N° 9 - NOVEMBRE 2013 - CHESHVAN 5774 • ANNO XLVII - CONTIENE I.P. E I.R. - Una copia € 6,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1 comma 1 Roma
MEDIO ORIENTE
ITALIA
VATICANO
TUTTI
CONTRO TUTTI
IL MITO
DI PRIEBKE
INCONTRO CON
PAPA BERGOGLIO
SHALOM‫שלום‬
EBRAISMO INFORMAZIONE CULTURA
‫בס’’ד‬
L’ultimo saluto
Rav Ovadia Yosef,
tra i grandi maestri
dell’ebraismo
Anniversario del 16 ottobre 1943
FOCUS
EDITORIALE
I
l tema della raccolta dell’otto per mille, quello che i
contribuenti italiani devolvono allo Stato o ai diversi culti
riconosciuti, non è materia particolarmente brillante. E
mi sarei ben guardato dal trattarlo se non fossi stato
sollecitato da un articolo non firmato apparso sul giornale
dell’Ucei che propone una curiosa rappresentazione dei fatti,
addirittura in parte mistificandoli.
Tutti felici. Quest’anno il gettito complessivo è stato ben oltre
le aspettative: 5,2 milioni di euro (lo scorso anno era stato di
4,7). Ma quando si tratta di spiegarne le ragioni le cose
diventano fumose e l’Ucei ricorre ad uno strano indicatore,
mettendo in rapporto il numero dei firmatari dell’otto per
mille con gli iscritti ad una singola comunità (come se le firme
venissero quindi solo dagli ebrei e non dal complesso dei
contribuenti). Succede così che per l’Ucei le due maggiori
Comunità ebraiche di Roma e Milano, sono rispettivamente
ultima e penultima nella raccolta delle preferenze; in testa
alla classifica città dove quasi non vi sono ebrei come Parma,
Merano, Casale, Mantova. Scrive il giornale dell’Ucei: “la
raccolta è in genere scarsamente caratterizzata da fenomeni
locali, il suo andamento generale appare piuttosto uniforme”.
Ma la verità è un’altra e l’Ucei si guarda bene dal dirlo. Su un
totale di 79mila 833 firme a favore dell’ebraismo italiano (lo
scorso anno erano state 70mila), il contributo che viene da
Roma e Milano è fondamentale: sono addirittura le prime due
città in termini di sottoscrizione, Roma con 10.943 firme e
Milano con 10.766 firme, ambedue in crescita rispetto allo
scorso anno (insieme fanno oltre il 26% della raccolta dell’otto
per mille). Seguono Torino (4351 firme), Firenze (2213),
Venezia (2110) e poi la stragrande maggioranza delle città che
oscillano fra il migliaio e poche centinaia di sottoscrizioni, fino
al fondo della classifica con Benevento (71 firme), Enna (48),
Isernia (31).
Su 18 milioni e mezzo di dichiarazioni otto per mille, l’Ucei
raccoglie appena lo 0,43% dei contribuenti, ma se si guarda il
dato geografico la percentuale cresce sensibilmente
soprattutto a Roma, ben oltre il doppio, con lo 0,94% e a
Milano con lo 0,75%. Come dire che a Roma quasi 1 una
persona su 100 ha destinato l’otto per mille all’Ucei.
L’Unione delle Comunità dovrebbe quindi spiegare perché
abbia voluto minimizzare - meglio sarebbe dire, nascondere il contributo delle due maggiori comunità. Forse perché
questo dimostra che non si è realizzato il progetto inseguito
da anni, attraverso i suoi mezzi di comunicazione (il giornale
dell’Unione è sceso a 13.000 copie al mese, distribuite verso
un pubblico sostanzialmente solo ebraico), che voleva creare
un’immagine dell’Ucei fortemente percepita sull’intero
territorio nazionale. La verità dei numeri (quelli forniti
ufficialmente dall’Agenzia delle Entrate) è ben diversa:
in termini di raccolta dell’otto per mille, l’immagine
dell’ebraismo italiano risulta invece come è sempre stato,
ovvero a macchia di leopardo, con i due grandi centri
comunitari che - anche per una loro autonoma capacità di fare
informazione e di essere attivi sul territorio – hanno insieme a
Torino (guarda caso città con un proprio giornale ebraico) una
forte visibilità che si traduce in maggiori sottoscrizioni. Lo
riconosce lo stesso Assessore al Bilancio Ucei, Noemi Di Segni
che nella relazione scrive: “Non vi è dubbio che questo è un
risultato eccellente che dà riscontro alle iniziative delle
Comunità territoriali, dell’UCEI e di tanti singoli che si sono
adoperati per favorire questa maggiore raccolta”.
Bisognerà ora analizzare questi dati anche alla luce di un
bilancio Ucei 2012 condizionato dalla pesante macchina
organizzativa, parte della quale lavora solo per la
comunicazione finalizzata all’otto per mille. Scrive nella
relazione al Bilancio l’Assessore Di Segni: “... la quota
effettiva di gettito ottopermille che è distribuita, sotto forma
di trasferimenti diretti, alle Comunità ammonta
complessivamente a 54%. La percentuale effettiva di quota
ottopermille gestita dall’UCEI, compresa la prededuzione (pari
a 416mila €, relativa alla comunicazione otto per mille, ndr.),
ammonta a 41,5%. Agli enti esterni sono quindi assegnati
effettivamente 4,5 % del totale gettito”.
Sul totale delle uscite (6,2 milioni di euro), particolarmente
pesante è il costo del lavoro: i 28 dipendenti dell’Ucei costano
ogni anno complessivamente 1 milione e 456 mila euro
(mediamente 52 mila euro a dipendente). Altrettanto oneroso
è il funzionamento degli organi istituzionali (107mila euro) e
in particolare del nuovo Consiglio (52 membri), che si è
strutturato a sua volta in sottocommissioni, e per il quale ogni
anno si spendono quasi 56mila euro di rimborsi; a cui vanno
aggiunti 30mila € come compensi ai revisori.
La coperta per i finanziamenti è quindi molto corta. Alle 21
Comunità vanno complessivamente per il sostegno delle loro
attività 2,9 milioni di euro (a Roma l’Ucei ha destinato 1
milione di €). Rimangono ulteriori scarsi finanziamenti – per
appena 195mila euro - che l’Ucei ha destinato a 17 progetti di
Enti ebraici, fra questi: due progetti dell’Adei Wizo (10.000 €),
il Cdec (40.000 €), l’Ose (15.000 €), il Pitigliani per il Kolnoa
Festival (20.000), Shirat Hayam Centro Estivo Ostia (15.000 €),
la Deputazione Ebraica (25.000 €). L’Ucei gestisce inoltre otto
progetti strategici (formazione, scuola, servizi sociali,
assistenza gestionale, network piattaforma informatica,
indagine socio-demografica, Kasherut e Scuole rabbiniche), ai
quali destina il 10% del gettito, con un finanziamento
complessivo 420.703 €. Bisognerà vedere ora come verrà
distribuito un ulteriore importo derivante dal maggiore gettito
otto per mille non preventivato, pari a 968.636 €.
Un’ultima considerazione. Gli ebrei sono 24.169. I valdesi in
Italia sono 27.000, raccolgono 570mila firme e oltre 37 milioni
di €, spendendo per la comunicazione il 5% del totale delle
somme a disposizione; gli avventisti del settimo giorno sono
10.000, raccolgono 2 milioni 112mila € e per la campagna
informativa spendono 89.000 €, pari a circa il 4%; i luterani
sono 7.000, raccolgono 49.233 firme per 3 milioni 355mila € e
spendono in pubbblicità 108.000 € pari al 3,9%. L’Ucei dedica
alla comunicazione un investimento che non quantifica ma
che oscilla in modo prudenziale tra l’8 e il 15%, per una cifra
- dipende da come la si vuole contabilizzare - tra 416mila e
800mila €. “Lo scenario economico finanziario che si dispiega
- scrive l’assessore Ucei, Di Segni - è preoccupante e richiede
una profonda riflessione sulle azioni da intraprendere nel
breve e nel medio periodo, e sul ruolo che l’Unione è chiamata
a svolgere”. Come non essere d’accordo?
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
Otto per mille:
il dovere di informare
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COPERTINA
Le ragioni di un lutto collettivo
Al funerale di rav Ovadia Yosef hanno partecipato più persone di quante
non siano scese in piazza contro la guerra in Libano nel 1980
o per chiedere giustizia sociale ed economica nel 2011
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ttocentocinquantamila persone
hanno partecipato al funerale
di rav Ovadia Yosef zzl. Sarebbe meglio dire che 850mila persone hanno percorso chilometri a piedi
pur di partecipare al funerale, si sono arrampicate sui tetti di Yerushalaim pur di
vedere passare il carro funebre ed hanno
piantato in asso il lavoro o lo studio per
correre al cimitero come se fosse morto
un membro della loro famiglia.
La società laica israeliana, ma non solo
israeliana, guardando le immagini di questa imponente raccolta di persone si è resa conto che rav Ovadia Yosef zzl non era
solo il capo spirituale del partito religioso
sefardita Shas, non era solo lo scomodo
esternatore di frasi ben manipolate da un
certo tipo di stampa, ma era prima di ogni
cosa un grande maestro, un possek di raro genio, sensibilità e preparazione.
La morte di rav Ovadia ha fatto riunire
insieme più persone di quanto non abbiano fatto le proteste contro la guerra in Libano negli anni del 1980 o le manifestazioni per la giustizia sociale ed economica
del 2011. Un funerale che la stampa ha
definito come “l’accompagnamento funebre più imponente nella storia dello Stato
di Israele”. I commentatori, gli opinionisti
e gli analisti sociali con kippà e senza si
sono lanciati in tentativi di definizioni attraverso il concetto di “carisma”, “capacità sociale” o “vicinanza con il popolo”. In
pochi, pochissimi, sono andati diritti alla
radice del legame tra rav Ovadia ed il popolo ebraico: la Torà. Rav Ovadia era un
grande rav. Un grande insegnante. Un
grande comunicatore. Un rabbino capace
di parlare con parole semplici anche dei
concetti più difficili, capace di comunicare
con il popolo perché non ha mai dimenticato di venire dal popolo, capace di essere
un possek, un decisore halachico, dall’ampio respiro e dalla grande dote di saper
permettere prima ancora che vietare. Un
uomo, rav Ovadia, che come politico ha
saputo dare nuova dignità al mondo sefardita come ai tempi di Maimonide, facendo in modo, attraverso la Torà e la
politica stessa, che l’establishment rabbinico ashkenazita fosse costretto ad accettare sempre più dayanim e rabbini sefarditi nei ranghi della Rabbanut statale.
Se negli spazi laici dello stato di Israele
chiamarsi Haddad e chiamarsi Stein non è
la stessa cosa a favore del secondo rispetto al primo, nel mondo religioso grazie a
rav Ovadia le due presenze sono sullo
stesso piano. Questa realtà può spiegare
la massiccia presenza di sefarditi al funerale di Rav Ovadia: sono i suoi figli, i figli
spirituali, coloro i quali si sono lacerati le
vesti come si fa con un parente stretto al
momento dell’accettazione del lutto. Ma
non c’era sono solo sefarditi tra le 850.000
persone in lacrime. Molti dei volti addolorati erano etiopi.
Nel 1973 quando rav Ovadia divenne rabbino capo sefardita di Israele, in maniera
impiegato come mezzo per stabilire il legame nuziale con una donna specifica e
liberarla dichiarandola vedova. Seguire
quest’approccio così estremo significava
e significa mostrare una profonda sensibilità verso le donne.
Ma rav Ovadia ebbe a cuore, nel suo cuore di possek, anche la questione della pace e della sicurezza. In maniera palesemente diversa rispetto al mondo che lo
circondava già nel 1979 sosteneva i colloqui di pace e l’idea della restituzione dei
territori conquistati in guerra in nome
della pace, nonché la stessa idea della
un Bet Din che aveva come unico scopo
quello di fornire ogni soluzione halachica
possibile per liberare le donne agunot da
questa condizione. Si narra che persino
un anello nuziale con inciso un determinato nome di donna ed indossato da un
soldato caduto non riconoscibile veniva
restituzione dei terroristi arrestati in nome della restituzione dei soldati israeliani
rapiti e tenuti in ostaggio. Lo sguardo
verso il mondo militare e la sensibilità
verso chi difende lo Stato di Israele ha
portato rav Ovadia nel 2011 a riconoscere
le conversioni dei soldati all’interno del
Bet Din militare ed a sostenere il loro riconoscimento da parte del rabbinato centrale di Israele.
L’altro sguardo che possiamo avere su rav
Ovadia è quello politico legato ai conflitti
ed agli intrighi di corte di un movimento,
Shas, che ha molte luci e moltissime ombre e che per molto tempo ancora farà
parlare di sé e delle tristi lotte di potere
che oggi si accentuano dopo la morte del
Maran Ovadia Yosef zzl. Le ombre di Shas
e della sua corruzione sono pubbliche,
come lo sono le crociate contro il dissidente rav Haim Amsalem che sostiene l’arruolamento militare di charedim ed il loro
obbligo al lavoro. Ombra è l’assenza di
un’adeguata preparazione secolare nelle
scuole sotto influenza del partito Shas,
cosa che non permette alle masse sefardite una crescita laica all’interno di un paese, Israele, che tende da sempre alla discriminazione sefardita da parte della intellighenzia ashkenazita. In questo modo
Shas, non permettendo un reale riscatto
dei sefardim se non all’interno dei confini
religiosi, avrà sempre un bacino elettorale
al quale attingere. Queste ombre non devono però farci dimenticare il Maestro, il
grande maestro della nostra generazione
che ha influenzato profondamente la nostra ebraicità, indipendentemente dai
mondi ebraici di riferimento: qui a Yerushalaim tra le yeshivot che hanno dedicato intere giornate di studio alle decisioni
halachiche di rav Ovadia ed ai suoi responsa, c’era anche la Yeshivà Conservative di rechov Agron.
Se all’uomo politico Ovadia Yosef potremmo e potremo criticare molte azioni, al
Maestro dobbiamo portare il nostro tributo e perpetuare la forza dei suoi insegnamenti, la forza umana delle sue facilitazioni che hanno avvicinato e tenuto saldo
tanto mondo ebraico alla Torà.
Pierpaolo Pinhas Punturello
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rivoluzionaria e contraria alla maggioranza del mondo ebraico dell’epoca, compresi i Chabad, generalmente molto attenti
ad avvicinare gli ebrei “lontani”, affermò
che i Beta Israel etiopi erano ebrei in tutto
e per tutto, aprendo quindi le porte della
loro alyà e lavorando negli anni successivi
alla loro integrazione nella società israeliana. Questa ferma posizione di accoglienza verso il mondo etiope portò Rav
Ovadia a licenziare nel 2009 un dirigente
scolastico del gruppo politico Shas che si
rifiutava di accettare studenti etiopi.
La sua indiscutibile presenza di uomo di
Torà ha fatto in modo che anche moltissimi charedim ashkenaziti fossero tra coloro che hanno portato l’ultimo saluto a rav
Ovadia. Lituani, chassidim, chabad: un
intero ventaglio di radici est europee ha
pianto l’autorità halachica di rav Ovadia
pur nella distanza delle origini e dei mondi di formazione. Molte, moltissime le
donne presenti al funerale.
Il rapporto di rav Ovadia con l’altra metà
del cielo fu tutt’altro che scontato e monolitico. Ha sempre sostenuto il dovere dello
studio per le donne, la necessità di una
loro formazione e di una loro educazione
scolastica e persino accademica ed è stato sempre molto sensibile al tema delle
agunot, le donne abbandonate dai propri
mariti senza aver ricevuto un divorzio e
quindi senza prospettive di nuovi matrimoni e nuove vite. Sempre nel 1973, dopo
la guerra dello Yom Kippur, in quanto
rabbino capo sefardita Rav Ovadia istituì
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COPERTINA
Meglio permettere che vietare
Questo era l’insegnamento principale di rav Ovadia Yosef
che per le sue innovative decisioni halachiche è considerato unanimemente
uno dei grandi Maestri dell’ebraismo. Lo racconta un suo talmid chacham,
rav Moschè Hacmoun, rabbino del Bet El di Roma
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l rabbino Ovadia Yosef, leader spirituale della comunità
ebraica sefardita è morto all’età di 93 anni, lunedì sette ottobre, tre di Cheshvan 5774. È stato il rabbino Capo di
Israele dal 1973 al 1983 e nel 1984 ha contribuito alla nascita del Shas, il più importante partito politico religioso israeliano.
È stato colui che riuscito a trasformare la comunità sefardita, a
dargli un ruolo ragguardevole come forza sociale, politica e religiosa. Dalla sua casa di Gerusalemme esercitava un'enorme influenza su autorità religiose e civili, intellettuali e no, studenti e
persone che da ogni parte del mondo giungevano per chiedergli
consigli e suggerimenti. Le sue decisioni halachiche sono divenute un punto di riferimento per tutti gli ebrei, al di là della
provenienza d’origine.
Come hanno testimoniato le immagini dei funerali, ai quali hanno partecipato più di ottocentomila persone, la sua
popolarità e la sua autorevolezza facevano breccia anche negli strati
della popolazione meno
vicini all’ortodossia. Rimane di lui, oltre alla
grandiosità della sua attività, l’immagine sempre ben curata con il turbante, l’occhiale fumè e
la tunica risalente all’antica tradizione sefardita,
mentre impartisce lezioni di Torà sorseggiando
il suo thè caldo al quale
non faceva mai a meno. Abbiamo parlato con Rav Moschè Hacmoun, rabbino del Bet El di Roma che l’ha conosciuto.
Perché è stata importante la figura di Rav Ovadia Iosef?
Perché il suo grande amore per il popolo di Israele non vedeva limiti e confini: non era raro vederlo lacrimare per le sofferenze altrui e cercare di dare il meglio di sé per risolvere questioni per le
quali si rivolgevano a lui. Questa è stata la grandezza del “Maran”: quando sentiva una tragedia, una qualsiasi disgrazia, immediatamente il suo cuore si spezzava. Ottocentocinquantamila
persone lo hanno accompagnato nel suo ultimo viaggio, persone
che si sentivano in una condizione di impossibilità di ringraziare
per tutto il bene che hanno ricevuto, verso colui che ha illuminato
ed elevato il loro spirito, che ha abbellito la loro Torà e cultura.
Una Torà che cammina, che non si è fermata fino al momento finale: questo è stato Rav Ovadia Yosef. Egli sarà per sempre ricordato come tra i più grandi nella storia della nazione per l’influenza
decisiva e culturale sul popolo d’Israele insieme a Moshe Rabbenu, Rambam e Rabi Yosef Caro. Nostro Morè e Rav.
Ci racconta il suo incontro con il Rav?
Negli anni ’90, una volta terminato il mio servizio militare, ero
solito recarmi ogni venerdì al Bet Amidrash “Yechave Daat” presso il quartiere Har Nof di Gerusalemme. E una volta terminata la
preghiera, Rav Ovadia teneva una lezione di Halachà sulle questioni più attuali. Dopo di che, era possibile conversare con lui e
porgli questioni più personali e private. In quel periodo ero allenatore nazionale di squadre di spicco e rinomate, fattore che implicava un grande investimento di energie e tempo. Ragion per cui
non avevo spazio per potermi dedicare allo studio della Torà. E la
mia domanda al Rav è stata: ”Dovrei continuare a occuparmi della pallacanestro o abbandonare la mia carriera per dedicami alla
Torà quanto più possibile?”. La sua risposta è stata, inaspettatamente, di continuare ad occuparmi del basket perché “la santificazione del Nome di Hashem viene effettuata nel cuore dell’Israele laica”, ossia secondo lui l’uscita nel mondo sportivo, lontano
dalla Torà e dalle mizvot, ha la necessità di persone che possano
e che abbiano la capacità di essere una dugmà Ishit (un esempio
personale) soprattutto
per coloro che sono lontani dalla cultura religiosa. Ci troviamo di fronte
a una risposta rivoluzionaria: osservare una mitzvà che può “santificare” il nome di D. attraverso la messa in pratica
delle regole ebraiche
nella vita di colui che lavora nell’ambito dell’eduzione sportiva.
Quali erano state le sue
origini?
Rav Ovadia Yosef nacque a Baghdad nel 1920,
all’età di soli 4 anni “sale” spiritualmente e si
trasferisce in Israele con
la sua povera famiglia. Si
stabiliscono a Yerushalaym, dove il padre apre un negozio di verdura. All’età di 9 anni, per contribuire al mantenimento economico
della famiglia (Parnasat Amishpachà) lavora nel negozio del padre, sebbene fosse interessato a dedicarsi completamente allo
studio della Torà. I rabbini della Yeshivà, nella quale studiava,
“Porat Yosef”, si rendono conto della dote che questo bambino
possedeva, una dote accompagnata da una passione innaturale,
ragione per cui spronano i suoi genitori a fargli abbandonare il
lavoro e a farlo dedicare interamente alla Torà, assicurandogli,
anche, un futuro senza dubbio di successo. E così fu.
E’stato un Posek (decisore) che ha scritto molto?
Nel corso della sua vita Rav Ovadia Yosef ha scritto una cinquantina di libri che sono diventati il patrimonio letterario di Halachà
più importante ed utilizzato degli ultimi tempi. La sua creazione,
enciclopedia halachica composta da quesiti e risposte intitolata
“Yabia Omer”, mi ha accompagnato fin da quando ero ragazzo: la
sua unicità, la ricchezza di fonti hanno avvicinato non solo la parte religiosa di Israele, ma anche quella laica, ed hanno fatto sì che
questa composizione abbia vinto il Pras Israel (Premio di Israele).
Ha conquistato la reputazione di essere tra i più coraggiosi, dopo
essersi preso cura della causa degli ebrei etiopi affermando con
audacia che essi non avevano la necessità di convertirsi in quanto
ebrei a tutti gli effetti. Questa sentenza ha avuto l’importante
funzione di portare il governo israeliano ad occuparsi della que-
Il Rishon di Zion
“I
l Rishon di Zion (annuncerà) eccoli qua, darò un annunciatore a Gerusalemme (Isaia 41,27)”.
La partecipazione massiccia alle esequie di Ovadia
Yosef z.l., paragonata alla rivelazione del Sinai, ha fatto
affermare al Rav, anzi Chacham, Eliahu Ben Haiim, Rosh Yeshivà
sefardita della Yeshivà University:
“Come la Torà è stata data alla
presenza di seicentomila persone,
così è stata ripresa alla presenza di
seicentomila persone”.
La dipartita del più influente
Rishon Le Zion del nostro secolo
fornisce l’occasione tra l’altro di
riflettere sulla profonda differenza
che esiste tra il titolo sefardita di
Rishon Le Zion ed il generico Rav
Ha Rashi, Rabbino Capo Ashkenazita di Israele. Oltre alla fonte biblica citata dal profeta Isaia, il titolo e
la vicenda storica relativa meritano
la nostra attenzione ed emozione.
Reuven Kashani venti anni fa pubblicava un’opera in ebraico dedicata alla storia di questa istituzione dall’esilio babilonese (Resh
Galutà) al Naghid Sefardita. Bisogna attendere il 1525 per tornare
a proporre il ruolo di Rishon Le Zion insieme con il Chacham Bashi
per l’impero ottomano. Il termine fu una conseguenza del tentativo del rinnovo della Semichà (investitura rabbinica) a Zefat da
Rabbi Yaakov BeRav. Sicuramente la tensione dell’epoca continuò
negli anni successivi, senza porre mai in discussione il ruolo centrale di Gerusalemme come centralità del potere.
Il primo Chacham Bashi di nomina governativa fu Rabbì Eliahu
risolse tutti i casi di agunà, cercando qualsiasi appoggio dell’Halachà per liberarle. Il fatto che ogni caso sia stato preso in considerazione, accuratamente, dimostra non solo una grande sensibilità, bensì una grandissima responsabilità, una responsabilità che
moltissimi, se non tutti i rabbini, non si sono azzardati a prendere.
Rav Ovadia ha allevato molti alunni, qualcuno era il suo pupillo?
I suoi figli, che sono stati e sono i capi delle Yeshivot da lui costituite: Rav Yaakov Yosef z.l. che è deceduto qualche mese fa, R.
Itzack Yosef che è l’attuale Rabbino Capo d’Israele sefardita, Rav
Avraham Yosef, Rav David Yosef e Rav Moshe Yosef.
Come era il rapporto con la politica?
Differentemente dall’opinione comune, egli non amava la politica
ma la utilizzava, al massimo, come mezzo e tramite di diffondere
la Torà e le tradizioni sefardite presso coloro che facevano parte
degli strati della società anche più lontani da essa.
Jonatan Della Rocca
Nella foto a sinistra: rav Ovadia Yosef
al matrimonio di rav Moschè Hacmoun
Capsali, nominato da Maometto II; dopo di lui abbiamo Eliahu
Mizrachi (Re’em) ed altri grandi Rabbini fino al 1864 dove una
fonte legislativa turca stabiliva che il Chacham capo di Costantinopoli fosse il capo di tutta la nazione ebraica che risiedeva
nell’Impero Ottomano. Il Chacham Bashi vestirà con manti regali
ed avrà un turbante sul capo.
Il titolo Chacham fu diffuso nella Comunità Sefardita di Londra e
persino il Rabbino di Bagdad stendeva la sua autorità in Iraq come
Chacham Bashi.
Il termine Rishon Le Zion ha origine dalla scelta del Rav HaMaghen,
R. Moshè Galante che rifiutò nel
1665 il titolo di “Rabbino e Presidente del Tribunale di Gerusalemme” preferendo il titolo di Rishon
Le Zion.
Il primo titolo di Chacham Bashi di
Erez Israel venne dato nel 1842 a
Rabbi Haiim Gagin che unì al titolo
Chacham Bashi anche quello di
Rishon Le Zion. Lo storico M. D.
Gaon stilò una lista di Rabbanim di
Jerushalaim dal 1437 al 1939 in cui
venne nominato Rishon Le Zion
con decreto Ben Zion Meir Hai Uziel.
Il luogo dell’insediamento del Rishon Le Zion è la Sinagoga Iochanan Ben Zakkai nella Città vecchia e dalla fine dell’impero ottomano, precisamente dal 1921, fu scelto di eleggere due Rabanim
Rashim, uno askenazita chiamato Rabbino Capo d’Israele ed il suo
ben zug, compagno di studio e collega sefardita, chiamato Rishon
Le Zion.
Voglia il Signore concedere alla nostra generazione di vedere realizzata la profezia di Isaia: “Ecco sta per venire il primate di Zion
ed a Gerusalemme darò un annunciatore”.
Rav Umberto Piperno
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
stione e a trasferirli immediatamente in Israele. È inoltre noto come lui abbia cercato di contrastare l’autorità halachica ashkenazita in Israele, innalzando il nome e le tradizioni dei sefarditi considerandole assolutamente di pare valore, se non superiori, a quelle
degli ashkenazim.
Perché Ovadia ha avuto così tanto seguito?
Una volta divenuto Rabbino Capo di Israele si ripromise pubblicamente di seguire la strada di Beth Hillel, un cammino che ha cercato di facilitare le halachot al fine di avvicinare Am Israel alla
Torà. Soleva dire nelle sue lezioni: “Coach deeter adifa”, ovvero
“la forza di permettere, di dire che qualcosa è permesso viene
preferita”, spiegando che, come è stato affermato anche da Rashi,
facile proibire, dire di no, ma è indubbiamente più difficile permettere: scavare fino in fondo, faticare nel cercare appoggi e opinioni
che possano alleggerire e risolvere situazioni complicate e sensibili. Questo deriva da un grande Ahavat Israel: un amore senza
confini, che cerca di prendere ogni caso accuratamente come
proprio, se non di più. Ed è proprio l’amore illimitato che non vede
barriere e che mette la vita del prossimo in precedenza alla propria che dimostra quanto Rav Ovadia Yosef sia stato un Gadol
Israel (un grande d’Israele).
Quali sono state le decisioni più importanti come Rabbino capo
d’Israele?
Dopo la guerra di Kippur, nell’ottobre del ’73, gli venne chiesto dal
Generale dell’IDF, l’esercito israeliano, di trovare una soluzione
per le ottocentocinquanta donne i cui mariti erano dati persi in
battaglia, presumibilmente morti. Se non si fosse trovata alcuna
prova che testimoniasse le loro morti, queste donne sarebbero
state aduno - “incatenate” ai loro matrimoni e impossibilitate a
risposarsi secondo la legge ebraica. E nel 1976, Rav Ovadia Yosef
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COPERTINA
Storia delle Pantere
Nere d’Israele
Negli anni ’70 i ‘Pantherim Shechorim’
furono un gruppo estremista
che rivendicava i diritti per i sefarditi
S
e ci si imbatte in qualcosa di paradossale, si finisce prestissimo per incontrare un buon numero di ebrei addetti ai lavori. Uomini e donne che da ormai 70 anni possono vivere
anche a Tel Aviv o Gerusalemme. Insomma, sono israeliani.
E’ appena iniziato il 1971, quando all’aeroporto di Lod sbarca una
dirigente del Partito Comunista degli Stati Uniti d’America vicinissima anche al Black Panthers Party, il più radicale dei movimenti
afroamericani, successivamente scivolato sulle posizioni antiebraiche-antisioniste dei cosiddetti Mussulmani Neri di Louis Farrakhan. All’epoca i controlli di sicurezza erano piuttosto rudimentali,
e tutti si sentivano molto più inutilmente ottimisti di quanto sia
invece possibile oggi. Angela Yvonne Davis (che ormai ha 69 anni,
e nessun ebreo in famiglia, proprio come allora) voleva incontrare i
con un suo gruppo di estrema sinistra. Ancora in piena militanza, è
morto nel 2007. Già nel 1973 la Guerra di Yom Kippur aveva cambiato completamente le carte in tavola. Poi la pace con l’Egitto di
Anwar el-Sadat permise a Israele di dedicarsi ai problemi interni.
La direzione del paese passò alla destra e al suo capo storico, Menachem Begin. I mizrahi trovarono nella tradizione sefardita il più
forte cemento per la propria particolare identità, e quindi nel sionismo fondato sulla alakhà la base per una rinnovata azione politica.
Il partito religioso Shas ne rappresentò gli interessi con fermezza e
successo. A Gerusalemme, il quartiere di Musrara dove Saadia
Marciano aveva abitato fin da bambino e dove aveva creato le sue
“Pantere” appare oggi una zona privilegiata, ricca di musei, gallerie d’arte e centri culturali. Ma negli anni ’50 del secolo passato,
prima della riunificazione e della Guerra dei Sei Giorni, si trovava
quotidianamente sotto il tiro dei cecchini giordani che rendevano
molto pericolosa la vita dei residenti. Saadia Marciano e le pantere
sostenevano, forse giustamente, che dopo la nascita dello Stato
ebraico i luoghi più precari e pericolosi risultavano destinati agli
ultimi arrivati. L’Operazione Tappeto Volante (50.000 ebrei dallo
Yemen), i pogrom di Baghdad e delle altre grandi capitali arabe
d’oriente e del nordafrica, sembravano insomma aver fornito a Israele il popolo dei suoi difficili, insicuri confini.
Piero Di Nepi
Nella foto in alto: Angela Davis, a sinistra: Saadia Marciano
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LA RIVINCITA DEI MIZRAHI
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dirigenti di un forte movimento di protesta degli olim immigrati in
Israele dopo l’espulsione in massa dai paesi arabi. I cosiddetti
“Mizrahi”, ebrei “d’oriente”, costituivano quasi il 60% della popolazione ebraica. Si trattava allora - e lo è tuttora - di una componente decisiva della società israeliana, ma in qualche modo penalizzata
dal prevalere degli askenaziti nelle istituzioni e nell’economia. Il
problema si era seriamente aggravato con l’arrivo degli ebrei russi
dall’Unione Sovietica, che ricevevano un trattamento ritenuto di
favore rispetto alle durissime condizioni che i mizrahi avevano trovato all’inizio degli anni ’50. Angela Davis intendeva verificare la
possibilità di una saldatura politica tra gli obiettivi riformisti di Saadia Marciano, uno dei leader mizrahi, e i gruppi palestinesi. Progetto naturalmente impraticabile, e Angela Davis tornò a casa
senza risultati. Ma Marciano aveva acquisito tutti gli elementi necessari per fondare il partito semirivoluzionario e ultralaicista delle
Pantere Nere d’Israele. Il laburismo israeliano dirigeva allora lo
Stato sotto la guida molto energica Golda Meir, erede di David Ben
Gurion e di Levi Eshkol. Immediatamente Pantherim Shechorim fu
di fatto individuato come minaccia per la sicurezza nazionale in un
momento difficile. Il 18 maggio 1971 si verificarono a Gerusalemme
scontri violentissimi tra la polizia e 7.000 manifestanti. Ci furono 74
arresti e 20 feriti, anche gravi. La storia seguì poi altre strade.
Saadia era nato a Oujda in Marocco nel 1950. La famiglia raggiunse
Israele in quello stesso anno. Nel 1977 Marciano entrò alla Kneseth
A riempire di una folla mai vista le strade di Gerusalemme per
i funerali del Gran Rabbino Ovadia Yosef scomparso all’età di 93
anni, la sera del 7 ottobre - 4 Chesvan 5774 - erano forse in
850.000. Però le autorità, proprio come qui da noi, hanno preferito giocare al ribasso ed alla tosatura dei numeri, fornendo la
cifra ufficiale di non più di mezzo milione di persone. Comunque impressionante, per un paese che accoglie sei milioni di
ebrei, per la maggior parte non strettamente osservanti. Ma
anche se Ovadia Yosef è stato un uomo di assoluto carisma
spirituale nello Stato ebraico, al di là della devozione e del riconoscersi nella tradizione sefardita gli uomini, le donne i bambini che sono accorsi da tutto Israele per accompagnarlo nel suo
ultimo viaggio in questo mondo, volevano sicuramente proclamare un fortissimo “Ci siamo anche noi!”, anzi “noi soprattutto”. Ed è un ci siamo di decisivo valore politico. Qualcuno infatti li chiama impropriamente sefarditi d’Israele, altri con sfumature non del tutto amichevoli li definiscono “maghrebi” cioè
nordafricani, ma in realtà il termine riconosciuto da tutti è
“mizrahi”, ebrei d’oriente. Ebrei che riconoscono le proprie radici nei paesi di cultura islamica dai quali dovettero fuggire,
dopo l’ondata di pogrom spietati che precedettero e poi seguirono la fondazione di Israele. Si sentono ancora penalizzati
dalla formazione sostanzialmente askenazita della classe dirigente, e sono convinti di costituire la vera forza demografica e
militare dello Stato. Gli israeliani mizrahi esigono dunque parità
nell’amministrazione, negli affari, nelle università, e ormai anche nelle yeshivot. Tuttavia, nell’esercito e nella sicurezza nazionale occupano posizioni di grande rilievo. Quale sia la verità
vera, trattandosi di ebrei, è materia di contesa, che si prolungherà per tempi non prevedibili. Chi conosce bene Israele sa
che probabilmente hanno ragione loro.
(P.D.N.)
L’ebraismo askenazita? È nato nella Roma Imperiale
È il risultato rivoluzionario di una ricerca genetica della New York University
convertivano poi alla nuova religione”, spiega Richards. “In base ai nostri dati”, aggiunge, “l'80 per
cento delle linee di discendenza materne degli
askenaziti proviene da donne indigene italiane”.
“Circa 2000 anni fa, nella città di Roma prosperava
un’ampia comunità ebraica di cui facevano parte
numerosi convertiti”, continua il genetista. “Si stima che fossero ben 6 milioni gli individui che agli
albori dell’Impero Romano praticavano l’ebraismo”.
Lo studio di Atzmon e Ostrer esamina invece i marcatori genetici e autosomi di entrambi i sessi, giungendo però alla stessa conclusione: gli Askenaziti
discendono da donne dell’Europa meridionale e
occidentale e non dalla Palestina o dall’Impero Cazaro come molti credevano.
Secondo il New York Times il legame genetico
askenaziti-sefarditi che emerge dallo studio è un
risultato straordinario che smentisce la tesi sostenuta dal controverso storico israeliano Shlomo Sand
nel libro The Invention of the Jewish People, nel
quale afferma che gli ebrei askenaziti dell’Europa
centro-orientale discenderebbero dai Cazari, una
tribù turca che si convertì al giudaismo nel XII secolo e creò un
impero nel Caucaso.
Sempre secondo Sand il popolo ebraico non esiste perché la diaspora ebraica sarebbe soltanto il frutto di una leggenda, creata dai
sionisti a fini opportunistici. La scienza però lo smentisce. “La
parentela genetica tra askenaziti e sefarditi esiste ed è provata”,
afferma Ostrer. “La firma genomica delle due comunità è molto
simile a quella degli italiani”, continua Ostrer, “da ciò si deduce
che gli avi di entrambi siano stati un’antica popolazione dell’Italia
settentrionale composta da ebrei sposati con italiani. Anche durante il Medioevo”, spiega, “vi sono state moltissime interazioni
matrimoniali tra italiani ebrei e non”.
Resta da capire se questa nuova ricerca avrà implicazioni culturali
o religiose visto che l’affiliazione all’Ebraismo per via materna vige
ormai dal 200 d.e.v. “Avevo previsto polemiche e forti reazioni alle
nostre tesi”, ribatte Richards, “credo però che esiste il modo per
conciliare la nostra scoperta con le posizioni di altri studiosi: considerare che i progenitori maschili degli askenaziti provengano dal
Medio Oriente mentre le matriarche siano di origine europea”.
Alessandra Farkas
Dall’alto: Harry Ostrer e Martin Richards
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
N
EW YORK – Quattro matriarche ebree
vissute in Italia all'inizio dell'Impero Romano sono le antenate comuni dell'80 per
cento della popolazione di ebrei askenaziti, il gruppo che costituisce oggi la maggioranza
della popolazione ebraica mondiale (il 90% degli
ebrei Usa, il 50% in Israele). Lo rivela un nuovo studio pubblicato sulla rivista Nature Communications
secondo cui le donne della fiorente comunità ebraica
romana di 2000 anni fa sarebbero le progenitrici
dell'intero popolo ebraico della Mitteleuropa.
Basata sull'analisi genetica delle sole linee matriarcali, la ricerca di Martin Richards dell’Università di
Huddersfield in Gran Bretagna sembra corroborare
un altro studio fondato sull’esame dell’intero genoma, realizzato da Gil Atzmon dell’Albert Einstein
College of Medicine e Harry Ostrer della New York
University che individuava una comune discendenza italiana sia per gli Askenaziti che per i Sefarditi.
Lo studio di Richards conferma dunque la stretta
parentela genetica tra due comunità per tanto tempo divise e persino rivali: askenaziti e sefarditi.
“Considerate le somiglianze genetiche tra i due gruppi”, spiega
Richards, “si deduce che all’antica popolazione ebraica della Roma imperiale appartengono non solo le progenitrici degli askenaziti ma anche quelle dei sefarditi di Spagna e Portogallo”.
Precedenti studi genetici avevano stabilito che le comunità
ebraiche della diaspora erano state fondate da uomini i cui cromosomi Y (trasmessi dal padre ai soli figli maschi) avevano sequenze
che si riscontrano di solito in Medio Oriente. La sorpresa è arrivata quando i genetisti hanno studiato il Dna mitocondriale femminile trasmesso esclusivamente dalla madre a tutti i figli e considerato lo strumento ideale per ricostruire gli alberi genealogici.
Con l’intero genoma mitocondriale oggi a disposizione, Richards è
riuscito a dimostrare che molte comunità ebraiche al di fuori d’Israele hanno origine dal matrimonio tra uomini provenienti dal
Levante e donne locali “italiane” poi convertitesi all’ebraismo. Gli
esperti sono giunti a questa conclusione comparando le variazioni
genetiche all’interno delle comunità ebraiche con quelle della
popolazione locale non ebraica.
“I risultati suggerivano un modello di migrazioni in cui gli uomini,
con molta probabilità mercanti, arrivavano da soli dalle regioni del
Medio Oriente e prendevano in moglie donne del posto che si
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MEDIO ORIENTE
Il miracolo di Obama
L’inconcludente politica statunitense, incapace di fermare la minaccia nucleare iraniana,
ha paradosslamente avvicinato Israele all’Arabia Saudita. Nel nuovo Medio Oriente il conflitto
non sarà con i palestinesi ma una feroce contrapposizione tra sciiti e sunniti
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I
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l grande spettacolo del rovesciamento
delle alleanze mediorentali è cominciato, e le sue conseguenze sono tutte
da disegnare. E’ un giuoco di scacchi
molto pericoloso che, come sempre, comincia in casa Obama. Fino ad ieri gli Stati
Uniti avevano un alleato principale nel
mondo arabo, l’Egitto. Certo, esso non era
più importante di Israele nella strategia
americana, ma aveva una funzione stabilizzante insostituibile. Quando la Fratellanza
Musulmana ha preso il
potere, Obama ha compiuto
un passo falso: l’ha abbracciata come fosse portatrice di
democrazia, con un certo
cinismo nei confronti della
parte laica del Paese, perché
anche lui sa, proveniendo per
la metà della sua storia dal
mondo musulmano, come la
sharia non sia gradita proprio
a tutti coloro che sono nati
islamici. Ma nell’abbraccio
americano verso al Ikwan,
che comprendeva anche le
forze vincenti tunisine e tutto
ciò che è connesso in varie
maniere alla stessa sigla,
inclusi i turchi di Erdogan e
vari gruppi libici o siriani,
Obama si è illuso di realizzare la sua
grande rivoluzione strategica che punta a
un abbraccio mondiale fra cristiani e
musulmani, con annessa la frangia del conflitto israelo palestinese. Ma non gli è riuscito: tutti ricorderanno come il generale
Sisi abbia interpretato la furia del popolo
egiziano di fronte alla presa del potere di
una parte che forse poteva ambire quanto
a voti all’egemonia ideologica, ma che ne
aveva fatto il peggiore di tutti gli usi praticando di nuovo, come al tempo di Mubarak,
la prepotenza settaria e la corruzione. La
sconfitta di al Ikwan si è posta come un
grande punto interrogativo per Obama,
che comunque ha puntito Sisi con cautela,
togliendoli solo una parte dei finanziamenti americani: chi sarebbe stato ora il suo
interlocutore ideale per il grande abbraccio
fra le due religioni trainanti?
La domanda è giunta mentre il Medio Oriente è preda di una grande guerra fra sunniti e sciiti. Ma la sconfitta della grande
forza egiziana ha messo in rilievo, senza
possibilità di smentita, una frattura verticale anche nel mondo sunnita, perché se è
vero che oggi tutti i confini del Medio Oriente sono di nuovo in discussione a causa
dello scontro fra le due correnti basilari
dell’Islam, appunto quella sciita e quella
sunnita, pure all’interno di quest’ultimo
gruppo, che è maggioritario, non esiste un
solo leader come per gli sciiti, dove l’Iran
predomina senza sfidanti. Fra i sunniti,
oltre all’Egitto l’altra grande potenza è
quella Saudita, con Sisi soddisfatto della
caduta dei Fratelli Mussulmani che in nome
di un nuovo panislamismo, stavano cercando un’alleanza egiziana col grande nemico,
l’Iran sciita e presto anche nucleare.
Per gli americani una speranza di stabilità
era nel passato venuta anche dalla Turchia, ma Erdogan ha follemente esagerato
nella sua visione ottomano-islamista, che
l’ha spinto a credere di poter prendere la
guida del mondo ispirato dai Fratelli
Musulmani e ristabilire l’impero Turco.
L’ha fatto però con due tattiche fallimentari: la repressione dei costumi laici nel suo
Paese, che ha suscitato grandi manifestazioni soffocate nella violenza, e con un
odio antisraeliano che è sfociato, dopo
molti atti di intolleranza, nella incredibile
consegna di una rete del Mossad ai vicini
iraniani e al sostegno scriteriato di Hamas.
I Sauditi intanto hanno in questi ultimi due
anni individuato il loro maggior problema
nella questione siriana, punta di diamante
delle strategie iraniane. Assad ha resistito
tanto a lungo perché puntellato da uomini,
armi, stretegie tutte messe a punto dal
regime iraniano degli ayatollah e dai guerriglieri Hezbollah, che con Assad hanno
assassinato e compiuto razzie. L’asse sciita
è stato a un centimetro dall’essere attaccato militarmente da Obama, quando Assad
ha usato contro il suo popolo il gas venefico
Sarin sorpassando la cosiddetta “linea
rossa”. Ma non è accaduto. Al contrario,
l’accordo di Obama con la Russia (che è
l’altro grande alleato strategico di Assad
perché Putin vede in lui un presidio strategico in Medio Oriente e ha nel porto di
Tartus l’accesso russo al Mediterraneo) per
distruggere senza intervento militare le
armi chimiche di Assad, non solo ha risparmiato il rais siriano dopo 100mila morti, ma
lo ha in certo modo garantito. Infatti nessuno potrà cacciarlo via finchè
l’accordo della consegna delle
armi di distruzione di massa
nelle sue mani non verrà concluso, chissà quando.
Contemporaneamente all’accordo che ha reso furiosa non
solo l’Arabia Saudita ma tutti
i paesi del Golfo, si è consolidata la famosa politica della
mano tesa dell’Iran, in realtà
una scatola vuota riempita
solo dai sorrisi del nuovo
presidente iraniano Rouhani
all’ONU e dall’idea mai sostanziata di realtà che, tramite
i colloqui in corso, si possa
arrivare a una svolta nell’arricchimento dell’uranio. La
verità è che l’Iran ha un
bisogno disperato di ridurre le sanzioni che
ne rovinano l’economia, che cerca di indurre
il mondo a diminuirle, e che sta guadagnando tempo come peraltro, per affermazione
dello stesso Rouhani nel 2005, ha già fatto:
una strategia consolidata nella quale
Obama e dietro di lui tutto il mondo occidentale è cascato senza battere ciglio e che
i sauditi non possono accettare, perché per
loro il rischio di un Iran nucleare è inaccettabile e definitivo.
Dunque, mentre il consesso internazionale
spera in un accordo negoziale con l’Iran,
chi è rimasto a dire che i colloqui di fatto
servono all’Iran per mettere in salvo il suo
progetto atomico, è Israele - che ha dichiarato che se la bomba atomica iraniana
fosse in vista non avrà paura di fermarla
da solo - e una parte del mondo arabo,
ovvero i Sauditi e i loro alleati. Un’alleanza
oggettiva, che potrebbe allargarsi di molto
nel mondo sunnita. Ciò significa però dissentire vigorosamente dalla politica americana. Israele temporeggia ed esita, ma i
Sauditi hanno compiuto un passo molto
pesante: si sono rifutati infatti di entrare a
far parte del Consiglio di Sicurezza
dell’ONU sostenendole l’inutilità. Infatti,
hanno detto i rappresentati del re saudita,
negli scorsi mesi il Consiglio ha sempre
coperto Assad con il veto russo, e adesso è
inane testimone dell’avventura che il
mondo intraprende lasciando che Assad
continui la sua strage coperto di fatto dalla
forza iraniana, a sua volta diventata potabile per via del nuovo atteggiamento
americano. Un vero attacco a Obama,
innanzitutto che mette a rischio grandiosi
commerci di petrolio e di armi e la grande
base americana che ha sede negli Emirati.
Dunque, per strano che possa essere, mentre Obama tenta il suo vagheggiato riavvicinamento delle civiltà stavolta scegliendo,
anche se con qualche apprensione, la parte
sciita, quella sunnita, almeno dal lato saudita, sceglie una linea che somiglia a quella di
Israele, così come altre componenti interessate a dire al mondo che a loro il conflitto
maggiore non appare certamente quello fra
israeliani e palestinesi, ma quello fra sunn-
iti e sciiti. Così per esempio i trenta milioni
di curdi che ambiscono a un loro Stato.
Che cosa Obama pensi di potere ottenere
con la trattativa iraniana non si sa, ma
forse, e lui non lo sa, il risultato non previsto può essere una pace sunnita-israeliana
dettata da comuni interessi antiraniani.
Non è un caso che il mondo palestinese si
stia in queste settimane invece riavvicinando ad Assad.
Fiamma Nirenstein
Alla scoperta
dell’enogastronomia
ebraica
domenica 17 novembre
dalle 10.00 alle 19.00
Palazzo della Cultura
via del Portico d’Ottavia 73
Roma
Ingresso gratuito
mail: [email protected]
facebook: Gusto Kosher
twitter: @GustoKosher
Prodotto da
In collaborazione con
Con il patrocinio di
Ambasciata di Israele in Italia
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Gusto
Kosher
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MEDIO ORIENTE
Un Medio Oriente
che sta andando in frantumi
Circolano delle cartine in cui Siria, Irak, Libano, Arabia Saudita, Libia vanno a pezzi
e le entità che ne escono si ricompongono secondo linee tribali, religiose, geopolitiche.
Israele sta nel mezzo e l’America è lontana
C
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
ome in ogni città italiana che si rispetti vi sono alcune
decine di migliaia di allenatori potenziali della squadra di
calcio locale, che chiacchierando al bar sono capaci di
fare molto meglio di chi per puro caso si trova davvero in
panchina a dirigere i calciatori, così il mondo ebraico è pieno di
potenziali primi ministri che farebbero la pace molto meglio e molto
prima di Netanyahu e dei suoi predecessori.
Purtroppo, nel calcio come in politica, le cose sono un tantino più
complicate di quel che sembra e bisognerebbe fare attenzione prima di dare ricette. Per esempio non si capisce facilmente chi sta con
chi e chi sta contro.
Prendiamo per esempio la Siria. Gli Stati Uniti sono arrivati a un
passo da bombardare le truppe di Assad per via del loro uso di gas
velenosi, Israele un paio di volte, a quanto si dice, l’ha dovuto fare
12
per evitare il trasferimento di armi perfezionate e soprattutto di gas
velenosi a Hezbollah. Gli Usa hanno approvato Israele? Per nulla,
anzi hanno fatto trasparire il loro dissenso con alcune pericolose
soffiate sulle modalità degli attacchi israeliani. La Turchia, d’altro
canto, è insoddisfatta della passività americana; dovrebbe dunque
approvare le azioni israeliane; e invece no, le condanna come violazione della sovranità siriana, proprio mentre bombarda nel territorio siriano. Arabia Saudita e Qatar sono anch’essi per i ribelli; ma
mentre l’Arabia Saudita appoggia i generali egiziani (che combattono nel Sinai Hamas, anch’esso anti-Assad), la Turchia e il Qatar
sono contro i generali egiziani e pro Assad. Gli Stati Uniti sono
contro gli egiziani, ma ancora - si spera - contrari ad Hamas. Arabia
Saudita ed Egitto sono contro l’Iran, che è il principale sostenitore
di Assad, ma la Turchia tiene con Teheran dei rapporti piuttosto
cordiali. Insomma, è difficile capire qualche cosa del balletto intorno alla guerra, come è difficile mettere ordine sulle posizioni delle
forze interne al conflitto: vi sono delle forze moderate, come si illudevano gli americani? I curdi con chi stanno, con Assad o con i ribelli? E che rapporti hanno coi curdi iracheni e con quelli turchi (e
questi fra loro)?
La verità è che quel quadro artificiale che si era formato in Medio
Oriente dopo la Prima Guerra Mondiale e la fine dell’impero ottomano, che aveva retto lo shock della seconda Guerra Mondiale, della
nascita di Israele, della sua resistenza vittoriosa alle aggressioni,
della guerra fredda, sta andando a pezzi. Circolano delle cartine con
un nuovo Medio Oriente in cui Siria, Irak, Libano, Arabia Saudita,
Libia vanno a pezzi e le entità che ne escono si ricompongono secondo linee tribali, religiose, geopolitiche. E naturalmente c’è chi
pesta in questo torbido per puntare a emirati islamici, nuovi imperi
ottomani o persiani, vecchie egemonie russe sulle rotte del petrolio,
che una volta erano della seta. Per non parlare del peso crescente
(economico ma anche politico) che in questo gioco ha la Cina. Israele sta in mezzo a questa situazione confusa e aggressiva, e deve
evitare di perdere anche una sola partita, perché sa che non ci sarebbe il girone di ritorno. Difficile fare l’allenatore (o il primo ministro) in questa situazione.
Anche perché - per continuare con le metafore sportive - vi è chi
gioca a sparigliarla, come quei cattivi giocatori di biliardo o di bocce
che non riuscendo a piazzare la loro sfera vicino al bersaglio, cercano di colpire il boccino per far saltare a caso tutta la configurazione.
E’ questo ormai il ruolo dell’America di Obama, perdente su tutti i
fronti, che oggi sembra capace solo di fare mosse azzardate “per
vedere l’effetto che fa”. Vediamo alcuni esempi.
protettore del regno saudita. Se Obama stringe legami con l’Iran,
abbandona l’Arabia Saudita, che è il suo grande avversario nell’area (e Israele, naturalmente, che l’Iran minaccia quotidianamente,
anche usando le sue pedine di Hamas e soprattutto Hezbollah). Che
la diplomazia saudita, di solito prudentissima, abbia deciso un gesto del genere, la dice lunga sullo stato dei rapporti (e del resto al
posto degli Usa ha risposto e in maniera piuttosto arrogante la
Russia). Rispetto a questa situazione, vanno lette con molta attenzione le affermazioni ripetute dal governo israeliano per cui vi sarebbe una convergenza rispetto all’Iran con “paesi arabi” non citati per nome, ma facili da identificare.
Un altro fatto è il taglio dei finanziamenti all’Egitto, deciso a freddo,
stica israeliana in Iran agli iraniani, distruggendo una risorsa preziosissima contro l’atomica iraniana. Ciò illustra l’ormai evidente
ambiguità della politica turca (che di recente fra l’altro ha commissionato la propria difesa antimissile alla Cina e non agli Stati Uniti,
pur essendo membro della Nato). Ma, come le altre soffiate provenienti nei mesi scorsi dal governo americano che riguardavano le
operazioni di Tzahal in Siria, ha anche il sapore di un ricatto. E’
chiaro che gli americani non solo si sono impegnati a far ripartire i
negoziati fra Israele e l’Anp, ma sostengano in quella sede posizioni inaccettabili per Israele sui problemi della sicurezza, come lo
sgombero israeliano della Valle del Giordano, magari sostituendolo
con un contingente internazionale (la cui efficacia si è ben vista in
questi mesi in Libano, dove Hezbollah fa quel che gli pare), sul
Golan (dove il contingente Onu è semplicemente sparito) e nel Sinai
(dove le forze internazionali sono state in pratica prese a ostaggio
dai terroristi).
Fra i molti problemi che chi guida Israele (ma sul serio, non dal Bar
sport) deve affrontare è fino a che punto piegarsi alle imposizioni
americane (essendo Israele ricattabile dagli Usa in diverse misure
sul piano economico, militare, di sicurezza e diplomatico), e quando
rifiutare queste pressioni, ribellandosi a Obama come hanno fatto
in sostanza Egitto e Arabia Saudita. E’ una decisione delicatissima,
soprattutto in mezzo ai giri di valzer che la presidenza americana
sta facendo in maniera spregiudicata o sconsiderata con i nemici
storici propri e dei propri alleati. Il terrorismo che si sta riaccendendo, le dinamiche fuori controllo ai confini, il ruolo di fornitore d’armi
e protettore dei regimi canaglia che si è assunta la Russia rendono
ancora più difficile la condotta israeliana. Chi vuole bene a Israele
ed è felice vedendone fiorire l’economia e la tecnologia, la libertà e
la vita quotidiana, deve sperare che la mano ferma e la grande
esperienza politica di Bibi Netanyahu permettano di superare senza danni questo tempo difficilissimo.
Ugo Volli
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
Il più noto è la svolta repentina sull’Iran, in seguito all’apparizione
del presidente persiano Rouhani alle Nazioni Unite e alla sua “offensiva dello charme”. L’amministrazione Obama sembra decisa ad
abbandonare una politica di interdizione dell’espansionismo iraniano che dura da trent’anni e ha come punto focale la disputa intorno
all’armamento nucleare iraniano, che gli ayatollah cercano non solo
come mezzo per “cancellare Israele dalla carta geografica”, ma
anche per stabilirsi come potenza egemone nell’area che va dall’Egitto all’India, dall’Asia centrale al Corno d’Africa, dove è concentrata buona parte del petrolio del mondo. Questo progetto naturalmente cerca di scalzare la presenza e la prevalenza americana
nell’area. Di qui uno scontro molto complicato e prolungato, in cui
sembra che gli Stati Uniti abbiano improvvisamente deciso di abbandonare il loro ruolo e i loro alleati. In questo senso va letto anche
la rinuncia di Obama a lottare contro il regime di Assad, protetto
dell’Iran (e della Russia).
Una conseguenza di questa scelta è l’altro esempio di mutamento
traumatico, segnalato in maniera clamorosa dal rifiuto dell’Arabia
Saudita di entrare nel consiglio di sicurezza dell’Onu per protesta
contro la sua impotenza sul caso siriano: è uno schiaffo che va più
che all’Onu, agli Stati Uniti, che sono stati per settant’anni il grande
dopo alcuni mesi dalla presa del potere dei militari che hanno eliminato la Fratellanza Musulmana che godeva del gradimento di Obama. E’ chiaro che il governo militare è ben stabile, che gli islamisti
riescono a fare del terrorismo ma non a mobilitare le masse. E’
chiaro anche che l’Egitto è il baricentro del mondo arabo, il paese
più popolato e più antico. Perché Obama lo vuole punire con il taglio
di tutti i finanziamenti “non indispensabili”? Certamente l’amministrazione non approva la repressione degli islamisti, la rottura con
la Turchia, l’appoggio reciproco con l’Arabia Saudita (che ha dichiarato di volersi sostituire agli aiuti americani, e probabilmente anche
il coordinamento con Israele nell’isolare e combattere le bande armate islamiste del Sinai (che sono per lo più targate Hamas). Si è
creato dunque un asse fra Israele Egitto e Arabia Saudita, senza se
non contro gli Stati Uniti?
Difficile dirlo. Certo che c’è stato un altro episodio istruttivo, cioè la
rivelazione di un giornalista molto vicino al governo americano del
fatto che la Turchia avrebbe consegnato tre anni fa una rete spioni-
13
MEDIO ORIENTE
Quel posto che viene negato ad Israele
I
Lo Stato ebraico non ha mai fatto parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu,
per colpa del rifiuto arabo
sraele ha avanzato la propria candidatura per uno dei dieci seggi non permanenti del Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite per il biennio
2019-2020. Il Consiglio di Sicurezza è l’organo più importante dell’ONU, sia per la
rilevanza delle questioni di sua competenza, sia perché, in alcuni casi, dispone di
poteri decisionali vincolanti. Il suo compito
è quello di garantire il mantenimento della
pace e della sicurezza internazionale; il
Consiglio di Sicurezza determina dunque
l’esistenza di una minaccia alla pace o un
atto di aggressione e stabilisce le misure
da prendere per risolvere la controversia in
questione, finanche imponendo sanzioni o
autorizzando l’uso della forza (art.42 Carta
ONU). Ottenere un seggio in seno al Consiglio di Sicurezza conferisce ad un Paese
grande prestigio e una maggiore voce in
capitolo nel prendere le decisioni sulle
vicende internazionali.
Lo Stato ebraico figura nella lista dei Paesi
che non sono mai stati eletti membri del
Consiglio, come molti microstati e Stati di
recente indipendenza. L’ambasciatore israeliano all’ONU Ron Prosor ha affermato che
“è giunto il momento” che Israele effettui
questo tentativo; tuttavia, non si tratterà di
un’operazione semplice: vincere un seggio
nel Consiglio di Sicurezza richiede una
maggioranza dei due terzi degli Stati
dell’Assemblea Generale, che devono votare ispirandosi al criterio del “contributo dei
Membri delle Nazioni Unite al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale ed agli altri fini dell'Organizzazione, ed inoltre ad un'equa distribuzione
geografica” (art. 23 Carta ONU). Israele
sarà in lizza con Germania e Belgio per i
due seggi destinati alla zona “Europa Occidentale e altre aree”, essendo escluso
dall’area Asia-Pacifico per volontà di numerosi stati islamici. La Germania in particolare si presenta come un concorrente scomodo: è il terzo maggior contribuente
finanziario delle Nazioni Unite ed ambisce
ad un simile posto da 25 anni.
La votazione dell’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite del 17 ottobre scorso
ha assegnato a Ciad, Cile, Lituania, Nigeria e Arabia Saudita cinque dei dieci seggi
non permanenti del Consiglio di Sicurezza
per un periodo di due anni che inizierà dal
primo gennaio 2014. Questi Paesi hanno
ottenuto la maggioranza dei due terzi
dell’Assemblea Generale e vanno a rimpiazzare Azerbaijan, Guatemala, Marocco,
Pakistan e Togo, il cui mandato si concluderà alla fine del 2013. Gli altri cinque
membri non permanenti del Consiglio
sono Argentina, Australia, Lussemburgo,
Corea del Sud e Ruanda, che manterranno
la carica anche per il prossimo anno. A
questi dieci, si affiancano ovviamente i
cinque membri permanenti, dotati di diritto di veto (art. 27 Carta ONU): Stati Uniti,
Russia, Regno Unito, Francia e Cina.
L’eterogeneità dei Paesi membri del Consiglio di Sicurezza permette di continuare a
coltivare le speranze per un successo di
Israele, candidato per il biennio 2019-2020.
Tuttavia, l’ostilità mostrata nei confronti
dello Stato ebraico da parte di numerosi
Paesi dell’Assemblea Generale lascia presagire un percorso non semplice, come ha
dimostrato anche recentemente la votazione del 29 novembre 2012 che ha riconosciuto alla Palestina lo status di stato non
membro delle Nazioni Unite.
Daniele Toscano
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NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
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Governo palestinese:
scomparsi due miliardi di euro
Lo denuncia la Corte dei Conti europea. La corruzione
dell’Anp è una notizia che non interessa nessun giornale
S
tavolta il “J’accuse”, che sa di tardiva resipiscenza, viene dall’interno degli organismi della euro burocrazia. Secondo la Corte dei Conti,
fondata nel 1977 e con sede in Lussemburgo, negli ultimi quattro anni 2008 – 2012, i
vertici del governo provvisorio palestinese
avrebbero dilapidato quasi due miliardi di
euro.
La notizia è stata anticipata dal “Sunday
Times” e il report non è ancora disponibile
on line, ma sarà questione di poco tempo.
In Italia ovviamente non c’è stato, o quasi,
un giornale che abbia dato rilievo alla cosa
e la veicolazione della notizia si deve in
pratica solo a “Progetto Dreyfus”.
Così come riportato dal “Sunday Times”
che l’ha letto, il rapporto della Corte dei
conti europea racconta come gli ispettori
europei abbiano visitato Gerusalemme
est, Gaza e la Cisgiordania e abbiano indi-
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NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
K
viduato “carenze significative” nella
gestione e assegnazione dei fondi da parte
dell’Autorità Palestinese, e serie “difficoltà” nel fronteggiare “rischi di alto livello
come la corruzione e l’utilizzo dei fondi per
scopi diversi da quelli previsti”.
La Corte dei Conti Europea sottolinea inoltre una cosa che si sapeva da tempo: Bruxelles ha esercitato ben poco controllo sui
fondi per aiuti trasferiti tra 2008 e il 2012
in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza
controllata da Hamas. E soprattutto sulla
loro utilizzazione.
Il “Sunday Times” ha anche sentito il parere di “Transparency International”, osservatorio europeo con sede a Berlino, specializzato nel monitoraggio della corruzione
in politica e nelle aziende. L’empasse politica che caratterizza la situazione del parlamento palestinese sin dal 2007 ha di
fatto “accordato all’amministrazione di
Ramallah una gestione illimitata dei fondi
pubblici”. E ha sottolineato pure come il
nepotismo sia “estremamente diffuso nel
settore pubblico e in quello privato dei
palestinesi.”
Per la cronaca, i palestinesi sono il maggior beneficiario di finanziamenti internazionali per cooperazione e sviluppo (UE,
ECHO, WB, ONU, UNRWA ecc.). Ad esempio, l’anno scorso ogni singolo palestinese
ha ricevuto dalla comunità internazionale
3.100 dollari contro i 174 dollari a testa dei
congolesi e i 74 dollari dei pakistani. Il
problema è che neanche uno di quei dollari è finito al posto giusto.
Il lato davvero paradossale di tutta questa
orrenda storia è che, recentemente, Abu
Mazen, ha accusato Israele per la crisi economica nei territori palestinesi, bussando
nuovamente a quattrini presso le organizzazioni internazionali. Il governo palestinese, infatti, stipendia direttamente circa
150.000 dei quasi due milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania. Una vera e
propria lottizzazione che serve solo per
continuare a tenere il potere socio-politico
su tutta la popolazione.
Dimitri Buffa
15
ITALIA
Gli scenari futuri
del Medio Oriente
Incontro promosso dal Centro
di Cultura con i giornalisti
Maurizio Molinari
e Monica Maggioni
“M
edio Oriente fra dittatori e libertà. Cosa
dobbiamo aspettarci
per il 2014” è stato il
titolo scelto dal Centro di Cultura Ebraica
per il dibattito che ha visto protagonisti
due ospiti particolarmente ferrati sul
tema: Maurizio Molinari, corrispondente
de La Stampa negli Stati Uniti, e Monica
Maggioni, direttore di Rainews24; a condurre la serata, Jonatan Della Rocca.
I due relatori hanno potuto fornire un
punto di vista privilegiato per descrivere le
vicende mediorientali: il pubblico è stato
così stimolato ed ha partecipato con
domande ed interventi.
Al centro della discussione è stata la Siria,
tema ricorrente dell’attualità internazionale; Monica Maggioni, a questo proposito, è
stata la prima giornalista ad aver intervistato Assad dopo le risoluzioni dell’ONU
del settembre scorso. La giornalista ha
trovato il leader siriano tutt’altro che assediato e spaventato, consapevole degli
equilibri e dei rapporti di forza che lo circondano, ma deciso a giocare la sua partita fino in fondo. Monica Maggioni ha
riscontrato come l’intero Paese sia sconvolto dalle vicende belliche, ma, ciononostante, anche come Assad mantenga un
ampio controllo sulla società siriana. L’opposizione al regime, inoltre, col passare
degli anni, si è trasformata, divenendo
sempre più eterogenea ed accogliendo tra
le sue fila ampie frange dell’estremismo
islamico, inclusa al-Qaeda: ciò ha reso difficile l’interpretazione della situazione e
del destino siriano.
Maurizio Molinari si è occupato di tracciare il punto di vista americano in proposito, spiegando la decisione di Obama di
rinunciare all’attacco a seguito di un’attenta valutazione costi-benefici, visti i
rischi di gestione che probabilmente si
sarebbero presentati. Dalla Siria il discorso si è ampliato all’intera area mediorientale, dove è in atto un riassestamento
geopolitico che vede coinvolte tutte le
potenze della zona, con gli Stati Uniti (e
ovviamente anche Israele) attenti osservatori. Da qui anche il nuovo atteggiamento della Casa Bianca nei confronti
dell’Iran di Rohuani, altro tema caldo di
queste settimane: è innegabile che nella
Repubblica islamica il reale potere decisionale spetti all’ayatollah Khamenei, ma
non è da trascurare l’atteggiamento del
nuovo Presidente, che ha mostrato un
interesse a fronteggiare la comunità
internazionale in modo non provocatorio,
segnando un progresso rispetto al suo
predecessore. Probabilmente la scelta di
Teheran è dettata dall’esigenza di alleviare le sanzioni mediante progressive concessioni, ma vi è anche la consapevolezza
che l’equilibrio della regione potrebbe
cambiare in favore di altri Paesi: il riferimento è al Qatar e soprattutto all’Arabia
Saudita, che nutre sempre più ambizioni
di potenza regionale, anche in antitesi
con lo storico alleato americano. Infatti,
Riad ha come acerrimi nemici l’Iran e
Assad e non ha gradito il mancato intervento USA in Siria; da qui si sono susseguiti una serie di alterchi con Washington, culminati ad ottobre con il rifiuto del
seggio al Consiglio di Sicurezza dell’ONU
in segno di protesta. Tuttavia, come ha
fatto notare Monica Maggioni, se gli interessi sauditi sono chiari, non saranno
implementati facilmente, visto che l’Arabia Saudita non fa eccezione rispetto agli
altri Stati dell’area e si configura anch’essa non come una realtà monolitica, bensì
con tante sfaccettature che non renderanno semplice un processo di ascesa; il
primo punto nell’agenda di Riad, ha
aggiunto Molinari, era la fine dei Fratelli
Musulmani in Egitto ed è stato conseguito, ma la partita più importante si gioca
adesso in Siria. L’esito al quale si va
incontro è estremamente incerto: se non
si hanno certezze sullo svolgimento della
Conferenza Ginevra II tra poche settimane, tantomeno è possibile fare previsioni
più a lungo termine. Il rischio più grave è
che in Siria prosegua ancora a lungo lo
stillicidio in atto con il relativo disastro
umanitario, mentre in tutta la regione si
potrebbe andare verso una crescente
instabilità.
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Letta e Netanyahu:
stretti rapporti tra noi
talia e Israele hanno rapporti di amicizia e condividono gli
stessi interessi. Se ne sono dati reciprocamente attonell’incontro di ieri sera - il premier Enrico Letta e il primo
ministro israeliano Benyamin Netanyahu. ''Siamo molto
interessati a quello che succede in Medio Oriente - ha detto
Letta ricordando il suo ultimo viaggio in Israele - e condividiamo
gli stessi interessi''. ''C'è una stretta amicizia tra noi e l'Italia – ha
replicato Netanyahu - Una amicizia stretta in ogni campo''.
Al termine dell’incontro, Netanyahu nelle dichiarazioni alla
stampa ha spiegato che per ottenere la pace in Medio Oriente
bisogna risolvere anche la questione del programma nucleare
iraniano e che è possibile fermare l'Iran, “in maniera pacifica”.
"Tutti noi vogliamo pace e stabilità e Medio Oriente", ha detto
Netanyahu, che oggi a Roma incontrerà John Kerry. "Questa è
una delle ragioni del colloquio" con il segretario di Stato americano con cui parlerò del processo di pace con i palestinesi, ma c'è
un'altra questione "che sovrasta questo negoziato. Se vogliamo
che il negoziato abbia successo serve una strategia contro le
armi nucleari e chimiche".
"Entro la fine dell'anno - ha avvertito Netanyahu - l'Iran disporrà
di 20mila centrifughe, con un aumento del 100%". Teheran
sostiene di volere sviluppare un programma nucleare pacifico,
"ma questo non è vero", ha detto ancora il primo ministro israeliano, ricordando come molti paesi producano energia nucelare a
fini pacifici "senza far uso di centrifughe o plutonio". L'Iran vi fa
ricorso "per arrivare alla bomba nucleare" e noi "non vogliamo"
che abbia la capacità di costruirla.
L'Iran è "molto vicino" a questo esito e servono "dei dispositivi di
dissuasione" per fermarlo , "un obiettivo che puo' essere raggiunto anche in maniera pacifica". La nostra ricerca della pace è
condivisa "dall'Italia e da molti paesi arabi", ha affermato infine
Netanyahu.
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
I
Per il premier israeliano:
“Serve una strategia contro il nucleare
iraniano. È un obiettivo che si può
raggiungere anche in maniera pacifica”
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FOCUS
Anniversario 16 ottobre 1943.
“I giovani sono la nostra speranza”
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
Il discorso del Presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo
Pacifici
Signor Presidente,
siamo qui nel Tempio Maggiore per commemorare e ricordare il 70°
anniversario della razzia degli ebrei di Roma che avviò la stagione
della caccia all’uomo nella nostra città fino alla liberazione del 4
giugno del 1944.
AverLa qui con noi nel cuore del nostra Comunità insieme con la
nostra collettività, in parte qui rappresentata, conferma, se ce ne
fosse stato bisogno, la vicinanza dell’Italia, nella condivisione del
nostro dolore e della nostra Memoria. Una Memoria che sappiamo,
come ci ha ribadito ieri il presidente del Consiglio, Enrico Letta,
essere di tutti gli italiani.
E’ inutile nascondere che queste celebrazioni sono state accompagnate in questi giorni dagli echi della morte del torturatore di via
Tasso e del complice nella strage delle Fosse Ardeatine (non vogliamo più pronunciare il suo nome). Un criminale che non essendosi
mai pentito in vita ha proseguito la sua opera di carnefice, lascian-
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do ai posteri un testamento in cui reitera i suoi comportamenti, i
suoi “ideali, le sue torture a via Tasso e le sue esecuzioni. Peggio
ancora la negazione delle Camere a Gas.
Un vano tentativo di intimidirci, ma tutta la nostra comunità come
sempre non si è né piegata né spaventata.
Il fatto positivo è che questa vicenda ha aperto un positivo dibattito
che ci ha permesso di vedere il volto dell’Italia più bello. Un Paese
unito, dalle forze dell’Ordine, che ringraziamo, a quelle civili, Istituzionali e quelle religiose. Il Questore e il Prefetto di Roma hanno
imposto funerali intimi e privati per “motivi di ordine pubblico”. Il
Sindaco Ignazio Marino che, allineandosi con loro, ha vietato di
ospitare la salma con una tomba, onde evitare diventi luogo di pellegrinaggi di nostalgici. Il Cardinale Agostino Vallini, a nome Vicariato di Roma, ha rifiutato le esequie pubbliche nelle Chiese di
Roma. Tutta la cittadina di Albano guidata da un sindaco coraggioso, Nicola Marini, che è stata violata da gruppi neonazisti.
Per questo ci sentiamo orgogliosi di essere romani e italiani, proprio
per avere visto la società civile tutta in prima linea in questa batta-
A tal proposito rimangono impressi nei nostri cuori Presidente le
parole che pronunciò il 27 gennaio del 2011 “furono i Giusti a salvare l’onore dell’Italia”. Grazie.
Oggi, Signor Presidente, siamo qui insieme ai sopravvissuti e scampati alla Shoàh, per continuare a lavorare insieme ed uniti per la
Memoria. Un esercizio di Memoria che come ci insegnano i sopravvissuti alla Shoàh non serve per piangere i morti o impietosire
alcuno. Nessuna lacrima e pietà restituirà i loro corpi e le loro anime
né riporterà sorriso alle vedove e ai loro figli. Ma una Memoria condivisa servirà a costruire per il
“LA DEPORTAZIONE FU UN TRADIMENTO
presente e per il futuro gli
anticorpi contro l’indifferenza
E UN CRIMINE ISTITUZIONALE”
e l’odio, verso chiunque. Per
questo loro si stanno sacrifiIl Rabbino Capo rav Riccardo Di Segni:
cando con il racconto e la testi“Nella nostra lunga storia i nostri antenati hanno sperimonianza, tornando nei luoghi
mentato umiliazioni, visto il pericolo, ma quello che accaddell’orrore come faremo fra
de nei mesi dell'occupazione in Italia è molto, molto di più.
pochi giorni con il nostro SinCon il loro gesto i nazisti ruppero una convivenza millenadaco e le scuole di Roma Capiria. Fu un tradimento, un crimine istituzionale”.
tale a Birkenau ed Auschwitz.
L’Italia che ha partorito il fascismo ha il dovere di coltivare i valori
fascista. Una somma che cambiava la vita di molti ma che consegnò
della Memoria per se stessa e per l’Europa. Un’Europa che rischia
poi alla morte altri. In pochi hanno pagato per questo. E chi ha
implodere, non solo per la crisi economica, ma perché esistono
subito un processo, ha pagato troppo poco. Chi riuscì a sottrarsi ai
spinte xenofobe e razziste, dalla Grecia alla Norvegia, passando per
tribunali deve ringraziare le loro vittime che, gasate ed infornate a
l’Ungheria e la Francia. Dobbiamo fermare quest’onda e le elezioni
Birkenau, non poterono inchiodarli alle loro responsabilità. Una
europee si avvicinano senza una degna protezione giuridica che
puntuale descrizione possiamo leggerla nel libro di Osti Guerrazzi
argini ed isoli questi partiti e movimenti. E’ ora di mobilitarsi, prima
“Caino a Roma”.
Vi sono stati anche Conventi, ed
“ROMA RICORDA I DEPORTATI,
è triste sottolinearlo, che apriroSI INCHINA E RINGRAZIA”.
no loro le porte solo in cambio
della conversione o di vile dena“SENZA MEMORIA NON C'E'
ro. Esaurito, intere famiglie venCIVILTÀ, CULTURA E UMANITA'“
nero accompagnate in mezzo
alla strada preda dei carnefici.
Il Sindaco Ignazio Marino:
Tutto si poté attuare grazie
“La città di Roma ricorda i deportati e le persone
all’indifferenza
di
troppi.
che oggi non ci sono più. Si inchina e li ringrazia”.
Quell’indifferenza magistral“Il 16 ottobre – ha prosweguito il Sindaco - dovrà
mente illustrata da una sopravdiventare una giornata di valori condivisi. Non
vissuta, Liliana Segre, in una
bisogna dimenticare, mantenere la memoria di
intervista rilasciata in questi
quanto accaduto è importante, senza memoria
giorni.
non c'è civiltà, cultura, umanità. Dobbiamo
Ma se è pur vero che siamo stati
rifiutare qualsiasi forma di violenza a perenne
traditi, è altresì vero che la solimonito contro ogni forma di intolleranza razziale
darietà non è mancata, e se
perché Roma non può restare in silenzio”.
molti si sono salvati è perché in
che sia troppo tardi.
tanti hanno aperto le loro case, gli ospedali ed altri Conventi, che a
Vi è comunque una speranza e su questo abbiamo il dovere di
rischio della vita accolsero in condizioni difficili intere famiglie
essere ottimisti. Sono i nostri giovani. Quelli che Lei prima di tutto
ebraiche. Senza chiedere in cambio nulla, né soldi né conversione.
ha l’opportunità di incontrare nelle scuole e con cui spesso ho il
Tutte le loro storie sono raccolte allo Yad Vashem e ancora oggi
privilegio potermi confrontare. Sono una maggioranza, spesso
ricevono le Medaglie dei Giusti, la più alta onorificenza dello Stato
senza voce e senza vetrina, perché le azioni positive non fanno mai
d’Israele a perpetuo ricordo. Siamo onorati di avere con noi, fra gli
notizia. Sono quei giovani che grazie all’impegno di docenti sensialtri, il figlio di Gino Bartali. Che la memoria di tutti loro rimanga in
bili e responsabili hanno approfondito in questi anni i temi della
benedizione anche per le le future generazioni.
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
glia di civiltà. Avete compreso il dolore dei familiari delle vittime e
preso atto che quelle ferite non si sono mai rimarginate.
Grazie, Presidente.
Siamo qui per commemorare coloro che dal 16 ottobre vennero
presi casa per casa in ogni angolo della città, e non solo nel quartiere ebraico, in quella che fu percepita come “Città Aperta”. Una
illusione che svanì grazie alle vergognose complicità con l’occupante nazista, dei funzionari dell’Anagrafe, delle Questure, dei militi
fascisti, tradendo ancora una volta i propri cittadini ebrei, dopo le
Leggi Razziste del 38. Questo nonostante l’illusione che la raccolta
50 chili d’oro in sole 36 ore, tra il 27 ed il 28 settembre, garantisse
la loro l’immunità.
Il 7 ottobre, 2500 carabinieri del Lazio vengono deportati nei campi
d’internamento in Germania su ordine del generale Graziani, forse
per evitare “intralcio” pochi giorni dopo. L’11 ottobre viene razziata
la storica biblioteca della nostra Comunità con circa 7000 volumi
risalenti all’epoca medioevale. Ancora oggi, Presidente, siamo alla
ricerca di quei manoscritti che si presumiamo siano in Russia e
confidiamo nel suo sostegno e in quello del Governo per il recupero.
1021 vennero catturati il 16 ottobre e solo 16 fra loro tornarono. Una
sola donna, Settimia Spizzichino.
Dopo il 16 ottobre altri 900 verranno poi catturati anche e sopratutto grazie all’opera dei delatori, che per 5000 lire vendettero i loro
concittadini che cercavano inutilmente di scappare dalla furia nazi-
19
Memoria. Hanno raccolto il “Testimone della Memoria” facendo
proprie le testimonianze dei nostri sopravvissuti, a cominciare da
quelli che non sono più fra noi.
Settimia Spizzichino fu la prima ad avere il coraggio di parlare,
appena tornata. Un compito difficile perché le loro parole non furono subito comprese, a cominciare dalle nostre comunità che, uscite
distrutte e dilaniate sia nell’anima che nelle esigenze di ricostruire
una vita “normale”, ascoltavano mal volentieri i loro discorsi. Tanti
rimasero in silenzio fino a circa 20 anni fa, altri non hanno più proferito parola fino alla loro morte. Chi ha ricominciato non ha più
smesso, sacrificando con il racconto il ritorno ad una vita normale e
grazie al paziente sostegno dei loro coniugi hanno costruito un
rapporto con i giovani che è andato al di là della testimonianza. Per
questi giovani spesso sono diventati loro maestri di vita e questo ci
commuove.
Mi permetto di citare come esempio di speranza ciò che è avvenuto
a Roma al liceo artistico Caravillani, dove un’insegnante ha usato
parole che possiamo definire infelici nei confronti di una sua alunna
ebrea. Normalmente le proteste si circoscrivono tra l’alunno/a, i loro
genitori e la dirigenza scolastica. In questo caso uno ad uno i loro
compagni hanno reagito ammonendo l’insegnate per poi “ammutinarsi” fino a quando hanno ottenuto il suo prepensionamento. Una
solidarietà commovente grazie alla sensibilità del loro Dirigente
Scolastico che dimostra che abbiamo il dovere di essere ottimisti.
Per questo siamo onorati di averli qui con noi, oggi.
Dei sopravvissuti del 16 ottobre solo in due sono rimasti fra noi,
Enzo Camerino e Lello Di Segni, ma non possiamo dimenticare gli
altri, Luciano Camerino, Sabatino Finzi, Leone Sabatello, Angelo
Efrati, Cesare Efrati, Cesare Di Segni, Michele Amati, Lazzaro Anticoli, Ferdinando Nemes, Arminio Wachsberger, Isacco Sermoneta,
Mario Piperno, Angelo Sermoneta. Ma come possiamo dimenticare
Romeo Salmoni, Shlomo Venezia, Ida Marcheria, Milena Zarfati,
Lello Perugia, Luigi Sagi?
Se anche la Camera darà via libera al Disegno di Legge votato ieri
sera dalla Commissione Giustizia al Senato, senza alcun voto contrario, per l’introduzione del reato del Negazionismo dei Crimini
Contro l’Umanità e della Shoàh, ci consentirà essere il 15° paese
europeo ad avere adottato tale norma. Una “medicina” che non si
dovrà mai sostituire all’attività della didattica sulla Shoàh. Con
commozione ringrazio i primi firmatari al Senato, Silvana Amati e
Lucio Malan. Il presidente della Commissione Giustizia Francesco
Nitto Palma ed il relatore Felice Casson insieme a tutta la Commissione. Ma un grazie particolare lo dobbiamo a chi si è esposto in
prima linea, la prof.ssa Donatella Di Cesare che con il suo libro “Se
Auschwitz è il nulla. Contro il Negazionismo” ha sensibilizzato l’opinione pubblica. All’avvocato Roberto De Vita che con il suo impegno volontario ha inchiodato alla Giustizia diversi gruppi e militanti spacciatori dell’odio.
Il “Boia delle Ardeatine” ce lo ha dimostrato: il pericolo è in mezzo
a noi.
Citando Piero Terracina in un magistrale intervento alla scuola di
Fanteria a Cesano e riferendosi ai negazionisti ha detto: non so
perché neghino, ma sono certo che se fossero vissuti durante la
Shoah sarebbero stati dalla parte dei carnefici. Anzi sarebbero stati
loro stessi dei carnefici.
Foto di G. Spizzichino
COMMEMORAZIONE 16 OTTOBRE:
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
“NON ABBASSARE LA GUARDIA CONTRO L’ANTISEMITISMO
E CONTRO IL RAZZISMO, QUALUNQUE SIA LA LORO PROVENIENZA”
20
Il messaggio di Papa Francesco agli ebrei di Roma
"Illustre Rabbino Capo, stimati membri della Comunità ebraica di Roma, desidero unirmi, con la vicinanza spirituale e la preghiera,
alla commemorazione del 70esima anniversario della deportazione degli Ebrei di Roma. Mentre ritorniamo con la memoria a quelle
tragiche ore dell’ottobre 1943, è nostro dovere tenere presente davanti ai nostri occhi il destino di quei deportati, percepire la loro
paura, il loro dolore, la loro disperazione, per non dimenticarli, per mantenerli vivi, nel nostro ricordo e nella nostra preghiera, assieme
alle loro famiglie, ai loro parenti e amici, che ne hanno pianto la perdita e sono rimasti sgomenti di fronte alla barbarie a cui può
giungere l’essere umano.
Fare memoria di un evento però non significa semplicemente averne un ricordo; significa anche e soprattutto sforzarci di comprendere qual è il messaggio che esso rappresenta per il nostro oggi, così che la memoria del passato possa insegnare al presente e
divenire luce che illumina la strada del futuro. Il Beato Giovanni Paolo II scriveva che la memoria è chiamata a svolgere un ruolo
necessario ‘nel processo di costruzione di un futuro nel quale l’indicibile iniquità della Shoah non sia mai più possibile’ (Lettera introduttiva al documento: Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo, Noi ricordiamo. Una riflessione sulla Shoah, 16 marzo
1998) e Benedetto XVI nel Campo di concentramento di Auschwitz affermava che ‘il passato non è mai soltanto passato. Esso riguarda noi e ci indica le vie da non prendere e quelle da prendere’. L’odierna commemorazione potrebbe essere definita quindi come una
‘memoria futuri’, un appello alle nuove generazioni a non appiattire la propria esistenza, a non lasciarsi trascinare da ideologie, a non
giustificare mai il male che incontriamo, a non abbassare la guardia contro l’antisemitismo e contro il razzismo, qualunque sia la loro
provenienza. Auspico che da iniziative come questa possano intrecciarsi e alimentarsi reti di amicizia e di fraternità tra Ebrei e Cattolici in questa nostra amata città di Roma.
Dice il Signore per bocca del profeta Geremia: ‘Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo, progetti di pace e non di sventura,
per concedervi un futuro pieno di speranza’. Il ricordo delle tragedie del passato divenga per tutti impegno ad aderire con tutte le
nostre forze al futuro che Dio vuole preparare e costruire per noi e con noi. Shalom!".
“16 ottobre 1943 - La razzia degli ebrei di Roma”
In mostra la vita quotidiana. Storie di vittime e carnefici al Vittoriano fino al 30 novembre
All’inaugurazione di ieri sono intervenuti il presidente del Senato
Pietro Grasso, il ministro dei Beni culturali Massimo Brani, Renzo
Gattegna e Riccardo Pacifici, presidenti dell'Unione delle Comunità
Ebraiche italiane e di quella di Roma, insieme a molte famiglie delle
vittime.
Per la prima volta la mostra - curata da Marcello Pezzetti - mostra i
volti delle vittime e anche dei carnefici: da Theodor Dannecker a
Herbert Kappler, e “per la prima volta - spiega Pezzetti - anche di
alcuni dei 365 riservisti tedeschi e austriaci” chiamati come rinforzo
per il progetto diabolico di una deportazione che volevano di 8 mila
ebrei. “Fino ad oggi non sapevamo chi fossero - spiega ancora Pezzetti -. Erano uomini comuni, impreparati, infatti riuscirono a prendere 'solo' 1250 ebrei”.
A testimoniare la confusione di quei giorni, anche un telegramma
del vicariato che proibiva al convento teresiano di accogliere ebrei
il 16 ottobre. E ancora, i foglietti scritti a macchina in italiano con
cui i tedeschi facevano capire i loro ordini dopo le irruzioni in casa:
prendete vestiti, gioielli, cibo per 8 giorni e nessuno, neanche i
malati, deve rimanere indietro.
Una dettagliatissima mappa racconta come il rastrellamento attraversò tutta la città, con singoli ebrei pescati fino in periferia e non
solo nel ghetto. E poi, la cronaca disegnata dal pittore Aldo Gay su
quelle drammatiche ore, le video-interviste dell'Archivio della
Memoria e della Spielberg Foundation e della Fondazione Museo
della Shoah, i bigliettini d'aiuto lanciati dal treno della morte in
partenza dalla stazione Tiburtina. E soprattutto una galleria fatta di
fotografie, giocattoli, vestitini, diari, a ricordare ancora una volta
che quelle vittime erano mamme, bambini, nonni, ragazzi. C'è chi
riconosce commosso il papà e chi si rivede ragazzo, come Lello Di
Segni, 87 anni e unico sopravvissuto alla deportazione di quel giorno che vive ancora a Roma.
“Un viaggio dolorosissimo - ha commentato il ministro Bray - e
insieme un'occasione importante, perche' la cultura serve a tutelare
il patrimonio, ma anche la memoria. Mi auguro serva a capire che
c'era un disegno preciso, che nulla accadde per caso”.
“Non c'è mai stata una mostra sul 16 ottobre - conclude Pezzetti anche se fu la prima e la più grande deportazione d'Italia. La mostra
e' dedicata soprattutto agli studenti. Secondo me dovremmo farne
una versione itinerante”.
I volti dei persecutori e dei deportati
E
rano 2 ragazzi come tanti, con i
loro sogni e le loro aspettative
dalla vita, i loro ideali li avevano
portati a servire la propria patria
nell’esercito, erano stati decorati con
medaglie per il loro valore, i loro volti
erano belli, con occhi profondi, penetranti.
Le loro strade si sono incontrate perché
uno era un nazista coinvolto nella retata del 16
ottobre 1943 a Roma e l’altro era un ebreo romano
deportato. Alla mostra
esposta al Vittoriano, “16
ottobre 1943. La razzia
degli ebrei di Roma”,
abbiamo il privilegio di
seguire le storie e di guardare i volti di coloro che,
da una parte o dall’altra,
sono stati coinvolti in
quella che è stata definita
dal curatore, Marcello Pezzetti (Direttore
scientifico della Fondazione Museo della
Shoah di Roma), “la razzia più grande d’Italia, la più grande ferita della città di
Roma”. Sono volti che, con le loro storie, ci
interrogano, ci coinvolgono in un evento
che non può essere considerato estraneo a
nessuno di noi perché – e li vediamo con i
nostri occhi – loro sono come noi, uguali a
noi. La mostra si apre con una parete ricoperta dai 1022 nomi di coloro che furono
prima arrestati il 16 ottobre 1943 e poi
deportati ad Auschwitz due giorni dopo:
“Non è una statistica, sono 1022 vite”, ha
affermato Pezzetti. Una esposizione importante ed utile da tutti i punti di vista,
soprattutto perché comprende tanti documenti originali e perché spiega in modo
chiaro, efficace e coinvolgente cosa è successo agli ebrei italiani dalla fine del ghet-
to, nel 1870, attraverso la prima guerra
mondiale, fino alle leggi razziali del 1938,
le deportazioni e la liberazione. L’attenzione del pubblico è catturata, tra i tanti
documenti esposti, dalla croce al merito di
guerra ottenuta nel 1918 da Emanuele
Pugliese (1874-1967) che nel 1922 comandò una divisione a difesa di Roma durante
la “marcia” dei fascisti sulla capitale, dalla
Ketubbà (contratto matrimoniale) del 1884
decorata con i colori della bandiera italiana, dai preziosi volumi della Biblioteca
della Comunità Ebraica di Roma (XIV-XIX
sec.) scampati alla razzia nazista, dal documento che testimonia l’unico processo
relativo al 16 ottobre istruito dai tribunali
italiani (24/02/1950) e dai volti di intere
famiglie sterminate: la descrizione della
loro storia è posta accanto ai loro volti che
ci guardano e ci impongono il compito di
impegnarci affinché quello che è accaduto
a loro non accada né a noi, né ai nostri figli.
Un compito al quale non può sottrarsi nessuno, soprattutto adesso che, per il passare del tempo, i testimoni diretti ci stanno
lasciando. La mostra è stata realizzata
grazie all’impegno dello staff della Fondazione Museo della Shoah di Roma ed alla
collaborazione di importanti istituti nazionali ed internazionali.
Silvia Haia Antonucci
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
D
alla A di Berta Abramsohn alla Z di Zaira Zarfati, passando per i Terracina, Piperno, Spizzichino. E' con un muro
di nomi, esattamente 1022 vite, anime e futuri spezzati,
che si apre il viaggio nel tempo di “16 ottobre 1943 - La
razzia degli ebrei di Roma”, mostra che da oggi fino al 30 novembre
racconterà al Complesso del Vittoriano una delle pagine piu' terribili della storia recente, la deportazione romana di 70 anni fa.
21
FOCUS
Alla stazione Tiburtina la targa
“Meditate che questo è stato”
I
Collocata in ricordo
della deportazione da Roma
n occasione del settantesimo anniversario della razzia degli
ebrei di Roma, si è svolta al binario 1 della stazione Tiburtina,
la cerimonia di commemorazione della deportazione degli
ebrei romani. Alla presenza del segretario generale della Cgil
Susanna Camusso, del presidente e dell’ad di Ferrovie dello Stato
Lamberto Cardia e del presidente Mauro Moretti, del sindaco di
Roma Ignazio Marino, del governatore del Lazio Nicola Zingaretti,
del presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici e
del presidente delle Comunità ebraiche italiane, Renzo Gattegna,
è stata ricollocata la targa commemorativa che ricorda il rastrellamento del 16 ottobre 1943 con la scritta “Meditate che questo è
stato”, tratto da “Se questo è un uomo”, di Primo Levi. Tanti gli
studenti che hanno preso parte alla cerimonia.
“Siamo qui - ha detto Marino - per ricordare con quanta ferocia la
deportazione e lo sterminio colpirono il cuore millenario di Roma.
Oltre mille persone videro spezzata la propria vita. Donne, uomini,
bambini, neonati e anziani, intere famiglie, furono spogliati della
loro dignità per una logica che mai potrà trovare giustificazione.
Qui su questo binario il 18 ottobre i carri merci caricarono oltre
1000 ebrei romani e una scritta bianca in gesso segnava la destinazione: Auschwitz. Oggi il dovere di tutti noi è quello di perseverare con tutti gli strumenti che abbiamo per non dimenticare,
per tenere viva una memoria condivisa. La targa che si apprestiamo a ricollocare è un doveroso omaggio ma soprattutto un monito
verso chi vuole offuscare ciò che è accaduto”. Il sindaco ha poi
ricordato la figura di Michele Bolgia: “che tolse il piombo ad alcuni dei vagoni sigillati”, e “per quel gesto fu arrestato e ucciso alle
Fosse Ardeatine”. “Sono questi i gesti di una Roma solidale - ha
concluso - che hanno riportato la democrazia. Nel ricordare vogliamo scuotere e agire e costruire una coscienza collettiva perché
nessuno sia più preda di ideologie aberranti”.
“Queste targhe ci aiutano a ricordare cosa è successo 70 anni fa
in questo posto - ha affermato Zingaretti - E ogni volta che le leggiamo facciamo rivive un pezzo di nostra memoria. Ed è importante perché sono luoghi che noi viviamo nella quotidianità ma anche
i luoghi sono stati testimoni. Le città non sono solo case o stazioni
ma sono la vita che c’è stata attorno a questi spazi. Ed è la storia
e la memoria che ci dice chi siamo. Ricostruire la memoria collettiva ci rende più forti perché ci dà identità, uniti da una storia
comune. Mille deportati, ad ognuno fu dato un numero ma dietro
quei numeri noi non dimentichiamo che c’erano persone. Uomini
e donne, bambini. Ci dobbiamo inchinare di fronte a chi perse la
vita per dei valori”.
Dalla stazione Tiburtina partirono più di mille persone, ma ne
tornarono solo 16. Nessuno degli oltre 200 bambini riuscì a
sopravvivere.
Consiglio comunale
di Roma, mozione
bipartisan: no
mausolei a criminali
e odio razziale
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
L'
22
16 ottobre: fiaccolata
silenziosa organizzata dalla
Comunità di Sant’Egidio
C
ome ogni anno dal cuore di Trastevere si è mossa la marcia silenziosa in
occasione del ricordo del rastrellamento del 16 ottobre 1943, a opera di
nazifascisti. Ad aprire il corteo uno striscione
della Comunità di Sant'Egidio e della Comunità
ebraica di Roma che recitava 'Non c'è futuro
senza memorià e poi diversi cartelli che ricordavano i nomi dei campi di concentramento:
Ravensbruck, Gross-Rosen, Auschwitz, Birkenau, Bergen Belzen.
Ad accogliere la fiaccolta - che ha percorso a
ritroso l'itinerario dal Collegio militare di Trastevere al Ghetto la strada fatta dai deportati il sindaco di Roma, Ignazio Marino, il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti; i presidenti di Camera e Senato Laura Boldrini e
Pietro Grasso e Andrea Riccardi fondatore della
Comunità di Sant'Egidio.
Assemblea capitolina, con 39 voti a favore e l'astensione del
consigliere della lista
civica ‘Marino’ Riccardo Magi,
ha approvato una mozione bipartisan perché si impedisca che sul
territorio romano vengano eretti
mausolei o siano riservati luoghi
a futura commemorazione di
persone che si sono macchiate di
crimini contro l'umanità. Il documento chiede inoltre che venga
promossa "ogni iniziativa idonea
a contrastare l'odio e l'intolleranza razziale in ogni sua forma". La
mozione è stata votata in occasione della seduta straordinaria
dell'Assemblea capitolina sulla
Shoah, la prima dall'introduzione
nello Statuto dell'articolo che
elegge il 16 ottobre giornata
simbolo del rifiuto di qualsiasi
forma di violenza a perenne
monito contro ogni manifestazione di intolleranza ideologica,
razziale e religiosa.
ITALIA
Il mito di Priebke ‘martire’
ed ‘eroe’ della libertà
V
enerdì 11 ottobre è morto sul divano della casa di Roma
dove si trovava agli arresti domiciliari Erich Pribke, ex
capitano delle SS che ha svolto un ruolo di primo piano
nell’assassinio di 335 cittadini italiani alle Fosse
Ardeatine. Nato a Hennigsdorf il 29 luglio del 1913, a 20 anni aderì
al Partito Nazionalsocialista di Hitler e poi, grazie a Heinrich
Himmler, entrò nelle SS e quindi nella Gestapo.
Priebke nei suoi comportamenti e nelle sue dichiarazioni ha sempre
ribadito la legittimità di ciò che ha fatto e la sua fedeltà al nazismo.
Non ha mai preso le distanze da quella ideologia e da Hitler, ed
anche nella lunga videointervista che ha rilasciato poco prima di
morire ha attinto abbondantemente all’archivio antisemitico
nazista, ribadendo che la seconda guerra mondiale fu scatenata
dall’ “ebraismo mondiale”, che: “Nei campi le camere a gas non si
sono mai trovate, salvo quella costruita a guerra finita dagli
americani a Dachau. Testimonianze che si possono definire
affidabili sul piano giudiziario o storico a proposito delle camere a
gas non ce ne sono; a cominciare da quelle di alcuni degli ultimi
comandanti e responsabili dei campi” e che l’ “industria
dell’olocausto” è una mistificazione il cui scopo è far entrare
miliardi nelle casse di istituzioni ebraiche e in quelle dello stato di
Israele.
L’anziano nazista nel corso degli anni è stato trasformato in un
simbolo della galassia neonazista e cattointegralista italiana, e
quindi dal giorno della sua morte si sono susseguite molte iniziative
– sia nel mondo reale che in quello virtuale del web – per “onorare”
colui che è stato definito “martire” dal suo avvocato Paolo Giachini.
Il giorno stesso della dipartita, la sezione Italia del sempre attivo
sito neonazista Stormfront ha subito aperto il forum di discussione
“Erich Priebke morto” dove sono stati pubblicati molti post con
ampi stralci dell’ultima intervista negazionista dell’anziano SS,
tanti “onori all’SS hauptsturmfuhrer Erich Priebke”, e le immancabili
velate minacce al presidente della Comunità ebraica di Roma
Riccardo Pacifici. Il 13 ottobre alcuni esponenti dell’organizzazione
neonazista Militia hanno tentato di depositare delle rose ed uno
striscione presso l’abitazione in cui viveva Priebke; EffeDiEffe il
principale sito web italiano di matrice antisemita ha pubblicato un
virulento articolo a firma del suo direttore Blondet dove, tra l’altro,
si legge che: “rifiutano il funerale, rifiutano la sepoltura, non sanno
più cosa inventarsi per farsi vedere dagli ebrei, compiacerli e
adularli” e che “alla torma di sciacalli” si è assoggettata anche la
chiesa che ormai non adora più Gesù “ma i giudei”.
Don Floriano Abrahamovicz, prete lefebvriano da anni attivo
polemista antisemita, in un’intervista radiofonica densa di
sottolineature antisemite e negazioniste ha detto che “Priebke
semplicemente ha applicato la legge internazionale marziale, non
lo condanno assolutamente. Non è un criminale. I criminali sono
stati quelli che hanno fatto saltare i ragazzi in via Rasella”. Sempre
don Abrahamovicz ha tenuto a Resana in provincia di Treviso una
messa da requiem per Priebke cui ha partecipato in prima fila
anche il sindaco del paese, che ha spiegato la sua presenza così:
“Io non sono né meglio né peggio di Priebke. Anch’io eseguo ordini
dallo Stato che hanno ripercussioni negative sui miei cittadini. Sono
costretto ad applicare leggi criminali…”.
Tanti sono stati i politici, specie delle amministrazioni locali e
spesso tramite i social networks, che si sono trasformati in paladini
dell’anziano SS. A Verona Roberto Bussinello, ex leader di Forza
Nuova e da poco nominato nell’organismo di vigilanza dell’azienda
pubblica dell’energia scaligera (Agsm), sul suo profilo Facebook ha
scritto: “Capitano, non è importante chi ti fa il funerale e dove sarai
sepolto, tu vivrai per sempre nel cuore di chi sogna e di chi lotta. Il
nostro onore si chiama fedeltà”.
Anche il presidente de La Destra Francesco Storace ha colto
l’occasione della morte di Priebke per dire: “Priebke? Le bombe
atomiche a Hiroshima hanno fatto più vittime… Priebke ha fatto
quello che doveva fare e ha eseguito degli ordini”.
Ancora più aspra è stata la provocazione da parte di Jorge, il figlio
di Priebke residente a Bariloche in Argentina: “Dove dovrebbe
essere seppellito mio padre? Per me anche in Israele, così sono
contenti… Gli ebrei la smettano di rompere, sono dei risentiti, quelli
rompono nel mondo fin da prima di Cristo. Il processo contro mio
padre è stata una falsificazione fatta dagli ebrei”.
La morte di Priebke s’è trasformata così in un palcoscenico per i
principali estremisti antisemiti, Maurizio Boccacci ha partecipato ai
funerali di Albano Laziale dove ha colto l’occasione per lanciare
l’ennesima minaccia verso il presidente della CER Riccardo Pacifici;
ad Albano è intervenuto anche don Curzio Nitoglia, padre spirituale
e confessore di Priebke, ma anche uno dei più fanatici predicatori
dell’antisemitismo. Il segretario nazionale di Forza Nuova Roberto
Fiore ha poi minacciato di presentare un esposto denuncia contro
la Comunità Ebraica di Roma in merito a quanto accaduto ad
Albano Laziale (dove non c’era praticamente nessun membro
comunitario…): “L’obiettivo degli attivisti della Comunità Ebraica
romana… era di prendere la bara, oltraggiarla e impedire il
funerale; un chiaro atto di matrice anticristiana”. Anche il
negazionista francese Roberto Faurisson si è espresso al proposito
sul suo blog dicendo che il “vero crimine del capro espiatorio
(Priebke n.d.a.)” era il suo “revisionismo”: “Nel momento in cui, sul
piano storico e scientifico i revisionisti riportano vittoria su vittoria,
si capisce il panico che sta aumentando sempre più tra i seguaci
della religione dell’ ‘Olocausto’ o della ‘Shoah’. E poi bisogna creare
le condizioni necessarie affinché l’Italia, a sua volta, adotti una
legge speciale contro il revisionismo”.
Le polemiche più numerose e virulente sono state però condotte
dall’avvocato di Priebke Paolo Giachini, simpatizzante neonazista
da lunga data e vicino a tutti i principali esponenti del neonazismo
italiano, che s’è spinto sino a minacciare la comunità ebraica di
Roma di denunciarla per ”violazione della legge Mancino”.
Giachini che ha ospitato in casa sua l’anziano SS per circa quindici
anni, è stato il principale artefice della costruzione del mito di
Priebke “martire” e da anni conduce polemiche antisemite contro
gli ebrei italiani. Nel 1997 ad esempio, durante un dibattimento
processuale ha distribuito ai giornalisti presenti un documento in
favore di Priebke dal titolo ‘I centri Wiesenthal e il caso Priebke’ in
cui imputava il processo contro l’ex capitano SS alle trame di un
onnipotente “estremismo ebraico-sionista internazionale”, ed oggi,
dopo il funerale del suo protetto, ha colto l’occasione per scagliare
l’ennesima invettiva antiebraica: “Volevano facesse la fine di Bin
Laden”.
Intorno alla bara di Priebke neonazisti, tradizionalisti cattolici e
certi “garantisti” il cui garantismo coincide con la difesa di
neonazisti e negazionisti, stanno edificando una sorta di santuario
dell’antisemitismo nazista e del negazionismo, per ora virtuale ma
che rischia però, qualora Priebke venisse seppellito in Italia, di
trasformarsi in una Predappio in camicia bruna o in un nuovo
mausoleo Graziani di Affile, come hanno subito compreso
Alessandra Ortona dell’Ugei ed il presidente Riccardo Pacifici.
Stefano Gatti
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
Sul palcoscenico della morte dell’ex SS sono saliti i più
squallidi personaggi dell’estrema destra italiana e della
chiesa preconciliare antisemita
23
ANTISEMITISMO
Di ebrei antisemiti, antisionisti
e neonazisti. E di ebrei redenti
E
brei che odiano altri ebrei. Oppure che “si limitano” a
odiare Israele, come se negare il diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico non fosse una palese forma di
antisemitismo. I funerali fuori Roma del boia delle Fosse
Ardeatine, Erich Priebke – osannato e rimpianto dai tanti neonazisti – e l’ennesimo caso di un sedicente atleta arabo, tunisino questa
volta, che ha rifiutato di gareggiare con un rivale israeliano hanno
ricordato al popolo del Libro due delle principali fonti da cui sgorga
l’odio antisemita: gli ambienti dell’estrema destra orfana del nazionalsocialismo e tanta parte del mondo arabo e islamico che non ha
mai digerito la creazione dello Stato d’Israele.
Tuttavia le cronache recenti restituiscono anche il ritratto di un odio
per lo Stato e per tutto il popolo ebraico, i cui protagonisti sono essi
stessi ebrei. La Anti Defamation League ha aggiornato la lista delle
organizzazioni americane “fissate con la delegittimazione di Israele”. Gruppi che, spiega il presidente dell’Adl Abraham H. Foxman,
“lavorano per convincere l’opinione pubblica americana che Israele
è il ‘cattivo’ internazionale che merita di essere ostracizzato e isolato”. Non si può ignorare come nella top ten stilata da Adl ci siano
ben due organizzazioni ebraiche. Fra i più accaniti odiatori dello
Stato ebraico fa il suo debutto il movimento Naturei Kartai, formazione ultraortodossa e pervicacemente antisionista, assurta in anni
passati agli onori delle cronache per aver partecipato a uno dei
tanti convegni organizzati dall’ex presidente iraniano Mahmoud
Ahmadinejad per demonizzare Israele e contestarne il diritto all’esistenza. L’Adl, che ha compilato la lista basandosi sulla capacità
dei singoli gruppi di organizzare o sponsorizzare le azioni di boicottaggio e di disinvestimento da Israele così come sull’impegno profuso a fare opera di lobbying contro lo Stato ebraico, osserva poi
come la Jewish Voice for Peace “sfrutti intenzionalmente i riti e la
cultura ebraica allo scopo di convincere altri ebrei che opporsi a
Israele non solo non contraddice ma è addirittura coerente con i
valori ebraici”.
Come spiegare questo odio di sé di parte del mondo ebraico? “È un
prodotto che non dobbiamo demonizzare della violenza e della
visceralità dell’antisemitismo”, risponde David Meghnagi, psicanalista e docente di Psicologia clinica a Roma Tre, “per cui il conflitto
non è più con l’esterno ma è interno, intrapsichico, soprattutto per
chi non ha sviluppato un’identità ebraica sul piano culturale e di
Ungheria: leader neonazista
si scopre ebreo e si converte
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
U
24
n estremista di destra, antisemita, nemico di Rom e
Sinti, che all'improvviso, circa un anno fa, viene messo
di fronte alle proprie radici ebraiche e si converte,
abbandonando le prediche piene d'odio che l'avevano
fatto salire fino ai vertici del partito ultraconservatore Jobbik.
Difficile immaginare una nemesi tanto carica di valori simbolici
come quella toccata al politico ungherese Csanad Szegedi, europarlamentare, tra i fondatori della Guardia ungherese, milizia
paramilitare collegata a Jobbik.
Dopo aver scoperto di avere origini ebraiche, che metà del ramo
materno della sua famiglia era morta ad Auschwitz, Szegedi è
sprofondato in un abisso di confusione. Per un anno si è nascosto
all'opinione pubblica, racconta il settimanale Welt am Sonntag, fino
all'illuminazione: sono ungherese ed ebreo, e va bene così. Szegedi inizia a rispettare lo shabbat, frequenta la sinagoga, impara l'ebraico per leggere il talmud e cerca di rispettare le 613 regole che
gli prescrive la religione. Anche se “non ci riesco sempre”, spiega,
in particolare per quanto riguarda la cucina kosher, un trauma per
una persona abituata alla cucina ungherese.
conseguenza non ha gli anticorpi per interpretare la realtà”. In altre
parole “l’impatto violento della discriminazione e il bisogno di farsi
accettare producono un conflitto interiore dove uno cerca di scappare da se stesso o da una parte di se stesso”. Attenzione, aggiunge Meghnagi “questo è uno sdoppiamento che si è consolidato sul
piano storico dopo l’emancipazione e prima della quale l’identità
degli ebrei era declinata solo sul piano religioso”. Nel caso di Naturei Karta, spiega ancora, “si attribuisce al sionismo una colpa ontologica che ha prodotto la catastrofe della Shoah. E c’è tutta una
corrente dell’ebraismo che identifica nel sionismo il responsabile
delle persecuzioni per aver osato affrettare i tempi del Messia”.
Una corrente centro ed est europea visto che sostanzialmente “l’ebraismo italiano e sefardita hanno accettato con più facilità il sionismo senza viverlo come un conflitto con la tradizione religiosa”.
Per Meghnagi, che a Roma Tre dirige anche un Master in didattica
della Shoah, è però importante che tutti capiscano l’origine di
quell’odio: “È, paradossalmente, un barlume di identificazione
ancora vivente di chi cerca di giustificarsi con l’esterno antisemita
e cerca di spiegare - come se ce ne fosse il bisogno - l’universalismo dei valori ebraici. È un barlume di resistenza, anche nascosta
e inconsapevole, in chi altrimenti potrebbe tagliare del tutto i
ponti con l’ebraismo. Ecco perché - sottolinea - occorre sempre
declinare in positivo l’identità e capire che quell’odio di sé viene
dall’esterno. E non si deve dimenticare che il ritorno, la teshuvah,
è sempre possibile”. Il caso più eclatante? Quello di Csanád Szegedi, eurodeputato e numero due del partito neonazista ungherese Jobbik che, dopo aver speso metà della sua vita ad accusare gli
ebrei di ogni infamia, ha scoperto che l’odio antisemita inculcatogli in famiglia era lo “scudo” inventato dai propri nonni per rinnegare se stessi e tentare di sfuggire alle discriminazioni. Riscoperta
la propria origine ebraica, Szegedi ha lasciato lo Jobbik per avvicinarsi, con l’aiuto di un rabbino di Budapest, alla cultura e alle
tradizioni delle proprie origini.
Daniel Mosseri
Sono stati i suoi rivali nel
partito a metterlo di fronte
a quella verità sconvolgente. Non era piaciuta la sua
scalata all'interno di Jobbik. Serviva qualcosa per
farlo fuori. Quando è uscita
fuori l'appartenenza all'ebraismo, i nonni in campo
di concentramento, è stato
chiaro che per Szegedi non ci sarebbe stato futuro tra gli ultraradicali della destra. Da numero due del partito era diventato il
problema numero uno, scrive il settimanale.
Eletto nelle file di Jobbik al parlamento europeo nel 2009, dopo
la svolta della sua vita ha abbandonato il partito, ma non ha
lasciato il posto di deputato Ue. Meglio restare nel gruppo misto,
evitando che qualche altro rappresentante dell'estrema destra
potesse prendere il suo posto. Dopo lunghe riflessioni, ha spiegato Szegedi al Welt am Sonntag, “ho scoperto che posso continuare a vivere il mio conservatorismo come ungherese e fedele
di religione ebraica”. “Sono sempre un timorato di Dio rispettoso
dei valori tradizionali della famiglia, ha aggiunto, ma da ebreo,
non più da calvinista”.
Le disgustose idee dell’Odifreddi-pensiero
hi pensa che antisemitismo e
odio per Israele siano appannaggio dei centri sociali e il negazionismo della Shoah bagaglio appresso di rottami del nazi-fascismo o strumenti ideologici di professori universitari
in cerca di emozioni rivoluzionarie ritardate, si sbaglia. Quelle sono frange rumorose
che però non hanno gran seguito nell’opinione pubblica, sono piuttosto utili per
diagnosticare il virus dell’antisionismo
rabbioso che circola in certi ambienti. Sono
persino patetici, anche se a volte pericolosi, nei loro atteggiamenti violenti.
I nemici autentici sono invece quelli si nascondono dietro apparenti critiche spacciate per legittime, quelli che mirano in
realtà alla distruzione di Israele, per esempio i sostenitori del boicottaggio economico e culturale dello Stato ebraico, la mefitica sigla BDS, sotto la quale diventa lecito
spacciare menzogne per verità, manipolazione della storia invece di attenersi ai
fatti accaduti, scambio di ruoli, come avviene quando si paragona Israele alla Germania nazista. I porta bandiera di questo
odio, dissimulato come una lecita opinione, hanno via libera nel nostro paese, e il
veleno che diffondono attraverso i media,
in gran parte compiacenti, ha buon gioco a
espandersi, trovando quasi sempre difensori in chi ritiene che spacciare una menzogna per verità sia un diritto garantito
dalla libertà di espressione.
Qualche volta però avviene il miracolo,
l’errore di sentirsi ormai al sicuro nel propagandare il proprio veleno, ritenendosi al
di sopra di qualsiasi critica, spinge a commettere un passo falso, dire apertamente
ciò che fino a quel momento era stato più
che altro insinuato, il piedistallo sul quale
si ergeva onnipotente il negazionista traballa, e l’odiatore, il falsificatore della storia, ondeggia e miseramente cade.
E’ successo a Piergiorgio Odifreddi, che
nel giro di una settimana è riuscito a distruggere - almeno questo ci auguriamo una fama conquistata attraverso una presenza ossessiva su giornali, tv, libri, convegni; non c’era festival letterario, politico,
spirituale che non lo includesse nel programma.
Credendosi un illustre esperto in comunicazione, visti gli indubbi risultati raggiunti, non si è reso conto di essere andato oltre, per cui la caduta, causata da una cattiva valutazione, è stata rovinosa. Invece di
insinuare come aveva sempre fatto, per
una volta ha scritto senza ipocrisie il suo
pensiero sul blog ospitato da Repubblica.
Non sappiamo quanti lettori abbia, ma tra
loro c’era sicuramente Jacopo Jacoponi
che a metà ottobre ne ha scritto sulla
Stampa, rivelando il vero Odifreddi-pensiero. “Camere a gas? Le conosciamo solo
dalla propaganda alleata”, e poi “Norimberga? Confesso di essere molto vicino alle
sue posizioni (di Priebke), il processo (di
Norimberga) è stato un’opera di propaganda. I processati hanno dichiarato, con lapalissiana evidenza, che se la guerra fosse
andata diversamente, a essere processati
per crimini di guerra sarebbero stati gli
alleati”. Aggiunge poi Odifreddi, tuttologo
per eccellenza: “Non entro nello specifico
delle camere a gas, perché di esse so appunto soltanto ciò che mi è stato fornito
dal ‘ministero della propaganda’ alleato
nel dopoguerra. E non essendo uno storico, non posso fare altro che ‘uniformarmi’
all’opinione comune. Ma almeno sono cosciente del fatto che di opinione si tratti”.
Ricorda poi, opportunamente, Jacoponi
sulla Stampa, quando Odifreddi paragonava i morti delle Fosse ardeatine “a quelli
causati dai raid israeliani nei territori palestinesi - ‘dieci volte superiori’: a quando
un tribunale internazionale per processare
e condannare anche Netanyahu e i suoi
generali?”.
Sempre sulle camere a gas “la maggior
parte delle persone si forma un’idea su
romanzi e film hollywoodiani, ma così nascono i miti”. E possiamo fermarci qui con
le citazioni, una più disgustosa dell’altra.
L’Odifreddi smascherato ha provocato la
risposta di Elena Loewenthal, sempre sulla Stampa, che chiama ‘fetido’ l’odio del
nostro verso Israele, usando poi giustamente la parola ‘antisemitismo’, uno strale
che finora non era mai riuscito a colpire il
prof. di matematica, aggiungendo “il delirio di parole scatenato da Odifreddi è una
sconcezza terribile”.
Nello stesso giorno Stefano Jesurum lo
accusa di essere un cattivo maestro, visto
che scrive e insegna all’università, citando
August Bebel “l’antisemitismo è il socialismo degli imbecilli”.
Evidentemente non contento delle attenzioni ricevute, Odifreddi ha commesso il
secondo errore: ha scritto al direttore della
Stampa e a Aldo Grasso, che sul Corriere
della Sera del 20.10, in prima pagina, gli
aveva rifilato un pezzo al fulmicotone. Entrambi gli hanno risposto citando quanto
lo stesso Odifreddi aveva scritto nel suo
blog, ma in maniera furbastra aveva evitato di inserire nella replica. Il risultato è
stato quello che ognuno si può immaginare, una doppia brutta figura nel giro di
qualche giorno. E una fama andata definitivamente in frantumi. D’ora in poi si guarderà con estrema cautela e attenzione
dallo scrivere concetti ‘fetidi e sconci’, non
perché non gli appartengono più, nelle sue
repliche li ha confermati persino aggravandoli, ma perché sa di vivere in un paese dove è meglio essere ipocriti, soprattutto nel linguaggio. E lui, per una volta nella
sua vita, ha invece scritto ciò che pensava.
Di Odifreddi, purtroppo, è piena l’Italia,
fanno meno errori, questo sì, riconoscerli è
più difficile, ma con un po’ di volontà si riesce lo stesso a smascherarli. Un errore,
prima o poi, come è successo per Odifreddi, lo commetterano.
Angelo Pezzana
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
C
L’odiatore di Israele ha gettato la maschera, per lui le camere a gas
non sono fatti ma opinioni. La Shoah è solo propaganda
25
PENSIERO
La battaglia per la libertà
non si finisce mai
di combattere
I
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
l commento su una visita a Masada è stata l’opportunità per
riflettere nuovamente su perché nella cultura ebraica si
cerchi così frequentemente il senso degli eventi analizzandoli attraverso il paradigma delle battaglie di liberazione.
Giuridicamente le libertà si distinguono in “libertà di…” e
“libertà da…”, per la storia le battaglie degli ebrei sono state in
entrambe le direzioni, senza alcun dubbio, e talora sono state
coincidenti, perché liberarsi dagli egiziani o dai tedeschi significava potere avere accesso a tutte le “libertà di…”, in primis
quella alla vita.
Ci si chiede allora perché un concetto tanto banale vada spiegato e rispiegato, fino a seccare la gola. Forse perché ci si è talmente assuefatti alle varie “libertà di…” che non riusciamo più a
vederle laddove vengono negate, e senza andare tanto lontano
basterebbe mettersi per qualche ora vicino al cassonetto sotto
casa. Certo ci sono i Rom specializzati per settore, ma ci sono
altrettante persone “normali” che in ore più discrete rastrellano
il nostro superfluo. Dunque non siamo ancora riusciti a soddisfare i bisogni elementari che consentano a tutti di avere il diritto
al cibo.
Non è anche questa una guerra di liberazione? Il cibo - il primo
fra i diritti, la cui negazione porta malattie devastanti e per cui
si sono combattute le guerre più sanguinose e tante ne sono
ancora in atto - non è ancora diventato un bene per tutti.
I tempi delle libertà (usando il concetto al plurale si vuole ricomprenderle entrambe) sembrano ancora di là da venire. Proprio
per questo è indispensabile celebrare tutte quelle vinte. Perché
la tanto citata speranza dove la possiamo radicare altrimenti? La
nostra memoria è il terreno più fertile dove far attecchire i sogni
delle generazioni successive.
Allora sorge un dubbio: aver definito senza speranza la giovane
generazione contemporanea non è avere, nello stesso tempo
deciso di smettere di lottare per la libertà? La risposta non può
che essere affermativa. Ma non è una generazione che è ferma,
è una società che ha insegnato a sognare un solo sogno: l’arricchimento esponenziale delle proprie risorse economiche di gene-
26
razione in generazione. E, ora che questa scala si è spezzata, si
fatica persino a vedere i segnali di movimento che, invece, ci
sono come il ritorno dei giovani all’agricoltura e ai mestieri.
Non sappiamo quanto della storia celebrata da Giuseppe Flavio
sia vera o verosimile, ma sappiamo che nella celebrazione identitaria questo è un luogo in cui la libertà venne celebrata al
prezzo della vita. Forse è questo ciò che diventa difficilmente
razionalizzabile: il valore identificante di una storia complessa,
diffusa sul pianeta in infinite battaglie di liberazione la cui
summa si raccoglie in due parole: il popolo ebraico.
Certamente gente che è stata salvata prima di tutto dal proprio
sogno nella Diaspora e in Israele, la Storia si è sviluppata nelle
battaglie continue e non ancora finite per il diritto ad esistere
prima di tutto e per tutte le battaglie di libertà che ne discendono. Poteva essere un ragionamento scontato, ma evidentemente
non è così.
La storia delle guerre di liberazione, di nessuno degli stati contemporanei arriva a 5774 anni, e dunque nessun popolo porta
una memoria così lunga dei propri diritti negati.
Evidentemente la leggerezza dei tempi contemporanei non consente di confrontarsi con temi corposi e l’imponente fisicità di
Masada e la storia della sua tragedia parla all’inconscio risvegliando domande la cui risposta non può che essere un’altra
domanda: perché la nostra storia è stata un susseguirsi di guerre di liberazione, per altro non ancora compiute?
Clelia Piperno
Il terrorismo di oggi nasce
dalle minacce di ieri
L’analisi di Shay Shaul massimo studioso
del terrorismo internazionale, ospite
di un convegno organizzato dal Benè Berith
“L
Sandro Di Castro, dopo aver ricordato quel giorno in cui fu ferito
insieme ad altre 36 persone e fu assassinato il piccolo Stefano Gay
Tache, ha sottolineato il perché dell’iniziativa: “quest’anno volevamo approfondire un po’ di più la tematica e prendere spunto
dall’attentato di 30 anni fa, compiuto nella forma classica del terrorismo palestinese, per analizzare qual è stata l’evoluzione del
terrorismo dal 1982 ad oggi: quali sono le nuove forme e come è
cambiato il modo di fare terrorismo che diventa sempre più devastante (come possiamo vedere con l’attentato dell’11 settembre).
È un input che vogliamo dare perché a volte non ci rendiamo
neanche conto di essere sotto attacco terroristico ed è sempre
bene vigilare”.
Poi ha preso la parola Shay Shaul, docente all’IDC di Herzlia, che
vanta nel suo prestigioso curriculum la vicepresidenza del consiglio sulla Sicurezza Nazionale israeliana, e quella della storia
militare nazionale dell’Idf (Israeli Defense Forces).
Shaul ha tenuto una vera e propria relazione sulla storia e le
minacce attuali del terrorismo. Il punto di svolta, secondo l’esperto israeliano, è avvenuto in due periodi cruciali: il primo, dopo la
guerra dei Sei giorni, quando i massimi dirigenti palestinesi decisero di esportare la lotta armata e gli attacchi terroristici fuori dai
confini israeliani, prima con i dirottamenti aerei e poi con gli
attentati che presero di mira le comunità ebraiche. E poi nel
decennio tra la fine degli anni Settanta ed Ottanta quando due
avvenimenti internazionali di vasta portata cambiarono le sorti
mediorientali ed internazionali per gli anni a venire, e di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze: l’ascesa khomenista e l’occupa-
zione dell’Afghanistan da parte dell’allora URSS. In entrambi i casi
Shaul ha spiegato come questi due fenomeni storici si siano legati in modo esplosivo al terrorismo palestinese. Divenendo una
minaccia costante e duratura per il mondo intero.
Khomeini con la sua rivoluzione sprigionò il terrorismo sciita, la
proclamazione della Jihad, la guerra santa contro i cosiddetti
“crociati” e gli ebrei, trovando una saldatura della politica del
terrore in Libano, dove sponsorizzò la nascita del movimento
terroristico di Hezbollah.
Mentre la ritirata dei russi al termine del conflitto in Afghanistan,
segnò l’affermazione di Al Qaeda, tra i maggiori gruppi fondamentalisti islamici radicali, che diede il via alla rete di reclutamento e
allo sprigionamento del terrore su scala mondiale.
J. D. R.
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
o stato di Israele e gli ebrei nel mondo sono in
guerra” così ha tuonato Shay Shaul, uno dei massimi studiosi del terrorismo internazionale, che è
stato l’ospite d’onore della serata organizzata dal
Benè Berith per ricordare l’attentato della sinagoga del 9 ottobre
1982. Davanti a un folto pubblico che ha riempito la sala di Palazzo Valentini, dapprima hanno indirizzato parole di saluto, Sandro
Di Castro e Ruben Della Rocca, rispettivamente presidente e vicepresidente della sezione romana del B.B. Poi è intervenuto l’onorevole Stefano Dambruoso, già sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano e Capo dell’Ufficio per il Coordinamento dell’attività internazionale del Ministero della Giustizia, che ha messo in guardia dalla pericolosità e l’imprevedibilità
delle cellule terroristiche reclutate sulla Rete.
27
PENSIERO
Lo studio come valore
È merito del popolo ebraico se la conoscenza
è diventata un diritto che appartiene a tutti.
Solo l’ebraismo ha saputo rendere l’alfabetizzazione
un dovere altamente spirituale e funzionale
N
el secolo primo A E.V., gli esponenti più avveduti e
lungimiranti del movimento farisaico promossero l’istituzione di scuole secondarie per l’insegnamento gratuito della Torah. Nel secolo successivo fu presa la decisione che i padri inviassero i figli a scuola dall’età di sei o sette
anni. Si trattò di una decisione rivoluzionaria e unica nella storia
dell’antichità, che portava a compimento un lungo processo storico e culturale che aveva trovato nell’insegnamento dei profeti e
nell’azione di Ezra dei momenti importanti.
Per la prima volta nella storia un gruppo religioso, e per sua bocca
come si sarebbe in seguito verificato, una nazione intera proclamava che la conoscenza era un diritto che apparteneva a tutti. Era
anzi un dovere rispetto ai figli. Seppure limitata alla dimensione
specificamente religiosa, che nell’ebraismo rabbinico coinvolge
ogni aspetto della vita, la conoscenza non era un appannaggio
esclusivo di una casta sacerdotale o di una classe sociale che
dominava le altre.
Quando un pagano chiese a Rav Hillel, se era possibile riassumere la Torah su un piede, il Maestro rispose “Ama il tuo prossimo
come te stesso”. Poi aggiunse: ora va e studia. Lo studio era un
precetto, un atto dovuto che contribuiva a migliorare se stessi e
a salvaguardare la sopravvivenza della comunità. Non solo. Contribuiva a salvare il mondo intero perché è sulla Torah e i suoi
precetti che il mondo poggiava. Per Rav Hillel l’amore verso il
prossimo e la giustizia, altro grande pilastro dell’ebraismo,
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hanno bisogno di essere nutriti e approfonditi dallo studio e
dalla conoscenza della Torah.
In un mondo dove l’analfabetismo era la norma, una corrente religiosa importante dell’ebraismo, che in seguito alla distruzione del
Tempio, emerse come suo rappresentante riconosciuto, faceva
dell’alfabetizzazione un dovere altamente spirituale e funzionale
alla vita religiosa della comunità. Contro ogni logica “economica”
e “sociale”, al prezzo di sacrifici grandi, un ebreo era obbligato ad
apprendere a leggere e a scrivere. Non perché questo gli potesse
servire per delle particolari funzioni politiche o sociali, come avveniva presso gli altri popoli e le altre religioni, dove la scrittura era
riservata a pochi e contribuiva al dominio di pochi su molti. Nell’ebraismo apprendere a leggere e scrivere, erano un atto dovuto
verso se stessi e gli altri, indipendentemente dalla condizione
sociale ed economica, perché che elevava lo spirito e garantiva la
sopravvivenza di una comunità spossessata del suo centro politico e culturale. Un’azione carica di significati religiosi che contribuiva a salvare il mondo perché nella rappresentazione che se ne
aveva era sulla Torah che l’esistenza del mondo poggiava.
Grazie a questa decisione, assunta quando il popolo ebraico
viveva ancora in maggioranza nella Terra di Israele, gli ebrei avevano una “patria portatile” che non li avrebbe abbandonati nell’esilio. Il Tempio distrutto grazie allo sviluppo del culto sinagogale,
poteva trasferirsi interamente nei cuori e nella preghiera, nella
meditazione e nello studio. Soggiogati da poteri altrui, gli ebrei
poterono conservarsi spiritualmente liberi in un rapporto unico
con il Divino che non aveva bisogno di mediazioni altrui. Colpita
al cuore e perseguitata, la loro religione non si ridusse a un culto
locale e marginale. L’ebraismo continuò a svilupparsi e a dare, in
condizioni talora impossibili, i suoi frutti duraturi.
La scelta operata dal mondo farisaico portava in realtà a compimento un processo intrinseco alla religiosità ebraica, che ha contribuito a fissare nei secoli successivi tratti importanti dell’identità ebraica e dei suoi valori fondanti, come anche purtroppo alcuni
dei pregiudizi da cui l’ebraismo è da sempre stato circondato.
Popolo alfabetizzato, gli ebrei sono stati oggetto di proiezioni deliranti e paranoidi ad opera delle maggioranze dominanti.
Usciti sconfitti nello scontro mortale con l’Impero, demonizzati
dalla Chiesa trionfante, disprezzati sotto il giogo islamico, gli
ebrei riuscirono a sopravvivere come gruppo anche perché erano
necessari e funzionali alle società in cui erano dispersi. In questa
complessa e ambigua dialettica con i poteri forti da cui erano “tollerati” e allo stesso tempo perseguitati e periodicamente derubati,
diventare del tutto “superflui” poteva essere la fine.
È un aspetto tragico della storia ebraica del passato, con le sue
eroiche strategie di sopravvivenza, ma anche con le sue fragilità
costitutive (si pensi al ruolo degli ebrei di corte), che merita di
essere approfondita.
David Meghnagi
Il suo film ‘Hotel
Meina’ seppe creare
una sintonia totale con
la sofferenza delle
persone barbaramente
trucidate
H
o conosciuto Carlo Lizzani
nel 2007, nell’occasione di
un convegno che si tenne in
Campidoglio sul tema “La
memoria visiva di chi pensa e crea.
L’importanza della sua conservazione”.
Ogni invitato a intervenire era chiamato
a illustrare l’importanza della memoria
visiva nella sua professione e nelle sue
attività e a illustrare i metodi per la sua
conservazione. Nel mio caso si trattava
della storia della scienza e, oltre a fare
un discorso specifico e tecnico, mi era
sembrato opportuno mostrare con qualche esempio quanto possano essere
importanti e suggestive le immagini
nella storia della scienza. Mostrai alcune fotografie che avevano avuto per me
un forte potere evocativo, che mi era
servito anche per trasmettere meglio e
con maggiore profondità il senso di
certe vicende storiche. Tra le tante
ricordo quella di Mussolini che visita la
Biblioteca dell’Istituto di Matematica
dell’Università di Roma appena inaugurata. Mi ha sempre scosso vedere l’immagine del Duce che passeggia assieme al direttore dell’Istituto, il matematico Francesco Severi, in camicia nera e
stivali, in quegli stessi locali in cui avrei
passato tanto tempo a studiare. In
un’altra foto Severi tiene il discorso
inaugurale davanti al Duce e a Bottai,
nella stessa aula in cui io e tanti colleghi abbiamo poi tenuto le nostre lezioni. Ben diversi sentimenti suscita la foto
di un altro grande matematico ebreo,
Federigo Enriques, che conversa con
Albert Einstein: la posa disinvolta e
familiare descrive più di molti discorsi il
prestigio che aveva la scienza italiana
nel mondo, prima che il fascismo la
facesse a pezzi. Non meno suggestiva è
la foto di un altro grande scienziato
ebreo, John von Neumann, emigrato
negli USA e protagonista dell’impegno
scientifico nella lotta contro il nazismo,
che riceve la medaglia della libertà dal
presidente Eisenhower mentre sta
ancora sulla breccia, pur essendo con-
dannato sulla sedia a rotelle per un cancro osseo.
Non mancai di mostrare alcune foto personali
evocative di quei tempi drammatici.
Molti anni fa era usuale che dei fotografi prendessero immagini di persone per strada: consegnavano un numeretto, potevi andare a vedere la
foto e, se ti piaceva, la compravi. In un’immagine
del 1940, mio padre e mia madre camminano per
una strada di Roma leggendo attoniti una copia
del Messaggero che annuncia l’inizio della tragedia: otto armate tedesche sono entrate nel Belgio.
Conobbi Lizzani nell’occasione di quel convegno
perché la mia presentazione lo colpì, venne a dirmelo e mi propose di incontrarci. Ci vedemmo
alcuni giorni dopo al tavolo di un bar a Piazza
Cola di Rienzo. Parlammo di molte cose tra cui
anche il rapporto tra matematica e arte, che era
un tema che lo intrigava molto. Fui vivamente
impressionato dalla sua personalità intensa e al
contempo discreta. Sapevo che egli aveva sempre
avuto una militanza politica molto netta, e ricavai
l’impressione consolante che si può avere una
siffatta militanza ed essere al contempo aperto e
curioso di ogni altro punto di vista. Quando ci
accomiatammo mi promise di inviare dei biglietti,
per me e mia moglie, per l’anteprima del suo
nuovo film, Hotel Meina.
Di fronte alla sua morte drammatica sento il
dovere di ricordare la figura di Lizzani sia per il
ricordo intenso che mi ha lasciato sia per l’impressione destata da quel film. Da un lato, esso
propone un’immagine attenta della condizione
di integrazione piena dell’ebraismo nella società
italiana e del dramma che rappresentò il suo
artificioso sradicamento dalla realtà. D’altro lato,
esso dimostra che cosa può l’arte quando riesce
a parlare al cuore. Difatti, quando noi pensiamo
al dramma della Shoah sentiamo la necessità di
andare oltre la nuda registrazione dei fatti. Ci
chiediamo come può aver vissuto certe circostanze drammatiche una persona di cui sappiamo tante cose: ci sforziamo di immaginarla nel
vagone piombato, mentre scende dal treno,
mentre subisce violenze. Nelle immagini terribili
del film, soprattutto quelle finali, il film di Lizzani realizza ciò che soltanto l’arte può riuscire a
fare: creare una sintonia totale con la sofferenza
delle persone barbaramente trucidate. Ed è per
questo che sono sempre più convinto che, per
perpetuare la memoria nelle scuole, può essere
assai più efficace, invece di propinare lezioni
documentarie che talora sono noiose e sanno di
imparaticcio, sia meglio proporre la visione di
opere d’arte come questa, capaci di suscitare
una profonda empatia. Grazie Lizzani.
Giorgio Israel
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
In ricordo di Carlo Lizzani:
quel modo straordinario
di raccontare la Shoah
29
ISRAELE
Israele e Bulgaria, una amicizia di lunga data
Il legame tra i due paesi si è rafforzato nella collaborazione
anti-terrorismo, specie dopo l’attentato di Burgas
I
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
buoni rapporti che oggi hanno Israele
e Bulgaria, affondano le loro radici in
un passato che precede la nascita
dello Stato ebraico. Proprio nel 2013,
infatti, è caduto il settantesimo anniversario della salvezza degli ebrei bulgari dai
campi di concentramento durante la
Seconda Guerra Mondiale. Il “giusto” che
si oppose alla deportazione fu Dimitar
Pesev: vicepresidente della Camera, già
Ministro della Giustizia nel 1935-36, Pesev,
seguito da 43 parlamentari, presentò al
governo una protesta per bloccare l’ordine
di rastrellamento degli ebrei bulgari. Le
sue pressioni, grazie anche all’appoggio di
personalità pubbliche di rilievo e della
Chiesa ortodossa bulgara, furono efficaci:
le deportazioni dalla Bulgaria non ebbero
luogo e gli ebrei, seppure in condizioni
precarie, riuscirono a sopravvivere.
Nel dopoguerra, la maggior parte degli
ebrei bulgari scelse la via dell’emigrazione
in Israele, anche prima della sua proclamazione nel 1948. Il regime comunista che si
instaurò nel dopoguerra fu incapace di
30
garantire una riabilitazione economica
della comunità ebraica locale; parallelamente, anche l’ideale sionista e il senso di
insicurezza comunicato dalle atrocità della
guerra spinsero le scelte degli ebrei bulgari in questa direzione.
Durante la Guerra fredda, nei rapporti con
Israele, la Bulgaria risentì delle pressioni
sovietiche e manifestò una certa ostilità
verso lo Stato ebraico. All’indomani della
caduta del muro di Berlino, però, proprio
Israele, assieme alla Corea del Sud, rappresentò uno dei nuovi interlocutori diplomatici di Sofia, che si apriva così al dialogo
col blocco occidentale. Da quel momento,
le relazioni tra i due Paesi hanno intrapreso una graduale crescita, che si è evidenziata sotto molteplici aspetti. Una battuta
d’arresto poteva emergere dopo il 18 luglio
2012, quando un attentato terroristico ha
tolto la vita a cinque turisti israeliani e ad
un bulgaro che era l’autista del autobus.
Dopo sei mesi di indagini, nel febbraio
2013, le autorità bulgare hanno individuato la responsabilità di Hezbollah in questo
attentato, confermando gli iniziali sospetti
avanzati dal premier israeliano Netanyahu.
Parole di stima sono giunte dall’ambasciatore israeliano a Sofia, Shaul Khamis Raz, il
quale in un’intervista a “Trud”, uno dei
più antichi quotidiani bulgari, ha evidenziato la correttezza della Bulgaria, che non
ha sottovalutato il coinvolgimento del
gruppo terrorista libanese; sin dal momento successivo all’attentato, alti rappresentanti del governo bulgaro hanno partecipato ai lavori instancabilmente. “Questo è
stato importante - ha aggiunto - perché ci
ha fatto capire che non eravamo soli in un
momento difficile”. Proprio per questo “le
relazioni bulgaro-israeliane sono eccellenti
a tutti i livelli”.
Questa vicenda non ha dunque scalfito
l’amicizia tra i due Paesi. Poco più di un
mese dopo, alla fine di agosto del 2012,
l’allora vice primo ministro israeliano (e
attuale Ministro della Difesa) Moshe Ya’alon aveva visitato Sofia e nel suo discorso
alla Sinagoga Centrale aveva affermato
che “Israele e Bulgaria non si fermeranno
fino a quando tutti i responsabili per l'attentato a Burgas non saranno puniti […]”.
Un’ulteriore dimostrazione è giunta poche
settimane dopo, quando nel mese di settembre, sei settimane dopo l’attentato, si è
tenuto un incontro dei due governi a Gerusalemme, naturale prosieguo del vertice
del luglio 2011 a Sofia. L’agenda di questi
summit ha mostrato come la cooperazione
tra Israele e Bulgaria si stia sviluppando
proficuamente. A luglio 2011 l’attenzione
si era soffermata maggiormente sulle relazioni bilaterali e sulla cooperazione nei
campi dell’economia, dell’agricoltura e del
turismo; a Gerusalemme, invece, i negoziati hanno portato a individuare unità di
intenti negli ambiti dell’information technology e delle comunicazioni, nella sanità
e nelle scienze mediche, ma anche nella
scienza, nella cultura e nell’educazione.
Daniele Toscano
Carmiel, la prima città al mondo
certificata per la qualità dell’ambiente
ta una regione ad alto potenziale di sviluppo. Inoltre, vi è la necessità di ribaltare la situazione demografica che vede in quella zona
la popolazione ebraica in minoranza. Gli ebrei in Galilea sono ancora oggi meno della metà della popolazione: assai più del 25% che
rappresentavano ancora negli anni ’80, ma ancora lontani dalla
metà. In particolare non riesce ad attrarre gente dal centro del
Paese: chi arriva nei villaggi della Galilea sono soprattutto giovani
che abbandonano Haifa alla ricerca di migliori standard di vita,
mentre altri si dirigono verso Tel Aviv.
L’evoluzione della città è stata rapida, soprattutto dalla fine degli
anni ‘70 ed ha ricevuto un enorme impulso dagli immigrati etiopi
prima e da quelli dell’ex-URSS dopo. Solo questi ultimi ammontano
a 17.000. Dopo il ritiro dal sud del Libano nel 2000, nella città sono
arrivate famiglie di libanesi che hanno preferito Israele, molti dei
quali abitano in un unico quartiere. Secondo l’ufficio di statistica
aggiornato al dicembre 2011 abitano a Carmiel 44.710 persone con
una crescita dello 0,7% annuale. Il sito del municipio indica ottimisticamente in 120.000 abitanti la mira per il 2020.
Anche Carmiel, come il resto del nord di Israele, è stata inaspettatamente obiettivo di razzi katiuscia durante la seconda guerra del
Libano. Prima di allora infatti si pensava che la città fosse al sicuro
dai missili perché coperta da un catena montuosa al nord e perché
popolata anche da arabi.
Paola Abbina
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armiel è una città nel nord di Israele. Il suo nome significa
“la vigna di Dio”, riprendendo con questo l’antica denominazione della “valle della vigna” e rispecchiando l’abbondanza di vigneti presenti nella zona.
È conosciuta in tutto il Paese per l’alto standard di vita. Nel corso
degli anni sono stati costruiti diversi quartieri ognuno con le sue
specifiche esigenze, come centri commerciali, strutture educative e
ludiche. Carmiel è stata la prima città ha ricevere la certificazione
ISO 9002 per la qualità dei suoi servizi. La città infatti ha emanato
uno statuto speciale per la tutela dell’ambiente e la prevenzione
dell’inquinamento ed è diventata un centro industriale con imprese
tecnologiche avanzate.
Carmiel serve tutta l’alta Galilea come sede per grandi eventi, si
tengono infatti diversi festival nazionali ed internazionali di cultura,
cinema e letteratura. La storia della città inizia nel 1956 quando
parte dei villaggi arabo israeliani di De’ir Al Assad, Bi’inà e Nahf
sono stati dichiarati “aree chiuse”. Una volta questa zona, tra Acco
e Tzfat, era una cava di marmo fino a che nel 1961 le autorità israeliane non hanno deciso di costruirvi Carmiel, dando in cambio agli
abitanti di allora “terre altrettanto buone”, ma la cosa non è passata inosservata tanto che nel 1965 il Paese ha assistito ad una viva
protesta - finita però con un nulla di fatto - a Tel Aviv contro la
discriminazione di altri cittadini per il mancato assegnamento di
lotti di terre a chi era stato espropriato.
La fondazione della città è dunque radicata nello sforzo di ripopolazione ebraica della Galilea, un obiettivo che lo Stato di Israele persegue dai primi anni ‘60 e sul quale continua ad investire anche
oggi. Il motivo è duplice: insieme al Neghev, la Galilea è considera-
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31
STORIA
La notte dei cristalli.
Una data che i tedeschi
preferiscono dimenticare
Fu possibile grazie al coinvolgimento di molti cittadini
tedeschi in una cerimonia di mortificazione collettiva
del popolo ebraico che mirava alle sinagoghe,
agli oggetti di culto, alla Torà
I
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
l 9 novembre del 1938 si verificò in
Germania il più grande pogrom che si
ricordi, a partire dal medioevo. Oltre
mille sinagoghe vennero date alle
fiamme; case e negozi andarono distrutti.
Furono uccisi più di cento ebrei e il giorno
dopo oltre trentamila vennero
deportati. Con il senno di poi si
può dire che fu il primo segnale
della Shoà.
Quella notte passò alla storia con
il nome Reichskristallnacht. In italiano si usa l’espressione: «notte
dei cristalli». Come sempre, le
parole dicono molto. E dicono
anzitutto che di quella notte fu
conservata memoria più per i vetri
andati in frantumi, che per le persone uccise. Nella formula italiana
manca tuttavia il termine Reich. In
tedesco la parola completa suggeriva l’idea che si trattasse di un’iniziativa centrale, una notte di
violenza organizzata dal Reich.
Ma le numerosissime testimonianze attestano anche il coinvolgimento di molti cittadini tedeschi in una cerimonia di mortificazione collettiva del popolo ebraico che mirava alle sinagoghe, agli oggetti di culto, alla
Torà. A Potsdam le SA, le «squadre d’assalto» o «camice brune», irrompendo nella
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sinagoga, fecero in mille pezzi il rotolo della
Torà. A Francoforte furono invece costretti
a farlo alcuni giovani ebrei e le SA si appuntarono i frammenti alle giacche come «portafortuna»; mentre ciò accadeva, il rabbino
dovette recitare i dieci comandamenti e un
tenore ebreo cantare l’aria del Flauto magico di Mozart: «In questi sacri luoghi non si
conosce la vendetta». A Düsseldorf la
masnada dette fuoco ai rotoli della Torà
danzando intorno al rogo. Episodi del genere si verificarono durante tutta la notte
nelle grandi città, da Berlino a Colonia, fino
ai centri più piccoli, dove non mancavano le
comunità ebraiche e le sinagoghe. Alle
quattro del mattino dell’antica sinagoga di
Heidelberg restavano solo le assi di legno
incenerite. A Baden-Baden, invece, celebre
luogo di cura, per non disturbare gli ospiti
si cominciò solo la mattina alle dieci: un
corteo di sei ebrei, obbligati a portare una
stella di David con la scritta «Dio non ci
abbandona», fu scortato dagli uomini delle
SA attraverso la città fino alla sinagoga
dove furono costretti a leggere brani del
Mein Kampf.
La notte dei cristalli fu organizzata centralmente dal Reich. Ma non avrebbe potuto
essere attuata, in quelle dimensioni, se alle
SA non si fosse aggiunta la gente del luogo
(come testimoniano le numerose foto). È
importante notare che, mentre nella stampa si parlava di «razza ebraica», di «complotto ebraico», di «finanza ebraica», le
violenze di quella notte furono inequivocabilmente antireligiose. Come spiegare l’atteggiamento della maggior parte della
popolazione che andava dalla sorda passi-
vità alla complicità attiva? Che giustificazione dare per l’indifferenza verso quell’attacco?
D’altronde le sinagoghe profanate, là dove
erano rimasti ancora gli edifici, diventarono
prima depositi dei beni confiscati agli ebrei,
quindi luoghi di raccolta per la
deportazione, e infine, dopo la
guerra, furono adibite agli usi più
diversi: lavanderie, officine, fabbriche, asili, piscine, chiese, ristoranti. Ancor oggi a Poznan, in
Polonia, l’antica sinagoga è, dal
1938, piscina pubblica. Solo da
pochi anni in Germania, per iniziativa delle comunità ebraiche, alcuni di questi edifici sono tornati a
essere sinagoghe.
La data del 9 novembre è oggi a
stento segnalata dagli organi di
informazione e soprattutto non è
inscritta nella memoria collettiva.
Fa parte di quel passato della Germania che i più anziani non hanno
mai voluto ricordare e i più giovani non
vogliono ricordare più.
Chissà perché in Italia, guardando al monumento di Berlino, si crede che la Germania
abbia fatto, più di altri paesi, un lavoro di
scavo e di confronto con il proprio passato.
Non è vero. E non bisogna fare l’errore di
credere che Berlino, metropoli multiforme e
complessa, rappresenti il paese. In tutto il
resto della Germania, con punte esasperate
nei nuovi Länder, Auschwitz è un nome
tabuizzato e interdetto. Ha per i tedeschi
quasi il sapore di un’offesa personale –
come se si mirasse intenzionalmente a farli
sentire colpevoli. E i tedeschi – si sa – non
amano sentirsi colpevoli.
Forse dovrebbero cominciare a ricordare
proprio quella terribile notte di cui restano
tracce in numerosissime città e cittadine
tedesche dove di solito - un buon esempio è
Friburgo in Brisgovia - la piazza centrale, in
cui si ergeva l’antica sinagoga, l’Altersynagogenplatz, esibisce un grande vuoto che
nessun giardino e nessun monumento possono colmare. È anche il vuoto di responsabilità di quei tedeschi - molti - che hanno
lasciato che bruciassero sinagoghe, libri,
rotoli della Torà, prima ancora che fossero
deportati i loro concittadini ebrei. Sono gli
stessi che hanno coperto per anni assassini
e criminali nazisti.
Donatella Di Cesare
GLI EBREI CHE HANNO FATTO STORIA
Mordechai Anielewicz
Guidò la resistenza contro i nazisti
nell’assedio al Ghetto di Varsavia
prendere contatti dal ghetto di Varsavia con
l’esercito Polacco per il rifornimento di armi
e per quanto possibile coordinare gli attacchi contro i nazisti. La ZOB si prodigò anche
per “punire” quei personaggi, ebrei, che
denunciavano i loro stessi correligionari
alle autorità naziste per ottenere permessi
o vantaggi di qualsiasi tipo.
Nel 1942, a seguito delle numerose deportazioni, il numero degli ebrei presenti nel
ghetto era di 60.000 (inizialmente erano
350.000). Mordechai Anielewicz fu nominato capo dell’Organizzazione ebraica di difesa. Egli insieme al suo gruppo, nonostante
gli scarsissimi mezzi, seppe osteggiare con
successo le retate naziste nel ghetto. Il 18
gennaio 1943, i nazisti avevano programmato un’altra grande deportazione degli
ebrei nei campi di sterminio. L’Organizzazione di difesa pianificò un piano che ebbe
successo e nel ghetto ci fu uno stato di
guerriglia che durò quattro giorni. I mesi tra
gennaio ed aprile del 1943 furono molto
tesi, e il 19 aprile, alla vigilia di Pesach, con
l’inizio dell’ultima deportazione, scoppiò la
rivolta. I nazisti subirono numerose perdite
e, nonostante i loro mezzi, non riuscirono
ad espugnare il ghetto con facilità. La lotta
durò per quattro settimane e le SS, capitanate dal generale Jurgen Stroop, bruciarono casa per casa mettendo fine alla rivolta.
Anielewicz, insieme alla sua fidanzata e al
gruppo dirigente della ZOB, capendo che
non c’era più speranza, decise di suicidarsi
nel bunker del ghetto l’8 maggio del 1943.
Lo stesso gesto che, secoli prima, fecero gli
ebrei di Masada resistendo all’assedio
romano, un gesto figlio dell’esasperazione
ma anche dell’orgoglio della propria identità ebraica.
Mordechai Anielewicz è entrato a pieno
titolo tra i grandi della storia ebraica; all’inizio del 1944 gli fu concessa l’onorificenza
postuma della Croce di Guerra dal governo
polacco in esilio; in sua memoria in Israele
è stato fondato il Kibbutz Yad Mordechai e
in Italia, la sede romana dell’Hashomer
Hatzair porta ancora con fierezza il suo
nome.
Angelo M. Di Nepi
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
L
a storia di Mordechai Anielewicz
è la storia di un giovane ebreo, di
un combattente, che dedicò la sua
intera esistenza alla difesa del
popolo ebraico; egli, insieme ad altri giovani valorosi guidò la resistenza contro i
nazisti nella triste vicenda dell’assedio del
Ghetto di Varsavia.
Mordechai Anielewicz nacque nel 1919
nella città di Wyskow, in Polonia. Cresciuto in una povera famiglia ebraica, completò comunque gli studi superiori e, giovanissimo, aderì al movimento giovanile
sionista Hashomer Hatzair divenendone
presto il leader.
Il 7 Settembre 1939 con lo scoppio della
guerra e l’imminente avanzata nazista nei
territori polacchi, Anielewicz fuggì nei territori della Polonia dell’est con l’obiettivo di
giungere in Romania ed aprire un canale
che potesse consentire agli ebrei di raggiungere la Palestina, allora sotto mandato
britannico; il piano fallì, fu catturato e
imprigionato dai sovietici che, dopo il rilascio, lo rispedirono a Varsavia.
Sebbene la situazione degenerasse di giorno in giorno e la vita per gli ebrei fosse
sempre più difficile ed umiliante, in pochi
sospettavano le reali intenzioni dei tedeschi. Anielewicz, capendo perfettamente il
piano nazista, fuggì di nuovo da Varsavia e
partì per la Lituania, nella città di Vilnia,
dove avevano trovato rifugio molti ebrei. Il
leader dell’Hashomer Hatzair s’impegnò
nel risvegliare le coscienze e far aprire gli
occhi al proprio popolo su ciò che stava
realmente accadendo. Egli spronò gli ebrei
polacchi a reagire e combattere. Da segnalare che Anielewicz, come Jabotinksy prima
di lui, incontrarono non poche difficoltà nel
convincere gli ebrei a non avere un atteggiamento passivo nei confronti dei soprusi
che ricevevano continuamente.
Anielewicz tornò a Varsavia ed inviò un
gruppo di suoi fedelissimi per le comunità
ebraiche dei territori occupati; questi tennero seminari, stamparono opuscoli e
quant’altro con l’obiettivo di “svegliare” gli
ebrei dalla loro stessa ingenuità.
Con il trascorrere del tempo, la situazione
per gli ebrei peggiorò; ogni giorno arrivavano notizie delle continue uccisioni di massa
perpetrate in tutta l’Europa Orientale; i
leader dei movimenti giovanili come l’Hashomer Hatzair, il Dror e il Benè Akiva si
unirono per fondare un’Organizzazione
ebraica di combattimento conosciuta come
ZOB, Żydowska Organizacja Bojowa. Questa, composta solo da ragazzi, si occupò di
33
SPETTACOLO
I
Documentario shock svela
chi sono e che fanno i bambini di Hitler
ragazzi venuti dal Brasile? Dimenticateli, questa non è fantascienza, né un Terzo Reich 2.0, ma realtà, e verità: carne della
propria carne, sangue del proprio sangue, sono i bambini di
Hitler, ovvero, Katrin Himmler, Monika Goeth, Rainer Hoess,
Niklas Frank, Bettina Göering. I cognomi dicono tutto, e svelano
alberi genealogici innestati dal Male, dall’ideologia e prassi nazista: Bettina è la nipote di Hermann Göering (zio); Katrin la nipote
di Heinrich Himmler (zio), il secondo in comando dopo Adolf Hitler;
Rainer è il nipote di Rudolf Hoess (nonno), creatore e comandante
del campo di Auschwitz, Niklas è il figlio di Hans Frank, il governatore generale della Polonia nella Seconda Guerra Mondiale; Monika
è la figlia di Amon Goeth, comandante del campo di concentramento di Plaszo’w (ricordate Schindler’s List?). Ebbene, si trasformano
in consapevoli, dolenti e davvero interessanti talking heads nel
documentario ‘Hitler’s Children’ di Chanoch Zeevi, in cartellone al
15° Festival di Rio.
Enormi le questioni che sollevano, a partire dall’eredità biologica,
quando il sangue e i geni hanno un cosi’ gravoso passato: c’è chi
ha scritto della propria condizione di sciagurato “ereditiere”, come
Niklas, che gira le scuole per dire che, sì, ai padri si può, si deve,
ribellarsi; c’è chi, Monika, ha scoperto da un sopravvissuto a Plaszo’w l’enormità criminale del sadico genitore; chi, Katrin, ha sposato un ebreo e tagliato ogni ponte con il resto della famiglia, perché
di fronte ad avi del genere “non ci sono, purtroppo, mezze misure:
cancellazione o cieca fedelta”; chi, come Rainer, visita Auschwitz
per la prima volta e, di fronte ai giovani discendenti degli internati,
confessa: “Che farei se avessi qui mio nonno? Lo ucciderei con le
mie mani”; chi, Bettina Göering, da 35 anni vive nei boschi a Santa
Fe’, New Mexico, con la giusta distanza per provare a salvare, cibo
e musica, qualcosa di quella Germania che le è stata così infausta.
“Certe storie non hanno mai fine, questa storia (l’Olocausto, NdR)
non ce l’ha”, conclude il doc un giornalista israeliano. Ma sono le
domande a non avere via d’uscita: ogni bambino cerca l’amore dei
genitori, ma quando è il figlio di Hitler?
il nostro dicembre
attività domenicali dai 2 ai 13 anni
giornate divertenti ricche di attivita’ e giochi
alle quali tuo figlio non vorra’ mancare!
domeniche di ebraismo
a bottega chi ci sta?
1 e 15 dicembre dalle 10.00 alle 15.30
e ci rivedremo anche nel 2014!
8, 15 e 22 dicembre e, su prenotazione, anche
29 dicembre e 5 gennaio dalle 8.30 alle 20
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
pranzo incluso e possibilità di orari flessibili
34
dal 23 dicembre, Venite anche ai centri invernali!
SPECIALE SPETTACOLO DI CHANNUKKA
domenica 1 dicembre alle 11.30
“LA FISARMONICA DI MENDEL”
Centro Ebraico Italiano Il Pitigliani – Via Arco de’ Tolomei, 1 – 00153 Roma
Per info: Giorgia e Roberta – [email protected] – 06.5897756/06.5800539
LIBRI
Il futuro del mondo sarà ancora a stelle e strisce
Gli Stati Uniti rimarranno ancora per decenni la più grande
potenza planetaria. Le ragioni di questo successo spiegate
nel suo ultimo libro da Maurizio Molinari
S
i legge America e si può interpretare ancora come un Eldorado senza
fine. Nonostante l’11 settembre, la
crisi economica e il debito pubblico
alle stelle, gli Stati Uniti potranno proseguire a svolgere quel ruolo di leadership che
vantano da decenni. Grazie a una capacità
di dinamismo e creatività che li porta ad
essere il laboratorio di idee innovative e il
motore di crescita mondiale a dispetto delle
economie asiatiche emergenti. E’ ciò che ci
racconta Maurizio Molinari nel suo ultimo
libro, uscito qualche settimana fa, “L’aquila
e la farfalla, perché il XXI secolo sarà ancora americano” (Rizzoli). E’ un viaggio itinerante che percorre i sentieri sociali, dell’economia e della tecnologia applicata alle
nuove sfide del millennio appena iniziato.
E’ un testo che miscela la cronaca, che il
giornalista de “La Stampa” affronta nelle
sue esperienze quotidiane, con approfondimenti sociologici ed economici. E l’autore fa
bene a sottolineare come i cinquanta Stati a
stelle e strisce sappiano coniugare la crescita con il Welfare e il nuovo Patto sociale, la
meritocrazia e l’intuito personale, costituendo ancora un valido esempio di come
possa svilupparsi la mobilità sociale, dando
l’opportunità a tutti di affermarsi e contribuire al progresso del Paese.
Molinari, da appassionato reporter, ci elenca un decalogo di percorsi che caratterizzano i nuovi successi americani. Dallo sviluppo dell’high tech, non pago dell’affermazione della Silicon Valley, ai risultati annunciati sulla rivoluzione energetica che, grazie a
un nuovo modo di trivellazione, porterà nei
prossimi anni all’indipendenza petrolifera ed energetica. Nella fotografia rappresentata non mancano
pagine dedicate alle sfide
che le grandi metropoli debbono affrontare per prevenire ed arginare disastri
ambientali e urbanistici a
cui ci hanno abituato gli
Stati Uniti negli ultimi anni.
Un capitolo a parte è dedicato al versante politico, in
cui “le minoranze diventano espressione dei valori
della maggioranza”. Leggiamo che l’elezione alla
Casa Bianca dell’afroamericano di colore Obama è interpretata anche
come il paradigma dell’inizio di come le
comunità etniche sappiano interpretare
non solo le proprie istanze ma soprattutto
quelle della collettività nazionale. Un fenomeno che viene spiegato con le parole di
Gloria Chen: “Gli asiatici americani e gli
abitanti delle Isole del Pacifico si affermano
e hanno successo in politica non come candidati etnici bensì come cittadini americani
il cui principale intento è rafforzare la nostra nazione”.
Questo vale per gli ispanici,
come per gli asiatici, divenendo ciò che viene definito un
“modello post razziale” . Che
passa anche per la legalizzazione dei clandestini e
dell’immigrazione
legale,
favorendo gli studenti. Spiega
l’autore: “E’ una sfida che ha
a che vedere con l’identità
dell’America”, “perché la
maggioranza di noi è stata
come loro” sottolinea Obama,
ricordando “irlandesi, polacchi, italiani, scandinavi, cinesi
e giapponesi che hanno
costruito questa nazione mattone per mattone, dopo un arrivo reso difficile dalle
resistenze di chi era già qui”.
J. D. R.
Mostra fotografica di Federica Valabrega
‘Daughters of the King’
Dal 26 novembre al 15 gennaio 2014 presso la Ermanno Tedeschi Gallery
È
un percorso, tanto artistico quanto personale della giovane fotografa romana.
Daughters of the King, che in ebraico suona come “Benot Melech” è un work in
progress atto ad esplorare, attraverso decine di scatti fotografici, il ruolo delle
donne ebree ortodosse all’interno delle loro comunità. Molti i luoghi visitati
dall’artista: New York, diverse città di Israele, Parigi, Gerba e alcune città del Marocco.
Col suo occhio-obiettivo Valabrega ci restituisce una visione diversa dagli stereotipi a
cui siamo abituati; le sue fotografie – realizzate in tre anni di lavoro - consentono di
vedere queste donne in un altro modo, pur non trascurando mai la loro carica spirituale.
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NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
ELETTRAUTO
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LIBRI
1938: quando gli italiani
si scoprirono di pura razza ariana
Una maggioranza insensibile e antisemita
raccontata nel libro di Avagliano e Palmieri
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
«È
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tempo che gli italiani si proclamino francamente
razzisti». Così recitava il Manifesto della razza che
nel luglio 1938, dopo una virulenta propaganda sui
giornali, ufficializzò la svolta antisemita dell’Italia
fascista. Tra settembre e novembre di quello stesso anno il regime
passò dalle parole ai fatti, varando le cosiddette leggi razziali che
equivalsero alla «morte civile» per gli ebrei, banditi da scuole, luoghi di lavoro, esercito, ed espropriati delle loro attività.
La bella gioventù dell'epoca (universitari, giornalisti e professionisti
in erba) rappresentò l'avanguardia del razzismo fascista. Molti di
loro avrebbero costituito l'ossatura della classe dirigente della
Repubblica, cancellando le tracce di quel passato oscuro. Non a
caso, per lungo tempo la persecuzione è stata declassata dalla
memoria collettiva, e da una parte della storiografia, a una pagina
nera che gli italiani, in fondo «brava gente», avrebbero subìto passivamente. Per restituirci un’immagine quanto più veritiera possibile dell’atteggiamento della popolazione italiana di fronte alla
persecuzione dei connazionali ebrei,
Mario Avagliano e Marco Palmieri, nel
saggio Di pura razza italiana. L’Italia
«ariana» di fronte alle leggi razziali
(Baldini & Castoldi), hanno compiuto
una ricognizione di un’enorme mole
di fonti (diari, lettere, carteggi burocratici e rapporti dei fiduciari della
polizia politica, del Minculpop e del
Pnf) dal 1938 al 1943.
Ne è emersa una microstoria che
narra un «altro Paese», fatto di persecutori (i funzionari di Stato), di agitprop (i giornalisti e gli intellettuali che
prestarono le loro firme), di delatori
(per convinzione o convenienza), di spettatori (gli indifferenti) e di
semplici sciacalli che approfittarono delle leggi per appropriarsi dei
beni e le aziende degli ebrei. Rari i casi di opposizione e di solidarietà, per lo più confinati nella sfera privata. Una microstoria che
ribalta il netto giudizio assolutorio degli italiani formulato nel 1961
da Renzo De Felice nella sua Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, che è stato a lungo condiviso da larga parte della storiografia.
Leggendo gli stralci dei documenti d’archivio, dei rapporti di polizia, delle relazioni dei fiduciari del regime, dei diari e delle lettere
dei persecutori e delle vittime, pubblicati nel saggio di Avagliano e
Palmieri, risulta infatti che complessivamente in quegli anni bui, tra
il 1938 e il 1943, milioni di persone si scoprirono di pura razza italiana e i provvedimenti razziali riscossero il consenso maggioritario
della popolazione, talvolta convinto, talvolta indotto dall’efficace
campagna di propaganda, talvolta infine dovuto a ragioni di opportunismo. E non mancarono episodi di violenza verbale o fisica,
soprattutto dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale.
L’atteggiamento degli italiani “ariani” contribuì a rinchiudere gli
ebrei italiani in un nuovo ghetto, dopo l’emancipazione del Risorgimento. Un ghetto invisibile, le cui mura erano costituite, oltre che
dalla privazione dei diritti civili e sociali, dalle umiliazioni, dai gesti
di indifferenza e dagli epiteti scritti o verbali subiti da vicini, colleghi, ex amici, fanatici antisemiti, giornalisti e intellettuali. Una
pagina nera della storia italiana su cui ancora non si è fatta pienamente luce e che questo libro finalmente disvela con tragica evidenza e con rigore storico.
Il libro sarà presentato dal Centro di Cultura Ebraica di Roma e
dalla Fondazione del Museo della Shoah il 20 novembre alle ore 18,
presso la Sala Protomoteca del Campidoglio.
La casa editrice Giuntina inaugura
una collana di libri ebraici per ragazzi
Il primo libro in uscita è “La fisarmonica di Mendel”
L
a casa editrice Giuntina – specializzata in editoria ebraica
– lancia una importante novità: a 34 anni dalla sua fondazione, dà vita ad una collana di libri per bambini. “Le
richieste di pubblicare libri ebraici per bambini - spiegano
alla Casa editrice - ci arrivavano già da tempo, ma realizzare una
nuova collana non è semplice”.
La collana si chiamerà “Parpar” che in ebraico significa “Farfalla”;
ogni libro sarà particolare, colorato,
disegnato leggero e rappresenterà
un’anima peculiare dell’ebraismo, ogni
libro una farfalla. Verranno pubblicate
storie bibliche, libri sulle feste, su episodi di storia ebraica, libri che aiuteranno a rafforzare l’identità, libri con storie
dalla tradizione yiddish, libri sull’osservanza delle regole, sulla presenza di
Dio nel mondo e libri di autori israeliani. Insomma, libri per tutti i gusti.
Il primo libro della collana s’intitola “La
fisarmonica di Mendel”. Pubblicato negli Stati Uniti, racconta la
storia di Mendel, musicista klezmer nello shtetl di Melnitz. Come
molti ebrei emigrerà a New York, portandosi dietro solamente la
sua fisarmonica. Nel Nuovo Mondo la sua vita cambierà completamente: troverà un lavoro, metterà su famiglia e la sua musica lentamente sarà dimenticata. Ma un giorno il suo bisnipotino Samuel,
rovistando in soffitta ritroverà la fisarmonica di Mendel e ne rimarrà affascinato...
Domenica 1° dicembre ore 11.00 - IL PITIGIANI
“La fisarmonica di Mendel”
In occasione della festa di Chanukkà, spettacolo per bambini tratto
dal libro di Heidi Smith Hyde, con musica e recitazione dal vivo.
Evento in collaborazione con La Giuntina. pranzo per grandi e piccini
su prenotazione. Info e prenotazioni 065800539
LA TOP TEN DELLA LIBRERIA
KIRYAT SEFER
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
L’UOMO CHE PENSAVA DI ESSERE IL MESSIA
di C.Leviant, ed. Giuntina
RITRATTO DI UNA SPIA
di D.Silva, ed.Giano
SEI MESI SETTE GIORNI
di D.R.Gillham, ed. Piemme
LA FAMIGLIA KARNOWSKI
di I.J.Singer, ed.Adelphi
IL NOSTRO APPUNTAMENTO
di E.Lehman e S.Bitran, ed. Piemme
FIORI NELLE TENEBRE
di A.Appelfeld, ed. Guanda
LA FORTUNA DEI WISE
di S. Nadler, ed. Bollati Boringhieri
L’ULTIMO INFILTRATO
di O. Borg, ed. Newton Compton
LA LENTA NEVICATA DEI GIORNI
di E.Lowenthal, ed.Einaudi
PER CORAGGIO, PER PAURA, PER AMORE
di A.Rosenfeld
Alla scoperta di luoghi, persone, storie
nell’ultimo libro di Stefano Caviglia
È
uscito qualche settimana fa un nuovo
libro sugli ebrei a Roma, scritto da Stefano Caviglia “Alla scoperta della
Roma ebraica. La storia, i luoghi, la vita
della più antica comunità della diaspora”, editrice Intra Moenia.
E’ un agile pamphlet dove vengono descritte le
tappe salienti bimillenarie della comunità locale
dagli albori ai nostri giorni, con un’appendice
dedicata ai locali sorti negli ultimi anni nell’ex
ghetto e alle ricette che caratterizzano la cucina
giudaico romanesca. Con abilità Caviglia unisce
le qualità di giornalista a quelle già cimentate
dello storico. Integra alla ricerca bibliografica
l’amore di fare la cronaca di come sia cambiata
l’identità della comunità, e anche della zona
intorno alla Sinagoga negli ultimi tempi. E’ un
excursus fluido e piacevole con una scrittura
fresca e ricca di particolari, in cui sono anche
presenti ricostruzioni illustrate da Mario Camerini della zona prima dell’abbattimento dei cancelli che definivano gli ingressi del ghetto e che
aiutano a una conoscenza della mappatura
dell’intera area nell’epoca passata.
L’autore, scorrendo le pagine, fa rivivere la storia
degli ebrei romani caratterizzata da un alternarsi
di periodi che segnano l’isolamento, la proibizione di condurre una vita normale, di studiare il
Talmud, come avvenne nei tre secoli di ghetto,
ed altri anni in cui si respira la speranza di
riscatto.
Come ha evidenziato Anna Foa, durante la presentazione avvenuta nel corso del Festival della
cultura e della enogastronomia giudaico-romanesca “la storia si dipana attraverso i luoghi
perché Caviglia mette insieme la storia con la
capacità di andare in giro. Oltre all’amore per la
Comunità che traspare, che dà sostanza, si percepisce che la sente molto vicina. Così alla
ricerca oggettiva si unisce la volontà di far
conoscere e di far amare la Roma ebraica”. E’ la
stessa tesi declinata dal giornalista Paolo Conti:
“Chiunque sia romano amerà questo libro.
Roma senza questa identità non sarebbe leggibile. Siamo tutti romani e questo libro lo spiega
benissimo”. Mentre Vittorio Vidotto, il docente
con il quale Caviglia scrisse la sua tesi di laurea, che è poi è divenuto un testo di successo
sulla Comunità nel periodo successivo alla
demolizione del Ghetto, ha commentato “E’ un
libro che denota la profondità di giudizio e l’acume dello storico”. Non sono mancate, oltre
alle parole di plauso, le differenti interpretazioni degli oratori sui temi storici sollevati dal
testo: da come è stato vissuto il sionismo nella
capitale, che è stato identificato dalla storiografia come fenomeno di nicchia, alla significativa
partecipazione ebraica alla vita sociale capitolina agli inizi del Novecento, in modo sorprendentemente sproporzionato rispetto all’esiguità
nei numeri degli iscritti alla comunità.
J. D. R.
Mosè ci ha portato
nell’unico posto senza petrolio
Angelo Pezzana
Bollati Boringhieri Editore, p. 130 € 8,5
Dopo il successo dell’antologia sullo humour gay Si fa per
ridere, il fondatore del Salone del Libro di Torino, Angelo
Pezzana, collaboratore di Shalom, è autore di un breve concentrato di umorismo ebraico. Una raccolta divertente di
storielle tutte inedite, all’insegna del Witz, del motto di spirito sarcastico e sfrontato, molto spesso provocatorio. Una
risata che travolge irritualmente tutto e che non teme di
ironizzare, a cominciare da se stessi: «Che differenza c’è tra
una mamma ebrea e un rottweiler? Che il rottweiler, dopo
un po’, il bambino lo lascia andare. La mamma ebrea mai».
Travolgente.
Lo Zohar rivelato
Il Libro della saggezza della Kabbalah
Michael Laitman
Edizione URRA, p.342 € 21
Lo Zohar rivelato è il libro introduttivo ad una serie dal titolo
Zohar per tutti, un’edizione semplificata de Il libro dello Zohar
(Il libro della Luce), che è uno dei testi più imperscrutabili che
siano mai stati scritti. L’autore, Michael Laitman, noto studioso di Kabbalah, con estrema semplicità, coinvolge il lettore in
un viaggio verso un mondo spirituale grazie alla forza particolare di cui sono dotate le pagine del libro, che conduce alla
gioia assoluta e alla saggezza. Sulle orme dei suoi due grandi
maestri, Rav Yehuda Ashlag (Baal Hasulam) e Rav Baruch
Ashlag, Laitman nel 1991 ha fondato l’Istituto di Ricerca
Ashlag che accoglie migliaia di persone, diffondendo la saggezza della Kabbalah e l’amore per il prossimo come valore
principale per l’esistenza dell’umanità.
Nudo tra i lupi
Bruno Apitz
Longanesi p. 462 € 18,60
Marzo 1945, nel lager di Buchenwald è arrivato un nuovo
convoglio, ma tra i deportati ce n’è uno con un bagaglio del
tutto sorprendente. Zacharias Jankowski, ebreo polacco,
riesce ad introdurre nel campo una valigia in cui è nascosto
un bimbo di tre anni. Tale presenza diventa il fulcro della
narrazione, un cuore pulsante e vivo nell’infinito dolore del
lager, in cui morte, torture e delazioni rappresentano la brutale normalità. Tutto questo fino all’aprile del ’45, giorno in
cui il campo verrà liberato dagli americani. Bruno Apitz,
spettatore e protagonista degli eventi narrati, torna a vivere
dalle pagine di questo incredibile racconto di speranza e di
vita oltre l’orrore.
Venga pura la notte
Roberto Riccardi
Edizioni e/o, p.238 € 16,5
Roberto Riccardi ci propone un nuovo ed avvincente thriller
poliziesco. Il protagonista, Rocco Liguori, tenente dei carabinieri di Alba, è chiamato ad indagare su un caso internazionale. E’ costretto a recarsi a l’Aja, a disposizione del Tribunale internazionale per la ex Jugoslavia, per incontrare il
procuratore Silvia Loconte: il colonnello Dragojevic, che
Liguori aveva arrestato in Bosnia e che era stato condannato
sette anni prima per la strage di Sebrenica, ha tentato di
suicidarsi e spetterà ora al tenente verificarlo. Immerso nel
flusso dei ricordi della vecchia indagine, il protagonista, non
senza colpi di scena, risolverà brillantemente anche questo
caso.
A cura di Jacqueline Sermoneta
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
Conoscere la Roma ebraica
37
ROMA EBRAICA
Un incontro nel segno della continuità ma anche della novità
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
"L’
38
Papa Bergoglio ha ricevuto una delegazione
della Comunità ebraica romana
antisemitismo sia bandito dal cuore e dalla vita di
ogni uomo e di ogni donna!". Con queste parole
papa Francesco ha accolto – lo scorso 11 ottobre
- in udienza privata una ampia delegazione della
Comunità ebraica di Roma, guidata dal rabbino capo Riccardo Di
Segni e dal prof. Gavriel Levi. Parole importanti dette - come ha
ricordato lo stesso pontefice - a pochi giorni dalle celebrazioni in
ricordo dei 70 anni dalla deportazione degli ebrei romani. "Sarà
anche l'occasione - ha aggiunto - per mantenere sempre vigile la
nostra attenzione affinché non riprendano vita, sotto nessun pretesto, forme di intolleranza e di antisemitismo, a Roma e nel resto
del mondo".
quasi tutto. Bisogna lavorare per chiarire ancora, per comprendere le sensibilità e i punti critici, perché i messaggi positivi si diffondano, l’amicizia e la fiducia crescano e il rispetto reciproco sia
reale. La seconda e forse più importante linea riguarda la responsabilità pubblica che deriva dalla nostra vicinanza. Vorrei fare un
esempio. Secondo il nostro calendario liturgico abbiamo letto lo
scorso Sabato la storia di Noè e del diluvio universale. C’è qualcosa che ci tormenta oggi in quel racconto, in cui, di tutta l’umanità,
sopravvive solo una famiglia chiusa dentro una barca, mentre il
resto è distrutto dal diluvio. In questi giorni assistiamo paradossalmente al contrario: a chi muore dentro a una barca mentre
intorno sopravvive un’umanità impotente e in parte indifferente.
Si è trattato di un incontro, ha sottolineato nel suo discorso iniziale rav Di Segni “che abbiamo desiderato come segno di continuità
e di novità. Continuità perché esiste in questa città un rapporto
tra le nostre due comunità di fede che è eccezionale per la sua
antichità - quasi due millenni -, la sua drammaticità in molti periodi della storia, la sua valenza simbolica come emblema del difficile rapporto ebraico cristiano e come laboratorio di confronto. Non
possiamo entrambi ignorare questa lunga storia locale ma di
significato universale, riflettere sui suoi insegnamenti, correggere
gli errori, lenire le ferite, costruire. Novità perché quello che è
successo al popolo ebraico nello scorso secolo - Shoà e fondazione
dello Stato d’Israele - ha segnato profondamente non solo l’ebraismo ma il mondo intero e la Chiesa stessa, indirizzandola verso un
nuovo percorso. Ognuno dei Papi che si sono succeduti in questi
ultimi tempi ha dato il suo contributo notevole a questo percorso”.
Rav Di Segni ha quindi indicato due linee per il dialogo tra ebraismo e cristianesimo. “La prima riguarda il nostro confronto, i
problemi di relazione tra di noi. Guardandoci dietro è evidente
cosa è stato fatto di buono. Ma spesso la soluzione di un problema
ne apre molti altri e non dobbiamo illuderci di aver risolto tutto o
La nostra storia e la nostra fede si ribellano a tutto questo”.
Papa Francesco ha ricordato che la storia tra la Comunità ebraica e
la Chiesa di Roma “è stata spesso attraversata da incomprensioni
e anche da autentiche ingiustizie", ma anche che ha “conosciuto
ormai da molti decenni lo sviluppo di rapporti amichevoli e fraterni".
"Paradossalmente – ha aggiunto – la comune tragedia della guerra
ci ha insegnato a camminare insieme". "Mi piace sottolineare questo
aspetto - ha osservato Bergoglio -, perché se è vero che è importante approfondire, da entrambe le parti, la riflessione teologica attraverso il dialogo, è anche vero che esiste un dialogo vitale, quello
dell'esperienza quotidiana, che non è meno fondamentale". "Anzi ha aggiunto -, senza questo, senza una vera e concreta cultura
dell'incontro, che porta a relazioni autentiche, senza pregiudizi e
sospetti, a poco servirebbe l'impegno in campo intellettuale.
La delegazione ricevuta dal Papa comprendeva tra gli altri il presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, il presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna; i rabbanim rav Alberto Funaro, rav Gianfranco Di Segni,
rav Ariel Di Porto; oltre ad alcuni consiglieri e rappresentanti delle
istituzioni della Comunità.
Quella memoria intima
e dolorosa che non fa notizia
In migliaia hanno partecipato,
insieme ai sopravvissuti, alla marcia
silenziosa organizzata dalla Comunità
Q
“Oro macht frei”, storia di un inganno
Presentato il documentario con le testimonianze di chi visse
le drammatiche ore della raccolta dei 50 kg. d’oro
L
a sera del 14 ottobre l'associazione ANED ha organizzato
la presentazione del documentario “Oro macht frei” presso il teatro Vittoria di Roma. Il titolo del documentario
riprende con un gioco di parole l'insegna - subdola nella
sua ironia sottile e crudele ancorché incomprensibile - affissa
all'entrata del campo di concentramento di Auschwitz che recita
“arbeit macht frei”, letteralmente “il lavoro rende liberi”. I deportati nel campo erano infatti convinti che lo scopo di quel viaggio
condotto sui carri merci avesse come destinazione un campo di
lavoro.
Il titolo del documentario rimanda ad un altro beffardo inganno
tedesco, quello di promettere la libertà alla comunità ebraica di
Roma in cambio della consegna – da portare a termine in 36 ore di 50 kg d'oro. Il documentario fa parlare i testimoni di quelle
drammatiche ore, in cui i membri della comunità ebraica rinuncia-
rono a qualsiasi oggetto d'oro: dalle piccole fedi, ai ciondoli, agli
orologi, fino ai denti.
Sebbene il Vaticano avesse promesso di mettere l'oro mancante
nel caso la comunità ebraica non fosse riuscita a raggiungere la
quantità prestabilita, dato il caparbio e tenace impegno degli
ebrei romani (aiutati anche in parte con donazioni da parte di
simpatizzanti non ebrei), non ce ne fu alcun bisogno.
La sala del teatro gremita di esponenti e membri della comunità
ebraica di Roma ha partecipato con sentimento alla proiezione del
video, riconoscendo volti noti tra gli intervistati, tutti reduci dalla
condizione di clandestinità e reclusione sopportata durante il
periodo delle leggi razziali ed a seguito della deportazione degli
ebrei di Roma il 16 ottobre del 1943. Preziose, inoltre, le testimonianze di due sopravvissuti al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau.
Il documentario – prodotto da Joel Markel - riporta foto degli archivi della comunità ebraica di Roma e di quelli di famiglie ebraiche
superstiti.
Carlotta Livoli
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
Foto di S. Di Castro
uest’anno la ricorrenza della deportazione degli ebrei a
Roma è caduta pochi giorni dopo la morte del boia
nazista Priebke. Mai come in questa occasione i riflettori sono stati puntati sulla Shoah. All’improvviso, tutti
si sono scoperti antinazifascisti e hanno condannato a gran voce
l’antisemitismo: quale atrocità! Il gerarca nazista non lo ha voluto
nessuno. O meglio, la sua salma non è stata accettata. I cittadini
di Albano sono scesi in rivolta, in Italia neanche i cimiteri già pieni
di nazisti ne hanno voluto sentir parlare; la perla poi ci è giunta
dalla Germania: “Noi? Che c’entriamo? Non è di nostra competenza”. E fin qui tutto a posto.
Gli articoli di ribrezzo verso Priebke, le condanne dei crimini nazifascisti, le grida dell’opinione pubblica, sono stati certamente di
conforto, soprattutto per chi ha vissuto in prima persona la barbarie nazista e per chi ha combattuto per la Resistenza. C’è un però:
perché gli opinion maker, protagonisti di oggi, sono stati meri
spettatori, ieri? Perché Erich Priebke ha vissuto dal ‘98 ad oggi
agli arresti domiciliari nonostante l’ergastolo, e perché negli ultimi anni è stato libero di andare in giro per la città con badante e
guardia del corpo, senza che nessuno si indignasse?
Quando la Comunità ebraica cercava di farsi sentire e alcuni ebrei
manifestavano insieme a pochissimi altri antifascisti sotto la sua
abitazione di via Cardinal San Felice, dove erano tutti gli “indignados”?
E’ questo il contesto in cui appaiono più che mai confortanti iniziative intime e sincere come la camminata silenziosa - organizzata da Daniel Di Porto e da Elvira Di Cave - per ricordare il rastrellamento degli ebrei a Roma. Senza flash né riflettori, con giornalisti e politici, il corteo è partito da Largo Stefano Gaj Tachè ed ha
percorso le vie e i vicoli da cui, il 16 ottobre 1943, è stata presa la
gran parte degli ebrei. Figli e nipoti dei sopravvissuti hanno pronunciato tutti i 1023 nomi dei deportati ad Auschwitz e Eitan Di
Porto, di 8 anni, ha nominato i 200 bambini che da quell’inferno
non sono mai tornati.
Grazie alla Fondazione Museo della Shoah, che ha permesso di
proiettare i volti di 300 catturati, il ricordo è stato ancora più tangibile, forse per la forza che l’impatto visivo ha avuto nel rendere
la memoria più consapevole, più vicina, rispetto al distacco dei
soli numeri. Al termine del percorso, le centinaia di persone che
hanno partecipato all’iniziativa hanno ascoltato in raccoglimento
nel Tempio Maggiore le parole del capo rabbino Riccardo Di Segni,
del presidente della Consulta CER Elvira Di Cave e dello storico
Marcello Pezzetti. Come lo scorso anno, gli obiettivi sono stati
raggiunti: trasmettere affetto e vicinanza agli ex deportati, condividere il dolore, e dimostrare che c’è ancora chi tiene alta la
memoria. Anche quando non fa notizia.
Micol Anticoli
Foto di G. Spizzichino
39
ROMA EBRAICA
La razzia del
16 ottobre 1943
Convegno organizzato dalla CER
e dall’Istituto Storico Germanico
di Roma
I
persecutori, i deportati, i salvati, la
situazione della Comunità ebraica di
Roma e l’atteggiamento dei diplomatici e militari tedeschi alla vigilia del 16
ottobre 1943, le conseguenze e la memoria
della razzia, l’elaborazione del lutto, sono
stati i temi affrontati durante il convegno
“La razzia del 16 ottobre 1943. Dimensioni
e problemi della ricerca storica a settant’anni di distanza”, organizzato dalla Comunità
Ebraica di Roma e dall’Istituto Storico Germanico di Roma.
“E’ un onore – ha detto all’inizio Martin
Baumeister Direttore del DHI, che ha definito un “onore” il fatto che il convegno si sia
svolto presso l’Istituto Germanico ed ha
sottolineato l’importanza di analizzare criticamente quello che è successo. Paolo Masini, Assessore di Roma Capitale alle Periferie ed ai Lavori Pubblici, ha portato i saluti
del Sindaco Ignazio Marino; Riccardo
Shmuel Di Segni, Rabbino capo di Roma, ha
sottolineato come ci sia ancora da studiare
tanto sull’argomento trattato e come sia
importante, dal punto di vista simbolico, il
luogo del convegno: e Riccardo Pacifici,Presidente della Comunità ebraica di Roma, ha
messo in evidenza il ruolo importante degli
storici per affrontare le sfide del presente.
Molto interessanti sono state le relazioni di
Marcello Pezzetti e Sara Berger (Fondazione Museo della Shoah di Roma), reduci
dall’inaugurazione della mostra esposta al
Vittoriano, “16 ottobre 1943. La razzia degli
ebrei di Roma”, che hanno analizzato le
vicende dei deportati ed i profili di coloro
che organizzarono ed effettuarono la razzia.
Filomena Del Regno (Università di Roma
“La Sapienza”) ha messo in evidenza le
particolarità dell’ebraismo romano, estremamente legato alla propria città e la fiducia, fino all’ultimo, riposta dai vertici della
Comunità nel papa e nello Stato. Gabriele
Rigano (Università per stranieri di Perugia)
ha fatto luce sul profilo dei deportati e sulle
liste utilizzate dai nazisti per effettuare la
retata. Liliana Picciotto (Fondazione Centro
di Documentazione Ebraica Contemporanea) ha sottolineato il “moto popolare spontaneo di carità cristiana mai visto né prima
né dopo il 16 ottobre 1943”. Lutz Klinkhammer (DHI) ha descritto gli inutili tentativi
della diplomazia di fermare la razzia mentre
Amedeo Osti Guerrazzi (DHI) ha messo in
evidenza la situazione “congelata” prima
del 16 ottobre, in cui non era chiaro chi
comandava a Roma, non erano ancora state
fatte delazioni, e dopo, quando è apparso
chiaro agli ebrei che le autorità dello Stato
non contavano e quindi erano in balia dei
nazisti. Mario Toscano (Università di Roma
“La Sapienza”) e Hahle Maryam Badrnejad
(Università Ludwig Maximilian di Monaco
di Baviera) hanno trattato la rappresentazione della memoria dopo la liberazione a
Roma, nel tentativo di dare un conforto ai
parenti, di riaffermare la fede dei padri e
l’attaccamento allo Stato di Israele. Interessante e coinvolgente è stato l’intervento di
David Meghnagi (Università Roma Tre) che
ha parlato del ritardo nell’elaborazione del
lutto, sia perché fino almeno al 1947-48 si
aspettava ancora il ritorno dei deportati, sia
per la mancanza di un posto in cui seppellire la persona defunta ed ha affermato come
la testimonianza dia all’ex deportato un
senso all’esistenza in quanto “restituisce la
giustizia ad un mondo privato di giustizia”.
Silvia Haia Antonucci (Archivio Storico
della Comunità Ebraica di Roma) ha analizzato le varie fonti, alcune delle quali inedite, conservate presso l’ASCER, che hanno
contribuito a precisare il numero dei deportati ed, infine, Damiano Garofalo (Fondazione Museo della Shoah di Roma) ha mostrato
come fino ad oggi solo 7 film abbiano rappresentato la razzia del 16 ottobre, non
sempre in modo storicamente corretto (“16
ottobre 1943” di Giannarelli, 1960; “L’oro di
Roma” di Lizzani, 1961; “La linea del
Fiume” di Scavarda, 1976, “La Storia” di
Comencini, 1986, “43-97” di Scola, 1997,
“Amen” di Gavras, 2002; “La finestra di
fronte” di Ozpetek, 2003).
Silvia Haia Antonucci
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nel cimitero Flaminio:
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
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Ferramonti. Il campo sospeso
Documentario sul campo di concentramento
fascista più grande d’Italia
“L
a memoria è importante
per non dimenticare ed
evitare altre stragi” con
queste parole il Ministro
per l’Integrazione Cecile Kyenge è intervenuto alla proiezione del documentario
di Cristian Calabretta “Ferramonti. Il
campo sospeso”, svoltasi presso la Sala
della Protomoteca del Campidoglio. Il
Ministro ha sottolineato come “l’altro”, la
persona valutata “diversa” dalla maggioranza non debba essere considerata un
pericolo e, per veicolare tale messaggio,
la scuola ha un ruolo fondamentale. Ha
anche paragonato la recente strage di
immigrati affogati nei pressi di Lampedusa con quello che accadeva a Ferramonti,
definendoli “episodi che quasi si assomigliano”. Anche Leone Paserman, Presidente della Fondazione Museo della
Shoah di Roma, tra gli intervistati del
documentario, ha citato la tragedia di
Lampedusa, ricordando come durante la
conferenza di Evian del luglio 1938, nella
quale fu chiesto asilo per gli ebrei ai rap-
presentanti delle nazioni intervenuti, solo
la Repubblica Domenicana rispose affermativamente. I suoi genitori venivano
dalla Polonia, si trasferirono a Genova e
poi il padre, poiché ebreo straniero, fu
internato al campo di Ferramonti, mentre
il resto della famiglia fu confinato a Montefiascone.
Ferramonti è stato il campo di concentramento per ebrei stranieri più grande d’Italia e, grazie all’intervento del suo direttore, Paolo Salvatore che concesse agli internati un minimo di libertà, al suo interno
furono organizzate attività culturali, musicali e sportive.
Infine, il registra Cristian Calabretta ha
raccontato la difficoltà incontrata all’inizio della realizzazione del documentario,
quando si è scontrato con una diffusa
tendenza a minimizzare l’importanza storica della vicenda del campo ed anche con
una volontà di non sapere per non fare i
conti con il proprio passato. “Ferramonti.
Il campo sospeso”, oltre a parlare della
vita al suo interno, racconta anche la storia della nave Pentcho, un battello fluviale
con 514 profughi, approntato dall’organizzazione sionistica Bethar, che da Bratislava, percorrendo il Danubio e poi in mare
aperto, voleva raggiungere la Palestina
mandataria; in realtà affondò nel Mar
Egeo, i passeggeri furono salvati da una
nave italiana, portati prima a Rodi, quindi
a Bari ed, infine, a Ferramonti.
S.H.A.
Fino al 30 novembre la mostra sul film ‘Il giardino dei Finzi Contini”
A
lla vigilia delle diverse commemorazioni e degli eventi per il
16 ottobre, il museo ebraico di
Roma ha inaugurato una delle
più belle e interessanti mostre mai ospitate: quella sul film “Il giardino dei Finzi
Contini”, di Vittorio De Sica.
rettrice e responsabile del museo ebraico.
Lo scopo principale della mostra, come ha
puntualizzato Olga Melasecchi, è ricordare le vittime della deportazione, come la
famiglia Finzi Contini.
Particolarmente graditi sono stati gli interventi di Lino Capolicchio e di Emi De
semplice antagonista che urla e picchia la
folla, non per quello che era veramente:
un soldato che si fingeva gentile e comprensivo e che poi portava i prigionieri a
morire alle camere a gas”.
Giorgia Calò
ASSOCIAZIONE
D.A.N.I.E.L.A
DI CASTRO
AMICI MUSEO EBRAICO DI ROMA
L’“Associazione Daniela Di Castro
è nata per aiutare il Museo Ebraico
di Roma nella tutela, conservazione,
promozione, diffusione e sviluppo
della ricchezza del suo patrimonio.
Un progetto curato dall’assessore alle
Attività Culturali della Comunità, Gianni
Ascarelli, ideato da Ariela Piattelli, in collaborazione con il figlio del regista Manuel
De Sica, con il fondamentale contributo di
Olga Melasecchi, curatrice del catalogo
della mostra, e Alessandra Di Castro, di-
Sica, che hanno reso onore alla memoria
del regista con i ricordi dei momenti più
belli della realizzazione del film tratto dal
romanzo di Bassani: “La genialità di Vittorio De Sica è stata nella mancanza di tedeschi nel film”, racconta Emi De Sica “Il
tedesco è sempre rappresentato come un
PER INFORMAZIONI E PER ISCRIZIONI:
www.associazionedanieladicastro.org
[email protected]
Tel. 334 8265285
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
Amici del Museo Ebraico di Roma”
41
ROMA EBRAICA
Il sindaco di Roma Ignazio Marino
commosso ad Auschwitz. “Non dimenticare”
Sami Modiano racconta
la Shoah agli studenti
“E
ravamo tutti in fila indiana. C’era un medico davanti
a noi. Lui con un semplice gesto del dito decideva:
destra o sinistra. Non sapevamo cosa significasse.
L’abbiamo capito dopo. Vita o morte”. Sono parole
che lacerano l’anima. Soprattutto se a pronunciarle è Sami Modiano, ebreo nato a Rodi, classe 1930. Uno dei pochi sopravvissuti al
campo di sterminio di Auschwitz. “Non avevamo realizzato di essere arrivati nell’inferno”, ricorda commuovendosi mentre a fissarlo
sono centinaia di occhi di ragazzi. Sono quelli degli studenti di 24
licei romani partiti dalla Capitale, con il sindaco Ignazio Marino, per
partecipare al viaggio della Memoria svoltosi lo scorso ottobre.
Dietro di loro un vagone piombato è fermo sui binari che un tempo
portavano nel lager nazista. Attorno c’è silenzio. E’ una bella giornata domenica mattina ad Auschwitz. Così come lo era il 3 agosto
del 1944, giorno in cui Sami arrivò lì, a soli 13 anni: “Per alcuni ebrei
è stato il viaggio più lungo. Il nostro treno si è fermato qui - racconta -. C’era un silenzio totale ma è durato pochissimo. Sono arrivati
gli strilli e gli ordini dei tedeschi che aprivano le porte dei vagoni.
Ci buttavano giù come sacchi di patate dal treno della morte. E poi
bastonate da tutte le parti”. Ma a tormentare ancora oggi Sami
sono gli ultimi ricordi dei suoi cari. Ad Auschwitz era stato deportato con suo padre e sua sorella. Non li rivide più. E nonostante gli
inutili tentativi di dimenticare, quel B7456 tatuato sul braccio lo
riporta inevitabilmente a quegli orribili giorni: “La mia famiglia l’ho
persa qui - dice singhiozzando -. Le ultime parole di mio padre
furono ‘Tieni duro Sami’. E io quelle parole le ho portate con me per
tutta la vita”.
“Tutto questo lascia sconvolti. E’ una storia che va ricordata perché
la dimensione della violenza supera qualunque immaginazione”.
Questo uno dei pochi commenti di Ignazio Marino, per la sua prima
volta ad Auschwitz. E’ emozionato il sindaco-chirurgo, si commuove più volte davanti a quell’inferno protetto da chilometri di filo
spinato. Pensa a suo padre, deportato anche lui in un campo di
concentramento nella Polonia sud orientale: “Per me c’è una sofferenza aggiuntiva legata ai miei ricordi di famiglia - confessa - il mio
papà l’8 ottobre 1943 fu deportato da Trieste in un vagone piombato. Quando tornò pesava 40 chili”. Dopo il suono dello shofar che ha
riecheggiato davanti ai resti dei forni crematori e delle camere a
gas dove milioni di innocenti hanno perso la vita, Sami riprende il
suo racconto: “La vita di un ebreo non contava niente - dice mentre
tanti studenti scoppiano in lacrime -. Eravamo dei numeri. Dei
numeri da smaltire. Qui era la fabbrica della morte”. E lancia poi un
monito ai tanti ragazzi che lo ascoltano: “Avete una vita davanti e
dovete avere a mente due parole: Mai più”. Un impegno a tenere
vivo il ricordo che porterà avanti anche il sindaco Marino: “La
memoria va rafforzata ed è importante che Roma lo faccia ogni
anno - promette il primo cittadino -. I giovani devono divenire
ambasciatori di pace e armonia perché tutto questo non possa più
accadere”.
E proprio per rinnovare la Memoria, Marino lancia una proposta:
“Stiamo pensando di dedicare il nome di una scuola romana a Shlomo Venezia perché aiuterà meglio a ricordare”. Shlomo Venezia scomparso un anno fa - era uno dei pochissimi sopravvissuti al
Sonderkommando, il gruppo di prigionieri ebrei che lavoravano alle
camere a gas e ai forni crematori di Auschwitz-Birkenau.
Erminia Danese e Ernesto Buonaiuti
Giusti fra le nazioni
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Q
42
La cerimonia di consegna della medaglia
svoltasi al Liceo Morgagni
uando si parla di Shoà le prime
cose che ci vengono in mente
sono violenza, forni crematori,
camere a gas, insomma morte.
Tuttavia in quel periodo così buio c’è stato
uno spiraglio di luce, e questi spiragli si
chiamano Giusti fra le nazioni: persone che
hanno consapevolmente messo a rischio la
propria vita per salvare i pochi ebrei che
riuscivano ad sottrarre dalla deportazione e
da una morte certa.
Ci sono persone ‘famose’ tra i Giusti fra le
nazioni, come Raoul Wallenberg o Monsignor Verolino. Questa è invece la storia di
due nuovi Giusti: Erminia Danese ed Ernesto Buonaiuti, che durante la guerra salvarono Giorgio Castelnuovo. Purtroppo i due
eroi non sono più in vita, ma i loro cari si,
ecco perché il 22 ottobre 2013, il Liceo
Scientifico Morgagni ha aperto la sua aula
magna per ospitare una cerimonia di conse-
gna della medaglia Giusti alla loro memoria.
Alla cerimonia, insieme agli studenti del
liceo, hanno preso parte: Loredana Termite, preside della scuola, l’Addetto culturale
dell’ambasciata israeliana a Roma Ofra
Farhi nipote del salvato, insieme alla sua
collega Livia Link, Federico Casini, prorettore dell’università La Sapienza e i parenti
dei Giusti e del salvato.
Quando iniziarono i rastrellamenti degli
ebrei da parte dei tedeschi, Giorgio Castelnuovo e la sua famiglia scapparono in Eritrea per sfuggire agli arresti, ma dovettero
tornare subito in Italia in quanto visti come
nemici e come un pericolo. La madre di
Giorgio fu accettata in un convento, ma lui
era troppo grande e le suore non lo accettarono. Per fortuna il prof. Buonaiuti, celebre
cattolico “riformista” che insegnava alla
Sapienza e che aveva perso la cattedra per
non aver aderito al fascismo, lo nascose per
tre mesi e non gli fece mai mancare il cibo
e un buon nascondiglio dove Giorgio passava la maggior parte della sua giornata.
Dopo tre mesi Giorgio si nascose in un
convento, ma dovette scappare perché
venne riconosciuto da un ragazzo fascista;
fu Erminia Danese a correre in suo aiuto e a
salvargli la vita dandogli ospitalità.
Dopo la liberazione Giorgio si trasferì in
Israele, dove nel 1948 partecipò alla nascita
dello Stato ebraico. Oggi vive in un kibbuz
con la sua famiglia.
Ernesto Buonaiuti ed Erminia Danese sono
state due persone eccezionali, come li
hanno ricordati i loro parenti Carlo e Daniele Danese e Emanuele Pratore ed Eugenio
Marongiu, ed è per loro una grande gioia e
soddisfazione che la loro memoria venga
onorata con questo riconoscimento per il
loro coraggio e la loro umanità. Come è
scritto nel Pirkei Avot: “Chi salva una vita
salva il mondo intero”. La cerimonia si è
conclusa con l’inno Israeliano Hatikvà e con
l’inno Italiano, seguiti poi dalla consegna
delle medaglie Giusti fra le nazioni.
G. C.
Visita del vicepresidente
della Knesset
alla scuola ebraica
Foto di G. Spizzichino
L
o scorso 7 Ottobre è venuto a far
visita alla scuola Ebraica il Presidente della Knesset Yuli-Yoel
Edelstein. Giunto in Italia per
importanti colloqui Istituzionali, tra cui
quello con il Ministro degli Esteri Emma
Bonino e quello con il Presidente della
Camera dei Deputati, Laura Boldrini, ha
deciso di rivolgere qualche parola ad un
gruppo di Studenti della Scuola Ebraica,
senza rinunciare ad una visita alla Sinagoga. Non c’è figura più adatta a rappresentare la forza e la rivincita del popolo d’Israele di un uomo deportato nei Gulag e
costretto ai lavori forzati per aver insegnato la lingua Ebraica di nascosto, non solo
come esempio di coraggio e dedizione, ma
anche come caso di un emigrato che in soli
quindici anni è riuscito a ricoprire un’importante carica in campo politico. Durante
l’incontro, scandito dal commovente coro
dei bambini delle elementari, Yuli Edelstein ha espresso poche parole, ma davvero d’impatto. In primis, un pensiero verso
Stefano Gaj Taché z.l., il cui nome è stato
da poco inserito nella lista delle vittime del
terrorismo. Da qua l’importanza delle istituzioni ebraiche, non solo come protezione
ma anche come punto di forza, come collante. Ha ricordato la storia dell’Arco di
Tito, storico monumento alla potenza
romana, ma simbolo di un popolo che, sebbene un tempo schiavo, ha resistito alle
persecuzioni, e che ora può vedersi padrone di uno stato e della propria libertà.
Non poteva mancare un breve commento
politico. “C’è tanta potenziale cooperazione tra Israele ed alcuni paesi Europei,
basata sulla produzione di alta tecnologia,
industria militare, ricerca scientifica, estrazione dei gas, ma soprattutto nel campo
delle risorse umane”.
Rebecca Mieli
Attentato alla Sinagoga del 1982: un obbligo sapere quello che avvenne
o scorso 9 ottobre si è tenuto,
presso l’Aula Magna del Palazzo
della Cultura, un incontro riservato ai ragazzi del terzo e del
quarto anno di liceo, in occasione del
trentunesimo anniversario dell’attentato
al Tempio Maggiore di Roma.
All’incontro sono intervenuti il rabbino
capo Rav Riccardo Di Segni, le famiglie
Tachè e Gaj, il presidente della CER Riccardo Pacifici, la ricercatrice di storia
Serena Di Nepi e l’assessore alle Scuole
Ebraiche Ruth Dureghello,
Molto spazio è stato dato alle immagini di
repertorio di quel lontano 1982 grazie alla
proiezione di un filmato realizzato in collaborazione con il Centro di Cultura Ebraica in cui sono stati riproposti i momenti
più significativi che hanno seguito l’attentato: i discorsi dell’allora rabbino capo
Elio Toaff, di papa Giovanni Paolo II, spezzoni dei vari telegiornali, testimonianze,
fino alla più recente affissione della targa
nello slargo delle “tre palme” di fronte
alla sinagoga in memoria del piccolo Stefano.
La Prof.ssa Di Nepi, nel ricordare che il
piccolo Stefano non era solo un bambino
ebreo ma anche un cittadino italiano,
insieme al rappresentante degli studenti
Davide Bentura, ha commentato il lavoro
di ricerca e di documentazione svolto da
un gruppo di studenti riguardante il
periodo storico e il clima politico che
hanno preceduto l’attentato: dalle tensioni tra Siria e Israele, ai rapporti che intercorrevano tra Arafat e Bertinotti fino alla
strage di Sabra e Chatila. Un altro gruppo
di alunni ha lavorato sull’analisi delle
testate dei giornali dell’epoca in cui si
parlava dell’attentato, in particolar modo
Oggi, L’Espresso e Gente, settimanali che
hanno trattato l’argomento in modo
superficiale, non idoneo alla gravità
dell’accaduto. Tre ragazze hanno voluto
approfondire le testimonianze dei feriti e
dei sopravvissuti e si sono concentrate ad
esaminare le figure dei terroristi.
Le ricerche sono state seguite dalla commossa testimonianza di Sandro Di Castro,
sopravvissuto all’attacco terroristico e
dall’intervento del fratello di Stefano,
Gady, che si è rivolto ai ragazzi in maniera
diretta e sincera: “Chi ci ha rimesso la
pelle sarebbe potuto essere uno di noi, un
nostro figlio! Non dobbiamo permettere
che un episodio così si ripeta, per questo
dovete sapere e ricordare quanto è accaduto! E non è un favore che dovete fare a
me, è un favore che fate a voi stessi se
volete un futuro sereno e felice”. A concludere l’incontro sono stati i discorsi di
Pacifici e di Rav Benedetto Carucci, preside del liceo. Entrambi hanno rinnovato
quanto detto in precedenza da Rav Di
Segni: l’importanza di essere sempre
attenti e vigili, rifacendosi non solo a quel
fatidico attentato del ’82, ma anche ad
avvenimenti contemporanei come l’attentato alla scuola ebraica di Tolosa e gli
attentati a sfondo antisemita che negli
ultimi anni sono stati sventati in Italia.
Yael Di Consiglio
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
L
La cronaca di quei tragici giorni è materia di studio nella scuola ebraica
43
ROMA EBRAICA
“Chazak veemaz”, forza e coraggio.
Buon compleanno Hashomer Hatzair
Grande partecipazione di pubblico al Teatro Parioli per festeggiare
il centenario di fondazione del movimento sionista halutzista
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
F
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esteggiare cento anni richiede celebrazioni speciali, per questo anche l’Hashomer Hatzair di Roma
si è impegnata ad onorare questa
ricorrenza. Il 27 ottobre, infatti, è andato
in scena l’evento culminante di questo anno, che ha completato le varie iniziative
che si sono susseguite nel corso del 2013.
Shomrim di tutte le età sono dunque giunti
al teatro Parioli ed hanno potuto apprezzare
il lavoro svolto dalla Maskirut del Centenario, composta da bogrim, superbogrim,
shlichonim, genitori e volontari; il tutto,
naturalmente, sotto la direzione dello shaliach Gilad Peled. Ogni adulto ha svolto la
funzione di tutor affiancando un gruppo di
bogrim per aiutarli in ogni singolo progetto.
“I ragazzi inizialmente erano diffidenti, poi
hanno capito che per loro poteva essere un
arricchimento ed abbiamo trovato le giuste
sinergie”, ha dichiarato a Shalom Raffaele
Terracina, uno dei più attivi tra gli organizzatori. A Raffaele hanno fatto eco gli stessi
bogrim: nessuno ha nascosto le difficoltà,
ma alla fine si è riconosciuta l’importanza
dei contributi provenienti dai diversi punti di vista. “L’organizzazione con shomrim
di diverse età è stata una bella esperienza,
mi ha dato tantissimo, ho imparato molto”,
dice Federica Astrologo; Emanuel Salmonì
ha riscontrato “quanto il movimento sia
cambiato negli anni”, tanto da condurre ad
un confronto con i vecchi shomrim. Non è
mancato il sostegno di coloro che hanno terminato da pochi anni la loro esperienza nel
Movimento, talvolta completandola con un
anno in kibbutz: è il caso di Alessia Fischer,
che ha affermato di aver sentito il bisogno
di mettere in pratica gli ideali acquisiti, o
di Enrico Campelli, sempre rimasto legato all’Hashomer tanto da essere tornato in
qualità di shlichon, una sorta di educatore
degli educatori. Un’importante collaborazione è giunta anche da Israele grazie ad Edna
Angelica Calò, che ha avuto un percorso di
vita strettamente legato al Movimento.
Nella prima parte della giornata si sono
svolte delle peulot sul confronto intergenerazionale e sul concetto di realizzazione
all’interno e all’esterno del Movimento. Vi
è poi stata la presentazione di tutti i lavori
preparati per l’occasione, che sono andati
oltre la mera serata istituzionale e che costituiscono dei progetti finalizzati ad avere
una continuità. Sono così stati condivisi col
pubblico il cd con le musiche dei balli israeliani, una favola per i più piccoli, un gioco
da tavola, una mostra su questi cento anni,
i libri con le interviste e i saggi sulla storia
dell’HH.
Durante la serata, bogrim e chanichim si
sono esibiti con balli e recite; non sono poi
mancate foto e filmati d’epoca, che hanno
suscitato un po’ di nostalgia; inoltre, si è
ricordato anche cosa è stata storicamente
l’Hashomer Hatzair, evocando i contributi
dati nella fondazione dei primi kibbutzim
e nella lotta al nazismo durante la Seconda Guerra Mondiale. L’HH è stata anche
nominata “ispettore ambientale” da parte
del Presidente dell’Associazione Nazionale
di Tutela Ambientale Ennio Maccari, coronando così il progetto condotto da Raffaele
Pace. Presenti nel pubblico anche il vicepresidente della CER Giacomo Moscati insieme a vari assessori, il Presidente dell’UCEI
Renzo Gattegna, il Rabbino Capo di Roma
Riccardo Di Segni, l’ambasciatore d’Israele
a Roma Naor Gilon, il responsabile europeo
dell’HH Omer Hakim.
Tra i volti meno noti ai più, ma sicuramente
familiare a chi ha una profonda conoscenza
del Movimento, Ghil Mor, shaliach a Roma
alla fine degli anni ’90: “È bello tornare e
trovare un movimento così vivo” ha detto a
Shalom, “ma voglio ricordare a tutti che domani iniziano altri cento anni e sarà molto
più complicato mantenere lo stesso spirito”.
“Siamo presenti in questo mifkad in 560
chaverim ve chaverot” hanno sentenziato
orgogliosamente le due rashei-ken Tami
Fiano e Alessia Campagnano concludendo
la serata; tutti gli ex shomrim presenti in
sala hanno risposto con il classico “chazak
veemaz” (forza e coraggio), tirando fuori il
proprio legame con l’Hashomer Hatzair, talvolta rimasto latente, ma sicuramente mai
venuto meno.
Daniele Toscano
Premio ‘Don Luigi Di Liegro’ a Alessandro Viterbo
Il riconoscimento per l’impegno a favore dell’Associazione Tsad Kadima
Alessandro Viterbo è stato insignito lo
scorso 16 ottobre del Premio “Don Luigi Di
Liegro per il giornalismo e la ricerca sociale” presso la Pontificia Università Gregoriana”. Il Premio, giunto alla
V edizione, era dedicato
quest’anno al tema “Salute”,
a cui Don Luigi Liegro ha
dedicato molte sue iniziative. Alex Viterbo ha ricevuto
il Premio prevalentemente
per il suo impegno nell’associazione israeliana Tsad Kadima, che promuove l’accesso all’educazione e l’integrazione di bambini e adolescenti cerebrolesi, anche
creando apposite strutture e formando
personale specializzato.
Alex Viterbo, nato a Padova ed emigrato
in Israele nel 1977, si è laureato all’Università Ebraica di Gerusalemme in Biologia e
specializzato in Fisiologia. Membro
dell’Associazione Israeliana di Ematologia
e del Forum Israeliano per le Lesioni Cerebrali, è oggi direttore del Centro analisi
dell’Ospedale Misgav Ladach
di Gerusalemme. Nel 1994 ha
preso parte a una spedizione
umanitaria per il soccorso ai
profughi della guerra in Ruanda. Ha poi organizzato spedizioni umanitarie in Armenia,
Turchia, Kosovo e Haiti. È
membro del consiglio direttivo di Tsad Kadima di cui cura
le relazioni esterne, in particolare con l’Italia – ha fondato
nel 2004 l’Associazione Amici
di Tsad Kadima in Italia. Il premio nel
2006, con il sostegno della Provincia di
Roma, per mantenere viva la figura e l’opera di Don Luigi Di Liegro.
Fortunèe Habib
DOVE E QUANDO
14
21.00 Il Pitigiani
Invito a cena con talk show di
G I O V E D I Hamos Guetta e David Meghnagi
presentano H. Guetta e Livio
Anticoli con la partecipazione
speciale di Mirella Calò, Benjamin
Fargion e Giordana Sermoneta
Info e prenotazioni: 06.5898061 –
06.5800539
-------------------------------------------------
16
30
SABATO 30 NOVEMBRE E
DOMENICA 1° DICEMBRE
21.00 Centro Le Palme
Via del Portico d’Ottavia, 71
“Se vedemo in piazza”
I “ragazzi” del laboratorio teatrale
delle Palme vi aspettano con
Alberto Pavoncello e la sua
Compagnia “quasi stabile”.
I proventi delle serate saranno
devoluti interamente in beneficenza. Info e prenotazioni:
06 68400636 – 06 6877594 –
06 5584325 – 3381910525
Salone delle Fontane, Piazza Ciro
S A B A T O il Grande Casino Night 2013
Biglietti e informazioni in sede
-------------------------------------------------
18
11.00 ADEI WIZO
19
17.00 Centro di Cultura Ebraica
Centro Bibliografico UCEI,
Lungotevere Sanzio 5
M A R T E D I “Le comunità ebraiche di
Pitigliano e Siena nel
censimento del 1841 ed il loro
rapporto con quella fiorentina”
Presentazione del libro di Lionella
Viterbo. Intervengono: Amedeo
Spagnoletto, Gianfranco Di Segni,
Claudio Procaccia. Modera Bice
Migliau. Sarà presente l’Autrice
-------------------------------------------------
21
DICEMBRE
01
27
Ore 16.30 attività per bambini.
Ore 18.00 – accensione della
channukkia
Channukkà in Piazza Barberini
Info: [email protected]
11.00 Il Pitigiani
In occasione della festa di
Chanukkà “La fisarmonica di
Mendel” Spettacolo per bambini
tratto dal libro di Heidi Smith
Hyde, con musica e recitazione
dal vivo. Evento in collaborazione
con La Giuntina. pranzo per grandi e piccini su prenotazione.
Info e prenotazioni 065800539
ore 18.00 Arkadà di chanukkà
Adei Wizo
02
11.00 Adei Wizo
“Cleopatra e l’incantesimo
10
16.00 Centro di Cultura Ebraica
15
17.00 Le Palme
“Cezanne e gli Artisti del ‘900”
M A R T E D I al Vittoriano. Visita guidata a cura
di Cesare Terracina
Info e prenotazioni al Centro
di Cultura Ebraica: 06.5897589
[email protected]
Pomeriggio di Cabaret
DOMENICA
> A CURA DEL CENTRO DI CULTURA EBRAICA <
SHABAT SHALOM
Parashà: Vayshlach
Venerdì 15 NOVEMBRE
Nerot Shabath: h. 16:31
Sabato 16 NOVEMBRE
Mozè Shabath: h. 17:33
--------------------------------------------------Parashà: Vayeshev
Venerdì 22 NOVEMBRE
Nerot Shabath: h. 16.26
Sabato 23 NOVEMBRE
Mozè Shabath: h. 17.28
--------------------------------------------------Parashà: Miketz
Venerdì 29 NOVEMBRE
Nerot Shabath: h. 16.22
Sabato 30 NOVEMBRE
Mozè Shabath: h. 17.25
--------------------------------------------------Parashà: Vaygash
Venerdì 6 DICEMBRE
Nerot Shabath: h. 16.21
Sabato 7 DICEMBRE
Mozè Shabath: h. 17.24
CHABAD LUBAVITCH ROMA
Presenta l’accensione della grande Chanukkià
In Piazza Barberini: mercoledì 27 novembre ore
18.00 la prima candela e ogni sera alla stessa ora.
Domenica 1 dicembre ore 16 30 attività per bambini (Concorso Chanukkià) - Musica e balli con
Josi Anticoli – Coro Hakol e sufganiot
In Piazza Bologna sabato 30 novembre ore 20.00
In Piazza Gimma mercoledì 4 dicembre ore 20.00
Info Rav Hazan [email protected]
06.8632.4176
Il Pitigiani
L U N E D I dell’Egitto” Visita guidata alla
Seminario Feldenkrais con Irene
Habib “Piedi stabili ma flessibili:
istruzioni per l’uso...”
Info: [email protected]
-------------------------------------------------
Chabad Lubavitch di Monteverde organizza:
Festa di Chanukkà per tutta la famiglia al Tempio
dei Colli Portuensi, giovedì 28 novembre alle
20:30.
Accensioni:
Largo dei Librari (via dei Giubbonari)
EBREI NELLA STORIA
Lunedì 2 dicembre alle 18:00
DOMENICA “Chi è ebreo?” dal quesito posto,
Si ringraziano Vitaliano Menasci e Fabio Pontenel 1958, da Ben Gurion a “cincorvo per l’organizzazione
quanta saggi di Israele”, all’analoVia Frattina (angolo via del Gambero)
ga domanda posta oggi ai giovani
Martedi 3 dicembre alle 17:30
delle comunità ebraiche. in coll.
Si ringrazia Alberto e Patrizia Calò per l’organizcon l’associazione Hans Jonas
zazione
Piazza Risorgimento
Mercoledì 4 dicembre alle 17:30
Pranzo in sede
Si ringrazia Ariel Di Cori per l’organizzazione
18.00 Centro Le Palme
Festeggiamo Channukkà
Accensione delle candele,
dolci e canzoni
MERCOLEDI
-------------------------------------------------
28
Gran bazar di Chanukkà
cenza. Info in sede
Il valore della festa di
Channukkà ai giorni nostri,
G I O V E D I con Rav Enzo Di Castro
-------------------------------------------------
24
ADEI WIZO
DOMENICA Mercatino e bric a brac di benefi-
16.30 Centro Le Palme
“Con il naso tra le stelle”
Visita guidata al Planetario e
DOMENICA spettacolo 3D. Seguirà brunch in
sede. A cura della Professoressa
Stefania Efrati. Info e prenotazioni
in sede o Stefania 328 6131823
20.30 Il Pitigiani
Accendiamo la quarta candelina
con Sufganiot e melodie di
SABATO
Chanukkà. “… Il meglio è da venire” concerto con Gabriel Zagni,
Riccardo Coen e ospiti speciali
21.30 ADEI WIZO
“Cezanne e gli Artisti del ‘900”
al Vittoriano. Visita guidata alla
L U N E D I mostra a cura della Dott.ssa Sara
Procaccia. Info e prenotazioni Sara
339 5014188
-------------------------------------------------
accompagnati dalle note
di Marco Valabrega
-------------------------------------------------
18.30 Il Pitigiani
Poesia è memoria
con Roberto Olla, Francesca
G I O V E D I Farina, Roberto Piperno
mostra a cura della Dott.ssa Sara
Procaccia. Info e prenotazioni
Sara 339 5014188
08
11.30/19.00 Il Pitigiani
13.00 Le Palme
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
NOVEMBRE
45
DOVE E QUANDO
APPUNTAMENTI
ADEI
Continua il corso sulle più belle forme
delle challot, giunto ormai alla quinta edizione! Prenotazioni obbligatorie, info
Valentina Hazan 347 1198398 o in sede
Inizio del corso di cucina a tema, primo
modulo: i fritti
Prenotazioni obbligatorie, info in sede
Proseguono in sede i lunedì del burraco
ore 15.30, anche per principianti
Proseguono le lezioni di Torah a cura di
Rav Haim Della Rocca
Prenotazioni obbligatorie, info in sede
CENTRO DI CULTURA EBRAICA
TRADUCO E IMPARO L’EBRAICO
Riprende il corso per imparare l’ebraico
leggendo e traducendo ivrit be ivrit testi
di scrittori israeliani. Con Ester Di Segni
Martedì dalle ore 8.30 alle 10.00 oppure
mercoledì dalle 18.00 alle 19.30
Info e iscrizioni: 06.5897589 oppure [email protected]
Corso di ebraico moderno per principianti
È in apertura un nuovo corso il giovedì
dalle 18.30 alle 20.00
Info e iscrizioni: 06.5897589 oppure [email protected]
IL PITIGLIANI
GRUPPO GHIMEL:
Tutti i giovedì alle 16.30. E’ il gruppo della
terza età, ma non solo, che attraverso
appuntamenti settimanali si incontra per
raccontarsi, socializzare e confrontarsi,
anche con ospiti e esperti per approfondire insieme nuove tematiche. Con
Elisabetta Moscati Anticoli e Davide
Spagnoletto.
La Deputazione ebraica offre un servizio
pulmino gratuito, andata e ritorno, dalla
propria abitazione per le nostre attività!
Programmi educativi:
Domeniche di ebraismo: 17 novembre, 1°
e 15 dicembre dalle 10.00 alle 15.30, pranzo incluso.
Eletto il nuovo Comitato Direttivo
della Hevrat Yehudei Italia
L’Assemblea Generale Straordinaria della Hevrat Yehudei Italia,
riunitasi a Gerusalemme lo scorso 10 ottobre, ha eletto il nuovo
Comitato Direttivo.
Sono risultati eletti: Angelo Piattelli (nominato successivamente
presidente), Chanoch Cassuto, Angela Polacco Lazar, Viviana Di
Segni, Pinchas Punturello, Ruhama Bonfil Piperno Beer e Cecilia
Nizza. Cecilia Nizza è subentrata a Filippo Ventura dopo che
questi, pur essendo stato eletto, ha comunicato di rinunciare
all’incarico.
Del Comitato dei Probiviri fanno parte: il Giudice Elyiahu Ben
Zimra, il prof. Sergio Della Pergola e la dr.ssa Susy Zylibon.
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
U
46
Continuano gli imperdibili incontri di attività e giochi per delineare e rafforzare la
nostra identità ebraica e imparare l’ebraico!
Info e prenotazioni: [email protected] Roberta 3395641847,
065800539 - 065897756 (Giorgia)
A bottega chi ci sta?!
8, 15 e 22 dicembre dalle 8.30 alle 20.00
pranzo incluso.
1° dicembre Festa di Channukkà dalle
9.30 in poi, pranzo incluso. Pomeriggio su
prenotazione. A richiesta possibilità di
estendere l’attività fino al 29 dicembre.
Info e prenotazioni: [email protected] 065897756 065898061 (Sharon)
Open Day: Channukkà mercoledì 27
novembre dalle 16.30.
... e non finisce qui! Centri invernali:
siamo aperti durante le vacanze dalle 8.30
alle 16.30 pranzo incluso.
Info Giorgia 065897756 065898061, [email protected]
Le Scuole ringraziano
Le Scuole della Comunità Ebraica di Roma ringraziano tutti coloro che durante l’anno scolastico 2012-2013 e 2013-14 hanno
devoluto offerte per permettere la frequenza di alcuni alunni, in
questo momento più disagiati di altri, alle nostre Scuole. Queste
donazioni hanno consentito di proseguire negli studi ebraici, nel
pieno rispetto delle mitzvot legate allo studio della Torah. Un
ringraziamento va in particolare alla Sig.ra Stella Calò Di Porto
per l’offerta fatta in memoria dei suoi genitori; al gruppo categoria Urtisti 63 e Venditori San Pietro per quella in memoria di
Settimio Limentani (detto Limone); al gruppo di studio Yom Yom
per offerta in memoria di Bruno Greco, Leone Sermoneta (detto
Leprocchio), Crescenzo Piazza o Sed (detto Ciccillo), Emanuele
Di Segni (detto Calimero), Cesare Di Consiglio e Settimio Di Porto
(detto Angiulello).
Deputazione: una domenica di solidarietà e di divertimento
grazie alla generosa ospitalità di Enrico Di Veroli
na gita all’aria aperta in
una calda ottobrata romana; dell’ottimo cibo;
la compagnia allegra degli amici e una buonissima musica
eseguita dal vivo da David Calò.
Questi gli ingredienti – mica tanto
semplici – di una riuscitissima ed
allegra domenica organizzata dalla
Deputazione di Assistenza, guidata da Piero Bonfiglioli. Quasi duecento persone hanno risposto con
entusiasmo a questa bella e nuova
iniziativa, tutti ospitati nella casa
di campagna del generoso Enrico
Di Veroli. Un giornata di svago e di
divertimento che aveva però una importante finalità sociale: i
biglietti e la lotteria svoltasi nel pomeriggio hanno consentito di
raccogliere fondi che verranno devoluti ai più bisognosi della
Comunità.
Una domenica riuscita alla perfezione grazie ai numerosi sponsor (Marco Sed Yotvatà, Boccione, Occhialone, Gianni Campagna, Alberto Ouazana, Marco Dell’antico Forno del
Ghetto), ma soprattutto alle dedizione e all’impegno di tantissime
persone. Innanzitutto il Gruppo
Chamsa ideatori della gita (Liana Di
Porto, Angela Calò, Mara Funaro,
Costanza Di Veroli, Mino Di Veroli)
e poi un gruppo agguerrito di signore: Albertina Terracina, Emma Limentani, Donatella Pajalich, Enrica
Efrati, Rossella Calò, Chicchi Ester
Di Nepi, Mirella Calò, Adamo Di Porto. Infine un ringraziamento
a Gianni Spizzichino ‘Biscaccia’ che ha supervisionato l’intensa
attività della cucina, da cui sono uscite una infinità di pietanze.
NASCITE
BAR-BAT MIZVÀ
Noa, Naomi Amati di Simone, Joseph e Shulamit Shuly Elias
Gabriele Spizzichino di Maurizio e Raffaella Sonnino
Debora, Or Ascoli di Fabio e Daniela Spizzichino
Joseph Tesciuba di Alfie e Patrizia Buaron
Noa Astrologo di Alessandro Sion e Mikol Limentani
Sara Greco di Fabrizio e Alessandra Di Cori
Mia, Sara Cecchini di Francesco e Pamela Terracina
Daniele Gai di Massimo e Livia Ottolenghi
Federico, Avraham David Cecchini di Francesco e Pamela Terracina
Fiore Spizzichino di Riccardo e Raffaella Di Castro
Mia Yael Sciunnacche di Marco e Tiziana Del Monte
Vittoria Piperno di Guglielmo e Ruth Limentani
Mia Rodriguez di Ramiro e Fabiana Pavoncello
Rebecca Della Torre di Alberto e Sara Del Monte
Joshua Asher Pavoncello di Cesare e Bettina Pavoncello
Gaia Livoli di Umberto e Jessica Sermoneta
Mazal Tov
Giulia Passannanti di Maurizio e Renata Foà
PARTECIPAZIONI
BIRCHONIM
LIBRETTI
Gianni Di Nepi – Claudia Ascarelli
David Di Segni – Turchese, Angela Gattegna
Gabriele Meir Di Segni – Ruth Migliara
Renato, Reuven Efrati – Ylenia Panzieri
Gabriele Rabba – Cherie Dyana Fadlun
Isacco Zarfati – Ariela Volterra
Marco Zarfati – Alessandra Zarfati
AUGURI
Tanti auguri a Sergio e Luciana Mieli per i loro cinquant’anni di
matrimonio dagli ospiti e dal personale della casa di riposo.
Il 25 maggio 2013 Tamir Pace ha celebrato il suo Bar Mizvà. Per
una dimenticanza il suo nome è stato omesso dalla lista dei
mignanim. Ci scusiamo con i genitori.
Mazal tov a Levi Walter (Nathan) e Sharon Moscati per la nascita del figlio Eitan a Gerusalemme. Auguri dai nonni Lanfranco
e Sara, famiglia Spizzichino Sandro, Debora, Sara, Ariela e
Samuel e dalla bisnonna Franca Sorani di Firenze. La cerimonia
del berit milà si è svolta sabato 19-10-2013 al Tempio Italiano.
Mazal tov a Gianni Di Nepi e Claudia Ascarelli per il loro matrimonio. Auguri alle famiglie, in particolare al padre della sposa
Emanuele Ascarelli, Direttore del DIRE-UCEI.
Si sono sposati Isacco Zarfati e Ariela Volterra. I migliori auguri agli sposi, alle famiglie, in particolare alla madre dello sposo
Clelia Di Castro, custode della Scuola Media Ebraica.
LA DEPUTAZIONE EBRAICA...
... desidera ringraziare Marco Funaro che in occasione della
sua nomina a Hatan Torà ha deciso di devolvere quanto destinato ai suoi regali alle famiglie gravemente disagiate della
nostra keillà. A Marco un affettuoso e caloroso Mazal Tov.
... desidera ringraziare i suoi amici che in occasione di Rosh
Ha-Shanà hanno generosamente effettuato Mishberach al nostro Ente.
... desidera ringraziare i Maestri Riva e Ulman, gli amici del
coro Soul Singers e del coro di Tel Aviv Regavim che hanno
deciso di donare all’Ente i proventi del loro concerto, occasione, grazie alla musica e alle voci di questi due splendidi cori,
di promozione della cultura della solidarietà, dell’accoglienza,
della pace e della giustizia, valori irrinunciabili per una società
civile.
Piero Bonfiglioli è affettuosamente vicino a Piero Piperno e ai
suoi figli, amici da sempre della Deputazione, per la scomparsa
della cara Sandra.
CI HANNO LASCIATO
Attilio Anticoli 06/09/1936 – 12/10/2013
Marcella Astrologo in Piperno 23/10/1939 – 30/09/2013
Sandra Corcos in Piperno 29/05/1929 – 09/10/2013
Guy Joseph Debach 12/12/1942 – 24/09/2013
Lo scorso 18 agosto è nato Nathan Sciunnacche. Lo annunciano
con gran felicità il papà Leonardo, la mamma Simona Di Castro
e il fratellino David. La redazione si unisce alla loro gioia.
Settimio Di Porto 21/06/1961 – 05/10/2013
Domenica 6 ottobre, esattamente sessanta anni dopo il loro
matrimonio (avvenuto nel tempio Maggiore il 4 ottobre 1953),
Attilio e Speranza Pavoncello hanno festeggiato sempre nella
stessa sinagoga una traguardo familiare straordinario: le Nozze
di Diamante. Un record di amore non così comune che è stato
festeggiato da amici e parenti.
Bruno Greco 20/02/1950 – 22/09/2013
Il 19 ottobre Daniele Gai, figlio di Massimo e Livia Ottolenghi,
consigliere della CER, ha celebrato il suo Bar Mizvà. Con i
migliori auguri della redazione.
Gemma Spagnoletto ved. Di Nepi 10/11/1930 – 02/10/2013
DA OGGI POTETE SEGUIRE IL CENTRO DI CULTURA
EBRAICA ANCHE ON LINE SU: www.culturaebraica.roma.it
Pacifico Di Segni 02/03/1928 – 20/10/2013
Fiorella Di Veroli ved. Mieli 26/06/1930 – 22/10/2013
Gianfranco Lanternari 25/02/1936 – 22/10/2013
Settimio Limentani 27/02/1962 – 25/09/2013
Jacqualine Mosseri 17/06/1920 – 09/10/2013
Franca Sabatello ved. Tedeschi 14/04/1927 – 17/09/2013
Enrica Zarfati ved. Calò 25/09/1927 - 08/10/2013
Giuseppe Zarfati 08/02/1936 23/09/2013
IFI
00153 ROMA - VIA ROMA LIBERA, 12 A
TEL. 06 58.10.000 FAX 06 58.36.38.55
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
MATRIMONI
LITOS
ROMA
47
ROMA EBRAICA
La porta sempre aperta della Signora Mieli
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
L
48
Fra i suoi principali meriti l’aver saputo creare affiatamento
e solidarietà tra gli insegnanti
a preside Mieli era per tutti noi insegnanti la Signora Mieli e così noi
per lei: la signora Orvieto, la signora
Valentini, la signora Di Castro... Eravamo entrati a far parte del corpo docente
della scuola media Angelo Sacerdoti dopo
aver avuto un colloquio con lei: poche domande, quelle giuste per capire se poteva
affidarci una delle sue classi e quindi i suoi
ragazzi. Quasi tutti noi insegnanti eravamo
entrati nella scuola ebraica privi di esperienze di insegnamento, catapultati alla cattedra dall’università, dalla ricerca scientifica
e dalla famiglia. La Signora Mieli non pretendeva di insegnarci nulla, ma il suo esempio, la personalità, l’esperienza, la cultura, il
rapporto con la scuola, con i ragazzi, con le
famiglie e tutto il personale scolastico sono
stati per noi un modello di comportamento e
un codice etico che ci ha guidato negli anni
e ha continuato a guidarci anche dopo che è
andata in pensione.
Conosceva famiglie, genitori, nonni, zii e
per tutti aveva una parola di comprensione. Periodicamente veniva nelle varie classi
a interrogare, sorvegliando in tal modo la
disciplina, lo svolgimento dei programmi, i
progressi o meno degli alunni e l’interazione
tra noi e i ragazzi. Di fronte alle nostre difficoltà non mancavano mai il suo sostegno e il
suo incoraggiamento. Lei li conosceva tutti
per nome i suoi ragazzi. Di ognuno sapeva
chi era, se aveva problemi, se aveva bisogno
di essere spronato o piuttosto di riconquistare fiducia in se stesso. Del resto la sua porta
era sempre aperta a tutti, a noi insegnanti,
agli alunni, ai genitori, alla segretaria, alle
custodi, “le zie”: Velia, Lella, Renata, Colomba… che hanno fatto parte della storia
della scuola media Angelo Sacerdoti. Su certe cose non si discuteva. L’orario delle classi
lo faceva lei, attenta prima di tutto al bene
dei ragazzi: “non si possono sovraccaricare
in certi giorni”, gli insegnanti si adattano.
La mattina prima delle otto la sala professori
era il luogo d’incontro e l’arrivo della Signora Mieli era il momento fondamentale. Nella
minuscola sala entravano i fatti del giorno,
le novità, gli aneddoti, gli eventi familiari
insieme alla ricerca di soluzione dei problemi scolastici dei singoli alunni e delle classi.
Qui nascevano idee e progetti, vivi ancora
oggi, che hanno portato la scuola ebraica ad
aprirsi all’esterno e a presentare l’ebraismo
e la storia degli ebrei a Roma ai coetanei e
alla città. Uno dei meriti della Signora Mieli era quello di aver creato affiatamento e
solidarietà tra gli insegnanti. Eravamo una
squadra. Lei ascoltava tutti, ponderava e poi
rispondeva decisa oppure metteva alla prova l’autore di un progetto con la sua risposta
che lasciava margine al dubbio. Le decisioni
erano sempre collegiali, non solo durante le
riunioni veniva chiesta l’opinione di ognuno, ma spesso il pomeriggio circolavano le
telefonate. La signora Mieli ci comunicava
un suo pensiero, un suo dubbio e allora si
continuava a parlare e a cercare se possibile
la soluzione migliore, quella migliore “per il
bene dei ragazzi”.
In quegli anni tutti facevamo la domanda al
Provveditorato per un incarico nella scuola
statale, perché ogni anno veniva paventata la riduzione delle classi e a volte anche
la chiusura della scuola stessa. Davanti
all’impiegato ministeriale che ci invitava
a scegliere fra le scuole
disponibili, la nostra era
sempre una risposta negativa, tanto che l’incredulo impiegato chiedeva:
“In che scuola insegnate?”. “La scuola ebraica”.
“Ma che c’ha ‘sta scuola
ebraica che non ve ne volete andare?”. Ma come
facevamo a spiegargli
che la scuola era speciale per la presenza di una
Preside speciale, capace
di farci sentire parte di
un progetto vero, grande,
condiviso di una scuola
ebraica in grado negli
anni di riavvicinare gli
alunni e le loro famiglie
alla cultura e alle tradizioni ebraiche. Per
quel progetto la Signora Mieli combatteva
come un leone, così come per i suoi alunni
e i suoi insegnanti, con una mente libera da
qualsiasi condizionamento esterno, uno spirito scevro da ogni compromesso.
C’è stato un anno in cui la davano per finita
questa scuola, “chiusa, non ci sono soldi, si
mantengono la scuola elementare e la superiore, si chiude la media!”.
Se la scuola Angelo Sacerdoti è ancora viva
e vegeta, dobbiamo ricordarci tutti che fu
la Signora Mieli, e noi con lei, a volerlo con
tutte le forze e le energie e ad averla vinta
contro i detrattori della scuola media.
Oggi noi piangiamo la sua perdita, ma le siamo grati di tutto ciò che in quegli anni ha
dato a noi, a tante generazioni di alunni e
quindi a tutta la Comunità e diamo voce al
pensiero di tanti colleghi che come noi hanno avuto la fortuna di lavorare con la Signora
Mieli.
Franca Di Castro, Fiorella Di Porto,
Maria Fausta Dragosei, Mirella Fiorentini,
Claudia Orvieto, Paola Sonnino,
Catia Valentini
Addio Professoressa
In ricordo di Fiorella Mieli
per molti anni preside della
Scuola Media Ebraica
U
na persona cara non c’è più tra
di noi. La perdita di un grande
personaggio della nostra comunità, di una persona squisita
piena di entusiasmo per il suo lavoro che
era per lei una missione. Parlo della professoressa Fiorella Mieli che ci ha lasciato lo
scorso ottobre. La professoressa Mieli è
stata la Preside della
scuola media ebraica per
tanti anni. Ricordiamo
che prima dell’anno 1963
c’erano la scuola dell’avviamento professionale
alla ORT e una scuola
media non obbligatoria.
Ma la legge del 31 dicembre 1962 N° 1852 istituì la
Scuola Media Unificata,
l’avviamento professionale e la scuola media confluirono l’uno nell’altra.
La Professoressa Mieli si
trovò a combattere insieme alle colleghe per l’aggiornamento dei programmi, un lavoro duro:
adattare i nuovi programmi alle esigenze
dei nostri ragazzi. Rigida nel proprio lavoro, ha saputo incoraggiare e stimolare gli
alunni a studiare . Ha collaborato molto
con la scuola professionale ORT aiutando
gli alunni a trovare il giusto orientamento
per crearsi un futuro. Voleva che i nostri
giovani ragazzi sapessero della tragedia
che colpì la popolazione ebraica il 16 ottobre 1943. Al riguardo mi chiamò per organizzare un viaggio per visitare i campi di
concentramento e di sterminio, viaggiò
che fu poi cancellato per il pesante pericolo di attentati anti-israeliani e antisemiti.
Pochi conoscono il lavoro costante e spesso molto faticoso che la Professoressa
Mieli ha dovuto svolgere. Anche i miei tre
figli hanno studiato sotto la sua guida con
ottimi risultati. Molti suoi ex allievi oggi
sono diventati dei liberi professionisti:
medici, avvocati, ragionieri, commercialisti
e ciò grazie anche ad una cultura ebraica
tradizionale che la Prof. Mieli ebbe l’intuizione e la cura di seguire. Grazie Fiorella
per tutto quello che hai fatto per la nostra
comunità. Non ti dimenticheremo mai.
Roland Ganem
LETTERE AL DIRETTORE
voce lettori
dei
Un grazie ai vecchi
Caro Direttore, cari amici di Shalom,
scrivo a voi, che fate una tra le più belle riviste che conosco, e
che mi ha visto tra i suoi collaboratori, per dirvi che l’altro giorno
per il Tg2, ho confezionato alcuni servizi relativi alla cerimonia al
Tempio in occasione dell’anniversario della razzia al ghetto. Nei
giorni precedenti mi ero dovuto occupare della vicenda di quel
nazista morto a cent’anni di cui anch’io, come Riccardo Pacifici,
non voglio più pronunciare il nome, anche se non bisogna stancarsi di ricordarci e ricordare quello che lui e individui come lui
hanno fatto.
Vi scrivo perché guardando le immagini della cerimonia che dovevo scegliere per il servizio, oltre al bell’intervento di Riccardo - un
tempo si diceva: “pubblicazione! Pubblicazione!” - la telecamera
più volte indugiava sul pubblico, la sala, e sugli anziani reduci
sopravvissuti. Quei vecchi (chiedo scusa, ma a me la parola vecchi
piace, molto più che anziani) mi hanno letteralmente commosso, e
mi sono scoperto il ciglio inumidito. Come quando ho visto “Schindler’s list”. Avrei voluto abbracciarli e baciarli, quei “vecchi”, inginocchiarmi davanti a loro con rispetto e dire loro “grazie!”.
Grazie perché trovano e hanno trovato la forza di raccontare, di
dirci quello che fu, di impedirci di dimenticare. A loro vada tutta
la mia gratitudine. La memoria è la nostra speranza. Un saluto
caro e grazie anche a voi per tutto quello che fate.
Valter Vecellio,
Vice-caporedattore del Tg2 Rai
I carnefici della Shoah non furono solo i nazisti
Caro Direttore,
in questi giorni abbiamo ricordato i 70 anni dall’inizio della Shoah
in Italia, con la razzia del 16 Ottobre a Roma. Più di mille i deportati, uccisi in gran parte al loro arrivo ad Auschwitz il 23 ottobre,
otto giorni dopo. Nei nove mesi successivi altri 1000 e più furono
catturati e inviati nei campi della morte in Polonia. Nel Marzo del
1944 i trucidati ebrei alle Fosse Ardeatine furono 75, le vittime in
tutto ammontarono a 335. Quindi quella del 16 Ottobre del ’43 è
una data che va ricordata sempre, una pagina delle più tragiche
della bimillenaria storia dell’ebraismo romano.
Quello che non si sottolinea abbastanza, a mio parere, è la fondamentale responsabilità del regime fascista. L’ebraismo italiano
stava subendo dal 1938 le leggi razziste volute da Mussolini, senza alcuna pressione della Germania, è bene ricordarlo. Erano
norme durissime, umilianti, non meno feroci di quelle naziste.
Fecero diffondere un virulento antisemitismo che sfociò con la
nascita della Repubblica di Salò la quale varò una legislazione che
fece passare il fascismo da discriminatorio a persecutorio. Gli
ebrei erano pericolosi nemici da prendere, catturare e consegnare
ai tedeschi, i veri padroni dell’Italia dal settembre ’43. I repubblichini sapevano molto bene la fine che avrebbero fatto.
E’ noto che la metà degli ebrei italiani, fu presa dalle camice nere,
come mio padre Angelo, da quelle che si chiamavano “le bande
fasciste” che operavano in tutto il territorio nazionale. Molti lo
facevano per la taglia di 5.000 lire ad ebreo, molti altri per odio
antisemita. Non lo dimentichiamo: la Shoah non sarebbe stata
possibile, almeno in quella dimensione, senza l’attiva collaborazione dei fascismi europei, francesi, croati, ungheresi e italiani. Va
detto con forza, specialmente ora, che la mala pianta della xenofobia e del fascismo sta rialzando la testa in tutta Europa, dalla
Grecia alla Francia.
Cesare Di Porto (Cesare Cavallo)
[email protected]
Shoah: una storia familiare che non possiamo raccontare
Egr. Direttore,
Nella memoria collettiva della deportazione degli ebrei romani ci
illudiamo di sapere tutto o di poter raccontare tutto. E invece vi
sono dei vuoti, dei buchi neri della memoria che non potranno mai
essere colmati.
Mio nonno si chiamava Anselmo Calò z.l. ‘Portierino’ ed era un ex
deportato ad Auschwitz. Per lungo tempo non volle raccontare la
sua storia, poi dopo 50 anni decise di ritornare nel ‘campo’ per testimoniare la sua esperienza ad una scolaresca. Rimase in sospeso
la promessa, fatta a noi nipoti, che ci avrebbe reso testimoni della
sua storia affinché noi potessimo a nostra volta raccontarla ai nostri
figli e a chiunque avesse avuto voglia di ascoltare ciò che è stato.
Purtroppo mio nonno venne a mancare prima di poter onorare la
sua promessa e quindi noi non abbiamo una storia personale e di
famiglia da raccontare a nostra volta.
Siamo figli e nipoti di ex deportati “spuri” che non hanno la loro
storia personale da raccontare timorosi che un giorno, in un futuro
non troppo remoto, qualcuno metterà in dubbio ciò che è stato e
abbiamo paura di non avere quella forza e quella veemenza che
deriva dal racconto di una esperienza propria. Allora l’unica strada
da intraprendere, soprattutto per noi, figli e nipoti della Shoa, è
quella dello studio, della ricerca e degli approfondimenti cercando
così di riappropriarci, oltre che della nostra storia, anche di piccoli
aneddoti che forse nemmeno ci appartengono.
Sorrido all’idea che forse insieme a zi’ Leoncino e a Sabatino ed a
altri ebrei romani, anche mio nonno Anselmo si mise ad urinare
sull’albero addobbato delle SS, in una notte a ridosso del Natale del
1944 nel campo di prigionia di Jawichovitz e sono sicura che se un
domani mi troverò a raccontare ciò che è stato attraverso la divulgazione della ricerca commissionata sul sotto campo di Jawichovitz
mi prenderò questa piccola licenza.
A volte penso che così come in vita, mio nonno non fu mai considerato in modo opportuno (ricordo che riconsegnò il suo fazzoletto e
la tessera Aned perché non fu invitato a partecipare, a differenza
degli altri, ad una delle prime cerimonie in cui i sopravvissuti erano
invitati speciali), anche ora da morto ci sia il rischio che la sua memoria non venga sufficientemente onorata. Ma forse onorare la
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NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
La
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LETTERE AL DIRETTORE
memoria di lui come uomo e come nonno è una faccenda tutta privata, personale e familiare, mentre è solo attraverso lo studio che si
costruisce quella forza e solidità per trasmettere agli altri la storia
della Shoa di cui lui fu solo un tassello infinitesimale ma, almeno
per me, di valore inestimabile.
Eleonora Di Porto
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
Shoah: una storia finalmente ricostruita
Cari lettori,
volevo condividere con voi ciò che mi è successo qualche giorno fa.
Finalmente, dopo 70 anni, il 21 ottobre si è concluso un percorso
che la mia bisnonna aveva iniziato, mio nonno continuato ed io,
insieme a mia madre, terminato.
Mio nonno materno aveva un fratello che è stato deportato il 16
ottobre 1943 e non è mai più tornato. La mia bisnonna è morta non
sapendo che fine avesse fatto il figlio. Nel caso fosse sopravvissuto,
dove aveva deciso di passare il resto dei suoi giorni? Perché non
tornava a casa? Con il passare degli anni, uscirono fuori i primi
documenti dove veniva dato per morto. Ma morto di cosa? Come?
Quando? Dove? Non furono date spiegazioni. Era morto, basta. Per
loro era semplicemente il numero “31267”, quello che gli avevano
tatuato sul braccio.
Per anni abbiamo creduto che fosse morto ad Auschwitz e, invece,
la chiave di tutto era a Flossenburg.
Dopo 70 ANNI, con una semplice email in lingua inglese, ho scoperto che mio zio, Cesare Menasci, il 22 ottobre 1944 è stato trasferito,
dal campo di concentramento di Auschwitz, al campo di concentramento a Flossenburg dove è morto il 25 dicembre 1944. Il suo corpo,
per nasconderlo, fu inserito nel forno crematorio e le sue ceneri
sparse nei dintorni del campo. Subito dopo la guerra, le sue ceneri,
insieme a tante altre, furono inserite dentro questo memoriale: la
“Piramide delle Ceneri”.
Finalmente, dopo 70 ANNI, sappiamo dove poter andare per porgere un saluto, un fiore, una preghiera... A mio zio. Due genitori straziati dal dolore, morti senza sapere la fine del loro figlio.
Fratelli e sorelle che non hanno potuto mettere neanche un fiore a
quel povero fratello, strappatogli troppo presto. Aveva solo 24 anni.
La sua colpa era quella di essere ebreo.
Caro zio, dopo 70 anni, puoi finalmente riposare in pace.
Non dobbiamo dimenticare affinché tutto ciò non accada di nuovo.
Lo dobbiamo fare per noi, per le generazioni future, ma soprattutto
per chi è rimasto nei campi.
Miriam Spizzichino
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Che brutte lotte fratricide
Ho letto con sgomento la lettera della Comunità Ebraica di Venezia
e le relative repliche. Ne esco nauseato! La peggiore politica della
prima repubblica non arrivava a tanto! Minoranza che non accettano il verdetto delle urne (rammento un caso analogo a Roma che ha
portato a nuove elezioni). Probiviri che cambiano decisioni a seconda dello Scilipoti di turno. Dimissioni per protesta.... Ma in che
ambiente siamo? Sono cariche che dovrebbero essere onorifiche
per il bene dell’intero Ebraismo ed invece mi sembrano lotte fratricide volte ad accaparrarsi interessi materiali reconditi.
Se questo è lo spirito che anima i nostri rappresanti non rimane che
auspicare un 5 Stelle anche tra di noi.
Avner Flavio Hannuna
Shabbat al tempio Bet Shalom: diamo spazio a tutti
Cari frequentatori del Tempio e non, penso che quello che è accaduto lo shabbat del 12 ottobre nel gazebo del tempio, è un punto su
cui ognuno di noi dovrebbe riflettere. Non è la prima volta che mi
trovo ad assistere a momenti come quelli e sempre per motivi banali. Il Tempio Bet Shalom è nato nella zona di Viale Marconi, è un
luogo accogliente, che ci ha dato calorosità e armonia in qualsiasi
momento. Quanta gente residente in questa zona, ha cominciato a
frequentare il tempio, quando prima non ci pensava neanche?
Quanta si è avvicinata alle mitzvot, grazie all’accoglienza dei Rabbanim, dei Parnassim, dei frequentatori? Perché perdersi in un
bicchiere d’acqua? È mai possibile che non si può cedere il posto ai
parenti stretti dei festeggiati, perché è nostra abitudine stare in un
determinato posto? Al tempio grande ci sono i posti dei propri nonni, bisnonni, zii, capisco che sono stabiliti, ma al Bet Shalom deve
continuare a governare la familiarità, l’ospitalità. Durante i kiddushim, diamo spazio a tutti. Se ci sono feste di Chatan Torah, Chatan
Bereshit, Bar e Bat Mitzvah facciamo sentire la calorosità e gioiamo
insieme a loro, piuttosto che discutere chi entra prima o dopo per
un pasticcino. Frequentare il tempio quotidianamente, ogni Shabbat è un merito che sicuramente Hashem ci riconoscerà, però facciamolo riconoscere con Simchà, senza ma e però. Riprendiamo in
mano la situazione e viviamo ogni Shabbat, Chag, feste di Bar e Bat
Mitzvah con gioia e felicità.
Deborah Pavoncello
Israele, un modello per l’Africa
Quand’ancora ero piccino, ed andavo d’estate in Tunisia a trovare i
parenti, mia nonna era solita raccontarmi le storie della sua infanzia
a La Goulette, della vita della comunità ebraica della città (che allora era decisamente più numerosa) e di come il popolo eletto era
stato ed era fondamentale per la costruzione di una Tunisia moderna e prospera economicamente. Mi raccontava dell’operosità dei
piccoli artigiani della Kasbah di Tunisi, dell’estrema laboriosità dei
commercianti di Djerba, che all’epoca idearono la prima piccola distribuzione alimentare organizzata che tuttora occupa il 9 % della
forza lavoro tunisina. Mi raccontava della perspicacia industriale
delle famiglie di Sfax che portarono la Tunisia ai vertici mondiali nel
settore tessile di qualità, mi raccontava di storie di successo e di
fallimenti, ma di un estrema voglia di costruire un paese tra le mille difficoltà politiche internazionali di allora. Si ricordava e mi narrava delle scuole sioniste quand’ancora c’erano i francesi, dei primi
giornali in lingua araba e arabo-ebraica.
Israele in Tunisia ha dato tanto, e sempre. Parlando con un diversi
amici dell’Africa Equatoriale (proprietari terrieri), mi son sentito di
proporre il modello del Kibbutz israeliano per rilanciare la produzione agricola di alcuni di questi paesi e per superare lo scoglio della
barriera sempre esistita sin dall’epoca coloniale tra Comunità locale
e Stato nazionale. Un modello di grande efficienza economica, che
messo a sistema agevolerebbe in tempi rapidi la crescita economica
di questi paesi, che pur avendo ausilii economici derivanti dalla
cooperazione internazionale e dagli impegni della comunità e delle
istituzioni mondiali, non riescono ancora appieno a favorire un percorso di crescita economica sostenibile e di percezione della stessa
EBRAISMO INFORMAZIONE CULTURA
da parte delle comunità locali. Israele è stato ed è ancora per l’Africa (Settentrionale o Equatoriale che sia) un modello valido e un
punto di riferimento. Am Israel Chai.
Amshel Herzl
SHALOM‫שלום‬
Sono indignata
Mi chiedo il motivo per cui nessuno abbia risposto alla lettera di un
vero buon ebreo, Claudio Fano, pubblicata su Shalom di giugno dal
titolo “Crisi. Porte chiuse in faccia a chi desidera aiutare”, visto che
l’argomento è grave. Mi è venuto un dubbio: “A Roma vogliono
solo i soldi?”. Cordialmente.
Dalia Mordekhai
Giacomo Kahn Direttore responsabile
Ho scoperto Shalom
Da un po’ ho scaricato l’app di Shalom e ho cominciato a leggere il
vostro mensile. Io sono cristiano e pertanto nutro profondo rispetto
per il mondo ebraico, tuttavia in Italia, ma credo in tutti i paesi, è
molto difficile approfondire vari aspetti culturali e religiosi. Leggere
Shalom mi ha dato una visione più ampia dal punto di vista del
popolo ebraico riguardo all’attualità e al mondo che ci circonda, facendomi capire anche come è vista l’Italia da altre culture e da uomini che seppur italiani sono parte di una tradizione millenaria. I
più profondi ringraziamenti e congratulazioni.
Sammy Basso (Vicenza)
Smokéd / affumicato: un gioco di parole. Una sfida nel
segno di uno humor che non vuole offendere nessuno,
ma sorridere di tutto.
Ad essere ironico questa volta Smokèd non ci riesce proprio. Alla
metà di ottobre qui a Roma figli e nipoti delle vittime di un crimine ormai antico, e tra le vittime gli ebrei non costituivano certo
la maggioranza, hanno di fatto dovuto giustificarsi per non voler
dimenticare vite spezzate, altre vite segnate per sempre, persecutori che liberamente vivevano nella città, in Italia, nel mondo.
Ebbene sì, qualche volta anche quelli che sono nati soltanto perché gli assassini non sono riusciti a concludere il lavoro, “nel loro
piccolo, si… arrabbiano molto”.
Smokéd
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Donatella Di Cesare
Angelo Pezzana
Yael Di Consiglio
Clelia Piperno
Angelo M. Di Nepi
Umberto Piperno
Piero Di Nepi
Pierpaolo P. Punturello
Alessandra Farkas
Jacqueline Sermoneta
Segretaria di redazione
Ghidon Fiano
Miriam Spizzichino
Roland Ganem
Francesca Tardella
Stefano Gatti
Daniele Toscano
Fortunèe Habib
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Visto si stampi 4 novembre 2013
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Prof. Emanuele Di Porto scrivendo alla Segreteria della Comunità - Lungo­tevere Cenci - Tempio
00186 - Roma • Tel. 06/68400641.
NOVEMBRE 2013 • KISLEV 5774
Un ricordo per la Preside Prof. Fiorella Di Veroli Mieli
Giorno triste il 22 Ottobre 2013 per tutti gli alunni della III A: la
nostra professoressa, Preside, e un po’ mamma ci ha lasciati, ma in
noi rimangono gli insegnamenti culturali ma, ancor più, quelli di
vita che ci accompagneranno e si perpetueranno nei nostri figli.
Ma ora mi piacerebbe pensare che lassù possa insegnare alle piccole vittime di Terezin tutto quello che loro non hanno avuto il
tempo di imparare.
Dico ciò, perché, un ricordo che avrò finché vivrò, nitido nella mia
mente e che mi ha fatto ammirare e stimare questa donna, è stato
quando, in III media, ci leggeva le poesie delle piccole vittime
dell’Olocausto, “Non ho mai visto una farfalla”, con la voce che si
interrompeva dalla commozione e dal pianto.
Ciao Prof: grazie di tutto e Tiska Be Scialom
Roberto Anticoli
Paola Abbina
51
CATENA
DI COLLEGAMENTO
If I were a rich man, Ya ha deedle deedle, bubba bubba deedle
deedle dum. È l'inizio della concatenazione di pensieri di Topol, il celebre violinista sul tetto.
Cosa si potrebbe fare avendo una somma a disposizione, un
pò per sé, ma anche per gli altri?
Agli ebrei da sempre non manca la fantasia, l'altruismo, e la
volontà storica di lasciare una traccia del proprio passaggio
su questa terra. Questo è anche lo spirito del Keren Hayesod,
i cui progetti di Lasciti, Donazioni e Fondi nascono per dare
pieno valore alle storie personali e collettive. Sostenendo tra
l’altro progetti per Anziani e sopravvissuti alla Shoah, Sostegno negli ospedali, Sviluppo di energie alternative,Futuro dei
giovani, Sicurezza e soccorso, e Restauro del patrimonio nazionale.
Tu con il Keren Hayesod
protagonisti di una
storia millenaria
Giliana Ruth Malki - Cell. 335 59 00891
Responsabile della Divisione Testamenti
Lasciti e Fondi del Keren Hayesod Italia
vi potrà dare maggiori informazioni
in assoluta riservatezza
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