sabato | 10 febbraio 2007
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I diversi modi di intendere la storia di 350mila infoibati o esuli solo perché volevano essere “Italiani”
PRIMO
PIANO
Î
IL
REPORTAGE
Il Giorno del Ricordo,
un argomento tabù
Omertà, paura e voglia di cancellare il passato
L’emblema della pulizia etnica da oggi è una scultura
A Fiume alcuni vecchietti parlano italiano
fra loro «Può raccontare la storia di Fiume
nel dopoguerra?»
Tutti tacciono all’improvviso,
poi si alza una voce:
«Mi smo u Rijeci», “siamo a Rijeka”
La foiba di Basovizza
monumento nazionale
V dal nostro inviato
Gianvito Casarella
Una giornata per ricordare. L’edizione del 2007, la seconda dall’entrata in
vigore dell’apposita legge-Menia, si colora di significato e suggestione: il 10 febbraio 1947, sessanta anni fa, la Conferenza di Parigi sanciva la cessione dell’Italia, sconfitta, di buona parte del nord est del Belpaese. Di lì partiva la persecuzione del maresciallo comunista Tito, nuovo padrone di quelle terre, nei
confronti della popolazione di cultura e lingua italiana. Giorno del Ricordo
non è solo foibe. La tragedia delle vittime delle voragini carsiche intorno a Trieste si aggiunge e lega in maniera indissolubile al dramma degli esuli. Istriani,
giuliani, dalmati costretti a lasciare le proprie case per raggiungere i nuovi confini italiani. Per rimanere figli di quella Patria a cui erano legati, ma che li aveva traditi senza troppi complimenti, al momento di sedersi, sia pure con il potere contrattuale di chi aveva perso una guerra, al tavolo delle spartizioni nella capitale francese. La fuga verso la democrazia, lontana dalla dittatura titina, fu straziante: senza più una casa, un lavoro, un’identità, se non quella insita nell’italianità. Un’identità indelebile. Come indelebile resta, dopo 60 anni, il dolore, al pari della vergogna, dell’imbarazzo. Spesso dell’omertà.
Trieste non accolse bene gli esuli: attentavano alla già fragile convivenza multietnica che è propria della città. Gli istriani, in particolare, erano visti come
usurpatori di un lavoro che scarseggiava. Di contro, i profughi vivevano la loro condizione fra mille difficoltà. Nessuno ne parla volentieri. A Basovizza,
dove a pochi chilometri dal centro giganteggia la foiba delle foibe, per strada
è tutto bilingue: italiano e sloveno. Essere figli della lingua “del sì” è quasi una
discriminante. Parlare del tragico dopoguerra diventa un’impresa ardua.
Un’anziana signora, davanti ad un bar, deve appartarsi per riferire dei suoi ricordi. «Avevo una compagna di scuola - narra - che visse la tragedia delle foibe in prima persona. Suo padre era direttore della Banca d’Italia a Trieste. Arrivarono i partigiani di Tito e lo trovarono armato. Lo portarono via credendolo un fascista: non se ne seppe più niente». Le ronde della polizia jugoslava erano mirate, col placet della popolazione comunista del luogo. «Entravano nelle vie - racconta la signora, che non vuole rivelare le proprie generalità
- e puntavano coi mitra alle finestre. I partigiani italiani segnalavano ai titini
L’EVENTO
le abitazioni di ex fascisti o presunti tali e gli slavi se li venivano a prendere.
Furono 40 giorni di terrore. La guerra era finita il 25 aprile 1945. Ma per noi
triestini ne incominciò un’altra, civile, già dal 1 maggio». I ricordi affiorano
nella commozione: «Mio padre non era fascista, ma al passaggio dei titini voleva mostrare loro dalla finestra un quadro di Garibaldi, ad orgoglio di italianità. Lo tirai per i pantaloni, implorandolo di non farlo: ero piccola, ma avevo capito che ce l’avevano con noi perché eravamo Italiani». Qualche chilometro più ad est, ad Opicina, le porte si chiudono: nessuno vuol parlare di
quei giorni. La situazione si accresce man mano che ci si avvicina al confine.
Nel primo comune sloveno, a Cezanna, un anziano barista inizia a parlare
italiano, sebbene di chiara estrazione slovena. Quando l’argomento scivola sulle foibe, entra in un portone, scappando, adducendo di non capire la lingua.
Le foibe e gli esuli continuano ad essere tabù, una pagina di storia sottaciuta
e da sottacere, per quieto vivere e per legami di collaborazionismo infame. Anche Fiume, a 67 chilometri da Trieste, porta i segni di un’italianità che fu. La
gente capisce la lingua. La parla. Ma qui, in terra di Croazia, sia pure con una
grande percentuale di Italiani di prima o seconda generazione, la città parla
slavo dalle vetrine, dalle insegne, dai menu. Come se 60 anni di governi stranieri avessero voluto scientificamente cancellare le tracce. Anche Fiume, terra amata dal poeta Gabriele D’Annunzio, piange i suoi tanti morti infoibati e
le vite spezzate degli esuli. Accanto al porto c’è un portone. Dentro, alcuni
vecchietti parlano italiano fra loro. «Può raccontare la storia di Fiume nel dopoguerra?». Tutti tacciono all’improvviso. Si alza una voce: «Mi smo u Rijeci»,
“siamo a Rijeka“, insomma, l’Italia ed i dolori a questa connessi sono una storia da dimenticare.
Sopra nella foto
la città di Trieste
e nella foto
in alto a destra
la foibe di
Basovizza
dove lo scultore
Livio Schiozzo
ha posto una
pedana
lignea con una
croce
La Foiba
di Basovizza
è l’emblema
dell’intero
capitolo
sulla pulizia
etnica di Tito
Basovizza | Mercoledì scorso
l’inaugurazione della mostra sulla
foiba di Basovizza. Questa mattina,
la cerimonia ufficiale e solenne per
il nuovo sacrario, monumento nazionale, commissionato dal sindaco di
Trieste, Roberto Dipiazza, per ricordare l’eccidio perpetrato a pochi chilometri dalla città giuliana, nell’immediato dopoguerra. All’imboccatura della voragine carsica, tomba di
tanti italiani di difficile quantificazione, lo scultore Livio Schiozzi ha posto una pedana lignea con una croce: «È un segno forte e significativo
- ha spiegato - progettato tenendo
conto anche delle altre foibe istriane,
per dedicare un’opera mastodontica
alla memoria dei 350mila Italiani,
fra infoibati ed esuli, nel giorno del
sessantesimo anniversario del Trattato di Parigi». Non ci sarà nessun
esponente del Governo attuale. Il
presidente del Senato, Franco Marini, ha fatto sapere di essere «impossibilitato per impegni già assunti».
Un modo elegante ma non troppo
per glissare sull’argomento. La Foiba di Basovizza, emblema dell’intero capitolo sulla pulizia etnica di Tito, è in verità un pozzo minerario,
scavato all’inizio del XX secolo per intercettare una vena di carbone e presto abbandonato per la sua improduttività: divenne però nel maggio del
1945 un luogo di esecuzioni sommarie per prigionieri, militari, poliziotti e civili, da parte dei partigiani co-
munisti di Tito, dapprima destinati
ai campi d’internamento allestiti in
Slovenia e successivamente processati e giustiziati a Basovizza. Le vittime venivano precipitate nella voragine carsica, dopo essere state prelevate nelle case di Trieste, durante alcuni giorni di un rigido coprifuoco, i
40 giorni dal 1 maggio ‘45. Lassù arrivavano gli autocarri della morte
con il loro carico di disgraziati. Questi, con le mani straziate dal filo di ferro e spesso avvinti fra loro a catena,
venivano sospinti a gruppi verso l’orlo dell’abisso. Una scarica di mitra ai
primi faceva precipitare tutti nel baratro. Sul fondo chi non trovava morte istantanea dopo un volo di 200 metri, continuava ad agonizzare tra gli
spasmi delle ferite e le lacerazioni riportate nella caduta tra gli spuntoni
di roccia. Molte vittime erano prima
spogliate e seviziate. Fonti anglo-americane riferiscono di un numero di
esecuzioni fra i 4 ed i 5mila, fra civili, militari di tutti i Corpi, anticomunisti. Molti altri furono deportati nei
lager slavi, senza mai più tornare a
casa. Per questo enumerare i morti
diventa arduo quanto impossibile.
Dalla capienza della foiba di Basovizza, 500 metri cubi, si calcola che siano stati fatti precipitare almeno 2mila Italiani. Una strage gratuita, nutrita d’odio a guerra finita. Ora un monumento ricorda le vittime, ad imperitura memoria.
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La mostra allestita nel campo che ospitò gli esuli scuote le coscienze anche dei triestini. Il presidente dell’Unione degli Istriani Del Bello: «Un modo per coinvolgere i giovani che non hanno vissuto gli eventi tragici»
Padriciano 60: impossibile dimenticare, necessario far conoscere
Trieste | Padriciano compie 60 anni.
frontare l’argomento». In questi giorni
Non è un compleanno felice se troppi
sono tanti i visitatori che salgono fino a
ancora non sanno cosa sia stato, perchè
Padriciano, animati da sentimenti e
così ha voluto la storia dei vinti. La piccoinvolgimenti diversi. «Tutti - osserva
cola località alle porte di Trieste fu seMale - finiscono la visita con gli occhi
de di un campo profughi dal 1947 per
lucidi: non si può restare indifferenti al
esuli istriani, fiumani e giulio-dalmati in
cospetto della effettiva sofferenza di
fuga dalle persecuzioni titine. E quella
quegli anni, dal 1947, quando i nostri
dell’esodo, che coinvolse oltre 350mila
padri sono stati costretti a scappare dalitaliani, è l’altra faccia di una medaglia
le proprie terre, verso l’Italia, senza nienscura e seppellita nell’oblio. Neppure
te più». Fra i visitatori, anche molti triel’attenzione sulla Giornata del Ricordo
stini, rivoluzionando il clichè che vede
serve a porre il giusto accento sulla trastoricamente l’ex presidio asburgico mal
gedia di popolazioni depauperate di ogni
sopportare gli esuli istriani. «Trieste ha
bene materiale, unite nella loro italiariscoperto una parte della storia che è
nità e tante volte dal conseguente senanche la sua - sottolinea il responsabitimento anti-slavo che
le dei Giovani esuli ne è inevitabilmente
perché abbiamo allescaturito.
stito una mostra realiPer accendere la luce,
stica in tutto e per tutMassimiliano Lacota
to, compresa l’ambieninaugurò nel 2004
tazione spoglia, triste,
una mostra sul campo
d’emergenza propria
profughi, in occasione
di quegli anni». La gedel trentennale dalla
nerazione nata negli
fondazione dell’UnioAnni 70 ignora la prone degli Istriani. «È
miscuità, l’affollamenstato un modo - spieto, il disagio della baga il presidente Silvio
raccopoli con unità
Del Bello - per coinvol- Il campo profughi di Patriciano
abitative di fortuna, in
gere i giovani, che non
legno, della grandezhanno vissuto sulla propria pelle quei
za di 4 metri per 4, in cui vivevano antragici eventi, ma che li sentono nel
che 5 o 6 persone per nucleo familiare.
sangue, perché discendono da esuli o,
«Tutto ciò - osserva con rammarico Masemplicemente, perché sono Italiani.
le - solo perché i nostri padri volevano
Le nuove generazioni assicureranno il
essere istriani, Italiani, per lingua e per
ricordo». Mercoledì scorso, la presentacultura. Non slavi». Nel marasma di rizione di una mostra, sulla scia di quelcordi diretti o raccontati, una signora inla del 2004, che si avvia a diventare peterviene dal pubblico, nella saletta di Via
renne. Ad assicurarlo, il presidente dei
Silvio Pellico, a Trieste, sede dell’UnioGiovani istriani, Alan Male: «Ci siamo
ne istriani. Aveva seguito fino a quel
resi conto di cosa fosse la vita nei cammomento con gli occhi lucidi, sfoglianpi per profughi, al di là dell’imbarazzo
do un opuscolo donato all’entrata, cone della vergogna dei nostri padri nell’aftenente le fotografie del centro per pro-
fughi di Padriciano. Si alza. È commossa. Si presenta: si chiama Graziella Vegliach. «La mia baracca era 3x3 - ricorda ai presenti - ce l’ho ancora davanti
agli occhi». La memoria di una persona sola si fonde con quella collettiva
degli istriani presenti in sala. Alcuni si
riconoscono, malgrado i segni del tempo: «Lei era quella della baracca 9 porta 9». Tanti non hanno il coraggio di intervenire, per la solita pudicizia, per la
vergogna di venire allo scoperto. «L’inverno faceva freddo - continua la Vegliach - : nel 1956 ci fu un gelo più intenso e non bastavano coperte per vincerlo. Ero ragazza, lo ricordo perfettamente».
Dopo l’esodo del 1947, la situazione è,
se possibile, peggiorata. Tanti sono morti sognando l’Italia. «Col tricolore nel
cuore», irrompe una voce in fondo, senza aggiungere altro, un po’ vinto dall’emozione, un po’, ancora, per la vergogna di essere stato profugo. Nella mostra di Padriciano si ritrovano le schede di identificazione degli ospiti del
campo. Un uomo ha rinvenuto quella
di sua madre. Due rapidi conti e ha capito che era passata di lì con lui in grembo, ancora in attesa. «Sono spaccati di
storia che non lasciano indifferenti aggiunge Alan Male - : molti visitatori
dell’esposizione di Padriciano avvertono una sorta di imbarazzo per aver così lungamente ignorato la vicenda». Per
troppo tempo l’ha ignorata anche lo
Stato italiano, abbandonando al loro destino i profughi nei campi e svendendo
alla Jugoslavia, poi, con Moro, l’Istria nel
1975 ad Osimo. «Siamo ancora in attesa di riavere indietro i nostri beni -spiega Male - . Noi non abbiamo dimenticato, altri lo hanno fatto da tempo».
gvc
LA TESTIMONIANZA
Il disorientamento di Annamaria Del Bello, 6 anni nel campo profughi
«Io, né triestina né istriana»
Trieste | Tanti hanno voluto seppellire quell’esperienza.
Essere esule istriano voleva dire emarginazione. I problemi
di accoglienza si sovrapponevano beffardi e si aggiungevano
a quelli conseguenti allo sradicamento dalla terra d’origine,
quella Capodistria che oggi è Kaper, quella Fiume che tutti
chiamano Rijeka. Altri ce l’hanno fatta a raccontare, ad uscire allo scoperto. Tardivamente, ma l’hanno fatto. È il caso di
Annamaria Del Bello, simpatica psicologa che vive e lavora
a Trieste come chiunque altro, ma con un ricordo indelebile di un periodo triste, mai compreso pienamente: quello di essere originaria di Cittanova. Non di Novograd.
Era a Padriciano nel 1947…
«Sì, avevo 2 anni, ma conservo delle scene ben impresse nella memoria. Sono stata lì fino all’età di 6 anni, con la mia famiglia. O meglio, fra parenti eravamo divisi:
io ero con mia sorella, in un angolo della
stanza, nel letto a castello. Nello stesso
spazio esiguo, in completa promiscuità,
c’era anche mia madre. Mio padre era con
gli uomini, a parte, separato da noi».
Viveva e frequentava le scuole a Annamaria Del Bello
Trieste, come era l’integrazione sociale con gli altri bambini?
«I triestini ci accusavano di essere arrivati per portar via il
lavoro a loro, o nella migliore delle ipotesi di essere fascisti
fuggiaschi, quindi è comprensibile pensare che i rapporti non
fossero idilliaci. Chiaramente, però, noi piccoli non avevamo piena consapevolezza di ciò che eravamo, se non a causa dei disagi quotidiani che vivevamo».
Quando e come ha assunto poi la dimensione di ciò
che era successo?
«Non subito. A casa, anche dopo la fine di quella esperienza di Padriciano, l’argomento dell’esodo era tabù. I motivi erano tanti, primo fra tutti che si faceva fatica, penso soprattut-
to a mio padre, a parlarne, perché farlo avrebbe significato
ammettere emozioni, dolore sempre vivo. Per noi bambini,
discutere del tema era un’ulteriore sottolineatura del fatto
che eravamo bisognosi che necessitavano di un aiuto altrui».
In famiglia tutti avevano difficoltà a parlare dell’Istria?
«Mio padre in primis. Lui era stato anche in carcere per quella ragione. Non voleva mai parlarne o lo faceva ironizzando.
Poi mia madre interveniva nel discorso, spesso a mitigare la
durezza di certe riflessioni di papà, forse
perché noi piccoli non ne avvertissimo il
trauma».
Ha ancora vergogna per quella fase
della sua vita e del suo essere?
«Ora non più. È la prima volta che ne parlo anche pubblicamente, segno che ho superato il trauma, almeno in parte. Certe
volte ci penso e rifletto sul fatto che mi
manca un’identità definita. Questo mi porta ad avere difficoltà a sentire l’appartenenza ad un qualsiasi gruppo sociale: riviene
dall’incertezza e la confusione di essere
istriana o triestina. Forse nessuna delle
due cose in senso completo e definito».
È mai tornata nella casa natale in Istria?
«No, neppure dopo la disgregazione dell’ex Jugoslavia. Si fa
difficoltà a mettere insieme i pezzi».
Di cosa?
«Della vita nel suo insieme: quando manca una famiglia unita per motivi simili, manca una cornice. Per questo dopo è
difficile venire allo scoperto, anche perché l’educazione impartita in casa ha risentito dell’esodo forzato. Rinnegare coi
figli è l’atteggiamento più comune a chi ha vissuto in quel
modo quei giorni: è un modo per proteggere, ma poi si cresce e si finisce per non avere radici, perché non sai cosa sei».
gvc
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Il Giorno del Ricordo, un argomento tabù