racconto che costituisce la preistoria di Fontamara. Il volume di Esposito straripa di analisi, circostanze, incontri, riflessioni, eventi storici che sarebbe lungo elencare in questa sede. Particolarmente noto e determinate si rivela l’incontro con don Orione che, conosciuto durante il terremoto della Marsica (1915), gli insegnò la necessità di una ribellione ad un destino assurdo, la solidarietà con i poveri e gli sventurati, la scelta dei compagni nelle classi più umili, la ferma volontà di battersi per il riscatto degli oppressi. Non essendo egli, né un credente, né un praticante nel senso comune del termine, nonostante la sua adesione spontanea al Socialismo e la partecipazione alla fondazione del partito comunista (Livorno, 1921), ci ha lasciato una visione religiosa della vita e della storia, ispirata ai principi di un Cristianesimo, evangelico, riconducibile ai suoi tradizionali valori pauperistici. Il concetto di giustizia, che rappresenta un punto cardinale del pensiero e dell’azione siloniana, ha poca visibilità di parentela teorica con il concetto di giustizia teorizzato nelle epoche precedenti. Il concetto di giustizia di Silone è “togato”, quello cioè che si amministra nelle aule dei tribunali, dove in ogni epoca il vero senso del diritto si è faziosamente piegato alle ragioni della forza del potere. Silone capì che per riuscire a far mutare la stessa assuefazione delle masse a tale concetto, bisognava agire in senso opposto, come egli fece in tutta la sua vita ed evidenziò nelle sue opere. A tale proposito, Esposito sottolinea la positiva influenza paterna sul giovane nelle elezioni politiche del 1907, quando il genitore si rifiutò coraggiosamente di parteggiare per il principe di Torlonia, in contrasto con le posizioni del fratello ed esponendosi a irreversibili conseguenze pericolose. Come si è già detto, tutti i valori presenti nei racconti di “Viaggio a Parigi”, continueranno a essere sviluppate in tutte le opere maggiori dello scrittore, sia quelle della “Trilogia dell’esilio”, sia quelle del rientro in Italia, fino all’“Avventura di un povero cristiano”(1968), che a prescindere dalle conventuali notizie biografiche cloroformizzate nelle quotidiane biografie dei frati, lascia aperti inquietanti interrogativi sia sui rapporti tra “ecclesia spiritualis” ed “ecclesia carnalis” che sull’esistenza della giustizia all’interno della istituzione storica che dovrebbe incarnare l’insegnamento di Cristo. Come è noto, Silone ebbe frequenza assidua con le maggiori personalità politiche “trasgressive” e letterarie del tempo, in Italia e all’estero durante i lunghi anni di clandestinità, a incominciare da Camus, ai fratelli Rosselli, a dissidenti russi, a Piero Gobetti, a cui lo scrittore era accomunato dal rifiuto di formule codificatorie e ancora di più dopo il delitto Matteotti, considerato come l’episodio che aprì al regime un nuovo spazio ad “un altro fascismo”, più vero, più pericoloso, annidato nei gruppi parlamentari burocratici e plutocratici. Si apriva così nella concezione dei due uomini politici la necessità di promuovere “un esperimento di governo di socialismo liberale”, con il coinvolgimento di socialisti e popolari. Le vicende, poi, andarono diversamente, in quanto all’Aventino seguì un inasprimento del regime poliziesco, forse dovuto al fatto che era mancata un’adeguata formazione di spiriti liberi. A questa delusione doveva seguire dentro Silone il crollo della fede nel comunismo, dopo i ben noti avvenimenti svoltisi a Mosca nel 1927, durante i lavori del Comintern, quando Silone capì il carattere mono- Vittoriano Esposito: Questioni Siloniane (vecchie e nuove) di Carmelo Aliberti Vittoriano Esposito, massimo conoscitore di Silone, pubblica in questi giorni un nuovo volume sull’opera del grande scrittore marsicano (Questioni Siloniane (vecchie e nuove), Edizioni Marsica Domani, 2003). Il titolo sintetizza adeguatamente il contenuto dell’opera ed offre un essenziale contributo ad una più vasta conoscenza dell’autore, che egli da giovane seguì nei calorosi comizi ed interventi vari nei centri della sua terra. Il lavoro di Esposito mette a fuoco non solo le istanze politico-sociali e il carattere morale del suo impegno religioso, ma, attraverso il fissaggio di relazioni e corrispondenze con i grandi teorici di diverse ideologie, tende a ripercorrere il formarsi del messaggio “rivoluzionario” dello scrittore, imperniato sull’asse giustizia e libertà, valori incancellabili, maturati in Silone, non solo a contatto con la disperata esistenza dei suoi “cafoni” determinata dall’applicazione di una “giustizia” ingiusta, ma anche mediante la riflessione su esperienze singolari e sul confronto tra il culto di idee, apparentemente in contrasto ed in realtà concordanti sulla linea social-liberaleumanitaria. Oltre all’accenno alla ben nota aneddotica che incise sull’acuirsi della vocazione sociale di Secondo Tranquilli, Esposito riesplora i racconti, da lui stesso curati per la stampa qualche anno fa, identificando nelle loro trame, le storie sviluppate nelle opere maggiori. In essi, infatti, emergono i temi della fame e dell’amore, della fede e della morte, sullo sfondo degli stridenti problemi di ogni giorno, espressi nel contrasto tra potere e libertà, città e campagna, sofferenza delle masse e tentativi di rivolta. Particolarmente significativo si rivela “Viaggio a Parigi”, che, scritto secondo Gisella Padovani nel ‘28, del capolavoro siloniano anticipa vibranti segmenti della trama di Fontamara. Nella storia di Beniamino possono cogliersi riscontri evidenti con le disavventure di Berardo Viola, dall’ansia di liberarsi dalle catene della povertà alla robustezza fisica, al dipanarsi di vicissitudini deprimenti. Egli, per scongiurare la miseria, lascia il paese per Roma, con poche lire in tasca, vive drammatiche vicende nella capitale, subisce iniquità ed è vittima dei pregiudizi di una società ostile che lo conducono in galera; la fortunata picaresca fuga verso Parigi, lo fa surrealmente sprofondare in un assurdo e convulso sogno, pieno di incubi e di visioni orrende, tra cui il sorprendente incontro con Belzebù che, di fronte all’orrore del protagonista, risponde: «Non avevi preferito andare all’Inferno, anziché rimanere a Fontamara?». Alla fine di orripilanti vicissitudine, Beniamino torna a Roma e vergognoso di svelare la verità del suo ritorno, riprende la via di Fontamara, perché ha capito che dappertutto “si mangia polenta”, per cui non conviene abbandonare il paese delle radici. Con lucida congruenza critica, Esposito individua vari collegamenti tra racconto e romanzo e, a proposito del fallito tentativo di evasione di Beniamino, il critico osserva che nel gesto non si deve cogliere il segno di una sconfitta di ascendenza verghiana, ma la consapevolezza di chi ha tentato di combattere in un 1 litico dell’ideologia comunista che non concedeva alcuna voce ad ogni ipotetica e pacifica dialettica. Allora il doversi staccare dai compagni rappresentò una riconversione dolorosa. Esposito ricostruisce anche le problematiche critiche suscitate dalla diffusione delle opere siloniane in Italia, enucleando le contrapposte e pregiudiziali posizioni disfattiste dei critici dell’estrema destra e dell’estrema sinistra, ma dando maggiore visibilità del passato alla riconciliante posizione di cattolici, come Gino Pampaloni, che tra i primi assunse una netta posizione di valorizzazione totale del lavoro letterario dello scrittore abruzzese. Seguirono gli interventi, consapevolmente documentati, di Carocci e Bo, Falqui e Vigorelli che riequilibrarono gli estremismi iconoclasti di fazione e ridefinirono il plasma cristiano che impregna la produzione siloniana. Con l’uscita postuma della storia di “Suor Severina”, la tematica dell’autore illimpidì i suoi lineamenti di modernità religiosa, in quanto attraverso la scelta della novizia Severina che, richiamata irresistibilmente dalla “sirena” della contestazione del ‘68, esce dal convento e si va ad immolare sull’asfalto accanto ai manifestanti in rivolta, Silone crea una nuova gigantesca figura di donna, magistrale interprete emblematica di una Chiesa avviata al rinnovamento in sintonia con le istanze concrete della società, mediante le più moderne analisi e posizioni, maturate nei lavori del Concilio Vaticano. Severina potrebbe rappresentare la continuazione della lotta iniziata da Berardo Viola, nel contesto della siloniana visione di una nuova società, la nascita del cosiddetto “Terzo regno”, fondata sul teorema “social-liberal-umanitario”. Un capitolo a parte riserva Esposito a “Confiteor”, una sorta di autointervista con 43 domande, con cui lo scrittore mira, negli anni ‘50, a confutare e a difendersi dalle accuse e aggressioni critiche negative dei suoi detrattori. Il documento adeguatamente illustrato da Esposito risulta molto importante per la causa siloniana, in quanto il critico lo inserisce come testimonianza inoppugnabile, nel “fuoco” delle questioni vecchie e nuove. In maniera convincente e capziosamente analizzata, viene affrontata l’infiammata polemica su “Silone delatore”. Ricostruendo tutte le fasi della questione, Esposito (che al problema ha dedicato convegni e interventi sui “quaderni siloniani” da lui fondati e diretti e a cui si rinvia per una consultazione definitivamente chiarificatrice), la corrispondenza tra lo scrittore e il funzionario di polizia Guido Bellone viene riportata nell’ambito dell’attentato al re Vittorio Emanuele II avvenuto nel ‘29 alla fiera di Milano. Dell’atto delittuoso venne accusato il fratello minore di Silone, Romolo Tranquilli, da poco iscrittosi a P.C.I, e condannato a morte. Lo scrittore, convinto dell’innocenza del fratello e preso dal rimorso di sentirsi responsabile della scelta politica del fratello (in realtà, ignaro del coevo abbandono del partito da parte di Silone), opera un tentativo di richiesta di concessione di grazia presso i massimi gestori del regime, fornendo qualche notizia innocua e già diffusa dalla stampa. Presto “il dialogo” si interruppe, mentre Romolo veniva riconosciuto innocente, ma ugualmente condannato a dodici anni di durissima prigione a Procida, dove morirà a causa delle torture ricevute. Intervenuti con approfondite ricerche, Tamburrano, Granati e Isinelli, «smontano le tesi accusatorie in tutto e per tutto, con un’analisi dei docu- menti, rivelatisi in gran parte false o manipolate». Lo stesso Frassinelli (specialista della storia dei servizi segreti), ricostruendo il tormentato itinerario siloniano, rafforza la coerenza, l’onestà e la elevata dimensione etico-civile dello scrittore, come vero maestro di vita. Con la pubblicazione di questo ulteriore lavoro, Vittoriano Esposito, già benemerito studioso della letteratura Italiana e particolarmente di quella del Novecento, su cui ha pubblicato una serie di sette Volumi, offre all’attenzione degli studiosi e degli appassionati lettori di Silone un documento completo e convincente, di immediata presa, idonea a chiarire a tutti i risvolti e le evidenti appariscenze del “caso Silone”. Gemellaggio fra GDVS-Fidas di Paternò e il Vas di Sulmona di Maria Enza Giannetto Il gruppo donatori di Sangue Fidas di Paternò ha, per la seconda volta, avuto la possibilità di sperimentare il gemellaggio (dopo la prima esperienza con l’HDK di Kudowa Zdmje in Polonia). L’esperienza era partita già l’anno scorso con la visita da parte di una delegazione del VAS di Sulmona, di Ateleta e di Castel di Sangro in Sicilia. Lo scopo del gemellaggio è quello di arricchire i volontari di ciascun gruppo attraverso le esperienze e i risultati raggiunti dagli altri. Una delegazione di 40 persone del GDVSFIDAS di Paternò è stata a Sulmona per incontrare i soci del VAS di Ateleta e di Castel di Sangro con le rispettive rappresentanze delle amministrazioni locali, nonché il presidente della Provincia, dr. Palmiero Susi. Il gruppo paternese era costituito dal presidente, dott. Matteo Condorelli, ed alcuni consiglieri, soci e familiari, il direttore del C.T. di Paternò e l’assessore ai servizi sociali, nonché alcuni insegnanti delle scuole del paese. Visitando i luoghi più caratteristici della località abruzzese e assaggiando le specialità locali, il tempo trascorso dalla delegazione di Paternò è stato completamente votato alla solidarietà, all’amicizia e alla comunione di interessi e valori. Un segno e un messaggio rivolto alle istituzioni sanitarie e specialmente la richiesta di dotare il C.T. di Sulmona di strumentazioni più adeguate al fabbisogno territoriale. Oltre allo slancio solidale e alla comune conoscenza dei luoghi d’appartenenza, il gemellaggio ha anche donato uno spazio particolare alla cultura, al folklore e ai tesori artistici locali. I due “gemelli” si sono, infatti, scambiati prodotti e lavorazioni tipici, pubblicazioni dei paesi etnei e soprattutto, da parte del gruppo di Paternò (socio dell’Accademia il Convivio), c’è stato il dono di alcune pubblicazioni edite dal Convivio, dal Comune di Castiglione di Sicilia e da latri comuni etnei. Lo scambio è stato completato con la presentazione del libro “Legami di solidarietà”, stampato dalle associazioni gemellate e dal comune di Paternò. Il volume raccoglie le storie dei due comuni, sede delle associazioni e dei volontari. 2 Vani sarebbero in questo giorno, nello stesso tempo triste e festoso, discorsi commemorativi, ricordanze altisonanti, memoriali patinati, o altre cose del genere. Tutto questo il più delle volte non soddisfa il vero amico verdiano, anzi, più spesso lo annoia. Chi infatti non conosce, almeno in parte, la vita e i “miracoli” di questo grande artista? Farà senza dubbio più piacere riascoltare un bel pezzo della sua musica, specialmente quella poco eseguita e ritenuta, non sempre a ragione, “minore”, rivedere qualche sua rara fotografia, commemorandolo in noi stessi, nell’intimità dei nostri cuori. Io ho avuto l’inaspettata gioia di trovare, per caso, su un vecchio giornale illustrato, una foto rarissima del Maestro. La fotografia ce lo mostra proprio il giorno prima che fosse colpito dall’ictus che doveva poi portarlo, in breve tempo, alla tomba. Era una fredda mattina del 21 gennaio del 1901, e Verdi faceva, senza saperlo, la sua ultima, breve passeggiata per le nebbiose e uggiose vie di Milano. È una modesta, ma nitida immagine, che mi ha commosso fino alle lacrime. Non mi stanco mai di rimirarla; ogniqualvolta la riprendo in mano, mi pare di scoprire un nuovo lato della personalità di Verdi, una parte dei pensieri che dovevano attraversare, in quella gelida mattinata milanese, la mente del grande Vegliardo. Vestiva il suo abituale mantello nero e il grande cilindro di eguale colore. La sua bella barba bianca gli incorniciava il volto asciutto e triste, creando un netto e felice contrasto con il mantello e il cilindro. Il suo portamento era diritto, fiero, nonostante gli anni. Il capo era però leggermente chinato sul petto; sul volto marcato dell’età si leggeva un’ombra di persistente malinconia e di profonda tristezza. Egli camminava lentamente per le vie di Milano, ma di certo non vedeva la gente che gli passava accanto e il traffico che scorreva davanti ai suoi occhi. Il Signore gli aveva concesso il raro privilegio di dare uno sguardo sul ventesimo secolo, che si era appena aperto, ma egli era certamente cosciente della fine che si stava inesorabilmente avvicinando e della sua epoca che era irrimediabilmente tramontata alle sue spalle. Il nuovo secolo, di cui stava ora calpestando l’uscio, non era più il suo. Egli vi arriva da estraneo, da ospite. Non per niente il suo capo pendeva triste sul petto e il suo volto era attraversato da un velo di incancellabile malinconia. Quando si raggiungono i sessant’anni, già molti vuoti serpeggiano nella ristretta cerchia dei familiari e degli amici. Ma Verdi aveva ormai ottantasette anni, età prestigiosa, a quei tempi, specialmente se coronata da quella sua eccezionale vitalità, ed era praticamente solo. Parola terribile per un uomo vecchio! Tutte le persone a lui care riposavano da tempo nel sonno dei giusti. Anche la sua fedele compagna, Giuseppina Strepponi, la sua “Peppina”, se ne era andata già da tre anni. Ora era veramente solo. La stima e l’enorme popolarità di cui godeva dovunque non bastavano di certo a lenire questo profondo e incolmabile senso di solitudine. Rivediamo così Verdi in quel suo ultimo pellegrinare per le strade di Milano, con tutti questi ricordi nel prezioso scrigno del cuore. Il cuore del Musico per eccellenza, che se ne stava ora in silenzio, dopo aver cantato per più di mezzo secolo melodie immortali e indimenticabili. Anche i pensieri e i tormenti che attraversavano la spaziosa fronte verdiana sembrano passare sulla fredda immagine eternata dalla fotografia. Dopo aver perduto tutto quello che di più caro aveva al mondo, dopo aver concluso la sua prestigiosa carriere con la mirabile risata di Falstaff, dopo aver visto gli albori Giuseppe Verdi: Ricordo del sommo maestro di Giovanni Tav ar Sono trascorsi esattamente cento anni dacché il mae-stro Giuseppe Verdi ha concluso il suo itinerario terreno. E se ora il suo corpo giace immobile e senza vita nella cripta della casa di riposo per musicisti a Milano, da lui fatta costruire e a lui intitolata, la sua grande anima continua a guardarci da altre dimensioni, sdegnosa della falsità di questo mondo, un po’ austera e burbera, come lo era in vita. È vero, sono trascorsi cent’anni dalla sua morte, e con essi più generazioni e due terribili guerre mondiali. Eppure anche in questa nostra epoca, così violenta e poco propensa all’arte e ai valori spirituali, il suo nome continua a correre sulle labbra e nel pensiero di tutti coloro che amano la vera musica, quasi fosse un personaggio ancora vivente e operante tra di noi. Le stagioni liriche di tutto il mondo continuano a inaugurarsi e a basarsi nel nome prestigioso di Verdi. Il Maestro, nella più ammirabile delle sue virtù, la modestia, era avvezzo a dire ai suoi interlocutori che le sue opere sarebbero rimaste sulle scene non più di quaranta o cinquanta anni (almeno quelle di maggior successo); poi sarebbero state dimenticate, come tutti i frutti del limitato ingegno umano. È destino degli esseri umani, caro Verdi, a passare, prima o poi, nel dimenticatoio; di quasi tutti gli uomini. Ma ci sono alcun esseri privilegiati, il cui privilegio sta nel “non morire”, nel continuare a vivere nelle generazioni future. Questi esseri privilegiati sono i grandi artisti, i geni. Se il maestro potesse vedere il successo che le sue opere, le sue creature predilette, mietono ancora oggi sui palcoscenici di tutto il mondo, rimarrebbe, se non stupito, almeno meravigliato. La sua popolarità non accenna a diminuire (perfino Bach, Mozart e Rossini hanno conosciuto momenti di dimenticanza e di oblio) e le sue opere continuano a stupire e a meravigliare i pubblici di tutto il mondo. 3 del nuovo secolo, ora Verdi aspetta, con serenità, la liberazione definitiva dalle cose che non gli appartengono più; aspetta la Morte! Come sembra terribile e odiosa questa parola a tanta gente. Ma non a Verdi! Egli aveva saputo incanalarle con maestria in tanti suoi personaggi, aveva saputo darle accenti terribili e nello stesso tempo struggenti. Egli la conosceva perciò bene e la rispettava. Ora la stava spettando, non per uno dei suoi personaggi, ma per sé stesso, tranquillo e senza timore. Chi non ha debiti con gli uomini ed è in pace con Dio non può certamente temerla. E Lei non si fece attendere molto. La mattina dopo, il 22 gennaio 1901, gli fece improvvisamente visita; lo fece stendere sul grande letto dell’albergo in cui, gli ultimi tempi, viveva, e gli chiuse gli occhi. Il grande Moribondo lottò tenacemente per sette giorni contro di Lei (perché dispiace l’addio definitivo alla vita, anche quando non ha più niente di valido da offrirci). In quei terribili e solenni istanti, la sua anima, rifugiatasi tra le pieghe della mente, sempre lucida, esitava a staccarsi dal fardello del corpo. Sotto le palpebre immote brulicava invece la vita. Ritornavano le immagini della povera, ma pur sempre lieta, infanzia, ritornavano i ricordi dei grandi sacrifici fatti per potersi affermare in un mondo difficile e spesso ingrato, ma verso il quale sentiva una vocazione bruciante, nella quale unicamente avrebbe potuto e saputo esprimere tutto se stesso. Ritornava, come uno spettrale incubo, il giorno del suo clamoroso insuccesso, in quell’opera buffa che aveva dovuto giocoforza terminare, a poca distanza dalla morte della moglie e di entrambi i suoi figlioletti; ritornavano luminosi e festosi i giorni dei suoi trionfali successi. Poi si trovò dinanzi alle numerose opere di carità che aveva profuse a piene mani, spesso in assoluto silenzio, fino alla perla della sua Casa di riposo per musicisti, da poco terminata. Aveva fatto del bene senza aspettare la morte. Tutto quello che la sua anima gli aveva consigliato di fare, l’aveva eseguito. E rivisse anche il suo lancinante dramma di padre mancato, l’amarezza sua, e di “Peppina”, di non potere avere figli. I due avuti dalla prima moglie se ne erano andati in fretta, insieme a lei, tanto che non ne ricordava neppure i tratti. A “Peppina” non aveva mai fatto il minimo rimprovero; non era, d’altronde, certo colpa sua, povera donna. La ferita tornava però a sanguinare copiosa ogniqualvolta egli si accingeva a musicare un nuovo lavoro dove ci fosse il minimo accenno all’amore paterno. E proprio da questo lancinante dolore, da questa paternità mancata, egli doveva creare le pagine più belle e indimenticabili della sua musica, pagine nelle quali il padre mancato dà sfogo a tutta la sua amarezza. Pagine e melodie intessute di accenti struggenti. Qual è infatti la parte migliore della Traviata? Senz’ombra di dubbio la scena nella quale il vecchio Germont rivela al figlio, e ancora prima a Violetta, l’immenso sacrificio da lui sostenuto per averlo cresciuto ed educato, e lo prega disperatamente di non andarsene, perché è ormai l’unica consolazione della sua solitaria vecchiaia. Non salgo-no forse al cuore quelle frasi piene di malcelato pianto, di appassionata preghiera, di svelato amore? E nel Simon Boccanegra, le pagine più alte e sentite non sono forse quelle tra il vecchio Simone e la figlia ritrovata? E nelle Luisa Miller, chi non prova almeno un brivido di commozione, quando il povero, vecchio e derelitto padre se ne va per le infinite strade del mondo, tenendo stretta, sottobraccio, la figlia? Soli, poveri, ma infinitamente felici; felici di un amore che è più grande di ogni altra felicità umana. La musica sale qui ad al- tezze vertiginose. E nel Rigoletto? Sono passati quasi centocinquanta anni dalla sua prima rappresentazione alla “Fenice” di Venezia; ma cosa sono tanti anni per una creazione immortale come questa, che è, almeno per me, l’opera più perfetta, dal punto di vista melodrammatico, del maestro, come perfetto si può dire di un dramma di Shakespeare. Quanto sia veramente uomo tra gli uomini questo buffone, gobbo e difforme, capace di brutali sarcasmi, di agghiaccianti maledizioni, di terribili vendette, nei momenti di affettuoso, paterno amore per la figlia, tenuta gelosamente nascosta agli sguardi cupidi degli uomini, ce lo svela la musica di Verdi, con profondità che sgorga dal cuore e dai sentimenti di un padre mancato. Dalle palpebre chiuse, apparentemente senza vita, dovette certo sgorgare una lacrima al cospetto di questi ricordi, una calda lacrima di rimpianto per la vita che se ne va, per la vita che, seppure piena di dolori, di amarezze, di delusioni, di volgarità e di brutture, merita pur sempre di essere vissuta. Poi, nella notte immensa che sopraggiunge e che sta per avvolgerlo, ecco apparire un punto luminoso, che si ingrandisce a vista d’occhio e tutto lo investe: la luce dell’Amore. Premio per colui che ha gelosamente creato e profuso durante tutta la sua vita a piene mani, consolando se stesso e gli altri. Due giorni dopo, all’incerta luce del primo mattino, mentre infuria ancora la lotta tra il dominio delle tenebre e l’audacia del giorno che avanza, una folla grandiosa, immensa, accompagna Verdi verso la sua ultima dimora terrena. Ma ecco a un tratto, nell’enorme folla silenziosa, alcune voci intonare, dapprima incerte e tremolanti, il famoso coro del Nabucco: «Va’ pensiero sull’ali dorate…» Un’indicibile onda di commozione trema, come un acuto brivido serpeggiante, su quel nereggiare denso e compatto. Dalle gole, chiuse da singhiozzi struggenti, si alza, sempre più forte e sicura, la dolcissima melodia verdiana, simbolo inconfondibile di tutta la sua vasta popolare produzione, fino a formare il più sincero e commovente coro che mai si sia udito. È l’addio che a Verdi avrebbe fatto più piacere; l’addio commosso e sincero della gente comune per la quale aveva creato quelle musiche che sorgevano dalle profondità della sua anima e dall’immediatezza del suo cuore. Era come se tanti fratelli accompagnassero il più degno tra di loro al giusto e meritato riposo. Contemporaneamente anche le genti di tutte le città italiane scendevano in piazza per recare l’umile, ma spontaneo saluto d’addio al tanto amato Maestro. Perché, come disse D’Annunzio, nell’apprendere la triste notizia: «Ci nutrimmo di Lui come del pane!». Per non morire egli si era abbandonato alla creazione; ogni giorno della sua vita terrena egli staccava un piccolo lembo di sé, consegnandolo all’immortalità. La forza d’amore che passò attraverso la sua anima si rapprese in mondi sonori, che sono oggi, per i nostri cuori, la sua vera vita che continua. Non innalziamo perciò inutili rammarichi e stolti pianti per la sua scomparsa, ma attingiamo elementi di forza e di vita da quello che di Lui non può passare! La pioggia di Dorotea Bonanno Scendi nella notte insistente batti sui vetri illumini le case. 4 Quando è ancora giorno e si fa sera, colori la notte di mille luci a Nizza, ma lei, indomita e molto legata al marito, lo raggiungerà più tardi, quando egli andrà a difendere Roma nel 1848. Nonostante la sua gravidanza, la donna insiste per cavalcare a fianco del marito. Si taglia i suoi magnifici capelli neri e così intraprende l’ultimo suo viaggio. Garibaldi subisce una clamorosa ritirata da Roma e non si fida più né del Papa né di Carlo Alberto e in questa occasione scrive una disperata lettera alla moglie: «Tu donna forte e generosa, con che disprezzo guarderai questa ermafrodita generazione di italiani: questi miei paesani ch’io ho cercato di nobilitare tante volte e che sì poco lo meritavano! È vero: il tradimento ha paralizzato ogni slancio coraggioso; ma comunque sia noi siamo disonorati, il nome italiano sarà lo scherno dello straniero di ogni contrada. Io sono veramente sdegnato di appartenere a una famiglia che conta tanti codardi». In questa ritirata Garibaldi deve fare i conti con le diserzioni dei soldati, soprattutto ufficiali ed il 31 luglio decide di accettare l’asilo temporaneo nella Repubblica neutrale di San Marino deponendo le armi e sciogliendo la compagnia. In seguito, con 250 uomini, attraversa le schiere austriache e, dopo una marcia di 24 ore, arriva all’Adriatico. Si imbarcano, ma vengono quasi subito raggiunti. Molti soldati cadono nelle mani del nemico e Garibaldi si salva per caso a riva. Anita è molto ammalata e lotta contro il collasso causato dal caldo, ma nonostante questa sofferenza vuole ancora accompagnare il suo uomo. Garibaldi si traveste da manovale e la conduce via con un carretto sotto un ombrello, ma Anita non ce la fa e il 4 agosto muore nelle paludi di Romagna, vicino Ravenna. In fretta e furia viene seppellita nella sabbia con gli Austriaci incalzanti e pericolosi. Termina qui la leggendaria vita di questa donna coraggiosa, sprezzante del pericolo, innamorata e pronta a dare se stessa per il suo uomo. Nel 1859 le spoglie di Anita verranno portate a Nizza per volontà di Garibaldi. Oggi riposano nel monumento innalzatole sul Gianicolo nel 1932. __________ Anita Garibaldi: una donna coraggiosa e intraprendente di Bruna Tamburrini La figura leggendaria di Anita Garibaldi ha sempre interessato la curiosità popolare ed anch’io ho spesso pensato che fosse una donna ricca di personalità, indomita, caparbia, ma soprattutto molto innamorata, perché capace di vivere “all’avventura” con il suo compagno Giuseppe Garibaldi. Il vero nome di Anita è Maria Ribeiro de Silva e viene descritta come una bellezza dalla pelle cupa. Un ufficiale di marina la ricorda come creola dotata di una vera dignità spagnola. Nata in Brasile, a Morinhos nel 1820, sposa, a soli 15 anni, Duarte de Aguiaz, ma questo matrimonio durerà poco, perché Anita abbandonerà il marito per seguire Garibaldi. Le imprese dell’Eroe dei due mondi nell’America Latina vedono la giovane compagna sempre al suo fianco, pronta a combattere con lui, uomo affascinante, sempre molto amato dalle donne. Questo successo di Garibaldi con le donne non è certo per Anita cosa molto facile da sopportare. È, infatti, molto gelosa, anche se José ha sempre, nei suoi confronti, grandi attenzioni ed è innamoratissimo. Vi sono alcuni aneddoti da raccontare sull’esperienza nell’America Latina. Per esempio un giorno Anita viene colpita da una pallottola dagli avversari, ma essi stessi, conosciuta la sua fama, la curano e poi le permettono di ritornare nel campo in cui lei, tra l’altro, crede di trovare morto il suo uomo. Quando si accorge, con felicità, che Garibaldi è vivo, ritrova tutta la sua energia e continua la lotta per la libertà dei popoli insieme a lui. Un’altra volta Anita, segretamente dal marito, decide di andare a lavorare, ma Garibaldi, venuto a conoscenza del fatto, va su tutte le furie, poi alla fine decidono per un compromesso che permetta loro di tirare avanti, vista la situazione economica precaria: Anita cessa il suo lavoro e Josè accetta il posto, offerto da tempo, di ispettore al porto. Nasce nel 1840 il primo figlio, Menotti. Anita non sposa subito Garibaldi, ma lo farà a Montevideo nel 1842, dopo la morte del primo marito Manuel Duarte. C’è da dire che il matrimonio per Garibaldi non è importante ma, vista la società dell’epoca, alla fine egli stesso propone ad Anita: «E se ci sposassimo come due bravi borghesi? ...Mi sembra che a questa formalità tu tenga molto. E non solo tu…sarà bene scrivere a Laguna perché ti mandino i documenti». In occasione del matrimonio, Anita indossa un abito grigio chiaro col colletto bianco, ma Garibaldi è molto nervoso e scende a compromesso con il prete che pretende la confessione. Terminata la cerimonia, Anita torna a casa e, prendendo tra le braccia suo figlio Menotti, afferma: «Da oggi siamo tutti Garibaldi». Da Garibaldi Anita avrà quattro figli: Menotti, Rosita, Teresita e Ricciotti. Come già accennato, è molto gelosa del marito e una volta, venuta a sapere che il marito aveva precedentemente rivolto complimenti ad un’importante signora, lo attende sulla porta di casa fino a tardi e lo affronta con due pistole in mano gridandogli che sa come difendere il suo onore. Dopo l’America Latina, Anita, nel 1847, forse in seguito ad una nuova gravidanza e alla precarietà della sua salute, si sente “costretta” a rientrare nella casa di Garibaldi Nota bibliografica Lami Lucio, Garibaldi e Anita corsari, TEA S.p.A, Artabano, Gravellona Toce (VB), 2002. Mack Smith Denis, Garibaldi, Nuovo Istituto Italiano d’arti grafiche, Bergamo, 2001. Internet, Anita Garibaldi in http://www.istitutospaventa.it/lavori/Modulo1/anita.htm. Internet, Anita Garibaldi, in http://webspace.omniway.sm/badarlon/anita.htm Assòciati all’Accademia Internazionale Il Convivio! Se vuoi che la rivista continui a vivere, aiutala a vivere. Essa non ha finanziamenti pubblici, ma si sostiene solo con la quota associativa. Per associarsi è sufficiente versare la quota annua di 20,00 (per associazioni culturali), gazzi), sul Conto Corrente Postale n. 12939971 o tramite assegno circolare non trasferibile, intestati a Conti Vincenza, Via Pietramarina-Verzella, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - Italia. Dall’estero: equivalente in altre monete. 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Dai suoi versi si denota una penetrante riflessione che evidenzia la vacuità della società, vacuità che si tramuta in silenzioso pensiero del tempo, in moto puro che «c’infatua nella ruggine dell’aria». Il tempo, dunque, si pone per l’uomo come limite e Cesare Ruffato sa trasmettere con l’arma della poesia tale straniamento. La scelta qui presentata giunge sino all’ultima pubblicazione, Sinopsie, «ideale canzoniere d’affetto per una persona cara precocemente scomparsa», in cui, partendo da una dichiarazione poetica, l’autore cerca di riappropriarsi di un mondo-tempo che sembrava perduto. Da queste poesie si evince chiaramente il processo cognitivo di una scienza che si tramuta in letteratura, la parola si scompone e si ricompone per dare voce al silenzio. Così la combinazione semantica, neologica e il polimorfismo poetico danno una costruzione necessaria ed assoluta all’oblio della vita e della poesia. Tra le pubblicazioni più recenti sono da ricordare una traduzione in lingua spagnola, Ritmo de sinestesias con prefazione di Mercedes Arriaga Flórez dell’Università di Siviglia, e una in lingua svedese, Så långt ögat når con introduzione di Gertrud Olers-Galli. *** Un gabbiano alieno filosofo è il nostro spider inossidabile con cristalli di rocca mira emozioni minime dell’aria ci aiuta a rotolare il corpo al sole nel labirinto materno per rime pazienti della memoria. Strappo dalle scorze lagrime lunari il tempo che duro nel sogno senza volto, poi si vedrà. Paramore Non dirmi che l’amore consiste in partimen modellarmi sulle tue curve genuflettere lai sulle tue ritrosìe e accendere vertigine di sospiri e plausi nel vezzo joc delle tue orpellerìee spleenìe. L’amore non abbisogna di questo non è di necessità logomorfo tanto più lima e bara quanto più è prigione diletta di un cuore con tutte le cellule del mondo intrapiantabile, asma infinibile del proprio ed altrui brulichìo. Filosofo antico dà una mano cerca ancora largueza e corregge con distacco 1’errore. È cultura clus e sottile misura di diamante universale della prima mente. Filtro permaloso pensiero in bilico pare grazia felicità perdizione. Vorresti egoisticarlo bavagliarne il genio malinconirne l’eternità con lingua gelosa farne patetico fatras. Mi accorgo di perderlo sempre per vizio o per l'ansia fenice di recuperarlo ieu chant per joi de fin’amor, perché viva nella favola. Ritmo de sinestesias Lettura meticolosa sfuma il ritardo della sera polverosa nel divario labbra e fiume hanno perso il lume fantasioso dell’acqua. Anagramma ipofonico ondeggia segni colmi compone un filtro di effetti dubbi. La nube burlona gioca con la luna le mani con i cenni del silenzio. *** Privilegio carpire e capire l’incanto di gioia e dolore per certe varianti di colore e fervore ma è per l’illusione emozione d’insieme che infiltrano il loro inleggibile prodigio l’innoverabile continuo di loro competenza. Quasi pretendere una teoria assoluta che rappresenti nella propria realtà il mondo. Forse si accinge a farci intravedere un bagliore dell’armonia di terra promessa, una goccia religiosa di certezza sia pure in una fede incerta e con desistenza di senso. 6 Sinopsìe Il ritorno alla pianura pullula vastità di passi e percezioni su reticolata geometria poetica pittura garrula epica e tragica di campi cesure orti canali abbeveranti filari di viti sull’attenti grumi di gelsi e frutteti atmosfere soffuse in barlumi onirici di mansarde cromatiche increspate dal vento e da agresti risonanze. In tale fantasmatíco mondo è scomparso il gesto sapiente sinestesico del seminatore ma alta alla luna buona si esibisce la mina del cuore che spazia la memoria pulsa il prodigio delle stagioni le maree dell’anima suggestiona il sopore opaco del respiro dell’universo. Contrasta il centro coi contorni che sfumano e degradano le luci. Mancano tempo e pietas per l’oblio che innesta etica latente rinvio. Percolo nel reticolo ctonio mirabile della natura per assorbirne bioritmi ed assaporarne l’eco dei segreti cosmici intangibili irraggiungibili. *** Nella luce smogata del giorno mi alimento di quanto traspare del latte arboreo virtuale della atomìa aerea sommossa nei vostri giri intorno al mio vuoto delle guttate inflorescenze brinate che in casto silenzio mi conservate sulle soglie d’ogni cammino ispirato riverberandomi ennesguardi lontananti abbacinati in sublimi chiarità festose. Più nello splendore vi obliate più mi affanno sulle vostre tracce su ogni residuo barlume sulle pene-ombre ove sosto e cerco quanto so di non distinguere ma che mi insegue e si fa gioco della debilità che mi increpuscola ed accora di opaca evanescenza. Verdi Ricordi Nel tempo senza nome la memoria incupisce l’autunno si spegne in foglie gialli e coglie dalle mie rughe la monotonia inveterata i pensieri opachi petonata fine in rosso a smalto. “allineati”, anzi insofferenti e “ribelli” ad ogni tipo di potere eccessivo, ad ogni forma di “dittatura”, politica e letteraria. Com’è, in fondo, lo stesso Sgorlon. Avendo, anche Aliberti, fatto una “scelta di campo” nel segno della libertà intellettuale, si è trovato in perfetta sintonia con Carlo Sgorlon, non solo per le tematiche ispiratrici della sua narrativa, ma anche e soprattutto per la visione “filosofica” della storia umana, di ordine mitico-religiosa. In ogni pagina del suo studio si percepisce una partecipazione viva, un’adesione piena alla straordinaria vicenda, umana e letteraria, di Carlo Sgorlon. Ne deriva un profilo criticamente perspicace, attento alle grosse problematiche, ma anche alle implicazioni psicologiche, ai particolari più minuti della biografia, dalla infanzia vissuta presso i nonni fino agli studi universitari, dalla prima maturazione fino alla esplosione del “caso” letterario, come quello di uno scrittore che non intende intrupparsi in correnti e tendenze dominanti sulla stampa nazionale e nelle università, col rischio dì vedersi e sapersi un “isolato irriducibile”. Rischio che Sgorlon sconta fino all’ultimo, nella consapevolezza di restare se stesso pur nel clima infuocato delle polemiche accesesi via via sul neorealismo, sulla neo-avanguardia, sul Sessantotto, sulla letteratura industriale, sul terrorismo. Aliberti, dopo aver fatto debitamente luce sulle direttrici della poetica e della filosofia sgorloniane, passa ad una lettura analitica delle opere che ne contrassegnano l’iter narrativo, da La poltrona (1968) e Il vento nel vigneto (1973) a La tredicesima ora (2001) e L’uomo di Praga (2002), soffermandosi su aspetti maggiori e minori di ogni libro (trame, personaggi, situazioni, significati). Chiude con un capitolo dedicato interamente alla delicata questione delle strutture formali in cui, di volta in volta, si sono calate le tante “storie” che Sgorlon ha raccontato. L’autore vi coglie l’occasione per fare anche un bilancio della fortuna critica, riconoscendo molti meriti agli studiosi che lo hanno preceduto, come Roberto Damiani, Liana Nissim, Carmine Di Biase, Ezio Bernardelli, Claudio Toscani e, più di tutti, il compianto Bruno Maier, che della narrativa sgorloniana è stato l’esegeta più assiduo e l’interprete più accurato. Carmelo Aliberti, che è anche un ottimo poeta, con questo lavoro ha confermato le sue doti di lettore scrupoloso e di indagatore acutissimo. Come si è detto poco sopra, egli aveva già dato prove più che convincenti di saggista rigoroso su autori ed opere di non facile approccio; ma qui ha dato veramente il meglio di se stesso, forse anche perché si è sentito personalmente coinvolto nella sorte di uno scrittore come Carlo Sgorlon, sempre mosso da «un’etica severa, di matrice cristiana, che rifugge dagli edonismi, dai lassismi e permissivismi eccessivi di oggi». Carmelo Aliberti: La narrativa di Carlo Sgorlon di Vittoriano Esposito Non c’è dubbio che Carlo Sgorlon sia uno dei più grandi scrittori del secondo Novecento, e non solo italiano: autore di una trentina di romanzi, pubblicati quasi tutti da Mondadori, si può ritenere senz’altro uno scrittore ormai di “chiara fama” e, nel complesso, abbastanza fortunato, seguito e apprezzato com’è da una larga fascia di lettori, anche se non è propriamente quello che si dice uno scrittore “popolare” (ma ha venduto, in verità, oltre tre milioni di copie dei suoi libri). Vincitore dei premi letterari più prestigiosi (dal Super-Campiello 1973 al SuperFlaiano 1997, con in mezzo lo Strega, il Napoli, l’Hemingway, il Fiuggi, il Fregene e tanti altri, che sarebbe troppo lungo elencare), assunto come “exemplum” per ricerche in corsi universitari (a Trieste, Zurigo, Aarheus, Pensylvania), fatto oggetto di molte tesi di laurea in Italia e all’estero (Polonia, Egitto, Cina), recensito puntualmente su decine di giornali e periodici all’uscita di ogni sua opera, è presente nei repertori e dizionari critici più diffusi, oltre che nelle storie e nelle antologie adottate nelle scuole di ogni ordine, inferiori e superiori. Eppure c’è qualcosa che non “quadra” ancora, come si suol dire, nella storia della fortuna critica di Carlo Sgorlon (Bastogi, Foggia 2003). E Carmelo Aliberti ci aiuta a capirne le ragioni, tracciandone anche un profilo umano col suo ultimo lavoro: nato e cresciuto in un paesino del Friuli, Cassacco nei pressi di Udine, Sgorlon compie i primi studi in modo irregolare, ma poi si laurea e si specializza in Lettere alla Normale di Pisa, con buone prospettive per la carriera universitaria; preferisce, invece, dedicarsi all’insegnamento nelle scuole medie, star lontano dai clamori delle metropoli e dei gruppi organizzati, vivendo da gran solitario, senza mai rincorrere il carro dei vincitori in politica, poiché professa idee liberal-democratiche al di fuori degli schieramenti partitici. Di qui l’impressione di un uomo e di uno scrittore che vuol essere ad ogni costo controcorrente, fermamente deciso a non farsi irreggimentare nella cultura che conta politicamente, né di sinistra né di destra, posto che la distinzione abbia ancora un senso. Di qui, anche, le mancate simpatie da parte di certa critica dichiaratamente tendenziosa o velatamente ambigua, per determinazioni ideologiche. Tutti temi e problemi, questi, di non poco conto, già ampiamente prospettati oppure qua e là sfiorati in interventi occasionali (ad es., da Marchetti, Nogara, Scaramucei, Caronia, Di Biase, Amoroso e molti altri), accennati in sintesi repertoriali (ad es., da Bassan, Bertacchini, Piemontese, Pulce, Romano, ecc.), poi ripresi e approfonditi in studi monografici di grosso impegno (Damiani, Nissim, Maier, Toscani), ed ora posti al centro di una indagine capillare di Carmelo Aliberti, apparsa recentemente presso a Bastogi Editrice Italiana, nella nuova serie della “Biblioteca dell’Argileto”. Carmelo Aliberti non è nuovo a questo genere di studi, avendo al suo attivo alcune monografie critiche su autori ed opere di vasta risonanza, tra cui ricordiamo Silone, Prisco, Tomizza, Cattafi. Scrittori, a ben riflettere, non L’Accademia Internazionale il Convivio augura a tutti gli amici e sostenitori Buon Natale e Felice Anno Nuovo!!! 7 In effetti, Carlo Poerio, che aveva fatto della costanza, della fermezza e della temperanza i principi cardinali della sua attività politica, aveva, come egli stesso soleva asserire, “consacrato la propria vita al pacifico trionfo del reggimento costituzionale” e durante la sua attività politica, fino al suo ultimo processo e alla condanna all’ergastolo, aveva sempre sperato di ottenere, come scrive Croce, “il reggimento libero per virtù dell’opinione pubblica, che persuadesse i Borbone a concedere lo statuto e ad assumere veste ed animo di re costituzionalisti”. Persino dopo i tragici avvenimenti del 15 maggio 1848, egli, dopo aver attribuito la colpa dell’accaduto un po’ agli autori delle barricate, un po’ al “Ministero”, continuava a riporre fede in Ferdinando II, sperando, come scrive ancora Croce, che questi “avrebbe mantenuto la carta costituzionale ed avviato la pacifica attuazione della vita parlamentare”. Carlo Poerio martire della libertà di Anna Poerio Riverso In occasione del bicentenario della nascita dell’insigne patriota Carlo Poerio (Napoli, 13 ottobre 1803 – Firenze, 28 aprile 1867), in questo periodo in cui il dibattito sul revisionismo storico si fa sempre più acceso e in cui l’esigenza di una rivalutazione della storia e della cultura dell’Italia Meridionale diventa sempre più pressante, è sembrato doveroso e quasi inevitabile rivolgere l’attenzione all’azione civile e politica svolta dalla famiglia Poerio durante le lotte per il conseguimento dell’Unità d’Italia. A tutti è noto che l’intera attività della famiglia Poerio è improntata all’amor di patria, all’indipendenza e alla libertà; eppure, nonostante i numerosi studi compiuti da prestigiosi storici e critici letterari (S. Baldacchini, V. Imbriani, G. Secrétant, B. Croce, N. Coppola, M. Tondo), che attestano appunto l’alto valore delle gesta della famiglia Poerio, bisogna riconoscere che ancora oggi queste figure di patrioti e di uomini di cultura, illustri rappresentanti sia in Italia che in Europa del nostro Mezzogiorno, sono stranamente rimaste nell’ombra. Se da un lato, difatti, resta finora da approfondire e valorizzare l’intera opera letteraria di Alessandro Poerio, che ha certamente dato un pregevole contributo al nostro Romanticismo, dall’altro lato ci sono ancora molti elementi da chiarire in merito all’attività politica svolta da Carlo Poerio sia prima che dopo l’Unità d’Italia. Tuttora oscure, ad esempio, sono le motivazioni che, dopo il raggiungimento dell’Unità d’Italia, spinsero Carlo Poerio, eletto al primo Parlamento italiano, ad uscire quasi del tutto dalla scena politica e a rifiutare, nel 1861, gli insistenti inviti di Cavour ad accettare una nomina nel Ministero. Ovviamente, per comprendere queste motivazioni bisogna tentare di risalire ai principi su cui Carlo Poerio aveva fondato le proprie lotte politiche e, a questo proposito, uno degli elementi chiarificatori potrebbe essere la lettera scritta dallo stesso il 17 ottobre 1848. Questo documento si rivela emblematico per due fondamentali motivi: prima di tutto, perché si tratta dell’ultima lettera inviata da Carlo Poerio al fratello Alessandro, che si trovava allora a Venezia e che, di lì a pochi giorni (il 3 novembre), avrebbe perso la vita, dopo aver combattuto contro gli Austriaci a Mestre (Battaglia di Mestre, 27 ottobre 1848); secondo, perché in questo documento Carlo Poerio, essendo ancora fiducioso nel Re Borbone, da un lato denuncia apertamente l’ambizione del Principe Piemontese e dall’altro, mostra tutta la sua preoccupazione per il giusto esito della causa Italiana: “Mi scrisse Gioberti invitandomi a Torino; egualmente, ho ricevuto lettere da Leopardi, Massari e Spaventa: Ma io non accetto le basi stabilite dal Gioberti per mascherare l’ambizione di un Principe. Se il dovere non mi ritenesse in Napoli costantemente, non mi recherei in Torino, ma altrove.(…) Il caro Montanelli mi ha mandato a salutare per mezzo di un amico. La sua condotta è degna di un vero italiano; ma a me pare che il suo generoso progetto non sia eseguibile. L’ambizione Piemontese guasta tutto”. In quel preciso momento storico, difatti, al liberalismo napoletano l’unica condizione indispensabile sembrava la monarchia, e di monarchia non esisteva atra possibilità che quella borbonica; soltanto dopo parecchi anni e molteplici vicende il concetto di autonomia del Regno di Napoli si trasformò in quello della fusione nel Regno d’Italia. Col precipitare degli eventi le speranze dei costituzionalisti andarono del tutto deluse e il 17 luglio 1849 Carlo Poerio, accusato da un falso testimone di appartenere alla setta dell’Unità Italiana, fu imprigionato nelle carceri giudiziarie della Vicaria e, da allora in poi, subì con fermezza d’animo, senza chiedere mai alcuna grazia al Re, per dieci anni la condanna nelle aspre carceri borboniche (Nisida, Ischia, Montefusco, Montescarchio). L’accusa contro di lui era falsa ed infondata, ma fu mantenuta per comprendere nel processo il maggiore esponente del partito liberal-moderato napoletano. Difatti, la notizia del suo processo suscitò scalpore in tutta Europa e Carlo Poerio divenne il simbolo delle aspirazioni napoletane alla libertà; la sua vicenda umana fornì argomento alla pubblicistica del Gladstone e ispirò dei versi a V. Hugo, che volle rendergli omaggio ricordandolo come difensore del popolo e del diritto: “Battyani, Sandor, Poërio, victimes! Pour le peuple et le droit en vain nous combattimes ! ». 8 la Faccia di Dio» (Corano III 115). «Così dice il Signore Iddio che ha creato i cieli.... che sostenta la Terra... che dà alito alle genti... e lo spirito» (Isaia XVII 5 - Bibbia). Anche essere la Vita-Una è insegnamento fondamentale comune alle religioni monoteiste, Vita che si manifesta in forme molteplici, ma ognuna figlia di Dio, ognuna creata perfetta, poi divenuta imperfetta, causa, questa, di disarmonia; Vite tutte in cammino verso la perfezione. Attraversare il quotidiano alla luce di questi insegnamenti permette di raggiungere un piano di coscienza più elevato di quello ordinario fino ad accantonare emozioni, sentimenti negativi, vivendo così una vita purificata in maggior o minor misura da scorie di egoismo, rivalità, attaccamento al transitorio che disvelerà in noi la presenza dell’anima: «I puri di cuore vedranno Dio». (V - 8, Beatitudini). Questa verità radiosa deve difendersi dalla non verità ed il processo di redenzione va sviluppato nel proprio intimo, non all’esterno; il mondo ha solo il compito di preparare occasioni propizie di mettere in atto ciò che l’intimo ha elaborato. «Colui che non ha rinunziato alle abitudini malvagie.... Non ha soggiogato la mente e nemmeno con la coscienza può raggiungere Dio» (Katha Upanishat). Le religioni che indirizzano a far realizzare l’anima sono unite, una volta rimosso da loro ciò che non è essenziale, da un unico obiettivo ed è tramite esse che l’uomo può cercare e trovare unità, comprensione e collaborazione al fine di raggiungere lo scopo vero del vivere. Compito umano nell’Universo è in definitiva quello di procedere nell’intendimento di innalzare il proprio livello di coscienza verso uno stadio sempre più alto e può raggiungere lo scopo solo vivendo nell’ascolto dei suggerimenti di quelle che sono le sue migliori tendenze; è vivere in un mondo che è sogno sotto il punto di vista dell’Assoluto, ma realissimo per cui si trova sul piano della materia, reale quindi per il quotidiano che occorre attraversare sempre con la mente rivolta alle stelle e gli occhi alla strada, altrimenti si inciampa rischiando di cadere nel fango. La vita spesso viene paragonata ad un campo di battaglia, ma la lotta non deve essere guidata dalla forza bruta, arma dell’uomo ai limiti del regno animali, ma dall’anima. Le religioni di Giuliana Milone La ricerca di Dio è connaturata all’uomo che avverte intimamente di essere molto di più di un semplice essere fisico, ricerca in tutte le epoche stimolata e indirizzata da uomini nel cui animo Dio era più manifesto; uomini ispirati che hanno portato in varie zone del mondo un messaggio, una verità espressi in maniera identica nella loro essenza, ma con parole adattate alla mentalità della zona e tendente a far sviluppare le qualità di cui la stessa era carente; rimane però in quelle parole il quod semper, quod ubique, quod omnibus. Essi non hanno mai cercato seguaci o plausi dal mondo indifferenti come erano a queste cose; hanno schiuso solo le porte della verità a chi fosse preparato a conoscerla e desiderasse avanzare. Quando l’uomo si pone dinanzi a Dio avverte un misto di speranza e timore ed è per questo che cerca di rappresentarlo come se stesso; ma fino a quando Dio è oggetto della logica umana è un Dio limitato, un Dio che crea per poi distruggere; di Lui non può essere a lungo mantenuto il concetto antropomorfico perché l’Infinito presente nell’uomo cerca la controparte in un altro Infinito, esterno, nel quale fondere il proprio; è il desiderio di superare i propri limiti fisici per conoscere l’essenza personale a dare impulso alle religioni che non sono altro che un andare verso Dio, visto dalle diverse angolature con cui l’uomo Lo guarda; esse sono come raggi che convergono verso un Sole. Scoperto il fattore di incontro dei vari credi, si farà strada spontaneo il sentimento della universalità religiosa la cui credenziale si trova nei nostri cuori. Tutte le religioni hanno come fattore comune la spinta a superare debolezze ed istinti umani, cosa che permette una più ampia visione delle cose, hanno Testi Sacri da leggere con mente sgombra da pregiudizi le cui parole proclamano l’esistenza di Esseri Spirituali e la necessità della fratellanza da non risolvere unicamente in un concetto. Sono giunti dunque grandi Spiriti ad incoraggiare il cammino interiore dell’umanità ed ognuno di loro ha vissuto una vita nobile e ha proclamato la medesima legge morale. Sulle loro parole ispirate è fiorito il monoteismo. Nei tempi antichi, caratterizzati da mezzi di comunicazioni carenti, le religioni erano locali; l’Antico Egitto aveva la sua, al pari degli Ebrei, degli abitanti della penisola indiana, dei Cristiani, dei Buddisti, degli Islamici, ma tutte parlavano e parlano di un Dio Uno presente ovunque e di Vita Una e mettono il punto sul regno di Dio ovunque, anche dentro di noi, che permette, una volta acquisitane la coscienza, di vivere la vita nelle sue varie manifestazioni con forza e determinazione. «Non vi è altro Dio che Dio» (Corano III 2). «Il Signore prima del quale e oltre il quale non vi è nessun altro... » (Zoroastro); «Uno solo senza secondo» (Upanishat VI Induismo); «Ascolta Israele, il Signore Dio Nostro è l’unico Signore» (Deuteronomio VI 4 - Ebraismo); «Iddio è uno» (Galati III - 20- Cristianesimo). «Il suo Regno signoreggia per tutto» (Salmo 103-19 - Bibbia). «Lo Spirito perfetto da cui tutto è compenetrato (Shvetashvatera Upanishat III - 3). «A Dio appartiene l’Oriente e l’Occidente; perciò da qualsiasi lato tu ti rivolga per pregare, ivi è O Signore di Gaetano Alessi Avverrà, o Signore, raggiunto la pace che l’uomo adulto e consolidato la giustizia. guarderà con gli occhi Altrimenti...! di un fanciullo? Che ne sarà di noi? Che l’egoista cederà il passo all’altruista? Sapranno gli spreconi avvedersi e lasciare il necessario ai bisognosi? Vorranno gli uomini, pur se di razze e religioni diverse, veramente tra loro affratellarsi? Quando tutto questo accadrà - ed io lo spero fermamente avremo sulla terra: rafforzato la solidarietà sconfitto la fame 9 Sicilia-ME), Associazione Culturale CAVAAN presidente Mario Roma (Giardini Naxos), Associazione SiciliAntica presidente Giuseppe Lo Porto (Catania), Azienda agrituristica Gole dell’Alcantara di famiglia Vaccaro, Comune di Castiglione di Sicilia: sindaco Salvatore Barbagallo. Il presidente dell’Accademia, Angelo Manitta, ha innanzitutto ringraziato i presenti ed ha brevemente illustrato il cammino dell’Accademia e della sua rivista e i successi ottenuti nell’arco di pochi anni: da un semplice foglio si è passati ad una prestigiosa rivista nel suo genere, evidenziando come dell’Accademia hanno parlato in poco meno di tre anni, centinaia di riviste del Brasile, Uruguay, Stati Uniti, Australia, Spagna, Francia, Slovenia, Romania, Argentina, oltre che dell’Italia. Ora uno degli obiettivi principali è la creazione e la promulgazione di un manifesto letterario che possa coinvolgere quanti più amanti dell’arte possibile: per una letteratura nuova e rinnovata. Nell’occasione della premiazione sono stati presentati e donati ai partecipanti alcuni volumi pubblicati dall’Accademia. In particolare quelli di Mario Angel Marrodàn, Sono il sonetto, di Otilia Jimeno Mateo, Genesi di un’alba e tramonto di un tempo, di Elisa Orzes Grillone, Rivoli d’argento. Sono stati donati pure alcuni volumi di Antonia Izzi Rufo, La memoria delle origini di Giovanni Tavcar, La mia odissea di Silvio Craviotto, Gente delle mie parti di Arnaldo Caimi, ed altri. A questo punto si è entrasti nel vivo della manifestazione. Sono stati dapprima premiati i ragazzi delle scuole medie e superiori. Erano presenti, tra i segnalati per la poesia Scuola media Alessandra Raffa (Giarre – CT), Andrea Gulisano (Giarre – CT), Manuela Sterrantino (Nizza di S. – ME). Il primo premio invece è andato a Silvia Pennizzotto (Nizza di Sicilia – ME), con la poesia Guerra: Ho tanta paura delle foglie che cadono del buio che bussa alla città, delle lacrime, paura del gelo alle finestre, dei prati che muoiono, dell’amore che scompare, paura del futuro che mi attende, ho tanta paura che la primavera si dimentichi di venire. Per il racconto della scuola media il primo premio è andato a Daniela Grasso (Giarre - CT) (679) con La Serra Misteriosa e la motivazione: «Questa nostra terra, Eden o Serra, è dove gli uomini non riescono a vedere oltre il vapor acqueo... eppure quando riescono a penetrare nel mistero, l’acqua, simbolo della grazia divina, è ovunque: le farfalle, i fiori. Rispettare la natura è rispettare Dio». Un riconoscimento speciale è andato ai ragazzi della scuola media Macherione di Giarre per l’illustrazione a Dei, eroi ed isole perdute di Angelo Manitta. Erano presenti a ricevere il riconoscimento, oltre a molti ragazzi, il preside prof. Torrisi e la prof.ssa Mannino. Per le scuole superiori era presente Chiara Cerri (Lucca), premiata con il racconto L’equilibrista e la seguente motivazione: «Analisi della realtà esteriore ed interiore, nel racconto di Chiara Cerri, unite da un filo invisibile, ma necessario, che impedisce di abbassare lo sguardo per paura di perdere l’equilibrio e di cadere. Questa paura spinge sempre a guardare verso l’alto. Il Convivio 2003 Cerimonia di Premiazione di Enza Conti Si è svolta a Giardini Naxos la premiazione della terza edizione del premio Il Convivio 2003. La cerimonia, tenuta nella sala conferenze dell’Hotel Assinos, ha visto presenti poeti, pittori e scrittori di tutto il mondo. La manifestazione quest’anno si è distinta per la quasi totale presenza dei premiati. Malgrado la manifestazione non riceva contributi da enti pubblici, erano presenti diverse autorità, tra cui per il Parco dell’Etna il dott. Franco Drago, il sindaco di Moio Alcantara (ME) Salvatore Currenti, l’assessore allo sport e allo spettacolo di Giardini Naxos prof. Carmelo Lombardo e l’Assessore del Comune di Castiglione di Sic. dott.ssa Vincenza Bonaventura. La manifestazione è stata coordinata e condotta dalla dott.ssa Cettina Portaro e da Angelo Manitta, mentre le poesie e le motivazioni sono state brillantemente lette da Angela Aragona e Salvatore Cormagi. La giuria, presieduta dalla scrittrice e poetessa messinese Maria Pina Natale, ha visto tra i suoi qualificati membri, nelle sezioni in lingua italiana, che in quelle straniere: Francisco Àlvarez Velasco (Spagna), PinaArdita, Enza Conti, Maristella Dilettoso, Angelo Manitta, Giuseppe Manitta, Juan Montero Lobo (Spagna), Placido Petino, A. Maria Sartori Crisafulli, Andityas Soares de Moura (Brasile), Rosa Spera, Lia Sfilio Borina, Bruna Tamburrini, Nunzio Trazzera. Fulvio Castellani, Maria Enza Giannetto, Flavia Vizzari, Graziella Paolini Parlagreco, Jean Sarraméa (Francia). Hanno collaborato alla realizzazione della manifestazione: Parco dell’Etna, presidente Ing. Concetto Bellia, Società Patria a r. l. Torrepalino – Solicchiata di Castiglione di Sic., Assoetna, associazione per la valorizzazione dei prodotti Etnei, pres. Dott. Di Miceli, Comune di Mojo Alcantara, La dispensa dell’Etna, enoteca con cucina, prodotti tipici dell’Etna e dell’Alcantara (Castiglione di Sic.), Rivista Peloro 2000 diretta da Domenico Femminò (Messina), Taverna Naxos di Angelo Savoca presidente del Fotoclub Naxos (Giardini Naxos-ME), F.R.A.T. Fabbrica Radiatori per autoveicoli di Franco Treffiletti (Solicchiata-CT) Neoplast Lavorazione materie plastiche di La Spina e Santamaria, di Contrada Imboscamento (Solicchiata-CT), Emporio carni di Sebastiano Rigaglia (Solicchiata-CT), Ceramiche artistiche Francesco Consalvo (Francavilla di 10 violata, legata spesso al fenomeno dilagante del turismo sessuale… Attraverso una prosa scorrevole ed impeccabile ha toccato le corde più nascoste, comunicando quel senso d’impotenza con cui viene descritta la “fine dell’innocenza”, il passaggio dai sogni indefiniti dell’infanzia ad una turpe realtà, coinvolgendo il lettore e lasciandolo profondamente riflettere». Nella sezione Racconto italiano ha ritirato la menzione d’onore: Maria Luisa Leotta (Acireale-CT) e la segnalazione di merito: Maria Lucia Collerone (Caltanissetta). Il terzo premio invece è andato a Franco Querini (Roma) con il racconto L’uomo che fabbricava pesci e la seguente motivazione: «Con un linguaggio piano, lineare, che non disdegna di ricorrere talvolta ad una certa vena ironica, è stato costruito un racconto che accorcia molte distanze, che sfata molti pregiudizi: è l’odissea di Kemal, uno dei tanti extracomunitari che, accarezzando il miraggio del benessere e della sicurezza economica, intraprende con mezzi di fortuna uno di quei “viaggi della speranza” di cui sono fitte le cronache di questi ultimi anni». Renata Rusca Zargar e il dott. Franco Drago Per la lingua francese invece era presente: Pascale Belangier (Fos-sur-Mer – Francia) premiata per il Racconto Dame Epée, con la motivazione: «Il racconto offre, attraverso uno stile chiaro e nitido, una rivisitazione fiabesca della vita, nelle vicende collettive e individuali. Dal punto di vista narrativo segue una traccia ben chiara. La riflessione spinge ad una rivisitazione del passato. L’autrice, comunque, non cede a false ricostruzioni, ma dà al lettore l’impressione di una vicenda profondamente sentita, in cui il mostro (il Male) e una margheritina assumono il valore simbolico della perfezione spirituale. Ma come in tutte le più belle fiabe, tutti vissero felici e contenti. L’uno nell’altro in pace». Per il libro edito in lingua italiana il Premio Speciale per la poesia è andato a Sara Bensi (Firenze) per il volume “Ama Guardare il sole”, a ritirare il riconoscimento sono stati i genitori. La ragazza, purtroppo, è scomparsa qualche anno fa all’età di 23 anni. La motivazione: «Dalle poesie di Sara Bensi scaturisce un grande desiderio di vita che porta alla gioia e alla felicità. Dalle sue parole sprizzano sentimenti d’amore, amore vero, simboleggiato dal sole, luce divina che illumina tutto e che ha la capacità di risplendere anche sui segreti dell’anima». Si propone la sua poesia Stelo: Un amore grande era sbocciato, come fiore unico in un immenso prato. Due piccole creature lo avevano trovato, coltivato, amato. Pascale Belangier (Francia) e l’ass. Carmelo Lombardo Il secondo premio è andato a Guido Lo Giudice (Roma) con il racconto Un parcheggio in paradiso e la motivazione: «Racconto di notevole originalità e modernità, pervaso da una vena umoristica, con una scrittura agile, brillante, che spesso ricorre a metafore e paragoni spigliati e divertenti. L’autore con brio ed inventiva, e avvalendosi di uno stile disinvolto, crea, su una trama in fondo esile, tutta una serie di situazioni paradossali, ai limiti del surreale, senza mai perdere di vista quel senso dell’humour con cui il protagonista vive, ed interpreta, quelle situazioni di assurda ma ordinaria quotidianità, di chi deve misurarsi ad ogni momento della giornata con la confusione, l’equivoco, il traffico». Il primo premio è andato a Renata Rusca Zargar (Savona) con Rama. Motivazione: «In una forma lineare, che non indulge a retorica alcuna, né si compiace di toni patetici, ma proprio in virtù di questo, riesce a farsi via via più coinvolgente, l’autrice ha tracciato, avvalendosi di uno stile essenziale al pari di una cronaca, la vicenda breve e drammatica di un bambino indiano, saggio e indifeso al tempo stesso. Il piccolo Rama subisce sino in fondo le conseguenze fisiche e psicologiche di una tra le piaghe più infami ed infamanti del nostro tempo, quella dell’infanzia 11 Forte era cresciuto ma il vento, gagliardo, spirava. Le nostre anime legate solo a un debole stelo, i nostri ricordi, debole sì, ma capace di resistere. Tutto è cessato. Di nuovo il sole splende alto. Le due creature adesso contemplano il loro tesoro, sicure che niente più lo farà crollare, lungo l’eternità. la polpa d’ogni pensiero. Appena allentato lo sguardo in cerca di brace e d'abisso Amore da notti si leva seguendo la presa e l'odore. Da qualche viaggio antico al passo dì giaguaro ed occhi gialli cigliati di mondi ti ha reso saggia. Con fiuto felpato e fiato di quiete t'offre rifugio al centro del palmo di conoscenza. Il Primo premio è andato a Giorgina Busca Gernetti (Gallarate – VA) con il volume Ombra della sera (Ed. Genesi, 2002), con la motivazione: «Giorgina Busca Gernetti con “Ombra della sera” dà ulteriore prova della sua spiccata capacità di calarsi nel vivo della nuova poesia e di estrapolare dal proprio io un ricco compendio di intonazioni e di essenziali incursioni nel tempo, nei perché dell’umanità, nei valori reali dello stare assieme, dell’amare, del sentirsi in pace con se stessi. È “un canto di libertà”, il suo, come ha scritto Sandro Gros-Pietro sul risvolto della copertina. Un canto che si sostanzia con contenuti alti, con profili affettivi mai privi di accensioni e di simbologie. Ogni poesia, comunque, è un piccolo-grande mosaico di rintocchi e di parole che racchiudono visioni, elementi per meditare, brividi epocali». Giorgina Busca Gernetti Il terzo Premio per il libro edito, sez. Poesia, è andato a Monique Trenta (Bellinzona – Svizzera) con Mal di Maldive (Centro Studi Universum, 2003). Motivazione: «La poesia di Monique Trenta è una poesia moderna, asciutta e fluida al tempo stesso. È una poesia dalle forti e calde immagini, dalle emozioni altalenanti, dalla bellezza interiore palpabilissima. Leggendo le varie poesie che danno corpo alla silloge, dall’andamento unitario e voluttuoso, si ha netta l’impressione di trovarci di fronte ad una poetessa dalla carta d’identità ben precisa, maturata a tu per tu con la realtà e ben inserita nel contesto evolutivo della società, sia essa culturale, sia legata al tourbillon esasperante di compromessi e di perdite di identità. Tutto si muove con armonia sulla tavolozza scenica delle “sue” Maldive. Tutto si materializza con un metro scritturale decisamente personale». Il secondo posto è andato a Daniela Pericone (Reggio Calabria) con Passo di Giaguaro. Dal volume si trae la poesia dal titolo appunto Passo di giaguaro: Alla foce dei desideri è il fuoco e la tenerezza della sua mano che racchiude 12 Maggy De Coster (Francia) Per il libro di Poesia dialettale una menzione d’onore è stata assegnata a Franco Gitto (Vulcano – ME) con il volume A gomitate con la vita. Con la seguente motivazione: «Il libro fluisce fresco e grazioso nel modo particolarmente originale di porgere di Franco Gitto. La poesia in lingua si fonde con quella in dialetto. Il modo forte ed inci- sivo d’esprimersi rende l’autore un fruttuoso ed interessante pensatore, ma soprattutto un abile inventore di un dialogo epistolare, pieno di umanità e di simpatia, oltre che di brio e di ironia». Per la lingua francese il primo premio è andato a Maggy De Coster (Montmagny – Francia) con il volume Memoires inacheves. Motivazione: «La gaia apparenza della natura sotto la dolcezza dell’aria francese, di un mare che circonda un’isola, di una vita che scorre come l’acqua del fiume, di una natura viva che rende l’uomo protagonista nel bene e nel male, Memoires inachéves d’une Ile moribonde, sa fondere l’illusione con la realtà, suscitando dolore ed angoscia attraverso elevati virtuosismi poetici». possibilità, in cui l’autrice, attraverso la storia del protagonista, sembra voler infondere quest’estrema fiducia nelle possibilità dell’individuo… L’intero romanzo ruota intorno al personaggio di Giovanni un viandante solitario nella sua collina, nelle vie di Milano, nonché nelle vie della vita. Simbolo di una cultura del viandante, dell’abbandono alla ricerca di miglior vita e alla scoperta di ciò che la vita veramente gli riserva, egli abbandona la realtà soffocante che lo circonda fin dalla nascita e intraprende un vero e proprio percorso iniziatico che lo risolleva facendogli riconquistare la fiducia in se stesso e la dignità. La crescita interiore prevede lunghe sofferenze, come la discesa all’inferno prima di trovare il paradiso». Il secondo premio è andato a Giovanni Di Girolamo (Bellante – TE) con A volo di farfalla (La Versiliana Editrice, 2002), con la motivazione: «Un romanzo, lontano da qualsiasi eccesso, in cui viene realizzata l’idea classica della “perfezione”. E nessun eccesso mostra la narrazione che è sempre scorrevole, senza intoppi. Dialoghi, descrizioni, monologhi, che assolvono perfettamente la loro funzione narrativa e che risultano veri capolavori di “artificio letterario”. Ricercatezza lessicale, periodare agile e sicuro, costruzioni metodiche che rivelano il grande lavoro di cesellatura che ne sta alla base e che portano ad una narrazione scorrevole e spedita. Si tratta di un romanzo di verità, che ha come contenuti primari eventi e situazioni reali ma che riesce a scandagliare gli angoli più remoti e intimi dell’animo umano e tematiche esistenziali più ampie. Ed è come se alla fine della narrazione il lettore avesse vissuto tutte le emozioni dei protagonisti e ne conoscesse intimamente l’animo». Antonio Portaro e Domenico Femminò Il riconoscimento speciale “Il Convivio” è stato assegnato invece al novantaseienne Antonio Mantineo (S. Domenica Vittoria – ME) con Una voce nel tempo. Il premio Speciale per il libro edito in lingua dialettale, sponsorizzato dalla Rivista “Peloro 2000”, direttore Domenico Femminò a: Antonio Portaro (Roma) con il volume Mennuli ‘nciuri. Motivazione: «Antonino Portaro si rivela poeta abile e sensibile, riuscendo a far tesoro del dono linguistico natio nella rappresentazione di vivide immagini e nella realizzazione di espressioni colorite. Si tratta di un tuffo nel passato, nei ricordi che vengono quasi messi in scena, dando vita al fortissimo slancio affettivo e al profondo amore per la propria terra, per i propri concittadini e per tutto quello che la terra natale gli ha regalato. Il tutto però senza nessuna smielata nostalgia e anzi rivestito di buonumore e di spunti umoristici. Versi amabilmente costruiti che tessono storie, raccontano vite, tradizioni e affetti». Per la sezione romanzo edito, il terzo premio è andato invece a Margherita Biondo (Agrigento) con La collina (Centro Studi Giulio Pastore, Agrigento 2000). Motivazione: «Un libro di speranza e di fede nell’uomo e nelle sue Zoraide Martins (Brasile) e Maria Pina Natale Degli autori stranieri a ricevere l’ambito trofeo del Convivio per la lingua portoghese, nella sezione libro edito, è stata Zoraide Martins (Piedade-SP - Brasile) autrice del romanzo in tre volumi Nao mais que un capitãogeneral, con la motivazione: «Per l’ampia struttura narrativa, per la ricostruzione sostanzialmente fedele di un’epoca 13 di importanza fondamentale per la città di San Paolo e per il Brasile intero, per la visione dei personaggi visti nella loro valenza umana e sociale, Zoraide Martins nella trilogia «Nao mais que un capitão-general» presenta un ampio affresco di umanità attraverso uno stile avvincente e lineare, umanità che scaturisce soprattutto dal suo personaggio fondamentale: Morgado De Mateus». scritti e che si amalgamano perfettamente con la popolazione. L’Autore tratta l’argomento dando ai personaggi e a tutto il popolo del continente nero una dignità di vita e nello stesso tempo vuole mettere in evidenza la differenza, che purtroppo sussiste, tra i paesi ricchi e quelli poveri, tra coloro “che vivono dentro il proprio castello” e la parte povera “che preme contro le mura del castello”». Claudio Zaninotto e l’ass. Vincenza Bonaventura Marisa Calisti e Graziella Paolini Parlagreco Per il saggio una menzione speciale per la storia locale è andata a Giovanni Mantineo, mentre segnalazione di merito è andata a Beatrice Torrente (Salina Grande – TP) con La mattanza. I secondo premio è andato a Anna Poerio Riverso (Teverola – CE), col il saggio Alessandro Poerio. Motivazione: «Tutto il lavoro denota molta precisione e ottima capacità di analisi critica. Dalla lettura del saggio si ha una conoscenza completa di Alessandro Poerio e questo studio, così bene articolato, ci permette di approfondire le nostre conoscenze ed anche di effettuare dei collegamenti storico-letterari. È dunque un saggio di notevole pregio culturale ed anche l’espressione linguistica chiara, precisa e ben articolata lo rende apprezzabile ad un vasto pubblico». Il primo premio è stato assegnato al sociologo Claudio Zaninotto (Garlasco – PV) con il saggio Sabbia per acqua. Motivazione: «Il saggio di Claudio Zaninotto è particolarmente significativo, interessante soprattutto è una chiara espressione di esperienze umane vissute dallo stesso Autore nei suoi viaggi nel continente africano. Egli, attraverso dei racconti, mette in evidenza la precaria condizione infantile nel Continente nero e nello stesso tempo sottolinea le abitudini, la semplicità e la personalità degli abitanti dei luoghi da lui visitati, nonché i paesaggi sapientemente de- Per la pittura erano presenti a ricevere la segnalazione di merito: Giuseppe Abate (S. Agata Li battiati – CT), Nunzio Ardiri (Catanzaro, Mangiameli Paola (Palermo). Il primo premio è stato assegnato a Marisa Calisti (Rapagnano – AP) con Come il cielo. Motivazione: «L’opera di Marisa Calisti, con intenso lirismo e suggestione, evoca immagini della realtà naturale in un continuo fluire di cromatismi delicati, in una sintonia armonica tra conoscenza spirituale e realtà oggettiva. La tessitura risalta per la sua compostezza e dinamicità timbrica, immergendosi in memorie, impressioni e sensazioni che si congiungono per cogliere le essenze simboliche del mistero vitale». Per la poesia inedita dialettale premio speciale in onore di “Antonio Castorina”, sponsorizzato dal C.A.V.A.A.N, associazione per lo sviluppo e la promozione turistica, presieduta da Mario Roma, è stato assegnato a Franco La Pica (Taormina - ME) con la poesia Malidittu bisognu. Motivazione: «Con versi di notevole scioltezza e musicalità, che sfiorano le corde della nostalgia, dell’amore verso la propria terra, che si materializza anche nelle piccole cose, in flash di ricordi, l’autore tocca il tema dell’emigrazione. E lo fa con leggerezza e sapienza di toni, in questa composizione pervasa da una lieve ironia, come solo la 14 composizione dialettale è spesso capace di fare. Il verso fluisce accattivante, in virtù di rime ed assonanze, e in un certo rispetto dei canoni metrici, ma i toni della nostalgia non degenerano mai nella retorica, realizzando un insieme di facile e piacevole lettura». Segnalazione di merito a: Margherita Neri (Cefalù - PA) e Paola Cozzubbo (Giarre - CT). Il quinto premio è andato invece a Rita Alessandro (Catania) con Voci. Motivazione: «Notturno in terre profumate dal gelsomino d’Arabia, un notturno quindi popolato di stelle, di folate di vento e di voci lontane. Un notturno che dà sensazioni e turbamenti di ‘stagioni antiche’ e che, pertanto, può destabilizzare la quiete della notte con l’assurda frenesia del cuore, col ricordo di una ‘insensata voglia di promesse’. In questo stridente contrasto tre l’ieri e l’oggi, fra il vicino e il lontano, si sostanzia il valore di questa poesia, giocata abilmente anche sui registri di un linguaggio poetico, efficiente quanto basta». Monique Trenta, poetessa svizzera Per Poesia Italiana Premio Speciale per la tematica sull’amore ad Annalisa Grazia Guerrera (Catania) con Volevo risponderti. Riconoscimento speciale ‘Il Convivio’ a Luigi Siliquini, mentre menzione d’onore è stata consegnata a Rosaria Carbone (Riesi – CL), Mario Giorgio Talio (Caltanissetta), Angela Aragona (Paternò – CT), Chiara Filippone (Palermo), Pietro Filocamo (Messina), Manuel Cristadoro (Giarre-CT), Anna Famà (Messina). Segnalazione di merito a Salvatore Cormagi (Paternò – CT) (20) con Volerò Libero, e Elisa Moschella (Messina) con Inconsistenza. Umberto Vicaretti e Maria Pina Natale Presente era pure il primo Premiato: Umberto Vicaretti (Luco dei Marsi - AQ) con la poesia Uccello migratore. Motivazione: «È la non mai dimenticata “lamentation” dell’Eden perduto, origine di tutte le negatività della vita umana. Ma qui il rimpianto è affidato a tanta vastità di poesia, sempre sapientemente e soavemente comunicate al lettore, che è la poesia medesima ad offrirsi come eden ritrovato, attraverso la distillazione di ‘silenzi e attese’, attraverso il ritorno di memorie, attraverso le fragili reti dei sogni. Ma contro così ardente attesa da parte del cuore, ecco l’inesorabile realtà del tempo, che travolge e distrugge ‘le città del mondo’ e le dolci illusioni dell’uomo, il quale, in qualità di ‘uccello migratore perso al vento, null’altro può fare se non arrendersi supinamente a così sgradevole tirannia». I risultati del premio Publio Virgilio Marone saranno pubblicati sul prossimo numero Pittori che hanno esposto durante la Premiazione 15 e quello di solitudine, anzi si sbilancia a contemplare le perdite come se anche la natura non fosse più la stessa e ne cogliesse il gemito. Guarracino, all’interno di questo percorso poetico, criticamente scopre «tre livelli espressivi, tre diverse disposizioni morali e concettuali: la riflessione sulla parola poetica (e qui - penso - intervenga la criticità dello stesso autore, ben liofilizzata); l’accettazione della propria creaturalità (e vi aggiungo: comune al vivente ma disperata nella consapevolezza di sé) in una concezione per così dire organicistica del fare (farsi) poesia, e infine la contemplazione della natura come obbedienza stupita ai ritmi dei suoi sensibili fantasmi». Da vero critico, da autentico lettore prima, Vincenzo Guarracino sa introdurci al libro nel modo più consono, nella suggestione «del ricordo di Saffo, di Alcmane e Leopardi.» E per me che conosco la poesia di Gianni Rescigno, questa critica empatica ed insieme loica è una consolazione. Tuttavia in quest’ultima opera Gianni Rescigno va oltre la lezione pascoliana e leopardiana per una drammaticità che riesce ad essere perfino luminosa di colori e ricca di melodie in una disperazione rasserenata dalla fede più scomoda però perché vincolata alle ‘prove’ del dolore. In “Le foglie saranno parole” il messaggio è fortemente allusivo, esce dal particolare per universalmente conoscersi in tutti fino all’ultimo uomo che, se per caso, nella landa desolata di distruzioni ed aridità, dovesse trovare solo questo libro, chiudendo gli occhi ricorderebbe il colore delle foglie ed il loro rigoglio. E tutto ciò perché il pregio della poesia di Rescigno sta nella comunicabilità che porta in salvo un granello della terra che ama, perché dia un seme di verità e bellezza. Rescigno è poeta quanto basta per parlare al cuore di tutti e non mi sembra cosa di poco conto, io direi che possiede una felicità espressiva, una grazia dialettale che, penetrando nella lingua italiana, ha concesso a quello che pare un linguaggio comune, una carica di spontaneità di vivezza sia nel dolore che nella gioia. Credo sia inutile ormai parlare di grande poesia e di poesia minore, classiche per critici abituati a creare barriere, diremmo invece di poesia, quella che è consegnata a tutti e che troppi affossano o disperdono, senza che entri nel regno delle parole o della vita. Gianni Rescigno: poeta sincero nelle sillogi Le foglie saranno parole e Dove il sole brucia le vigne di Maria Grazia Lenisa Le foglie saranno parole Il titolo del nuovo libro di Gianni Rescigno “Le foglie saranno parole”, edito da Manni nel 2003, parrebbe proporsi come metafora di un silenzio, proiettato nel futuro e, forse, riguardante un futuro in cui il Creato non avrà chi lo guardi consapevolmente. Allora le foglie al frusciare del vento saranno, insieme agli altri suoni della natura, forme diverse di linguaggio naturale e inconsapevole. Rescigno pare delegato a catalogare la bellezza di quanto vede, avvertendo dentro di sé uno strappo, quasi fosse incaricato di una catalogazione del cielo, del mare, della terra, per ricordare magari all’unico superstite la bellezza della terra. Il suo è un libro tragico, nonostante i colori tocca infatti catturare la parola che connota la natura di ogni forma con le sue meraviglie anche se offese ed avvilite e viste, a volte, come superstiti di un passato quando erano più rigogliose e la lettura terrestre rispondeva alla musica del sangue giovane dei poeti. Ma anche la parola è fuggente, perché fra il dormire e il non dormire c’è la morte, il silenzio. Rescigno, a convalida di questa mia intuizione, teme che le parole diventino «parole fredde: / pietre sull’anima»; ne nasce la sua reazione che vuole affermare la vita creaturale e quella del linguaggio poetico. Così scrive parole “di sole”, ma è un ricordare l’ombra del fuoco con un’intonazione elegiaca di rimpianto che lo distacca dalle memorie pascoliane in un ‘De rerum natura’ che contempla lo spegnersi di ogni forma vivente e le continue trasformazioni. Accorato il poeta annota: «Rincorro le foglie...», in un’operazione di recupero e di trapianto quasi volesse riattaccarle ai rami, pur essendo sicuro del rigetto o della dispersione del vento. Il libro è pervaso tutto dal senso della caducità e le miserie di questo nostro tempo degli oggetti si insinuano anche nelle anime come un veleno, da qui l’ansia di catalogare, di rivisitare il mondo. «E il tempo pare enorme / oppure ha lo spazio / d’un fazzoletto bagnato / asciugato in fretta da un canto di passero». Il fazzoletto bagnato connota il pianto, il dolore che la poesia (canto di passero) tenta di asciugare e che tuttavia non è consolazione se non si rapporta al progetto divino di una crescita della propria anima, in quanto il messaggio poetico è anch’esso secondo i parametri umani caduco. Colpisce davvero la prefazione di Vincenzo Guarracino, lettore in assoluta sintonia col suo poeta: anch’egli inizia col cogliere il carattere catalogale della poesia di Rescigno in una sorta di enumerazione: «C’è la campagna e c’ è il mare, ci sono venti e cieli, suoni e odori di terra, attese e stupori...». È importante questo inizio che dimostra di aver compreso il senso profondo di “Le foglie saranno parole” che però non si ferma alla traduzione della natura nel linguaggio ma lo oltrepassa. La poesia qui ha le connotazioni di sempre, è vero, ma oscilla tra lo stupore d’incanto Dove il sole brucia le vigne Il vero problema, oggi, è dare un futuro alla poesia, esprimendo il proprio tempo nell’abbraccio di passato, presente e futuro. Ma la poesia non è solo un fatto linguistico che si sorregge alla musicalità o alla dodecafonia nettamente sperimentale, ci vuole l’energia dell’entusiasmo o del dolore per dare profondità e senso alla parola. Il grande Bárberi Squarotti subito pone l’accento sulle tematiche di Gianni Rescigno in quello che forse è il suo libro più bello, “Dove il sole brucia le vigne” (Genesi, 2003) e crediamo di riscontrare tra il critico e l’autore una consentaneità che per l’uno riguarda la vita ed il suo amore alla campagna, alle colline, alla natura, ma non la poesia dove complice alquanto le tessere naturali, per l’altro è una forma di mimesi. Subito Barberi Squarotti ne scampa l’insidia con le proposizioni critiche: «Rescigno tende a piegare a poco a poco la descrizione e il racconto in alto compianto, perché tante forme del mondo sono andate perdute, tanti 16 paesaggi, tanti minimi, ma fondamentali momenti e aspetti della scoperta della verità dei sensi e del cuore (così contraddittorie - aggiungo - e quindi caleidoscopio di verità provvisorie) nel suo luogo salernitano che è, poi, quello di tutti coloro che hanno conosciuto le vicende della vita della campagna». Ne consegue l’universalità del tema ed una poesia che, avvalendosi della lezione pascoliana (che pure è antesignana dell’ ermetismo), egli mi appare anche una specie rara di realista lirico, dico rara in quanto il rimpianto della natura diviene elegiaca. Qui, forse, sta l’originalità: far sì che il passato, in tempi tanto veloci e dissacranti, non sia dimenticato. Ecco allora che Rescigno dà, per riprendere l’inizio della nota, un futuro alla nostalgia agreste, risolto spontaneamente ogni conflitto linguistico in una musicalità sostanziata più che onomatopeica. Ben si comprende come il fine orecchio musicale di Marina Caracciolo ne sia stato attratto, in quanto l’armonia alla quale il poeta tende, nella tristezza, nella gioia, «parte da nuclei vitali per impregnarli della sostanza umana», - come afferma Francesco D’ Episcopo. Il critico evidenzia il dialogo con il Sud come ricerca dei propri «archetipi più ardenti, nel trascolorare delle stagioni, nell’avidità di atmosfere possedute soprattutto dentro la fermezza della notte scandita dal bianco totem lunare». Vi è nel testo un grande amore per la vita che genera appunto la crudeltà del distacco non solo da una natura, un tempo rispettata e vista con altri occhi, ma dal se stesso della giovinezza che il sole è chiamato a simboleggiare, nel mentre che in sé contiene anche la morte da cui nuovamente si origina la vita. Le vigne bruciano, i chicchi sono rinsecchiti, si muore e le viti restano spoglie, le stagioni finiscono nella precarietà di ogni ‘genere’, di ogni “regno” del vivente. È «il grande cerchio che ci conta gli anni / e ce li brucia...» - cita la Caracciolo che aggiunge la bellissima Parabola del sole, contandone la sua apparizione nelle poesie trenta volte In variazioni intese come realtà materiale, simbolica o metafisica. In sostanza la corona dei critici è lusinghiera e porta avanti una poesia semplice, chiara, fortemente comunicativa (finalmente!) quale ci si attende in tempi tanto distratti e nemici... degli ‘otia’ letterari. Forse bisogna ricominciare a parlare a tutti? Ci ha pensato ad allontanarci dal pubblico l’omologazione televisiva e tutti quei poeti che hanno fatto della poesia non “un chiaro enigma” (il titolo è di un libro della Montanelli), ma un enigma dell’enigma. Rescigno tenta la via dell’armonia, si fa natura pensante, sorpassando o trasvolando le degenerazioni pascoliane del secondo novecento e le stesse banalità esemplari di una mimesi che è solo descrizione o racconto. Tra le tante rivisitazioni da fare, ce n’è un’altra: studiare come il “Realismo Lirico” non fosse descrizione o racconto di sé e della natura, ma nei migliori esponenti esprimesse quell’armonia che così bene Rescigno sa esprimere. È che viviamo tempi distratti e dei poeti anche maggiori resta un richiamo enciclopedico, tristissimo. Il sole - direbbe Rescigno - ha cessato di splendere con la loro vita! La cittadella dei veri poeti si fa sempre più piccola nel mentre che si riporta la sensazione errata che ve ne siano molti e che l’espandersi della cultura sia enorme. La Poetica di Francesco Di Rocco di Maria Flora Macchia Fra metafore, verità nascoste, parole intrinseche, esplicite, è così che la poetica di Francesco Di Rocco si porge al pubblico, e il comico nel Teatro per burlare la Vita, che dà al suo cuore tristezza, quasi matrigna... e... per distruggere i veri e puri sentimenti che lo guidano interiormente. «Verrà il sempre avvolto di nulla chinati noi sulla pietra del mai che ha il sapore del tutto», contrapposizioni forti dell’animo e nel medesimo tempo rabbia per tutto ciò che lentamente sta per finire. Malinconicamente Francesco Di Rocco avverte in silenzio questa realtà della vita e ancora incalzando: «Ma potessi non essere poeta, potessi essere roccia, ghiaccio, aspettarsi l’uragano che fa vomitare le viscere della terra», che «l’infinito è il sudore acre che inumidisce il corridoio tra brividi del corpo ed il silenzio degli specchi»... e dove spesso ognuno di noi si arrampica e cade inesorabilmente: e la malinconia sotterra gli animi e i suoi sogni. «Però non è giusto, si poteva fare di meglio». E in questo andirivieni di parole forti, di pensieri tumultuosi, ma il cuore vorrebbe una tregua, Francesco Di Rocco, si esprime con poetica intelligenza e canta la Vita, quella Vita che spesso tutti tradisce e l’amaro, l’assurdo, l’inconcepibile, l’urlo, l’inverosimile restare dentro di noi, aspettando cuori e tempo più belli di armonia e di amore, più veri. Valori grandi, dove l’uomo, la Società con disinvoltura, disinteresse sta allontanando dalla Vita, e poi, ahimè, ci resta così spesso solo la speranza, àncora a chi ci crede. Interessanti le tue liriche, Francesco Di Rocco, grazie per avermi fatto partecipe e abbraccio uno dei tuoi pensieri: «La luna è un drago / il sole il re / la notte la strega / l’alba un gabbiano... / ...entra la corte», mentre nei tuoi racconti di narrativa fluida, piacevole di dialettica e lettura: «La solitudine è una ballerina nuda su un palco in penombra» e i personaggi si muovono, movimentati dal subconscio di un invisibile fantasma. Francesco, resta sempre ‘vivo’ dentro di te, non farti sopraffare dagli eventi negativi, peraltro tanti, e dagli inganni, isola il tuo animo in tormento, in un altare di benessere e serenità spirituali, lasciando ‘solo’ il narcisismo, l’arrivismo vuoti e fatui, malessere prorompente di questi discutibili secoli. Non ho mai di Olivia Iachetti Non ho mai amato la vita. Ma la vita ha amato me. È nei capelli arruffati di mio figlio, negli occhi candidi di mia figlia, nell’arguzia delle loro domande; la scorgo nei passi dei più piccoli di loro, nelle risate allegre, nell’immenso e inarrestabile disordine. E si son presi la mia tristezza, cancellato la fatica, illuminato il buio. Loro, cuori che battono innamorati della luce. 17 Scrive Sandra Maccarrone nella sua presentazione: «Un sottile legame unisce la vita di una stirpe d’uomini in una profezia, in un cerchio del destino che attraverso i secoli deve chiudersi, trovare una risoluzione. All’interno di questo cerchio, cioè al centro, vi è la figura di Anton Alonso, soldato d’esperienza alla corte del re di Spagna e figlio del nobile e potente don Hugo De Cuninga y de los Antellos. La sua storia, i fatti incredibili che egli vive sono il punto di partenza, l’inizio di un viaggio che si concluderà molti secoli dopo, in epoche e luoghi diversi». E proprio nel giardino silenzioso di quel monastero dove un tempo la vita scorreva tra il vocio allegro dei ragazzi e la voce severa del maestro si conclude la lunga storia di un uomo, o meglio di ogni uomo che vi si può raffigurare. E sul ruolo del romanzo nella letteratura mondiale lo scrittore messicano Carlos Fuentes afferma «che esso fa dell’esperienza un atto di conoscenza che “completa” il mondo; perché il romanzo è l’arte che ha saputo conquistarsi il diritto di criticare il mondo, nella misura in cui ha cominciato a mettere in discussione se stesso». E l’opera “Il giardino delle voci” si colloca in quel contesto globale della letteratura che pone il romanzo su un ampio raggio d’azione: quello dell’universalità. Placido Petino: Il giardino delle voci di Enza Conti «Il romanzo italiano rappresenta un caso a sé, difficilmente imitabile e perciò, nella grande maggioranza dei casi, irripetibile. Non appena se ne fa uno l’autore stesso, o uno dei suoi prosecutori, subito dopo ne rompe il calco: quel calco, la cui paziente e sistematica ripetizione produce, appunto, tradizione». Questa frase che proviene da una nota critica fatta da Alberto Asor Rosa sul romanzo italiano contemporaneo, bene si addice all’opera di Placido Petino: “Il giardino delle voci”. Si tratta di un romanzo che analizza l’uomo, la storia e i colori della natura, ora forti e intensi ora sfocati dal buio della notte, ma in questa spirale intrigata resta sempre l’uomo e il suo travaglio interiore alla ricerca della verità. Nel romanzo i personaggi assumono un doppio destino: quello della persona coinvolta nell’intreccio del discorso narrativo e quello nella storia, il tutto collocato in uno spazio transitorio e in continua evoluzione. “Il giardino delle voci” colpisce il lettore proprio per le avventure che si snodano in un lungo percorso che parte nel 1586, con Anton Alonso, il quale intraprende un lungo viaggio per andare ad abbracciare il piccolo Dario, il suo bambino, avuto dalla principessa Rasida. Si tratta, di un viaggio caratterizzato dal superamento di mille avversità, tra cui il terribile vento del deserto che lascia dietro di sé morte. Ed è la morte, il passaggio all’al di là della vita terrena, uno degli elementi che spesso viene trattato dall’autore attraverso i suoi personaggi, anche se il rapporto con il passato viene rafforzato dal cammino terreno di Darius che, diventato maturo, trova nel ricordo del nonno una sorta di guida spirituale. Con questi egli ha un rapporto intenso tanto che lo sentirà sempre vicino. Ma il romanzo scorre veloce, mentre mille esperienze si susseguono in quel processo storico che porta i personaggi in tempi più recenti. Infatti sempre di rapporto umano si parla nella terza ed ultima parte del libro dove il passato riemerge durante un viaggio che Toni Antelli fa insieme al figlio Dario, ma mentre si affacciano all’orizzonte nuovi enigmi, sono quelli celati “nel giardino delle voci”, qui entra in gioco Remigio, figura emblematica di quel giardino dove l’unico intruso riposa in Pace assieme ai Frati dell’antico monastero. Nella parte terza, infatti, a farla da padrone è il rapporto tra il Maestro e Toni. «Mio caro Toni, hai superato il travagliato percorso delle innumerevoli angosce dell’esistenza umana, hai attraversato consapevolmente il gelo dell’estrema soglia. Hai compiuto il tragitto che conduce dai contorcimenti d’ogni anima coinvolta dal malessere di questa vita alla pura e incontaminata innocenza di un bambino. Ti è stato svelato il mistero della tua rinascita. Questo è il tuo futuro». E Toni, tenendo fede alla promessa fatta al proprio Maestro, ritorna in quel monastero completamente restaurato alla ricerca delle spoglie di Remigio. Ma ecco che riemerge il passato e Remigio si sente minuscolo e non l’uomo afflitto dal suo stato fisico e psichico. Egli nella mente di Toni viene visto giocare felice nel grande giardino e sarà ancora lui dopo la morte il custode di quel piccolo angolo di paradiso, dove sbocciano fiori dai mille colori. Per adesso pensiamo a salvarlo: il dialetto siciliano potrebbe in futuro inserirsi in un nostro computer. L’allarme è stato lanciato dal Presidente dell’Università Popolare Michele Giordano, il quale, per salvare il dialetto siciliano, che sta per scomparire, ha proposto ai Presidenti della Regione Siciliana ed a quello della Provincia Regionale di Caltanissetta di istituire un organismo ad hoc. La proposta è alquanto importante dal momento che da anni si discute tanto per l’introduzione del dialetto siciliano nei pubblici uffici della Regione siciliana. Con il costituendo organismo, che sarebbe finanziato con i contributi dello Stato, già approvati, è prevista la realizzazione di una scuola per interpreti e traduttori simultanei. Inoltre si dovrebbe aprire un sito internet regionale specializzato in grammatica e istituire un sistema di traduzione simultanea, in modo da consentire la parlata dialettale con la sua traduzione in lingua italiana. Ma adesso dalla Germania arriva una notizia mirabolante, riguardante il computer, che riesce a leggere i contenuti nei diversi dialetti. Questo è possibile grazie all’ultima trovata della G -Data di Bochum. Il programma Logox WebSpeech4 non solo dà voce ai computer, ma la personalizza con tonalità e sfumature (voce rauca, giovane, sensuale, veloce) e idiomi locali. Per il momento però è disponibile una versione che legge nei coloriti dialetti tedeschi di Sassonia, Baviera e Assia (oltre che in inglese americano), ma in futuro sono possibili infinite versioni sia in Svizzera che in Italia e particolarmente in Sicilia. La scoperta è alquanto sorprendente e certamente potrebbe rivoluzionare in futuro tutto il sistema esistente su tutti i computer. 18 rimpiangere alle plebi meridionali - gravate da nuove gabelle vessatorie – l’antico ‘malgoverno’ spagnolo. Uomini e donne dunque, quelli delineati dalla Assini, in balia di una sorte che sia nella sfera intima, sia nell’ambito pubblico, li trascende e li trascina. Ma c’è differenza, nel romanzo, fra figure maschili e femminili. La scrittrice, fedele alla costante mantenuta nella produzione precedente, colloca sempre le immagini muliebri alcuni gradini più in alto delle presenze virili. Per quanto le personalità di Aniello, Werner, o prima i Gilles, Tancredi, Damiano, possano brillare per coraggio, umanità, generosità, fascino, sono le varie Jolanda, Lucia, Giulia a tenerne in pugno le segrete fila. Le donne sembrano scegliere - se davvero scelta è data laddove si è solo comparse - almeno la propria infelicità. Così, in queste pagine, non basta la vocazione pseudo-filosofica di Werner («La vita scorre senza appartenerci e noi, modeste comparse, restiamo inermi e ininfluenti a guardare gli eventi».), mediocre letterato, a tener testa prima alla vitale Jolanda, poi all’algida Ruth che lo tiranneggia. Nemmeno Aniello, somigliante nell’antro della sua bottega più ad uno stoico del basso impero che al tipico artigiano partenopeo, riesce a fare miglior figura: di fronte all’incostante ma volitiva Lucia (tanto antipatica quanto inverosimile nella lealtà verso la rivale in amore), smette d’improvviso i panni del saggio compassato, arrossisce, farfuglia, rivelandosi fragile creatura disarmata. Per ciò che attiene il versante formale del romanzo, viene confermata - se ce ne fosse bisogno - la perizia della Assini nella costruzione delle sequenze narrative serrate e incalzanti, la sua mirabile capacità nel caratterizzare con pochi tratti (Gilles resta esempio ineguagliato al riguardo) ambienti e atmosfere, di rendere mediante rapidi chiaroscuri, attraverso un aggettivo o un intercalare gettato nel discorso quasi apparentemente a caso, psicologie e temperamenti. L’uso linguistico del lessico, talvolta ‘alto’, tal’altra gergale o dimesso, con sconfinamenti nel neologismo, non è mai gratuito, concorrendo a calare gli accadimenti in cornici di palpitante realtà. A riprova del talento tecnico della scrittrice - dietro la cui felicità espressiva si intravede un lungo lavoro di ricerca storica e di limatura linguistica - sottolineiamo in ultimo la bipartizione strutturale de Il fuoco e la creta. La prima parte del libro, volta a lumeggiare per lievi tocchi i personaggi nel loro contesto spazio-temporale, mantiene vivo l’interesse del lettore nonostante la sostanziale immobilità della trama. La seconda, in cui gli eventi si susseguono secondo la nota alternanza bremondiana rispondente alla logica dei possibili narrativi, si snoda invece sui ritmi binari di miglioramento-peggioramento. Il fatto che tale mutamento di registro resti tanto più invisibile anche ad un occhio smaliziato, aggiunge prove della levatura di Adriana Assini, mostrandola capace di impiegare con disinvoltura modalità narrative diversificate all’interno di schemi creativi rigorosamente unitari. Il fuoco e la creta: un romanzo di Adriana Assini che corre tra storia e passione politica di Luciano Pirrotta Una segreta analogia di fondo – si potrebbe dire – accomuna uomini e pupazzi di creta per il presepe, personaggi storici e figure di una rappresentazione fittizia: la ragione finale delle rispettive esistenze cade al di fuori di loro e resta, di fatto, in conoscibile. Con un’essenziale diferenza - tra le tante – a distinguerli: la percezione nei primi, della propria finitudine, di una reciproca afasia unita alla coscienza dolorosa di essere precari granelli trascinati dalla corrente della vita. «Piccoli sogni infranti. Attese vane. Amori offesi». In queste tre brevi espressioni concatenate possiamo riassumere l’ultimo romanzo di Adriana Assini (Il fuoco e la creta storie comuni in tempi straordinari nella Napoli del 1799, Spring Edizioni, Caserta 2003). Ancora una vicenda ambien-tata dentro uno specifico quadro storico. Sullo sfondo, le alterne fortune del regno borbonico delle Due Sicilie al chiudersi del ‘700. Ma qui, contrariamente al precedente Gilles, che amava Jeanne, l’autrice torna ad avvicinarsi ai climi intimistci de La signora dei veleni. La protagonista femminile, infatti, Jolanda Croce, è molto più vicina - e non solo fisicamente - alla bella popolana Giulia Tofana, piuttosto che all’androgina ‘Pulzella d’Orleans’. E al pari della ‘Signora dei veleni’ la procace sartina ha al suo seguito due spasimanti. Ora però entro lo scorcio di una Napoli sontuosa e stracciona, superstiziosa e cinica, non c’è spazio né per la libertà individuale, né per la speranza. I personaggi de Il fuoco e la creta Storie comuni in tempi straordinari nella Napoli del1799, sembrano muoversi sotto un’oscura cappa plumbea, che neppure sprazzi di improvviso, incosciente vitalismo riescono a scalfire. La vita quotidiana dei ‘bassi’ napoletani obbedisce alle stesse oscure leggi del destino cui sottostanno gli aristocratici abitanti dei palazzi sul Vomero. È una sostanziale incomunicabilità sfociante in amara solitudine ad accomunare protagonisti e comparse del romanzo. Nemmeno l’amore riesce a spezzare questa barriera invisibile. Se nel microcosmo degli umili che popolano il vicolo, affetti, rancori, ripicche sono inestricabilmente commisti concorrendo a perpetuare la sofferenza, le cose non vanno diversamente presso le decrepite dimore nobiliari. L’impossibilità di gestire al meglio i propri sentimenti trova puntuale riscontro nel macrocosmo storicopolitico. Reazionari o rivoluzionari, borbonici o giacobini, tutti sono altrettante marionette d’un palcoscenico sinistro. Parassiti spagnoli e francesi si danno il cambio lungo la penisola italiana. Mai si cesserà di allestire forche, di fucilare, di decapitare, di imprigionare in nome della libertà. Pare quasi che i popolani de Il fuoco e la creta già presentano con maggior lungimiranza dei benestanti Werner e Lucia (infatuati, proprio perché a pancia piena, delle fanfaluche ugualitarie e progressiste) che quei medesimi francesi, rapaci parolai di giustizia, saranno di lì a mezzo secolo i becchini della Repubblica Romana, alfieri della restaurazione pontificia; e che, qualche decennio dopo, la conclamata unificazione sotto la corona sabauda farà ben presto La vita inizia con tante promesse gaudiosa d’un giovane sole, ma se non sarà illuminante, svanisce quella luce nel buio del caos. (La nostra vita di Pietro Gatti) 19 seguo / portato sulle braccia - verso l’issività». Termini fortemente evocativi. Affiorano prepotentemente, a mio avviso, i segni delle migliori lezioni ermetiche ed espressioniste. È, peraltro, quello di Giuseppe Manitta, un proposito di sperimentazione linguistica che non rifiuta il dialogo costante con il più duttile strumento della lineare prosa narrante, pur fissando un insormontabile crinale che solo il poeta riesce a percorrere. Esorcizza così la dolorosa verità della quotidiana esistenza attraverso il grido della parola, lessico di diversi tempi e di diversi luoghi, lessico inventato, scagliato verso il mistero dell’assoluto. Sbalzi lessicali per un reiterato scuotere dalla riscoperta di antichi vocaboli alla pura invenzione lessicale. Neologismi serpeggianti e mimetici quasi per un recupero di sottile ironia che vorrebbe esorcizzare il demone della creatività? Forse la dregradazione-esaltazione della parola a lessico inventato è un (il più) amaro sfogo del poeta nella sua unica, possibile, protesta morale? Comunque è felice invenzione! L’utilizzo del topos classico del viaggio è la felice metafora del recupero di se stessi verso una piena autonomia da un super io eteronomo ed eletto a simbolo di prevaricazione. Il viaggio consente di varcare quella fondamentale soglia della vita che separa l’adolescenza dalla maturità ed è al tempo stesso la ricerca di una verità del proprio essere, delle proprie ragioni di vita. Una tensione conoscitiva di se stesso. Il ritorno prelude ad una definitva partenza. Non più provvisoria fuga, ma consapevole, definitiva, partenza. È la prosa a segnare il percorso di fuga dal super io autoritario, graffiante, dal dovere del razionale (che pretende di plasmare anche anime votate al fantastico), dal disagio fra i gelidi nodi della ragione e la liberazione della fantasia. Da questo lungo percorso di fuga segnato da tappe lungo la realtà si dipartono, non più costrette, leggere le divagazioni della poesia, i momenti della emozione pura, i sentieri dell’assoluto. È la rivincita sul quotidiano. Una rivincita resa possibile soltanto dalla più sublime levitazione artistica. Al ritorno del viaggio ad accogliere il protagonista del percorso è il simbolo di tutte le emozioni («Lentamente giungo con il mio cuore lì, / dove sosta il masso ombroso del giorno / dove il pensiero abbraccia il viaggio buio, / la vita, il dolore, la gioia e l’addio»). Il poema di Giuseppe Manitta non avrebbe certamente fatto pronunziare ad Attilio Momigliano le amare, disincantate, vere e severe parole da lui scritte trentacinque anni or sono e che ancora pesano come macigni sulla nostra poesia ufficiale moderna, quella delle grandi antologie adottate urbis et orbe, la poesia dei circoli letterari riservati, la poesia degli eletti, la poesia degli unti dalle accademie più potenti ed inaccessibili, la poesia dei grandi progetti editoriali osannata dalla scienza letteraria ufficiale. «La nostra poesia è arida, senza impeti, piena di motivi capillari, priva di grandi motivi. Sofistica, impalpabile, sfugge come la sabbia fra le dita. Non trascina, non incanta; è serva, non è dominatrice o rivelatrice della vita: e perciò il pubblico non la cerca». La poesia di Giuseppe Manitta è una ventata di intuitiva e creativa freschezza, di novità, eppure estremamente colta e meditata. È densa di motivi universali, non sfugge alla presa del pensiero, ma resta dentro l’anima, vi scava all’interno, induce a riflettere, forgia, modella concetti, convincimenti. Incanta. Sì, la vera arte deve anche incantare. Il mestiere del critico di violare i testi, di frugare impietosamente negli stessi per comprendere, cavarne responsi, è certo finalizzato ad offrire ai lettori una chiave di lettura attraverso un’opera di anatomia critica, di esegesi del testo, ma nel nostro caso non è disgiunto da vero e disinteressato piacere di leggere. E questo accade soltanto per la migliore poesia: quella che riesce a contrarre un sottile rapporto d’inclinazione elettiva con quanti più lettori. Sentieri di assoluto: percorsi fra prosa e poesia di Giuseppe Manitta di Placido Petino La lettura di Sentieri di assoluto di Giuseppe Manitta (edizioni dell’Accademia Internazionale Il Convivio 2003), richiama prepotentemente alla mente un auspicio formulato da Italo Calvino circa venticinque anni or sono. Vagheggiava una poesia fatta di componimenti lunghi, complessi, costruiti, alimentati da una trama di concetti profondi, densa di personaggi. Era una sfida ambiziosa, quella proposta da Calvino: recuperare in un contesto generale di poesia frammentaria una struttura poematica. Giuseppe Manitta raccoglie la sfida e si impone un ulteriore impegno: rinsaldare l’antico dualismo (se mai sussistente) fra prosa e poesia, come rapporto palpabile fra scorrere del tempo narrativo ed assoluto tempo dell’eterno, cui è consentito accesso visivo solo dai bagliori fulminanti della poesia. Peraltro nel poema di Giuseppe Manitta il tempo narrativo è una infrazione minima, ridotta all’essenziale, quanto lo è la condizione della umana quotidianità, tale da non incidere nell’assorbente (immanente, complessivo e totalizzante) continuum dell’assoluto. Una increspatura infinitesimale. Per converso, la parte poetica viene in qualche modo coinvolta dalla capacità del racconto, che è del romanzo, recuperando, peraltro, per questi versi, il meglio della missione poetica: ripristinare con la forza delle emozioni ciò che il razionale corrompe e sgretola. Il poema di Giuseppe Manitta, allora, diviene sintesi di narrazione e contemplazione, di folgorazioni - stralci lirici di notevole bellezza musicale (l’inizio e, fra i tanti: «Polvere e cenere sollevano steli / verso nuclei di cielo biancastro... Si muove la fortuna impallidita, / che svolazza in amuleti di farfalle... Addio fiume ondeggiante di freschezza, / che hai immerso nella fiaba il grido / lanciato dalle mie labbra dissetandole in fondo... Lode all’aria che volteggia / nelle viscere dei figli della notte») e di pause elegiache («Gli astri addolciscono l’andare / dei fulmini. Omnia tacet»), di asciutta rappresentazione realistica e di aura fantastica. Una poesia profonda dal punto di vista concettuale, è quella di Giuseppe Manitta, ed in un crogiolo sapiente vengono messi in gioco i grandi, terribili, temi del tempo, della solitudine, della morte («Ecco l’oblioso baratro - vuoto, penoso, dove - nulla ha certezza di esistere»), della vita in una dolenza stilistica straordinaria, estremamente coinvolgente («Prostituzione, prostitution, prostitucion. / Scossa la bellezza dal pudore / infranta dalla violenza altrui / senza torcere il delicato / volto che funge da mediatore / divino e umano (sacrilegio)... Droga, dope, gewurz. Crepuscolo iroso d’uomo / che spezza l’ebbrezza agghiacciante... Inquinamento, pollution, verunreinigung / Turbini di focolare additano / i flutti invisibili d’immondizia». Una magica mescola è il poema di Giuseppe Manitta il cui paiolo è forgiato in raffinati collages lessicali (morte, dehart, mort, / mors, thanatos, muerte... sed forse nein?»). Preziosismi dei classici («i lineamenti che traspaiono lucciole / dalla cupezza dello sguardo. Voluntas / maxima! Le braccia anchilosate...». Accattivanti neologismi: «Pietra viva millennissìva... Vetri incrostati di dolcezza / mostrano la S-Fortuna stremata / da bagliori di stelle (degradissìa)... nella neressìa dell’ombra... pura filosofissìa... Potenza extra / Ante Versitutto o essescendo extra / Post / Tuttiverso (incertezza d’evoluzione)... la mia andatura sull’altura dorata e sognissìva / e pro- 20 paure ed angosce che sono condivise con gli altri Esseri animati e non, in un afflato mistico, in quel momento esso sfocerebbe nel Deismo, e il Panico diventerebbe Panismo, cioè corrispondenza Materia-Spirito nella Bellezza e nella Gioia. In esso il poeta riuscirebbe a percepire il trasformarsi dell’informe caos nel miracolo della Scoperta di Dio. Da qui, il grido, aprendo lo scrigno dell’anima: «E poi che del recondito / l’idea la mente arreca!: Eureka, Eureka, Eureka» esclama con ardore. E durante questa trasformazione che la strategia dell’anima accetta il coesistere di ragione e mito (Serena Zoli), che nella realtà temporale-spaziale sono indispensabili per una trasformazione creativa del mondo. La Speranza del mondo? La poesia, che nel tempo è fautrice del Tempo. Segue un’analisi di una biografia atipica del Mazzini, nella quale Domenico Defelice mette in rilievo come Francesco Fiumara analizza la vita del grande statista nell’intimità: la famiglia, gli amori, le aspirazioni, le delusioni, il suo carattere generoso e puro, ma soprattutto è rivalutata la presenza delle donne, come amiche e confidenti sincere. Anche il confronto, tra due socialisti come Marx e Mazzini, è fatto con precisione e chiarezza. Il Fiumara come sottolinea il Defelice, ama sondare quei valori morali che sono sempre fondamento di tutte le azioni. Alla fine del saggio sono analizzati alcuni racconti del Fiumara come “Serracapra un paese del nord” che appartiene alla narrativa memorialistica. Racconti tratti dal vero come delle foto storiche, tratteggiato da parole e ricordi, che con il tempo sarebbero state dimenticate, invece così essi diventano memoria storica. L’espressione che usa il Defelice di rara precisione: «per riassaggiare l‘umanità vera», dove nella povertà dei paesini del sud si divideva un tozzo di pane o una mangiata di fave con chi non ne aveva, per contrapporla «al disumano della città moderna», dove si ha tutto, ma si è persa la gioia della condivisione. L’ultima opera ad essere analizzata è “Le voci della notte” che sembra essere una continuazione delle precedenti sillogi. Infatti anche in esse il programma morale del Fiumara continua, asserisce il Defelice, e tende a guar-dare «agli orizzonti dell’anima... a una speranza che splende». La poesia di Francesco Fiumara ricerca della conoscenza degli orizzonti dell’anima, nel saggio di Domenico Defelice. di Pina Ardita Siamo, dunque, tutti poeti e critici? In un certo senso sì, se ciò che facciamo lo facciamo con profondo amore, scrive Domenico Defelice, riaffermando la convenzione del filosofo Rosario Viola... e la luce di questa profonda certezza si rivela, per meno di una lucerna accesa, come quando, durante le notti di novilunio, il buio ammanta la campagna e il contadino deve irrigare i campi per evitare che le piante seccano sotto il sole dell’estate, cosi il critico va, scrutando con materna sensibilità, alla ricerca di riscontri ai suoi sibili dolenti e coscienti, creatori di fantasmi, di sogni, ma anche liberatori di rimpianti e ricordi. Il saggio di Domenico Defelice su Francesco Fiumara è un’analisi volta alla ricerca di un’intima corrispondenza tra due anime. Pertanto, il saggio, non si rivela al lettore come un’arida valutazione stilistica o contenutistica di simboli, di significati e significanti, ma sfocia, sovente, nei versi della poesia del Fiumara, quasi fosse un corollario della Messa. Pertanto, si può parlare di corrispondenza orizzontale tra critico e poeta. Corrispondenza che avviene tra due anime, dove ha sede l’intima unione della divinità soggettiva, e in questo modo essa diventa universale. Strutturalmente il saggio si divide in un’analisi della poetica del Fiumara attraverso le sue opere: “Date a me anche l’ulivo”; “ Le favole hanno gli occhi di pietra”; “Fiori di siepe”. Domenico Defelice analizza gli elementi salienti che rappresentano le scintille dalle quali scaturiscono le parole, dopo, tramite essi, le immagini più intime e segrete: l’amore, la luna, l’infanzia, gli uccelli, la libertà, la notte, il panico e il panismo, l’ironia e la satira. Il critico riesce a compenetrarsi totalmente nel pensiero del poeta. Quando egli parla dell’amore che è visto dal Fiumara come un’«eco che s’è spenta di un amore smarrito». Sembra quasi che il Defelice sia costantemente in ascolto del ritorno dell’Eco del poeta per cogliervi briciole di comune essenza. Eco, che potrebbe manifestarsi come rivelazione dell’infanzia, attraverso la memoria volontaria ed involontaria, tanto cara a Proust. Anche nella poesia del Fiumara, come evidenzia il Defelice, l’infanzia si ricompone tramite tanti tasselli, dove le miserie infinite diventano rimpianto, dolce canto d’infiniti bisbigli accumulati, soffocati, ma mai estinti, che soffusi seguono il tempo. Nondimeno, gli uccelli diventano il simbolo di questo canto; di ciò che è racchiuso nel cuore umano. Il riscontro con il simbolismo non è mai sopito, e si ritrova, anche nel Fiumara, l’“Albatros” baudelairien ed il romantico “Passero Solitario” leopardiano. Secondo il Defelice, nel poeta, la sensibilità riesce a svincolarsi dal dolore, e quello dell’usignolo è un canto creatore d’infinite armonie. Non vuol forse intendere Domenico Defelice che il poeta con il suo mistico canto, riesce a trasformare il suo eterno spleen, se non in gioia, almeno in Speranza? Questa considerazione è ripresa dal Defelice, quando parla di Panico e Panismo. Se il Panico riuscisse ad astrarsi dalle profonde L’agenda dei Poeti 2004 Come ogni anno l’Agenda dei Poeti si rivela una grande occasione. Si tratta della migliore agenda italiana che dà la possibilità, a chi ama la poesia, di avere non solo tanto spazio per i propri appunti, ma pure di poter leggere bellissime poesie, oltre quattrocento, di autori affermati ed emergenti. Richiedila a: Otma Edizioni – Via Cesariano 6 20154 Milano – tel. 02-312190 e-mail: [email protected] 21 di spiagge assolate, di mari increspati di tremule stelle; di una bimba che corre incontro alla vita, colmando il secchiello di splendide pietre; di bianchi bagliori soffusi dal sole. Innocenti pietruzze, verdi speranze di un tempo migliore, essenza di vita racchiuse nel cuore; qualcuna l’ho colta, altre le ho perse lungo il cammino. Tuttora, raccolgo lucenti pietruzze, speranze ancor verdi, incuranti degli anni; le catturo, incantata, col solito gesto, nuovo ma antico. Poesia Italiana Luna e Mare di Titti Mori Consoli Canzoni, poesie, racconti: non si saprà mai quanti scrissero di te, Luna, e di te, Mare, e quanti ancora ne scriveranno, finché il mondo vivrà. Non ho paura di essere una fra i tanti, non ho paura di cadere nella banalità. L’immagine che mi avete lasciato, mentre non riuscivo a staccare gli occhi da voi a Santa Maria La Scala, va oltre ogni sospetto di ovvietà, di monotonia. Madre Teresa di Giuseppina Attolico È un’emozione sempre nuova il luccichio d’argento che brilla sulle onde; È specchio in cui si riflettono i pensieri e s’irradiano gli slanci d’amore che sembrano dimenticati nella frenesia della vita cui siamo relegati dalla nostra stoltezza. Una figura piccola di suora della carità, come un raggio di luce di Dio, ha alleviato i dolori dei più poveri con coraggio con la forza del cuore ha donato gioia amore al mondo. Madre Teresa, sicura di sé ha insegnato a crescere nell’amore del Signore ha sconfinato solo con la preghiera, le guerre religiose unito a sé tutti gli uomini della terra, nel valore della fraternità. Il suo corpo riposa ora, in una pace eterna. È qui che voglio tornare per essere parte della natura, in cui il mio animo si libera e si appropria della vera essenza di ogni cosa. È... un la, la vita! di Maria Stella Brancatisano Al fato di Simona Trevisani È...un LA... la vita, un attimo Una nota... è un SI... ed anche un No...! ...lo spazio di una nota... SI LA... DO... RE... MA... MI... TI... CI... DA... NO... ... al fato… esci da te stesso, entra nel mio spazio ... fai sparire quasi tutto, tranne gli individui [che sono con me ... nessuno disturbi l’anima di questo cuore femminile ... gode, godo della tua voce... sorriso, sguardo... [e dei tuoi movimenti ... mi sento di esistere... dài uno spiraglio ... osservo la mia parte di donna, fugge... [fuggo emotivamente, fisicamente ... gli altri “Adamo” mi fanno sentire insipida ... mi basta poco... bugiarda, ... nei sogni è rimasto solo il freno a mano, ... le mani vorrebbero andare ovunque su dite... [dentro... e fuori ... fosse questa l’eternità... non solo nelle fiabe... [ma pure nell’adesso, lo confesso ... non so cosa provo adesso, che sia solo sesso «!?». ... e se non è solo questo che cerco... ho paura adesso. É... un avverbio di tempo: ORA O... di luogo... LI... SI.... DOMANI... Forse...Va... è un verbo... pur se strano... È... un vaccino... un VIRUS... UN TIMPANO... UNO SCAMPOLO DI ORE... Vissute... non vissute Mai È... un pentagramma strano... che va, che viene Si agita... un istante... ti inganna... ed è tutto... Finito... È strana... ben strana la vita... forse Dura... un solo istante...! Speranze di Chiara Filippone Il cielo (dedicato ad Elia) di Mayra Millico Disseminate nella bruna ghiaia marina, brulicano, al caldo sole di luglio, occhieggianti pietruzze; vivide e variopinte, ammaliano lo sguardo. Ne catturo, rapita, il bianco bagliore, flash, improvviso che solca la mente di antichi ricordi, di spazi, di tempi, mai più rivissuti, Il cielo è fantastico con la sua semplicità con i suoi colori, che variano da un celeste limpido e mattutino ad un azzurro variegato roseo al tramonto. Il cielo colmo di sentimenti ed emozioni posto di promesse fatte dal cuore, è l’unico e irreversibile luogo che rispecchia gli stati d’animo del mio cuore. 22 Rintocchi di baci di Ilaria Spina Polvere di passato di Anna Famà Affetto minimo di Mimma Vitalone E sembra infinito l’ultimo schiocco di piccoli caduchi chicchi di baci. Ma sento un Infinito vuoto e senza limiti freddo sussurrarmi ombre silenziose. Ti guardo Infinito ti fisso ti spoglio ma sfumi in un sorriso dietro un vetro. Nel tempo, breve, si perde profumo di un fiore, di un canto, di un volo. Negli occhi di uno specchio si legge spento riflesso di una evasione. Tra voci confuse di pietre e peccati, su carri trainati da maschere senza mani si carica polvere di giorni passati. Si carica storie di righe contorte, distese di cieli inquinanti, lamenti di luci evanescenti. Signore, ti porgo le mani. Nascondi con esse lune nascenti. Nel buio della notte troverò il potere di salvarmi. Sorrisi di luna affrettano le voci sulla collina, consueto segnale di un’eco che [si smarrisce tra i cespugli, lungo il cammino... Mi piace accarezzare i desideri in questa notte che divora parole e ne dissolve il senso. Nello spazio sconfinato, effimero il dolore cieco va, in rivoli di abbandono. Io ti avrei dato, forse, un affetto minimo ma sempre lì, acceso, come lampada votiva... in eterno. Dal luogo della meraviglia di Chessa Iole Olivares Curva sui remi apro l’acqua in creste di diamanti sbircio le nubi come uccello al tramonto. Giunta lontano nella vita, scruto la mia corsa: ogni attimo una scheggia di colpa e d’innocenza. Alghe... fili che in polvere sfogliano le trame al confine dell’esistere. Ostaggi del caso, vogliono dare tempo a ciò che ha vita breve, raccolgono l’ambra e il muschio dell’io con zig-zag di farfalla. E... dall’acqua, luogo della meraviglia, un misterioso annunzio: io, disordine ovunque seminato, io, più oltre, ammalata di silenzio. L’attimo fuggente di Gabriella Manzini Nel divenir del tempo qual senso ha un pensiero fugace? Che resta di un gesto, del vento... di un attimo spento Nel mare del tutto? Male di Vivere di Angela Genovesi Petronio Alzarsi al mattino rinnegando il cielo con l’uggia delle nuvole così come del sole trascinare i passi su sentieri impervi irti di ricordi che invano cerchi d’eludere anelare un sostegno che non trovi mentre ti porti dentro questo “male di vivere”. Bere l’azzurro di Luigi Caminiti Come invaghito il sole sull’immensa distesa dipinta d’erbe e di fiori invia i suoi raggi d’amore. E filari d’alberi aguzzi corrono giù al fondo della valle... Su una guglia rocciosa emergente da tanti colori amabili e vivi sto io ritto con le braccia distese formando una croce nell’ombra. Il curvo orizzonte appena striato di rosa abbraccia paterno la dolce natura dintorno. L’oblio e il silenzio mi hanno invaso la mente da farmi scordare che corre laggiù una stupida vita ignara di fede e d’amore. Non sento bisogno di nulla restando così nella morbida luce immerso a bere l’azzurro Aliti di speranza di Paola Cozzubbo Sono forti emozioni he ardono nel cuore, prigionieri pensieri nascondono pallidi aliti di speranza. 23 Nassiriya di Gaetano G. Perlongo Il giocoliere di stato addomesticato al padrone americano riflette lo sviluppo iracheno. La carne fresca e l’odore del pianto cede al loculo della gravità e i nostri soldati sulle acque dell’Eufrate riscrivono il nuovo testamento. La stazione di Deborah Coron Abbacina la breccia bianca [della massicciata con le ombre viola in controluce; il vento ostile gela ogni partenza e scompiglia il miraggio: alla rincorsa dell’ultimo treno desideri d’evasione vengono trainati via ma non partono mai davvero: restano ad aspettare il mio ritorno. Ogni treno uguale a quello prima sferraglia monotono e pesante sui binari che curvano in fondo prima di toccare un orizzonte ormai divelto e stanco di viaggi. Amo ogni profilo di queste colline [imbrunate che mi si stagliano incontro al tramonto e patisco ogni loro mutilante ferita. Le luci fumose della cementeria impolverano ombre corrotte e mute di vecchie cave e nuove distruzioni: è questa la strada che torna a casa. La stazione vuota ora si ferma nella notte aranciata. Torno a percorrere le strade di gesso e le franose case di cartapesta del presepe costruito da bambina parendo che tra queste balze cavate nessun Bambino sia mai sceso. Non era questo di Salvatore Arcidiacono Non era questo lo scopo della vita. Eppure ci siamo accaniti come soldati assediati ci siamo offerti come tonni alla mattanza coi piedi sanguinanti le mani monche credendo, credendo, credendo. Il passato di Luciana Piccirilli Il passato nasconde strane voci. Ricordi misteriosi si agitano nelle onde del tempo. Il passato insinuante nei giorni bui è protagonista nel mio presente. Amsalu di Rosaria Carbone Amsalu: il tuo nome palesa “Immagine”. Luci di sangue tribale oscurano tuo padre e suo figlio. Aspetti tua madre fra sterili limoni di passi mai ascoltati. Erri per strade senza dimora. Maliardi sorrisi ti tendon la mano. Una fievole luce accarezza le gelide sbarre: carni straziate da cani randagi, piaghe solcate dal lento tempo, abulico boccio reciso. Sanguina il tuo lercio corpo. Sanguinano i tuoi sette anni. Languisci cagnolino nero tirato a calci da oppiate menti di uomini ‘veri’. Una donna ti coglie e t’avvolge nel suo sterile seno: piccolo uccellino rattrappito da umane paure. Vuoto il tuo sguardo aggrappa la croce che tiene. “Fra due giorni è Natale, ripulite le piaghe e gli orrori”. Splendi diafano corpo d’incomprensibile amore. Vestita di bianco ti spegni ad Addis Abeba fra i pastorelli, il bue e l’asinello. Amsalu: rosso candore immagine triturata della bellezza di Dio scorgi il Bambinello Gesù. Natura morta di Elvira Sessa. Secche, rotte, grette gialle, vecchie. Sono foglie morte. Le accarezza un passero. Morbide e fumose piume. Un filo di grano gli scorre dal piccolo becco. Poverino: è morto. Una mela troneggia da matrona sul tavolo grezzo. C’è silenzio. Libertà di Elvira Sessa Riparto. Vuota. Aperta. Nell’aria. Mi getto. Libera. Immenso zero. anche quando credi che un niente fa crollare il tutto! Più che fuggire, rifugiati in te, riscopri i tuoi tesori e fanne dono a chi ti sta vicino e ti tende affettuosamente la mano. FUGGIRE? NO: restare per vivere ed amare! Prisma1 di Angela Aragona Ricuci gli orli delle creste dei monti sul cielo, s’appartengono, in fondo, da sempre. Ghermisci con tenero piglio il peplo dei molti simulacri, poi accarezza gli zigomi lividi, corrosi da stille di pioggia venerea. Di terra ti sollevi ed è Grido ciò che tu senti, da gole contratte in anguste salmodie, varie moltitudini. Aggrappato, t’appropinqui, agli scogli dilaniato ed esangue t’affrangi con cuore... In fisso nel cristallo delle Moire, divenire incessante e vuoto, con manto ferale e labbra dl fuoco sottrai ai dardi l’essenza. Il riposo eterno di Giuseppe Leonardi Fuggire di Spartaco Colelli Fuggire dal mondo! Ma per andare dove? Non ti trattengono i colori della natura, 1’aria fresca dell’estate, l’inebriante profumo dei fiori, il dolce cinguettio dei passerotti l’ombra vasta dei verdi oleandri? Fuggire dal mondo! Ma perché? Non ti trattengono il calor della famiglia o 1’amicizia di chi ti circonda e fiducia e gioia ognor ti dà? Fuggire! Ma da chi? Forse da chi credi che non ti vuoi più bene? Da chi, dopo la prima volta, non ha risposto al tuo invito, al tuo sguardo, al tuo amore? Fuggire? Ma perché? È bella la vita, 24 Cosa c’è oltre la morte? Chi lo sa! Chi dice che c’è il purgatorio chi il paradiso ma la morte c’è da un’intera vita. Nel bene o nel male è sempre una realtà. Alcuni dicono che il riposo eterno è un dolce dormire mentre altri ne hanno timore. La Morte che sovrasta l’universo è l’unica nemica di cui si ha paura. La Morte unica compagna dei più disperati dona a loro la libertà. 1 La poesia fa riferimento all’amore, sfaccettato come un prisma, che discerne i colori della vita. In effetti la somma dei vari colori è il bianco che simboleggia il vuoto e la semplicità dell’essere uomini alla ricerca di un valore che si conserva nell’amore e che si diparte da noi stessi. La salvezza delle genti di Vincenza Giangrasso Fiori di loto di Maria Teresa Nobis Nella grotta buia e tetra tra dolori e grandi stenti, partorisce un bel maschietto la regina delle madri. E non c’era l’acqua calda, né puntura antiemorragica né l’ostetrica e il ginecologo: ma un bue e un asinello e il gelo ed il freddo intenso della notte dicembrina con l’inverno appena giunto. Venne al mondo il re dei re, il signore dei signori e per tutti Egli sarà la salvezza delle genti. Sulla vecchia e ormai stanca barca ho raggiunto, remando con te, un vasto spiazzo erboso. Sono stata colpita, osservando il paesaggio che ci circondava, dalla delicatezza e raffinatezza dei fiori di loto dai colori sfumati. Emergevano silenziosamente dalle loro foglie cuoriformi dal verde intenso e brillante nell’immoto lago. Ti guardai rapita, e, sotto il tuo caldo sguardo innamorato il paesaggio scomparve del tutto, mentre affondavo i miei occhi verdi luccicanti per l’emozione nei tuoi occhi azzurri come il cielo sereno di quella giornata. Guerra di Angela Giallombardo Luci rombi grida imprecazioni laceranti pianti strazianti È la guerra disumanante Fredda, “matematica”, “intelligente” orribile mostruoso video-game è quella dei comandanti che cinici, determinati dai lontani tavoli del potere ordini su ordini impartiscono e freddi infieriscono su popoli inermi spauriti pazienti, provati al peggio rassegnati da secoli indicibilmente martoriati Dov’è, uomo, la tua vittoria? Spelonca, voragine macerie fumanti cadaveri freddi inerti, sfigurati Laddove la vita pulsava la morte ora regna sovrana Laddove l’arte divina creato aveva splendore d’eterna forma e l’abile mano d’artifici sommi immortalato aveva bellezza purezza armonia ora è il caos non “primigenio” ma frutto di cinico odio che l’Amore vince e tutto stravolge sconvolge, distrugge Ma come “araba fenice” so che un giorno là tutto risorgerà e forse in un futuro non lontano la vita ancora riprenderà Butta le armi soldato…! di Miranda Haxhia I crepuscoli e i tramonti si negano nelle mani insanguinate [del soldato, vattene, lontano dalle terre straniere. Come si può non sentire [ il dolore dell’erba, trascinato sotto le tue gambe? Le macerie toccano il ricordo [di tua madre, tutto è una speranza e una follia. Sopra il tuo elmo, ballano le prostitute, l’ubriacato soldato sorride… con la gran ragione dell’esistenza. Il sorriso, scolpito in un medaglione di ferro, la vita e la morte tutta in grigio. Un soldato ucciso, con la testa affogata nelle feste delle graziose geishe non posso guadarlo, anche un bambino… massacrato. Nei governi crescono le crisi nella fine della danza e della passione iguane. Anche il cielo è perso, morto sotto la cenere delle case bruciate. 25 Rimane solo il numero di un medaglione. La speranza e la follia di un tramonto insanguinato e un crepuscolo spento. Torna a casa, soldato straniero! …Tempo fa, un uccello ferito mi guardava da una gabbia, con l’universo degl’occhi sommessi, le piume come i boccioli sfioriti nel corpo. Piansi con una voce di cigno, con la paura di non piangere mai più. Butta le armi, soldato... ...non voglio piangere, non voglio! Veleggiare di Nide Fontana Beccaccia Come una vela al vento veleggio in questa scura notte d’un vuoto immenso. Scivolo poco a poco di ombra in ombra, di silenzio in silenzio e, conquistando le tenebre, m’addormento. Le parole di Chiara Trefiletti Le parole che non ho letto nascoste dall’orribile macchia “Amore mio...” parole d’amore d’ attesa d’addio “Amore mio...” in caratteri tondi rotondi girondi “Amore mio...” un biglietto tra settembrini “Amore mio...” Principiante di Paola Ravelli Tu che infili collane di perle – parole nel blindato caveau del tuo studio assecondando il tuo genio. Mi hai stabilito i compiti per casa: macinare parole, ridurle in farina per impastare poesie... Ma io scrivo sentendomi in colpa per il tempo sottratto, perché la polvere offusca il ripiano, perché devo estraniarmi dal fatto che il telefono squilla, perché è ora di pranzo e la cucina è sconvolta... e la parole sono indocili e sfuggono e feriscono e sconfiggono. Erano in due di Silvio Craviotto II,16 - Tibi mater di Giovanni Jorio Fu una stella a guidarmi nella notte fredda d’inverno. C’era, innanzi a me, immensa una catena di montagne e innevate boscaglie, come al Béigua. In questa notte mi ritorni a mente con le ombre, Ombra vagante. L’interminabile corteo nero scende Verbosa china in fino al marmo bianco. C’era pure, vastissimo, un deserto. E Questi ti sta a fianco A lungo camminai: ero sfinito con tanti altri de l’erma collina. quando giunsi a un capanno e lo credetti deserto anch’esso. Entrai. Erano in due: In quel sorriso del padre comprendo l’eterno mistero; una donna ed un uomo. C’era pure te fiera con artiglio un asinello e un bue. Guardai meglio. mutar vorrebbe in altare vero Nel piccolo fienile c’era pure dove il muto sdegno appendo un bambino. Guardai ancora meglio. e la pietà di figlio. M’attendevo chissà quale prodigio: ne sarei stato testimone. Vidi Cerco il mio inferno - oh stupore! - un bambino come tanti, di Katia de Luca non diverso dal figlio del vicino. Cerco il mio inferno sui binari sconnessi Squarcio di mare che il ricordo mi dona. di Gabriella Manzini Scrivo lettere confuse Nell’aria una calma attesa, su pezzi di carta gialla spezzata in mille frammenti dall’onda... inzuppata di tempo. Vivo ogni giorno perché tutti i gabbiani volano? per cercare e per perdere. La natura contempla se stessa Scruto ogni angolo e tutte le cose si abbracciano di mondo per scoprire nel vento del mattino un altro motivo che ti scuote, per piangere. mentre il sole, Mi affanno solitaria accecandoti gli occhi con lame taglienti per trovare ti porta sulla riva, e imparare finalmente dove l’onda cancella se stessa... a lasciare. e il tuo passo... Giro in tondo solo per nascere... e morire.. La mattina cercando il mio interno di Loretta Bonucci in un diafano eden. La mattina ascolto il canto degli uccelli, e inizio la giornata in armonia e prego il Signore che mi dia la costanza di non essere mai affranta, e che io vada verso il futuro con fiducia. Il pensiero degli altri (luglio 2003) di Luigi Siliquini Entrare a poco a poco nella mente degli altri per scovare verità talora... inascoltate. La gente qualunque, chiusa nel suo alveo, non riconosce più i pregi dell’esistenza. Desideri, ansie, passioni e smodati tormenti rimangono imprigionati nel cervello schiavo. Vorrei avere oggi la bacchetta magica per guidare i pensieri del comune volgo. Le persone incontrate non hanno pronunciato 26 che parole vuote e prive di significato. Solamente la mia persona inappagata nella fantasia, trasferisce questo bisogno dalla mente al cuore. Vorrei di nuovo rimpiangere questi miei sentimenti che hanno continua sete di linfa vitale. Pensare e ognora agire per la mia felicità verso lo scontro con il mondo decadente e disfatto. Otto strofe, quelle che compongono la poesia Il pensiero degli altri ben incatenate tra loro e che tracciano due degli aspetti poetici di Luigi Siliquini, cioè l’Io travagliato e il desiderio forte della ricerca della verità in un mondo dove l’apparenza prevarica spesso sulla realtà. La lirica non è altro che un libro aperto dove il contenuto apparentemente descrittivo si trasforma invece in un canto di dolore verso quella gente chiusa nel proprio alveo. Infatti l’autore, utilizzando anche delle metafore che arricchiscono il contenuto, spinge il lettore ad aprire gli occhi per riappropriarsi della verità interiore e nello stesso tempo della propria esistenza, nonché della libertà del pensiero affinché «desideri, ansie, passioni / e smodati tormenti / rimangano imprigionati / nel cervello schiavo». Quindi uscire dal buio fatto di un «mondo decadente e disfatto». La poesia di Siliquini, non è altro che il frutto di un viaggio verso l’abisso del cuore dove trova la forza per riemergere e svegliare la conoscenza che era stata annientata dall’ingiustizia sociale, dall’angoscia esistenziale per riappropriarsi dei propri sentimenti fatti di gioie e tristezze, tasselli questi indispensabili per collocarsi in uno spazio dove materialità e spiritualità di intersecano tra loro e risuonano come monito per la costruzione di una società che basa la propria forza sulla verità. Ed è proprio questa la linfa vitale del poetare di Siliquini che, se pur elegantemente malinconico, non nasconde il grande desiderio di poter guardare attorno a sé e finalmente constatare che la “gente” si è riappropriata del proprio “Io”. La sua poesia non è altro che lo specchio di un lavorio psicologico in evoluzione e frutto del superamento di numerosi ostacoli che portano l’autore ad un arricchimento poetico e sempre più complesso e maturo (Enza Conti). Ai caduti di Malvagna di Antonio Portaro Il monumento qui eretto testimonia un grande affetto dedicato d’ora in poi da Malvagna ai suoi eroi, che donarono la vita per la nostra Italia unita. Sono i nostri combattenti, quasi tutti a noi parenti che hanno un posto nella storia e tanta, tanta gloria. Accanto a questa ara, vivo è il suon della fanfara, che ci porta in un momento nell’aspro combattimento. Sono i protagonisti di due guerre molto tristi, duri scontri combattuti e da eroi poi caduti. Con un grande auspicio possa il loro sacrificio conservare in ogni età la sospirata libertà. Da tempo loro dormono in pace ma per noi il ricordo, qui sempre giace. Sboccia sboccia frutto di Rosaria Barone Indigeno gergo farfuglio in mente, si accentuano di fuoco e soverchiano i miei occhi incomprensibile linguaggio ch’io cerco affannosamente di origliare, non capisco. Chi sussurra? Dove vuoi arrivare? Chi mi cerca? Se sapessi... se questo velo si tagliasse... offusca, confonde, nasconde. M’è stato appiccicato sin dal dì della luce. Donna qual sono racchiusa in candido fiore dolce e profumato bianco sfumato tenero e flessibile, ma serrato. Sboccia, sboccia frutto. Rugiada mi raggiunge da una fessura e mi rigenera. Via, via petali intrecciati date sfogo al vostro splendore lasciatemi libera di capire! D’improvviso il fior m’ascolta e spunto fuor, curiosa e raggiante, ma tutto è già scomparso. Non comprendo poiché nulla è più da comprendere null’altro ha senso ...guardo attorno a me... ma null’altro mi parla null’altro mi cerca, null’altro... Dove sono tutti? Cosa cogliere? Morto. Tutto. Kosovo di Maria Cristina Latorre I. Ho visto una fila inerme di uomini donne, vecchi, li ho visti camminare nella terra di nessuno minata, ovunque, nell’orgoglio. …..Sembra un Dé ‘jevù dell’olocausto di un passato svogliatamente ricordato. Guerra e pace di Nino Agnello Guerra e pace buono e cattivo, bene e male uno in un pugno, uno in un altro o dentro il vespaio dello stesso pugno dentro la rete di vendette e odio minacce ed invecchiato rancore? Chi ha torto o chi ha ragione? Chi sostiene o chi condanna nelle piazze in vanità di eloquio? Li accomuna la risposta, tutta dentro l’inapribile morsa che stringe ambedue e li soffoca rabbiosamente. Noi non alziamo il muro divisorio. Così te n’andasti di Giovanni Mantineo Così te n’andasti, lentamente, morendo ogni giorno un po’ per volta finché serrasti gli occhi tuoi per sempre, angelo in terra e Cherubino in cielo! Invano pregasti, giunte le mani, gli occhi al Ciel rivolti, in quella chiesa dove la Madonna accoglie e ascolta i devoti suoi. Volevi ancor restar su questa terra, sol per i Tuoi, non per Te di certo, perché di te più non progettavi da quando il Mal il primo colpo inflisse, uccidendoti speranze e desideri. II. …Mi vergogno d’esser umano come chi ha minato quella terra Con rassegnazione te n’andasti, come chi ha ucciso quella povera gente. in questo la Madonna Ti ha aiutato! Esempio di bontà fino alla fine! III. I tuoi occhi si chiusero Non scordate voi tutti ma la tua mano ciò che vi dico, aprì i miei quando voi giovani dell’era moderna, con l’ultimo sospiro! quando ascolterete Goditi il Paradiso, Amica mia, i vostri figli che tu l’hai pienamente meritato! leggeranno sui libri di storia non vi troveranno tutta la verità Come sogno ma vi troveranno scritto solo di Salvatore Arcidiacono ... Kosovo... Milosevich... IV. Così è stato nella mia generazione dove sui libri di storia abbiamo letto solo ……Ebrei……6.000.000……Hitler… …e nessuno ha compreso la vera storia. Notte stellata di Ilaria Spina Dolce e oleosa alla luna frizzanti baci di fate. 27 Tornerò su quei lidi dove i tramonti sono incendi camminerò a piedi nudi sulle ali dell’aquila regina udrò il maestrale suonare ottavini il sibilo delle traffinere. Vedrò rientrare barche ed ontri uomini neri alare sugli scali calafati che riparano triremi e Glauco dorme in eterno. Guaderò lo scoglio di Ulisse e da pontili di silenzi scaglierò parole come dardi. Se fossi una bottiglia di Silvano Messina Se fossi una bottiglia piena di vino sarei bevuta dal matto del paese… se fossi un foglio di carta sarei scritto da una bella poesia d’amore per te... se fossi una canna vorrei essere fumato da te... se fossi un flash non mi cancellerei più dalla tua testa… se fossi la tua metà fuggirei lontano da te per incontrarti dalla parte opposta ove c’è l’impossibile e l’ignoto... ma poiché sono un uomo aspetto che mi consumi d’amore. La finestra di Pacifico Topa Dalla finestra della casa avita, che dava sul giardino verdeggiante, entrava l’aria profumata, amica, ossigenata dalle grandi piante. Mi rivedo bambino, balbettante, col viso fra le sbarre del balcone, del vuoto intimorito, un po’ tremante, tutto assorto nell’osservazione. Fatto più grandicello alla finestra ritornavo ogni volta con desio, guardavo attorno, dentro la mia testa credevo che quel mondo fosse mio. Oggi, più adulto, torno volentieri alla finestra della mia casa antica, turbinano nella mente altri pensieri facendo un consuntivo della vita. Dis. di Alice Pinto Montalto Doglie di Pasquale Montalto Quali armi di giustizia in amore? C’è risposta, ai dolori provocati dall’amore? Fatti, tanti fatti contingenti, insieme convergono e accerchiano il centro dell’amore e poi colpiscono, duramente nella carne e nello spirito. Le doglie, le conosco, ieri come oggi, continuano a irrigidirmi e mi devastano col dolore. E io mi rompo e mi squarcio l’anima, nell’attesa che arrivi la nuova sveglia per partorire. Campo Calabro di Clara Giandolfo Splendida città mia tra le migliori ritengo che tu sia! Gli ameni tuoi colli i ruscelli gorgoglianti cantano all’alba con gli uccelli cinguettanti Cantano i colli le ubertose pianure, uliveti, aranceti le agavi sulle alture, che poderose svettano con maestà rappresentando la possente virilità Rappresentano la forza la grande energia della terra calabra della terra mia Campo Calabro città dei pittoreschi tramonti 28 del sole che scende di rosso tingendo i monti! Campo Calabro città di letterati, pittori, scultori, tutti ricordati. Cantâro tutti dipinsero le alte qualità, gemma dello stretto e anche di amare realtà! Oh se Campo Calabro avesse il mare sarebbe veramente luogo da incantare…. Come sarebbe bello se come tantissimi anni fa aitornasse il mare a spuntar a Musalà… Inter omnes constat… C’era un dì - narra un’antica voce largo e profondo un mare e un fiume con foce S’alzò per potente spinta il fondo marino in quel sito e si trasformò nel “ruzzuluni” da conchiglie varie riempito O se per fenomeno contrario, senza recare ad alcuno danni rispuntasse il mare dopo tantissimi anni! Un mare qui vicino con stabilimento balneare… quanti, quanti bimbi potrebbe deliziare! In luglio, agosto, vero tripudio in tutta Musalà, piena di gente arrivata da qua e da là; da Fiumara, S. Roberto Campo Calabro specialmente in cerca del bel sole e del mare “rinascente”. 29 Poesie del “Publio Virgilio Marone” e lievi ricami fra le tue dita umide di betulla. Quel brivido strano e il profumo della notte in una sinfonia agrodolce. Nel primo giorno del terzo millennio di Gianni Ianuale All’alba il distacco lieve, surreale... La stanza diventava sempre più piccola e lontana; anni luce. non vi fu delusione e solo rimangono le soddisfazioni dei piccoli giuochi, di tante emozioni che, a cose concluse, a storia finita, nei dolci ricordi ci scaldan la vita. Amori incompiuti di Mario Cambi Etna misteriosa di Ernesto Riggi Amori passati, amori finiti, amori vissuti, amori traditi, or dolci ora amari ci appaiono adesso nei vaghi ricordi del tempo pregresso. Son forse più belli gli amori incompiuti, pur fatti soltanto d’abbracci e saluti, di qualche battuta, di mezze parole, di volti ridenti negli occhi di sole; di piccoli approcci, di qualche effusione, che, forse, ci han dato una breve illusione; e di confidenze appena accennate e di discussioni, serene e pacate, su mille questioni, le più disparate, in sano confronto di cuore e di mente che ci ha fatto crescere reciprocamente. Amori cui solo mancò veramente quel piccolo quid, quella cosa da niente, quell’indefinibil sottile magia che sola trasforma una dolce armonia nel forte crescendo vieppiù dirompente che il cuore rapisce e sconvolge la mente. E, se v’è rimpianto, pensando al passato, per ciò che poteva e che non è stato, lo stesso rimpianto ha compensazione nel fatto che poi Sei maestosa signora dal fluente crine che si specchia nel mitico mare o capricciosa zitella dalla rossa chioma che disiando amor nervosa fuma? Al tuo piè, dorati aranceti profumano di zagara, le api rubano il nettare ai gelsomini, nell’aria l’usignolo il dolce canto intona mentre secolari carrubi abeti e pini ti cingono i vezzosi fianchi. In alto vesti in nero, come si addice a raffinata signora, in bianco, per mostrar della vergine il candore. Posando il piè sui fumanti declivi mi sento leggero come se danzando stessi sulla luna. Poi, ti accarezzo le labbra e curioso ti guardo il seno, ma tu, gelosa, sospiri lapilli, bagliori di fuoco e di sdegno fremi. Perché questi bollori? Quali passioni, tradimenti, gelosie, amori, tu covi in seno? Affili forse nella tua fucina lucenti armi per combattere dei Siculi il destino? Perché piangi fiumi di fuoco? Forse l’infedele Plutone per altre formose fanciulle ti abbandona? Sei maestosa signora o capricciosa zitella? Sei sempre donna Solo la notte tra calici di stelle è padrona assoluta di solitarie malinconie tra lune e immagini che sciolgono pagine d’alba disegnate in oasi sotto gli aghi del cielo. Per amore ho liberato tutti i nodi nei minuti benedetti dal silenzio; ho cercato nel cobalto della mia essenza un mediterraneo canto, affinché l’anima, lo spirito e il potere, potessero aprirmi la “Grande Porta” oltre il simposio della luce, ma le Muse, regine immortali, ancora una volta han dettato l’alto podio... mentre il mare si allungava oltre l’occhio del cielo ed io, pur vivendo per gli altri, ho capito che non vi è altro modo per essere felice, quindi ho scrutato il mio fine e mi sono accorto che l’universo obbedisce all’amore con il metro della felicità! A Proust di Annalisa Grazia Guerrera Nella stanza damascata un impalpabile macigno pendeva sul tuo respiro affannoso. Dormivi... Strani sogni dilaniato dall’asma scorreva verso quel mare la follia d’insonne. L’organino per strada suonava La Vie en Rose, musica ovattata nel cielo di Parigi. La donna, danzava leggera, spiava il tuo volto, i capelli disordinati lei li accarezzava con mani d’angelo, ferendosi alle tue mute febbri, il tuo confessarti con la notte. Sfioravi quel corpo setoso di luna 30 e il tuo cambiar d’umore mi spaventa perché mutar tu puoi la mia stella. Meglio lasciarti mentre dormi e fumi e tornar al tuo piè dove natura è bella. Universo donna di Beatrice Torrente È tuo il tempo, tuoi i giorni e le ore, è tuo lo spazio, dimensione ove si rannicchia il tuo essere. Tu galassia luminosa, vigile affetto di pianeti che in te vivono e palpitano. Tu sentore d’infinito, di gioie sublimate, di sofferenze taciute. Vigile sentimento, scia luminosa che accende reconditi angoli dell’anima. Tu fiore, angelo, farfalla. Tu frutto acerbo e spiga dorata sotto la falce. Tu ombra scura di nere nuvole che annebbiano la luce in giorni tristi di lacrime. Tu sofferenza abbracciata con amore. Tu madre! Ma tu... sempre tu... quella fulgida metà senza la quale il cielo non è completo. Shoah di Mina Antonelli Strappate alla terra le radici di Davide. Vagoni di cenere attraversano il tempo e la memoria ricuce i lembi dal passato per non dimenticare. Tessevano i silenzi il ragno con lo scorpione, assetate zolle bevevano veleno e sgolavano sangue i solchi nei campi di sterminio. Sul filo spinato cresceva l’ortica con l’erba amara, colline di passi accatastati. Si alzavano nell’alba e giochi di bambini si frantumavano nel gelo. Fiocco azzurro il cielo si adagiava su bambole spezzate aspettando invano il crescere di un fiore tra le spine. Mani di fango spartivano le vesti e spettri di morte si specchiavano dentro ciotole di pietra. Ascoltò Dio il dolore d’Israele, soffiarono i venti dai quattro angoli della terra e scheletri vestiti di sacco s’incamminarono su deserti di cenere. Uomini senza volto risorgono dai silenzi e sogni calpestati tornano a vivere. Negli occhi fioriscono nuove stagioni che trovano nella luce il respiro dei giorni. Lampare di luna accendono le pietre nei vicoli di Betlemme e il cuore cerca un’altra cometa dentro la notte. Mulattieri di Mariano Cerignoli È notte, o morte: fosche di tempesta le nubi erranti spuntano dal monte, triste presagio d’imminente pioggia, ad offuscar dell’occidente i fuochi. Al tuo richiamo, l’aria si fa gelida, lampi di fiamme solcano la diga della bufera, rotolando lungi va sulla terra a spargere il terrore della rovina al sonno dei fanciulli, il fragoroso strepito del tuono: qual di corriere che da lungi viene, la scalpitante nuova del cavallo triste presagio dello stuol nemico. Gemon le braccia degli arbusti: tetra di ramo in ramo lungo i sentieri svolazza la civetta gemebonda. Ecco fa pioggia: pare che precipiti sopra la terra il ciel di piombo a pezzi. Due mulattieri, per la via maestra, spingono a stento le provate bestie. Vengon da lungi, salgono dal piano, vanno al paese a riabbracciar le spose. Lasciarono le pecore nel chiuso a la custodia dei compagni fidi, dove le brine e dove le pasture sono men crude a le feconde madri. Ma tu hai deciso ben diversamente, 31 o morte, la piena dei ruscelli in uno hai convogliato vorticosamente, per trascinarli dentro una voragine apertasi all’istante ad inghiottire uomini e bestie e loro masserizie. Ci vorrà una settimana per trovare lo scempio atroce delle loro spoglie. Autunno di Laudato Sabato Odore di mosto, fungo di bosco, frusciare di foglie su alberi spogli, scorrere lento di acque silenti su greti giulivi di rivi antichi: portarmi indietro nel tempo, rivedere me bambino dal fare birichino, cercare la gioia, asciugare una lacrima lungo il filare della vigna in un giorno appena concluso, volgere al tramonto, verso la sera, la notte, ove anche il brillare di una stella si perde dietro il chiudersi di una porta. Nostalgia di un amore di Giovanni Di Girolamo Quando la nostalgia riafferra il cuore, ben’anche l’ansia punga acre e struggente, se guardo indietro vedo che il dolore si stempera al concetto del presente. E quel che ieri mi sembrò opprimente, oggi riacquista assai di leggerezza, come a riempir la vita dal suo niente e rivedervi intatta la bellezza. E intatta vi ritrovo la certezza che viverla val sempre, ché l’incanto giammai perdere può, né mai l’asprezza ne affievolisce il senso più di tanto. E pur se vi lasciò il suo segno il pianto, per un di quei bei doni che Dio diede mai la speranza le fuggi d’accanto, giammai dal cuore si smarrì la fede. E se qualcosa ancora mi concede, Paola il tempo, e il sogno il suo fulgore, via dall’angoscia l’anima rivede tuttora la dolcezza dell’AMORE. Flavio Vacchetta Francesco A. Giunta Vincenzo Cerasuolo Prigionieri Sul ciglio dell’indifferenza noi, prigionieri di urla crudeli, ci avviciniamo alla morte che ci riveste con ali di corvo, ci rapisce con feroci artigli. Perdonami Cosa ho fatto! Nel culmine della maturità i figli conservati nel cuore, cresciuti nell’amore e nello struggimento dell’anima, sono ormai lontani per seguire altri sentieri. A pelo d’acqua Gabbiani in affanno, a pelo d’acqua. Inseguiti aquiloni. Inebriarmi di mare Inebriarmi di mare, il profumo il fragore e vomitarli e annientarli. Seppellirli. Fiaba Solare gabbiano trasportato dal vento immobile di ali, con movimento vellutato e soffice, quasi fiabesco. Triste la pioggia Triste la pioggia che bagna l’umida terra, buia la mia rabbia nella battaglia senza sillabe, persa quotidianamente. Non sono morto ma perdo sangue. Flavio Vacchetta, nato a Benevagienna (CN), il 3 ottobre 1951, dipendente di un istituto bancario, dimostra un animo sensibile ai valori dell’arte e soprattutto alla poesia intesa come inno alla natura, all’universo, alle cose belle e semplici. Appassionato di astronomia, collabora con il Gruppo Astrofili Benesi per la divulgazione scientifica ed è socio dell’UAI (Unione Astrofili Italiani). Ha già pubblicato la prima edizione della silloge Nel segno della Bilancia che ha ottenuto notevoli consensi, tra cui il noto scrittore Franco Piccinelli, che si è espresso «Poesie limpide nell’ispirazione, nella musicalità, nei sentimenti che le illuminano, con una precisa dignità letteraria». Ha pubblicato, con altri autori, a cura del Comitato di Quartiere San Paolo di Cuneo una raccolta di poesie e lettere d’amore dal titolo Petali di Parole. Non ho più carezze né parole di plauso per l’opera compiuta nella bolgia degli anni che furono di piombo e di ansietà per tutti. Dio perdonami per ciò che non compresi allora ma la mia innocenza è tuttora intera. L’amore che uccide Non vale rubare una stella se il sangue è nero per l’ingiuria subita per l’umiliazione vissuta. La notte è fonda e greve, con pensieri profondi vado in cerca di un fiore d’appuntarmi sul cuore. Quando le lacrime, divenute pietre nessuno potrà asciugarle, ecco apparire il padre che tutto accetta e tutto perdona. Il colore delle stelle Ora so il colore delle stelle che s’indovinano nella notte quando l’anima trepida d’amore per te che muta assali la festa gioiosa del cuore. Ora so il colore del sentimento trepido che mi tormenta, lo scintillìo della sera che l’anima vagabonda cerca bramosa negli occhi tuoi per un laccio eterno. Ora so il colore dell’anima che s’affaccia al mio destino solitario e tenero, roso dal vento del sentire amore come ricerca fragile dell’eterno. 32 Si nascesse ‘n’ata vota Si nascesse ‘n’ata vota, vurria essere criatura... fermà’ ‘o tiempo a cchillu tiempo... e nun crescere maje cchiù. ...e chisà si chillu iuorno putarria vederla ancora, p’abbracciarla ‘ncopp’ ‘o core, e lle dicere: «Mammà... comm’è bello, comm’è ddoce o cchiammà’ ‘stu nomme tujo! ...e p’ ‘o ffa ‘sta vocca mia vasa a essa e vasa a tte». Ma cunfromme chesta vocca ‘sta parola murmuléa... i’ me sceto ‘a dint’ ‘o suonno... e me trovo a suspirà’. Si nascesse ‘n’ata vota... ‘stu penziero torna e torna; i’ m’addormo chianu chianu... e po’ torno a m’ ‘a sunnà’. Il napoletano Vincenzo Cerasuolo è un personaggio molto noto nel panorama poetico nazionale, sia per la sua dedizione all’organizzazione di diverse iniziative ed eventi culturali (fondatore del Centro Studi “Accademia internazionale Michelangelo” di Napoli e dell’Associazione artisticoculturale “Leonardo”, organizzatore instancabile di diverse iniziative tra cui il Premio internazionale “Marilianum), sia per il suo talento poetico (autore di testi poetici in lingua e in vernacolo). Un talento che si esprime in una liricità sempre ricolma di vita e realtà e sempre semplice, naturale e incontaminata. Tra le tematiche predilette da Cerasuolo vanno ricordate la religione, la natura, la bellezza, il sociale, l’esistenza, temi classici e attuali insomma. Il tutto sembra presieduto da «una poetica memore della formula oraziana ut pictura poesis rinverdita dal gusto iconologico pariniano, che predilige la rappresentazione colorita e sensisticamente sapida e appetitosa» (F. Trifuoggi). Un poeta che riesce a far fluire la riflessione sull’esistenza umana con una saggezza personale che non cede mai il passo al paternalismo, ma che semmai risulta a tratti nostalgica. La sua poesia è un perfetto lavoro di cesellatura derivante da un sapiente uso della metrica e da una qualificatissima elaborazione del dialetto napoletano. Questo indubbio talento gli ha meritato gratificanti riconoscimenti, tra i quali vanno ricordati alcuni primi premi conseguiti in prestigiosi concorsi di poesia in vernacolo (Maria Enza Giannetto) Poesia dialettale Tu, miele crudo di Silvana Andrenacci (Roma) Tu, miele crudo, fatiga strasudata, sei un rigalo d’ormoni e nutrimento che l’ape indafarrata lo passa à la compagna cor filo lungo un metro... de la bava! Sei er prodotto de ‘na vita affatata: ciai l’aroma de colchice e lavanna, de primola, d’acacia, de menta... ch’è ‘na manna; eppuro li sambuchi co’ l’ortica, er corbezzolo, er timo co’ la fravola, te danno quer sapore, specie lassato crudo, cb’è ‘na favola! La carizza di lu ventu di Annalisa G. Guerrera (Catania) ‘Mpingiu la luna sutta lu minnulinu e ‘nterra saliò n’mari d’argentu e cu li ciuri si furmò ‘ntappitu trapunciutu di stiddi a centu a centu. Lu ciumi, sirpiannu lu cannitu, chiacchierannu, scurri a passu lentu pari n’priccantu tuttu l’infinitu a la duci carizza di lu ventu! St’anima stanca nta la notti chiara s’abbannuna a la quieti, a lu disiu e senti chjù liggera la so cruci. Oh, duci spiranza di lu cori miu fammi ‘nsunnari e dammi la to vuci quantu mi sentu chjù vicinu a Diu! Fatti l’affari toi di Sebastiano Maccarone (Furci Siculo – ME) ‘Nun t’intricari mai ‘nte cosi i l’autri, pensa’a li cosi toi e campi cuntentu. Fai cuntu d’aviri ‘na benda ‘nta l’occhi e u cuttuni scisu, dintra li ricchi. E fai megghiu ancora, si quannu vidi scannulu, chi, cumprumetti assai tornitinni a casa, senza pinsari. Cuciti ‘a bucca!! Tu nenti vidisti, nenti sintisti. Nun c’entri, né da porta, né du purticatu. Lassa ‘a ccu s’addiverti e la vita si godi e nun ti scannaliari. Mali pi tia, si nun ‘u sai fari. Goditi’a vita... E pensa ppi tia. ‘Nun ti ntricari i nuddu e camina pa tò strada. Lu postu pi l’eternità di Carmelo Palumbo (Catania) Sugnu din postu piddaveru duci un triangulu di terra chiù nicu [di na nuci ca di unni tu talii sempre straluci. È veramente un locu d’impazziri, sulu cu lu so ciauru fa sturdiri. Comu a tutti li cosi beddi e rari spunta comu un brillanti [ammenzu u’ mari. È comu un piattu i pasta [ammenzu a fami. È beddu quannu chiovi o su c’è suli, quannu fa ventu e quannu non ni tira, è beddu sempre, matina e sira. Terra di re, briganti, principi e baruni Ca l’ana fattu sempri di patroni. Tu, comu a chisti, fui sempri [strafuttenti di la me terra non ma interessatu nenti. Perciò sugnu sicuru ca quannu veni lo iornu do giudiziu e di li peni, quannu tu Patri Eternu mi giudicherà occhi puntu, di sicuru, mi tu liverà e cu la vuci pisanti e scuru in visu mi ietta na vuciata di tu paradisu: «Tu ca na la vita terrena avisti la furtuna di nasciri e campari nan postu comu a chistu, non ni hai saputu approfittari, [ti na futtutu, lo hai schifiatu sempri [e l’hai azzannatu, pertantu ora di ddocu po smammari, pirchì mancu mottu si cosa di stari unni di casa stanu suli e mari». E speriamo sulu ca nella Sua buntà, quannu m’assegna lu postu pi l’eternità, almenu mi lassa arripusari agghiri cà. A peccerella di Giuseppe Vorraro (Rep. Ceca) Peccerella peccerella si nne vuò fà recrià apre chesta fenestella ca te voglio accarezzà ‘ngopp’a vocca nu vasillo pecceré fatt’abbraccià nu buon nnammuriatiello teng’ ‘ a voglia e te vasà. 33 Oggi è na jurnata ‘e festa peccerella mia peccerè tu nun siente che tempesta chistu core fa pe té chiure ‘a porta e ‘a feneste voglio o sfizio e stà cu té sò nu marito ca te resta tutta a vita ‘inzieme a té Tantu tiempe aggiu ‘spettato peccerella mia pecceré, notte e jiuorno aggiu sunnato e te fà felice a té tu invece m’hai ‘ngannto col padrone del caffé; uocchie ‘e mesce scostumata nun te voglio cchiù vedé Uocchie azzurre cumm’o mare te vulevo ‘ngoppo ardare hai ‘ngannato a chistu core e perciò te caccio fore a’ stu juorno è stu murente nun te veco e nun te sento sulamente aggia penzà tutte juorne e te scanzà. Malidittu bisognu di Franco La Pica (Taormina) Stu pugnu i terra ‘ntà stu saccuddùzzu porta u prufumu di llu me paisi, dda sira ca lassai tutti i me cosi cu quattru fissarì ittati a muzzu, e i rrobbi sulu chiddi ‘ncòddu misi. Lu cori mi chiancìa a lacrimùni pinsava a mè casuzza, a mè campagna u pani i casa, u giallu i fienu e a ducizza di lla me cumpagna ca mi vinia sautàri di llu trenu. I fica ianchi fora da finestra ligna, panara, u croccu ‘ncìma a scala, a Primavera cu ciàvuru i inestra e tutta a stati u cantu da cicala. Inchìvunu lu cori, ma la panza ricca di nenti, n’avìa rassettu, cchiù forti ancora di lla luntananza. Na vita senza ‘mpènnuli ne pila, unni li tò patruni sunnu tanti e mmenzu a tutti tu si mmisu ‘nfila cu lla figura i chiddu ca non cunti. Sti anni ca si nni eru ‘ntò cimentu, u pinseri custanti ca mi pisa, mi pò pagari sulu du mumentu ca toccu l’erba virdi da me casa. Puru stu sali ca mi sentu ‘ncòddu sali i suduri ca mi stidda a frunti, mi ricorda u sapuri du mè mari e u suli comu u focu du me munti. A sira, stancu prima di curcari apru stu saccuddùzzu i terra niru sempri accussì, ma chi ci pozzu fari, mi scappa un lacrimuni quantu un piru. Australia sìcula di Giovanni Piazza (Piazza Armerina – EN) subbitània mi sbummicò l’urgenza di farci aviri chistu ca vi dicu, scrivutu cu parrata di l’anticu. Alla curtisissima attinzioni do Diritturi Salvatore Samuel Mugavero di l’Associazioni “Trinacria” Perciò quannu ogni tantu vi sintiti a scorcia di cannolu e in nustalgìa vistu ca di sta terra siti ziti nun c’è nenti ca megghiu n’arricria di na bedda parrata in sicilianu, puru scrivuta e puru di luntanu. Ehi, salutamu, Australia, comu va, e un baciamo le mani a vvui paisani ca v’attruvati distaccati dda, ai tanti assai ca, tutti siciliani, lassàstivu stu suli e ccu gran pisu partìstivu pi ss’àtru paradisu. E quannu arriturnati anchi pi picca nni sta terra ca sempri ecchiù v’aspetta sapiti già ca essennu la cchiù ricca, tantu di cori e picca di sacchetta, idda si mostrerà cuntenta assai ca di so’ figghi nun si scorda mai. Cca nui ni la passamu bbona assai, comu si sa, ni sta Sicilia bedda fami e bbisognu nun ni manca mai Chiddu ca t’ava a ddiri ti lu scrissi, e ognunu ciàvi ormai la so’ minnedda Australia, e ti cuntavu l’alti e bassi puru si sbummicò na calurìa ca aguannu ora scrìvimi tu, si ssiti i stissi, ormai s’ha mmisu a camurrìa. fammi sapiri comu ti la passi, Di novità, c’è ca nni fanu un ponti, comu si campa beni stannu bboni si, chissu di ssu strittu di Missina a mmenzu a sta putenzia di nazioni. e a nnui, ca di tantànni semu pronti E allura, Australia sicula, saluti, p’attravirsari appena si camina, saluti allegracori e tant’aguri nni piaci, ca emigrannu o suppergiù pi tutti ssi paisani scunusciuti ddu ferribbottu nun ni servi cchiù. ca di Trinacria spàrginu sapuri, Comu guvernu avemu l’alternanza, ca st’ìsula ca spicca munnu munnu dui grossi e cuntrapposti schieramenti è parti di ssu cori vagabunnu. ca si scàncianu a ttipu cuntradanza però ccu vinci vinci, un cangia nenti N’abbaglio, ntra veglia e suonno c’a un dèbitu oramai fora misura di Ottavio Marandino stentamu pi truvàrici la cura. (Battipaglia – SA) E ppuru stu Guvernu reggionali Prìmm’e me sosere, ll’ata matina gira, vota e firrìa comu si vò m’aggio fatt’ n’atti muorz’e sunnellino. và pi pigghiari volu e sbascia l’ali, È cchiù sapurit’ si, pecché è arrubbato nun c’è putenza umana ca ci po’ a ‘o tiempo nfame, fra nu rintocco ca s’un canciamu nui mintalità [e n’ato! cu cumanna cumanna, è sempri ddà. Comm’a nu film, ca spost’a E l’aspittamu, sta pàssula ‘nbucca, ca pi rassignazioni e lagnusìa semu tra i primi e ormai mancu pi cucca si parti o si sprumenta fantasìa ca cca tutta la nostra picciuttanza passìa, ma di travagghiu nun n’avanza. Vistu ca ormai la mafia nun esisti, anzi pari ca nun ci ha statu mai, campamu d’aria e di chiossà turisti ca sta nostra Sicilia, comu sai, è cchina di biddizzi e maravigghi ca t’arricria d’unna la pigghi pigghi. Ma tu lu sai, ca puru a ss’àutru munnu p’arricurdarti di sta terra, amara ma chi trasi ndo cori e gira ‘ntunnu, l’associazioni forsi la cchiù cara la facisti Trinacria e in bellavista chiamasti il Ficodindia la rivista. E a chista Australia sìcula di cori, ca stavi ‘nparadisu ma nni penza e a mmenti torna ca sinnò ci mori, [nquadratura nu mumento... aggio turnato criatura, mputrunito a lietto, ntra veglia e suonno na matina ‘e festa e chi sà qual anno! D’a senga d’a porta ‘o rraù se nsinuava, e a dduje rummur’ a tiempo, [s’ammescava. Era mamma, a fore, ca laganiava. Papà grattava ‘o ccaso, puveriello! (E sienze, alierta primma d’o cerviello, arravogliano verità e fantasia!) Nzieme ntunavano sta melodia pe... “laganaturo solo e grattacasa”: quasi un preludio a chella sinfunia ca se spanneva cchiù tarde int’a casa! Ca fosseno fusilli arravugliati, bucchinotti tunni, o pure cavati... nun c’era bene ca tu vuliv’e cchiù: quann’a recotta s’abbracciava c’o rraù! ...Cu o naso tellechiato a chili’ addore, 34 cu e rrecchie ancora chiene [d’o rummore, m’aggio scetato, nfuso de sudore! Fore, n’ammuina degna e na cagnara! Se fonne nzieme a ‘llucchi [e na cummara: «Sciorta mia!... S’è appicciato [o munnezzaro!» A “sciorta”... è a mia: embè [che ve ne pare?! Sentì museca addò nce sta rummore... na puzza ‘e chelle c’addeventa addore: a faccia nterra riuscì a vede’ a Luna! Sti miracul’ e pò ffa’ sul’ Ammore... ah, putesse durà chesta furtuna! «I nostri passi risuonano troppo solitari per le vie» (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra) di Milvia Lauro L’ago segna il deserto. Non un sogno screzia l’ala del tempo. Le strade sono invase da frenetiche volpi. Gli ascensori nascondono minuscoli peccati. C’era un giovedì di festa, un mare, un diluvio di luce: era un frutto di vermi. Troppi generali. Nel fango i rospi fanno rumore e non si può ascoltare il laminato fiato del cielo né l’acqua di diamante. Il silenzio dei vivi come una nebbia, copre le corde degli uccelli, il sospiro dell’erba, il canto della linfa. Il silenzio ha murato le brezze, l’alba delle conchiglie, le Cattedrali, il lievito. Il silenzio vomita sui nomi, sulle orme, sulle rotte del giorno e come un ragno tesse la sua asfissiante micidiale tela. era scomparsa. Si girava intorno nella speranza di scorgere un rumore amico, un qualcosa di conosciuto, anche solo il tronco di un albero già visto o il colore di un fiore già odorato, qualunque cosa che potesse darle la certezza di essere vicina alla sua dimora. Spesso inciampava nelle grossi felci, stordita dal forte sole del giorno, indebolita per la fame che non saziava da... da... da un numero sconosciuto di... cosa mangiare, cosa è buono e cosa non lo è! Quei frutti sembrano buoni, ma sono troppo alti! Quei semi sono gustosi... ma sono troppo duri per aprirli! Quelle bacche sono saporite... ma troppe spine le proteggono a difesa! Quell’erba è dolce... ma è pericoloso avventurarsi nella parte più fitta della foresta. Cercava di mantenersi ai margini del bosco, così da avere davanti a sé un vasto orizzonte, nella speranza di scorgere un volto amico o sentire un verso simile al suo nome “Hu ... Hu... Huia” La luna spuntò per l’ennesima volta e si alzò nel cielo argentato in tutto il suo splendore. Huia, stanca e sfinita, si appoggiò al tronco di una grossa conifera e, in men che non si dica, i suoi occhi già vedevano volti cari e sentivano il calore buono e sicuro del fuoco nella grotta. Silenzioso e acuto, il troodonte avanzava nella notte e già pregustava prelibati pranzetti; avanzava a passi rapidi e sicuri, scrutando a destra e a sinistra in cerca di ... Scorse il tenero viso di Huia all’ombra dell’arbusto, illuminato dai raggi della luna che riempiva ormai l’intero vasto cielo. Al vederla, i suoi occhi acquistarono luce nuova e divennero ancora più enormi.., il piacere già colava dalla sua bocca spalancata in abbondante saliva ... Attese ancora qualche attimo, quasi volesse gustarsi quell’immagine con gli occhi; per un istante in quegli occhi avidi.., sembrò di intravedere un barlume di istinto materno, quell’istinto che gode della vista delle proprie creature addormentate: era un troodonte femmina che aveva appena avuto dei cuccioli e si aggirava per la foresta in cerca di cibo per i suoi nati. La dolcezza di quel volto dolce sembrava l’avesse incantata.., ma fu solo un attimo... l’esitazione di un attimo che le costò molto cara. La legge della Natura è crudele e l’istinto di sopravvivenza è più forte di quello tenero di una madre. Allungò il suo sottile collo e i suoi denti luccicarono colpiti da un raggio di luna che filtrò improvviso tra le foglie dell’albero sotto il quale dormiva la ragazza. Ma quella notte la luna aveva deciso di non essere sua complice e di prendere le difese di quel cucciolo d’uomo. Poco più lontano qualcos’altro, di altrettanto affilato e tagliente quanto mortale, luccicò allo stesso raggio di luna. Le lance di selce di alcuni uomini erano già puntate contro il suo collo che s’allungava e fu una pioggia di frecce rapida e precisa quella che in un solo istante trapassò la sua dura pelle, il predatore, come la legge della jungla vuole, era diventato preda. Non fece nemmeno in tempo ad emettere un ultimo grido che il suo corpo si allungò ai piedi della ragazza, svegliata dall’aria smossa provocata dall’accasciarsi del mo- Racconto Le storie della valle della luna di Jolanda Serra La stagione delle piogge era arrivata e la Valle della Luna aveva ritrovato il suo consueto splendore: rigogliosa, lussureggiante, prosperosa, densa di vegetazione di ogni tipo. Era chiamata “Valle della Luna” perché il suo paesaggio era arido e sterile per buona parte dell’anno, ma quando arrivavano le piogge... allora... allora, era il Paradiso! Era uno smuoversi e un muoversi eccezionale... era un alzarsi... alzarsi... alzarsi... fino ad arrivare a solleticare il cielo... e la sabbia arida spariva completamente lasciando il posto ad un verde smeraldo che luccicava, come pietre preziose, di sera... all’accendersi della luna! Le affusolate licopodiacee, i sottili equiseti, le sterminate cicadacee riempivano la parte bassa della foresta; mentre le wilandielle riempivano la parte superiore, aprendo le loro foglie a ventaglio o a ombrello sulla sommità del tronco; tutt’intorno poi era un germogliare di conifere nane, ginko, e felci arboree; svettavano in alto le conifere giganti che con i loro 50 metri d’altezza sembravano vedette in attesa del nemico o forse erano solo ansiose di cogliere, per prime, i raggi del sole che s’alzava all’orizzonte e quelli della luna che inargentava le notti. Le notti... già... le notti! Le notti che non tacevano mai, avevano sempre storie da raccontare... sempre nuove e sempre antiche... ed ogni notte un nome diverso. Al sorgere della luna, ecco un troodonte che comincia la sua caccia... i piccoli mammiferi, per quanto diffidenti e veloci, non riescono mai a sottrarsi allo scatto fulmineo di questo insidioso animale dalla vista acuta e dal cervello efficientissimo che gli permette di reagire con prontezza di fronte ad ogni pericolo. Come un ghepardo, sferra i suoi attacchi notturni sui cuccioli di dinosauri erbivori, devasta i nidi di orodromeus. A metà fra un uccello, per i suoi potenti artigli, e un gatto dalle enormi proporzioni, con i suoi ampi occhi e le pupille dilatate per raccogliere tutta la luce possibile, si muove silenzioso nella fitta vegetazione; al cadere dell’oscurità, molte ombre si muovono furtive nel buio ed è ben difficile distinguerle... il troodonte coglie di sorpresa la preda, la tramortisce con un forte morso e con il suo artiglio a falcetto la lacera, dilaniandola poi con le sue robuste mascelle e i piccoli ma affilatissimi denti. Ogni notte era piena di storie anonime, ma sempre note: ora toccava ad un nido, adesso ad una nidiata di morganucodoni, oppure ad un piccolo plateosauro smarritosi nel tentativo di esplorare il mondo o ancora ad un anchisauro intento a divorare manciate di verdi germogli muschiosi. Ma la storia di quella notte aveva qualcosa di strano ed aveva anche un nome diverso... Huia camminava ormai da ore, forse da giorni. Già molte volte la luna aveva illuminato la valle e poi 35 e loro si allontanavano sempre più. I desideri che Huia leggeva negli occhi di quegli uomini erano molto pericolosi, capì in quel momento che il vero predatore non era il troodonte... ma coloro che le stavano intorno! Usci, per ultimo, dalla caverna più grande, un uomo muscoloso e alto, fiero e robusto; aveva il corpo segnato da profondi cicatrici, lo sguardo duro ed una mente che sapeva pensare... ma anche lui era un uomo... e a lui toccava fare ciò che gli altri si aspettavano che facesse. Formarono un cerchio intorno a lei e cominciarono a muoversi ritmicamente emettendo suoni gutturali come quelli di un gufo nella notte. Lo sciamano davanti a lei la fissava dritta negli occhi seguendo il movimento delle sue pupille stupite che cercavano di sapere... di capire... di sentire... quale pensiero nella mente di quegli uomini stava rìtmando in quel modo. Il ritmo si faceva sempre più intenso, profondo, ossessionante e cominciò ad entrarle dentro... attraverso gli occhi, le orecchie... le narici.., invase tutto lo spazio dentro di lei... fino a quando il suo corpo si accasciò al suolo come foglie caduta dal ramo. Lo stregone alzò allora una mano e tutto tacque. Due di loro presero la ragazza e la portarono nella grotta più grande, al centro della quale ardeva un grande fuoco. Un bastone di legno era stato messo di traverso sul fuoco e la punta era già di un rosso incandescente; era di un legno particolare, che bruciava molto lentamente e manteneva il calore a lungo. I due uomini uscirono dalla grotta e si misero in cerchio con gli altri che, seduti, aspettavano... aspettavano... aspettavano... Lo stregone ritirò quel bastone dal fuoco, fece alcuni gesti a lui noti, e poi l’affondò nella tenera pelle bianca della ragazza: un filo di fumo si alzò da quel contatto e l’odore di carne bruciata riempì la grotta spandendosi fuori nella notte, ad inebriare le narici degli uomini seduti all’aperto: ora tutto era compiuto... ora quella “preda” apparteneva a loro, era parte di loro e su di lei avevano acquisito il diritto di vita e di morte. Il dolore non aveva sfiorato la mente della ragazza che era lontana... lontana... in sterminate praterie, trasportata da quel ritmo incalzante, su pianure e foreste ricche di fiori e di cibo ogni tipo. Passò qualche ora, poi lentamente Huia tornò in sé e riaprì gli occhi, scoprì così che il suo corpo ormai non le apparteneva più per davvero: i desideri degli uomini le avevano lasciato cicatrici profonde, molto profonde... sulla sua pelle e sul suo essere donna. Si era addormentata fanciulla e... si risvegliava donna... i segni degli uomini passati su di lei le avevano lasciato un dolore che la prendeva fino in fondo... in un luogo profondo che lei non aveva mai conosciuto prima di allora e non capiva cos’era... cosa c’era adesso nel suo corpo che prima non c’era... cos’era quel dolore così intenso che la straziava dentro pur senza esserci segni di ferite fuori...? Il suo corpo portava il segno del passaggio dell’uomo e come un fiore che dura solo una notte, si trovò smarrita nella sua breve vita e nella sua fragile pelle... si cercava... si cercava... ma quella pelle le faceva paura, non le apparteneva più... capì in quel momento che gli uomini, pur non avendo artigli a falcetto e denti aguzzi come il troodonte, nel quale, anche se per un solo istante, era pur affiorato un delicato istinto materno... capi che gli uomini possono fare più male degli struoso animale. Spalancò gli occhi che si incendiarono di paura e restò immobile, bloccata, per decidere da che parte venisse il pericolo. Non capiva perché quel grosso bestione stesse fermo, immobile ai suoi piedi, perché non l’aggrediva, che cosa stava aspettando? Poi senti un muoversi di foglie e di occhi che nella notte l’osservavano: due... quattro... otto... tanti... tanti occhi tutti in una volta! Occhi amici o occhi nemici?! Buoni o cattivi?! La sua mente non riusciva a capire cosa fare: aspettare... scappare... gridare... fidarsi... Certo.. fidarsi... ma di chi... di chi erano quegli occhi che la scrutavano nella notte? Gli uomini uscirono allo scoperto e fecero cerchio intorno a lei, si assicurarono che il troodonte non potesse più far del male a nessuno e abbassati i loro archi fissavano, adesso, quegli occhi di cerbiatto spaventato. Gli unici uomini che aveva visto in vita sua erano quelli del suo clan che conosceva uno per uno: chi aveva una cicatrice sulla guancia, chi zoppicava, a chi mancava un braccio, calpestato da un branco di bisonti, a chi la zanna di un mammut aveva portato via un occhio... ma quei volti, fra quei volti non riconosceva nessuno di loro. Fu comunque contenta che si trattasse di uomini, capì anche che erano stati loro a salvarla dal pericolo che incombeva su di lei. Ma sentiva ugualmente nell’aria che un altro pericolo stava per attraversare la sua vita, qualcosa di altrettanto terribile, forse più della morte stessa, stava per ferire la sua tenera sorte e senti di essere tutt’altro che al sicuro. Ingenua e delicata, si alzò in piedi e un raggio di luna la investì in pieno mostrando le sue tenere membra di ragazzina. Gli occhi degli uomini si accesero di uno strano desiderio, s’illuminarono come quelli del troodonte alla vista della preda e si schiusero per catturare quanta più luce possibile così da ammirarla meglio. Si scambiarono occhiate di complicità fra loro, poi uno di loro si avvicinò alla ragazza, la prese sul suo dorso, a mo’ di preda catturata e in silenzio si diressero verso l’altro margine del bosco. Camminarono a lungo, tanto a lungo che Huia non sapeva più se il suo corpo ancora le appartenesse: era provato dalla fame, dalla stanchezza, dalla paura e da quella strana posizione che da ore si trovava a vivere sulle spalle di quell’ uomo. Finalmente l’alba infervorò il cielo. Di lì a poco, giunsero in una radura e da lontano già si scorgevano delle caverne sotto un’alta roccia ricoperta da fitto muschio.. Il suo corpo fu finalmente deposto sull’erba umida e gelida del mattino. Altri uomini le si fecero intorno: uomini... solo uomini.., tanti uomini...! E tutti uomini a lei sconosciuti. Fu un solo sguardo quello che passò fra i loro occhi, un solo desiderio, un solo pensiero. Da troppo tempo stavano lontano dalle loro famiglie, erano partiti due stagioni prima per inseguire un branco di bisonti e l’inseguimento li aveva portati molto lontani dalle loro terre, i bisonti continuavano a sfuggire ai loro attacchi 36 eppure il calendario segnava un tempo fra di loro... lungo anni... milioni di anni!!! stessi dinosauri: nei loro occhi era passato un desiderio fermo che soddisfaceva quell’istinto predatore che non conosce pietà per le prede indifese: l’istinto di conservazione della specie è più forte dell’istinto di sopravvivenza, ed è nell’uomo che questo istinto tocca la sua massima ampiezza! Ora lei, cerbiatto ferito nella trappola umana, segnata a fuoco e a sangue, era diventata parte di quella nuova tribù e come a loro doveva la vita, così adesso a loro doveva anche la sua morte. Non fu mai più padrona dei suoi giorni e delle sue notti: ognuno di loro, con quel rito, ne era diventato ‘legittimo’ proprietario. A distanza di mesi, con lo sciogliersi delle nevi, il gruppo nomade ritornò finalmente nelle sue terre, nella valle dove le famiglie attendevano il loro ritorno. Uno schiamazzo di bimbi li accolsero festanti. Altri occhi, con nello sguardo la stessa cicatrice presente nel suo, si fecero avanti, portando, tra le braccia, bimbi appena nati, nudi come il suo ... sulla pelle chiara ogni mamma portava lo stesso segno nero fissato nella notte Non avrebbe rivisto più la sua famiglia, non avrebbe rivisto più la sua valle... ora quella famiglia, quella valle sarebbero state le uniche persone e le uniche cose che avrebbe visto da quel giorno in poi... una fitta di dolore ... le/mi... attraversò il cuore... e mi svegliai, strofinai gli occhi ed ebbi paura... il bambino... il bambino... dov’è... l’ho perso... chi ha preso il mio bambino...? Parole senza senso uscivano dalla mia bocca e mia figlia mi guardava stupita: “Ma cosa dici, mamma, quale bambino, di quale bambino parli? Non c’è nessun bambino qui, non hai nessun bambino, noi siamo ormai cresciuti... chi cerchi?” Per un istante non capii e non riconobbi il suono della sua voce.., poi tutto mi fu...... “Niente, niente... devo aver solo sognato... almeno credo...!”. Un dubbio, però, attraversò i miei pensieri... andai allo specchio e cercai, cercai e... non era possibile, non era possibile!!! Sulla mia pelle bianca... un segno nero! Come una bruciatura... una cicatrice profonda che violentava il mio corpo! E quando me l’ero fatta? Non me lo ricordavo, proprio non me lo ricordavo! Forse quand’ero piccola mi ero scottata con il fuoco, forse un incidente... forse... forse... ma perché non l’avevo mai vista prima? La voce del giornalista mi riportò alla realtà... «Aveva appena 14 anni, è stata uccisa e forse stuprata in una cascina di campagna... dai suoi stessi compagni e da un uomo... un uomo adulto... che ha lasciato sul suo corpo... il segno del suo passaggio... un desiderio nato da un istinto...». Un istinto ferino e primordiale, un istinto che segna più dei denti del troodonte! - continuai io nella mia mente - Si chiamava Huia... Ma il giornalista continuò: «Si chiamava Desirèe ed era una ragazza dolcissima!». La luna tornò ad illuminare la valle d’argento e a prepararsi per la sua prossima storia... poi illuminò il mio balcone e capii che la luna vive un tempo che non passa mai, non ha confini, fra Huia e Desirèe erano passati pochi istanti, forse neanche uno... forse erano la stessa persona... L’uomo che fabbricava pesci di Franco Querini «Allah ti protegga, figliolo! Vai dove ti porta il cuore. Sappi solo che dovrai molto lavorare, molto sudare e molto faticare; e non ti saranno risparmiate neppure le umiliazioni. Io però ti conosco, so bene quanto sei forte, saggio e coraggioso: sono certo che saprai farti valere anche nel tuo nuovo paese, come già hai fatto in questo, dove però la terra è troppo avara per sfamare tutte le bocche della famiglia... Vai, figliolo, sii sempre fedele alla tua Sheila e - mi raccomando - crescete bene i vostri figli, che sono la vostra unica vera ricchezza!». Un lungo abbraccio ed un bacio suggellarono le ultime parole del padre di Kemal sulla banchina del porto da dove stava per staccarsi la sbilenca carretta del mare, stracolma di speranze e di disperati pronti a giocarsi tutto all’en plein della vita. Nella nuova patria Kemal si diede subito da fare: manovale, cuoco, strillone, lavamacchine, badante... Qualsiasi lavoro andava bene, ovunque, purché gli desse quello che bastava per tirare avanti la frugale famiglia e gli meritasse l’ammirazione e l’affetto di Sheila, prodiga di dolci abbandoni e di figli sorridenti. Questi lavori precari non davano però sufficiente sicurezza e stabilità al bilancio familiare. Fu così che Kemal cominciò a pensare ad attività meno estemporanee e più stanziali; pur anche stagionali; magari in proprio. Raggranellando i pochi risparmi strasudati, si decise al gran salto verso il lavoro autonomo: d’estate vendeva angurie ghiacciate a fette e d’inverno fumanti caldarroste a cartoccetti. Sbarcava così il lunario, e non solo nelle due piene stagioni: restava pure qualcosa per tirare avanti negli intervalli tra i lavoretti occasionali con cui riempiva le stagioni morte. Non aveva però fatto i conti con l’avanzare inesorabile del progresso tecnologico e del quadro politico internazionale: da una parte la bio-ingegneria genetica, inventando le mini-angurie monoporzione, gli aveva sottratto una grossa fetta (è proprio il caso di dirlo!) di mercato, in quanto la gente, anziché sputacchiare neri semini in compagnia di allegri quanto casuali amiconi notturni nelle piazze, preferiva sbrodolarsi da sola in casa propria, stando comodamente seduta a tifare davanti alla tivù; dall’altra, le nuove ferree norme igieniche a tutela della salute del consumatore, gl’imponevano di arrostire le sue castagne non più sopra la brace covata in un mezzo ex bidone d’olio industriale bucherellato ad arte, bensì in un lustro braciere ipertecnologico d’acciaio inossidabile. Ed anche il coltellino con cui incideva le scorze doveva essere monouso. Costi davvero insopportabili, che erodevano inesorabilmente le sparute risorse economiche di un’impresa di quelle dimensioni! Di fronte alla crisi congiunturale, sorda alle men che elementari esigenze della famiglia - esigenze che aumentavano di pari passo con l’aumentare del numero di figli extracomunitari che annualmente produceva - Kemal si convinse che l’unica via d’uscita era compiere un ulteriore passo avanti: l’occupazione a tempo pieno. Fu così che allargò l’ambito delle sue attività commerciali: agli angoli delle 37 strade vendeva cassette di pesche o di pesce, a seconda delle mezze stagioni; per reclamizzare i suoi prodotti utilizzava un unico cartello, cui toglieva od aggiungeva un’acca, riuscendo così a realizzare significative economie di scala. Una volta che non riuscì a smerciare tutto il pesce e la rimanenza, dopo alcuni pasti domestici, gli andò a male in quanto non aveva frigorifero per conservarla, si ritrovò davanti ad una poltiglia maleolente, rifiutata anche dal più indignato dei gatti randagi: assolutamente inutilizzabile. Ma che era un gran peccato sprecare, pensava. Mentre si arrovellava il cervello per inventarsi il modo di poter riemergere da quella batosta finanziaria che rischiava di buttarlo fuori mercato, Kemal ebbe come una folgorazione: gli balenò in mente l’idea di scartare il marciume del pesce e di recuperare le sole lische, per inserirle poi dentro vezzose formine di surimi2, dall’aspetto simile ai pesciolini rossi dei cartoni animati. Lo slogan “Fish for kids” promosse un prodotto rivoluzionario nel suo genere, solamente da diliscare e mangiare con grande tranquillità, essendo privo di altre spine traditrici. Fu un successone, superiore a qualsiasi aspettativa, in quanto ne rimasero ingolositi non solo i bambini, ma anche gli adulti, che ritrovavano in quei simulacri ittici i variopinti brandelli della loro perduta gioventù, e quindi ne facevano frequenti ed abbondanti pasti simbolici. Le richieste cominciarono a piovere da ogni dove, al punto che Kemal iniziò una raccolta sistematica di lische d’ogni forma e dimensione, dando così avvio ad una vera e propria piccola attività regolare, non ben definibile dal punto di vista normativo: ittico-conserviera? di trasformazione? artistica? La Camera di Commercio optò per classificarla come “industria estrattiva”. Il grande passo verso l’imprenditoria privata era finalmente compiuto! Anche i lussuosi ristoranti specializzati in pesce fresco apprezzavano questo innovativo prodotto, per svariati motivi: la lunga conservazione, la dimensione rigorosamente standardizzata, l’aspetto allegro della pietanza, la facilità di cottura e di servizio, senza più interiora e squame da pulire. Con quelli più importanti si stabilirono addirittura dei veri e propri contratti di buy-back, col riacquisto a prezzi prefissati delle lische - se integre - utilizzate nelle precedenti forniture. A mano a mano che il nuovo pesce si affermava su tutte le tavole, Kemal cominciò a lanciarne delle varianti per soddisfare specifiche esigenze, non volendo trascurare neppure i mercati cosiddetti “di nicchia”: ad esempio, cefali al sapore di tamarindo, di cui si dimostravano ghiotte le belle signore della buona borghesia, oppure una specie di pescepalla colorato di marrone, rosso, verde e oro al sapore di fagiano tartufato, fatto apposta per i cacciatori dotati di mira poco affinata e di palato molto raffinato. Il massimo dei massimi lo raggiunse, però, con il pesce parlante. Era, questo, un buffo delfinotto fucsia e verdino - nelle versioni da sei e da dodici porzioni - studiato appositamente per le feste di compleanno, e che, grazie ad una minuscola batteria ad accumulo di calore che alimentava un circuito elettronico miniaturizzato, non appena si cominciava ad affettarlo si met- teva a fischiare “tanti auguri a te...” fino a quando non si raffreddava. Gli affari andarono a gonfie vele, i soldi arrivarono a palate e Kemal, con la saggezza popolare che l’aveva forgiato in gioventù e sempre accompagnato nella maturità, decise che era giunto il momento di rientrare in patria, per godersi in pace gli ultimi bagliori di vigoria e gratificare il vecchio padre, confortandolo con quegli agi che gli erano mancati da sempre: vendette tutte le sue attività ad una multinazionale americana, imbarcò la sua Sheila con la numerosissima e ben scalata prole sullo strepitoso yacht che si era comprato e fece rotta verso oriente. Attraccò al porto da cui era partito, proprio sotto il paesello natio, un villaggetto senza tempo abbarbicato su per i pendii impolverati di una petrosa montagna, eternamente condannato ad un’asfittica economia agro-pastorale. Al suo arrivo, tutta la gente del luogo - padre in testa corse incontro al redivivo, di cui ben poco si sapeva dal lontano giorno in cui era partito. Furono baci affettuosi, abbracci calorosi, racconti meravigliosi. E fu gioia in ogni casa. Kemal, infatti, aveva pensato proprio a tutto ed a tutti: la grande fortuna di uno doveva essere anche la piccola fortuna di ognuno, foss’anche solo un regalino. Quella notte passò così, tra canti e balli, in gran festa. Il mattino dopo, di buon’ora, Kemal fu svegliato bruscamente da sei miliziani che lo strascinarono senza trop-pi complimenti davanti all’Alta Corte dei Saggi, i quali - venuti a conoscenza della sua trascorsa attività di fabbri-cante di pesci - all’istante decisero unanimemente di condannarlo ad una pena severissima. La motivazione della sentenza fu: «Un uomo non deve fare ciò che può fare solamente Allah». Alfonsina Campisano Cancemi 2 Prodotto alimentare a base di farina di pesce, che si presenta come gommoso impasto bianco, sovente colorato di arancione sulla superficie esterna. È conosciuto anche col nome di polpa dì granchio. 38 La nostra socia e collaboratrice Alfonsina Campisano Cancemi ha vinto la sezione in lingua siciliana del Premio Letterario Nazionale “Ninfa Camarina 2003”, la cui Cerimonia di Premiazione si è svolta il 10 maggio u.s. nella splendida cornice del Teatro Comunale di Vittoria, con la seguente motivazione: «Trasportata in un paesaggio reale e, insieme, irreale da immagini fantastiche e suggestive, l’anima legge un senso di rovina, ma avverte anche la realtà vera del vivere, segnata da un momento di gioia, di tristezza e da quelli in cui il mistero domina con forza arcana la vita; i momenti belli e tristi scandiscono il tempo, quelli intimi e solari illuminano la vita. Il fluire incessante e vorticoso del tempo, la coscienza dell’ignoto, la precarietà di ogni cosa, è resa dall’atmosfera suggestiva che scolpisce e sfuma le immagini, dall’armonia intuita delle parole, dalla trama musicale dei versi che, concitata e immediata, rende bene il perenne correre del tempo. Il ritmo, dai suoni gravi per il tempo che tutto travolge, acquista suoni argentini, brillanti per i ricordi che occupano l’anima; quelli che il tempo non ci può rapire. Le espressioni semplici, di tutti i giorni, in una buona forma dialettale, conferiscono alla poesia una musicalità primordiale intraducibile». Nel corso del 2003 ha ottenuto inoltre i seguenti riconoscimenti: 1° premio per la poesia e 3° per la narrativa al Concorso Arte e folklore di Sicilia di Catania; 2° Concorso Nazionale Maggio Pontelongano; 3° Concorso Letterario Nazionale Valeria di Cittaducale (RI); 4° Premio Letterario internazionale L’artigiano poeta - Caltanissetta; 5° Premio poesia 2003 di Catania; 6° Concorso Letterario-artistico Città di Avellino; Segnalazioni Abbazia cistercense del Cerreto - Abbadia Cerreto (Lodi), Premio Internazionale Giorgio La Pira di Pistoia; Menzione d’onore al Premio Il Convivio 2003. delle sue parole corrisponde la mia violenza fisica» questo il suo teorema… logico secondo alcuni. Ma Francesca tornò a casa, anche perché aveva capito che nessuno, nemmeno i suoi eroici fratelli l’avrebbero aiutata e difesa e che le prendevano i pochi soldi che aveva con sé per fare la spesa per il suo “mangiare”. Come avrebbe potuto farcela senza “niente”, senza un solo centesimo di suo, già perché quasi sempre lei veniva picchiata quando si ribellava all’avarizia di lui e, nonostante avesse cresciuto i figli e si fosse prodigata ad aiutarlo nel suo lavoro, lei non possedeva nulla, proprio nulla, nemmeno una minima eredità dei suoi genitori che non c’erano più. E si ricamò un ritorno a casa da sposa innamorata, ma chissà… se avesse potuto scegliere! La dignità di Francesca di Viola F. Quel giorno che Francesca perse la dignità era febbraio e c’era una leggera nebbia. Erano circa le 19.00, tornava da una drammatica seduta da uno psicoterapeuta dove era andata di nascosto del marito. Era la prima volta che si avvicinava a queste figure, ne aveva sempre avuto diffidenza. Ma, finalmente, si era aperta ad un’amica e per la prima volta aveva confessato il suo drammatico segreto: suo marito la picchiava, anche davanti ai figli. Lei, ormai stanca, aveva deciso di reagire. Quella volta non era stata come le altre che alla fine aveva sempre perdonato, magari riempiendosi di rancore e soprattutto di sfiducia verso se stessa, quella volta aveva da pochi giorni perso sua madre, aveva lei stessa la morte nel cuore e quella violenza era stata incommensurabile. L’amica, stupita, si era subito messa in movimento e, attraverso la sua rete di conoscenze, le aveva procurato questo incontro con lo psicoterapeuta. Egli le aveva subito detto: «Se non coinvolgi tuo marito non potrò fare nulla per te» e poi le aveva sentenziato che era stata amata nel modo sbagliato proprio da quella madre che lei tanto piangeva e dalla sorella maggiore, materna a sua volta, ma che l’avevano fatta sentire, con i loro continui rimproveri, sempre inadeguata, mai all’altezza delle sue responsabilità. E pensare che lei si era sentita tanto caldamente amata da queste figure: si era sentita una principessa, coccolata, rassicurata e protetta e forse aveva deciso di non crescere per non perdere questo tipo di amore! Ma a sentirsi sentenziare: «Ti hanno amato in modo sbagliato» lei pianse tanto e disperatamente. Tornata verso casa con l’animo ed il viso disfatti, pensò di passare dal marito per assicurarsi che tutto fosse tranquillo e non avesse sospettato nulla. Egli le venne incontro insospettito dai silenzi e dalle incerte scuse della sorella, custode momentanea dei figli: «Dove sei stata?». Il viso contratto e cattivo, o forse sofferente… chissà!? E lei glielo disse. Immediatamente una ferocia inaudita si abbatté su di lei. La colpì con una ferocia mai usata, calci, pugni, fino in mezzo alla strada. Forse la leggera nebbia e l’oscurità della sera avranno pietosamente distratto i vicini, ma lei non potrà mai averne la certezza. Solo le macchine passavano. Una si fermò. Vedendo quella violenza lì sull’asfalto, il conducente scese dalla macchina, s’infervorò contro quel bruto, ma questi lo scacciò dicendogli che «lei se lo meritava» ed il passante, brontolando, ripartì. Lei tornò a casa, chiamò il fratello, ai suoi occhi era ancora un soldato eroico e rassicurante e decise di andare all’ospedale. Anche lì perse la dignità per le domande e gli sguardi curiosi di chi certo ti conosce. Poi partì la denuncia d’ufficio presso i locali carabinieri che si prodigarono fin troppo con interrogatori ai testimoni citati ed a Francesca. La cosa fu lunga finché lei si stancò e ritirò tutto. Nel frattempo se ne era andata di casa, ma senza figli, quindi la lacerazione e i sensi di colpa verso di loro si facevano più grandi man mano che i grossi lividi neri si schiarivano e perché qualche “mediatore” le riferiva che lui soffriva molto, che si sentiva a sua volta violentato dalla durezza delle parole di lei. La sua spiegazione: «Alla violenza Il Convivio e Omero È possibile creare un movimento letterario e sociale a carattere internazionale? Nel sodalizio tra le realtà di Omero e Il Convivio, ormai conosciute sia in ambito nazionale che internazionale, le due Redazioni hanno composto questa nota in quanto si vuole stimolare e coinvolgere i soci di entrambe le riviste e gli eventuali lettori presenti nelle varie realtà culturali, mirando ambiziosamente a sviluppare un pensiero aperto e universale, verso un movimento letterario più unitario, nel comune intento di partecipare ad un rinnovamento culturale e sociale che si auspica a livello nazionale e internazionale. Sulla scena internazionale, specialmente in America Latina, vi è un proliferare di autori, artisti e riviste che si affermano come portatori di valori alternativi alla cultura ufficiale. E ciò nonostante le grandi contraddizioni sociali (o forse proprio perciò?) che, sotto la pressione delle multinazionali gestite dagli Stati Uniti, hanno portato le popolazioni latinoamericane a un crescente degrado e povertà. Si pensi alle gravi crisi economiche di Argentina, Ecuador o Venezuela, le cui ricchezze finiscono regolarmente in altre mani, o all’embargo trentennale imposto su Cuba. In situazione ancora più disperata dell’America Latina si trova l’Africa, dove, oltre alla miseria, alle guerre e alle malattie endemiche, anche in campo culturale è stata cancellata la grande tradizione letteraria e artistica di un trentennio fa. Ma anche nel resto dell’ancora chiamato Terzo Mondo, i paesi poveri diventano sempre più poveri. Sotto la regola del mercato e del profitto sono stati calpestati i loro valori umani e le loro tradizioni culturali. La presenza di un forte movimento “No Global” è espressione di tale realtà. In tale contesto, è giusto impegnarsi per un rinnovamento letterario, artistico e culturale in generale, che sia creativo e umanista, unitario e cosmopolita, consci di dover affrontare l’arcipelago delle diversità, la stagnazione culturale e la schiacciante realtà dei grandi mezzi di diffusione, dominati dalla sola mentalità del profitto. 39 china. Tutti trattengono il fiato volgendo altrove lo sguardo per non insospettirlo; ma l’uomo non si accorge di nulla e si allontana rapidamente. Con un sospiro di sollievo il gruppetto torna ad osservare la bestiola che continua nei suoi sforzi e, ormai, sembra avere buone possibilità di riuscire. A bassa voce, sempre attenti a non farsi notare, ormai fortemente partecipi alla sorte di quell’esserino coraggioso, quelle persone che fino a pochi minuti prima non si conoscevano, improvvisamente solidali, si scambiano impressioni: «Ormai ce l’ha quasi fatta!» dice uno. «No, deve ancora uscire la testa» dice un altro. Ma d’un tratto, senza che nessuno l’abbia notato, torna il pescatore che si era allontanato poco prima. Ammutoliscono, di nuovo, tutti. Il giovane ha già messo un piede sul bordo della barca e sta per saltarvi dentro, quando lo sguardo gli cade sul disgraziato polipo che, ormai, sta completando la sua fatica. Rapido, l’uomo si china e, afferrata la povera bestiola, con un brusco strappo, la tira definitivamente fuori dal buco. «No...». Un grido si leva dal gruppetto che ha seguito fino a quel punto i faticosi progressi di quel coraggioso esserino lattiginoso. «Lo lasci libero!» implora una ragazza «ha fatto tanta fatica per liberarsi...». Il marinaio la guarda un po’ infastidito, poi guarda ad una ad una quelle facce che lo osservano ansiose sperando in un gesto di clemenza. «Anch’io» dice poi a bassa voce «anch’io ho fatto tanta fatica per prenderlo e mi sono alzato all’alba». Quindi getta il polipo nella cesta insieme ai suoi disgraziati fratelli e salta, di nuovo, dentro il peschereccio senza più voltarsi. Nessuno dei presenti parla più e, a poco a poco, ognuno riprende la sua strada, in silenzio, ma con una sensazione di disagio che induce ad allontanarsi da quel luogo al più presto. Ognuno è tornato un estraneo per l’altro: queste persone che, fino a qualche minuto prima, si sono scambiati impressioni e commenti, ora evitano perfino di incrociare gli sguardi. In fretta il gruppetto si disperde. La luce della sera, ormai, sta perdendo la sua luminosità, il cielo non è più così azzurro, né il mare così splendente. Un altro giorno sta avviandosi alla fine. Il polipo di Laura Caleri Falcone Un pomeriggio di maggio a Castiglion della Pescaia: è una giornata limpida, con un cielo terso di un incredibile azzurro, che si rispecchia in un mare calmo, appena increspato da una brezza leggera. L’aria è fresca e frizzante, scarsi i turisti che si godono la tranquillità che, certo ancora per poco, regna nella cittadina balneare. I pescherecci stanno rientrando con il loro carico ancora guizzante e, ad uno ad uno, stanno attraccando alla banchina. Alcuni curiosi si avvicinano ad un barcone che ha appena gettato le ancore e si accinge a compiere le operazioni di ormeggio. La pesca è stata buona: le cassette piene di pesce ancora vivo sono accatastate le une sulle altre. I marinai, a torso nudo, con la pelle bruciata dal sole, i muscoli segnati da anni di fatiche, si affaccendano con gesti rapidi e sicuri, senza badare agli spettatori. I gestori delle pescherie che aprono sul porto, intanto, sono usciti dalle loro botteghe e stanno prendendo contatto con i marinai: osservano il pesce, valutano la merce, contrattano il prezzo. I curiosi sono aumentati di numero: i passanti che sopraggiungono, attratti da quell’animazione, si fermano a loro volta e, in breve, una piccola folla si assiepa lungo il bordo della banchina. A un tratto un uomo del gruppo addita, senza parlare, qualcosa che si muove sul fianco del peschereccio, all’esterno, appena sopra il cornicione di legno che cinge la chiglia della barca: è qualcosa di bianco lattiginoso, serpentino, che esce da un piccolo foro, meno di due centimetri, e si muove allungandosi a poco a poco. Dopo qualche secondo un altro filamento, simile al primo, si affaccia al foro e, faticosamente, si allunga anch’esso: sono due tentacoli di un polipo; evidentemente la bestiola è caduta dalla cassetta e, trovandosi in prossimità del buco, sta tentando la fuga. L’attenzione di tutti e ben presto catturata da quel piccolo essere che sta cercando, disperatamente, di riguadagnare la libertà, anche se ognuno sta cercando di fare l’indifferente per non attirare l’attenzione dei pescatori. Poiché, inutile dirlo, tutti sono immediatamente dalla parte del polipo e tifano per lui che, intanto, pazientemente, continua la sua opera verso la salvezza, tentacolo dopo tentacolo, con lentezza, con evidente difficoltà e con grande fatica, ma con una determinazione che sembra voler annullare le leggi della fisica. «Non può farcela!» dice, infatti, a bassa voce un uomo del gruppo, «la testa non può passare da quel buco, è troppo piccolo!» L’animaletto, però, continua il suo paziente, faticoso, lavoro, finché tutti i tentacoli sono fuori. Comincia, allora ad agitarsi per fare uscire il corpo. Con movimenti costanti, contorsioni, avvitamenti, anche la parte superiore, a poco a poco, incredibilmente, sta venendo fuori. La piccola folla comincia a sperare nella riuscita di quell’impresa che sembrava disperata. Non è più un polipo quello che stanno guardando, ma un essere che sta lottando per restare vivo e lo fa con tale coraggio che, sicuramente, merita di riuscire nel suo intento. Improvvisamente un giovane pescatore mette un piede sul bordo dell’imbarcazione e, con un balzo, salta sulla ban- Lattarulo Manola, Notturno (olio su iuta, cm 120x80) 40 risolto tutto ciò. Non voglio rifare il percorso. Che si arrangino tutti. Avrò Pietro e la mia libertà, come le capricciose nobildonne di un tempo, non così lontano, che ottenevano tutto con piccole adorabili menzogne ed erano venerate perché... “cosi femminili!!!!!”. Ma ora che hanno raggiunto la parità con noi donne, questi uomini del ventunesimo secolo, stentano a tenere il passo, scivolano indietro, farfugliano di sottomesse donne orientali (vedrete, vedrete cosa riservano fra non molto ai “loro” uomini quelle acque chete). Torniamo alla mia giornata al mio risicatissimo tempo libero. Dunque, se scelgo Pietro devo, posso e voglio continuare ad essere me stessa. Ma, come si sa, essere libera è una cosa, avere tempo libero è un obiettivo da raggiungere e mantenere come un record sportivo. È questo che continuo a ripetermi mentre marcio a grandi passi verso la mia palestra quotidiana: oasi di stordimento fisico e mentale contemplazione incredula di bicipiti esibiti al posto del cervello, scempio di pance e sederi extralarge, croce per i timpani e delizia per la mia mente finalmente svuotata, in un labile relax promiscuo. Ecco, lascio l’ombrello ed entro: le nostre nonne si accostavano alla chiesa con la stessa necessità di ritagliarsi uno spazio solo per sé: loro credevano di curare l’anima, noi crediamo di curare il corpo. Ma ora come allora dobbiamo fuggire di casa, trovare uno stadio per tifare o per tirar calci: le nonne lo sapevano bene, ma non abbiamo voluto ascoltarle, e ora ci tocca pedalare... intanto nessuno può raggiungerci, siamo protette, al sicuro. Almeno per un’ora. La messa quotidiana. Gli esercizi spirituali. Il mese di maggio... Ora tutto è più chiaro... La beauty-farm. Il massaggio. Il parrucchiere: luoghi di culto per l’anima stressata e sempre on-line. Eppure nell’altra metà del mondo le donne non potevano andare alla Moschea, tanto meno da altre parti... Questo nodo è molto grosso, e porta solo guerre e disperazione. Le nostre sorelle d’Oriente cominciano a svegliarsi: l’onda anomala potrebbe travolgere tutto. Oppure no. L’onda potrebbe ritirarsi e portare via con sé lo chador e i pregiudizi, l’odio e la violenza. Il mio tempo è scaduto. Devo uscire dalla palestra. Verranno altri a scaldarsi i muscoli. Ai miei piccoli grandi drammi anch’io, come Rossella O’Hara, ci penserò domani. Donne in occidente Breve racconto filosofico di Adriana De Vincolis La mia lunga ed intensa giornata sta per cominciare: colazione, lettura dei giornali, controllo delle e-mail, uno sguardo al cellulare e alla segreteria telefonica, caricare la lavatrice, preparare il risotto, portare l’auto in officina... Quante diavolerie bisogna tenere d’occhio, ci vorrebbero due segretari, un assistente personale, un cuoco, un autista, una governante... e forse finalmente potrei dedicarmi alla stesura del mio libro più difficile e alla mia vita privata. Primo obiettivo: trovare un editore che mi finanzi in modo decente, che paghi il mio tempo più che il mio lavoro. Occorre inoltre far spazio, mollare i finti amici, far tacere telefoni e citofoni, ignorare le richieste di partecipazioni a manifestazioni ladre di tempo. Dedicare un solo giorno alla vita sociale, all’amore, ai veri amici. Se mi amano, capiranno. Recidere tutti i cordoni, tagliare anche le spese e regalarsi una lunga vacanza fra le accoglienti comodità di casa propria e chiudersi a lavorare, fingendosi malate se è il caso rischiando la solitudine e la perdita di contatti umani essenziali. Ma certo se avessi fatto così non avrei rivisto Pietro, non avrei cenato con lui ieri sera, ed ora non avrei la serenità necessaria per mettermi a scrivere almeno due ore filate. Capisco perché gli uomini di talento, di sicuro anche quelli geniali, o vivono da eremiti o sposano delle insulse sciape signore paesanotte perbene silenziose fedeli nerovestite: si mettono in pace loro! Bene. Oggi, nell’AD. 2000, voglio farlo anch’io: non sposerò Pietro, sanguisuga di tempo e di energie. Troverà un dolcissimo sordomuto, servizievole e mieloso, amante di pasti frugali ma non di bambini, che mi guardi adorante e si annulli nell’ombra al calar della sera, riparandomi da TV e parenti, telefoni ed e-mail, compleanni e natali... «Perché non rispondi?! Dài Amanda, svegliati è già tardi, avevi promesso di venire al mare!». Rabbiosamente sollevo la cornetta, ma subito mi calmo: «Pietro, scusa, ho fatto un bagno caldo, mi sento così raffreddata. Ci vediamo stasera... Vuoi?». «Ecco, ci hai ripensato, come sei insicura Amanda. Cosa devo fare per convincerti che solo tu sei nei miei pensieri?!». A quest’adorabile ganzo non passa neppure per la testa che io ho una mia vita interiore, esigenze improrogabili e solo mie. A lui sarebbe bastato per scusarsi una banale riunione di lavoro, magari autentica (gli uomini, a furia di inventarseli, gli imprevisti di lavoro finiscono per renderli reali). Le donne - quelle come me intendo - devono rinunciare alla carriera, ai figli, ad un lavoro regolare; e quando hanno risolto tutto questo, scoppia loro fra le mani il ricattuccio sentimentale del maritoamantecompagnoamico che è lì per lei, tutto per lei, solo per lei. Che palle, ragazzi, arrivare a questa età e doversi scusare (?!) con qualcuno per una manciata di ore libere, utili a far funzionare quel cervello tanto odiato da questi piccoli uomini... Mi fermo. Esco dal pensiero. Sono in ritardo di trent’anni. Le nostri madri negli anni ‘70 avevano combattuto e Vinia Tanchis La poetessa Vinia Tanchis ha ottenuto nel corso dell’anno diversi riconoscimenti letterari, tra cui si ricordano: 2° premio con megalia d’oro e diploma al Premio Letterrario Spazio-Donna (Striano - NA); Targa l’Iride, centro d’arte e cultura, Premio letterario Cava de’ Tirreni; Menzione d’onore Premio Lett. Il Convivio 2003; 7° premio - Premio Internazionale Versilia 2003 – Viareggio; 4° Premio con targa e diploma Concorso nazionale città di Rufina (Firenze) - Premio di poesia Gian Carlo Montagni. 41 Autori Stranieri in Rodolfo Virginio Leiro: Duendes y Nelumbios-Poesías Spagnolo di Maria Enza Giannetto Benjamin Valdivia:Argumentos Il poeta argentino Rodolfo Virginio Leiro, già noto per il suo enorme bagaglio bibliografico di pubblicazioni, si presenta ai lettori con una silloge poetica altamente toccante sia per il tema trattato che per l’ingegno poetico dell’autore (Duendes y Nelumbios - Poesías, ediciones Amaru, Buenos Aires 2003). Una breve silloge di poesie nata con lo scopo di raccogliere tutte le liriche e le “ultime parole” che il poeta dedicò alla figlia e alla moglie ora scomparse. Liriche di immensa nostalgia che lasciano trapelare i profondi sentimenti del padre e del marito Rodolfo Leiro. Pur trattando dolore, sofferenza e morte, la silloge è pervasa da un profondo sentimento positivo, di accettazione e di pacata rassegnazione. È come se le due donne gli fossero ancora vicino (la silloge è, infatti, intitolata agli spiriti buoni) con le poesie di questa silloge, in cui si alternano delle quasi ninnananne per la figlia e delle appassionate e affettuose liriche d’amore per la moglie. Una poesia nata per ottemperare alla necessità di quell’eterno “scambio di amorosi sensi”. Emergono dei quadri ben delineati di queste due donne (“mis dos princesas”) intorno alle quali ruotò la vita dell’autore e ruota ora il perpetuo ricordo. E nel ricordo rivivono le protagoniste rendendo queste liriche, impostate sull’assenza, dei veri e propri inni alla loro immortalità. Dolore, assenza e immortalità si incontrano e si mescolano nei versi di Leiro: «me abate, me corroe, me desploma / el perpetuo vacío de tu ausencia» (mi abbatte, mi corrode, mi fa crollare / il perpetuo vuoto della tua assenza). Un’eternità che non ha nulla però dello spirito religioso che spesso accompagna questo genere di liriche. Anzi c’è nel proposito stesso dell’autore l’impegno a sostenere le sofferenze che la vita gli ha riservato con stoica accettazione e lontano da qualunque credo religioso. Nella sezione intitolata “El perdòn”, si legge addirittura il suo totale ateismo o meglio la totale abnegazione di un essere superiore che secondo il poeta non esiste affatto, ma che se esistesse sarebbe soltanto l’“artifíce nefasto de mis días” e dovrebbe rendergli conto delle sue pene e dei suoi dolori, spiegandogli il perché di tanta sofferenza. Una vera e propria sollevazione e rivolta verso il destino, quasi a dire io accetto ma non perdono. para la retorica (Argomenti per la retorica) di Vincenzo Campobasso Tra vari altri libri di poesia francese inviatimi dal nostro direttore Angelo Manitta, mi è pervenuto anche “Argumentos” dell’autore messicano Benjamin Valdivia. Libro che non é precisamente di poesie. È però composto di circa ottanta pagine serrate di aforismi. Aforismi... poetici. Nel senso che, pur trattando di filosofia (un po’ filosofia del linguaggio, un po’ filosofia esistenziale), il modo in cui Valdivia ne tratta è sicuramente poetico. Parlarne, così, per sommi capi, non può dare la giusta dimensione del contenuto del libro, non può rendergli giustizia; ma l’esiguità dello spazio tiranno obbliga a non spaziare (laddove forse varrebbe la pena che l’opera fosse compiutamente tradotta per essere presentata, in italiano, a coloro che, esperti o profani di filosofia, non conoscono la lingua spagnola). «En principio, todo pensamiento es argumentalmente inconsistente» (in principio, ogni pensiero è argomentabilmente inconsistente), dice, come ipotesi di lavoro, e, a chiusura del cerchio, dopo il lungo percorso in cui coglie, se non tutte, almeno la massima parte delle sfaccettature della retorica, conclude che «en ultima in-stancia, todo pensamiento es argumentalmente consistente» (in ultima istanza, ogni pensiero e argomentabilmente consistente). Ma, giusto con qualche esempio, ecco cosa dice della retorica. «La retorica - traduco direttamente - consiste nel dare un colorito appetitoso alle nostre cose che consideriamo accettabili per tutti! La retorica è un veleno salutare!... la saporosa degustazione dei nostri effimeri pensieri...». Però “la retorica è perversa”, tanto è vero che, per esempio, «l’importante della verità, per la retorica, non è la verità in sè, bensì la forma in cui si presenta» ma «non perché alla retorica non interessi la verità, bensì perché ogni verità in sé, include una maniera di presentare in società questa verità in sé». O ancora «è falsa l’idea che la retorica è falsa». Insomma, la retorica è tutto e il contrario di tutto. In ogni caso, rappresenta il «nostro argomento per convincere la totalità che noi siamo necessari nel piano dell’universo». Solo «la poesia non è retorica, poiché le sue immagini non si postulano per convincere! La poesia utilizza la retorica come una sposa che adorna con fiori un nastrino nel suo corredo. E a volte il corredo demerita rispetto all’ornamento». Las flautas La Redazione si scusa per avere, nel numero precedente del Convivio, attribuito erroneamente a Rodolfo Virginio Leiro la poesia “Ahora” di Efrain Barbosa, e attribuito ad A. Benjelloun la poesia “Rinascimento” di Denise Barnhardt 42 I flauti La flauta de la noche sus notas de remansos, de espacios siderales labraba en fulgurante arpeggio de descanso. Il flauto della notte le sue note ristagnanti, di spazi siderali operava in folgorante arpeggio di riposo. La flauta de la Aurora, su música de albas, de soles colosales, tesones inmortales, ungía en melodias de brazos y de palmas. Il flauto dell’Aurora, la sua musica di albe, di soli colossali, costanze immortali, ungeva in melodie di braccia e di palme. Aniquirona, poesie (Colombia 2003). Hoy tambien es primavera (Spagna) de Manuel González Alvarez Oggi è anche Primavera Trad. di Angelo Manitta L’autore, nato a Neiva Huila nel 1969, è poeta e presentatore della radio. Ha ottenuto in diversi concorsi menzioni d’onore ed è stato premiato più volte, ottenendo spesso il primo posto. La sua poesia è animata da una violenta serenità. Questo contrasto evidenzia il suo intento, cercando di presentare situazioni di una realtà variabile, e soprattutto ricostruire il significato delle cose attraverso la liricità della sua creazione, ma anche attraverso un afflato religioso che trae spesso spunto dalla Bibbia, evocando sogni e tormenti, pene e felicità. Aniquirona è un mondo tutto a parte, tutto a sé stante, è il mondo che ha visto nascere e crescere il poeta, ma che ha visto scaturire le sue idee e le sue emozioni. Schuaima è più che un mondo onirico, si tratta di una forma reale di estraniazione con la proposta costante di dare segnali di vita, tanto da sfociare in una forma di misticismo e di trascendentalismo a priori. Hoy están tristes mis palomas hoy están tristes mis jilgueros, hoy se me mueren de pena los gorriones de mi huerto. Hace días que no duermo. Los pájaros siguen pasando y nadie se para a verlos. ¡Otra Primavera triste ! Se vislumbran nuevas guerras, la gente se mata y mata por un palmo más tierra. ¿Pero que han hecho esos niños? ¿Pero que han hecho esas viejas ? Pero que está haciendo el mundo que no prohibe las guerras, que dejan niños sin padre y a madres sin hijos dejan. ¿Es qué no saben pensar en rosas o en Primaveras? En lugar de esos misiles que siegan y nos aterran, los pájaros siguen pasando. Han nacido nuevas guerras, los pájaros siguen pasando. ¡Hoy también es Primavera! Oggi sono tristi le mie colombe oggi sono tristi i miei cardellini, oggi mi muoiono di pena i passeri del mio orto. È da giorni che non dormo. Gli uccelli continuano a passare e nessuno si ferma a vederli. Un’altra Primavera triste! Si scorgono nuove guerre, la gente si ammazza ed ammazza per un palmo di terra in più. Ma che hanno fatto quei bambini? Ma che hanno fatto quelle vecchie? Ma che sta facendo il mondo che non proibisce le guerre, che lasciano bambini senza padre e lasciano madri senza figli? È che cosa non sanno pensare tra rose e Primavere? Invece di quei missili che falciano e ci atterriscono, gli uccelli continuano a passare. Sono nate nuove guerre, gli uccelli continuano a passare. Oggi è anche Primavera! Winston Morales Chavarro, Cayetano Ferrari, Cuentos lacó- Mis hijas: Emita, Yuly y Delly de Emma Villarreal de Camacho nicos, (Argentina, 1988). Si tratta di un volume di racconti pubblicati dallo scrittore argentino, ma nato in Italia a Frascinetto, in provincia di Cosenza, ed emigrato in quella nazione, ancora bambino, nel 1938. Il Ferrari ha pubblicato ben dieci volumi, è inserito in decine di antologie ed ha vinto numerosi prestigiosi premi letterari. Ha esercitato la professione di chimico farmaceutico. Y si el amor nos eterniza? di Elda Alonso (Uruguay) Amor es fragua que eterniza, llama que arde y no consume, de malezas nos cierne y desliga, en el sufrimiento y dolor es lumbre. Nos despoja de todos los rencores, a los pensamientos los perfuma, engendra alegría a borbofones, en los ojos nos plasma la ternura. A la soledad le da paz y sosiego, al silencio lo habita de rumores, al espiritu lo colma en sus delicias. Amor, que da luz a los ojos ciegos, Amor, que aclara la más oscura noche, Amor, que con Dios nos eterniza. Le mie figlie: Emita, Yuly e Delly trad. di Angelo Manitta (Messico) Bondad y firmeza auténticas hijas del trabajo con pocas fiestas Sobrellevaron el peso de un hogar con muchos rezos ángeles y vírgenes abundaron muy adentro y salimos adelante con su ayuda y el Padre Nuestro Dios las premie con muchos bienes les dé amor y lujos que no tienen La Virgen María las proteja en sus vidas de realeza y el hogar en el que estuvieron tenga luego diamantes para ustedes en excelencias nada tristes. *** Azucenas de primavera oro que llega... han sido mis hijas también luces y centellas Sus cosas y sacrificios a veces con oasis en el camino han pasado los años y aprendiendo han sobrevivido Perlas que surgieron contra corrientes dolientes siguen como tesoro que luce siempre en mi mente. 43 Bontà e fermezza autentiche figlie del lavoro con poche feste Hanno sostenuto il peso di una casa con molte preghiere angeli e vergini hanno portato dentro l’abbondanza ed andiamo avanti col loro aiuto e del Padre Nostro Dio le premii con molti beni dia loro amore e lussi che non hanno La Vergine Maria le protegga nelle loro vite di regalità e la casa in cui sono state abbia diamanti per voi in eccellenze per nulla tristi. *** Gigli di primavera ricchezza che giunge... sono state le mie figlie anche luci e scintille Le loro cose e i loro sacrifici a volte con oasi durante il cammino hanno oltrepassato gli anni ed imparando sono sopravvissuti Perle sorte contro correnti dolenti avanzano come tesoro che brilla sempre nella mia mente. Patrizia Colajanni trad. spagnola di Francisco Alvarez Velasco trad. portoghese di Andityas Soares De Moura La sabbia La arena A areia Le sponde di sabbia rovente si assottigliano all’ondeggiare del mare; si tingono del bianco sale marino ma, subito dopo, tornano a riflettere [il dorato sole. Gli occhi miei non vedono più nulla quando si scontrano con i suoi [riflessi d’oro. Prendo in mano la sabbia; ogni [granello giallo non è una suppellettile, ma un microcosmo pulsante [di vita propria. Mi cade dalle mani; ho perso un mondo che mi apparteneva. Lo rincorro, ma ormai si è confuso con l’immensa spiaggia. Adesso me ne [rendo conto: non era mio; apparteneva a se stesso. Las orillas de arena candente se reducen con las olas del mar; se tiñen de blanca sal marina, mas, de pronto, tornan a reflejar [el dorado sol. Mis ojos no ven nada cuando se encuentran con los [reflejos de oro. Tomo puñados de arena; cada [grano amarillo no es un adorno, sino un microcosmos palpitante [de vida propia. Se me escurre de las manos; he perdido un mundo que me pertenecía. Lo busco, pero ahora se confunde con la inmensa playa. No lo [sabía: no era mío; se pertenecía a sí mismo. As margens de areia candente adelgaçam-se com o ondear do mar; tingem-se do branco sal marinho mas depois, súbito, voltam a refletir [o dourado sol. Os meus olhos já não vêem nada quando se encontram com os seus [reflexos de ouro. Pego na mão a areia; cada [grão amarelo não é um móvel, mas um microcosmo pulsante [de vida própria. Cai-me das mãos; perdi um mundo que me pertencia. Persigo-o, mas já se confundiu com a imensa praia. Agora me [dou conta: não era meu; pertencia a si mesmo. París Paris Je t’aime Parigi, je t’aime. Non posso spiegarmi ciò che provo [vedendoti. Je t’aime París, je t’aime. No puedo explicar lo que siento [al verte. Je t’aime Paris, je t’aime. Não posso explicar-me o que sinto [vendo-te. Ammiro le austere volte delle tue [infinite chiese e mi diletto a cercare la cima della Tour Eiffel, nel sole caldo [di agosto. Admiro las austeras figuras de tus [infinitas iglesias y me deleita descubrir la cima de la Tour Eiffel, en el sol caliente [de agosto. Admiro as austeras abóbodas das tuas [infinitas igrejas e me deleito a buscar o cume da Tour Eifel, no sol quente [de agosto Je t’adore Parigi, je t’adore. Mi sei nel cuore e ti porterò sempre con me Mia piccola, grande Parigi. Vorrei che il tempo si fermasse e tornassero i momenti [della Rivoluzione, quando le tue strade erano macchiate dal sangue del tuo popolo. Tu sei sempre splendente, anche quando il fiume impetuoso ha travolto la prigione inespugnabile. Tu sei sempre stata forte. I traditori non ti hanno piegata e Tu hai sorretto le catene spezzate [del sopruso. Libertà, eguaglianza, fraternità: questo racchiude la reggia e questa è Parigi. Je t’adore París, je t’adore. Vives en mi corazón y te llevaré siempre conmigo, mi pequeño, gran París. Quisiera que el tiempo se detuviera y tornara la hora [de la Revolución, cuando tus calles se mancillaban con la sangre del pueblo. Tú resplandeces siempre, aunque el río impetuoso ha arruinado la prisión inexpugnable. Tú siempre has sido fuerte. Los traidores no te han doblegado y has izado las cadenas rotas [de la humillación. Libertad, igualdad, fraternidad: esto encierra el palacio y éste es París. Je t’adore Paris, je t’adore. Estás em meu coração e sempre te [levarei comigo Minha pequena, grande Paris. Queria que o tempo parasse e voltassem os momentos [da Revolução, quando tuas ruas eram manchadas pelo sangue de teu povo. Tu és sempre resplandecente, mesmo quando o rio impetuoso subverteu a prisão inexpugnável, Tu sempre foste forte. Os traidores não te dobraram e Tu sustentaste os grilhões quebrados [do abuso. liberdade, igualdade, fraternidade: isso encerra a realeza e essa é Paris. Parigi 44 Umbelina Frota: Portoghese poesia e sentimento Certas respostas di Angelo Manitta di Cardoso Tanussi Umbelina Frota, scrittrice brasiliana, autrice di diversi volumi, presentiamo in particolare, Ás Sombras do fatobá, Apenas uma lembrança, Viagem ao passado. Il primo volume è un libro che sorprende per la qualità del contenuto e per la vivacità delle poesie. L’autrice riunisce qui alcune delle sue migliori liriche che la confermano come una delle maggiori scrittrici delolo stato del Goiás. Anche il secondo volume è una silloge, con dei disegni. Qui appaiono due condizioni indispensabili della poesia di Umbelina Frota: la domanda e il dubbio da una parte e lo scrivere per necessità, quasi d’istinto, dall’altra parte. «Tra le sue fonti d’ispirazione c’è la famiglia, il lavoro, i tormenti, i ricordi. In ogni persona incontra forti tracce di dolore e amore. Al contrario di molti sentimentalisti che non vogliono valorizzare i propri lamenti, Umbelina lo fa e molto bene» scrive nella prefazione Valdemes Menezes. Nel terzo volume, in prosa, è come aprire le porte del tempo, come attraverso un film che permette di riandare indietro ad alta velocità. Un passato che si fonde con il presente attraverso la memoria. Pelo prazer, pelo desprazer para experimentar e doer para de amor não morrer pra ficar de bem comigo, pra ficar de mal comigo pra ficar comigo pela palavra céu, pela palavra flor, pela palavra terra pela palavra pedra, pela palavra qualquer pela palavra por tudo que é certo e que medra por tudo que é bom e se enterra pela cor e pelo riso para dar voz aos não-vivos para espantar os fantasmas por Leticía e por Isaura por João e por Narciso pelo aprendizado do homem, pelo aprendizado do pássaro pela forma e pela fôrma pelo mar da metafora pela aventura, pela desventura pela desconstrução da morte, pela arquitetura da vida pelo humano pelo que está por trás do pano pelo sagrado, pelo profano por Deus e o diabo-a-quatro pelos santos sem pecado pelo pecado pelo absurdo, pelo susto porque acredito no sexo e no parafuso pela inútil beleza do nome porque creio no pai, na mãe e no lobisomem porque invento o que digo e inverte o que sinto porque existe o osso e o paradoxo porque tenho culpas ancestrais porque acredito em Deus, e não pela insônia porque respiro o sono dos injustos pela estultícia pela agonia de sobreviver a tudo porque sou funcionário público pelas noticias do rádio pelo concreto querer, pelo poder abstrato pela explosão do desejo, pela intimidação do ego por dinheiro, por sucesso pela máquina que forja o que vomito e piro porque suspiro pelo que está à margem, na igreja, na prisão e no hospicio porque lirico porque cínico porqne perversoporque mar porque deserto por ser único e ser primevo porque escravo porque liberto escrevo. Per favore Tieni la mia mano, per favore, tienila. Mi sento sola, molto sola, cerco una mano amica, fiduciosa, per poter andare avanti. Tienimi! Abbracciami! A volte mi sento cadere, contorcere di solitudine, Io grido, nessuno risponde, solamente la notte, con il suo silenzio e la sua oscurità solo una stella che brilla, quasi volendo mostrare la strada da seguire. Io cammino da sola, come un tempo, singhiozzando come sempre. Io sento freddo nell’anima, solamente una lacrima mi calma. Solamente, solamente!... Il cuore si lamenta: Prego! Ascolta il mio grido! Tieni la mia mano, per favore, tienila!.. Testo portoghese: Segura minha mão, / por favor, segura, / sinto-só, muito só, / quero uma mão amiga, confiante, / para que possa ir adiante. / Segura-me! / Abraça-me! / As vezes sinto-me cair, / a contorcer de solidão, / grito, ninguém responde, / só a noite, com seu silêncio / e sua escuridão / apenas uma estrela a brilhar, / como querendo mostrar, / o caminho a trilhar. / Caminho sozinha, como antigamente, / a soluçar como sempre. / Sinto frio na alma, / só a lágrima me acalma. / Só, muito só!... / O coração reclama / por favor! Ouça meu grito! / Segura minha mão, / por favor, segura!... 45 La Rosa A Rosa Trad. di Angelo Manitta di Francisco Evandro de Oliveira Entre milhões de rosas no bosque da existência, você chegou e floresceu com seu encanto. Remoçou momentos adormecidos, farfalhou os desejos incontidos... Teu olhar embelezou o novo amanhã. Até quando? Perguntou o beduíno errante do deserto da vida. Só a bela rosa saberá dizer a resposta! Mas, como é belo! Sentir o perfume que desperta os sentimentos do nauta ao longo da estrada! Fra milioni di rose nella foresta dell’esistenza, tu sei giunta e sei fiorita con il tuo fascino. Hai rievocato momenti sopiti, farfugliato desideri incontenibili... Il tuo sguardo ha abbellito il nuovo domani. Fino a quando? Hai chiesto al beduino errante del deserto della vita. Solamente la bella rosa saprà dare la risposta! Ma, come è bello sentire il profumo che sveglia i sentimenti del navigante lungo la strada! Estrela Stella de Amadeu Thomé Trad. di Angelo Manitta Homem, só, tristonho, olhando a estrela.... só, tristonho, olhando a estrela. Estrela brilhando na sepultura do filho em flor. Estrela tão bela que tudo ilumina... tão bela que tudo ilumina! Ilumina a amargura do imenso amor. A Fatalidade, é triste se vê-la... é triste se vê-la. Vê-la, lembramos quem não luta com ardente fervor... Amando a vida, ela nos fascina... a vida, ela nos fascina. Fascina, a estrela, com intenso fulgor! Homem só, tristonho, olhando a estrela... Estrela tão bela que tudo ilumina! A Fatalidade, é triste se vê-la... Amando a vida, ela nos fascina! Estrela brilhando na sepultura do filho em flor, Ilumina a amargura do imenso amor! Vê-la lembramos quem não luta com ardente fervor. Fascina, a estrela, com intenso fulgor! Uomo, solo, infelice che guarda la stella.... solo, infelice, che guarda la stella. Stella che splende sulla tomba del figlio in fiore. Stella così bella che tutto illumina... così bella che tutto illumina! Illumina l’amarezza dell’amore immenso. La Fatalità, è triste se la vede... è triste se la vede. Vedila, ricordiamo chi non lotta con ardente fervore... Amando la vita, lei ci affascina... la vita, lei ci affascina. Affascina, la stella, con splendore intenso! Uomo solo, infelice, che guarda la stella... Stella così bella che tutto illumina! La Fatalità, è triste se la vede... Amando la vita, lei ci affascina! Stella che splende sulla tomba del figlio in fiore, illumina l’amarezza dell’amore immenso! Vedila, ricordiamo chi non lotta con fervore ardente. Affascina, la stella, con splendore intenso! Meu quarto de Marcus Mendra La mia stanza Trad. di Angelo Manitta Meu quarto tem poucos objetos, caixas velhas e jornais antigos, botas, sapatos, chinelos no chão, uma janela para o poente, uma porta, quando aberta, fechada, um guarda-roupa e, dentro, disfarces da esperança, uma cama para repousar o tédio, um armário com ventos e tempos idos, banco e mesa - de sobremesa, os anseios, maracas, baixo, palhetas e, calado, o violão, um telefone sem respostas amáveis, um retrato de quem não me ama... e é todo pintado de amargura, na hora do crepúsculo e no evento da aurora; meu quarto é um quarto por inteiro sozinho. La mia stanza ha pochi oggetti, vecchie scatole e vecchi giornali, stivali, scarpe, pantofole a terra una finestra volta a ponente, una porta, quando aperta, quando chiusa, un guardaroba e, dentro, travestimenti della speranza, un letto per riposare dalla noia, un armadio con venti e tempi andati, panca e mensa - di dolce, i desideri, balsami, basso, peltro e, silenziosa, la chitarra, un telefono senza amabili risposte, un ritratto di chi non mi ama... ed è tutto dipinto d’amarezza, nell’ora del crepuscolo e nel sopraggiungere dell’alba; la mia stanza è una stanza completamente solitaria. 46 Branco da paz di Maria Gertrudes Horta Greco (Brasile) O branco emitindo a paz tras a muitos, que capaz de conviver com esta, são... Esta cor que só bem traz, Transformado tudo, então... Desde a pomba apresentada, a bandeira 1evantada, o branco quer dizer: Paz... Paz a muitos proclamada, convivência desejada, por quem vivê-la é capaz... Vivência... Capacidade... Depende da integridade, de cada ser que assim doar... O branco... Felicidade representa a humildade, pois, quem doa... Sabe amar! Bianco della pace Trad. di Angelo Manitta Il bianco è segno di pace dietro a molti, che capaci di vivere con essa sono... Questo colore porta solo bene, trasformato tutto, poi... Dalla colomba apparsa, dalla bandiera innalzata, il bianco vuole dire: Pace... Pace proclamata a molti, coesistenza ricercata, per chi viverla è capace... Esistenza... Capacità... Dipende dall’integrità, di ogni essere che sa donare... Il bianco... Felicità rappresenta l’umiltà, perché chi dona... sa amare! Luis Sersale di Cerisano, Por qué cayó la luna (Ed. Amaru, Argentina 2003) «Esta novela me dejó sorprendido. En ella se refleja un mundo que él y yo conocimos; un mundo con sus cualidades y también con sus errores; pero que en estas páginas, pienso, queda eficazmente bosquejado. Pero, si no me equivoco, hay que encontrarle su mayor valor como cálido y emocionado documento humano» (Leonardo Gigli). Fátima Queiroz, Jesus – os últimos dias (Brasile 2003). Si tratta della rappresentazione teatrale in un atto della passione di Cristo. L’autrice rivive in maniera profonda e personale gli eventi drammatici dell’uomo-Dio che con la sua vita ha riscattato gli uomini. Në fëmijëri di Faslli Haliti (Albania) Kur shihja laureshën në kthetrat e skifterit, e lemerishme, tmerr. Në end të këngës së saj pranverore Dëgjoja rë qarat e saj tragjikë në pranverë. Dëshira ime ishte: të thyeja krahë skifterash egërsisht. Në fëmijëri, pa e ditur këshillën e gjysh Hygoit: “Kush shëroh krahun e skifterit përgjigjet për kthetrat e tij…” Ç’lemeri, Ç’tmerr, Të dëgjoje të qarat tragjike të zogjve, dhe mos të t’i thyeja krahët ty, skifter! Nell’infanzia Trad. di Miranda Haxhia (Albania) Quando scorgevo l’allodola tra gli artigli del falco che terrore, che orrore, al posto della sua canzone primaverile sentivo i suoi pianti tragici in primavera. Il mio desiderio era di spezzare ali di falchi crudelmente nell’infanzia senza ascoltare il consiglio dello zio Hugo: «Chi guarisce l’ala del falco è responsabile per i suoi artigli…». Che terrore, che orrore sentire i pianti tragici degli uccelli e non spezzare le ali dei falchi! E se l'amore ci eterna? di Elda Alonso (Uruguay) trad. di Angelo Manitta Amore è fucina che eterna, fiamma che arde e non consuma, da sterpaglie ci libera e scioglie, nella sofferenza e nel dolore è luce. Ci spoglia di tutti i rancori, i pensieri profuma, genera allegria in abbondanza, negli occhi ci plasma la tenerezza. Alla solitudine dà pace e quiete, il silenzio lo riempie di mormorii, lo spirito lo colma delle sue delizie. Amore che dà luce agli occhi ciechi, Amore che chiarisce la più oscura notte, Amore che con Dio ci rende eterni. 47 Amadeu Thomé, A saga do sete anos, (Brasile 2003). “A saga do sete anos” è un’opera interessantissima con una alta espressività umana e di grande sensibilità. L’autore riafferma i valori della famiglia, per questa società decadente in cui viviamo. Il suo messaggio è chiaro e credo che questo libro porterà grandi onori e glorie al suo autore, ottenendo anche premi internazionali. Quando il personaggio principale del racconto perde il figlio adolescente, dovuta ad una rara malattia congenita, provoca certo emozione e non si possono contenere le lacrime. La sua narrativa e la sua espressività sono davvero belle, umane, sensibili e profonde. In effetti vale la pena leggere il libro. Amadeu Thomé è nato a Rio de Janeiro, il 7 aprile del 1925. Ha cominciato a lavorare all’età di 10 anni, mentre a 15 anni cominciò a scrivere racconti polizieschi, poesie e cronache varie. Ha lavorato in alcune banche, ha frequentato l’università ed ha ottenuto diversi riconoscimenti letterari, oltre ad avere pubblicato diverse opere e a far parte di diverse antologie. Arnaldo Setti, A pequena orquestra, (Brasile 2003). Arnaldo Setti è un uomo sempre pronto a correre dei rischi estetici, abbracciando il testo che scrive con un profondo sentimento del mondo, uno sguardo sul mondo che lo fa vivere e lo ha fatto vivere, ma sempre con l’occhio volto verso il nuovo. Direttore della Rivista “Meyo ponte” è un ottimo narratore. Il volume è, infatti, una raccolta di racconti che presentano un uomo legato al suo territorio e al mondo goiano, ma nello stesso tempo al Paranà, stato del Brasile, dove è nato e cresciuto, oltre che al mondo della cultura e della civilizzazione. I suoi racconti sono tutto questo. Incontriamo in lui anche il lirismo delle persone che vivono allo stato naturale o in città, presentando il mondo così com’è senza visioni ingannevoli. Assòciati all’Accademia Internazionale Il Convivio! Poesia francese Lacrime de Denise Bernhard Lacrime Trad. di Vincenzo Campobasso Quand j’avais trop pleuré a briser le cristal de tes champs d’étoiles, a ne plus distinguer dans tes yeux de prophète le langage des pierres. Quand j’avais cru mourir pour avoir recréé tes amours méridiennes, bonheurs intemporels gravés d’un stylet d’obsidienne dans la cire de l’âme. Quand je m’endormais ivre d’avoir bu la Beauté aux coupes de vermeil ciselées dans tes livres. Je voulais nous abstraire m’enfuir de ton image errer près des eaux délétères me fondre avec la terre tes mains sur mon visage jusqu’au bout de la nuit. Quando avevo troppo pianto da rompere il cristallo dei tuoi campi di stelle, da non più distinguere nei tuoi occhi di profeta il linguaggio delle pietre. Quando avevo creduto di morire per aver ricreato i tuoi amori meridiani, felicità intemporali incisi con stiletto d’ossidiana nella cera dell’anima. Quando m’addormentavo ebbra d’aver bevuto la Beltà dalle coppe di vermiglio cesellate nei tuoi libri. Io volevo che ci isolassimo fuggire dalla tua immagine vagare presso acque deleterie fondermi con la terra le tue mani sul mio volto fino al morir della notte. Rafales des calebasses di Darma Sylvain Gaourang (Ciad – Africa) Raffiche di calebasse Trad. di Angelo Manitta Les rafales, les cadences, de nos calebasses d’antan géantes, engloutissantes dans nos légendes, sachant pleurer nos morts sous les mains frappantes de nos vieilles pleureuses aux jambes tremoussantes habiles pour nos danses funèbres l’ont tant fait. Nos larmes ont tant coulé des larmes sang des larmes étincelles des demoiselles des larmes flammes des dames, mesdames... Les rafales, les cadences de nos calebasses d’antan, accompagnées des sifflement affaiblis de nos flûtes, nos trompettes spéciales, les tintamarres, les charivaris de nos tambours de deuil ont tant pleuré nos morts. Ce à quoi j’appelle, cessez-le-feu! Le raffiche, le cadenze, dei nostri calebasse di un tempo, giganti che inghiottono nelle nostre leggende, sapendo piangere i nostri morti sotto le mani sorprendenti dei nostri vecchi che piangono, dalle gambe tremanti, esperti nelle nostre danze funebri, hanno fatto tanto. Le nostre lacrime sono scorse tanto lacrime sangue lacrime scintille delle signorine lacrime fiamme di dame, di signore... Le raffiche, le cadenze, dei nostri calebasse di un tempo, accompagnate dal fischio indebolito dei nostri flauti, delle nostre trombe speciali, i frastuoni, gli schiamazzi dei nostri tamburi di lutto hanno pianto tanto le nostre morti. A questo io invito, cessate-il-fuoco ! 48 J’Attends... di Loretta Bonucci (trad. di Paul Courget) J’attends que vienne la nuit pour véiller avec les étoiles, pour grésiller avec les grillons, pour cheminer avec les lucioles et aller loin la où il y a la paix, la où il y a le pain, la où il y a l’eau, la où trouver le nécessaire pour vivre et qui ne soit pas un rêve, mais une réalité. Veramente liberi... di Pasquale Giuliani Quando Coscienza [affonda nella Memoria, riemerge nella parte nascosta [del nostro essere l’esigenza di comprendere. I mostri sono davanti ai nostri occhi ed assumono forme grottesche, come lava aggrumata di un vulcano che ha smesso di vomitare Retorica. «Abbiamo orrore del Terrorismo! ...Abbiamo paura dell’Impero!». Perché, allora, con inconfessabile [rassegnazione, partecipiamo ad una Sorte ritenuta... [ineluttabile? Non è forse giunto il momento [di gridare forte che il Dolore degli altri è anche [il nostro dolore, che non cesseremo mai di piangere per ogni Uomo che sarà morto [inutilmente? Rispettiamo le ragioni di chi non ha i nostri tormenti, non è straziato [dai nostri dubbi, ma temiamo che il brivido [della Libertà, in una società che ha trasformato [l’uomo in cavia, finisca con il misurare [l’impossibilità di essere... veramente Liberi. Prière Preghiera di Robert Botto Trad. di Angelo Manitta Mon Dieu, protège- moi des tourments de mon âme! Fais fleurir dans mon cœur l’espoir de ton secours... Ne m’abandonne pas, mon esprit te réclame; calme mon désarroi, car j’ai besoin d’Amour! Mio Dio, proteggimi dai tormenti della mia anima! Fa’ fiorire nel mio cuore la speranza del tuo soccorso... Non abbandonarmi, il mio spirito ti cerca; calma il mio smarrimento, perché ho bisogno d’amore! Adoucis mes soupirs! Je le sais, tu nous aimes... malgré les accidents du chemin parcouru. Apaise ma pensée aux bien tristes poèmes, lorsque le désespoir, parfois est revenu. Addolcisci i miei sospiri! Lo so, tu ci ami... malgrado gli incidenti della strada percorsa. Acquieta il mio pensiero alle tristi poesie, quando la disperazione talvolta ritorna. Veille sur mon sommeil, et mon esprit rebelle! Fais éclore en mon cœur, il n’est jamais trop tard: un grand bouquet de fleurs! une rose Eternelle! celle de l’Amitié, la douceur d’un regard... Veglia sul mio sonno e il mio spirito ribelle! Fa’ sbocciare nel mio cuore, non è mai troppo tardi, un grande mazzo di fiori! una rosa Eterna! quella dell’amicizia, la dolcezza di un sguardo... Redonne-moi l’espoir, le désir de sourire a tous ceux qui voudraient, malgré tous mes chagrins, éclairer mon chemin, pour m’éviter le pire, sur ma modeste vie en me tendant leurs mains! Ridammi la speranza, il desiderio di sorridere a tutti quelli che vorrebbero, malgrado i miei dolori, illuminare la mia strada, per evitarmi il peggio, sulla mia modesta vita, tendendomi le loro mani! Accueille-moi, Seigneur, dans la Paix, le silence... Je te prie en cela, car j’ai toujours la Foi! Dans tes mains, je remets le poids de l’existence qui pèse sur mon cœur, alors je vais vers Toi. Accoglimi, Signore, nella Pace, il silenzio... Ti prego, perché ho sempre la Fede! Nelle tue mani rimetto il peso dell’esistenza che grava sul mio cuore, allora vado verso Te. Mon Dieu, protège-moi des tourments de mon âme! Donne-moi le bonheur, l’espoir de ton secours... Je sais que tu es là, mon esprit te réclame; je ne veux pas douter de ton immense Amour!... Mio Dio, proteggimi dai tormenti della mia anima! Dammi la felicità, la speranza del tuo soccorso... So che sei là, il mio spirito ti cerca; non voglio dubitare del tuo immenso Amore!... Cris des femmes Grida di donne de Kidad Fatima (Algeria) Trad. di Angelo Manitta Leur cris est une chanson Du temps que l’originalité leur donne raison J’eusse aimé couler auprès d’elles Comme se prosterne la servante Aux pieds de la reine J’eusse aimé appelé d’une voix vive La douleur qui agonise quand elles se livrent. Deviner seule si leur cœur a une couleur éternelle Et dire de leur son, les chants les plus glorieux Et mendier la dignité comme une esclave. A se laisser aimé par les charmants destins D’une noce nouvelle d’où jaillit la franchise. Une île déserte où la nature offre Des fruits exotiques et des parfums charnels E des femmes qui hurlent la volonté De vivre, le sort e la liberté Que l’homme refuse d’y vivre. Encore tardes fuscincés Par l’odeur du crépuscule Elles annoncent, crient et consignent Une âme toute cruelle. La grandeur du mal plus que réelle De ce cri de femmes J’entends la même chanson. Le loro grida sono una canzone del tempo che l’originalità dà loro ragione. Avessi io amato gettarmi vicino ad esse come si inchina la domestica ai piedi della regina! Avessi io amato, proclamato a voce viva il dolore che agonizza quando esse si liberano. Indovinare, sola, se il loro cuore ha un colore eterno e dire del loro suono, i canti più gloriosi, e mendicare la dignità come una schiava che si lascia amare per gli affascinanti destini di un matrimonio nuovo da cui sgorga la franchezza. Un’isola deserta dove la natura offre dei frutti esotici e dei profumi carnali e delle donne che urlano la volontà di vivere, la sorte e la libertà che l’uomo nega di vivere. Ancora tardi fiori per l’odore del crepuscolo annunciano, gridano e consegnano un’anima tutta crudele. La grandezza del male più che concreto di questo grido di donne io sento la stessa canzone. 49 Maggy De Coster: Battimi mia isola Trad. di Vincenzo Campobasso l’isola nel cuore Ah, battimi, mia isola, ed emergi dal tuo millenario incubo che, derivando sulle onde tormentate del Mar dei Caraibi ancora rintrona nel cuore dei tuoi figli. di Vincenzo Campobasso Sebbene contraddistinti con titoli diversi, le poesie di Maggy De Coster formano, in questa sua silloge, un corpo unico, un vero poemetto. Uno, infatti, l’inno, una l’invocazione, uno il pianto, una la speranza. L’isola, che solo al quattordicesimo brano, con un semplice acrostico, rivelerà essere Haiti, è, per Maggy, una sorta di apatica, una mamma indolente che si è lasciata snaturare. Da cui l’accorata e reiterata invocazione: “Battimi!”. Come l’invocazione dei bimbi per attirare l’attenzione e riappropriarsi dell’affetto perduto dei genitori, o per richiamare questi, nella loro inconscia consapevolezza, ad una più retta via. Piange, Maggy, piange la sorte della sua isola, per tutta la lunghezza del poemetto. E quanta amarezza, quanto rammarico per non poter fare qualcosa, quanta nostalgia per quell’isola che non è più quella di prima, quella sicuramente dei suoi sogni d’infanzia. Piange, Maggy, e solo alla fine, in un momento che pare catartico ed auspicale insieme, storna lo sguardo dall’Isola, per affissarlo, sia pure per un momento, sulla figlia Cloe, forse la prediletta o forse colei che potrebbe rappresentare, negli auspici della poetessa, il futuro di Haiti. Né il sole cessa dalla collera quando il villano in mal di penitenza gratta la zolla giù fino ad imo. Ah! battimi, mia catalettica isola, i tuoi figli deperiscono ed i loro sogni avvizziscono sotto l’effetto congiunto della sofferenza e del vuoto dell’anima. È sempre notte nell’entroterra e gli abitanti s’inabissano in uno spazio senza sfogo. La natura, inchiodata alla berlina, non ospita più i canti degli uccelli. Diadème de Paul Courget Ah! Bats-moi mon île De tous ceux qui s’en vont en renfermant le livre où s’inscrivit un sort banal et quotidien, dans la suite des temps il ne demeure rien qui les rappelle au monde et les fasse revivre. Mais toi, jamais la nuit future, sous le givre de l’hiver sans printemps qui glace les tombeaux, n’ éteindra ton sourire et l’éternel flambeau de ta beauté puisque c’est elle qui m’enivre. D’autres ont pu, pliant leur faiblesse à ta loi, t’apporter leur tribut de tendresse et de foi: aucun pourtant n’a su te vouloir immortelle. Mais mon amour plus fier, plus durable et plus fort, prépare à ta mémoire, au-delà de la mort, le diadème d’or où ta gloire étincelle! di Maggy de Coster Ah! Bats-moi mon île et émerge de ton cauchemar millénaire; il tonne encore dans le cœur de tes Fils dérivant sur les vagues tourmentées de la mer des Caraibes. Et le soleil ne décolère pas quand le paysan en mal de subsistance rade la glèbe jusqu’au tréfonds. Ah! Bats-moi mon Ile cataleptique, tes Fils dépérissent et leurs rêves flétrissent sous l’effet conjugué de la souffrance et du vague-à-l’âme. Diadema Trad. di Vincenzo Campobasso Il fait toujours nuit dans l’arrière-pays et les habitants s‘engouffrent dans un espace sans issue. Di tutti quelli che van via chiudendo il libro dove s’inscrisse una sorte comune e monotona, nel codazzo dei tempi nulla rimane che li richiami al mondo e riviver li faccia. Ma a te, mai la futura notte, sotto la brina dell’inverno senza primavera che le tombe ghiaccia, spegnerà il sorriso e l’eterna fiamma della tua beltà poiché è lei che m’inebria. Altri han potuto, piegando alla tua legge la propria fiacchezza, portarti il proprio tributo di tenerezza e di fede: eppure nessuno ha saputo volerti immortale. Sol il mio amore più fiero durevole e forte, prepara alla tua memoria, al di là della morte, il diadema d’oro in cui la tua gloria sfavilli. La nature, clouée au pilori, n’accueille plus les ramages des oiseaux. Sylvie Forveille-Nugue, Au clair de la lune (Francia 2002). Si tratta di una poesia sincera e spontanea, ma nello stesso profonda nei sentimenti e nell’espressività. Leggendo le sue poesie si aprono immense porte volte alla malinconia, così come alla speranza e ai segreti di un’intima personalità. 50 Jean Mauget alla musa ispiratrice Jean-Luc Lamouille trad. di Angelo Manitta Dieu est mort à Lonato a cura di Angelo Manitta Jean Mauget è nato a Saint Séverin Charente il 21 aprile 1933. Autodidatta, Presidente Fondatore dell’Associazione “Echos de Vénus”, membro di numerose associazioni, socio dell’accademia dei Poeti classici di Francia, dell’Accademia Internazionale Il Convivio e del Circolo Internazionale del Pensiero e delle Arti francesi, membro del Sindacato dei giornalisti e Scrittori indipendenti, collaboratore della “Forêt des Mille Poètes”, ha in preparazione cinque raccolte di poesie e due di racconti, numerose pubblicazioni in parecchie riviste e raccolte collettive. Ha ottenuto più di un centinaio di riconoscimenti, di cui una trentina di 1° Premi (Poesie Classiche, Neoclassiche, libere, Racconti, Notizie). Animatore di numerose manifestazioni culturali tra cui “Arte 2000” e la “Primavera dei Poeti” è responsabile della pubblicazione trimestrale della Gazzetta “Le Funambule”, 36 numeri fino ad ora. Intrattiene delle relazioni Internazionali con una decina di Paesi e degli scambi con altre associazioni culturali. Intessante la seguente poesia: Muse lis mon poème Muse, lis mon poème et m’offre des baisers, que n’ai-je demandé cette aubaine suprême chaque fois qu’un écrit, délicat théorème, soutirât de son cœur des soupirs apaisés. Ces vers, pour la charmer, je tes ai peaufinés, je leur donnais la vie, attendant son baptême, les ornant richement d’un galant diadème, qui venait couronner ses cheveux enflammés. J’ai tout offert en prime à mon inspiratrice, n’espérant mieux de mon exigeante complice, qu’un généreux éclat de bonheur dans ses yeux. Les cyprès blancs se déshabillent des histoires superflues I cipressi bianchi si svestono delle storie superflue Posé sur la cour carrée de la promesse le mystère s’incarne dans l’égyptienne aux ongles d’or sereinement dévoilée Posto sulla corte quadrata della promessa il mistero si incarna nell’egiziana dalle unghie d’oro svelata serenamente La lueur de son âme m’incite à ne pas tenter de la comprendre Il lucore della sua anima m’incita a non tentare di comprenderla La nervosité de ses jambes m’invite a m’échapper avec elle parmi les chevaux sauvages La nervosità delle sue gambe m’invita a scappare con lei tra cavalli selvaggi Ce soir, le lac se fragmente en milliers de pensées libérées L’église n’emprisonne que le vide Questa sera, il lago si frammenta in migliaia di pensieri liberati La chiesa non incarcera che il vuoto Le vent transporte des envies secrètes pour qui prend sa vie entre ses mains. Il vento trasporta invidie segrete per chi prende la sua vita tra le mani. La vie ne dort jamais Un clin d’œil en échange escortant mes poèmes, en signait tendrement la douceur des aveux, ensorcelant ses nuits de longs rêves bohèmes. Musa, leggi la mia poesia Musa, leggi la mia poesia e offrimi dei baci, benché non abbia chiesto questa fortuna estrema ogni volta che uno scritto, delicato teorema, travasasse dal suo cuore sopiti sospiri. Questi versi, per affascinarla, ho limato, ho dato loro vita, aspettando il loro battesimo, ornandoli riccamente di un galante diadema, venuto ad incoronare i suoi capelli di fiamma. Ho donato tutto in premio alla mia ispiratrice, non sperando meglio del mio esigente complice che un generoso scatto di felicità nei suoi occhi. Un colpo d’occhio, in cambio d’attenzione alla mia poesia, ne segnava teneramente la dolcezza delle confessioni, stregando le sue notti di lunghi sogni boemi. 51 Ma sève pense à la grande ville où une forme de feu déchire, parce qu’il est l’heure, l’attraction du flux pour le reflux. La mia linfa pensa alla grande città dove una forma di fuoco lacera, perché è l’ora, l’attrazione del flusso per il riflusso. Un peu avant ou juste un peu après, à l’instant de l’absence du jour et de la nuit, les pôles se reconnaissent. Un po’ prima o giusto un poco dopo all’istante dell’assenza del giorno e della notte, i poli si riconoscono. Léger souffle du silence brisé Leggero soffio del silenzio spezzato A chaque minute à chaque seconde la musicienne de braise bouscule tout, orgueilleuse et souveraine, de sa folie bondissante Ad ogni minuto ad ogni secondo la musicista di brace travolge tutto, superba e sovrana, della sua follia saltellante. Pupa Riggio Pittura È molto difficile oggigiorno trovare un’artista eclettica che riesca in ogni singola opera a mantenere uniformità di stile, ma anche a spaziare dal figurativo all’informale. Pupa Riggio «intende l’arte come sublimazione del vivere, punto d’approdo di un itinerario spirituale e umano che nell’amore si risolve ed esalta. La sua pittura, dai sentiti toni evocativi e dalla vibrante intensità, spazia dalla figurazione all’informale e l’artista intende, con le sue opere pervase da significanti giochi di luce, comunicare la voce del suo inconscio tendente alla fraternità e ad un notevole arricchimento interiore» (S. Perdicaro). Animata da un’istintiva passione per l’arte da molti anni si dedica alla ricerca espressiva, approdando ad una dimensione fantastica e intensa che con l’utilizzo di vari stili dà una fiabesca interpretazione dei suoi momenti ispirativi quali condizioni esistenziali: la paura, l’amore, la bellezza, la malinconia ecc... Se in molte opere i motivi appena accennati trovano la loro materializzazione in atmosfere d’incanto o astrazioni naturali, il motivo che appare più denso per incisività è l’olio su tela “Sognando l’arcobaleno”. Già dal titolo dell’opera è chiaro l’intento onirico e l’astrazione dalla realtà verso un’altra dimensione dalla quale poter dare uno sguardo sincero e analitico ad uno dei temi più suggestivi dell’intera carriera artistica di Pupa Riggio: l’amore. In un chiaro influsso della Scuola di Oslo e principalmente di Munch, la personificazione di un sogno reale ed esistenziale che si fonde in un tutt’uno con la realtà in un turbinio dai toni d’arcobaleno, permette all’autrice di fondere dolore e amore in una descrizione sensualmente romantica. Rubrica e testi a cura di Giuseppe Manitta Cinzia Civardi Foschia Cinzia Civardi Foschia, pittrice e grafica, è nata a Gallinate in provincia di Novara, e dopo aver frequentato la scuola di grafica pubblicitaria si è dedicata alla pittura. Oggi è una delle esponenti più apprezzate della tradizione pittorica novarese. Impressioni, sensazioni e stati d’animo vari rivivono nei suoi quadri che si presentano come visioni realistiche, che si basano sulla limpidezza e sensualità delle forme, ora con immagini più cupe, ora più fantasiose e si abbandonano ad una netta scia di originalità fungendo da allegorie per espressioni contenutistiche di forte motivo sociale e simbolico. Una pittura che si basa sulle trame ben tessute dell’olio che delicatamente si intona verso una visione narrativa del soggetto, ripreso psicologicamente in assonanza con il paesaggio che lo circonda, animato e intessuto di note suggestive. La sua arte è guidata da una viva sensibilità che mira a cogliere il carattere semplicistico dell’apparenza, e si rivolge ad una ricerca attenta della realtà. Ragazza, Olio su tela, cm 50 x 70 Le apparenze sensibili fungono solo da tramite per una ricerca che non vuole allontanarsi troppo dalla descrittività, ma al contempo non vuole immergersi in una usuale trance realistica. Inoltre le opere sono composte da una ben razionale struttura che segue molto spesso la diagonale per bilanciare al meglio la figura in una costruita naturalezza. Nel mondo pittorico di Cinzia Civardi Foschia affiora una duttile espressività i cui contenuti ispirativi sono accentuati nella loro suggestività comunicativa da un cromatismo attento e ben cadenzato che mira ad una introspezione psicologica mirata. «Fuori dall’esaltazione di ogni moda avanguardistica» scrive Giovanni Castelliti «Cinzia è pittrice di fedele slancio tradizionale e realistico. Nella figura... i piacevoli spunti narrativi, svelano il suo mondo sentimentale ancor scevro da inquinamento intellettualistico e dalle angosce del vivere quotidiano, trascendendo le brutture di un mondo sempre più alla deriva». Tramonto - t.m. - cm 100x70 Opera simbolo di un turbamento, con intenso vigore, che non si riflette tanto sul tono cromatico quanto nella sinuosità dell’esecuzione, e perciò riesce ad essere molto comunicativa. Una linea apparentemente continua si stringe intorno alla figura senza turbarne i lineamenti, ma rinchiudendola, quasi inconsapevole, in una realtà difficile da oltrepassare. Pupa Riggio imprime i fremiti dell’anima derivanti da una sfera del reale in riflessioni pittoriche animate da vitalità ritmica alla ricerca di un equilibrio moderno in armonia con forme, luci e colori. 52 Leonardo Cosmai Salvatore Magli «Essere se stessi è uno stile di vita che attraversa il dono e la privazione, la solitudine e la forza interiore, lo smarrimento e la pienezza, la rinuncia e l’abbandono, la morte e la vita... a volte i poeti brillano come stelle di pioggia alla ricerca del loro cielo». Da questo giudizio di Antonia Barba è facile comprendere come Leonardo Cosmai sia un artista autentico e profondo, un poeta del colore che immerge se stesso nella vitalità dei disegni e dei toni. La sua pittura si presenta come filo conduttore ideale che unisce tre dimensioni dell’essere: partendo da un’analisi oggettiva si spinge ad una soggettiva ed esistenziale, per varcare i confini dell’essere e approdare in una dimensione soprasensibile. Un aspetto, questo, rarissimo nella pittura contemporanea e che Cosmai cerca di esaltare con tutte le sue capacità. Salvatore Magli vive ed opera a Lecce, riscuotendo numerosi successi di critica e di pubblico. Oggigiorno è difficile trovarsi faccia a faccia con opere che per la loro originalità rimangono impresse e destano curiosità e ammirazione. Ma Salvatore Magli c’è riuscito utilizzando un linguaggio simbolico e metaforico affiancato ad un cromatismo acceso e brillante. Legato ad un puro concetto di arte e rifuggendo dall’imitazione, si avvia con una ricerca sempre più approfondita verso la contemplazione del bello e dell’esistenziale, riflettendo la peculiarità umana tra segno, colore e immagine. La figurazione nella sua liricità e originalità ha come obiettivo principale la penetrazione del sentimento, rifugiandosi in una dimensione atemporale e quindi eterna. Senza titolo, pastelli, cm 32 x 52 I colori dell’anima, olio su tela, cm 70x100 Un turbinio di sentimenti sconvolge però una calma apparente: dolore e morte come gioia e vita si fondono, ma soprattutto si oppongono in un contrasto coloristico e disegnativo. Ma la speranza che confluisce nell’uomo gli concede la libertà di vivere e, come nella pittura di Cosmai, di divenire e oltrepassare l’essere. Il relativismo delle opere mette in luce uno degli aspetti più importanti dell’esistenzialità umana: non esiste una certezza assoluta cui si possa fare fede senza dubitare o se esiste deve essere ricercata continuamente. Non a caso in ogni sua opera il soggetto mira lontano in una ricerca insistente di un assoluto percepibile, ma non coglibile. Così l’essenzialità del disegno nel mutevole scenario della vita tende ad eliminare certezze oscillanti e illusioni, evidenziando un’analisi psicologica. Le figure che dominano spesso le sue opere non rappresentano problemi esistenziali legati solo all’io, ma a condizioni attuali e universali. Egli si esprime con un linguaggio denso di simbolismo e pregno di significato in una composizione grafica originale. La struttura spaziale dell’opera risente dell’onirismo metafisico cogliendo dal simbolismo un’analisi razionale dell’esistenzialità. Così il rapporto soggetto-sfondo si materializza anche in una visione sensuale che raffigura il concetto di vita sotto sembianze di nudo femminile. Non a caso le sue opere nascono come fusione tra natura e uomo in cui «il sentimento universale di un’evoluzione creatrice è alla base della poetica e della “poietica” di Magli che interpreta la sostanza vitale nel cosmo e la identifica con il principio femminile nell’atto in cui diventa creatore non di una vita, ma della vita stessa» (Giorgio Barba). L’espressività cosmica della vita si misura con una varietà di temi soffusi che svelano una grande sensibilità, che si relaziona alla realtà quotidiana, ma mira verso l’assoluto. Fantasia e tensioni dell’animo si materializzano nella cromia di una rivisitazione astrale realizzata con estrema bravura. Così la capacità espressiva s’immerge in un percorso narrativo-metafisico ora intimistico ora evocativo e le pulsioni emozionali si tramutano in visioni surreali di vibrante intensità. 53 bracciando teneramente il vero soggetto del quadro che domina la scena evadendo dalla tonalità blu dominante. L’atmosfera magica è resa attraverso un cromatismo intenso, che permette all’arte e alla natura di evadere dalla prigionia umana. Non a caso fiori e strumenti musicali squarciano anfore e tele: si può oltrepassare l’atmosfera fittizia che l’uomo crea solo seguendo la propria ‘follia d’arte’. Raffaele Pisano Raffaele Pisano è nato a San Benedetto di Caserta dove vive ed opera. La sua carriera artistica è lunga e piena di riconoscimenti, tra i quali è doveroso ricordare la medaglia d’oro e diploma di riconoscimento ricevuto dal Presidente della Repubblica Giovanni Leone e la pergamena speciale con benedizione ricevuta da S.S. Paolo VI. «La pittura trasforma lo spazio in tempo, la musica il tempo in spazio» scrive lo scrittore austriaco von Hofmannsthal in “Il libro degli amici”. Ed in effetti la pittura è un continuo fluire di tempo e di spazio, ma a pensarci bene anche di musica. La sua melodia si traduce in note di colore vibrante che indaga e coinvolge l’esistenzialismo dell’uomo. Pasquale Millico La ricerca pittorica di Pasquale Millico muove da una soggettiva analisi della realtà assurgendo, attraverso un percorso ideale e sensitivo, ad uno spazio esistenziale e onirico in cui si ritrova l’essenza di quegli elementi captati dal mondo. Il processo estetico risente così sia degli stimoli soggettivi che di quelli oggettivi traducendoli in elaborazione di forme e di colori, la cui feconda creatività è chiaro simbolo di un palpitare di sentimento. Pasquale Millico, nato nel 1958 a Terlizzi (Bari), ha iniziato da autodidatta per poi seguire lo studio di Maria Buonaduce e approdare, quindi, ad uno stile personale. Opera molto significativa è un olio su masonite: “Orbite”. Comunicazioni artistiche, acrilico su tela, cm 60 x 80 E proprio in Raffaele Pisano il nesso pittura-musica, e noi potremmo aggiungere anche poesia, si fa strettissimo e diviene evidente in opere in cui l’ambiente è dominato da corde musicali che sembrano squarciare la tela. Il loro irrompere però non è sempre violento, ma «il felice tono, l’immediatezza del tocco», scrive Francesco Monaco, «la forma emanante la dolce melodia della soave visione del colore attraverso la freschezza e la limpidezza della pennellata ci danno squarci di bellezza che solo la gelosissima musa può ispirare all’amante». La rappresentazione onirica della realtà è sempre sostegno di una meditazione profonda che si trasmette al fruitore. Una tensione fortemente drammatica esprime le tensioni interne dell’autore in un sinolo di profondità e superficie, di impressione e sentimento. In un buio surreale la tela si riempie di blu che divide la serenità emotiva dalla tensione. Il soggetto sfugge dalla tela per scivolare nell’intellezione, per cogliere l’attimo fuggitivo della mente. Un pensiero semplice diventa complesso e si traduce in composizioni ben strutturate come un maestro sa fare. Tutto lo spazio della tela è invaso da una luce surreale, ab- Orbite, olio su masonite, cm 80x60 Spunto riconducibile alla concezione di arte sintetica di Kandinsky, l’opera segue il ritmo della musica nel turbinio dei colori in un continuo aumentare di armonia e giochi di luce. Così in uno spazio astratto e attorno ad un variare di cromie che tendono a schiarirsi dal basso verso l’alto vagano pianeti più o meno grandi con tonalità diverse, che metaforizzano una condizione esistenziale, ma anche oggettiva della realtà. Pur nella sua originalità non rifugge da una concezione simbolista, romantica o addirittura sacra dell’arte. «Nel linguaggio espressivo dell’artista» nota Vito Cracas «convergono con originalità concretezze, astrazioni e geometriche forme, che simboleggiano valori e sensazioni d’incisiva risonanza, oniriche pulsioni, tattili esemplificazioni sull’ordine che regola la vita dell’universo e riflessioni profonde sull’ineluttabile divenire della vita e delle cose». 54 Franco Tassoni Vincenzo Daragusa Franco Tassoni condensa nella sua pittura numerose fonti ispirative. Pittore autodidatta che predilige il figurativo e mostra una spiccata sensibilità per lo studio del paesaggio e della figura umana, è travolgente nelle pennellate quando l’emozione visiva deve essere messa sulla tela. In ogni opera infonde tutta la sua emozionalità. Infatti egli stesso afferma: «Nella mia pittura c’è solo sentimento. Quando un dipinto se ne va, se n’è andata una parte di me stesso». Dunque lo studio della natura e dell’uomo risiede nell’autore e non nel soggetto che si propone al fruitore. Se per molto tempo è prevalsa l’idea del poeta tedesco Novalis che la pittura è l’arte di vedere tutto regolarmente e secondo bellezza, oggi l’arte non è più perfezione, ma imperfezione. Questo però ha portato a snaturare completamente quel concetto di armonia che da sempre ha affascinato l’uomo. Vincenzo Daragusa, pittore scenografo e modellista. Nato a Ragusa, ha studiato a Milano, diplomandosi in scenografia all’Accademia di Brera nel 1978. Espressionista, ha esposto in mostre personali e rassegne in Italia e all’estero, ottenendo premi e riconoscimenti di rilievo. La sua pittura dimostra una particolare attenzione verso problematiche sociali e tradizioni popolari, oltre che andare verso una introspezione psicologica dei personagi, rappresentati spesso con vivace realismo. Il mondo contadino del Sud emerge dalle sue raffigurazione attraverso una tecnica a piani sovrapposti di una pregevole profondità lirica e paesaggistica. Il quadro di copertina Uomini a cavallo, infatti, presenta in un primo piano l’uomo con la sua espressività figurativa e realistica che coinvolge profondamente il fruitore, in un secondo piano gli animali, in un terzo il paesaggio. San Rocco, pigmenti su legno, cm 100x150 Verso la campagna, Olio su masonite, cm 70 x 90 Gli asini, parte integrante della tradizione, si integrano quasi con lo sfondo (ma distinguendosi nella loro naturalezza), costituito dal leggero pendio e dalle costruzioni ormai in abbandono. I tre pieni presentano una visione globale e unificante. Lo stesso schema viene utilizzato nel quadro qui proposto: Verso la campagna, in cui l’uomo e gli animali manifestano la centralità della riflessione, mentre sullo sfondo il cielo e il mare invitano a volgere lo sguardo verso l’infinito. Con Franco Tassoni l’armonia, la sensibilità idealista e la pregnanza sensista prendono forma in un connubio unico, in un linguaggio espressivo e molto originale. L’opera che segue questi canoni è “San Rocco”. Molti sono gli elementi appartenenti alla sfera esistenziale, molti altri alla sfera oggettiva, ma ambedue rivelano nell’artista una pregnante sensibilità d’animo e lettura introspettiva. L’espressione dolorante del volto viene messa in diretto contatto con l’espressione protettiva e pronta del cane. Il collegamento diretto tra le due figure avviene attraverso il bastone e la mano. L’eccesso di luce che sembrerebbe innaturale viene bilanciato dalla tonalità scura che predomina le estremità dell’opera. Emozioni vibranti animano questa pittura e si accendono ora con tono pacato, ora con viva sonorità. È evidente come Franco Tassoni non tenta mai di idealizzare l’immagine che rappresenta, ma raffigura tutto come il suo occhio, filtrato dalla fantasia e dall’emozione, lo vede. Infatti il soggetto rispecchia bene la sua natura povera fra mille frutti simboli di abbondanza, ma la sua attenzione si rivolge tutta verso il suo fedele amico, snodandosi lungo la diagonale di destra che ordina ogni elemento della composizione. 33° Premio di poesia Formica Nera La segreteria comunica che gli autori sono stati 891 di ogni regione d'Italia e diversi stati esteri. La giuria - composta da Lucia Gaddo, Mario Klein, Lidia Maggiolo, Luciano Nanni e Giovanni Viel, ha premiato: 1° (targa d’oro) a Roberta Degl'Innocenti di Firenze, per la poesia Estensione di giallo (a Víncent Van Gogh). Segnalati (medaglia d’oro) Egidio Belotti di Fossano (Cu) per la poesia Ancora voci sotto casa, Giovanni Bottaro di Pisa per la poesia Dal nuovo mondo, Alfredo Di Marco di Capaccio Scalo (Sa) per la poesia Nessuna voce, Mario Vecchíone di Napoli per la poesia I poeti fanno paura. Inoltre una menzione a Mohamied Lamsuni per la poesia Il sole degli arabi. La premiazione si è svolta a Padova nella Sala Polivalente di via D. Valeri n. 17. Per l’occasione è stata presentata la XXV antologia dei Poeti padovani. 55 Angelo Rullini Leonardo Simonetti Angelo Rullini, nato ad Avola, si dedica alla pittura ottenendo ottimi risultati. Diplomatosi all’istituto d’arte, allievo del maestro Pippo Caruso e Giovanni Migliara, ha sviluppato uno stile proprio che mira ad una ricerca d’espressione libera da ogni canone prefissato e condizionante. Infatti, come riporta un giudizio critico apparso su “L’Elite”, «nella sua opera non ha riscontro uno stile unico: egli è contrario allo stile che soffoca la libertà creativa, legando l’artista ad uno schema condizionante. Per lui l’arte è liberazione, ricerca estetica, ma emotiva: riflesso del pensiero che è presente, passato e futuro solo attraverso l’idea del mito che nasce e si libera nell’universalità esistenziale, legata al processo storico ed evolutivo del pensiero stesso e dell’esaltazione umana». Se è vero che il suo stile non è completamente univoco, è vero che nelle sue tele, come anche nelle sue poesie, emergono toni vibranti e accesi, cromatismi esplosivi che investono il fruitore in un continuo pulsare di sensazioni. Nelle opere di Leonardo Simonetti rivivono immagini suggestive della natura tra mare e montagna in atmosfere incantevoli e luminose. Leonardo Simonetti, nato a Firenze nel 1946, vive ed opera in Piemonte. Attento conoscitore della natura e dei luoghi, ricerca proprio in essi i suoi massimi soggetti ispirativi che, filtrati dal suo animo sensibile, vengono immersi in un’emozionalità intensa che permette una più attenta fruizione non solo dell’animo umano, ma anche della natura stessa. Opere in cui all’apparenza la figura dell’uomo quale padrone e possessore della natura, per dirla con Bacone, o essere estremamente razionale viene a mancare, si dimostrano opere dettate da una grande razionalità, anzi per essere più precisi opere che hanno un equilibrio interno tra oggettività e soggettività, razionalità e irrazionalità. La pittura di Leonardo Simonetti obbedisce ai richiami della sensibilità che, relazionandosi con i soggetti trattati, funge da intermediario lirico tra autore e fruitore. Nudo, acrilico su tavola Prima Neve, Olio su tela, cm 30 x 40 Angelo Rullini vede nell’arte la sublimazione dell’esistere e l’essenza principale di un itinerario spirituale e umano che va alla ricerca dell’oggettivo e del soggettivo, del particolare e dell’universale. La sua pittura di vibrante intensità è pervasa da giochi di luce che esprimono un’infinita vitalità. Come nella poesia è la parola, così nella pittura l’elemento fondamentale è il colore: mediante questa peculiarità il Pittore ricerca, con istintiva forza narrativa, di riformulare i contenuti reali in una produzione pittorica che si affianca alla scorrevolezza del linguaggio e all’articolazione formale e cromatica in una continua ricerca dell’espressività personale e quotidiana. Cadenze e ritmi si condensano in una dimensione atemporale e fanno dell’opera una rivisitazione idealizzata tra storia e soggetto. Inoltre l’armonia delle articolazioni tonali e dei tocchi di luce ed ombra armonizzano l’opera in una successione d’armonie semplici e complesse. Dunque originalità e sapiente espressività concretizzano i contenuti visivi ed emozionali in una continua ricerca artistica legata al semplice e al meraviglioso, alla passione e alla precisione del dettaglio, alla sicurezza tecnica e alla fantasiosa originalità esecutiva. Leonardo Simonetti riesce a oltrepassare i confini della semplice descrittività per approdare ad una ricomposizione e intonazione delle forme che rispecchiano le campiture cromatiche di una profonda sensibilità e si riflettono sulla natura e sugli scorci di antichi borghi. Come scrive Rina Ronchetti, «osservando un suo quadro si scorge l’impercettibile figura di chi ha appena salito una scala o ha voltato lentamente l’angolo di una chintana». 56 Spartaco Castelli Giusi Calì Originalità d’espressione, acutezza d’immagine, riflessività e razionalità di composizione sono le caratteristiche estetico-ritmiche che dominano le opere di Spartaco Castelli. Le immagini pittoriche permeate di vibrante emozionalità condensano con lirica tensione motivi paesaggistici e di vita quotidiana, affascinanti figure di tramonti e inquadrature popolari. La riflessione introspettiva spinge l’autore ad un’analisi attenta del reale e dell’esistenziale, allo studio di una materialità che trova il suo principio non nell’oggetto in sé ma nel soggetto. Una capacità, questa, che tende ad immedesimarsi in una figurazione impareggiabile per finezza psicologica. Giusi Calì, nata a Catania e residente ad Aci Castello, è un’artista particolarmente attenta ai fenomeni esistenziali che poi vengono condensati, nelle loro innumerevoli sfaccettature, in tematiche prevalentemente naturalistiche. Paesaggi, vicoli, marine, nature morte vengono ritratti con particolare compostezza ed originalità alla ricerca di una effettiva problematica quotidiana. Gli ultimi sviluppi di quest’autrice consolidano il bisogno di accostarsi a nuove tematiche ed espedienti espressivi pur mantenendo una spiccata sensibilità. In ogni opera emerge una spiritualità intensa, una sintesi pittorica che va alla ricerca di suggestioni inquiete. Si discute sulla gradazione, olio su tela cm 40 x 50 Madonna, olio su tela, 50x70 Si tratta di un procedere stilistico-espressivo che domina soprattutto l’ultima produzione dell’artista, in cui si va alla costante ricerca del concettismo filosofico, di una razionalità che mira alla comprensione di essenze simboliche e dello stretto rapporto tra uomo e natura. Dalle opere emerge, dunque, la grande capacità comunicativa ed evocativa di Spartaco Castelli, il quale dipinge con immediatezza a volte impressionistica infondendo alle luci e alle ombre, alle tinte e alle tonalità un forte connotato metanarrativo tra tangibile e illusione. A volte l’originalità del dettato, però, cede il passo ad una ricerca dell’essenziale e dell’esistenziale come ad esempio nell’olio su tela “Madonna”. Si tratta di un’opera estremamente semplice nel dettato, ma non nell’espressività contenutistica e psicologica. Viene ripresa evidentemente quella compostezza del dolore che caratterizzava le grandi opere rinascimentali. Essa costituisce un punto di partenza per esprimere i turbamenti emozionali, i sogni e le speranze. La pittirce ha partecipato a numerose mostre ed estemporanee. Tra le più recenti si ricordano: Ass. Culturale Art’è (Acitrezza), 2° ed. La scalinata d’arte; Concorso di estemporanea e collettiva di Pittura – Calatabiano: storia, cultura e colore; 5° Biennale Naz. d’Arte - Catania; Premio Il Convivio 2003; Fidapa Immagine sacra - Adrano; Editoriale Giorgio Mondadori, Premio Arte 2002. Ha ottenuto pure il primo premio alla Biennale del Mediterraneo, organizzata dall’associazione culturale Athena di Catania. Premio “Quattro arcangeli del mondo”. La premiazione, condotta da Gaetano Messina direttore di Olismo Rubens, si è svolta il 28 settembre. Sono stati premiati: Arien Ben Nun, uno dei 36 cabalisti esistenti nel mondo; Giuseppe Simplicio, per aver realizzato la marcia dei diritti dei bambini; Graziella Sferruzza per la sua eleganza nell’arte del balletto. Alla manifestazione sono interventute diverse autorità. 57 Prospero Russo Elsa Emmy Prospero Russo è nato a Centuripe (EN) nel 1944. Pittore autodidatta, ha cominciato a dedicarsi alle arti figurative sin da giovane nonostante la famiglia non fosse proprio d’accordo. Ma la tenacia e la passione hanno portato Prospero Russo ad una figurazione intensa ed espressiva, intrisa di emozionalità e suggestione. Abile artista, ritrae prevalentemente scorci naturali in cui la palpitante poesia si tramuta in tonalità fresche e luminose. Il gioco di luci ed ombre, infatti, rende le opere di questo autore quale insegna dei silenzi dell’anima, delle angoscianti problematiche quotidiane, ma anche di una semplicità e tranquillità naturali. Rigorosa nella composizione, l’arte di Elsa Emmy mira all’illusionismo metaforico, ad un’espressività che trova il suo fondamento in bilico tra la razionalità e la afigurazione. «In trent’anni di caccia all’idea la Emmy è andata verso un’assenza, come uno scrittore che sogna il libro a venire. Questa sua assenza non si manifesta in una serie di fratture, di silenzi, d’intervalli musicali», così scrive sulla nostra autrice Antonio Corsaro in una lettura attenta e precisa. Ma la posizione della Emmy nel campo conoscitivo è ancora più marcata. La brocca, olio su legno, cm 45 x 35 Ricettario per tramonto, tempera su tela, cm 200 x 150 I paesaggi ben strutturati fondono la loro espressività sulle cromie calde e fredde, sempre contrastanti, che danno all’opera un equilibrio dinamico e si risolvono in un’elegia di vita. Pittore di grande energia e sentimento, Prospero Russo richiama quel superamento del chiaroscuro, propriamente romantico, che approda alla macchia impostando l’opera su una nuova relazione luce-colore. Nonostante questo recupero del passato, mantiene una viva originalità che sfocia nella ricerca di un equilibrio tra i variegati turbamenti dell’anima. La tendenza ad un irrazionale universale si avvia, come nell’opera qui presente, ad una valenza simbolica e spazializzante. Lo spazio dunque in un movimento concentrico tende ad ampliarsi per compressione e rarefazione, simulando o dissimulando un complesso procedimento gnoseologico che alla fine non si identifica nell’assenza, ma in una metaforica e surreale presenza. Poesia e pittura contestualizzano le opere di questa mirabile pittrice siciliana che si addentra sempre più verso uno spazio espressivo unicamente originale nel campo pittorico nazionale e internazionale. Le sue opere, dunque, si materializzano in un crescendo di sensibilità adottando di volta in volta le tecniche più disparate con l’utilizzo di carta, chiodi, stoffe e materiali legati al riciclaggio. Il tuo volto di Rita Valentini Il tuo volto scarno, il tuo sguardo che attraversa l’orizzonte alla ricerca di mari tranquilli che non trovi, il porto dove arrancare la barca sbattuta dai flutti. Chi ti ha mosso i fili dell’anima stracciandola a brandelli così che tu non possa donarla a chi ti avrebbe amato. 58 realtà e sogno, corpo e pensiero, oggettività e soggettività. Così «l’inesprimibile, l’emozione e l’eros giocano un ruolo determinante nelle opere di Elrej e sono i soggetti ricorrenti che ce lo fanno riconoscere: le sfere, gli scarni alberelli dalla natura ostile, gli intensi fondali blu, le scenografiche ambientazioni» (Fulvia Equino). Elrej Il compito del surrealismo è di «risolvere le condizioni, finora contraddittorie, di sogno e di realtà in una realtà assoluta, in una surrealtà». Così scriveva Tzara e oggi, trovandoci di fronte ad un artista come Elrej, si risvegliano pulsioni che privilegiano quell’inconscio freudiano, quella infinita dimensione onirica, passionale, allucinatoria. Le opere di Elrej (Ennio Rutigliano), nato a Foggia nel 1951, saporano d’infinito, di sogno e hanno il fascino irresistibile di un’eccezionale vocazione. Così come il mondo onirico vive in una dimensione aspaziale e atemporale rispetto alla realtà, esse trattano quegli ambiti del razionale-irrazionale che da sempre affascina l’uomo stimolando nel fruitore una fantasia che va oltre la tela, fino a raggiungere un lirismo filosofico. Sergio Osimani Sergio Osimani, nato a Loreto il capodanno del 1946, da numerosi anni di dedica alla pittura e alla scultura. Il suo percorso artistico parte dall’analisi interpretativa del reale, da cui «nascono forme ben strutturate e tonalismo che interagiscono coerentemente con il complesso sistema percettivo dell’artista, il quale disponendo di un assoluto e armonioso riscontro iconografico sostiene l’ideale prioritario nella giusta direzione interpretativa» (Flavio De Gregorio). Artista di grande originalità, si allontana dai suoi contemporanei per la capacità di assemblare e rielaborare i concetti che trae dal mondo. Pur distaccandosi completamente dalla tradizione figurativa, mantiene l’armonia della forma e della composizione alla ricerca dell’incertezza del mondo odierno. L’essere e il divenire, olio e acrilico su tela, cm 100 x 70 Si tratta di opere intense, che elaborano un linguaggio originale, pur nella sua classificazione, e che permettono al microcosmo umano di respirare l’infinità di una dimensione metafisica attraverso le forme e i colori. Ogni tela è libera da un adeguamento al mondo esteriore, ma la ragione, come sempre, svolge un’azione principale attraverso la parziale razionalizzazione del passionale, del metafisico, del sogno. L’arte stessa è forse un sogno utopico e premonitore, ma la sua dimensione è da assimilare con il cuore. Il massimo spunto razionale risiede in un simbolismo totale e perfetto che funge da mediatore tra reale ed esistenziale metafisico. Emerge una dimensione fluida, imprendibile per i cinque sensi, che appare a volte meravigliosa, a volte mostruosa. Anche la visione assume così un ruolo conoscitivo che tende a capovolgere quei rapporti ‘normali’ a cui è abituata la mente dell’uomo. Si delinea quindi la concezione del vuoto e dell’imprendibile: insomma i limiti della ragione nella lacerazione del nostro tempo attraverso un idealismo e l’ossessività del simbolo, della scissione tra Ognuno la sua Egli, dunque, sembra far confluire nelle sue opere la materia reale e la visione di un mondo astratto. Pochi oggetti di scarto, come pezzi di ferro o elementi più svariati, si tramutano in concetti essenziali che esplicano il complicato stato d’animo dell’autore. Sergio Osimani mira così all’essenzialità del messaggio in un’attenta contemplazione sul senso della condizione umana. 59 premo consigliere in tutte le contingenze della vita. Ma al di là del manipolo di componimenti in metro vario, impreziositi da espedienti ritmici gustosi e consistenti, accanto alla palpabile suggestione di morbido e tenero sentimentalismo, vigono un’intonazione pietosa e una prospettiva umanitaria, che dettano al poeta eterogeneità tematiche e stilistiche, ordinate e ricomposte in liriche sociali dal sapore scopertamente polemico, che segna davvero una svolta espressiva, in cui affonda le radici il nuovo corso della sua poesia, che si adegua alla personalità spiccatamente originale. La materia della lirica è certamente di una sua specificità, ove l’amore e le gioie della vita cozzano con l’attenzione sulle atrocità di recenti conflitti in Iraq e in Afghanistan, che danno maggiore corposità al volume, che si può definire una perfetta raccolta autonoma nel suo genere, iscritta nel contesto di una ispirata tessitura poetica. Sul piano dello sperimentalismo espressivo, il vernacolo siciliano di Peci continua le raffinatezze linguistiche e tecniche nella ripresa delle inflessioni di un vocabolario vivo e parlato ed echeggia la stessa ansia di ricerca di uno stile proprio, la stessa percezione vivissima e sofferente del tempo, lo stesso schiudersi appassionato e travolgente del riferimento immediato del quadro di vita in che viviamo, che furono già del neoclassicismo arcade di Meli e del verismo caricaturale e grottesco di Martoglio, ai quali non esiterei ad accostarlo. La foggia della ricostruzione delicata e sfumata della sensibilità lirica, che può offrire il dialetto scelto dal vivo, fornisce in tal modo la chiave di lettura più consona per l’affermazione di temi che non perdono in lui l’esasperata tensione della sincerità espressiva e le delicate fattezze di istanze poetiche di dimensione perfetta, da cui emana la sua spiritualizzata idealità neorealistica, sia sul fronte contenutistico, che sulla scelta della forma, a tratti tipicamente elegiaca. In essa si placa l’anelito alla ricerca di uno strumento espressivo duttile e malleabile capace di rendere concreta la proteica complessità dell’anima del poeta. Nino Sanfilippo Recensioni Fiorisce la letteratura dialettale con l’opera di Domenico Peci: L’infanzia e l’adolescenza negate (Prova d’Autore, maggio 2003) Viene acquistando particolare rilievo nel vernacolo siciliano la poesia di Domenico Peci, che inaugura una vena autonoma e originale, espressione di una cultura ricca di pittoreschi quadretti e di temi di lirica, intessuta di riflessioni sui problemi sociali, di vita quotidiana e di confessioni autobiografiche, che si ravvivano di immagini e di concetti assumenti caratteri di tensione suprema ed emozioni umane ricche e variate. La padronanza tecnico-linguistica e l’analisi metrica e stilistica della raccolta “L’‘infanzia e l’adolescenza negate”, prima edizione, maggio 2003, Prova d’Autore Editrice, celebrativa della sacralità dei diritti dei bambini indifesi, oggetto di impressioni e di risonanze interiori del poeta, rivelano una complessa struttura metrica, non intervallata da scansioni da una strofe all’altra e modulata da sapiente cadenza ritmica, mentre i versi, di forma regolare, hanno l’andatura di una magica frase musicale, che espande ogni suo elemento, risolto in un intenso monologo contemplativo «intra stu’ munnu», e proietta la voce intrinseca del poeta sulla realtà esterna. La poesia ritrova in tal modo la propria intima espressività nel linguaggio colorito e in una sorta di rapimento estatico di esplodente e incontenibile commozione. Peci è pervaso dal richiamo all’amore per i piccoli indifesi dell’“infanzia negata”, suggerito dalla misteriosa voce della coscienza, che gli fa evocare, con una sorta quasi di rito, immagini dolci, «u surrisu di ‘mpicciriddu» «i ‘angili do’ surrisu», miste con l’urgenza di dichiarare qualcosa di convincente e di risolutivo, che deve rivelare ai lettori la presenza di una sconcertante realtà, nella quale, con «Virgógniti, ómu, ránni!», la lirica si trasforma in inquietante esigenza di moralità e brama di giustizia, che fanno assurgere ed elevare le considerazioni ad esplicita condanna. Nella ripresa di questi motivi peculiari di un’etica tradizionale e risentita, il poeta opera un approccio tramato di perplessità e di riserve, in cui si avverte la viva eco del linguaggio e della lezione della voce del cuore, al cui ascolto si sente inondare di ebrietà vera e accendersi di sacro ardore e di mistico entusiasmo. Nella vita c’è bisogno di fratellanza e di amore, che il poeta ravvisa «intra ‘n ‘orfanotrofiu», dove, nella gioia della comunità di vita, si dovrebbe insegnare come bisogna avere nell’intimo tutto un tesoro di parole, stillante il miele della bontà per chi passa «L‘infanzia senza la ninna-ó», per cullare chi ha necessità di consolazione e lenire le angosce segrete: norme immutabili su cui sono basate le fondamenta del grande consorzio civile. Le «Tirribili profanazioni», il «Miserabili cummerciu d’organi umani», il «No a lu travagghiu minorili» denotano un fervido attivismo sociale nell’animo di Peci, che agisce in senso apertamente anticonformistico, supportato filosoficamente da una ripresa evidente dei motivi etici principali, dei sentimenti di umanità, onde l’ingegno e gli studi non valgono quando non si racchiude in fondo all’essere un cuore palpitante di bontà, che disdegna le prassi, tanto consuete quanto stolte, e quando non c’è l’amore affratellante, su- Jean Sarraméa, la poesia coniugata alla storia in Le regard d’Hermès, (Francia, Luglio 2003) La storia è l’uomo, l’uomo è la sua storia. La storia è fatta di individui e di masse umane che operano e cooperano insieme per un obiettivo comune, ma se giusto o sbagliato saranno poi i posteri a dirlo. Che la storia rientri nella poesia è cosa rara. Di solito la poesia si fonda su sentimenti personali e intimistici. Invece nell’ultima silloge del poeta francese Jean Sarraméa, dal titolo Le regard d’Hermès, la storia diventa quasi il fulcro della poesia, attraverso i sentimenti e le emozioni che i protagonisti sanno suscitare. Protagonisti del passato che ancora oggi sono vivi con le loro immagini e con le loro indelebili azioni. Il tempo viene fissato nei versi. E la storia e il tempo sono entità distinte, che vanno a braccetto. «Une auguste statue en fleur de marbre blanc / est l’antique symbole au long miroir du Temps... (Una statua augusta in fiore di marmo bianco / è l’antico simbolo nel lungo specchio del Tempo...)». Ed è proprio il lungo specchio del tempo in cui si riflettono le personalità forti che hanno lasciato le loro tracce nella storia. Socrate, ad esempio, con il suo esempio di virtù che non ha paura di fronte alla morte. Carlo V, re di Spagna, che sa trovare un contatto umana nel suo viaggio attraverso l’Europa e quindi 60 anche in Provenza. Giordano Bruno e il suo sogno di libertà. Ma a questa storia di individui si contrappone la storia delle masse e allora vengono evidenziati fatti sociali, come la rivolta dei setaioli e le loro istanze. Ma la silloge di Sarraméa non è un volume di storia o di letteratura né di arte o un’enciclopedia. Si tratta di poesia coniugata ad un’elevatezza lirica che, attraverso una profonda sensibilità umana e spirituale, oltre che intimistica, lascia nella mente del lettore un alone di grazia e di bellezza, oltre che di passionalità. Il volume è diviso in sette parti. Le prime due incentrate sulla storia: Les blessures du passé e Les soleils de l’histoire. La terza parte riguarda facezie geografiche. Quasi giochi di fantasia in cui ricorrono, attraverso una descrizione lirica e realistica, stupendi paesaggi e località più o meno note, che comunque hanno lasciato nell’animo del poeta profonde emozioni. La quarta parte invece è più legata alla realtà del presente, con temi come la deforestazione oppure le donne afgane. Qui prevale quasi un sistema aforistico. Un esempio: il terrore è un’arma dove il debole viene frantumato. Nella quinta parte, dal titolo Les sentiers de la nature, è la natura che suscita emozioni attraverso i suoi spettacoli come il crepuscolo, la vita naturale, gli uccelli con il loro canto, la nebbia, il cielo, il sole, le stagioni e i loro fiori. Nella sesta parte, Les clins d’oeil de la poésie, si l’autore si sofferma sul pensiero e sulla sua fragilità. Emblematica in questo senso è la poesia conclusiva. Una poesia in prosa in cui ci si avvicina ad una sorta di Nirvana, dove si incontra il pensiero-solo, una fusione piacevole con una libertà di movimento intellettuale quasi perfetto, una scelta infinita di piste d’esplorazione dove confluiscono la Ragione e i sentimenti senza partigianeria o antinomie. Ma è la speranza ad aver la meglio nell’ultima sezione della silloge, una speranza legata alla realtà. Sotto l’aspetto stilistico e formale la silloge riprende vari schemi classici, dall’acrostico ai giambi, dalle terzine ai ritornelli, dai fabliaux ai sonetti. Tutto questo rende la poesia di Jean Sarraméa varia e nello stesso tempo piacevole. Angelo Manitta le sue emozioni. La prima parte, in dialetto siciliano, presenta un legame con la tradizione contadina molto forte. Qui l’affetto e l’amore per la propria terra e le sue tradizioni emergono quasi verso dopo verso. Figure antiche, ormai scomparse, appaiono con irruenza: sono il carrettiere e il contadino. Ad essi si intreccia un paesaggio lunare e solare nello stesso tempo, espresso con semplicità e profondità di emozioni. Tutto viene percorso attraverso la memoria, come scrive Ugo Zingales nella prefazione, quasi per «ricordare le abitudini e le tradizioni: i contadini del Sud, le loro abitazioni dai tetti rustici coperte di tegole di terra cotta, i lunghi filari di viti, i campi di grano con le spighe dorate, il recinto di legno con gli animali da cortile, ed ancora in un angolo il vecchio cascinale, l’antica zappa ed il vecchio aratro a chiodo, ultime testimonianze di un mondo scomparso». Nella seconda parte del volume invece sono inserite liriche in lingua italiana. Qui la poesia si fa contemplazione e diventa più riflessiva. L’uomo si trova di fronte al creato e ad un universo naturale, in cui il pensiero e la riflessione personale travolgono il lettore con visioni maestose ed emozionanti. L’irruenza della natura e la sua presenza impellente mettono l’uomo a contatto con il divino, che si manifesta proprio nei simboli naturali che di esso sono portatori, come la pioggia, il vento, la notte. Emblematiche in tal senso sono le tre composizioni che hanno come titolo Pensiero. «Felici come piume / al vento, mille pensieri / volano per l’azzurro cielo, / mentre Angeli in coro / cantano versi divini». Questo modo di esprimere la propria interiorità spinge l’autore, Matteo Formica, che è pure raffinato pittore, a presentare tematiche legate alla realtà sociale, ma pure ad eventi tradizionali, come pure affetti personali. Questo tema pervade un po’ tutta la silloge dall’inizio alla fine. E la figura del padre o della madre si stagliano in un cielo azzurro e in un mondo dove tutto viene idealizzato attraverso il ricordo e l’emozione. Andando su questa scia la poesia di Matteo Formica riesce a coinvolgere il suo lettore e lo trascina passo dopo passo in un mondo ormai passato, ma idealizzato dalla mente come un misterioso paesaggio. Le poesie così acquisiscono una visione pittorica, in quanto ognuna di esse somiglia ad un piccolo quadro. Non per nulla molte di esse sono accompagnate da splendidi disegni che evidenziano la maestria del suo autore. Angelo Manitta Matteo Formica, liricità e tradizione in Di la terra mia (ed. ASLA – Palermo 2002) «Anime inquiete vagano / per gli spazi infiniti, / nell’azzurro intenso / colori di festa / segnano glorie e, / voli d’uccelli / destano l’aria di / primavera vicina. / Il fiore di pesco / colora di rosa tramonti / e verdi distese / di cuori innocenti / che s’incontrano a sera. Musiche armoniose / di vecchi ricordi; / di cose lontane, / rivivono i cuori / e, nell’aria di festa, / anime inquiete vagano / per gli spazi infiniti». Questa poesia, posta nella penultima pagina di copertina del volume di Matteo Formica, dal titolo Di la terra mia, manifesta tutta l’emblematicità e la peculiarità della lirica del suo autore, e quindi della sua poetica, espressa in maniera molto chiara anche nella breve premessa alla silloge, in cui si legge: «La mia carta è la tela, la mia penna è il pennello, i miei pensieri sono le masse diverse di colori, per cui alla fine nasce un comprensibile e ragionevole soggetto». Ed in effetti la poesia di Matteo Formica è fatta dei colori e delle emozioni che da essi scaturiscono. La vita e il pensiero si fondono con la realtà vissuta nella sua quotidianità, anche se la silloge è distinta in due parti ben diverse e caratterizzanti, e con l’unico denominatore: la campagna e Genesi di un’alba e tramonto di un tempo (quasi un racconto) di Otilia Jimeno Mateo, (Accademia Internazionale Il Convivio, Anno 2003). Il tema dell’Uomo come individuo nel grande progetto della vita, l’intera umanità in rapporto con il tempo è sempre stato e resterà un argomento affascinante, sul quale scrivere ancora sia in prosa, sia in versi. Lo fa la scrittrice di romanzi, saggi e poesie, Otilia Jimeno Mateo nata in Spagna nel 1924, che ha pubblicato “Genesi di un’alba e tramonto di un tempo”. Il sottotitolo del volume specifica che è ‘quasi un racconto’ data la prolissità dei versi costante e progressiva nel senso che, al posto dei titoli per distinguere ogni lirica c’è la numerazione romana fino alla XLVIII (48) poesia. Anche nella suddivisione dell’intero testo è presente un’evoluzione, in quanto il libro si divide in quattro parti che si completano in successione e sono: E fu la vita, Cammino dell’uomo, Verso un risultato umano‘il trion61 fo’, Conseguimento di qualcosa?. Nell’accingersi a leggere la raccolta di versi dell’autrice spagnola contemporanea, si chiede la prestezza di tenere sempre a mente, come punto di riferimento, l’essere umano, nucleo di un sistema nato prima di lui e forgiatosi attorno a lui. Questo è importante per non perdersi nel lungo cammino di versi, architettura quasi in forma di esposizione prosastica di facile lettura, giacché sono realmente comprensibili gli iniziali propositi dell’autrice che voleva raccontarsi e raccontare cosa significa crescere, vivere, comunicare con la natura, con i propri simili, con il Creato e soprattutto attraversare il tempo. Il tempo è fatto anche e soprattutto di giorni semplici, quelli in cui non è accaduto nulla di rilevante e «Verrà il camminare, / vivrai le giornate / e senza poter sfuggire / giungerai ad un’altra alba. / Un altro giorno essenziale / che si chiamerà martedì / spunterà alla tua finestra / ed ebbra del suo guardare / l’aprirai con facilità» (Da XIV). La fine è legata alla domenica “Tramonto di un tempo” della settimana conclusasi dopo tanti impegni, progetti, incontri che, in qualche modo ricordano in piccolo gli sforzi di Dio Padre Creatore dell’Universo che «nel giorno settimo, volle conclusa l’opera che aveva fatto. Quindi Dio benedisse il giorno settimo e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni opera da lui fatta creando. Queste sono le origini del cielo e della terra quando Dio li creò» (Dal Vecchio Testamento, Genesi 2, 2-4a). Il testo a fronte che ripropone gli stessi versi ma in versione spagnola esalta ancora di più gli originari proponimenti dell’autrice. Michela Isabella Affinito antologie poetiche, “L’ippopotamo e altri animali” è l’esordio con la dimensione del racconto. Pur definendosi “un dilettante” (il suo back ground culturale è essenzialmente tecnico-scientifico) sa dimostrare una notevole padronanza della lingua scritta, e una capacità di inventiva che rendono accattivante e non privo di fascino il suo discorso. Il volume è arricchito da una grafica gradevole, costituita da illustrazioni a colori, semplici ma estremamente espressive nel tratto, realizzate dall’autore stesso. L’uscita in librerie è prevista dal mese di Novembre al prezzo di copertina di # Fedel Franco Quasimodo, Il giardino dei pensieri (Edizioni Movimento Salvemini) La silloge di Fedel Franco Quasimodo scorre dal personale al sociale con una soavità d’intenti che liberano il poeta da ogni dimensione schematica. I versi iniziali inteneriscono per la dolcezza che il poeta manifesta verso il debole: «Ma sarò sempre al tuo fianco / a vigilare, custodire, con te, soffrire e gioire, / perché vedo in te / lo spirito di Cristo». Allo stesso modo, però, non stupisca il tono severo della critica storica che Quasimodo rivolge all’«uomo calvo e truce, / che si fa chiamare Duce», all’«ignoto aviatore» che «regala la Morte, / e ha una medaglia sul petto» o all’«austriaco caporal. / Trascinatore di popolo, / rivendicatore di torti, / trascina la Nazione / in un ginepraio di morti». Sono i diversi risvolti di un carattere poetico sensibile ed altruista, di uno spirito inquieto incapace di tacere le contraddizioni della storia, del quotidiano e le proprie. «Perché getto versi?» si domanda Quasimodo. «È forse perché / voglio tradurre in arte / la mia angoscia?». Il suo è un percorso difficile, così come è difficile quello dell’essere umano in genere. Soffre il soldato, destinato a morire «per vivere in eterno, / osservando con grande giubilo / l’odio che inalbera / il vessillo di resa». Soffre il vecchio «perché avvolto dalla malinconia / di non avere più nulla da dire / e nulla da fare». Soffre lo squatter «cattivo, forse, / ma anche vittima: / di una famiglia che non ti ha mai parlato / e ti ha solo sopportato». E soffre anche il poeta. Malinconico, depresso, saltimbanco, ma poeta. Che «gioca con la rima, / per guadagnar vana stima». Poeta a dispetto di chi lo vorrebbe isolato nel suo eremo. Un poeta legato emotivamente al mondo; forte nelle immagini più accese dei suoi versi ed emozionante nel pianto in cui scioglie le sue inquietudini più profonde. «Non sono altro che una lacrima / che mai muore / perché sgorga / da una fontana / sempre zampillante / che è l’umanità». Eloisa Nicotra L’ippopotamo ed altri animali di Giacomo Manzoni di Chiosca (Ed. ARCA – Lavìs - TN) Può un ippopotamo vivere in Alsazia? Certo che no! E che ci fa un Tricheco alla “Festa d’Ottobre”? E una giraffa, può fare l’attrice? Partendo da situazioni estremamente improbabili, gli animali antropomorfi di Giacomo Manzoni di Chiosca, come nella grande tradizione favolistica da Esopo in poi, sono ricchi di sentimenti e di passioni, si muovono più o meno goffamente nel mondo reale, mettendo in evidenza, spesso con sottile ironia, attinenze e contraddizioni con la vita moderna. La realtà, filtrata attraverso gli occhi e le esperienze di questi personaggi, pieni di vitalità ma ingenuamente poetici ed indifesi, assume un colore dolceamaro, che a volte ci fa sorridere, a volte ci fa pensare. Il lettore ritrova un po’ di se stesso nei simpatici protagonisti dei sette racconti raccolti nel volume, di un centinaio di pagine, che si presenta in veste tipografica elegante ma non vistosa. Ritrova un po’ delle proprie passioni, dei propri ricordi, dei propri sogni, ma anche i propri difetti e le proprie debolezze. Si ha quasi l’impressione di aver già vissuto in prima persona le semplici storie, dall’intreccio labile, ma ricche di descrizioni e di riferimenti. E ciò rende la lettura scorrevole e trascinante. “Favole per tutte le età”, recita il sottotitolo: l’adulto vi si specchia, ritrova nel suo cuore odori, atmosfere, un tempo di baci e di sottile nostalgia che rianima, nel proprio animo, segreti custoditi nello scrigno di infantili prodezze. I lettori più giovani possono affacciarsi su un mondo stranamente reale, il mondo dei padri, dipinto in modo affettuosamente fantasioso e un po’ canzonatorio. Per l’autore, già noto per aver vinto diversi premi in concorsi letterari, e già inserito in numerose Congedi Balcanici: la realtà sociale della Croazia vista da Drazan Gunjaca (Fara ed., luglio 2003) Un romanzo, denso e vorticoso, indimenticabile di forti passioni e di grandi atmosfere che travolgono e avvolgono il lettore. Una pagina di una guerra dimenticata un’indagine psicologica minuziosa e magistrale dei sentimenti e dell’anima umana, dove le vicende private scorrono parallele ai grandi eventi drammatici dell’ex Jugoslavia di una generazione, dove scontri e sentimenti sono rappresentati a tutto tondo con una profonda capacità di introspezione sempre animata da una tensione vivissima che segue fedelmente gli avvenimenti, da personaggi indimenticabili mossi da 62 un tragico destino. Sentimenti di volta in volta profondi e violenti, inconfessabili e travolgenti animati dall’odio, momenti esaltanti e travagli di coscienze. Il giudizio di Gunjaca è quindi severo, amaro, di volta in volta sconsolato ma non recide il cordone ombelicale che lo lega all’amore, per cui, l’amore rimane sempre, la vita della vita. È questo lo sfondo in cui si svolge e si snoda il romanzo “Congedi Balcanici”, dove da ogni pagina si respira la paura e la morte, protagonista egli stesso di molti eventi di cui molti non hanno compreso le ragioni e le forme di degenerazione e di brutalità inconcepibili. Un romanzo profondo, intenso, che appassiona e affascina per la sua insolita cadenza narrativa per le sue atmosfere un libro scritto con un linguaggio di consumata abilità e partecipazione da un narratore come Drazan Gunjaca. Ecco i protagonisti, vittime come frecce conficcate nella ruvida pelle della realtà. Emergono i personaggi, comparse nel dolore e nella disperazione, tra soprusi e inumanità, testimoni di una tragedia consumata tra orrori e disastri. L’altra faccia della luna viene illuminata e il dramma rivela il suo volto sconosciuto, quello dell’indifferenza che nasconde meglio di qualsiasi paravento. Il pianto sui propri morti vinti e impotenti nel loro lamento, le loro grida riempiono le pagine di questo romanzo in questa atmosfera rarefatta, allucinata e soffocante in cui la guerra si rivela ancora una volta in tutto il suo grottesco e tragico cinismo, dove non esistono né vinti né vincitori, ma ognuno alla ricerca della propria anima. Il dramma di Gunjaca è dentro il racconto, dentro il disegno dei personaggi, all’interno del rapporto tra le situazioni: è a questo nucleo che occorre giungere se si vuole tentare di capire il senso drammaturgico di questo scrittore che pazientemente ha cucito un tessuto fatto di disperazione, solitudine ed attese. Un documento vero, una testimonianza vera. La memoria una certezza che la testimonianza è eterna e che si muove oltre la propria coscienza. Alessio Piano tradimenti, avvenuti in altre traduzione, ripercorre tutte le varie tappe della sua vita, dall’infanzia nel suo paese d’origine, all’esperienza dell’emigrazione con il suo carico di miseria e spietata emarginazione, fino a giungere infine alla scoperta e alla scelta letteraria come riscatto alla sua condizione per la riaffermazione della dignità di uomo... Son of Italy è l’autobiografia di una vicenda sicuramente emblematica sia per le connotazioni umane ad essa connesse che per il valore, emblematica di una condizione esistenziale permeata dalla sofferenza e dall'umiliazione ma riscattata ampiamente dalla dignità cercata e conquistata a prezzo di altissimi sacrifici. Sono così ripercorse, capitolo dopo capitolo, le tappe della vita di Pascal D’Angelo dall’infanzia nel suo paese natale, con tutte le difficoltà legate alla miseria e all’emarginazione che lo portarono alla scelta, a 16 anni, insieme col padre, ad emigrare in America, per giungere poi alla realtà amara, contraddittoria e densa di difficoltà del nuovo paese... Il libro di Rino Panza, stampato a cura della “Fondazione Ignazio Silone”, è stato inserito nel “Progetto Scuola” della stessa, che si va realizzando nelle scuole d'ogni ordine e grado a livello nazionale, con lo scopo di far conoscere e far appropriare il mondo giovanile della “Storia degli umili” del nostro paese, proprio sull’esempio dell’opera e della vita d’Ignazio Silone, un fine ed un’impresa encomiabili perfettamente raggiunti, in questo caso, dall’opera di Rino Panza. Franco Dino Lalli Poesia dallo sfondo sociale: La rosa Gialla di Vittorio Baccelli (Montedit, Melegnano 2002) Vittorio Baccelli, con “La rosa gialla”, ha voluto riorganizzare l’abbondante materiale poetico da lui sciorinato durante gli anni in varie pubblicazioni, ne ha tratto questa corposa raccolta che, oltre ad avere valore poetico, ne ha anche uno storiografico ed ideologico, perché in essa vengono puntualizzati eventi e preconizzati fatti con profetica veridicità. Non è facile avvicinarsi a questo genere di poesia dalla quale si evince la personalità forte, antiopportunistica, proletaria, dell’autore, attento a far ben emergere il suo punto di vista di fronte ai fatti che viene enunciando. Dotato culturalmente, sagace nel maneggiare il verso con soventi scorribande allusive, originale nella concezione, Baccelli non nasconde la sua avversione ad ogni forma di imperialismo economico ed ideologico che ha imperversato per diverso tempo. Da buon cronista egli ripropone gli eventi con conseguenzialità, arricchendoli con adeguata cornice di commento personalistico, esumazione di personaggi esistiti, paludati di quella sottile ironia tipica di chi non disdegna esternare i suoi punti di vista, le sue idee. Vi sono chiari sintomi di profetismo quando si pronosticano trionfi e sconfitte, crolli e resurrezioni di personaggi veri che hanno calpestato uno scorcio del secolo scorso. Non mancano allusioni politiche di chiaro marchio materialistico, una analisi spietata di un triste periodo in cui spesso si sentivano gli echi delle armi, periodo di clandestinità, di attentati, di cortei di protesta. Innegabile una versificazione, allusiva e forbita, sempre attenta ai contenuti, evidenzia una personalità, quella di Baccelli quanto mai frammentaria e poliedrica, allergica alle acquiescenze ed ai succubismi. Questa sua raccolta ha un alto valore storiografico, perché puntualizza Rino Panza, Il mondo di Pascal D'Angelo Poeta del piccone e della pala (Fondazione Ignazio Silone, Febbraio 2003) Rino Panza, studioso di chiara fama d’Introdacqua (AQ), con questo suo saggio offre in maniera effettiva, esauriente e preziosa un contributo alla conoscenza della vita e dell’opera di Pascal D’Angelo, autore finalmente studiato e rivalutato dopo tanti anni d’ingiusto oblio. I meriti fondamentali del saggio di Rino Panza sono numerosi e tutti riferibili alla sua capacità di fornire un quadro molto articolato ed esauriente, attraverso un’ampia e multidirezionale documentazione, del mondo di Pascal D’Angelo, poeta e scrittore emigrato in America da Introdacqua nel 1910. «Senz’alcun intento agiografico, poiché mal si adatterebbe alla personalità di Pascal D’Angelo, poiché calcare l'accento sui suoi dolori e sulle amarezze della sua vita può far correre il rischio di cadere in un pietismo che evidenzi l’uomo sfortunato più che l'artista dalla volontà di ferro», attraverso il fil rouge costituito dal romanzo autobiografico Son of Italy, pubblicato da D’Angelo nel 1924, Rino Panza, riassumendo alcune parti e curando personalmente la traduzione dei brani testuali che ogni volta sono stati scelti per la portata artistica e narrativa, cercando il più possibile di essere fedele all’originale per non incorrere in 63 un breve ma intenso periodo ricco di fermenti sociali, di contrapposizioni ideologiche. Non si esclude una certa cerebraloidità con la quale il discorso viene imbastito, non sempre di immediata intuizione, per non dire comprensione. «Il mago spezza il pane / frugare con un ferro di calza / in un orologio a pendolo / ricordo che ti piace un mio / quadro il più cinese tra / quelli che ho dipinto». Non aggiungo altro! Pacifico Topa Ines Scarparolo: Quando fiorisce il pesco (ediz. Le schegge d’oro, Montedit, Milano 2002) e Il respiro dei fiori (Ed. veneta, Vicenza 2002) L’autrice vicentina ha, al suo attivo, numerosi premi e riconoscimenti per la poesia in lingua e in dialetto ma soprattutto ella possiede un’anima specialissima per raccontare il mondo dell’infanzia e dell’adolescenza. Per una scrittura rivolta ai bambini è necessario mettersi nella loro lunghezza d’onda, calarsi tout court nella dimensione del bambino. Per Ines Scaparolo questo non pare difficile, tanto ella possiede un’anima candida come loro, un modo di porsi che è spumeggiante, effervescente e dolcissimo come sono appunto i bambini. Lo dimostrano ampiamente questi due volumetti: in entrambe queste raccolte, Ines parla con la voce dei bambini, si fa portavoce delle loro aspirazioni - e anche sì - della loro sofferenza. Nel volume “Quando fiorisce il pesco” sono raccolte filastrocche e poesie, in cinque sezioni divise per argomenti, tutti accattivanti, ma la parte che più colpisce è senza dubbio in “PARLIAMONE” dove l’autrice presenta ai bambini - in maniera singolare e intelligente - i problemi di oggi: alla notizia scritta in grassetto fa seguito il “commento” del bimbo: ad es: «L’ammontare dell’evasione fiscale / del nostro paese / riuscirebbe a coprire interamente il debito pubblico. - Dice la mamma: / - Quanta disonestà c’è dappertutto! - / Ed il papà: / - Soltanto i furbi stanno a galla / tra tante ruberie! - / Per questo forse / lui non segna tutta l'IVA / ed è convinto / che non sia una ruberia?». Nel volume “Il respiro dei fiori” (quattro sezioni) – 3° premio al Concorso “Anna Osti - poesie per l’infanzia” – l’autrice presta la voce a tutti i bimbi del mondo e qui ne cito soltanto due: «Ahmed, anni dodici» (dal Marocco): «Fermo ai semafori / lavo parabrezza / di auto impazienti. / Ringrazio e sorrido / se una moneta cade / nella mia mano tesa ...». «Salvatore, anni dodici» (dall'Italia): «Mio padre non lavora / e io, guadagno il pane. / La scuola?, Ma che ci vado affà ? / Là mica mi imparano / a gabbà la Pula!». «Bionde, bionde profumate! / Dieci euro alla stecca!». Segue anche in questo volume la parte in dialetto e cito soltanto la bellissima “Ciàcoe de Maria al so Gesù” dove la Madonna parla a Gesù in dialetto vicentino. Entrambi questi volumi sono corredati da bellissime illustrazioni dell’autrice - che anche in quest’arte ha una mano felicissima - inerenti i temi trattati, volti di bimbi tristi o sorridenti ci osservano riuscendo ad indurre noi adulti lettori ad un esame di coscienza. Ines Scarparolo è certamente riuscita, con queste due opere a lasciare una sua traccia, a lanciare un suo “salvagente” verso il mondo dell’infanzia più bisognosa. Rina Dal Zilio Desiderio ed aspirazione nella silloge Un grido di luce di Rosalba Masone Beltrame con nota di Mario Lungarotti (Book editore, Dicembre 2000) Nella silloge “Un grido di luce” Rosalba Masone Beltrame sfoggia uno stile poetico quanto mai innovativo ed originale, sia nella stesura che nella forbitezza linguistica. La potremmo definire una raccolta del ‘desiderio’ in quanto sovente emerge l’ansia di un qualcosa a cui lei aspira, ma che le sfugge, o invoca invano... «Mai ti disseteranno pioggia vento / Non ti disseteranno / né t’allieteranno / né colmeranno il nulla». La nota pessimistica che aleggia cupamente le negatività esistenziali sono evidenti, lei le stigmatizza per cui la terra «è un ponte gettato /nel blu / dove / il dolore / passeggia». Ed ancor più avanti: «chiudere gli occhi / per non vedere / per non sentire». V’è rassegnazione di frronte a questo turbinio di... «sproloqui e turpiloqui», raffigurazione negativa di questa nostra realtà protesa verso conquiste effimere, ma lei dubita: «C’é chi possa ascoltare / l’urlo ferito / offeso / strozzato? / C’é? / Chi sarà?.». Ogni tanto un barlume di speranza... «Se / Dio è / amore infinito / e l’amore è dolore / Dio è sofferenza infinita». La raccolta s’inoltra nella profondità di argomentazioni concretamente realistiche che scuotono dal profondo. «Perché si mutano i tempi? / o il tempo siamo noi / sempre diversi? / perché nulla resta? / e noi non vediamo». Profondità amletica e concettuale. Talvolta colpisce l’asprezza di certe parole: «Perché mi manca / anche il presente?». Sono strali verbali che infilzano nella mente, lanciati da chi ha nell’animo l’angoscia, il tormento oltre che il desiderio di riscatto. Nell’attenta lettura di queste composizioni s’ha la possibilità di intuire un animo esasperato che esterna la sua virulenza poetica con versi singhiozzati, quasi lanciati con forza contro le coscienze altrui. In “Adesso che il mistero” il poetare si fa più delicato la descrizione quasi idilliaca. «La stradina dietro il filare / un dolce dolcissimo perdersi / dove / lontano / si alza la chiesa / e la sua nostalgia». Ma anche qui la mestizia ha il sopravvento. «C’é sempre la nebbia / quando il cuore si confonde con la memoria». A questo punto la rievocazione si tinge di struggente rimpianto; ambiente familiare... «mio padre che lavorava... la famiglia è quasi un’orchestra d’amore». Più oltre: «Eccola mia madre / al centro della vasta cattedrale / che era / l’infanzia». Il sentimento si mescola con la nostalgia. «Tiepide di sole / le panchine / lungo i viali / di Milano». Malcelato rimpianto di quel tempo felice! Alla fine sintetizza se stessa dichiarando: «Ho percorso il mondo... Il tempo è corso / senza noi tra le dita / ne tengo stretti i capi». Ed infine sentenzia: «Il tempo / è indifferente dio / solenne». Poetica quanto mai concettuale di non sempre facile accesso, ma pur valida, perché intensamente sentita. Pacifico Topa Antonietta Benagiano, il rapporto generazionale in Patér (Edizioni Roma, 2001) “Pater” è un romanzo che Antonietta Benagiano ha realizzato sulla stregua di una tematica attuale, una tematica generazionale. Il contrasto ideologico e comportamentale fra genitori e figli si evidenzia in tutte le sue forme e costituisce il fulcro del racconto. Nel secolo scorso, in un cinquantennio, si è verificato uno stravolgimento delle abi64 tudini. Una serie di eventi hanno contribuito a favorire tale trasformazione, non risparmiando neppure i nuclei familiari. Il rapporto padre e figlio è diventato elemento di discussione, non solo, ma spesso, di conflitto; certi atteggiamenti, una volta congeniti nell’ambito domestico, hanno assunto una diversa impostazione. Il settore cultura ha avuto il sopravvento sul fattore esperienza; i figli che hanno seguito corsi di studio secondari si sono sentiti autorizzati a mettere in dubbio la capacità direzionale ed educativa dei genitori, meno esperti culturalmente, ma ricchi di quella apprezzata esperienza che è dote indiscussa. Pater vive nel ricordo e nella rievocazione della sua infanzia, rivive gli insegnamenti paterni, ne sugge le qualità etiche e culturali, ne esalta i valori civili, vorrebbe che anche suo figlio seguisse i suoi insegnamenti, ciò non avviene. I protagonisti vengono proposti nella loro realtà, con pregi e difetti comuni ad ogni essere mortale; ciò che impreziosisce il racconto sono le allusioni riguardanti l’ambiente e ricco di reminiscienze storiografiche e mitologiche oltre che archeologiche, la meticolosità con la quale queste cose vengono esposte denota profonda cognizione e passione per la cultura. Può ben parlarsi di un romanzo psicologico dato che gran parte di esso è riservata alla descrizione dei caratteri, alla specificazione di personalità. La Benagiano ha dalla sua parte quel pizzico di culturalismo che non guasta e che la porta ad un livello preminente di scrittrice dotata di un buon bagaglio cognitivo. Ciò che si rileva dalla lettura è la scorrevolezza linguistica, la conseguenzialità, la naturalezza degli atteggiamenti, soprattutto l’intento di dare qualcosa di valido al racconto che, sebbene con una trama comune, elude ogni forma di enfatismo, scorre rapido e snello nella dislocazione, consentendo un’immediata comprensione. Pater è un racconto moderno, valido da un punto di vista letterario, attualistico, senza sbavature o scadimenti pesanti, proteso verso la con concretezza di un linguaggio sobrio, ma chiaro. Pacifico Topa cano vertici non facilmente reperibili nella produzione letteraria dell’età contemporanea. La claustrofobia di Guido, infine, che invoca, poi che sarà morto, di essere disperso nel mare, come le ceneri degli induisti nel Gange (ma a chi mai sfuggirà l’amore per il mare della nostra narratrice?), reca in sé una potente significanza metaforica: essa non è che claustrofobia della materia, rifiuto dell’annullamento nel turbinio degli atomi epicurei. O, per dirla in termini di fede, bisogno d’immortalità. Aldo Cervo Alberto Cerbone, Canto all’amore (Libroitaliano, Ragusa 1998) Il volume di poesie “Canto all’amore” di Alberto Cerbone si può definire un canto alla vita e alla speranza, quali essenza vitale per riportare l’Io a nuove lotte e superare i mille ostacoli del quotidiano. L’autore, partendo da quello che è il sentimento più nobile: l’amore, non trascura la metafora nei suoi versi tant’è che la fiamma che si sviluppa dal ceppo del camino non è altro che quella della speranza, mentre il passato riaffiora riportando la mente in un mondo lontano. Cerbone ben si colloca in quella fascia d’uomini di cultura che riescono attraverso il linguaggio coacervato a descrivere stati d’animo, esperienze, emozioni senza trascurare quelle che sono i lati negativi della quotidianità. Il suo poetare trasporta e coinvolge il lettore in una sorta di meditazione attraverso versi, ora forti, ora riflessivi, ma pur sempre messaggeri d’ideali. Lo spiccato utilizzo del linguaggio trasforma i versi in elementi efficaci e testimoni di una ricerca che vuole porre la poesia su un piano preferenziale, dove il semplice comporre viene accantonato per lasciare spazio, in una società sempre più telematica, ad una poesia comunicativa che non rinnega le preoccupazioni vere dell’uomo che vede le proprie forze vacillare di fronte ad idoli futili. Ed ecco l’autore metaforicamente descrive l’uomo come un attore che recita il dramma della vita, attraverso il “repertorio” fatto di guerre, fame, droga e corruzione, mentre la speranza, rappresentata come luce, riemerge dal buio della sofferenza completata dalla ricerca di se stessi. Enza Conti Antonia lzzi Rufo, Profumi, (Edizioni TigullioBacherontius, S.Margherita Ligure Genova). “Profumi” è un’utile ed eloquente spia per chi vuole cercare di leggere dentro l’“ars scribendi” della Izzi Rufo al fine di coglierne le più remote forze propulsive. La scrittrice mostra di avere il dono di avvertire, in virtù di una non comune sensibilità artistica, il profumo sublime delle Pieridi là dove più fortemente è condensato, come taluni devoti quello del Santo venerato nel luogo di culto. Di qui la sua ricerca, con traduzione in termini narrativi, di storie particolarmente belle, sentite e coinvolgenti. D’altronde che le divinità che soprassiedono alle arti si preannunzino per via metaforicamente - olfattiva non è una novità: «O bella Musa ove sei tu? Non sento spirar l’ambrosia, indizio del tuo Nume». E la Musa della brava, quanto inesauribile autrice di Castelnuovo si conferma Polimnia, perché mi sembra ormai fuor di dubbio che il suo genere letterario sia quello lirico, anche quando in talune pagine sembra voler inglobare temi e forme della poetica neorealistica. E lirico è il personaggio Guido, combattuto fra due sentimenti amorosi, anarchico ma autentico il primo, istituzionalizzato e subito il secondo, che ritrova, direi quasi reincarnate le fattezze del primo amore «da chiuso morbo combattuta e vinta» - nella figlia, che è poi anche sua, in un finale dove i toni lirici toc- Un nuovo giorno di Enrico Romano (Piero Manni, Lecce Febbraio 2001) L’amore per la terra d’origine e per il passato storico ed artistico sono solo alcuni degli elementi che emergono dalla poesia di Enrico Romano. L’opera poetica si trasforma in una cartolina dove luoghi e paesaggi vengono incorniciati dall’amore innato che l’autore ha verso la poesia, scegliendola come mezzo di trasposizione di sogni e desideri che trovano come punto di partenza il passato. Il contesto naturale, si contrappone alle situazioni sociali e ai sentimenti, mentre la rimozione del ricordo porta a nuove emozioni. Il poetare di Romano non è altro che un mezzo coinvolgente che attraverso sfavillanti immagini guida il lettore tra i meandri di una liricità intensa. Si tratta di una poesia che segue la via del cuore senza trascurare il rapporto uomo-società, uomo-storia, uomo-speranza. Ed ecco che: «Giorno verrà in cui a brandelli, membra di storia, / ricomporranno rivoli di sangue versato, / … E sarà giorno: 65 dalla ripa del mare, quasi fosse piviere, volerà libero il giorno e dirà libero, quel che ci ha fatto!». Nei versi di Romano forte è il connubio tra passato e presente, al quale si contrappone la maturità poetica che infonde quel pathos, che porta alla riflessione di quelli che sono i punti cardine dell’esistenza: la libertà e l’autenticità dell’essere. L’Autore tiene in contatto la vita con la propria interiorità, tant’è che nella poesia “Sguardi”, andando al di là dell’ottica di lettura, si apre, come se fosse un grande dipinto, un movimento di suoni e forme che implorano gli uomini a porre fine a quelle che sono le atrocità della guerra e della povertà. Quindi esperienze umane che prendono vita e si fondano con le esperienze esotiche, mentre lirismo e materialità si completano a vicenda. La poesia di Romano, incisiva e personale, è testimonianza di un vissuto intenso e attento, atta a infondere uno status animi del tutto particolare, mentre colori si sprigionano dagli strati più profondi dell’essere, di quell’essere che con forza cerca pace. E il desiderio di una realtà diversa più positiva è uno dei fili conduttori dell’intera opera del Poeta: «Sguardi atterriti di occhi stanchi, piangenti, / occhi di uomini soli ed affranti, sgomenti, / sguardi di madri e di bimbi… / sguardi che sfuggono all’odio, inseguendo miraggio». In questi versi emerge quella forza superiore che consente di fare un’analisi profonda di un vissuto attraverso un cromatismo verbale intensamente lirico, dal quale emerge il sentire profondo d’appartenenza alla propria terra, intrinseca in chi benissimo si può definire poeta-storico, che riesce con la complicità del silenzio e della mediazione senza abbandonarsi alla casualità, ma alla ricerca della verità. Romano riesce con la sua spiccata esperienza carica di sentimenti e valori tradizionali-universali lascia scaturire dalle proprie poesie un impegno morale, sociale e culturale. Enza Conti Velletri contro gli austriaci, questo gli valse un encomio da parte di Federico di Prussia. Scrisse anche un saggio sulle sue imprese militari, lavoro apprezzato presso molte corti europee. Non pago di ciò diede inizio alla serie delle invenzioni: la pompa idraulica per far salire l’acqua dai pozzi, un tessuto leggero per mantelli da caccia, studiò un sistema per la lavorazione della canapa, scoprì le capacità di una canna dalla cui lavorazione poté trarre carta di “tipo cinese” e con un torchio vi imprimeva disegni colorati, un sistema per ristagnare le batterie metalliche da cucina, un processo per dissalare l’acqua, usò, per la prima volta il cinabro e la lacca per gli affreschi della sua casa. Riuscì a trovare un sistema per rendere trasparente la porcellana. Gli interessi letterari di Raimondo di Sangro furono diversi, lettere, dialoghi, saggi critici, apologetici, traduzione di opere straniere e trattati sulle scienze occulte. Attorno a questo personaggio leggende come quella de “palazzo maledetto” per esservi stati commessi alcuni omicidi. Il testo prosegue con la dettagliata descrizione della Cappella di Santa Maria della pietà, prezioso monumento che accoglie le salme dei Di Sangro, ove si ammira un “Cristo Velato”, capolavoro del napoletano Giuseppe Sanmartino. Il mistero proseguito anche dopo la sua morte, dato che nella cappella funebre il suo corpo non fu mai trovato, anche qui la leggenda diffusasi vuole che fosse stato trafugato dai demoni. Si disse che si era fatto uccidere per sfuggire alla morte, ma che con un incantesimo era risuscitato, ovviamente queste leggende aumentarono la sua fama di personaggio misterioso, in combutta con Satana, autore di omicidi, genio incontenibile, sadico, una figura alla Cagliostro quella di Raimondo di Sangro. Tutto questo viene analizzato ed esposto nel ampio ed approfondito saggio di Alfredo Mariniello. Pacifico Topa Alfredo Mariniello un approfondito saggio su Raimondo di Sangro: storia, leggenda, mito Nicola Pinto: esaltazione della memoria e del ricordo in Tutte le schegge - quasi un’autobiografia (Firenze 2000) L’etnografo, poeta vernacolista, Alfredo Mariniello, ha voluto, con questo saggio, dire una sua parola su questo eclettico personaggio che è Raimondo di Sangro, principe di Sansevero, poco conosciuto, spesso troppo sottovalutato e criticato. Chi era Raimondo di Sangro? Il terzogenito di Antonio di Sangro e di Cecilia Gaetani dell’Aquila d’Aragona, nato nel 1710 nel foggiano. Infanzia difficile, carattere piuttosto reattivo, insofferente alle rigide leggi dei Padri Gesuiti a Roma, dalla vita movimentata, ma soprattutto dalla pluralità creativa, lo si può definire il creatore dei “teatri pirotecnici” una sua invenzione che «faceva succedere, come in una vera rappresentazione teatrale, le apparenze agli spettacoli veri col solo ausilio del fuoco». Evento questo che lo fece additare dalla pubblica opinione come “negromante”, ossia in accordo col diavolo per “penetrare i più reconditi segreti della natura”. Di questo lui mai si vergognò. Esperto d’armi, appassionato d’arte, buon letterato, sfruttò le sue capacità creative in ricerche scientifiche. La sua genialità gli procacciò le simpatie del Re di Napoli e di Sicilia Carlo III che lo nominò “gentiluomo di Camera”. Vantò l’invenzione di un archibugio che poteva sparare, con una sola canna, sia a palla che a salve, di un cannone che dimezzava il peso di quelli in uso. Ufficiale della Capitaneria si distinse per coraggio ed astuzia nella battaglia di È lui stesso a definire questa raccolta “quasi autobiografica”, perché in essa ripercorre il suo cammino esistenziale, illustrandone, con scorrevolezza di verso, tutte le sfaccettature anche le più comuni. Lo si può definire un circostanziato diario che, nella sua corposità, gli permette di sviluppare varie tematiche, tutte improntate a realismo e concretezza. L’aver diviso il volume in 16 argomenti gli consente di spaziare poeticamente nel mondo in cui vive! La vita è una serie di flash con cui affronta argomenti seri, come quello della nascita e le annesse problematiche, qui c’è una profonda filosofia morale che Pinto elargisce. Non mancano le incognite: «Chissà perché / ci sono morti / che mi pesano dentro...», allusione alle sventure umane. L’autore esalta la memoria, il ricordo, c’è anche l’assillo della sofferenza: «Vedo il dolore / sento l’odore / delle persone morte / che sono vissute con me». Più oltre con “Vorrei” espone una sua teoria sulla esistenza umana: «Vivere è crescere / senza si muore». Il tema della guerra lo ossessiona, ne fa una descrizione, ricordando il suo servizio militare, imbarcato su un dragamine sempre in pericolo. Sono passaggi di vita vissuta che Pinto ricorda con nostalgia specie quando parla del mare, sia tranquillo che in tempesta ricorda un amico caduto e il non facile compito di co66 municarlo alla famiglia, il conferimento di una onorificenza lo inorgoglisce anche se giunta in ritardo. Nel tema “donne” Pinto s’esalta: «Cosa c’è al mondo / di più delizioso delle donne?», ed ancora: «Amarla è eccitante». Ma poi un giorno ci si accorge cos’è veramente la donna, allora finisce l’incanto. Chiara allusione all’innamoramento per la bellezza che poi sfiorisce. Nella sua panoramica arriva anche a parlare delle prostitute, egli le compiange per la vita che fanno e fa appello alla altrui coscienza. Il succedersi delle stagioni sono frutto di ispirazione: il freddo inverno col gelo, il risveglio della primavera, la calda estate che sfinisce, il triste autunno piovoso che sconvolge ogni progetto. Non trascura il tema della sanità, convalida il detto che la salute non si apprezza fin quando non la si perde ed ecco allora il ricovero in ospedale, le lunghe attese. Il dolore gli fa sovvenire il sacrificio del Cristo sulla Croce. Perfino la politica lo interessa, non nasconde il suo patriottismo, la difesa dell’unità, circa l’uguaglianza ha idee chiare: «L’uguaglianza è un inganno / una pietose bugia. / Nessuno é uguale a nessun altro!». Parla poi di facilità con cui si plaude sia alla gioia che al dolore, alle promesse, alla manifestazioni di piazza; è pessimista sulla realtà attuale. È caustico sulla giustizia, ne lamenta la superficialità. Esalta il lavoro fonte di vita, condanna il proselitismo. In tema di famiglia ha parole di lode per i genitori che lo hanno indirizzato. Il lungo cammino poetico di Pinto continua accennando al progresso umano ed eleva una affettuosa preghiera: «Signore perdono! Signore grazie! Signore aiuto». Sa che nella preghiera c’è il balsamo della vita. Pinto ha voluto con questa raccolta darci una esemplare percorrenza terrena. Pacifico Topa pericolosità sempre latente. Il ricordo del passato riemerge ogni qualvolta rievoca momenti della sua fanciullezza, per questo si abbandona a considerazioni fantasiose sature di lirismo. La raccolta passa da argomenti seri ad altri più leggeri, ma c’è sempre la presenza solerte dell’autore che puntualizza ogni aspetto. Egli guarda le cose del mondo da una posizione un po’ distaccata, le pondera consapevole che il suo pensiero potrà essere riversato su chi legge e s’augura di trovare consenso. Le figure famigliari sono le più ricorrenti. Ad esse ha dedicato varie composizioni, esaltando le preclare virtù, l’impegno morale dedicato alla crescita della prole. Questa sua poesia schietta gli ha consentito di affermarsi in numerosi agoni letterari, conseguendo successi ed apprezzamenti. Leggendo “L’arcobaleno” si ha la sensazione di un clima pacificato che si impossessa del lettore. Pacifico Topa Sebastiano Maccarone scorcio di vita sicula in Vecchiu Lampiuni (Furci Siculo) Con questa raccolta Maccarone intraprende una crociata moralizzatrice dato che le sue composizioni, oltre ad identificare uno scorcio di vita sicula, sono vivacizzate da un dialetto inconfondibile, ricco di sfumature lessicali e di un disarmante realismo. Questo estroverso autore ha scelto il “lampione” come testimone insospettabile delle vicende che si svolgono ai suoi piedi, a questo utile mezzo ha affidato il compito di analizzare una realtà abitudinaria, troppo spesso trascurata. I temi sono quelli comuni, farciti di personali considerazioni ed esplicazioni ricche di policromia vernacola. Vi si evidenziano i pregi ed i difetti di una società, quella attuale, alle prese con le molteplici difficoltà. Le negatività sono diffuse: si agisce per convenienza, si desidera qualcosa che poi si trascura «Fumi ‘u sigaru, e non ti piaci... Addumi ‘a pipa, e subitu ‘a stuti». Incontentabilità umana! Analizzando il mondo circostante Maccarone afferma che ogni cosa è stata dislocata nel posto giusto da «Maistru di talentu! U’ Patraternu». Il lampione ascolta diuturnamente i pettegolezzi di strada, l’impicciarsi dei fatti altrui, il dir male del prossimo, l’impossibilità di lavorare perché il medico ha prescritto riposo, chiaro che di fronte a questi difetti l’autore consiglia moderazione per poter sopravvivere. Di contro ci sono anche delle positività che vanno evidenziate: la solidarietà, la generosità con chi è meno fortunato, soprattutto, la bellezza, questa dote gli suggerisce una dichiarazione d’affetto. «Io cchiù ti vardu / ’e cchiù bedda mi pari». Il fascino ha sempre la sua validità, poiché da esso nasce l’amore, ma nella esistenza terrena c’è anche il dolore, il pianto, espressioni di un male fisico o morale che spesso distrugge. Maccarone esalta l’amore sincero, irresistibile che alberga in una coscienza: «franca d’ogni pisu». L’innamorato si sente leggero, tranquillo, a questi fa da contraltare il millantatore che sfoggia sicurezza, ma che vive alle spalle della famiglia, elemento molto diffuso ancor oggi, fa sfoggio di modernità, si atteggia, fa “il borioso”. Altro personaggio che fotografa Maccarone è il criticone, non gli sta bene nulla, vede tutto sbagliato, è irrispettoso, è il tipico esempio di chi vive nel compromesso, senza coscienza, prepotente, insulta, offende, vuol sempre ragione. Nella silloge non mancano momenti di elevata spiritualità quando rivolge una preghiera al Signore: «Ringrazio ‘u Signuri / ogni mattina / di la nuttata bona chi passai». Sono Marco Galvagni policroma interpretazione della realtà in L’arcobaleno (Ed. Montedit) Marco Ga1vagni, con la sua silloge “L’arcobaleno”, si propone come tipico poeta della reminiscenza, questa policroma interpretazione della realtà si presenta con forbitezza stilistica, acutezza psicologica e ricchezza simbologica. Il verso si staglia preciso, quasi scolpito, per dire quello che l’autore intuisce e pensa. Poesia del sentimento della mesta rievocazione d’un mondo che oggi sta trasformandosi. La raccolta sorvola con briosità le tematiche più ricorrenti, proponendole con una angolazione intimistica, logica, frammista a rimpianto e rammarico. Il fluire del tempo l’assilla. «Il meriggio / consolerà il mattino». Galvagni è affascinato dalla natura ed il bosco gl’ispira pensieri di perennità, di misteriosità da cui attingere nuova linfa. Altro tema che gli sta a cuore è il lavoro dell’uomo che è notevolmente mutato, l’agricoltore ricorda la sua grama esistenza ed oggi si trova di fronte ad una modernizzazione inarrestabile, questo lo fa sentire stanco, quasi emarginato per la rapidità con cui avanza il progresso. È il mondo idilliaco che lo attrae e verso questo egli esprime affettuose speranze, addirittura le rane, che la sera gracidano nello stagno, gli suscitano elevati pensieri di serenità, di relax nella vita tumultuosa... «Ascolta l’impalpabile / ritmo del tempo». Nella sua versificazione c’è anche una velata malinconia, perché egli sente quello che gli sgorga dall’intimo. Il ricordo della madre morta, il colloquio col babbo sono momenti emozionanti, egli si rende conto della fluidità esistenziale e dice: «Ora la mia vita è una nave» quindi allude anche alla 67 momenti utili se si vuol dare senso alla vita. La fugacità nel tempo è assillante: «U persu è persu, e nun ritorna più… A morti arriva. quannu nun t’aspetti». Questo gli permette di ricordare un amico prematuramente deceduto: Franco Ruggeri. «Fusti pueta di vita paisana» analogo sentimento per la morte della sorella. Maccarone ha spesso di queste angosciose esternazioni. Il mondo in subbuglio, le guerre gli fanno invocare pacificazione fra i popoli ai quali invia un messaggio per mezzo della “palumma”. La delicatezza con cui ricorda un presepe della sua infanzia gli fa tornare in mente la bontà divina. La silloge è quindi una dettagliata e minuziosa evocazione della complessa società d’oggi impelagata fra egoismi, diatribe, insaziabilità e poco sentimento! Pacifico Topa Natalia Veronesi Prada: forbitezza linguistica e spirito gentile in Giorni a piene mani (Book ed.) La dottoressa, libera professionista, specializzata in pediatria e neonatalità, sente ogni tanto il bisogno, dopo aver deposto lo stetoscopio, di dedicarsi alla poesia, lo fa con indiscussa capacità creativa e tanta sensibilità, frutto di una vita spesa a favore del prossimo. Questa raccolta s’apre con un preambolo: «Illusione, poesia, / dolce compagna / non ci lasciare: / sei la primavera / a cui docile il cuore / rifiorisce». Dichiarazione quanto mai premonitrice di ciò che lei andrà ad esternare. È soprattutto nell’espressione poetica che l’autrice si fa apprezzare per quel senso di umanità, di sincero realismo, scevro da enfatismi, pregno di sentimento e di partecipazione. La perdita di una persona cara le fa esclamare: «Ma ora so / ogni cosa nel mondo può morire.» È diffuso il senso di tristezza per le sventure che la vita ci propina. La Veronesi è una creatrice interprete delle sensazioni più intime, ma anche una appassionata cronista, perché l’aver viaggiato le ha consentito di ampliare le sue conoscenze: una poesia farcita di crepuscolarità frutto di chi respinge ogni superficialità e guarda il mondo con occhio attento. La sua terra natale ogni tanto affiora nei ricordi con le suggestioni di un «...mezzogiorno in montagna». Roma l’affascina per le sue ricchezze storiche e architettoniche, per il Tevere che scorre fra le vestigia antiche. Donna assai sensibile sente il fascino della notte, dato che nel buio i pensieri prendono forma, le aspirazioni si affollano, la nostalgia allevia la materialità, traslocandola nel regno della possibilità. I fenomeni atmosferici animano i suoi ricordi come la neve a Milano, mentre il frastuono del “Palio di Siena” e l’incontro con un cieco che batte il bastone per terra, suscitano in lei sensazioni diverse, così come il gioioso divertimento del Luna Park, dove sembra che tutti si divertano frastornati dai clamori altisonanti. Il cammino poetico della Veronesi prosegue percorrendo le vie della città durante la pioggia, questa accresce 1’uggia e la tristezza e «le grondaie colme di pioggia / come occhi di lacrime» caratterizzano questo clima. Un certo languore veleggia in alcune composizioni: «Ecco fa sera sulle antiche pietre». In “Amore e lacrime” la Veronesi dice: «La sera mite di pioggia / e un cielo spazzato, riflesso / in mille pozzanghere.» Poetica quanto mai personalizzata che descrive realtà e stati d’animo, simboleggiando finezza intuitiva, capacità interpretativa, soprattutto grande coerenza con il modo di vivere d’oggi, il tutto esternato con forbitezza linguistica che si ricollega con lo spirito gentile di una poetessa ricca di analogie terminologiche. Sprazzi di spiritualità quando esclama: «Facci sentire la tua voce / Dio del roveto ardente...», profondità etica in chi crede che «sono dure le nostre strade». Pacifico Topa Gianfranco Vinante, mondo eclettico di concetti in In Elegia (Ed. Helicon) Poesia fantasiosa, concepita con una variabilità concettuale che, talvolta frastorna il lettore, ma non lo scoraggia, anzi lo stimola ad approfondire l’attenzione. I versi svolazzano come leggere farfalle, ondeggianti nell’aria ma sempre relativi ad un mondo che si adegua alle contingenze: «Tessono già dall’alba le cicale / in spola dardeggiante l’afa e l’aria. Questi versi danno il senso della fantasiosità di questa poesia che si immerge nella affannosa ricerca di motivazioni, di giustificazione, di senso delle cose. Vinante, con “In Elegia”, si tuffa in un mondo eclettico di concetti, ricco di ispirazioni auliche, per poi rivolgersi a quella eternità che sfugge, ma che va sempre ricercata e, se possibile, scoperta. È vero, spesso il verso è sconcertante, perché ballonzola spregiudicatamente nella fluidità di concetti non sempre facilmente individuabili. Occorre farne una lettura meticolosa per cogliere il nesso del pensiero di Vinante, per scoprire la pluralità dei contenuti. Il contingente è impreziosito da perifrasi quanto mai originali e da sprazzi linguistici improvvisi d’una mente effervescente, ricca di terminologia, impegnata ad elevare il discorso. Una poesia incisiva, che dà libero sfogo a quello che la mente suggerisce, senza remore metriche, impegnata a dire, nel modo migliore e meno obsoleto, il senso di una realtà sempre presente. I temi sono i più svariati: ambienti, personaggi, sensazioni, reminiscenze, località note, spiritualità, natura, insomma Vinante è un cronista attento, meticoloso nelle descrizioni, prolisso nelle esemplificazioni, caleidoscopico nell’espressione, mai soddisfatto sempre alla ricerca di quel nuovo, di quel diverso che non è ricorrente. «Non so misurare il peso del presente». Gli spunti ispirativi sono sempre quelli che la vista ci propone, ma visti con gli occhi di questo estroso autore diventano originali e nuovi. In lui non c’è catastrofismo, neppure esasperato pessimismo, ma solo contegnoso giudizio, impegno a forbire il consueto discorso. Non trascura la drammaticità di certi eventi come nel caso di “Terracina e Cohen”: «Erano in quarta con noi / Terracina e Cohen, un olivastro e un biondo». Più oltre. «Se ne andarono prima delle “razziali”, due vittime della ferocia, ad Auschwitz. Un elogio all’amicizia che gli fa esclamare: «Proseguirà chi non sarà mai ceco». La raccolta si conclude con alcuni haiku che servono a dare un giudizio più completo di questo poeta, di questo tessitore linguistico. Pacifico Topa Silvana Andrenacci Maldini: Enea e Didone tra leggenda e mitologia Con un romanesco metricamente pregevole Silvana Andrenacci Maldini ci trasporta nel mondo fascinoso della mitologia. Enea e Didone sono protagonisti di una storiografia che ha avuto in Virgilio un esimio relatore. La movimentata vicenda di un mito che ha valicato i secoli, che ha focalizzato la caratterologia di mitici elementi dell’antichità, rivive in tutta la sua freschezza vivacizzata dal dialetto 68 romanesco. Didone è una donna prestante, risoluta, vittima di un amore travagliato, contrastato dal giuramento di fedeltà fatto al suo consorte Sicheo, lei ebbe una vita avventurosa, costretta a fuggire dalla sua Tiro, perché minacciata dal fratello Pigmalione che le aveva ucciso il consorte, si rifugia presso Jarba nell’Africa settentrionale e fonda una città: Cartagine. Comincia qui il suo dramma perché deve guardarsi dalle assidue attenzioni di Jarba. Nel frattempo Venere salva Enea da un nubifragio e lo fa sbarcare presso Didone che offre asilo: «Entrate ne la Reggia tutti quanti / st’avvenimento merita ‘na festa / è tempo de scordà rovine e pianti». Nel frattempo Venere, temendo che Didone tradisca, sequestra il figlioletto di Enea, Julo. Il racconto prosegue con una sequenza quasi filmica e con la briosa versificazione. Didone «è bell’è cotta der troiano». Come ogni buona cronaca Enea durante il lauto banchetto racconta le vicissitudini di Troia e la distruzione finale «E Troia agnette a foco notte e giorno». Il dramma di Didone si scatena, innamorata, «pareva un gran vurcano» angustiata dal giuramento di fedeltà fatto al marito, nello stesso tempo smaniosa «più peggio de ‘na gatta». Interessante è come la Andrenacci evidenzia i sentimenti opposti, quello di Didone appassionata e di Enea che finge. In una partita di caccia offre l’occasione di un fugace riparo in una grotta per la pioggia e qui c’è l’approccio amoroso. Non poteva essere altrimenti, Jarba, respinto, vuole vendicarsi con l’ausilio di Giove. Enea è assillato dal prosieguo del viaggio, deve adempiere al volere degli dei. «Lasso sta donna a la disperazione / pe’ annà giro vaganno all’infinito / Didone non vorrà sentì ragione». Il tumulto dei sentimenti si scatena, Enea vuol giustificarsi, Didone non sente ragione, allora è necessario fare le cose clandestinamente, coi preparativi delle navi, Didone se ne avvede, è, disperata, grida: «Tutto er prestigio antico è rovinato / e la gente del regno me disprezza». Invoca Enea di recedere, prega tanto, «fa riti e sacrifici a profusione». Prega la sorella di allestire un rogo sul colle, vi fa portare tutte le armi di Enea. Cova nel suo animo una feroce vendetta, ma Venere «che de tutto se n’è accorta» invia Mercurio per sollecitare Enea alla partenza. Didone invia la maledizione «piuttosto crepi che se faccia un regno / e non veda mai Ausonia e le sue sponne». Siamo al dramma finale, dopo un’ultima dichiarazione d’amore, Didone prende la spada e «così dicenno se l’infirza ar petto». Ma l’agonia e la morte non mettono fine al dramma perché i due si incontrano nell’Averno, si guardano in silenzio, il commento è quanto mai realistico, Didone ha conservato il giuramento fatto a Sicheo di fedeltà ed Enea è riuscito a fondare Roma. Pacifico Topa tessere argentee / trasportate dal vento» oppure se bagnate di pioggia «nere nubi che fanno da sfondo». A proposito di questa aggiunge: «Piove / il giorno si bagna». Sono semplici considerazioni che denotano sensibilità d’animo. Lo Giudice aleggia con le sue composizioni su un vasto orizzonte, quello in cui le nuvole navigano, spinte dal vento, pregne di pioggia, elemento essenziale per la nostra sopravvivenza. Pur nella sua giovane età, questo giovane riesce a colpire nel segno e lo fa con una disarmante facilità, ma con tanta precisione, qualità questa solitamente appannaggio di lunga esperienza, la perspicacia è notevole ed altrettanto apprezzabile la facilità espressiva. Nella serie “Agrodolce” l’autore s’inverte nella triste realtà, analizza l’esistenza, qui il tono cala nella serietà del tema. «Vita / malinconia di un colore acceso / che si spegne / ...troppo spesso». Questo annuncia la seriosa intenzione di non trascurare i lati meno accattivanti dell’esistenza umana. Il tono si fa pensieroso, la tristezza avanza e con essa la convinzione che le cose belle hanno breve durata. «Cadrò in una lacrima» è il preannuncio della sofferenza; nelle sue parole c’è realismo, l’angoscia assilla, specie quando annuncia la perdita di una persona cara, il rischio è sempre in agguato. Lo Giudice si abbandona a sfoghi di sconforto e piange «...di fronte allo sguardo del mare / sfavillante al tramonto / allo specchio del lago / su cui si rimirano / monti, nuvole e cielo». Il fascino della natura lo commuove, indizio di particolare sensibilità! È un pianto liberatorio conseguente al fatto che si sente indifeso di fronte al male che dilaga. Il pensiero della morte provocata dalla violenza umana, lo assilla e accentua il contrasto con la frivolezza dell’attuale società, costretta a vivere tra le ingiustizie. La sua poesia si fa aspirazione ad un futuro migliore, invidia la quercia simbolo della secolarità, ma non trascura l’amore... «Ti ho cercata con lo sguardo / ma sei rimasta indifferente», ciò lo colpisce, suggerendo parole di rimpianto. Dove Lo Giudice si esalta è nella “Melodia d’amore”, composizioni pregne di sentimento, sature di aspirazione affettive, interminabili attese, sogni e progetti, tipici della sua età. Invoca un amore puro, «aspettami piccola / perché l’amore aleggia». Il solo guardare le stelle gli fa pregustare gioie inenarrabili. Ma con “Ratto” la silloge torna a parlare delle problematiche della vita, lavoro, guerre, necessità varie che occupano e preoccupano l’essere. Poesia tanto umana! Pacifico Topa Filadelfio Coppone, poesia che nasce dal profondo dell’anima in Ruscello d’Amore, (Oceano Ed.) Ruscello d’amore-sorgente, d’amore in perenne espansione. Versi bellissimi, alta poesia che nasce dai meandri profondi dell’anima e si eleva radiosa nell’infinito senza limiti... Affiorano ricordi, sempre ricordi, incancellabili ricordi che «scandiscono granelli di tempo: cerco tra petali secchi / profumi di ieri / (ma) resta soltanto / aggrapparmi a Dio».Vita interiore che si alimenta d’angoscia antica, di gioie sfumate, di bagliori di fuoco che riemergono come eterne sorgenti di linfa, aliti di speranza nella visione consolatrice e refrigerante di Dio. Il grande amore terreno, spezzato, è sempre vivo nell’autore, sempre presente: «Tra i rigurgiti di ieri, / oggi resto ad amare ricordi di tempi / in arcani pensieri di fughe. / Lontano, tra me e te, / restano amaranti di vita».Una silloge breve ma densa di significati. Guido Lo Giudice: la profonda sensibilità di Nuvole (Ed. La fontana) Il giovane Guido Lo Giudice si affaccia nel panorama poetico con una silloge “Nuvole”, che già dal titolo preconizza il contenuto, ma che denota una padronanza linguistica e la fantasia tipica dell’età: egli dialoga con queste impalpabili creature celesti, affidando loro le espressioni spontanee di un cuore ingenuo, generoso, ricco di entusiasmi, non ancora intaccato dalle crudezze esistenziali: «Voi, così fragili / date armonia / ad infelici anime / vaganti» L’empireo attira l’attenzione di questo giovane tanto che il volo delle rondini gli ispira frasi elevate come: «Foglie e 69 Rimpianto d’un tempo felice, rifugio in Dio, non solo, ma anche ampia indagine sulle brutture del mondo e immersione nei problemi dell’uomo. Deplorazione di coloro che, “come ruscelli”, predicono sventure e tolgono la pace delle notti tranquille e dei sonni sereni, delle violenze su bimbi innocenti, delle menzogne, della superficialità... Rimpro-vero all’uomo che crede di essere il padrone del mondo, che si mostra orgoglioso dei suoi scempi. Chi siamo noi per condurre popoli alla rovina, per vantarci delle nostre azioni disumane, devastatrici? «Siamo solo petali di martiri, / che solo Dio / illumina con lampade di speranza». Cerchiamo angoli oscuri e lì restiamo a lamentarci, a piangere, nascosti, in solitudine, le nostre angosce, le nostre ferite, ciò che ci tormenta. «Ci crediamo civili, ma viviamo in barbari castelli». Non tutti gli esseri umani sono crudeli, sadici, ci sono anche uomini integri dentro, generosi, pietosi. «Non tutti crocifiggono fratelli / battendo mani di gioia / Ci sono omoni / che rivestono di luce / ameni samaritani curati / per un fiotto d’amore». Negli scoraggiamenti, nelle ricadute ricorrenti, nel buio, nell’impossibilità di alleviare sofferenze, nei repentini risollevamenti, negli imprevisti voli, nell’azzurro, nella rinascita della speranza, nella povertà di spirito, nella demenza d’azioni c’è Uno che apre le braccia d’amore, per concederci il perdono, per accoglierci nel suo seno. Antonia Izzi Rufo Fernfahrplan (1980) e La dinamica degli eventi (1983). L’aspetto che salta subito agli occhi, nella produzione epigrammatica di De Napoli, è la coraggiosa volontà di demistificare l’importanza di quei divi dello spettacolo (ma anche della cultura), i quali fanno la parte del leone sui palcoscenici mondiali lasciando dietro di sé il vuoto più assoluto. Leggiamo, ad esempio, in Onnipresenza: «Da Hyde Park / a Caracalla, / da Tokyo / a Tele-Papalla. / Sei unico, / Pavarotti. / Per questo / ci hai rotti». Altrove l’autore coglie la profonda frattura generazionale esplosa, con toni tragicomici, negli ultimi decenni. È il caso di Tendenze: «La senescenza / è tutta / per il grande Bo. / Jovanotti: / Il grande Boh!». Nel fondo nascosto di questi straordinari testi predomina, tuttavia, una evidente sofferenza interiore, ossia un sentimento di sconforto dovuto al senso di solitudine e di incomprensione che Francesco De Napoli avverte aleggiare intorno al proprio lavoro letterario. Così è per l’epigramma intitolato Poesia: «Arricchimenti illeciti / procura questa attività / di spaccio, / né mi riesce / l’espianto / da mente e cuore / di questo tumore». In un altro componimento, dal titolo Valori bollati, il poeta ironizza sull’ipocrisia delle cosiddette autorità, le quali, invitate agli incontri culturali organizzati dal Sodalizio dell’autore, ritengono loro dovere limitarsi ad inviare dei semplici messaggi augurali. È notevole il doppio senso dell’espressione che dà il titolo all’epigramma (“Valori bollati”, appunto): «Agli incontri di Paideia / spauriti epigrammi / su bianchi sudari. / Piovono fax / e telegrammi». Nulla sfugge alla sottile e inattaccabile vis satirica dello Scrittore. Nemmeno poteva salvarsi la metodologia tipica di certe discutibilissime statistiche, sempre al centro di polemiche e di opinioni contrastanti circa i “risultati ufficiali”, mai riguardo alla loro effettiva validità e finzione. Il lettore resta così folgorato dalla lapidaria verve di un testo geniale, a cui De Napoli conferisce, per contrasto, l’altisonante titolo ISTAT: «Italiani / più ricchi, / più violenti / e più alti». “Giogo/forza” ha ottenuto il plauso di intellettuali quali: Giorgio Bàrberi Squarotti, Mariella Bettarini, Domenico Cara, Liana De Luca, Antonio Piromalli, Gerardo Vacana e altri. Adriana Capuano Francesco De Napoli, Giogo/Forza, Epigrammi (Cassino, Centro Culturale “Paideia”, 2000) Giacomo Leopardi, che aveva tradotto epigrammi dal greco, ne L’infinito introdusse una siepe allo scopo di dilatare la tradizionale cognizione poetica di orizzonte (dal greco hòros, confine; in latino, finis ), un concetto di per sé limitato, circoscritto alla materialità dello sguardo. La finzione di tale illimitatezza risiede nella necessità di ampliare l’orizzonte interiore del poeta: un’esigenza avvertita, altresì, nella riflessione speculare dell’aforisma - come sostiene Giuseppe Pontiggia - ogni qual volta l’autore cerca di recuperare l’“immagine originaria di uno sguardo interiore” (in Scrittori italiani di aforismi, Milano, Mondadori, 1997). La distanza pressoché impalpabile esistente oggi fra poesia lirica, epigramma ed aforisma - specie nei comuni aspetti gnomici - spiega la duplice valenza della produzione di Francesco De Napoli, il quale alterna la pubblicazione di opere in cui sembra dare libero sfogo alla vena lirico-sentimentale con altre a carattere prettamente epigrammatico. Un legame inscindibile, che nasce dall’indifferibile esigenza di “dir le cose del tempo co’ nomi loro”, come insegnò nei Pensieri proprio il Leopardi, il quale condannava l’arte rancida di chi s’illude d’essere felice. E sono gli elementi biografici, ossia le vicende di vita vissuta, a spingere il nostro a coltivare con tanta costanza e dedizione questi due filoni così apparentemente diversi, che invece in lui coesistono secondo un vero e proprio “sistema di vasi comunicanti”, come chiarisce lo stesso De Napoli in una nota posta a chiusura di Giogo/forza. Un’ansia di verità muove l’autore a seguire la “ferrea e rigida disciplina spartana” afferma - propria del genere epigrammatico, quella verità che è “il pane degl’intelletti robusti”, scrisse Arturo Graf in Ecce Homo. Vocazione esplosa non per caso, perché in nuce già nelle prime opere dello Scrittore cassinate: basterebbe rileggere attentamente Noùmeno e realtà (1979), Antonia Izzi Rufo, Una rivisitazione di Virgilio, (Il Convivio, 2003) È semplicemente stupefacente la vigoria della nostra autrice e la sua fecondità pure: passa dai Tristia ovidiani, al commento ben riuscito del pensiero leopardiano ne La ginestra, sino alle Novelle della Pescaia di D’Annunzio per rivisitare Solone, Saffo e Mimnermo. Mancava all’appello questa introduzione virgiliana nata, si badi bene, come sempre da un momento specifico autobiografico. Il lavoro, diremo subito, non è specialistico ma è vissuto dalla Izzi Rufo come ogni suo saggio o opera poetica o, ancora, narrativa. La sua molteplicità di interessi fa sì che noi le perdoniamo quest’afflato patriottico che stona un po’ con la linearità di tale breve saggio il quale riporta anche una pagina de Lo spirito arcadico di K. M. Stamatis, passi scelti dell’opera virgiliana nonché giudizi critici sull’opera dell’autrice che va mietendo simpatia tra il pubblico dei letterati. Sebbene molto diverso dal mio saggio sulla latinità e grecità (cfr. Tematiche di letteratura greca e latina, Roma 1992), la Rivisitazione scorre con precisione e linearità senza aver la 70 pretesa di apportare nulla di nuovo sul poeta di Andes, forse Pietole, presa com’è tra Dante e la sua guida nell’Aldilà. Nelle Bucoliche noi assaporiamo il contadino vero, pieno di pathos sebbene le Bucoliche rappresentino un’umanità che soffre ma esiste anche la fede in un mondo nuovo. È vero che nell’opera virgiliana ci sono Teocrito e Lucrezio, però ha una sua originale connotazione. Già un altro clima si respira nelle Geogiche: c’è la protezione di Mecenate, c’è un clima politico cambiato in Roma. Pur essendo tale poema didascalico è un capolavoro: è il lavoro preciso, costante che redime (labor omnia vincit) e l’umanità ha un fine, uno scopo e una rigorosa morale costruttiva. Infine la Izzi passa in rassegna l’Eneide, il poema epico dell’età di Augusto. Che Omero sia un modello è evidente ma il poema epico di Virgilio, il quale si rifà anche ad Ennio e Nevio, ma ha connotazioni tutte sue. Innanzitutto Virgilio era cittadino romano e capì subito il senso dello Stato e la universalizzazione di Roma. Canta, è vero, la gens Iulia ma con es-sa Roma dalle «nobili origini mitiche nell’eroe troiano Enea». Virgilio, al di là, dell’“affaire” Enea che ci appare troppo pio nel senso etimologico del termine, ha saputo cogliere il senso di universalità e civiltà dell’Urbe per antonomasia. Enrico Marco Cipollini linguaggio trasparente di Senofonte, l’arte di Platone, lo scetticismo di Luciano, giustifica il “Carpe diem” di Orazio il quale, consapevole dell’ineluttabilità della morte, non vuole perdere le ricchezze conquistate, così pure il “Lhate biosas” epicureo, “vivi e lascia vivere”, rileva la modernità di Lucrezio, poeta-filosofo, il cui pensiero è molto vicino a Nietzsche, Leopardi e Vico, l’uomo di Esiodo - dalla mentalità moderna - che vuole vivere «una vita degna dell’uomo stesso», l’accostamento di Catullo - principe dell’elegia amorosa come Cicerone dell’oratoria, con Nietzsche e Virgilio... Ritorna spesso su argomenti già trattati, per approfondire, intessere riferimenti, evidenziare notizie importanti. È con ferma convinzione che dichiara: «Io, personalmente, preferisco il grido di libertà di Catone, l’onestà dell’Uticense al cinismo cesareo». Sebbene la sua stima sincera per gli scrittori latini, non sa esimersi dal riconoscere che i Greci sono stati loro maestri, “qualcosa in più”, basta ricordare la famosa massima di Orazio: «Graecia capta ferum victorem cepit». E. M. Cipollini è un critico mordace, quando è necessario, ma anche un uomo tenero, di una squisita sensibilità, se si lascia “prendere”, commuovere, dai nobili sentimenti dell’amore e dalla pace bucolica della natura meravigliosa che albergano negli spiriti eletti che s’incontrano sia tra i Latini che tra i Greci. Non si può, in poche righe dire tutto quanto si vorrebbe del pregevole volume: consiglio di leggerlo. Antonia Izzi Rufo Enrico Marco Cipollini, Tematiche svolte di letteratura Latina e greca, (Ed. Ciranna, Roma). Studioso colto e versatile, critico profondo ed esperto noto in campo letterario nazionale ed internazionale, E.M.Cipollini ha pubblicato testi di letteratura, filosofia, antropologia, psicologia, pedagogia ed altro. Argomenti difficili, i suoi, esposti, però, in uno stile chiaro e intelligibile tanto che immergersi nei suoi libri significa provare un vero “piacere dello spirito”. Chi si accinge a leggere le “Tematiche...”, o meglio a studiarle, si presuppone che abbia già una conoscenza particolareggiata della materia. L’autore, infatti, non riscrive la storia della letteratura, non narra la vita o elenca le opere e commenta il pensiero dei personaggi della sua selezione con la consueta successione cronologica di sempre, ma, in una oculata panoramica sui più noti scrittori latini e greci dell’età classica, scelti con intelligenza, esprime le sue osservazioni e i suoi giudizi e lo fa in modo originale: scopre affinità e divergenze sfuggite ad altri, stimola, provoca, incuriosisce, suscita interesse. Nella premessa è delineato lo scopo per cui è stato redatto il testo: “Conservare l’identità storica”, “Non rinnegare le radici”, “Si possono ascoltare e declinare le esigenze dello ‘spirito’ di ieri e di oggi, far parlare Nietzsche con un tragico greco, Proust con scrittori e poeti dell’antichità”. Nel suo percorso lo scrittore si cimenta in paralleli e confronti, riscopre l’attualità del pensiero antico, disapprova comportamenti alieni dal vivere secondo giustizia, confessa apertamente la sua simpatia per le persone oneste e generose... Biasima il “corrotto Sallustio”, «legato a doppio filo a Cesare» per opportunismo, il “cattedratico” nel senso dispregiativo della parola - Quintiliano, ammira il “mitico, grande Omero, il più grande di tutti”, l’integrità morale di Seneca “la cui morte fu testimonianza della vita stessa”, l’animo gentile e bucolico come quello di Virgilio, di Tibullo, la passione e la follia dell’immortale poeta dell’amore Ovidio, la poesia tenera sensuale ed erotica di Saffo (“La poesia non è mai scandalosa” puntualizza), il Placido Amadio: L’ignoranza (Convivio n. 14 pag. 59) Una sarcastica composizione che focalizza una realtà a molti nota, quella della’incertezza del momento. D’altro canto il mondo politico stesso oggi disorienta, perché le voci che si levano sono tante e sempre discordanti fra di loro. Chi cerca lumi attraverso la lettura dei giornali si accorge che anch’essi procedono su binari ben definiti ed invece di chiarire, frastornano. Chiunque, leggendo la stampa, cerca di «commentare la vita quotidiana». Ma balza subito in evidenza l’indirizzo di questo o quel quotidiano, non sempre si riesce ad avere una visione chiara dei diversi problemi. C’è una corrente di sinistra, un’altra di destra ed una di centro, per chi è alla disperata ricerca di una chiara risposta non resta altro che ingoiare le varie situazioni restandone deluso. Come conclude aspramente Amadio: «Io che ho sempre cercato in ogni istante / la fine della domanda / l’inizio della risposta / mi accorgo, dopo tanti anni / di essere un vero ignorante». Quanto mai desiderato questo giudizio che coinvolge un po’ tutti noi! Pacifico Topa Mina Antonelli: Le donne raccontano Mina Antonelli, con “Le donne raccontano”, evoca momenti drammatici con una versificazione ridondante e fantasiosa, puntualizza momenti e circostanze soggette all’ineluttabilità del tempo... «Lente salpano le ore verso l’alba / sognando naufragi di cobalto e di luce...». Le donne raccontano di sogni carezzati invano, di attese «ma le farfalle volano altri Cieli » nel frattempo «il tempo sfalda inesorabile / certezze e accordi». Si allude alla negatività che «corrompe calici, reclina steli, si preconizza...». Il gior71 no sarà sangue «nefasti presagi, apocalittiche sventure bruciano le città del mondo e alti / crepitano fuochi e ampolle di odio...». Questa angoscia che grava nell’animo dell’autrice acuisce «la mia pena...» essere abbandonato a se stesso in balia del vento delle passioni, in cerca disperata di «approdi oltre le nebbie». È chiaro che l’esasperazione in questa triste evocazione sovrasta tutta la poesia e Mina Antonelli riesce a dare la misura esatta della gravità del momento. C’é evidente il timore dell’incognito «smarriti viaggiatori insieme andiamo / e non sappiamo dove...». In sintesi lei ha voluto evidenziare la precarietà della nostra esistenza, il costante timore per un ignoto futuro, l’ansia di dover percorrere il cammino terreno con tante incertezze, costatando l’incombenza dei pericoli che diuturnamente ci sovrastano. Indubbiamente una creazione intensa di significazioni, ma anche di un larvato pessimismo! Pacifico Topa l’una è la conseguenza dell’altro. Il folle innamoramento, la passione travolgente, la seduzione dilagante sono gli elementi preminenti di tutto il dramma e quello che si evidenzia dalla lettura è la caratteriologia di alcuni personaggi, una certa saggezza filosofica e tanta fantasiosità descrittiva. Pantaleo s’è abbandonato a quella esercitazione linguistica che si attiene al tema ed all’argomento. Non si trascura la sia pur succinta descrizione dei luoghi ove il racconto si sviluppa, luoghi piuttosto sintetizzati nella loro realisticità, anch’essi ricchi di suggestioni e di sfumature ecologiche. Predomina il pensiero della divinità. Infatti sovente le invocazioni agli dei intercalano i dialoghi e idealizzano le realtà. Narciso, infatuato della sua avvenenza, respinge le solerti offerte di Ameinias e l’assedio affettuoso di Eco, ma, gradualmente, si fa strada in lui quel sentimento che, come era stato pronosticato, gli avrebbe portato sfortuna. Narciso muore perché si rivede in un ruscello, è un po’ la sintesi di chi analizzando la propria esistenza e costatatane la inutilità, perde ogni speranza nella vita. La fatalità, le profezie, gli interventi dei Numi, sono altro elemento che impreziosiscono “Narciso” di Pantaleo Mastrodonato. Pacifico Topa Vinia Tanchis: Malinconia (Convivio n. 14, pag. 23) La mestizia che aleggia in questa composizione di Vinia Tanchis è già intuibile dal titolo: “Malinconia”. È il clima tipico che consegue ad un lutto, se poi questo interessa un bambino il dramma si acuisce; l’autrice vuol esternare quello che suscita in lei il rievocare momenti salienti di una serenità ormai scomparsa. Sopravvive il ricordo: «Malinconia di passi / che non sono / e di scoppi di risa / all’improvviso...» riportano alla mente il luogo ove era solito trastullarsi... «tra grappoli di glicine». Il lieve alitar della brezza le rammenta i capelli... “scompigliati e vivi” ed anche il dondolar dell’altalena, gioco assai piacevole per i più piccini. La rimembranza passa dalle azioni ai colloqui... «Mi chiedevi / quant’era grande il cielo. La curiosità infantile tipica di questa età e da qui il gesto istintivo di elevarsi «sui piedini ignari / per arrivar più in alto», aspirazione pertinente ai minori di potersi librare nella immensità, il desiderio di volare in quel cielo così terso ed invitante, «proprio lo stesso cielo / ti ha rapito...», il desiderio infantile s’è concretizzato e questo forse sarà riuscito ad appagare la sua curiosità: «ora sai tutto»; e la Tanchis addolcisce il suo dolore affermando che «in una stella brilla / il tuo sguardo lontano..». Una esternazione quanto mai sentita e intensa con cui l’autrice documenta il suo stato d’animo per tanta sventura. Pacifico Topa Maria Dho Bono: schiettezza, sincerità, entusiasmo in Radici e Germogli (Ibiskos Edit.) Un modo di esporre molto semplice, alla portata di tutti, rime che si snodano con la cadenza e la musicalità di una filastrocca... Vari gli argomenti; riassumono esperienze e fatti legati ad ambienti, luoghi, avvenimenti e personaggi del vivere quotidiano: la festa della mamma novantenne «con la torta e le roselline» e tutta la cerchia dei parenti, Benvenuti medaglia d’oro ad Helsinki, il governo litigioso, il ministro di Grazia e Giustizia (Quale giustizia?), carovane, gita d’estate e altro... Nel «disquisire arcaico» dell’autrice, così come definisce il linguaggio Giulio Panzani, c'è schiettezza, sincerità, entusiasmo, bonaria ironia e disponibilità a comunicare agli altri tutto quanto accade per riceverne calore, conforto, consigli... Il percorso è quello del diario: registrare, giorno dopo giorno, quanto può sembrare importante e degno di essere ricordato. Scelgo a caso, fra le poesie più significative... “In alto mare”: vi sono espresse, in forma metaforica, divertenti allusioni al governo (la nave), alle diatribe furibonde che si verificano nel suo interno, alle responsabilità del capo (il nocchiero) e dell’equipaggio (ministri e senatori) e alle difficoltà cui essi vanno incontro (scogli, squali, temporali); ne “Il sentiero del rimpianto”, che l’autrice percorre tutti i giorni, «con affanno», e che conduce alle “residue rovine” del castello «semisommerso da ortiche, rovi e grovigli d’arbusti vecchi e nuovi», il «degrado più avvilente fra mucchi di rottami e spazzatura»; Castelmagno, la località delle vacanze della Dho Bono, dove «si respira un’aria frizzantina e profumata di timo e rododendri in fiore»; “La tragica lista” ed “Elezioni”, con riferimenti ai politici visti come «inetti che s’avvicendano slealmente»; “Cassandra 2000”, «reincarnata, paludata a oracolo 2000»; “L’inutile attesa”, un gatto che sosta presso una chiesa, «...forse prega per davvero, / e chiede a Dio che gli indichi la strada del cimitero» (La sua padrona è morta e la povera bestia l’attende invano)... Nella loro semplicità, sono tutte belle le liriche e ognuna di esse vuole raccontarci qualcosa, farci conoscere una storia vera, confidarci uno Il mito di Narciso visto da Pantaleo Mastrodonato Pantaleo Mastrodonato ha drammatizzato il mito di Narciso, traendone una rievocazione fedele a quanto ci è stato tramandato, sia storicamente che linguisticamente. I personaggi si animano nello spirito mitologico del tempo e danno vita a lapidari dialoghi che risentono della classicità stilistica dei testi greci. L’Atmosfera è quella tipica della Grecia, culla di civiltà e di mitologia, quella terra che ha dispensato luci di indiscussa cultura. Narciso è un personaggio che ancor oggi troverebbe fedeli seguaci: il culto della bellezza, forse più che mai ai nostri tempi, ha assunto un ruolo determinante, se ne sfruttano le peculiarità, se ne dispensano le tentazioni. Elemento base di tutta la trama è, sì la bellezza ma anche l’amore, o anzi possiamo dire che 72 stato d’animo o un disappunto, trasmetterci una piccola gioia o un momento di malinconia, renderci partecipi della visione di angoli ameni che donano serenità allo spirito. Antonia Izzi Rufo rintanato segreto custode / fra tanta bellezza». Sordo alle provocazioni dei sensi, pago di se stesso, vorrebbe far rivivere agli altri tante esperienze meravigliose da lui vissute, ma “rimanda”... E dopo, non trova più nulla in sé, solo la sua “incapacità”, la sua perplessità, la sua pigrizia e, deluso, smette di vivere e “rimanda” pure la morte... Si mostra scoraggiato, apatico a volte, privo di sprint, di vita, eppure vive, recepisce, ama, dialoga con le Muse... Pare di avvertire in lui una potenziale impotenza che colpisce anima e corpo, che gli fa dimenticare il proverbio: «Chi ha tempo non aspetti tempo» oppure: «Chi si ferma è perduto". Ma il suo adagiarsi “nel dolce far niente” è solo una breve pausa prima di immergersi in contemplazioni paniche e riflessioni sulla vita, sul comportamento dell’uomo e i suoi insolubili dilemmi, su problemi interiori, sul divenire dello spirito, sull’eternità delle cose, sul «gioco della specie umana»... «Io vivo e muoio cento volte»... «Ti guardi e ti specchi negli altri e scopri che sei uno e mille» (come Pirandello in “Uno nessuno e centomila”)... «Ho un’anima e non la voglio... Ho una carne che mi pesa... Ho uno spirito che interroga». Osserva, riflette e trae le conclusioni. Sembra tutto immobile nell’universo, ma le ere s’avvicendano nei secoli; le cose si protraggono nell’eterno, sebbene in apparenza fragile... «Mai navigante alcuno / poté dire / d’essersi trovato su per l’orizzonte». Il mondo non ha inizio né fine, eppure terra e cielo sono congiunti «in un amplesso d’amanti». Il poeta si sente spesso solo, solo dentro: «Dopo l’amore / ti senti d’essere / più solo di prima». «Nel sapore d’un amplesso / vorresti stringere ancora / seppure sai che è una finzione / ...lei che t’aspetta». Eterna insoddisfazione dell’uomo alla ricerca costante di qualcosa che lo appaghi in modo completo, senza riuscirci. Alcuni versi si rendono eloquenti e spiegano benissimo il significato racchiuso nell’intera lirica in un’esposizione chiara e trasparente. Antonia Izzi Rufo Il tempo dei gelsomini poesie di Franco Calabrese (Lorenzo Editore, Torino 2003) «La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla». Questa frase di Garcia Marquez, scelta da Franco Calabrese come punto di partenza e sintesi del suo volume “Il tempo dei gelsomini”, dà immediatezza al contenuto di un’opera a sfondo autobiografico. Il volume va letto con grande entusiasmo, in quanto dietro a vicende personali si celano storie d’uomini che ogni giorno guardano al proprio futuro, porgendo il pensiero al passato e ponendosi tanti punti interrogativi sul futuro. Infatti il domani, visto attraverso il passato, è uno dei fili cardini dell’opera, che non trascura il presente. L’autore, attraverso la ricca preparazione culturale-filosofica, trasforma, a mio avviso, la sua narrazione in una sorta di documento universale dove tutti possano configurarsi senza trascurare la singolarità d’ognuno. Gli ostacoli superati dal protagonista diventano i punti di partenza per una riflessione storica su quella che è stata ed è la nostra società. Quale scrittore ormai affermato, ma d’umiltà immensa, Franco Calabrese merita di avere un posto essenziale nella formazione culturale dei giovani, affinché possano attraverso i suoi testi conoscere anche il duro mondo della carriera culturale composta di un’infinità di ostacoli e delusioni. Non a caso l’autore scrive: «Una vita per la scrittura: navigatore solitario, senza supporti politici, senza compromessi, sorretto e animato soltanto dalla sua indomita passione, curava i suoi libri, a volte, vendendoli personalmente». Questo uno dei tanti passi del volume che lo trasformano in uno specchio in cui si può scorgere un “Io” che non molla di fronte alle avversità della vita, ma che attraverso il recupero del ricordo cerca di trovare quella forza interiore per poter giungere a quell’esistenza definitiva che, con una sorta di sarcasmo, nel libro viene definita il “tempo di crisantemi”. Franco Calabrese definito, così come scrive nella prefazione Fabio Greco, «l’apostolo della cultura», sicuramente per la sua poliedricità culturale, critico, drammaturgo, saggista, novelliere, dimostra una ricchezza culturale non solo ne “Il tempo dei gelsomini”, ma appare quale emblema di un “Uomo” che sa coniugare sentimenti e forza. Egli, attraverso lo stile tipicamente personale, riesce a mescolare fantasia, teoria e storia, facendo del suo scritto un punto di partenza per il lettore, il quale potrà trovare delle riposte a ciò che sta dietro al quotidiano sempre più perfetto e rarefatto. E se «il dolore è il gran maestro degli uomini», come scrive Eschenbach, allora Calabrese ne è uno dei tanti testimoni. Enza Conti Alito dello spirito e luce delle muse: Vincenzo Campobasso, Traduzioni e sussurri dell’esserci, (Blu di Prussia Editrice) L’haiku, genere poetico adottato dai Giapponesi e diffuso ormai nel mondo, è molto simile, per la sintesi, la brevità e il contenuto “concentrato”, ad un aforisma, ad una sentenza, ad un proverbio. Si distingue dalle composizioni “chiuse”, a volte di non facile interpretazione, di alcuni ermetici, perché i suoi versi sono chiari, trasparenti, comprensibili. Non è semplice imitare i Giapponesi, afferma Antonio Bonchino. «Come ripetere noi, occidentali, quell’incanto? Non si corre il rischio delle copie inautentiche, della stanchezza, del falso?». Ma Vincenzo Campobasso è riuscito ad esprimersi in forma genuina, a cantare con la voce di Erato, ad essere originale. Ci vuole arte, percezione interiore del tutto, capacità di sintetizzare, di racchiudere in una parola, in un verso breve, l’universo intero... Chi non scopre in quelle quattro parole di Ungaretti, «M’illumino d’immenso», il vasto cielo e il mare sterminato e l’infinito azzurro che li unisce in un unico mondo intangibile e irraggiungibile? Cielo e mare, due immensità, «luce senza confini». L’anima ne è folgorata. Nella prima lirica, triste la sorte di Filippo, venuto morto nel mondo dei vivi, «innanzitempo». I centosette haiku della prima parte sono un susseguirsi di voci, di suoni, d’immagini, di sensazioni che Tito Cauchi: l’eterna insoddisfazione dell’uomo in Amante di sabbia (Ed. Pomezia-Notizie) Il poeta ama la solitudine, la quiete d’una stanza dalla quale osservare il mondo che gli gira intorno. Per associazione, si pensa subito alla stupenda canzone di Gino Paoli “Il cielo in una stanza”. «Solo, zitto zitto / me ne sto / 73 vibrano, che parlano, che lanciano messaggi ed emozioni. C’imbattiamo nella furba capinera, nell’incognito, e nell’indifferenza, d’un’alba uguale a tante altre, ascoltiamo il frusciare delle foglie nel bosco silenzioso, il lamento del clarinetto, canti d’uccelli, mormorio di onde, avvertiamo il tepore della terra, ultimo giaciglio dell’uomo, seguiamo il ramarro, “alta la coda”, che corre alla salvezza, contempliamo l’odorosa ginestra, maestosa fra zolle e rupi, la pallida luna, le vivide stelle, ci commuoviamo alla vista del bimbo scalzo che piange perché ha perso la mamma, aspiriamo il buon profumo dei gelsomini, l’odore della terra bagnata dalla pioggia, condividiamo il traboccare d’amore il senso pieno della vita dell’autore, c’immergiamo nella visione panica di angoli stupendi della natura che il poeta ha saputo ritrarre con veridicità e vivo stupore... E nell’ultima parte «la più ghiotta, la più ‘confortevole’, la più dotta sezione: ‘Mondo fungino’», così come si esprime nella prefazione - quasi una provocazione alla degustazione - Antonio Bonchino. Esperto conoscitore di funghi, l’autore ne menziona molte specie: Prugnali, Panterine, Geloni, Porcini, ecc... La poesia di Campobasso va annoverata tra quelle opere che racchiudono l’alito dello spirito e la luce delle Muse. Antonia Izzi Rufo tutto vasta conoscenza celata dietro un’innata riservatezza… Nella sua movimentata esistenza, che lo ha visto anche protagonista negli incarichi pubblici, quale sindaco di Jesi, si è dimostrato sensibile alle necessità altrui, distinguendosi per la generosità… Esempio di probità e saggezza, strenuo difensore del mondo poetico di cui egli si sentiva parte attiva… egli possedeva anche una perfetta padronanza della lingua, la capacità di sintetizzare il pensiero, l’armoniosità dei suoi versi, la ricchezza terminologica e l’elevato contenuto culturale delle sue creazioni». Il saggio di Pacifico Topa si presenta profondo, puntuale, obiettivo e soprattutto pieno di una partecipazione personale che caratterizza sia il poeta che l’uomo. Di lui analizza le sue opere poetiche e soprattutto “Il volo del falco”, un poema sinfonico di 2168 versi che propone immagini nitide del poeta, impersonato dal falco, un volatile coraggioso, forte, amante della libertà, un’allegoria suggestiva pienamente azzeccata. Angelo Manitta Maddalena De Lisi, Il sole della vita: un canto che parte dal profondo, (Ed. Terrasanta) Jole Tuttolomondo: Vedo l’alba (Convivio n. 14 pag. 31) L’alba è senza dubbio il momento più affascinante della giornata e Jole Tuttolomondo ne fa una raffigurazione assai vivace e sincera: «Qui si respira pace». Tutto intorno è silenzio, la natura ancora sonnecchia... «Si ode soltanto il frusciare / lento e continuo dei salici». Clima idilliaco! Ma un evento “rompe il silenzio”... «È la voce dell’alba...». Il panorama si vivacizza, assumendo «i toni della fulgida / veste rosa confetto, sfumata / di verde tenero e di giallo pallido». La tipica policromia di un’alba! Tutto fa presagire che «il disco di fuoco, nella / lenta ascesa, dà / luce ai colori in movimento». Sta per nascere il sole, è una nuova giornata, tutto torna alla vita. Si popola anche il cielo di rondini “con un volo circolare” quasi a festeggiare questo risveglio della natura. È un panorama suggestivo, questo che si presenta e che l’autrice ci offre, focalizzando le sensazioni che un’alba può suscitare in chi ha delicatezza di sentimenti e disponibilità a godere «l’armonia cosmica / dell’incantevole quadro». Non per nulla l’alba è solitamente simboleggiata dalla giovinezza esistenziale, il momento più bello di tutta una vita! Pacifico Topa Antonio Sbriscia Fioretti: l’uomo e il poeta, saggio di Pacifico Topa (Cingoli 2002) Il breve saggio di Pacifico Topa mette in risalto le doti di Antonio Sbriscia Fioretti, poeta nato a Senigallia il 18 luglio 1895 e morto il 20 aprile del 1970. Il personaggio è visto soprattutto nei suoi rapporti con Cingoli, splendido paese marchigiano, ma pure nella sua opera di intellettuale e di politico. «Il desiderio di far conoscere un personaggio che, forse, è stato poco apprezzato ai suoi tempi, mi ha spinto a scrivere questa breve biografia – scrive Pacifico Topa nella breve presentazione – e mi ha consentito di conoscerlo come uomo di cultura… Avvicinandolo, si resta colpiti dalla sua affabilità, correttezza, genialità, ma soprat74 In copertina: “L’alba”, disegno dell’autrice, poetessa-pittrice. Le liriche sono intervallate, a tratti, da “Metti un tuo pensiero”, una pagina bianca nella quale l’artista esprime il desiderio di voler leggere il giudizio del lettore, così come in alcuni libri di scuola. Significativa la dedica: sa di altruismo. E il titolo, “Il sole della vita”, vuole intendere che la vita, «preziosa risorsa dello spirito», è bella e vale la pena di viverla. Che cos’è la vita? Un susseguirsi di gioie e dolori, delusioni e speranze, ma sempre «partecipazione alla creazione». E il cuore è «un inguaribile sognatore» che vive d’amore e non comprende perché nel mondo vi sia tanta assenza del dolce sentimento. La poetessa trabocca d’amore ed esplode in un canto che parte dal profondo, che grida, perché tutti ne avvertano “l’eco celestiale”: «Io ti amo!!! Io ti amo». Inaridisce il cuore senza l’amore, senza «l’attimo fuggente del bacio». Ogni cosa è permeata dall’amore che investe di sé tutte le creature, l’intero universo, la saggezza, la sapienza, i ricordi... «Non chiudere mai la porta alla calda luce dell’amore». Esporre semplice, lineare, scorrevole: sembra di scivolare su un prato fresco di erba e di fiori, intriso d’amore (Ovunque amore, sempre amore). Apre la silloge “Attimi di gioia”, versi che esprimono le vibranti sensazioni emotive che l’autrice prova quando il suo uomo la guarda, l’accarezza, la bacia, la fa sua... La De Lisi dedica versi a Vittoria, a Rosy, a Maria, all’amico del cuore, a Luca, alla nonna di cui ricorda «le fantastiche fiabe», alla mamma, «la forza che infonde coraggio... Si immette nei meandri del mondo interiore per scrutarne pensieri, sentimenti, emozioni, sofferenze... Non trascura la droga «che offusca la mente» e uccide, la preghiera «filo conduttore al Creatore» - che dà conforto all’animo, la felicità - «chiave della serenità». - Spesso, molto spesso, il suo sguardo si posa sulle meraviglie della natura per provarne estasi, per ritrarne colori e aspetti magici, per sentirne il respiro, goderne la pace, ascoltarne il silenzio... Incontriamo le quattro stagioni, la primavera «giuliva e festante», l’estate «allegra e raggiante», l’autunno con l’incredibile arcobaleno che ricorda la pace, l’inverno col suo scenario dalle suggestive visioni; la neve, il cui candore sa di purezza, la purezza dell’anima; il mare cangiante misterioso e pauro- so; i fiori, il cielo e la poesia che non solo ispira, ma unisce tutti in un unico girotondo d’amore. «Nell’attimo che tutto finisce, niente finisce, è un continuo rinnovarsi», è il cammino incessante dell’uomo nell’evolversi della vita, dello spirito nella sua eternità. Antonia Izzi Rufo poesie, racconti e saggi che spesso appaiono su vari periodici letterari locali. Da sempre dimostra interesse e talento per il mondo dell’arte, riscuotendo premi e riconoscimenti in varie manifestazioni di grafica, pittura e fumetto. Le sue illustrazioni sono apparse su diverse pubblicazioni d’arte e antologie letterarie. «La finezza delle sue scelte cromatiche, l’uso di calde e accese tonalità, rivelano l’ottima preparazione tecnica oltre che l’originalità percettiva e creativa» (G. Candriffi). Vito Catalano, animo di poeta, «si sofferma con perizia narrativa del segno sui volti isolani e sulle tipologie umane, ricche di espressività nella trasparenza dei sentimenti, per evidenziarne la vivezza e la corposità plastica nel giuoco di luci ed ombre, nella fantasia compositiva delle positure, nell’equilibrio ragionato delle forze e dei colori» (Milly Bracciante). Ha ottenuto nel corso della sua carriera diversi premi e riconoscimenti. Negli ultimi anni alterna l’attività pittorica con quella legata all’illustrazione editoriale. È inserito nell’Enciclopedia dei pittori e scultori italiani del Novecento (Il Quadrato, Milano). Di lui hanno scritto, A. Ales Scurti, M. Bracciante, G. Candrilli, O. Di Prata, M. Patané ed altri ancora. Le sue opere figurano in collezioni private e pubbliche in varie città italiane ed estere. Si veda a proposito la seguente poesia dal titolo Riflessi: Adalgisa Biondi, Gli orizzonti perduti: l’amore sentimento che anima ogni lirica (Ibiskos Edit.) Eloquente la dedica, con le parole di John Lenon: «All your need is love», tutto il tuo bisogno è amore. È l’amore il sentimento che anima ogni lirica; l’amore come nostalgia, passione, trasporto, sogno «che non è di un solo giorno», rimpianto d’una dolce realtà svanita e desiderio e speranza che risorga. «Si svolge in quattro tempi il percorso della poetessa alla ricerca di orizzonti perduti e in attesa di orizzonti di luce»(Castellani). Tuffo nel passato, protrarsi nel futuro, ricerca incessante di un ‘quid’ che possa ridare allo spirito travagliato e insoddisfatto serenità, pace, amore, un quid che sfugge, che non si lascia afferrare... Così l’autrice: «Sono infiniti gli orizzonti... Orizzonti della memoria, della storia, della fantasia... orizzonti talmente miseri da poter essere contenuti in un granello di sabbia, smisurati a tal punto da non poter essere immaginati». In una visione ambivalente, gli orizzonti si mostrano nella loro piccolezza, “flocci”, come un guscio di noce, e nella loro immensità, quella dell’universo infinito, a seconda della disposizione d’animo di chi osserva o del suo punto di vista... Animo complesso, quello della poetessa, aperto a tutte le soluzioni, possibili e impossibili, in continuo lavorio... Scontri di idee contrastanti nella sua mente: la poesia è «sofferenza interiore ma anche gioia che colpisce come un fulmine». È la vita dello spirito nei suoi contini tentennamenti, nei suoi dubbi, nei suoi dilemmi, nelle sue perenni insoddisfazioni, nel suo oscillare tra l'ottimismo e il pessimismo, nel suo dinamismo perpetuo... Le sensazioni d’amore si manifestano dapprima come semplici emozioni (forse al mattino), dopo, «quando cala il sole», in «tentazioni». Ella vorrebbe raggiungere la persona amata, ritrovarla nei «ricordi ancora vivi nel cuore»... Chissà?... La storia potrebbe ricominciare... Ma finisce per accontentarsi dei sogni e dei ricordi, per ricorrere alla fantasia: «Nell’incanto dell’aurora mediterranea... le mie labbra sulle tue... / si raccontano la vita». «Questa notte / immagino / di fare l’amore / con te». Lui, sempre lui, in lei; lui, linfa del suo spirito, senso della sua vita... Emerge spesso la nostalgia della Sicilia, con «le sue bellezze e la sua sporcizia», con i suoi stupendi «paesaggi vasti di blu, di verde, di giallo e di olivastro argenteo lunare». Versi anche per alcuni musicisti, pittori, letterati... A Luigi Pirandello: «L’ignoranza della gente / ha spazzato via / i ricordi della nostra grecità... / (ma) la tua letteratura resterà per sempre». Una poesia profonda e delicata, quella della Biondi, che si stacca dal terreno e si rende degna di sostare sulle vette del Parnaso. Antonia Izzi Rufo Sulla spiaggia dei pensieri camminai con te per mano, sorridendo volentieri al cielo siciliano. I profumi ad ogni passo respirai dell’estate, e seduti sopra un masso passarono le mattinate. Il respiro del vento le onde portò a riva, con cuore contento un brivido saliva. Accarezzai i tuoi capelli dolcemente come il vento, che prima ribelli cercavano addolcimento. Il tuo sguardo luminoso lasciò trasparire un desiderio bramoso, che potei capire. Con lunghi e teneri baci da riscaldare il cielo puro, focalizzammo tenaci, riflessi del nostro futuro. Franco Ruffo, La vita, l’amore e la morte nella poesia di Lionello Fiumi (Libraria Padovana Ed.) Nella “Cittadella” di Cronin, il medico si riduce a lavorare come operaio nella miniera, l’uomo ignorante e intraprendente, che vive di espedienti e sotterfugi, assurge alle più alte cariche dello Stato. Accade spesso che persone valide, ignorate e non riconosciute nei loro meriti, finiscano nel dimenticatoio, mentre altre, che non hanno cultura né titoli, occupino posti di prestigio, «restino sugli altari e vengano assunte a ‘santoni’ di certe correnti e parrocchie Vito Catalano, in Vivere d’arte (antologia dell’A.L.A.PA.F., a cura di Antonia Ales Scurti). Nato a Catania nel 1969 ed ivi residente, dopo aver conseguito la maturità classica, nel tempo libero, scrive 75 politiche e inserite nelle antologie scolastiche» (Licio Gelli). Quanti bravi artisti sconosciuti meriterebbero di essere collocati vicino ai cosiddetti ‘Grandi’... Un plauso a tutti coloro che conducono uno studio attento per riscoprire talenti dimenticati, farli conoscere e inserirli tra quelli meritevoli come loro ma più fortunati. Nel nostro caso la lode va a Franco Ruffo il quale, attraverso una ricerca dettagliata e scrupolosa, è riuscito a raccogliere in un saggio importanti notizie sulla vita e sull’opera di Lionello Fiumi. Questo poeta, uomo molto sensibile e incline alla solitudine, aveva una certa ritrosia a coinvolgere gli studiosi che avrebbero voluto e potuto accrescerne la notorietà e mostrarlo nel suo reale valore poetico e come divulgatore di letteratura all’estero. È uno dei motivi della sua dimenticanza. Ogni dolore, ogni dispiacere, lo portavano ad isolarsi: nella solitudine riusciva ad alleviare la sua pena, a dare conforto al suo animo angosciato. Ruffo ne descrive le tappe progressive in tutti i campi: nella vita familiare, ricca di avvenimenti più tristi che lieti, nella fertile produzione poetica, nelle numerose iniziative culturali, nei viaggi frequenti in molti luoghi dello scibile, nei molteplici riconoscimenti di Premi Letterari Internazionali... Ne illustra le tendenze letterarie tese più verso l’antico che verso il moderno, «Liberarsi degli ingombri del passato senza cadere negli eccessi del futurismo»; presentalo scrittore nel suo aspetto di “uomo liberista” (incompreso per le sue idee troppo personali), nella sua poesia triste e profonda che lo avvicina alla «meravigliosa potenza leopardiana», nel suo tornare alla spontaneità della libera melodia francescana col verso libero. «Si può trattare il verso libero e non essere futurista» proclamava Fiumi nel “Manifesto” preposto a “Polline”, nella sua considerazione per le donne viste dapprima come “amori facili”, dopo come Amore vero, maturo (quello che sentiva per la moglie... Le due donne ispiratrici della sua vita furono la madre e la moglie Marta). Caflos D. Fernandes: «Allontanandosi da Marinetti, la cui estetica gli parve chiassosa ed esibizionista, Fiumi fu uno dei pionieri dell'avanguardismo». Ruffo termina il saggio, edito dalla nota Libraria Padovana Editrice, con queste parole: «Storia di vita, d’amore, di morte di un ‘neoromantico avanguardista, sempre in prima fila’ che visse e morì di Poesia e d’Amore». Antonia Izzi Rufo paradisiaci, la sua scuola, i suoi mali fisici, i suoi travagli interiori, la lettera a De Gaulle e poi... l’amore tanto sognato, tanto atteso... «Un prodigio si compie, / luminoso come il sole: / due anime gemelle / han trovato l’amore». Daniele, però, è sposato ed ha moglie e figli, «non v’è felicità in un amore peccaminoso»; ella lo vuole amare come Dante amò Beatrice... Ma i sensi reclamano, la notte tradisce i suoi buoni propositi: «Sono sola / e nel letto mi dibatto delirante». Desidera l’amplesso folle dei sensi... Nella sua inconsolabile sofferenza, trova conforto solo nella preghiera... All’insaputa di tutti, si trasferisce in un paesino dell’Italia settentrionale per dimenticare, per far perdere le sue tracce... Ma Daniele, dopo sette anni, rimasto anche lui vedovo e con tre figli, riesce ad avere il suo indirizzo e va a bussare alla sua porta... È bello ritrovarsi, ridestare l’amore sopito ma non spento, cominciare di nuovo a sperare nella realizzazione del sogno... Il destino, però, le tende un tiro mancino che non s’aspettava: la figlia Florinda s’innamora di Daniele. Che fare? L’infelice donna decide di rinunciare, di sacrificarsi per la sua bambina, di farsi suora. Con l’abito monacale accompagna gli sposi in chiesa. Transfert: convolerà anch’ella a nozze, si sposerà con Gesù... Un ripiego d’emergenza, ma sentito perché ispirato dalla fede. Un racconto semplice e commovente. Il significato del titolo: «Il contrasto tra ragione e cuore, fra realtà e desideri» (Carlo Bisazza). Antonia Izzi Rufo Filippo Giordano: Rami di scirocco (Edizioni Il Centro Storico, 2000) Filippo Giordano è un poeta ormai affermato ed ha vinto, tra gli altri, i premi “Città di Marineo” (1979) e, per la poesia dialettale, il “Bizzetti” (1999). Ha al suo attivo diverse sillogi ed ora, quasi a voler proporsi in chiave unica ed unitaria, ha voluto racchiudere in un solo volume, “Rami di scirocco” per l’appunto, l’intera sua produzione, aggiungendovi anche un corpus di venticinque componimenti in stile haiku fin qui inediti ed inseriti sotto il titolo “Minuetti per quattro stagioni”. Si tratta di un volume, questo, che ci dà veramente modo di entrare nel vivo della poesia di Filippo Giordano, di gustarne le scansioni emotive, di suggerne l’essenzialità espressiva, di riappropriarci del piacere antico e sempre nuovo del bel verso... Sono pagine intense, le sue, quasi un diario aperto sull’ieri che diventa l’oggi e sull’oggi che cerca di non perdere la propria identità culturale, sociale, di veicolo affettivo in direzione di un dopo che si sta avvicinando a passi di gigante. Ogni verso ed ogni quadretto lirico di Filippo Giordano sono un insieme di momenti alti, di aperture, di scampoli luminosi che ci fanno sognare a tratti oppure riflettere. Sì, perché la poesia, se è autentica - e questa di Filippo Giordano lo è, eccome - sa abbinare sempre elementi di sogno ed elementi raccolti dal vivo, dalla quotidianità. Giustamente ha evidenziato Antonella De Luca come la sua poesia sia «una girandola di frammenti che irrompono da un universo mediterraneo denso e lieve ad un tempo; pennellate di colore che sfiorano tutta la gamma delle sensazioni possibili, prima centellinate e poi profuse a piene mani». E giustamente ha anche scritto Maria Giovanna Cataudella, ovvero che si tratta di «poesia luminosa, leggiadra con assonanze di atmosfere dimenticate, perdute nei Antonina Ales Scurti, Fra due barriere: una storia toccante (Cultura Duemila) “Fra due barriere”, diario-romanzo in versi e in prosa. Una storia toccante, che si svolge sul filo di motivi classici, con personaggi disposti alla rinuncia e al sacrificio, sentimenti che, oggi, in un mondo di arrivismo e superficialità, sono scomparsi quasi del tutto. Una donna giovane, vedova, con una bambina, sola e triste, però c’è «la piccina che pigola nel suo nido... che s’attende tutto da lei», che la induce ad andare avanti e a sperare ancora (perché no?) nell’amore. «Son tutta fremito / il mio cuore s’agita / arde, scalpita. / Amo forse l’amore?». Nella sua fede profonda, invoca Dio e Maria perché la proteggano, frenino i suoi impulsi. Anche poetessa, viene premiata più volte in Concorsi Letterari, per poesie. Il ricordo d’un amore prematrimoniale sfumato, la malattia il dolore e la morte della sorella Anna, i brevi viaggi nella sua meravigliosa Sicilia con le immersioni paniche nella natura e la descrizione di angoli 76 segreti viatici della memoria». Filippo Giordano si rivela perciò poeta a tutto campo, dalla personalità ben spiccata e tale da mettersi in discussione ed a nudo proprio perché in lui c’è un mondo interiore davvero sensibile e prensile. Non a caso da trent’anni scrive poesia ed alla poesia va dedicando la parte migliore di sé. E non a caso di lui si sono occupati critici quali Giorgio Barberi Squarotti, Dino Papetti, Carmelo Ciccia, Stefano Valentini, Roberto Carifi, Salvatore Arcidiacono, Carmelo Pirrera e Federico Hoefer. Fulvio Castellani to, con questa chiave di lettura, rivelatore (?): per non dirmi cose non vere, PER NON MENTIRE A ME STESSA. Dunque, per dire il vero; per ammettere la verità. A se stessa per prima e, bensì, a noi tutti, suoi lettori, suo pubblico eletto, giacché ella, con la pubblicazione, ha inteso rendersi pubblica, ha preteso rivelarsi. Ma (un dilemma di ritorno ci assale) rivelare, confessare cosa? Affrancarsi da che? La risposta è… inoltrarci, affrontare il testo! Una frase di Virginia Woolf «Ho bisogno di un gergo come quello degli innamorati», posta sull’uscio dei componimenti, sembra lanciarci un segnale, metterci sull’avviso, anticiparci un indizio. E, non appena varcata la soglia, ci imbattiamo in una dichiarazione programmatica: «Ho lasciato / che i miei occhi / diventassero ciechi / perché tutto / fosse creduto / Perché essere amata / costasse / l’illusione di amare.» L’amore dunque il tema centrale, il nucleo di questa silloge! Un amore, apprendiamo, travagliato: «Non mi volevi / quello / che potevo essere.», «Mi volevi / quello / che non potevo / essere», «Né alla vita / né alla morte / questo posare impervio», opprimente: «Come faccio a respirare / con orizzonti / sul petto». «Le sere / hanno / una prigione», «Tutto può aspettare / senza accadere».Un amore, già finito: «Non mi trattiene più / il tuo richiamo», «Abituo parti di me stessa / a distaccazioni», «Sono sola / e necessaria», forse: «… ingovernabile sogno / ricompari.», «Alle promesse / ho ricreduto (ceduto) ancora», «Prima che mi / ritrovi / avrò tentato / ancora / di / non / amarti». Un amore, desumiamo da queste tracce, motivo di afflizione laddove non di annichilimento («Quando di me / non sapevo che farne»), causa di conflitto interiore per l’Autrice, di frizione tra lei e il mondo e miraggio di fuga da questo («La luna… per farsi / prendere / per farsi ritrovare») alla volta (vana) di una dimensione alta e altra di se stessi e dell’Amore. E nondimeno l’amore (il ripetuto lacerarsi perdere i pezzi frantumarsi, cadere e sollevarsi non costituisce forse una delle sue prerogative?) è solo uno degli elementi di quest’opera; quello che la tiene alla fonda. Marco Scalabrino Nannaparola di Vito Tartaro (Accademia dei Palici 1999) Vito “Jack Frusciante ” Tartaro è tornato! Le sue nuove armi - le armi che questo Efesto ramacchese forgia nell’ipogeo della propria fucina - una volta più denotano, sin dal primo scontro in campo aperto, la fierezza del fuoco, la sferza del vento, la carezza del sole. In buona sostanza la tempra, aspra e dolce al contempo, della Sicilia. Della sua Sicilia. Della Sicilia come egli, a più riprese, in questa ultima frazione del decennio, ce l’ha figurata: un prezioso ordito lirico sul quale insiste il cardine zurricusu della storia. La grande Storia e le piccole storie. Egli... è un baluardo. Egli si erge - erge la sua poesia - ad argine, a roccaforte. Ancora una volta, questo Pasionario della poesia siciliana accorre in difesa del dialetto siciliano o per meglio dire (secondando il suo temperamento e ottemperando a un noto motto) passa all’attacco. Vito Tartaro è un appassionato cultore; uno scrupoloso ricercatore. E nondimeno, Nannaparola, non si ferma lì. Perché se da un canto il Siciliano il dialetto siciliano - è oggi più vitale che mai, d’altro canto esso è relegato (faticosamente resistendo a contaminazioni, a italianismi, a beghe di ogni sorta) al ruolo pressoché esclusivo di lingua letteraria, lingua dei poeti; di lingua, ovverosia, rivolta alla conservazione di un patrimonio di cultura che altrimenti, rischia, seriamente, di soccombere. Marco Scalabrino Non dire mai cosa sarà domani di Imperia Tognacci (Ed. Giuseppe Laterza, Bari 2002) Per non inventarmi di Margherita Rimi (Kepos 2002) Un racconto, quello della Tognacci, che scorre veloce sotto gli occhi del lettore, sia per il linguaggio semplice, ma anche per la particolare descrizione dei luoghi. Si tratta di un racconto che in molti punti si sofferma su alcuni problemi sociali che affliggono l’esistenza dell’uomo. Si tratta di un intersecarsi di storie ora tristi ora lieti. Nell’intricato mondo del rapporto umano nasce l’amicizia tra Maria e Loretta, ma ecco che la vita di quest’ultima viene stravolta dall’essere privata di uno dei più grandi doni: quello della maternità. Una serie di vicende che si alternano e che puntano l’indice su quelli che sono i problemi di ogni uomo: la solitudine, le malattie e l’insofferenza alla quotidianità. Loretta, Maria e Paola, ognuna apparentemente diversa per fisionomia e carattere, appaiono simili invece nella loro forza interiore, che li spinge a superare la solitudine. L’autrice con il suo stile semplice e descrittivo non trascura l’aspetto psicologico delle protagoniste, tant’è che proprio la molto travagliata vita interiore di Paola sotto l’inchiostro prende forme bizzarre, simbolo di un disagio interiore dell’essere vivente e di una società apparentemente armoniosa. «Succede a volte che, pur vivendo vicino a persone – rac- È compito arduo leggere e commentare uno scritto! Leggere dentro delle pagine che sino a poc’anzi ci erano del tutto ignote, estranee; leggere a fondo quelle righe con le quali adesso per la prima volta ci stiamo rapportando, che solo al presente stiamo sfiorando con lo sguardo, stiamo palpando con le dita, stiamo passando allo scanner della mente. Leggere, correttamente intendere e trasferire, partecipare ad altri, gli esiti della nostra lettura... Come giammai in precedenza abbiamo sentito opportuno, allo scopo di tentare una interpretazione quanto più autentica del lavoro, cominciare dal titolo della raccolta, interrogarci su quel verbo, INVENTARE, che da solo compendia l’opera tutta. Inventare, recita il dizionario, significa “escogitare con l’ingegno, creare una cosa nuova e utile, creare con l’immaginazione fatti, personaggi e simili”; ma anche “dire cose non vere” (inventare delle calunnie, ad esempio, inventare delle scuse). Quest’ultima accezione, specie se - come del resto l’Autrice ci impone - volta al negativo, è assai intrigante, allettante. Il risultato difatti che, con questo taglio, il titolo nella sua estensione completa assume è insospettato; l’effet77 conta l’autrice - alle quali vogliamo bene, pur dividendo lo stesso ambiente e spazi di vita comuni, ci si senta lontani da loro anni luce. Vite vicine in una realtà che, però, fa solo da sfondo a quella interiore. Qual è dunque la vera vita, quella che i nostri sensi percepiscono, o quella della mente?». Una domanda che almeno una volta nella vita ognuno di noi si è posto forse non trovando la risposta esauriente. E sul concetto d’essere molti filosofi si sono scommessi, ognuno cercando di trovare la risposta, sin dai tempi più remoti, da quando Parmenide divenne il propulsore della filosofia occidentale, anche se in seguito con Cartesio, che considera l’essere in relazione al soggetto che lo pensa, si è di fronte al soggettivismo, tra l’altro significato ontologico rifiutato da Kant che, ricondusse l’essere alla nozione d’esistenza reale. Così il tormentone sull’esistenza continua a porre sempre degli interrogativi, passando dal nichilismo alla rinascita ontologica. E se F. Nietzsche sosteneva il divenire instabile della vita, non catalogabile attraverso certezze universali, G. Simmel sosteneva invece che l’essenza della vita è trascendere le forme storiche in cui si è via via manifestata. Ma l’autrice riesce anche a far soffermare il lettore su altri aspetti dell’essere uomo. «Si tratta - così come si legge nella seconda di copertina - di storie di donne di ieri e di oggi, storie d’amicizia, d’amore, di malattia. Storie di orgoglio, di tenacia, di sensibilità celate ma vibranti in un universo femminile che sa “volare alto” e che, anche in una società difficile e complessa come quella attuale, continua a rappresentare con naturalezza il fulcro intorno al quale ruotano i rapporti umani». La donna di Imperia Tognacci è protagonista della società in una forma attiva e non passiva una figura che lotta per superare gli ostacoli e le difficoltà che spesso sono legate al ruolo poliedrico che la vede ora alla ricerca di un lavoro, per ritornare poi ad essere donna-madre all’interno delle mura domestiche. In tutto questo trambusto ecco che l’autrice con grande maestria rafforza uno dei substrati della parte narrativa, quella psicologica, ponendo nei meandri del pensiero di Maria una frase molto incisiva che rappresenta la luce della verità della propria esistenza. «Nel buio del tunnel si era aggrappata alla mano forte che le avevano tesa, in fondo a quel buio ha intravisto la luce e libere strade. Ha scelto la libertà e ha riconquistato l’avvenire. Nei suoi occhi, non più spenti, ora brilla la luce». Ed è la luce della pace interiore, quella inseguita, cercata e desiderata da ogni uomo in ogni epoca. Enza Conti l’indomabile curiosità verso ogni aspetto dello scibile umano». La poesia di Claudia Turco è inondata di luce. Già il titolo evidenzia la concettualità e la luminosità delle sue liriche, frutto di una creatività intima e passionale, estrinsecata attraverso il trionfo della bellezza sul dolore, della vita sulla morte, della felicità sull’infelicità. Il linguaggio, spesso simbolico, evidenzia una lotta tra il bene e il male, tra la luce e il buio, ma è sempre la luce a prevalere e quindi la felicità, attraverso una fiducia nella vita e nel rapporto con gli altri. Tutto è pervaso da un equilibrio concettuale e verbale ed una affabulazione narrativa e espressiva, in cui la parola ha il sopravvento con la sua emotività. «Parole alla deriva per vite spezzate. / Unica superstite una macchia di luce, / candida voragine di presagi nascosti». La poesia della Turco è intrisa di colore e di sapore, sensazioni che prevalgono sul tutto. Il colore è luce ed emozioni: «Illuminava di polvere e frantumi / di vetri colorati i capelli sporchi / dei barboni ancora addormentati...». I vari elementi compositivi però appaiono sempre come entità distinte e non confuse. La bellezza, sia fisica che morale, è un aspetto essenziale, non solo dell’arte, ma pure della vita attraverso un’architettura concettuale e formale con presa di coscienza del reale, in una visione tridimensionale, direi quasi matematica. I riferimenti ad autori classici, che introducono ogni poesia, evidenziano ancora di più la profondità della poesia della Turco e soprattutto il suo filo logico-espressivo. La silloge di Marco Baiotto, l’altra faccia del volume, corre su un concetto di cavalleria, quale ideale puro e virtuale. Tale ideale non si coniuga assolutamente con i modelli sociali contemporanei, senza vita e senza forma, ma soprattutto privi di grazia e di eleganza, bensì con modelli virtuali. Nella poesia di Baiotto prevale perciò l’intimità. Le sue liriche non hanno la pretesa di assurgere ad eccezionali componimenti d’arte. Hanno un valore espressivo interiore. Da questa umiltà scaturisce il vero valore della sua poesia: sincera, chiara, profonda. La silloge corre su una contrapposizione tra attivo e passivo, tra uomo e donna, tra contrapposti elementi naturali e concettuali. In questo senso la poesia chiave è certo quella che introduce l’intera silloge, dove appaiono gli elementi vento-mare, pesco-ape, fata-elfo, giorno-notte, cielo-viaggiatore, primavera-ciliegio, lunalago, candela-aria, nuvola-deserto, stelle-tempo, donnauomo. Il concetto è quello di un completo abbandono dell’uomo innamorato della sua donna, come si legge in una strofe: «Vorrei che tu fossi una scia di polvere di stelle e io il tempo, così che potrei arrestarmi, estasiato, a contemplare la tua bellezza». Nel più alto spirito di cavalleria, l’amore sincero prevale su ogni cosa. Le due sillogi quindi, quella di Claudia Turco e di Marco Baiotto, si completano a vicenda, così come i due poeti si completano nella realtà. Angelo Manitta Claudia Turco, Frecce di luce (Udine 2003); Marco Baiotto, Duetti solisti (Udine 2003) «Nella sua poesia Claudia Turco cerca la leggerezza della pittura congiuntamente alla profondità dell’architettura, la resa scultorea del dettaglio, nonché un uso espressivo del colore. Predilige la forma del frammento per l’intensità che esso consente». Così si esprime nella premessa al volume di poesie dal titolo Frecce di luce l’autrice Claudia Turco. Il volume, che comunque sarà rivisto dall’autrice e ripubblicato, è duplice. Infatti raccoglie insieme dall’altra parte le poesie di Marco Baiotto. «I suoi versi sono - si legge nella presentazione dell’autore - profondamente filosofici, irriverenti, a tratti romantici e mai immorali. I suoi pilastri sono il sincretismo, la filosofia della scienza e I germogli di Ground Zero di Michelangelo Cammarata (Federico, Palermo 2003) La poesia di Michelangelo Cammarata si distingue per la sua semplicità, per il suo frammentismo, ma soprattutto per la sua profondità concettuale ed espressiva. La silloge “I germogli di Ground zero” raccoglie liriche che vanno dal 2001 al 2002, quindi sono molto recenti. Il procedimento è per brevi flash. La brevità eleva il lirismo della 78 poesia, che coinvolge la natura, il mare, il cielo, la terra e soprattutto lascia emergere le emozioni che questi elementi fanno nascere nell’uomo. Dalle liriche si evidenzia una personalità quieta e tranquilla, amante della pace e della vita, ma soprattutto del Bello. Il mondo poetico del Cammarata è fatto di piccole cose, e le sue poesie si presentano come un caleidoscopio dai mille colori e dalle forme cangianti ogni momento. A quest’aspetto, che definirei lirico, si aggiunge anche quello sociale: un’analisi poetica di un mondo contrassegnato da eventi storici tristi e alienanti, in una società che mira solo al consumismo e all’individualità egoistica. La brevità della liriche invita il lettore a riflettere, stimola la sua immaginazione e soprattutto oggettiva una realtà personale attraverso una vita affettiva complessa. L’uomo è visto in diverse connotazioni. Attraverso la storia interpreta il presente, attraverso il passato conosce se stesso, attraverso la contemplazione della natura evidenzia e manifesta le sue emozioni. «Dal cielo scendono navate. / Mi catapulto indietro / ad ascoltare campane». Lo spirito religioso, una religiosità laica, emerge anche dalla contemplazione del silenzio e della luce: «Nel silenzio incantato della luce / un bimbetto è acquattato / fra gl’ispidi germogli di una croce». Il tutto viene visto attraverso la memoria, quasi ripercorrendo un passato imbizzarrito, mentre l’insonnia scaccia le ore, le rende tristi e dolenti. Si cerca allora l’evasione. È l’evasione di una notte di stelle o di un mare assolato, di un’isola verdeggiante o di una farfalla che svolazza per il cielo: «Carezza gioiosa d’un mattino / distilla tutt’intorno un’iridata rugiada di sogni». Ed è il sogno che l’uomo insegue: un sogno di felicità e di pace, di quiete e di verità. La poesia di Salvatore Cammarata, riuscendo a coinvolgere il lettore con la sua spontaneità e profondità, lascia una profonda emozione. Il suo ideale morale e l’incisività delle sue parole non cadono nel vuoto, ma colpiscono a segno. Angelo Manitta elevata sotto l’aspetto lirico e concettuale. «Adriana Scarpa è affascinante nel suo girovagare tra le rovine del passato in una sublimazione continua: recuperare dall’oblio del tempo, dal riposo delle urne, dal segreto dei millenni, dal rito ancestrale che decreta il destino...». Il passato si riflette quindi nel presente in una continuità concatenata e virtuale. Il pensiero, espressione di un’umanità in cammino verso la felicità o l’infelicità, completano quindi il loro percorso. Si tratta di uno scavare nei labirinti del tempo, penetrarli e capirli. Ma proprio in questo labirinto si trovano tracce di se stessi attraverso un’archeologia della parola che, con simbolici oggetti o segni sacrali, costruisce la cabala del tempo. Il tempo è signore della storia e della materia, della vita e della morte. Il tempo è signore di tutto. Esso distrugge e conserva. La poesia di Adriana Scarpa è fatta quindi di voci interiori ed esteriori che si protraggono in un tempo che diventa oggetto-soggetto. L’uomo, dalla silloge della poetessa veneta, appare come un bronzo di Riace, perfetto, bello, avvincente mentre emerge dal mare del passato come una divinità, ma con spirito umano e profonda idealità, con il suo pensiero, con il suo essere in divenire che vuole scoprire momento per momento se stesso e la sua mistica origine. Angelo Manitta Rosetta Mor Abbiati: Inno d’Amore e di Speranza, (La Compagnia della Stampa Massetti Rondella Editori 2002, pag. 80) «In cima ai miei pensieri / un palpito, / in cima alla mia vita / un canto: tu». Sono sufficienti questi quattro versi per farci capire quanto Rosetta Mor Abbiati sappia coniugare alla perfezione il capitolo dell’amore e della vita; un capitolo che srotola con estrema sensibilità d’animo e che ci consegna in una piena di versi dall’andamento variegato, pulito, vaporoso... Già autrice di altre sillogi poetiche e vincitrice di non pochi premi di prestigio, Rosetta Mor Abbiati qui rimarca il suo modo di poetare usando un gioco alto di movimenti che partono dall’io e che si allungano ad abbracciare il tempo, il sogno, i percorsi della quotidianità, l’amore in quanto autentico, ed insostituibile, respiro del cuore e speranza solare. «E t’amo / anche in silenzio / e in penombra, / t’amo», dice quasi trasferendo se stessa nell’altro, quasi respirando intese, certezze, «gioie forse insperate». «Le sue liriche cantano emozioni intense, penetrano nel cuore di chi le legge come acqua pura che disseta profondamente e dona sensazioni di intimo benessere», ha evidenziato nell’introduzione Orsola Rossini. Ed ha perfettamente ragione, così come Enrica De Angeli che in occasione del libro “Le ore del silenzio” aveva rimarcato che le parole usate da Rosetta Mor Abbiati «sono a forte densità connotativa, ricche di richiami significativi e ci dischiudono un orizzonte di associazioni e di allusioni». Un tanto spiega il perché la poesia di Rosetta Mor Abbiati sia in grado di mettere in circolo singolari messaggi, eloquenti fraseggi interiori e silenzi che si spalancano in direzione di una musicalità palpabile che fuoriesce da ogni verso e da ogni pensiero. È chiaro, a questo punto, che ci troviamo di fronte ad una poetessa dal calco moderno ed autenticamente genuino; una poetessa che sa tracciare l’eco delle stelle anche allorquando l’equilibrio dei giorni si fa precario oppure si acquieta di fronte ad uno sbadiglio di sole, agli spiragli Adriana Scarpa, Le risacche del tempo, (Montedit, Maggio 2003) Il volume di Adriana Scarpa, “Le risacche del tempo”, è originale nella sua impostazione. In esso l’autrice sa coniugare perfettamente storia e poesia, liricità ed espressività semantica. L’intera silloge, infatti, è un percorso ideale tra storia e tempo, tra concettualità e vocalità. Si tratta di una voce interiore che percorre l’universale individualità umana attraverso le sue opere e le sue azioni, insomma attraverso il tempo e la memoria. Questa voce parte dall’Egitto, dalle sue regine, dai suoi re, dalle emozioni che essi continuano a suscitare attraverso una voce dello spirito ideale che parla nell’intimo di ognuno di noi. Dopo il mondo greco, con i suoi monumenti e i suoi personaggi, quali i bronzi di Riace, questa voce, la voce della storia, attraversa l’Etruria e passa a Roma e a Pompei con le sue stupende immagini che ancora parlano al cuore dell’uomo e suscitano emozioni. Il filo della voce percorre quindi il mondo azteco, quasi punto di raccordo tra antico e moderno. Attraverso il canto e la parola la voce giunge alle atrocità di Bergen-Belsen, il campo di concentramento dove Anna Frank ha perduto la vita, concludendo quasi attraverso un cerchio ideale, la storia dell’uomo che è sofferenza, ma pure speranza e vita. Le voci interiori fanno quindi da sottofondo e la voce dell’anima emerge in una poesia 79 della memoria, all’ondeggiare lieve di quella speranza di ulteriore amore che ne caratterizza ogni e qualsiasi percorso dentro ed accanto agli orizzonti del suo vivere a viso aperto. Fulvio Castellani lizzando come arma la peggiore se pur invisibile: la violenza psicologica. Infatti l’autore in punta di piede scava anche l’Io delle sfortunate e di ognuna riesce a trasferire sentimenti, paure e sogni. Si tratta di un libro, che esce dal semplice racconto di storie e dietro la narrazione e le descrizioni di luoghi, dà la possibilità di poter guardare in fondo nei meandri di un’esistenza ferita e la cui cicatrice rimarrà sempre un segno vivo per ogni protagonista, cioè un segno che pian piano spegne quella piccola fiammella che alimenta la forza interiore. Il libro si può benissimo paragonare ad un decalogo di vita dove senza utilizzare toni forti l’autore dà la possibilità anche al lettore più frettoloso di fermarsi un attimo e guardarsi attorno togliendo il velo che spesso nasconde dall’altro lato che è quella della realtà. Ebbene suor Paola è riuscita a rompere il silenzio delle azioni ed è riuscita a dare non solo coraggio a ragazze che hanno avuto la forza di ribellarsi ai soprusi, schiavitù e violenze del marciapiede, ma anche di dare loro un punto di riferimento da dove ricominciare mettendo un muro divisorio tra il passato e il presente, tra l’essere donna oggetto e donna madre. Un volume che ha il diritto di essere ritenuto come un testamento di vita e della realtà che ha bisogno di cambiare. Enza Conti Poeti e pittori del terzo millennio collana diretta da Alfredo Varriale. La collana, “Poeti e pittori del terzo millennio”, diretta da Alfredo Varriale si può paragone ad un piccolo scrigno il cui contenuto fondamentale è l’amore verso la poesia e la pittura. Infatti le pagine di critica e di poesia vengono armonizzate da quelli della pittura, dove i colori e le forme dei dipinti, aprono un altro orizzonte al lettore in un mondo, che è quello dell’arte, in cui il linguaggio di lettura va oltre l’apparenza del soggetto immortalato. Il successo dell’opera diretta da Varriale è da attribuire proprio alla semplicità tipografica e alla ricchezza di contenuto, attraverso un numero svariato di autori contemporanei che della poesia e della pittura hanno fatto un momento di arricchimento culturale. Tra gli autori presenti nel dodicesimo numero molti sono gli amici del Convivio, come Alfio Arcifa, Pasquale Chiaramida, Antonio De Rosa, Maria Dho Bono, Pasquale Franceschetti, Maria Teresa Luizzo, Angelo Manitta, Giuseppe Manitta, Carmine Manzi, Giuliana Milone, Adriana Scarpa, Rolando Tani, Pacifico Topa, Lucia Tumino, Baldassare Turco e Alfredo Varriale. Giovanni Tavcar: La memoria delle origini: dissertazione attorno alla nostra stessa esistenza (ed. Il Convivio) Suor Paola: nata per amare di Achille Martorelli (ed. Acume) “La memoria delle origini” è una ennesima affannosa dissertazione attorno alla nostra stessa esistenza, si può parlare di opera teologico-filosofica dato che in essa l’autore ha condensato quelli che sono i principi fondamentali della nostra fede cristiana. La stessa suddivisione della silloge in diversi capitoli conferma quanto detto. Egli parte dalla creazione s’intrattiene in quelle che sono le tematiche nel rapporto Creatore-uomo, passa poi alla “memoria delle origini” che illumina l’uomo «con lampi d’eternità», s’addentra nel non facile pelago della nostra stessa entità come membri della chiesa, ripercorre le tappe amare dell’esistenza terrena nel «tempo di crocifissioni» per poter ricollegarsi alle conquiste ottenute dalla preghiera e la generosità Divina che ci offre “L’eucaristia” come mezzo di riappacificazione. Un percorso lungo, circostanziato, biblico in cui si evidenziano gli avvenimenti dislocati nel paradiso terrestre, la vita stessa di Adamo ed Eva, la tentazione del Maligno. Tavcar non usa il nome “Demonio”, ma quello di “male” estendendolo anche ai nostri giorni. L’uomo insidiato e solleticato nella sua ambizione viene lusingato a diventare come Dio, ciò che gli procurerà l’eterna maledizione e la cacciata: «Che l’uomo continui / ad esistere essere libero / e cosciente», autonomia che sovente non sappiamo usare. Il dramma dell’umanità si concretizza col sottostare alla morte? Dio non è solo giudice severo, ma anche Salvatore ed ha assunto la sembianza umana per sgravarci dal peccato subendo il martirio della Croce. Tavcar analizza le circostanze che si succedono con quella chiarezza linguistica e religiosa, frutto di una fede profonda. Si esalta quando descrive il Regno dei Cieli, inteso come “energia vitale” inserita fin dalla nascita e che dovrebbe orientare tutte le azioni: «Noi siamo fatti / di materia vibrante», ma anche pensante, capaci di autogoverno, accet- Una storia, tante storie ma pur sempre vere ed esempio di una società senza scrupoli ed indifferente di fronte alla sofferenza, alla solitudine e alla povertà. Ma nel deserto della realtà ecco che spunta un piccolo fiore apparentemente esile sotto la furia del vento, quel piccolo fiore si trasformerà in una grande quercia tanto da rompere quella solitudine che ha cancellato il sorriso sulle labbra di tanti giovani, riconducendoli in punta di piedi ad essere nuovamente se stessi e pronti a guardare avanti verso un nuovo orizzonte. Ebbene il piccolo fiore non è altro che suor Paola, che con il suo coraggio e forza interiore riesce a realizzare un centro dove giovani donne, vittime di violenze inaudite, trovano un punto di riferimento e di protezione. Infatti le storie che vengono racchiuse nel volume di Achille Martorelli sono le storie che vede nel mondo migliaia di giovane ragazze che convinte (o meglio raggirate) di trovare in Italia la terra promessa, diventano invece vittime di uomini che li portano al limite dell’umanità. Una doppia ferita colpisce le sfortunate, la prima quella dell’abbandono della propria casa, del proprio paese e spesso anche dei propri figli e la seconda è la consapevolezza che dietro alle promesse di lavoro e di guadagno invece si nasconde la dura realtà dello sfruttamento e della schiavitù. Sur Paola, che poi è il filo conduttore delle storie, riesce a strappare al gelido mondo molte ragazze e reinserirle in quello che comunemente viene chiamato il mondo dei “normali”. L’autore con molta delicatezza parla di Ina, Luna, Blonde, Janet, Melissa, Manuela ed ancora tanti nomi di donne che nelle loro paradossali storie diventano ognuna l’esempio vivo di come le loro storie non sono altro che testimonianze reali di come l’uomo si trasforma in lupo verso i propri simili, uti80 tando i principi che la chiesa ci propina: pregare, pentirsi, creare. «Se la fede / va oltre i limiti / della ragione» è necessario adeguarsi. Dopo aver fatto un’analisi della nostra realtà, l’autore si chiede: «Che chiesa siamo?» e qui enuncia molte negatività e sollecita il perdono dato che il mondo al di fuori della mura nella chiesa è quello della miseria, dei soprusi, della corruzione, dei vizi. Dio è sempre consapevole di quello che noi facciamo, è comprensivo, ci stimola ad essere fedeli alla sua legge, pazienti con il prossimo, generosi con chi ha meno di noi, concretamente non apparentemente occorre mortificare la superbia: «Non spetta a noi / accusare / condannare: giudicare» c’è una divinità superiore. Il nostro è tempo di lotte, queste dovrebbero farci incontrare con Cristo. Il finale di questa raccolta è tutto indirizzato verso l’esaltazione della divinità nei suoi molteplici aspetti. Tavcar ha elargito utili ammaestramenti per ricondurre l’uomo sulla retta via. Pacifico Topa a lei compassione, «timidamente li baciai». Scorrendo le pagine di questa raccolta ci si convince di avere di fronte una poetessa senza ostentazioni che sfoggia uno stile sobrio, convincente, puntualizza senza arzigogolare, non enfatizza, focalizza con precisione. Il diniego di ogni forma di violenza, delle ingiustizie sociali, l’elevato valore della poesia, il desiderio di libertà, sono tutti spunti che la Grillone ha manipolato con saggezza e senso d’umanità, tutto questo la rende realistica, sensibile, altamente umana e padrona dell’arte poetica. Pacifico Topa Arnaldo Caimi uno spaccato di realtà contemporanea in Gente delle mie parti (ed. Il Convivio) “Gente delle mie parti” uno spaccato di realtà contemporanea che Arnaldo Caimi ci offre e con una prosa vivace, fluida. Si potrebbe parlare di un trattato di psicologia, dato che l’autore s’impegna a descrivere con precisione figure caratteristiche, non solo nelle loro caratteristiche fisiologiche, ma anche psicologiche e caratteriali. “L’ingenuo” è la tipica persona «di piccola statura, senza presenza né prestanza che, temendo i confronti, vive appartato», è un avulso dalla sociètà che si crea un mondo tutto suo e che riversa negli scritti ciò che ha dentro. S’illude d’esser letto e s’appaga se riesce a pubblicare. Nel descrivere la “malizia” la impersona in una giovane e bella ragazza che si muove suadentemente, specie in estate quando gli abiti succinti evidenziano le forme, però, aggiunge: l’ostentazione eccessiva è negativa. Un tema che gli sta a cuore è quello dell’eterna giovinezza; in “Essa” Caimi sintetizza una bellezza passata ma non scomparsa, donna che s’illude di aver fermato il tempo e cerca di conservare il suo fascino, ma precisa che, caratterialmente, oggi si è emancipata, respinge ogni succubismo, si equipara all’uomo. “Il gatto bigio” è una sottile ironia corrispondente a una realtà, paragona un animale nato e vissuto nel medesimo ambiente e che si accontenta all’essere umano che nella analoga situazione, si chiude in sé, diventa abulico, privo di volontà, ignaro di quello che avviene al di fuori. Prigioniero del suo modo di vivere, ma che non può pretendere quello che non conosce. Caimi dice: «Ben altro è il vivere, che stare a guardare un gatto bigio nella finestra di fronte». Per lui la solitudine è silenzio, buio, ossessione che invano respinge. Questi racconti di Arnaldo Caimi sono degli schizzi letterari che servono a puntualizzare e conoscere alcune realtà che ci cono vicine, ma che spesso ci sfuggono; le analogie servono egregiamente per confrontare, valutare come in “Figure” in cui i simboli del gioco delle carte sono presi come caratteri da affibbiare ad individui. Secondo Caimi «ogni figura corrisponde ad un seme» si tratta di caratteri personalizzati che servono a determinare. L’opera di questo realistico autore si conclude con alcune sagaci considerazioni di profondo senso morale: la conoscenza è frutto della curiosità e, solitamente, approda alla comune sapienza. Innegabile una certa finezza di ragionamento che presuppone acutezza di ingegno per addentrarsi nella concettualità di questo racconto plurimo, proposto con forbito linguaggio e profondità contenutistica. Pacifico Topa Elisa Orzes Grillone: il senso etico e morale della poesia in Rivoli d’argento (Ed.Convivio, 2003) La silloge di Elisa Orzes Grillone “Rivoli d’argento” è il frutto di una personalità ultrasensibile che si lascia affascinare dalle cose più umili pavesandole del loro giusto contenuto, usando un simboleggiante linguaggio assai efficace. La Grillone si esalta di fronte alle bellezze della natura e da essa trae lo spunto per esaltare il Creatore. Ricca di fantasia, lei s’immerge nel clima idilliaco di una Roma “regale” in cui germogliano “i ciliegi giapponesi”, dono dell’imperatore del sol levante alla città eterna, questo gesto le fa pregustare l’amicizia fra i popoli. Da buona cronista evoca i ricordi di viaggi compiuti, esalta il patrimonio architettonico romano, le suggestioni della città lagunare, Venezia, la floridezza della campagna toscana “ricca e generosa di poesia”. Si commuove di fronte all’alba per «il risveglio della natura / che apre le braccia / alla fatica dell’uomo». La sua fantasia spazia fra il mistero “della sacra coppa” riferimento mitologico al re Artù, al raid Roma-Tokio ed esalta il coraggio italiano elevando un inno alla Patria di cui si sente parte vitale. Sull’attualità la Grillone affronta anche tematiche della moderna società, il decremento demografico, l’essenza di una moderna democrazia, il dramma delle Torri Gemelle, la primavera di Praga sono eventi che l’hanno profondamente colpita, ispirandole considerazioni di elevato valore etico. Nella sua poesia c’è anche posto per temi di fede, partecipa alla serenità dei «pellegrini oranti / chiamati dal Giubileo / nella città eterna», l’affascina il “Bellissimo Signore” della Trasfigurazione, ed ancora la suggestioni del mese di maggio dedicato alla Vergine. È senza dubbio caratteriale quella delicatezza espressiva tutta femminea con cui la Grillone espone il proprio pensiero, lo fa di fronte alla primavera che esplode dopo il gelido inverno, alle stelle di natale che, seppure perdendo le foglie «non muore la pianta / rifiorirà domani / per un nuovo Natale». La commuovono le campane di San Giusto che evocano eventi lontani, e nel sogno rivede il Duce che «camminava su di un mare pieno di fango». Sensazioni, sentimenti, spunti diversi di una mente ricca di concettualità, ma quando tocca le corde del sentimento diviene entusiasta la maestosità del volo di un’aquila, la tenerezza di un amore materno, l’ardente desiderio d’amore, «M’ama - Non mi ama», quei petali staccati fanno 81 metodi di comunicazione trova un compimento perfetto nel lavoro di Lida Benci Fragiacomo. “Il mondo di Vlady” si differenzia dal panorama teatrale tradizionale perché non prevede un eventuale rielaborazione televisiva, ma nasce già con un’ampia nota di adattamento, con delle note riassuntive e con un vasto bagaglio di spiegazioni e arrangiamenti. L’atto è preceduto dalla presentazione dei personaggi e da alcuni tratti che ne delineano la personalità e le caratteristiche fisiche più evidenti. Un’opera che presuppone un grosso lavoro di preparazione alla messa in scena già dal suo nascere e che prevede la comunicazione teatrale e televisiva come elemento essenziale. Opera da comunicare, per la comunicazione e che fa della comunicazione l’elemento fondamentale. In questo lavoro manca, infatti, totalmente l’azione, ma l’intera conversazione riesce a fornire una dettagliata visione di ciò che è successo negli ultimi anni, mesi e giorni che precedono l’incontro organizzato da Vlady, il personaggio principale, che è anche colui cui è affidato l’intero svolgimento della trama. Un giovane nato cieco che ha da poco riacquistato il dono della vista, ma che è costretto a rendersi conto delle vere brutture che finora il suo handicap gli aveva nascosto. La mancanza del senso della vista ha fornito a Vlady una sensibilità maggiore rispetto agli altri. Egli si è costruito una sua vita, ha sempre vissuto in una sua dimensione dalla quale adesso è difficile allontanarsi. Vlady era abituato a godere al massimo di sensazioni e piccoli piaceri che ora la vista, quasi per assurdo, gli ha portato via. La narrazione ha come elemento centrale una riunione tra condomini, durante la quale vengono svelati i più reconditi stati d’animo e peccati delle persone coinvolte. Tutti i personaggi, quasi di pirandelliana memoria, sono degli archetipi che recitano dei ruoli prestabiliti. Un atto unico che pur nella sua brevità riesce a trasmettere il tormento del protagonista e le assurdità di cui si nutrono i condomini. L’autrice riesce a trasmettere tutto il pathos e la tragedia vissuta da Vlady Delprato utilizzando un crescendo narrativo fatto di suspence e di rivelazioni fino al raggiungimento della quiete finale, nel momento in cui Myriam (la coscienza, la razionalità) interviene a bloccare la prevedibile tragedia finale. Un’opera di “sperimentazione” teatrale e psicologica riuscitissima. Maria Enza Giannetto Sentieri d’assoluto, poema-racconto di Giuseppe Manitta (Il Convivio, Anno 2003). Giovane anagraficamente e giovani le idee dello scrittore Giuseppe Manitta, redattore della rivista “Il Convivio”. Il suo poema-racconto “Sentieri d’assoluto” vuole essere un testo di poesia sperimentale per i lettori di questo tempo e per quelli delle prossime generazioni, trasmettendo un nuovo modo di concepire la poesia perché «io credo che la poesia oggi sente il bisogno di riappropriarsi del mondo in cui vive e di conseguenza di una nuova dimensione espressiva» (Dalla Premessa dell’autore). Non è una narrazione intesa nel senso più tradizionale del termine, non è solo un poema, non è solo un romanzo, non è solo poesia, è un’opera letteraria che racchiude tutti questi modelli di scrittura in un unico testo da definirsi avvenirista in quanto si presenta rivoluzionario in campo letterario. Proprio di una rivoluzione si tratta: il filo della narrazione si dipana apparentemente senza metodo giacché il racconto lineare spesso si interrompe per tramutarsi in personali constatazioni poetiche che contengono parole di altre lingue, greco, inglese, linguaggio chimico fatto di formule, termini inediti creati appositamente, tutto per sconvolgere la placida consuetudine letteraria e infatti questo voleva l’autore quando, anticipando la sua sperimentazione, scriveva nella sua Premessa: «La mia idea è quella di dare origine ad una sorta di poema-romanzo che si stacca dal poema tradizionale, introducendo brani in prosa che ne esaltano l’affabilità narrativa, ma che si differenzia dal romanzo, il quale certamente non può sostituire l’aulicità del verso». In effetti la trama dell’opera è nel suo insieme chiara dal significato unico, ruotando attorno al desiderio d’evasione di un ragazzo di paese, che si concretizza con un viaggio in treno di parecchi chilometri, portandolo a visitare la Basilica di S. Pietro a Roma, ed in questa sua fuga con relativa esplorazione di posti finora sconosciuti, troverà le risposte alle tante sue affannose domande sulla vita e su se stesso. «Cosa sei tu, uomo, / per usare e condannare gli altri / senza capire te stesso? / Chi sei tu, uomo, / per ammonire, / imbrogliare (stupido!)? / Chi sei tu, proprio tu, / che credi di possedere il mondo / senza saper badare / neanche a te stesso? / Chi sono io / per dire ciò (incosciente!)?». Un monologo interiore che si fa palese con la costanza dei versi alle volte distanziati da passi di narrazione fino ad una maturazione interiore che porterà il protagonista dell’opera a riconsiderarsi e a riconsiderare il suo presente, il suo luogo d’origine, le persone care e il suo futuro atteggiamento di fronte a tutti e l’autore, al termine della sua Premessa, così auspica: «Sentieri d’Assoluto è una storia semplice e ben definita, in cui il progetto principale è costituito dallo studio della lingua, della forma, della struttura del poema, della metrica. Questo confido che sia solo il primo passo per un rinnovamento della poesia, che, mi auguro, possa rimuovere l’alone cupo che l’accompagna». Michela Isabella Affinito Lucia Tumino: Raccolta unica di pensieri e poesie (Ed. Iblea Grafica, dicembre 2000) Albe, stagioni e lacrime sono il substrato più caratteristico di questa raccolta. Ma anche ricordi e nostalgie, affetti familiari e sogni giovanili e, infine ma non ultima, la ‘pietas’ per gli sventurati e i diseredati del mondo. Insomma ce n’è in abbondanza per soggetti poetici. Il lettore che sa leggere troverà preziosi gioielli da evidenziare e da illuminare con i più smaglianti colori di ‘flashes’ caleidoscopici. Naturalmente ci sono anche gli ‘extra’. Scegliamone subito uno, tanto per cominciare (e anche per esemplificare): «Si cullan le parole / come sull’onde / che io leggo / e a voi trasmetto / e parlano del cuore... / L’amore piange / se è tradito...». Questo cullarsi di onde e di parole e il significato che il poeta ne trae è indubbiamente molto intrigante, soprattutto se ciò viene trasmesso al lettore con l’incalzare dei sentimenti («parlano del cuore») che si placano proprio sotto l’effetto di questo suo dolce ondeggiamento. E Il mondo di Vlady di Lida Benci Fragiacomo (Edizioni Passaporto 200, Roma 1993) Un atto unico per il teatro che nasce con un’apertura ideale alla televisione. Questo connubio tra mezzi e 82 tale interferenza delle forze (o delle dolcezze) della natura sugli intrighi del cuore è quasi una ‘costante’ nella poesia di quest’autrice. Altro momento lirico simile lo troviamo, ad esempio, nella poesia “Una lacrima sul monte”, in cui rugiada, sole, aria, manto celeste, infinito si fanno complici tutti insieme nell’accogliere una lacrima, sgorgata, è vero, dal dolore, ma trasformata poi, per il coinvolgimento di tanti elementi riequilibranti, in ‘verità eterna” che porta «alla elevazione / fra cielo e terra» e ingiustizia combatte. Affascinanti le emozioni per l’alterna varietà delle stagioni. Si passa dai miracoli agricoli di uno smagliante mese di giugno, in cui tutto è bellezza e incantesimo: l’ora di mietere, la falce febbricitante, le biche, il granaio colmo e la gioia del colono alla «pioggerella di maggio» («pioggerella delle rose»), a un passato lontano che ridesta soavi ricordi, il passato di una fanciulla in fiore «che ride al domani sconosciuto». Ma forse «questo domani sconosciuto» non è stato poi tanto esaltante quanto la giovinezza, nella sua fresca ingenuità, aveva sognato. Certo la vita, nel suo evolversi, diventa sempre più matrigna man mano che passano gli anni e si accumulano i casi, frangendosi contro le intemperie più avverse e inattese, quasi a sfacciato tradimento delle aspettative giovanili. Allora le albe diventano nemiche, gli asfalti notturni si bagnano di sangue «al riso succede il tedio» e «sbiadisce l’esistenza» (Pag. 32). La preghiera a Dio, affinché spanda i suoi colori che possano dare, se non altro, un tocco di speranza a tutti gli infelici del mondo, è fra le più calde e sincere di questo pellegrinaggio terrestre. Anche i vari momenti del giorno: albe, tramonti, meriggi, che pur esplodono, al primo apparire, con radiosi voti augurali, alla fine delle fini, si pongono anch’essi tra le strutture tortuose della povera umanità martoriata dai suoi mille problemi esistenziali. Unico conforto rimane la preghiera e la carità verso quella parte di umanità che è ancora più infelice di noi. Ma anche piangere di commozione insieme al triste canto notturno dell’usignolo si fa complice di dolcezza. Leopardianamente, anche gli elementi della natura, quali sole, luna, cielo, mare, terra guardano indifferenti alle miserie degli umani, sono sordi ai lamenti e non ascoltano le «voci dei tapini» (pag. 87). Indubbiamente la garanzia di sentirsi mamma e mamma di mamma placa un po’ le angosce della vita per l’impeto d’amore che riesce a scatenare, ma le negatività sono troppe e troppo gravi. L’aperta confessione di non sapere più dove approdare e come colmare certi vuoti è la più franca e sofferta conclusione di una vita vissuta sotto una misteriosa tirannia, probabilmente responsabile di torti ingiustamente inflitti a una creatura innocente. Ma il conforto della poesia sarà alla fine la risoluzione di ogni problema. Maria Pina Natale quello che la vita ci propina. “Il pianoforte canta” è un modo assai originale per intitolare le sue creazioni, le sue ispirazioni quasi fossero pezzi musicali. L’autrice ci conferma che la musica è stata per lei un’ispiratrice eccelsa, un mezzo che ha agevolato la sua crescita e l’ha portata a trasmettere nei versi quello che intimamente sentiva. La lettura evidenzia quel soffuso senso di mesto romanticismo che è tipico di un animo femminile. “Canzoni dei miei giorni” è un variegato diario esistenziale con cui l’autrice ripercorre tematiche a lei care, come la famiglia, ricordi dell’infanzia, l’ambiente in cui ha trascorso i primi anni di vita, non disdegna neanche di attualizzare gli argomenti, sottolineando il passaggio del tempo, il fascino di Trieste e quello non meno accattivante della Firenze in autunno. Questo sorvolare località affascinanti è nel pensiero della Puppi un mezzo utile per suscitare varie emozioni. Il tono si eleva nella spiritualità con “Canzoni meditative”, spunti lirici di estatiche ispirazioni: «Un angelo di luce vestito / è arrivato / e silente, accanto a te / si è seduto». La poesia assume un tono quanto mai ispirato, tratteggia il ricordo delle festività natalizie, la misteriosità della visita ad un claustro e con “speranza di vita” il rimpianto di una perdita che le fa gridare: «Ora, angelo mio, hai tutto l’immenso / per accompagnare con l’armonia celeste / il mio tortuoso percorso di vita». “Canzoni d’amore” consente alla Puppi di dare libero sfogo al suo ardore affettivo. Il desiderio di sentirsi vicina a chi le ha acceso il cuore; l’assale “l’onda dei ricordi” che le evoca momenti felici trascorsi al mare al punto di dire: «Dove tu sarai / sarai sempre con me». La rocca è uno scorcio poetico di rara intensità creativa perché la fantasia si scatena: «Ricama il re del vento / arabeschi nella fortezza del cuore». Il senso della solitudine l’assale: «La voglia di ritrovarci / soli nella sera / con gli ultimi rintocchi / di un giorno che muore». La silloge si conclude con una considerazione sulla vita: «Questa vita ci regala ancora / una scontrosa primavera». In una notte insonne s’esalta il sorgere della luna che, col suo pallore, muta il colore alle cose. Indubbiamente una poetica intensa, sentita,vissuta, schietta e nello stesso tempo ricca di preziosità linguistiche. Pacifico Topa Spicchi di cuore di Maria Grazia Murdaca Con “Spicchi di cuore” Maria Grazia Murdaca fa una panoramica della realtà, manipolandola con sagacia creativa, tipica di una giovane che è alla ricerca del cammino che dovrebbe portarla alla notorietà. Le sue composizioni intense concettualmente, originali, sono all’affannosa ricerca di un quid che spesso sfugge ai comuni mortali. Il dualismo amore e odio, vita e morte, gioia e dolore, si sviluppa nel labirinto letterario espresso con sobrietà terminologica, ma con tanta ricchezza contenutistica e viva partecipazione. Chi scrive è una giovane che dalla vita molto si attende, che alla vita molto chiede, dichiarandosi disposta a dare quello che il cuore le suggerisce senza incertezze. La Murdaca è una scrittrice determinata, consapevole dei propri mezzi che esterna i suoi impulsi poetici con indiscussa sincerità: «Ciò che mai dimentica / il cuore di una donna./ è l’aver amato così tanto un uomo / fino a quasi annullarsi per amore». Intensità di affetto! Un cuore assetato di amore che s’abbandona a slanci idilliaci nell’e- Rosanna Puppi: Il pianoforte canta, poesie quasi pezzi musicali La poesia di Rosanna Puppi è pervasa di gradevole ottimismo, al suo esordio nel mondo poetico è lei stessa a dirci che è stato un tardivo impulso quello che l’ha spinta a cimentarsi nella non facile arte poetica con lo scopo ben preciso di lanciare un messaggio, trasmettere qualcosa di positivo. Le sue composizioni, che lei definisce “canzoni”, evidenziano una realtà contingente, a cui non sfugge nulla di 83 saltare la natura e gli eventi che la determinano. Lei, schietta informatrice dei momenti della vita anche i più trascurati, va alla disperata ricerca di una conferma divina: «Quante volte alzando / lo sguardo al cielo / mi sono chiesta: / ‘Ma tu esisti per davvero?’». Il dolore per la perdita di un caro amico lascia profonde ferite nel cuore dell’autrice. Col suo animo assetato di romanticismo la Murdaca non può dimenticare il passato, il ricordo diviene nostalgia, amaro rimpianto. Occorre anche sottolineare che la poetessa calabrese rispecchia la determinazione che contraddistingue la sua terra natia, forte e gentile, aspra e suadente. È suo metodo illustrare il normale con tanta ricchezza allusiva, ciò fa onore alla poetessa accrescendone la valenza artistica. “Spicchi di cuore” è stata definita una “sinfonia di suoni”, io vorrei aggiungere una armoniosa orchestrazione di sentimenti ed impressioni di stati d’animo e di passioni, esternata con forbitezza espressiva, ricca di contenuti etici e di un costante realismo. Non va sottaciuta la generosità che trabocca dal suo cuore: «Un sorriso ancora / ti vorrei regalare, / un solo unico sguardo». Più oltre: «Per sempre ci sarò / veglierò accanto a te / le notti insonni». Un certo scetticismo trapela in alcune creazioni: «Da ingenua / ho pensato che l’amore / fosse il principio di ogni cosa / ed ho creduto a chi le ha detto: / ‘sei la mia vita, sarai mia sposa’». Asserzioni che accrescono la poliedricità di questa poetessa che dimostra già ricchezza cognitiva e sensibilità profonda. Pacifico Topa suggerisce «una forza nascente / vita che non muore / e si perpetua nell’eterno rigoglio / di una nuova vita». Nel grigiore di un mondo assillato da tanti problemi Nigro si chiede: «Ma c’è spazio ancora per la speranza?». A momenti di scoramento seguono altri di tenue fiducia ed allora: «O vita mai non ti stancare di posare su di me» ed anche: «Non essere crudele a cancellare / quel ch’è più bello in te». La raccolta si conclude con i desideri: «Vorrei per te carezze di brezza / aromi di mare... che allevino la tristezza perché anche chi muore / non muore in chi l’ama». Una poesia intrisa di sentimento, desiderosa di far vantare la sua presenza in una realtà che, in taluni momenti, può sfuggire. Romanticismo contenuto, ma sempre latente nei versi di Nigro. Pacifico Topa Filippo Cascino, Petali di stelle (Betania editrice, Settembre 2003) Filippo Cascino, il poeta della spiritualità, l’apostolo della fede, con la silloge “Petali di stelle” dà sfogo al suo slancio mistico: «Vorrei / donarmi a te / Signore, spogliarmi / d’ogni peccato / e rivestirmi / di te». Atto di contrizione che prelude a quelle che saranno le ulteriori professioni che egli esterna con decisione, confidando integralmente in Dio «solo in lui ci si può / appoggiare senza mai / cadere”. Impostazione data a questa silloge é prevalentemente religiosa, l’autore lo fa con ripetuti atti di fede, di fiducia in colui che ha dato la vita per noi. Chi nutre in sé questi profondi sentimenti cristiani non può non esaltarsi di fronte al creato. «Il fruscio del vento… il canto degli uccelli… il tiepido sole della profumata primavera» sono tutte conferme dell’amore immenso che Dio ha avuto per gli esseri umani. Ma non basta, lo slancio poetico di Cascino giunge ad affermare che «Dio è poesia / amore e gioia / è Colui che suscita / sensazioni profonde». Con questo stato d’animo è normale che egli invochi l’aiuto di Gesù: «Aiutami a pregarti / e ad avere fede / che io / possa ovunque vada, parlare della tua parola / che è luce e vita.” C’è voglia di evangelizzazione, di diffusione religiosa perché Gesù é vita / luce e speranza eterna / Gesù l’unica luce che ci / illumina». A convalidare le sue asserzioni chiama a testimone la realtà cruda, come quella del disoccupato che minaccia il suicidio pur di risolvere i suoi problemi, ma Cascino ricorda che Gesù disse che nella casa del Padre c’è lavoro per tutti. Questo immenso amore per la divinità canalizza la produzione di Cascino verso la missionarietà, perché pone alla base del suo dire le concezioni moralistiche che, messe a contatto con la cruda realtà, respingono il sopruso, la prevaricazione; “Mai più Auschwitz” ad un animo tanto sensibile non potevano mancare slanci affettivi... «Dammi la tua mano mamma... ce ne andiamo nell’aria profumata». Nel suo cuore esplode l’amore per la mamma, che malgrado sia avvizzita per gli anni, egli vede sempre premurosa. Altro elemento diffuso è quello della solidarietà: «Il ricordo più bello che ci / rimane in questo / tortuoso cammino / della vita / è di aver aiutato / nel bisogno un amico». Egli si commuove nell’ascoltare il cinguettio degli uccelli che mettono allegria. Lo spirito romantico si estrinseca nelle creazioni come in “Ultima foglia” che, cedendo, risveglia dolci ricordi. Il dolore fa breccia in Cascino: «La tua morte / inattesa e rapida / ha lasciato / un gran vuoto / in Pietro Nigro, il poeta della mestizia in Altri versi sparsi Pietro Nigro è il poeta della mestizia e delle elucubrazioni, egli sente in sé quel misterioso impulso determinato dall’incertezza esistenziale. Con la silloge “Altri versi sparsi” ripercorre i momenti salienti della diuturnità, proponendoli con un linguaggio adeguato al suo stato d’animo, arricchiti da logiche argomentazioni. Nella sua poesia c’è rimpianto, rammarico, desiderio, ma anche sentimento romantico. «Sulla terra fredda / gemono le foglie abbandonate / dall’arido ramo in letargo», allusione alla florida stagione trascorsa ed incalza più oltre: «Autunno di un anno senza ritorno». In questi versi c’è il rammarico di una giovinezza passata. Quando, poi, scende la sera l’animo si fa nostalgico e meditabondo: “A te spesso, o sera / tacitamente imploro il mio risveglio… e la mente si rallegra / all’ascolto dell’infinito silenzio». Nigro ha un animo sensibile, non può non farsi influenzare dal suono di una campana che invita alla preghiera; il clima si anima, c’è l’istintivo slancio ad elevare il pensiero all’Essere Superiore. Questo autore non è insensibile alle problematiche di un mondo in cui c’è gente che soffre la fame, un mondo in cui il dolore è assai diffuso: «Tu non conosci dolore / atroce nemico di giustizia». È lo spirito di solidarietà che scuote gli esseri più insensibili; è ricorrente un’amara constatazione: «Cosa m’importa degli altri?». La poetica di Nigro spazia nell’immensità del mare considerato un raccoglitore di “pensieri ascosi”. Un pensiero anche per coloro che sono dovuti emigrare: «Udisti il richiamo della tua terra lontana» e ancora: «Ora non odi più la brezza stormire tra gli ulivi» definisce l’esule «ramo secco / reciso dalla scure della vita». Il fascino delle onde del mare che ripetono assiduamente il loro moto gli 84 tutti coloro / che ti hanno amata». A questo punto di fatto sentimentale «non scorderò mai / quella tua carezza... Mamma / che al mondo mi mettesti / vorrei che viva tu fossi». Il finale di questa silloge è un nostalgico pensiero delle madre, della giovinezza sfiorita, dei sogni infranti, una costante invocazione alla presenza fisica della persona amata. Cascino è fatto così, passa dall’esaltazione spirituale ad un concreto umanizzarsi dei pensieri, ad appassionate dichiarazioni d’affetto. Una conclusione piuttosto tinta di mestizia, di rimpianto. Da ultimo alcune composizioni in dialetto concludono questo cielo creativo fervente e fervido, appassionato e profondamente vissuto, unico del suo genere. Pacifico Topa ‘U carciratu di Vincenzo Macauda (Vittoria – RG) Tanticchia i lustru trasi r’ jintra tu purteddu lassatu picca, picca,’ccu na filazza ‘n-ciarisci u jazzu na ‘n-cianchiteddu purtannisi u jelu ro stiddazzu. Appaciatu ma ‘rrusbigghiu stiracchiannu i quattro ossa m’assuma javutu un varagghiu sugnu vivu, no jiutra na fossa. Stanotti co pinzeru ha ju vulatu nun ricurdannu nenti ro passatu mugghèri e figghi ha ju truvatu nuddu ma dittu ca sugnu carciratu. L’occhi mi scrufunìu abbannunatu, ora mi ritrovu mi votu e mi furriu comu a badda jintra a cozza i l’ovu. Chiddu fu nu jornu malidittu quannu ‘n-corpu ha in sparatu tu pigghiai a centru i pettu stinnicchiànnulu ‘n-tò sarciatu. L’onuri lavai ‘ccu tu sangu Ora, mi tuppuliu u pettu e mi pentu. È nu pisu ca portu ‘n-capu a cuscenza i sbagghi si sapi, si sbursunu a distanza nu chiovu fissu, c’haju jintra a menti sulu ‘Ddiu canusci i sentimenti. Atturniatu ri sti quattro mura comu nu surci na rattera u pinzeru m’accuttura sugnu n’ommunu ‘n-galera. Silvio Craviotto: Parole inutili e I naviganti della malafuera Silvio Craviotto è un personaggio eclettico che, pur preferendo la prosa non disdegna la poesia; in entrambe le produzioni egli usufruisce di un linguaggio chiaro, immediato, spontaneo, che si tratti di un epistolario: “Cara, giovane amica”, o di una storiografia familiare, egli ne esce sempre con disinvoltura letteraria e profondità di considerazioni. La parte poetica: “Parole inutili” è il frutto di una istintiva ispirazione, per queste poesie: «Non feci che lasciarmi prendere per mano da esso (linguaggio)… rendendomi conto che mi conduceva oltre il muro dello spazio-tempo...». Già chiara quindi l’intenzione di cercare qualcosa al di là. Analizziamo singolarmente le sue produzioni. “Parole inutili” è una raccolta di pensieri che Craviotto ha voluto esternare con successione poliedrica, ma sempre attinente alle attuali tematiche. Composizioni brevi, di una visuale ampia della realtà. Infatti la poetica di questo autore s’ispira agli stati d’animo, alle constatazioni, agli eventi che stimolano curiosità e commenti di pregevole espressività. Il raggio d’azione è molto vario, non si arresta di fronte alle cose più abitudinarie, va alla ricerca delle essenze. “Parole inutili” può ben simboleggiare la futilità di certe argomentazioni, ma meritano apprezzamento per la chiarezza linguistica. In “I naviganti della malafuera”, Craviotto si trasforma in puro cronista, rievocando la storiografia della sua famiglia di marinai, ne evidenzia le caratteristiche, ne sottolinea le difficoltà, riuscendo a dare una perfetta rappresentazione di una mentalità e di un mondo particolari. Anche qui trattasi di prosa schietta, comprensiva, illustrante eventi che lui stesso non stenta a definire banali, perché comuni a tanti, tuttavia non si può negare una genuinità indiscussa. La solidarietà, il coraggio, lo spirito di sacrificio, l’umiltà, sono elementi che aleggiano in questo diario esistenziale a sfondo marittimo. “Cara, giovane amica” è un epistolario variegato perché sfiora situazioni e sentimenti diversi. È un’autobiografia che ha come protagonista l’autore in rapporto con una persona che potrebbe far alludere ad una storia d’amore. Craviotto scrive quello che la sua amica gli ispira alla luce di eventi circostanziati, ne scaturisce una corposa mole di corrispondenza alla quale egli affida tematiche eclettiche. A scoprire la verità è lui stesso: «Cara amica, abbiamo giocato abilmente con lo strumento... una semplice penna a sfera». Lo scambio reciproco di false notizie equilibra la validità di questa baruffa d’amore che si rivela quale congegnata trama di una telenovela a realistico fine. Pacifico Topa Amprüma di Arnaldo Colombo (Rovasenda – VC) I iù dumà ij destriér pü fugus ant la faturìa, - ant l’estansia, ai disu ant l’Argentin-a ìù rigalà la palma dla vitoria, ant l’aren-a, a doni ancantaduri, ‘hermose’, iù rabajà aj fiur sbardlà, ì, a prinavéra, sül vial dal triunf, i sun tüfami dinta l’aqua dal mar, di ‘n bleu granülà, ant na cala segreta, iù facc al bagn, a mèsanocc, i iù quatami su la sàbia biuta, davsin a le – ch’a l’eva la pü bèla – e iù facc l’amur, cun na siren-a! Sun turnà d’ant l’isula, caraibica, an vol, sü di ‘n jet, süersonich. Al rintoch ad l’urlocc a pendul - ant la stansa ‘d moganu iù smursà la luce, termucunvetiva! Iù mai slungà la man, amprüma, a ‘n föj ad carta, riciclà. Par scrivi ‘n vèrs, ad na puisìa. 85 Nino Agnello, Gerlando uomo di Dio (Lions Club, Agrigento 2003). «Gerlando mi ha perseguitato assieme ai suoi collaboratori, ai baroni resistenti a riconoscere ogni effettiva autorità sopra di loro, assieme al popolo debole e stanco di maltrattamenti, assieme all’ultimo signore musulmano Hamud, che invano tenta di difendere il suo prestigio e il suo potere di fronte alla conquista normanna e all’azione evangelizzatrice del Cristianesimo interpretata dal nuo-vo vescovo Gerlando. Mi sono arreso al suo fascino, come il principe musulmano. E ho scritto senza concedermi pause e distrazioni»(l’autore). Nino Agnello, Accadimenti, (Bastogi, 1998). Bruna Tamburrini, Atemporalità racconti e Poesie, (Poeti nella Società, maggio 2003). Nunzio Menna, Io operaio della penna e editore pazzo. L’opuscolo celebra i 50 anni della sua attività, i 35 della casa editrice Menna, i 25 del concorso Città di Avellino. Carmelo Aliberti, Poeti siciliani del Secondo Novecento, (Bastogi, 2003). Il volume presenta una scheda e alcune poesie di diversi autori siciliani, tra cui anche alcuni amici del Convivio come Nino Agnello, Maria Pina Natale e Rina Pandolfo. Luciano Nanni, Glossario di metrica italiana (Libraria padovana editrice, 2003). Si tratta di un prezioso volumetto che evidenzia in maniera sintetica e chiara gli elementi essenziali della metrica italiana. Sotto la voce “Peone” viene anche riportato lo schema metrico utilizzato nella loro poesia da Angelo Manitta e Giuseppe Manitta. Franca Alaimo, La firma dell’essere, fasi di viaggio nella scrittura di Domenico Cara (Milano 2003) Domenico Cara, Il dilagare dell’ascolto, (Campanotto editore, 2003). Anna Maria Salanitri, Dove si perde la memoria, (Pomezia-notizie 2003). Volume di poesie della collana “Il Croco” pubblicata da Pomezie-Notizie e diretta da Domenico Defelice. L’autrice, nata a Castello d’Annone (AT), vive ad Asti. Insegnante elementare in pensione ha pubblicato: Le parole di terra (1972), La vita a metà (1993), Il cielo verticale (1996), Cifrario minimo (1999), Il colore dei giorni (2001). Carmine Manzi, Florilegio Poetico (Florilège poétique), traduzione in lingua francese di Paul Courget, con prefazione di Maria Grazia Lenisa (ed. Gutenberg, 2001). Sulmona-Paternò, Legami di solidarietà. Celebra il gemellaggio delle associazioni VAS e GDVS dei due paesi: associazioni volontari donatori sangue. Giovanni Di Girolamo, Manuale di metrica italiana (e note di stilistica e letteratura). Nozioni ed elementi della tecnica poetica classica con particolare riguardo agli stili ed alle forme metriche antiche e moderne, (terza edizione riveduta e ampliata); Giovanni Di Girolamo Il ponte sul fiume rapido (G.D.G.); Giovanni Di Girolamo Antonio di Giambattista, Fedele Giorgio, Stornellata a tre voci, Accademia “Il Convivio”; Giovanni Di Girolamo, A ritmo di Rondò, Poesie nei nuovi formati “rondò” con ampio saggio introduttivo dell’autore. Francesco de Napoli, Per una cultura del libro (Edizioni Eva, 2003). Emanuele Zuppardo, La via della Croce, meditazioni sul mistero pasquale, con presentazione di Mons. Libri ricevuti Molti dei seguenti volumi saranno recensiti sul prossimo numero del Convivio Massimo Nucci, Nicola Rampin, Stella nel dubbio... (prefazione di Adalgisa Biondi, ed. Eventualmente 2003). «Per il Rampin l’amore è libertà. È quel canto di liberazione, a volte melodico altre sommesso, dalle delusioni della vita, dalle ipocrisie, dal puzzo dei denari... È mera poesia, quella di Nucci e del Rampin. Mera perché pura, non soltanto stilisticamente, ma nei suoi sentimenti profondi. C’è autenticità dietro ogni verso, e questa è forse la migliore virtù, non soltanto per chi si fregi della sofferenza e dell’onore che arreca la scrittura, ma per chiunque voglia semplicemente vivere». Davide Angelo Salvatore, Parole sfumate (Ediz. Il Foglio, 2003). «Le liriche sono racconti in versi, tanto cari a Pavese. Taglienti e terribili come solo un giovane può realizzare. Le tematiche note, ma non scontate. Bios, Eros, Thanatos (Vita, Amore e Morte) secondo il repertorio di ogni bravo romantico, ma non solo» (Andrea Panerini). Roberto Nassi, La sposa che vola (Edizioni Il Foglio, 2003. «La qualità migliore di Nassi è la sua tensione verso il soprasenso che fa frutto, nello spartito linguistico, di un lessico cogitante che tende a superare l’istanza elegiaca da cui muove la sua rispirazione» (Fernando Bandini). Maribruna Toni, Rimpianto d’onde, di sale e di tempeste (Ed. Il foglio, 2003). «Slanci mistici, contemplazioni, canti d’amore, abbandono nella natura, ardore possessivo e restrittivo del Bello dell’Arte, gioia e dolori di un’anima inquieta e generosa: tutto questo e altro ancora ritroviamo in questa nuova silloge poetica postuma della poetessa Maribruna Toni» (Maurizio Maggioni). Personaggi ed interpreti: Nisciagni Nuestru (a cura dell’associazione culturale Misciagni nuestru (novembre 2001). Antologia di poesi di Mesagne. Tra gli autori compare pure Spartaco Colelli, socio del Convivio. Senza confini, antologia 2003-2004 a cura dell’A.L.I.A.S, presideduta da Giovanna Li Volti Guzzardi. Numerosi sono gli autori anche soci. Margherita Biondo, Tetrarchia degli elementi (Ter-zo Millennio s.r.l., Caltanissetta 2002). «Utopia e realtà, spirito e carne, essenza ed apparenza, luce e buio, pensiero ed ignavia, parola e silenzio, identità e alterità: nutrendosi di terra gravida e fecondatrice al tempo, scaldandosi al fuoco d’una coscienza che rilascia effusioni e sussulti, respirando l’aria che trascina nel vento echi di presenze, dissetandosi con acqua lustrale che cola da impenetrabili fortezze di ghiaccio, ancora una volta Margherita Biondo riesce a catturare, con infallibile strategia di reazionario, concetti e fruitori.» (Nuccio Mula). Nicola Lamacchia, Sulle orme di Padre Pio (Bari, 2001). L’autentica personalità di Padre Pio come emerge da un’analisi scientifica della sua scrittura e come si trasforma in un sentiero per tutti noi. Luigi Pumpo, Gianni Rescigno Il tempo e la poesia, saggio (Ibiscos editrice, 2003). Graziella Paolini Parlagreco, Non esiste ma ricordalo (Catania 1972). 86 si valuta in cavalli vapore. Verrebbe, per un solo momento, da rimpiangere le trazioni animali anche per avere il piacere di non affannarsi a valutare dove stanno gli animali. (...) Ma dove veramente si raggiunge il sublime è nello strano modo in cui ognuno scopre di essere furbo, la galattica gioia di poter passare sopra gli altri...» (Gaetano Cosentini). Rosaria Tenore, I federati di Roccavigilia (L’arcilettore edizioni, Brescia 2003) «Tra le tante ragioni che spingono a scrivere un romanzo c’è sempre la scintilla di una domanda, e non, come si è abituati a credere, di una risposta. È una domanda a generare il racconto, il bisogno di darsi una ragione, di trovare un senso a qualcosa di intollerabile. La riflessione generata da quel rovello avvia la trama, irrobustisce l’ossatura della narrazione. In realtà chi sceglie di inventare una storia non ha un verbo da diffondere, anche quando si schiera e prende posizione, ma un tormento da condividere.» (Patrizia Zappa Mulas). Gian Filippo Della Croce, Gradini, (AndreaOppureEditore, Roma 2001). «I bambini che raccontano dunque, nel libro di Della Croce, la loro avventura di guerra – sono tre piccoli protagonisti, le voci narranti delle tre storie, tre maschietti, e non per caso... - sembrano certo meno incoscienti di me bambina che guardava estasiata i grappoli luminosi dei razzi sganciati dalle “fortezze volanti” americane sullo Stretto di Messina, in una vellutata notte di maggio, ma non sono terrorizzati.» (Adele Cambria). Silvio Minieri, L’uomo camuffato, (L’autore Libri Firenze, 1999). «L’uomo camuffato non è un giallo né tanto meno un thriller e, sebbene contenga suspense, non è un racconto dell’orrore, anche se il genere a cui appartiene risulta da una composizione di un po’ tutti questi elementi in maniera attenuata. Indubbiamente in “L’uomo camuffato” conta di più la storia d’amore che si muove sullo sfondo, ma che in realtà è il fulcro intorno a cui gira l’intera vicenda, l’episodio centrale, a cui fanno da cornice quegli avvenimenti che si svolgono a Ponte, verosimile località della Puglia sul promontorio del Gargano, nel fine settimana successivo al ferragosto del 1985» (L’autore). Santo Sgroi, In Pieno sole, (Edizioni Boemi, Catania 1999). «Una città del sud. Vicende di gente comune tesa a migliorare le proprie condizioni tra tanti problemi sociali. Sconfitte che spesso superano le vittorie. Sentimenti perduti e ritrovati. E su tutto un sole implacabile ma generoso che aiuta ad asciugare le lacrime e a ritrovare il sorriso.» Vincenzo Andraous, Un viaggio – Devianza minorile, carcere, comunità (Edizioni CdG, Pavia 2002). «Un viaggio non è la risposta di cumuli di alienazione che schiacciano le urgenze dell’anima. È il tentativo di mostrare che anche in una cella, esiste la condizione “uomo” (pur disperata, rotta e lacerata). Un viaggio è il percorso scosceso dove gli occhi appaiono spogliati innanzi all’ultima volontà di un perdono». Roberto Reggiani, La magia come pratica (Carello Editore, Catanzaro 2002). Rosetta Di Maria, Passa Lu Timpu, (Bancheri Editrice, Canicattì 1998) Antonio de Lucia, Sospiri di Primo Mattino, (Edizioni LER, 2002). «Certamente interessante si presenta la lettura di questa composita silloge che, fondendo in un armonico canto melodico il lirismo vernacolare con quello in lingua, propone una lettura autobiografica e stilistica completa di un autore che si scopre come viva e palpitante Michele Pennisi, prefazione di Cristina Lagopesole, e illustrazioni di Giuseppe Forte (Betania editrice, 2003). Giovanni Di Girolamo, Pianeta Totò, (l’attore, il poeta, i film). Si tratta di un ampio saggio che analizza tutti i film del grande attore napoletano. Il volume è diviso in diversi capitoli. Nel primo si ha una presentazione con note biografiche e critiche dell’attore, poi l’elenco ufficiale dei suoi film, anno per anno con una breve scheda illustrativa, quindi tutti i film con regia, sceneggiatura, interpreti e trama. Nel quarto capitolo si ha l’elenco dei registi che hanno diretto Totò, poi l’elenco degli attori più noti che hanno recitato con Totò indice alfabetico dei titoli del film. Infine un’appendice: Totò: il poeta e il musicista. Antonina Ales Scurti, La musica del cuore, (Istituto Superiore per la Difesa delle Tradizioni – 1993) «L’amore cantato dalla nostra poetessa è quello cristiano: positività e perfezione dell’Essere. Amore per il divino, per il prossimo, per la natura come espressione del supremo Architetto.» (Rino Pompei). Salvatore Gugliuzza, Sogni, Amore e malinconie (Libroitaliano, Ragusa 2002). «Le parole che vivono nei componimenti poetici non sono “insensate”, non procurano sofferenza a noi che le ascoltiamo e non certamente a lui che le ha pronunziate. (...) È certamente poeta intimista che non “teme” di mettere in luce i suoi reconditi sentimenti. (...) ha profondo il senso della fugacità della vita ma dell’eternità dei sentimenti ne è profondo assertore.» (Domenico Portera). Franco Giuseppe Gobbato, Oggi è nato un uomo, (Dario De Bastiani editore, Vittorio Veneto, 2002) «Sviluppando ancora, e in modo più maturo, la sua vena narrativa nella quale la descrizione minuziosa e realistica della vita quotidiana si apre alle più ardite esplorazioni fantastiche, Francesco Gobbato ha dedicato il suo ultimo racconto al tema della “immedesimazione”(...). La facoltà di queste metamorfosi viene data al protagonista da una sfera luminosa vagante; ma si ha l’impressione che questo ente possa identificarsi con la nostra stessa coscienza, quando riesce a sottrarsi alle tentazioni dell’egoismo e non identifica la vita con la forsennata tensione verso i traguardi del benessere, del godimento, del guadagno.» (Paolo Portoghesi). Selìm Tietto, Ci trasportava il fiume, (Daigo Press, Padova 2001). «Che dire dunque di un poeta se non che le sue opere sono la verità dei suoi giorni? Essere poeta perciò significa testimoniare questa verità e quindi scriverne come un linguaggio diverso, perché diverso è il soffrire, perché nella diversità c’è tutta quell’umanità che ogni giorno viene a galla: e ogni verso rivela quanto questo sia indispensabile a servire il nostro essere.» (Fanco Morandi) Costantino Magnani, Poesie 1940 – 1996, (Lalli editore, Pisa 1998). «È una poesia del profondo quella di Costantino Magnani, dove senso dell’armonia, della metrica e del gusto, tutto in dettato spirituale, danno forma a liriche di alto compendio sociale ma di natura spiritualista. Il suo intimo, quasi occulto colloquio con la morte, quella morte intesa come sentimento umano, dà all’autore la spinta verso la vita, nell’apprezzamento di quei valori, che sempre meno, oggi, sono considerati.» (Jolanda Pietrobelli). Giovanni Cappello, Ragusano al volante, (HOO edizioni, Ragusa 1999). «È vergognoso ma molto chich l’attitudine dei nostri giorni di valutare un essere umano in base alla cilindrata o al look della sua vettura, perché tutto 87 voce di se stesso e della cultura popolare che genuinamente rappresenta.» (Rosario Cerciello). Sara Bensi, Ama guardare il sole, (Bandecchi e Vivaldi editori, 2001) «Sono poesie brevi quelle di questa raccolta. Appartengono alla giovane vita di Sara, stroncata ad appena 23 anni. Appartengono al suo animo! Per certi versi queste poesie sono la sua vita. Scritte in varie occasioni, ispirate dalle situazioni più diverse, esse riflettono sensazioni veloci e, talvolta, più sedimentati stati d’animo. Esprimendo sempre un anelito di vita, con una profondità che va ben oltre l’età anagrafica...» (Fabrizio Porcinai). Nicola Rampin, Puzzle d’amore (Ibiskos ed., Empoli 2002). «Nicola Rampin si dimostra poeta sensibile e dal calco inconfondibile, un autentico “pescatore di sogni / nel mare di carta” in grado di stupire sempre per la piena delle immagini che riesce a mettere in circolo usando una grafia che non fa che esaltare l’arcobaleno dell’amore e le giostre schierate / nei luna park / dell’amore» (Fulvio Castellani). Franco Gitto, Sulla via del mio ritorno (Ambra, 1994). «Poesia al naturale, proiezione istintiva di un’anima che sta parcheggiata sul versante del non conformismo e che ancora attinge alla linfa vitale delle sue radici. (...) Franco Gitto, fringuello prataiolo, l’italiano puro se lo sentirebbe addosso come un goffo vestito nuovo della domenica, ragion per la quale ben spesso non esita a slittare nell’area del vernacolo entro cui formule asciutte e vigorose egli si ritrova a suo agio.» (Giuseppe Iacolino) Vittorio Capuozzo, Al vento sparsi petali di rosa, (Casa Editrice Menna – Avellino, 2002) «In un mondo che viaggia a velocità folle ho cercato con i miei umili pensieri di frenare l’ingiustificata corsa senza traguardo. Spolverando semplici valori, ormai da tempo dismessi, ho tentato di “sensibilizzare” l’animo umano con petali di rosa sparsi» (L’autore). Giulio Dario Ghezzo, I miei pensieri impazziti (Ibiskos Editrice, 2002). «L’autore, con lirismo descrittivo e con stridenti contrasti chiastici, si tuffa nel profondo della natura fin dalla prima lirica con il rosso che dalle mani passa alla terra rievocando una colorazione biblica dove “adamà” è appunto terra e “adom” rosso». Niccolò Agnoli, La montagna dei sogni, (Prospettiva Editrice, Roma 2002) «Un viaggio tra la poesia alla scoperta di piccole e piacevoli sensazioni. La parola accompagna il lettore fin dentro le figure stilistiche letterarie, create da Niccolò Agnoli. Dal percorso emerge un libro di emozioni e sentimenti». Tiziana Girolomini Santoruvo, Emozioni, (edizioni Lettere dal Sud, 2001) «Poesia schietta e genuina, naive in alcuni casi, che rivela la sincerità e la passione di una donna che vive una sua dimensione spirituale e morale fra il passato e il presente, fra brumose regioni del nord e il sole della Sicilia, che riscalda e rischiara le sue meditazioni, la sua condizione esistenziale» (Salvatore Battaglia). Piero Juvara, Melanconie (Edizioni il Girasole, maggio 2002). Piero Juvara, Sole nuovo (Ed. La Vallisa, Bari 1994). Samara Barros, Sonhos e poesias (Brasile 2001). «Seu tom lirico mostra que a poesia pode ser encontrada nas coisas simples, as quais muitas vezes, não valorizamos mas que transformam nossas vidas como: a Lua, os amigos, o mar, a criança, a cidade na-tal. Suas palavras simples nos fazem enternecer, seu estilo claro e preciso toca nossos corações, prendem-nos a leitura» (Telma Lemos). Dias da Silva, Da pena ao vento (Brasile, 2003). Il volume non spiega né chiarisce, ma cerca di orientare il lettore nel labirinto che è il mistero della creazione. Anche senza indicarne l’uscita il lettore può sentirsi sedotto da questo labirinto e così giungere all’opera. Il Volume curato da Dias da Silva è una raccolta di vari autori, che si presentano con racconti, saggi o riflessioni critiche. Il curatore, direttore anche della rivista “Binóculo”, appare con il testo “O poeta do Taquari”. Cecilia di Narcisa Belluomini Celeghini A Settembre ogni anno si riapre la caccia che vede come vittime immolate volati di ogni tipo. Questo scempio, nei tempi, si è limitato ma fa pur sempre tanto male al cuore veder cadere questi piccoli esseri che fiduciosi volano per il cielo senza difesa. Ero con Cecilia fuori al balcone in attesa del papà che rientrava con la nave nel porto di Taranto; c’era un po’ di nebbia ma da S. Vito era bello vedere le navi rientrare, per questo c‘eravamo alzate presto. Ogni tanto si sentiva qualche schioppettata ma non ci facevamo caso, eravamo prese dall’arrivo del papà. Nel frattempo il sole si levava e la nebbia scompariva; nel cielo si levavano in volo gli uccellini in cerca di cibo e, io, raccontavo a Cecilia che nutrendosi d’insetti erano considerati gli spazzini dell’aria. Guardavamo il mare e guardavamo il cielo a perdita d’occhio quando in seguito ad una fucilata vedemmo cadere un passerotto al suolo. Cecilia non si dava pace e mi chiedeva: nonna Isa, perché? Per dare una motivazione decente, inventai che quel cacciatore aveva una bimba malata che non mangiava più niente e il medico gli aveva consigliato la carne tenera e leggera di un uccellino che sarebbe stata digeribile e le avrebbe ridato forza. Così il papà si era alzato prestissimo al mattino ed era andato a caccia col cane. Colpito che ebbe l‘uccellino lo raccolse e lo portò a casa dove la moglie dopo averlo spiumato, pulito e lavato lo mise in pentola. Cecilia mi guardava stupita del fatto che io potessi accettare un simile misfatto. Le spiegai che le cose fatte a fin di bene non erano un peccato ma una legge di natura e che l’uccellino aveva dato la sua vita per una buona causa, per salvare una bambina. Vedevo che faceva difficoltà ad accettare questa versione; nella sua testolina era difficile accettare una morte per una vita. Non nascondeva l’amarezza. Mi disse: «Io mangio tutto, nonna Isa, così l’uccellino non muore e vola felice cinguettando». Rientrammo per consolarci con la colazione poi, ci riaffacciammo e vedemmo il rientro della nave col papà che dissipò il triste episodio. È triste mentire a chi ha fede in te e mi domando: perché? Oggi non si piange per niente ma si ride di tutto. 88 ti, si richiede anche l’invio del floppy-disk), nitidamente dattiloscritte, singolarmente ordinate, firmate vanno inviati a Segreteria del premio Silarus - C.P. 317 - 84091 - Battipaglia (Sa). Per ulteriori informazioni rivolgersi a: Tel. 0828/ 307039, fax 0828343934 e-mail: [email protected]. Ai primi tre classicicati medaglie d’oro, ai segnalati un diploma. I lavori premiati e alcuni dei segnalati saranno pubblicati sulla rivista. Gli elaborati non possono essere pubblicati su altre riviste fino al 31 dicembre 2004. Concorsi Concours de Poésie Echeance : 31 dicembre 2003. Pour se procu-re le règlement complet, envoyer une enveloppe timbrée à Poètes en Berry - 2, rue de la Paix - 18230 Saint-Doulchard (Francia). Premio Missoes Scadenza: 31 dicembre 2003. Premio in lingua portoghese. Per maggiori informazioni scrivere o telefonare a Premio Missoes: Rua Padre Nóbrega, 245 – Roque Gonzales-RS 97970-000, (Brasile). Tel: 553365-1224. Premio Città di Giussano Scadenza: 28 febbraio 2004. Si partecipa inviando da uno a tre racconti in lingua italiana a tema libero, editi o inediti, che non superino le sette cartelle dattiloscritte. La partecipazione al condorso è gratuita. Gli elaborati, in 5 copie anonime, dovranno essere inviate, al seguente indirizzo: Biblioteca Civica "Don Rinaldo Beretta" - Via Addolorata, 32 - 20034 GIUSSANO (MI), specificando in alto sul plico "Premio di Narrativa Città di Giussano" e allegandovi una busta chiusa contenente i dati personali dell’autore (nome, cognome, indirizzo, numero di telefono) nonché il titolo di ogni racconto inviato. Premi in denaro, targhe e diplomi. Per informazioni: Biblioteca Civica (tel. 0362-851172) oppure Ufficio Cultura dei Comune di Giussano (tel. 0362-358264). La lectora impaciente Scadenza: 12 gennaio 2004. Pueden enviarse hasta tres trabajos, por mail en archivo adjunto word indicando datos personales a [email protected]. Para más información pueden consultar www.lalectoraimpaciente.com Premio Giancarlo Galliani Scadenza: 15 gennaio 2004. Si partecipa con una poesia inedita in lingua italiana da inviare in sette copie alla segreteria del Premio “Giancarlo Galliani” c/o cooperativa S. Luca, Ospedale campo di Marte – 55100 Lucca. È prevista una quota di partecipazione di 8 da inviare tramite ccp n. 11937588 intestato a Cooperativa S. Luca, Ospedale campo di Marte – 55100 Lucca. La partecipazione è gratuita per i soci. La scheda di adesione, con il titolo della poesia e i dati personali, nonché la ricevuta del versamento della quota di partecipazione dovranno essere inserite in una busta chiusa. Premi: medaglie e opere artistiche. Premiazione: 12 giugno 2004. Premio “Nino Martoglio” Scadenza: 29 febbraio 2004. Il concorso si articola in due sezioni: SEZIONE A: Poesia in dialetto siciliano (max n° 40 versi) per le classi 4° e 5° elementari; Poesia in dialetto siciliano (max n° 40 versi)per i ragazzi delle scuole medie inferiori e superiori; Poesia in dialetto siciliano (max n° 40 versi) per i poeti italiani. SEZIONE B: Racconto in lingua italiana (max n°3 cartelle) a tema libero per le classi 4° e 5° elementari; Racconto in lingua italiana (max n° 3 cartelle) a tema libero per i ragazzi delle scuole medie inferiori e superiori; Racconto in lingua italiana (max n°3 cartelle) per quanti preferiscono esprimersi in prosa. Gli elaborati di cui all’Art. 1 devono essere presentati in n°3 copie dattiloscritte: una copia deve essere firmata e deve contenere le generalità,il recapito del partecipante ed un breve curriculum. Per la sezione studenti sarà necessario apporre il nome della scuola di appartenenza. Le copie vanno inviate a: ASSOCIAZIONE “Nino Martoglio” c/o Aristotele Cuffaro - Via Piazzale Vinti,4 - 92020 Grotte (Ag). Oppure all’indirizzo e-mail: [email protected]. La quota di partecipazione, per spese postali, per il gruppo 3 di ogni sezione è di Euro 10,00; per i gruppi 1 e 2 è gratuita.La quota di partecipazione dovrà essere assolto a mezzo bollettino postale sul c.c.p. n°21432000 intestato a: Moreale Vincenzo – Agnello Calogero Uff. Post. Grotte (Ag). Una fotocopia della ricevuta dell’avvenuto pagamento dovrà essere inserita nel plico contenente gli elaborati, pena l’esclusione d’ufficio da concorso. Per maggiori informazioni telefonare a: Aristotele Cuffaro: 0922945226 – 3334544998 Vincenzo Morreale : 0922945027 – 3287116394. Informazioni sono disponibili sul sito www.ninomartoglio.it Premio "CONTAINER" 2004. Scadenza: 31 gennaio 2004. Sezioni previste: Poesia (max 2, non oltre 40 versi ciascuna, tema libero, edite o inedite, già premiate o mai premiate) e Narrativa (un racconto, non oltre 10 cartelle, tema libero, edito o inedito, già premiato o mai premiato). Copie da inviare: sei, di cui cinque anonime ed una con nome e cognome, data di nascita, indirizzo, telefono e dichiarazione firmata di paternità dell’opera. (farà fede il timbro postale). Quota di partecipazione: Euro 15,00 per sezione. Si può partecipare ad entrambe le sezioni, pagando le relative quote. Premi: Euro 2.000 complessivi, targhe e pubblicazione sulla rivista artistico/letteraria “Container”. Previsti Premi speciali (Premio della Giuria, Originalità, Giovane Autore, Autore straniero). Invio elaborati: “Premio Letterario Container” c/o Emilio Altobelli Via G. Giusti, 34 - 00034 Colleferro (Roma). La premiazione è prevista per la fine di aprile 2004, in Colleferro (Rm). Verranno avvisati solo i vincitori. I risultati saranno resi noti tramite stampa locale, il sito internet www.icavalieriamari.it http://www.icavalieriamari.it e altri siti ospiti, la rivista artistico/letteraria "Container". Per ulteriori informazioni e bando integrale contattare il Direttore del Premio, Alessandro Dezi (06.9780548) e-mail: [email protected] Premio Solofra Scadenza: 6 marzo 2004. Possono concorrere al Premio poeti di ogni nazionalità, ma in lingua italiana con un massimo di tre poesie per sezione (spillate per gruppo), in sei copie. Per la sezione libro edito inviare sei copie dell’opera. Le sezioni del concorso sono tre: 1) Poesia inedita in lingua italiana: "Carmine Troisi" (Scrittore solofrano), 2) Poesia edita e inedita in napoletano: "Affiredò Grassi" (Poeta solofrano), 3) Libro edito di poesia in lingua italiana, pubblicato negli anni 2002-2004, "Mons. Michele Ricciardelli" (Critico letterario solofrano). Le opere inedite in lingua e vernacolo dovranno essere firmate su una sola copia ed avere l'indirizzo e la data di composizione. È permesso partecipare a più di una sezione. La premiazione è prevista entro aprile 2004. Le opere vanno inviate alla Segreteria del Premio Città di Solofra - Via Fratta, 13 - 83029 Solofra (Av) - Tel.: 0825 581120 - 0825 596406. Premio di Poesia Formica Nera Scadenza: 3 aprile 2004. Si partecipa con una poesia a tema libero, da far pervenire in cinque copie, di cui una soltanto con firma e generalità dell’autore. Per spese organizzative inviare un libero contributo sul ccp 28248326. Premi: al primo classificato medaglia d’oro e ai segnalati medaglie d’oro. Le poesie vanno inviate a: Luciano Nanni, Casella Postale 814 – 35122 Padova. Per informazioni: tel.049-617737. XXXVI 0 Premio letterario Silarus Scadenza: 28 febbraio 2004. Il premio si articola in tre sezioni: narrativa, poesia e saggistica. Ogni autore potrà concorrere per tutte le sezioni con un solo racconto o novella (max 6 cartelle), due poesie (max 30 versi) ed un solo saggio critico su personaggi, opere o aspetti originali della letteratura contemporanea (max 9 cartelle). I lavori dovranno essere inediti. Si gradisce l’invio di un curriculum. I lavori, redatti in quattro copie (per i saggi e i raccon- Premio Mondolibro Scadenza 31 gennaio 2004. Per maggiori informazioni: via Capo Zafferano, 19 – 00122 Roma; Tel: 06-5667344. 89 Il Convivio Trimestrale di Poesia Arte e Cultura dell’Accademia Internazionale ‘Il Convivio’ Fondato da Angelo Manitta Via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) – Italia Anno IV numero 4 ottobre-dicembre 2003 15 Vincenzo Mezzasalma, nome d’arte Daragusa, Uomini a cavallo, (olio su tela, cm 50x70) 90 Vincolis A.(40), Dho Bono M.(71), Di Girolamo G.(30), Di Rocco F.(17), Elrej (58), Emmy E.(57), Esposito V.(1,7), Evandro F.(45), Famà A. (23), Ferrari Cayetano(42), Filippone C.(22), Fiumara F.(21), Fontana N.(25), Formica M.(60), Forveille S(49), Frota U.(44), Galvagni M.(66), Gaourang D.S.(47), Gatti P.(19), Genovesi A.(23), Giallombardo A.(25), Giandolfo C.(28), Giangrasso V.(25), Giordano F.(75), Giordano M.(18), Giuliani P.(47), Giunta F.A.(31), Gobbato F.G.(86), Gonzales A.M.(42), Guerrera A.G. (29,32), Gunjaca D.(61), Haliti F.(46), Haxhia M.(25,46), Horta G.M.(46), Iachetti O.(17), Ianuale G.(29), Izzi R.A.(64,69), Daragusa(54), Jimeno M.O.(60), Jorio G.(26), Kidad F.(48), La Pica F.(32), Lamouille J.(50), Latorre M.C.(27), Lauro M.(33), Leiro R.V.(41), Lenisa M.G.(16), Leonardi G.(24), Lo Giudice G.(68), Macauda V.(84), Maccarone S.(32,66), Macchia M.F.(17), Magli S.(52), Magnani C.(86), Manola L.(39), Mantineo G.(27), Manzini G.(23, 26), Manzoni G.(61), Marandino O.(33), Marinello A.(65), Martorelli A.(79), Masone B.R.(63), Mastrodonato P.(71), Mauget J.(50) Mendra M.(45), Messina S.(28), Millico M.(22), Millico P.(53), Milone G.(9), Montalto P.(28), Mor A.R.(78), Morales W.C.(42), Mori Consoli T.(22), Murdaca M.G.(82), Nigro P(83), Nobis M. T.(25), Nucci M.(85), Olivares I.(23), Orzes G.E.(80), Osimani S.(58), Palumbo C.(32), Panza R.(62), Peci D.(59), Perlongo G.(23), Petino P.(18,20), Piazza G.(33), Piccirilli L.(24), Pinto M.A.(28), Pinto N.(65), Pirrotta L.(19), Pisano R.(53), Poerio A.(8), Portaro A.(27), Puppi R.(82), Quasimodo F.F.(62), Querci F.(36), Ravelli P.(25), Rescigno G.(16), Riggi E.(29), Riggio P.(51), Rimi M.(76), Romano E.(64), Ruffato C.(6), Ruffo F.(74), Rullini A.(55), Russo P.(57), Sabato L.(30), Sarraméa J.(59), Scarpa A.(78), Scarparolo I.(63), Serra J.(34), Sersale L.(46), Sessa E.(24), Setti A.(46), Siliquini L.(26), Simonetti L.(55), Spina I.(23,27), Tamburrini B.(5), Tanchis V.(40,71), Tartaro V.(76), Tassoni F.(54), Tavcar G.(3,79) Tenore R.(86), Tognacci I.(76), Topa P.(28,73), Torrente B.(30), Trefiletti C.(25), Trevisani S.(22) Tumino L.(81), Turco C.(77), Tuttolomondo J.(73), Vacchetta F.(31), Valdivia B.(41), Valentini R.(57), Varriale A.(79), Veronesi P.N.(67), Villarreal E.(42), Vinante G.(67), Viola F.(38), Vitalone M.(23), Vorraro G.(32). Il Convivio Trimestrale di Poesia Arte e Cultura, fondato da Angelo Manitta e organo ufficiale dell’Accademia Internazionale ‘Il Convivio’ Registr. al trib. di Catania n. 7 del 28 marzo 2000. Direttore responsabile: Enza Conti Direttore editoriale: Angelo Manitta Redattore: Giuseppe Manitta Vice redattore: Maria Enza Giannetto Redazione: Via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) Italia. Tel. e fax 0942-986036, cell. 333-1794694. Conto corrente postale 12939971 Stampa: Tipografia Messinatype, tel. 090-696841 E-mail: [email protected] Siti Web (gestiti da Coco Salvatore, Treffiletti Salvatore, Perlongo Gaetano, Maria Cristina Latorre): www.il-convivio.com http://web.tiscalinet.it/ilconvivio http://ilconvivio.interfree.it http://web.tiscali.it/ilconviviomattinata Collaboratori: Giorgio Barberi Squarotti, Alvarez Velasco Francisco (Spagna), Andityas Soares de Moura (Brasile), Haxhia Miranda (Albania), Barone Rosaria, Castellani Fulvio, Coco Salvatore (rivista telematica), Dilettoso Maristella, Izzi Rufo Antonia, Giannetto Maria Enza, Lalli Franco Dino, Latorre Maria Cristina (rivista telematica), Natale Maria Pina, Perlongo Gaetano (rivista telematica), Tamburrini Bruna, Topa Pacifico, Treffiletti Salvatore (sito web). Soci benemeriti: Benci Fragiacomo Lidia, Gianquinto Italo, Lauro Milvia, Macchia Maria Flora, Mauget Jean, Natale Maria Pina, Petino Placido, Portaro Antonio, Famà Anna. Soci sostenitori: Ardita Pina, Benagiano Antonietta, Campetti Walter, Candido Gian Paolo, Castelli Spartaco, Cavallo Mario, Chantal Cros, Colajanni Patrizia, Craviotto Silvio, D’Aquen Poly, Frenna Michele, Frosini Tommaso, Giandolfo Clara, Gulino Rosanna, Guerrera Grazia, Lucha Chamblant, Mandorino Lionello, Mariniello Alfredo, Milone Giuliana, Nobis Maria Teresa, Picciolo Salvatore, Roma Mario, Rusca Z. Renata, Santin Matilde, Speranza Vanni, Trevisani Simona, Villarreal Emma. Associarsi all’Accademia Internazionale Il Convivio è semplice. È sufficiente versare la quota asso ! ! ciativa annua di ni culturali), socio Sostenitore: 100,00, sul Conto Corrente Postale n. 12939971 o tramite assegno circolare non trasferibile, oppure vaglia postale o vaglia internazionale (giro postal internacional - mandat postal) intestati a Conti Vincenza, Via Pietramarina– Verzella, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - Italia. Dall’estero: monete. Il Socio ha il vantaggio di: 1) ricevere gratis la rivista; 2) avere inserita una poesia (max. 30 versi) e una recensione durante l’anno, oppure un racconto (max. 2 cartelle), oppure un quadro in bianco e nero e un articolo sulla personalità dell’artista; 3) partecipare gratuitamente al concorso bandito dall’Accademia; 4) partecipare alle attività del gruppo. La collaborazione e la distribuzione della rivista sono gratuite, ma si accettano liberi contributi. Ogni autore comunque si assume la responsabilità dei propri scritti. Manoscritti, dattiloscritti, fotografie o altro materiale non vengono restituiti. Attività culturale senza scopo di lucro ai sensi dell’art. 4 del D.P.R. del 26-1072, n. 633 e successive modifiche. Tutti i dati saranno trattati nel più completo rispetto della legislazione italiana in termini di “tutela dei dati personali” L 675/96. " " Gli autori di questo numero (il numero tra parentesi indica la pagina): Agnello N.(27,85), Ales S.A.(75), Alessi G.(9), Aliberti C.(1,7), Alonso E.(42,46), Alvarez V.F.(43), Amadeu T.(45,46), Amadio P.(70), Andityas M.(43), Andrenacci M.S.(32,67), Antonelli M.(30, 70), Aragona A.(24), Arcidiacono S.(24,27), Ardita P.(21), Assini A.(19), Attolico G.(22), Baccelli V.(62), Baiotto M.(77), Barone R.(27), Belluomini C.N.(87), Benagiano A.(63), Benci F.L.(81), Bernhard D.(47), Biondi A.(74), Biondo M.(85), Bonanno D.(4), Bonucci L.(26,47), Botto R.(48), Brancatisano M.S.(22), Caimi A.(80), Calabrese F.(72), Caleri F. L.(39), Calì G.(56), Cambi M.(29), Caminiti L.(23), Cammarata M.(77), Campisano C.A.(37), Campobasso V.(41,72), Cappelo G. (86), Carbone R.(24), Cardoso T.(44), Cascino F.(83), Castelli S. (56), Catalano V.(74), Cauchi T.(72), Cerasuolo V.(31), Cerbone A.(64), Cerignoli M.(30), Cipollini E.M.(70), Civardi F.C.(51), Colajanni P.(43), Colelli S.(24), Colombo A.(84), Coppone F.(68), Coron D.(23), Cosmai L.(52), Courget P.(49), Cozzubbo P.(23), Craviotto S.(26, 84), De Coster M.(49), De Felice D.(21), De Lisi M.(73), De Luca K.(26), De Lucia A.(86), De Napoli F.(69), De 91 Concorso “Agostino Venanzio Reali” La Giuria del 2º Concorso Nazionale di Poesia “Agostino Venanzio Reali”, organizzato dal Comune di Sogliano al Rubicone e dall’omonimo Centro Culturale, composta da Bruno Bartoletti (Presidente), Caterina Camporesi, Alberto Dell’Aquila, Narda Fattori, Gianfranco Lauretano, Maria Lenti, Anna Maria Tamburini (Segretaria) comunica i risultati del concorso, con premiazione svoltasi domenica 21 settembre, alle ore 9.30, nel teatro comunale “Elisabetta Turroni” di Sogliano al Rubicone (FC). Sono risultati vincitori: Sezione A – Poesia Adulti: 1º Premio Monreale Daniela, di Figline Valdarno (Firenze); 2º Premio Traina Tino, di Partanna (Trapani); 3º Premio Franzin Fabio, di Cessalto (Treviso). Sezione B – Poesia Giovani: 1º Premio Cipelli Giorgia Serena, di Pieve d’Olmi (Cremona); 2º Premio Camagli Claudia, di Santarcangelo di Romagna (Rimini); 3º Premio Valentina Gori, di Casalguidi (Pistoia). Tra i premiati Katia De Luca, di Mottola (Taranto). Eventuali informazioni possono essere richieste direttamente al Comune di Sogliano al Rubicone (tel. 0541948610) nel cui sito Web (www.comune.sogliano.fc.it) è stato inserito il verbale e la relazione della giuria. Premio Phintia 2004 La scadenza: 30 Aprile 2004. Lo studio R.A.L.F.I ha indetto la 21° Edizione “PHINTIA” 2004 alla quale possono partecipare autori noti o esordienti, con opere edite ed inedite (a tema libero). Le sezioni sono tre: Poesie in lingua italiana; Poesie in vernacolo; Narrativa, silloge di poesie e di racconti, fiabe, saggistica, parodie, canzoni. La partecipazione è aperta a tutti.. Coloro che intendono partecipare dovranno richiedere la scheda di adesione presso la segreteria. I premi saranno: trofei - coppe - targhe - medaglie – pergamene - diplomi - libri e saranno elargiti fino al 30° classificato di ogni sezione. Per maggiori informazioni chiedere il bando integrale del concorso (allegando relativo francobollo) a: STUDIO R.A.L.F.I. - Premio Internazionale di Letteratura “PHINTIA”, Via Salso Trav. C, 65 - 92027 Licata (AG) – Italy, Tel. 0922/ 80.42.65, e-mail: [email protected] Premio “Il Giunco” Città di Brugherio Scadenza: 31 maggio 2004. Il premio è diviso in 4 sezioni: A) Premio Filippo de Pisis - poesia in lingua a tema libero, b) Premio Europa - narrativa in lingua a tema libero, c) Premio citta’ di Brugherio - poesia o narrativa in vernacolo a tema libero, d) Premio Ginevra - poesia o narrativa, a tema solidale: Nessun uomo è un’isola. Progetti o esperienze di volontariato sociale o di diffusione culturale. Le opere straniere devono pervenire con traduzione italiana. Sono da inviare per le sezioni ‘a’ e ‘c’ due copie anonime e due con generalità. Sez. b’: una copia con generalità. Allegare breve curriculum. Quota di iscrizione: stare a Il Giunco, ccp. 42515205. I premi consistono in denaro, targhe e opere d’arte. La premiazione sarà il 12 ottobre a Brugherio (MI). Per maggiori informazioni: Ass. Il Giunco, Villa Brugherio, 55 – 20047 Brugherio (MI), tel. e fax: 039-870366. E-mail: [email protected] - [email protected] Il bando integrale e i vincitori saranno leggibili nel sito www.literary.it. “PHINTIA” 2003 A conclusione della la 20° Edizione del premio internazionale di letteratura “Phintia” 2003 indetta dallo Studio R.A.L.F.I. di Licata (AG), la Giuria presieduta dal Prof. Camillo D’Onofrio ha proclamato i seguenti vincitori: Sez.A 1)Anna Guerrini, 2) Romeo Cavallari, 3) Claudio Perego. Sez. B 1) Francesco Cascina, 2) Achille Bevilacqua, 3) Paolo Wust. Sez. 3 1) Janet Ruggeri, 2) Beatrice Manzoni, 3) Pietro Gozza. Ai primi classificati di ogni sezione è stata conferita una pergamena attestante l’elogio e la classifica riportata. I vincitori hanno inoltre ricevuto il Trofeo Ralfi con Medaglia. Oltre ai vincitori sono stati menzionati 30 autori, tra cui: Adua Casotti, Rosita Orifici Rabe, Giovanni Querci, Felice Senno, Elena Maria Stirparo, Sebastiano Maccarrone, Carmelo Parisi, Guido Zangrando, Maria Oliveti Currò, Simona Taddei, Carlo Tarabbia. Franco Mandrino, Matta Italia Basile, Vincenzo Capobianco, Margherita Rimi, Emanuele Livio, Gunjaca Drazan, Teresa Donatelli, Mario Festa, Salvatore Gugliuzza, Anna Mari La Cognata, Mimmo Stirparo, Maria Penso, Benito Corrado Conforto. Palmiro Bellomo, Ninfa Failla, Angela Geloni Onorio, Luigi Tardino, Anna Valoroso, Assunta Zagrì. La sezione Letters of love è stata vinta da: Flavio Orsini, Immacolata Stefanelli e Roberta Maria Mancini. Premio di narrativa “Akery” Scadenza: 31 maggio 2004. Il centro studi Agorà con la collabo-razione del centro ricerche Juri Gagarin, bandisce l’ottava edizio-ne del concorso Akery per la narrativa di 1) fantascienza, 2) Fantasy, 3) Horror, 4) tema libero (giallo, erotico, viaggio...). Inviare un manoscritto in cinque copie, di cui una sola con generalità. Quota di partecipazione 10 euro. Si può partecipare a tutte le sezioni, specificando chiaramente a quale. Chiedere il bando completo a Piero Borgo, via Zara 45 – 80011 Acerra (NA). telefax: 0818850793. Centro ricerche Poesia contemporanea Si comunicano i risultati del Premio Internazionale di poesia Katana (8° edizione - anno 2003), la cui cerimonia di premiazione si è svolta Venerdì 7 Novembre 2003, presso il Centro Culturale R. Livatino. La giuria, composta dai seguenti membri, Avv. Renato Pennisì (Presidente), Poetessa Maria D'Ambra, Prof. Angelo Manitta, Dott.ssa Lucia Nicotra, Prof Renato Pernice, Poeta Vanni Speranza, ha così deliberato: Sez. A (Poesia inedita a tema libero) 1° Premio alla lirica Sogni di Giuseppe Santucci da Siracusa; 2° alla lirica Grido di Milvia Lauro da Sorrento (Na), 3° alla lirica Polline e vento del prof Paolo Salamone da Palagonìa (Ct). Segnalati: Alfonsina Campisano Cancemi (Caltagirone - Ct); Chiara Filippone Melito (Palermo); Gìanni Ianuale (Marigliano - Na); Giacomo Paternò (Paternò - CT). Sez. B (Volume di poesie) 1° Premio al volume Tetrarchia degli elementi (ed. Terzo Millennio) dì Margherita Biondo da Agrigento; 2° Premio al volume Gli Orizzonti perduti (ed. lbiskos) di Adalgisa Biondi da Agrigento; 3° Premìo al volume Briciole (ed. 2000) di Angela Genovesi da S.Agata Li Battiati (Ct). Per la sez. C (Poesia inedita in dialetto siciliano), la Commissione - composta da Dott. Santo Privitera (Presidente), Poeta Carmelo Furnari, Dott. Alfio Patti, Poeta Alfio Associazione “L’Epigramma” L’associazione culturale “l’Epigramma”, centro ricerche storiche, artistiche e letterarie di Acireale bandisce il secondo recital internazionale di poesia in lingua italiana e vernacolo a tema libero per i poeti residenti in Italia ed all’estero. I partecipanti dovranno inviare massimo tre componimenti in duplice copia di cui soltanto una corredata dei dati personali. La premiazione prevede l’assegnazione di trofei, coppe, targhe personalizzate e libri di cultura generale. La quota di partecipazione per spese di segreteria è di 10 euro per ciascuna sezione da versare insieme agli elaborati. Gli elaborati dovranno essere inviati al seguente recapito: dott. Giuseppe D’Anna fermo posta presso l’ufficio postale di via Paolo Vasta, 25 – 95024 Acireale (CT). Risultati concorso 92 Russo, Poeta Salvatore Solarino - ha così deliberato: 1° Premio alla lirica Na Truscitedda di Carlo Trovato da Catania. 2° Premio alla lirica Rípigghiu la me ummira di Annalisa Grazia Guerrera da Catania. 3° Premio alla lirica Scanusciutu amicu di Antonella Pizzo da Ragusa Segnalati: Letizia Caldiero (Francofonte-Sr); Alfonsina Campisano Cancemi (Caltagirone - Ct); Rosa Maria Di Salvatore (Catania); Michelangelo Grasso (Catenanuova - Eri); Salvatore Nocita (Catania). Per la sez. D (Poeti residenti all'estero): I° Premio alla lirica Alba di Rita Cappellacci da Berna (Svizzera). Premio speciale alla lirica E’ questa la vita di Walter H. Brook da Londra (Gran Bretagna). Leonardo Melchionda, La Gioconda XXI secolo, olio su tela, cm 70x100 Milvia Lauro, Volo interrotto, olio su tela, cm 60x80 Giuseppe Sofia, Paesaggio invernale, olio su tela 93 Franco Clary, Il sogno invade la stanza, olio su tela, cm 100x120 94