racconto che costituisce la preistoria di Fontamara. Il volume di Esposito straripa di analisi, circostanze, incontri, riflessioni, eventi storici che sarebbe lungo elencare in questa
sede. Particolarmente noto e determinate si rivela l’incontro
con don Orione che, conosciuto durante il terremoto della
Marsica (1915), gli insegnò la necessità di una ribellione ad
un destino assurdo, la solidarietà con i poveri e gli sventurati, la scelta dei compagni nelle classi più umili, la ferma
volontà di battersi per il riscatto degli oppressi.
Non essendo egli, né un credente, né un praticante
nel senso comune del termine, nonostante la sua adesione
spontanea al Socialismo e la partecipazione alla fondazione
del partito comunista (Livorno, 1921), ci ha lasciato una
visione religiosa della vita e della storia, ispirata ai principi
di un Cristianesimo, evangelico, riconducibile ai suoi tradizionali valori pauperistici.
Il concetto di giustizia, che rappresenta un punto
cardinale del pensiero e dell’azione siloniana, ha poca visibilità di parentela teorica con il concetto di giustizia teorizzato nelle epoche precedenti. Il concetto di giustizia di Silone è “togato”, quello cioè che si amministra nelle aule dei
tribunali, dove in ogni epoca il vero senso del diritto si è
faziosamente piegato alle ragioni della forza del potere.
Silone capì che per riuscire a far mutare la stessa assuefazione delle masse a tale concetto, bisognava agire in senso
opposto, come egli fece in tutta la sua vita ed evidenziò nelle sue opere.
A tale proposito, Esposito sottolinea la positiva influenza paterna sul giovane nelle elezioni politiche del
1907, quando il genitore si rifiutò coraggiosamente di parteggiare per il principe di Torlonia, in contrasto con le posizioni del fratello ed esponendosi a irreversibili conseguenze
pericolose. Come si è già detto, tutti i valori presenti nei
racconti di “Viaggio a Parigi”, continueranno a essere sviluppate in tutte le opere maggiori dello scrittore, sia quelle
della “Trilogia dell’esilio”, sia quelle del rientro in Italia,
fino all’“Avventura di un povero cristiano”(1968), che a
prescindere dalle conventuali notizie biografiche cloroformizzate nelle quotidiane biografie dei frati, lascia aperti
inquietanti interrogativi sia sui rapporti tra “ecclesia spiritualis” ed “ecclesia carnalis” che sull’esistenza della giustizia all’interno della istituzione storica che dovrebbe incarnare l’insegnamento di Cristo. Come è noto, Silone ebbe
frequenza assidua con le maggiori personalità politiche
“trasgressive” e letterarie del tempo, in Italia e all’estero
durante i lunghi anni di clandestinità, a incominciare da Camus, ai fratelli Rosselli, a dissidenti russi, a Piero Gobetti, a
cui lo scrittore era accomunato dal rifiuto di formule codificatorie e ancora di più dopo il delitto Matteotti, considerato come l’episodio che aprì al regime un nuovo spazio
ad “un altro fascismo”, più vero, più pericoloso, annidato
nei gruppi parlamentari burocratici e plutocratici.
Si apriva così nella concezione dei due uomini politici la necessità di promuovere “un esperimento di governo di socialismo liberale”, con il coinvolgimento di socialisti e popolari. Le vicende, poi, andarono diversamente, in
quanto all’Aventino seguì un inasprimento del regime poliziesco, forse dovuto al fatto che era mancata un’adeguata
formazione di spiriti liberi. A questa delusione doveva seguire dentro Silone il crollo della fede nel comunismo, dopo
i ben noti avvenimenti svoltisi a Mosca nel 1927, durante i
lavori del Comintern, quando Silone capì il carattere mono-
Vittoriano Esposito:
Questioni Siloniane (vecchie e nuove)
di Carmelo Aliberti
Vittoriano Esposito, massimo conoscitore di Silone, pubblica in questi giorni un nuovo volume sull’opera
del grande scrittore marsicano (Questioni Siloniane (vecchie e nuove), Edizioni Marsica Domani, 2003). Il titolo
sintetizza adeguatamente il contenuto dell’opera ed offre un
essenziale contributo ad una più vasta conoscenza dell’autore, che egli da giovane seguì nei calorosi comizi ed interventi vari nei centri della sua terra. Il lavoro di Esposito
mette a fuoco non solo le istanze politico-sociali e il carattere morale del suo impegno religioso, ma, attraverso il fissaggio di relazioni e corrispondenze con i grandi teorici di
diverse ideologie, tende a ripercorrere il formarsi del messaggio “rivoluzionario” dello scrittore, imperniato sull’asse
giustizia e libertà, valori incancellabili, maturati in Silone,
non solo a contatto con la disperata esistenza dei suoi “cafoni” determinata dall’applicazione di una “giustizia” ingiusta, ma anche mediante la riflessione su esperienze singolari
e sul confronto tra il culto di idee, apparentemente in contrasto ed in realtà concordanti sulla linea social-liberaleumanitaria.
Oltre all’accenno alla ben nota aneddotica che
incise sull’acuirsi della vocazione sociale di Secondo Tranquilli, Esposito riesplora i racconti, da lui stesso curati per
la stampa qualche anno fa, identificando nelle loro trame, le
storie sviluppate nelle opere maggiori. In essi, infatti,
emergono i temi della fame e dell’amore, della fede e della
morte, sullo sfondo degli stridenti problemi di ogni giorno,
espressi nel contrasto tra potere e libertà, città e campagna,
sofferenza delle masse e tentativi di rivolta. Particolarmente
significativo si rivela “Viaggio a Parigi”, che, scritto secondo Gisella Padovani nel ‘28, del capolavoro siloniano anticipa vibranti segmenti della trama di Fontamara. Nella storia di Beniamino possono cogliersi riscontri evidenti con le
disavventure di Berardo Viola, dall’ansia di liberarsi dalle
catene della povertà alla robustezza fisica, al dipanarsi di
vicissitudini deprimenti. Egli, per scongiurare la miseria,
lascia il paese per Roma, con poche lire in tasca, vive drammatiche vicende nella capitale, subisce iniquità ed è vittima
dei pregiudizi di una società ostile che lo conducono in
galera; la fortunata picaresca fuga verso Parigi, lo fa surrealmente sprofondare in un assurdo e convulso sogno, pieno di incubi e di visioni orrende, tra cui il sorprendente
incontro con Belzebù che, di fronte all’orrore del protagonista, risponde: «Non avevi preferito andare all’Inferno,
anziché rimanere a Fontamara?».
Alla fine di orripilanti vicissitudine, Beniamino
torna a Roma e vergognoso di svelare la verità del suo ritorno, riprende la via di Fontamara, perché ha capito che
dappertutto “si mangia polenta”, per cui non conviene abbandonare il paese delle radici. Con lucida congruenza critica, Esposito individua vari collegamenti tra racconto e
romanzo e, a proposito del fallito tentativo di evasione di
Beniamino, il critico osserva che nel gesto non si deve cogliere il segno di una sconfitta di ascendenza verghiana, ma
la consapevolezza di chi ha tentato di combattere in un
1
litico dell’ideologia comunista che non concedeva alcuna
voce ad ogni ipotetica e pacifica dialettica. Allora il doversi
staccare dai compagni rappresentò una riconversione dolorosa.
Esposito ricostruisce anche le problematiche critiche suscitate dalla diffusione delle opere siloniane in Italia,
enucleando le contrapposte e pregiudiziali posizioni disfattiste dei critici dell’estrema destra e dell’estrema sinistra,
ma dando maggiore visibilità del passato alla riconciliante
posizione di cattolici, come Gino Pampaloni, che tra i primi
assunse una netta posizione di valorizzazione totale del
lavoro letterario dello scrittore abruzzese. Seguirono gli
interventi, consapevolmente documentati, di Carocci e Bo,
Falqui e Vigorelli che riequilibrarono gli estremismi iconoclasti di fazione e ridefinirono il plasma cristiano che impregna la produzione siloniana.
Con l’uscita postuma della storia di “Suor
Severina”, la tematica dell’autore illimpidì i suoi lineamenti
di modernità religiosa, in quanto attraverso la scelta della
novizia Severina che, richiamata irresistibilmente dalla
“sirena” della contestazione del ‘68, esce dal convento e si
va ad immolare sull’asfalto accanto ai manifestanti in rivolta, Silone crea una nuova gigantesca figura di donna, magistrale interprete emblematica di una Chiesa avviata al rinnovamento in sintonia con le istanze concrete della società,
mediante le più moderne analisi e posizioni, maturate nei
lavori del Concilio Vaticano. Severina potrebbe rappresentare la continuazione della lotta iniziata da Berardo Viola,
nel contesto della siloniana visione di una nuova società, la
nascita del cosiddetto “Terzo regno”, fondata sul teorema
“social-liberal-umanitario”.
Un capitolo a parte riserva Esposito a “Confiteor”,
una sorta di autointervista con 43 domande, con cui lo
scrittore mira, negli anni ‘50, a confutare e a difendersi dalle accuse e aggressioni critiche negative dei suoi detrattori.
Il documento adeguatamente illustrato da Esposito risulta
molto importante per la causa siloniana, in quanto il critico
lo inserisce come testimonianza inoppugnabile, nel “fuoco”
delle questioni vecchie e nuove. In maniera convincente e
capziosamente analizzata, viene affrontata l’infiammata polemica su “Silone delatore”. Ricostruendo tutte le fasi della
questione, Esposito (che al problema ha dedicato convegni
e interventi sui “quaderni siloniani” da lui fondati e diretti e
a cui si rinvia per una consultazione definitivamente
chiarificatrice), la corrispondenza tra lo scrittore e il funzionario di polizia Guido Bellone viene riportata nell’ambito
dell’attentato al re Vittorio Emanuele II avvenuto nel ‘29
alla fiera di Milano. Dell’atto delittuoso venne accusato il
fratello minore di Silone, Romolo Tranquilli, da poco iscrittosi a P.C.I, e condannato a morte. Lo scrittore, convinto
dell’innocenza del fratello e preso dal rimorso di sentirsi
responsabile della scelta politica del fratello (in realtà, ignaro del coevo abbandono del partito da parte di Silone),
opera un tentativo di richiesta di concessione di grazia
presso i massimi gestori del regime, fornendo qualche notizia innocua e già diffusa dalla stampa.
Presto “il dialogo” si interruppe, mentre Romolo
veniva riconosciuto innocente, ma ugualmente condannato
a dodici anni di durissima prigione a Procida, dove morirà a
causa delle torture ricevute. Intervenuti con approfondite
ricerche, Tamburrano, Granati e Isinelli, «smontano le tesi
accusatorie in tutto e per tutto, con un’analisi dei docu-
menti, rivelatisi in gran parte false o manipolate». Lo stesso
Frassinelli (specialista della storia dei servizi segreti), ricostruendo il tormentato itinerario siloniano, rafforza la coerenza, l’onestà e la elevata dimensione etico-civile dello
scrittore, come vero maestro di vita. Con la pubblicazione
di questo ulteriore lavoro, Vittoriano Esposito, già benemerito studioso della letteratura Italiana e particolarmente di
quella del Novecento, su cui ha pubblicato una serie di sette
Volumi, offre all’attenzione degli studiosi e degli appassionati lettori di Silone un documento completo e convincente,
di immediata presa, idonea a chiarire a tutti i risvolti e le
evidenti appariscenze del “caso Silone”.
Gemellaggio fra GDVS-Fidas di
Paternò e il Vas di Sulmona
di Maria Enza Giannetto
Il gruppo donatori di Sangue Fidas di Paternò
ha, per la seconda volta, avuto la possibilità di sperimentare il gemellaggio (dopo la prima esperienza con
l’HDK di Kudowa Zdmje in Polonia). L’esperienza
era partita già l’anno scorso con la visita da parte di
una delegazione del VAS di Sulmona, di Ateleta e di
Castel di Sangro in Sicilia. Lo scopo del gemellaggio
è quello di arricchire i volontari di ciascun gruppo attraverso le esperienze e i risultati raggiunti dagli altri.
Una delegazione di 40 persone del GDVSFIDAS di Paternò è stata a Sulmona per incontrare i
soci del VAS di Ateleta e di Castel di Sangro con le
rispettive rappresentanze delle amministrazioni locali,
nonché il presidente della Provincia, dr. Palmiero Susi. Il gruppo paternese era costituito dal presidente,
dott. Matteo Condorelli, ed alcuni consiglieri, soci e
familiari, il direttore del C.T. di Paternò e l’assessore
ai servizi sociali, nonché alcuni insegnanti delle scuole del paese. Visitando i luoghi più caratteristici della
località abruzzese e assaggiando le specialità locali, il
tempo trascorso dalla delegazione di Paternò è stato
completamente votato alla solidarietà, all’amicizia e
alla comunione di interessi e valori. Un segno e un
messaggio rivolto alle istituzioni sanitarie e specialmente la richiesta di dotare il C.T. di Sulmona di
strumentazioni più adeguate al fabbisogno territoriale.
Oltre allo slancio solidale e alla comune conoscenza dei luoghi d’appartenenza, il gemellaggio ha
anche donato uno spazio particolare alla cultura, al
folklore e ai tesori artistici locali. I due “gemelli” si
sono, infatti, scambiati prodotti e lavorazioni tipici,
pubblicazioni dei paesi etnei e soprattutto, da parte del
gruppo di Paternò (socio dell’Accademia il Convivio),
c’è stato il dono di alcune pubblicazioni edite dal
Convivio, dal Comune di Castiglione di Sicilia e da
latri comuni etnei. Lo scambio è stato completato con
la presentazione del libro “Legami di solidarietà”,
stampato dalle associazioni gemellate e dal comune di
Paternò. Il volume raccoglie le storie dei due comuni,
sede delle associazioni e dei volontari.
2
Vani sarebbero in questo giorno, nello stesso tempo
triste e festoso, discorsi commemorativi, ricordanze altisonanti, memoriali patinati, o altre cose del genere. Tutto questo il più delle volte non soddisfa il vero amico verdiano, anzi, più spesso lo annoia. Chi infatti non conosce, almeno in
parte, la vita e i “miracoli” di questo grande artista? Farà
senza dubbio più piacere riascoltare un bel pezzo della sua
musica, specialmente quella poco eseguita e ritenuta, non
sempre a ragione, “minore”, rivedere qualche sua rara fotografia, commemorandolo in noi stessi, nell’intimità dei nostri cuori. Io ho avuto l’inaspettata gioia di trovare, per caso,
su un vecchio giornale illustrato, una foto rarissima del Maestro. La fotografia ce lo mostra proprio il giorno prima che
fosse colpito dall’ictus che doveva poi portarlo, in breve tempo, alla tomba.
Era una fredda mattina del 21 gennaio del 1901, e
Verdi faceva, senza saperlo, la sua ultima, breve passeggiata
per le nebbiose e uggiose vie di Milano. È una modesta, ma
nitida immagine, che mi ha commosso fino alle lacrime. Non
mi stanco mai di rimirarla; ogniqualvolta la riprendo in mano, mi pare di scoprire un nuovo lato della personalità di
Verdi, una parte dei pensieri che dovevano attraversare, in
quella gelida mattinata milanese, la mente del grande Vegliardo. Vestiva il suo abituale mantello nero e il grande cilindro di eguale colore. La sua bella barba bianca gli incorniciava il volto asciutto e triste, creando un netto e felice
contrasto con il mantello e il cilindro. Il suo portamento era
diritto, fiero, nonostante gli anni. Il capo era però leggermente chinato sul petto; sul volto marcato dell’età si leggeva
un’ombra di persistente malinconia e di profonda tristezza.
Egli camminava lentamente per le vie di Milano, ma di certo
non vedeva la gente che gli passava accanto e il traffico che
scorreva davanti ai suoi occhi. Il Signore gli aveva concesso
il raro privilegio di dare uno sguardo sul ventesimo secolo,
che si era appena aperto, ma egli era certamente cosciente
della fine che si stava inesorabilmente avvicinando e della sua
epoca che era irrimediabilmente tramontata alle sue spalle.
Il nuovo secolo, di cui stava ora calpestando l’uscio,
non era più il suo. Egli vi arriva da estraneo, da ospite. Non
per niente il suo capo pendeva triste sul petto e il suo volto
era attraversato da un velo di incancellabile malinconia.
Quando si raggiungono i sessant’anni, già molti vuoti serpeggiano nella ristretta cerchia dei familiari e degli amici.
Ma Verdi aveva ormai ottantasette anni, età prestigiosa, a
quei tempi, specialmente se coronata da quella sua eccezionale vitalità, ed era praticamente solo. Parola terribile per un
uomo vecchio! Tutte le persone a lui care riposavano da
tempo nel sonno dei giusti. Anche la sua fedele compagna,
Giuseppina Strepponi, la sua “Peppina”, se ne era andata già
da tre anni. Ora era veramente solo. La stima e l’enorme
popolarità di cui godeva dovunque non bastavano di certo a
lenire questo profondo e incolmabile senso di solitudine. Rivediamo così Verdi in quel suo ultimo pellegrinare per le strade di Milano, con tutti questi ricordi nel prezioso scrigno del
cuore. Il cuore del Musico per eccellenza, che se ne stava ora
in silenzio, dopo aver cantato per più di mezzo secolo melodie immortali e indimenticabili. Anche i pensieri e i tormenti
che attraversavano la spaziosa fronte verdiana sembrano passare sulla fredda immagine eternata dalla fotografia.
Dopo aver perduto tutto quello che di più caro aveva al mondo, dopo aver concluso la sua prestigiosa carriere
con la mirabile risata di Falstaff, dopo aver visto gli albori
Giuseppe Verdi: Ricordo del
sommo maestro
di Giovanni Tav ar
Sono trascorsi esattamente cento anni dacché il
mae-stro Giuseppe Verdi ha concluso il suo itinerario terreno. E se ora il suo corpo giace immobile e senza vita nella
cripta della casa di riposo per musicisti a Milano, da lui fatta
costruire e a lui intitolata, la sua grande anima continua a
guardarci da altre dimensioni, sdegnosa della falsità di questo mondo, un po’ austera e burbera, come lo era in vita. È
vero, sono trascorsi cent’anni dalla sua morte, e con essi più
generazioni e due terribili guerre mondiali. Eppure anche in
questa nostra epoca, così violenta e poco propensa all’arte e
ai valori spirituali, il suo nome continua a correre sulle labbra e nel pensiero di tutti coloro che amano la vera musica,
quasi fosse un personaggio ancora vivente e operante tra di
noi. Le stagioni liriche di tutto il mondo continuano a
inaugurarsi e a basarsi nel nome prestigioso di Verdi.
Il Maestro, nella più ammirabile delle sue virtù, la
modestia, era avvezzo a dire ai suoi interlocutori che le sue
opere sarebbero rimaste sulle scene non più di quaranta o
cinquanta anni (almeno quelle di maggior successo); poi sarebbero state dimenticate, come tutti i frutti del limitato ingegno umano. È destino degli esseri umani, caro Verdi, a passare, prima o poi, nel dimenticatoio; di quasi tutti gli uomini.
Ma ci sono alcun esseri privilegiati, il cui privilegio sta nel
“non morire”, nel continuare a vivere nelle generazioni future. Questi esseri privilegiati sono i grandi artisti, i geni. Se
il maestro potesse vedere il successo che le sue opere, le sue
creature predilette, mietono ancora oggi sui palcoscenici di
tutto il mondo, rimarrebbe, se non stupito, almeno meravigliato. La sua popolarità non accenna a diminuire (perfino
Bach, Mozart e Rossini hanno conosciuto momenti di dimenticanza e di oblio) e le sue opere continuano a stupire e a
meravigliare i pubblici di tutto il mondo.
3
del nuovo secolo, ora Verdi aspetta, con serenità, la liberazione definitiva dalle cose che non gli appartengono più; aspetta la Morte! Come sembra terribile e odiosa questa parola
a tanta gente. Ma non a Verdi! Egli aveva saputo incanalarle
con maestria in tanti suoi personaggi, aveva saputo darle accenti terribili e nello stesso tempo struggenti. Egli la conosceva perciò bene e la rispettava. Ora la stava spettando, non
per uno dei suoi personaggi, ma per sé stesso, tranquillo e
senza timore. Chi non ha debiti con gli uomini ed è in pace
con Dio non può certamente temerla. E Lei non si fece attendere molto. La mattina dopo, il 22 gennaio 1901, gli fece improvvisamente visita; lo fece stendere sul grande letto dell’albergo in cui, gli ultimi tempi, viveva, e gli chiuse gli occhi. Il
grande Moribondo lottò tenacemente per sette giorni contro di
Lei (perché dispiace l’addio definitivo alla vita, anche quando non ha più niente di valido da offrirci). In quei terribili e
solenni istanti, la sua anima, rifugiatasi tra le pieghe della
mente, sempre lucida, esitava a staccarsi dal fardello del
corpo. Sotto le palpebre immote brulicava invece la vita.
Ritornavano le immagini della povera, ma pur
sempre lieta, infanzia, ritornavano i ricordi dei grandi sacrifici fatti per potersi affermare in un mondo difficile e spesso
ingrato, ma verso il quale sentiva una vocazione bruciante,
nella quale unicamente avrebbe potuto e saputo esprimere tutto se stesso. Ritornava, come uno spettrale incubo, il giorno
del suo clamoroso insuccesso, in quell’opera buffa che aveva
dovuto giocoforza terminare, a poca distanza dalla morte della moglie e di entrambi i suoi figlioletti; ritornavano luminosi e festosi i giorni dei suoi trionfali successi. Poi si trovò
dinanzi alle numerose opere di carità che aveva profuse a
piene mani, spesso in assoluto silenzio, fino alla perla della
sua Casa di riposo per musicisti, da poco terminata. Aveva
fatto del bene senza aspettare la morte. Tutto quello che la
sua anima gli aveva consigliato di fare, l’aveva eseguito.
E rivisse anche il suo lancinante dramma di padre
mancato, l’amarezza sua, e di “Peppina”, di non potere avere
figli. I due avuti dalla prima moglie se ne erano andati in
fretta, insieme a lei, tanto che non ne ricordava neppure i
tratti. A “Peppina” non aveva mai fatto il minimo rimprovero; non era, d’altronde, certo colpa sua, povera donna. La
ferita tornava però a sanguinare copiosa ogniqualvolta egli si
accingeva a musicare un nuovo lavoro dove ci fosse il
minimo accenno all’amore paterno. E proprio da questo
lancinante dolore, da questa paternità mancata, egli doveva
creare le pagine più belle e indimenticabili della sua musica,
pagine nelle quali il padre mancato dà sfogo a tutta la sua
amarezza. Pagine e melodie intessute di accenti struggenti.
Qual è infatti la parte migliore della Traviata? Senz’ombra di dubbio la scena nella quale il vecchio Germont
rivela al figlio, e ancora prima a Violetta, l’immenso sacrificio da lui sostenuto per averlo cresciuto ed educato, e lo
prega disperatamente di non andarsene, perché è ormai l’unica consolazione della sua solitaria vecchiaia. Non salgo-no
forse al cuore quelle frasi piene di malcelato pianto, di appassionata preghiera, di svelato amore? E nel Simon Boccanegra, le pagine più alte e sentite non sono forse quelle tra
il vecchio Simone e la figlia ritrovata? E nelle Luisa Miller,
chi non prova almeno un brivido di commozione, quando il
povero, vecchio e derelitto padre se ne va per le infinite strade del mondo, tenendo stretta, sottobraccio, la figlia? Soli,
poveri, ma infinitamente felici; felici di un amore che è più
grande di ogni altra felicità umana. La musica sale qui ad al-
tezze vertiginose. E nel Rigoletto? Sono passati quasi centocinquanta anni dalla sua prima rappresentazione alla “Fenice” di Venezia; ma cosa sono tanti anni per una creazione
immortale come questa, che è, almeno per me, l’opera più
perfetta, dal punto di vista melodrammatico, del maestro,
come perfetto si può dire di un dramma di Shakespeare.
Quanto sia veramente uomo tra gli uomini questo
buffone, gobbo e difforme, capace di brutali sarcasmi, di
agghiaccianti maledizioni, di terribili vendette, nei momenti
di affettuoso, paterno amore per la figlia, tenuta gelosamente
nascosta agli sguardi cupidi degli uomini, ce lo svela la
musica di Verdi, con profondità che sgorga dal cuore e dai
sentimenti di un padre mancato. Dalle palpebre chiuse,
apparentemente senza vita, dovette certo sgorgare una lacrima al cospetto di questi ricordi, una calda lacrima di
rimpianto per la vita che se ne va, per la vita che, seppure
piena di dolori, di amarezze, di delusioni, di volgarità e di
brutture, merita pur sempre di essere vissuta.
Poi, nella notte immensa che sopraggiunge e che sta
per avvolgerlo, ecco apparire un punto luminoso, che si ingrandisce a vista d’occhio e tutto lo investe: la luce dell’Amore. Premio per colui che ha gelosamente creato e profuso
durante tutta la sua vita a piene mani, consolando se stesso e
gli altri. Due giorni dopo, all’incerta luce del primo mattino,
mentre infuria ancora la lotta tra il dominio delle tenebre e
l’audacia del giorno che avanza, una folla grandiosa, immensa, accompagna Verdi verso la sua ultima dimora terrena.
Ma ecco a un tratto, nell’enorme folla silenziosa, alcune voci
intonare, dapprima incerte e tremolanti, il famoso coro del
Nabucco: «Va’ pensiero sull’ali dorate…» Un’indicibile onda di commozione trema, come un acuto brivido serpeggiante, su quel nereggiare denso e compatto. Dalle gole, chiuse
da singhiozzi struggenti, si alza, sempre più forte e sicura, la
dolcissima melodia verdiana, simbolo inconfondibile di tutta
la sua vasta popolare produzione, fino a formare il più sincero e commovente coro che mai si sia udito.
È l’addio che a Verdi avrebbe fatto più piacere;
l’addio commosso e sincero della gente comune per la quale aveva creato quelle musiche che sorgevano dalle profondità della sua anima e dall’immediatezza del suo cuore. Era
come se tanti fratelli accompagnassero il più degno tra di
loro al giusto e meritato riposo. Contemporaneamente anche le genti di tutte le città italiane scendevano in piazza per
recare l’umile, ma spontaneo saluto d’addio al tanto amato
Maestro. Perché, come disse D’Annunzio, nell’apprendere
la triste notizia: «Ci nutrimmo di Lui come del pane!». Per
non morire egli si era abbandonato alla creazione; ogni
giorno della sua vita terrena egli staccava un piccolo lembo
di sé, consegnandolo all’immortalità. La forza d’amore che
passò attraverso la sua anima si rapprese in mondi sonori,
che sono oggi, per i nostri cuori, la sua vera vita che
continua. Non innalziamo perciò inutili rammarichi e stolti
pianti per la sua scomparsa, ma attingiamo elementi di forza
e di vita da quello che di Lui non può passare!
La pioggia
di Dorotea Bonanno
Scendi nella notte
insistente batti sui vetri
illumini le case.
4
Quando è ancora giorno
e si fa sera, colori
la notte di mille luci
a Nizza, ma lei, indomita e molto legata al marito, lo raggiungerà più tardi, quando egli andrà a difendere Roma nel
1848. Nonostante la sua gravidanza, la donna insiste per cavalcare a fianco del marito. Si taglia i suoi magnifici capelli
neri e così intraprende l’ultimo suo viaggio. Garibaldi subisce una clamorosa ritirata da Roma e non si fida più né del
Papa né di Carlo Alberto e in questa occasione scrive una disperata lettera alla moglie: «Tu donna forte e generosa, con
che disprezzo guarderai questa ermafrodita generazione di
italiani: questi miei paesani ch’io ho cercato di nobilitare
tante volte e che sì poco lo meritavano! È vero: il tradimento ha paralizzato ogni slancio coraggioso; ma comunque sia
noi siamo disonorati, il nome italiano sarà lo scherno dello
straniero di ogni contrada. Io sono veramente sdegnato di
appartenere a una famiglia che conta tanti codardi».
In questa ritirata Garibaldi deve fare i conti con le
diserzioni dei soldati, soprattutto ufficiali ed il 31 luglio decide di accettare l’asilo temporaneo nella Repubblica neutrale di San Marino deponendo le armi e sciogliendo la compagnia. In seguito, con 250 uomini, attraversa le schiere austriache e, dopo una marcia di 24 ore, arriva all’Adriatico.
Si imbarcano, ma vengono quasi subito raggiunti. Molti soldati cadono nelle mani del nemico e Garibaldi si salva per
caso a riva. Anita è molto ammalata e lotta contro il collasso causato dal caldo, ma nonostante questa sofferenza vuole
ancora accompagnare il suo uomo. Garibaldi si traveste da
manovale e la conduce via con un carretto sotto un ombrello, ma Anita non ce la fa e il 4 agosto muore nelle paludi di
Romagna, vicino Ravenna. In fretta e furia viene seppellita
nella sabbia con gli Austriaci incalzanti e pericolosi.
Termina qui la leggendaria vita di questa donna
coraggiosa, sprezzante del pericolo, innamorata e pronta a
dare se stessa per il suo uomo. Nel 1859 le spoglie di Anita
verranno portate a Nizza per volontà di Garibaldi. Oggi riposano nel monumento innalzatole sul Gianicolo nel 1932.
__________
Anita Garibaldi: una donna
coraggiosa e intraprendente
di Bruna Tamburrini
La figura leggendaria di Anita Garibaldi ha sempre
interessato la curiosità popolare ed anch’io ho spesso pensato che fosse una donna ricca di personalità, indomita, caparbia, ma soprattutto molto innamorata, perché capace di
vivere “all’avventura” con il suo compagno Giuseppe Garibaldi. Il vero nome di Anita è Maria Ribeiro de Silva e
viene descritta come una bellezza dalla pelle cupa. Un
ufficiale di marina la ricorda come creola dotata di una vera
dignità spagnola. Nata in Brasile, a Morinhos nel 1820, sposa, a soli 15 anni, Duarte de Aguiaz, ma questo matrimonio
durerà poco, perché Anita abbandonerà il marito per seguire
Garibaldi. Le imprese dell’Eroe dei due mondi nell’America Latina vedono la giovane compagna sempre al suo fianco, pronta a combattere con lui, uomo affascinante, sempre
molto amato dalle donne. Questo successo di Garibaldi con
le donne non è certo per Anita cosa molto facile da sopportare. È, infatti, molto gelosa, anche se José ha sempre,
nei suoi confronti, grandi attenzioni ed è innamoratissimo.
Vi sono alcuni aneddoti da raccontare sull’esperienza nell’America Latina. Per esempio un giorno Anita
viene colpita da una pallottola dagli avversari, ma essi stessi, conosciuta la sua fama, la curano e poi le permettono di
ritornare nel campo in cui lei, tra l’altro, crede di trovare
morto il suo uomo. Quando si accorge, con felicità, che Garibaldi è vivo, ritrova tutta la sua energia e continua la lotta
per la libertà dei popoli insieme a lui.
Un’altra volta Anita, segretamente dal marito, decide di andare a lavorare, ma Garibaldi, venuto a conoscenza del fatto, va su tutte le furie, poi alla fine decidono per
un compromesso che permetta loro di tirare avanti, vista la
situazione economica precaria: Anita cessa il suo lavoro e
Josè accetta il posto, offerto da tempo, di ispettore al porto.
Nasce nel 1840 il primo figlio, Menotti. Anita non
sposa subito Garibaldi, ma lo farà a Montevideo nel 1842,
dopo la morte del primo marito Manuel Duarte. C’è da dire
che il matrimonio per Garibaldi non è importante ma, vista
la società dell’epoca, alla fine egli stesso propone ad Anita:
«E se ci sposassimo come due bravi borghesi? ...Mi sembra
che a questa formalità tu tenga molto. E non solo tu…sarà
bene scrivere a Laguna perché ti mandino i documenti». In
occasione del matrimonio, Anita indossa un abito grigio
chiaro col colletto bianco, ma Garibaldi è molto nervoso e
scende a compromesso con il prete che pretende la confessione. Terminata la cerimonia, Anita torna a casa e, prendendo tra le braccia suo figlio Menotti, afferma: «Da oggi
siamo tutti Garibaldi».
Da Garibaldi Anita avrà quattro figli: Menotti, Rosita, Teresita e Ricciotti. Come già accennato, è molto gelosa del marito e una volta, venuta a sapere che il marito aveva precedentemente rivolto complimenti ad un’importante
signora, lo attende sulla porta di casa fino a tardi e lo affronta con due pistole in mano gridandogli che sa come difendere il suo onore.
Dopo l’America Latina, Anita, nel 1847, forse in
seguito ad una nuova gravidanza e alla precarietà della sua
salute, si sente “costretta” a rientrare nella casa di Garibaldi
Nota bibliografica
Lami Lucio, Garibaldi e Anita corsari, TEA S.p.A, Artabano, Gravellona
Toce (VB), 2002. Mack Smith Denis, Garibaldi, Nuovo Istituto Italiano
d’arti grafiche, Bergamo, 2001. Internet, Anita Garibaldi in
http://www.istitutospaventa.it/lavori/Modulo1/anita.htm. Internet, Anita
Garibaldi, in http://webspace.omniway.sm/badarlon/anita.htm
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Cesare Ruffato:
Poesie recenti
scelte da Giuseppe Manitta
Cesare Ruffato, nato a Padova, ha dedicato la propria vita alla
medicina come professore di radiologia e radiobiologia presso l’università
della sua città. Questo però non gli ha
fatto disdegnare le Muse. La sua attività poetica, infatti, è iniziata nel 1960
con Tempo senza nome (Rebellato),
suscitando interesse in questo lungo
arco di tempo presso la critica più
qualificata e imponendosi come una
delle maggiori voci poetiche italiane.
Dai suoi versi si denota una penetrante riflessione che evidenzia la vacuità della società, vacuità che si tramuta in silenzioso pensiero del tempo,
in moto puro che «c’infatua nella
ruggine dell’aria». Il tempo, dunque,
si pone per l’uomo come limite e Cesare Ruffato sa trasmettere con l’arma
della poesia tale straniamento. La scelta qui presentata giunge sino all’ultima pubblicazione, Sinopsie, «ideale
canzoniere d’affetto per una persona
cara precocemente scomparsa», in cui,
partendo da una dichiarazione poetica,
l’autore cerca di riappropriarsi di un
mondo-tempo che sembrava perduto.
Da queste poesie si evince chiaramente il processo cognitivo di una scienza
che si tramuta in letteratura, la parola
si scompone e si ricompone per dare
voce al silenzio. Così la combinazione
semantica, neologica e il polimorfismo
poetico danno una costruzione necessaria ed assoluta all’oblio della vita e
della poesia. Tra le pubblicazioni più
recenti sono da ricordare una traduzione in lingua spagnola, Ritmo de
sinestesias con prefazione di Mercedes Arriaga Flórez dell’Università di
Siviglia, e una in lingua svedese, Så
långt ögat når con introduzione di
Gertrud Olers-Galli.
***
Un gabbiano alieno filosofo
è il nostro spider inossidabile
con cristalli di rocca
mira emozioni minime dell’aria
ci aiuta a rotolare il corpo al sole
nel labirinto materno per rime
pazienti della memoria. Strappo
dalle scorze lagrime lunari
il tempo che duro nel sogno
senza volto, poi si vedrà.
Paramore
Non dirmi che l’amore consiste
in partimen modellarmi sulle tue
curve genuflettere lai sulle tue
ritrosìe e accendere vertigine
di sospiri e plausi nel vezzo joc
delle tue orpellerìee spleenìe.
L’amore non abbisogna di questo
non è di necessità logomorfo
tanto più lima e bara quanto più
è prigione diletta di un cuore
con tutte le cellule del mondo
intrapiantabile, asma infinibile
del proprio ed altrui brulichìo.
Filosofo antico dà una mano
cerca ancora largueza e corregge
con distacco 1’errore. È cultura
clus e sottile misura di diamante
universale della prima mente.
Filtro permaloso pensiero in bilico
pare grazia felicità perdizione.
Vorresti egoisticarlo bavagliarne
il genio malinconirne l’eternità
con lingua gelosa farne patetico
fatras. Mi accorgo di perderlo
sempre per vizio o per l'ansia fenice
di recuperarlo ieu chant per joi
de fin’amor, perché viva nella favola.
Ritmo de sinestesias
Lettura meticolosa sfuma
il ritardo della sera polverosa
nel divario labbra e fiume
hanno perso il lume
fantasioso dell’acqua. Anagramma
ipofonico ondeggia segni colmi
compone un filtro di effetti dubbi.
La nube burlona gioca con la luna
le mani con i cenni del silenzio.
***
Privilegio carpire e capire
l’incanto di gioia e dolore
per certe varianti di colore
e fervore ma è per l’illusione
emozione d’insieme che infiltrano
il loro inleggibile prodigio
l’innoverabile continuo
di loro competenza.
Quasi pretendere una teoria
assoluta che rappresenti nella propria
realtà il mondo. Forse
si accinge a farci intravedere
un bagliore dell’armonia di terra
promessa, una goccia religiosa
di certezza sia pure in una fede
incerta e con desistenza di senso.
6
Sinopsìe
Il ritorno alla pianura pullula vastità
di passi e percezioni
su reticolata geometria poetica
pittura garrula epica e tragica
di campi cesure orti canali
abbeveranti filari di viti sull’attenti
grumi di gelsi e frutteti
atmosfere soffuse in barlumi
onirici di mansarde cromatiche
increspate dal vento e da agresti
risonanze. In tale fantasmatíco
mondo è scomparso il gesto sapiente
sinestesico del seminatore
ma alta alla luna buona
si esibisce la mina del cuore
che spazia la memoria pulsa il prodigio
delle stagioni le maree dell’anima
suggestiona il sopore opaco
del respiro dell’universo.
Contrasta il centro coi contorni
che sfumano e degradano le luci.
Mancano tempo e pietas per l’oblio
che innesta etica latente rinvio.
Percolo nel reticolo ctonio mirabile
della natura per assorbirne bioritmi
ed assaporarne l’eco dei segreti
cosmici intangibili irraggiungibili.
***
Nella luce smogata del giorno
mi alimento di quanto traspare
del latte arboreo virtuale
della atomìa aerea sommossa
nei vostri giri intorno al mio vuoto
delle guttate inflorescenze brinate
che in casto silenzio mi conservate
sulle soglie d’ogni cammino ispirato
riverberandomi ennesguardi
lontananti abbacinati
in sublimi chiarità festose.
Più nello splendore vi obliate
più mi affanno sulle vostre tracce
su ogni residuo barlume
sulle pene-ombre ove sosto e cerco
quanto so di non distinguere
ma che mi insegue e si fa gioco
della debilità che mi increpuscola
ed accora di opaca evanescenza.
Verdi Ricordi
Nel tempo senza nome la memoria
incupisce l’autunno si spegne
in foglie gialli e coglie
dalle mie rughe la monotonia
inveterata i pensieri opachi
petonata fine in rosso a smalto.
“allineati”, anzi insofferenti e “ribelli” ad ogni tipo di potere eccessivo, ad ogni forma di “dittatura”, politica e letteraria. Com’è, in fondo, lo stesso Sgorlon. Avendo, anche
Aliberti, fatto una “scelta di campo” nel segno della libertà
intellettuale, si è trovato in perfetta sintonia con Carlo Sgorlon, non solo per le tematiche ispiratrici della sua narrativa,
ma anche e soprattutto per la visione “filosofica” della storia umana, di ordine mitico-religiosa. In ogni pagina del suo
studio si percepisce una partecipazione viva, un’adesione
piena alla straordinaria vicenda, umana e letteraria, di Carlo
Sgorlon.
Ne deriva un profilo criticamente perspicace, attento alle grosse problematiche, ma anche alle implicazioni
psicologiche, ai particolari più minuti della biografia, dalla
infanzia vissuta presso i nonni fino agli studi universitari,
dalla prima maturazione fino alla esplosione del “caso”
letterario, come quello di uno scrittore che non intende intrupparsi in correnti e tendenze dominanti sulla stampa
nazionale e nelle università, col rischio dì vedersi e sapersi
un “isolato irriducibile”. Rischio che Sgorlon sconta fino
all’ultimo, nella consapevolezza di restare se stesso pur nel
clima infuocato delle polemiche accesesi via via sul neorealismo, sulla neo-avanguardia, sul Sessantotto, sulla
letteratura industriale, sul terrorismo.
Aliberti, dopo aver fatto debitamente luce sulle
direttrici della poetica e della filosofia sgorloniane, passa ad
una lettura analitica delle opere che ne contrassegnano l’iter
narrativo, da La poltrona (1968) e Il vento nel vigneto
(1973) a La tredicesima ora (2001) e L’uomo di Praga
(2002), soffermandosi su aspetti maggiori e minori di ogni
libro (trame, personaggi, situazioni, significati).
Chiude con un capitolo dedicato interamente alla
delicata questione delle strutture formali in cui, di volta in
volta, si sono calate le tante “storie” che Sgorlon ha raccontato. L’autore vi coglie l’occasione per fare anche un bilancio della fortuna critica, riconoscendo molti meriti agli studiosi che lo hanno preceduto, come Roberto Damiani, Liana
Nissim, Carmine Di Biase, Ezio Bernardelli, Claudio Toscani e, più di tutti, il compianto Bruno Maier, che della
narrativa sgorloniana è stato l’esegeta più assiduo e l’interprete più accurato.
Carmelo Aliberti, che è anche un ottimo poeta, con
questo lavoro ha confermato le sue doti di lettore scrupoloso e di indagatore acutissimo. Come si è detto poco sopra,
egli aveva già dato prove più che convincenti di saggista
rigoroso su autori ed opere di non facile approccio; ma qui
ha dato veramente il meglio di se stesso, forse anche perché
si è sentito personalmente coinvolto nella sorte di uno scrittore come Carlo Sgorlon, sempre mosso da «un’etica severa, di matrice cristiana, che rifugge dagli edonismi, dai lassismi e permissivismi eccessivi di oggi».
Carmelo Aliberti: La
narrativa di Carlo Sgorlon
di Vittoriano Esposito
Non c’è dubbio che Carlo Sgorlon sia uno dei più
grandi scrittori del secondo Novecento, e non solo italiano:
autore di una trentina di romanzi, pubblicati quasi tutti da
Mondadori, si può ritenere senz’altro uno scrittore ormai di
“chiara fama” e, nel complesso, abbastanza fortunato, seguito e apprezzato com’è da una larga fascia di lettori, anche se non è propriamente quello che si dice uno scrittore
“popolare” (ma ha venduto, in verità, oltre tre milioni di copie dei suoi libri). Vincitore dei premi letterari più prestigiosi (dal Super-Campiello 1973 al SuperFlaiano 1997, con
in mezzo lo Strega, il Napoli, l’Hemingway, il Fiuggi, il
Fregene e tanti altri, che sarebbe troppo lungo elencare), assunto come “exemplum” per ricerche in corsi universitari (a
Trieste, Zurigo, Aarheus, Pensylvania), fatto oggetto di
molte tesi di laurea in Italia e all’estero (Polonia, Egitto, Cina), recensito puntualmente su decine di giornali e periodici
all’uscita di ogni sua opera, è presente nei repertori e dizionari critici più diffusi, oltre che nelle storie e nelle antologie adottate nelle scuole di ogni ordine, inferiori e superiori.
Eppure c’è qualcosa che non “quadra” ancora, come si suol dire, nella storia della fortuna critica di Carlo
Sgorlon (Bastogi, Foggia 2003). E Carmelo Aliberti ci aiuta
a capirne le ragioni, tracciandone anche un profilo umano
col suo ultimo lavoro: nato e cresciuto in un paesino del
Friuli, Cassacco nei pressi di Udine, Sgorlon compie i primi
studi in modo irregolare, ma poi si laurea e si specializza in
Lettere alla Normale di Pisa, con buone prospettive per la
carriera universitaria; preferisce, invece, dedicarsi all’insegnamento nelle scuole medie, star lontano dai clamori delle
metropoli e dei gruppi organizzati, vivendo da gran solitario, senza mai rincorrere il carro dei vincitori in politica,
poiché professa idee liberal-democratiche al di fuori degli
schieramenti partitici.
Di qui l’impressione di un uomo e di uno scrittore
che vuol essere ad ogni costo controcorrente, fermamente
deciso a non farsi irreggimentare nella cultura che conta
politicamente, né di sinistra né di destra, posto che la
distinzione abbia ancora un senso. Di qui, anche, le mancate
simpatie da parte di certa critica dichiaratamente tendenziosa o velatamente ambigua, per determinazioni ideologiche.
Tutti temi e problemi, questi, di non poco conto, già ampiamente prospettati oppure qua e là sfiorati in interventi
occasionali (ad es., da Marchetti, Nogara, Scaramucei,
Caronia, Di Biase, Amoroso e molti altri), accennati in
sintesi repertoriali (ad es., da Bassan, Bertacchini, Piemontese, Pulce, Romano, ecc.), poi ripresi e approfonditi in
studi monografici di grosso impegno (Damiani, Nissim,
Maier, Toscani), ed ora posti al centro di una indagine capillare di Carmelo Aliberti, apparsa recentemente presso a
Bastogi Editrice Italiana, nella nuova serie della “Biblioteca
dell’Argileto”.
Carmelo Aliberti non è nuovo a questo genere di
studi, avendo al suo attivo alcune monografie critiche su
autori ed opere di vasta risonanza, tra cui ricordiamo Silone, Prisco, Tomizza, Cattafi. Scrittori, a ben riflettere, non
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e sostenitori
Buon Natale e
Felice Anno Nuovo!!!
7
In effetti, Carlo Poerio, che aveva fatto della costanza, della fermezza e della temperanza i principi cardinali della sua attività politica, aveva, come egli stesso soleva asserire, “consacrato la propria vita al pacifico trionfo
del reggimento costituzionale” e durante la sua attività politica, fino al suo ultimo processo e alla condanna all’ergastolo, aveva sempre sperato di ottenere, come scrive Croce, “il
reggimento libero per virtù dell’opinione pubblica, che
persuadesse i Borbone a concedere lo statuto e ad assumere veste ed animo di re costituzionalisti”.
Persino dopo i tragici avvenimenti del 15 maggio
1848, egli, dopo aver attribuito la colpa dell’accaduto un po’
agli autori delle barricate, un po’ al “Ministero”, continuava
a riporre fede in Ferdinando II, sperando, come scrive ancora Croce, che questi “avrebbe mantenuto la carta costituzionale ed avviato la pacifica attuazione della vita parlamentare”.
Carlo Poerio
martire della libertà
di Anna Poerio Riverso
In occasione del bicentenario della nascita dell’insigne patriota Carlo Poerio (Napoli, 13 ottobre 1803 –
Firenze, 28 aprile 1867), in questo periodo in cui il dibattito
sul revisionismo storico si fa sempre più acceso e in cui
l’esigenza di una rivalutazione della storia e della cultura
dell’Italia Meridionale diventa sempre più pressante, è sembrato doveroso e quasi inevitabile rivolgere l’attenzione all’azione civile e politica svolta dalla famiglia Poerio durante le lotte per il conseguimento dell’Unità d’Italia.
A tutti è noto che l’intera attività della famiglia
Poerio è improntata all’amor di patria, all’indipendenza e
alla libertà; eppure, nonostante i numerosi studi compiuti da
prestigiosi storici e critici letterari (S. Baldacchini, V. Imbriani, G. Secrétant, B. Croce, N. Coppola, M. Tondo), che
attestano appunto l’alto valore delle gesta della famiglia
Poerio, bisogna riconoscere che ancora oggi queste figure
di patrioti e di uomini di cultura, illustri rappresentanti sia
in Italia che in Europa del nostro Mezzogiorno, sono stranamente rimaste nell’ombra.
Se da un lato, difatti, resta finora da approfondire e
valorizzare l’intera opera letteraria di Alessandro Poerio,
che ha certamente dato un pregevole contributo al nostro
Romanticismo, dall’altro lato ci sono ancora molti elementi
da chiarire in merito all’attività politica svolta da Carlo
Poerio sia prima che dopo l’Unità d’Italia. Tuttora oscure,
ad esempio, sono le motivazioni che, dopo il raggiungimento dell’Unità d’Italia, spinsero Carlo Poerio, eletto al
primo Parlamento italiano, ad uscire quasi del tutto dalla
scena politica e a rifiutare, nel 1861, gli insistenti inviti di
Cavour ad accettare una nomina nel Ministero.
Ovviamente, per comprendere queste motivazioni
bisogna tentare di risalire ai principi su cui Carlo Poerio
aveva fondato le proprie lotte politiche e, a questo proposito, uno degli elementi chiarificatori potrebbe essere la
lettera scritta dallo stesso il 17 ottobre 1848. Questo documento si rivela emblematico per due fondamentali motivi:
prima di tutto, perché si tratta dell’ultima lettera inviata da
Carlo Poerio al fratello Alessandro, che si trovava allora a
Venezia e che, di lì a pochi giorni (il 3 novembre), avrebbe
perso la vita, dopo aver combattuto contro gli Austriaci a
Mestre (Battaglia di Mestre, 27 ottobre 1848); secondo,
perché in questo documento Carlo Poerio, essendo ancora
fiducioso nel Re Borbone, da un lato denuncia apertamente
l’ambizione del Principe Piemontese e dall’altro, mostra tutta la sua preoccupazione per il giusto esito della causa
Italiana: “Mi scrisse Gioberti invitandomi a Torino; egualmente, ho ricevuto lettere da Leopardi, Massari e Spaventa:
Ma io non accetto le basi stabilite dal Gioberti per mascherare l’ambizione di un Principe. Se il dovere non mi ritenesse in Napoli costantemente, non mi recherei in Torino,
ma altrove.(…) Il caro Montanelli mi ha mandato a salutare per mezzo di un amico. La sua condotta è degna di un
vero italiano; ma a me pare che il suo generoso progetto
non sia eseguibile. L’ambizione Piemontese guasta tutto”.
In quel preciso momento storico, difatti, al liberalismo napoletano l’unica condizione indispensabile sembrava la monarchia, e di monarchia non esisteva atra possibilità che quella borbonica; soltanto dopo parecchi anni e molteplici vicende il concetto di autonomia del Regno di Napoli si trasformò in quello della fusione nel Regno d’Italia.
Col precipitare degli eventi le speranze dei costituzionalisti andarono del tutto deluse e il 17 luglio 1849 Carlo
Poerio, accusato da un falso testimone di appartenere alla
setta dell’Unità Italiana, fu imprigionato nelle carceri giudiziarie della Vicaria e, da allora in poi, subì con fermezza
d’animo, senza chiedere mai alcuna grazia al Re, per dieci
anni la condanna nelle aspre carceri borboniche (Nisida,
Ischia, Montefusco, Montescarchio).
L’accusa contro di lui era falsa ed infondata, ma fu
mantenuta per comprendere nel processo il maggiore esponente del partito liberal-moderato napoletano. Difatti, la
notizia del suo processo suscitò scalpore in tutta Europa e
Carlo Poerio divenne il simbolo delle aspirazioni napoletane alla libertà; la sua vicenda umana fornì argomento alla
pubblicistica del Gladstone e ispirò dei versi a V. Hugo,
che volle rendergli omaggio ricordandolo come difensore
del popolo e del diritto: “Battyani, Sandor, Poërio, victimes! Pour le peuple et le droit en vain nous combattimes ! ».
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la Faccia di Dio» (Corano III 115). «Così dice il Signore
Iddio che ha creato i cieli.... che sostenta la Terra... che dà
alito alle genti... e lo spirito» (Isaia XVII 5 - Bibbia).
Anche essere la Vita-Una è insegnamento fondamentale comune alle religioni monoteiste, Vita che si manifesta in forme molteplici, ma ognuna figlia di Dio, ognuna
creata perfetta, poi divenuta imperfetta, causa, questa, di
disarmonia; Vite tutte in cammino verso la perfezione. Attraversare il quotidiano alla luce di questi insegnamenti
permette di raggiungere un piano di coscienza più elevato
di quello ordinario fino ad accantonare emozioni, sentimenti negativi, vivendo così una vita purificata in maggior o
minor misura da scorie di egoismo, rivalità, attaccamento al
transitorio che disvelerà in noi la presenza dell’anima: «I
puri di cuore vedranno Dio». (V - 8, Beatitudini). Questa
verità radiosa deve difendersi dalla non verità ed il processo
di redenzione va sviluppato nel proprio intimo, non all’esterno; il mondo ha solo il compito di preparare occasioni
propizie di mettere in atto ciò che l’intimo ha elaborato.
«Colui che non ha rinunziato alle abitudini malvagie.... Non
ha soggiogato la mente e nemmeno con la coscienza può
raggiungere Dio» (Katha Upanishat).
Le religioni che indirizzano a far realizzare l’anima sono unite, una volta rimosso da loro ciò che non è
essenziale, da un unico obiettivo ed è tramite esse che l’uomo può cercare e trovare unità, comprensione e collaborazione al fine di raggiungere lo scopo vero del vivere.
Compito umano nell’Universo è in definitiva quello di procedere nell’intendimento di innalzare il proprio
livello di coscienza verso uno stadio sempre più alto e può
raggiungere lo scopo solo vivendo nell’ascolto dei suggerimenti di quelle che sono le sue migliori tendenze; è vivere
in un mondo che è sogno sotto il punto di vista dell’Assoluto, ma realissimo per cui si trova sul piano della materia, reale quindi per il quotidiano che occorre attraversare
sempre con la mente rivolta alle stelle e gli occhi alla strada, altrimenti si inciampa rischiando di cadere nel fango. La
vita spesso viene paragonata ad un campo di battaglia, ma
la lotta non deve essere guidata dalla forza bruta, arma
dell’uomo ai limiti del regno animali, ma dall’anima.
Le religioni
di Giuliana Milone
La ricerca di Dio è connaturata all’uomo che avverte intimamente di essere molto di più di un semplice
essere fisico, ricerca in tutte le epoche stimolata e indirizzata da uomini nel cui animo Dio era più manifesto;
uomini ispirati che hanno portato in varie zone del mondo
un messaggio, una verità espressi in maniera identica nella
loro essenza, ma con parole adattate alla mentalità della zona e tendente a far sviluppare le qualità di cui la stessa era
carente; rimane però in quelle parole il quod semper, quod
ubique, quod omnibus. Essi non hanno mai cercato seguaci
o plausi dal mondo indifferenti come erano a queste cose;
hanno schiuso solo le porte della verità a chi fosse preparato
a conoscerla e desiderasse avanzare.
Quando l’uomo si pone dinanzi a Dio avverte un
misto di speranza e timore ed è per questo che cerca di
rappresentarlo come se stesso; ma fino a quando Dio è oggetto della logica umana è un Dio limitato, un Dio che crea
per poi distruggere; di Lui non può essere a lungo mantenuto il concetto antropomorfico perché l’Infinito presente
nell’uomo cerca la controparte in un altro Infinito, esterno,
nel quale fondere il proprio; è il desiderio di superare i
propri limiti fisici per conoscere l’essenza personale a dare
impulso alle religioni che non sono altro che un andare verso Dio, visto dalle diverse angolature con cui l’uomo Lo
guarda; esse sono come raggi che convergono verso un Sole. Scoperto il fattore di incontro dei vari credi, si farà strada spontaneo il sentimento della universalità religiosa la cui
credenziale si trova nei nostri cuori. Tutte le religioni hanno
come fattore comune la spinta a superare debolezze ed
istinti umani, cosa che permette una più ampia visione delle
cose, hanno Testi Sacri da leggere con mente sgombra da
pregiudizi le cui parole proclamano l’esistenza di Esseri
Spirituali e la necessità della fratellanza da non risolvere
unicamente in un concetto. Sono giunti dunque grandi Spiriti ad incoraggiare il cammino interiore dell’umanità ed
ognuno di loro ha vissuto una vita nobile e ha proclamato la
medesima legge morale. Sulle loro parole ispirate è fiorito il
monoteismo.
Nei tempi antichi, caratterizzati da mezzi di comunicazioni carenti, le religioni erano locali; l’Antico Egitto
aveva la sua, al pari degli Ebrei, degli abitanti della penisola
indiana, dei Cristiani, dei Buddisti, degli Islamici, ma tutte
parlavano e parlano di un Dio Uno presente ovunque e di
Vita Una e mettono il punto sul regno di Dio ovunque,
anche dentro di noi, che permette, una volta acquisitane la
coscienza, di vivere la vita nelle sue varie manifestazioni
con forza e determinazione. «Non vi è altro Dio che Dio»
(Corano III 2).
«Il Signore prima del quale e oltre il quale non vi è
nessun altro... » (Zoroastro); «Uno solo senza secondo»
(Upanishat VI Induismo); «Ascolta Israele, il Signore Dio
Nostro è l’unico Signore» (Deuteronomio VI 4 - Ebraismo);
«Iddio è uno» (Galati III - 20- Cristianesimo). «Il suo
Regno signoreggia per tutto» (Salmo 103-19 - Bibbia). «Lo
Spirito perfetto da cui tutto è compenetrato (Shvetashvatera
Upanishat III - 3). «A Dio appartiene l’Oriente e l’Occidente; perciò da qualsiasi lato tu ti rivolga per pregare, ivi è
O Signore
di Gaetano Alessi
Avverrà, o Signore,
raggiunto la pace
che l’uomo adulto
e consolidato la giustizia.
guarderà con gli occhi
Altrimenti...!
di un fanciullo?
Che ne sarà di noi?
Che l’egoista
cederà il passo
all’altruista?
Sapranno gli spreconi avvedersi
e lasciare il necessario ai bisognosi?
Vorranno gli uomini, pur se
di razze e religioni diverse,
veramente tra loro affratellarsi?
Quando tutto questo accadrà
- ed io lo spero fermamente avremo sulla terra:
rafforzato la solidarietà
sconfitto la fame
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Sicilia-ME), Associazione Culturale CAVAAN presidente
Mario Roma (Giardini Naxos), Associazione SiciliAntica
presidente Giuseppe Lo Porto (Catania), Azienda agrituristica Gole dell’Alcantara di famiglia Vaccaro, Comune
di Castiglione di Sicilia: sindaco Salvatore Barbagallo.
Il presidente dell’Accademia, Angelo Manitta, ha
innanzitutto ringraziato i presenti ed ha brevemente illustrato il cammino dell’Accademia e della sua rivista e i successi ottenuti nell’arco di pochi anni: da un semplice foglio
si è passati ad una prestigiosa rivista nel suo genere, evidenziando come dell’Accademia hanno parlato in poco meno di
tre anni, centinaia di riviste del Brasile, Uruguay, Stati Uniti, Australia, Spagna, Francia, Slovenia, Romania, Argentina, oltre che dell’Italia. Ora uno degli obiettivi principali è
la creazione e la promulgazione di un manifesto letterario
che possa coinvolgere quanti più amanti dell’arte possibile:
per una letteratura nuova e rinnovata.
Nell’occasione della premiazione sono stati presentati e donati ai partecipanti alcuni volumi pubblicati dall’Accademia. In particolare quelli di Mario Angel Marrodàn, Sono il sonetto, di Otilia Jimeno Mateo, Genesi di
un’alba e tramonto di un tempo, di Elisa Orzes Grillone,
Rivoli d’argento. Sono stati donati pure alcuni volumi di
Antonia Izzi Rufo, La memoria delle origini di Giovanni
Tavcar, La mia odissea di Silvio Craviotto, Gente delle mie
parti di Arnaldo Caimi, ed altri.
A questo punto si è entrasti nel vivo della manifestazione. Sono stati dapprima premiati i ragazzi delle scuole
medie e superiori. Erano presenti, tra i segnalati per la poesia Scuola media Alessandra Raffa (Giarre – CT), Andrea
Gulisano (Giarre – CT), Manuela Sterrantino (Nizza di S. –
ME). Il primo premio invece è andato a Silvia Pennizzotto
(Nizza di Sicilia – ME), con la poesia Guerra:
Ho tanta paura delle foglie che cadono
del buio che bussa alla città,
delle lacrime,
paura del gelo alle finestre,
dei prati che muoiono,
dell’amore che scompare,
paura del futuro che mi attende,
ho tanta paura che la primavera
si dimentichi di venire.
Per il racconto della scuola media il primo premio
è andato a Daniela Grasso (Giarre - CT) (679) con La Serra
Misteriosa e la motivazione: «Questa nostra terra, Eden o
Serra, è dove gli uomini non riescono a vedere oltre il vapor
acqueo... eppure quando riescono a penetrare nel mistero,
l’acqua, simbolo della grazia divina, è ovunque: le farfalle, i
fiori. Rispettare la natura è rispettare Dio». Un riconoscimento speciale è andato ai ragazzi della scuola media Macherione di Giarre per l’illustrazione a Dei, eroi ed isole
perdute di Angelo Manitta. Erano presenti a ricevere il riconoscimento, oltre a molti ragazzi, il preside prof. Torrisi e
la prof.ssa Mannino.
Per le scuole superiori era presente Chiara Cerri
(Lucca), premiata con il racconto L’equilibrista e la seguente motivazione: «Analisi della realtà esteriore ed interiore,
nel racconto di Chiara Cerri, unite da un filo invisibile, ma
necessario, che impedisce di abbassare lo sguardo per paura
di perdere l’equilibrio e di cadere. Questa paura spinge
sempre a guardare verso l’alto.
Il Convivio 2003
Cerimonia di Premiazione
di Enza Conti
Si è svolta a Giardini Naxos la premiazione della
terza edizione del premio Il Convivio 2003. La cerimonia,
tenuta nella sala conferenze dell’Hotel Assinos, ha visto
presenti poeti, pittori e scrittori di tutto il mondo. La manifestazione quest’anno si è distinta per la quasi totale presenza dei premiati. Malgrado la manifestazione non riceva
contributi da enti pubblici, erano presenti diverse autorità,
tra cui per il Parco dell’Etna il dott. Franco Drago, il sindaco di Moio Alcantara (ME) Salvatore Currenti, l’assessore allo sport e allo spettacolo di Giardini Naxos prof. Carmelo Lombardo e l’Assessore del Comune di Castiglione di
Sic. dott.ssa Vincenza Bonaventura. La manifestazione è
stata coordinata e condotta dalla dott.ssa Cettina Portaro e
da Angelo Manitta, mentre le poesie e le motivazioni sono
state brillantemente lette da Angela Aragona e Salvatore
Cormagi.
La giuria, presieduta dalla scrittrice e poetessa messinese Maria Pina Natale, ha visto tra i suoi qualificati membri, nelle sezioni in lingua italiana, che in quelle straniere:
Francisco Àlvarez Velasco (Spagna), PinaArdita, Enza Conti, Maristella Dilettoso, Angelo Manitta, Giuseppe Manitta,
Juan Montero Lobo (Spagna), Placido Petino, A. Maria Sartori Crisafulli, Andityas Soares de Moura (Brasile), Rosa
Spera, Lia Sfilio Borina, Bruna Tamburrini, Nunzio Trazzera. Fulvio Castellani, Maria Enza Giannetto, Flavia Vizzari,
Graziella Paolini Parlagreco, Jean Sarraméa (Francia).
Hanno collaborato alla realizzazione della manifestazione: Parco dell’Etna, presidente Ing. Concetto Bellia,
Società Patria a r. l. Torrepalino – Solicchiata di Castiglione di Sic., Assoetna, associazione per la valorizzazione dei
prodotti Etnei, pres. Dott. Di Miceli, Comune di Mojo Alcantara, La dispensa dell’Etna, enoteca con cucina, prodotti tipici dell’Etna e dell’Alcantara (Castiglione di Sic.),
Rivista Peloro 2000 diretta da Domenico Femminò (Messina), Taverna Naxos di Angelo Savoca presidente del Fotoclub Naxos (Giardini Naxos-ME), F.R.A.T. Fabbrica Radiatori per autoveicoli di Franco Treffiletti (Solicchiata-CT)
Neoplast Lavorazione materie plastiche di La Spina e
Santamaria, di Contrada Imboscamento (Solicchiata-CT),
Emporio carni di Sebastiano Rigaglia (Solicchiata-CT),
Ceramiche artistiche Francesco Consalvo (Francavilla di
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violata, legata spesso al fenomeno dilagante del turismo
sessuale… Attraverso una prosa scorrevole ed impeccabile
ha toccato le corde più nascoste, comunicando quel senso
d’impotenza con cui viene descritta la “fine dell’innocenza”, il passaggio dai sogni indefiniti dell’infanzia ad una
turpe realtà, coinvolgendo il lettore e lasciandolo profondamente riflettere».
Nella sezione Racconto italiano ha ritirato la
menzione d’onore: Maria Luisa Leotta (Acireale-CT) e la
segnalazione di merito: Maria Lucia Collerone (Caltanissetta). Il terzo premio invece è andato a Franco Querini
(Roma) con il racconto L’uomo che fabbricava pesci e la
seguente motivazione: «Con un linguaggio piano, lineare,
che non disdegna di ricorrere talvolta ad una certa vena
ironica, è stato costruito un racconto che accorcia molte
distanze, che sfata molti pregiudizi: è l’odissea di Kemal,
uno dei tanti extracomunitari che, accarezzando il miraggio
del benessere e della sicurezza economica, intraprende con
mezzi di fortuna uno di quei “viaggi della speranza” di cui
sono fitte le cronache di questi ultimi anni».
Renata Rusca Zargar e il dott. Franco Drago
Per la lingua francese invece era presente: Pascale
Belangier (Fos-sur-Mer – Francia) premiata per il Racconto
Dame Epée, con la motivazione: «Il racconto offre, attraverso uno stile chiaro e nitido, una rivisitazione fiabesca
della vita, nelle vicende collettive e individuali. Dal punto
di vista narrativo segue una traccia ben chiara. La riflessione spinge ad una rivisitazione del passato. L’autrice, comunque, non cede a false ricostruzioni, ma dà al lettore
l’impressione di una vicenda profondamente sentita, in cui
il mostro (il Male) e una margheritina assumono il valore
simbolico della perfezione spirituale. Ma come in tutte le
più belle fiabe, tutti vissero felici e contenti. L’uno
nell’altro in pace».
Per il libro edito in lingua italiana il Premio
Speciale per la poesia è andato a Sara Bensi (Firenze) per il
volume “Ama Guardare il sole”, a ritirare il riconoscimento
sono stati i genitori. La ragazza, purtroppo, è scomparsa
qualche anno fa all’età di 23 anni. La motivazione: «Dalle
poesie di Sara Bensi scaturisce un grande desiderio di vita
che porta alla gioia e alla felicità. Dalle sue parole sprizzano sentimenti d’amore, amore vero, simboleggiato dal
sole, luce divina che illumina tutto e che ha la capacità di
risplendere anche sui segreti dell’anima». Si propone la sua
poesia Stelo:
Un amore grande era sbocciato,
come fiore unico
in un immenso prato.
Due piccole creature
lo avevano trovato, coltivato, amato.
Pascale Belangier (Francia) e l’ass. Carmelo Lombardo
Il secondo premio è andato a Guido Lo Giudice
(Roma) con il racconto Un parcheggio in paradiso e la motivazione: «Racconto di notevole originalità e modernità,
pervaso da una vena umoristica, con una scrittura agile, brillante, che spesso ricorre a metafore e paragoni spigliati e divertenti. L’autore con brio ed inventiva, e avvalendosi di uno
stile disinvolto, crea, su una trama in fondo esile, tutta una
serie di situazioni paradossali, ai limiti del surreale, senza
mai perdere di vista quel senso dell’humour con cui il protagonista vive, ed interpreta, quelle situazioni di assurda ma
ordinaria quotidianità, di chi deve misurarsi ad ogni momento della giornata con la confusione, l’equivoco, il traffico».
Il primo premio è andato a Renata Rusca Zargar
(Savona) con Rama. Motivazione: «In una forma lineare,
che non indulge a retorica alcuna, né si compiace di toni
patetici, ma proprio in virtù di questo, riesce a farsi via via
più coinvolgente, l’autrice ha tracciato, avvalendosi di uno
stile essenziale al pari di una cronaca, la vicenda breve e
drammatica di un bambino indiano, saggio e indifeso al
tempo stesso. Il piccolo Rama subisce sino in fondo le
conseguenze fisiche e psicologiche di una tra le piaghe più
infami ed infamanti del nostro tempo, quella dell’infanzia
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Forte era cresciuto
ma il vento, gagliardo,
spirava.
Le nostre anime legate solo
a un debole stelo, i nostri ricordi,
debole sì, ma capace di resistere.
Tutto è cessato.
Di nuovo il sole splende alto.
Le due creature adesso
contemplano il loro tesoro,
sicure che niente più lo farà crollare,
lungo l’eternità.
la polpa d’ogni pensiero.
Appena allentato lo sguardo
in cerca di brace e d'abisso
Amore da notti si leva
seguendo la presa e l'odore.
Da qualche viaggio antico
al passo dì giaguaro
ed occhi gialli cigliati
di mondi ti ha reso saggia.
Con fiuto felpato
e fiato di quiete
t'offre rifugio al centro
del palmo di conoscenza.
Il Primo premio è andato a Giorgina Busca Gernetti (Gallarate – VA) con il volume Ombra della sera (Ed.
Genesi, 2002), con la motivazione: «Giorgina Busca Gernetti con “Ombra della sera” dà ulteriore prova della sua
spiccata capacità di calarsi nel vivo della nuova poesia e di
estrapolare dal proprio io un ricco compendio di intonazioni
e di essenziali incursioni nel tempo, nei perché dell’umanità, nei valori reali dello stare assieme, dell’amare, del
sentirsi in pace con se stessi. È “un canto di libertà”, il suo,
come ha scritto Sandro Gros-Pietro sul risvolto della copertina. Un canto che si sostanzia con contenuti alti, con profili
affettivi mai privi di accensioni e di simbologie. Ogni
poesia, comunque, è un piccolo-grande mosaico di rintocchi
e di parole che racchiudono visioni, elementi per meditare,
brividi epocali».
Giorgina Busca Gernetti
Il terzo Premio per il libro edito, sez. Poesia, è andato a Monique Trenta (Bellinzona – Svizzera) con Mal di
Maldive (Centro Studi Universum, 2003). Motivazione: «La
poesia di Monique Trenta è una poesia moderna, asciutta e
fluida al tempo stesso. È una poesia dalle forti e calde immagini, dalle emozioni altalenanti, dalla bellezza interiore
palpabilissima. Leggendo le varie poesie che danno corpo
alla silloge, dall’andamento unitario e voluttuoso, si ha netta
l’impressione di trovarci di fronte ad una poetessa dalla carta
d’identità ben precisa, maturata a tu per tu con la realtà e ben
inserita nel contesto evolutivo della società, sia essa
culturale, sia legata al tourbillon esasperante di compromessi
e di perdite di identità. Tutto si muove con armonia sulla
tavolozza scenica delle “sue” Maldive. Tutto si materializza
con un metro scritturale decisamente personale».
Il secondo posto è andato a Daniela Pericone (Reggio Calabria) con Passo di Giaguaro. Dal volume si trae la
poesia dal titolo appunto Passo di giaguaro:
Alla foce dei desideri
è il fuoco e la tenerezza
della sua mano che racchiude
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Maggy De Coster (Francia)
Per il libro di Poesia dialettale una menzione d’onore è stata assegnata a Franco Gitto (Vulcano – ME) con il
volume A gomitate con la vita. Con la seguente motivazione: «Il libro fluisce fresco e grazioso nel modo particolarmente originale di porgere di Franco Gitto. La poesia in
lingua si fonde con quella in dialetto. Il modo forte ed inci-
sivo d’esprimersi rende l’autore un fruttuoso ed interessante
pensatore, ma soprattutto un abile inventore di un dialogo
epistolare, pieno di umanità e di simpatia, oltre che di brio e
di ironia».
Per la lingua francese il primo premio è andato a
Maggy De Coster (Montmagny – Francia) con il volume
Memoires inacheves. Motivazione: «La gaia apparenza
della natura sotto la dolcezza dell’aria francese, di un mare
che circonda un’isola, di una vita che scorre come l’acqua
del fiume, di una natura viva che rende l’uomo protagonista
nel bene e nel male, Memoires inachéves d’une Ile moribonde, sa fondere l’illusione con la realtà, suscitando dolore
ed angoscia attraverso elevati virtuosismi poetici».
possibilità, in cui l’autrice, attraverso la storia del protagonista, sembra voler infondere quest’estrema fiducia nelle
possibilità dell’individuo… L’intero romanzo ruota intorno
al personaggio di Giovanni un viandante solitario nella sua
collina, nelle vie di Milano, nonché nelle vie della vita.
Simbolo di una cultura del viandante, dell’abbandono alla
ricerca di miglior vita e alla scoperta di ciò che la vita veramente gli riserva, egli abbandona la realtà soffocante che
lo circonda fin dalla nascita e intraprende un vero e proprio
percorso iniziatico che lo risolleva facendogli riconquistare
la fiducia in se stesso e la dignità. La crescita interiore prevede lunghe sofferenze, come la discesa all’inferno prima
di trovare il paradiso».
Il secondo premio è andato a Giovanni Di Girolamo (Bellante – TE) con A volo di farfalla (La Versiliana
Editrice, 2002), con la motivazione: «Un romanzo, lontano
da qualsiasi eccesso, in cui viene realizzata l’idea classica
della “perfezione”. E nessun eccesso mostra la narrazione
che è sempre scorrevole, senza intoppi. Dialoghi, descrizioni, monologhi, che assolvono perfettamente la loro funzione
narrativa e che risultano veri capolavori di “artificio letterario”. Ricercatezza lessicale, periodare agile e sicuro, costruzioni metodiche che rivelano il grande lavoro di cesellatura che ne sta alla base e che portano ad una narrazione
scorrevole e spedita. Si tratta di un romanzo di verità, che ha
come contenuti primari eventi e situazioni reali ma che riesce a scandagliare gli angoli più remoti e intimi dell’animo
umano e tematiche esistenziali più ampie. Ed è come se alla
fine della narrazione il lettore avesse vissuto tutte le emozioni dei protagonisti e ne conoscesse intimamente l’animo».
Antonio Portaro e Domenico Femminò
Il riconoscimento speciale “Il Convivio” è stato
assegnato invece al novantaseienne Antonio Mantineo (S.
Domenica Vittoria – ME) con Una voce nel tempo. Il premio Speciale per il libro edito in lingua dialettale, sponsorizzato dalla Rivista “Peloro 2000”, direttore Domenico
Femminò a: Antonio Portaro (Roma) con il volume Mennuli ‘nciuri. Motivazione: «Antonino Portaro si rivela poeta
abile e sensibile, riuscendo a far tesoro del dono linguistico
natio nella rappresentazione di vivide immagini e nella realizzazione di espressioni colorite. Si tratta di un tuffo nel
passato, nei ricordi che vengono quasi messi in scena, dando vita al fortissimo slancio affettivo e al profondo amore
per la propria terra, per i propri concittadini e per tutto
quello che la terra natale gli ha regalato. Il tutto però senza
nessuna smielata nostalgia e anzi rivestito di buonumore e
di spunti umoristici. Versi amabilmente costruiti che tessono storie, raccontano vite, tradizioni e affetti».
Per la sezione romanzo edito, il terzo premio è andato invece a Margherita Biondo (Agrigento) con La collina (Centro Studi Giulio Pastore, Agrigento 2000). Motivazione: «Un libro di speranza e di fede nell’uomo e nelle sue
Zoraide Martins (Brasile) e Maria Pina Natale
Degli autori stranieri a ricevere l’ambito trofeo
del Convivio per la lingua portoghese, nella sezione libro
edito, è stata Zoraide Martins (Piedade-SP - Brasile) autrice
del romanzo in tre volumi Nao mais que un capitãogeneral, con la motivazione: «Per l’ampia struttura narrativa, per la ricostruzione sostanzialmente fedele di un’epoca
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di importanza fondamentale per la città di San Paolo e per il
Brasile intero, per la visione dei personaggi visti nella loro
valenza umana e sociale, Zoraide Martins nella trilogia «Nao
mais que un capitão-general» presenta un ampio affresco di
umanità attraverso uno stile avvincente e lineare, umanità
che scaturisce soprattutto dal suo personaggio fondamentale: Morgado De Mateus».
scritti e che si amalgamano perfettamente con la popolazione. L’Autore tratta l’argomento dando ai personaggi e a
tutto il popolo del continente nero una dignità di vita e nello
stesso tempo vuole mettere in evidenza la differenza, che
purtroppo sussiste, tra i paesi ricchi e quelli poveri, tra coloro “che vivono dentro il proprio castello” e la parte povera “che preme contro le mura del castello”».
Claudio Zaninotto e l’ass. Vincenza Bonaventura
Marisa Calisti e Graziella Paolini Parlagreco
Per il saggio una menzione speciale per la storia
locale è andata a Giovanni Mantineo, mentre segnalazione
di merito è andata a Beatrice Torrente (Salina Grande – TP)
con La mattanza. I secondo premio è andato a Anna Poerio
Riverso (Teverola – CE), col il saggio Alessandro Poerio.
Motivazione: «Tutto il lavoro denota molta precisione e
ottima capacità di analisi critica. Dalla lettura del saggio si
ha una conoscenza completa di Alessandro Poerio e questo
studio, così bene articolato, ci permette di approfondire le
nostre conoscenze ed anche di effettuare dei collegamenti
storico-letterari. È dunque un saggio di notevole pregio culturale ed anche l’espressione linguistica chiara, precisa e
ben articolata lo rende apprezzabile ad un vasto pubblico».
Il primo premio è stato assegnato al sociologo
Claudio Zaninotto (Garlasco – PV) con il saggio Sabbia per
acqua. Motivazione: «Il saggio di Claudio Zaninotto è particolarmente significativo, interessante soprattutto è una
chiara espressione di esperienze umane vissute dallo stesso
Autore nei suoi viaggi nel continente africano. Egli, attraverso dei racconti, mette in evidenza la precaria condizione
infantile nel Continente nero e nello stesso tempo sottolinea
le abitudini, la semplicità e la personalità degli abitanti dei
luoghi da lui visitati, nonché i paesaggi sapientemente de-
Per la pittura erano presenti a ricevere la segnalazione di merito: Giuseppe Abate (S. Agata Li battiati – CT),
Nunzio Ardiri (Catanzaro, Mangiameli Paola (Palermo). Il
primo premio è stato assegnato a Marisa Calisti (Rapagnano – AP) con Come il cielo. Motivazione: «L’opera di
Marisa Calisti, con intenso lirismo e suggestione, evoca
immagini della realtà naturale in un continuo fluire di
cromatismi delicati, in una sintonia armonica tra conoscenza spirituale e realtà oggettiva. La tessitura risalta per la
sua compostezza e dinamicità timbrica, immergendosi in
memorie, impressioni e sensazioni che si congiungono per
cogliere le essenze simboliche del mistero vitale».
Per la poesia inedita dialettale premio speciale in
onore di “Antonio Castorina”, sponsorizzato dal
C.A.V.A.A.N, associazione per lo sviluppo e la promozione
turistica, presieduta da Mario Roma, è stato assegnato a
Franco La Pica (Taormina - ME) con la poesia Malidittu
bisognu. Motivazione: «Con versi di notevole scioltezza e
musicalità, che sfiorano le corde della nostalgia, dell’amore
verso la propria terra, che si materializza anche nelle piccole cose, in flash di ricordi, l’autore tocca il tema dell’emigrazione. E lo fa con leggerezza e sapienza di toni, in questa composizione pervasa da una lieve ironia, come solo la
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composizione dialettale è spesso capace di fare. Il verso
fluisce accattivante, in virtù di rime ed assonanze, e in un
certo rispetto dei canoni metrici, ma i toni della nostalgia
non degenerano mai nella retorica, realizzando un insieme
di facile e piacevole lettura». Segnalazione di merito a: Margherita Neri (Cefalù - PA) e Paola Cozzubbo (Giarre - CT).
Il quinto premio è andato invece a Rita Alessandro
(Catania) con Voci. Motivazione: «Notturno in terre profumate dal gelsomino d’Arabia, un notturno quindi popolato
di stelle, di folate di vento e di voci lontane. Un notturno
che dà sensazioni e turbamenti di ‘stagioni antiche’ e che,
pertanto, può destabilizzare la quiete della notte con l’assurda frenesia del cuore, col ricordo di una ‘insensata voglia
di promesse’. In questo stridente contrasto tre l’ieri e l’oggi,
fra il vicino e il lontano, si sostanzia il valore di questa
poesia, giocata abilmente anche sui registri di un linguaggio
poetico, efficiente quanto basta».
Monique Trenta, poetessa svizzera
Per Poesia Italiana Premio Speciale per la tematica sull’amore ad Annalisa Grazia Guerrera (Catania) con
Volevo risponderti. Riconoscimento speciale ‘Il Convivio’
a Luigi Siliquini, mentre menzione d’onore è stata consegnata a Rosaria Carbone (Riesi – CL), Mario Giorgio Talio
(Caltanissetta), Angela Aragona (Paternò – CT), Chiara
Filippone (Palermo), Pietro Filocamo (Messina), Manuel
Cristadoro (Giarre-CT), Anna Famà (Messina). Segnalazione di merito a Salvatore Cormagi (Paternò – CT) (20) con
Volerò Libero, e Elisa Moschella (Messina) con Inconsistenza.
Umberto Vicaretti e Maria Pina Natale
Presente era pure il primo Premiato: Umberto Vicaretti (Luco dei Marsi - AQ) con la poesia Uccello migratore. Motivazione: «È la non mai dimenticata “lamentation”
dell’Eden perduto, origine di tutte le negatività della vita umana. Ma qui il rimpianto è affidato a tanta vastità di poesia, sempre sapientemente e soavemente comunicate al lettore, che è la poesia medesima ad offrirsi come eden ritrovato, attraverso la distillazione di ‘silenzi e attese’, attraverso il ritorno di memorie, attraverso le fragili reti dei sogni.
Ma contro così ardente attesa da parte del cuore, ecco l’inesorabile realtà del tempo, che travolge e distrugge ‘le città
del mondo’ e le dolci illusioni dell’uomo, il quale, in qualità
di ‘uccello migratore perso al vento, null’altro può fare se
non arrendersi supinamente a così sgradevole tirannia».
I risultati del premio Publio Virgilio Marone saranno pubblicati sul prossimo numero
Pittori che hanno esposto durante la Premiazione
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e quello di solitudine, anzi si sbilancia a contemplare le perdite come se anche la natura non fosse più la stessa e ne cogliesse il gemito.
Guarracino, all’interno di questo percorso poetico,
criticamente scopre «tre livelli espressivi, tre diverse disposizioni morali e concettuali: la riflessione sulla parola poetica (e qui - penso - intervenga la criticità dello stesso autore,
ben liofilizzata); l’accettazione della propria creaturalità (e
vi aggiungo: comune al vivente ma disperata nella consapevolezza di sé) in una concezione per così dire organicistica
del fare (farsi) poesia, e infine la contemplazione della natura come obbedienza stupita ai ritmi dei suoi sensibili fantasmi».
Da vero critico, da autentico lettore prima, Vincenzo Guarracino sa introdurci al libro nel modo più consono,
nella suggestione «del ricordo di Saffo, di Alcmane e Leopardi.» E per me che conosco la poesia di Gianni Rescigno,
questa critica empatica ed insieme loica è una consolazione.
Tuttavia in quest’ultima opera Gianni Rescigno va oltre la
lezione pascoliana e leopardiana per una drammaticità che
riesce ad essere perfino luminosa di colori e ricca di melodie in una disperazione rasserenata dalla fede più scomoda
però perché vincolata alle ‘prove’ del dolore.
In “Le foglie saranno parole” il messaggio è fortemente allusivo, esce dal particolare per universalmente conoscersi in tutti fino all’ultimo uomo che, se per caso, nella
landa desolata di distruzioni ed aridità, dovesse trovare solo
questo libro, chiudendo gli occhi ricorderebbe il colore delle foglie ed il loro rigoglio. E tutto ciò perché il pregio della
poesia di Rescigno sta nella comunicabilità che porta in
salvo un granello della terra che ama, perché dia un seme di
verità e bellezza. Rescigno è poeta quanto basta per parlare
al cuore di tutti e non mi sembra cosa di poco conto, io direi
che possiede una felicità espressiva, una grazia dialettale
che, penetrando nella lingua italiana, ha concesso a quello
che pare un linguaggio comune, una carica di spontaneità di
vivezza sia nel dolore che nella gioia.
Credo sia inutile ormai parlare di grande poesia e
di poesia minore, classiche per critici abituati a creare
barriere, diremmo invece di poesia, quella che è consegnata
a tutti e che troppi affossano o disperdono, senza che entri
nel regno delle parole o della vita.
Gianni Rescigno:
poeta sincero nelle sillogi Le
foglie saranno parole e Dove il
sole brucia le vigne
di Maria Grazia Lenisa
Le foglie saranno parole
Il titolo del nuovo libro di Gianni Rescigno “Le
foglie saranno parole”, edito da Manni nel 2003, parrebbe
proporsi come metafora di un silenzio, proiettato nel futuro
e, forse, riguardante un futuro in cui il Creato non avrà chi
lo guardi consapevolmente. Allora le foglie al frusciare del
vento saranno, insieme agli altri suoni della natura, forme
diverse di linguaggio naturale e inconsapevole. Rescigno
pare delegato a catalogare la bellezza di quanto vede,
avvertendo dentro di sé uno strappo, quasi fosse incaricato
di una catalogazione del cielo, del mare, della terra, per ricordare magari all’unico superstite la bellezza della terra.
Il suo è un libro tragico, nonostante i colori tocca
infatti catturare la parola che connota la natura di ogni forma con le sue meraviglie anche se offese ed avvilite e viste,
a volte, come superstiti di un passato quando erano più rigogliose e la lettura terrestre rispondeva alla musica del sangue giovane dei poeti. Ma anche la parola è fuggente, perché fra il dormire e il non dormire c’è la morte, il silenzio.
Rescigno, a convalida di questa mia intuizione, teme che le parole diventino «parole fredde: / pietre sull’anima»; ne nasce la sua reazione che vuole affermare la vita
creaturale e quella del linguaggio poetico. Così scrive
parole “di sole”, ma è un ricordare l’ombra del fuoco con
un’intonazione elegiaca di rimpianto che lo distacca dalle
memorie pascoliane in un ‘De rerum natura’ che contempla
lo spegnersi di ogni forma vivente e le continue trasformazioni. Accorato il poeta annota: «Rincorro le foglie...», in
un’operazione di recupero e di trapianto quasi volesse riattaccarle ai rami, pur essendo sicuro del rigetto o della dispersione del vento.
Il libro è pervaso tutto dal senso della caducità e le
miserie di questo nostro tempo degli oggetti si insinuano anche nelle anime come un veleno, da qui l’ansia di catalogare, di rivisitare il mondo. «E il tempo pare enorme / oppure ha lo spazio / d’un fazzoletto bagnato / asciugato in
fretta da un canto di passero». Il fazzoletto bagnato connota
il pianto, il dolore che la poesia (canto di passero) tenta di
asciugare e che tuttavia non è consolazione se non si rapporta al progetto divino di una crescita della propria anima,
in quanto il messaggio poetico è anch’esso secondo i parametri umani caduco.
Colpisce davvero la prefazione di Vincenzo Guarracino, lettore in assoluta sintonia col suo poeta: anch’egli
inizia col cogliere il carattere catalogale della poesia di
Rescigno in una sorta di enumerazione: «C’è la campagna e
c’ è il mare, ci sono venti e cieli, suoni e odori di terra, attese e stupori...». È importante questo inizio che dimostra di
aver compreso il senso profondo di “Le foglie saranno
parole” che però non si ferma alla traduzione della natura
nel linguaggio ma lo oltrepassa. La poesia qui ha le connotazioni di sempre, è vero, ma oscilla tra lo stupore d’incanto
Dove il sole brucia le vigne
Il vero problema, oggi, è dare un futuro alla poesia,
esprimendo il proprio tempo nell’abbraccio di passato, presente e futuro. Ma la poesia non è solo un fatto linguistico
che si sorregge alla musicalità o alla dodecafonia nettamente sperimentale, ci vuole l’energia dell’entusiasmo o del dolore per dare profondità e senso alla parola.
Il grande Bárberi Squarotti subito pone l’accento
sulle tematiche di Gianni Rescigno in quello che forse è il
suo libro più bello, “Dove il sole brucia le vigne” (Genesi,
2003) e crediamo di riscontrare tra il critico e l’autore una
consentaneità che per l’uno riguarda la vita ed il suo amore
alla campagna, alle colline, alla natura, ma non la poesia dove complice alquanto le tessere naturali, per l’altro è una
forma di mimesi. Subito Barberi Squarotti ne scampa l’insidia con le proposizioni critiche: «Rescigno tende a piegare
a poco a poco la descrizione e il racconto in alto compianto,
perché tante forme del mondo sono andate perdute, tanti
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paesaggi, tanti minimi, ma fondamentali momenti e aspetti
della scoperta della verità dei sensi e del cuore (così contraddittorie - aggiungo - e quindi caleidoscopio di verità
provvisorie) nel suo luogo salernitano che è, poi, quello di
tutti coloro che hanno conosciuto le vicende della vita della
campagna».
Ne consegue l’universalità del tema ed una poesia
che, avvalendosi della lezione pascoliana (che pure è antesignana dell’ ermetismo), egli mi appare anche una specie
rara di realista lirico, dico rara in quanto il rimpianto della
natura diviene elegiaca. Qui, forse, sta l’originalità: far sì
che il passato, in tempi tanto veloci e dissacranti, non sia
dimenticato. Ecco allora che Rescigno dà, per riprendere
l’inizio della nota, un futuro alla nostalgia agreste, risolto
spontaneamente ogni conflitto linguistico in una musicalità
sostanziata più che onomatopeica. Ben si comprende come
il fine orecchio musicale di Marina Caracciolo ne sia stato
attratto, in quanto l’armonia alla quale il poeta tende, nella
tristezza, nella gioia, «parte da nuclei vitali per impregnarli
della sostanza umana», - come afferma Francesco D’ Episcopo. Il critico evidenzia il dialogo con il Sud come ricerca
dei propri «archetipi più ardenti, nel trascolorare delle
stagioni, nell’avidità di atmosfere possedute soprattutto
dentro la fermezza della notte scandita dal bianco totem
lunare».
Vi è nel testo un grande amore per la vita che genera appunto la crudeltà del distacco non solo da una natura, un tempo rispettata e vista con altri occhi, ma dal se
stesso della giovinezza che il sole è chiamato a simboleggiare, nel mentre che in sé contiene anche la morte da cui
nuovamente si origina la vita. Le vigne bruciano, i chicchi
sono rinsecchiti, si muore e le viti restano spoglie, le stagioni finiscono nella precarietà di ogni ‘genere’, di ogni
“regno” del vivente. È «il grande cerchio che ci conta gli
anni / e ce li brucia...» - cita la Caracciolo che aggiunge la
bellissima Parabola del sole, contandone la sua apparizione
nelle poesie trenta volte In variazioni intese come realtà
materiale, simbolica o metafisica.
In sostanza la corona dei critici è lusinghiera e
porta avanti una poesia semplice, chiara, fortemente comunicativa (finalmente!) quale ci si attende in tempi tanto
distratti e nemici... degli ‘otia’ letterari. Forse bisogna ricominciare a parlare a tutti? Ci ha pensato ad allontanarci dal
pubblico l’omologazione televisiva e tutti quei poeti che
hanno fatto della poesia non “un chiaro enigma” (il titolo è
di un libro della Montanelli), ma un enigma dell’enigma.
Rescigno tenta la via dell’armonia, si fa natura
pensante, sorpassando o trasvolando le degenerazioni pascoliane del secondo novecento e le stesse banalità esemplari di una mimesi che è solo descrizione o racconto. Tra le
tante rivisitazioni da fare, ce n’è un’altra: studiare come il
“Realismo Lirico” non fosse descrizione o racconto di sé e
della natura, ma nei migliori esponenti esprimesse quell’armonia che così bene Rescigno sa esprimere. È che viviamo
tempi distratti e dei poeti anche maggiori resta un richiamo
enciclopedico, tristissimo. Il sole - direbbe Rescigno - ha
cessato di splendere con la loro vita! La cittadella dei veri
poeti si fa sempre più piccola nel mentre che si riporta la
sensazione errata che ve ne siano molti e che l’espandersi
della cultura sia enorme.
La Poetica di Francesco Di Rocco
di Maria Flora Macchia
Fra metafore, verità nascoste, parole intrinseche,
esplicite, è così che la poetica di Francesco Di Rocco si
porge al pubblico, e il comico nel Teatro per burlare la Vita,
che dà al suo cuore tristezza, quasi matrigna... e... per distruggere i veri e puri sentimenti che lo guidano interiormente. «Verrà il sempre avvolto di nulla chinati noi sulla
pietra del mai che ha il sapore del tutto», contrapposizioni
forti dell’animo e nel medesimo tempo rabbia per tutto ciò
che lentamente sta per finire. Malinconicamente Francesco
Di Rocco avverte in silenzio questa realtà della vita e ancora incalzando: «Ma potessi non essere poeta, potessi essere roccia, ghiaccio, aspettarsi l’uragano che fa vomitare le
viscere della terra», che «l’infinito è il sudore acre che inumidisce il corridoio tra brividi del corpo ed il silenzio degli
specchi»... e dove spesso ognuno di noi si arrampica e cade
inesorabilmente: e la malinconia sotterra gli animi e i suoi
sogni. «Però non è giusto, si poteva fare di meglio». E in
questo andirivieni di parole forti, di pensieri tumultuosi, ma
il cuore vorrebbe una tregua, Francesco Di Rocco, si
esprime con poetica intelligenza e canta la Vita, quella Vita
che spesso tutti tradisce e l’amaro, l’assurdo, l’inconcepibile, l’urlo, l’inverosimile restare dentro di noi, aspettando
cuori e tempo più belli di armonia e di amore, più veri. Valori grandi, dove l’uomo, la Società con disinvoltura, disinteresse sta allontanando dalla Vita, e poi, ahimè, ci resta
così spesso solo la speranza, àncora a chi ci crede. Interessanti le tue liriche, Francesco Di Rocco, grazie per avermi
fatto partecipe e abbraccio uno dei tuoi pensieri: «La luna è
un drago / il sole il re / la notte la strega / l’alba un gabbiano... / ...entra la corte», mentre nei tuoi racconti di narrativa fluida, piacevole di dialettica e lettura: «La solitudine è
una ballerina nuda su un palco in penombra» e i personaggi
si muovono, movimentati dal subconscio di un invisibile
fantasma. Francesco, resta sempre ‘vivo’ dentro di te, non
farti sopraffare dagli eventi negativi, peraltro tanti, e dagli
inganni, isola il tuo animo in tormento, in un altare di benessere e serenità spirituali, lasciando ‘solo’ il narcisismo,
l’arrivismo vuoti e fatui, malessere prorompente di questi
discutibili secoli.
Non ho mai
di Olivia Iachetti
Non ho mai amato la vita.
Ma la vita ha amato me.
È nei capelli arruffati di mio figlio,
negli occhi candidi di mia figlia,
nell’arguzia delle loro domande;
la scorgo nei passi dei più piccoli di loro,
nelle risate allegre, nell’immenso
e inarrestabile disordine.
E si son presi la mia tristezza,
cancellato la fatica,
illuminato il buio.
Loro,
cuori che battono
innamorati della luce.
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Scrive Sandra Maccarrone nella sua presentazione: «Un
sottile legame unisce la vita di una stirpe d’uomini in una
profezia, in un cerchio del destino che attraverso i secoli deve chiudersi, trovare una risoluzione. All’interno di questo
cerchio, cioè al centro, vi è la figura di Anton Alonso, soldato d’esperienza alla corte del re di Spagna e figlio del nobile e potente don Hugo De Cuninga y de los Antellos. La
sua storia, i fatti incredibili che egli vive sono il punto di
partenza, l’inizio di un viaggio che si concluderà molti secoli dopo, in epoche e luoghi diversi». E proprio nel giardino silenzioso di quel monastero dove un tempo la vita
scorreva tra il vocio allegro dei ragazzi e la voce severa del
maestro si conclude la lunga storia di un uomo, o meglio di
ogni uomo che vi si può raffigurare. E sul ruolo del romanzo nella letteratura mondiale lo scrittore messicano Carlos
Fuentes afferma «che esso fa dell’esperienza un atto di conoscenza che “completa” il mondo; perché il romanzo è
l’arte che ha saputo conquistarsi il diritto di criticare il mondo, nella misura in cui ha cominciato a mettere in discussione se stesso». E l’opera “Il giardino delle voci” si colloca
in quel contesto globale della letteratura che pone il romanzo su un ampio raggio d’azione: quello dell’universalità.
Placido Petino:
Il giardino delle voci
di Enza Conti
«Il romanzo italiano rappresenta un caso a sé,
difficilmente imitabile e perciò, nella grande maggioranza
dei casi, irripetibile. Non appena se ne fa uno l’autore
stesso, o uno dei suoi prosecutori, subito dopo ne rompe il
calco: quel calco, la cui paziente e sistematica ripetizione
produce, appunto, tradizione». Questa frase che proviene da
una nota critica fatta da Alberto Asor Rosa sul romanzo
italiano contemporaneo, bene si addice all’opera di Placido
Petino: “Il giardino delle voci”. Si tratta di un romanzo che
analizza l’uomo, la storia e i colori della natura, ora forti e
intensi ora sfocati dal buio della notte, ma in questa spirale
intrigata resta sempre l’uomo e il suo travaglio interiore alla
ricerca della verità. Nel romanzo i personaggi assumono un
doppio destino: quello della persona coinvolta nell’intreccio
del discorso narrativo e quello nella storia, il tutto collocato
in uno spazio transitorio e in continua evoluzione. “Il giardino delle voci” colpisce il lettore proprio per le avventure
che si snodano in un lungo percorso che parte nel 1586, con
Anton Alonso, il quale intraprende un lungo viaggio per
andare ad abbracciare il piccolo Dario, il suo bambino, avuto dalla principessa Rasida. Si tratta, di un viaggio caratterizzato dal superamento di mille avversità, tra cui il terribile
vento del deserto che lascia dietro di sé morte.
Ed è la morte, il passaggio all’al di là della vita
terrena, uno degli elementi che spesso viene trattato dall’autore attraverso i suoi personaggi, anche se il rapporto con il
passato viene rafforzato dal cammino terreno di Darius che,
diventato maturo, trova nel ricordo del nonno una sorta di
guida spirituale. Con questi egli ha un rapporto intenso tanto che lo sentirà sempre vicino. Ma il romanzo scorre veloce, mentre mille esperienze si susseguono in quel processo
storico che porta i personaggi in tempi più recenti. Infatti
sempre di rapporto umano si parla nella terza ed ultima
parte del libro dove il passato riemerge durante un viaggio
che Toni Antelli fa insieme al figlio Dario, ma mentre si
affacciano all’orizzonte nuovi enigmi, sono quelli celati
“nel giardino delle voci”, qui entra in gioco Remigio, figura
emblematica di quel giardino dove l’unico intruso riposa in
Pace assieme ai Frati dell’antico monastero.
Nella parte terza, infatti, a farla da padrone è il
rapporto tra il Maestro e Toni. «Mio caro Toni, hai superato
il travagliato percorso delle innumerevoli angosce dell’esistenza umana, hai attraversato consapevolmente il gelo
dell’estrema soglia. Hai compiuto il tragitto che conduce
dai contorcimenti d’ogni anima coinvolta dal malessere di
questa vita alla pura e incontaminata innocenza di un
bambino. Ti è stato svelato il mistero della tua rinascita.
Questo è il tuo futuro». E Toni, tenendo fede alla promessa
fatta al proprio Maestro, ritorna in quel monastero completamente restaurato alla ricerca delle spoglie di Remigio. Ma
ecco che riemerge il passato e Remigio si sente minuscolo e
non l’uomo afflitto dal suo stato fisico e psichico. Egli nella
mente di Toni viene visto giocare felice nel grande giardino
e sarà ancora lui dopo la morte il custode di quel piccolo
angolo di paradiso, dove sbocciano fiori dai mille colori.
Per adesso pensiamo a salvarlo: il
dialetto siciliano potrebbe in futuro inserirsi in un nostro computer.
L’allarme è stato lanciato dal Presidente dell’Università Popolare Michele Giordano, il quale, per
salvare il dialetto siciliano, che sta per scomparire, ha
proposto ai Presidenti della Regione Siciliana ed a
quello della Provincia Regionale di Caltanissetta di
istituire un organismo ad hoc.
La proposta è alquanto importante dal momento che da anni si discute tanto per l’introduzione
del dialetto siciliano nei pubblici uffici della Regione
siciliana. Con il costituendo organismo, che sarebbe
finanziato con i contributi dello Stato, già approvati, è
prevista la realizzazione di una scuola per interpreti e
traduttori simultanei. Inoltre si dovrebbe aprire un sito
internet regionale specializzato in grammatica e
istituire un sistema di traduzione simultanea, in modo
da consentire la parlata dialettale con la sua traduzione
in lingua italiana.
Ma adesso dalla Germania arriva una notizia
mirabolante, riguardante il computer, che riesce a leggere i contenuti nei diversi dialetti. Questo è possibile
grazie all’ultima trovata della G -Data di Bochum. Il
programma Logox WebSpeech4 non solo dà voce ai
computer, ma la personalizza con tonalità e sfumature
(voce rauca, giovane, sensuale, veloce) e idiomi locali.
Per il momento però è disponibile una versione che legge nei coloriti dialetti tedeschi di Sassonia, Baviera e Assia (oltre che in inglese americano),
ma in futuro sono possibili infinite versioni sia in
Svizzera che in Italia e particolarmente in Sicilia. La
scoperta è alquanto sorprendente e certamente potrebbe rivoluzionare in futuro tutto il sistema esistente su
tutti i computer.
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rimpiangere alle plebi meridionali - gravate da nuove gabelle vessatorie – l’antico ‘malgoverno’ spagnolo.
Uomini e donne dunque, quelli delineati dalla
Assini, in balia di una sorte che sia nella sfera intima, sia
nell’ambito pubblico, li trascende e li trascina. Ma c’è
differenza, nel romanzo, fra figure maschili e femminili.
La scrittrice, fedele alla costante mantenuta nella produzione precedente, colloca sempre le immagini muliebri
alcuni gradini più in alto delle presenze virili. Per quanto
le personalità di Aniello, Werner, o prima i Gilles, Tancredi, Damiano, possano brillare per coraggio, umanità,
generosità, fascino, sono le varie Jolanda, Lucia, Giulia a
tenerne in pugno le segrete fila. Le donne sembrano scegliere - se davvero scelta è data laddove si è solo comparse - almeno la propria infelicità. Così, in queste pagine,
non basta la vocazione pseudo-filosofica di Werner («La
vita scorre senza appartenerci e noi, modeste comparse,
restiamo inermi e ininfluenti a guardare gli eventi».), mediocre letterato, a tener testa prima alla vitale Jolanda, poi
all’algida Ruth che lo tiranneggia. Nemmeno Aniello,
somigliante nell’antro della sua bottega più ad uno stoico
del basso impero che al tipico artigiano partenopeo, riesce
a fare miglior figura: di fronte all’incostante ma volitiva
Lucia (tanto antipatica quanto inverosimile nella lealtà
verso la rivale in amore), smette d’improvviso i panni del
saggio compassato, arrossisce, farfuglia, rivelandosi fragile creatura disarmata.
Per ciò che attiene il versante formale del romanzo, viene confermata - se ce ne fosse bisogno - la perizia
della Assini nella costruzione delle sequenze narrative serrate e incalzanti, la sua mirabile capacità nel caratterizzare
con pochi tratti (Gilles resta esempio ineguagliato al
riguardo) ambienti e atmosfere, di rendere mediante rapidi
chiaroscuri, attraverso un aggettivo o un intercalare gettato nel discorso quasi apparentemente a caso, psicologie e
temperamenti. L’uso linguistico del lessico, talvolta ‘alto’,
tal’altra gergale o dimesso, con sconfinamenti nel neologismo, non è mai gratuito, concorrendo a calare gli accadimenti in cornici di palpitante realtà.
A riprova del talento tecnico della scrittrice - dietro
la cui felicità espressiva si intravede un lungo lavoro di ricerca storica e di limatura linguistica - sottolineiamo in ultimo
la bipartizione strutturale de Il fuoco e la creta. La prima
parte del libro, volta a lumeggiare per lievi tocchi i personaggi nel loro contesto spazio-temporale, mantiene vivo l’interesse del lettore nonostante la sostanziale immobilità della
trama. La seconda, in cui gli eventi si susseguono secondo la
nota alternanza bremondiana rispondente alla logica dei possibili narrativi, si snoda invece sui ritmi binari di miglioramento-peggioramento. Il fatto che tale mutamento di registro resti tanto più invisibile anche ad un occhio smaliziato,
aggiunge prove della levatura di Adriana Assini, mostrandola capace di impiegare con disinvoltura modalità narrative
diversificate all’interno di schemi creativi rigorosamente
unitari.
Il fuoco e la creta: un romanzo
di Adriana Assini che corre tra
storia e passione politica
di Luciano Pirrotta
Una segreta analogia di fondo – si potrebbe dire –
accomuna uomini e pupazzi di creta per il presepe,
personaggi storici e figure di una rappresentazione fittizia:
la ragione finale delle rispettive esistenze cade al di fuori di
loro e resta, di fatto, in conoscibile. Con un’essenziale diferenza - tra le tante – a distinguerli: la percezione nei primi,
della propria finitudine, di una reciproca afasia unita alla
coscienza dolorosa di essere precari granelli trascinati dalla
corrente della vita.
«Piccoli sogni infranti. Attese vane. Amori offesi».
In queste tre brevi espressioni concatenate possiamo riassumere l’ultimo romanzo di Adriana Assini (Il fuoco e la
creta storie comuni in tempi straordinari nella Napoli del
1799, Spring Edizioni, Caserta 2003). Ancora una vicenda
ambien-tata dentro uno specifico quadro storico. Sullo sfondo, le alterne fortune del regno borbonico delle Due Sicilie
al chiudersi del ‘700. Ma qui, contrariamente al precedente
Gilles, che amava Jeanne, l’autrice torna ad avvicinarsi ai
climi intimistci de La signora dei veleni. La protagonista
femminile, infatti, Jolanda Croce, è molto più vicina - e non
solo fisicamente - alla bella popolana Giulia Tofana, piuttosto che all’androgina ‘Pulzella d’Orleans’. E al pari della
‘Signora dei veleni’ la procace sartina ha al suo seguito due
spasimanti. Ora però entro lo scorcio di una Napoli sontuosa e stracciona, superstiziosa e cinica, non c’è spazio né per
la libertà individuale, né per la speranza. I personaggi de Il
fuoco e la creta Storie comuni in tempi straordinari
nella Napoli del1799, sembrano muoversi sotto un’oscura
cappa plumbea, che neppure sprazzi di improvviso, incosciente vitalismo riescono a scalfire. La vita quotidiana dei
‘bassi’ napoletani obbedisce alle stesse oscure leggi del
destino cui sottostanno gli aristocratici abitanti dei palazzi
sul Vomero. È una sostanziale incomunicabilità sfociante in
amara solitudine ad accomunare protagonisti e comparse
del romanzo. Nemmeno l’amore riesce a spezzare questa
barriera invisibile. Se nel microcosmo degli umili che popolano il vicolo, affetti, rancori, ripicche sono inestricabilmente commisti concorrendo a perpetuare la sofferenza, le
cose non vanno diversamente presso le decrepite dimore
nobiliari. L’impossibilità di gestire al meglio i propri sentimenti trova puntuale riscontro nel macrocosmo storicopolitico. Reazionari o rivoluzionari, borbonici o giacobini,
tutti sono altrettante marionette d’un palcoscenico sinistro.
Parassiti spagnoli e francesi si danno il cambio lungo la
penisola italiana. Mai si cesserà di allestire forche, di fucilare, di decapitare, di imprigionare in nome della libertà.
Pare quasi che i popolani de Il fuoco e la creta già presentano con maggior lungimiranza dei benestanti Werner e
Lucia (infatuati, proprio perché a pancia piena, delle fanfaluche ugualitarie e progressiste) che quei medesimi francesi, rapaci parolai di giustizia, saranno di lì a mezzo secolo i
becchini della Repubblica Romana, alfieri della restaurazione pontificia; e che, qualche decennio dopo, la conclamata unificazione sotto la corona sabauda farà ben presto
La vita inizia con tante promesse
gaudiosa d’un giovane sole,
ma se non sarà illuminante,
svanisce quella luce nel buio del caos.
(La nostra vita di Pietro Gatti)
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seguo / portato sulle braccia - verso l’issività». Termini fortemente evocativi. Affiorano prepotentemente, a mio avviso, i
segni delle migliori lezioni ermetiche ed espressioniste.
È, peraltro, quello di Giuseppe Manitta, un proposito
di sperimentazione linguistica che non rifiuta il dialogo costante con il più duttile strumento della lineare prosa narrante,
pur fissando un insormontabile crinale che solo il poeta riesce
a percorrere. Esorcizza così la dolorosa verità della quotidiana
esistenza attraverso il grido della parola, lessico di diversi tempi e di diversi luoghi, lessico inventato, scagliato verso il mistero dell’assoluto. Sbalzi lessicali per un reiterato scuotere
dalla riscoperta di antichi vocaboli alla pura invenzione lessicale. Neologismi serpeggianti e mimetici quasi per un recupero
di sottile ironia che vorrebbe esorcizzare il demone della creatività? Forse la dregradazione-esaltazione della parola a lessico inventato è un (il più) amaro sfogo del poeta nella sua unica, possibile, protesta morale? Comunque è felice invenzione!
L’utilizzo del topos classico del viaggio è la felice metafora del
recupero di se stessi verso una piena autonomia da un super io
eteronomo ed eletto a simbolo di prevaricazione. Il viaggio
consente di varcare quella fondamentale soglia della vita che
separa l’adolescenza dalla maturità ed è al tempo stesso la
ricerca di una verità del proprio essere, delle proprie ragioni di
vita. Una tensione conoscitiva di se stesso. Il ritorno prelude ad
una definitva partenza. Non più provvisoria fuga, ma consapevole, definitiva, partenza. È la prosa a segnare il percorso di
fuga dal super io autoritario, graffiante, dal dovere del razionale (che pretende di plasmare anche anime votate al fantastico), dal disagio fra i gelidi nodi della ragione e la liberazione
della fantasia. Da questo lungo percorso di fuga segnato da
tappe lungo la realtà si dipartono, non più costrette, leggere le
divagazioni della poesia, i momenti della emozione pura, i sentieri dell’assoluto. È la rivincita sul quotidiano. Una rivincita
resa possibile soltanto dalla più sublime levitazione artistica.
Al ritorno del viaggio ad accogliere il protagonista del
percorso è il simbolo di tutte le emozioni («Lentamente giungo
con il mio cuore lì, / dove sosta il masso ombroso del giorno /
dove il pensiero abbraccia il viaggio buio, / la vita, il dolore, la
gioia e l’addio»). Il poema di Giuseppe Manitta non avrebbe
certamente fatto pronunziare ad Attilio Momigliano le amare,
disincantate, vere e severe parole da lui scritte trentacinque anni or sono e che ancora pesano come macigni sulla nostra poesia ufficiale moderna, quella delle grandi antologie adottate
urbis et orbe, la poesia dei circoli letterari riservati, la poesia
degli eletti, la poesia degli unti dalle accademie più potenti ed
inaccessibili, la poesia dei grandi progetti editoriali osannata
dalla scienza letteraria ufficiale. «La nostra poesia è arida,
senza impeti, piena di motivi capillari, priva di grandi motivi.
Sofistica, impalpabile, sfugge come la sabbia fra le dita. Non
trascina, non incanta; è serva, non è dominatrice o rivelatrice
della vita: e perciò il pubblico non la cerca».
La poesia di Giuseppe Manitta è una ventata di intuitiva e creativa freschezza, di novità, eppure estremamente
colta e meditata. È densa di motivi universali, non sfugge alla
presa del pensiero, ma resta dentro l’anima, vi scava all’interno, induce a riflettere, forgia, modella concetti, convincimenti.
Incanta. Sì, la vera arte deve anche incantare. Il mestiere del
critico di violare i testi, di frugare impietosamente negli stessi
per comprendere, cavarne responsi, è certo finalizzato ad
offrire ai lettori una chiave di lettura attraverso un’opera di
anatomia critica, di esegesi del testo, ma nel nostro caso non è
disgiunto da vero e disinteressato piacere di leggere. E questo
accade soltanto per la migliore poesia: quella che riesce a
contrarre un sottile rapporto d’inclinazione elettiva con quanti
più lettori.
Sentieri di assoluto: percorsi fra prosa e poesia di
Giuseppe Manitta
di Placido Petino
La lettura di Sentieri di assoluto di Giuseppe Manitta
(edizioni dell’Accademia Internazionale Il Convivio 2003),
richiama prepotentemente alla mente un auspicio formulato da
Italo Calvino circa venticinque anni or sono. Vagheggiava una
poesia fatta di componimenti lunghi, complessi, costruiti, alimentati da una trama di concetti profondi, densa di personaggi.
Era una sfida ambiziosa, quella proposta da Calvino: recuperare in un contesto generale di poesia frammentaria una struttura poematica.
Giuseppe Manitta raccoglie la sfida e si impone un
ulteriore impegno: rinsaldare l’antico dualismo (se mai sussistente) fra prosa e poesia, come rapporto palpabile fra scorrere
del tempo narrativo ed assoluto tempo dell’eterno, cui è consentito accesso visivo solo dai bagliori fulminanti della poesia.
Peraltro nel poema di Giuseppe Manitta il tempo narrativo è
una infrazione minima, ridotta all’essenziale, quanto lo è la
condizione della umana quotidianità, tale da non incidere nell’assorbente (immanente, complessivo e totalizzante) continuum dell’assoluto. Una increspatura infinitesimale.
Per converso, la parte poetica viene in qualche modo
coinvolta dalla capacità del racconto, che è del romanzo, recuperando, peraltro, per questi versi, il meglio della missione
poetica: ripristinare con la forza delle emozioni ciò che il razionale corrompe e sgretola. Il poema di Giuseppe Manitta, allora, diviene sintesi di narrazione e contemplazione, di folgorazioni - stralci lirici di notevole bellezza musicale (l’inizio e,
fra i tanti: «Polvere e cenere sollevano steli / verso nuclei di
cielo biancastro... Si muove la fortuna impallidita, / che svolazza in amuleti di farfalle... Addio fiume ondeggiante di freschezza, / che hai immerso nella fiaba il grido / lanciato dalle
mie labbra dissetandole in fondo... Lode all’aria che volteggia /
nelle viscere dei figli della notte») e di pause elegiache («Gli
astri addolciscono l’andare / dei fulmini. Omnia tacet»), di
asciutta rappresentazione realistica e di aura fantastica.
Una poesia profonda dal punto di vista concettuale, è
quella di Giuseppe Manitta, ed in un crogiolo sapiente vengono messi in gioco i grandi, terribili, temi del tempo, della solitudine, della morte («Ecco l’oblioso baratro - vuoto, penoso,
dove - nulla ha certezza di esistere»), della vita in una dolenza
stilistica straordinaria, estremamente coinvolgente («Prostituzione, prostitution, prostitucion. / Scossa la bellezza dal pudore
/ infranta dalla violenza altrui / senza torcere il delicato / volto
che funge da mediatore / divino e umano (sacrilegio)... Droga,
dope, gewurz. Crepuscolo iroso d’uomo / che spezza l’ebbrezza agghiacciante... Inquinamento, pollution, verunreinigung /
Turbini di focolare additano / i flutti invisibili d’immondizia».
Una magica mescola è il poema di Giuseppe Manitta
il cui paiolo è forgiato in raffinati collages lessicali (morte,
dehart, mort, / mors, thanatos, muerte... sed forse nein?»). Preziosismi dei classici («i lineamenti che traspaiono lucciole /
dalla cupezza dello sguardo. Voluntas / maxima! Le braccia
anchilosate...». Accattivanti neologismi: «Pietra viva millennissìva... Vetri incrostati di dolcezza / mostrano la S-Fortuna
stremata / da bagliori di stelle (degradissìa)... nella neressìa
dell’ombra... pura filosofissìa... Potenza extra / Ante Versitutto
o essescendo extra / Post / Tuttiverso (incertezza d’evoluzione)... la mia andatura sull’altura dorata e sognissìva / e pro-
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paure ed angosce che sono condivise con gli altri Esseri
animati e non, in un afflato mistico, in quel momento esso
sfocerebbe nel Deismo, e il Panico diventerebbe Panismo,
cioè corrispondenza Materia-Spirito nella Bellezza e nella
Gioia. In esso il poeta riuscirebbe a percepire il trasformarsi
dell’informe caos nel miracolo della Scoperta di Dio. Da
qui, il grido, aprendo lo scrigno dell’anima: «E poi che del
recondito / l’idea la mente arreca!: Eureka, Eureka, Eureka»
esclama con ardore. E durante questa trasformazione che la
strategia dell’anima accetta il coesistere di ragione e mito
(Serena Zoli), che nella realtà temporale-spaziale sono
indispensabili per una trasformazione creativa del mondo.
La Speranza del mondo? La poesia, che nel tempo è fautrice del Tempo. Segue un’analisi di una biografia atipica
del Mazzini, nella quale Domenico Defelice mette in rilievo
come Francesco Fiumara analizza la vita del grande statista
nell’intimità: la famiglia, gli amori, le aspirazioni, le delusioni, il suo carattere generoso e puro, ma soprattutto è rivalutata la presenza delle donne, come amiche e confidenti
sincere. Anche il confronto, tra due socialisti come Marx e
Mazzini, è fatto con precisione e chiarezza. Il Fiumara come sottolinea il Defelice, ama sondare quei valori morali
che sono sempre fondamento di tutte le azioni.
Alla fine del saggio sono analizzati alcuni racconti
del Fiumara come “Serracapra un paese del nord” che appartiene alla narrativa memorialistica. Racconti tratti dal vero come delle foto storiche, tratteggiato da parole e ricordi,
che con il tempo sarebbero state dimenticate, invece così
essi diventano memoria storica. L’espressione che usa il
Defelice di rara precisione: «per riassaggiare l‘umanità vera», dove nella povertà dei paesini del sud si divideva un
tozzo di pane o una mangiata di fave con chi non ne aveva,
per contrapporla «al disumano della città moderna», dove si
ha tutto, ma si è persa la gioia della condivisione.
L’ultima opera ad essere analizzata è “Le voci della notte” che sembra essere una continuazione delle precedenti sillogi. Infatti anche in esse il programma morale del
Fiumara continua, asserisce il Defelice, e tende a guar-dare
«agli orizzonti dell’anima... a una speranza che splende».
La poesia di Francesco Fiumara
ricerca della conoscenza degli
orizzonti dell’anima, nel saggio di
Domenico Defelice.
di Pina Ardita
Siamo, dunque, tutti poeti e critici? In un certo
senso sì, se ciò che facciamo lo facciamo con profondo
amore, scrive Domenico Defelice, riaffermando la convenzione del filosofo Rosario Viola... e la luce di questa profonda certezza si rivela, per meno di una lucerna accesa, come
quando, durante le notti di novilunio, il buio ammanta la
campagna e il contadino deve irrigare i campi per evitare
che le piante seccano sotto il sole dell’estate, cosi il critico
va, scrutando con materna sensibilità, alla ricerca di riscontri ai suoi sibili dolenti e coscienti, creatori di fantasmi, di
sogni, ma anche liberatori di rimpianti e ricordi.
Il saggio di Domenico Defelice su Francesco Fiumara è un’analisi volta alla ricerca di un’intima corrispondenza tra due anime. Pertanto, il saggio, non si rivela al lettore come un’arida valutazione stilistica o contenutistica di
simboli, di significati e significanti, ma sfocia, sovente, nei
versi della poesia del Fiumara, quasi fosse un corollario
della Messa. Pertanto, si può parlare di corrispondenza
orizzontale tra critico e poeta. Corrispondenza che avviene
tra due anime, dove ha sede l’intima unione della divinità
soggettiva, e in questo modo essa diventa universale.
Strutturalmente il saggio si divide in un’analisi
della poetica del Fiumara attraverso le sue opere: “Date a
me anche l’ulivo”; “ Le favole hanno gli occhi di pietra”;
“Fiori di siepe”. Domenico Defelice analizza gli elementi
salienti che rappresentano le scintille dalle quali scaturiscono le parole, dopo, tramite essi, le immagini più intime e
segrete: l’amore, la luna, l’infanzia, gli uccelli, la libertà, la
notte, il panico e il panismo, l’ironia e la satira. Il critico
riesce a compenetrarsi totalmente nel pensiero del poeta.
Quando egli parla dell’amore che è visto dal Fiumara come
un’«eco che s’è spenta di un amore smarrito». Sembra quasi
che il Defelice sia costantemente in ascolto del ritorno
dell’Eco del poeta per cogliervi briciole di comune essenza.
Eco, che potrebbe manifestarsi come rivelazione dell’infanzia, attraverso la memoria volontaria ed involontaria, tanto
cara a Proust. Anche nella poesia del Fiumara, come evidenzia il Defelice, l’infanzia si ricompone tramite tanti
tasselli, dove le miserie infinite diventano rimpianto, dolce
canto d’infiniti bisbigli accumulati, soffocati, ma mai estinti, che soffusi seguono il tempo.
Nondimeno, gli uccelli diventano il simbolo di
questo canto; di ciò che è racchiuso nel cuore umano. Il
riscontro con il simbolismo non è mai sopito, e si ritrova,
anche nel Fiumara, l’“Albatros” baudelairien ed il romantico “Passero Solitario” leopardiano. Secondo il Defelice,
nel poeta, la sensibilità riesce a svincolarsi dal dolore, e
quello dell’usignolo è un canto creatore d’infinite armonie.
Non vuol forse intendere Domenico Defelice che il poeta
con il suo mistico canto, riesce a trasformare il suo eterno
spleen, se non in gioia, almeno in Speranza? Questa considerazione è ripresa dal Defelice, quando parla di Panico e
Panismo. Se il Panico riuscisse ad astrarsi dalle profonde
L’agenda
dei Poeti 2004
Come ogni anno l’Agenda dei Poeti
si rivela una grande occasione. Si tratta della migliore agenda italiana che dà la possibilità, a chi ama la poesia, di avere non solo
tanto spazio per i propri appunti, ma pure di
poter leggere bellissime poesie, oltre quattrocento, di autori affermati ed emergenti.
Richiedila a:
Otma Edizioni – Via Cesariano 6
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e-mail: [email protected]
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di spiagge assolate, di mari increspati
di tremule stelle;
di una bimba che corre incontro alla vita,
colmando il secchiello di splendide pietre;
di bianchi bagliori soffusi dal sole.
Innocenti pietruzze,
verdi speranze di un tempo migliore,
essenza di vita racchiuse nel cuore;
qualcuna l’ho colta,
altre le ho perse lungo il cammino.
Tuttora, raccolgo lucenti pietruzze,
speranze ancor verdi, incuranti degli anni;
le catturo, incantata, col solito gesto,
nuovo ma antico.
Poesia Italiana
Luna e Mare
di Titti Mori Consoli
Canzoni, poesie, racconti: non si saprà mai
quanti scrissero di te, Luna, e di te, Mare, e quanti
ancora ne scriveranno, finché il mondo vivrà.
Non ho paura di essere una fra i tanti,
non ho paura di cadere nella banalità.
L’immagine che mi avete lasciato,
mentre non riuscivo a staccare
gli occhi da voi a Santa Maria La Scala,
va oltre ogni sospetto di ovvietà,
di monotonia.
Madre Teresa
di Giuseppina Attolico
È un’emozione sempre nuova
il luccichio d’argento che brilla sulle onde;
È specchio in cui si riflettono i pensieri
e s’irradiano gli slanci d’amore
che sembrano dimenticati
nella frenesia della vita cui siamo relegati
dalla nostra stoltezza.
Una figura piccola di suora della carità, come un raggio
di luce di Dio, ha alleviato i dolori dei più poveri
con coraggio con la forza del cuore ha donato gioia
amore al mondo.
Madre Teresa, sicura di sé ha insegnato
a crescere nell’amore del Signore
ha sconfinato solo con la preghiera, le guerre religiose
unito a sé tutti gli uomini della terra,
nel valore della fraternità.
Il suo corpo riposa ora, in una pace eterna.
È qui che voglio tornare per essere parte
della natura, in cui il mio animo si libera
e si appropria della vera essenza
di ogni cosa.
È... un la, la vita!
di Maria Stella Brancatisano
Al fato
di Simona Trevisani
È...un LA... la vita, un attimo
Una nota... è un SI... ed anche un
No...! ...lo spazio di una nota... SI
LA... DO... RE... MA... MI... TI... CI...
DA... NO...
... al fato… esci da te stesso, entra nel mio spazio
... fai sparire quasi tutto, tranne gli individui
[che sono con me
... nessuno disturbi l’anima di questo cuore femminile
... gode, godo della tua voce... sorriso, sguardo...
[e dei tuoi movimenti
... mi sento di esistere... dài uno spiraglio
... osservo la mia parte di donna, fugge...
[fuggo emotivamente, fisicamente
... gli altri “Adamo” mi fanno sentire insipida
... mi basta poco... bugiarda,
... nei sogni è rimasto solo il freno a mano,
... le mani vorrebbero andare ovunque su dite...
[dentro... e fuori
... fosse questa l’eternità... non solo nelle fiabe...
[ma pure nell’adesso, lo confesso
... non so cosa provo adesso, che sia solo sesso «!?».
... e se non è solo questo che cerco... ho paura adesso.
É... un avverbio di tempo: ORA
O... di luogo... LI... SI.... DOMANI...
Forse...Va... è un verbo... pur se strano...
È... un vaccino... un VIRUS... UN TIMPANO...
UNO SCAMPOLO DI ORE...
Vissute... non vissute
Mai
È... un pentagramma strano... che va, che viene
Si agita... un istante... ti inganna... ed è tutto...
Finito...
È strana... ben strana la vita... forse
Dura... un solo istante...!
Speranze
di Chiara Filippone
Il cielo (dedicato ad Elia)
di Mayra Millico
Disseminate nella bruna ghiaia marina,
brulicano, al caldo sole di luglio,
occhieggianti pietruzze;
vivide e variopinte, ammaliano lo sguardo.
Ne catturo, rapita, il bianco bagliore,
flash, improvviso che solca la mente
di antichi ricordi,
di spazi, di tempi, mai più rivissuti,
Il cielo è fantastico con la sua semplicità
con i suoi colori, che variano
da un celeste limpido e mattutino ad
un azzurro variegato roseo al tramonto.
Il cielo colmo di sentimenti ed emozioni
posto di promesse fatte dal cuore,
è l’unico e irreversibile luogo che rispecchia
gli stati d’animo del mio cuore.
22
Rintocchi di baci
di Ilaria Spina
Polvere di passato
di Anna Famà
Affetto minimo
di Mimma Vitalone
E sembra infinito
l’ultimo schiocco di piccoli
caduchi chicchi di baci. Ma
sento un Infinito
vuoto e senza limiti freddo
sussurrarmi ombre silenziose.
Ti guardo Infinito
ti fisso ti spoglio ma sfumi
in un sorriso dietro un vetro.
Nel tempo,
breve,
si perde profumo di un fiore,
di un canto, di un volo.
Negli occhi di uno specchio
si legge
spento riflesso di una evasione.
Tra voci confuse di pietre e peccati,
su carri trainati
da maschere senza mani
si carica polvere di giorni passati.
Si carica storie di righe contorte,
distese di cieli inquinanti,
lamenti di luci evanescenti.
Signore, ti porgo le mani.
Nascondi con esse lune nascenti.
Nel buio della notte
troverò il potere di salvarmi.
Sorrisi di luna affrettano
le voci sulla collina,
consueto segnale di un’eco che
[si smarrisce
tra i cespugli, lungo il cammino...
Mi piace accarezzare i desideri
in questa notte che divora parole
e ne dissolve il senso.
Nello spazio sconfinato, effimero
il dolore cieco va, in rivoli di abbandono.
Io ti avrei dato, forse, un affetto minimo
ma sempre lì, acceso,
come lampada votiva... in eterno.
Dal luogo della meraviglia
di Chessa Iole Olivares
Curva sui remi
apro l’acqua in creste di diamanti
sbircio le nubi
come uccello al tramonto.
Giunta lontano nella vita,
scruto la mia corsa:
ogni attimo una scheggia
di colpa e d’innocenza.
Alghe... fili che in polvere
sfogliano le trame
al confine dell’esistere.
Ostaggi del caso,
vogliono dare tempo
a ciò che ha vita breve,
raccolgono l’ambra e il muschio
dell’io con zig-zag di farfalla.
E... dall’acqua, luogo della meraviglia,
un misterioso annunzio:
io, disordine ovunque seminato,
io, più oltre, ammalata di silenzio.
L’attimo fuggente
di Gabriella Manzini
Nel divenir del tempo
qual senso ha un pensiero fugace?
Che resta di un gesto,
del vento...
di un attimo spento
Nel mare del tutto?
Male di Vivere
di Angela Genovesi Petronio
Alzarsi al mattino
rinnegando il cielo
con l’uggia delle nuvole
così come del sole
trascinare i passi
su sentieri impervi
irti di ricordi
che invano
cerchi d’eludere
anelare un sostegno
che non trovi
mentre ti porti dentro
questo “male di vivere”.
Bere l’azzurro
di Luigi Caminiti
Come invaghito il sole
sull’immensa distesa dipinta
d’erbe e di fiori
invia i suoi raggi d’amore.
E filari d’alberi aguzzi
corrono giù al fondo della valle...
Su una guglia rocciosa
emergente da tanti colori
amabili e vivi
sto io ritto
con le braccia distese
formando una croce nell’ombra.
Il curvo orizzonte
appena striato di rosa
abbraccia paterno
la dolce natura dintorno.
L’oblio e il silenzio
mi hanno invaso la mente
da farmi scordare
che corre laggiù
una stupida vita
ignara di fede e d’amore.
Non sento bisogno
di nulla restando così
nella morbida luce
immerso a bere l’azzurro
Aliti di speranza
di Paola Cozzubbo
Sono forti emozioni
he ardono nel cuore,
prigionieri pensieri
nascondono pallidi
aliti di speranza.
23
Nassiriya
di Gaetano G. Perlongo
Il giocoliere di stato
addomesticato al padrone americano
riflette lo sviluppo iracheno.
La carne fresca e l’odore del pianto
cede al loculo della gravità
e i nostri soldati
sulle acque dell’Eufrate
riscrivono il nuovo testamento.
La stazione
di Deborah Coron
Abbacina la breccia bianca
[della massicciata
con le ombre viola in controluce;
il vento ostile gela ogni partenza
e scompiglia il miraggio:
alla rincorsa dell’ultimo treno
desideri d’evasione vengono trainati via
ma non partono mai davvero:
restano ad aspettare il mio ritorno.
Ogni treno uguale a quello prima
sferraglia monotono e pesante
sui binari che curvano in fondo
prima di toccare un orizzonte
ormai divelto e stanco di viaggi.
Amo ogni profilo di queste colline
[imbrunate
che mi si stagliano incontro al tramonto
e patisco ogni loro mutilante ferita.
Le luci fumose della cementeria
impolverano ombre corrotte e mute
di vecchie cave e nuove distruzioni:
è questa la strada che torna a casa.
La stazione vuota ora si ferma
nella notte aranciata.
Torno a percorrere le strade di gesso
e le franose case di cartapesta
del presepe costruito da bambina
parendo che tra queste balze cavate
nessun Bambino sia mai sceso.
Non era questo
di Salvatore Arcidiacono
Non era questo
lo scopo della vita.
Eppure ci siamo accaniti
come soldati assediati
ci siamo offerti
come tonni alla mattanza
coi piedi sanguinanti
le mani monche
credendo, credendo, credendo.
Il passato
di Luciana Piccirilli
Il passato
nasconde strane
voci.
Ricordi misteriosi
si agitano
nelle onde del tempo.
Il passato
insinuante nei giorni bui
è protagonista
nel mio
presente.
Amsalu
di Rosaria Carbone
Amsalu:
il tuo nome palesa “Immagine”.
Luci di sangue tribale
oscurano tuo padre e suo figlio.
Aspetti tua madre
fra sterili limoni
di passi mai ascoltati.
Erri per strade senza dimora.
Maliardi sorrisi ti tendon la mano.
Una fievole luce accarezza
le gelide sbarre:
carni straziate da cani randagi,
piaghe solcate dal lento tempo,
abulico boccio reciso.
Sanguina il tuo lercio corpo.
Sanguinano i tuoi sette anni.
Languisci cagnolino nero
tirato a calci da oppiate menti
di uomini ‘veri’.
Una donna ti coglie e t’avvolge
nel suo sterile seno: piccolo uccellino
rattrappito da umane paure.
Vuoto il tuo sguardo
aggrappa la croce che tiene.
“Fra due giorni è Natale,
ripulite le piaghe e gli orrori”.
Splendi diafano corpo
d’incomprensibile amore.
Vestita di bianco
ti spegni
ad Addis Abeba
fra i pastorelli, il bue e l’asinello.
Amsalu:
rosso candore
immagine triturata
della bellezza di Dio
scorgi il Bambinello Gesù.
Natura morta
di Elvira Sessa.
Secche, rotte, grette
gialle, vecchie.
Sono foglie morte.
Le accarezza un passero.
Morbide e fumose piume.
Un filo di grano gli scorre
dal piccolo becco.
Poverino: è morto.
Una mela troneggia da matrona
sul tavolo grezzo.
C’è silenzio.
Libertà
di Elvira Sessa
Riparto.
Vuota.
Aperta.
Nell’aria.
Mi getto.
Libera.
Immenso zero.
anche quando credi che un niente
fa crollare il tutto!
Più che fuggire,
rifugiati in te,
riscopri i tuoi tesori
e fanne dono a chi ti sta vicino
e ti tende affettuosamente la mano.
FUGGIRE?
NO: restare per vivere ed amare!
Prisma1
di Angela Aragona
Ricuci gli orli
delle creste dei monti sul cielo,
s’appartengono, in fondo,
da sempre. Ghermisci
con tenero piglio
il peplo dei molti simulacri, poi
accarezza gli zigomi lividi,
corrosi da stille di pioggia venerea. Di terra ti sollevi ed è Grido
ciò che tu senti, da gole contratte
in anguste salmodie,
varie moltitudini.
Aggrappato, t’appropinqui, agli scogli
dilaniato ed esangue t’affrangi
con cuore...
In fisso nel cristallo delle Moire,
divenire incessante e vuoto,
con manto ferale e labbra dl fuoco
sottrai ai dardi
l’essenza.
Il riposo eterno
di Giuseppe Leonardi
Fuggire
di Spartaco Colelli
Fuggire dal mondo!
Ma per andare dove?
Non ti trattengono
i colori della natura,
1’aria fresca dell’estate,
l’inebriante profumo dei fiori,
il dolce cinguettio dei passerotti
l’ombra vasta dei verdi oleandri?
Fuggire dal mondo!
Ma perché?
Non ti trattengono
il calor della famiglia
o 1’amicizia di chi ti circonda
e fiducia e gioia ognor ti dà?
Fuggire!
Ma da chi?
Forse da chi credi
che non ti vuoi più bene?
Da chi, dopo la prima volta,
non ha risposto al tuo invito,
al tuo sguardo, al tuo amore?
Fuggire?
Ma perché?
È bella la vita,
24
Cosa c’è oltre la morte? Chi lo sa!
Chi dice che c’è il purgatorio
chi il paradiso
ma la morte c’è da un’intera vita.
Nel bene o nel male
è sempre una realtà.
Alcuni dicono
che il riposo eterno
è un dolce dormire
mentre altri
ne hanno timore.
La Morte
che sovrasta l’universo
è l’unica nemica
di cui si ha paura.
La Morte
unica compagna dei più disperati
dona a loro la libertà.
1
La poesia fa riferimento all’amore, sfaccettato come un prisma, che discerne i colori della vita. In effetti la somma dei vari
colori è il bianco che simboleggia il vuoto e
la semplicità dell’essere uomini alla ricerca
di un valore che si conserva nell’amore e
che si diparte da noi stessi.
La salvezza delle genti
di Vincenza Giangrasso
Fiori di loto
di Maria Teresa Nobis
Nella grotta buia e tetra
tra dolori e grandi stenti,
partorisce un bel maschietto
la regina delle madri.
E non c’era l’acqua calda,
né puntura antiemorragica
né l’ostetrica e il ginecologo:
ma un bue e un asinello
e il gelo ed il freddo intenso
della notte dicembrina
con l’inverno appena giunto.
Venne al mondo il re dei re,
il signore dei signori
e per tutti Egli sarà
la salvezza delle genti.
Sulla vecchia
e ormai stanca barca
ho raggiunto,
remando con te,
un vasto spiazzo erboso.
Sono stata colpita,
osservando il paesaggio
che ci circondava,
dalla delicatezza
e raffinatezza
dei fiori di loto
dai colori sfumati.
Emergevano silenziosamente
dalle loro foglie
cuoriformi
dal verde intenso
e brillante
nell’immoto lago.
Ti guardai rapita,
e, sotto il tuo caldo
sguardo innamorato
il paesaggio scomparve
del tutto,
mentre affondavo
i miei occhi verdi luccicanti
per l’emozione
nei tuoi occhi azzurri
come il cielo sereno
di quella giornata.
Guerra
di Angela Giallombardo
Luci rombi grida
imprecazioni laceranti
pianti strazianti
È la guerra disumanante
Fredda, “matematica”, “intelligente”
orribile mostruoso video-game
è quella dei comandanti
che cinici, determinati
dai lontani tavoli del potere
ordini su ordini impartiscono
e freddi infieriscono
su popoli inermi spauriti
pazienti, provati
al peggio rassegnati
da secoli indicibilmente martoriati
Dov’è, uomo, la tua vittoria?
Spelonca, voragine
macerie fumanti
cadaveri freddi
inerti, sfigurati
Laddove la vita pulsava
la morte ora regna sovrana
Laddove l’arte divina creato aveva
splendore d’eterna forma
e l’abile mano d’artifici sommi
immortalato aveva bellezza
purezza armonia
ora è il caos non “primigenio”
ma frutto di cinico odio
che l’Amore vince
e tutto stravolge
sconvolge, distrugge
Ma come “araba fenice”
so che un giorno
là tutto risorgerà
e forse in un futuro non lontano
la vita ancora riprenderà
Butta le armi soldato…!
di Miranda Haxhia
I crepuscoli e i tramonti
si negano nelle mani insanguinate
[del soldato,
vattene, lontano dalle terre straniere.
Come si può non sentire
[ il dolore dell’erba,
trascinato sotto le tue gambe?
Le macerie toccano il ricordo
[di tua madre,
tutto è una speranza e una follia.
Sopra il tuo elmo, ballano le prostitute,
l’ubriacato soldato sorride…
con la gran ragione dell’esistenza.
Il sorriso,
scolpito in un medaglione di ferro,
la vita e la morte tutta in grigio.
Un soldato ucciso, con la testa affogata
nelle feste delle graziose geishe
non posso guadarlo,
anche un bambino… massacrato.
Nei governi crescono le crisi
nella fine della danza
e della passione iguane.
Anche il cielo è perso,
morto sotto la cenere delle case
bruciate.
25
Rimane solo il numero di un medaglione.
La speranza e la follia
di un tramonto insanguinato
e un crepuscolo spento.
Torna a casa, soldato straniero!
…Tempo fa, un uccello ferito
mi guardava da una gabbia,
con l’universo degl’occhi sommessi,
le piume come i boccioli
sfioriti nel corpo.
Piansi con una voce di cigno,
con la paura di non piangere mai più.
Butta le armi, soldato...
...non voglio piangere, non voglio!
Veleggiare
di Nide Fontana Beccaccia
Come una vela al vento
veleggio
in questa scura notte
d’un vuoto immenso.
Scivolo
poco a poco
di ombra in ombra,
di silenzio in silenzio
e, conquistando le tenebre,
m’addormento.
Le parole
di Chiara Trefiletti
Le parole che non ho letto
nascoste dall’orribile macchia
“Amore mio...”
parole d’amore d’ attesa d’addio
“Amore mio...”
in caratteri tondi rotondi girondi
“Amore mio...”
un biglietto tra settembrini
“Amore mio...”
Principiante
di Paola Ravelli
Tu
che infili collane di perle – parole
nel blindato caveau del tuo studio
assecondando il tuo genio.
Mi hai stabilito i compiti per casa:
macinare parole, ridurle in farina
per impastare poesie...
Ma io scrivo sentendomi in colpa
per il tempo sottratto, perché
la polvere offusca il ripiano,
perché devo estraniarmi dal fatto
che il telefono squilla, perché
è ora di pranzo e la cucina è sconvolta...
e la parole sono indocili
e sfuggono e feriscono
e sconfiggono.
Erano in due
di Silvio Craviotto
II,16 - Tibi mater
di Giovanni Jorio
Fu una stella a guidarmi nella notte
fredda d’inverno. C’era, innanzi a me,
immensa una catena di montagne
e innevate boscaglie, come al Béigua.
In questa notte mi ritorni a mente
con le ombre, Ombra vagante.
L’interminabile corteo nero
scende Verbosa china
in fino al marmo bianco.
C’era pure, vastissimo, un deserto.
E
Questi ti sta a fianco
A lungo camminai: ero sfinito
con
tanti altri de l’erma collina.
quando giunsi a un capanno e lo credetti
deserto anch’esso. Entrai. Erano in due: In quel sorriso del padre comprendo
l’eterno mistero;
una donna ed un uomo. C’era pure
te fiera con artiglio
un asinello e un bue. Guardai meglio.
mutar vorrebbe in altare vero
Nel piccolo fienile c’era pure
dove
il muto sdegno appendo
un bambino. Guardai ancora meglio.
e la pietà di figlio.
M’attendevo chissà quale prodigio:
ne sarei stato testimone. Vidi
Cerco il mio inferno
- oh stupore! - un bambino come tanti,
di Katia de Luca
non diverso dal figlio del vicino.
Cerco il mio inferno
sui binari sconnessi
Squarcio di mare
che il ricordo mi dona.
di Gabriella Manzini
Scrivo lettere confuse
Nell’aria una calma attesa,
su pezzi di carta gialla
spezzata in mille frammenti dall’onda... inzuppata di tempo.
Vivo ogni giorno
perché tutti i gabbiani volano?
per cercare e per perdere.
La natura contempla se stessa
Scruto ogni angolo
e tutte le cose si abbracciano
di mondo per scoprire
nel vento del mattino
un altro motivo
che ti scuote,
per piangere.
mentre il sole,
Mi affanno solitaria
accecandoti gli occhi con lame taglienti per trovare
ti porta sulla riva,
e imparare finalmente
dove l’onda cancella se stessa...
a lasciare.
e il tuo passo...
Giro in tondo solo per nascere...
e morire..
La mattina
cercando il mio interno
di Loretta Bonucci
in un diafano eden.
La mattina
ascolto
il canto
degli uccelli,
e inizio
la giornata
in armonia
e prego
il Signore
che mi dia
la costanza
di non essere
mai affranta,
e che io vada
verso
il futuro
con fiducia.
Il pensiero degli altri (luglio 2003)
di Luigi Siliquini
Entrare a poco a poco
nella mente degli altri
per scovare verità
talora... inascoltate.
La gente qualunque,
chiusa nel suo alveo,
non riconosce più
i pregi dell’esistenza.
Desideri, ansie, passioni
e smodati tormenti
rimangono imprigionati
nel cervello schiavo.
Vorrei avere oggi
la bacchetta magica
per guidare i pensieri
del comune volgo.
Le persone incontrate
non hanno pronunciato
26
che parole vuote
e prive di significato.
Solamente la mia persona
inappagata nella fantasia,
trasferisce questo bisogno
dalla mente al cuore.
Vorrei di nuovo rimpiangere
questi miei sentimenti
che hanno continua sete
di linfa vitale.
Pensare e ognora agire
per la mia felicità
verso lo scontro con il mondo
decadente e disfatto.
Otto strofe, quelle che compongono la
poesia Il pensiero degli altri ben incatenate tra loro e che tracciano due degli
aspetti poetici di Luigi Siliquini, cioè
l’Io travagliato e il desiderio forte della
ricerca della verità in un mondo dove
l’apparenza prevarica spesso sulla realtà. La lirica non è altro che un libro
aperto dove il contenuto apparentemente descrittivo si trasforma invece in un
canto di dolore verso quella gente chiusa nel proprio alveo. Infatti l’autore,
utilizzando anche delle metafore che
arricchiscono il contenuto, spinge il
lettore ad aprire gli occhi per riappropriarsi della verità interiore e nello stesso tempo della propria esistenza, nonché della libertà del pensiero affinché
«desideri, ansie, passioni / e smodati
tormenti / rimangano imprigionati / nel
cervello schiavo». Quindi uscire dal
buio fatto di un «mondo decadente e
disfatto». La poesia di Siliquini, non è
altro che il frutto di un viaggio verso
l’abisso del cuore dove trova la forza
per riemergere e svegliare la conoscenza che era stata annientata dall’ingiustizia sociale, dall’angoscia esistenziale
per riappropriarsi dei propri sentimenti
fatti di gioie e tristezze, tasselli questi
indispensabili per collocarsi in uno spazio dove materialità e spiritualità di intersecano tra loro e risuonano come monito per la costruzione di una società
che basa la propria forza sulla verità.
Ed è proprio questa la linfa vitale del
poetare di Siliquini che, se pur elegantemente malinconico, non nasconde il
grande desiderio di poter guardare attorno a sé e finalmente constatare che la
“gente” si è riappropriata del proprio
“Io”. La sua poesia non è altro che lo
specchio di un lavorio psicologico in
evoluzione e frutto del superamento di
numerosi ostacoli che portano l’autore
ad un arricchimento poetico e sempre
più complesso e maturo (Enza Conti).
Ai caduti di Malvagna
di Antonio Portaro
Il monumento qui eretto
testimonia un grande affetto
dedicato d’ora in poi
da Malvagna ai suoi eroi,
che donarono la vita
per la nostra Italia unita.
Sono i nostri combattenti,
quasi tutti a noi parenti
che hanno un posto nella storia
e tanta, tanta gloria.
Accanto a questa ara,
vivo è il suon della fanfara,
che ci porta in un momento
nell’aspro combattimento.
Sono i protagonisti
di due guerre molto tristi,
duri scontri combattuti
e da eroi poi caduti.
Con un grande auspicio
possa il loro sacrificio
conservare in ogni età
la sospirata libertà.
Da tempo loro dormono in pace
ma per noi il ricordo, qui sempre giace.
Sboccia sboccia frutto
di Rosaria Barone
Indigeno gergo
farfuglio in mente,
si accentuano di fuoco
e soverchiano i miei occhi
incomprensibile linguaggio
ch’io cerco affannosamente
di origliare,
non capisco.
Chi sussurra?
Dove vuoi arrivare?
Chi mi cerca?
Se sapessi...
se questo velo si tagliasse...
offusca, confonde, nasconde.
M’è stato appiccicato sin dal dì
della luce.
Donna qual sono
racchiusa in candido fiore
dolce e profumato
bianco sfumato
tenero e flessibile, ma serrato.
Sboccia, sboccia
frutto.
Rugiada mi raggiunge
da una fessura e mi
rigenera.
Via, via petali intrecciati
date sfogo al vostro splendore
lasciatemi libera
di capire!
D’improvviso il fior m’ascolta
e spunto fuor, curiosa e
raggiante, ma tutto è già
scomparso.
Non comprendo
poiché nulla è più da comprendere
null’altro ha senso
...guardo attorno a me...
ma null’altro mi parla
null’altro mi cerca,
null’altro...
Dove sono tutti?
Cosa cogliere?
Morto. Tutto.
Kosovo
di Maria Cristina Latorre
I.
Ho visto una fila
inerme
di uomini
donne, vecchi,
li ho visti camminare
nella terra di nessuno
minata, ovunque,
nell’orgoglio.
…..Sembra un Dé ‘jevù
dell’olocausto
di un passato
svogliatamente ricordato.
Guerra e pace
di Nino Agnello
Guerra e pace
buono e cattivo, bene e male
uno in un pugno, uno in un altro
o dentro il vespaio dello stesso pugno
dentro la rete di vendette e odio
minacce ed invecchiato rancore?
Chi ha torto o chi ha ragione?
Chi sostiene o chi condanna
nelle piazze in vanità di eloquio?
Li accomuna la risposta, tutta dentro
l’inapribile morsa che stringe ambedue
e li soffoca rabbiosamente.
Noi non alziamo il muro divisorio.
Così te n’andasti
di Giovanni Mantineo
Così te n’andasti,
lentamente,
morendo ogni giorno un po’ per volta
finché serrasti gli occhi tuoi per sempre,
angelo in terra e Cherubino in cielo!
Invano pregasti,
giunte le mani,
gli occhi al Ciel rivolti,
in quella chiesa dove la Madonna
accoglie e ascolta i devoti suoi.
Volevi ancor restar su questa terra,
sol per i Tuoi, non per Te di certo,
perché di te più non progettavi
da quando il Mal il primo colpo inflisse,
uccidendoti speranze e desideri.
II.
…Mi vergogno
d’esser umano
come chi ha minato quella terra
Con rassegnazione te n’andasti,
come chi ha ucciso quella povera gente. in questo la Madonna Ti ha aiutato!
Esempio di bontà fino alla fine!
III.
I tuoi occhi si chiusero
Non scordate voi tutti
ma la tua mano
ciò che vi dico,
aprì i miei
quando voi giovani dell’era moderna,
con
l’ultimo sospiro!
quando ascolterete
Goditi il Paradiso, Amica mia,
i vostri figli che
tu l’hai pienamente meritato!
leggeranno sui libri di storia
non vi troveranno tutta la verità
Come sogno
ma vi troveranno scritto solo
di Salvatore Arcidiacono
... Kosovo... Milosevich...
IV.
Così è stato nella mia generazione
dove sui libri di storia
abbiamo letto solo
……Ebrei……6.000.000……Hitler…
…e nessuno ha compreso la vera storia.
Notte stellata
di Ilaria Spina
Dolce e oleosa
alla luna frizzanti
baci di fate.
27
Tornerò su quei lidi
dove i tramonti sono incendi
camminerò a piedi nudi
sulle ali dell’aquila regina
udrò il maestrale suonare ottavini
il sibilo delle traffinere.
Vedrò rientrare barche ed ontri
uomini neri alare sugli scali
calafati che riparano triremi
e Glauco dorme in eterno.
Guaderò lo scoglio di Ulisse
e da pontili di silenzi
scaglierò parole come dardi.
Se fossi una bottiglia
di Silvano Messina
Se fossi una bottiglia piena di vino
sarei bevuta dal matto del paese…
se fossi un foglio di carta
sarei scritto da una bella poesia
d’amore per te...
se fossi una canna vorrei
essere fumato da te...
se fossi un flash
non mi cancellerei più
dalla tua testa…
se fossi la tua metà fuggirei
lontano da te per incontrarti
dalla parte opposta ove
c’è l’impossibile e l’ignoto...
ma poiché sono un uomo
aspetto che mi consumi d’amore.
La finestra
di Pacifico Topa
Dalla finestra della casa avita,
che dava sul giardino verdeggiante,
entrava l’aria profumata, amica,
ossigenata dalle grandi piante.
Mi rivedo bambino, balbettante,
col viso fra le sbarre del balcone,
del vuoto intimorito, un po’ tremante,
tutto assorto nell’osservazione.
Fatto più grandicello alla finestra
ritornavo ogni volta con desio,
guardavo attorno, dentro la mia testa
credevo che quel mondo fosse mio.
Oggi, più adulto, torno volentieri
alla finestra della mia casa antica,
turbinano nella mente altri pensieri
facendo un consuntivo della vita.
Dis. di Alice Pinto Montalto
Doglie
di Pasquale Montalto
Quali armi di giustizia in amore?
C’è risposta, ai dolori
provocati dall’amore?
Fatti, tanti fatti contingenti,
insieme convergono e accerchiano
il centro dell’amore
e poi colpiscono, duramente
nella carne e nello spirito.
Le doglie, le conosco, ieri come oggi,
continuano a irrigidirmi
e mi devastano col dolore.
E io mi rompo e mi squarcio
l’anima, nell’attesa che arrivi
la nuova sveglia per partorire.
Campo Calabro
di Clara Giandolfo
Splendida città mia
tra le migliori
ritengo che tu sia!
Gli ameni tuoi colli
i ruscelli gorgoglianti
cantano all’alba
con gli uccelli cinguettanti
Cantano i colli
le ubertose pianure,
uliveti, aranceti
le agavi sulle alture,
che poderose
svettano con maestà
rappresentando
la possente virilità
Rappresentano la forza
la grande energia
della terra calabra
della terra mia
Campo Calabro
città dei pittoreschi tramonti
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del sole che scende
di rosso tingendo i monti!
Campo Calabro
città di letterati,
pittori, scultori,
tutti ricordati.
Cantâro tutti
dipinsero le alte qualità,
gemma dello stretto
e anche di amare realtà!
Oh se Campo Calabro
avesse il mare
sarebbe veramente
luogo da incantare….
Come sarebbe bello
se come tantissimi anni fa
aitornasse il mare
a spuntar a Musalà…
Inter omnes constat…
C’era un dì - narra un’antica voce largo e profondo un mare
e un fiume con foce
S’alzò per potente spinta
il fondo marino in quel sito
e si trasformò nel “ruzzuluni”
da conchiglie varie riempito
O se per fenomeno contrario,
senza recare ad alcuno danni
rispuntasse il mare
dopo tantissimi anni!
Un mare qui vicino
con stabilimento balneare…
quanti, quanti bimbi
potrebbe deliziare!
In luglio, agosto,
vero tripudio in tutta Musalà,
piena di gente arrivata
da qua e da là;
da Fiumara, S. Roberto
Campo Calabro specialmente
in cerca del bel sole
e del mare “rinascente”.
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Poesie del “Publio
Virgilio Marone”
e lievi ricami fra le tue dita
umide di betulla.
Quel brivido strano
e il profumo della notte
in una sinfonia agrodolce.
Nel primo giorno del terzo millennio
di Gianni Ianuale
All’alba il distacco lieve,
surreale...
La stanza diventava sempre più piccola
e lontana; anni luce.
non vi fu delusione
e solo rimangono
le soddisfazioni
dei piccoli giuochi,
di tante emozioni
che, a cose concluse,
a storia finita,
nei dolci ricordi
ci scaldan la vita.
Amori incompiuti
di Mario Cambi
Etna misteriosa
di Ernesto Riggi
Amori passati,
amori finiti,
amori vissuti,
amori traditi,
or dolci ora amari
ci appaiono adesso
nei vaghi ricordi
del tempo pregresso.
Son forse più belli
gli amori incompiuti,
pur fatti soltanto
d’abbracci e saluti,
di qualche battuta,
di mezze parole,
di volti ridenti
negli occhi di sole;
di piccoli approcci,
di qualche effusione,
che, forse, ci han dato
una breve illusione;
e di confidenze
appena accennate
e di discussioni,
serene e pacate,
su mille questioni,
le più disparate,
in sano confronto
di cuore e di mente
che ci ha fatto crescere
reciprocamente.
Amori cui solo
mancò veramente
quel piccolo quid,
quella cosa da niente,
quell’indefinibil
sottile magia
che sola trasforma
una dolce armonia
nel forte crescendo
vieppiù dirompente
che il cuore rapisce
e sconvolge la mente.
E, se v’è rimpianto,
pensando al passato,
per ciò che poteva
e che non è stato,
lo stesso rimpianto
ha compensazione
nel fatto che poi
Sei maestosa signora
dal fluente crine
che si specchia
nel mitico mare
o capricciosa zitella
dalla rossa chioma
che disiando amor
nervosa fuma?
Al tuo piè,
dorati aranceti
profumano di zagara,
le api rubano il nettare
ai gelsomini,
nell’aria l’usignolo
il dolce canto intona
mentre secolari carrubi
abeti e pini
ti cingono i vezzosi fianchi.
In alto vesti in nero,
come si addice a raffinata
signora,
in bianco, per mostrar
della vergine il candore.
Posando il piè
sui fumanti declivi
mi sento leggero
come se danzando
stessi sulla luna.
Poi, ti accarezzo le labbra
e curioso ti guardo il seno,
ma tu, gelosa, sospiri lapilli,
bagliori di fuoco
e di sdegno fremi.
Perché questi bollori?
Quali passioni,
tradimenti, gelosie, amori,
tu covi in seno?
Affili forse
nella tua fucina
lucenti armi per combattere
dei Siculi il destino?
Perché piangi
fiumi di fuoco?
Forse l’infedele Plutone
per altre formose fanciulle
ti abbandona?
Sei maestosa signora
o capricciosa zitella?
Sei sempre donna
Solo la notte
tra calici di stelle
è padrona assoluta
di solitarie malinconie
tra lune e immagini
che sciolgono pagine d’alba
disegnate in oasi
sotto gli aghi del cielo.
Per amore
ho liberato tutti i nodi
nei minuti benedetti dal silenzio;
ho cercato nel cobalto
della mia essenza
un mediterraneo canto,
affinché l’anima, lo spirito
e il potere, potessero aprirmi
la “Grande Porta”
oltre il simposio della luce,
ma le Muse, regine immortali,
ancora una volta
han dettato l’alto podio...
mentre il mare si allungava
oltre l’occhio del cielo
ed io, pur vivendo per gli altri,
ho capito che non vi è
altro modo per essere felice,
quindi ho scrutato il mio fine
e mi sono accorto
che l’universo obbedisce all’amore
con il metro della felicità!
A Proust
di Annalisa Grazia Guerrera
Nella stanza damascata
un impalpabile macigno
pendeva sul tuo respiro affannoso.
Dormivi...
Strani sogni dilaniato dall’asma
scorreva verso quel mare
la follia d’insonne.
L’organino per strada
suonava La Vie en Rose,
musica ovattata nel cielo
di Parigi.
La donna, danzava leggera,
spiava il tuo volto,
i capelli disordinati
lei li accarezzava
con mani d’angelo,
ferendosi alle tue mute febbri,
il tuo confessarti con la notte.
Sfioravi quel corpo setoso
di luna
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e il tuo cambiar d’umore
mi spaventa
perché mutar tu puoi
la mia stella.
Meglio lasciarti
mentre dormi e fumi
e tornar al tuo piè
dove natura è bella.
Universo donna
di Beatrice Torrente
È tuo il tempo,
tuoi i giorni e le ore,
è tuo lo spazio,
dimensione ove
si rannicchia il tuo essere.
Tu galassia luminosa,
vigile affetto
di pianeti che in te
vivono e palpitano.
Tu sentore d’infinito,
di gioie sublimate,
di sofferenze taciute.
Vigile sentimento,
scia luminosa
che accende reconditi
angoli dell’anima.
Tu fiore,
angelo,
farfalla.
Tu frutto acerbo
e spiga dorata sotto la falce.
Tu ombra scura di nere nuvole
che annebbiano la luce
in giorni tristi di lacrime.
Tu sofferenza abbracciata con amore.
Tu madre!
Ma tu...
sempre tu... quella fulgida metà
senza la quale
il cielo non è completo.
Shoah
di Mina Antonelli
Strappate alla terra
le radici di Davide.
Vagoni di cenere
attraversano il tempo
e la memoria ricuce
i lembi dal passato
per non dimenticare.
Tessevano i silenzi
il ragno con lo scorpione,
assetate zolle
bevevano veleno
e sgolavano sangue i solchi
nei campi di sterminio.
Sul filo spinato cresceva
l’ortica con l’erba amara,
colline di passi accatastati.
Si alzavano nell’alba
e giochi di bambini
si frantumavano nel gelo.
Fiocco azzurro il cielo
si adagiava su bambole spezzate
aspettando invano il crescere
di un fiore tra le spine.
Mani di fango
spartivano le vesti
e spettri di morte si specchiavano
dentro ciotole di pietra.
Ascoltò Dio
il dolore d’Israele,
soffiarono i venti
dai quattro angoli della terra
e scheletri vestiti di sacco
s’incamminarono su deserti di cenere.
Uomini senza volto
risorgono dai silenzi
e sogni calpestati
tornano a vivere.
Negli occhi fioriscono
nuove stagioni
che trovano nella luce
il respiro dei giorni.
Lampare di luna
accendono le pietre
nei vicoli di Betlemme
e il cuore cerca
un’altra cometa
dentro la notte.
Mulattieri
di Mariano Cerignoli
È notte, o morte: fosche di tempesta
le nubi erranti spuntano dal monte,
triste presagio d’imminente pioggia,
ad offuscar dell’occidente i fuochi.
Al tuo richiamo, l’aria si fa gelida,
lampi di fiamme solcano la diga
della bufera, rotolando lungi
va sulla terra a spargere il terrore
della rovina al sonno dei fanciulli,
il fragoroso strepito del tuono:
qual di corriere che da lungi viene,
la scalpitante nuova del cavallo
triste presagio dello stuol nemico.
Gemon le braccia degli arbusti: tetra
di ramo in ramo lungo i sentieri
svolazza la civetta gemebonda.
Ecco fa pioggia: pare che precipiti
sopra la terra il ciel di piombo a pezzi.
Due mulattieri, per la via maestra,
spingono a stento le provate bestie.
Vengon da lungi, salgono dal piano,
vanno al paese a riabbracciar le spose.
Lasciarono le pecore nel chiuso
a la custodia dei compagni fidi,
dove le brine e dove le pasture
sono men crude a le feconde madri.
Ma tu hai deciso ben diversamente,
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o morte, la piena dei ruscelli in uno
hai convogliato vorticosamente,
per trascinarli dentro una voragine
apertasi all’istante ad inghiottire
uomini e bestie e loro masserizie.
Ci vorrà una settimana per trovare
lo scempio atroce delle loro spoglie.
Autunno
di Laudato Sabato
Odore di mosto,
fungo di bosco,
frusciare di foglie
su alberi spogli,
scorrere lento
di acque silenti
su greti giulivi
di rivi antichi:
portarmi
indietro nel tempo,
rivedere me bambino
dal fare birichino,
cercare la gioia,
asciugare una lacrima
lungo il filare della vigna
in un giorno
appena concluso,
volgere al tramonto,
verso la sera, la notte,
ove anche il brillare
di una stella
si perde dietro
il chiudersi di una porta.
Nostalgia di un amore
di Giovanni Di Girolamo
Quando la nostalgia riafferra il cuore,
ben’anche l’ansia punga acre e struggente,
se guardo indietro vedo che il dolore
si stempera al concetto del presente.
E quel che ieri mi sembrò opprimente,
oggi riacquista assai di leggerezza,
come a riempir la vita dal suo niente
e rivedervi intatta la bellezza.
E intatta vi ritrovo la certezza
che viverla val sempre, ché l’incanto
giammai perdere può, né mai l’asprezza
ne affievolisce il senso più di tanto.
E pur se vi lasciò il suo segno il pianto,
per un di quei bei doni che Dio diede
mai la speranza le fuggi d’accanto,
giammai dal cuore si smarrì la fede.
E se qualcosa ancora mi concede,
Paola il tempo, e il sogno il suo fulgore,
via dall’angoscia l’anima rivede
tuttora la dolcezza dell’AMORE.
Flavio Vacchetta
Francesco A. Giunta Vincenzo Cerasuolo
Prigionieri
Sul ciglio dell’indifferenza noi,
prigionieri di urla crudeli,
ci avviciniamo alla morte
che ci riveste con ali di corvo,
ci rapisce con feroci artigli.
Perdonami
Cosa ho fatto!
Nel culmine della maturità
i figli conservati nel cuore,
cresciuti nell’amore
e nello struggimento dell’anima,
sono ormai lontani
per seguire altri sentieri.
A pelo d’acqua
Gabbiani in affanno,
a pelo d’acqua.
Inseguiti aquiloni.
Inebriarmi di mare
Inebriarmi di mare,
il profumo
il fragore
e vomitarli
e annientarli.
Seppellirli.
Fiaba
Solare gabbiano
trasportato dal vento
immobile di ali,
con movimento vellutato
e soffice,
quasi fiabesco.
Triste la pioggia
Triste la pioggia
che bagna
l’umida terra,
buia la mia rabbia
nella battaglia
senza sillabe,
persa quotidianamente.
Non sono morto
ma perdo sangue.
Flavio Vacchetta, nato a Benevagienna
(CN), il 3 ottobre 1951, dipendente di un
istituto bancario, dimostra un animo sensibile ai valori dell’arte e soprattutto alla poesia intesa come inno alla natura, all’universo, alle cose belle e semplici. Appassionato
di astronomia, collabora con il Gruppo
Astrofili Benesi per la divulgazione scientifica ed è socio dell’UAI (Unione Astrofili
Italiani). Ha già pubblicato la prima edizione della silloge Nel segno della Bilancia
che ha ottenuto notevoli consensi, tra cui il
noto scrittore Franco Piccinelli, che si è espresso «Poesie limpide nell’ispirazione, nella musicalità, nei sentimenti che le illuminano, con una precisa dignità letteraria».
Ha pubblicato, con altri autori, a cura del
Comitato di Quartiere San Paolo di Cuneo
una raccolta di poesie e lettere d’amore dal
titolo Petali di Parole.
Non ho più carezze
né parole di plauso
per l’opera compiuta
nella bolgia degli anni
che furono di piombo
e di ansietà per tutti.
Dio perdonami
per ciò che non compresi allora
ma la mia innocenza è tuttora intera.
L’amore che uccide
Non vale rubare una stella
se il sangue è nero
per l’ingiuria subita
per l’umiliazione vissuta.
La notte è fonda e greve,
con pensieri profondi
vado in cerca di un fiore
d’appuntarmi sul cuore.
Quando le lacrime,
divenute pietre
nessuno potrà asciugarle,
ecco apparire il padre
che tutto accetta
e tutto perdona.
Il colore delle stelle
Ora so il colore delle stelle
che s’indovinano nella notte
quando l’anima trepida
d’amore
per te che muta
assali la festa gioiosa
del cuore.
Ora so il colore del sentimento
trepido che mi tormenta,
lo scintillìo della sera
che l’anima vagabonda
cerca bramosa
negli occhi tuoi
per un laccio eterno.
Ora so il colore dell’anima
che s’affaccia al mio destino
solitario e tenero,
roso dal vento del sentire amore
come ricerca fragile
dell’eterno.
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Si nascesse ‘n’ata vota
Si nascesse ‘n’ata vota,
vurria essere criatura...
fermà’ ‘o tiempo a cchillu tiempo...
e nun crescere maje cchiù.
...e chisà si chillu iuorno
putarria vederla ancora,
p’abbracciarla ‘ncopp’ ‘o core,
e lle dicere: «Mammà...
comm’è bello, comm’è ddoce
o cchiammà’ ‘stu nomme tujo!
...e p’ ‘o ffa ‘sta vocca mia
vasa a essa e vasa a tte».
Ma cunfromme chesta vocca
‘sta parola murmuléa...
i’ me sceto ‘a dint’ ‘o suonno...
e me trovo a suspirà’.
Si nascesse ‘n’ata vota...
‘stu penziero torna e torna;
i’ m’addormo chianu chianu...
e po’ torno a m’ ‘a sunnà’.
Il napoletano Vincenzo Cerasuolo è un
personaggio molto noto nel panorama poetico nazionale, sia per la sua dedizione
all’organizzazione di diverse iniziative ed
eventi culturali (fondatore del Centro Studi
“Accademia internazionale Michelangelo”
di Napoli e dell’Associazione artisticoculturale “Leonardo”, organizzatore instancabile di diverse iniziative tra cui il Premio
internazionale “Marilianum), sia per il suo
talento poetico (autore di testi poetici in
lingua e in vernacolo). Un talento che si esprime in una liricità sempre ricolma di vita
e realtà e sempre semplice, naturale e incontaminata. Tra le tematiche predilette da
Cerasuolo vanno ricordate la religione, la
natura, la bellezza, il sociale, l’esistenza,
temi classici e attuali insomma. Il tutto
sembra presieduto da «una poetica memore
della formula oraziana ut pictura poesis
rinverdita dal gusto iconologico pariniano,
che predilige la rappresentazione colorita e
sensisticamente sapida e appetitosa» (F.
Trifuoggi). Un poeta che riesce a far fluire
la riflessione sull’esistenza umana con una
saggezza personale che non cede mai il passo al paternalismo, ma che semmai risulta a
tratti nostalgica. La sua poesia è un perfetto
lavoro di cesellatura derivante da un sapiente uso della metrica e da una qualificatissima elaborazione del dialetto napoletano. Questo indubbio talento gli ha meritato gratificanti riconoscimenti, tra i quali
vanno ricordati alcuni primi premi conseguiti in prestigiosi concorsi di poesia in
vernacolo (Maria Enza Giannetto)
Poesia dialettale
Tu, miele crudo
di Silvana Andrenacci (Roma)
Tu, miele crudo,
fatiga strasudata,
sei un rigalo d’ormoni e nutrimento
che l’ape indafarrata
lo passa à la compagna
cor filo lungo un metro... de la bava!
Sei er prodotto de ‘na vita affatata:
ciai l’aroma de colchice e lavanna,
de primola, d’acacia,
de menta... ch’è ‘na manna;
eppuro li sambuchi co’ l’ortica,
er corbezzolo, er timo
co’ la fravola,
te danno quer sapore,
specie lassato crudo,
cb’è ‘na favola!
La carizza di lu ventu
di Annalisa G. Guerrera (Catania)
‘Mpingiu la luna sutta lu minnulinu
e ‘nterra saliò n’mari d’argentu
e cu li ciuri si furmò ‘ntappitu
trapunciutu di stiddi a centu a centu.
Lu ciumi, sirpiannu lu cannitu,
chiacchierannu, scurri a passu lentu
pari n’priccantu tuttu l’infinitu
a la duci carizza di lu ventu!
St’anima stanca nta la notti chiara
s’abbannuna a la quieti, a lu disiu
e senti chjù liggera la so cruci.
Oh, duci spiranza di lu cori miu
fammi ‘nsunnari e dammi la to vuci
quantu mi sentu chjù vicinu a Diu!
Fatti l’affari toi
di Sebastiano Maccarone
(Furci Siculo – ME)
‘Nun t’intricari mai
‘nte cosi i l’autri,
pensa’a li cosi toi
e campi cuntentu.
Fai cuntu d’aviri
‘na benda ‘nta l’occhi
e u cuttuni scisu,
dintra li ricchi.
E fai megghiu ancora,
si quannu vidi scannulu,
chi, cumprumetti assai
tornitinni a casa, senza pinsari.
Cuciti ‘a bucca!!
Tu nenti vidisti, nenti sintisti.
Nun c’entri, né da porta,
né du purticatu.
Lassa ‘a ccu s’addiverti
e la vita si godi
e nun ti scannaliari.
Mali pi tia, si nun ‘u sai fari.
Goditi’a vita...
E pensa ppi tia.
‘Nun ti ntricari i nuddu
e camina pa tò strada.
Lu postu pi l’eternità
di Carmelo Palumbo (Catania)
Sugnu din postu piddaveru duci
un triangulu di terra chiù nicu
[di na nuci
ca di unni tu talii sempre straluci.
È veramente un locu d’impazziri,
sulu cu lu so ciauru fa sturdiri.
Comu a tutti li cosi beddi e rari
spunta comu un brillanti
[ammenzu u’ mari.
È comu un piattu i pasta
[ammenzu a fami.
È beddu quannu chiovi o su c’è suli,
quannu fa ventu e quannu non ni tira,
è beddu sempre, matina e sira.
Terra di re, briganti, principi e baruni
Ca l’ana fattu sempri di patroni.
Tu, comu a chisti, fui sempri
[strafuttenti
di la me terra non ma interessatu nenti.
Perciò sugnu sicuru ca quannu veni
lo iornu do giudiziu e di li peni,
quannu tu Patri Eternu mi giudicherà
occhi puntu, di sicuru, mi tu liverà
e cu la vuci pisanti e scuru in visu
mi ietta na vuciata di tu paradisu:
«Tu ca na la vita terrena
avisti la furtuna di nasciri e campari
nan postu comu a chistu,
non ni hai saputu approfittari,
[ti na futtutu,
lo hai schifiatu sempri
[e l’hai azzannatu,
pertantu ora di ddocu po smammari,
pirchì mancu mottu si cosa di stari
unni di casa stanu suli e mari».
E speriamo sulu ca nella Sua buntà,
quannu m’assegna lu postu pi l’eternità,
almenu mi lassa arripusari agghiri cà.
A peccerella
di Giuseppe Vorraro (Rep. Ceca)
Peccerella peccerella
si nne vuò fà recrià
apre chesta fenestella
ca te voglio accarezzà
‘ngopp’a vocca nu vasillo
pecceré fatt’abbraccià
nu buon nnammuriatiello
teng’ ‘ a voglia e te vasà.
33
Oggi è na jurnata ‘e festa
peccerella mia peccerè
tu nun siente che tempesta
chistu core fa pe té
chiure ‘a porta e ‘a feneste
voglio o sfizio e stà cu té
sò nu marito ca te resta
tutta a vita ‘inzieme a té
Tantu tiempe aggiu ‘spettato
peccerella mia pecceré,
notte e jiuorno aggiu sunnato
e te fà felice a té
tu invece m’hai ‘ngannto
col padrone del caffé;
uocchie ‘e mesce scostumata
nun te voglio cchiù vedé
Uocchie azzurre cumm’o mare
te vulevo ‘ngoppo ardare
hai ‘ngannato a chistu core
e perciò te caccio fore
a’ stu juorno è stu murente
nun te veco e nun te sento
sulamente aggia penzà
tutte juorne e te scanzà.
Malidittu bisognu
di Franco La Pica (Taormina)
Stu pugnu i terra ‘ntà stu saccuddùzzu
porta u prufumu di llu me paisi,
dda sira ca lassai tutti i me cosi
cu quattru fissarì ittati a muzzu,
e i rrobbi sulu chiddi ‘ncòddu misi.
Lu cori mi chiancìa a lacrimùni
pinsava a mè casuzza, a mè campagna
u pani i casa, u giallu i fienu
e a ducizza di lla me cumpagna
ca mi vinia sautàri di llu trenu.
I fica ianchi fora da finestra
ligna, panara, u croccu ‘ncìma a scala,
a Primavera cu ciàvuru i inestra
e tutta a stati u cantu da cicala.
Inchìvunu lu cori, ma la panza
ricca di nenti, n’avìa rassettu,
cchiù forti ancora di lla luntananza.
Na vita senza ‘mpènnuli ne pila,
unni li tò patruni sunnu tanti
e mmenzu a tutti tu si mmisu ‘nfila
cu lla figura i chiddu ca non cunti.
Sti anni ca si nni eru ‘ntò cimentu,
u pinseri custanti ca mi pisa,
mi pò pagari sulu du mumentu
ca toccu l’erba virdi da me casa.
Puru stu sali ca mi sentu ‘ncòddu
sali i suduri ca mi stidda a frunti,
mi ricorda u sapuri du mè mari
e u suli comu u focu du me munti.
A sira, stancu prima di curcari
apru stu saccuddùzzu i terra niru
sempri accussì, ma chi ci pozzu fari,
mi scappa un lacrimuni quantu un piru.
Australia sìcula
di Giovanni Piazza
(Piazza Armerina – EN)
subbitània mi sbummicò l’urgenza
di farci aviri chistu ca vi dicu,
scrivutu cu parrata di l’anticu.
Alla curtisissima attinzioni do Diritturi
Salvatore Samuel Mugavero di
l’Associazioni “Trinacria”
Perciò quannu ogni tantu vi sintiti
a scorcia di cannolu e in nustalgìa
vistu ca di sta terra siti ziti
nun c’è nenti ca megghiu n’arricria
di na bedda parrata in sicilianu,
puru scrivuta e puru di luntanu.
Ehi, salutamu, Australia, comu va,
e un baciamo le mani a vvui paisani
ca v’attruvati distaccati dda,
ai tanti assai ca, tutti siciliani,
lassàstivu stu suli e ccu gran pisu
partìstivu pi ss’àtru paradisu.
E quannu arriturnati anchi pi picca
nni sta terra ca sempri ecchiù v’aspetta
sapiti già ca essennu la cchiù ricca,
tantu di cori e picca di sacchetta,
idda si mostrerà cuntenta assai ca
di so’ figghi nun si scorda mai.
Cca nui ni la passamu bbona assai,
comu si sa, ni sta Sicilia bedda
fami e bbisognu nun ni manca mai
Chiddu ca t’ava a ddiri ti lu scrissi,
e ognunu ciàvi ormai la so’ minnedda
Australia,
e ti cuntavu l’alti e bassi
puru si sbummicò na calurìa ca aguannu
ora
scrìvimi
tu, si ssiti i stissi,
ormai s’ha mmisu a camurrìa.
fammi sapiri comu ti la passi,
Di novità, c’è ca nni fanu un ponti,
comu si campa beni stannu bboni
si, chissu di ssu strittu di Missina
a mmenzu a sta putenzia di nazioni.
e a nnui, ca di tantànni semu pronti
E allura, Australia sicula, saluti,
p’attravirsari appena si camina,
saluti allegracori e tant’aguri
nni piaci, ca emigrannu o suppergiù
pi tutti ssi paisani scunusciuti
ddu ferribbottu nun ni servi cchiù.
ca di Trinacria spàrginu sapuri,
Comu guvernu avemu l’alternanza,
ca st’ìsula ca spicca munnu munnu
dui grossi e cuntrapposti schieramenti
è parti di ssu cori vagabunnu.
ca si scàncianu a ttipu cuntradanza
però ccu vinci vinci, un cangia nenti
N’abbaglio, ntra veglia e suonno
c’a un dèbitu oramai fora misura
di Ottavio Marandino
stentamu pi truvàrici la cura.
(Battipaglia – SA)
E ppuru stu Guvernu reggionali
Prìmm’e me sosere, ll’ata matina
gira, vota e firrìa comu si vò
m’aggio fatt’ n’atti muorz’e sunnellino.
và pi pigghiari volu e sbascia l’ali,
È cchiù sapurit’ si, pecché è arrubbato
nun c’è putenza umana ca ci po’
a ‘o tiempo nfame, fra nu rintocco
ca s’un canciamu nui mintalità
[e n’ato!
cu cumanna cumanna, è sempri ddà.
Comm’a nu film, ca spost’a
E l’aspittamu, sta pàssula ‘nbucca,
ca pi rassignazioni e lagnusìa semu
tra i primi e ormai mancu pi cucca
si parti o si sprumenta fantasìa
ca cca tutta la nostra picciuttanza
passìa, ma di travagghiu nun n’avanza.
Vistu ca ormai la mafia nun esisti,
anzi pari ca nun ci ha statu mai,
campamu d’aria e di chiossà turisti
ca sta nostra Sicilia, comu sai,
è cchina di biddizzi e maravigghi
ca t’arricria d’unna la pigghi pigghi.
Ma tu lu sai, ca puru a ss’àutru munnu
p’arricurdarti di sta terra, amara
ma chi trasi ndo cori e gira ‘ntunnu,
l’associazioni forsi la cchiù cara
la facisti Trinacria e in bellavista
chiamasti il Ficodindia la rivista.
E a chista Australia sìcula di cori,
ca stavi ‘nparadisu ma nni penza
e a mmenti torna ca sinnò ci mori,
[nquadratura
nu mumento... aggio turnato criatura,
mputrunito a lietto, ntra veglia e
suonno
na matina ‘e festa e chi sà qual anno!
D’a senga d’a porta ‘o rraù se
nsinuava,
e a dduje rummur’ a tiempo,
[s’ammescava.
Era mamma, a fore, ca laganiava.
Papà grattava ‘o ccaso, puveriello!
(E sienze, alierta primma d’o cerviello,
arravogliano verità e fantasia!)
Nzieme ntunavano sta melodia
pe... “laganaturo solo e grattacasa”:
quasi un preludio a chella sinfunia
ca se spanneva cchiù tarde int’a casa!
Ca fosseno fusilli arravugliati,
bucchinotti tunni, o pure cavati...
nun c’era bene ca tu vuliv’e cchiù:
quann’a recotta s’abbracciava c’o rraù!
...Cu o naso tellechiato a chili’ addore,
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cu e rrecchie ancora chiene
[d’o rummore,
m’aggio scetato, nfuso de sudore!
Fore, n’ammuina degna e na cagnara!
Se fonne nzieme a ‘llucchi
[e na cummara:
«Sciorta mia!... S’è appicciato
[o munnezzaro!»
A “sciorta”... è a mia: embè
[che ve ne pare?!
Sentì museca addò nce sta rummore...
na puzza ‘e chelle c’addeventa addore:
a faccia nterra riuscì a vede’ a Luna!
Sti miracul’ e pò ffa’ sul’ Ammore...
ah, putesse durà chesta furtuna!
«I nostri passi risuonano
troppo solitari per le vie»
(F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra)
di Milvia Lauro
L’ago
segna il deserto.
Non un sogno
screzia
l’ala del tempo.
Le strade sono invase
da frenetiche volpi.
Gli ascensori nascondono
minuscoli peccati.
C’era
un giovedì di festa,
un mare,
un diluvio di luce:
era un frutto di vermi.
Troppi generali.
Nel fango
i rospi
fanno rumore
e non si può ascoltare
il laminato fiato del cielo
né l’acqua di diamante.
Il silenzio dei vivi
come una nebbia,
copre
le corde degli uccelli,
il sospiro dell’erba,
il canto della linfa.
Il silenzio
ha murato le brezze,
l’alba delle conchiglie,
le Cattedrali,
il lievito.
Il silenzio vomita sui nomi,
sulle orme, sulle rotte del giorno
e come un ragno tesse
la sua asfissiante
micidiale tela.
era scomparsa.
Si girava intorno nella speranza di scorgere un rumore
amico, un qualcosa di conosciuto, anche solo il tronco di un
albero già visto o il colore di un fiore già odorato, qualunque cosa che potesse darle la certezza di essere vicina alla
sua dimora.
Spesso inciampava nelle grossi felci, stordita dal forte
sole del giorno, indebolita per la fame che non saziava da...
da... da un numero sconosciuto di... cosa mangiare, cosa è
buono e cosa non lo è!
Quei frutti sembrano buoni, ma sono troppo alti! Quei
semi sono gustosi... ma sono troppo duri per aprirli! Quelle
bacche sono saporite... ma troppe spine le proteggono a difesa! Quell’erba è dolce... ma è pericoloso avventurarsi nella parte più fitta della foresta.
Cercava di mantenersi ai margini del bosco, così da avere davanti a sé un vasto orizzonte, nella speranza di scorgere un volto amico o sentire un verso simile al suo nome
“Hu ... Hu... Huia”
La luna spuntò per l’ennesima volta e si alzò nel cielo
argentato in tutto il suo splendore.
Huia, stanca e sfinita, si appoggiò al tronco di una
grossa conifera e, in men che non si dica, i suoi occhi già
vedevano volti cari e sentivano il calore buono e sicuro del
fuoco nella grotta.
Silenzioso e acuto, il troodonte avanzava nella notte e
già pregustava prelibati pranzetti; avanzava a passi rapidi e
sicuri, scrutando a destra e a sinistra in cerca di ...
Scorse il tenero viso di Huia all’ombra dell’arbusto,
illuminato dai raggi della luna che riempiva ormai l’intero
vasto cielo.
Al vederla, i suoi occhi acquistarono luce nuova e divennero ancora più enormi.., il piacere già colava dalla sua
bocca spalancata in abbondante saliva ...
Attese ancora qualche attimo, quasi volesse gustarsi
quell’immagine con gli occhi; per un istante in quegli occhi
avidi.., sembrò di intravedere un barlume di istinto materno,
quell’istinto che gode della vista delle proprie creature addormentate: era un troodonte femmina che aveva appena
avuto dei cuccioli e si aggirava per la foresta in cerca di cibo per i suoi nati.
La dolcezza di quel volto dolce sembrava l’avesse
incantata.., ma fu solo un attimo... l’esitazione di un attimo
che le costò molto cara.
La legge della Natura è crudele e l’istinto di sopravvivenza è più forte di quello tenero di una madre.
Allungò il suo sottile collo e i suoi denti luccicarono
colpiti da un raggio di luna che filtrò improvviso tra le
foglie dell’albero sotto il quale dormiva la ragazza.
Ma quella notte la luna aveva deciso di non essere sua
complice e di prendere le difese di quel cucciolo d’uomo.
Poco più lontano qualcos’altro, di altrettanto affilato e
tagliente quanto mortale, luccicò allo stesso raggio di luna.
Le lance di selce di alcuni uomini erano già puntate
contro il suo collo che s’allungava e fu una pioggia di frecce rapida e precisa quella che in un solo istante trapassò la
sua dura pelle, il predatore, come la legge della jungla
vuole, era diventato preda.
Non fece nemmeno in tempo ad emettere un ultimo grido che il suo corpo si allungò ai piedi della ragazza, svegliata dall’aria smossa provocata dall’accasciarsi del mo-
Racconto
Le storie della valle
della luna
di Jolanda Serra
La stagione delle piogge era arrivata e la Valle della Luna aveva ritrovato il suo consueto splendore: rigogliosa, lussureggiante, prosperosa, densa di vegetazione di ogni tipo.
Era chiamata “Valle della Luna” perché il suo paesaggio era arido e sterile per buona parte dell’anno, ma quando
arrivavano le piogge... allora... allora, era il Paradiso!
Era uno smuoversi e un muoversi eccezionale... era un
alzarsi... alzarsi... alzarsi... fino ad arrivare a solleticare il
cielo... e la sabbia arida spariva completamente lasciando il
posto ad un verde smeraldo che luccicava, come pietre preziose, di sera... all’accendersi della luna!
Le affusolate licopodiacee, i sottili equiseti, le sterminate cicadacee riempivano la parte bassa della foresta;
mentre le wilandielle riempivano la parte superiore, aprendo le loro foglie a ventaglio o a ombrello sulla sommità del
tronco; tutt’intorno poi era un germogliare di conifere nane,
ginko, e felci arboree; svettavano in alto le conifere giganti
che con i loro 50 metri d’altezza sembravano vedette in
attesa del nemico o forse erano solo ansiose di cogliere, per
prime, i raggi del sole che s’alzava all’orizzonte e quelli
della luna che inargentava le notti.
Le notti... già... le notti!
Le notti che non tacevano mai, avevano sempre storie
da raccontare... sempre nuove e sempre antiche... ed ogni
notte un nome diverso.
Al sorgere della luna, ecco un troodonte che comincia
la sua caccia... i piccoli mammiferi, per quanto diffidenti e
veloci, non riescono mai a sottrarsi allo scatto fulmineo di
questo insidioso animale dalla vista acuta e dal cervello
efficientissimo che gli permette di reagire con prontezza di
fronte ad ogni pericolo.
Come un ghepardo, sferra i suoi attacchi notturni sui
cuccioli di dinosauri erbivori, devasta i nidi di orodromeus.
A metà fra un uccello, per i suoi potenti artigli, e un
gatto dalle enormi proporzioni, con i suoi ampi occhi e le
pupille dilatate per raccogliere tutta la luce possibile, si
muove silenzioso nella fitta vegetazione; al cadere dell’oscurità, molte ombre si muovono furtive nel buio ed è ben
difficile distinguerle... il troodonte coglie di sorpresa la
preda, la tramortisce con un forte morso e con il suo artiglio
a falcetto la lacera, dilaniandola poi con le sue robuste
mascelle e i piccoli ma affilatissimi denti.
Ogni notte era piena di storie anonime, ma sempre
note: ora toccava ad un nido, adesso ad una nidiata di
morganucodoni, oppure ad un piccolo plateosauro smarritosi nel tentativo di esplorare il mondo o ancora ad un
anchisauro intento a divorare manciate di verdi germogli
muschiosi. Ma la storia di quella notte aveva qualcosa di
strano ed aveva anche un nome diverso...
Huia camminava ormai da ore, forse da giorni.
Già molte volte la luna aveva illuminato la valle e poi
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e loro si allontanavano sempre più.
I desideri che Huia leggeva negli occhi di quegli uomini erano molto pericolosi, capì in quel momento che il vero
predatore non era il troodonte... ma coloro che le stavano
intorno!
Usci, per ultimo, dalla caverna più grande, un uomo muscoloso e alto, fiero e robusto; aveva il corpo segnato da profondi cicatrici, lo sguardo duro ed una mente che sapeva
pensare... ma anche lui era un uomo... e a lui toccava fare
ciò che gli altri si aspettavano che facesse. Formarono un
cerchio intorno a lei e cominciarono a muoversi ritmicamente emettendo suoni gutturali come quelli di un gufo nella notte.
Lo sciamano davanti a lei la fissava dritta negli occhi
seguendo il movimento delle sue pupille stupite che cercavano di sapere... di capire... di sentire... quale pensiero nella
mente di quegli uomini stava rìtmando in quel modo. Il
ritmo si faceva sempre più intenso, profondo, ossessionante
e cominciò ad entrarle dentro... attraverso gli occhi, le orecchie... le narici.., invase tutto lo spazio dentro di lei... fino a
quando il suo corpo si accasciò al suolo come foglie caduta
dal ramo. Lo stregone alzò allora una mano e tutto tacque.
Due di loro presero la ragazza e la portarono nella grotta più grande, al centro della quale ardeva un grande fuoco.
Un bastone di legno era stato messo di traverso sul fuoco e la punta era già di un rosso incandescente; era di un
legno particolare, che bruciava molto lentamente e manteneva il calore a lungo. I due uomini uscirono dalla grotta e
si misero in cerchio con gli altri che, seduti, aspettavano...
aspettavano... aspettavano...
Lo stregone ritirò quel bastone dal fuoco, fece alcuni
gesti a lui noti, e poi l’affondò nella tenera pelle bianca della ragazza: un filo di fumo si alzò da quel contatto e l’odore
di carne bruciata riempì la grotta spandendosi fuori nella
notte, ad inebriare le narici degli uomini seduti all’aperto:
ora tutto era compiuto... ora quella “preda” apparteneva a
loro, era parte di loro e su di lei avevano acquisito il diritto
di vita e di morte.
Il dolore non aveva sfiorato la mente della ragazza che
era lontana... lontana... in sterminate praterie, trasportata da
quel ritmo incalzante, su pianure e foreste ricche di fiori e
di cibo ogni tipo.
Passò qualche ora, poi lentamente Huia tornò in sé e
riaprì gli occhi, scoprì così che il suo corpo ormai non le
apparteneva più per davvero: i desideri degli uomini le
avevano lasciato cicatrici profonde, molto profonde... sulla
sua pelle e sul suo essere donna.
Si era addormentata fanciulla e... si risvegliava donna...
i segni degli uomini passati su di lei le avevano lasciato un
dolore che la prendeva fino in fondo... in un luogo profondo
che lei non aveva mai conosciuto prima di allora e non capiva cos’era... cosa c’era adesso nel suo corpo che prima
non c’era... cos’era quel dolore così intenso che la straziava
dentro pur senza esserci segni di ferite fuori...? Il suo corpo
portava il segno del passaggio dell’uomo e come un fiore
che dura solo una notte, si trovò smarrita nella sua breve vita e nella sua fragile pelle... si cercava... si cercava... ma
quella pelle le faceva paura, non le apparteneva più... capì
in quel momento che gli uomini, pur non avendo artigli a
falcetto e denti aguzzi come il troodonte, nel quale, anche
se per un solo istante, era pur affiorato un delicato istinto
materno... capi che gli uomini possono fare più male degli
struoso animale.
Spalancò gli occhi che si incendiarono di paura e restò
immobile, bloccata, per decidere da che parte venisse il
pericolo.
Non capiva perché quel grosso bestione stesse fermo,
immobile ai suoi piedi, perché non l’aggrediva, che cosa
stava aspettando?
Poi senti un muoversi di foglie e di occhi che nella
notte l’osservavano: due... quattro... otto... tanti... tanti occhi tutti in una volta!
Occhi amici o occhi nemici?! Buoni o cattivi?!
La sua mente non riusciva a capire cosa fare: aspettare... scappare... gridare... fidarsi...
Certo.. fidarsi... ma di chi... di chi erano quegli occhi
che la scrutavano nella notte?
Gli uomini uscirono allo scoperto e fecero cerchio intorno a lei, si assicurarono che il troodonte non potesse più
far del male a nessuno e abbassati i loro archi fissavano,
adesso, quegli occhi di cerbiatto spaventato.
Gli unici uomini che aveva visto in vita sua erano
quelli del suo clan che conosceva uno per uno: chi aveva
una cicatrice sulla guancia, chi zoppicava, a chi mancava un
braccio, calpestato da un branco di bisonti, a chi la zanna di
un mammut aveva portato via un occhio... ma quei volti, fra
quei volti non riconosceva nessuno di loro.
Fu comunque contenta che si trattasse di uomini, capì
anche che erano stati loro a salvarla dal pericolo che incombeva su di lei. Ma sentiva ugualmente nell’aria che un altro
pericolo stava per attraversare la sua vita, qualcosa di altrettanto terribile, forse più della morte stessa, stava per ferire
la sua tenera sorte e senti di essere tutt’altro che al sicuro.
Ingenua e delicata, si alzò in piedi e un raggio di luna
la investì in pieno mostrando le sue tenere membra di ragazzina.
Gli occhi degli uomini si accesero di uno strano desiderio, s’illuminarono come quelli del troodonte alla vista
della preda e si schiusero per catturare quanta più luce possibile così da ammirarla meglio.
Si scambiarono occhiate di complicità fra loro, poi uno
di loro si avvicinò alla ragazza, la prese sul suo dorso, a
mo’ di preda catturata e in silenzio si diressero verso l’altro
margine del bosco.
Camminarono a lungo, tanto a lungo che Huia non sapeva più se il suo corpo ancora le appartenesse: era provato
dalla fame, dalla stanchezza, dalla paura e da quella strana
posizione che da ore si trovava a vivere sulle spalle di
quell’ uomo.
Finalmente l’alba infervorò il cielo.
Di lì a poco, giunsero in una radura e da lontano già si
scorgevano delle caverne sotto un’alta roccia ricoperta da
fitto muschio..
Il suo corpo fu finalmente deposto sull’erba umida e
gelida del mattino.
Altri uomini le si fecero intorno: uomini... solo
uomini.., tanti uomini...!
E tutti uomini a lei sconosciuti.
Fu un solo sguardo quello che passò fra i loro occhi, un
solo desiderio, un solo pensiero.
Da troppo tempo stavano lontano dalle loro famiglie,
erano partiti due stagioni prima per inseguire un branco di
bisonti e l’inseguimento li aveva portati molto lontani dalle
loro terre, i bisonti continuavano a sfuggire ai loro attacchi
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eppure il calendario segnava un tempo fra di loro... lungo
anni... milioni di anni!!!
stessi dinosauri: nei loro occhi era passato un desiderio fermo che soddisfaceva quell’istinto predatore che non conosce pietà per le prede indifese: l’istinto di conservazione della specie è più forte dell’istinto di sopravvivenza, ed è nell’uomo che questo istinto tocca la sua massima ampiezza!
Ora lei, cerbiatto ferito nella trappola umana, segnata a
fuoco e a sangue, era diventata parte di quella nuova tribù e
come a loro doveva la vita, così adesso a loro doveva anche
la sua morte.
Non fu mai più padrona dei suoi giorni e delle sue
notti: ognuno di loro, con quel rito, ne era diventato ‘legittimo’ proprietario.
A distanza di mesi, con lo sciogliersi delle nevi, il
gruppo nomade ritornò finalmente nelle sue terre, nella
valle dove le famiglie attendevano il loro ritorno. Uno
schiamazzo di bimbi li accolsero festanti. Altri occhi, con
nello sguardo la stessa cicatrice presente nel suo, si fecero
avanti, portando, tra le braccia, bimbi appena nati, nudi come il suo ... sulla pelle chiara ogni mamma portava lo stesso
segno nero fissato nella notte
Non avrebbe rivisto più la sua famiglia, non avrebbe
rivisto più la sua valle... ora quella famiglia, quella valle
sarebbero state le uniche persone e le uniche cose che
avrebbe visto da quel giorno in poi... una fitta di dolore ...
le/mi... attraversò il cuore... e mi svegliai, strofinai gli occhi
ed ebbi paura... il bambino... il bambino... dov’è... l’ho perso... chi ha preso il mio bambino...?
Parole senza senso uscivano dalla mia bocca e mia figlia mi guardava stupita: “Ma cosa dici, mamma, quale
bambino, di quale bambino parli? Non c’è nessun bambino
qui, non hai nessun bambino, noi siamo ormai cresciuti...
chi cerchi?”
Per un istante non capii e non riconobbi il suono della
sua voce.., poi tutto mi fu......
“Niente, niente... devo aver solo sognato... almeno
credo...!”.
Un dubbio, però, attraversò i miei pensieri... andai allo
specchio e cercai, cercai e... non era possibile, non era
possibile!!!
Sulla mia pelle bianca... un segno nero! Come una
bruciatura... una cicatrice profonda che violentava il mio
corpo! E quando me l’ero fatta? Non me lo ricordavo,
proprio non me lo ricordavo! Forse quand’ero piccola mi
ero scottata con il fuoco, forse un incidente... forse... forse...
ma perché non l’avevo mai vista prima?
La voce del giornalista mi riportò alla realtà...
«Aveva appena 14 anni, è stata uccisa e forse stuprata
in una cascina di campagna... dai suoi stessi compagni e da
un uomo... un uomo adulto... che ha lasciato sul suo corpo...
il segno del suo passaggio... un desiderio nato da un
istinto...».
Un istinto ferino e primordiale, un istinto che segna più
dei denti del troodonte! - continuai io nella mia mente - Si
chiamava Huia...
Ma il giornalista continuò: «Si chiamava Desirèe ed era
una ragazza dolcissima!».
La luna tornò ad illuminare la valle d’argento e a
prepararsi per la sua prossima storia... poi illuminò il mio
balcone e capii che la luna vive un tempo che non passa
mai, non ha confini, fra Huia e Desirèe erano passati pochi
istanti, forse neanche uno... forse erano la stessa persona...
L’uomo che fabbricava pesci
di Franco Querini
«Allah ti protegga, figliolo! Vai dove ti porta il cuore.
Sappi solo che dovrai molto lavorare, molto sudare e molto
faticare; e non ti saranno risparmiate neppure le umiliazioni. Io però ti conosco, so bene quanto sei forte, saggio e coraggioso: sono certo che saprai farti valere anche nel tuo
nuovo paese, come già hai fatto in questo, dove però la terra
è troppo avara per sfamare tutte le bocche della famiglia...
Vai, figliolo, sii sempre fedele alla tua Sheila e - mi
raccomando - crescete bene i vostri figli, che sono la vostra
unica vera ricchezza!».
Un lungo abbraccio ed un bacio suggellarono le ultime
parole del padre di Kemal sulla banchina del porto da dove
stava per staccarsi la sbilenca carretta del mare, stracolma
di speranze e di disperati pronti a giocarsi tutto all’en plein
della vita.
Nella nuova patria Kemal si diede subito da fare: manovale, cuoco, strillone, lavamacchine, badante... Qualsiasi
lavoro andava bene, ovunque, purché gli desse quello che
bastava per tirare avanti la frugale famiglia e gli meritasse
l’ammirazione e l’affetto di Sheila, prodiga di dolci abbandoni e di figli sorridenti.
Questi lavori precari non davano però sufficiente
sicurezza e stabilità al bilancio familiare. Fu così che Kemal
cominciò a pensare ad attività meno estemporanee e più
stanziali; pur anche stagionali; magari in proprio.
Raggranellando i pochi risparmi strasudati, si decise al
gran salto verso il lavoro autonomo: d’estate vendeva angurie ghiacciate a fette e d’inverno fumanti caldarroste a cartoccetti. Sbarcava così il lunario, e non solo nelle due piene
stagioni: restava pure qualcosa per tirare avanti negli intervalli tra i lavoretti occasionali con cui riempiva le stagioni
morte.
Non aveva però fatto i conti con l’avanzare inesorabile
del progresso tecnologico e del quadro politico internazionale: da una parte la bio-ingegneria genetica, inventando le
mini-angurie monoporzione, gli aveva sottratto una grossa
fetta (è proprio il caso di dirlo!) di mercato, in quanto la
gente, anziché sputacchiare neri semini in compagnia di
allegri quanto casuali amiconi notturni nelle piazze, preferiva sbrodolarsi da sola in casa propria, stando comodamente seduta a tifare davanti alla tivù; dall’altra, le nuove
ferree norme igieniche a tutela della salute del consumatore,
gl’imponevano di arrostire le sue castagne non più sopra la
brace covata in un mezzo ex bidone d’olio industriale bucherellato ad arte, bensì in un lustro braciere ipertecnologico d’acciaio inossidabile. Ed anche il coltellino con cui
incideva le scorze doveva essere monouso. Costi davvero
insopportabili, che erodevano inesorabilmente le sparute risorse economiche di un’impresa di quelle dimensioni!
Di fronte alla crisi congiunturale, sorda alle men che
elementari esigenze della famiglia - esigenze che aumentavano di pari passo con l’aumentare del numero di figli extracomunitari che annualmente produceva - Kemal si convinse che l’unica via d’uscita era compiere un ulteriore passo avanti: l’occupazione a tempo pieno. Fu così che allargò
l’ambito delle sue attività commerciali: agli angoli delle
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strade vendeva cassette di pesche o di pesce, a seconda
delle mezze stagioni; per reclamizzare i suoi prodotti utilizzava un unico cartello, cui toglieva od aggiungeva un’acca,
riuscendo così a realizzare significative economie di scala.
Una volta che non riuscì a smerciare tutto il pesce e la
rimanenza, dopo alcuni pasti domestici, gli andò a male in
quanto non aveva frigorifero per conservarla, si ritrovò davanti ad una poltiglia maleolente, rifiutata anche dal più
indignato dei gatti randagi: assolutamente inutilizzabile. Ma
che era un gran peccato sprecare, pensava.
Mentre si arrovellava il cervello per inventarsi il modo
di poter riemergere da quella batosta finanziaria che rischiava di buttarlo fuori mercato, Kemal ebbe come una folgorazione: gli balenò in mente l’idea di scartare il marciume
del pesce e di recuperare le sole lische, per inserirle poi
dentro vezzose formine di surimi2, dall’aspetto simile ai pesciolini rossi dei cartoni animati. Lo slogan “Fish for kids”
promosse un prodotto rivoluzionario nel suo genere, solamente da diliscare e mangiare con grande tranquillità, essendo privo di altre spine traditrici.
Fu un successone, superiore a qualsiasi aspettativa, in
quanto ne rimasero ingolositi non solo i bambini, ma anche
gli adulti, che ritrovavano in quei simulacri ittici i variopinti
brandelli della loro perduta gioventù, e quindi ne facevano
frequenti ed abbondanti pasti simbolici.
Le richieste cominciarono a piovere da ogni dove, al
punto che Kemal iniziò una raccolta sistematica di lische
d’ogni forma e dimensione, dando così avvio ad una vera e
propria piccola attività regolare, non ben definibile dal
punto di vista normativo: ittico-conserviera? di trasformazione? artistica? La Camera di Commercio optò per classificarla come “industria estrattiva”. Il grande passo verso
l’imprenditoria privata era finalmente compiuto!
Anche i lussuosi ristoranti specializzati in pesce fresco
apprezzavano questo innovativo prodotto, per svariati motivi: la lunga conservazione, la dimensione rigorosamente
standardizzata, l’aspetto allegro della pietanza, la facilità di
cottura e di servizio, senza più interiora e squame da pulire.
Con quelli più importanti si stabilirono addirittura dei veri e
propri contratti di buy-back, col riacquisto a prezzi prefissati delle lische - se integre - utilizzate nelle precedenti forniture.
A mano a mano che il nuovo pesce si affermava su
tutte le tavole, Kemal cominciò a lanciarne delle varianti per
soddisfare specifiche esigenze, non volendo trascurare neppure i mercati cosiddetti “di nicchia”: ad esempio, cefali al
sapore di tamarindo, di cui si dimostravano ghiotte le belle
signore della buona borghesia, oppure una specie di pescepalla colorato di marrone, rosso, verde e oro al sapore di
fagiano tartufato, fatto apposta per i cacciatori dotati di mira
poco affinata e di palato molto raffinato. Il massimo dei massimi lo raggiunse, però, con il pesce parlante. Era, questo,
un buffo delfinotto fucsia e verdino - nelle versioni da sei e
da dodici porzioni - studiato appositamente per le feste di
compleanno, e che, grazie ad una minuscola batteria ad accumulo di calore che alimentava un circuito elettronico miniaturizzato, non appena si cominciava ad affettarlo si met-
teva a fischiare “tanti auguri a te...” fino a quando non si
raffreddava.
Gli affari andarono a gonfie vele, i soldi arrivarono a
palate e Kemal, con la saggezza popolare che l’aveva forgiato in gioventù e sempre accompagnato nella maturità, decise che era giunto il momento di rientrare in patria, per
godersi in pace gli ultimi bagliori di vigoria e gratificare il
vecchio padre, confortandolo con quegli agi che gli erano
mancati da sempre: vendette tutte le sue attività ad una multinazionale americana, imbarcò la sua Sheila con la numerosissima e ben scalata prole sullo strepitoso yacht che si
era comprato e fece rotta verso oriente.
Attraccò al porto da cui era partito, proprio sotto il paesello natio, un villaggetto senza tempo abbarbicato su per i
pendii impolverati di una petrosa montagna, eternamente
condannato ad un’asfittica economia agro-pastorale.
Al suo arrivo, tutta la gente del luogo - padre in testa corse incontro al redivivo, di cui ben poco si sapeva dal lontano giorno in cui era partito. Furono baci affettuosi, abbracci calorosi, racconti meravigliosi. E fu gioia in ogni
casa. Kemal, infatti, aveva pensato proprio a tutto ed a tutti:
la grande fortuna di uno doveva essere anche la piccola
fortuna di ognuno, foss’anche solo un regalino. Quella notte
passò così, tra canti e balli, in gran festa.
Il mattino dopo, di buon’ora, Kemal fu svegliato bruscamente da sei miliziani che lo strascinarono senza trop-pi
complimenti davanti all’Alta Corte dei Saggi, i quali - venuti a conoscenza della sua trascorsa attività di fabbri-cante di
pesci - all’istante decisero unanimemente di condannarlo ad
una pena severissima. La motivazione della sentenza fu:
«Un uomo non deve fare ciò che può fare solamente Allah».
Alfonsina Campisano Cancemi
2
Prodotto alimentare a base di farina di pesce, che si presenta
come gommoso impasto bianco, sovente colorato di arancione
sulla superficie esterna. È conosciuto anche col nome di polpa dì
granchio.
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La nostra socia e collaboratrice Alfonsina Campisano
Cancemi ha vinto la sezione in lingua siciliana del Premio
Letterario Nazionale “Ninfa Camarina 2003”, la cui Cerimonia di Premiazione si è svolta il 10 maggio u.s. nella
splendida cornice del Teatro Comunale di Vittoria, con la
seguente motivazione: «Trasportata in un paesaggio reale e,
insieme, irreale da immagini fantastiche e suggestive, l’anima legge un senso di rovina, ma avverte anche la realtà vera
del vivere, segnata da un momento di gioia, di tristezza e da
quelli in cui il mistero domina con forza arcana la vita; i
momenti belli e tristi scandiscono il tempo, quelli intimi e
solari illuminano la vita. Il fluire incessante e vorticoso del
tempo, la coscienza dell’ignoto, la precarietà di ogni cosa, è
resa dall’atmosfera suggestiva che scolpisce e sfuma le immagini, dall’armonia intuita delle parole, dalla trama musicale dei versi che, concitata e immediata, rende bene il perenne correre del tempo. Il ritmo, dai suoni gravi per il tempo che tutto travolge, acquista suoni argentini, brillanti per i
ricordi che occupano l’anima; quelli che il tempo non ci può
rapire. Le espressioni semplici, di tutti i giorni, in una buona forma dialettale, conferiscono alla poesia una musicalità
primordiale intraducibile».
Nel corso del 2003 ha ottenuto inoltre i seguenti riconoscimenti: 1° premio per la poesia e 3° per la narrativa al
Concorso Arte e folklore di Sicilia di Catania; 2° Concorso
Nazionale Maggio Pontelongano; 3° Concorso Letterario
Nazionale Valeria di Cittaducale (RI); 4° Premio Letterario
internazionale L’artigiano poeta - Caltanissetta; 5° Premio
poesia 2003 di Catania; 6° Concorso Letterario-artistico
Città di Avellino; Segnalazioni Abbazia cistercense del
Cerreto - Abbadia Cerreto (Lodi), Premio Internazionale
Giorgio La Pira di Pistoia; Menzione d’onore al Premio Il
Convivio 2003.
delle sue parole corrisponde la mia violenza fisica» questo
il suo teorema… logico secondo alcuni.
Ma Francesca tornò a casa, anche perché aveva capito che nessuno, nemmeno i suoi eroici fratelli l’avrebbero
aiutata e difesa e che le prendevano i pochi soldi che aveva
con sé per fare la spesa per il suo “mangiare”.
Come avrebbe potuto farcela senza “niente”, senza
un solo centesimo di suo, già perché quasi sempre lei veniva
picchiata quando si ribellava all’avarizia di lui e, nonostante
avesse cresciuto i figli e si fosse prodigata ad aiutarlo nel
suo lavoro, lei non possedeva nulla, proprio nulla, nemmeno
una minima eredità dei suoi genitori che non c’erano più.
E si ricamò un ritorno a casa da sposa innamorata,
ma chissà… se avesse potuto scegliere!
La dignità di Francesca
di Viola F.
Quel giorno che Francesca perse la dignità era febbraio e c’era una leggera nebbia.
Erano circa le 19.00, tornava da una drammatica seduta da uno psicoterapeuta dove era andata di nascosto del
marito. Era la prima volta che si avvicinava a queste figure,
ne aveva sempre avuto diffidenza. Ma, finalmente, si era
aperta ad un’amica e per la prima volta aveva confessato il
suo drammatico segreto: suo marito la picchiava, anche
davanti ai figli. Lei, ormai stanca, aveva deciso di reagire.
Quella volta non era stata come le altre che alla fine aveva sempre perdonato, magari riempiendosi di rancore
e soprattutto di sfiducia verso se stessa, quella volta aveva
da pochi giorni perso sua madre, aveva lei stessa la morte
nel cuore e quella violenza era stata incommensurabile.
L’amica, stupita, si era subito messa in movimento
e, attraverso la sua rete di conoscenze, le aveva procurato
questo incontro con lo psicoterapeuta. Egli le aveva subito
detto: «Se non coinvolgi tuo marito non potrò fare nulla per
te» e poi le aveva sentenziato che era stata amata nel modo
sbagliato proprio da quella madre che lei tanto piangeva e
dalla sorella maggiore, materna a sua volta, ma che l’avevano fatta sentire, con i loro continui rimproveri, sempre
inadeguata, mai all’altezza delle sue responsabilità.
E pensare che lei si era sentita tanto caldamente
amata da queste figure: si era sentita una principessa, coccolata, rassicurata e protetta e forse aveva deciso di non crescere per non perdere questo tipo di amore! Ma a sentirsi
sentenziare: «Ti hanno amato in modo sbagliato» lei pianse
tanto e disperatamente. Tornata verso casa con l’animo ed il
viso disfatti, pensò di passare dal marito per assicurarsi che
tutto fosse tranquillo e non avesse sospettato nulla. Egli le
venne incontro insospettito dai silenzi e dalle incerte scuse
della sorella, custode momentanea dei figli:
«Dove sei stata?».
Il viso contratto e cattivo, o forse sofferente… chissà!? E lei glielo disse. Immediatamente una ferocia inaudita
si abbatté su di lei. La colpì con una ferocia mai usata, calci, pugni, fino in mezzo alla strada. Forse la leggera nebbia
e l’oscurità della sera avranno pietosamente distratto i vicini, ma lei non potrà mai averne la certezza. Solo le macchine passavano. Una si fermò. Vedendo quella violenza lì
sull’asfalto, il conducente scese dalla macchina, s’infervorò
contro quel bruto, ma questi lo scacciò dicendogli che «lei
se lo meritava» ed il passante, brontolando, ripartì. Lei
tornò a casa, chiamò il fratello, ai suoi occhi era ancora un
soldato eroico e rassicurante e decise di andare all’ospedale.
Anche lì perse la dignità per le domande e gli
sguardi curiosi di chi certo ti conosce. Poi partì la denuncia
d’ufficio presso i locali carabinieri che si prodigarono fin
troppo con interrogatori ai testimoni citati ed a Francesca.
La cosa fu lunga finché lei si stancò e ritirò tutto.
Nel frattempo se ne era andata di casa, ma senza
figli, quindi la lacerazione e i sensi di colpa verso di loro si
facevano più grandi man mano che i grossi lividi neri si
schiarivano e perché qualche “mediatore” le riferiva che lui
soffriva molto, che si sentiva a sua volta violentato dalla durezza delle parole di lei. La sua spiegazione: «Alla violenza
Il Convivio e Omero
È possibile creare un movimento letterario
e sociale a carattere internazionale?
Nel sodalizio tra le realtà di Omero e Il Convivio, ormai conosciute sia in ambito nazionale che internazionale, le due Redazioni hanno composto questa
nota in quanto si vuole stimolare e coinvolgere i soci
di entrambe le riviste e gli eventuali lettori presenti
nelle varie realtà culturali, mirando ambiziosamente a
sviluppare un pensiero aperto e universale, verso un
movimento letterario più unitario, nel comune intento
di partecipare ad un rinnovamento culturale e sociale
che si auspica a livello nazionale e internazionale.
Sulla scena internazionale, specialmente in
America Latina, vi è un proliferare di autori, artisti e
riviste che si affermano come portatori di valori alternativi alla cultura ufficiale. E ciò nonostante le grandi
contraddizioni sociali (o forse proprio perciò?) che,
sotto la pressione delle multinazionali gestite dagli
Stati Uniti, hanno portato le popolazioni latinoamericane a un crescente degrado e povertà. Si pensi alle
gravi crisi economiche di Argentina, Ecuador o Venezuela, le cui ricchezze finiscono regolarmente in altre
mani, o all’embargo trentennale imposto su Cuba.
In situazione ancora più disperata dell’America Latina si trova l’Africa, dove, oltre alla miseria,
alle guerre e alle malattie endemiche, anche in campo
culturale è stata cancellata la grande tradizione letteraria e artistica di un trentennio fa.
Ma anche nel resto dell’ancora chiamato Terzo Mondo, i paesi poveri diventano sempre più poveri.
Sotto la regola del mercato e del profitto sono stati
calpestati i loro valori umani e le loro tradizioni culturali. La presenza di un forte movimento “No Global” è
espressione di tale realtà.
In tale contesto, è giusto impegnarsi per un
rinnovamento letterario, artistico e culturale in generale, che sia creativo e umanista, unitario e cosmopolita,
consci di dover affrontare l’arcipelago delle diversità,
la stagnazione culturale e la schiacciante realtà dei
grandi mezzi di diffusione, dominati dalla sola mentalità del profitto.
39
china. Tutti trattengono il fiato volgendo altrove lo sguardo
per non insospettirlo; ma l’uomo non si accorge di nulla e si
allontana rapidamente. Con un sospiro di sollievo il gruppetto torna ad osservare la bestiola che continua nei suoi
sforzi e, ormai, sembra avere buone possibilità di riuscire.
A bassa voce, sempre attenti a non farsi notare, ormai
fortemente partecipi alla sorte di quell’esserino coraggioso,
quelle persone che fino a pochi minuti prima non si conoscevano, improvvisamente solidali, si scambiano impressioni: «Ormai ce l’ha quasi fatta!» dice uno.
«No, deve ancora uscire la testa» dice un altro.
Ma d’un tratto, senza che nessuno l’abbia notato, torna
il pescatore che si era allontanato poco prima. Ammutoliscono, di nuovo, tutti. Il giovane ha già messo un piede sul
bordo della barca e sta per saltarvi dentro, quando lo sguardo gli cade sul disgraziato polipo che, ormai, sta completando la sua fatica. Rapido, l’uomo si china e, afferrata la
povera bestiola, con un brusco strappo, la tira definitivamente fuori dal buco.
«No...». Un grido si leva dal gruppetto che ha seguito
fino a quel punto i faticosi progressi di quel coraggioso
esserino lattiginoso.
«Lo lasci libero!» implora una ragazza «ha fatto tanta
fatica per liberarsi...».
Il marinaio la guarda un po’ infastidito, poi guarda ad
una ad una quelle facce che lo osservano ansiose sperando
in un gesto di clemenza.
«Anch’io» dice poi a bassa voce «anch’io ho fatto tanta
fatica per prenderlo e mi sono alzato all’alba».
Quindi getta il polipo nella cesta insieme ai suoi disgraziati fratelli e salta, di nuovo, dentro il peschereccio senza più voltarsi.
Nessuno dei presenti parla più e, a poco a poco, ognuno riprende la sua strada, in silenzio, ma con una sensazione
di disagio che induce ad allontanarsi da quel luogo al più
presto.
Ognuno è tornato un estraneo per l’altro: queste persone che, fino a qualche minuto prima, si sono scambiati impressioni e commenti, ora evitano perfino di incrociare gli
sguardi.
In fretta il gruppetto si disperde.
La luce della sera, ormai, sta perdendo la sua luminosità, il cielo non è più così azzurro, né il mare così splendente.
Un altro giorno sta avviandosi alla fine.
Il polipo
di Laura Caleri Falcone
Un pomeriggio di maggio a Castiglion della Pescaia: è
una giornata limpida, con un cielo terso di un incredibile
azzurro, che si rispecchia in un mare calmo, appena increspato da una brezza leggera. L’aria è fresca e frizzante,
scarsi i turisti che si godono la tranquillità che, certo ancora
per poco, regna nella cittadina balneare.
I pescherecci stanno rientrando con il loro carico ancora guizzante e, ad uno ad uno, stanno attraccando alla banchina.
Alcuni curiosi si avvicinano ad un barcone che ha appena gettato le ancore e si accinge a compiere le operazioni di
ormeggio. La pesca è stata buona: le cassette piene di pesce
ancora vivo sono accatastate le une sulle altre. I marinai, a
torso nudo, con la pelle bruciata dal sole, i muscoli segnati
da anni di fatiche, si affaccendano con gesti rapidi e sicuri,
senza badare agli spettatori.
I gestori delle pescherie che aprono sul porto, intanto,
sono usciti dalle loro botteghe e stanno prendendo contatto
con i marinai: osservano il pesce, valutano la merce, contrattano il prezzo. I curiosi sono aumentati di numero: i passanti che sopraggiungono, attratti da quell’animazione, si
fermano a loro volta e, in breve, una piccola folla si assiepa
lungo il bordo della banchina.
A un tratto un uomo del gruppo addita, senza parlare,
qualcosa che si muove sul fianco del peschereccio, all’esterno, appena sopra il cornicione di legno che cinge la chiglia della barca: è qualcosa di bianco lattiginoso, serpentino, che esce da un piccolo foro, meno di due centimetri, e si
muove allungandosi a poco a poco. Dopo qualche secondo
un altro filamento, simile al primo, si affaccia al foro e,
faticosamente, si allunga anch’esso: sono due tentacoli di
un polipo; evidentemente la bestiola è caduta dalla cassetta
e, trovandosi in prossimità del buco, sta tentando la fuga.
L’attenzione di tutti e ben presto catturata da quel piccolo essere che sta cercando, disperatamente, di riguadagnare la libertà, anche se ognuno sta cercando di fare l’indifferente per non attirare l’attenzione dei pescatori. Poiché, inutile dirlo, tutti sono immediatamente dalla parte del polipo
e tifano per lui che, intanto, pazientemente, continua la sua
opera verso la salvezza, tentacolo dopo tentacolo, con lentezza, con evidente difficoltà e con grande fatica, ma con
una determinazione che sembra voler annullare le leggi
della fisica.
«Non può farcela!» dice, infatti, a bassa voce un uomo
del gruppo, «la testa non può passare da quel buco, è troppo
piccolo!» L’animaletto, però, continua il suo paziente, faticoso, lavoro, finché tutti i tentacoli sono fuori. Comincia,
allora ad agitarsi per fare uscire il corpo. Con movimenti
costanti, contorsioni, avvitamenti, anche la parte superiore,
a poco a poco, incredibilmente, sta venendo fuori.
La piccola folla comincia a sperare nella riuscita di
quell’impresa che sembrava disperata. Non è più un polipo
quello che stanno guardando, ma un essere che sta lottando
per restare vivo e lo fa con tale coraggio che, sicuramente,
merita di riuscire nel suo intento.
Improvvisamente un giovane pescatore mette un piede
sul bordo dell’imbarcazione e, con un balzo, salta sulla ban-
Lattarulo Manola, Notturno (olio su iuta, cm 120x80)
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risolto tutto ciò.
Non voglio rifare il percorso. Che si arrangino tutti.
Avrò Pietro e la mia libertà, come le capricciose nobildonne di un tempo, non così lontano, che ottenevano tutto
con piccole adorabili menzogne ed erano venerate perché...
“cosi femminili!!!!!”.
Ma ora che hanno raggiunto la parità con noi donne,
questi uomini del ventunesimo secolo, stentano a tenere il
passo, scivolano indietro, farfugliano di sottomesse donne
orientali (vedrete, vedrete cosa riservano fra non molto ai
“loro” uomini quelle acque chete).
Torniamo alla mia giornata al mio risicatissimo tempo
libero. Dunque, se scelgo Pietro devo, posso e voglio continuare ad essere me stessa. Ma, come si sa, essere libera è
una cosa, avere tempo libero è un obiettivo da raggiungere
e mantenere come un record sportivo.
È questo che continuo a ripetermi mentre marcio a grandi passi verso la mia palestra quotidiana: oasi di stordimento fisico e mentale contemplazione incredula di bicipiti
esibiti al posto del cervello, scempio di pance e sederi extralarge, croce per i timpani e delizia per la mia mente finalmente svuotata, in un labile relax promiscuo.
Ecco, lascio l’ombrello ed entro: le nostre nonne si accostavano alla chiesa con la stessa necessità di ritagliarsi
uno spazio solo per sé: loro credevano di curare l’anima,
noi crediamo di curare il corpo. Ma ora come allora dobbiamo fuggire di casa, trovare uno stadio per tifare o per
tirar calci: le nonne lo sapevano bene, ma non abbiamo voluto ascoltarle, e ora ci tocca pedalare... intanto nessuno può
raggiungerci, siamo protette, al sicuro. Almeno per un’ora.
La messa quotidiana. Gli esercizi spirituali. Il mese di
maggio... Ora tutto è più chiaro... La beauty-farm. Il massaggio. Il parrucchiere: luoghi di culto per l’anima stressata
e sempre on-line.
Eppure nell’altra metà del mondo le donne non potevano andare alla Moschea, tanto meno da altre parti...
Questo nodo è molto grosso, e porta solo guerre e disperazione.
Le nostre sorelle d’Oriente cominciano a svegliarsi:
l’onda anomala potrebbe travolgere tutto.
Oppure no.
L’onda potrebbe ritirarsi e portare via con sé lo chador
e i pregiudizi, l’odio e la violenza.
Il mio tempo è scaduto. Devo uscire dalla palestra.
Verranno altri a scaldarsi i muscoli.
Ai miei piccoli grandi drammi anch’io, come Rossella
O’Hara, ci penserò domani.
Donne in occidente
Breve racconto filosofico di Adriana De Vincolis
La mia lunga ed intensa giornata sta per cominciare:
colazione, lettura dei giornali, controllo delle e-mail, uno
sguardo al cellulare e alla segreteria telefonica, caricare la
lavatrice, preparare il risotto, portare l’auto in officina...
Quante diavolerie bisogna tenere d’occhio, ci vorrebbero due segretari, un assistente personale, un cuoco, un autista, una governante... e forse finalmente potrei dedicarmi
alla stesura del mio libro più difficile e alla mia vita privata.
Primo obiettivo: trovare un editore che mi finanzi in
modo decente, che paghi il mio tempo più che il mio lavoro. Occorre inoltre far spazio, mollare i finti amici, far
tacere telefoni e citofoni, ignorare le richieste di partecipazioni a manifestazioni ladre di tempo. Dedicare un solo
giorno alla vita sociale, all’amore, ai veri amici. Se mi amano, capiranno.
Recidere tutti i cordoni, tagliare anche le spese e regalarsi una lunga vacanza fra le accoglienti comodità di casa
propria e chiudersi a lavorare, fingendosi malate se è il caso
rischiando la solitudine e la perdita di contatti umani essenziali. Ma certo se avessi fatto così non avrei rivisto Pietro,
non avrei cenato con lui ieri sera, ed ora non avrei la serenità necessaria per mettermi a scrivere almeno due ore filate.
Capisco perché gli uomini di talento, di sicuro anche
quelli geniali, o vivono da eremiti o sposano delle insulse
sciape signore paesanotte perbene silenziose fedeli nerovestite: si mettono in pace loro! Bene. Oggi, nell’AD. 2000,
voglio farlo anch’io: non sposerò Pietro, sanguisuga di tempo e di energie. Troverà un dolcissimo sordomuto, servizievole e mieloso, amante di pasti frugali ma non di bambini,
che mi guardi adorante e si annulli nell’ombra al calar della
sera, riparandomi da TV e parenti, telefoni ed e-mail, compleanni e natali...
«Perché non rispondi?! Dài Amanda, svegliati è già
tardi, avevi promesso di venire al mare!».
Rabbiosamente sollevo la cornetta, ma subito mi calmo:
«Pietro, scusa, ho fatto un bagno caldo, mi sento così
raffreddata. Ci vediamo stasera... Vuoi?».
«Ecco, ci hai ripensato, come sei insicura Amanda. Cosa devo fare per convincerti che solo tu sei nei miei pensieri?!».
A quest’adorabile ganzo non passa neppure per la testa
che io ho una mia vita interiore, esigenze improrogabili e
solo mie. A lui sarebbe bastato per scusarsi una banale riunione di lavoro, magari autentica (gli uomini, a furia di inventarseli, gli imprevisti di lavoro finiscono per renderli
reali). Le donne - quelle come me intendo - devono rinunciare alla carriera, ai figli, ad un lavoro regolare; e quando
hanno risolto tutto questo, scoppia loro fra le mani il
ricattuccio sentimentale del maritoamantecompagnoamico
che è lì per lei, tutto per lei, solo per lei.
Che palle, ragazzi, arrivare a questa età e doversi scusare (?!) con qualcuno per una manciata di ore libere, utili a
far funzionare quel cervello tanto odiato da questi piccoli
uomini...
Mi fermo. Esco dal pensiero. Sono in ritardo di
trent’anni.
Le nostri madri negli anni ‘70 avevano combattuto e
Vinia Tanchis
La poetessa Vinia Tanchis ha ottenuto nel corso dell’anno diversi riconoscimenti letterari, tra cui si ricordano: 2° premio con megalia d’oro e diploma al Premio
Letterrario Spazio-Donna (Striano - NA); Targa l’Iride,
centro d’arte e cultura, Premio letterario Cava de’ Tirreni; Menzione d’onore Premio Lett. Il Convivio 2003;
7° premio - Premio Internazionale Versilia 2003 – Viareggio; 4° Premio con targa e diploma Concorso nazionale città di Rufina (Firenze) - Premio di poesia Gian
Carlo Montagni.
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Autori Stranieri in
Rodolfo Virginio Leiro:
Duendes y Nelumbios-Poesías
Spagnolo
di Maria Enza Giannetto
Benjamin Valdivia:Argumentos
Il poeta argentino Rodolfo Virginio Leiro, già noto
per il suo enorme bagaglio bibliografico di pubblicazioni, si
presenta ai lettori con una silloge poetica altamente toccante
sia per il tema trattato che per l’ingegno poetico dell’autore
(Duendes y Nelumbios - Poesías, ediciones Amaru, Buenos
Aires 2003). Una breve silloge di poesie nata con lo scopo
di raccogliere tutte le liriche e le “ultime parole” che il poeta dedicò alla figlia e alla moglie ora scomparse. Liriche di
immensa nostalgia che lasciano trapelare i profondi sentimenti del padre e del marito Rodolfo Leiro.
Pur trattando dolore, sofferenza e morte, la silloge
è pervasa da un profondo sentimento positivo, di accettazione e di pacata rassegnazione. È come se le due donne gli
fossero ancora vicino (la silloge è, infatti, intitolata agli spiriti buoni) con le poesie di questa silloge, in cui si alternano
delle quasi ninnananne per la figlia e delle appassionate e
affettuose liriche d’amore per la moglie. Una poesia nata
per ottemperare alla necessità di quell’eterno “scambio di
amorosi sensi”. Emergono dei quadri ben delineati di queste
due donne (“mis dos princesas”) intorno alle quali ruotò la
vita dell’autore e ruota ora il perpetuo ricordo. E nel ricordo
rivivono le protagoniste rendendo queste liriche, impostate
sull’assenza, dei veri e propri inni alla loro immortalità. Dolore, assenza e immortalità si incontrano e si mescolano nei
versi di Leiro: «me abate, me corroe, me desploma / el perpetuo vacío de tu ausencia» (mi abbatte, mi corrode, mi fa
crollare / il perpetuo vuoto della tua assenza). Un’eternità
che non ha nulla però dello spirito religioso che spesso
accompagna questo genere di liriche. Anzi c’è nel proposito
stesso dell’autore l’impegno a sostenere le sofferenze che la
vita gli ha riservato con stoica accettazione e lontano da
qualunque credo religioso.
Nella sezione intitolata “El perdòn”, si legge addirittura il suo totale ateismo o meglio la totale abnegazione
di un essere superiore che secondo il poeta non esiste affatto, ma che se esistesse sarebbe soltanto l’“artifíce nefasto de
mis días” e dovrebbe rendergli conto delle sue pene e dei
suoi dolori, spiegandogli il perché di tanta sofferenza. Una
vera e propria sollevazione e rivolta verso il destino, quasi a
dire io accetto ma non perdono.
para la retorica (Argomenti per la
retorica)
di Vincenzo Campobasso
Tra vari altri libri di poesia francese inviatimi dal
nostro direttore Angelo Manitta, mi è pervenuto anche “Argumentos” dell’autore messicano Benjamin Valdivia. Libro
che non é precisamente di poesie. È però composto di circa
ottanta pagine serrate di aforismi. Aforismi... poetici. Nel
senso che, pur trattando di filosofia (un po’ filosofia del linguaggio, un po’ filosofia esistenziale), il modo in cui Valdivia ne tratta è sicuramente poetico. Parlarne, così, per
sommi capi, non può dare la giusta dimensione del contenuto del libro, non può rendergli giustizia; ma l’esiguità
dello spazio tiranno obbliga a non spaziare (laddove forse
varrebbe la pena che l’opera fosse compiutamente tradotta
per essere presentata, in italiano, a coloro che, esperti o
profani di filosofia, non conoscono la lingua spagnola).
«En principio, todo pensamiento es argumentalmente inconsistente» (in principio, ogni pensiero è argomentabilmente inconsistente), dice, come ipotesi di lavoro,
e, a chiusura del cerchio, dopo il lungo percorso in cui coglie, se non tutte, almeno la massima parte delle sfaccettature della retorica, conclude che «en ultima in-stancia, todo
pensamiento es argumentalmente consistente» (in ultima
istanza, ogni pensiero e argomentabilmente consistente).
Ma, giusto con qualche esempio, ecco cosa dice della retorica. «La retorica - traduco direttamente - consiste nel
dare un colorito appetitoso alle nostre cose che consideriamo accettabili per tutti! La retorica è un veleno salutare!...
la saporosa degustazione dei nostri effimeri pensieri...».
Però “la retorica è perversa”, tanto è vero che, per esempio,
«l’importante della verità, per la retorica, non è la verità in
sè, bensì la forma in cui si presenta» ma «non perché alla
retorica non interessi la verità, bensì perché ogni verità in
sé, include una maniera di presentare in società questa verità in sé». O ancora «è falsa l’idea che la retorica è falsa».
Insomma, la retorica è tutto e il contrario di tutto. In ogni
caso, rappresenta il «nostro argomento per convincere la
totalità che noi siamo necessari nel piano dell’universo».
Solo «la poesia non è retorica, poiché le sue immagini non
si postulano per convincere! La poesia utilizza la retorica
come una sposa che adorna con fiori un nastrino nel suo
corredo. E a volte il corredo demerita rispetto all’ornamento».
Las flautas
La Redazione si scusa per avere, nel numero
precedente del Convivio, attribuito erroneamente
a Rodolfo Virginio Leiro la poesia “Ahora” di
Efrain Barbosa, e attribuito ad A. Benjelloun la
poesia “Rinascimento” di Denise Barnhardt
42
I flauti
La flauta de la noche
sus notas de remansos,
de espacios siderales
labraba en fulgurante
arpeggio de descanso.
Il flauto della notte
le sue note ristagnanti,
di spazi siderali
operava in folgorante
arpeggio di riposo.
La flauta de la Aurora,
su música de albas,
de soles colosales,
tesones inmortales,
ungía en melodias
de brazos y de palmas.
Il flauto dell’Aurora,
la sua musica di albe,
di soli colossali,
costanze immortali,
ungeva in melodie
di braccia e di palme.
Aniquirona, poesie (Colombia 2003).
Hoy tambien es primavera (Spagna)
de Manuel González Alvarez
Oggi è anche Primavera
Trad. di Angelo Manitta
L’autore, nato a Neiva Huila
nel 1969, è poeta e presentatore della
radio. Ha ottenuto in diversi concorsi
menzioni d’onore ed è stato premiato
più volte, ottenendo spesso il primo posto. La sua poesia è animata da una
violenta serenità. Questo contrasto evidenzia il suo intento, cercando di presentare situazioni di una realtà variabile, e soprattutto ricostruire il significato delle cose attraverso la liricità
della sua creazione, ma anche attraverso un afflato religioso che trae spesso
spunto dalla Bibbia, evocando sogni e
tormenti, pene e felicità. Aniquirona è
un mondo tutto a parte, tutto a sé stante, è il mondo che ha visto nascere e
crescere il poeta, ma che ha visto scaturire le sue idee e le sue emozioni.
Schuaima è più che un mondo onirico,
si tratta di una forma reale di estraniazione con la proposta costante di
dare segnali di vita, tanto da sfociare in
una forma di misticismo e di trascendentalismo a priori.
Hoy están tristes mis palomas
hoy están tristes mis jilgueros,
hoy se me mueren de pena
los gorriones de mi huerto.
Hace días que no duermo.
Los pájaros siguen pasando
y nadie se para a verlos.
¡Otra Primavera triste !
Se vislumbran nuevas guerras,
la gente se mata y mata
por un palmo más tierra.
¿Pero que han hecho esos niños?
¿Pero que han hecho esas viejas ?
Pero que está haciendo el mundo
que no prohibe las guerras,
que dejan niños sin padre
y a madres sin hijos dejan.
¿Es qué no saben pensar
en rosas o en Primaveras?
En lugar de esos misiles
que siegan y nos aterran,
los pájaros siguen pasando.
Han nacido nuevas guerras,
los pájaros siguen pasando.
¡Hoy también es Primavera!
Oggi sono tristi le mie colombe
oggi sono tristi i miei cardellini,
oggi mi muoiono di pena
i passeri del mio orto.
È da giorni che non dormo.
Gli uccelli continuano a passare
e nessuno si ferma a vederli.
Un’altra Primavera triste!
Si scorgono nuove guerre,
la gente si ammazza ed ammazza
per un palmo di terra in più.
Ma che hanno fatto quei bambini?
Ma che hanno fatto quelle vecchie?
Ma che sta facendo il mondo
che non proibisce le guerre,
che lasciano bambini senza padre
e lasciano madri senza figli?
È che cosa non sanno pensare
tra rose e Primavere?
Invece di quei missili
che falciano e ci atterriscono,
gli uccelli continuano a passare.
Sono nate nuove guerre,
gli uccelli continuano a passare.
Oggi è anche Primavera!
Winston Morales Chavarro,
Cayetano Ferrari, Cuentos lacó- Mis hijas: Emita, Yuly y Delly
de Emma Villarreal de Camacho
nicos, (Argentina, 1988). Si tratta di
un volume di racconti pubblicati dallo
scrittore argentino, ma nato in Italia a
Frascinetto, in provincia di Cosenza, ed
emigrato in quella nazione, ancora
bambino, nel 1938. Il Ferrari ha pubblicato ben dieci volumi, è inserito in
decine di antologie ed ha vinto numerosi prestigiosi premi letterari. Ha esercitato la professione di chimico farmaceutico.
Y si el amor nos eterniza?
di Elda Alonso (Uruguay)
Amor es fragua que eterniza,
llama que arde y no consume,
de malezas nos cierne y desliga,
en el sufrimiento y dolor es lumbre.
Nos despoja de todos los rencores,
a los pensamientos los perfuma,
engendra alegría a borbofones,
en los ojos nos plasma la ternura.
A la soledad le da paz y sosiego,
al silencio lo habita de rumores,
al espiritu lo colma en sus delicias.
Amor, que da luz a los ojos ciegos,
Amor, que aclara la más oscura noche,
Amor, que con Dios nos eterniza.
Le mie figlie: Emita, Yuly e Delly
trad. di Angelo Manitta
(Messico)
Bondad y firmeza
auténticas hijas del trabajo
con pocas fiestas
Sobrellevaron el peso
de un hogar con muchos rezos
ángeles y vírgenes
abundaron muy adentro
y salimos adelante
con su ayuda y el Padre Nuestro
Dios las premie con muchos bienes
les dé amor y lujos que no tienen
La Virgen María las proteja
en sus vidas de realeza
y el hogar en el que estuvieron
tenga luego diamantes para ustedes
en excelencias nada tristes.
***
Azucenas de primavera
oro que llega...
han sido mis hijas
también luces y centellas
Sus cosas y sacrificios
a veces con oasis en el camino
han pasado los años
y aprendiendo han sobrevivido
Perlas que surgieron
contra corrientes dolientes
siguen como tesoro
que luce siempre en mi mente.
43
Bontà e fermezza
autentiche figlie del lavoro
con poche feste
Hanno sostenuto il peso
di una casa con molte preghiere
angeli e vergini
hanno portato dentro l’abbondanza
ed andiamo avanti
col loro aiuto e del Padre Nostro
Dio le premii con molti beni
dia loro amore e lussi che non hanno
La Vergine Maria le protegga
nelle loro vite di regalità
e la casa in cui sono state
abbia diamanti per voi
in eccellenze per nulla tristi.
***
Gigli di primavera
ricchezza che giunge...
sono state le mie figlie
anche luci e scintille
Le loro cose e i loro sacrifici
a volte con oasi durante il cammino
hanno oltrepassato gli anni
ed imparando sono sopravvissuti
Perle sorte
contro correnti dolenti
avanzano come tesoro
che brilla sempre nella mia mente.
Patrizia Colajanni
trad. spagnola di Francisco Alvarez Velasco
trad. portoghese di Andityas Soares De Moura
La sabbia
La arena
A areia
Le sponde di sabbia rovente
si assottigliano all’ondeggiare del mare;
si tingono del bianco sale marino
ma, subito dopo, tornano a riflettere
[il dorato sole.
Gli occhi miei non vedono più nulla
quando si scontrano con i suoi
[riflessi d’oro.
Prendo in mano la sabbia; ogni
[granello giallo
non è una suppellettile,
ma un microcosmo pulsante
[di vita propria.
Mi cade dalle mani;
ho perso un mondo che mi apparteneva.
Lo rincorro, ma ormai si è confuso con
l’immensa spiaggia. Adesso me ne
[rendo conto:
non era mio; apparteneva a se stesso.
Las orillas de arena candente
se reducen con las olas del mar;
se tiñen de blanca sal marina,
mas, de pronto, tornan a reflejar
[el dorado sol.
Mis ojos no ven nada
cuando se encuentran con los
[reflejos de oro.
Tomo puñados de arena; cada
[grano amarillo
no es un adorno,
sino un microcosmos palpitante
[de vida propia.
Se me escurre de las manos;
he perdido un mundo que me pertenecía.
Lo busco, pero ahora se confunde con
la inmensa playa. No lo
[sabía:
no era mío; se pertenecía a sí mismo.
As margens de areia candente
adelgaçam-se com o ondear do mar;
tingem-se do branco sal marinho
mas depois, súbito, voltam a refletir
[o dourado sol.
Os meus olhos já não vêem nada
quando se encontram com os seus
[reflexos de ouro.
Pego na mão a areia; cada
[grão amarelo
não é um móvel,
mas um microcosmo pulsante
[de vida própria.
Cai-me das mãos;
perdi um mundo que me pertencia.
Persigo-o, mas já se confundiu com
a imensa praia. Agora me
[dou conta:
não era meu; pertencia a si mesmo.
París
Paris
Je t’aime Parigi,
je t’aime.
Non posso spiegarmi ciò che provo
[vedendoti.
Je t’aime París,
je t’aime.
No puedo explicar lo que siento
[al verte.
Je t’aime Paris,
je t’aime.
Não posso explicar-me o que sinto
[vendo-te.
Ammiro le austere volte delle tue
[infinite
chiese e mi diletto a cercare la cima
della Tour Eiffel, nel sole caldo
[di agosto.
Admiro las austeras figuras de tus
[infinitas
iglesias y me deleita descubrir la cima
de la Tour Eiffel, en el sol caliente
[de agosto.
Admiro as austeras abóbodas das tuas
[infinitas
igrejas e me deleito a buscar o cume
da Tour Eifel, no sol quente
[de agosto
Je t’adore Parigi,
je t’adore.
Mi sei nel cuore e ti porterò
sempre con me
Mia piccola, grande Parigi.
Vorrei che il tempo si fermasse
e tornassero i momenti
[della Rivoluzione,
quando le tue strade erano macchiate
dal sangue del tuo popolo.
Tu sei sempre splendente,
anche quando il fiume impetuoso
ha travolto la prigione inespugnabile.
Tu sei sempre stata forte.
I traditori non ti hanno piegata e
Tu hai sorretto le catene spezzate
[del sopruso.
Libertà, eguaglianza, fraternità:
questo racchiude la reggia e
questa è Parigi.
Je t’adore París,
je t’adore.
Vives en mi corazón y te llevaré
siempre conmigo,
mi pequeño, gran París.
Quisiera que el tiempo se detuviera
y tornara la hora
[de la Revolución,
cuando tus calles se mancillaban
con la sangre del pueblo.
Tú resplandeces siempre,
aunque el río impetuoso
ha arruinado la prisión inexpugnable.
Tú siempre has sido fuerte.
Los traidores no te han doblegado y
has izado las cadenas rotas
[de la humillación.
Libertad, igualdad, fraternidad:
esto encierra el palacio y
éste es París.
Je t’adore Paris,
je t’adore.
Estás em meu coração e sempre te
[levarei comigo
Minha pequena, grande Paris.
Queria que o tempo parasse
e voltassem os momentos
[da Revolução,
quando tuas ruas eram manchadas
pelo sangue de teu povo.
Tu és sempre resplandecente,
mesmo quando o rio impetuoso
subverteu a prisão inexpugnável,
Tu sempre foste forte.
Os traidores não te dobraram e
Tu sustentaste os grilhões quebrados
[do abuso.
liberdade, igualdade, fraternidade:
isso encerra a realeza e
essa é Paris.
Parigi
44
Umbelina Frota:
Portoghese
poesia e sentimento
Certas respostas
di Angelo Manitta
di Cardoso Tanussi
Umbelina Frota, scrittrice brasiliana, autrice di diversi volumi, presentiamo in particolare, Ás Sombras do fatobá, Apenas uma lembrança, Viagem ao passado. Il primo volume è un libro che sorprende per la qualità del contenuto e per la vivacità delle poesie. L’autrice riunisce qui alcune delle sue migliori liriche che la confermano come una
delle maggiori scrittrici delolo stato del Goiás. Anche il secondo volume è una silloge, con dei disegni. Qui appaiono
due condizioni indispensabili della poesia di Umbelina
Frota: la domanda e il dubbio da una parte e lo scrivere per
necessità, quasi d’istinto, dall’altra parte. «Tra le sue fonti
d’ispirazione c’è la famiglia, il lavoro, i tormenti, i ricordi.
In ogni persona incontra forti tracce di dolore e amore. Al
contrario di molti sentimentalisti che non vogliono valorizzare i propri lamenti, Umbelina lo fa e molto bene» scrive
nella prefazione Valdemes Menezes. Nel terzo volume, in
prosa, è come aprire le porte del tempo, come attraverso un
film che permette di riandare indietro ad alta velocità. Un
passato che si fonde con il presente attraverso la memoria.
Pelo prazer, pelo desprazer
para experimentar e doer
para de amor não morrer
pra ficar de bem comigo,
pra ficar de mal comigo
pra ficar comigo
pela palavra céu, pela palavra flor,
pela palavra terra pela palavra pedra,
pela palavra qualquer pela palavra
por tudo que é certo e que medra
por tudo que é bom e se enterra
pela cor e pelo riso
para dar voz aos não-vivos
para espantar os fantasmas
por Leticía e por Isaura
por João e por Narciso
pelo aprendizado do homem,
pelo aprendizado do pássaro
pela forma e pela fôrma
pelo mar da metafora
pela aventura, pela desventura
pela desconstrução da morte,
pela arquitetura da vida
pelo humano
pelo que está por trás do pano
pelo sagrado, pelo profano
por Deus e o diabo-a-quatro
pelos santos sem pecado
pelo pecado
pelo absurdo, pelo susto
porque acredito no sexo e no parafuso
pela inútil beleza do nome
porque creio no pai, na mãe e no lobisomem
porque invento o que digo e inverte o que sinto
porque existe o osso e o paradoxo
porque tenho culpas ancestrais
porque acredito em Deus, e não
pela insônia
porque respiro o sono dos injustos
pela estultícia pela agonia de sobreviver a tudo
porque sou funcionário público
pelas noticias do rádio pelo concreto querer,
pelo poder abstrato pela explosão do desejo,
pela intimidação do ego por dinheiro, por sucesso
pela máquina que forja o que vomito e piro
porque suspiro
pelo que está à margem, na igreja,
na prisão e no hospicio
porque lirico porque cínico
porqne perversoporque mar
porque deserto por ser único
e ser primevo
porque escravo
porque liberto
escrevo.
Per favore
Tieni la mia mano,
per favore, tienila.
Mi sento sola, molto sola,
cerco una mano amica, fiduciosa,
per poter andare avanti.
Tienimi! Abbracciami!
A volte mi sento cadere,
contorcere di solitudine,
Io grido, nessuno risponde,
solamente la notte, con il suo silenzio
e la sua oscurità
solo una stella che brilla,
quasi volendo mostrare
la strada da seguire.
Io cammino da sola, come un tempo,
singhiozzando come sempre.
Io sento freddo nell’anima,
solamente una lacrima mi calma.
Solamente, solamente!...
Il cuore si lamenta:
Prego! Ascolta il mio grido!
Tieni la mia mano,
per favore, tienila!..
Testo portoghese: Segura minha mão, / por favor, segura, /
sinto-só, muito só, / quero uma mão amiga, confiante, /
para que possa ir adiante. / Segura-me! / Abraça-me! / As
vezes sinto-me cair, / a contorcer de solidão, / grito,
ninguém responde, / só a noite, com seu silêncio / e sua
escuridão / apenas uma estrela a brilhar, / como querendo
mostrar, / o caminho a trilhar. / Caminho sozinha, como
antigamente, / a soluçar como sempre. / Sinto frio na alma,
/ só a lágrima me acalma. / Só, muito só!... / O coração
reclama / por favor! Ouça meu grito! / Segura minha mão, /
por favor, segura!...
45
La Rosa
A Rosa
Trad. di Angelo Manitta
di Francisco Evandro de Oliveira
Entre milhões de rosas no bosque da existência,
você chegou e floresceu com seu encanto.
Remoçou momentos adormecidos, farfalhou os
desejos incontidos...
Teu olhar embelezou o novo amanhã.
Até quando? Perguntou o beduíno
errante do deserto da vida.
Só a bela rosa saberá dizer a resposta!
Mas, como é belo!
Sentir o perfume que desperta os sentimentos do nauta
ao longo da estrada!
Fra milioni di rose nella foresta dell’esistenza,
tu sei giunta e sei fiorita con il tuo fascino.
Hai rievocato momenti sopiti, farfugliato
desideri incontenibili...
Il tuo sguardo ha abbellito il nuovo domani.
Fino a quando? Hai chiesto al beduino
errante del deserto della vita.
Solamente la bella rosa saprà dare la risposta!
Ma, come è bello
sentire il profumo che sveglia i sentimenti del navigante
lungo la strada!
Estrela
Stella
de Amadeu Thomé
Trad. di Angelo Manitta
Homem, só, tristonho, olhando a estrela....
só, tristonho,
olhando a estrela.
Estrela brilhando na sepultura do filho em flor.
Estrela tão bela que tudo ilumina...
tão bela que tudo ilumina!
Ilumina a amargura do imenso amor.
A Fatalidade, é triste se vê-la...
é triste se vê-la.
Vê-la, lembramos quem não luta com ardente fervor...
Amando a vida, ela nos fascina...
a vida, ela nos fascina.
Fascina, a estrela, com intenso fulgor!
Homem só, tristonho, olhando a estrela...
Estrela tão bela que tudo ilumina!
A Fatalidade, é triste se vê-la...
Amando a vida, ela nos fascina!
Estrela brilhando na sepultura do filho em flor,
Ilumina a amargura do imenso amor!
Vê-la lembramos quem não luta com ardente fervor.
Fascina, a estrela, com intenso fulgor!
Uomo, solo, infelice che guarda la stella....
solo, infelice,
che guarda la stella.
Stella che splende sulla tomba del figlio in fiore.
Stella così bella che tutto illumina...
così bella che tutto illumina!
Illumina l’amarezza dell’amore immenso.
La Fatalità, è triste se la vede...
è triste se la vede.
Vedila, ricordiamo chi non lotta con ardente fervore...
Amando la vita, lei ci affascina...
la vita, lei ci affascina.
Affascina, la stella, con splendore intenso!
Uomo solo, infelice, che guarda la stella...
Stella così bella che tutto illumina!
La Fatalità, è triste se la vede...
Amando la vita, lei ci affascina!
Stella che splende sulla tomba del figlio in fiore,
illumina l’amarezza dell’amore immenso!
Vedila, ricordiamo chi non lotta con fervore ardente.
Affascina, la stella, con splendore intenso!
Meu quarto
de Marcus Mendra
La mia stanza
Trad. di Angelo Manitta
Meu quarto tem poucos objetos,
caixas velhas e jornais antigos,
botas, sapatos, chinelos no chão,
uma janela para o poente,
uma porta, quando aberta, fechada,
um guarda-roupa e, dentro,
disfarces da esperança,
uma cama para repousar o tédio,
um armário com ventos e tempos idos,
banco e mesa - de sobremesa, os anseios,
maracas, baixo, palhetas e, calado, o violão,
um telefone sem respostas amáveis,
um retrato de quem não me ama...
e é todo pintado de amargura,
na hora do crepúsculo
e no evento da aurora;
meu quarto é um quarto
por inteiro sozinho.
La mia stanza ha pochi oggetti,
vecchie scatole e vecchi giornali,
stivali, scarpe, pantofole a terra
una finestra volta a ponente,
una porta, quando aperta, quando chiusa,
un guardaroba e, dentro,
travestimenti della speranza,
un letto per riposare dalla noia,
un armadio con venti e tempi andati,
panca e mensa - di dolce, i desideri,
balsami, basso, peltro e, silenziosa, la chitarra,
un telefono senza amabili risposte,
un ritratto di chi non mi ama...
ed è tutto dipinto d’amarezza,
nell’ora del crepuscolo
e nel sopraggiungere dell’alba;
la mia stanza è una stanza
completamente solitaria.
46
Branco da paz
di Maria Gertrudes Horta Greco
(Brasile)
O branco emitindo a paz
tras a muitos, que capaz
de conviver com esta, são...
Esta cor que só bem traz,
Transformado tudo, então...
Desde a pomba apresentada,
a bandeira 1evantada,
o branco quer dizer: Paz...
Paz a muitos proclamada,
convivência desejada,
por quem vivê-la é capaz...
Vivência... Capacidade...
Depende da integridade,
de cada ser que assim doar...
O branco... Felicidade
representa a humildade,
pois, quem doa... Sabe amar!
Bianco della pace
Trad. di Angelo Manitta
Il bianco è segno di pace
dietro a molti, che capaci
di vivere con essa sono...
Questo colore porta solo bene,
trasformato tutto, poi...
Dalla colomba apparsa,
dalla bandiera innalzata,
il bianco vuole dire: Pace...
Pace proclamata a molti,
coesistenza ricercata,
per chi viverla è capace...
Esistenza... Capacità...
Dipende dall’integrità,
di ogni essere che sa donare...
Il bianco... Felicità
rappresenta l’umiltà,
perché chi dona... sa amare!
Luis Sersale di Cerisano,
Por qué cayó la luna (Ed. Amaru, Argentina 2003) «Esta novela me dejó
sorprendido. En ella se refleja un mundo que él y yo conocimos; un mundo
con sus cualidades y también con sus
errores; pero que en estas páginas,
pienso, queda eficazmente bosquejado.
Pero, si no me equivoco, hay que encontrarle su mayor valor como cálido y
emocionado documento humano»
(Leonardo Gigli).
Fátima Queiroz, Jesus – os últimos
dias (Brasile 2003). Si tratta della rappresentazione teatrale in un atto della
passione di Cristo. L’autrice rivive in
maniera profonda e personale gli eventi drammatici dell’uomo-Dio che con la
sua vita ha riscattato gli uomini.
Në fëmijëri
di Faslli Haliti (Albania)
Kur shihja laureshën në kthetrat e
skifterit,
e lemerishme,
tmerr.
Në end të këngës së saj pranverore
Dëgjoja rë qarat e saj tragjikë në
pranverë.
Dëshira ime ishte:
të thyeja krahë skifterash egërsisht.
Në fëmijëri,
pa e ditur këshillën e gjysh Hygoit:
“Kush shëroh krahun e skifterit
përgjigjet për kthetrat e tij…”
Ç’lemeri, Ç’tmerr,
Të dëgjoje të qarat tragjike të zogjve,
dhe mos të t’i thyeja krahët ty, skifter!
Nell’infanzia
Trad. di Miranda Haxhia
(Albania)
Quando scorgevo l’allodola tra gli
artigli del falco
che terrore,
che orrore,
al posto della sua canzone primaverile
sentivo i suoi pianti tragici in primavera.
Il mio desiderio era
di spezzare ali di falchi crudelmente
nell’infanzia
senza ascoltare il consiglio dello zio
Hugo:
«Chi guarisce l’ala del falco
è responsabile per i suoi artigli…».
Che terrore, che orrore
sentire i pianti tragici degli uccelli
e non spezzare le ali dei falchi!
E se l'amore ci eterna?
di Elda Alonso (Uruguay)
trad. di Angelo Manitta
Amore è fucina che eterna,
fiamma che arde e non consuma,
da sterpaglie ci libera e scioglie,
nella sofferenza e nel dolore è luce.
Ci spoglia di tutti i rancori,
i pensieri profuma,
genera allegria in abbondanza,
negli occhi ci plasma la tenerezza.
Alla solitudine dà pace e quiete,
il silenzio lo riempie di mormorii,
lo spirito lo colma delle sue delizie.
Amore che dà luce agli occhi ciechi,
Amore che chiarisce la più oscura notte,
Amore che con Dio ci rende eterni.
47
Amadeu Thomé,
A saga do sete anos, (Brasile 2003).
“A saga do sete anos” è un’opera interessantissima con una alta espressività
umana e di grande sensibilità. L’autore
riafferma i valori della famiglia, per
questa società decadente in cui viviamo. Il suo messaggio è chiaro e credo
che questo libro porterà grandi onori e
glorie al suo autore, ottenendo anche
premi internazionali. Quando il personaggio principale del racconto perde il
figlio adolescente, dovuta ad una rara
malattia congenita, provoca certo emozione e non si possono contenere le lacrime. La sua narrativa e la sua espressività sono davvero belle, umane, sensibili e profonde. In effetti vale la pena
leggere il libro. Amadeu Thomé è nato
a Rio de Janeiro, il 7 aprile del 1925.
Ha cominciato a lavorare all’età di 10
anni, mentre a 15 anni cominciò a scrivere racconti polizieschi, poesie e cronache varie. Ha lavorato in alcune
banche, ha frequentato l’università ed
ha ottenuto diversi riconoscimenti letterari, oltre ad avere pubblicato diverse opere e a far parte di diverse antologie.
Arnaldo Setti, A pequena
orquestra, (Brasile 2003).
Arnaldo Setti è un uomo sempre pronto a correre dei rischi estetici, abbracciando il testo che scrive con un profondo sentimento del mondo, uno
sguardo sul mondo che lo fa vivere e lo
ha fatto vivere, ma sempre con l’occhio volto verso il nuovo. Direttore
della Rivista “Meyo ponte” è un ottimo narratore. Il volume è, infatti, una
raccolta di racconti che presentano un
uomo legato al suo territorio e al mondo goiano, ma nello stesso tempo al
Paranà, stato del Brasile, dove è nato e
cresciuto, oltre che al mondo della
cultura e della civilizzazione. I suoi
racconti sono tutto questo. Incontriamo in lui anche il lirismo delle persone
che vivono allo stato naturale o in città,
presentando il mondo così com’è senza
visioni ingannevoli.
Assòciati all’Accademia Internazionale Il Convivio!
Poesia francese
Lacrime
de Denise Bernhard
Lacrime
Trad. di Vincenzo Campobasso
Quand j’avais trop pleuré
a briser le cristal
de tes champs d’étoiles,
a ne plus distinguer
dans tes yeux de prophète
le langage des pierres.
Quand j’avais cru mourir
pour avoir recréé
tes amours méridiennes,
bonheurs intemporels
gravés d’un stylet d’obsidienne
dans la cire de l’âme.
Quand je m’endormais ivre
d’avoir bu la Beauté
aux coupes de vermeil
ciselées dans tes livres.
Je voulais nous abstraire
m’enfuir de ton image
errer près des eaux délétères
me fondre avec la terre
tes mains sur mon visage
jusqu’au bout de la nuit.
Quando avevo troppo pianto
da rompere il cristallo
dei tuoi campi di stelle,
da non più distinguere
nei tuoi occhi di profeta
il linguaggio delle pietre.
Quando avevo creduto di morire
per aver ricreato
i tuoi amori meridiani,
felicità intemporali
incisi con stiletto d’ossidiana
nella cera dell’anima.
Quando m’addormentavo ebbra
d’aver bevuto la Beltà
dalle coppe di vermiglio
cesellate nei tuoi libri.
Io volevo che ci isolassimo
fuggire dalla tua immagine
vagare presso acque deleterie
fondermi con la terra
le tue mani sul mio volto
fino al morir della notte.
Rafales des calebasses
di Darma Sylvain Gaourang
(Ciad – Africa)
Raffiche di calebasse
Trad. di Angelo Manitta
Les rafales, les cadences,
de nos calebasses
d’antan
géantes, engloutissantes
dans nos légendes,
sachant pleurer nos morts
sous les mains frappantes
de nos vieilles pleureuses
aux jambes tremoussantes
habiles pour nos danses funèbres
l’ont tant fait.
Nos larmes ont tant coulé
des larmes sang
des larmes étincelles des demoiselles
des larmes flammes des dames,
mesdames...
Les rafales, les cadences
de nos calebasses
d’antan,
accompagnées des sifflement affaiblis
de nos flûtes,
nos trompettes spéciales,
les tintamarres, les charivaris
de nos tambours de deuil
ont tant pleuré nos morts.
Ce à quoi j’appelle,
cessez-le-feu!
Le raffiche, le cadenze,
dei nostri calebasse
di un tempo,
giganti che inghiottono
nelle nostre leggende,
sapendo piangere i nostri morti
sotto le mani sorprendenti
dei nostri vecchi che piangono,
dalle gambe tremanti,
esperti nelle nostre danze funebri,
hanno fatto tanto.
Le nostre lacrime sono scorse tanto
lacrime sangue
lacrime scintille delle signorine
lacrime fiamme di dame,
di signore...
Le raffiche, le cadenze,
dei nostri calebasse
di un tempo,
accompagnate dal fischio indebolito
dei nostri flauti,
delle nostre trombe speciali,
i frastuoni, gli schiamazzi
dei nostri tamburi di lutto
hanno pianto tanto le nostre morti.
A questo io invito,
cessate-il-fuoco !
48
J’Attends...
di Loretta Bonucci
(trad. di Paul Courget)
J’attends que vienne
la nuit
pour véiller
avec les étoiles,
pour grésiller
avec les grillons,
pour cheminer
avec les lucioles
et aller loin
la où il y a la paix,
la où il y a le pain,
la où il y a l’eau,
la où trouver
le nécessaire
pour vivre
et qui ne soit pas
un rêve,
mais une réalité.
Veramente liberi...
di Pasquale Giuliani
Quando Coscienza
[affonda nella Memoria,
riemerge nella parte nascosta
[del nostro essere
l’esigenza di comprendere.
I mostri sono davanti ai nostri occhi
ed assumono forme grottesche,
come lava aggrumata di un vulcano
che ha smesso di vomitare Retorica.
«Abbiamo orrore del Terrorismo!
...Abbiamo paura dell’Impero!».
Perché, allora, con inconfessabile
[rassegnazione,
partecipiamo ad una Sorte ritenuta...
[ineluttabile?
Non è forse giunto il momento
[di gridare forte
che il Dolore degli altri è anche
[il nostro dolore,
che non cesseremo mai di piangere
per ogni Uomo che sarà morto
[inutilmente?
Rispettiamo le ragioni di chi non ha
i nostri tormenti, non è straziato
[dai nostri dubbi,
ma temiamo che il brivido
[della Libertà,
in una società che ha trasformato
[l’uomo in cavia,
finisca con il misurare
[l’impossibilità
di essere... veramente Liberi.
Prière
Preghiera
di Robert Botto
Trad. di Angelo Manitta
Mon Dieu, protège- moi des tourments de mon âme!
Fais fleurir dans mon cœur l’espoir de ton secours...
Ne m’abandonne pas, mon esprit te réclame;
calme mon désarroi, car j’ai besoin d’Amour!
Mio Dio, proteggimi dai tormenti della mia anima!
Fa’ fiorire nel mio cuore la speranza del tuo soccorso...
Non abbandonarmi, il mio spirito ti cerca;
calma il mio smarrimento, perché ho bisogno d’amore!
Adoucis mes soupirs! Je le sais, tu nous aimes...
malgré les accidents du chemin parcouru.
Apaise ma pensée aux bien tristes poèmes,
lorsque le désespoir, parfois est revenu.
Addolcisci i miei sospiri! Lo so, tu ci ami...
malgrado gli incidenti della strada percorsa.
Acquieta il mio pensiero alle tristi poesie,
quando la disperazione talvolta ritorna.
Veille sur mon sommeil, et mon esprit rebelle!
Fais éclore en mon cœur, il n’est jamais trop tard:
un grand bouquet de fleurs! une rose Eternelle!
celle de l’Amitié, la douceur d’un regard...
Veglia sul mio sonno e il mio spirito ribelle!
Fa’ sbocciare nel mio cuore, non è mai troppo tardi,
un grande mazzo di fiori! una rosa Eterna!
quella dell’amicizia, la dolcezza di un sguardo...
Redonne-moi l’espoir, le désir de sourire
a tous ceux qui voudraient, malgré tous mes chagrins,
éclairer mon chemin, pour m’éviter le pire,
sur ma modeste vie en me tendant leurs mains!
Ridammi la speranza, il desiderio di sorridere
a tutti quelli che vorrebbero, malgrado i miei dolori,
illuminare la mia strada, per evitarmi il peggio,
sulla mia modesta vita, tendendomi le loro mani!
Accueille-moi, Seigneur, dans la Paix, le silence...
Je te prie en cela, car j’ai toujours la Foi!
Dans tes mains, je remets le poids de l’existence
qui pèse sur mon cœur, alors je vais vers Toi.
Accoglimi, Signore, nella Pace, il silenzio...
Ti prego, perché ho sempre la Fede!
Nelle tue mani rimetto il peso dell’esistenza
che grava sul mio cuore, allora vado verso Te.
Mon Dieu, protège-moi des tourments de mon âme!
Donne-moi le bonheur, l’espoir de ton secours...
Je sais que tu es là, mon esprit te réclame;
je ne veux pas douter de ton immense Amour!...
Mio Dio, proteggimi dai tormenti della mia anima!
Dammi la felicità, la speranza del tuo soccorso...
So che sei là, il mio spirito ti cerca;
non voglio dubitare del tuo immenso Amore!...
Cris des femmes
Grida di donne
de Kidad Fatima (Algeria)
Trad. di Angelo Manitta
Leur cris est une chanson
Du temps que l’originalité leur donne raison
J’eusse aimé couler auprès d’elles
Comme se prosterne la servante
Aux pieds de la reine
J’eusse aimé appelé d’une voix vive
La douleur qui agonise quand elles se livrent.
Deviner seule si leur cœur a une couleur éternelle
Et dire de leur son, les chants les plus glorieux
Et mendier la dignité comme une esclave.
A se laisser aimé par les charmants destins
D’une noce nouvelle d’où jaillit la franchise.
Une île déserte où la nature offre
Des fruits exotiques et des parfums charnels
E des femmes qui hurlent la volonté
De vivre, le sort e la liberté
Que l’homme refuse d’y vivre.
Encore tardes fuscincés
Par l’odeur du crépuscule
Elles annoncent, crient et consignent
Une âme toute cruelle.
La grandeur du mal plus que réelle
De ce cri de femmes
J’entends la même chanson.
Le loro grida sono una canzone
del tempo che l’originalità dà loro ragione.
Avessi io amato gettarmi vicino ad esse
come si inchina la domestica
ai piedi della regina!
Avessi io amato, proclamato a voce viva
il dolore che agonizza quando esse si liberano.
Indovinare, sola, se il loro cuore ha un colore eterno
e dire del loro suono, i canti più gloriosi,
e mendicare la dignità come una schiava
che si lascia amare per gli affascinanti destini
di un matrimonio nuovo da cui sgorga la franchezza.
Un’isola deserta dove la natura offre
dei frutti esotici e dei profumi carnali
e delle donne che urlano la volontà
di vivere, la sorte e la libertà
che l’uomo nega di vivere.
Ancora tardi fiori
per l’odore del crepuscolo
annunciano, gridano e consegnano
un’anima tutta crudele.
La grandezza del male più che concreto
di questo grido di donne
io sento la stessa canzone.
49
Maggy De Coster:
Battimi mia isola
Trad. di Vincenzo Campobasso
l’isola nel cuore
Ah, battimi, mia isola, ed emergi
dal tuo millenario incubo
che, derivando sulle onde tormentate
del Mar dei Caraibi
ancora rintrona nel cuore dei tuoi figli.
di Vincenzo Campobasso
Sebbene contraddistinti con titoli diversi, le poesie
di Maggy De Coster formano, in questa sua silloge, un
corpo unico, un vero poemetto. Uno, infatti, l’inno, una
l’invocazione, uno il pianto, una la speranza. L’isola, che
solo al quattordicesimo brano, con un semplice acrostico,
rivelerà essere Haiti, è, per Maggy, una sorta di apatica, una
mamma indolente che si è lasciata snaturare. Da cui
l’accorata e reiterata invocazione: “Battimi!”. Come l’invocazione dei bimbi per attirare l’attenzione e riappropriarsi
dell’affetto perduto dei genitori, o per richiamare questi,
nella loro inconscia consapevolezza, ad una più retta via.
Piange, Maggy, piange la sorte della sua isola, per tutta la
lunghezza del poemetto. E quanta amarezza, quanto rammarico per non poter fare qualcosa, quanta nostalgia per
quell’isola che non è più quella di prima, quella sicuramente dei suoi sogni d’infanzia. Piange, Maggy, e solo alla
fine, in un momento che pare catartico ed auspicale insieme, storna lo sguardo dall’Isola, per affissarlo, sia pure per
un momento, sulla figlia Cloe, forse la prediletta o forse
colei che potrebbe rappresentare, negli auspici della poetessa, il futuro di Haiti.
Né il sole cessa dalla collera
quando il villano in mal di penitenza
gratta la zolla
giù fino ad imo.
Ah! battimi, mia catalettica isola,
i tuoi figli deperiscono
ed i loro sogni avvizziscono
sotto l’effetto congiunto della sofferenza
e del vuoto dell’anima.
È sempre notte
nell’entroterra
e gli abitanti s’inabissano
in uno spazio senza sfogo.
La natura, inchiodata alla berlina,
non ospita più i canti
degli uccelli.
Diadème
de Paul Courget
Ah! Bats-moi mon île
De tous ceux qui s’en vont en renfermant le livre
où s’inscrivit un sort banal et quotidien,
dans la suite des temps il ne demeure rien
qui les rappelle au monde et les fasse revivre.
Mais toi, jamais la nuit future, sous le givre
de l’hiver sans printemps qui glace les tombeaux,
n’ éteindra ton sourire et l’éternel flambeau
de ta beauté puisque c’est elle qui m’enivre.
D’autres ont pu, pliant leur faiblesse à ta loi,
t’apporter leur tribut de tendresse et de foi:
aucun pourtant n’a su te vouloir immortelle.
Mais mon amour plus fier, plus durable et plus fort,
prépare à ta mémoire, au-delà de la mort,
le diadème d’or où ta gloire étincelle!
di Maggy de Coster
Ah! Bats-moi mon île et émerge
de ton cauchemar millénaire;
il tonne encore dans le cœur de tes Fils
dérivant sur les vagues tourmentées
de la mer des Caraibes.
Et le soleil ne décolère pas
quand le paysan en mal de subsistance
rade la glèbe
jusqu’au tréfonds.
Ah! Bats-moi mon Ile cataleptique,
tes Fils dépérissent
et leurs rêves flétrissent
sous l’effet conjugué de la souffrance
et du vague-à-l’âme.
Diadema
Trad. di Vincenzo Campobasso
Il fait toujours nuit
dans l’arrière-pays
et les habitants s‘engouffrent
dans un espace sans issue.
Di tutti quelli che van via chiudendo il libro
dove s’inscrisse una sorte comune e monotona,
nel codazzo dei tempi nulla rimane
che li richiami al mondo e riviver li faccia.
Ma a te, mai la futura notte, sotto la brina
dell’inverno senza primavera che le tombe ghiaccia,
spegnerà il sorriso e l’eterna fiamma
della tua beltà poiché è lei che m’inebria.
Altri han potuto, piegando alla tua legge la propria fiacchezza,
portarti il proprio tributo di tenerezza e di fede:
eppure nessuno ha saputo volerti immortale.
Sol il mio amore più fiero durevole e forte,
prepara alla tua memoria, al di là della morte,
il diadema d’oro in cui la tua gloria sfavilli.
La nature, clouée au pilori,
n’accueille plus les ramages
des oiseaux.
Sylvie Forveille-Nugue, Au clair de la lune (Francia 2002). Si tratta di una poesia sincera e spontanea, ma nello stesso profonda nei sentimenti e
nell’espressività. Leggendo le sue poesie si aprono
immense porte volte alla malinconia, così come alla
speranza e ai segreti di un’intima personalità.
50
Jean Mauget
alla musa ispiratrice
Jean-Luc Lamouille
trad. di Angelo Manitta
Dieu est mort à Lonato
a cura di Angelo Manitta
Jean Mauget è nato a Saint Séverin Charente il 21
aprile 1933. Autodidatta, Presidente Fondatore dell’Associazione “Echos de Vénus”, membro di numerose
associazioni, socio dell’accademia dei Poeti classici di
Francia, dell’Accademia Internazionale Il Convivio e del
Circolo Internazionale del Pensiero e delle Arti francesi,
membro del Sindacato dei giornalisti e Scrittori indipendenti, collaboratore della “Forêt des Mille Poètes”, ha in
preparazione cinque raccolte di poesie e due di racconti, numerose pubblicazioni in parecchie riviste e raccolte collettive. Ha ottenuto più di un centinaio di riconoscimenti, di
cui una trentina di 1° Premi (Poesie Classiche, Neoclassiche, libere, Racconti, Notizie). Animatore di numerose
manifestazioni culturali tra cui “Arte 2000” e la “Primavera
dei Poeti” è responsabile della pubblicazione trimestrale
della Gazzetta “Le Funambule”, 36 numeri fino ad ora.
Intrattiene delle relazioni Internazionali con una decina di
Paesi e degli scambi con altre associazioni culturali. Intessante la seguente poesia:
Muse lis mon poème
Muse, lis mon poème et m’offre des baisers,
que n’ai-je demandé cette aubaine suprême
chaque fois qu’un écrit, délicat théorème,
soutirât de son cœur des soupirs apaisés.
Ces vers, pour la charmer, je tes ai peaufinés,
je leur donnais la vie, attendant son baptême,
les ornant richement d’un galant diadème,
qui venait couronner ses cheveux enflammés.
J’ai tout offert en prime à mon inspiratrice,
n’espérant mieux de mon exigeante complice,
qu’un généreux éclat de bonheur dans ses yeux.
Les cyprès blancs
se déshabillent
des histoires superflues
I cipressi bianchi
si svestono
delle storie superflue
Posé sur la cour
carrée de la promesse
le mystère s’incarne
dans l’égyptienne
aux ongles d’or
sereinement dévoilée
Posto sulla corte
quadrata della promessa
il mistero si incarna
nell’egiziana
dalle unghie d’oro
svelata serenamente
La lueur de son âme
m’incite
à ne pas tenter
de la comprendre
Il lucore della sua anima
m’incita
a non tentare
di comprenderla
La nervosité
de ses jambes
m’invite
a m’échapper avec elle
parmi les chevaux sauvages
La nervosità
delle sue gambe
m’invita
a scappare con lei
tra cavalli selvaggi
Ce soir,
le lac se fragmente
en milliers de pensées
libérées
L’église n’emprisonne
que le vide
Questa sera,
il lago si frammenta
in migliaia di pensieri
liberati
La chiesa non incarcera
che il vuoto
Le vent transporte
des envies secrètes
pour qui prend
sa vie
entre ses mains.
Il vento trasporta
invidie segrete
per chi prende
la sua vita
tra le mani.
La vie ne dort jamais
Un clin d’œil en échange escortant mes poèmes,
en signait tendrement la douceur des aveux,
ensorcelant ses nuits de longs rêves bohèmes.
Musa, leggi la mia poesia
Musa, leggi la mia poesia e offrimi dei baci,
benché non abbia chiesto questa fortuna estrema
ogni volta che uno scritto, delicato teorema,
travasasse dal suo cuore sopiti sospiri.
Questi versi, per affascinarla, ho limato,
ho dato loro vita, aspettando il loro battesimo,
ornandoli riccamente di un galante diadema,
venuto ad incoronare i suoi capelli di fiamma.
Ho donato tutto in premio alla mia ispiratrice,
non sperando meglio del mio esigente complice
che un generoso scatto di felicità nei suoi occhi.
Un colpo d’occhio, in cambio d’attenzione alla mia poesia,
ne segnava teneramente la dolcezza delle confessioni,
stregando le sue notti di lunghi sogni boemi.
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Ma sève pense
à la grande ville
où une forme de feu
déchire,
parce qu’il est l’heure,
l’attraction
du flux pour le reflux.
La mia linfa pensa
alla grande città
dove una forma di fuoco
lacera,
perché è l’ora,
l’attrazione
del flusso per il riflusso.
Un peu avant
ou juste un peu après,
à l’instant de l’absence
du jour et de la nuit,
les pôles se reconnaissent.
Un po’ prima
o giusto un poco dopo
all’istante dell’assenza
del giorno e della notte,
i poli si riconoscono.
Léger souffle
du silence brisé
Leggero soffio
del silenzio spezzato
A chaque minute
à chaque seconde
la musicienne de braise
bouscule tout,
orgueilleuse et souveraine,
de sa folie
bondissante
Ad ogni minuto
ad ogni secondo
la musicista di brace
travolge tutto,
superba e sovrana,
della sua follia
saltellante.
Pupa Riggio
Pittura
È molto difficile oggigiorno trovare un’artista eclettica che riesca in ogni singola opera a mantenere uniformità di stile, ma anche a spaziare dal figurativo all’informale. Pupa Riggio «intende l’arte come sublimazione del
vivere, punto d’approdo di un itinerario spirituale e umano
che nell’amore si risolve ed esalta. La sua pittura, dai sentiti
toni evocativi e dalla vibrante intensità, spazia dalla figurazione all’informale e l’artista intende, con le sue opere pervase da significanti giochi di luce, comunicare la voce del
suo inconscio tendente alla fraternità e ad un notevole arricchimento interiore» (S. Perdicaro). Animata da un’istintiva
passione per l’arte da molti anni si dedica alla ricerca espressiva, approdando ad una dimensione fantastica e intensa
che con l’utilizzo di vari stili dà una fiabesca interpretazione dei suoi momenti ispirativi quali condizioni esistenziali: la paura, l’amore, la bellezza, la malinconia ecc... Se
in molte opere i motivi appena accennati trovano la loro materializzazione in atmosfere d’incanto o astrazioni naturali,
il motivo che appare più denso per incisività è l’olio su tela
“Sognando l’arcobaleno”. Già dal titolo dell’opera è chiaro
l’intento onirico e l’astrazione dalla realtà verso un’altra
dimensione dalla quale poter dare uno sguardo sincero e
analitico ad uno dei temi più suggestivi dell’intera carriera
artistica di Pupa Riggio: l’amore. In un chiaro influsso della
Scuola di Oslo e principalmente di Munch, la personificazione di un sogno reale ed esistenziale che si fonde in un
tutt’uno con la realtà in un turbinio dai toni d’arcobaleno,
permette all’autrice di fondere dolore e amore in una descrizione sensualmente romantica.
Rubrica e testi a cura di Giuseppe Manitta
Cinzia Civardi Foschia
Cinzia Civardi Foschia, pittrice e grafica, è nata a
Gallinate in provincia di Novara, e dopo aver frequentato la
scuola di grafica pubblicitaria si è dedicata alla pittura. Oggi è una delle esponenti più apprezzate della tradizione pittorica novarese. Impressioni, sensazioni e stati d’animo vari
rivivono nei suoi quadri che si presentano come visioni realistiche, che si basano sulla limpidezza e sensualità delle
forme, ora con immagini più cupe, ora più fantasiose e si
abbandonano ad una netta scia di originalità fungendo da
allegorie per espressioni contenutistiche di forte motivo sociale e simbolico. Una pittura che si basa sulle trame ben
tessute dell’olio che delicatamente si intona verso una visione narrativa del soggetto, ripreso psicologicamente in assonanza con il paesaggio che lo circonda, animato e intessuto
di note suggestive. La sua arte è guidata da una viva sensibilità che mira a cogliere il carattere semplicistico dell’apparenza, e si rivolge ad una ricerca attenta della realtà.
Ragazza, Olio su tela, cm 50 x 70
Le apparenze sensibili fungono solo da tramite per
una ricerca che non vuole allontanarsi troppo dalla descrittività, ma al contempo non vuole immergersi in una usuale
trance realistica. Inoltre le opere sono composte da una ben
razionale struttura che segue molto spesso la diagonale per
bilanciare al meglio la figura in una costruita naturalezza.
Nel mondo pittorico di Cinzia Civardi Foschia affiora una
duttile espressività i cui contenuti ispirativi sono accentuati
nella loro suggestività comunicativa da un cromatismo attento e ben cadenzato che mira ad una introspezione psicologica mirata. «Fuori dall’esaltazione di ogni moda avanguardistica» scrive Giovanni Castelliti «Cinzia è pittrice di
fedele slancio tradizionale e realistico. Nella figura... i piacevoli spunti narrativi, svelano il suo mondo sentimentale
ancor scevro da inquinamento intellettualistico e dalle angosce del vivere quotidiano, trascendendo le brutture di un
mondo sempre più alla deriva».
Tramonto - t.m. - cm 100x70
Opera simbolo di un turbamento, con intenso vigore, che non si riflette tanto sul tono cromatico quanto nella
sinuosità dell’esecuzione, e perciò riesce ad essere molto
comunicativa. Una linea apparentemente continua si stringe
intorno alla figura senza turbarne i lineamenti, ma rinchiudendola, quasi inconsapevole, in una realtà difficile da oltrepassare. Pupa Riggio imprime i fremiti dell’anima derivanti da una sfera del reale in riflessioni pittoriche animate
da vitalità ritmica alla ricerca di un equilibrio moderno in
armonia con forme, luci e colori.
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Leonardo Cosmai
Salvatore Magli
«Essere se stessi è uno stile di vita che attraversa il
dono e la privazione, la solitudine e la forza interiore, lo
smarrimento e la pienezza, la rinuncia e l’abbandono, la
morte e la vita... a volte i poeti brillano come stelle di pioggia alla ricerca del loro cielo». Da questo giudizio di Antonia Barba è facile comprendere come Leonardo Cosmai sia
un artista autentico e profondo, un poeta del colore che immerge se stesso nella vitalità dei disegni e dei toni. La sua
pittura si presenta come filo conduttore ideale che unisce tre
dimensioni dell’essere: partendo da un’analisi oggettiva si
spinge ad una soggettiva ed esistenziale, per varcare i confini dell’essere e approdare in una dimensione soprasensibile. Un aspetto, questo, rarissimo nella pittura contemporanea e che Cosmai cerca di esaltare con tutte le sue capacità.
Salvatore Magli vive ed opera a Lecce, riscuotendo
numerosi successi di critica e di pubblico. Oggigiorno è difficile trovarsi faccia a faccia con opere che per la loro originalità rimangono impresse e destano curiosità e ammirazione. Ma Salvatore Magli c’è riuscito utilizzando un linguaggio simbolico e metaforico affiancato ad un cromatismo acceso e brillante. Legato ad un puro concetto di arte e rifuggendo dall’imitazione, si avvia con una ricerca sempre più
approfondita verso la contemplazione del bello e dell’esistenziale, riflettendo la peculiarità umana tra segno, colore e
immagine. La figurazione nella sua liricità e originalità ha
come obiettivo principale la penetrazione del sentimento,
rifugiandosi in una dimensione atemporale e quindi eterna.
Senza titolo, pastelli, cm 32 x 52
I colori dell’anima, olio su tela, cm 70x100
Un turbinio di sentimenti sconvolge però una calma apparente: dolore e morte come gioia e vita si fondono,
ma soprattutto si oppongono in un contrasto coloristico e
disegnativo. Ma la speranza che confluisce nell’uomo gli
concede la libertà di vivere e, come nella pittura di Cosmai,
di divenire e oltrepassare l’essere. Il relativismo delle opere
mette in luce uno degli aspetti più importanti dell’esistenzialità umana: non esiste una certezza assoluta cui si possa
fare fede senza dubitare o se esiste deve essere ricercata continuamente. Non a caso in ogni sua opera il soggetto mira
lontano in una ricerca insistente di un assoluto percepibile,
ma non coglibile. Così l’essenzialità del disegno nel mutevole scenario della vita tende ad eliminare certezze oscillanti e illusioni, evidenziando un’analisi psicologica. Le figure
che dominano spesso le sue opere non rappresentano problemi esistenziali legati solo all’io, ma a condizioni attuali e
universali. Egli si esprime con un linguaggio denso di simbolismo e pregno di significato in una composizione grafica
originale.
La struttura spaziale dell’opera risente dell’onirismo metafisico cogliendo dal simbolismo un’analisi razionale dell’esistenzialità. Così il rapporto soggetto-sfondo si materializza anche in una visione sensuale che raffigura il
concetto di vita sotto sembianze di nudo femminile. Non a
caso le sue opere nascono come fusione tra natura e uomo
in cui «il sentimento universale di un’evoluzione creatrice è
alla base della poetica e della “poietica” di Magli che interpreta la sostanza vitale nel cosmo e la identifica con il principio femminile nell’atto in cui diventa creatore non di una
vita, ma della vita stessa» (Giorgio Barba). L’espressività
cosmica della vita si misura con una varietà di temi soffusi
che svelano una grande sensibilità, che si relaziona alla realtà quotidiana, ma mira verso l’assoluto. Fantasia e tensioni dell’animo si materializzano nella cromia di una rivisitazione astrale realizzata con estrema bravura. Così la capacità espressiva s’immerge in un percorso narrativo-metafisico ora intimistico ora evocativo e le pulsioni emozionali si
tramutano in visioni surreali di vibrante intensità.
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bracciando teneramente il vero soggetto del quadro che domina la scena evadendo dalla tonalità blu dominante. L’atmosfera magica è resa attraverso un cromatismo intenso,
che permette all’arte e alla natura di evadere dalla prigionia
umana. Non a caso fiori e strumenti musicali squarciano
anfore e tele: si può oltrepassare l’atmosfera fittizia che
l’uomo crea solo seguendo la propria ‘follia d’arte’.
Raffaele Pisano
Raffaele Pisano è nato a San Benedetto di Caserta
dove vive ed opera. La sua carriera artistica è lunga e piena
di riconoscimenti, tra i quali è doveroso ricordare la medaglia d’oro e diploma di riconoscimento ricevuto dal Presidente della Repubblica Giovanni Leone e la pergamena speciale con benedizione ricevuta da S.S. Paolo VI. «La pittura
trasforma lo spazio in tempo, la musica il tempo in spazio»
scrive lo scrittore austriaco von Hofmannsthal in “Il libro
degli amici”. Ed in effetti la pittura è un continuo fluire di
tempo e di spazio, ma a pensarci bene anche di musica. La
sua melodia si traduce in note di colore vibrante che indaga
e coinvolge l’esistenzialismo dell’uomo.
Pasquale Millico
La ricerca pittorica di Pasquale Millico muove da
una soggettiva analisi della realtà assurgendo, attraverso un
percorso ideale e sensitivo, ad uno spazio esistenziale e onirico in cui si ritrova l’essenza di quegli elementi captati dal
mondo. Il processo estetico risente così sia degli stimoli soggettivi che di quelli oggettivi traducendoli in elaborazione
di forme e di colori, la cui feconda creatività è chiaro simbolo di un palpitare di sentimento. Pasquale Millico, nato
nel 1958 a Terlizzi (Bari), ha iniziato da autodidatta per poi
seguire lo studio di Maria Buonaduce e approdare, quindi,
ad uno stile personale. Opera molto significativa è un olio
su masonite: “Orbite”.
Comunicazioni artistiche, acrilico su tela, cm 60 x 80
E proprio in Raffaele Pisano il nesso pittura-musica, e noi potremmo aggiungere anche poesia, si fa strettissimo e diviene evidente in opere in cui l’ambiente è dominato da corde musicali che sembrano squarciare la tela. Il
loro irrompere però non è sempre violento, ma «il felice
tono, l’immediatezza del tocco», scrive Francesco Monaco,
«la forma emanante la dolce melodia della soave visione
del colore attraverso la freschezza e la limpidezza della pennellata ci danno squarci di bellezza che solo la gelosissima
musa può ispirare all’amante». La rappresentazione onirica
della realtà è sempre sostegno di una meditazione profonda
che si trasmette al fruitore. Una tensione fortemente drammatica esprime le tensioni interne dell’autore in un sinolo di
profondità e superficie, di impressione e sentimento. In un
buio surreale la tela si riempie di blu che divide la serenità
emotiva dalla tensione. Il soggetto sfugge dalla tela per scivolare nell’intellezione, per cogliere l’attimo fuggitivo della
mente. Un pensiero semplice diventa complesso e si traduce
in composizioni ben strutturate come un maestro sa fare.
Tutto lo spazio della tela è invaso da una luce surreale, ab-
Orbite, olio su masonite, cm 80x60
Spunto riconducibile alla concezione di arte sintetica di Kandinsky, l’opera segue il ritmo della musica nel
turbinio dei colori in un continuo aumentare di armonia e
giochi di luce. Così in uno spazio astratto e attorno ad un variare di cromie che tendono a schiarirsi dal basso verso l’alto vagano pianeti più o meno grandi con tonalità diverse, che
metaforizzano una condizione esistenziale, ma anche oggettiva della realtà. Pur nella sua originalità non rifugge da una
concezione simbolista, romantica o addirittura sacra dell’arte. «Nel linguaggio espressivo dell’artista» nota Vito Cracas
«convergono con originalità concretezze, astrazioni e geometriche forme, che simboleggiano valori e sensazioni d’incisiva risonanza, oniriche pulsioni, tattili esemplificazioni
sull’ordine che regola la vita dell’universo e riflessioni profonde sull’ineluttabile divenire della vita e delle cose».
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Franco Tassoni
Vincenzo Daragusa
Franco Tassoni condensa nella sua pittura numerose fonti ispirative. Pittore autodidatta che predilige il figurativo e mostra una spiccata sensibilità per lo studio del paesaggio e della figura umana, è travolgente nelle pennellate
quando l’emozione visiva deve essere messa sulla tela. In
ogni opera infonde tutta la sua emozionalità. Infatti egli
stesso afferma: «Nella mia pittura c’è solo sentimento.
Quando un dipinto se ne va, se n’è andata una parte di me
stesso». Dunque lo studio della natura e dell’uomo risiede
nell’autore e non nel soggetto che si propone al fruitore. Se
per molto tempo è prevalsa l’idea del poeta tedesco Novalis
che la pittura è l’arte di vedere tutto regolarmente e secondo
bellezza, oggi l’arte non è più perfezione, ma imperfezione.
Questo però ha portato a snaturare completamente quel concetto di armonia che da sempre ha affascinato l’uomo.
Vincenzo Daragusa, pittore scenografo e modellista. Nato a Ragusa, ha studiato a Milano, diplomandosi in
scenografia all’Accademia di Brera nel 1978. Espressionista, ha esposto in mostre personali e rassegne in Italia e
all’estero, ottenendo premi e riconoscimenti di rilievo. La
sua pittura dimostra una particolare attenzione verso problematiche sociali e tradizioni popolari, oltre che andare verso
una introspezione psicologica dei personagi, rappresentati
spesso con vivace realismo. Il mondo contadino del Sud emerge dalle sue raffigurazione attraverso una tecnica a piani
sovrapposti di una pregevole profondità lirica e paesaggistica. Il quadro di copertina Uomini a cavallo, infatti, presenta
in un primo piano l’uomo con la sua espressività figurativa
e realistica che coinvolge profondamente il fruitore, in un
secondo piano gli animali, in un terzo il paesaggio.
San Rocco, pigmenti su legno, cm 100x150
Verso la campagna, Olio su masonite, cm 70 x 90
Gli asini, parte integrante della tradizione, si integrano quasi con lo sfondo (ma distinguendosi nella loro
naturalezza), costituito dal leggero pendio e dalle costruzioni
ormai in abbandono. I tre pieni presentano una visione globale e unificante. Lo stesso schema viene utilizzato nel quadro qui proposto: Verso la campagna, in cui l’uomo e gli
animali manifestano la centralità della riflessione, mentre
sullo sfondo il cielo e il mare invitano a volgere lo sguardo
verso l’infinito.
Con Franco Tassoni l’armonia, la sensibilità idealista e la pregnanza sensista prendono forma in un connubio
unico, in un linguaggio espressivo e molto originale. L’opera che segue questi canoni è “San Rocco”. Molti sono gli
elementi appartenenti alla sfera esistenziale, molti altri alla
sfera oggettiva, ma ambedue rivelano nell’artista una pregnante sensibilità d’animo e lettura introspettiva. L’espressione dolorante del volto viene messa in diretto contatto con
l’espressione protettiva e pronta del cane. Il collegamento
diretto tra le due figure avviene attraverso il bastone e la
mano. L’eccesso di luce che sembrerebbe innaturale viene
bilanciato dalla tonalità scura che predomina le estremità
dell’opera. Emozioni vibranti animano questa pittura e si
accendono ora con tono pacato, ora con viva sonorità. È
evidente come Franco Tassoni non tenta mai di idealizzare
l’immagine che rappresenta, ma raffigura tutto come il suo
occhio, filtrato dalla fantasia e dall’emozione, lo vede. Infatti il soggetto rispecchia bene la sua natura povera fra mille frutti simboli di abbondanza, ma la sua attenzione si rivolge tutta verso il suo fedele amico, snodandosi lungo la
diagonale di destra che ordina ogni elemento della composizione.
33° Premio di poesia Formica Nera
La segreteria comunica che gli autori sono stati 891 di ogni regione d'Italia e diversi stati esteri. La giuria - composta da Lucia Gaddo, Mario Klein, Lidia Maggiolo, Luciano Nanni e
Giovanni Viel, ha premiato: 1° (targa d’oro) a Roberta Degl'Innocenti di Firenze, per la poesia Estensione di giallo (a
Víncent Van Gogh). Segnalati (medaglia d’oro) Egidio Belotti
di Fossano (Cu) per la poesia Ancora voci sotto casa, Giovanni Bottaro di Pisa per la poesia Dal nuovo mondo, Alfredo Di Marco di Capaccio Scalo (Sa) per la poesia Nessuna
voce, Mario Vecchíone di Napoli per la poesia I poeti fanno
paura. Inoltre una menzione a Mohamied Lamsuni per la
poesia Il sole degli arabi. La premiazione si è svolta a Padova
nella Sala Polivalente di via D. Valeri n. 17. Per l’occasione è
stata presentata la XXV antologia dei Poeti padovani.
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Angelo Rullini
Leonardo Simonetti
Angelo Rullini, nato ad Avola, si dedica alla pittura ottenendo ottimi risultati. Diplomatosi all’istituto d’arte, allievo del maestro Pippo Caruso e Giovanni Migliara,
ha sviluppato uno stile proprio che mira ad una ricerca
d’espressione libera da ogni canone prefissato e condizionante. Infatti, come riporta un giudizio critico apparso su
“L’Elite”, «nella sua opera non ha riscontro uno stile unico:
egli è contrario allo stile che soffoca la libertà creativa, legando l’artista ad uno schema condizionante. Per lui l’arte è
liberazione, ricerca estetica, ma emotiva: riflesso del pensiero che è presente, passato e futuro solo attraverso l’idea
del mito che nasce e si libera nell’universalità esistenziale,
legata al processo storico ed evolutivo del pensiero stesso e
dell’esaltazione umana». Se è vero che il suo stile non è
completamente univoco, è vero che nelle sue tele, come anche nelle sue poesie, emergono toni vibranti e accesi, cromatismi esplosivi che investono il fruitore in un continuo
pulsare di sensazioni.
Nelle opere di Leonardo Simonetti rivivono immagini suggestive della natura tra mare e montagna in atmosfere incantevoli e luminose. Leonardo Simonetti, nato a
Firenze nel 1946, vive ed opera in Piemonte. Attento conoscitore della natura e dei luoghi, ricerca proprio in essi i
suoi massimi soggetti ispirativi che, filtrati dal suo animo
sensibile, vengono immersi in un’emozionalità intensa che
permette una più attenta fruizione non solo dell’animo umano, ma anche della natura stessa. Opere in cui all’apparenza
la figura dell’uomo quale padrone e possessore della natura,
per dirla con Bacone, o essere estremamente razionale viene a mancare, si dimostrano opere dettate da una grande
razionalità, anzi per essere più precisi opere che hanno un
equilibrio interno tra oggettività e soggettività, razionalità e
irrazionalità. La pittura di Leonardo Simonetti obbedisce ai
richiami della sensibilità che, relazionandosi con i soggetti
trattati, funge da intermediario lirico tra autore e fruitore.
Nudo, acrilico su tavola
Prima Neve, Olio su tela, cm 30 x 40
Angelo Rullini vede nell’arte la sublimazione dell’esistere e l’essenza principale di un itinerario spirituale e
umano che va alla ricerca dell’oggettivo e del soggettivo,
del particolare e dell’universale. La sua pittura di vibrante
intensità è pervasa da giochi di luce che esprimono
un’infinita vitalità. Come nella poesia è la parola, così nella
pittura l’elemento fondamentale è il colore: mediante questa
peculiarità il Pittore ricerca, con istintiva forza narrativa, di
riformulare i contenuti reali in una produzione pittorica che
si affianca alla scorrevolezza del linguaggio e all’articolazione formale e cromatica in una continua ricerca dell’espressività personale e quotidiana. Cadenze e ritmi si condensano in una dimensione atemporale e fanno dell’opera
una rivisitazione idealizzata tra storia e soggetto.
Inoltre l’armonia delle articolazioni tonali e dei tocchi di luce ed ombra armonizzano l’opera in una successione d’armonie semplici e complesse. Dunque originalità e sapiente espressività concretizzano i contenuti visivi ed emozionali in una continua ricerca artistica legata al semplice e
al meraviglioso, alla passione e alla precisione del dettaglio,
alla sicurezza tecnica e alla fantasiosa originalità esecutiva.
Leonardo Simonetti riesce a oltrepassare i confini della semplice descrittività per approdare ad una ricomposizione e
intonazione delle forme che rispecchiano le campiture cromatiche di una profonda sensibilità e si riflettono sulla natura e sugli scorci di antichi borghi. Come scrive Rina Ronchetti, «osservando un suo quadro si scorge l’impercettibile
figura di chi ha appena salito una scala o ha voltato lentamente l’angolo di una chintana».
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Spartaco Castelli
Giusi Calì
Originalità d’espressione, acutezza d’immagine,
riflessività e razionalità di composizione sono le caratteristiche estetico-ritmiche che dominano le opere di Spartaco
Castelli. Le immagini pittoriche permeate di vibrante emozionalità condensano con lirica tensione motivi paesaggistici e di vita quotidiana, affascinanti figure di tramonti e
inquadrature popolari. La riflessione introspettiva spinge
l’autore ad un’analisi attenta del reale e dell’esistenziale,
allo studio di una materialità che trova il suo principio non
nell’oggetto in sé ma nel soggetto. Una capacità, questa,
che tende ad immedesimarsi in una figurazione impareggiabile per finezza psicologica.
Giusi Calì, nata a Catania e residente ad Aci Castello, è un’artista particolarmente attenta ai fenomeni esistenziali che poi vengono condensati, nelle loro innumerevoli sfaccettature, in tematiche prevalentemente naturalistiche. Paesaggi, vicoli, marine, nature morte vengono ritratti con particolare compostezza ed originalità alla ricerca
di una effettiva problematica quotidiana. Gli ultimi sviluppi
di quest’autrice consolidano il bisogno di accostarsi a nuove
tematiche ed espedienti espressivi pur mantenendo una
spiccata sensibilità. In ogni opera emerge una spiritualità
intensa, una sintesi pittorica che va alla ricerca di suggestioni inquiete.
Si discute sulla gradazione, olio su tela cm 40 x 50
Madonna, olio su tela, 50x70
Si tratta di un procedere stilistico-espressivo che
domina soprattutto l’ultima produzione dell’artista, in cui si
va alla costante ricerca del concettismo filosofico, di una
razionalità che mira alla comprensione di essenze simboliche e dello stretto rapporto tra uomo e natura. Dalle opere
emerge, dunque, la grande capacità comunicativa ed evocativa di Spartaco Castelli, il quale dipinge con immediatezza a volte impressionistica infondendo alle luci e alle
ombre, alle tinte e alle tonalità un forte connotato metanarrativo tra tangibile e illusione.
A volte l’originalità del dettato, però, cede il passo
ad una ricerca dell’essenziale e dell’esistenziale come ad esempio nell’olio su tela “Madonna”. Si tratta di un’opera
estremamente semplice nel dettato, ma non nell’espressività
contenutistica e psicologica. Viene ripresa evidentemente
quella compostezza del dolore che caratterizzava le grandi
opere rinascimentali. Essa costituisce un punto di partenza
per esprimere i turbamenti emozionali, i sogni e le speranze. La pittirce ha partecipato a numerose mostre ed estemporanee. Tra le più recenti si ricordano: Ass. Culturale Art’è
(Acitrezza), 2° ed. La scalinata d’arte; Concorso di estemporanea e collettiva di Pittura – Calatabiano: storia, cultura
e colore; 5° Biennale Naz. d’Arte - Catania; Premio Il Convivio 2003; Fidapa Immagine sacra - Adrano; Editoriale
Giorgio Mondadori, Premio Arte 2002. Ha ottenuto pure il
primo premio alla Biennale del Mediterraneo, organizzata
dall’associazione culturale Athena di Catania.
Premio “Quattro arcangeli del mondo”. La premiazione, condotta da Gaetano Messina direttore di Olismo Rubens, si è svolta il 28 settembre. Sono stati premiati: Arien Ben
Nun, uno dei 36 cabalisti esistenti nel mondo; Giuseppe
Simplicio, per aver realizzato la marcia dei diritti dei bambini;
Graziella Sferruzza per la sua eleganza nell’arte del balletto.
Alla manifestazione sono interventute diverse autorità.
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Prospero Russo
Elsa Emmy
Prospero Russo è nato a Centuripe (EN) nel 1944.
Pittore autodidatta, ha cominciato a dedicarsi alle arti figurative sin da giovane nonostante la famiglia non fosse proprio d’accordo. Ma la tenacia e la passione hanno portato
Prospero Russo ad una figurazione intensa ed espressiva,
intrisa di emozionalità e suggestione. Abile artista, ritrae
prevalentemente scorci naturali in cui la palpitante poesia si
tramuta in tonalità fresche e luminose. Il gioco di luci ed
ombre, infatti, rende le opere di questo autore quale insegna
dei silenzi dell’anima, delle angoscianti problematiche quotidiane, ma anche di una semplicità e tranquillità naturali.
Rigorosa nella composizione, l’arte di Elsa Emmy
mira all’illusionismo metaforico, ad un’espressività che trova il suo fondamento in bilico tra la razionalità e la afigurazione. «In trent’anni di caccia all’idea la Emmy è andata
verso un’assenza, come uno scrittore che sogna il libro a venire. Questa sua assenza non si manifesta in una serie di
fratture, di silenzi, d’intervalli musicali», così scrive sulla
nostra autrice Antonio Corsaro in una lettura attenta e precisa. Ma la posizione della Emmy nel campo conoscitivo è
ancora più marcata.
La brocca, olio su legno, cm 45 x 35
Ricettario per tramonto, tempera su tela, cm 200 x 150
I paesaggi ben strutturati fondono la loro espressività sulle cromie calde e fredde, sempre contrastanti, che
danno all’opera un equilibrio dinamico e si risolvono in
un’elegia di vita. Pittore di grande energia e sentimento,
Prospero Russo richiama quel superamento del chiaroscuro,
propriamente romantico, che approda alla macchia impostando l’opera su una nuova relazione luce-colore. Nonostante questo recupero del passato, mantiene una viva originalità che sfocia nella ricerca di un equilibrio tra i variegati
turbamenti dell’anima.
La tendenza ad un irrazionale universale si avvia,
come nell’opera qui presente, ad una valenza simbolica e
spazializzante. Lo spazio dunque in un movimento concentrico tende ad ampliarsi per compressione e rarefazione,
simulando o dissimulando un complesso procedimento gnoseologico che alla fine non si identifica nell’assenza, ma in
una metaforica e surreale presenza. Poesia e pittura contestualizzano le opere di questa mirabile pittrice siciliana che
si addentra sempre più verso uno spazio espressivo unicamente originale nel campo pittorico nazionale e internazionale. Le sue opere, dunque, si materializzano in un crescendo di sensibilità adottando di volta in volta le tecniche più
disparate con l’utilizzo di carta, chiodi, stoffe e materiali
legati al riciclaggio.
Il tuo volto
di Rita Valentini
Il tuo volto scarno, il tuo sguardo che attraversa
l’orizzonte alla ricerca di mari tranquilli
che non trovi, il porto dove arrancare la barca
sbattuta dai flutti. Chi ti ha mosso i fili
dell’anima stracciandola a brandelli così che tu
non possa donarla a chi ti avrebbe amato.
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realtà e sogno, corpo e pensiero, oggettività e soggettività.
Così «l’inesprimibile, l’emozione e l’eros giocano un ruolo
determinante nelle opere di Elrej e sono i soggetti ricorrenti
che ce lo fanno riconoscere: le sfere, gli scarni alberelli
dalla natura ostile, gli intensi fondali blu, le scenografiche
ambientazioni» (Fulvia Equino).
Elrej
Il compito del surrealismo è di «risolvere le condizioni, finora contraddittorie, di sogno e di realtà in una realtà assoluta, in una surrealtà». Così scriveva Tzara e oggi,
trovandoci di fronte ad un artista come Elrej, si risvegliano
pulsioni che privilegiano quell’inconscio freudiano, quella
infinita dimensione onirica, passionale, allucinatoria. Le
opere di Elrej (Ennio Rutigliano), nato a Foggia nel 1951,
saporano d’infinito, di sogno e hanno il fascino irresistibile
di un’eccezionale vocazione. Così come il mondo onirico
vive in una dimensione aspaziale e atemporale rispetto alla
realtà, esse trattano quegli ambiti del razionale-irrazionale
che da sempre affascina l’uomo stimolando nel fruitore una
fantasia che va oltre la tela, fino a raggiungere un lirismo filosofico.
Sergio Osimani
Sergio Osimani, nato a Loreto il capodanno del 1946,
da numerosi anni di dedica alla pittura e alla scultura. Il suo
percorso artistico parte dall’analisi interpretativa del reale,
da cui «nascono forme ben strutturate e tonalismo che interagiscono coerentemente con il complesso sistema percettivo
dell’artista, il quale disponendo di un assoluto e armonioso
riscontro iconografico sostiene l’ideale prioritario nella
giusta direzione interpretativa» (Flavio De Gregorio). Artista di grande originalità, si allontana dai suoi contemporanei per la capacità di assemblare e rielaborare i concetti che
trae dal mondo. Pur distaccandosi completamente dalla tradizione figurativa, mantiene l’armonia della forma e della
composizione alla ricerca dell’incertezza del mondo odierno.
L’essere e il divenire, olio e acrilico su tela, cm 100 x 70
Si tratta di opere intense, che elaborano un linguaggio originale, pur nella sua classificazione, e che permettono al microcosmo umano di respirare l’infinità di una
dimensione metafisica attraverso le forme e i colori. Ogni
tela è libera da un adeguamento al mondo esteriore, ma la
ragione, come sempre, svolge un’azione principale attraverso la parziale razionalizzazione del passionale, del metafisico, del sogno. L’arte stessa è forse un sogno utopico e
premonitore, ma la sua dimensione è da assimilare con il
cuore. Il massimo spunto razionale risiede in un simbolismo
totale e perfetto che funge da mediatore tra reale ed esistenziale metafisico. Emerge una dimensione fluida, imprendibile per i cinque sensi, che appare a volte meravigliosa, a
volte mostruosa. Anche la visione assume così un ruolo conoscitivo che tende a capovolgere quei rapporti ‘normali’ a
cui è abituata la mente dell’uomo. Si delinea quindi la concezione del vuoto e dell’imprendibile: insomma i limiti
della ragione nella lacerazione del nostro tempo attraverso
un idealismo e l’ossessività del simbolo, della scissione tra
Ognuno la sua
Egli, dunque, sembra far confluire nelle sue opere
la materia reale e la visione di un mondo astratto. Pochi oggetti di scarto, come pezzi di ferro o elementi più svariati, si
tramutano in concetti essenziali che esplicano il complicato
stato d’animo dell’autore. Sergio Osimani mira così all’essenzialità del messaggio in un’attenta contemplazione sul
senso della condizione umana.
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premo consigliere in tutte le contingenze della vita.
Ma al di là del manipolo di componimenti in metro
vario, impreziositi da espedienti ritmici gustosi e consistenti, accanto alla palpabile suggestione di morbido e tenero
sentimentalismo, vigono un’intonazione pietosa e una prospettiva umanitaria, che dettano al poeta eterogeneità tematiche e stilistiche, ordinate e ricomposte in liriche sociali dal
sapore scopertamente polemico, che segna davvero una svolta espressiva, in cui affonda le radici il nuovo corso della
sua poesia, che si adegua alla personalità spiccatamente originale. La materia della lirica è certamente di una sua specificità, ove l’amore e le gioie della vita cozzano con l’attenzione sulle atrocità di recenti conflitti in Iraq e in Afghanistan, che danno maggiore corposità al volume, che si può
definire una perfetta raccolta autonoma nel suo genere,
iscritta nel contesto di una ispirata tessitura poetica. Sul
piano dello sperimentalismo espressivo, il vernacolo siciliano di Peci continua le raffinatezze linguistiche e tecniche
nella ripresa delle inflessioni di un vocabolario vivo e parlato ed echeggia la stessa ansia di ricerca di uno stile proprio,
la stessa percezione vivissima e sofferente del tempo, lo
stesso schiudersi appassionato e travolgente del riferimento
immediato del quadro di vita in che viviamo, che furono già
del neoclassicismo arcade di Meli e del verismo caricaturale
e grottesco di Martoglio, ai quali non esiterei ad accostarlo.
La foggia della ricostruzione delicata e sfumata della sensibilità lirica, che può offrire il dialetto scelto dal vivo, fornisce in tal modo la chiave di lettura più consona per l’affermazione di temi che non perdono in lui l’esasperata tensione della sincerità espressiva e le delicate fattezze di istanze
poetiche di dimensione perfetta, da cui emana la sua spiritualizzata idealità neorealistica, sia sul fronte contenutistico,
che sulla scelta della forma, a tratti tipicamente elegiaca. In
essa si placa l’anelito alla ricerca di uno strumento espressivo duttile e malleabile capace di rendere concreta la proteica complessità dell’anima del poeta.
Nino Sanfilippo
Recensioni
Fiorisce la letteratura dialettale con l’opera di
Domenico Peci: L’infanzia e l’adolescenza
negate (Prova d’Autore, maggio 2003)
Viene acquistando particolare rilievo nel vernacolo
siciliano la poesia di Domenico Peci, che inaugura una vena
autonoma e originale, espressione di una cultura ricca di
pittoreschi quadretti e di temi di lirica, intessuta di riflessioni sui problemi sociali, di vita quotidiana e di confessioni
autobiografiche, che si ravvivano di immagini e di concetti
assumenti caratteri di tensione suprema ed emozioni umane
ricche e variate.
La padronanza tecnico-linguistica e l’analisi metrica e stilistica della raccolta “L’‘infanzia e l’adolescenza negate”, prima edizione, maggio 2003, Prova d’Autore Editrice, celebrativa della sacralità dei diritti dei bambini indifesi,
oggetto di impressioni e di risonanze interiori del poeta,
rivelano una complessa struttura metrica, non intervallata da
scansioni da una strofe all’altra e modulata da sapiente cadenza ritmica, mentre i versi, di forma regolare, hanno
l’andatura di una magica frase musicale, che espande ogni
suo elemento, risolto in un intenso monologo contemplativo
«intra stu’ munnu», e proietta la voce intrinseca del poeta
sulla realtà esterna. La poesia ritrova in tal modo la propria
intima espressività nel linguaggio colorito e in una sorta di
rapimento estatico di esplodente e incontenibile commozione. Peci è pervaso dal richiamo all’amore per i piccoli
indifesi dell’“infanzia negata”, suggerito dalla misteriosa
voce della coscienza, che gli fa evocare, con una sorta quasi
di rito, immagini dolci, «u surrisu di ‘mpicciriddu» «i ‘angili do’ surrisu», miste con l’urgenza di dichiarare qualcosa
di convincente e di risolutivo, che deve rivelare ai lettori la
presenza di una sconcertante realtà, nella quale, con «Virgógniti, ómu, ránni!», la lirica si trasforma in inquietante
esigenza di moralità e brama di giustizia, che fanno assurgere ed elevare le considerazioni ad esplicita condanna.
Nella ripresa di questi motivi peculiari di un’etica
tradizionale e risentita, il poeta opera un approccio tramato
di perplessità e di riserve, in cui si avverte la viva eco del
linguaggio e della lezione della voce del cuore, al cui ascolto si sente inondare di ebrietà vera e accendersi di sacro ardore e di mistico entusiasmo. Nella vita c’è bisogno di fratellanza e di amore, che il poeta ravvisa «intra ‘n ‘orfanotrofiu», dove, nella gioia della comunità di vita, si dovrebbe
insegnare come bisogna avere nell’intimo tutto un tesoro di
parole, stillante il miele della bontà per chi passa «L‘infanzia senza la ninna-ó», per cullare chi ha necessità di consolazione e lenire le angosce segrete: norme immutabili su
cui sono basate le fondamenta del grande consorzio civile.
Le «Tirribili profanazioni», il «Miserabili cummerciu d’organi umani», il «No a lu travagghiu minorili» denotano un
fervido attivismo sociale nell’animo di Peci, che agisce in
senso apertamente anticonformistico, supportato filosoficamente da una ripresa evidente dei motivi etici principali, dei
sentimenti di umanità, onde l’ingegno e gli studi non valgono quando non si racchiude in fondo all’essere un cuore
palpitante di bontà, che disdegna le prassi, tanto consuete
quanto stolte, e quando non c’è l’amore affratellante, su-
Jean Sarraméa, la poesia coniugata alla storia in
Le regard d’Hermès, (Francia, Luglio 2003)
La storia è l’uomo, l’uomo è la sua storia. La storia
è fatta di individui e di masse umane che operano e cooperano insieme per un obiettivo comune, ma se giusto o
sbagliato saranno poi i posteri a dirlo. Che la storia rientri
nella poesia è cosa rara. Di solito la poesia si fonda su sentimenti personali e intimistici. Invece nell’ultima silloge del
poeta francese Jean Sarraméa, dal titolo Le regard d’Hermès, la storia diventa quasi il fulcro della poesia, attraverso
i sentimenti e le emozioni che i protagonisti sanno suscitare.
Protagonisti del passato che ancora oggi sono vivi con le
loro immagini e con le loro indelebili azioni. Il tempo viene
fissato nei versi. E la storia e il tempo sono entità distinte,
che vanno a braccetto. «Une auguste statue en fleur de marbre blanc / est l’antique symbole au long miroir du Temps...
(Una statua augusta in fiore di marmo bianco / è l’antico
simbolo nel lungo specchio del Tempo...)». Ed è proprio il
lungo specchio del tempo in cui si riflettono le personalità
forti che hanno lasciato le loro tracce nella storia. Socrate,
ad esempio, con il suo esempio di virtù che non ha paura di
fronte alla morte. Carlo V, re di Spagna, che sa trovare un
contatto umana nel suo viaggio attraverso l’Europa e quindi
60
anche in Provenza. Giordano Bruno e il suo sogno di libertà. Ma a questa storia di individui si contrappone la storia
delle masse e allora vengono evidenziati fatti sociali, come
la rivolta dei setaioli e le loro istanze. Ma la silloge di
Sarraméa non è un volume di storia o di letteratura né di
arte o un’enciclopedia. Si tratta di poesia coniugata ad un’elevatezza lirica che, attraverso una profonda sensibilità
umana e spirituale, oltre che intimistica, lascia nella mente
del lettore un alone di grazia e di bellezza, oltre che di
passionalità. Il volume è diviso in sette parti. Le prime due
incentrate sulla storia: Les blessures du passé e Les soleils
de l’histoire. La terza parte riguarda facezie geografiche.
Quasi giochi di fantasia in cui ricorrono, attraverso una
descrizione lirica e realistica, stupendi paesaggi e località
più o meno note, che comunque hanno lasciato nell’animo
del poeta profonde emozioni. La quarta parte invece è più
legata alla realtà del presente, con temi come la deforestazione oppure le donne afgane. Qui prevale quasi un sistema
aforistico. Un esempio: il terrore è un’arma dove il debole
viene frantumato. Nella quinta parte, dal titolo Les sentiers
de la nature, è la natura che suscita emozioni attraverso i
suoi spettacoli come il crepuscolo, la vita naturale, gli uccelli con il loro canto, la nebbia, il cielo, il sole, le stagioni
e i loro fiori. Nella sesta parte, Les clins d’oeil de la poésie,
si l’autore si sofferma sul pensiero e sulla sua fragilità.
Emblematica in questo senso è la poesia conclusiva. Una
poesia in prosa in cui ci si avvicina ad una sorta di Nirvana,
dove si incontra il pensiero-solo, una fusione piacevole con
una libertà di movimento intellettuale quasi perfetto, una
scelta infinita di piste d’esplorazione dove confluiscono la
Ragione e i sentimenti senza partigianeria o antinomie. Ma
è la speranza ad aver la meglio nell’ultima sezione della
silloge, una speranza legata alla realtà. Sotto l’aspetto
stilistico e formale la silloge riprende vari schemi classici,
dall’acrostico ai giambi, dalle terzine ai ritornelli, dai
fabliaux ai sonetti. Tutto questo rende la poesia di Jean
Sarraméa varia e nello stesso tempo piacevole.
Angelo Manitta
le sue emozioni. La prima parte, in dialetto siciliano, presenta un legame con la tradizione contadina molto forte.
Qui l’affetto e l’amore per la propria terra e le sue tradizioni
emergono quasi verso dopo verso. Figure antiche, ormai
scomparse, appaiono con irruenza: sono il carrettiere e il
contadino. Ad essi si intreccia un paesaggio lunare e solare
nello stesso tempo, espresso con semplicità e profondità di
emozioni. Tutto viene percorso attraverso la memoria, come scrive Ugo Zingales nella prefazione, quasi per «ricordare le abitudini e le tradizioni: i contadini del Sud, le loro
abitazioni dai tetti rustici coperte di tegole di terra cotta, i
lunghi filari di viti, i campi di grano con le spighe dorate, il
recinto di legno con gli animali da cortile, ed ancora in un
angolo il vecchio cascinale, l’antica zappa ed il vecchio aratro a chiodo, ultime testimonianze di un mondo scomparso». Nella seconda parte del volume invece sono inserite
liriche in lingua italiana. Qui la poesia si fa contemplazione
e diventa più riflessiva. L’uomo si trova di fronte al creato e
ad un universo naturale, in cui il pensiero e la riflessione
personale travolgono il lettore con visioni maestose ed emozionanti. L’irruenza della natura e la sua presenza impellente mettono l’uomo a contatto con il divino, che si manifesta
proprio nei simboli naturali che di esso sono portatori, come
la pioggia, il vento, la notte. Emblematiche in tal senso
sono le tre composizioni che hanno come titolo Pensiero.
«Felici come piume / al vento, mille pensieri / volano per
l’azzurro cielo, / mentre Angeli in coro / cantano versi divini». Questo modo di esprimere la propria interiorità spinge
l’autore, Matteo Formica, che è pure raffinato pittore, a presentare tematiche legate alla realtà sociale, ma pure ad eventi tradizionali, come pure affetti personali. Questo tema pervade un po’ tutta la silloge dall’inizio alla fine. E la figura
del padre o della madre si stagliano in un cielo azzurro e in
un mondo dove tutto viene idealizzato attraverso il ricordo
e l’emozione. Andando su questa scia la poesia di Matteo
Formica riesce a coinvolgere il suo lettore e lo trascina passo dopo passo in un mondo ormai passato, ma idealizzato
dalla mente come un misterioso paesaggio. Le poesie così
acquisiscono una visione pittorica, in quanto ognuna di esse
somiglia ad un piccolo quadro. Non per nulla molte di esse
sono accompagnate da splendidi disegni che evidenziano la
maestria del suo autore.
Angelo Manitta
Matteo Formica, liricità e tradizione in Di la
terra mia (ed. ASLA – Palermo 2002)
«Anime inquiete vagano / per gli spazi infiniti, /
nell’azzurro intenso / colori di festa / segnano glorie e, /
voli d’uccelli / destano l’aria di / primavera vicina. / Il fiore
di pesco / colora di rosa tramonti / e verdi distese / di cuori
innocenti / che s’incontrano a sera. Musiche armoniose / di
vecchi ricordi; / di cose lontane, / rivivono i cuori / e, nell’aria di festa, / anime inquiete vagano / per gli spazi infiniti». Questa poesia, posta nella penultima pagina di copertina del volume di Matteo Formica, dal titolo Di la terra
mia, manifesta tutta l’emblematicità e la peculiarità della
lirica del suo autore, e quindi della sua poetica, espressa in
maniera molto chiara anche nella breve premessa alla
silloge, in cui si legge: «La mia carta è la tela, la mia penna
è il pennello, i miei pensieri sono le masse diverse di colori,
per cui alla fine nasce un comprensibile e ragionevole soggetto». Ed in effetti la poesia di Matteo Formica è fatta dei
colori e delle emozioni che da essi scaturiscono. La vita e il
pensiero si fondono con la realtà vissuta nella sua quotidianità, anche se la silloge è distinta in due parti ben diverse
e caratterizzanti, e con l’unico denominatore: la campagna e
Genesi di un’alba e tramonto di un tempo (quasi
un racconto) di Otilia Jimeno Mateo, (Accademia
Internazionale Il Convivio, Anno 2003).
Il tema dell’Uomo come individuo nel grande progetto della vita, l’intera umanità in rapporto con il tempo è
sempre stato e resterà un argomento affascinante, sul quale
scrivere ancora sia in prosa, sia in versi. Lo fa la scrittrice di
romanzi, saggi e poesie, Otilia Jimeno Mateo nata in Spagna nel 1924, che ha pubblicato “Genesi di un’alba e
tramonto di un tempo”. Il sottotitolo del volume specifica
che è ‘quasi un racconto’ data la prolissità dei versi costante
e progressiva nel senso che, al posto dei titoli per distinguere ogni lirica c’è la numerazione romana fino alla XLVIII
(48) poesia. Anche nella suddivisione dell’intero testo è
presente un’evoluzione, in quanto il libro si divide in quattro parti che si completano in successione e sono: E fu la
vita, Cammino dell’uomo, Verso un risultato umano‘il trion61
fo’, Conseguimento di qualcosa?. Nell’accingersi a leggere
la raccolta di versi dell’autrice spagnola contemporanea, si
chiede la prestezza di tenere sempre a mente, come punto di
riferimento, l’essere umano, nucleo di un sistema nato
prima di lui e forgiatosi attorno a lui. Questo è importante
per non perdersi nel lungo cammino di versi, architettura
quasi in forma di esposizione prosastica di facile lettura,
giacché sono realmente comprensibili gli iniziali propositi
dell’autrice che voleva raccontarsi e raccontare cosa significa crescere, vivere, comunicare con la natura, con i propri
simili, con il Creato e soprattutto attraversare il tempo. Il
tempo è fatto anche e soprattutto di giorni semplici, quelli
in cui non è accaduto nulla di rilevante e «Verrà il camminare, / vivrai le giornate / e senza poter sfuggire / giungerai ad un’altra alba. / Un altro giorno essenziale / che si
chiamerà martedì / spunterà alla tua finestra / ed ebbra del
suo guardare / l’aprirai con facilità» (Da XIV). La fine è
legata alla domenica “Tramonto di un tempo” della settimana conclusasi dopo tanti impegni, progetti, incontri che,
in qualche modo ricordano in piccolo gli sforzi di Dio Padre
Creatore dell’Universo che «nel giorno settimo, volle conclusa l’opera che aveva fatto. Quindi Dio benedisse il giorno settimo e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da
ogni opera da lui fatta creando. Queste sono le origini del
cielo e della terra quando Dio li creò» (Dal Vecchio Testamento, Genesi 2, 2-4a). Il testo a fronte che ripropone gli
stessi versi ma in versione spagnola esalta ancora di più gli
originari proponimenti dell’autrice.
Michela Isabella Affinito
antologie poetiche, “L’ippopotamo e altri animali” è l’esordio con la dimensione del racconto. Pur definendosi “un
dilettante” (il suo back ground culturale è essenzialmente
tecnico-scientifico) sa dimostrare una notevole padronanza
della lingua scritta, e una capacità di inventiva che rendono
accattivante e non privo di fascino il suo discorso. Il volume è arricchito da una grafica gradevole, costituita da illustrazioni a colori, semplici ma estremamente espressive nel
tratto, realizzate dall’autore stesso. L’uscita in librerie è prevista dal mese di Novembre al prezzo di copertina di
#
Fedel Franco Quasimodo, Il giardino dei
pensieri (Edizioni Movimento Salvemini)
La silloge di Fedel Franco Quasimodo scorre dal
personale al sociale con una soavità d’intenti che liberano il
poeta da ogni dimensione schematica. I versi iniziali inteneriscono per la dolcezza che il poeta manifesta verso il
debole: «Ma sarò sempre al tuo fianco / a vigilare, custodire, con te, soffrire e gioire, / perché vedo in te / lo spirito
di Cristo». Allo stesso modo, però, non stupisca il tono severo della critica storica che Quasimodo rivolge all’«uomo
calvo e truce, / che si fa chiamare Duce», all’«ignoto aviatore» che «regala la Morte, / e ha una medaglia sul petto» o
all’«austriaco caporal. / Trascinatore di popolo, / rivendicatore di torti, / trascina la Nazione / in un ginepraio di morti». Sono i diversi risvolti di un carattere poetico sensibile
ed altruista, di uno spirito inquieto incapace di tacere le contraddizioni della storia, del quotidiano e le proprie. «Perché
getto versi?» si domanda Quasimodo. «È forse perché /
voglio tradurre in arte / la mia angoscia?». Il suo è un percorso difficile, così come è difficile quello dell’essere umano in genere. Soffre il soldato, destinato a morire «per vivere in eterno, / osservando con grande giubilo / l’odio che inalbera / il vessillo di resa». Soffre il vecchio «perché avvolto dalla malinconia / di non avere più nulla da dire / e
nulla da fare». Soffre lo squatter «cattivo, forse, / ma anche
vittima: / di una famiglia che non ti ha mai parlato / e ti ha
solo sopportato». E soffre anche il poeta. Malinconico, depresso, saltimbanco, ma poeta. Che «gioca con la rima, / per
guadagnar vana stima». Poeta a dispetto di chi lo vorrebbe
isolato nel suo eremo. Un poeta legato emotivamente al
mondo; forte nelle immagini più accese dei suoi versi ed
emozionante nel pianto in cui scioglie le sue inquietudini
più profonde. «Non sono altro che una lacrima / che mai
muore / perché sgorga / da una fontana / sempre zampillante / che è l’umanità».
Eloisa Nicotra
L’ippopotamo ed altri animali di Giacomo
Manzoni di Chiosca (Ed. ARCA – Lavìs - TN)
Può un ippopotamo vivere in Alsazia? Certo che
no! E che ci fa un Tricheco alla “Festa d’Ottobre”? E una
giraffa, può fare l’attrice? Partendo da situazioni estremamente improbabili, gli animali antropomorfi di Giacomo
Manzoni di Chiosca, come nella grande tradizione favolistica da Esopo in poi, sono ricchi di sentimenti e di passioni, si muovono più o meno goffamente nel mondo reale,
mettendo in evidenza, spesso con sottile ironia, attinenze e
contraddizioni con la vita moderna. La realtà, filtrata attraverso gli occhi e le esperienze di questi personaggi, pieni di
vitalità ma ingenuamente poetici ed indifesi, assume un
colore dolceamaro, che a volte ci fa sorridere, a volte ci fa
pensare. Il lettore ritrova un po’ di se stesso nei simpatici
protagonisti dei sette racconti raccolti nel volume, di un
centinaio di pagine, che si presenta in veste tipografica elegante ma non vistosa. Ritrova un po’ delle proprie passioni,
dei propri ricordi, dei propri sogni, ma anche i propri difetti
e le proprie debolezze. Si ha quasi l’impressione di aver già
vissuto in prima persona le semplici storie, dall’intreccio
labile, ma ricche di descrizioni e di riferimenti. E ciò rende
la lettura scorrevole e trascinante. “Favole per tutte le età”,
recita il sottotitolo: l’adulto vi si specchia, ritrova nel suo
cuore odori, atmosfere, un tempo di baci e di sottile nostalgia che rianima, nel proprio animo, segreti custoditi nello
scrigno di infantili prodezze. I lettori più giovani possono
affacciarsi su un mondo stranamente reale, il mondo dei
padri, dipinto in modo affettuosamente fantasioso e un po’
canzonatorio. Per l’autore, già noto per aver vinto diversi
premi in concorsi letterari, e già inserito in numerose
Congedi Balcanici: la realtà sociale della Croazia
vista da Drazan Gunjaca (Fara ed., luglio 2003)
Un romanzo, denso e vorticoso, indimenticabile di
forti passioni e di grandi atmosfere che travolgono e avvolgono il lettore. Una pagina di una guerra dimenticata un’indagine psicologica minuziosa e magistrale dei sentimenti e
dell’anima umana, dove le vicende private scorrono parallele ai grandi eventi drammatici dell’ex Jugoslavia di una
generazione, dove scontri e sentimenti sono rappresentati a
tutto tondo con una profonda capacità di introspezione sempre animata da una tensione vivissima che segue fedelmente gli avvenimenti, da personaggi indimenticabili mossi da
62
un tragico destino. Sentimenti di volta in volta profondi e
violenti, inconfessabili e travolgenti animati dall’odio, momenti esaltanti e travagli di coscienze. Il giudizio di Gunjaca è quindi severo, amaro, di volta in volta sconsolato ma
non recide il cordone ombelicale che lo lega all’amore, per
cui, l’amore rimane sempre, la vita della vita. È questo lo
sfondo in cui si svolge e si snoda il romanzo “Congedi Balcanici”, dove da ogni pagina si respira la paura e la morte,
protagonista egli stesso di molti eventi di cui molti non
hanno compreso le ragioni e le forme di degenerazione e di
brutalità inconcepibili. Un romanzo profondo, intenso, che
appassiona e affascina per la sua insolita cadenza narrativa
per le sue atmosfere un libro scritto con un linguaggio di
consumata abilità e partecipazione da un narratore come
Drazan Gunjaca. Ecco i protagonisti, vittime come frecce
conficcate nella ruvida pelle della realtà. Emergono i personaggi, comparse nel dolore e nella disperazione, tra soprusi e inumanità, testimoni di una tragedia consumata tra orrori e disastri. L’altra faccia della luna viene illuminata e il
dramma rivela il suo volto sconosciuto, quello dell’indifferenza che nasconde meglio di qualsiasi paravento. Il pianto
sui propri morti vinti e impotenti nel loro lamento, le loro
grida riempiono le pagine di questo romanzo in questa atmosfera rarefatta, allucinata e soffocante in cui la guerra si rivela ancora una volta in tutto il suo grottesco e tragico cinismo, dove non esistono né vinti né vincitori, ma ognuno alla
ricerca della propria anima. Il dramma di Gunjaca è dentro
il racconto, dentro il disegno dei personaggi, all’interno del
rapporto tra le situazioni: è a questo nucleo che occorre giungere se si vuole tentare di capire il senso drammaturgico di
questo scrittore che pazientemente ha cucito un tessuto fatto
di disperazione, solitudine ed attese. Un documento vero, una
testimonianza vera. La memoria una certezza che la testimonianza è eterna e che si muove oltre la propria coscienza.
Alessio Piano
tradimenti, avvenuti in altre traduzione, ripercorre tutte le
varie tappe della sua vita, dall’infanzia nel suo paese d’origine, all’esperienza dell’emigrazione con il suo carico di
miseria e spietata emarginazione, fino a giungere infine alla
scoperta e alla scelta letteraria come riscatto alla sua condizione per la riaffermazione della dignità di uomo...
Son of Italy è l’autobiografia di una vicenda sicuramente emblematica sia per le connotazioni umane ad essa
connesse che per il valore, emblematica di una condizione
esistenziale permeata dalla sofferenza e dall'umiliazione ma
riscattata ampiamente dalla dignità cercata e conquistata a
prezzo di altissimi sacrifici. Sono così ripercorse, capitolo
dopo capitolo, le tappe della vita di Pascal D’Angelo dall’infanzia nel suo paese natale, con tutte le difficoltà legate
alla miseria e all’emarginazione che lo portarono alla scelta,
a 16 anni, insieme col padre, ad emigrare in America, per
giungere poi alla realtà amara, contraddittoria e densa di
difficoltà del nuovo paese...
Il libro di Rino Panza, stampato a cura della “Fondazione Ignazio Silone”, è stato inserito nel “Progetto Scuola” della stessa, che si va realizzando nelle scuole d'ogni ordine e grado a livello nazionale, con lo scopo di far conoscere e far appropriare il mondo giovanile della “Storia
degli umili” del nostro paese, proprio sull’esempio dell’opera e della vita d’Ignazio Silone, un fine ed un’impresa encomiabili perfettamente raggiunti, in questo caso, dall’opera
di Rino Panza.
Franco Dino Lalli
Poesia dallo sfondo sociale: La rosa Gialla di
Vittorio Baccelli (Montedit, Melegnano 2002)
Vittorio Baccelli, con “La rosa gialla”, ha voluto
riorganizzare l’abbondante materiale poetico da lui sciorinato durante gli anni in varie pubblicazioni, ne ha tratto
questa corposa raccolta che, oltre ad avere valore poetico,
ne ha anche uno storiografico ed ideologico, perché in essa
vengono puntualizzati eventi e preconizzati fatti con profetica veridicità. Non è facile avvicinarsi a questo genere di
poesia dalla quale si evince la personalità forte, antiopportunistica, proletaria, dell’autore, attento a far ben emergere
il suo punto di vista di fronte ai fatti che viene enunciando.
Dotato culturalmente, sagace nel maneggiare il verso con
soventi scorribande allusive, originale nella concezione,
Baccelli non nasconde la sua avversione ad ogni forma di
imperialismo economico ed ideologico che ha imperversato
per diverso tempo. Da buon cronista egli ripropone gli
eventi con conseguenzialità, arricchendoli con adeguata cornice di commento personalistico, esumazione di personaggi
esistiti, paludati di quella sottile ironia tipica di chi non disdegna esternare i suoi punti di vista, le sue idee. Vi sono
chiari sintomi di profetismo quando si pronosticano trionfi e
sconfitte, crolli e resurrezioni di personaggi veri che hanno
calpestato uno scorcio del secolo scorso. Non mancano
allusioni politiche di chiaro marchio materialistico, una analisi spietata di un triste periodo in cui spesso si sentivano gli
echi delle armi, periodo di clandestinità, di attentati, di
cortei di protesta. Innegabile una versificazione, allusiva e
forbita, sempre attenta ai contenuti, evidenzia una personalità, quella di Baccelli quanto mai frammentaria e poliedrica, allergica alle acquiescenze ed ai succubismi. Questa sua
raccolta ha un alto valore storiografico, perché puntualizza
Rino Panza, Il mondo di Pascal D'Angelo Poeta
del piccone e della pala (Fondazione Ignazio
Silone, Febbraio 2003)
Rino Panza, studioso di chiara fama d’Introdacqua
(AQ), con questo suo saggio offre in maniera effettiva,
esauriente e preziosa un contributo alla conoscenza della
vita e dell’opera di Pascal D’Angelo, autore finalmente studiato e rivalutato dopo tanti anni d’ingiusto oblio.
I meriti fondamentali del saggio di Rino Panza sono numerosi e tutti riferibili alla sua capacità di fornire un
quadro molto articolato ed esauriente, attraverso un’ampia e
multidirezionale documentazione, del mondo di Pascal
D’Angelo, poeta e scrittore emigrato in America da Introdacqua nel 1910. «Senz’alcun intento agiografico, poiché
mal si adatterebbe alla personalità di Pascal D’Angelo, poiché calcare l'accento sui suoi dolori e sulle amarezze della
sua vita può far correre il rischio di cadere in un pietismo
che evidenzi l’uomo sfortunato più che l'artista dalla volontà di ferro», attraverso il fil rouge costituito dal romanzo autobiografico Son of Italy, pubblicato da D’Angelo nel 1924,
Rino Panza, riassumendo alcune parti e curando personalmente la traduzione dei brani testuali che ogni volta sono
stati scelti per la portata artistica e narrativa, cercando il più
possibile di essere fedele all’originale per non incorrere in
63
un breve ma intenso periodo ricco di fermenti sociali, di
contrapposizioni ideologiche. Non si esclude una certa cerebraloidità con la quale il discorso viene imbastito, non sempre di immediata intuizione, per non dire comprensione. «Il
mago spezza il pane / frugare con un ferro di calza / in un
orologio a pendolo / ricordo che ti piace un mio / quadro il
più cinese tra / quelli che ho dipinto». Non aggiungo altro!
Pacifico Topa
Ines Scarparolo: Quando fiorisce il pesco (ediz.
Le schegge d’oro, Montedit, Milano 2002) e Il
respiro dei fiori (Ed. veneta, Vicenza 2002)
L’autrice vicentina ha, al suo attivo, numerosi premi e riconoscimenti per la poesia in lingua e in dialetto ma
soprattutto ella possiede un’anima specialissima per raccontare il mondo dell’infanzia e dell’adolescenza. Per una scrittura rivolta ai bambini è necessario mettersi nella loro lunghezza d’onda, calarsi tout court nella dimensione del bambino. Per Ines Scaparolo questo non pare difficile, tanto ella
possiede un’anima candida come loro, un modo di porsi che
è spumeggiante, effervescente e dolcissimo come sono appunto i bambini. Lo dimostrano ampiamente questi due volumetti: in entrambe queste raccolte, Ines parla con la voce
dei bambini, si fa portavoce delle loro aspirazioni - e anche
sì - della loro sofferenza.
Nel volume “Quando fiorisce il pesco” sono raccolte filastrocche e poesie, in cinque sezioni divise per argomenti, tutti accattivanti, ma la parte che più colpisce è senza
dubbio in “PARLIAMONE” dove l’autrice presenta ai bambini - in maniera singolare e intelligente - i problemi di
oggi: alla notizia scritta in grassetto fa seguito il “commento” del bimbo: ad es: «L’ammontare dell’evasione fiscale / del nostro paese / riuscirebbe a coprire interamente il
debito pubblico. - Dice la mamma: / - Quanta disonestà c’è
dappertutto! - / Ed il papà: / - Soltanto i furbi stanno a galla
/ tra tante ruberie! - / Per questo forse / lui non segna tutta
l'IVA / ed è convinto / che non sia una ruberia?».
Nel volume “Il respiro dei fiori” (quattro sezioni) –
3° premio al Concorso “Anna Osti - poesie per l’infanzia” –
l’autrice presta la voce a tutti i bimbi del mondo e qui ne
cito soltanto due: «Ahmed, anni dodici» (dal Marocco):
«Fermo ai semafori / lavo parabrezza / di auto impazienti. /
Ringrazio e sorrido / se una moneta cade / nella mia mano
tesa ...». «Salvatore, anni dodici» (dall'Italia): «Mio padre
non lavora / e io, guadagno il pane. / La scuola?, Ma che ci
vado affà ? / Là mica mi imparano / a gabbà la Pula!».
«Bionde, bionde profumate! / Dieci euro alla stecca!». Segue anche in questo volume la parte in dialetto e
cito soltanto la bellissima “Ciàcoe de Maria al so Gesù”
dove la Madonna parla a Gesù in dialetto vicentino. Entrambi questi volumi sono corredati da bellissime illustrazioni dell’autrice - che anche in quest’arte ha una mano felicissima - inerenti i temi trattati, volti di bimbi tristi o sorridenti ci osservano riuscendo ad indurre noi adulti lettori ad
un esame di coscienza. Ines Scarparolo è certamente riuscita, con queste due opere a lasciare una sua traccia, a lanciare un suo “salvagente” verso il mondo dell’infanzia più
bisognosa.
Rina Dal Zilio
Desiderio ed aspirazione nella silloge Un grido
di luce di Rosalba Masone Beltrame con nota di
Mario Lungarotti (Book editore, Dicembre 2000)
Nella silloge “Un grido di luce” Rosalba Masone
Beltrame sfoggia uno stile poetico quanto mai innovativo ed
originale, sia nella stesura che nella forbitezza linguistica.
La potremmo definire una raccolta del ‘desiderio’ in quanto
sovente emerge l’ansia di un qualcosa a cui lei aspira, ma
che le sfugge, o invoca invano... «Mai ti disseteranno pioggia vento / Non ti disseteranno / né t’allieteranno / né colmeranno il nulla». La nota pessimistica che aleggia cupamente
le negatività esistenziali sono evidenti, lei le stigmatizza per
cui la terra «è un ponte gettato /nel blu / dove / il dolore /
passeggia». Ed ancor più avanti: «chiudere gli occhi / per
non vedere / per non sentire». V’è rassegnazione di frronte
a questo turbinio di... «sproloqui e turpiloqui», raffigurazione negativa di questa nostra realtà protesa verso conquiste
effimere, ma lei dubita: «C’é chi possa ascoltare / l’urlo
ferito / offeso / strozzato? / C’é? / Chi sarà?.». Ogni tanto
un barlume di speranza... «Se / Dio è / amore infinito / e
l’amore è dolore / Dio è sofferenza infinita». La raccolta
s’inoltra nella profondità di argomentazioni concretamente
realistiche che scuotono dal profondo. «Perché si mutano i
tempi? / o il tempo siamo noi / sempre diversi? / perché nulla resta? / e noi non vediamo». Profondità amletica e concettuale. Talvolta colpisce l’asprezza di certe parole: «Perché mi manca / anche il presente?». Sono strali verbali che
infilzano nella mente, lanciati da chi ha nell’animo l’angoscia, il tormento oltre che il desiderio di riscatto. Nell’attenta lettura di queste composizioni s’ha la possibilità di
intuire un animo esasperato che esterna la sua virulenza poetica con versi singhiozzati, quasi lanciati con forza contro
le coscienze altrui. In “Adesso che il mistero” il poetare si
fa più delicato la descrizione quasi idilliaca. «La stradina
dietro il filare / un dolce dolcissimo perdersi / dove / lontano / si alza la chiesa / e la sua nostalgia». Ma anche qui la
mestizia ha il sopravvento. «C’é sempre la nebbia / quando
il cuore si confonde con la memoria». A questo punto la rievocazione si tinge di struggente rimpianto; ambiente familiare... «mio padre che lavorava... la famiglia è quasi un’orchestra d’amore». Più oltre: «Eccola mia madre / al centro
della vasta cattedrale / che era / l’infanzia». Il sentimento si
mescola con la nostalgia. «Tiepide di sole / le panchine /
lungo i viali / di Milano». Malcelato rimpianto di quel tempo felice! Alla fine sintetizza se stessa dichiarando: «Ho
percorso il mondo... Il tempo è corso / senza noi tra le dita /
ne tengo stretti i capi». Ed infine sentenzia: «Il tempo / è
indifferente dio / solenne». Poetica quanto mai concettuale
di non sempre facile accesso, ma pur valida, perché intensamente sentita.
Pacifico Topa
Antonietta Benagiano, il rapporto generazionale
in Patér (Edizioni Roma, 2001)
“Pater” è un romanzo che Antonietta Benagiano ha
realizzato sulla stregua di una tematica attuale, una tematica
generazionale. Il contrasto ideologico e comportamentale
fra genitori e figli si evidenzia in tutte le sue forme e
costituisce il fulcro del racconto. Nel secolo scorso, in un
cinquantennio, si è verificato uno stravolgimento delle abi64
tudini. Una serie di eventi hanno contribuito a favorire tale
trasformazione, non risparmiando neppure i nuclei familiari. Il rapporto padre e figlio è diventato elemento di discussione, non solo, ma spesso, di conflitto; certi atteggiamenti,
una volta congeniti nell’ambito domestico, hanno assunto
una diversa impostazione. Il settore cultura ha avuto il sopravvento sul fattore esperienza; i figli che hanno seguito
corsi di studio secondari si sono sentiti autorizzati a mettere
in dubbio la capacità direzionale ed educativa dei genitori,
meno esperti culturalmente, ma ricchi di quella apprezzata
esperienza che è dote indiscussa. Pater vive nel ricordo e
nella rievocazione della sua infanzia, rivive gli insegnamenti paterni, ne sugge le qualità etiche e culturali, ne esalta i
valori civili, vorrebbe che anche suo figlio seguisse i suoi
insegnamenti, ciò non avviene. I protagonisti vengono proposti nella loro realtà, con pregi e difetti comuni ad ogni
essere mortale; ciò che impreziosisce il racconto sono le allusioni riguardanti l’ambiente e ricco di reminiscienze storiografiche e mitologiche oltre che archeologiche, la meticolosità con la quale queste cose vengono esposte denota
profonda cognizione e passione per la cultura. Può ben
parlarsi di un romanzo psicologico dato che gran parte di
esso è riservata alla descrizione dei caratteri, alla specificazione di personalità. La Benagiano ha dalla sua parte quel
pizzico di culturalismo che non guasta e che la porta ad un
livello preminente di scrittrice dotata di un buon bagaglio
cognitivo. Ciò che si rileva dalla lettura è la scorrevolezza
linguistica, la conseguenzialità, la naturalezza degli atteggiamenti, soprattutto l’intento di dare qualcosa di valido al
racconto che, sebbene con una trama comune, elude ogni
forma di enfatismo, scorre rapido e snello nella dislocazione, consentendo un’immediata comprensione. Pater è un
racconto moderno, valido da un punto di vista letterario, attualistico, senza sbavature o scadimenti pesanti, proteso
verso la con concretezza di un linguaggio sobrio, ma chiaro.
Pacifico Topa
cano vertici non facilmente reperibili nella produzione letteraria dell’età contemporanea. La claustrofobia di Guido,
infine, che invoca, poi che sarà morto, di essere disperso nel
mare, come le ceneri degli induisti nel Gange (ma a chi mai
sfuggirà l’amore per il mare della nostra narratrice?), reca
in sé una potente significanza metaforica: essa non è che
claustrofobia della materia, rifiuto dell’annullamento nel turbinio degli atomi epicurei. O, per dirla in termini di fede, bisogno d’immortalità.
Aldo Cervo
Alberto Cerbone, Canto all’amore (Libroitaliano,
Ragusa 1998)
Il volume di poesie “Canto all’amore” di Alberto
Cerbone si può definire un canto alla vita e alla speranza,
quali essenza vitale per riportare l’Io a nuove lotte e superare i mille ostacoli del quotidiano. L’autore, partendo da
quello che è il sentimento più nobile: l’amore, non trascura
la metafora nei suoi versi tant’è che la fiamma che si
sviluppa dal ceppo del camino non è altro che quella della
speranza, mentre il passato riaffiora riportando la mente in
un mondo lontano. Cerbone ben si colloca in quella fascia
d’uomini di cultura che riescono attraverso il linguaggio
coacervato a descrivere stati d’animo, esperienze, emozioni
senza trascurare quelle che sono i lati negativi della quotidianità. Il suo poetare trasporta e coinvolge il lettore in una
sorta di meditazione attraverso versi, ora forti, ora riflessivi,
ma pur sempre messaggeri d’ideali. Lo spiccato utilizzo del
linguaggio trasforma i versi in elementi efficaci e testimoni
di una ricerca che vuole porre la poesia su un piano preferenziale, dove il semplice comporre viene accantonato per
lasciare spazio, in una società sempre più telematica, ad una
poesia comunicativa che non rinnega le preoccupazioni vere dell’uomo che vede le proprie forze vacillare di fronte ad
idoli futili. Ed ecco l’autore metaforicamente descrive l’uomo come un attore che recita il dramma della vita, attraverso il “repertorio” fatto di guerre, fame, droga e corruzione, mentre la speranza, rappresentata come luce, riemerge dal
buio della sofferenza completata dalla ricerca di se stessi.
Enza Conti
Antonia lzzi Rufo, Profumi, (Edizioni TigullioBacherontius, S.Margherita Ligure Genova).
“Profumi” è un’utile ed eloquente spia per chi vuole cercare di leggere dentro l’“ars scribendi” della Izzi Rufo
al fine di coglierne le più remote forze propulsive. La scrittrice mostra di avere il dono di avvertire, in virtù di una non
comune sensibilità artistica, il profumo sublime delle Pieridi là dove più fortemente è condensato, come taluni devoti
quello del Santo venerato nel luogo di culto. Di qui la sua
ricerca, con traduzione in termini narrativi, di storie particolarmente belle, sentite e coinvolgenti. D’altronde che le divinità che soprassiedono alle arti si preannunzino per via metaforicamente - olfattiva non è una novità: «O bella Musa ove sei tu? Non sento spirar l’ambrosia, indizio del tuo
Nume». E la Musa della brava, quanto inesauribile autrice
di Castelnuovo si conferma Polimnia, perché mi sembra ormai fuor di dubbio che il suo genere letterario sia quello lirico, anche quando in talune pagine sembra voler inglobare
temi e forme della poetica neorealistica. E lirico è il personaggio Guido, combattuto fra due sentimenti amorosi, anarchico ma autentico il primo, istituzionalizzato e subito il secondo, che ritrova, direi quasi reincarnate le fattezze del
primo amore «da chiuso morbo combattuta e vinta» - nella
figlia, che è poi anche sua, in un finale dove i toni lirici toc-
Un nuovo giorno di Enrico Romano (Piero
Manni, Lecce Febbraio 2001)
L’amore per la terra d’origine e per il passato storico ed artistico sono solo alcuni degli elementi che emergono dalla poesia di Enrico Romano. L’opera poetica si
trasforma in una cartolina dove luoghi e paesaggi vengono
incorniciati dall’amore innato che l’autore ha verso la poesia, scegliendola come mezzo di trasposizione di sogni e
desideri che trovano come punto di partenza il passato. Il
contesto naturale, si contrappone alle situazioni sociali e ai
sentimenti, mentre la rimozione del ricordo porta a nuove
emozioni. Il poetare di Romano non è altro che un mezzo
coinvolgente che attraverso sfavillanti immagini guida il
lettore tra i meandri di una liricità intensa. Si tratta di una
poesia che segue la via del cuore senza trascurare il rapporto uomo-società, uomo-storia, uomo-speranza. Ed ecco
che: «Giorno verrà in cui a brandelli, membra di storia, /
ricomporranno rivoli di sangue versato, / … E sarà giorno:
65
dalla ripa del mare, quasi fosse piviere, volerà libero il
giorno e dirà libero, quel che ci ha fatto!».
Nei versi di Romano forte è il connubio tra passato
e presente, al quale si contrappone la maturità poetica che
infonde quel pathos, che porta alla riflessione di quelli che
sono i punti cardine dell’esistenza: la libertà e l’autenticità
dell’essere. L’Autore tiene in contatto la vita con la propria
interiorità, tant’è che nella poesia “Sguardi”, andando al di
là dell’ottica di lettura, si apre, come se fosse un grande
dipinto, un movimento di suoni e forme che implorano gli
uomini a porre fine a quelle che sono le atrocità della guerra
e della povertà. Quindi esperienze umane che prendono vita
e si fondano con le esperienze esotiche, mentre lirismo e
materialità si completano a vicenda. La poesia di Romano,
incisiva e personale, è testimonianza di un vissuto intenso e
attento, atta a infondere uno status animi del tutto particolare, mentre colori si sprigionano dagli strati più profondi
dell’essere, di quell’essere che con forza cerca pace. E il desiderio di una realtà diversa più positiva è uno dei fili conduttori dell’intera opera del Poeta: «Sguardi atterriti di occhi stanchi, piangenti, / occhi di uomini soli ed affranti,
sgomenti, / sguardi di madri e di bimbi… / sguardi che
sfuggono all’odio, inseguendo miraggio». In questi versi
emerge quella forza superiore che consente di fare un’analisi profonda di un vissuto attraverso un cromatismo verbale
intensamente lirico, dal quale emerge il sentire profondo
d’appartenenza alla propria terra, intrinseca in chi benissimo si può definire poeta-storico, che riesce con la complicità del silenzio e della mediazione senza abbandonarsi
alla casualità, ma alla ricerca della verità. Romano riesce
con la sua spiccata esperienza carica di sentimenti e valori
tradizionali-universali lascia scaturire dalle proprie poesie
un impegno morale, sociale e culturale.
Enza Conti
Velletri contro gli austriaci, questo gli valse un encomio da
parte di Federico di Prussia. Scrisse anche un saggio sulle
sue imprese militari, lavoro apprezzato presso molte corti
europee. Non pago di ciò diede inizio alla serie delle invenzioni: la pompa idraulica per far salire l’acqua dai pozzi,
un tessuto leggero per mantelli da caccia, studiò un sistema
per la lavorazione della canapa, scoprì le capacità di una
canna dalla cui lavorazione poté trarre carta di “tipo cinese”
e con un torchio vi imprimeva disegni colorati, un sistema
per ristagnare le batterie metalliche da cucina, un processo
per dissalare l’acqua, usò, per la prima volta il cinabro e la
lacca per gli affreschi della sua casa. Riuscì a trovare un
sistema per rendere trasparente la porcellana. Gli interessi
letterari di Raimondo di Sangro furono diversi, lettere, dialoghi, saggi critici, apologetici, traduzione di opere straniere
e trattati sulle scienze occulte. Attorno a questo personaggio
leggende come quella de “palazzo maledetto” per esservi
stati commessi alcuni omicidi. Il testo prosegue con la dettagliata descrizione della Cappella di Santa Maria della pietà, prezioso monumento che accoglie le salme dei Di Sangro, ove si ammira un “Cristo Velato”, capolavoro del napoletano Giuseppe Sanmartino. Il mistero proseguito anche
dopo la sua morte, dato che nella cappella funebre il suo
corpo non fu mai trovato, anche qui la leggenda diffusasi
vuole che fosse stato trafugato dai demoni. Si disse che si
era fatto uccidere per sfuggire alla morte, ma che con un
incantesimo era risuscitato, ovviamente queste leggende
aumentarono la sua fama di personaggio misterioso, in
combutta con Satana, autore di omicidi, genio incontenibile,
sadico, una figura alla Cagliostro quella di Raimondo di
Sangro. Tutto questo viene analizzato ed esposto nel ampio
ed approfondito saggio di Alfredo Mariniello.
Pacifico Topa
Alfredo Mariniello un approfondito saggio su
Raimondo di Sangro: storia, leggenda, mito
Nicola Pinto: esaltazione della memoria e del
ricordo in Tutte le schegge - quasi un’autobiografia (Firenze 2000)
L’etnografo, poeta vernacolista, Alfredo Mariniello, ha voluto, con questo saggio, dire una sua parola su
questo eclettico personaggio che è Raimondo di Sangro,
principe di Sansevero, poco conosciuto, spesso troppo sottovalutato e criticato. Chi era Raimondo di Sangro? Il terzogenito di Antonio di Sangro e di Cecilia Gaetani dell’Aquila d’Aragona, nato nel 1710 nel foggiano. Infanzia difficile,
carattere piuttosto reattivo, insofferente alle rigide leggi dei
Padri Gesuiti a Roma, dalla vita movimentata, ma soprattutto dalla pluralità creativa, lo si può definire il creatore dei
“teatri pirotecnici” una sua invenzione che «faceva succedere, come in una vera rappresentazione teatrale, le apparenze agli spettacoli veri col solo ausilio del fuoco». Evento
questo che lo fece additare dalla pubblica opinione come
“negromante”, ossia in accordo col diavolo per “penetrare i
più reconditi segreti della natura”. Di questo lui mai si
vergognò. Esperto d’armi, appassionato d’arte, buon letterato, sfruttò le sue capacità creative in ricerche scientifiche.
La sua genialità gli procacciò le simpatie del Re di Napoli e
di Sicilia Carlo III che lo nominò “gentiluomo di Camera”.
Vantò l’invenzione di un archibugio che poteva sparare, con
una sola canna, sia a palla che a salve, di un cannone che
dimezzava il peso di quelli in uso. Ufficiale della Capitaneria si distinse per coraggio ed astuzia nella battaglia di
È lui stesso a definire questa raccolta “quasi autobiografica”, perché in essa ripercorre il suo cammino
esistenziale, illustrandone, con scorrevolezza di verso, tutte
le sfaccettature anche le più comuni. Lo si può definire un
circostanziato diario che, nella sua corposità, gli permette di
sviluppare varie tematiche, tutte improntate a realismo e
concretezza. L’aver diviso il volume in 16 argomenti gli
consente di spaziare poeticamente nel mondo in cui vive!
La vita è una serie di flash con cui affronta argomenti seri,
come quello della nascita e le annesse problematiche, qui
c’è una profonda filosofia morale che Pinto elargisce. Non
mancano le incognite: «Chissà perché / ci sono morti / che
mi pesano dentro...», allusione alle sventure umane.
L’autore esalta la memoria, il ricordo, c’è anche
l’assillo della sofferenza: «Vedo il dolore / sento l’odore /
delle persone morte / che sono vissute con me». Più oltre
con “Vorrei” espone una sua teoria sulla esistenza umana:
«Vivere è crescere / senza si muore». Il tema della guerra lo
ossessiona, ne fa una descrizione, ricordando il suo servizio
militare, imbarcato su un dragamine sempre in pericolo.
Sono passaggi di vita vissuta che Pinto ricorda con nostalgia specie quando parla del mare, sia tranquillo che in tempesta ricorda un amico caduto e il non facile compito di co66
municarlo alla famiglia, il conferimento di una onorificenza
lo inorgoglisce anche se giunta in ritardo. Nel tema “donne”
Pinto s’esalta: «Cosa c’è al mondo / di più delizioso delle
donne?», ed ancora: «Amarla è eccitante». Ma poi un giorno ci si accorge cos’è veramente la donna, allora finisce
l’incanto. Chiara allusione all’innamoramento per la bellezza che poi sfiorisce. Nella sua panoramica arriva anche a
parlare delle prostitute, egli le compiange per la vita che
fanno e fa appello alla altrui coscienza. Il succedersi delle
stagioni sono frutto di ispirazione: il freddo inverno col
gelo, il risveglio della primavera, la calda estate che sfinisce, il triste autunno piovoso che sconvolge ogni progetto.
Non trascura il tema della sanità, convalida il detto che la
salute non si apprezza fin quando non la si perde ed ecco
allora il ricovero in ospedale, le lunghe attese. Il dolore gli
fa sovvenire il sacrificio del Cristo sulla Croce. Perfino la
politica lo interessa, non nasconde il suo patriottismo, la
difesa dell’unità, circa l’uguaglianza ha idee chiare: «L’uguaglianza è un inganno / una pietose bugia. / Nessuno é
uguale a nessun altro!». Parla poi di facilità con cui si plaude sia alla gioia che al dolore, alle promesse, alla manifestazioni di piazza; è pessimista sulla realtà attuale. È caustico
sulla giustizia, ne lamenta la superficialità. Esalta il lavoro
fonte di vita, condanna il proselitismo. In tema di famiglia
ha parole di lode per i genitori che lo hanno indirizzato. Il
lungo cammino poetico di Pinto continua accennando al
progresso umano ed eleva una affettuosa preghiera: «Signore perdono! Signore grazie! Signore aiuto». Sa che nella
preghiera c’è il balsamo della vita. Pinto ha voluto con questa raccolta darci una esemplare percorrenza terrena.
Pacifico Topa
pericolosità sempre latente. Il ricordo del passato riemerge
ogni qualvolta rievoca momenti della sua fanciullezza, per
questo si abbandona a considerazioni fantasiose sature di
lirismo. La raccolta passa da argomenti seri ad altri più leggeri, ma c’è sempre la presenza solerte dell’autore che puntualizza ogni aspetto. Egli guarda le cose del mondo da una
posizione un po’ distaccata, le pondera consapevole che il
suo pensiero potrà essere riversato su chi legge e s’augura
di trovare consenso. Le figure famigliari sono le più ricorrenti. Ad esse ha dedicato varie composizioni, esaltando le
preclare virtù, l’impegno morale dedicato alla crescita della
prole. Questa sua poesia schietta gli ha consentito di affermarsi in numerosi agoni letterari, conseguendo successi ed
apprezzamenti. Leggendo “L’arcobaleno” si ha la sensazione di un clima pacificato che si impossessa del lettore.
Pacifico Topa
Sebastiano Maccarone scorcio di vita sicula in
Vecchiu Lampiuni (Furci Siculo)
Con questa raccolta Maccarone intraprende una
crociata moralizzatrice dato che le sue composizioni, oltre
ad identificare uno scorcio di vita sicula, sono vivacizzate
da un dialetto inconfondibile, ricco di sfumature lessicali e
di un disarmante realismo. Questo estroverso autore ha scelto il “lampione” come testimone insospettabile delle vicende che si svolgono ai suoi piedi, a questo utile mezzo ha affidato il compito di analizzare una realtà abitudinaria, troppo spesso trascurata. I temi sono quelli comuni, farciti di
personali considerazioni ed esplicazioni ricche di policromia vernacola. Vi si evidenziano i pregi ed i difetti di una
società, quella attuale, alle prese con le molteplici difficoltà.
Le negatività sono diffuse: si agisce per convenienza, si
desidera qualcosa che poi si trascura «Fumi ‘u sigaru, e non
ti piaci... Addumi ‘a pipa, e subitu ‘a stuti». Incontentabilità
umana! Analizzando il mondo circostante Maccarone afferma che ogni cosa è stata dislocata nel posto giusto da «Maistru di talentu! U’ Patraternu». Il lampione ascolta diuturnamente i pettegolezzi di strada, l’impicciarsi dei fatti altrui, il dir male del prossimo, l’impossibilità di lavorare perché il medico ha prescritto riposo, chiaro che di fronte a
questi difetti l’autore consiglia moderazione per poter sopravvivere. Di contro ci sono anche delle positività che vanno evidenziate: la solidarietà, la generosità con chi è meno
fortunato, soprattutto, la bellezza, questa dote gli suggerisce
una dichiarazione d’affetto. «Io cchiù ti vardu / ’e cchiù
bedda mi pari». Il fascino ha sempre la sua validità, poiché
da esso nasce l’amore, ma nella esistenza terrena c’è anche
il dolore, il pianto, espressioni di un male fisico o morale
che spesso distrugge. Maccarone esalta l’amore sincero,
irresistibile che alberga in una coscienza: «franca d’ogni
pisu». L’innamorato si sente leggero, tranquillo, a questi fa
da contraltare il millantatore che sfoggia sicurezza, ma che
vive alle spalle della famiglia, elemento molto diffuso ancor
oggi, fa sfoggio di modernità, si atteggia, fa “il borioso”.
Altro personaggio che fotografa Maccarone è il criticone,
non gli sta bene nulla, vede tutto sbagliato, è irrispettoso, è
il tipico esempio di chi vive nel compromesso, senza coscienza, prepotente, insulta, offende, vuol sempre ragione.
Nella silloge non mancano momenti di elevata spiritualità
quando rivolge una preghiera al Signore: «Ringrazio ‘u
Signuri / ogni mattina / di la nuttata bona chi passai». Sono
Marco Galvagni policroma interpretazione della
realtà in L’arcobaleno (Ed. Montedit)
Marco Ga1vagni, con la sua silloge “L’arcobaleno”, si propone come tipico poeta della reminiscenza, questa policroma interpretazione della realtà si presenta con
forbitezza stilistica, acutezza psicologica e ricchezza simbologica. Il verso si staglia preciso, quasi scolpito, per dire
quello che l’autore intuisce e pensa. Poesia del sentimento
della mesta rievocazione d’un mondo che oggi sta trasformandosi. La raccolta sorvola con briosità le tematiche più
ricorrenti, proponendole con una angolazione intimistica,
logica, frammista a rimpianto e rammarico. Il fluire del tempo l’assilla. «Il meriggio / consolerà il mattino». Galvagni è
affascinato dalla natura ed il bosco gl’ispira pensieri di
perennità, di misteriosità da cui attingere nuova linfa. Altro
tema che gli sta a cuore è il lavoro dell’uomo che è notevolmente mutato, l’agricoltore ricorda la sua grama esistenza
ed oggi si trova di fronte ad una modernizzazione inarrestabile, questo lo fa sentire stanco, quasi emarginato per la
rapidità con cui avanza il progresso. È il mondo idilliaco
che lo attrae e verso questo egli esprime affettuose speranze, addirittura le rane, che la sera gracidano nello stagno, gli
suscitano elevati pensieri di serenità, di relax nella vita tumultuosa... «Ascolta l’impalpabile / ritmo del tempo». Nella sua versificazione c’è anche una velata malinconia, perché egli sente quello che gli sgorga dall’intimo. Il ricordo
della madre morta, il colloquio col babbo sono momenti
emozionanti, egli si rende conto della fluidità esistenziale e
dice: «Ora la mia vita è una nave» quindi allude anche alla
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momenti utili se si vuol dare senso alla vita. La fugacità nel
tempo è assillante: «U persu è persu, e nun ritorna più… A
morti arriva. quannu nun t’aspetti». Questo gli permette di
ricordare un amico prematuramente deceduto: Franco Ruggeri. «Fusti pueta di vita paisana» analogo sentimento per la
morte della sorella. Maccarone ha spesso di queste angosciose esternazioni. Il mondo in subbuglio, le guerre gli
fanno invocare pacificazione fra i popoli ai quali invia un
messaggio per mezzo della “palumma”. La delicatezza con
cui ricorda un presepe della sua infanzia gli fa tornare in
mente la bontà divina. La silloge è quindi una dettagliata e
minuziosa evocazione della complessa società d’oggi impelagata fra egoismi, diatribe, insaziabilità e poco sentimento!
Pacifico Topa
Natalia Veronesi Prada: forbitezza linguistica e
spirito gentile in Giorni a piene mani (Book ed.)
La dottoressa, libera professionista, specializzata
in pediatria e neonatalità, sente ogni tanto il bisogno, dopo
aver deposto lo stetoscopio, di dedicarsi alla poesia, lo fa
con indiscussa capacità creativa e tanta sensibilità, frutto di
una vita spesa a favore del prossimo. Questa raccolta s’apre
con un preambolo: «Illusione, poesia, / dolce compagna /
non ci lasciare: / sei la primavera / a cui docile il cuore /
rifiorisce». Dichiarazione quanto mai premonitrice di ciò
che lei andrà ad esternare. È soprattutto nell’espressione
poetica che l’autrice si fa apprezzare per quel senso di
umanità, di sincero realismo, scevro da enfatismi, pregno di
sentimento e di partecipazione. La perdita di una persona
cara le fa esclamare: «Ma ora so / ogni cosa nel mondo può
morire.» È diffuso il senso di tristezza per le sventure che la
vita ci propina. La Veronesi è una creatrice interprete delle
sensazioni più intime, ma anche una appassionata cronista,
perché l’aver viaggiato le ha consentito di ampliare le sue
conoscenze: una poesia farcita di crepuscolarità frutto di chi
respinge ogni superficialità e guarda il mondo con occhio
attento. La sua terra natale ogni tanto affiora nei ricordi con
le suggestioni di un «...mezzogiorno in montagna». Roma
l’affascina per le sue ricchezze storiche e architettoniche,
per il Tevere che scorre fra le vestigia antiche. Donna assai
sensibile sente il fascino della notte, dato che nel buio i pensieri prendono forma, le aspirazioni si affollano, la nostalgia
allevia la materialità, traslocandola nel regno della possibilità. I fenomeni atmosferici animano i suoi ricordi come la
neve a Milano, mentre il frastuono del “Palio di Siena” e
l’incontro con un cieco che batte il bastone per terra, suscitano in lei sensazioni diverse, così come il gioioso divertimento del Luna Park, dove sembra che tutti si divertano
frastornati dai clamori altisonanti. Il cammino poetico della
Veronesi prosegue percorrendo le vie della città durante la
pioggia, questa accresce 1’uggia e la tristezza e «le grondaie colme di pioggia / come occhi di lacrime» caratterizzano questo clima. Un certo languore veleggia in alcune
composizioni: «Ecco fa sera sulle antiche pietre». In “Amore e lacrime” la Veronesi dice: «La sera mite di pioggia / e
un cielo spazzato, riflesso / in mille pozzanghere.» Poetica
quanto mai personalizzata che descrive realtà e stati d’animo, simboleggiando finezza intuitiva, capacità interpretativa, soprattutto grande coerenza con il modo di vivere d’oggi, il tutto esternato con forbitezza linguistica che si ricollega con lo spirito gentile di una poetessa ricca di analogie
terminologiche. Sprazzi di spiritualità quando esclama:
«Facci sentire la tua voce / Dio del roveto ardente...», profondità etica in chi crede che «sono dure le nostre strade».
Pacifico Topa
Gianfranco Vinante, mondo eclettico di concetti
in In Elegia (Ed. Helicon)
Poesia fantasiosa, concepita con una variabilità
concettuale che, talvolta frastorna il lettore, ma non lo scoraggia, anzi lo stimola ad approfondire l’attenzione. I versi
svolazzano come leggere farfalle, ondeggianti nell’aria ma
sempre relativi ad un mondo che si adegua alle contingenze: «Tessono già dall’alba le cicale / in spola dardeggiante l’afa e l’aria. Questi versi danno il senso della fantasiosità di questa poesia che si immerge nella affannosa
ricerca di motivazioni, di giustificazione, di senso delle
cose. Vinante, con “In Elegia”, si tuffa in un mondo eclettico di concetti, ricco di ispirazioni auliche, per poi rivolgersi
a quella eternità che sfugge, ma che va sempre ricercata e,
se possibile, scoperta. È vero, spesso il verso è sconcertante, perché ballonzola spregiudicatamente nella fluidità di
concetti non sempre facilmente individuabili. Occorre farne
una lettura meticolosa per cogliere il nesso del pensiero di
Vinante, per scoprire la pluralità dei contenuti. Il contingente è impreziosito da perifrasi quanto mai originali e da
sprazzi linguistici improvvisi d’una mente effervescente,
ricca di terminologia, impegnata ad elevare il discorso. Una
poesia incisiva, che dà libero sfogo a quello che la mente
suggerisce, senza remore metriche, impegnata a dire, nel
modo migliore e meno obsoleto, il senso di una realtà sempre presente. I temi sono i più svariati: ambienti, personaggi, sensazioni, reminiscenze, località note, spiritualità, natura, insomma Vinante è un cronista attento, meticoloso nelle
descrizioni, prolisso nelle esemplificazioni, caleidoscopico
nell’espressione, mai soddisfatto sempre alla ricerca di quel
nuovo, di quel diverso che non è ricorrente. «Non so misurare il peso del presente». Gli spunti ispirativi sono sempre
quelli che la vista ci propone, ma visti con gli occhi di
questo estroso autore diventano originali e nuovi. In lui non
c’è catastrofismo, neppure esasperato pessimismo, ma solo
contegnoso giudizio, impegno a forbire il consueto discorso. Non trascura la drammaticità di certi eventi come nel
caso di “Terracina e Cohen”: «Erano in quarta con noi /
Terracina e Cohen, un olivastro e un biondo». Più oltre. «Se
ne andarono prima delle “razziali”, due vittime della ferocia, ad Auschwitz. Un elogio all’amicizia che gli fa esclamare: «Proseguirà chi non sarà mai ceco». La raccolta si
conclude con alcuni haiku che servono a dare un giudizio
più completo di questo poeta, di questo tessitore linguistico.
Pacifico Topa
Silvana Andrenacci Maldini: Enea e Didone tra
leggenda e mitologia
Con un romanesco metricamente pregevole Silvana Andrenacci Maldini ci trasporta nel mondo fascinoso
della mitologia. Enea e Didone sono protagonisti di una storiografia che ha avuto in Virgilio un esimio relatore. La movimentata vicenda di un mito che ha valicato i secoli, che ha
focalizzato la caratterologia di mitici elementi dell’antichità, rivive in tutta la sua freschezza vivacizzata dal dialetto
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romanesco. Didone è una donna prestante, risoluta, vittima
di un amore travagliato, contrastato dal giuramento di fedeltà fatto al suo consorte Sicheo, lei ebbe una vita avventurosa, costretta a fuggire dalla sua Tiro, perché minacciata
dal fratello Pigmalione che le aveva ucciso il consorte, si
rifugia presso Jarba nell’Africa settentrionale e fonda una
città: Cartagine. Comincia qui il suo dramma perché deve
guardarsi dalle assidue attenzioni di Jarba. Nel frattempo
Venere salva Enea da un nubifragio e lo fa sbarcare presso
Didone che offre asilo: «Entrate ne la Reggia tutti quanti /
st’avvenimento merita ‘na festa / è tempo de scordà rovine
e pianti». Nel frattempo Venere, temendo che Didone tradisca, sequestra il figlioletto di Enea, Julo. Il racconto prosegue con una sequenza quasi filmica e con la briosa versificazione. Didone «è bell’è cotta der troiano». Come ogni
buona cronaca Enea durante il lauto banchetto racconta le
vicissitudini di Troia e la distruzione finale «E Troia agnette a foco notte e giorno». Il dramma di Didone si scatena,
innamorata, «pareva un gran vurcano» angustiata dal giuramento di fedeltà fatto al marito, nello stesso tempo smaniosa «più peggio de ‘na gatta». Interessante è come la Andrenacci evidenzia i sentimenti opposti, quello di Didone appassionata e di Enea che finge. In una partita di caccia offre
l’occasione di un fugace riparo in una grotta per la pioggia
e qui c’è l’approccio amoroso. Non poteva essere altrimenti, Jarba, respinto, vuole vendicarsi con l’ausilio di Giove.
Enea è assillato dal prosieguo del viaggio, deve adempiere al
volere degli dei. «Lasso sta donna a la disperazione / pe’
annà giro vaganno all’infinito / Didone non vorrà sentì ragione». Il tumulto dei sentimenti si scatena, Enea vuol giustificarsi, Didone non sente ragione, allora è necessario fare
le cose clandestinamente, coi preparativi delle navi, Didone
se ne avvede, è, disperata, grida: «Tutto er prestigio antico è
rovinato / e la gente del regno me disprezza». Invoca Enea
di recedere, prega tanto, «fa riti e sacrifici a profusione».
Prega la sorella di allestire un rogo sul colle, vi fa portare
tutte le armi di Enea. Cova nel suo animo una feroce vendetta, ma Venere «che de tutto se n’è accorta» invia Mercurio per sollecitare Enea alla partenza. Didone invia la maledizione «piuttosto crepi che se faccia un regno / e non veda mai Ausonia e le sue sponne». Siamo al dramma finale,
dopo un’ultima dichiarazione d’amore, Didone prende la
spada e «così dicenno se l’infirza ar petto». Ma l’agonia e la
morte non mettono fine al dramma perché i due si incontrano nell’Averno, si guardano in silenzio, il commento è
quanto mai realistico, Didone ha conservato il giuramento
fatto a Sicheo di fedeltà ed Enea è riuscito a fondare Roma.
Pacifico Topa
tessere argentee / trasportate dal vento» oppure se bagnate
di pioggia «nere nubi che fanno da sfondo». A proposito di
questa aggiunge: «Piove / il giorno si bagna». Sono semplici considerazioni che denotano sensibilità d’animo. Lo
Giudice aleggia con le sue composizioni su un vasto orizzonte, quello in cui le nuvole navigano, spinte dal vento,
pregne di pioggia, elemento essenziale per la nostra sopravvivenza. Pur nella sua giovane età, questo giovane riesce a
colpire nel segno e lo fa con una disarmante facilità, ma con
tanta precisione, qualità questa solitamente appannaggio di
lunga esperienza, la perspicacia è notevole ed altrettanto
apprezzabile la facilità espressiva. Nella serie “Agrodolce”
l’autore s’inverte nella triste realtà, analizza l’esistenza, qui
il tono cala nella serietà del tema. «Vita / malinconia di un
colore acceso / che si spegne / ...troppo spesso». Questo annuncia la seriosa intenzione di non trascurare i lati meno
accattivanti dell’esistenza umana. Il tono si fa pensieroso, la
tristezza avanza e con essa la convinzione che le cose belle
hanno breve durata. «Cadrò in una lacrima» è il preannuncio della sofferenza; nelle sue parole c’è realismo,
l’angoscia assilla, specie quando annuncia la perdita di una
persona cara, il rischio è sempre in agguato. Lo Giudice si
abbandona a sfoghi di sconforto e piange «...di fronte allo
sguardo del mare / sfavillante al tramonto / allo specchio
del lago / su cui si rimirano / monti, nuvole e cielo». Il fascino della natura lo commuove, indizio di particolare sensibilità! È un pianto liberatorio conseguente al fatto che si
sente indifeso di fronte al male che dilaga. Il pensiero della
morte provocata dalla violenza umana, lo assilla e accentua
il contrasto con la frivolezza dell’attuale società, costretta a
vivere tra le ingiustizie. La sua poesia si fa aspirazione ad
un futuro migliore, invidia la quercia simbolo della
secolarità, ma non trascura l’amore... «Ti ho cercata con lo
sguardo / ma sei rimasta indifferente», ciò lo colpisce,
suggerendo parole di rimpianto. Dove Lo Giudice si esalta è
nella “Melodia d’amore”, composizioni pregne di sentimento, sature di aspirazione affettive, interminabili attese, sogni
e progetti, tipici della sua età. Invoca un amore puro, «aspettami piccola / perché l’amore aleggia». Il solo guardare
le stelle gli fa pregustare gioie inenarrabili. Ma con “Ratto”
la silloge torna a parlare delle problematiche della vita,
lavoro, guerre, necessità varie che occupano e preoccupano
l’essere. Poesia tanto umana!
Pacifico Topa
Filadelfio Coppone, poesia che nasce dal profondo dell’anima in Ruscello d’Amore, (Oceano Ed.)
Ruscello d’amore-sorgente, d’amore in perenne
espansione. Versi bellissimi, alta poesia che nasce dai
meandri profondi dell’anima e si eleva radiosa nell’infinito
senza limiti... Affiorano ricordi, sempre ricordi, incancellabili ricordi che «scandiscono granelli di tempo: cerco tra
petali secchi / profumi di ieri / (ma) resta soltanto / aggrapparmi a Dio».Vita interiore che si alimenta d’angoscia
antica, di gioie sfumate, di bagliori di fuoco che riemergono
come eterne sorgenti di linfa, aliti di speranza nella visione
consolatrice e refrigerante di Dio. Il grande amore terreno,
spezzato, è sempre vivo nell’autore, sempre presente: «Tra i
rigurgiti di ieri, / oggi resto ad amare ricordi di tempi / in
arcani pensieri di fughe. / Lontano, tra me e te, / restano
amaranti di vita».Una silloge breve ma densa di significati.
Guido Lo Giudice: la profonda sensibilità di
Nuvole (Ed. La fontana)
Il giovane Guido Lo Giudice si affaccia nel panorama poetico con una silloge “Nuvole”, che già dal titolo
preconizza il contenuto, ma che denota una padronanza linguistica e la fantasia tipica dell’età: egli dialoga con queste
impalpabili creature celesti, affidando loro le espressioni
spontanee di un cuore ingenuo, generoso, ricco di entusiasmi, non ancora intaccato dalle crudezze esistenziali: «Voi,
così fragili / date armonia / ad infelici anime / vaganti»
L’empireo attira l’attenzione di questo giovane tanto che il
volo delle rondini gli ispira frasi elevate come: «Foglie e
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Rimpianto d’un tempo felice, rifugio in Dio, non solo, ma
anche ampia indagine sulle brutture del mondo e immersione nei problemi dell’uomo. Deplorazione di coloro che,
“come ruscelli”, predicono sventure e tolgono la pace delle
notti tranquille e dei sonni sereni, delle violenze su bimbi
innocenti, delle menzogne, della superficialità... Rimpro-vero all’uomo che crede di essere il padrone del mondo, che si
mostra orgoglioso dei suoi scempi. Chi siamo noi per condurre popoli alla rovina, per vantarci delle nostre azioni disumane, devastatrici? «Siamo solo petali di martiri, / che
solo Dio / illumina con lampade di speranza». Cerchiamo
angoli oscuri e lì restiamo a lamentarci, a piangere, nascosti, in solitudine, le nostre angosce, le nostre ferite, ciò che
ci tormenta. «Ci crediamo civili, ma viviamo in barbari castelli». Non tutti gli esseri umani sono crudeli, sadici, ci
sono anche uomini integri dentro, generosi, pietosi. «Non
tutti crocifiggono fratelli / battendo mani di gioia / Ci sono
omoni / che rivestono di luce / ameni samaritani curati / per
un fiotto d’amore». Negli scoraggiamenti, nelle ricadute ricorrenti, nel buio, nell’impossibilità di alleviare sofferenze,
nei repentini risollevamenti, negli imprevisti voli, nell’azzurro, nella rinascita della speranza, nella povertà di spirito,
nella demenza d’azioni c’è Uno che apre le braccia d’amore, per concederci il perdono, per accoglierci nel suo seno.
Antonia Izzi Rufo
Fernfahrplan (1980) e La dinamica degli eventi (1983).
L’aspetto che salta subito agli occhi, nella produzione epigrammatica di De Napoli, è la coraggiosa volontà
di demistificare l’importanza di quei divi dello spettacolo
(ma anche della cultura), i quali fanno la parte del leone sui
palcoscenici mondiali lasciando dietro di sé il vuoto più
assoluto. Leggiamo, ad esempio, in Onnipresenza: «Da Hyde Park / a Caracalla, / da Tokyo / a Tele-Papalla. / Sei unico, / Pavarotti. / Per questo / ci hai rotti». Altrove l’autore
coglie la profonda frattura generazionale esplosa, con toni
tragicomici, negli ultimi decenni. È il caso di Tendenze:
«La senescenza / è tutta / per il grande Bo. / Jovanotti: / Il
grande Boh!». Nel fondo nascosto di questi straordinari
testi predomina, tuttavia, una evidente sofferenza interiore,
ossia un sentimento di sconforto dovuto al senso di solitudine e di incomprensione che Francesco De Napoli avverte aleggiare intorno al proprio lavoro letterario. Così è per
l’epigramma intitolato Poesia: «Arricchimenti illeciti / procura questa attività / di spaccio, / né mi riesce / l’espianto /
da mente e cuore / di questo tumore». In un altro componimento, dal titolo Valori bollati, il poeta ironizza sull’ipocrisia delle cosiddette autorità, le quali, invitate agli incontri
culturali organizzati dal Sodalizio dell’autore, ritengono loro dovere limitarsi ad inviare dei semplici messaggi augurali. È notevole il doppio senso dell’espressione che dà il
titolo all’epigramma (“Valori bollati”, appunto): «Agli
incontri di Paideia / spauriti epigrammi / su bianchi sudari. /
Piovono fax / e telegrammi». Nulla sfugge alla sottile e inattaccabile vis satirica dello Scrittore. Nemmeno poteva salvarsi la metodologia tipica di certe discutibilissime statistiche, sempre al centro di polemiche e di opinioni contrastanti circa i “risultati ufficiali”, mai riguardo alla loro
effettiva validità e finzione. Il lettore resta così folgorato
dalla lapidaria verve di un testo geniale, a cui De Napoli
conferisce, per contrasto, l’altisonante titolo ISTAT: «Italiani / più ricchi, / più violenti / e più alti». “Giogo/forza” ha
ottenuto il plauso di intellettuali quali: Giorgio Bàrberi
Squarotti, Mariella Bettarini, Domenico Cara, Liana De
Luca, Antonio Piromalli, Gerardo Vacana e altri.
Adriana Capuano
Francesco De Napoli, Giogo/Forza, Epigrammi
(Cassino, Centro Culturale “Paideia”, 2000)
Giacomo Leopardi, che aveva tradotto epigrammi
dal greco, ne L’infinito introdusse una siepe allo scopo di
dilatare la tradizionale cognizione poetica di orizzonte (dal
greco hòros, confine; in latino, finis ), un concetto di per sé
limitato, circoscritto alla materialità dello sguardo. La finzione di tale illimitatezza risiede nella necessità di ampliare
l’orizzonte interiore del poeta: un’esigenza avvertita, altresì, nella riflessione speculare dell’aforisma - come sostiene
Giuseppe Pontiggia - ogni qual volta l’autore cerca di recuperare l’“immagine originaria di uno sguardo interiore” (in
Scrittori italiani di aforismi, Milano, Mondadori, 1997). La
distanza pressoché impalpabile esistente oggi fra poesia
lirica, epigramma ed aforisma - specie nei comuni aspetti
gnomici - spiega la duplice valenza della produzione di
Francesco De Napoli, il quale alterna la pubblicazione di
opere in cui sembra dare libero sfogo alla vena lirico-sentimentale con altre a carattere prettamente epigrammatico.
Un legame inscindibile, che nasce dall’indifferibile
esigenza di “dir le cose del tempo co’ nomi loro”, come insegnò nei Pensieri proprio il Leopardi, il quale condannava
l’arte rancida di chi s’illude d’essere felice. E sono gli elementi biografici, ossia le vicende di vita vissuta, a spingere
il nostro a coltivare con tanta costanza e dedizione questi
due filoni così apparentemente diversi, che invece in lui
coesistono secondo un vero e proprio “sistema di vasi comunicanti”, come chiarisce lo stesso De Napoli in una nota
posta a chiusura di Giogo/forza. Un’ansia di verità muove
l’autore a seguire la “ferrea e rigida disciplina spartana” afferma - propria del genere epigrammatico, quella verità
che è “il pane degl’intelletti robusti”, scrisse Arturo Graf in
Ecce Homo. Vocazione esplosa non per caso, perché in
nuce già nelle prime opere dello Scrittore cassinate:
basterebbe rileggere attentamente Noùmeno e realtà (1979),
Antonia Izzi Rufo, Una rivisitazione di Virgilio,
(Il Convivio, 2003)
È semplicemente stupefacente la vigoria della nostra autrice e la sua fecondità pure: passa dai Tristia ovidiani, al commento ben riuscito del pensiero leopardiano ne
La ginestra, sino alle Novelle della Pescaia di D’Annunzio
per rivisitare Solone, Saffo e Mimnermo. Mancava all’appello questa introduzione virgiliana nata, si badi bene, come
sempre da un momento specifico autobiografico. Il lavoro,
diremo subito, non è specialistico ma è vissuto dalla Izzi
Rufo come ogni suo saggio o opera poetica o, ancora, narrativa. La sua molteplicità di interessi fa sì che noi le perdoniamo quest’afflato patriottico che stona un po’ con la linearità di tale breve saggio il quale riporta anche una pagina
de Lo spirito arcadico di K. M. Stamatis, passi scelti dell’opera virgiliana nonché giudizi critici sull’opera dell’autrice
che va mietendo simpatia tra il pubblico dei letterati. Sebbene molto diverso dal mio saggio sulla latinità e grecità (cfr.
Tematiche di letteratura greca e latina, Roma 1992), la
Rivisitazione scorre con precisione e linearità senza aver la
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pretesa di apportare nulla di nuovo sul poeta di Andes, forse
Pietole, presa com’è tra Dante e la sua guida nell’Aldilà.
Nelle Bucoliche noi assaporiamo il contadino vero, pieno di
pathos sebbene le Bucoliche rappresentino un’umanità che
soffre ma esiste anche la fede in un mondo nuovo. È vero
che nell’opera virgiliana ci sono Teocrito e Lucrezio, però
ha una sua originale connotazione. Già un altro clima si respira nelle Geogiche: c’è la protezione di Mecenate, c’è un
clima politico cambiato in Roma. Pur essendo tale poema
didascalico è un capolavoro: è il lavoro preciso, costante
che redime (labor omnia vincit) e l’umanità ha un fine, uno
scopo e una rigorosa morale costruttiva. Infine la Izzi passa
in rassegna l’Eneide, il poema epico dell’età di Augusto.
Che Omero sia un modello è evidente ma il poema epico di
Virgilio, il quale si rifà anche ad Ennio e Nevio, ma ha
connotazioni tutte sue. Innanzitutto Virgilio era cittadino romano e capì subito il senso dello Stato e la universalizzazione di Roma. Canta, è vero, la gens Iulia ma con es-sa Roma
dalle «nobili origini mitiche nell’eroe troiano Enea». Virgilio, al di là, dell’“affaire” Enea che ci appare troppo pio
nel senso etimologico del termine, ha saputo cogliere il
senso di universalità e civiltà dell’Urbe per antonomasia.
Enrico Marco Cipollini
linguaggio trasparente di Senofonte, l’arte di Platone, lo
scetticismo di Luciano, giustifica il “Carpe diem” di Orazio
il quale, consapevole dell’ineluttabilità della morte, non
vuole perdere le ricchezze conquistate, così pure il “Lhate
biosas” epicureo, “vivi e lascia vivere”, rileva la modernità
di Lucrezio, poeta-filosofo, il cui pensiero è molto vicino a
Nietzsche, Leopardi e Vico, l’uomo di Esiodo - dalla mentalità moderna - che vuole vivere «una vita degna dell’uomo stesso», l’accostamento di Catullo - principe dell’elegia
amorosa come Cicerone dell’oratoria, con Nietzsche e Virgilio... Ritorna spesso su argomenti già trattati, per approfondire, intessere riferimenti, evidenziare notizie importanti. È con ferma convinzione che dichiara: «Io, personalmente, preferisco il grido di libertà di Catone, l’onestà
dell’Uticense al cinismo cesareo». Sebbene la sua stima sincera per gli scrittori latini, non sa esimersi dal riconoscere
che i Greci sono stati loro maestri, “qualcosa in più”, basta
ricordare la famosa massima di Orazio: «Graecia capta
ferum victorem cepit». E. M. Cipollini è un critico mordace, quando è necessario, ma anche un uomo tenero, di una
squisita sensibilità, se si lascia “prendere”, commuovere,
dai nobili sentimenti dell’amore e dalla pace bucolica della
natura meravigliosa che albergano negli spiriti eletti che
s’incontrano sia tra i Latini che tra i Greci. Non si può, in
poche righe dire tutto quanto si vorrebbe del pregevole
volume: consiglio di leggerlo.
Antonia Izzi Rufo
Enrico Marco Cipollini, Tematiche svolte di
letteratura Latina e greca, (Ed. Ciranna, Roma).
Studioso colto e versatile, critico profondo ed esperto noto in campo letterario nazionale ed internazionale,
E.M.Cipollini ha pubblicato testi di letteratura, filosofia,
antropologia, psicologia, pedagogia ed altro. Argomenti difficili, i suoi, esposti, però, in uno stile chiaro e intelligibile
tanto che immergersi nei suoi libri significa provare un vero
“piacere dello spirito”. Chi si accinge a leggere le “Tematiche...”, o meglio a studiarle, si presuppone che abbia già
una conoscenza particolareggiata della materia. L’autore,
infatti, non riscrive la storia della letteratura, non narra la
vita o elenca le opere e commenta il pensiero dei personaggi della sua selezione con la consueta successione cronologica di sempre, ma, in una oculata panoramica sui più noti
scrittori latini e greci dell’età classica, scelti con intelligenza, esprime le sue osservazioni e i suoi giudizi e lo fa in
modo originale: scopre affinità e divergenze sfuggite ad altri, stimola, provoca, incuriosisce, suscita interesse.
Nella premessa è delineato lo scopo per cui è stato
redatto il testo: “Conservare l’identità storica”, “Non rinnegare le radici”, “Si possono ascoltare e declinare le esigenze dello ‘spirito’ di ieri e di oggi, far parlare Nietzsche
con un tragico greco, Proust con scrittori e poeti dell’antichità”. Nel suo percorso lo scrittore si cimenta in paralleli
e confronti, riscopre l’attualità del pensiero antico, disapprova comportamenti alieni dal vivere secondo giustizia,
confessa apertamente la sua simpatia per le persone oneste
e generose... Biasima il “corrotto Sallustio”, «legato a
doppio filo a Cesare» per opportunismo, il “cattedratico” nel senso dispregiativo della parola - Quintiliano, ammira il
“mitico, grande Omero, il più grande di tutti”, l’integrità
morale di Seneca “la cui morte fu testimonianza della vita
stessa”, l’animo gentile e bucolico come quello di Virgilio,
di Tibullo, la passione e la follia dell’immortale poeta
dell’amore Ovidio, la poesia tenera sensuale ed erotica di
Saffo (“La poesia non è mai scandalosa” puntualizza), il
Placido Amadio: L’ignoranza (Convivio n. 14
pag. 59)
Una sarcastica composizione che focalizza una
realtà a molti nota, quella della’incertezza del momento.
D’altro canto il mondo politico stesso oggi disorienta, perché le voci che si levano sono tante e sempre discordanti fra
di loro. Chi cerca lumi attraverso la lettura dei giornali si
accorge che anch’essi procedono su binari ben definiti ed
invece di chiarire, frastornano. Chiunque, leggendo la stampa, cerca di «commentare la vita quotidiana». Ma balza subito in evidenza l’indirizzo di questo o quel quotidiano, non
sempre si riesce ad avere una visione chiara dei diversi
problemi. C’è una corrente di sinistra, un’altra di destra ed
una di centro, per chi è alla disperata ricerca di una chiara
risposta non resta altro che ingoiare le varie situazioni
restandone deluso. Come conclude aspramente Amadio: «Io
che ho sempre cercato in ogni istante / la fine della
domanda / l’inizio della risposta / mi accorgo, dopo tanti
anni / di essere un vero ignorante». Quanto mai desiderato
questo giudizio che coinvolge un po’ tutti noi!
Pacifico Topa
Mina Antonelli: Le donne raccontano
Mina Antonelli, con “Le donne raccontano”, evoca
momenti drammatici con una versificazione ridondante e
fantasiosa, puntualizza momenti e circostanze soggette all’ineluttabilità del tempo... «Lente salpano le ore verso l’alba / sognando naufragi di cobalto e di luce...». Le donne
raccontano di sogni carezzati invano, di attese «ma le
farfalle volano altri Cieli » nel frattempo «il tempo sfalda
inesorabile / certezze e accordi». Si allude alla negatività
che «corrompe calici, reclina steli, si preconizza...». Il gior71
no sarà sangue «nefasti presagi, apocalittiche sventure bruciano le città del mondo e alti / crepitano fuochi e ampolle
di odio...». Questa angoscia che grava nell’animo dell’autrice acuisce «la mia pena...» essere abbandonato a se stesso
in balia del vento delle passioni, in cerca disperata di «approdi oltre le nebbie». È chiaro che l’esasperazione in questa triste evocazione sovrasta tutta la poesia e Mina Antonelli riesce a dare la misura esatta della gravità del momento. C’é evidente il timore dell’incognito «smarriti viaggiatori insieme andiamo / e non sappiamo dove...». In
sintesi lei ha voluto evidenziare la precarietà della nostra
esistenza, il costante timore per un ignoto futuro, l’ansia di
dover percorrere il cammino terreno con tante incertezze,
costatando l’incombenza dei pericoli che diuturnamente ci
sovrastano. Indubbiamente una creazione intensa di significazioni, ma anche di un larvato pessimismo!
Pacifico Topa
l’una è la conseguenza dell’altro. Il folle innamoramento, la
passione travolgente, la seduzione dilagante sono gli elementi preminenti di tutto il dramma e quello che si evidenzia dalla lettura è la caratteriologia di alcuni personaggi,
una certa saggezza filosofica e tanta fantasiosità descrittiva.
Pantaleo s’è abbandonato a quella esercitazione linguistica
che si attiene al tema ed all’argomento. Non si trascura la
sia pur succinta descrizione dei luoghi ove il racconto si
sviluppa, luoghi piuttosto sintetizzati nella loro realisticità,
anch’essi ricchi di suggestioni e di sfumature ecologiche.
Predomina il pensiero della divinità. Infatti sovente le
invocazioni agli dei intercalano i dialoghi e idealizzano le
realtà. Narciso, infatuato della sua avvenenza, respinge le
solerti offerte di Ameinias e l’assedio affettuoso di Eco, ma,
gradualmente, si fa strada in lui quel sentimento che, come
era stato pronosticato, gli avrebbe portato sfortuna. Narciso
muore perché si rivede in un ruscello, è un po’ la sintesi di
chi analizzando la propria esistenza e costatatane la inutilità, perde ogni speranza nella vita. La fatalità, le profezie,
gli interventi dei Numi, sono altro elemento che impreziosiscono “Narciso” di Pantaleo Mastrodonato.
Pacifico Topa
Vinia Tanchis: Malinconia (Convivio n. 14, pag.
23)
La mestizia che aleggia in questa composizione di
Vinia Tanchis è già intuibile dal titolo: “Malinconia”. È il
clima tipico che consegue ad un lutto, se poi questo interessa un bambino il dramma si acuisce; l’autrice vuol esternare
quello che suscita in lei il rievocare momenti salienti di una
serenità ormai scomparsa. Sopravvive il ricordo: «Malinconia di passi / che non sono / e di scoppi di risa / all’improvviso...» riportano alla mente il luogo ove era solito trastullarsi... «tra grappoli di glicine». Il lieve alitar della brezza le
rammenta i capelli... “scompigliati e vivi” ed anche il dondolar dell’altalena, gioco assai piacevole per i più piccini.
La rimembranza passa dalle azioni ai colloqui... «Mi chiedevi / quant’era grande il cielo. La curiosità infantile tipica
di questa età e da qui il gesto istintivo di elevarsi «sui piedini ignari / per arrivar più in alto», aspirazione pertinente
ai minori di potersi librare nella immensità, il desiderio di
volare in quel cielo così terso ed invitante, «proprio lo stesso cielo / ti ha rapito...», il desiderio infantile s’è concretizzato e questo forse sarà riuscito ad appagare la sua curiosità: «ora sai tutto»; e la Tanchis addolcisce il suo dolore affermando che «in una stella brilla / il tuo sguardo lontano..». Una esternazione quanto mai sentita e intensa con cui
l’autrice documenta il suo stato d’animo per tanta sventura.
Pacifico Topa
Maria Dho Bono: schiettezza, sincerità, entusiasmo in Radici e Germogli (Ibiskos Edit.)
Un modo di esporre molto semplice, alla portata di
tutti, rime che si snodano con la cadenza e la musicalità di
una filastrocca... Vari gli argomenti; riassumono esperienze
e fatti legati ad ambienti, luoghi, avvenimenti e personaggi
del vivere quotidiano: la festa della mamma novantenne
«con la torta e le roselline» e tutta la cerchia dei parenti,
Benvenuti medaglia d’oro ad Helsinki, il governo litigioso,
il ministro di Grazia e Giustizia (Quale giustizia?), carovane, gita d’estate e altro... Nel «disquisire arcaico» dell’autrice, così come definisce il linguaggio Giulio Panzani, c'è
schiettezza, sincerità, entusiasmo, bonaria ironia e disponibilità a comunicare agli altri tutto quanto accade per riceverne calore, conforto, consigli... Il percorso è quello del diario: registrare, giorno dopo giorno, quanto può sembrare
importante e degno di essere ricordato. Scelgo a caso, fra le
poesie più significative... “In alto mare”: vi sono espresse,
in forma metaforica, divertenti allusioni al governo (la nave), alle diatribe furibonde che si verificano nel suo interno,
alle responsabilità del capo (il nocchiero) e dell’equipaggio
(ministri e senatori) e alle difficoltà cui essi vanno incontro
(scogli, squali, temporali); ne “Il sentiero del rimpianto”,
che l’autrice percorre tutti i giorni, «con affanno», e che
conduce alle “residue rovine” del castello «semisommerso
da ortiche, rovi e grovigli d’arbusti vecchi e nuovi», il
«degrado più avvilente fra mucchi di rottami e spazzatura»;
Castelmagno, la località delle vacanze della Dho Bono, dove «si respira un’aria frizzantina e profumata di timo e rododendri in fiore»; “La tragica lista” ed “Elezioni”, con riferimenti ai politici visti come «inetti che s’avvicendano
slealmente»; “Cassandra 2000”, «reincarnata, paludata a
oracolo 2000»; “L’inutile attesa”, un gatto che sosta presso
una chiesa, «...forse prega per davvero, / e chiede a Dio che
gli indichi la strada del cimitero» (La sua padrona è morta e
la povera bestia l’attende invano)... Nella loro semplicità,
sono tutte belle le liriche e ognuna di esse vuole raccontarci
qualcosa, farci conoscere una storia vera, confidarci uno
Il mito di Narciso visto da Pantaleo Mastrodonato
Pantaleo Mastrodonato ha drammatizzato il mito di
Narciso, traendone una rievocazione fedele a quanto ci è
stato tramandato, sia storicamente che linguisticamente. I
personaggi si animano nello spirito mitologico del tempo e
danno vita a lapidari dialoghi che risentono della classicità
stilistica dei testi greci. L’Atmosfera è quella tipica della
Grecia, culla di civiltà e di mitologia, quella terra che ha
dispensato luci di indiscussa cultura. Narciso è un personaggio che ancor oggi troverebbe fedeli seguaci: il culto
della bellezza, forse più che mai ai nostri tempi, ha assunto
un ruolo determinante, se ne sfruttano le peculiarità, se ne
dispensano le tentazioni. Elemento base di tutta la trama è,
sì la bellezza ma anche l’amore, o anzi possiamo dire che
72
stato d’animo o un disappunto, trasmetterci una piccola gioia o un momento di malinconia, renderci partecipi della
visione di angoli ameni che donano serenità allo spirito.
Antonia Izzi Rufo
rintanato segreto custode / fra tanta bellezza». Sordo alle
provocazioni dei sensi, pago di se stesso, vorrebbe far rivivere agli altri tante esperienze meravigliose da lui vissute,
ma “rimanda”... E dopo, non trova più nulla in sé, solo la
sua “incapacità”, la sua perplessità, la sua pigrizia e, deluso,
smette di vivere e “rimanda” pure la morte... Si mostra scoraggiato, apatico a volte, privo di sprint, di vita, eppure vive, recepisce, ama, dialoga con le Muse... Pare di avvertire
in lui una potenziale impotenza che colpisce anima e corpo,
che gli fa dimenticare il proverbio: «Chi ha tempo non
aspetti tempo» oppure: «Chi si ferma è perduto". Ma il suo
adagiarsi “nel dolce far niente” è solo una breve pausa prima di immergersi in contemplazioni paniche e riflessioni
sulla vita, sul comportamento dell’uomo e i suoi insolubili
dilemmi, su problemi interiori, sul divenire dello spirito,
sull’eternità delle cose, sul «gioco della specie umana»...
«Io vivo e muoio cento volte»... «Ti guardi e ti specchi negli altri e scopri che sei uno e mille» (come Pirandello in
“Uno nessuno e centomila”)... «Ho un’anima e non la voglio... Ho una carne che mi pesa... Ho uno spirito che interroga». Osserva, riflette e trae le conclusioni. Sembra tutto
immobile nell’universo, ma le ere s’avvicendano nei secoli;
le cose si protraggono nell’eterno, sebbene in apparenza
fragile... «Mai navigante alcuno / poté dire / d’essersi trovato su per l’orizzonte». Il mondo non ha inizio né fine,
eppure terra e cielo sono congiunti «in un amplesso
d’amanti». Il poeta si sente spesso solo, solo dentro: «Dopo
l’amore / ti senti d’essere / più solo di prima». «Nel sapore
d’un amplesso / vorresti stringere ancora / seppure sai che è
una finzione / ...lei che t’aspetta». Eterna insoddisfazione
dell’uomo alla ricerca costante di qualcosa che lo appaghi
in modo completo, senza riuscirci. Alcuni versi si rendono
eloquenti e spiegano benissimo il significato racchiuso
nell’intera lirica in un’esposizione chiara e trasparente.
Antonia Izzi Rufo
Il tempo dei gelsomini poesie di Franco
Calabrese (Lorenzo Editore, Torino 2003)
«La vita non è quella che si è vissuta, ma quella
che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla». Questa
frase di Garcia Marquez, scelta da Franco Calabrese come
punto di partenza e sintesi del suo volume “Il tempo dei
gelsomini”, dà immediatezza al contenuto di un’opera a
sfondo autobiografico. Il volume va letto con grande entusiasmo, in quanto dietro a vicende personali si celano storie
d’uomini che ogni giorno guardano al proprio futuro, porgendo il pensiero al passato e ponendosi tanti punti interrogativi sul futuro. Infatti il domani, visto attraverso il passato, è uno dei fili cardini dell’opera, che non trascura il
presente. L’autore, attraverso la ricca preparazione culturale-filosofica, trasforma, a mio avviso, la sua narrazione in
una sorta di documento universale dove tutti possano configurarsi senza trascurare la singolarità d’ognuno. Gli ostacoli superati dal protagonista diventano i punti di partenza
per una riflessione storica su quella che è stata ed è la nostra
società. Quale scrittore ormai affermato, ma d’umiltà
immensa, Franco Calabrese merita di avere un posto
essenziale nella formazione culturale dei giovani, affinché
possano attraverso i suoi testi conoscere anche il duro
mondo della carriera culturale composta di un’infinità di
ostacoli e delusioni. Non a caso l’autore scrive: «Una vita
per la scrittura: navigatore solitario, senza supporti politici,
senza compromessi, sorretto e animato soltanto dalla sua
indomita passione, curava i suoi libri, a volte, vendendoli
personalmente». Questo uno dei tanti passi del volume che
lo trasformano in uno specchio in cui si può scorgere un
“Io” che non molla di fronte alle avversità della vita, ma
che attraverso il recupero del ricordo cerca di trovare quella
forza interiore per poter giungere a quell’esistenza definitiva che, con una sorta di sarcasmo, nel libro viene definita
il “tempo di crisantemi”. Franco Calabrese definito, così
come scrive nella prefazione Fabio Greco, «l’apostolo della
cultura», sicuramente per la sua poliedricità culturale,
critico, drammaturgo, saggista, novelliere, dimostra una
ricchezza culturale non solo ne “Il tempo dei gelsomini”,
ma appare quale emblema di un “Uomo” che sa coniugare
sentimenti e forza. Egli, attraverso lo stile tipicamente personale, riesce a mescolare fantasia, teoria e storia, facendo
del suo scritto un punto di partenza per il lettore, il quale
potrà trovare delle riposte a ciò che sta dietro al quotidiano
sempre più perfetto e rarefatto. E se «il dolore è il gran
maestro degli uomini», come scrive Eschenbach, allora Calabrese ne è uno dei tanti testimoni.
Enza Conti
Alito dello spirito e luce delle muse: Vincenzo
Campobasso, Traduzioni e sussurri dell’esserci,
(Blu di Prussia Editrice)
L’haiku, genere poetico adottato dai Giapponesi e
diffuso ormai nel mondo, è molto simile, per la sintesi, la
brevità e il contenuto “concentrato”, ad un aforisma, ad una
sentenza, ad un proverbio. Si distingue dalle composizioni
“chiuse”, a volte di non facile interpretazione, di alcuni ermetici, perché i suoi versi sono chiari, trasparenti, comprensibili. Non è semplice imitare i Giapponesi, afferma Antonio Bonchino. «Come ripetere noi, occidentali, quell’incanto? Non si corre il rischio delle copie inautentiche, della
stanchezza, del falso?». Ma Vincenzo Campobasso è riuscito ad esprimersi in forma genuina, a cantare con la voce di
Erato, ad essere originale. Ci vuole arte, percezione interiore del tutto, capacità di sintetizzare, di racchiudere in una
parola, in un verso breve, l’universo intero... Chi non scopre
in quelle quattro parole di Ungaretti, «M’illumino d’immenso», il vasto cielo e il mare sterminato e l’infinito azzurro che li unisce in un unico mondo intangibile e irraggiungibile? Cielo e mare, due immensità, «luce senza confini». L’anima ne è folgorata. Nella prima lirica, triste la sorte di Filippo, venuto morto nel mondo dei vivi, «innanzitempo». I centosette haiku della prima parte sono un
susseguirsi di voci, di suoni, d’immagini, di sensazioni che
Tito Cauchi: l’eterna insoddisfazione dell’uomo
in Amante di sabbia (Ed. Pomezia-Notizie)
Il poeta ama la solitudine, la quiete d’una stanza
dalla quale osservare il mondo che gli gira intorno. Per associazione, si pensa subito alla stupenda canzone di Gino
Paoli “Il cielo in una stanza”. «Solo, zitto zitto / me ne sto /
73
vibrano, che parlano, che lanciano messaggi ed emozioni.
C’imbattiamo nella furba capinera, nell’incognito, e nell’indifferenza, d’un’alba uguale a tante altre, ascoltiamo il frusciare delle foglie nel bosco silenzioso, il lamento del clarinetto, canti d’uccelli, mormorio di onde, avvertiamo il tepore della terra, ultimo giaciglio dell’uomo, seguiamo il ramarro, “alta la coda”, che corre alla salvezza, contempliamo
l’odorosa ginestra, maestosa fra zolle e rupi, la pallida luna,
le vivide stelle, ci commuoviamo alla vista del bimbo scalzo che piange perché ha perso la mamma, aspiriamo il buon
profumo dei gelsomini, l’odore della terra bagnata dalla
pioggia, condividiamo il traboccare d’amore il senso pieno
della vita dell’autore, c’immergiamo nella visione panica di
angoli stupendi della natura che il poeta ha saputo ritrarre
con veridicità e vivo stupore... E nell’ultima parte «la più
ghiotta, la più ‘confortevole’, la più dotta sezione: ‘Mondo
fungino’», così come si esprime nella prefazione - quasi una
provocazione alla degustazione - Antonio Bonchino. Esperto conoscitore di funghi, l’autore ne menziona molte specie:
Prugnali, Panterine, Geloni, Porcini, ecc... La poesia di Campobasso va annoverata tra quelle opere che racchiudono l’alito dello spirito e la luce delle Muse.
Antonia Izzi Rufo
tutto vasta conoscenza celata dietro un’innata riservatezza… Nella sua movimentata esistenza, che lo ha visto anche
protagonista negli incarichi pubblici, quale sindaco di Jesi,
si è dimostrato sensibile alle necessità altrui, distinguendosi
per la generosità… Esempio di probità e saggezza, strenuo
difensore del mondo poetico di cui egli si sentiva parte
attiva… egli possedeva anche una perfetta padronanza della
lingua, la capacità di sintetizzare il pensiero, l’armoniosità
dei suoi versi, la ricchezza terminologica e l’elevato contenuto culturale delle sue creazioni». Il saggio di Pacifico
Topa si presenta profondo, puntuale, obiettivo e soprattutto
pieno di una partecipazione personale che caratterizza sia il
poeta che l’uomo. Di lui analizza le sue opere poetiche e
soprattutto “Il volo del falco”, un poema sinfonico di 2168
versi che propone immagini nitide del poeta, impersonato
dal falco, un volatile coraggioso, forte, amante della libertà,
un’allegoria suggestiva pienamente azzeccata.
Angelo Manitta
Maddalena De Lisi, Il sole della vita: un canto
che parte dal profondo, (Ed. Terrasanta)
Jole Tuttolomondo: Vedo l’alba (Convivio n. 14
pag. 31)
L’alba è senza dubbio il momento più affascinante
della giornata e Jole Tuttolomondo ne fa una raffigurazione
assai vivace e sincera: «Qui si respira pace». Tutto intorno è
silenzio, la natura ancora sonnecchia... «Si ode soltanto il
frusciare / lento e continuo dei salici». Clima idilliaco! Ma
un evento “rompe il silenzio”... «È la voce dell’alba...». Il
panorama si vivacizza, assumendo «i toni della fulgida / veste rosa confetto, sfumata / di verde tenero e di giallo pallido». La tipica policromia di un’alba! Tutto fa presagire che
«il disco di fuoco, nella / lenta ascesa, dà / luce ai colori in
movimento». Sta per nascere il sole, è una nuova giornata,
tutto torna alla vita. Si popola anche il cielo di rondini “con
un volo circolare” quasi a festeggiare questo risveglio della
natura. È un panorama suggestivo, questo che si presenta e
che l’autrice ci offre, focalizzando le sensazioni che un’alba
può suscitare in chi ha delicatezza di sentimenti e disponibilità a godere «l’armonia cosmica / dell’incantevole quadro».
Non per nulla l’alba è solitamente simboleggiata dalla giovinezza esistenziale, il momento più bello di tutta una vita!
Pacifico Topa
Antonio Sbriscia Fioretti: l’uomo e il poeta,
saggio di Pacifico Topa (Cingoli 2002)
Il breve saggio di Pacifico Topa mette in risalto le
doti di Antonio Sbriscia Fioretti, poeta nato a Senigallia il
18 luglio 1895 e morto il 20 aprile del 1970. Il personaggio
è visto soprattutto nei suoi rapporti con Cingoli, splendido
paese marchigiano, ma pure nella sua opera di intellettuale
e di politico. «Il desiderio di far conoscere un personaggio
che, forse, è stato poco apprezzato ai suoi tempi, mi ha
spinto a scrivere questa breve biografia – scrive Pacifico
Topa nella breve presentazione – e mi ha consentito di conoscerlo come uomo di cultura… Avvicinandolo, si resta
colpiti dalla sua affabilità, correttezza, genialità, ma soprat74
In copertina: “L’alba”, disegno dell’autrice, poetessa-pittrice. Le liriche sono intervallate, a tratti, da “Metti
un tuo pensiero”, una pagina bianca nella quale l’artista
esprime il desiderio di voler leggere il giudizio del lettore,
così come in alcuni libri di scuola. Significativa la dedica:
sa di altruismo. E il titolo, “Il sole della vita”, vuole intendere che la vita, «preziosa risorsa dello spirito», è bella e
vale la pena di viverla. Che cos’è la vita? Un susseguirsi di
gioie e dolori, delusioni e speranze, ma sempre «partecipazione alla creazione». E il cuore è «un inguaribile sognatore» che vive d’amore e non comprende perché nel mondo
vi sia tanta assenza del dolce sentimento. La poetessa trabocca d’amore ed esplode in un canto che parte dal profondo, che grida, perché tutti ne avvertano “l’eco celestiale”:
«Io ti amo!!! Io ti amo». Inaridisce il cuore senza l’amore,
senza «l’attimo fuggente del bacio». Ogni cosa è permeata
dall’amore che investe di sé tutte le creature, l’intero
universo, la saggezza, la sapienza, i ricordi... «Non chiudere
mai la porta alla calda luce dell’amore». Esporre semplice,
lineare, scorrevole: sembra di scivolare su un prato fresco di
erba e di fiori, intriso d’amore (Ovunque amore, sempre
amore). Apre la silloge “Attimi di gioia”, versi che esprimono le vibranti sensazioni emotive che l’autrice prova
quando il suo uomo la guarda, l’accarezza, la bacia, la fa
sua... La De Lisi dedica versi a Vittoria, a Rosy, a Maria, all’amico del cuore, a Luca, alla nonna di cui ricorda «le fantastiche fiabe», alla mamma, «la forza che infonde coraggio... Si immette nei meandri del mondo interiore per scrutarne pensieri, sentimenti, emozioni, sofferenze... Non trascura la droga «che offusca la mente» e uccide, la preghiera
«filo conduttore al Creatore» - che dà conforto all’animo, la
felicità - «chiave della serenità». - Spesso, molto spesso, il
suo sguardo si posa sulle meraviglie della natura per provarne estasi, per ritrarne colori e aspetti magici, per sentirne
il respiro, goderne la pace, ascoltarne il silenzio... Incontriamo le quattro stagioni, la primavera «giuliva e festante»,
l’estate «allegra e raggiante», l’autunno con l’incredibile arcobaleno che ricorda la pace, l’inverno col suo scenario dalle suggestive visioni; la neve, il cui candore sa di purezza,
la purezza dell’anima; il mare cangiante misterioso e pauro-
so; i fiori, il cielo e la poesia che non solo ispira, ma unisce
tutti in un unico girotondo d’amore. «Nell’attimo che tutto
finisce, niente finisce, è un continuo rinnovarsi», è il cammino incessante dell’uomo nell’evolversi della vita, dello
spirito nella sua eternità.
Antonia Izzi Rufo
poesie, racconti e saggi che spesso appaiono su vari periodici letterari locali. Da sempre dimostra interesse e talento
per il mondo dell’arte, riscuotendo premi e riconoscimenti
in varie manifestazioni di grafica, pittura e fumetto. Le sue
illustrazioni sono apparse su diverse pubblicazioni d’arte e
antologie letterarie. «La finezza delle sue scelte cromatiche,
l’uso di calde e accese tonalità, rivelano l’ottima preparazione tecnica oltre che l’originalità percettiva e creativa»
(G. Candriffi). Vito Catalano, animo di poeta, «si sofferma
con perizia narrativa del segno sui volti isolani e sulle tipologie umane, ricche di espressività nella trasparenza dei
sentimenti, per evidenziarne la vivezza e la corposità plastica nel giuoco di luci ed ombre, nella fantasia compositiva
delle positure, nell’equilibrio ragionato delle forze e dei
colori» (Milly Bracciante). Ha ottenuto nel corso della sua
carriera diversi premi e riconoscimenti. Negli ultimi anni
alterna l’attività pittorica con quella legata all’illustrazione
editoriale. È inserito nell’Enciclopedia dei pittori e scultori
italiani del Novecento (Il Quadrato, Milano). Di lui hanno
scritto, A. Ales Scurti, M. Bracciante, G. Candrilli, O. Di
Prata, M. Patané ed altri ancora. Le sue opere figurano in
collezioni private e pubbliche in varie città italiane ed estere. Si veda a proposito la seguente poesia dal titolo Riflessi:
Adalgisa Biondi, Gli orizzonti perduti: l’amore
sentimento che anima ogni lirica (Ibiskos Edit.)
Eloquente la dedica, con le parole di John Lenon:
«All your need is love», tutto il tuo bisogno è amore. È
l’amore il sentimento che anima ogni lirica; l’amore come
nostalgia, passione, trasporto, sogno «che non è di un solo
giorno», rimpianto d’una dolce realtà svanita e desiderio e
speranza che risorga. «Si svolge in quattro tempi il percorso
della poetessa alla ricerca di orizzonti perduti e in attesa di
orizzonti di luce»(Castellani). Tuffo nel passato, protrarsi
nel futuro, ricerca incessante di un ‘quid’ che possa ridare
allo spirito travagliato e insoddisfatto serenità, pace, amore,
un quid che sfugge, che non si lascia afferrare... Così l’autrice: «Sono infiniti gli orizzonti... Orizzonti della memoria,
della storia, della fantasia... orizzonti talmente miseri da
poter essere contenuti in un granello di sabbia, smisurati a
tal punto da non poter essere immaginati». In una visione
ambivalente, gli orizzonti si mostrano nella loro piccolezza,
“flocci”, come un guscio di noce, e nella loro immensità,
quella dell’universo infinito, a seconda della disposizione
d’animo di chi osserva o del suo punto di vista... Animo
complesso, quello della poetessa, aperto a tutte le soluzioni,
possibili e impossibili, in continuo lavorio... Scontri di idee
contrastanti nella sua mente: la poesia è «sofferenza interiore ma anche gioia che colpisce come un fulmine». È la
vita dello spirito nei suoi contini tentennamenti, nei suoi
dubbi, nei suoi dilemmi, nelle sue perenni insoddisfazioni,
nel suo oscillare tra l'ottimismo e il pessimismo, nel suo dinamismo perpetuo... Le sensazioni d’amore si manifestano
dapprima come semplici emozioni (forse al mattino), dopo,
«quando cala il sole», in «tentazioni». Ella vorrebbe raggiungere la persona amata, ritrovarla nei «ricordi ancora vivi nel cuore»... Chissà?... La storia potrebbe ricominciare...
Ma finisce per accontentarsi dei sogni e dei ricordi, per
ricorrere alla fantasia: «Nell’incanto dell’aurora mediterranea... le mie labbra sulle tue... / si raccontano la vita».
«Questa notte / immagino / di fare l’amore / con te». Lui,
sempre lui, in lei; lui, linfa del suo spirito, senso della sua
vita... Emerge spesso la nostalgia della Sicilia, con «le sue
bellezze e la sua sporcizia», con i suoi stupendi «paesaggi
vasti di blu, di verde, di giallo e di olivastro argenteo lunare». Versi anche per alcuni musicisti, pittori, letterati... A
Luigi Pirandello: «L’ignoranza della gente / ha spazzato via
/ i ricordi della nostra grecità... / (ma) la tua letteratura resterà per sempre». Una poesia profonda e delicata, quella
della Biondi, che si stacca dal terreno e si rende degna di
sostare sulle vette del Parnaso.
Antonia Izzi Rufo
Sulla spiaggia dei pensieri
camminai con te per mano,
sorridendo volentieri
al cielo siciliano.
I profumi ad ogni passo
respirai dell’estate,
e seduti sopra un masso
passarono le mattinate.
Il respiro del vento
le onde portò a riva,
con cuore contento
un brivido saliva.
Accarezzai i tuoi capelli
dolcemente come il vento,
che prima ribelli
cercavano addolcimento.
Il tuo sguardo luminoso
lasciò trasparire
un desiderio bramoso,
che potei capire.
Con lunghi e teneri baci
da riscaldare il cielo puro,
focalizzammo tenaci,
riflessi del nostro futuro.
Franco Ruffo, La vita, l’amore e la morte nella
poesia di Lionello Fiumi (Libraria Padovana Ed.)
Nella “Cittadella” di Cronin, il medico si riduce a
lavorare come operaio nella miniera, l’uomo ignorante e
intraprendente, che vive di espedienti e sotterfugi, assurge
alle più alte cariche dello Stato. Accade spesso che persone
valide, ignorate e non riconosciute nei loro meriti, finiscano
nel dimenticatoio, mentre altre, che non hanno cultura né
titoli, occupino posti di prestigio, «restino sugli altari e
vengano assunte a ‘santoni’ di certe correnti e parrocchie
Vito Catalano, in Vivere d’arte (antologia
dell’A.L.A.PA.F., a cura di Antonia Ales Scurti).
Nato a Catania nel 1969 ed ivi residente, dopo aver
conseguito la maturità classica, nel tempo libero, scrive
75
politiche e inserite nelle antologie scolastiche» (Licio
Gelli). Quanti bravi artisti sconosciuti meriterebbero di
essere collocati vicino ai cosiddetti ‘Grandi’... Un plauso a
tutti coloro che conducono uno studio attento per riscoprire
talenti dimenticati, farli conoscere e inserirli tra quelli
meritevoli come loro ma più fortunati. Nel nostro caso la
lode va a Franco Ruffo il quale, attraverso una ricerca
dettagliata e scrupolosa, è riuscito a raccogliere in un saggio
importanti notizie sulla vita e sull’opera di Lionello Fiumi.
Questo poeta, uomo molto sensibile e incline alla solitudine, aveva una certa ritrosia a coinvolgere gli studiosi che
avrebbero voluto e potuto accrescerne la notorietà e mostrarlo nel suo reale valore poetico e come divulgatore di
letteratura all’estero. È uno dei motivi della sua dimenticanza. Ogni dolore, ogni dispiacere, lo portavano ad isolarsi:
nella solitudine riusciva ad alleviare la sua pena, a dare
conforto al suo animo angosciato. Ruffo ne descrive le tappe progressive in tutti i campi: nella vita familiare, ricca di
avvenimenti più tristi che lieti, nella fertile produzione poetica, nelle numerose iniziative culturali, nei viaggi frequenti
in molti luoghi dello scibile, nei molteplici riconoscimenti
di Premi Letterari Internazionali... Ne illustra le tendenze
letterarie tese più verso l’antico che verso il moderno, «Liberarsi degli ingombri del passato senza cadere negli eccessi del futurismo»; presentalo scrittore nel suo aspetto di
“uomo liberista” (incompreso per le sue idee troppo personali), nella sua poesia triste e profonda che lo avvicina alla
«meravigliosa potenza leopardiana», nel suo tornare alla
spontaneità della libera melodia francescana col verso
libero. «Si può trattare il verso libero e non essere futurista»
proclamava Fiumi nel “Manifesto” preposto a “Polline”,
nella sua considerazione per le donne viste dapprima come
“amori facili”, dopo come Amore vero, maturo (quello che
sentiva per la moglie... Le due donne ispiratrici della sua vita furono la madre e la moglie Marta). Caflos D. Fernandes:
«Allontanandosi da Marinetti, la cui estetica gli parve
chiassosa ed esibizionista, Fiumi fu uno dei pionieri dell'avanguardismo». Ruffo termina il saggio, edito dalla nota
Libraria Padovana Editrice, con queste parole: «Storia di
vita, d’amore, di morte di un ‘neoromantico avanguardista,
sempre in prima fila’ che visse e morì di Poesia e d’Amore».
Antonia Izzi Rufo
paradisiaci, la sua scuola, i suoi mali fisici, i suoi travagli
interiori, la lettera a De Gaulle e poi... l’amore tanto sognato, tanto atteso... «Un prodigio si compie, / luminoso come
il sole: / due anime gemelle / han trovato l’amore». Daniele,
però, è sposato ed ha moglie e figli, «non v’è felicità in un
amore peccaminoso»; ella lo vuole amare come Dante amò
Beatrice... Ma i sensi reclamano, la notte tradisce i suoi
buoni propositi: «Sono sola / e nel letto mi dibatto delirante». Desidera l’amplesso folle dei sensi... Nella sua inconsolabile sofferenza, trova conforto solo nella preghiera...
All’insaputa di tutti, si trasferisce in un paesino dell’Italia
settentrionale per dimenticare, per far perdere le sue tracce... Ma Daniele, dopo sette anni, rimasto anche lui vedovo
e con tre figli, riesce ad avere il suo indirizzo e va a bussare
alla sua porta... È bello ritrovarsi, ridestare l’amore sopito
ma non spento, cominciare di nuovo a sperare nella realizzazione del sogno... Il destino, però, le tende un tiro mancino che non s’aspettava: la figlia Florinda s’innamora di
Daniele. Che fare? L’infelice donna decide di rinunciare, di
sacrificarsi per la sua bambina, di farsi suora. Con l’abito
monacale accompagna gli sposi in chiesa. Transfert: convolerà anch’ella a nozze, si sposerà con Gesù... Un ripiego
d’emergenza, ma sentito perché ispirato dalla fede. Un
racconto semplice e commovente. Il significato del titolo:
«Il contrasto tra ragione e cuore, fra realtà e desideri»
(Carlo Bisazza).
Antonia Izzi Rufo
Filippo Giordano: Rami di scirocco (Edizioni Il
Centro Storico, 2000)
Filippo Giordano è un poeta ormai affermato ed ha
vinto, tra gli altri, i premi “Città di Marineo” (1979) e, per
la poesia dialettale, il “Bizzetti” (1999). Ha al suo attivo
diverse sillogi ed ora, quasi a voler proporsi in chiave unica
ed unitaria, ha voluto racchiudere in un solo volume, “Rami
di scirocco” per l’appunto, l’intera sua produzione, aggiungendovi anche un corpus di venticinque componimenti in
stile haiku fin qui inediti ed inseriti sotto il titolo “Minuetti
per quattro stagioni”. Si tratta di un volume, questo, che ci
dà veramente modo di entrare nel vivo della poesia di
Filippo Giordano, di gustarne le scansioni emotive, di suggerne l’essenzialità espressiva, di riappropriarci del piacere
antico e sempre nuovo del bel verso... Sono pagine intense,
le sue, quasi un diario aperto sull’ieri che diventa l’oggi e
sull’oggi che cerca di non perdere la propria identità culturale, sociale, di veicolo affettivo in direzione di un dopo che
si sta avvicinando a passi di gigante. Ogni verso ed ogni
quadretto lirico di Filippo Giordano sono un insieme di momenti alti, di aperture, di scampoli luminosi che ci fanno sognare a tratti oppure riflettere. Sì, perché la poesia, se è
autentica - e questa di Filippo Giordano lo è, eccome - sa
abbinare sempre elementi di sogno ed elementi raccolti dal
vivo, dalla quotidianità.
Giustamente ha evidenziato Antonella De Luca
come la sua poesia sia «una girandola di frammenti che
irrompono da un universo mediterraneo denso e lieve ad un
tempo; pennellate di colore che sfiorano tutta la gamma
delle sensazioni possibili, prima centellinate e poi profuse a
piene mani». E giustamente ha anche scritto Maria Giovanna Cataudella, ovvero che si tratta di «poesia luminosa, leggiadra con assonanze di atmosfere dimenticate, perdute nei
Antonina Ales Scurti, Fra due barriere: una
storia toccante (Cultura Duemila)
“Fra due barriere”, diario-romanzo in versi e in
prosa. Una storia toccante, che si svolge sul filo di motivi
classici, con personaggi disposti alla rinuncia e al sacrificio,
sentimenti che, oggi, in un mondo di arrivismo e superficialità, sono scomparsi quasi del tutto. Una donna giovane,
vedova, con una bambina, sola e triste, però c’è «la piccina
che pigola nel suo nido... che s’attende tutto da lei», che la
induce ad andare avanti e a sperare ancora (perché no?)
nell’amore. «Son tutta fremito / il mio cuore s’agita / arde,
scalpita. / Amo forse l’amore?». Nella sua fede profonda,
invoca Dio e Maria perché la proteggano, frenino i suoi
impulsi. Anche poetessa, viene premiata più volte in Concorsi Letterari, per poesie. Il ricordo d’un amore prematrimoniale sfumato, la malattia il dolore e la morte della sorella Anna, i brevi viaggi nella sua meravigliosa Sicilia con le
immersioni paniche nella natura e la descrizione di angoli
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segreti viatici della memoria». Filippo Giordano si rivela
perciò poeta a tutto campo, dalla personalità ben spiccata e
tale da mettersi in discussione ed a nudo proprio perché in
lui c’è un mondo interiore davvero sensibile e prensile. Non
a caso da trent’anni scrive poesia ed alla poesia va dedicando la parte migliore di sé. E non a caso di lui si sono
occupati critici quali Giorgio Barberi Squarotti, Dino Papetti, Carmelo Ciccia, Stefano Valentini, Roberto Carifi, Salvatore Arcidiacono, Carmelo Pirrera e Federico Hoefer.
Fulvio Castellani
to, con questa chiave di lettura, rivelatore (?): per non dirmi
cose non vere, PER NON MENTIRE A ME STESSA. Dunque, per dire il vero; per ammettere la verità. A se stessa per
prima e, bensì, a noi tutti, suoi lettori, suo pubblico eletto,
giacché ella, con la pubblicazione, ha inteso rendersi pubblica, ha preteso rivelarsi. Ma (un dilemma di ritorno ci
assale) rivelare, confessare cosa? Affrancarsi da che? La risposta è… inoltrarci, affrontare il testo! Una frase di Virginia Woolf «Ho bisogno di un gergo come quello degli innamorati», posta sull’uscio dei componimenti, sembra lanciarci un segnale, metterci sull’avviso, anticiparci un indizio. E,
non appena varcata la soglia, ci imbattiamo in una dichiarazione programmatica: «Ho lasciato / che i miei occhi / diventassero ciechi / perché tutto / fosse creduto / Perché essere amata / costasse / l’illusione di amare.» L’amore dunque il tema centrale, il nucleo di questa silloge! Un amore,
apprendiamo, travagliato: «Non mi volevi / quello / che potevo essere.», «Mi volevi / quello / che non potevo / essere», «Né alla vita / né alla morte / questo posare impervio»,
opprimente: «Come faccio a respirare / con orizzonti / sul
petto». «Le sere / hanno / una prigione», «Tutto può aspettare / senza accadere».Un amore, già finito: «Non mi trattiene più / il tuo richiamo», «Abituo parti di me stessa / a distaccazioni», «Sono sola / e necessaria», forse: «… ingovernabile sogno / ricompari.», «Alle promesse / ho ricreduto (ceduto) ancora», «Prima che mi / ritrovi / avrò tentato /
ancora / di / non / amarti». Un amore, desumiamo da queste
tracce, motivo di afflizione laddove non di annichilimento
(«Quando di me / non sapevo che farne»), causa di conflitto
interiore per l’Autrice, di frizione tra lei e il mondo e miraggio di fuga da questo («La luna… per farsi / prendere / per
farsi ritrovare») alla volta (vana) di una dimensione alta e
altra di se stessi e dell’Amore. E nondimeno l’amore (il ripetuto lacerarsi perdere i pezzi frantumarsi, cadere e sollevarsi
non costituisce forse una delle sue prerogative?) è solo uno
degli elementi di quest’opera; quello che la tiene alla fonda.
Marco Scalabrino
Nannaparola di Vito Tartaro (Accademia dei
Palici 1999)
Vito “Jack Frusciante ” Tartaro è tornato! Le sue
nuove armi - le armi che questo Efesto ramacchese forgia
nell’ipogeo della propria fucina - una volta più denotano,
sin dal primo scontro in campo aperto, la fierezza del fuoco,
la sferza del vento, la carezza del sole. In buona sostanza la
tempra, aspra e dolce al contempo, della Sicilia. Della sua
Sicilia. Della Sicilia come egli, a più riprese, in questa
ultima frazione del decennio, ce l’ha figurata: un prezioso
ordito lirico sul quale insiste il cardine zurricusu della
storia. La grande Storia e le piccole storie. Egli... è un baluardo. Egli si erge - erge la sua poesia - ad argine, a roccaforte. Ancora una volta, questo Pasionario della poesia siciliana accorre in difesa del dialetto siciliano o per meglio dire (secondando il suo temperamento e ottemperando a un
noto motto) passa all’attacco. Vito Tartaro è un appassionato cultore; uno scrupoloso ricercatore. E nondimeno, Nannaparola, non si ferma lì. Perché se da un canto il Siciliano il dialetto siciliano - è oggi più vitale che mai, d’altro canto
esso è relegato (faticosamente resistendo a contaminazioni,
a italianismi, a beghe di ogni sorta) al ruolo pressoché
esclusivo di lingua letteraria, lingua dei poeti; di lingua,
ovverosia, rivolta alla conservazione di un patrimonio di
cultura che altrimenti, rischia, seriamente, di soccombere.
Marco Scalabrino
Non dire mai cosa sarà domani di Imperia
Tognacci (Ed. Giuseppe Laterza, Bari 2002)
Per non inventarmi di Margherita Rimi (Kepos
2002)
Un racconto, quello della Tognacci, che scorre veloce sotto gli occhi del lettore, sia per il linguaggio semplice, ma anche per la particolare descrizione dei luoghi. Si
tratta di un racconto che in molti punti si sofferma su alcuni
problemi sociali che affliggono l’esistenza dell’uomo. Si
tratta di un intersecarsi di storie ora tristi ora lieti. Nell’intricato mondo del rapporto umano nasce l’amicizia tra
Maria e Loretta, ma ecco che la vita di quest’ultima viene
stravolta dall’essere privata di uno dei più grandi doni:
quello della maternità. Una serie di vicende che si alternano
e che puntano l’indice su quelli che sono i problemi di ogni
uomo: la solitudine, le malattie e l’insofferenza alla quotidianità. Loretta, Maria e Paola, ognuna apparentemente diversa per fisionomia e carattere, appaiono simili invece nella loro forza interiore, che li spinge a superare la solitudine.
L’autrice con il suo stile semplice e descrittivo non trascura
l’aspetto psicologico delle protagoniste, tant’è che proprio
la molto travagliata vita interiore di Paola sotto l’inchiostro
prende forme bizzarre, simbolo di un disagio interiore dell’essere vivente e di una società apparentemente armoniosa.
«Succede a volte che, pur vivendo vicino a persone – rac-
È compito arduo leggere e commentare uno scritto! Leggere dentro delle pagine che sino a poc’anzi ci erano
del tutto ignote, estranee; leggere a fondo quelle righe con
le quali adesso per la prima volta ci stiamo rapportando, che
solo al presente stiamo sfiorando con lo sguardo, stiamo
palpando con le dita, stiamo passando allo scanner della
mente. Leggere, correttamente intendere e trasferire, partecipare ad altri, gli esiti della nostra lettura... Come giammai
in precedenza abbiamo sentito opportuno, allo scopo di
tentare una interpretazione quanto più autentica del lavoro,
cominciare dal titolo della raccolta, interrogarci su quel
verbo, INVENTARE, che da solo compendia l’opera tutta.
Inventare, recita il dizionario, significa “escogitare con l’ingegno, creare una cosa nuova e utile, creare con l’immaginazione fatti, personaggi e simili”; ma anche “dire cose non
vere” (inventare delle calunnie, ad esempio, inventare delle
scuse). Quest’ultima accezione, specie se - come del resto
l’Autrice ci impone - volta al negativo, è assai intrigante,
allettante. Il risultato difatti che, con questo taglio, il titolo
nella sua estensione completa assume è insospettato; l’effet77
conta l’autrice - alle quali vogliamo bene, pur dividendo lo
stesso ambiente e spazi di vita comuni, ci si senta lontani da
loro anni luce. Vite vicine in una realtà che, però, fa solo da
sfondo a quella interiore. Qual è dunque la vera vita, quella
che i nostri sensi percepiscono, o quella della mente?». Una
domanda che almeno una volta nella vita ognuno di noi si è
posto forse non trovando la risposta esauriente.
E sul concetto d’essere molti filosofi si sono scommessi, ognuno cercando di trovare la risposta, sin dai tempi
più remoti, da quando Parmenide divenne il propulsore
della filosofia occidentale, anche se in seguito con Cartesio,
che considera l’essere in relazione al soggetto che lo pensa,
si è di fronte al soggettivismo, tra l’altro significato ontologico rifiutato da Kant che, ricondusse l’essere alla nozione
d’esistenza reale. Così il tormentone sull’esistenza continua
a porre sempre degli interrogativi, passando dal nichilismo
alla rinascita ontologica. E se F. Nietzsche sosteneva il divenire instabile della vita, non catalogabile attraverso certezze universali, G. Simmel sosteneva invece che l’essenza
della vita è trascendere le forme storiche in cui si è via via
manifestata. Ma l’autrice riesce anche a far soffermare il
lettore su altri aspetti dell’essere uomo. «Si tratta - così
come si legge nella seconda di copertina - di storie di donne
di ieri e di oggi, storie d’amicizia, d’amore, di malattia.
Storie di orgoglio, di tenacia, di sensibilità celate ma vibranti in un universo femminile che sa “volare alto” e che,
anche in una società difficile e complessa come quella attuale, continua a rappresentare con naturalezza il fulcro intorno al quale ruotano i rapporti umani».
La donna di Imperia Tognacci è protagonista della
società in una forma attiva e non passiva una figura che lotta per superare gli ostacoli e le difficoltà che spesso sono legate al ruolo poliedrico che la vede ora alla ricerca di un
lavoro, per ritornare poi ad essere donna-madre all’interno
delle mura domestiche. In tutto questo trambusto ecco che
l’autrice con grande maestria rafforza uno dei substrati della
parte narrativa, quella psicologica, ponendo nei meandri del
pensiero di Maria una frase molto incisiva che rappresenta
la luce della verità della propria esistenza. «Nel buio del
tunnel si era aggrappata alla mano forte che le avevano tesa,
in fondo a quel buio ha intravisto la luce e libere strade. Ha
scelto la libertà e ha riconquistato l’avvenire. Nei suoi
occhi, non più spenti, ora brilla la luce». Ed è la luce della
pace interiore, quella inseguita, cercata e desiderata da ogni
uomo in ogni epoca.
Enza Conti
l’indomabile curiosità verso ogni aspetto dello scibile
umano».
La poesia di Claudia Turco è inondata di luce. Già
il titolo evidenzia la concettualità e la luminosità delle sue
liriche, frutto di una creatività intima e passionale, estrinsecata attraverso il trionfo della bellezza sul dolore, della
vita sulla morte, della felicità sull’infelicità. Il linguaggio,
spesso simbolico, evidenzia una lotta tra il bene e il male,
tra la luce e il buio, ma è sempre la luce a prevalere e quindi
la felicità, attraverso una fiducia nella vita e nel rapporto
con gli altri. Tutto è pervaso da un equilibrio concettuale e
verbale ed una affabulazione narrativa e espressiva, in cui la
parola ha il sopravvento con la sua emotività. «Parole alla
deriva per vite spezzate. / Unica superstite una macchia di
luce, / candida voragine di presagi nascosti». La poesia
della Turco è intrisa di colore e di sapore, sensazioni che
prevalgono sul tutto. Il colore è luce ed emozioni: «Illuminava di polvere e frantumi / di vetri colorati i capelli sporchi / dei barboni ancora addormentati...». I vari elementi
compositivi però appaiono sempre come entità distinte e
non confuse. La bellezza, sia fisica che morale, è un aspetto
essenziale, non solo dell’arte, ma pure della vita attraverso
un’architettura concettuale e formale con presa di coscienza
del reale, in una visione tridimensionale, direi quasi matematica. I riferimenti ad autori classici, che introducono ogni
poesia, evidenziano ancora di più la profondità della poesia
della Turco e soprattutto il suo filo logico-espressivo.
La silloge di Marco Baiotto, l’altra faccia del volume, corre su un concetto di cavalleria, quale ideale puro e
virtuale. Tale ideale non si coniuga assolutamente con i modelli sociali contemporanei, senza vita e senza forma, ma
soprattutto privi di grazia e di eleganza, bensì con modelli
virtuali. Nella poesia di Baiotto prevale perciò l’intimità.
Le sue liriche non hanno la pretesa di assurgere ad eccezionali componimenti d’arte. Hanno un valore espressivo interiore. Da questa umiltà scaturisce il vero valore della sua
poesia: sincera, chiara, profonda. La silloge corre su una
contrapposizione tra attivo e passivo, tra uomo e donna, tra
contrapposti elementi naturali e concettuali. In questo senso
la poesia chiave è certo quella che introduce l’intera silloge,
dove appaiono gli elementi vento-mare, pesco-ape, fata-elfo, giorno-notte, cielo-viaggiatore, primavera-ciliegio, lunalago, candela-aria, nuvola-deserto, stelle-tempo, donnauomo. Il concetto è quello di un completo abbandono dell’uomo innamorato della sua donna, come si legge in una
strofe: «Vorrei che tu fossi una scia di polvere di stelle e io
il tempo, così che potrei arrestarmi, estasiato, a contemplare
la tua bellezza». Nel più alto spirito di cavalleria, l’amore
sincero prevale su ogni cosa. Le due sillogi quindi, quella di
Claudia Turco e di Marco Baiotto, si completano a vicenda,
così come i due poeti si completano nella realtà.
Angelo Manitta
Claudia Turco, Frecce di luce (Udine 2003);
Marco Baiotto, Duetti solisti (Udine 2003)
«Nella sua poesia Claudia Turco cerca la leggerezza della pittura congiuntamente alla profondità dell’architettura, la resa scultorea del dettaglio, nonché un uso
espressivo del colore. Predilige la forma del frammento per
l’intensità che esso consente». Così si esprime nella premessa al volume di poesie dal titolo Frecce di luce l’autrice Claudia Turco. Il volume, che comunque sarà rivisto dall’autrice e ripubblicato, è duplice. Infatti raccoglie insieme
dall’altra parte le poesie di Marco Baiotto. «I suoi versi sono - si legge nella presentazione dell’autore - profondamente filosofici, irriverenti, a tratti romantici e mai immorali. I
suoi pilastri sono il sincretismo, la filosofia della scienza e
I germogli di Ground Zero di Michelangelo
Cammarata (Federico, Palermo 2003)
La poesia di Michelangelo Cammarata si distingue
per la sua semplicità, per il suo frammentismo, ma soprattutto per la sua profondità concettuale ed espressiva. La
silloge “I germogli di Ground zero” raccoglie liriche che
vanno dal 2001 al 2002, quindi sono molto recenti. Il procedimento è per brevi flash. La brevità eleva il lirismo della
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poesia, che coinvolge la natura, il mare, il cielo, la terra e
soprattutto lascia emergere le emozioni che questi elementi
fanno nascere nell’uomo. Dalle liriche si evidenzia una personalità quieta e tranquilla, amante della pace e della vita,
ma soprattutto del Bello. Il mondo poetico del Cammarata è
fatto di piccole cose, e le sue poesie si presentano come un
caleidoscopio dai mille colori e dalle forme cangianti ogni
momento. A quest’aspetto, che definirei lirico, si aggiunge
anche quello sociale: un’analisi poetica di un mondo contrassegnato da eventi storici tristi e alienanti, in una società
che mira solo al consumismo e all’individualità egoistica.
La brevità della liriche invita il lettore a riflettere, stimola la
sua immaginazione e soprattutto oggettiva una realtà personale attraverso una vita affettiva complessa. L’uomo è
visto in diverse connotazioni. Attraverso la storia interpreta
il presente, attraverso il passato conosce se stesso, attraverso la contemplazione della natura evidenzia e manifesta le
sue emozioni. «Dal cielo scendono navate. / Mi catapulto
indietro / ad ascoltare campane». Lo spirito religioso, una
religiosità laica, emerge anche dalla contemplazione del
silenzio e della luce: «Nel silenzio incantato della luce / un
bimbetto è acquattato / fra gl’ispidi germogli di una croce».
Il tutto viene visto attraverso la memoria, quasi ripercorrendo un passato imbizzarrito, mentre l’insonnia scaccia le
ore, le rende tristi e dolenti. Si cerca allora l’evasione. È
l’evasione di una notte di stelle o di un mare assolato, di
un’isola verdeggiante o di una farfalla che svolazza per il
cielo: «Carezza gioiosa d’un mattino / distilla tutt’intorno
un’iridata rugiada di sogni». Ed è il sogno che l’uomo
insegue: un sogno di felicità e di pace, di quiete e di verità.
La poesia di Salvatore Cammarata, riuscendo a coinvolgere
il lettore con la sua spontaneità e profondità, lascia una
profonda emozione. Il suo ideale morale e l’incisività delle
sue parole non cadono nel vuoto, ma colpiscono a segno.
Angelo Manitta
elevata sotto l’aspetto lirico e concettuale. «Adriana Scarpa
è affascinante nel suo girovagare tra le rovine del passato in
una sublimazione continua: recuperare dall’oblio del tempo,
dal riposo delle urne, dal segreto dei millenni, dal rito
ancestrale che decreta il destino...». Il passato si riflette
quindi nel presente in una continuità concatenata e virtuale.
Il pensiero, espressione di un’umanità in cammino verso la
felicità o l’infelicità, completano quindi il loro percorso. Si
tratta di uno scavare nei labirinti del tempo, penetrarli e capirli. Ma proprio in questo labirinto si trovano tracce di se
stessi attraverso un’archeologia della parola che, con simbolici oggetti o segni sacrali, costruisce la cabala del tempo.
Il tempo è signore della storia e della materia, della vita e
della morte. Il tempo è signore di tutto. Esso distrugge e
conserva. La poesia di Adriana Scarpa è fatta quindi di voci
interiori ed esteriori che si protraggono in un tempo che diventa oggetto-soggetto. L’uomo, dalla silloge della poetessa
veneta, appare come un bronzo di Riace, perfetto, bello, avvincente mentre emerge dal mare del passato come una divinità, ma con spirito umano e profonda idealità, con il suo
pensiero, con il suo essere in divenire che vuole scoprire
momento per momento se stesso e la sua mistica origine.
Angelo Manitta
Rosetta Mor Abbiati: Inno d’Amore e di
Speranza, (La Compagnia della Stampa Massetti
Rondella Editori 2002, pag. 80)
«In cima ai miei pensieri / un palpito, / in cima alla
mia vita / un canto: tu». Sono sufficienti questi quattro versi
per farci capire quanto Rosetta Mor Abbiati sappia coniugare
alla perfezione il capitolo dell’amore e della vita; un capitolo
che srotola con estrema sensibilità d’animo e che ci consegna in una piena di versi dall’andamento variegato, pulito,
vaporoso... Già autrice di altre sillogi poetiche e vincitrice di
non pochi premi di prestigio, Rosetta Mor Abbiati qui rimarca il suo modo di poetare usando un gioco alto di movimenti che partono dall’io e che si allungano ad abbracciare il
tempo, il sogno, i percorsi della quotidianità, l’amore in
quanto autentico, ed insostituibile, respiro del cuore e speranza solare. «E t’amo / anche in silenzio / e in penombra, /
t’amo», dice quasi trasferendo se stessa nell’altro, quasi
respirando intese, certezze, «gioie forse insperate».
«Le sue liriche cantano emozioni intense, penetrano nel cuore di chi le legge come acqua pura che disseta
profondamente e dona sensazioni di intimo benessere», ha
evidenziato nell’introduzione Orsola Rossini. Ed ha perfettamente ragione, così come Enrica De Angeli che in occasione del libro “Le ore del silenzio” aveva rimarcato che le
parole usate da Rosetta Mor Abbiati «sono a forte densità
connotativa, ricche di richiami significativi e ci dischiudono
un orizzonte di associazioni e di allusioni». Un tanto spiega
il perché la poesia di Rosetta Mor Abbiati sia in grado di
mettere in circolo singolari messaggi, eloquenti fraseggi interiori e silenzi che si spalancano in direzione di una musicalità palpabile che fuoriesce da ogni verso e da ogni pensiero. È chiaro, a questo punto, che ci troviamo di fronte ad
una poetessa dal calco moderno ed autenticamente genuino;
una poetessa che sa tracciare l’eco delle stelle anche allorquando l’equilibrio dei giorni si fa precario oppure si
acquieta di fronte ad uno sbadiglio di sole, agli spiragli
Adriana Scarpa, Le risacche del tempo,
(Montedit, Maggio 2003)
Il volume di Adriana Scarpa, “Le risacche del
tempo”, è originale nella sua impostazione. In esso l’autrice
sa coniugare perfettamente storia e poesia, liricità ed
espressività semantica. L’intera silloge, infatti, è un percorso ideale tra storia e tempo, tra concettualità e vocalità.
Si tratta di una voce interiore che percorre l’universale
individualità umana attraverso le sue opere e le sue azioni,
insomma attraverso il tempo e la memoria. Questa voce
parte dall’Egitto, dalle sue regine, dai suoi re, dalle emozioni che essi continuano a suscitare attraverso una voce
dello spirito ideale che parla nell’intimo di ognuno di noi.
Dopo il mondo greco, con i suoi monumenti e i suoi
personaggi, quali i bronzi di Riace, questa voce, la voce
della storia, attraversa l’Etruria e passa a Roma e a Pompei
con le sue stupende immagini che ancora parlano al cuore
dell’uomo e suscitano emozioni. Il filo della voce percorre
quindi il mondo azteco, quasi punto di raccordo tra antico e
moderno. Attraverso il canto e la parola la voce giunge alle
atrocità di Bergen-Belsen, il campo di concentramento dove
Anna Frank ha perduto la vita, concludendo quasi attraverso un cerchio ideale, la storia dell’uomo che è sofferenza, ma pure speranza e vita. Le voci interiori fanno quindi da sottofondo e la voce dell’anima emerge in una poesia
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della memoria, all’ondeggiare lieve di quella speranza di
ulteriore amore che ne caratterizza ogni e qualsiasi percorso
dentro ed accanto agli orizzonti del suo vivere a viso aperto.
Fulvio Castellani
lizzando come arma la peggiore se pur invisibile: la violenza psicologica. Infatti l’autore in punta di piede scava anche
l’Io delle sfortunate e di ognuna riesce a trasferire sentimenti, paure e sogni. Si tratta di un libro, che esce dal semplice racconto di storie e dietro la narrazione e le descrizioni di luoghi, dà la possibilità di poter guardare in fondo
nei meandri di un’esistenza ferita e la cui cicatrice rimarrà
sempre un segno vivo per ogni protagonista, cioè un segno
che pian piano spegne quella piccola fiammella che alimenta la forza interiore. Il libro si può benissimo paragonare ad
un decalogo di vita dove senza utilizzare toni forti l’autore
dà la possibilità anche al lettore più frettoloso di fermarsi un
attimo e guardarsi attorno togliendo il velo che spesso nasconde dall’altro lato che è quella della realtà. Ebbene suor
Paola è riuscita a rompere il silenzio delle azioni ed è riuscita a dare non solo coraggio a ragazze che hanno avuto la
forza di ribellarsi ai soprusi, schiavitù e violenze del marciapiede, ma anche di dare loro un punto di riferimento da
dove ricominciare mettendo un muro divisorio tra il passato
e il presente, tra l’essere donna oggetto e donna madre. Un
volume che ha il diritto di essere ritenuto come un
testamento di vita e della realtà che ha bisogno di cambiare.
Enza Conti
Poeti e pittori del terzo millennio collana diretta
da Alfredo Varriale.
La collana, “Poeti e pittori del terzo millennio”,
diretta da Alfredo Varriale si può paragone ad un piccolo
scrigno il cui contenuto fondamentale è l’amore verso la
poesia e la pittura. Infatti le pagine di critica e di poesia
vengono armonizzate da quelli della pittura, dove i colori e
le forme dei dipinti, aprono un altro orizzonte al lettore in
un mondo, che è quello dell’arte, in cui il linguaggio di lettura va oltre l’apparenza del soggetto immortalato. Il successo dell’opera diretta da Varriale è da attribuire proprio
alla semplicità tipografica e alla ricchezza di contenuto, attraverso un numero svariato di autori contemporanei che
della poesia e della pittura hanno fatto un momento di arricchimento culturale. Tra gli autori presenti nel dodicesimo
numero molti sono gli amici del Convivio, come Alfio
Arcifa, Pasquale Chiaramida, Antonio De Rosa, Maria Dho
Bono, Pasquale Franceschetti, Maria Teresa Luizzo, Angelo
Manitta, Giuseppe Manitta, Carmine Manzi, Giuliana Milone, Adriana Scarpa, Rolando Tani, Pacifico Topa, Lucia
Tumino, Baldassare Turco e Alfredo Varriale.
Giovanni Tavcar: La memoria delle origini:
dissertazione attorno alla nostra stessa esistenza
(ed. Il Convivio)
Suor Paola: nata per amare di Achille
Martorelli (ed. Acume)
“La memoria delle origini” è una ennesima affannosa dissertazione attorno alla nostra stessa esistenza, si
può parlare di opera teologico-filosofica dato che in essa
l’autore ha condensato quelli che sono i principi fondamentali della nostra fede cristiana. La stessa suddivisione
della silloge in diversi capitoli conferma quanto detto. Egli
parte dalla creazione s’intrattiene in quelle che sono le
tematiche nel rapporto Creatore-uomo, passa poi alla
“memoria delle origini” che illumina l’uomo «con lampi
d’eternità», s’addentra nel non facile pelago della nostra
stessa entità come membri della chiesa, ripercorre le tappe
amare dell’esistenza terrena nel «tempo di crocifissioni»
per poter ricollegarsi alle conquiste ottenute dalla preghiera
e la generosità Divina che ci offre “L’eucaristia” come
mezzo di riappacificazione. Un percorso lungo, circostanziato, biblico in cui si evidenziano gli avvenimenti dislocati
nel paradiso terrestre, la vita stessa di Adamo ed Eva, la
tentazione del Maligno. Tavcar non usa il nome “Demonio”, ma quello di “male” estendendolo anche ai nostri giorni. L’uomo insidiato e solleticato nella sua ambizione viene
lusingato a diventare come Dio, ciò che gli procurerà l’eterna maledizione e la cacciata: «Che l’uomo continui / ad
esistere essere libero / e cosciente», autonomia che sovente
non sappiamo usare. Il dramma dell’umanità si concretizza
col sottostare alla morte? Dio non è solo giudice severo, ma
anche Salvatore ed ha assunto la sembianza umana per
sgravarci dal peccato subendo il martirio della Croce. Tavcar analizza le circostanze che si succedono con quella
chiarezza linguistica e religiosa, frutto di una fede profonda.
Si esalta quando descrive il Regno dei Cieli, inteso come
“energia vitale” inserita fin dalla nascita e che dovrebbe
orientare tutte le azioni: «Noi siamo fatti / di materia vibrante», ma anche pensante, capaci di autogoverno, accet-
Una storia, tante storie ma pur sempre vere ed
esempio di una società senza scrupoli ed indifferente di
fronte alla sofferenza, alla solitudine e alla povertà. Ma nel
deserto della realtà ecco che spunta un piccolo fiore apparentemente esile sotto la furia del vento, quel piccolo fiore
si trasformerà in una grande quercia tanto da rompere
quella solitudine che ha cancellato il sorriso sulle labbra di
tanti giovani, riconducendoli in punta di piedi ad essere
nuovamente se stessi e pronti a guardare avanti verso un
nuovo orizzonte. Ebbene il piccolo fiore non è altro che
suor Paola, che con il suo coraggio e forza interiore riesce a
realizzare un centro dove giovani donne, vittime di violenze
inaudite, trovano un punto di riferimento e di protezione.
Infatti le storie che vengono racchiuse nel volume di Achille Martorelli sono le storie che vede nel mondo migliaia di
giovane ragazze che convinte (o meglio raggirate) di trovare in Italia la terra promessa, diventano invece vittime di
uomini che li portano al limite dell’umanità. Una doppia
ferita colpisce le sfortunate, la prima quella dell’abbandono
della propria casa, del proprio paese e spesso anche dei propri figli e la seconda è la consapevolezza che dietro alle
promesse di lavoro e di guadagno invece si nasconde la
dura realtà dello sfruttamento e della schiavitù. Sur Paola,
che poi è il filo conduttore delle storie, riesce a strappare al
gelido mondo molte ragazze e reinserirle in quello che comunemente viene chiamato il mondo dei “normali”. L’autore con molta delicatezza parla di Ina, Luna, Blonde, Janet,
Melissa, Manuela ed ancora tanti nomi di donne che nelle
loro paradossali storie diventano ognuna l’esempio vivo di
come le loro storie non sono altro che testimonianze reali di
come l’uomo si trasforma in lupo verso i propri simili, uti80
tando i principi che la chiesa ci propina: pregare, pentirsi,
creare. «Se la fede / va oltre i limiti / della ragione» è necessario adeguarsi. Dopo aver fatto un’analisi della nostra
realtà, l’autore si chiede: «Che chiesa siamo?» e qui enuncia molte negatività e sollecita il perdono dato che il mondo
al di fuori della mura nella chiesa è quello della miseria, dei
soprusi, della corruzione, dei vizi. Dio è sempre consapevole di quello che noi facciamo, è comprensivo, ci stimola
ad essere fedeli alla sua legge, pazienti con il prossimo,
generosi con chi ha meno di noi, concretamente non apparentemente occorre mortificare la superbia: «Non spetta a
noi / accusare / condannare: giudicare» c’è una divinità superiore. Il nostro è tempo di lotte, queste dovrebbero farci
incontrare con Cristo. Il finale di questa raccolta è tutto
indirizzato verso l’esaltazione della divinità nei suoi molteplici aspetti. Tavcar ha elargito utili ammaestramenti per
ricondurre l’uomo sulla retta via.
Pacifico Topa
a lei compassione, «timidamente li baciai». Scorrendo le
pagine di questa raccolta ci si convince di avere di fronte
una poetessa senza ostentazioni che sfoggia uno stile sobrio, convincente, puntualizza senza arzigogolare, non enfatizza, focalizza con precisione. Il diniego di ogni forma di
violenza, delle ingiustizie sociali, l’elevato valore della poesia, il desiderio di libertà, sono tutti spunti che la Grillone
ha manipolato con saggezza e senso d’umanità, tutto questo
la rende realistica, sensibile, altamente umana e padrona
dell’arte poetica.
Pacifico Topa
Arnaldo Caimi uno spaccato di realtà contemporanea in Gente delle mie parti (ed. Il Convivio)
“Gente delle mie parti” uno spaccato di realtà contemporanea che Arnaldo Caimi ci offre e con una prosa
vivace, fluida. Si potrebbe parlare di un trattato di psicologia, dato che l’autore s’impegna a descrivere con precisione figure caratteristiche, non solo nelle loro caratteristiche fisiologiche, ma anche psicologiche e caratteriali.
“L’ingenuo” è la tipica persona «di piccola statura, senza
presenza né prestanza che, temendo i confronti, vive appartato», è un avulso dalla sociètà che si crea un mondo
tutto suo e che riversa negli scritti ciò che ha dentro.
S’illude d’esser letto e s’appaga se riesce a pubblicare. Nel
descrivere la “malizia” la impersona in una giovane e bella
ragazza che si muove suadentemente, specie in estate quando gli abiti succinti evidenziano le forme, però, aggiunge:
l’ostentazione eccessiva è negativa. Un tema che gli sta a
cuore è quello dell’eterna giovinezza; in “Essa” Caimi sintetizza una bellezza passata ma non scomparsa, donna che
s’illude di aver fermato il tempo e cerca di conservare il suo
fascino, ma precisa che, caratterialmente, oggi si è emancipata, respinge ogni succubismo, si equipara all’uomo. “Il
gatto bigio” è una sottile ironia corrispondente a una realtà,
paragona un animale nato e vissuto nel medesimo ambiente
e che si accontenta all’essere umano che nella analoga situazione, si chiude in sé, diventa abulico, privo di volontà,
ignaro di quello che avviene al di fuori. Prigioniero del suo
modo di vivere, ma che non può pretendere quello che non
conosce. Caimi dice: «Ben altro è il vivere, che stare a
guardare un gatto bigio nella finestra di fronte». Per lui la
solitudine è silenzio, buio, ossessione che invano respinge.
Questi racconti di Arnaldo Caimi sono degli schizzi letterari che servono a puntualizzare e conoscere alcune
realtà che ci cono vicine, ma che spesso ci sfuggono; le analogie servono egregiamente per confrontare, valutare come
in “Figure” in cui i simboli del gioco delle carte sono presi
come caratteri da affibbiare ad individui. Secondo Caimi
«ogni figura corrisponde ad un seme» si tratta di caratteri
personalizzati che servono a determinare. L’opera di questo
realistico autore si conclude con alcune sagaci considerazioni di profondo senso morale: la conoscenza è frutto della
curiosità e, solitamente, approda alla comune sapienza. Innegabile una certa finezza di ragionamento che presuppone
acutezza di ingegno per addentrarsi nella concettualità di
questo racconto plurimo, proposto con forbito linguaggio e
profondità contenutistica.
Pacifico Topa
Elisa Orzes Grillone: il senso etico e morale della poesia in Rivoli d’argento (Ed.Convivio, 2003)
La silloge di Elisa Orzes Grillone “Rivoli d’argento” è il frutto di una personalità ultrasensibile che si lascia
affascinare dalle cose più umili pavesandole del loro giusto
contenuto, usando un simboleggiante linguaggio assai efficace. La Grillone si esalta di fronte alle bellezze della natura e da essa trae lo spunto per esaltare il Creatore. Ricca di
fantasia, lei s’immerge nel clima idilliaco di una Roma “regale” in cui germogliano “i ciliegi giapponesi”, dono dell’imperatore del sol levante alla città eterna, questo gesto le
fa pregustare l’amicizia fra i popoli. Da buona cronista evoca i ricordi di viaggi compiuti, esalta il patrimonio architettonico romano, le suggestioni della città lagunare, Venezia, la floridezza della campagna toscana “ricca e generosa
di poesia”. Si commuove di fronte all’alba per «il risveglio
della natura / che apre le braccia / alla fatica dell’uomo». La
sua fantasia spazia fra il mistero “della sacra coppa” riferimento mitologico al re Artù, al raid Roma-Tokio ed esalta il
coraggio italiano elevando un inno alla Patria di cui si sente
parte vitale. Sull’attualità la Grillone affronta anche tematiche della moderna società, il decremento demografico,
l’essenza di una moderna democrazia, il dramma delle Torri
Gemelle, la primavera di Praga sono eventi che l’hanno profondamente colpita, ispirandole considerazioni di elevato
valore etico. Nella sua poesia c’è anche posto per temi di
fede, partecipa alla serenità dei «pellegrini oranti / chiamati
dal Giubileo / nella città eterna», l’affascina il “Bellissimo
Signore” della Trasfigurazione, ed ancora la suggestioni del
mese di maggio dedicato alla Vergine. È senza dubbio caratteriale quella delicatezza espressiva tutta femminea con
cui la Grillone espone il proprio pensiero, lo fa di fronte alla
primavera che esplode dopo il gelido inverno, alle stelle di
natale che, seppure perdendo le foglie «non muore la pianta
/ rifiorirà domani / per un nuovo Natale». La commuovono
le campane di San Giusto che evocano eventi lontani, e nel
sogno rivede il Duce che «camminava su di un mare pieno
di fango». Sensazioni, sentimenti, spunti diversi di una
mente ricca di concettualità, ma quando tocca le corde del
sentimento diviene entusiasta la maestosità del volo di un’aquila, la tenerezza di un amore materno, l’ardente desiderio
d’amore, «M’ama - Non mi ama», quei petali staccati fanno
81
metodi di comunicazione trova un compimento perfetto nel
lavoro di Lida Benci Fragiacomo. “Il mondo di Vlady” si
differenzia dal panorama teatrale tradizionale perché non
prevede un eventuale rielaborazione televisiva, ma nasce
già con un’ampia nota di adattamento, con delle note riassuntive e con un vasto bagaglio di spiegazioni e arrangiamenti. L’atto è preceduto dalla presentazione dei personaggi e da alcuni tratti che ne delineano la personalità e le caratteristiche fisiche più evidenti. Un’opera che presuppone
un grosso lavoro di preparazione alla messa in scena già dal
suo nascere e che prevede la comunicazione teatrale e
televisiva come elemento essenziale. Opera da comunicare,
per la comunicazione e che fa della comunicazione l’elemento fondamentale. In questo lavoro manca, infatti, totalmente l’azione, ma l’intera conversazione riesce a fornire
una dettagliata visione di ciò che è successo negli ultimi
anni, mesi e giorni che precedono l’incontro organizzato da
Vlady, il personaggio principale, che è anche colui cui è
affidato l’intero svolgimento della trama.
Un giovane nato cieco che ha da poco riacquistato
il dono della vista, ma che è costretto a rendersi conto delle
vere brutture che finora il suo handicap gli aveva nascosto.
La mancanza del senso della vista ha fornito a Vlady una
sensibilità maggiore rispetto agli altri. Egli si è costruito
una sua vita, ha sempre vissuto in una sua dimensione dalla
quale adesso è difficile allontanarsi. Vlady era abituato a
godere al massimo di sensazioni e piccoli piaceri che ora la
vista, quasi per assurdo, gli ha portato via. La narrazione ha
come elemento centrale una riunione tra condomini, durante
la quale vengono svelati i più reconditi stati d’animo e peccati delle persone coinvolte. Tutti i personaggi, quasi di pirandelliana memoria, sono degli archetipi che recitano dei
ruoli prestabiliti. Un atto unico che pur nella sua brevità
riesce a trasmettere il tormento del protagonista e le assurdità di cui si nutrono i condomini. L’autrice riesce a trasmettere tutto il pathos e la tragedia vissuta da Vlady Delprato utilizzando un crescendo narrativo fatto di suspence e
di rivelazioni fino al raggiungimento della quiete finale, nel
momento in cui Myriam (la coscienza, la razionalità) interviene a bloccare la prevedibile tragedia finale. Un’opera di
“sperimentazione” teatrale e psicologica riuscitissima.
Maria Enza Giannetto
Sentieri
d’assoluto,
poema-racconto
di
Giuseppe Manitta (Il Convivio, Anno 2003).
Giovane anagraficamente e giovani le idee dello
scrittore Giuseppe Manitta, redattore della rivista “Il Convivio”. Il suo poema-racconto “Sentieri d’assoluto” vuole
essere un testo di poesia sperimentale per i lettori di questo
tempo e per quelli delle prossime generazioni, trasmettendo
un nuovo modo di concepire la poesia perché «io credo che
la poesia oggi sente il bisogno di riappropriarsi del mondo
in cui vive e di conseguenza di una nuova dimensione
espressiva» (Dalla Premessa dell’autore). Non è una narrazione intesa nel senso più tradizionale del termine, non è
solo un poema, non è solo un romanzo, non è solo poesia, è
un’opera letteraria che racchiude tutti questi modelli di
scrittura in un unico testo da definirsi avvenirista in quanto
si presenta rivoluzionario in campo letterario. Proprio di
una rivoluzione si tratta: il filo della narrazione si dipana
apparentemente senza metodo giacché il racconto lineare
spesso si interrompe per tramutarsi in personali constatazioni poetiche che contengono parole di altre lingue, greco,
inglese, linguaggio chimico fatto di formule, termini inediti
creati appositamente, tutto per sconvolgere la placida consuetudine letteraria e infatti questo voleva l’autore quando,
anticipando la sua sperimentazione, scriveva nella sua Premessa: «La mia idea è quella di dare origine ad una sorta di
poema-romanzo che si stacca dal poema tradizionale, introducendo brani in prosa che ne esaltano l’affabilità narrativa,
ma che si differenzia dal romanzo, il quale certamente non
può sostituire l’aulicità del verso». In effetti la trama dell’opera è nel suo insieme chiara dal significato unico, ruotando attorno al desiderio d’evasione di un ragazzo di paese, che si concretizza con un viaggio in treno di parecchi
chilometri, portandolo a visitare la Basilica di S. Pietro a
Roma, ed in questa sua fuga con relativa esplorazione di
posti finora sconosciuti, troverà le risposte alle tante sue affannose domande sulla vita e su se stesso. «Cosa sei tu,
uomo, / per usare e condannare gli altri / senza capire te stesso? / Chi sei tu, uomo, / per ammonire, / imbrogliare (stupido!)? / Chi sei tu, proprio tu, / che credi di possedere il
mondo / senza saper badare / neanche a te stesso? / Chi sono io / per dire ciò (incosciente!)?». Un monologo interiore
che si fa palese con la costanza dei versi alle volte distanziati da passi di narrazione fino ad una maturazione interiore che porterà il protagonista dell’opera a riconsiderarsi e a
riconsiderare il suo presente, il suo luogo d’origine, le
persone care e il suo futuro atteggiamento di fronte a tutti e
l’autore, al termine della sua Premessa, così auspica: «Sentieri d’Assoluto è una storia semplice e ben definita, in cui
il progetto principale è costituito dallo studio della lingua,
della forma, della struttura del poema, della metrica. Questo
confido che sia solo il primo passo per un rinnovamento
della poesia, che, mi auguro, possa rimuovere l’alone cupo
che l’accompagna».
Michela Isabella Affinito
Lucia Tumino: Raccolta unica di pensieri e
poesie (Ed. Iblea Grafica, dicembre 2000)
Albe, stagioni e lacrime sono il substrato più caratteristico di questa raccolta. Ma anche ricordi e nostalgie,
affetti familiari e sogni giovanili e, infine ma non ultima, la
‘pietas’ per gli sventurati e i diseredati del mondo. Insomma
ce n’è in abbondanza per soggetti poetici. Il lettore che sa
leggere troverà preziosi gioielli da evidenziare e da illuminare con i più smaglianti colori di ‘flashes’ caleidoscopici. Naturalmente ci sono anche gli ‘extra’. Scegliamone
subito uno, tanto per cominciare (e anche per esemplificare): «Si cullan le parole / come sull’onde / che io leggo /
e a voi trasmetto / e parlano del cuore... / L’amore piange /
se è tradito...». Questo cullarsi di onde e di parole e il significato che il poeta ne trae è indubbiamente molto intrigante, soprattutto se ciò viene trasmesso al lettore con l’incalzare dei sentimenti («parlano del cuore») che si placano
proprio sotto l’effetto di questo suo dolce ondeggiamento. E
Il mondo di Vlady di Lida Benci Fragiacomo
(Edizioni Passaporto 200, Roma 1993)
Un atto unico per il teatro che nasce con un’apertura ideale alla televisione. Questo connubio tra mezzi e
82
tale interferenza delle forze (o delle dolcezze) della natura
sugli intrighi del cuore è quasi una ‘costante’ nella poesia di
quest’autrice. Altro momento lirico simile lo troviamo, ad
esempio, nella poesia “Una lacrima sul monte”, in cui rugiada, sole, aria, manto celeste, infinito si fanno complici
tutti insieme nell’accogliere una lacrima, sgorgata, è vero,
dal dolore, ma trasformata poi, per il coinvolgimento di
tanti elementi riequilibranti, in ‘verità eterna” che porta
«alla elevazione / fra cielo e terra» e ingiustizia combatte.
Affascinanti le emozioni per l’alterna varietà delle stagioni.
Si passa dai miracoli agricoli di uno smagliante mese di
giugno, in cui tutto è bellezza e incantesimo: l’ora di
mietere, la falce febbricitante, le biche, il granaio colmo e la
gioia del colono alla «pioggerella di maggio» («pioggerella
delle rose»), a un passato lontano che ridesta soavi ricordi,
il passato di una fanciulla in fiore «che ride al domani
sconosciuto». Ma forse «questo domani sconosciuto» non è
stato poi tanto esaltante quanto la giovinezza, nella sua
fresca ingenuità, aveva sognato.
Certo la vita, nel suo evolversi, diventa sempre più
matrigna man mano che passano gli anni e si accumulano i
casi, frangendosi contro le intemperie più avverse e inattese, quasi a sfacciato tradimento delle aspettative giovanili.
Allora le albe diventano nemiche, gli asfalti notturni si
bagnano di sangue «al riso succede il tedio» e «sbiadisce
l’esistenza» (Pag. 32). La preghiera a Dio, affinché spanda i
suoi colori che possano dare, se non altro, un tocco di speranza a tutti gli infelici del mondo, è fra le più calde e sincere di questo pellegrinaggio terrestre. Anche i vari momenti
del giorno: albe, tramonti, meriggi, che pur esplodono, al
primo apparire, con radiosi voti augurali, alla fine delle fini,
si pongono anch’essi tra le strutture tortuose della povera
umanità martoriata dai suoi mille problemi esistenziali.
Unico conforto rimane la preghiera e la carità
verso quella parte di umanità che è ancora più infelice di
noi. Ma anche piangere di commozione insieme al triste
canto notturno dell’usignolo si fa complice di dolcezza.
Leopardianamente, anche gli elementi della natura,
quali sole, luna, cielo, mare, terra guardano indifferenti alle
miserie degli umani, sono sordi ai lamenti e non ascoltano
le «voci dei tapini» (pag. 87). Indubbiamente la garanzia di
sentirsi mamma e mamma di mamma placa un po’ le angosce della vita per l’impeto d’amore che riesce a scatenare,
ma le negatività sono troppe e troppo gravi. L’aperta confessione di non sapere più dove approdare e come colmare certi vuoti è la più franca e sofferta conclusione di una vita
vissuta sotto una misteriosa tirannia, probabilmente responsabile di torti ingiustamente inflitti a una creatura innocente. Ma il conforto della poesia sarà alla fine la risoluzione di
ogni problema.
Maria Pina Natale
quello che la vita ci propina. “Il pianoforte canta” è un modo assai originale per intitolare le sue creazioni, le sue ispirazioni quasi fossero pezzi musicali. L’autrice ci conferma
che la musica è stata per lei un’ispiratrice eccelsa, un mezzo
che ha agevolato la sua crescita e l’ha portata a trasmettere
nei versi quello che intimamente sentiva. La lettura evidenzia quel soffuso senso di mesto romanticismo che è tipico di un animo femminile.
“Canzoni dei miei giorni” è un variegato diario
esistenziale con cui l’autrice ripercorre tematiche a lei care,
come la famiglia, ricordi dell’infanzia, l’ambiente in cui ha
trascorso i primi anni di vita, non disdegna neanche di attualizzare gli argomenti, sottolineando il passaggio del tempo, il fascino di Trieste e quello non meno accattivante della Firenze in autunno. Questo sorvolare località affascinanti
è nel pensiero della Puppi un mezzo utile per suscitare varie
emozioni. Il tono si eleva nella spiritualità con “Canzoni
meditative”, spunti lirici di estatiche ispirazioni: «Un angelo di luce vestito / è arrivato / e silente, accanto a te / si è seduto». La poesia assume un tono quanto mai ispirato, tratteggia il ricordo delle festività natalizie, la misteriosità della
visita ad un claustro e con “speranza di vita” il rimpianto di
una perdita che le fa gridare: «Ora, angelo mio, hai tutto
l’immenso / per accompagnare con l’armonia celeste / il
mio tortuoso percorso di vita». “Canzoni d’amore” consente
alla Puppi di dare libero sfogo al suo ardore affettivo. Il desiderio di sentirsi vicina a chi le ha acceso il cuore; l’assale
“l’onda dei ricordi” che le evoca momenti felici trascorsi al
mare al punto di dire: «Dove tu sarai / sarai sempre con
me». La rocca è uno scorcio poetico di rara intensità creativa perché la fantasia si scatena: «Ricama il re del vento /
arabeschi nella fortezza del cuore». Il senso della solitudine
l’assale: «La voglia di ritrovarci / soli nella sera / con gli
ultimi rintocchi / di un giorno che muore». La silloge si
conclude con una considerazione sulla vita: «Questa vita ci
regala ancora / una scontrosa primavera». In una notte insonne s’esalta il sorgere della luna che, col suo pallore,
muta il colore alle cose. Indubbiamente una poetica intensa,
sentita,vissuta, schietta e nello stesso tempo ricca di preziosità linguistiche.
Pacifico Topa
Spicchi di cuore di Maria Grazia Murdaca
Con “Spicchi di cuore” Maria Grazia Murdaca fa
una panoramica della realtà, manipolandola con sagacia
creativa, tipica di una giovane che è alla ricerca del cammino che dovrebbe portarla alla notorietà. Le sue composizioni intense concettualmente, originali, sono all’affannosa ricerca di un quid che spesso sfugge ai comuni mortali. Il dualismo amore e odio, vita e morte, gioia e dolore,
si sviluppa nel labirinto letterario espresso con sobrietà
terminologica, ma con tanta ricchezza contenutistica e viva
partecipazione. Chi scrive è una giovane che dalla vita
molto si attende, che alla vita molto chiede, dichiarandosi
disposta a dare quello che il cuore le suggerisce senza
incertezze. La Murdaca è una scrittrice determinata, consapevole dei propri mezzi che esterna i suoi impulsi poetici
con indiscussa sincerità: «Ciò che mai dimentica / il cuore
di una donna./ è l’aver amato così tanto un uomo / fino a
quasi annullarsi per amore». Intensità di affetto! Un cuore
assetato di amore che s’abbandona a slanci idilliaci nell’e-
Rosanna Puppi: Il pianoforte canta, poesie
quasi pezzi musicali
La poesia di Rosanna Puppi è pervasa di gradevole
ottimismo, al suo esordio nel mondo poetico è lei stessa a
dirci che è stato un tardivo impulso quello che l’ha spinta a
cimentarsi nella non facile arte poetica con lo scopo ben
preciso di lanciare un messaggio, trasmettere qualcosa di
positivo. Le sue composizioni, che lei definisce “canzoni”,
evidenziano una realtà contingente, a cui non sfugge nulla di
83
saltare la natura e gli eventi che la determinano. Lei, schietta informatrice dei momenti della vita anche i più trascurati,
va alla disperata ricerca di una conferma divina: «Quante
volte alzando / lo sguardo al cielo / mi sono chiesta: / ‘Ma
tu esisti per davvero?’».
Il dolore per la perdita di un caro amico lascia
profonde ferite nel cuore dell’autrice. Col suo animo assetato di romanticismo la Murdaca non può dimenticare il
passato, il ricordo diviene nostalgia, amaro rimpianto. Occorre anche sottolineare che la poetessa calabrese rispecchia
la determinazione che contraddistingue la sua terra natia,
forte e gentile, aspra e suadente. È suo metodo illustrare il
normale con tanta ricchezza allusiva, ciò fa onore alla poetessa accrescendone la valenza artistica. “Spicchi di cuore”
è stata definita una “sinfonia di suoni”, io vorrei aggiungere
una armoniosa orchestrazione di sentimenti ed impressioni
di stati d’animo e di passioni, esternata con forbitezza
espressiva, ricca di contenuti etici e di un costante realismo.
Non va sottaciuta la generosità che trabocca dal suo cuore:
«Un sorriso ancora / ti vorrei regalare, / un solo unico
sguardo». Più oltre: «Per sempre ci sarò / veglierò accanto a
te / le notti insonni». Un certo scetticismo trapela in alcune
creazioni: «Da ingenua / ho pensato che l’amore / fosse il
principio di ogni cosa / ed ho creduto a chi le ha detto: /
‘sei la mia vita, sarai mia sposa’». Asserzioni che accrescono la poliedricità di questa poetessa che dimostra già
ricchezza cognitiva e sensibilità profonda.
Pacifico Topa
suggerisce «una forza nascente / vita che non muore / e si
perpetua nell’eterno rigoglio / di una nuova vita».
Nel grigiore di un mondo assillato da tanti problemi Nigro si chiede: «Ma c’è spazio ancora per la speranza?». A momenti di scoramento seguono altri di tenue
fiducia ed allora: «O vita mai non ti stancare di posare su di
me» ed anche: «Non essere crudele a cancellare / quel ch’è
più bello in te». La raccolta si conclude con i desideri:
«Vorrei per te carezze di brezza / aromi di mare... che
allevino la tristezza perché anche chi muore / non muore in
chi l’ama». Una poesia intrisa di sentimento, desiderosa di
far vantare la sua presenza in una realtà che, in taluni
momenti, può sfuggire. Romanticismo contenuto, ma sempre latente nei versi di Nigro.
Pacifico Topa
Filippo Cascino, Petali di stelle (Betania
editrice, Settembre 2003)
Filippo Cascino, il poeta della spiritualità, l’apostolo della fede, con la silloge “Petali di stelle” dà sfogo al
suo slancio mistico: «Vorrei / donarmi a te / Signore, spogliarmi / d’ogni peccato / e rivestirmi / di te». Atto di contrizione che prelude a quelle che saranno le ulteriori professioni che egli esterna con decisione, confidando integralmente in Dio «solo in lui ci si può / appoggiare senza mai /
cadere”. Impostazione data a questa silloge é prevalentemente religiosa, l’autore lo fa con ripetuti atti di fede, di
fiducia in colui che ha dato la vita per noi. Chi nutre in sé
questi profondi sentimenti cristiani non può non esaltarsi di
fronte al creato. «Il fruscio del vento… il canto degli uccelli… il tiepido sole della profumata primavera» sono tutte
conferme dell’amore immenso che Dio ha avuto per gli
esseri umani. Ma non basta, lo slancio poetico di Cascino
giunge ad affermare che «Dio è poesia / amore e gioia / è
Colui che suscita / sensazioni profonde». Con questo stato
d’animo è normale che egli invochi l’aiuto di Gesù: «Aiutami a pregarti / e ad avere fede / che io / possa ovunque
vada, parlare della tua parola / che è luce e vita.” C’è voglia
di evangelizzazione, di diffusione religiosa perché Gesù é
vita / luce e speranza eterna / Gesù l’unica luce che ci /
illumina». A convalidare le sue asserzioni chiama a testimone la realtà cruda, come quella del disoccupato che minaccia il suicidio pur di risolvere i suoi problemi, ma Cascino ricorda che Gesù disse che nella casa del Padre c’è
lavoro per tutti. Questo immenso amore per la divinità
canalizza la produzione di Cascino verso la missionarietà,
perché pone alla base del suo dire le concezioni moralistiche che, messe a contatto con la cruda realtà, respingono il
sopruso, la prevaricazione; “Mai più Auschwitz” ad un
animo tanto sensibile non potevano mancare slanci affettivi... «Dammi la tua mano mamma... ce ne andiamo nell’aria
profumata». Nel suo cuore esplode l’amore per la mamma,
che malgrado sia avvizzita per gli anni, egli vede sempre
premurosa. Altro elemento diffuso è quello della solidarietà: «Il ricordo più bello che ci / rimane in questo / tortuoso
cammino / della vita / è di aver aiutato / nel bisogno un
amico». Egli si commuove nell’ascoltare il cinguettio degli
uccelli che mettono allegria. Lo spirito romantico si estrinseca nelle creazioni come in “Ultima foglia” che, cedendo,
risveglia dolci ricordi. Il dolore fa breccia in Cascino: «La
tua morte / inattesa e rapida / ha lasciato / un gran vuoto / in
Pietro Nigro, il poeta della mestizia in Altri versi
sparsi
Pietro Nigro è il poeta della mestizia e delle elucubrazioni, egli sente in sé quel misterioso impulso determinato dall’incertezza esistenziale. Con la silloge “Altri
versi sparsi” ripercorre i momenti salienti della diuturnità,
proponendoli con un linguaggio adeguato al suo stato d’animo, arricchiti da logiche argomentazioni. Nella sua poesia
c’è rimpianto, rammarico, desiderio, ma anche sentimento
romantico. «Sulla terra fredda / gemono le foglie abbandonate / dall’arido ramo in letargo», allusione alla florida stagione trascorsa ed incalza più oltre: «Autunno di un anno
senza ritorno». In questi versi c’è il rammarico di una giovinezza passata. Quando, poi, scende la sera l’animo si fa
nostalgico e meditabondo: “A te spesso, o sera / tacitamente
imploro il mio risveglio… e la mente si rallegra / all’ascolto
dell’infinito silenzio». Nigro ha un animo sensibile, non
può non farsi influenzare dal suono di una campana che
invita alla preghiera; il clima si anima, c’è l’istintivo slancio
ad elevare il pensiero all’Essere Superiore. Questo autore
non è insensibile alle problematiche di un mondo in cui c’è
gente che soffre la fame, un mondo in cui il dolore è assai
diffuso: «Tu non conosci dolore / atroce nemico di giustizia». È lo spirito di solidarietà che scuote gli esseri più insensibili; è ricorrente un’amara constatazione: «Cosa m’importa degli altri?». La poetica di Nigro spazia nell’immensità del mare considerato un raccoglitore di “pensieri ascosi”.
Un pensiero anche per coloro che sono dovuti emigrare:
«Udisti il richiamo della tua terra lontana» e ancora: «Ora
non odi più la brezza stormire tra gli ulivi» definisce l’esule
«ramo secco / reciso dalla scure della vita». Il fascino delle
onde del mare che ripetono assiduamente il loro moto gli
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tutti coloro / che ti hanno amata». A questo punto di fatto
sentimentale «non scorderò mai / quella tua carezza...
Mamma / che al mondo mi mettesti / vorrei che viva tu
fossi». Il finale di questa silloge è un nostalgico pensiero
delle madre, della giovinezza sfiorita, dei sogni infranti, una
costante invocazione alla presenza fisica della persona amata. Cascino è fatto così, passa dall’esaltazione spirituale ad
un concreto umanizzarsi dei pensieri, ad appassionate dichiarazioni d’affetto. Una conclusione piuttosto tinta di mestizia, di rimpianto. Da ultimo alcune composizioni in dialetto concludono questo cielo creativo fervente e fervido, appassionato e profondamente vissuto, unico del suo genere.
Pacifico Topa
‘U carciratu
di Vincenzo Macauda (Vittoria – RG)
Tanticchia i lustru trasi r’ jintra tu purteddu
lassatu picca, picca,’ccu na filazza
‘n-ciarisci u jazzu na ‘n-cianchiteddu
purtannisi u jelu ro stiddazzu.
Appaciatu ma ‘rrusbigghiu
stiracchiannu i quattro ossa
m’assuma javutu un varagghiu
sugnu vivu, no jiutra na fossa.
Stanotti co pinzeru ha ju vulatu
nun ricurdannu nenti ro passatu
mugghèri e figghi ha ju truvatu
nuddu ma dittu ca sugnu carciratu.
L’occhi mi scrufunìu
abbannunatu, ora mi ritrovu
mi votu e mi furriu
comu a badda jintra a cozza i l’ovu.
Chiddu fu nu jornu malidittu
quannu ‘n-corpu ha in sparatu
tu pigghiai a centru i pettu
stinnicchiànnulu ‘n-tò sarciatu.
L’onuri lavai ‘ccu tu sangu
Ora, mi tuppuliu u pettu e mi pentu.
È nu pisu ca portu ‘n-capu a cuscenza
i sbagghi si sapi, si sbursunu a distanza
nu chiovu fissu, c’haju jintra a menti
sulu ‘Ddiu canusci i sentimenti.
Atturniatu ri sti quattro mura
comu nu surci na rattera
u pinzeru m’accuttura
sugnu n’ommunu ‘n-galera.
Silvio Craviotto: Parole inutili e I naviganti
della malafuera
Silvio Craviotto è un personaggio eclettico che,
pur preferendo la prosa non disdegna la poesia; in entrambe
le produzioni egli usufruisce di un linguaggio chiaro, immediato, spontaneo, che si tratti di un epistolario: “Cara, giovane amica”, o di una storiografia familiare, egli ne esce sempre con disinvoltura letteraria e profondità di considerazioni. La parte poetica: “Parole inutili” è il frutto di una istintiva ispirazione, per queste poesie: «Non feci che lasciarmi
prendere per mano da esso (linguaggio)… rendendomi conto che mi conduceva oltre il muro dello spazio-tempo...».
Già chiara quindi l’intenzione di cercare qualcosa al di là.
Analizziamo singolarmente le sue produzioni. “Parole inutili” è una raccolta di pensieri che Craviotto ha voluto esternare con successione poliedrica, ma sempre attinente alle
attuali tematiche. Composizioni brevi, di una visuale ampia
della realtà. Infatti la poetica di questo autore s’ispira agli
stati d’animo, alle constatazioni, agli eventi che stimolano
curiosità e commenti di pregevole espressività. Il raggio
d’azione è molto vario, non si arresta di fronte alle cose più
abitudinarie, va alla ricerca delle essenze. “Parole inutili”
può ben simboleggiare la futilità di certe argomentazioni,
ma meritano apprezzamento per la chiarezza linguistica.
In “I naviganti della malafuera”, Craviotto si trasforma in puro cronista, rievocando la storiografia della sua
famiglia di marinai, ne evidenzia le caratteristiche, ne sottolinea le difficoltà, riuscendo a dare una perfetta rappresentazione di una mentalità e di un mondo particolari. Anche qui trattasi di prosa schietta, comprensiva, illustrante eventi che lui stesso non stenta a definire banali, perché comuni a tanti, tuttavia non si può negare una genuinità indiscussa. La solidarietà, il coraggio, lo spirito di sacrificio, l’umiltà, sono elementi che aleggiano in questo diario esistenziale a sfondo marittimo. “Cara, giovane amica” è un epistolario variegato perché sfiora situazioni e sentimenti diversi. È un’autobiografia che ha come protagonista l’autore
in rapporto con una persona che potrebbe far alludere ad
una storia d’amore. Craviotto scrive quello che la sua amica
gli ispira alla luce di eventi circostanziati, ne scaturisce una
corposa mole di corrispondenza alla quale egli affida tematiche eclettiche. A scoprire la verità è lui stesso: «Cara amica, abbiamo giocato abilmente con lo strumento... una semplice penna a sfera». Lo scambio reciproco di false notizie
equilibra la validità di questa baruffa d’amore che si rivela
quale congegnata trama di una telenovela a realistico fine.
Pacifico Topa
Amprüma
di Arnaldo Colombo (Rovasenda – VC)
I iù dumà ij destriér pü fugus
ant la faturìa, - ant l’estansia,
ai disu ant l’Argentin-a ìù rigalà la palma dla vitoria,
ant l’aren-a, a doni ancantaduri,
‘hermose’, iù rabajà aj fiur
sbardlà, ì, a prinavéra, sül vial
dal triunf, i sun tüfami dinta
l’aqua dal mar, di ‘n bleu
granülà, ant na cala segreta,
iù facc al bagn, a mèsanocc,
i iù quatami su la sàbia biuta,
davsin a le – ch’a l’eva la pü bèla –
e iù facc l’amur, cun na siren-a!
Sun turnà d’ant l’isula, caraibica,
an vol, sü di ‘n jet, süersonich.
Al rintoch ad l’urlocc a pendul
- ant la stansa ‘d moganu iù smursà la luce, termucunvetiva!
Iù mai slungà la man, amprüma,
a ‘n föj ad carta, riciclà.
Par scrivi ‘n vèrs, ad na puisìa.
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Nino Agnello, Gerlando uomo di Dio (Lions Club,
Agrigento 2003). «Gerlando mi ha perseguitato assieme ai
suoi collaboratori, ai baroni resistenti a riconoscere ogni
effettiva autorità sopra di loro, assieme al popolo debole e
stanco di maltrattamenti, assieme all’ultimo signore musulmano Hamud, che invano tenta di difendere il suo prestigio
e il suo potere di fronte alla conquista normanna e all’azione evangelizzatrice del Cristianesimo interpretata dal
nuo-vo vescovo Gerlando. Mi sono arreso al suo fascino,
come il principe musulmano. E ho scritto senza concedermi
pause e distrazioni»(l’autore).
Nino Agnello, Accadimenti, (Bastogi, 1998).
Bruna Tamburrini, Atemporalità racconti e
Poesie, (Poeti nella Società, maggio 2003).
Nunzio Menna, Io operaio della penna e editore
pazzo. L’opuscolo celebra i 50 anni della sua attività, i 35
della casa editrice Menna, i 25 del concorso Città di
Avellino.
Carmelo Aliberti, Poeti siciliani del Secondo
Novecento, (Bastogi, 2003). Il volume presenta una scheda
e alcune poesie di diversi autori siciliani, tra cui anche
alcuni amici del Convivio come Nino Agnello, Maria Pina
Natale e Rina Pandolfo.
Luciano Nanni, Glossario di metrica italiana (Libraria padovana editrice, 2003). Si tratta di un prezioso
volumetto che evidenzia in maniera sintetica e chiara gli
elementi essenziali della metrica italiana. Sotto la voce
“Peone” viene anche riportato lo schema metrico utilizzato
nella loro poesia da Angelo Manitta e Giuseppe Manitta.
Franca Alaimo, La firma dell’essere, fasi di
viaggio nella scrittura di Domenico Cara (Milano 2003)
Domenico Cara, Il dilagare dell’ascolto, (Campanotto editore, 2003).
Anna Maria Salanitri, Dove si perde la memoria,
(Pomezia-notizie 2003). Volume di poesie della collana “Il
Croco” pubblicata da Pomezie-Notizie e diretta da Domenico Defelice. L’autrice, nata a Castello d’Annone (AT), vive ad Asti. Insegnante elementare in pensione ha pubblicato: Le parole di terra (1972), La vita a metà (1993), Il
cielo verticale (1996), Cifrario minimo (1999), Il colore dei
giorni (2001).
Carmine Manzi, Florilegio Poetico (Florilège poétique), traduzione in lingua francese di Paul Courget, con
prefazione di Maria Grazia Lenisa (ed. Gutenberg, 2001).
Sulmona-Paternò, Legami di solidarietà. Celebra il gemellaggio delle associazioni VAS e GDVS dei due
paesi: associazioni volontari donatori sangue.
Giovanni Di Girolamo, Manuale di metrica italiana (e note di stilistica e letteratura). Nozioni ed elementi
della tecnica poetica classica con particolare riguardo agli
stili ed alle forme metriche antiche e moderne, (terza edizione riveduta e ampliata); Giovanni Di Girolamo Il ponte
sul fiume rapido (G.D.G.); Giovanni Di Girolamo Antonio di Giambattista, Fedele Giorgio, Stornellata a tre
voci, Accademia “Il Convivio”; Giovanni Di Girolamo, A
ritmo di Rondò, Poesie nei nuovi formati “rondò” con ampio saggio introduttivo dell’autore.
Francesco de Napoli, Per una cultura del libro
(Edizioni Eva, 2003).
Emanuele Zuppardo, La via della Croce, meditazioni sul mistero pasquale, con presentazione di Mons.
Libri ricevuti
Molti dei seguenti volumi saranno recensiti sul
prossimo numero del Convivio
Massimo Nucci, Nicola Rampin, Stella nel
dubbio... (prefazione di Adalgisa Biondi, ed. Eventualmente 2003). «Per il Rampin l’amore è libertà. È quel canto di
liberazione, a volte melodico altre sommesso, dalle delusioni della vita, dalle ipocrisie, dal puzzo dei denari... È mera
poesia, quella di Nucci e del Rampin. Mera perché pura,
non soltanto stilisticamente, ma nei suoi sentimenti profondi. C’è autenticità dietro ogni verso, e questa è forse la migliore virtù, non soltanto per chi si fregi della sofferenza e
dell’onore che arreca la scrittura, ma per chiunque voglia
semplicemente vivere».
Davide Angelo Salvatore, Parole sfumate (Ediz.
Il Foglio, 2003). «Le liriche sono racconti in versi, tanto
cari a Pavese. Taglienti e terribili come solo un giovane può
realizzare. Le tematiche note, ma non scontate. Bios, Eros,
Thanatos (Vita, Amore e Morte) secondo il repertorio di
ogni bravo romantico, ma non solo» (Andrea Panerini).
Roberto Nassi, La sposa che vola (Edizioni Il
Foglio, 2003. «La qualità migliore di Nassi è la sua tensione
verso il soprasenso che fa frutto, nello spartito linguistico, di
un lessico cogitante che tende a superare l’istanza elegiaca
da cui muove la sua rispirazione» (Fernando Bandini).
Maribruna Toni, Rimpianto d’onde, di sale e di
tempeste (Ed. Il foglio, 2003). «Slanci mistici, contemplazioni, canti d’amore, abbandono nella natura, ardore possessivo e restrittivo del Bello dell’Arte, gioia e dolori di un’anima inquieta e generosa: tutto questo e altro ancora ritroviamo in questa nuova silloge poetica postuma della poetessa Maribruna Toni» (Maurizio Maggioni).
Personaggi ed interpreti: Nisciagni Nuestru (a
cura dell’associazione culturale Misciagni nuestru (novembre 2001). Antologia di poesi di Mesagne. Tra gli autori
compare pure Spartaco Colelli, socio del Convivio.
Senza confini, antologia 2003-2004 a cura
dell’A.L.I.A.S, presideduta da Giovanna Li Volti Guzzardi.
Numerosi sono gli autori anche soci.
Margherita Biondo, Tetrarchia degli elementi
(Ter-zo Millennio s.r.l., Caltanissetta 2002). «Utopia e realtà, spirito e carne, essenza ed apparenza, luce e buio, pensiero ed ignavia, parola e silenzio, identità e alterità: nutrendosi di terra gravida e fecondatrice al tempo, scaldandosi al
fuoco d’una coscienza che rilascia effusioni e sussulti, respirando l’aria che trascina nel vento echi di presenze, dissetandosi con acqua lustrale che cola da impenetrabili fortezze di ghiaccio, ancora una volta Margherita Biondo riesce a catturare, con infallibile strategia di reazionario, concetti e fruitori.» (Nuccio Mula).
Nicola Lamacchia, Sulle orme di Padre Pio (Bari, 2001). L’autentica personalità di Padre Pio come emerge
da un’analisi scientifica della sua scrittura e come si
trasforma in un sentiero per tutti noi.
Luigi Pumpo, Gianni Rescigno Il tempo e la
poesia, saggio (Ibiscos editrice, 2003).
Graziella Paolini Parlagreco, Non esiste ma
ricordalo (Catania 1972).
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si valuta in cavalli vapore. Verrebbe, per un solo momento,
da rimpiangere le trazioni animali anche per avere il piacere
di non affannarsi a valutare dove stanno gli animali. (...) Ma
dove veramente si raggiunge il sublime è nello strano modo
in cui ognuno scopre di essere furbo, la galattica gioia di
poter passare sopra gli altri...» (Gaetano Cosentini).
Rosaria Tenore, I federati di Roccavigilia (L’arcilettore edizioni, Brescia 2003) «Tra le tante ragioni che
spingono a scrivere un romanzo c’è sempre la scintilla di
una domanda, e non, come si è abituati a credere, di una
risposta. È una domanda a generare il racconto, il bisogno
di darsi una ragione, di trovare un senso a qualcosa di
intollerabile. La riflessione generata da quel rovello avvia la
trama, irrobustisce l’ossatura della narrazione. In realtà chi
sceglie di inventare una storia non ha un verbo da diffondere, anche quando si schiera e prende posizione, ma un
tormento da condividere.» (Patrizia Zappa Mulas).
Gian Filippo Della Croce, Gradini, (AndreaOppureEditore, Roma 2001). «I bambini che raccontano dunque, nel libro di Della Croce, la loro avventura di guerra –
sono tre piccoli protagonisti, le voci narranti delle tre storie,
tre maschietti, e non per caso... - sembrano certo meno incoscienti di me bambina che guardava estasiata i grappoli
luminosi dei razzi sganciati dalle “fortezze volanti” americane sullo Stretto di Messina, in una vellutata notte di
maggio, ma non sono terrorizzati.» (Adele Cambria).
Silvio Minieri, L’uomo camuffato, (L’autore Libri
Firenze, 1999). «L’uomo camuffato non è un giallo né tanto
meno un thriller e, sebbene contenga suspense, non è un
racconto dell’orrore, anche se il genere a cui appartiene
risulta da una composizione di un po’ tutti questi elementi
in maniera attenuata. Indubbiamente in “L’uomo camuffato” conta di più la storia d’amore che si muove sullo sfondo, ma che in realtà è il fulcro intorno a cui gira l’intera
vicenda, l’episodio centrale, a cui fanno da cornice quegli
avvenimenti che si svolgono a Ponte, verosimile località
della Puglia sul promontorio del Gargano, nel fine settimana successivo al ferragosto del 1985» (L’autore).
Santo Sgroi, In Pieno sole, (Edizioni Boemi, Catania 1999). «Una città del sud. Vicende di gente comune tesa
a migliorare le proprie condizioni tra tanti problemi sociali.
Sconfitte che spesso superano le vittorie. Sentimenti perduti
e ritrovati. E su tutto un sole implacabile ma generoso che
aiuta ad asciugare le lacrime e a ritrovare il sorriso.»
Vincenzo Andraous, Un viaggio – Devianza
minorile, carcere, comunità (Edizioni CdG, Pavia 2002).
«Un viaggio non è la risposta di cumuli di alienazione che
schiacciano le urgenze dell’anima. È il tentativo di mostrare
che anche in una cella, esiste la condizione “uomo” (pur disperata, rotta e lacerata). Un viaggio è il percorso scosceso
dove gli occhi appaiono spogliati innanzi all’ultima volontà
di un perdono».
Roberto Reggiani, La magia come pratica
(Carello Editore, Catanzaro 2002).
Rosetta Di Maria, Passa Lu Timpu, (Bancheri
Editrice, Canicattì 1998)
Antonio de Lucia, Sospiri di Primo Mattino,
(Edizioni LER, 2002). «Certamente interessante si presenta
la lettura di questa composita silloge che, fondendo in un
armonico canto melodico il lirismo vernacolare con quello
in lingua, propone una lettura autobiografica e stilistica
completa di un autore che si scopre come viva e palpitante
Michele Pennisi, prefazione di Cristina Lagopesole, e illustrazioni di Giuseppe Forte (Betania editrice, 2003).
Giovanni Di Girolamo, Pianeta Totò, (l’attore, il
poeta, i film). Si tratta di un ampio saggio che analizza tutti
i film del grande attore napoletano. Il volume è diviso in
diversi capitoli. Nel primo si ha una presentazione con note
biografiche e critiche dell’attore, poi l’elenco ufficiale dei
suoi film, anno per anno con una breve scheda illustrativa,
quindi tutti i film con regia, sceneggiatura, interpreti e trama. Nel quarto capitolo si ha l’elenco dei registi che hanno
diretto Totò, poi l’elenco degli attori più noti che hanno
recitato con Totò indice alfabetico dei titoli del film. Infine
un’appendice: Totò: il poeta e il musicista.
Antonina Ales Scurti, La musica del cuore, (Istituto Superiore per la Difesa delle Tradizioni – 1993) «L’amore cantato dalla nostra poetessa è quello cristiano:
positività e perfezione dell’Essere. Amore per il divino, per
il prossimo, per la natura come espressione del supremo
Architetto.» (Rino Pompei).
Salvatore Gugliuzza, Sogni, Amore e malinconie
(Libroitaliano, Ragusa 2002). «Le parole che vivono nei
componimenti poetici non sono “insensate”, non procurano
sofferenza a noi che le ascoltiamo e non certamente a lui
che le ha pronunziate. (...) È certamente poeta intimista che
non “teme” di mettere in luce i suoi reconditi sentimenti.
(...) ha profondo il senso della fugacità della vita ma
dell’eternità dei sentimenti ne è profondo assertore.» (Domenico Portera).
Franco Giuseppe Gobbato, Oggi è nato un uomo,
(Dario De Bastiani editore, Vittorio Veneto, 2002) «Sviluppando ancora, e in modo più maturo, la sua vena narrativa
nella quale la descrizione minuziosa e realistica della vita
quotidiana si apre alle più ardite esplorazioni fantastiche,
Francesco Gobbato ha dedicato il suo ultimo racconto al
tema della “immedesimazione”(...). La facoltà di queste
metamorfosi viene data al protagonista da una sfera luminosa vagante; ma si ha l’impressione che questo ente possa
identificarsi con la nostra stessa coscienza, quando riesce a
sottrarsi alle tentazioni dell’egoismo e non identifica la vita
con la forsennata tensione verso i traguardi del benessere,
del godimento, del guadagno.» (Paolo Portoghesi).
Selìm Tietto, Ci trasportava il fiume, (Daigo
Press, Padova 2001). «Che dire dunque di un poeta se non
che le sue opere sono la verità dei suoi giorni? Essere poeta
perciò significa testimoniare questa verità e quindi scriverne come un linguaggio diverso, perché diverso è il soffrire,
perché nella diversità c’è tutta quell’umanità che ogni
giorno viene a galla: e ogni verso rivela quanto questo sia
indispensabile a servire il nostro essere.» (Fanco Morandi)
Costantino Magnani, Poesie 1940 – 1996, (Lalli
editore, Pisa 1998). «È una poesia del profondo quella di
Costantino Magnani, dove senso dell’armonia, della metrica
e del gusto, tutto in dettato spirituale, danno forma a liriche
di alto compendio sociale ma di natura spiritualista. Il suo
intimo, quasi occulto colloquio con la morte, quella morte
intesa come sentimento umano, dà all’autore la spinta verso
la vita, nell’apprezzamento di quei valori, che sempre meno, oggi, sono considerati.» (Jolanda Pietrobelli).
Giovanni Cappello, Ragusano al volante, (HOO
edizioni, Ragusa 1999). «È vergognoso ma molto chich
l’attitudine dei nostri giorni di valutare un essere umano in
base alla cilindrata o al look della sua vettura, perché tutto
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voce di se stesso e della cultura popolare che genuinamente
rappresenta.» (Rosario Cerciello).
Sara Bensi, Ama guardare il sole, (Bandecchi e
Vivaldi editori, 2001) «Sono poesie brevi quelle di questa
raccolta. Appartengono alla giovane vita di Sara, stroncata
ad appena 23 anni. Appartengono al suo animo! Per certi
versi queste poesie sono la sua vita. Scritte in varie occasioni, ispirate dalle situazioni più diverse, esse riflettono
sensazioni veloci e, talvolta, più sedimentati stati d’animo.
Esprimendo sempre un anelito di vita, con una profondità
che va ben oltre l’età anagrafica...» (Fabrizio Porcinai).
Nicola Rampin, Puzzle d’amore (Ibiskos ed., Empoli 2002). «Nicola Rampin si dimostra poeta sensibile e dal
calco inconfondibile, un autentico “pescatore di sogni / nel
mare di carta” in grado di stupire sempre per la piena delle
immagini che riesce a mettere in circolo usando una grafia
che non fa che esaltare l’arcobaleno dell’amore e le giostre
schierate / nei luna park / dell’amore» (Fulvio Castellani).
Franco Gitto, Sulla via del mio ritorno (Ambra,
1994). «Poesia al naturale, proiezione istintiva di un’anima
che sta parcheggiata sul versante del non conformismo e
che ancora attinge alla linfa vitale delle sue radici. (...) Franco Gitto, fringuello prataiolo, l’italiano puro se lo sentirebbe addosso come un goffo vestito nuovo della domenica,
ragion per la quale ben spesso non esita a slittare nell’area
del vernacolo entro cui formule asciutte e vigorose egli si
ritrova a suo agio.» (Giuseppe Iacolino)
Vittorio Capuozzo, Al vento sparsi petali di rosa,
(Casa Editrice Menna – Avellino, 2002) «In un mondo che
viaggia a velocità folle ho cercato con i miei umili pensieri
di frenare l’ingiustificata corsa senza traguardo. Spolverando semplici valori, ormai da tempo dismessi, ho tentato di
“sensibilizzare” l’animo umano con petali di rosa sparsi»
(L’autore).
Giulio Dario Ghezzo, I miei pensieri impazziti
(Ibiskos Editrice, 2002). «L’autore, con lirismo descrittivo e
con stridenti contrasti chiastici, si tuffa nel profondo della
natura fin dalla prima lirica con il rosso che dalle mani
passa alla terra rievocando una colorazione biblica dove
“adamà” è appunto terra e “adom” rosso».
Niccolò Agnoli, La montagna dei sogni, (Prospettiva Editrice, Roma 2002) «Un viaggio tra la poesia alla
scoperta di piccole e piacevoli sensazioni. La parola accompagna il lettore fin dentro le figure stilistiche letterarie,
create da Niccolò Agnoli. Dal percorso emerge un libro di
emozioni e sentimenti».
Tiziana Girolomini Santoruvo, Emozioni, (edizioni Lettere dal Sud, 2001) «Poesia schietta e genuina,
naive in alcuni casi, che rivela la sincerità e la passione di
una donna che vive una sua dimensione spirituale e morale
fra il passato e il presente, fra brumose regioni del nord e il
sole della Sicilia, che riscalda e rischiara le sue meditazioni,
la sua condizione esistenziale» (Salvatore Battaglia).
Piero Juvara, Melanconie (Edizioni il Girasole,
maggio 2002).
Piero Juvara, Sole nuovo (Ed. La Vallisa, Bari
1994).
Samara Barros, Sonhos e poesias (Brasile 2001).
«Seu tom lirico mostra que a poesia pode ser encontrada
nas coisas simples, as quais muitas vezes, não valorizamos
mas que transformam nossas vidas como: a Lua, os amigos,
o mar, a criança, a cidade na-tal. Suas palavras simples nos
fazem enternecer, seu estilo claro e preciso toca nossos corações, prendem-nos a leitura» (Telma Lemos).
Dias da Silva, Da pena ao vento (Brasile, 2003).
Il volume non spiega né chiarisce, ma cerca di orientare il
lettore nel labirinto che è il mistero della creazione. Anche
senza indicarne l’uscita il lettore può sentirsi sedotto da
questo labirinto e così giungere all’opera. Il Volume curato
da Dias da Silva è una raccolta di vari autori, che si presentano con racconti, saggi o riflessioni critiche. Il curatore,
direttore anche della rivista “Binóculo”, appare con il testo
“O poeta do Taquari”.
Cecilia
di Narcisa Belluomini Celeghini
A Settembre ogni anno si riapre la caccia che
vede come vittime immolate volati di ogni tipo. Questo scempio, nei tempi, si è limitato ma fa pur sempre
tanto male al cuore veder cadere questi piccoli esseri
che fiduciosi volano per il cielo senza difesa. Ero con
Cecilia fuori al balcone in attesa del papà che rientrava con la nave nel porto di Taranto; c’era un po’ di
nebbia ma da S. Vito era bello vedere le navi rientrare,
per questo c‘eravamo alzate presto. Ogni tanto si sentiva qualche schioppettata ma non ci facevamo caso,
eravamo prese dall’arrivo del papà.
Nel frattempo il sole si levava e la nebbia
scompariva; nel cielo si levavano in volo gli uccellini
in cerca di cibo e, io, raccontavo a Cecilia che nutrendosi d’insetti erano considerati gli spazzini dell’aria.
Guardavamo il mare e guardavamo il cielo a perdita
d’occhio quando in seguito ad una fucilata vedemmo
cadere un passerotto al suolo.
Cecilia non si dava pace e mi chiedeva: nonna Isa, perché?
Per dare una motivazione decente, inventai
che quel cacciatore aveva una bimba malata che non
mangiava più niente e il medico gli aveva consigliato
la carne tenera e leggera di un uccellino che sarebbe
stata digeribile e le avrebbe ridato forza. Così il papà
si era alzato prestissimo al mattino ed era andato a caccia col cane. Colpito che ebbe l‘uccellino lo raccolse e
lo portò a casa dove la moglie dopo averlo spiumato,
pulito e lavato lo mise in pentola.
Cecilia mi guardava stupita del fatto che io
potessi accettare un simile misfatto. Le spiegai che le
cose fatte a fin di bene non erano un peccato ma una
legge di natura e che l’uccellino aveva dato la sua vita
per una buona causa, per salvare una bambina.
Vedevo che faceva difficoltà ad accettare questa versione; nella sua testolina era difficile accettare
una morte per una vita. Non nascondeva l’amarezza.
Mi disse: «Io mangio tutto, nonna Isa, così l’uccellino
non muore e vola felice cinguettando».
Rientrammo per consolarci con la colazione
poi, ci riaffacciammo e vedemmo il rientro della nave
col papà che dissipò il triste episodio.
È triste mentire a chi ha fede in te e mi domando: perché? Oggi non si piange per niente ma si
ride di tutto.
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ti, si richiede anche l’invio del floppy-disk), nitidamente dattiloscritte, singolarmente ordinate, firmate vanno inviati a Segreteria
del premio Silarus - C.P. 317 - 84091 - Battipaglia (Sa). Per ulteriori informazioni rivolgersi a: Tel. 0828/ 307039, fax 0828343934 e-mail: [email protected]. Ai primi tre classicicati medaglie d’oro, ai segnalati un diploma. I lavori premiati e alcuni dei
segnalati saranno pubblicati sulla rivista. Gli elaborati non
possono essere pubblicati su altre riviste fino al 31 dicembre 2004.
Concorsi
Concours de Poésie
Echeance : 31 dicembre 2003. Pour se procu-re le règlement complet, envoyer une enveloppe timbrée à Poètes en Berry - 2, rue de
la Paix - 18230 Saint-Doulchard (Francia).
Premio Missoes
Scadenza: 31 dicembre 2003. Premio in lingua portoghese. Per
maggiori informazioni scrivere o telefonare a Premio Missoes:
Rua Padre Nóbrega, 245 – Roque Gonzales-RS 97970-000,
(Brasile). Tel: 553365-1224.
Premio Città di Giussano
Scadenza: 28 febbraio 2004. Si partecipa inviando da uno a tre
racconti in lingua italiana a tema libero, editi o inediti, che non
superino le sette cartelle dattiloscritte. La partecipazione al condorso è gratuita. Gli elaborati, in 5 copie anonime, dovranno essere inviate, al seguente indirizzo: Biblioteca Civica "Don Rinaldo
Beretta" - Via Addolorata, 32 - 20034 GIUSSANO (MI), specificando in alto sul plico "Premio di Narrativa Città di Giussano" e
allegandovi una busta chiusa contenente i dati personali dell’autore (nome, cognome, indirizzo, numero di telefono) nonché il titolo
di ogni racconto inviato. Premi in denaro, targhe e diplomi. Per
informazioni: Biblioteca Civica (tel. 0362-851172) oppure Ufficio
Cultura dei Comune di Giussano (tel. 0362-358264).
La lectora impaciente
Scadenza: 12 gennaio 2004. Pueden enviarse hasta tres trabajos,
por mail en archivo adjunto word indicando datos personales a
[email protected]. Para más información pueden
consultar www.lalectoraimpaciente.com
Premio Giancarlo Galliani
Scadenza: 15 gennaio 2004. Si partecipa con una poesia inedita in
lingua italiana da inviare in sette copie alla segreteria del Premio
“Giancarlo Galliani” c/o cooperativa S. Luca, Ospedale campo di
Marte – 55100 Lucca. È prevista una quota di partecipazione di
8 da inviare tramite ccp n. 11937588 intestato a Cooperativa S.
Luca, Ospedale campo di Marte – 55100 Lucca. La partecipazione
è gratuita per i soci. La scheda di adesione, con il titolo della poesia e i dati personali, nonché la ricevuta del versamento della quota di partecipazione dovranno essere inserite in una busta chiusa.
Premi: medaglie e opere artistiche. Premiazione: 12 giugno 2004.
Premio “Nino Martoglio”
Scadenza: 29 febbraio 2004. Il concorso si articola in due sezioni:
SEZIONE A: Poesia in dialetto siciliano (max n° 40 versi) per le
classi 4° e 5° elementari; Poesia in dialetto siciliano (max n° 40
versi)per i ragazzi delle scuole medie inferiori e superiori; Poesia
in dialetto siciliano (max n° 40 versi) per i poeti italiani. SEZIONE B: Racconto in lingua italiana (max n°3 cartelle) a tema libero
per le classi 4° e 5° elementari; Racconto in lingua italiana (max
n° 3 cartelle) a tema libero per i ragazzi delle scuole medie inferiori e superiori; Racconto in lingua italiana (max n°3 cartelle) per
quanti preferiscono esprimersi in prosa. Gli elaborati di cui all’Art. 1 devono essere presentati in n°3 copie dattiloscritte: una
copia deve essere firmata e deve contenere le generalità,il recapito
del partecipante ed un breve curriculum. Per la sezione studenti
sarà necessario apporre il nome della scuola di appartenenza. Le
copie vanno inviate a: ASSOCIAZIONE “Nino Martoglio” c/o
Aristotele Cuffaro - Via Piazzale Vinti,4 - 92020 Grotte (Ag). Oppure all’indirizzo e-mail: [email protected]. La quota
di partecipazione, per spese postali, per il gruppo 3 di ogni
sezione è di Euro 10,00; per i gruppi 1 e 2 è gratuita.La quota di
partecipazione dovrà essere assolto a mezzo bollettino postale sul
c.c.p. n°21432000 intestato a: Moreale Vincenzo – Agnello Calogero Uff. Post. Grotte (Ag). Una fotocopia della ricevuta dell’avvenuto pagamento dovrà essere inserita nel plico contenente gli
elaborati, pena l’esclusione d’ufficio da concorso. Per maggiori
informazioni telefonare a: Aristotele Cuffaro: 0922945226 –
3334544998 Vincenzo Morreale : 0922945027 – 3287116394. Informazioni sono disponibili sul sito www.ninomartoglio.it
Premio "CONTAINER" 2004.
Scadenza: 31 gennaio 2004. Sezioni previste: Poesia (max 2, non
oltre 40 versi ciascuna, tema libero, edite o inedite, già premiate o
mai premiate) e Narrativa (un racconto, non oltre 10 cartelle, tema
libero, edito o inedito, già premiato o mai premiato). Copie da
inviare: sei, di cui cinque anonime ed una con nome e cognome,
data di nascita, indirizzo, telefono e dichiarazione firmata di
paternità dell’opera. (farà fede il timbro postale). Quota di partecipazione: Euro 15,00 per sezione. Si può partecipare ad entrambe le
sezioni, pagando le relative quote. Premi: Euro 2.000 complessivi,
targhe e pubblicazione sulla rivista artistico/letteraria “Container”.
Previsti Premi speciali (Premio della Giuria, Originalità, Giovane
Autore, Autore straniero). Invio elaborati: “Premio Letterario
Container” c/o Emilio Altobelli Via G. Giusti, 34 - 00034 Colleferro (Roma). La premiazione è prevista per la fine di aprile
2004, in Colleferro (Rm). Verranno avvisati solo i vincitori. I
risultati saranno resi noti tramite stampa locale, il sito internet
www.icavalieriamari.it http://www.icavalieriamari.it e altri siti
ospiti, la rivista artistico/letteraria "Container". Per ulteriori informazioni e bando integrale contattare il Direttore del Premio,
Alessandro Dezi (06.9780548) e-mail: [email protected]
Premio Solofra
Scadenza: 6 marzo 2004. Possono concorrere al Premio poeti di ogni nazionalità, ma in lingua italiana con un massimo di tre poesie
per sezione (spillate per gruppo), in sei copie. Per la sezione libro
edito inviare sei copie dell’opera. Le sezioni del concorso sono
tre: 1) Poesia inedita in lingua italiana: "Carmine Troisi" (Scrittore
solofrano), 2) Poesia edita e inedita in napoletano: "Affiredò Grassi" (Poeta solofrano), 3) Libro edito di poesia in lingua italiana,
pubblicato negli anni 2002-2004, "Mons. Michele Ricciardelli"
(Critico letterario solofrano). Le opere inedite in lingua e vernacolo dovranno essere firmate su una sola copia ed avere l'indirizzo e
la data di composizione. È permesso partecipare a più di una sezione. La premiazione è prevista entro aprile 2004. Le opere vanno inviate alla Segreteria del Premio Città di Solofra - Via Fratta,
13 - 83029 Solofra (Av) - Tel.: 0825 581120 - 0825 596406.
Premio di Poesia Formica Nera
Scadenza: 3 aprile 2004. Si partecipa con una poesia a tema libero,
da far pervenire in cinque copie, di cui una soltanto con firma e
generalità dell’autore. Per spese organizzative inviare un libero
contributo sul ccp 28248326. Premi: al primo classificato medaglia d’oro e ai segnalati medaglie d’oro. Le poesie vanno inviate a:
Luciano Nanni, Casella Postale 814 – 35122 Padova. Per informazioni: tel.049-617737.
XXXVI 0 Premio letterario Silarus
Scadenza: 28 febbraio 2004. Il premio si articola in tre sezioni:
narrativa, poesia e saggistica. Ogni autore potrà concorrere per tutte le sezioni con un solo racconto o novella (max 6 cartelle), due
poesie (max 30 versi) ed un solo saggio critico su personaggi, opere o aspetti originali della letteratura contemporanea (max 9 cartelle). I lavori dovranno essere inediti. Si gradisce l’invio di un
curriculum. I lavori, redatti in quattro copie (per i saggi e i raccon-
Premio Mondolibro
Scadenza 31 gennaio 2004. Per maggiori informazioni: via Capo
Zafferano, 19 – 00122 Roma; Tel: 06-5667344.
89
Il Convivio
Trimestrale di Poesia Arte e Cultura dell’Accademia Internazionale ‘Il Convivio’
Fondato da Angelo Manitta
Via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) – Italia
Anno IV
numero 4
ottobre-dicembre 2003
15
Vincenzo Mezzasalma, nome d’arte Daragusa, Uomini a cavallo, (olio su tela, cm 50x70)
90
Vincolis A.(40), Dho Bono M.(71), Di Girolamo G.(30), Di Rocco
F.(17), Elrej (58), Emmy E.(57), Esposito V.(1,7), Evandro F.(45),
Famà A. (23), Ferrari Cayetano(42), Filippone C.(22), Fiumara
F.(21), Fontana N.(25), Formica M.(60), Forveille S(49), Frota
U.(44), Galvagni M.(66), Gaourang D.S.(47), Gatti P.(19), Genovesi A.(23), Giallombardo A.(25), Giandolfo C.(28), Giangrasso
V.(25), Giordano F.(75), Giordano M.(18), Giuliani P.(47), Giunta
F.A.(31), Gobbato F.G.(86), Gonzales A.M.(42), Guerrera A.G.
(29,32), Gunjaca D.(61), Haliti F.(46), Haxhia M.(25,46), Horta
G.M.(46), Iachetti O.(17), Ianuale G.(29), Izzi R.A.(64,69), Daragusa(54), Jimeno M.O.(60), Jorio G.(26), Kidad F.(48), La Pica
F.(32), Lamouille J.(50), Latorre M.C.(27), Lauro M.(33), Leiro
R.V.(41), Lenisa M.G.(16), Leonardi G.(24), Lo Giudice G.(68),
Macauda V.(84), Maccarone S.(32,66), Macchia M.F.(17), Magli
S.(52), Magnani C.(86), Manola L.(39), Mantineo G.(27), Manzini
G.(23, 26), Manzoni G.(61), Marandino O.(33), Marinello A.(65),
Martorelli A.(79), Masone B.R.(63), Mastrodonato P.(71), Mauget
J.(50) Mendra M.(45), Messina S.(28), Millico M.(22), Millico
P.(53), Milone G.(9), Montalto P.(28), Mor A.R.(78), Morales
W.C.(42), Mori Consoli T.(22), Murdaca M.G.(82), Nigro P(83),
Nobis M. T.(25), Nucci M.(85), Olivares I.(23), Orzes G.E.(80),
Osimani S.(58), Palumbo C.(32), Panza R.(62), Peci D.(59), Perlongo G.(23), Petino P.(18,20), Piazza G.(33), Piccirilli L.(24),
Pinto M.A.(28), Pinto N.(65), Pirrotta L.(19), Pisano R.(53), Poerio A.(8), Portaro A.(27), Puppi R.(82), Quasimodo F.F.(62), Querci F.(36), Ravelli P.(25), Rescigno G.(16), Riggi E.(29), Riggio
P.(51), Rimi M.(76), Romano E.(64), Ruffato C.(6), Ruffo F.(74),
Rullini A.(55), Russo P.(57), Sabato L.(30), Sarraméa J.(59), Scarpa A.(78), Scarparolo I.(63), Serra J.(34), Sersale L.(46), Sessa
E.(24), Setti A.(46), Siliquini L.(26), Simonetti L.(55), Spina
I.(23,27), Tamburrini B.(5), Tanchis V.(40,71), Tartaro V.(76),
Tassoni F.(54), Tavcar G.(3,79) Tenore R.(86), Tognacci I.(76),
Topa P.(28,73), Torrente B.(30), Trefiletti C.(25), Trevisani S.(22)
Tumino L.(81), Turco C.(77), Tuttolomondo J.(73), Vacchetta
F.(31), Valdivia B.(41), Valentini R.(57), Varriale A.(79), Veronesi P.N.(67), Villarreal E.(42), Vinante G.(67), Viola F.(38), Vitalone M.(23), Vorraro G.(32).
Il Convivio
Trimestrale di Poesia Arte e Cultura, fondato
da Angelo Manitta e organo ufficiale dell’Accademia Internazionale ‘Il Convivio’
Registr. al trib. di Catania n. 7 del 28 marzo 2000.
Direttore responsabile: Enza Conti
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Collaboratori: Giorgio Barberi Squarotti, Alvarez
Velasco Francisco (Spagna), Andityas Soares de Moura (Brasile), Haxhia Miranda (Albania), Barone Rosaria, Castellani
Fulvio, Coco Salvatore (rivista telematica), Dilettoso Maristella,
Izzi Rufo Antonia, Giannetto Maria Enza, Lalli Franco Dino,
Latorre Maria Cristina (rivista telematica), Natale Maria Pina,
Perlongo Gaetano (rivista telematica), Tamburrini Bruna, Topa
Pacifico, Treffiletti Salvatore (sito web).
Soci benemeriti: Benci Fragiacomo Lidia, Gianquinto Italo, Lauro Milvia, Macchia Maria Flora, Mauget Jean,
Natale Maria Pina, Petino Placido, Portaro Antonio, Famà Anna.
Soci sostenitori: Ardita Pina, Benagiano Antonietta, Campetti Walter, Candido Gian Paolo, Castelli Spartaco, Cavallo Mario, Chantal Cros, Colajanni Patrizia, Craviotto Silvio,
D’Aquen Poly, Frenna Michele, Frosini Tommaso, Giandolfo Clara, Gulino Rosanna, Guerrera Grazia, Lucha Chamblant, Mandorino Lionello, Mariniello Alfredo, Milone Giuliana, Nobis Maria Teresa, Picciolo Salvatore, Roma Mario, Rusca Z. Renata, Santin Matilde, Speranza Vanni, Trevisani Simona, Villarreal Emma.
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la rivista; 2) avere inserita una poesia (max. 30 versi) e
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dei dati personali” L 675/96.
" " Gli autori di questo numero (il numero tra
parentesi indica la pagina): Agnello N.(27,85), Ales S.A.(75),
Alessi G.(9), Aliberti C.(1,7), Alonso E.(42,46), Alvarez V.F.(43),
Amadeu T.(45,46), Amadio P.(70), Andityas M.(43), Andrenacci
M.S.(32,67), Antonelli M.(30, 70), Aragona A.(24), Arcidiacono
S.(24,27), Ardita P.(21), Assini A.(19), Attolico G.(22), Baccelli
V.(62), Baiotto M.(77), Barone R.(27), Belluomini C.N.(87), Benagiano A.(63), Benci F.L.(81), Bernhard D.(47), Biondi A.(74),
Biondo M.(85), Bonanno D.(4), Bonucci L.(26,47), Botto R.(48),
Brancatisano M.S.(22), Caimi A.(80), Calabrese F.(72), Caleri F.
L.(39), Calì G.(56), Cambi M.(29), Caminiti L.(23), Cammarata
M.(77), Campisano C.A.(37), Campobasso V.(41,72), Cappelo G.
(86), Carbone R.(24), Cardoso T.(44), Cascino F.(83), Castelli S.
(56), Catalano V.(74), Cauchi T.(72), Cerasuolo V.(31), Cerbone
A.(64), Cerignoli M.(30), Cipollini E.M.(70), Civardi F.C.(51), Colajanni P.(43), Colelli S.(24), Colombo A.(84), Coppone F.(68),
Coron D.(23), Cosmai L.(52), Courget P.(49), Cozzubbo P.(23),
Craviotto S.(26, 84), De Coster M.(49), De Felice D.(21), De Lisi
M.(73), De Luca K.(26), De Lucia A.(86), De Napoli F.(69), De
91
Concorso “Agostino Venanzio Reali”
La Giuria del 2º Concorso Nazionale di Poesia “Agostino Venanzio Reali”, organizzato dal Comune di Sogliano al Rubicone e
dall’omonimo Centro Culturale, composta da Bruno Bartoletti
(Presidente), Caterina Camporesi, Alberto Dell’Aquila, Narda Fattori, Gianfranco Lauretano, Maria Lenti, Anna Maria Tamburini
(Segretaria) comunica i risultati del concorso, con premiazione
svoltasi domenica 21 settembre, alle ore 9.30, nel teatro comunale
“Elisabetta Turroni” di Sogliano al Rubicone (FC). Sono risultati
vincitori: Sezione A – Poesia Adulti: 1º Premio Monreale Daniela,
di Figline Valdarno (Firenze); 2º Premio Traina Tino, di Partanna
(Trapani); 3º Premio Franzin Fabio, di Cessalto (Treviso). Sezione
B – Poesia Giovani: 1º Premio Cipelli Giorgia Serena, di Pieve
d’Olmi (Cremona); 2º Premio Camagli Claudia, di Santarcangelo
di Romagna (Rimini); 3º Premio Valentina Gori, di Casalguidi
(Pistoia). Tra i premiati Katia De Luca, di Mottola (Taranto).
Eventuali informazioni possono essere richieste direttamente al
Comune di Sogliano al Rubicone (tel. 0541948610) nel cui sito
Web (www.comune.sogliano.fc.it) è stato inserito il verbale e la
relazione della giuria.
Premio Phintia 2004
La scadenza: 30 Aprile 2004. Lo studio R.A.L.F.I ha indetto la
21° Edizione “PHINTIA” 2004 alla quale possono partecipare
autori noti o esordienti, con opere edite ed inedite (a tema libero).
Le sezioni sono tre: Poesie in lingua italiana; Poesie in vernacolo;
Narrativa, silloge di poesie e di racconti, fiabe, saggistica, parodie,
canzoni. La partecipazione è aperta a tutti.. Coloro che intendono
partecipare dovranno richiedere la scheda di adesione presso la
segreteria. I premi saranno: trofei - coppe - targhe - medaglie –
pergamene - diplomi - libri e saranno elargiti fino al 30° classificato di ogni sezione. Per maggiori informazioni chiedere il
bando integrale del concorso (allegando relativo francobollo) a:
STUDIO R.A.L.F.I. - Premio Internazionale di Letteratura “PHINTIA”, Via Salso Trav. C, 65 - 92027 Licata (AG) – Italy, Tel.
0922/ 80.42.65, e-mail: [email protected]
Premio “Il Giunco” Città di Brugherio
Scadenza: 31 maggio 2004. Il premio è diviso in 4 sezioni: A) Premio Filippo de Pisis - poesia in lingua a tema libero, b) Premio
Europa - narrativa in lingua a tema libero, c) Premio citta’ di Brugherio - poesia o narrativa in vernacolo a tema libero, d) Premio
Ginevra - poesia o narrativa, a tema solidale: Nessun uomo è un’isola. Progetti o esperienze di volontariato sociale o di diffusione
culturale. Le opere straniere devono pervenire con traduzione italiana. Sono da inviare per le sezioni ‘a’ e ‘c’ due copie anonime e
due con generalità. Sez. b’: una copia con generalità. Allegare breve curriculum. Quota di iscrizione:
stare a Il Giunco, ccp. 42515205. I premi consistono in denaro,
targhe e opere d’arte. La premiazione sarà il 12 ottobre a Brugherio (MI). Per maggiori informazioni: Ass. Il Giunco, Villa Brugherio, 55 – 20047 Brugherio (MI), tel. e fax: 039-870366. E-mail:
[email protected] - [email protected] Il bando integrale e i vincitori saranno leggibili nel sito www.literary.it.
“PHINTIA” 2003
A conclusione della la 20° Edizione del premio internazionale di
letteratura “Phintia” 2003 indetta dallo Studio R.A.L.F.I. di Licata
(AG), la Giuria presieduta dal Prof. Camillo D’Onofrio ha proclamato i seguenti vincitori: Sez.A 1)Anna Guerrini, 2) Romeo
Cavallari, 3) Claudio Perego. Sez. B 1) Francesco Cascina, 2)
Achille Bevilacqua, 3) Paolo Wust. Sez. 3 1) Janet Ruggeri, 2)
Beatrice Manzoni, 3) Pietro Gozza. Ai primi classificati di ogni
sezione è stata conferita una pergamena attestante l’elogio e la
classifica riportata. I vincitori hanno inoltre ricevuto il Trofeo
Ralfi con Medaglia. Oltre ai vincitori sono stati menzionati 30
autori, tra cui: Adua Casotti, Rosita Orifici Rabe, Giovanni Querci, Felice Senno, Elena Maria Stirparo, Sebastiano Maccarrone,
Carmelo Parisi, Guido Zangrando, Maria Oliveti Currò, Simona
Taddei, Carlo Tarabbia. Franco Mandrino, Matta Italia Basile,
Vincenzo Capobianco, Margherita Rimi, Emanuele Livio, Gunjaca Drazan, Teresa Donatelli, Mario Festa, Salvatore Gugliuzza,
Anna Mari La Cognata, Mimmo Stirparo, Maria Penso, Benito
Corrado Conforto. Palmiro Bellomo, Ninfa Failla, Angela Geloni
Onorio, Luigi Tardino, Anna Valoroso, Assunta Zagrì. La sezione
Letters of love è stata vinta da: Flavio Orsini, Immacolata
Stefanelli e Roberta Maria Mancini.
Premio di narrativa “Akery”
Scadenza: 31 maggio 2004. Il centro studi Agorà
con la collabo-razione del centro ricerche Juri
Gagarin, bandisce l’ottava edizio-ne del concorso
Akery per la narrativa di 1) fantascienza, 2) Fantasy, 3) Horror, 4) tema libero (giallo, erotico,
viaggio...). Inviare un manoscritto in cinque
copie, di cui una sola con generalità. Quota di
partecipazione 10 euro. Si può partecipare a tutte
le sezioni, specificando chiaramente a quale.
Chiedere il bando completo a Piero Borgo, via
Zara 45 – 80011 Acerra (NA). telefax: 0818850793.
Centro ricerche Poesia
contemporanea
Si comunicano i risultati del Premio Internazionale di poesia Katana (8° edizione - anno 2003), la cui cerimonia di premiazione si è
svolta Venerdì 7 Novembre 2003, presso il Centro Culturale R.
Livatino. La giuria, composta dai seguenti membri, Avv. Renato
Pennisì (Presidente), Poetessa Maria D'Ambra, Prof. Angelo Manitta, Dott.ssa Lucia Nicotra, Prof Renato Pernice, Poeta Vanni
Speranza, ha così deliberato: Sez. A (Poesia inedita a tema libero)
1° Premio alla lirica Sogni di Giuseppe Santucci da Siracusa; 2°
alla lirica Grido di Milvia Lauro da Sorrento (Na), 3° alla lirica
Polline e vento del prof Paolo Salamone da Palagonìa (Ct). Segnalati: Alfonsina Campisano Cancemi (Caltagirone - Ct); Chiara
Filippone Melito (Palermo); Gìanni Ianuale (Marigliano - Na);
Giacomo Paternò (Paternò - CT). Sez. B (Volume di poesie) 1°
Premio al volume Tetrarchia degli elementi (ed. Terzo Millennio)
dì Margherita Biondo da Agrigento; 2° Premio al volume Gli
Orizzonti perduti (ed. lbiskos) di Adalgisa Biondi da Agrigento; 3°
Premìo al volume Briciole (ed. 2000) di Angela Genovesi da
S.Agata Li Battiati (Ct). Per la sez. C (Poesia inedita in dialetto
siciliano), la Commissione - composta da Dott. Santo Privitera
(Presidente), Poeta Carmelo Furnari, Dott. Alfio Patti, Poeta Alfio
Associazione “L’Epigramma”
L’associazione culturale “l’Epigramma”, centro ricerche storiche,
artistiche e letterarie di Acireale bandisce il secondo recital
internazionale di poesia in lingua italiana e vernacolo a tema libero
per i poeti residenti in Italia ed all’estero. I partecipanti dovranno
inviare massimo tre componimenti in duplice copia di cui soltanto
una corredata dei dati personali. La premiazione prevede
l’assegnazione di trofei, coppe, targhe personalizzate e libri di
cultura generale. La quota di partecipazione per spese di segreteria
è di 10 euro per ciascuna sezione da versare insieme agli elaborati.
Gli elaborati dovranno essere inviati al seguente recapito: dott.
Giuseppe D’Anna fermo posta presso l’ufficio postale di via Paolo
Vasta, 25 – 95024 Acireale (CT).
Risultati concorso
92
Russo, Poeta Salvatore Solarino - ha così deliberato: 1° Premio
alla lirica Na Truscitedda di Carlo Trovato da Catania. 2° Premio
alla lirica Rípigghiu la me ummira di Annalisa Grazia Guerrera da
Catania. 3° Premio alla lirica Scanusciutu amicu di Antonella
Pizzo da Ragusa Segnalati: Letizia Caldiero (Francofonte-Sr);
Alfonsina Campisano Cancemi (Caltagirone - Ct); Rosa Maria Di
Salvatore (Catania); Michelangelo Grasso (Catenanuova - Eri);
Salvatore Nocita (Catania). Per la sez. D (Poeti residenti
all'estero): I° Premio alla lirica Alba di Rita Cappellacci da Berna
(Svizzera). Premio speciale alla lirica E’ questa la vita di Walter
H. Brook da Londra (Gran Bretagna).
Leonardo Melchionda, La Gioconda XXI secolo,
olio su tela, cm 70x100
Milvia Lauro, Volo interrotto,
olio su tela, cm 60x80
Giuseppe Sofia, Paesaggio invernale,
olio su tela
93
Franco Clary, Il sogno invade la stanza,
olio su tela, cm 100x120
94
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Convivo 15 - Il Convivio