Prefazione
Quando la leggenda dell'Unità della Patria per opera esclusiva
della monarchia di Savoia, intessuta faticosamente dagli storici cortigiani,
che ànno scelto per loro musa ispiratrice il padre Loriquet, di gesuitica
memoria, cadrà spezzata sotto il martello della critica storica; quando la
verità balzerà fuori dall'involucro di questa interessata leggenda, e si aprirà
la sua strada nella mente degli Italiani, ancora immemori delle loro vere
glorie e fuorviati da un insegnamento accomodato agli interessi dinastici;
le future generazioni italiche, comprenderanno che i migliori uomini che
guidarono la monarchia durante la rivoluzione, non solo non ebbero mai
fede nei destini unitari della Patria, ma li attraversarono a disegno con i
foschi raggiri della loro impotente diplomazia. La Rivoluzione nazionale
subordinata per opera di Garibaldi alla ........ ebbe sul più bello recisi i nervi
dai nodi fatali che l'avvinghiarono e l'Italia, ridestata per poco
dall'apostolato armato di Mazzini alla coscienza della sua missione in
Europa, giacque strumento passivo degli interessi del secondo Impero e
della dinastia, perdendo oltre che la propria tradizione, le sue idealità
politiche e sociali e le sue finalità unitarie.
Il 15 Aprile 1860, quasi un anno prima che Garibaldi salpasse coi
suoi Mille dallo scoglio di Quarto per la spedizione di Sicilia, organizzata
dal partito d'azione e ostacolata dal governo, era stato consumato il mercato
di Nizza e Savoia. E sin dalla primavera di quell'anno correvano voci d'altre
eventuali cessioni di terre italiane alla Francia, prostrata ed incatenata sotto
il tallone dell'uomo del 2 Dicembre.
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Mazzini che primo fra tutti aveva denunciato alla pubblica
opinione d'Italia, dopo le funeste conferenze di Plombiers, il conchiuso
mercato di Nizza e Savoia, vigile sentinella degli interessi della Patria, da
Londra ammoniva gli Italiani che anche la Sardegna sarebbe stata ceduta
all'Imperio Francese, «in compenso, come scrive Saffi nel Proemio al vol.
Xlll degli Scritti del Maestro, dell'acquiescenza di Napoleone
all'annessione di Napoli, e d'aiuti francesi al Piemonte in caso di una nuova
guerra coll'Austria per la Venezia» (pag. XXIII, nota I). E nel Giugno 1801
Mazzini lanciava all'Italia quel vigoroso, patriottico scritto «La Sardegna»
che ristampa oggi in questo momento storico opportuno la benemerita
Associazione Repubblicana, sorta in Cagliari per la propaganda nell'Isola
sventurata dei principi morali, politici e sociali di Giuseppe Mazzini.
E chiamo pensatamente, opportuno questo momento storico,
perché mai come ora, la Sardegna avrebbe bisogno dell'opera oculata e
riparatrice di un governo veramente popolare e nazionale; perché mai come
oggi i mali da lungo tempo accumulati per insipienza dei governi sull'isola
generosa ed infelice, si sono accresciuti in modo così vertiginosamente
progressivo, paralizzando e illanguidendo tutte le risorse e le energie del
buon popolo sardo, il fisco addenta, maciulla e inghiotte annualmente nelle
sue bramose canne a migliaia i piccoli proprietari, e di fronte al progressivo
depauperamento dell'Isola il governo o sta inerte spettatore delle ruine che
vi à disseminato, oppure ordina inchieste che lasciano il tempo che trovano,
ma servono a dare un po’ di polvere negli occhi ai gonzi.
Difatti paragonate pure il fosco quadro delle condizioni
economiche, amministrative e politiche dell'Isola sventurata, tracciato a
grandi linee dal Maestro nel 1866, colle sue condizioni sociali di questo
anno di grazia 1896, e vi accorgerete che le miserie sono cresciute, e che
oggi è purtroppo, sempre vera quell'espressione insultante del francese
Thouvenel: «la condizione della Sardegna è condizione di barbarie che è
vergogna al governo!»
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Quest'isola «dal clima temperato, come osservava Mazzini, dal
suolo mirabilmente fecondo destinato dalla natura alla produzione del
frumento, dell'olio, del tabacco, del cotone, dei vini, dei melaranci,
dell'indaco, ricca di legname da costruzioni marittime e di miniere
segnatamente di piombo argentifero, e posta a sole 45 leghe dal lido
d'Italia»; quest'isola, aggiungo io dalla forma oblunga, dalle coste
frastagliate: avrebbe vantaggi commerciali, sicura superiorità economica
naturale di fronte alle altre molte regioni d'Italia, se non fosse considerata
tuttora dal governo come una terra inutile, se, oltre a ciò i suoi dolori non
cadessero in mezzo all'indifferenza al silenzio di tutti noi.
«La Sardegna, osservava Mazzini, fu sempre trattata con modi
indegni dal governo sardo; sistematicamente negletta, poi calunniata;
bisogna dirlo altamente, perché quella importante frazione del nostro
Popolo, sappia che noi non siamo complici delle colpe governative, che
conosciamo e numeriamo quelle colpe, e che intendiamo cancellarle
appena l'unità conquistata ci darà campo di provvedere alla liberta e
all'ordinamento interno, sociale e politico.»
Purtroppo sin'oggi, a causa della Rivoluzione nazionale fuorviata
dal suo scopo sociale, quelle colpe non sono state cancellate, quei mali non
sono stati riparati.
Leggano quindi i buoni e generosi Sardi in queste eloquentissime
pagine dettate dal Maestro la storia viva dei loro dolori e delle loro glorie,
delle colpe del governo e delle cause prime delle loro miserie, e sopratutto
studino i rimedi non nelle vecchie forme politiche e sociali, ma nelle forme
dello avvenire.
E l'evoluzione politica e sociale in senso apertamente
repubblicano, presto o tardi non monta, maturerà i futuri destini della
Patria, e in armonia a questi destini, le forme politiche e sociali adatte a
realizzarli nella storia.
Francesco Mormina
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La sardegna
I.
La generosa protesta del Comitato di Provvedimento in Palermo,
contro l'eventuale cessione della Sardegna alla Francia, avrebbe dovuto
essere ristampata, confermata, raccomandata alle firme dei cittadini, da
tutta la stampa che s'intitola nazionale. Il pericolo è reale; e dopo il traffico
di Nizza e Savoia, compiuto in onta a dichiarazioni solenni date dal
Governo e dal conte Cavour, che non si cederebbero mai, non è più
concesso agli Italiani d'appoggiare l'indifferenza sulla sdegnosa risposta
data dal ministero alle inquiete richieste. L'ipotesi d'un nuovo
smembramento è cosa sì grave, che quand'anche essa non avesse se non
una su cento probabilità, meriterebbe che l'espressione unanime della
volontà del Paese s'adoprasse a cancellare quell'una.
Il voto per la cessione di Nizza non ebbe luogo che il 15 aprile
1860; e fin dall'epoca delle funeste conferenze di Plombières, io aveva
rivelato (accusato di stoltezza o calunnia all'Italia) il patto segnato. Perché
com'io era esattamente informato allora, nol sarei oggi?
E allora, io era solo nella rivelazione di quel disegno: oggi
m'appoggiano le informazioni date dagli agenti inglesi al loro Governo.
Il 22 maggio 1860, Lord John Russel commetteva a Sir James
Hudson, in Torino, di dire al conte Cavour, che il Governo inglese,
informato di un disegno per la cessione della Sardegna alla Francia,
protestava e chiedeva promessa formale di non cedere territorio italiano. Il
dispaccio era comunicato il 26 a Cavour.
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Il 10 luglio, nuovi avvisi determinarono Lord John Russell a
interpellare, per mezzo di Lord Cowley, il ministro Thouvenel su
quell'insano disegno.
Il 23 luglio, malgrado le assicurazioni ricevute, il ministro inglese
insisteva, come chi sa, e dichiarava che progetto siffatto sarebbe
considerato come cosa gravissima dall'Inghilterra.
E mentre i ragguagli giunti da più parti al governo inglese
convalidavano i ricevuti da me, Giuseppe Garibaldi aveva in Sicilia, e da
sorgente interamente diversa, comunicazione dell'accordo fatto in
proposito fra Luigi Napoleone e Cavour.
L'accordo, certo per me, è dunque, non foss'altro, probabile, per
qualunque non voglia appagarsi delle mie parole; e la freddezza colla quale
la stampa italiana accoglie la protesta palermitana è colpevole. A impedire
un fatto probabile, l'opinione deve insorgere prima; non serbarsi a quando
il fatto è compiuto, o sta per compiersi. Gl'Italiani dovrebbero ricordare
con profondo rimorso, che il mercato di Nizza ebbe luogo perché il silenzio
di tutti gli elementi che, dal re, fino al Popolo, compongono lo Stato, tolse
all'Europa dissenziente ogni possibilità di mutare il biasimo in opposizione
dichiarata e minacciosa.
Io so che il 30 maggio 1860 Cavour dichiarava, in un dispaccio al
Governo inglese, ch'ei non cederebbe un palmo di terra italiana; e so che
due volte, nel giugno 1860, e nell'aprile di quest'anno, ei confermava quella
dichiarazione davanti alla Camera. Ma vedo che nei discorsi alla Camera
egli, evitando, diresti a studio, l'espressione il governo del re, non vincola
che sé stesso e non dovrebbe che ritrarsi per breve tempo dal ministero,
perché altri traducesse in fatto il patto stretto da lui. E so che nello stesso
dispaccio del 30 maggio ei dichiarava, che il Governo del re si asterrebbe
da ogni atto d'aggressione contro il Regno delle Due Sicilie, purché da
quello non escisse violazione del non intervento. Poi, dopo le solenni
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affermazioni date e smentite su Nizza, chi può far conto delle parole del
conte Cavour?
L'accordo è fatto: manca l'opportunità per eseguirlo. L'opposizione
minacciosa dell'Inghilterra e la nostra, possono renderlo praticamente
impossibile. Per questo, insisto: per questo, la buona stampa dovrebbe
insistere, protestare e suscitare le proteste del Popolo. Viaggiatori francesi
corrono, sotto pretesto di studi mineralogici o di speculazioni industriali,
l'isola, magnificando al Popolo i vantaggi economici, che l'annessione alla
Francia procaccerebbe; è necessario smentirli; è necessario ripetere,
coll'esempio del Veneto e di tutte le terre soggette allo straniero, alle
popolazioni della Sardegna, che ogni sviluppo materiale dell'Isola fatta
francese, impinguerebbe non l'Isola, ma la Francia, e che nessuna sorte è
più triste di quella d'una colonia, sottomessa a un vasto impero dispotico.
Tutta la politica del conte Cavour tende a creare, mantenendoci deboli, la
necessità dell'aiuto francese all'impresa del Veneto; aiuto, che
trascinerebbe con sé l'impossibilità di contendere alla Francia un compenso
territoriale; è necessario insistere sull'armamento nazionale, e trarre dai
ventidue milioni d'uomini che compongono oggi l'Italia tante forze che
bastino a compire, senza aiuto straniero, l'impresa. La Sardegna fu sempre
trattata con modi indegni dal Governo sardo; sistematicamente negletta,
poi calunniata; bisogna dirlo altamente, perché quella importante frazione
del nostro Popolo, sappia che noi non siamo complici delle colpe
governative, che conosciamo e numeriamo quelle colpe, e che intendiamo
cancellarle, appena l'Unità conquistata ci darà campo di provvedere alla
libertà e all'ordinamento interno, sociale e politico. Si, i molti e lunghi
dolori della Sardegna, non trovano che silenzio e indifferenza tra noi; - se
Bonaparte scende una seconda volta a combattere a fianco del nostro
esercito, sulle nostre terre, la Sardegna è perduta per noi. Avremo, dopo
una o due vittorie, chi saprà giovarsi dell'improvvida servile ebbrezza
d'ammirazione dei molti, per manifestare, senza pericolo grave, il disegno
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or negato; avremo, come per Nizza, uomini i quali s'atteggeranno,
smembrando la patria, in sembianza di chi compie un eroico sacrificio a
prò d'essa; giornalisti, che proveranno essere la Sardegna una mera
appendice d'Italia, gettata da Dio sul Mediterraneo, unicamente per
procacciare alleanza eterna colla Grande Nazione; oratori governativi, i
quali trarranno, senza arrossire, partito contro la povera Sardegna del
malcontento che appunto l'oblio e la perversa amministrazione del
Governo v'hanno creato; una di quelle parole d'abbandono dall'alto che
dicono ai Popoli: i vostri fati sono irrevocabilmente segnati; e l'ironia d'un
voto, come l'ideava Bonaparte, un dì, dopo il Colpo di Stato, espressione
della disperazione degli uni, della corruttela degli altri, e della codarda
calcolatrice rassegnazione dei molti che, sapendosi condannati da un
potere, non mirano che a rendersi più favorevole chi sottentra.
Nelle condizioni interne della Sardegna vive un pericolo, sul quale
calcola probabilmente il Governo per consumare l'atto nefando. Quel
povero Popolo, i cui istinti son tutti italiani, che ricorda in parecchie foggie
del suo vestire la tradizione romana e nel suo dialetto più largo numero di
parole latine che non è in alcun altro dei nostri dialetti, fu trattato come
straniero da un Governo al quale dava sangue, oro ed asilo quando i tempi
e le proprie colpe minacciavano di disfarlo. Quell'isola, la cui importanza,
intesa dai Greci sul primo albeggiare dell'incivilimento intorno al
Mediterraneo, indusse i Romani a rompere fede ai patti della prima guerra
Punica e determinò la seconda; quell'isola che, collocata tra la Francia,
l'Africa, la Spagna e l'Italia, segna la via principale del commercio
mediterraneo, e dovrebbe, per la Maddalena, Terranova, Porto Torres,
Oristano, San Pietro, Palmas e Cagliari, versare all'Europa le derrate
orientali; quell'isola dal clima temperato, dal suolo mirabilmente fecondo,
destinato dalla natura alla produzione del frumento, dell'olio, del tabacco,
del cotone, dei vini, dei melaranci, dell'indaco; ricca di legname da
costruzioni marittime, e di miniere segnatamente di piombo argentifero, e
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posta a sole 45 leghe dal lido d'Italia, fu guardata da un Governo che non
fu mai se non piemontese come terra inutile, buona al più a raccogliere,
monopolizzatori d'uffici, gli uomini i quali, se impiegati nella capitale,
avrebbero screditato il Governo. La Sardegna, terra di 1560 leghe quadrate,
capace e forse popolata, ai tempi di Roma, di due milioni di uomini,
numera oggi meno 600.000 abitanti. Un quarto appena della superficie
agricola è dato alla coltivazione. V'incontri per ogni dove fiumi senza
ponti, sentieri affondati, terre insalubri per lungo soggiorno d'acque
stagnanti, che potrebbero coi più semplici provvedimenti derivarsi al
profondo delle valli. Il commercio interno, privo di vie di comunicazione,
è pressoché nullo. La Gallura, circoscrizione che comprende un quinto
dell'isola, non ha una strada che la rileghi all'altre provincie. Le crisi di
miseria vi sono tremende. Negli anni 1846 e 1847, un quinto della
popolazione mendicava da Cagliari a Sassari. L'emigrazione dové talora
interrompersi per decreto. Come nel primo periodo d'incivilimento, sola
ricchezza del paese è la pastorizia errante. Un secolo e mezzo di dominio
di Casa Savoia non ha conchiuso che a provocare l'insulto del francese
Thouvenel: la condizione della Sardegna è condizione di barbarie ch’è
vergogna al governo sardo. (Thouvenel a Lord Colwley; v. disp. del 10
luglio 1860, Collezione parlamentare). Il Governo non curò l'isola che per
le esazioni.
Io rimando chi non crede ai viaggi d'un testimonio non sospetto,
Alberto Lamarmora, alla collezione degli Editti e Pregoni pubblicata in
Cagliari sul finire del secolo scorso, poi all'opuscolo: Le nuove leggi e la
Sardegna, di Salvatore Manca-Leoni. Sassari, 1860; all'altro: Il Governo e
i Comuni, di G. B. Tuveri, Cagliari 1860; alle relazioni di quanti stranieri
s'affacciarono all'isola e alle statistiche. La Sardegna ha una storia di dolori,
d'oppressioni, d'arbitri governativi, non ancora raccolta; ma le pagine
sconnesse ne appaiono dovunque si guardi tra documenti e ricordi. In
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questa Italia che un nostro storico chiamava un corpo di martire, la Sicilia
e la Sardegna furono di certo le membra più tormentate.
Nei risultati inevitabili di condizione siffatta di cose sta, ripeto, il
pericolo. Ponete che a questo Popolo infelice, povero, abbandonato, al
quale la fedeltà non ha fruttato che ingratitudine, che non conosce l'Italia
se non attraverso il Piemonte del quale i fratelli di patria sembrano, tanto
ne tacciono, ignorar l'esistenza, i tentatori propongano un voto, un voto
senza discussione: volete voi tentare l'ignoto? perché non risponderebbe;
ogni cosa fuorché il presente?
Spetta a noi, agli uomini di parte nostra, poich'altri nol fa,
d'impedire quel delitto di lesa-nazione. Spetta alla nostra stampa, alla
stampa indipendente da chi in oggi governa, alle Associazioni
pubblicamente impiantate in più parti d'Italia, ai Comitati di
Provvedimento, alle Società operaie, di ripetere ogni giorno alle
popolazioni sarde; «non badate al presente; è cosa di un giorno; non tradite
la patria per esso. Aiutateci a conquistare Venezia e Roma; il dì dopo,
sparisce il Piemonte e comincia l'Italia; il dì dopo, la questione di Libertà,
oggi sospesa per la stolta idea che le concessioni e il silenzio giovino alla
conquista più rapida dell'Unità, concentrerà in sé tutta la vita d'Italia. E in
quel giorno l'Italia farà ampia ammenda alla Sardegna delle colpe del
Piemonte.»
II.
Vittorio Amedeo accettò a malincuore, e dopo ripetute proteste,
nel 1720, da Governi stranieri, al solito, la Sardegna in cambio della Sicilia.
E diresti che la ripugnanza, colla quale egli accettò quella terra in dominio,
si perpetuasse, aumentando, attraverso la dinastia. Il regno di Carlo
Emanuele III, successore di Vittorio Amedeo, fu il solo largo di buone
intenzioni e anche d'opere. L'amministrazione della giustizia, quella delle
pubbliche entrate, e gli studi, ebbero dal ministro, conte Bogino,
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miglioramenti. E nondimeno la diffidenza posta fra il Piemonte e la
Sardegna era, fin d'allora, tale che il miglior ministro della monarchia
avvertiva il vice-re di mettere ostacoli alla propagazione dei gelsi, per
timore di concorrenza alle sete del Piemonte, e raccomandava al re di non
abbellire soverchiamente la sposa, perché altri non se ne invaghisse.
Vittorio Amedeo III cominciò, licenziando il Bogino, quel moto
d'indietreggiamento che non s'interruppe più mai. Tornavano le coadiutorie
nei benefici ecclesiastici, tornava l'arbitrio della distribuzione delle
pensioni ai teologi, tornava la vendita dei diplomi cavallereschi, tornavano
gl'indugi e le dimenticanze nella spedizione degli affari, e s'iniziava lo
scandalo, che poi diventò sistema, di versare negli uffici secondari della
Sardegna il rifiuto del Piemonte, i giovani di famiglie patrizia, ai quali una
condotta colpevole contendeva impiego nelle provincie continentali; e mi
toccherà riparlarne. L'isola diventò, da quel Regno, nel concetto dei
chiamati ad amministrarla, una spugna da premersi per cavarne lucro, un
campo d'esazioni e di traffichi disonesti, che riducevano a nulla le
intenzioni, talora buone, del re. Nella carestia che afflisse la Sardegna tra
il 1780 e il 1799, un conte Lascaris, ministro avveduto, ma immorale,
faceva moneta intendendosi con ladri incettatori di grani, e vendendo a caro
prezzo farine africane viziate. E dura tuttavia nelle poesie popolari di
Sassari l'infamia d'un Maccarani, governatore, il quale esigeva, pei suoi
fini, dall'amministrazione civica, una chiave dei depositi di frumento,
vietava, per farne monopolio proprio, l’approvigionamento del mercato
alle vicine località, e costringeva il popolo a comprare da un Piattoli, inteso
con lui grano guasto procacciato in Livorno.
Non pertanto, prima del 1793, si mescolavano al male bagliori di
bene - o di speranze di bene. - Dopo il 1793, regnò in Sardegna il male,
senza confine e senza contrasto.
La Sardegna scrisse nel 1792 e nel 1793 una delle più gloriose
pagine della nostra storia; pagina di fedeltà al re e d'abborrimento
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magnanimo contro lo straniero, che serbò l'isola all'Italia e, se ricordata dai
Sardi, dovrebbe, checché si trami, serbarcela in oggi; i discendenti degli
uomini che respinsero il primo Bonaparte dalle piazze della Maddalena
non possono cedere alle seduzioni dell'ultimo. Non parlo della difesa
contro gli assalti dell'ammiraglio Truguet, ma dell'ardore di sagrificio col
quale fu preparata. Mentre il Governo operava a rilento, e peggio, tanto da
far credere allora, come oggi, che s'avesse in animo di ceder l'isola alla
conquista straniera, i sardi, al primo minacciar dei francesi, sorgevano
energici, operosi, devoti. «E chi offriva, - cito il sunto del Manno - egregie
somme di denaro, chi frumento e derrate in gran copia, chi soldati nazionali
a cavallo, o pedoni armati e sostentati a propria spesa. Ebbevi chi mandò
al vice-re la nota delle sue sostanze e lo stato del proprio patrimonio colle
più minute indicazioni: difalcasse il vice-re quello ch'ei stimava pel
sostentamento del proprietario, il rimanente era abbandonato al Governo.
I Galluresi, fra gli altri, e i popolani del Gocèano, eransi esibiti a
combattere ove piacesse e a fornir di viveri i loro combattenti. I baroni,
pressoché tutti, avevano offerto copia grande d’uomini armati da trarsi dai
loro feudi: i prelati e il clero, soccorsi abbondevoli in denaro e derrate. - In
Sassari, in Tempio, in Iglesias, in Alghero, con ablazioni spontanee di
viveri e di denaro, formavansi magazzini di viveri per le milizie.
Ordinavansi sopra ciò, in Alghero, quattro centurie di fanti e due di cavalli,
tutti volontari. ........ Un negoziante Cagliaritano, Giuseppe Rapallo, al
primo sentore di pericoli, gittava, non ricercato, nel tesoro regio, cento mila
lire, n'esibiva altrettante alla mano alla prima richiesta, e fondi anche
maggiori sulle piazze di Genova e Napoli, qualora piacesse di colà
disporne. ........... La sete stessa della privata vendetta, distruggitrice
forsennata della sarda popolazione, era spenta in quei giorni: in mezzo a
quella licenza d'armamenti, il numero degli omicidi era notevolmente
scemato.»
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Tale si mostrò la Sardegna in quella tempesta. E se oggi
l'entusiasmo fosse, nei ventidue milioni d'Italiani indipendenti, la metà di
quel ch'era nei Sardi d'allora, due mesi ci darebbero l'Unità della Patria
compita. Venezia aspetta tuttavia il suo Rapallo.
Ricordano le storie di quei mesi, che di mezzo a quel sublime
entusiasmo popolare, il Governo faceva in Cagliari mancare i carretti alle
artiglierie, per servire a un privilegio delle ferrature concesso a un artigiano
piemontese. Quel fattarello, di fronte alla flotta nemica, compendia tutto
quanto il sistema.
Respinto lo straniero, il Governo che non temeva più, cominciò a
sentirsi libero di mostrarsi ingrato, e si mostrò tale in modo imprudente
davvero. Gli nomini che avevano salvato il Paese dall'invasione, furono
negletti, sprezzati. Il Governo aveva sulle prime chiesto al Popolo sardo
d'esprimere i suoi desideri; e furono inviate solennemente a Torino dai tre
Ordini o Stamenti dell'isola, cinque domande, due delle quali –
ristabilimento delle corti o parlamenti decennali, e conferimento degli
uffici agli indigeni – erano vitali. (l) In margine alla seconda il Graneri
scriveva: solite ripetizioni: l'una e l'altra erano ricusate e con insolenza di
modi, dacché il rifiuto mandato direttamente al vice-re, non era comunicato
agli inviati che aspettavano risposta in Torino. E nell'isola, gl'impiegati
piemontesi beffeggiavano i sardi, e canzoni villane contro essi si cantavano
alla mensa del vice-re. Le cose andarono tanto oltre che, mancata la
pazienza ai sardi, una sollevazione di popolo costrinse vice-re e
piemontesi, quanti erano, a imbarcarsi, il 7 maggio 1794, pel continente,
rispettando gelosamente persone e sostanze.
--------------------------------------(1) Le circostanze speciali dell'isola facevano la distribuzione degli uffici ai
piemontesi più che altrove dannosa. Gran parte della ricchezza Sarda andava nella
Spagna, i cui signori possedevano due terzi delle terre: parte si versava in Roma
per le cose ecclesiastiche, parte in Torino, per lo spaccio delle faccende più
importanti che vi si avvocavano.
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Il Governo non dimenticò mai quella vittoria, e diresti ne durasse
tuttavia la vendetta. Poco bene fu tentato nell'ultimo mezzo secolo dal
Governo in Sardegna, e quel poco vi fu guasto dall'arbitrio di chi doveva
amministrarlo.
Due gravi piaghe tormentarono l'isola: il feudalismo e il
sacerdozio.
I feudi, funesti all'isola sotto la Spagna, più funesti sotto la
dominazione di Casa Savoia, durarono, strano a dirsi, fino al 1836. Fino a
quell'anno, il contadino sardo, sottomesso dall'età di diciotto anni alla
giurisdizione di fatto, varia a seconda dei luoghi e delle investiture, di circa
trecento settanta fra duchi, marchesi, conti, baroni o agenti di questi –
dacché metà dei feudi apparteneva a signori spagnuoli assenti - languiva
nella miseria, per decime e prestazioni feudali d'ogni sorta, senza affetto al
terreno ch'ei coltivava e senza dignità d'individuo. Carlo Alberto, decretò
in quell'anno l'affrancamento del suolo e l'emancipazione del contadino.
Ma la riforma, ottima in sé, fu guasta nell'applicazione, i feudatari furono
nella determinazione dell’indennità, sistematicamente vantaggiati, i
Comuni sagrificati. La Giunta, locata in Cagliari per definire quelle
vertenze, voleva il giusto e decideva coi documenti delle investiture alla
mano. Ma il re concedeva la revisione delle lagnanze degli avidi feudatari
in Torino, e in Torino i feudatari trovavano avvocati, protettori, influenze
di corte: ai Comuni non era neanche concessa la scelta d'un patrocinatore,
e l'avv. fiscale regio era destinato a rappresentarli. Le indennità furono
quindi esagerate. E vi fu il caso in cui il re stesso aumentò, per autorità
propria, le rendite assegnate dalla sentenza del tribunale supremo.
Prima dell'abolizione, i tributi feudali si pagavano in natura, e
talora un feudatario, buono e commosso dalle angustie del contadino,
condonava il tributo. Dopo, il Governo, sottentrando ai diritti dei feudatari,
esigeva inesorabilmente il tributo in denaro. In un paese privo d'ogni
attività di traffichi e impoverito di capitali, la condizione del pagamento
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immediato in numerario era grave. La riforma subita, isolata, non
temperata da provvedimenti favorevoli alla povertà, non connessa con un
insieme di miglioramenti economici, aggravò quindi sovente la condizione
di quelle pel cui bene era decretata.
Ho accennato già all'immensa miseria degli anni 1846 e 1847 e
all'emigrazione in Tunisi e Algeri, che non s'arrestò se non pel diniego dei
passaporti. Chi più volesse, cerchi nei rendiconti officiali il discorso che
Antonio Sanna pronunziava nella Carnera quando fu discusso il progetto
di legge per l'abolizione degli ademprivi. La questione dovendo richiamar
nuovamente l'attenzione del Parlamento, è bene che io noti come - mentre,
durando il sistema feudale, leggi prammaticali temperavano l'assoluto
assorbimento della proprietà in mano del feudatario, smembrandone i
terreni chiusi e coltivati e quelli necessari al popolo, riducendo insomma il
diritto del feudatario alla percezione d'un tributo annuo - il Governo, aboliti
i feudi e liquidati tutti i diritti signorili, pretenda nondimeno anche oggi
applicare al fisco metà dei terreni rimasti ai Comuni. E il valore di circa
quaranta milioni, che quella metà rappresenta, è l'unica ricchezza colla
quale i poveri Comuni sardi possano provvedere all'impianto di scuole,
all'apertura di vie di comunicazione, all'erezione di case municipali.
Il clero secolare e regolare pullulava in Sardegna, ed era un altro
flagello del popolo. Su 500.000 abitanti o poco più, erano nell'isola, prima
del 1851, tre arcivescovati, otto vescovati, 458 canonici e benefiziati, 89
conventi; e percepivano le decime su quasi tutte le derrate dell'isola,
compreso il bestiame. Decretata dopo la guerra del 1848, l'estensione dello
Statuto all'isola, l'introduzione dei nuovi tributi rese necessaria l'abolizione
delle decime, e fu fatta la legge del 15 aprile 1851. Molti prebendati scesero
da una rendita annua di L. 20.000 a un assegnamento di L. 1.500: parecchi
vice-parrochi ebbero il povero stipendio di L. 40! Ma il popolo non ne ebbe
miglioramento. La legge che aboliva le decime e i tributi antichi di vario
nome, li riassumeva tutti nell'unica imposta sulla rendita prediale, fissata
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in ragione del dieci per cento; sul continente, la provincia più gravata non
varcava l'otto, e la media per tutte non eccedeva il sei. Per accertare e
affrettare la riscossione fu iniziato nel 1852, un catasto provinciale
dell'isola, monumento d'errori incredibili e di arbitrio che peggiorò, per
ingiustizia di cifre e spesa di liti e verificazioni a correggerle, la sorte dei
contribuenti. Basti il dire che si trovano in quel catasto attribuzioni di
stabili ad uomini senz'ombra di diritto o pretesa ad esserne proprietari, e
indicazioni di regioni che non hanno esistito mai. Poi l'arbitrio dei bilanci
affidati talora a delegati speciali fu tanto, da non potersi credere che per
documenti officiali. Nel 1856, Forru, dove la popolazione era, pel coléra,
scemata d'un settimo e che bisognava d'aiuti, ebbe l'imposta portata, da un
delegato inviatovi, al quarantatre per cento della rendita.
Così l'arbitrio e l'avidità ridussero sempre in nulla le migliori
riforme, i più utili provvedimenti. Due savie leggi escireno per la Sardegna
dal Ministro Balbo: quella colla quale si dichiarava libera la piantagione
della nicoziana, e l'altra che dava potere ai proprietari di chiudere i loro
terreni, quando non contenessero piante ghiandifere, pubbliche vie e
pubblici abbeveratoi. Ma la prima non fu eseguita e il monopolio dei
tabacchi si fece anzi più rigoroso. La seconda diventò, per l'inettezza e pel
mal volere degli agenti governativi, sorgente di gravissimi mali.
I ricchi prepotenti dell'isola, dando mano ai recinti, usurparono con
audacia scandalosa il terreno confinante colle loro proprietà e appartenente
a povera gente o al Comune; più che altrove nella provincia di Nuoro, dove
l'accentramento di molto bestiame vagante accresceva i pericoli e l'ire.
Bisognava rintuzzare, e rapidamente, l'abuso. Ma gli offesi esaurirono per
cinque lunghi anni ogni via legittima di lagnanza, senza che il vice-re si
decidesse a un provvedimento. L'intendente, che autorizzava le chiusure,
aveva speculato sulle concessioni.
Quando il popolo, irritato, stanco della negligenza governativa,
sciolse il problema colle proprie mani, diroccando, incendiando, i recinti
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usurpatori, il Governo si fece a un tratto energico e attivo; si trattava, non
di migliorare, ma di punire. Dopo aver mandato con pieni poteri a Nuoro
un giudice della Reale Udienza, uomo d'intendimenti severamente giusti,
e che per questo appunto fu richiamato e trattato in modo ch'ei ne morì di
dolore, una commissione militare mista, composta d'uomini ligi ad ogni
tendenza tirannica, trattò Nuoro siccome terra conquistata sul nemico.
Dura tuttavia fremente nella provincia la memoria delle carcerazioni
arbitrarie, delle sentenze capitati pronunziate ed eseguite a uso di guerra,
dei sequestri operati senza ragione, dei feroci trattamenti nelle carceri,
delle torture inflitte a testimoni che non secondavano i disegni dei giudici.
La provincia rimase siffattamente abbattuta e spogliata, che non era più
possibile trovarvi una moneta d'oro. Queste cose accadevano nel 1833. Più
dopo le vittime fecero conoscere al Re Carlo Alberto le inique opere della
Commissione; e il ministero diede ordini di restituzioni che naufragarono
nella Segreteria di Stato e nella grande Cancelleria di Cagliari. Vivevano
ancora, collocati negli alti scanni della Magistratura o Deputati, parecchi
di quei persecutori, quando diciasette anni dopo, nel 1850, Giorgio Asproni
ricordò intrepidamente alla Camera quei barbari fatti, pendente la
discussione della legge per l'abolizione delle decime.
III.
Ho citato il fatto delle due buone leggi dettate dal ministro Balbo,
rimasta inseguita l'una, travolta l'altra, nell'applicazione, a diventare
sorgente di guai terribili a una provincia. E potrei moltiplicare all'infinito
gli esempi. Il ministro genovese, Vincenzo Ricci, vide l'utilità di stabilire
nell'isola un centro amministrativo, e istituì, coll'approvazione del
Parlamento, l'intendenza generale di Nuoro. I mandati a compiere
quell'ufficio erano uomini dappoco; l'istituzione nondimeno, mercé l'aiuto
dei consigli provinciali e divisionali, riescì vantaggiosa, promosse
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aspirazioni generose italiane, giovò le comunicazioni interne, fece
progredire l'istruzione. Ma ad ogni passo, il governo inceppò; e basti dire
che, bilanciate le spese per le scuole di filosofia passarono tre anni prima
che potesse ottenersi la nomina dei professori: un ispettore straordinario,
spedito in Nuoro, diceva, scimmiottando Francesco I, che la Sardegna
aveva bisogno, non d'uomini istruiti, ma d'agricoltori. Il ministro Lanza
ridusse a un giorno, con un decreto, l'alloggio militare, e le spese relative;
ma sei mesi dopo inalzava da L. 4,80 a 30, il maximum dell'alloggio; da 10
centesimi a 15 il minimum dal due per cento, che si pagava prima, a quattro
per tutti gli altri casi. Il ministro Rattazzi sancì, che lo Stato verrebbe, con
annui stanziamenti, in sussidio dei Comuni, che per l'angustia delle loro
entrate e per la poca agiatezza de' loro abitanti, non saranno in grado di
sottostare alle spese .... per l'istruzione elementare; ma, dimenticando di
definire le angustie, non determinando il punto oltre il quale i contribuenti
non dovrebbero essere gravati, rese nulla praticamente la disposizione. Oggi la Sardegna ha Comuni, dove l'imposta raggiunge il 70 per 100, e che
non hanno sussidio dallo Stato. L'indeterminato disporre delle leggi giova
così all'arbitrio del Governo; e il Governo fu ed è sistematicamente avverso
al progresso nella Sardegna.
Da un secolo la Sardegna pagava un tributo di ponti e strade; ma
ponti e strade non ebbe mai. La linea da Cagliari a Sassari fu aperta dal
1823 al 1830. Per mancanza di strade, i cereali, negli anni di abbondanza,
non avevano sbocchi e si vendevano a vilissimo prezzo; negli anni di
scarsezza, nei Comuni lontani dalle sponde del mare, si moriva d'inedia, e
i prezzi salivano a termini favolosi. Nel 1844, l'amministrazione dell'isola
aprì un prestito di quattro milioni per altre linee stradali; ma quel denaro
servì a comperare vapori ed altro: la difficoltà dei trasporti aumentò più
sempre la piaga della pastorizia errante.
Nel 1850, il ministro Paleocapa, non ancora guasto dal
piemontesismo governativo e commosso dai lagni dei deputati sardi e dei
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Consigli di Comune, di Provincia, e di Divisione presentò una legge intesa
a dotare la Sardegna d'una rete di strade. Gli ingegneri piemontesi
trovarono modo a furia di studi, lavori preparatori e verificazioni, di
esaurire la somma, quando le strade non erano giunte a metà. Le opere che
dovevano essere finite in sei anni, non sono oggi nei disegni. E a scusarsi
della negligenza scandalosa, s'accumularono ingiurie sui poveri sardi.
Mentre si lavorava a Oschiri, ricco paese del Circondario d'Ozieri, la strada
che mena a Terranova, fu, nel 1855, ucciso, per vendetta privata o gelosia
di subalterni, un capo ingegnere. Il Governo decretò subitamente lo stato
d'assedio; e il ministro nella relazione al re, pubblicata dalla Gazzetta
officiale, dichiarò i sardi avversi all'opere pubbliche e nemici di ogni
progresso di civiltà. Gli Oschiresi e l'intera Sardegna protestarono contro
la stolta accusa. I ventiquattro deputati sardi s'adoperarono a raccogliere i
documenti del fatto per chiarire il vero in pubblica discussione. Il ministero
evitò il pericolo, chiudendo sugli ultimi di maggio la Camera. Intanto in un
paese che accusano di barbarie, vasto quant'è la Sicilia, e sul quale la
popolazione è disseminata a grandi distanze, la sicurezza pubblica è
affidata a seicento carabinieri regi, metà a cavallo e metà a piedi, staccati
dall'esercito e dai carabinieri del continente e senza incitamento di
promozioni; la giustizia, prima dell'istituzione dei giurati, v'era
amministrata in modo contrario al nome: le prigioni sono anche oggi bolge
d'inferno, indegne d'ogni Stato civile. Lord Vernon le infamò nel
Risorgimento, dettato allora da Cavour; le relazioni officiali delle
Commissioni governative confermarono il severo biasimo: il conte Cavour
diventò poi onnipotente, ma senza trovar modo di provvedere. Se il
Governo avesse da lungo mirato a prepararsi pretesti per abbandonare la
Sardegna all'usurpazione straniera, non avrebbe amministrato altramente,
io vorrei che mi s'additasse il Popolo capace di resistere a soli vent'anni di
sgoverno siffatto, senza volgere a condizioni di semi-barbarie.
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Prima condizione per migliorare un Popolo è mostrargli stima ed
affetto, ispirargli fiducia in sé e coscienza del buono, poco o molto, ch'è in
esso. Ora il Governo fece, calcolatamente o no poco monta, perennemente
il contrario. La Sardegna fu disprezzata come inutile o peggio. Persino la
ricchezza delle sue foreste fu tenuta in non cale. Il ministro Villamarina
cominciò, speculando, a distruggerle. I legnami da costruzione si
vendevano agli arsenali di Francia e Inghilterra e lo Stato si provvedeva,
per la propria marina, a caro prezzo nell'Indie o altrove. Il non curare cosa
alcuna che venisse dall'isola, diventò nelle sfere governative moda, smania,
mania. Il generale Alberto Lamarmora dichiarava al Senato, sui primi del
dicembre 1851, che mentr'egli era governatore dell'isola, aveva dovuto
udire il ministro dell'interno a dargli per unica risposta a parecchie urgenti
dimande: non vogliamo sapere di cose della Sardegna. Quella parola
riepilogava tutta una storia. E quando pure la necessità costringe il Governo
a occuparsi dell'isola, la negligenza sprezzosa, la trascuranza, l'ignoranza
che campeggiano nei provvedimenti, fanno commento eloquente alla
risposta di quel ministro. Io non ne citerò più che un esempio: il modo col
quale fu fatta la nuova circoscrizione dei circondari, eguale in tutto al modo
con cui accennai essere stato fatto il catasto provinciale dell'isola.
Nel periodo dei pieni poteri, il Governo decretò una circoscrizione
territoriale violatrice di tutte considerazioni topografiche, e che pare
architettata da chi ignori la Carta e ogni cosa della Sardegna. Divisa l'isola
in due provincie e fatti capiluoghi i due punti estremi e opposti, Cagliari e
Sassari, il Centro fu privato del benefizio conferitogli da Vincenzo Ricci,
e l'amministrazione governativa di Nuoro, località importantissima e che
esercitava influenza su quasi un terzo dell'isola, fino alla regione montuosa
del Genargentu, soppressa: quel circondario fu ristretto di tanto da non
potere avere il numero dei giurati prescritti dalle leggi e quindi le prigioni
vi riboccano d'infelici, che aspettano lungo tempo il loro giudizio.
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Fu creato il mandamento di Busacchi e distrutto quello di Neoneli,
intorno al quale, a distanza d'undici o dodici chilometri, s'aggruppavano
Ardauli, Nughedu, Bidoni, Sorradili: invece, Oruni venne aggregato al
mandamento di Sorgono, dal quale dista quattordici ore di via. Nel
mandamento di Fordongianus fu stabilito capoluogo e residenza del
giudice, il Comune di quel nome, d'aria infetta e micidiale. Il circondario
di Isili fu aggregato a Lanusei; e mercé le montagne e i fiumi senza ponti,
il corriere dall'un punto all'altro impiegò ventisette giorni nel suo primo
tragitto. Fu soppressa l'antica provincia di Cuglieri e aggregata quasi
totalmente al nuovo circondario d'Oristano, ingrandito a dismisura:
popolazioni di montagna, non collegate da interessi economici o altri alla
nuova sede, sono costrette a cercare la definizione delle loro faccende
amministrative in un capoluogo dove l'aria è malsana. Tutti questi errori
stanno registrati con altri nel già citato opuscolo di Manca-Leoni. Il
Governo li confessò, non li corresse.
Io lo dissi più sopra. Il Governo non vide nella Sardegna che una
colonia dove avrebbero potuto impinguar negli uffici, fruttando ad esso
gratitudine e appoggio dalle famiglie, tutti quei giovani di schiatta patrizia,
ai quali la mala condotta, pubblicamente avverata, avrebbe conteso gli
uffici continentali. E si governò in quella guisa, né curò d'altro, o delle
conseguenze fatali che dovevano essere inevitabili da un sistema corruttore
e immorale. Mancò al Governo financo il pudore dell'ipocrisia. Notano gli
storici, che fin dal regno di Vittorio Amedeo III, il ministro Calamandrana,
non solamente mandava a uffici in Sardegna giovani colpevoli di colpe
gravi, ma quasi sdegnando serbarsi una sola possibilità di discolpa, li
annunciava tali nei suoi dispacci. E pochi anni sono all'Asproni che dava
prove della tristizia d'un alto impiegato, un ministro rispondeva
freddamente: io sono informato anche meglio che ella non è, dell'indole
pessima e della nefandità di quell'uomo, ma non sappiamo dove
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impiegarlo. Ben ripigliava l'Asproni: nelle galere; se non che un ministro
capace di quella risposta, meritava d'andarvi egli primo.
Ed è antica e generale abitudine degli uomini di Governo in
Piemonte. Ricordo che nel 1848 - e ne pubblicai documento in quel tempo
- mandavano da Torino colonnelli ai nuovi reggimenti lombardi, ufficiali
ch'erano stati, per sentenza di consigli di guerra, cacciati vergognosamente
dall'esercito piemontese.
Il Governo piemontese fu sempre Governo di consorteria; dura tale
in oggi, comunque battezzato Italiano; e durerà tale, e incapace di levarsi
all'altezza del concetto del Governo Nazionale, finché non passi da Torino
a Roma. Ma verso la Sardegna fu peggio: fu governo di tirannide,
d'arbitrio, di corruttela. Se oggi il Governo pensasse a cedere l'isola allo
straniero, e additasse, per diminuirne l'effetto, agli Italiani le condizioni
interne, sarebbe senz'altro colpevole di tradimento verso la Nazione: verso
la Sardegna, ei sarebbe reo del delitto di chi deformasse prima la sposa per
poi cacciarla da sé.
No; l'Italia non sarà una seconda volta rea di suicidio e
d'ingratitudine. E le colpe del Governo da me accennate, saranno ad essa
una nuova cagione per proteggere contro le trame altrui la Sardegna.
Abbiamo tutti un debito, fatto più sacro da quelle colpe, ed è di lavarle col
beneficio reso più che agevole dagl'istinti buoni e dall'ingegno svegliato
dei sardi. Bastano a maturare nuovi e migliori fati alla Sardegna una
amministrazione onesta, fidata in gran parte ad uomini suoi - una rete di
strade - una serie di provvedimenti riguardanti le foreste, le arginature, i
ponti, i canali di scolo, qualche scuola normale per architetti civili e
ingegneri – due o tre grandi imprese agricole e industriali che vi chiamino
dalle varie provincie italiane braccia, delle quali l'isola anche oggi
scarseggia. Tre mesi di un Governo nazionale davvero in Roma farebbe
questo: la Sardegna farebbe il resto. Il popolo sardo non ha bisogno che di
fiducia in sé, d'amore dato e ricambiato, per essere attivo e capace. Fedele
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all'istinto italiano fu sempre. Ho ricordato la generosa difesa contro
l'invasione francese; e ricordo il numeroso contingente di volontari
mandato nel 1848 dall'isola: e i giovani sassaresi, ai quali strinsi la mano
quando accorsero per far parte della spedizione che noi disegnavamo
sull'Umbria e le Marche, diedero, per prontezza di sagrifizio, virtù d'affetti
fraterni e capacità modesta, un'arra, che non dimentico, dell'avvenire
dell'isola.
E a questi e ai loro amici andranno accette, non ne dubito, le mie
parole. Seguano essi nell'impresa via: tengano viva la sacra fiamma
nell’anima, la diffondano, l'accendano dov'è sopita. Viaggino l'isola a
combattere le menzogne degli agenti del Bonaparte. Dicano ai loro
concittadini di non guardare al Piemonte, ma all'Italia che sta facendosi, e
che, fatta appena, terrà la Sardegna come una delle più splendide gemme
del suo diadema. Dicano ad essi che ci aiutino ad affrettar quel momento,
ci aiutino a sbalzar di seggio il Governo della consorteria per sostituirgli il
Governo nazionale, gli onesti intelletti di tutte provincie. Il giorno in cui
avremo Venezia e Roma, il giorno in cui la setta materialista e avversa al
Popolo, che ora usurpa la direzione del nostro moto, avrà cesso il luogo a
chi rappresenti meglio il Paese, comincieranno i nuovi fati per la Sardegna.
Fino a quel giorno resistano all'arti, alle seduzioni dello straniero: resistano
a ogni proposta di voto, rispondendo: lo diemmo da un secolo e mezzo
all'Italia, e lo suggellammo per serbarci ad essa, col sangue: rispondano
ai tentativi, ove occorra, coll'armi: avranno compagni gli uomini di nostra
fede. Abbiamo detto a quei che governano: l'Unità della patria con voi,
senza voi, contro voi. Esaurimmo il primo periodo: siamo oggi a dover
promuovere l'Unità senz'essi, con mezzi nostri: la difenderemmo, uniti ai
Sardi, contr'essi, se osassero mai il secondo mercato.
Giugno 1861.
Giuseppe Mazzini
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