua di Cristo in noi, S. BONAVENTURA
N. 17 - Giu. - Alla sorgente della contemplazione, LOUIS DE BLOIS
N. 18 - Lug./Ag.- Beata solitudine, GUGLIELMO DI SAINT-THIERRY
N. 19 - Sett. 2001 - Cos’è la preghiera, S. GIOVANNA DI CHANTAL
N. 20 - Ott. - La felicità dell’unione a Dio, B. MARIA DELL'INCARNAZIONE
N. 21 - Nov. - Un amore incandescente …., JEAN DE SAINT-SAMSON
N. 22 - Dic. - Nulla di cosí sicuro come la notte!, MIGUEL DE MOLINOS
Anno 2002
N. 23 - Genn. - Quietismo o quiete?, FRANÇOIS-CLAUDE MILLEY
N. 24 - Febbr. - Il desiderio di Dio, motore dell’orazione, ROBERT DE LANGEAC
N. 25 - Apr. - Lodi dell’orazione, LUIGI DI GRANADA
N. 26 - Apr. - La forza della debolezza, S. TERESA DEL BAMBIN GESÙ
N. 27 - Mag.- Gesù nostra madre, S. PIETRO D'ALCANTARA
N. 28 - Giu. - Amore che agisce e amore che fruisce, JEAN RUUSBROEC
N. 29 - Lug./Ag. - Un raccoglimento pieno di Dio, FRANCISCO DE OSUNA
N. 30 - Sett. - "Lasciati amare!, ANONIMO DEL XIV SEC.
N. 31 - Ott. - “Alla lode della Sua gloria…..”, B. ELISABETTA DELLA TRINITÀ
N. 32 - Nov. - Una tenebra luminosa, S. GREGORIO DI NISSA
N. 33 - Dic. - Sul buon uso degli scrupoli, JEAN-PIERRE CAMUS
Anno 2003
N. 34 - Gen. - Credere per comprendere, S. ANSELMO
N. 35 - Febbr. - Quando amore trionfa, BEATRICE DI NAZARETH
N. 36 - Mar.- Eucaristia e vita spirituale, CHARLES DE CONDREN
N. 37 - Apr.- Santità o perfezione?, G. DE BERNIÈRES-LOUVIGNY
N. 38 - Mag.- La grazia è modesta!, TOMMASO DA KEMPIS
N. 39 - Giu - L’orazione, dolce madre, S. CATERINA DA SIENA
N. 40 - Lug./Ag. - Non essere niente per essere tutto, MECHTILDE DEL S.
SACRAMENTO
N. 41 - Sett.- Essere tutto in Colui che è tutto, ANGELA DA FOLIGNO
N. 42 - Ott. - Affinché l’anima salga sempre, BENEDETTO DI CANFIELD
N. 43 - Nov. - L’orazione, cammino di felicità, COSTANTINO DI BARBANÇON
N. 44 - Dic. - Fondere d'amore …, HENRI DE HERP
Anno 2004
N. 45 - Gen - Infine libero …, YVES RAGUIN
N. 46 - Feb - Dalla lettura alla contemplazione, GUIGO II
N. 47 - Mar - Risuscitare con Cristo, LA PERLA EVANGELICA
N. 48 - Apr - Gesù Cisto, ieri, oggi e sempre, PIERRE DE BÉRULLE
N. 49 - Mag - La forza dell’amore, S. AGOSTINO
N. 50 - Giu - Meditazione contemplazione, S. PIETRO D'ALCANTARA
N. 51 - Lug/Ag - L’orazione del cuore, ALEXANDRE PINY
N. 52 - Sett - L’orazione di quiete, PIETRO DE CLORIVIÈRE
N. 53 - Ott - Il cuore dell’unione a Dio, GERLAC PETERS
N. 54 - Nov - Sia fatta la tua volontà!, TAULERO
N. 55 - Dic - La felicità di amare Dio, JEANNE SCHMITZ-ROULY
Anno 2005
N. 56 - Gen. - Sul buon uso delle malattie, S. GERTRUDE D'HELFTA
N. 57 - Feb. - Un Dio intensamente presente…., LUIGI CHARDON
N. 58 - Mar. - Insostituibile orazione!, S. GIOVANNI EUDES
N. 59 - Apr. - Un amore che prende tutto… , MADDALENA MORICE
N. 60 - Mag - L'amore è sempre ragionevole, FR. DE SALIGNAC DE LA MOTHEFÉNELON
N. 61 - Giu.- Un canto dolce come il miele, RICCARDO ROLLE
N. 62 - Lug/Ag. - Beata notte dell'anima!, MAUR DEL BAMBIN GESÙ
N. 63 - Set.- Dio o impressione di Dio?, WALTER HILTON
N. 64 - Ott. - La chiave di tutta la felicità, MAESTRO ECKHART
N. 65 - Nov. - Quando l'orazione diventa teologia…, S. TOMMASO D'AQUINO
N. 66 - Dic. - La Croce, sorgente di vita, BEATO PIETRO FAVRE
Anno 2006
N. 67 - Gen. - Atti e stato di orazione, BEATO COLUMBA MARMION
N. 68 - Feb. - Riposare in Dio, JEAN-NICOLAS GROU
N. 69 - Mar. - Sul buon uso della desolazione, DON VITAL LEHODEY
N. 70 - Apr. - Un buon uso delle distrazioni nell’orazione, G. B. SAINT-JURE
N. 71 - Mag - Nello scoraggiamento …, ALFONSO GRATRY
N. 72 - Giu - Orazione attiva e orazione passiva, DON CLAUDIO MARTIN
N. 73 - Lug/Ag.- Orazione e pace dell’anima, EVAGRIO PONTICO
N. 74 - Set. - Il peccato, trampolino per l’orazione, LORENZO SCUPOLI
N. 75 - Ott. - Un amore trasparente…, JACQUES BERTOT
N. 76 - Nov. - Orazione senza fatica, DON JOHN CHAPMAN
N. 77 - Dic - Amare da morire, S. GERTRUDE DI HELFTA
Anno 2007
N. 78 - Gen. - Per passare dal nulla al tutto…, BEATO NICOLA BARRÉ
N. 79 - Feb. - Quando la grazia non si sente…, GIAN FRANCESCO DI REIMS
N. 80 - Mar. - Un’orazione rilassata, S. GIOVANNI D'AVILA
N. 81 - Apr. Conoscere dio per esperienza, LUIGI DE LA PUENTE
N. 82 - Mag.- Amare Dio essenzialmente, MICHELE DI SANT'AGOSTINO
N. 83 - Giu - Azione o agitazione?, AMBROGIO DE LOMBEZ
N. 84 - Lu/Ag. - Quando Dio ci tocca…, JUAN DE LOS ANGELES
N. 85 - Sett.- La fecondità dell’anima in Dio, JEANNE-MARIE GUYON
N. 86 - Ott. - Discendere per salire, VINCENZO HUBY
N. 87 - Nov.- Per finirla con le distrazioni, FRANCESCO GUILLORÉ
N. 88 - Dic - L’orazione è una grazia, FRANÇOIS BOURGOING
Anno 2008
N. 89 - Gen.- Chi è un mistico?, ENRICO BRÉMOND
N. 90 - Feb.- Se avete delle apparizioni…, GIOVANNI BONA
N. 91.- Mar.- Dal dono all’abbandono, CHARLES GAY
N. 92 - Apr.- Dio solo porta a Dio, MADELEINE DE SAINT-JOSEPH
N. 93 - Mag - Le mille vie dell’orazione, ENRICO-MARIA BOUDON
N. 94 - Giu.- Un amore crocifisso, MARZIALE D'ÈTAMPES
N. 95 - Lu/Ag. In orazione con Maria, S. LUIGI MARIA GRIGNION DI MONTFORT
N. 96 - Sett.- Se l’orazione vi fa paura …, MICHELE BOUTAULD
N. 97 - Ott.- « Pregate incessantemente» , JOHN HENRY NEWMAN
N. 98.- Nov. - Orazione nell’azione, GIOVANNI CRASSET
N. 99 - Dic - Orazione senza farlo apposta!, JEANNE LE ROYER
Anno 2009
N. 100 - Gen. - Niente di così semplice come l’orazione, FRANCESCO DI SALES
N. 101 - Feb - L’orazione quando si è ammalati, JACQUES BERTOT
N. 102 - Mar - Fino al culmine dell’amore, S. GIOVANNI DELLA CROCE
N. 103 - Apr. - Raccoglimento attivo o passivo?, FR. DE SALIGNAC DE LA MOTHEFÉNELON
N. 104 - Mag.- Quando Dio si impone a un’anima, RENÉ RAPIN
N. 105 - Giu - A cosa si pensa nella preghiera?, S. JOHN FISHER
N. 106 - Lu/Ag - Natura o Grazia?, JEAN JOSEPH SURIN
N. 107 - Set - Un amore disinteressato, FRANÇOIS-CLAUDE MILLEY
N. 108 - Ott - Amare senza sentire che lo si ama, MAURO DI GESÙ BAMBINO
N. 109 - Nov - Ancora l’aridità, S. ALFONSO DE' LIGUORI
N. 110 - Dic - Perdersi in Dio …, DONATIEN DE SAINT-NICOLAS
Tabella dei numeri ordinati per anno e mese
Anno
gennaio
febbraio
marzo
aprile
maggio
giugno
lug/ago
settembre
ottobre
novembre
dicembre
1999
0
2000
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
2001
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
2002
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
2003
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
2004
45
46
47
48
49
50
51
52
53
54
55
2005
56
57
58
59
60
61
62
63
64
65
66
2006
67
68
69
70
71
72
73
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75
76
77
2007
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79
80
81
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83
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2008
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2009
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ABC
N. 0 - Dicembre 1999
123
Cari amici, il presente foglio, che con questo primo numero prende avvio, è il frutto e
l'esigenza di un modesto e ancor iniziale cammino che alcuni di noi compiono da poco più di
un anno ad Erice e a Palermo: curare la vita interiore, la vita secondo lo Spirito di Cristo. è
vero che parecchi di noi hanno cominciato ben più di un anno fa, tuttavia pensiamo di non
disporre di forze sufficienti per sostenere un foglio come questo, che vuole avere cadenza
mensile. Per ciò ricorriamo all'aiuto e al sostegno di altri amici, ai quali sono da tempo
legato, quelli dell'Associazione "San Giovanni della Croce" di Mers-sur-Indre, una piccola
località del Berry, nel cuore della Francia. Costoro pubblicano un bollettino intitolato Oraison,
dal quale prenderemo a prestito buona parte dei testi qui proposti, riservandoci di volta in
volta una o due pagine. Ringraziamo il padre Max Huot de Longchamp, moderatore
dell'Associazione, per la disponibilità concessaci.
Semi di Contemplazione intende sostenere coloro che, toccati da Cristo, hanno deciso di
accogliere la Sua proposta di condividere pienamente la loro vita con Lui; il salmista li chiama
beati perché hanno deciso nel loro cuore di intraprendere il santo viaggio. Dicevo, accogliere
pienamente: cioè lasciando entrare Cristo in ogni angolo dell'esistenza, spendendo con lui
ogni attimo del tempo, per non dividersi mai. Il sostegno è assicurato dalle parole dei grandi
amici di Cristo, i maestri della vita spirituale, le quali sono spesso fonte di luce e di gioia, e lo
sa bene chi l'ha provato: fonte di luce perché aiutano a comprendere se stessi e la strada che
si sta percorrendo, che spesso ha poche luci; fonte di gioia perché la condivisione fraterna
delle meraviglie divine operate nei fedeli accresce la gioia di ogni cristiano. A motivo di ciò
riproporremo principalmente i loro testi, grati per il coraggio che hanno mostrato nel
percorrere fedelmente quel santo viaggio e lo sforzo profuso nel tentare di esprimere il
vissuto credente: quali frutti apostolici oggi raccolgono da un'azione così poco visibile!
Quando Dio agisce nel credente, crea sempre qualcosa di nuovo ed irripetibile, che compie
ed esalta la naturale singolarità della persona. Discernere quest'opera per assecondarla è
una necessità e un travaglio, che la stessa persona vive spesso in modo doloroso. Ella tende
al confronto per avere riscontri, che non trova facilmente, con il pericolo che, delusa e
scoraggiata, appiattisca e distrugga il prezioso dono della singolarità. L'autentica
comunione dei santi, nella quale consiste la Chiesa, non appiattisce questa singolarità, bensì
la sostanzia avvantaggiandosene.
Ci auguriamo che il presente foglio fornisca qualche piccola luce a quei beati in cammino
mentre, certo, non recherà dispiacere a coloro che sono avanti in esso.
d. Antonino Raspanti
L'orazione, v enuta di Cristo nell'anima
Nostro Signore diceva: Salite voi a questa festa; io non ci vengo ancora. Il vostro tempo è
sempre pronto, il mio non è ancora venuto. (Gv 7,6)
Qual è dunque questa festa a cui Nostro Signore ci dice di salire e il cui tempo è sempre
pronto? è la festa più elevata, la più vera, la festa suprema, è la festa della vita eterna, cioè
l'eterna felicità in cui saremo veramente è di fronte a Dio. Questo non possiamo averlo
quaggiù. La festa che possiamo avere qui è una pregustazione di quella, un'esperienza della
presenza di Dio nello spirito attraverso il godimento2 interiore che ci viene dato da un
sentimento1 molto intimo. Il tempo che è sempre nostro, è quello di cercare Dio e di seguire
il sentimento della sua presenza in tutte le nostre opere, nella nostra vita, nel nostro volere e
nel nostro amore. Così dobbiamo elevarci al di sopra di noi stessi e di tutto ciò che non è Dio,
volendo e amando, in totale purezza, solo Lui e niente altro. Questo tempo è in ogni
istante...Dio è sempre presente e anche se noi non lo sentiamo, egli tuttavia è entrato,
segretamente, per la festa. In verità, dove è Dio, è giorno di festa; egli non può mancare, né si
può astenere dall'essere là dove una leale intenzione lo chiama, là dove non si cerca che Lui
solo; egli deve, necessariamente, essere là. C'è forse in maniera celata, ma c'è.
Taulero, Discorso XII
L'AUTORE: Nato e morto a Strasburgo (1300?-1361), predicatore domenicano, Taulero, con
Maître Eckhart e Susone, è uno dei grandi della mistica renana. Con le traduzioni della
Certosa di Colonia, tutta la spiritualità nordica dei secoli XIII e XIV passerà sotto il suo nome
alla Spagna di santa Teresa e di san Giovanni della Croce.
TESTO: Commentando per i domenicani di Strasburgo il Vangelo della salita a
Gerusalemme, fatta di nascosto, da Gesù per la festa giudaica delle Capanne (Gv 7), Taulero
descrive l'esperienza contemplativa ("un'esperienza della presenza di Dio nello spirito
attraverso il godimento interiore che ci viene dato da un sentimento molto intimo") come la
venuta nascosta del Cristo nell'anima. Dio entra in noi attraverso l'apice dell'anima (il Tempio
dell'anima, o centro, presso numerosi autori, o fortezza, settima dimora per Teresa d'Avila,
fine punta per Francesco di Sales, ecc.), al di sopra di tutte le nostre facoltà ( ecco perché
"noi non lo sentiamo" né lo comprendiamo). è là che egli ci chiama ad incontrarlo e quando
noi saliamo a questo Tempio dell'anima, la sua presenza si manifesta: ecco la
contemplazione come "festa", pregustazione della "festa della vita eterna". La nostra parte in
tutto questo, consiste sempre "nell'elevarci al di sopra di noi stessi e di tutto ciò che non è
Dio, volendo e amando Lui solo": è questo lo stesso movimento dell'atto di fede.
L'esperienza contemplativa, questa evidenza della presenza di Dio per coloro che egli
chiama a rendersene conto, è dunque una venuta del Figlio di Dio nella nostra carne,
partendo dall'apice dell'anima. Poco a poco, se noi lo lasciamo fare, egli trasforma in Lui il
resto dell'anima ("fino alle ultime articolazioni delle mani e dei piedi" dirà Giovanni della
Croce). Il quadro liturgico della festa delle Capanne, rievocazione dell'Esodo, annuncia che
questa incarnazione è nello stesso tempo il cammino di Gesù verso la Pasqua.
Taulero riprende qui il tema agostiniano, fondamentale per la mistica renana, della nascita di
Dio nel cuore dell'uomo, simmetrica alla nascita dell'uomo nel cuore di Dio, di cui la fede è
condizione e il battesimo è attuazione. Tutta la vita cristiana consiste nel dare alla luce l'uomo
nuovo generato in noi dallo Spirito Santo; tutta la vita contemplativa è rendersi consapevoli di
ciò.
§1 Sentimento: nel vocabolario dei mistici non è un'impressione sentimentale, ma il fatto di
sentire Dio. Sentire è la parola più indicata da essi per indicare la percezione certa e
indescrivibile ad un tempo, perché globale, della presenza di Dio. Il registro in questo caso
non è psicologico ma puramente spirituale.
§2 Godimento: si tratta di questo sentimento della presenza di Dio come felicità appagante,
anticipo della felicità dell'aldilà e della stessa natura di essa.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
A come... ABBANDONO
"Padre, fra le tue mani rimetto il mio spirito". Questo abbandono di Gesù fra le mani del Padre,
nella più totale rinuncia e nella più totale fiducia, definisce la perfezione di tutta la vita
spirituale:
Dio ama di un amore estremamente tenero coloro che sono felici di abbandonarsi totalmente
alla sua cura paterna... Quando abbandoniamo tutto, Nostro Signore si prende cura di tutto e
guida tutto. S. Francesco di Sales, Colloqui,VI,28
Pervenendo a questo punto, la nostra vita spirituale non è più una preoccupazione:
In questo sacro riposo, sento nel fondo del mio cuore un pieno assenso a tutti gli eventi che
Dio vorrà, un consenso perfetto a ciò che Lui vorrà fare di me, e ciò mi dà, mi sembra, un
grande abbandono alla divina e amabilissima Provvidenza e mi toglie qualsiasi inquietudine
per la mia perfezione.
Madeleine Morice (1736-1769)
Come fare per arrivarci?
San Pietro dice: "Gettate ogni vostro affanno in Dio, perché Lui stesso si prende cura di voi".
Consegnati prigioniero alla volontà divina, in un perfetto abbandono e una perfetta fiducia a
questa paterna potenza che può tutto... Non osi abbandonarti? Cerca la sua giustizia ; la sua
giustizia, è Lui che dimora in coloro che lo cercano interiormente, che lo seguono e si
abbandonano a Lui. è in tali uomini che Dio regna. Per quelli che si stringono a Dio in
perfetto abbandono e confidano in lui non vi saranno più preoccupazioni disordinate.
Taulero (1300-1361), Discorso,62
La morte delle preoccupazioni non è però noncuranza, ma attenzione e adattamento costante
alla sola volontà di Dio, che consiste nel dare a ogni cosa il posto esatto che gli dà Dio:
[In questo perfetto abbandono] non si deve tuttavia tentare Dio, al contrario, si deve porre una
saggia e ragionevole lungimiranza nell'ordinare ogni cosa come conviene per noi e per il
nostro prossimo, per il nostro servizio e quello della carità comune, facendo in modo ordinato
e intelligente, tutto quel che si presenta : lo stesso bene divino che si cerca nella passività,
occorre cercarlo in ogni attività, sia che si lavori, si parli, si mangi, si beva, si dorma o si
vegli.
Idem
L'abbandono è tanto semplice e immediato quanto la fede: basta lasciar cadere le nostre
inquietudini per essere nell'abbandono. Tuttavia l'esperienza mostra che ci occorrerà del
tempo per non barare:
Credete di perdervi, da quando pensate di abbandonarvi...
- Ma, direte, se finora ho vissuto santamente, compiendo opere buone?- è esattamente in
cosa consiste questa fragile e malaugurata fiducia che si vorrebbe avere sempre in sé;
invece di porla tutta, unicamente in Dio solo e nei meriti infiniti di Gesù Cristo... Vi fermate
sempre ad esaminare i vostri timori, i vostri dubbi, invece di porvi al di sopra, per gettarvi, alla
cieca e a corpo morto, fra le mani di Dio e nel suo seno paterno ; è come se voi voleste
sempre, avere delle garanzie certe dalla vostra parte, per meglio abbandonarvi. Oh!
Certamente non è questo il vero abbandono in Dio, con una totale fiducia in Lui solo, ma un
desiderio segreto di poter assicurare sé stessi prima di abbandonarsi a Dio, come un
criminale di stato, che prima di abbandonarsi alla clemenza del re, vorrebbe avere garanzie
sul suo perdono!
Padre De Caussade, Lettera del 1735
Non abbiamo dunque paura di lasciarci condurre da Dio fino al culmine di questo abbandono:
In verità, sappi questo: Fintanto che avrai una goccia di sangue nella tua carne e una
particella di midollo nelle tue ossa, che non sia stato consumato per amore del vero
abbandono, non immaginarti di essere un uomo abbandonato. E sappi ancora ciò: fino a che
l'ultima particella di vero abbandono ti manca, tu non l'hai acquistato veramente, Dio resterà
per te straniero per sempre e tu non proverai la beatitudine più alta e più profonda né in
questo tempo né nell'eternità.
Taulero ( 1300-1361) Discorso 83
Questo abbandono assoluto è in effetti necessario a Dio perché possa fare di noi i suoi figli:
Con questo completo abbandono, aderiamo perfettamente alla sua azione divina e con questa
perfetta adesione, partecipiamo alla perfezione del suo spirito di santità che agisce in noi e,
attraverso questa incomprensibile partecipazione, la santità di Gesù si spande nella nostra
anima e la rende santa.
Padre Libermann, Lettera del 12 Agosto 1837
ANNO
2000
ABC
N. 1 - Gennaio 2000
123
LO SPIRITO SANTO, LUCE E CALORE DELL'ANIMA
Quando il fuoco attacca il legno verde, si sprigiona dapprima un denso fumo: a stento tra le
sue spirali si vedono alcune fiamme. Ma, a poco a poco, l'umidità si consuma, il fumo
diminuisce, la fiamma vittoriosa si mostra correndo di qua e di là; essa circonda il legno che
crepita e che sembra ancora lottare, lo penetra, lo trasforma, comunicandogli la sua stessa
natura. Tuttavia la combustione prosegue e in breve tempo, il legno non è più legno, è
divenuto fuoco esso stesso; allora il crepitìo cessa, non si sprigionano più le scintille ed il
fuoco divorante, non trovando più davanti a sé un elemento estraneo che gli resista, completa
la sua opera di assimilazione nella calma e nel silenzio. Il cuore ancora sensuale è simile al
legno verde. Se qualche scintilla di timore o d'amore lo raggiunge e lo scalda, le sue
passioni indomite resistono, e di là molte pene e tumulti; è necessario prima di tutto che
questo denso fumo si dissipi. A poco a poco l'anima si fortifica, l'amore cresce e diventa più
ardente; la sua fiamma è più brillante, i tumulti spariscono, lo spirito comincia ad entrare nella
contemplazione della verità. Infine, sotto l'influenza di questa contemplazione che continua,
l'anima umana diventa tutta piena d'amore; la fiamma della carità l'ha penetrata
completamente; allora senza rumore, senza lotta, in una pace profonda, essa finisce di
consumarsi nell'amore. Così dunque, innanzitutto, in mezzo ai pericoli che provengono dalle
tentazioni, bisogna far ricorso ai ragionamenti; è la meditazione, in cui la fiamma è come
avvolta dal fumo. Più tardi si comincia ad entrare nella contemplazione della verità; è la
fiamma che si libera e diventa luminosa. Finalmente la verità viene trovata, l'amore ha
raggiunto la perfezione, l'anima staccata da se stessa cerca soltanto Dio; Egli è per essa
tutto in ogni cosa; essa riposa nel suo amore e vi trova pace e felicità.
Ugo di San Vittore (1096-1141), Sull'Ecclesiaste, Omelia I
L'AUTORE: Fiammingo (?), canonico regolare nell'abbazia di San Vittore, a Parigi, sotto la
regola di s. Agostino. Maestro dell'importante scuola abbaziale, all'origine di una brillante
linea intellettuale e spirituale (tra cui Riccardo di San Vittore), associava un umanesimo avido
di tutta la letteratura pagana e cristiana anteriore ad una grandissima penetrazione
contemplativa.
TESTO: L'esperienza di Dio si sviluppa sui tre livelli dell'anima: a contatto col mondo, essa
forma delle immagini a partire dalle informazioni ricevute dai cinque sensi (= la corteccia del
ceppo); a partire da queste immagini, lo spirito (che sa, comprende e vuole) elabora delle
idee in nome delle quali essa agisce (= l'alburno del ceppo, la parte interna); e in cima
all'anima (là dove noi diciamo "io"), essa è immediatamente presente a Dio e a se stessa (= il
cuore del ceppo).
"Il centro di gravità dell'anima è Dio", dirà s. Giovanni della Croce. Il peccato originale ha
spostato questo centro verso il mondo: il nostro "io" è impigliato nel sensibile e
nell'intellettuale, in mancanza di essere accordato al "tu" divino che ci crea e ci chiama.
Quando ritorniamo a Dio, lo Spirito Santo comincia di solito col liberarci dal sensibile ("il
cuore ancora sensuale, le passioni indomite"): è la fiamma che fa fumare il ceppo; la
sensazione dominante è allora di cercare Dio a tentoni, cosa che costringe a pensare a lui, a
meditare. In maniera classica si parla a questo punto di principianti, o di via purgativa. Poi, lo
Spirito Santo ci stacca dalle nostre idee e dalle nostre volontà: ci si immerge nella fede e
nella carità, in proporzione alla nostra impotenza cosciente e accettata di sentire e pensare
questo Dio che si cerca ("lo spirito comincia ad entrare nella contemplazione della verità"): è
il ceppo che comincia ad infiammarsi. Si parla a questo punto di progredienti, o di via
illuminativa. Infine, stabiliti nella pura fede dal distacco totale di noi stessi, lo Spirito Santo
può invaderci e trasformarci in Dio ("l'anima umana diventa tutta piena d'amore"): noi siamo
restituiti a noi stessi quando il nostro "io", come quello di Gesù, è ristabilito nella Santa
Trinità, volendo ciò che Dio vuole, sapendo ciò che Dio sa, sentendo ciò che Dio sente. Si
parla allora di perfetti, o di via unitiva.
Questa immagine del ceppo infiammato farà fortuna, in particolar modo in s. Giovanni della
Croce che la riprende letteralmente per farne la struttura di tutto il poema e del trattato
Fiamma Viva, dalla "fiamma all'inizio così crudele" alla "fiamma che raggiunge così
teneramente il centro più profondo della mia anima".
L'ORAZIONE dalla A alla Z
A come... AZIONE
"Io credo in Dio, creatore del cielo e della terra...": per essere esatti, solo Dio agisce, "primo
motore immobile, atto puro", diceva già Aristotele, tanto che:
In lui, l'azione più alta si allea al più puro godimento, ... senza che l'una ostacoli l'altro,
essendo portati ciascuno al più alto grado di intensità e non intralciandosi l'un l'altro.
Taulero (1300 ?-1361), Sermone 40
Questo equilibrio diventa quello dei santi in virtù della loro unione a Dio che ormai agisce e
gioisce in essi:
è proprio dell'uomo perfetto, ben interiorizzato e trasfigurato, che l'azione e il godimento
vadano di pari passo e che l'una non impedisca l'altro, come è in Dio.
Idem
In compenso, finché crediamo di agire da noi stessi, la nostra azione è illusoria; e
quand'anche virtuosa, è solo agitazione:
Dio non ha messo la perfezione nella molteplicità degli atti che faremo per piacergli, ma
soltanto nel metodo che terremo in essi, che altro non è che fare il poco che faremo secondo
la nostra vocazione, nell'amore, con l'amore e per l'amore.
San Francesco di Sales (1567-1622) Sermone 55
Si capisce dunque che la vera efficacia della nostra azione dipende dall'intensità della nostra
unione con Dio:
Unita a Dio la creatura è tratta fuori dalla capacità che le è propria per ricevere una capacità
immensa. ... Non vive più per sé stessa, ma Dio vive, agisce e opera in lei, e ciò a poco a
poco va aumentando di modo che essa diventa perfetta della perfezione di Dio, ricca della sua
ricchezza, ama del suo amore.
Dio in questo stato è l'anima della nostra anima, ed in una maniera tale che egli ne diventa
come il principio naturale, senza che l'anima lo senta e lo scorga: l'anima sente bene di
vivere, agire, camminare e compiere tutte le funzioni della vita, ma senza sentire la sua
anima. ... A questo punto, l'anima ha tutto senza avere niente; ha la facilità per tutto ciò che è
suo dovere, per agire, fare, dire, non più alla sua maniera ma alla maniera di Dio.
Madame Guyont, I Torrenti (1683)
A partire da questo punto, non dovendo più lottare contro noi stessi, conosceremo la pace nel
cuore dell'azione:
Gli effetti di questo stato sono la pace del cuore nello svolgersi delle cose, e il volere soltanto
ciò che Dio vuole in tutti gli effetti della sua divina Provvidenza.
Maria dell'Incarnazione (1599-1672), Lettera 263
E noi non dovremo più scegliere tra azione e contemplazione poiché:
L'azione emanata da questa sorgente è una specie di orazione, perché essa viene da Dio e si
conclude in Dio.
Idem, Lettera 177
Trovarsi nelle difficoltà delle faccende o nel riposo della solitudine importa molto poco
all'anima giunta a questo stato. Per essa tutto è uguale, poiché tutto ciò che la tocca, tutto ciò
che la circonda, tutto ciò che le colpisce i sensi, non impedisce affatto il godimento
dell'amore attuale.
Idem, La Testimonianza
Vedendo ogni cosa con lo sguardo di Dio, coloro che sono uniti a lui fanno in ogni momento
ciò che devono fare con perfetta facilità:
Essi restano sempre nell'istante presente, senza preoccuparsi o turbarsi in maniera
disordinata del passato o dell'avvenire. Vedono Dio in tutto, nelle piccole cose come nelle
grandi.
Taulero, Istituzioni, cap. 37
Sicché essi non sentono più nessuna concorrenza tra amore di Dio e amore dei loro fratelli:
L'uomo che da questa elevazione, è inviato da Dio nel mondo, è pieno di verità e ricco di ogni
virtù; ed egli non ricerca il proprio bene ma l'onore di colui che lo ha inviato. ... Ed è per
questo che egli non può fare altrimenti che andare sempre verso tutti coloro che hanno
bisogno di lui, poiché la sorgente viva dello Spirito Santo è la sua ricchezza e non può
inaridirla. Ed egli è uno strumento di Dio vivo e docile, con il quale Dio opera ciò che vuole e
come vuole.
Ruusbroec l'Ammirable (1293-1381), La Pietra Brillante
Come passare dall'agitazione all'azione?
Per questo non correre molto al di fuori, lascia il tuo tumulto, la tua agitazione, il tuo modo di
agire impulsivo e confusionario ..., resta in te stesso e dai la tua attenzione al Signore, nel
fondo in cui troneggia con potenza e da maestro, affinché questo trono non sia infranto e la
pace non sia diminuita. Poiché il fondo interiore dell'anima completamente rivolto verso Dio è
un trono così solido per lui che niente può farlo vacillare, né gioia, né sofferenza, ma esso
dimora nella sua pace essenziale che è il luogo di Dio.
Taulero, Sermone 67
LETTURA E SCRITTURA
Ogni buon libro è un compagno di viaggio. Per chi è già in cammino, esso costituisce un
confronto continuo, un punto di riferimento; ma anche chi è fermo viene invitato a percorrere
almeno quel tratto di strada che l'autore ha percorso, quando ha deciso di prendere la penna
per raccontare e raccontarsi. Se è un libro religioso, autore e lettore si espongono a grossi
rischi, perché il campo investito non ammette leggerezze di sorta. Una qualunque
superficialità in viaggi simili genera incidenti mortali o quanto meno rovinosi. Il cammino
religioso, infatti, è così pieno di insidie, scivoloso, arduo, che necessita di guide oltremodo
attente e vigilanti, che abbiano assunto il rischio di inoltrarsi criticamente e fiduciosamente in
esso. Non sostituendo, certo, la guida concreta, il libro gode dei vantaggi della
comunicazione scritta, che trasmette attraverso il tempo qualcosa di fissato. Nella nostra
religione, come in altre, conosciamo un lungo processo che ha condotto alla tradizione
scritta e allo sforzo nel coltivare il vitale rapporto con il più sacro dei libri: la Bibbia. I metodi
messi a punto lungo i secoli per mantenere vivo questo rapporto non sono altro che una serie
di procedure ben regolate, miranti a facilitare la marcia dei lettori. La Bibbia è un insieme di
libri, cioè racconti di tanti cammini che interpellano intimamente chi vi si accosta. Altri grandi
maestri, oltre quelli biblici, hanno saputo fissare l'orma che l'Onnipotente ha lasciato in loro,
quando li ha richiesti di essere strumento vivo della trasmissione del Vangelo da una
generazione all'altra. Ma la Bibbia rimane per noi credenti un riferimento assoluto e
normativo, perché vi riconosciamo una particolare assistenza dello Spirito Santo nello sforzo
compiuto dallo scrittore, consapevolmente coinvolto in una storia con Dio. Non sacralizziamo,
ovviamente, i libri dei maestri spirituali, e nemmeno la stessa Bibbia, perché li riteniamo
semplici strumenti del grande Scrittore. Questi scrisse un tempo nella vita di alcune persone,
come continua oggi a scrivere nella nostra. Perciò noi troviamo corrispondenze,
orientamenti, conforto, luci per il nostro cammino, dalla lettura di quei "giornali" di un'anima o
di un popolo intero. Chi non ha sperimentato che la lettura di un testo, di una espressione, di
una sola parola, lo hanno talvolta liberato, gli hanno tirato fuori un sentimento o un desiderio
che portava dentro da tempo ed a cui non sapeva ancora dare un nome? Quella frase adesso
è stata così chiara, che ha acceso in noi la voglia di fare o di desiderare o di pregare allo
stesso modo. In realtà è un processo squisitamente spirituale, cioè assistito dalla partenza
all'arrivo totalmente dallo Spirito. Questi attraverso quei libri ci educa, orienta e sprona, tanto
da poter dire che senza di lui ogni lettura non reca frutto per la crescita dell'uomo interiore.
"Tutta la Scrittura infatti è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e
formare alla giustizia, perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera
buona" (2Tm 3,16). Sarà per questo che alcuni affermano che il contatto con i grandi testi
cambia la persona.
ABC
N. 2 - Febbraio 2000
123
LA TRASFORMAZIONE DELL’ANIMA IN DIO
Rinascere dallo Spirito Santo in questa vita vuol dire avere un'anima molto simile a Dio in
purezza e non avere in sé alcuna mescolanza d'imperfezione. Facciamo un confronto. Il
raggio di sole batte su un vetro. Se il vetro è segnato da macchie o da vapore, non potrà
restituirlo chiaro né totalmente trasformarlo in luce propria come se fosse terso da ogni
macchia e omogeneo. Al contrario, lo restituirà tanto meno chiaro quanto meno saranno stati
tolti questi segni e queste macchie e tanto più chiaro quanto più sarà nitido; e ciò non
dipenderà dal raggio, ma dal vetro stesso. Al punto che se si trovasse interamente limpido e
puro, il raggio lo trasformerebbe e lo renderebbe chiaro e puro tanto da sembrare il raggio
stesso e da restituire la stessa luce del raggio. Così l'anima è come questo vetro su cui batte
costantemente questa luce divina dell'essere di Dio, o per meglio dire, in cui egli dimora...
L'anima ripulendosi - cioè togliendo da sé ogni segno e ogni macchia di creatura, il che
consiste nel tenere la propria volontà perfettamente unita a quella di Dio, perché amare è
lavorare per spogliarsi e denudarsi per Dio di tutto ciò che non è Dio - si trova
immediatamente illuminata e trasformata in Dio. Dio le comunica il suo essere
soprannaturale in modo tale che ella sembra Dio stesso e possiede ciò che Dio stesso
possiede. Nel momento in cui Dio fa all'anima questo favore soprannaturale, avviene una tale
unione che tutte le cose di Dio e dell'anima diventano una sola in trasformazione di
partecipazione1. E l'anima sembra più essere Dio che anima; anzi, è Dio per partecipazione,
anche se è vero che, nonostante sia stata trasformata, il suo essere rimane, secondo la sua
natura, tanto distinto da quello di Dio quanto lo era prima2, cosi come l'essere del vetro
rimane distinto da quello del raggio quando ne è illuminato.
San Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, II,5
L'AUTORE: (1542-1591) Poeta di un lirismo ineguagliabile, dottore dalla teologia molto
sicura, riformatore, con Teresa d'Avila, della vita carmelitana spagnola. La sua pedagogia
spirituale nonché la profondità della sua analisi del processo contemplativo, fondate su
un'esperienza personale tra le più ricche, ne fanno il maestro dei direttori spirituali nella
tradizione occidentale moderna.
TESTO: Commentando Gv 3,5 "Chi non rinasce dallo Spirito Santo, non vedrà il Regno dei
Cieli", Giovanni della Croce ci sta presentando tutto l'itinerario dell'anima come nascita
dell'uomo nuovo, generato in noi dallo Spirito Santo. Attenzione! Le parole purezza e
perfezione non sono primariamente utilizzate qui su un registro morale (= ciò che dobbiamo
fare), bensì spirituale (= ciò che Dio opera in noi): indicano il perfetto accordo, per amore e
non per dovere, tra la volontà dell'uomo e la volontà di Dio. è questo accordo che consente la
nostra nascita alla vita divina.
Nel momento in cui questo accordo è completo, l'anima diventata trasparente alla luce divina,
ne gode perfettamente trasmettendola nel medesimo istante perfettamente ("resa chiara al
punto da sembrare il raggio stesso e da restituire la stessa luce del raggio"). Cosicché non è
più visibile, né da sé stessa (s'interessa solo a Dio), né dagli altri (che vedono solo Dio che
si rivela in lei), né dal demonio (che ha presa solo sulla nostra immaginazione, qui inattiva).
Ciò vuol dire che quanto più un'anima è unita a Dio, tanto più è felice e sicura, nonché
missionaria. è questa trasparenza rivelatrice del contemplativo che ha fatto proclamare
Teresa di Lisieux patrona delle missioni.
Pertanto, il ruolo dell'anima è soltanto volere ciò che Dio vuole ("tenere la propria volontà
perfettamente unita a quella di Dio"); in altre parole: accettare ciò che Dio fa.
Quest'atteggiamento è di passività totale, ma contemporaneamente di totale responsabilità,
perché l’accettazione dipende interamente da noi.
1.Unione di trasformazione oppure unione trasformante oppure unione di partecipazione:
fondata su 2Pt 1,4 ("partecipi della natura divina"), indica la totale assimilazione del Cristo e
del suo discepolo che rende possibile la loro piena comunione di vita ("io in voi e voi in me" in
Gv 15,4). Tutto ciò che Dio è, appartiene allora pienamente all'anima, diventata figlia di Dio
quanto Gesù stesso.
2.Evitando qualunque panteismo, Giovanni della Croce precisa bene il livello di questa
trasformazione dell'anima in Dio: per amore, tutto è comune a Dio e all'uomo, ed è ciò che
vuol dire partecipare alla natura divina (vedi 1Gv 4,8: "Dio è amore"; questa è la sua natura);
ma questa comunione di natura è sostenibile solo nella distinzione delle persone, perché
l'amore non è fusione ma relazione. Questo è vero per la Trinità (un Dio solo, tre persone),
come é vero per ogni relazione d'amore, perché ogni amore è nella Trinità.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
A come ….AMORE
Dio è amore" (1Gv 4,8). L'amore definisce Dio; l'amore è la sua natura. Ecco perché, creati a
sua immagine, noi non possiamo non amare; tutto il problema è però quello della verità dei
nostri amori:
Non vi è nessuno che non ama, ma che cosa ama? Non ci viene chiesto di non amare, ma di
scegliere ciò che noi ameremo. Cosa sceglieremo se prima non veniamo scelti? Perché non
avremmo neppure amato se prima non fossimo stati amati. Ascoltate l'apostolo Giovanni: "Noi
amiamo perché prima Egli ci ha amato". Se cerchi da dove viene che l'uomo ama Dio, non
troverai niente, se non che prima Dio l'ha amato. Colui che amiamo si è dato Lui stesso e ha
dato ciò attraverso cui noi l'avremmo amato. E quello che ha dato per permetterci di amarlo lo
sentite chiaramente esplicitato dall'apostolo Paolo: "La carità, dice, è stata diffusa nei nostri
cuori". Da dove viene? Da noi stessi? No. Ma allora da dove? "Dallo Spirito Santo che ci è
stato dato".
S. Agostino, (354-430), Sermone 34
Amare è anche conoscere, con una conoscenza che non è sapere ma esperienza:
Amando conoscerete Dio sempre più perfettamente, con una conoscenza affettuosa e
sperimentale, in cui l'amore e la luce si fondono così bene insieme che si direbbe che
l'intelligenza vuole amare Dio e che la volontà vuole conoscerlo... Ogni amore è luce ed ogni
luce è amore.
François Malaval, Pratica Facile per elevare l'anima alla contemplazione
(1671), Colloqui II
Quest'amore/conoscenza fornisce all'anima tutta la sua energia ("amor meus, pondus meum!",
diceva S. Agostino), e si diffonde in essa partendo dall'apice, cioè dal punto di contatto tra noi
e Dio, tra il naturale ed il soprannaturale:
L'amore è la vita del nostro cuore; e come il contrappeso dà il movimento a tutte le parti mobili
di un orologio, così l'amore dà all'anima tutti i movimenti che essa ha... Parlo dell'amore
soprannaturale che Dio effonde nei nostri cuori attraverso la sua bontà e la cui dimora si trova
nella punta suprema dello spirito; punta che si trova al di sopra di tutto il resto della nostra
anima e che è indipendente da qualunque temperamento naturale.
S. Francesco di Sales (1567-1622), Trattato sull'Amore di Dio, XI, 20
Quest'apice, attraverso cui l'anima riceve d'amare, è anche il suo centro, verso cui va, poiché
tutto quanto vogliamo, facciamo o pensiamo è mosso dall'attrazione divina, così come la pietra
cade sotto l'effetto del peso:
Il centro di gravità dell'anima è Dio; quando vi sarà arrivata secondo tutta la capacità del suo
essere e secondo la forza del suo operare, ella sarà arrivata al suo centro ultimo e profondo;
ciò sarà quando con tutte le sue forze amerà e coglierà Dio, e ne godrà.
S. Giovanni della Croce, Viva Fiamma, I, 12
Allora solamente sarà a riposo, avendo trovato il suo equilibrio:
L'amore basta a se stesso, piace per se stesso ed è il suo proprio merito e la sua propria
ricompensa. L'amore non vuole altra causa, altro frutto se non se stesso. Il suo vero frutto è
quello di essere. Amo perché amo. Amo per amare.
S. Bernardo, Sermone sul Cantico 83
Questo equilibrio dell'amore perfetto è "unione trasformante", incarnazione di Dio e
divinizzazione dell'uomo:
Come gli amanti nei loro baci, mediante un mutuo e soave abbraccio, trasfondono l'uno
nell'altro il loro spirito, così lo spirito creato si effonde interamente nello Spirito che lo crea
per ciò stesso; lo Spirito Creatore s'infonde in lui nella misura in cui vuole, e l'uomo diventa
con Dio un solo spirito. [Allusione a S. Paolo in 1Cor 6,17]
Guillaume de Saint-Thierry (1085-1148), Commentario sul Cantico dei Cantici,
str.8
In quest'unione, amore di Dio e amore del prossimo sono una cosa sola:
Non si ama il prossimo con un amore diverso da quello con cui si ama Dio.
S. Agostino, Sermone 265
Perché allo stesso modo in cui non si può fermare lo scorrere di un fiume,
[colui che è unito a Dio] non può fare altro che andare sempre verso tutti coloro che hanno
bisogno di lui, perché la fonte viva dello Spirito Santo è la sua ricchezza e non la si può
esaurire.
Ruusbroec L'Ammirevole (1293-1381), La Pietra Brillante
Ma prima di arrivare a questo punto, fin da Adamo ed Eva, noi chiamiamo spesso amore ciò
che è solo attaccamento indebito ad idoli, e questo porta la nostra anima a deviare dalla sua
traiettoria verso Dio; cosicché tutto l'itinerario spirituale non sarà altro che lasciare che Dio
riconduca, con decantazioni successive, "tutti i nostri amori alla ragione":
Quando l'anima entrerà nella notte oscura [= la purificazione spirituale], Dio renderà tutti i
suoi amori conformi alla ragione: colui che è secondo Dio, Egli lo rafforzerà e lo purificherà,
e colui che è secondo la sensualità, lo toglierà e lo farà morire.
S. Giovanni della Croce, Notte Oscura I,4
NEL CUORE DI DIO
"Essere nel cuore di Dio". Può sembrare una frase fatta. In realtà, questo pensiero prende
forma e consistenza quando ci si sente in armonia con se stessi e con quanto ci circonda.
Nasce una nuova consapevolezza. Si è coscienti cioè del fatto che le più intime fibre del
proprio essere hanno radici in Qualcuno che è in noi e, allo stesso tempo, nel creato e negli
esseri che ci circondano. Come lo spirito dell'uomo contiene ricordi o immagini legate a
persone care, in uno scambio relazionale che non s'interrompe neanche con la morte, alla
stessa maniera, si sente di essere contenuti nello Spirito di Dio e di contenere il suo Spirito.
Può capitare, talvolta, di aver la sensazione di trovarsi in mezzo ad acque tumultuose (per
fattori interiori o esteriori) ma se si impara a fermarsi, a cercare il silenzio, a volgere lo
sguardo dentro, chiedendo aiuto alla Parola di Dio, frequentandola costantemente e
nutrendosi di lei, saremo vivificati e il cuore troverà ristoro. è questa, una scelta faticosa e
impegnativa, in quanto assuefatti a lasciarci trasportare dal "frastuono" dei mille impegni
quotidiani; ma chi sceglie questa via, sarà ripagato dall'armonia ritrovata.
È Gesù che ci ri-accoglie, che ci aspetta fedele. è Lui che ci prende per mano fra le onde
tumultuose: - Se attraverserai le acque , io sarò con te e le onde non ti sommergeranno (Is
43,2). è in Lui che si trova la forza per andare avanti; è con Lui che si possono superare le
contraddizioni, le angustie, l'incomprensibile mistero del male che spesso afferra e sembra
travolgere l'esistenza umana. E come Lui "servo sofferente" sentir crescere attraverso
l'offerta di sé l'amore per gli altri come servizio, come carità: non giudicando ma
accogliendo.
In silenzio aderire a Cristo. In silenzio vivere la propria vita, offrendola così com'è: nei giorni
di pioggia e nei giorni di sole. Offrirsi in sacrificio come Lui, per amor suo. Egli è venuto nel
nascondimento; nel silenzio e col silenzio "ha curato i nostri cuori stanchi". Il suo silenzio è
colmo d'amore per l'umanità.
ABC
N. 3 - Marzo 2000
123
CHE COS'È LA CONTEMPLAZIONE?
La contemplazione non è una considerazione delle opere della natura, nè una riflessione sui
passi delle Sacre Scritture o dei Padri, o delle vite dei Santi, o dei libri spirituali, né la
meditazione sulla vita e la morte del Salvatore del mondo, né un'alta speculazione sugli
attributi di Dio. Non è nemmeno una varietà di ragioni nell'intelletto, né una moltitudine di
affetti nella volontà, né un ricordo delle pie cose nella memoria, né una finzione di immagini e
di figure nella fantasia (=immaginazione). Non è, infine, né tenerezze, né dolcezze, né
sensibilità ma un semplice e amorevole vedere Dio presente, fondato sulla fede che Dio è
dappertutto e che Egli è tutto...
La contemplazione è un'orazione che ha il privilegio di essere incessante e di potersi fare
ovunque... Anche in mezzo alle faccende e alle occupazioni si può contemplare, più o meno
attentamente, secondo lo spirito, il carattere e la professione di ciascuno. Poiché, siccome la
contemplazione non è altro che il semplice e amorevole vedere Dio presente con l'aiuto della
fede, lo spirito non è occupato da pensieri né da ragionamenti e non perde la libertà di
applicarsi a ciò che gli è necessario conoscere e considerare per le necessità della vita...
Non è vero che la quantità di oggetti che si offrono ai nostri occhi in ogni momento, non ci
impedisce mai di vedere la luce? E ciò per due ragioni: una è che senza l'aiuto della luce non
sapremmo vedere questi stessi oggetti; l'altra è che la luce non ha parti distinte o figurate
che possono fermare i nostri occhi e distoglierli dalle altre cose. Lo stesso dicasi per il
vedere Dio: ci aiuta, come una luce suprema, a guardare ogni cosa con purezza e innocenza,
e secondo il beneplacito della sua divina Maestà. E siccome d'altronde, il vedere Dio non
consiste nè in figure nè in immagini distinte, non ci impedisce di considerare, secondo la
nostra necessità, i diversi oggetti che si presentano nel commercio della vita.
Francois Malaval , Pratique facile... (1670) Ed. Millon, p. 91s
L'AUTORE: (1627-1719). Cieco poco dopo la nascita da una famiglia di negozianti
marsigliesi, Francois Malaval è un degno rappresentante della grande vitalità culturale e
spirituale della Provenza del sec. XVII. Dotato in tutto, nel cuore dei dibattiti scientifici e
religiosi del suo tempo, accusato a torto di quietismo, fu soprattutto un immenso
contemplativo e un pedagogo tanto profondo quanto semplice della vita interiore.
TESTO: La contemplazione propriamente detta, è un semplice e amorevole vedere Dio.
Pensiamo alla semplice presenza di una mamma occupata a cucire vicino alla culla del suo
bambino: in fondo al cuore, sa che il suo bambino è lì e ciò basta a renderla felice, senza per
questo distrarla dalla sua mansione. Ogni tanto si ferma per guardarlo, poi riprende il suo
lavoro. Allo stesso modo, la contemplazione è uno stato permanente di presenza a Dio "in
sordina", che non impedisce di fare ciò che si deve fare, anche se questo stato ha bisogno di
essere riattivato con dei momenti durante i quali ci si occupa esplicitamente di Lui, e che
corrispondono al tempo consacrato alla preghiera propriamente detta.
Questo "semplice vedere" si impone da se stesso all'anima quando è il momento, tanto che si
è allora incapaci di riflettere su Dio, di meditare sulle "opere delle natura"(meditazione utile
finché l'anima ne ha bisogno per raccogliersi), o più direttamente su Cristo stesso ("le Sacre
Scritture, i Padri", ecc.), o, più astrattamente, sull'idea di Dio ("un'alta speculazione..."), o
ancora prendendo delle buone risoluzioni ("una moltitudine di affetti nella volontà", ecc.).
Quando tutto ciò è diventato praticamente impossibile e si è perduto ogni fervore sensibile
("nè tenerezze, nè dolcezze...") e il nostro desiderio di amare Dio non è meno presente, è
che siamo fissati nella contemplazione, e a partire da lì, la crescita spirituale si farà da se
stessa, all'insaputa dell'anima che si accorge semplicemente di non poterci fare più niente.
Questa crescita sarà vissuta come un'invasione dell'evidenza di Dio in tutta la nostra vita ("ci
aiuta a guardare ogni cosa con purezza e innocenza"). Ciò che il contemplativo deve fare ("il
commercio della vita"), è diventato ciò che Dio gli domanda di fare e, in fondo, sa di farlo
soltanto perché Dio glielo domanda, di farlo soltanto per amore ("secondo il beneplacito della
sua divina Maestà"). In breve, la contemplazione non consiste nel vedere Dio, ma nel vedere
con gli occhi di Dio, perché si è uniti a Lui.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
A come... Angoscia
L'angoscia è entrata nel mondo con il peccato:
Ho sentito i tuoi passi nel giardino, ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nascosto.
Genesi 3,10
E quando il Salvatore viene ad abolire il peccato, viene ad abolire l'angoscia:
Rassicuratevi! Sono Io! Non abbiate paura!
Matteo 14,27
Ma aspettandolo, il peccato continua a roderci dall'interno:
Un piacere introdotto con inganno fu l'inizio della decadenza. Dopo questo sentimento di
piacere, seguirono da vicino la vergogna, la paura e il fatto di non osare più comparire da
quel momento agli occhi del Creatore ma di nascondersi sotto le fronde, nell'ombra.
Gregorio di Nissa (335-394), La Verginità, XX,2
Rifiuto di vedere e di essere visto, l'angoscia alloggia nei ripiegamenti della nostra anima su
se stessa, nei nostri "appetiti" traviati:
È negli appetiti che cresce il fuoco dell'angoscia e del tormento.
S. Giovanni della Croce (1542-1591), Salita al Monte Carmelo I,7,1
Tanto che la liberazione dall'angoscia verrà dal riordinamento della nostra anima:
Non si esce dalle pene e dalle angosce dei ripiegamenti dei nostri appetiti finché questi
saranno messi a riposo e addormentati.
S. Giovanni della Croce, Salita al Monte Carmelo I,4
E tuttavia questo riordinamento ci... angoscia! In fondo, c'è un'altra angoscia oltre quella?
La mia anima temeva come la morte di sentirsi tirata per le briglie e deviata dalla corrente
dell'abitudine in cui essa beveva la corruzione e la morte... Questa volontà divisa che vuole
soltanto a metà, è una malattia dell’anima.
Sant'Agostino (354-430), Confessioni, VIII
Ma poiché l'angoscia indica che Dio si avvicina, non diamoci alla fuga come Adamo ed Eva:
Andiamo! Coraggio. Il Signore è sicuramente molto vicino. Appoggiati al tronco di una vera e
vivida fede; presto tutto andrà benissimo.
Taulero (1300-1361), Sermone 40
In effetti Dio non si avvicina per punirci ma per guarirci:
...Cercando aiuto [altrove], l'uomo si comporta come se voltasse le spalle o la nuca a Dio e gli
dicesse: "Non voglio saperne di Te, voglio rivolgermi altrove". E per Nostro Signore è come
venire crocifisso di nuovo, perché non può compiere la Sua opera in te.
Taulero, Sermone 31
Così non serve a niente cercare di evitare l'angoscia: accettiamola ed essa svanirà; e
accettando la realtà, permetteremo a Dio di generarci alla sua vita:
Devi sapere che la vera nascita si compirà in te soltanto se è preceduta da questa angoscia.
Tutto ciò che te ne dispensa, ti rapisce questa nascita che si sarebbe compiuta in te se
avessi sopportato questa angoscia fino in fondo.
Taulero, Sermone 3
E allora ciò che ci faceva tanta paura diventa improvvisamente fonte della più grande felicità
possibile:
...Le pene, le umiliazioni e tutti gli altri mali spirituali che un tempo tendevano, con tutto il loro
peso, ad allontanare l'anima da Dio, a ripiegarla su se stessa e a tenerla in una sorta di
incapacità e di inettitudine ad applicarsi a Dio, adesso fanno un effetto contrario. Più queste
pene e queste tribolazioni sono violente, più l'anima è intimamente unita a Dio, e più si
applica vigorosamente alle opere divine che ha tra le mani; di modo che l'effetto diretto di
queste pene è di unire l'anima a Dio. Così quando una volta abbiamo la fortuna di essere a
questo punto, troviamo le nostre delizie nelle croci.
Padre Libermann, Lettera scritta nel 1839
In fondo, l'angoscia veniva per il fatto che voltavamo le spalle a Gesù crocifisso, al punto che
una volta ristabiliti nel suo amore, Colui che ama veramente la croce, per poco che se ne
stacca, non trova più che amarezze e angoscia.
Gerlac Peters (1378-1411), Soliloquio infiammato
Conclusione: attacchiamoci a Gesù crocifisso e la nostra angoscia sparirà poiché cesseremo
allora di fare attenzione a noi stessi:
La croce è di Dio ma è croce perché non ci uniamo ad essa; poiché, quando si è fortemente
decisi a volere la croce che Dio ci dà, non è più croce. Essa è croce solo perché non la
vogliamo; e se è di Dio, perché dunque noi non la vogliamo?
San Francesco di Sales, Lettera scritta verso il 1613
I SANTI
C'è chi si stupisce nel sentire che coloro che fanno fare autentici salti in avanti alla storia
sono i santi. Comunemente si pensa, piuttosto, che siano le riforme istituzionali, politiche,
economiche, sociali e così via, a determinare il cambiamento delle società. Solo di tanto in
tanto qualcuno dice che tali riforme, portate avanti dalle forze vive di una società, sono il
compimento finale di un processo previo di rinnovamento morale e spirituale, che prende avvio
da impulsi lontani e spesso poco appariscenti. In realtà muta il punto dal quale si osserva la
realtà: i cristiani, che hanno aderito all'appello di con-versione del Cristo, non si pongono più
in un'ottica di pura esteriorità, o di semplice constatazione di fatti. Essi sono stati invitati a
rientrare in se stessi per ritrovare qui la presenza dello Spirito di Cristo, che scruta le
profondità di Dio medesimo: gli uomini non sono numeri o viventi dispersi nel nulla, ma figli
diletti di Dio, per i quali Egli non ha risparmiato il Figlio e ai quali continuamente provvede
per un fine di gloria.
Da questo punto d'osservazione si comprende che la crescita, il progresso, la civiltà
risultano solo da atti di valore e di qualità. Valore e qualità sono dati dalla coerenza degli atti,
ma più ancora dal fatto che essi sono espressione della libertà della persona. Il santo, l'eroe
cristiano si è trovato innanzi ad un orizzonte assoluto, totalizzante, quello di Gesù crocifisso
e risorto: ben più che un valore, anche grande, come la giustizia o la vita. Gesù crocifisso è
libertà suprema, perché sacrificio del tutto gratuito, è verità purissima, perché parola
incrollabile, è splendore di bellezza, perché forza di una passione sconvolgente nella
naturalezza del gesto. Il santo è rapito da Questi e non può far a meno, come in ogni grande
relazione, di impegnare radicalmente la sua libertà per Lui. Egli vive e agisce a partire da un
ottica completamente altra da quella terrena, eppure non è sradicato dalla terra, bensì sposa
questa al cielo. Il cielo sembra inchiodare il santo sulla terra, che finisce così per
identificarsi con Gesù crocifisso. Ecco donde viene la qualità della sua vita, dei suoi gesti!
Quand'anche sono del tutto ordinari, irradiano libertà, verità, bellezza, a cui nulla resiste, anzi
verso cui tutti, attratti, accorrono. Non registrabili affatto sul piano della utilità (nè economica,
nè politica, ma nemmeno pastorale), si impongono per il valore che portano in sè; a motivo
della loro inutilizzabilità non possono venire consumati in breve, ma, pezzi unici ed esemplari,
creano una scia che altri percorrono. Sottratti dalla stessa Provvidenza all'usura del
consumo, restano integri pur copiati e ricopiati, utilizzati, mille volte, quasi un fuoco che
brucia e non si consuma.
ABC
N. 4 - Aprile 2000
123
È FATICOSO ESSERE PERFETTI?
Voi domandate se non si possano desiderare degli incarichi vili, perché faticosi, come se ci
sia lì più da fare per Dio e più merito che nel dimorare nella propria cella. Io non amo proprio
che si voglia sempre guardare al merito, perché le Figlie di Santa Maria devono fare le loro
azioni solo per la grande gloria di Dio. Se noi possiamo servire Dio senza meritare, cosa
impossibile, dovremmo desiderare farlo. Non è per la grandezza delle nostre azioni che noi
piacciamo a Dio, ma per l'amore con cui le facciamo; giacché una Suora che starà nella sua
cella, facendo un piccolo lavoro, meriterà più di un'altra che faticherà molto, se questa lo fa
con meno amore. È l'amore che dà la perfezione e il prezzo alle nostre opere.
Vi dico di più : ecco una persona che soffre il martirio per Dio con un'oncia di amore, ella
merita molto, perché non potrebbe dare più della sua vita; ma un'altra persona che sopporterà
un buffetto con due once d'amore, avrà molto più merito perché è la carità e l'amore che
danno il prezzo a tutto. Voi sapete che la contemplazione è meglio dell'azione e della vita
attiva, ma se nella vita attiva si trova più unione, essa è migliore. Se una Suora in cucina,
mentre tiene la padella sul fuoco, ha più amore e carità dell'altra, il fuoco materiale non le
sarà di ostacolo, anzi l'aiuterà ad essere più gradita a Dio. Succede molto spesso che si è
più uniti a Dio nell'azione che nella solitudine; ma, infine, ribadisco: dove c'è più amore, c'è
più perfezione.
San Francesco di Sales (1567-1622), Veri Colloqui spirituali, Appendice F
L'AUTORE: Vescovo d'Annecy, modello della controriforma cattolica, alla quale conquisterà
la Savoia protestante, fondatore della Visitazione, Francesco di Sales fu anzitutto uno
spirituale tanto profondo nel suo insegnamento al "grande pubblico" (Introduzione alla Vita
devota e corrispondenza) quanto nel suo Trattato dell'Amor di Dio, analista magistrale della
vita interiore nel suo insieme.
TESTO: Durante una delle sue conversazioni familiari con le religiose della Visitazione (=le
Figlie di Santa Maria), si domanda al Sales se non sia meglio cercare le difficoltà e le cose
spiacevoli, per avere più meriti. Risposta: né il merito, nemmeno la santità sono lo scopo della
vita cristiana! Lo scopo è Dio stesso: creati a sua immagine, noi non saremo felici che uniti a
lui. E come unirci a Dio-Amore? Amando a nostra volta, perché amare, è accogliere il Suo
amore e vivere della Sua vita. Cosicché "è l'amore che dà il prezzo a tutto". Il merito è
dunque, trascurabile? No, ma è un effetto e non un compenso dell'amore: non un credito su
Dio a titolo delle nostre buone azioni, ma una partecipazione alla sua vita d'amore. L'amore
cresce a valanga : più si ama, più l'amore ci rende capaci d'amare. Ecco il merito! Al
contrario, amare per essere ricompensati ucciderebbe l'amore e con esso il merito: "Dio non
ricompenserà in te che le sue proprie azioni", diceva già Taulero. Così la relativa superiorità
della contemplazione sull'azione deve essere riferita all'assoluta superiorità dell'unione a
Dio, poiché è in essa che risiede, comunque, il bene. È vero che per quanto dipenda da noi,
la contemplazione è un cammino di unione più diretto, ma quando è Dio stesso che ci obbliga
ad agire, l'azione diventa il modo di restare uniti a lui. E quest'obbligo egli ce lo manifesta
attraverso il nostro dovere di stato, la missione che la Chiesa ci dà, gli obblighi legati alle
circostanze, ecc. Agire allora non è più impedimento alla contemplazione ma continuare a
contemplare: "la parte dell'uomo nell'azione, è la contemplazione" (Combes, Teresiana). Poco
importa dunque che ciò che Dio ci chiede sia più o meno attivo: "Dio non ha messo la
perfezione nella molteplicità degli atti che faremo per piacergli, ma solo nel metodo che
terremo in essi, che non è altro che fare il poco che faremo secondo la nostra vocazione
nell'amore, con l'amore e per l'amore" (Francesco di Sales, Sermone 55).
Conclusione: Non cerchiamo le prestazioni, ma la volontà di Dio. Dormire quando è il
momento è molto più meritorio di predicare o fare orazione quando non è il momento: "Eh,
poveri uomini che non volete che vi sia alcuno più santo di voi! Che non vi contentate della
vostra santità così come la potete avere, non facendo un mucchio di esercizi ma praticando
bene e il più perfettamente possibile quelli ai quali la vostra condizione e vocazione vi
obbliga" (Ibidem).
L'ORAZIONE dalla A alla Z
A come... Aridità
"La mia anima è come una terra secca, arida, senza acqua..."(Ps 63): chi non ha provato
questi momenti durante i quali Dio sembra nascondersi o si ha l'impressione di non amarlo
più e la preghiera è terribilmente noiosa
È possibile che queste pene vengano da malinconia? Non neghiamo che ciò avvenga,
talvolta, ad alcuni...
Jean-Joseph Surin (1600-1665), Guida Spirituale, VII, 7
Nel qual caso,
Le si guarisce per mezzo di rimedi [perché esse] si fondano nel temperamento naturale.
Idem
Ma se l'anima ne è desolata, è più probabile che
Siano delle anime su cui Dio ha qualche disegno, come talvolta ricondurle interamente a sé,
o dare loro qualche prova utile alla loro salvezza.
Idem
Come sapere?
Se in mezzo a queste pene l'anima conserva sempre la volontà di appartenere tutta a Dio in
qualunque stato egli la ponga e se, nello stato di pena, ella non fa più errori del solito: poiché
è sicura che questo stato è una prova di Dio e una sorta di mortificazione soprannaturale che
Dio invia e che toglie, come a Lui piace. In una parola, è lo stato più sicuro e più felice in cui
possa desiderare di essere.
Jean Rigoleuc (1595-1658), Lettera 30, ad una orsolina
Felice? Ma sì, in realtà, siamo noi che chiamiamo "prova" ciò che da parte di Dio non è che
amore più pressante:
Oh! Se volessimo in questa povertà di spirito appoggiarci solo su Dio e staccarci da noi
stessi con un po' più di speranza e meno scienza!... Se quando un'anima passa da una
grande conoscenza di Dio e una grande soddisfazione interiore a una ignoranza, a un'aridità
desolante, ella si rassegnasse di buon grado, farebbe in breve tempo grande progresso nella
virtù; e se si abbandonasse interamente a Dio, il suo avanzamento diverrebbe in qualche
maniera tutto divino.
Taulero (1300-1361), Istituzioni, XXXIV
Facile a dirsi! Ma, in fondo, ancora più facile a farsi:
Ma che fare, direte, quando non potete fare l'atto di abbandono? Abbandonare l'abbandono
stesso per un semplice fiat, che diviene allora il più perfetto degli abbandoni. L'oblio di Dio,
voi dite, vi sembra un inferno. Oh! Gran sentimento che rapisce il cuore di Dio e che
racchiude l'atto d'amore più perfetto! Ecco giustamente il disegno di Dio nelle privazioni,
nelle angosce, nelle impotenze interiori!
Padre de Caussade, Lettera 56 (1738)
Concretamente:
Soprattutto, qualunque aridità o tentazione voi abbiate, non lasciate mai l'orazione e non
abbreviate il tempo che vi è prescritto.
Maria dell'Incarnazione (1599-1672), Lettera 99
perché,
Fintanto ci si sente pieni di buona volontà, non ci si deve turbare né affliggersi con eccessi in
alcuna cosa né credere che ci si sia molto allontanati da Dio, perché la virtù e tutte le opere
buone dipendono dalla volontà.
Taulero, Istituzioni, capitolo XVIII
Certamente, coloro che sono immersi in questa insensibilità stentano a credere che sia così
semplice:
Questa povera anima sente bene che è risoluta piuttosto a morire che a offendere il suo Dio
ma ciò nonostante non sente un solo filo di fervore, anzi al contrario una freddezza estrema
che la tiene tutta intorpidita e così debole che cade ad ogni colpo in imperfezioni molto
sensibili.
San Francesco di Sales, Trattato dell'Amore di Dio, VI, 14
Ora, la sua desolazione stessa prova quanto ella ama quel Dio che non sente più!
Il suo amore è grandemente addolorato di vedere che Dio fa finta di non vedere quanto ella
l'ami... se ella non amasse, non sarebbe afflitta dall'apprensione di non amare!
Idem
Allora piuttosto che analizzare senza fine i nostri stati d'animo ("depressione? peccato?
prova spirituale?"), corriamo verso ciò che in ogni modo resta assolutamente certo e basta a
renderci felici: l'amore senza limite di Dio per i depressi, i peccatori e i provati quali noi
siamo
Mia carissima figlia voi fate sempre troppe considerazioni ed esami per conoscere da dove vi
giungono le aridità. Anche se arrivassero dai vostri sbagli, non bisognerebbe perciò
inquietarsi, ma con semplicissima e dolce umiltà rigettarli, e poi rimettervi tra le mani di
Nostro Signore affinché vi faccia portare la pena o vi perdoni secondo il suo volere. Non
bisogna essere molto curiosi di voler sapere da dove proviene la diversità di stati della vostra
vita; bisogna essere sottomessi a tutto ciò che Dio ordina e fermarsi lì.
Idem, a Madame de la Fléchère, 5 agosto 1611
Conclusione:
Tutta l'aridità che si vorrà, tutta le sterilità, purché noi amiamo Dio!
Idem, a santa Giovanna di Chantal, 21 Novembre1604
PREGARE
"Erano assidui e concordi nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli, nella comunione
fraterna, nella frazione del pane e nella preghiera" (At 2,42).
Più che descrivere la fisionomia della prima comunità cristiana, Luca intende richiamare i
credenti all'intimità con Dio attraverso la liturgia eucaristica, fonte di ogni comunione con Dio
e tra gli uomini, e la preghiera. L'esortazione lucana interpella ancora oggi i cristiani che,
pur celebrando l'Eucaristia, hanno perso l'assiduità alla preghiera. La sacra liturgia è fonte
(Eucharisticum Mysterium 3) che scorre per dissetare, mentre la preghiera è il ritorno della
mente e del cuore alla sorgente da cui scorre la Parola di vita eterna, capace di trasformare
l'attimo che fugge in un tempo di riposo, di quiete e di pace; Parola che Dio "dice" nel cuore
dell'orante, rinnovandolo come in una nuova creazione, Parola di Dio che, per opera dello
Spirito Santo, prende dimora nella creatura e la trasfigura di gloria in gloria per opera dello
Spirito stesso. La fonte mormora: "Chi ha sete venga a me e beva ..." (Gv 7,37). Pregare è
accostare la bocca alla fonte e accorgersi con grande stupore che essa non è fuori, ma
dentro di noi e spande le sue acque, comunicando movimento, energia e vita.
La Parola non viene mai da sola, ma insieme viene Colui che parla, secondo quanto ha
promesso: "Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui
e prenderemo dimora presso di lui" (Gv 14,23). Pregare è rifugiarsi tra le braccia di Cristo,
che stringe senza costringere, ma avvince con uno sguardo, una parola, un abbraccio; è
posare il capo sul suo petto e apprendervi la sapienza dell'amore, che sorpassa ogni
conoscenza. Questa sublime sapienza determina il passaggio dalla conoscenza intellettuale
che Dio è amore, all'esperienza sorprendente e rassicurante di sentirsi amati da Dio, di
sentire che Egli ci ha amato per primo, ci ha amato fino alla fine, ci ama infinitamente. La
preghiera è l'esodo dalle schiavitù opprimenti dell'esistenza per lasciarsi condurre in
disparte verso un deserto, dove la solitudine e il silenzio si trasformano in compagnia e
dialogo con Dio, il quale ha promesso: "L'attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al
suo cuore" (Os 2,16). Pregare è lasciarsi attirare al cuore di Cristo e passare dalla tristezza
alla gioia, dall'indifferenza all'amore, dalla povertà alla ricchezza, dalla schiavitù alla libertà
dei figli di Dio. Pregare è celebrare la Pasqua!
ABC
N. 5 - Maggio 2000
123
AMARE L'AMORE
L'amore basta a se stesso e piace di per sé; è a se stesso merito e ricompensa. L'amore non
cerca altra causa o altro frutto se non esso stesso: il suo frutto è amare. Io amo perché amo:
amo per amare. È una grande cosa che l'amore, se risale al suo principio ritornando alla sua
origine e rituffandosi nella sua sorgente, vi attinga senza sosta ciò di cui necessita per fluire
continuamente.1
Di tutti i movimenti dell'anima, dei suoi sentimenti e affetti, l'amore è il solo che permette alla
creatura di rispondere al suo creatore, se non da uguale a uguale, per lo meno da simile a
simile.2
Quando Dio ama, non vuole altro che essere amato, perché egli ama solo perché lo si ami,
sapendo che coloro che l'ameranno saranno per questo stesso amore, felici...
Vi sono dei gradi in esso... L'amore puro è quello della Sposa: solo l'amore è la sua fortuna e
la sua speranza. Di questo amore, la Sposa è ricca e lo Sposo ne è contento: egli non
domanda niente altro ed ella non ha niente altro, ed è ciò che li fa Sposo e Sposa3 ...
L'amore dello Sposo, o piuttosto lo Sposo che è Amore, non domanda che amore reciproco e
fedeltà. Che sia permesso, dunque, all'amata, in risposta, di amare. Come potrebbe non
amare la Sposa che è Sposa dell'Amore? Come non amare l'Amore?
... L'amante e l'amore, l'anima e il Verbo, la sposa e lo Sposo, il Creatore e la creatura non
hanno la stessa abbondanza nel loro flusso, essendo come la sorgente e colui che vi si
abbevera. E allora? Bisognerà perciò che perisca e scompaia la promessa della fidanzata , il
desiderio dello spasimante, il fervore dell'amante, la confidenza del pretendente..., con il
pretesto che la carità non può gareggiare con colui che è Carità ? No. Perché se la creatura
ama meno, perché più piccola, tuttavia se ama con tutta sé stessa, nulla manca là dove c'è
questo tutto.
San Bernardo (1090-1153), Sermone 83 sul Cantico dei Cantici, 4-6
L'AUTORE: Di nobile famiglia borgognona, Bernardo entra a Citeaux nel 1112. Ben presto
abate di Chiaravalle, con lui ha origine un prodigioso rinnovamento monastico in Occidente
(quello dei Cistercensi), caratterizzato dall'attaccamento alla primitiva sobrietà della regola
di san Benedetto. Arbitro di conflitti politici, intellettuali e religiosi del suo tempo, san
Bernardo fu innanzitutto un grandissimo mistico la cui influenza, coniugata a quella di
sant'Agostino, dominerà la letteratura cristiana successiva.
TESTO: Uno fra i testi più famosi della spiritualità occidentale, infinitamente ripreso e
commentato nel corso dei secoli.
"Dio è amore", ci dice san Giovanni. "Bontà che si diffonde da sé stessa", ci dice san
Tommaso d'Aquino, tutto viene da lui e va a lui. Dio non serve a nulla e tutto lo serve; egli
spiega tutto e non è spiegato da nulla. Egli è necessario e bastevole alla felicità dell'uomo,
poiché l'uomo è chiamato a essere Dio, tanto che la sua felicità è la stessa di quella di Dio:
"Egli ama perché lo si ami, sapendo che coloro che l'ameranno saranno per questo stesso
amore, felici".
§1.Nella Trinità l'amore viene dal Padre: perciò nella nostra posizione filiale, bisogna
"risalire al suo principio" e "attingervi senza posa" per rinascere senza posa alla nostra
identità divina. Appena noi ci allontaniamo da questa sorgente, ricadiamo nel nulla da cui la
Parola amorevole del Padre ci aveva tratto (è questo il tema della imago curva, presso s.
Bernardo, tema dell'immagine di Dio che ricade su sé stessa appena cessa di rifletterla).
§2 Donandosi a noi Dio ci fa suoi simili, così che l'amore è il motore della nostra anima, e
tutti i suoi "movimenti, sentimenti e affetti" ne dipendono. Questa somiglianza non è
un'uguaglianza di natura, perché infine Dio è tutto e noi siamo nulla, o almeno null'altro se
non ciò che lui ci fa essere: ma ciò non impedisce che noi siamo pienamente Dio, quando
amiamo. (San Bernardo intende così, con tutta la tradizione anteriore, la nostra creazione "a
somiglianza di Dio" di Gen 1,26). Non si tratta di essere all'altezza di Dio (ciò fu l'orgoglio di
Lucifero), ma di essere pienamente Dio secondo la nostra altezza (tema ripreso nell'ultimo
paragrafo).
§3- San Bernardo sviluppa l'amore sponsale come modalità dell'amore filiale: anche se l'uno
dà e l'altro riceve, il porre Dio e l'uomo in situazione di sposi permette di sottolineare la loro
uguale dignità (senza la quale non ci sarebbe amore vero), la perfetta reciprocità della loro
unione (senza la quale sarebbe fusione) e il fatto che sia chiamata a consumarsi nella carne
(l'Incarnazione di Dio è correlativa della divinizzazione dell'uomo). Il tema sarà sviluppato
pienamente, cinque secoli dopo da santa Teresa e san Giovanni della Croce.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
A come ... ASCESI
La parola è praticamente assente dalla Bibbia e gli spirituali diffidano di essa: san Giovanni
della Croce, per esempio, non l'ha mai utilizzata. Intendiamola qui come l'insieme di pratiche,
sforzi, rinunce ecc. che noi ci imponiamo per favorire il nostro sviluppo spirituale.
Fondamentalmente l'uomo, poiché creato a immagine di Dio, non deve lottare contro se stesso,
per essere santo:
L'ascesi e le fatiche che essa comporta, non sono state inventate dagli uomini virtuosi se non
per liberarsi dai modi d'agire abituali, cagionati all'anima dal senso [intendi: l'attaccamento al
piacere] e non per introdurre dal di fuori nuove virtù.
Massimo il Confessore (580-652), Disp. Cum Pyrrho, 309
Lo scopo dell'ascesi è dunque di svilupparci non di distruggerci. Perciò bisogna fare come il
buon vignaiolo
Il vignaiolo andrà ben presto nella sua vigna a potare i germogli folli. Se non lo facesse e li
lasciasse sul legno buono, la sua vigna darebbe un vino acre e cattivo. Così deve fare l'uomo
degno di questo nome: egli deve mondarsi di tutto ciò che è disordine, potare i cattivi difetti...
Taulero (1300-1361), Sermone
Ma se l'anima ne è desolata, è più probabile che
Siano delle anime su cui Dio ha qualche disegno, come talvolta ricondurle interamente a sé,
o dare loro qualche prova utile alla loro salvezza.
Idem
Ma pure bisogna conoscere l'arte della potatura e praticarla con prudenza, altrimenti
... Si reciderebbe anche il legno nobile che deve dare l'uva. Così fanno certuni: essi non
conoscono il mestiere, lasciano i vizi, le cattive inclinazioni nel fondo della natura, potando e
sfogliando la povera natura stessa! La natura in sé è buona e nobile: che vuoi recidervi? Al
tempo della raccolta dei frutti cioè della vita divina, avrai soltanto una natura rovinata.
Idem
In effetti, ricercare la virtù per la virtù sarebbe altresì dell'amor proprio; per quelli che vi si
consacrano,
[questa vita di rinuncia] è per loro grandemente deliziosa per i grandi meriti che sperano e
credono do trovarvi. Così che in tale vita ci sono sempre, da parte loro, nuovi sforzi che li
portano a soffrire e a indurire grandemente, mentre sono sempre pieni delle loro vie, appetiti
e ricerca di sé stessi nell'ignoranza totale di sé e del vero bene in sé.
Jean de Saint Samson (1571-1636), L'Aiguillon, art.8
Perché non è la virtù che conta, per il cristiano, ma Gesù : essere unito a lui, ecco il "vero
bene in sè":
Molti si applicano alle virtù, ciò è buono e anche necessario; ma non basta. Io desidero averle
tutte da Gesù e che sia lui a donarmele, al fine di ricevere tutto da lui e nulla da me. Molti
cercano le virtù per essere disposti secondo quanto richiedono la retta ragione e il loro
dovere; ciò è lodevole, ma per me, dacché è piaciuto a Dio farsi uomo e praticare nella sua
persona le virtù di cui abbiamo bisogno per essere perfetti, stimo tanto più la virtù in quanto
mi fa somigliare a Gesù Cristo e mi lega e rapporta a lui come al mio modello, e non tanto
perché essa mi rende conforme alla ragione e al mio dovere: perché se quest'ultimo motivo è
santo, l'altro è divino.
Pietro de Bérulle (1567-1629) citato da Pasquier Quesnel (1634-1719)
E poiché l'ascesi per il cristiano è tutto in questo conformarsi a Gesù, la sua vera risorsa è
Un desiderio costante d'imitare Cristo in tutte le cose, secondo il quale ci si conforma alla
sua vita e ci si comporta in tutte le cose come farebbe lui stesso.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Salita del Carmelo I,14, 3
Allora, questo amore di Gesù fa sì che
Qualsiasi gusto si offra ai sensi, se non è puramente per l'onore e la gloria di Dio, si rinuncia
a soddisfarlo per amore di Gesù Cristo, il quale in questa vita non ebbe e non volle avere
altro gusto se non quello di fare la volontà del Padre suo.
Idem
Concretamente come avviene ciò?
Se ti si offre di gustare cose che intenderai e che non importano né al servizio né all'onore di
Dio; allora non devi gustarle né intenderle. Lo stesso per cose da guardare o da
raccontare..., per quanto tu possa evitarle senza fare storie; perché se non puoi, basta che tu
non cerchi di gustarle anche se questo gusto sopravviene.
Idem
Ora, la sua desolazione stessa prova quanto ella ama quel Dio che non sente più!
Il suo amore è grandemente addolorato di vedere che Dio fa finta di non vedere quanto ella
l'ami... se ella non amasse, non sarebbe afflitta dall'apprensione di non amare!
Idem
In fondo tale rinuncia non è penosa e questo distacco dal piacere si fa da solo o piuttosto si fa
per amore
L'amore separa l'anima da queste cose [superflue] così interamente (non tanto rispetto
all'uso perché ciò è necessario al sostentamento della vita, ma quanto al piacere, comodità e
ricreazione che se ne potrebbe ricevere) che non vedo che la morte vi possa più fare niente.
Così ella desidera fare e lasciare tutte le cose per la forza dell'amore non per la violenza
della morte.
Claudine Moine (1618?), Sull'Orazione
PREGHIERA E ANNUNCIO DI CRISTO
La scelta della preghiera può sembrare una non scelta: di fare, di agire, di andare... ma in
verità non è così. Scegliere la preghiera vuol dire farsi vicini, sempre più vicini a Dio e anche
agli uomini, ai fratelli più lontani sia fisicamente sia spiritualmente. Scegliere la preghiera
vuol dire anzitutto abbandonare la propria vita nelle mani del Padre, riconoscere il proprio
limite accettandolo e confidando nell'infinita misericordia e nel suo amore per noi. In realtà,
più si prende coscienza delle proprie miserie e delle proprie debolezze e più è facile porsi
nelle mani di Dio. La preghiera nasce dalla scoperta attonita della Sua presenza nella nostra
vita, a cui fa seguito il desiderio di incontrarlo. Come in qualsiasi rapporto umano, in cui più
si frequenta una persona, più la si conosce e la si ama, così il rapporto con lui, grazie alla
preghiera, diverrà sempre più intimo. La potente azione del suo Spirito ci trasformerà, per cui
si può dire che la preghiera diventa sorgente sempre viva a cui abbeverarsi.
"Io sto alla porta e busso: se uno sente la mia voce e mi apre, io entrerò da lui e cenerò con lui
ed egli con me" (Ap 3,20). Quale gaudio scoprire la verità di questa affermazione! Quale
prontezza nell'aprirgli la porta! Del resto pian piano ci si rende anche conto che egli ci
chiede ciò che nel nostro intimo pure noi vogliamo. Quale festa cenare alla stessa mensa del
Salvatore! Ecco perché una vita di preghiera è comunione costante con Dio. In questa
comunione sempre più intima, Egli chiede di condividere la sua stessa preoccupazione di
attirare tutti a Lui, e svela che lo si può fare offrendogli completo e libero possesso sulla
nostra persona, lasciandosi offrire come Egli si è offerto con la sua offerta medesima. È
concedere piena libertà di azione al suo Spirito sulla nostra persona, al di là di qualsiasi
nostro progetto, per la salvezza delle anime; che la sua volontà per noi sia la sua stessa
volontà pienamente manifestatasi dal Getsemani al mattino di Pasqua.
Annunciare Cristo e vivere in orazione coincidono nell'offerta di sé, della propria giornata e
della propria vita per amor suo e per il bene dell'umanità. Teresa di Lisieux ci è maestra in
ciò. Avere i medesimi sentimenti che furono in Cristo, sperimentando d'altronde
personalmente la sua misericordia, ci apre e spinge ad ogni uomo nel quale c'è quel raggio
di sole, quell'anelito alla bellezza e alla speranza, quel "sigillo" cioè che Dio ha posto in
ogni essere vivente, che ci fa sempre più innamorare del Verbo incarnato.
ABC
N. 6 - Giugno 2000
123
QUANDO SOFFRIRE NON È PIÙ SOFFRIRE
Coloro che si convertono a Dio con il distacco da se stessi e da ogni cosa, provano, in tutto
ciò che Dio fa, altrettanta gioia e soddisfazione quanta [ne avrebbero provato] se Dio fosse
rimasto inattivo e li avesse lasciati agire da se stessi a loro piacimento. È in questo modo che
in loro stessi ogni potere è dato al loro desiderio, poiché il cielo e la terra li servono, e tutte le
creature obbediscono loro facendo ciò che esse fanno o omettendo ciò che esse omettono. E
costoro non provano mai nel loro cuore alcuna sofferenza di qualsiasi genere: poiché io
chiamo sofferenza e pena del cuore ciò da cui la volontà vorrebbe essere dispensata secondo
la sua deliberata riflessione.
A giudicare dalle apparenze, essi hanno provato come gli altri la gioia e la sofferenza;
quest'ultima penetra talvolta più profondamente in loro che in altri a causa della loro
maggiore delicatezza, ma interiormente non c'è posto per essa e, esteriormente, essi sono
preservati da ogni movimento disordinato. A causa della loro espropriazione da se stessi
sono, per quanto è possibile, al di sopra di tutto, in modo che la loro gioia rimane intera e
costante in ogni cosa; poiché nell'essere divino, in cui il loro cuore si è annientato se hanno
seguito la retta via, la sofferenza e l'afflizione non trovano posto: c'è soltanto pace e gioia.
Ora nella misura in cui la tua fragilità ti spinge a commettere il peccato, cosa che provoca a
buon diritto la sofferenza e la tristezza in colui che vi si abbandona, questa beatitudine ti fa
ancora difetto; ma più tu eviti il peccato, più esci da te stesso per annientarti là dove non puoi
più provare né sofferenza né afflizione, là dove la sofferenza per te non è più una sofferenza e
dove soffrire per te non è più soffrire, là dove trovi in ogni cosa unicamente la pace: sei nella
retta via in verità.
E tutto ciò avviene con l'abbandono della propria volontà, poiché costoro si disamorano di se
stessi nella loro sete ardente della volontà di Dio e della sua giustizia; e la volontà di Dio è
per loro così deliziosa, in essa trovano tanto piacere, che tutto ciò che Dio manda loro è una
gioia e non vogliono né desiderano nient'altro.
Beato Enrico Suso (1295-1366), Vita, XXXII
L'AUTORE: Nato senza dubbio a Costanza da una famiglia agiata, discepolo di Eckhart e
contemporaneo di Taulero nell'ordine domenicano, il "dolce Suso" segna con loro l'apogeo
della mistica renana. Di temperamento fragile e inquieto, coinvolto nei turbamenti dell'epoca,
i suoi scritti riflettono le sue prove, ma continuamente compensate da una tenerezza senza
fondo per la persona di Gesù, di cui portava il nome inciso sul suo cuore.
TESTO: La Vita di Suso proviene verosimilmente dalle conversazioni tra il beato e la sua
figlia spirituale Elsbeth Stagel, che lo faceva parlare in particolar modo sulla sofferenza per
esserne confortata nelle sue prove personali. Su questo tema il primo paragrafo ci mostra
dove si situi esattamente la sofferenza: in un divorzio tra la nostra volontà e quella di Dio. Da
una parte c'è quello che Dio vuole e fa, dall'altra ciò che noi vorremmo e che non esiste
poiché Dio non lo fa. Da lì il nostro innervosimento sul nulla, da lì l'angoscia e la sofferenza.
Essa non è dunque nel nostro corpo, sistema nervoso compreso, ma nella nostra anima che
non è in accordo con ciò che Dio vuole e fa. Tanto che il ritrovare la volontà di Dio dissolve la
questione della sofferenza come una falsa questione: ristabiliti nella filiazione divina, "ogni
potere è dato al nostro desiderio, il cielo e la terra ci servono", come il primo giorno. Siamo
usciti dall'illusione di una vita diversa dalla Vita, siamo usciti dal peccato originale "senza
alcuna sofferenza di qualsiasi genere", come Adamo ed Eva prima del peccato.
Il secondo paragrafo sottolinea che questa armonia spirituale non ha niente a che vedere con
una insensibilità fisica o psichica: i santi reagiscono come gli altri al caldo, al freddo, alle
malattie o alle ferite, ma ciò non è più per loro motivo di ribellione e di infelicità ("interiormente
non c'è posto per essa e, esteriormente, essi sono preservati da ogni movimento
disordinato"). Come Gesù sulla croce, non si occupano del loro dolore ma di loro Padre:
dolore estremo e felicità totale coabitavano perfettamente in Gesù crocifisso. Il dolore non
costituisce l'infelicità più di quanto il piacere non costituisca la felicità.. Nel brano Suso si fa
portavoce di un'affermazione comune a tutti i mistici: gli amici di Dio non soltanto non sono
insensibili, ma sono anche "di una delicatezza maggiore" degli altri, poiché l'amore li rende
più lucidi degli altri. Ciò sottolinea ancora quanto la liberazione dal male sia proporzionata
alla "espropriazione di se stesso". La conclusione è nel terzo paragrafo: questa gioia ci è
offerta; basta "disamorarci di noi stessi nella nostra sete ardente della volontà di Dio e della
sua giustizia". L'abbandono al quale Suso ci invita non è fuga dalla realtà, ma delega di ogni
cosa a Colui che fa ogni cosa. "Occupati dei miei affari - diceva Gesù a Teresa d'Avila - e io
mi occuperò dei tuoi!" Tutto riprende allora il suo vero posto e il seguito non è che la nostra
invasione ad opera di Gesù che muore e risuscita nella nostra carne.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
A come…..ASPIRAZIONE
Tra gli affari della giornata bisogna, più che si può, guardare spesso a nostro Signore Gesù
Cristo. Così è bene avere certe parole infiammate che servono da ritornello alla nostra anima,
come "Viva il mio Dio!" "Viva Gesù!" "Dio del mio cuore!"
San Francesco di Sales (1567-1622), Opuscolo VI,5.
Si chiama aspirazione nella tradizione spirituale cristiana questa breve e frequente
aspirazione dell'anima verso Dio. Con la sua semplicità, l'aspirazione, invocazione o
esclamazione d'amore, è la forma elementare di ogni preghiera: "Quando pregate dite:
Padre" ci dice Gesù. Ecco il modello di ogni aspirazione. Essa è vicina in ciò a quelle che
chiamiamo giaculatorie, lanciate verso il cuore di Dio come dei giavellotti e delle frecce
rapide scagliate verso il bersaglio.
Giovanni Bona (1609-1674), Via compendii ... jaculatorias, 6,2.
Di colpo l'aspirazione ci porta in Dio e ricolloca la nostra vita sulla sua traiettoria
soprannaturale
L'aspirazione è una spinta appassionata e infiammata di tutto il cuore e di tutto lo spirito, con
la quale l'anima supera vivamente se stessa e supera ogni cosa creata, unendosi
strettamente a Dio nella vivacità dell'espressione del suo amore.
Jean de Saint-Sanson (1571-1636), Il pungolo, art. VIII
Si può ancora comprendere l'aspirazione come un tuffo sotto la superficie delle occupazioni
quotidiane, nelle acque profonde dell'amore che le sostengono e danno loro senso
Ci si ritira in Dio perché si aspira a lui e a lui si aspira per ritirarvisi ...
S. Francesco di Sales, Filotea, II, XIII.
L'aspirazione riattiva dunque in noi la coscienza della presenza di questo Dio amato al di
sopra di tutto, poiché,
Come coloro che sono innamorati di un amore umano e naturale hanno quasi sempre i loro
pensieri rivolti alla cosa amata, coloro che amano Dio non possono cessare di pensare a lui,
respirare per lui, aspirare a lui.
Ibidem.
Ma in fondo è Dio che ci "aspira", anche quando noi ci portiamo verso di lui. Anche se il testo
seguente concerne lo stato più avanzato, esprime la realtà profonda di ogni vita spirituale:
Lo Spirito Santo con la sua aspirazione divina eleva l'anima di colpo e la trasforma affinché
respiri in Dio lo stesso respiro d'amore che il Padre respira nel Figlio e il Figlio nel Padre,
cioè lo Spirito Santo stesso che essi respirano in lei.
S. Giovanni della Croce (1542-1691), Cantico Spirituale 38,3.)
Tanto che
Quando le potenze inferiori dell'anima, penetrate dalla grazia di Dio, si infiammano in un
grande slancio di desiderio sotto il fuoco del suo amore, si uniscono come fuse nell'unità del
cuore in un solo desiderio amoroso che le dà propulsione; e l'anima vi riposa dolcemente,
come nella camera reale in cui attende il suo Diletto.
Herp (1400?-1477), Specchio della perfezione, 40
Nel corso della crescita spirituale l'aspirazione è sempre meno un'invocazione e sempre più
questo incendio, fino a diventare il respiro comune all'anima e a Dio il cui ritmo è scandito
dalle parole dell'amore. Arriva il momento in cui, in mezzo alle sue occupazioni,
La volontà è sempre nell'amore attuale con una completa libertà di parlare [a Dio], benché
questo parlare non si faccia affatto con un lungo discorso, ma con un'aspirazione semplice e
continua. L'anima ha un linguaggio breve, ma che la nutre meravigliosamente, come se
dicesse: "Mio Dio, sii benedetto!" Nell'anima questa parola "Dio" dice più di quanto non si
possa esprimere. "O mia vita, o mio tutto, o mio amore!" A mano a mano che si fa la
respirazione naturale, questa aspirazione soprannaturale continua. E quando per ordine
della carità o per obbligo di qualche impiego bisogna interrompere questo linguaggio, il
cuore non cessa affatto di essere intento al suo oggetto.
Beata Maria dell'Incarnazione (1599-1672), Lettera 123
Non aspettiamo di essere a questo punto per fare dell'aspirazione l'espressione più semplice
e più abituale della nostra unione con Dio, moltiplicando queste pause d'amore che ci
permetteranno di ben centrare in lui le nostre giornate:
Il pellegrino che prende un po' di vino per rallegrarsi il cuore e rinfrescarsi la bocca, benché
si fermi un po' per far ciò, non rompe tuttavia il suo viaggio, ma trae forza per ultimarlo più
rapidamente e agevolmente, fermandosi soltanto per camminare meglio.
S. Francesco di Sales, Filotea, II, XIII
E per darvi la voglia di molto "aspirare"!
¡Cuán manso y amoroso
Recuerdas en mi seno,
donde secretamente solo moras!
¡Y en tu aspirar sabroso
De bien y gloria lleno,
cuán delicadamente me enamoras!
Con quale dolcezza e quale amore,
tu ti svegli nel mio seno,
dove solo e in segreto dimori!
E nella tua aspirazione saporosa,
piena di ricchezze e di gloria,
quanto delicatamente tu mi innamori!
S. Giovanni della Croce, Fiamma viva 4
IL DESIDERIO DI GESÙ
Il desiderio di Dio è un tema che da tempo ha rappresentato per i cristiani un luogo, una cifra
si dice oggi, per dar libero sfogo alla ricerca amorosa di lui. Alcuni oggi denunciano dei
possibili fraintendimenti di questo ricco tema teologico e letterario; primo fra tutti quello di far
pensare ad una ricerca di Dio che parta esclusivamente dall'uomo e proceda per
innalzamento a gradi fino ad una oscura unione con Lui. A questo modo di vedere è stato
giustamente opposto il movimento più propriamente cristiano dell'Incarnazione, della venuta
di Dio in Gesù, il quale ci visita e ci incontra nella nostra storia.
In realtà nei più grandi maestri cristiani mai troviamo un simile fraintendimento. Anzi, sempre
essi testimoniano sia l'iniziativa divina nella vita umana sia la disponibilità radicale alla
volontà del Diletto. Nessuna ricerca di Dio inizia nell'uomo se non perché originata dal tocco
del suo Spirito, che dà il via ad una storia di amore tra Gesù e la persona, nella quale questa
comprende a posteriori di ritrovarsi. E quando questa storia raggiunge la maturità, sempre
sfocia nella identificazione della persona con Gesù, nell'essere con lui sulla croce, portando
dentro, ben oltre i patimenti, il desiderio, la sete di Cristo medesimo, la brama di mangiare la
pasqua con i suoi. Quale altro desiderio alberga nel cuore del cristiano maturo, se non
quello di Gesù stesso, compiuto sulla croce, quando egli si consegna? Questo desiderio,
che si attua nella obbedienza al Padre e nell'amore agli uomini, non è altro che lo Spirito
Santo, Spirito che non può venire se egli non va via, se non muore d'amore sulla croce. Per
Gesù desiderare di morire e desiderare di essere uno con noi nello Spirito è la medesima
cosa, anzi il desiderio stesso è lo Spirito, perché il desiderio è in lui l'amore per il Padre e
con il Padre per l'uomo.
Il cristiano, cresciuto fino alla statura di Cristo, non ha spazio per altro dentro di sé, perché
tutto è stato bruciato dal fuoco dello Spirito di Cristo, che sotto la forma del desiderio ardente
di unirsi a Cristo fonde ogni attesa nel movimento di Gesù fino ad avere il desiderio
medesimo di Gesù. Non è diverso quello che Gesù ci ha lasciato, come sua ultima volontà,
nel comandamento nuovo: "come io ho amato voi, anche voi amatevi gli uni gli altri" (Gv 13,34).
È avere i medesimi sentimenti che furono in Lui: ciò non avviene altrimenti che con la
presenza del suo Spirito il quale conforma a Lui.
ABC
N. 7 - Luglio / Agosto 2000
123
QUANDO DIO S'IMPONE IN UNA VITA
Il mattino di quel giorno [5 Aprile 1873] facevo una meditazione dal libro dell'Imitazione di
Cristo, come d'abitudine dopo tredici anni, quando, improvvisamente, vidi davanti ai miei occhi
interiori queste parole: Dio solo. È strano dire che si vedono parole, però è certo che io le vidi
e le sentii interiormente, ma non nella maniera ordinaria di vedere e intendere; del resto
comprendo bene che i miei termini esprimono male ciò che provai, quantunque il ricordo mi
sia rimasto ben chiaro. Fu al tempo stesso una luce , un'attrazione e una forza. Una luce che
mi fece vedere come io pot evo essere nel mondo completamente di Dio solo, e vidi come fino
ad allora non l'avevo bene compreso. Un'attrazione attraverso la quale il mio cuore fu
soggiogato e rapito. Una forza che mi ispirò una risolutezza generosa e mi mise in qualche
modo nelle mani i mezzi per eseguirla, perché è proprio di queste parole divine operare ciò
che dicono; e queste furono le prime che Dio si degnò di fare intendere alla mia anima, e la
sua misericordia ne fece il punto di partenza di una vita nuova.
[16 Luglio1874]. Fui ammalata per quasi tutti questi anni e molte volte privata della santa
messa e della santa comunione, e una volta, tra le altre, rimasi sei settimane senza poter
uscire. Ero triste per diversi motivi e invocai il Signore di non lasciarmi lontana da Lui.
Mentre pensavo a questo, lavorando sola in casa con la roba da cucire, la mia anima fu
improvvisamente investita e come inondata dal sentimento della presenza divina e lo provai
come il sentimento della realtà. Dio era là, vicino a me; io non potevo vederlo ma sentivo la
certezza della sua presenza, come un cieco è certo di avere dietro a lui qualcuno che lo
tocca e che vuole parlare; nel mio cuore era come un'unzione, una pace, una gioia divine ...
Tutto ciò durò, credo, circa un'ora, e la mia anima restò grandemente fortificata e consolata
da questo favore celeste, in modo che i suoi effetti non mi permisero di prenderla per una
illusione, malgrado io avessi allora una grande ignoranza di queste divine cose.
Diario Spirituale di Lucie Christine, pp. 10-12
L'AUTORE: Mathilde Bertrand-Boutlè (1844-1908), sposa e madre di famiglia, visse fin
dall'infanzia un'unione con Dio di eccezionale intensità, all'insaputa del suo prossimo e sotto
le apparenze di una esistenza provinciale e borghese comune. Dietro richiesta del suo curato
e direttore spirituale, ella stilava dei resoconti della sua vita interiore che giunsero nelle mani
di uno specialista in materia, Padre A. Poulain (1836-1919). Fu lui che ne pubblicò nel 1910
degli estratti sotto il titolo e lo pseudonimo di Diario Spirituale di Lucie Christine (L. C.). Il
grande interesse sta nella sua lucidità e nella sua spontaneità: donna equilibrata e
intelligente, non avendo mai letto i mistici, L. C. descrive in termini concreti e riscontrabili da
tutti la più alta esperienza di Dio.
TESTO: In due riprese, intervallate da un lungo periodo di aridità, la presenza di Dio
s'impone a L. C. Ciò che lei nota in questa occasione caratterizza in modo molto classico e
completo tutta l'esperienza contemplativa un po' forte:
- "Improvvisamente": tutti i mistici descrivono l'irruzione di Dio come una esperienza
imprevista, anche se molto spesso, come qui, essa s'inserisce in una vita spirituale regolare
e fervente ("come d'abitudine dopo 13 anni...").
- "Io vidi davanti ai miei occhi interiori...io sentii": Dio si fa sentire, non pensare: L. C. e tutti i
mistici si esprimono spontaneamente in termini sensitivi, denunciando immediatamente ogni
possibile confusione con "il modo ordinario di vedere e di sentire". Cioè tutti ci avvertono
dell'inadeguatezza del modo comune di esprimersi, d'altra parte inevitabile.
- "Una luce, un'attrazione e una forza...": l'esperienza di Dio concerne sempre sia la
conoscenza sia la volontà. La vera contemplazione rende più lucidi su Dio, più desiderosi di
conformarsi alla sua volontà e più risoluti nell'eseguirla.
- "Lo scopo di queste parole divine è di operare ciò che dicono": nel momento in cui
comprende la volontà di Dio, il contemplativo si scopre capace di eseguirla: mai vivrà la
santità come uno sforzo ma come una preferenza. Egli cede, letteralmente, alla volontà di Dio
che, allora, opera in lui ("una forza che mi mise in qualche modo nelle mani i mezzi per
eseguirla")
- "Io avevo la certezza della sua presenza...": L. C. esce da un lungo periodo di silenzio di
Dio. In fondo non dubitava della sua presenza (altrimenti non poteva dire: "io invocai il mio
Signore"), ma improvvisamente la brace nascosta sotto la cenere si accende e la certezza
diviene evidenza, evidenza che Dio è più vicino e reale di ciò che noi chiamiamo
ordinariamente il reale. E questa evidenza è in se stessa la felicità che si cercava a tentoni.
- "...malgrado io fossi allora di una grande ignoranza di cose divine": questa innocenza di L.
C. sottolinea come questa esperienza è gratuita e apportatrice di luce.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
B come... BEATITUDINE
"Beati i poveri in spirito, beati i miti..." La beatitudine è un altro nome della vita cristiana,
perché,
come l'anima è la vita del corpo, Dio è la vita beata dell'uomo.
S. Agostino (354-430) La Città di Dio, XIX
Poiché è soprannaturale, questa vita beata suppone che Dio ci eleva e che noi lasciamo che
Lui ci elevi mettendoci in preghiera:
La beatitudine non è altro che la gioia del bene sovrano; ora il bene sovrano è al di sopra di
noi: nessuno può essere felice senza elevarsi al di sopra di se stesso, non del corpo, ma del
cuore. Ma questa elevazione al di sopra di sé è impossibile senza una forza elevante
superiore.[Essa è donata] a coloro che la domandano con cuore umile e devoto. La preghiera
è dunque madre e origine di questo agire che ci supera.
San Bonaventura (1221-1274), Itinerario dell'anima a Dio, I, I
Allora,
l'anima è condotta al di là di tutte le sue potenze e delle sue facoltà, per il fatto che le Persone
divine sono naturalmente in loro stesse... Essa vi trova allora la sua soddisfazione e la sua
eterna beatitudine, gioisce per grazia della felicità di cui Dio gioisce per natura.
Beato Henri Suso (1295?-1366), Libro della Sapienza eterna, XI
E lì non c'è più posto per l'infelicità
Tutto ciò che Dio gli manda, che ciò sia malattia o povertà o qualunque altra cosa,
quest'uomo lo preferisce ad ogni altra cosa. Poiché Dio lo vuole, egli vi trova più sapore che
in tutte le altre cose. E come posso sapere se lì è la volontà di Dio? Io dico: se un solo istante
questa non era la volontà di Dio, non lo sarà mai; bisogna sempre che ciò sia la sua volontà.
Se dunque la volontà di Dio ti conveniva, tu sarai assolutamente come nel regno dei cieli, sia
che ti succeda sia che non ti succeda.
Maestro Eckhart (1260-1327), Sermone 4
E per lasciare che Dio operi ciò in noi,
Dio non esige altro da te che tu esca da te stesso secondo il tuo modo di essere di creatura,
e di lasciare Dio essere Dio in te. Dio desidera tanto che tu esca da te stesso secondo il tuo
modo di creatura come se tutta la tua beatitudine ne dipendesse. Esci totalmente da te stesso
per Dio, e Dio uscirà totalmente da se stesso per te.
Maestro EcKhart, Sermone, 5b
Di contro, se non vuole più ciò che Dio vuole, l'uomo cade nell'infelicità:
Ed è ben fatto per quelli che desiderano altra cosa che la volontà di Dio, perché essi sono
senza posa, nei gemiti e nell'infelicità: essi amano Dio per qualche altra cosa che non è Dio.
Maestro Eckhart, Sermone 41
E ciò che Dio vuole, è nascere in noi, e allora la sua felicità diventa la nostra
Che l'essere umano accolga Dio in sé, è bene, e in questa accoglienza egli è vergine. Ma
che Dio divenga in lui fecondo è meglio, e allora lo spirito è donna e il fanciullo Gesù ritorna
nel cuore paterno di Dio... È una tale gioia del cuore, una gioia così ineffabilmente grande
che nessuno è capace di esprimerla pienamente.
Maestro Eckhart, Sermone 2
La felicità del cristiano è dunque già da quaggiù pienamente possibile:
Chi si trova in questo stato partecipa fin da questa vita alla beatitudine dei beati...
Santa Caterina da Genova (1447-1510), Libro della Vita, 35
Ma per questo,
Bisogna che Dio ci consumi interiormente ed esteriormente, e che l'essere dell'uomo sia
annientato in modo che in nulla e per nulla, egli non possa muoversi, proprio come se fosse
un corpo morto ed inerte.
Idem
Allora la sua felicità non conoscerà più freno, si lancerà al di là dei suoi limiti creati
Tutto raccolto in Dio, il suo spirito trova in Dio un'abbondanza intima e segreta. Ma gli viene
voglia di gridare e di dire a Dio: "Signore io non posso più vivere in questa vita; ho
l'impressione di essere in questa vita come colui che vorrebbe mantenere del sughero
sott'acqua senza legarlo ad una pietra": è in questo modo che lo spirito ha l'impressione di
essere attaccato al corpo.
Idem
E nell'aldilà ancora, questa dilatazione sarà senza fine
Consumandosi, la gioia consuma il desiderio? Essa è piuttosto l'olio che viene ad alimentare
la fiamma. L'allegria sarà piena, ma non sarà la fine del desiderio né dunque quella della
ricerca.
S. Bernardo (1090-1153), Sermone 84 sul Cantico
Per darvi voglia:
E così la morte di tali anime è sempre molto soave e dolce, più di quanto non sarà stata tutta
la loro vita, perché esse muoiono in slanci e saporosi incontri d'amore, come il cigno che
canta più dolcemente quando vuol morire e muore. È per questo che Davide dice che la morte
dei giusti è preziosa, perché i fiumi dell'amore dell'anima vanno a gettarsi nel mare e sono
allora così larghi e rigonfi che sembrano già il mare.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Viva Fiamma ,I,30
SANTITÀ: OLTRE I LIMITI UMANI
Il percorso della santità non può che essere integralmente opera dello Spirito Santo, e ciò
non solo nel senso che è Lui a sostenere i cristiani nello sforzo quotidiano di lottare contro
ogni nemico (anzitutto l'egoismo), di coltivare le virtù e di obbedire alla legge divina. V'è un
altro significato nel quale dobbiamo dire che lo Spirito inventa e costruisce il percorso della
santità. Se paragoniamo tale percorso alla lenta tessitura di una trama per una stoffa
preziosa, magari con un bel disegno, allora dobbiamo dire che Egli intreccia un tessuto che
noi uomini non siamo assolutamente in grado di progettare; esso va al di là del nostro
pensare, di quel tanto che i Suoi pensieri sovrastano i nostri. La grandezza dell'Artefice si
mostrerà certamente nella grandiosità del tessuto e del disegno in esso contenuto, ma
bisogna dire che si mostra anche nell'arte quotidiana di tesserla, perché Egli è perfetto in
tutto. Ed allora tesse quotidianamente la tela in modo che tutto sia perfetto. Si dirà: la persona
umana non contribuisce quasi in nulla? Nient'affatto. E in ciò si mostra la perfezione
dell'Artefice. Poiché sia la trama sia il disegno sovrastano infinitamente la mente dell'uomo e
poiché ancora l'uomo deve esserne a suo modo l'artefice, senza però distruggerla con la
mortifera volontà di gloriarsene, allora la persona umana vi contribuisce aderendo
nell'oscurità della fede. Il cristiano non vede se non il retro del disegno e del tessuto (poco
gradevole!) e segue la sapiente mano del tessitore attimo per attimo lasciando collocare i fili
laddove essa li pone, faticando non poco lui stesso a tirarli bene e ad accostarli con cura. Si
capisce che non poco è richiesto all'uomo, dovendo egli camminare nell'oscurità e portare,
per di più, dei pesi addosso. Non è dunque poca la parte richiestagli. D'altronde per i santi si
parla di eroicità e non di stupida ed inerte passività. La magnificenza dell'Artefice risalta
soprattutto nella capacità di unire la forza e l'intelligenza divine con l'ingegno e la volontà
dell'animo umano. Spesso temiamo che il percorso di santità, descritto, e giustamente, come
abbandono a Dio, spoliazione di sé, esercizio faticoso di virtù, significhi la perdita della
nostra umanità, delle più belle e profonde emozioni che l'animo umano è in grado di
percepire, delle più alte e vertiginose costruzioni che la mente può concepire. In realtà
essendo Egli il nostro Creatore, è impensabile che voglia mortificare la benché minima parte
di noi stessi. Forse i retaggi di alcune tradizioni ci trasmettono messaggi umilianti circa la
santità! Ma, appunto, il suo percorso lascia cadere questi retaggi, perché si slancia oltre il
piccolo mondo della ripetitività umana. Anzi lo Spirito unisce talmente la componente umana
con la sua, che la potenza divina risalta di più, quanto più tale componente umana viene
esaltata: nella delicatezza e profondità dei sentimenti, nella complessità dell'umano
concepire, nella forza dei legami terreni, che non si sviliscono bensì irrobustiscono. anzi, si
può dire: fuori da questo vertiginoso percorso il vivere umano appare come anestetizzato,
incapace di provare forti sentimenti, che non siano semplici surrogati o induzioni provocate o
brevi quanto superficiali legami. Solo la coppa dell'ira e della misericordia divine ci fanno
entrare nella vita. È vero che solo alla fine scopriremo il lato bello del tessuto, ma è proprio
per questo che il percorso impegna fino all'estremo delle forze.
ABC
N. 8 - Settembre 2000
123
AMARE DIO COSÌ COME È
Ho sempre visto e vedo sempre più che ogni bene si trova in un sol luogo, cioè in Dio. E tutti
gli altri beni che si trovano al di sotto di lui sono dei beni per partecipazione. Ma l'amore puro
e netto non può volere da Dio nessuna cosa, per buona che possa essere, che abbia nome
"partecipazione". Il fatto è che esso vuole questo Dio tutto intero, tutto puro, senza
mescolanza, immenso, così come Egli è. Se gli mancasse anche una sola piccolissima
particella, non potrebbe accontentarsi, ma si crederebbe piuttosto all'inferno. Ecco perché io
dico che non voglio un amore creato, cioè un amore che si possa gustare, comprendere, di
cui ci si possa rallegrare; non voglio, dico, un amore che passi per la via dell'intelligenza,
della memoria o della volontà. Il puro amore, in effetti, è al di sopra di tutto ciò. Esso supera
tutto ed esclama: io non avrò tregua finché non sarò stretto e rinchiuso in questo petto divino
in cui si perdono tutte le forme create e in cui, perdendosi, esse stesse divengono divine. In
nessun altro modo può accontentarsi l'amore puro, vero e netto. Il mio io è in Dio, non ne
conosco altro, al di fuori del mio stesso Dio. Lo stesso [dicasi] quando parlo dell'essere.
Ogni cosa che ha esistenza ne ha per comunicazione della sovrana essenza di Dio. Ma
l'amore puro e netto non può fermarsi a vedere questa comunicazione come uscita da Dio e
che rimanga in sé come creatura, alla maniera delle altre creature che partecipano più o
meno a Dio. Il vero amore non può sopportare di somigliare così alle altre creature; ma con
un grande slancio d'amore esso dice: il mio essere è in Dio, non per semplice
partecipazione, ma per vera trasformazione e annientamento del proprio essere.
S. Caterina da Genova (1447-1510), Libro della vita mirabile ..., XIV
L'AUTORE: Della nobile famiglia genovese dei Fieschi, pronipote del papa Innocenzo IV,
sposa obbligata e trascurata di Giuliano Adorno, nel cuore delle rivalità politiche italiane,
dopo alcuni anni umanamente e cristianamente mediocri, Caterina conobbe a 26 anni una
conversione folgorante e totale in seguito alla quale si vota al servizio dei malati. Donna
appassionata ed integra, spingerà al parossismo la logica del suo attaccamento
incondizionato a Cristo. Il suo insegnamento orale, raccolto dal direttore spirituale e dai
discepoli, esprime la foga e perfino la violenza verbale di colei che è stata soprannominata "la
gran dama dell'amore puro".
TESTO: 1 "L'amore puro, vero e netto": Caterina non parla che di questo. Amore di Dio per
l'uomo o amore dell'uomo per Dio, esso esprime la loro mutua donazione incondizionata.
Esso basta a se stesso, poiché Dio è amore e la felicità dell'uomo creato a sua immagine è
misurata da questo amore: "Io amo perché amo", ci diceva san Bernardo (cf. Orazione VI). È
lì dunque ogni bene e gli altri beni sono tali solo per partecipazione a questo. Tanto che presi
per se stessi, essi non saprebbero rendere felici, e fissarsi in essi, per quanto buoni siano,
sarebbe farne degli schermi tra l'anima e Dio. Allora perché Dio ce li dà? Perché noi
possiamo scegliere liberamente ("per via dell'intelligenza, della memoria e della volontà") tra
lui e il resto. Ma l'innamorato di Gesù ha scelto: ricevendo l'amore dalla sua fonte, al di qua
dell'amore creato, cioè dell'amore che consiste nel "gustare, comprendere e di cui ci si possa
rallegrare", egli vuole amarlo "tutto intero, tutto puro, senza mescolanza, immenso, per come
Egli è" e perciò essere "stretto e rinchiuso nel suo petto divino", nel quale è contenuto ogni
bene, ogni cosa è nella sua forma divina ("Ciò che è stato fatto in Lui era Vita" Gv 1, 3-4). Si
avverte qui il fondamento di una corretta spiritualità del Sacro Cuore.
2 "Il mio io è in Dio, ... il mio essere è in Dio, per vera trasformazione e annientamento del
proprio essere". Chiamato a vivere della vita di Dio, è nella Santa Trinità e in essa solo che
l'uomo è realmente se stesso: Dio è "quello che c'è di più mio in me" (H. Brémond).
L'annientamento di cui parla qui Caterina non è dunque distruzione, ma assunzione
(trasformazione) del nostro proprio essere nell'essere di Dio.
Attenzione! La parola essere (o essenza applicata a Dio un rigo più avanti) non si deve
intendere nel senso filosofico di "ciò che una cosa è per se stessa", poiché allora parlare di
trasformazione in Dio sarebbe panteismo, ma nel senso semplicissimo del verbo essere
("essere come questo o come quello"): senza perdere la mia identità, vivo totalmente ciò che
Dio vive, vivo totalmente per mezzo di lui e in lui, e in ciò la mia natura (cioè il mio essere
proprio) è assunta nella sua, similmente a come la sua è stata assunta dalla mia nel giorno
della sua Incarnazione. In Gesù io condivido la sorte (consors in latino) della natura divina (II
Pt 1,4). Caterina in questo testo spinge fino alle estreme conseguenze un'idea semplice: Dio
solo può rendermi felice e il resto non vale che per provocare il mio "grande slancio d'amore",
cioè la mia accettazione filiale del suo amore paterno.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
B come... Beneplacito
Il beneplacito biblico esprime innanzitutto la sovrana libertà di Dio:
Io faccio grazia a chi voglio far grazia, e ho misericordia di chi voglio aver misericordia!
Esodo 33,19
Ma questo beneplacito Dio l'ha interamente investito nella nostra felicità:
Non temere, piccolo gregge! Perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il Regno!
Luca 12,32
La nostra felicità dipende dunque interamente da questo beneplacito:
La gioia del Signore non appartiene a nessuno, se non a colui nel quale essa stessa si
espande; a questa vetta non sale nessuno, se non colui verso il quale la vetta stessa
liberamente discende; questo bene non lo sperimenta nessuno se non colui che il bene
stesso conforma a se stesso; questa vita non la vive nessuno se non colui che essa stessa
vivifica.
Gugliemo di S. Thierry (1085-1148), Commento al Cantico dei Cantici II, 7
Questo beneplacito di Dio si esercita anzitutto verso il suo unico Figlio:
Questi è il mio Figlio prediletto, in lui ho posto il mio beneplacito.
Luca 3,22
Ma poiché
Secondo il suo beneplacito Egli ci ha predestinati nel suo amore a essere suoi figli adottivi
per mezzo di Gesù Cristo.
Efesini 1,5
Laddove noi siamo uno con il Figlio di Dio, amorevolmente ristabiliti nella nostra origine,
sentiamo la voce del Padre che dice a tutti i suoi eletti nel suo Verbo eterno: "Questi è il mio
Figlio prediletto nel quale ho posto il mio beneplacito".
Beato G. Ruusbroec (1293-1381), La pietra brillante XII
Per questo motivo bisogna e basta che ci lasciamo fare totalmente da questo beneplacito
divino:
Ciò che Dio vuole da noi prima di ogni cosa è che, cedendogli interamente la nostra volontà,
gli facciamo fare tutto ciò che gli piace.
G. Taulero (1300-1361), Istituzioni XVIII
E a partire da lì,
è Dio che produce in noi il volere e l'operare, secondo il suo beneplacito
Filippesi 2,13
Così ogni anima ha il suo itinerario spirituale, la sua vocazione:
Dio conduce ciascuna per cammini differenti; e a malapena si troverà uno spirito il cui modo
si accorderà per metà a quello dell'altro.
S. Giovanni della Croce (1542-1591), Fiamma Viva III, 59
Dio è libero di comunicare le sue grazie in qualunque ordine e in qualsiasi maniera gli
piaccia; talvolta Egli si diverte a mettere alcune anime nello stato soprannaturale [intendiamo
qui: di alta contemplazione] senza averle fatte passare per le prove ordinarie.
G. Rigoleuc (1595-1658), Il puro amore III, § 2
Così una regola assoluta della direzione spirituale è di non presumere il progetto di Dio su
un'anima:
[Il direttore spirituale non deve] precedere lo Spirito di Dio, né spingere le anime a una cosa
piuttosto che a un'altra. Spetta solo a Dio di mettere le anime nel cammino attraverso il quale
Egli vuole condurle.
Idem, § 4
Come sapere se le cose corrispondono al beneplacito di Dio? Falsa domanda, poiché mi
basta sapere che
La tua sollecitudine per me, Signore, è più grande di ogni cura di cui io potrei saper dar
prova per me stesso. Non può che esserci del bene in tutto ciò che tu farai di me.
Imitazione di Cristo (sec. XV) III, 17
Quindi
Se tu vuoi che io sia nelle tenebre, sii benedetto! E se tu vuoi che io sia nella luce, sii ancora
benedetto! Se tu ti degni di consolarmi, sii benedetto! E se tu vuoi che io sia provato, sii
benedetto ancora e sempre!
Idem
Concretamente,
non abbiamo bisogno di stare in ansia per sapere quali sono gli affetti [il beneplacito] di Dio,
perché essi ci vengono tutti indicati nei suoi comandamenti e nei consigli che il nostro
Signore stesso ci ha dato sulla montagna quando ha detto: "Beati i poveri in spirito, beati i
miti", e le altre beatitudini.
S. Francesco di Sales (1567-1622), Sermone 53
Ci si preoccupa talvolta di questo beneplacito di Dio: e se gli piacesse di non amarci più? Di
non renderci più felici? Falsa domanda, ancora: non è ciò che Dio vuole che ci rende felici,
ma il fatto stesso che Egli lo voglia, tanto che
Se per assurdo si potesse amare Dio all'inferno, ed Egli mi ci volesse mettere, io non me ne
preoccuperei: poiché Egli sarebbe con me e la sua presenza ne farebbe un paradiso. Io mi
sono abbandonato a lui; Egli farà di me tutto ciò che gli piacerà.
Elogio di fra Lorenzo della Risurrezione (1614-1691)
Allora la vita spirituale diviene semplice, anche e soprattutto in mezzo alle peggiori prove:
Infine, per concludere in maniera da rassicurare queste povere anime tremanti, credo di poter
assicurare loro che la loro salvezza non è mai più certamente al sicuro di quando, in questo
stato in cui tutto fa paura, esse decidono, per un amore di preferenza di Dio ad esse stesse,
di abbandonarsi al suo beneplacito, per volere essere, sia per il presente sia per l'avvenire,
soltanto ciò che a Lui piacerà che esse siano.
Alessandro Piny (1640-1709), La chiave del puro amore, éd. 1692, p. 116
SVUOTAMENTO E LIBERTÀ
"Io penso e sono ben persuaso che per essere perfetti bisogna che siamo assolutamente vuoti
di tutto ciò che non è Dio". È una frase che il p. Libermann scriveva nel settembre 1828 ad un
seminarista, ed è un tema classico e caro ad ogni tradizione religiosa nell'itinerario che esse
prevedono per la maturazione spirituale della persona. Il cristianesimo, essendo una
religione del dialogo e dell'amore sponsale tra Dio e l'uomo, non pretende uno svuotamento
perseguito per se stesso, quanto piuttosto un liberarsi affettivo da ogni legame che
impedisca la totale disponibilità al Cristo-sposo. Non è difficile controllare la qualità della
libertà conseguente a un simile svuotamento; la nostra tradizione, come anche le altre, hanno
individuato una serie di segni, rilevabili nei moti dell'animo e negli stessi comportamenti, i
quali dicono con sicurezza se la persona ha veramente lavorato al distacco dalle creature e
da se stessa. Ne ricordiamo due: la docilità nell'obbedienza e la reazione pacifica, non
inquieta alle avversità. Non sempre notiamo in noi la prontezza di simili virtù, ma questo non
implica che ogni occasione che si presenta non sia buona per l'esercizio: comprenderemo di
essere più o meno distanti dalla virtù e, quindi, dal distacco e dalla libertà osservando
attentamente i nostri moti interiori e la nostra condotta.
ABC
N. 9 - Ottobre 2000
123
L'AUTENTICITÀ DELLA CONTEMPLAZIONE
Voglio insegnarvi i segni attraverso i quali potrete riconoscere se siete nella vera orazione
del silenzio.
1.Se dopo aver preparato il soggetto della vostra orazione, come al solito, voi non potete
servirvene, ma sentite il vostro cuore, la vostra mente e il fondo della vostra anima attirata
dolcemente a questo intimo riposo, senza che vi apportiate da parte vostra alcun artificio per
mettervici.
2.Se in questo raccoglimento imparate ad ubbidire a Dio e ai vostri superiori prontamente e
ciecamente, a non dipendere che dalla provvidenza e a non volere che la volontà di Dio.
3. Se questo riposo vi distacca da tutte le creature per unirvi al vostro creatore, e se esso vi
toglie il gusto di tutte le cose della terra e di tutto ciò che non è Dio.
4.Se esso vi rende più semplici e più sinceri a dichiarare lo stato della vostra anima con una
semplicità infantile.
5. Se nonostante la dolcezza che gustate in questo divino riposo, siete pronti a sopportare le
aridità, quando Dio ve ne manderà, e a servirvi delle vostre considerazioni e delle vostre
affezioni, quando egli vorrà che voi li riprendiate.
6.Se questa attrattiva vi dà più rassegnazione e pazienza nelle sofferenze e un più grande
desiderio di soffrire, senza volere altra consolazione che quella del vostro celeste Sposo, né
cercare altro soddisfacimento che il suo.
7.Se questo raccoglimento vi stabilisce più fortemente nel disprezzo del mondo e di voi
stessi, e nella stima e nell'amore del disprezzo e delle umiliazioni.
Infine se esso vi dà più coraggio e più forza per vincervi e per mortificarvi, più fedeltà e
corrispondere alle grazie di Dio e più diligenza ed esattezza ad adempiere i vostri doveri e
gli obblighi del vostro stato.
Se, dico, vi riconoscete in tutti questi segni, o nella maggior parte, non dubitate in nessun
modo che voi siate chiamata da Dio all'orazione di silenzio e restateci nella più grande
semplicità che potrete.
Jean Rigoleuc (1596-1658), Lettera XI, a una religiosa orsolina
L'AUTORE: Nato a Saint-Brieuc, formato a Rennes, entra nel 1630 presso i Gesuiti a Rouen
nello stesso periodo di san Jean de Brébeuf. Vi riceverà la profonda influenza di Louis
Lallemant, unita a quella degli scritti dei mistici del nord, di Caterina da Genova (attraverso
Bérulle) e di Giovanni della Croce. Religioso umile, Rigoleuc sarà impiegato
nell'insegnamento secondario e nella predicazione di missioni popolari nel centro della
Francia e in Bretagna. La sua corrispondenza e i suoi trattati (di cui non si ha quasi nessuna
edizione affidabile) rivelano un uomo continuamente unito a Dio e un grande direttore di
anime.
TESTO: Pedagogo della vita interiore, Rigoleuc si rivolge a un'anima preoccupata per non
poter pensare a Dio durante la sua orazione. Pigrizia? Fatica? Abbandono da parte di Dio?
Assenza di vocazione? Oppure "orazione di silenzio", cioè "un semplice e rispettoso vedere
Dio, un'amorosa attenzione alla presenza di Dio e un dolce riposo dell'anima in Dio"
(Rigoleuc, L'uomo di orazione III, 1)? In effetti una volta posti in contemplazione,
l'immediatezza della presenza di Dio fa che non si può più sentire che lo si sente. Così
l'anima si inquieta e senza neanche rendersene conto esce da questa contemplazione e
ritorna su se stessa, percependo soltanto una specie di vuoto noioso e talvolta molto arido.
Allora, come sapere se questo vuoto dell'anima è o non è l'aspetto esterno ed inverso della
sua pienezza di Dio? I criteri molto semplici dati qui da Rigoleuc sviluppano quelli dei suoi
maestri, segnatamente Giovanni della Croce.
1. È l'indice più chiaro: l'anima in contemplazione sente oramai la meditazione come un
disturbo, uno sforzo che la stacca da qualcosa di più essenziale.
2,4,7. Poiché l'amore di Dio è segretamente riversato in lei (Rm 5,5), l'anima sopporta
sempre di meno di volere altra cosa di ciò che Dio vuole. La santità non è più oggetto di
sforzo per lei: ella ne ha sete.
3. Questa preferenza per Dio, questo disinteresse per ciò che non è Lui, si affermerà oramai
sempre di più, anche se d'altra parte l'anima avrà l'impressione crescente di non poter
trovare Dio: egli si addentra in lei nella misura in cui ella vuole avvicinarlo.
5. Ma l'anima ne sa oramai abbastanza per fare a meno delle impressioni di Dio. Le resta
solo di essere indifferente al proprio progresso; d'altra parte, soprattutto agli inizi, Dio può
porla in uno stato più meditativo, durante il quale le bisognerà ricominciare a pensare a Dio
per essere in sua presenza.
6,7. La persona di Gesù ("vostro celeste Sposo") focalizza sempre di più la vita di
quest'anima, e le prove esteriori ed interiori non sono più tanto temute quanto
inspiegabilmente desiderate come un invito a crescere ancora nel suo amore.
Riepilogando: la contemplazione rende l'anima sempre più impotente. Che ella non se ne
inquieti: Dio ormai si occupa di tutto. Ella non deve più curarsi di niente, se non di Gesù
Cristo: "getta nel Signore il tuo affanno, ed egli ti sosterrà" (Sal 55,23).
L'ORAZIONE dalla A alla Z
C come... Certezza
Come sapere se il Dio che noi pretendiamo conoscere è quello giusto? Se ciò che noi
chiamiamo la sua volontà è veramente la sua? Se ciò che noi sappiamo di lui non è
un'illusione?
In verità, Signore, la luce dove abiti è inaccessibile... Io non la vedo, perché troppo forte per
me; eppure tutto ciò che io vedo, è attraverso essa che lo vedo.
S. Anselmo (1033-1109), Proslogion XVI
Allora, come sapere? Esponendoci a questa luce abbagliante, che è quella della fede
illuminante ogni cosa:
Io non cerco di comprendere per credere, io credo per comprendere.
Idem, Proslogion I
E noi entriamo allora nella conoscenza che Dio ha di se stesso:
La fede è come un abisso che non ha affatto confini, che è la verità stessa, e raggiunge Dio
come Egli è in se stesso. Ecco perché non può esserci inganno nella fede... Più la fede si
trova nuda, più c'è perfezione in questa stessa fede.
Jean-Joseph Surin (1600-1665), Guida spirituale III,1
In essa,
L'anima è condotta a questa sorgente viva che zampilla da tutta l'eternità e sazia
sovrabbondantemente l'intelligenza dei beati.
Louis de Blois (1506-1565), Istituzione spirituale. L'unione mistica II.
Come ci prende?
In questa materia la natura non può niente né il metodo può gran che. Bisogna accordare
poco ai discorsi e ai libri, e tutto al dono di Dio ...Bisogna dirgli: "Conducici dove i misteri
della scienza divina sono nascosti nella tenebra risplendente del silenzio dove essi sono
segretamente insegnati, nell'oscurità totale, trasparente e radiosa, tenebra nella quale ogni
cosa diviene luminosa, e che colma di splendori di beni invisibili le intelligenze che hanno
rinunciato a vedere".
S. Bonaventura (1221-1274), Itinerario della mente in Dio VII,5.
In questa certezza della fede, la nostra conoscenza di Dio cresce "di luce in luce" (II Cor
3,18):
Dal momento che l'anima può giungere a questa suprema sapienza che è l'unione con Dio,
ella riceve dall'alto la luce della verità eterna; la sua fede acquisisce nuove certezze, la sua
speranza si rafforza, la sua carità s'infiamma. A colui il quale ha gustato l'unione mistica, tutti
i saggi del mondo possono ben dire: "Tu sei nell'errore, infelice! La tua fede t'inganna!",
senza esitare egli gli risponderà: "Al contrario, siete voi che vi ingannate; la mia fede ha per
sé la verità e la certezza più assoluta".
Louis de Blois, Istituzione spirituale I
Questa accoglienza della scienza divina segue il cammino della scrittura che ci è data da
leggere:
La fede cristiana è fondata sulla parola di Dio; questo la pone nel supremo grado di
sicurezza, poiché ha a garante questa eterna ed infallibile verità; la fede che si appoggia
altrove non è cristiana.
s. Francesco di Sales (1567-1622), Controversie I
...e della chiesa, nella quale ci è dato leggerla:
Per proporre, applicare e illuminare questa sua Parola, Dio impiega lo Sposo invisibile come
suo interprete [= strumento] e interprete delle sue intenzioni.
Idem
Bisogna ancora che questa parola ben ricevuta sia ben compresa; donde la necessità di una
regola infallibile che sia in noi: è la ragione, donata da Dio come la fede, e che ne regola
l'intelligenza:
Infine la ragione naturale può ancora essere detta una regola del ben credere, ma
negativamente... un articolo di fede non deve essere contro la ragione naturale, perché la
ragione naturale e la fede attingendo dalla stessa sorgente e uscendo da uno stesso autore,
non possono essere contrarie.
Idem
Questa scienza divina noi la riceviamo dal più profondo di ciò che siamo:
Nella mia anima vi è una camera nella quale non entra nessuna gioia né tristezza... e dove si
trova il bene totale, Dio che si manifesta. In questa manifestazione tutta la verità è contenuta;
io vi comprendo e possiedo tutta la verità che è nel cielo, nell'inferno, nel mondo intero, in tutti
i luoghi e in tutte le cose, ...con una tale certezza che io non potrei in alcun modo credere che
ce ne sia un'altra.
Beata Angela da Foligno (1309), Memoriale IX
...aldilà di ciò che coinvolge le nostre facoltà:
Meno l'anima opera secondo la propria abilità, più essa avanza in sicurezza, perché più essa
avanza nella fede.
s.Giovanni della Croce (1542-1591), Salita al monte Carmelo II,I,3
Sebbene tutte le nostre difficoltà, dubbi e altre situazioni si nascondono al contatto di questa
certezza:
L'anima violentemente tormentata da una tristezza e da affanni spirituali, [fui] subito
rasserenata, illuminata da questa ammirabile rivelazione di nostro Signore Gesù Cristo che,
con una luce puramente intellettuale, si rende presente all'anima con una certezza,
un'evidenza che non ha niente di uguale al mondo. Così l'anima che ha incontrato Dio, non
può dubitare che ciò sia Lui; è impossibile, perché questo si dimostra da sé.
Lucie Christine (1844-1908), Giornale spirituale, 5 gennaio 1886
IL MISTERIOSO SCAMBIO
In questo anno del giubileo dell'Incarnazione ci troviamo a riflettere più volte su questo
mistero di nozze tra Dio e l'umanità. Lo scambio di cui parlò già s. Ireneo, Dio si fece uomo
perché l'uomo diventi Dio, non va inteso in senso generico e astratto bensì concreto e
quotidiano. Possiamo recepire il famoso pensiero di quel grande Padre della nostra fede
quando sosteneva che ciò che non è stato assunto non è stato nemmeno redento, riferendosi
alla corporeità di Gesù. Possiamo intenderlo, cioè, della piena condivisione della nostra vita
quotidiana con quella di Dio in Gesù. L'Incarnazione, con la Pasqua, è buona novella perché
abbiamo la reale possibilità di condividere con Dio per l'umanità di Gesù ogni attimo della
nostra esistenza con il carico che essa porta con sé. È del tutto reale l'affermazione di tante
persone che dicono di essersi accorte, ad un certo punto del loro cammino, di non essere più
sole, di avere Qualcuno accanto e, un passo in avanti di maturazione spirituale, di affidargli il
proprio carico. Ogniqualvolta accade di sentire un tal racconto, stiamo certi di essere dinanzi
ad un'ulteriore scoperta degli orizzonti dischiusi dal Verbo incarnato. È infine pienezza di
maturità accogliere il carico e il giogo di Gesù stesso, affinché lo scambio sia pieno, perché
alleggeriti del nostro carico, ci sottoponiamo a quello di Lui. Carico o giogo significa
qualcosa di pesante che opprime: ciò che la nostra natura tende a fuggire; tuttavia vediamo
tanti santi che l'hanno desiderato. Questo si comprende solo se pensiamo al gaudio
dell'amore, dell'essere uniti con l'Amato, dello slancio nel prestarsi per sollevare l'Amato da
un peso e, se non è possibile, almeno del condividerlo con Lui.
ABC
N. 10 - Nov embre 2000
123
QUANDO IL FERVORE SEMBRA RAFFREDDARSI...
Per recuperare il raccoglimento, quando credete di averlo un po' perduto, non fate affatto un
violento sforzo. Rassegnatevi voi stessa di buon grado ad essere privata di raccoglimento
sensibile e attivo. Contentatevi del raccoglimento passivo, che sussiste in fondo al cuore,
anche quando lo spirito sembra dissipato, e che è l'inalienabile appannaggio di un'anima
libera da ogni legame disordinato riguardo ai beni di questo mondo.
In questo stato Dio non è sempre, è vero, l'oggetto distinto dei nostri pensieri, ma egli è il
principio di vita che regola le nostre occupazioni. È una certa astrazione durante la quale si è
tentati di credere che non si pensa a niente; perché da una parte si è disoccupati dalle cose
visibili e, dall'altra, non si ha di Dio che un'idea così generica, una nozione così semplice e
così oscura che essa si perde nello spirito, o piuttosto, che lo spirito vi si perde e sembra
svanire e sfuggire a se stesso. In questo stato si fa in pace, senza fretta e senza
inquietudine, tutto ciò che si deve fare, perché lo Spirito di Dio lo suggerisce dolcemente. Ma
questo Spirito divino, geloso di essere l'unica guida dell'anima che [egli] ha elevato a questo
stato, ferma e sospende la nostra azione, non appena l'attività dell'amor proprio comincia a
mescolarvisi; e allora non c'è che da lasciar cadere questa attività per rimettersi e per
rientrare nel raccoglimento passivo. Questo raccoglimento, lo vedete, altro non è che il frutto
e l'estensione dell'orazione di quiete e di silenzio, che consiste nel tacere interiormente, nel
lasciar cadere ogni pensiero, piuttosto che nel combattere quelli che vengono o cercare
quelli che non vengono.
... Agite costantemente con questa semplicità, con buona fede e rettitudine di cuore, senza
guardare indietro né di fianco, ma sempre davanti a voi, al solo tempo e al solo momento
presente e io vi rispondo di tutto ... Amate questa povertà interiore che ci spoglia di noi stessi
all'interno, come la povertà esterna ci spoglia dall'esterno. È così che si forma dentro di noi il
Regno di Dio.
Jean-Pierre de Caussade (1675-1751), Lettera 88 alla Madre de Rosen
L'AUTORE: Di una nobile famiglia di Quercy, J.-P. de Caussade studiò presso i gesuiti di
Cahors, prima di entrare nel 1693 nella Compagnia a Tolosa. Insegna fino al 1720 nei
numerosi collegi del mezzogiorno della Francia, prima di percorrerne anche il nord e l'est
come missionario, predicatore e direttore spirituale. In Lorena la sua amicizia per il
monastero della Visitazione sarà occasione delle sue Istituzioni Spirituali e dell'essenziale
della sua corrispondenza. Vicino a Fénelon e alla tradizione salesiana, lettore dei maestri del
Carmelo, egli sarà a poco a poco messo da parte a partire dal 1731 (dall'invadente
giansenismo) dilagante.
TESTO: La parola che fa da padrone di questo discepolo di Fénelon e di Francesco di Sales
è quella dell'abbandono. Egli vuole condurre la donna a cui scrive, che è turbata, dalla sua
apparente tiepidezza nella preghiera alle ultime conseguenze di questa attitudine
fondamentale: abbandonare perfino l'abbandono stesso, cioè non pretendere di controllare la
propria vita spirituale.
1.Il raccoglimento (attitudine spirituale d'accoglienza) non è concentrazione (sforzo psichico
d'isolamento), ma volontà profonda di esistere solo nella dipendenza da Dio, qualsiasi siano
le agitazioni di superficie della nostra anima. Non sono le distrazioni che si oppongono al
raccoglimento (non dipende da noi che ci sia rumore nella nostra anima), ma la dispersione,
cioè lo sparpagliamento della nostra volontà in mille cose che non sono Dio (i "legami
disordinati riguardo ai beni di questo mondo"). Il nostro raccoglimento non è dunque misurato
dalla calma dei nostri pensieri, ma dal nostro amor di Dio.
2.Ciò che turba spesso l'anima è il non potersi fissare sull'idea di Dio ("una vera
astrazione"). Ma ciò non ha in realtà alcuna importanza: amare non è pensare a colui che si
ama, ma fare di tutto per lui e impegnarsi a far bene ciò che si fa per lui (egli è allora "il
principio di vita che regola le nostre occupazioni"). Questo stato psicologicamente
abbastanza indeterminato può far pensare all'indifferenza o alla pigrizia, particolarmente nei
momenti riservati alla preghiera. Come sapere se l'amore di Dio è sempre ben vivo? "Questo
Spirito divino ferma e sospende la nostra azione non appena l'attività dell'amor proprio
comincia a mescolarvisi". Allora anche se non si sente affatto che si ama Dio, una sorta di
protesta interiore si eleva non appena si comincia a vivere per se stessi: cedere ad una
tentazione di gola, di pettegolezzo ecc., ha qualcosa di insopportabile, come un autentico
tradimento di Colui che manifesta così la sua presenza nascosta. Nel passo Caussade ci dà
un'eccellente definizione dell'orazione di quiete: impossibilità di pensare, ma ciò non toglie
che sia intenta a Colui di cui l'anima non può più in nessun modo fare a meno.
3.Questa semplice semplicità domina lo stato interiore di coloro che progrediscono, regime
di crociera di una vita contemplativa in via di maturazione. L'anima non ha più il regresso che
le permetteva di sentire Dio agli inizi: oramai le basta sapere che Egli costruisce senza
ostacolo il suo Regno nel più profondo di se stessa.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
C come... carne
"Chi semina nella carne, raccoglierà corruzione; chi semina nello Spirito, raccoglierà la vita
eterna" (Gal 6,8). In quanto carnale l'uomo è fragile, corruttibile, inferno; e tuttavia è questa
carne che Dio ha voluto assumere, tanto che ricevendo "lo Spirito di Colui che ha risuscitato
Cristo dai morti" (Rom 8,11), l'uomo diventa, in questa stessa carne, vivo in maniera
soprannaturale di una vita illimitata ed eterna:
L'incorruttibilità e l'immortalità si sono fatte la stessa cosa che noi siamo, affinché ciò che era
corruttibile fosse assorbito dall'incorruttibilità, e ciò che era mortale dall'immortalità.
Sant'Ireneo (II secolo), Contro gli Eretici III,19,1
Ma il peccato originale ha spezzato questa assunzione del naturale nel soprannaturale:
L'uomo, se avesse voluto osservare il precetto divino, sarebbe divenuto spirituale anche nella
sua carne. Ma con il peccato egli è divenuto carnale anche nello spirito.
S. Gregorio Magno († 604), Moralia in Job V,34,61
Da allora
La carne ha dei desideri contrari a quelli dello Spirito e lo Spirito ne ha di contrari a quelli
della carne, tanto che voi non fate ciò che vorreste (Gal 5, 17).
Questo combattimento interiore accompagna ormai tutta la vita cristiana: perché, lasciata alla
tendenza dell'istinto
La carne, è risaputo, produce fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregoneria,
inimicizie, discordia, invidia, furori, intrighi, dissensi, fazioni, gelosie, ubriachezze, orge e
cose del genere...
Quando ricevuto da Dio,
Lo Spirito produce carità, gioia, pace, pazienza, mansuetudine, bontà, fedeltà, dolcezza,
temperanza ... e coloro che appartengono a Cristo Gesù hanno la loro carne crocifissa, con
le sue passioni e bramosie (Gal 5,19-24).
Come ritrovare l'armoniosa subordinazione della carne allo Spirito?
Ama la tua carne in quanto essa ti è donata come un aiuto, ed è destinata ad accompagnarti
nella felicità eterna ... è necessario che l'anima ami la sua carne, ma deve ancor di più
vegliare su se stessa: Adamo deve amare Eva, ma non al punto da preferire la sua voce a
quella di Dio.
S. Bernardo (1090-1153), Sermone XI sul Salmo 91
Devi mantenere la tua carne in modo che essa sia al tuo servizio; devi correggerla con il
digiuno in modo che non perisca: se tu l'affliggi oltre misura, metti a morte il tuo compagno, e
se tu la sostenti più del necessario, nutri il tuo nemico ... nel digiuno non è la carne che
bisogna uccidere, ma il peccato.
Idem, Sermone XXIV Sulla maniera di vivere bene.
Allora l'anima ritrova disinvoltura e libertà:
Fino a quando gli appetiti si addormentano ... e la sensualità sia a riposo a loro riguardo, in
modo tale che essa non faccia più alcuna guerra allo spirito, l'anima non accede alla vera
libertà per gioire dell'unione con il suo Diletto.
S. Giovanni della Croce (1542-1591), Salita al Monte Carmelo I,15,2
Questa unione al Diletto diventa talvolta così evidente che
Colui che è annientato in Dio sente spesso nel cuore un liquore penetrante, di una tale forza
che tira in sé tutte le potenze dell'anima e del corpo...
E come la carne scricchiola allora sotto la pressione del Verbo
Ciò deriva dal fatto che egli ha il cuore talmente stretto dal Dio onnipotente, e sotto una tale
compressione, che sembra dover scoppiare d'amore.
S. Caterina da Genova (1447-1510), Libro della Vita 33
E così fino a morire d'amore
O fiamma dello Spirito Santo, così intimamente e teneramente tu attraversi la sostanza della
mia anima e la caratterizzi con il tuo ardore, ... strappa ora la fine tela di questa vita e non
lasciarla arrivare al punto che l'età e gli anni la taglino naturalmente, perché io possa amarti
subito, con la pienezza e la sazietà che la mia anima desidera, senza termine né fine!
Idem, Fiamma viva I,36
Aspettando questi apici, dobbiamo diffidare della carne? No, ma diffidare di noi stessi, poiché
Non è la carne corruttibile che rende l'anima peccatrice, ma al contrario l'anima peccatrice
che ha reso la carne corruttibile.
S. Agostino (354-430), La città di Dio XIV,3
Tanto che
Per guarirci dai nostri vizi è veramente buono mortificare la carne, ma è soprattutto
necessario purificare bene i nostri affetti e rinfrescare il nostro cuore.
S. Francesco di Sales (1567-1622), Introduzione alla vita devota III,23
La molla di questo raddrizzamento non è la lotta contro noi stessi, ma l'attaccamento a Gesù,
poiché
Quando l'unione spirituale al Cristo è fatta, l'unione carnale alla carne è disfatta.
S. Giovanni d'Avila (1499-1569), Lettera 47
In effetti anche e soprattutto quando abbondano le tentazioni
Più si è perseguitati dal nemico, più si è guardati da Dio, la cui cura e vigilanza sono senza
paragone più grandi per difenderci che le astuzie del nostro nemico per ingannarci. E ciò
perché Egli ci ama più di quanto il demonio ci odia, ed è più facile di quanto la nostra carne
non sia debole.
Idem, Lettera 50
DELL'INFELICITÀ DELL'INFERNO CHE DURA PER SEMPRE
"Ah!, sofferenza, miseria e tristezza sempre e sempre in una terra dimenticata dove noi
saremo sempre separati da ogni amore, senza alcuna consolazione né speranza! Ahimè, se ci
fosse una macina da mulino larga come la terra intera, tanto grande da toccare il cielo da ogni
parte, e venisse ogni centomila anni un uccellino che beccasse dalla pietra un granellino
grande come la decima parte di un grano di miglio e altrettanto in altri centomila anni, in modo
che in dieci volte centomila anni beccasse da quel sasso quanto un grano di miglio, noi poveri
non avremmo altro desiderio che assieme con la pietra finisse anche il nostro eterno martirio
... ma ciò non può accadere!"
È il terribile lamento dei dannati, che il beato E. Suso pone sulla loro bocca all'undicesimo
capitolo de Il libretto dell'eterna sapienza. La gran tristezza, che l'autore quasi sensibilmente
riesce a trasmettere, è data dalla bell'immagine dell'uccellino, che rafforza il già martellante
"sempre", che continuamente torna nel capitolo. L'espressività letteraria veicola il forte
contrasto tra l'amore e la separazione eterna; il dolore del cuore, che l'autore canta, non
sembra in realtà provenire dall'animo rabbioso e ringhioso del dannato (se mai egli si apre
alla parola o giace per sempre, chiuso in un mutismo desolante), quanto dall'animo allarmato
di chi ama appassionatamente il suo Signore e da questi è ammesso alla visione della
miseria dei dannati. Come sappiamo, la nostra fede afferma l'esistenza dell'inferno, ma si
astiene dall'indicare se vi sia qualcuno e chi egli sia. Le considerazioni su di esso, che
appartengono alla nostra tradizione spirituale, sono in realtà mosse dall'amore per Dio e
intendono rafforzarlo per contrasto; sarebbero d'altronde incomprensibili per un dannato o
per chi vive in una deliberata lontananza da Dio. Il dolore per il peccato è solo nell'animo di
chi ama, perché egli sa che così perde il Diletto; non si addolora, invece, e non si strugge di
sentirsi o sapersi lontano da Dio chi in fondo ha solo indifferenza per Lui.
La salutare meditazione sull'inferno ha prodotto negli amici di Dio la supplica di risparmiare
loro la dolorosa separazione, perché assolutamente insopportabile per la loro anima, e
d'essere quindi disponibili a qualunque martirio sulla terra, pur di non separarsi mai. La
risposta a tal supplica, che Suso pone in bocca a Cristo, rivela la forza dell'amore che unisce
l'anima a Lui: "Ciò che era unito nel tempo, rimane indiviso nell'eternità".
ABC
N. 11 - Dicembre 2000
123
QUANDO IL FERVORE SEMBRA RAFFREDDARSI
Coloro che hanno iniziato a esercitarsi nell’orazione non debbono mai perdere il coraggio
con il pretesto che se ricadono nel peccato, essi non potranno continuarla senza diventare
ancora peggiori.. La trappola che il demonio mi tendeva facendomi credere che essendo così
cattiva come ero, non potevo senza temerarietà continuare a fare orazione, fu causa che io
l’abbandonassi per diciotto mesi, o almeno per un anno, perché non mi ricordo bene del
tempo , e ciò soltanto sarebbe bastato per precipitarmi nell’inferno senza che i demoni
intervenissero.
Quale cecità può essere più grande? Questo nemico mortale degli uomini sa bene ciò che fa
quando si sforza di spingerci così nel precipizio! Egli non ignora, traditore qual è, che
l’anima che continua nell’orazione è persa per lui, e che gli errori nei quali egli la fa cadere,
anziché nuocerle le servono con l’assistenza di Dio ad avanzare nel suo servizio. Oh Gesù
Cristo, mio salvatore! Quando un’anima che era così felice d’occuparsi dell’orazione cade in
qualche peccato e che per effetto della vostra bontà voi le date una mano per rialzarla, quali
impulsi non eccita in lei la conoscenza della sua miseria e della vostra misericordia!... Quale
cecità poteva essere paragonabile alla mia, e dove avevo la mente, o mio Salvatore, quando
m’immaginavo di poter trovare fuori di voi qualche rimedio al mio male? Quale follia di
fuggire la luce per cacciarmi nelle tenebre, dove non si potrebbe camminare senza
inciampare ad ogni passo? E quale orgogliosa umiltà quella di cui il demonio si serviva per
farmi abbandonare la colonna dell’orazione, il cui sostegno avrebbe potuto impedirmi di
incappare in così grandi cadute?
Confidiamo in Dio: la sua bontà è molto più grande della nostra malizia; il nostro pentimento
gli fa dimenticare la nostra ingratitudine e invece di castigarci per aver abusato delle sue
grazie, esse lo portano a perdonarci. Coloro che si trovassero in questo stato ricordino di ciò
che egli dice su questo argomento nel Vangelo, e del modo con cui egli ne ha usato verso di
me, che mi sono piuttosto stancata di offenderlo, mentre egli non si è stancato di perdonarmi.
Se egli non si stanca affatto di donarmi, e se la fonte delle sue misericordie è inesauribile,
non saremmo molto infelici di stancarci di ricevere?.
S. Teresa d’Avila (1515-1582) Autobiografia, XIX
L’AUTORE: Figura emblematica dell’esplosione mistica del Secolo d’Oro spagnolo, Teresa
ne raccoglie tutta l’audacia e la ricchezza. Inizia nel 1560 una riforma del Carmelo (quella
degli scalzi) caratterizzata da un ritorno alla sua tradizione iniziale di grande solitudine e
austerità. Ella si associerà Giovanni della croce nel 1567. La sua penna, tuta spontaneità e
familiarità, affronta tutti gli stati della vita interiore in termini che resteranno classici e che
faranno di lei la prima donna a essere proclamata dottore della chiesa (1970)
TESTO Teresa aveva appena conosciuto un periodo durante il quale aveva potentemente
percepito la presenza di Dio, e correlativamente la profondità della sua indegnità (“Come
quando il sole cade a piombo in qualche luogo, scrive lei un po’ più sopra, e riesce a
scoprire fino ai più piccoli filetti delle tele dei ragni, quest’anima felice conosceva fino alle
sue più piccole imperfezioni e alla sua estrema miseria”). Ricaduta poi nella mediocrità
morale e spirituale, ella credette semplicemente di dover abbandonare la preghiera e la
confidenza in Dio: non doveva prima correggersi per esserne degna? Questo errore è la sola
vera causa di tutti i fallimenti spirituali, come anche è per denunciarlo, scrive Teresa, che “mi
sono spinta ad obbedire al comando di scrivere la mia vita”, affinché quelli che la leggeranno
non cadano nella stessa trappola. Questa trappola è quella del peccato originale: pretendere
di guidare da se stessi la propria barca, compreso il volerlo ben fare, e dunque ritirarsi dalle
mani di Dio. Questo è dimenticare che non c’è altra santità che di lasciare Dio vivere in noi!
Dimenticare che lo scopo della vita non è neanche d’essere santi, ma figli di Dio!
“Un’anima che continua nell’orazione è persa per il demonio”: poiché l’orazione non è altra
cosa che la consegna deliberata di noi stessi nelle mani di Dio, stabilendoci interamente
nella vita divina, esa ci mette al riparo da tutti i nostri nemici. Cosicché una grande legge
della vita spirituale è che il demonio si attacca molto più alla nostra vita di preghiera che alle
nostre virtù: in genere ci si preoccupa meno del pregare poco che di essere ladri o bugiardi,
quando invece, se la preghiera fosse il grande scopo della nostra vita, da molto tempo non si
sarebbe più né ladri, né bugiardi. Di contro, quando la relazione con Dio è ben viva in noi, i
peccati desolandoci completamente divengono motivi supplementari di confidenza:
sottolineando la nostra incapacità ad essere santi da noi stessi, la caduta ci invita a
immergerci nella “sorgente inesauribile della misericordia”. Aspettare di non averne più
bisogno per cominciare a berne è in ogni caso condannarsi a morire di sete. Il peccato non è
mai tanto grande quanto l’amore di Dio: ecco perché la vita cristiana si riassume
nell’abbandonarsi a Lui, ancora e ancora, qualunque cosa accada.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
P come PRINCIPIANTE
Da dove comincia una vita spirituale? “L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per lo
Spirito Santo che ci è stato dato”, ci dice s. Paolo (Rm. 5, 5):
Se tu cerchi da dove viene che l’uomo ama Dio, non troverai nulla se non che Dio prima lo ha
amato. Colui che amiamo, si è dato lui stesso, e ha dato ciò attraverso cui lo amassimo
S. Agostino (354-430),Sermone 34
Cosicché
Dal momento che Dio si mostra, l’anima concepisce il desiderio di unirsi a lui… Ma ella non
vede ancora che delle ombre; il Verbo si avvicina, ma non si è ancora pienamente rivelato, e
non c’è ancora il pieno giorno del Vangelo.
S. Ambrogio (340-397), Isacco e l’anima, VIII
Per vederci più chiaro, l’anima deve volgersi a lui,distogliendosi da ciò che non è lui:
Poiché nessuna creatura, nessuna delle sue azioni o capacità è proporzionata né giunge a
ciò che Dio è in se stesso, bisogna che l’anima si spogli da ogni creatura, come delle sue
azioni e delle proprie capacità.
S. Giovanni della Croce (1542-1591), Salita al Monte Carmelo, II, 5
Quest’uomo deve fare come Zaccheo il pubblicano, che desiderava vedere chi era Gesù: egli
deve precedere la folla, cioè la molteplicità delle creature, che ci rendono piccoli e limitati, di
modo che non possiamo vedere Dio, e deve salire sull’albero della fede.
Ruusbroec l’Ammirabile (1293-1381), L’Ornamento delle nozze spirituali, II, 4
Vi è un aspetto penoso in questa nuova vita:
Il fuoco comincia col fumare; poi è fiamma insieme a fumo; poi è fuoco puro, chiaro e lucente
nella brace… Similmente, la persona che vuole vivere nella vita contemplativa non ha affatto la
sua perfezione all’inizio, ma bisogna in primo luogo gettare il fumo di spiacevolezza della
sua vita, senza molta consolazione.
J. Gerson (1363-1428, )La montagna della contemplazione, XVI
Ma più profondamente questa conversione sarà spesso accompagnata da gioia e da fervore:
si è infine trovata la vita vera!
L’uomo che vive così… si trova condotto con una forza esterna a vedere e conoscere il Cristo
suo sposo, a sapere che Egli è in lui stesso: conoscerebbe tutte le sue opere e ciò non gli
sembrerà molto.
Ruusbroec l’Ammirabile (1293-1381), L’Ornamento, II, 4
Che cosa dipende da noi in questi inizi?
Si raccomanda di rientrare spesso in se stessi, di riflettere spesso su se stessi, alle persone
che iniziano, che bisogna ritirarsi dalla dissipazione quasi continua negli oggetti esteriori,
per richiamarli a se stessi e nel loro interno.
J. P. de Caussade (1675-1751), Lettera 105
Talvolta in mezzo a queste meditazioni, una sorta di evidenza della presenza di Dio si impone:
Qualche volta in mezzo a una lettura, io ero improvvisamente presa da un sentimento della
presenza di Dio. Non mi era assolutamente possibile dubitare che egli non fosse dentro di
me o che io non fossi tutta sprofondata in lui.
S. Teresa d’Avila (1515-1582), Autobiografia, X
Questa evidenza annuncia la sopraggiungente contemplazione per la quale non si parlerà più
di “principianti” (la cui orazione è soprattutto meditativa), ma di “progredenti” (la cui orazione
è soprattutto passiva). Peraltro, molto spesso, non si percepirà che una semplice impossibilità
di meditare.
Volendo Dio portare i suoi principianti più avanti,… dopo che si siano esercitati per qualche
tempo nella meditazione, … al miglior momento, quando sembra loro che il sole dei favori
divini è al grado più alto, Dio chiude loro la porta e li lascia in una tale oscurità che essi non
sanno più fare un passo nella meditazione.
s. Giovanni della Croce (1542-1591), Notte oscura, I, 8
Attenzione! Succede così che dio brucia le tappe e che l’anima non abbia mai conosciuto altra
cosa che questa passività, ora gioiosa ed evidente, ora dolorosa e oscura
Qualche volta, è vero, nostro Signore, per un privilegio e un dono speciale, ne eleva alcuni,
anche dalla loro infanzia o dai primi giorni della loro conversione, a questa orazione così
sublime…; però in genere, non vi chiama che color che si sono applicati a fare l’orazione
ordinaria di meditazione e di riflessione sui misteri divini. E per questa meditazione, tutti
hanno la propria vocazione e la propria attrazione interiore più o meno, secondo la capacità di
ciascuno.
Louis du Pont (1533-1580), Vita del padre Balthasar Alvarez, XV
Checché ne sia, quando Dio prende in mano la nostra orazione, l’errore sarebbe
d’impazientirsi, perché
Raccolta nel suo Dio, perché l’anima s’inquieterebbe? Essa ha trovato colui che cercava; che
le resta di più, se non dire: Ho trovato il mio caro Diletto, lo trattengo e non lo lascerò più!
S. Francesco di Sales (1567-1622), Trattato dell’amore di Dio, VI, 9
Che questo ci basti dunque: eccoci progredenti e il seguito è solo affar suo.
La triplice v enuta di Gesù
“Conosciamo una triplice venuta del Signore. Una venuta occulta infatti si colloca tra le altre
due che sono manifeste… Questa venuta intermedia è una via che unisce la prima all’ultima:
nella prima Cristo fu nostra redenzione, nell’ultima si manifesterà come nostra vita, in questa
è nostro riposo e nostra consolazione”. Queste parole di s. Bernardo nel quinto discorso
sull’Avvento bene riassumono il carattere contemplativo di questo tempo liturgico, “tipico” del
tempo della Chiesa in se stesso. L’Avvento-Natale ci ricordano magnificamente il cuore del
messaggio cristiano ed incitano alla ricerca del volto di Cristo in noi e in ogni uomo. Senza
disdegnare di usare le note affettive, senza trascurare gli elementi psicologici, anzi con il
lirismo della poesia si celebra in ogni atto della Chiesa di questo tempo l’unione concreta
con il nostro Dio. Non una meta a cui tendere, un traguardo da raggiungere, ma un tesoro
che possediamo e che attende solo di essere scoperto. Il gioco da eseguire è entrare nel
dinamismo di una realtà del tutto presente, Dio in noi e noi in Dio, ma che attende di essere
svelata, ricercata, amata. Il gioco è la prova dell’amore che ci libera da ogni narcisismo, da
ogni tradimento dell’amore, che immediatamente lo svuota e lo lascia ripiegato su di sé, nel
non-amore. È prova perché sfida la nostra capacità d’amare, d’uscire fuori di noi stessi, di
essere sicuri e al riparo dai trucchi e dalle complicità che rovinano ogni briciolo di gratuità.
Bruciano, certo le ferite provocate dai tradimenti continui dell’amore e del suo desiderio; anzi
esplodono in modo incontrollato fino a tentare di neutralizzare per sempre la sete inesauribile
che riarde dentro. Tentare! La venuta di Gesù smantella questo tentativo; la venuta intermedia
di ogni momento assicura con la forza della verità, della giustizia e del giudizio che le forze
dell’egoismo e del maligno non potranno prevalere.
La forza di rapimento che esercita una tale bellezza sul nostro animo, richiamandola al
colloquio personale e alla dedizione totale del cuore a Cristo diletto sposo, non toglie anzi,
richiede la coerenza del comportamento, del segno storicamente piantato ed elevato tra le
genti, che dica chiaramente la disonestà dell’affogare la verità nell’ingiustizia, che smascheri
il tentativo di derisione dell’amore e del suo desiderio, esposto nella fragilità dell’offerta umile
e disarmata, e che resista al pervertimento del bene e del male. In vero, il Bambino inerme
nella mangiatoia mette in subbuglio i palazzi di Erode e di Gerusalemme e subito si comincia
a pagare in pochi per risparmiare i molti-tutti. Da allora il massimo gesto cristiano, il martirio
cruento o meno, sarà sempre un offrire la propria vita solo per risparmiare quella di tutti,
senza invidia, senza interesse, senza ombra di ripiegamento alcuno, che è tradimento.
ANNO
2001
ABC
N. 12 - Gennaio 2001
123
ALCUNE TRAPPOLE DEL DEMONIO
1.Tutto ciò che toglie la pace e la tranquillità interiore viene dal demonio. Dio ha unito
insieme la felicità e la santità, in modo che le sue grazie non solo santificano l'anima, ma in
più la consolano e la riempiono di pace e di dolcezza. Le suggestioni del diavolo fanno tutto il
contrario, o prima o almeno alla fine; e si riconosce il serpente dalla sua coda, cioè dalle
conseguenze della sua opera e dal termine a cui egli conduce.
2.Tutte le proposizioni ipotetiche o condizionali, che sono buone soltanto a causare
turbamento, vengono dal demonio, come per esempio: "se Dio mi abbandonasse in una tale
occasione, che farei?" ecc. Non bisogna affatto rispondere a queste proposizioni, né
fermarci in pensieri di questa sorta, che il nemico ci suggerisce per toglierci la fiducia in
Dio e per gettarci nell'inquietudine e nello scoraggiamento. Affidiamoci a Dio, che è fedele, e
che non mancherà mai a coloro che , essendosi pienamente donati a lui, cercano solo di
piacergli in ogni cosa.
3.Accade abbastanza spesso che, sentendo qualche moto sregolato che si eccita nel nostro
cuore, noi non vogliamo acconsentire al male, ma non vogliamo anche cacciare fortemente
questo cattivo sentimento. Noi rigettiamo il male che apparirebbe agli occhi degli uomini, e
permettiamo lo sregolamento interiore che Dio vede e che gli dispiace. Abbiamo, per
esempio, un sentimento di acredine contro qualcuno, non vogliamo acconsentire a mostrargli
questo sentimento, ma permettiamo che il nostro cuore se ne riempia e non ce ne
sbarazziamo prontamente. Questa è una delle nostre più segrete e pericolose illusioni.
4.Quando abbiamo voglia di qualcosa, mille ragioni si presentano per colorare la nostra
passione. Ci si inganna quando, avendo fatto qualche progetto secondo l'istinto di natura, si
cerchi in seguito qualche ragione dalla parte della grazia per appoggiare questo progetto.
Io vado a trattare il tal dei tali, dopo tutto lo esorterò a fare un ritiro. Per l'ordinario, questo
dopo tutto proviene da un cattivo principio, ingegnoso nel trovare simili ragioni.
Louis Lallemant (1588-1635), Dottrina spirituale, IV, IV, 2
L'AUTORE: Figlio unico di una famiglia di magistrati della Champagne, educato presso i
gesuiti di Bourges, di salute cagionevole, Louis Lallemant sarà essenzialmente incaricato
della formazione spirituale dei suoi giovani confratelli a Rouen, tra i quali figureranno i santi
martiri del Canada o ancora i padri Surin e Rigoleuc. La sua Dottrina spirituale, appunti presi
da questi prestigiosi discepoli, fonda la vita apostolica definendo la Compagnia nella più
intensa ricerca dell'unione con Dio.
TESTO: 1."Dio ha unito insieme la felicità e la santità": si oppone spesso felicità e santità,
come se il buon Dio facesse male, come se la santità dovesse essere penosa! Ciò è
dimenticare che questa consiste per intero nel compimento della volontà di Dio e che Dio ha
una sola volontà: renderci perfettamente felici. "Pace e tranquillità": esse sono indizio di
questo accordo profondo con la volontà di Dio. Non sono dunque psicologiche (si può essere
felici e nervosi come si può essere infelici e calmi), ma spirituali, poiché da sole le grazie di
Dio qui "consolano e riempiono l'anima di pace e di dolcezza". Ed è questa armonia del
Padre e dei suoi figli che satana vuole spezzare facendoci dubitare della bontà di Dio.
2 In effetti il peccato si gioca in una mancanza di fiducia in Dio: il peccato si è formato nel
momento in cui Eva ha accettato di considerare una vita diversa da quella che Dio le donava,
una vita illusoria, regolata sulla apparenze ("il frutto era bello a vedersi, ecc."). Secondo
Origene e il suo commento al racconto della creazione, la tradizione cristiana vede in satana
il signore delle apparenze. Il suo dominio è l'illusorio: "Se Dio mi abbandonasse ..." Quale
illusione! Il rimedio è semplice: non si combatte l'illusione, non ci si occupa di essa poiché
essa fa solo finta di esistere, tanto che "non bisogna affatto rispondere a queste
proposizioni".
3 .Quando accettiamo questo "sregolamento" del nostro cuore, che consiste nel preferire un
piacere passeggero ad una felicità eterna, cadiamo in questa illusione. Essa è "pericolosa e
segreta", poiché ancora poco cosciente: un'altra parte di noi stessi non ha ancora consumato
il peccato, proprio come Eva in un primo tempo voleva e non voleva contemporaneamente
assaggiare il frutto. Molte vite spirituali si fermano qui, riservando una parte di se stesse a
Dio, e sinceramente, ma riservandosi d'altronde delle misere soddisfazioni, non molto cattive
(ruminare un piccolo rancore, voler avere ragione ai propri occhi, fantasticare ...), ma, ahimè,
sufficienti per trattenere uno slancio d'amore che ci getterebbe in Dio solo. Un solo rimedio,
sempre lo stesso: poiché in questo c'è solo illusione, "disfarcene prontamente".
4. Ancora un'illusione! Quella di un'azione apparentemente buona (sembra eccellente
"esortare il tal dei tali a fare un ritiro"!), ma il cui movente segreto è la nostra stessa
soddisfazione ("secondo l'istinto di natura", si vuole in realtà chiacchierare con il tal dei tali!).
Chi non si riconoscerebbe in questi inganni apparentemente molto innocenti, ma che non
tollera colui che, come Adamo ed Eva prima del peccato, vive solo di Dio e per Dio in un
amore senza limite perché senza riserva?
L'ORAZIONE dalla A alla Z
C come... conoscere
"La vita eterna è conoscere te" dice Gesù al Padre suo (Gv 17,3). È questa conoscenza
filiale e vitale che consideriamo qui, quella che Gesù apre a coloro che, in lui, diventano figli a
loro volta:
Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, come nessuno conosce il Padre se non il Figlio e
colui al quale il Figlio lo voglia rivelare.
Matteo 11,27
Quando il Figlio le rivela il Padre,
L'anima comincia a conoscere come per prima essa è stata conosciuta; e nella misura in cui
conosce, si mette ad amare come per prima essa è stata amata.
Guglielmo di S. Thierry (1085-1148), Esposizioni sul Cantico I,IV,57
Più radicalmente, amore e conoscenza compongono l'unica relazione che Dio instaurcon
l'anima sposa:
Dalla Sposa allo Sposo, conoscenza e amore sono identici, poiché a questo punto l'amore
stesso è conoscenza ... Il riposo dello Sposo vicino alla Sposa a metà del giorno è
mezzogiorno luminoso per la sua intelligenza, mezzogiorno bruciante per il suo amore.
Idem
Questa conoscenza non nasce dunque dal nostro cervello, ma dal nostro cuore:
Amare è possedere e possedere è anche conoscere, di una conoscenza in verità meno
distinta di quella che ci darebbero le definizioni dei dizionari, ma infinitamente più solida,
profonda, nutriente ... Da una parte la conoscenza astratta, dall'altra l'esperienza, l'unione;
qui il Dio lontano dei filosofi, là il Dio sensibile del cuore, e non al cuore di carne, ma a ciò
che c'è in noi di più profondo e di più noi stessi.
H. Brémond (1865-1933), Per il romanticismo, p. 202
Povera di idee, ma ricca di felicità, questa conoscenza che definisce la contemplazione è
quella del fanciullo, al quale basta sapere che sua madre è là:
La contemplazione è il semplice e amorevole vedere Dio presente, fondato sulla fede che Dio
è dappertutto e che egli è tutto.
F. Malaval (1627-1719), La facile pratica della contemplazione I,3
Non si raggiunge alcuna idea, ma in maniera misteriosa si gioisce della presenza stessa,
dell'essere stesso di Dio, reso sensibile al centro dell'anima.
H. Brèmond, Storia letteraria del sentimento religioso III, p. 502
Esponendoci alla luce di Dio, questa fede amorosa permette di ricevere dall'interno la scienza
di Dio:
La fede mentre ci porta in Dio, ci pone di fronte alla sua luce accecante, tanto che la tenebra
più che luminosa di un silenzio che ci istruisce segretamente, riempie le nostre intelligenze
accecate delle sue luci più belle di ogni bellezza.
Dionigi Areopagita (sec. VI?), Teologia mistica I, 1
Questa scienza definisce tradizionalmente la teologia come "scienza dei santi",
la quale si fa più felicemente con la devozione degli amanti che con la dottrina dei sapienti.
S. Francesco di Sales (1567-1622), Trattato sull'amore di Dio, prefazione
O ancora come "saggezza" (sapientia in latino, i maestri giocano qui sul doppio senso della
parola latina sapere: conoscere, sapere e dare sapore):
Il nome di "saggezza" vuol dire scienza saporita ... Tanto che una persona potrà avere una
grande scienza o conoscenza e una saggezza piccola o nulla, non trovando né sapore né
affetto in ciò che saprà.
J. Gerson (1363-1428), La montagna della contemplazione V
Questa conoscenza è dunque misurata dalla nostra unione con Dio:
L'intelligenza concepisce soltanto ... la saggezza fa vedere. E da questa conoscenza deriva
un gusto delizioso, più o meno grande a seconda dello stato di perfezione e di purezza in cui
l'anima si trova.
L. Lallemant, Dottrina spirituale IV,IV,a.1
L'uomo pervenuto alla [pienezza] dell'unione spesso conosce la divinità meglio dei mestri più
sapienti i quali, non essendo stati ammessi nel Santo dei Santi, né nell'appartamento segreto
del Re eterno, ignorano ancora i brillanti raggi della grazia. Dio gli svela la virtù delle
Scritture divine e gli dà il gusto dei Vangeli. Reso padrone della vera saggezza più per
l'influenza dello Spirito Santo che dalle numerose letture, quest'uomo vede e comprende ciò
che conviene fare e non fare, per lui e per gli altri.
Louis de Blois (1506-1565), Istituzione spirituale I
Nello stesso tempo in cui è scienza di Dio, questa teologia permette in effetti di vedere ogni
cosa in Dio:
La scienza dei santi fa conoscere all'anima giusta le cose create nella loro vera luce, cioè nel
progetto della loro creazione, in modo che l'anima le guardi nei legami e concatenazioni che
esse hanno ai fini e nelle intenzioni per cui Dio le ha fatte.
Saint-Jure (1588-1657), L'uomo spirituale, 1646, pp. 389-390
Scienza e saggezza sono dunque il versante esteriore e il versante interiore della
conoscenza di Dio; sebbene inegualmente nutrienti per l'anima, esse sono entrambe legittime:
L'intelligenza non ha alcuna ragione di litigare con la contemplazione. L'una e l'altra
raggiungono lo stesso oggetto, ma in una maniera diversa: l'una la verità, l'altra la realtà di
Dio.
H. Brèmond, Riguardo all'Umanesimo, p. 251
A ciascuno dunque la scelta della sua teologia, a seconda che egli vorrà convincere o
gustare!
LA VITA NASCOSTA DI GESÙ
Gennaio, racchiuso tra le solennità natalizie e la festa della presentazione di Gesù al tempio,
favorisce la riflessione sull'infanzia e la vita a Nazaret del Salvatore. Su questo mistero
spesso si sono soffermati i contemplativi, perché hanno avvertito una vicinanza e un'affinità
con i lunghi giorni trascorsi dal Figlio di Dio nell'assoluto nascondimento. In realtà il
contemplativo si trova a vivere una felice storia d'amore con Cristo, che lo conduce a
percorrere regioni del tutto ignote ai più, che per la loro invisibilità, la distanza dal mondo dei
sensi, della tecnica, della scienza, è difficilissimo persino esprimere, sebbene sono più vere
e reali di queste, a tutti note e quotidianamente battute. È una storia, allora, nascosta e
segreta anch'essa, come quella di Gesù! È nascosta agli sguardi estranei e inopportuni
degli "altri", di quelli che non sanno, che non intendono le grandi trasformazioni che
avvengono dentro e non possono perciò mai com-patire, né sempre accettano anche le
inusuali e talvolta apparentemente inutili scelte a cui tale storia conduce. Ecco alcune righe
delle riflessioni di un ben noto contemplativo, C. de Foucauld, sulla vita nascosta di Gesù:
""Scese con loro e andò a Nazaret, ed era loro sottomesso". Scese, sprofondò, si umiliò... fu
una vita di umiltà: Dio, apparivi uomo; uomo, costituivi l'ultimo degli uomini: fu una vita di
abiezione, scendesti fino all'ultimo tra gli ultimi posti" (Ritiro a Nazaret, 6 novembre 1897). È
subito riconoscibile quell'ultimo posto, così caro a de Foucauld, perché nessuno glielo
toglierà mai, perché sfuggendo inosservato e rimanendo quasi sconosciuto agli uomini, vi si
consuma una grande storia d'amore. Solo in tale nascondimento trova la pace e la serenità
necessarie per intrattenere indisturbato il dialogo dell'amore. Ecco infatti come il grande
amico di Gesù si esprime nel cuore di quella stessa notte: "Mio Dio, eccomi ai tuoi piedi
nella mia cella; è notte, tutto tace, tutto dorme; sono il solo forse in questo momento a Nazaret
che veglia ai tuoi piedi!... Che ho fatto per meritare questa grazia? Grazie, grazie, grazie!
Come sono felice! Ti adoro profondamente, mio Dio, ti adoro con tutta la mia anima e ti amo
con tutte le forze del mio cuore; sono tuo: solo tuo; tutto il mio essere è tuo: è tuo
necessariamente, nonostante me, ed è tuo volontariamente , con tutto il mio cuore: fa' di me
ciò che ti piacerà."
ABC
N. 13 - Febbraio 2001
123
ORAZIONE IN VACANZA
1 Ecco dunque le vacanze che si trascorrono… Abbiate cura di vegliare su voi stesso, per
paura che in mezzo alle distrazioni e agli svaghi che vi prendete, e che siete anche obbligato
in coscienza a prendervi, il vostro cuore non si diverta e non si leghi; non vi sono vacanze o
svaghi per esso. Bisogna che esso creda sempre nell’amore di Dio e nella rinuncia alle cose
della terra, ai piaceri e alle contentezze naturali.
2 Ci si lascia sempre più o meno distrarre dalla grande applicazione dell’anima a Dio per gli
svaghi e i rilassamenti che si è obbligati a dare al suo spirito, a meno che non sia
completamente liberato da ogni creatura e da se stesso…
Finchè non siamo là, non possiamo preservarci da questo impulso che per l’applicazione
forte e continua della nostra anima a Dio, che è quella preghiera perpetua di cui si parla nella
Santa Scrittura. Per questa applicazione, facciamo in modo di cercare Dio e di vivere solo
per lui; allora la grazia di Dio viene in nostro soccorso e ci attira interamente a lui.
3. Quando l’anima è giunta a questa rottura intera con tutte le creature e a questa rinuncia
totale, piena e completa di tutti i piaceri, contentezze e amor proprio, allora essa è sempre
ritirata al di dentro di se stessa accanto a dio…. Le cose esteriori non la disturbano
minimamente; essa conversa con gli uomini, fa esteriormente tutto ciò che fanno gli altri:
gioca, ride, ragiona con i suoi fratelli, passeggia e prende tutti gli esercizi e le ricreazioni
della vacanze, senza che tutto ciò la turbi per nulla. In mezzo a tutte le cose, essa non smette
di essere interamente unita a Dio perché non si attacca a nessuna di queste cose e non le fa
affatto per un suo piacere. Essa è indifferente a tutto e fa tutto unicamente in Dio e per Dio.
Con questo, si concede vacanze eccellenti, si distrae perfettamente, perché questa vita non
le costa alcuno sforzo, nessuna tensione di spirito.
François Liberman (1802-1852), Lettera del 19 settembre 1835 a un confratello
in vacanza
L’AUTORE: Figlio di un rabbino alsaziano, Jacob Liberman è battezzato a 24 anni (vigilia di
natale 1826) con il nome di Francesco, all’indomani di una conversione folgorante che lo
pose senza ritorno in una fase di unione con Dio. Immediatamente orientato verso il
sacerdozio, la sua salute precaria ritarderà la sua ordinazione fino al 1841. Senza attendere
questa data, egli sviluppa insieme ai suoi condiscepoli una pedagogia spirituale tanto sicura
quanto profonda di cui si trova traccia nella sua abbondante corrispondenza, e getta le basi di
un’opera di evangelizzazione dei neri che diverrà nel 1848 la Congregazione dello Spirito
Santo.
IL TESTO: 1 “Le distrazioni e gli svaghi che siete obbligato in coscienza a prendervi”: in se
stesse le vacanze dunque non si oppongono in nulla all’unione con Dio giacché è lui che ci
domanda di prenderle. Bisogna solamente “vegliare a che il nostro cuore non vi si attacchi”,
perché allora ci fermeremo al piacere che Dio dona, senza andare a Dio che dà questo
piacere.
2 Finché Dio non è il tutto della nostra vita ( Oh lettore! Dio è il tutto della tua vita?), il piacere
delle vacanze fa che rischiamo durante il resto dell’anno di dimenticare l’unico necessario; da
ciò un netto richiamo a una “applicazione forte e continua della nostra anima a Dio”. Finché la
santità non ci diventi una seconda natura, bisogna in effetti vegliare in modo molto cosciente
per non cadere o ricadere nella logica di una vita regolata dalle “contentezze naturali”. E
questa vigilanza permette a Dio di esercitare su di noi la sua attrazione (“la grazia ci attira
interamente a lui”), laddove la nostra negligenza ci trascina nella pura e semplice distrazione
da lui (e non più con lui). Questa applicazione forte e continua non è certo da sentire come
una tensione psichica (non avere che dei pii pensieri nella testa), ma come una fedeltà
amorosa (non volere niente che Dio non voglia). Concretamente, che i nostri giorni di
vacanze non solo rispettino il tempo che noi consacriamo abitualmente al raccoglimento, ma
che siano punteggiati da piccoli momenti durante i quali noi verifichiamo che ciò che siamo
sul punto di fare è proprio ciò che Dio vuole, senza cedere all’entusiasmo di attività volute per
il solo gradimento che procurano.
3 Rinunciare a tutti i piaceri non vuol dire che niente ci fa più piacere, ma che non si vive più
per il piacere: l’equilibrio di colui che è unito a Dio è in Dio stesso, non più nei doni di Dio
nella creazione. E trovandosi nel cuore di Dio, egli si trova di fatto nel cuore del mondo creato
da Dio; cosicché il mondo gira attorno a lui senza distrarlo da Dio. La conseguenza è chiara:
più si è uniti a Dio, più si trae vantaggio dal mondo e meno ci si lascia divorare da esso. Tale
è il segreto dell’efficacia e della facilità dei santi: la loro volontà e quella di Dio non fanno che
uno, essi non perdono niente di ciò che Dio vuol loro donare, piacere compreso. Perciò il
santo in vacanza “si distrae perfettamente, perché questa vita non gli costa alcuno sforzo,
alcuna tensione di spirito”.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
C come…. Consolazione
Chi non si è sentito un giorno immerso in una specie di evidenza amorevole e amabile di Dio,
posto, per un momento almeno in un equilibrio che egli qualificherebbe volentieri come
soprannaturale? Questa è la consolazione nel senso spirituale:
Io parlo di consolazione quando una mozione interiore si produce nell’anima, per la quale
questa viene a infiammarsi d’amore per il suo Creatore e Signore, giacché non può amare
nessuna cosa creata sulla terra in se stessa, ma solamente nel suo Creatore.
S. Ignazio di Loyola (1491-1556), Esercizi spirituali, § 316
Quando il Figlio le rivela al Padre,
Colui che avanza con questo fervore, questo calore e questa consolazione interiore, non ha
fardelli sì pesanti che non gli sembrino leggeri, né penitenze o altre prove sì grandi che non
gli siano molto dolci. Questa consolazione ci mostra e apre il cammino che dobbiamo
seguire, e ci fa fuggire dal cammino contrario.
Idem, Lettera 15 giugno 1536 a suor Teresa Rejadell
Ma diffidiamo delle contraffazioni!
Il cattivo angelo può, come il buono, consolare l’anima, con finalità opposte: il buono per il
profitto dell’anima, perché essa cresca e svolga del bene al meglio, il cattivo per il contrario.
Idem, Esercizi spirituali § 331
Come sapere se la consolazione viene da Dio?
Se le consolazioni ci rendono più umili, pazienti, caritatevoli, compassionevoli, ferventi…
senza dubbio vengono da Dio. Ma se queste dolcezze hanno la dolcezza solo per noi, ci
rendono più curiosi, inaspriti, permalosi, impazienti, duri verso il prossimo…. Indubbiamente
queste sono consolazioni false e perniciose.
S. Francesco di Sales (1576-1622), Introduzione alla vita devota IV, 13
In ogni modo la consolazione non è assolutamente una garanzia di santità:
Sebbene questa dolcezza spirituale sia molto buona, e Dio che ce la dà è molto buono, non
ne segue che chi la riceve sia buono.
Idem
Né di spiritualità:
Se l’anima sentisse una grande comunicazione o conoscenza di Dio, o qualche altro
sentimento, essa non dovrebbe ciò nonostante persuadersi che ciò sia il possederlo
maggiormente o essere maggiormente in lui. E se non avesse tutte queste comunicazioni
sensibili e intelligibili, essa non dovrebbe pensare che per questo Dio le venga meno.
S. Giovanni della Croce (1542-1591), Cantico spirituale I, 4
Esponendoci alla luce di Dio, questa fede amorosa permette di ricevere dall’interno la scienza
di Dio:
La fede mentre ci porta in Dio, ci pone di fronte alla sua luce accecante, tanto che la tenebra
più che luminosa di un silenzio che ci istruisce segretamente, riempie le nostre intelligenze
accecate delle sue luci più belle di ogni bellezza.
Dionigi Areopagita (sec VI?), Teologia mistica I, 1
Allora perché Dio le dà? È un suo segreto:
Spetta a Dio consolare, quando vuole, per quanto vuole e chi vuole, come a lui piacerà e non
di più.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Cristo III, 7
Ma non nascondiamoci che:
Quando Dio, per la sua misericordia, ci manda questa specie di sollievo, è molto spesso a
causa della fragilità e della debolezza umana.
Taulero (1300-1361), Istituzioni VIII
Così non dobbiamo ricercarle per se stesse:
Finché ricerchiamo la consolazione, viviamo ancora secondo la natura…. Finché cerchiamo
consolazione e conforto in qualche cosa che non è Dio, noi siamo ancora troppo giovani.
Ruusbroec L’Ammirabile (1293-1381), Il tabernacolo spirituale V, 106
Molti vorrebbero seguire nostro Signore sulla montagna del Tabor, ma molto poco in quella
del Calvario. L’una è nondimeno più proficua dell’altra; c’è più profitto nel compiere la volontà
di Dio o amarlo in qualche avvenimento che ci contraria, che a sentir parlare nostro Signore
nelle consolazioni che si ricevono talvolta nella preghiera.
San Francesco di sales, Sermone 23 febbraio 1614
Dobbiamo al contrario lanciarci nella fede, al di là di ogni consolazione:
Desidero con tutta me stessa che tu sia desolato di ogni consolazione temporale e
spirituale… Desidero che tu sia desolato di ogni consolazione per l’amore di Gesù Cristo
Dio e Uomo desolato.
Angela da Foligno († 1309), Lettera XIV
Che sia dunque una bella cosa avere una fede nuda! Dico nuda, non che sia denudata dalle
buone opere, ma che essa non desidera affatto sapere cosa sia né di essere riempita di
consolazione sensibile.
Taulero, Istituzioni VIII
Che fare dunque quando le consolazioni sopraggiungono?
Non respingete però le consolazioni spirituali, quando Dio ve le dà. Ricevetele con
abnegazione, senza fermarvi a guardarle né a gustarle, e non fate affatto riflessioni su ciò
che succede in voi nell’orazione.
Jean Rigoleuc (1596-1658), Lettera XIII a una orsolina
Riceviamo le consolazioni con gratitudine, senza tuttavia fermarci ad assaporare la dolcezza
sensibile e a compiacerci.
s. Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787), Pratica di amare Gesù Cristo 17,221
Questo invito al superamento può sembrare molto austero! Ma non lo è, perché
Tutto ciò che possiamo immaginare come consolazione, noi lo troveremo in Dio senza
misura.
Ruusbroec l’Ammirabile, La pietra brillante III, 5
Allora noi saremo consolati aldilà di ogni impressione di consolazione:
Vieni, Spirito Santo, Consolatore sovrano, ospite dolce dell’anima, tu che mi riposi
dolcemente!
Veni Sancte Spiritus (Sequenza di Pentecoste)
NASCONDIMENTO E LIBERTÀ
Avevamo già detto nello scorso numero, a proposito della vita nascosta di Gesù, che il
nascondimento favorisce il dialogo d’amore con Dio. Non si pensi che tale nascondimento si
identifichi con un luogo, come la cella di un monastero o la caverna dell’eremita, o persino
con un genere di vita. Gesù stesso si nascose perfettamente, tanto da stupire i Nazaretani
che lo sentirono nella sinagoga “Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle
parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano. “Non è il figlio di Giuseppe””:(Lc.
4,22), senza ricorrere a luoghi specifici o a stili di vita particolari; anzi il nascondimento di
Gesù ha il suo cuore nell’assoluta ordinarietà vissuta a Nazaret. Ciò che conta non è un
programma di ascesi, un luogo, una regola, bensì la possibilità di godere di una libertà
sufficiente, necessaria (non opzionale) per la dedizione al dialogo con Dio. La folla e il
tumulto devono restare fuori, per non disturbare questo dialogo; le ambizioni e i legami
disordinati devono essere estromessi, per non tradire e profanare l’unione. Non sono inutili i
luoghi e le scelte di tanti che si sono ritirati dal mondo per consacrarsi al Signore, poiché
determinante è solo la chiamata divina legittimamente riconosciuta dalla chiesa.
Discriminante per il nostro argomento è la direttrice di ogni stile di vita: la ricerca del dialogo
e dell’essere uno con Cristo, prendendo i provvedimenti a ciò indispensabili. Quel lungo
periodo della vita di Gesù ci dice della necessità del seppellirsi nell’ordinario e della
possibilità che questo accada ovunque e in qualsiasi forma di vita. La penitenza in ultimo
consiste proprio in questo seppellimento, che dà la morte a ogni forma di legame che non
lascia libera la persona e che condurrà il suo cuore dove è il suo tesoro. Per quanta ascesi ci
si prefigga di compiere (e non è da tralasciare affatto), il banco di prova dell’efficacia della
penitenza, quale dimensione della vita del cristiano, è la celerità con la quale lasciamo
cadere ogni cosa, ogni sentimento, ogni pensiero, per ritirarci con lo Sposo, nel dialogo da
lui ardentemente desiderato. Più che indicarci esclusivamente la preghiera, poiché Cristo
pregò costantemente fin sulla croce, la vita nascosta di Gesù ci presenta lo specifico del
cammino necessario per l’acquisizione da parte di noi uomini, della libertà piena, quella dei
figli, quella di coloro che sono uno con lui, un solo volere, un solo pensiero, quella di coloro
che sono posti segno elevato tra le nazioni. Il coraggio e la determinazione mostrati da Gesù
nel ministero pubblico, richiesti a ogni cristiano adulto nella fede, affondano le radici in
questa libertà perfetta.
ABC
N. 14 - Marzo 2001
123
LA SOVRANA LIBERTÀ DI DIO
Quando il divino amore ha gettato gli occhi su un'anima, la eleva d'autorità e la porta via in un
paese straniero dove le fa vedere un mondo nuovo. È facile pensare che quest'anima non
appartiene più a sé stessa. Si comprende bene che ella ha un nuovo padrone, ma non sempre
si sa chi sia questo padrone: spesso si ignora cosa è questo amore vittorioso, questo divino
conquistatore dei cuori. Egli conosce l'arte di incantare e possiede un fascino a cui non si
resiste. Egli prende chi gli sembra buono e non si ha il diritto di domandargli perché ne usi in
tal modo, in quanto risponderebbe che egli non deve rendere conto a nessuno della sua
condotta, perché ha ogni potere in cielo e sulla terra. E se gli si dicesse: "Perché, dopo aver
elevato quest'anima, la rendete tanto selvaggia? Perché la fate apparire come insensata agli
occhi del mondo?", egli risponderebbe: "Perché tale è il mio piacere; voi non c'entrate. Io
vado per il mondo, cerco dei soggetti, faccio delle conquiste. Questa si è data a me: ne
disporrò come di una cosa che mi appartiene, la separerò da ciò che le era più caro, la
spoglierò di ciò che aveva di più intimo, la porrò fuori di sé stessa con il sentimento della mia
purezza e della mia potenza".
Si dica ciò che si vuole: c'importa poco che il mondo approvi i nostri amori. Questo mondo
perverso è in grado di crocifiggere l'innocenza e di condannare la saggezza. L'amore divino
ha diritto di parlare così; il suo potere è sovrano e fortunati coloro su cui a lui piace
esercitarlo!
Jean-Joseph Surin, Lettere Spirituali, I, p.123
L'AUTORE: Nato nel 1600 in una famiglia di parlamentari di Bordeaux fu allievo dei Gesuiti,
prima di entrare a sua volta nella Compagnia. Di temperamento ansioso, la sua salute fisica e
mentale vacilla a contatto delle indemoniate di Loudun vicino ai quali il suo ministero lo pone,
a partire dal 1634. Per venti anni sprofonda in un abbandono quasi totale che sarà però la
molla di un formidabile approfondimento mistico. Le sue lettere di direzione, diversi trattati e
infine la sua Guida Spirituale (1660), testimoniano un equilibrio e una lucidità interiore che
nessuna prova potrà compromettere; "Che io viva o muoia è per me la stessa cosa; mi è
sufficiente che l'Amore dimori in me". Messo in disparte durante gli anni di prova, una
moltitudine di anime in cerca di pace e di riconciliazione si recherà da lui al tramonto della
sua vita, fino alla morte nel 1665.
IL TESTO: Ogni contemplativo sa che Dio si è impadronito di lui senza domandare il suo
parere: "Tu mi hai sedotto, Signore, ed io mi sono lasciato sedurre!" (Ger. 20, 7). Quando si
parla di "vocazione", si tratta di questa seduzione: "Egli conosce l'arte d'incantare e
possiede un fascino a cui non si resiste".Quali che siano gli ostacoli che presagisce,
quest'anima sa che non potrà più fare a meno di Dio: il suo cuore è preso molto prima della
sua intelligenza o della sua volontà. Dolce o violenta, precoce o più tardiva nello svolgersi di
un'esistenza, questa impresa di Dio colloca in ogni modo la sua vittima in una logica diversa
da quella del mondo tanto che: "quest'anima non appartiene più a sé stessa", ella è resa
"tutta selvaggia", incomprensibile a chi la circonda, che non sa che ci si può innamorare del
Buon Dio. È la ragione per cui se ella può, cercherà la pace del chiostro, almeno del suo
chiostro interiore, al riparo dalle questioni di coloro che non ci comprendono nulla.
"Tale è il mio piacere". Questa libertà di Dio è quella del suo amore: l'amore non si giustifica
che in se stesso, altrimenti non è più amore. Una vocazione si individua attraverso dei segni,
certamente, ma un segno non è una ragione, e la scelta di colui che Dio "eleva d'autorità" è
quella di resistere o soccombere, non quella di considerare un'altra via di felicità.
"Io la separerò da ciò che le era più caro". Difatti quest'anima non potrà più veramente
interessarsi a ciò che prima la faceva correre. Il fatto che tutto ciò non le dica più niente è
pure uno dei segni dell'autenticità di una vocazione contemplativa. E questa separazione
poco a poco la spoglia di se stessa, dilatandola secondo la misura di Dio. Curiosamente, al
cuore di questa spoliazione, ella si sentirà vivere sempre più, in quanto "l'opera di
quest'amore consiste nel distruggere, sconvolgere, abolire e poi rifare, ristabilire,
risuscitare. È meravigliosamente terribile e dolce: e più è terribile, più è desiderabile e
attraente. Se egli osa tutto, è per unire a lui ciò che lo separa da tutto il resto. Egli domanda
tutto e dà tutto" (Lettere Spirituali, I, p.179).
Allora, "lasciatevi vincere dal suo fascino. Sopportate che egli vi spogli di tutto, che vi separi
da tutto, che vi rapisca a voi stessi e che vi elevi nella beata regione in cui regna sovrano".
(Idem)
L'ORAZIONE dalla A alla Z
C come....Contemplare
Ecco che l'anima si scopre incapace di fissarsi sulle parole e le immagini che l'aiutavano a
fare orazione in un primo tempo; se il suo amore di Dio peraltro, sussiste, è segno che ella è
entrata in contemplazione:
L'anima non è più in cammino, ma al termine del viaggio. Ella non cerca più le ragioni di
amare nella meditazione, ella gioisce, in riposo, dell'oggetto del suo amore infine trovato,
unico scopo delle sue ricerche e del suo desiderio.
Beato Luigi di Granada, Libro dell'Orazione e della Meditazione, II, 5, 9
Infatti la sua vita interiore ha cambiato regime:
Con la meditazione l'anima cammina a piedi con fatica; con la contemplazione l'anima vola
senza sforzo.
Luigi Lallemant (1588-1635), Dottrina Spirituale, VII, IV, 1
All'inizio questa contemplazione é quasi impercettibile:
Questo modo di orazione é una piccola fiamma del suo vero amore, che il Signore comincia
ad accendere nell'anima.
Santa Teresa d'Avila (1499-1569), Vita, 15, 4
Così ci potrebbe essere il pericolo di spegnere questa fiammella:
Vi sono molte anime che arrivano a questo stato, ma poche che vanno più lontano:...
sicuramente ciò non sarà per colpa di Dio, in quanto quando Sua Maestà dà la grazia di
arrivarci, io credo che non cesserà di fare molto di più, ma sarà per colpa nostra.
Idem, 15, 2
Qual è dunque questa colpa che spesso ci fa perdere tutto?
È ciò su cui insisto molto, si tratta di non abbandonare l'orazione, mancando la quale, a mio
avviso ci si metterebbe in pericolo.
Idem, 15, 3
Che accade dunque, segretamente, sotto l'apparente impotenza dell'anima?
La contemplazione è scienza d'amore che Dio infonde [nell'anima] e che rende l'anima
contemporaneamente sapiente e amorosa.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Notte Oscura, II, 18, 5
[Essa è] una manifestazione sperimentale e intima che Dio dà di sé stesso, della sua bontà,
della sua pace e della sua dolcezza. Fatta astrazione di ogni pensiero particolare, nel
silenzio interiore, suo oggetto è unicamente Dio, ineffabile.
Molinos (1628-1696) Guida spirituale, III, 13
Questo necessario silenzio interiore implica che la contemplazione sia interamente opera di
Dio:
Da se stesso, l'uomo non potrà contemplare Dio; ma se egli lo vuole, Dio sarà contemplato
dagli uomini, da coloro che egli vuole, quando vuole e come vuole.
Sant'Ireneo (II secolo), Adversus Haereses, IV, 20, 5
Supponendo che Dio lo voglia, l'uomo potrà dunque solo disporvisi:
La prima disposizione di un'anima che ha intenzione di contemplare, è un vero desiderio di
ascoltare Dio, facendo tacere tutti i suoi pensieri, le affezioni della sua volontà e tutti i suoi
discorsi.
Francesco Malaval (1627-1719), Pratica Facile della Contemplazione, I
Colloquio
Proteggiamo con tutta la nostra attenzione, ad ogni momento, il nostro cuore dai pensieri che
offuscano lo specchio dell'anima, nel quale s'imprime e si fotografa [sic!] Gesù Cristo,
Sapienza e potenza di Dio.
Filoteo il Sinaita (verso il 900), Philocalia, pp.515-525
.... essendo il nostro ruolo nella contemplazione, quello di esporci alla luce di Dio:
Come è impossibile all'occhio percepire gli oggetti sensibili senza la luce del sole, così
senza la luce spirituale l'intelligenza umana non saprebbe, in alcun caso, ricevere la
contemplazione spirituale.
San Massimo il Confessore (580-652), Ad Thalassium q. 59
L'incapacità della natura a percepire (ma non a ricevere) questa luce fa sì che l'anima avrà la
sensazione di essere in piena oscurità, impotenza, ecc.:
L'anima è ormai attorniata dalla notte divina, nella quale lo Sposo si rende presente ma non si
manifesta ... È per l'anima una venuta che ella sente, ma egli sfugge alla conoscenza chiara,
nascosto dall'invisibilità della sua natura.
San Gregorio di Nissa (335-394), Commentario sul Cantico, 1001 b
Ben lungi dall'inquietarsene,
Dimori in riposo, risoluta e costante anche se si vede sola, arida e piena di tenebre, lasciando
che il Signore operi. Ciò le sembrerà forse ozio, ma solo per la sua attività sensibile e
materiale, non per quella di Dio, che opera, allora in lei la vera scienza.
Molinos, Guida Spirituale, Preambolo
Nel totale silenzio delle creature, che solo il Creatore parla, non tramite esse, ma tramite se
stesso, lui che noi amiamo in esse e che intenderemo allora senza di esse.
Sant'Agostino (354-430), Confessioni, IX, 25
Allora, conoscenza e amore di Dio cresceranno ormai senza fine:
[In questa contemplazione] è certamente abbondante ciò che si scopre, ma infinito ciò che è
al di sopra di quel che si afferra ad ogni momento, ... poiché l'anima va da un inizio all'altro
attraverso degli inizi che non hanno mai fine.
San Gregorio di Nissa, Commentario sul Cantico, 940-941
Così che,
Quando Dio si degna di parlare alla vostra anima, ... ciò che dovete fare è che tutto in voi
cessi per questa unica pratica di guardare Dio e di lasciarlo fare in voi secondo il suo
beneplacito.
Santa Giovanna di Chantal (1572-1641), Lettera del 1638 alla sorella di Duret
IN CAMMINO VERSO LA PASQUA
Siamo entrati nel ciclo pasquale con i suoi cento giorni, dal Mercoledì delle Ceneri a
Pentecoste. Puntiamo subito l'attenzione sul Crocifisso, come d'altronde ci invita a fare la
Chiesa. Non vogliamo ignorare la Risurrezione e la relativa gioia della vita cristiana; al
contrario, è proprio essa che ci rimanda alla consumazione finale di Gesù.. Il Crocifisso ha
per noi una rilevanza assoluta solo in forza del mattino di Pasqua. Se, per altro, lo
contemplassimo al di fuori di essa, si correrebbe il rischio di ridurlo in un'angusta visione. Lo
ridurremmo al sofferente e abbandonato da tutti, perfino da Dio, in un quadro esclusivamente
negativo e pessimistico come rimane quello mondano senza il lume della fede. Non si
comprenderebbe nemmeno la costante tensione degli amici di Dio, i quali sono attratti come
da un potente magnete dalla passione di Cristo. Chi di essi non ha supplicato di essere unito
a Lui, fino alla perfetta somiglianza? Si tratterebbe sempre di commiserazione umana o di
uno schizofrenico quanto macabro innamoramento, che così nasconderebbe una tendenza
all'autodistruzione? Quando essi considerano la croce come il talamo sul quale si consuma
lo sposalizio con Gesù, bisogna pensare piuttosto alla fede-amore, legame più profondo di
uno stato psicologico. E che dire della loro gioia genuina, pur in mezzo alla passione, nella
quale permangono in pace, senza che si alteri l'equilibrio della loro personalità?
Dobbiamo approfondire invece il mistero della passione di Cristo, un tempo da lui vissuto
nelle tenebre più fitte per la sua intelligenza, nella derelizione più totale per il suo cuore, ma
anche nella piena unione con Dio dal quale riceveva consolazione. È il mistero delle due
nature, umana e divina, unite nell'unica persona del Verbo; è il mistero della morte che si
cambia in vita già sulla terra nell'esperienza del cristiano che partecipa in modo
esistenzialmente pieno alla Pasqua del Signore, per il quale un "non so che" lo guida e gli
dà certezza pur in mezzo all'oscurità di indicibili sofferenze interiori ed esteriori. Per quanto
gli amici di Dio siano provati anche dal dubbio della fede e dalla tentazione della ribellione,
non sopportano, come Giobbe, quelli che parlassero loro contro il Diletto, che li invitassero
con "sagge" considerazioni a moderazioni e ravvedimenti o, comunque, insinuassero il
dubbio che quell'esperienza allontana più che unisce al grande amore della loro vita.
È dolce iniziare la Quaresima volgendo subito lo sguardo a Colui che hanno trafitto, vivere gli
esercizi più faticosi con lena e coraggio, lasciandoci attirare da Colui che ha desiderato
ardentemente di mangiare la Pasqua con i "suoi".. Il libro della Passione di Cristo è il tesoro
dell'eterna sapienza, che giace in noi per il battesimo ricevuto, ma che attende di essere
compiuto con la nostra pagina da scrivere insieme. Ecco la pagina che Egli ha scritto con
Teresa di Lisieux: "Risolsi di tenermi in spirito a piè della Croce per raccogliere la divina
rugiada, comprendendo che avrei dovuto, in seguito, spargerla sulle anime... Il grido di Gesù
sulla croce mi echeggiava continuamente nel cuore: "Ho sete!" Queste parole accendevano
in me un ardore sconosciuto e vivissimo ... Volli dare da bere all'Amato, e mi sentii io stessa
divorata dalla sete delle anime" (MA 134).
ABC
N. 15 - Aprile 2001
123
LE AUDACIE DELL'AMORE
§1 [Fra Lorenzo mi disse] che egli si era sempre retto con l'amore, senza alcun altro
interesse, senza preoccuparsi se si fosse dannato o se si fosse salvato. Ma che avendo
preso per fine di tutte le sue azioni il farle tutte per l'amore di Dio, si era trovato bene. [Egli mi
disse] che era contento quando poteva alzare una paglia da terra per amore di Dio, , neanche
i suoi doni.
§2 [Egli mi disse] che, ma che prendendo il frutto di queste grazie, bisognava rigettarne il
gusto, dicendo che tutto ciò non era affatto Dio, poiché si sapeva per la fede che Egli era
infinitamente più grande e tutt'altro di ciò che se ne sentiva. [Egli mi disse] che in questa
maniera d'agire avveniva tra Dio e l'anima un meraviglioso combattimento: Dio dona e l'anima
nega ciò che ha ricevuto, fosse anche Dio. [Egli mi disse] che in questo combattimento
l'anima era per la fede tanto forte e più forte di Dio, poiché Egli non poteva mai tanto dare che
essa non potesse sempre negare che Egli fosse ciò che Egli donava.
§3 [Egli mi disse] che l'estasi e il rapimento non erano che di un'anima che si divertiva al
dono, invece di rigettarlo e di andare a Dio aldilà del suo dono; poiché, aldilà della sorpresa,
non si lasciava affatto travolgere ...
§4 [Egli mi disse] che Dio ricompensava così prontamente e così magnificamente tutto ciò
che si faceva per Lui, che egli aveva qualche volta desiderato di poter nascondere a Dio ciò
che egli faceva per amor suo, affinché, non ricevendo affatto ricompensa, potesse avere il
piacere di fare qualcosa puramente per Dio.
§5 [Egli mi disse] che tutta la sua vita non era che un libertinaggio e una gioia continua; che
egli metteva i suoi peccati tra Dio e lui, come per dirgli che non meritava le sue grazie, ma
che ciò non impediva a Dio di colmarlo di esse. [Egli mi disse] che Egli lo prendeva qualche
volta come per mano e lo conduceva davanti a tutta la corte celeste, per far vedere il
miserabile al quale Egli aveva il piacere di fare le sue grazie.
Frate Lorenzo della Risurrezione, Conversazione del 28 settembre 1666
L'AUTORE: Nato presso Lunéville, Nicolas Herman (1614-1691) conobbe prima come
soldato le angosce della guerra dei Trenta Anni. Ferito a Rambervilliers nel 1635, decide di
consacrarsi a Dio ed entra come converso nel convento parigino di Rue de la Vaugirard, dove
riceve il nome di Lorenzo della Risurrezione. Semplice per sua origine, la sua educazione e
il suo carattere ("Frate Lorenzo è grossolano per natura e delicato per grazia", dirà di lui
Fénelon), la sua spiritualità tutta in schiettezza e bonarietà va alle ultime conseguenze di un
abbandono irrevocabile alla bontà divina. Egli ci lascia pochi scritti, ma la sua personalità
incontestabile fu un caposaldo per molte anime lacerate tra quietismo e giansenismo in tutta
la Parigi mistica della fine del secolo XVII.
IL TESTO: Le Conversazioni di uno sconosciuto con Frate Lorenzo riflettono la sua gioiosa
spontaneità fino agli stati mistici più perfetti. Il buon converso, che noi immaginiamo
maneggiare la pala e la scopa, prende evidentemente piacere a spingere al paradosso la sua
santa spensieratezza: giacché Dio solo è il suo tutto ("cercando Lui solo puramente e non
altra cosa"), il suo solo sforzo sarà di negare ogni limite al loro amore. Così che una specie
di competizione d'amore s'inizia, nella quale Dio e l'anima prendono a turno vantaggio:
§1 Che vuol dire "essere dannato" o "essere salvato", se non essere o non essere nell'amore
di Dio? Non vivendo che di questo amore, Lorenzo non attende né inferno né paradiso, né
punizione, né ricompensa; egli è ora e già in paradiso!
§2 "questa condotta dell'anima obbligava Dio a fargli delle grazie infinite". Dio non mette
alcun limite al suo amore: siamo noi che ne mettiamo. Ma togliendo questi limiti, noi lo
obblighiamo a espandersi in noi come "una sorgente zampillante di vita eterna" (Gv 4,14).
Amandoci, Dio ci dona d'amarlo, e questo ci rende felici. Ma fermarsi a questo effetto,
sarebbe fermarci d'amare; la fede portandoci aldilà di questo effetto, ci rilancia senza tregua
nell'amore, obbligando Dio a continuare ad amarci, in uno scambio incessante, un
"meraviglioso combattimento" tra lui e noi.
§3 Tra gli effetti dell'amore, estasi e rapimenti non sono che degli accidenti in una vita
spirituale. Per parlarne qui, si può supporre che frate Lorenzo vi sia stato soggetto. In ogni
caso, ciò non merita più del resto che vi ci si fermi, perché tra Dio e noi c'è di meglio:
l'Incarnazione, molto semplicemente, che è Dio tutto intero nell'uomo tutto intero, cosa che è
più di tutte le estasi. E quando "non ci si lascia affatto travolgere", questi fenomeni
passeggeri sfumano ben presto,
§4 Dio è più che l'amore di Dio: Egli è l'amore alla sua fonte. A questa fonte vuole andare
Lorenzo, nella pura trasparenza di un dono di sé, che non s'ingombra con la propria felicità.
§5 E come questo sgombero non gli basti ancora, Lorenzo trova un nuovo grado d'amore:
offrire i suoi peccati a Dio, donandogli così di che amarlo ancor di più, e di manifestare
l'eclatante gratuità della sua misericordia: "la prova che Dio ci ama, è che Cristo è morto per
noi quando eravamo ancora peccatori" (Rom 5,8).
L'ORAZIONE dalla A alla Z
C COME ... CONTRADDIZIONI
Io vorrei potervi strappare tutta questa tenerezza alle contraddizioni, tentazioni, privazioni di
ciò che si desidera, e con un cuore generoso vi galleggereste. In proposito, dire delle parole
di fermezza, di disprezzo, di coraggio e di forza con la parte superiore, e non fermarsi a
guardare niente di tutto ciò, ma passare oltre nel vostro cammino, non avendo nessuna
preoccupazione del domani, perché non bisogna affatto averne; ma con buona fede, sotto la
provvidenza di Dio, non curarvi che del giorno presente, lasciando il vostro cuore a nostro
Signore, perché voi glielo avete donato, senza mai volerlo riprendere per nessuna cosa.
S. Francesco di Sales (1567-1622), lettera a s. Giovanna di Chantal, tra il
1612 e il 1616.
Così piuttosto che desolarci di ciò che ci contraria, comprendiamo che gli avvenimenti sono
tali nell'amore di Dio:
Se noi li guardiamo nella loro origine, essi ci saranno di consolazione e benedizione; perché
infine niente può partire da questa dolce mano che non sia per la sua più grande gloria e per
il nostro bene.
S. Giovanna di Chantal (1572-1641), lettera a madre de Bréchard, 22 maggio
1627.
Non prendete per collera ciò che è amore vero: i colpi portati da colui che vi ama, dice la
Scrittura, valgono di più dei baci menzogneri di colui che vi odia! ... Così non turbatevi per ciò
che vi accade: tutto ciò esce dalle mani che sono state inchiodate sulla croce per voi, e in
testimonianza d'amore per voi.
S. Giovanni d'Avila (1499-1569), lettera 20,1.
In effetti, nella fede noi sappiamo, anche quando non lo comprendiamo, che "tutto concorre al
bene di coloro che amano Dio" (Rom 8,28):
Se io dimoro in te, Signore, è così impossibile che tu non ti prenda tanto cura di me quanto di
te stesso, in ogni tempo, in ogni luogo e in ogni occasione ... è tanto impossibile che tu
perisca, quanto è impossibile che io perisca.
Gerlac Peters (1378-1411), Soliloquio infiammato, cap. XV.
Allora la sola cosa intelligente da fare nelle avversità, è di abbandonarci a colui che ci
conosce meglio di noi, che ci ama meglio di noi:
L'uomo, che per amore ha messo la sua condotta nelle mani di Dio, non potrebbe fare cosa
più saggia che perdere la sua sapienza, la sua scienza e la sua luce in questa condotta; se
lo raggiungono delle tempeste, egli navigherà in tutta sicurezza.
Jean-Joseph Surin (1600-1665), Guida spirituale, III, 6.
Sì, ma infine gli accade che queste tempeste facciano veramente male! Non abbiamo dunque
il diritto di compiangerci?
Non trattenete dal compiangervi, ma io vorrei che ciò fosse per Lui, con uno spirito filiale,
come farebbe un tenero fanciullo a sua madre; perché, se ciò avviene amorosamente, non vi è
affatto pericolo di compiangersi, né di domandare la guarigione, né di farsi alleviare. Fate
solamente questo, con amore e rassegnazione tra le braccia della buona volontà di Dio.
S. Francesco di Sales, lettera alla Signora della Fléchère, 16 luglio 1608.
Non abbiamo dunque il diritto di avere delle preferenze?
Sebbene nello stato di grazia si possa, assolutamente parlando, domandare alcune cose, è
sempre un'imperfezione desiderarle con troppa premura. Ciò che Dio vuole prima di tutte le
cose è di cedergli interamente la nostra volontà, lasciandogli fare tutto ciò che gli piace.
Taulero (1300-1361), Istituzioni, cap. XVIII.
E allora proveremo simultaneamente voglie o ripugnanze, piaceri o dispiaceri in superficie di
noi stessi, e una inalterabile felicità in una zona più profonda, accordata con il modo delle
cose in Dio:
I fastidi degli affari, le persecuzioni degli uomini, le vessazioni dei demoni, le distrazioni delle
creature, le croci, le pene, le malattie, qualunque altra cosa non potrebbe turbare né
inquietare questo fondo che è la dimora di Dio.
Maria dell'Incarnazione (1599-1672), in Dom Claude Martin, Vita, III, cap. 12.
Anche se queste contraddizioni vengono dai nostri fratelli, piuttosto che dagli avvenimenti:
Come una pietra che bisogna pulire e lavorare prima di porla in un edificio, dovete
comprendere che tutti i vostri compagni non sono che degli impiegati di Dio, che egli ha
messo là per lavorarvi e pulirvi mortificandovi, gli uni con la parola, gli altri con le loro azioni,
altri con il loro carattere, altri con i loro pensieri, non provando verso di voi né stima né affetto.
S. Giovanni della Croce (1542-1591), Consigli a un religioso, 2.
... o di quelli che hanno autorità su di noi:
Dio preferisce in te il più piccolo grado di obbedienza e di sottomissione, che tutti i servizi
che penseresti di rendergli.
Idem, Sentenze, 13.
E quando si ha decisamente un carattere troppo cattivo:
È una delle massime più importanti del puro amore d'essere contenti di non vedersi mai
contenti; poiché è allora il puro amore del buon piacere di Dio che può renderci e tenerci così
contenti.
Alessandro Piny (1640-1709), Stato del puro amore, cap. XVI bis, 5.
In fondo,
Non sono le cose che ci turbano, ma noi che ci turbiamo per esse. E i nostri movimenti non ci
porterebbero mai aldilà della ragione, se noi guardassimo tutte le cose ragionevolmente, cioè
con la luce di Dio.
Francesco Malaval (1627-1719), Pratica facile della contemplazione, I, 3.
CONFORMARSI AL CROCIFISSO
In continuità con il tema dello scorso numero, propongo un testo di Charles de Foucauld che
trovo appropriato per illustrare sia nel Signore sia nel suo fedele, chiamato alla piena
conformazione a Lui, la presenza insieme della consolazione di sapersi in comunione con
Dio e della sofferenza oscura della croce, che così è vissuta come culmine dell'unione
sponsale con Dio. È un testo che Charles scrive il 14 aprile 1898, in un giovedì di Pasqua,
durante il suo soggiorno in Terra Santa, mettendolo in bocca a Gesù:
"Questa felicità interiore, superiore, profonda, che ti dà il sentimento della mia felicità, e che è
inseparabile da un amore illuminato, non t'impedirà di soffrire, figlio mio, di soffrire nella
parte inferiore della tua anima e del tuo corpo; come per me, la visione beatifica di cui godevo
come uomo non mi ha impedito di portare la croce e di soffrire molto nella mia anima e nel
mio cuore: non solamente questa felicità intima non t'impedirà di soffrire, ma ti permetterà di
soffrire molto di più; ti darà delle forze per sopportare delle croci molto più pesanti;
donandotela, lungi dal renderti con ciò esente dalla croce, io ti rendo capace di portarne di
molto più pesanti; io ti dono con ciò un fondo di forze che ti permettono di soffrire molto di più:
... questa gioia della mia felicità fondata sulla pura fede, conforme alla più pura verità, di cui
ho goduto io stesso tutta la mia vita, che è un risultato necessario dell'oblio di te per cercare
me solo, che è un risultato necessario del più puro amore, che consiste anzitutto (non
unicamente, ma soprattutto) nel dimenticare se stesso e desiderare sopra tutto il bene
dell'essere amato... questa gioia che è insieme una virtù e una grazia è talmente poco
opposta alla dottrina della croce, del combattimento, del lavoro, delle sofferenze della vita, che
essa è l'effetto della croce e nello stesso tempo la causa... l'effetto, perché nasce come un
fiore dallo stelo, dall'oblio di sé... la causa, perché essa permette, con le forze che dà, di
sopportare delle croci molto più pesanti, delle sofferenze molto più grandi, di intraprendere
dei lavori molto più rudi... di più, non dimenticare mai che ogni volta che una cosa, che uno
stato è conforme a quello che fu il mio stato nella mia vita mortale, questa cosa, questo stato
è una perfezione; la somiglianza di questa gioia con la visione beatifica di cui ero dotato
basta da sé sola per provare che è una perfezione."
ABC
N. 16 - Maggio 2001
123
LA PREGHIERA, PASQUA DI CRISTO IN NOI
§ 1 Colui che guarda in faccia il Cristo attaccato alla croce, nella fede, nella speranza e nella
carità, fa la Pasqua con lui, cioè il passaggio [cf. Es. 12,11]; così pure, grazie all’asta della
croce, egli passa il Mar Rosso, uscendo dal’Egitto per entrare nel deserto [cf. Es. 14, 16]; là
gusta la manna nascosta [cf. Es. 16, 15], riposa con Cristo nella tomba, come morto al mondo
esteriore. Peraltro, egli sente, per quanto è possibile nello stato di aviatore, ciò che è detto
sulla croce al ladrone accanto a Cristo: «Oggi tu sarai con me in Paradiso» [Lc. 23, 43].
§ 2 In questo passaggio, perché esso sia perfetto, bisogna abbandonare tutte le operazioni
intellettuali e bisogna che la punta del nostro volere sia trasportata e trasformata in Dio. Ma è
un dono mistico e molto segreto, che “nessuno conosce se non chi lo ha ricevuto” [Ap. 2, 17];
e nessuno lo riceve se non lo desidera e non lo desidera se non è abbracciato fino al midollo
dal fuoco dello Spirito Santo che Cristo ha mandato sulla terra [cf. Lc. 12, 49]…
3 Poiché in ciò la natura non può niente e l’abilità poca cosa, bisogna concedere poco alla
ricerca e molto all’unzione, poco alla lingua e il più possibile alla gioia interiore, poco alle
parole e agli scritti, e tutto al dono di Dio, cioè allo Spirito Santo; non bisogna concedere che
poco o niente alla creatura, e tutto all’essenza creatrice, Padre, Figlio e Spirito Santo.
4 Se tu domandi come ciò si può fare, interroga la grazia e non la scienza, il desiderio e non
l’intelligenza, i gemiti della preghiera e non lo studio dei libri, lo sposo e non il maestro, Dio
e non l’uomo, le tenebre e non la chiarezza, non la luce ma il fuoco tutto intero che consuma e
che trasporta in Dio con fortissime unzioni e ardentissimi affetti. Questo fuoco è Dio stesso, e
“la sua fornace è in Gerusalemme” [Is., 31, 9]. È Cristo che lo ha acceso con il fervore della
sua passione ardentissima, e solo lo percepisce veramente colui che dichiara: «la mia anima
ha scelto il patibolo, e le mie ossa hanno scelto la morte» [Gb. 7, 15]…. Moriamo dunque ed
entriamo nelle tenebre; imponiamo il silenzio alle preoccupazioni, alle concupiscenze e alle
immaginazioni. Passiamo con Cristo crocifisso “da questo mondo al Padre” [Gv. 13, 1]
s. Bonaventura, Itinerario della mente in Dio, VII
L’AUTORE: Nato in Umbria nel 1221, Bonaventura riceve la sua formazione filosofica e
teologica a Parigi nel momento in cui l’aristotelismo vi irrompe con forza. Lì diventa discepolo
del francescano Alessandro di Hales († 1245), e presto frate minore a sua volta, diventerà
maestro in teologia all’Università di Parigi lo stesso giorno di s. Tommaso d’Aquino.
Saranno loro due i pilastri dell’insegnamento parigino allora ai suoi apogei. Superiore
generale del suo ordine (1257), poi cardinale e vescovo di Albano (1273), muore al concilio di
Lione nel 1274. Tutto il suo pensiero è quello di uno spirituale, discepolo di s. Francesco
prima di essere un filosofo e un teologo essenziale per l’occidente cristiano. Compose il suo
Itinerario della mente in Dio in seguito ad una visita alla Verna, dove s. Francesco aveva
ricevuto le stimmate.
IL TESTO: Fedele alla lettura classica della Bibbia, s. Bonaventura ne sovrappone
esplicitamente o implicitamente parecchi testi per farci comprendere che si compie oggi in
noi ciò che è iniziato nella storia santa: la Pasqua del popolo ebraico anticipa quella di Gesù,
che continua in quella del cristiano. L’asta miracolosa di Mosè annuncia la croce, la nube
luminosa (“le tenebre, il fuoco che consuma”) è quella della fede, la manna è il simbolo del
nutrimento nascosto in questa fede, e il pellegrinaggio del popolo eletto si ritrova nel nostro
“stato di aviatore” quaggiù.
§1 Come il popolo eletto avanzava sotto la guida di Mosè nella fiducia della promessa di Dio,
noi entriamo nella vita eterna sotto la guida di Cristo, al quale ci affidiamo con la fede, la
speranza e la carità (“come morto al mondo esteriore”). Tutta la via spirituale consiste in
questo passaggio dalla morte (l’Egitto pagano) alla vita eterna (la terra promessa) lungo un
esodo che abbraccia il progresso dell’anima: all’interno della fede, entriamo già nella
promessa di Cristo al buon ladrone.
2-3 Poiché questa Pasqua è interamente opera di Dio, bisogna rinunciare ad ogni potere
naturale su essa: né le nostre idee (“bisogna abbandonare tutte le operazioni intellettuali”),
né la nostra azione (“bisogna che la punta del nostro volere…”) raggiungono ciò che è
nascosto in Dio, e che non ci è dato percepire se non “in croce”, cioè attraverso il nostro
desiderio risvegliato dall’azione dello Spirito Santo. La nostra parte nella vita spirituale sta in
questa disponibilità allo Spirito Santo, la cui azione (“l’unzione”) zampilla in una presa di
coscienza piena di gioia.
§4 Piccolo riassunto di questa lettura mistica dell’episodio biblico della Pasqua: come Mosè
entrando nella nube riceveva la luce e la forza da Dio, quando noi ci esponiamo al fuoco di
Dio nella fede, rispondendo alla sua grazia con la preghiera, passiamo con Gesù “da questo
mondo a suo Padre”: In ciò stesso raggiungiamo Gesù sulla croce (”la sua fornace è in
Gerusalemme…; la mia anima ha scelto il patibolo”), punto di deflagrazione nella nostra
carne di tutto l’amore di Dio: l’unione a Cristo è nello stesso tempo compimento in noi del suo
sacrificio.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
C come … CROCE
“Se qualcuno vuo venire dietro a me, prenda la sua croce e mi segua” (Mt. 8, 34
Perché la vita cristiana è così crudele? In verità essa ci sembra tale quando la fuggiamo.
La croce è di dio, ma essa è croce perché noi non ci uniamo ad essa; perché quando si è
fortemente risoluti nel volere la croce che dio ci dà, essa non è più croce: Essa è croce
perché noi non la vogliamo; e se essa è di Dio, perché dunque non la vogliamo?
s. Francesco di Sales (1567-1622) Lettera scritta verso il 1613
Ritroviamo dunque la volontà di Dio e la nostra paura della croce svanirà:
Quando l’uomo vivendo sulla croce si abbandona al Signore e gli appartiene interamente, Dio
in qualche modo si abbandona interamente all’uomo e gli appartiene totalmente, e l’uomo
possiede la pienezza e non ha più bisogno di niente.
Gerlac Peters (1378-1411), Soliloquio infiammato, ed. Stange, pp 34s
Meglio ancora: il dolore della morte diventa parto beato:
[Nell’unione con Dio] non ci si preoccupa affatto di essere liberati dalle croci, anzi al
contrario, non si vive, o non si può vivere senza di esse; e quando mancano, l’anima è nella
fame e nella sete; essa prova un vuoto e una pena di cui non saprebbe rendersi conto, né farsi
un’idea, se non ne avesse fatto l’esperienza.
F. Libermann (1802-1852), Lettera del 29 novembre 1838 a M. Cahier
Dall’esterno, non si arriva a credere ad una cosa così sorprendente (la “folia della croce”)!
Viene da ciò che:
Più vivete secondo la natura e i suoi piaceri, meno vivete secondo Dio e la sua volontà.
Taulero (1300-1361), Sermone 33
E in questa vita al contrario, la croce ci raggiunge quanto più cerchiamo di sfuggirla!
Voi non potete fuggirla, dovunque andiate; poiché dovunque andrete, porterete voi medesimi e
troverete sempre voi stessi.
Tommaso da Kempis (1379-1471) Imitazione diCristo, II, 12
Inversamente,
Se voi portate di buon cuore la croce, essa stessa vi porterà… Se vi applicate ad essere quel
che dovete essere, a soffrire e a morire; presto le vostre pene svaniranno e avrete la pace.
Idem
Questo perché fuggire la croce, è fuggire l’amore; accettare la croce, è accettare l’amore, che
solo ci rende felici:
Cristo ha sofferto trentatre anni per sposarci ed è sulla croce che il matrimonio fu consumato;
quando ha detto: «Consummatum est» il matrimonio tra lui e noi fu consumato.
Giovanni d’Avila (1499-1569), Sermone per la II Domenica di pasqua dopo
l’Epifania
È questa unione tra lui e noi che spiega tute le nostre croci e le trasforma in fonte di felicità:
Come nostro capo, Cristo è glorificato ed egli non potrebbe più soffrire ma nel suo corpo
mistico, egli non è ancora completamente glorificato: Così egli prova sempre il desiderio e la
sete che sentì sulla Croce, che secondo me, provò da tutta l’eternità; e così sarà fin quando
l’ultima anima salvata non sarà entrata nella sua eterna beatitudine.
Giuliana di Norwich (1342-1416), Rivelazioni dell’amore divino, XXXI
Allora,
Conviene che non ci manchi la croce, tutto come al nostro Diletto, fino alla morte d’amore.
s. Giovanni della Croce (1542-1591), Lettera XI
Il vostro cuore sia incollato a quello di Cristo, desideraate piuttosto di essere con lui nelle
prove, che senza di lui in un grande riposo.
Giovanni d’Avila, Alle monache della croce di Zafra
La croce diventa allora modo di vivere, più spesso che prova spettacolare
La croce che ciascuno deve portare per unirsi con essa a Cristo, è l’obbligo e il ruolo legati
allo stato nel quale vive… Colui che non vi si conforma, anche se si dà molto affanno per
compiere i compiti che si sarà assunti di sua volontà, perde contemporaneamente di essere
provato e di non essere ricompensato.
Luis de Leon (1527-1591), La Sposa perfetta, Introduzione
In questo cammino:
Dio vede che colui che Lo ama molto , può molto soffrire per lui; colui che lo ama poco può
soffrire poco. A mio avviso la misura di poter portare una croce grande o piccola, è quella
dell’amore.
s. Tersa d’Avila (1515-1582), Cammino di perfezione, XXXII, 7
È normale che la croce ci faccia paura
Non è secondo l’uomo di portare la croce, di amare la croce, di castigare il corpo, di ridurlo
in servitù, di fuggire gli onori, di soffrire volentieri gli oltraggi, di disprezzare se stessi e
desiderare di essere disprezzati, di sopportare afflizioni e perdite, e non desiderare alcuna
prosperità in questo mondo. Se voi non guardate che a voi, non potete niente di tutto ciò. Ma
se voi confidate nel Signore, la forza vi sarà data dall’alto, e voi avrete potere sulla carne e sul
mondo.
Tommaso da Kempis, Imitazione di Cristo, II, 12
Allora, invece di sbuffare, amiamo colui che ci fa portare la sua croce:
Quanto la croce è dolce, solo lo sa colui che lo sente: la nostra croce è in effetti così dolce,
così piena di felicità e di sicurezza, che colui che ama veramente, per poco che se ne
distacchi, non trova più che amarezza e angoscia.
Gerlac Peters, Soliloquio Infiammato, ed. Strange, p. 33
LO SPIRITO CHIEDE PER NOI CON GEMITI INEFFABILI
Con i sacramenti dell’iniziazione cristiana riceviamo la vita divina: Senza dover attendere il
cielo per condividere la vita delle divine persone, ma ricordando che solo lì avremo la
pienezza del godimento e la visione, è bene avere una chiara consapevolezza che se ci
apriamo all’azione dello Spirito di Gesù risorto, presto godiamo della familiarità con loro.
Talvolta si ha l’impressione che molti cristiani dimentichino questa notizia, che è il Vangelo,
lasciando in uno spazio remoto la semplice possibilità di questa familiarità. Dietro questa
amara svista è certo l’errata convinzione di condizionare la grazia di Dio a prestazioni di
ordine morale o cultuale: come se fossero necessarie prima delle alte prestazioni di giustizia
morale o delle speciali pratiche religiose pubbliche e private. Riflettendoci un attimo, si
chiarisce l’equivoco che contraddice il termine stesso di “grazia”, cioè gratuità assoluta.
“Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è
morto per noi” (Rm. 5,8). Più sottile è forse un altro equivoco, che svilisce la verità cristiana:
aver a che fare comunemente negli ambienti ecclesiali con cristiani una volta definiti
principianti nella vita spirituale, sembra legittimare l’opinione anche di tanti pastori che ciò
sia normale. Comune non vuol dire normale; tornerei a dare l’appellativo di normale al pieno
svolgimento del cammino spirituale: principianti, proficienti e perfetti, per citare ancora una
terminologia del passato.
Il Dio trino che abita in noi non cade certo nella sfera delle nostre sensazioni, emozioni e
neppure dei concetti e delle sistemazioni logiche. Non negando affatto l’utilità e la necessità
delle immagini come anche dell’aiuto dell’intelligenza umana nella comprensione della
rivelazione e nel discernimento del cammino spirituale medesimo, va sottolineato il dato
centrale della fede, la quale tende per sua natura all’introduzione nelle profondità di Dio: essa
vuol scrutare i nascondigli del Verbo avendo per guida la propria luce, che è tenebra per la
mente. Occorre riprendere familiarità con i segreti percorsi che lo Spirito fa fare ai fedeli che
con semplicità e amore gli si abbandonano.
ABC
N. 17 - Giugno 2001
123
ALLA SORGENTE DELLA CONTEMPLAZIONE
§ 1 Fortunata l’anima che si applica continuamente a purgarsi e a penetrare il suo santuario
interiore! Fortunata quella che rinuncia deliberatamente ad ogni ricerca e volontà proprie!
Sempre più si accosta a Dio! Allora poiché la grazia divina solleva, illumina e dilata le sue
potenze superiori, ella ottiene l’unità e la nudità dello spirito e raggiunge l’amore puro e
senza macchia, il pensiero semplice, cioè priva di pensieri.
§ 2 Capace ormai di ricevere la grazia di Dio suprema e indicibile, ella è condotta alla
sorgente viva che sgorga da tutta l’eternità e che placa al di là della loro sete lo spirito dei
santi.
§ 3… Perchè, quando ella si volge pienamente verso Dio con amore, la luce debordante
zampilla nel suo fondo e l’occhio abbagliato della ragione e dell’intelligenza è accecato,
mentre il suo occhio semplice resta aperto ¾ cioè il suo pensiero puro, nudo, uniforme, al di
sopra dell'intelligenza… In effetti, perdendo le immagini, la distinzione e la considerazione
delle cose, ecco che ella sperimenta che Dio è lontano e al di là di tutte le immagini corporali,
o spirituali e perfino divine, così pure da tutto quel che può essere appreso dall’intelligenza,
che può essere detto o scritto su lui, da qualsiasi nome gli si possa dare.
§ 4….Tuttavia ella ignora ciò che è Dio, che ella sente. Condotta senza conoscenza al di là
della conoscenza, ella riposa in Dio solo, amabile, puro, semplice e ignorato… Là, l’anima
riceve una parola nascosta che Dio pronuncia nel silenzio interiore e segreto del ritiro dello
spirito [cf. Gb 4, 12]. Ella la riceve, e sperimenta con felicità l’abbraccio dell’unione mistica. In
effetti, là dove attraverso l’amore ella supera l’intelligenza e tutte le immagini ed è portata al
di sopra di se stessa (cosa che solo Dio può procurarle), che uscendo da se stessa ella di
disperde in Dio e allora Dio è la sua pace e il suo godimento.
§ 5…Come ridotta a nulla, ella sprofonda nell’abisso dell’amore eterno, dove morta a se
stessa vive in Dio, non sapendo né sentendo null’altro che l’amore che ella gusta. Ella si
perde, in effetti, nell’immensa solitudine e nelle tenebre della divinità; ma più che perdersi,
questo è trovarsi.
Louis de Blois, Istituzione Spirituale, L’unione mistica, § II
L’AUTORE (1506-1566) Di famiglia nobile, monaco poi abate e riformatore dell’abbazia di
Liessies (vicino a Maubeuge), Louis de Blois fu innanzitutto un religioso innamorato della
persona di Gesù contemplato nella sua umanità. Erudito, grande lettore di Ruusbroec
l’Admirable e di Taulero, fu anche l’analista preciso dello sviluppo della vita spirituale. La sua
Istituzione Spirituale ci dà alcune delle pagine più lucide e potenti che siano state scritte sulla
trasformazione dell’uomo in Dio. Quella che offriamo qui, riassume il movimento
ascensionale di trasformazione dell’anima quando si lascia portare dal soffio divino.
IL TESTO § 1 Quel che dipende da noi nella vita spirituale, è di non attaccarci a nulla che non
sia Dio, cioè a «rinunciare deliberatamente ad ogni ricerca e volontà proprie». Allora, come
un pallone si eleva nell’atmosfera, così noi ci eleviamo in Dio sotto la sola pressione della sua
grazia e iniziamo a conoscerlo e ad amarlo in modo nuovo: la sua scienza (in quanto Dio è
luce) e la sua energia (in quanto Dio è amore) informano direttamente, senza intermediario,
le nostre «potenze superiori» (intelligenza e volontà). Questa «unità dello spirito»
(espressione che rinvia a I Co 6, 17: «Colui che si lega al Signore fa un solo spirito con lui»)
è quella di uno spirito unificato perché unito a Dio: noi siamo noi stessi soltanto in Lui e allora
la nostra volontà non è più divisa e il nostro pensiero non più disperso fra Lui e ciò che non è
Lui.
§ 2-3 In cima a se stessa (=nel punto in cui ella è in contatto con Dio che è anche il suo
«occhio semplice»), l’anima trova allora la felicità: accogliere Colui che la inonda di
conoscenza e d’amore (allusione alla sorgente viva promessa da Gesù in Gv. 4, 14), a monte
delle sue facoltà che ne sono contemporaneamente sommerse («l’occhio abbagliato della
ragione e dell’intelligenza è accecato»)e irrigate (l’anima «sperimenta» ciò che ella non può
cogliere).
§ 4 Così che l’anima è nello stesso tempo, ignorante e sapiente: «Ella ignora tuttavia chi è
Dio che ella sente». Questo «sentire» è una conoscenza «al di là della conoscenza» ed è
nello stesso tempo «pace e godimento». Attraverso la sommità di sé stessa, l’anima gioisce
già della pienezza della vita divina che poco a poco l’assorbirà interamente («ella si disperde
in Dio»).
§ 5 A partire da lì, l’anima vive sempre meno in regime naturale e sempre più in regime divino:
le basta lasciarsi portar via, «sprofondare». I temi della «solitudine immensa» e delle «tenebre
della divinità» rinviano all’Esodo attraverso tutta la mistica reno-fiamminga, per la quale
questa solitudine non è isolamento, ma intimità senza limite e queste tenebre non sono
oscurità, ma sovrabbondanza di luce (la nube che guidava gli ebrei nel deserto). Il
vocabolario e i testi biblici sono qui quelli di Pasqua: perduta in Dio, quest’anima sperimenta
già la resurrezione.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
D come .… Depressione
Quando un’anima si sente schiacciata dalla tristezza, rischia di sentirsi dire per tutta
consolazione: «È depressione!» Al tempo di san Giovanni della Croce si sarebbe detto: «È
malinconia!». È sicuro?
Accade in effetti, che Dio porti un’anima attraverso un elevatissimo cammino di oscura
contemplazione e di aridità, sul quale le sembrerà di essere perduta; e trovandosi così piena
di oscurità e di prove, di oppressioni e tentazioni, ella incontri qualcuno che le dica, come i
consolatori di Giobbe, che si tratta di malinconia.
San Giovanni della Croce (1542-1591), La Salita del Carmelo, Prologo
Certamente, può accadere anche il contrario:
[Accade che] queste pene vengano dal temperamento, dalla malinconia o da accidenti che
turbano lo spirito: si guariscono attraverso rimedi e sono fondate nella costituzione naturale.
Jean-Joseph Surin (1600-1665), Guida spirituale, VII, 7
Allora, come sapere?
Se fra queste pene l’anima conserva la volontà di appartenere tutta a Dio in qualsiasi stato
Egli la ponga, e se in questo stato non commette errori più che nell’ordinario, si rassicuri
che è una prova di Dio…. È lo stato più sicuro e felice in cui ella possa augurarsi di essere.
Jean Rigoleuc (1595-1658), lettera 30 ad una religiosa orsolina.
E così, oh meraviglia, anche una depressione d’origine nervosa si capovolge in aiuto alla
crescita spirituale:
Quest’aridità spirituale è talvolta favorita dalla malinconia o da altro umore, come questo
arriva molto spesso, ma ciò non le impedisce di produrre il suo effetto di purgazione
dell’appetito.
San Giovanni della Croce, Notte Oscura, 9, 1,1
Meglio ancora:
Io conosco dei malinconici così umili e preoccupati di non offendere Dio, che versando fiumi
di lacrime in segreto, sono scrupolose nell’obbedire e sopportano quest’infermità come altri
sopportano le loro, anche se il loro martirio è più grande; così esse riceveranno più gloria e
facendo quaggiù il loro purgatorio non ne conosceranno nell’aldilà.
Teresa d’Avila (1575-1582), Fondazioni, VII, 5
In fondo, sia che l’origine sia naturale o soprannaturale, queste prove sono una via reale
verso la vera santità dell’anima:
Quando Dio permette che siamo più fortemente attaccati [dalla disperazione di non uscire mai
da questa malinconia], il suo disegno è di obbligarci a ricorrere a lui…. È una medicina un
po’ rude, ma molto efficace nell’operare nelle anime meravigliose guarigioni.
Jean Rigoleuc, Lettera 25, ad una religiosa orsolina
In quanto la santità di un’anima non è legata a dei nervi di acciaio, ma all’abbandono a Dio:
Tu ci hai fatto per te, o Signore, e il nostro cuore non trova riposo fintantoché non riposa in te.
Sant’Agostino, (354-430), Confessioni, I, 1
E quando abbandonarsi a Dio sembra ancora troppo difficile ad un’anima spossata:
Ma che fare, direte quando non potete nemmeno fare l’atto dell’abbandono?Abbandonare
questo stesso abbandono per un semplice fiat che diviene allora il più perfetto degli
abbandoni…Dio permette quasi sempre che questa specie di pene non debba mai finire.
Perché? Per darle, attraverso ciò, occasione di abbandonarsi più totalmente, senza fine,
senza limiti, senza misura, cioè nel puro e perfetto amore.
Jean-Pierre de Caussade (1675-1751), Lettera 56 a Suor de Vioménil
Allora invece di disperarci della nostra disperazione
Rendetegli grazie e guardatevi bene dal credere che egli vi abbandoni, come forse potreste
immaginare.
Jean Rigoleuc, Lettera 25
Ciò dispensa di curarsi? No, ma noi avremo senza dubbio meno bisogno di curare i nostri
nervi se curiamo un po’ di più la nostra anima:
Non sono le cose che ci turbano, ma noi che ci turbiamo per esse. E i nostri movimenti non ci
porterebbero mai al di là della ragione se noi guardassimo tutte le cose razionalmente, cioè
con la luce di Dio.
François Malaval (1627-1719), Pratica facile della Contemplazione, 1, 3
Quando per mezzo dei nervi, essi passano innanzitutto ad una vita più equilibrata:
Vi sono alcuni monaci che l’umidità della loro cella, i digiuni immoderati, il disgusto della
solitudine, una lettura troppo prolungata…. fanno cadere nella malinconia, e hanno bisogno
dei rimedi d’Ippocrate piuttosto che dei nostri avvertimenti.
San Girolamo (350-420), Lettera 125
In seguito, per una sana condiscendenza verso sé stessi:
Quando vi sentirete schacciati dalla tristezza, svagatevi con qualche occupazione esteriore
che possa ricreare innocentemente il vostro spirito senza dissiparlo.
Jean Rigoleuc, Lettera 25
Infine con un rifiuto di ascoltarsi oltre il ragionevole, in quanto:
L’immaginazione è sempre soggetta agli inganni del demonio e ai movimenti dell’umore
malinconico,…. e l’anima s’ingarbuglia nei suoi pensieri a forza di guardare a se stessa.
Miguel de Molinos (1628-1696), Guida spirituale, I, II, 9
Rimessa ogni cosa al proprio posto, ci accorgeremo che il buon Dio non si occupa meno bene
dei depressi che degli altri:
Così Gesù Cristo, che è il nostro grande modello in tutto, non lasciava, quanto alla parte
intellettuale [= qui: superiore] dell' anima, di compiacersi nella felicità di Dio, suo Padre,
perfino nel tempo in cui egli era nella più profonda afflizione, il tempo della sua passione,
quando confessava che la sua anima era triste fino alla morte.
Alessandro Piny (1640-1709), Consigli di pietà, Le ricreazioni
LO SPIRITO DI VERITÀ
“Ancora molte cose ho da dirvi, ma non potete portarle ora”. La straordinaria
accondiscendenza divina lascia intendere che la nuova missione, quella dello Spirito, è
necessaria per i limiti del recettore umano. Non solo la prima missione del Figlio, ma ancora
una seconda per guidare l’uomo all’accoglienza e alla comprensione del divino segreto: il
mistero di Dio Trinità-Amore: sostenere l’uomo con una guida divina, ma secondo modalità
umano-divine. Accogliere e comprendere Dio Trinità-Amore non può farsi se non con Dio
stesso per guida, perché chiunque altro è creatura e potrebbe guidare solo fino ad un certo
limite, ma soprattutto non potrebbe assicurare una guida trasformante. Conosceremmo e ci
relazioneremmo con Dio da estranei, sempre apprendendo nozioni su di lui, mai
incontreremmo lui. Sarebbe una conoscenza puramente intellettuale, per quanto puntuale, o
formale. Se a guidare è lui stesso, allora lo conosciamo sperimentando. Ciò spiega anche le
modalità: egli ci prende dal basso delle nostre modalità umanissime, e dandoci se stesso ci
abitua lentamente ai suoi modi, sì che dal basso modo di trattarlo, proprio degli inizi, ci eleva
e ci trasforma fino alle modalità divine di conoscerlo. Ecco il dono dello Spirito che svela
l’azione di Dio negli accadimenti e fa conoscere il volto di Dio Amore.
ABC
N. 18 - Luglio / Agosto 2001
123
BEATA SOLITUDINE
1. La pietà di cui parliamo è una costante presenza a Dio, una volontà continua di
comprenderlo, un attaccamento instancabile ad amarlo, tanto che nessun giorno, ma che
dico? nessuna ora trascorre senza che il servitore di Dio si sforzi di coltivare ciò e si applichi
a progredire in questo o, per meglio dire, senza che sia nella dolcezza di sperimentare [la
sua presenza] e la gioia di possederlo.
2. Chiunque tra voi non abbia questa pietà nella sua coscienza, non la manifesti nella vita,
non la coltivi nella sua cella, non sia chiamato “solitario”, ma “solo”. La sua cella per lui non è
una cella, ma un isolamento e una prigione. Si, è solo, colui con il quale Dio non c’è! Solo,
isolato: ecco altri modi per dire miseria! In nessun caso la cella deve essere un isolamento
forzato, ma una dimora di pace, né la porta chiusa un rifugio, ma un ritiro.
3. Infatti, colui con il quale c’è Dio, non è mai meno solo di quando è solo. Allora in effetti egli
gioisce liberamente della sua gioia; allora egli appartiene completamente a se stesso per
gioire di Dio e di lui stesso in Dio; allora la coscienza pura si illumina da se stessa in lui
nella luce della verità e nella serenità di un cuore limpido, e la presenza amorevole di Dio si
spande liberamente in lui, mentre la sua intelligenza è illuminata e il suo amore gioisce del
suo bene o la deficienza della sua umana fragilità piange liberamente su stessa.
4. È per questo che, conformemente al vostro impegno, per voi che abitate i cieli piuttosto che
le celle, il mondo tutto intero resta alla vostra porta, mentre voi siete trincerati all’interno con
Dio: sicuramente “celle” e “cieli” sono imparentati, poiché se sembrano esserlo in qualche
modo per il nome, allo stesso modo saranno così per la pietà. In effetti, si vede che “cielo” e
“cella” derivano il loro nome da “celare”; ciò che è celato nei cieli lo è anche nelle celle, ciò
che si fa nei cieli si fa anche nelle celle. Di che si tratta? Di accudire Dio e di gioirne.
5. La cella è una terra santa, un luogo santo, in cui il Signore e il suo servitore si parlano
frequentemente,… dove spesso l’anima fedele è congiunta al Verbo di Dio, dove la sposa è in
compagnia dello Sposo, dove le realtà celesti sono unite alle terrestri e le divine alle umane.
Guglielmo di Saint-Thierry (1085-1148), Lettera ai Frati di Mont-Dieu I, 1
L’AUTORE: Nato a Liegi, fu abate benedettino di Sant-Thierry, nella Marna, prima di passare
alla riforma cistercense come semplice monaco nell’abazia di SignY. Grande amico e
biografo di san Bernardo (una parte della copiosa opera d Guglielmo ci è pervenuta sotto il
suo nome), teologo e mistico (in un’epoca in cui queste due parole erano ancora sinonimi), la
sua Lettera ai Frati della Certosa delle Ardenne di Mont-Dieu (nel 1144, spesso conosciuta
come Lettera d’oro) sarà il manuale di riferimento della spiritualità monastica fino al
Rinascimento.
IL TESTO: All’epoca del rinnovamento monastico del sec. XII, tanto la certosa quanto Citeaux
professavano un’ammirazione sconfinata per i padri del deserto dei sec. IV e V, di certo un po’
idealizzati. In quest’ottica la cella del religioso gioca il ruolo di un piccolo deserto
individuale, propizio ad un’esperienza radicale di Dio. Anche se egli si rivolge qui a dei
monaci, ciò che Guglielmo ci dice della solitudine si applica a tutti coloro per i quali “cercare
il volto di Dio” è il cuore della loro vita.
§1 “La pietà di cui parliamo” rinvia a 1 Tim. 4, 7-8 (“la pietà contiene la promessa della vita,
l’attuale e la futura”), il cui contesto non indica tanto determinate pratiche, quanto una
relazione viva e permanente (“costante”, “continua”, “instancabile”) con Dio. Tutte le facoltà
dell’uomo vi sono implicate: memoria (“presenza a Dio”), intelligenza (“volontà di
comprenderlo”) e volontà (“attaccamento ad amarlo”). Questa relazione oscilla tra l’azione
dell’uomo e quella di Dio quando questi gli dona “la gioia di possederlo”.
§2 Ritirarsi dal mondo non è tagliare la relazione fraterna con i nostri simili, ma al contrario
viverla al suo vero livello: in Dio, nel quale sussiste ogni amore, poiché la sua paternità fonda
la nostra fraternità. L’isolamento di una semplice giustapposizione di individui si oppone qui
alla pienezza di relazione (alla comunione) di una vita contemplativa.
§3 Erede di una tradizione risalente a s. Ambrogio († 397), Guglielmo cita qui Cicerone (De
Officiis III, 1) attribuendo a Catone in esilio la fiera sentenza “Io non sono mai meno solo di
quando sono solo”. Il Vangelo qui capovolge la saggezza antica in saggezza cristiana: solo,
si, ma con Dio! La “coscienza pura” rinvia a 2 Tim 1, 3, come disposizione innata di colui che
si rivolge senza riserve verso Dio e ne riceve allora la piena fioritura della sua pietà nel
significato del paragrafo 1.
§ 4 Guglielmo gioca qui sulla parola cieli, cella, celare (in latino: caelis, cellis, celare).
Questa definizione celeste del monachesimo rinvia ancora ai padri del deserto, proprio
l’espressione “accudire Dio e gioirne” ne definirà il programma a partire da Guglielmo.
§ 5 La cella come terra santa: in linea con il paragrafo precedente, si vede spuntare qui il
tema della vita contemplativa quale compimento di un Esodo, anticipazione della
Gerusalemme celeste e delle nozze dello Sposo e della sposa.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
D come …. DESERTO
“Io la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Os. 2,14) Il deserto, ritiro degli innamorati
di Dio, è nel contempo luogo di combattimento e di prove: “Gesù fu condotto dallo Spirito nel
deserto per esservi tentato da satana” (Mc 11, 12-13)
Cominciamo dal ritiro:
Fuggi gli uomini e sarai salvato!
Arsenio (sec.IV), Apoftegmi!
I Padri del deserto non andavano per le lunghe! Fortunatamente non erano tutti così taglienti,
Poiché è meglio essere fervente in uno stato meno perfetto che tiepido in uno più elevato.
Giovanni Cassiano (415-429), Conferenze XIX,3
In effetti, ci direbbero ancora, nel deserto come altrove
Ogni eccesso proviene dai demoni!
Poemen (sec. IV) Apofgtemi 129
Questi fondatori della vita monastica attribuiscono maggior importanza al deserto interiore che
al deserto esteriore:
Questa uscita dall’Egitto che noi facciamo col corpo, non ci servirà a niente se non
l’accompagniamo alla rinuncia del cuore, che ha merito e una utilità incomparabilmente più
grande.
Giovanni Cassiano, Conferenze III, 7
Poiché il vero deserto è quello che Dio stabilisce nella nostra anima quando viene a investirla
Un’anima può essere separata dalle creature, tanto al centro delle città e delle comunità
quanto nei deserti, …[perché] la luce che le fa conoscere e gustare Dio presente, la disgusta
di ogni creatura.
Jean de Bernières-Louvigny (1602-1659) Il cristiano interiore III, 3
Resta il fatto che il deserto esteriore aiuta il deserto interiore
Se vuoi possedere la pace ed essere veramente unito a Dio, bisogna lasciare ogni cosa e
guardare solamente te stesso.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Cristo II, 5
Tanto che
Più sei lontano dal mondo, più sei vicino a Dio.
Grimlaïcus (sec. IX), Regula solitarium 14
Pertanto,
Come ci è lecito accudire al nostro bene più grande, ci è sempre lecito, anzi meglio e molto
opportuno, fuggire le conversazioni umane e scegliere il ritiro completo, tanto del corpo
quanto dello spirito.
Beato Jean de Saint-Samson (1571-1636), Il Pungolo 8
Questa attrazione per il deserto è anche un segno importante di vocazione contemplativa:
Il segno più certo [che l’anima deve abbandonare l’orazione meditativa] è che ella gusta di
trovarsi sola, in un’attenzione amorosa a Dio, senza considerazione particolare, in pace
interiore, riposo e rilassamento.
S. Giovanni della Croce (1542-1591), Salita al Monte Carmelo II, 13
E ciò perché in fondo questo deserto è Dio stesso, amorosamente presente nel cuore di un
silenzio illimitato
Poiché l’anima non trova il suo riposo prima di essere condotta al di là di tutte le sue forze e
delle sue facoltà, nella semplice nudità dell’Essere… E più essa si è distaccata, liberata,
affrancata, più si eleva liberamente… e penetra lontano nel deserto selvaggio, nell’abisso
profondo della Divinità senza modi in cui è immersa, sommersa, consumata nell’unione.
Beato Enrico Suso (1295-?-1366), Libro dell’eterna Sapienza, XII
Tuttavia si può essere colti da miraggi nel deserto, proprio a causa di questa inafferrabilità di
Dio; e allora
Temendo di perdersi,… non si trova più che tenebre fitte e impenetrabili… come se tutto ciò
che si era avuto un tempo non fosse stato che sogno, finzione e niente di reale.
Costantino de Barbançon 1582-1631), I segreti….II, 11
Ma è solo un momento triste che deve passare, ed “ecco che gli angeli si avvicinano per
servirla” (Mt. 4,11):
Le sembra che la si metta in una solitudine profondissima e vastissima, nella quale nessuna
creatura umana può giungere, come un immenso deserto senza limiti da nessuna parte, tanto
più delizioso, saporito e pieno d’amore, quanto più è profondo, vasto e solo.
San Giovanni della Croce, Notte Oscura II, 17
Allora da questa beata solitudine, Dio stesso ci rimanda nel mondo:
L’uomo che da questa elevazione, è inviato da Dio nel mondo, è pieno di verità e ricco di tutte
le virtù… Perciò egli è retto e veridico in tutto… obbligato a espandersi sempre in tutti coloro
che hanno bisogno d lui, ..strumento di dio vivo e volontario,… ugualmente pronto a
contemplare e ad agire, ed egli è perfetto in entrambi.
Beato Giovanni Ruusbroec (1293-1381), La Pietra brillante, Opera omnia X,
936 ss.
Ciò non per privarci della dolcezza di essere solo con Lui, ma perché
Essendo l’anima pervenuta a questo stato, le importa molto poco di essere nell’imbarazzo
delle faccende o nel riposo della solitudine; tutto per lei è uguale… Nella conversazione e tra
il chiasso del mondo, essa è in solitudine nella camera dello Sposo, cioè nel proprio fondo in
cui essa lo accarezza e lo mantiene, senza che niente possa turbare questa relazione
divina… Sembra che l’Amore si sia impossessato di tutto.
Beata Maria dell’Incarnazione (1599-1672), Lettera
Lascia il luogo, il tempo, e pure l’immagine!
Va senza strada Sul sentiero stretto:
Così vieni sulle orme del deserto.
Dreifaltigkeitslied, XIII S
FEDELTÀ ALLA PREGHIERA
Sia che godiamo di vere vacanze sia che rubiamo alcune giornate alla consueta attività, alla
maggior parte di noi l’estate fa rallentare i ritmi ordinari. Siamo ben contenti di poterci
dedicare, così, più serenamente al sacro dialogo: Il più gran riposo che concediamo alla
nostra persona è quello della cura delle relazioni che ci penetrano più profondamente.
D’altronde non solo Dio stesso al settimo giorno si riposò, ma per aggiungere gaudio a
gaudio decise di farci entrare nel suo riposo. La cura che Egli ha posto nel perseguire
questo disegno è magnificamente cantata nelle Scritture; ogni domenica sera a Compieta
innalziamo a Lui quello straordinario poema d’amore che è il Salmo 90 (91): “La sua fedeltà ti
sarà scudo e corazza non temerai i terrori della notte”. Come per il riposo, anche per la
fedeltà scopriamo che la nostra fedeltà al dialogo con lui è dono e manifestazione della Sua
fedeltà a noi che ci avvolge e ci ripara da ogni pericolo. È pur vero che siamo no a sforzarci
di custodire il grande e delicato tesoro della preghiera, ma è anche vero che òla sua grazia
precede il nostro sforzo, proprio come ogni buona madre fa trovare ai suoi piccoli una
deliziosa colazione al loro risveglio mattutino. E più ci studiamo di porre tante attenzioni alla
nostra relazione con Lui, più scopriamo la Sua benevolenza e la Sua pazienza nel portarci
aldilà di ogni nostro malumore, di ogni piccola esigenza, di ogni inconsistente ma bloccante
paura: “Mille cadranno al tuo fianco e diecimila ala tua destra, ma nulla ti potrà colpire”.
Contrariamente a quanto alcuni pensano, la preghiera non è una pura passività inoperosa:
chi prega regolarmente, conosce quanto ciò esige dalla volontà dell’orante; tuttavia ad
immagine del mistero della vita intima di Dio, superbamente espresso nel roveto che arde ma
non si consuma, visto da Mosè nel deserto, questa superiore e impegnativa attività della
persona non affatica, ma rigenera. Non ci si accosta al Dio vivo senza ricevere il suo
vivificante tocco. “Lo sazierò di lunghi giorni e gli mostrerò la mia salvezza”.
ABC
N. 19 - Settembre 2001
123
COS’È LA PREGHIERA
1 La preghiera è il primo atto della nostra fede e di conseguenza, ciò che dice l’Apostolo,che
è impossibile piacere a Dio senza la fede, bisogna dirlo della preghiera…. In un certo senso
si può dire che tutto quel che noi facciamo, perfino mangiare e dormire, è una preghiera,
quando lo facciamo semplicemente secondo l’ordine che ci è prescritto, senza aggiungervi o
diminuire nulla per nostro capriccio o per nostra volontà….
2.Quando arriva il tempo di metterci davanti a Dio per parlargli da solo a solo, chiamato
propriamente preghiera, la sola presenza del nostro spirito davanti al suo e del suo davanti al
nostro forma la preghiera, sia che abbiamo dei buoni pensieri e sentimenti, sia che non ne
abbiamo.Occorre solamente che con tutta semplicità, senza fare alcun violento sforzo di
spirito, stiamo davanti a lui con movimenti d’amore e l’attenzione di tutta la nostra anima,
senza distrarci volontariamente; e allora tutto il tempo in cui stiamo in ginocchio sarà
considerato preghiera davanti a Dio, che ama tanto la sofferenza umile dei pensieri vani e
involontari che ci attaccano allora, quanto i migliori pensieri che abbiamo avuto in altri
momenti; in quanto una delle preghiere più eccellenti è il desiderio amoroso del nostro cuore
verso Dio e la sofferenza delle cose che ci dispiacciono….E quando arriva il tempo di finire
l’orazione, si deve credere che si è pregato tanto quanto se non si avesse avuto alcuna
distrazione…..
3.Tutte le buone opere che farai nel corso della giornata, saranno gradite a colui che hai
pregato e che ti ha riempito della sua luce divina invisibile e insensibile; in quanto spesso
accade che quando pensiamo di avere la luce e le grazie, non le abbiamo; e quando
pensiamo di non averle, le abbiamo,….poichè l’operazione dello Spirito Santo nell’anima è
tutta interiore e spesso sconosciuta all’anima stessa……Il cammino che il Figlio di Dio tiene
quando entra nella nostra anima ci è sconosciuto…; basta che s’intenda di averlo ricevuto
dagli effetti prodotti tutti i giorni nel luogo in cui si vive per servirlo; basta che ci si senta in
qualche momento della settimana o del mese più forti di quanto si fosse, senza sapere come
o quando questa forza sia venuta in noi; essa non può che essere venuta dall’orazione e dalle
frequenti oblazioni che abbiamo fatto del nostro cuore a Dio.
Santa Giovanna di Chantal, Colloquio IX, Sulla preghiera
L’AUTORE: Figlia del presidente del Parlamento di Digione, dove nacque nel 1572,
Giovanna Frémyot incarna la parte profondamente cristiana della nobiltà togata che
ricostruisce la Francia all’indomani delle guerre di religione. Vedova inconsolabile del
barone di Chantal a 29 anni, madre di quattro figli, l’incontro con Francesco di Sales tre anni
dopo, sconvolgerà la sua vita: diretta da lui interiormente ed esteriormente, sulla base di
un’amicizia tanto trasparente quanto esigente, ella diverrà la pietra angolare della
Visitazione (86 monasteri fondati durante la sua vita), fino alla sua morte nel 1641. la sua
corrispondenza e le sue istruzioni alle visitandine sono tante applicazioni concrete degli
insegnamenti di san Francesco di Sales.
IL TESTO § 1 «Quando voi pregate, dite: Padre», c’insegna Gesù. Questo riconoscimento
della nostra filiazione divina fonda la nostra fede e allo stesso tempo definisce la preghiera
cristiana. Perciò tutto quel che viviamo in questa attitudine «in un certo senso… è una
preghiera», così che la vita più ordinaria e più naturale (mangiare, bere, dormire…) diventa la
più amorosa e la più soprannaturale, per quanto tutto ciò sia voluto per Lui, cioè «nell’ordine
che ci è prescritto» e non secondo il nostro capriccio.
§ 2 Perfino la preghiera esplicita è preghiera solo in funzione di questa volontà di vivere
filialmente. Se nel momento della preghiera, le parole, i pensieri, e i sentimenti che
dovrebbero esprimerla non vengono, poco importa: essendoci la relazione filiale, la preghiera
è lì, poichè la fede è li. È la fede che salva, non la preghiera, anche se questa è «il primo atto
della nostra fede».
Una preghiera riuscita non è un’impressione di riuscire a pregare e, quando si ha la volontà
di pregare, l’impotenza a farlo, sottolinea maggiormente, l’essenza della preghiera:
riconoscere che Dio è un padre che dà tutto ad un figlio che non può nulla («la sola presenza
del nostro spirito davanti al suo e del suo davanti al nostro forma la preghiera»). È il nostro
desiderio di Dio che misura la nostra vitalità cristiana («il desiderio amoroso del nostro cuore
verso Dio», non la soddisfazione di questo desiderio, in quanto esso è, ad ogni modo infinito
(cf pp. seguenti) e c’è sempre qualche illusione nel dirsi: «Sono riuscito nella preghiera».
§ 3 Le vie di Dio nell’anima sono totalmente insensibili perché soprannaturali («Lo Spirito
soffia dove vuole, ci dice Gesù in Gn. 3,8; tu non sai da dove viene né dove va»): questa legge
è assoluta e ci proibisce una volta per tutte di misurare la nostra vita cristiana secondo il
sentimento che ne abbiamo.Questa penetra in noi attraverso l’orazione (e solo attraverso di
essa), cioè attraverso «l’offerta del nostro cuore a Dio» e si spande in noi nella misura in cui
esercitiamo concretamente la carità: l’amore di Dio invade allora tutto il nostro cuore, tutta la
nostra anima e tutte le nostre forze. Il compimento della volontà di Dio «là dove si vive, per
servirlo» è l’indizio più certo della sua presenza in noi ed è su questa fedeltà ben visibile che
ci dobbiamo interrogare quando siamo inquieti sulla nostra fedeltà invisibile e la nostra
orazione ci sembra così povera che, forse, «pensiamo di non avere la sua luce e le sue
grazie».
L'ORAZIONE dalla A alla Z
D come …. DESIDERIO
Ogni uomo cerca Dio e desidera essere unito a lui, anche colui che nega appassionatamente
la sua esistenza, Come spiegare ciò? C’è una risposta filosofica:
Dio è la fine di tutte le cose perché egli è all’origine del loro movimento. Così tutto tende ad
essere a lui assimilato come al proprio termine ultimo.
San Tommaso d’Aquino (1224-1274), Contra Gentiles, III, XIX
C’è una risposta più teologica:
Essendo uscito tutto il creato dall’Essere unico e assoluto, vi rifluisce continuamente con tutta
la sua forza per la completa pienezza del suo desiderio.
Beato Jean de Saint Samson (1571-1636), Il Ritorno…., ed. Parigi, 1989, p.
130
Ma perché c’è, anzitutto una risposta d’amore:
C’è qualche fattore infinito che ha impresso in me quest’ interminabile desiderio di sapere e
questo appetito di amare che non può essere saziato: perciò occorre che io tenda e mi
estenda verso di lui, per unirmi e congiungermi alla sua bontà, a cui appartengo e che seguo.
San Francesco di Sales (1572-1622), Trattato dell’Amor di Dio, I, 15
Tutti i nostri progetti, le nostre imprese, le nostre indagini si spiegano dunque con la ricerca
amorosa di questo Dio che ci attira a lui, in quanto:
Se tu possiedi l’autentico amore divino, possiedi tutto ciò che puoi desiderare, che è
solamente, amare Dio, senza posa, continuamente ed eternamente.
Beato Jean Ruusbroec (1293-1381), Specchio della Salvezza eterna, I, B Ma
questo Dio ci attira soltanto perché lui stesso desidera darsi a noi!
Bisogna sapere che se l’anima cerca Dio, il suo Diletto la cerca molto di più!
San Giovanni della Croce (1542-1591), Fiamma viva, III, 28
Se egli tarda, è perché desiderandolo di più, noi lo possediamo di più:
Ritardando la soddisfazione, Dio dilata il nostro desiderio; attraverso il desiderio egli dilata la
nostra anima e dilatandola, aumenta la sua capacità. Allora, fratelli, desideriamo, per ricevere
pienamente!
Sant’Agostino (354-430), In Epist. I Ioan., 4 In quanto:
Io sono il vostro Dio infinito e voglio essere servito con quel che voi avete d’infinito; orbene,
d’infinito, voi non avete che l’amore e il desiderio della vostra anima.
Santa Caterina da Siena (1347-1380), Dialogo 92
Arrestarci su questo cammino, sarebbe come rompere lo slancio del desiderio:
Quando ti arresti in qualche cosa, cessi di lanciarti nel tutto. In quanto se vuoi possedere
qualcosa nel tutto, tu non possiedi puramente in Dio il tuo tesoro.
San Giovanni della Croce, La Salita del Carmelo, I, 13
Ciò ci rende infelici:
Appena l’uomo comincia a desiderare qualcosa disordinatamente, ben presto diviene inquieto
in se stesso.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione, I, 6
Così quando il nostro desiderio di Lui s’insabbia nei desideri personali:
Nega i tuoi desideri e troverai ciò che desidera il tuo cuore.
San Giovanni della Croce, Sentenze, 15
Perciò,
Occorre che noi apriamo verso il cielo la bocca del desiderio e che sia vuota di ogni alta
pienezza… ben aperta verso colui che ci dice: «Apri e spalanca la tua bocca e io la empirò!»
(Sal. 80,11)
San Giovanni della Croce, Lettera, 15
Allora i nostri desideri svaniranno nel suo desiderio ritrovato:
In fondo all’anima zampilla una sorgente d’acqua viva per la vita eterna; se noi ne riceviamo
anche solo una stilla, non potremo più avere sete delle cose vane né delle creature periture;
avremo sete soltanto di Dio solo, del solo amore di Dio.
Louis de Blois (1506-1566), Istituzione, XII, 4
Attenzione! Alcuni sono molto tristi, in quanto provano questo desiderio di Dio come
un’apparente assenza di desiderio:
Questo desiderio privo di godimento che Amore mi ha costantemente dato di gioire di Lui, mi
ha percosso e ferito il petto e il cuore….
Hadewijch d’Anversa (XIII S), Lettere XXIX
In verità questi desiderano Dio due volte di più! Ben lontano da essere una mancanza di
desiderio, la loro insoddisfazione denota l’intensità del loro desiderio:
Perché dunque avete tanta pena di questa pretesa mancanza? Infatti si ha pena della
mancanza di una cosa in proporzione a quanto la si desidera; se non se ne avesse desiderio
alcuno, non si sentirebbe alcuna pena della mancanza.
Jean-Pierre de Caussade (1675-1751), Lettera 56 Quest’aridità del desiderio è
in realtà una crescita del desiderio, in quanto bisogna che:
Colui che possiede la carità vera e perfetta non ricerchi sé in nulla; ma il suo unico desiderio
sia che la gloria di Dio si operi in tutte le cose.
Thomas da Kempis, Imitazione di Cristo, I, 15
E quando non si desidera più che la sola gloria di Dio:
Lì, non si trova più inquietudine, né sforzi, né desideri, ma una pace profonda, che per
esperienza è inalterabile.
Maria dell’Incarnazione (1599-1672), Lettera, 20
In questa morte dei nostri desideri, il desiderio è ormai libero di dilatarsi con tutta la sua
forza, nella nostra anima:
Attendendo con grande desiderio, ma anche con pazienza e rassegnazione, l’ultimo momento
della propria vita, che sarà il termine del suo esilio e il primo che la porrà nel godimento
pieno e perfetto del suo Dio per sempre.
S. Claudine (1518-?), IV, V
Quando infine viene il pieno possesso ella rilancerà all’infinito questo desiderio:
La pienezza della gioia consuma il desiderio? Essa è piuttosto l’olio che alimenta la fiamma.
Si, veramente: la gioia [nel possesso] sarà completa, ma non ci sarà fine al desiderio, né
dunque alla ricerca.
San Bernardo (1090-1153), Sermone 84 sul Cantico, 1
“LA SUA LEGGE MEDITA GIORNO E NOTTE”
È l’impegno del giusto così come lo descrive il Salmo 1, quello che veramente lo connota
nell’intimo e distingue la sua via da quella degli empi. Se il suo destino finale sarà
completamente diverso, anzi opposto a quello dei peccatori, è grazie al suo essersi affaticato
e impegnato nella legge del Signore. Questi a sua volta si occupa e si prende cura di lui. Il
verbo impiegato significa bisbigliare, sussurrare, e man mano, nella riflessione dei saggi di
Israele, condurrà al meditare, al rimuginare, fino alla lettura saporosa dei Padri con la
ruminatio. Inevitabilmente questo gesto si lega al tempo e soprattutto alla continuità, che
esprime la fedeltà e la crescente tensione del desiderio: “Le mie labbra bisbiglieranno tutto il
giorno celebrando la tua giustizia” (Sal. 35,28), “Medito su di te nelle veglie notturne” (Sal.
63,7). Il cuore e la mente del giusto si fermano costantemente in una riflessione amorosa e
saporosa della legge; questa indica di certo i primi libri della Scrittura, ma significa il volere
di Dio nella sua interezza, per noi manifestatosi in Gesù, via, verità e vita.
Se pensiamo che questo primo salmo sia stato composto come un portico d’ingresso per il
salterio, per la preghiera ebraica, poi fatta propria dalla chiesa, allora troviamo indicata la via
maestra della vita cristiana nella preghiera e in questa precisa descrizione di uno che si
attarda nello studio del volere divino. Non, dunque, pochi minuti o uno scivolare frettoloso e
distratto sulle Sue parole e sugli avvenimenti. Stare lontano dal consesso dei cinici non lascia
spazio al giusto per la spensieratezza o l’ingenuità; la loro presenza lo interroga e lo sprona
ad acuire lo sguardo sulla legge di Dio. Magari quelli hanno successo, ma la sua fedeltà lo
condurrà alla stagione dei frutti e a reggere il giudizio divino. Qui gli empi non staranno in
piedi né i peccatori potranno rimanere nell’assemblea dei giusti.
ABC
N. 20 - Ottobre 2001
123
LA FELICITÀ DELL’UNIONE A DIO
1. Quando l’anima giunge a questo stato, le importa poco di essere nell’imbarazzo degli
affari o nel riposo della solitudine: tutto è per lei uguale, perché tutto ciò che la tocca, tutto ciò
che la circonda, tutto ciò che le colpisce i sensi, non impedisce il godimento dell’amore
attuale. Nella conversazione e in mezzo al rumore del mondo, ella è in solitudine nello
spogliatoio dello Sposo cioè nel proprio profondo dove lo carezza e lo intrattiene senza che
niente possa turbare questa divina relazione. Lì non si sente alcun rumore, essendo tutto nel
riposo, e non posso dire se per l’anima così posseduta, sarebbe possibile liberarsi da ciò che
soffre, in quanto sembra che in quel momento non abbia alcun potere di agire, né di volere,
come se non avesse il libero arbitrio.
2. Sembra che l’Amore si sia impadronito di tutto, quando ella gliene ha fatto dono per
consenso, nella parte superiore dello spirito, dove il Dio d’amore si è donato a lei e lei a Dio.
Ella vede soltanto ciò che Dio vuole, e che Dio la vuole in questo stato. Ella è come un cielo
nel quale gode di Dio e le sarebbe impossibile esprimere quel che accade dentro: è un
concerto e un’armonia che non può essere gustata, né intesa se non da coloro che ne fanno
l’esperienza e ne godono.
3. Occorre che il segreto sia riservato… Ella lo sperimenta quando, pensando di lasciarsi
sfuggire una parola e cominciando qualche discorso su ciò che sente all’interno, lo spirito
attira subito tutto a sé: fa morire i sensi e richiamando l’anima alla sua unione, l’assorbe in
piaceri e incanti che sorpassano tutto ciò che lo spirito umano può immaginare.
4. Ella è così elevata al di sopra delle creature, che tutto quel che nel mondo c’è di ricco e di
sfolgorante le sembra come un piccolo punto e come polvere spregevole; e sebbene sia in
una condizione molto bassa, la grandezza in cui si vede elevata fa sì, che si stimi più felice di
tutto quel che si possa immaginare di grande e pomposo sotto il cielo….Sono costretta a
tacere perché credo che tutte le lingue degli angeli e degli uomini unite assieme non
possano mai spiegare ciò che accade in questa sublime comunicazione.
Beata Maria dell’Incarnazione (1599-1672), Lettera III (1627)
L’AUTORE Figlia di un fornaio di Tours, vedova a 20 anni, mamma di un bimbo (il futuro
benedettino don Claude Martin), gestiva, durante i primi anni di crescita di suo figlio, dei
magazzini di suo cognato sui moli della Loira, religiosa a 31 anni, ella parte a 40 anni ad
evangelizzare il Quebec in mezzo a difficoltà inaudite, contribuendo grandemente a farne una
terra cattolica e francofona. Quel che ci resta della sua corrispondenza (1000 pagine) e di
alcuni scritti personali, può essere considerato come quanto di più compiuto, di più profondo,
di più limpido, abbia prodotto il classicismo francese, sulla vita di Dio nel cuore dell’uomo.
Bossuet parlava di Maria come della Teresa d’Avila francese; si può capovolgere il paragone
e nel campo mistico, fare di Maria il riferimento assoluto su cui misurare tutti gli altri.
IL TESTO Maria non ha che 28 anni. Contrariamente alle sue abitudini, Dio l’ha immersa
molto presto nelle delizie dell’unione totale a lui, caratterizzata dal matrimonio spirituale (o
anche lo stato di perfezione, nel senso di compiutezza dell’itinerario spirituale). È
probabilmente per il suo direttore, disorientato da tanta precocità, che ella scrive qui.
Leggendola, correremmo il rischio di pensare che ciò accada solo agli altri. Ma non
dimentichiamo che, tuttavia ciò è stato reso possibile per tutti dalla resurrezione di Gesù (Gn
14,23: «Se qualcuno mi ama, il Padre e io verremo a lui e dimoreremo in lui»), anche se pochi
ne profittano e se non tutti sono chiamati a vivere questa unione secondo la stessa presa di
coscienza (è questa che determina la parte contemplativa più o meno grande di ogni vita
cristiana). Qual che sia il punto di crescita spirituale in cui ci troviamo, leggiamo la
descrizione come lo stato in cui Gesù si accinge a metterci, egli illumina il cammino che si
appresta a farci percorrere e ciò non suppone dal nostro canto, che un abbandono sempre più
completo al suo amore.
§ 1 «L’amore attuale»: i mistici lo distinguono dall’amore abituale, perchè corrispondono a due
piani di coscienza distinti. L’innamorato (di Dio o di chiunque) vive tutte le cose, in funzione di
colui che ama, e ciò è la molla del suo equilibrio e della sua gioia nel profondo: ecco l’amore
abituale. In certi momenti l’innamorato si occupa soltanto di colui o colei che ama (il ritrovarsi
di due sposi, per esempio), che allora passa in primo piano, nella sua coscienza: ecco
l’amore attuale. Nel matrimonio spirituale i due piani tendono a confondersi, poiché tutto si
mette a cantare l’amore unico del Diletto. Ecco perché «gli imbarazzi degli affari» non
imbarazzano più e la sofferenza stessa non è più un problema.
«Nel profondo»: il «fondo» dell’anima (o il suo centro, o sommità, o spesso nel XVII secolo lo
«spogliatoio dello Sposo»…), è il punto in cui ella è a contatto con Dio, dove «lo carezza e lo
intrattiene», dove il «tu» divino ci costituisce nell’«io» che fa di noi una persona, a monte di
tutto ciò che forma la nostra personalità.
§ 2 «La parte superiore dello spirito» equivalente al «fondo» del § 1): è lì che si stabilisce la
reciprocità dell’amore, poiché ciascuno è sé stesso, solamente nell’altro e per l’altro, in
quanto «il Dio d’amore si è dato a lei ed ella reciprocamente a Dio». Attraverso l’amore, né
Dio né l’anima perdono la loro libertà ma la consacrano in questa donazione.
§ 3-4 «gli fa morire i sensi… io sono costretta a tacere»: Dio rende l’anima incapace di
esteriorizzare, di rendere sensibile con parole ciò che prova. Dio occupa tutto il posto, tutto.
Le anime ciarliere non sono mai anime unite.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
D come DIREZIONE
In senso stretto (si vedrà un senso largo con la paternità spirituale), il ruolo specifico del
direttore spirituale è soltanto quello di permettere all’anima, durante le crisi di crescita, di
comprendere ciò che Dio opera in lei,
È cosa dura e piena di sofferenza per un’anima, in quei momenti, non comprendersi e non
trovare chi la comprenda.
San Giovanni della Croce (1542-1591), La salita del Carmelo, Prologo
Così che
Fa pietà vedere molte anime a cui Dio dona talento e favore per avanzare, che restano in un
modo basso di trattare con Dio, per mancanza di volontà, o per non sapere o perché non le si
mette sul cammino e non si insegna loro a distaccarsi dagli inizi.
Idem
Al contrario, istruita da un direttore competente,
È una grande fortuna per quest’anima vedere il ritratto fedele di ciò che prova; ella riconosce
la via dove Dio la mette e vi cammina con sicurezza.
Santa Teresa d’Avila (1515-1582), Il Libro della sua Vita, cp.14
Ma chi è un direttore competente?
Converrà che voi prendiate per guida e padre qualche persona letterata, esercitata [nella vita
spirituale] e sperimentata negli affari di Dio.
San Giovanni d’Avila (1499-1569), Audi Filia 1, III, C
Non solamente letterato, poiché coloro la cui scienza è tutta nei libri
Sono molto lontani dall’esperienza del gusto e dell’illuminazione di Dio e ne parlano come di
una cosa che non conoscono.
Idem
Non solamente esercitati nella vita spirituale poiché coloro la cui scienza proviene solo dalla
pietà,
Per ignoranza cadono nell’errore e vi fanno cadere coloro che sono nelle loro mani, per non
saper loro dare avvertimenti contro le astuzie del demonio.
Idem
Un direttore così deve essere molto raro!
Sceglietene uno tra mille, dice Avila [allusione al testo precedente]; e io dico tra dieci mila, in
quanto se ne trovano meno di quanto non si pensi, capaci di tale compito.
San Francesco di Sales (1567-1622), Introduzione alla Vita Devota, I, IV
Come dire che è introvabile! Si, ma tutto è possibile a Dio:
Io vi dico: chiedetelo a Dio e avendolo ottenuto, benedite la sua divina Maestà, fermatevi e non
cercatene altri, ma andate semplicemente, umilmente e confidentemente, perché farete un
felicissimo viaggio.
Idem
È Dio in effetti, che dona il direttore, così che per accettare di esserlo,
La grazia della vocazione è necessaria, senza di essa tutto è vanità, autosoddisfazione e
stima di se stesso…..È un ministero eccezionale in cui noi dobbiamo mai metterci se non
quando Dio ci metterà lui stesso attraverso i superiori o le guide spirituali.
Miguel de Molinos (1628-1696), Guida spirituale, II, 5, 23-24
Allora il direttore può sperare d’ essere trasparente all’azione divina, in quanto
Un direttore deve guardarsi dal volere condurre un’anima; spetta a Dio condurla e al direttore
di procurarle il mezzo perchè ella non si opponga a questa condotta
François Liberman (1802-1852), Lettera del 15 Dicembre 1839
Così che dinanzi ad una decisione che spetta al diretto,
Egli non si porti e inclini da una parte o dall’altra; ma tenendosi tra i due come una bilancia,
lasci operare il Creatore senza intermediario con la sua creatura, e la creatura col suo
Creatore e Signore.
Sant’Ignazio di Loyola (1491-1556), Esercizi spirituali, § 15
In quanto
Nostro Signore desidera che lo s’indirizzi a Lui e che, quando si consultano gli uomini, si
vada a cercare in essi solo Lui.
Jean-Jaques Olier (1608-1657), Lettera (?)
Non bisogna mai vedere il direttore senza avere innanzitutto consultato Dio…. Abituatevi a
comportarvi secondo la luce di Dio in voi.
François Liberman, Lettera del 30 settembre 1837
Allora potrà stabilirsi una relazione di fede:
Non considerate [il vostro direttore] come un semplice uomo e non confidate in lui né nel suo
sapere umano, ma in Dio, il quale vi favorirà e parlerà attraverso la mediazione di
quest’uomo, mettendo nel suo cuore e nella sua bocca ciò che occorrerà per la vostra felicità.
San Francesco di Sales, Introduzione alla Vita Devota, I, IV
E se dopo averlo chiesto a Dio, non si trova il direttore? Vuol dire che non se ne ha veramente
bisogno!
Quando la sua Provvidenza ci priva di questo aiuto, dobbiamo credere che sia per un bene più
grande e che l’amorosa sottomissione alla sua santa volontà nelle sofferenze interiori, ci sia
più utile per una unione più intima, della consolazione di alleggerirci dicendo il nostro male.
Santa Giovanna di Chantal (1572-1641), Lettera 774 (Gennaio 1637)
Perché in alcun caso la direzione deve divenire complicità:
Se un’anima sa conoscere se stessa, confesserà per sua esperienza, purché sia fedele alla
grazia e alle dolci e frequenti ramanzine di Nostro Signore, che può fare a meno di molti
appoggi e che non sono le creature che le danno il vigore interiore
Beata Maria dell’Incarnazione (1599-1672), Lettera 95
E allora,
Guidati dall’amore, non si possono fare passi falsi; e dov’è il vero amore se non nel vero
abbandono e in una consegna di se stessi nelle mani di Dio?
Claude-François Milley (1668-1720), Lettera LXIV
TU SEI MIO FIGLIO, IO OGGI TI HO GENERATO
Lo straordinario Salmo 2 ha al centro la figura del re, insidiato dai principi delle nazioni, i
quali vogliono destituire lui e colui che lo ha posto sul trono. Il riferimentoi è alla pratica
politica di un grande sovrano che pone a capo di una regione o di una città un suo vassallo,
garantendolo con la sua autorità dinanzi agli inferiori e ai vicini. La rivolta contro il vassallo
diventa contestazione dell’autorità del sovrano. Pur non escludendo una spiegazione storica
del salmo, composto cioè in riferimento a personaggi ed eventi determinati della dinastia
davidica, esso presenta elementi di più ampio respiro che allargano il salmo ad un orizzonte
universale, conferendogli un’indole messianica: il dominio del re è universale, come
internazionale è la coalizione dei ribelli. Con la decadenza della dinastia davidica e
l’affermarsi della speranza messianica, che alimentava desideri in contrasto con la realtà
storica, il popolo riafferma la fiducia nella promessa di Dio a David per bocca di Natan (2
Sam. 7). Stare saldi nella fede alla parola pronunciata da Dio consente ad un resto di non
rimanere schiacciato dalle vicende della scena storica, ma di ergersi sulle rovine dei progetti
umani che tendono a ingabbiare la Parola, per vederla trionfare ben oltre ogni attesa. Un
Uomo ascolterà un giorno la voce divina che lo proclama suo figlio, e non in senso metaforico
o adozionistico, bensì reale, perchè questi è davvero il Figlio. La fede attende la gestazione
della storia, che ha partorito il Figlio di Dio e verso di Lui corre per accettarne il giudizio
discriminante e assistere al suo trionfo sulla morte, ultimo nemico (I Cor. 15,26)
La collera divina mostra i suoi segni e pronuncia con fermezza il suo decreto: «Io stesso ho
unto il mio re». Lo sgomento coglie i ribelli, che non sfuggiranno alla verga di ferro del re.
Gregorio di Nissa, ricordando il potere regale di Gesù, spiega il benefico effetto del suo
inflessibile governo: «con il suo scettro di ferro, cioè con il suo potere invincibile, spezza ciò
che in essi è terra ed argilla e li trasforma in natura incorruttibile».
ABC
N. 21 - Nov embre 2001
123
UN AMORE INCANDESCENTE …..
1. Ormai, mio Amore, perché fermarmi ai tuoi doni, dato che sono innamorato solamente e
soltanto di te, al di là di tutto? Dimmi, Vita mia, viviamo e possiamo continuare a vivere l’uno
senza l’altro? No, perché tu mi desideri troppo violentemente e anche io ti desidero
totalmente, nell’ardore di un amore indicibile…. Che vuoi che faccia, se non amare? Cosa
vuoi che possa amare se non te che sei infinitamente degno d’amore? Perché preoccuparmi
ormai di quel che mi dai, di quel che mi fai, di quanto mi eleverai nel tempo e nell’eternità,
dato che sono innamorato di te? No, no, poiché sono innamorato, ciò mi basta e non mi resta
ad augurarmi nulla…
2. Io non ti cercherò mai al di fuori dove tu non sei ma mi ritirerò sempre con tutte le mie forze
nel profondo di me stesso, dove ti possederò in godimento e in supremo riposo, nella nostra
semplice unità dove ci diletteremo pienamente l’uno dell’altro, in te solo, e solamente perché
tu sei Dio. Io sono contento e totalmente soddisfatto in ciò di modo che tu non devi mai essere
compreso da alcuna delle tue creature, quale che sia o possa essere…
3. O mio unico Amore, io desidero infinitamente vederti e possederti nella tua gloria
essenziale, ma desidero infinitamente di più amarti veramente, sia nell’abbondanza che nel
vuoto e nell’indigenza, perché, o Centro del mio cuore, non m’importerà mai di fare o divenire
qualsiasi cosa, basta che io faccia completamente la tua delizia. Facciamo dunque, mio
Amore e mia Vita, il nostro reciproco paradiso nel soggiorno dell’uno nell’altro, con la forza
del nostro instancabile e reciproco amore; e che lì possediamo l’uno nell’altro le nostre
scambievoli delizie, nella tua perpetua compiacenza, divorati tutt’e due di felicità e d’amore; in
modo che il tuo si effonda nel mio attirandolo fino a te, da dove tu lo farai scorrere in me come
dalla sua sorgente continua, molto viva e feconda. No, no, mio Amore e mia Vita, io sarò
contento quando mi vedrò essere il vostro paradiso pieno e intero e non altro….
4. Io sono innamorato e mi è impossibile che non sia altrimenti: soltanto coloro che sanno
cosa è amare, solo essi sapranno se io dico il vero e perché.
Jean de Saint-Samson (1571-1636), Esercizi dell’Amore supremo, 1° esercizio
L’AUTORE Figlio di un borghese di Sens, Jean du Moulin perde la vista a 4 anni. A 30 anni,
organista mezzo accattone a Parigi, frequenta il convento dei carmelitani di piazza Maubert,
dove legge e commenta per i giovani frati gli autori mistici (specialmente nordici) alla moda
nella capitale in pieno rinnovamento spirituale. Nel 1606 diviene, a sua volta, carmelitano
presso il misero convento di Dol- di- Bretagna, prendendovi il nome di Jean di Saint-Samson.
Gli insegnamenti spirituali di Jean, trascritti dai suoi fratelli, saranno all’origine della riforma
detta di «Turenna» del carmelo francese, segnata dal misticismo e dall’austerità. Le sue
meditazioni, senza dubbio annotate a malapena a sua insaputa, sono sempre segnate da un
fervore e un rigore mistico che gli hanno valso l’appellativo di «Giovanni della Croce
francese».
IL TESTO Si tratta di un piccolo saggio dei dialoghi tra l’anima e il suo Diletto, in cui
traspare l’incendio interiore che abitava Jean. Vi si nota la volontà costante e violenta di
trasformazione in Dio fino a morirne, che è in verità l’asse di tutta la sua opera.
§ 1 Al di là di tutti i doni, è Dio stesso che l’anima ama e vuol possedere, proprio come Dio la
desidera, di un amore totale. Tra lei e lui, l’amore basta a se stesso: affiora qui un celebre
sermone di san Bernardo ( «Io amo perché amo» cf. Semi n° 5 ), senza dubbio attraverso la
lettura di Ruusbroec l’Admirable ( «Amate l’amore che eternamente vi ha amato»)
§ 2 Qui traspare sant’Agostino: quando l’anima si è esaurita nel cercare Dio al di fuori, le
resta di accoglierlo nella profondità di se stessa «più intimo a me stesso di me stesso»
(Confessioni, libro X). È là che ella forma con lui una «semplice unità», espressione ereditata
dai mistici del Nord per esprimere, come frutto della loro unione amorosa, l’indissolubile
comunione di vita tra Dio e l’anima.
«Tu non devi mai essere compreso…»: comprendere, qui ha il senso antico di «contenere»;
Dio è sentito da Jean come sorgente inesauribile di vita, così che possederlo «in godimento e
supremo riposo» non è ozio, ma perpetua novità.
§ 3 La «gloria essenziale» indica la visione di Dio nell’aldilà; ma la nostra felicità non è
propriamente di vedere Dio: è di amarlo perfettamente e ciò è possibile sulla terra come in
cielo, anche se la morte inaugura una nuova dilatazione di questa felicità.
«Centro del mio cuore»: nella cosmologia pre-newtoniana, ogni cosa è spontaneamente
trasportata verso il suo centro, ciò permette a numerosi mistici di evocare Dio come centro
dell’anima, per indicare contemporaneamente il dinamismo che ci porta verso di lui e il fatto
che la nostra personalità si origina nella Trinità. È lì che si può operare «il soggiorno dell’uno
nell’altro», come Gesù ci domanda, «voi in me ed io in voi» (Gn. 15,4). È là inoltre che
zampilla la «sorgente continua» dell’amore, che rinvia chiaramente ad un altro celebre testo
di san Bernardo: «Grande cosa che l’amore, così rituffato nella sua sorgente, vi attinga cosa
di cui scorrere incessantemente!» (Sermone 83 sul Cantico)
§ 4 Infine, l’incomunicabilità dell’esperienza di Dio e la complicità tra i suoi amici, è un tema
costante di Jean de Saint-Samson.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
D come DISCERNIMENTO
«Dio, nessuno l’ha mai visto!» (Gv. 1,18) Come sapere quindi se ciò che chiamo la mia vita
spirituale è tale? Se non sono vittima delle mie illusioni o del diavolo o di un cattivo
consigliere? Innanzitutto, un principio semplice:
Se i nostri pensieri sono cattivi, appartengono a noi; se sono buoni, è Dio che parla…. In
effetti, dal Verbo non uscirà mai il male e dal cuore non proverrà mai il bene se non perché lo
avrà ricevuto dal Verbo stesso.
San Bernardo (1090-1153), Sermone 32 sul Cantico dei Cantici
In effetti,
Due amori hanno costruito due città: l’amore di sé fino al disprezzo di Dio, la città della terra;
e l’amore di Dio fino al disprezzo di sé, la città celeste. L’uno si glorifica in sé, l’altro nel
Signore. L’uno domanda la sua gloria agli uomini; l’altro pone la gloria in Dio
Sant’Agostino (354-430), La Città di Dio, 14, 28
Perciò quando si è ispirati di fare qualche cosa per amore di Dio,
Il cattivo spirito rattrista, pone degli ostacoli, inquieta con false ragioni perché non si vada più
lontano, mentre il buono dà coraggio e forze…perché si avanzi nell’opera buona.
Sant’Ignazio di Loyola (1491-1556), Esercizi spirituali, § 315
Satana lavora soltanto nell’illusione; ciò spiega che,
Se viene una visita del demonio, l’anima prova una grande allegrezza ricevendola, ma più si
prolunga la visita, più la gioia diminuisce.
Santa Caterina da Siena (1347-1380), Dialogo 71
Invece, poiché Dio lavora nella realtà, al momento delle sue visite,
L’anima prova innanzitutto un santo timore; con il timore ella riceve tripudio, sicurezza, dolce
prudenza: ella dubita, non dubitando.
Idem
Infatti, Dio sa farsi riconoscere molto bene, in quanto
La voce del buon Maestro è dolce e pacifica; dà il coraggio di compiere ciò che ispira e porta
l’anima a dio:
François Liberman (1802-1852), Lettera del 29 Gennaio 1845
Così che
Il grande principio della vita interiore è nella pace del cuore….Perché le vere ispirazioni di
Dio sono sempre dolci e pacifiche, poichè portano alla confidenza e all’umiltà; mentre le altre
sono vive, inquiete, turbolente, poichè portano allo scoraggiamento e alla sfiducia, o anche
alla presunzione e alla volontà propria.
Jean-Pierre de Caussade (1675-1751), Lettera 91
Un’attrattiva esercitata dalla natura o dall’immaginazione, esalta lo spirito, agita e preoccupa,
distrae da Dio e porta all’amor proprio. L’attrattiva di Dio è pacifica, porta meno allo spirito
che al cuore; fortifica la volontà e porta ad essere più fedele a Dio.
François Libermann, Lettera d’agosto 1845 a M. Bouchet
«Io sono in piena disfatta interiore! Come sapere se Lo amo ancora?»
Se fra queste pene, l’anima conserva sempre la volontà di appartenere tutta a Dio in qualsiasi
stato la metta e se, in questo stato di pene, ella non fa più errori che nell’ordinario, stia sicura
che questo stato è una prova di Dio e una sorta di mortificazione soprannaturale che Dio invia
e che egli toglie quando vuole. In una parola, questo è lo stato più sicuro e più felice dove
possa augurarsi di essere.
Jean Rigoulec (1595-1658), Lettera 30
Ogni orazione che produce la riforma del cuore, la correzione dei costumi, la fuga da ogni
vizio, la pratica delle virtù evangeliche e dei doveri del suo stato è una buona orazione. Al
contrario, ogni orazione che non dà i suoi frutti… è un cattivo albero e una falsa orazione,
anche se fosse accompagnata da rapimenti, estasi e miracoli.
Jean-Pierre de Caussade, Lettera 87
«Penso che Dio mi chiama a sposarmi, ma come esserne sicuro (a) ?»
Quando lo spirituale dubiterà se l’inclinazione che prova è di Dio, esamini se è nella
disposizione di obbedire senza riserva alla volontà divina nel caso in cui le sarebbe
chiaramente conosciuta. Se è veramente in questa disposizione, e se prega Dio d’illuminarlo
e d’istruirlo, egli sappia che questa sollecitazione interiore che prova frequentemente è di
Dio purché non vada contro le sante Lettere o l’insegnamento della Chiesa.
Beato Louis de Blois (1506-1565), L’istituzione spirituale, VIII, 2
« E se esito ancora dopo ciò?» Allora parlatene umilmente a chi ha la missione di illuminarvi,
in quanto
Come l’amante disonesto non ama che la donna rapporti al marito le sue intenzioni
depravate…. il nemico della natura umana desidera che le sue astuzie e suggestioni
all’anima giusta siano tenute segrete e che non siano scoperte al confessore.
Sant’Ignazio, Esercizi, § 326
E se seguite questo consiglio, c’è da scommettere che il demonio non andrà lontano, in
quanto
Per decidere del valore della moneta spirituale, ecco il primo e principale segno: quale che
sia l’opera che si tratta di giudicare,… se l’umiltà la precede, l’accompagna e la segue,
senza alcun elemento contrario, potete essere sicuri che quest’opera viene da Dio o dal buon
angelo.
Jean Gerson (1363-1428), Sulla distinzione delle visioni, 4
«Ma il mio confessore è assente!» Allora
Se voi avete davanti due azioni e non sapete qual è meglio, la più sicura da fare è quella che
contraria di più la natura….Più volete vivere secondo lo Spirito, più dovete apprendere a
morire alla vostra natura.
Jean Taulero (1300-1361), Sermone 33
E a colei che gli domandava un miracolo per confermare le sue apparizioni, Gesù risponde:
Io ti darò un segno migliore: sarai infiammata d’amore divino e illuminata interiormente dalla
conoscenza di Dio…, e sopporterai tutte le tribolazioni per amor mio.
Beata Angela da Foligno (+ 1309), Visioni, cap. 29
SIGNORE, SEI MIO SCUDO TUTT’INTORNO
L’orante del Salmo 3 supplica con fiducia il Signore, invocandone la presenza di salvezza nel
bel mezzo del pericolo. L’ambientazione del Salmo è, infatti, la guerra contro potenti nemici, a
rievocare una probabile preghiera di David o di altro suo discendente nel travagliato
svolgimento delle funzioni regali. L’orante ha già sperimentato la divina presenza e su questa
base afferma con certezza che egli è come uno scudo che si frappone a modo di un cerchio
protettivo tra la miriade di assedianti e lui medesimo,solo e quasi inerme. Forse ancora più
eclatante in questo contesto bellico è l’affermazione del v. 6; dopo aver proclamato con
fierezza che il grido di invocazione viene ascoltato dal Signore, l’orante conclude: “In pace mi
corico e m’addormento, mi sveglio, perché il Signore mi sostiene”. Pur circondato da nemici
innumerevoli, schierati per l’assalto definitivo, egli si lascia andare al riposo notturno,
evocando per contrasto un contesto di serenità, in cui l’uomo, perché sicuro, giace indifeso
ed esposto a chiunque. Il salmista in vero ci coinvolge nella sua paradossale
preghiera,dacché nel momento di maggiore pericolo ed insicurezza, laddove ognuno
sarebbe in preda all’agitazione e all’ansia, egli si abbandona al riposo con una placidità che,
quantomeno, sbalordisce. Pregare il Salmo è essere invitati alla sicurezza di fede, dove
consapevolmente si contrappone all’assunto sprezzante e canzonatorio dei nemici: “Non c’è
salvezza per lui in Dio”, la sua ferma persuasione: “Tu mi fai rialzare la testa”.
La testimonianza evangelica ci spinge a scrutare il medesimo atteggiamento in Gesù,
quando in croce egli subisce lo scherno degli astanti: “ Se veramente Dio gli vuol bene, lo
liberi ora”, che riecheggia anche Sap. 2, 18-20. Pregando il salmo entriamo, allora, anche
nell’agonia del Cristo, che si abbandona sul talamo della croce nella certezza di svegliarsi e
di rialzare la testa, perché il Padre lo sostiene. I denti dei suoi nemici saranno spezzati,
poiché a vuoto sono andati i loro tentativi di mordere, cioè di arrecare danno al consacrato di
Dio.
ABC
N. 22 - Dicembre 2001
123
NULLA DI COSÍ SICURO COME LA NOTTE!
1. Come tutte le altre anime che il Signore chiama al cammino interiore, ti troverai pieno di
confusione e di dubbi, perché ti mancherà di poter discorrere nell’orazione. Ti sembrerà che
ormai Dio non ti aiuti più come prima e che l’esercizio dell’orazione non è per te; che perdi il
tuo tempo, poiché non puoi più, pur sforzandoti, produrre un solo discorso come avevi
l’abitudine.
2. Che afflizioni e perplessità ti causerà questa mancanza di discorsi! E se in questa
circostanza non hai un padre spirituale esperto nel cammino mistico, per te crescerà la pena
e per lui la confusione …. Oh! Quante anime sono chiamate al cammino interiore e invece di
guidarle e di farle avanzare, i padri spirituali, per non saper comprenderle, le frenano e le
buttano giù!
3. Devi persuaderti, per non tornare indietro quando ti mancherà il discorso dell’orazione,
che è lì la tua più grande felicità, perché è il segno chiaro che il Signore vuole farti avanzare
attraverso la fede e il silenzio nella sua divina presenza, è questo il sentiero più profittevole e
più facile: in effetti, attraverso un semplice sguardo o un’attenzione amorosa a Dio, l’anima si
presenta al suo Signore come un umile mendicante; oppure, come un semplice lattante si
precipita al seno della madre amata, pieno di dolcezza e di sicurezza…
4. Quest’orazione, non solo è la più facile, ma è anche la più sicura, in quanto libera dalle
operazioni dell’immaginazione, sempre soggetta agli inganni del demonio e ai movimenti
dell’umore malinconico; libera anche dai discorsi nei quali l’anima si distrae facilmente e si
aggroviglia, guardandosi ella stessa attraverso la speculazione…
5. Ciò che per te è più importante, è la pazienza, e il non abbandonare l’impresa
dell’orazione, anche se tu non potessi discorrere. Avanza in una fede ferma e in un silenzio
santo, morendo a te stesso con tutte le tue abilità naturali: Dio è colui che è, egli non può
ingannarsi né volere altro se non il tuo bene….
Guarda il mulo che ha gli occhi bendati mentre gira la ruota del mulino: anche se non vede né
sa quel che fa, lavora molto frantumando il grano; e anche se lui non lo gusta, il suo padrone
raccoglie il frutto e il gusto. Chi non penserebbe che il seme, per essere stato tanto tempo
sotto terra, non sia perduto? E dopo si vede uscire, crescere e moltiplicare. Dio fa lo stesso
nell’anima quando la priva della considerazione e del discorso. In effetti, allorquando ella
pensa di non fare niente e di essere perduta, si rivela col tempo, sviluppata, distaccata e
perfetta, senza aver mai sperato simile fortuna.
Miguel de Molinos (1628-1696), Guida spirituale, I, 2
L’AUTORE Nato presso Saragozza in una famiglia contadina, formato presso i Gesuiti,
prete a Valenza, Molinos parte per Roma nel 1663, lì ebbe rapidamente grande reputazione di
direttore spirituale nel momento in cui il quietismo comincia a inquietare. Nel 1675, il suo
Guida spirituale conobbe un successo considerevole, suscitando gelosie che provocheranno
il suo imprigionamento e poi la condanna nel 1687 per quietismo, al termine di un incerto
processo. In ogni caso, Guida spirituale così come ci è pervenuto, può sicuramente essere
letto senza pericolo nella grande tradizione del carmelo spagnolo da cui ha ricevuto
un’influenza evidente.
IL TESTO § 1. Molinos ci prende per mano nel momento in cui Dio ci introduce alla
contemplazione propriamente detta: l’anima perde allora ogni controllo su se stessa, perché
senza che se ne renda conto, la conduce, allora, un altro. E più lei cercherà di riprendere
l’iniziativa, più aumenterà la sua sensazione di smarrimento, aridità, etc. Tutto ciò «perché ti
mancherà di poter discorrere», cioè di formarti un’idea del cammino su cui avanzi. La pietra
d’inciampo d’ogni vita spirituale è in questa necessaria impotenza, che non è altro che il
ritorno alla situazione filiale di Adamo ed Eva prima del peccato. «Ti sembrerà che tu perdi il
tuo tempo» ed è fondamentalmente vero: un altro ci conduce e noi non possiamo più formare
alcun progetto se non quello di seguirlo istante dopo istante.
§ 2. Eco di san Giovanni della Croce: tante anime chiamate ad una vita interiore forte, saranno
fermate e soffriranno per non comprendere la legge della fede e per non esservi educate.
§ 3. Quest’ impotenza è una buona novella, un «segno chiaro» di chiamata alla
contemplazione e dunque ad una particolare intimità col Signore. Non si tratta più di pensare
a lui (proprio della meditazione), ma di dimorare con lui, sapendo che egli è là e che è tutto:
come il lattante nelle braccia di sua madre. Chi potrebbe lamentarsene? «Questo sentiero è
nello stesso tempo il più profittevole», perché allora nulla si oppone all’azione di Dio in noi e
attraverso di noi.
§ 4. «Quest’orazione è anche la più sicura»: la fede va dal cuore dell’uomo al cuore di Dio
senza rappresentazioni intermediarie. Orbene, il mondo delle immagini, dei sentimenti e delle
idee è quello in cui interferisce l’angelo, buono o cattivo, contemporaneamente al nostro
sguardo; così che la fede ci mette al riparo da eventuali inganni.
§ 5. La grande, l’unica tentazione sarà sempre quella di addurre a pretesto il fatto di non
provare nulla nell’orazione per abbandonarla: dopo il peccato originale, in effetti, noi
misuriamo le cose sul loro gusto e non sulla loro realtà in Dio. Orbene, la fede cioè
l’abbandono d’ogni cosa nelle mani di Dio, raggiunge questa realtà, e permette a Dio di fare
ciò che deve: mantenervisi («gli occhi bendati»), ecco la sola cosa necessaria e sufficiente
perché in noi cresca la contemplazione.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
D come …..DISTRAZIONI
Siete pieni di distrazioni nella preghiera? Per fortuna! Perché Per quanto riguarda le
distrazioni, voi dovete semplicemente accettarle, come la volontà di Dio, salvo se non siano
volontarie….Noi dobbiamo rassegnarci e perfino accettarle con tutte e due le mani, come
qualsiasi altra sofferenza. Dobbiamo augurarci di avere la preghiera che Dio ci dà e non
un’altra. Una preghiera distratta, una preghiera di desolazione, una preghiera felice:
dobbiamo prendere tutto come viene, perché la nostra unione a Dio consiste nel fare e
accettare la sua volontà, momento per momento, durante tutta la giornata. Altro non importa.
Henry Chapman (1865-1933), Lettera del 14 Gennaio 1925 Veramente?
L’orazione anche se ci sono molte distrazioni, non è meno utile né meno gradevole a Dio; ma
forse ci sarà più utile che se noi avessimo molte consolazioni, perché vi è più travaglio, a
condizione che abbiamo la fedeltà di ritrarci da queste distrazioni e non vi fermiamo il nostro
spirito volontariamente.
San Francesco di Sales (1567-1622), Veri discorsi spirituali, VI
Sicuramente, le nostre distrazioni possono anche riflettere una vita disordinata, in quanto
Non è meno necessario avere il cuore regolato per pregare e meditare, di quanto lo sia
accordare la chitarra per poter suonare.
San Pietro d’Alcantara (1499-1532), Trattato sull’Orazione, II, 2
In questo caso, l’urgenza è di convertirsi e di rimettere ordine nella nostra vita:
Fuggiamo le distrazioni e i divertimenti delle cose che c’impegnano in mille discorsi, vanità,
stravaganze, debolezze. Siamo fedeli, anima mia, a darci assolutamente a Dio, e viviamo
diversamente di quanto non abbiamo fatto.
Jean de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, IV, 6
Voglio ritornare alla tua dolcezza, Signore, tu che mi raccogli dalla dispersione in cui mi ero
sparpagliato in pura perdita, poiché mi ero ridotto a nulla allontanandomi da te, l’Unico.
Sant’Agostino (354-430), Confessioni, II, 1 E perciò occorre risolutamente
Non distrarre mai talmente il cuore con occupazioni che lo facciano divenire sterile per la
preghiera; vegliare incessantemente su se stessi e tenersi talmente raccolti, come se si
fosse sempre in stato di preghiera.
Pierre Champion (1633-1701), Vita di padre Jean Rigoleuc, cap. VII
Perché, in fondo,
Si hanno delle distrazioni e degli ostacoli nella misura in cui si sono creati dentro di sé.
Beato Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione II, 1
Ma più spesso, quel che chiamiamo «distrazioni» non è che il rumore di fondo della nostra
attività mentale e ciò non ha alcuna incidenza sulla qualità della contemplazione:
[ A proposito del disinteresse dell’anima contemplativa per le cose mondane:] Io non dico che
l’immaginazione non vada e venga (perché anche in un grande raccoglimento, essa è
vagabonda), ma che l’anima non goda di metterla deliberatamente in altre cose [ che Dio].
San Giovanni della Croce (1542-1591), La Salita del Carmelo, II, 13
Allora,
Non siate inquieti né afflitti: lasciamo andare questo tentennamento, e ciò non ci impedisca di
macinare la nostra farina, perché la volontà e l’intelletto non cessano peraltro di operare.
Santa Teresa d’Avila (1515-1582), Il Castello dell’anima, IV, 1
L’essenza della preghiera è di voler pregare, non di riuscirvi:
Non si tratta di ciò che sentite malgrado voi, né dei pensieri che si presentano al vostro
spirito, né delle distrazioni involontarie che vi stancano nella vostra orazione: basta che la
vostra volontà non voglia mai essere distratta, cioè che voi abbiate sempre l’intenzione retta e
sincera di fare orazione e di lasciar cadere le distrazioni appena le scorgete. In questo stato,
non vi faranno che bene!
Fénelon (1651-1715), Lettera 130 Così che
Per recuperare il raccoglimento, quando credete di averlo un po’ perduto, non fate alcuno
sforzo violento. Rassegnatevi di buona grazia, ad esser privi di raccoglimento sensibile e
attivo. Contentavi del raccoglimento passivo, che sussiste in fondo al cuore, quando lo spirito
pare dissipato, e che è l’inalienabile privilegio di un’anima libera da ogni legame disordinato
riguardo ai beni di questo mondo.
Jean-Pierre de Caussade (1675-1751), Lettera 88, alla Suora di Rosen?
C’è una sola cosa necessaria per fare bene l’orazione, è quella di avere Nostro Signore tra
le nostre braccia; se c’è questo, essa è sempre ben fatta in qualsiasi maniera noi vi siamo
presi. Non c’è altra finezza, e senza questa condizione, le nostre orazioni non varranno mai
niente, né potranno essere ricevute da Dio….«Oh! Chiedo a Dio che mi liberi da tante
distrazioni che mi arrivano e che m’importunano».Ahimè! Non vi accorgete che tutto ciò non è
rendere la vostra volontà capace di essere unita e accomodata a quella di Nostro Signore,
che vuole che entrando nell’orazione siate risoluti di soffrirvi la pena di continue distrazioni,
aridità e disgusti che sopravverranno, stando così, contenti come se aveste molte
consolazioni e tranquillità, poiché una cosa è certa: la vostra orazione non sarà meno
gradevole a Dio, né meno utile a voi, se fatta malgrado molte difficoltà.
San Francesco di Sales, Sermone XXVIII
TI ESPONGO LA MIA CAUSA E RESTO INATTESA…
Un innocente, ingiustamente accusato o perseguitato, si appella al tribunale di Dio nel
tempio, dove espone la sua causa e attende la sentenza: questo il tema del salmo 5.
Un’evocazione delle radici del male cosmico, nel quale è minacciata ogni esistenza umana
nella vitale funzione del suo relazionarsi con il simile. Esperienza, oltretutto di solitudine nella
quale infine ci si trova trascinati, quando la menzogna inquina la parola e distrugge ogni
comunicazione: “non c’è sincerità nella loro bocca”. Dio è l’unico a cui l’innocente può
rivolgersi a garanzia della propria innocenza e della stessa verità perfidamente insidiata. Il
salmista dipinge i nemici sì come arroganti e sanguinari, ma bolla il loro comportamento
come ingannevole, una sintesi di frode e di menzogna: Come sepolcri covano dentro la
malvagità, mentre fuori parlano con parole melliflue di adulazione: il loro parlare non dà
affidabilità, ma, come l’apertura di un pozzo senza appigli, la loro bocca sembra una voragine
spalancata, viscida la loro lingua, sulla quale chi vi incappa scivola dentro, precipitando fin
nell’abisso. Cadere nei loro piani è finire nella gola di un sepolcro aperto: Di contro stanno la
giustizia e la bontà di Dio, che sono dirittura e rettitudine, tali da guidare e dirigere i passi
dell’innocente, aprendogli una strada tra le insidie dei nemici nella quale il suo piede non
inciampa: È la via stessa di Dio, perché è Lui ad aprirla e perché è la via della verità e della
giustizia, che sono proprie di Dio: Se il salmista apre la preg
ANNO
2002
ABC
N. 23 - Gennaio 2002
123
QUIETISMO O QUIETE?
1. Fin qui ti sei attaccata, con grandissima cura, ai modi di acquistare la santità,….sei
sempre attenta a ciò che può dispiacere a Dio per evitarlo e a ciò che può piacergli, per
praticarlo. Tutto questo è bene, ma Dio ti chiede un altro passo…. Egli vuole che ti abbandoni
a lui, che ti disoccupi totalmente di te e di tutto ciò che ti riguarda. Nessun ritorno più, né su
te, né sul tuo progresso nella virtù, né sui modi di acquistarla. In una parola, dimentica te
stessa, come una persona che non è più niente, che non ha più nulla da temere, né da
ricercare, né da perdere, né da guadagnare, perché perduta e inabissata nel suo Dio che
sostituisce tutto, che è in lei, che agisce attraverso lei, che anima i suoi pensieri, il cuore e il
suo spirito e che non le chiede altro, se non che lo lasci fare e che non turbi l’operazione
divina con la sua…
2. …Questa rinuncia non consiste soltanto nel rigettare ogni attaccamento alle ricchezze, ai
piaceri, agli onori; questo è solo il primo passo. C’è qualcosa, alla quale noi teniamo di più,
è l’attaccamento ai nostri atti, alle nostre conoscenze, alla nostra volontà, alle nostre
particolari vedute per praticare o acquistare la virtù, alla molteplicità di pratiche, senza le
quali crediamo di perdere tutto…Bisogna spogliarsi di tutto ciò, guardare tutto questo come
nulla, elevarsi al di sopra di se stessi per effondersi in Dio nostro primo principio, con una
semplice inclinazione; attaccarci a lui con sguardo semplice, con fede oscura, sbarazzati
dall’ammasso tumultuoso di atti reiterati che servono solo a stordirci e a rammentarci di noi
stessi.
3. In questo stato così puro, non si è oziosi. Giammai lo spirito e il cuore furono più occupati;
ma è Dio solo che li occupa. È questa la fede viva e sgombra dalle immagini e dai fantasmi
penosi sotto i quali la nostra immaginazione ci rappresenta un Dio. È questo dolce e intimo
pendio che ci inclina incessantemente verso il nostro unico bene, che ci lega a lui, che ci
unisce, ci perde e ci mescola a lui in modo tale da vedere soltanto lui in noi, in modo tale da
vedere lui stesso più che i modi per arrivare a lui.
François-Claude Milley (1668-1720), Lettera del 1709 ad una religiosa
L’AUTORE Nato nella Franca-Contea, entrato nel 1685 presso i Gesuiti d’Avignone, padre
Milley eserciterà nel meridione il suo ministero di predicazione e di direzione spirituale,
particolarmente vicino alle visitandine. La madre superiore del monastero d’Apt, Maddalena di
Siry, sarà la sua corrispondente privilegiata. L’uno e l’altra rappresentano la grande vitalità
spirituale provenzale della fine del XVII secolo, richiamandosi a san Francesco di Sales
contro il giansenismo che penetra allora la Chiesa di Francia. Infaticabile nella carità, egli
morirà curando gli appestati di Marsiglia nel corso dell’epidemia del 1720. Ci restano di lui
un centinaio di lettere.
IL TESTO Questa lettera s’indirizza ad un’anima che Dio invita alla contemplazione, e che
esita a superare il passo dell’abbandono totale tra le sue mani: dopo il peccato di Adamo ed
Eva, noi pensiamo che Dio attende da noi delle buone opere, invece egli attende noi!
Certamente, le buone opere sono buone, ma nella misura in cui esse sono l’espressione della
nostra fedeltà all’amore di Dio, e non condizione a quest’amore; pertanto questa fedeltà
suppone di offrirci a lui nella confidenza più totale e specialmente di non pretendere di
dominare la nostra vita spirituale.
§ 1. La nostra prima risposta all’amore di Dio è generalmente quella di sforzarci di fare
meglio possibile ciò che egli ci chiede e ciò definisce la santità, costitutiva di tutta la vita
cristiana. Ma alcuni (coloro la cui vocazione è puramente contemplativa) percepiranno anche
un’altra esigenza dell’amore di Dio: al di là di ciò che si fa per lui, rimettersi interamente alla
sua volontà. Fatto ciò, una tale anima è allora «persa e inabissata nel suo Dio che sostituisce
tutto».
§ 2. Su questo cammino, le nostre resistenze dipendono più sovente dalla volontà di eseguire
bene la nostra vita spirituale, come se non occorresse offrire ciò a Dio che vuole essere il
nostro solo fine, la sola via, la nostra sola riuscita. Pretendere di controllare il nostro amore
di Dio, equivale ad ucciderlo in anticipo, perché in fondo è non fidarsi di Dio.
Che ci resta in quest’abbandono? Dio, al quale noi ci offriamo continuamente «con una
semplice inclinazione», in pratica con una volontà costante di seguirlo amorosamente
dovunque ci condurrà.
§ 3. Padre Milley ci dà la differenza fra quietismo e quiete, così decisiva nella sua epoca; là
dove il quietista non fa nulla, mollemente convinto che il Buon Dio fa le cose al suo posto,
l’anima unita a lui fa ogni cosa in lui e gli lascia fare tutto in lei: «Giammai lo spirito e il cuore
furono più occupati; ma è Dio solo che li occupa». Ancora una volta, l’anima alla quale egli
s’indirizza è incondizionatamente data a Cristo, ella è nella «fede viva» e non nella fede
pigra, così che ella è «inclinata incessantemente verso il nostro unico bene». E se
dall’esterno si può confondere quiete con quietismo, armonia e ozio, è nel senso in cui
l’amore raggiunge qui una tale trasparenza, che finisce, agli occhi di coloro che non sono
mai stati innamorati, per somigliare all’indifferenza.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
D come ….DOLCEZZA
«Venite a me, perché io sono dolce e umile di cuore!» (Mt. 11,29) Questa dolcezza di Dio è
abitualmente più sensibile agli inizi di una vita spirituale:
Allorché l’anima ha deciso con determinazione di servire Dio, per nutrirla e carezzarla
spiritualmente, Dio si comporta con lei come una madre amorevolissima verso il suo tenero
figlio: egli la riscalda sul suo petto, le dà il suo latte saporoso, nutrendola dolcemente e
gentilmente, la prende fra le sue braccia….
San Giovanni della Croce (1542-1591), Notte Oscura, I, 1 Ma occorrerà saper
crescere! E
…man mano che cresce la madre le toglie le carezze, nasconde il suo tenero amore, mette
sul suo dolce petto l’aloe amaro, la fa scendere dalle sue braccia perché vada sui suoi piedi,
affinché perdendo ciò che è proprio all’infanzia, ella si dedichi a cose più grandi e
sostanziali.
Idem
Perché
Il nostro merito e progresso nella perfezione non consistono nella dolcezza e
nell’abbondanza delle consolazioni, ma piuttosto nella forza di sopportare grandi tribolazioni
e pesanti prove.
Tommaso da Kempis (1379-1471) Imitazione di Cristo, II, 12
Ma interiorizzandosi completamente, questa dolcezza continua ad accompagnare l’azione
divina:
L’angelo buono tocca l’anima con dolcezza, leggerezza e soavità, mentre il cattivo la tocca
brutalmente, rumorosamente e con inquietudine.
Sant’Ignazio (1491-1556), Esercizi Spirituali, § 335
Così che,
Riguardo a Dio e alle cose di Dio, tutto deve farsi dolcemente, tranquillamente e senza
sforzi.
J. P. de Caussade (1675-1751), Lettere Spirituali, II, p.249
Così, quando la prova arriva (qui, la morte di una suora molto amata),
Nel mezzo del mio cuore di carne, che ha avuto tanto risentimento da questa morte, scorgo
molto sensibilmente una certa soavità, tranquillità e un certo dolce riposo del mio spirito nella
Provvidenza divina, che spande nella mia anima, nei suoi dispiaceri, una grande contentezza.
S. Francesco di Sales (1567-1622), Lettera del 2 XI 1607
Questa dolcezza nel dolore testimonia un capovolgimento della morte in vita che si opera in
proporzione alla nostra unione a Gesù in croce:
I frutti della croce sono dolci, così dolci che a dire il vero non c’è altra solida dolcezza al
mondo, tanto che le anime che ne hanno gustato una volta sono, per così dire, sempre salite
sulla croce, come su un albero della vita.
Jean de Bernières (1602-1659), Il Cristiano interiore, Libro I, cap. 15
Allora,
Colui che accettasse nell’amore sia le sofferenze interiori che le esteriori, quale vita
deliziosa sentirebbe nascere nella sua anima! Si, la più piccola come la più grande,
sofferenza che Dio lascia cadere su di te viene dal fondo del suo ineffabile amore.
Giovanni Taulero (1300-1361), Sermone 3
Poiché tutto diviene dolcezza, colui che si abbandona così a Dio si addolcisce a sua volta:
Ecco cosa significa essere dolce: non resistere al tuo Dio, in ciò che tu fai di bene,
compiacerti in lui, non in te stesso; nei mali che ti sono giustamente inflitti, abbi dispiacere
solo di te stesso e non di lui.
Sant’Agostino (354-430), Sermone 53
Questa dolcezza non è dunque quella di un carattere sdolcinato…
Io amo le anime indipendenti, vigorose che non sono femmine; perché una troppo grande
tenerezza scompiglia il cuore, la inquieta e la distrae dall’orazione verso Dio, impedisce
l’intera rassegnazione e la perfetta morte dell’amor proprio.
S. Francesco di Sales, Lettera del 1620 (?) a santa Giovanna di Chantal
….ma quella di un uomo tutto invaghito dell’amor di Dio:
Ciò si fa attraverso Gesù Cristo Nostro Signore: perché portando nel fondo della nostra
anima la pienezza della divinità, egli assorbe nella sua carità il nostro amor proprio, che è la
causa della collera…Questa dolcezza non è che una partecipazione di quella di Dio: è la
dolcezza per essenza, e quando ne vuole rendere l’anima partecipante, egli si stabilisce
talmente in lei, ch’ella non ha più nulla del corpo, né di se stessa.
Jean-Jaques Olier (1608-1657), Introduzione alla vita…., X
Quest’uomo è pronto a ricevere dolcemente gli assalti di quest’amore forte come la morte:
Gli assalti che l’amore dà qualche volta all’anima sono sì violenti ch’ella rimane soavemente e
molto dolorosamente ferita, soffrendo tormenti e ferite inesprimibili, sebbene,
contemporaneamente siano accompagnate da dolcezze che sorpassano ogni sentimento.
Maddalena de Chaugy (1611-1680), Vita di Madre Claudia-Agnese…, XI
Ma che importano questi tormenti, poiché sono il contrario di un’infinita dolcezza?
Sembra che il cuore sia il bersaglio in cui il Diletto scaglia incessantemente i suoi strali e
che egli voglia forarlo da tutte le parti… Così il cuore è destinato a continue sofferenze ma,
senza paragone, più amabili di tutto quel che di delizioso si possa immaginare sotto il cielo.
Maria dell’Incarnazione (1599-1672), in Don Claude Martin, Vita della
venerabile…I, 28
Così l’anima non vorrebbe soprattutto esserne privata:
Non c’è nulla di così delizioso degli innocenti rigori di questo santo amore e per quanti
gemiti l’anima faccia a colui che la martirizza così, ella vorrebbe sempre soffrirli.
Idem, I, 27
E ciò fino a morire d’amore:
La morte di tali anime è sempre molto soave e dolce, più di quanto non lo sia stata tutta la loro
vita, perché muoiono in slanci e saporosi incontri d’amore, come il cigno che canta più
dolcemente quando vuole morire e muore.
San Giovanni della Croce, Fiamma Viva, 1,30
NEL REGNO DELLA MORTE NESSUNO T’INVOCA
L’esegesi moderna classifica il Salmo 6 una supplica di un uomo gravemente ammalato;
quella classica lo inseriva tra i sette Salmi penitenziali: Emerge un’esperienza dell’orante
particolarmente complessa: sofferenze acute, abitualmente tipiche della malattia, che
sfociano nell’angoscia interiore, nel timore della morte, ma anche nella coscienza di
un’ostilità perversa, che richiama il peccato. Chi sono i nemici? Certo potrebbe trattarsi di un
linguaggio metaforico, ma non si può escludere che siano personaggi esterni, i quali pur
causando la sofferenza all’orante, lo conducono ad una profonda coscienza del rapporto tra
peccato e sofferenza, fino a intravedere all’orizzonte la morte, la sua stessa complicità con il
peccato: per tal ragione nel salmo Dio è colui che in ultimo infligge la sofferenza; con il
linguaggio tipicamente sapienziale del riprendere e correggere, l’uomo scopre Dio nella
sofferenza e comprende se stesso: la sofferenza, anche inflitta da nemici, terreni o celesti,
può smascherare e mettere a nudo la peccaminosità. Fa eco Geremia (10, 24): “correggici
Signore, con misura, non farci venir meno con la tua collera”. A chi altri allora rivolgersi se
non a Dio? Questo fa l’orante, facendo leva sul vuoto cultuale della morte: quale guadagno
per Dio dal perdersi della sua creatura? Allora il suo grido si fa straziante e appassionato:
“Tu, Signore, fino a quando?” Ecco alcuni versi da Mio fiume anche tu di Ungaretti:
l’attesa di male imprevedibile / intralcia animo e passi / che singhiozzi infiniti, a lungo rantoli,
/ ora che già sconvolta scorre notte / e quanto un uomo può patire imparo,…
vedo ora nella notte triste, imparo / so che l’inferno s’apre sulla terra / su misura di quanto /
l’uomo si sottrae folle, / alla purezza della tua passione.
hiera con un ripetersi affannoso di suoni (sussurri, grida, parole), chiude con espressioni di
giubilo, sicuro della bontà di Dio, che come un clipeo protegge l’innocente. La frode dei
malvagi in fondo, insidia la bontà divina, distruggendo la sua giustizia. “Soffrendo non
minacciava, ma si affidava a Colui che giudica rettamente” (1Pt.2, 23): come sempre nella
vicenda di Gesù le parole salmiche acquistano una consistenza così solida, da far brillare
nelle nostre menti la loro verità e incorruttibilità. Dallo splendore di questa verità siamo
attratti per una fedeltà che sa di dover pagare un prezzo nell’inevitabile combattimento contro
l’ingiustizia.
ABC
N. 24 - Febbraio 2002
123
IL DESIDERIO DI DIO, MOTORE DELL’ORAZIONE
1. All’inizio della vita interiore, il desiderio di Dio è debole. È qualcosa di sordo che si scorge
appena. L’anima prova come un malessere misterioso e dolce che non arriva a precisare. Ella
si sente tormentata nel più intimo di se stessa. Per qual motivo? Non lo afferra nettamente.
L’amore di Dio è all’opera nel suo cuore, ma come un fuoco che cova sotto la cenere. Di tanto
in tanto sprizza una scintilla: uno slancio improvviso solleva l’anima fino a Dio. Poi tutto
rientra nella calma. L’oscurità avvolge di nuovo il fondo dell’anima. Il tormento non è, tuttavia,
interrotto. Il desiderio di Dio cresce; invade poco a poco l’anima interamente. Non tarderà a
manifestarsi di nuovo.
2. In attesa, il desiderio di Dio non resterà inattivo. Se si potesse penetrare in quest’anima, si
vedrebbe che in lei ispira, dirige e vivifica tutto. Si volge verso Dio senza sosta. Lo cerca
sempre. È una fame dolorosa. È una sete essiccante. È un male misterioso che nulla
guarisce e che tutto aumenta. È in ogni istante. Non lascia riposo né il giorno, né la notte.
Anche quando l’anima sembra distratta dal suo dolore, dalle occupazioni esteriori, lo sente
sempre sordamente in fondo a se stessa. La ferita è profonda, la piaga sempre a vivo. Come
si soffre quando ti si ama, mio Dio! Ma anche, come si è felici di soffrire.
3. Arriva infine un momento in cui questa sofferenza è intollerabile. Essa esplode. L’anima
geme, piange. Grida la sua pena molto forte. Le sembra che, aprendo così il suo cuore, un
po’ d’aria fresca verrà da fuori a temperare il fuoco del suo amore. Ma con tutti i suoi sforzi,
ella non fa che aggravare il suo felice male. Più chiaro che mai, comprende che solo Colui
che ha causato la sua ferita può anche guarirla. Ella ha fame: egli è il suo nutrimento. Ha
sete: è la sua bevanda rinfrescante. Ella è povera: egli è la sua ricchezza. Ella è triste: egli è
sua consolazione e gioia. Ella muore: egli è il suo amore e la vita; «quando andrò e
comparirò davanti il volto di Dio?» «Muoio di non morire».
Robert de Langeac (= Agostino Delage, 1877-1947), La vita nascosta in Dio,
Seuil, 1947, pp.90-92
L’AUTORE Nato a Limoges, formatosi al Seminario minore e al maggiore della diocesi, poi
a Parigi, Agostino Delage entra nella compagnia di san Sulpizio nel 1909. Tutto il suo
ministero si svilupperà nel seminario maggiore di Limoges, come professore e direttore
spirituale. Di salute fragile, in preda a profondi tormenti interiori, misconosciuto in vita, le sue
note personali in tre volumi ( di cui Virgo fidelis, commentario al Cantico dei Cantici) sotto lo
pseudonimo di Robert de Langeac, rivelano un’anima di fuoco, familiare alle vette della vita
mistica, nutrita dai maestri del Carmelo e contemporaneamente un autore dalla lingua
perfetta e dalla dottrina luminosa.
IL TESTO § 1. Abitualmente (soltanto abitualmente!), Dio sollecita l’anima in modo
progressivo: «All’inizio della vita interiore, il desiderio di Dio è debole». Ma è tuttavia questo
desiderio che sarà il motore di tutta la vita spirituale, e la felicità eterna consisterà in una
continua soddisfazione di un desiderio che rinasce incessantemente. Concretamente, i primi
tocchi di Dio sono scorti come una certa nostalgia, un bisogno spesso vago di lui: Dio
interessa, il resto interessa meno. Ma se deve accadere uno sviluppo notevole, questo
desiderio in certi momenti s’infiammerà («di tanto in tanto sprizza una scintilla»): allora, si
sa, e si sa che è Lui. Questi inizi possono durare anni, perfino una vita intera, secondo le
vocazioni e la fedeltà a corrispondervi.
§ 2. Dio lavora nel fondo dell’anima, là dove non arrivano le nostre sensazioni, né i pensieri.
Egli la orienta di nuovo verso lui senza che ella lo sappia veramente: ne sarà pienamente
cosciente soltanto il giorno del matrimonio spirituale vale a dire quando avendo, Dio, finito di
scavare il pozzo, la sorgente di vita eterna sgorgherà liberamente e inonderà tutte le
componenti dell’anima. Da lì in poi, ella sente solamente un’attrazione crescente per questa
vita che spinge e vorrebbe vincere le sue resistenze più, o meno coscienti, non forzatamente
colpevoli, ma ereditate dal peccato originale che l’ha sviata da Dio. Questo ripristino del
nostro desiderio è contemporaneamente doloroso, sempre più doloroso quando si avvicina il
momento della liberazione decisiva («un male misterioso che tutto aumenta ») e delizioso
(«Come si soffre quando ti si ama, ma come si è felici di soffrire!»).
§ 3. Perché il matrimonio abbia luogo, occorre che l’anima sia nella condizione di dire sì a
Dio in modo totalmente libero, che tutte le sue resistenze siano vinte, che voglia Dio solo per
Dio. Finché ella crede di potere sfuggire dal suo amore cioè di trovare compensazioni, anche
virtuose e onorevoli in altro, non farà che scavare la sua ferita, perché l’Amore la tiene e le
toglie tutti i suoi appoggi, finché ella ammette che «solo colui che ha causato la sua ferita,
può anche guarirla». Tutti i mistici in assoluto citano questa sentenza tratta dall’amor
cortese, per esempio nel Romanzo di Jaufré del XIII secolo: L’amore quando gli piace, ferisce
duramente e amabilmente e soavemente: l’uomo non vede né intende il suo colpo e giammai
sarà guarito, se non da colui che porta il colpo. (v.7272-7276)
L'ORAZIONE dalla A alla Z
S come …. SCRITTURA
Cos’è la Santa Scrittura, se non una lettera di Dio onnipotente alla sua creatura?….Studia
dunque e medita ogni giorno le parole del tuo Creatore. Scopri il cuore di Dio nelle parole di
Dio
San Gregorio Magno († 604), Lettera 4, 31
Perché non c’è altra fonte per la nostra conoscenza di Dio:
Non è secondo la nostra volontà, né secondo il nostro pensiero che comprendiamo Dio ma
secondo il modo che lui stesso ha voluto insegnarci tramite la Santa Scrittura.
Sant’Ippolito (III S), Contra Noët, 9
In effetti,
Mai per volontà umana sono state pronunziate le profezie, ma perché mossi dallo Spirito
Santo, uomini retti hanno parlato in nome di Dio.
Seconda Lettera di Pietro 1, 21
Allora l’orazione se ne nutre,perché
In questa Scrittura sono le parole della vita eterna. È scritta dunque non soltanto perché
crediamo, ma anche perché possediamo la vita eterna, nella quale noi vedremo, ameremo e i
nostri desideri saranno universalmente colmati.
San Bonaventura (1221-1274), Breviloquium, Prologo, 4
Perciò,
La Santa Scrittura si presenta agli occhi dell’anima come una specie di specchio dove appare
il nostro volto interiore. È lì che, in effetti, scopriamo la nostra bruttezza e la nostra bellezza.
È lì che costatiamo qual è il nostro progresso, o quale distanza ce ne separi.
San Gregorio Magno, Moralia 11, 1
Letta con quest’intenzione, la Scrittura riguarda più il cuore che l’intelletto:
Leggere non come un lavoro, ma come una gioia e un’istruzione dell’anima.
San Gerolamo (350-420), Lettera 130, 15
Nella lettura della santa Scrittura, spesso la nostra curiosità ci nuoce, perché vogliamo
esaminare e comprendere là dove occorrerebbe semplicemente passare. Se vuoi trarne
frutto, leggi con umiltà, con semplicità, con fede e non cercare mai di passare per capace.
Imitazione di Cristo I, 5
Allora, Dio ci viene incontro:
Io aprirò davanti a voi il campo della Scrittura affinché il vostro cuore, dilatato d’amore, vi
spinga a correre nella via dei miei comandamenti.
Idem III, 52
Al di fuori di questo dialogo d’amore, il vero senso della Scrittura ci sfuggirà
Mai entrerai nel pensiero di Paolo se non t’impregni del suo spirito; mai comprenderai David,
se la tua esperienza non ti riveste dei sentimenti contenuti nei salmi.
Guglielmo di Saint-Thierry (1085-1148), Lettera ai Frati del Monte-Dio, III, II
L’abile erudito può interpretare la Scrittura in maniera chiara perché conosce tutto il testo, la
sua intelligenza è sottile e ha una lunga esperienza di studi, anche se non possiede la grazia
di Dio; ma senza l’amore divino non può assaporare il frutto e la dolcezza che vi si trovano
nascosti. E il regno della Scrittura è mostrato a coloro che amano, perché vivono
conformemente ad essa e ne gustano la dolcezza e il frutto, nel tempo e nell’eternità.
Beato Jean Ruusbroec (1293-1381), Regno degli Amanti, IV, III
Ecco perché
È impossibile entrare nella conoscenza della Scrittura senza che sia innanzitutto, infusa in
noi la fede di Cristo, in modo che essa ne sia la luce, la porta e anche il fondamento.
San Bonaventura, Breviloquium, Prologo, 2
La chiave della Scrittura, è l’amore di Dio incarnato nella vita dei santi…
I detti e i precetti della Santa Scrittura, possono essere interpretati e sono compresi, partendo
dai gesti dei santi, perché lo stesso Spirito Santo che ha ispirato i profeti e gli altri autori
della Santa Scrittura, mette in azione i santi.
San Tommaso d’Aquino (1224-1274), Super Ioannem, 18, 4
…perché fin dal primo istante incarnato nella vita di Gesù:
[Il Padre]: Io ti ho detto tutto nella mia Parola, che è mio Figlio, non ne ho un’altra che ti possa
rispondere o rivelare più di questa; guarda solo lui nel quale tutto ti ho detto e rivelato e vi
troverai più di quanto domandi e più di quanto ti auguri di sapere.
San Giovanni della Croce (1542-1591), La Salita del Carmelo, II, 22
La via per comprendere la Scrittura è dunque l’unione a Gesù:
Nell’unione d’amore l’uomo conosce la divinità meglio dei maestri più sapienti che non
essendo stati ammessi nel Santo dei Santi, né nell’appartamento segreto del Re eterno,
ignorano anche i più brillanti raggi della grazia. Dio gli rivela la virtù delle divine Scritture e
gli dà il gusto del Vangelo. In possesso della vera saggezza, più per l’influenza dello Spirito
Santo che per le numerose letture, quest’uomo vede e comprende chiaramente ciò che
conviene fare e non fare per sé e per gli altri.
Louis de Blois (1506-1565), L’Istituzione Spirituale, cap. 1, 3
E ormai la Chiesa, corpo di Cristo, diviene il luogo della Rivelazione, la Tradizione dà il
cambio alla Scrittura:
Lo Spirito Santo scrive il vangelo solamente nei cuori; tutte le azioni, tutti i momenti dei santi
sono il vangelo dello Spirito Santo; le anime sante sono la carta, le loro sofferenze e le loro
azioni sono l’inchiostro. Lo Spirito Santo con la penna della sua azione, scrive un vangelo vivo
che si potrà leggere soltanto nel giorno della gloria quando dopo essere uscito dal torchio di
questa vita, sarà pubblicato.
Jean-Pierre de Caussade (1675-1751), L’Abbandono alla Divina Provvidenza,
cap. XI
LA SFIDA DELLA QUARESIMA
“Principio di ogni bene è una ragione pratica e una prassi ragionata. Perciò né è buona la
prassi senza ragione nè buona la ragione senza prassi. È prassi: del corpo, il digiuno e la
veglia; della bocca la salmodia, la preghiera e il silenzio, più prezioso della parola. Prassi
delle mani è ciò che esse fanno senza mormorazione; dei piedi, poi, ciò che essi compiono
alla prima esortazione… Infatti la prassi che disprezza il giogo della ragione si ritrova a
errare come una giovenca qua e là intorno a cose inutili; e la ragione che respinge le vesti
onorate della prassi non è dignitosa anche se fa di tutto per sembrarlo”. Elia, un prete e
monaco del sec. XII, ricorda la necessità della rettitudine nella vita cristiana, l’essere
raddrizzati dall’esercizio attivo della virtù (esercizio volontario delle pratiche ascetiche) e da
quello passivo /(l’esser consumati dalle prove involontarie): la quaresima, nostra palestra
battesimale, ci invita a verificare l’ordine della persona attraverso la disciplina del corpo e la
continenza della parola, le quali sostengono l’edificio della preghiera. Siamo sfidati, noi
cristiani del ventunesimo secolo, dalle parole dei nostri padri laddove spesso sperimentiamo
il languire della speranza, che abbandona i cieli e ci rinchiude sulla terra. La difficoltà ad
aprire varchi allo stesso vissuto terreno, ciò che per noi credenti è francamente vergognoso,
viene dal rimanere legati alle proprie sicurezze, meglio, alle proprie passioni, alla volontà
cioè di esser gratificati dalle nostre scelte; così in realtà consumiamo le attività per nutrire
l’io e il nostro progetto di vita, piuttosto che essere attenti al progetto provvidenziale. Questo
legame riduce la capacità di resistere alle avversità che ogni perseguimento di un ideale più
alto necessariamente comporta. Ne risulta la rarità della fedeltà a ideali e scelte di vita
impegnativi per la vita intera, in favore di una facile attitudine al cambiamento considerando
ogni scelta solo uno sperimentare a termine, interscambiabile con un’altra, mai decisiva.
ABC
N. 25 - Aprile 2002
123
LODI DELL’ ORAZIONE
L’orazione è un’elevazione del nostro cuore a Dio, con la quale ci uniamo a lui, divenendo una
stessa cosa con lui.
L’orazione è una salita dell’anima al di sopra di se stessa e di tutto il creato, per unirsi a Dio e
inabissarsi in un oceano di dolcezza e d’amore infiniti.
L’orazione è un’uscita dell’anima incontro a Dio quando egli viene per nuova grazia,
attirandolo in lei come nel suo regno, insediandolo in lei come nel suo tempio, possedendolo
lì, amandolo e godendo di lui.
L’orazione, per l’anima, è dimorare alla presenza di Dio, mentre Dio dimora in sua presenza,
lui guardando lei e lei guardando lui, poiché questa vista è più ricca e feconda di quella di
tutti gli spettacoli offerti dagli astri del cielo.
L’orazione è una cattedra spirituale, dove l’anima seduta ai piedi di Dio, ascolta il suo
insegnamento e riceve le mozioni della sua grazia, dicendo con la Sposa del Cantico: «La
mia anima si è consumata alla vista del suo Diletto». In effetti, come dice san Bonaventura,
Dio, qui infiamma l’anima con il suo amore e la penetra con la sua grazia; con quest’unzione
ella è spiritualmente elevata; elevata ella contempla; contemplando, ella ama; amando ella
gode; godendo, ella riposa; e in questo riposo, possiede tutta la gloria che si può
raggiungere in questo mondo.
Così che l’orazione è per l’anima una Pasqua di delizie e di abbracci con Dio, un bacio di
pace tra lo Sposo e la Sposa, un sabato spirituale durante il quale Dio si ricrea in lei, una
casa di gioia sul monte Libano, dove il reale Salomone trova le sue delizie fra i figli degli
uomini.
Essa è un rimedio salutare alle debolezze d’ogni giorno, uno specchio limpido nel quale si
vede Dio, si vede l’uomo, e si vedono tutte le cose.
Essa è un esercizio quotidiano di tutte le virtù, la morte degli appetiti sensuali, la sorgente di
tutte le buone risoluzioni e di tutti i buoni desideri.
Essa è il latte di coloro che cominciano, il nutrimento di coloro che crescono, il porto di
coloro che combattono, la corona di coloro che trionfano.
Medicina per i malati, gioia per gli afflitti, forza per i deboli, rimedio per i peccatori, dono per
i giusti, aiuto per i vivi, intercessione per i morti, è il soccorso comune a tutta la Chiesa.
Essa è porta reale per entrare nel cuore di Dio, primizia della gloria che verrà, manna che
contiene ogni soavità, scala come quella che vide Giacobbe, che conduce dalla terra al cielo,
sulla quale gli angeli incessantemente salgono e scendono, portando a Dio le nostre
domande e apportando a noi la soluzione alle nostre questioni.
…È esplicito che il Signore fu trasfigurato nell’orazione, per mostrarci attraverso la
trasfigurazione del suo corpo la virtù dell’orazione per la trasfigurazione delle anime, che
consiste nel far perdere loro i comportamenti dell’uomo vecchio e di rivestirle del nuovo,
creato ad immagine di Dio.
Luigi di Granada (1504-1588), Libro dell’orazione e meditazione, I-II
L’AUTORE Nato a Granada da una famiglia molto povera, protetto dai nobili, Luigi di Sarria
entra a 20 anni presso i domenicani e per tutta la vita sarà un religioso esemplare nei diversi
conventi della Spagna e poi del Portogallo. I suoi studi a Valladolid, la sua fama di predicatore
e di uomo di Chiesa, e contemporaneamente i successi prodigiosi dei suoi numerosi scritti
(ritrovate circa 5000 edizioni delle sue opere in più di venti lingue!), lo mettono a contatto con
tutto quel che conterà nella Spagna del Secolo d’Oro. Il suo Libro dell’orazione e della
meditazione (1554) è, il manuale per eccellenza della vita interiore nel momento in cui fiorirà
la mistica di Teresa d’Avila e di Giovanni della Croce.
IL TESTO Luigi di G. deve fare i conti con i sospetti di contemporanei preoccupati, per un
certo illuminismo in una Spagna in cui l’orazione mentale è in procinto di divenire fenomeno
di società! Così egli apre il suo Libro dell’orazione e meditazione con quest’apologia che
pone la preghiera, offerta ad ogni cristiano ben disposto, nel cuore di una costruzione della
vita cristiana attraverso l’interiorità. Per questo motivo, Luigi farà parte dei maestri
raccomandati da Francesco di Sales a Filotea.
Un testo così chiaro non ha quasi bisogno di commento, per il fatto che raccoglie e mette in
chiaro per la spiritualità moderna, tutte le definizioni classiche dell’orazione (“elevazione del
nostro cuore a Dio, etc.”) e mostra con assoluta chiarezza il suo carattere centrale in tutta la
vita cristiana. Osserviamo come questa litania, lungi dall’essere un’enumerazione scolastica,
considera l’orazione solo in funzione di un’unione personale a Dio (essa è “porta reale per
entrare nel cuore di Dio”) che il suo autore fa balenare con calore, e di cui s’indovina quanto
debba essere stata viva in lui. Il punto d’equilibrio della vita cristiana è in ciò, perchè “Dio qui
infiamma l’anima col suo amore e la penetra con la sua grazia”. Allora, trovando in essa ogni
felicità (“amando, ella gode; godendo, ella riposa…”), l’uomo vi attinge luce e forza per una
conversione permanente (essa è “rimedio salutare alle debolezze di ogni giorno”) e per una
conformazione crescente a Gesù (“è un esercizio quotidiano di tutte le virtù”).
L'ORAZIONE dalla A alla Z
I come …..INFERNO
Essere senza Gesù, è un insopportabile inferno; essere con Gesù, è un paradiso di delizie.
Beato Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione, II, 8
«Essere senza Gesù»: non c’è altro inferno che questo
Dove sei tu, o Signore, là è il cielo; la morte e l’inferno sono dove tu non sei.
Idem, III, 59
Quaggiù o lassù, essere unito a Dio, ecco il paradiso; non essere unito a lui, ecco l’inferno:
L’anima quando riposa in Dio gusta il sapore ammirevole contenuto nell’ordine [= la
Provvidenza] di Dio; è sufficiente che ci sia l’ordine di Dio per renderla beata: il Paradiso
senza quest’ordine sarebbe un inferno e l’inferno con quest’ordine sarebbe un paradiso.
Giovanni de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, Libro III
cap. 15
Così che l’anima che ama Dio non ha nulla da temere dall’inferno:
Se per un caso impossibile si potesse amare Dio in inferno, ed egli volesse mettermi lì, non
mi preoccuperei; perché egli sarebbe con me e la sua presenza ne farebbe un paradiso.
Abate di Beaufort, Elogio di fr. Lorenzo della Resurrezione (1614-1691)
Meglio ancora: scegliamo gioiosamente l’inferno se tale è la volontà di Dio!
Così i santi che sono in Cielo hanno una tale unione con la volontà di Dio che se ci fosse un
po’ più del suo beneplacito in inferno, essi lascerebbero il Paradiso per andarvi.
San Francesco di Sales (1567-1622), Veri colloqui spirituali II
Perché l’inferno diverrebbe allora la molla di un amore ancora maggiore:
Tutti i demoni dell’inferno e gli uomini di questo mondo coalizzati insieme, non potrebbero
nuocere all’uomo che ama Dio in tutta purezza. Più cercherebbero di nuocergli, più lo
farebbero salire nelle profondità dei cieli, se nondimeno egli fosse tutto nel desiderio di Dio.
E se, con questo fiore del puro desiderio di Dio, fosse trascinato nel più profondo inferno,
troverebbe là, nell’inferno, il regno dei cieli, Dio e la beatitudine.
Giovanni Taulero (1300-1361), Sermone, 7
Ed è così che i santi fanno di tutti i nostri inferni dei luoghi d’amore e dunque di redenzione:
Non sapendo come dire a Gesù che l’amavo e quanto desiderassi che Egli fosse dappertutto
amato e glorificato, pensavo con dolore che egli non avrebbe potuto ricevere mai in inferno un
solo atto d’amore, allora dissi al Buon Dio che per fargli piacere gli avrei ben consentito di
vedermi immersa lì, affinché fosse amato eternamente in quel luogo blasfemo…. Ciò
accadeva non, perché il Cielo non suscitasse il mio desiderio, ma allora il mio Cielo non era
altro che l’Amore.
Santa Teresa del Bambino Gesù (1873-1897), Manoscritto A, 52
Inversamente, appena si cessa di amarlo, si preferisce l’inferno al paradiso….
San Bernardo ci assicura che ciò che serve da legno al fuoco dell’inferno, è la nostra volontà:
“Cosa brucia nell’inferno se non la nostra volontà?” È una verità così incontestabile che egli
aggiunge che se questa volontà propria sparisse dal mondo, non ci sarebbe più inferno:
“Togliete la volontà propria e non ci sarà più inferno”
Alessandro Piny (1640-1709), L’Abbandono…., 1683, ed. 1924, p. 147 s.
….perché volere altro da ciò che vuole Dio, è volere la propria sventura:
Io voglio fare misericordia al mondo e provvedere a tutti i bisogni dell’uomo, ma l’uomo lo
ignora e cambia in morte ciò, che gli ho dato per vivere e così egli diviene crudele con se
stesso.
Santa Caterina da Siena (1347-1380), Trattato della Divina Provvidenza,
cap.134
Ma ponendo la felicità là dove non è, mette nell’inferno se stesso:
L’anima non trovando alcun luogo che le convenga di più, e che non le sia meno doloroso, si
getta ella stessa in quest’inferno, poiché quello è il suo posto.
Santa Caterina da Genova (1447-1510), Trattato del Purgatorio, 8
Ciò che permette di comprendere i tormenti dell’inferno:
È l’anima stessa che si strappa la vita e si distrugge.
Santa Teresa d’Avila (1515-1582), Autobiografia, cap.32
Ma là dove il peccato abbonda, la grazia sovrabbonda e Dio non cessa di chiamarci fin tanto
che non abbiamo chiuso col catenaccio la porta dell’inferno:
Signore tu mi ami molto più di quanto io ami me stesso, poiché mi liberavi tante volte da
quell’orrenda prigione nella quale io ritornavo contro la tua volontà.
Idem
Cosi che andranno in inferno solo coloro che rifiutano, non solo la volontà di Dio ma anche la
sua misericordia:
O Dio, bontà infinita, tu lasci soltanto coloro che ti lasciano, tu non togli mai i tuoi doni se non
quando noi togliamo te dai nostri cuori.
Francesco di Sales, Trattato dell’Amor di Dio, II, cap. 10
Ma forse l’evidenza della vostra indegnità vi persuade che siete già nell’inferno?
È possibile che il desiderio violento di appartenere a Dio e di sentirvi un attimo dopo come
respinto da una mano potente e invisibile, vi procuri dei pensieri di riprovazione e di
disperazione? L’oblio di Dio vi sembra un inferno? Oh! Il gran sentimento, che incanta il
cuore di Dio e che racchiude l’atto d’amore più perfetto!…Dio permette di solito che all’anima
sembri che questa specie di pene non debbano mai finire. Perché? Per darle attraverso ciò,
l’occasione di abbandonarsi più totalmente, senza fine, senza limiti, senza misura, e in ciò
consiste il puro e perfetto amore.
Jean-Pierre de Caussade (1675-1751), Lettera 56 (1738), a Suor de Vioménil
Allora, se avete ancora paura dell’inferno:
Di grazia, temiamo noi stessi, perché siamo i nostri peggiori nemici! Ma di grazia, non
temiamo un Dio d’amore, non temiamo di cadere tra le mani di un Dio la cui natura è la Bontà
stessa… La bontà può solo fare bene, e fare del bene quando si lascia fare.
Alessandro Piny, L’Abbandono alla volontà di Dio, 1683, ed. Parigi, 1924, p.14
L’AGNELLO MANSUETO
“Abbiamo ricevuto da Dio la continenza, la pazienza, la temperanza, la sopportazione e le
altre virtù simili a queste, quali eccellenti e valide forze. Esse con la loro resistenza e
opposizione, ci vengono in aiuto di fronte alle difficoltà di quaggiù. Se le esercitiamo e le
teniamo sempre pronte, non ci sembrerà più che ci accada nulla di aspro o doloroso o
intollerabile”. L’acume di Antonio abate non permette d’intendere “non ci sembrerà…” come il
non far più caso alle asperità della vita, quasi un trucco psicologico per premunirsi. Ci
richiama piuttosto la situazione ambigua di Eva, la quale si decide per un giudizio e una
risoluzione che si promette attraente e comoda: “vide che l’albero era buono da mangiare,
gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza”. In altri termini, dopo il dialogo
col serpente, l’albero le “sembra” in questo nuovo modo, che andrà a configgere con gli
avvenimenti a venire. La questione del male interessa l’attaccamento al progetto di vita,
frenato o bloccato da eventi, a questo punto intollerabili, chiama in causa la resistenza e la
ribellione opposte agli eventi sgraditi, richiama infine la rabbia e l’aggressività che si
generano nel cuore, indirizzate verso la vita, verso Dio. Così ci si ritrova a partecipare, quasi
senza accorgersi, al mistero dell’iniquità, che genera distruzione e morte. La mitezza e la
mansuetudine dell’Agnello pasquale, che muto si lascia condurre al macello, sprigionano
una forza commovente d’amore che disarma l’orgoglio; i suoi occhi sofferti e arditi spronano
l’impegno delle virtù. Nulla più è aspro o doloroso, non serve irrigidirsi e resistere.
Nell’abbandono all’onda impetuosa degli eventi si va oltre ciò che sembra, per scoprire il loro
perché d’amore.
ABC
N. 26 - Aprile 2002
123
LA FORZA DELLA DEBOLEZZA
1. O Gesù! Mio amore, mia vita….io vorrei illuminare le anime come i Profeti, i Dottori,…io
vorrei percorrere la terra, predicare il tuo nome e piantare sul suolo infedele la tua Croce
gloriosa, ….io vorrei essere missionaria, non solo per alcuni anni, ma vorrei esserlo stata fin
dalla creazione del mondo ed esserlo fino alla consumazione dei secoli…Ma vorrei
soprattutto versare il mio sangue per te fino all’ultima goccia…Ma sento anche che il mio
sogno è una follia, perché non saprei limitarmi a desiderare un solo genere di martirio…Per
soddisfarmi mi occorrerebbero tutti…Gesù, Gesù, se volessi scrivere tutti i miei desideri,
dovrei prendere in prestito il tuo libro di vita; lì sono riportate le azioni di tutti i Santi e quelle
azioni, io vorrei averle compiute per te…
2. O mio Gesù! Che rispondi a tutte le mie follie?… C’è un’anima più piccola, più impotente
della mia!…Tuttavia a causa della mia stessa debolezza, hai voluto, Signore, appagare i miei
piccoli desideri infantili e oggi tu vuoi appagare altri desideri più grandi dell’universo…
3. Durante l’orazione, poiché i miei desideri mi facevano soffrire un vero martirio, io aprii le
lettere di san Paolo per cercare qualche risposta. [In I Co 12-13] l’Apostolo spiega che i più
perfetti tra tutti i doni non sono nulla senza l’Amore,…. che la Carità è la via eccellente che
conduce sicuramente a Dio. Infine avevo trovato la quiete…Considerando il corpo mistico
della Chiesa, io non mi ero riconosciuta in alcuna delle membra descritte da San Paolo, o
piuttosto, volevo riconoscermi in tutte….La Carità mi diede la chiave della mia vocazione.
Compresi che se la Chiesa aveva un corpo composto di differenti membra, non le mancava
certo il più necessario, il più nobile di tutti, compresi che la Chiesa aveva un Cuore e questo
Cuore era bruciante d’Amore. Compresi che solo l’Amore faceva agire le membra della
Chiesa, e se l’Amore si fosse spento, gli Apostoli non avrebbero annunciato più il Vangelo, i
Martiri avrebbero rifiutato di versare il loro sangue… Compresi che l’Amore racchiudeva tutte
le Vocazioni, che l’Amore era tutto, che abbracciava tutti i tempi e tutti i luoghi,… in una
parola, che è Eterno! Allora, nell’eccesso della mia gioia delirante ho gridato: o Gesù, mio
Amore, ….la mia vocazione infine, l’ho trovata, la mia vocazione è l’Amore! Si, ho trovato il
mio posto nella Chiesa e questo posto, o mio Dio, me l’hai dato tu…: nel Cuore della Chiesa,
mia Madre, io sarò l’Amore…Così io sarò tutto, …così il mio sogno sarà realizzato!
Santa Teresa del Bambino Gesù (1873-1897), Manoscritto Autobiografico B, 3
RV
L’AUTORE Nata ad Alençon, stella cometa nella notte razionalista del suo secolo, Teresa
Martin è soltanto una bambina ipersensibile, affranta per la morte della madre, quando
risente nella notte di Natale del 1886 in occasione di un dolore di un bambino, tutta l’angoscia
dell’uomo senza Dio. Ma prendendo spunto da questa stessa debolezza, ella si tuffa nel
cuore dell’Amore misericordioso, operando di colpo la rivoluzione copernicana che
caratterizza la sua «piccola via», nella quale si riversa la spiritualità contemporanea: «In
quella notte in cui Egli si fece debole e sofferente per amor mio, Egli mi rese forte e
coraggiosa, mi rivestì delle sue armi». Entrata qualche mese dopo, al Carmelo di Lisieux,
ella farà di quest’impotenza la molla della sua unione a Dio, avanzando di gioia in gioia, tra le
prove più rudi del corpo e dell’anima, fino ad una morte pienamente vissuta come esplosione
di vita: «Cado nelle braccia del buon Dio!».
IL TESTO § 1. Teresa percepisce se stessa animata dall’amore di Cristo che giunge fino
agli estremi confini del mondo: la Bontà si diffonde da se stessa, dice san Tommaso, e noi
siamo missionari solo attraverso la nostra unione a colui che è solo Bontà, noi siamo vale a
dire, portatori di quest’amore in continua espansione. È sotto questo titolo che Teresa fu
proclamata patrona delle missioni da Pio XI nel 1927.
§ 2 «C’è un’anima più piccola, più impotente della mia!» ecco il segreto di Teresa. Troppo
cosciente di quest’impotenza, rinunciando in anticipo ad ogni affermazione, Teresa vede solo
il potenziale d’amore, d’unione a Dio, che racchiude il suo desiderio; e da questo punto di
vista, il fatto di essere una bambina è la situazione più favorevole, perché più dipendente:
«Restare bambina davanti al buon Dio, è riconoscere il suo niente, attendere tutto dal buon
Dio, come un bambino attende tutto da suo padre; è non preoccuparsi di nulla, né conquistare
alcuna fortuna. Anche presso i poveri si dà al bambino ciò che gli è necessario, ma non
appena diventa grande, suo padre non vuole più nutrirlo e gli dice: «Lavora adesso, tu puoi
bastare a te stesso». Per non udire ciò, io non volli diventare grande, sentendomi incapace di
guadagnare la mia vita, la vita eterna del Cielo». (Colloqui del 6 Agosto 1897)
§ 3. Solo l’amore misura i nostri atti, perché soltanto l’amore è reale, il resto è modo d’amare
o illusione d’amare. Pertanto, lasciarsi amare, è lasciarsi introdurre nel cuore del reale, nel
cuore del Tutto di Dio, creatore del cielo e della terra, del visibile e dell’invisibile: «La parte
dell’uomo nell’azione, è la contemplazione. Che si unisca sempre più a Gesù: il resto ― cioè
l’azione stessa ― gli sarà dato in sovrappiù! Siamo portati da quest’umile suora o piuttosto
dallo Spirito Santo che la anima, alla sorgente stessa dell’essere e dell’agire». (A. Combes,
Theresiana, p. 210)
L'ORAZIONE dalla A alla Z
P come PROVE
Voi vorreste gioire della libertà gloriosa dei figli di Dio,….. ma l’ora non è ancora arrivata, voi
siete ancora in un altro tempo, tempo di guerra, tempo di fatica e di prove.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Cristo, III, 49
Certamente, la prova non ci fa gola, ma allora non sarebbe più prova:
Non pensate che la buona maniera di sopportare una prova sia quella, di amare Dio al punto
di poterla sopportare con gioia, perchè cesserebbe di essere una prova. Al contrario, è
evidente che l’essenza d’ogni sofferenza è di soffrirne!
Henry Chapman (1865- 1933), Lettera del 28 Febbraio 1929
Non ci si deve dunque sentire colpevoli se si ha voglia di fuggirla:
Il sentimento di debolezza non è debolezza. È debolezza solo se ci abbandoniamo a lei.
Idem
Ma per non abbandonarsi alla debolezza, non occorre irrigidirsi, ma abbandonarsi a Cristo:
È cosa pietosa della fragilità umana ed è una meraviglia della potenza della grazia nell’uomo;
si deve tutto temere dall’una e tutto sperare dall’altra. L’umiltà e la fiducia sono le due virtù più
necessarie all’uomo che è una fragile canna e che è forte solo della grazia di Gesù Cristo,
nel quale i poveri piccoli uomini sono coronati ed egli è coronato in loro.
Giovanni de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, libro I, cap.
15
Quest’abbandono consiste nel vivere le nostre prove molto semplicemente, con amore e senza
storie…
Non bisogna essere ingiusti, ed esigere da noi solo ciò che è in noi.Quando siamo malati nel
corpo, occorre esigere dal nostro spirito solo gli atti di sottomissione e d’accettazione della
fatica [= della prova], la santa unione della nostra volontà con la volontà di Dio che si forma
alla sommità dell’anima; e quanto alle azioni esteriori, occorre ordinarle e farle meglio che
possiamo, e contentarci di farle anche a malincuore, languidamente e con fatica.
San Francesco di Sales (1567-1622), Lettera del 29 settembre 1620
…..senza stringere i denti, ma col sorriso:
Non astenetevi dal lamentarvi ma io vorrei che questo fosse suo, con spirito filiale, come
farebbe un tenero fanciullo con sua madre; purché ciò sia fatto amorevolmente non c’è alcun
danno a lamentarsi o a domandare la guarigione…o a farsi curare. Solamente, fate ciò con
amore e rassegnazione tra le braccia dela buona volontà di Dio.
Idem, 16 Luglio 1608
Allora saremo in grado di comprendere il senso profondo delle prove che Dio permette:
L’inverno, benché non sembri, non è meno utile agli alberi dell’estate… Ordinariamente è nel
tempo dell’aridità e nello stato di pena che Dio riconosce le anime che sono capaci di
progredire nella perfezione.
Jean Rigoleuc (1595- 1658), Lettera 36, del 19 Luglio 1646
Ma forse pensate che le vostre prove siano una giusta punizione di Dio?
In questa vita, nessuna punizione della giustizia che non sia nello stesso tempo, un disegno
di misericordia di Dio e, di conseguenza, una prova della sua bontà tutta purificante e
santificante;… nulla accade se non per ordine della divina Provvidenza e per effetto
dell’adorabile consenso di Dio.
Jean-Pierre de Caussade (1675- 1751), Lettera del 29 ottobre 1735
Oh! Certamente, Dio non riceve piacere dalle nostre prove!
Dio permette che un’anima sia attraversata da qualche dispiacere solo con una sorta di
ripugnanza e rammarico; non lo sopporterebbe mai se non prevedesse il frutto e l’utilità
ch’ella ne trarrà.
Giovanni Taulero (1300-1361), Istituzioni, 18
Meglio ancora,
Dio divide il peso delle disgrazie con colui che si è perfettamente abbandonato alla
provvidenza, e all’uomo in questo stato non arriva alcun dolore, che non sia passato prima in
Dio.
Idem
Così che le nostre prove divengono il terreno della più intima unione a Dio:
Quando l’uomo vivente sulla croce si abbandona al Signore e gli appartiene interamente, in
qualche modo Dio si abbandona interamente all’uomo e gli appartiene totalmente e l’uomo
possiede la pienezza e non ha bisogno di nulla.
Gerlac Peters (1378-1411), Soliloquio infiammato, ed. Strange, pp. 34s
Dietro a tutto ciò, bisogna dunque vedere che:
Non è la sofferenza che fa il merito, ma la santità con cui si soffre o con la quale si fa
tutt’altra cosa che piace o soddisfa.
François Libermann (1802- 1852), Quinta istruzione sulla vita spirituale
Ma la prova è un terreno eccezionalmente favorevole alla santità:
È bene sapere che in un’anima fedele, la sofferenza rompe e distrugge tutto ciò che ostacola
lo sviluppo della grazia della vita di Gesù, e tramite essa viene sorprendentemente favorito.
Idem
In quanto, la santità consiste nel cedere totalmente al suo amore. Allora,
Possiamo essere immersi in tutte le più nere e più spesse tenebre,… se tale è la volontà di
colui che è e sarà per sempre nostro Tutto e divino Tutto, se colui che regna non meno
paternamente sulla terra di quanto regna sovranamente in cielo lo vuole, se Egli lo ordina e lo
permette così, dunque, sia fatto secondo la sua volontà!
Alessandro Piny (1640- 1709), Stato del puro Amore, cap. 14
LA GIOIA DELLA LIBERTÀ
Il mistero pasquale, cioè la morte che si muta in vita, costituisce il motivo costante e unico
della gioia cristiana, anche perché esso è già pienamente attivo nel seno della comunità
credente. Non bisogna attendere l’aldilà perché sprigioni la sua poderosa energia di vita,
lasciando al presente l’onere di rimanere una valle di lacrime. Indubbiamente bisogna
lasciarsi introdurre dallo Spirito nell’economia dell’azione divina, che è sempre pasquale,
uniformando la nostra umanità all’umanità singolare di Gesù, criterio assoluto per il nostro
vivere terreno. Per questo siamo chiamati ad assimilarci alla sua morte per godere della
potenza della sua risurrezione. L’oscurità di ogni piccola morte, come sono le avversità e
l’esperienza dei propri limiti, non si muta in luce di vita se noi vi resistiamo. Siamo invece
invitati proprio dinanzi al vicolo cieco, nella sequela del crocifisso, a emettere il consenso
esplicito della nostra volontà di accettazione, nella convinzione che ogni dolore, ogni offesa, il
nostro stesso partecipare al peccato universale, contengono il germe della vita e la bellezza
della riconciliazione. Questa convinzione riposa sulla certezza del favore divino verso di noi:
è il senso stesso della antica parola”grazia”. Anzi, mediante la tribolazione il nostro cuore si
dilata; quando avremo gustato la gioia dell’accettazione di un’offesa o di un’avversità,
comprenderemo che nulla ci avrebbe fatto progredire più celermente, nulla ci avrebbe meglio
purificato e liberato il cuore che quella tribolazione accettata. In realtà l’offesa o l’avversità ci
procurano un dolore che ci opprime, indurisce e incita alla mormorazione, fino alla ribellione,
finché il nostro cuore vi rimane chiuso e resiste, finché si arrocca sulle discussioni interne
dei torti e delle ragioni: in questo modo si arresta la luce dello Spirito, che illumina anzitutto
le tenebre del nostro io, così non ci si mette nelle condizioni di vedere la trave del proprio
occhio e di azzerare il proprio orgoglio. Umiliarsi sotto la potente mano di Dio, accettando e
chiedendo la sua misericordia, trasforma il dolore che indurisce in dolore che ammorbidisce
il cuore, che apre alla luce e alla speranza, alla gioia della libertà da se stessi, perché
scopre che quella tribolazione ha sradicato fin le radici del male, nascoste in noi.
ABC
N. 27 - Maggio 2002
123
GESÙ NOSTRA MADRE
1. Nel nostro parto spirituale, Gesù veglia su noi con una tenerezza infinita perché la nostra
anima ha valore ai suoi occhi. Egli desta la nostra intelligenza, dirige il nostro cammino,
mette a proprio agio la nostra coscienza, riconforta la nostra anima, illumina il nostro cuore e
ci fa conoscere, in parte, e amare la sua santissima divinità, mentre il nostro spirito si diletta
nella sua dolce umanità e nella sua santa passione, e noi siamo meravigliati per la sua
immensa e insuperabile bontà. Egli fa sì che noi amiamo tutto ciò che egli ama, per amor suo,
e che siamo ricompensati da lui stesso e da tutte le sue opere.
2. Se noi cadiamo, subito egli ci rialza teneramente, chiamandoci dolcemente e toccandoci
gentilmente. Allora, fortificati dalla sua dolce operazione e grazia, lo scegliamo di nostra
spontanea volontà, per essere per sempre suoi servitori e amanti. Dopo di ciò, egli permette
talvolta che noi cadiamo, ci sembra, più severamente e più gravemente di prima. Allora
immaginiamo, a torto, che tutto è perduto di ciò che si era iniziato. Ma non del tutto! Occorre
che noi cadiamo e lo vediamo, altrimenti non conosceremmo quanto siamo deboli e miserevoli
e non conosceremmo del tutto il meraviglioso amore di colui che ci ha creato.
3. In cielo, vedremo veramente e senza fine i gravi peccati che avremo commesso quaggiù; e
malgrado ciò, vedremo che mai il suo amore è stato inferiore e che il nostro valore ai suoi
occhi non è mai diminuito. Per il solo fatto che vedremo questi peccati, noi avremo una
conoscenza sublime e meravigliosa dell’amore senza fine di Dio, sapremo quanto forte e
stupendo è quest’amore che non può né vuole in nulla essere infranto dall’offesa….
4. Spesso, costatando le nostre cadute e le nostre miserie, siamo così atterriti e così
spaventosamente vergognosi di noi stessi, che sappiamo appena dove metterci. Ma la dolce
nostra Madre [Gesù] non vuole che fuggiamo: per lei non ci sarebbe nulla di peggio! Invece,
ella vuole che noi facciamo come il bambino: quando ha un dolore o uno spavento, egli corre
in fretta verso sua madre perché lo soccorra al più presto. Così Gesù vuole che noi facciamo
come un tenero fanciullo, dicendo: «Madre mia santa! Madre mia piena di misericordia!
Madre mia carissima! Pietà di me! Io sono tutto sudicio e non ti somiglio più! Io non posso
essere guarito senza il tuo aiuto e la tua grazia!»… Il torrente di misericordia del suo
amatissimo sangue e della sua acqua preziosa basta per renderci puri e puliti. Le sante
piaghe del nostro Salvatore restano aperte ed egli è felice di guarirci; le dolci mani piene di
grazie di nostra madre sono pronte a curarci. In tutto ciò, il suo compito è di un’amorevole
nutrice che non ha nulla da fare se non salvare il suo bambino.
Giuliana de Norwich (verso 1343-1413), Rivelazioni dell’Amore divino, cap. 61
L’AUTORE Quel poco che sappiamo di Giuliana proviene dalle sue Rivelazioni dell’Amor
divino. Vi si apprende che viveva solitaria in clausura a Norwich, centro spirituale e culturale
molto vivo nel XIV secolo, dove la visionaria Margery Kempe, per esempio, la teneva in
grande venerazione.
Queste sedici rivelazioni sono legate ad una guarigione miracolosa di Giuliana nel 1373. In
conformità ad un genere letterario molto rappresentato all’epoca, ella inscena una percezione
molto realistica di Gesù nella sua passione. Con termini di gran precisione teologica, ella
che si nutre di Sacra Scrittura, insiste sulla tenerezza di Dio per l’uomo, perché “Dio è
nostra Madre come veramente è nostro Padre”. Anche il tema raro della Maternità di Gesù, è
abbondantemente sviluppato nelle sue Rivelazioni.
IL TESTO: § 1. Tutta la vita cristiana si deve intendere come il parto dell’Uomo Nuovo,
generato in noi dallo Spirito Santo. Dio vi pone una sollecitudine gelosa, perché egli non ha
nulla di così prezioso come i suoi figli. Giuliana pone sempre l’accento sulla sua dolcezza:
egli sviluppa il cammino davanti a noi man mano che ci fa avanzare, egli ci “mette a nostro
agio”, evitandoci ogni lotta, se non ogni sforzo, dandoci lui stesso la scienza e l’amore con
cui noi lo conosceremo e l’ameremo.
§ 2-3. Dio non ci rimprovera mai nulla: è una chiave della vita spirituale. Egli si preoccupa
soltanto di rialzarci e di consolarci quando cadiamo, cosicché non possiamo impedirci di
amare un padre così materno! Perché egli vuole che noi avanziamo soltanto per amore. E più
la caduta è grave, più si rivela il suo amore: allora, invece di affliggerci, gioiamo di tanto
amore “che non può né vuole in nulla essere rotto dall’offesa”.
§ 4. Il peccato fa male a noi, non a Dio! O piuttosto, è perché fa male a noi, che offende Dio.
Allora, precipitiamoci verso di lui in caso di caduta: la sua misericordia è un torrente di
dolcezza, il suo cuore trafitto, un rifugio e la sola cosa che lo affliggerebbe sarebbe che noi
avessimo paura di Lui. Anche se noi fossimo i più grandi peccatori del mondo, Gesù non avrà
mai vergogna di noi.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
E come…..ESTASI
Gli spirituali designano per “estasi” delle esperienze molto diverse, talvolta positive, talvolta
negative, talvolta confuse con i rapimenti e altri fenomeni accidentali della vita mistica. In
partenza, l’etimologia di ex-stasis, indica la situazione di una persona che vive al di fuori di se
stessa. In questo senso, l’estasi è innanzitutto quella di Dio in noi “Non sono più io che vivo, è
Cristo che vive in me” (Ga 2, 20) E questa estasi provoca di rimando la nostra in Dio:
Dicendo ciò (= Ga. 2, 20), san Paolo esce da sé, si è interamente proiettato in Dio, non cerca
più il suo interesse, ma ciò che è di Dio, come un vero amante: egli subisce l’estasi.
San Tommaso d’Aquino (1224-1274), Sui Nomi divini, 4, 10
E ciò perché
In Dio, il desiderio amoroso è estatico: grazie a lui, gli innamorati non si appartengono più;
essi appartengono a coloro che amano.
Dionigi l’Areopagita (VI S ?), I Nomi divini, IV, 13
L’estasi è dunque anzitutto affare d’amore….
“Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me!” (Ga. 2, 20) Ecco il fatto d’un uomo che il
desiderio ha fatto uscire da sé per penetrare in Dio e che non vive più della propria vita, ma
della vita di colui che egli ama.
Idem
…..prima di essere cosa prodigiosa:
Per discernere le estasi divine da quelle umane e diaboliche: se l’estasi è più bella che
buona, più luminosa di calorosa…, essa è assai degna di dubbi e sospetti.
San Francesco di Sales (1567-1622), Trattato dell’Amor di Dio, VII, cap.VI
Delle estasi spettacolari è meglio diffidare, in quanto,
Quando le estasi e i rapimenti sono di Dio, l’anima vi riceve una tale conoscenza del suo nulla
che le è penoso sopportare se stessa;… ella vorrebbe vivere dimenticata e sconosciuta per
occuparsi solamente di Dio.
Pietro de Clorivières (1735-1820), L’Orazione mentale, 45
Ancor meno occorre ricercarle, perché
Lavorare e soffrire per Dio, vale meglio di tutte le estasi.
Giovanni de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, Libro II,
cap. 12
Quelle estasi
Non sono, per nulla, necessarie per ben servire e amare Dio, che deve essere per noi l’unica
pretesa.
San Francesco di Sales, Introduzione alla Vita devota, III, cap. 2
In effetti, in quel genere di fenomeni,
Il demonio fa presumere agli spirituali avanzati che è Dio e i santi che parlano loro,…così
bene che si fanno vedere in azioni che sembrano della santità. Così fanno ostacolo a Dio,
poiché si perde il santo timore, che è la chiave e la garanzia di tutte le virtù.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Notte oscura, II, 2
Da dove provengono dunque le estasi che non servono a servire Dio? Dal fatto che negli
inizi,
l’impressione che gli oggetti soprannaturali fanno sull’anima e sul corpo è sì forte che non la
si può sopportare senza alienazione dei sensi.
Luigi Lallemant (1588-1635), Dottrina spirituale, VII, cap. IV
Ciò poiché è solo un effetto esteriore veramente troppo appariscente agli occhi degli uomini,
che non ammirano che simili cose straordinarie, è piuttosto da fuggire che da
desiderare….Tutto lo sforzi dell’anima a questo punto sarà quello di calmarle,
prudentemente, moderarle e perfino trascurarle, rendendosi dolcemente insensibile e dicendo
a se stessa che non è nulla, che [questi movimenti] passano e dimorano sepolti in basso con
il fondo della parte inferiore dell’anima.
Costantino de Barbançon (1582-1631), I sentieri segreti dell’Amore divino, II, 9
Con questo mezzo,
Quando l’anima,essendo perfettamente forte e abituata alle più rare comunicazioni della
grazia, non è più soggetta ad essere rapita fuori da sé stessa, ha senza i rapimenti gli effetti
del rapimento.
Luigi Lallemant, Dottrina spirituale, VII, cap. IV
Allora, ed è un terzo senso della parola “estasi”,
Il monaco è essenzialmente uno sguardo dell’anima che nulla distrae e una sensibilità che
nulla sollecita…: egli è un’estasi ininterrotta.
San Giovanni Callimaco (579-654?), Scala, 23
L’estatico non vive allora su una piccola nuvola! Ma nell’armonia originale infine ritrovata,
La santissima Vergine Maria non avendo in lei nulla che le impedisse l’operazione del divino
amore di suo Figlio, si univa con lui in una unione incomparabile con estasi dolci, pacifiche e
senza sforzo; estasi nelle quali la parte sensibile non tralasciava di fare le sue azioni, senza
per questo dare incomodo all’unione dello spirito, come reciprocamente la perfetta
applicazione del suo spirito non dava gran distrazione ai sensi.
San Francesco di Sales, Trattato dell’Amor di Dio, VII, cap. XIV
Una quarta specie d’estasi può talvolta sopravvenire in questa perfezione, quando
Quando l’anima non vive più in se stessa, ma in Colui che la tiene tutta assorbita nel suo
amore,… lo Spirito Santo geloso di possederla, la conduce dove vuole senza ch’ella possa
resistere e la rapisce tutta a se.
Beata Maria dell’Incarnazione (1599-1672), Relazione del 1654, XXV
Ma anche a questa, è meglio tentare di resistere, almeno per ciò che dipende da noi, perché
Anche se noi vi resistiamo con l’umiltà, essa non tralascia di produrre gli stessi effetti come
se noi avessimo dato interamente il consenso.
Santa Teresa d’Avila (1515-1582), Libro della sua Vita, cap. 20
In breve,
Le estasi, i rapimenti, le tentazioni, le aridità, tutto mi è uguale, quando io penso che tutto
viene per ordine di Dio.
Luisa di Nèant (1639-1694), Lettera 18
LO SPIRITO DILATA IL CUORE
Il cuore è dilatato perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori attraverso lo Spirito
Santo. Solo questo cuore può raggiungere la pace, se esso è stretto nelle angustie
dell’impazienza e della pusillanimità, soccombe soverchiato dai turbolenti marosi
dell’aggressività e della tristezza, come ci insegna Cassiano(Conferenze XVI, 27).
Attraverso la pazienza e l’amore si creano invece gli spazi aperti di un cuore dilatato, dove
rapidamente si dileguano i flutti impetuosi delle passioni. In un racconto di un episodio della
vita di Benedetto, Gregorio Magno (Dialoghi II, 35) narra concretamente fino a che punto il
cuore di quest’uomo si sia dilatato. Vegliando di notte in preghiera l’amico Germano, vescovo
di Capua, appena morto, il grande abate vide una luce celeste rischiarare l’oscurità quasi
fosse pieno giorno e, in essa, il mondo intero come raccolto in un unico raggio di sole. Dopo
anni in cui il santo fu provato nella capacità di dominare la tentazione dell’arroganza e gli
assalti degli istinti carnali e dell’aggressività, diventando così maestro e padre spirituale,
egli venne innalzato in forza dello Spirito per un attimo a vedere insieme con Dio. E sebbene
avesse contemplato soltanto una minima parte della luce del creatore, tuttavia l’intero creato
gli apparve ridotto a una misura assai piccola; fu infatti la stessa luce della contemplazione a
dilatare la sua interiore capacità di penetrazione, e nella misura in cui si espandeva in Dio,
essa era sollevata e resa superiore al mondo. C’è di più: la sua anima venne sollevata persino
al di sopra di se stessa. Rapita nella luce di Dio e portata al di sopra di sé, essa si dilatò
interiormente e vide se stessa al di sotto di sé. Guardando dall’alto, comprese come tutto sia
piccolo, cosa che non avrebbe saputo afferrare, se fosse rimasta nella sua umile possibilità
naturale. Tuttavia, dire che il mondo era come interamente raccolto davanti agli occhi di
Benedetto, non significa affermare che il cielo e la terra si erano rimpiccioliti, ma piuttosto
che si era dilatato il suo cuore. Egli, infatti, sollevato in Dio, potè facilmente vedere tutto ciò
che si trova al di sotto di Dio. Al raggio che illuminava i suoi occhi corporei corrispondeva
nell’intimo ormai pienamente docile una luce dello Spirito, che gli rivelava quanto fossero
piccole tute le cose del mondo sottostante.
ABC
N. 28 - Giugno 2002
123
AMORE CHE AGISCE E AMORE CHE FRUISCE
1. [Colui che deve sperimentare la perfetta unione con Dio] gli è necessario vivere per Lui
senza riserva né limite, in modo tale che corrisponda alla sua grazia e alla sua mozione, e
che sia docile in tutte le virtù e gli esercizi interiori. E grazie all’amore, bisogna che sia
elevato e muoia in Dio a sé stesso e ad ogni sua opera, in modo tale che egli si eclissi da
tutte le sue facoltà e subisca la trasformazione del vero, che non può essere afferrato e che è
Dio stesso.
2. Così, per ciò che riguarda il vivere, gli è necessario uscire nelle virtù, e per ciò che
riguarda il morire, entrare in Dio: entrambi costituiscono la vita perfetta di quest’uomo, l’uno
e l’altro uniti in lui come la materia e la forma, o come l’anima e il corpo. Praticando ciò la sua
intelligenza diventa chiara ed egli comincia a sentire una traboccante ricchezza. In effetti,
poiché egli sta e si comporta così in presenza di Dio, l’amore s’impadronisce di lui in tutti i
modi: ovunque lo conduca, quest’uomo cresce continuamente in amore e in tutte le virtù…
3. Tuttavia potete domandare perché tutti gli uomini buoni non arrivino a poter sentire ciò.
Attenzione, qui! La causa e la ragione sto per dirvele: non rispondono alla mozione di Dio
con la rinuncia a se stessi. Ecco perché non stanno in presenza di Dio con vivo zelo, né si
preoccupano di vegliare interiormente su stessi; per questo rimangono sempre più esteriori
e dispersi che interiori e semplici e fanno le loro opere più in virtù delle loro buone abitudini
che per una sollecitazione interiore. Considerano maggiormente ciò che c’è di singolare, di
notevole e di divertente nelle buone opere che un’intenzione e un amore che poggia su Dio e
ciò fa sì che restino esteriori e dispersi nel loro cuore e che non percepiscano, come Dio vive
in loro nella pienezza della sua grazia.
4. In compenso, l’uomo raccolto… poggiandosi in Dio e investendo in lui tutto ciò che è, e
tutte le sue facoltà con un amore vivo e attivo, sente che nel suo fondo dove si origina e si
compie, il suo amore è tutto di gioia e senza fondo.Egli vuole penetrare più avanti in questo
amore di gioia con il suo amore attivo, tutte le facoltà della sua anima devono qui cancellarsi
per patire e subire la verità e la bontà che invade che è Dio stesso. In effetti, come l’aria è
invasa dalla luce e dal calore del sole… Dio è sempre nell’essenza dell’anima e, mentre le
facoltà superiori si raccolgono in un amore attivo, si trovano unite a Dio senza intermediario,
in un sapere semplice di tutta la verità e in un sentire e in un gusto essenziale di tutto bene.
Jean Ruusbroec (1293-1381), Il libriccino delle Chiarificazioni, 5 e 8
L’AUTORE Nato a Ruusbroec, a sud di Bruxelles, la sua frequenza scolastica si svolgerà
all’ombra della collegiata Santa-Gudule, di cui sarà cappellano per 25 anni. Dopo di che, egli
lascia la città e la sua agitazione per ritirarsi a Groenendael, nella foresta di Soignes,
circondato da alcuni compagni e ciò sarà l’origine dell’importante congregazione dei
canonici regolari di Windesheim. L’opera del beato Ruusbroec l’Ammirevole, calma e
rigorosa descrizione degli sviluppi più potenti della vita interiore, rapidamente conosciuta in
tutta Europa, è una delle maggiori componenti della sua letteratura mistica.
IL TESTO: Il Libriccino delle Chiarificazioni, risposta alle accuse di quietismo, insiste sui
due versanti dell’unione con Dio: come amore attivo, essa ci fa compiere tutte le opere che
Dio ci domanda, come amore che gioisce, essa ci stabilisce nella piena felicità della vita
divina. L’equilibrio contemplativo consiste nella simmetria e nel mutuo appoggio di queste
due componenti.
§ 1. Quando l’uomo corrisponde alla volontà che Dio ha su di lui, va fino in fondo a ciò che
dipende da lui, cioè della sua vita naturale e in quanto tale limitata. Da quel momento egli
“muore in Dio” e può risuscitare alla vita divina, totalmente fuori della sua portata, perché
soprannaturale e illimitata.
“Esercizio” qui, in un senso che si ritroverà in sant’Ignazio, indica molto genericamente
l’insieme delle pratiche della vita spirituale.
§ 2. L’opposizione vita/morte e uscire/entrare è quella dei due versanti dell’unione: per quanto
l’anima abbia l’iniziativa (= vita), il suo movimento che è quello della natura, va dall’interiore
verso l’esteriore e sono le opere buone; per quanto ella si abbandoni a Dio (= morte), è
attirata da lui al raccoglimento.
§ 3. L’uomo semplicemente buono, che agisce per dovere, abitudine e anche convinzione,
piuttosto che per amore, fa le stesse opere dell’uomo unito a Dio; ma egli ignora la gioia di
quest’unione. Il suo equilibrio è “dall’esteriore”, laddove l’equilibrio contemplativo è
“dall’interiore”.
§ 4. A contatto con Dio, l’uomo che si dà tutto a lui percepisce simultaneamente i limiti del suo
amore creato ( poiché ha un fondo), e l’assenza di limite dell’Amore increato ( poiché lui non
ha fondo): “nel suo fondo dove si origina e si compie il suo amore è tutto di gioia e senza
fondo”. Questo punto di contatto viene spesso designato dagli autori come centro dell’anima,
là dove Dio risiede in noi e noi in lui. Ruusbroec preferisce parlare qui della sua essenza; da
cui l’espressione di “un sentire e un gusto essenziali di tutto bene” per esprimere la qualità
propria di questa percezione di Dio senza intermediario all’interno dell’unione con Lui o, se
si preferisce, all’interno dell’amore essenziale.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
F come…. FEDELTÀ
“Fedele”: tale è il bel nome con cui si designa comunemente il cristiano Prima perché è
discepolo del Dio fedele, “quel Dio che custodisce la sua alleanza e la sua misericordia fino
alla millesima generazione verso coloro che lo amano e che osservano i suoi comandamenti”
(Dt. 7, 9):
L’uomo è fedele credendo al Dio che promette; Dio è fedele, mantenendo le promesse che fa
all’uomo. Crediamo che sarà fedelissimo nel ricompensare, perché crediamo che è molto
misericordioso nel promettere.
Sant’Agostino (354-430), Commento al salmo 32
Dopo la grazia, tutto, nella vita spirituale, dipende dalla fedeltà alla grazia.
Charles Gay (1815-1892), Istruzioni per le persone…, II, pp.158s
Ciò vale particolarmente per l’orazione:
Il demonio, traditore com’è, non ignora che un’anima che continua nell’orazione è perduta per
lui.
Santa Teresa d’Avila (1515-1582), Vita, 102
Mentre,
Se l’anima si mostra fedele e piena di discernimento [nell’orazione] il Signore non si fermerà,
finché non l’abbia elevata di grado in grado all’unione e trasformazione divina.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Salita del Carmelo, II, 11
Se voi sopportaste con pazienza e fedeltà un po’ di pena esteriore, meritereste che Dio
gettasse il suo sguardo su di voi per purificarvi e pulirvi più intimamente con dei travagli
spirituali più intimi, al fine di darvi dei beni più intimi.
Idem, Fiamma viva, II
Poiché
Così a lungo quanto avete il cuore unito a lui per l’amore, la vostra orazione gli piace,
vedendo la vostra fede e il vostro fervore.
Margherita di Navarra (1492-1549), Dialogo, vv.876ss
E ciò anche e soprattutto quando avremmo voglia di lasciar perdere tutto:
Se qualcuno fosse fedele a Dio e a sé stesso al punto di fare ogni cosa senza consolazione e
senza sollievo, ciò sarebbe ben più glorioso a Dio e ben più utile alla creatura.
Taulero (1300?- 1361), Istituzioni, cap. VIII
D’altronde,
Se la nostra fedeltà è grande in questo stato di tenebre e di pene interiori, Dio non rimarrà a
lungo senza mostrare il suo volto e dissiperà tutte queste ombre.
Jean de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, Libro III, cap. 4
Poiché
Questa trascuratezza e quest’abbandono apparenti hanno lo scopo di far crescere nell’anima
la diffidenza di sé stessa e di portarla a gettarsi con più abbandono tra le braccia di Dio…
Bisogna che la fede, da sola, le basti, senza alcun sostegno.
Jean-Pierre de Caussade (1675-1751), Pareri e Massime, III
In effetti,
La santità non consiste nel sentire o nel non sentire Dio che inonda o che tocca l’anima con le
sue divine inondazioni e irradiazioni, ma in un vero ed essenziale amore in atti, che fa operare
tutto in Dio, senza luce né devozione sensibile, nel periodo delle più fastidiose e penose
aridità.
Jean de Saint-Samson (1571-1636), Il Pungolo, art. 2
Questa fedeltà autentica è questione di amore e non di paura, né di dovere:
Io chiamo innamorata, la fedeltà per mezzo della quale, consapevolmente non vorremmo
dimenticare niente di ciò che riterremmo essere più gradito allo Sposo, perché amiamo le
sue soddisfazioni più di quanto temiamo i suoi castighi.
San Francesco di Sales (1567-1662), Lettera del 1617
Tanto che la nostra fedeltà può appoggiarsi ciecamente alla sua:
Vivendo e morendo, tenetevi dunque vicini a Gesù e confidate nella fedeltà di colui che solo
può soccorrervi quando tutto vi mancherà… Lui solo deve essere amato unicamente, perché
egli è il solo amico buono, fedele, tra tutti gli amici.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Gesù Cristo, II, 7-8
La fedeltà che egli ci domanda è raramente spettacolare…
Spesso abbiamo bisogno soltanto di fedeltà ad una vita ordinaria, senza pensare ad una
straordinaria; e bisogna temere che le vedute che ci vengono talvolta, di entrare in una vita più
perfetta, vengano piuttosto dalla ricerca della nostra personale eccellenza che dal desiderio
di accontentare Dio..
Jean de Bernières-Louvigny, op. cit., I, 14
…ma molto più spesso questione di pazienza soprannaturale…
Bisogna cucire la nostra perfezione pezzo per pezzo, perché non se ne trova proprio bell’e
fatta…Infine, non bisogna affatto stupirsi né lasciarsi andare per le nostre infermità e
instabilità; ma umiliandosi dolcemente e tranquillamente, bisogna tirare su il cuore in Dio e
perseguire la sua santa impresa, confidando e appoggiandosi a Nostro Signore, poiché egli
vuole fornire tutto ciò che è necessario per l’esecuzione, non chiedendoci nient’altro che il
nostro consenso e la nostra fedeltà.
San Francesco di Sales, Lettera dalla data indeterminata.
…e dunque questione di molte piccole cose…
Quando non sento niente e sono incapace di pregare, di praticare la virtù, è quello il
momento di cercare delle piccole occasioni, dei niente che fanno piacere, più piacere a Gesù
che l’autorità del mondo o anche del martirio sofferto generosamente, per esempio, un
sorriso, una parola amabile mentre avrei voglia di non dire niente o di aver l’aria annoiata…
Santa Teresa del Bambin Gesù (1873-1897), Lettera, 143
..ma che ce ne varranno una molto grande:
Chiunque prende il sentiero d’amore, si dedichi fedelmente ad ogni opera di bontà; poiché
Amore non può mai rifiutarsi a chi lo ama; egli dà più di quanto si attenda e di quanto egli non
fece sperare.
Hadewijch di Anversa (XIII sec.), Poema spirituale, 4.
CHI SI UMILIA SARÀ ESALTATO
Nel linguaggio cristiano l’umiltà ricollegandosi ai piccoli, “anawim” d’Israele, e soprattutto
all’atteggiamento di Maria, ha assunto un significato pienamente positivo, laddove spesso
indicava gli strati più bassi della società, privi di ogni diritto. Secondo l’affermazione di Gesù
essa rientra nel paradosso cristiano, nel quale l’ascesa si ha nell’abbassamento, passando
per la rinuncia alla volontà propria e ad ogni affermazione personale. Questa rinuncia invece
di imprigionare, libera dalla schiavitù dei primati e dall’angoscia esistenziale che ne segue,
Gesù l’ha posta alla base dei rapporti umani e della vera autorità. Ma più ancora, essa
partecipa del movimento di umiliazione-innalzamento della Pasqua di Gesù stesso.
Nell’umiltà l’uomo partecipa dell’abbassamento di Cristo, realizzando così la più alta
possibilità umana, perché il Padre esalta l’obbedienza del Figlio, accogliendolo nella
pienezza della gloria divina. Solo a questa condizione egli può entrare in comunione con
Cisto ed essere partecipe della sua croce, vero ed unico trofeo, e della sua vita. Si badi, però,
a non scambiare l’umiltà per una sensazione psicologica di inferiorità, perché umiltà non
significa debolezza. L’uomo delle beatitudini, infatti, non è affatto debole, bensì mostra un
coraggio ed una forza straordinari nel portare le avversità e persino le ingiustizie, senza
arretrare. Avendo rigettato con il battesimo dal nostro collo il giogo della schiavitù del mondo,
non vogliamo tornare al vomito, come dice s. Pietro (2Pt 2, 22), e non cerchiamo di possedere
di nuovo cose che ci creano preoccupazioni e angoscia per il timore di venirne derubati.
Antonio il grande esortava i fratelli dicendo: «In primo luogo l’aspirazione di tutti noi deve
essere questa: non abbandonare quello che abbiamo iniziato, non scoraggiarci… perché
tutta la vita umana è brevissima a paragone dei secoli futuri».
ABC
N. 29 - Luglio / Agosto 2002
123
UN RACCOGLIMENTO PIENO DI DIO
1. Le persone raccolte non pongono la perfezione nel non pensare a niente, perché in questo
modo coloro che dormono, finché non si svegliano, o coloro che sono svenuti, sarebbero
perfetti!... Certo, noi abbiamo detto che si può avere la perfezione in questa sospensione [del
pensiero], ma nella misura in cui il nostro intelletto cessa di posare sulle cose create affinché
noi ci dedichiamo con tutte le nostre forze a Dio solo.
2. … Coloro che seguono questo solo cammino, non si preoccupano di ricercare delle
ragioni per amare Dio; non perché ciò sia cattivo, ma perché essi hanno già concluso e
determinato che ameranno Dio solo al si sopra di tutte le cose, elevando la loro anima fino a
questa sorgente di bontà da cui senza tregua procede l’amore.
3. Questo “pensare a niente” è pensare a tutte le cose, poiché noi pensiamo allora, senza
discorrere, a Colui che è tutto in una meravigliosa eminenza. Ed il più piccolo bene di questo
“pensare a niente” delle persone raccolte, è una semplicissima e pura attenzione a Dio solo.
Da ciò deriva, come dice Gerson, che la porta è chiusa a tutti gli inganni del demonio, che
iniziano sempre attraverso uno dei sensi. E infine, questo “pensare a niente” di cui parliamo,
per umile che sia, è una disposizione dell’uomo che si stacca e disimpaccia, per volare via
con il cuore in Dio solo, che domanda che noi abbiamo, questo cuore libero ed intero.
4. Da ciò si può dedurre, puoi concludere, questo: quando fai tacere il tuo intelletto
mettendolo, come dice sant’Agostino, in una santa oziosità, non devi fermarti là, ma portare a
Dio solo l’intenzione del tuo cuore, le risorse della tua anima e la tua attenzione, con pietà e
fede, credendo che ciò sia un’opera sovrana e che piace molto a sua Maestà. Quest’opera,
sebbene sia ancora imperfetta da parte nostra, poichè non è in nostro potere impedire
completamente il pensiero, sarà resa perfetta da Nostro Signore, che verrà dall’alto a
visitarci e stenderà la mano della sua grazia affinché il silenzio si faccia.
5. Chiudi dunque gli sbocchi alla fontana della tua anima, attraverso i quali l’amore
continuamente sfugge, come dice Riccardo; e allora essa sarà come costretta ad elevarsi.
Ed anche se non si eleva, si placherà da se stessa e si riposerà. Come in un’acqua chiara
vedrà in lei l’immagine di Dio, che si riflette meglio che in tutte le altre cose, quando cessano
i turbinii dei pensieri che la turbano.
Francisco de Osuna (1492? – 1541?), Terzo Abbecedario Spirituale, Tr. 21 ,6
L’AUTORE: Nato a Osuna, in Andalusia, entra presso i Francescani osservanti verso il 1513.
Formatosi ad Alcalà, luogo sacro della cultura umanistica e spirituale impregnato della
spiritualità nordica, in particolare della Devotio Moderna, volto verso l’interiorità e l’orazione
mentale. Residente in una delle “solitudini” francescane, votate al silenzio e all’austerità,
Francesco redige diversi manuali di vita interiore, di cui il suo Terzo Abbecedario nel 1527,
dall’influenza decisiva su Teresa d’Avila. Peraltro predicatore di fama, percorre la Francia e i
Paesi Bassi tra il 1530 e il 1537, prima di rientrare malato nella sua patria.
IL TESTO § 1. La parola “raccolto” è riservata da Osuna a coloro che Dio introduce nel
semplice raccoglimento silenzioso che costituisce il fondo di una vita contemplativa; al punto
che parlare di “raccolti” (los recogidos) sarà ben presto parlare dei contemplativi come tali.
Questo raccoglimento non è vuoto mentale, ma accoglienza di Colui che noi sappiamo lì, e
che sentiamo che basta alla nostra felicità. Questo raccoglimento è denso della Sua
presenza, e se non ci occupiamo del resto, è perché ci stiamo occupando di Lui.
§ 2. Questo raccoglimento s’impone abitualmente dopo un periodo della vita spirituale durante
il quale bisognava meditare (sul Vangelo per esempio) per tenersi in presenza di Dio. Da ora
in poi, la meditazione disturba più che aiutare, perché Dio ha introdotto l’anima nell’evidenza
del suo amore, e per lei si tratta solo di gioirne.
§ 3. Nel raccoglimento, non si pensa a questo o a quello, ma si pensa a Colui che, in tutti i
modi, è eminentemente questo e quello, poiché “in lui tutto è stato fatto” (Gv 1,3). Lungi
dall’esser morto, il pensiero si concentra qui in “una semplicissima e pura attenzione a Dio
solo”; quel che in san Giovanni della Croce diventerà la definizione della contemplazione
come “una semplice e amorosa attenzione a Dio”. L’anima essendo, qui, occupata da Dio
solo, è al riparo da tutto il resto, e dunque, innanzitutto dalle sollecitazioni di ciò che è meno
di Dio e che entra dalla porta dei sensi. “Come dice Gerson…” e, un po’ più oltre, “come dice
sant’Agostino”, “come dice Riccardo” (da san Vittore). Nella tradizione umanista d’Alcalà,
Osuna avanza sempre in compagnia dei maestri, e per questo fatto è uno dei più grandi
introduttori della spiritualità antica e medievale nella Spagna del Secolo d’Oro.
§ 4. Che l’anima non s’inquieti, dunque, della sua apparente oziosità: essa non può essere
più efficace che lasciando agire Dio in lei; facendo ciò che dipende da lei per questo, Dio non
mancherà di fare ciò che dipende da lui, cioè tutto, anche quello di stabilirla nel silenzio beato
della sua semplice presenza.
§ 5 In conclusione, lasciamoci raccogliere da Dio, sviandoci da tutto quello che non è Lui, e
rivolgendoci verso di Lui: nell’armonia ritrovata della nostra creazione, Dio potrà allora
riflettersi in noi ed imprimere in noi la sua immagine.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
F…..come FEDE
“Che domandate alla Chiesa di Dio? — La fede”. “Che vi dà la fede? La vita eterna” Questo
dialogo ha presieduto al battesimo di milioni di cristiani. La fede dà la vita eterna, perché
La vita dell’uomo è l’amore di Dio: quest’amore, la fede lo concepisce, la speranza lo mette al
mondo, e la carità, che non è altro che lo Spirito Santo, gli dà forma e vitalità.
Guglielmo di Saint-Thierry (1085-1148) Lettera ai frati del Monte-Dio, I, V
Poiché fa nascere Dio in noi, la fede ci mette al riparo da tutti i nostri nemici: innanzitutto dal
mondo, perché
La fede ci fa uscire da tutti i limiti naturali e razionali, e ci fa penetrare fino alle profondità di
Dio.
San Giovanni della Croce (1542-1591) La Salita del Carmelo, II, 1
Poi da noi stessi, perché
Colui che si serve della fede come di una guida per un cieco, esce da tutti i suoi fantasmi
naturali e da tutti i ragionamenti del suo spirito.
Idem
Infine dal demonio, perché
Per il demonio, la luce della fede è più che le tenebre.
Idem
Ma per colui che è mosso dall’amore, queste tenebre sono luminose, perché
L’anima riceve la parola nascosta che Dio pronuncia nel silenzio interiore del segreto ritiro
del cuore,… da ciò, per amore, essa esce dalla sua intelligenza e da tutte le sue immagini, e
si trova portata al di sopra di se stessa, cosa che solo Dio può donarle.
Louis de Blois (1506-1565), L’Istituzione Spirituale, cap. XII, 2
E questa parola si svela a lei nella sua immensità:
L’anima porta in questo fondo dei tesori immensi che non hanno affatto confini: lì non vi è
niente di materiale, ma una fede tutta pura e tutta nuda che dice delle cose infinite.
Beata Maria dell’Incarnazione (1599-1672), Lettera 267
Ed in questo abbagliamento dell’intelligenza,
Io non cerco di comprendere per credere, ma credo per comprendere.
Sant’Anselmo (1033-1199), Proslogion, I
Cosicché
La ragione e tutte le ricerche naturali devono seguire la fede e non precederla né
combatterla.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Cristo, IV, l8
Allora,
Guardiamo Dio, non tanto per vederlo quanto per ammirarlo, non tanto per conoscerlo quanto
per riconoscerlo e per adorarlo… Più questo sguardo ci svuoterà di tutto, e più, ci riempirà di
Dio.
Francesco Malaval (1627-1719), Pratica Facile della Contemplazione,
Colloquio XII
Perché
La fede è come un abisso che non ha confini, che è la verità stessa, raggiungendo Dio, come
è in se stesso. Ecco perché non dovrebbero esserci inganni nella fede…. Più la fede si trova
nuda, più c’è perfezione in questa stessa fede.
Gian Giuseppe Surin (1600-1665), Guida spirituale, III I
Una fede così spoglia può farci paura; e pertanto,
I vantaggi di questa fede sono immensi; innanzitutto, questa vita di fede è per se stessa, più
eccellente e più interiore di tutte le vie sentimentali. Dio agisce nell’animo in un modo più
puro, più delicato, più intimo, e pertanto i frutti che ne risultano sono più perfetti.
Francesco Libermann (1802-1852), Lettera del 5 Febbraio 1838
Essa può anche darci la vertigine: si vorrebbe sentire Dio. Ragione di più per aprire più
grandi le ali della fede!
A volte, è vero, il cuore dell’uccellino si trova assalito dalla tempesta, gli sembra di non
credere che esista altra cosa, se non le nubi che lo avvolgono; è quello il momento della gioia
perfetta, per il povero piccolo essere debole. Quale felicità per lui perfino, restare là, fissare
l’invisibile luce che si sottrae alla sua fede.
Teresa del Bambino Gesù (1873-1897), Manoscritto B, 8 settembre 1896
E la fede portandoti allora aldilà della fede,
Avanza in una fede ferma e un silenzio santo, morendo a te stesso con tutte le tue industrie
naturali: Dio è colui che è, non cambia, non può ingannarsi, né volere altra cosa che il tuo
bene.
Miguel de Molinos (1628-1896), Guida spirituale, 1, 2
È dunque una bella cosa avere una fede nuda! Dico nuda non perché sia denudata di buone
opere, ma perché non desidera per niente sapere quel che sia, né di essere riempita d’alcuna
consolazione sensibile.
Taulero (1300-1361), Istituzioni, cap. VIII
In effetti,
Quando diciamo, che non possiamo trovare Dio, e che ci sembra lontano da noi, vogliamo
dire che non possiamo avere il sentimento della sua presenza. Ho notato che parecchi non
fanno differenza tra Dio e il sentimento di Dio, tra la fede e il sentimento della fede, ciò è un
grandissimo difetto.
San Francesco di Sales (1567-1622), Veri colloqui spirituali, IX
Perciò,
Ti consiglio di disprezzare sempre le tentazioni contro la fede e di riderne, perché esse sono
soltanto impressioni che non meritano nessun’attenzione, quali che siano. Nella misura in
cui, pertanto, esse sono intensamente dolorose (perché sembrano prosciugare tutta la
devozione e rendere la preghiera ridicola), puoi ringraziare Dio per loro, e dire che sei
pronta a sopportarle per il resto della tua vita.
Henry Chapman (1865-1933), Lettera del 21 Novembre 1930
In fondo,
Tutto ciò può causare benissimo che tu abbia il sentimento di non avere la fede? Sai molto
bene che hai la fede, perché se non l’avessi, non ti preoccuperesti, di non averla. Ma il tuo
dolore viene dal tuo “sentimento di essere come se” non l’avessi.
Idem, 4 Settembre 1931
IL DOVERE DI PREGARE SEMPRE SENZA STANCARSI
Nel Vangelo di Luca (18,1-8) Gesù racconta la parabola del giudice e della vedova per
mostrare ai discepoli la necessità di una preghiera instancabile. A questo comando del
Signore fanno eco la gran parte di regole di vita cristiana che invitano alla frequente
preghiera o al raccoglimento. Non si tratta evidentemente di una semplice dedizione, ripetuta
più volte, alla preghiera, ma semmai, attraverso questa pratica, un vero e proprio modo di
vivere incentrato sull’ascolto della Parola. Presso gli antichi monaci era consuetudine
leggere per un certo tempo un brano lentamente e sottovoce; ripeterlo poi, sussurrandolo fra
sé in atteggiamento meditativo, e quindi prostrarsi per un’intensa preghiera di fuoco con il
cuore. Essi non usavano pregare a lungo, ma spesso e per breve tempo, per impedire che in
una pausa prolungata qualcosa di inconveniente potesse insinuarsi nel cuore. Cassiano
avverte: “noi preghiamo nella nostra camera se ritraiamo completamente il cuore dalla
confusione e dal frastuono dei pensieri e delle preoccupazioni, ed eleviamo al Signore le
nostre preghiere nel segreto e nella confidenza” (Collazioni IX,35). Ciò che conta è che la
preghiera scaturisca dal profondo della persona. A questo scopo occorre coltivare la purezza
del cuore, che permette alla persona di vedere Gesù. La dedizione onesta ed operosa ai
propri doveri, l’osservanza dei comandamenti divini e l’assiduità dell’ascolto nella preghiera
sedano nel cuore gli affanni per le cose del mondo, pur occupandosene, portando il suo
centro di equilibrio da queste al cuore di Cristo. L’invito di Gesù non è da relegare a coloro
che con un distacco materiale dalle cose si ritirano nella clausura monastica, ma costituisce
il nocciolo per la sfida cristiana da portare nel cuore del mondo.
ABC
N. 30 - Settembre 2002
123
LASCIATI AMARE!
1. Adesso guarda davanti a te e non ti voltare: vedi ciò che ancora non hai e non ciò che hai
già, perché è la maniera più semplice per trovare e serbare l’umiltà. Tutta la tua vita ormai, se
devi progredire nella perfezione, ha bisogno soltanto, di una cosa: che tu ti mantenga nel
desiderio. E questo desiderio ha bisogno solo di una cosa: che sia creato nella tua volontà
dalla mano di Dio onnipotente e che tu vi consenta. Ma io ti devo dire questo: Dio è un amante
geloso e non ammette alcuna spartizione; non gli va di operare nella tua volontà a meno che
non sia solo, soltanto con te; egli non chiede alcun aiuto, ma te solo. Egli lo vuole, mentre tu,
tu non devi fare altro che guardarlo e lasciarlo fare, lui solo. Chiudi allora finestre e porta, a
causa delle mosche e dei nemici che cercano di entrare.
2. Se ti applichi a vivere così, non hai bisogno che di supplicarlo umilmente con la preghiera
e, ben presto, ti aiuterà. Supplicalo, lascia vedere ciò che vuoi: egli è prontissimo e non
attende che te. Ma che fai, e come lo supplichi? Eleva il tuo cuore a Dio in un umile slancio
d’amore. Cercalo, lui solo, e non i suoi doni; e così vedrai com’è banale pensare ad altro che
non sia lui stesso; e come lui solo, e null’altro, opererà nella tua intelligenza e nella tua
volontà. Fai questo: dimentica tutte le creature che Dio ha mai fatto, e pure le loro opere, in
modo tale che né il tuo pensiero né il tuo desiderio siano orientati o tesi verso qualcuna di
loro, sia in generale che in particolare; lasciale andare e non prestarvi attenzione: ecco
l’opera dell’anima che piace di più a Dio… Con essa, quando l’anima è aiutata dalla grazia di
sentirsi portata, ti troverai purificato e reso virtuoso, più che con qualsiasi altra cosa,
sebbene sia più facile di tutte le altre, e anche la più rapida. Altrimenti, è cosa dura ed è un
miracolo per te compiere ciò.
3. Allora, non ti rilassare ma lavora a questo, fino a che ti ci sentirai portato. In effetti, quando
cominci a fare ciò, troverai solo tenebre, come se ci fosse una nube di non conoscenza, che
non sai cosa sia, poiché senti soltanto l’intenzione nuda della tua volontà portata verso Dio.
Queste tenebre o nube, per quanto tu faccia, s’interpongono tra te e il tuo Dio, e fanno sì che
tu non puoi né vederlo chiaramente con la luce dell’intelligenza nella tua ragione, né sentirlo
nella dolcezza dell’amore nell’affezione. Perciò, fai in modo di attendere in queste tenebre
quanto potrai, aspirando sempre più verso colui che tu ami; perché se tu devi sentirlo o
vederlo, per quanto si può quaggiù, bisognerà sempre che ciò avvenga in questa nube e in
queste tenebre. E se tu vuoi lavorarvi attivamente, come ti prego, io confido nella sua
misericordia che tu vi giungerai.
La nube della non conoscenza, cap. 2 e 3
L’AUTORE Si tratta di un anonimo inglese della fine del XIV secolo, forse un certosino di
Beauvale, nel sud Nottingham. I suoi scritti lo mostrano, frequentatore dei testi di Riccardo di
San Vittore e dei commentatori medievali di Dionigi l’Areopagita, e spiritualmente vicino, ai
suoi contemporanei Walter Hilton o Giuliana di Norwich. Egli si rivolge a coloro che hanno
scelto la solitudine (la Certosa?) per coltivarvi la “vita perfetta”, cioè la vita più contemplativa
possibile.
IL TESTO La “nube della non conoscenza”, chiara allusione alla nube dell’Esodo, designa
questa contemplazione, in quanto essa è, contemporaneamente, luminosa per gli occhi
dell’anima e oscura per gli occhi del corpo; da qui, una sensazione crescente dell’impotenza
dell’uomo e dell’onnipotenza di Dio lungo il progresso spirituale. Tutta la pedagogia della
Nube sarà di mostrare che non c’è da inquietarsi né, soprattutto, da cedere alla tentazione di
una percezione più sensibile della presenza di Dio.
§ 1. La decisione di cominciare in solitudine ha liberato il desiderio di colui che sa di essere
chiamato all’intimità divina: perché si sviluppi una vita contemplativa, in effetti, occorre che
Dio lo voglia e lo faccia (“che il tuo desiderio sia creato nella volontà dalla mano di Dio
onnipotente”) ma anche che l’uomo l’accetti, cioè, rifiuti tutto quello che è meno di Dio.
§ 2. “Cercalo, lui solo, e non i suoi doni”: questo continuo superamento di ciò che Dio ci dà,
gli permette di darci sempre di più, accrescendo il nostro desiderio nello stesso tempo che lo
soddisfa, contemporaneamente sul piano della conoscenza e su quello dell’amore (“egli
opererà nella tua intelligenza e nella tua volontà”). Questo superamento non è tanto questione
di sforzo, quanto di “non prestare attenzione” a ciò che è meno di Dio. “Ecco l’opera che
piace a Dio”: non si tratta dunque di fare questo o quello per piacergli, ma di offrirsi
incondizionatamente alla sua grazia, che da quel momento ci rende puri e virtuosi, senza che
noi dobbiamo fornire altra cosa se non questo consenso.
§ 3. Questo assenso ci fa perdere il controllo della nostra vita spirituale, e quando l’anima se
ne rende conto, scorge soltanto le tenebre della fede che s’interpongono tra lei e quel Dio al
quale si dona, che la porta però, continuamente, al di là di se stessa (“l’intenzione nuda della
tua volontà portata verso Dio”). Il pericolo qui, e in tutta la vita spirituale sarebbe di
scoraggiarsi, ma la semplice certezza che Dio sa, laddove noi non sappiamo più, basta a
rimettere a lui, senza altri commenti, la chiave del nostro destino.
“Lavora a ciò fino a che ti ci sentirai portato…” Questo “lavoro”, in realtà, non contraddice la
natura passiva della contemplazione, ma indica che prima di metterci nella semplice
disponibilità a Dio, che gli permette di svilupparsi, occorre in generale provare molte
resistenze interiori, quelle della diffidenza di Dio e della fiducia in noi stessi che ereditiamo
dal peccato originale.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
G come …. GLORIA
“Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo…”: tutta la Storia santa è manifestazione di
questa gloria,
Affinché si sappia da oriente a occidente che tutto è niente al di fuori di me: Io sono il Signore
e non ve n’è un altro.
Isaia 45, 6
Certamente, Dio non aveva bisogno di questa manifestazione, in quanto
La gloria di Dio non si rapporta ad altro, se non a se stessa, ma essa è propria di Dio
cosicché vale per se stessa.
San Tommaso d’Aquino (1224-1274), De malo, q. 9, a. 1 ad 4
Ma poiché “la gloria di Dio, è la sua bontà” (San Bonaventura),
Il solo motivo che ha portato Dio all’atto della creazione, è il desiderio di far condividere la
sua bontà agli esseri che stavano per ricevere da lui l’esistenza.
Concilio di Trento (1545-1563), De fide et simbolo, 1
E perciò,
Colui che è inafferrabile, incomprensibile e invisibile, è reso visibile, comprensibile e
afferrabile per gli uomini, al fine di vivificare coloro che lo percepiscono e lo vedono, perché
lo splendore di Dio è vivificante, e coloro che lo vedono riceveranno la vita.
Sant’Ireneo, (II secolo), Contro gliEretici, IV, 20
Per questo,
Nella carne di Nostro Signore, la luce paterna ha fatto irruzione e, splendendo dalla sua
carne, è venuta in noi; e così l’uomo è passato nell’incorruttibilità, avvolto nella luce paterna.
Idem
Questa volontà di glorificare noi, ci porterà fino alla risurrezione, perché,
Cristo s’impadronisce dell’uomo tutto intero, lui che lo ha creato tutto intero, riscattato tutto
intero, e tutto intero lo glorificherà, lui che nel giorno di sabato lo ha guarito tutto intero.
San Bernardo (1090-1153), Sermone 5 per l’Avvento, 3
Allora, lungi dall’opprimerci, questa gloria di Dio è il nostro più prezioso tesoro:
La gloria di Dio e l’utilità dell’uomo sono sorelle….Dio non fa nulla, per la sua gloria che non
sia anche per l’utilità dell’uomo…Ciò che è glorioso a Dio è utile agli uomini.
Giovanni Eusebio di Nieremberg (1595-1658), De adoratione in spiritu et
veritate, II, 21
Non abbiamo dunque paura della sua volontà,
Non volendo né ricercando null’altro, in tutto e per tutto, che una più grande lode e gloria di
Dio Nostro Signore.
Sant’Ignazio di Loyola (1491-1556), Esercizi spirituali, § 189
Come rendere gloria per gloria a colui che ci ha fatto questa grazia? Certamente,
È altrettanto impossibile aumentare il fulgore di Dio lodandolo, quanto nuocergli
offendendolo.
San Giovani Crisostomo (verso 350), Sull’incomprensibilità di Dio, 3
Ma poiché la sua gloria è la sua bontà, la nostra azione di grazia sta nell’accettare questa
bontà:
Dunque sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualche altra cosa, fate tutto per
la gloria di Dio: seduto a tavola, prega; prendendo il pane ringrazia colui che te lo dà;
fortificando col vino la debolezza del tuo corpo, ricordati di colui che ti fa questo dono, per
ristorare il tuo cuore… Metti la tua tunica? Ringrazia colui che te la dà!
San Basilio, (verso 330-379), Omelia su I Cor. 10, 31 mart. 3 Luglio
In quest’azione di grazia, la nostra felicità rallegra quella di Dio:
Come desiderare e volere, effettivamente, bene a Dio, se non compiendo la sua volontà,
poiché questa volontà ordina tutto per la sua più grande gloria? Dunque quest’anima deve
rimettersi pienamente, perdutamente, fino a non volere altro, se non ciò che Dio vuole.
Beata Elisabetta della Trinità (1880-1906), Agosto 1906
Questo è il cammino della nostra propria glorificazione:
Il nostro cuore ha per sua sovrana legge, la più grande gloria dell’amore di Dio. Orbene, la
gloria di questo santo amore consiste nel bruciare e consumare tutto ciò che non è lui
stesso, per ridurre e convertire tutto in lui.
San Francesco di Sales (1567-1622), lettera a data sconosciuta
Questa conversione è pure passaggio dalla morte alla vita, il cammino della Passione e di
Pasqua:
Quanto a me, non sia mai che mi glori d’altro che della croce del Signore nostro Gesù
Cristo, grazie alla quale il mondo è stato crocifisso per me, e io per il mondo!
Galati, 6, 14
Cosicché
Colui che non cerca la croce di Cristo, non cerca la gloria di Cristo.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Consiglio 101
Anima mia, se sei penetrata di queste verità, tu devi dunque, ormai, porre la tua gloria nel
disprezzo, poiché la tua gloria consiste nel procurare la gloria di Dio e non lo puoi fare più
utilmente, se non imitando il suo unigenito Figlio.
Giovanni de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, Libro I cap.
1
Questo vale innanzitutto, e soprattutto nella nostra orazione:
Una delle prime e più necessarie disposizioni all’orazione è la pura intenzione, con cui noi
diamo e rapportiamo ogni nostra orazione, non secondo il nostro profitto e l’utilità spirituale,
ma per la sola gloria di Dio.
Francesco Bourgoing (1585-1622), Verità ed eccellenze di Gesù Cristo, 5°
consiglio
E ciò misura quel che noi chiamiamo riuscita o scacco nella nostra vita interiore:
Che importanza hanno i miei sentimenti? Sono venuto qui per Dio, non per me stesso: Ed io,
cosa conto, io? Solo Dio conta. Il mondo intero non ha importanza. Rendere gloria a Dio, è
l’essenziale in tutto.
Henry Chapman (1865-1933), Lettera del 16 Febbraio 18
E al di là, in tutta la nostra vita:
Non glorificatevi nelle ricchezze che potete avere, né nella potenza dei vostri amici, ma in
Dio, che dà tutto e che, soprattutto, desidera ancora dare se stesso.
Beato Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione, 1, 7
L’amore al silenzio
“Veglierò sulla mia condotta per non peccare con la mia lingua”(Sal 39,2). Il silenzio è amato
dagli amici di Dio per evitare di peccare, per creare uno spazio di quiete in cui la persona
possa ritrovare se stessa, per entrare nel silenzio di Gesù, mite e umile di cuore.
L’espressione di Giacomo, “la lingua nessuno può domarla: è un male ribelle, è piena di
veleno mortale” (3,8), induce ad astenersi deliberatamente dal parlare, sull’esempio di Gesù
che tace quando altri avrebbero protestato, perché offesi o provocati. Lo stesso spirito
immondo (Mc 1,23-25) si riconosce dalla sua necessità di gridare, mentre Gesù gli ordina di
tacere. I primi monaci si rifugiavano nel deserto per trovare pace per le loro anime nel
silenzio e nella solitudine, per non lasciarsi totalmente irretire dal vorticoso fluire quotidiano.
Non si voleva, però, rimanere passivi, ma partire, con la forza dello Spirito, verso nuovi
orizzonti e avanzare verso una meta più alta, senza perdersi nelle realtà effimere. Ogni cuore
deve sprigionare un soffio della quiete e del silenzio del deserto, un po’ del suo vento di
fuoco. Ciascuno deve custodire in sé uno spazio di silenzio, secondo l’invito di Cassiano ai
monaci: “solo nel silenzio, nel vivere stabilmente nella propria cella e nella meditazione [della
Scrittura] è possibile raggiungere il fine della professione, ossia la pura contemplazione di
Dio che supera ogni cosa” (Istituzioni 10,3). La ricerca della quiete e del silenzio è una
fondamentale esigenza umana, perciò le esperienze e le tecniche del silenzio consegnateci
delle altre religioni possono esserci utili; tuttavia la calma interiore e il distacco da ogni
volontà di dominio e di possesso non bastano. Il cristiano nel silenzio tiene fisso lo sguardo
su Gesù, incontra Lui, morto e risorto, ascolta obbediente la sua parola, perché “una sola è la
cosa necessaria”.
ABC
N. 31 - Ottobre 2002
123
“ALLA LODE DELLA SUA GLORIA…..”
1. “Per decreto di Colui che opera tutte le cose secondo la sua volontà, noi siamo stati
predestinati ad essere la lode della sua gloria”… Come realizzare questo grande sogno del
Cuore del nostro Dio, questo volere immutabile sulle nostre anime? In una parola, come
rispondere alla nostra vocazione, e divenire perfette Lodi di gloria della Santissima Trinità?…
2. Una lode di gloria è un’anima che dimora in Dio, che l’ama di un amore puro e
disinteressato, senza ricercare sé nella dolcezza di quest’amore; che l’ama al di sopra, di
tutti i suoi doni, anche se non avesse ricevuto niente da Lui e che desidera il bene
dell’Oggetto amato. Orbene come desiderare e volere effettivamente il bene di Dio se non
compiendo la sua volontà, poiché questa ordina tutte le cose per la sua gloria più grande?
Dunque quest’anima deve consegnarsi pienamente, perdutamente fino a non volere altro, se
non quello che Dio vuole.
3. Una lode di gloria è un’anima di silenzio che sta come una lira sotto il tocco misterioso
dello Spirito Santo affinché Egli ne faccia uscire delle armonie divine; ella sa che la
sofferenza è una corda che produce suoni ancora più belli, così ella ama vederla nel suo
strumento alfine di smuovere più deliziosamente il Cuore del suo Dio.
4. Una lode di gloria è un’anima che fissa Dio nella fede e nella semplicità; è un riflettore di
tutto ciò che Egli è; ella è come un abisso, senza fondo, nel quale Egli può scorrere,
espandersi; è come un cristallo attraverso cui Egli può irradiarsi e contemplare tutte le sue
perfezioni e il proprio splendore. Un’anima che permette così all’Essere divino di saziare in
lei il suo bisogno di comunicare “tutto ciò che Egli è, tutto ciò che egli ha”, è in realtà la lode
di gloria di tutti i suoi doni.
5. Infine una lode di gloria è un essere sempre nell’azione di grazia. Ciascuno dei suoi atti,
dei suoi movimenti, dei suoi pensieri, delle sue aspirazioni nel medesimo tempo che la
radicano più profondamente nell’amore, sono come un’eco del Sanctus eterno… Nel cielo
della sua anima, la lode di gloria comincia già il suo ufficio dell’eternità. Il suo cantico è
ininterrotto perché ella è sotto l’azione dello Spirito Santo che in lei opera tutto; e sebbene
ella non ne abbia sempre coscienza perché la debolezza della natura non le permette di
essere fissata in Dio senza distrazioni, ella canta sempre, ella adora sempre, ella è, per così
dire, tutta passata nella lode e nell’amore, nella passione della gloria del suo Dio.
Beata Elisabetta della Trinità (1880-1906), Ritiro del 10 agosto 1906
L’autore Dieci anni dopo Teresa di Lisieux, la cui Storia di un’anima fa irruzione nella
spiritualità francese, Elisabetta “di Digione” conoscerà un itinerario molto simile al suo,
sebbene meno tormentato. Nata nel Berry in una famiglia di militari, temperamento di fuoco,
molto portata per la musica, Elisabetta Catez cresce a Digione e a 21 anni entra al Carmelo
della città. Morirà a 26 anni per il morbo di Addison, in alcuni mesi d’intenso dolore, vissuto
come un grandioso canto d’amore. Accanto alla sua corrispondenza e ad alcune note intime,
alcune decine di pagine redatte per i suoi parenti durante la malattia, mostrano il suo totale
abbandono alla tenerezza di Dio per i suoi figli.
Il testo Tre mesi prima della sua morte, Elisabetta redige per sua sorella una lunga
meditazione sull’essenza della vita cristiana, testimoniando una vertiginosa semplificazione
interiore che la trasforma in pura “lode di gloria della Santa Trinità”, come ella amava definire
sé stessa: essere là perché Dio lo vuole, senz’altro pensiero, missione o risultato che quello
di fare la sua volontà: ecco la sua vocazione. Nel testo le reminiscenze di san Paolo, san
Giovanni della Croce e Ruusbroec (che dominano i suoi ultimi scritti) s’intrecciano
incessantemente.
§ 1 Al tramonto della sua breve vita, Elisabetta prende piena coscienza della pura gratuità
dell’amore di Dio che spiega tutto e non è spiegato da nulla, che ha bisogno soltanto del
nostro consenso per spandersi: la sua gloria è la nostra felicità, e la nostra felicità è il
condividere la sua gloria.
§ 2 La gratuità dell’amore di Dio chiama dalla nostra parte una gratuità simmetrica: amare
Dio per se stesso, “senza ricercare sé nella dolcezza di quest’amore”. Questa dolcezza è
innegabile, ma essa non è in sé, uno scopo. La forma concreta di questo disinteresse è di
lasciar fare a Dio, in noi, ciò che gli piace, che è la stessa cosa di farlo noi stessi perché “è
lui che ci dà sia il volere che l’operare”, direbbe san Paolo (Fil 2,13); e ciò “pienamente,
perdutamente” senza il minimo calcolo, come Elisabetta ripete frequentemente nelle sue
lettere.
§ 3 La vita cristiana è una musica. Così la gloria dell’artista è quella del suo strumento.
Poiché essa esige una totale docilità dello strumento, la musica delle nostre prove è la più
esigente ma anche la più bella, poiché l’artista è Dio stesso che ci domanda l’abbandono
nelle sue mani.
§ 4 Tema di Ruusbroec: l’immensità del nostro niente, lungi dall’umiliarci, rende possibile
l’immensità del nostro amore filiale, nel quale si può riversare l’immensità dell’amore paterno
di Dio; occorre ancora una volta, soltanto il nostro abbandono, “fissare Dio nella fede e nella
semplicità”.
§ 5 Allora lo strumento è accordato e il concerto può cominciare. Ma non dimentichiamo che
lo strumento qui non è un oggetto, ma un compagno libero e vivo e come l’artista, è lui che
“canta sempre, adora sempre, nella passione della gloria del suo Dio”.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
G come….. GRAZIA
Io so ciò che è un’anima abitata, e so che è un’anima deserta. Se ella non ha Dio, se non ha
Cristo che ha detto: «Il Padre e io verremo a lui e dimoreremo in lui» (Gv 14, 23), se ella non
ha lo Spirito Santo, l’anima è deserta. Ella è abitata quando è piena di Dio, quando ha Cristo,
quando lo Spirito Santo è in lei.
Origene (185- 253), Su Geremia, 8
Questa totale comunione di vita tra Dio e noi, ecco la grazia. Essa ci permette di vivere la vita
di Dio, cioè di conoscere attraverso la sua luce, di volere la sua volontà, di agire con la sua
azione, in breve, di amare:
Oh! La tua grazia, Signore, mi è necessaria, per cominciare il bene, per continuarlo e
compierlo! Perché senza di lei non posso fare niente; ma io posso tutto in te, quando la tua
grazia mi fortifica.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Gesù Cristo, III, 55
Questa grazia nello stesso tempo in cui si offre a noi, ci attira, sperando solamente nel nostro
consenso:
La grazia è così leggiadra e afferra così gentilmente i nostri cuori per attirarli, ch’essa non
sciupa nulla nella libertà della nostra volontà; essa tocca potentemente, ma pur così
delicatamente le molle del nostro spirito, che il nostro libero arbitrio non ne riceve alcuna
forzatura.
San Francesco di Sales (1567- 1622), Trattato dell’Amore di Dio, II, cap. 12
Giammai Dio tralascia di offrirci la sua grazia:
Lo Spirito Santo da parte sua, fa tutto ciò che può per darci le sue grazie; noi da parte nostra,
facciamo tutto quel che potremo per riceverle.
Pietro de Berulle (1575-1629), Opuscoli di pietà, 118
E quando infine cediamo alla sua attrazione, la nostra natura si dilata nella sua:
L’anima è condotta al di là di tutte le sue potenze e facoltà, in ciò che le Persone divine sono
naturalmente in sé stesse… Ella vi trova allora la sua soddisfazione e l’eterna beatitudine e
gode per grazia della felicità di cui Dio gode per natura.
Beato Enrico Suso (1295?–1366), Libro dell’Eterna sapienza XII
Basta dunque che ci abbandoniamo a questa grazia così leggiadra:
Ciò che Dio vuole da noi, prima d’ogni cosa, è che cedendogli interamente la nostra volontà,
gli lasciamo fare tutto quel che gli piace.
Taulero (1300?–1361), Istituzioni, cap. XVIII
A partire da lì,
Dopo la grazia, nella vita spirituale, tutto dipende dalla fedeltà alla grazia.
Carlo Gay (1815–1892), Istruzioni per le persone…, II, pp. 158s
Il nostro merito sarà dunque soltanto quello di accettare la grazia:
Quando Dio corona i nostri meriti, Egli non corona altro che i suoi doni.
Sant’Agostino (354–430), Lettera 194 al prete Sisto
Perché per essere tale, occorre essere ben sicuri che la grazia sia … gratuita!
Io farò grazia a chi vorrò e avrò pietà di chi mi pare!
Esodo, 33, 19
E questo perché
L’amore non cerca altra causa, altro frutto che lui stesso: il suo frutto è di amare. Io amo
perché amo; amo per amare.
San Bernardo (1090- 1153), Sermone 83 sul Cantico
A colui che ama Dio, basta piacere a colui che ama, perché non vi è più grande ricompensa
da raggiungere se non quest’amore stesso: in effetti, se l’amore viene da Dio, Dio stesso è
amore.
San Leone Magno († 461), Sermone 92
E ciò spiega che
Dio chiama quelli che vuole, quando vuole e come vuole; per questo non c’è né luogo, né
anno, né tempo determinato, tutto dipende dalla sua santissima volontà, da lui che trova “le
sue delizie a conversare con i figli degli uomini”.
Luigi du Pont (1554–1624), Vita di padre Alvarez, cap. 15
E da parte nostra,
Se possiamo servire Dio senza meritare, cosa che non si può, dovremmo desiderare farlo.
San Francesco di Sales (1567–1622), Ultimo Colloquio spirituale
Al punto che è vero, dire che
La grazia non ha mai compiuto alcuna buona opera, perché essa non ha mai compiuto alcuna
opera. Essa si spande fuori dall’esercizio di una virtù, la grazia non compie mai l’unione
attraverso un’opera. La grazia è una inabitazione e una coabitazione dell’anima in Dio.
Mastro Eckhart (1260–1327), Sermone 43
E ciò è talmente vero che più noi sentiamo la nostra incapacità di meritare, più la grazia è
libera di spandersi:
Quando la natura è mortificata, abbattuta, e annientata,… allora la grazia fa meraviglie,
sebbene non ci sembri.
Gian-Francesco di Reims († 1660), La vera Perfezione, Istruzione VIII, 2
È cosa pietosa la fragilità umana ed è una meraviglia la potenza della grazia nell’uomo; si
deve tutto temere dall’una, e tutto sperare dall’altra. L’umiltà e la fiducia sono le due virtù più
necessarie all’uomo, che è una fragile canna, forte soltanto della grazia di Gesù Cristo.
Giovanni de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, Libro I,
cap. 15
Ma se la grazia fa tutto senza che noi facciamo mai niente, perché noi non siamo santi?
Perché Dio non ci ha fatto la grazia. Ma perché Dio non ci ha fatto la grazia? Perché noi non
abbiamo corrisposto alle sue ispirazioni. E perché non abbiamo corrisposto? Perché
essendo liberi, abbiamo abusato della nostra libertà.
San Francesco di Sales, Trattato dell’amore di Dio, II, cap. XI
Il silenzio tra amore e intelligenza
Il silenzio assicura forza alla parola che illumina. In una pagina di Simone Weil sui misteri
della fede e la vita teologale (Lettera a un religioso), si parla dell’iniziale silenzio
dell’intelligenza, quando la notizia di Dio raggiunge la persona umana. La carità è
l’esercizio della facoltà di amore soprannaturale; la fede è la subordinazione di tutte le facoltà
dell’anima alla facoltà di amore soprannaturale; la speranza è un orientamento dell’anima
verso una trasformazione dopo la quale essa sarà interamente ed esclusivamente amore.
L’intelligenza e tutto l’animo umano per opera della fede tacciono: tutto si ferma nell’uomo, per
consentire all’amore di invadere l’anima, come quando si fa perfetta attenzione a una musica
o a una statua perfettamente belle. Le facoltà dell’anima tacciono e rimangono sospese
nell’ascolto, trovando poi in esso a motivo della bellezza e della verità del Reale contemplato
il proprio nutrimento e il proprio bene. Adesso l’intelligenza, tornando a esercitarsi di nuovo,
si trova a possedere più luce di prima. Tali silenzi costituiscono per lei un’educazione che le
permette di cogliere verità che altrimenti le resterebbero celate per sempre. Ci sono verità
che sono alla sua portata, che essa può cogliere, ma solo dopo essere passata in silenzio
attraverso l’inintelligibile. L’intelligenza può riconoscere i vantaggi di questo arresto
silenzioso dinanzi all’amore soltanto per esperienza, a cose fatte. Prima non ne ha alcun
presentimento, e se si irrigidisce, compromette perfino la possibilità di conoscere ciò con cui
è venuta realmente a contatto. Poiché non ha inizialmente alcun motivo ragionevole di
accettare tale subordinazione, questa è opera esclusiva di Dio. “Il primo silenzio, lungo
appena un istante, che si produce attraverso tutta l’anima in favore dell’amore soprannaturale,
è il seme gettato dal Seminatore, è il granello di senape quasi invisibile che un giorno
diventerà l’Albero della Croce”.
ABC
N. 32 - Nov embre 2002
123
UNA TENEBRA LUMINOSA
1. Che significa l’entrata di Mosè nella tenebra e la visione che in questa, egli ebbe di Dio?
Sembra in effetti, che il racconto presenti [1] qualche contraddizione con la teofania dell’inizio
[2]: allora Dio era visto nella luce, adesso nelle tenebre… Attraverso ciò, il testo ci insegna
che la conoscenza legata alla pietà è dapprima, luce per coloro che la ricevono; in effetti, ciò
che è contrario alla pietà è oscurità spirituale, e l’oscurità si dissipa quando si partecipa alla
luce. Ma più lo spirito, nel suo avanzare, giunge con un’applicazione sempre più grande e
perfetta a comprendere cos’è la conoscenza delle realtà, avvicinandosi di più alla
contemplazione, più vede l’invisibilità della natura divina. Avendo lasciato tutte le apparenze,
non solo quelle percepite dai sensi, ma ciò che l’intelligenza crede di vedere, egli tende
sempre più verso l’interiore fino a che penetra con lo sforzo dell’intelligenza, fino all’invisibile
e all’inconoscibile e là vede Dio.
2. La vera conoscenza di colui che egli cerca consiste, in effetti, nella non- visione ed è la sua
vera visione, perché colui che egli cerca è al di là, di ogni conoscenza, separato per ogni
parte, dalla sua incomprensibilità come da una tenebra. È per questo che il sublime Giovanni,
che è penetrato in questa tenebra luminosa, dice che “Dio, nessuno l’ha mai visto” (Gv. 1,18),
definendo con questa negazione che la conoscenza di ciò che Dio è in sé stesso è
inaccessibile non soltanto agli uomini, ma ad ogni natura intellettuale. Dunque, quando Mosè
ha progredito nella conoscenza, dichiara che vede Dio nella tenebra, cioè egli conobbe
allora, che il divino è per natura ciò che è al di là di ogni conoscenza e di ogni presa dello
spirito. “Mosè avanzò nella nube oscura, nella quale Dio era” (Es. 20, 21), ci viene detto.
Quale Dio? “Si avvolgeva di tenebre come di velo” (Sal. 17, 12), come dice Davide, anche lui
iniziato in quello stesso santuario segreto ai misteri nascosti.
3. Arrivato là, riceve attraverso la parola lo stesso insegnamento che gli era stato dato prima
attraverso le tenebre…..: ciò che protegge dapprima la parola divina, è in effetti, che gli
uomini assimilino Dio a qualsiasi cosa conoscano. Per questa via noi apprendiamo che tutte
le idee provenienti da qualsiasi concezione formata in un’intelligenza alla ricerca della natura
divina, riescono a formare soltanto un idolo di Dio, non a farlo conoscere.
San Gregorio di Nissa (verso 330-394), Vita di Mosè, II, §§ 162 ss.
L’AUTORE Vescovo malgrado la sua volontà e per obbedienza a suo fratello san Basilio,
perseguitato dai discepoli di Ario (che negava la natura divina di Gesù), Gregorio occupa un
posto di primo piano nella Chiesa della Cappadocia e contemporaneamente alla corte di
Costantinopoli. Con suo fratello e il loro comune amico Gregorio Nazianzeno, egli è una
delle figure teologiche e spirituali più importanti della Chiesa d’Oriente.
IL TESTO Datato negli ultimi anni di Gregorio, la Vita di Mosè comincia con l’esporre
storicamente il libro dell’Esodo. Una seconda parte lo commenta allegoricamente: ogni
elemento storico si deve comprendere come una figura spirituale ed eterna e pertanto valida
per ogni cristiano nello sviluppo della sua relazione a Dio, compresa quindi come l’esodo e
la pasqua che Cristo opera in lui. Così l’ascensione del Sinai da parte di Mosè, è figura
dell’ascensione dell’anima verso Dio. Letto e riletto da tutta la tradizione ulteriore, questo
testo è uno dei più classici della letteratura mistica cristiana.
§ 1. In un primo tempo, quello di una conversione da un modo naturale ad un modo
soprannaturale di vivere (è ciò che Gregorio chiama qui, pietà), Dio è generalmente
percepito come molto attraente e illuminante: agli inizi di una vita cristiana risoluta, si è
contenti di pregare e, lo si fa con una certa facilità, perché ormai si vede chiaro e la vita
anteriore è allora sentita come insensata (“in effetti, ciò che è contrario alla pietà è oscurità
spirituale”). È quello che Mosè ha sperimentato al roveto ardente.
Ma generalmente, almeno se l’anima è chiamata ad una vita contemplativa un po’ forte, Dio
comincia anche, come a sparire, a sprofondare al di là delle nostre immagini e delle nostre
idee di Dio: “più lo spirito si avvicina alla contemplazione, più vede l’invisibilità della natura
divina”. In breve, vedere Dio, è vederlo invisibile!
§ 2. Questo sprofondamento nel raccoglimento è dunque nello stesso tempo, sprofondamento
nell’incapacità ad afferrare quel Dio che ci sfugge man mano che noi lo avviciniamo. Da qui
la sensazione di vuoto, così facilmente penosa appena ci s’inquieta, che accompagna il
progresso nell’orazione: “Mosè avanzò nella nube scura nella quale Dio era”. Abbiamo qui il
tema tanto fortemente sviluppato dai mistici, ad esempio da san Giovanni della Croce, delle
“notti” dell’anima, che testimoniano la presenza di Dio, ma una presenza radicalmente
inafferrabile. Gli angeli stessi (“ogni natura intellettuale”) non vi possono niente!
§ 3. Da qui l’attitudine domandata a coloro che, come Mosè, sperimentano questo Dio tanto
più incomprensibile quanto più è loro presente: non contrarsi più sulle immagini o le idee
che, in un primo tempo, li hanno guidati fino ai piedi del Sinai, cioè fino a che Dio li porta alla
sua contemplazione (ciò sarebbe soltanto “formarsi un idolo di Dio”), ma lasciarsi portare
rifiutando semplicemente tutto ciò che non è Dio. E allora, come Mosè alla testa d’Israele, noi
saremo condotti da Dio stesso alla Terra promessa, cioè all’unione perfetta con Lui.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
U come….UMANITÀ DI CRISTO
“Dio, nessuno l’ha mai visto!” (Gv. 1, 18) Ma inseparabilmente Dio e uomo, “il Figlio
unigenito ce lo ha rivelato” (Gv. 1, 18). Allora,
Colui che desidera elevarsi a Dio, che desidera andare uomo, all’Uomo che gli è simile e che
gli dice appena entra in quel santuario: “Io e il Padre siamo uno!” subito, trasportato d’amore
in Dio dallo Spirito Santo, riceve Dio stesso che viene in lui e fa in lui la sua dimora.
Guglielmo di Saint-Thierry (1085-1148), Orazioni meditative, Med. X
La posta in gioco dell’Incarnazione è interamente in questa volontà divina di condurre vita
comune con noi,
Perché come uno specchio non potrebbe fermare la nostra vista se non fosse plasmato di
stagno o di piombo da dietro, così la divinità non potrebbe essere ben contemplata da noi in
questo basso mondo, se non fosse congiunta alla sacra umanità del Salvatore.
San Francesco di Sales (1567-1622), Introduzione alla Vita devota, II, cap. 1
Allora, non si dovrà mai scegliere tra Dio e l’uomo nel nostro attaccamento a Gesù:
Nessun uomo mai si eleverà così in alto, da lasciare le orme dei passi di Nostro Signore: più
in alto sale, più deve entrare profondamente in quest’imitazione e sprofondarvisi, sia
nell’azione che nella contemplazione.
Giovanni Taulero (1300?-1361), Sermone 61
E occorre che sia così, perché
La vita dell’anima è doppia, con l’una ella vive nella carne, con l’altra vive in Dio….; Dio si è
fatto uomo per rendere felice in lui, l’uomo tutto intero, fuori con la carne del suo Salvatore,
dentro con la divinità del suo Creatore.
San Bonaventura (1221-1274), Cristo Maestro, 14
Da ciò deriva che il fondamento di una vita d’orazione sia
una volontà costante d’imitare Gesù Cristo in tutte le sue opere e di conformarsi alla sua vita;
ciò suppone di considerarla, per saperla imitare e comportarsi in ogni cosa come avrebbe
fatto lui.
San Giovanni della Croce, Salita del Carmelo, I, 13
In effetti,
Con la meditazione frequente e assidua della vita del Signore Gesù, l’anima è portata ad
amarlo, a credere in lui, ad essergli familiare.
Ludolphe il Certosino († 1377), Vita di Gesù Cristo, Preambolo
E questa familiarità ci fa passare dalla scienza di Cristo (= conoscerlo come uomo) alla
Saggezza di Cristo (= conoscerlo come Dio):
Attraverso lui noi andiamo a lui, attraverso la scienza tendiamo alla saggezza e intanto, non
ci allontaniamo da quel solo e medesimo Cristo “in cui sono nascosti tutti i tesori della
saggezza e della scienza”.
Sant’Agostino (354-430), De Trinitate, XIII, 19
Perciò,
Cristiano, apprendi dal Cristo come amare Cristo; impara ad amarlo teneramente, ad amarlo
prudentemente, ad amarlo fortemente: teneramente, per non essere sviato dall’amore del
Signore con la seduzione, prudentemente per non esserlo con l’astuzia, fortemente per non
esserlo con la minaccia.
San Bernardo (1090-1153), Sermone 20 sul Cantico
In ciò,
Gesù è nostro modello; bisogna che noi facciamo in piccolo ciò che egli ha fatto in grande; o
piuttosto è il suo divino Spirito che deve operare in noi in piccolo, ciò che egli operava in
grande nella santissima umanità del nostro Maestro.
Francesco Libermann (1802-1852), Lettera del 31 Marzo 1838
In effetti, quest’imitazione è in realtà la parte più visibile di una vera incorporazione a Cristo,
perché
Per piacere a Dio e perché Egli ci faccia dei grandi favori, Egli vuole che ciò avvenga
attraverso le mani della santissima umanità di suo Figlio, nella quale egli ci ha detto, prende
le sue delizie.
Santa Teresa d’Avila (1515-1582), Vita, XII
E con questi’incorporazione, l’orazione meditativa si apre sulla contemplativa:
Quando il Signore stesso ha detto che egli era la porta per andare al Padre ed entrare nei
pascoli della vita eterna, non voleva tuttavia convincerci di restare a questa porta della
meditazione cioè quello che c’è di corporale in Cristo; egli voleva al contrario che noi
entriamo in ciò che c’è [ in lui] di spirituale e di divino, là dove principalmente si gode di
questi pascoli, cosa che si riferisce alla contemplazione.
Gesù di J. M. Quiroga (1562-1628), Apologia Mistica, XVI
Ma è Dio stesso che c’introdurrà così in lui, perché
Mancherebbe d’umiltà colui che vorrebbe elevarsi senza che il Signore lo elevi e vorrebbe
essere Maria senza avere lavorato con Marta.
Teresa d’Avila, Vita, XII
Ciò che ci compete è dunque di andare a Dio attraverso la sua umanità…
Perché nessuno entra nella sala dell’eterna fruizione, se non vive nella rassomiglianza
all’umanità di Cristo.
Beato Giovanni Ruusbroec (1295-1381), Il Regno degli Amanti, IV D
…mentre egli viene a noi attraverso la sua divinità:
La mia grandezza si è umiliata fino alla terra della vostra umanità, e avendo unito l’una
all’altra, ne ha fatto un ponte per ristabilire la via [interrotta dal peccato], perché voi veniate a
godere in verità con la natura angelica.
Santa Caterina da Siena (1347-1380), Dialogo XXII
E quando attraversiamo questo ponte:
Tutto è dolce in Gesù Cristo, fino alla morte; e per questo, egli ha sofferto, ed è morto per
santificare la morte e le sofferenze; e come Dio e come uomo egli è stato tutto ciò che vi è di
grande e tutto ciò che vi è di abietto, al fine di santificare in sé tutte le cose eccetto il peccato,
ed essere il modello di tutte le condizioni.
Biagio Pascal (1623-1662), Pensieri, 21
FISSARE LO SGUARDO SUL CROCIFISSO
Una delle sfide che i cristiani del terzo millennio affrontano è quella di accogliere e
sopportare la relatività essenziale delle vicende umane rimanendo nella consapevolezza
dell’esistenza del giudice supremo su cui dover tenere fermo il proprio sguardo. Essi non
possono ignorare la percezione dell’uomo moderno e soprattutto post-moderno della realtà
circostante: la frantumazione di un’unica Verità in centinaia di verità relative che gli uomini
condividono, fino alla penetrazione di questa frammentazione nella percezione stessa del
proprio io e della propria identità. Di qui da una parte il sospetto verso ogni realtà, pensiero,
istituzione forti, che si propongano con la pretesa di conoscere e possedere la verità,
dall’altra l’ammirazione per la sapienza dell’incertezza, per il riconoscimento del limite, per
la possibilità rivelativa dell’altro da me e da noi. Ignorare tutto ciò sarebbe per i cristiani
oltretutto porsi al di fuori del proprio tempo con una percezione mistificatoria di se stessi ed
uno scacco conseguente nell’evangelizzazione; a quale uomo, infatti si vorrebbe annunciare
il Vangelo? In questo contesto, la cui comprensione i cristiani non possono pregiudicare con
un irrigidimento d’altri tempi, essi sono interpellati dal Vangelo di sempre, che non sopporta
relatività di sorta, ma si connota proprio per la pretesa di Gesù di Nazareth di essere la
rivelazione piena e definitiva di Dio nella storia, perché è il Figlio unigenito del Padre. Non si
tratta per essi di fare un passo indietro su una posizione che hanno preso da secoli, perché
non dispongono della verità, ma ne sono servi. Come continuare a inginocchiarsi dinanzi
all’Eucaristia, se questa non è il sacramento del Figlio di Dio? La sfida è superabile nella
vicenda del mistero adorato, perché in essa è già superata. Il mistero pasquale contiene,
esprime e mantiene attualmente questa tensione della storia umana. Il Crocifisso risorto è
giudice della storia perché ha accolto e consumato nella sua morte oblativa la creazione
disgregata e condannata. I cristiani, a loro volta, non hanno altra via di salvezza che quella di
guardare a Lui, sapendo che questo sguardo li assimila e li attrae nella stessa scia: verso
l’esaltazione solo passando per l’umiliazione e la morte.
ABC
N. 33 - Dicembre 2002
123
SUL BUON USO DEGLI SCRUPOLI
1. Voi dite che, dopo che vi siete disposta ad un tenore di vita più devoto di prima, vi è arrivato
un formicaio di scrupoli che vi rodono e vi divorano e che vi sembrano elefanti di peccato,
anche se sono mosche d’imperfezione, secondo il giudizio del vostro confessore … Quando
in una terra nuovamente dissodata crescono molti cardi e rovi, è un buon segno: è una
testimonianza evidente che è grassa e, di conseguenza, che in futuro sarà fertile, quando
sarà ben coltivata e seminata. Quando all’inizio della sua vita devota l’anima è attaccata dagli
scrupoli è buon segno, perché è una testimonianza che la grazia ha impresso in lei una
grande avversione per il peccato, poiché solo la sua ombra (così bisogna chiamare lo
scrupolo) la spaventa.
2. Ma i vostri scrupoli vi fanno temere che non vi asteniate dal male e che facciate quel po’ di
bene che proviene da voi, più per vostro interesse che per interesse di Dio. Mia cara Sorella,
se voi avete paura di ciò, ecco una buona paura!… Se avete paura di preferire il vostro
interesse a quello di Dio, voi non lo preferite per nulla… Colui che teme Dio, farà il bene, e lo
farà bene, se egli lo teme con amore; ed egli teme con amore, se teme di non temerlo con
amore, perché solo l’amore può dare un tale timore. Fortunato colui che teme Dio in tal modo:
… è segno che egli non confida in sé, ma che getta tutti i suoi pensieri e la sua fiducia in Dio,
e che infine egli abbonderà di delizie, poiché è appoggiato sul suo Diletto.
3. Voi direte che i rimedi che vi propongo ricreano il vostro spirito, più che togliere le spine.
Così va bene! Sono dunque queste benedette spine che ci fiaccano, cara Sorella, cioè il mal
di pena, più che quello della colpa. Orbene per parte mia, io pretendo apportare rimedi solo a
questo, non all’altro, poiché è una cara partecipazione alle spine di Gesù Cristo in croce, da
cui viene ogni nostra gloria. Basta che Dio non sia offeso in queste e da questi scrupoli, non
ha importanza se vi danno inquietudini e interrompono un po’ il vostro riposo: ciò vi renderà
più vigilante su voi stessa e meno soggetta a addormentarvi in una sicurezza dannosa.
4. … Questi scrupoli, durante l’orazione, vi danno fastidio talmente che voi avete molte
distrazioni e divagazioni di spirito, che temete, fortemente, siano volontarie. Certamente, se lo
temete fortemente, è ancora più certo, che esse non sono volontarie… Chi teme di avere
cattiva volontà, certamente l’ha buona. Io so bene che queste distrazioni sono dolorose per
un’anima che desidera pacificamente unirsi a Dio nell’orazione; ma a quella che desidera
unirsi fortemente, potentemente, malgrado tutti questi impedimenti, non trovo che possano
apportare grande turbamento. Dio è Signore delle armi e delle battaglie, così come Dio è
principe della pace. Egli ama i Sulammiti pacifici, ma ama anche i Sulammiti guerrieri e le
valorose amazzoni.
Jean-Pierre Camus (1584-1652), Lo spirito del beato Francesco di Sales, XI,
30-31
L’AUTORE Discendente da una dinastia di magistrati normanni e borgognoni, dopo i suoi
studi parigini, J. P. Camus si orienta verso il sacerdozio. Segnalato da Enrico IV, è
consacrato vescovo di Belley a 24 anni da san Francesco di Sales, al quale egli dedicherà
sempre un’ammirazione senza limiti. Personaggio fuori della norma, di buon grado
paradossale, perfino brutale, con un’incredibile facilità di penna e di parola (è l’autore di più
di 200 opere, di cui 40 romanzi!), la sua dottrina e la sua azione pastorale multiforme
contribuiscono ad impregnare dello spirito del Sales i superstiti del giansenismo nella
Francia del XVII secolo.
IL TESTO Assieme alle distrazioni gli scrupoli sono le difficoltà meno gravi e
contemporaneamente le più ingombranti della vita spirituale. Coltivando l’arte tutta salesiana
di trasformare gli ostacoli in trampolino, Camus stana il nostro amor proprio, sotto tutte le
proteste d’indegnità, rimovendo ogni scusa di non avanzare speditamente e gioiosamente
nell’unione a Dio.
§ 1. In effetti sono rare le vocazioni contemplative un po’ forti che non conoscano una fase di
scrupoli: anche ingiustificati, essi testimoniano una presa di coscienza positiva della nostra
indegnità davanti a Dio. Si prevede il rimedio: l’amore non è affare di dignità, ma… d’amore!
“Vita devota” è da intendere nel senso di Francesco di Sales: non tanto vita pia, quanto vita
totalmente coerente con il suo battesimo.
§ 2. Avere paura di essere interessato è, naturalmente, essere disinteressato. “Si, ma se
questo disinteresse fosse anch’esso interessato?” obietterà lo scrupoloso. Ebbene,
disinteressatevi del vostro disinteresse, risponde Camus, e così all’infinito. In fondo tutto ciò
deriva dal fatto di non aver compreso che l’amore di Dio non soltanto è generoso, ma
realmente gratuito.
§ 3. Qui si rivela il nostro segreto amor proprio: non è tanto l’offesa fatta a Dio (“il mal di
colpa”) quanto lo sconforto dello scrupolo (“il mal di pena”) che ci tormenta! Ebbene piuttosto
che farne un nuovo scrupolo, uniamoci in questa prova a Gesù crocifisso e il nostro timore si
trasformerà in un amore che gli scrupoli non faranno che rinforzare.
§ 4. Lo scopo dell’orazione non è di essere riuscita, ma d’essere unione a Gesù. Voler essere
uniti a lui è già essere uniti a lui, e tanto più puramente quanto non ne traiamo alcuna
soddisfazione sensibile. Come la Sulammita del Cantico dei Cantici, saremo ora in pace ora
in guerra per quanto riguarda il nostro stato d’animo, ma per quanto riguarda la nostra
orazione non vi è altro motivo che offrirci alla volontà di Dio, possiamo essere certi che essa
è eccellente.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
U come… UMILTÀ
“Poiché il Signore Gesù si è umiliato fino alla morte, Dio l’ha elevato al di sopra di tutte le
cose” (Fil 2, 8-9). Allora “chi si farà umile come un bambino sarà il più grande nel regno dei
cieli” (Mt 18, 4). E perciò
Io voglio e scelgo la povertà con Cristo piuttosto che la ricchezza, le offese con Cristo che
tante ne ha ricevute piuttosto che gli onori, essere preso per inutile e folle a causa di Cristo,
che per primo è stato stimato tale, piuttosto che saggio o prudente in questo mondo.
Sant’Ignazio di Loyola (1491-1556), Esercizi, § 167
In Cristo, in effetti
Coloro che si stimano saggi sono tanto più lontani dalla luce divina, quanto più sono meno
umili su se stessi; se dunque desideriamo essere veramente saggi e contemplare la
saggezza stessa, riconosciamo umilmente che siamo ignoranti, abbandoniamo la saggezza
pericolosa e apprendiamo la lodevole ignoranza che il mondo chiama follia.
San Gregorio Magno († 604), Moralia in Job, 27, 27
Ciò perché il mondo non può comprendere l’umiltà; o piuttosto,
Tutti si fanno un merito di parlare continuamente dell’umiltà e quasi nessuno ha questa virtù.
Francesco Libermann (1802-1852), Lettera del 30 settembre 1837
Il fatto è che
La vera umiltà non fa finta d’essere e non dice per niente parole d’umiltà, perché essa
desidera non soltanto nascondere le altre virtù, ma ancora e principalmente si augura di
nascondere se stessa.
San Francesco di Sales (1567-1622), Introduzione alla Vita devota, III, cap. V
Così che
I più grandi santi agli occhi di Dio sono i più piccoli ai propri occhi; e più la loro vocazione è
sublime, più essi sono umili nel loro cuore.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Gesù Cristo, II, 10
Ciò fino al puro e semplice oblio di se stessi:
Quando voi sarete ridotti a niente, in ciò è la suprema umiltà, l’unione spirituale tra l’anima e
Dio sarà fatta, e questo è il più grande e alto stato che si può raggiungere in questa vita.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Salita del Carmelo, II, 7
In effetti,
L’anima che non vede nulla in sé, non trova nulla in sé che la fermi, e in questo modo ella è
sempre puntata verso Dio, come un ago attratto dalla calamita.
Giovanni Battista Saint-Jure (1588-1657), Vita di M. de Renty, II, 3
In ciò ella ha ritrovato la verità da cui l’aveva sviata l’orgoglio del peccato originale:
Sai tu chi sei tu e chi sono io? Tu sei quella che non è, io sono Colui che sono.
Raimondo di Capua (1330-1399), Vita di Caterina da Siena, X
Notate bene che noi non sapremo mai se siamo umili, perché
Se pensi di essere divenuto umile, non lo sarai!
Henry Chapman (1865-1933), Lettera del 4 settembre 1931
L’umiltà è il fondamento della vita spirituale poiché giustamente non è mai soddisfatta di se
stessa:
Quando sarà posto il fondamento dell’umiltà, colui che costruisce potrà senza timore elevare
il resto dell’edificio; ma se viene a mancare, anche se l’edificio arrivasse fino al cielo, occorre
necessariamente che si rovesci e che cada in rovina.
San Giovanni Crisostomo (verso il 350), Su san Matteo, XV, 2
Ciò spiega che,
Il grado di capacità e di disposizione dell’anima riguardo alle cose di Dio risponde al grado
d’umiltà.
Pietro di Bérulle (1575-1629), Opuscolo 196, 9
Perché l’umiltà fa di noi il pubblicano del Vangelo:
Sentirsi profondamente diminuito e annichilito, incapace d’alcun bene, interamente dipendente
dalla misericordia immeritata e infinita di Dio, è la migliore e unica preparazione alla
preghiera.
Henry Chapman, La preghiera contemplativa
A partire da lì,
Senza rischio d’orgoglio fa tutti i miracoli che Cristo ha operato colui che segue il dolce
Signore non nella sublimità dei suoi prodigi, ma nella virtù della pazienza e dell’umiltà.
Giovanni Cassiano (415-429), Conferenze, XV, VII
Su questa via, si comprende che
Tutte le visioni e rivelazioni, tutti i sentimenti celesti non valgono quanto il più piccolo atto
d’umiltà.
San Giovanni della Croce, Salita del Carmelo, III, 9
Così occorre comprendere le prove e le aridità dell’orazione:
Dio umilia i contemplativi facendoli sentire poveri, affinché conoscano da chi veniva la
ricchezza di devozione che trovavano nella consolazione.
Quiroga (1562-1628), Apologia Mistica, XXV
E quando la nostra impotenza a pregare è tale che ci si domanda se si prega ancora:
Ancora una volta ricordati che una preghiera distratta rende generalmente più umile, di una
preghiera raccolta. Di conseguenza, essa dà più gloria a Dio e meno a noi, e scopriremo a
cose fatte che ne abbiamo ricevuto maggior bene.
Henry Chapman, Lettera del 23 febbraio 1929
Ciò non vuol dire che bisogna respingere i favori di Dio per falsa umiltà!
Guardatevi bene, figlie mie, da coloro che fanno in questo modo, pensando che sia umiltà!
Perché l’umiltà non consiste nel respingere il favore che il re vi farebbe, ma al contrario di
accettarlo e di apprezzarne la liberalità e di rallegrarvene!… Curiosa umiltà, avere presso di
sé l’imperatore del cielo e della terra e non volere restare con lui!
Santa Teresa d’Avila (1515-1582), Cammino della Perfezione, 28
Secondo l’esempio della vera umiltà di Maria, che fu di accogliere le meraviglie di Dio:
La sua immensa umiltà non ha diminuito la sua grandezza né la sua immensa grandezza ha
diminuito la sua umiltà: così umile nella stima di sé stessa, ella fu grande nella fede alle
promesse dell’angelo.
San Bernardo (1090-1153), Sermone per l’ottava dell’Assunzione, 13
ATTESA E AFFETTI
“L’amore rende simili l’amante e l’amato”: questo celebre assioma è stato costantemente
ripetuto, come un ritornello, nella letteratura mistica cristiana, ma già lo ritroviamo nel grande
filosofo Plotino. Esso è servito a spiegare la rigorosa disciplina degli affetti che viene
indicata nelle Scritture: “Non si possono servire due padroni”. La predicazione profetica
dell’antico Israele senza alcun’esitazione annunciava al popolo le radicali esigenze
dell’amore del Signore, tanto che ogni altro amore era denunciato come idolatrico. Su questa
scia l’ascesi cristiana, tenendo presente l’inclinazione originaria del cuore umano, ha
modulato le proprie pratiche di distacco e di mortificazione di ogni affezione ad altro che non
sia Dio, sviluppando una vasta dottrina del discernimento degli spiriti, come poi verrà
chiamata, cioè dei moti dell’anima. Quando, con termini dell’antica ascetica, si parla oggi di
distacco e di attaccamento alle creature, di mortificazione e di abnegazione, in un clima di
giusta rivalutazione della corporeità e della creaturalità, si rischia di cadere in alcuni
malintesi. Primariamente si rischia il rifiuto di simili pratiche, perché vi si legge un disprezzo
per le creature; oppure pensando che si esiga la privazione di cibi, vestiti e quant’altro la
nostra società tecnologica ci offre, si ritiene che una seria ascesi cristiana sia praticabile da
pochi eremiti ed eroi dello spirito. L’equivoco si chiarisce se l’asse viene rimesso nel suo
centro, che sono gli affetti dell’uomo, quei canali dei gusti attraverso i quali egli nutre gli
appetiti (in ultimo, l’anima) e in base ai quali imposta il proprio progetto di vita. Non che vada
distrutta l’affettività umana! Bensì va ricondotta ad una dinamica diversa, libera dalla
dipendenza dalle creature. Per meglio dire, attraverso la forza dello Spirito di Cristo
assecondata dalle volontarie pratiche ascetiche, l’affettività umana è chiamata a trasformarsi
in amore divino, nella vita trinitaria medesima. Il tempo dell’attesa, dunque, caratteristica del
ciclo natalizio, invita a considerare la dinamica degli affetti, sapendo che orientandoli alla
semplice creaturalità, per quanto sana, si rimane sul piano terra, per così dire, mortificando e
comprimendo lo slancio naturale del desiderio umano: unirsi a Dio.
ANNO
2003
ABC
N. 34 - Gennaio 2003
123
CREDERE PER COMPRENDERE
1. E adesso, piccolo uomo, sottraiti per un momento alle tue occupazioni, ritirati per un po’
dall’agitazione dei tuoi pensieri, rigetta i pesi delle tue preoccupazioni, rinvia a dopo i tuoi
penosi doveri: occupati un po’ di Dio, riposati un po’ in lui; entra nella stanza del tuo spirito,
fai uscire tutto ciò che non è Dio, o che non ti giova alla sua ricerca e, una volta chiusa la
porta, interrogalo.
2. Adesso, cuore mio, rivolgiti a Dio: «Io mi volgo verso il tuo volto; il tuo volto io cerco, o
Signore!» (Sal. 26) E tu, Signore mio Dio, istruisci il mio cuore, digli dove e come cercarti,
dove e come trovarti. Signore se tu non sei qui, dove ti cercherei distante? Ma se tu sei
dappertutto, perché non io ti vedo presente? Certamente, tu abiti una luce inaccessibile e
dov’è questa luce inaccessibile? Come potrei raggiungerla? Chi mi ci condurrà e
m’introdurrà perché ti veda in lei?… Che può fare il tuo servo, tormentato dall’amore e
rigettato lontano dal tuo volto? Io sono fatto per vederti, e non ho ancora fatto ciò per cui sono
fatto!… Insegnami a cercarti e mostrati a colui che ti cerca, perché io posso cercarti solo se
tu me lo insegni, e trovarti solo se ti mostri!
3. Che io ti cerchi desiderandoti, che ti desideri cercandoti, che ti trovi amandoti, che ti ami
trovandoti. Io non tento, Signore, di penetrare la tua profondità, perché la mia intelligenza non
è nulla al confronto, ma desidero entrare un poco nella tua verità, alla quale il mio cuore dà la
sua fede e il suo amore. In effetti, io non cerco di comprendere per credere, ma credo per
comprendere, perché io credo anche che non comprenderei senza dapprima credere. E
dunque, Signore, tu che dai l’intelligenza alla fede, dammi, tanto quanto basta, di
comprendere che tu sei così come crediamo, e che tu sei ciò che noi crediamo.
4. Sicuramente noi crediamo che tu sei tale, che nulla può essere pensato di più grande… Tu
sei dunque talmente, veramente, Signore mio Dio, che non si può pensare che tu possa non
essere… Certamente, tutto ciò che è fuori di te, e di te solo, potrebbe essere pensato senza
esistere: dunque, fra tutto ciò che è, tu solo, devi essere veramente, e dunque, fra tutto ciò
che è, essere pienamente, poiché il resto non è così veramente, e dunque deve essere
necessariamente in minor misura. Perché dunque “lo stolto pensa: non c’è Dio?” (Sal.13), se
è così evidente per uno spirito razionale che tu sei al punto più alto? Perché, se non perché
egli è sciocco e stolto?
Sant’Anselmo (1033-1109), Proslogion, cap. I; III
L’AUTORE Nato ad Aosta, priore e poi abate dell’abbazia del Bec in Normandia, arcivescovo
di Canterbury nel 1093, da cui conobbe l’esilio per la sua difesa dei diritti della Chiesa. Nella
grande tradizione di sant’Agostino, suo modello, egli associa una vasta cultura, specialmente
filosofica, ad una grande sensibilità spirituale. Con questo doppio titolo egli è il maestro della
prima scolastica, dei monasteri, un secolo prima del trasferimento del pensiero cristiano
verso le università urbane.
IL TESTO Il Proslogion (si potrebbe tradurre: il Prologo, nel senso di prologo a tutto il
pensiero) si svolge in una cinquantina di pagine come una fervente meditazione sull’idea
stessa di Dio. Fino a Cartesio compreso, la vita intellettuale occidentale vi farà riferimento
come alla carta di tutto il pensiero cristiano, scintillio della luce di Dio nella nostra ragione. È
sovente letto come un testo filosofico, e lo è certamente, ma occorre intenderlo in senso
etimologico di sapienza, della Sapienza di Dio che lo spirituale riceve nella fede quando “egli
si occupa di Dio e lo interroga”, anche quando la sua ricerca mette in gioco soltanto le
risorse della sola ragione.
§1. La verità non può essere ricevuta se non nel raccoglimento: Dio-Amore si rivela DioVerità nell’incontro nella parte più profonda di noi, là dove si opera la nostra unione a lui, nella
“stanza del tuo spirito” (mente nell’originale), quella che cinque secoli dopo sarà, per santa
Teresa, la stanza nuziale o “settima dimora”.
§2. La citazione del salmo mostra che il pensatore cristiano si comprende nella continuità
della rivelazione biblica: anche quando si tratta di filosofare, è Dio che lo interroga e lo
ascolta. Allora si forma nella nostra intelligenza “come un’impronta della scienza divina”, dirà
san Tommaso d’Aquino. L’inaccessibilità di Dio non è dovuta al suo allontanamento, ma allo
straripamento continuo del suo amore inesauribile sulla nostra conoscenza limitata (“tu sei
dappertutto!”), così come al nostro peccato che ha sviato il nostro sguardo da Lui (“rigettato
lontano da tuo volto”). Occorre, dunque, che egli si dica a noi perché possiamo conoscerlo
(“io non posso cercarti, se tu non me lo insegni”), occorre che egli sia la Via, come la Verità
e la Vita.
§3. Il movimento della conoscenza sposa quello dell’Amore che rinasce dal suo
compiacimento. Non si afferra la verità: si entra in lei e più si conosce, più si desidera
approfondirla. L’amore precede sempre la conoscenza, il pensiero si sviluppa come
un’esplorazione della fede, cioè come una presa di coscienza della verità dell’amore.
§4. Nel cuore del famoso “argomento ontologico” (= Dio conosciuto dall’idea di Dio), la
presenza di Dio si rivela prologo all’idea che noi ci facciamo su di lui. Non si tratta di una
prova della sua esistenza, ma della constatazione che l’assoluto di Dio è la condizione stessa
del pensiero dell’uomo, perché la realtà di Dio è la condizione stessa della realtà delle cose.
Questo radicamento contemplativo qualifica un pensiero come cristiano: è in Dio che
pretende afferrare la realtà ultima di ciò che è.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
I come…. IMMAGINAZIONE
Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo, né di ciò che è quaggiù sulla
terra…” (Deut 5,8) Pertanto, facendosi uomo, Dio si è reso immaginabile. Si, Signore,
Fra le cause principali della tua Incarnazione, c’è la necessità dei tuoi figli, che nella Chiesa
si nutrono ancora solo di latte e non di un alimento solido, poiché sono incapaci di pensare a
te in una maniera spirituale e adatta a ciò che tu sei, di possederti sotto una forma che non sia
loro sconosciuta e di proporsi nell’offerta delle loro preghiere senza nuocere alla loro fede,
poiché ancora non arrivano a fissare la gloria della tua divina Maestà.
Guglielmo di Saint-Thierry (1085-1148), Orazioni meditative, Meditazione X
Guardare Gesù-Immagine di Dio, ecco dunque il primo passo dell’orazione, e pertanto,
Perché il pensiero sia occupato come necessita, è importante che la presenza divina sia
rappresentata e stabilita sull’immaginazione.
Santa Teresa d’Avila (1499-1569), Vita, 28,9
In un primo tempo, quello della meditazione, le buone immagini sono dunque lì per respingere
le cattive:
Per mezzo dell’immaginazione noi chiudiamo il nostro spirito nel mistero che vogliamo
meditare affinché non vada correndo di qua o di là, così come si chiude un uccello in una
gabbia… Alcuni ti diranno, tuttavia, che è meglio usare il semplice pensiero della fede e una
semplice operazione tutta mentale e spirituale nella rappresentazione di questi misteri, ma
ciò è troppo sottile all’inizio, e fino a che Dio non ti eleverà più in alto, ti consiglio di rimanere
nella bassa valle che ti mostro.
San Francesco di Sales (1567-1622), Introduzione alla Vita Devota, 1, IV
Ma giustamente arriverà il momento in cui Dio “ti eleverà più in alto” e allora la meditazione
diverrà impossibile:
Nel momento migliore, allorché l’anima trova il massimo sapore e gusto in questi esercizi
spirituali… Dio oscura tutta questa luce e lascia [quelli che cominciano] in una tale oscurità
che essi non sanno dove andare con l’immaginazione e i discorsi, non potendo più avanzare,
con la meditazione come prima, poiché il loro senso interiore [l’immaginazione] si trova
annegato in queste notti.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Notte Oscura, 1, 8
È il primo segno di un’orazione ormai contemplativa, poiché il secondo è un vero disinteresse
per ogni immagine sia di Dio che d’altro:
Il secondo [segno] è che lo spirituale vede che non ha nessuna inclinazione a porre
l’immaginazione né il senso in altre cose particolari, esteriori o interiori.
San Giovanni della Croce, Salita del Carmelo, II, 13
In questa situazione,
A cosa si attacca dunque lo spirito se rigetta così ogni immagine? Non si attacca a nulla e
dimora nudo e sciolto; perché se si appoggiasse a qualcosa, occorrerebbe necessariamente
che ciò fosse qualche immagine.
Giovanni Taulero (1300-1361), Istituzioni, 35
Ciò non significa che nella contemplazione la nostra testa sia vuota!
Io non dico che l’immaginazione non vada e venga (perché anche in un gran raccoglimento
essa è vagabonda), ma che l’anima non gusta di metterla deliberatamente in qualsiasi cosa.
San Giovanni della Croce, Salita del Carmelo, II, 13
Così sbarazzato da se stesso, lo spirituale è ormai libero per Dio:
Dimenticare ogni creatura, essere dimenticato da tutte le creature ed esserne contento, infine
dimenticare se stesso per vedere soltanto Dio ed essere visto solo da Lui: ecco ciò che forma
l’uomo di Dio.
Francesco Libermann (1802-1852), Lettera del 1839, II, 339
E lì,
Elevata sopra il tempo e lo spazio, la sua anima riveste come una proprietà d’eternità. In
effetti, perdendo le immagini, la distinzione e la considerazione delle cose, ecco che
sperimenta che Dio è da lontano, oltre tutte le immagini corporali o spirituali e anche divine;
oltre tutto quello che può essere appreso con l’intelligenza… Condotta senza conoscenza, al
di là della conoscenza, riposa in Dio solo, amabile, puro, semplice e ignorato.
Luigi di Blois (1506-1565), L’Istituzione Spirituale, cap. XII, 2
Così, stabilita sopra se stessa,
L’anima condotta dalla sola fede… trova Dio nel sacro santuario, e qui si fa la pura orazione,
poiché c’è solo Dio e l’anima, senza alcuna creatura che si possa mischiare in questo
colloquio; Dio che opera tutto ciò che passa da se stesso senza servirsi d’immagini, né di
discorsi, né di gusti sensibili.
Giovanni de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, Libro III,
cap. 9
Se invece ci si volesse attaccare alle immagini, ci si esporrebbe a tutti i pericoli, dapprima
perché lasciata a se stessa,
L’immaginazione è quella maestra d’errore e di falsità, tanto più furba perché non lo è
sempre, poiché essa sarebbe regola infallibile di verità, se fosse regola infallibile di
menzogna!
Biagio Pascal (1623-1662), Pensieri, 44
In seguito, perché l’immaginazione è il domino del tentatore:
Il senso dell’immaginazione e della fantasia è quello in cui il demonio ordinariamente
s’indirizza con le sue astuzie, sia naturali sia soprannaturali perché è la porta e l’entrata
dell’anima.
San Giovanni della Croce, Salita del Carmelo, II, 16
Allora, la condotta da tenere è chiara: poiché l’immagine vale solo nella misura in cui noi la
superiamo,
Se l’uomo deve divenire spirituale, è necessario che rinunci ad ogni affezione carnale e che
ponga il suo piacere e la sua affezione in Dio solo, e possederlo così: perciò ogni presenza
d’immagine e ogni affezione disordinata alle creature sarà respinta… e l’uomo diviene
interiormente senza immagini, perché Dio è uno spirito che nessuno può propriamente
immaginare.
Beato Giovanni Ruusbroec (1293-1381), La Pietra Brillante, I, 2
L’AMORE DEI NEMICI
«Ma io vi dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, pregate per quelli
che vi ingiuriano» (Mt 5,44). Questa celeberrima espressione di Gesù viene spiegata nelle
Centurie sulla carità in modo tanto succinto quanto efficace da Massimo il Confessore (580662), profondo conoscitore delle Scritture e dei padri vissuto nell’Oriente cristiano: «Perché
ha dato questi precetti? Per liberarti dall’odio, dall’ira, dal rancore e per farti degno del
massimo bene, e cioè del perfetto amore, che nessuno può avere se non ama ugualmente tutti
gli uomini a imitazione di Dio» (Centuria I,61). Il primo grande scopo di questo precetto è
dunque quello della libertà, che, da autentico contemplativo, Massimo ritiene più che un fine
in se stesso, una condizione della carità. Non è possibile vivere nella carità divina se si nutre
passione alcuna per le cose create, preferendo qualcuna di esse alla conoscenza di Dio.
Piuttosto il desiderio, che sgorga da questo amore, fa sì che la mente sia costantemente
intenta a Dio. Ancor peggio se la persona è legata dalle passioni dell’ira e del rancore, che
nella visione di Massimo risiedono nella parte irascibile dell’anima, e sono più difficili da
combattere di quelle che albergano nella parte concupiscibile. La libertà da ogni passione
invece, che egli chiama perciò impassibilità, secondo la tradizione orientale, consente alla
mente di fissarsi via via nella contemplazione delle cose visibili, in quelle invisibili e nella
stessa Santissima Trinità. Qui essa trova appagamento perché entra nell’immensità, nella
bontà e nella sapienza divine, in quella potenza cioè con la quale Egli crea, provvede e
giudica gli esseri. Per tal motivo l’uomo, pur minuscola creatura, è reso degno del massimo
bene, il perfetto amore, quello medesimo di Dio, tanto da esserne riempito ed imitarlo nella
sua universale carità. E perché Cristo ci ha chiesto di non resistere al malvagio, ma di
porgere persino l’altra guancia (cf. Mt 5,39-41)? «Per istruire l’altro con la tua pazienza e –
da Padre buono – condurre entrambi sotto il giogo dell’amore» (Centuria I,62).
ABC
N. 35 - Febbraio 2003
123
QUANDO AMORE TRIONFA…
1. [Giunta alla perfezione] la sposa sente che l’amore ha trionfato di tutte le sue intime
resistenze, che ha corretto i suoi difetti e che è divenuto il suo maestro. Egli si è impadronito
di lei, completamente e senza più alcuna contestazione da parte sua, così che ella possiede il
suo cuore in sicurezza, e può gioire e riposare operando tutto in libertà: ora, da quando
l’amore è in gioco ogni cosa le sembra leggera, facile da fare o da lasciare, da subire o da
sopportare e le è dolce impiegare se stessa all’amore. Ella si sente allora un’energia divina,
una purezza cristallina, un’unzione tutta spirituale, una libertà ardente, una sapienza lucida e
una dolce uguaglianza verso Dio.
2. Eccola, adesso, simile ad una donna di casa che ha ben condotto la sua casa, che l’ha
saggiamente ordinata e graziosamente arredata, che la protegge con attenzione e la guarda
con prudenza, operando con discernimento; ella apre e chiude, fa o non fa le cose secondo
quel che le è gradito. E come il pesce naviga dove il fiume è più largo e riposa nelle sue
profondità, come l’uccello vola arditamente nello spazio e si slancia verso grandi altezze,
così quest’anima sente il suo spirito muoversi liberamente nell’ampiezza, nella profondità,
nella distesa e nell’altezza dell’amore.
3. È il potere sovrano dell’amore che ha attirato e condotto quest’anima; egli l’ha guardata e
protetta, e le ha donato la prudenza, la saggezza, la dolcezza e la forza dell’amore, anche se
le ha nascosto questa sovranità fino al momento in cui ella si è elevata più in alto ed è stata
completamente liberata da se stessa, là dove l’amore si è messo a regnare ancora più
sovranamente in lei.
4. Amore, allora, la rende così ardita e libera, che ella non teme nessuno; né uomo né
demonio, né angelo né santo, né Dio stesso, in tutto ciò che fa o non fa, che agisca o si
riposi. Ella sente bene, che l’amore in lei vigila e si muove sia nel riposo del corpo che nelle
numerose azioni: ella vede bene e sente che l’amore non è affare di fatica o di pena in coloro
nei quali regna.
5. Tutti quelli che vogliono venire all’amore, però, devono cercarlo con timore, seguirlo con
confidenza, esercitarlo con ardore, senza che possano risparmiarsi grandi travagli, molte
pene, fastidi che dovranno subire e ingiurie che occorrerà sopportare; e devono trattare come
importanti tutte le piccole cose, prima di arrivare al punto che l’amore regni in loro, vi operi la
sua opera sovrana, renda facile tutto, alleggerisca i travagli, addolcisca tutte le pene, e saldi
ogni debito. Tale è la libertà della coscienza, l’unzione del cuore, la bontà del giudizio, la
nobiltà dell’anima, l’elevazione dello spirito e l’inizio della vita eterna. Questa è già una vita
angelica, di cui la vita eterna sarà il seguito. Che Dio nella sua bontà si degni donarla a tutti
noi!
Beatrice di Nazareth (1200?-1268), Le sette maniere d’amare, 6ª maniera
L’AUTORE: Nata a Tirlemont (tra Bruxelles e Liegi), Beatrice conobbe fin dall’infanzia
l’ambiente delle beghine, ricco sia per l’aspetto letterario che spirituale, da cui trae la sua
origine e i suoi temi, la mistica di espressione germanica. Ella fu legata particolarmente a
Ida di Nivelle, discepola della grande Hadewijch d’Anversa. Cistercense fin dalla sua
adolescenza nei diversi monasteri fondati dal padre, ella muore badessa di Nazareth (presso
Liere).
IL TESTO: Le sette maniere d’amare è quel che resta di un’opera, probabilmente, molto
ricca. Questo testo di una trentina di pagine, può essere considerato come il primo trattato
occidentale in lingua volgare esplicitamente consacrato alla descrizione della vita mistica.
Tutta la vita spirituale vi è presentata come il gioco d’Amore e dell’anima-sposa, sotto una
forma quasi teatrale, lungo il quale l’anima cresce e poi fiorisce a misura del suo abbandono
alla grazia.
§1. Azione e contemplazione si oppongono perché noi crediamo, dal peccato originale in poi,
che l’azione viene da noi. Ricondotti alla sorgente dell’azione attraverso la contemplazione, la
lasceremo svilupparsi in noi e con noi, come la calma espansione dell’Amore che viene ad
abitare la nostra volontà (“un’energia divina”) e la nostra intelligenza (“una sapienza lucida”)
senza altra concorrenza tra Dio e noi.
§2 Non c’è libertà che nella verità, salvo a volerla nel vuoto: perché essa è in presa diretta
sulla Parola di Dio, l’anima che ama, corrisponde perfettamente a ciò che è, perciò a quel
che Dio fa.
§3 Fintantoché l’anima non è liberata da se stessa, fintantoché ella deve qualcosa al peccato,
non si rende conto che l’amore solo è motore della sua vita: le sue illusioni d’azione fanno sì
che ella creda che il suo progresso dipende da lei. Necessita certamente, il suo consenso,
ma è l’amore solo, il motore.
§4. Si ha paura soltanto di ciò che non esiste. Ristabilita nella verità delle cose, l’anima non le
teme più: ella vede ormai ogni cosa nell’amore che gliele dà e al quale ella le dà.
§5. Nel peccato originale, l’anima ha contratto l’abitudine mortale di voler fare la sua vita e la
sua salvezza da se stessa. Per questo, ella porrà molto tempo a lasciarsi fare da Dio, e
nell’attesa, volere quel che Dio vuole ci farà sentire come penoso quello che dovrebbe essere
per noi più facile: l’abbandono alla volontà del Padre.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
I come….. IMPASSIBILITÀ
L’impassibilità (o apathéia degli spirituali greci) è la libertà interiore di coloro che non sono
più sottomessi alle loro passioni
Poiché essi si sono espropriati di se stessi, sono per quanto possibile, sopra di tutto, così
che la loro gioia dimora intera e costante in ogni cosa; … la volontà di Dio sembra a loro così
dilettevole e gradevole, che tutto ciò che Dio invia loro è una gioia, ed essi non vogliono né
desiderano nient’altro.
Beato Enrico Suso (1295?-1366), Vita, XXXII
Lo spirituale avrebbe dunque perduto ogni sensibilità a forza di lottare con se stesso?
Certamente no, perché
L’impassibilità non consiste nel non sentire le passioni, ma nel non accoglierle.
Isacco il Siro (VIII S), Sermone 81
Così che
Quest’insensibilità è ben diversa da quella della morte: non una privazione di vita, di
movimento, ma un’elevazione sopra queste cose … Dio in questo stato è l’anima della nostra
anima. In tal modo egli ne diviene come il principio naturale, senza che l’anima lo senta e lo
scorga: l’anima sente bene che vive, agisce, cammina, e fa tutte le funzioni della vita, ma
senza sentire la sua anima.
Jeanne Guyon (1648-1717), I Torrenti, 1,9
Questa pace è perfettamente compatibile con un temperamento timoroso o agitato:
Si, è proprio così! In effetti io non sono più accessibile, come nell’infanzia, ad ogni dolore;
sono come risuscitata, non sono più nel punto in cui mi credono… Oh! Non datevi pena per
me, io sono arrivata a non poter soffrire più, perché ogni sofferenza mi è dolce.
Santa Teresa del Bambino Gesù (1873-1897), Ultimi colloqui, 29 maggio 1897
Perché
Il vero e puro amore ha tanta forza, che si mantiene fissato e immobile in colui che l’ama; egli
non lascia mai la libertà di vedere o intendere altro che il puro amore.
Santa Caterina da Genova (1447-1591), Libro della Vita ammirabile…XXIII
Si tratta di un ritorno al paradiso perduto nel peccato originale:
Questa vita è già beata, simile a quella dello stato d’innocenza, quando tutta l’armonia e la
capacità della parte sensitiva dell’uomo gli serviva per meglio gioire, per aiutare la
conoscenza e l’amore di Dio, nella pace e la concordia con la parte superiore dell’anima.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Cantico Spirituale 31, 9
Questo capovolgimento della morte in vita si opera sulla croce, prima per Gesù:
Nostro Signore … elevato sulla croce tra la terra e il cielo, pare che fosse tenuto dalla mano
di suo Padre solo per l’estrema punta dello spirito e, per modo di dire, per un solo capello
della sua testa, che, toccato dalla dolce mano del Padre eterno, riceveva una sovrana
affluenza di felicità, mentre tutto il resto era sprofondato nella tristezza e nel tormento; per
questo egli grida: Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato?
San Francesco di Sales (1567-1622), Trattato dell’Amor di Dio, IX, 5
Poi, per i suoi discepoli:
L’anima è perfetta quando la sua potenza di passione si è completamente volta verso Dio.
San Massimo il Confessore (580-652), Centurie sulla Carità, III, 98
E perciò
Quando l’uomo che vive sulla croce si abbandona al Signore e gli appartiene interamente,
Dio in qualche modo si abbandona interamente all’uomo e gli appartiene totalmente, l’uomo
possiede così la pienezza e non ha bisogno di niente.
Gerlac Peters (1378-1411), Soliloquio infiammato, cap. XII
Concretamente, non si tratta dunque di distruggere la nostra volontà ma di offrirla:
È possibile che la nostra volontà sia talmente morta in Nostro Signore, che non sappiamo più
quel che vogliamo o che non vogliamo?… Qualche desiderio e qualche volontà ci sono
sempre; ma non sono volontà assolute e desideri formali, perché non appena un’anima
abbandonata alla volontà di Dio, scorge in sé qualche volontà, la fa subito morire nella volontà
di Dio.
San Francesco di Sales, Veri colloqui spirituali, II
Allora,
Portato verso Dio sulle ali dell’amore, lo spirituale sottrae la sua anima all’influenza delle
passioni; egli vive libero sulla rovina di tutte le sue cupidigie.
San clemente d’Alessandria (II S), Stromates, VI, 9
Per vivere ciò,
Io credo che sia meglio per voi e per me farci una solitudine interiore che possiamo portare
dappertutto… Lasciate a Dio la cura della vostra perfezione e di tutto ciò che vi tocca e
prendete per voi solo la cura di gustarlo interiormente e sottomettervi alla sua santa volontà,
senza nessuna riflessione su di voi, senza nessun ritorno sulle creature.
Claude- François Milley (1668-1720), Lettera XII
Così stabilito nella vita divina,
Colui che si è interamente abbandonato e che si è distaccato da tutte le cose, entra così
avanti in Dio, che occorre che colui che vuole toccarlo, tocchi prima Dio… Da ciò deriva che
per quanto sensibile sia il male che lo affligge, non c’è pena da sopportare poiché Dio la
porta per primo e lo permette per suo vantaggio.
Giovanni Taulero (1300-1361), Istituzioni, 18
Al punto che i più vivi tormenti interiori associati alle più spesse tenebre interiori, forniscono
le condizioni ideali di questa felice impassibilità:
Colui che all’esterno sopporta tutto senza indifferenza, ma si trova interiormente
nell’impotenza e l’ignoranza di modo, di luce e di verità, costui è sicuramente il più santo tra i
santi ed è lì l’impassibilità nell’impassibilità.
Giovanni de Saint-Samson (1571-1636), Riassunto della vera Libertà
I TESORI DELLA SPOSA
Cristo ha donato se stesso alla Chiesa, sua Sposa, perché sia dotata di tutti i tesori con i
quali essere segno e strumento nel mondo dell’unione di Dio con gli uomini e degli uomini
tra loro. Tali tesori risplendono distintamente soprattutto nei santi, nei quali vediamo la
singolarità del multiforme aspetto della sapienza divina. Di alcune loro pagine si è detto:
«esse appartengono a un libro di luce; sono state scritte da Dio, per mezzo della sapienza
dello Spirito, in un’anima che ha lasciato trasparire con purezza e responsabilità ecclesiale
quanto ha ricevuto». Coloro che si sono distinti nella sequela del Signore, lasciano una scia
di desiderio di imitarli e di riprodurre quella specifica forma o aspetto distinto della sapienza
divina, che trasuda al contatto con loro. Il carisma di un santo è suo perché è della Chiesa,
perché Cristo l’ha deposto negli scrigni della sua dote. Per tal ragione appartiene a tutti i
fedeli e giace in loro, in attesa di essere colto e portato a piena manifestazione. Se così non
fosse, essi non potrebbero apprezzarlo e non si accenderebbe in essi il desiderio di viverlo.
Piuttosto, allora, che dire che ciascuno ha i suoi doni da condividere con tutti e da vivere nella
comunione, direi che ciascuno scorge dal tesoro comune della Chiesa uno speciale scintillio,
che lo abbaglia, del quale si invaghisce e da lui si riflette su tutti. Ci si lascia attrarre dal
bagliore dell’altro, perché ci appartiene originariamente il tesoro da cui promana. Ogni
fedele, infatti, possiede l’intero della Chiesa, che è Cristo, il quale donandosi a ciascuno non
si divide. In altri termini, i singoli doni, o aspetti dell’unico dono, non sono pensabili come
proprietà esclusiva di qualcuno, ma della Chiesa e, in quanto della Chiesa, di tutti. Vederli in
questo o in quel santo, in questo o quel movimento o famiglia religiosa, ricorda ciò che è
anche mio, nostro. I diversi scintillii nella loro diversità uniscono, perché rimandano alla loro
fonte. Tenere ben chiara questa prospettiva è utile per non falsare espressioni come
“costruire la comunione”: non si tratta di un’opera che si fa da noi (senza diminuzione per
l’impegno di lotta contro il peccato che divide), bensì di una scoperta di qualcosa già donata,
alla quale può aggiungersi solo la gioia del riconoscimento reciproco.
ABC
N. 36 - Marzo 2003
123
EUCARISTIA E VITA SPIRITUALE
1. Noi dobbiamo fare la santa comunione, innanzitutto perché Gesù Cristo sia in noi tutto ciò
che deve esservi, e noi stessi cessiamo di essere ciò che siamo, poiché vogliamo perderci in
lui e privarci di noi stessi […] I doni e le grazie che a Nostro Signore è piaciuto farci, devono
portarci a comunicare, affinché noi non ce ne appropriamo e non ne facciamo l’uso che il
nostro amor proprio vorrebbe farne, ma affinché lui stesso ne prenda assoluto dominio e ne
usi secondo il suo beneplacito.
2. Noi dobbiamo fare la comunione per obbedire al desiderio di Gesù Cristo di riceverci in lui,
nel suo essere e nella sua vita, di distruggere l’essere e la vita che abbiamo adesso, per farci
divenire ciò che egli è, cioè vita, verità, amore e virtù per Dio. Dobbiamo inoltre farla per
obbedienza alla sua volontà di averci come membra, nelle quali egli possa vivere per suo
Padre, e attraverso le quali egli continua la sua vita divina sulla terra […].
3. Dobbiamo obbedienza al desiderio che Gesù Cristo ha di riceverci e di possederci, perché
la comunione non solo ci dà Gesù Cristo, ma in più essa ci dà a Gesù Cristo, poiché egli
stesso dice che colui che lo riceve, dimora in lui. Questo desiderio che egli ha di riceverci è
tanto grande quanto la sua carità, e altrettanto grandi sono i diritti che i suoi meriti e il suo
amore gli danno su noi. È dunque una grande infedeltà mancare ai desideri di Gesù Cristo,
se noi non abbiamo alcun legittimo impedimento alla santa comunione.
4. Nella comunione Nostro Signore si riempie di noi, nei quali sviluppa la sua vita e il suo
proprio essere. Dunque, quando noi non ci comunichiamo, non avendo niente che
c’impedisca legittimamente di farlo, gli facciamo torto. Gli facciamo un torto reale quanto
quello che faremmo all’anima del bambino, al quale toglieremmo il suo nutrimento,
impedendogli così di crescere; perché così gli impediremmo la facoltà di svilupparsi e di
servirsi del corpo in tutto il suo sviluppo.
5. Inoltre, il Figlio di Dio non si contenta di essere offerto a suo Padre in un luogo, ma è suo
desiderio di essergli offerto in molti; e benché il sacrificio che gli fa di se stesso in diversi
luoghi sia sempre uguale, tuttavia con quest’estensione e con questa ripetizione che ne fa, lo
onora incessantemente come conviene a lui. L’anima che lo ha ricevuto con la comunione è
veramente un altare che contiene Gesù Cristo, che l’offre a Dio continuamente, non soltanto
nell’intenzione e nel desiderio come si può fare senza riceverlo nel sacramento, ma
realmente e in verità in se stessa. Bene! È più gradito a Gesù Cristo, e più glorioso per Dio,
essere offerto così in tutte le anime che su tutti gli altari del mondo.
Charles de Condren (1588-1641), ed. Pin., Lettera LXXVI
L’AUTORE Nato vicino a Soisson da un padre protestante convertitosi al cattolicesimo,
Charles de Condren appartiene all’ambiente dei grandi funzionari dello Stato, e ciò gli varrà
un posto centrale nella fioritura spirituale della Francia di Luigi XIII. Di salute cagionevole,
interamente votato alla vita interiore, accetterà, contro voglia, la successione di Berulle a
capo della congregazione dell’Oratorio. La sua potenza intellettuale e la sua santità ne hanno
fatto il vero maestro della Scuola Francese, la cui influenza sarà decisiva nella formazione
del clero, specialmente attraverso Gian-Giacomo Olier, curato di san Sulpizio.
IL TESTO Condren vede tutte le cose con gli occhi di Gesù Cristo e di Gesù Cristo che si
offre eternamente al Padre. La ragion d’essere dell’Incarnazione, del sacerdozio e della vita
cristiana in generale, è la volontà di Gesù di amplificare incessantemente questo sacrificio
iniziato al cuore della Trinità e che si consuma oggi nell’umanità che egli si è associata per
questo. Il pensiero di Condren, qui e altrove, si sviluppa come una dimostrazione cartesiana,
senza concessione ai sentimenti, con tutto il rigore del gran secolo, quello del diritto e della
forza del re, più che della misericordia e della tenerezza. Ma quest’aspetto un po’ freddo è in
realtà la trasparenza di un’anima perfettamente serena nella sua totale unione a Cristo.
§1 “Perderci … privarci” e un po’ più oltre “distruggere”: questa radicalità propria della
Scuola Francese non deve spaventarci. San Francesco di Sales direbbe la stessa cosa
quando parla di dimenticare noi stessi e di abbandonarci a Dio. Ad ogni modo, Condren mira
sempre direttamente all’unione trasformante dell’anima in Cristo: trasferire continuamente in
lui la nostra volontà, affinché noi siamo soltanto quello che egli vuole essere in noi.
§2 La nostra vita sacramentale si misura dal desiderio di Cristo, non dal nostro: essa gli
permette d’invadere la nostra umanità con la sua divinità, condizione dell’espansione continua
della sua eterna offerta al Padre: Gesù vuole “averci per membra, nelle quali egli possa
vivere per suo Padre”.
§§3-4 Affiora qui un tema dominante della Scuola Francese: la vita cristiana è
necessariamente sacerdotale, essa ci “dà a Gesù Cristo” perché in noi si consumi il suo
sacrificio, cioè perché in noi si sposi la totalità del suo amore del Padre.
§5 Riassumiamo tutta la spiritualità di Condren: non basta a Gesù Cristo essere il Figlio
eterno del Padre, occorre che egli lo sia come “il primogenito di molti fratelli” (Rm. 8,29),
affinché il suo amore filiale rinasca continuamente nell’abbassamento della sua Incarnazione.
Questa è la logica della comunione eucaristica: concedere a Cristo di annientarsi in noi
davanti a suo Padre, e nello stesso tempo concedere a noi di annientarci in Lui, affinché il
Padre regni eternamente in noi come in Lui.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
I come…IMPERFEZIONE
All’inizio della mia vita spirituale, […] credevo che mi fosse impossibile capire meglio la
perfezione; ho compreso ben presto che più si avanza in questo cammino, più ci si crede
lontano dal traguardo, così adesso mi rassegno a vedermi sempre imperfetta e vi trovo la mia
gioia.
Santa Teresa del Bambino Gesù (1873-1897), Storia di un’anima, ms A 74r
Bisogna dunque rallegrarsi dell’imperfezione? No, ma della misericordia di Dio, perciò
Occorre che noi cadiamo e che lo vediamo, per conoscere quanto siamo deboli e miseri in
noi stessi e per conoscere il meraviglioso amore di colui che ci ha fatto.
Santa Giuliana di Norwich (verso 1343-1413), Rivelazioni dell’Amore divino,
cap. 61
In effetti,
Non sono le circostanze che rendono l’uomo fragile, ma esse mostrano ciò che egli è.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Gesù Cristo, I, 16
Cosicché
Gli errori che sono uniti alla debolezza umana e dei quali questa vita imperfetta non può
essere esente, ci servono piuttosto per avvicinarci di più a Dio attraverso la via
dell’umiliazione, che per allontanarci.
Gian-Francesco di Reims († 1660), La vera Perfezione, I, Istruzione VI
Le imperfezioni e anche i peccati sono un tale aiuto per l’umiltà che è la condizione della
preghiera, che sembrano quasi più un aiuto che un ostacolo.
Henry Chapman (1865-1933), La Preghiera contemplativa, 7
In fondo non è qualche orgoglio segreto, più che l’amore di Dio che ci fa lamentare della
nostra imperfezione?
Perché ti metti in pena e ti turbi per la difficoltà a vincere i tuoi difetti? È un puro orgoglio […]
Se ti turbi e t’impazientisci, ciò viene dal fatto che te ne vuoi sbarazzare per altre ragioni che
sono cattive: per esempio, per essere più stimabile e più stimato.
Francesco Liberman (1802-1852), Lettera del 5 settembre 1837
Sicuramente, accettare d’ essere imperfetti, non significa tuttavia esserne soddisfatti, perché
Ogni compiacenza verso se stessi, ogni imperfezione interamente volontaria […] rendono la
preghiera impossibile fino a che ciò sia allontanato. Perché la preghiera contemplativa
implica uno stato di desiderio di Dio e di desiderare la sua volontà (che è la stessa cosa)
completamente e interamente.
Henry Chapman, La preghiera contemplativa, 7
A questa regola non c’è alcuna eccezione:
Che importa che un uccello sia legato con un esile filo o con una corda? Per quanto sottile
sia il filo, l’uccello vi sarà legato come alla corda, fintantoché non lo strapperà per volare.
San Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, I, 11
Perciò
Il peccato e anche l’imperfezione devono essere rigettati fin dagl’inizi; perché ciò sarebbe
già allora sentire il richiamo a fare altro che la Volontà di Dio.
Giovanna Schmitz-Rouly (1891-1979), Giornale, I, 84
E anche se spesso noi cadremo, rialziamoci subito:
Dopo le imperfezioni commesse che interrompono la nostra unione a Dio, occorre ritornare
all’unione, piuttosto che occuparsi a rammaricarsi dei propri errori con inquietudine. L’unione
contiene in se l’amore, e l’amore cancella gli errori e riconduce l’anima al suo centro che è
Dio.
Giovanni de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, Libro III,
cap. X
Perché
Quando un’anima si ricorda delle sue imperfezioni e della sua inclinazione al male, Dio si
ricorda di lei, le fa delle grazie e le dà aiuto. Quando ella dimentica le sue miserie e la sua
corruzione, Dio pure la dimentica e volge gli occhi da lei: perché egli non ama vedere la
menzogna, ma la verità.
Idem, Libro I, cap. XV
Così che il vero cristiano passa il suo tempo a cadere e a rialzarsi:
Rialza dunque il tuo cuore, quando cadrà, molto dolcemente, umiliandoti molto davanti a Dio
riconoscendo la tua miseria, senza stupirti della caduta, perché è naturale che l’infermità sia
inferma, la debolezza debole e la miseria povera. Detesta tuttavia con tutte le tue forze l’offesa
fatta a Dio e, con gran coraggio e fiducia nella sua misericordia, rimettiti sul cammino della
virtù che avevi abbandonato.
San Francesco di Sales (1572-1622), Introduzione alla Vita devota, III, 9
Sicuramente questo combattimento sarà lungo, ma
Non t’inquietare, se non sei subito sgombro da tutti i tuoi difetti. Non occorre neanche
lavorare troppo alacremente perché ci lascino, né desiderarlo troppo. Abbandonati
pienamente nelle mani di Dio, per portare i tuoi difetti e le tue miserie fintantoché lui vorrà;
prendi gli strumenti per disfartene e resisti a loro in tutti gli incontri, ma con dolcezza e pace,
come un uomo che appartiene a Dio e pone in lui solo la sua fiducia.
Francesco Liberman, Lettera del 22 ottobre 1837
Meglio ancora: questa prova di non essere perfetto, sia unita a quella di Gesù crocifisso dal
peccato:
Lo spirituale si volga dunque a Cristo, perché egli ha supplito a tutte le sue imperfezioni; e se
egli è perseverante, meriterà di sentire interiormente Cristo stesso che gli dice: «Ti
ringrazio, figlio mio, perché accettando pazientemente fino al termine i tuoi difetti, porti la mia
croce con me».
Luigi de Blois (1506-1566), Istituzione Spirituale, VIII, 4
In questo modo, noi convertiremo le nostre più grandi debolezze in altrettanti meriti, e
porteremo sempre dentro e attorno a noi la mortificazione di Gesù.
Gian Francesco di Reims, La vera Perfezione, II, Istruzione, I, 1
L’UMILTÀ DEL SIGNORE
«Non ero umile e quindi non intendevo l’umiltà del mio Dio Gesù, né potevo capire ciò che la
sua debolezza ci insegnava»: così confessa s. Agostino circa il periodo della sua vita
caratterizzato dalla ricerca infruttuosa di Dio. La debolezza del Mediatore fra Dio e gli
uomini bloccava il suo pur veemente desiderio d’assoluto, mentre la sua conversione, che
segnerà per sempre il vissuto e il pensiero successivi, aprirà la strada all’ammirazione
appassionata dell’umiltà del Signore. Le pratiche quaresimali, della preghiera, del digiuno e
dell’elemosina, sono direttamente correlate con la conversione perché, come questa,
staccano l’uomo dal suo prodotto, dal suo dominio, da se stesso, per ricordargli il limite e
porlo davanti a Dio nel riconoscimento che la vita, in terra come in cielo, viene solo da Lui. La
quaresima è segno sacramentale della conversione, poiché rinnova nel cristiano le
condizioni dell’accoglienza della Novella. Questa, infatti, non è intesa al di fuori della
conversione o, per dirla con Agostino, dell’umiltà. Umiltà e conversione non sono da
intendere in chiave moraleggiante, bensì altamente morale, cioè l’esser posti innanzi alla
Verità e all’Amore, essendo lo stesso Evangelo rivelazione d’amore. Si tratta di intendere chi
è Dio, come viene a salvarci nei gesti di Gesù e come decide così di vincere la superbia
umana. L’antico Vescovo d’Ippona, meditando e predicando sulla passione di Cristo,
particolarmente sul gesto della lavanda dei piedi, la sera dell’ultima cena, esclama: «l’uomo
si sarebbe perduto per sempre a motivo della sua superbia, se Dio non si fosse umiliato per
venire a cercarlo». E giocando, da maestro della lingua, osserva: «proprio perché il Padre gli
aveva dato tutto nelle mani, lava non le mani, ma i piedi dei discepoli; e sapendo che da Dio
era venuto e a Dio andava, compì la funzione non di chi è Dio, ma di un uomo e servitore».
Che l’umiltà del Redentore esiga la speculare umiltà del discepolo, si palesa dal dialogo tra
Gesù e Pietro: questi non riesce a portare il peso di tanto abbassamento, che gli riesce
oscuro e gravoso insieme. Per spingerlo alla resa dell’amore, Gesù fa leva sulla fede-amore
di lui: «se non ti laverò, non avrai parte con me». Agostino commenta: «Pietro è spaventato più
dalla possibilità di essere respinto da Cristo che di vederlo umiliato fino ai suoi piedi». La
personale relazione d’amore conduce a entrare nel mistero della Pasqua, oscuro per l’uomo
chiuso su se stesso, luminoso per chi ha ceduto per amore il timone della propria esistenza.
ABC
N. 37 - Aprile 2003
123
SANTITÀ O PERFEZIONE?
1. Vai verso la perfezione non perché è uno stato elevato e sublime, ma perché Dio ti ci vuole.
Non devi mai intraprendere la pratica delle virtù per grandezza e per diventare più santo, ma
soltanto per fare ciò che Dio vuole da te e così contentarlo. La nostra felicità consiste
nell’essere in una continua dipendenza dalla sua divina volontà ed esservi perfettamente
sottomessi. Devo essere soddisfatto di essere piccolo o grande santo, come Dio vuole.
2. È un grande abuso fare nostri i sentimenti che hanno avuto i santi. Occorre lasciare agire
Dio su di noi e ricevere le impressioni che ci darà, senza riflettere se esse sono grandi o
piccole: è sufficiente che esse siano di Dio. È la via nella quale Dio vuole che tu cammini, via
sicura, tranquilla e piena di pace, nella quale non si vuole altro che contentare Dio. Prendi
dunque molto semplicemente ciò che Dio ti darà: per quanto poco sia, sarà sempre più di
quanto tu meriti.
3.…Un’anima simile è morta a sé stessa, e in questa disposizione è adatta a ricevere le
comunicazioni di Dio e le sue sante unioni. Ella conosce bene la diversità dei modi nei quali
Dio mette i suoi servitori; gli uni sono piccoli, gli altri grandi: ciò che l’appaga, è quello che
Dio desidera da lei in quel momento. La pratica di ciò è infinitamente dolce e riempie l’anima
di una pace inconcepibile. Quando mangio, sono contento come quando faccio orazione,
poiché Dio vuole, che in quel momento io mangi, e così per tutto, ogni cosa a suo tempo,
secondo la disposizione divina. Così io sono contento di stare qui come di andare in Canada,
d’essere infermo come di essere sano, di essere inutile come di lavorare: la mia sola gioia, il
mio bene, la mia beatitudine consiste nel contentare Dio, e faccio ciò facendo la sua volontà.
4. La maggior parte dei nostri desideri è soltanto pura umanità, fragilità e amor proprio; i
nostri timori, i nostri amori, le nostre tristezze ci affaticano. Occorre che un’anima s’impegni
a non desiderare nulla, se prima ella non vede la volontà di Dio, e tuttavia noi c’impegniamo
nelle cose con impetuosità, con passione, con pura inclinazione, sconsideratamente; ma
un’anima di grazia non fa così. Bisogna amare l’effetto della volontà divina qualunque esso
sia, amaro o dolce; gli effetti della divina volontà sono ben diversi, ma sono simili, in quanto
vengono ugualmente da lui. Rachele e Lia erano ugualmente figlie di Labano (allusione a
Gen. 29), ma se Giacobbe avesse ricercato la propria soddisfazione, Lia non gli piaceva
quanto Rachele; così va per le anime che vivono in se stesse. Al contrario, bisogna amare le
volontà che invertono i nostri desideri come gradiremmo quelle che li farebbero riuscire, e
amare tutte le croci e le pene, perché esse sono occasioni favorevoli per trovare Dio solo.
Giovanni de Bernières-Louvigny (1602-1659), Lettera del 6 Agosto 1641
L’AUTORE Figlio di un tesoriere generale di Caen, G. de Bernieres-Louvigny consacrerà la
sua sorte e le sue relazioni all’animazione del gruppo mistico normanno nato attorno al
cappuccino Giovanni–Crisostomo di Saint-Lô, assicurando l’amministrazione di numerose
imprese missionarie e fondando seminari e ospedali, a partire dal suo eremo aperto a
numerosi suoi amici contemplativi. Attraverso il suo discepolo Giacomo Bertot, la sua
influenza inciderà profondamente il circolo di Madame Guyon. I suoi scritti, conosciuti
attraverso incerte trascrizioni, noti sotto il titolo de “Il Cristiano interiore”, saranno peraltro
inglobati nella condanna del Quietismo della fine del secolo, tuttavia non vi è luogo di diffidare
della loro ortodossia.
IL TESTO § 1. Contrariamente ad un’idea acquisita, la santità non è lo scopo della vita
cristiana; Dio solo è lo scopo: Siate perfetti, dice Gesù, ma perché il vostro Padre celeste è
perfetto. Ciò che rende felici è il fatto d’essere figli di questo Padre celeste, e non quello di
riuscire la nostra vita, o i nostri progetti di santità.
§ 2. Non si diventa santi imitando i santi, ma facendo la volontà di Dio. Egli ce la indica
attraverso le sue “impressioni”: in altre parole, in quest’intenzione di fare tutto per il suo
amore, s’impone a noi una logica di vita attraverso le circostanze, i doveri di stato e i consigli
evangelici. La vita cessa allora di essere una corsa spossante verso la santità, per divenire
una “via sicura, tranquilla e piena di pace”.
§ 3. Questa costante volontà di fare la volontà di Dio, gli permette di sviluppare
tranquillamente la nostra vita soprannaturale attraverso “le sue comunicazioni e le sue sante
unioni” e d’indicarci eventualmente una vocazione e una missione più particolari. Bernières fa
qui allusione alla grande impresa della Normandia e della Turenna dell’epoca,
l’evangelizzazione del Quebec. Pur dovendo rinunciare all’ultimo momento a recarvisi lui
stesso, egli fu uno dei grandi costruttori specialmente come organizzatore della spedizione
di Maria dell’Incarnazione e di Madame de la Peltrie nel 1639. In sottofondo, nella lettera
s’indovina la delusione che egli ebbe per la mancata partenza, nel momento in cui l’elite
normanna fornisce al Canada i suoi quadri civili e religiosi.
§ 4. Regola assoluta della vita contemplativa: non lanciarsi nell’azione, anche se fosse per
evangelizzare il Canada, se prima non si vede chiaramente che è Dio a chiedercelo. E perciò
mettersi nell’indifferenza della “pura umanità” e degli “effetti della divina volontà”; e quando
Dio ci chiede una cosa che ci ripugna, è un’occasione supplementare per essere più
strettamente uniti a lui.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
I come…. INTENZIONE (RETTA)
“E tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù,
rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre” (Col. 3,17) Questa è la retta intenzione; essa
è la nostra risposta filiale all’amore del Padre, perché
Finché quest’amore vive [in noi], regna e tiene lo scettro su tutti i nostri affetti, facendo
preferire Dio nella sua volontà, a tutte le cose, indifferentemente, universalmente e senza
riserva.
San Francesco di Sales (1567-1622), Trattato dell’Amor di Dio, X, 3
Certamente,
Rapportare in maniera attualmente cosciente tutte le cose a Dio, non è possibile in questa
vita, non più di quanto lo sia pensare sempre a lui; ma rapportarle a lui virtualmente, ecco la
perfezione della carità.
San Tommaso d’Aquino (1224-1274), De Caritate, 11, q. 2
“Virtualmente”, vuol dire che oltre la necessaria attenzione a quel che stiamo facendo, la
nostra intenzione è di farlo solo perché Dio vuole che lo facciamo:
Un contemplativo fa sempre la stessa cosa di giorno e di notte. Egli prega, mangia, parla,
lavora o si svaga, ma è principalmente cosciente che sta facendo la volontà di Dio. Le diverse
attività esteriori gli sembrano un assortimento dei differenti effetti di un’unica e continua
intenzione interiore.
Henry Chapman (1865-1933), Lettera di 11 settembre 1916
Perciò,
Quando si tratta di scegliere bene, per quel che dipende da noi, l’occhio della nostra
intenzione deve essere semplice, vedendo soltanto ciò, per cui io sono stato creato, cioè la
lode di Dio nostro Signore e la salvezza della mia anima. Così, tutto quello che sceglierò
dovrà aiutarmi a questo scopo.
Sant’Ignazio (1491-1556), Esercizi spirituali, § 169
A poco a poco così la nostra vita si armonizzerà attorno al primo comandamento, perché
Quest’intenzione semplice, è l’occhio semplice di cui parla Cristo, che mantiene tutto il
corpo, cioè tutte le opere dell’uomo e tutta la sua vita, nella luce e lo custodisce dal peccato.
Quest’intenzione semplice, è l’inclinazione interiore dello spirito, pieno di luce e d’amore: è il
fondamento di tutta la vita spirituale.
Beato Giovanni Ruusbroec (1295-1381), L’ornamento delle Nozze, II, 4, B
Molto spesso, le cose non sono così chiare e anche se non sono contro i comandamenti di
Dio, noi le vogliamo perché ci fanno piacere. Come “raddrizzare” la nostra intenzione perché
diventi perfettamente retta?
Come coloro che vogliono andare diritto allo scopo chiudendo l’occhio sinistro e guardando
solamente col destro…, se noi chiudiamo l’occhio sinistro dell’intenzione imperfetta che
riguarda la creatura, per aprire solamente l’occhio destro della pura intenzione verso la sua
amabile presenza, arriveremo diritto a Dio.
Gian-Francesco di Reims († 1660), La vera Perfezione, Istruzione IV
Concretamente, per “chiudere l’occhio sinistro”,
È molto importante in tutti i piaceri e i successi, avere l’abitudine di dire: «Io sono felice, sono
immensamente riconoscente, ma non lo voglio, io voglio soltanto te».
Henry Chapman, Lettera del 23 Dicembre 1920
In breve,
Vi è retta intenzione, quando si considera in tutto il solo beneplacito di Dio e ci si allontana da
parecchi motivi eccellenti ma un po’ interessati come, essere fedeli per la paura di rendersi
colpevoli, o per acquistare un amore più grande. L’anima non ha alcun riguardo per la sua
perfezione, ma vive soltanto della volontà di Dio che si compie in lei come Dio vuole: questo
compimento della sua santa volontà nelle nostre anime deve essere il nostro unico oggetto.
Giovanni de Berniéres-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, Libro IV,
cap. VII
Occorre dunque fuggire ogni ricompensa, per paura di un’intenzione meno pura?
Non dico che il nostro prossimo non deve vedere le nostre buone opere,… ma che non
occorre ricercare, fuori, lodi per quello che facciamo. L’opera sia pubblica, ma l’intenzione
dimori segreta, in modo che noi diamo al nostro prossimo l’esempio di una buon’azione
senza mai cessare di desiderare il segreto attraverso la nostra intenzione di piacere a Dio
solo.
San Gregorio Magno († 604), Omelia 11 sul Vangelo
Quest’indifferenza all’effetto prodotto è il segreto della pace interiore:
Più l’occhio dell’anima è puro e la sua intenzione retta, meno si è agitati dalle tempeste.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Cristo, III, 33
Infatti,
Dio non ha messo la perfezione nella molteplicità degli atti che faremo per piacergli, ma
soltanto nel metodo che utilizzeremo in loro, che consiste nel fare il poco che faremo secondo
la nostra vocazione, nell’amore, attraverso l’amore e per l’amore.
San Francesco di Sales, Sermone 55
Ciò vale, particolarmente, per l’orazione vera e propria:
Una delle prime e più necessarie disposizioni all’orazione è la retta intenzione, con la quale
noi diamo e rapportiamo ogni nostra orazione, non a nostro vantaggio e utilità spirituale, ma
alla sola gloria di Dio.
Francesco Bourgoing (1585-1662), Verità ed eccellenze di Gesù Cristo, 5°
Consiglio
Non dubitiamo del valore di un’orazione fatta in queste disposizioni, perché
Dio non può mancare, né astenersi d’essere là dove lo chiama un’intenzione leale e dove si
cerca solo lui; egli deve necessariamente essere là. Forse può esservi in maniera nascosta,
ma c’è.
Giovanni Taulero (1300-1361), Sermone XII
Ciò sarà tanto più, quanto la nostra orazione sarà meno sensibile, perché
C’è più pericolo di amor proprio e impurità d’intenzione nelle consolazioni e le grazie che
Dio ci fa e c’invia, che nell’abbandono e nelle afflizioni.
Carlo de Condren (1588-1641), Trattato sull’Orazione
TUTTO È COMPIUTO!
Si ripetono ogni anno quei riti pasquali, che con forza irresistibile s’impongono anche allo
sguardo distratto. Sprigionano, in vero, la forza della Realtà, dell’unica Realtà veramente
esistente, nella quale noi stessi percepiamo di essere reali. Pur nella diversità della loro
attuazione, essi offrono la verità di quell’innalzamento che attira tutto a sé. Non c’è angolo
della vicenda storica, non c’è piega dell’animo, non battito di ciglio che non richiedano il
Crocifisso per spiegarsi, anzi, per esistere. Sono illuminanti le parole, quasi distillate, dei
diari di Divo Barsotti: «è nell’atto della morte di croce che tutto ha il suo compimento … tutto è
vuoto senza quell’Atto, la creazione è vuota. La Parola condannerebbe l’uomo, direbbe solo il
suo peccato. La chiesa ugualmente diverrebbe menzogna. E l’Atto è presente, e ogni tempo
precipita in quell’Atto che è tutta la vita, il mondo, la vita stessa di Dio (17 ottobre 1993)». Non
si tratta, infatti, di trovare un significato, per allestire un quadro interpretativo che
addomestichi lo scorrere ruvido e spesso indomabile degli eventi. Dio fugge da questo
tentativo di irretirlo, e ancor più vi si sottrae lo scandaloso suo manifestarsi nel Crocifisso.
Annullando ogni tentativo di ridurre Dio ad un segmento della nostra costruzione, il muto
Agnello condotto al macello dall’abisso invalicabile della sua umiliazione dona la possibilità a
ciascuno di esistere. Ancora Barsotti: «Nell’adesione a questo mistero l’uomo è costretto a
superare se stesso, ogni suo pensiero, non per rimanere nel silenzio, ma per incontrare una
presenza viva che impone un superamento infinito. Il silenzio certamente è l’unica condizione
per la ragione di non escludere Dio, ma la conoscenza di Dio esige di più, il superamento
infinito del silenzio: Dio solo, è Gesù crocifisso». Non è, allora, questione di senso, di
sentimento, di soddisfazione (ovviamente non li si esclude), ma di verità, la quale conosce
altre dinamiche, che mi sembra di scorgere in queste espressioni di don Divo: «Una forza
cieca mi spinge al di là di ogni pensiero su Dio, di ogni concetto che me lo rappresenta. Non
si vuole più ritornare alle immagini del pensiero, Dio si fa presente nel vuoto di ogni
rappresentazione, in un sentimento vivo che esclude ogni pensiero, ogni affetto. È una
presenza che non tollera nulla fuori di sé (18 ottobre 1993)».
ABC
N. 38 - Maggio 2003
123
LA GRAZIA È MODESTA!
1 Il Signore: Figlio mio, è più utile e più sicuro per te, tenere nascosta la grazia della
devozione, non insuperbirti per lei, e pertanto non parlarne troppo e non darvi molta
importanza; ma piuttosto disprezza te stesso e temi di essere indegno di riceverla: non
bisogna attaccarsi troppo a questa affezione che troppo spesso si può cambiare nel suo
contrario.
2. Quando la grazia c’è, pensa quanto tu sei misero e povero senza la grazia! Il progresso
della vita spirituale non è soltanto quando tu ricevi la grazia della consolazione, ma anche
quando tu sopporti umilmente la sua privazione, con abnegazione e pazienza, in modo che
allora tu non venga meno nell’amore alla preghiera, e che tu non permetta alcun rilassamento
nel resto delle tue pratiche abituali. Fai invece di buon grado, tutto quello che dipende da te,
come meglio potrai e saprai, e non lasciarti andare per nulla a causa dell’aridità o
dell’ansietà spirituale che senti. Molti, infatti, quando le cose non riescono loro, cadono ben
presto nell’impazienza e nella pigrizia. Ma la via dell’uomo non sempre è in suo potere! È
Dio che dà e consola, quando vuole, fintantoché vuole e ciò che vuole, come a lui piace e non
altro.
3. Alcuni imprudenti si sono perduti a causa della grazia della devozione, perché essi hanno
voluto fare più di quanto potessero, non misurando la loro piccolezza, ma seguendo più
l’impulso del cuore che il giudizio della ragione: poiché essi miravano con presunzione, più
alto di quanto volesse Dio, improvvisamente hanno perso la grazia. Essi avevano posto la loro
dimora nel cielo e si sono ritrovati nella miseria e nel disprezzo, per imparare attraverso
l’umiliazione e la spoliazione, a non volare con le proprie ali, ma a sperare sotto le mie, nella
speranza.
4. Spesso una prova simile ti è più utile di una perpetua riuscita conforme alla tua volontà;
perché i meriti di qualcuno non si misurano per il numero di visioni o di consolazioni che ha,
o per la sua scienza delle Scritture o per il prestigio della sua posizione, ma perché egli è
radicato nella vera umiltà e ripieno della divina carità, e ricerca sempre, puramente e
completamente, di rendere gloria a Dio; perché si considera come nulla e si disprezza
veramente, e gioisce più per essere disprezzato e umiliato dagli altri, che per essere
onorato.
Tommaso da Kempis (1379?-1471), Imitazione di Cristo, Libro III, 7
L’AUTORE Nato a Kempen (a nord di Colonia), Tommaso passa la sua adolescenza a
Deventer, presso i Fratelli della Vita comune (attorno a Gerardo Groote e Fiorenzo
Radewijns), fucina della “Devozione moderna”: nella linea di Ruusbroec l’Admirable (†1381),
i Fratelli vi coltivavano contemporaneamente l’interiorità che sboccerà presso i mistici
spagnoli e lo studio dei grandi autori della Tradizione che si rivelerà, attraverso Erasmo e
Ignazio di Loyola, l’antidoto al protestantesimo nascente. Entrato verso il 1400, presso i
canonici regolari del Monte Sant’Agnese, vicino Zwolle (una delle case dell’importantissima
congregazione di Windesheim, anch’essa figlia di Ruusbroec), come maestro dei novizi,
Tommaso vi redigerà migliaia di pagine di meditazione e di pedagogia interiore.
IL TESTO Opera composta essenzialmente nella giovinezza di Tommaso, intrisa di cultura
biblica e tradizionale, l’Imitazione di Cristo è una collezione di sentenze ben mischiate e facili
da memorizzare, destinate a nutrire la “ruminazione” continua dello spirituale. Perfettamente
rappresentativa della Devotio Moderna, ne illustra i temi maggiori: Gesù presentato come
l’Amico fedele, l’amore della solitudine e del silenzio di fronte ad un mondo in piena crisi, la
necessità dell’esperienza degli Antichi, più che pratiche esteriori per il fiorire della vita
interiore, la moderazione in tutti i campi etc. Fra le opere più stampate nella storia del libro,
sarà determinante per il prosequio della spiritualità cristiana.
§ 1.”La grazia della devozione”; la parola devozione riassume il punto di equilibrio della
spiritualità in procinto di ordinarsi nell’Europa del Nord che condurrà alla vita devota di un
san Francesco di Sales: egli designa la percezione interiore di colui che si da senza riserva
a Cristo e che, giunto alla maturità spirituale, vi trova una coerenza profonda e calma, quella
di un’anima padrona di se stessa, accordata perfettamente alla volontà di Dio in un mondo che
non lo è.
Quanto alla parola affezione, ella riveste ancora il suo senso monastico antico di
attaccamento sentto della volontà a ciò ch’ella vuole. In quanto sentita e non tanto come
devozione, Tommaso ci mette in guardia qui contro l’attaccamento alla grazia della devozione
perché ella vale giustamente in quanto accorda la nostra volontà a quella di Dio e non
forzatamente i nostri sentimenti.
§ 2.Da qui la necessità di essere prudenti soprattutto all’inizio; la verità di una vita spirituale è
in questo accordo, che ad ogni modo passa attraverso la nostra fedeltà alla preghiera e al
dovere di stato, poiché il resto è compito della sovrana libertà di Dio.
§§ 3-4. Le migliori vite spirituali non sono le più brillanti, ma le più attente alla volontà attuale
di Dio. Pertanto se noi cadiamo per presunzione, non stiamo a disperarci, ma prendiamo
questa caduta come un invito a ritrovare il cammino della fiducia in Dio e in Dio solo.
L’insistenza sull’umiltà, il disprezzo di sé, la fuga dalle apparenze anche religiose, è
certamente destinato alle novizie, ma ella dà la sua tonalità fondamentale a una vita cristiana
in grave crisi istituzionale, e che per molti aspetti, dovrà ormai costruirsi sola. In ciò
l’Imitazione resta l’opera di riferimento della spiritualità moderna.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
I come…INTERIORE
“Occorre che io dimori presso di te” È il mio Maestro che mi esprime questo desiderio! Il
mio Maestro che vuole abitare in me, con il Padre e il suo Spirito d’amore, perché, secondo
l’espressione del discepolo diletto, io sia “associato” a Loro.
Beata Elisabetta della Trinità (1880-1906), Ultimo Ritiro, 16º giorno
La nostra vita interiore, è questa vita di Dio in noi, lui che ha “riversato il suo amore nei nostri
cuori” (Rm. 5,5)
La nostra anima è la dimora che Gesù Cristo vuole: è lì che egli vuole riposarsi… Nessun
reliquiario, nessuna custodia, per quanto ricca sia, per quanto ornato sia di pietre preziose,
vale per lui questa dimora.
San Giovanni d’Avila (1499-1569), Sermone 41
Allora,
Non chiedere più a nessuno sulla terra di esserti Maestro, a nessuno nel cielo, perché Lui è
la tua anima e la tua anima, è Lui.
Enrico Lacordaire (1802-1861), Santa Maria Maddalena, Parigi, 1860, p.130
Perché è da lì che egli vuole nascere alla nostra umanità:
Se Maria non avesse dapprima concepito spiritualmente Dio, egli non sarebbe mai nato
corporalmente da lei….Dio preferisce essere nato spiritualmente da ogni anima buona,
piuttosto che essere nato corporalmente da Maria.
Mastro Eckhart (1260-1327), Sermone 22
Per noi come per lei, l’Onnipotente attende solo la nostra umiltà per fare in noi meraviglie:
Che cosa incredibile, colui la cui grandezza riempirebbe mille e mille mondi, si chiude in una
cosa così piccola!….. Come ci ama, poichè si pone secondo la nostra misura.
Santa Teresa d’Avila (1515-1582), Cammino della Perfezione, 28,11
Ma “come è possibile?” (LC. 1,34)
Lo Spirito di Cristo viene nell’anima, si unisce a lei, e come se egli fosse l’anima della nostra
anima, egli si espande in lei; e una volta espanso e assorbito in lei, prende possesso delle
sue potenze e delle sue capacità.
Beato Luigi de León (1527-1591), I Nomi di Cristo, III, 1
Così il Figlio di Dio viene in noi ad incontrarci:
Cristo viene in noi dall’interiore verso l’esteriore, e noi veniamo a lui dall’esteriore verso
l’interiore.
Beato Giovanni Ruusbroec (1295-1381), L’Ornamento delle Nozze, II, 4 A
Quale errore dunque sarebbe, il cercarlo fuori!
Tu eri dentro di me Signore, e io fuori; ed io ti cercavo fuori e dalla mia bassezza correvo
dietro alla bellezza delle tue creature. Tu eri con me, e io non ero con te…
Sant’Agostino (354-430), Confessioni, X, 27
Infatti
Dio è più interiore di noi stessi e la sua spinta interiore o la sua azione in noi, naturale o
soprannaturale, ci è più prossima e più intima della nostra azione; perché Dio opera in noi da
dentro verso fuori, mentre tutte le creature operano da fuori verso dentro. Pertanto la grazia,
tutti i doni divini e le ispirazioni di Dio vengono da dentro, nell’unità del nostro spirito, e non
da fuori nell’immaginazione, attraverso le immagini sensibili.
Beato Giovanni Ruusbroec, L’Ornamento delle Nozze, II, 1 C
Cosicché
Noi dobbiamo incessantemente e continuamente, rifluire nella nostra origine come nel nostro
centro naturale, nel nostro fine naturale e soprannaturale; là è tutto il nostro bene, il nostro
riposo e tutta la nostra infinita felicità.
Giovanni de Saint-Samson (1571-1636), Riassunto della vera Libertà
Ciò definisce una vita veramente spirituale:
Ecco come intendo appartenere alla dimora di Dio: vivendo nel seno della tranquilla Trinità,
nel mio abisso interiore, in questa fortezza inespugnabile del santo raccoglimento:
Beata Elisabetta della Trinità, Ultimo Ritiro, 16º giorno
Si,
Beata l’anima che ascolta interiormente il Signore che le parla e che accoglie dalla sua
bocca la parola di consolazione! Beati gli orecchi sempre attenti a raccogliere questo soffio
divino e sordi ai rumori del mondo! Beati, veramente, gli orecchi che ascoltano non la voce
che risuona da fuori, ma la verità che insegna dentro!
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Cristo, III, 1
E reciprocamente,
Non c’è bisogno di andare al cielo per parlare al nostro Padre Eterno e per rallegrarsi con
lui, non c’è più bisogno di alzare la voce: per quanto poco noi diciamo, egli è così vicino a noi
che ci ascolterà.
Teresa d’Avila, Cammino della Perfezione, 28, 2
Al di là di ogni parola,
Io comprendo e so per esperienza “che il regno di Dio è dentro di noi”. Gesù non ha bisogno
di libri, né di dottori per istruire le anime; Lui, il Dottore dei dottori, insegna senza rumore di
parole… Mai l’ho udito parlare, ma io sento che Egli è in me, ad ogni istante, Egli mi guida,
mi ispira ciò che devo dire o fare.
Santa Teresa del Bambino Gesù (1873-1897), Storia di un’anima, 83v
Riassumiamo col Dottore mistico:
Quanto dolce e amoroso
Ti svegli sul mio seno
Dove solo e in segreto tu dimori!
Nel tuo spirar gustoso,
di bene e gloria pieno,
come teneramente mi innamori!
San Giovanni della Croce, Fiamma Viva, 4
LA FEDE IN GESÙ RISORTO
La fede è l’unico requisito che Gesù richiede ai discepoli perché possa compiersi l’opera di
Dio ed essi lo conoscano nella sua identità divina. “Con la fede - spiega il Catechismo della
Chiesa cattolica – l’uomo sottomette pienamente a Dio la propria intelligenza e la propria
volontà”. È la risposta all’annuncio gioioso e inedito del mattino di pasqua, del trionfo del Dio
della vita che si rivela a noi e invita all’amicizia con lui. La risposta e l’amicizia si
diversificano, tra l’altro, per la differente docilità e la temprata coltivazione delle virtù di coloro
che rispondono. È, dunque, possibile che il Signore non si manifesti allo stesso modo a tutti i
suoi amici, ma agli uni in un modo, agli altri in un altro, secondo la misura della fede che è in
ciascuno. Sulla base di questa diffusa opinione patristica, Massimo il Confessore (Sulla
teologia e sull’economia dell’incarnazione del Figlio di Dio, II, 13) distingue la manifestazione
di Gesù ai principianti, ai quali si mostra nella forma di servo, e a coloro che possono
seguirlo mentre sale sull’alto monte della trasfigurazione, ai quali si mostra nella forma di
Dio. Chi coltiva la parola pasquale seminata in spirito nel proprio cuore, conforme alla fede,
con la cura mediante le virtù, sposta il monte del sentire terreno, allontanando con autorità il
proprio abito di male, così difficile da smuovere. “Beati quelli che pur non avendo visto
crederanno” (Gv. 20, 29): sembra l’invito a una fede pura e nuda, a sorpassare ogni idolatria e
irrazionalità, a progredire dalla lettera delle Scritture allo spirito, a intendere Gesù non
secondo la piccolezza del suo abbassamento, conforme all’economia, ma secondo la
grandezza dell’infinità della divinità. Occorre, tuttavia, schivare l’insidia di arrestarsi in
questo passaggio sublime che porta a Dio, l’insidia cioè di fermarsi ad una sorta di stadio
intermedio tra la soddisfazione degli appetiti passionali e i buoni costumi della natura; c’è uno
stare tra le virtù e la malizia, che non è ancora puro dall’inganno legato alla percezione
sensibile e nel quale è una limitata percezione del bene. Occorre affrettarsi verso quello
stato libero da ogni malizia e ignoranza, che il Dio senza menzogna mostra e promette di
dare a quelli che credono in lui, e che risplende nella limpida luce della sua risurrezione. Il
Signore “è crocifisso per quelli che ancora sono iniziati alla pietà nella pratica, e inchiodano
le loro operazioni passionali con il timore divino. Risorge, invece, e sale ai cieli per quelli
che si sono interamente spogliati dell’uomo vecchio… e hanno interamente indossato quello
nuovo, che viene creato mediante lo Spirito a immagine di Dio” (Sulla teologia II, 27)
ABC
N. 39 - Giugno 2003
123
L’ORAZIONE, DOLCE MADRE …
1. Vi sono tre specie d’orazione. Una è continua, ed è il continuo e santo desiderio, che prega
sotto lo sguardo di Dio mentre tu agisci, perché dirige in suo onore tutte le tue azioni
spirituali e corporali; perciò essa è detta continua. San Paolo, senza dubbio, parlava di
questa, quando diceva: «Pregate senza posa!»
2. La seconda specie è vocale, quando si recita oralmente l’ufficio o le altre preghiere.
Questa è destinata a farci giungere alla terza, cioè la mentale; l’anima vi giunge quando
esercita con prudenza e umiltà l’orazione orale; in altre parole, in questo modo se la lingua
parla, il cuore non resta lontano da Dio. Perciò, occorre cercare di fermare e stabilire il
cuore nell’attaccamento alla carità divina; se si sente allora in qualche modo che lo spirito è
visitato da Dio, cioè è attratto a pensare al suo creatore, occorre abbandonare l’orazione
orale e fermare lo spirito con attaccamento amoroso fino a che dura questa visita; in seguito
se questa è finita e rimane tempo, l’anima riprenda la sua orazione orale in modo che lo
spirito sia sempre occupato e mai vuoto …
3. [Durante l’orazione mentale], l’anima si eleva sopra se stessa, cioè oltre la maniera
grossolana e sensibile di percepire e, con spirito angelico, ella si unisce a Dio con
attaccamento amoroso; con la luce dell’intelligenza, ella vede e conosce, e si riveste della
verità. Eccola divenuta sorella degli angeli alla tavola del desiderio crocifisso, mentre trova le
sue delizie, cercando l’onore di Dio e la salvezza delle anime, perché vede bene che proprio
per questo lo Sposo eterno corse verso l’ignominiosa morte della croce, compiendo così
l’obbedienza al Padre e la nostra salvezza.
4. Di sicuro, quest’orazione è una madre che, nell’amore di Dio, concepisce le virtù e le
genera nell’amore del prossimo… Dove sentirai tu il dolore del pentimento? Nell’orazione!
Dove ti spoglierai dell’amor proprio che ti rende impaziente nelle ingiurie o nelle altre pene?
Dove sarai reso paziente, rivestendoti dell’amore divino? Dove ti glorificherai della croce di
Cristo crocifisso? Nell’orazione! Dove sentirai l’attrazione della verginità e la fame del
martirio, disponendoti a dare la vita per l’onore di Dio e la salvezza dell’anima? In questa
dolce madre, che è l’orazione! … Essa ti toglie alla compagnia delle creature per darti a
quella del creatore, essa riempie il vaso del tuo cuore del sangue dell’umile Agnello, e lo
ricopre di fuoco, perché col fuoco dell’amore egli fu sparso.
Santa Caterina da Siena (1347-1380), Lettera 26
L’AUTORE Figlia del popolo minuto di Siena, Caterina conobbe fin dall’infanzia una vita
mistica esuberante, segnata da numerose visioni, estasi, stigmate, digiuni perpetui. Terziaria
domenicana, circondata da una cerchia di ferventi discepoli, fra cui il beato Raimondo di
Capua, suo confessore e biografo, ella interpella con veemenza, in nome di Cristo i potenti
del suo tempo, e con la sua autorità morale provoca nel 1377 il ritorno di papa Gregorio XI da
Avignone a Roma. Il suo Dialogo (riflesso dei suoi colloqui con i discepoli), le sue Orazioni e
circa 400 lettere, con uno stile vigoroso e ricco d’immagini, abitato da una percezione molto
viva dell’incarnazione di Cristo, costituiscono una delle sorgenti della spiritualità del Sacro
Cuore.
IL TESTO § 1. La preghiera è innanzitutto un modo di vivere sotto lo sguardo di Dio: essa
vale in quanto volontà nostra di fare la sua volontà: Quando il primo piano della nostra
coscienza è occupato dal lavoro da compiere, la preghiera dimora allora in secondo piano,
sotto forma di «santo desiderio», ma non per questo è meno preghiera.
§ 2. La preghiera orale consiste nel far passare in primo piano quel che è in secondo piano:
le parole servono allora a intrattenere coscientemente questa unione della nostra volontà a
quella di Dio («cercare di fermare e stabilire il cuore nell’attaccamento alla carità divina»),
conducendo la nostra attenzione alla sua presenza. Ma quando questa presenza diviene
evidente(«lo spirito è attratto a pensare al suo creatore»: pensare, nel medioevo non vuol dire
tanto riflettere quanto essere semplicemente cosciente di qualche cosa), le parole hanno
finito di fare la loro parte: l’orazione è divenuta mentale. Le parole che in un primo tempo ci
aiutavano, adesso ci disturbano e devono eclissarsi o almeno passare, a loro volta, in
secondo piano, come per esempio quando la recita del rosario diventa solo una dolce musica
di fondo. È abituale che orazione vocale e mentale si alternino in una vita d’orazione,
soprattutto agli inizi di una decisa vita di preghiera.
§ 3. Quando le parole si sono logorate, l’anima si trova senza intermediario nella luce e
nell’amore di Dio. La trasparenza di Dio potrà darle l’impressione che nella preghiera non
passi più nulla e tuttavia ella mai avrà compreso così bene, né voluto ciò che Dio vuole («ella
trova le sue delizie cercando l’onore di Dio e la salvezza delle anime, perché vede bene»),
doppia prova della sua presenza agente in lei.
§ 4.Poco a poco questa luce e quest’amore invadono l’anima, partorendo in lei le virtù
(l’orazione è madre), modellandola a somiglianza di Cristo, il cui sangue si trasfonde in
qualche modo in colui che si offre a lui. Questo tema del sangue percorre tutta l’opera di
Caterina, per esprimere quasi violentemente la realtà dell’incarnazione e la tenerezza
illimitata di Cristo per i suoi discepoli e innanzitutto per Caterina stessa.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
G come … GIOIA
«Dio è il Dio della gioia!» (San Francesco di Sales) Allora,
Tieni il tuo cuore ben largo davanti a Dio: andiamo sempre gaiamente alla sua presenza. Egli
ci ama, ci ama teneramente, egli è tutto nostro, questo dolce Gesù: siamo soltanto suoi,
amiamolo, amiamolo teneramente! E che le tenebre e le tempeste ci circondino, che acque di
amarezza ci arrivino fino al collo: fintantoché egli raccoglie il nostro mantello, non c’è nulla
da temere.
San Francesco di Sales (1567-1622), Lettera del 17 giugno 1606
Perché
Tutto il creato può occupare o distrarre e dare una gioia, ma l’unica gioia è Dio.
Giovanna Schmitz-Rouly (1891-1979), Giornale, I, 25
Essa è al di là di tutto quello che il mondo può dare, é
…quella felicità che la parola felicità non saprebbe definire, … una gioia che è non solo
sopra ogni altra gioia, ma soprattutto una gioia che fa percepire come inesistente ogni gioia
e ogni realtà.
Idem, II, 65
Questa gioia conosciuta dai tuoi servi che ti amano, sei Tu, Signore. Ecco la vita beata:
rallegrarsi in te, di te, e per te; eccola, non è nient’altro. Porla altrove, vuol dire seguire una
gioia diversa dalla verità.
Sant’Agostino (354-430), Confessioni, Libro X, cap. 22
Infatti,
Già simile al Verbo attraverso la natura, l’anima lo diviene anche attraverso la volontà, quando
ella lo ama come ne è amata. E se quest’amore è perfetto, sono le nozze spirituali. Non c’è
gioia più grande di questa conformità.
San Bernardo (1090-1153), Sermone 83 sul Cantico
Questa gioia dunque non è quella di un temperamento felice; perché è gioia di Dio, essa è
dono di Dio:
La gioia del Signore non appartiene a nessuno, se non a colui nel quale essa si diffonde da
sé: questa vetta, è stata scalata soltanto da colui verso il quale egli discende liberamente da
se stesso; questo bene nessuno l’ha sperimentato, se non colui che Egli conforma a se
stesso; questa vita, nessuno la vive se non colui che essa vivifica da sé.
Guglielmo di Saint-Thierry (1085-1148), Esposizione sul Cantico dei Cantici,
II, VII
Ciò che la rende inesauribile come Dio stesso:
Consumandosi, la gioia consuma il desiderio? Essa è al contrario l’olio che alimenta la
fiamma. [Nell’eternità] l’allegria sarà piena, ma non sarà la fine del desiderio, né quella della
ricerca.
San Bernardo, Sermone 84 sul Cantico
Perciò
L’anima unita a Dio naviga in un oceano di gioia, l’oceano di delizie che sprizzano e si
effondono dalla divinità; così ella non sente alcuna gioia perché è essa stessa, gioia, ella
naviga e si effonde in gioia, senza sentire alcuna gioia, perché ella dimora nella gioia e la
gioia dimora in lei; la gioia stessa l’ha cambiata in lei con la sua forza gioiosa.
Margherita Porète († 1310), Lo Specchio delle anime semplici, cap. 27
Allora,
La dolcezza e la gioia che si riceve nei piaceri del senso, anche se naturali, il bere, il
mangiare, i buoni successi del mondo e la reputazione, rendono l’anima terrena, dandole una
falsa pace e allegrezza, e invece di elevarla alla contemplazione la fanno rotolare in basso e
la fanno diventare carnale.
Giovanni de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, Libro II,
cap. 10
È dunque proibito trovare qualche contentezza in questi beni legittimi? No, sicuramente, ma
Essendo tutto ciò caduco, non abbiamo torto di piegarvi il nostro cuore, dato che invece di
dargli vero riposo e quiete, gli fornisce soggetto di pressione e inquietudine molto grande,
sia per conservarli se si possiedono, sia per accrescerli o acquisirli se non si hanno?
San Francesco di Sales, Sermone del 25 marzo 1621
Perché “la figura di questo mondo passa” (I Cor 7, 31), cosicché
Quando quest’anima ha compreso la sua ricchezza, tutte le gioie naturali o soprannaturali
che possono venirle da parte delle creature, o anche dalla parte si Dio, la invita a rientrare in
se stessa per gioire del bene sostanziale che possiede e che non è altro che Dio stesso.
Beata Elisabetta della Trinità (1880-1906), 26 Agosto 1906
Così l’usura delle gioie terrestri non saprebbe rattristarla:
Coloro che amano Dio sono invitati a rallegrarsi con grande gioia della fine del mondo
perché vanno ad incontrare ben presto colui che amano, mentre passa ciò che essi non hanno
amato.
San Gregorio Magno († 604), Omelia I per l’Avvento
Infatti,
Tutti i santi desideri con il tempo diventano grandi e se diminuiscono con il tempo, è perché
non erano santi; perché se risentono sempre meno gioia nel ritrovarli, … forse erano buoni,
ma non erano in alcun modo santi.
Nube della non Conoscenza (XIV s.) cap. 75
Si,
Vanità, di attaccarsi a ciò che passa così presto e non … verso la gioia che non finisce!
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Gesù Cristo, 1, 2
Perché essa non finisce,
Mia cara Madre, questo discorso è infinito. Vivete gioiosa, tutta piena di Dio e del suo santo
amore. Buona sera, mia cara Madre!
San Francesco di Sales, Lettera del 1620 o 1621
LA GLORIA DELL’UOMO È DIO
Ireneo di Lione, campione dell’ortodossia della fede contro gli gnostici, fu discepolo di
Policarpo, e questi discepolo a sua volta di s. Giovanni apostolo. Nella sfida dell’eresia
indagò il piano universale di Dio, scrutando e interpretando le Scritture nello Spirito Santo,
cioè, come spiega lui stesso, nella Chiesa che è il «luogo» dello Spirito. Le Scritture, infatti,
sono la parola vivente che risuona nella trasmissione quotidiana della vita divina, nella
Tradizione. L’eresia gnostica, ponendosi con atteggiamento sospettoso dinanzi a Dio e alla
sua opera, finiva per dividere le Scritture, accusando il Dio dell’Antico Testamento e i suoi
provvedimenti come contrari alla misericordia di Lui verso l’umanità. Alla fine era negata
l’unità di Dio e spezzata anche l’unità della sua opera, non salvaguardando d’altronde la
salvezza integrale dell’uomo nella sua corporeità. Contro gli gnostici che negavano così la
salvezza di Adamo, Ireneo cerca di approfondire il senso di molte affermazioni bibliche
all’interno della genuina Tradizione di fede. Adamo ed Eva sono sì i primi peccatori, ma
anche i primi salvati perché, come dei fanciulli ingannati, sono mossi a penitenza. Dio non li
maledice allorché maledice il serpente, ma li accompagna con amore misericordioso fin nella
più drammatica delle conseguenze del loro gesto, che è la morte. Per questa ragione li
scaccia dal paradiso terrestre e li trasferisce lontano dall’albero della vita, cioè lascia entrare
la morte. Ireneo spiega questo decreto divino non come distruzione o, peggio, invidia verso
l’uomo (era questa l’insinuazione del diavolo!), bensì come atto di misericordia, poiché Egli
in tal modo non permette che essi rimangano per sempre nella trasgressione, ma interpone
la morte per far cessare il peccato, assegnandogli un termine attraverso la dissoluzione della
carne; solo a queste condizioni l’uomo, cessando di vivere al peccato e morendo ad esso,
cominciò a vivere per Dio. Conoscendo la morte, l’uomo impara per sua esperienza da quale
male è stato liberato, se è vero che colui a cui si rimette molto, ama di più. «Perché la gloria
dell’uomo è Dio; e d’altra parte il ricettacolo dell’opera di Dio, della sua sapienza e della sua
potenza è l’uomo» (Adversus Haereses III,20,2). Il Salvatore, poi, nell’Incarnazione non
rigetta né sorpassa, ma sposa misericordiosamente tutta la condizione umana, santificando
tutte le età tramite la somiglianza che abbiamo con lui. Accettando persino la morte, diventa il
Primogenito dai morti, colui che ha il primato in tutto, l’iniziatore della vita.
ABC
N. 40 - Luglio / Agosto 2003
123
NON ESSERE NIENTE PER ESSERE TUTTO
1. Vi dico in nome di Dio che voi siete troppo preoccupata delle vostre miserie e dei vostri
peccati, delle vostre malizie, dei vostri sacrilegi, della vostra dannazione, del vostro inferno e
della perdita di Dio. Vedo che invece di andare verso la morte di tutto, voi avete riflettuto sul
vostro vuoto e ne siete spaventata. Avete voluto portarvi rimedio, adoperandovi con i vostri
mezzi interiori e, invece di trovare soccorso, avete trovato turbamento nell’impotenza, e
l’inferno nella povertà …
2. Siete peggiore di tutti i diavoli, se volete! Ciò non mi spaventa e non mi stupisce. In tutto ciò
voi avete un solo peccato, quello di avere lasciato il niente per qualcosa, d’avere lasciato lo
stato di morte per prendere vita, d’avere voluto essere qualcosa in Dio e nella grazia, mentre
non siete altro che un niente sventurato, che deve essere dimenticato non solo da tutti, ma
perfino da Dio, credendovi indegna del suo ricordo …
3. Vi ordiniamo, in nome di Dio, di stare come una bestia nella perdita di tutto e perfino della
vostra salvezza e perfezione: non è più questione di tutto ciò, ma soltanto di mantenervi in
questo semplice abbandono con tanta fermezza che, se voi vedeste l’inferno aperto per
inghiottirvi, non cambiereste la strada del puro abbandono per salvarvi.
4. Ecco fin dove occorre morire, e dove voi non volete passare. Volentieri vi rimprovererei,
perché resistete, così facendo, alla condotta misericordiosa di Dio; non permettete al vostro
spirito umano, né alla vostra ragione, di replicare o di ragionare su ciò che vi ordiniamo di
fare. Camminate, a testa bassa, sotto la legge del Signore; egli vi fa troppa grazia; non siate
così miserevole da rigettarla sotto il pretesto che l’offendete … Non prendete parte di quel
che accade in voi; sia bene sia male, lasciate tutto ciò, senza discuterlo: Dio giudicherà e ne
farà quel che gli piacerà. E voi state in un nulla eterno, che non vede più, non intende più e
non parla più per se stesso né per nessuno. Ma, vi ripeto ancora una volta, state come un
morto riguardo a voi e anche riguardo a Dio, come ciò che non è più e che non deve più
essere …
5. Quando crederete di essere dannata, lasciate questo giudizio a Dio, credendo che egli
farà giustizia se vi mette in inferno. Non siate più inquieta, lasciate tutto per stare ancora al di
sopra di tutto l’inferno e dei demoni. Il nulla non è nulla di tutto ciò.
Mechtilde del Santo Sacramento, 1614-1698, Lettera del 1667 a Madre Maria
di san Francesco di Paola
L’AUTORE Caterina de Bar, appartenente ad una famiglia borghese di Saint-Dié, entra
nell’ordine sella SS: Annunziata nel 1633. Fuggendo alla guerra dei Trent’anni, ella passa
presso i benedettini di Rambervilliers (dove prende il nome di Mechtilde), poi da un
monastero all’altro, prima di fondare a Parigi nel 1654 l’Istituto dell’Adorazione perpetua del
Santo Sacramento. La sua storia tormentata l’ha messa in contatto con tutte le correnti
spirituali del suo secolo: lorenesi, parigini, normanni.
IL TESTO Siamo nel momento in cui la spiritualità dell’abbandono va fiorendo in Francia
come alternativa al giansenismo invadente. La molla è nella consapevolezza della nostra
totale impotenza davanti a Dio (e là, il giansenismo ha visto giusto), ma nello stesso tempo
dell’onnipotenza amorosa di Dio (cosa che il giansenismo non ha saputo vedere). Mechtilde
del Santo Sacramento rivela qui l’influenza del gruppo normanno di Bernières-Louvigny, che
ha ben conosciuto, al quale si riallaccia la mistica dell’annientamento, al centro
dell’accostamento giansenismo/quietismo.
§ 1.L’autore si rivolge ad un’anima scrupolosa che Dio invita ad abbandonarsi. Lo scrupoloso
è una persona contratta, che interpreta facilmente come punizione del suo peccato l’assenza
sensibile di Dio («la perdita di Dio»). Bisognerebbe pertanto «andare alla morte di tutto»,
cioè considerare che tutto ciò non è strettamente importante, invece di tentare con «dei mezzi
interiori» di dare consistenza ad un «vuoto», tanto più terrificante in quanto non esiste … che
nella nostra mente!
§ 2.Tutto il tormento delle notti dell’anima consiste nel volere rassicurarsi davanti a Dio,
immaginandosi di essere degna di lui («essere qualcosa in Dio e nella grazia»). Certamente
noi siamo indegni di Dio! Ma perché inquietarci, dato che Dio non s’inquieta?
Riconosciamo, una buona volta per tutte il nostro nulla, e tanto più gettiamoci nelle sue
braccia!
§ 3. Da qui il rimedio: non pensarvi più e «mantenetevi come una bestia nella perdita di tutto e
perfino della vostra salvezza e perfezione». E ciò «in nome di Dio» perché non si tratta di una
semplice calma psicologica, ma di una certezza d’amore.
§ 4.«Non siate così miserevole dal rigettarla sotto il pretesto che l’offendete»: il peccato è
spesso il pretesto più sottile che inventiamo per dispensarci di amare Dio, come se non
sappiamo che la sua misericordia è senza limite.
§ 5. Perfino l’inferno non potrebbe turbare un’anima abbandonata a Dio, poiché l’inferno non è
altro che la resistenza al suo amore. Da qui quest’insistenza sul «niente» (e più sopra il
«nulla»): Dio crea «ex nihilo», a partire dal nulla, in modo che tutto sia per il suo amore. Quel
che dipende da noi è soltanto accettare che sia così, e non essendo nulla per noi stessi,
saremo allora tutto per lui.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
L come … LACRIME
«Le mie lacrime sono, mio pane quotidiano…» (Sal. 42,4) Nella Bibbia come nella Tradizione
la vita spirituale si sviluppa interamente in una valle di lacrime! E ciò senza dubbio perché
Nessuna parte del corpo vuole come l’occhio soddisfare il cuore.
Santa Caterina da Siena (1347-1380), Dialogo 89
Così che
Queste lacrime sono, per così dire, il sangue dell’anima.
San Gregorio Magno, († 604), Omelia su Lc. 3, 1-11
Per questo
Le lacrime spengono i vizi, cancellano i peccati, addolciscono il cuore, innaffiano i buoni
propositi, fecondano le virtù.
Pietro de Celle (1115-1183), De panibus, 12
Lacrime di desolazione …
Eh! Cosa c’è di più miserabile, Signore, di uno sventurato senza misericordia per se stesso,
che piange Didone, morta per amore di Enea, e non piange la sua stessa morte, per non
avere amato voi!
Sant’Agostino (354-430), Confessioni, I, 13
… o lacrime di consolazione …
Che si volti dunque e ti cerchi, perché se egli ha abbandonato il suo creatore, tu non hai
abbandonato la tua creatura …, ma tu sei nel suo cuore, nel cuore di coloro che ti confessano
e che si gettano nelle tue braccia e piangono sul tuo seno al ritorno dalle loro penose vie.
Pieno di tenerezza, tu asciughi le loro lacrime ed essi piangono tanto più, e trovano la loro
gioia in quelle lacrime; perché non è un uomo di carne e di sangue che li consola, ma tu
stesso Signore, tu che li hai creati e che di nuovo li hai ricreati.
Idem V, 2
Lacrime di un amore smarrito …
Egli non piange perché Amore lo ha ferito,
Perché non è penoso vedersi così afflitto,
Anche se questa ferita ha infranto il suo cuore!
Ma piange, pensando che Amore lo ha dimenticato!
San Giovanni della Croce (1542-1591), Sulla pena di non vedere Dio
… o lacrime di un amore ritrovato,
lacrime dolci e soavi, lacrime a causa del dolore, soavi a causa dell’amore, e del tuo amore,
tu che sei Amore, per il quale il dolore è gioia immensa, e per il quale piangere è
consolazione suprema.
Guglielmo di Saint-Thierry (1085-1148), Sul Cantico, I, 1
Ad ogni modo,
Piangi, piangi, peccatore: è il tuo solo vantaggio!
San Gregorio Nazianzeno (IV sec.), Carmen 51, 12
Perché
È Cristo, che tocca gli occhi del tuo cuore e che ti ha fatto vedere spiritualmente.
Marco l’Eremita (IV sec.), De lege spirituali, 12
Quest’azione di Cristo da alle lacrime il loro valore:
Questo dono non ha la sua eccellenza nelle lacrime che fa versare, ma nel principio che le
produce, e negli effetti che ne risultano …: una grande tenerezza per Dio, un grande ardore
per piacergli e per servirlo bene.
Francesco Libermann (1802-1852), L’Orazione di affezione, cap. IV
Certamente, le lacrime che nascono dalla preghiera sono un buon bagno per l’anima, ma una
volta compiuta la preghiera, ricordati quale grazia ti ha fatto piangere.
Nilo d’Ancira (verso il 400), Sentenze, 58
Così non dobbiamo inorgoglirci per queste lacrime:
Anche se tu verserai fontane di lacrime nella tua preghiera, non ti elevi interiormente:
semplicemente la tua preghiera ha ottenuto un aiuto perché tu possa generosamente
confessare i tuoi peccati e appagare il Signore con le tue lacrime.
Evagrio (346-399), Trattato sull’Orazione, 7
Tanto che
L’abbondanza di lacrime non ha mai reso nessuno più santo, né la loro assenza più
peccatore!
Giovanni Bona (1609-1674), De discretione spirituum, 7, 12
Ma forse non avete quasi il dono delle lacrime esteriori?
Non inquietiamoci dunque se ci mancano la devozione e l’amore sensibile, e se ci mancano
pure le lacrime esteriori …; ma ciascuno si preoccupi di essere sempre unito a Dio
attraverso la buona volontà, e di avere il beneplacito di Dio per suprema consolazione.
Luigi de Blois (1506-1565), L’Istituzione spirituale, VII
Ciò non v’impedisce di chiedere il dono delle lacrime interiori, cioè la compunzione,
per ammorbidire con la compunzione la durezza inerente alla tua anima, confessando al
Signore la tua iniquità, per ottenere da lui il perdono.
Evagrio, Trattato sull’Orazione, 5
Piangi e versa lacrime davanti a Dio, con intenzione, e così potrai essere purificato dai
peccati
Nilo d’Ancira (verso il 400), Epistola III, 257
Perché quelle lacrime sono innanzitutto quelle di Dio stesso:
Un padre che ha seppellito un figlio amato, non ha una pena paragonabile, a quella di Dio per
un’anima uccisa dall’iniquità. Sii dunque addolorato per la tua anima, e mostra amore a Dio
che prova sofferenza e tristezza sull’anima peccatrice e morta.
San Efrem (IV sec.), Sermone su Is. 26, 10
Invece alcune lacrime sono effetto di una tenerezza tutta umana:
Vi sono persone di natura così tenera che la minima cosa le fa piangere; ciò farà credere
loro, spesso, che piangono per Dio, invece non è niente di ciò
Santa Teresa d’Avila (1515-1582), Il Castello dell’anima, VI, 6
Come discernere?
Quando le lacrime vengono da Dio, invece di turbarvi, vi lasceranno forza e pace, e raramente
vi faranno male. E anche se foste ingannati, purché vi sia umiltà, questo inganno farà male
solo al corpo e non all’anima.
Idem
Conclusione:
Che vengano dunque le lacrime quando Dio le invierà, senza che noi facciamo nulla per
estirparle! Allora, esse irrigheranno la terra arida del nostro cuore, e saranno un grande
aiuto per portare frutto, se noi vi faremo meno attenzione, perché è un’acqua venuta dal
cielo…. Che Dio ci dia dunque quel che vuole; acqua o siccità, egli sa meglio di noi quel
che ci conviene.
Idem
LA VERITÀ E LA FEDE NUTRONO LA PERSONA
Il 30 maggio 1940, due anni prima di entrare nella Trappa, in The secular Journal [Diario
secolare] Thomas Merton annota l’appunto che sotto riportiamo, un’osservazione espressiva
della fragilità dell’intero secolo ventesimo, che oggi rileggiamo con una certa impressione.
Egli era diventato cattolico da circa un anno e mezzo, mentre intorno al 1935 aveva letto il bel
volume di é. Gilson, Lo spirito della filosofia medievale. Nel brano riportato si avverte l’eco di
questa lettura, poiché nella convinzione medievale la fede, adesione libera e responsabile
della persona alla verità, costituisce la forza dell’anima e della mente, facendole superare
l’incertezza dell’opinione, che da sola non sostiene l’onere di procurare un senso
all’esistenza umana. Il collasso del rapporto tra l’uomo e la verità, il mancato affidamento
della persona alla verità che lo precede e lo fonda, apre la porta alla triste condizione di non
credere in nulla con serietà, in modo tale cioè da stimare degna la scommessa per qualcosa
e prestarle la fedeltà di un’intera esistenza. Il vagabondare, senza legarsi a niente e a
nessuno, dell’uomo globalizzato, sembra essere una delle più recenti conseguenze di quel
collasso. Ecco Merton: «Invece di possedere la fede, che è una virtù, e quindi nutre l’anima e
le dà un’esistenza sana, gli uomini sono in possesso soltanto di un gran numero di opinioni,
che riescono ad eccitare lo spirito, ma non gli offrono nulla per alimentarsi, e non giungono
che a logorarlo finché cade di schianto, esausto … In uno stato di cose come questo, in cui
esistono migliaia di individui privi di vera fede, i quali effettivamente non credono in nulla con
una certa profondità, ci si dà gran da fare a portare avanti indagini prolisse su quello che
“credono” le diverse categorie di persone. Scienziati, agenti pubblicitari, sociologi, militari,
critici, vengono continuamente intervistati su quel che credono nella loro qualità di scienziati,
agenti pubblicitari, sociologi, ecc. A quanto pare, esiste un tipo di fede ben distinta, adatta ad
ogni tipo di carriera. Comunque tutti rispondono con brillanti articoli, di almeno mille parole,
per esporre questa o quella opinione, raccattata non si sa dove. Quel che ne vien fuori basta,
per conto suo, a far scoppiare in singhiozzi».
ABC
N. 41 - Settembre 2003
123
ESSERE TUTTO IN COLUI CHE È TUTTO
1 Il nostro Dio creatore, Dio incarnato, bene supremo e perfetto, è amore tutto intero: perché
egli ama per intero e tutto intero vorrebbe essere amato. Da ciò consegue che egli vorrebbe
che tutti i suoi figli fossero tutti interi trasformati in lui per amore. E coloro che vivono in
grazia e in carità, in Dio stesso, bene perfetto, con perfetto amore, io li chiamo figli speciali e
diletti. Infatti, tutti noi siamo suoi figli per creazione, ma suoi figli speciali e diletti sono coloro
in cui Dio stesso, supremo bene, si compiace particolarmente per la sua propria
rassomiglianza che trova in essi.
2. Dio, che è buono e nobile per natura, vorrebbe tutto intero il cuore della sua creatura, tutto
per sé, senza mezze misure e senza rivali; … è nella natura dell’amore perfetto volerlo tutto
intero e non in parte. Infatti, noi sappiamo che se lo sposo ama la sposa, nel suo amore
segreto non può sopportare vicino a lei alcun rivale. Ma se il figlio di Dio conoscesse e
gustasse quest’amore divino, questo Dio increato, questo Dio incarnato, questo Dio
crocifisso, che è il bene supremo, si darebbe tutto intero a lui e si staccherebbe da sé stesso
e non solo dalle altre creature; egli amerebbe tanto questo Dio amoroso, che si
trasformerebbe tutto intero lui stesso in questo Dio-uomo, supremamente amato.
3. Se l’anima si dà a Dio e serve Dio per Dio stesso, lui che è per intero bontà e tutta bontà,
degno di essere amato solo per se stesso, allora ella deve mettersi sulla via diritta e
camminarvi al passo dell’amore puro, dritto, fervente e ordinato. Il primo passo che deve fare
quest’anima su questa via, è conoscere Dio in verità … Allora ella lo vedrà e conoscerà nella
sua bontà; e non soltanto nella sua bontà, ma supremamente e perfettamente buono.
Trovandolo buono, ella lo amerà per la sua bontà; e amandolo, desidererà trattenerlo; e
desiderandolo, ella darà tutto quello che ha e potrà avere, e anche se stessa, per poterlo
trattenere; e allora, trattenendolo, ella sentirà e gusterà la sua dolcezza. Trattenendo,
sentendo e gustando Dio stesso, dolcezza suprema e infinita, ella lo possederà fra le più
grandi delizie. Si, quest’anima piena dell’amore di questo diletto così dolce, desidera
possederlo, e desiderando possederlo, ella lo abbraccia; abbracciandolo, ella lo stringe, si
unisce a Dio e Dio a lei in suprema dolcezza d’amore. Allora la forza dell’amore trasforma
l’amata nell’amato, e l’amato nell’amata: l’anima incendiata d’amore divino, con la forza
dell’amore si trasforma in Dio, suo diletto, amato sì dolcemente, come il ferro incandescente
riceve in lui la forma del fuoco, il suo colore, il suo calore, la sua forza e il suo valore, come
se divenisse fuoco.
Angela da Foligno (1249-1309), Liber Sororis Lelle … II, XXI
L’AUTORE Appartenente ad una ricca famiglia umbra, sposata giovane, Angela conduce una
vita mondana fino alla sua radicale conversione verso i 40 anni, avvenuta a contatto con gli
ambienti francescani. Favorita da visioni e altri fenomeni spettacolari, ella vivrà in estrema
povertà e penitenza. Al centro di una cerchia di ferventi discepoli, ella diventa per la famiglia
francescana, quello che in seguito sarà Caterina da Siena per la famiglia domenicana. Il suo
insegnamento raccolto dal confessore è all’origine di un insieme di documenti che formano Il
Libro di Suor Angela da Foligno, la cui interpretazione non sempre è facile, perché giunto a
noi in un miscuglio di toscano e di latino approssimato. In una regione e in un’epoca in pieno
fervore mistico, Angela manifesta con la sua vita e la parola l’audacia amorosa delle beghine
del Nord, l’esuberanza d’espressione degli spirituali italiani, la tenerezza francescana per
l’umanità di Cristo, ma anche la profondità speculativa del suo contemporaneo Eckhart.
IL TESTO § 1. Dio è amore e soltanto amore: si tratta di rammentarsi incessantemente
questo dato fondamentale di tutta la vita spirituale. Noi siamo tutti destinati a vivere di questo
amore (ecco l’immagine di Dio in noi: «tutti noi siamo suoi figli per creazione»), e vivendo, a
divenire amore a nostra volta: allora noi saremo a somiglianza di Dio, saremo suoi «figli
speciali e diletti». Questo passaggio dall’immagine alla somiglianza è un motivo comune alla
letteratura cristiana.
§ 2. Dio buono, nobile, giusto e spesso in Angela, cortese…: dopo san Bernardo, l’amore
divino obbedisce alle leggi della cortesia, con le sue rivalità amorose, le sue avventure, i suoi
tornei e, soprattutto, l’obbligatoria esclusività e totalità del dono di colei che accetta infine di
essere amata. Se l’anima sapesse … come non cederebbe a tanto amore?
§ 3. Angela spiega come amare trasforma in amore; in altre parole come la grazia ci
divinizza. Ella parte dal principio che poiché l’amore è tutto (questo è il Vangelo!), se ci
lasciamo amare noi diveniamo, tutto. Ma lasciarsi amare, non è per l’appunto, amare? Il punto
di partenza è di saperlo: «conoscere Dio, in verità». Allora noi entriamo in una logica
d’amore, perché di gratuità, di grazia: «Dio amato solamente per se stesso». Tutto si
concatena: infinitamente buono, Dio è infinitamente amabile, e più ci si lascia amare e più si
desidera amarlo; più si desidera amarlo, più si ama, in una crescita continua fino alla perfetta
trasformazione nell’Amore stesso. Ancora nella linea di san Bernardo, questa trasformazione
è evocata come l’unione degli sposi, che anche se spirituale, non è meno di quella di due
amanti appassionatamente presi l’uno dell’altro.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
L come….. LETTURA
Avendo visto il posto della lettura biblica nella vita d’orazione (SEMI n. 24), parleremo qui
della “lettura spirituale”, cioè
La lettura dei libri dei mistici e dei trattati spirituali, nei quali si cerca non solo la conoscenza
delle realtà spirituali, ma piuttosto il loro gusto e il loro amore.
Alvarez de la Paz (1560-1620), De exterminatione mali, III, 5,2,2
Si tratta, dunque di
Leggere non come una fatica, ma come un godimento e un’istruzione dell’anima
San Gerolamo (350-420), Lettera 130,15
Ciò,
Non solo per sapere, ma per crescere spiritualmente e perché comprendendo la volontà di
Dio, la mettiamo in pratica.
Alvarez de la Paz, De vita spiritualis, II, 4, 31
All’inizio cosa scegliere?
I libri che infiammeranno di più la tua volontà verso il progresso e l’ascensione spirituale,
piuttosto che quelli che illumineranno il tuo intelletto nelle questioni difficili e speciali, ed
ecciteranno la tua curiosità per ciò che è materia di discussione.
Gerardo Zerbolt (1367-1398), De spiritualibus ascensionibus, 44
In breve,
Leggi ciò che tocca il cuore, piuttosto che ciò che ricrea la mente.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione, I, 20
Infatti,
Questa lettura illumina la nostra conoscenza di Dio, ci spinge al suo amore, c’istruisce sui
buoni comportamenti, ci dà coraggio per sopportare le prove, mette in noi il disprezzo del
mondo e il desiderio della patria celeste, c’insegna a discernere tra i vizi e le virtù, a vincere
le tentazioni, e tutto quel che è utile alla salvezza.
David d’Augsbourg (1200?-1272), De exterioris et interioris…, III, 51
In tali libri, come nella Scrittura, tu ti vedi come in uno specchio; vi riconosci le tue
imperfezioni, apprendi quel che ti resta di fare e come progredire.
Denys le Chartreux (1402-1471), Esortazione alle novizie
Per questo la lettura spirituale regolare di queste opere fa parte dell’equilibrio della vita
cristiana:
Leggine tutti i giorni un po’, con grande devozione, come se leggessi delle lettere che i santi
ti hanno inviato dal cielo, per mostrarti il cammino e darti il coraggio di andarvi.
San Francesco di Sales (1567-1622), Introduzione alla Vita devota, II, 17
Al contrario,
La lettura di qualcosa fatta occasionalmente, quasi per gioco, non costruisce nulla, ma rende
l’anima incostante; entrata con leggerezza nella testa, essa ne viene fuori con ancor più
leggerezza.
Guglielmo di Saint-Thierry (1085-1148), Lettera ai Fratelli di Mont-Dieu, III, II
E perché non leggere con la penna in mano per costituire il nostro tesoro?
Come un’ape esperta, colui che desidera raccogliere il miele spirituale deve saccheggiare le
virtù una ad una su coloro nei quali esse si concentrano, per nasconderle accuratamente nel
ricettacolo del proprio cuore.
Denys le Chartreux, De Institutis coenobiorum, V, 4, 2
Una tale lettura è dunque ordinata direttamente all’orazione, perché
L’amore di Dio generato nell’uomo dalla grazia, è allattato dalla lettura, nutrito dalla
meditazione, fortificato e illuminato dall’orazione.
Guglielmo di Saint-Thierry, Lettera ai Fratelli di Mont-Dieu, III, II
Così
L’orazione interrompa spesso la lettura, affinché da questa tu tragga l’affezione [per Dio], e
dall’affezione ti elevi all’orazione.
Gerardo Zerbolt, De spiritualibus ascensionibus, 44
Quello che intercorre tra la lettura e l’orazione è un vero dialogo tra Dio e l’anima:
Applicati ora all’orazione, ora alla lettura: nell’una tu parli a Dio; nell’altra, è lui che ti parla.
San Cipriano di Cartagine, († 258), Lettera a Donato, 15
La lettura può rimpiazzare l’orazione? Per coloro che vivono secondo il modo meditativo,
senza rimpiazzarla, essa l’aiuta potentemente:
Serviti del libro quando vedrai il tuo spirito stanco; cioè leggi un po’ e poi medita; poi rileggi
ancora un po’ e poi medita, fino alla fine della tua mezz’ora. Madre Teresa [d’Avila] fece così
all’inizio, e dice che si trovò molto bene.
San Francesco di Sales, Lettera 241
E se il fuoco della contemplazione comincia a prendere,
Appena sentirai gusto al dolce riposo, fermati subito, per riposarti semplicemente, o per
prendervi i sentimenti e le viste che a Dio piacerà di darti. Da lì le tue letture si volgeranno
poco a poco in orazione.
Padre de Caussade, Lettera 132
Quando il raccoglimento ci fa cadere il libro dalle mani, non resta che lasciarlo cadere senza
scrupoli.
Fénelon (1651-1715), Spiegazione delle Massime…
Come per l’orazione, vi sono giorni in cui la lettura ci sembrerà molto arida, perché Dio ci
sembrerà molto lontano; ma
Ciò che non capirai leggendolo, lo comprenderai il giorno della mia visita.
Tommaso da Kempis, Imitazione, III, 3
E attendendo
Quando ti metterai a leggere, la tua anima sia semplicemente unita e abbandonata a Dio,
come deve essere sempre, in maniera che sia più applicata a Dio che alle cose che leggi.
Francesco Libermann (1802-1852), Lettera del 31 Marzo 1838
Infine, abbiamo cura dei nostri fedeli compagni: non dita sudice, né pagine piegate, perché
È indegno del libro, colui che non si preoccupa di averne cura!
Jean Mombaer (1460-1501), Rosetum, I, 6
UNO STRACCIO IN BOCCA A UN CANE
Enrico Suso è un domenicano del sec. XIV, che insiste come Eckhart sull’unione trasformante
dell’anima con Dio per via dello spogliamento assoluto, da lui chiamata Gelassenheit
(serenità). Nella sua biografia spirituale, narrata in parte da Elisabetta Stagel e in parte dallo
stesso Suso, leggiamo la meditazione del Beato su un verso di Giobbe («la vita dell’uomo su
questa terra non è altro che milizia»), nella quale conosce il grado della prova, che lo
assimila al Crocifisso: è la vera svolta dell’abbandono per inizitiva del volere divino che gli si
manifesta in visione nelle vesti di un giovane che lo investe cavaliere. Avendo Dio gradito la
costanza con la quale egli si era esercitato nella virtù e nella mortificazione, adesso lo ritiene
degno di essere provato sino al fondo e in ogni cosa. Se finora Suso si è inflitto con le sue
mani la penitenza, cessando quando voleva e avendo compassione di sé, adesso sarà preso a
se stesso e dato indifeso in mani straniere: la sua buona fama sarà soffocata dalla cecità
degli uomini e sarà annientato. Pur mortificato, inoltre, il Beato ha conservato una natura
tenera e assetata d’amore; ora accadrà che proprio nei casi dove egli cercava amore e
fedeltà, gli sarà riservata una grande infedeltà e dolori e pene. E, ancora, egli è stato un
bimbo viziato che ha nuotato nella divina dolcezza; adesso gli verrà tolta tale dolcezza, e sarà
trascinato nella più arida indigenza, dove gli amici e Dio lo abbandoneranno e da tutti sarà
pubblicamente perseguitato. «In poche parole – riferisce la biografa – qualsiasi cosa tu
intraprenda per tuo piacere e tuo conforto, andrà indietro e andrà invece avanti quanto ti farà
dolore e ti è contrario». Il punto focale come in Giobbe non è un accanimento doloristico di
Dio sul suo servo, bensì il valore della prova vissuta alla presenza forte e vigile di Dio, che
sosterrà Suso, e che produce in questi un perfetto abbandono. Servì d’istruzione al mistico
domenicano una scena che aveva luogo in quel momento fuori dalla sua cella: un cane
correva recando in bocca un panno logoro, facendo ogni sorta di strani gesti, come gettarlo
in alto, rotolarlo per terra e farvi buchi. Così Suso sarebbe stato nella bocca dei suoi fratelli.
Uscito dalla cella, «raccolse quel panno e molto lo conservò, e ogni volta che stava per
perdere la pazienza, lo cavava fuori per riconoscersi in esso e mantenersi muto con
chiunque».
ABC
N. 42 - Ottobre 2003
123
AFFINCHÉ L’ANIMA SALGA SEMPRE
1. Coloro i quali Dio chiama alla contemplazione non si perdano d’animo, né pensino che sia
ozio o tempo perso aspettare così alla presenza di Dio e ai piedi del crocifisso. In effetti, in
questo modo l’anima profitta maggiormente, produce atti più profondamente spirituali … ed
infine è più gradita a Dio, di quanto non lo sia allorché vola in alto e fa bei discorsi sui
profondi misteri divini. E quando, dopo questa necessaria attesa e disposizione, Dio verrà a
visitarla, essa si vedrà, in una volta sola, più illuminata di quanto non lo sarebbe stata in cento
altre, se non avesse fatto così.
2. Quanto agli altri che non sono ancora, abbastanza progrediti per questa pratica … è
nondimeno necessario che essi abbiano la volontà di Dio così interamente ed unicamente
quale oggetto e desiderio del loro cuore, che essi non sentano alcuna volontà né affezione ad
essere consolati o illuminati nelle loro orazioni, se non nella misura in cui tale sarà il
beneplacito di Dio.
3. E notate che l’anima così entrata ed innalzata per mezzo della volontà divina, non troverà
più, in seguito, grandi difficoltà [nell’orazione]; al contrario, vi ritornerà quando vorrà, perché
avrà sciolto il nodo, trovato il segreto e sondato il fondo di questa materia; avrà, per
esperienza, trovato Dio, la luce, la gioia e la vita, non laddove si ricerca normalmente, e cioè
in noi stessi e nella nostra propria volontà, ricercando le nostre proprie gioie, le nostre luci e
le nostre consolazioni, ma laddove normalmente non si cerca affatto, ovvero, rinunciando a noi
stessi, al nostro appagamento, alla nostra gioia e alla nostra luce spirituale, trascurando e
quasi dimenticando tutto ciò, per l’attuale rimembranza e della grande gioia ricevuta dalla
volontà di Dio e dal suo beneplacito.
4. In effetti, la causa per cui noi non possiamo rinunciare assolutamente a noi stessi per la
volontà di Dio non è altra se non la seguente: pensiamo di perdere ciò che noi desideriamo e
la nostra propria soddisfazione. Ma quando l’anima ha trovato il contrario per esperienza, e
quando per mezzo della rinuncia nonché dell’oblio della propria volontà e della propria gioia
per il divino, la sua volontà e la sua gioia non sono state annientate, né sono morte, bensì
sono state trovate in Dio centuplicate secondo la sua promessa, essa non è più triste, e non
sente più ripugnanza nel rinunciare a sé stessa…
5. Non bisogna mai riposare in qualche consolazione come se fosse eterna, che essa sia
sensibile o spirituale: così facendo, l’anima si abbasserebbe invece di innalzarsi, la
consolazione spirituale si volgerebbe in sensibile e quella sensibile in sensuale e carnale.
Ma occorre far leva su questa per tirare l’anima verso l’alto e fissarla in Dio: così la
consolazione sensibile si farà spirituale e quella spirituale si volgerà in perfetta unione con
Dio.
Benedetto di Canfield (1562-1610), Regola di Perfezione, I,19
L’AUTORE Di nobile famiglia inglese, dopo una gioventù londinese piuttosto frivola,
Benedetto si converte a 23 anni al cattolicesimo e si trasferisce così in Francia. Entrato
nell’ordine dei Cappuccini nel 1587 conoscerà da loro una vita mistica di eccezionale
intensità. Dopo un anno a Parigi, con il certosino Beaucousin, uno dei principali protagonisti
del prodigioso rinnovo spirituale della capitale segnatamente intorno al salotto della Signora
Acarie, rientra in Inghilterra nel 1599 dove sarà imprigionato per la sua fede, prima ritornare
in Francia per morire.
IL TESTO Elaborato progressivamente dal 1590, in pessimo francese, in inglese ed in latino,
la Regola di Perfezione rispecchia l’insegnamento di Benedetto. Alimentata dalla tradizione
francescana e reno-fiamminga, essa accompagna tutto l’itinerario dell’anima, dal suo
ingresso in orazione alla perfezione contemplativa. La pagina che citiamo, rinverdendone
l’espressione linguistica, affronta l’eterna questione della desolazione interiore di coloro i
quali, non potendo più meditare, non possono tuttavia riposare il loro spirito nella semplice
attenzione contemplativa a Dio avvertito come presente. L’autore ne approfitta per enunciare
una legge generale della vita d’orazione: l’unica orazione che abbia un valore è quella di
accettare quella che Dio ci dona nel momento in cui ce lo dona.
§1. Non si ripeterà mai abbastanza: la sensazione d’impotenza e di vuoto nella preghiera
sottolinea che Dio, poiché spirito, è normalmente insensibile anche se la sua presenza si
«rifrange», in alcuni momenti, nella nostra sensibilità (l’anima si sente allora «illuminata», e
ciò tanto maggiormente quanto meno noi lo ricerchiamo.
§2. Per lo stesso motivo, allorché, specialmente agli inizi, proviamo una certa soddisfazione
nel praticare l’orazione, occorre obbligarsi a non attribuire importanza alcuna al fatto di
essere «consolati o illuminati», ma regolarsi per questa pratica «unicamente sul beneplacito
di Dio».
§3. Allora, l’orazione è nella sua verità: la gioia che vi si trova non è più di tipo sensibile, ma
da ascriversi all’intima armonia di un’anima che si preoccupa unicamente «della volontà di
Dio e del suo beneplacito». E poiché essa sarà fedeltà alla volontà di Dio, e non alle nostre
preferenze volubili, la perseveranza nell’orazione non sarà più lotta contro noi stessi, ma
semplice attenzione a Dio presente nel fondo di noi stessi (una «rimembranza attuale»).
§ 4. L’unione a Dio, fonte di ogni gioia vera, non dipende da noi: volerla costruire la distrugge.
Ma proprio in quanto essa non dipende da noi, occorre aver sperimentato ciò per crederci.
Allora l’orazione cambia regime e cessando di essere attenta a sé stessa e alle sue pratiche,
diventa quest’attenzione semplice, non calcolata, a Lui che si è reso presente a noi.
§ 5. In questa logica realmente contemplativa, le consolazioni, quando sopraggiungono,
devono essere superate: attaccarsi ad esse vorrebbe dire distogliersi da Dio che ce le dona,
e pertanto reciderle dalla loro fonte. Tale distacco, senza pertanto distruggerle, rinsalda
maggiormente la nostra unione a Colui che ce le dona.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
L come … LIBERTÀ
«Laddove è lo Spirito del Signore, lì è la libertà» (2Cor 3,17). E ciò perché vi è amore soltanto
tra persone libere. Da parte di Dio innanzi tutto:
Dio chiama [ad unirsi a Lui] chi vuole, quando vuole e come vuole: non vi è per ciò né luogo,
né anno, né tempo determinato; tutto dipende dalla sua volontà Santissima, di Lui che «trova le
sue delizie nel conversare con i figli degli uomini».
Luigi du Pont (1554-1624), Vita del Padre Balthasar Alvarez XV
Da parte dell’uomo poi:
Dio stesso che ci ha donato la nostra libertà, non vuole, affatto, averla per forza; e quando ci
chiede di dargliela, vuole che sia liberamente e secondo il nostro benestare: non ha mai
costretto nessuno a servirlo e non lo farà mai.
San Francesco di Sales (1567-1622), Sermone 28 agosto 1620
Ma questa libertà è fragile! Non appena noi la rifiutiamo a Dio, … si dissolve!
Coloro i quali amano sé-stessi in modo così disordinato da volere servire Dio unicamente per
loro tornaconto e profitto, si privano della libertà e si attaccano a loro stessi
Beato Giovanni Ruusbroec (1293-1381), La Pietra Brillante, II, 2
Perché
Quando noi amiamo una creatura, non per servircene nel nostro cammino verso di Te,
Signore, ma per goderne in sé-stessa, quest’amore cessa di essere amore e diventa
cupidigia, concupiscenza o qualcosa del genere, a scapito della nostra libertà, perdendo fino
alla grazia del suo nome: ecco il povero uomo abbassato al livello degli animali senza
ragione, divenuto loro simile.
Guglielmo di Saint-Thierry (1085-1148), Sul Cantico, Preliminari, 2
Cosicché
Veramente, è prigioniero, colui che non è libero in Dio!
Idem, Lettera ai frati di Mont-Dieu, I,I
O piuttosto, non gli rimane nient’altro se non un’illusione di libertà:
[Di peccato in peccato] mi smarrivo, presuntuoso, a testa alta, sempre più lontano da te,
Signore, amando le mie vie e non le tue, amando la mia libertà di schiavo fuggitivo.
Sant’Agostino (354-430), Confessioni, III,3
Così,
Colui che vuole e desidera andare liberamente verso Nostro Signore deve prima di tutto
trovare la sua coscienza libera da ogni ombra di peccato. È, altresì, necessario che la sua
volontà sia rivolta verso Dio, e che non abbia altra intenzione né altro desiderio se non di Dio
e delle cose di Dio, provando fastidio in tutto ciò che è estraneo a Dio.
Maestro Eckart (1260-1327), Istruzioni Spirituali, 20
Pertanto,
Imparate adesso a disprezzare tutto, al fine di poter andare liberamente da Gesù Cristo.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Gesù Cristo, I,23
Questo distacco necessario dalle creature non tollera alcuna eccezione:
L’uccello è trattenuto tanto da un filo sottile quanto da una corda, fino a quando non l’abbia
spezzato per volare.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Salita del Carmelo, I,11
Ma si tratta anche di andare da Gesù che ci fa ritrovare la libertà:
Solo Gesù è «libero tra i morti»; e unendoci a Colui che è veramente libero, saremo, fin d’ora,
liberati, per mezzo di una libertà vera, dalla servitù del peccato.
San Gregorio Magno († 604), Omelia 39
In questa unione infatti,
L’anima che ha annientato tutte le proprie attività e ricerche nella totale dipendenza
all’operazione di Dio, è libera, indifferente a tutto, svincolata da sé-stessa e dalle creature, e
completamente inabissata in Dio, che ne fa ciò che Lui vuole.
Giovanni di Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, Libro III,
cap.8
Libertà non è dunque indipendenza, ma adesione libera a Colui che ci rende liberi:
L’anima libera non ha alcuna volontà di volere o di non volere, ma soltanto di volere la volontà
di Dio e di soffrire in pace il comando divino.
Margherita Porète († 1310), Lo Specchio, XIII
Cosicché
[Gli amici di Dio] sono liberi da tutto, tranne che del loro amore.
Beata Elisabetta della Trinità (1800-1906), 21 agosto 1906
O amabile e dolce servitù di Dio, nella quale l’uomo ritrova la vera libertà e la santità!
Tommaso da Kempis, Imitazione di Gesù Cristo, III,10
Ah! Che fate, Dio del cuore mio? Mi obblighereste così liberamente, ad amarvi liberamente?
Giovanni di Saint-Samson (1571-1636), Esercizi dell’Amore supremo, I
Si, perché
La grazia divina ha forza non per forzare le nostre volontà, ma per renderle innamorate delle
sue attrazioni; essa ha violenza, ma non per violare la nostra libertà: ci attira con lacci di
tenerezza, con legami d’umanità.
Jean Pierre Camus (1584-1652), Lo Spirito del Beato Francesco di Sales,
XIII,29
Ed è questa forza dell’amore di Dio, che fa sì che
L’anima, vinta, dà a Lui tutto, perché vedendolo così amabile nei suoi confronti, non vuole
niente, se non essere spogliata interamente, e che Lui abbia tutto e che lei non abbia niente.
Maria dell’Incarnazione(1599-1672), Relazione del 1564, XIII
In effetti, per colui che ha sperimentato «quanto è dolce il giogo del Signore»,
Il bene è ubbidire a Dio, dare a Lui fiducia e custodire il Suo comandamento che è la vita
dell’uomo; allo stesso modo non ubbidire a Lui è il male, ed è la morte dell’uomo.
Sant’Ireneo (II° secolo), Adversus Haereses, IV,39
O se si preferisce,
Ogni potere ed ogni libertà che dà il mondo, raffrontato alla libertà ed al potere che dà lo
spirito di Dio è soltanto suprema schiavitù, angoscia e cattività… La libertà non può dimorare
nel cuore sottomesso ai suoi capricci, perché è un cuore di schiavo; ha bisogno di un cuore
libero, vale a dire, di un cuore di figlio.
San Giovanni della Croce, Salita al Carmelo,1,4
GESÙ PIANTATO NEL CUORE DELL’UOMO
Alcuni testimoni ci raccontano di aver percepito un preciso mutamento nel loro sentimento
della presenza di Dio, raffigurabile pressappoco con quest’immagine: sentirLo passare da
davanti a sé a dentro di sé, fino a costituire il baricentro della propria persona. Non si tratta
semplicemente di sentire Dio nel proprio cuore, come l’uomo di ogni religione sa, ma di
percepire la presenza di Gesù quasi conficcata nel centro di se stessi, in modo che nulla
potrà mai svellerla, come se la croce che portava Gesù di Nazareth duemila anni fa fosse
stata piantata non solo sul Golgota, ma nel cuore dell’uomo. È senza dubbio l’unione di Dio
con noi in Gesù ad aver creato un indissolubile sodalizio, da far affermare che con l’evento
cristiano il rapporto di Dio con l’uomo e dell’uomo con Dio è veramente e profondamente
cambiato. Non tutti, certo, lo sanno né tutti lo comprendono in modo pieno. Ma chi lo sa,
scopre via via che la presenza di Cristo si fa in lui sempre più intima fino a identificarsi con la
coscienza di sé. Non vanno lontane da queste considerazioni le affermazioni di s. Agostino o
di s. Giovanni della Croce, i quali scoprono in uno il proprio volto e quello di Cristo al centro
della propria anima. E chi sa questo non lo sa solo per sé, bensì lo sa per tutti gli uomini, sia
perché vedendo in sé Gesù, vede tutti gli uomini in uno, in se stesso, sia perché vede in ogni
uomo quello stesso Gesù scoperto in sé. Da questo straordinario mistero si comprende
l’insopprimibile spinta missionaria nel discepolo: egli è uno che sa, il quale ha gioia nel
servire questa presenza nel cuore dell’altro uomo, facendo il possibile perché essa emerga
nella consapevolezza di lui e ne costituisca la pienezza. Dallo stesso mistero nasce la
profonda consapevolezza del mistero dell’iniquità, perché solo alla fulgida luce della
presenza divina del Crocifisso si aprono gli occhi sugli abissi del peccato, proprio e
dell’umanità. Qui si vede bene che il sapere e la consapevolezza della fede nella presenza di
Gesù nell’uomo non è un fatto psicologico o intellettivo, ma un’emergenza dall’intero essere
proprio, che si vede sprofondato nel nulla del peccato ed impotente dinanzi alla sua malefica
forza, cioè votato inesorabilmente alla morte. Eppure questo profondo senso del morire, sorto
dalla fede, genera inaspettatamente la fresca fiducia della vita donata: la redenzione avviene e
tu passi ancora, fai sempre pasqua.
ABC
N. 43 - Nov embre 2003
123
L’ORAZIONE, CAMMINO DI FELICITÀ
1. Dio è un bene infinito, sorgente, origine e fonte d’ogni bene, intimamente presente alla
nostra anima nella sommità del nostro spirito, dove egli ha impresso e inciso la sua
immagine sacra, facendovi la sua dimora come nel suo tempio, il suo trono e il suo piccolo
palazzo terreno. E sebbene governi, moderi e regga con la sua provvidenza il mondo intero,
egli è tuttavia attento al bene e alla salvezza di ciascuno di noi in particolare, come se fosse
davvero dimentico d’ogni altra cosa e dovesse provvedere soltanto a noi.
2. Perché, come una sentinella attenta posta nel nostro spirito, ci osserva e ci guarda in tutti i
nostri movimenti, pensieri e desideri; egli vede dove è, da dove viene e dove va il nostro cuore,
a cosa tende, verso cosa aspira, qual è la radice di tutte le nostre opere e intenzioni.
Cosicché non c’è bisogno di cercare Dio lontano da noi: egli è sempre presente nella
sommità del nostro spirito, eccessivamente desideroso di comunicarsi a noi con l’infusione
delle sue grazie.
3. Pur essendo così, è arrivata, però, a noi con il peccato la nostra più grande sfortuna,
quella di aver perduto il godimento di questo bene sovrano e di avere sviato il nostro spirito,
per rivolgerlo verso le creature; in maniera tale che questo bene così desiderabile, sebbene
così presente e intimo, dimori in noi completamente sconosciuto e nascosto, e non risentiamo
più della sua presenza così immediata alla nostra anima, se non come se fosse il più lontano
del mondo. In contraccambio, il più gran bene che noi adesso possiamo acquisire è di
congiungerci, unire e legare di nuovo lo spirito con Dio attraverso la conoscenza, l’amore e
l’affezione, riguadagnando con questo mezzo il ricordo riconoscente della sua divina
presenza …
4.Ecco l’origine e la sostanza dell’orazione mentale: un esercizio interiore col quale si
ricerca nella propria anima il godimento e la fruizione di Dio nostro bene sovrano,
rimpiangendo fortemente la sua assenza e la sua perdita, e di più desiderando la sua
presenza e la sua acquisizione. Per dirla in altro modo: l’orazione mentale è un’elevazione
del cuore verso la sommità dello spirito fino a Dio, stabilendosi incessantemente alla sua
presenza per indirizzargli tutti i pensieri, desideri e intenzioni, rapportando alla sua sola
gloria, tutto quel che gli conviene fare o sopportare … L’orazione mentale è un cammino
spirituale verso Dio alla sommità della montagna del nostro spirito, un ritorno e una
conversione della sua affezione che si era perduta nelle cose del mondo, a Dio, per riposarsi,
inabissarsi e tuffarsi completamente nel suo amore.
Costantino di Barbançon, 1582-1631, I Sentieri Segreti dell’Amore divino, II, 1
L’AUTORE Terzo di una famiglia profondamente cattolica (suo padre è massacrato dai
protestanti prima della sua nascita), Teodorico Paunet entra presso i cappuccini di Bruxelles
nel 1600 e vi riceve il nome di Costantino. La sua carriera di predicatore e soprattutto di
direttore spirituale si svilupperà in Renania, la sua povertà e la sua bontà contribuiranno al
rinnovamento cattolico, assicurandogli un’immensa popolarità.
Il TESTO Opera principale di Costantino, I Sentieri Segreti spiega l’insieme dell’itinerario
spirituale in 300 pagine. Stampato a Colonia nel 1623, ristampato a Parigi, eserciterà una
grande influenza sul XVII secolo francese. Proprio come Benoit de Canfield o Jean de SaintSamson, Costantino unisce la rudezza della lingua alla potenza di una mistica ereditata dai
maestri nordici. Egli vi aggiunge un’impregnatura tomista che fa di lui uno dei rari veri
teologi della vita spirituale.
§ 1. Dio risiede «nella sommità del nostro spirito». Altri autori parleranno del fondo
dell’anima, della sua essenza, del suo centro, etc., per designare quello che è più interno di
noi stessi, in noi, e che è a contatto con Dio. La sua immagine in noi non è dunque una copia,
ma una presenza reale e viva, una partecipazione a ciò che egli è; egli è in noi «sorgente,
origine e fonte», e non vago riflesso che dorme al fondo del nostro cervello. Questo Dio che
si dà a me, è Dio tutto intero: egli governa il cielo e la terra soltanto per me e se ama altri è a
causa mia. Costantino, come tutti i maestri, fa di questa meravigliata scoperta il punto di
partenza di tutta la vita spirituale.
§ 2. Dio non ci sorveglia: egli veglia su di noi, con la tenerezza di una madre, spiando ogni
possibilità di «comunicarsi a noi». Non andiamo a cercarlo altrove: lasciamolo entrare
attraverso questa porta della sommità della nostra anima, accogliamolo in noi, raccogliendo
noi in lui.
§ 3. Sarebbe sufficiente, infatti, questo raccoglimento per ritrovare, come il primo giorno, «il
godimento di questo bene sovrano», che era quello di Adamo nel paradiso perduto. Ma dopo
il peccato, noi ci volgiamo verso il lato malvagio, cosicché Dio non penetra oltre la soglia
della nostra porta, oltre la sommità dello spirito, come assente, perché interdetto di
soggiorno in noi. Ritornare a questa felicità suppone dunque la nostra conversione, cioè,
ancora una volta il nostro raccoglimento. Allora avremo «riguadagnato il ricordo
riconoscente della sua divina presenza»; «ricordo riconoscente», nel francese goffo di
Costantino si riferisce alla percezione di Dio propria all’esperienza spirituale, questa sorta
di felice evidenza di un Dio che è là, ed è là solo perché in procinto di darsi a noi.
§ 4. Ecco cosa definisce «l’orazione mentale»; volgendoci con tutto il cuore verso questo Dio,
che entra per la parte più profonda di noi stessi, noi ci offriamo incondizionatamente a lui
attraverso «tutto ciò che conviene fare o sopportare». Si nota che «mentale» non vuol dire
«cerebrale», ma indica il focalizzare «tutti i nostri pensieri, desideri, e tutte le nostre
intenzioni» attraverso la mens, che è il nome latino di «sommità dello spirito». Così la parola
«affezione» deve essere presa qui per equivalente di volontà.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
L come LUCE
«Dio è luce, in lui non ci sono tenebre» (1Gv 1,5) Tutta la vita spirituale è illuminazione: «Dio
che disse: Rifulga la luce dalle tenebre! Rifulse nei nostri cuori» (2Cor 4,6).
La luce in sé non si vede; essa permette di vedere:
Come la luce, che ci mostra tutto, non ha bisogno di un’altra luce per essere vista, così Dio,
che ci fa vedere tutto, non ha bisogno di una luce nella quale noi possiamo vederlo, perché
egli è per essenza luce.
San Massimo il Confessore (580-652), Prima centuria, 35
Così che noi in questa luce vedremo solo se Dio lo vuole proprio:
Come è impossibile all’occhio percepire gli oggetti sensibili senza la luce solare, così senza
la luce spirituale l’intelligenza umana non saprebbe mai ricevere la contemplazione
spirituale.
Idem, Ad Thalassium, q. 59
Ma appena si passa da ciò che mostra a ciò che è, questa luce ci acceca:
Poiché Dio è luce, è impossibile che ci siano tenebre nel suo palazzo; ma questo grande
abisso di luce è per il nostro spirito, che non ne può sopportare lo splendore, un abisso di
tenebre che lo abbagliano, l’accecano e gli sottraggono la conoscenza delle creature.
Jean Crasset (1618-1692), La vita di Madame Helyot, Parigi 1683, p.118
Questa luce spirituale è Dio stesso nel momento che si dà a noi:
Nella carne di Nostro Signore la luce paterna ha fatto irruzione e, brillando dalla sua carne, è
venuta in noi; così l’uomo è passato nell’incorruttibilità avvolto nella luce paterna.
Sant’Ireneo (II secolo), Contro gli Eretici, IV, 20
Questo è il mistero di colui che è «luce da luce»:
Gesù è la vera luce, Gesù è una sostanza di luce, Gesù è la viva sorgente di luce, Gesù è lo
splendore stesso della luce increata, il padre e il principe di luce, che la spande e comunica
alla terra e al cielo, nel tempo e nell’eternità, e senza di lui non c’è nessuna vera luce al
mondo.
Pietro de Bérulle (1567-1629), Stato e Grandezza di Gesù, Disc. VIII
Ma in più, questa luce c’introduce in lei:
Guidaci là dove i misteri della scienza divina sono nascosti nella tenebra risplendente del
silenzio, dove essi sono segretamente insegnati, nell’oscurità totale, trasparente e radiosa,
tenebra nella quale ogni cosa diviene luminosa e colma dello splendore dei beni invisibili le
intelligenze che hanno rinunciato a vedere.
San Bonaventura (1221-1274), Itinerario dello spirito verso Dio, VII, 5
Poiché ogni cosa diviene luminosa in quest’invisibile luce,
Oh quale felicità per un’anima, quando questa luce della verità comincia a splendere dentro
di lei! Ella conosce allora come sia stata avviluppata nelle tenebre e quanto abbia dimorato
nell’oscurità.
Jean de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, II, 11
Perché quel che conosco di me, Signore, lo conosco alla tua luce, e ciò che ignoro di me, lo
ignoro fino a che il tuo volto cambia le mie tenebre in mezzogiorno.
Sant’Agostino (354-430), Confessioni, X, 5
Allora, quando Dio vuole illuminare, impossibile sfuggire alla sua luce:
Noi ci sottraiamo, tergiversiamo, ma non c’è nessuno che possa nascondersi alla luce della
tua verità! Perché nel medesimo tempo che illumina coloro che si girano verso di te, essa
percuote coloro che se ne allontanano.
Guglielmo di Saint-Thierry (1085-1148), Lettera ai Frati del Monte-Dio, IV, III
Questa presa di coscienza è difficile da sopportare, ma salutare, perché:
Ciò accade nella misura in cui Dio si avvicina a noi e noi viviamo e camminiamo nella sua
luce; senza riflessione da parte nostra, ci fa vedere e sentire, conoscere e scorgere dentro di
noi un abisso di miseria e di corruzione. Ecco uno dei più grandi segni del progresso nelle
vie di Dio!
Jean–Pierre de Caussade (1675-1751), Lettera 57
Infatti, tutte queste miserie sono tali solo per contrasto con le meraviglie divine:
La fede, mentre ci porta a Dio, ci pone di fronte alla sua luce accecante, così che le tenebre
luminosissime, di un silenzio che segretamente c’insegna, riempiono della propria luce, più
bella di ogni beltà, le nostre intelligenze accecate.
Dionigi l’Aeropagita (VI S ?), Teologia Mistica 1, 1
Ed è talmente vero, che senza rendersene conto quest’anima a sua volta splenderà di questa
luce:
Ella si trova senza memoria né ricordo, come un tesoro inestimabile, che si nota soltanto
quando è obbligata a manifestarlo, e la manifestazione per gli altri è anche manifestazione
per sé.
Jeanne Guyon (1648-1717), I Torrenti, II, 3
Allora piuttosto che fuggire la luce, andiamo davanti a lei, perché
Proprio come il sole visibile invia necessariamente la sua luce nel limpido specchio posto di
fronte a lui e vi forma la sua immagine, così l’anima pura e libera d’impedimenti è illuminata
dai raggi luminosissimi del sole invisibile, e in lei si riflette in modo eccellente l’immagine del
sole divino stesso.
Luigi de Blois (1506-1566), Istituzione Spirituale, V
Cosicché
Nella tua luce, Signore, vediamo la luce.
Sal. 36, 9
Fino a che
Noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo
trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito
del Signore.
2 Cor. 3,18
UMILTÀ INTIMA E FIDUCIA IN DIO
«Non siete contenta – dite – della vostra pazienza e della vostra sottomissione nelle pene.
Purché tale insoddisfazione non arrivi mai fino al risentimento, al turbamento, allo
scoraggiamento, essa v’ispirerà un’umiltà sincera e intima, un certo disprezzo di voi stessa
che maggiormente piacerà a Dio e vi farà progredire più di una pazienza e di una
sottomissione più perfetta, che non servirebbe forse che ad alimentare l’amor proprio con
compiacenze segrete e quasi impercettibili» Non è raro che in una vita spirituale non ridotta
ai minimi termini si riscontri non solo la constatazione dell’impazienza e dell’intolleranza, ma
soprattutto un autentico dispiacere per esse. Anche questa giusta afflizione per le proprie
mancanze va valutata in base ad un valore ancora più alto e decisivo, qual è la carità. A
quest’ultima rimandano le parole sopra riferite del padre de Caussade ad una visitandina
(lettera 46 a Marie-Thérèse de Vioménil), che insistono sui due poli della vita interiore, cari
al gesuita del Settecento: la diffidenza di sé e la totale fiducia in Dio. il risentimento, lo
scoraggiamento e ogni forma di turbamento interiore non provengono da Dio, ma certo
almeno dall’amor proprio, per quanto camuffato. Di contro sta l’umiltà sincera e intima e il
disprezzo di sé, che vietano anche le compiacenze impercettibili, mentre aprono il sentiero
alla ricerca del compiacimento divino. Alla luce di questa stessa carità, nutrita dalla
preghiera, si rivelano al credente le sue miserie senza che vi si accompagni l’agitazione del
turbamento o la scompostezza del risentimento, anzi lasciandolo in mezzo ad esse tranquillo
e perseverante nel tentativo di diminuirle dolcemente. D’altronde, per battere l’amor proprio
non v’è altra via che considerare in pace la sua orribile bruttezza – in pace, per dare spazio
alle operazioni della grazia – e attendere vigilanti da Dio il tempo e il modo della vittoria,
perché sia del tutto chiaro che essa non viene da se stessi. Infatti, a causa dello spiccato
amor proprio, Dio è quasi costretto talvolta a nascondere i doni e le ricchezze con le quali
abbellisce il discepolo, affinché il più piccolo soffio di vanità e di compiacenza non li
distrugga. Quando egli sarà in grado di portarli e di gioirne senza pericolo, Dio gli aprirà gli
occhi, e allora la sua lode si innalzerà libera, senza alcun ritorno su se stesso.
ABC
N. 44 - Dicembre 2003
123
FONDERE D’AMORE…
1. Nel tocco di Dio lo spirito dell’uomo si trova attirato nel «più profondo» dell’anima, in
questo «più profondo» dove godrà di Dio. Questo tocco ci fa fondere e ci riduce a niente
nell’unità divina, e ci fa morire interamente nell’eterna beatitudine, ossia in quest’amore
perfettamente unico e semplice, che abbraccia il Padre ed il Figlio in uno stesso godimento:
è lì, nell’abbraccio molto dolce dell’amore divino, che lo spirito innamorato è immerso, a tal
punto che tutte le sue potenze sono costrette a venir meno.
2. Quest’attrazione è un tocco interiore che proviene dall’unità sovressenziale di Dio: quando
si produce, gli spiriti innamorati presi in quest’abbraccio si fondono completamente con Dio,
in uno stesso amore. E non c’è da stupirsi, perché sopra questo tocco, nell’essenza calma e
silenziosa dell’anima, splende un chiarore inafferrabile, l’Altissima Trinità, che dimora nel più
profondo dello spirito, ed è dal flusso di queste ricchezze e di queste delizie che esso
proviene… L’intelletto e la ragione sono accecati dall’eccesso di questo bagliore e vegliano
alla porta, mentre la potenza amorosa penetra con Mosè e si slancia nella tenebra, perché
essa riceve una spinta spirituale che le dà una fame insaziabile di cogliere il bene increato,
proprio come un pesciolino che vorrebbe ingoiare il mare intero.
3. In questo amore che la liquefa, l’anima è trascinata nell’abisso dell’amore divino, e
tralasciando se stessa ed ogni cosa, ella è inghiottita, al punto di disperdersi nell’amore
eterno dove si trova talmente assorbita e penetrata da infiammarsi completamente in un’unica
fiamma d’amore; cosicché, pur conservando il suo essere proprio, ella si spoglia di tutto ciò
che è umano e riveste tutto ciò che è divino, felicemente trasformata in Dio con tutte le sue
potenze, e, mossa da Lui… Proprio come un pezzo di ferro, naturalmente nero e freddo, il
quale, riposto in un braciere, abbandona la sua nerezza, la sua durezza e la sua freddezza,
rivestendo le spoglie del fuoco, il suo calore, la sua agilità e la sua chiarezza, diventando
totalmente diverso da se stesso: allo stesso modo, l’anima prende il calore del fuoco
dell’amore divino che s’infiamma al soffio della sue continue aspirazioni, lei che prima era
fredda; diventa chiara, lei che era oscura; agile, lei che era indurita. Cosicché fondendosi
completamente l’anima fluisce in Colui che lei ama e s’unisce a Lui senza alcun
intermediario, diventando un unico spirito con Dio, proprio come l’oro, l’argento, il rame ed il
piombo fusi insieme diventano una sola materia e sostanza.
Henri de Herp (= Harphius), 1400?- 1477, Specchio di Perfezione, III, cap.5758
L’AUTORE Nato a Erp in Olanda, coltiva l’orazione e lo studio dai Fratelli della Vita Comune
di Delft, famiglia spirituale all’origine della Devotio Moderna. Nel 1450 entra dai francescani
durante un pellegrinaggio a Roma. A Malines ed Anversa sarà un predicatore rinomato e
particolarmente un maestro di vita interiore i cui scritti (raggruppati sotto il titolo di Theologia
mystica) tramanderanno , ai secoli successivi, la dottrina di Ruusbroec e degli altri autori
nordici.
IL TESTO Lo Specchio di Perfezione è l’elemento centrale della Theologia mystica di Herp.
Egli espone qui il doppio effetto che produce il tocco di Dio nell’anima allorché vuole
penetrarla: esteriormente la sua attività è plasmata dalla grazia di Dio, mentre interiormente,
essa tende sempre più ad inabissarsi nel godimento di Dio stesso, come un’ape fa bottino del
miele sul fiore e ritorna all’alveare per assaporarlo. È questo ritorno che Herp descrive in
questa pagina. I paragrafi 1 e 2 derivano molto direttamente da Ruusbroec mentre il 3
s’ispira a Raoul de Biberach (1360), sulla scia di San Bonaventura.
§1 I mistici amano esprimere la loro esperienza fondamentale come un «tocco», per evocare
l’immediatezza e la densità carnale dell’irruzione divina. L’anima si sveglia allora alla vita
trinitaria, all’amore unico e semplice, godimento puro e sufficiente, al di sopra di ciò che
possono le sue potenze secondo il loro funzionamento naturale.
§2 Il termine sovressenza, fondamentale nei nordici, indica qui semplicemente questa vita
trinitaria comune al Padre, al Figlio ed allo Spirito Santo e a coloro i quali essi introducono
nel loro «abbraccio». Quanto all’«essenza dell’anima», essa è il suo punto di contatto con Dio
«nel più profondo dello spirito», e cioè la zona delle sue potenze superiori, ossia l’intelletto e
la ragione per quanto riguarda il conoscere, e la potenza amorosa per quanto attiene il
volere. È quest’ultima che conduce l’anima, accecata dalla Sua gloria come Mosè nel Sinai
(cf. Es 24,15), incontro a Dio: nella vita contemplativa è sempre l’amore che apre la via della
conoscenza.
§3 Allora si opera la trasformazione dell’anima in Dio, non tramite una fusione di entrambi
(«l’anima conserva il suo essere proprio»), bensì per assunzione dell’essenza dell’uomo
nella sovressenza di Dio («essa riveste tutto ciò che è divino»); ciò è ben evocato
dall’immagine classica del ferro immerso nel fuoco. Si è rimproverato ad Herp un certo
rischio di panteismo (l’essere dell’anima non sarebbe altro che l’essere di Dio), intendendo i
termini essenziale-sovressenziale ad un livello metafisico, la qual cosa li renderà sospetti nei
secoli successivi. In ogni caso, il riferimento a 1Co 6,17 è rassicurante: tutti gli autori
l’utilizzano, esprimendo come «diventare un solo spirito con Dio» sia il compimento della vita
cristiana; questo spirito non è altro che lo Spirito Santo, il quale proviene dal Padre e da
ognuno dei suoi figli, secondo le «aspirazioni continue» dell’anima. Questa tematica
dell’aspirazione, che Herp trasmetterà a tutta la spiritualità successiva, indica l’esercizio
mediante il quale l’anima si abbandona a poco a poco al suo desiderio di Dio e che è
simmetrico al suo spirare, cioè qui al «morire nell’eterna beatitudine» del §1.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
M come … MATRIMONIO
L’espressione «matrimonio spirituale» è diventata classica con i maestri del Carmelo.
Delicata da precisare da un autore all’altro, a noi interessa qui nel senso lato di maturità
della vita spirituale, vale a dire di unione completa ed irrevocabile di Dio e dell’anima. Allora
si compie il desiderio più caro a Gesù come anche a noi, perché
Tutto il desiderio ed il fine dell’anima e di Dio, in tutte le sue opere, è la consumazione e la
perfezione di questo stato.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Cantico spirituale, 27,6
Perché sono dunque creato, oh amore mio e vita mia, se non per amarTi e per divenire amore
nell’amore, desiderandoTi interamente, volendoTi interamente in Te stesso, senza i Tuoi doni,
in Te stesso, interamente, totalmente?
Jean de Saint-Samson (1571-1636), Pratica essenziale dell’Amore, Sull’anima
ferita…
Quest’amore totale è quello in cui
Le anime partecipano ai beni stessi che il Figlio di Dio possiede per natura, il che ne fa veri
dei per partecipazione, uguali e compagni di Dio.
San Giovanni della Croce, Cantico spirituale, 38,6
È per donarci questo che Dio si è fatto uomo:
Nostro Signore viene a noi per farci partecipi della Sua unione con il Padre celeste. Su ciò
non posso che tacere… Parlare dell’unione con Dio o dell’unione di Gesù con suo Padre, è
sprofondare in un abisso senza fondo.
François Liberman (1802-1852), Lettera del 28 giugno 1835
E come gli amanti, nei loro baci, mediante uno scambio soave e reciproco, trasfondono le loro
anime una nell’altra, così lo spirito creato tutto intero si effonde nello Spirito che lo crea per
questa effusione stessa; in lui lo Spirito Creatore s’infonde nella misura che vuole e l’uomo
diventa con Dio un solo Spirito.
Guglielmo di Saint-Thierry (1805-1148), Saggio sul Cantico, VIII, 95
L’anima, qui, vuole possedere Colui che essa desidera, non in immagini ma infuso in lei, non
nelle Sue apparizioni bensì venendo a toccarla, e ciò, è tanto più delizioso in quanto più
all’interiore e meno all’esteriore: in effetti, si tratta del Verbo non che risuona ma che penetra;
non che parla ma che agisce.
San Bernardo (1090-1153), Sermone 31 sul Cantico, 6
Dall’interno come è percepito il matrimonio spirituale?
Lì non si trovano più preoccupazioni, sforzi, desideri ma una pace profonda che, per
esperienza, è inalterabile; non che si diventi impeccabili, perché sarebbe illusione
presumerlo, ma si gode della libertà dei figli di Dio con una dolcezza e tranquillità ineffabile.
Gli affanni degli affari, le persecuzioni degli uomini, le vessazioni dei demoni, le distrazioni
delle creature, le croci, le pene, le malattie né qualunque altra cosa potrebbe turbare o
importunare questo fondo che è la dimora di Dio, e credo che non ci sia che il peccato e
l’imperfezione volontaria che possano farlo.
Claude Martin (1619-1696), Vita della Venerabile…, IV, 12
Prima di giungere a questo punto,
Nella luce e nella forza di Dio, il santo ha percorso gli spazi interiori della sua anima.
Adesso, il suo sguardo supera le vette e le profondità del suo essere… Egli ha attraversato
tutti gli elementi del mondo, come il Cristo e con Lui, per entrare in Lui nell’intimità divina.
Yves Raguin (1912-2000), Sentieri della contemplazione, Cap 20
Oramai,
Quest’anima è trasformata in Cristo Gesù; essa agisce, essa soffre, essa pensa come Gesù;
infine, essa può dire con L’Apostolo: «Io vivo, ma non sono più io che vivo, è Gesù che vive in
me».
Pierre de Clorivière (1735-1820), L’orazione mentale, 40
Ecco perché:
Illuminato dall’alto dalla luce dell’eterna Verità, un uomo così conosce sicuramente meglio la
divinità di quanto non la conoscano tanti altri maestri eruditi che, per non essere stati
ammessi nel santo dei santi e nella camera segreta del Re eterno, non sono illuminati
superiormente dalla luce della grazia. Dio gli svela il senso profondo delle Scritture divine e
gli dà di gustare i vangeli. Acquistando la vera saggezza, mediante l’infusione dello Spirito
Santo più che attraverso la lettura di innumerevoli libri, egli vede e comprende chiaramente
ciò che bisogna fare e non fare, sia per se stesso che per gli altri.
Louis de Blois (1506-1565), L’istituzione Spirituale, Cap 1
Il che vuol dire che questo stato meraviglioso è allo stesso tempo il più efficace, il più
«apostolico»:
Oh, sorelle mie, quale oblio del proprio riposo, quale disprezzo del proprio onore, quale
allontanamento da ogni ricerca di stima nell’anima in cui abita così particolarmente il
Signore! Poiché essa vive molto con Lui è giusto che non pensi affatto a se stessa; la sua
memoria si adopera interamente a cercare il modo migliore per accontentarLo, cosa fare a
questo fine e come mostrarGli il suo amore. Tale è lo scopo dell’orazione, figlie mie; ecco a
che cosa serve questo matrimonio spirituale: far nascere sempre delle opere, delle opere…
Santa Teresa d’Avila (1512-1582), Castello Interiore, VII, 4
E poiché questa meraviglia è per voi, amici lettori…
Oh, anime create per queste grandezze e chiamate a questo! Che fate? Come passate il
vostro tempo? Le vostre ambizioni non sono che bassezze ed i vostri possedimenti miserie!
San Giovanni della Croce, Cantico spirituale, 38, 7
Non ti occupare di niente che sia meno di questo, non ti fermare alle briciole che cadono
dalla tavola di tuo Padre, esci, glorificati della tua gloria! Nasconditi in essa e godi, e vedrai
appagate tutte le aspirazioni del tuo cuore!
Idem, Sentenze di Luce e di Amore
PURGARE È CORRERE VERSO L’AMORE
Difficile leggere un piccolo gioiello del Rinascimento italiano, come il Trattato del Purgatorio
di Caterina Fieschi, e non rimanere sorpresi dalla bellezza con la quale la santa genovese
descrive questo stato, che la tradizione cristiana pensa come scorcio di cammino
ultraterreno che alcuni compiono, prima di pervenire alla pienezza divina. I purganti hanno la
volontà in tutto conforme a quella di Dio, lontana definitivamente dalla colpa, e perciò felici di
essere corrisposte dalla bontà divina. La rappresentazione data è di anime oramai protese
per sempre verso il loro bene, gioiose di poter assecondare definitivamente l’istinto naturale
d’incontrare Dio. Caterina apre il Trattato dandoci un’immagine viva di persone libere da loro
stesse: «I purganti non sono nella condizione di voltarsi indietro e dire: “ho commesso certi
peccati, per cui merito di stare qui”. E neppure dire: “non vorrei averli commessi, così ora
andrei in paradiso”. Né ancora: “lui uscirà di qui prima di me o io ne uscirò prima di lui”. Non
sono in grado di tenere alcuna memoria propria, né in bene né in male, né su altri: sono così
felici di appartenere al piano di Dio, che non hanno pensieri per se stessi […] non
percepiscono la pena e il bene che ciascuno vive dentro se stesso – del resto, se riuscissero
a percepirli, non potrebbero più prender parte alla carità pura». Questo radicale oblio di sé,
tradotto nella perdita di memoria propria, che strappa a se stessi, è dovuto alla carità pura,
alla felicità di appartenere a Dio, che assorbe ogni minimo spazio del suo essere. Il non
saper più nulla di sé finisce per dissolvere la stessa conoscenza dei peccati commessi, ogni
desiderio di essere altrove rispetto a quello che si sta vivendo, ogni possibilità di guardare
all’altro egocentricamente. Gli spirituali hanno prospettato simili caratteristiche nel processo
di maturazione terreno di una risposta coerente e fedele all’amore divino. L’annichilimento
delle operazioni della memoria e l’elevazione di questa alla somma speranza di Dio
incomprensibile, a cui invita Giovanni della Croce nella notte attiva dello spirito, dice che la
natura della vita teologale è unica in terra e in cielo, e Dio inizia a compierla da subito non
appena la persona gli dà mano libera.
ANNO
2004
ABC
N. 45 - Gennaio 2004
123
INFINE LIBERO …
1 Nella luce e forza di Dio, il santo ha percorso gli spazi interni della sua anima. Adesso il
suo sguardo supera le altezze e le profondità del suo essere. Egli ha traversato tutti gli
elementi del mondo, come Cristo e con lui, per entrare in Lui nell’intimità divina.
2. Egli ora sa, egli vede come l’universo è uscito da Dio. Egli lo sa senza comprenderlo,
come tutto ciò che sa di Dio, perché la pienezza della sua conoscenza gli rivela il niente di
questa conoscenza. Egli lo sa, e avanza nella gioia tra questi due abissi di non-conoscenza
e di conoscenza. Infine, tutto si risolve nell’unione a Dio, e in quest’atto egli raggiunge la sua
pienezza.
3. Non si può dire, che per il santo non ci sia più mistero. Ma egli ha trapassato tutte le
apparenze, le illusioni, per afferrare la ragione d’essere di tutte le cose. Il suo sguardo
trafigge tutto ciò che esiste, gli spiriti, le anime come il resto, e in cima al suo sguardo, in
tutte le direzioni, in alto, in basso, a destra, a sinistra, davanti, dietro, al centro di tutto, egli
sfocia sempre in Dio. Lui stesso si trova con Dio al centro di tutte le cose e in ogni altro
luogo. Egli è in quel punto eterno dove scaturisce la creazione…
4. Nel mondo delle anime, il santo partecipa alla carità divina. Non vi è anima, che non gli sia
presente, non vi è anima la quale non abbia parte in lui e per lui anche del mistero della
misericordia e dell’amore di Dio. Saremmo stupefatti se potessimo vedere qual è l’azione dei
santi nel mondo … Sono loro che sostengono il mondo delle anime, che rendono coraggio a
coloro che disperano, che orientano di nuovo verso Dio le anime che si erano allontanate da
lui. Questi esseri, che molto spesso sono visti come dei separati, sono i più vicini di tutti gli
altri esseri. Essi ci sono vicini dall’interno, ecco perché sembrano assenti…
5. Se il santo ha tutto trapassato, tutto penetrato, tutto abbracciato nel modo in cui ho appena
detto, egli è il solo essere che sia veramente libero in questo mondo. Il mondo non è più per
lui un mondo ostile. La materia stessa non è più per lui un ostacolo alla conoscenza di Dio,
perché essa fa trasparire la sua presenza e la sua azione. Tutto ciò che questo mondo gli
apporta, egli lo riceve come testimonianza dell’amore divino. Egli vede la vita divina all’opera
in tutto ciò che esiste. Egli vede bene che la creazione intera è nella gestazione di un mondo
nuovo che troverà il suo compimento in Dio. L’uomo è il grande artefice di questa nuova
nascita. Per questo il santo non è uomo da predicare l’astensione in questo mondo che ha
bisogno di lui per compirsi. Se è sembrato che egli si ritirasse dal flusso del mondo, eccolo
che riappare nelle sue profondità.
Yves Raguin (1912-1998), Cammini della Contemplazione, cap. 20
L’AUTORE Nato a Poitiers, entrato a 18 anni nella Compagnia di Gesù, padre Raguin ha
passato la parte più essenziale della sua vita in Cina. Fondatore dell’istituto Ricci di Taiwan,
conosciuto nel mondo per i suoi lavori scientifici di primo piano, sulla lingua, la religione e la
civiltà cinese, è sotto un altro titolo che inseriamo da adesso, questo contemporaneo nella
grande tradizione spirituale della Chiesa: quello di un’esperienza interiore di rara intensità e
lucidità, che traspare nei suoi scritti sul mistero cristiano vissuto a contatto dell’Oriente.
IL TESTO Cammini della Contemplazione sviluppa con superba lingua una calma
penetrazione al cuore dell’esperienza di Dio. È sorprendente ritrovarvi, in confronto costante
e aperto con le religioni orientali, l’essenziale della mistica specificamente cristiana, quella
di sant’Agostino o di san Giovanni della Croce. Il passaggio citato qui, ci mostra lo
schiudersi dell’anima pervenuta a maturità, che gode da quel momento in pienezza dell’opera
di Cristo.
§ 1. «Il santo ha percorso gli spazi interni della sua anima». Anche se santità e
contemplazione si debbono accuratamente distinguere, esse si congiungono attraverso la
sommità, poiché il santo designa allora l’uomo pienamente cosciente dell’«intimità divina»:
essa gli viene resa al termine di un viaggio interiore lungo il quale sono state rettificate tutte
le deviazioni dovute al peccato originale. Eccolo ormai nella situazione di Adamo in paradiso,
ridivenuto padrone del mondo e amico di Dio.
§ 2. In questa situazione che è quella della sua creazione, l’uomo vede ogni cosa con lo
sguardo stesso di Dio, perché in realtà, «nell’unione a Dio», egli è autenticamente figlio di
Dio, nel puro godimento del suo amore inesauribile, e pertanto tanto evidente che è
impossibile a cogliersi: «Una delle più grandi grazie che Dio fa all’anima in questa vita, dice
Giovanni della Croce, è il dono di farle comprendere chiaramente che egli è totalmente
incomprensibile». (Cantico Spirituale, 7)
§ 3. Un mistero non è complicato, ma insondabile, per questo carattere inesauribile
dell’Amore che spiega tutto e non è spiegato da nulla. Al cuore dell’Amore, il santo è al cuore
del cuore d’ogni cosa, essendo completamente libero in rapporto a tutte le cose: «Miei i cieli,
mia la terra…» canta ancora Giovanni della Croce (Sentenze 27)
§ 4. Ecco in che cosa il santo è un intercessore: dire che lui ama, è altrettanto vero di dire che
Dio ama, poiché egli vive soltanto della vita di Dio e il suo cuore non batte che dell’amore di
Dio. Così egli è come Dio stesso origine, se non autore, d’ogni grazia, «rendendo coraggio
a coloro che disperano, orientando di nuovo verso Dio le anime che si erano allontanate da
lui»: «Miei sono i giusti, miei i peccatori, continua Giovanni della Croce, Dio stesso è mio,
perché Cristo è mio e tutto per me» (Ibidem).
§ 5. Il mondo per il santo ha ritrovato il suo senso e la sua intelligibilità: l’universo intero viene
a lui in una parola d’amore, parola di Dio all’uomo, che fa allora della creazione il tempio
della loro vita comune.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
M come …… MARIA
La Vergine, Maria, «l’adorante del dono di Dio» (Elisabetta della Trinità), sarà sempre per il
cristiano modello della vita d’orazione, perché
Se Maria non avesse dapprima concepito Dio spiritualmente, egli non sarebbe mai nato da lei
corporalmente…; perché Dio preferisce essere nato spiritualmente da ciascun’anima buona,
piuttosto che di essere corporalmente nato da Maria.
Maestro Eckart (1260-1327), Sermone 22
Così che,
Se Maria fu felice di essere stata la madre di Cristo, ella fu più felice ancora d’essere sua
discepola.
Sant’Agostino (354-430), Sermone 25
Questa concezione di Gesù in Maria, non si ferma all’Annunciazione:
In effetti «serbando tutte queste cose nel suo cuore», Maria non si comportava verso Gesù in
quanto fanciullo o uomo, ma in quanto Dio… Concependo nel suo cuore i suoi gesti e le sue
parole, ella li nutriva in qualche modo, contemplandoli come gia presenti in lei, nell’attesa
della loro chiara rivelazione che doveva venire.
San Tommaso d’Aquino (1224-1274), Catena aurea, su Lc. 2,19
Nessuno sfalsamento, dunque, tra l’orazione e la vita di Maria…
… abbandonata completamente al Padre eterno, senza cura e preoccupazione, nella gioia e
nel riposo indicibili, di vedersi in quel luogo in cui Dio solo basta.
Jean-Jaques Olier (1608-1656), Lettere, II
… nessuno tra la sua vita e il suo ministero nella nostra salvezza
Gesù si è offerto due volte in sacrificio al Padre vivo: l’uno entrando nel mondo, l’altro
uscendo dal mondo… Maria sarà il suo primo altare; la croce sarà l’ultimo. Maria è una
croce naturale, perché l’uomo non è stato fatto sul modello della croce; è lei che è stata fatta
sul modello dell’uomo.
Luigi Chardon (1595-1651), La Croce di Gesù, XXVII
Così la sua orazione diviene per noi canale di ogni grazia:
«Io non sono venuto a portare la pace – dice il Salvatore – ma la spada» L’amore di Cristo è
una freccia di prima scelta che non solo si è fissata nell’anima di Maria, ma la attraversò in
modo tale che nessuna particella del suo cuore verginale restasse vuota d’amore, di modo
che ella amasse con tutto il suo cuore, con tutta la sua anima, con tutta la sua forza, e fosse
piena di grazia. Si, la sua anima fu attraversata, perché quest’amore arrivasse fino a noi e
tutti noi ricevessimo della sua pienezza.
San Bernardo (1090-1153), Sermone 29 sul Cantico, 8
Vivendo solamente di questa grazia e per questa grazia,
Non si segnalano rapimenti né estasi nella sua vita, perché i suoi rapimenti sono stati
continui; ella ha amato di un amore sempre forte, sempre ardente, ma tranquillo,
accompagnato da una grande pace.
San Francesco di Sales (1567-1622), Sermone per l’Assunzione 1618
Così l’arcangelo Gabriele la trova in orazione:
La Vergine, Maria ha chiuso gli occhi/ ed ecco il suo cuore sulle sue due palpebre.
Per non vedere più nulla, per intendere meglio/ Un soffio che fa tremare le sue preghiere…
Maria Noel (1883-1967), Il Rosario delle Gioie
In orazione ella mette al mondo Gesù:
Egli dipende da lei ed ella dipende da lui, e prende vita da lui; egli è la sua vita ed ella è anche
la sua vita; tra queste due vite, c’è vita, riposo, amore, delizie, c’è unità ammirabile; ma
bisognerebbe essere angelo, sia per dirlo, sia per intenderlo.
Pietro de Berulle (1575-1629), Grandezza di Gesù, Discorso 11
In orazione ella ricerca Gesù al Tempio:
Le occorreva di scatto superare, con la fede, l’umanità di suo Figlio, e gettarsi, perdersi
interamente nella sua divinità, per serbare questa pace alta e piena che non lasciava mai la
sua anima.
Charles Gay (1815-1892), I Misteri del Rosario
In orazione ella sta al calvario:
Ella avrebbe mille volte, offerto la sua vita per gli uomini… Ma sarebbe stato troppo poco; ella
ne ha offerto un’altra che amava più della sua!
San Giovanni d’Avila (1499-1569), Sermone 63
In orazione ella mette al mondo la Chiesa:
O Maria, che fai sulla terra dopo l’Ascensione di tuo Figlio? Ti preoccupi di convertire molte
anime?… Maria non facendo niente, faceva per la Chiesa, più di tutti gli apostoli assieme!
Giovanna Guyon (1648-1617), I Torrenti, II, 3
In orazione, infine, ella entra nella gloria di Gesù:
Come un dolce fiume, ella andava scorrendo e, quasi impercettibilmente, dalla parte di
quest’unione tanto desiderata della sua anima con la divina Bontà. Essendo dunque venuta
l’ora, per la Vergine gloriosa, di lasciare questa vita, l’amore separò la sua anima dal suo
corpo, non essendo altro la morte che questa separazione.
San Francesco di Sales, Sermone per l’Assunzione 1618
È dunque tutta la storia santa che fluisce così dall’orazione di Maria:
Amabile e tenera Signora, ecco perché tutti i cuori ti salutano, tutte le lingue ti lodano, perché
tutto il bene che il cuore del Padre ci ha voluto accordare, è passato per le tue mani. Tu sei
l’inizio, tu sei il mezzo, tu devi essere anche la fine.
Enrico Suso (1300-1361), Libro dell’Eterna Sapienza, XX Bisognava che fosse
così, perché
Nessuno poteva sopportare la giustizia di Dio, prima che egli entrasse nelle viscere della
Vergine e ne uscisse umanizzato per potere trattare con noi… Il pane che il bambino non può
mangiare, lo mangia la madre e lo trasforma in latte: così la Vergine ci dà Dio, perché ella ce
lo dà piccolissimo in una mangiatoia, dolce e umile, in modo che nessuno che desidera la
salvezza tema di avvicinarsi a lui.
San Giovanni d’Avila, Sermone, 68
Allora,
Ringraziate colui la cui dolcissima e misericordiosa provvidenza vi ha dato una tale
mediatrice, da cui non avete assolutamente niente da temere.
San Bernardo, Sermone nell’ottava dell’Assunzione
LA NEGLIGENZA DELLA DISOBBEDIENZA
«Per inoboedientiae desidiam»: è un’espressione del secondo verso del Prologo della
Regola di s. Benedetto, che indica come l’uomo si era allontanato da Dio. Desidia è tradotto
con pigrizia, negligenza, inerzia, sonnolenza, talvolta anche con accidia. È quel torpore
inattivo con cui ci si abbandona alle suggestioni dell’egoismo e con cui si cade nel non fare,
nella pesantezza dell’attendere ai propri compiti o, viceversa, nell’agitazione attivistica, che
denunciano l’indebolimento della volontà, il decadimento della libertà e l’incapacità di
intessere relazioni profonde con le persone. È simile al vivere distesi, cioè inattivi, e nella
polvere, immaginato dalla letteratura biblica, e ricorrente nei Salmi, posizione dalla quale non
si loda Dio e non si esulta con lui. Gli antichi padri, s. Agostino in testa, sanno bene che la
libertà (con la conseguente gioia del vivere) non consiste nell’arbitrio di poter fare quel che
ci fa piacere o ci conviene, ma nell’adesione al bene, che è il piano stesso universale di Dio,
teso alla condivisione della gioia eterna di Dio con il creato. Le creature e noi stessi, infatti,
non abbiamo altra esistenza se non dal, nel e per il Verbo incarnato; fuori di lui siamo nulla.
Soltanto la conformazione piena al suo volere rende, perciò, liberi, rafforzando la volontà e
dando la pienezza della vita e della conoscenza. La vita cristiana - ricorda don Barsotti - non
è mai un decadere nel sonno, un abbandono agli istinti, un venir meno alla coscienza di sé e
alla libertà; al contrario, comporta un essere sempre più coscienti di sé e di Dio. La
tradizione cristiana, dal Vescovo di Ippona in poi, ha indicato nella conoscenza di sé uno dei
primi frutti della vita cristiana, al quale è strettamente legato quello della carità: vivere, come
nella Trinità, scoprendo la propria identità nell’atto di donarsi gratuitamente all’altro. Ciò non
si riceve se non attraverso l’obbedienza, «per oboedientiae laborem», dice s. Benedetto, la
fatica della conversione della nostra mente, la disposizione di piena accoglienza di quella
Parola nella quale tutto è vita.
ABC
N. 46 - Febbraio 2004
123
DALLA LETTURA ALLA CONTEMPLAZIONE
1. La dolcezza della vita beata, la lettura la ricerca, la meditazione la trova, la preghiera la
domanda, la contemplazione l’assapora. Ecco perché il Signore stesso dichiara: “Cercate e
troverete; bussate e vi sarà aperto”. (Mt 7,7) Cercate leggendo, e troverete meditando;
bussate pregando, e vi sarà aperto per mezzo della contemplazione. La lettura porta il
nutrimento solido alla bocca, la meditazione lo sbriciola e lo mastica, la preghiera ne dà il
gusto, e la contemplazione è la dolcezza stessa che rallegra e ristora. La lettura si riferisce
alla scorza, la meditazione rimanda alla sostanza, la preghiera allo slancio del desiderio, e la
contemplazione alle delizie della soavità ricevuta.
2. Affinché ciò sia più chiaro ecco un esempio scelto tra tanti. Ecco cosa intendo al momento
della lettura: “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio” (Mt.5, 8). Questa massima è breve,
ma colma di soavità e di significati svariati. Essa offre all’anima come un grappolo d’uva per
nutrirsi; avendolo guardato attentamente l’anima si dice: “Ciò può giovarmi; mi raccoglierò
nel mio cuore e cercherò di comprendere e trovare questa purezza. Essa è preziosa e
desiderabile, infatti coloro i quali la possiedono sono detti beati ed è loro promessa la visione
di Dio, vale a dire la vita eterna che le Sacre Scritture non cessano di lodare”. Così,
desiderando meglio cogliere ciò, essa incomincia a triturare ed a masticare questo grappolo
mistico, come se lo ponesse in un frantoio. Essa eccita poi la ragione a ricercare cos’è
questa purezza così preziosa e desiderabile, e come la si può procurare.
3. …Allora l’anima ha rotto il vaso ed incomincia ad aspirare il profumo del balsamo: non lo
gusta ancora, ma vi è come un effluvio che sale alle sue narici. Ed ella si dice che deve
essere molto dolce sperimentare questa purezza la cui meditazione le risulta così gradevole!
Che farà? Ardendo dal desiderio di possederla, non ne trova in se stessa il mezzo! E più
cerca, più ha sete: il pensiero non fa altro che accrescere il suo dolore, perché quello di cui
ha sete è la soavità che la meditazione le mostra, risiedere nella purezza del cuore, ma senza
che essa ne assapori ancora il gusto.
4. In effetti, non è per chi legge e per chi medita sentire questa soavità: essa deve essere
data dall’alto,… dallo Spirito che solo dà la vera sapienza, cioè la scienza saporosa che,
rallegra e ristora, con inestimabile sapore, l’anima alla quale si unisce… Ma il Signore,
interrompendo il corso dell’orazione dei giusti, entra di corsa, affrettandosi verso l’anima che
si strugge; interamente bagnato dalla rugiada della soavità celeste, unto di profumi preziosi,
ritempra l’anima affaticata, sazia la sua fame, irriga la sua aridità, le fa dimenticare la terra,
la fortifica meravigliosamente con la sua presenza, vivificandola, inebriandola e conferendole
la sapienza.
Guigo II (†1193), La scala del Paradiso, II, III, V
L’AUTORE Si conosce di lui soltanto la sua elezione a nono priore della Grande Certosa nel
1174, le sue dimissioni nel 1180 e la morte nel 1193. La sua Scala del Paradiso (detta anche
Scala dei monaci di clausura), breve trattato quasi ignorato fino all’invenzione della stampa,
con questa è diventato un classico della spiritualità monastica: racchiude, in una decina di
pagine, le grandi leggi della preghiera interiore, con una sottile analisi psicologica che
anticipa il fiorire dell’orazione metodica cinque secoli dopo.
IL TESTO §1.Tutti gli autori cristiani hanno analizzato la vita interiore in funzione dei vari
livelli della nostra coscienza secondo la sua passività crescente; per esempio, Ugo di San
Vittore, proprio prima di Guigo: “La lettura fornisce la materia per conoscere la verità; la
meditazione l’adatta a noi, l’orazione la solleva…, la contemplazione vi trova la sua gioia.”
(Sulla Meditazione, II, 1). Non si tratta tanto di diverse fasi (anche se tenderanno a diventare
così nel Rinascimento), quanto di diverse percezioni sovrapposte della presenza di Dio;
secondo i momenti della vita e la vocazione propria di ognuno, l’ordine di questa
sovrapposizione varierà: la lettura e la meditazione saranno spesso in primo piano agli inizi,
mentre la contemplazione l’occuperà maggiormente in seguito. Ma Guigo ci direbbe anche
che l’attività di lettura testimonia, in realtà, la presenza segreta di Dio che ci incita a volgerci
verso di Lui, anche se soltanto aprendo un libro che ci parlerà di Lui.
§2.”Ciò che intendo al momento della lettura…”. La lettura medievale è, di solito, un ascolto in
pubblico, il che permette una penetrazione lenta, ritmata, quasi fisica del testo, “colma di
soavità e di significati svariati”. Cosicché la sua interiorizzazione avviene molto più
semplicemente di oggi, in cui la lettura rapida e visiva trattiene quasi solo il contenuto
concettuale, comportando spesso un’intellettualizzazione indebita della vita spirituale. Invece,
questa non consiste tanto nel pensare quanto nel “triturare, masticare, assaporare” un
appetitoso “grappolo mistico” che si offre ai nostri desideri.
§3. Messo in bocca dalla lettura, spezzettato dalla meditazione, il grappolo mistico
incomincia dapprima a sprigionare, non tanto il suo gusto, quanto il suo profumo: nella
letteratura mistica, questo è il primo annuncio dell’arrivo dello Sposo. In effetti, il profumo si
percepisce a distanza, mentre il gusto presuppone un contatto. Inoltre, tutti gli autori si
riferiscono qui all’inizio del Cantico dei Cantici in cui l’anima, identificata con la sposa, è
attirata dagli effluvi dello Sposo.
§4. E poiché viene ad abitare i nostri sensi, questo grappolo mistico si dà infine come sapore,
prima di darsi come conoscenza. O piuttosto, la sua conoscenza nasce dal suo sapore, la
parola sapere in latino si può tradurre con assaporare come con sapienza, di ciò si avvalgono
tutti gli autori cristiani per parlare di esperienza spirituale come della Sapienza che Dio dà,
indissociabilmente amore e conoscenza, felicità e luce. La “rugiada celeste” e la “corsa dello
Sposo” sono ulteriori allusioni al Cantico dei Cantici.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
M come ..…MEDITAZIONE
“Beato l’uomo che medita la legge del Signore giorno e notte!” (Sal 1,2) Nella Bibbia, la
meditazione, è innanzitutto questa conversazione interiore con Dio in cui parlare a se stessi
è un modo per parlare a Lui: “Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel
suo cuore.” (Lc 2,19) In modo più tecnico, gli spirituali parleranno della meditazione come del
primo passo in questa vita interiore, caratterizzato da un’intensa attività mentale:
La meditazione ricerca con cura ciò che occorre desiderare, scova e porta alla luce un
tesoro; ma non potendolo ottenere da se stessa, ci mette in preghiera.
Guigo II (†1193), Scala del Paradiso, X
Ma questo primo passo è già soprannaturale; è il primo frutto della grazia:
L’amore di Dio generato nell’uomo dalla grazia, la lettura l’allatta, la meditazione lo nutre,
l’orazione lo fortifica e lo illumina
Guglielmo de Saint-Thierry (1085-1148), Lettera ai Frati di Mont-Dieu, III, II
Non dimentichiamoci mai questa continuità della vita interiore:
Lettura, meditazione, preghiera e contemplazione sono così strettamente concatenate l’una
con l’altra e si prestano, reciprocamente, un aiuto così necessario, che le prime non servono
quasi a niente senza le ultime, e che non si trova mai, o solo di rado, queste senza quelle.
Guigo II, Scala del Paradiso, XI
Poiché la meditazione è la fase di assimilazione della Parola divina, gli antichi faranno spesso
del meditante un ruminante (perché i ruminanti sono degli animali puri nella Bibbia!):
Quando ascolti o leggi, mangi; quando mediti ciò che hai appena ascoltato o letto, rumini al
fine di essere un animale puro, e non impuro.
Sant’Agostino (354-430), Sermone III, 5 sul Sal. 36
Su questo cammino,
La meditazione delle parole divine è come una tromba che desta le tue energie per il
combattimento.
Origene (185-253), Commento su Giosué, 1,7
In effetti,
Le buone meditazioni servono all’anima per aiutarla a rientrare in se stessa, per perdere tutte
le cattive immagini e reminiscenze delle cose del mondo, per vincere e superare le passioni
ed altri innumerevoli frutti che essa ne ha tratto.
Costantino di Barbançon (1582-1631), I Sentieri Segreti dell’Amore divino, II, 4
Cosicché
Lo specifico della meditazione è purificare ed abbellire la memoria e l’intelletto.
Pierre de Clorivière (1735-1820), Sull’orazione mentale, 8
Ma quando ciò è compiuto,
Dio volendo portare più avanti questi principianti, … dopo che si sono esercitati per un poco
nella meditazione, …nel momento migliore, mentre a loro sembra che il sole dei favori divini
abbia raggiunto il culmine, Dio chiude loro la porta e li lascia in una tale oscurità, che essi
non sanno più fare un passo nella meditazione.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Notte Oscura, 1,8
Ed insistere qui non gioverebbe a niente:
Se apro un libro composto da un autore spirituale (anche il più bello, il più toccante), sento
immediatamente il mio cuore chiudersi e leggo senza, per così dire, capire; o se capisco, il
mio spirito si ferma senza poter meditare…
Santa Teresa del Bambino Gesù (1873-1897), Storia di un anima, A 83 R°
Perché questa notte (poiché si tratta di questo)? Perché
L’anima non è più per strada, ma alla fine del viaggio. Ella non cerca più, nella meditazione,
dei motivi per amare, gode in pace dell’oggetto del suo amore infine trovato, scopo unico
delle sue ricerche e del suo desiderio.
Beato Luigi di Granada (1504-1588), Libro dell’Orazione e della Meditazione,
II,5,9
Dal peccato originale noi non osiamo più credere in una cosa così semplice. Occorre, però,
invertire oramai il corso della nostra orazione, non più fare ma lasciarsi fare:
Quando il vostro cuore sarà toccato e si sentirà portato a parlare a Dio, ad amarLo ed a
trattare con Lui, considerate, dolcemente e con rispetto amoroso, ciò che la Sua divina
Maestà vorrà da voi; e, invece di meditare, pensate solo ad obbedirgli.
Beata Maria dell’Incarnazione (1599-1672),Lettera 99
Per non perdere tempo su questo cammino, seguiamo il sentiero più diretto:
con la meditazione frequente ed assidua della vita del Signore Gesù, l’anima è portata ad
amarLo e ad avere fiducia in Lui, ad essere in intimità con Lui.
Ludolfo il Certosino (1377), Vita di Gesù Cristo, Preambolo
Cosi che,
Rimanendo vicino al Salvatore con la meditazione ed osservando le sue parole, le sue azioni
ed i suoi affetti, noi impareremo, per mezzo della sua grazia, a parlare, fare e volere come lui.
San Francesco di Sales (1567-1622), Introduzione alla Vita devota, II, I
Meditare non è dunque tanto concepire grandi idee quanto entrare bene nella Parola di Dio,
Con un affetto molto semplice, come il fanciullo che ignora o l’umile discepolo, raccolto ed
attento, applicato a ricevere dal suo maestro. E ciò non è tanto affare di testa ma di cuore,
perché lo scopo del pensiero, è l’amore.
San Giovanni d’Avila (1499-1569), Audi Filia II, cap.75
Abbiate come regola che la grazia della meditazione non si può guadagnare senza alcuno
sforzo della mente; ma è necessario che sia una perseveranza soave e ben affezionata, colma
di umiltà
San Francesco di Sales, Lettera 241
Tanto più che il temperamento e la vocazione propria entrano qui in gioco:
Non tutti sono capaci di meditare, mentre tutte le anime sono capaci di amare… Il progresso
dell’anima non consiste nel pensare tanto, ma nell’amare tanto
Santa Teresa di Avila (1515-1582), Fondazioni, V,2
Allora che essa sia portata o meno per la meditazione,
Una volta che l’anima si sente elevata ed infiammata, è ora che si fermi solo in Dio, fine ultimo
dei suoi pensieri e ardori.
François Malaval (1627-1719), Pratica facile della Contemplazione, Colloqui, I
L’OBBEDIENZA AL MOMENTO PRESENTE
L’esercizio della speranza spinge a non confidare nell’opera delle nostre mani, ma in Dio,
non legandosi ad alcun bene, per non perdere il Bene. È affidata al nostro sforzo la
collaborazione con l’opera di Dio, il quale rimane il principale artefice della speranza. La
nostra parte nel custodire il cuore libero dai legami consiste nell’astenersi dal peccato e nel
servirsi di tutti gli aiuti di grazia che la chiesa ci offre, dalla preghiera ai sacramenti,
dall’educazione all’edificazione vicendevole, per rimanere in ascolto della Parola che mostra
il disegno divino. Non è poco! Tuttavia l’azione immediata e diretta della nostra volontà non
riuscirà a trasformare il nostro essere, strappandolo alla naturale tendenza verso le creature.
In modo semplice ma efficace la quotidianità degli eventi ci porta i messaggi del volere
divino, come un sacramento, il sacramento del momento presente. Tutto ciò che ci viene da
fare o da patire guida la nostra vita, chiedendo di volta in volta di essere accettato nel pieno
rispetto della legge divina. E sono le sconfitte, per un verso, e gli inviti ad assumere delle
responsabilità, per un altro, a forgiare in noi la speranza, perché obbligano di volta in volta a
distruggere o a lasciare le costruzioni mentali, con le quali fuggiamo dall’insopportabile
peso della sconfitta o compiacciamo l’egoismo e la sua necessità di essere oggetto di
attenzioni o mascheriamo la nostra pusillanimità. La rete di queste costruzioni mentali,
illusorie per quanto si voglia, è più solida e resistente di una struttura in cemento armato; è
solo l’urto di grandi eventi (ahimè! quasi sempre negativi) che riesce a farla barcollare o
crollare: si pensi a gravi perdite finanziarie, affettive, sociali. Disporsi all’accettazione piena
degli eventi è una via sicura per evitare queste fughe. Accettare con fiducia le sconfitte e le
sfide è inclinare l’orecchio del cuore in umiltà a ciò che non dipende da noi, ma che, come
operai di Dio, lavora al servizio della nostra santificazione.
ABC
N. 47 - Marzo 2003
123
RISUSCITARE CON CRISTO
1. Sono nato nel corpo una volta sola, affinché possa di continuo nascere spiritualmente in te
e, attraverso ciò, tutte le altre solennità che si celebrano esteriormente per me, possano
spiritualmente compiersi in te.
2. Il fine per cui tutte vengono celebrate è che tu porti e custodisca, di continuo nel tuo cuore,
tutto il corso della mia vita e passione, e tutto ciò che ho fatto, insegnato e sofferto per te,
come io stesso l’ho, di continuo, portato nel mio cuore per te, cosicché tu non te ne allontani
neppure un solo istante. In tal modo, la celebrità del preparativo alla Pasqua diventerà
continuamente solenne in te.
3. Così, sei spiritualmente crocefissa, morendo tutti i giorni per me; sei seppellita in me e mi
seppellisci in te, nel sepolcro del tuo cuore; mi profumi per mezzo della mortificazione di te
stessa, e mi avvolgi nel sudario o nel lenzuolo della tua coscienza, che io ho purificato e
mondato mediante la mia morte e passione. Il risultato sarà che in te e tramite te io risusciterò
e dalla tua mortificazione io trarrò la vita per te; e dalla tua pazienza, la gioia e la
contentezza, il che sarà in te una celebrazione continua della Pasqua.
4. Io scenderò con te anche in Purgatorio, da dove toglierò le anime e le condurrò affinché
godano con me della mia gioia nella mia gloria. E come un altro spirito celeste, sarai in mia
compagnia, ed in un certo modo segreto, risusciterai con me nella tua essenza interiore. La
tua dimora sarà in cielo con me, perché io sono in te, e così celebrerai in te la mia santa
Ascensione. Inoltre, il tuo cuore sarà rinnovato dalla mia grazia: infiammandolo con il fuoco
del mio amore ed elargendogli i sette doni o grazie dello Spirito Santo, essa celebrerà in te
la solennità della missione dello Spirito consolatore.
5. Inoltre, osserverai continuamente nel tuo spirito il riposo sabbatico, e celebrerai in te la
festa di ogni solennità, non trascurando mai quella della Santissima Trinità nell’unità della
divina essenza che è unita alla tua essenza, ed è anche l’essenza di ogni essenza, la luce di
ogni luce, la vita di ogni vita, e la vita, la luce ed il nutrimento del tuo spirito, che trasforma in
sé la tua essenza.
6. Ecco come celebrerai sempre in te la solennità della mia presenza. Osserverai anche il
sabato ed il riposo nello spirito, affinché io possa così riposare in te e tu in me, e il mio riposo
sia sempre nel tuo spirito, e la mia operazione nel tuo corpo. Allora in tutta molteplicità sarai
semplice, e dimorerai nella mia unione divina, come io ho fatto nella mia umanità, e come è
stato anche per la mia amatissima madre.
La Perla Evangelica, edizione francese del 1602 (rivisitata), II, cap. 3
L’AUTORE Gli eruditi non hanno ancora scoperto l’autore della Perla Evangelica. Il testo,
comparso in olandese nel 1535 e diffuso negli ambienti certosini, ha conosciuto diverse
versioni, più o meno lunghe, in latino dal 1545, e da lì in francese nel 1602. Sulla scia di
Ruusbroec e di Herp, condivide la loro visione della vita spirituale come immersione
nell’insondabile divino. La sua originalità risiede nella concezione della vita cristiana quale
incorporazione mistica ai diversi “stati” di Gesù. Molto diffusa, la Perla avrà una notevole
influenza sugli ultimi rappresentanti della mistica nordica, quale s. Pietro Canisio e Louis de
Blois, ed in Francia su Bérulle e la Scuola francese.
IL TESTO Ci troviamo qui nel cuore de La Perla dove Dio parla all’anima in un “Dialogo
dell’anima sola con Dio solo”. Il tema è l’assunzione dell’anima in Dio per mezzo della sua
conformazione all’umanità di Gesù.
§ 1. Con la sua incarnazione, Gesù si è indissolubilmente unito ad ognuno di noi. A seguito di
ciò, noi possiamo entrare tappa per tappa (“stato per stato”, dirà la Scuola francese) nel
mistero della sua divinità, seguendolo passo dopo passo nella sua umanità: così, tutta la vita
cristiana diventa una celebrazione di questo mistero, come un immenso sacramento, i cui
gesti visibili ed esteriori corrispondono al compimento spirituale ed interiore.
§ 2. Questo sacramento è quello della Pasqua, vale a dire del nostro passaggio con Cristo
dalla condizione mortale alla sua condizione di gloria, il che avviene nel corso di tutti gli
eventi della nostra esistenza terrena, l’ultimo dei quali è la risurrezione del nostro corpo. La
chiave di questo passaggio è unire la nostra volontà alla sua (il che ci fa vivere), come egli
ha unito la sua alla nostra (ciò che l‘ha fatto morire) attraverso l’amore per noi.
§ 3. Allora la nostra vita si legge come l’attuazione in noi della passione di Gesù attraverso le
nostre prove, e della sua risurrezione attraverso la nostra gioia.
§ 4. Per mezzo di detta unione a Gesù, nello stesso tempo in cui riceviamo da lui la
risurrezione, noi l’accompagniamo in tutta la sua opera di redenzione, oggi, nella Chiesa,
attraverso i misteri dell’Ascensione e della Pentecoste. L’”essenza interiore” indica il punto
centrale della nostra anima (il punto in cui noi siamo una persona, in cui noi diciamo “io”),
attraverso il quale siamo in contatto con Dio: è da lì che riceviamo “il fuoco del suo amore ed i
doni dello Spirito Santo” che penetrano tutto ciò che circonda questo centro, vale a dire tutta
la nostra personalità.
§§ 5-6. Tematica fondamentale per la mistica nordica: noi sussistiamo soltanto sospesi a Dio,
il quale come unità è “essenza di ogni essenza” (cioè egli fa essere tutto ciò che è), ed in
quanto Trinità ci comunica la sua vita e la sua luce (cioè ci conferisce un’esistenza
personale). La Perla riprende qui una distinzione cara a Ruusbroec tra l’aspetto gaudente e
semplice (“che io possa riposare in te, e tu in me”) e l’aspetto agente e molteplice (“la mia
operazione nel tuo corpo”) dell’amore, ciò che Gesù ha perfettamente vissuto da uomo, come
pure la Vergine Maria.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
M come … MERITO
“Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti,
come non l’avessi ricevuto?” (1Cor 4, 7) L’ idea del merito ha sempre suscitato delle
reticenze nei maestri cristiani:
Beata l’anima che, messe da parte ogni giustizia e fiducia nelle opere meritorie, sarà
giustificata soltanto per aver molto amato!
Guillaume de Saint-Thierry (1085-1148), Lettera ai Frati del Mont-Dieu, IV, III
Il cristiano, in effetti, è ben consapevole che
Tutto quello che noi possiamo fare sarà sempre e soltanto corruzione a confronto di una sola
goccia del sangue che il Signore ha effuso per noi.
Santa Teresa d’Avila (1515-1582), Autobiografia, cap. 39, 16
E
Se cerchi da dove nasce l’amore dell’uomo per Dio, non troverai niente, se non che Dio lo ha
amato per primo: colui che amiamo si è dato lui stesso, ed ha dato ciò per cui noi l’avremmo
amato.
Sant’Agostino (354-430), Sermone 34
Questo è tutto il mistero della grazia, cioè della gratuità dell’Amore e dell’Amore che ci dona di
amarlo:
L’amore basta a se stesso, piace per se stesso, è il suo proprio merito e la sua propria
ricompensa. L’amore non reclama altra causa, altro frutto se non se stesso. Il suo frutto, è di
amare. Io amo perché amo. Amo per amare.
San Bernardo (1090-1153), Sermone 83 sul Cantico dei Cantici, 4-6
Allora, se la parola merito ha un senso, è nella misura in cui
Quando Dio corona i nostri meriti, non corona null’altro che i suoi doni.
Sant’Agostino, Lettera 194 al prete Sisto
Ciò vuol dire a rigor di logica che è Dio che merita in noi: “Non sono più io che vivo, ma
Cristo vive in me” (Gal 2,20);
cosi il cristiano può dire: non sono più io che merito, ma Cristo merita in me.
Jean-Pierre Camus (1584-1652), Lo Spirito del Beato F. di Sales, XIII, 15
Chi non è niente, in effetti, non merita niente
Jean di Saint-Samson (1571-1636), Esercizi dell’Amore semplice
Quanto a quelle che noi chiamiamo le nostre opere, speriamo che non siano nostre!
Dio ha deciso di ricompensare soltanto le sue opere; sono soltanto quelle e non le tue che
egli corona nel regno dei cieli. Ciò che lui stesso non ha fatto in te, lo ritiene un niente.
Taulero (1300?-1361), Sermone 3 (trad. Hugueny)
Cosi che
Noi possediamo meriti nei confronti di Dio solo nella misura in cui lasciamo la nostra volontà
per la Sua.
Margherita Porète (†1310), Lo Specchio delle Anime semplici, cap. 44
Andiamo ancora oltre:
Se potessimo servire Dio senza meritare, cosa che non è possibile, dovremmo desiderare
farlo.
San Francesco di Sales (1567-1622), Veri Colloqui spirituali, ed.Annecy, VI,
pag. 428
Conclusione: smettiamola dunque di preoccuparci dei nostri meriti!
Nessun merito! Far piacere al buon Dio… se avessi ammassato meriti, sarei subito
disperata!
Santa Teresa del Bambin Gesù (1873-1897), Ultimi colloqui, 29 Luglio 1897
Ciò vuol dire che non dobbiamo fare niente nella vita cristiana? Non esattamente,
Soltanto le opere che procedono dalla carità sono degne di merito.
San Gregorio Magno († 604), Omelia 27 sui Vangeli
E la carità, è “l’amore di Dio riversato nei nostri cuori” (Rm 5, 5):
Quando tu mi miravi,
lor grazia in me imprimevan gli occhi tuoi;
di più quindi mi amavi,
perciò in te meritavano
gli occhi miei adorar quanto vedevano
San Giovanni della Croce, (1542-1591), Cantico Spirituale 32
Perché l’Amore si paga soltanto con l’amore:
Una persona che soffre il martirio per Dio con un’oncia d’amore merita molto; ma un’altra
persona che soffrirà soltanto un buffetto con due once d’amore avrà molti più meriti, perché è
la carità e l’amore che dànno il prezzo a tutto.
San Francesco di Sales, Veri Colloqui, VI, p.428
Il merito non ha dunque niente a che vedere con la difficoltà, e tutto a che vedere con
quest’amore:
Non è la sofferenza che fa il merito, ma la santità con cui si soffre, o con cui si compie
qualunque opera, anche se piace e soddisfa
F. Libermann (1802-1852), Quinta Istruzione sulla Vita spirituale
Cosi che
Colui che mangia può avere più carità nutrendosi, di colui che digiuna astenendosi, perché si
può bere e mangiare per la gloria di Dio.
Jean-Pierre Camus, Lo Spirito del Beato Francesco di Sales, VIII, 17
Tuttavia è vero, che anche il digiuno può essere per la gloria di Dio:
Quando la vita è pesante ed amara, è allora il tempo di meritare
Tommaso da Kempis (1379?-1471), Imitazione di Gesù Cristo, Libro I, 22
Per riassumere:
I meriti di qualcuno non si misurano secondo il numero delle sue visioni o delle sue
consolazioni, o della sua scienza in merito alle Scritture, o dal prestigio della sua posizione,
ma dal fatto che egli sia radicato nella vera umiltà, e colmo della carità divina, che ricerchi
sempre l’onore di Dio, puramente e completamente, che si consideri come niente e in verità si
disprezzi, e che si rallegri di più di essere disprezzato ed umiliato dagli altri, che di esserne
onorato.
Idem, III, 7
LA TENTAZIONE ATTACCA LA GRATUITÀ DELL’AMORE DI DIO
Le tentazioni di Gesù sono per molti aspetti significative di quelle di ogni uomo, rivelando
anzi l’umanità quale luogo dello scontro tra Dio e Satana. Quest’ultimo, vero avversario del
disegno divino, adesso viene fuori in prima persona, quasi ormai costretto, per bloccarne il
compimento. L’attacco sceglie l’obiettivo dei limiti della creaturalità umana: la possibilità e la
modalità di superarli. Può l’uomo, compreso il punto massimo del Dio fatto uomo, andare oltre
se stesso fino a partecipare della natura divina? Se sì, come? Dalla rivelazione sappiamo che
il disegno divino culmina proprio nella divinizzazione dell’uomo in e per Cristo. La strategia
satanica usata con Gesù non è diversa da quella adoperata coi primi padri nel giardino
dell’Eden, allorquando il diavolo tende a far credere loro di non essere destinati alla felicità
infinita, bensì che Dio a questo si oppone per gelosia e timore concorrenziale. Il punto
nevralgico risiede nella relazione di gratuità di Dio nei riguardi dell’uomo: Satana tende a
nasconderla, per far credere all’uomo che Dio non è amore liberale, ma calcolo e interesse
egoistico. Per far ciò fa passare nell’oblio il dono ricevuto, la stessa esistenza, o fargliela
concepire come un diritto acquisito, qualcosa di posseduto da sé e per sé. Questa
amputazione della propria origine dal dono d’amore favorisce la costruzione di un destino di
solitudine e di acquisizioni da ottenere da sé e per sé. Con Gesù Satana imposta la strategia
sulla sua figliolanza divina; qui l’attentato è portato alla gratuità delle stesse relazioni
trinitarie attraverso la via della sua umanità: il Figlio è tutto dal Padre, e vive questa relazione
di amore gratuito anche nella sua umanità. Satana vorrebbe farlo agire da sé, che
nell’umanità significa non attendere dal Padre quel che il Padre gli ha promesso, e cioè la
sua stessa vita. Gesù risponde vittoriosamente sul piano della sua umanità: tiene ferma la
fiducia nella parola del Padre, accettandone la verità e respingendo come menzogna la
proposta satanica. Anzi, usa da uomo l’autorità datagli dal Padre come Figlio per comandare:
“Non tenterai il Signore Dio tuo”.
ABC
N. 48 - Aprile 2004
123
GESÙ CRISTO, IERI, OGGI E SEMPRE
1. Occorre considerare ciò che esiste d’infinito in quanto è comunicato nei misteri di Gesù
Cristo, con ciò che esiste d’infinito nella persona che li compie nella sua natura umana.
Occorre valutare la perpetuità di questi misteri nel modo seguente: in quanto alle
circostanze, sono passati ma essi rimangono presenti e perpetui e si protraggono in un altro
modo; riguardo allo svolgimento essi sono passati, ma riguardo alla loro virtù che non passa
mai essi sono presenti, e la loro virtù non passa mai, così come non passerà mai l’amore con
cui essi sono stati compiuti. E dunque, lo spirito, lo stato, la virtù, il merito del mistero,
rimangono sempre presenti.
2. Lo spirito di Dio, per mezzo del quale questo mistero è stato operato, lo stato interiore del
mistero interiore, l’efficacia e la virtù che rende questo mistero vivo e operante in noi, questo
stato e disposizione virtuosa, il merito per mezzo del quale Gesù ci ha acquisiti a suo Padre
e ci ha meritato il cielo, la vita e se stesso, proprio come il gusto attuale, la disposizione viva
per mezzo della quale ha operato questo mistero, tutto ciò è sempre vivo, attuale e presente
in Gesù. Tanto che, se fosse per noi necessario, o se fosse gradito a Dio suo Padre, sarebbe
subito pronto sia a partire che a compiere nuovamente tale opera, tale azione, tale mistero.
Ciò ci obbliga a trattare le realtà ed i misteri di Gesù, non come realtà trascorse e concluse,
ma come realtà vive, presenti nonché eterne, da cui noi siamo altresì tenuti a raccogliere un
frutto presente ed eterno.
3. Proprio come in noi c’è l’anima ed il corpo, e tutto ciò è una cosa sola, allo stesso modo nei
misteri del Figlio di Dio c’è, da un lato, lo spirito che opera e patisce nel mistero, la sua luce
di grazia, il suo disegno di stabilirne qualche effetto, e dall’altro il corpo o l’azione…
Facciamo un esempio. L’infanzia del Figlio di Dio è uno stato passeggero: le circostanze di
quest’infanzia sono passate, ed Egli non è più bambino; ma vi è qualcosa di divino in questo
mistero che perdura nel cielo, e, che opera un modo di grazia simile nelle anime che sono
sulla terra, anime che a Gesù piace destinare e consacrare a quest’umile e primo stato della
sua persona…Ed è per mezzo di questo modo di grazia che i misteri di Gesù Cristo, la sua
infanzia, la sua sofferenza, come anche tutti gli altri, permangono e vivono sulla terra fino alla
fine dei secoli.
Pierre de Bérulle, 1575-1629, Sulla perpetuità dei Misteri di Gesù Cristo
L’AUTORE Nato in una famiglia di magistrati della Champagne, frequentatore di Madame
Acarie e del certosino Beaucousin, Bérulle incarna l’ambiente della riconquista cattolica
parigina dopo le guerre di religione. Alunno dei gesuiti e della Sorbona, grande lettore dei
Padri e di san Tommaso, intriso della mistica nordica e spagnola, introduce in Francia, nel
1604, il Carmelo teresiano, fonda l’Oratorio di Francia nel 1611, diventa cardinale nel 1627.
Fondamentale protagonista del rinnovamento spirituale e sacerdotale francese, la sua opera
copiosa è redatta in stile pre-classico di grande eleganza, oggi però troppo desueto per
essere letto senza difficoltà dai profani. Abbiamo così voluto lievemente ammodernare il testo
qui presentato.
IL TESTO Questo breve opuscolo riassume l’intuizione di Bérulle, su cui si fonda quella che
viene chiamata la Scuola francese di spiritualità; essa ha chiara origine nella Perla
evangelica (cfr. Semi n°47) scoperta da Bérulle verso il 1602. Ecco, di seguito, la
formulazione di Pierre Bourgoing, secondo successore di Bérulle alla testa dell’Oratorio
nonché altro rappresentante di spicco della Scuola francese:
“Gesù è il sacramento primitivo della religione cristiana… I suoi misteri sono stati
passeggeri e sono trascorsi in quanto alla loro azione e sostanza; ma l’autore ed il soggetto
di questi misteri, Gesù Cristo, il quale ne contiene la grazia, la vita e lo spirito perpetuo, è
permanente e dimora nell’eternità, come dice l’Apostolo: Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e
sempre! (Eb. 13,8); e secondo le parole dell’angelo, Colui che è, che era e che viene (Ap.
1,8). Non è sempre nascente né sempre sofferente, ma egli è sempre Gesù, sempre se
stesso, sempre in possesso delle grandezze eterne che sussistono nella sua umanità,
benché non le abbia per la sua umanità, e sempre un Dio annientato nella nostra natura”.
(Prefazione alle opere di Bérulle)
§ 1. Con la sua incarnazione, è “nella sua natura umana” e storicamente che Gesù vive il
mistero dell’amore eterno del Padre. Ognuno dei suoi atti può dunque essere letto secondo
una duplice chiave: storica ma anche eterna (“ciò che c’è d’infinito” in lui).
La parola “mistero” indica la realtà di Gesù in quanto nascosto in suo Padre, e dunque
oggetto di fede: l’evento storico della natività, per esempio, rinvia al “mister” eterno della sua
nascita nel cuore del Padre. Quanto alla parola “virtù,” nel XVII secolo, è da intendere nel
senso di forza spirituale e non di rettitudine morale.
§ 2. Così come, sul versante eterno, gli “stati” di Gesù hanno, venti secoli fa, prodotto i suoi
atti e le sue parole, oggi, continuano a produrre gli stessi frutti nei suoi discepoli nella
misura in cui essi sono membri del corpo di cui egli è la testa: il mistero è attualmente “vivo
ed operante in noi”, come dimora eternamente in Lui.
§ 3. Ogni cristiano, secondo la sua vocazione propria (secondo “che a Gesù Cristo piaccia
destinarlo e consacrarlo a ciò”), entra così nel mistero di Gesù; per esempio, vivrà lo stato
d’infanzia come partecipazione all’infanzia eterna di Gesù dinanzi a suo Padre. Collegando
direttamente alla stessa fonte la storia di Gesù con la nostra, Bérulle ci consente una lettura
soprannaturale immediata di ogni minima circostanza della nostra vita, concependola non
solo come culto permanente reso al Verbo incarnato, ma anche quale varco, per mezzo suo,
nel cuore del Padre.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
M come … MISERICORDIA
Il cristiano sa che per misericordia è stato creato dal nulla, per misericordia è diventato
cristiano, per misericordia non è stato condannato nonostante peccasse, per misericordia è
stato perdonato quando si è convertito, per misericordia è sorretto per non ricadere, ed infine,
per misericordia di Dio aspetta la salvezza.
San Giovanni d’Avila (1499-1569), Lettera 11, d
Poiché la vita cristiana è interamente in questa grazia misericordiosa, l’orazione cristiana è
esserne interamente consapevoli:
Sentirsi profondamente sminuito ed annichilito, incapace di qualunque bene, interamente
dipendente dalla misericordia non meritata ed infinita di Dio, è la migliore ed unica
preparazione alla preghiera.
Henry Chapman (1865-1933), La preghiera contemplativa
In effetti, non si tratta tanto di essere giusti o peccatori, ma farisei o pubblicani, perché, dice il
Signore,
Nessuno mi sfuggirà, sia per giustizia che per misericordia.
Santa Caterina da Siena (1347-1380), Dialogo XVIII
Cosicché,
La giustizia è coronata nei dannati, la misericordia nei beati.
Giovanni di Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, Libro IV,
cap.1
Spetta dunque a noi scegliere, poiché,
Se ciò dipendesse soltanto da Dio, il paradiso sarebbe senza porte, e colui che volesse
entrarvi, potrebbe: in effetti, egli è tutta misericordia, sempre rivolto verso di noi con le
braccia aperte per accoglierci nella sua gloria.
Santa Caterina da Genova (1447-1510), Trattato del Purgatorio, 9
Ciò vuol dire che se il peccatore deve essere condannato, non sarà per aver peccato, ma per
non aver creduto in questa misericordia, dice il Signore:
Allora è giudicato con rigore dalla mia giustizia ed incolpato d’ingiustizia e di falsità: non
soltanto d’ingiustizia e di falsità in generale per aver generalmente agito così nel mondo, ma
molto di più d’ingiustizia e di falsità, in particolare, per esservisi alla fine, fermato, giudicando
la sua miseria più grande della mia misericordia. Non volere la mia misericordia e
disprezzarla, ecco il peccato che non si perdona né quaggiù, né nell’aldilà, peccato più
grave ai miei occhi di tutti quelli che ha commesso. Ecco perché la disperazione di Giuda mi
ha offeso di più ed è stata più dolorosa per mio Figlio del tradimento stesso.
Santa Caterina da Siena, Dialogo XXXVII
Non diciamo dunque che esistono dei limiti a questa misericordia:
Le nostre colpe sono come granelli di sabbia rispetto alla grande montagna delle
misericordie di Dio.
San J-M. Vianney (1786-1859), Catechismo
Da lì il rimedio:
Affidiamoci a Dio: la sua bontà è molto più grande della nostra malizia… Poichè dunque egli
non si stanca mai di donare, e se la fonte delle sue misericordie è inesauribile non saremmo
noi davvero sventurati se tralasciassimo di riceverle?
Santa Teresa d’Avila (1515-1582), Vita, cap. 19
Così, non ci rimane altro che abbandonarci a questa misericordia:
Lasciamoci scivolare giù da questa china con una fiducia ricolma d’amore.
Un abisso chiama un altro abisso: è lì, proprio in fondo che avverrà l’urto divino, che l’abisso
del nostro nulla, della nostra miseria, si troverà, faccia a faccia, con l’abisso della
misericordia, dell’immensità del tutto di Dio; lì troveremo la forza di morire a noi stessi e,
perdendo la nostra stessa traccia, saremo trasformati in amore.
Beata Elisabetta della Trinità (1880-1906), Il Cielo sulla Terra, 2° orazione
Forse temete che troppa misericordia dispensi di un po’ di virtù?
Colui che può perdere la fiducia nella misericordia del suo Dio, ignora che è proprio di Dio
fare misericordia. Colui che rifiuta di arrendersi alle amorevoli carezze dell’infinita
misericordia, ignora i disegni che essa ha di inseguire i più derelitti fino al loro ultimo
respiro.
Giovanni di Bernières-Louvigny, Il Cristiano interiore, Libro III, cap. 16,7
Pertanto,
Invece di dire: “Se non ci fosse, affatto, misericordia in Dio, bisognerebbe fare ogni sforzo
per la virtù”, occorre, al contrario, dire che proprio perché vi è misericordia in Dio bisogna
fare ogni tipo di sforzo.
Blaise Pascal (1623-1662), Pensieri, 497
Ma questi sforzi stessi, è ancora lui a sopportarne il peso:
A voi, nulla e peccatore quale siete, vi resteranno la misericordia e l’amore; e la giustizia, se
la assume soltanto lui, se ne nutre, se ne sazia nella vostra anima.
François Libermann (1802-1852), Lettera del 17 ottobre 1837
Cosicché lungi dallo sprofondare nella disperazione, i nostri peccati alimentano ancora la
nostra azione di grazia:
Tenete il vostro sguardo raccolto in Dio e in voi. Non vedrete mai Dio senza bontà, né voi
senza miseria, e vedrete la sua bontà propizia alla vostra miseria, e la miseria vostra, oggetto
della sua bontà e misericordia.
San Francesco di Sales (1567-1622), Lettera a Sura di Sulfour, 16 gennaio
1603
E come il Suo amore ci rende innamorati, la sua misericordia ci renderà misericordiosi:
Colui al quale Dio ha fatto misericordia per portarlo a credere, lo renderà misericordioso per
portarlo a fare il bene; …siamo misericordiosi soltanto per dono di Dio, che dà misericordia a
colui al quale egli fa misericordia.
Sant’Agostino (354-430), A Simplicio sull’Epistola ai Romani, 9
Perché,
Il Signore dell’universo vuole “misericordia e non sacrificio”, e la nostra compassione
piuttosto che “migliaia di grassi agnelli”. Presentiamo a lui, dunque, la nostra misericordia
per mano di quegli infelici che oggi giacciono per terra, affinché il giorno in cui partiremo da
qui, “ci introducano nelle dimore eterne”, nel Cristo stesso, nostro Signore, al quale
appartiene la gloria nei secoli. Amen
Gregorio Nazianzeno (329-390), Omelia sull’Amore dei Poveri
LA BELLEZZA DEL DIO FATTO CARNE E CROCIFISSO
La bellezza ha aperto spazi ed orizzonti che travalicano l’ordinaria esperienza, facendo
scoccare nell’animo umano quel sentimento di meraviglia e di stupore, che abbraccia e
suscita una complessità di sentimenti: da quelli viscerali alle emozioni più complesse come
la tristezza, lo struggimento, la serenità, l’estasi. Niente di più ovvio che accostare la
bellezza al divino e coglierla come luogo conveniente alla sua espressione. La bellezza
convoca, del resto, la persona a momenti di unità profonda, che gli permettono una
identificazione efficace con l’oggetto ammirato; di qui anche il sentimento di fascinoso e
tremendo, tipico del divino. Riconosciamo, dunque, al bello e all’arte una funzione estatica e
una forte carica di gratuità. Il bello, cioè, trae fuori da sé e porta verso l’altro e nell’altro al di
là di ogni utile. Lo stesso principio estatico domina nell’amore, in forza del quale si è
affascinati dall’altro e si desidera di essergli totalmente unito. Comprendiamo quanto ciò
esprima bene la mistica dell’incarnazione di un Dio: un donarsi, che esce da sé per andare
verso l’uomo, creatura a sua immagine, buona e bella, seppur decaduta; un incontro con lei
per riunirla con l’archetipo, che altri non è se non lui medesimo. La bellezza esprime bene
anche la mistica della divinizzazione, cioè dell’uomo che tende a quel Dio, che gli si è
rivelato quale bellezza somma, desiderando di unirsi a lui nel dono di grazia. Il varco per il
quale tutto passa e su cui si regge è l’atto sommo della consegna sulla croce, vera estasi di
carità divina, luogo in cui si svela l’abisso della divinità: l’urlo di Cristo sfigurato in croce
squarcia il cosmo perché gli riversa dentro il fuoco di Dio carità, la maestà della sua
gratuità, lo splendore della sua purezza: Dio, giustizia e misericordia somme, si fa peccato e
maledizione perché peccato e maledizione ha scelto la sua creatura e sposa, l’uomo.
ABC
N. 49 - Maggio 2004
123
LA FORZA DELL’AMORE
1. Nessuno è senza amore, ma per amare che cosa? Non ci viene chiesto di non amare, ma
di scegliere ciò che ameremo. Ma come scegliere se non fossimo stati, noi stessi, scelti per
primi? Noi, infatti, non amiamo se non siamo amati per primi. Ascoltate l’apostolo Giovanni:
Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo (1Gv 4,19). Se cerchi da cosa viene che l’uomo
ama Dio, troverai soltanto che Dio, per primo, ci ha amati. Colui che amiamo si è dato sé
stesso, ha dato ciò con cui l’avremmo amato. Quello che ha dato per questo, sentitelo
chiaramente enunciato dall’apostolo Paolo: L’amore di Dio è effuso nei nostri cuori. Da dove
viene questo? Da noi stessi? No certamente. Ma allora? Dallo Spirito Santo che ci è dato
(Gal 4,6).
S.Agostino (354-430), Sermone 34
2. Il peso della concupiscenza ci precipita nell’abisso, mentre la forza della carità ci solleva,
Signore, con il tuo Spirito che aleggiava sulle acque… (Gen 1,2). Siamo inghiottiti e,
contemporaneamente, emergiamo: i nostri affetti, i nostri amori, le impurità del nostro spirito
ci sommergono legandoci alle preoccupazioni, mentre la santità ci porta a te legandoci alla
sicurezza di lassù, in modo che il nostro cuore sia elevato verso di te, dove il tuo Spirito
aleggia sulle acque e, giungiamo al supremo riposo, dopo che la nostra anima ha
attraversato le acque impetuose… (Sal 123,5).
3. Ogni corpo, a motivo del suo peso, tende al luogo che gli è proprio; il peso non lo trascina
tanto verso il basso quanto verso il luogo che gli è proprio; il fuoco tende verso l’alto, la pietra
verso il basso, spinti entrambi dal loro peso verso il luogo loro proprio; l’olio versato dentro
l’acqua, è portato sopra di essa, l’acqua versata sopra l’olio s’immerge sotto di esso, spinti
entrambi dal peso a cercare il luogo loro proprio. Fintantoché le cose non sono al loro posto,
sono senza riposo, ma quando hanno trovato il loro posto trovano il riposo. Il peso che mi
trascina è il mio amore, esso mi porta ovunque sono portato: la tua grazia c’infiamma e ci
porta verso l’alto, noi ardiamo e ci muoviamo, saliamo la salita del cuore cantando il cantico
delle Ascensioni. Del tuo fuoco, del tuo fuoco buono ardiamo e ci muoviamo, salendo verso la
pace di Gerusalemme: Quale gioia quando mi dissero:«andremo alla casa del Signore»! (Sal
121,6) Là collocati dalla buona volontà, nulla desidereremo, se non di rimanervi in eterno.
Idem, Confessioni, XIII, 9
L’AUTORE S. Agostino, figlio di padre pagano e della pia s. Monica, il più celebre, più letto
e più commentato dei Padri della Chiesa latina è un berbero dell’attuale Algeria. Convertito
dalla predicazione di s. Ambrogio (nel 386), dopo una gioventù burrascosa ed la perfetta
formazione di un retore dell’Impero romano in declino, diventa nel 395, vescovo d’Ippona. La
sua immensa opera apre il Medio Evo; redatta nel periodo in cui le invasioni barbariche
segnano la fine dell’Antichità, essa domina la teologia e la spiritualità occidentali.
IL TESTO Abbiamo avvicinato due testi, molto famosi: il primo dà la chiave di lettura del
secondo. Commentando il Salmo 96, il Sermone 34 di Agostino dà corpo, in modo magistrale,
alla sua intuizione fondamentale: tutto è grazia nella vita cristiana, inclusa la risposta che
diamo alla grazia, perché “Dio ci ha dato ciò con cui l’avremmo amato”. Nel libro delle
Confessioni, scritto verso il 400, si sviluppa come una lettura attraverso l’interiore di tutta la
vita dell’autore alla luce di questa intuizione, considerando il gioco della grazia divina e della
libertà umana nella ricerca dell’unica vera felicità che è riposare in Dio.
§ 1. Ogni uomo vuole amare: constatazione universale che si spiega, secondo Agostino, per
il fatto che ogni uomo è amato da Dio e, che il primo effetto dell’amore è di rendere amante.
Spetta a noi orientare quest’amore suscitato nel nostro cuore, spetta a noi dire sì o no
all’elezione che Dio ha fatto di noi, vivendo o non vivendo dello “Spirito Santo che ci è dato”.
Questa risposta contiene tutta la nostra felicità o tutta la nostra infelicità, perché Dio non
riprende indietro i suoi doni e non cesserà mai di amarci e, amandoci, di suscitare il nostro
amore.
§ 2. Nel commento alla narrazione della creazione Agostino vede nella venuta dello Spirito
sul caos primitivo l’immagine della grazia che eleva l’uomo verso Dio, secondo una legge
contraria a quella della natura. La parola “concupiscenza” designa qui il desiderio dell’uomo
il quale, a causa del peccato, è stato distolto da Dio.
§ 3. “Amor meus, pondus meum! Il peso che mi trascina è il mio amore!” Questa celebre
espressione sfrutta un dato della cosmologia antica, secondo cui i quattro elementi che
costituiscono l’universo (fuoco, aria, acqua, terra) tendono spontaneamente a raggiungere il
loro “luogo proprio” (“locus”, che si potrebbe anche tradurre con “centro”, nel senso di
centro di gravità), dove troveranno il loro riposo. La tradizione spirituale occidentale
riprenderà quest’idea: per esempio s. Giovanni della Croce che parla di Dio come del “centro
dell’anima”. Questo dinamismo che porta l’uomo verso Dio (“Lasciate che i bambini vengano
a me”, ci dice Gesù), permette ad Agostino di individuare l’atteggiamento spirituale
fondamentale del cristiano come “raccoglimento”, accoglienza dall’interno di un Dio che mi è
“più intimo di ciò che di più intimo c’è in me”, secondo un’altra celebre massima delle
Confessioni (III, 6).
L’allusione al cantico delle Ascensioni rinvia ai salmi 120–130, cantati dal pio ebreo nella sua
salita versa Gerusalemme: la vita cristiana, portata dalla grazia attraverso le vicissitudini
dell’esistenza è una liturgia di pellegrinaggio che c’incammina al riposo in Dio
(Gerusalemme si traduce con “città della pace”).
L'ORAZIONE dalla A alla Z
M come … MONDO
Non andate parlando di Gesù e desiderate il mondo!
Sant’Ignazio di Antiochia († 107), Ai Romani, 7, 1
Piaccia o no, non vi è un maestro cristiano che dica il contrario! Certamente, questo mondo è
eccellente:
Le cose temporali di per se stesse sono buone poiché sono fatte da me, bontà suprema, così
che tu ne puoi usare come vuoi quando il tuo amore è santo ed il tuo timore di Dio vero, ma è
la volontà perversa dell’uomo che avvelena l’anima e le dà la morte.
Santa Caterina da Siena (1347-1380), Dialogo 47
E questa volontà è perversa quando si chiude in questo mondo eccellente, perché
Un solo pensiero dell’uomo vale più del mondo intero e perciò Dio solo è degno di lui.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Sentenze, 35
Così che
Sarebbe meglio avere il mondo intero contro di voi piuttosto che essere in disgrazia presso
Gesù.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Gesù Cristo, II, 8
Ecco perché
L’amore di questo mondo, è un adulterio che allontana da te Signore!
Sant’Agostino (354-430), Confessioni, I, 13
Di conseguenza,
Dobbiamo dunque uscire dall’Egitto, dobbiamo lasciare il mondo se vogliamo servire il
Signore. Occorre lasciarlo, non localmente, ma nel pensiero; non partendo per le strade, ma
progredendo verso la fede.
Origene (185-253), Omelia sull’Esodo, III, 3
In assenza di ciò, infatti,
Noi ci occupiamo nel mondo a vivere secondo le nostre condizioni e non ci curiamo del fatto
che la prima di tutte è vivere della vita di Gesù Cristo.
Jean de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, Libro I, cap.12
Di contro,
Il mondo è crocifisso per colui che non ama le ricchezze, che non ama gli onori del mondo,
che non ama ciò che gli appartiene, ma ciò che appartiene a Gesù Cristo.
Sant’Ambrogio (340-397), Sul Vangelo di Luca, VI, 34
Non è dunque per paura, bensì per preferenza che il cristiano si allontana dal mondo:
Non si tratta di turarsi le orecchie, ma di aprirle, affinché la voce di Cristo possa farsi sentire;
e chiunque la sentirà non dovrà temere alcun naufragio.
Idem, IV, 2
Tutto il dramma di questo mondo, infatti, è di farci vivere d’illusioni quando noi ci chiudiamo in
lui:
La maggior parte di ciò che occupa il mondo, esiste soltanto nell’immaginazione, così
l’onore, la dignità, le lodi, la reputazione e quasi tutte le magnificenze del mondo esistono
soltanto nell’immaginazione degli uomini.
Jean de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, Libro III, cap.16
Come vivere allora in questo mondo, senza essere di questo mondo?
Quando si possiedono le ricchezze del mondo, si possiedano con umiltà e non con orgoglio;
si possiedano come una cosa prestata e non come una cosa di cui si è proprietari, così come
la mia bontà ve le ha date per il vostro uso: voi le avete soltanto in quanto io ve le do, e voi le
possedete soltanto in quanto ve le lascio, ed io ve le lascio e ve le do nella misura in cui vedo
che servono per la vostra salvezza.
Santa Caterina da Siena, Dialogo 47
Anche le attività oneste che noi conduciamo in questo mondo, tocchiamole soltanto con la
superficie dell’anima, di modo che i beni terreni che ci piacciono servano al nostro corpo
senza nuocere al nostro cuore… Infine, usa di questo mondo come se non ne usasse, colui
che, indirizzando tutte le cose che sono a lui necessarie per il mantenimento della sua vita
corporea, non lascia, tuttavia, che esse dominino il suo spirito, e le sottomette a sé, così bene
che queste servano all’esterno senza mai spezzare lo slancio della sua anima verso le vette.
San Gregorio Magno († 604), Omelia 36 sui Vangeli
Noi cesseremo allora di essere dilaniati tra Dio e il mondo poiché,
Il mondo intero non potrebbe ispirare orgoglio a colui che ha sottomesso la verità al suo
dominio, e mai sarà turbato dagli applausi degli uomini colui che ha ogni speranza salda in
Dio.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Gesù Cristo, III, 14
Ciò plasma lo sguardo del cristiano sugli eventi del mondo…
Nessuno rimpianga qualcosa di questo secolo che sta morendo, ma segua Cristo il quale
vive eternamente e fa vivere i suoi servi saldi nella fede nel suo nome.
San Cipriano di Cartagine († 258), Lettera 58, II, 1
…la fine del mondo stessa non è altro se non il compimento di questo parto dei nuovi cieli e
della nuova terra che noi aspettiamo (II Pt 3, 13):
Rallegratevi nei vostri cuori; mentre finisce il mondo, di cui voi non siete amici, infatti, la
redenzione che avete desiderato si avvicina. …Così coloro che amano Dio sono invitati a
rallegrarsi con grande gioia, della fine del mondo, perché incontreranno presto colui che
amano, mentre passa ciò che non hanno amato. Il fedele, il quale desidera vedere Dio,abbia
cura di non piangere sulle sventure che colpiscono il mondo, poiché egli sa che tali sventure
stesse portano alla sua fine
Gregorio Magno, Omelia I per l’Avvento
IL SUO SANGUE CI LAVA DA OGNI COLPA
Le immagini del film di Mel Gibson hanno riportato ai nostri occhi la crudeltà degli
avvenimenti della passione di Cristo, sovrapponendosi negli stessi giorni a quelle delle
vergognose torture perpetratesi nelle carceri dell’Iraq e delle atroci uccisioni di occidentali.
La semplice sequenza della cronaca ci ha imposto gli orrori del delirio di onnipotenza, della
diabolica volontà di umiliare la dignità umana, dell’abisso dell’odio. Se per il musulmano ogni
sconfitta terrena è segno di un abbandono di Dio, mentre ogni vittoria è sigillo della sua
benedizione, umiliarlo fino a quel punto e ricattare gli altri musulmani con le foto delle torture
rivela la perversione che può albergare nel cuore dell’uomo. Se per il cristiano Gesù di
Nazareth fu umiliato dagli uccisori nella sua identità regale e divina che egli affermava, allora
è possibile che la foto del torturato e quella del decapitato stiano accanto a quella del
Crocifisso, la cui passione non fu meno atroce e umiliante. Qui, tuttavia, la sconfitta è
manifestazione estrema dell’amore di un Dio che assume fino in fondo i rischi della sua
unione con l’umanità e dell’amore di un Uomo che si abbandona docilmente al Padre e agli
uomini. Questo amore sigilla per sempre l’uccisione dell’inimicizia e il trionfo della vita. Il
dolore del cristiano per gli avvenimenti attuali è profondo non solo per la compassione
istintiva che ogni scena umana cruenta suscita, ma per la consapevolezza di fede che
constata la cecità devastante della superbia e dell’odio, il quale non s’accorge che il torturato
e lo squartato gli riflettono l’immagine di sé. Catturando colui che è considerato nemico e
accanendosi bestialmente su di lui si è caduti prigionieri del più grande nemico dell’umanità:
l’odio. La conversione che la Chiesa ha il mandato di predicare per il perdono divino significa
la caduta del velo dagli occhi, per comprendere che il sangue che si è fatto versare si
mescola con il sangue vivificante del Figlio di Dio, e che esso ricade sul carnefice divenendo
per lui salvezza a condizione che questi cada in ginocchio dinanzi alla sua vittima invocando
da essa pietà.
ABC
N. 50 - Giugno 2004
123
MEDITAZIONE E CONTEMPLAZIONE
1. Il ruolo della meditazione è di considerare con cura ed attenzione, le realtà divine,
passando dall’una all’altra con il pensiero per sollecitare il nostro cuore ad un certo affetto e
sentimento di tali cose, come si batte la pietra per farne scaturire la scintilla.
2. Nella contemplazione, di contro, la scintilla è già scoccata; intendo dire che l’affetto e il
sentimento che si cercavano, sono già stati trovati e l’anima ne gode in riposo ed in silenzio,
senza l’aiuto di molteplici ragionamenti e speculazioni dell’intelletto, ma per una semplice
vista della verità; ciò fa dire ad un santo dottore che la meditazione ragiona con lavoro e con
frutto, mentre la contemplazione è senza lavoro e con frutto; una cerca, l’altra trova; l’una
mastica il nutrimento, l’altra lo gusta …
3. Una volta giunto al riposo ed al gusto della contemplazione, l’uomo deve allora cessare
questa ricerca pia e laboriosa. Accontentandosi di una semplice vista e rimembranza di Dio
come se egli fosse presente, deve godere del sentimento che gli è dato, che si tratti d’amore,
di ammirazione, o di gioia, o di qualunque altro simile … Respinga allora tutte le
immaginazioni che si offrono a lui, quieti l’intelletto, calmi la memoria, e la fissi in nostro
Signore, considerando che si trova in sua presenza, senza riflettere allora su qualunque
cosa divina in particolare. Si accontenti della conoscenza che la fede gli dà di lui, applicando
la volontà e l’amore, poiché egli solo l’abbraccia ed in lui si trova il frutto di tutta la
meditazione; e mentre l’intelletto non può conoscere quasi niente di Dio, la volontà può
amarlo molto. L’uomo si chiuda dentro se stesso nel centro della sua anima, dove è
l’immagine di Dio, e lì rivolga la sua attenzione a lui, come si ascolta qualcuno che parli
dall’alto di una torre, oppure che sia dentro il cuore, e come se non ci fosse nient’altro
nell’universo intero se non l’anima e Dio. L’uomo dovrebbe allora perdere anche il ricordo di
sé e di ciò che fa, perché, come diceva un padre, tale è l’orazione perfetta che chi prega non
s’accorge di essere in preghiera …
4. In seguito, dopo avere assorbito e gustato questo boccone occorre ritornare al nostro
lavoro. Facciamo come il giardiniere: quando una parte del giardino che annaffia è piena
d’acqua, ferma lo scorrimento del canale affinché essa penetri e si diffonda in profondità nella
terra secca; fatto ciò, apre nuovamente il getto d’acqua, perché la terra ne riceva ancora e sia
sempre meglio irrigata. Ciò che l’anima sente in questi momenti, il suo godimento, la luce, la
pienezza, la carità e la pace che riceve, le parole non possono spiegarlo, perché si tratta di
una pace che supera ogni sentimento e di tutta la felicità che si può raggiungere in questa
vita.
San Pietro d’Alcantara (1499-1562),
Meditazione, cap. 5
Trattato dell’Orazione e della
L’AUTORE. Nella sua autobiografia (cap. 27) Teresa d’Avila ne parla come di un “santo e
uomo di grande spirito”. Di famiglia agiata, entra a 16 anni dai francescani dopo gli studi a
Salamanca. Nel cuore della riforma francescana di Spagna e Portogallo, di un’austerità
leggendaria, è stato soprattutto un grande pedagogo spirituale attraverso il suo Trattato
dell’Orazione e della Meditazione, molto vicino a quello del suo amico Luigi di Granada,
senza dubbio il “santo dottore” di cui al paragrafo 2.
IL TESTO §1. Di solito, l’itinerario spirituale incomincia da una fase in cui si riflette molto: la
meditazione, che permette di prendere coscienza della presenza amorevole di Dio, la quale
ci desta ad un amore reciproco per Lui. Questo risveglio associa un attaccamento volontario,
l’affetto, ad una percezione totalmente interiore, il sentimento, ma queste due parole prima del
XVIII secolo, per gli spirituali, non avevano alcuna sfumatura sentimentale: non si tratta di
un’impressione di Dio, ma dell’esperienza stessa di Dio che viene in me.
§2. Giunge un momento in cui l’amore incomincia a crescere senza alcuno sforzo mentale, in
proporzione al nostro silenzio interiore: ecco la contemplazione. Ha valore in se stessa, essa
diventa riposante, evidente nella “semplice vista della verità”.
§3. L’unico sforzo del contemplativo deve essere allora di lasciar cadere tutto ciò che non è
quest’evidenza della presenza divina. Proprio come al bambino piccolo basta sapere che sua
madre è lì per abbandonarsi a lei in un amore totale, anche se “il nostro intelletto non può
conoscere quasi niente di Dio”, ciò basta affinché “la volontà possa amarlo molto”. Questo
movimento è quello del raccoglimento, cioè dell’accoglienza di Dio che viene dal “centro
dell’anima”, e da quel punto invade a poco a poco l’anima intera lungo la sua crescita
spirituale. Questa evidenza della presenza di Dio tende alla trasparenza pura, a tal punto che
l’anima perfetta prega, senza avere coscienza di pregare, proprio come noi vediamo senza
avere coscienza della luce. Il padre, a cui è fatta allusione è Giovanni Cassiano († 435,
Collazione 9,31).
§4. La vita spirituale è un continuo andirivieni tra meditazione e contemplazione, anche se la
parte di quest’ultima tende normalmente ad aumentare, con sempre più “luce, pienezza,
carità e pace”, e pertanto sempre meno parole, perché questa “pace che sorpassa ogni
intelligenza” (Fil 4,7), “le parole non possono spiegarla”.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
M come … MORTE
“Chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? (Mt 6,27)
Infatti, “ Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire.” (1 Sam 2,6) Allora,
O morte, vedo che fai ogni cosa secondo la disposizione divina, in cui non può trovarsi alcun
difetto. Sono le nostre inclinazioni disordinate che non si accordano a te: se fossero ben
orientate, saremmo completamente abbandonati, in silenzio al volere di Dio, come la morte, a
fare ciò che Dio ordina, e giungeremmo al punto di non avere più scelta volontaria, né di vita,
né di morte come se fossimo già nella tomba.
Santa Caterina da Genova (1447-1510), Libro della Vita ammirevole, VII
Per le anime perfettamente unite a Dio, infatti,
La loro morte è sempre molto soave e dolce, più di quanto non lo sia stata la loro vita
spirituale durante tutto l’arco della loro esistenza. Infatti, muoiono con slanci sempre più soavi
ed incontri saporosi di amore, come il cigno che canta più dolcemente prima di morire.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Fiamma Viva, I,30
Così che
Non è “la morte” che verrà a prendermi, è il buon Dio. La morte, non è un fantasma, uno
spettro orrendo come viene raffigurata nelle immagini. Si dice nel catechismo che la “morte è
la separazione dell’anima dal corpo”, è soltanto questo!
Santa Teresa del Bambin Gesù (1873-1897), 1° maggio 1897
E di qui ad allora,
Ammiro la felicità di chi muore e mi stupisce la cecità di coloro i quali si appassionano
soltanto della vita presente e della cura del corpo, dei beni e delle occupazioni, che sono tanti
ostacoli che impediscono di accudire a Dio.
Jean de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, Libro I, XVI
Certamente la natura ha ripugnanza della morte, ma ecco che
Colui che è lui stesso la nostra vita è sceso quaggiù, e si è caricato della nostra morte, e l’ha
uccisa con l’abbondanza della sua vita.
S. Agostino (354-430), Confessioni, IV, 12
Poiché,
È l’amore e non la sua natura che lo riduce in questo stato. E la sua vita, la sua croce, la sua
morte è amore, e ognuna di esse è soltanto amore, vita e potenza. E Gesù è vivo, ama e gode
nella morte e nella sofferenza, dandoci e meritandoci vita, amore e godimento.
Pierre de Bérulle (1575-1629), Grandezza di Gesù, VIII, 11
Dunque,
Quale male mi può colpire, quando morrò per un Dio che è morto per me?
Jean de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, IV, XVI
“O morte, dice il Signore, io sarò la tua morte”, cioè: O anima, figlia mia adottiva, guardaMi e
ti perderai di vista, scorri interamente nel mio Essere, vieni a morire in Me perché Io viva in
te!...”
Beata Elisabetta della Trinità (1880-1906), Ultimo ritiro, 24 agosto 1906
E per morire d’amore, basta vivere d’amore:
Per morire d’amore sull’esempio di Gesù Cristo il quale non accettava la morte come
provocata dalla crudeltà degli ebrei ma come ordinata da suo Padre fin dal primo momento
dell’eternità, allo stesso modo dobbiamo abbracciarla amorevolmente, non in quanto
cagionata dal corso delle cause naturali ma in quanto causata dal beneplacito di Dio.
Beato Alain de Solminihac (1593-1659), Consigli, 13
Ammettete che questo beneplacito vi sembra un tantino eccessivo! Però,
Sforzatevi di non temere la morte, abbandonatevi interamente a Dio e accada ciò che accada.
Il vostro corpo si è preso gioco di voi così spesso, prendetevi dunque gioco di lui una buona
volta per tutte!
Santa Teresa d’Avila (1515-1582), Cammino di Perfezione, 16
E lungi dal farci paura, morire,
Non sarà come andare in terra straniera ma nel nostro paese, poiché è il paese di colui che
amiamo tanto.
Idem, 70
Tanto più che
Questa vita passeggera, paragonata alla vita eterna, deve piuttosto essere più chiamata,
morte che vita. Il deperimento quotidiano del nostro corpo corruttibile non è, infatti, una morte
a fuoco lento?
San Gregorio Magno († 604), Omelia 37
Cosi per chi è innamorato di Dio,
Esta vida que yo vivo
es privaciòn de vivir !
Y asì, es continuo morir
hasta que viva contigo.
Oye, mi Dios, lo que digo:
que esta vida no la quiero,
que muero porque no muero !
Questa vita che io vivo
è di viver privazione !
È perciò morte perenne
finchè in te io non vivrò.
Senti, Dio, quanto ti dico:
questa vita io non la voglio
ché muoio perchè non muoio!
San Giovanni della Croce, Strofe dell’anima che soffre per vedere Dio, 2
È fare troppo poco caso della vita quaggiù? Ma coloro, i quali vivono la vita eterna, l’amano
fin da quaggiù!
Dopo tutto, per me fa lo stesso vivere o morire. Non vedo bene cosa avrò in più dopo la morte
di quanto non abbia già in questa vita. Vedrò il buon Dio è vero! Ma per essere con Lui, lo
sono già completamente sulla terra.
Santa Teresa del Bambin Gesù, Ultimi colloqui, 15 maggio 1897
Ma forse è l’inferno e la morte eterna che ci fanno paura?
No, un’anima non potrebbe temere l’inferno in questo stato d’amore puro, poiché in questo
stesso stato ha già il suo paradiso; o per meglio dire, poiché in questo inferno vi troverebbe e
gusterebbe il suo paradiso.
Alexandre Piny (1640-1709), Stato di puro Amore, cap. III
Lettori di Semi, ammettetelo: non avete più motivo di temere la morte!
TEMERE LA MORTE?
I passi sulla morte negli autori spirituali sono numerosissimi, e tutti concordi nel capovolgere
la prospettiva diffusa che la associa alla paura, amaro frutto di quell’apertura degli occhi che
ci fece scorgere che siamo nudi. La già citata Teresa d’Avila spiega che sono state le
comunicazioni divine ad aver sbaragliato la tanta paura che lei aveva della morte.
Mostrandole Dio e imprimendo nella sua anima la bellezza e la grandezza della sua Maestà,
comprende finalmente qual è la vera patria. Ella perde così ogni gusto e passione per le cose
del mondo senza alcuno sforzo, proprio come non ci si sforza a non desiderare un buon piatto
e preferirgli quello più squisito e sopraffino che una volta abbiamo assaggiato: “Tutto ciò che
vedo con gli occhi del corpo mi appare sogno e finzione; non desidero se non quello che
ormai ho visto con gli occhi dell’anima e, sentendomene ancora lontana, questo, per me,
equivale a morire” (Libro della vita 38,7). Non è lontana da queste la pagina di don Barsotti
tratta dal suo Diario del 23 agosto 1994, per quanto diversi il linguaggio e la problematica: “è
vicina la morte. Non è un cammino lento e insensibile, è come un precipitare improvviso che è
vano arrestare. Non hai più voce, ma più grave mi sembra la quasi incapacità di
concentrarmi. Posso pensare, ma come è più difficile ora pregare! Sento che Dio è in me, ma
io non so vivere in Lui. Anche ora sento che la vita spirituale è sparire nella Presenza, ma mi
è tanto difficile realizzare la trascendenza nella sua immanenza; eppure so, e lo sento, che
vivere è per me non conoscere più un Dio fuori di me ma uno sprofondare in lui più intimo a
me di me stesso. Se la trascendenza di Dio è per me Dio in quanto è fuori di me, io stesso
sono fuori di me e sono perduto” (Figli nel Figlio. Diario 1993-1994, p. 117).
ABC
N. 51 - Luglio / Agosto 2004
123
L’ORAZIONE DEL CUORE
1. Il modo di orazione più conforme al puro amore, più svincolato da ogni interesse proprio,
che tende più direttamente a glorificare ed amare Dio, … può aversi allorquando ci si
propone unicamente di amare ed adorare Dio, durante questo tempo d’orazione, invece ed al
posto di tutte le creature che non l’amano e non l’adorano, come tutti i demoni, gli infedeli, gli
eretici ed i cattivi cristiani.
2. A questo scopo, l’anima che vuol fare orazione deve solo incominciare a compiere i due atti
seguenti. In primo luogo, stabilirsi bene alla presenza di Dio… e convincersi fermamente di
questa verità, che Dio, Padre Figlio e Spirito Santo, è in lei come pure nel luogo in cui ella è
e in ogni luogo, tanto realmente presente quanto è presente in paradiso. Dopo quest’atto di
fede sulla presenza di Dio, essa deve ancora compiere un atto di abbandono tra le sue mani
paterne, protestandogli che, sia interiormente sia esteriormente, lei si abbandona di tutto
cuore alla sua santissima volontà, affinché egli disponga interamente di lei secondo il suo
beneplacito ed il suo servizio, nell’orazione come fuori dell’orazione, per il tempo e per
l’eternità; aggiungendo che essa è lì soltanto per amarlo ed adorarlo, per lei e per tutti coloro
i quali non lo amano e non l’adorano.
3. Fatto ciò, non le resta altro, per tutto il rimanente tempo d’orazione, che dimorare in pace
ed in silenzio, attaccandosi e occupandosi soltanto a rimanere in questo ricordo amoroso di
Dio presente in lei, tanto realmente quanto egli è realmente presente in cielo, nonché in
questo sentimento d’abbandono e di rassegnazione che ella ha fatto totalmente tra le sue
mani paterne; e nella volontà di essere in quel luogo e trascorrervi il tempo di orazione
unicamente per amare ed adorare Dio in silenzio rispettoso, sia per sé che per tutti quelli che
non l’amano e non l’adorano. Essa si convinca, una volta per tutte, che questa volontà di
essere lì allo scopo d’amare è, in realtà, l’amore vero; e di conseguenza, qualunque
distrazione vi si possa avere, purché si rimanga sempre in questa volontà senza ritrarla in
nessun caso, non si smette mai d’amare.
4. …O quanto è puro quest’amore, invero, che mira unicamente in questo tipo d’orazione a
far sì, per quanto ci riguarda, che Dio sia amato da tutti coloro i quali non pensano affatto ad
amarlo! Quanto è grande, infatti, quest’amore che sa allargare e dilatare un cuore, nonché
moltiplicarlo in un’infinità di cuori! Ma quale gioia per tutto il paradiso, e quale gloria per Dio
stesso vedere un’anima quaggiù che lo ami abbastanza, anche se attraverso il velo oscuro
della fede, da trascorrere tutto il tempo delle sue orazioni in quest’oblio generoso di se
stessa, al fine di occuparlo interamente per il suo Dio in questi divini slanci d’amore!
Alexandre Piny (1640-1709), Stato dell’Amore puro, cap.VIII
L’AUTORE Di un’antica famiglia della Provenza, ultimo di otto figli, Piny entra giovanissimo
nel noviziato domenicano di Draguignan. Insegnerà filosofia e teologia ad Aix ed a Marsiglia,
città spiritualmente dominata da Malaval, poi, dal 1676, a Parigi. Lì incomincia a pubblicare
diversi opuscoli spirituali, tutti nella linea del “puro amore”, fino a quando le condanne antiquietiste del 1685 lo riducono al silenzio. Grande direttore e confessore durante tutto l’arco
della sua vita, muore nel 1709 in odore di santità.
IL TESTO Piny si rivolge qui ad anime poco dotate per la meditazione. Coglie così
l’occasione per ricordare qual è lo scopo di ogni orazione: semplicemente quello di fare la
volontà di Dio che ci chiama all’orazione. In ciò egli va incontro a coloro, la cui orazione è
pienamente immersa nell’aridità, a prescindere dalla sua causa.
§1. La ricerca del “puro amore” domina l’epoca di Piny, e servirà spesso da pretesto agli
avversari di un quietismo più spesso presunto che reale. Qui, in ogni caso, si vede che lungi
dall’essere una fuga in una falsa spontaneità amorosa (la parola d’ordine di S. Agostino:
“Ama e fai ciò che vuoi”, compresa come “fa ciò che ti pare!”), si tratta di un investimento
totale della volontà dell’uomo in quella di Dio, senza altra contropartita se non questo amore
stesso, spogliato di ogni gratificazione sentimentale o anche intellettuale: “unicamente amare
ed adorare Dio”. è ciò che Piny chiama altrove “l’orazione del cuore”, poiché il cuore è per lui
la sede della volontà, distinguendolo dalla mente, sede della conoscenza.
§2. Il punto di partenza di ogni orazione è la presa di coscienza della presenza di Dio: e nel
caso dell’orazione del cuore, sappiate che non avrà altro aiuto. Ma questo basta per liberare
la volontà: poiché Dio è lì, ed è lì amandoci soltanto; non resta altro che abbandonarsi alla
logica dell’amore, che è per l’appunto… l’abbandono a colui che si ama: “è lì soltanto per
amarlo ed adorarlo”.
§3. Solo quest’atteggiamento di fondo è necessario all’orazione (“rimanere nel ricordo
amoroso”, oggi diremmo nella presenza amorosa). Poiché “l’orazione del cuore” non ha
alcun contenuto sensibile, è normale che le distrazioni la invadano, ma fintantoché l’anima
non si ritrae da quest’atteggiamento (“purché si rimanga sempre in questa volontà senza
ritrarla in nessun caso”), deve sapersi “in realtà nel vero amore”, cioè nella pienezza
dell’amore, meglio di quanto non sarebbe, se provasse qualche derivazione sensibile.
§4. L’amore non cerca di amare Dio, ma che Dio sia amato: è il segreto dell’intercessione dei
santi. Amando Dio ed i loro fratelli, essi non aumentano l’amore di Dio, ma lo liberano in
coloro i quali non amano e, così facendo li rendono, a loro volta, capaci di amare.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
M come … MORTIFICAZIONE
“Se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le
opere del corpo, vivrete” (Rm 8,13) Prima di essere un esercizio particolare (privazione,
digiuno…), la mortificazione è questa morte a noi stessi, poiché
Colui che sempre muore a se stesso, sempre incomincia una vita nuova in Dio.
Louis de Blois (1506-1565), Istituzione spirituale, II, 5
Così che,
Niente può essere offerto di più gradito a Dio della rinuncia alla propria volontà, perché
niente è più caro all’uomo della volontà stessa e del libero arbitrio.
Idem
Ecco perché
É impossibile giungere all’unione della nostra anima a Dio con un mezzo diverso dalla
mortificazione. Queste parole sono dure: occorre morire; ma sono seguite da una grande
soavità; è per essere uniti a Dio attraverso questa morte.
San Francesco di Sales (1567-1622), Veri colloqui spirituali, XX
Da questo possiamo distinguere le mortificazioni vere da quelle false, intese questa volta nel
senso di esercizio particolare; prima quelle false:
Si possono fare delle mortificazioni, si possono anche desiderare con la propria volontà e
questo non fa bene. Se si fanno delle mortificazioni razionalmente e, provando a se stessi che
bisogna farne, non valgono granché dinanzi a Dio e sono, a volte, più deleterie che utili.
François Libermann (1802-1852), Lettera del 12 dicembre 1837
Adesso quelle vere:
Affinché siano buone e producano del bene per la nostra santificazione è necessario che
esse siano soavi, che infondano dolcezza e coraggio all’anima, e che ci elevino e ci
attacchino a Dio più saldamente
Idem, 13 febbraio 1846
Dunque è chiaro che l’aspetto gravoso di queste mortificazioni non è quello più importante:
Ci si ingannerebbe molto, credendo che un sacrificio è valido e gradito a Dio soltanto se tutto
vi è triste e mortificante per la natura. La santa Bibbia testimonia che Dio riceve i fiori ed i
frutti come il sangue, e la gioia come le lacrime.
Charles Gay (1815-1892), I Misteri del santo Rosario, Prel. III,III
Di contro, è l’amore ad essere il motore della mortificazione:
In questo commercio amoroso…, l’anima non sa cosa fare né cosa sopportare per soddisfare
incessantemente il suo Signore e suo carissimo Sposo, interamente desiderabile e ricolmo
d’amore, poiché il suo desiderio s’infiamma sempre di più, la mortificazione si opera
continuamente in lei, in tutti i sensi ed in tutti i modi possibili: essa vede e sente che Sua
Maestà infinita lo esige da lei ed esigerebbe infinitamente di più se per lei ciò fosse
possibile.
Jean de Saint-Samson (1571-1636), Pratica essenziale dell’Amore,
Introduzione
Ne consegue che mortificazione ed orazione si abbineranno in modo meraviglioso:
Non ditemi che voi morite d’amore per Dio, se l’amore per voi stessi non muore in voi. Il
nutrimento dell’orazione è la mortificazione, e l’anima della mortificazione è l’orazione.
Un’orazione senza mortificazione è una pura occupazione dello spirito… ed un’austerità
senza molta orazione è un fastidio del corpo… che si volge in vanità, e raramente in amore.
François Malaval (1627-1719), Pratica facile della Contemplazione, Colloquio
VII
Colui che più rinuncia e più ritira, ama anche di più. Gesù ha stabilito la perfezione su due alti
monti, il Calvario ed il Tabor: in uno si va alla perfezione della mortificazione, nell’altro alla
perfezione dell’orazione; in tutti e due, alla sublimità dell’amore.
Jean de Bernières Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, Libro IV, cap.7,
7°giorno
Perché la mortificazione e l’orazione sono le due ali dell’anima, senza le quali essa non può
elevarsi a Dio: toglietene una, l’altra diventa inutile e l’anima non fa altro che strisciare. … La
mortificazione dispone all’orazione e l’orazione fortifica per la mortificazione. Questa
necessità è così grande che qualunque sia il tipo d’orazione, è impossibile avervi accesso
senza la mortificazione.
Claude Martin (1619-1696), Conferenza ascetica XIV
Sarebbe dunque assurdo parlare di mortificazione al di fuori di questa vita d’orazione:
É necessario che la penitenza e le altre pratiche corporali siano il mezzo e non il fine
dell’anima…; perché prendendole come fine, l’anima sarebbe vuota allorché bisognerebbe
lasciarle.
Santa Caterina da Siena (1347-1380), Dialogo XI, 2
Questo ci deve distogliere dalle mortificazioni sconsiderate, perché allora,
Lo scopo del demonio è di mettervi in testa che siete più penitenti delle altre e che fate
qualcosa; ma se, quando il vostro confessore o il vostro Superiore vi dice di non fare queste
penitenze, voi ne siete addolorate e ricominciate, è chiaro che c’è tentazione.
Santa Teresa di Avila (1515-1582), Commino di Perfezione, cap.67
È consolante rilevare che “la più grande santa dei tempi moderni” ignora questo tipo di
mortificazioni!
…decisi di darmi più che mai ad una vita seria e mortificata. Quando dico mortificata, non è
per far credere che facevo delle penitenze, purtroppo! Non ne ho mai fatta alcuna, …non
sentivo per esse alcuna attrazione… Le mie mortificazioni consistevano nello spezzare la mia
volontà, sempre pronta ad imporsi, nel trattenere una parola di replica, nel rendere piccoli
servizi senza farli valere. …Fu con la pratica di questi nulla che mi preparavo a diventare la
fidanzata di Gesù…
Santa Teresa del Bambin Gesù (1873-1897), Manoscritto autobiografico A, 68
V°
Perché
È certo che non vi è altra penitenza di quella che consiste nel fare meno di quanto si lascia
fare a Dio, essendo verissimo che le penitenze che facciamo da noi stessi e che ci
imponiamo, poiché sono sempre quelle che noi vogliamo, non puniscono mai abbastanza
severamente la parte più criminale, che è la volontà propria, mai punita per bene se non
quando è obbligata a fare o a soffrire ciò che essa non vorrebbe né fare né soffrire.
Alexandre Piny (1640-1709), L’Orazione del Cuore, cap. XIII
IL CUORE DELL’ABISSO
La Scrittura spesso sentenzia che Dio è un abisso e il cuore dell’uomo è pur’esso un abisso:
più che denotare una qualsiasi profondità la metafora esprime un’infinità, un senza fondo e
senza misura. Ogni volta che abbiamo sentore dell’abisso, persino a partire dagli avvenimenti
più semplici e ricorrenti, dinanzi ai quali ci arrestiamo con stupore appassionato o con vero
tormento, siamo nella sfera religiosa, assumiamo lo sguardo contemplativo. Ecco le parole di
un poeta contemporaneo, Roberto Carifi, non ateo ma nemmeno indifferente: “Il vero
sensorium dei è uno spazio ridotto all’osso, una lacuna dell’esistenza, la mia stessa anima
rattrappita. Talvolta il peccato mi avvisa del suo [di Dio] passaggio, come se il male mi
rendesse certo della sua vicinanza. Ho pensato tante volte che Dio abita in noi come un
baratro, che in ogni nostra frana si compie l’assoluto. Una ventata che rade al suolo, un
istante di beatitudine conquistata al prezzo di una piaga, di una dolente emorragia”.
Coerentemente a questa sensibilità per Dio che si risveglia ad ogni dove un evento rimette a
nudo la piaga dell’esistenza, Carifi sostiene che “chi non accetta se stesso, anche nel
tormento e nella colpa, non incontra né Dio né l’enigma della propria vita. C’è un barlume di
Dio in ogni nostra trasgressione, in ogni nostro vacillamento, in ogni dubbio che metta
appunto davanti agli abissi dell’esistenza. Chi è senza tormento è portato a respingere
l’enigma divino. È persuaso nella sua immanenza, nella sua apparente compiutezza. Il
tormentato, invece, è sempre più in là di se stesso, l’oltre gli avvelena il sangue. Tiene il
posto a Dio, lo ospita nelle voragini che si aprono dentro di lui, conosce Dio come il ferito
percepisce i battiti del cuore dove la piaga è profonda”. Le parole del poeta ci rammentano le
parole infuocate dei santi rivolte al Crocifisso: non semplice devozione, ma evento, essere
Gesù crocifisso.
ABC
N. 52 - Settembre 2004
123
L’ORAZIONE DI QUIETE
1.Il raccoglimento passivo, che il Signore opera nell’anima senza che l’intelletto e la volontà
vi contribuiscano in niente, se non per l’acquiescenza che essi vi danno, questo
raccoglimento che nello stato precedente era solamente passeggero, diviene come abituale
nell’orazione di quiete. Questo raccoglimento ne è la base. Quando l’anima si presenta
all’orazione, anche se vi giungesse con il progetto di occuparsi di qualche soggetto
particolare, ella si trova subito, senza sapere come, raccolta dentro di se stessa, con un
dolce sentimento della presenza di Nostro Signore.
2. Questo sentimento, è vero, non ha niente di ben distinto; ma la pace e la dolcezza che
l’accompagnano persuadono l’anima che colui che ella ama è vicino, che viene lui stesso a
darle testimonianza del suo amore, che lo cercherebbe vanamente altrove e che, allora, ella
deve curarsi solo di godere della felicità che le viene presentata. Sarebbe difficile esprimere
quel che tale favore produce nell’anima. Ella stessa non deve fare alcuna riflessione: è un
bambino semi-addormentato sulle ginocchia di sua madre che, incollato alle mammelle,
senza quasi alcun movimento delle labbra, o perfino senza accorgersene, riceve il latte che
cola dolcemente nella sua bocca e che diviene il suo alimento…
3 Sentendo, sebbene in maniera confusa, che lo Sposo celeste si degna in qualche modo di
prenderla fra le braccia, ella osa aspirare ad un’unione più intima ancora; o piuttosto, è lo
Sposo stesso che suggerisce al suo cuore questo desiderio, di cui ella stessa non conosce
ancora la grandezza e l’eccellenza. Il piacere che ella riceve, nel trovarsi vicino a colui che
ama, sostituisce le parole e testimonia sufficientemente quali sono i suoi desideri. Ella allora
non fa nulla, non può fare altro che godere il bene che possiede…
4 Coloro a cui il Signore volesse fare questo favore non devono arbitrariamente resistere ai
suoi dolci e pressanti inviti, sotto qualsiasi pretesto, anche quello di una più grande
abnegazione. Non può esservene di più grande se non di lasciare che Nostro Signore
disponga a suo piacimento dell’anima come di una cosa che gli appartiene, e di morire alla
propria azione per ricevere da lui tutti i suoi movimenti e agire soltanto per sua influenza…
5 L’orazione di quiete non è sempre la stessa: le potenze dell’anima non vi sono sempre tutte
assopite e non sono sempre nello stesso grado di assopimento… Ciò che deve fare è di
contentarsi di quel che Dio le dà, senza desiderarne di più; aderire semplicemente e
pazientemente alla sua azione; non agire troppo per procurarsi un godimento che Dio non le
dà in quel momento; impedire che la volontà non segua gli slanci dell’immaginazione e
dell’intelletto, anche per volerli far partecipare alla contentezza che prova, oppure lavorando a
liberarsi delle loro imperfezioni.
Pietro de Clorivière (1735-1820), L’orazione mentale, 33-34
L’AUTORE Nato a Saint-Malo da una famiglia di antica nobiltà, Pietro Picot de Clorivière
entra a 21 anni nella Compagnia di Gesù dopo gli studi di diritto. L’esilio dei Gesuiti francesi
nel 1763 lo porta in Inghilterra poi in Belgio, essenzialmente per alcuni ministeri di direzione
e di formazione spirituali. La soppressione della Compagnia nel 1773 lo conduce a Parigi e
in Bretagna, e passa alla clandestinità sotto la rivoluzione. Dopo cinque anni di carcere sotto
Napoleone, egli sarà il primo superiore della Compagnia restaurata in Francia nel 1814.
IL TESTO L’essenziale dell’insegnamento di P. de Clorivière è sintetizzato nelle sue
Considerazioni sull’esercizio della preghiera e dell’orazione, con una pedagogia molto
chiara, impregnata della tradizione più classica, quella degli autori del Carmelo e del
gesuita Lallemant. Il passaggio citato qui, ci mostra l’ingresso dell’anima nella
contemplazione propriamente detta, anche se l’autore insiste sull’unità profonda dell’itinerario
spirituale, più attento alla sua continuità che alle sue rotture.
§ 1. La meditazione, attraverso cui comincia comunemente una vita d’orazione, caratterizzata
dal “progetto di occuparsi di qualche soggetto particolare” tende abitualmente a sfumare
dietro un semplice raccoglimento nella presenza di Dio, che s’impone sempre più
frequentemente. Quando questo raccoglimento diviene uno stato stabile, si parla di orazione
di quiete, stato nel quale l’anima non può radicalmente più pensare a nulla di preciso senza
farsi violenza.
§ 2. “Colui che ella ama è vicino, egli viene…”: l’orazione non è produzione di uno stato
mentale, ma accoglimento di Cristo che viene e che viene per la nostra felicità: l’anima sa che
egli è là, ed è Lui, e ciò le basta. La nostra parte nell’orazione di quiete, è accettare molto
semplicemente questa venuta, come Maria nel giorno dell’Annunciazione. Essa diverrà
orazione d’unione quando “il bambino semi-addormentato”, sarà completamente
addormentato, cioè quando si trasformerà in Dio (divenuto il suo alimento) “senza neanche
accorgersene”.
§§ 3-4. L’amore, e non il pensiero (che tuttavia rimane in una “maniera confusa”) è il motore
dell’orazione: sapendosi tra le braccia di Dio, l’anima può abbandonarsi, senza più riflettere o
agire, poiché ella è là dove Dio la vuole, per la comune felicità di appartenere l’uno all’altra.
Dire che vi è di meglio da fare sarebbe dimenticare che Dio vuole solo una cosa: fare
solamente uno con noi.
§ 5. La contemplazione non è inerte: ella sposa le modulazioni dell’amore, che le impone il
suo ritmo, la sua intensità e la sua libertà. Non si può né si deve cercare di controllarla, di
provocarla o aumentarla: essa è quiete, quando si vuole ciò che Dio vuole e non quando si
cerca il riposo per il riposo.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
M come….MISTICO
Un mistero è una realtà “nascosta in Dio da secoli e da generazioni” (Col 1,26); un mistico è
colui al quale Dio svela questo mistero, “poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua
volontà, secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui prestabilito” (Ef. 1, 8-9)
Oh come è grande la felicità che riceve un’anima, quando la tenda dei misteri divini viene un
po’ tirata per lei!
Giovanni de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interore, Libro IV, 7
Perciò,
L’uomo è attirato al di sopra di sé stesso e al di sopra del suo spirito, sebbene non totalmente
fuori di sé, in un bene incomprensibile che non può assolutamente esprimere né esporre la
maniera in cui lo ha inteso e visto. Infatti, intendere e vedere fanno uno in quest’operazione
semplice e in questa semplice vista. E ciò nessuno può operarlo nell’uomo se non Dio solo,
senza intermediari o senza la cooperazione di alcuna creatura.
Beato Jean Ruusbroec (1295-1381), L’ ornamento delle nozze, II, 3
Allora in colui che si trova introdotto nel mistero, si produce
Un’esperienza della presenza di Dio nello spirito attraverso il godimento interiore che ci dà
un sentimento molto intimo.
Taulero (1300-1361), Sermone 12
È cosi che
San Giovanni, riverso sul petto di Cristo, dove il suo cuore si è imbevuto come una spugna
alla sorgente di vita, è divenuto pieno del mistero di Cristo.
San Gregorio Magno († 604), Commentario al Cantico dei Cantici
Come accade ciò?
Il sentimento della presenza di Dio mi afferrava allora improvvisamente. Mi era assolutamente
impossibile dubitare che egli non fosse dentro di me o che io non fossi inabissata in lui. Non
era una visione; io credo che sia ciò che si chiama “teologia mistica”.
Santa Teresa d’Avila (1515-1582), Libro della sua Vita, cap. 10
“Teologia”, infatti, perché
L’anima riceve dall’alto la luce della verità eterna; la sua fede acquisisce nuove certezze, la
sua speranza s’afferma, la sua carità s’infiamma. A colui che ha gustato l’unione mistica tutti i
saggi possono ben dire: «Sventurato, tu sei nell’errore! La tua fede t’inganna!»; senza
esitare egli risponderà loro: «Tutto al contrario siete voi che v’ingannate; la mia fede ha per
lei la verità e la certezza più assoluta»
Luigi de Blois (1506-1565), L’istituzione Spirituale, cap. 1
Cosicché
Il mistico vive nella luce di un’evidenza, che è dono, quello che ciascuno di noi sa per fede e
di cui vive.
Gabriele Maria Garonne, Relazione spirituale…, Prefazione
In quest’esperienza c’è di più e di meno, ma
I mistici non sono dei superuomini. La maggior parte di essi non ha estasi, né visioni… Noi
siamo tutti mistici in potenza, lo diveniamo di fatto quando abbiamo una certa coscienza di
Dio in noi; quando sperimentiamo in qualche modo la sua presenza; appena questo contatto,
peraltro permanente e necessario tra lui e noi, ci appare sensibile, prende il carattere di un
incontro, di una stretta, di una presa di possesso.
Henry Brémond (1865-1933), Sull’Umanesimo, pp. 248-249
In questo senso,
L’orazione e la teologia mistica sono una stessa cosa. Essa si chiama teologia… perché
parla di Dio con Dio e in Dio stesso, …e l’orazione è una conversazione attraverso cui
l’anima s’intrattiene amorosamente con Dio sulla sua amabilissima bontà, per unirsi e
congiungersi a lei.
San Francesco di Sales (1567-1622), Trattato dell’Amor di Dio, VI, 1
Occorre desiderare essere mistico? Da un certo punto di vista, si, perché
Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla
destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra.
**Lettera ai Colossesi, 3, 1-2
Allora, Signore,
Guidaci là dove i misteri della scienza divina sono nascosti nella tenebra risplendente del
silenzio, dove essi sono segretamente insegnati, nell’oscurità totale, trasparente e radiosa,
tenebra nella quale ogni cosa diviene luminosa e che colma degli splendori dei beni invisibili
le intelligenze che hanno rinunciato a vedere.
San Bonaventura (1221-1274), Itinerario dello spirito verso Dio, VII, 5
Così che
Anche i semplici e gl’ignoranti possono giungere alla saggezza della teologia mistica e
all’unione. Per ciò, non viene chiesto un genio eccezionale ma la purezza e l’umiltà del cuore,
la libertà e la nudità dello spirito, e un fervente amore.
Luigi de Blois, L’Istituzione Spirituale, cap. 5
Ma più profondamente,
Noto che Nostro Signore dice: «Chiunque vuol venire dietro a me, prenda la sua croce e mi
segua». Non dice: «sia elevato nell’orazione»; ma «prenda la sua croce», cioè pratichi le
massime evangeliche. Fortunati dunque coloro che sono crocifissi, benché non siano elevati
in spirito; e sono fortunati solo perché sono nella conformità di Gesù crocifisso, e per la loro
unione essi sono più disposti alla croce e alle sofferenze. La vita crocifissa è come la fine
della vita mistica, che serve con le sue luci e le sue dolcezze solamente a fortificare l’anima,
per portare la croce. …Non ci rammarichiamo mai di non avere parte alla vita mistica, purché
la nostra vita sia crocifissa; e rallegriamoci di vedere nell’orazione il nostro povero spirito fra
le spine delle aridità, freddezze e debolezze piuttosto che fra le rose di un fervore o dolcezza
sensibile.
Giovanni de Bernières-Louvigny, Il Cristiano interiore, Libro II, 16
ESPERIENZA MISTICA E SPERANZA UMANA
Ancora un settembre di orrore: a tre anni dalla strage avvenuta nella capitale finanziaria
mondiale, si ripete un eccidio di giovanissime vite in una scuola di una remota e povera
regione del Caucaso. È inevitabile interrogarsi sulla capacità della religione, e
particolarmente del Cristianesimo, di produrre germi di vita che trasformino le rotte
sanguinose percorse dall’umanità. H. Bergson, filosofo francese avvicinatosi al cattolicesimo
prima di morire negli anni critici del nazismo, indica nei mistici coloro che hanno
costantemente aperto nella storia una via di vita su cui gli altri uomini possono incamminarsi.
L’esperienza mistica di Dio è liberazione e gioia, perché l’amore di Dio invade l’animo del
fedele: «L’anima che si apre, l’anima agli occhi della quale gli ostacoli materiali cadono, è
tutta orientata alla gioia. Il piacere e il benessere sono qualcosa, la gioia è di più […]; il
piacere e il benessere si fermano, o seguono il passo, la gioia marcia in avanti». Per
Bergson il misticismo pieno e completo è azione e i grandi mistici, come quelli cristiani, «si
rivelano grandi uomini di azione, cosa di cui si sorprendono quelli per i quali il misticismo
non sarebbe che visione, trasporto, estasi». Il mistico cristiano è perfettamente unito e
configurato al Dio incarnato, Gesù, del quale diviene strumento per portare a compimento il
suo fine nel mondo degli uomini. L’esperienza mistica ha così la funzione di ricondurre gli
elementi della morale chiusa, buona ma statica, al livello superiore del movimento spirituale
creativo di Dio: Essa integra e trasfigura con la gratuità che le è propria le virtù della morale
della pressione, quali l’appartenenza ad una collettività, l’onestà sociale, la devozione alla
famiglia, attraverso l’abnegazione, il dono di sé, lo spirito di sacrificio e la carità.
ABC
N. 53 - Ottobre 2004
123
Il CUORE DELL’UNIONE A DIO
1. Ti rendo grazie, o mia luce, luce eterna, luce senza tramonto, suprema e immutabile… In
questa luce, vedo che tu mi ami potentemente e che se io dimoro in te, in modo così vero che
tu non debba darti pensiero di te stesso, tu non dovrai darti pensiero di me qualunque sia il
tempo, il luogo o le circostanze. Vedo che tu ti doni tutto intero a me, per essere interamente
mio, senza alcuna separazione, per quanto poco io sia interamente tuo, senza alcuna
separazione. Così quando io sono interamente tuo, vedo che tu mi hai amato eternamente,
tanto quanto tu ti sei amato eternamente. Questo per te non è altro che gioire di te in me; e
per me, per tua grazia, gioire di te in me e di me in te. Lì, che io ti ami o mi ami, è la stessa
cosa, come una lega divenuta una sola e uguale realtà non potrà mai più essere divisa.
Quando noi amiamo ciascuno la libertà e le virtù dell’altro, questo non è altro che esercitare
l’amore di cui tu ti ami. Se io dimoro in te con tutto me stesso, è anche impossibile che io
perisca, che tu perisca ….
2. L’anima divenuta ciò che Dio è, sovrabbonda di gioia in ogni cosa. Ella si mantiene, passa
e avanza con Dio e in Dio, tanto più grande in Dio quanto più piccola in se stessa, perché in
ogni cosa ella si è dimenticata di se stessa ed è passata in Dio. Ella è rivestita della luce
della Sapienza eterna come di un vestito, circondata da tutti i lati, di verità e giustizia come di
uno scudo invincibile, infiammata dell’ardore della carità. Infatti, come il ferro interamente
incandescente, diviene interamente fuoco, così l’anima unita all’amore diviene interamente
amore, eccetto che per quel che è proprio della sua essenza e che deve eternamente
restarne distinto. Così l’anima unita a Dio, fa per Dio e in Dio tutto ciò che deve fare e
contemplare continuamente la verità, la sapienza eterna, la giustizia, il bene sovrano, nella
maniera in cui essi contemplano tutte le cose, le simili e le dissimili, le giuste e le ingiuste, le
buone e le cattive, le interiori e le esteriori, pur rimanendo immutabili……
3. [Per queste anime] nulla di esteriore ha importanza, né il modo in cui accadono gli
avvenimenti, favorevoli o sfavorevoli, portatori di speranza o di disperazione, perché nessuno
tocca l’anima nella sua rassomiglianza e conformità superiore. …Marta sia là, ma in basso;
ella s’inquieti e si agiti per molte cose se occorre, ma Maria si attacchi al solo necessario: si
occupi del Verbo eterno, della giustizia, della sapienza, della verità e della pace, perché in un
solo e medesimo uomo le due vie si sviluppano e arrivano a perfezione in ciò che è proprio a
loro.
Gerlac Peters (1378-1411), Soliloquio infiammato, cap. 14 e 18
L’AUTORE Nato a Deventer (Olanda), egli vi subirà la forte influenza dei Frati della Vita
comune, fondati de Gerardo Groote (1340-1384) e organizzati da Florent Radewijns (13501400), coltivando l’eredità umanista e mistica di Ruusbroec (1295-1381; cf. Semi n° 28),
all’origine della Devotio Moderna. G. Peters entrerà nella loro fondazione dei canonici
regolari di Windesheim; di salute malferma, quasi cieco (i suoi scritti furono ripresi e ordinati
da un confratello) egli lasciò solo due lettere e due brevi trattati, da cui il Soliloquio che
conobbe un vivo successo a partire dall’edizione principale del 1616.
IL TESTO In un’epoca di grande inquietudine religiosa, il Soliloquio infiammato invita a
cercare nel raccoglimento e nella relazione personale con Cristo, le certezze e gli appoggi
che all’esterno una cristianità indebolita non offre più. Vi si nota, con maggiore mistica e con
termini del linguaggio di Ruusbroec, un’evidente parentela con l’Imitazione di Tommaso da
Kempis (cf. Semi n° 38) contemporaneo a Gerlac. Vi si trova anche una forte dottrina del
discernimento degli spiriti, che terminerà negli esercizi di sant’Ignazio, il quale un secolo
dopo riceverà a Parigi l’eredità della grande tradizione nordica.
§ 1.”Gioire di te stesso in me….gioire di me in te”: quando l’amore è perfetto, colui che ama
non deve più scegliere tra Dio, il prossimo e se stesso; nel cuore della Trinità, amante, amato
e amabile fanno soltanto uno. A monte di Ruusbroec, si riconosce qui il quarto e ultimo modo
dell’amore in san Bernardo nel suo Trattato dell’Amore di Dio (scritto per Haimeric de La
Châtre, Indre), riferimento obbligato di tutta la mistica del nord.
§ 2. Al termine del suo raccoglimento, ormai “passata in Dio”, l’anima è equilibrata al disopra
di se stessa: «Dove ti troverò Signore se non in te, sopra di me?» (Sant’Agostino,
Confessioni X, 26). È la vita sovra-essenziale di Ruusbroec, nella quale l’anima riveste tutte
le proprietà di Dio (soltanto le proprietà perché ella conserva tuttavia “ciò che è proprio alla
sua essenza”): ella dimora in lui e agisce in lui senza alcuna concorrenza fra i due. In ciò,
sempre in Ruusbroec, questa vita sovra-essenziale diviene vita comune, cioè in modo
indissociabile contemplativa e attiva. L’immagine del ferro incandescente che la illustra, è
comune a tutti gli autori dopo san Bernardo.
§ 3. Ogni opposizione tra Marta e Maria è ormai abolita: presente interiormente a Dio ed
esteriormente al mondo, l’anima è attrice degli avvenimenti senza esserne ingombrata, come
Dio stesso. Ella ha ritrovato l’equilibrio di prima del peccato, quello della natura e della
grazia, della sua creazione dalla polvere del suolo e della sua vita soprannaturale nel soffio di
Dio.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
N come….. NUDITÀ
«Nudo uscii dal seno di mia madre, e nudo vi ritornerò» Gb 1, 21 Questa nudità originale
definisce la condizione dell’uomo davanti a Dio:
Cos’era il primo uomo nella sua prima vita? Egli era nudo, sprovvisto di qualsiasi abito di
pelli, egli guardava con libera sicurezza il volto di Dio, e non giudicava ancora il bene
secondo il gusto e la vista, ma trovava le sue delizie nel solo Signore.
San Gregorio di Nissa (verso il 330-394), Sulla Verginità, 12, 4
Ma una volta commesso il peccato,
Adamo rispose a Dio che egli si era nascosto, perché era nudo, Quale errore pietoso! Poteva
egli dispiacere a Dio nello stato di nudità in cui Dio l’aveva creato? Ma è proprio dell’errore
far credere all’uomo che ciò che dispiace a lui, dispiace anche a Dio.
Sant’Agostino (354-430), Sulla Genesi contro i Manichei, II, 24
Invece
La Sapienza divina si mostra a tutti, e per tutti rimane sempre pura e casta. Coloro che la
vedono si cambiano in lei e mai ella si cambia in loro.
Idem sul Salmo 33, 2, 6
Così che noi ritroveremo questa Sapienza solo ritornando a quella nudità
Io non posso essere quel che devo essere, prima di essere di nuovo là dove ero prima di
uscire da Lui, nudo come Egli è nudo.
Margherita Porète († 1310), Lo Specchio delle Anime semplici, cap. III
Questo è tutto il programma di una vita spirituale:
Amare è adoperarsi a spogliarsi e denudarsi per Dio di tutto ciò che non è Dio.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Salita del Carmelo, II, 5
Perché
La nostra anima deve essere tutta spogliata e nuda davanti a Dio, non avendo più nulla, non
volendo niente, non desiderando niente, non cercando niente, se non Lui solo, che deve
essere tutta la nostra vita e il motore di tutti i movimenti della nostra anima.
Francesco Libermann (1802-1852), Lettera dell’11 settembre 1835
Ti devi spogliare di tutto e offrire a Dio un cuore puro, se vuoi essere libero e gustare come il
Signore è dolce.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Gesù Cristo, II, 8
Fino a
Sentire soltanto l’intenzione nuda della tua volontà portata verso Dio.
Nube della Non Conoscenza (XIV sec.), cap. 3
Infatti
Tali anime sono vergini, cioè libere, separate, spogliate; libere di tutto, salvo che del loro
amore.
Beata Elisabetta della Trinità (1880-1906), 21agosto 1906
Perciò, Signore, occorre che io lasci
…Questo vestito della mia propria volontà, questo vestito di cui voi volete che io mi spogli
completamente.
Santa Caterina da Siena (1347-1380), 15 febbraio 1379
Affinché
Io sia soltanto una nuda capacità e un puro vuoto in me stesso, riempito di Lui, e non di me per
sempre.
Pietro de Bérulle (1575-1629), Grandezza di Gesù, II, 12
Su questo cammino,
Più la vostra anima sarà spogliata di godimenti, sia naturali sia soprannaturali, più sarà
capace di una perfetta unione con Dio; fintantoché rimarranno desideri e volontà, la vostra
unione con Dio non può essere vera e perfetta.
Francesco Libermann, Lettera del 23 settembre 1834
Allora voi potrete dire:
Nostro Signore mi da uno spirito di nudità per tutte le creature; io le ho care ma mi sembra,
senza alcun attaccamento.
Giovanni de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, Libro III,
cap.11
Questo cammino è quello che ha seguito Gesù, cammino di
…La perfetta nudità di Cristo che si ottiene con il completo distacco da ciò che si possiede.
Giovanni Cassiano († 435), De Institutis Coen, X, 19
Perciò,
I tuoi sforzi, le tue preghiere, i tuoi desideri abbiano un solo oggetto: essere spogliato da
ogni interesse proprio, seguire nudo Gesù Cristo nudo, morire a te stesso, per vivere per me
eternamente.
Tommaso da Kempis, Imitazione di Gesù Cristo, III, 37
…dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le
passioni ingannatrici e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo
nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera.
**San Paolo agli Efesini 4,22-24
Questo nuovo vestito, è Gesù stesso:
Una volta che il Verbo è introdotto in lei, l’anima si fa di Lui un vestito, secondo la prescrizione
dell’Apostolo che invita colui che si è spogliato del vestito della carne, cioè dell’uomo vecchio,
a rivestire una tunica creata secondo Dio nella verità e giustizia.
San Gregorio di Nissa, Sul Cantico dei Cantici, XI
Vestito del Figlio di cui il Padre ci riveste per pura misericordia:
Non sono i vostri meriti e le vostre virtù, ma solamente la mia ineffabile bontà che mi ha
portato a darvi il desiderabile vestito di mio Figlio, che si è spogliato lui stesso della vita,
attraverso la morte, per rivestire voi di grazia e d’innocenza.
Santa Caterina da Siena, Dialogo 135, 8
Cosi, vestiti di santità, noi avanziamo
…nella nudità essenziale, senza modo e senza ragione, nella stretta gioiosa dell’amore che
si abbandona… Ben presto noi ci spoglieremo del nostro corpo e navigheremo nel mare
immenso, senza che nessuna creatura possa più raggiungerci.
Beato Jean Ruusbroec (1295-1381), L’Ornamento delle Nozze, fine.
«COSÌ HO VISTO GESÙ»
La vita mistica non consiste in visioni, locuzioni, levitazioni e simili fenomeni straordinari. In
essi si manifesta talvolta, come effetto, la presenza operante di Dio in una persona, come
accade nella vita spesso esemplare di tanti cristiani. Ma la vita mistica è la perfetta unione
d’elezione di Dio con l’anima e dell’anima con Dio, per la quale la creatura vive nella fede
consapevole l’essere uno con la sua Origine. Trovandosi presso l’Origine, il mistico vede,
sempre nella fede, ma realmente, ogni cosa nell’Origine o, come dice s. Paolo, in Cristo, nel
quale, dal quale e per il quale tutto sussiste. Egli scopre che il segreto contenente la verità
di ogni creatura è in quell’essere e permanere in Cristo, al di fuori del quale la creatura
perde il proprio nome. Per questo ogni speranza anche di civiltà terrena non può che essere
riaperta dal mistico, da colui che sa riandare, o si lascia riportare, al segreto nome delle
creature. Ecco le illuminanti parole di un anziano mistico, adesso novantenne, Divo Barsotti,
scritte il 31 maggio 1944: « Non vedo più che Gesù: tutta la vita degli uomini è la generazione
di Cristo. Cristo mi si rivela come lo Splendore della creazione che in lui possiede la sua vita,
la sua ragione, l’essere suo. Noi non viviamo che in Lui. Come se d’improvviso s’aprisse e
riempisse il cielo una grande luce, così ho visto Gesù. Lui solo: ogni atto umano, ogni voce si
raccoglie in Lui: una sola vita, una sola Parola».
ABC
N. 54 - Nov embre 2004
123
SIA FATTA LA TUA VOLONTÀ!
1. La volontà buona non deve chiedere a Dio né gioia né consolazione interiore né una cosa
piuttosto che un’altra, ma desiderare in tutta l’estensione dei suoi desideri di compiere la sua
adorabile volontà… Quel che Dio vuole da noi, prima di tutto, è che cedendogli interamente la
nostra volontà, gli lasciamo fare tutto quel che gli piace. Da lì deriva la pace vera e continua
di cui noi godiamo. Senza questo, tutto quel che diciamo a Dio, tutto quel che egli stesso ci
dice non serve a nulla o ci serve pochissimo, fino a che noi possiamo dire col sentimento
dell’Apostolo: «Signore che vuoi che io faccia?» (Cf. At.9,6). Perché Dio sa ciò che deve fare
e la nostra rassegnazione gli è molto più gradita che se gli promettessimo di fare, con un
movimento di volontà propria, cose straordinarie per la sua gloria; orbene, per quanto noi
possiamo fare o dire, Dio non chiede e non desidera altro da noi, che sentirci dire dal fondo
del nostro cuore: «Signore si compia la tua volontà che mi è più cara di tutte le cose!»
2. Colui che in perfetta libertà ha deposto la sua volontà tra le mani di Dio e l’ha legata a Lui,
riceve di buon grado tutto quel che gli accade nel tempo e nell’eternità, esegue volentieri tutto
quel che Dio gli domanda, e regola tutti i desideri sul beneplacito di Colui che gli è tutto in
tutte le cose…
3. Colui che si è interamente abbandonato e che ha lasciato tutte le cose, entra talmente
avanti in Dio che chi vuole toccarlo, tocca innanzitutto Dio, poiché quest’uomo così distaccato
dimora in Dio e reciprocamente Dio abita in lui. Egli riceve tutto quel che succede come
proveniente dalla mano del Signore e si sforza di rendergliene grazie e di glorificarlo. Così,
vedendo in tutto l’espressione del beneplacito di Dio, egli trova una dolcezza segreta e
ineffabile in tutte le cose.
4. Da Dio non può venire nulla di spiacevole e amaro; perché come una bevanda non può
impressionare il nostro palato se prima non ha bagnato la nostra lingua, così colui che ha
interamente rinunciato a se stesso, per quanto concerne i vizi, e già morto in Dio, ne è
talmente circondato da tutte le parti, che è impossibile a qualsiasi creatura avvicinarlo, senza
che essa si avvicini prima a Dio, per il quale passano tutte le cose per arrivare fino a lui e in
cui ogni cosa riceve un condimento tutto divino. Da ciò deriva che per quanto sensibile sia il
male che lo affligge, egli non fa fatica a sopportarlo poiché Dio lo porta per primo e lo
permette solo per il suo profitto; così egli lo riceve come dalla mano di Dio e non da parte di
colui che glielo fa soffrire, cosa che sarà al di sopra delle forze naturali.
Istituzioni tauleriane cap. XVIII
L’AUTORE Sotto il nome di Taulero, le Istituzioni raggruppano in realtà testi di delicata
identificazione, dovuti a numerosi autori reno-fiamminghi, da EcKhart a Ruusbroec o al suo
contemporaneo Rulman Merswin. Questa compilazione è uno dei numerosi frutti della
straordinaria impresa editoriale dei gesuiti e dei certosini di Colonia nel XVI secolo,
all’origine della diffusione in tutta l’Europa della mistica nordica. Pubblicati in tedesco dal
gesuita san Pietro Canisio nel 1543, le Istituzioni eserciteranno un’influenza considerevole
con la loro traduzione latina del 1548 ad opera del certosino Laurent Surius. Proprio in
occasione dell’interdizione avvenuta nel 1559, per opera dell’Inquisizione spagnola, di questo
libro a lei molto caro santa Teresa d’Avila si sente dire da Cristo: «Io sarò ormai il tuo libro
vivo»
IL TESTO § 1. L’invito all’indifferenza assoluta ai nostri propri stati d’animo denota
l’ispirazione tauleriana di questo testo: conta soltanto la volontà di Dio voluta per se stessa,
senza riguardo alle nostre sensazioni o sentimenti. La santità non consiste nel fare promesse
per Dio, ma di lasciar fare a Dio ciò che egli vuole in noi. Non dobbiamo inquietarci: “Dio sa
ciò che deve fare” e ad ogni modo egli non può volere che il nostro bene e la nostra felicità,
completamente e immediatamente, poiché egli ci ama più di quanto noi ameremo mai, noi
stessi.
§ 2. Quest’armonia dell’anima unita a Dio rinvia a Ruusbroec e alla sua “vita comune”: senza
alcun ritorno su se stesso, l’amico di Dio vive con facilità, gli avvenimenti così come arrivano
in una perfetta alleanza dell’azione e della contemplazione, di Marta e di Maria, con la sola
preoccupazione di non contristare mai “il beneplacito di Colui che è tutto in tutte le cose”.
§ 3-4. Qui l’accento diviene eckartiano: “nascosto in Dio con Cristo” (Col. 3,3), l’uomo diviene
così invulnerabile come Dio stesso. Infatti nulla viene a lui se non dalla mano di Dio, poichè
tutto ciò che gli era ostile si trasforma ormai in manifestazione d’amore: «Se qualcuno
ponesse un quintale sulla mia nuca, dice Eckart, e poi un altro lo mantenesse, non mi
peserebbe e non mi farebbe più male, ne porterei cento così come uno solo». (Sermone 2)
L'ORAZIONE dalla A alla Z
N come …..NOTTE
O notte che mi hai guidato!/ Notte amabil più dei primi albori!
Notte che hai congiunto l’Amato con l’Amata/ l’amata nell’Amato trasformata!
San Giovanni della Croce (1542-1591), Poema della Notte, 5
Dopo san Giovanni della Croce, questa notte così dolce quanto esigente ricopre l’insieme
della vita spirituale. Notte primordiale nella quale fa irruzione la luce divina:
Infatti fino a che il Signore disse: «Sia la luce!» (Gen 1,3), le tenebre ricoprivano l’abisso
(Gen. 1,2) cioè le caverne del senso. Tanto più abissali e profonde sono le sue tenebre,
quanto più esso è profondo e oscure sono le sue caverne, allorché non è illuminato da Dio
che è luce.
San Giovanni della Croce, Fiamma viva, III, 62
Ciò fino al punto d’arrivo della vita spirituale, quando
Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché
il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli.
Apocalisse 22,5
Ma questa notte diviene cosciente solo con l’ingresso della luce divina:
Per questo leggiamo nella Genesi che Dio ha chiamato notte le tenebre, quando le separò
dalla luce.
San Tommaso d’Aquino (1224-1274), Summa, 1,64, 1
Così questa notte è innanzitutto quella della fede, perché
La luce di Dio eccede talmente la nostra vista e ha così poca proporzione con questa, che
l’acceca e l’oscura al punto che non la può vedere; così le sembra, tenebre e oscurità, proprio
come il sole che possiamo guardare poco, a causa del suo eccesso di luminosità.
Antonio Molina (1550-1612), Esercizi spirituali…, Burgos 1614, pp.334s
Perciò, una volta formato il suo atto di fede
L’anima è ormai circondata dalla notte divina, nella quale lo Sposo si rende presente ma non
si manifesta… È per l’anima una venuta che ella sente, ma che sfugge alla conoscenza
chiara, nascosta com’è dall’invisibilità della sua natura.
San Gregorio di Nissa (335-394), Commentario sul Cantico, 1001 b
È qui che l’anima non deve contrarsi, perché
Temendo di perdersi, …si trovano soltanto tenebre spesse e impenetrabili…, come se tutto
ciò che si avesse avuto una volta fosse stato soltanto sogno, finzione e nulla di reale.
Costantino di Barbançon (1582-1631), I segreti sentieri, II, 11
Ma
Se la nostra fedeltà è grande in questo stato di tenebre e di pene interiori, Dio non starà a
lungo senza mostrare il suo volto, e dissiperà tutte queste ombre.
Giovanni de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, Libro III,
cap.4
Che fare allora in questa impotenza della fede? Dormire, perché è questo che bisogna fare di
notte:
Quando dunque sarete in questa semplice e pura fiducia filiale vicino a Nostro Signore,
rimaneteci senza muovervi per nulla per fare atti sensibili né dell’intelletto, né della volontà;
perché quest’amore semplice e fiducioso, questo assopimento amoroso del vostro spirito tra
le braccia del Salvatore, comprende per eccellenza tutto ciò che andate cercando qua e là
per il vostro gusto. È meglio dormire su questo sacro petto che vegliare altrove, non importa
dove.
San Francesco di Sales (1567-1622), Trattato dell’Amor di Dio VI, 8
Allora in noi si leverà la luce divina, perché
In questo sonno spirituale che l’anima prende sul petto del suo Diletto, ella possiede e gusta
tutto il riposo, il rilassamento e la quiete della notte pacifica, e riceve contemporaneamente in
Dio un’intelligenza divina abissale e oscura. Perciò ella dice che il suo Diletto è per lei la
notte serena, come quando sorge l’aurora.
San Giovanni della Croce, Cantico Spirituale, 14
Questo avviene senza che ce ne accorgiamo:
In questa notte fortunata di contemplazione, Dio conduce l’anima per una via di
contemplazione così solitaria e segreta, remota e aliena dal senso, che nessuna cosa
appartenente a questo e nessun tocco di creatura riescono a disturbarla e distrarla dal
cammino dell’unione di amore.
San Giovanni della Croce, Notte oscura, II, 25
Allora Signore,
Se vuoi che io sia nelle tenebre, che tu sia benedetto; e se vuoi che sia nella luce che tu sia
ancora benedetto.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Gesù Cristo, III, 17
Questa notte ci fa paura perché rassomiglia ad un’altra notte, la notte del nostro peccato:
Giuda tradì Gesù di notte; quella notte esteriore e sensibile era figura delle tenebre che si
estendevano sull’anima di Giuda.
Origene (185-253), Su Giovanni, 13,30
Infatti,
Quando Dio è presente, l’uomo è illuminato; ma quando Dio è assente, egli cade subito nelle
tenebre; egli si allontana da lui non per la distanza dei luoghi ma per l’avversione della sua
volontà.
Sant’Agostino (354-430), Sulla Genesi VIII, 12
Così che
Cade nelle tenebre esteriori per punizione colui che è già caduto da se stesso, per il suo
peccato, nelle tenebre interiori. Lì è costretto a soffrire le tenebre della punizione, perché
quaggiù egli ha liberamente subito le tenebre della voluttà.
San Gregorio Magno (†604), Omelia 9 sul Vangelo
Preghiamo dunque Gesù di farci passare da questa notte tenebrosa alla notte luminosa della
fede:
Noi che siamo seduti sulla strada della Scrittura [allusione a Mt 20,30] e che comprendiamo
sotto quale rapporto siamo ciechi, se preghiamo per amore della verità, Gesù toccherà gli
occhi della nostra anima e le tenebre dell’ignoranza si ritireranno dal nostro spirito per
lasciarci vedere e seguire colui che ci ha reso alla luce solo per permetterci di camminare
dietro a Lui.
Origene, Sul Vangelo di Matteo, 22, 29-34
LA GIUSTIZIA DEGLI AFFETTI
A volte si porta a pretesto la regola evangelica del non giudicare, per nascondere il
disinteresse e il disimpegno nelle relazioni umane più strette, da quelle di sangue a quelle di
elezione. Da quando la cultura occidentale ha decretato la frattura tra la coscienza e la verità,
e la pura relatività degli usi, dei costumi e delle forme culturali della storia, ogni scelta nel
campo dei sentimenti, dei valori morali e della religione è in pratica accettabile alla
condizione minima di non ledere i diritti di un'altra. Appare, tuttavia, poco esigente la
relazione che non impegna la tensione alla verità, ai valori che rendono la persona degna
della stima e a cui volentieri affidiamo il segreto travaglio dell’esistenza nella condivisione dei
piccoli gesti quotidiani. Il disimpegno verso i valori mina la relazione con i figli, con i fratelli,
con i genitori, con gli amici, con chiunque abbiamo fatto entrare e ci ha fatto entrare nel
sacrario della coscienza. L’affetto dovrebbe legare, allora, a prescindere dalle scelte delle
persone in campi così impegnativi. Diventa, però, impossibile che il voler bene significhi
volere un bene verso il quale ci determiniamo insieme, puntandovi come ad un ideale comune.
Il sentimento è svuotato o imbavagliato, perché deve prescindere da ogni tensione valoriale. È
difficile individuare cosa accomuni in una relazione che si chiude in se stessa, cadendo
nell’idolatria o nella complicità, e si banalizza perdendo il peso specifico del bene. È vero che
la stessa persona è un bene assoluto, ma perché in sé è apertura, rimando agli altri e ad
Altro senza trattenere per sé. Ci si deve mettere dalla parte della persona che sembra aver
tradito gli ideali: vi si scopre spesso un dolore e un dramma nemmeno tanto nascosti. Il
dolore è un eccellente segno che si riconosce l’errore, e significa l’attaccamento al valore
sotto il segno del rammarico per averlo tradito. Quando è così, l’errore accomuna ancor più
nell’affetto, perché è ricerca comune di una catarsi. Talvolta, purtroppo, si incontra
l’arroganza che si fregia di modernità, tacciando di arretratezza chi rimane fermo sulle
vecchie impostazioni. Se i legami di affetto, che nascono dall’aver condiviso la ricerca di un
vero e di un bene che ci attraggono con il fascino del loro splendore, non hanno una loro
coerenza e una loro giustizia, chi li salverà dalla banalità? È fin troppo chiaro che l’amore per
la persona non chiede condizioni e prestazioni per darsi, bensì si dà perché obbedisce a un
Amore-Verità che è fondamento e custodia della creatura; e per questo l’unica sua legge è la
fedeltà alla creatura per il Donatore e al Donatore. Il Salvatore del mondo è segno di
speranza perché ha assunto il dolore silenzioso di colui che è affamato e assetato di
giustizia.
ABC
N. 55 - Dicembre 2004
123
LA FELICITÀ DI AMARE DIO
1. Quel giorno ero nell’oscurità della privazione di Dio…. Ma Dio allora mi ha afferrato, ha
portato in Lui il mio spirito e mi ha posto davanti quel che Egli voleva vedessi nell’orazione…
Ho allora, avuto una luce su ciò che è la contemplazione. La contemplazione non è dirigere il
proprio pensiero, perché quel che io devo contemplare, lo so senza che il mio pensiero
intervenga. L’orientamento del mio pensiero e la luce vengono da Dio solo….
2. Più si contempla, più si sente che si potrebbe sempre e sempre guardare, ascoltare e
aspirare le luci che vengono da Dio. E pensavo contemporaneamente al paragone
meraviglioso di santa Teresa sul matrimonio spirituale: «È come l’acqua del cielo che cade
nel ruscello e si mescola così bene a quella del ruscello, che non si potrebbero più dividere
né separare l’una dall’altra…» [3]. È impossibile, ciò è evidente….
Questa unione a Dio penetra in modo abituale tutti i momenti della vita, tutti i nostri pensieri. La
vita contemplativa o mistica è uno stato di vita, un dono per il quale Dio esigerà molto, perché
ci ha dato molto. Ma è uno stato, è dunque divenuto abituale e naturale.
3. …..Bruscamente, ho sentito in me le sofferenze terribili e inesplicabili — non si potrebbero
paragonare a nulla — dell’abbandono….. Io soffrivo talmente che mi sembrava di essere
rinserrata in uno stato di sofferenza. Sentivo come un abisso, o piuttosto sentivo il nulla
davanti a me. Ero abbandonata da Dio; e credo di non averlo mai percepito così forte… Poi
non so in quale momento, l’ineffabile e indescrivibile Presenza di Dio mi veniva resa nella sua
totale realtà. Era la contemplazione che ti sommerge come l’acqua dell’oceano, lo stato beato
per il quale Dio ci ha creati. Non sapevo più quel che avevo sofferto. O se lo sapevo, era
come se non lo sapessi più; perché questa gioia che Dio ti dà Lui stesso, cancella tutto.
4. Questo mi è successo, dopo due giorni di lotta incessante contro le tentazioni
dell’avversione alla perfezione. L’orrenda tentazione dello scoraggiamento nell’oscurità della
privazione di Dio. Mi sveglio e vedo o piuttosto bevo queste parole: «In Lui infatti viviamo, ci
muoviamo ed esistiamo..» [4]. E mi dicevo: «Quando si dice:”In Lui esistiamo”, tutto crolla
attorno a sé davanti a questa Realtà che supera tutto quel che si può immaginare. Tutto. Io lo
vedevo e sentivo la sovrumana felicità (perché supera ogni limite) di sapere che ciò era la
Verità. Tutto sparisce, perché tutto deve sparire in modo naturale; perché sarebbe
impossibile che non sparisse. E pensavo: «Tutto. I secoli passati e i secoli futuri, le gioie e le
pene di ciò che costituisce la vita attuale. Tutto crolla, perché è fumo» E la mia felicità era un
rapimento di tutto il mio essere che si sentiva assorbito da Dio.
Jeanne Schmitz-Rouly (1891-1979), Giornale Spirituale, 1962-1966, §§ 51-55
L’AUTORE Nata a Mons, Jeanne passerà la maggior parte della sua vita a Bruxelles,
conducendo la vita ordinaria della piccola borghesia vallona. Dopo alcune difficoltà nella sua
fede durante l’adolescenza, ella pensa alla vita religiosa ma vi rinuncia di fronte alle reticenze
della famiglia. Sposata nel 1919, madre di tre figli, vedova nel 1942, non ci sarebbe nulla da
dire di lei se questa facciata un po’ sbiadita non nascondesse una vita interiore totalmente
inosservata da chi le stava intorno e tuttavia caratterizzata da una rara violenza mistica di cui
testimoniano le note redatte per i suoi direttori, ritrovate fortuitamente nel 1995.
IL TESTO Le note di Jeanne occupano otto taccuini di cui due sono stati pubblicati. La loro
redazione spesso goffa, non mirando a pubblico alcuno, è ancor più rivelatrice dell’azione di
Dio in lei. Vi si vede la traccia delle sue letture di san Giovanni della Croce, di Teresa d’Avila
e di Teresa di Lisieux, grazie ai quali ella si spiega sempre meglio quel che le accade. I
momenti di pienezza di cui è favorita, alternati con alcuni momenti di aridità interiore, sempre
più rari nel corso degli anni, ci permettono di afferrare nel vivo l’irruzione di Dio in una vita
espressa in termini e con la sensibilità della nostra epoca.
§ 1. “Dio mi ha afferrato… ha portato in Lui il mio spirito…”: il carattere proprio
dell’esperienza mistica è di essere totalmente impreparata ed estranea al corso abituale della
vita. L’anima è qui privata di ogni iniziativa, ella non può “dirigere il suo pensiero”: “il suo
orientamento e la sua luce vengono da Dio solo”.
§ 2. Jeanne risente allora gli effetti di un assorbimento dell’anima in Dio e di Dio nell’anima,
“tutti i momenti della vita, tutti i nostri pensieri” passando in lui. Questa divinizzazione è
propria di tutta la vita cristiana, ma si parlerà di esperienza mistica quando, come qui, ella
diviene cosciente, polarizzando allora tutta la vita mentale: “si sente che si potrebbe sempre e
sempre guardare” anche se nel tempo il livello emozionale di questa esperienza si attenuerà
a vantaggio di una semplice trasparenza all’azione divina.
§§ 3-4 L’alternanza tra pienezza e aridità caratterizza le note di Jeanne. Non che Dio ami
torturare le anime, ma la gratuità dei suoi doni è assoluta e l’aspetto penoso della loro
cessazione sensibile è dovuto alle contrazioni e ai ritorni su noi stessi che ereditiamo dal
peccato originale. Perciò questo aspetto tende a sfumare col tempo, in Jeanne come in tutti
quelli che si lasciano educare da Dio a questa gratuità, fuori dalla quale non c’è amore
autentico.
Si noti la densità della descrizione di una felicità satura quando Dio s’impone all’anima:
l’anima si sa qui nel reale e sa che tutto ciò che non è Dio, fa soltanto finta di essere.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
O come….. OBBEDIENZA
La parola obbedienza non appartiene tanto alla vita morale quanto alla vita spirituale: Gesù
era sottomesso a Maria e Giuseppe, ma era obbediente solo verso suo Padre. Ritrovare
questa dipendenza filiale è per noi come per lui il segreto della felicità:
L’obbedienza è la chiave con la quale fu aperta la porta che era stata chiusa dalla
disobbedienza di Adamo.
Santa Caterina da Siena (1347-1380), Dialogo, IV, cap. 1
Ogni nostro progresso nella vita spirituale è dunque misurato da questa obbedienza:
Un giorno si chiedeva al venerabile padre Giovanni della Croce come si entrasse in
rapimento, egli rispose che ciò avveniva rinunciando alla propria volontà e facendo quella di
Dio. L’estasi infatti per l’anima non è altro che uscire da sé ed essere rapita in Dio — ed è
quel che fa chi obbedisce: perché egli esce da sé e dalla sua volontà propria e, alleggerito,
si perde in Dio.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Parole di luce e di amore, 158
Per quanto riguarda la vetta della perfezione, è chiaro che non consiste in dolcezze interiori,
né in grandi rapimenti, né in visioni, né nello spirito di profezia, ma in una tale conformità
della nostra volontà con quella di Dio che tutto ciò che noi comprendiamo che egli vuole, lo
vogliamo con tutta la nostra volontà, e riceveremo così gioiosamente il dolce e l’amaro,
quando Lui lo vuole.
Santa Teresa d’Avila (1515-1582), Fondazioni, 5,10
Al contrario,
Lo Sposo non verrà a dividere il tuo letto se tu vi avrai messo la paglia e le ortiche della
disobbedienza, invece dei fiori dell’obbedienza.
San Bernardo (1090-1153), Sermone 46 sul Cantico
Non c’è dunque autentica vita d’orazione senza, innanzitutto, una vita d’obbedienza:
Noi sappiamo attraverso le storie e l’esperienza che numerosi religiosi e altri sono stati santi
senza l’orazione mentale, ma senza l’obbedienza, nessuno.
San Francesco di Sales (1567-1622), Lettera a Madre Favre, primavera 1617
Per questo, dice il Signore
Sarai elevata ad una sì alta contemplazione e ad una sì perfetta unione del tuo spirito in me,
come se il tuo corpo stesso fosse portato via al disopra della terra; se tu ricevessi un ordine
in nome dell’obbedienza dovresti fare, se tuttavia tu lo potessi, tutti gli sforzi per sradicarti
alla tua contemplazione.
Santa Caterina da Siena, Dialogo, IV, cap. 12
Allora,
Lo spirituale non ponga mai nulla al di sopra della santa obbedienza. Scelga di raccogliere
per obbedienza le foglie e i rami degli alberi, piuttosto che perseverare per volontà propria in
grandi opere e sublimi pratiche.
Luigi de Blois (1506-1565), L’istituzione Spirituale, cap. XII
Tanto che
Il demonio vedendo che non c’è cammino che conduce più presto alla suprema perfezione di
quello dell’obbedienza, vi pone molte avversioni e difficoltà sotto le insegne del bene.
Santa Teresa d’Avila, Fondazioni, 5, 10
In questo senso,
Preferiamo l’obbedienza all’ascesi: questa infatti insegna l’orgoglio, quella l’umiltà.
**Massime dei Padri del deserto, XVII, 9
In compenso,
Dall’umiltà proviene l’obbedienza, perché nessun altro se non l’uomo umile può essere
interiormente obbediente.
Beato Jean Ruusbroec (1293-1381), L’ornamento delle Nozze I, 3
Dio preferisce in te il minimo grado di obbedienza e di sottomissione a tutti quei servizi che
tu pensi di rendergli.
San Giovanni della Croce, Parole di luce e d’amore, 13
Ciò perché l’obbedienza è uno dei nomi dell’amore:
È la sola carità che rende l’obbedienza gradita a Dio e gliela fa gradire.
San Bernardo, Sermone per la festa di sant’Andrea, 2, 2
Così che
Il merito dell’obbedienza non si misura dall’atto esteriore, né dal luogo, né dalla persona che
comanda e che può essere buona o malvagia: esso è proporzionato all’amore di colui che
obbedisce.
Caterina da Siena, Dialogo, IV, cap. 2
Perché in fondo l’obbedienza è molto amabile:
Occorre fare tutto per amore e nulla per forza; occorre più amare l’obbedienza che temere la
disobbedienza.
San Francesco di Sales, Lettera del 14 ottobre 1604
E quando l’obbedienza ci fa paura?
Seguiamo con l’occhio del nostro spirito Gesù crocifisso per amore nostro e pensiamo che
come egli non ha mai tanto glorificato Dio suo padre come quando è stato attaccato in croce
per rendergli perfetta obbedienza, così noi glorificheremo maggiormente Dio solo quando ci
lasceremo di buon grado, attaccare alla croce, fintantoché piacerà alla sua divina Maestà; e
come è stato necessario che lo stesso Gesù compisse la nostra redenzione attraverso la
croce, così è necessario che noi acquistiamo la nostra salvezza e perfezione attraverso la
croce.
Jean–François de Reims († 1660), La vera Perfezione, I, Istruzione VIII
Quando l’obbedienza ci sembra al di sopra delle nostre forze?
Dio che non abbandona mai coloro che si abbandonano a lui, [ …farà sì] che vi si solleverà o
vi sosterrà, vi conserverà o vi lascerà soccombere, prendendovi presso di lui e togliendovi da
questa miserabile vita. Orbene, potreste finirla meglio che con tale sacrificio in un intero
abbandono?
Jean-Pierre de Caussade (1675-1751), Lettera 121
IL NATALE E L’ORAZIONE
Il mistero del Natale rifulge di splendore nel cuore dei credenti, i quali con passo sicuro
seguono la Luce delle genti pur fra le tenebre del mondo, introdotti fin nelle profondità di Dio
attraverso il meraviglioso scambio tra la sua divinità e la nostra umanità. La scienza divina
che questa Luce ha loro recato non si attinge solo e principalmente con lo studio
accademico, ma con l’orazione. Rileggiamo una pagina del teologo e dottore della Chiesa
Bonaventura sul suo beato padre, Francesco d’Assisi, santo del presepe, che ha penetrato a
suo modo la sfolgorante luce del Natale: «La dedizione instancabile alla preghiera, insieme
con l’esercizio ininterrotto delle virtù, aveva fatto pervenire l’uomo di Dio [Francesco] a così
grande chiarezza di spirito che, pur non avendo acquisito la competenza nelle Sacre
Scritture mediante lo studio e l’erudizione umana, tuttavia, irradiato dagli splendori della luce
eterna, scrutava le profondità delle Scritture con intelletto limpido e acuto. Il suo ingegno,
puro da ogni macchia, penetrava il segreto dei misteri, e dove la scienza dei maestri resta
esclusa, egli entrava con l’affetto dell’amante […] Una volta i frati gli chiesero se aveva
piacere che le persone istruite, entrate nell’Ordine, si applicassero allo studio della Scrittura;
ed egli rispose: “Ne ho piacere, sì, purché, però, sull’esempio di Cristo, di cui si legge non
tanto che ha studiato quanto che ha pregato, non trascurino di dedicarsi all’orazione e purché
studino non tanto per sapere come devono parlare, quanto per mettere in pratica le cose
apprese e, solo quando le hanno messe in pratica, le propongano agli altri. Voglio che i miei
frati siano discepoli del Vangelo e progrediscano nella conoscenza della verità, in modo tale
da crescere contemporaneamente nella purezza della semplicità”» (Legenda Major, XI,2).
ANNO
2005
ABC
N. 56 - Gennaio 2005
123
SUL BUON USO DELLE MALATTIE
1. «Se qualcuno, dice il Signore, mi chiede di concedergli un po’ di riposo per lodarmi e per
riacquistare le forze, ma io non l’esaudisco e tuttavia abbracciando la pazienza, sopporta
umilmente la sua debolezza la mia dolcezza divina e la mia bontà riceveranno questa, tanto
più dolcemente… Colui che, debilitato per aver usato le sue forze nella veglia, mi offre questa
debolezza sopportandola umilmente e pazientemente, mi è infinitamente più gradito di colui
che in buona salute veglia in orazione tutta la notte potendolo fare senza difficoltà».
2. … Una notte, molto febbricitante, ella con inquietudine cominciò a chiedersi se dovesse
seguire un’evoluzione del male in peggio o in meglio. Il Signore le apparve portando nella
sua mano destra la salute e nella sinistra la malattia, tendendole le mani perché ella
scegliesse quello che preferiva. Respingendole ambedue ella si portò con fervore tra le due
mani del Signore fino al suo cuore d’infinita dolcezza, dove sapeva che risiede la pienezza di
ogni bene, desiderando soltanto la sua adorabile volontà. Il Signore accogliendola con
tenerezza e abbracciandola dolcemente, l’attirò sul suo cuore perché vi riposasse. Ma
volgendo subito il suo viso dal Signore e appoggiando solamente la testa sul petto di Lui, ella
disse: «Ecco Signore, io volgo da te il mio volto perché il solo desiderio del mio cuore è che
tu non consideri la mia volontà, ma in tutte le cose tu compia il tuo adorabile beneplacito».
Questo tratto ci fa constatare che l’anima fedele si rimette in tutte le cose alla condotta di Dio
con una fiducia sicura, fino al punto di rallegrarsi d’ignorare ciò che il Signore fa di lei,
affinché il compimento perfetto del beneplacito della volontà divina in lei sia sempre più
puro…
3. Ella dice al Signore: «Non ti degnerai, Padre di misericordia, dopo questo settimo attacco
della malattia, restituirmi la salute di prima?» Il Signore risponde: «Se, all’inizio, ti avessi
fatto conoscere che saresti stata obbligata a letto sette volte forse, per debolezza umana, ciò
ti avrebbe fatto paura fino al punto di trascinarti nel difetto d’impazienza. Così se adesso ti
promettessi che è l’ultima volta che soffri di questa malattia, non mancheresti di volgere tutta
la tua speranza verso questa guarigione e il tuo merito ne sarebbe diminuito. Perciò la
paterna provvidenza della mia sapienza increata ha risolto per il tuo bene di lasciarti in
questa doppia ignoranza che ti obbliga a sospirare con tutto il tuo cuore vicino a me e a
rimetterti con fiducia, in tutte le pene sia interiori che esteriori, in me che con fedeltà sì dolce
tengo gli occhi su di te e mi prendo cura di te, non permettendo che tu sia mai prostrata al di
là delle tue forze, perché io conosco bene la fragilità e la delicatezza della tua pazienza».
Santa Gertrude d’Helfta (1256-1301), L’Araldo, III, cap. 52-53; 55
L’AUTORE Affidata fin dall’età di cinque anni alle monache di Helfta (in Sassonia), guidate
dalla sua omonima Gertrude di Hackeborn, si ignora tutto della sua famiglia. Educata dalla
sorella della badessa, la santa visionaria Mechtilde, che la guidò in eccellenti studi, Gertrude
fu cantora e copista nel monastero malgrado la salute delicata. Gertrude e Mechtilde sono
esemplari della mistica femminile del XIII secolo, che ama esprimersi attraverso visioni e
rivelazioni con un’altissima correttezza formale. Tratta dall’ombra, dall’edizione dei suoi
scritti fatta dalla certosa di Colonia nel 1536, l’influenza di Gertrude sarà considerevole su
Louis Blois, sul Carmelo spagnolo e in seguito sulla Francia del XVII secolo.
IL TESTO L’Araldo dell’Amore divino è uno dei titoli sotto i quali sono conosciuti 5 libri che
raccolgono le rivelazioni di Gertrude. Nella linea di san Bernardo, essi testimoniano una
percezione molto viva dell’umanità di Cristo, sviluppata sul registro dello sposalizio fra Dio e
l’anima. Il loro tono estremamente dolce e tenero, attraverso i temi del cuore di Cristo
(Gertrude è in parte all’origine del culto del Sacro Cuore) o quelli della ferita e della morte
d’amore, li rende fra i più avvincenti e s’imporranno alla spiritualità ulteriore.
§ 1. Riflesso della delicatezza dell’anima e del corpo delle monache d’Helfta, nell’ambiente
brutale della cavalleria sassone, Gertrude è interamente in questa “piccola via” che offre a
Cristo la sua pazienza e la sua dolcezza più che le sue prestazioni.
§ 2. La ricerca del “beneplacito di Dio” ritorna in ogni pagina di Gertrude, sulla base di una
tenera intimità con il Signore Gesù. Ma questa dolcezza non è sdolcinata e porta alla
completezza l’esigenza della fede e della rinuncia. Molto rappresentativo dell’abbandono
amoroso che domina l’opera di quest’altro apostolo della dolcezza cristiana, il paragrafo è
ripreso da vicino da san Francesco di Sales in uno dei suoi Colloqui Spirituali alla
Visitazione (Colloquio II, Sulla Fiducia).
§ 3 Dio vuole solo una cosa: l’unione totale tra lui e noi. Tutta la sua provvidenza cospira a
costringerci a “sospirare con tutto il nostro cuore vicino a lui”. Ancora un passo che avrebbe
potuto ispirare san Francesco di Sales: non guardare né a destra né a sinistra, ma vivere
l’oggi di Dio, nella certezza che egli misura le nostre prove sulla base delle sue grazie.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
O come….OPERE
“Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto” (Gv. 15,5) Questo è il segreto dell’azione del
contemplativo, perché
Il valore delle opere buone, dei digiuni, delle elemosine, delle penitenze, orazioni o altro non
si fonda tanto sulla loro quantità e qualità quanto sull’amore di Dio con cui vengono compiuti
ed essi sono qualificati in proporzione al maggiore amore di Dio puro e intero con cui sono
fatti e al minor interesse di gioia, di gusto, di conforto e di lode che vi si cerca.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Salita del Monte Carmelo, III, 27
Ciò vuol dire
La perfezione e il valore delle cose non sta nella quantità delle opere e nel gusto che esse
procurano ma nel fatto di saper rinunciare a se stessi in loro.
Idem, Notte oscura, I, 7
Da questo punto di vista,
Non ci può essere abnegazione più grande di lasciare che Nostro Signore disponga a suo
piacimento dell’anima come di una cosa che gli appartiene e morire alla propria azione per
ricevere da lui tutti i movimenti agendo soltanto per sua influenza.
Pietro de Clorivière (1735-1820), L’Orazione mentale, 34
Così che
Lo stesso bene divino che si cerca nella passività, si deve cercarlo anche in ogni attività sia
che si lavori, si parli, si mangi, si beva, si dorma o si vegli.
Giovanni Taulero (1300-1361), Sermone 62
Si vede così che ogni concorrenza tra azione e contemplazione scompare:
Come desiderare e volere effettivamente bene a Dio, se non compiendo la sua volontà poiché
questa volontà ordina tutto per la sua grande gloria? Dunque l’anima deve pienamente,
perdutamente consegnarsi a lei fino a volere solo quello che Dio vuole.
Beata Elisabetta della Trinità (1880-1906), agosto 1906
Questo fa si che nel cuore dell’azione,
Dio non viene trascurato se ci si allontana da lui a causa di lui, cioè se si sospende l’opera di
Dio per un’altra opera di Dio.
San Vincenzo de’ Paoli (1581-1860), Lettera 2546
Meglio ancora
Le azioni esteriori sono una specie di orazione quando procedono da un principio interiore e
terminano in Dio ed in questo senso i Padri dicono che chi fa incessantemente opere buone
prega incessantemente; essendo le potenze dell’anima sia quelle della parte inferiore che
quelle del corpo d’accordo, fanno un concerto ammirabile davanti a Dio. Colui che è per
condizione in questa disposizione è un uomo di orazione in ogni maniera, poiché non ha nulla
in lui che non preghi.
Claudio Martin (1619-1696), Conferenza ascetica VIII
A partire da ciò,
Dio destina alcuni a grandi azioni e altri a più piccole: in tutto ciò bisogna lasciare agire Dio
su noi ed essere soddisfatti di ricevere le impressioni che ci da, senza fare riflessioni se
esse sono grandi o piccole: basta che esse siano di Dio,
Giovanni de Bernière-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, Libro I, cap.
1
Infatti,
Bisogna sapere che Dio è glorificato dalle buone azioni nostre solo perché lui stesso le fa
gradite, e per questo gradimento egli le rende buone.
Idem, 1, 6
Per questo Dio ci chiede:
«Da quale cuore è uscito questo bene che hai fatto quaggiù? Viene dal tuo cuore o dal mio?»
Dio rifiuterà tutto ciò che non proviene dal fuoco dell’amor divino. Non voglio qui discutere se
le opere indifferenti o moralmente buone che non hanno la loro origine nella carità saranno
meritorie; basti sapere che Dio non riceverà nulla di ciò che sarà fatto senza lo Spirito del
Signore.
San Giovanni d’Avila (1499-1569), Domenica nell’Ottava dell’Ascensione, 29
maggio 1552
Perciò
Tutte le virtù sono nude senza la carità e per quanto buona sia la condotta, non si può
considerare come fruttuoso ciò che l’amore non ha partorito.
San Leone Magno († 461), 10° sermone sulla Quaresima
Così il contemplativo diffiderà sempre di ciò che può esservi di troppo umano nelle sue opere:
Le tue preghiere, le tue veglie, le tue occupazioni, tutte le altre opere buone sono molto
gradite al Signore quando sono fatte nel fervore della grazia divina; ma al di sopra di tutto,
quel che è più gradito a Dio e quel che preferisce è che tu non venga meno a tutto ciò
quando questa grazia sensibile ti è ritirata.
Sant’Angela da Foligno (1249-1309), Lettera ad un Figlio, XVII
In quest’aridità,
Quando fai azioni e lavori esteriori per obbedienza o per obbligo verso la tua vocazione, o per
tua libertà, devi considerare Dio presente che opera in te tutte queste cose per la sua infinita
bontà e che ti da la forza e l’abilità di compierle, rendendosi presente anche alle azioni più
basse affinché non manchi di alcunché per soddisfare il tuo servizio e conforto.
Jean-François di Reims († 1660), La vera Perfezione, Istruzione VII
Riassumiamo:
Dio non ha posto la perfezione nella molteplicità degli atti che faremo per piacergli, ma
soltanto nel metodo che terremo in questi, che consiste soltanto nel fare il poco che faremo
secondo la nostra vocazione, nell’amore, con l’amore e per l’amore.
San Francesco di Sales (1567-1622), Sermone 55
RIPARTIRE DA CRISTO
Al termine del giubileo che ha inaugurato il terzo millennio cristiano, Giovanni Paolo II ha
rivolto alla Chiesa nella Novo Millennio Ineunte l’energico invito a prendere il largo,
ripartendo da Cristo e dalla contemplazione del suo volto. Il Pontefice ha esortato a entrare
nella profondità del mistero della sua persona, nella misteriosa unione della divinità e
dell’umanità; anzi, ha chiesto espressamente che ci si introducesse nella zona-limite del
mistero, rappresentata dalla sua auto-coscienza, fino ad accostarsi all’aspetto più
paradossale di esso quale emerge nell’ora estrema della Croce. Di fronte alla sua densità il
Papa chiede aiuto all’indagine teologica e alla teologia vissuta dei santi, i quali «ci offrono
preziose indicazioni che consentono di accogliere più facilmente l’intuizione della fede, e ciò
in forza delle particolari luci che alcuni di essi hanno ricevuto dallo Spirito Santo, o persino
attraverso l’esperienza che essi stessi hanno fatto di quegli stati terribili di prova che la
tradizione mistica descrive come “notte oscura”» (n. 27). Questo spinge, a mio avviso, colui
che sa di dover curare il tesoro della preghiera a rompere ogni ormeggio che lo tiene legato
nella vita spirituale alla sensibilità, per addentrarsi nella pienezza della vita teologale. È
necessario che egli superi l’esperienza psicologica della preghiera che tende e fa
prigioniero Dio dei sentimenti dell’uomo, per vivere puramente nella fede la sua presenza.
San Giovanni della Croce, a cui fa riferimento la parola del Pontefice, direbbe per l’appunto
che è necessario addentrarsi nella notte e, per di più, nella parte centrale e più oscura di
essa. Qui egli percepisce l’invito di Cristo non solo a meditare le sue parole, i fatti che il
vangelo ci riporta, a rappresentarselo vivo e presente accanto a sé, in una meditazione quasi
spaziale o discorsiva dell’evento, dove ad agire è sempre l’intelletto e l’immaginazione.
Piuttosto egli deve lasciar riaccadere l’evento in sé, perché Cristo lo riviva in lui, in modo che
tra il suo io e quello di Cristo ci sia una identificazione. È come se Cristo adesso lo
centrasse in sé. Ciò, ovviamente, non lo opera il fedele, ma lo lascia accadere in sé, cosicché
le stesse parole del Figlio di Dio sono le sue ed egli le pronuncia a buon diritto come sue.
Non ha detto l’Apostolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»? Vengono incontro
alcune espressioni di don Barsotti, come al solito lapidarie e incisive: «Nello stesso atto non
io solo mi identificavo al Cristo, ma il Cristo si identificava a me e io mi vedevo in Lui, solo in
Lui». In realtà è il dirsi di Cristo al Padre nella sua umanità che consiste la realtà del
cristiano e dell’uomo al quale così è data la possibilità di esistere. E questo Egli vuol
realizzare ancora nel suo fedele. Perciò lo stesso Barsotti afferma: «A Dio non ho potuto
chiedere altro che Dio. Tuttavia non era questa la preghiera più alta: la preghiera più alta era
quando Dio mi chiedeva se stesso» (Diario, 12 dicembre 1993).
ABC
N. 57 - Febbraio 2005
123
UN DIO INTENSAMENTE PRESENTE….
1. Dio è ovunque, in modo tale che non possiede più bontà e più bellezza, più libertà e più
potere, più gioia e più perfezione in tutto il mondo intero di quanto non ne possegga nel più
piccolo granello di sabbia o nella minima goccia d’acqua del mare o ancora nel più leggero
e sottile atomo d’aria: egli applica tanta esistenza, presenza, potenza e sapienza alle parti
indivisibili dello spazio quanto in tutto lo spazio dell’universo intero. Egli è ovunque ed in ogni
parte di questo tutto, ovunque se stesso in modo inscindibile.
2. … Dio è ovunque eppure al di sopra di tutto, perché è talmente presente in ogni cosa che
ne rimane tuttavia separato da una distanza infinita a motivo della eminentissima santità della
sua natura che conserva costantemente nella sua purezza, rimanendo insieme e
contemporaneamente molto unito e molto lontano, molto presente e molto solitario, molto
diffuso e molto raccolto, molto comunicativo e molto riservato.
3. … E benché Dio non sia né me stesso, né la mia persona, la dipendenza che la mia vita, le
mie potenze e le mie operazioni hanno della sua presenza, è più assoluta, più essenziale e
più intima del rapporto che io posso avere con i principi naturali senza i quali non potrei
essere. Di modo che io ho vita e opero tutto, nell’immensità dell’essere divino come
nell’essere del mio essere, come nella sostanza della mia sostanza, il principio dei miei
principi e come nella causa sovrana di tutte le mie operazioni. Attingo la mia vita nella vita viva
che è quella del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: la base che mi sostiene, lo spazio che
mi comprende e il luogo che mi circonda, è lo stesso seno in cui il Padre vivo genera il Figlio
e dove entrambi, uniti in quest’operazione, producono lo Spirito Santo. Io sono, intendo,
voglio, agisco, immagino, odoro, assaporo, tocco, vedo, cammino ed amo nell’essere infinito
di Dio, nell’essenza e sostanza divina, nelle proprietà incomunicabili ed attributi personali
delle Persone adorabili della gloriosissima Trinità.
4. Dio, nel cielo, è più mio cielo del cielo stesso; nel sole è più mia luce del sole; nell’aria, è
più mia aria di quella che respiro sensibilmente. Se egli è per se stesso tutto ciò che lo rende
immensamente soddisfatto, la sua presenza, data la sua immensità, mi serve da mondo, da
cielo, da spazio, da luogo e da ogni cosa; egli opera in me tutto ciò che io sono, vivo, posso,
eseguo, come molto intimo, molto presente e molto esistente in me, come l’autore sovraessenziale e primario delle mie opere, senza il quale noi svaniremmo a noi stessi e alle
nostre operazioni.
Luigi Chardon (1595-1651), La Croce di Gesù, IIII, cap. I (leggermente
riveduto)
L’AUTORE Nato nell’Oise da una famiglia di giuristi e di uomini di Chiesa, la sua vita si
svolgerà a Parigi. Dopo gli studi universitari, entra nel 1618 nel convento domenicano
dell’Annunciazione in pieno rinnovamento intellettuale e spirituale. Confessore e direttore
molto stimato, coinvolto nei dibattiti politico-religiosi della Fronda, solo quattro anni prima
della sua morte si mette a pubblicare diverse opere di spiritualità, in particolare le traduzioni
di Caterina da Siena e delle Istituzioni tauleriane (cfr. Semi 54).
IL TESTO La Croce di Gesù, pubblicata nel 1647, è l’opera più conosciuta di Chardon.
Laboriosamente composta, di ritmo lento, a volte prolissa (600 pagine grandi!), si tratta di
una meditazione minuziosa del mistero della Croce, che ci consente di comprendere
l’insieme della vita spirituale, le sue gioie e le sue prove, come il protrarsi di questo mistero
nell’anima del discepolo di Gesù. Il passaggio qui ripreso ci consegna il cuore di tutta la vita
contemplativa: prendere coscienza della “presenza d’immensità” di Dio, vale a dire del fatto
che in ogni istante noi siamo soltanto nella sua volontà di farci essere, ed essere per
partecipazione à ciò che egli è.
§ 1-2. La presenza di Dio non è locale (“Dio è in me”), ma causale ed essenziale (“io in
Dio”): egli non occupa alcun posto, ma fa esistere tutto ciò che occupa un posto. Tutto
dipende da lui, ma lui non dipende da niente: ecco perché è contemporaneamente “molto unito
e molto lontano, ecc.”
Chardon ci fornisce qui una piccola metafisica dell’amore: questa indipendenza di Dio da cui
tutto dipende, permette di pensare contemporaneamente alla gratuità del suo amore per noi e
all’obbligo che egli ha assunto di sottomettersi a noi in nome di questo stesso amore.
All’orizzonte si scorge la Croce di Gesù come compimento di quest’amore incondizionato
nel rifiuto di coloro che ne ricevono il beneficio.
§ 3. Per mezzo di quest’amore, Dio è “più intimo a me stesso di me stesso” (s. Agostino) e io
sono me stesso soltanto perché egli mi dà a me stesso. Orbene la mia identità profonda è
divina, e posso pensare la realtà di ciò che faccio come più divina che umana: l’unione a Dio è
tanto un punto di partenza quanto un punto d’arrivo nella vita spirituale che si svolge
interamente “nello stesso seno in cui il Padre vivo genera il Figlio”, poiché la vita cristiana fa
di me proprio un figlio nel Figlio unico.
§ 4. Senza che Dio ne venga sminuito, io vivo dunque della sua vita, ricevendo ogni cosa alla
sua fonte, laddove il cielo è Dio prima di essere cielo, la luce è Dio prima di essere luce, ecc.
In questo senso, Dio è “l’autore sovra-essenziale delle mie opere”, la parola sovraessenziale, di uso corrente in tutta la letteratura nordica, indica fondamentalmente questo
livello divino della realtà.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
O come….ORAZIONE
Orazione solo è, per ben intendere
Un’unione del cuore al Creatore,
Credendo, amando ciò che non si vede…
Fintantoché il cuore avete
Per amor giunto a lui, la vostra orazione
A Lui è gradita, vedendo la vostra Fede e fervore.
Margherita di Navarra (1493-1549), Dialogo, v 874 ss.
Da 56 numeri Semi vi parla soltanto di orazione! Così questo mese lasceremo che i nostri
migliori amici vi cantino le sue lodi! In effetti,
Chi sfugge l’orazione sfugge tutto ciò che è buono.
Giovanni della Croce, Avvisi spirituali, 5, II
Così che
L’orazione è una Pasqua per l’anima, delle delizie e degli abbracci con Dio, un bacio di pace
tra lo Sposo e la Sposa, un sabato spirituale durante il quale Dio si ricrea in lei, una casa di
gioia sul monte Libano, dove il vero Salomone trova le sue delizie tra i figli degli uomini.
L’orazione è una salita dell’anima al di sopra di se stessa e di tutto il creato, per unirsi a Dio e
inabissarsi in questo oceano di dolcezza e d’amore infiniti.
Luigi di Granada (1504-1588), Libro dell’Orazione e Meditazione, I-II
L’orazione è un cammino spirituale verso Dio sulla vetta della montagna del nostro spirito, un
ritorno e una conversione del suo affetto, che si era perso nelle cose del mondo, a Dio, per
riposarsi, inabissarsi e immergersi completamente nel suo amore.
Costantino di Barbançon (1582-1631), I Sentieri Segreti dell’Amore divino, II, I
L’orazione è un virgulto della dolcezza e dell’assenza di collera; è un frutto della gioia e della
riconoscenza; è esclusione della tristezza e dello scoraggiamento.
Evagrio (346-399), Trattato sull’Orazione, 14-16
L’orazione è un’arma con cui l’anima si difende contro tutti i suoi nemici, quando è tenuta per
mano dall’amore e brandita dal braccio del libero arbitrio, guidato dalla luce della santissima
fede.
Santa Caterina da Siena (1347-1380), Dialogo XXXV
L’orazione è una manna segreta: una manna per l’infinità di gusti amorosi e di preziose
soavità che dona a coloro che ne fanno uso; ma essa è segreta poiché precede la chiarezza
di ogni scienza nella solitudine dello spirito ove l’anima comunica da solo a solo con Dio.
San Francesco di Sales (567-1622), Trattato sull’Amore di Dio, VI, cap. I
L’orazione è la forza che attira Dio, il santuario in cui egli risiede.
Sant’Angela da Foligno (1249-1309), Libro delle Visioni e delle Rivelazioni,
cap. 62
L’orazione è dialogo e comunione tra Dio e l’uomo; essa è conservazione del mondo,
riconciliazione con Dio, intercessione per i nostri peccati, fortezza contro le tentazioni,
assalto contro le afflizioni, pacificazione delle guerre… Essa ci merita ogni grazia, è
progresso spirituale, nutrimento dell’anima, luce dello spirito, garanzia contro la
disperazione…
San Giovanni Callimaco (525-600), Scala del Paradiso, 26
L’orazione è elevazione della nostra anima verso Dio dalla sua sommità, sulle due ali del
desiderio e della pietà portati dall’amore.
Francisco de Osuna (1492? - 1541?), Terzo Abbecedario spirituale, Tr. 13,4
L’orazione è all’anima ciò che l’anima è al corpo. L’anima è la vita del corpo e l’orazione è la
vita dell’anima. E come un corpo senz’anima è un cadavere, così una persona senza orazione
non ha alcun vigore.
San Vincenzo de’ Paoli, (1581-1660), Conferenza alle Figlie della Carità, X
Dove sentirai il dolore del pentimento? Nell’orazione! Dove ti spoglierai dell’amor proprio
che ti rende impaziente nelle ingiurie o nelle altre pene? Dove sarai reso paziente
rivestendoti dell’amore divino? Dove ti glorificherai della croce di Cristo crocifisso?
Nell’orazione! Dove sentirai l’attrazione della verginità e la fame del martirio, disponendoti a
dare la tua vita per l’onore di Dio e la salvezza dell’anima? In questa dolce madre
dell’orazione!
Santa Caterina da Siena (1347-1380), Lettera 26
Non è proprio nell’orazione che i santi: Paolo, Agostino, Giovanni della Croce, Tommaso
d’Aquino, Francesco, Domenico e tanti altri illustri amici di Dio hanno tratto questa scienza
Divina che rapisce i più grandi geni? Un saggio ha detto “Datemi una leva, un punto
d’appoggio e solleverò il mondo”. Ciò che Archimede non ha potuto ottenere, … i santi l’
hanno ottenuto in tutta la sua pienezza: l’Onnipotente ha dato loro per punto d’appoggio Se
stesso, e Lui solo. Quale leva: l’orazione, che infiamma di un fuoco d’amore; e così, hanno
sollevato il mondo, allo stesso modo, i santi ancora militanti lo sollevano e fino alla fine del
mondo i santi che verranno lo solleveranno ancora.
Santa Teresa del Bambin Gesù (1873-1897), Manoscritto C, 36
Credetemi, vi è un solo cammino per giungere alla fonte di acqua viva, cammino regale,
cammino sicuro, quello preso da Cristo, nostro Imperatore, da tutti i suoi eletti e i suoi santi:
l’orazione; nessuno v’induca in errore mostrandovene un altro.
Santa Teresa di Avila (1515-1582), Cammino di Perfezione, 36
Allora, amici lettori di Semi,
Guardate questa faccenda dell’orazione coma la prima, la principale, la più necessaria, la più
impellente, la più importante di tutte le vostre faccende e svincolatevi, per quanto vi sarà
possibile, dalle altre faccende meno necessarie per dedicare più tempo possibile ad essa.
San Giovanni Eudes (1601-1680), Vita e Regno di Gesù, II, 22
DIMENSIONE PENITENZIALE DELLA VITA CRISTIANA
Il sacramento della riconciliazione, come tutti i sacramenti, attua il mistero della pasqua di
Cristo nella Chiesa e per essa nel fedele che lo celebra. Esso è strettamente legato alla
dimensione penitenziale che caratterizza tutta quanta la vita dei battezzati, dal momento che
questa è condivisione della morte e risurrezione di Gesù. Il rischio di segmentare tale
dimensione, slegando il sacramento dalle pratiche penitenziali volontarie e regolate e dal
faticoso esercizio delle virtù, finisce per far perdere il senso del sacramento e di tutta la
dimensione penitenziale. Essi riguardano la lotta che ciascun credente è impegnato a
condurre, spinto e sostenuto dallo Spirito, contro gli avversari di sempre: i nemici interni delle
passioni prevaricanti, le avversità esterne e le potenze invisibili. Nel sacramento la Chiesa
celebra il lavacro purificante del sangue redentore che si attua in quei fedeli che con cuore
contrito si accostano a chiedere la misericordia; quello è il momento sacramentale, appunto,
in cui emerge chiaramente l’incontro tra la salvezza divina e l’apertura sincera del cuore
umano, in cui si compie la vittoria della vita e della verità su ogni menzogna mortale. Ciò che
si celebra è la storia quotidiana di questo incontro attraverso una sua ritualizzazione. Lo
sfondo ancora più ampio da non obliterare è la carità, l’unione piena del fedele con Cristo. La
rimozione di ogni ostacolo a questa unione non è altra cosa dal configurarsi a Lui; per la sua
accondiscendenza, Gesù ha vissuto questa lotta in tutta l’esistenza terrena, ed egli chiama il
discepolo non solo a mondarsi, ma anche a prendere il suo giogo, per amare dell’amore
stesso di Dio, quello che si è mostrato chiaramente nella sua passione. Questa
identificazione al Cristo paziente è pura opera dello Spirito, ma quando la volontà del
discepolo è perfettamente una con quella del Maestro, egli trova riposo solo in questo patire
come Lui: patire o morire!
ABC
N. 58 - Marzo 2005
123
INSOSTITUIBILE ORAZIONE!
1. Il santo esercizio dell’orazione deve essere messo tra i pilastri fondamentali della vita e
santità cristiane, perché tutta la vita di Gesù Cristo non è stata altro che un’orazione
perpetua, che noi dobbiamo continuare ed esprimere nella nostra vita, come una cosa
talmente importante e così necessaria, che la terra che ci porta, l’aria che respiriamo, il pane
che ci sostenta, il cuore che batte nel nostro petto, non sono affatto, tanto necessari all’uomo,
per vivere umanamente, quanto l’orazione è necessaria al cristiano, per vivere
cristianamente.
2. …L’orazione è una partecipazione alla vita degli angeli e dei santi, alla vita di Gesù e della
sua santissima Madre e alla vita di Dio stesso e delle tre persone divine. Poiché la vita degli
angeli, dei santi, di Gesù e della sua santissima Madre non è altro che un continuo esercizio
d’orazione e di contemplazione, incessantemente occupata a contemplare, glorificare ed
amare Dio, a chiedergli per noi le cose che ci sono necessarie. E la vita delle tre persone
divine è perpetuamente occupata a contemplarsi, glorificarsi e amarsi a vicenda, che è ciò
che fondamentalmente e principalmente si fa nell’orazione.
3. È il perfetto gaudio, la somma felicità e il vero paradiso sulla terra, poichè per mezzo di
questo divino esercizio l’anima cristiana è unita al suo Dio, che è il suo centro, il fine ed il
suo sommo bene. È lì che ella lo possiede ed è posseduta da lui. È lì che gli rende i suoi
ossequi, gli omaggi, le sue adorazioni, i suoi amori e che ella riceve da lui i suoi lumi, le
benedizioni e mille testimonianze dell’amore eccessivo che egli nutre per lei. Lì, infine Dio
pone le sue delizie in noi, secondo questa sua parola: «Ponendo le mie delizie tra i figli degli
uomini», ed egli ci fa conoscere per esperienza che le vere delizie e le perfette letizie sono in
Dio, e che cento, o anche mille anni, di falsi piaceri del mondo non valgono un momento delle
vere dolcezze che Dio fa gustare alle anime che ripongono tutto il loro diletto a conversare
con lui per mezzo della santa orazione.
4. …L’orazione è la vera e propria funzione dell’uomo e del cristiano, poiché l’uomo è creato
solo per Dio, per essere in società con lui, e il cristiano è sulla terra soltanto per continuare
ciò che Gesù Cristo vi ha fatto nel periodo in cui vi è stato. Ecco perché vi esorto, per quanto
mi sia possibile e vi scongiuro in nome di Dio, voi che leggete queste cose, poiché il nostro
adorato Gesù degna porre le sue delizie nell’essere e conversare con noi per mezzo della
santa orazione, di non privarlo del suo compiacimento…Considerate questa faccenda come
la prima, la principale, la più necessaria, la più urgente e la più importante di tutte le vostre
occupazioni e svincolatevi, per quanto vi sarà possibile dalle altre incombenze meno
necessarie.
San Giovanni Eudes (1601-1680), La Vita e il Regno di Gesù, II, §11
L’AUTORE Nato da una famiglia contadina molto cristiana del piccolo villaggio di Ri (Orne),
Giovanni studia dai gesuiti, poi entra nell’Oratorio di Bérulle (cfr. Semi 48) e Condren (cfr
Semi 36). Predicatore instancabile nell’ovest della Francia, ricorso di tutti i poveri, amico di
Giovanni di Bernières (cfr. Semi 37), confessore di Marie des Vallées, rappresenta bene la
Normandia mistica del XVII secolo. Fondatore di due congregazioni, di cui gli eudisti al
servizio della formazione dei sacerdoti, la sua influenza sul clero francese attraverserà i
secoli.
San Giovanni Eudes ha scritto moltissimo. Oltre “La vita e il Regno di Gesù nelle anime
cristiane”, sunto delle sue prediche missionarie, menzioniamo anche le sue opere sui Santi
Cuori di Gesù e di Maria, che anticipano le apparizioni di Paray-le-Monial quaranta anni
dopo.
IL TESTO § 1. “Tutta la vita di Gesù non è stata altro che una orazione perpetua”: questo
soltanto dovrebbe bastare a metterci in orazione, poiché la vita cristiana non è mai altro se
non la vita di Gesù in noi. A che cosa serve l’orazione? A niente, se non a lasciare Gesù vivere
in noi.
§ 2. Vita di Gesù in noi, l’orazione è altresì partecipazione alla vita della Trinità, degli angeli
e dei santi. Pertanto, essa è totalmente soprannaturale e richiede soltanto il nostro abbandono
fiducioso a colui che noi sappiamo per fede presente nel silenzio, mentre la nostra natura non
ne può percepire alcunché. “Contemplare, glorificare e amare”: ogni “esercizio di orazione”
ritorna a ciò, è questa la semplice felicità di vivere divinamente.
§ 3. La felicità del Paradiso è gustata nella nostra condizione umana quando noi coltiviamo
l’orazione. E non c’è da stupirsene poiché “Dio pone le sue delizie tra i figli dell’uomo”
(Proverbi 8,31). Ma stranamente, se ne rendono conto soltanto coloro ai quali è dato viverlo, e
dall’esterno una vita d’orazione è ritenuta sprecata, noiosa e grigia. Eppure, tra colui che si
getta nei “falsi piaceri del mondo” e il santo che vive unicamente di Dio e per Dio, chi, di fatto,
è più felice?
§ 4. “Non privare il nostro adorato Gesù del suo compiacimento”: quando l’orazione ci
sembra noiosa e grigia (perché la natura non vedrà mai altro che questo), pensiamo che non
siamo lì per noi, ma per lui, e questo rimetterà tutto a suo posto. Ciò che sentiamo non ha
alcuna importanza: «Dobbiamo sperare di avere la preghiera che Dio ci dà e non un'altra.
Una preghiera distratta, una preghiera di desolazione, una preghiera felice: dobbiamo
prendere tutto come viene. La nostra unione a Dio consiste, infatti, nel fare ed accettare la sua
volontà, momento per momento, durante l’arco di tutta la giornata. Nient’altro importa.”
(Henry Chapman, 1865-1933, Lettera del 14 gennaio 1925).
L'ORAZIONE dalla A alla Z
P come …..PACE
Dio non è dove sono le tenebre, la confusione e l’agitazione, perché egli ha stabilito la sua
dimora nella pace (Salmo 75,3)
Giovanni Bona (1609-1674), De Discretione spirituum, VIII, 13
Il che fa della pace dell’anima la condizione preliminare di tutta la vita spirituale:
Considerate che Dio regna solo nell’anima pacifica e disinteressata.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Massima 71
Ed è il primo criterio per discernere l’azione divina:
Il grande principio della vita interiore è nella pace del cuore… Ecco perché le vere ispirazioni
di Dio sono sempre dolci e pacifiche, portando alla fiducia e all’umiltà; mentre le altre sono
vivaci, inquiete, turbolenti, portando allo scoraggiamento e alla sfiducia, o anche alla
presunzione e alla volontà propria.
Jean-Pierre de Caussade (1675-1751), Lettera 91
Se qualche pensiero indebolisce la nostra anima, l’inquieta o l’agita, le toglie la sua pace, la
sua tranquillità e la quiete che essa aveva prima, è un segno chiaro che ciò viene da uno
spirito cattivo, nemico del nostro progresso e della nostra salvezza eterna.
San Ignazio di Loyola (1491-1556), Esercizi Spirituali, § 333
Non appena l’agitazione entra nel vostro cuore, è una prova che non è nella purezza e nella
santità di Dio; poiché ovunque è Dio, lì è anche la pace.
Francesco Libermann (1802-1852), Lettera del 20 luglio 1835
Pertanto,
Togliete dunque il peccato e tutto sarà in pace: rimettete il peccato e tutto sarà nel
turbamento.
Santa Caterina da Genova (1447-1510), Dialogo VIII
Poiché
Resistendo alle passioni, e non cedendo, si trova la vera pace del cuore. Non vi è pace,
dunque, nel cuore dell’uomo carnale, dell’uomo votato alle cose esteriori: la pace è la dote
dell’uomo fervente e spirituale.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Cristo, I, 6
Ecco perché,
Oh, figli miei, dove trovare il riposo e la pace, se non in Colui che è il riposo e la pace
sostanziali?
Sant’Angela da Foligno (1249-1309), Libro delle Visioni e Rivelazioni, cap. 63
Perché,
La vera pace dell’anima, è l’opera dolce, il nome di Gesù e l’abbassamento dei pensieri
appassionati.
Hesykhios il Sinaita (VII S), Filocalia, 122
Perciò,
Prima l’anima deve prosternarsi, tuffarsi nell’abisso del suo niente, affondarvi tanto da trovare
la pace vera, invincibile e perfetta che nulla turba, perché essa si è precipitata così in basso
che nessuno andrà a cercarla lì.
Beata Elisabetta della Trinità (1880-1906), Ritiro del 23 agosto 1906
Infatti, quando per amore ella supera l’intelligenza e tutte le immagini, e si trova elevata al di
sopra di se stessa (cosa che solo Dio può fare), scorrendo fuori da se stessa, ella fluisce in
Dio, e Dio è allora la sua pace ed il suo godimento.
Luigi de Blois (1506-1565), L’Istituzione Spirituale, XII, 2
In effetti,
Quando si è congedata dal mondo, l’anima è così nascosta e sprofondata in Dio, che né il
mondo, né la carne, né i suoi nemici possono schiacciarla perché non possono trovarla nelle
loro opere; e così quest’anima vive in riposo di pace perché non fa conto di alcuna cosa
creata.
Margherita Porète († 1310), Lo Specchio delle anime semplici, cap. 44
Questa pace divina, ben lungi dal ritirarci dal mondo, ci permette di esservi efficaci, poiché
La cura e la diligenza che noi dobbiamo avere nelle nostre occupazioni sono cose ben
diverse dalla sollecitudine, preoccupazione e premura…; la cura e la diligenza possono
essere accompagnate dalla tranquillità e pace di spirito, ma non dalla sollecitudine né dalla
preoccupazione, e tanto meno dalla premura.
San Francesco di Sales (1567-1622), Introduzione alla Vita devota, III, 10
Allora,
Non perdete coraggio se vi vedete continuamente nelle occasioni di contrarietà, perché
questa dolcezza non s’acquista mai perfettamente se non è praticata in mezzo alle
ripugnanze, avversioni, cattivi umori, ecc., la vera pace non consiste affatto nel non
combattere ma nel vincere.
Jean-François de Reims (†1660), La vera Perfezione, I, Istruzione X
Ed è così che,
Il corpo ubbidisce all’anima e l’anima obbedisce a Dio; così ognuno ha ciò che gli spetta
secondo l’ordine stabilito da Dio, con grande pace.
Santa Caterina da Genova, Libro della Vita, cap. 30
Si, è per mezzo di quest’amorosa preferenza del beneplacito di Dio a noi stessi, è per mezzo
di questo fiat reiterato e come abituale nei confronti della divina volontà, che noi godiamo di
una vita felice…; è così che troviamo e gustiamo la pace in mezzo ai turbamenti e la nostra
felicità nelle croci che la natura chiama disgrazie.
Alessandro Piny (1640-1709), Stato di puro Amore, cap. III
Allora, domandiamo questa pace a colui che solo può darcela:
Oh Gesù, pace vera, che io eternamente abbia pace su pace, affinché attraverso te, giunga a
questa pace che supera ogni pensiero, dove felice io ti vedrò in te stesso per l’eternità. Amen.
Santa Gertrude d’Hefta (1256-1302), Esercizio I
ACCUSA E GIUSTIFICAZIONE DI SÉ
Lasciare il giogo leggero dell’accusa di sé per prendere quello pesante della giustificazione
di sé: quest’espressione di un antico padre del deserto fa chiara allusione a quella di Gesù
che invita il discepolo ad andare a lui per riposare e prendere in cambio il suo giogo, perché
soave e leggero; ma richiama anche quell’altra dei progenitori nel giardino dell’Eden, i quali
scelsero la via dell’autogiustificazione, dando inizio alla colossale catena della menzogna.
Questi due contesti, nei quali inserire la lapidaria espressione patristica, spiegano che il
senso dell’accusa di sé non è un’autoflagellazione masochista, né una superata concezione
pessimista e radicale di uomini che si davano ad estremismi comprensibili in altri tempi, ma
non più proponibili in un tempo come il nostro che ha scoperto la positività del valore del
soggetto e che spesso mira a rafforzare l’autostima per risollevare le sorti di personalità
depresse. Sembra che la frase non si ponga su un piano semplicemente psicologico, e
peraltro non stette in bocca a gente fragile, bensì a grandi lottatori. Essa piuttosto richiama
l’incontro con la Verità che libera e dona quella conoscenza di sé, che certo farebbe
sprofondare nell’abisso del nulla se non fosse accompagnata dalla conoscenza della bontà di
Dio. E tuttavia l’esercizio continuato dell’accusa di sé è necessario a motivo della condizione
in cui giace la memoria dell’uomo, divenuta particolarmente labile a seguito del peccato. Per
questo gran parte della vita spirituale e della stessa orazione (si pensi ai Salmi) è un
ricordarsi delle meraviglie di Dio e un ricordare a Dio con sincerità di cuore la propria
miseria; Caterina da Siena era «abituata e abitata nella cella del conoscimento di sé».
Accusarsi dinanzi a Dio, come le grandi figure bibliche a cominciare da Davide, è il modo
per ottenerne la sovrabbondante misericordia, mentre cercare la giustificazione è il modo per
scatenarne l’ira. Anche in quest’ultimo caso ci vengono incontro gli esempi biblici di un Dio
che resiste ai superbi, che condanna la preghiera del fariseo e, infine, rimprovera
aspramente i capi dei Giudei accusandoli apertamente di essere figli di satana, padre della
menzogna e omicida fin dall’inizio. Forse uno dei luoghi più alti e commoventi di un Dio che
si china sulla miseria e sull’umiltà dell’uomo è l’episodio della peccatrice, in cui la donna in
casa del fariseo bagna di lacrime i piedi di Gesù per sentirsi dire di aver avuto perdonati i
suoi molti peccati perché aveva molto amato. Dal suo esempio gli stessi antichi padri
stimavano il dono delle lacrime e della compunzione del cuore uno dei elevati.
ABC
N. 59 - Aprile 2005
123
UN AMORE CHE PRENDE TUTTO…….
1. Tutto d’un colpo, le potenze del mio corpo e della mia anima si sono trovate riempite di una
gran pace e soavità che provenivano, a quanto pare, dalla presenza di Dio nel mio interiore.
Lo vedevo risiedente e operante in me con numerose grazie che tengono l’anima
addormentata. In questo sonno, ella gode e riceve senza fare nulla e non sa come gode,
poiché sente solamente in lei questa soavità e calma dolcissime, prodotte da una certa
esperienza della presenza di Dio in lei.
2. Ella peraltro si accorge molto bene che è Dio presente che le dona tutto ciò. Egli le dà
anche grandi certezze della sua presenza e conoscenze sperimentali di quel che è Dio, di
quanto egli è buono, potente, misericordioso, suo Bene sovrano, e suo ultimo fine. L’anima si
accorge che conosce tutto ciò in modo molto diverso di quando ella ragionava o ne sentiva
discorrere. In quei momenti mi sembra che la mia anima riceva nell’intelletto, la certezza
delle cose della fede e nella volontà delle affezioni solide e ardenti per la pratica di tutte le
virtù. Questo stato trattiene l’anima in Dio, in maniera tale che ella è più in lui di quanto non
sia in se stessa, poiché l’amore che le viene comunicato, è un peso che la fa pendere e
scorrere verso il suo Diletto….
3. La volontà è prigioniera: l’anima non teme nulla quanto il ritornare alla sua libertà; ella
teme di essere infedele e che Dio la lasci e vada a farsi amare altrove. È un supplizio e
l’anima ne ha grandissimi spaventi. Ella non può più gustare le creature; crederebbe di fare
torto a Dio che vuole essere unicamente amato e ci si separa dalle cose per quanto innocenti
possano sembrare. Ella diviene veramente intorpidita per le cose temporali ed è abile solo
all’esercizio dell’orazione, a meno che non sia fuori del sonno causato dalla presenza di Dio.
Ella gode pertanto di questo riposo senza esservi legata, prontissima a non godere mai se
Dio lo vuole.
4. In questo sacro riposo la mia anima apprende a lavorare potentemente alla mortificazione
delle sue passioni e alla pratica delle virtù. Ella apprende in maniera alta ed elevata ad
accettare l’amarezza delle croci e delle sofferenze. Io la sento più convinta e affezionata a
sopportare i disprezzi e le umiliazioni, cioè tutto quel che piacerà a Dio. Questo stato mi
costringe così potentemente ad amare soffrendo, che non faccio differenza fra le croci e
l’amore. Sento in fondo al mio cuore una piena acquiescenza a tutti gli avvenimenti che Dio
vorrà, un consenso perfetto affinché egli faccia di me tutto quel che piace a lui, ciò mi pare
che mi dia un grande abbandono alla divina e amabilissima Provvidenza e mi sottrae ad ogni
inquietudine per la mia perfezione. La mia anima è indifferente alla pace o alla guerra,
all’azione o all’orazione. Voglio quel che Dio vuole e niente di più.
Maddalena Morice (1736-1769), Relazione del 20 novembre 1766 a M.
Vavasseur
L’AUTORE Nata in una numerosa famiglia di contadini bretoni, Maddalena passerà la sua
breve vita nel Morbihan come domestica di castello. Favorita fin dall’infanzia da fenomeni
mistici impressionanti (in particolar modo le stigmate), illetterata fino a 28 anni, ella redigerà
in seguito alcuni testi richiesti dai suoi direttori spirituali, nei quali si riconobbe l’impronta dei
grandi missionari dell’ovest, san Giovanni Eudes e L. M. Grignon de Monfort. Nello stralcio
che diamo qui, l’abbandono più radicale e più verticale rappresenta bene il tema dominante
dei mistici del XVIII secolo.
IL TESTO § 1. Dio si invita sempre senza prevenire! E l’effetto della sua presenza è sempre
di ridurre l’anima all’impotenza ( “l’anima addormentata” ), agendo totalmente in lei (
“operante in me con numerose grazie” ), cosa che ella risente con felicità ( “questa soavità e
calma dolcissime” ).
§ 2. L’effetto di questa operazione divina è un modo nuovo di conoscenza e di amore di
inesprimibile densità ( “nell’intelletto la certezza,… nella volontà, delle affezioni solide..” ),
che decentra l’anima da se stessa per centrarla in Dio ( “n maniera che ella è più in lui di
quanto non sia in se stessa” ) e che la fa cedere ad un’attrazione sempre più potente per il
suo Diletto.
§ 3. Cedendo a tale attrazione, l’anima diviene sempre più prigioniera dell’amore, separata da
tutto ciò che non è lui al punto da essere “intorpidita per le cose temporali” Questa infermità
(perché ciò lo è) sparisce in generale nel tempo. Comunque sia, il dolore dell’anima non sta
nella separazione, ma nel timore che l’amore allenti la sua stretta ( “ella teme che Dio vada a
farsi amare altrove” ). E nello stesso tempo ella non vorrebbe, per nulla al mondo, captare
quest’amore che è tale soltanto nella reciproca libertà delle parti: ella ne gode “senza esservi
legata, totalmente pronta a non goderne mai se Dio lo vuole”.
§ 4. Questi sentimenti apparentemente contraddittori si risolvono in un abbandono crescente
alla volontà divina: abbandono attivo in una conformità sempre più grande della volontà
dell’anima a quella di Dio e abbandono passivo in una indifferenza crescente a questa stessa
volontà al punto da non curarsi di esserle o no conforme: “un consenso che mi sottrae ad ogni
inquietudine per la mia perfezione”.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
P come….. PASSIONE
O temibile potere delle passioni che impongono il loro giogo a tutti gli uomini!
Sant’Efrem (†373), Confessioni, 36
Perché
È una prigione racchiudere il proprio spirito nella piccolezza delle creature: è una galera
attaccarlo alle fatiche intollerabili che il mondo e la vanità impongono a coloro che
s’imbarcano con lui: è un inferno precipitarlo nella schiavitù delle passioni e nel tormento dei
vizi; ma è un Paradiso e una libertà ammirevole, occupare il proprio spirito in Dio, dove egli
cammina verso il largo, trovando tutto infinitamente grande, la bontà, la bellezza, la dolcezza
e applicandosi ora ad una perfezione ora ad un’altra.
Giovanni de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, Libro III,
cap.16
È in questo passaggio dall’inferno al Paradiso che consiste tutto il combattimento cristiano:
Per la mortificazione dello spirito e per il regolamento delle sue passioni che sono i
consiglieri domestici del peccato, bisogna faticare fino alla morte e non perdonarsi nulla su
tale argomento, qualunque sia il grado di perfezione a cui si è arrivati.
Francesco Malaval (1627-1719), Pratica Facile della Contemplazione, II,
Colloquio VII
Nessuna orazione è possibile senza questo combattimento:
Se vedete una persona viziosa, sregolata, non mortificata, indomita nelle sue passioni che dà
intera libertà alle sue inclinazioni e ai suoi sensi; se vedete, dico, questa persona mettersi a
fare orazione, siate certi che ella perde il suo tempo e che non fa nulla: o se crede di fare
qualcosa, ha motivo di temere di essere ingannata o dal diavolo o dalla natura.
Claudio Martin (1619-1696), Conferenza ascetica XIV
Infatti,
Non si potrebbe correre incatenato, né l’intelligenza potrebbe, sottomessa alle passioni,
vedere il luogo della preghiera spirituale; perché essa è tirata qua e là per effetto del
pensiero appassionato e non può mantenersi inflessibile.
Evagrio (346-399), Sulla Preghiera, I, 72
La contemplazione divina non può essere perfetta fino a quando il cuore non è purificato dal
disordine delle passioni.
José de J. M. Quiroga (1562-1628), Apologia Mistica, XXV
Allora,
Un uomo di ragione deve essere un uomo morto; e se l’orazione non porta una persona a
conseguire continue vittorie sulle sue passioni, sui suoi umori e inclinazioni, e a praticare
tutte le virtù cristiane, è una falsa orazione e una pura illusione.
Giovanni de Bernières-Louvigny, Il Cristiano interiore, Libro VII, cap. 5
Attenzione! Non sono le nostre passioni ad essere morte, ma noi saremo morti alle nostre
passioni, perché
L’impassibilità non consiste, nel non sentire le passioni, ma nel non accoglierle.
Isacco il Siriano (VII sec.), Sermone 81
Cosicché
Resistendo alle passioni e non cedendo loro si trova la vera pace del cuore
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Cristo, I, 6
Facile a dire! Ma resistere alle passioni consiste meno nel negarle che nel purificarle,
riorientandole:
Questa purificazione non si deve intendere generalmente con uno spogliamento di tutte le
nostre passioni e inclinazioni, ma solo delle cattive; dato che alcune di loro possono servire
per andare a Dio, e non debbono essere distrutte ma soltanto bisogna toglierne quel che c’è
d’imperfetto e perfezionarle sempre più.
Jean-François di Reims (†1660), La vera Perfezione, II, Istruzione, I, 2
È necessario sapere reprimere le passioni della carne in modo che se ne distruggano i vizi
senza distruggere essa stessa.
San Gregorio Magno († 604), Moralia in Job, 30, 14
Perciò,
Come Mosè trasformò il serpente in verga, afferrandolo solamente per la coda, così dando un
buon fine alle nostre passioni esse prendono la qualità delle virtù.
San Francesco di Sales (1567-1622), Trattato dell’Amor di Dio, XI, 20
Quale sarà questo buon fine?
Poiché noi non possiamo vivere senza amare sensibilmente, Dio che è presente in noi ci
convince a portare tutto il nostro amore e tutti i nostri desideri in Gesù, l’oggetto sensibile più
amabile che vi sia mai stato e che solo merita di essere amato con tutto il nostro cuore.
Nell’amore di questo divino oggetto noi dobbiamo far trapassare favorevolmente tutte le
nostre affezioni, facendo loro perdere la vita e il movimento per ogni altra cosa. Il mezzo più
breve per annientare ben presto tutti i disordini delle nostre passioni è di ricercare soltanto il
suo amore, in cui essi prenderanno una vita tutta celeste e soprannaturale.
Jean-François di Reims, La vera Perfezione, II, Istruzione, I, 3
Allora
L’anima sarà perfetta, quando la potenza della sua passione si sarà completamente volta
verso Dio.
San Massimo il Confessore (580-652), Centurie sulla Carità, III, 98
Perché
Quando l’amore nasce in un’anima, assorbe tutte le altre passioni. Perciò quella che ama,
ama, e non sa null’altro.
San Bernardo (1090-1153), Sermone 83 sul Cantico, I
Così,
Portato via sulle ali dell’amore, verso Dio, lo spirituale sottrae la sua anima all’influenza delle
passioni; egli vive libero sulle rovine di tutte le sue cupidigie.
San Clemente d’Alessandria (II sec.), Stromates, VI, 9
«DAL PROFONDO A TE GRIDO!»
«Finché ho peregrinato per i campi della ragione alla ricerca di Dio, non ho potuto trovarlo,
perché l’idea di Dio non m’ingannava, e non potevo scambiare Dio per un’idea; e fu allora,
mentre erravo per le lande desolate del razionalismo, che compresi l’impossibilità di cercare
altra consolazione all’infuori della verità, intendendo con ciò la ragione, senza che questo mi
consolasse. Ma sprofondando nello scetticismo razionale da una parte e nella disperazione
sentimentale dall’altra, si accese in me la fame di Dio, e soffocando spiritualmente sentii,
nella sua mancanza, la sua realtà. E volli che Dio ci fosse, che Dio esistesse. Ma Dio non
esiste, piuttosto sopra-esiste e fonda la nostra esistenza, ci fa esistere». In queste toccanti
righe, tratte da Il sentimento tragico della vita (1912), Miguel de Unamuno, un letterato
spagnolo vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, racconta la ricerca e la scoperta del
Dio vivo, il Dio Padre di Gesù Cristo, che egli oppone al Dio logico, che non ama e non odia,
giacché non gode e non soffre, un Dio inumano, e giusto di una giustizia razionale o
matematica, ossia ingiusto. Non che Unamuno voglia sprezzare la razionalità, ma
denunciare il suo fallimento nell’aprirsi un varco per raggiungere Dio: in questo caso essa
produce solo l’idea-Dio. Al Dio vivente, al Dio umano, non si giunge con la ragione, ma con
l’amore e la sofferenza. Il Dio vivo è amore, il Padre dell’amore, e in noi Egli è il figlio
dell’amore. Se alcuni a critica del cristianesimo hanno sostenuto che l’uomo a sua immagine
e somiglianza crea i suoi dei, ciò è vero solo perché è vero che Dio crea l’uomo a sua
immagine e somiglianza. Dio e l’uomo si creano, infatti, reciprocamente. Dio si crea, si rivela
nell’uomo, e l’uomo si crea in Dio. Il potere di creare un Dio a nostra immagine e
somiglianza significa semplicemente che portiamo Dio dentro di noi, e che Dio ci sta
creando di continuo a sua immagine e somiglianza: Çcredere in Dio è, in un certo senso,
crearlo, sebbene sia Lui che prima ci crea. Dio è colui che continuamente crea se stesso in
noiÈ. La fede in Dio, infatti, nasce dall’amore per Dio, ed Egli è in noi per la fame che
abbiamo di lui, perché si fa bramare. Ed è il Dio degli umili, perché Dio scelse la stoltezza
del mondo per confondere i sapienti.
ABC
N. 60 - Maggio 2005
123
L'AMORE È SEMPRE RAGIONEVOLE
1. L'amore di Dio richiede soltanto da noi una condotta innocente e disciplinata. Egli vuole
soltanto che noi facciamo per Dio tutto ciò che la ragione comanda. Non si tratta di
aggiungere qualcosa alle buone azioni che già compiamo; si tratta soltanto di fare per amore
di Dio, ciò che le persone oneste che vivono bene fanno per onore e per amore di loro stesse.
Occorre soltanto togliere il male, che occorrerebbe comunque togliere, anche se avessimo
soltanto la vera ragione come principio…
2. Questo amore di Dio non richiede, di solito, né azioni eclatanti ed eroiche, né la rinuncia ai
beni legittimamente acquisiti, né lo spogliamento dai vantaggi di ogni condizione: esso vuole
solamente che siamo giusti, sobri, moderati nell'uso opportuno di ogni cosa; vuole soltanto
che non se ne faccia il proprio dio e la propria beatitudine, ma che se ne usi secondo il suo
ordine e per tendere verso di Lui.
3. …..Il precetto dell'amore, lungi dall'essere un onere maggiore di tutti gli altri precetti, è
invece, ciò che rende tutti gli altri precetti dolci e leggeri… Questo amore non turba, non
disturba, non cambia niente nell'ordine che Dio ha stabilito. Lascia i grandi nella grandezza e
li rende piccoli sotto la mano di Colui che li fa grandi. Lascia i piccoli nella polvere, e li rende
contenti di non essere niente se non in Lui. Questo appagamento nel posto più basso non ha
alcuna bassezza e costituisce una vera e propria grandezza.
4. Questo amore regola e anima tutti gli altri amori che noi dobbiamo alle creature. Noi non
amiamo mai tanto il nostro prossimo di quando noi l'amiamo per Dio e del suo amore… Qual
è allora il modo di amare i propri amici? È di amarli secondo l'ordine di Dio; amare Dio in
essi; amare in essi ciò che Dio vi ha messo e sopportare, per amore suo, la privazione di ciò
che egli non ci mette… L'amore di Dio non vuole affatto trovare in essi più di quanto Dio non
vi abbia messo; guarda soltanto in loro, Dio ed i suoi doni: tutto per lui è buono, purché ami
ciò che Dio ha fatto e sopporti ciò che Dio non ha fatto ma che ha permesso e che vuole che
sopportiamo per conformarci ai suoi disegni.
5. …È vero che quest’amore non è sempre tenero e sensibile; ma è vero, intimo, fedele,
costante, reale ed io lo preferisco, dal fondo della mia volontà, a qualunque altro amore. Ha
anche le sue tenerezze ed i suoi trasporti: un'anima gradita a Dio non sarebbe più inaridita e
ristretta nelle morbidezze e nelle sperequazioni dell'amor proprio; amando solo per Dio, ella
amerebbe come Dio… Nel suo cuore l'amore di Dio sarebbe una fonte viva per tutti i
sentimenti più teneri, più forti e più proporzionati. Nulla è così tenero, così aperto, così vivo,
così dolce, così dilettevole e amoroso di un cuore che l'amore divino possiede ed anima.
Francesco di Salignac de la Mothe-Fénelon (1651-1715), Lettera al duca di
Borgogna
L’AUTORE Di antica nobiltà del Périgord, Fénelon studia dai gesuiti, poi dai sulpiziani.
Sacerdote nel 1675, frequentatore abituale della cerchia di Luigi XIV e di Madame de
Maintenon, diventa precettore dell'erede al trono, il duca di Borgogna. È in quest’ambiente
che incontrerà Madame Guyon, di cui sarà un fervente discepolo, poi difensore incondizionato
nei confronti di Bossuet. Arcivescovo di Cambrai nel 1695, in semi-disgrazia dopo le
condanne, infinitamente più politiche che dottrinali, delle sue Massime dei Santi nel 1699, si
rivelerà un uomo di Dio e un pastore esemplare, ultimo rappresentante del Secolo d'Oro della
spiritualità francese nei confronti del Giansenismo e del Gallicanesimo dilaganti.
IL TESTO Fénelon lascia un'opera pedagogica, spirituale e politica considerevole. Come
precettore del duca di Borgogna, sogna per il suo studente (che morirà prima di salire al
trono) una formazione che ne farebbe un nuovo san Luigi, e fonda la sua educazione
sull'amore di Dio e dei suoi fratelli. Questa pagina potrebbe appartenere a san Francesco di
Sales che lui ammirava, anche se il tono ed il linguaggio della corte del Re Sole hanno un
tantino perso la freschezza di quella di Enrico IV.
§ 1. Se Dio è amore, l'uomo è ragione: ecco perché non potrebbe esservi opposizione tra
questi nella vita cristiana; vale a dire nella vita di Dio fatto uomo. Essere cristiano non ci
richiede di vivere altro se non la normalità umana, ma di viverla "per amore di Dio" mentre il
non cristiano la vive per interesse, o per abitudine, o per morale.
§§ 2-3. Il secolo di Fénelon è quello della ragione, cioè del posto giusto dato ad ogni cosa e
nella quale il cristiano riconosce "l'ordine che Dio ha stabilito" e stabilito con amore. La
santità non richiede di uscire da quest'ordine (sul quale Luigi XIV regna in modo assoluto!),
ma di abitarlo anche noi con amore, sola misura della nostra "vera e propria grandezza".
§ 4. Da quest’elogio alla ragione, il Fénelon mistico spicca il volo: quando il posto di ogni
cosa è rispettato "secondo l'ordine di Dio", Dio si dà a noi attraverso ogni cosa. Ogni
concorrenza scompare tra creatore e creatura: tutto è ricevuto come Dio lo dà, tutto è dato
come Dio lo chiede, e nella misura in cui Dio lo dà o lo chiede, tutto diventa occasione
d’unione a Dio.
§ 5. Libera nei confronti di tutto, l'anima che ama diventa libera da se stessa e non si
preoccupa più di sentire o di non sentire questo amore che appartiene all'ordine dell'essere
("vero, fedele, costante, reale") e non dell'impressione: così, meno ella si occupa di se stessa
più si dilata nella felicità di amare dell'amore stesso di Dio.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
P come….. PASSIONE (di Gesù)
"Non è per scherzo che io ti ho amato!" Questa parola m’inferse un colpo di un dolore
mortale, perché improvvisamente mi furono aperti gli occhi dell'anima ed io vedevo, come era
vera… Io vedevo tutto quello che questo Dio-uomo ha sopportato con passione nella sua vita
e nella sua morte, per questo amore indicibile, per questo amore viscerale…
Angela da Foligno (1249-1309), Il Libro, Istruzione 23
Da allora,
La Passione non è altro per me se non una luce che mi guida.
Idem, trad. Hello, cap. 30
Come mai allora vi sono tanti cristiani sui quali la passione di Gesù fa così poca
impressione? Ciò proviene dal fatto che essi non si applicano punto a considerare quanto
Gesù ha sofferto per amore nostro.
Alfonso de’ Liguori (1696-1787), Considerazioni sulla Passione
Questa tragedia cruenta del Calvario non deve forse riempire tutti i cristiani di dolore e
d’amore? Ho vergogna di aver così poco pianto su Gesù che muore, e di averlo così poco
amato…
Giovanni di Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, Libro IV,
cap. VIII, 9° giorno
E il cristiano sa che oramai le sue prove fanno parte di questa Passione:
Cristo cammina avanti come capo, segue nelle sue membra… Noi andiamo dunque dove il
Cristo ci ha preceduto e Cristo continua ad andare laddove ci ha preceduto: Cristo ci ha
preceduti nel suo capo, segue nel suo corpo, e così egli è ancora quaggiù nella prova.
Agostino (354-430), Commento al Salmo 86,5
Cosicché
Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca
ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa.
Lettera ai Colossesi 1,24
Infatti,
In quanto è il nostro capo, Cristo è glorificato e impassibile; ma in quanto unito a tutte le
membra del suo corpo mistico, non lo è ancora completamente. Così prova sempre questo
desiderio e la sete che ha provato sulla Croce, che ha provato da tutta l’eternità, secondo me;
e così sarà fintantoché l'ultima anima salvata sia entrata nella beatitudine eterna.
Giuliana da Norwich (verso 1343-1413), Rivelazioni dell'Amore divino, cap. 31
Concretamente cosa vuol dire partecipare alla Passione di Cristo?
Quando, applicandoti a fare ciò che tu credi essere il meglio, ricevi dagli uomini soltanto
scherno e gesti di disprezzo; quando il loro cuore non ti considera affatto, pensando che non
puoi o non osi vendicarti e non soltanto rimani saldo e irremovibile, ma in più tu invochi per
loro il Padre celeste con amore, scusandoli amorevolmente presso di Lui: vedi, ogni volta che
tu muori così a te stesso, ogni volta la mia Passione rinverdisce e rifiorisce in te.
Enrico Suso (1300-1361), Libro dell’eterna Sapienza, XV, pag.369-370
L'errore sarebbe quello di avere paura di questa Passione, perché
Se l'uomo vuole evitare la prova, la patirà suo malgrado: ma se consente a portarla con il Sole
di giustizia, non ne soffrirà più di quanto la Divinità non abbia sofferto nel Verbo i dolori della
Passione accettata volontariamente.
Santa Caterina da Siena (1347-1380), Orazione del 26 marzo 1379
Se portate di buon grado la Croce, essa stessa vi porterà… Se la portate a stento, ne
aumenterete il peso, rendete il vostro fardello più pesante, e nonostante ciò dovrete portarla.
Se respingete una Croce, ne troverete certamente un'altra e forse più pesante.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Gesù Cristo, II, 2
Al punto che gli amici di Cristo,
Se fosse loro possibile essere virtuosi senza prove, non lo vorrebbero, preferendo rallegrarsi
sulla croce con Cristo e acquistare con pena le virtù, piuttosto che avere la vita eterna
diversamente.
Caterina da Siena, Dialogo 84
Ma forse vi è dell'orgoglio in questa volontà di patire con Cristo?
… se vuoi veramente sapere se ciò che ti fa patire viene da te o da Dio, lo riconoscerai così:
se viene dalla tua propria volontà, qualunque sia la sua modalità, questa prova ti fa male ed è
faticosa da sopportare. Ma se ciò che ti fa patire viene da Dio e da Dio solo, non ti fa male e
non ti pesa, perché Dio porta il tuo fardello.
Maestro Eckart, (1260-1327), Omelia 2
Infatti,
Quando l'uomo vivendo sulla croce si abbandona al Signore e gli appartiene interamente, Dio
in qualche modo si abbandona interamente all'uomo e gli appartiene totalmente, e l'uomo
possiede la pienezza e non ha più bisogno di niente.
Gerlac Peters (1378-1411), Soliloquio infiammato, cap. XII
Perché
… è cosa ammirevole che nelle ferite ricevute dal divino amore, il dolore è piacevole; e tutti
coloro i quali lo sentono vi consentono e non vorrebbero cambiare questo dolore per tutta la
dolcezza dell'universo. Non vi è affatto dolore nell'amore, o se vi è dolore, è un dolore
prediletto…
Francesco di Sales, (1567-1622), Trattato sull'Amore di Dio, VI, 14
Si è proprio così! Io non sono più, infatti, come nella mia infanzia, accessibile ad ogni dolore;
sono come risuscitata, non sono più nel luogo dove mi credono… Oh! non mettetevi in pena
per me, sono giunta a non poter più soffrire, perché ogni sofferenza mi è dolce.
Teresa del Bambin Gesù (1873-1897), Ultimi colloqui, 29 maggio 1897
UN FILIALE E AFFETTUOSO AUGURIO
Poche settimane fa abbiamo avuto il dono del nuovo Pontefice, Benedetto XVI, per il quale
rivolgiamo a Dio la preghiera e al quale indirizziamo il nostro augurio devoto e filiale.
Riflettiamo sul ministero del successore di Pietro con una pagina di s. Cipriano, vescovo di
Cartagine. «è facile accertarsi della fede con una sintesi della verità. Il Signore dice a Pietro:
“Io ti dico che tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte
dell’inferno non la vinceranno Io ti darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai
sulla terra sarà legato anche nei cieli” Il Signore edifica la sua Chiesa sopra uno solo; anche
se dopo la sua risurrezione egli conferisce un’uguale potestà a tutti gli apostoli con le parole:
“Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete
i peccati saranno rimessi, saranno ritenuti a chi li riterrete”, tuttavia per evidenziare l’unità
dispose di sua autorità che l’origine della medesima procedesse da uno solo. Gli altri
apostoli erano ciò che era Pietro: erano insigniti di un’eguale partecipazione, sia di onore
che di potere; ma l’origine viene dall’unità, affinché la Chiesa di Cristo si manifesti una sola.
Anche nel Cantico dei Cantici lo Spirito Santo propone l’unità della Chiesa nella figura di chi
rappresenta il Signore. Dice: “Una sola è la mia colomba, la mia diletta; per sua madre esiste
solo lei, solo il suo unico amore”. Come può credere di possedere la fede chi non mantiene
questa unità della Chiesa? Come può pensare di rimanervi chi si oppone e resiste alla
Chiesa, dal momento che anche il beato apostolo Paolo insegna la stessa cosa e evidenzia il
sacramento dell’unità con queste parole: “Vi è un solo corpo e un unico spirito, una sola fede,
un solo battesimo, un solo Dio”? Dobbiamo possedere e rivendicare con fermezza tale unità,
soprattutto noi Vescovi che siamo a capo della Chiesa, per dar prova che anche l’episcopato è
uno solo e indiviso. Nessuno inganni la fraternità con la menzogna, nessuno corrompa la
verità della fede con un perfido tradimento. L’episcopato è uno solo e i singoli nella propria
parte lo posseggono tutto intero. Una sola è la Chiesa, anche se si estende per ogni dove
numerosa con rigogliosa fecondità, come una sola è la luce anche se i raggi del sole sono
molti» (L’unità della Chiesa 4-5).
ABC
N. 61 - Giugno 2005
123
UN CANTO DOLCE COME IL MIELE
1. L'anima intona il suo canto quando, sotto l'abbondanza e l'ardore dell'amore, riceve nel suo
apice la dolcezza della lode eterna: allora il pensiero diventa cantico e lo spirito sprofonda in
una melodia tanto dolce quanto il miele… Non siate stupiti se questa melodia è data all'anima
il cui amore si trova così messo in ordine e se ella riceve di continuo, dal suo amante, questa
musica di consolazione. Infatti, vive come estranea alle vanità del mondo, invasa dalle realtà
celesti che l'infiammano completamente ed eternamente nel fuoco increato.
2. Così quest'anima non conosce mai la caduta, poiché ama di continuo e con ardore, come
abbiamo detto; sente in lei questo beato fervore, si vede consumata nel più profondo di se
stessa dal fuoco dell'amore eterno, e inoltre, sente il suo Diletto nella dolcezza che
desiderava.
3. La meditazione di quest'anima si muta in un cantico di gloria e la sua natura rinnovata si
riveste di dolcezza nella sua antifona. Ecco perché il Creatore le concederà, a lei che sarà
stata amica della luce e nemica delle tenebre e che avrà amato solo la vita, ciò che avrà
desiderato con tutto il suo cuore: uscire senza paura né tristezza dal corpo corruttibile e
lasciare questo mondo senza la ripugnanza della morte…
4. Colui che vive questo si liquefa interamente nell'amore di Cristo e la sua acclamazione
sale dal profondo delle sue viscere verso Dio. Questa acclamazione è l'amore che canta,
perché colui che la proferisce porta la sua voce potente fino alle orecchie di Dio; è anche il
desiderio del Bene e la volontà buona. Essa è fuori dal mondo perché lo spirito da cui
promana non ricerca niente altro se non Cristo. Costui è interiormente infiammato dal fuoco
dell'amore, cosicché il suo cuore diffonde luce e calore e nulla di ciò che egli fa
esteriormente può essere incluso se non nel bene. Il suo canto è un giubilo, ma silenzioso: la
sua melodia o la sua lode non è per le orecchie degli uomini ma alla presenza di Dio e di una
dolcezza senza parole…
5. Colui il quale vivrà il mistero di questa melodia ne amerà la musica ed esultando in Gesù,
sarà simile all'uccellino che canta fino a morirne. E forse non mancherà alla morte di essere
consolato dal canto della carità, se è vero che ciò sia morire e non piuttosto passare vivo al
suo Diletto.
6. Dopo questo passaggio, infine, quest'uomo sarà meravigliosamente elevato nella lode del
Creatore, si perderà cantando nelle delizie senza fine, presto associato all'acclamazione dei
serafini, per risplendere e servire continuamente e senza fine in questa lode. È lì che
conoscerà l'abbraccio amoroso e la dolcezza di amare, abbraccio che toccherà il cuore,
mentre l'unione degli amanti durerà per l'eternità. Le loro bocche, dolci come il miele,
scambieranno dei baci deliziosi ed il loro reciproco amore non cesserà mai.
Riccardo Rolle († 1349), Il Fuoco dell'Amore, I, 14; II, 2 e 11
L’AUTORE Originario del Yorkshire, è certa solamente la data della sua morte, dopo gli studi
a Oxford ed una vita eremitica in diversi luoghi, nelle vicinanze dell'abbazia cistercense di
Hampole.
IL TESTO Il Fuoco dell'Amore, il più conosciuto di numerosi trattati di Rolle, sviluppa il tema
della vita spirituale come canto dell'anima sotto l'azione dello Spirito Santo. Si trova qui il
vocabolario tecnico della musica medievale: il canor, o suono armonioso, il melodos,
letteralmente il canto "dolce come il miele" delle labbra del § 6, il jubilus, lunghi vocalizzi che
imitano il canto degli angeli del paradiso, il continuo, infine sottofondo sonoro che sta alla
melodia come l'unione a Dio sta agli atti d'amore per mezzo dei quali essa si manifesta.
§§ 1-2. L'anima unita a Dio, infine libera da tutte le pesantezze di una vita misurata dai suoi
obiettivi terreni, è equilibrata dal suo apice (che è anche "il più profondo di se stessa"), punto
in cui è toccata dal "fuoco increato", "dal fuoco dell'amore eterno", e il suo "pensiero si mette
a cantare" (in quel periodo il pensiero racchiude tutta la vita mentale). Perfettamente
ristabilita nella sua vocazione ("l'amore messo in ordine”, riferito a Cant. 2, 4), l'anima vive
nel mondo senza appartenergli in niente, totalmente disponibile ("non conosce mai la
caduta") per vedere ogni cosa alla luce di Dio e agire secondo la sua volontà, al ritmo e con
l'intensità di questo stesso amore.
§ 3. Questo nuovo modo di essere, corrispondente alla perfezione della vita spirituale, le fa
affrontare direttamente il passaggio alla piena glorificazione: avendo ritrovato le condizioni
del paradiso prima della caduta, è la vita ancora che le fa superare i limiti del suo corpo,
senza alcun legame ad alcunché di mortale, nel puro appagamento di "ciò che avrà
desiderato con tutto il suo cuore”. Tutti i maestri concordano in questa affermazione della
morte dei santi come momento di pura felicità, di cui l'assunzione della Vergine Maria
fornisce il modello e la garanzia.
§ 4. La liquefazione (riferita al Cant. 5, 6, in cui l'anima si "liquefa" alla voce del Diletto)
indica questa perfezione: ogni resistenza all'amore è scomparsa, e Cristo e l'anima sono
come trasparenti l'uno all'altro. Cosicché l'anima diffonde la luce ed il calore che essa riceve
in proporzione al suo "infiammarsi al fuoco dell'amore", senza concorrenza tra
contemplazione e azione, tra ricevere Dio e darlo.
§§ 5-6. Con l'immagine, anch'essa classica, dell'uccello che canta fino a morirne, Riccardo
insiste sulla continuità della vita dei santi quaggiù e nell'aldilà: l'unica vera morte, ci dice san
Paolo, è quella da cui siamo risuscitati al battesimo (Ro 6, 3-5), poiché il nostro passaggio
alla tomba è soltanto una dormizione prima di prendere posto nel coro degli angeli, per la
lode di Dio e la nostra piena felicità.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
P come….. PASSIVITÀ
All’inizio della vita spirituale,
Siate ben convinti come di una verità della Fede, che noi non meritiamo niente da noi stessi, e
che tutto ciò che abbiamo viene dalla pura misericordia di Dio.
Giovanni Rigoleuc (1596-1658), Istruzioni per i tre Stati…, III
Infatti,
È te che Dio ama, ma ciò che tu fai, egli lo detesta. E ciò che egli ama in te è ciò che egli
stesso opera in te.
Sant'Agostino (354-430), Sermone 142, 4
Allora non ci resta altro che accettare questa impotenza:
Per essere unito a Dio, cambiato in lui, tu devi scomparire con tutto ciò che ti è proprio, tutti i
tuoi affetti, tutta la tua attività, tutte le tue preoccupazioni, cioè con tutti i modi con cui
possedevi te stesso; non puoi fare di meno.
Giovanni Taulero (1300-1361), Sermone 31
E se facciamo di meno,
Fintantoché noi facciamo e mettiamo la nostra cura principale nel fare, nonostante noi
facciamo spesso ciò che Dio vuole, facciamo anche spesso ciò che noi vogliamo, e così…
non moriremo mai bene né completamente alla nostra propria volontà.
Alessandro Piny (1640-1709), L'Orazione del Cuore, XII
Così,
Ciò che Dio vuole da noi prima di ogni cosa, è che cedendogli interamente la nostra volontà,
noi gli lasciamo fare tutto ciò che gli piace…. Perché Dio sa cosa deve fare e la nostra
rassegnazione gli è ben più gradita della nostra promessa di fare con un movimento di
volontà propria cose straordinarie per la sua gloria; ora, qualunque cosa noi possiamo fare o
dire, Dio non domanda né desidera null'altro da noi se non sentirci dire dal profondo del
nostro cuore: Signore, sia fatta la tua volontà che mi è più cara di ogni cosa!
Istituzioni Tauleriane, cap XVIII
Ma questa necessaria passività non consiste affatto nel dormire:
Quest'anima è attenta a Dio con amore, cosicché Dio si comunica passivamente ad essa,
come la luce si comunica a colui il quale ha gli occhi aperti, passivamente, senza che egli
faccia nient'altro se non tenerli aperti.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Salita del Monte Carmelo, II, 15
Da lì,
Senza che ella se ne accorga, Dio attirerà l'anima e l'eleverà a un riposo perfetto, nel quale
le effonde dolcemente ed intimamente la sua luce, il suo amore e la sua forza, incendiandola
ed infiammandola di vere e proprie disposizioni per ogni virtù.
Molinos (1628-1696), Guida spirituale, III, 13
Ma
Questo raccoglimento passivo, il Signore lo opera nell'anima senza che l'intelletto e la
volontà vi contribuiscano se non per l'assenso che prestano.
Pietro di Clorivière (1735-1820), Sull'orazione mentale, 33-34
Questo raccoglimento passivo non è altro se non il frutto e l'estensione dell'orazione di
quiete e di silenzio, che consiste nel tacere interiormente, nel lasciar cadere ogni pensiero,
piuttosto che nel combattere quelli che vengono o cercare quelli che non vengono.
Jean-Pierre de Caussade (1675-1751), Lettera 88, alla Madre de Rosen
In ogni caso, non dimentichiamo mai che
Questo modo di pensare a Dio non è in potere di colui che pensa ma dipende dal beneplacito
di Colui che lo dà, vale a dire quando lo infonde lo Spirito Santo che soffia dove vuole, quando
vuole, come vuole e in chi vuole.
Guglielmo di Saint Thierry (1085-1148), Lettera ai Frati del Mont-Dieu, II, III, I
Forse scorgete qui un invito alla pigrizia?
Si dice, ed è vero in un certo senso, che la contemplazione è oziosa; ma il suo ozio non le
impedisce di avere grandi travagli da sopportare, che non le lasciano alcuna tregua né di
giorno, né di notte, sulle strade e sulle vie che lo spirito di grazia le fa percorrere, e la natura
ne risente più di quanto è possibile dire, per quanto sottomesso sia lo spirito.
Beata Maria dell'Incarnazione (1599-1672), Relazione del 1654, LVII
Ed è tutta la differenza che esiste tra quiete e quietismo:
[Sopportare ciò] è un segno infallibile che queste anime sono di Dio, perché se fossero
soltanto nella natura, non avrebbero questa forza di soffrire… Poiché quantunque le loro
potenze ed i loro sensi siano assaliti dai loro motivi di patimento e ciò li commuova e li agiti,
esse tuttavia permangono nella pace, nel loro fondo senza fondo e in una pace senza pace,
cioè una pace che non è più sensibile, ma nuda, semplice e solida; è come certo e calmo
riposo e tranquillità di tutta l'anima.
Giacomo Bertot, (1620-1681), Lettera a Madame Guyon
Perché queste anime passive sono interamente attivate da Colui al quale esse si sono date:
Quando Gesù possiede l'anima, ella non ha che un solo pensiero, una sola parola e un solo
amore, che è Gesù; nei più grandi lumi che riceve non può spiegarsi, negli ardori non può
amare, le sembra; è interamente passiva a Gesù: Gesù è illuminante, Gesù è bruciante, Gesù
è penetrante e consuma; infine Gesù è più nell'anima di se stessa e così ella vive più in Gesù
di quanto non viva in se stessa; tutto è convertito in Gesù, per mezzo di una collaborazione
d'amore che si sente e non può esprimersi.
Giovanni de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, I, IV,
cap.VII
FESTA E GRATITUDINE
Nel ringraziare si riconosce il dono ricevuto; rendiamo grazie, infatti, perché qualcuno ci ha
dato qualcosa e noi, attraverso la partecipazione alla festa e al culto, corrispondiamo a
questo dono. Nel De beneficiis Seneca afferma che il primo modo di corrispondere al dono è
la gratitudine. Si può anche non aver nulla per ricambiare il dono, ma la gratitudine è
comunque il modo di ricambiare. Il ringraziamento è poco presente nei rapporti sociali al di
fuori della dimensione religiosa o della festa religiosa. Nella festa è fondamentale, però,
anche la sincronizzazione, in quanto essa non è soltanto tempo libero, nel quale ciascuno si
ritaglia il proprio a piacimento tra le tante possibilità del supermercato. Nella festa si
condivide con gli altri la gratitudine per il dono che si è ricevuto. Nei rapporti interpersonali,
invece, il ringraziare è spesso tanto abbondante quanto superficiale; ma quando ci si rende
davvero conto del dono ricevuto, allora il ringraziamento si esprime in forme genuine e sentite
in prima persona. Ringraziare e far festa implica riuscire a fermarsi, e oggi il fatto stesso di
sostare è un piccolo gesto rivoluzionario, perché contrasta la tendenza a organizzare il
tempo come continuità secondo l’idea di una società permanentemente attiva: ad esempio, la
comunicazione e l’informazione no stop. Sostare significa: voglio non dare tutto il mio tempo
a un’attività che rischia di farmi lavorare senza soluzione di continuità. Quasi niente
possediamo davvero, noi uomini, quanto il tempo! La sfida al sistema contemporaneo di vita è
la rottura di questa continuità imprigionante mediante la rottura della festa. Il ringraziare
riconosce la dipendenza, riconosce la vita e la morte, cioè la perdita. «Il Signore ha dato, il
Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore», dice Giobbe (1,21). E il mistico
Hammarskjöld gli fa eco: per tutto il passato «grazie», per tutto il futuro «sì». La voce di
Cristo che invita i discepoli a seguirlo per trascorrere con lui un pomeriggio è l’offerta di Dio
a rompere la catena del tempo che imprigiona, rivolta a coloro che cercano di dar senso al
tempo, soprattutto di darlo insieme e non da soli: è la gioia della festa cristiana.
[Liberamente tratto da un testo di G. Gasparini]
ABC
N. 62 - Luglio / Agosto 2005
123
BEATA NOTTE DELL'ANIMA!
1. È certo che le tenebre spirituali sono destinate al riposo tanto quanto quelle corporee, e
che coloro i quali vogliono andare avanti o indietro, mentre esse permangono, si mettono in
grandissimo pericolo di perdersi. Ritengo, a mio avviso, che è da questa fonte che promana
tanta angustia per le anime che soffrono pene incredibili, non sapendo più che fare, né di
quali mezzi servirsi per ritrovare la loro tranquillità, poiché esse si sono tanto ingarbugliate
con la loro cattiva condotta e la loro troppo grande fretta, che non sanno più a che punto
sono…
2. Il motivo di ciò è che quanto esse fanno in questa disposizione deriva totalmente dalla loro
propria volontà e dal loro proprio movimento, e dal fatto che esse vogliono andare senza
sapere dove, poiché Dio che le attirava ed illuminava contemporaneamente, si è ritirato dallo
loro vista e dal loro sentimento; così, di conseguenza, se esse vogliono muoversi in
qualunque cosa verso di lui, lo fanno da se stesse; ma poiché non si potrebbe giungervi se
non è Lui che attira, non bisogna stupirsi del loro smarrimento.
3. Poiché queste tenebre sono un tempo di riposo, le anime che vi si trovano, vi devono
rimanere in pace, fintantoché questo sole divino, che le ha provocate con la sua assenza, le
cacci con la sua venuta totalmente nuova. Giacché esse sono attanagliate da mille timori
provocati da questa oscurità ed un'infinità di dubbi e di pensieri immaginari vogliono turbarle,
occorre che esse rimangano irremovibili nella loro fede e nella fiducia della sincera fedeltà di
Dio che non permetterà nulla a loro svantaggio. È ancora necessario che pongano più stima
nel perdere ogni cosa e nel perdersi esse stesse senza vedervi alcun rimedio…, piuttosto
che nell'essere ricolmate di tutte le delizie e ricchezze del paradiso.
4. Pertanto è da questo punto che dipende tutta la felicità dell'anima e, a meno di perdersi e di
sostenere questa privazione infinita (per così dire), non si entrerà mai nel santuario in cui
Dio si comunica all'anima senza riserve e senza l'aiuto di alcun mezzo esercitato dalla
creatura. Ecco perché è assolutamente necessario annientare tutto ciò che si presenta per
ritirare l'anima da questo deserto e da questa perdita e tutto ciò che tenta di interrompervi il
suo riposo. Una sola cosa deve bastarle, e cioè che essa si è totalmente abbandonata nelle
mani di Dio, che gli ha rimesso ogni suo interesse e che non le resta più niente se non
divenire come a lui piacerà, senza voler vedere più niente da sé nelle sue vie, né di peggiore,
né di migliore, né di più perfetto.
Maur del Bambin Gesù (1617-1690), Teologia cristiana e mistica, cap. 20
L’AUTORE Originario della Sarthe, si ignora tutto di lui fino alla sua entrata dai carmelitani
di Rennes nel 1633, dove fu il miglior discepolo di Giovanni di Saint-Samson (cfr. Semi n°
21), sviluppando al suo seguito la riforma carmelitana detta di Touraine. Dal 1650, a Bordeaux
ed in Guascogna esercita le sue qualità di superiore religioso e di direttore spirituale. Amico
di Surin (cfr. Semi n° 14), legato alla cerchia di Madame Guyon, il suo contributo alla mistica
dell'abbandono e del puro amore, che dominano la spiritualità francese di questo periodo, è
essenziale.
IL TESTO Gli scritti di Maur si compendiano in una decina di piccoli trattati riuniti per la
maggior parte sotto il titolo di Accesso alla divina Sapienza, di cui il nocciolo è la sua
Teologia cristiana e mistica. Egli vi analizza, con profonda chiarezza e profondità,
l'evoluzione dell'anima dalle prime sollecitazioni divine alla piena consumazione del
matrimonio spirituale. Le sue tematiche sono quelle del suo maestro Giovanni di SaintSamson, di cui condivide la potenza e radicalità mistica: l'uomo è solo nulla, ma di questo
nulla Dio fa il suo tutto. L'abbandono assoluto nelle mani di Dio è dunque l'atteggiamento
giusto dello spirituale. Maur ne descrive le conseguenze ultime nel passo che citiamo e che
tende la mano in piena sicurezza a coloro che Dio immerge nelle tenebre, non per metterli
alla prova ma per far si che essi si addormentino tra le sue braccia.
§ 1. Il tema delle tenebre (le famose notti di Giovanni della Croce), sulla falsariga di Gregorio
di Nissa (cfr. Semi n° 32), è da riferire all'esperienza di Mosè sul Sinai: l'uomo, ridotto
all'impotenza sotto la mano di Dio, è trasformato in lui, ricevendo e diffondendo da ciò stesso
la sua luce e la sua energia (Mosè diventa rivelatore di Dio nello stesso momento in cui è
unito a lui). Lottare qui sarebbe lottare contro se stessi e le notti dell'anima sono dolorose
("angustie … pene incredibili") soltanto in quanto l'uomo resiste a questa beata stretta.
§ 2. Il peccato originale è stato di voler prendere in mano la nostra propria vita, in campo
spirituale come altrove, da lì l'impressione che dobbiamo dare qualcosa a Dio (facciamo ciò
"con la nostra propria volontà e il nostro proprio movimento") in cambio di ciò che egli ci dà.
Questo non ha alcun inconveniente fintantoché la vita spirituale rimane a distanza da Dio che
ci "attira ed illumina contemporaneamente" con i suoi doni; ma quando Dio si "ritira dalla
nostra vista e sentimento" e ci stringe più vicino, dobbiamo vivere nella fede pura, senza più
pretendere di "muoverci in qualunque cosa verso di lui".
§§ 3-4. Ridotti all'impotenza, ma tra le braccia di Colui che "non permetterà nulla a nostro
svantaggio", noi non dobbiamo far altro che "rimanere in pace". Dibatterci sarebbe dare
consistenza ad "un'infinità di dubbi e di pensieri immaginari", mentre "totalmente abbandonati
nelle mani di Dio", egli ci farà "divenire come a lui piacerà", vale a dire "entrare nel santuario
in cui Dio si comunica all'anima senza riserve", perdendo, negando, dimenticando come un
incubo la falsa felicità che noi pretendevamo fabbricare di nostra iniziativa: questo punto è il
più decisivo di una vita spirituale.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
P come….. PATERNITÀ spirituale
Non parleremo qui della direzione spirituale in senso tecnico (cfr. Semi n°20) ma della
relazione per mezzo della quale un anziano risveglia uno più giovane alla vita spirituale, poi
lo forma e lo nutre perché questa si sviluppi. Infatti,
Affinché la tua solitudine non ti venga in odio e affinché tu possa abitare la tua cella in
sicurezza, tre custodi sono stati posti al tuo fianco: Dio, la tua coscienza e il tuo padre
spirituale. A Dio, devi la pietà che ti consacra interamente al suo servizio; alla tua coscienza,
devi l'onore che ti farà arrossire di peccare dinanzi ad essa; al tuo padre spirituale, devi
l'obbedienza della carità che ti farà ricorrere a lui in ogni cosa.
Guglielmo di San Teodorico (1085-1148), Lettera ai Frati…, I, III
E in quel posto in cui Dio lo ha messo,
Come un padre, secondo la carne educa suo figlio dopo la nascita fino a quando egli non
abbia raggiunto la sua perfetta somiglianza, il padre spirituale educa fino alla perfetta
somiglianza divina l'uomo che è stato spiritualmente generato, a meno che questi non vi
ponga ostacoli.
Sant'Alberto Magno (1193-1280), Sul Vangelo di Luca, II,2
Questo perché
Dio ama immensamente che gli uomini siano diretti e governati da altri uomini simili a loro…
Di solito, tutto ciò che può essere fatto per mezzo dell'intelligenza e del consiglio dell'uomo,
Dio non lo fa né lo dice lui stesso.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Salita del Monte Carmelo, II, 22
Ecco perché
Il Signore non mostra a nessuno il cammino della perfezione se, avendo con chi istruirsi, si
disprezza la dottrina degli anziani e la loro regola di vita, senza fare attenzione a questa
parola che richiederebbe pertanto di essere osservata con zelo: Interroga tuo padre e te lo
farà sapere, i tuoi vecchi e te lo diranno. (Dt 32,7)
Giovanni Cassiano (415-429), Conferenze, II, XV
Il cammino di Dio verso l'uomo per mezzo dell'uomo è la legge stessa dell'Incarnazione:
Da quando Dio è uomo, … questo ministero tende a far nascere e formare Gesù nei cuori, a
dare una nuova nascita a colui che è nato da tutta l'eternità nel seno del Padre.
Pietro de Brulle (1567-1629), Memoriale di Direzione, IX
Nella tradizione monastica, questa paternità spirituale è efficace soltanto se è incondizionata:
Se dei cattivi pensieri ti tormentano, non nasconderli, ma dilli immediatamente al tuo padre
spirituale; più si nascondono i propri pensieri, più essi si moltiplicano e prendono vigore.
Come un serpente, uscito dalla sua tana fugge all’istante, così il cattivo pensiero, non appena
manifestato, si dissolve.
Paolo Evergetinos († 1054), Sinagoga I, cap. 20
Di contro
È il segno, universale e evidente, che un pensiero è del demonio, quando ci vergogniamo di
svelarlo al nostro anziano.
Giovanni Cassiano, De coenob. Insitutis, 4, 9
Ma a chi potremo concedere una tale fiducia?
Dimmi, Padre, chi devo interrogare a proposito dei miei pensieri? – Occorre interrogare
colui nel quale hai fede e che sai capace di portare i pensieri; in lui devi credere come in Dio.
San Barsanufo, Lettera 885
Il vero maestro è colui il quale porta in se stesso il libro spirituale della conoscenza scritto
dal dito di Dio, vale a dire per mezzo dell'operazione dell'illuminazione, che viene da lui e che
non richiede più altro libro.
San Giovanni Callimaco (525-600), Lettera al Pastore, 5
In effetti,
I santi, non sono coloro i quali parlano da loro stessi, è Dio che parla in loro come vuole, a
volte in modo velato, a volte chiaramente… Egli parla come vuole e non come vogliono loro.
San Barsanufo († 540), Lettera 358
Purtroppo i santi sono rari!
Oh! quante anime sono chiamate al cammino interiore e, invece di guidarle e di farle
progredire, i padri spirituali, perché non le capiscono, le trattengono e le demoliscono!
Miguel de Molinos (1628-1696), Guida spirituale, I, 2
Allora,
È di grande importanza che l'anima che vuole progredire nel raccoglimento e nella
perfezione stia attenta nelle mani di chi ella si mette perché tale sarà il maestro, tale il
discepolo, e tale sarà il padre, tale il figlio.
San Giovanni della Croce, Fiamma Viva, III, 30
Occorre per tutte le cose avere questo amico fedele che guida le nostre azioni con i suoi
suggerimenti e consigli e con questo mezzo ci tutela dalle insidie e dagli inganni del
maligno; sarà per noi come un tesoro di sapienza nelle nostre afflizioni, tristezze e cadute; ci
servirà da farmaco per alleggerire e consolare i nostri cuori nelle malattie spirituali; ci
proteggerà dal male e ci renderà migliori; e quando qualche infermità ci indebolirà, egli
impedirà che sia mortale perché ce ne risolleverà.
San Francesco di Sales, (1567-1622), Introduzione alla Vita devota, I, 4
Non c'è forse qualche rischio in una simile intimità?
Il posto del tuo padre spirituale non sia nel più segreto del tuo cuore, ma vicino al tuo cuore,
perché egli non è lo Sposo, ma il suo amico: Dio te l'ha dato per aiutarti a unirti interamente
al tuo sposo celeste, senza che egli si frapponga in questa unione.
San Giovanni d'Avila (1499-1569), Audi Filia II, 8
Ma
Chi troverà un tale amico? Il Saggio risponde: Coloro che temono il Signore; cioè gli umili, i
quali desiderano molto il loro progresso spirituale. Poiché t’importa tanto, Filotea, andare
con una buona guida in questo santo viaggio di devozione, prega Dio con grande insistenza
che te ne fornisca una che sia secondo il suo cuore, e non dubitare; perché anche se egli
dovesse inviare un angelo dal cielo, come fece col giovane Tobia, te ne darà una buona e
fedele.
San Francesco di Sales, Ibidem
L’UNIFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO
Narra Cesario che un certo religioso, benché non fosse punto differente dagli altri
nell’esterno, era giunto a tal santità, che col solo tatto delle sue vesti guariva gl’infermi. Il suo
superiore meravigliandosi di ciò, gli disse un giorno come mai facesse tali miracoli, non
facendo una vita più esemplare degli altri. Quegli rispose, che pure egli se ne meravigliava, e
che non ne sapeva il perché. Ma qual devozione voi praticate, ripigliò l’abate? Rispose il
buon religioso ch’egli niente o poco faceva, se non che aveva sempre avuta un gran cura di
volere solo ciò che Dio voleva, e che il Signore gli aveva fatta la grazia di tenere abbandonata
la sua volontà totalmente in quella di Dio. La prosperità, disse, non mi solleva né l’avversità mi
abbatte, perché io prendo ogni cosa dalle mani di Dio, ed a questo fine tendono tutte le mie
orazioni, cioè, che la sua volontà perfettamente in me si adempia. E di quel danno, ripigliò il
superiore, che l’altro ieri ci fece quel nostro nemico nel toglierci il nostro sostentamento,
appiccando il fuoco al podere dov’erano le nostre biade, i nostri bestiami, voi non aveste alcun
risentimento? No, Padre mio, egli rispose; ma al contrario ne resi grazie a Dio, come lo
soglio fare in simili accadimenti, sapendo che Dio tutto fa, o permette per gloria sua, e per
nostro maggior bene, e con ciò vivo sempre contento per ogni cosa, che avviene. Ciò inteso
l’abate, vedendo in quell’anima tanta uniformità alla volontà divina, non restò più meravigliato,
che facesse sì gran miracoli.
Questo racconto è tratto da un piccolo scritto di s. Alfonso M. Dei Liguori, Uniformità alla
Volontà di Dio, dove si evidenzia che la perfezione dell’amore verso Dio consiste nell’unire la
nostra volontà alla sua. E come facevano altri dottori spirituali egli mette a fuoco la distinzione
tra il conformare o congiungere la nostra volontà a quella divina, e l’uniformarla, cioè quando
noi facciamo della volontà divina e della nostra ne una sola, sì che non vogliamo altro se non
quello che vuole Dio, e la sola volontà di Dio è la nostra.
ABC
N. 63 - Settembre 2005
123
DIO O IMPRESSIONE DI DIO?
1. “Carissimi, non prestate fede a ogni ispirazione, ma mettete alla prova le ispirazioni, per
saggiare se provengono veramente da Dio” [5] Forse vedrete con i vostri occhi corporei o
nell’immaginazione, qualche luce o chiarore diverso da quel che vedono i comuni mortali, o
udrete dei suoni melodiosi o ammirabili, o proverete nel petto un calore come di fuoco, o
qualche sensazione corporea deliziosa…. Ogni volta che proverete qualcosa del genere
sapendo che non viene da voi stessi né da qualche creatura corporea, siate vigili e nel
momento stesso o subito dopo, esaminate con cura i movimenti del vostro cuore: se sentite
che il piacere e la soddisfazione ricevute da queste sensazioni allontanano il vostro pensiero
da Gesù Cristo e dall’ occuparvi di lui, se ciò vi allontana dagli esercizi spirituali e dalla
preghiera, dalla riflessione su voi stessi e sui vostri difetti, dal desiderio interiore delle virtù e
dalla conoscenza ed esperienza di Dio, se vi ponete il vostro cuore e la vostra affezione, le
vostre delizie e il vostro riposo, … al punto da figurarvi che non dovete più pregare né
occuparvi d’altro che di ciò, ponendovi le vostre delizie, è motivo di supporre fortemente che
tutto quel che sentite viene dal nemico. Perciò, per quanto tutto questo sia piacevole e
meraviglioso, rifiutatelo e non accettatelo perché è un’illusione che viene da lui; quando vede
che un’anima vuole darsi interamente agli esercizi spirituali, egli s’infuria incredibilmente….
Se non può farla peccare apertamente, egli cerca di ostacolarla e di ingannarla con questo
genere di vani sapori corporei o dolcezze sensibili, per condurla all’orgoglio spirituale e ad
una falsa sicurezza.
2. Al contrario, se quel che provate di questo genere, invece di allontanare il vostro cuore
dagli esercizi spirituali, aumenta la vostra devozione e il fervore nella preghiera e vi porta
verso devoti pensieri; se dopo un po’ di stupore iniziale, porta e quindi, trascina il vostro
cuore a desiderare di più le virtù, se ciò fa crescere il vostro amore per Dio e il prossimo e vi
rende più umile ai vostri occhi, attraverso questi segni potete credere che ciò viene da Dio,
che è l’effetto della presenza e dell’azione di un angelo buono: è la bontà divina che li dà alle
anime semplici e devote per consolarle, accrescere la loro fede e il loro fiducia e il loro
desiderio di Dio e aiutarle a cercare più perfettamente la conoscenza e l’amore del
Signore…
3. San Giovanni nella sua epistola sul modo di discernere l’azione degli spiriti dice: «Ogni
spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio….» [6]. Ogni spirito o impressione che
diminuisce il suo desiderio di Gesù e lo allontana dall’essergli costantemente presente, dal
sospirare e dirigere le sue aspirazioni verso di lui, lo separa da lui e pertanto questo spirito
non appartiene a Dio, ma è l’opera del nemico. Al contrario uno spirito o un’impressione o
una rivelazione che aumenta questo desiderio, rinserrando i legami dell’amore e della
devozione verso Gesù, aprendo l’occhio dell’anima ad una maggiore luce spirituale e
inclinandola interiormente a maggiore umiltà, un tale spirito appartiene a Dio.
Walter Hilton († 1396), La Scala della perfezione, I, cap. II
L’AUTORE: Di lui si sa soltanto di probabili studi a Cambridge, prima di una vita eremitica
seguita dalla sua entrata al priorato degli agostiniani di Thurgarton verso il 1385. Ci restano
alcune lettere e commentari biblici, e soprattutto La Scala della Perfezione, manuale di
riferimento per tutte le generazioni spirituali inglesi: Esso nasconde in realtà due trattati
distinti, il primo abbastanza generale, il secondo per le anime avanzate in contemplazione. Si
sente vicino all’autore della Nube della non conoscenza (cf. Semi n.° 30) e di Riccardo Rolle
(cf. Semi n° 61), vicino anche alla mistica reno-fiamminga della stessa epoca.
IL TESTO: Il “discernimento degli spiriti”, cioè l’autenticazione di una vita spirituale, è
sempre stata una preoccupazione essenziale della tradizione cristiana. Il criterio ultimo sarà
sempre quello della qualità oggettiva del nostro attaccamento a Gesù. Per precisare questo
criterio, Hilton pone le questioni classiche che si trovano già in sant’Atanasio nel IV secolo
(nella sua Vita di sant’Antonio) e che troveremo ancora in epoca moderna negli Esercizi di
sant’Ignazio.
§ 1. Chi non ha sentito un giorno o l’altro qualcosa come un’impressione della presenza di
Dio? Ciò può assumere la forma di una gran lucidità sulla verità del Vangelo, o di un grande
slancio a volerlo vivere, o di una semplice convinzione che tale cosa è secondo la volontà di
Dio… Secondo i temperamenti e le epoche ciò può prendere le forme più spettacolari di
visioni più o meno chiare, di sensazioni corporee diverse, etc. Quale che sia la loro origine,
in se stessi, questi fenomeni non sono né buoni, né cattivi, perché la fede non consiste nel
sentire, ma nel vivere la presenza di Dio, comunque insensibile. Pertanto la questione da
porre qui, è quella della qualità della vita cristiana riguardata: se essa deve esserne
diminuita, allora si tratta chiaramente di una trappola del nemico; Satana, infinitamente più
geloso della nostra vita spirituale che della vita morale, fa molti più danni con questo genere
di insidie che con le tentazioni grossolane che ci farebbero “peccare apertamente”.
§ 2. Essendo Dio imprevedibile, abitualmente il suo intervento nella nostra vita provoca ”un po’
di stupore iniziale” (l’emozione improvvisa che s’impadronisce di Maria, all’Annunciazione),
poi si verifica con la nostra crescita in tutte le virtù, che si riassumono nel ”cercare più
perfettamente la conoscenza e l’amore del Signore”.
§ 3. Tutta la questione del discernimento spirituale ritorna a quella del nostro attaccamento
alla persona di Gesù, poiché tutta la nostra vocazione è quella di divenire in lui figli di Dio.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
P come ….. PADRE NOSTRO
“Padre Nostro”: o Dio, che parola piena d’amore è questa e come riempie il cuore di
dolcezza e fiducia filiale!
San Francesco di Sales (1567-1622), Sermone di Ognissanti 1621
Quale eccesso di bontà e di misericordia da parte di Dio, fratelli miei! Egli vuole che nelle
preghiere che gli rivolgiamo, noi lo chiamiamo Padre nostro, in modo che dividiamo con
Cristo la dignità di Figli di Dio. Certamente, nessuno tra noi oserebbe prendere questo titolo
senza il permesso divino!
San Cipriano di Cartagine († 258), Sull’Orazione domenicale, 28.
Ma con questo permesso,
Il Signore ti offrirà con lui stesso al suo Padre celeste, come il frutto diletto per il quale è
morto, e il Padre ti riceverà con suo Figlio in un abbraccio pieno d’amore: là, tutti gli errori
sono perdonati, ogni debito è pagato e ogni virtù è compiuta.
Beato Giovanni Ruusbroec (1293-1381), Specchio della salvezza eterna, III,
131.
Questo ci permette di rivolgerci verso di lui in tutta sicurezza:
Per inculcarci questa fiducia, il Signore ci ha insegnato, nel Padre Nostro, a chiamare Dio,
non Signore ma Padre: Nostro Padre!.... Tanto certo è che Dio è fedele nelle sue promesse,
quanto certa deve essere la nostra fiducia che egli ci esaudirà.
Sant’Alfonso de Liguori (1696-1787), Il grande mezzo della Preghiera, I, cap. 2.
Allora perché nostro Padre non ci esaudisce sempre?
“Tutto quel che chiederete al Padre nel mio nome, egli ve lo concederà”, ci dice Gesù… Ora
Gesù significa “Salvatore”: chiedere nel nome del Salvatore, è chiedere ciò che si riferisce
alla nostra vera salvezza. Se chiediamo quel che non conviene alla nostra salvezza, di certo
non lo chiediamo al Padre, nel nome di Gesù.
San Gregorio Magno († 604), Omelia 27
Egli ci esaudisce dunque sempre, ma spesso è meglio che non glielo chiediamo:
Sia che Dio ci accordi o ci rifiuti ciò che Gli chiediamo, rendiamogli egualmente grazie;
perché in ambedue i casi, Egli agisce per il nostro bene.
San Giovanni Crisostomo (verso 350), Omelia sulla Grande Settimana
Come sapere quel che conviene chiedergli?
Se percorrete tutte le parole delle preghiere delle sante Scritture, non troverete nulla che non
sia contenuto e racchiuso nell’orazione domenicale. Si è liberi di chiedere le stesse cose in
altri termini, ma non si è liberi di chiedere altro.
Sant’Agostino (354-430), Lettera 130, 22
Questo traccia la cornice di tutta la preghiera cristiana:
Per quanto riguarda il modo di pregare, non bisogna volere attaccarsi ad altre cerimonie o
modi di orazione se non quelli che Cristo ci ha insegnato…. Egli, quando i suoi discepoli gli
chiesero di insegnar loro a pregare, insegnò loro soltanto le sette domande del Padre
Nostro, nelle quali sono comprese tutte le nostre necessità spirituali e temporali… Egli ci
raccomandò soltanto e con grande insistenza di perseverare in quella preghiera; in essa è
contenuta tutta la volontà di Dio e tutto ciò che ci conviene.
San Giovanni della Croce (1542-1591), La Salita del Carmelo, III, cap. 44.
La nostra preghiera dunque, quando abbiamo qualcosa da chiedere, deve essere devota e
fedele, ma non insistente e ostinata, perché non siamo noi che sappiamo quel che ci è
necessario nelle cose del mondo, ma il nostro Padre che è nei cieli.
Guglielmo di Saint-Thierry (1085-1148), Lettera ai Fratelli…, I, V
Allora,
Con grande umiltà la nostra anima gli parli come ad un padre, rivolga a lui le sue richieste
come con un padre, sia in gioia con lui come con un padre, comprendendo totalmente, che
ella non ne è degna.
Santa Teresa d’Avila (1515-1582), Cammino della Perfezione, cap. 46.
Da lì,
I figli di Dio, i veri cristiani, si contentano di tutto ciò che il loro Padre celeste dà loro, perchè
essi sanno che tutto quel che egli invia loro, è per essi buono e utile, e che se accadesse
diversamente sarebbe una vera disgrazia.
Francesco Libermann (1802-1852), Lettera del 8 luglio 1830
Cosi, dire e vivere il Padre Nostro sono soltanto una cosa:
In quanto come vogliamo che siano i nostri costumi, così ci sforziamo che sia la nostra
preghiera.
Teodoro di Mopsuestia († 428), Omelie catechistiche, 11, 1.
Sappiamo dunque, fratelli miei e non dimentichiamo mai che, poiché noi chiamiamo Dio
nostro Padre, dobbiamo agire come figli di Dio, affinché egli si compiaccia nei suoi figli
come noi ci compiacciamo nel nostro Padre.
San Cipriano di Cartagine, Sull’Orazione domenicale, 28.
Nello stesso momento, questo Padre Nostro vivo farà di noi dei fratelli:
Per la grazia del suo unico Figlio, tutti noi cristiani, piccoli e grandi, ricchi e poveri, nobili e
plebei, tutti senza distinzione alcuna di condizione, di sesso e d'età, di stato e di ruolo,
diciamo Padre nostro, e nessuno dice Padre mio.
Rupert de Deutz (1075-1129), De gloria et honore, CCM 29, p. 162.
<<Ciò riassume tutta la vita cristiana:
Possiamo chiamare fortunato colui che recitando l’Orazione del Signore, ne pesa
attentamente ogni parola; là egli trova tutto ciò di cui ha bisogno, tutto ciò che possa
desiderare… Dio è nostro Padre, noi siamo tutti fratelli, il cielo è la nostra patria e la nostra
eredità. Non c’è qui ciò a cui ispirarci: l’amore di Dio, contemporaneamente all’amore del
prossimo e al distacco da tutte le cose della terra? Amiamo dunque un tale Padre e
diciamogli mille e mille volte: «Padre Nostro che sei nei cieli».
San L. M. Grignion de Monfort (1673-1716), Il Santo Rosario, 2
LA FEDE DI ABRAMO
La paternità di fede di Abramo è frutto di un’elezione divina, con la quale Dio si lega
all’umanità legando a sé una persona umana, che diviene sorgente di questo legame tra Dio
e l’uomo. La fede giustificò Abramo prima di qualsiasi opera che egli avesse compiuto in
obbedienza a Dio; la fede giustifica anche oggi il cristiano e rimane la dinamica unica della
sua relazione con Dio. La fede dei cristiani, perciò, sembra una partecipazione reale, più che
un’imitazione, a quella del primo patriarca. Tre avvenimenti tratteggiano i contorni di questa
fede e sono normativi per la vita cristiana: la sua vocazione, l’intercessione per le città
maledette, il sacrificio d’Isacco. Nell’intercessione Abramo si rivela l’amico di Dio, cui non è
nascosto nulla dei disegni divini e che tutto può ottenere da lui. Dio costituisce l’eletto come
mediatore fra sé e il mondo: la sua funzione sarà dunque la sua stessa preghiera. Con la
preghiera l’uomo diviene il collaboratore di Dio nella redenzione del mondo. Il sacrificio
d’Isacco è la norma ultima di una vita di fede perfetta. La fede del patriarca doveva esigere
questo supremo sacrificio per essere perfetta, così la sua speranza che non doveva avere più
alcun appoggio terreno per conoscere solo l’appoggio della Parola di Dio. Ma soprattutto in
questo sacrificio Abramo dà prova della sua carità in una dedizione totale, che non chiede
compensi. Alla luce di questa pagina l’uomo intravede quello che può chiedere Dio e impara
come a Dio si risponda. La ricchezza e la profondità di questa pagina non potrebbero essere
comprese pienamente se non alla luce di Cristo, quando sarà instaurato il riferimento tra
essa e il sacrificio di Gesù.
(liberamente tratto da un articolo di D. Barsotti su Abramo)
ABC
N. 64 - Ottobre 2005
123
LA CHIAVE DI TUTTA LA FELICITÀ
1. Dio vuole lui stesso essere il solo e assolutamente nostro bene. È quel che egli desidera,
quel che cerca, e si applica totalmente a poter esserlo e a divenirlo. In ciò risiedono le sue
più grandi delizie e la sua gioia, e più è così, più le sue delizie e la sua gioia sono grandi…
2. Se noi ci distacchiamo da tutte le cose esteriori, Dio ci darà in cambio tutto ciò che è nel
cielo; il cielo con tutta la sua potenza, e perfino tutto quel che ha mai emanato dal cielo, e ciò
che hanno tutti gli angeli e tutti i santi affinché ciò appartenga proprio a noi come ad essi, in
misura perfino maggiore di quanto non mi appartenga quel che io ho…
3. L’uomo possederebbe veramente il regno dei cieli se, per Dio, egli potesse rinunciare a
tutto, a quel che Dio gli dà o non gli dà. Tu dici: «Sì, o Signore, se non ci fosse l’ostacolo dei
miei difetti!». Se tu hai dei difetti, chiedi spesso a Dio che te ne liberi se ciò è per suo onore e
se gli piace così, perché senza di lui tu non puoi niente. Se te ne libera, ringrazialo; se non lo
fa, sopportalo, non più come la deficienza di un peccato, ma come una grande prova per
mezzo della quale tu devi meritare una ricompensa e praticare la pazienza. Sii soddisfatto,
che ti accordi o no i suoi doni.
4. …Dio dà a ciascuno quel che gli conviene e che è meglio per lui, quel che è preferibile
per lui, poiché conosce meglio i suoi bisogni. In verità, colui che gli dà totalmente fiducia,
riceve e possiede tanto nella più piccola cosa che nella più grande: se Dio mi desse quel che
diede a s. Paolo, l’accetterei volentieri se egli volesse; ma poiché non vuole darmelo, poiché
non me lo dà, io l’amo altrettanto, lo ringrazio altrettanto e sono totalmente contento sia di
esserne privato che di riceverlo. Io trovo lì il mio appagamento e il mio diletto, proprio come
se me l’avesse dato, se io sono così come devo essere…
5. Lascia fare Dio e sii in pace. Infatti, nella misura in cui tu sei in Dio, sei in pace. Nella
misura in cui tu sei lontano da Dio, non sei in pace. Solo quel che è in Dio ha la pace: tanto in
Dio, altrettanto in pace. A che punto tu sei in Dio o no, lo riconosci dal fatto che hai o no la
pace. Se tu non hai la pace, necessariamente le cose stanno così, perché l’assenza di pace
viene dalla creatura, non da Dio. Allo stesso modo in Dio non c’è nulla da temere; tutto ciò
che è in Dio può essere soltanto amato. Così non vi è nulla di lui che deve rendere triste.
Colui che ha tutto ciò che vuole e ciò che desidera, possiede la gioia, ma nessuno la
possiede se non colui che ha la volontà totalmente unita a quella di Dio. Che Dio ci conceda
questa unione! Amen
Maestro Eckhart (1260-1328), Istruzioni spirituali, XXIII.
L’AUTORE Originario della Turingia, entra presso i domenicani d'Erfurt. Egli studia a
Colonia dove domina l’influenza di Alberto Magno († 1280), poi Parigi dove c’è quella di
Tommaso d’Aquino († 1274). Dividendosi tra le sue cariche universitarie e importanti
responsabilità nell’ordine dei predicatori, le sue opere latine mascherano il suo
insegnamento accademico, mentre i suoi sermoni e trattati in tedesco rivelano di più il
maestro spirituale. I suoi ultimi anni a Colonia furono offuscati dai sospetti legati ai suoi
scritti che sfociarono poco dopo la sua morte in una condanna moderata da parte dei papi di
Avignone.
IL TESTO Prima di essere il professore dal pensiero audace a cui si richiameranno i filosofi
fino a Hegel compreso, Eckhart è l’uomo di Dio le cui Istruzioni spirituali rivelano la vita
interiore tutta di abbandono e semplicità. Redatte prima del 1298, destinate ai suoi fratelli
novizi, esse sono perfettamente rappresentative della mistica renana che fiorisce attorno al
1300, con la sua particolare nota di radicalità e amore del paradosso: è la tensione estrema
che egli pone tra il tutto di Dio e il nulla dell’uomo, che finirà per inquietare i censori di
Eckhart.
§ 1. “Dio vuole lui stesso essere il solo e assolutamente nostro bene”. La vita cristiana non
consiste a scalare il cielo, ma a ricevere il dono che Dio ci fa di se stesso, il dono
dell’Incarnazione, perché “là risiedono le sue più grandi delizie e la sua gioia”.
§ 2. Creati ad immagine di Dio, solo Dio ci renderà felici. Allora egli ci chiede soltanto di
staccarci da ciò che è meno di lui – in quanto infine noi siamo liberi – perché egli possa
invaderci e così portarci “tutto quel che ha mai emanato dal cielo”, vale a dire lui stesso.
§§ 3-4 Questo dono di Dio è al di là di questa o quella grazia particolare (quel che Dio gli dà
o non gli dà), perché è Dio tutto intero, quale che sia la nostra vocazione particolare, in
funzione della quale “Dio dà a ciascuno quel che meglio gli conviene”. Basta per profittarne
e dunque per essere perfettamente felice che “io sia come devo essere” in pratica di “dargli
totalmente fiducia”, poiché egli fa tutto e io non ho altro da fare che permettergli di essere in
me ciò che egli è in se stesso.
I nostri peccati sono sempre un cattivo pretesto per girare il dorso a Dio: in verità, in ciò essi
sono peccati, poiché non c’è altro peccato che girargli il dorso, in quanto l’atto malvagio ne è
soltanto la conseguenza. Ma un peccato offerto a Dio cessa di essere un peccato, poiché dal
Venerdì Santo Gesù, “Dio lo trattò da peccato in nostro favore” (II Cor. 5,21), trasformando
ciascuna delle nostre infedeltà in un’occasione d'unione a lui nella sua misericordia, là dove
noi non possiamo esserlo nella sua giustizia.
§ 5. Questo inno alla pace e alla gioia che conclude l’insieme delle sue Istruzioni spirituali,
riassume tutto Eckhart:; no, il nostro peccato stesso non potrebbe renderci tristi e il segreto
di tutta la vita cristiana è di tenere “la nostra volontà totalmente unita a quella di Dio”.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
P come …. PAZIENZA
Sappiate che la virtù della pazienza è quella che ci assicura il di più della perfezione..
San Francesco di Sales (1567-1622), Lettera del 22 luglio 1603.
.. perché essa è l’essenza stessa della santità:
Se ci sforziamo con l’aiuto del Signore di serbare questa virtù, non mancheremo di ottenere
la palma del martirio: morire per mano dei persecutori è il martirio in atto, nella sua forma
visibile; sopportare le ingiurie amando colui che ci odia, è il martirio in spirito, nella sua
forma nascosta.
San Gregorio Magno († 604), Omelia 35
In ciò non faremo altro che imitare Dio stesso:
Mio Dio come è lunga la vostra pazienza, come profonda e incrollabile! Chi altri se non un
Dio infinitamente paziente potrebbe sopportare di essere sempre contraddetto da tutti gli
uomini, … non cessando di cercarli fino alla fine della loro vita, e attendendoli con le braccia
aperte, fino all’ultimo sospiro, per riceverli, se vogliono, con misericordia, e far loro dei beni
infiniti.
Giovanni de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, Libro III,
cap. 16.
Ricordatevi che il pio Gesù ha preferito, durante il corso della sua passione, soffrire
pazientemente orribili tormenti, piuttosto che dar luogo al suo giusto sdegno, insegnandoci
con ciò, a non sdegnarci mai per le cose che toccano il nostro interesse.
Jean-François di Reims († 1660), La vera Perfezione, II, 3
Cosicché si diventa discepoli di Gesù per la pazienza:
Chi porta la sua croce con pazienza, si salva; chi la porta con impazienza si perde. Due
erano quelli che furono crocifissi accanto a Gesù; la stessa pena ha fatto di uno un santo e
dell’altro un reprobo.
Don Vital Lehodey (1857-1948), Il santo Abbandono, III, 3
La pazienza in fondo, consiste nell’attendere tutto da Dio e nulla da se stessi:
Quanto sono felici coloro che, vivendo nell'attesa, non si stancano di attendere! Noi avremo
ben presto quel che desideriamo, quando l’avremo, quando piacerà a Dio di darcelo.
San Francesco di Sales, Sermone del 2 febbraio 1620.
Come divenire paziente?
Non ti contentare di soffrire con pazienza, perfino con compiacenza. Non dire a te stesso che
queste pene ti saranno utili per la tua santificazione. Tutto ciò è molto buono e anche
eccellente. Ma c’è qualcosa di meglio da fare, se vuoi essere gradito a Dio: trascurare e
dimenticare tutto, per pensare solo a Gesù e occuparti solo di Gesù.
Francesco Libermann (1802-1852), Lettera del 8 agosto 1837.
Lasciando le cose che lo affliggono, lo spirituale volga gli occhi verso Dio che permette che
egli sia afflitto, sopporti la sua prova con cuore dolce e umile, ricevendola dalla mano di Dio e
non da altri.
Luigi de Blois (1506-1565), Istituzione spirituale, II, 4.
Il segreto per questo,
è sopportare pazientemente essendo contento di tutto ciò che può accadere da parte di Dio e
di tutte le creature. Nulla può turbare l’uomo paziente, né la perdita dei beni terreni, di amici o
di parenti, né le malattie o le offese, né la morte né la vita, né il purgatorio, né il diavolo né
l’inferno, perché egli si è abbandonato alla volontà di Dio in una giusta carità.
Beato Giovanni Ruusbroec (1293-1381), L’Ornamento delle Nozze, I, III
Perché
Midollo dell’albero della carità, che è nell’anima, è la pazienza, la quale è un segno che
dimostra come Io sia nell’anima, e l’anima sia unita a me
Santa Caterina da Siena (1347-1380), Il Dialogo della Divina Provvidenza,
cap. X
Allora,
La pazienza nella sofferenza è un’opera più grande che resuscitare i morti o fare altri
miracoli.
Enrico Suso (1300-1361), Libretto dell’Eterna Sapienza, XIII.
Ma ancora occorre che questa pazienza non sia una falsa pazienza:
Non ha vera pazienza colui che vuole sopportare soltanto quel che gli sembra giusto e da chi
gli piace.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione, III, 19.
Mentre
La vera pazienza consiste nel fare o sopportare ciò che ci dispiace, non ciò che è male.
San Bernardo (1090-1153), Lettera VII
Che queste prove vengano dal nostro corpo…
In Gesù crocifisso, coloro che abbracciano la croce nelle malattie sono ben presto guariti da
tutte le piaghe della loro anima.
Sant’Alfonso de’ Liguori (1696-1787), Sulla Passione, X, 1
…o dalla nostra anima…
Perché l’amore non consiste nel sentire grandi cose, ma nel mantenersi in grande nudità e
pazienza per il Diletto.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Sentenze spirituali.
….o dai nostri fratelli:
Sforzati d'essere paziente nel tollerare difetti e le debolezze altrui, qualunque esse siano,
giacché anche tu presenti molte cose che altri debbono sopportare… E se tutti fossimo
perfetti, che cosa avremmo da patire dagli altri per amore di Dio?
Tommaso da Kempis, Imitazione, I, 16
Una piccola contrarietà sopportata con uniformità d’anima per Dio, è perfino
incomparabilmente superiore alla pratica di numerose e grandi opere buone.
Luigi de Blois, Istituzione spirituale, VIII, 3
In ogni caso,
Di grazia, o Vita beata dell’anima mia, in tutte le mie tentazioni sii il mio trionfo e la mia
vittoria; in tutte le mie infermità, la mia pazienza; in tutte le mie prove, la mia consolazione; in
tutti i miei pensieri, le mie parole e le mie opere, la mia unica intenzione, il mio inizio, la mia
fine e il mio compimento; in tutta la mia vita sii la mia santificazione e attendendo
pazientemente la fine del buon combattimento, la mia perseveranza.
Santa Gertrude di Helfta (1256-1302), Esercizio VI
AMORE E CONOSCENZA
Il relativismo etico diffuso nella post-modernità tende a negare l’universalizzabilità dei valori,
riducendoli alla stregua dell’opinabile ed elevando le opinioni alla dignità dei valori. Da
Adamo in poi il nutrimento del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male ha
corrotto e indebolito la volontà dell’uomo che, colpevolmente, rifiuta di lasciarsi interpellare
dalla Verità e giungere alla sua conoscenza. Questa non si acquista mediante un’attività
speculativa, poiché la verità non si impone che per la forza della verità stessa, la quale si
diffonde nelle menti soavemente e insieme con vigore, (Dignitatis Humanæ 1) quando la
ragione dà l’assenso alla Verità rivelata e si consegna, abbandonandosi fiduciosamente tra le
braccia dell’Amore, per vivere pienamente, accettando il peso della propria esistenza.
Accettarne il peso per il cristiano non vuol dire esserne schiacciato, bensì esserne liberato
mediante l’offerta di sé al Padre in Cristo Gesù. Il suo carico leggero è il contrappeso che
solleva i macigni esistenziali ai quali l’uomo invano cerca di sfuggire, uscendo fuori di sé
alla ricerca di effimere gratificazioni. Il suo giogo soave è l’amore che guarisce le
lacerazioni interiori dell’io che vanta i propri diritti, nutre l’anima della conoscenza della
presenza del Padre e dello Spirito santo, la illumina e l’arricchisce di una sapienza che
supera ogni possibilità di conoscenza umana. Secondo la felice espressione di Guglielmo di
Saint–Thierry l’amore stesso è conoscenza. In questa conoscenza d’amore anche il senso
del dolore è compreso secondo i sentimenti di Cristo, che per amore degli uomini ha
pronunciato il suo sì al Padre, accettando i patimenti della nostra salvezza ed è accolto come
la grande misericordia di Dio il quale, volendo divinizzare l’uomo, concede a questi la
possibilità di offrire se stesso come si è offerto il Figlio per la salvezza delle anime.
ABC
N. 65 - Nov embre 2005
123
QUANDO L'ORAZIONE DIVENTA TEOLOGIA…
1. La via è Cristo stesso, ecco perché dice: «Io sono la via». E questo certamente a ragione
poiché per mezzo di Lui abbiamo accesso al Padre. Ma poiché non vi è alcuna distanza tra
questa via ed il suo punto di arrivo, Cristo aggiunge: «Io sono la Verità e la Vita». Perciò egli
è nello stesso tempo la via ed il suo punto di arrivo.
2. È la via secondo la sua umanità, e il punto di arrivo secondo la sua divinità. Secondo la sua
umanità, egli dichiara: «Io sono la via»; secondo la sua divinità, aggiunge «la verità e la vita»,
due parole che indicano il punto di arrivo di questa via. In effetti, questo punto di arrivo è il fine
del desiderio dell'uomo, perché l'uomo desidera principalmente due cose: la prima, è di
conoscere la verità, il che è il proprio dell'uomo; la seconda, è di continuare ad essere ciò
che condivide con tutto il resto. Orbene, Cristo è la via per giungere alla conoscenza della
verità, poiché è egli stesso la Verità; ed egli è la via per giungere alla vita, poiché è egli
stesso la Vita…
3. La Verità si confà in proprio a Cristo perché egli è il Verbo. La verità non è altro se non la
giusta corrispondenza tra una realtà e la comprensione che se ne ha, il che avviene quando
l'intelligenza concepisce la cosa come essa è… Ma poiché le cose sono vere solo in quanto
assomigliano al Verbo di Dio, questi è in se stesso la Verità. E poiché nessuno può
conoscere la verità senza attaccarsi alla Verità, chiunque desideri conoscere la Verità deve
attaccarsi al Verbo…
4. Se dunque cerchi dove andare, accogli Cristo, poiché egli è la via. Sant'Agostino ci dice:
«Avanza per l'uomo e giungerai a Dio». Meglio vale allora zoppicare su questa via, piuttosto
che camminare di buon passo fuori da essa; perché zoppicare sulla via, anche se non si
procede molto, avvicina al punto di arrivo, mentre camminare di buon passo fuori dalla via ne
allontana, tanto maggiormente quanto più si procede speditamente. Se cerchi dove vai,
attaccati a Cristo, perché egli è la Verità alla quale desideri giungere. E se cerchi dove
poterti riposare, attaccati a Cristo, perché egli è la Vita.
5. Attaccati dunque a Cristo se vuoi stare al sicuro: non potrai uscire fuori dalla via, poiché è
egli stesso la via, così che coloro che si attaccano a lui non procedono su una falsa via, ma
su quella vera… Allo stesso modo, colui che si attacca a lui non può essere ingannato,
perché è lui stesso la Verità ed insegna tutta la verità; ne può essere scosso, perché è lui
stesso la Vita e la Vita che dà la vita…
6. No, come dice S. Ilario, colui che è la via non fuorvia, colui che è la verità non inganna, e
colui che è la vita non abbandona al vagare della morte.
S. Tommaso d'Aquino (1225-1274), Commento su San Giovanni, XIV, III
L’AUTORE Nato vicino al Monte Cassino da famiglia nobile, Tommaso sarebbe stato senza
dubbio abate nella celebre abbazia se non avesse incontrato, durante i suoi studi a Napoli, il
giovane ordine dei predicatori. Nel 1245, è a Parigi alla scuola di Alberto Magno, che segue
a Colonia. La sua vita si confonde con la docenza universitaria che esercita in Francia,
Germania e Italia. Strenue difensore della ragione cristiana di fronte al razionalismo pagano
che incomincia a dilagare nelle scuole di teologia, intimo dei papi e del re san Luigi,
religioso esemplare, scrive un'opera colossale e muore in piena maturità mentre si sta
recando al Concilio di Lione.
IL TESTO Tommaso d'Aquino occupa un posto unico nella Tradizione: concili e papi ci
ripetono da secoli che pensare, per un cristiano, è pensare con san Tommaso. Questo senza
dubbio perché pensare, per san Tommaso, è pensare con Cristo: l'intelligenza della Parola di
Dio è il suo unico progetto intellettuale. La chiave di questo atteggiamento ci è data in questa
pagina che noi abbiamo tratto dal suo Commento su San Giovanni: “la verità si confà in
proprio a Cristo, e le cose sono vere soltanto in quanto esse assomigliano al Verbo di Dio”.
§ 1. Poiché Gesù è la via e il punto di arrivo della via, san Tommaso riflette soltanto per capire
Gesù e riposarsi in Gesù; e in lui, per capire il Padre e riposarsi nel Padre. In ciò, il suo
pensiero è interamente interiore all'orazione.
§ 2. È nell'umanità di Gesù che la sua divinità si rivela e che la teologia diventa possibile; e
rivelandosi, la sua divinità si offre per soddisfare il nostro unico desiderio: conoscere e vivere
l'Amore del Padre. Ogni uomo cerca questo, perché ogni uomo è chiamato a diventare figlio
di Dio.
§ 3. Perché "nel Verbo ogni cosa sussiste" (Gv 1,3), niente è intelligibile fuori da lui: questa
convinzione di una perfetta coincidenza tra ciò che è, e la Parola che fa essere, fonda la
filosofia cristiana e la sua fede nell'intelligibilità del reale (quello che chiamiamo il "realismo"
tomista). Ma il Verbo non è un'idea, e noi accediamo a lui soltanto in un'unione vitale con lui:
"nessuno può conoscere la verità senza attaccarsi alla Verità". In questo, non potrebbe
esserci filosofia cristiana al di fuori della teologia, cioè al di fuori della contemplazione di
colui che non soltanto "è lui stesso la Verità" ma che "insegna ogni verità".
§§ 4-6. "Sant'Agostino ci dice…come ci dice sant'Ilario…" : san Tommaso avanza in teologia
attraverso la ruminazione orante della Bibbia (onnipresente in questa pagina, anche se ne
abbiamo tagliato le citazioni per mancanza di spazio!), e i suoi commentari tradizionali. È la
sua orazione, incanalata da quella dei Padri, che dà al suo pensiero i suoi punti d'appoggio
anche quando interroga un autore pagano come Aristotele o Cicerone: seguire Gesù "poiché
è egli stesso la via", riposarsi in Gesù "perché è egli stesso la Vita e la Vita che dà la vita",
questa è per san Tommaso e per la Chiesa la carta del pensiero cristiano.
L’ORAZIONE dalla A alla Z
P come….. POVERTÀ
«Beati i poveri di spirito perché di essi è il Regno dei cieli!». Qual è dunque questa povertà
che dà il Regno di Dio? È in primo luogo la povertà scelta da Gesù stesso:
Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero
per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.
Cor 8,9
Così che
La prima compagna di Gesù è stata una povertà continua, perfetta, immensa… Povero di
soldi, povero di amici, povero di potenza, di sapienza, di reputazione e di dignità, povero di
ogni cosa, egli predicò la povertà, annunziò che essa avrebbe giudicato il mondo.
Sant'Angela da Foligno (1249-1309), Libro delle Visioni e Rivelazioni, cap. 62
Ed è questo che rende la povertà desiderabile :
Io voglio e scelgo la povertà con Cristo piuttosto che la ricchezza, le ingiurie con Cristo che
ne ha tanto ricevuto, piuttosto che gli onori, essere preso per inutile e pazzo a causa di
Cristo, che, per primo, è stato ritenuto tale, piuttosto che saggio o prudente in questo mondo.
Sant'Ignazio di Loyola (1491-1556), Esercizi, §167
Ma perché Gesù ha voluto essere povero? Perché
Devi essere spogliato di tutto e offrire a Dio un cuore puro, se vuoi essere libero e gustare
come il Signore è dolce.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Gesù Cristo, II, 8
Infatti,
L'anima nella quale il sole deve rispecchiarsi non deve essere offuscata da altre immagini,
ma essere pura: la presenza di una sola immagine nello specchio fa da schermo.
Taulero (1300-1361), Sermone 6
E per questo occorre
Dimenticare ogni creatura, essere dimenticato da ogni creatura e esserne contento, infine
dimenticare se stessi per vedere soltanto Dio ed essere visto soltanto da Lui: ecco ciò che
forma l'uomo di Dio.
Francesco Libermann (1802-1852), Lettera del 1839
Certamente,
Non è la povertà ma l'amore della povertà che è una virtù…
San Bernardo (1090-1153), Lettera 100
…ma l'esperienza dimostra che
Ciò è essere poveri molto piacevolmente, o piuttosto che non si è poveri quando nulla ci
manca!
San Francesco di Sales (1567-1622), Veri Colloqui spirituali, Appendice II D
Ecco perché, quando ne hanno avuto la libertà, gli amici di Dio hanno sempre preferito
l'austerità all'abbondanza:
Nessuno è così povero, né ha abbandonato di più di colui che serve Dio tutta la sua vita, che
non vuole, né domanda, né desidera altro se non quello che Dio vuole dargli.
Beato Giovanni Ruusbroec (1293-1381), Regno, IV, III
…poiché
La vera povertà non ha bisogno di accontentare nessuno se non Dio soltanto.
Santa Teresa d'Avila (1515-1582), Cammino di Perfezione, cap. 2
Non sapete, non vedete che dire povero, è dire innamorato, e dire estremamente innamorato, è
dire estremamente povero?
Giovanni di Saint-Samson (1571-1636), Esercizi dell'Amore supremo
Ed in questo senso,
È povero solo colui che non vuole niente e non desidera nulla.
Maestro Eckart (1260-1327), Sermone, 52
Perché
La povertà di spirito consiste nel considerarci come se non esistessimo, nel vedere solo Dio
che è l'unico che esiste per noi, nel considerare le sue parole al di sopra di ogni cosa al
mondo, nel non risparmiare nulla, neanche la nostra vita, per adempiere i suoi comandamenti.
Giovanni di Cronstadt (1829-1908), La mia vita in Gesù Cristo, 5, 3
E questa morte a noi stessi così necessaria riguarda anche la nostra vita spirituale:
La vera povertà di spirito è la vera umiltà del nostro cuore, per mezzo della quale ci
abbassiamo al di sotto di ogni creatura, rinunciamo alla soddisfazione delle consolazioni
interiori, e restiamo pazienti per amore di Dio nell'afflizione, la depressione, l'abbandono, la
derisione ed il disprezzo, senza cercare di scaricare i nostri fardelli.
Luigi di Blois (1506-1565), Istituzioni spirituali, VIII, I
È proprio di un uomo veramente libero e rassegnato non avere alcuna proprietà ed essere in
tal modo privato di Dio, di se stesso e di ogni creatura, e di vivere, così, in una piena povertà,
tanto quanto piacerà a Dio.
Istituzioni tauleriane, cap XXXV
Dunque
Amate questa povertà interiore [dell'insensibilità spirituale] che ci spoglia di noi stessi
internamente, come la povertà esteriore ci spoglia esternamente. È così che si forma dentro
di noi il Regno di Dio.
Jean-Pierre de Caussade (1675-1751), Lettera del 12 ottobre 1589
È un grande favore che Dio ci fa di oscurarci le potenze dell'anima e di impoverirla in tal
modo che non può essere ingannata da esse. Poiché non ci si può ingannare, cosa cercare
di più se non avanzare sulla retta via della legge di Dio e della Chiesa, vivere nella fede
oscura e autentica, in speranza certa e carità piena?
San Giovanni della Croce (1542-1591), Lettera del 12 ottobre 1589
Fino a quando noi possiamo dire:
Dio mio, la mia povertà mi piace… Sono ben lieto che voi siate tutto e io non sia niente, per
aver tutto da voi… Forza, anima mia, seguiamo Gesù povero, viviamo poveri con lui, moriamo
poveri con lui, e in ciò testimoniamo a lui il nostro amore e la nostra fedeltà.
Giovanni di Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano Iiteriore 1, 6 e II
AVVENTO DI LABORIOSA ATTESA
Fin dai primi secoli del cristianesimo lo Spirito ha condotto alcuni uomini e donne nella
solitudine del deserto, dove potevano sentire la sua voce ed egli poteva parlare liberamente ai
loro cuori. Non accadeva diversamente al popolo ebraico, uscito dall’Egitto, ad Elia, al
Battista e allo stesso Gesù. Nel deserto si ravviva l’attesa dell’incontro con il Signore,
un’attesa tutt’altro che sterile o inattiva. Nell’attesa vigilante il cristiano è invitato al
pentimento, alla preghiera, alla cura del silenzio e della conversione del cuore, che lo
conducono, quasi a sua insaputa, alla trasfigurazione del suo essere, ad accogliere la
generazione eterna del Verbo, come Maria. Questi aspetti centrali della vita cristiana fanno
fatica ad essere compresi nella loro profonda e luminosa verità in ragione del secolarismo
imperante o della ricerca affannosa di se stessi. La mentalità del secolo si oppone
radicalmente al movimento della creazione impresso da Dio, che conduce l’uomo all’oblio di
sé per protendersi nell’abbraccio dell’Amore, la santa Trinità. Scegliere nella vita cristiana
ordinaria l’umiltà e l’espropriazione di sé non è una stravaganza d’altri tempi, buona solo per
monache e frati, ma riconoscere l’invito di Cristo e lasciarsi espandere il cuore dalla
preghiera per racchiudervi le pene dell’umanità. Dedicarsi assiduamente e quotidianamente
alla lettura e alla meditazione delle Scritture è realizzare l’incontro vivificante con la Parola
rivelata per conoscere il volto di Cristo. È questa un’opera congiunta in cui l’uomo si lascia
adombrare dallo Spirito che in lui attira il Padre a generarvi eternamente il Verbo. Le parole di
un grande padre del deserto, Macario, ci accompagnano in questo Avvento: «Praticate il
digiuno; poi meditate il Vangelo e le altre Scritture e, se sentite nascere in voi un pensiero
che vi distrae, non badateci ma continuate a guardare verso l’alto e il Signore verrà subito in
vostro aiuto».
ABC
N. 66 - Dicembre 2005
123
LA CROCE, SORGENTE DI VITA
1. Il movimento e l’inclinazione del cuore devono sempre condurci accanto alla croce. Perché
Cristo crocifisso è la strada verso la glorificazione del corpo e dell’anima come è anche la
verità e la vita. Se dunque tu hai cura di te stesso, se cerchi di fortificarti, di ricevere la vera
consolazione e di progredire, bada a tendere verso il basso, cioè verso ciò che appartiene
alla croce…
2. Cerchiamo, prima di tutto, la potenza di Cristo crocifisso e dopo, la potenza di Cristo
glorioso e non il contrario. Questa potenza consistette nel fatto che si è offerto lui stesso alla
morte e alle sofferenze, secondo il piacimento dei suoi nemici. Per mezzo di essa, egli
distrusse la morte che s’insediava in noi, che ancora s’insedia e si fortifica grazie alla paura
delle sofferenze e della morte.
3. Lui solo ha veramente distrutto la morte e l’ha ridotta a niente, perché lui solo ha voluto
prendere per noi un corpo e consegnarlo a tutte le sofferenze della morte. Noi dobbiamo
armarci degli stessi pensieri e della stessa volontà e offrirci per lui alle sofferenze e alla
morte affinché sia distrutto il corpo del peccato e otteniamo un giorno il corpo nato dalla
grazia e dalla gloria di Dio, in Cristo Gesù Nostro Signore nel quale il nostro spirito deve
trovare l’essere, la vita e il movimento….
4. Tu, tu hai desiderato la deposizione di croce prima della morte; ma Cristo è morto sulla
sua croce. Perché dunque esitare a morire sulla tua propria croce? Tu vorresti solamente
essere castigato e corretto, al fine di poter essere rinnovato in questa stessa vita. La
vivificazione del tuo spirito però, considerando le consolazioni accidentali che furono le sole
di cui tu hai avuto fin qui esperienza e percezione, si limitava alla gioia di sentirti legato a
Dio, e meno trascinato dalle inclinazioni naturali del vecchio Adamo; e di constatare qualche
frutto delle tue mani che potesse nutrire te stesso e i testimoni delle tue buon opere. Adesso
desidera morire alla tua vita presente perché è troppo effimera e allo stesso tempo incostante
e mutevole…
5. Quando tu sarai morto di una morte patita sulla croce, e pubblica, quando tu sarai così
seppellito, fuori della memoria, della vista, dell’ammirazione, dei sospetti, del disprezzo o
dell’attesa di tutti gli uomini, allora ti sarà dato di avere almeno il desiderio di gettare le basi
di una nuova forma di consolazione per il tuo spirito. E tu farai così l’esperienza di un’altra
vita, attraverso la resurrezione del corpo, dell’anima e dello spirito. E di questa altra vita, la
radice, il tronco, i rami, le foglie e i frutti non saranno come quelli presenti; essi
acquisteranno ciascuno la loro essenziale stabilità.
Beato Pietro Favre (1506-1546), Memoriale, 2-3 gennaio, 26 marzo 1543.
L’AUTORE Nato in una famiglia contadina della Savoia, Pietro Favre grazie alla sua tenacia
giunse al più alto grado universitario. Arrivato a Parigi a 19 anni, egli avrà per compagno
Francesco Saverio e ambedue saranno raggiunti da Ignazio di Loyola. Cinque anni dopo i tre
amici fondano a Montmartre la Compagnia di Gesù. Dal 1536 a Roma poi in tutta Europa,
Pietro Favre si consacra con passione all’apostolato della nascente Compagnia, fino a
morire di fatica a Roma nel 1546, sulla strada del Concilio di Trento.
Il suo Memoriale, giornale intimo redatto dal 1542 in poi, testimonia l’efficacia spirituale dei
principi di s. Ignazio e nello stesso tempo, l’entusiasmo apostolico della prima generazione
gesuita.
IL TESTO §1.”Cristo crocifisso è la strada…”: Cristo, non la croce. Favre non ci invita ad
andare alla croce, ma a Gesù, anche se noi lo troveremo sempre “accanto alla croce”. Così
occorre, sempre, per noi, “tendere verso il basso, verso ciò che appartiene alla croce”, se
pretendiamo conoscere “la glorificazione del corpo e dell’anima”.
§ 2-3 Questa gloria di Cristo ci ha raggiunto il Venerdì Santo: allora essa ha ucciso la nostra
morte venendo ad abitarla. Cosi che quando colui che è la Verità e la Vita “prende per noi un
corpo e lo consegna a tutte le sofferenze della morte”, il nostro “corpo del peccato” lascia il
posto al “corpo nato dalla grazia e dalla gloria di Dio”. L’espressione “distruggere il corpo
del peccato”, rimessa nel suo contesto in san Paolo (Rm. 6,6), non deve farci paura: essa
indica semplicemente la liberazione dal peccato e non la distruzione del corpo come tale.
§§ 4-5. Spesso noi accettiamo la croce a malincuore, sperando soltanto che essa ci permetta
di essere migliori, e di “sentire” che lo siamo. Occorre fare un passo in più: molto
semplicemente “morire alla vita presente” ed essere “seppellito fuori della memoria di tutti gli
uomini” con un perfetto abbandono tra le braccia di Dio; allora soltanto “tu farai l’esperienza
di un’altra vita, attraverso la resurrezione del corpo, dell’anima e dello spirito”. La “essenziale
stabilità” di questo nuovo stato, indica che non si tratterà solo delle “consolazioni accidentali”
che provano tutte le anime seriamente date a Cristo (“sentirsi meno trascinato secondo le
inclinazioni naturali del vecchio Adamo…”), ma della vita nuova e stabile di chi può dire con
san Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me». (Gal. 2,20)
L'ORAZIONE dalla A alla Z
P come ….. PECCATO
«Non sono venuto per i giusti, ma per i peccatori» ci dice Gesù. Il vero dramma del peccato
non è dunque che sia peccato, ma che noi da ciò ci sentiamo autorizzati a non credere più
nell’amore di Dio:
Temete forse che essendo irritato contro di voi, per l’enormità e la molteplicità dei vostri
crimini, egli tardi a tendervi una mano compassionevole? Ma sappiate che lì dove il peccato
ha abbondato, la grazia ha l’abitudine di sovrabbondare!
San Bernardo (1090-1153), Sermone 38 sul Cantico
Allora,
Se tu quando cadi, t’inquieti, ti rattristi e ti senti chiamare a un certo che di disperazione di
poter andare più innanzi e di far bene, è segno certo che tu confidavi in te e non in Dio…..
Infatti colui che in gran parte diffida di se stesso e confida in Dio, quando cade non si
meraviglia, non si rattrista né si rammarica conoscendo che ciò gli capita per sua debolezza
e poca confidenza in Dio.
Lorenzo Scupoli (1530-1610), Combattimento spirituale, 4
Infatti,
Non peccare, appartiene solo alla giustizia di Dio; ma la giustizia dell’uomo è l’indulgenza di
Dio.
San Bernardo, Sermone 23 sul Cantico
Occorre dunque adattarsi gioiosamente al peccato? No, ma
Bisogna che noi abbiamo due risoluzioni uguali: una, di veder crescere delle erbe cattive nel
nostro giardino e l’altra di avere il coraggio di vederle strappare, e di strapparle noi stessi;
perché il nostro amor proprio non morrà fintantoché noi vivremo, ed è lui che fa queste
produzioni impertinenti. Del resto non è essere deboli cadere qualche volta in peccati veniali,
purché ci rialziamo subito con un ritorno della nostra anima a Dio, umiliandoci molto
dolcemente.
San Francesco di Sales (1567-1622), Veri Colloqui spirituali, IX
Ma forse avete paura che i vostri peccati non siano così veniali?
Una persona mi dirà la grande pena interiore che gli causano le tentazioni di odio, d’impurità,
ecc., che il timore di esservi caduto lo affligge, l’agita, lo rattrista, lo desola e l’abbatte
continuamente: ecco il segno evidente di un gran timor di Dio, di un grande orrore del
peccato, di una grande volontà di resistere.
Jean-Pierre de Caussade (1675-1751), Lettera 100
Infatti,
Coloro che consentono veramente al male, sono molto lontani da quelle pene e dai
turbamenti, dagli abbattimenti e da quei timori, semplicemente non pensandoci.
Idem
Perchè il demonio non tenta gli infedeli e i peccatori che gli appartengono già; ma attacca e
tormenta in maniere diverse le anime pie e fedeli.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Gesù Cristo, IV, 18
Così,
Quando voi dubiterete di aver consentito al male, rispondete sempre negativamente a questo
dubbio. Ecco la ragione: per formare un vero peccato, occorre un vero e pieno consenso della
volontà… Orbene, il pieno consenso è così chiaro che non lascia dietro a sé alcun ombra di
dubbio.
Jean Pierre Camus (1584-1652), Lo Spirito del Beato…. XVII, 21
Allora invece di lamentarci sui nostri sbagli, utilizziamoli per avanzare nella fede:
I miei sbagli adesso mi rendono contento umiliandomi totalmente; essi mi fanno vedere quel
che io sono, servono ad ispirarmi la sfiducia in me stesso e la fiducia in Dio: li vedo come
delle finestre dell’anima da dove entra la luce di Dio.
Baltasar Alvarez (1533-1580), Relazione sulla sua maniera di pregare.
Dato che
Dio non può non soccorrere, o perdonare chi lo implora con umiltà e fiducia, anche se costui
avesse commesso mille volte i peccati del mondo intero. Un pezzo di lino gettato in un gran
fuoco non brucia subito, tanto quanto Dio è pronto a rimettere il debito all’uomo che si pente
veramente dei suoi peccati. Tra la bontà di Dio e il peccatore pentito non c’è assolutamente
alcun intermediario.
Luigi de Blois (1506-1565), L’Istituzione Spirituale, VIII, 4
Certamente, sarebbe gradevole di essere sbarazzati una volta per tutte, dai nostri peccati, ma
Dio permette che la parte inferiore dell’anima rimanga con qualche ribellione…: egli
schiaccia la testa del serpente, dove sta il veleno e il pericolo e lascia il corpo e la coda che
può muoversi e far vedere che c’era un serpente, ma non nuocere… Se i deboli e i pigri se ne
irritano, i virtuosi ne gioiscono: un cuore nobile e ardito si annoia, se non c’è qualche motivo
per esercitarsi!
Luigi Richeome (1544-1625), L’Addio dell’Anima devota, Rouen, 1602, pp. 165170
Perciò il Signore ci dice,
Non disperatevi, non vi turbate mai, quando cadrete in qualche peccato, ma umiliatevi
domandandomi perdono.
San L. M. Grignion de Montfort (1865-1933), La Preghiera contemplativa, 7
Meglio ancora,
Si può credere che io ho una fiducia così grande nel buon Dio, perché non ho peccato… Dite
bene, Madre mia; quand’anche io avessi commesso tutti i crimini possibili, avrei sempre la
stessa fiducia, io sento che questa moltitudine di offese sarebbe come una goccia d’acqua
gettata in un braciere ardente.
Santa Teresa del Bambino Gesù (1873-1897), Ultimi colloqui, 11 luglio 1897
E se non siete convinti,
In cielo vedremo veramente e senza fine i gravi peccati che avremo commesso quaggiù; e
malgrado ciò vedremo, che mai il suo amore sarà stato meno, che mai ai suoi occhi il nostro
valore sarà diminuito. Soltanto da questi sbagli avremo una conoscenza sublime e
meravigliosa dell’amore senza fine di Dio, sapremo quanto forte e meraviglioso sia questo
amore che non vuole in nulla essere spezzato dall’offesa…
Santa Giuliana di Norwich (verso 1343-1413), Rivelazioni…. cap. 61
COMUNIONE E OBBEDIENZA
Nella quotidianità della vita ecclesiale non di rado ci si accorge che la bella sottolineatura
postconciliare sui legami di comunione gerarchica tra i fedeli talvolta stenta ad emergere.
Può accaderci che nel giusto e comprensibile tentativo di mettere a fuoco un grande valore o
un dono, come in questo caso, si dimentichi o si lasci in ombra la parte, spesso faticosa, che
spetta a noi uomini. Tra le molte cause, non tutte facilmente individuabili, della difficoltà
rilevata va constatato il fraintendimento del senso dell’obbedienza all’interno di una vita
cristiana sorretta da precisa disciplina secondo la vocazione di ciascuno. Non parliamo
dell’obbedienza militare, ovviamente, né di quella che impone la disciplina del partito o,
peggio, di quella letale delle sette e dei gruppi eversivi. È quella del Figlio che si svuota e si
fa schiavo incarnandosi e morendo in croce. Secondo la parola evangelica, in noi uomini essa
ha il necessario fondamento nell’odio di sé, della propria volontà, essendo noi debilitati dal
peccato. Questo odio non lede il nostro io, anzi lo libera dalla tirannia dell’affermazione di sé,
per la nascita dell’uomo nuovo nell’abbandono all’opera divina della Pasqua in noi. Se, invece,
ci si tiene attaccati alla propria volontà covandola segretamente in seno, non ci si libera dalla
ribellione, dalla resistenza, dall’ipercritica, dalla contestazione. Si troveranno sempre
inaccettabili le decisioni degli altri, le si attaccherà perché inadeguate o errate, avvelenando
spesso il clima nell’ambito della comunità o del gruppo nel quale si vive. Questo
atteggiamento genera, notoriamente, solitudine o aggregazioni faziose, che infine tarlano la
comunione. D’altra parte, dobbiamo essere consapevoli che la nostra fragilità può portare,
malgrado l’attenzione, all’errore e all’urto. È proprio lì che deve emergere la volontà di
obbedire al comandamento nuovo di Cristo, non tenendo in alcun conto, anzi superando la
resistenza interna che si avverte in tali circostanze, custodendo la lingua, che come sempre
combina i guai peggiori.
ANNO
2006
ABC
N. 67 - Gennaio 2006
123
ATTI E STATO DI ORAZIONE
1. “Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà
ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto”. (Gv. 14,26) Lo Spirito di verità ci “ricorda le
parole” di Gesù. Che significa ciò? Quando noi contempliamo le azioni di Gesù Cristo, i suoi
misteri……, talvolta accade che questa parola letta e riletta tante volte senza che ci abbia
particolarmente colpito, prenda all’improvviso un rilievo soprannaturale che prima non le
avevamo conosciuto; è un tratto di luce che lo Spirito Santo fa improvvisamente scaturire dal
fondo dell’anima; è come la rivelazione improvvisa di una sorgente di vita insospettata fino ad
allora; è come un orizzonte nuovo, più vasto, che si apre davanti gli occhi dell’anima; è come
un mondo nascosto che lo Spirito ci rivela. Questa parola divina, lo Spirito Santo, chiamato
dalla liturgia, “dito di Dio”, la imprime, la incide nell’anima; essa vi dimora sempre per essere
una luce e un principio di azione; se l’anima è umile e attenta, questa parola divina vi fa la sua
opera, silenziosa ma feconda.
2. Quando noi siamo fedeli nel consacrare ogni giorno un tempo più o meno lungo, secondo
le nostre attitudini e i nostri doveri di stato, ad intrattenerci con il nostro Padre celeste, a
raccogliere queste ispirazioni e ad ascoltare questi “richiami “ dello Spirito, allora le parole
di Cristo, Verba Verbi, come li chiama sant’Agostino, si moltiplicheranno inondando l’anima
di luce divina e schiudendo in lei sorgenti di vita, perché ella vi si possa sempre abbeverare.
Così si realizza la promessa di Gesù Cristo: «Chi ha sete venga a me e beva chi crede in
me; come dice la Scrittura fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno». E san Giovanni
aggiunge “Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui”
(Gv. 7, 37-38)
3. L’anima, in cambio, traduce costantemente i suoi sentimenti in atti di fede, di pentimento, di
compunzione, di fiducia, di amore, di compiacenza, di abbandono alla volontà del Padre
celeste; ella si muove come in un’atmosfera che la intrattiene sempre più nell’unione con Dio;
l’orazione diviene come la sua respirazione, la sua vita; l’anima è riempita dello spirito di
orazione. L’orazione diviene allora uno stato e l’anima può trovare il suo Dio, quando vuole,
anche in mezzo a tutte le sue occupazioni.
4. I momenti che, durante la giornata l’anima consacra esclusivamente all’esercizio formale
dell’orazione non sono altro che l’intensificazione di questo stato, nel quale ella resta
abitualmente, ma dolcemente, unita a Dio, per parlargli interiormente ed ascoltare lei stessa
la voce dell’Altissimo.
Questo stato è più della semplice presenza di Dio, è un colloquio interiore, pieno d’amore,
nel quale l’anima parla a Dio, talvolta con le parole, più spesso col cuore, e gli resta
intimamente unita a dispetto dei vari impegni e occupazioni della giornata. Vi sono molte
anime semplici e diritte che, fedeli all’attrazione dello Spirito Santo, arrivano a questo stato
così desiderabile.
Beato Columba Marmion (1858-1923), Cristo, Vita dell’anima, II, X, IV
L’AUTORE. Di origine franco-irlandese, prete a 23 anni, benedettino a 30 all’abbazia di
Maredsous, in Belgio, di cui diviene abate dopo alcuni anni, alla fondazione del Monte
Cesare. Predicatore e direttore di talento, le sue conferenze saranno riunite in 4 volumi. La
loro chiarezza, l'equilibrio e la loro solidità dottrinale faranno del loro autore uno dei maestri
della vita spirituale del XX secolo,autenticato come tale dalla sua beatificazione avvenuta nel
2000.
IL TESTO § 1. «Non ci sono differenze tra ciò che Dio dice e ciò che fa» ci dice san
Bernardo: perché la parola di Gesù che ci arriva attraverso il Vangelo, risuona in noi come
l’eco del reale, del solido, “prendendo all’improvviso un rilievo soprannaturale che non le
conoscevamo prima”, allorché “lo Spirito Santo la imprime, la incide nell’anima”.
§§ 2-3 Poco a poco, così come una successione di punti diviene una linea, l’attenzione alla
Parola di Dio diviene in noi l’attenzione a Dio stesso, stabilendoci in una presenza continua a
lui che definisce la contemplazione. E come goccia sopra goccia si forma un ruscello,
l’amore di Dio si mette a irrigare tutta la nostra vita, facendo di tutti i nostri atti degli “atti di
fede, di pentimento, di compunzione, di fiducia, di amore, di compiacenza, di abbandono…”.
Siamo passati allora da atti di orazione allo stato di orazione, cioè all’unione continua a Dio,
sottofondo alle molteplici occupazioni che la vita ci impone, al di là di ogni distinzione tra
azione e contemplazione.
§ 4. Il confine tra questo stato di orazione e i momenti che noi riserviamo all’orazione intesa
come esercizio specificamente contemplativo tende a sfumare: se in un primo tempo l’azione
disturbava l’orazione, essa si mette a nutrirla in questo stato stabile di unione. Ciò vuol dire
che non occorre più riservare alcun tempo all’esercizio della preghiera? Né don Marmion, né
alcun santo lo ha mai detto, e Gesù stesso passava notti intere a “fare” orazione; ma in realtà
più che parlare di tempo riservato all’orazione sarebbe più giusto parlare per loro, di tempo
riservato all’azione, all’interno di una vita dominata dal “colloquio interiore, pieno d’amore, nel
quale l’anima parla a Dio”. Il problema di legare azione e contemplazione esiste infatti solo
per i non contemplativi.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
P come ….PERFEZIONE
Disse Gesù al giovane ricco: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai
poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi». (Mt. 19, 21) La perfezione non è
dunque affare di virtù (il giovane ricco ne aveva da vendere) ma affare d’amore, d’amore di
Gesù:
Tutta la santità dell’anima e la sua perfezione risiede nell’amore verso Gesù Cristo, nostro
Dio, nostro bene sovrano e nostro redentore.
Sant’Alfonso de’ Liguori (1696-1787), Trattato dell’Amore di Cristo, I, 1
Cosicché
Tutto il desiderio e lo scopo unico dell’anima e di Dio in tutto quel che fa è la consumazione e
la perfezione della loro unione… Dell’anima in questo stato san Paolo dice nella lettera ai
Galati: «Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me».
San Giovanni della Croce (1542-1591), Cantico spirituale, 27,6
Certamente
Ciò non ha niente in comune con la nera religione sempre spaventata, inquieta e febbricitante
che per fare la virtù austera e fiera erige la melanconia a titolo di perfezione e consacra la
tristezza come una cosa celeste; …nulla di tutto ciò è cristianesimo, poiché per l’uomo
interiore il fine del precetto è la carità che viene dal fondo del cuore purificato e dalla buona
coscienza.
Il Cristiano del tempo, Lione, 1672, III, p.145
E poiché è affare d’amore,
Andiamo alla perfezione non perché è uno stato rilevato e sublime, ma perché Dio ci vuole lì.
Mai dobbiamo intraprendere la pratica della virtù per un motivo di grandezza e per divenire
più grandi santi; ma soltanto per fare ciò che Dio vuole da noi e così contentarlo.
Jean de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, I, cap.I
Così che
Dio non ha messo la perfezione nella molteplicità d’atti che faremo per piacergli, ma soltanto
nel metodo che terremo in loro, che non è altro se non fare il poco secondo la nostra
vocazione, nell’amore, con l’amore, e per l’amore.
San Francesco di Sales (1567-1622), Sermone 55
E ciò fino a
Non solo volere ciò che Dio vuole, ma non poter volere altro che quello che vuole Dio.
Guglielmo di Saint-Thierry (1085-1148), Lettera ai Frati di Mont-Dieu, III, I
Come giungervi? Lasciando fare all’amore:
Questa piena e perfetta conformità è l’effetto della trasformazione totale di tutto l’uomo in Dio
per l’amore infinito, mutuale e reciproco che essi portano l’uno all’altro e l’uno nell’altro.
Jean de Saint-Samson (1571-1636), Esercizio dell’Amore semplice.
…solo all’amore:
Se Dio vuole delle anime, innanzitutto egli vuole da me, la mia; e fino a quando io non gliel’ho
data pienamente, interamente e senza riserva, devo ancora fare molto per lui, senza cercare
di salvare altre anime. Io pretendo che si voglia la perfezione e l’unione a Dio perché lui lo
vuole, non perché noi vogliamo la ricompensa.
John Chapman (1865-1933), Lettera del 27 febbraio 1919
… ma l’amore fino in fondo:
Con questo completo abbandono noi aderiamo perfettamente alla sua divina azione; con
questa perfetta adesione partecipiamo alla perfezione del suo spirito di santità che agisce in
noi; con questa incomprensibile partecipazione la santità di Gesù si diffonde nella nostra
anima e la rende santa.
Francesco Libermann (1802-1852), Lettera del 12 agosto 1837
Facile a dire quando tutto va bene,
Ma che fare direte, quando non potete nemmeno fare l’atto d’abbandono? Abbandonare
questo stesso abbandono con un semplice fiat che diviene allora il più perfetto degli
abbandoni… Dio permette quasi sempre che questa specie di pene sembra all’anima, non
dover mai finire. Perché? Per darle l’occasione attraverso ciò di abbandonarsi più totalmente,
senza fine, senza limiti, senza misura, cosa in cui consiste il puro e perfetto amore.
Jean-Pierre de Caussade (1675-1751), Lettera 56
In questo senso
La perfetta perfezione dei perfetti è sempre da terminare.
San Giovanni Callimaco (525-600), La Scala santa, 29° gradino
Infatti,
La perfezione delle vie interiori consiste solo in una via di puro amore che ama Dio senza
alcun interesse, e di pura fede, una via dove si cammina soltanto nelle tenebre e senz’altra
luce che quella della fede stessa comune a tutti i cristiani.
Fénelon (1651-1715), Massime dei Santi, art.7
Anche se
Ben poche creature sono condotte per questa via del sottile e penetrante amore, il quale
mette sotto torchio il corpo e l’anima in modo tale che non lascia loro alcuna imperfezione
perché l’amore per quanto piccola essa sia, non la può sopportare.
Santa Caterina da Genova (1447-1510), Dialogo X
Scoraggiante no?
Non turbiamoci delle nostre imperfezioni perché la nostra perfezione consiste nel
combatterle e non potremmo combatterle senza vederle, né vincerle senza incontrarle…
Questa guerra in cui noi siamo sempre vincitori purché vogliamo combatterle, è una
condizione fortunata.
San Francesco di Sales, Introduzione alla Vita devota, I, 5
È quel che dico a molti che, avendo il desiderio di perfezionarsi acquisendo le virtù,
vorrebbero averle tutte d’un colpo…: noi avremo sempre abbastanza presto quel che
desideriamo, quando l’avremo quando piacerà a Dio darcelo.
Idem, Sermone del 2 febbraio 1620
LA PERLA PREZIOSA DEL SILENZIO
Nel 1977, al termine del corso di esercizi spirituali tenuto alla famiglia pontificia, il santo
padre Paolo VI diceva all’abate Magrassi: «Noi abbiamo soprattutto bisogno di intensità …
l’intensità ha come dimensione la profondità del silenzio. Bisogna essere presenti con tutta
l’anima al mondo … ma in intensità di vita interiore». Contrariamente a quanto il chiasso
assordante odierno e il consumismo della parola, oltre che delle merci, ci spingono a
credere, il distacco e l’ascesi che impongono il silenzio rendono più vicina e presente la
persona al mondo, non la allontanano; anzi, uscendo dalla verbosità, si supera la coltre della
superficialità venendo al cuore della realtà e acquisendo, oltretutto, maggiore libertà. Si
tratta, infatti, di essere presenti al mondo e agli uomini nella verità, restituendo l’autentico
valore alla parola quale preziosa possibilità di scambio e manifestazione della comunione
con essi. Occorre dare spazio a Dio per cogliere ed esprimere i contorni esatti della realtà,
lasciando tacere il nostro ingombrante e spesso idolatrico “io”, che pretende di essere il
protagonista di ogni nostro discorso, proiettando su tutto la propria ombra alterante. La verità
della realtà è quella che essa è alla luce del Verbo nel quale sussiste. Così Taulero in un
sermone di Natale: «Devi tacere: allora il Verbo di questa nascita potrà essere pronunciato in
te e tu potrai ascoltarlo; non si può cogliere meglio il Verbo se non tacendo e ascoltando. Se
tu esci completamente da te stesso, Dio entrerà interamente». Sant’Agostino descrivendo la
sua ricerca di Dio, dovrà far tacere lentamente tutte le cose sorpassandole continuamente;
solo quando le ultime cose, che si agitano come idoli in lui, tacciono, attinge la Parola di
Colui che è. Così conclude l’abadessa benedettina A.M. Canopi: «Per mettersi in questo
atteggiamento, per non sentire come una mortificazione il non poter sempre dire, così come
viene, a proposito e a sproposito, quello che si pensa, quello che si ritiene sia meglio, è
indispensabile avere un cuore umile».
ABC
N. 68 - Febbraio 2006
123
RIPOSARE IN DIO
1. Invano si cercherebbe il riposo fuori di Dio; esso può essere solamente in Dio e in Dio
solo. Non è agitandosi affrettandosi, adoperandosi molto che si giunge a riposarsi in Dio, ma
solo facendo cadere ogni agitazione, fretta, attività per dar luogo all’azione di Dio.
2. Dio è sempre operante e sempre tranquillo. L’anima unita a Dio partecipa ugualmente alla
sua azione e al suo riposo. Lei agisce sempre, anche quando non se ne accorge, però
agisce con una grande pace. Ella non previene l’azione di Dio, ma attende che Dio la
prevenga. Ella si pone sotto l’orma divina, come la mano di un fanciullo che apprende a
scrivere si pone sotto l’orma del suo maestro… Il riposo di questo bambino non consiste nel
non muovere la mano, ma nel non muoverla da sé e nel seguire l’orma che gli è stata data.
Altrettanto l’anima sotto l’azione di Dio: non è oziosa un solo istante, come l’immagina chi
non ha una vera idea del riposo in Dio; ma Dio le dà l’impulso e governa la sua azione.
3. Si prega [allora] senza pensare che si prega; il cuore è unito a Dio e non si accorge di
questa unione. Non si deve dunque affermare che non si fa niente e che si perde il proprio
tempo nell’orazione di riposo; ma occorre dire che si è mossi in una maniera molto reale,
sebbene segreta, in cui l’amor proprio non trova nulla che lo nutra, che lo attacchi, che lo
rassicuri. In ciò consiste il vantaggio di questa orazione che è la morte e la distruzione
dell’amor proprio; essa è il principio della perdita dell’anima in Dio. Fintantoché l’anima
crede di conoscere il suo stato, fintantoché crede di sapere a quale punto sia, ella non si
perde, perché ha dei punti d’appoggio. Quando comincia a perdersi in Dio? Quando non ha
più niente di sensibile, quando non vede più al suo interno, quando ella non si permette più di
guardarvi e, non facendo più alcuna riflessione su se stessa, rimane abbandonata alla guida
di Dio.
4. Dio conduce per gradi in questa via di perdita, e la guida attraverso questa orazione
insensibile, fino a che non trovando più alcuna risorsa né in se stessa né in alcun uomo, ella
stabilisce unicamente la sua fiducia in Dio e come Gesù in croce, abbandonato dagli uomini,
al cospetto del Padre suo, dirà: «Padre nelle tue mani consegno il mio spirito». Lo consegno
per tutto ciò che ti piacerà fare di me nel tempo e nell’eternità.
Jean-Nicolas Grou (1731-1803), Manuale delle Anime interiori, ed. 1898, pp.
95-97
L’AUTORE Nato a Calais, entra presso i gesuiti nel 1746. Brillante professore di lettere a La
Flèche (la sua traduzione di Platone resta un classico), nel 1763 in seguito alla soppressione
della Compagnia di Gesù se ne va in esilio in Lorena. Di ritorno a Parigi, l’incontro con la
visitandina Pelagia Lévêque lo apre alla mistica. Si dividerà ormai tra la direzione spirituale e
la redazione di opere connesse, specialmente in Inghilterra, dove la Rivoluzione lo costringe
ad un nuovo esilio a partire dal 1792.
IL TESTO Umanista del XVIII secolo, Grou è contemporaneamente un filosofo, un
controversista, un apologista, un moralista e un mistico. Il suo insegnamento spirituale
culmina nel Manuale delle Anime interiori, raccolta di circa sessanta colloqui pubblicati dai
suoi discepoli, con un successo costante in tutta Europa fino al 1950. Redatto in una lingua
superba, dove si riconosce la tradizione salesiana dell’abbandono, un’estrema finezza
d'analisi psicologica e la sensibilità spirituale di un grande contemplativo.
§ 1. “Tu ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è senza riposo fino a che non riposa in
te” (Sant’Agostino) Ma attenzione! Questo riposo è molto più dell’assenza d’agitazione e di
fretta: questo ha senso soltanto per “dar luogo all’azione di Dio” in noi. Qui è tutta la
differenza tra riposo naturale e soprannaturale, tra riposarsi e riposare in Dio. Come il
rumore di una vettura sull’autostrada si nota solo, quando essa si ferma, senza dubbio il
riposo soprannaturale è talvolta confuso con la noncuranza quietista ( e Grou non è sfuggito
a questo sospetto), ma notiamo che pur sembrando non fare niente, sono i santi, tuttavia, che
hanno cambiato il mondo.
§ 2 Come la vettura in piena velocità sull’autostrada si fa dimenticare dal passeggero, l’anima
armoniosamente unita a Dio non fa più rumore, né s’inquieta più né di se stessa, né di Dio.
Ella non s’inquieta che per fare bene quel che Dio vuol fare in lei; e ciò per il solo fatto che le
sarebbe insopportabile essere separata da lui.
§ 3. “Si prega allora senza pensare che si prega” perché il pensiero si occupa solo di ciò di
cui Dio l’occupa. Di cosa l’occupa? D’amare, di essere sempre fuori di sé in Dio e nei suoi
fratelli, non in una molteplicità di opere a loro vantaggio, ma in una dipendenza continua di ciò
che essi sono. Gesù si è offerto incondizionatamente a questo gioco dell’amore fraterno,
“obbedendo fino alla morte e alla morte di croce” (Fil. 2, 8) L'anima non ritornando più in
nessuna cosa su se stessa (“non vede più al suo interno”) è divenuta incapace d’inquietarsi
della sua vita spirituale. Ella non vive più che spiritualmente, cioè amorosamente.
§ 4. Questo decentramento dell’anima non si fa tutto di un colpo: ella vi è condotta al ritmo
della grazia di Dio e della sua accettazione, cioè della sua fede. La fede è sempre rimettere il
nostro spirito tra le mani del padre, incondizionatamente.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
P come….PAURA
“Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”
**Genesi 3,10
Dal peccato originale in poi, gli uomini vivono nella paura di Dio:
Un piacere introdotto per inganno fu l’inizio della decadenza. Dopo questo sentimento di
piacere, seguirono da vicino, la vergogna, il timore e il fatto di non osar comparire, da allora,
davanti agli occhi del Creatore, nascondendosi nell’ombra sotto il fogliame.
San Gregorio di Nissa (335-394), Sulla Verginità, XX, 2.
Tali uomini sono ben prefigurati da Pietro che nella debolezza in cui ancora si trovava, ha
gridato alla vista del miracolo dei pesci: «Allontanati da me Signore, perché sono un
peccatore!» Nella confusione il buon senso fa loro difetto: essi stanno per morire e hanno
paura della Vita!
San Gregorio Magno († 604), Omelia 9
Si, il buon senso fa difetto al peccatore, perché
Per quanto concerne le tue preoccupazioni, puoi stare tranquillo: se le cose del mondo
esistessero per farti del male, Dio non le avrebbe nemmeno create!
Santa Caterina da Genova (1447-1510), Dialogo Spirituale, ed. Piemme, p. 35.
Il problema è altrove. Si ha paura soltanto, quando c’è paura di perdere qualcosa, dunque là
dove c’è amor proprio:
I tuoi sforzi, le preghiere, i tuoi desideri abbiano un solo oggetto: essere spogliato di ogni
proprio interesse, seguire nudo, Gesù nudo; morire a te stesso, per vivere eternamente in me.
Allora svaniranno tutti i fantasmi, i turbamenti infondati, le inutili preoccupazioni, così si
allontaneranno da te i timori eccessivi e l’amore disordinato morirà
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Gesù Cristo, III, 37.
Quale rimedio alle nostre paure? Innanzi tutto non aver vergogna di avere paura, poiché Gesù
ha voluto conoscere la nostra paura:
Nostro Signore non è meno perfetto, né meno grande nel Giardino di Getsemani di quanto lo
è sul monte Tabor o alla destra del Padre; pensarla in modo diverso sarebbe bestemmia.
Vital Lehodey (1857-1948), Il santo Abbandono, III, 9
Allora, nascondere le nostre paure nelle sue:
Ad ogni prova, grande o piccola, guardo quel che, allo stesso modo, ha patito Nostro
Signore, al fine di perdere la mia sofferenza nella sua e me stessa in lui.
Beata Elisabetta della Trinità (1880-1906), Ricordi, cap. VIII.
Ti appoggi su te stesso e vacilli? Ciò ti stupisce? Gettati arditamente in lui, non aver paura;
egli non si sottrarrà per lasciarti cadere. Gettati arditamente, egli ti riceverà, ti guarirà!
Sant’Agostino (354-430), Confessioni, Libro VIII, cap. 11
In questo modo, vi è più merito nell’essere deboli che nell’essere forti!
È meglio per noi, e più perfetto soffrire, sentire la nostra debolezza e la nostra fragilità
resistendo sia bene che male, tiepidamente, debolmente che soffrire coraggiosamente e con
magnanimità!
John Chapman (1865-1933), Lettera del 28 febbraio 1929.
Il buon Dio mi dà coraggio in proporzione alle mie sofferenze: Sento che per il momento non
potrei sopportarne di più, ma non ho paura, perché se aumentassero, egli aumenterà nello
stesso tempo, il mio coraggio.
Santa Teresa del Bambino Gesù (1873-1897), Ultimi colloqui, 15 agosto 1897.
Poi, saper ridere delle nostre paure!
Il demonio vede in noi qualche timore e ciò basta perchè all’improvviso ci persuada che tutto
ci sta per uccidere o almeno che ci rovini la salute. ….Bene! Io chiedo: il più prezioso
vantaggio di una salute perfetta non sarebbe quello di perderla al servizio di Dio? Inferma
come sono mi vedo sempre incatenata, incapace del minimo bene, fino al momento in cui
prendo la determinazione di non tenere alcun conto né del corpo, né della salute. …In
conseguenza di ciò, poiché mi tratto con minor cura e delicatezza, io sto molto meglio.
Santa Teresa d’Avila (1515-1582), Vita, cap. 13.
Allora molliamo gli ormeggi!
Sempre vi fermate ad esaminare i vostri timori e dubbi invece di mettervi al di sopra per
gettarvi alla cieca e a corpo morto tra le mani di Dio e nel suo seno paterno; in pratica voi
vorreste sempre avere alcune sicurezze dalla vostra parte per meglio abbandonarvi. Oh!
Certamente, non è lì il vero abbandono a Dio con una totale fiducia in lui solo, ma un desiderio
segreto di potere assicurarsi da se stessi prima di abbandonarsi a Dio, come un criminale di
Stato il quale, prima di abbandonarsi alla clemenza del re, vorrebbe avere delle sicurezze sul
suo perdono!
Jeanne-Pierre de Caussade (1675-1751), Lettera del 1735.
Per questo,
Io non devo più guardare, ma camminare ad occhi chiusi, appoggiata al mio Diletto, senza
voler vedere né sapere il cammino attraverso il quale mi condurrà, né preoccuparmi di
qualsiasi cosa, senza chiedergli nulla, ma rimanere semplicemente tutta perduta e riposata
in lui.
Santa Giovanna di Chantal (1572-1641), Lettera del dicembre 1637.
In altre parole: la vita spirituale come una meravigliosa crociera!
Ci dobbiamo imbarcare sul mare della Divina Provvidenza senza gallette, senza remi, senza
vele e infine senza alcuna provvista; lasciare in questo modo, tutta la cura di noi stessi e del
successo delle nostre cose a Nostro Signore, senza ritorni né repliche, né alcun timore di
quel che ci potrebbe accadere.
San Francesco di Sales (1567-1622), Veri colloqui spirituali, III.
LA PREGHIERA E L’AMORE
La venuta di Dio nella carne fino alla morte di croce supera qualsiasi silenzio, senza dubbio
molto religioso e nobile, dell’uomo dinanzi a Dio. A tale silenzio invitano venerabili tradizioni
religiose, riconoscendo onestamente l’impotenza umana dinanzi al Dio inaccessibile e
incircoscrivibile. La Parola incarnata manifesta la forma di Dio, addirittura la manifesta con il
volto dell’uomo: siamo ai limiti del concepibile! «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una
decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che
alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva»: così il Santo Padre, Benedetto
XVI, nella sua recente enciclica Deus caritas est. Questa peculiarità del cristianesimo
specifica, quindi, la vita dei credenti e, quindi, la loro preghiera, cioè l’atto fondamentale della
vita religiosa. Essa è la risposta alla precisa volontà di Lui che si rivolge personalmente a
ciascuno di loro. Non sono le tecniche a prevalere nella preghiera, come accade per altri
uomini religiosi, né la sacralità dei riti e delle osservanze. Non di rado, invero, la pratica di
tecniche, alle quali alcuni cristiani oggi ricorrono per essere aiutati a superare la sensibilità
e immergersi nella profondità dell’essere umano e nel silenzio, finiscono per ingabbiarli in
una concezione amorfa di Dio, di cui esse sono spesso portatrici. È noto pure il rischio di
integralismo che si corre nel sacralizzare, più o meno esplicitamente, i riti e le osservanze.
La relazione personale e concreta con il volto di Gesù configura quell’amore che nutre la
preghiera di ogni uomo. L’atto più elevato dell’uomo, qual è appunto la preghiera, è perciò
connotato dalla figura di Dio dinanzi al quale egli si pone. Per ciò tale atto, pur personale,
intimo e rispettabile da parte di tutti, assume grande rilevanza storica e ha diretta
ripercussione sulla vita sociale dei singoli e dei popoli. Non a caso il Pontefice ribadisce: «In
un mondo in cui al nome di Dio viene a volte collegata la vendetta o perfino il dovere dell’odio
e della violenza, questo [quello del “Dio è amore” giovanneo] è un messaggio di grande
attualità e di significato molto concreto».
ABC
N. 69 - Marzo 2006
123
SUL BUON USO DELLA DESOLAZIONE
1. “È triste adempiere i più religiosi doveri con cuore freddo e spirito distratto; ritrovarsi
sempre senza zelo ed essere obbligato a trascinarvi il proprio cuore come per forza. È triste
trovarsi davanti a Dio senza sentimento e con una stupida indifferenza; pregare senza
raccoglimento, meditare senza affetto, confessarsi senza dolore, comunicarsi senza gusto,
mangiare il pane celeste con meno soddisfazione del pane materiale; soffrire fuori senza
essere consolato dentro; portare pesanti croci senza sentire questa unzione segreta che le
addolcisce” [7] … L’amor proprio vorrebbe conoscere, vedere e sentire ogni nostro atto di
virtù, per rassicurarsi, per nutrirsene o compiacersi. Ecco quel che costringe Dio, in
qualche modo, a nasconderci le grazie che ci accorda. Egli ce ne conserva la sostanza, ci
toglie quel che brilla e che lusinga. Se noi comprendessimo bene i nostri interessi,
guarderemmo questa condotta di Dio come un prezioso beneficio e mai baceremmo la sua
mano con maggiore fiducia di quando sembra poggiarsi con più forza su di noi..
2. Ma, dirai, questa orribile indifferenza per Dio? Essa è solo apparente e nella parte
inferiore poiché la volontà rimane ferma in tutti i suoi doveri. La parte superiore vuole Dio ed
egli è contento di lei. Ecco la prova evidente: sei desolato in tutti i tuoi esercizi di sentire che
non ami Dio come desideri e sai soltanto rammaricartene amaramente: «Mio Dio, io dunque
non ti amo!» Oh! Quanto deve essere violento il desiderio interiore e profondo, di
appartenergli totalmente, dato che il solo timore di non amarlo ti affligge così fortemente! È il
segno sicuro che in mezzo alle tue freddezze e insensibilità, alla tua apparente indifferenza,
Dio ha acceso nel tuo cuore il fuoco di un grande amore che interiormente diviene sempre più
forte, più intimamente infuocato, attraverso il timore stesso di non amare. Le tue angosce
sono dunque ciò che dovrebbe rassicurarti….
3. I nostri atti per essere graditi a Dio non hanno alcun bisogno delle emozioni. Per loro
natura essi sono spirituali e si elaborano nella parte superiore dell’anima. Che la parte
inferiore apporti il suo concorso, che resti inerte o che lavori perfino contro, ciò sarà sempre
secondario. L’essenziale è che la contrizione cambi la volontà e non che faccia scorrere
lacrime, che il santo amore unisca fortemente il nostro volere a quello di Dio e non che si
traduca in effusioni di tenerezza… La sensibilità diviene fastidiosa appena serve da cibo
all’amor proprio. Ecco l’ostacolo che Dio vuole demolire con questa insensibilità del cuore.
Don Vital Lehodey (1857-1948), Il Santo Abbandono, III, cap. 12
L’AUTORE Nato vicino a Costanza, prete diocesano nel 1880, entra nel convento dei trappisti
di Bricquebec (Manica) nel 1890. Ne diviene priore, poi abate nel 1895 e si rifugerà per
alcuni anni in Inghilterra durante le espulsioni. Gran contemplativo. Le sue opere di
formazione spirituale conobbero un largo successo, riabilitando in un’epoca difficile per
quest’aspetto, un orientamento risolutamente mistico della vita monastica.
IL TESTO Il Santo Abbandono, solido volume in tre parti, pubblicato nel 1919, vuole essere
una sintesi di questa attitudine interiore che domina la spiritualità moderna dopo san
Francesco di Sales. Citandolo sovente, assieme ad Alfonso de’Liguori, padre de Caussade,
Teresa del Bambino Gesù (certamente più giovane di lui) e di molti altri, Lehodey mostra che,
in tutte le situazioni, l’anima è invitata a aderire con fiducia cieca alla sola volontà di Dio.
§ 1. Chi non si riconoscerebbe in questa lunga citazione proveniente da uno dei cantori
dell’abbandono, il cappuccino Ambrogio de Lombez (1708-1778), soprannominato “il san
Francesco di Sales del XVIII secolo”? Perché l’anima possa realmente abbandonarsi,
occorre che Dio, in qualche modo, faccia finta di abbandonarla come una madre deve
svezzare il proprio figlio per obbligarlo a crescere. Non piangiamo, dunque, quando non
sentiamo più nulla nella nostra vita cristiana, ma rallegriamoci di uscire dall’infanzia!
§ 2. Qui traspare p. de Caussade: un’anima amante non è mai soddisfatta di se stessa, la sua
lucidità (“segno sicuro” della luce di Dio) le rivela, infatti, la sua impotenza ad amare. Ma
cosa c’è di più normale, dato che l’amore può venire solo da Dio? Volere amare (cosa
appartenente alla “parte superiore” dell’anima, nella quale risiede Dio) è, dunque, il segno
che Dio è là, che “ha acceso nel tuo cuore il fuoco di un grande amore” perfino quando
questa impotenza è sentita dolorosamente. Dolorosamente, perché dopo il peccato originale
noi vogliamo fare tutto da noi (ciò appartiene alla “parte inferiore” quella dove noi rimaniamo
in noi stessi).
§ 3. ”La sensibilità diviene fastidiosa, appena essa serve da cibo all’amor proprio”: il solo
criterio di un amore autentico è la conformità oggettiva del nostro comportamento al Vangelo,
vale a dire della nostra volontà a quella di Gesù. Se presteremo meno attenzione a noi (l’amor
proprio), noi saremo più liberi per quest’amore. Il resto non è altro che dolciume per bambini
viziati.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
P come … PROGRESSO
“...dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio
che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù...”. (Fil. 3,13)
Questa corsa non è facoltativa per nessuno, perché
L’anima non può fare che non si muti in qualche maniera: se non va avanti, torna indietro.
Santa Caterina da Siena (1347-1380), Dialogo 49.
Per progredire molto su questo cammino voglio assolutamente che sappiate che non si tratta
di pensare molto, ma d'amare molto. Dunque, tutto ciò che v'inciterà ad amare di più, fatelo.
Santa Teresa d’Avila (1515-1582), Castello dell’Anima, IV, 1.
Come fare per amare molto?
Quale errore il tuo, caro figlio, di credere che puoi apprendere alla scuola dei maestri del
secolo una scienza dove si fanno dei progressi solo con la grazia di Dio, disprezzando il
mondo e divenendo discepoli del Salvatore.
San Bernardo (1090-1153), Lettera 108.
Nessuno strumento umano può sostituire questa sequela di Gesù:
Pensi dunque che sia per tua abilità e per le pratiche che tu raggiungerai l’obiettivo di
distruggere l’orgoglio e di acquisire l’umiltà?... Il più infallibile segreto per sradicare questo
maledetto orgoglio, non è di guardarlo, ma di guardare Dio e dimenticarsi di se stesso.
Claude-François Milley (1668-1720), Lettera XL.
Anche se tu compi molte azioni, non progredirai nella perfezione se non imparerai a
rinnegare la tua volontà e a sottometterti, lasciando ogni cura di te e delle tue cose.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Sentenza 69.
“Oh! Per me, non mancherò d’essere santo. Il mio direttore, che è un santo, stimato come
guida abilissima, non mancherà di farmi avanzare...” Nota bene, mio caro, che non è il
direttore che ci rende santi, ma la nostra fedeltà alla grazia e il desiderio sincero ed efficace
di avanzare.
Francesco Libermann (1802-1852), Lettera del 1836
E ciò senza fermarsi nel cammino, perché
Più si progredisce, verso le vette, più si incontrano in questo mondo cose penose da
sopportare, perché l’opposizione del secolo presente cresce nella misura in cui noi gli
ritiriamo il nostro affetto.
San Gregorio Magno († 604), Omelia 15
Ciò non ci deve scoraggiare:
Qualunque sia il suo progresso, lo spirituale non abbandoni mai il desiderio di progredire.
Ad ogni modo, durante questo tempo d'esilio mai giungerà così in alto o così profondamente
in Dio, tanto da non potere in ogni momento penetrare più in alto o più profondamente in lui. Si
comporti sempre come se cominciasse, sia sempre tanto umile quanto modesto.
Beato Luigi de Blois (1506-1565), L’istituzione Spirituale, VIII, 5
Invece di disperare di giungervi,
Fratello, non perdere la speranza di progredire spiritualmente; ecco, ne hai il tempo e l’ora.
Perchè dunque vuoi rimandare a domani il tuo proposito? Alzati e comincia all’istante
dicendo: è questo il momento di agire, è questo il momento giusto per correggersi.
Tommaso da Kempis (1379-1741), Imitazione di Gesù Cristo, 1, 22
Concretamente,
Il primo spogliamento necessario a questo proposito riguarda tutte le cose esteriori, come
ricchezze, onori, piaceri. È il primo passo che un’anima deve fare per avanzarsi verso Dio.
Fintantoché ella avrà la minima affezione verso queste cose, mai avanzerà per trovare Dio,
perché rimane come incatenata a ciò che ama; né mai ella avrà un perfetto possesso di Dio
perché il suo cuore è occupato dalle creature che non gli lasciano più posto.
Giovanni de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, I, X
In verità, se vogliamo fare qualche progresso ed entrare nel cuore di Dio nelle nostre
orazioni, dobbiamo comparire davanti a lui nudi e dobbiamo cercarlo nella privazione di tutto
ciò che il nostro appetito può desiderare; altrimenti non lo troveremo mai, per goderne
perfettamente.
Jean-François de Reims († 1660), La vera Perfezione, Istruzione IV, 1
In seguito, spogliarci dei nostri stessi progressi:
Oh! Piacque a Dio che nelle nostre orazioni, nelle nostre vie e in tutte le nostre imprese noi
cercassimo appoggio solo in lui e avessimo in vista solo lui, quanto al successo che ci
attendiamo… Invece di ciò, però, rimaniamo indietro e non facciamo che passi di tartaruga
nella via della perfezione, perché non siamo ancora ben convinti del nostro nulla e della
nostra impotenza, per quanto riguarda il punto in cui siamo; infatti ci appoggiamo ancora su
noi stessi per il progresso che pretendiamo fare.
Alessandro Piny (1640-1709), Stato del puro Amore, Dedica
Infine, spogliarci d'ogni pretesa a giungervi da noi stessi:
Oh! Quanto felici sono coloro che, vivendo nell’attesa, non si stancano di attendere!…
Dobbiamo abituarci a ricercare il compimento della nostra perfezione secondo le vie
ordinarie, in tranquillità di cuore, facendo tutto quel che si può, per acquistare le virtù
attraverso la fedeltà nel praticarle, ciascuno secondo la nostra condizione e vocazione; e per
quanto riguarda il giungere presto o tardi allo scopo della nostra pretesa, rimaniamo
nell'attesa, lasciando ciò alla divina Provvidenza. …Avremo sempre abbastanza presto quel
che desideriamo, quando l’avremo allorché piacerà a Dio darcelo.
San Francesco di Sales (1567-1622), Sermone del 2 febbraio 1620
DIO METTE ALLA PROVA IL SUO ELETTO
Dio mise alla prova Abramo chiedendogli il figlio amato della promessa; i padri presto
intuirono che ciò è figura dell’offerta che il Padre fa del Figlio sul legno della croce. Con
questo si rende a noi comprensibile il dolore di Dio, quello squarcio che si apre nel cuore
stesso della divinità, simbolizzata dalla ferita del costato di Cristo, attraverso il dolore che
prova un uomo nel dover offrire il figlio prediletto. Il dolore e i sentimenti umani possono
essere veicolo per scrutare le profondità di Dio. Questo accade spesso nell’esperienza
biblica; solo per fare un esempio, si pensi ai profeti e ad Osea in particolare. Un altro aspetto,
ancora, si rende palese in quell’episodio, letto sempre alla luce della pasqua di Cristo: nel
mettere alla prova Abramo, Dio lo associa al suo squarcio, a quella rottura a cui Egli si
sottopone per la redenzione umana, a quel mettersi di Dio contro Dio, per dirla con le parole
della Deus caritas est (n. 12) di Benedetto XVI: «Nella sua morte in croce si compie quel
volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l'uomo e salvarlo —
amore, questo, nella sua forma più radicale». Ma poiché quel supremo squarcio, quella
suprema opposizione è la forma radicale dell’amore, quella di cui Dio solo è capace, ciò
significa che Dio chiama Abramo e la sua innumerevole discendenza ad accogliere lo
squarcio della divinità nel proprio cuore, nella propria vita. L’uomo può non solo sopportare le
sofferenze, ma lasciandosi unire perfettamente tramite il Crocifisso al Dio trino, condividere
la passione di Dio, la radice dell’amore che si mostra a noi nell’urlo di Gesù. E come da
quello squarcio di dolore e di morte fiumi di acqua viva sono sgorgati per l’umanità, l’uomo
stesso è associato alla dinamica dell’amore divino che genera vita; sicché come attraverso
l’uomo il veleno della morte penetrò il mondo, per mano dello stesso uomo rinnovato in Cristo
l’intera Trinità riporta la risurrezione e la luce.
ABC
N. 70 - Aprile 2006
123
UN BUON USO DELLE DISTRAZIONI NELL’ORAZIONE
1. Perchè l’orazione sia buona, occorre sentire profondamente la presenza di Dio e credere
con fede ferma che noi non ci stiamo intrattenendo con una persona comune e lontana, ma
con Dio… Non si deve andare più lontano, se prima non si è ben saldi in questo pensiero che
serve più d’ogni altra cosa a tenere la nostra anima nello stato adatto alla preghiera. Occorre
continuare quest' esercizio della presenza di Dio in tutte le parti dell’orazione, affinché esse
siano tutte penetrate di questo pensiero per essere piene di attenzione e di rispetto…
2. Del resto, quando diciamo che occorre avere grande cura di essere attenti alla preghiera,
vogliamo dire tuttavia, che questa cura deve essere discreta e moderata. Non occorre
fasciarsi la testa, forzare la propria immaginazione. Porta nell’orazione la più grande
tranquillità di cuore possibile; stabilisciti costantemente nel ricordo della presenza di Dio, poi
sta’ in guardia per non lasciar entrare nessuna distrazione volontaria.
3. Se malgrado ciò provi pura debolezza, non perdere coraggio. Le distrazioni involontarie,
che ci danno dolore e alle quali cerchiamo di porre ordine secondo le nostre possibilità, non
sono peccati; di conseguenza esse non dispiacciono a Dio. Esse eccitano, al contrario, la
sua pietà: un padre non odia il figlio a cui l’ardore della febbre ha confuso il cervello e fa dire
delle sciocchezze; anzi egli è toccato dalla compassione. Così, Dio non ci vuole male,
quando ci vede farneticare e pensare ad altro nelle nostre orazioni, se ciò accade contro il
nostro volere; piuttosto egli è toccato dalla commiserazione. Allora, quando le tue distrazioni
verranno da questa fonte non scoraggiarti e non lasciare mai l’orazione; sopporta le
scorribande della tua immaginazione, allontanale dall'intelletto con pazienza, rassegnati alla
volontà di Dio per sottometterti a questa prova, tanto quanto lui vorrà, considerati indegno del
dono del raccoglimento.
4. Queste miserie servono, non a scoraggiarti, ma piuttosto a renderti umile. Non dimenticare
mai questo grande principio di perfezione: le nostre infermità non devono mai gettarci nello
scoraggiamento, esse devono servire ad umiliarci, a concepire una bassa stima di noi stessi
per indurci a ricorrere a Dio che solo può portarvi rimedio. Poi consolati: la tua orazione non
è interamente perduta, vi sarà sempre qualche parte che non sarà stata guastata dalla
distrazione; peraltro la pena di restare in ginocchio, di chiudere i propri sensi agli oggetti
sensibili, non sarà senza ricompensa.
Giambattista Saint-Jure (1558-1657), Sulla conoscenza del Figlio di Dio, III,
cap. 6
L’AUTORE Nato a Metz, Gianbattista Saint-Jure entra nella Compagnia di Gesù nel 1604.
La sua carriera sarà quella di un professore di lettere e filosofia, in molteplici posti del nord e
nell’ovest della Francia. Gli ultimi anni della sua vita sono parigini, consacrati alla scrittura e
alla direzione spirituale. Della stessa generazione di Lallemant, di Surin, (cf. Semi n. 14)
raramente geniale ma sempre sicuro, più teologo che mistico; tuttavia ugualmente
riconosciuto come maestro di vita spirituale.
IL TESTO Inizio di un’opera considerevole, il grosso trattato Sulla Conoscenza e l’Amore del
Figlio di Dio s’ispira chiaramente ad un’opera analoga di P. Le Gaudier († 1622). Lungo una
presentazione completa della vita cristiana, il pensiero dell’autore è di sostenere con un
pullulare di ragionamenti e citazioni i grandi principi spirituali. Certe sue pagine, come
quella citata qui, hanno un’eccellente pedagogia, poiché riflettono un’evidente esperienza
personale della vita interiore.
§ 1. In fondo, l’orazione consiste solo nel rimanere alla presenza di Dio e dunque fintantoché
noi possiamo meditare, vale a dire fino a che Dio ci stabilisce lui stesso nella
contemplazione, stare alla sua presenza consiste nel pensare a lui, a tutto ciò che egli è, e a
tutto ciò che fa per noi. Questa applicazione è la nostra parte nell’orazione, quale che sia il
modo esatto.
§ 2. Questa applicazione però non è concentrazione mentale (“non occorre fasciarsi il capo,
forzare la propria immaginazione...”): è attenzione a colui che sappiamo, essere là e che ci
sta amando; cosicché il motore dell’orazione è l’amore e non il pensiero, anche se quest'
amore ci fa pensare a lui.
§ 3-4 Le distrazioni interrompono l’orazione solo se si vuole fare attenzione ad altro che a
Dio. Ma quando esse sopravvengono malgrado noi, il fatto che esse ci contrariano mostra
che in realtà la nostra attenzione profonda porta su Dio, proprio come il rumore della strada
ci contraria quando stiamo ascoltando una musica melodiosa, ma quello che ascoltiamo è la
dolce musica. Così queste distrazioni devono prendersi come una prova fra le altre e invece
di combatterle (questo ci svia dall’attenzione a Dio), è meglio offrire questa miseria a Dio
che la permette, cosa eccellente per la nostra umiltà.
“La tua orazione non è interamente perduta”: essa non è perduta del tutto, perché il valore
dell’orazione non è nelle sensazioni di raccoglimento o di distrazione che l’accompagnano,
ma nella volontà di essere attento a Dio. Infatti, qualsiasi atto è misurato esattamente
dall’amore che mette in gioco.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
P come … PROVVIDENZA
“Dio vide quanto aveva fatto ed, ecco, era cosa molto buona…” (Gen. 1, 31); ecco la sua
Provvidenza:
Egli regge gli astri e presiede alle rivoluzioni della terra, egli concorre al lavoro della
formica, al minimo movimento degli insetti che pullulano nell’aria, dei milioni di atomi che
vivono in una goccia d’acqua. Senza di lui nemmeno una foglia si agita, né un filo d’erba
muore, né un granello di sabbia è trasportato dal vento. Egli veglia con sollecitudine sugli
uccelli del cielo, sui gigli dei campi; e siccome noi valiamo più di molti passeri, non potrebbe
dimenticare i suoi figli della terra.
Don Vital Lehodey (1857-1948), Il sant'Abbandono, II, 2.
Questa creazione ammirabile e tutta armoniosa, egli non l’ha fatta per nessun altro che te; se
l’ha fatta così bella, grande, varia, ricca, utile, benefica, nutrice del corpo e capace di
condurre l’anima a Dio, è per causa tua.
San Giovanni Crisostomo (verso 350), Sulla Provvidenza di Dio.
Insomma i benefici che l’uomo riceve da Nostro Signore sono in sì gran numero che da
qualsiasi parte egli si volti, che guardi in alto, in basso, a destra, a sinistra, il suo corpo, la
sua anima, le sue ricchezze, la sua scienza, la sua virtù, il cielo e la terra e tutti i beni che vi
sono, vedrà che sono tanti doni che gli fa, tanti favori e testimonianze del suo amore verso di
lui. Così, volendo definire l’uomo, egli non è altro che un composto tutto puro dei benefici di
Dio Nostro Signore.
Giambattista Saint-Jure (1588-1657), Sulla Conoscenza… I, 7
Perciò,
Occorre lasciar fare Dio, perché egli è nostro Padre. Così se noi avremo fiducia in Dio, egli
avrà cura di noi. Ma se vogliamo ritirarci dalle braccia della sua Provvidenza per prendere la
guida di noi stessi, è un cattivo consiglio, poiché non possiamo avere un buon pensiero se
Dio non ce lo dà. Noi non possiamo fare nulla, né dire nulla, neanche pronunciare solo,
queste parole: «Abba Padre», dice san Paolo, senza la grazia di Dio.
San Vincenzo de Paoli (1581-1660), Conferenza alle Figlie della Carità, X
Coloro che vivono ciò,
Nessuna cosa al mondo li fa vacillare né li stupisce; nulla sembra loro difficile, perché il
beneplacito di Dio che essi cercano unicamente e che trovano dappertutto, è capace di
addolcire tutto. Non c’è nulla di piccolo per loro, perché la volontà divina che è il loro unico
motivo rialza e nobilita le minime cose.
Jean-Joseph Surin (1600-1665),Catechismo spirituale I, 4 parte, cap.VIII.
A che serve fare riflessioni su ciò che mi accadrà? Seguiamo semplicemente i disegni di Dio,
amiamo unicamente il suo beneplacito e pensiamo solo a Dio che avrà cura di noi nella
maniera migliore per la sua gloria.
Giovanni de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, Libro III,
cap. 10
In fondo,
Cercare Dio, è volere soltanto, desiderare soltanto quello che lui vuole e che ordina con la
sua provvidenza.
Luigi Lallemant (1588-1635), Dottrina Spirituale, I, 2,1
Ma, quando le cose vanno male non occorre piuttosto parlare di fatalità?
Fatalità, si, per l’uomo che non ha visto tutte le combinazioni; ma per Dio che ha provocato
giustappunto le circostanze, tutto è stato provvidenziale.
Achille Desurmont (1828-1898), Il Credo e la Provvidenza, I, 2
E in una visione di fede, scopriremo che
Il male d’ogni giorno diviene un bene, quando si lascia fare a Dio.
Fénelon (1651-1715), Lettera del 25 maggio 1695
Perché
La sua volontà è buona, buona in se stessa, benefica per noi, buona come il buon Dio, direi,
forzatamente benefica.
Charles Gay (1815-1892), La Vita e Virtù…dell’Abbandono, I
Infatti,
C’è un’altra sorgente da cui ci viene l’esistenza e la vita? Tu, Signore, tu non cambi: gli anni
per te non passano, ma sono un continuo “oggi”; quanti nostri giorni già sono passati e
passeranno ancora, per questo ”oggi” che dà loro misura e li fa esistere… Ma tu, tu sei
sempre lo stesso e tutto ciò che tu hai fatto ieri e prima, tutto ciò che farai domani e dopo, è
oggi che tu lo fai!
Sant’Agostino (354-430), Confessioni, I, 10
Allora,
Abbandoniamo tutto il passato alla sua infinita misericordia, tutto l’avvenire alla sua divina
Provvidenza e pensiamo solo a profittare del presente, attraverso il solo fiat in tutto, per tutto e
dappertutto.
Jean Pierre de Caussade (1675-1751), Lettera 112
Perchè
È una delle più grandi regole della vita spirituale rinchiudersi nel momento presente.
Fénelon, Lettera del 6 giugno 1689
Per questo
Vorrei potervi strappare tutta questa tenerezza alle contraddizioni, tentazioni, privazioni di ciò
che si desidera e che con cuore generoso, voi galleggiaste. Lassù, dire parole di fermezza,
di sprezzo, di coraggio e di forza con la parte superiore e non fermarsi mai a guardare nulla
di tutto ciò, ma passare oltre nel vostro cammino, senza preoccuparvi del domani; ma in
buona fede, sotto la provvidenza di Dio, curandovi solo del giorno presente, lasciando il vostro
cuore a Nostro Signore, dato che glielo avete donato, senza mai volerlo riprendere per
niente.
San Francesco di Sales (1567-1622), Lettera a Giovanna di Chantal, verso
1614
Al punto di poter dire:
Non ho altra cura che quella di non averne.
Jean Crasset (1608-1692), Nuova forma di Meditazione, ed. 1931, pag.191
IL RISORTO È SPIRITO VIVIFICANTE
Con la risurrezione di Gesù si apre l’era definitiva del compimento del mistero divino, perché
l’eternità irrompe nel tempo e, di fatto, chiude il tempo, fa finire il mondo. Dio glorifica il
mondo consumandolo nella sua gloria. La forza della divinità penetra e riempie ogni cosa.
Non ci sono più due mondi, quello divino e quello umano, come ancora si vede nel Gesù
terreno, il quale conosce la stanchezza, la fragilità, la sofferenza, cioè la nostra condizione.
Questa condizione umana, nella sua morte è consumata, diventando vita e sorgente di vita, lo
Spirito che il Risorto alita sui discepoli. La potenza della risurrezione di Cristo adesso è
operante nella morte dei credenti, perché per i sacramenti essi sono incorporati al mistero
pasquale e così anche loro sono non più in loro e nel loro mondo, ma nella vita duratura nella
quale vivono la propria morte e la condizione terrena. Essi possono vivere questa loro morte
non come divisione da Dio e come precipizio sul baratro del nulla, bensì come consumazione
in Lui. Così d. Barsotti: «Cristo è risorto: ma la gloria della Risurrezione è presente in un
mistero di morte, che non è tanto la morte di Cristo quanto piuttosto la nostra». Questa morte
non è subita come un inevitabile destino, ma una scelta nella quale soltanto il credente sa che
la vita divina può comunicarsi a lui. «È per la morte che l’anima risuscita dalla morte – dice
Gregorio di Nissa – fintanto che ella non muore, rimane morta del tutto e incapace di ricevere
la vita, ma per la morte entra nella vita dopo aver deposto ogni mortalità». La vera ed eterna
vita è il venir meno nella presenza di fuoco di Dio. La pienezza di questa gloria è abbracciata
dal nostro silenzio. Nella morte dell’uomo opera la gloria di Dio, come è avvenuto nella
passione di Gesù. La morte alla carne nella nostra povertà, nella sobrietà, nella purezza; la
morte all’orgoglio dell’intelligenza nella fede; la morte all’egoismo della creatura, che si
afferma chiudendosi gelosamente in se stessa, nella carità divina, in una divina dolcezza, in
una divina umiltà. La gloria di Cristo, per gli uomini che vivono ancora nel tempo è la Croce.
(cf. D. Barsotti, Il mistero cristiano nell’anno liturgico).
ABC
N. 71 - Maggio 2006
123
NELLO SCORAGGIAMENTO …
1. Quando il tempo è scuro non si crede più al bel tempo. Quando l’anima è tutta coperta di
nubi, non crede più al sole. Quando l’anima è morta, o quasi morta, non si ricorda più della
vita o non vi crede più. Come la Samaritana non crede all’inizio, che l’uomo che le parla è la
sorgente della vita, così io non ho creduto che quella voce interiore che mi parlava della mia
secchezza e aridità, della mia sterilità, quella voce di Dio che spesso dice in me e per me:
«Ho sete»…; [non ho creduto che quella voce] che mi dice questa parola, per una grazia
insigne, per ricordarmi che l’acqua feconda esiste, che mi chiede una preghiera, un
movimento, un sacrificio perché gli sia possibile riaprirmi la sorgente; non ho creduto che chi
mi parlava mi potesse dare l’acqua viva e che qualcosa di nuovo e di buono mi potesse venire
da quella povera voce, dalla voce di Dio stanco e seduto sul bordo del pozzo.
2. Il pozzo è la mia anima. So bene che nell'anima ci sono delle profondità e alcune risorse
d’acqua in quel fondo, ma dico alla voce che mi parla: «È difficile; tu non hai come attingere e
il pozzo è profondo». Mi si parla di sorgente viva e io, io conosco solo questo pozzo; questo
pozzo che secondo santa Teresa è la nostra anima consegnata a se stessa e al suo proprio
sforzo.
3 Come i popoli delle terre aride, io ho perduto la speranza della rugiada e della pioggia del
cielo. Quanto al pozzo io lo conosco troppo; so, per esperienza, quanto tempo e pena
occorrono per trarne qualcosa, e quando la grazia cerca di rendermi la speranza della vita
piena e abbondante che viene da Dio, rispondo: «Il pozzo è profondo e tu non hai nulla per
attingere. Ho le mie tradizionali abitudini e non credo quasi che si possa fare meglio. Sei tu
più grande di nostro padre Giacobbe che ci ha dato questo pozzo in cui lui stesso ha bevuto
assieme ai suoi figli e alle sue greggi?» Io rimango nella carreggiata della mia vita naturale
e della mia povera maniera di vivervi; io vado a cercare la mia vita dove l’hanno cercata i miei
padri, i loro figli e i loro greggi, dove la cercano tutte le generazioni che passano, dove la
cerca tutta la carne, uomini e greggi! Io resto là e mi ostino in quel punto, di fronte a Gesù
Cristo, di fronte a Dio fatto uomo per divinizzarmi.
Alfonso Gratry (1805-1872), Meditazioni sul Vangelo di san Giovanni
L’AUTORE Nato a Lilla in una famiglia della buona borghesia, la sua infanzia trascorre nella
mediocrità e nell’ignoranza religiosa successiva alla Rivoluzione. Brillanti studi faranno di lui
l’interlocutore di tutto ciò che conterà nel pensiero del secolo XIX, nel mondo delle lettere,
delle scienze, della politica o della teologia. A diciassette anni una presa di consapevolezza
d’ordine mistico sulla vanità delle sue ambizioni mondane gli fa ritrovare la fede del suo
battesimo e l’orienta verso l’apostolato intellettuale e sociale. Prete nel 1832, restaura nel
1852 a Parigi l’Oratorio di Francia, ma riprenderà presto la sua autonomia. Eletto
all’Accademia Francese nel 1867, rappresentante di un gallicanesimo sempre vivace,
trascorrerà l’ultimo periodo della sua vita in disgrazia, a causa delle sue difficoltà ad
accettare l’infallibilità pontificia definita dal concilio Vaticano I.
Fra i suoi numerosi scritti, menzioniamo Le Sorgenti, vero manuale spirituale dell’onesto
uomo cristiano che ha formato generazioni di giovani apostoli.
IL TESTO Abbiamo qui un buon esempio della spiritualità romantica che potrebbe essere di
un Chateaubriand teologo: il quadro è generalmente una scena biblica alquanto
convenzionale, in questo caso il dialogo tra Gesù e la Samaritana (cf. Gv. 4) e il discorso
mira più a svegliare l’emozione che a sviluppare un’analisi razionale. Dietro quest'appello al
cuore, vi è la tendenza ereditata da J. J. Rousseau d’identificare sincerità e verità; cosicché
andando alla fine delle sue convinzioni, l’uomo di buona volontà si scoprirà cristiano.
§ 1. Nel grigiore di tanti giorni in cui la preghiera e, molto semplicemente, la vita cristiana ci
pesano, Gesù è là, ma come la Samaritana non lo riconosciamo; cerchiamo un Messia da cui
ci attendiamo dei prodigi, mentre egli ci chiede un po’ d’acqua “perché gli sia possibile
riaprirmi la sorgente”. Questa umile domanda di Gesù (“quella voce di Dio stanco e seduto
sul bordo del pozzo”) che ci rinvia all’estremo giudizio (“Avevo sete e mi avete dato da
bere...”) illustra una grande legge della vita cristiana: Dio può tutto (ecco “la sorgente della
vita”), ma non farà nulla senza che noi lo vogliamo, cioè senza che con “una preghiera, un
movimento, un sacrificio”, noi attingiamo l’acqua che egli ha già versato nel nostro pozzo.
Con la sua epoca, Gratry rileva qui la voce della coscienza come quella di Dio nell’uomo,
anche quando egli non la riconosce.
§ 2. Altra grande legge della vita cristiana: solo nell’esperienza della sua impotenza e della
sconfitta l’uomo si apre al soprannaturale. Ciò non ci dispensa dal nessuno sforzo, ma
questo non è per riuscire; lo sforzo è per essere fedele a Dio che c’insegna a vivere, anche
se lui solo ci fa vivere.
§ 3. Occorre che io senta questa impotenza per uscire dalla “carreggiata della mia vita
naturale”, fatta delle mie abitudini, delle mie pigrizie, di “tutta la carne, uomini e greggi”.
Gratry ha, più volte, appreso a sue spese che essere cristiano è sempre un’avventura
solitaria: come Abramo o Giacobbe, egli ci fa lasciare tutto e ci fa saltare il fosso della fede,
egli non ci fa restare immobile “di fronte a Gesù Cristo, di fronte a Dio fatto uomo per
divinizzarmi”.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
P come …PUREZZA
“Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio!” (Mt. 5,8)
Si tratta di vedere Dio e per questo occorre avere l’occhio tanto limpido che nulla deve
impedire la libertà dello sguardo… Bisogna tenere una regola infallibile: Dio non si fa vedere
né si comunica ad un’anima se non nella misura della sua purezza. Se ella ha poca purezza
egli si comunica poco; se ella ne ha molta egli si comunica molto.
Claude Martin (1619-1696), Conferenza ascetica IX
Infatti,
Rinascere nello Spirito Santo in questa vita, vuol dire un’anima molto simile a Dio in purezza,
senza alcun miscuglio d’imperfezione.
San Giovanni della Croce (1542-1591), La Salita del Monte Carmelo, II, 5
Questo fa sì che
Dio ama di più in te il minimo grado di purezza di coscienza che tutte le opere che tu potresti
fare.
Idem, Massima 12
Ma cosa è questa famosa “purezza di cuore”?
Con la purezza di cuore, s’intende un cuore spogliato da tutte le cose create, un cuore che
cerca solo Dio nelle sue intenzioni e che non è offuscato da alcuna ricerca estranea.
Jean-François de Reims († 1660), La vera Perfezione, II, Istruzione IV
La purezza del cuore consiste nel non aver nulla, sia tanto sia poco, nel cuore, che sia
contrario a Dio e all’operazione della grazia.
Luigi Lallemant (1588-1635), Dottrina Spirituale, II, 6, 3° principio.
Perché
L’anima in cui si deve riflettere il sole [di Dio] non deve essere turbata da altre immagini, ma
deve essere pura: la presenza di una sola immagine nello specchio fa da schermo.
Giovanni Taulero (1300-1361), Sermone 6
Per questo
La purezza dell’anima perfetta domanda che non si guardi, né guardi il suo interesse, ma la
sola volontà di Dio; in modo da non guardare nemmeno la felicità che ha di servire Dio e di
fare questo o quello per la sua gloria. Occorre che guardi solo la volontà di Dio che vuole
che lei operi o soffra quella cosa.
Giovanni de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, Libro VII,
cap. 12.
Come giungere ad una tale purezza?
Vuoi venire a perfetta purità ed essere privata del sentimento dello scandalo, così che la tua
mente non si scandalizza di veruna cosa? Fa’ di unirti sempre a me per affetto d’amore: Io
sono somma ed eterna purità e son quel fuoco che purifica l’anima; perciò quanto più questa
si accosta a me, tanto più diventa pura; e quanto più se ne parte, tanto più è immonda.
Santa Caterina da Siena (1347-1380), Dialogo 100.
Ciò modellerà la nostra orazione:
Una delle prime e più necessarie disposizioni all’orazione è l’intenzione pura per la quale noi
diamo e rapportiamo tutta la nostra orazione, non al profitto e all'utilità spirituale nostri, ma
alla sola gloria di Dio.
Francesco Bourgoing (1585-1622), Verità ed eccellenze di Gesù Cristo, 5°
consiglio.
Perché
La purezza del cuore consiste nell’avere il cuore libero da ogni attaccamento: è un dolce
riposo di spirito e di cuore in Dio, un gusto di Dio, uno sguardo fisso su Dio, un
raccoglimento in Dio, un silenzio interiore di rispetto, di ammirazione e d’amore.
Jean-Pierre de Caussade (1675-1751), Trattato sull’Orazione del cuore, VIII
Certamente, non vi giungeremo in un giorno:
Immaginiamo un pozzo melmoso, da cui si trae incessantemente acqua. All’inizio quel che si
tira fuori è quasi soltanto fango, ma a forza di tirare, il pozzo si purifica e l’acqua diviene più
chiara; tanto che alla fine viene fuori l’acqua tutta bella e cristallina. Allo stesso modo
lavorando incessantemente nel purgare la nostra anima, il fondo si scopre poco a poco e Dio
vi manifesta la sua presenza con potenti e meravigliosi effetti che opera nell’anima e
attraverso lei per il bene degli altri.
Luigi Lallemant (1588-1635), Dottrina spirituale, Cap. VI, 3° principio.
Tutta la nostra vita ne sarà soprannaturalmente equilibrata:
Un’anima pura, semplice, ferma nel bene non è mai distratta in mezzo a numerose
occupazioni, perché fa tutto per onorare Dio e tranquilla, in se stessa, procura di non
ricercarsi in niente.
San Simeone il Nuovo Teologo (949-1022), Inni, I.
Qual è l’uomo perfetto? È colui che avendo acquisito una grande purezza di cuore, con una
vera unione e familiarità con Dio segue in tutti i movimenti, la grazia e la guida dello Spirito
Santo.
Jean-Joseph Surin (1600-1665), Catechismo spirituale, I cap. 1
Il nostro sguardo su ogni cosa sarà rinnovato:
Giacché non vi è creatura così piccola e di così poco valore che non rappresenti la bontà di
Dio. Se tu fossi interiormente buono e puro, vedresti ogni cosa senza velame, e la
comprenderesti pienamente; è, infatti, il cuore puro che penetra il cielo e l’inferno.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Gesù Cristo, II, 4.
Perciò
La purezza del cuore sarà il termine unico delle nostre azioni e desideri. Per lei noi dobbiamo
abbracciare la solitudine, sopportare i digiuni, le veglie, il travaglio, la nudità, dedicandoci
alla lettura e alla pratica delle virtù, non avendo altro fine, per loro, che di rendere e serbare il
nostro cuore invulnerabile a tutte le passioni cattive, salendo, come su una scala, fino alla
perfezione della carità.
Giovanni Cassiano (415-429), Conferenze, I 6-7.
Dunque croce, orazione e purezza d’amore per cercare, trovare e possedere colui che non si
potrebbe mai abbastanza cercare, mai abbastanza trovare, mai abbastanza possedere.
Alessandro Piny (1640-1709), Lettera 65
L’AMORE SCACCIA IL TIMORE
La via dell’amore incrocia nel proprio cammino ciò che non è amore e costringe gli amanti al
confronto con situazioni avverse al loro amore. Ma l’avversità, lungi dal distruggere l’amore,
ne mette in condizione gli attori a comprendere la debolezza e l’impotenza che sono proprie
dell’amore. Dinanzi a tali situazioni, infatti, l’amore non smette di amare, non si interrompe
per cambiarsi adottando strategie diversi e più efficaci. Se così facesse, smetterebbe di
accadere come amore e, quindi, di essere. D’altra parte, esso non fugge in un idillico luogo
in disparte dove rimane non attaccabile dall’odio, dall’invidia e dalla noia. Il vero amore è
prodigo di se stesso, e vuole irradiarsi dentro la mancanza d’amore. Imponendosi, tuttavia,
solo amorevolmente, l’amore è sommamente vulnerabile, almeno all’esterno. E chi non
volesse partecipare a questa, sarebbe fondamentalmente incapace di amare. Ma l’amore non
teme questo confronto, anzi esorcizza la paura: «Nell’amore non c’è timore, al contrario
l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è
perfetto nell’amore» (1Gv 4,18). La forza dell’amore consiste solo nella certezza che si può
contribuire alla vittoria dell’amore dinanzi a ciò che lo nega, lo rifiuta e tenta di distruggerlo,
solo con l’amore medesimo. Per tal ragione esso non dà solo gioia agli amanti, ma anche
dolore e tristezza; «dall’amore procede sia la gioia sia la tristezza», affermava s. Tommaso.
Ma al suo interno, in quanto amore che abbraccia persino l’opposizione e la sua impotenza,
l’amore è indistruttibile, permane fino a trasformare ciò che gli si oppone. Si può partecipare
all’amore e alla sua potenza solo partecipando a questa impotenza. Così si è superata
addirittura la propria morte, l’attaccamento a sé, nella certezza di fede dell’indistruttibilità
dell’amore, che nel suo accadere vince. In Gesù che consegna lo Spirito al Padre, l’unione,
l’amore trionfa; è questo stesso Spirito la vita e la libertà. «Vieni Spirito Santo, riempi i cuori
dei tuoi fedeli e accendi in loro il fuoco del tuo amore!».
ABC
N. 72 - Giugno 2006
123
ORAZIONE ATTIVA E ORAZIONE PASSIVA
1. Quando noi siamo nell’orazione e la grazia rimane nella sua attività ordinaria, cioè quando
essa ci dà la libertà e l’agio di riflettere su noi stessi per applicare il nostro intelletto sui
soggetti che stimiamo più convenienti per noi e per determinare la volontà a produrre gli
affetti che crediamo più adatti a noi, questa è ciò che chiamiamo orazione o contemplazione
attiva. La chiamiamo così perché disponiamo talmente delle nostre potenze che sembra che
tutta l’orazione dipende da noi, sebbene in realtà non facciamo nulla senza la grazia che
opera impercettibilmente in noi.
2. Ma talvolta la grazia è così forte e ci previene con sì dolce violenza che sembra non
lasciarci né il tempo, né la libertà di determinare qualsiasi cosa. La sua luce è talmente
splendente nell’intelletto, che c’impedisce ogni riflessione su noi stessi; e l’attrazione del
cuore è sì potente che rimane come prigioniero dell’oggetto che lo attira… Questa si chiama
orazione o contemplazione passiva…
3. Sebbene io dia qualche vantaggio all’orazione del semplice sguardo, non disapprovo e non
biasimo quella del ragionamento né quelle praticate da una infinità di anime sante che forse
hanno i loro modi di orazione diversi secondo come lo Spirito Santo apre i loro cuori alla
preghiera. Ogni orazione è buona, quando ci eleva a Dio, sia che porti alla correzione dei
nostri costumi, sia che ci distacchi dalle creature o da noi stessi.
4. Non ho mai potuto approvare quelli che avendo un particolare metodo d’orazione sia del
semplice sguardo sia del ragionamento o altro, persuadono tutti a seguirlo e a lasciare
quello che essi sono soliti usare. Quando un’anima è in una pratica d’orazione da cui trae
sicuro giovamento non deve cambiare facilmente… infatti, essendo Dio il vero maestro
dell’orazione, sta a lui darne il metodo e il movimento… Tutto ciò che porta a Dio e alla virtù è
buono e non si può biasimarlo senza temerità. Occorre attaccarsi ad un metodo d’orazione
per fissare lo spirito, ma non bisogna esserne schiavi, così che se qualche movimento di
grazia ci porta altrove sia necessario rigettarlo come una cosa cattiva e contraria alla nostra
pratica.
Don Claudio Martin (1619-1696), Le vie della Preghiera contemplativa,
Solesmes, p.249; 259-261
L’AUTORE. Nato e morto a Tours, figlio della grande Maria dell’Incarnazione, affidato da lei
ai Gesuiti per la frequenza scolastica, Claudio Martin entra nel 1641 presso i benedettini
della riforma detta di san Mauro, caratterizzata da una stretta osservanza e da una vita
intellettuale sostenuta. Egli ne sarà uno dei maestri spirituali, ma soprattutto sarà il
corrispondente, il biografo e l’editore di sua madre
IL TESTO Questo testo somiglia da una parte ad un estratto della prefazione di don Claudio
alla sua edizione di Ritiri della Venerabile Madre Maria dell’Incarnazione (§§ 1-2) e dall’altra
ad alcuni elementi manoscritti destinati a integrare un Trattato della Contemplazione che la
morte gl’impedirà di finire. Alla fine della sua vita, nel momento in cui, sotto il pretesto troppo
facile di lotta al quietismo, i mistici sono attaccati da ogni parte specialmente dal Trattato
dell’Orazione di Pierre Nicole nel 1679, don Claudio mostra chiaramente la specificità della
loro esperienza, dono di Dio indipendente dai meriti di chi lo riceve. È vero che molto
malauguratamente l’uso introdotto all’inizio del secolo e seguito da don Claudio di parlare di
una “contemplazione acquisita” accanto alla contemplazione propriamente detta (da loro
designata come “infusa”), non poteva che confondere le tracce. L’ “acquisita” designa infatti il
culmine dell’attività dell’uomo in preghiera, nel momento in cui essa sfocia su una pura e
silenziosa disponibilità alla grazia. Con poca differenza, qui si tratta della stessa, con
l’espressione “contemplazione attiva” o “orazione di ragionamento”, mentre l’infusa
corrisponde alla “orazione o contemplazione passiva”, o “orazione di semplice sguardo”.
§ 1. Riflettere a ciò che Dio ci dice nel Vangelo (= applicare il nostro intelletto) per meglio
volere quel che egli attende da noi (= produrre gli affetti); ecco ciò che ci pone in orazione. È
già una risposta alla grazia di Dio che ce ne dà il desiderio anche se, ben poco cosciente e
data ad ogni buon cristiano, questa “rimane nella sua attività ordinaria”.
§ 2. Ma quando il desiderio assume un’intensità tale che è sentito come invadente, quando
una specie di evidenza di Dio domina la nostra vita mentale, al punto che le nostre riflessioni
su lui divengono un disturbo più che un aiuto (“essa ci impedisce qualsiasi riflessione su noi
stessi”), si vede bene che l’orazione è una passione, prima di essere un’azione.
Tradizionalmente si sarebbe riservato a quest’aspetto passivo il nome di contemplazione e si
sarebbe fatto a proposito di coloro in cui “la grazia è così forte”.
§ 3. L’ “orazione passiva” non è superiore all’attiva in quanto dipende da una grazia più forte
che occorre cercare ad ogni costo; proprio perché essa è una grazia e dipende solo da Dio,
dunque l’importante è ricevere oggi, la grazia che vuole darci oggi. Dal momento in cui “ella
ci eleva a Dio” cosa che avviene con un comportamento sempre più evangelico, il nostro
unico pensiero deve essere di fare oggi la sua volontà così come la percepiamo oggi.
§ 4. Non c’è altra regola per equilibrare l’aspetto attivo e quello contemplativo della nostra
orazione: non c’è alcuna ricetta per una buona orazione, c’è solo la volontà incondizionata di
seguire Gesù lungo il “movimento della grazia”, sia nell’evidenza e nella luce, o nella
riflessione e nell’oscurità dei giorni in cui la luce si nasconde.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
P come … PURGATORIO
Io non credo che possa trovarsi una contentezza paragonabile a quella di un’anima del
purgatorio, ad eccezione di quella dei santi in paradiso!
Santa Caterina da Genova (1447-1510), Trattato del Purgatorio, 2
Com’è rassicurante! Il purgatorio non è punizione ma, mistero d’amore:
Il suo fuoco è il fuoco purificatore che Cristo, misticamente chiamato fuoco lui stesso, è
venuto a portare sulla terra: la sua proprietà è quella di consumare la materia vile e gli affetti
viziosi dell’anima.
Gregorio Nazianzeno (329-390), Sul santo Battesimo, 36
Ciò fino a quando
La fiamma della carità l’ha penetrata interamente; allora senza rumore, senza lotta, in una
pace profonda, ella compie di consumarsi nell’amore.
Ugo di san Vittore (1096-1141), Sull’Ecclesiaste, Om. I
È quel che avviene nell’aldilà così come quaggiù:
Infatti, il fuoco d’amore, che poi si unisce con lei glorificandola, è quello stesso che prima
l’ha investita purificandola…: come gli spiriti in purgatorio sono trasformati per vedere Dio,
essi sono purificati quaggiù per potere trasformarsi in lui per amore.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Fiamma viva, 1, 16-24
Così che
Questa purificazione del purgatorio non concerne coloro che, quaggiù, sono giunti ad un
amore perfetto di Dio, ma coloro che non sono arrivati alla completa perfezione e che hanno
le loro virtù mischiate ai peccati.
San Massimo il Confessore (580-652), Domande e Dubbi, 10
Allora,
Mentre viviamo in questo mondo, mortifichiamoci…, così i peccati saranno purificati in
questa vita in modo tale che nell’altra questo fuoco del purgatorio non trova nulla, oppure non
trova che poca cosa da divorare.
San Cesario d’Arles (470-542), Sermone 104
Al contrario
Noi possiamo dedurre la maniera di soffrire delle anime del Purgatorio. Il fuoco da cui sono
avvolte non avrebbe alcun potere su di esse, se non avessero alcuna imperfezione da offrire a
questa prova in cui patire. Queste costituiscono la materia su cui il fuoco può compiere la sua
azione; finita questa materia non vi resta nient’altro da bruciare. E così quaggiù, distrutte le
imperfezioni, anche la sofferenza dell’anima viene meno e resta la gioia.
San Giovanni della Croce, Notte Oscura, II, 10
Gioia e pena vanno dunque insieme in purgatorio:
Le anime che si trovano in purgatorio, vi sono senza dubbio per i loro peccati, peccati che
essi hanno detestato e detestano grandemente; ma quanto all’abiezione e pena che resta in
loro per essere fermati in quel luogo e privati per un tempo del godimento dell’amore beato
del paradiso, esse la sopportano amorosamente e devotamente pronunciano il cantico della
giustizia divina: «Tu sei giusto Signore e giusti sono i tuoi giudizi».
San Francesco di Sales (1567-1622), Amore di Dio, IX, 7
Infatti
Il tormento delle anime del purgatorio consiste più di qualsiasi altro, nel fatto che esse
vedono in loro qualcosa che dispiace a Dio, qualcosa che hanno contratto volontariamente
movendosi contro sì grande bontà.
Santa Caterina da Genova, Purgatorio, 10
Al punto che
Le anime che vi si trovano non possono mai affermare che queste pene siano pene, tanto sono
soddisfatte dalle disposizioni divine alle quali la loro volontà è unita per pura carità.
Idem, 2
E se c’è dolore, è il dolore beato di non amare ancora abbastanza:
L’anima si sente costantemente trascinata dalla violenza del suo amore verso Dio, che solo
può soddisfarla. Questa violenza è incessantemente crescente, tanto che l’anima rimane priva
dell’oggetto di cui è così avida. Le sue sofferenze crescerebbero in proporzione se non
fossero addolcite dalla speranza o piuttosto dalla certezza che ogni istante l’avvicina al
momento della sua felicità eterna.
Willliam Faber (1814-1863), Tutto per Gesù, p.388-389
Vi è una varietà di purgatori, quante sono le varietà di vocazioni:
Dio chiede ad alcuni di vivere una vita perfettamente ordinata nella pratica dei santi
sacramenti e della confessione della fede… e può accadere loro di vivere su questa strada in
tale purezza che essi entrano nella vita eterna senza alcuna espiazione in purgatorio… Altri
sono stati chiamati a un grado più alto, pertanto essi dovranno passare per il purgatorio, ma
quando avranno sopportato queste sofferenze fino alla fine, supereranno i primi di mille e
mille gradi.
Giovanni Taulero (1300-1361), Sermone 39
Evitare il purgatorio non è dunque uno scopo!
Sicuramente se uno di quelli che combattono coraggiosamente esce imperfetto da questa
terra e si trova trattenuto qualche tempo in purgatorio, una volta pienamente purgato, otterrà
nel regno dei cieli un posto molto più alto di quello di colui che non sarà stato così
coraggioso né fervente, anche se forse sarà potuto giungere a Dio senza alcuna pena di
purgatorio.
Luigi de Blois (1506-1565), Istituzione spirituale, VIII, 3
E Il purgatorio non deve farci paura:
Se le anime del purgatorio si augurano di non restarci a lungo, è per non essere private di
Dio per tutto il tempo che vi starebbero, molto più che per timore delle pene che vi dovrebbero
subire.
Santa Teresa d’Avila (1515-1582), Castello Interiore, VI, 7
Ciò fa si che
Non so se andrò in purgatorio, non m’inquieto per niente; ma se ci vado non rimpiangerò di
non aver fatto nulla per evitarlo… Non avrei voluto raccogliere uno spillo per evitare il
purgatorio. Tutto quel che ho fatto era per far piacere al buon Dio; per salvargli delle anime.
Santa Teresa del Bambino Gesù (1873-1897), Ultimi colloqui, 4 giugno e 30
luglio 1897
«CHI NON ODIA SE STESSO, NON È DEGNO DI ME»
I costanti appelli sulla diffidenza e persino sul disprezzo di sé, corrispondenti a quelli sulla
fiducia in Dio, sono stati ininterrottamente pronunciati da Gesù e dai maestri della vita
spirituale della nostra tradizione. Raramente nella predicazione odierna li sentiamo
pronunciare con altrettanta nettezza, probabilmente anche a motivo della sottolineatura della
auto-stima operata dalla scienza psicologica. Le due cose si collocano su piani diversi e, in
ogni caso, non sono necessariamente in contraddizione per quanto si intreccino nel vissuto
quotidiano della persona. I risultati, però, sono determinanti; entrambi sono al servizio di una
corretta e sana relazione con il prossimo e con Dio, regolando il rapporto con se stessi. Se
l’io non riesce a costituirsi come soggetto di una relazione per una forte disistima di sé, ci si
trova dinanzi ad un difetto di base che non consente alcuna vita spirituale degna di questo
nome. Come pure, se esso si innalza fino al punto da oscurare e far da schermo alle
relazioni, come è nella nostra tendenza, tutto si deforma. Nei momenti di insuccesso, di
incomprensione, di impatto con il tratto ruvido degli altri spesso viene allo scoperto la
relazione con noi stessi, la quale è sempre connessa in ogni relazione con gli altri, e ci
troviamo così dinanzi ad una umiliazione o a una mortificazione del nostro io. Il diffidare di sé
implica la consapevolezza di poter cadere o offendere in ogni momento. Accogliere quei
momenti non come qualcosa che ci diminuisce, ma come qualcosa che rivela il limite nostro
o degli altri richiede sì una grande forza e talvolta una costrizione, ma anche una netta
certezza che per quel limite, per quella fallibilità, per quell’errore siamo stati amati da
Cristo, anzi per esso siamo stati più perdonati e resi capaci di amare, di espanderci molto di
più. «Se in ogni circostanza facciamo il salto della fede e scegliamo la follia della carità,
finiamo sempre con il trovarci in ginocchio davanti agli altri» (A.M. Canopi).
ABC
N. 73 - Luglio / Agosto 2006
123
ORAZIONE E PACE DELL’ANIMA
1. La preghiera è un’intimità tra il nostro spirito e Dio; quale stabilità deve dunque avere lo
spirito per portarsi, senza tornare indietro, verso il suo Signore e conversare con lui senza
alcun intermediario! Se Mosè, quando tentò di avvicinarsi al roveto ardente, ne fu impedito
fino a che non si tolse i sandali dai piedi, come mai tu che pretendi vedere Colui che è su tutti
i pensieri e sentimenti, non ti liberi da ogni pensiero appassionato?
2. Quando i demoni ti vedono pieno d’ardore per la vera preghiera, ti suggeriscono il
pensiero di certi oggetti falsamente necessari; e poi ben presto essi sovreccitano il ricordo
che vi si riallaccia, spingendo l’intelligenza alla loro ricerca e siccome essa non li trova, si
rattrista molto e si affligge. Allora, al tempo della preghiera, essi le ricordano gli oggetti
delle ricerche e dei suoi ricordi, affinché l’intelligenza, trascinata a considerarli, perde
l’orazione fruttuosa.
3. Se ti giunge qualche provocazione o contraddizione e sei irritato e senti che la tua collera
porta a rendere la pariglia o a replicare, ricordati della preghiera e del giudizio che lì ti
attende e subito il movimento disordinato in te si placherà.
4. Tutto ciò che tu farai per vendicarti di un fratello che ti avrà fatto torto, diverrà una pietra
d’inciampo al momento della preghiera. La preghiera è un germoglio della dolcezza e
dell’assenza di collera. Chi accumula interiormente pene e rancori e s’immagina di pregare,
somiglia a quelli che attingono l’acqua per versarla in una botte bucata.
5. Mentre pregherai com’è necessario, ti si presenteranno cose tali da stimare veramente
giusto l’uso della collera. Orbene non c’è assolutamente collera giusta contro il prossimo. Se
cerchi bene, troverai che è possibile aggiustare la cosa anche senza collera. Usa dunque
tutti i mezzi per non fare scoppiare la collera. Armato contro la collera, non ammetterai mai
alcuna cupidigia; perché è lei a fornire materia alla collera e questa turba l’occhio spirituale,
saccheggiando così lo stato di preghiera.
6. Se tu aspiri a pregare, non devi fare nulla d'incompatibile con la preghiera, affinché Dio si
avvicini e cammini con te. Non si potrebbe correre legato; né l’intelligenza, assoggettata
dalle passioni, potrebbe vedere il luogo dell’orazione spirituale, perché strattonata qua e là
per effetto del pensiero appassionato non si potrebbe mantenere inflessibile.
Evagrio Pontico (346 ? - 399), Trattato dell’Orazione 3-4, 10, 12-14, 22, 24, 27,
65,71
L’AUTORE Nato a Ibora, in Turchia, discepolo di san Basilio, di Gregorio Nazianzeno (che
l’ordina diacono), predicatore a Costantinopoli, Evagrio lascia la corte imperiale e i suo
intrighi per abbracciare la vita solitaria, prima a Gerusalemme, poi nel deserto d’Egitto, alla
scuola di san Macario. La sua abbondante opera ci è stata trasmessa male, per le censure
che l’hanno colpita nello stesso momento di quella di Origene. Ci restano essenzialmente
delle raccolte di massime sulla vita spirituale, la cui influenza sarà considerevole sulla
spiritualità monastica ulteriore, tanto in Occidente che in Oriente.
IL TESTO Il Trattato dell’Orazione, raccolta di 153 sentenze sulla vita interiore, è costituito
da altrettante note d’alta densità sulla preghiera cristiana. Fedeli alla tradizione dei Padri del
deserto, ciascuna di loro condensa in poche parole una lunga osservazione della vita
spirituale, nella ricerca dell’hésychia, cioè della pace dell’anima soprannaturalmente liberata
dalle passioni.
§ 1. Spirito indica, alla sommità della nostra vita mentale, il punto in cui noi siamo in contatto
con Dio, come un’antenna attraverso la quale passano, insensibilmente, le immagini e i suoni
che vanno a formarsi in seguito sullo schermo della nostra anima. Se l’antenna si muove
incessantemente o non è orientata verso Dio (l’emittente), l’anima non potrà ricevere nulla.
Immobilizzare e orientare l’antenna, è “liberarsi da ogni pensiero appassionato”, essendo la
“passione” tutto ciò a cui noi ci sottomettiamo che è meno di Dio, e che forma da quel
momento in poi un “intermediario”, uno schermo tra lui e noi.
§ 2.”Certi oggetti falsamente necessari”: i nostri piccoli conforti, i nostri piccoli rancori, la
nostra piccola salute, i nostri piccoli diritti ecc, di cui noi facciamo preamboli all’orazione.
Poiché nulla di tutto ciò ci sembra cattivo, lasciamo che c’ingombrino e questo fa sì che al
fondo, Dio non è più il primo servito; e ciò basta a farci uscire dalla vita cristiana e ad
uccidere ogni progresso spirituale.
§ 3-4. Il secondo comandamento verifica sempre il primo: se i fratelli scompigliano la nostra
orazione, significa che quest’orazione, non è un esercizio d’amore, ma un puro esercizio
mentale. La nostra collera o l'impazienza testimonia in questo caso che l’orazione era per
noi, e non per Dio e per la sua volontà. Il rimedio? “Ricordati della preghiera…” vale a dire
rimettiti alla presenza di Dio e ritroverai la comunione con tuo fratello.
§ 5. L’obiettivo prioritario di Satana è turbare la nostra preghiera. Egli verrà sempre a noi
sotto l’aspetto del diritto e del bene, da opporre all’ingiustizia e ai difetti dei nostri fratelli.
“Ebbene, non vi è assolutamente collera giusta contro il prossimo” qualunque pretesto ci sia.
Evagrio direbbe peraltro che la collera giusta è, solo, quella contro i demoni, poiché è
l’astuzia di Satana a sviarla sui nostri fratelli, allorquando lui stesso li rende ingiusti o pieni
di difetti. Il rimedio? Il decimo comandamento sempre dimenticato: «Non desiderare … » Cioè
non trattare tuo fratello come un concorrente, ma… come un fratello!
§ 6. La nostra orazione vale quanto la nostra vita cristiana: l’una e l’altra stanno nella nostra
intenzione “inflessibile” di “camminare” con Dio. Non si può amare Dio nell’orazione e volere
altro dalla sua volontà, fuori dell’orazione: ciò equivarrebbe ad essere “strattonato per l’effetto
del pensiero appassionato”.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
P come… PURIFICAZIONE
Se di solito noi parliamo di purificazione nel progresso spirituale, i maestri preferiscono più
spesso parlare di purgazione, perché
Le virtù sono inerenti all’anima in nome della creazione. Per questo, attraverso l’eliminazione
di ciò che è contrario alla sua natura, quel che gli è conforme non può mancare di apparire,
proprio come rimuovendo la ruggine, appaiono lo splendore e la luminosità naturale del ferro.
San Massimo il Confessore (580-662), Disputa con Pyrrhus, 309 C
Si tratta quindi di una purga nel senso medicinale della parola:
Per unirsi a Dio, la nostra volontà deve essere svuotata e svilita da ogni legame disordinato
alle cose di quaggiù come a quelle di lassù, temporali o spirituali. Così purgata e mondata
essa si potrà impiegare tutta intera e con tutta la sua affezione nell’amore di Dio.
San Giovanni della Croce (1542-1591), lettera del 14 aprile 1589
E non piangiamo, quando questa purga è un po’ forte:
Ciò che dispone ad una più grande grazia, dispone ugualmente a una più grande gloria!
Santa Francesca Romana (1384-1440), Visione dell’Inferno, IX
Questo però non si farà in una giornata:
Immaginiamo un pozzo melmoso, da cui si trae incessantemente acqua. All’inizio quel che si
tira fuori è quasi soltanto fango, ma a forza di tirare, il pozzo si purifica e l’acqua diviene più
chiara; tanto che alla fine viene fuori l’acqua tutta bella e cristallina. Allo stesso modo
lavorando incessantemente nel purgare la nostra anima, il fondo si scopre poco a poco e Dio
vi manifesta la sua presenza con potenti e meravigliosi effetti che opera nell’anima e
attraverso lei per il bene degli altri.
Luigi Lallemant (1588-1635), Dottrina spirituale, Cap. VI, 3° principio, I 2
Man mano che si fa giorno, noi vediamo più chiaramente nello specchio i difetti e le macchie
del nostro viso: così a misura che la luce interiore dello Spirito Santo illumina le nostre
coscienze, noi vediamo più distintamente e chiaramente i peccati, le inclinazioni e
imperfezioni che ci possono impedire di giungere alla vera devozione. La stessa luce che ci
fa vedere questi difetti e disonori, ci anima al desiderio di ripulircene e di purgarcene.
San Francesco di Sales (1567-1622), Introduzione alla Vita devota, I, 22
È dunque Dio stesso che purifica e non le nostre prove come tali:
Vi sono delle suore che credono voi avrete le paure della morte. – Se io le ho, esse non
sarebbero sufficienti a purificarmi, ciò non sarebbe altro che l’acqua della candeggina… È il
fuoco dell’amore che mi occorre.
Santa Teresa del Bambino Gesù (1873-1897), Ultimi colloqui, Luglio 1897
E quando questo fuoco è acceso:
«Ah! Mio Amore! Ah! Mio Diletto! Ah! Mio Amore! Ah! Mio Diletto!» I mesi interi passavano
così e dicevo spesso, queste poche parole allo Sposo che si compiaceva di purificare la sua
futura sposa in questo languore che è una morte senza morte e un purgatorio amoroso, dove
egli la tiene per purgarla delle sue proprie operazioni, appropriazioni e altri resti di difetti.
Beata Maria dell’Incarnazione (1599-1672), Relazione del 1654, Supplemento,
X
Ma allora, perché tante prove su questo cammino d’amore?
Ricordiamoci ciò che ha detto il Signore, cioè che suo Padre era un vignaiolo, che lui stesso
era la vera vigna e che ogni raccolto che in lui porterà frutto, sarà purificato per fruttificare di
più. Così questo divino vignaiolo dispone, in vista di altri frutti che accresceranno in loro le
virtù, le anime preoccupate di avanzare sul cammino della perfezione, quelle che, come il
servitore fedele, hanno saputo raccogliere nei doni meno elevati.
Jesus de J. M. Quiroga (1562-1628), Apologia mistica, XXV
Mi è dunque più vantaggioso, Signore, essere nell’afflizione purché tu sia sempre con me,
che regnare o essere nelle più grandi gioie senza di te, o anche godere la gloria senza di te.
Mi è senza dubbio più vantaggioso, Signore, abbracciarti più strettamente nell’afflizione e
averti con me nei mali che mi provano e mi purificano, che essere senza te nel cielo.
San Bernardo (1090-1153), Sermone sul salmo 90
Allora,
Se dobbiamo desiderare qualcosa occorre che siano le cose che Gesù crocifisso ha
desiderato, perché esse sono contrarie alle inclinazioni della natura… Prendiamo i nostri
svaghi nei cattivi successi, le nostre comodità nelle scomodità e negli sfavori della fortuna e
stimiamoli vantaggi per la grazia. Così noi ci purificheremo e il fondo della nostra anima si
vuoterà della corruzione di Adamo e si riempirà dello spirito di Gesù Cristo e godremo una
profondissima pace.
Giovanni de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, Libro II,
cap. XIV
Invece di lamentarci sulle nostre prove,
Non c’è che portarle, dato che Dio le ha messe sulle nostre spalle; perché il loro peso opera
in noi per se stesso, senza applicazione o sforzo da parte nostra, la sottomissione alla
volontà e agli ordini di Dio. Questa semplice sottomissione, unendoci alla volontà divina, fa sì
che Dio opera in noi segretamente ed Egli fa la sua opera, mentre la natura corrotta è
costretta a purificarsi sotto questo divino torchio e a svuotarsi delle inclinazioni che aveva
verso le creature.
Mauro del Bambino Gesù (1617-1690), Lettera del 1674 a M.Me Guyon
Così che
Gli stati più crocifissi sono quelli in cui l’anima si epura e purifica di più, in cui diviene più
libera e staccata dalla creatura e più unita di conseguenza al suo divino centro, che è Dio.
Alessandro Piny (1640-1709), Stato del puro Amore, XIII
SE SI CREDE, SI HA STABILITÀ
Non v’è dubbio che appena ci si è addentrati un minimo nella relazione con il Signore, si
constata la gratuità della sua amicizia nei riguardi della quale il principale ostacolo è interno
alla persona umana. La tendenza di questa a pensare che il proprio cammino (progresso!)
dipenda da quel che fa lei, da come sa osservare le regole, sia morali sia ascetiche, diventa il
modo per legare le mani a Dio non lasciandogli alcuno spazio. Lungi da noi incitare a un
quietismo pigro, o persino immorale/amorale, ma occorre riconoscere che l’unica parte
effettiva che l’uomo può avere nella vita spirituale è quella di ben disporsi a lasciar operare
Dio. Se pensiamo, d’altronde, che questa vita “spirituale” è la stessa Trinità nel credente, con
le sue processioni di generazione del Figlio e di spirazione dello Spirito Santo, forse ci si
rende meglio conto che in ciò il cristiano ha ben poco da attivarsi. D’altra parte, quando la
grande tradizione monastica e religiosa spiega la necessità di aderire alla regola propria e
al superiore diretto senza premettere i se e i ma a tutto quel che viene proposto, non invita a
una passività inoperosa, bensì ad una attività pacifica e abbandonata, fiduciosa e spesso
costosa, che tiene a bada la tendenza a stender la mano per prendere da sé il frutto
dell’albero, dimenticando colpevolmente che Dio stesso vuole la felicità dell’uomo, vuol
renderlo come lui e con lui. Per aiutare l’uomo a combattere questa tendenza, che la teologia
ha chiamato concupiscenza, frutto del peccato d’origine, e mostrargli la gratuità dell’amicizia
offerta, il piano divino ha attuato nella storia della salvezza una pedagogia rispettosa delle
scelte umane ma ferma circa l’obiettivo da perseguire. Emblematico è il cammino esodiale di
quaranta lunghi anni, con un percorso geografico non certo il più breve o conveniente,
mortalmente rischioso, ma adatto a provare l’amore degli Israeliti per il Signore. E in questo
lungo cammino il loro piede non si gonfiò né venne loro meno il cibo. «Abbi fede e vedrai!»
disse il Signore a Mosè.
ABC
N. 74 - Settembre 2006
123
Il PECCATO, TRAMPOLINO PER L’ORAZIONE
1. Quando ti trovi ferita per essere caduta in qualche difetto per debolezza tua ovvero anche
talora per volontà e malizia, non diventar pusillanime e non inquietarti per questo ma
rivolgendoti subito a Dio digli così: «Ecco mio Signore, che io mi sono comportata da quella
che sono: né da me ci si poteva aspettare altro che cadute». E qui con un poco di sosta
umiliati agli occhi tuoi, addolorati dell’offesa fatta al Signore e, senza confonderti, muoviti a
sdegno contro le tue viziose passioni e principalmente contro quella che ti ha causato la
caduta.
2. Continua poi: «Né qui, Signore, mi sarei fermata, se tu per tua bontà non mi avessi
trattenuta».E qui rendigli grazie e amalo più che mai provando stupore di tanta clemenza
poiché, da te offeso, ti porge la mano destra perché tu non cada di nuovo. Infine dirai con gran
confidenza nella sua infinita misericordia: «Fa’ tu, Signore, da quello che sei; perdonami, non
permettere che io viva mai separata e lontana da te né che più ti offenda».
3. Ciò fatto, non ti dare a pensare se Dio ti abbia perdonato o no: questo non è altro che
superbia, inquietudine di mente, perdita di tempo e inganno del demonio sotto apparenza di
diversi buoni pretesti. Perciò lasciandoti liberamente nelle mani pietose di Dio, continua il tuo
esercizio come se non fossi caduta. E se molte volte al giorno tornassi a cadere e restassi
ferita, fa’ questo che ti ho detto con non minore fiducia la seconda, la terza e anche l’ultima
volta più della prima; e disprezzando sempre più te stessa e odiando di più il peccato, sforzati
di vivere più prudentemente.
4. Questo esercizio dispiace molto al demonio sia perché vede che è graditissimo a Dio, sia
perché ne viene a rimanere confuso, trovandosi superato da chi prima egli aveva vinto. E
perciò con diversi fraudolenti modi si adopera perché noi lo tralasciamo, e molte volte l’ottiene
per nostra trascuratezza e poca vigilanza su noi stessi.
5. Per la qual cosa se tu in ciò troverai difficoltà, a maggior ragione ti devi fare violenza
ripigliando questo esercizio più di una volta anche in una sola caduta. Se dopo il difetto ti
sentissi inquieta, confusa sfiduciata, la prima cosa che devi fare è recuperare nello stesso
tempo la pace, la tranquillità del cuore e la confidenza e fornita di queste armi, rivolgiti poi al
Signore perché l’inquietudine che si prova per il peccato non ha per oggetto l’offesa di Dio,
ma il proprio danno.
Lorenzo Scupoli (1530-1610), Il Combattimento spirituale, cap. 26
L’AUTORE Nato ad Otranto, Scupoli incontra a Napoli la fervente e giovane famiglia dei
teatini. Vi entra nel 1569, prima di essere trasferito a Piacenza dove sarà ordinato prete nel
1577, poi a Milano, Genova, Venezia e Napoli. Accusato, certamente a torto, di un grave
delitto nel 1585, cadde in disgrazia fra i suoi fino alla sua riabilitazione avvenuta al tramonto
di una vita che ha conosciuto quasi soltanto umiltà e discrezione.
IL TESTO Edito a Venezia nel 1588 senza nome d’autore, il Combattimento Spirituale
conobbe molto presto un immenso successo che gli valse più di 600 edizioni in tutte le lingue,
fino a oggi. Il suo lettore più famoso sarà san Francesco di Sales che non se ne separerà
mai. Piccolo manuale di fiducia assoluta nella bontà di Dio e di sfiducia verso se stessi, dove
si trova già la dottrina salesiana: l’attenzione alla presenza amorosa di Dio nei minimi
dettagli della vita più comune.
§ 1. Più o meno voluto o consentito, il peccato nasce sempre dall’orgoglio e l’orgoglio è
sempre un’illusione sui nostri supposti meriti. Essendo così, il vero dramma del peccato è di
farci credere che Dio è nemico del peccatore, come se egli avesse bisogno della nostra virtù,
come se fossimo capaci di fargli torto; e ciò è ancora orgoglio. Allora, ritorniamo al reale:
Dio non ci chiede di lottare contro di noi stessi (con quali armi?), ancor meno di abbatterci,
ma di dimenticare noi stessi, di disdegnare le nostre “viziose passioni” che ci hanno troppo
sviato dalla vera vita.
§ 2. Meglio ancora, invece di piagnucolare sulla nostra indegnità, rallegriamoci nel
constatare che non siamo caduti più in basso. Dio vegliava dunque su di noi, rendendoci ad
ogni istante la possibilità di ritornare a lui; cosicché il peccato non è mortale fino a che
serbiamo la volontà di convertirci. Occorre e basta domandarglielo, vale a dire rinnovarlo con
l’orazione, con “l’attenzione semplice e amorosa a lui”, direbbe san Giovanni della Croce.
§ 3. Rammarico si, rimorso no! Il rimorso rimane uno sguardo orgoglioso su noi stessi.
Facciamo come Dio: egli non si guarda, egli ci guarda, non vedendo nemmeno il nostro
peccato. E siccome noi fatichiamo ad accettare una cosa così semplice, occorre ridircela
mille volte al giorno, e soprattutto riviverla. Solo quando noi non daremo più alcuna
importanza al nostro peccato, avrà cessato di essere peccato.
§ 4. Se il demonio si rallegra dei nostri peccati, non è perché essi offendono Dio (che torto
potremmo fare a Dio?), ma perché essi trascinano questa paura che ci separa da lui. Allora
utilizziamo le nostre mancanze d’amore per obbligare Dio a più amore: poiché abbiamo
sperperato i suoi doni, chiediamogli il suo perdono e questo rivolgerà il peccato contro colui
che lo ha suggerito: “trovandosi superato da chi prima egli aveva vinto!”.
§ 5. Ciò che ci dispiace nel peccato è, spesso, più la perdita di una certa immagine di noi
stessi che l’offesa fatta a Dio: noi non riusciamo mai ad accettare che egli ci ama così come
siamo, in fondo cioè, come egli ci ha fatti. Così occorre che scacciamo ogni vergogna e
accettiamo, una buona volta per tutte, che il peccato non ha più alcuna importanza dopo che
“Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi
potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio” (2Cor. 5, 21)
L'ORAZIONE dalla A alla Z
Q come … QUIETE
Noi siamo tranquillamente occupati a non pensare a nulla, o quasi, ed ecco che si è imposta
l’evidenza della presenza di Dio, oscura e illuminante, allo stesso tempo, indicibile e certa,
potente e dolce, più preziosa dell’universo intero: siamo entrati in orazione di quiete;
L’anima comincia qui a raccogliersi al contatto di qualcosa di soprannaturale perché in alcun
modo lei può ottenere ciò da se stessa, per quanto faccia. Si tratta di un raccoglimento delle
sue potenze verso l’interno, per godere di questa contentezza con più gusto, ma senza che
esse si perdano o dormano. Pertanto la sua volontà si rende prigioniera, senza sapere come,
dando solo il suo consenso perchè Dio la imprigioni, sapendo bene che è colui che ama a
tenerla così.
Santa Teresa d’Avila (1515-1582), Autobiografia, XIV
Questo stato è così evidente, quanto inesplicabile:
Questo sentimento è vero, non ha nulla di ben distinto; ma la pace e la dolcezza che
l’accompagnano persuadono l’anima che colui che ama è vicino; che viene lui stesso a darle
testimonianza del suo amore, che lo cercherebbe vanamente altrove e che deve pensare
soltanto a godere della felicità che le viene presentata.
Pietro de Clorivière (1735-1820), L’orazione mentale, 33-34
È impossibile da provocare:
L’anima vede che è l’ordine di Dio su di lei; che si compiace di legarla ad intervalli a Lui e di
farle gustare la sua presenza e che è il suo Dio, il suo centro e il suo fine ultimo.
Giovanni de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, libro III
cap. 3
Senza essere spettacolare, può divenire invadente:
Dio non sempre manifesta con grandi luci, la sua presenza a un’anima: qualche volta è con
un sentimento di quiete che tocca dolcemente il suo cuore e che la lega a Lui. Allora, le
potenze intellettuali non fanno nulla se non guardarlo semplicemente e chiaramente, unendosi
a lui per possederlo.
Idem cap. 6
Anche se più sovente, egli tende a sfumare nelle profondità della coscienza:
Perché Dio parla nella parte superiore dell’anima con una parola molto semplice e l’anima
l’ascolta con una vista molto semplice delle cose che egli le fa intendere… Egli vi spande una
luce estremamente chiara…
Così che
… senza lavoro e senza disgusto, ma piuttosto con un amabilissimo riposo e una
meravigliosa dolcezza, l’anima è meglio istruita in meno tempo di quanto lei potrebbe con il
suo lavoro, in più anni.
Giovanni Bona (1609-1674), Il Discernimento degli spiriti, cap. VIII
Perciò,
In questa quiete, l’anima deve prestare attenzione a ciò: sebbene non si sente avanzare né
fare qualsiasi cosa, avanza molto più che se camminasse con i suoi piedi perché Dio la porta
sulle sue braccia; così sebbene ella avanzi a passo di Dio, non lo sente e sebbene ella non
operi nulla con le sue facoltà, fa molto di più perché è Dio che opera.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Fiamma Viva III
Quindi, per ciò che dipende da noi,
Questa orazione di quiete consiste nel tacere interiormente, nel lasciar cadere ogni
pensiero, piuttosto che combattere quelli che vengono o cercare quelli che non vengono.
Jean-Pierre de Caussade (1675-1751), Lettera 88 a Madre de Rosen
Al punto che questo stato può talvolta passare per pigrizia…
Dio tiene l’anima come assopita e in un riposo in cui ella gode e riceve da lui senza fare
nulla, non sapendo come gode, ma sentendo una grandissima calma e dolcezza interiori.
Mentre le sue potenze sono come raccolte e riempite di una gran pace che si estende fino al
corpo, lei si accorge solo che è Dio presente a riempirla così e ad operare in lei questa
soavità e questa pace.
Alessandro Piny (1640-1709), L’Orazione del Cuore, cap. IV
La sua volontà dimora in una perfetta sottomissione alle impressioni di Dio e ai movimenti
della sua grazia: come un uomo che vuole scaldarsi al sole, rimanendo a riposo e non
facendo nulla se non esporsi ai suoi raggi.
Claudio Martin (1619-1696), Conferenza VIII sull’Orazione
…invece, corrisponde a una accelerazione della nostra vita mentale:
È questo dolce e intimo declivio che c’inclina incessantemente verso il nostro unico bene, che
ci attacca a lui, ci unisce, ci perde e ci mescola talmente in lui che non vediamo altro che lui
in noi, né alcun mezzo per andare a lui, se non lui stesso.
François-Claude Milley (1668-1720), Lettera del 1709 a una religiosa
Azione così come riposo, questo stato è l’equilibrio dell’uomo in Dio e di Dio nell’uomo,
perché
I diletti di Dio sono di conversare con i cuori: è lì il luogo del suo riposo. E reciprocamente
Dio solo è il centro dei cuori, essi devono riposarsi solamente in Dio e avere movimento solo
per Dio.
Beata la vita interiore che fa vivere Dio solo nei cuori e che fa sì che questi non vivano che per
Dio, non gustino che Dio! Beata la vita del cuore in cui Dio regna e che egli possiede
pienamente! Vita separata dal mondo e nascosta in Dio; vita d’amore e di santa libertà. Vita
che fa sì che il cuore trovi nel regno di Dio la sua gioia, la sua pace, i veri piaceri, la gloria,
la solida grandezza, i beni e le ricchezze che il mondo non può dare né togliere.
Luigi Lallemant (1588-1635), Dottrina Spirituale, I cap. 2
LA PREGHIERA TRA PAROLA E SILENZIO
«Il Signore mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza» (Is 50,5): nello stesso atto
l’avvenire di una parola e di una ricezione; il pieno e il vuoto, per così dire, tenuti insieme
nell’unico amore. Il colloquio tra il Padre e il Figlio, che è il respiro dello Spirito, è come un
intreccio tra parlare e tacere pressoché indistinguibile. Come una scrittura su un foglio non
si decifra se non per l’alternarsi di segni d’inchiostro e spazi vuoti, come una musica non si
percepisce se non si avvicendano pause e suoni, così se non ci fosse nessun silenzio non si
potrebbero comprendere le parole, se queste non fossero intervallate a dovere dal silenzio
nessuna comunicazione accadrebbe. È quasi come il ritmo del respiro. Quando il Figlio
parla e quando tace, avviene per la gloria del Padre, perché il silenzio è nella parola e mai
fuori o senza di essa, ne è un elemento costituente. Il Verbo è stato generato nel silenzio e
tramite il silenzio, è avvolto dal silenzio. Come nell’eternità, così pure nel tempo, nel grembo
verginale di Maria; ma anche nel Battesimo, dove una parola paterna risuona, congiunta e
inverata a quella del Getsemani, dove il silenzio del Padre lascia spazio all’accoglienza
piena della figliolanza da parte del Figlio. La nostra preghiera è un esser presi dentro il
silenzio parlante e il parlare silente della divina Trinità. La parola, umana o divina, in essa è
avvolta dalla pausa silenziosa, che è eco del detto, che è attenzione, attesa del nuovo dire.
Così la preghiera respira, vive e diviene, av-viene e lascia av-venire, è colloquio. Non si può
dire se nell’amore una domanda o una risposta è più importante. Quando Dio domanda e
l’uomo risponde, allora la risposta è già inclusa nella domanda. (ispirato a H.U. von
Balthasar, Il nostro compito, Milano 1991, p. 128s)
ABC
N. 75 - Ottobre 2006
123
UN AMORE TRASPARENTE…
1. Anche se il Buon Dio vi ha dato il desiderio di appartenere totalmente a Lui,… non vi stupite
se vi vedete molto vaga, incerta, e senza avere nulla di Dio che vi consoli e che vi dia segni
che Egli vi ama e che voi Lo amate. Tutto ciò deve essere ricevuto e non desiderato e, se
l’anima non ha nulla e le sembra assolutamente che serve Dio a sue spese e senza
consolazione, tanto meglio, perché ciò è più vantaggioso per incontrare più prontamente Dio.
2. Occorre fare con fedeltà ciò che la Sua bontà desidera da voi, sia per la vostra orazione sia
per la presenza di Dio nella giornata e la pratica delle virtù nello stato in cui Egli vi ha posto.
Tutto ciò si deve praticare ed eseguire senza attendere nulla in fatto di luci o gusti; e in
questa maniera, un giorno varrà meglio di un anno in cui si nutre la natura con la luce e i
gusti che ci si procura abilmente…
3. Poiché la divina Provvidenza vi ha legato a una famiglia e a un marito, desidera che voi vi
serviate di ciò per morire spesso ai vostri santi progetti e alle vostre devozioni, perché agire
in questo modo è lasciare una cosa santa per il Dio della santità… È vero che non c’è nulla di
più comune e, tuttavia, nulla di più nascosto: è il mistero di Gesù Cristo che solo Cristo può
rivelare. Ecco perché Dio Salvatore degli uomini è, e diviene un bambino povero, poi un
ragazzo povero secondo lo stato e la condizione nella quale la divina Sapienza l’aveva
posto…
4. Un’anima arriva alla divina sorgente d’acqua viva solo per la fedele pratica del suo stato e
condizione, questo soprannaturalizza tutto in lei e rende tutto quel che fa come un’acqua che
scorre dalla roccia. L’anima non può comprendere come una vita così sterile di fervori e priva
di grandi azioni, e con una durezza che somiglia all’insensibilità della roccia, può dare
un’acqua così chiara e cristallina. Tuttavia, … chi non è in questo modo nutre segretamente
la propria volontà, la sufficienza, l’orgoglio, e così poco a poco inaridisce la grazia, sebbene
sembri che egli sia animato da fervore e zelo. Al contrario, la morte causata e operata dal
mistero nascosto della nostra condizione, soffocandoci crudelmente e senza pietà, con la
perdita di tutto ciò che vogliamo e desideriamo, ci insinua la grazia e ci fa partecipi di una
segreta vita divina che l’anima non può mai scoprire in lei, perché Dio per sua bontà
sospende sempre la luce affinché la morte e la croce crudeli facciano meglio ciò che Dio
desidera.
Jacques Bertot (1620-1681), Lettera a M.me Guyon, (ed. D. Tronc, Lettera 23)
L’AUTORE. Nato a Coutances, prete legato al circolo mistico di Giovanni de BernièresLouvigny, (cf. Semi n° 37) Bertot fu uno dei tre grandi direttori spirituali del XVII secolo, in
Normandia poi a Parigi presso i benedettini di Montmartre. Fra le persone del mondo che si
riunivano attorno al monastero, Madame Guyon fu quella che profittò di più della sua
direzione. Erede della sua spiritualità caratterizzata da un totale abbandono a Dio nella fede
pura, ella raggruppò i suoi opuscoli e lettere ne Il Direttore Mistico, edito a Colonia nel 1726.
IL TESTO § 1. Le lettere di Bertot non cessano di ricordare la necessaria trasparenza della
fede, al di là di ogni esperienza sensibile di Dio, per quanto mistica sia. Allora, lungi dal
desolarsi per non sentire nulla nell’orazione, l’anima deve rallegrarsene dal momento in cui,
peraltro, “sembra assolutamente che serve Dio a sue spese”in altre parole nel momento in
cui la sua fedeltà non potrebbe essere messa in causa, poiché è senza contropartita. Questa
precisazione dovrebbe bastare ad assolvere Bertot dall’accusa di quietismo di cui è stato
talvolta oggetto.
§ 2. Quando non si sente la Presenza di Colui che si sa là, sia che ci si trovi nell’orazione o
in altra occupazione, il compimento esatto della sua volontà diviene l’espressione più pura di
un amore assolutamente trasparente e disinteressato (“senza nulla attendere in fatto di luci e
di gusti”). Libera da ogni ritorno su se stessa, l’anima progredisce qui a gran velocità, senza
accorgersene, proprio come una macchina che funziona bene senza far rumore, né fumo.
§ 3 Il dovere di stato (“poiché la Provvidenza vi ha legato a una famiglia e ad un marito…”)
non è mai un ostacolo all’unione a Dio: ne è il cammino più diretto, fuori del quale i nostri più
“santi progetti e devozioni” non valgono più nulla, poiché essi preferiscono “una cosa santa”
al “Dio della santità”. Questo cammino fu quello di Gesù Cristo, venuto per fare la volontà del
Padre e non la sua, attraverso tutte le esigenze di una vita umana sottomessa in ogni punto
alle medesime pesantezze della nostra.
§ 4 Dopo il peccato originale noi vorremmo sempre sentire, e sentire per padroneggiare e
verificare mentre Dio è essenzialmente insensibile. Cosicché l’unione più perfetta a Dio sarà
“chiara e cristallina” quando avremo accettato di viverla con “l’insensibilità della roccia”
Certamente non dipende da noi che sia così, ma quando Dio ci fa questa grazia che è la più
bella, “la propria volontà, la sufficienza e l’orgoglio” spariscono, senza che ne resta
abbastanza per accorgersene. Beata perdita che “ci fa partecipi della segreta vita divina!”
L'ORAZIONE dalla A alla Z
R come… RACCOGLIMENTO
Se la quiete (cf. Semi n° 74) è lo stato d’amore calmo e lucido nel quale Dio pone quelli che
chiama alla contemplazione, il raccoglimento sarà lo stato nel quale noi poniamo noi stessi per
aprirci alla sua presenza.
Se avessi compreso come adesso che nel piccolo palazzo della mia anima abitava un sì
grande re, mi sembra che non l’avrei lasciato solo così spesso, ma che di tanto in tanto sarei
rimasta in sua compagnia e avrei fatto in modo che il suo palazzo non fosse così sudicio.
Santa Teresa d’Avila (1515-1582), Cammino di Perfezione, cap. 48.
Infatti,
Dio è presente in voi per produrvi incessantemente operazioni amorose; egli c’è per amarvi di
un amore infinito e procurarvi tutti i beni che possiede in se stesso; tuttavia su ciò voi riflettete
così poco.
Jean-François de Reims († 1660), La vera Perfezione, I, istruzione II
Allora,
Ricordatevi sempre che il santo raccoglimento è come il primo motore di tutto il resto della
vita spirituale; è la strada maestra dell’interiore.
Jean Pierre de Caussade (1675-1751), Lettera 87
Perchè
Salire verso Dio è entrare in se stessi; e non solo entrare in se stessi, ma in maniera
inesprimibile, penetrare il più intimo di se stessi.
Ugo di San Vittore (1096-1141), De Vanitate Mundi, 2.
Là, noi scopriremo che
Il centro dell’anima è Dio; e quando lei lo avrà raggiunto secondo tutte le capacità del suo
essere e tutta la forza della sua operazione, avrà raggiunto il suo centro ultimo e più
profondo. Quando amerà Dio con tutte le sue forze, allora lo conoscerà e godrà di lui.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Fiamma Viva, I, 12
Perciò
Non bisogna fermarsi alla superficie, bisogna entrare sempre più nell’Essere divino
attraverso il raccoglimento, … discendere ogni giorno in questo sentiero dell’Abisso che è
Dio. Lasciamoci scivolare per questo pendio in una fiducia tutta piena d’amore. “Un abisso
chiama l’abisso”: è lì, in fondo che avverrà l’urto divino, l’abisso della nostra miseria si troverà
a tu per tu con l’Abisso della misericordia, dell’immensità del tutto di Dio.
Beata Elisabetta della Trinità (1880-1906), Il Cielo nella fede, 1°giorno.
Per questo,
È assolutamente necessario spogliarsi e distaccarsi dapprima da tutte le cose ritraendosene
veramente, come se si fosse morti, superandole. Non che si cerchi ciò direttamente e
principalmente, ma come un passaggio mentre si cerca qualcosa di migliore, che è l’amore
e lo spirito vero di Dio.
Costantino de Barbançon (1582-1631), I segreti Sentieri…, II, cap. 7
Ciò non ci faccia paura:
Ci immaginiamo che si conduca una vita triste e miserabile quando ci si dà al raccoglimento
e alla vita interiore. È tutto il contrario. La beatitudine stessa della terra consiste nel
possedere Dio; e più rinunciamo a noi stessi per unirci a Dio, più noi cessiamo di essere
tristi, e diveniamo felici.
Luigi Lallemant (1588-1635), Dottrina Spirituale, I, cap. 2
Piuttosto che fuggire il raccoglimento,
A Dio solo dovrebbero tendere tutti i nostri pensieri e desideri; lui solo merita di occupare
tutta la nostra attenzione, la nostra occupazione e il nostro amore.
Claude-François Milley (1668-1720), Lettera LIII
Vivere continuamente alla presenza di Dio è un punto fondamentale e chi è giunto a questo
punto sarà ben presto padrone della sua anima e di tutti i suoi movimenti, per abbandonarli tra
le mani del gran Maestro, al fine di vivere soltanto della sua vita e nella sua vita. Quando non
abbiamo questo raccoglimento e questo spirito di orazione continua, noi agiamo in tutte le
cose, o quasi in tutte, attraverso di noi stessi e, molto spesso, per noi stessi.
Francesco Libermann (1802-1852), Lettera del 23 gennaio 1838
All’inizio, ciò potrà sembrarci molto difficile, ma:
Quando questa lodevole abitudine sarà consolidata in lui, lo spirituale non la sentirà più come
difficile. Al contrario, questa abitudine finendo per passare nella natura, gli renderà facile,
essere attento a Dio e alle cose divine, quanto respirare e vivere.
Luigi de Blois (1506-1566), Istituzione Spirituale, cap. III
Ma non confondiamo raccoglimento e concentrazione mentale, perché
Il raccoglimento deve sempre essere una distensione e non uno sforzo.
Giovanni Chapman (1865-1933), Lettera del 5 gennaio 1914.
Raccogliendosi in se stesso e volgendosi verso Dio, l’asceta non forza la sua intelligenza,
per paura che cercando di volare più alto di quanto gli convenga, egli esca dalla semplicità…
Si raccoglie semplicemente, abbassando e mettendo accuratamente e con calma alla cieca
l’occhio della sua intelligenza.
Luigi de Blois (1506-1566), Istituzione Spirituale, cap. XII, § 3
Concretamente,
Per questo raccoglimento bisogna tagliare ogni abitudine superflua, ogni familiarità
superflua con le creature, quali che siano, ogni conoscenza superflua, ogni curiosità,
operazione e occupazione superflue. In una parola occorre che l’uomo si separi da tutto ciò
che divide.
Sant’Angela da Foligno (1249-1309), Libro delle Visioni e Rivelazioni, cap. 57
Ciò
Perchè tu mi sia dolce, o Dolcezza che non inganna, Dolcezza felice e sicura, mentre mi
raccolgo dalla dispersione nella quale mi ero perso per nulla, dissolvendomi nella
molteplicità, allontanandomi da te che sei l’Uno
Sant’Agostino (354-430), Confessioni, II, I
L’UMILTÀ
«Disse il padre Antonio al padre Poemen: “Questa è l’opera grande dell’uomo: gettare su di
sé il proprio peccato davanti a Dio; e attendersi tentazioni fino all’ultimo respiro”». Questo
piccolo detto riportato nella raccolta di Antonio il grande, considerato il padre del nostro
monachesimo, racchiude in nuce l’umanesimo cristiano, di cui sono intrisi i contemplativi.
Nella prima frase la grandezza dell’uomo emerge in quel “davanti a Dio”, che è la condizione
creaturale originaria, quando Adamo ed Eva stavano davanti a Lui e Dio passeggiava con
loro nel giardino. È restaurato, per iniziativa della grazia, lo stare innanzi e il rimettere in
sesto la relazione d’origine, nella quale adesso l’uomo può essere libero dal carcere della
menzogna e con audacia pronuncia parole di verità. In questa condizione non è gli possibile
mentire né lo vuole, non scarica su altri la propria responsabilità, avvilendo la propria dignità
e incorrendo nel divino castigo correttivo. Lì l’uomo accetta coraggiosamente nella verità la
responsabilità delle proprie azioni; di quelle proprie, ben inteso, e non di quelle altrui, perché
solo questo è vero e, oltretutto, sano. Non si tratta, infatti, di caricarsi di responsabilità non
proprie per un atto di vittimismo, con il quale non si fa altro che attirare egocentricamente
l’attenzione su di sé, o per un atto di modestia, essendo questa nettamente falsa. Il ripristino
della condizione di verità originaria, che è l’uomo nuovo ricreato da Cristo risorto, non può
non attirare l’attenzione del maligno, il quale gioca il ruolo dell’avversario, di colui che
avversa l’opera di Dio e, quindi, in ultimo l’unione di Dio con l’uomo. Il combattimento diventa
la situazione normale nella quale l’eremita o il monaco (ma potremmo dire semplicemente il
cristiano fedele al suo giuramento battesimale) entra nel momento che dice il suo “sì” a
Cristo. Non per altre ragioni egli entra nella prova e nella lotta, come in modo asciutto e netto
rappresenta il rito del battesimo in cui rinunciamo al maligno e professiamo la fede nella
Trinità. Le tentazioni non si fronteggiano con riti speciali e alternativi né ci si mette paura
entrando in situazioni di psicosi. Lo stesso padre Antonio afferma: «Vidi tutte le reti del
maligno distese sulla terra, e dissi gemendo: “Chi mai potrà scamparne? E udii una voce che
mi disse: “L’umiltà”». L’uomo purificato dalla luce divina ha l’occhio per vedere a fondo le
radici delle azioni umane, dove solitamente noi non arriviamo; addolorato piange ad una
visione così triste, ma è presto consolato e rafforzato da Dio, il quale gli chiede solamente di
esser vero.
ABC
N. 76 - Nov embre 2006
123
ORAZIONE SENZA FATICA
1. Io penso che talvolta può succedere che l’intensità nella preghiera, se causa una certa
fatica leggera, sia da parte nostra, uno sforzo naturale che non fa alcun bene alla preghiera.
È meglio essere completamente tranquilli, senza sforzo, a parte quello di rimanere in pace.
Quel che facciamo da noi stessi è stancante, vedete, ed è anche veramente un ostacolo
all’opera di Dio in noi. Ciò è buono, fa del bene, ma impedisce un bene superiore: è la
sostituzione parziale della preghiera emotiva alla pura preghiera contemplativa.
2. Quando la volontà lavora, senza l’immaginazione e le emozioni, la sua azione è quasi
impercettibile e completamente calma. Abitualmente non c’è alcun piacere, unicamente la
soddisfazione che tutto va bene e che si è occupati in ciò che è la migliore di tutte le
occupazioni. Penso che, dopotutto, gli effetti sono ben più grandi di quando c’è una certa
consolazione e un certo sforzo nella preghiera.
3. Ma ciò che lei descrive, suggerisce che lo sforzo era maggiore nel tentativo di serbare
l’atmosfera di preghiera tutta la giornata. È una cosa che non deve essere fatta con troppi
sforzi, perché il tentativo di essere sempre cosciente di Dio produce emicranie, tensione
nervosa, ecc. Io credo che la maniera buona è:
1) indiretta;
2) negativa.
- Indiretta: pratichi la preghiera il più possibile, nella via calma della contemplazione. L’effetto
verrà da sé, fuori della preghiera.
- Negativa: eviti le distrazioni per quanto possibile. Coltivi l’abitudine di prendere alcuni
istanti o minuti di pace, anche frequentemente, appena possibile. È come aprire una finestra
per lasciare entrare la pace; o ancor più come chiudere una finestra per lasciare fuori il
rumore. Lei non può fare il silenzio. Può fare un rumore. Può “fare” il silenzio soltanto
fermando il rumore, o chiudendo i suoi orecchi. Da lì deriva la maniera di ottenere questo
“raccoglimento” che è semplicemente la pace interiore non attraverso un qualsiasi sforzo
positivo, ma unicamente attraverso uno sforzo negativo, cioè la cessazione dell’agire o del
pensiero. Di conseguenza, ciò deve essere sempre un rilassamento e non uno sforzo; quindi,
non deve mai causare fatica, affaticamento o emicrania.
4. Io penso che tutto ciò è vero e spero che sia chiaro. I principianti devono meditare, operare,
affaticarsi; ma la contemplazione è riposo, pace, frescura e il suo effetto straordinariamente
rinvigorente. Proprio come il corpo dopo il sonno, così è la volontà dopo la preghiera.
Don John Chapman (1865-1933), Lettera ad una religiosa, 5 gennaio 1914
L’AUTORE Nato nel Suffolk, figlio di un canonico anglicano dopo eccellenti studi ad Oxford,
Enrico Chapman entra negli ordini a sua volta prima di convertirsi al cattolicesimo nel 1890.
Benedettino all’abbazia di Maresdous (Belgio), vi diviene don John e finirà abate del
monastero inglese di Downside nel 1929. Di grande cultura, di buon senso, pieno di
temperamento e di finezza, ci rimane di lui una raccolta di lettere che rivelano un direttore
spirituale pragmatico, che orienta le anime il più possibile verso la contemplazione nella linea
di san Francesco di Sales e di padre de Caussade
IL TESTO § 1. È chiaro che don Chapman si pone nell’ipotesi di un invito netto che Dio
rivolge alla sua corrispondente di entrare in un’orazione risolutamente contemplativa,
domandandole solamente di “rimanere in pace”. La fatica è, sempre, il segno di uno squilibrio
nella preghiera, di una ricerca “emotiva” laddove Dio attende la nostra semplice disponibilità,
senza alcuna tensione fisica: amare non stanca.
§ 2. Questa disponibilità non è la morte della nostra volontà, ma la sua armoniosa
corrispondenza alla volontà di Dio: volere ciò che Egli vuole, consiste soltanto, da parte
nostra, nel non volere ciò che Egli non vuole. Siccome un buon motore non fa alcun rumore
(“la sua azione è quasi impercettibile e completamente calma”), talvolta si avrà la tentazione
di preoccuparsi per questa assenza di resistenza, tuttavia sufficiente per provare “la
soddisfazione che tutto va bene” nella “migliore di tutte le occupazioni”.
§ 3. Perché, soprattutto agli inizi, ci s’inquieta, si cerca di “sentire” che si prega. Orbene, se
la preghiera è autenticamente contemplativa e peraltro si è fedele ai momenti riservati alla
preghiera, “l’effetto verrà da se stesso”; vale a dire l’evidenza della presenza di Dio poco a
poco inizia ad imporsi in tutta la vita. Non dimentichiamo mai che la preghiera essendo una
grazia non si può costruire: si tratta di accogliere Dio – è questo il “raccoglimento” – e non
di costringerlo ad entrare. Ogni preghiera costruita uccide la preghiera autentica, proprio
come guardare se nel vetro impedisce di vedere attraverso la finestra: perché preoccuparci di
non sentire Dio, dato che egli è là? Perché cercare di sentirlo “attraverso uno sforzo positivo”
che ci farà sentire solo noi stessi?
§ 4. Diciamo nuovamente che Chapman si rivolge qui a quelli che Dio invita nettamente sulla
via contemplativa e che, convenzionalmente, non sono più chiamati “principianti”, ma
“progredenti” anche se molti sono interamente contemplativi, appena sono cristiani. Un
segno di questa chiamata alla contemplazione, è che vivere l’orazione, per quanto arida,
come una semplice presenza a Dio presente, fa potentemente volere ciò che Dio vuole in tutte
le situazioni. Invece il falso contemplativo fugge fuori della vita concreta, è là l’effetto
“straordinariamente rinvigorente” della contemplazione autentica.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
R come… RINUNCIA
“Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”
(Mt. 16, 24s) Nulla da fare!
Rigirate la questione in tutti i suoi aspetti, sempre occorrerà che il fondo dell’uomo sia
spogliato, staccato, libero, povero e sgombro da ogni proprietà, se Dio deve realmente
compirvi la sua opera!
Giovanni Taulero (1300-1361), Sermone 71
Perché? Perché innanzi tutto Gesù ha rinunciato a se stesso:
Egli pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con
Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di
croce.
Filippesi 2, 6-8
Rinunciare a se stessi è dunque questione d’amore, amore di Gesù:
Essere ricco, a mio piacimento, vivere dolcemente dei miei beni, quando Voi siete stato
povero, a disagio, vivendo faticosamente di un rude lavoro, per me io non posso, mio Dio…, io
non posso amare così…
Beato Carlo de Foucault (1858-1916), Ritiro a Nazareth
Ciò perché occorre essere liberi per amare:
Non puoi godere di una libertà perfetta, se non rinunci interamente a te. Tutti quelli che si
amano e sono proprietari di se stessi: avidi, curiosi, inquieti, cercando sempre ciò che adula
lo spirito o il senso, e non ciò che appartiene a Gesù Cristo, vivono in servitù. Essi vanno
dalle illusioni alle instabilità, perché tutto ciò che non viene da Dio perirà.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Gesù Cristo, III, 37
Allora,
Tutte le nostre conversazioni, i nostri pensieri, le nostre azioni siano un’abnegazione di noi
stessi, una confessione di Cristo in Cristo.
Origene (185-253), Su Matteo 12, 54
…servendo Dio al modo di Dio, e mai al nostro.
Alessandro Piny (1640-1709), Lettera 90
Ciò corrisponde all’equilibrio soprannaturale di un’autentica vita cristiana:
Rinunciare a se stesso, è trasportare il cuore umano nella vita del cielo, in modo che si possa
dire: «La nostra patria è nei cieli» (Fil. 3, 20)
San Basilio (verso 330-379), Grandi Regole, 8
Fuga dai nostri doveri in questo mondo?
Io credo che colui che rinuncia a ogni proprietà per tale scopo, non può tuttavia agire con
disprezzo dei suoi beni; egli deve, al contrario, prendersene scrupolosamente cura, perché
sono ormai consacrati al Signore, cosicché ne disporrà coscienziosamente.
San Basilio, Grandi Regole, 9
Nessuna orazione possibile senza questa fondamentale rinuncia:
Se tu aspiri a pregare, rinuncia a tutto per ottenere il tutto.
Evagrio (346-399), Trattato dell’Orazione, 37
Perché
Gesù ama riempire tanto più le anime che trova più vuote dell’amore del mondo.
Jacques-Bénigne Bossuet (1627-1704), Sermone sulla Verginità
Allora,
Se tu vuoi sapere chi ami, abbandona ciò che tu ami!
Matilde di Magdeburgo (1207-1294?), Luce della Divinità, IV, 1
Ciò senza restrizione alcuna:
Per me non ha importanza che sia sottile o grosso il filo con cui è legato un uccello, perché
questo rimarrà prigioniero, sia nell’uno che nell’altro caso, fino a quando non l’avrà
spezzato.
San Giovanni della Croce (1542-1591), La Salita del Monte Carmelo, 1, 11
Il filo più fermo e anche più solido è l’amor proprio:
Forse non è difficile ad un uomo lasciare i suoi beni, ma gli è veramente difficile lasciare se
stesso. È poco rinunciare a ciò che si ha, ma è considerevole rinunciare a ciò che si è.
ma è considerevole rinunciare a ciò che si è.
San Gregorio Magno († 604), Omelia 32
Se qualcuno dopo aver professato la rinuncia e abbracciato la povertà, l’esilio e il digiuno,
resta legato alla propria persona…, egli è uscito dal mondo dalla grande porta, ma vi è
rientrato da una porta nascosta.
San Macario († 390), Omelia 43, 3
Su questo cammino, dice il Signore,
Più morrai a te stesso, più rigetterai con cura quel che è di te, più ti darò in abbondanza quel
che è di me.
Santa Caterina da Siena (1347-1380), Trattato della Perfezione, 11
Nulla è desiderabile per se stesso se non Dio, e tutto il resto è desiderabile solo in rapporto a
Dio. Così, cercare quel che non ci conduce a Dio, applicarvisi, compiacervisi è un errore e
una illusione.
Luigi Lallemant (1588-1635), Dottrina Spirituale, II, I, I
La rinuncia non è dunque vuoto delle cose, ma pieno di Dio:
Perché non ci servirebbe molto rinunciare e abbandonare noi stessi, se non fosse per unirci
perfettamente alla divina Bontà.
San Francesco di Sales (1567-1622), Veri colloqui spirituali, II
Così che
Tutti questi spogliamenti e rinunce delle cose si devono fare non per spregio, ma per
abnegazione, per il solo e puro amore di Dio.
Idem, VIII
Se noi potessimo rinunciare a noi stessi e ad ogni attaccamento alle nostre opere,
passeremmo attraverso ogni cosa, con lo spirito nudo e senza immagini; e in questa nudità
saremmo guidati senza intermediari dallo Spirito di Dio.
Beato Giovanni Ruusbroec (1295-1381), La Pietra brillante, II
Conclusione:
Tieni ben ferma questa massima breve e perfetta: tralascia ogni cosa e troverai tutto; rinunzia
alle brame e troverai la pace.
Tommaso da Kempis, Imitazione, III, 32
TESTIMONI DI GESÙ RISORTO
La risurrezione di Cristo è la più grande “mutazione” storica mai accaduta, l’ingresso in un
ordine decisamente diverso, che riguarda anzitutto Gesù di Nazareth, ma con Lui anche noi e
la famiglia umana. È un grande mistero la cui cifra è l’amore; soltanto nella logica dell’amore
, infatti, esso può essere accostato e in qualche modo compreso: Gesù risorge dai morti
perché tutto il suo essere è perfetta e intima unione con Dio, che è l’amore davvero più forte
della morte. Come rilev a Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me». Con il
battesimo è , allora, cambiata la mia identità essenziale e io continuo ad esistere soltanto in
questo cambiamento. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più
grande, il Cristo totale, nel quale il mio io c’è di nuovo, ma trasformato, purificato, “aperto”
mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza. I
cristiani divengono “uno in Cristo” e il loro io viene liberato dal suo isolamento. “Io, ma non
più io”: è la nuova formula dell’esistenza cristiana. Essa è chiamata a portare la gioia e la
speranza nel mondo, soprattutto in quell’Occidente in cui predomina una cultura che vorrebbe
porsi come universale e autosufficiente. Con questa nuova ondata di laicismo Dio rischia di
rimanere escluso dalla cultura e dalla vita pubblica della civiltà occidentale, dove la fede in Lui
diventa più difficile, perché il mondo si presenta quasi sempre come opera dell’uomo , nel
quale Dio non co mpare più direttamente , anzi sembra divenuto superfluo ed estraneo.
Tuttavia, se nella nostra epoca, nonostante i progressi compiuti, il male non solo non è vinto,
ma il suo potere sembra rafforzarsi, ritorna insistente la domanda se nella nostra vita ci
possa essere uno spazio sicuro per l’amore autentico e, in ultima analisi, se il mondo sia
davvero l’opera della sapienza di Dio . Ci soccorre la novità sconvolgente della rivelazione: il
Creatore ama personalmente l’uomo e in Gesù si fa uno di noi fino al s acrificio di sé per
l’uomo. Il Padre così al potere del male e del peccato non oppone un potere più grande, ma
preferisce porre il limite della sua pazienza e della sua misericordia, quel limite che è la
sofferenza del Figlio. In essa la nostra sofferenza è trasformata dal di dentro e racchiude una
promessa di salvezza.
(dal Discorso di S.S. Benedetto XVI al Convegno di Verona)
ABC
N. 77 - Dicembre 2006
123
AMARE DA MORIRE
1. Alla sera della tua giornata tutta consumata e indebolita nell’attesa di godere eternamente
della visione del volto dolce come il miele di Dio e dell’Agnello, gettati nelle braccia di Gesù,
tuo sposo e amante! Un bacio ti leghi interamente al suo cuore amoroso: reclamagli questo
bacio così potente che ti farà morire a te stesso adesso e ti farà passare in Dio al momento
della tua morte, perché tu divenga uno stesso spirito con lui, tu che nella tua sete
esclami:«Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, Dio mio!»…
2. Oh si, Amore! Tu il cui bacio è sì dolce, tu sei questa sorgente di cui ho sete. Per te brucia
il mio cuore: o mare immenso, possa tu, sì, possa tu assorbirmi in te, me, povera piccola
goccia! Tu sei per la mia anima un passaggio vivo e dolcissimo, affinché io trapassi da me in
te. Oh si, mi sia aperto questo passaggio salutare del tuo cuore che mi è così caro! Il mio
già non è più in me, ma tu, mio tesoro dilettissimo, custodiscilo in te nella tua camera
segreta, tu che sei l’unica ricchezza, così interamente e teneramente…
3. O mia Sera dolcissima, quando sarà arrivata per me la sera di questa vita, fammi
soavemente addormentare in te e conoscere il beato riposo, preparato in te per quelli che ti
sono cari. Lo sguardo così calmo e grazioso del tuo amore tenero e puro ordini e disponga
nobilmente i preparativi delle mie nozze. Con le ricchezze della tua bontà, ricopri e vela la
miseria e la povertà della mia vita indegna, perché la mia anima abiti in totale fiducia nelle
delizie della tua carità. O Amore, sii allora per me una sera così bella, che la mia anima,
attraverso te, dica al mio corpo un dolce addio nella gioia e nell’allegria e il mio spirito
ritornando al Signore che lo ha dato, riposi in pace deliziosamente alla tua ombra. Allora mi
dirai apertamente attraverso il canto sì dolce della tua voce: «Ecco lo Sposo che viene: esci,
adesso, vieni ad unirti a lui più intimamente, perché ti allieti con la gloria del suo viso». Oh
quale felicità, quale beatitudine per colui il cui soggiorno sulla terra si compie in te!...
4. Quando, dunque, quando ti mostrerai a me perché io ti veda e attinga con delizia alla
sorgente viva della tua divinità? Berrò allora, e m’inebrierò nell’abbondanza della dolcezza di
questa sorgente viva, che scorre come il miele delle delizie dal volto che la mia anima
desidera… Contemplerò allora il mio Gesù, lo Sposo vero della mia anima, e mi unirò a lui,
con un bacio, a lui al quale la mia sete già mi lega, mentre il mio cuore tutto intero se ne va
verso di lui.
Santa Gertrude di Helfta (1256-1302), Esercizi V
L’AUTORE Entrata a 5 anni nel monastero di Helfta (Sassonia), Gertrude vi ricevette
un’eccellente educazione umana e religiosa sotto la direzione di Matilde di Hackeborn,
sorella della badessa. Il suo lavoro di copista allo scriptorium del monastero le valse una
grande cultura patristica. Gertrude e Matilde furono ambedue gratificate da una vita mistica
intensa, e i loro due nomi restano associati nella storia della spiritualità, specialmente della
spiritualità del Sacro Cuore. L’influenza di Gertrude fu considerevole, specialmente sul
carmelo spagnolo, attraverso le prime edizioni stampate a Colonia all’inizio del XVI secolo.
IL TESTO Ci resta di Gertrude un insieme di Rivelazioni e sette Esercizi. Si tratta di
raccolte di meditazioni, preghiere e visioni sotto forma di dialoghi tra Gertrude e Cristo. La
loro intimità e la loro audacia sono caratteristiche della mistica femminile medievale. Il
contesto letterario è generalmente quello della liturgia, e l’estratto che noi diamo corrisponde
alla preghiera della sera di Gertrude.
§ 1. Ogni vita spirituale è un’ “arte d’amare”, nella tradizione di Ovidio, la cui Ars amandi era
il manuale di latino di tutti gli studenti medievali. Gertrude qui è in permanenza l’amante
nell’attesa del Diletto. Il tema del bacio, dopo Gregorio di Nissa (cf. Semi n° 32) rinvia a
1Cor. 6,17 (“Chi si unisce al Signore forma con Lui uno Spirito solo”): lo Spirito Santo nasce
dall’abbraccio del Padre e del Figlio, e nasce in noi quando siamo abbracciati dal Figlio.
Infondendo in noi la carità, questo bacio ci fa letteralmente uscire da noi stessi e come in un
eccesso d’amore, “ti farà passare in Dio al momento della tua morte”. È così che tutta la
Tradizione cristiana considera la fine terrena della nostra vita: il troppo amore “rompe la tela
di questo felice incontro” canterà san Giovanni della Croce.
§ 2. Questo trapasso in Dio conduce al tema, così caro a Gertrude, del cuore di Cristo: cuore
umano di Dio, cuore trafitto, egli ci apre il passaggio verso il Padre. Il cuore, al medioevo,
non è tanto la sede dei sentimenti, quanto il centro della personalità. Così lo scambio dei
cuori, altro tema essenziale della mistica femminile dell’epoca (“il mio già non è più in me,
ma tu, custodiscilo in te…”), diviene il compimento di tutta la vita spirituale. Qui affiorano altre
immagini classiche: l’anima, piccola goccia che si perde nell’oceano d’amore, la camera
nuziale (che diverrà la settima dimora di Teresa d’Avila), etc.
§§ 3-4. Il cristiano non muore; egli si addormenta dolcemente in Gesù. Tutta la liturgia della
sera (vespri e compieta) è presente qui, come annuncio di quest’assopimento. Il vangelo
delle vergini savie e delle vergini stolte ne fornisce spesso la cornice letteraria. La visione
gloriosa del viso dello Sposo è legata a questo trapasso; tuttavia si noterebbe una certa
esitazione tra la causa e l’effetto di questo legame: qui, occorre trapassare per vedere
questo viso; altrove, e più classicamente, è il vedere che fa trapassare. Ecco perchè la fine
terrena del cristiano è letta come l’estasi beata di colui al quale Cristo si dà fino alla fine,
cosicché egli si abbandona per l’eternità all’”abbondanza della dolcezza di questa sorgente
viva”.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
R come… RIPOSO
L’anima è stata creata da Dio, per Dio, e ordinata da Dio, e non può trovare riposo che in Dio.
Santa Caterina da Genova (1447-1510), Dialoghi, III, XIII
Per questo
L’anima tende naturalmente verso la sua origine, Dio, come il fuoco è, naturalmente, portato
verso l’alto e la pietra verso il basso. Infatti il luogo naturale dell’anima è Dio e soltanto lì, può
trovare il suo riposo.
Luigi de Blois (1506-1565), L’Istituzione Spirituale, V
Così che
Tu non avrai quaggiù alcuna dimora stabile: ovunque tu sia, sei uno straniero e un pellegrino
e non avrai mai riposo se non sei unito intimamente a Gesù Cristo.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Gesù Cristo, II, 2
Ma in questa unione,
Noi godiamo di un grandissimo riposo in mezzo a tutte le pene, sofferenze, afflizioni e
contrarietà che possono succederci; o piuttosto non c’è più per noi vera sofferenza né
contrarietà.
Francesco Liberman (1802-1852), Lettera dell’11 settembre 1837
Su questo cammino,
Un uomo può trovare il riposo soltanto portando dentro di lui il pensiero che al mondo c’è solo
lui e Dio.
Teodoro di Edessa (VIII secolo), Centuria, 91
Alla fine del cammino,
Vi è un luogo dove si vede Dio veramente in riposo, tranquillo; è il luogo non di un giudice o
di un maestro, ma di uno Sposo…; luogo che non esiterò a chiamare camera nuziale, dove
Dio non è visto come mosso da collera o occupato da pensieri, ma dove la sua volontà è
sperimentata come buona, benevola e perfetta. È là che riposiamo veramente. Dio vi è
tranquillo e tranquillizza, e riposiamo, vedendolo riposare.
San Bernardo (1090-1153), Sermone 23 sul Cantico
In questa pace l’anima è come nel riposo del sonno, pace che porta l’anima alle cose
interiori, pace che sospende il ricordo di tutte le cose esteriori, che supera tutta la vivacità e
la penetrazione dello spirito umano.
Riccardo di San Vittore († 1173), Sul Salmo 4
Per giungervi,
Non bisogna cercare né passività, né riposo, né alcuno degli stati e dei modi di cui si parla
nei libri; occorre solo abbandonarsi nell’abisso della volontà di Dio.
Mauro del Bambino Gesù (1617-1690), Lettera 12 a Madame Guyon
Come un bimbo nelle braccia di sua madre riposa senza inquietudine e si abbandona con
fiducia, perché sente d’istinto che sua madre gli ha dato tutto il suo cuore, così l’anima si
consegna alla Provvidenza in piena tranquillità di spirito, quando è giunta a dirsi: «È il mio
Padre dei Cieli, è il mio Sposo adorato, il Dio del mio cuore che ha nelle sue mani la mia vita,
la mia morte, la mia eternità. Mi accadrà solo quel che vuole, ed egli vuole solamente il mio
più grande bene per l’altro mondo, come per questo».
Don Vital Lehodey (1857-1948), Il Santo Abbandono, II, V
L’anima qui
Si contenta di non avere alcuna contentezza se non quella di essere senza contentezza, per
l’amore della contentezza e del beneplacito del suo Dio nel quale ella si riposa.
San Francesco di Sales (1567-1622), Trattato dell’amor di Dio, VI, 11
Diffidiamo delle contraffazioni!
Certuni non hanno zelo, né applicazione verso Dio, né fuori, né dentro. Nel loro
raccoglimento, essi non sentono altro che la semplicità della loro essenza sospesa
all’essenza di Dio. Questa assoluta semplicità la prendono per Dio, perché vi trovano un
riposo naturale.
Beato Giovanni Ruusbroec (1295-1381), Il piccolo Libro dei Chiarimenti, 1
Proprio al contrario,
Il riposo interiore di cui godono le anime unite a Dio, finisce per sottrarre loro, in parte, il
riposo esteriore, e a far loro desiderare di non averne alcuno.
Santa Teresa d’Avila (1515-1582), Il Castello interiore, VII, 1
Perché il vero riposo non è pigra oziosità:
L’oziosità è uno stato in cui non si serve a niente, né a Dio, né al prossimo, né a se stessi e in
una parola si è inutili a qualsiasi cosa. Non si può dire la stessa cosa del riposo
dell’orazione. Si può rendere a Dio un servizio più grande di quello di liberarsi da tutte le
cose, e di se stessi per essergli perfettamente uniti?
Claudio Martin (1619-1696), Conferenza ascetica XI
Così
L’asceta non desideri smoderatamente la dolcezza spirituale, e non si fidi di essa. Non sia
meno pronto a non averne di quanto lo è nell’averne, perché in Dio solo e non nei suoi doni, è
permesso riposarsi.
Luigi de Blois (1506-1565), L’Istituzione Spirituale, Cap. II, 1
Perché
Quelli di cui parliamo, al contrario, avendo superato la grossolanità delle occupazioni, si
riposano con gran piacere, non nei doni di Dio, né nelle loro indicibili delizie, né in qualche
cosa di meno di lui che Egli potrebbe donare loro, ma in Dio stesso. Essi vi si riposano con la
stessa avidità che ha il pesce nel nutrirsi e immergersi nell’acqua che è il suo specifico
elemento.
Giovanni di Saint-Samson (1571-1636), Pratica essenziale dell’Amore
In questo stato,
Se io sento il riposo quaggiù in Gesù e con Gesù, come non credere che dopo la mia morte
troverò un eterno riposo in Lui?
Giovanni di Crondstat (1829-1908), La mia vita in Gesù Cristo, cap. 3
Perciò
Adesso, Amore, io ti abbandono qui e ti raccomando la mia vita e la mia anima: ora lasciami
in pace, lasciami riposare e addormentarmi in te. Amen.
Santa Gertrude d’Helfta (1256-1302), Esercizio V
IL BATTESIMO DI GIOVANNI
Giovanni il Battista è il ponte che conduce a Colui che è più grande, più forte, aldilà di ogni
aspettativa umana. Il battesimo di conversione che predica si collega e prende significato da
questo “Più” che viene: disporre cuore e mente per accogliere Qualcuno che si prenderà
cura dell’uomo in modo impensabile. Occorre mettere a posto le irregolarità di colli e valli,
occorre mettersi nella piena osservanza della Legge di Dio, per essere ben disposti. Ma
questo non è ancora il “più”. C’è un altro battesimo, più grande: “con Spirito Santo e fuoco”.
La paura, che contraddistingue l’esistenza umana dalla caduta di Adamo in poi, con Cristo è
dissolta come neve al sole: l’uomo non è più solo e nudo sulla terra, non è più frammentato,
inaridito e sperduto in deserti sempre più immensi, dacché a quelli fisici e a quelli spaziali si
sono aggiunti quelli telematici e virtuali; egli non deve andare alla ricerca spasmodica di
sicurezze, che esorcizzino il suo terrore del vuoto. Il Verbo pianta la tenda fra noi, unendo la
sua sorte per sempre a quella dell’uomo, facendo dipendere la sorte di Dio da quella
dell’uomo: se l’uomo dovesse distruggersi, anche Dio vuol distruggersi con lui. Dio è con
l’uomo e per l’uomo. I credenti, introdotti per lo Spirito nel fuoco della Carità-Trinità, non solo
non lavorano nelle città per assicurarsi rifugi sicuri, ma si espongono nella mischia della
storia perché, invitati dal Bambino di Betlemme, sono pronti ad assumere la sorte dell’altro
uomo senza averne una propria da difendere. L’impensabilità dell’Incarnazione si traduce
nell’impensabile evento del Dio crocifisso, a cui i credenti si configurano accettando l’invito di
Lui ad abbracciare la pazienza nelle avversità e nelle ingiustizie: percossi su una guancia,
essi porgono anche l’altra, a chi toglie loro la tunica, cedono anche il mantello; costretti a
fare un miglio di strada, essi ne fanno anche due, con l’apostolo Paolo sopportano i falsi
fratelli e, offesi, rispondono con parole di bontà. Il Figlio non prende né l’essere né la gloria
da sé, ma è dono del Padre nello Spirito; non diversamente i credenti.
ANNO
2007
ABC
N. 78 - Gennaio 2007
123
PER PASSARE DAL NULLA AL TUTTO…
1. Carissimo figlio di Dio, l’adorabilissimo Tutto ti sia principio, fondo e sostegno; ti sia
mezzo, vincolo e via, fine, centro, termine e felicità: ecco ciò che ti auguro di tutto cuore. Ecco
tutto ciò che dobbiamo desiderare nella vita, ecco il principale, o piuttosto la totalità di ciò a
cui noi dobbiamo dedicare noi stessi: lo spirito interiore e d’orazione, il solo a cui dobbiamo
lasciarci andare e abbandonarci, per toccare veramente Gesù…
2. Noi siamo sulla terra affinché Dio ci sia tutto; ciò che comincia nel tempo, ciò che vi riceve
il suo progresso e compimento. Affinché Dio ci sia tale, occorre che egli abbia signoria
piena e sovrana su tutto il nostro essere e sul nostro non essere; ma è necessario che sia
una signoria d’amore e che noi ci sottomettiamo alla sua sovranità con il cuore e la
disposizione…
3. Coraggio, caro figlio di Dio, muori al fine di poter vivere; esci da te stesso per entrare in
Dio. Immagina di ascoltare queste parole dal grande Maestro: «Cessa d’essere quello che
sei, cioè piccolo uomo, piccolo spirito, piccolo nulla, miserabile peccatore; lascia queste
sventurate condizioni, questi beni così limitati, così mischiati col male, col fango e con le
imperfezioni, per partecipare ai miei tesori ed essere con me. Tutta la tua vita sia una
continua uscita dal tuo Egitto, dalle tue miserie, dalle tue tenebre. Entra dunque in questo
deserto, nella solitudine di spirito, di pensieri, d’affezioni, d’inclinazioni dove io ti chiamo,
affinché trattiamo insieme da solo a solo.
4. Quando ti si chiederà che sei venuto a fare, qui, dici: «Sono venuto per sacrificare al
Signore» (I Sam. 16,2). Di’ a te stesso che non sei venuto da te, ma che qualcuno ti ha
condotto e sono io che ti ho messo qui; di’ a te stesso che vi rimarrai fino a quando mi
sembrerà opportuno; che vi farai e vi soffrirai tutto come io vorrò. Attraverso ciò dipenderai da
me, come da colui che ti muove in ogni cosa. Di’ che sarai felice di cadere tra le mie mani, di
essere abbandonato alla mia guida, di sentire in te il mio santo e divino governo, di non agire
più che per me, per la fiducia, l’amore, l’obbedienza, l’abbandono, l’allontanamento da ogni
inquietudine e da ogni sollecitudine per la tua vita e le tue occupazioni, per la tua morte, per
la tua perfezione e per tutto ciò che ti riguarda nel tempo e nell’eternità…
5. Chiudi dunque i tuoi occhi; gettati tra le mie braccia; agisci solo tramite me e non sapere
assolutamente nulla, se non obbedirmi e seguirmi in tutto e per tutto. Lasciati prendere
dunque, mio caro figlio, e aggregare al numero delle anime benedette delle quali tu puoi dire
e cantare amorosamente: Dio domina sempre in lei, il suo Spirito ne fa ciò che vuole».
Beato Nicola Barré (1621-1686), Lettera 13 ad un religioso
L’AUTORE Appartenente ad una famiglia di agiati commercianti di Amiens, Nicola Barré
studia presso i gesuiti della città, prima di entrare nel 1640 fra i Minimi (fondati nel 1474 da
san Francesco di Paola). Dopo 20 anni d’incarichi intellettuali, è nominato a Rouen nel 1659,
dove sviluppa in Normandia, un intenso ministero di educazione popolare, fondando l’Istituto
della Suore del Bambino Gesù. Ritornato a Parigi nel 1675, è da lì che organizza
l’espansione nazionale della sua opera.
IL TESTO La maggior parte dei suoi scritti è stata persa a causa della Rivoluzione; accanto
a diversi regolamenti, statuti e consigli redatti per gl’insegnanti, ci restano alcune massime e
63 lettere di direzione spirituale, di cui il saggio che diamo, rivela il soffio mistico. Il loro
vocabolario e talvolta l'enfasi sono della Scuola Francese (cf. Semi 48) , la loro radicalità le
avvicina alla riforma del carmelo detta “di Touraine” (cf. Semi 62), ma la loro semplicità
attesta ancora una volta l’impronta di san Francesco di Sales (cf. Semi 4)
§§ 1-2. Il tutto di Dio opposto al nulla dell’uomo sono i due poli della mistica di N. Barré,
degno rappresentante in ciò della Scuola Francese: “lo spirito interiore e d’orazione” è quel
che permette il travaso dall’uno all’altro e Dio ci dà il tempo della vita terrena per ciò. Ma se
questo “tutto o nulla” ci fa paura siamo rassicurati dall’invito tutto salesiano: “occorre che sia
una signoria d’amore” e ciò “per toccare veramente Gesù”.
§ 3. Il nostro ruolo nella vita spirituale non è di fare, ma di cessare di fare, di accettare di
essere presi per mano verso un esodo che diviene una Pasqua, un passaggio dai falsi beni al
solo vero. L’epoca amava il registro del “nulla”, del “fango”, del “miserabile peccatore”, ma
non inganniamoci; nulla di tanto dolce quanto questo invito a “questa solitudine di spirito
affinché noi trattiamo insieme da solo a solo”
§ 4-5. L’anima abbandonata non ha altro pensiero che il beneplacito del Diletto. Il verbo
“soffrire” nel XVII secolo indicava meno il dolore che la passività e ogni idea di distruzione è,
qui, assente: “tu dipenderai da me come da colui che ti muove in ogni cosa”. Francesco di
Sales direbbe: «Quest’anima non fa nulla se non rimanere vicino a Nostro Signore, senza
avere pensiero di alcunché, né del suo corpo né dell’anima; infatti poiché ella si è imbarcata
sotto la provvidenza di Dio , a che serve pensare a quel che diverrà? (Veri colloqui, II)
L'ORAZIONE dalla A alla Z
S come SAPIENZA
O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono
imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! (Rm. 11,33)
Com’è immensa questa sovrana sapienza che con un colpo d’occhio abbraccia l’universo e
tutti i segreti della creazione! Quale splendore in questa luce! Quale semplicità in questa
verità! Quale infallibile certezza in questa sapienza!
Sant’Anselmo (1033-1109), Proslogion, XIV
Ma ecco che
Dio viene a unirsi all’uomo e vuole farsi sentire dal nostro spirito, senza esercizio della
nostra intelligenza, essendo la nostra anima qui ricettiva e non attiva… Toccata da questa
sapienza divina, ella si rallegra di sentire Dio, è elevata verso le altezze nello stesso tempo
che viene meno, non essendo capace di dire nulla del suo sovrano Diletto.
García de Cisneros (1446-1510), Exercitatorio, cap. 28
Perché
Ciò che la fede ci presenta dei misteri divini come avviluppati di oscurità, … l’illuminazione
del dono di sapienza in qualche maniera lo svela, per scoprirci al di sopra del nostro modo
umano quel che Dio vuole che vediamo dell’intimo di questi misteri.
Gesù di J. M. Quiroga (1562-1628), Apologia Mistica, XI, 7
Come acquistare questa meravigliosa sapienza?
La sapienza procede da Dio solo… Il Signore la infonde a chi vuole e come vuole.
Guigo II († 1193), Scala del Paradiso, II
Per questo Dio comincia, dandocene alcuni frammenti:
Qual è questa luce che per un istante mi rischiara e colpisce il mio cuore senza ferirlo? Che
mi spaventa e mi infiamma? Mi spaventa perché non le somiglio, m’infiamma perché le
somiglio. È la sapienza, si, la sapienza che mi illumina per un istante, squarciando le nubi
della mia anima…
Sant’Agostino (354-430), Confessioni, XI, cap. 9
Questi lampi provocano l’anima a raccogliersi, e
In quest’attenzione amorosa nasce il settimo dono, vale a dire, lo spirito di sapienza
saporosa. Penetra il nostro spirito, la nostra anima e il nostro corpo uniti, con sapienza e
gusto spirituale. È una mozione divina, un tocco là dove il nostro spirito si unifica,
un’irruzione e un fondamento di ogni grazia, dono e virtù.
Beato Giovanni Ruusbroec (1293-1381), Nozze, II, IV, B
Questo suppone una vera conversione:
Se dunque desideriamo essere veramente saggi e contemplare la sapienza stessa,
riconosciamo umilmente che siamo ignoranti, abbandoniamo la sapienza pericolosa e
apprendiamo la lodevole ignoranza che il mondo chiama follia; per questo infatti è scritto che
Dio ha scelto gli ignoranti di questo mondo per confondere i sapienti.
San Gregorio Magno († 604), Moralia in Job, 27,27
Su questo cammino i superdotati devono fare attenzione!
Più l’uomo brilla per il suo genio o la scienza, più è dotato nella conoscenza di cose sublimi,
se non si umilia e non diviene piccolo, spiritualmente povero e nudo, meno potrà raggiungere
i segreti di questa sapienza che Dio solo insegna attraverso se stesso.
Luigi de Blois (1506-1565), Istituzione spirituale, V, 2
In cambio,
Acquisendo la vera sapienza per l’infusione dello Spirito Santo, più che per la lettura di
numerosi libri, egli vede e comprende chiaramente cosa occorre fare e non fare, per se
stesso e per gli altri.
Idem, 1,3
Per questo,
Andiamo ad attingere l’acqua della sapienza solo con la corda dell’umiltà delle labbra, del
cuore e delle opere. Se questa corda è triplice sarà più difficile romperla; per secchio
abbiamo la fede, ma molto grande, al fine di attingere più abbondantemente possibile alle
sorgenti della grazia; infine il timor di Dio sia il coperchio del secchio e lo chiuda così bene
che l’acqua della sapienza non possa essere sporcata dalle impurità della vana gloria.
San Bernardo (1090-1153), Lettera 372
Allora si gode di Dio, perché
Questa sapienza ama Dio e lo gusta. Essa non disputa; crede. Essa non cerca; gode.
Francesco Malaval (1627-1719), Pratica facile della contemplazione, Colloquio
XII
Peraltro, è proprio per questo che si chiama “sapienza”:
Come il bene verso il quale porta l’amore di coloro che lo Spirito Santo muove, è per loro
saporoso (= sapit), e perciò li chiamiamo “sapienti” (= sapientes)
Guglielmo di Saint-Thierry (1085-1148), Lettera ai Frati di Mont-Dieu, I, II
In questo stato,
L’anima ha in lei Gesù Cristo, Sole della vera Sapienza e quest’unione la rende tutta
spirituale, atta a discernere ogni cosa. Lei è al di sopra di tutte le tenebre della sapienza e
delle vanità mondane; ella è distaccata dalle sue proprie concezioni e libera da ogni
attaccamento, in modo da non predicare ciò che vuole e sembra bello e giusto alla luce
naturale, ma la sola dottrina di Gesù Cristo e di Gesù Cristo crocifisso e risuscitato.
Severino Rubéric (XVII secolo), Esercizi dell’Amore di Gesù
Perché
Sapere Gesù la Sapienza incarnata, è sapere abbastanza; sapere tutto e non saperlo, è non
sapere nulla.
San L. M. Grignion de Montfort (1673-1716), Amore della Sapienza eterna, I, II
Dammi, o Signore, la celeste sapienza; così che io apprenda a cercare e trovare te sopra
ogni cosa; apprenda a gustare e amare te sopra ogni cosa; apprenda a considerare tutto il
resto per quello che è, secondo il posto assegnatogli dalla tua sapienza.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione, III,27
LA GRANDE OPERA DELL’UOMO
«Disse il padre Antonio al padre Poemen: “Questa è l’opera grande dell’uomo: gettare su di
sé il proprio peccato davanti a Dio e attendersi tentazioni fino all’ultimo respiro». In questa
espressione del grande Padre del deserto egiziano riecheggia, rovesciato, il racconto
genesiaco del peccato dei progenitori. La grandezza dell’opera umana emerge nel
ribaltamento di questa eredità che tanto pesa su ciascuno. Come in quel caso, tale opera va
compiuta “davanti a Dio”, proprio come davanti a Lui si rinnegò la propria responsabilità
scaricandola sull’altro. Se così non fosse, questa assunzione di responsabilità diventerebbe
un atto di orgoglio e di presunzione, che si manifesta nella sfiducia verso se stessi e in un
vittimismo da cui bisogna invece guarire. Solo davanti a Dio l’opera umana si ricompone in
verità. Ed è qui che il gesto di gettare su di sé il proprio peccato non corre il rischio di un
pericoloso gioco che schiaccerebbe e strangolerebbe l’uomo. La scienza psicologica mostra
bene i giochi dell’animo umano nell’alterazione della verità sia gettando sugli altri
responsabilità proprie, sia assumendosene di inesistenti e sprofondando nel senso di colpa.
La delicata messa a fuoco della verità umana si gioca tutta allora nel ristabilire la relazione
con Dio. L’attesa, poi, delle tentazioni come condizione costante e normale della vita cristiana
indica il contrario della ricerca del proprio comodo e contraddice la falsa aspettativa di
essere al sicuro da grosse prove dal momento che si è figli di Dio. Affrontare la prova è,
invece, schierarsi, appassionarsi per la verità e per la giustizia, sapendo che queste sono
avversate in questo mondo. Non deve ciò intendersi, certo, come una sorta di sadismo divino;
se lo leggiamo alla luce della vita del Signore, si comprende non solo la necessità che
abbiamo di una liberazione dal nostro egoismo, ma anche il Suo desiderio di chiamarci a
condividere la prova per il risanamento dell’umanità. Non si tratta di mutare l’agenda della
propria giornata, ma il modo di leggere l'universo che ci viene donato: accoglierlo come Dio
ce lo consegna, cioè secondo la sua ottica.
ABC
N. 79 - Febbraio 2007
123
QUANDO LA GRAZIA NON SI SENTE…
1. Guardati bene nelle tue orazioni d’impedire l’operazione di Dio presente in te, per un
cattivo uso delle grazie sensibili o intellettuali, se le ricevi con troppa avidità o per un sollecito
desiderio di averle, quando la sua divina Provvidenza te ne priverà… Se Dio, intimamente
presente in te, è per te un Dio nascosto, adoralo in questa oscurità e giungi a lui per questa
via: le oscurità ti saranno luci per arrivare a lui, perché ti faranno perdere la vista di te stesso,
per non guardare che lui nelle tenebre della fede… Questo Dio intimamente presente, non
trovando più alcun impedimento opererà in noi un avanzamento tanto più favorevole quanto
meno scoperto sarà a noi, perché più Dio ci sottrae le sue consolazioni, più ci prepara grazie
e benedizioni e ci chiama a una più alta perfezione, purché noi gettiamo la nostra speranza in
lui…
2. Davvero, se noi vogliamo fare qualche progresso ed entrare nel cuore di Dio nelle nostre
orazioni, occorre che compariamo nudi davanti a lui, e che lo cerchiamo nella privazione di
tutto ciò che il nostro appetito può desiderare; altrimenti non lo troveremo mai per goderne
perfettamente. Se fino ad oggi egli non si è comunicato a noi, è perché noi non abbiamo mai
preso questa risoluzione. Ahimé! Come mercanteggiamo prima di prenderla! Noi ci
lusinghiamo nel pensiero che non facciamo buona orazione in questo stato di privazione, e
così ci intratteniamo sempre nel desiderio di ritrovare lo stato di consolazione…
3. Quando sei privato di grazie sensibili è perché Dio non le spande fino all’appetito sensitivo;
quando non senti gli atti dell’intelletto e della volontà o sei come nell’impotenza di produrli, è
perché egli non invia le sue grazie fino all’intelletto e alla volontà. Egli si è ritirato nel fondo
della tua anima come nella propria dimora e nel suo santuario per operarvi effetti tutti divini,
se tu non lo impedisci con la tua attività troppo grande...
4. Molto spesso Dio, nelle anime che trova disposte, opera delle cose che elle non conoscono
e non intendono. Tutto ciò che devi fare dunque in questo stato, è di lasciare la premura e
adorare umilmente la presenza e l’operazione di Dio, in te sottomettendoti interamente. Non
sarai allora inquieto, né turbato quando non sentirai nulla e ti disporrai all’intima unione che
Dio vuole operare in questa parte della tua anima che è la più elevata, la più pura, la più
degna.
Gian Francesco di Reims († 1660), La vera Perfezione, I, IV
L’AUTORE Appartenente ad una famiglia di uomini di Chiesa di Reims, Gian Francesco
Dozet entra presso i cappuccini di Troyes nel 1615. Discepolo di Marziale d’Étampes, egli
incarna con lui il ruolo considerevole dei cappuccini nel rinnovamento mistico del XVII secolo
francese. Predicatore e direttore spirituale in diversi conventi della Champagne e di Parigi,
egli ebbe un ruolo importante nel governo della sua provincia. Lascia due opere per i
religiosi: “Il direttore pacifico delle Coscienze” e “La vera perfezione di questa vita
nell’esercizio della presenza di Dio”.
IL TESTO Nel suo trattato “La vera perfezione”, G. F. di Reims coniuga in tutti i modi, il tema
della presenza di Dio: vivere alla presenza di Dio, è vivere già quaggiù ciò che i beati vivono
in cielo. Tutta la vita cristiana è riletta in quest’ottica, specialmente gli stati contemplativi nei
quali vediamo qui G. F. perfettamente a suo agio.
§ 1. Anche se ce ne difendiamo, l’avidità ereditata da Adamo ed Eva, ci distoglie da Dio
facendoci cercare il gusto di Dio, cioè “grazie sensibili e intellettuali”. Le “tenebre della fede”
non sono l’assenza, ma il nascondiglio di Dio: ci basti saperlo “intimamente presente in noi”,
che si occupa solo del nostro avanzamento, senza che le nostre idee (l’intelletto) o i nostri
sentimenti (il sensibile) turbino la sua opera.
§ 2. Non confondiamo piacere e felicità. “Tutto quel che il nostro appetito può desiderare”,
appartiene all’ordine del piacere, ivi compreso il piacere di pregare (“lo stato di
consolazione”); mentre “entrare nel cuore di Dio”, appartiene all’ordine della felicità: è
“godere di Dio perfettamente” nella trasparenza della fede pura, senza alcun ritorno su di sé.
Da qui la necessità che “compariamo nudi davanti a lui” come Adamo ed Eva, prima del
peccato. Ahimé, dopo il peccato quanto mercanteggiare “nel desiderio di ritrovare lo stato di
consolazione” come il bambino che vuol sentire la presenza della madre, invece di dormire
tranquillo fra le sue braccia!
§ 3. Dio risiede “al fondo della tua anima” più intimo a me di me stesso, direbbe
sant’Agostino: ecco perché non può essere raggiunto dalle nostre facoltà fisiche, anche se
talvolta vi si riflette. Così avremmo torto di attaccarci a questi riflessi, poiché il pallido piacere
che vi troveremmo forse non è nulla a confronto di questa realtà che raggiungiamo con la
fede.
§ 4. Perché questa “premura” di controllare sempre l’amore? Ma controllarlo equivale a farlo
morire, perché amare è dare fiducia. In questa fiducia “Dio opera nelle anime delle cose che
elle non conoscono e non intendono” non per il gusto del segreto, ma perché non potrebbero
immaginare per nulla la felicità di questa “intima unione”, alla quale le conduce. Allora cosa
c’è di più ragionevolmente amoroso che “adorare umilmente la sua presenza e la sua
operazione” e “sottomettersi interamente ad essa”?
L'ORAZIONE dalla A alla Z
S come… SANTITÀ
“Il Signore Gesù mandò a tutti lo Spirito Santo, che li muova internamente ad amare Dio con
tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente, con tutte le forze e ad amarsi a vicenda
come Cristo ha amato loro” (Vaticano II, Lumen Gentium, V, 40)
Ecco la santità: essa è la vita nello Spirito Santo, perchè.
C’è unione a Dio solo per partecipazione dello Spirito Santo che c’infonde la santità della sua
natura; rimodellando le anime umane nella sua vita, imprime loro una rassomiglianza divina, e
scolpisce in loro l’effigie della sostanza più perfetta di tutte le altre sostanze.
San Cirillo d’Alessandria († 444), Su san Giovanni, XVII
Ecco per ciò che dipende da Dio; e per ciò che dipende da noi,
Dopo la grazia, tutto nella vita spirituale dipende dalla fedeltà alla grazia.
Carlo Gay (1815-1892, Istruzioni per le persone…, II, p. 158
Questa fedeltà è un altro nome dell’amore di Dio:
Tutta la legge di Dio si riduce al comandamento dell’amore, ed è con la grandezza
dell’amore che si misura la santità.
Francesco Malaval (1627-1719), Pratica facile della Contemplazione, II, 2
Allora,
Andiamo verso la perfezione non perché è uno stato elevato e sublime ma perchè Dio ci vuole
lì. Giammai dobbiamo intraprendere la pratica della virtù per motivi di grandezza e per
diventare santi più grandi, ma soltanto per fare ciò che Dio vuole da noi e così soddisfarlo.
Giovanni de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, I, I
Perché,
Anche se fossimo le più eccellenti creature del cielo, a cosa ci servirebbe se non siamo
secondo la volontà di Dio?
San Francesco di Sales (1572-1622), Lettera del 10 giugno 1605
Questo significa che
La santità e la devozione certe, sono la disponibilità costante dell’anima per mezzo della
quale si è pronti a servire Dio tanto nell’avversità quanto nella prosperità.
Luigi de Blois (1506-1566), Istituzione Spirituale, VII
Con quest’abbandono completo aderiamo molto perfettamente alla sua divina azione; e con
questa perfetta adesione partecipiamo alla perfezione del suo spirito di santità che agisce in
noi; con questa incomprensibile partecipazione la santità di Gesù si spande nella nostra
anima e la rende santa.
Francesco Liberman (1802-1852), Lettera del 12 agosto 1837
In breve, la santità è
Fare tutto ciò che Dio vuole e volere tutto ciò che Dio fa.
Vital Lehodey (1857-1948), Il Sant’Abbandono, I cap. I
La vera santità non è spettacolare:
…come se la perfezione consistesse nella moltitudine di cose che facciamo e non nella
perfezione con la quale noi le facciamo…Dio non ha messo la perfezione nella molteplicità
degli atti che faremo per piacergli, ma solo nel metodo che useremo che consiste solo nel
fare il poco che facciamo secondo la nostra vocazione nell’amore, con l’amore, e per l’amore.
San Francesco di Sales, Sermone del 13 febbraio 1622
La vera santità non è l’impressione di santità:
La santità non consiste nel sentire o non sentire Dio che bagna o tocca l’anima con le sue
divine inondazioni e irradiazioni, ma in un vero ed essenziale amore in atti, che fa tutto
operare in Dio, senza luce né devozione sensibile, nel tempo delle più dolorose e penose
aridità.
Giovanni de Saint-Samson (1571-1636), Il Pungiglione, art. 2
Dobbiamo stare attenti a non crederci più santi perché abbiamo ricevuto più doni o perché
abbiamo avuto parte in quel che c’è di più elevato nell’orazione passiva… Un’anima che,
senza contemplazione, fosse più umile e più caritatevole di un’anima molto contemplativa,
sarebbe anche, senza dubbio, più santa e più bella agli occhi di Dio.
Piero de Clorivières (1735-1820), L’orazione mentale, 41
La vera santità non ha, niente a che vedere con le apparenze di santità:
Non cercare di passare per santo prima di esserlo, ma prima di tutto divienilo, in modo che vi
sia qualche verità con ciò che si dice.
Regola di san Benedetto (VI sec.), cap. 4
Meglio ancora: il vero santo non si rende conto della sua santità:
È senza dubbio una grande e rara virtù non sapere che si è grande, quando si fanno grandi
cose ed essere il solo a cui la propria santità sia sconosciuta, mentre è manifesta a tutti.
San Bernardo (1090-1153), Sermone XIII
Così che
La vera misura della santità è l’umiltà. Datemi un’anima veramente umile, io dirò che lei è
veramente santa; se è assai umile dirò che è assai santa; se è molto umile che è molto santa.
San Giovanni Eudes (1601-1680), Vita e Regno di Gesù, II, 25
Inversamente
Non potremo mai essere realmente santi fino a che saremo soddisfatti di noi stessi.
John Chapman (1865-1933), lettera del 21 novembre 1930
<<Vuoi essere un santo?
Loda i santi come vogliono essere lodati, invocali come devono essere invocati, imitali come
possono essere imitati: loda i santi non attribuendo loro la gloria della santità, ma lodando e
glorificando Dio che li ha fatti santi…. Invoca i santi non perché essi vogliono ciò che
vogliamo, ma perché essi facciano che noi vogliamo quel che Dio vuole…; imita i santi non
soffrendo tutto ciò che hanno sofferto, ma “nella carità di Dio e la pazienza di Cristo” e allora
li imiteremo, come potremo.
Alessandro Piny (1640-1709), Lettera del 25 ottobre 1686
DIO PARLA NEI SANTI
«Mentre consideriamo la vita di coloro che hanno seguito fedelmente Cristo, per un motivo in
più ci sentiamo spinti a ricercare la Città futura e insieme ci è insegnata una via sicurissima
per la quale, tra le mutevoli cose del mondo, potremo arrivare alla perfetta unione con Cristo,
cioè alla santità, secondo lo stato e la condizione propria di ciascuno. Nella vita di quelli che,
sebbene partecipi della nostra natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati
nell’immagine di Cristo, Dio manifesta vividamente agli uomini la sua presenza e il suo volto.
In loro è Egli stesso che ci parla, e ci mostra il contrassegno del suo Regno, verso il quale,
avendo intorno a noi un tal nugolo di testimoni e una tale affermazione della verità del
Vangelo, siamo potentemente attirati» (Lumen Gentium, 50). Secondo l’insegnamento
conciliare il santo è una parola di Dio, perché egli ha attuato nell’oggi di un contesto storico
ben preciso la missione che Dio ha pensato per lui e che gli ha affidato. Non esiste il pericolo
che questa missione, unica e personale, non sia per qualcuno sufficientemente elevata e di
ampio respiro. Essa, infatti, partecipa dell’infinità divina ed è tanto eccelsa che nessuno, ad
eccezione di Maria, l’ha realizzata perfettamente. Teresa di Lisieux pregava: «Desidero
compiere perfettamente la tua volontà e giungere al grado di santità che Tu mi hai preparato
nel tuo regno; in una parola voglio diventare santa». Il compimento della volontà divina non è
l’osservanza di una legge generale, anonima, uguale per tutti, né l’esecuzione di un progetto
individuale, ma la libera realizzazione del piano d’amore concepito da Dio, che tiene conto
della libertà, anzi la dona: nessuno diventa se stesso quanto il santo che si sottopone al piano
di Dio e conforma tutto il proprio essere al suo progetto. Dio tiene conto della natura, delle
forze e delle possibilità del singolo, ma agisce in piena libertà, come un artista che manipola
liberamente i colori della sua tavolozza. Non si può sapere in precedenza quali colori egli
preferirà, quale verrà forse del tutto consumato e quale invece appena toccato, quali
mescolanze egli farà e quali effetti vuole raggiungere. Nella preghiera e nella meditazione
ciascuno cerca di cogliere quel che Dio vuole da lui. (liberamente ispirato a uno scritto di von
Balthasar).
ABC
N. 80 - Marzo 2007
123
UN’ORAZIONE RILASSATA
1. Quando nella tua orazione, ti senti portato verso Dio da un pensiero buono o da qualche
parola, per quanto minima sia, non mettervi ostacolo e non l’abbandonare: entra per quella
porta che ti si apre, attraverso la quale Dio vuole introdurti.
2. Fintantoché l’anima trova devozione e profitto in tale maniera, non c’è nulla di più contrario
all’esercizio dell’orazione, di ritirarla per forzarla ad entrare là dove non è invitata. Per
questo si raccomanda soltanto di avanzare con libertà nella sua pratica, senza attaccarci alle
nostre regole, senza inquietarci di non avere i pensieri che desidereremmo. Al contrario, con
tranquillità e santa noncuranza, facciamo in modo di non impedire a Dio di condurci altrove,
se egli vuole portarci.
3. Lo stesso vale per alcuni i quali si applicano talmente a leggere o a pensare una cosa
precisa, che pur provando, appena vi si mettono, molta devozione, la trascurano e la perdono
per andare fino alla fine del compito che si erano fissati. Occorre sapere che il Signore
stesso, è lo scopo della lettura o della riflessione; cosicché quando egli si comunica, noi non
dobbiamo abbandonarlo per continuare la nostra operazione.
4. Accade lo stesso a proposito del rigore che hanno alcuni nel voler stare tutto il tempo
dell’orazione in ginocchio, mentre la loro debolezza fa sì che tutta la loro attenzione sia
requisita dallo sforzo del corpo. Certamente, l’orazione comporta qualche po’ di fatica, che
occorre offrire in riparazione dei nostri peccati, ma essi devono sapere che non è lì il suo
frutto principale. Al contrario, è il minore, perché a paragone della luce, del gusto e delle virtù
che Dio dona in essa, è poca cosa quello che dà la fatica e l’esercizio del corpo, il quale ci
dice l’Apostolo, “è di poco profitto”.
5. Perciò l’atteggiamento del corpo deve essere quello che la salute può sostenere, mentre si
medita, in modo tale che l’anima sia rilassata per occuparsi del Signore, specialmente se il
tempo che vi si dedica è lungo, due o tre ore per alcuni. Rari sono quelli che possono faticare
col corpo, in questo modo, senza perdere l’attenzione richiesta da questo esercizio; così per
non perderla, la posizione del corpo sia quella, che lo rilasserà meglio.
6. Ve ne sono altri che si affaticano talmente la testa che ne traggono soltanto male,
accecando così il loro cuore. Occorre sapere che l’orazione è un compito più dato che preso
e che il suo principale esercizio è meno nella testa che nel cuore, dove è il centro e il nido di
tutto ciò che potremo ricevervi.
San Giovanni d’Avila (1499-1569), Audi Filia
L’AUTORE Nato presso Toledo da una famiglia ebrea convertita, prete nel 1526 dopo gli
studi a Salamanca e ad Alcala. Stabilitosi in Andalusia, egli vi fu modello di pastore nello
spirito del Concilio di Trento. Alcuni confratelli gelosi lo faranno rinchiudere per due anni
nelle prigioni dell’Inquisizione, dove tradurrà l’ Imitazione di Gesù Cristo e abbozzerà Audi
filia. Legato a tutto ciò che ha contato nella Spagna del XVI secolo, scrittore fecondo,
predicatore, direttore, la sua influenza si eserciterà specialmente in Francia attraverso san
Francesco di Sales
IL TESTO Audi filia, manuale di una vita cristiana fondata sull’unione a Gesù, dà
segnatamente l’esposizione del metodo d’orazione ricevuto dalla Devotio Moderna dei paesi
del Nord, che presto sboccerà nella scuola carmelitana. Tutto quel che Giovanni d’Avila ha
detto o scritto, deve il suo immenso successo alla semplicità d’espressione, alla ricchezza
biblica e patristica contemporaneamente all’attenzione alle situazioni concrete di cui il
piccolo saggio che diamo qui, è testimone.
§§ 1-2. Non si entra in orazione per dovere, ma per amore. Dunque, nell’orazione è buono
tutto ciò che ci porta ad amare di più Dio, sia che si tratti di un’idea, di un’immagine, di una
parola, etc. Una volta “aperta la porta attraverso la quale Dio vuole introdurti” non c’è più
regola che tenga perché tutte sono al servizio di quest’ amorosa disponibilità che definisce
giustamente l’orazione.
§ 3. Molti vogliono che la loro orazione “riesca bene”, come se in amore ci fosse altra
riuscita se non quella d’essere disponibile per colui che si ama. Molto spesso noi vorremmo
controllare la nostra orazione perché sia senza distrazioni, piena di buoni pensieri o di buoni
sentimenti; in realtà ciò significa, fare attenzione a se stessi e non a Colui per amore del
quale si è là.
§§ 4-5. Poco importa che l’orazione ci pesi qualche volta o spesso o tutto il tempo: cerchiamo
di viverla meglio possibile, come tutto ciò che facciamo per amore di Dio. In materia
d’orazione questo meglio consiste nel disporci corpo e anima ad accogliere Colui che arriva
dal più profondo di noi stessi. Perciò “la posizione del corpo che lo rilasserà meglio” sarà
quella che si armonizzerà con questa intenzione profonda. Per uno sarà lo stare in ginocchio
davanti al Santissimo Sacramento, per l’altro, seduto nella penombra di una chiesa, per un
altro ancora camminare con calma incontro a Cristo in un chiostro o in un sentiero fra i
boschi.
§ 6. Normalmente, l’orazione non affatica, anche quando pesa. L’attenzione che essa reclama
è quella dell’amore, non quella della concentrazione mentale: “il suo principale esercizio è
meno nella testa che nel cuore”. Noi non facciamo orazione perché Dio sia là, ma perché
Egli è là. Poco a poco tutta la vita si distende al suo contatto, passando da un regime di
penosa conquista a quello della felicità originale ritrovata, quello di un giardino coltivato alla
presenza di Dio. Questo è il segreto dei santi, la loro incredibile efficacia
contemporaneamente al loro evidente equilibrio.
L'ORAZIONE dalla A alla Z
S come … SATANA
Ciò non fa meraviglia, perché anche satana si maschera da angelo di luce
2 Cor. 11, 14
Come non lasciarci ingannare in una vita d’orazione?
Quel che bisogna fermamente credere è che Dio, l’onnipotente, può fare tutto ciò che vuole,
sia per effondere le sue grazie, sia per punire, e che i demoni che sono angeli, ma corrotti,
non possono nulla al di là di quello che permette loro, Colui i cui giudizi sono, qualche volta,
segreti, mai ingiusti.
Sant’Agostino (354-430), La Città di Dio, XVIII, 18
Infatti,
Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi
darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla.
1 Cor. 10, 13
Perché
Dio vuole salvarti più di quanto il nemico vuole perderti.
Lorenzo Scupoli (1530-1610), Combattimento spirituale, 16
Allora,
Io non comprendo questi timori che ci fanno dire: il demonio, il demonio; quando noi
possiamo dire: Dio, Dio e fare così tremare il nostro nemico!
Santa Teresa d’Avila (1515-1582), Vita, cap. 25
In realtà non è Satana che ci fa cadere, ma siamo noi che facciamo alleanza con lui, cadendo:
Come la donna avrebbe creduto alle parole del serpente se già il suo spirito non fosse stato
penetrato dall’amore del suo potere e da una certa e orgogliosa presunzione, che fu rivelata
da questa tentazione?
Sant’Agostino, Genesi, XI, 30
Per quanto Satana spinga, egli rovescia tuttavia solo quelli che non gli resistono e che
consentono ai suoi sforzi.
Giovanni Bona (1609-1674), Il Discernimento degli spiriti, cap. IV
E fin quando non siamo caduti, il suo potere è soltanto quello di fare rumore per turbarci:
Il diavolo va ovunque attorno al nostro spirito, cacciando il naso dappertutto e scompigliando,
per vedere se può trovare qualche porta aperta: è buon segno che egli faccia tanto rumore e
tempesta attorno alla volontà, è segno che non è dentro.
San Francesco di Sales (1572-1622), Lettera del 18 febbraio 1605
Così non abbiamo niente da temere; stiamo attenti soltanto, a non dare importanza a questo
agitatore:
Lasciate alla porta il nemico che s’infuria; che urti, che batta, che gridi, che urli e faccia il
peggio che potrà: noi siamo certi che egli non potrebbe entrare nella nostra anima se non
attraverso la porta del nostro consenso. Teniamola ben chiusa e di tutto il resto non ci
curiamo, perché non c’è nulla da temere.
San Francesco di Sales (1572-1622), Lettera d’aprile 1605
Stare davanti a Dio con un semplice sguardo, in attenzione amorosa, come un umile
mendicante davanti al suo Signore, è l’orazione più facile ma anche la più sicura, perché
libera dalle operazioni dell’immaginazione, sempre soggetta agli inganni del demonio.
Miguel de Molinos (1628-1696), Guida spirituale, I, 2
Tutto questo rumore viene dal fatto che
L’anima unita a Dio, è temuta dal demonio quanto Dio stesso.
San Giovanni della Croce (1542-1591), Sentenze 6, 4
Per questo
Il demonio è molto geloso dell’uomo che prega e usa tutti gli artifici per farg
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Semi di Contemplazione - nn. 0-110