gli altri casi nazionali LA GRAN BRETAGNA slides della lezione dodicesima e della lezione tredicesima a.a. 2008-09 IL DIVERSO APPROCCIO della storiografia britannica Mentre la storia economica statunitense si è focalizzata sul “fenomeno” impresa, gli storici dell’economia britannica hanno privilegiato lo studio dell’imprenditorialità, o - se vogliamo - dell’imprenditore in quanto tale. Ma chi è, cos’è l’imprenditore? Col termine di imprenditore ci si riferisce «a individui (o gruppi interni all’impresa) responsabili della introduzione di nuove idee, soprattutto per quanto riguarda i prodotti, la collocazione e i mutamenti significativi della tecnologia e per l’acquisizione di nuovo personale manageriale, i mutamenti fondamentali dell’organizzazione amministrativa dell’impresa, l’ampliamento del capitale e la formulazione di nuovi piani espansivi, tra cui la scelta dei metodi di espansione» (Edith Penrose, 1959) L’IMPRENDITORE: - le origini sociali - le motivazioni ad intraprendere - vocazione all’ innovazione - propensione al rischio LE ORIGINI DELL’IMPRESA: - attività agricole - attività mercantili - attività manifatturiere, a partire dal mercante-imprenditore nelle forme di: - impresa individuale - parternship (società di persone) - società di capitali IL DIFFICILE APPRODO ALLE SOCIETA’ AZIONARIE Sostanziale diffidenza verso le società azionarie, che - a norma del Bubble Act del 1720 - potevano essere costituite solo con specifica legge del Parlamento. Da ciò derivò che il loro numero fosse molto limitato; le sole società per azioni che vennero consentite furono le grandi Compagnie coloniali (ad es. la Compagnia delle Indie), quelle per i canali, e poi per le costruzioni ferroviarie (post-1830). Da ciò derivò che, tolte le poche società azionarie autorizzate con atto legislativo, le imprese fossero solo: - ditte individuali - partnerships Le ditte individuali erano di gran lunga le più numerose. Le partnerships si costituivano solo nel momento in cui una ditta individuale doveva crescere di dimensione, e le risorse del singolo imprenditore non erano sufficienti allo scopo. Una alternativa alle partnerships, ed alle impraticabili società azionarie, si fece tuttavia strada negli anni ’30 dell’800, a “rivoluzione” industriale ormai completata, e proprio per finanziare l’ulteriore crescita delle imprese che ne erano state protagoniste. Questa fu la costituzione di associazioni di equa partecipazione: uno strumento non normato dalla legge (anzi, extra-legem), che consentiva all’imprenditore di raccogliere danaro presso conoscenti, garantendo loro una partecipazione agli utili dell’impresa, pur rimanendo questa una ditta individuale. All’inizio degli anni Cinquanta emerse tuttavia un movimento di opinione pubblica (ad esempio quello dei c.d. socialisti cristiani) che chiedeva una diversa legislazione sulle società azionarie, tale da consentire anche ai piccoli risparmiatori di partecipare alla ricchezza creata dalla “rivoluzione” industriale. A sollecitare questa innovazione legislativa concorsero anche quelli che furono i primi giornalisti economici, i quali vedevano nello sviluppo delle società azionarie uno strumento per la “diversificazione del rischio” in capo a chi viveva di rendita. 1857, 1862: i Joint Stock Company Acts nasce la LIMITED COMPANY, un tipo di società che prevedeva che il capitale di una impresa (costituita mediante atto pubblico) fosse suddiviso in azioni liberamente trasferibili sul mercato mobiliare, con una una responsabilità societaria degli azionisti limitata al solo controvalore del capitale sottoscritto. * il nodo della responsabilità limitata, rispetto a quella illimitata delle ditte individuali e delle partnerships la LIMITED PRIVATE COMPANY società, non normata dalla legge, costituita mediante scrittura privata (cioè, “registrata privatamente) che consentiva ugualmente - se resa nota ai terzi – la responsabilità limitata, ma non permetteva la trasferibilità delle azioni sul mercato mobiliare. La ratio? impedire l’ingresso di soci sgraditi, difendendo così il nucleo imprenditoriale originario Tale tipo di società venne riconosciuta solo nel 1907 con apposito atto legislativo. EFFETTI delle LIMITED COMPANY non si verificò la nascita di nuove imprese come auspicato/previsto da chi si era battuto per la nuova legislazione societaria. Si assistette piuttosto alla trasformazione delle ditte individuali o delle parternships in Limited Co., al solo scopo di sottrarre i loro proprietari alla responsabilità illimitata. Nel 1885, le Limited Co. erano tuttavia una minoranza tra le imprese manifatturiere (in genere nei settori pesanti), mentre più diffuse erano invece le Limited Private Co. Del “declino” dell’industria britannica borghesia industriale, ed imitazione degli stili di vita aristocratici… una volta raggiunto il successo, l’imprenditore non vive più vicino alla fabbrica, ma si sposta nelle aree di pregio delle città scuole umanistiche per i figli la teoria della “terza generazione” La teoria della “terza” generazione: secondo tale teoria, la generazione successiva al fondatore dell’impresa si limitava a gestire il successo conseguito dal genitore, o tutt’al più a consolidarlo, mentre la terza tendeva a disinteressarsi dell’impresa, presa da interessi “altri”, e finendo perciò per mandarla in rovina… * viene presentata come una sorta di ineluttabile “legge naturale”. In realtà essa non regge, dato che… Si tratta infatti di una teoria azzardata nella sua non provata generalizzazione, anche se non è dubbio che le generazioni successive a quella dei “pionieri” della “rivoluzione” industriale badarono più a conservare le posizioni acquisite che a puntare ad una espansione continua delle imprese… vale a dire la “molla” che rese grandi gli Stati Uniti… Teorie siffatte trovano origine nella metodologia di indagine. Se io privilegio certe fonti piuttosto che altre… Il nodo “proprietario”; ovvero del rapporto proprietà/controllo… a fine ‘800 i managers erano nelle imprese britanniche in numero molto limitato, e - soprattutto - non avevano autonomia decisionale, dipendendo completamente dalle scelte della proprietà, anche nelle imprese maggiori L’impresa britannica non sviluppò infatti una teoria del management, anche perché la maggioranza dei proprietari erano i “gestori” diretti dell’impresa ancora del “declino” In realtà, la leadership industriale della Gran Bretagna «non [le] venne sottratta, ma sfuggì all’insufficiente presa delle sue mani». Ed una delle cause fu la mancanza di mutamenti significativi nella scala operativa/dimensionale dell’impresa britannica. A partire dalla metà degli anni Ottanta, un qualche divorzio tra proprietà e controllo delle maggiori imprese britanniche cominciò a manifestarsi. Ciò fu la conseguenza di una serie di fenomeni nuovi tra loro interdipendenti. Un crescente numero di discendenti delle grandi famiglie industriali, non interessati alla gestione delle imprese ereditate, iniziò infatti a vendere parte delle azioni per diversificare (e frazionare) i propri investimenti in un numero elevato di società industriali, talvolta anche più di una trentina. Costoro introiettarono così l’atteggiamento tipico dei “redditieri” di origine aristocratica, come essi perseguendo diversificazione del rischio e gestione “al meglio” dei loro patrimoni, spesso affidandoli a “trust” fiduciari. E non partecipavano alle assemblee delle società di cui detenevano azioni. Cominciò perciò un lento, ma graduale emergere del potere dei managers (ma erano poi tali?). I Consigli di amministrazione divennero liberi di controllare i destini delle loro società senza interferenze della maggior parte del capitale. In realtà, per molti decenni i principali esponenti dei consigli di amministrazione detenevano i pacchetti azionari di maggioranza relativa delle singole società, impedendo che si manifestasse quella separazione tra proprietà e controllo che si verificò invece negli Stati Uniti. Questi azionisti-consiglieri d’amministrazione facevano coincidere nella propria persona anche il ruolo di managers. Gli stessi processi di fusione/acquisizione e di concentrazione produttiva (che nell’impresa britannica si verificò al pari di quella americana dalla fine del XIX secolo in poi, pur se per motivi non sempre simili) fu caratterizzato da ampi margini di iniziativa che permisero ai promotori di queste operazioni di conservare il controllo (magari con quote minoritarie) anche sul capitale azionario delle nuove società giganti. Attorno alla prima guerra mondiale, la politica di interi settori - nei vari rami della siderurgia, della cantieristica, della chimica, nei processi di distillazione e della grande industria alimentare - era ormai controllata da gruppi di azionisti che detenevano una minoranza del capitale delle rispettive società. Si era così realizzato un qualche (parziale) divorzio della proprietà dal controllo delle imprese, senza che per questo fosse emersa quella tendenza alla continua crescita dimensionale tipica della gestione manageriale delle corporations americane. Cosicché l’industria britannica non conobbe l’innovazione organizzativa (e quindi la spinta sul mercato) che modellò l’impresa gigante americana. Neppure le grandi concentrazioni aziendali avvenute tra il 1885 e la fine della prima guerra mondiale, produssero modificazioni organizzative tali da far evidenziare nel processo decisionale un aumentato peso dei dirigenti professionali. Delle 74 grandi fusioni (riguardanti 655 imprese), la maggioranza fu di tipo orizzontale. Si trattò di 64 fusioni riguardanti 643 società: vale a dire, rispettivamente, l’87% delle fusioni ed il 98% delle imprese interessate. Scarsa integrazione e mera risposta difensiva (e non “offensiva”, e cioè espansiva) ai problemi del mercato, comportò che la gestione centralizzata rimanesse la norma. Questa situazione, anomala rispetto al modello statunitense, testimonia della stagnazione (e del ripiego) che l’impresa britannica subì in quel periodo. Presunzione di essere ancora l’officina del mondo… Scarsa standardizzazione Le concentrazioni finanziario-produttive tra le due guerre mondiali Nonostante l’incremento numerico delle Limited private Co., le quali nel 1938 superavano le società cosiddette “pubbliche” di dieci a uno, la loro importanza economica stava rapidamente scemando. Il loro capitale complessivo era soltanto di 1.900 milioni di sterline contro i 4.100 milioni delle società “pubbliche”. Fu nelle società “pubbliche” che emerse sempre di più il divorzio (anche se ancora parziale) tra proprietà e controllo: nella maggioranza delle principali imprese la percentuale delle azioni possedute da ogni singolo azionista (o dal complesso del consiglio di amministrazione) era diventata relativamente poco significativa. Il frazionamento della proprietà portava ormai numerose società ad avere migliaia, talvolta decine di migliaia di azionisti. Anche nel caso di società giganti esistevano gruppi di azionisti in grado di determinare la politica dell’impresa. Il frazionamento della proprietà aveva quindi avuto il solo risultato di ridurre drasticamente la percentuale di azioni necessaria ad un gruppo di azionisti coalizzati tra loro per detenere il controllo dell’impresa. In genere tale percentuale si aggirava attorno al 20%, stante l’elevatissimo numero di azionisti non interessati a partecipare alle assemblee societarie. Era questo 20% di azioni (in genere in mano ad eredi dei gruppi familiari che erano stati all’origine delle imprese) che nominava propri rappresentanti nei consigli di amministrazione, e quindi decideva le scelte strategiche. Nondimeno negli anni Trenta comparvero grandi imprese in cui il divorzio tra controllo e proprietà era effettivo. Ma si trattava di eccezioni. Fu il caso della Dunlop Rubber (gomma e pneumatici), della Liebigs Meat Extract Co. (conserve alimentari) e della Raylands Co. (tessili), nelle quali la pur esistente (ma ridotta) concentrazione proprietaria era sostanzialmente ininfluente ai fini gestionali, e della Associated Electrical Industries (materiali, macchinari elettrici ed elettrodomestici), della Birmingham Small Arms (armi), British Aluminium (leghe) e della Ici-Imperial Chemical Industries (chimica). La ICI fu da questo punto di vista, l’esempio più interessante. Nata nel 1926 dalla concentrazione di quattro società (Nobels, Brunner Monds, The British Dyestuffs Co. e United Alkali Co., a loro volta originate da precedenti fusioni), essa rappresentò fino alla seconda guerra mondiale la più grande società inglese costituita per fusione. Adottando una struttura manageriale caratterizzata da un ufficio centrale per le decisioni strategiche, la ICI realizzò un solido gruppo finanziariamente centralizzato con gestione divisionale decentrata, vocato ad ampia diversificazione (chimica pura, chimica derivata, petrolio, macchinari, beni di consumo ecc.), e ad una rapida espansione internazionale. Essa costituì - per quanto riguarda l’organizzazione multidivisionale - una sorta di modello “nazionale”, cui si ispirarono società (anche controllate da minoranze azionarie) la cui crescita minacciava di mettere in crisi il gruppo di comando qualora non fossero stati adottati radicali mutamenti organizzativi. E particolare importanza assunsero i servizi contabili-amministrativi (spesso trascurati dalle imprese inglesi) quale elemento essenziale per l’introduzione dei metodi di supervisione e controllo. Le emergenze della Grande Crisi degli anni Trenta, fu la causa principale della crescente concentrazione dell’industria britannica. Nel 1935 le 135 maggiori imprese (definite come tali quelle con una occupazione superiore ai 5.000 addetti) davano lavoro a quasi un quarto dei dipendenti di tutte le aziende industriali, e che ad esse era attribuibile una analoga incidenza sul prodotto interno lordo. Le concentrazioni maggiori erano nei settori chimico, meccanico, cantieristico, alimentare, del tabacco e dei trasporti Fu in essi che si evidenziò un numero crescente di dirigenti stipendiati inseriti nei Consigli di amministrazione, con una tendenziale correlazione tra dimensioni delle imprese e divorzio di proprietà e gestione. IL SECONDO DOPOGUERRA Fu nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale che questa tendenza si consolidò. I processi di concentrazione produttiva, arrestatisi con la guerra, ripresero vigore, accelerando ancor più dopo il 1955. Nel 1970, le imprese con più di 5000 addetti garantivano ormai il 45% del P.I.L. britannico. Di pari passo diminuì nelle grandi imprese il peso delle azioni detenute dai membri dei consigli di amministrazione sul totale del capitale azionario, attestandosi su una media del 7,5%. Tale frazionamento della proprietà fu in parte provocato dall’introduzione da parte del nuovo governo laburista di elevate tasse successorie, che costrinsero a consistenti cessioni delle quote detenute dagli eredi dei proprietari originari per farvi fronte. Esso fu anche favorito dall’ondata di nazionalizzazioni annunciata, e già in via di realizzazione, la quale spinse gli ambienti industriali e finanziari a tentare delle contromosse utili a contrastarne la dirompente portata. L’allargamento della proprietà azionaria, e quindi la “democratizzazione” delle società di capitale, apparve ai detentori del potere economico lo strumento più idoneo. Si riteneva che il governo laburista non se la sarebbe sentita di colpire una vasta platea di piccoli azionisti. Ma la mossa si rivelò inefficace, perché tardiva… Entrambi questi fenomeni segnarono una svolta nel comando delle imprese, determinando una accelerazione nella crescita del potere manageriale. Molti furono i dirigenti che da posizioni intermedie riuscirono a salire ai livelli dell’“alta direzione”. Più spesso, tuttavia, l’Alta direzione venne integrata con dirigenti reclutati all’esterno dell’impresa: si trattava, ad esempio, di tecnici o scienziati assunti da altre società o dall’università. Nel caso dell’assunzione di scienzati si trattò di una (positiva) inversione di tendenza rispetto alla tradizionale ostilità dell’impresa inglese verso il mondo scientifico, e comportò un diverso atteggiamento sulla centralità della R&S. Le prime imprese britanniche ad avere scienziati e ingegneri specializzati nei propri consigli di amministrazione furono la ICI, e le anglo-olandesi Shell e Unilever. L’ampio rilievo che queste imprese giganti diedero ai dirigenti di formazione scientifica, le rese del resto campo di “scorreria” da parte di altre imprese che lì cercarono di reclutare (non poche volte riuscendovi) direttori con tali competenze. Si realizzava finalmente quella osmosi di esperienze tra una impresa e l’altra che era stata alla base del successo (e dell’espansione) delle corporations statunitensi.